Gabbie Dorate e Oscuri Abissi

di Sweet Pink
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Ciò che la tragedia divide. ***
Capitolo 2: *** Primo. Così abbiamo cominciato. ***
Capitolo 3: *** Secondo. La fine dell'inizio, la quiete prima della tempesta. ***
Capitolo 4: *** Terzo. Odio ***
Capitolo 5: *** Quarto. Oscurità accecante. ***
Capitolo 6: *** Quinto. La vera lezione. ***
Capitolo 7: *** Sesto. Inesistente linea di confine. ***
Capitolo 8: *** Settimo. Prede e predatori. ***
Capitolo 9: *** Ottavo. Il legame crudele. ***
Capitolo 10: *** Nono. Conoscersi. Prima parte. ***
Capitolo 11: *** Decimo. Conoscersi. Seconda parte. ***
Capitolo 12: *** Undicesimo. Cieli stellati e storie lontane. ***
Capitolo 13: *** Dodicesimo. Questo significa essere me. ***
Capitolo 14: *** Tredicesimo. Il Segreto di Amandine. L'inizio. ***
Capitolo 15: *** Quattordicesimo. Il segreto di Amandine. La fine. ***
Capitolo 16: *** Quindicesimo. Kingston. ***
Capitolo 17: *** Sedicesimo. Superato il limite, non si può più tornare indietro. ***
Capitolo 18: *** Diciassettesimo. Ciò che il cuore desidera. ***
Capitolo 19: *** Diciottesimo. Grande Soirée. ***
Capitolo 20: *** Diciannovesimo. La codardia del Dottore, la crudeltà della Signorina perbene. ***
Capitolo 21: *** Ventesimo. Tu possiedi il mio cuore e io la tua anima. ***



Capitolo 1
*** Prologo. Ciò che la tragedia divide. ***


Avvertenze: Sì, questo è proprio un romance storico (praticamente la mia ossessione da quando ho conosciuto Mr. Darcy -.-'), ed è il classico enemies to lovers. Per quanto la coppia è una slow built (non si salteranno addosso dopo le prime quattro righe, chiedo scudo :D), è probabile che verranno delle scene con tematiche sensibili...nel qual caso, metterò una dovuta avvertenza.
Spero possiate dare una possibilità a questa storia, grazie :)

PROLOGO

Ciò che la tragedia divide




Marzo 1730

L'orizzonte si perdeva lontano tanto quanto un sogno, ammantato com'era nella nebbia bianca del primo mattino. Il sole aveva cominciato a fare timidamente la sua comparsa solamente da una mezz'ora, tinteggiando di tenui riflessi aranciati la superficie calma di un mare che – anch'esso – sembrava estendersi all'infinito. Acqua e cielo si incontravano chissà dove più avanti e, proprio come se si fosse trattato di un’attraente visione, l’osservatore non poteva che sentirsi attirato verso quell’ignoto.

“…verso l’avventura!”

Con un’improvvisa morsa nello stomaco, la spettatrice di quell’alba così stupefacente non riuscì a trattenersi dall’abbassare lo sguardo scuro sulla punta delle sue scarpette chiare; poiché all’improvviso il paesaggio marittimo non sembrava essere poi così importante: in quell’ultimo anno, sua sorella le aveva letteralmente riempito la testa con entusiasmanti e poco credibili racconti inerenti eroiche attraversate marittime, tenaci capitani e terribili pirati in cerca di ricchezza.

“Se penso a tutte le storie che ho dovuto leggere per te!” pensò allora la ragazza, con uno strano senso di smarrimento che, da quattro mesi a quella parte, non voleva saperne di lasciarla in pace e spuntava ogni qual volta i suoi pensieri viravano verso la figura sorridente e bionda dell’amata sorella minore. Un senso di vuoto che, in poche parole, l’accompagnava in tutti i momenti della giornata.

Perché tu non sei più qui.

La morsa alle sue viscere si fece più stretta, soffocante, mentre la vista sulle scarpe piccole ed eleganti cominciava a sfumarsi e farsi confusa. No, non poteva permettersi di piangere; gliel’aveva promesso: le aveva preso quelle piccole e bianche dita tremanti fra le sue e le aveva giurato che non avrebbe più pianto per lei. Mai più.

Quello che quindi fece la giovane Saffie Lynwood fu concentrarsi al massimo delle forze nell’osservare come effettivamente il legno scuro della superficie su cui era ritta in piedi fosse sì pregiato, ma anche incredibilmente vecchio. Il contrasto con le sue calzature color crema, poi, lo rendevano ancora più evidente.

Sorrise leggermente, con sé stessa: ventisette anni da poco compiuti e ancora doveva ricorrere a questi trucchetti per non scoppiare in scandalosi singhiozzi, proprio come la bambina che le avevano insegnato a non essere. Almeno, si disse sollevata, il senso di doloroso vuoto stava finalmente abbandonando il campo di battaglia.

Ora, forse, poteva godersi nuovamente ciò che come per magia si estendeva di fronte a lei: in fondo, era la prima volta che vedeva il mare. “Avevi ragione” pensò ancora, smarrendosi in quel blu incredibile con gli occhi spalancati “È proprio bello come nelle nostre storie”.

“Olio di gomito, scansafatiche!”

Con un piccolo sussulto spaventato, la ragazza si voltò di scatto verso la fonte della voce tonante che aveva pronunciato – o meglio sbraitato – quelle parole: la figura bassa e tozza del nostromo si trovava effettivamente a pochi metri da lei e, come se non si fosse accorto della sua presenza così vicina, continuava imperterrito a vomitare parole ingiuriose nei confronti di un giovane quanto terrorizzato mozzo la cui colpa pareva stare solamente nell’aver goffamente rovesciato a terra un secchio d’acqua.

Ovviamente, il ragazzo non poteva in alcun modo rispondere alla cascata di parole che gli stava quasi letteralmente piombando addosso e, chinando la testa biondiccia verso la pezza consunta che stringeva fra le mani rovinate, mormorò fra le labbra un mi dispiace che non sfiorò minimamente l’interessato.

Saffie sollevò lo sguardo scuro dall’edificante scena in svolgimento a due passi da lei ed osservò, con irritazione crescente, come nessuno dei presenti si fosse sognato di intervenire o, almeno, avesse osato alzare la testa in direzione delle urla: un microcosmo di indaffarate formiche brulicava da una parte all’altra del ponte dell’Atlantic Stinger, nave gioiello della Regia Marina Britannica e rinomata cacciatrice dei nemici dell’Impero su cui il sole non tramonta mai.

L’imponente vascello era salpato da Bristol appena tre giorni prima e già la ragazza aveva trovato il modo di comprendere quanto non ci fosse mai un momento di vera pace, nella vita di coloro che lavoravano a bordo. Da prua a poppa, dalla stiva ombrosa fino ai pennoni che sorreggevano le vele, ognuno di quei cinquecento uomini aveva un ruolo ben preciso; un ruolo da cui non si distaccavano mai e che non pareva concedere molti attimi di riposo, poiché le punizioni promesse dagli ufficiali in caso di inettitudine e inerzia sembravano essere terribili.

Il povero mozzo stava ancora inginocchiato sulle dure assi di legno del ponte, inerme al cospetto di quell’anziano uomo che, con le mani ben piantate sui fianchi larghi e il volto paonazzo dall’ira, continuava un monologo tedioso quanto – a parere della ragazza – ingiusto.

L’educazione con cui i genitori avevano rigidamente allevato lei e sua sorella fin dalla nascita le suggeriva di allontanarsi con grazia e silenzio dal luogo, come un’elegante e docile fanciulla ma, ovviamente, Saffie non era dello stesso parere.

“Devi sorridere e chinare il capo con dolcezza, non usare quella lingua lunga che purtroppo ti ritrovi.”

I suoi occhi castani inquadrarono di sfuggita il sorrisetto soddisfatto dipinto sul viso sbarbato di quello che sembrava essere un giovane tenente con nessuna intenzione di fare il proprio mestiere. Lui e il mozzo potevano avere la stessa età, ma il primo non era mosso da qualsivoglia compassione e, anzi, se ne stava appoggiato mollemente alla base dell’albero di prua, come uno spettatore interessato.

Fu quest’ultima immagine che fece perdere il controllo a Saffie: buttando a mare l’etichetta richiesta dalla situazione, la ragazza si era già fatta vicina al marinaio in due passi svelti, anche se l’interessato ancora non aveva fatto segno di essersi accorto in alcun modo della sua presenza. Saffie aggrottò le sopracciglia scure e, per farsi coraggio, serrò le dita contro la ruvida copertina del libro che aveva portato con sé sopracoperta.

“Signor Brown!” si ritrovò a dire con voce un poco tremante ma decisa, dopo aver preso un profondo respiro di incoraggiamento “Credo che il vostro giovane sottoposto abbia già compreso molto bene il suo errore.”

Il nostromo voltò la testa grigiastra nella sua direzione, di scatto. Gli occhi arrossati dalla foga con cui stava gridando si fecero improvvisamente sbarrati e stupiti, come altrettanto basita era l’espressione che si era palesata sul volto del tenente ancora in piedi a qualche metro da loro.

La ragazza decise di affrontare con un temerario sorriso l’incredulità dei due uomini di mare di fronte a lei. Il suo sguardo si abbassò quindi con dolcezza sul povero mozzo: anche lui, per qualche ragione, la guardava come se fosse stata un’apparizione mistica pronta a svanire da un momento all’altro. Gli occhi azzurri di quel ragazzino lacero non si staccavano dal suo elegante abito beige, ed inseguivano i ricami in pizzo bianco che lo componevano come se non avessero mai visto niente del genere in tutta la loro breve vita.

All’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, Saffie pensò con dispiacere che lui avesse più paura di lei che del nostromo stesso e delle sue ire funeste, ma non si pentì affatto di essere intervenuta. “Continuare a infierire su di lui non lo farà certo riprendere più velocemente il lavoro che gli volete veder compiere” aggiunse allora la ragazza, dissimulando una serenità che non sentiva di avere, visto che nessuno dei tre uomini si era ancora deciso a spezzare il silenzio.

Suo malgrado, si accorse di stare arrossendo leggermente, dall’imbarazzo, e scelse così una breve ritirata strategica, abbassando nuovamente lo sguardo sul ragazzetto in ginocchio di fronte a lei, poiché un insopportabile sentimento di inadeguatezza aveva cominciato a farsi strada dentro il suo cuore.

“Se fossi almeno la metà di quello che è tua sorella, io e tua madre potremmo morire felici.”

Le sue dita si strinsero con ancora più forza sulla rilegatura del libro, come se la proprietaria avesse voluto lacerarlo. O, al contrario, avesse il timore di poterlo perdere da un momento all’altro.

Grazie al cielo, fu il nostromo a ritrovare la voce per primo. Fece solo un cenno brusco e sbrigativo al sottoposto che fino a qualche secondo prima stava terrorizzando e, non appena questi riprese a lavorare a testa rigorosamente bassa, si rivolse alla donna che sfortunatamente erano stati obbligati a prendere a bordo: non solo portava mala sorte avere una femmina imbarcata sulla nave per tutta la durata del viaggio, ma era il carico pesante che era giunto con lei a preoccupare maggiormente l’equipaggio.

“Mi scuso per il disagio che questa scena può avervi causato, signora Worthington” asserì l’uomo, con una lieve nota d’ansia nella voce roca da animale selvaggio; e, forse per questo motivo, non fece caso al lieve sussulto della ragazza, nell’udire il nome da lui pronunciato. “Ma certa marmaglia a volte è difficile da gestire.”

Le sue parole furono gratificate da un freddo sorriso di cortesia e da un leggero inchino. “Nessuno disagio, davvero: sono solo grata del fatto che tutto si sia potuto risolvere per il meglio. A volte, una parola gentile ottiene più di una sfilza di ingiurie, signor Brown.”

Il nostromo in questione sentì le orecchie andare a fuoco in meno di un secondo, tanto la frase di quella ragazzina minuta l’aveva colpito nel profondo: era bastata quella secca battuta per mandare in pezzi l’orgoglio nei confronti di quel carattere di cui si vantava con mezzo mondo da cinquant’anni a quella parte.

Sbalordito e offeso, avrebbe anche risposto con forza se il tenente che poc’anzi aveva assistito a tutto il teatrino in silenzio non si fosse palesato in maniera fulminea al suo fianco. “Shaoul Brown, con me prego!” gli sibilò in faccia, passandogli una mano sotto il braccio ed attirando così la sua attenzione. Il tricorno calato sugli occhi attenti non permise al nostromo di vedere bene la sua espressione, ma udì fin troppo chiaramente le parole piene di tensione che seguirono: “Sta arrivando l’Ammiraglio. Tacete immediatamente.”

“È tutto in ordine?”

Il signor Brown fece giusto in tempo ad alzare gli occhi verso la fonte di quella voce che, in pochi secondi, tutto il suo ardore fu trasformato in timorosa deferenza.

La domanda era stata posta dall’attempato capitano della Stinger, ma era il giovane uomo a cui si accompagnava ad essere la vera causa dell’agitazione sua e di tutto l’equipaggio, da quando erano salpati: l’alta e imponente figura dell’ammiraglio Arthur Worthington camminava dritta al fianco del comandante, con le mani elegantemente incrociate dietro la schiena e un’aria di tremenda severità stampata su un viso dai lineamenti aristocratici, ma freddi.

“Ce…certo, signore! Tutto sotto controllo, come da ordini!”

Worthington.

Saffie non udì neppure la risposta balbettante del tenente a pochi passi da lei, come a malapena aveva fatto caso al colorito funereo palesatosi all’improvviso sul grasso viso del signor Shaoul Brown. Tutta la sua attenzione era stata immediatamente dirottata sulla persona che ora svettava altezzosa davanti a loro, avvolta in un’abbagliante divisa blu e oro, con gli stivali neri tirati a lucido e un’elaborata quanto sottile spada ben allacciata al fianco sinistro.

“Non trovi che sia bellissimo, Saffie?”

Un’ondata di disprezzo impressionante travolse in un attimo la ragazza e lei stessa se ne stupì, poiché in realtà sentiva il suo intero corpo pietrificato sul posto e il suo stesso cuore – si disse – di certo aveva smesso di battere in un istante.

Fu inevitabile: gli occhi verde scuro dell’ammiraglio si incatenarono per una frazione di secondo con quelli castani di lei e Saffie dovette suo malgrado sostenere il gelido rancore che le iridi dell’uomo segretamente comunicavano.

Arthur Worthington abbassò poi lo sguardo smeraldino sul piccolo libro che la ragazza stringeva al petto e una smorfia sprezzante gli attraversò fugacemente il volto sbarbato.

Allora le labbra di Saffie si serrarono l’una contro l’altra con forza, poiché quell’odiosa espressione non solo non le era sfuggita ma, se fosse dipeso da lei, avrebbe voluto vedere l’uomo in questione sparire inghiottito nelle stesse acque scure che stavano attraversando.

“Lo ami proprio tanto questo Arthur Worthington, vero, Amandine?”

“Mi rallegro che abbiate il tempo per fare salotto” commentò l’ammiraglio con una nota di ironia nella voce profonda e perfettamente controllata. Erano il nostromo e il tenente gli impauriti destinatari di quell’affermazione che, ovviamente, li fece scattare immediatamente sull’attenti. “Signor Brown, vi consiglio vivamente di tornare ai doveri per i quali la Marina della Corona vi paga un lauto salario. Tenente, voi seguirete immantinente me e il capitano sul ponte di comando. E, con immantinente, intendo adesso.”

“Repliche, ovviamente, non sono nemmeno da contemplare” pensò con fastidio e sarcasmo Saffie, trattenendosi dall’alzare platealmente gli occhi al cielo azzurro.

Senza aspettare alcun segno di risposta da parte dei due uomini presi in causa, Arthur Worthington si voltò agilmente e cominciò a camminare con fare tranquillo verso la poppa della nave, percorrendo la lunghezza del ponte apparentemente ignaro del turbamento che la sua presenza provocava nell’equipaggio tutto.

Era il famoso carico pesante che mai si sarebbero aspettati di trovare a bordo: con trentatré anni appena compiuti, l’imperterrito Ammiraglio Worthington era il più giovane nel suo ruolo da generazioni e, lasciando da parte il suo carattere orgoglioso, in una situazione di normalità non avrebbe dovuto metter piede su un vascello classificato di terzo grado come l’Atlantic Stinger: eppure, era stato proprio quest’ultimo il mezzo prescelto per il lungo viaggio fino all’insediamento di Kingston, sorto da non molti anni nell’affascinante Mar dei Caraibi.

Come se non bastasse, c’erano delle donne sulla nave: la presenza della graziosa moglie dell’ammiraglio e della sua domestica personale preoccupava parecchio i marinai, che non potevano far altro se non rivolgere mute suppliche all’oceano di una fortunata e tranquilla navigazione.

Ritrovatasi pressoché sola a prua del vascello, Saffie si concesse ancora qualche minuto per osservare l’ampia schiena dell’uomo che più odiava al mondo allontanarsi: era dalla loro disastrosa prima notte di nozze che non lo vedeva da così vicino.

La ragazza si voltò di scatto, nuovamente in direzione dell’infinito del mare, e cercò di mettere a tacere il misto di disgusto e risentimento che le aveva attanagliato lo stomaco all’improvviso.

Ormai, non ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che ci siamo rivolti la parola.

Anche poco prima era andata così: né un cenno, o un saluto era intercorso fra di loro, perché a nessuno dei due sembrava importare di odiarsi pubblicamente, alla luce del sole.

“Almeno quando arriveremo a Kingston non avrò più modo di vederlo ogni santo giorno” sospirò Saffie, per tirarsi su di morale. Salì con cautela i pochi gradini che la separavano dalla parte più alta del ponte di prua, il castello, e si sedette sulle scomode assi di legno, aprendo il suo piccolo e inseparabile libro sulle gambe fasciate da metri e metri di fastidioso tessuto pregiato.

L’oceano riluceva splendente e placido davanti a lei; mentre l’orizzonte risultava ora perfettamente visibile, anche se sempre troppo lontano e inafferrabile, proprio come un sogno.

“Io e Arthur ci sposeremo, Saffie! Sono talmente felice da sentirmi morire!”

Quasi le parve di udire il suono di una dolce risata perdersi nel vento salmastro e, cercando di non dare ascolto al suo turbamento costante, la ragazza passò le dita fra le onde di capelli castano chiaro con nervosismo. Provava un senso di colpa difficile da decifrare: un sentimento doloroso che – pensò – non si meritava in alcun modo.

È stata tutta colpa tua.

Tu sei responsabile.

Forse Saffie poteva immaginare, ma non di certo sapere, che simili erano i sentimenti in quel momento provati dal giovane ammiraglio.

“Mantenendoci a questa andatura, probabilmente arriveremo a destinazione con qualche giorno d’anticipo” asserì Arthur in tono neutro, all’indirizzo del capitano; i suoi occhi verdi erano però ben piantati a prua e, in particolare, verso la minuta figura femminile che da qualche tempo a quella parte avrebbe voluto veder sparire come per magia.

Con uno sforzo considerevole, obbligò sé stesso e il rancore che gli divorava l’animo a concentrarsi sulle carte spiegate sopra il banco in legno lucido davanti a lui.

Non dovresti esserci tu qui, ma lei.

Si appoggiò con entrambe le mani al piano e inarcò leggermente la schiena verso di esso, cercando contemporaneamente di controllarsi e mantenere il contegno elegante per cui era famoso fra i suoi sottoposti. Latitudini e longitudini si perdevano tra isole distanti, mari esotici e rotte di navigazione da lui stesso calcolate e tracciate, poiché niente il suo sguardo riusciva in realtà a cogliere.

“Se il tempo continuerà a concederci clemenza, certo” fu il commento bonario del comandante Henry Inrving, il cui temperamento mite ma inflessibile gli era valso decenni di ammirazione da parte di svariati equipaggi e neanche un tentativo di ammutinamento durante le lunghe traversate oltremare. Gli occhi sagaci dell’uomo vagarono pigramente dalle ampie spalle dell’ammiraglio in piedi di fronte a lui fino al fondo del ponte sopracoperta, la cui prua era occupata da sporadici marinai e da un’insolita ragazza castana, coraggiosamente intenta a leggere sul castello. Decise così di aggiungere, in tono apparentemente casuale: “Saremo tutti ben lieti di metter piede a Kingston al più presto anche se, devo ammettere, la vostra adorabile moglie sta affrontando questa traversata come una vera creatura di mare: è raro vedere una donna salire così spesso sopracoperta e, soprattutto, una che non soffra il mal di mare!”

“…e, promettilo, mi porterai sempre con te, vero?”

Se il capitano Inrving si era aspettato di veder qualche tipo di reazione in seguito alle sue parole gentili e piene di ammirazione nei confronti della signora Worthington, dovette rimanere deluso. Solo, gli occhi verdi di Arthur si alzarono per la seconda volta sulla figura lontana di Saffie Lynwood. “Così sembrerebbe” commentò freddamente, senza l’intenzione di aggiungere altro.

Fortunatamente per lui, l’attenzione del comandante venne attirata dal tono brusco e schietto del suo più fedele timoniere che chiedeva urgentemente udienza. L’ammiraglio Worthington li udì confabulare a malapena, preso com’era a gestire la forte repulsione provocata dalla realtà che l'ignaro Henry Irving gli aveva sbattuto in faccia, come uno schiaffo a viso aperto: ora lei portava il suo cognome, ma preferiva morire piuttosto che riconoscerla come signora Worthington.

È tutta colpa tua.

La vide aggiustarsi distrattamente una ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio, gli occhi scuri persi fra le pagine di quel maledetto libro, probabilmente la seconda cosa al mondo che più odiava dopo la ragazza in questione.

Tu sei responsabile.

Non dovrei essere io, a provare questo senso di colpa.

Eppure né Saffie, né Arthur potevano sapere come, in quella limpida mattinata del 3 Marzo 1730, entrambi avessero già messo in movimento i fili invisibili di un destino a cui non era possibile opporsi. Tutto ciò che entrambi riuscirono a fare, invece, fu tornare indietro al momento in cui la loro esistenza era mutata per sempre.

L’Atlantic Stringer procedeva a vele spiegate verso l’ignoto mentre, ai poli opposti della nave, i due volgevano lo sguardo in direzione di un unico istante passato.

Ad Amandine, che ancora era in vita.





Angolo dell’autrice:

Ehm…Buongiorno. Vorrei ripresentarmi decentemente alla piattaforma e, nella mia testa, avevo pensato a un incipit del tipo: “Ciao, sono Sweet Pink, e non pubblico più storie dal lontano 2012. Ormai sono pulita da nove anni, eppure non c’è stato momento in cui non abbia provato a prendere una penna in mano, chissà mai tornasse il caro vecchio coraggio di scrivere”.

Efp mi ha dato tante soddisfazioni e tanti bei ricordi, quindi non ho incertezze nel pubblicare anche qui la mia storia, poiché in tutto questo tempo entravo a più riprese nel sito per dare una “sbriciatina”, o solamente per leggere qualche storia!

In questo caso, non mi resta che dirvi quanto io sia emozionata nel pubblicare nuovamente qui, come spero tanto che vi abbia incuriosito – e vi sia pure piaciuto – il prologo al racconto che sto scrivendo. Dopo tanto tempo ho un’idea e uno svolgimento abbastanza chiari nella mia mente, quindi la mia speranza è che vi divertiate a leggere nello stesso modo in cui io mi sto divertendo a scrivere. Mi farà senz’altro piacere sapere cosa ne pensate!

Ultima cosita: è da parecchi anni che non scrivo qualcosa di veramente completo, quindi chiedo perdono se dovesse esserci qualche inesattezza.

Anzi, no, ultimissima cosita: mi rendo conto che il mio prologo e – soprattutto – i miei capitoli potranno risultare un po’tanto lunghi, ma questa è l’unica che non è mutata con il tempo. Capitoli corti, per me sono misteriose e ignote creature!

Un abbraccio forte,

Sweet Pink

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Capitolo 2
*** Primo. Così abbiamo cominciato. ***



Eccomi tornata! :)

Prima di cominciare, vi auguro una buona giornata e un buon weekend, per quanto possa esserlo vista la situazione in cui ci troviamo (-.-)

Tornando alla storia, il capitolo è piuttosto lungo (lettori avvisati, mezzi salvati) e, vi avviso, potreste essere un po'confusi dal tempo in cui si svolge – soprattutto rispetto al prologo – ma io ho il brutto vizio di voler approfondire le relazioni e le situazioni dei personaggi, per cui spero apprezzerete anche i primi capitoli, in cui il sassolino comincia a scivolare giù dalla montagna, diciamo così! :D

Spero tanto possa piacervi.

Buona lettura!





CAPITOLO PRIMO

Così abbiamo incominciato




Aprile 1728

“Ci vediamo più tardi, mia cara Saffie!”

La voce allegra che aveva pronunciato quella frase apparteneva alla bionda e alta figura di Amandine Lynwood che, ignorando a più riprese i richiami della madre a pochi passi di distanza da lei, ancora salutava qualcuno con il pallido braccio alzato e un sorriso radioso stampato sul volto illuminato dal tiepido sole del primo pomeriggio.

La destinataria di quelle parole, dal canto suo, la osservava con aria divertita all’ombra della grande veranda che dava direttamente sul giardino in fiore e fece appena in tempo a gridare, portando poco educatamente le piccole mani a formare un cilindro attorno alla bocca: “Vedi di non metterti a correre solo perché la sottoscritta non può vederti!”

Amandine concesse una smorfietta frivola e una noncurante alzata di spalle alla sorella maggiore, prima di voltarsi e raggiungere l’impettita figura di Cordelia Lynwood di tutta fretta. Le due dame sparirono poi tra la lussureggiante vegetazione che cingeva il sentiero di ghiaia scura, lasciandosi dietro l’eco delle loro risate.

Allora Saffie scosse la folta chioma castana e sorrise al vuoto che si apriva di fronte a lei: la primavera sembrava aver portato con sé una strana sensazione di felice speranza in tutta la casa, poiché finalmente Amandine sembrava stare molto meglio; in effetti, non ricordava con esattezza quando era stata l’ultima volta in cui sua sorella aveva avuto l’occasione di poter passeggiare come se niente fosse nel parco senza rischiare di dover rimanere confinata a letto per giorni interi.

“Forse ora potrà pensare ad avere una vita normale, come tutte le ragazze della sua età” pensò la signorina Lynwood, girandosi verso l’interno della dimora e varcando con aria assente la soglia dell’elegante salotto “Riuscirà ad entrare in società e partecipare a tutti i ricevimenti che fin da bambina ha sempre sognato”.

Gli occhi scuri della ragazza si posarono su di un piccolo quaderno scuro che, solitario, contrastava in cima a una pila di missive accatastate sullo scrittoio in mogano. Era Il libro delle nostre fiabe, o così l’aveva battezzato Amandine molti anni prima.

Saffie lo prese fra le mani, con infinita tenerezza.

“Pensi che potrò anche io innamorarmi, un giorno?”

“Certo che potrai” sussurrò la ragazza, ricordando ciò che tempo addietro lei stessa aveva risposto alla sorella, quando quest’ultima aveva trovato il coraggio di scrivere quella domanda sul loro quaderno. E, ora che sembrava stare guarendo, quella promessa pareva essere a portata di mano. “Saremo entrambe libere.”

Saffie aprì il libro ad una pagina a caso, distrattamente: avevano iniziato quel diario comune da bambine, per scherzo, e si chiese se sarebbe sopravvissuto, ora che le cose stavano per cambiare.

“…e la bella principessa dai capelli d’oro prese la mano del gentile principe, che la condusse per sempre nel suo regno incantato.”

Amandine aveva amato fin da subito quella favola che aveva scritto per lei e, senza perdere tempo, si era impegnata nel rispondere con un’altrettanto fantasiosa storia in cui una stupenda e furba strega bianca faceva amicizia con gli abitanti di un villaggio lontano e insegnava loro la bellezza di un mondo vasto quanto sconosciuto.

La signorina Lynwood rise internamente, divertita al ricordo dell’entusiasmo dimostrato dall’allora dodicenne sorella e di come lei stessa si era finta mortalmente offesa dell’essere dipinta nei panni di una strega.

I suoi occhi si posarono per un secondo sulla montagna di lettere che l’attendevano: anche se rinchiusa nella villa estiva di famiglia, i suoi amici dei circoli culturali non si erano scordati di lei. Dopo quasi tre anni d’assenza, aspettavano tutti con ansia il suo ritorno e Saffie stessa fremeva dalla voglia di ritornare a frequentare i salotti di Londra, di studiare, conversare di arte e letteratura con gente interessata, e persino di poter nuovamente insegnare ai curiosi quanto ricchissimi figli delle famiglie nobili frequentate da suo padre.

Saremo entrambe libere.

“Porterò finalmente Amandine ai balli con me e la farò divertire per tutta la notte, come si merita; e una delle prime cose che farò sarà accompagnarla per la prima volta ad assistere a una pièce teatrale!” pensò con eccitazione crescente la ragazza, anche se dentro di sé era cosciente che il signor Lynwood non le avrebbe mai concesso di guidare la figlia prediletta sulla discutibile strada scelta dalla maggiore.

Saffie non ebbe il tempo di approfondire il suo pensiero, né di alzare lo sguardo dalle righe scritte da una piccola Amandine, che la porta del salotto venne aperta all’improvviso e, sulla soglia, comparve l’alta sagoma di una persona che lei non aveva mai visto. I suoi occhi sgranati si incontrarono immediatamente con due iridi verde scuro, tanto profonde che – per un attimo – alla ragazza parve di non riuscire a cogliere nient’altro.

Il nuovo venuto sembrava stupito quanto lei, come se non si aspettasse affatto di trovare qualcuno in quella stanza, e accennò un lieve inchino nella direzione di Saffie, portando con eleganza un braccio dietro la schiena. “Vi chiedo perdono, signorina: mi era stato riferito che avrei potuto attendere il signor Lynwood in salotto” si affrettò a spiegare l’uomo ancora immobile sull’ingresso “Non era mia intenzione spaventarvi”.

La ragazza udì una leggera nota di imbarazzo nella sua voce bassa e notò come quel giovane signore ancora non avesse fatto cenno ad avvicinarsi a lei, poiché probabilmente stava educatamente aspettando il suo permesso a farsi avanti. Un sorriso spontaneo nacque sulle piccole labbra rosee di Saffie, mentre il suo cuore agitato cominciava a calmarsi poco a poco: d’altronde, vedersi piombare un estraneo gentiluomo in casa non era una cosa da tutti i giorni.

“Mi avete solo colta di sorpresa, signore” rispose quindi con gentilezza, mentre accompagnava le sue parole con una piccola riverenza “Sono Saffie Lynwood, primogenita del padrone di casa. Vi prego, entrate pure”.

L’uomo misterioso le concesse un sorriso appena accennato, ma pieno di gratitudine.

“Arthur Worthington, contrammiraglio della Regia Marina Britannica”. In due lunghi passi fu già al centro della stanza e la ragazza lo osservò guardarsi brevemente intorno, prima di voltarsi verso di lei e dire, con formalità: “È un peccato che le circostanze non abbiano favorito una degna presentazione”.

Ora, la signorina Lynwood ben sapeva che solitamente l’etichetta imponeva di essere introdotti alla conoscenza di una persona nuova, ma trovò comunque le parole di Arthur Worthington tremendamente seriose. Trattenne a malapena una piccola risata divertita, e disse: “Sì, è triste, contrammiraglio, ma possiamo biasimare con tutta tranquillità le sfortunate circostanze e non noi stessi”.

“Impeccabile ragionamento, non c’è che dire.”

“Oh, sappiate, volevo solamente togliere voi e me da una situazione di imbarazzo.”

“Allora, in questo caso, sono in dovere di ringraziarvi, signorina”.

Worthington sembrava non essere intenzionato ad aggiungere altro per contribuire al proseguimento di quella laconica conversazione e si voltò verso le ampie finestre che davano sulla veranda, come se aspettasse con ansia di veder comparire qualcuno.

Saffie ebbe il tempo di osservare con sé stessa il fatto di trovarsi di fronte ad un uomo dai bei lineamenti aristocratici, seppure freddi e impenetrabili: aveva un naso dritto e delle labbra sottili, come arguta pareva l’espressione trasmessa dai suoi occhi di un incredibile verde smeraldo. I capelli erano castano scuro e leggermente mossi, ma tenuti a bada da un morbido codino basso e da un costoso fiocco blu navy.

Aveva un’aria di raffinatezza elegante e gentile, anche se alla ragazza parve pure un individuo molto serio e impostato. E, di certo, non c’entravano nulla gli abiti sontuosi con cui era vestito.

Mi chiedo se sia veramente così freddo come sembra.

Saffie arrossì leggermente, rendendosi improvvisamente conto del silenzio calato fra di loro e tentò di tornare ai suoi doveri di buona padroncina di casa; anche perché, a quanto vedeva, il contrammiraglio ancora non accennava a spiccicare parola.

“Volete che faccia portare del tè?” domandò quindi, cercando di richiamare la sua attenzione “Mio padre è andato stamattina in città, ma sarà di ritorno a istanti”.

“No, grazie: non lo bevo praticamente mai, il tè” fu l’arida e monocorde risposta che ricevette.

“Un inglese a cui non piace la bevanda per cui siamo conosciuti nel mondo!” lo prese in giro la ragazza, sfoderando un sorrisetto atto a nascondere la punta di fastidio che il tono secco dell'uomo le aveva in realtà provocato. “Volete forse qualcos’altro?”

L’uomo nascose un ghigno fra le labbra sottili, prima di avvicinarsi lentamente a lei con le braccia incrociate dietro l’ampia schiena. “Lo gradivo eccome, invece. Eppure, da quando la maggior parte della mia vita si svolge tra una nave da guerra e l’altra, confesso di non aver molto tempo per organizzare dei deliziosi tea party sopracoperta con i miei ufficiali” asserì con ironia e, dopo aver visto due grandi occhi castani aprirsi sorpresi su di lui, decise di aggiungere, chinandosi appena verso Saffie: “Ho semplicemente perso l’abitudine, signorina Lynwood”.

Per la seconda volta, la ragazza dovette subire il timido rossore che aveva invaso le sue gote all’improvviso. Sì, ne era più che certa: Arthur Worthington era pure una persona abbastanza sveglia e perspicace, che sapeva stare al gioco.

Saffie avrebbe anche risposto divertita, se la profonda voce dell’uomo non l’avesse preceduta: “Amate leggere?”chiese senza alcuna inflessione di tono, abbassando lo sguardo attento sul libricino che ancora lei teneva in mano e, ancora più in là, sulla pila di carte dietro alla sua figura minuta.

La signorina Lynwood chiuse il diario suo e di Amandine con un gesto veloce, mentre spalancava tanto d’occhi, ora veramente colpita dal contrammiraglio: il rossore si diffuse su tutto il suo viso, ma lei nemmeno se ne accorse; e il suo cuore sicuramente aveva cominciato a tradirla, poiché era bastata quella domanda a farlo battere furiosamente, tutto agitato. Se si escludeva la sorella minore, era la prima volta in quei tre anni nel Northampton, che qualcuno mostrava interesse nei confronti di ciò che le piaceva fare.

“Immensamente! E anche scrivere!” esclamò allora Saffie con un gran sorriso “E voi? Voi leggete?”

Il contrammiraglio aprì la bocca, probabilmente per ribattere; ma il rumore di piccoli passi risoluti sulla veranda attirò il suo interesse. E Saffie non ebbe mai più modo di conoscere la risposta.

“Siamo tornate!” annunciò con vigore e contentezza Amandine, varcando la soglia del salotto come un piccolo tornado biondo “E, cara Saffie, sappi che non ti ho ubbidito nemmeno un po’!”.

La giovane signorina si bloccò alla vista dell’uomo che si ergeva alto al fianco della sorella maggiore, mentre un rossore furioso prendeva il posto del radioso sorriso con cui era entrata.

“Amandine!” la sgridò divertita la ragazza castana, mettendosi le mani sui fianchi e fingendo senza troppo successo di parere offesa a morte “Sei senza speranze! Come faremo se ti ammali di nuovo?”

Una piccola risatina arrivò alle orecchie di Saffie perché – stranamente – la sorella non aggiunse altro: i suoi occhi da cerbiatta se ne stavano piantati addosso ad Arthur Worthington che, a sua volta, pareva pietrificato sul posto. Lo sguardo scuro della maggiore delle signorine Lynwood si levò sul viso della persona ad un passo da lei; non bisognava certo essere degli indovini per dedurre l’effetto istantaneo che Amandine aveva prodotto nel giovane contrammiraglio: il cosiddetto colpo di fulmine era palese, scritto in ogni lineamento di quel volto affascinante e virile.

Un sorriso amaro si aprì invece nell’espressione di Saffie, che abbassò gli occhi verso il pavimento, rassegnata.

Ovviamente, non poteva andare in altra maniera.

“Tu a sorella è nata con la bellezza e la bontà di un angelo: nessun partito potrà mai rifiutarla.”

La voce seria di Worthington sembrò echeggiare nella stanza. “Signorina Lynwood, vorreste presentarmi alla dama qui presente?”

I suoi occhi verde scuro non si erano neppure staccati dall’alta e pallida figura di una Amandine che, controluce davanti alle finestre illuminate dal sole, poteva benissimo essere scambiata con un essere disceso dal paradiso.

Saffie guardò nuovamente verso la sorella minore e, con una stretta dolorosa al cuore, lesse nelle sue iridi azzurre quel sentimento che già sapeva esserci. Sapeva come sarebbe andata a finire.

“Pensi che potrò anche io innamorarmi, un giorno?”

E allora riesumò il suo sorriso migliore, il più sereno che potesse trovare. “Ma certo” rispose con dolcezza, allungando una piccola mano in direzione di Amandine, per incoraggiarla a farsi avanti.

Sì, sapeva come sarebbe finita.

Poiché era Amandine la principessa, non lei.


§


Saffie osservò con triste ironia la rumorosa combriccola riunitasi presso l’elegante stanza in cui Amandine aveva fatto irruzione, interrompendo bruscamente il discorso tra lei e il nuovo venuto.

Sua madre era giunta pochi minuti dopo sul luogo e, come da previsioni, anche l’altezzosa figura di Alastair Lynwood si fece vedere accompagnata – guarda caso – dal padre di Arthur Worthington in persona, il famoso e pluridecorato ammiraglio Simeon Worthington: terrore di ogni filibustiere che avesse mai navigato i sette mari, ora distinto gentiluomo in pensione.

Come e più del figlio, quest’ultimo pave alla ragazza castana un uomo terribilmente integerrimo e serio; il suo sguardo da vecchia aquila intelligente, fra l’altro, rafforzava questa impressione e lei si chiese se il giovane contrammiraglio non fosse stato rigidamente allevato all’ombra di un padre abbastanza ingombrante, per questo costretto a soddisfare così presto alte aspettative. Da ciò che aveva potuto carpire, nella mezz’ora di conversazione che seguì, Arthur Worthington era diventato contrammiraglio appena l’anno scorso, all’età di trentuno anni.

“Mio figlio ha raggiunto un traguardo che nessuno finora ha osato sperare” annunciò Simeon a Saffie e ai genitori di lei, gonfiando il petto con orgoglio, come un tacchino vestito in abiti eleganti. “Qualcuno potrà dire fortuna, visti i pensionamenti e i conflitti mortali in atto in questo periodo, ma il mio erede si è guadagnato sul campo il suo rango”.

Da una nave da guerra all’altra. La maggiore delle sorelle Lynwood ricordò le parole che l'uomo le aveva dedicato tempo prima e, con discrezione, si voltò verso il fondo del salotto dove, accanto alla vecchia libreria, Amandine sembrava aver catalizzato tutta l’attenzione di Worthington junior. E lui, indubbiamente, aveva attirato quella di lei: la giovane ragazza ascoltava con trepidazione e occhi spalancati le parole di un contrammiraglio stranamente rosso in viso, quasi fosse in imbarazzo a narrare le avventurose imprese compiute durante la sua vita di ufficiale di Marina.

“Davvero? Fino alle colonie?” la sentì esclamare Saffie, mentre lo sguardo turchese della sorella si illuminava di una luce curiosa ed eccitata. Vide l’uomo annuire e aggiungere qualcosa che lei non riuscì a capire, lontana com’era, ma la reazione sorpresa di Amandine la fece sorridere.

“Ormai pende totalmente dalle sue labbra” si trovò a valutare ancora Saffie, sospirando. Era divertita dalle ingenue reazioni di sua sorella tanto quanto non lo era affatto dall’aria di soddisfatta superiorità stampata sul viso serio di Arthur: il primo imbarazzo che aveva scorto nell’uomo, nel trovarsi di fronte ad Amandine, era stato prontamente sostituito da un contegno elegante, un poco pomposo.

Una punta di inatteso fastidio pizzicò qualche corda nell’animo della ragazza castana, che si obbligò a voltare rigidamente il capo verso Alastair e Cordelia Lynwood, ancora impegnati in un’edificante conversazione con il padre del contrammiraglio. Saffie puntò gli occhi sul gentiluomo giusto in tempo per sentirlo dire, nello stesso tono orgoglioso di poco prima: “Ora, è un matrimonio dignitoso, ciò che gli manca”.

“Oh, se è per questo, signor Worthington, non credo dobbiate preoccuparvi piuttosto a lungo” commentò in risposta il padre delle ragazze, ignorando il lieve sussulto stupito della maggiore e scambiando una significativa occhiata con la moglie, che sorrideva compiaciuta. Come a voler rafforzare il concetto, il signor Lynwood fece appena un cenno noncurante con la testa grigia, indicando i due giovani ancora intenti a confabulare misteriosamente sullo sfondo. “La mia Amandine è una creatura meravigliosa e di un retaggio più che degno, non trovate?”

“Devo dire che le vostre lettere non le rendono affatto giustizia, amico mio” asserì Simeon, addolcendo un poco il suo tono autoritario. “La sua bellezza è quella di un dipinto.”

Anche l’avvenente Cordelia decise di dire la sua, aprendo leziosamente un ventaglio ricamato davanti al viso truccato: “Per i pochi che hanno avuto il piacere di conoscerla, ella assomiglia alla Venere dipinta dal maestro Botticelli. O, almeno questo è ciò che scrivono di mia figlia minore”.

Saffie dovette trattenersi dall’alzare gli occhi al soffitto, di fronte alla teatralità dei presenti, e le risultò più difficile che ignorare la sensazione di opprimente inferiorità a cui comunque era abituata da venticinque anni a quella parte: se sua sorella era stata baciata dalla dea della bellezza, diceva spesso sua madre, lei era nata sotto la sfortunata stella dell’intelligenza; cosa che, secondo Cordelia Lynwood, non serviva proprio a niente in un mondo di nastrini, ricevimenti e divertenti scampagnate a cavallo.

“La nostra è una società in cui noi donne abbiamo la possibilità di delegare tutto all’uomo” aveva cominciato a dirle a più riprese, fin da quando era entrata in età da marito, ormai dieci anni prima. “Non ci è chiesto altro che occuparci della routine domestica, dei figli, per poi goderci le comodità della nostra posizione senza preoccuparci troppo. Presto o tardi, dovrai comprendere qual è il tuo posto.”

Anche alla luce di questi discorsi appassionati, sua madre era rimasta sconvolta nel sapere la maggiore delle sue figlie impegnata nel ruolo di insegnante prediletta dalle maggiori famiglie nobili di Londra, che letteralmente se la contendevano per i loro figli. Era scandaloso per la donna saperla nella capitale a sprecare tempo e impegno in attività culturali e salotti letterari quando, invece, ce l’aveva mandata per trovare uno straccio di marito.

E se Alaistair Lynwood chiudeva un occhio sulla questione solamente a patto che Saffie continuasse a frequentare l’aristocrazia di cui facevano parte, sua madre non era affatto della stessa opinione: la ragazza non ricordava nemmeno più quante lettere di lacrimose recriminazioni erano giunte dal Northampton da parte di Cordelia che, in dieci pagine almeno, stilava una lista delle sue mancanze come figlia, nei confronti della sua povera sorella tanto bella quanto malata e del suo dovere di signorina aristocratica.

Al contrario del marito, le notizie della reputazione crescente della primogenita del Duca di Lynwood presso i letterati più in vista dell’impero Britannico e della Corona non smuovevano affatto la signora che, dal canto suo, non voleva nemmeno sentir parlare di Illuminismo e sciocchezze simili. Era al corrente, in maniera vaga, che in Francia vi erano diverse dame considerate quasi alla stregua degli uomini, in quel campo inerente i discorsi difficili, come li chiamava Cordelia; ma erano donne francesi, e questo già diceva tutto.

“L’unica cosa buona del sapere usare la testa è la furbizia che ne deriva. Hai un visino grazioso, Saffie: usa quello, invece della parlantina che ti ritrovi”.

“Deve essere stato un sollievo per voi il mio ritorno qui, madre” pensò non per la prima volta la ragazza castana mentre, senza neanche sapere come, si trovava seduta sul morbido sofà del salotto in compagnia di un Simeon Worthington in vena di chiacchiere. “D’altronde, non ho avuto altra scelta se non quella di lasciarmi tutto alle spalle e stare accanto ad Amandine”.

Non che Saffie se ne fosse mai pentita, di quella decisione. Il fiore all’occhiello dei Duchi di Lynwood era nato con un dono e una maledizione, proprio come le bionde principesse delle fiabe medievali: una bellezza angelica a cui si accompagnava una salute precaria, fragile. Per questo esatto motivo, Amandine non aveva mai messo piede fuori dal Northampton e Saffie era stata costretta per quasi tutta la vita ad accudirla insieme ai domestici, mentre i genitori erano impegnati a fare gli aristocratici.

Sei anni dividevano le due ragazze, ma in realtà esse erano legate come gemelle: dove andava Saffie c'era anche Amandine, quando la più piccola piangeva era la maggiore a confortarla e farla ridere, leggendole racconti e inventandosi improbabili storie fantastiche. A volte capitava che l’una si sentisse più una madre amorevole e l’altra una bambina da tenere a bada, ma non avevano dubbi di essere migliori amiche.

Lei è la principessa, mentre io sono la strega.

“…e cosa ne dite, signorina Saffie, non vi sembra che vostra sorella abbia preso in simpatia il mio Arthur?” emerse la voce del signor Worthington, comparso dal nulla davanti agli occhi assenti della ragazza che ben sapeva, in realtà, da quanto effettivamente fosse lì accanto a lei.

“L’arrivo dei Worthington mi ha scossa più di quanto pensassi” ammise con sé stessa, arrossendo leggermente, prima di sfoderare il suo classico sorriso gaio e dire, con serenità: “Fin troppo! A contare le ore da cui stanno parlando, direi che potremmo celebrare le nozze anche domani, signore”.

L’uomo spalancò leggermente gli occhi metallici, prima di lasciarsi andare in una fragorosa e tonante risata liberatoria che rimbombò nella stanza come se vi fossero entrati una decina di elefanti impazziti. Tutti si voltarono in tempo per cogliere, non solo il rossore comparso sul viso della ragazza castana, ma anche la leggera pacca sulla spalla che l’attempato gentiluomo le concesse, buttando all’aria qualsiasi rigida formalità.

“Avevo sentito parlare della vostra irriverente sagacia, mia cara: le voci non sbagliavano affatto!” disse quindi lui, con ammirazione “Ex ufficiale o no, mi considero in primis un uomo di mare e, per questo, ho sempre apprezzato le personcine sveglie come voi.”

“Vi ringrazio, davvero” cominciò a dire quindi Saffie, che quasi stava cambiando idea sul conto del temibile Worthington senior, se non fosse stato per le parole secce e serie del figlio, atte ad attirare l’attenzione dei due.

“Padre, vi prego di non mettere in imbarazzo la signorina Lynwood con il vostro rumoroso entusiasmo.”

Se il destinatario del commento sbuffò sonoramente - quasi fosse stato uno scolaretto indisciplinato e non un militare di mezza età - la ragazza castana si voltò invece verso Arthur, perplessa. Il contrammiraglio li osservava tranquillo, con le spalle ampie appoggiate leggermente alla parete e le braccia incrociate al petto; ma le sue iridi verdi furono attraversate da una lieve ironia mentre decideva di aggiungere, stoico: “Seppure credo sia difficile possa succedere una cosa del genere”.

Saffie sentì le gote scaldarsi leggermente e fu grata per l’arrivo della domestica con il cartello colmo di tè fumante e dolcetti per tutti. Il suo cuore traditore aveva malauguratamente perso un battito ma, si disse, non le era piaciuto per niente il tono e l’affermazione di Worthington junior: l’ironia espressa sembrava quella di un uomo abituato a giudicare la gente ad un primo sguardo, piuttosto che una considerazione obbiettiva. Ciò contribuì a rafforzare l’idea che in lui ci fosse effettivamente un’arrogante superiorità, mascherata da un'impeccabile atteggiamento serio ed elegante.

Con un tempismo perfetto, alzò gli occhi castani giusto in tempo per vederlo accettare una tazza di tè dalle mani di un’emozionata Amandine e, dopo averne gustato un sorso, asserire con un’ipocrisia stupefacente che, davvero, lui amava il tè ma che raramente gli era capitato di sentirne di così squisiti.

Nelle favole, solo le principesse sposano i principi. Mai le streghe.

Saffie sorrise a malapena, preda di uno strano sentimento a metà fra ironia e fastidio. Tra le tante cose che i signori Lynwood dicevano di lei, solo su una avevano perfettamente ragione: non riusciva mai a tenere a freno la lingua. Fu così che decise di commentare, in tono apparentemente innocente e casuale: “Ma come, contrammiraglio, da quello che dicevate il tè per voi è una bevanda ormai tabù! Che sollievo, devo aver compreso male le vostre parole!”

E, detto questo, sorseggiò la bevanda dalla sua tazzina in fine porcellana con serafica tranquillità. Sapeva che l’uomo stava in realtà facendo di tutto per colpire una innocente e povera Amandine che ora lo guardava confusa, con gli occhi turchesi spalancati.

Questa persona…mi chiedo chi sia veramente.

Saffie alzò pigramente le palpebre e le sue iridi scure furono fulminate da uno sguardo di limpida e pericolosa rabbia che, immediato, scattò su di lei.

Ecco chi sei.

Con tutta probabilità, fu proprio quello il primo atto di guerra fra Arthur Worthington e Saffie Lynwood.


§


Le visite dei Worthington presso casa Lynwood non si esaurirono ovviamente quel pomeriggio, come del resto la conoscenza fra Arthur e Amandine non era destinata a rimanere un rapporto di cortesia fra vicini.

Se di primo acchito Saffie era rimasta stupita e alquanto nauseata dalle subdole manovre del padre per dar via agli ingranaggi di un piano matrimoniale probabilmente già progettato da tempo, ora la ragazza era più propensa a guardare con benevolente simpatia a ciò che si stava venendo a creare fra il contrammiraglio e sua sorella: era innegabile, i suoi genitori non avevano aspettato nemmeno la totale guarigione di Amandine prima di metterle davanti i Worthington, ma la giovane era così felice e serena in quei giorni, che Saffie non ebbe più il cuore di dire nulla in merito alla questione.

Certo, non erano tutte rose e fiori come poteva apparire, visto il discreto conflitto che serpeggiava fra lei stessa e Arthur Worthington, ben nascosto agli occhi di tutti: abbandonata la simpatia che i due sembravano aver condiviso negli istanti del loro primo incontro, sia l’uno che l’altra erano prontissimi ad ammettere di trovare tediosa – se non insopportabile – la reciproca compagnia.

Durante gli incontri che seguirono fra le due famiglie, Saffie ebbe modo di comprendere quanto effettivamente egli non fosse altro se non un serio e impostato manichino che, con le sue maniere educate ed eleganti, non la smetteva più di cianciare sulla Marina di Sua Maestà, di quanto fosse un onore servire come ufficiale dell’impero e di come nient’altro gli sembrasse più importante di assicurare, a cannonate e sciabolate, la pace nei mari inglesi.

Dal canto suo, Arthur riteneva la maggiore delle sorelle Lynwood la ragazza più saccente e fastidiosa che avesse mai veduto sulla terraferma: l’aria da innocente creatura che i suoi occhi grandi comunicavano non era abbastanza per poter celare l’irriverenza e l’ironia insite nei discorsi da piccola aristocratica cresciuta nei pigri salotti di Londra. Non aveva diretta esperienza del mondo, lei, ma solo i libri e la scrittura parevano essere ciò che veramente le importasse nella vita.

Insomma, pensavano i due con irritazione, non si poteva essere più diversi di così.

Alla luce di questi sentimenti, entrambi non fecero quindi alcuna fatica a limitare i loro colloqui alle occasioni di necessaria formalità e, per il resto del tempo, si fecero bastare il distaccato saluto che veniva scambiato se malauguratamente si incrociavano per i corridoi di casa o per strada.

Ovviamente rimaneva Amandine il principale motivo per cui Arthur e Saffie non esternavano la reciproca antipatia tanto quanto avrebbero voluto. Alla ragazza castana era bastato uno sguardo per indovinare la profondità dei sentimenti provati da sua sorella, mentre l’uomo era abbastanza perspicace da capire in pochi giorni quanto fosse saldo il rapporto fra Amandine e l’insopportabile so-tutto-io.

Infine, la più piccola delle Lynwood sembrava pendere dalle labbra sia di Arthur che di Saffie e nessuno dei due interessati era così ottuso da voler rovinare il rapporto con la ragazza in questione a cuor leggero. Entrambi erano infatti furbi il necessario da sapere che, se tutto andava come doveva andare, lei sarebbe sempre stata l’adorata sorella e lui l’amato marito.

“Non trovi che sia bellissimo, Saffie?” aveva chiesto un pomeriggio Amandine con occhi sognanti, dopo aver intravisto l’alta sagoma del contrammiraglio attraversare il giardino e sparire nell’ingresso di casa. “Ormai viene a trovarci quasi ogni giorno.”

La sua risata allegra si era poi persa nella stanza; e si trattava di quella risata frivola ma al contempo adorabile che era solo sua, un suono che prometteva vita e sogni finalmente realizzati, raggiungibili.

Allora Saffie le aveva risposto di sì ma, sorridendo divertita, l’aveva anche rassicurata della sua, di bellezza, e di quanto Arthur Worthington non sembrasse più poter respirare nemmeno un giorno senza vederla almeno una volta.

“Quanto sei sicocca, Saffie! Sai mai esser seria?” era stato il commento scettico della sorella, accompagnato da una graziosa alzata di spalle. La bionda si era però voltata subito verso di lei e, con una strana espressione ansiosa dipinta sul viso emaciato, aveva osato chiederle se secondo Saffie fosse vero.

Sì, era proprio vero.

Gli occhi verdi e attenti dell'ufficiale non riuscivano a staccarsi da Amandine, quando quest’ultima era presente nella stanza; come il loro padrone pareva impossibilitato a non prendere il suo esile corpo fra le braccia ogni volta che i due riuscivano a trovarsi soli, lontano da occhi indiscreti.

Una volta Saffie li aveva colti sul fatto per errore, mentre passeggiava distrattamente lungo il parco con un libro aperto in una mano e un piccolo ventaglio bianco stretto nell’altra. Aveva svoltato senza vera coscienza in direzione della grande fontana che sorgeva maestosa sul retro della loro dimora da ormai un secolo a quella parte, nascosta da un labirinto di alte siepi modellate alla perfezione.

Senza poterlo evitare in alcun modo, il suo sguardo castano si era alzato di scatto sulle due figure in piedi davanti a lei, apparse all’improvviso come per una strana magia. Le mani grandi del contrammiraglio Worthington si perdevano fra i capelli d’oro di Amandine, mentre le pallide dita della ragazza premevano con delicatezza sul petto ampio di Arthur; ed entrambi sembravano fin troppo impegnati a scambiarsi un lento quanto profondo bacio per far caso a Saffie, la statua di sale che si era fermata di botto alla loro vista.

Il cuore di quest’ultima pietrificò anch’esso, e la proprietaria si chiese come avesse fatto a mantenere tanta presenza di spirito per riuscire a non mollare di botto libro e ventaglio dallo shock.

“…e la bella principessa dai capelli d’oro prese la mano del gentile principe, che la condusse per sempre nel suo regno incantato.”

La ragazza si era quindi voltata rigidamente, come un burattino, ed era tornata sui suoi passi quasi correndo, scivolando sul sentiero di ghiaia. Il suo volto era invaso da brucianti fiamme di vergogna, anche se ogni imbarazzo venne dimenticato, di fronte alla consapevolezza che si era fatta strada dentro di sé.

Si amano per davvero.

Forse fu quella la prima volta in cui lo ammise con sé stessa, come fu senza ombra di dubbio quello l’ultimo momento in cui lasciò spazio alla dolorosa sensazione che di tanto in tanto aveva preso a visitarle l’anima senza alcun invito.

“Amate leggere?”

Due penetranti iridi smeraldo ferme su di lei. Due labbra sottili incurvate appena su un volto serio e virile.

Non essere stupida, Saffie. Lui è un uomo odioso.

E non ci pensò mai più.

Amandine chiaramente non riempiva solo i momenti e la testa della sorella di entusiasmanti chiacchiere riguardanti navi pirata in fuga ed esotiche isole dalle acque cristalline, ma pure il loro diario comune non ne uscì indenne: la ragazza più giovane aveva sicuramente un’idea romantica della vita di mare e Saffie per prima faceva del suo meglio per non spegnere il suo entusiasmo, scrivendo per lei brevi storie che narrassero non più di principesse rinchiuse in spaventose torri, ma bensì rapite da ciurme di filibusieri male in arnese e salvate, ovviamente, dall’intervento di intrepidi marinai.

“L’ho letta almeno dieci volte!” aveva scritto in risposta Amandine sul quaderno “Sicuramente il tuo talento verrà notato, mia amata sorella, quando potrai andare via da qui”.

“Non prima di aver organizzato insieme a te il matrimonio: sai che mi offenderei a morte se non potessi aiutarti e, del resto, non me lo perderei per niente al mondo!” si era affrettata allora a rispondere l’altra.

In generale, la signorina Lynwood era ottimista: la salute della sorella minore sembrava migliorare giorno dopo giorno, Simeon Worthington era diventato praticamente un amico di famiglia a volte un poco severo, e i suoi stessi genitori guardavano con simpatia all’idea di far tornare la maggiore delle figlie alla sua vita di Londra.

L’intoppo avvenne a due mesi dal primo incontro fra Arthur e Saffie.

La famiglia Worthington si era stabilita a pochi chilometri di distanza dalla tenuta del Duca di Lynwood e l'ex ammiraglio era stato più che felice di poter ospitare il figlio durante la lunga licenza a lui concessa dalla Marina Britannica, soprattutto visti gli ultimi avvenimenti.

L’aria aveva cominciato a scuotersi quando, con l’arrivo di una missiva piuttosto urgente, Arthur era stato richiamato prima del previsto al suo dovere di contrammiraglio al servizio della Corona: un nuovo conflitto imperversava nelle lontane acque delle colonie americane e a ogni uomo che si fregiasse di un rango di comando era stata revocata la licenza, poiché la situazione sembrava essere abbastanza grave.

Il giovane Worthington non poteva, né desiderava sottrarsi alla chiamata che gli era stata rivolta e tutti capirono che questo stava a significare un’assenza dall’Inghilterra di nove mesi almeno, se non di un anno intero.

“Il povero Simeon ha dovuto passare non so quanti anni a bordo della sua amata Royal Chaser prima di poter avere una licenza degna di questo nome” si fece sentire il Duca Alastair, la cui voce piena di rammarico echeggiò nell’intimità dell’elegante sala in cui la famiglia e i due Worthington erano riuniti.

L’attempato gentiluomo preso in causa sospirò con fare rassegnato, muovendo distrattamente il suo bicchiere colmo di liquore. “Quei dissoluti ladri dell’oceano infestavano le acque dei Caraibi come innumerevoli parassiti, mentre noi dovevamo difenderci anche dalle navi corsare alle dipendenze dei governi vicini. Non c'era un attimo di vera pace e molti hanno perso la vita, in quelle battaglie” disse senza alcuna inflessione di tono, mentre i suoi svegli occhi grigi si alzavano sulla figura del figlio in piedi accanto a lui “Non che oggigiorno sia differente, comunque”.

La totalità dei presenti voltò il capo verso Arthur Worthington e Saffie gli lesse in viso un’espressione di fredda determinazione che, poteva scommetterci, non aveva mai visto su di lui.

Un'espressione omicida.

“Demoni dell’inferno, ognuno di loro” sibilò il giovane contrammiraglio. L’uomo si staccò dal fianco del padre e cominciò a camminare rigidamente verso le ampie finestre che illuminavano la stanza con le braccia incrociate dietro la schiena, senza fare caso allo splendido tramonto che si intravedeva al di là di esse. Si fermò infatti a poca distanza dal divano rococò su cui erano sedute le sorelle Lynwood e aggiunse, guardando dritto di fronte a sé: “E all’inferno devono essere rispediti, senza alcuna eccezione”.

“Così…sarà molto pericoloso il vostro incarico?” pigolò ingenuamente Amandine, tormentandosi le mani bianche l’una con l’altra.

Saffie le sorrise con tenerezza e posò le sue piccole dita su quelle di lei, cercando di ignorare il disappunto che le parole gelide del contrammiraglio le aveva in realtà risvegliato. Un fastidioso sentimento cominciò ad agitarsi nelle sue viscere e la ragazza cercò di respirare a fondo, per metterlo a tacere; doveva ricordare il suo posto.

Tieni a freno la lingua.

“Certo, ma è un rischio che sono disposto a correre volentieri, se ciò significa assicurare una caduta sorda a quei disgraziati” rispose l’uomo, abbassando finalmente il capo in direzione delle sorelle con un sorrisetto leggero, ma pieno di arroganza.

Gli occhi azzurri di Amandine si spalancano impressionati, ma Saffie non potè trattenere un piccolo sbuffo scocciato, accompagnato da una veloce occhiata al cielo: non le andava affatto a genio che Worthington stesse spaventando la ragazza accanto a lei, né era del tutto d’accordo con il suo pomposo discorso.

“Avete qualche dubbio, per caso, signorina?”

La maggiore delle Lynwood aveva cercato di essere discreta, ma Arthur aveva colto al volo il suo sguardo corrucciato e il rumore prodotto dalle sue piccole labbra, poi, era stato perfettamente udibile.

Due sorpresi occhi castani si aprirono su di lui, intanto che Aleister rispondeva per la figlia, in tono piatto: “Mia figlia non si trova particolarmente a favore della pena di morte, contrammiraglio. Piuttosto rivoluzionario, non credete?”

Il tuo posto.

“Devi sorridere e chinare il capo con dolcezza, non usare quella lingua lunga che purtroppo ti ritrovi.”

Le iridi verde scuro dell’uomo furono nuovamente su Saffie ed esprimevano un misto di irritazione e stupore che ben si accompagnavano alle parole che seguirono, sputate fuori con incredulo scetticismo: “Ah, ma davvero?”

“Sì, davvero” sbottò infine la ragazza castana, buttando alle ortiche i suoi propositi di figliola modello. “Non parteggio in nessun modo per chi decide di condurre una vita al di fuori della legge, ma alcuni di questi demoni sono solamente dei disperati disposti a tutto pur di non morire per strada e di fame nelle colonie.”

“Si può sempre scegliere” la rimbeccò lui, con distacco. “E una volta intrapresa la disonorevole strada della pirateria, non c’è altra via se non quella che conduce alla forca.”

“Su quelle navi sono imbarcati pure dei ragazzini, che a malapena hanno coscienza di ciò a cui andranno incontro” ribattè Saffie con forza, tentando con scarso successo di controllare il tono di voce e stringendo contemporaneamente le dita sul morbido bracciolo del divano, per darsi coraggio. “La morte indiscriminata non è la soluzione.”

Criminali. Il mio dovere di ufficiale dell’Impero Britannico mi impone di proteggere i cittadini e garantire un’equa giustizia agli individui onesti.”

“Giustizia e onestà” ripetè lei con sarcarsmo, alzandosi in piedi senza nemmeno rendersene conto “E ditemi, contrammiraglio, assolvete a questi meritevoli compiti anche quando le navi di supporto sotto il vostro controllo scortano i vascelli della Compagnia delle Indie, o della Royal African Company, con le loro stive stipate da migliaia di schiavi?”

“Saffie!” urlò quasi Cordelia, chiudendo il suo ventaglio di piume con uno scatto isterico.

“Deve essere facile avere questa parlantina quando si può spendere la propria vita discutendo di sciocchezze astratte, comodamente seduti davanti a un fuoco acceso, e senza alcuna esperienza diretta del mondo” commentò in risposta Worthington, il tono di voce traboccante di rabbia. La uccise con uno sguardo di pietra e aggiunse, implacabile: “Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood”.

“Arthur!”

Il signor Simeon era balzato in piedi e osservava, vibrante di sdegno, l’alta figura del figlio.

Ma né Saffie, né il contrammiraglio accennarono a voltarsi verso l’interno della sala: i due erano impegnati a fronteggiarsi, l’uno a pochi centimetri dall’altra, senza alcuna intenzione di cedere terreno. “Siete un uomo arrogante e pieno di sé” pensò lei, forando con il suo miglior sguardo di sfida le iridi mortalmente fredde di un Arthur che, dall’altra parte, stava considerando Saffie una saccente quanto insopportabile strega.

Fu la voce esitante e supplichevole di Amandine a spezzare l’incantesimo. “Vi prego, può bastare adesso. Sorella mia, torna a sederti qui accanto a me” fece quest’ultima, poggiando con grazia una mano sul posto precedentemente occupato dalla ragazza castana. Saffie si voltò verso di lei e lesse nei suoi occhi chiari un dispiacere e un’ansiosa preoccupazione che la colpirono come un secchio d’acqua ghiacciata; si allontanò dal contrammiraglio di scatto e si accorse degli sguardi esterrefatti dei suoi genitori (Cordelia sembrava sul punto di svenire da un momento all’altro), del pesante silenzio imbarazzato che era calato nella stanza.

“Presto o tardi, dovrai comprendere qual è il tuo posto.”

La sua testa ronzava in maniera fastidiosa, mentre il corpo era scosso da un leggero tremito nervoso.

Che cosa ho combinato?

“Io…”cominciò a dire esitante, lasciando cadere lo sguardo verso terra “Io vi chiedo perdono, ma credo sia giunto il momento di ritirarmi nelle mie stanze”.

Nessuna risposta giungeva dagli astanti e Saffie sentì gli occhi cominciare a pizzicare, mentre la visione sulle piatte forme del pavimento in marmo cominciava a farsi orribilmente confusa.

No. Ti prego, questo no.

Colse con la coda dell’occhio l’ombra di Arthur Worthington passarle agilmente accanto e udì con poca consapevolezza la sua voce, come sempre terribilmente seria: “Penso di dover essere io ad andarmene, per questa sera”.

“Verrò con te, figliolo. D’altronde si è fatto davvero tardi e i nostri domestici avranno quasi ultimato i preparativi della cena, ormai” si unì a lui l'ex ammiraglio, con una voce stranamente tranquilla e pacata; sembrò a tutti sereno e ignaro, come se nulla fosse accaduto.

Aleister fu subito su di loro, prodigo di cerimoniose cortesie e di ansiose raccomandazioni: “Siete sicuri, di non voler restare ancora un poco? La strada è buia, posso farvi chiamare la mia carrozza se volete”.

“Non ce ne sarà bisogno, amico mio” rispose il signor Worthington, con gentilezza.

Dal canto suo, Arthur aspettò di vedere il padre infilare l’elegante cappotto ricamato, prima di fare un brusco cenno della testa e sillabare: “Signori Lynwood, Amandine…vi auguro una buona serata”.

Gli occhi grandi di Saffie erano ancora puntati ostinatamente sulla superficie liscia del pavimento: avrebbe voluto affondarci, per quel che la riguardava. Il fatto che lui non l’avesse inclusa nei saluti di commiato era in fondo il male minore, se paragonato al turbamento crudele provocato dalle parole rabbiose volate fra loro.

È il principe scelto da Amandine. Non puoi permetterti di detestarlo.

Simeon lanciò un’occhiataccia da rapace al figlio girato di spalle e, prima di seguirlo nell’ingresso, voltò la chioma grigiastra in direzione dei presenti per congedarsi. I suoi occhi si posarono per qualche secondo di più sulla figura minuta di una Saffie quasi alle lacrime. “Perdonate il terribile orgoglio del mio erede” asserì dolcemente e, quando vide il visino arrossato della ragazza castana alzarsi su di lui, si sentì libero di continuare: “È stata una conversazione a dir poco interessante, signorina Lynwood”.







Angolino finale dell’autrice:

Troppo lungo?

Spero di no, dai.

Troppo noioso?

Spero decisamente di no.

(Sweet Pink piange in un angolino buio)

Al di là di tutto, ho fatto diverse ricerche storiche prima di scrivere questa storia, visto che non mi piace essere troppo approssimativa…chiaro, mi prendo le dovute libertà narrative, ma niente di troppo sconvolgente (credo T.T)

Arthur e Saffie in fondo sono figli del loro tempo e con educazione decisamente diverse. Anche per questo, pare non si vedano di buon occhio. Diciamo solo che si sa molto bene cosa può diventare un innocuo sassolino, se lanciato a tutta velocità lungo una scarpata.

Io difatti non vedo l’ora di vedere la valanga.

Ancora grazie, se siete arrivati in fondo al capitolo. :) Se vi va, fatemi sapere che ne pensate!

Un abbraccio,

Sweet Pink

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Capitolo 3
*** Secondo. La fine dell'inizio, la quiete prima della tempesta. ***


Eccomi ritornata e, incredibile, sto riuscendo ancora ad aggiornare una volta a settimana!

Questo è l’ultimo capitolo che anticipa il vero inizio della storia: volevo a tutti i costi chiarire il contesto in cui Saffie e Arthur si incontrano, per cui Amandine è un personaggio che non potevo relegare a “semplice” obra del passato. Chiaro, non vedo l’ora di arrivare alla famosa valanga che, comunque, è più che imminente.

Penso infatti che il prossimo capitolo avrà almeno qualche avvertenza! Cara “pace”, è stato bello, grazie e arrivederci!

Ringrazio chi ha aggiunto questa storia nelle sue letture, mi fa veramente tanto contenta! Se vi va, fatemi sapere pure cosa ne pensate! Anche le critiche costruttive sono ben accette: ho sempre timore di scrivere in maniera noiosa! (T.T)

Un abbraccio virtuale,

Sweet Pink

P.s: In fondo al capitolo ho lasciato un’anticipazione del prossimo.






CAPITOLO SECONDO

LA FINE DELL’INIZIO, LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA.




“…anche quando le navi di supporto sotto il vostro controllo scortano i vascelli della Compagnia delle Indie, o della Royal African Company, con le loro stive stipate da migliaia di schiavi?”

“Donna presuntuosa” mormorò fra sé e sé Arthur, con rancoroso disappunto. Cercò di concentrarsi sul bucolico panorama campestre che s’apriva di fronte a lui, ma il visino saccente di Saffie Lynwood continuava a galleggiargli di fronte agli occhi e così ricordargli la terribile discussione avvenuta neanche mezz’ora prima.

“Come dici, figliolo?”

L'alta figura di Simeon Worthington apparve nel suo campo visivo all’improvviso. Arthur lesse nel volto sempre indecifrabile del padre un’espressione di divertimento che non gli era del tutto famigliare e pensò, con fastidio crescente, che l’uomo avesse ovviamente qualcosa da dire sulla questione La signorina so-tutto-io.

Cercò quindi di ignorare quello sguardo grigio ostinatamente puntato su di lui e rivolse la sua attenzione nuovamente sulla strada, spronando il suo fido stallone nero con un colpo leggero delle gambe. Si sarebbe lanciato volentieri al galoppo, se questo significava seminare suo padre e la ramanzina non richiesta che sicuramente stava per piombargli fra capo e collo, proprio come quando era bambino.

…e mia madre ancora in vita.

“…sono solamente dei disperati disposti a tutto pur di non morire per strada e di fame nelle colonie.”

Sbagliate. Devono morire tutti, dal primo all’ultimo.

Una fitta al petto, dolorosa e traditrice, si fece sentire dentro di lui, ma Arthur fu fin troppo bravo nell’ignorarla e ad accantonare quello scomodo ricordo in un angolo recondito della sua coscienza; un luogo quasi sconosciuto anche all’uomo stesso, perché lì erano prontamente dimenticati i dolori di una vita intera. Abbandonati.

“Come se la tua vergognosa madre avesse avuto molta scelta, comunque.”

Dimenticalo, dimentica tutto.

In quel modo era riuscito ad arrivare così presto a ricoprire una posizione di comando, procedendo con lo sguardo puntato sempre in avanti, verso una luce che si faceva anno dopo anno sempre più vicina ma, contemporaneamente, rimaneva irraggiungibile.

È questa mia sfrenata ambizione ciò che più amo, questo mio dovere incorruttibile, che inghiotte tutto il resto.

Eccellere, in fondo, gli era sempre venuto semplice tanto quanto bere un bicchiere d’acqua. E, ora che sembrava così vicino ad avere anche la più bella ragazza che avesse mai visto, non poteva lasciare all’insopportabile sorella maggiore il potere di scombinargli i piani.

Arthur ricordò le iridi turchesi di Amandine aprirsi su di lui spaventate e confuse, mentre udiva le parole ostinate di Saffie Lynwood.

Schiavi.

Una smorfia sprezzante attraversò il bel viso del contrammiraglio e la sua rabbia sembrò quintuplicare. “Le mie navi non hanno mai partecipato a missioni del genere” pensò con malcelato disgusto.

Voi mi giudicate, ma di me non sapete un bel niente.

L’ex Ufficiale Simeon Worthington raggiunse senza fatica il cavallo del figlio, lanciato ora in un energico trotto. L’attempato gentiluomo studiò i lineamenti mortalmente seri del giovane al suo fianco e, con un sospirò pesante, constatò quanto effettivamente quest’ultimo fosse turbato da ciò che era accaduto in casa Lynwood più di quanto volesse far intuire.

“La signorina Saffie ha un caratterino testardo di cui non finisco mai di stupirmi” commentò quindi in tono del tutto casuale, con un mezzo sorriso.

Un piccolo sussulto scosse appena le spalle di Arthur che rispose seccamente, senza degnarsi di guardarlo in faccia: “È una ragazzina viziata che non sa stare al suo posto”.

“Oh, io la trovo di un’intelligenza piuttosto acuta, a dire il vero” buttò lì Simeon, leggermente divertito. “E ha pure una figura graziosa, bisogna ammetterlo. Non come l’angelica sorella, ma è di un altro genere, la bellezza di Saffie Lynwood.”

Arthur Worthington si voltò finalmente verso il padre, di scatto, e lo guardò come se fosse impazzito all’improvviso. Certo, all’inizio, lui stesso era rimasto colpito dalla controversa aura di innocenza e perspicacia che la ragazza sembrava portare con sé ovunque andasse ma, di sicuro, non era nulla se paragonata alla dolcezza di colei che era intenzionato a sposare.

“Ho sentito di come le consorti degli alti ufficiali siano autorizzate a viaggiare insieme a loro fino alle mete più lontane. Promettilo, Arthur: mi porterai sempre con te, vero?”

“Sempre e per sempre, poiché non credo di potermi più separare da te, Amandine.”

Un sorriso vero, largo e spontaneo, nacque sul viso del contrammiraglio Worthngton. Se i suoi sottoposti l’avessero veduto in quel momento, di certo non avrebbero riconosciuto il temibile e integerrimo ufficiale che riusciva, con pochi precisi ordini, a tenere sotto controllo più vascelli da guerra contemporaneamente.

Simeon aveva osservato attentamente le emozioni più diverse susseguirsi negli occhi verdi ed espressivi del figlio, prima di girarsi verso il sentiero ora sprofondato nell’opaca oscurità della sera. Decise di concedersi l'ennesimo sospiro pensieroso.

“A volte mi chiedo se una ragazza dal carattere sveglio e testardo non sia più adatta a un uomo di mare al comando” asserì in tono neutro, puntando lo sguardo da vecchia aquila intelligente sull’austera magione che spuntò di fronte a loro, ben visibile anche in lontananza. “Se la signorina Saffie Lynwood non sia più simile a te di quanto credi.”

Una morsa agghiacciante attanagliò le viscere di Arthur in meno di un attimo. Forse fu per questo che, dimenticando qualsiasi formalità o etichetta, l’uomo si rivolse al padre con voce roca, da animale selvaggio: “I tuoi accordi matrimoniali con il Duca prevedevano Amandine fin dall’inizio; e io ho accettato le tue imposizioni soprattutto perché sono innamorato di quella ragazza, non dimenticarlo”.

Oppure, nemmeno tu dimentichi che il governatore di Kingston è un vecchio conservatore d’altri tempi: più lieto di favorire un posto di comando nel suo ricco insediamento a ufficiali dignitosamente sposati, o con famigliola al seguito” sibilò in risposta l’ex ammiraglio, ora tornato alla fredda serietà cui il figlio era più abituato. “I miei piani prevedevano di accasarti con una fanciulla dell’aristocrazia, mentre quelli del mio caro amico Alaistair erano assicurarsi in famiglia la stabilità e il prestigio che il nostro ruolo garantisce.”

“Mi risulta che la signorina Amandine Lynwood sia la tua fanciulla dal titolo nobiliare, padre.”

“Anche la sorella maggiore lo è, se per questo.”

Come se la sua stessa mente pianificasse contro di lui, Arthur dovette subire per la seconda volta l'irruzione di Saffie nei suoi pensieri: in un istante, furono i suoi occhi ridenti e grandi a balenargli davanti, più che il suo sorriso caparbio.

No. Questo mai.

I due Worthington entrarono nel cortile curato della proprietà e un servo di una certà età si fece loro incontro, reggendo una pesante lanterna con mano malferma e tremante. “Bentornati, padroni” li accolse quest’ultimo con un profondo inchino cerimonioso, mentre il giovane stalliere giungeva anch’esso, di corsa e in affanno. “Un’altra missiva è giunta da Londra durante la vostra assenza.”

In un agile balzo, Arthur scese dal suo stallone e lo lasciò alle amabili cure del suo servitore. “Dai a Bharat una razione doppia di fieno, Charles” ordinò, non prima di aver gratificato l’animale con una dolce carezza sul muso “Se l’è meritata”.

“Consideratelo già fatto, padrone.”

Il contrammiraglio osservò Bharat lasciarsi docilmente condurre via e provò una strana tenerezza. D'altronde, era molto legato a quel cavallo nato con il colore della notte stessa: sua madre gliel’aveva portato in dono, di ritorno dai lunghi e rari viaggi nelle colonie indiane in cui accompagnava il marito; la donna aveva in fondo pagato pochi spiccioli per avere quel magro cucciolo dal temperamento già fiero e ribelle.

Una mano grande e affettuosa si posò sulla spalla del giovane uomo che, voltandosi, incontrò lo sguardo d’acciaio del padre; questa volta un nuovo sorriso smussava la severità di quel viso simile al suo. “Mi piace molto la signorina Amandine e penso che vi amiate sinceramente. Questo, è sempre un bene” asserì con dolcezza “Quindi perdona le parole del tuo vecchio, che non voleva causarti alcuna pena”.

“Voi non avete nulla da farvi perdonare, padre”

Entrambi si avviarono poi lungo il corridoio d'ingresso in silenzio e Simeon Worthington aspettò di essersi tolto l’elegante e lunga giacca in velluto prima di commentare, apparentemente rivolto al vuoto: “Ugualmente, dovrai scusarti con Saffie Lynwood per le tue rimarchevoli parole”.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Arthur sospirò rassegnato, e massaggiò distrattamente la fronte ampia con le dita per qualche istante. Già lo sapeva: incontrare la ragazza non sarebbe stato né facile, né piacevole.

“Immaginavo che prima o poi mi avreste detto qualcosa del genere.”

“Non ti ho cresciuto per vederti ridurre in lacrime deliziose signorine aristocratiche” lo prese in giro suo padre, lanciandogli nello stesso momento un’occhiata di rimprovero.

Gli occhi verde scuro del contrammiraglio si allargarono sorpresi.

In lacrime?

Un irritante senso di colpa si fece strada dentro di lui anche se, in quel preciso istante, erano di ben altra natura i suoi pensieri: il suo ritorno nei Caraibi era imminente; sarebbe stato via a lungo, avrebbe combattuto e rischiato la vita per la pace dell’Impero Britannico. Lui e Amandine non potevano più aspettare ad annunciare il fidanzamento.

Non poteva permettersi di perderla a causa delle sue stesse azioni.

Avrebbe fatto qualsiasi cosa, pure se questo significava chiedere scusa alla piccola strega.


§


Il silenzio della stanza era reso più pesante, più insostenibile e tossico, dal ticchettio costante della pendola dorata posta in fondo alla sala da pranzo dove, da qualche tempo, la famiglia Lynwood si era riunita per la cena. Il rumore metallico delle posate faceva da coretto d’accompagnamento a quello prodotto dall’antico orologio, producendo una bizzarra melodia scoordinata.

Saffie sedeva rigida e dritta di fronte alla sorella minore, ma il suo sguardo rimaneva ostinatamente fisso sul piatto ormai vuoto. Si chiese quanto i genitori avrebbero effettivamente resistito prima di sentire l’impellente dovere di recriminare lo scandaloso comportamento da lei tenuto nei confronti dell’odioso contrammiraglio Worthington.

Sia Alastair che Cordelia avevano in realtà stupito la ragazza, visto il mutismo dietro cui avevano deciso di trincerarsi per tutta la durata del pasto. Ma, quest’ultima lo sapeva bene, la situazione non era destinata a rimanere tale tanto a lungo e, difatti, il vento di tempesta cominciò a levarsi poco dopo l’arrivo dell’ultima portata, un delizioso dolce alla ciliegia.

“Dovrai chiedergli scusa” esordì monocorde il Duca di Lynwood, ignorando completamente la mano del domestico, entrata con discrezione nel suo campo visivo per versargli da bere. I suoi taglienti occhi castani – gli stessi ereditati da Saffie – erano inchiodati sulla figlia con fredda severità.

“Di chi parlate, padre?” ironizzò con fare vago l’interessata, senza staccare lo sguardo dall’elaborata pietanza che stava maldestramente massacrando con forchettina e coltello. Voleva apparire rilassata e ignara eppure, nella realtà dei fatti, il suo cuore aveva perso più di un battito.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

“Non scherzare con me, Saffie” fu la risposta glaciale dell’uomo seduto capotavola, la cui voce aveva cominciato a far trasparire un pericoloso nervosismo. Alastair voltò appena la testa in direzione dei domestici rigidamente allineati a ridosso della parete e ordinò: “Ritiratevi. Tutti quanti”.

“Cominciano i guai” pensò la ragazza castana con preoccupazione, mentre lei e Amandine scambiavano un’ansiosa occhiata fugace. A Saffie parve quasi che dovesse essere la sorella ad essere redarguita: il suo volto emaciato era molto pallido e scavato, tanto che gli occhi turchesi sembravano sprofondarci dentro; ed era impossibile non accorgersi del tremore leggero che la scuoteva da capo a piedi.

Durante la cena, inoltre, sua sorella minore non aveva praticamente toccato cibo.

Un altro peggioramento.

“Amandine, il dolce è squisito. Prova a mangiarne un poco, ti piacerà” riuscì a suggerirle Saffie, con il cuore ora tornato a battere fin troppo velocemente: non voleva nemmeno dare un significato concreto a quel pensiero, poiché sapeva quale sarebbe stata la ovvia conclusione se si fosse rivelato corretto. Non di nuovo.

Quando? Quando ha ricominciato a peggiorare?

La piccola Lynwood fece appena in tempo ad annuire verso di lei con la sua voluminosa chioma dorata che, ovviamente, le parole del Duca Alaistair si levarono alte nella sala da pranzo.

“Lo hai offeso” sputò freddamente quest’ultimo, incrociando le lunghe dita davanti al viso tanto sprezzante quanto aristocratico. “Tua madre ti ha avvertita più di una volta, se non erro: la tua lingua lunga non può portarci altro che fastidi.”

“Chiedo perdono per la mia solita avventatezza a voi e alla mamma ma, state pur certo, porgerò le mie scuse anche al contrammiraglio Worthington” rispose subito Saffie a sopracciglia agrottate, voltandosi con il busto verso il padre e cercando di ignorare la piccola fitta di dolore che la sua precedente frase le aveva provocato. “Eppure, che mi dite delle sue, di parole? Anche lui ha offeso vostra figlia, se ricordate bene.”

“Arthur Worthington è un uomo!” tuonò il Duca, alzandosi di scatto dalla sedia e picchiando con violenza entrambe le mani sulla superficie del tavolo, provocando una cacofonia di suoni che fece sussultare le tre donne presenti. “È un Ufficiale in carriera, molto ricco e con altrettanto potere! Non ti lascerò mandare all’aria il fidanzamento della mia amata Amandine solo perché senti l’impellente bisogno di spiegare le tue strampalate idee agli altri!”

La ragazza sotto accusa spalancò tanto d'occhi e, senza rendersene neanche conto, indietreggiò con la sedia, allontanandosi dalla figura incollerita e alta di Alastair.

“Deve essere facile avere questa parlantina quando si può spendere la propria vita discutendo di sciocchezze astratte, comodamente seduti davanti a un fuoco acceso, e senza alcuna esperienza diretta del mondo”

Ora l’intero quadro delle cose risultava essere completo. Saffie comprese, come un fulmine a ciel sereno, quanto le aspettative di suo padre fossero interamente rivolte all’accordo matrimoniale con i Worthington. Nulla contava di più per lui: né le aspirazioni della figlia maggiore, né ciò che sarebbe stato giusto per la giovane e fragile Amandine.

“Me lo sarei dovuta aspettare ma, per una volta, ho voluto essere stupida e credere che per papà noi sorelle venissimo prima di qualsiasi accordo o affare” considerò fra sé la ragazza castana, ricacciando indietro lacrime amare e rabbiose. Riuscì infine a dire, il tono più intimorito di quanto avrebbe voluto: “Sapete fin troppo bene quanto io desideri solamente la felicità per Amandine”.

E lanciò uno sguardo supplichevole verso la madre che, in tutto quel tempo, non aveva fatto altro se non cercare di confondersi con l’elegante mobilio della stanza: Cordelia sedeva immobile, con la schiena perfettamente dritta e lo sguardo spiritato fisso su un imprecisato punto della parete di fronte a lei, come se la discussione non stesse avvenendo affatto perché, in sua opinione, presto la famiglia sarebbe tornata a discorrere di quelle frivolezze che tanto le piacevano.

Dal canto suo, Amandine spostava lo sguardo atterrito da suo padre a Saffie, e viceversa: la più giovane delle Lynwood ammirava la presenza di spirito della sorella maggiore poiché, anche se avrebbe voluto venirle in aiuto, un tremendo senso di impotenza sembrava impedirle di aprire bocca.

“Me lo auguro, figlia” commentò Alastair, ritornando al suo consueto tono di voce raffinato, da nobile importante. Portò la mano riccamente ingioiellata alla lunga e ridicola parrucca ricciuta (odiatissima da entrambe le sorelle Lynwood) che da sempre era simbolo del suo status sociale. “Me lo auguro per tutti, ma soprattutto per te.”

Il Duca si sporse leggermente verso Saffie con la schiena e quest'ultima dovette sopportare sia il glaciale distacco, che il pesante significato delle parole che seguirono. “La tua vita a Londra è stata possibile finché io decidevo di accordarti totale libertà, questo lo sai. Hai quasi ventisei anni e non sei sposata: mi chiedo chi potrebbe più tenerti in considerazione, se io procedessi a disconoscerti.”

“Saremo entrambe libere!”

Non puoi farmi questo.

Saffie si alzò a sua volta dalla sedia, di scatto, mentre a malapena udì l'urletto sconvolto sfuggito dalle labbra di Amandine. “No! Papà, vi prego! La ucciderete così!” esclamò la ragazza più giovane, balbettante e bianca come un cencio “Chiederà perdono al contrammiraglio Worthington, l’ha promesso!”

Nel mentre, Saffie osservava il padre con gli occhi ridotti a due fessure e un cuore sanguinante. Mai, in tutta la sua vita, la ragazza aveva provato un sentimento di bruciante delusione paragonabile a quello provocatogli dal Duca, pure se non era di certo la prima volta che l’uomo in questione era stato causa di tanto dolore e tristezza.

Perché, in fondo, è come se ti avesse tradita.

“Lo fareste per davvero…” bisbigliò solamente, incapace di aggiungere altro.

“Si intende che lo farei” rispose lui con noncuranza “Sono tuo padre e questo rientra nei miei pieni diritti”.

Il vostro interesse per i miei successi a Londra, in fondo, non era che una miserabile farsa.

“Saffie…” pigolò ancora Amandine, sporgendosi verso di lei e facendo il gesto di prenderla per mano.

L’interessata si voltò allora verso la sorella e resuscitò un sorriso di gentilezza, condito da una parvenza di tranquillità, anche quella, riesumata chissà dove. “Non ti preoccupare, cara mia: mi scuserò con il tuo Worthington della mia sciocca testardaggine e tornerà tutto come prima.”

“Brava, bambina mia.”

Saffie decise di ignorare sia il commento mellifluo del padre, sia la rigida figura di una madre più che intenzionata a mimetizzarsi con la tavola imbandita; si concentrò invece sulla ragazza bionda e sospirò di sollievo, nel vedere l’espressione ansiosa di quel visino pallido aprirsi in una più distesa e rilassata.

Anche così, Amandine pareva comunque fragile come un evanescente filo di fumo e la sorella maggiore pensò che la preoccupazione dovuta all’imminente partenza di Arthur Worthington - unita allo stress provocato dalle discussioni di quella giornata - non dovesse aver giovato affatto ai suoi nervi, da sempre molto sensibili.

Uno strano senso di colpa cominciò ad agitarsi dentro di lei.

Avrebbe fatto qualsiasi cosa per la libertà sua e di Amandine.

Pure se voleva dire chinare il capo di fronte a quell’arrogante manichino.


§


La partenza del contrammiraglio per le lontane colonie americane sembrava infine essere questione di giorni, così come lo era l’annuncio di un fidanzamento atteso da settimane a quella parte.

Dopo diverse ore di tormentosi ragionamenti, Saffie Lynwood obbligò sé stessa e il suo riluttante orgoglio a salire sulla carrozza di famiglia e procedere a velocità spedita verso la poco distante dimora dell’uomo più noioso dell’intero pianeta terra.

“Così non va bene” si disse la ragazza, strizzando con forza le palpebre per un attimo, prima di tornare ad ascoltare il suo odiato cuore che, bizzarro, pareva voler danzare a ritmo con il dondolio costante del mezzo di trasporto su cui era seduta. “Devo riuscire a chiedergli perdono, non trovarmi a discutere di nuovo con lui.”

Devo farlo per Amandine.

La sorella aveva debolmente insistito per accompagnarla nella sua visita a casa Worthington, ma i Duchi di Lynwood erano stati irremovibili: Saffie sarebbe andata in compagnia di un servo, poiché non potevano proprio permettere che la salute precaria della figlia prediletta subisse un ulteriore peggioramento, vista la ricaduta avuta da Amandine in quegli ultimi due giorni. La maggiore delle ragazze era per una volta d’accordo con i genitori; non le piaceva proprio per niente il respiro affannato di sua sorella minore, come la preoccupava immensamente la tosse secca riapparsa all’improvviso dopo diversi mesi di tregua. Amandine cercava di nasconderlo, ma era palese la sua difficoltà nel fare anche solo una passeggiata intorno al parco della proprietà, figurarsi poi affrontare le immense scalinate che conducevano da un piano all’altro della casa!

Saffie si portò una mano aperta sul petto, come se farlo potesse arginare la fredda paura che serpeggiava in ogni fibra del suo corpo come veleno, intossicandole così i pensieri.

“Ci credi, sorella mia? Quando saremo sposati lo seguirò a Kingston…vivrò una vera e propria avventura!”

Un volto tanto bello quanto bianco come la neve, su cui brillavano a malapena due incredibili iridi turchesi.

Non voleva nemmeno pensarci.

Amandine avrebbe lasciato per sempre la loro prigione dorata e avrebbe seguito il suo principe gentile fino a quell’eccitante mondo di cui finora avevano potuto solo fantasticare; un paradiso sconosciuto al di là dell’oceano, con le sue promesse di avventura e vita vera.

Sarai libera. E io con te.

“In realtà, ho sempre pensato che l’aria di mare potrebbe rivelarsi un toccasana per i suoi polmoni” si disse ancora lei, portando un dito sotto il mento distrattamente “Se solo mamma e papà non fossero tanto chiusi nel loro bigotto conservatorismo!”

Intenzionata a non rivivere il ricordo di una sofferente Amandine ricoperta di sanguisughe, Saffie concentrò la sua attenzione sull’imponente villa apparsa senza alcun preavviso fuori dal finestrino: essa si ergeva senza dubbio maestosa e superba in cima a un dolce pendio ma, al contrario del parco fin troppo ricco di vegetazione dei Lynwood, solo un ordinato prato tagliato all’inglese ne arricchiva la struttura.

La ragazza pensò, con un sospiro divertito, che quel luogo ben si confaceva al carattere della famiglia Worthington. “Mi chiedo pure che fine abbia fatto la madre del contrammiraglio: né lui, né il padre ne hanno mai fatto cenno.”

Ma non fece in tempo a pensare a nient’altro, poiché la carrozza entrò rumorosa nel cortile, fermandosi di botto a un metro esatto dalla figura di un attempato domestico sull’orlo del crepacuore.

“La Duchessina Saffie Lynwood” l’annunciò freddamente il cocchiere, mentre scendeva dal mezzo con un balzo agile di cui l’altro servo non potè che essere invidioso. “È qui per essere ricevuta dal vostro padrone.”

Gli occhi del domestico dei Worthington si posarono con deferenza sulla figura minuta ed elegante che si apprestava a uscire goffamente dalla carrozza. “È il signor Simeon colui che cercate, o il contrammiraglio?”chiese poi con scetticismo, inchinandosi appena.

Saffie maledì l’imbranataggine che fin da bambina le impediva di parere una graziosa e leggiadra creatura ogni qual volta dovesse scendere da un mezzo a quattro ruote. Al contrario delle altre docili ed educate figlie dell’aristocrazia, che avevano fatto dello scendere dalle carrozze una vera e propria arte di seduzione, la ragazza era riuscita sì e no a non ammazzarsi scivolando giù dal predellino su cui aveva posato il piccolo piede.

“Il contrammiraglio Arthur Worthington” rispose infine, accettando volentieri la mano del suo servo e cercando contemporaneamente di non parere troppo sollevata nel toccare terra. “La questione di cui devo conferire con lui è di una certa importanza.”

“In tal caso, vi guiderò immantinente da lui. Prego, seguitemi dentro casa.”

“Vi ringrazio” asserì lei con un sorriso “Qual è il vostro nome?”

Il vecchio domestico parve sorprendersi della gentile domanda rivoltagli da quella signorina di ceto così superiore al suo. “Mi chiamo William Shakespeare. Non ho mai avuto cognome, quindi il signorino ha voluto deciderne uno per me. Devo dire che mi piace molto” rispose inchinandosi di nuovo, questa volta prondamente, accompagnando il gesto con un largo sorriso a metà fra il grato e il compiaciuto.

“Amate leggere?”

Gli occhi scuri di Saffie si allargarono dallo stupore, ma fu la sua leggera risata allegra quella che i due domestici udirono. “Il vostro padrone vi ha assegnato un cognome piuttosto importante, signor Shakespeare. Mi raccomando, andatene fiero.”

“È così, signorina Lynwood.”

Dopo aver rassicurato il suo cocchiere sul fatto di potersela cavare in casa Worthington senza scorta, la ragazza seguì nell’ingresso un allegro William Shakespeare, ora più in vena di chiacchierare con lei riguardo ogni dettaglio inerente alla casa presso cui serviva con orgoglio da oltre cinquant’anni. Saffie ascoltava interessata il monologo del domestico; un po' perché le stanze che si trovarono ad attraversare brulicavano effettivamente di oggetti esotici mai visti, e un po' per calmare il cuore che le era balzato di nuovo in gola, alla prospettiva di affrontare l’impettito quasi – fidanzato di sua sorella.

Non avrebbe voluto trovarsi in quella situazione per niente al mondo, questo era certo. Eppure, senza che Saffie se ne rendesse conto, un sorrisetto gaio era apparso senza alcun permesso sul suo viso teso dal nervosismo; mentre le sue dita andavano inconsciamente a torturare una ciocca di capelli castano chiaro sfuggita all’acconciatura semplice, ma curata.

Shakespeare.

Forse il tuo Arthur non è del tutto senza speranza, Amandine.

Saffie e il domestico dal cognome altisonante uscirono finalmente nel giardino sul retro dove, all’esatto centro della scena, svettava l’alta figura di un elegante uomo girato di spalle. Arthur Worthington se ne stava ritto in piedi come un’immobile statua e tutto ciò che la ragazza riuscì a intravedere, prima di spostare lo sguardo, furono le onde dei suoi capelli scuri ricadere morbide sul collo. Evidentemente, il contrammiraglio doveva aver accorciato la capigliatura proprio in vista del suo ritorno in servizio.

“Padrone” richiamò la sua attenzione William, con formalità “La signorina Saffie Lynwood desidera un colloquio con voi”.

Nessuna esitazione o sorpresa parve scuotere l’interessato, che anzi continuò nell’attività in cui i nuovi arrivati l’avevano colto: ossia esaminare un fascio di importanti missive come se si fosse trattato - a parere di una irritatissima Saffie – di vita o di morte.

“È piuttosto importante” riuscì a sillabare quindi la ragazza, piantando le unghie nei palmi delle mani con forza e rimangiandosi all’istante ciò che poco prima aveva pensato su di lui.

L’uomo voltò appena la chioma scura verso di lei e, continuando a tenere le sue amate carte controluce, le rivolse un’occhiata in tralice, ma dalla profondità disarmante.

“Molto bene. William, puoi ritirarti.”

Saffie lo vide girarsi nuovamente verso ciò che stava leggendo, come se il contrammiraglio si fosse scordato subito della sua presenza lì, a pochi passi da lui. Non aveva fatto alcun cenno al servo di portare loro da bere, come non aveva in nessuna maniera invitato lei a prendere posto su una delle candide sedie posizionate attorno ad un altrettanto elegante tavolo da giardino che, fra l’altro, era a neanche un metro di distanza. Insomma, Arthur Worthington pareva essersi scordato pure dell’etichetta, oltre che della ragazza.

Mandando giù un enorme groviglio di antipatia e fastidio, Saffie fece due piccoli passi in avanti e cercò di affrontare il suo silenzio orgoglioso. “Vi ringrazio di avermi ricevuto, contrammiraglio.”

Di nuovo, non va bene. Mi sta tremando la voce.

“Signorina Saffie Lynwood” esordì l’uomo seccamente, senza staccare lo sguardo dalle parole scritte su carta “Siete venuta fin qui per riprendere l’edificante discorso intrapreso qualche giorno fa? Sappiate, le vostre accuse mi sono state fin troppo chiare”.

“…stipate di schiavi?”

“No” rispose la ragazza interpellata, abbassando momentaneamente gli occhi castani sui ciottoli sotto i suoi piedi “Sono qui per…ecco, io…”

La frase che si era mentalmente preparata a pronunciare da diverse ore a quella parte non ne voleva sapere di uscire dalle labbra. Saffie sentì come se dentro il suo corpo fossero annidiati due serpenti in lotta per avere la meglio; e, ad ogni attacco, le loro spire s’avvolgevano in una stretta mortale attorno allo stomaco di lei. Testardaggine e orgoglio. Senso di colpa e vergogna.

Come posso avergli detto quelle cattiverie senza nemmeno conoscerlo?

“Vi ascolto.”

La signorina Lynnwood alzò la chioma castana di scatto, colpita dal tono accondiscendente di Arthur Worthington: l’uomo era voltato nella sua direzione e ora i suoi occhi verde scuro la fissavano attentamente, in attesa. La ragazza lo vide sedersi sul bordo del tavolo in ferro battuto dietro di lui e incrociare le braccia sul petto, allungando in avanti le gambe toniche.

Come sempre, risultava terribilmente intimidatorio ma, si disse Saffie con sollievo, almeno non aveva la solita aria di ironica superiorità. Fu così che, prendendo coraggio, si sentì tanto temeraria da avvicinarsi di altri due passi al giovane contrammiraglio in questione.

“Io sono venuta a chiedervi perdono” ammise finalmente, sfoderando un sorriso gentile trovato chissà dove.

Arthur osservò il viso della piccola strega farsi rosso in modo adorabile e venne folgorato, sul posto, dallo stesso sguardo di tenera allegria che l'aveva colpito quando i suoi occhi si erano posati su di lei per la prima volta.

“…e voi? Voi leggete?”

“…se una ragazza dal carattere sveglio e testardo non sia più adatta a un uomo di mare al comando.”

Il volto dolce e angelico di Amandine galleggiò nella sua mente, improvviso e inatteso quasi come il ricordo delle pallide mani di lei farsi strada sulla pelle delle sue guance sbarbate, trasformandosi in una leggera carezza piena di desiderio. E allora Arthur provò un'immediata repulsione per ciò che – nemmeno un secondo prima – aveva osato attraversare i suoi pensieri; un sentimento simile, in quel momento, nutriva per sé stesso.

“Sono sollevato di non essere nella lista nera di coloro che meritano il vostro disprezzo, Duchessina Lynwood” asserì infine, mascherando a malapena un ghigno fra le belle labbra sottili.

Saffie intuì immediatamente che, per qualche misterioso motivo, l’uomo era tornato a parlarle con la solita elegante arroganza. Una strana delusione cominciò a bruciare amara nella sua gola, ma non lo ammise nemmeno con sé stessa: quel loro incontro doveva andare liscio come l’olio, poiché sia la felicità di Amandine che la sua stessa libertà erano la posta in gioco.

Ben conscia di questo, la ragazza si trattenne dal rispondere al contrammiraglio per le rime, visto e considerato come quest’ultimo aveva gentilmente deciso di regire alla sua dichiarazione di scuse, vanificando con la sua provocazione gli sforzi da lei compiuti per farla. “Non ho una lista nera, ma non sono a favore della schiavitù che con tanta solerzia la Corona promuove nelle colonie” spiegò quindi, sperando di non parergli sulla difensiva “Detto questo, è stato imperdonabile da parte mia mettervi in cattiva luce, pure se inconsapevolmente”.

“Parola mia, non credo di aver mai visto una ragazza dotata della vostra testardaggine” commentò Arthur, osservandola tormentarsi le piccole mani l’una contro l’altra nervosamente. “Sostenete con forza argomenti pericolosi, soprattutto se di fronte avete un alto ufficiale dell’Impero.”

Saffie gli lanciò uno sguardo indecifrabile.

Che arroganza odiosa

“Fortuntamente, il pensiero libero è ancora un diritto che possiamo esercitare in questo paese.”

“Per i gentiluomini, certo. Il vostro rango e le illustri conoscenze che ne derivano vi danno protezione, signorina” osservò il giovane contrammiraglio, alzandosi in piedi e cominciando a camminare tranquillamente verso di lei con le mani infilate nelle tasche dei calzoni blu scuro. “E, prima che possiate accusarmi ancora di chissà quale malvagità, vi anticipo subito: questo non vuole essere un giudizio nei vostri confronti, ma un incontestabile dato di fatto. In fondo, anche io ho qualcosa di cui devo scusarmi.”

Presa in contropiede, Saffie non potè fare altro che osservarlo ad occhi spalancati. Era la prima volta che l’uomo le si faceva così vicino e la ragazza notò come Arthur Worthington fosse più alto di quanto aveva effettivamente considerato: se le andava bene, gli arrivava al petto ampio con la testa castana.

All’improvviso, si sentì come una bambina indifesa e il sorriso di fredda accondiscendenza che il contrammiraglio le concesse rafforzò il suo imbarazzo evidente. In ugual modo, trovava pure sconcertanti le sue scuse, poiché lo aveva sempre considerato un uomo milioni di volte più orgoglioso di lei.

Anche voi fareste di tutto per Amandine, non è vero?

“Ho sbagliato nel giudicarvi come ho fatto” continuò brevemente Arthur, chiudendo così il suo altrettanto spoglio discorso di giustificazione. “Un giorno diventeremo parenti e non desidero una guerra contro l’amata sorella di Amandine, per quanto credo non saremo mai veramente in accordo su qualcosa.”

Sì, per noi è lei l’unica persona che conta davvero.

L’unico elemento comune.

Di fronte all’onestà schietta eppure gentile del contrammiraglio, Saffie Lynnwood dimenticò in un battito di ciglia l’arroganza che tanto aveva detestato qualche istante prima e si lasciò sfuggire una risata divertita. “Io e voi siamo molto diversi, non è così?”

“Come aria e mare, signorina” rispose l’interessato, sporgendosi appena verso di lei con il busto, mentre un sorriso altrettanto ironico s’allargava sul suo volto. “Permettetemi solamente di acquistare un po’di credito verso di voi, dicendovi che le mie navi non hanno mai scortato alcuna spedizione di terribili schiavisti e, finché ci sono io al comando, non credo mai lo faranno.”

Per le sue parole, Arthur si vide ricompensato da una radiosa espressione di allegria e approvazione che, di nuovo, era apparsa come per magia su quel visino innocente. “Meno male!” esclamò Saffie, sorridendogli apertamente, senza alcuna traccia di costruita cortesia “È bello sentirvelo dire!”

“Se la signorina Saffie Lynwood non sia più simile a te di quanto credi.”

Il contrammiraglio Worthington scosse la testa scura con noncuranza, come se volesse scacciare via un moscone fastidioso. Decise di accantonare per sempre lo scomodo turbamento provocato dalle parole che suo padre aveva malauguratamente deciso di pronunciare, qualche giorno prima; se nella sua esistenza doveva essere certo di qualcosa, questa era il desiderio nutrito per Amandine.

Fu così che Saffie vide una mano grande e salda protendersi verso di lei. Perplessa, alzò lo sguardo sugli occhi verde scuro di Arthur e li trovò di una serietà disarmante, mentre ancora un’eco di gentilezza riverberava nelle sue parole: “Abbiamo un accordo, dunque, signorina Lynwood?”

Senza badare al rossore che aveva invaso le sue gote brucianti, la ragazza accettò quella stretta con un sorrisetto. “Accordo di pace sia, contrammiraglio Worthington.”

A nessuno dei due sembrò importare di andare, con quel gesto, contro a qualsiasi regola imposta dall’etichetta. In quel momento, soli nel giardino silenzioso, entrambi si riconobbero come pari combattenti, ben disposti a seppellire l'ascia di guerra.

Saffie pensò, in un attimo di pazzia, che il tocco dell’uomo era più delicato di quanto si sarebbe aspettata da un rigido ufficiale, mentre Arthur rafforzò di poco la presa su quella pelle morbida, prima di tirare indietro la mano lentamente e sfiorare con la punta delle dita il piccolo palmo di lei.

La ragazza fu percorsa da un brivido traditore, che serpeggiò sottopelle lungo tutto il suo corpo, e chiuse subito le mani sul grembo con fin troppa forza. Il contrammiraglio, dal canto suo, fece un passo indietro, incrociando le braccia dietro la schiena.

Ora basta sciocchezze.

Lo pensarono entrambi, contemporaneamente, poiché si sentivano divorati da un sentimento di vergogna che ancora non potevano comprendere.

Fu Saffie la prima a parlare: “Al di là di tutto, penso davvero che voi possiate rendere felice mia sorella”.

“E io sono altrettanto sicuro di come, fra qualche anno, non si farà altro se non sentir parlare di voi, a Londra” le fece eco l’uomo, in tono neutro.

La signorina Lynwood gli concesse un sorriso pieno di gratitudine e, quando tornarono a guardarsi, quell'impossibile e sciocco turbamento sembrò svanito per sempre dai loro occhi.


§


E fu così che andò per più di un anno intero: quella serenità tanto agognata dalle famiglie di Saffie Lynwood e Arthur Worthington si mantenne stabile per tutta la durata del fidanzamento tra il contrammiraglio e Amandine.

L’evento era stato infatti annunciato due giorni prima della partenza dell’uomo per le colonie, durante un ricevimento elegante e fastoso indetto appositamente per celebrare l’occasione. I genitori delle due ragazze non avevano badato a spese e nemmeno erano stati timidi nell’inviare missive agli invitati che, tempistiche permettendo, arrivarono in massa fin dalle contee più remote per poter finalmente ammirare di persona la divina Amandine Lynwood, ora pronta per esser messa in mostra davanti al Bel Mondo.

Nello splendore generale della casa e in mezzo ad una calca di ricchi e importanti aristoratici, Saffie non aveva beneficiato dell’attenzione della sorella o dei genitori – occupati a gongolare di fronte agli apprezzamenti riguardanti la bellezza della figlia minore, come di quelli sulla graziosa simpatia della maggiore – e fu grata di vedere il contrammiraglio proteggere, come un vero gentiluomo, una sperduta Amandine dall’assalto dei fin troppo curiosi partecipanti. Solo una volta, i suoi occhi castani si erano incrociati con quelli di Worthington e la primogenita dei Lynwood gli aveva dedicato un sorriso gentile, come se fosse stata la sua personalissima benedizione: d’altronde, la ragazza non aveva mai visto sua sorella così raggiante e felice come in quel momento, con Arthur al suo fianco.

Quest’ultimo aveva risposto al suo gesto con un cenno reverente ed educato, prima di voltarsi e dedicarsi totalmente alle attenzioni della sua amata.

“Io e Arthur ci sposeremo, Saffie! Sono talmente felice da sentirmi morire!” aveva esclamato la stessa Amandine una volta finito il ricevimento, mentre faceva come suo solito una vera e propria irruzione in camera di Saffie mantenendo, paradossalmente, la sua altrettanto consueta grazia innaturale. Sembrava un’altra ragazza, quasi non stesse nemmeno più lottando contro la malattia con cui conviveva da quando ne aveva memoria. Quasi l’avesse dimenticata.

Ridendo con lei per la sua felicità, la sorella maggiore aveva scherzato, dicendole che non poteva proprio permettersi una cosa del genere, ora che era così vicina ad avere finalmente il suo principe tutto per sé, con tanto di regno fatato di contorno.

Amandine l’aveva raggiunta sull'imponente letto a baldacchino e si era accoccolata fra le sue braccia, sbuffando. “Un anno di fidanzamento! Ci credi, che dovrò aspettare così a lungo?”

“Speriamo che il conflitto finisca quanto prima, allora.”

“E se non tornasse? Se gli accadesse qualcosa?”

Saffie ascoltò quelle parole improvvisamente timorose e si accorse di come la figura ossuta della sorella avesse preso a tremare leggermente, dal nervosismo. Si guardò bene dal dirle che era un rischio reale, di cui la moglie di un ufficiale doveva essere ben consapevole, poiché sapeva che la salute e i nervi di Amandine ne avrebbero sicuramente risentito.

Una strana morsa afferrò il cuore della ragazza castana che, senza vera coscienza, cominciò ad accarezzare con affetto i capelli d’oro dell’altra, cercando di rassicurare i suoi timori. “Il contrammiraglio Worthington è un uomo dabbene e di grande valore, dal temperamento d’acciaio. Ti sei dimenticata di tutti i suoi racconti avventurosi, quelli che mi hai narrato ormai centinaia di volte?”

“Cattiva!” chiocciò in risposta Amandine, portando i suoi ridenti e luminosi occhi azzurri su di lei. “Vorrà dire che dovrò essere paziente e accontentarmi delle lettere.”

“Immagino già mi obbligherai a leggerle tutte insieme a te da cima a fondo!”

“Sei veramente intelligente come dicono, sorella mia.”

Sì, fu proprio in quel modo che andò.

Amandine non si liberò mai del tutto dalla malattia che l’aveva maledetta e, durante i lunghi mesi che seguirono, impose a Saffie di leggere per lei innumerevoli storie d’avventura o, addirittura, di inventarne di nuove, proprio come quando erano bambine. D’altronde, la più giovane non aveva mai messo piede fuori dal Northampton e, proprio per questo, ogni suo più frivolo desiderio era sempre stato esaudito senza alcuna obiezione.

La ragazza bionda sapeva essere una vera e propria principessa capricciosa quando ci si metteva d’impegno, ma era amata da tutti incondizionatamente e dalla sorella maggiore in maniera smisurata. Quindi, non furono solo Amandine e i Duchi di Lynwood ad aspettare con grande speranza il ritorno di Arthur Worthington, ma anche Saffie si trovò ad attendere il suo ritorno come se dovesse sposarsi lei stessa.

Sarai felice. Saremo libere.

Aspettavano tutti con l'ignara speranza di chi non prende in considerazione le pieghe di un destino beffardo, di una vita scritta al di fuori delle regole delle operette sentimentali; poiché nessuno avrebbe potuto immaginare che quelli sarebbero stati gli ultimi mesi di vita di Amandine Lynwood. Come né Saffie, né Arthur avrebbero mai immaginato di trovarsi per sempre uniti da un legame di vero odio.

In fondo, Saffie non sapeva ancora di stare sbagliando: non era sua sorella la vera protagonista di quella storia, ma lei stessa.



§


Saffie portò allora una mano sulla chioma ribelle dell’ammiraglio, stringendo con forza le ciocche dei suoi capelli scuri. “Io non sarò mai tua” disse solo, impegnandosi di parergli perfettamente controllata.

“Come se io lo volessi davvero” fu il commento acido soffiato sulla sua spalla “Questo è un contratto che entrambi siamo costretti a onorare”.

(dal quarto capitolo)

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Capitolo 4
*** Terzo. Odio ***


Avviso: Questo capitolo non contiene contenuti che io personalmente definirei "sensibili", ma alcune parti potrebbero comunque urtare qualcheduno. Procedete nella lettura con cautela.
Grazie mille





CAPITOLO TERZO


ODIO




Ottobre 1729

È una verità conosciuta da tutti, ma che pochi comprendono veramente: nell’arco di una giornata, può essere stravolta l’intera vita di una persona. L’esistenza condotta con ignara serenità fin dal momento in cui si è venuti al mondo, svanisce in un battito di ciglia e, nel migliore dei casi, lascia spazio a una sofferenza tale da poterne solo venirne fuori più forti, anche se cambiati.

Nel peggiore degli scenari, le conseguenze ricadono sul futuro, stravolgendo un destino già scritto, una trama ben delineata. E, con essa, i personaggi che vi si muovono all’interno possono scoprire di poter provare sentimenti di cui mai avrebbero pensato di esser capaci: la tragedia, a volte, genera odio.

E la morte non si presenta quasi mai in pompa magna, ma bensì sotto le mentite spoglie di un evento sciocco quanto trascurabile, di cui mai si potrebbe sospettare.

Alla stessa maniera, la morte di Amandine Lynwood avvenne nel giro di una settimana. Quasi come se si fosse trattato di un'assurda presa in giro, ciò avvenne a poche settimane dalle famose nozze che avrebbero dovuto unirla in matrimonio all’amato Arthur Worthington.

A provocare la caduta dell’angelica sorella di Saffie fu una vera e propria stupidaggine.

Quel giorno di inizio Ottobre si era subito contraddistinto da un’infernale pioggia battente che, violenta, sferzava le ampie finestre di casa Lynwood come se volesse entrarvi dentro. Un vento impetuoso ululava a più riprese fuori da esse, facendo sembrare le stanze immerse nell’oscurità il teatro di un racconto gotico, dove l’ombra degli antichi abitanti si poteva cogliere solo con la coda dell’occhio.

Al contrario di ciò che si potrebbe immaginare, l’atmosfera nella dimora dei Duchi di Lynwood era di tutt’altra impronta.

“Sarà qui a momenti!” gridò un’agitata ragazza bionda, spalancando la porta del salotto con forza ed entrandovi a passo di marcia, stringendo convulsamente fra le dita una stola di seta rosa pallido che doveva aver visto giorni migliori. Dietro la sua figura alta, si affrettavano due anziane domestiche, intente nel difficile lavoro di allacciare il corsetto alla padroncina senza cadere a terra ogni due per tre.

“Signorina Amandine, vi prego di stare ferma un…”

“Saffie! Oddio, che agitazione! Come farò?”

“Padroncina…il corsetto, dobbiamo…”

“Sono così pallida – così orribile – non trovi?” esclamò ancora una Amandine sull’orlo della crisi di panico, ignorando completamente le due minuscole serve che, di nascosto nella penombra della camera, si lanciarono un’occhiata di pura esasperazione. “Un anno che lo aspetto e ora mi presento così! E se non volesse sposarmi più?”

E spalancò gli occhi turchesi di scatto, terrorizzata, in direzione della ragazza castana a cui quel fiume di domande era rivolto, come se quest’ultima potesse rivelarle chissà quale perla di saggezza dell'ultimo minuto e salvarla. In fondo, si disse la giovane Lynwood, sua sorella maggiore serviva proprio a questo, no?

A salvarmi…pure se ha dovuto rinunciare a tutto per me.

Un senso di colpa difficile da digerire si affacciò alla porte del suo animo, ma Amandine non vi badò affatto.

Lei è la mia strega buona, in fondo. Io sono la principessa.

Dal canto suo, Saffie aveva alzato gli occhi scuri dal quaderno su cui stava scrivendo e osservava, con la mano stretta attorno al pennino piumato sospesa per aria, la sagoma ossuta di Amandine tremare dal nervoso, quasi fosse alle lacrime: pareva un dinoccolato fantasma biondo e furibondo ma, si disse la più grande delle Lynwood, rimaneva comunque di una bellezza sconcertante quanto eterea.

Fu così che guardò quel visino tutto corrucciato e disse, sforzandosi di non sembrare troppo divertita: “La tua famosa bellezza è perfettamente intatta, dolce fanciulla. Se Arthur Worthington dovesse fare marcia indietro, allora non è uomo degno di te e, non dimenticare, se la dovrebbe vedere con me e papà”. La ragazza si portò poi un piccolo dito sotto il mento, fingendosi pensierosa. “Non so chi sia più terribile fra me e lui, da affrontare!”

Amandine abbassò allora gli occhi e un rossore timido si diffuse sulle sue gote bianco latte, allo stesso passo del leggero sorrisetto che le increspò le labbra carnose : era sempre stata sensibile ai complimenti degli altri e, pure se scherzose, le parole di sua sorella ebbero l’effetto desiderato, calmando lo stato di panico che aveva fatto mostra di sé dal momento stesso in cui aveva messo piede giù dal letto.

“Hai ragione, come sempre” mormorò solo, senza guardarla. “E comunque sei tu la più tremenda di tutti.”

Saffie rise apertamente, alzandosi dal suo amato scrittoio con una costruita aria di superiorità: stava ancora cercando di tirare su di morale Amandine e, per questo, fece: “Ho sei anni in più di te e sono anche una strega, ricordi?”

Non mi importa di questa prigionia, se tu puoi essere felice.

“Padroncina Saffie, dobbiamo ancora allacciare il corsetto e procedere con l'abito principale, per non parlare del cappello piumato che la signora ha fatto arrivare da Londra la settimana scorsa!” s’intromise la vocina gracchiante di una delle due domestiche, ancora in piedi dietro di loro “La Duchessa si arrabbierà moltissimo se la signorina non farà in tempo ad indossarlo!”

“Fortuna che i nostri genitori sono in città, allora” commentò con un mezzo sorriso Saffie, avvicinandosi alla sorella e facendo il gesto di prenderla per le spalle, sistemando così il tessuto spiegazzato della sottoveste. Una di fronte all’altra, era lei a sembrare la minore delle due, e non Amandine. “Penso avrai tutto i tempo per incontrare l’ammiraglio in santa pace, non sei contenta?”

“Siamo in ritardo!” insistette l’altra serva, tirando con forza i lacci di quel bustino infernale senza curarsi né del lamento sofferente sfuggito dalle belle labbra di Amandine, né del colorito funereo che aveva assunto all’improvviso.

“No, non lo siamo, Kitty.” ribattè con fredda cortesia Saffie, puntando gli occhi castani sul viso emaciato della sorella, poiché preoccupata non riuscisse a respirare decentemente: già era un miracolo che Amandine si fosse alzata da sola, quella mattina, visti i mesi di andirivieni da una febbre all'altra, delle visite dei dottori e delle loro cure invasive. “Non credo ci sia bisogno di soffocarla in questo modo, quindi non stringetelo troppo, per favore.”

“Ma la Duchessa…”

“Kitty!”

La domestica presa in questione alzò gli occhietti grigi giusto in tempo per essere fulminata da due iridi castane e limpide, intrise non della solita gentilezza divertita, ma di una determinazione ferma e audace, intimidatoria. Il solo sguardo della ragazza bastò e avanzò per rimetterla al suo posto in silenzio, poiché ben sapeva che Saffie Lynwood covava in sé la stessa intelligenza glaciale del padre.

Solo che la odiava più di ogni altra cosa al mondo, quella parte di sé.

“Come ordinate, padroncina.”

Saffie tornò a sorriderle con la solita accondiscendenza spontanea, come se nulla fosse accaduto. Al contrario del padre a cui tanto assomigliava, la più grande delle Lynwood aveva un atteggiamento sincero e allegro che, in linea generale, portava gli altri a volersi avvicinare a lei, poiché non risultava mai affettata e costruita – come il Duca – o insopportabilmente vanesia e superficiale, come la madre.

“Grazie, Kitty.”

Il fatto che si ostinasse a trattare gli inferiori come se fossero suoi pari, infine, riempiva di grande vergogna entrambi Cordelia e Alastair.

“Sto bene, sorella” disse Amandine con una smorfia frivola, prima di prenderla in giro, alzando un sopracciglio chiaro e sottile “Te l’avevo detto, sei tremenda: mi sembrava di aver davanti papà!”

Saffie sgranò gli occhi, colpita. Come lui?

“Scherzavo” si affrettò ad aggiungere la sorella minore, specchiandosi nell’espressione improvvisamente smarrita dell’altra. “In ogni caso, sono così felice! Ci credi, Arthur è stato promosso ad Admiral of the blue e mi ha giurato che oggi sarà qui per me, dopo averlo aspettato per così tanto tempo!”

“Da ciò che dicevano i banditori, in città, la sua flotta ha riportato una vittoria schiacciante sui francesi, quando pure l’ammiraglia di James Bones era affondata insieme al resto della linea di fuoco” considerò pensierosa Saffie, cercando di distrarsi dalla scomoda figura del Duca Alastair. Era pure riluttante a mostrare la sua ammirazione nei confronti del serioso Worthington, ma non poteva negare che dovesse essere uno stratega eccellente per i suoi trentadue anni.

“Anche se pare abbia fatto una strage” pensò inoltre fra sé e sé, corrugando le sopracciglia con disappunto “Non c’è stato nemmeno un prigioniero”.

“E all’inferno devono essere rispediti, senza alcuna eccezione”

Le sue mani si ritrassero dalle spalle di Amandine lentamente, con riluttanza.

Che razza di uomo sta per sposare?

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Le piccole labbra della ragazza stavano per aprirsi, mentre uno strano timore misto a disagio si fece sentire all’improvviso nel suo stomaco, chiudendolo instantaneamente. Eppure, il tono allegro della sorella fu un suono capace di squarciare qualsiasi ombra.

“Non credo di aver mai amato qualcuno così profondamente, davvero!” esclamò quest’ultima alzando le esili braccia, lasciando così alle domestiche l’onere di arrampicarsi e infilarle il vestito rosa scelto per l’occasione. “Non vedo l’ora sia qui, Saffie.”

“Abbiamo un accordo, dunque?”

No, non poteva più dire nulla, né interferire.

Fu in questo modo, in silenzio, che la maggiore delle sorelle Lynwood si congedò da una Amandine alle prese con gli ultimi ansiosi preparativi; Saffie si voltò solo una volta, sulla soglia del salotto immerso nella penombra delle candele, e osservò la chiassosa allegria della ragazza bionda, ora intenta a esasperare nuovamente le domestiche assoldate da Cordelia: non sembrava neanche stesse piovendo, tanto la sua presenza era capace di illuminare qualsiasi momento.

Saffie sorrise, con tenerezza.

Andrà tutto bene.

Non poteva immaginare che non avrebbe mai più visto Amandine ridere in quel modo.




§




Le voci della strada erano confuse e assordanti, non riconoscibili: un assordante suono di parole spezzate a metà che si mescolavano le une con le altre e non permettevano di cogliere appieno nessun significato. All’improvviso, dal nulla, emerse silenziosa la figura minuta di un ragazzino sporco e Saffie riuscì a vedere solo le sue dita annerite stringersi attorno a un foglio di giornale stracciato.

La voce del piccolo banditore divenne l’unico suono udibile, nell’oscurità della via.

“Arthur Worthington è ora Ammiraglio dell’Impero! Sulle sue mani, il sangue di centinaia di uomini, poiché non esiste alcuna pietà per chi incrocia il suo cammino!”

Gli occhi del ragazzino si inchiodarono su di lei, verdi e freddi come una sentenza di morte.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Saffie aprì gli occhi castani di scatto, sulla penombra della piccola camera in cui aveva trovato rifugio poche ore prima. “Devo essermi addormentata di colpo, immagino” considerò la ragazza, senza trattenere un largo sbadiglio indecoroso: in fondo, né i suoi genitori, né le domestiche erano nei paraggi per poter appuntare alcunché. “Quanto tempo è passato?”

Dalla finestra penetrava un opaco raggio di luce pallida e cupa, mentre ancora la pioggia battente non sembrava volerne sapere di allentare la presa e cedere il passo al sereno. Saffie comprese di esser stata nel mondo dei sogni non per troppo tempo e, suo malgrado, capì pure di star sudando freddo, mentre l’eco di una gelida apprensione ancora risuonava nella sua anima turbata. Un sogno fin troppo vivido.

La ragazza si alzò in piedi lentamente, dandosi al contempo della perfetta sciocca. “Non può essere che per un incubo io mi spaventi così” si prese in giro con un sorrisetto, rivolto alla scrivania e alle missive su cui aveva non tanto beatamente sonnecchiato “Non a ventisette anni! E, di certo, non a causa del noioso Arthur Worthington!”

In fondo, si disse ancora lei avanzando a piccoli passi verso l’unica finestra della stanza, non aveva proprio un bel niente di cui preoccuparsi. Aveva già conosciuto l’ammiraglio di persona e sapeva di trovarsi di fronte a un giovane ambizioso, fin troppo integerrimo e orgoglioso: un uomo ligio al dovere che avrebbe protetto come un vero cavalier servente Amandine. La amava, no?

Eppure qualcosa non ti convince, vero, Saffie?

Perché tu l’hai vista subito, l’implacabile rabbia nascosta in quegli occhi così seri.

Ignorando un brivido sottopelle, la ragazza appoggiò i palmi delle mani sul davanzale e si sporse verso il vetro, nel tentativo di cogliere qualsiasi movimento del paesaggio al di fuori. Il viale era a malapena visibile, una sottile striscia di inchiostro scuro e grumoso che serpeggiava tra il filare di alti alberi a guardia dell’ingresso di casa Lynwood.

“Quei due saranno intenti a tubare in salotto, a quest’ora” pensò distrattamente Saffie, puntando lo sguardo sul suolo di ghiaia più in basso, come se potesse cogliere chissà cosa in mezzo a quella pioggia incessante. “O almeno lo spero, visto che mi sono autoreclusa nella stanza più lontana proprio per lasciarli soli e in pace.”

Lui le ha giurato e spergiurato che non avrebbe più dovuto aspettare.

Che sarebbe arrivato, e l’avrebbe resa felice.

Un lieve rossore tinse le gote di Saffie che, senza rendersene conto, distese il volto in un’espressione di nostalgica malinconia.

“Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.”

Una volta…anche io ho amato qualcuno.

La ragazza non ebbe modo di approfondire il suo scomodo ricordo, che il discreto suono di qualcuno intento a bussare alla porta della camera attirò tutta la sua attenzione.

“Padroncina, sono Kitty” si fece sentire una voce gracchiante, dal tono leggermente teso “Posso disturbarvi?”

Perplessa, Saffie acconsentì alla domestica il permesso di farsi avanti e la osservò entrare a brevi passetti nervosi, mentre colse immediatamente nello sguardo basso dell’anziana un turbamento che la mise sulle spine. “È per mamma e papà?” si sforzò quindi di chiedere, dandosi per la seconda volta della stupida nel giro di pochi minuti. “Immagino che non faranno in tempo a raggiungerci per il tea, ormai.”

Andrà tutto bene.

Kitty scosse la testa energicamente, in gesto di diniego. Si passò appena le dita rugose sul grezzo tessuto dell’inseparabile cuffietta con cui la signorina Lynwood era abituata a vederla da ventisette anni a quella parte, e rispose: “No, padroncina, no…io sono venuta per chiedervi notizie della signorina Amandine”.

E alzò lo sguardo grigio su di lei, di scatto.

“A…Amandine?” bisbigliò Saffie, quasi soffocando il nome della sorella nella gola, di fronte all’espressione terrorizzata che aveva fatto mostra sul volto della loro domestica personale, nonché ex tata. “Non è in salotto con l’ammiraglio?”

Un altro cenno di nervoso diniego, anche se alla ragazza sembrò di non riuscire a coglierlo perché, bizzarro, un cuore furioso aveva cominciato a martellare contro la sua cassa toracica, prendendosi tutte le attenzioni. “Lo era fino a due ore fa, quando io e Meredith siamo scese a controllare se ci fosse bisogno di qualche nostro servigio” fece l’eco di quella che doveva essere la voce di Kitty “Ma è da parecchio tempo che non è più là”.

“E Arthur Worthington?”

“Non è venuto.”

Un agghiacciante presentimento piombò addosso a Saffie nel giro di un secondo. Nello stesso lasso di tempo, la ragazza si lasciò la figura della serva alle spalle, lanciandosi di corsa giù per le scale di casa Lynwood e maledicendo contemporaneamente l’ampia gonna elegante che, ovviamente, la rallentava nei movimenti; non aveva nessuna intenzione di ammazzarsi sugli scalini di marmo, ma doveva a tutti i costi trovare subito Amandine.

“Un anno che lo aspetto e ora mi presento così! E se non volesse sposarmi più?”

“Perché non sono stata avvertita subito?!” gridò, voltando appena il viso in direzione di una Kitty ansimante che, con scarso successo, cercava di tenere il passo della stravolta signorina Lynwood. “Perché non mi avete chiamata?!”

“Eravamo convinte fosse in camera sua o, come al solito, in vostra compagnia!” fu la lacrimosa risposta che la ragazza ricevette, mentre entrambe imboccavano a passo svelto l’ampio salone d’ingresso, superando così anche un salotto che – ad una veloce occhiata – si rivelò ovviamente deserto. Saffie riuscì a cogliere con la coda dell’occhio lo scialle rosa pallido di Amandine abbandonato sul pavimento, all’esatto centro della stanza.

La stola in seta che lei stessa le aveva regalato per il suo sedicesimo compleanno, diversi anni prima. Come una pazza, ricordò di averle scritto una lettera in cui le aveva promesso che sarebbe stata sempre al suo fianco, che non l’avrebbe mai lasciata.

E si ricordò pure di come, qualche ora prima, non aveva accettato l’invito della sorella di attendere insieme l’arrivo dell’ammiraglio Worthington.

“…o, come al solito, in vostra compagnia!”

Un sudore freddo cominciò a imperlarle il viso pallido e una brezza fredda, pungente, si insinuò sotto i suoi vestiti inattesa. Saffie non aveva bisogno di cercarne la fonte, poiché il portone di casa era spalancato.

Sarei dovuta rimanere con lei.

“No!” urlò ancora, stavolta senza accorgersene; e fu un lamento spontaneo, doloroso, sfuggito direttamente dal suo cuore impazzito. Pregò che fosse una dimenticanza di qualche domestico, che Amandine non fosse uscita per davvero, pure se conosceva già la risposta ai suoi dubbi.

Al di là della sicurezza della loro ricca prigione dorata, la pioggia e il vento ancora imperversavano minacciosi e potenti. Senza pensarci due volte, Saffie varcò la porta di casa di corsa, ignorando completamente i richiami allarmati di Kitty che, ovviamente, la richiamava al suo dovere di aristocratica modello.

“Padroncina! Non potete uscire così, senza nemmeno un ombrellino!”

Se avesse avuto tempo da perdere, la ragazza si sarebbe voltata di scatto e, con due occhi di fuoco, avrebbe gentilmente commentato che, a lei, non gliene poteva importare proprio un bel niente di ciò che una brava signorina doveva o non doveva fare.

Al contrario, Saffie Lynwood non si fece intimorire né dalla furia del vento, né dalle gocce di pioggia cho ormai avevano impregnato i numerosi strati dei suoi fastidiosi vestiti lussuosi, rendendole faticoso proseguire nel suo cammino. “Amandine!” urlò, portandosi le mani bagnate attorno alle labbra, proprio come il maledetto giorno in cui Arthur Worthington era entrato nelle loro vite. “Amandine, rispondimi!”

Si rese a malapena conto delle confuse figure dei servi di casa che, dietro di lei, si agitavano sul viale alla ricerca della sorella minore. “Potrebbe essere ovunque” pensò con vera e propria disperazione, togliendosi nervosamente dagli occhi le ciocche di capelli bagnati che cominciavano a scivolare via dal suo chignon, appiciccandosi al viso pallido e fradicio. Le sue scarpette venivano letteralmente risucchiate da quella che sembrava una scura melma fangosa e torbida, come se anche la terra stessa volesse impedirle di ritrovare Amandine. “Potrebbe essere ovun…”

“Non credo di aver mai amato qualcuno così profondamente, davvero!”

Un gemito pietoso, da niente, arrivò dritto alle orecchie di Saffie: si era trattato di un pigolio basso e timido, ma alla ragazza castana era bastato e avanzato per individuare con lo sguardo un mucchietto d’ossa rosa pallido che, a parecchi metri di distanza, qualcuno sembrava aver abbandonato per strada. Le lacrime risalirono i suoi occhi scuri mentre, inconsciamente, Saffie si rendeva conto che sua sorella non era riuscita nemmeno ad arrivare agli alti cancelli della dimora.

Qualcosa in Amandine doveva averla portata ad uscire fuori come una perfetta sciocca, nel tentativo di aspettare la venuta di un Arthur che non aveva rispettato alcuna promessa.

Lui le ha giurato e spergiurato che non avrebbe più dovuto aspettare.

La signorina Lynwood non seppe neppure come fosse riuscita ad arrivare a lei così in fretta poiché, in un battito di ciglia, si trovò inginocchiata al fianco della ragazza bionda. Urlò qualcosa di incomprensibile ai suoi servi, mentre due occhi di un turchese quasi accecante saettavano sul suo volto bianco come un cencio. “Non è venuto” biascicò solo Amandine, la cui espressione vacua sembrava la rappresentazione stessa della morte “Perché…non è venuto?”

Sua sorella minore la guardava come se anche quella volta lei avesse potuto darle una risposta illuminante ma, con una stretta allucinante al cuore, Saffie si rese conto di non saper più cosa dire. “Non lo so” mormorò atterrita, forse rivolta più a sé stessa che ad Amandine. “Dobbiamo andare a casa.”

E fece forza sulle sue esili braccia, nel tentativo di sollevare la sorella da quella che sembrava essere una tomba di fango. Malgrado la disperata preoccupazione che le divorava l'animo, una domanda atroce già stava rimbalzando da una parte all’altra della sua mente. Una domanda che Amandine stessa le aveva posto, e a cui lei non era riuscita a rispondere.

Perché non è arrivato?

Senza che se ne accorgesse, un seme d’odio era stato piantato nel suo cuore.




§




La ricca camera di Amandine era completamente avvolta da un’oscurità totale, definitiva. A una prima superficiale occhiata sarebbe potuta sembrare completamente abbandonata e in disuso, ma un rumore roco tradiva la presenza di una persona immobile, stesa sul letto al centro della stanza.

Quel respiro irregolare e affaticato, pensò Saffie, sembrava la voce della malattia di sua sorella. Il grido di trionfo di un essere che sapeva di stare per vincere, poiché la morte era vicina.

“Quello che si legge nei romanzi è proprio vero” mormorò la più giovane delle Lynwood, a fatica. “Alla fine si può veramente morire per amore.”

“…sono così felice che potrei morire!”

“Non dirlo nemmeno per scherzo” le rispose Saffie di getto, grata al buio che nascondeva ad Amandine i suoi occhi colmi di lacrime, rossi e affaticati dal pianto e dalla mancanza di sonno. “Sono io quella che dice sempre un mucchio di sciocchezza, non tu!”

Amandine sorrise appena, nell’udire la risata forzata della sorella maggiore. “Ora tocca a me…e, visto il momento, posso permettermi di prenderti in giro un’ultima volta.”

“C’è ne saranno tante altre, lo sai.”

“Sappiamo entrambe che stavolta non andrà così, Saffie.”

E di nuovo cadde un silenzio strano, come mai c’è ne erano stati fra le due ragazze. Il fischio basso del respiro di Amandine riempiva qualsiasi cosa e, per la ragazza castana, sembrava inghiottire qualsiasi suo pensiero ed emozione, annichilendo qualsiasi suo proposito o parola. Proprio lei, che non riusciva mai a rimanere senza qualcosa da dire.

Ma, stavolta, i medici erano stati chiari: la giovane principessa non sarebbe migliorata affatto e, il suo terribile destino, si sarebbe compiuto entro pochi giorni, proprio come la maledizione di una fiaba.

Una settimana era passata da quel terribile giorno di pioggia e Saffie non aveva voluto saperne di lasciare il capezzale della sorella che, ormai, non aveva più la forza nemmeno per mangiare senza aiuti. Non che avesse molta scelta, in realtà, visto che la reazione dei Duchi di Lynwood alla notizia era stato un muto shock, trasformatosi poi in ostinata negazione.

La figlia prediletta stava per morire e i due aristocratici, non avendo il coraggio di vederla in quello stato, si erano resi irrintracciabili: Cordelia vagava con gli occhi spenti da un corridoio all’altro della casa, come un fantasma senza pace; mentre Alastair si era rinchiuso nel suo studio e da lì non sembrava intenzionato ad uscire tanto presto.

Come sempre, c’era Saffie per Amandine.

“Lui…di lui, sai qualcosa?” parlò nuovamente la più giovane, gli occhi fissi su un’oscurità a cui stava cominciando ad abituarsi.

Il tono di voce improvvisamente incrinato della sorella arrivò alle orecchie della più grande che, con un piccolo sussulto, cercò di non tradire il suo stato d’animo. La ragazza se ne stava seduta su uno sgabello posto di fianco al letto di Amandine, ma il suo corpo era del tutto proteso verso quest’ultima, le braccia incrociate sulle lenzuola e la testa che fra di esse cercava rifugio, protezione. “Sta arrivando” le disse piano, cercando nel buio le dita bianche dell’altra “Ha detto che vuole raggiungerti a tutti i costi, poiché una settimana fa è stato trattenuto da questioni veramente gravi.”

E, nel pronunciare quelle parole, una repulsione immediata le risalì alla gola, facendole venir voglia di vomitare. Odiò sé stessa come mai le era capitato fino a quel momento.

Perché aveva raccontato solo un’enorme menzogna.

“Sono contenta di saperlo” sospirò Amandine, che non aveva nemmeno per un attimo messo in dubbio le su parole. “Anche se quando arriverà io non ci sarò più.”

Saffie si accorse di star piangendo contro il tessuto della coperta ricamata, ma cercò in tutti i modi di nasconderlo. Aveva raccontato l’ultima delle sue storie alla sorella, ed era stata una bugia.

Forse sono veramente meschina come mio padre.

Io sola ho ereditato i suoi occhi.

La lettera di Arthur Worthington era arrivata quella stessa mattina: si trattava di un misero foglio di carta su cui l’uomo aveva scritto poche e sbrigative righe, in cui affermava di non essersi potuto presentare a causa della cerimonia organizzata in suo onore a Londra, dove il Re stesso aveva presenziato per qualche ora e non aveva mancato di complimentarsi con lui per la schiacciante vittoria riportata sulle forze francesi. Infine, la missiva trovava la sua conclusione in una striminzita frase di commiato, in cui l’ormai famoso ammiraglio salutava freddamente Amandine e la di lei famiglia, senza far alcun cenno di scuse all’amata per la sua mancata promessa, o al loro matrimonio imminente.

“Mio figlio ha raggiunto un traguardo che nessuno finora ha osato sperare”

Un qualcosa dentro Saffie cominciò a svegliarsi e a muoversi strisciando nelle pieghe delle sua coscienza senza che, ancora una volta, la ragazza se ne rendesse propriamente conto. Era un sentimento nuovo e sgradevole, quello che stava mettendo radici nel suo cuore.

L’ambizione ha sempre un lato oscuro, poiché travolge senza pietà ogni ostacolo sul suo cammino.

Gli occhi iniettati di sangue di Saffie si aprirono nuovamente sul buio della stanza, ed erano lucidi di quella glaciale emozione che la ragazza non riusciva a riconoscere. “Mentre Amandine sta morendo, inchiodata a questo letto da giorni…in questo momento, voi che state facendo?”

E fu un pensiero tanto fugace quanto doloroso, quasi mortale.

Per questo non sei arrivato?

Come sempre, fu la voce affaticata e dolce di Amandine a salvarla, distraendola da quell’oscurità soffocante. “Stai piangendo?” chiese la ragazza bionda, spostando lo sguardo esausto sulla piccola figura rannicchiata al suo fianco “Non devi farlo più, Saffie…perché mi sono scelta io questa morte, come una stupida accecata dall’amore”.

“Stai continuando a dire un mucchio di sciocchezze!” commentò Saffie istericamente, strusciando le guance bagnate contro il tessuto delle candide lenzuola che avvolgevano il corpo fin troppo magro della sorella minore. “Come puoi dire una cosa del genere?!”

Saffie trovò assurdo il dolore provato in quel momento, così sordo e straziante che le sembrò di esser lei stessa quella destinata a morire e non Amandine, di cui quasi invidiava la serena rassegnazione.

Perché non è arrivato?

Perché non sono rimasta con lei…come è sempre stato?

“Non è colpa tua, Amandine” aggiunse biascicando, senza il coraggio di alzare la testa castana e guardarla “Perdonami, ti prego”.

Perdonaci tutti. Anche mamma e papà, che ti hanno messa al mondo solo per tenerti prigioniera una vita intera.

Le iridi turchesi della più giovane delle Lynwood si erano perfettamente abituate al buio della stanza e poterono cogliere ogni sfumatura del tormento provato dalla disperata Saffie, la cui sagoma rassicurante era ora ridotta a un insieme di muscoli tremanti: a quanto sembrava, negli ultimi istanti sarebbe toccato proprio ad Amandine consolare la sorella e non viceversa, come sempre era stato.

Saffie sentì una mano ossuta posarsi con affetto sulla sua chioma tutta arruffata e in disordine.

“Almeno una di noi sarà libera” fece una voce eterea, quasi innaturale “Sono io che ti chiedo scusa: è a causa mia, se sei stata costretta a rinchiuderti qui con me e rinunciare alle tue aspirazioni in questi due anni…come tanto hai dovuto sacrificare, quando eravamo ragazzine”.

“L’ho sempre fatto volentieri e, di sicuro, lo rifarei per altri vent’anni, se per questo.”

Lo farei per sempre, se tu ora potessi vivere.

“Ho vissuto una bella vita, Saffie” commentò in risposta quella voce che, davvero, non pareva appartenere a qualcuno in punto di morte “Non sono mai uscita dal Northampton, o dalla nostra proprietà, ma ho conosciuto l'amore e ho avuto il dono della tua vera amicizia. Ricordi, la fiaba della strega che scrissi da bambina?”

Un sorriso malinconico increspò le piccole labbra della ragazza castana, che sussurrò: “La ricordo molto bene, vista la tua faccia tosta nel descrivermi come una furba vecchietta armata di gatto e scopa volante”.

Una risata gracchiante scosse l’aria immobile della camera da letto. Amandine cercò di trattenere l’eccesso di tosse in cui quel suo scoppio incontrollato minacciava di trasformarsi, e disse divertita: “Ecco la Saffie che conosco!” si prese il tempo di un profondo e sofferente respiro, prima di aggiungere “Come i paesani di quella sciocca storia, questo mondo sconosciuto io l'ho scoperto e visto tramite i tuoi occhi, sorella mia. È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice”.

Altre lacrime silenziose marchiarono il viso stravolto di una Saffie che non sapeva più cosa dire.

Non è vero.

Di nuovo, gli artigli affilati di un essere oscuro sembrarono graffiare la poca anima rimasta dentro di lei, incidendo cicatrici di bruciante senso di colpa, che quasi la ragazza non udì le parole seguenti della sorella.

“Non dovrai mai più piangere per me, quando non ci sarò più.”

Le dita lunghe e magre di Amandine incontrarono la sue nell’oscurità, e ad esse si aggrapparono, in una muta richiesta. “Giuramelo. Giurami che andrai avanti e sarai libera, che non verserai più alcuna lacrima per la tua frivola e fragile sorella.”

Come puoi anche solo pensarlo?

Eppure Saffie giurò. Mossa dalla forza dell’amore infinito che provava per la ragazza al suo fianco, sigillò un giuramento a cui già sapeva di non potersi attenere.

Infine, gli ultimi momenti di Amandine Lynwood furono nel silenzio di una notte fonda e senza luna, ma accompagnati dalla rassicurante presenza di Saffie che, sdraiata sul materasso morbido, era crollata in un sonno profondo quanto esausto.

Gli occhi turchesi della più giovane si spostarono per l’ultima volta sul viso finalmente disteso della sorella maggiore: le aveva detto che finalmente sarebbe stata libera, ma entrambe conoscevano fin troppo bene la tossica tenacia del Duca Alastair e, per questo motivo, Amandine sapeva ciò che sarebbe accaduto dopo la sua morte. Non provò, in quegli ultimi attimi, né invidia, né odio nei confronti di Saffie, ma solo infinito affetto.

“Forse non sarà come volevi, ma vivrai comunque la tua avventura” pensò, voltando con uno sforzo immane il volto verso la piccola figura addormentata al suo fianco.

Uno strano sorriso comparve sulle labbra screpolate della ragazza, poiché uno squarcio si aprì improvvisamente nell’oscurità e Amandine potè vedere Saffie camminare felice in una terra di sole e alberi mai visti, voltarsi e ridere in direzione di una persona dietro di lei. Quella persona era Arthur Worthington.

Sì, sapeva prima di tutti come sarebbe andata a finire, visto che nel pomeriggio assolato in cui l’uomo era entrato nelle loro vite, lei aveva colto subito gli occhi ridenti della sorella e la divertita dolcezza con cui l’ammiraglio l’osservava. Se ne era accorta ma, comunque, aveva fatto finta di nulla. “Forse questa è anche la mia, di punizione” considerò Amandine, mentre il vero buio cominciava a calare sulle sue palpebre.

Sapeva di dover andare, eppure non provava un briciolo di paura: fino alla fine, Saffie le era rimasta accanto.

“Prendetevi cura l’uno dell’altra.”

E il suo ultimo pensiero fu di divertimento: l’ultimo scherzo nei confronti della sua amatissima strega buona.

Che cliché banale, vero, cara Saffie?


§




Il giorno precedente al funerale di Amandine Lynwood non smise di piovere nemmeno per un secondo, come se la natura stessa piangesse grosse e pesanti lacrime sulla nuda terra. Ed era un pianto di morte copioso e muto che, dal cielo, ricopriva ogni cosa di un velo di immobile oscurità.

Come se il mondo intero fosse morto con lei.

Questo fu il pensiero di Saffie che, stringendosi nel suo pesante abito nero pece, cercò di non indagare la voragine infinita di cui sembrava essere ora costituita la sua intera anima: risvegliarsi con accanto il corpo freddo ed esanime di Amandine era stato un trauma che, in un colpo unico, si era portato via qualsiasi gioia o speranza futura, poiché la ragazza castana non riusciva a intravedere alcuna vita senza di lei, la principessa dolce e capricciosa con cui era cresciuta.

E non c'era alcun bisogno di osservare i volti straziati dei suoi genitori, invecchiati di cent’anni in un giorno; o di indossare rigidi indumenti da lutto per ricordare che ormai il loro angelo biondo non era più con loro. La sua assenza era la voragine stessa che aveva preso il posto dell’anima di Saffie.

“Non la vedrò mai più” pensò quest’ultima, con la consapevole disperazione di chi vuole e sa di farsi del male, punendosi attraverso determinati pensieri. “Non sentirò più la sua voce sciocca e squillante.”

La ragazza si portò meccanicamente verso le ampie finestre del salotto, muovendosi rigida e lenta come una vecchia marionetta. Ingaggiò per l’ennesima volta una feroce battaglia contro i suoi stessi sentimenti, nel tentativo patetico di trattenersi dal piangere a dirotto: le aveva promesso di non farlo, ma mantenere il suo proposito era tutt’altro che facile.

Infatti, seppe di star fallendo miseramente quando, senza che ci potesse fare nulla, le forme verdi al di là del vetro cominciarono a perdere qualsiasi continuità e danzarono confusamente davanti ai suoi occhi, rendendole impossibile distinguere anche solo una pianta del giardino di casa.

“Mi dispiace, Amandine” singhiozzò; e fu un fievole sussurro che a malapena appannò la superficie della finestra di fronte a lei.

“Non dovrai mai più piangere per me, quando non ci sarò più.”

Le sue piccole mani si andarono a chiudere su due iridi liquide e rosse, traboccanti di dolore disperato, nascondendole così alla vista di quella stanza vuota.

“…perché mi sono scelta io questa morte, come una stupida accecata dall’amore”.

Così come avevano cercato di proteggerla, le dita della ragazza scivolarono lungo le sue guance rigate di lacrime e da esse si allontanarono, lasciando alla proprietaria il modo di comprendere che non esisteva alcuna fuga dall’abisso in cui già stava precipitando. Un vuoto silenzioso, bagnato di pioggia e pianto, dove era sbocciato un fiore d’odio.

“Saffie…perché non è venuto?”

Un sentimento orribile la investì all’improvviso e con una potenza tale da farla tremare tutta, da capo a piedi. Era una pulsione tremenda, riconobbe Saffie, perché per un attimo spaventata da ciò che era riuscita a far nascere dentro di lei: l’odio nei confronti della sfrenata ambizione di Arthur Worthington o, più probabilmente, dell’uomo in questione bruciava dentro un cuore che in quei giorni si era scordata di avere.

“L’avevi giurato” pensò Saffie con il suo nuovo e implacabile disprezzo, gli occhi puntati lontano, verso un interlocutore invisibile “E allora, perché non sei arrivato?”

Nella sua beffarda maniera di tirare le fila dell’esistenza umana, il fato si rivelò piuttosto sarcastico nei riguardi della signorina Lynwood, visto che le diede immediatamente la possibilità di trovare risposta alla sua domanda.

Come parecchi mesi prima, la porta di quel salotto maledetto si aprì all’improvviso e, senza che nessuno l’avesse annunciata, l'alta sagoma dell’ora Ammiraglio Worthington comparve sulla soglia della stanza.

Proprio come il loro primo incontro, Saffie alzò lo sguardo sbalordito su due iridi sì di un verde disarmante, ma piene di un gelido tormento che lei non fece fatica alcuna a riconoscere.

Disperazione.

L’uomo la osservava in silenzio e stravolto, quasi nemmeno la stesse vedendo lì di fronte a lui. Con un rigurgito d’ira, la ragazza capì come egli dovesse aver cavalcato da Londra senza mai prendersi un attimo di riposo: due pesanti occhiaie scure cerchiavano infatti i suoi occhi immobili, mentre i capelli scuri scendevano bagnati fradici su una stropicciato divisa blu, anch’essa grondante di pioggia. Lo sguardo castano di Saffie si soffermò per un momento sulla lunga e pesante giacca appoggiata alla meno peggio sulle ampie spalle di Arthur, poiché il colore dorato delle sue rifiniture eleganti pareva quasi accecante.

“Sulle sue mani, il sangue di centinaia di uomini, poiché non esiste alcuna pietà per chi incrocia il suo cammino!”

Allora la ragazza si impose di mettere a tacere il suo cuore turbato dall’odio e dall’inaspettata apparizione dell’ammiraglio, prima di articolare le due parole in croce che era in dovere di dire: “Se sono i Duchi di Lynwood che cercate, non avrete modo di vederli oggi: si sono recati dal parroco per prendere gli ultimi accordi in vista del funerale.”

Saffie aveva sussurrato quelle informazioni senza neanche guardarlo in faccia e, se per questo, si voltò nuovamente verso le finestre del salotto, muovendosi in direzione del suo amato scrittoio in mogano. Sentiva di stare tremando a causa di nervosi e glaciali brividi di rancore, per cui non voleva dover sopportare la presenza dell’uomo più a lungo del necessario.

Ma niente, in effetti, l’aveva preparata ad affrontare l’ira repressa contenuta nella voce che si fece sentire dietro di lei.

“Non sono qui per loro. Sono qui per te.”

La ragazza si voltò di scatto, in tempo per vederlo avanzare nella sua direzione e raggiungerla in due lunghi passi. Arthur Worthington non si preoccupò di nascondere più nessuna emozione nell’espressione del suo viso raffinato, che ora esprimeva un disprezzo freddo e mortale, irremovibile. “Dovevi occuparti di lei” sibilò con ira l’uomo, imprigionando la signorina Lynwood fra lui e la scrivania, impedendole così qualsiasi via di fuga. “Perché l’hai lasciata sola?”

Saffie alzò gli occhi spaventati su di lui, più stupita dalla sua voce d’acciaio e dal suo gesto improvviso, che dalla consapevolezza fulminea piombatale addosso: l'ammiraglio doveva ben essere informato delle circostanze in cui aveva trovato la morte Amandine, eppure mai la ragazza si sarebbe aspettata di vederlo incombere su di lei con tanta aggressività.

Per la prima volta, si specchiava in due occhi lucidi d'odio.

Il suo cuore prese a battere ferocemente nella cassa toracica, animato da nuova rabbia.

Questa persona…mi chiedo chi sia veramente.

Un’altra cascata di rancore si abbattè su Saffie, a pari passo con le parole di un Arthur che alla ragazza sembrò di non riconoscere, come se un perfetto estraneo fosse appena entrato dalla porta della stanza. “Perché hai lasciato che uscisse in strada?!”

Ecco chi sei.

Non si era nemmeno degnato di mantenere il formale voi, Arthur Worthington, e neppure si impietosì di fronte alla debole resistenza opposta da una signorina Lynwood sull’orlo del pianto: la osservò cercare di allontanarsi da lui, mentre i suoi occhi grandi precipitavano al suolo, negandogli qualsiasi risposta. Questo, ovviamente, non gli andò affatto bene.

Non fuggirai dalle tue responsibilità, ragazzina.

Saffie incontrò la dura superficie del mobile alle sue spalle nell’esatto istante in cui l’uomo decise di imprigionarla definitivamente, afferandole l’esile braccio con fin troppa forza. Con un rumore graffiante e fastidioso, la scrittoio si spostò di qualche centimetro per poi fermarsi di botto, facendo cadere a terra le innumerevoli missive della ragazza, nonché il libro suo e di Amandine.

Lo sguardo freddo di Arthur scivolò sul quaderno condiviso dalle sorelle e, come ovvio, riconobbe immediatamente l’oggetto in questione. Un sorriso sprezzante trasformò il suo volto all’improvviso, oscurandolo di un’ironia crudele, poiché tante volte la sua Amandine gliene aveva parlato, idolatrando le storie della donna terribile che aveva davanti.

“Sì, Saffie si occupa di me più di me stessa, Arthur! Sa che sarei persa senza le sue cure!”

Perché non sei stata al suo fianco?

Sentiva di odiarlo, quel libro. Quasi quanto sentiva di odiare lei.

“Amandine era malata e tu non c’eri” cominciò quindi l’ammiraglio, inchiodando nuovamente i suoi occhi sul volto della ragazza. “Chissà in quali delle tue inutili sciocchezze dovevi essere impegnata, non è vero?”

“…le tue strampalate idee agli altri!”

E allora Saffie seppe che, davvero, non c'era alcun modo di risalire il fondo dell’abisso su cui aveva appena appoggiato i piedi: il doloroso e malvagio sentimento nato dentro di lei esplose infine con violenza, come un temporale nel bel mezzo dell'estate.

“Tu, piuttosto, non sei arrivato! Le avevi giurato che non avrebbe più dovuto aspettarti e lei ti ha creduto!” gridò quasi la ragazza, strattonando la presa ferrea dell’ammiraglio Worthington; lo guardò con vero e proprio rancore e aggiunse, abbassando il tono di voce: “Lei era un’ingenua, ma non si meritava la disgrazia di amare te”.

La colpa è tua. Solo tua.

“Devi crederti così superiore agli altri, signorina Lynwood” commentò in risposta Arthur, senza battere ciglio. Se Saffie aveva sperato di far vacillare la sua ira, o di spegnere il sorriso di crudele ironia stampato sul suo volto, ebbene, dovette rimanere delusa. “L’ho sempre pensato: in fondo, non sopportavi l’idea che Amandine fosse la preferita, non è vero? Con tutta la tua supponente intelligenza, non sei mai arrivata ad essere che un’ombra della tua cara sorella…”

Ma Worthington non finì mai la frase. Come un fulmine a ciel sereno, le piccole dita aperte di Saffie si scontrarono contro la sua guancia sbarbata, senza effettivamente smuovere di un sol passo l'uomo che, sorpreso, si trovò a fissare due pozze lucide di lacrime e…disgusto.

“Parli proprio tu, grande Ammiraglio” fece la ragazza, senza badare al dolore che pulsava forte nella sua mano. “Per te Amandine rappresentava solo l’ennesimo trofeo da appendere alla parete: lei ti aspettava, ma è stata la tua ambizione ad ucciderla.”

La stretta delle dita forti di Arthur sulla pelle di Saffie divenne micildiale, spaventosa. L’uomo chinò la testa bruna sul viso della ragazza, tanto che quest’ultima potè sentire un forte odore di pioggia invaderla all’improvviso. “Ripetilo” la minacciò lui, glaciale “Avanti, ripetilo”.

I loro volti erano stravolti dal dolore, ma entrambi parevano accorgersi solo del rancore reciproco; poiché erano accecati da un unico pensiero.

Non è vero. Non è colpa mia.

La colpa è tua, che ora mi vomiti addosso questo disprezzo.

Alla fine, Saffie fu la prima ad abbassare lo sguardo: era pronta a crollare in pezzi, esausta di quel sentimento che l’aveva così all’improvviso travolta ma, si disse, non avrebbe mai lasciato ad Arthur Worthington la soddisfazione di vincere contro di lei. Non c’era più bisogno di fingere alcuna costruita simpatia, ora che Amandine non c’era più.

“Io e voi siamo molto diversi, non è così?”

E fu con un cuore pesante, di piombo, che la ragazza disse, sottovoce: “La mia unica speranza è che la giornata di domani giunga a termine al più presto, così che voi possiate sparire per sempre dalle nostre vite”.

Dall’alto, due iridi chiarissime la trafissero per l’ultima volta, in un silenzio tanto teso quanto doloroso. Una smorfia sprezzante attraversò per un attimo il viso dell’ammiraglio che, senza commentare in alcun modo la frase di Saffie, mollò bruscamente la presa e si allontanò di un passo da lei.

Eppure, la ragazza avrebbe dovuto immaginare che nemmeno per l’uomo era consuetudine abbandonare il campo di battaglia tanto facilmente. Saffie lo osservò chinare l’alta figura verso il quaderno di Amandine e una veloce paura s’impossessò del suo animo, nel vedere la mano grande di Arthur stringersi attorno alla copertina sbiadita.

Non osare toccarlo

Cominciò a muoversi verso di lui, ma Worthington fu più svelto e si rialzò in piedi.

“Questa roba, bruciala” fece Arthur in tono calmo e accondiscendente, ma con due occhi di pietra. Paradossalmente, a Saffie sembrò intimidatorio come non mai e uno strano brivido di soggezione la attraversò a tadimento, lasciandola attonita di fronte alle parole crudeli dell’uomo.

Ora che Amandine se ne è andata, per noi non c’è più alcun bisogno di fingerci due persone che non siamo.

Fu in questo modo, infine arrendendosi di fronte all’incrollabile rancore di Arthur Worthington, che Saffie chinò la testa castana verso il pavimento: desiderava solo vederlo uscire dalla stanza e ringraziò il cielo nel sentire la porta del salotto aprirsi con un cigolio cupo.

L’uomo si fermò sulla soglia solo il tempo necessario per aggiungere, stoico: “Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine”.

La rabbia e il dolore che si propagarono nel petto della ragazza, le fecero comprendere che, in quella maniera, l’ammiraglio aveva siglato la sua vittoria su di lei: non voleva ammetterlo nemmeno con sé stessa ma, dentro di sé, sentiva di essere d’accordo con le parole crudeli dell’uomo.

“È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice”

I suoi occhi si riempirono di lacrime.

Non è vero, perché io sono una persona meschina, proprio come mio padre…

E l’ammiraglio Worthington non è mai stato l’uomo di cui ti sei innamorata.

Saffie aspettò di sentire la porta chiudersi alle spalle di Arthur, prima di crollare in ginocchio sul pavimento e lasciarsi andare in un pianto costituito da senso di colpa e disgusto.

“Abbiamo un accordo, dunque?”

Alla fine, pensò la ragazza coprendosi il viso con le mani, entrambi non erano mai stati altro che due bugiardi.

Saffie non poteva certo immaginare che, sul corridoio di casa Lynwood, Arthur se ne stava letteralmente abbandonato contro il duro legno della porta come un uomo senza più alcuna speranza. L’ammiraglio lasciò ai suoi mossi capelli scuri il dovere di nascondere un viso tormentato dal dolore: la sua disperazione sembrava ora nutrirsi dei singhiozzi provenienti dalla stanza che aveva appena abbandonato.

“Puoi nasconderti fin che vuoi ma, non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

Il viso dolce di Amandine gli apparve davanti, con tempismo perfetto.

“…lei ti aspettava, ma è stata la tua ambizione ad ucciderla.”

Puoi fingere, ma per te non c’è alcuna redenzione, Arthur Worthington.










Angolo dell'autrice:

Lo dico subito: so che in questo capitolo non è presente l'anticipazione inserita nel precedente ma, sappiate, il capitolo sarebbe altrimenti diventato troppo lungo! (T.T)
Avevo anche pensato: ma sì, chissene, facciamolo chilometrico sto terzo capitolo!
Però poi ho compreso che sarebbe stato meglio pubblicarlo così com'era, anche per il fatto che non pubblico da un bel po' di settimane...e chi mi legge merita di avere un altro capitolo!
A proposito di questo...non posso che chiedere scusa per il mio ritardo in ginocchio, ma posso solo dire che sto lavorando tutti i giorni della settimana e, fra e altre cose, questa parte della storia è parecchio difficile per me da gestire: voglio fare le cose per bene, non frettolosamente, ecco.
Anche se in questo momento sto scrivendo alla velocità della luce, visto che devo andare a lavoro... (T.T)
Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto!!!
Se vi va, fatemi sapere!!
Un abbraccione,
Sweet Pink














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Capitolo 5
*** Quarto. Oscurità accecante. ***


Avvertenza: il seguente capitolo contiene scene e tematiche sensibili, quindi procedete nella lettura con cautela.

Grazie mille e buona lettura.



CAPITOLO QUARTO

OSCURITÀ ACCECANTE





La chiesa era illuminata da una luce pura e abbagliante, bianco latte, che penetrava con delicatezza dalle maestose vetrate situate ai lati dell’unica navata presente, immersa anch’essa in un silenzio paradossalmente assordante.

Saffie presenziava nei primi banchi assieme ai genitori e, a parer suo, pure le mute figure in nero dei pochi presenti risultavano fin troppo nitide ai suoi occhi iniettati di sangue. Era come se si fosse risvegliata di botto in un mondo a lei totalmente estraneo, che il suo sguardo non riusciva a riconoscere.

Ma non era di certo tutto qui: davanti alla sua figura rigida faceva mostra di sé la bara candida dove riposava Amandine. La rappresentazione di ciò che più in vita sua aveva temuto era ora a nemmeno un metro da lei, un oggetto anonimo quanto agghiacciante, ricoperto da fiori di un bianco incredibile.

Ma è questa oscurità ad essere accecante, in realtà.

I suoi occhi castani non avevano mai abbandonato quello che non era altro se non un freddo contenitore ma, al contempo, sembrava essere pure l’ultima immagine con cui avrebbe ricordato l’amata sorella: una bara, la solenne incarnazione della sua tremenda colpa.

“Amandine era malata e tu non c’eri.”

Con un orribile sentimento che pulsava forte e doloroso nel cuore, la ragazza serrò improvvisamente labbra e denti, quasi a volersi far del male; tutto, pur di non piangere per l’ennesima volta a causa delle parole pronunciate dall’unica persona al mondo che poteva dire di odiare. Tutto pur di non voltare lo sguardo in direzione del banco posto vicino a quello della famiglia Lynwood dove, lo sapeva, avrebbe potuto osservare il dolore discreto in cui Simeon e Arthur Worthington si erano rinchiusi.

Saffie non voleva nemmeno posare gli occhi sull’ammiraglio, poiché la sua più ardente speranza era che lui potesse sparire come per magia.

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine”.

Strinse le piccole dita tremanti le une contro le altre, pronta a ricevere la sferzata di dolore e odio che sapeva si sarebbe abbattuta immediata su di lei. “Non è vero” pensò, fissando con vera disperazione le venature lucide di cui si componeva il legno della bara di fronte a lei “Voi l’avete uccisa, mentre io l’amavo per davvero”.

Saffie non aveva ascoltato neanche la metà della messa funebre di Amandine, celebrata dall’anziano parroco della loro contea e, se per questo, neppure un terremoto avrebbe potuto distrarla dal vortice di pensieri che riguardavano sua sorella e il disgustoso uomo ritto in piedi a pochi metri da loro.

Sparisci dalla mia vista.

La ragazza fu grata di udire il tono grave e gracchiante del prete annunciare il termine della funzione religiosa, visto che non pensava di riuscire ad arginare il suo opprimente rancore ancora molto a lungo. L’abbagliante luce bianca e asettica che penetrava dalle magnifiche finestre della chiesa, poi, non faceva altro se non aumentare il suo senso di nausea e confusione.

È difficile abituarsi a questa oscurità accecante.

“Fratelli e sorelle, andate in pace.”

Saffie alzò lentamente le palpebre, mentre una leggera espressione sarcastica passava fulminea sul suo viso giovane e stravolto.

Sì, certo.

Senza nemmeno una parola, né uno sguardo, Cordelia e Alastair Lynwood le votarono le spalle e cominciarono ad avviarsi pigramente fuori dall’edificio, inseguendo come due cadaveri viventi la bara portata sulle spalle da persone estranee che il Duca aveva vestito di tutto punto per l’occasione.

Facce immobili e senza lineamenti, muti manichini senza volto.

No, forse non mi abituerò mai a questo nuovo odio.

“Trovare pace…probabilmente non riuscirò nemmeno più a scrivere nemmeno una riga su un foglio di carta” si trovò a considerare la signorina Lynwood, mentre lei e la sua ingombrante gonna nera si apprestavano ad uscire faticosamente dall’elegante quanto stretto banco di famiglia. “Come posso prometterti di non piangere, se pure la sola idea di continuare a scrivere mi ripugna dal profondo?”

“Giurami che andrai avanti e sarai libera, che non verserai più alcuna lacrima per la tua frivola e fragile sorella.”

E difatti, i suoi occhi scuri si riempirono di lacrime nell’esatto momento in cui quasi si trovò a sbattere contro un indefinito qualcosa di scuro e solido. Come risvegliatasi di soprassalto, Saffie mise a fuoco un ampio torace tonico, fasciato da una lucida e lunga giacca in seta nero pece; senza poterne fare a meno, risalì con lo sguardo fino a un viso virile e dai lineamenti decisi, seppure esausti. Dall’alto, due iridi chiarissime la fissavano con un luminoso quanto agghiacciante disprezzo.

“…ma non si meritava la disgrazia di amare te.”

Con un piccolo sussulto sorpreso, la ragazza si allontanò appena dalla figura alta di Arthur Worthington che, da parte sua, si fece da parte in silenzio, con l’intenzione di farla passare.

Malgrado il cuore schizzato improvvisamente in gola e il turbamento causato dall’improvvisa vicinanza dell’uomo che lei riteneva la causa della morte di Amandine, Saffie riuscì a fingere più che degnamente l’indifferenza necessaria ad articolare un freddo quanto spoglio ringraziamento di circostanza. “Vi ringrazio” mormorò quindi, inchinandosi appena e spostando gli occhi in qualsiasi direzione che non fosse quella in cui vi era lui.

“Dovere” lo sentì rispondere in tono marmoreo e distaccato, come se l’ammiraglio Worthington fosse andato a sbattere contro un oggetto inanimato, e non una persona in carne e ossa.

A entrambi, in realtà, non importava poi molto del tono usato dall’uno o dall’altra, poiché paradossalmente era ancora una volta unico il pensiero celato dietro a obbligatorie parole di finta cortesia.

Sparisci dalla mia vista.

D’altronde ciò che era capitato il giorno precedente non sembrava voler abbandonare tanto presto le loro menti, poiché sembrava essere inciso a fuoco nel loro animo e sulla loro stessa pelle: Saffie era sicura di sentire ancora l’impronta delle dita grandi dell’uomo stringersi letali attorno al suo braccio sottile, tanto quanto Arthur era convinto di non riuscire a liberarsi della sensazione di cinque piccole dita impresse con violenza sul suo volto.

Era la rappresentazione della loro reciproca colpa, ciò che li aveva portati a superare un confine.

“Fortuna che entro poche ore sarà tutto concluso” pensò quindi la ragazza castana, massaggiandosi in maniera meccanica il braccio destro.

Si era appena lasciata alle spalle l’odiata figura di Worthington, che incrociò lo sguardo vuoto e impassibile di Alastair Lynwood: suo padre stava fissando lei e l’ammiraglio con un’aria stranamente pensierosa, quasi interessata.

“Si intende che lo farei…Sono tuo padre e questo rientra nei miei pieni diritti.”

Un brivido terribile scosse interamente Saffie, mentre Amandine varcava la soglia della chiesa, sparendo per sempre nella luce.



§



Un mucchio informe di carte stropicciate ardeva lentamente sul pavimento, mentre un forte odore di bruciato si diffondeva fastidioso in tutta la ricca stanza.

“Potete anche scordarvelo.”

Simeon Worthington era ritenuto da molti – e a ragione - un ufficiale dal temperamento adamantino, dalla volontà e animo incrollabili, nonché dal sangue freddo e carattere impassibile. Eppure, anche un uomo come lui si trovava ora in difficoltà, nel dover sostenere il gelido furore con cui gli occhi verde scuro del figlio lo stavano fissando. Era come se Arthur volesse inchiodarlo alla parete dietro alle sue spalle solo con la forza intimidatoria di quel tremendo sguardo che, oltre alla rabbia, comunicava un’indignazione sorprendente.

“Sì…” pensò d’impulso l'ex ammiraglio, trattenendo un sospiro “È veramente fuori di sé”.

Alastair se ne è venuto fuori con una richiesta a dir poco bizzarra, questa volta.

“Puoi sempre rifiutare, se non ti trovi d’accordo con il nuovo contratto proposto dal Duca” decise di commentare con finta indifferenza il padre di Arthur, osservandosi le unghie curate. Cercava di rimanere sul vago, di mascherare il suo vero stato d’animo solo per riguardo dell’amicizia trentennale che lo legava al padre di Saffie, ma il progetto del suo più vecchio amico gli suscitava più nausea che interesse.

Non che situazioni del genere siano una novità al giorno d’oggi.

“Certo che rifiuterò” sputò vero e proprio veleno il giovane ammiraglio, voltando la chioma scura verso la figura robusta del padre, osservandolo nuovamente con due occhi di fuoco dal centro della stanza. “Amandine è mancata da un mese e ora voi mi chiedete di legarmi a quella donna.”

“Ti chiedo di non rivolgerti in questi termini alla signorina Lynwood, figliolo” disse Simeon, una punta di severità nella voce piatta. Aspettò di sprofondare con le spalle nella sua poltrona preferita, prima di continuare il discorso con pacatezza: “È Duchessina, fra l’altro. Non dimentico che rappresenta l’alta aristocrazia con cui ho sempre voluto accasarti, come da accordi presi”.

Anche se, a dire il vero, non dovremmo chiedere a quella ragazza un sacrificio del genere.

Come non dovremmo chiederlo nemmeno a mio figlio.

Il volto virile di Arthur Worthington fu attraversato da una smorfia sprezzante, nauseata, mentre il proprietario decideva di dare le spalle al suo ingombrante e famoso padre, che pareva sereno come non mai. L’uomo si portò in due passi davanti al ricco camino acceso e puntò gli occhi nelle fiamme ardenti, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni per nascondere i pugni chiusi dalla tensione.

Un sentimento misto al rifiuto e al rancore si agitava senza pace nel suo petto mentre, senza che potesse in alcun modo impedirselo, il viso contratto dalle lacrime di Saffie si sovrapponeva al fuoco davanti a lui. Lo aveva sempre saputo, che dietro a quegli occhi innocenti si nascondeva una vera e propria strega.

Non potevi sopportare che Amandine ti fosse così superiore, non è vero?

Realizzò questo pensiero nel medesimo istante in cui le sue labbra articolarono, con quello che suonò genuino disgusto: “La sola idea di prenderla in moglie mi ripugna”.

Dietro la sua ampia schiena, le parole piene di stupore di Simeon non tardarono a farsi sentire: “E dunque, la detesti sul serio così tanto, quella povera ragazza?”

I riflessi aranciati delle fiamme davano colore al viso di un Arthur impassibile, dagli occhi tinti di un oscuro sentimento inamovibile. Un’oscurità che non lasciava intravedere nient’altro se non disperazione.

“Io e voi siamo molto diversi non è così?”

Sì, proprio così tanto.

A pensarci adesso, l'accordo di pace che lui e la signorina Lynwood avevano stretto parecchi mesi prima per il bene di Amandine pareva appartenere a un tempo e uno spazio mai esistiti: un universo impossibile, dove entrambi potevano guardarsi negli occhi senza intravedere la tremenda colpa di cui si accusavano a vicenda. Un mondo dove, per qualche assurda ragione, Arthur era pure arrivato a pensare di provare una sorta di ammirazione nei confronti di Saffie e del suo carattere ostinato.

Non potrà mai esistere, un mondo in cui noi due riusciremo a perdonarci.

Tra le fiamme, il viso tanto detestato della ragazza castana venne sostituito da quello dolce e pallido di Amandine. Con una dolorosa e sgradevole fitta allo stomaco, l’ammiraglio si accorse immediatamente dello sguardo con cui quegli incredibili occhi turchesi lo stavano fissando.

A chi stai pensando?

Due iridi piene di delusione scavavano ora nel suo animo a pezzi, portando a galla un senso di colpa che, in fondo, giaceva sopito dentro di lui già da un pezzo.

Perché non ho mantenuto la mia promessa?

“Puoi nasconderti fin che vuoi ma, non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

Arthur piegò la testa bruna verso il pavimento, con l’intenzione di nascondere il suo smarrimento improvviso a non si sa bene chi. Se eccellere gli era sempre venuto facile fin da quando era bambino, questo valeva anche per il fingere: d’altronde, aveva imparato molto bene cosa comportava porgere il fianco a qualcuno, mostrarsi stupidamente debole.

Dimenticalo, dimentica tutto.

Fu così che, non rispondendo in alcun modo alla domanda posta in precedenza da suo padre, l’uomo sillabò solo: “Lei non avrà mai il mio nome”.

E questo sembrava chiudere la discussione, poiché il salotto elegante e sobrio di casa Worthington piombò in un silenzio pesante quanto teso.

Gli occhi grigi e acuti di Simeon indagarono la figura alta di un Arthur che ancora gli dava le spalle, nascondendosi così alla sua vista e al suo giudizio, proprio come sempre era stato da trent’anni a quella parte: suo figlio aveva cucito un’incrollabile figura di potere addosso alla sua persona, perché era la sua ambizione sfrenata a fare piazza pulita di ogni ostacolo presente sul suo cammino.

È più facile fare del male agli altri e proteggere così sé stessi, no?

Eppure, si disse ancora il signor Worthington, non aveva mai visto Arthur lasciar cadere la sua facciata di solida compostezza. O, almeno, ciò non era mai accaduto finché una certa ragazzina sveglia e perspicace non era entrata nelle loro vite: Saffie Lynwood non incarnava solo il ruolo di ultima discendente dell'antico casato dei Lynwood, ma era pure l’unica fanciulla al mondo che aveva osato tenere testa a suo figlio fin dal principio.

E, per questo, Simeon l’aveva sempre considerata una moglie molto più adatta della fragile Amandine.

“Alastair, amico mio, siamo due genitori orribili, non è vero?” pensò Simeon, alzandosi dalla sua amata poltrona in velluto blu con uno strano sentimento di stanchezza nelle ossa. “È un vero peccato” disse quindi, soave “Hai il patrimonio e l’età per sottrarti ai tuoi doveri, mandando all’aria tutto il lavoro che tuo padre ha dovuto svolgere in questi anni, solo per poterti aiutare a prendere posto tra i potenti”.

Con uno strano scatto meccanico, Arthur voltò il busto nella sua direzione e, odiandosi come non mai, non riuscì in alcun modo a nascondere come in effetti l’argomento tirato fuori dal padre fosse di gran interesse per lui: dentro di sé, era perfettamente cosciente di come l’appoggio del Duca di Lynwood fosse fondamentale per arrivare al suo obbiettivo.

Il potere, in fondo, non basta mai.

Un senso di rigetto immediato gli risalì in gola, facendogli venir voglia di vomitare.

Come puoi anche solo fare questo ad Amandine?

“Arriverò al vertice in ogni caso, pure senza questi mezzucci da quattro soldi” ribatté il giovane ammiraglio con forza, quasi ringhiando le ultime parole. “Forse avrò qualche difficoltà in più, ma è un rischio che sono disposto a correre, se significa evitare questa schifezza.”

Gli occhi metallici di suo padre saettarono di gelida e calma ira, ma l’uomo non sembrò smosso più di tanto dalle parole sboccate di Arthur. “Stai attento a come parli in mia presenza” gli suggerì infine Simeon, cominciando ad avvicinarsi a passo lento. “Sei un Ammiraglio adesso. Continua a comportarti come tale, senza utilizzare il disdicevole vocabolario di tua madre”.

“Come se la tua vergognosa madre avesse avuto molta scelta, comunque.”

A quel punto, l’espressione che si incise nei lineamenti raffinati di Arthur Worthington si fece specchio di quella del padre: un pericoloso bagliore fece la sua comparsa in quelle iridi dal verde disarmante, mentre quest’ultimo si decideva a dire, con un tono che sembrava poter uccidere: “State dimenticando un non trascurabile dettaglio, caro padre: la vostra adorata Saffie Lynwood non si piegherà mai ad accettare un’unione simile”. Un sorrisetto a malapena visibile, ma pieno di crudele arroganza, piegò gli angoli della sua bocca sottile. “Quel caratterino che tanto vi piace, unito al suo non saper stare al proprio posto, faranno il resto.”

Tra le infinite reazioni possibili al mondo, il giovane uomo non si sarebbe mai aspettato di veder suo padre sorridere a sua volta, nascondendo le labbra fra le dita callose, come se volesse impedirsi di scoppiare in una delle sue classiche risate assordanti. “Come se avesse possibilità di scelta” fu il commento sibillino che Arthur poté udire in maniera più che cristallina.

Un agghiacciante presentimento lo freddò sul posto, nell’esatto momento in cui Simeon decideva di rincarare la dose, portando avanti con apparente ignoranza una strategia in realtà più che concreta.

“La Duchessina si è rivelata sveglia oltre ogni mia immaginazione, devo ammetterlo” incominciò a dire suo padre, con voce di seta. “Visto che ha già accettato il contratto di matrimonio che la legherebbe alla nostra famiglia e a te. E l’ha fatto volontariamente.”

“…così che voi possiate sparire per sempre dalle nostre vite.”

Impossibile.

Gli occhi di Arthur si spalancano fin quasi al loro limite, mentre quella sgradevole premonizione nata dentro di lui sembrava ora trasformarsi in una certezza aberrante.

“Impossibile” ripeté poi ad alta voce, fissando con improvviso smarrimento l’attempato uomo di fronte a sé, come se nemmeno lo riconoscesse. “Non può averlo fatto davvero.”

Per tutta risposta, Simeon Worthington fece spallucce nel suo lussuoso abito in seta verde, spudorata copia dello sfarzo senza limite che tanto andava di moda in Francia e che suo figlio invece detestava. “Alastair sa essere un padre molto persuasivo, ma in effetti mi chiedo cosa abbia portato la signorina Lynwood ad accettare così presto. In fondo, ho sempre creduto non vedesse l’ora di tornare alla vita che conduceva nella capitale.”

Anche Arthur lo credeva.

Da quando aveva incontrato la famiglia del Duca Alastair – ormai più di un anno prima – l’uomo aveva a più riprese sentito parlare della famosa vita di Londra condotta dalla sorella di Amandine: non si contavano le volte in cui aveva dovuto sorbirsi i racconti di tutte le serate altolocate a cui la ragazza aveva partecipato, al suo impegno nell’attività di istitutrice, fino alla grande considerazione di cui godeva presso i letterati più in voga della città.

In fondo, come dimenticare che proprio lui stesso aveva accusato Saffie Lynwood di occuparsi solamente di inutili sciocchezze.

Perché?

“E io sono altrettanto sicuro di come, fra qualche anno, non si farà altro se non sentir parlare di voi, a Londra.”

Ancora, come se si fosse trattato di una dannata maledizione, la figura minuta della ragazza in questione gli galleggiò davanti agli occhi, sovrapponendosi a quella robusta del padre.

“Oh, io la trovo di un’intelligenza piuttosto acuta, a dire il vero.”

Un sorriso giovane e imbarazzato, tinto di una controversa ironia.

Il cuore a pezzi del giovane ammiraglio cominciò a battere furiosamente contro la cassa toracica, pure se non era nulla confronto al disprezzo travolgente che lo inghiottì all'improvviso, come un’alta e oscura onda.

“…così che voi possiate sparire per sempre dalle nostre vite.”

Se lo aspetta. La ragazzina sa fin troppo bene che non la sposeresti per niente al mondo.

Determinato a raggiungere il suo obbiettivo, Simeon Worthington sospirò con fare rassegnato e commentò, stringendosi nelle spalle: “Senza una degna moglie, il governatore non ti concederà mai il comando di Kingston, questo lo sai…Eppure tu sei così risoluto nelle tue decisioni!”. Lo sguardo metallico dell’uomo si fece sottile, da serpente a sonagli. “Dovrai rinunciarvi ma, almeno, lo avrai voluto tu.”

“Non così in fretta” sentenziò Arthur con voce di pietra, prendendo elegantemente posto sul sofà vicino al camino. Il giovane uomo non era così stupido da ignorare la strategia neanche troppo velata del padre, atta a perpetrare il piano ideato dal suo fido compare Alastair; ma ciò non significava che lui stesso non potesse trarne qualche vantaggio: se quella ragazzina pensava di poter salvare la sua reputazione, sottraendosi alla responsabilità di rifiutare il matrimonio e mandare a monte il contratto fra le loro famiglie, così da riuscire a tornare senza impedimenti alla sua pigra vita nella capitale, beh, aveva fatto molto male i suoi conti.

No, non ti lascerò mai più tornare al tuo finto paradiso, alla tua libertà.

Non quando io ho perso tutto a causa tua.

L’uomo incrociò lentamente le gambe toniche e disse, appoggiando con leggerezza la chioma scura sul palmo della mano: “Scrivete al Duca di Lynwood, padre”. Un sorriso di pura malvagità, di quelli che Simeon poteva dire di non vedere da parecchio tempo, sembrò profanargli il viso in meno di un secondo. “Ho tutte le intenzioni di rispettare il mio dovere, come d’abitudine, d’altronde.”

Non combattere contro di me, Saffie Lynwood.

La mia oscurità è accecante.

E, in quel momento, Arthur cercò di non soffermarsi su nulla che non fosse il suo personale e irremovibile odio. Non pensò ad Amandine, o all’ingiustizia che stava compiendo nei confronti suoi e della piccola strega. Al dolore che avrebbe inflitto a sé stesso.

“Puoi nasconderti fin che vuoi ma, non lo sai, che tu sai solo fare del male?”



§



“Congratulazioni, figlia mia. La risposta dell’ammiraglio Worthington è arrivata giusto un’ora fa” asserì una voce che, per quanto concerneva Saffie, poteva appartenere a un perfetto sconosciuto. “Finalmente ne hai combinata una giusta: non potevi essere nata con un visino così grazioso per niente.”

Non c’è nulla per cui congratularsi, festeggiare.

Perché io non ho potuto scegliere un bel niente.

Forte di questa considerazione, la ragazza sollevò la testa castana e inchiodò i suoi occhi scuri in quelli di Alastair Lynwood, lanciandogli uno sguardo deluso e altrettanto terribile.

Dietro alla sua elaborata scrivania in mogano, il nobile padre della ragazza sembrò non scomporsi troppo. “Su, su, non guardarmi così imbronciata” commentò, tagliando l’aria con la mano pallida e riccamente ingioiellata, liquidando così il turbamento di Saffie come se si stesse parlando di una cosa da niente. “Hai ampiamente dimostrato di possedere l’intelligenza di cui vai tanto fiera, nel decidere di non continuare ad opporti all’inevitabile: un contratto è stato siglato anni orsono e io ho ancora una figlia.

E, nel pronunciare le ultime due parole, il volto raffinato e aristocratico dell’uomo si aprì in un debole sorriso comprensivo, ma ugualmente agghiacciante. Ritta in piedi di fronte a lui, la figura minuta della sua primogenita tremava leggermente, dalla tensione, mentre il suo acceso sguardo castano ancora non ne voleva sapere di offuscarsi e cadere al suolo, di arrendersi alle leggi che governavano da secoli il loro mondo.

È arrivato il momento di imparare qual è il tuo posto.

Il Duca di Lynwood stava per aprire nuovamente bocca, forse rendere partecipe Saffie di questo suo pensiero fugace, che la ragazza lo precedette: “Vi congratulate, padre” cominciò lei con voce esile, affaticata. “Non sembra toccarvi minimamente la mancanza di qualsiasi scrupolo morale da parte di quell’uomo, nell’accettare di unirsi alla sorella di colei che aveva giurato di amare.”

Se per questo, Saffie si trovò pure a considerare come lo stesso Alastair non paresse minimamente disturbato dalla sua stessa mancanza di umanità. L’uomo l’aveva infatti fatta chiamare con urgenza nel suo ricco studio – un luogo in cui né a lei, né ad Amandine era mai stato concesso di metter piede – e, da mezz’ora a quella parte, le si rivolgeva con stampata in faccia un’espressione di grande trionfo.

Normalmente, la ragazza avrebbe accolto con grande gioia l’idea di poter esplorare la stanza in cui il padre passava la maggior parte delle sue giornate: si trattava dell’uomo che l’aveva messa al mondo e a cui tanto assomigliava ma, per ventisette anni, Alastair Lynwood era stato più che altro uno sconosciuto.

Un estraneo che ora la stava vendendo come se niente fosse.

“Arthur Worthington è un uomo di grande ambizione” le spiegò il Duca, sordo alle precedenti parole della figlia e cieco davanti a qualsiasi accusa. “Lui e suo padre sono quasi certamente più ricchi di noi, ma entrambi sanno quanto sia il sangue a fare la differenza fra chi conta per davvero.”

“Come voi siete perfettamente al corrente di avere le casse di famiglia ormai miseramente vuote” lo rimbeccò Saffie con malcelato astio, cercando di non lasciare spazio alcuno alle lacrime che ora minacciavano di trasformarla in una fontana vivente: aveva promesso di non piangere, ma sembrava non essere stata capace di fare altro in quel lungo mese passato dalla morte di Amandine. Sapeva pure di star tremando liberamente, come un canarino zuppo di pioggia, ma continuò comunque ad affrontare la persona seduta di fronte a lei: “Questa unione vi è necessaria, proprio perché sapete che siamo in una condizione in cui il lignaggio non basta”.

D’altronde, è a questo che servono le figlie femmine, no?

Per un secondo, la risata frivola e ingenua di Amandine risuonò lontana nelle orecchie di Saffie.

Mia sorella non si meritava tutto questo.

Come se sua figlia gli avesse appena urlato contro un’eresia irripetibile, Alastair si alzò di scatto dalla sedia, i palmi premuti contro il piano della scrivania e gli occhi castani dardeggianti di improvvisa rabbia. Sporse la figura alta verso di lei e sillabò, glaciale: “Diventerai la signora Worthington, che tu lo voglia oppure no”.

“Non che io abbia mai avuto voce in capitolo, mi pare” fu il commento pieno di disperata ironia della ragazza, sul cui volto era apparso un mezzo sorriso riesumato chissà dove. “Nemmeno Amandine ha mai avuto questa possibilità, ma almeno lei era innamorata del tanto celebrato Arthur Worthington.”

Perché neppure il Duca di Lynwood avrebbe mai potuto comprendere che i brividi di cui era preda sua figlia non erano di paura, ma bensì di un limpido sentimento costituito di rancore puro; un sentimento accecante, che scuoteva la sua anima nel profondo.

Nemmeno nei suoi incubi peggiori, Saffie avrebbe pensato di finire in quella situazione ma, sopra ogni cosa, che lui accettasse di sposarla per davvero. Si chiese cosa l’avesse spinto ad accettare la loro unione senza pensarci due volte visto che, se doveva essere sicura di qualcosa, questa era l’odio cristallino di Worthington nei suoi confronti.

Dovresti esserci già arrivata, piccola sciocca.

A chi è assetato di potere, serve veramente una motivazione?

“Dovresti ritenerti fortunata di questa piega degli eventi, figlia mia” fece la voce indifferente di Alastair, ora impegnato a guardarla come se la ragazza che più aveva ereditato del suo ingegno si fosse trasformata in una perfetta ebete. “L’amore romantico? Davvero, Saffie? E dimmi, ricordi qual è l’unica condizione per la quale sono disposto a rescindere il contratto con i Worthington?”

Una voragine spaventosa si aprì nel cuore della ragazza castana, come se qualcuno l’avesse pugnalato all’improvviso. Saffie sbiancò di colpo, chinando il capo e osservando le piatte forme del pavimento in marmo come se potessero inghiottirla da un momento all’altro.

Ricordava benissimo.

Le onde dei suoi lunghi capelli, liberi da qualsiasi acconciatura, si mossero appena: annuiva piano con la testa, improvvisamente timorosa di mostrare qualsiasi tipo di espressione al padre.

“Rifiuta di salvare questa famiglia, di obbedirmi, e l’unica strada che percorrerai sarà quella per il manicomio.”

Un leggero sudore freddo cominciò a imperlarle la fronte ampia.

I manicomi erano l’inferno in terra.

Tanto valeva morire subito.

“Sapevo che non potevi essertene dimenticata” asserì il Duca di Lynwood, soave come non mai. “Ora, spiegami quanto vale il tuo sciocco amore romantico, al confronto con questa prospettiva più che reale.”

“Giurami che andrai avanti e sarai libera, che non verserai più alcuna lacrima per la tua frivola e fragile sorella.”

No, si disse Saffie, non poteva permettersi di infrangere pure l’ultima promessa fatta ad Amandine e condannarsi ad una vita fatta di stenti e torture, che l’avrebbe sicuramente portata alla vera pazzia in pochi anni. Era anche terrorizzata alla sola idea di essere rinchiusa per sempre dentro a uno di quei maledetti edifici, ma cercò di trattenersi dal farlo vedere più di quanto già non lo stesse mostrando con il suo pallore improvviso.

Perché non ha rifiutato?

Si piantò le piccole dita nei palmi delle mani e strinse con forza, cercando di domare il disprezzo impressionante che ora aveva preso a pulsare forte nelle sue tempie, riempiendola di un senso di nausea crescente: era stata lei stessa ad essersi rivelata fin troppo ingenua, nello sperare che Worthington rifiutasse in blocco la disgustosa proposta di suo padre, liberandola così dalla responsabilità di aver mandato a monte gli accordi presi?

Come un fulmine a ciel sereno, Saffie fu folgorata dal ricordo di due penetranti occhi verde smeraldo, animati da un sentimento freddo e implacabile.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

La stanza che tanto avrebbe voluto indagare, piena zeppa di polverosi volumi e pomposi busti di qualche lontano antenato, non aveva più alcuna attrattiva per una signorina Lynwood in attesa, al contrario, di poter fuggire da quel fantastico incontro con il Duca.

Nello studio era presente un’unica grande finestra e, al di là di essa, le chiome verdi degli alberi secolari della tenuta scuotevano le loro frondose cime con dolcezza, producendo un sussurro affascinante che riuscì a permeare quel silenzio fatto di pesante tensione.

“Abbiamo un accordo, dunque?”

Pareva non ci fosse più nulla da fare, come morta era ogni speranza di poter tornare almeno alla sua vita di prima: per Saffie, Londra rappresentava il luogo dove avrebbe potuto essere lontana sia dal giogo di Alastair e Cordelia, sia dal Northampton e dalla casa in cui sopravviveva il ricordo di sua sorella minore; avrebbe voluto provare a cancellare tutto, compreso Arthur Worthington e l’oscuro sentimento che ora la rendeva cieca.

“Questa roba, bruciala.”

Una dolorosa fitta di panico si fece sentire nel suo cuore, diretta e traditrice. Aveva detto a quell’uomo di non volerlo più vedere, mentre ora non aveva alcuna possibilità se non quella di dovergli stare accanto.

E dire che, in un passato ormai fin troppo lontano, Saffie aveva addirittura pensato lui fosse in qualche modo attraente; un uomo un po’ noioso e pieno di sé, ma che sapeva pure essere protettivo e gentile.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine”.

“Promettete solamente di non costringermi a partecipare alla cerimonia di matrimonio” sussurrò infine la ragazza, premendo il mento contro il petto, nel patetico tentativo di nascondere il volto fra le lunghe onde della sua chioma castana. “Vi imploro di non farmi questo.”

“Vuoi sposarti per procura?”

“Sì, è ciò che desidero” annuì Saffie, senza alzare la testa. “Per rispetto di Amandine ma, se devo essere sincera, non voglio nemmeno che sia quell’uomo a infilarmi alcun anello al dito.”

Sarebbe rivoltante.

Alastair sollevò un sopracciglio grigio e sottile, con fare scettico. “Non l’hai mai avuto in simpatia ma, da come ne parli, parrebbe proprio che l’ammiraglio si sia guadagnato il tuo disprezzo.”

Fu allora che sua figlia decise finalmente di mostrargli il viso e, indagando in due occhi liquidi e inaspettatamente determinati, il Duca di Lynwood ebbe modo di comprendere come effettivamente la sua considerazione fosse veritiera, poiché seppe immediatamente che non era il figlio di Simeon, l’unico ad essere disprezzato da Saffie.

So bene quanto mi detesti, visto che sei così simile a me.

Di nuovo, un sorriso comprensivo apparve sul volto affilato dell’uomo dall’ego incrollabile. “Considera la tua richiesta accettata, figlia mia. In fondo, nemmeno io desidero offendere la memoria della mia amata Amandine con fastosi ricevimenti; tua madre, poi, potrebbe perfino soffrirne così tanto da morire per davvero.”

“Come se non aveste già calpestato abbastanza i sentimenti delle vostre figlie” pensò Saffie con ironia, mentre si inchinava appena all’elegante uomo di fronte a lei e diceva, senza alcuna inflessione di tono: “Grazie di questa concessione, caro padre”.

L’uomo sventolò una mano pallida nella sua direzione, con indifferenza. “Direi che è tutto. Metterò immediatamente in moto chi di dovere e incontrerò i Worthington, così sbrigheremo le ultime noiose scartoffie” asserì, sollevando pigramente la lettera scritta da Simeon davanti agli occhi. “Se tutto procede come si deve, tra meno di tre mesi potrai farti chiamare dagli altri signora Worthington.”

Mai e poi mai.

È più facile che io mi butti giù dal ponte della sua nave, piuttosto di usare quel nome.

Senza commentare in alcun modo le parole di Alastair, Saffie obbligò sé stessa a voltarsi meccanicamente verso la porta della stanza e, quasi senza respirare, cominciò ad avviarsi fuori dallo studio a passi lenti e forzatamente misurati. Nel suo intimo, la voglia di scappare a gambe levate era in realtà immensa.

“Ah, Saffie, giusto un’ultima cosa.”

La voce pacata e carezzevole del Duca le arrivò alle orecchie come un sussurro velenoso, obbligandola a voltare la testa castana verso il serpente che aveva parlato. Suo padre si era rimesso a sedere sul suo trono costituito di convenzioni sociali e la fissava da lontano con una serietà mortale; i suoi occhi furono percorsi da un fugace bagliore rabbioso e, per un attimo, Saffie ricordò di come egli si fosse rinchiuso per giorni interi lì dentro, incapace di affrontare la scomparsa della figlia prediletta.

“…in fondo, non sopportavi l’idea che Amandine fosse la preferita, non è vero?”

“Non vorrei che in questi mesi pensassi di usare il tuo sveglio intelletto per escogitare qualcuno dei tuoi colpi di testa, perché io te lo impedirò con ogni mezzo possibile” le spiegò Alastair, come se le stesse parlando dell’inverno in arrivo. “Questa unione sarà la punizione tua e di Arthur Worthington per la vostra noncuranza: che sia un modo di scontare la vostra colpa, quello di passare la vita insieme.”

“È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice”

No, già lo sapeva che non poteva essere vero. Saffie capì solo in quell’istante quanto lei e il Duca fossero effettivamente simili perché, ripensando alle ultime parole della sorella, non riusciva a provare nulla al di là del genuino disprezzo rivolto al maledetto Arthur Worthington. Non era capace di vedere altro, oltre alla crudele prospettiva di rendergli la vita letteralmente impossibile.

Perdonami Amandine. Alla fine…io sono veramente una persona meschina come mio padre.



§



Febbraio 1730

La Duchessina di Lynwood osservò il suo riflesso allo specchio e le venne subito da pensare che la ragazza di fronte a lei non assomigliava proprio per niente alla cara vecchia Saffie, la divertente strega buona descritta da Amandine: aveva ancora un volto piccolo e ovale, grazioso, ma un pallore strano lo rendeva simile a quello smorto di un fantasma senza pace alcuna; gli occhi, da sempre molto grandi e accesi di un irriverente divertimento, ora la guardavano lucidi di un sentimento misto fra paura e determinazione.

Paura di ciò che la sua vita sarebbe diventata da quel momento in poi e, infine, determinazione nella sua personalissima scelta di non arrendersi per nessuna ragione a colui che ormai considerava come suo nemico naturale.

“Io e voi siamo molto diversi, non è così?”

“Come aria e mare, signorina.”

Due elementi che mai si incontrano davvero.

Un viavai di domestiche in veletta si affaccendava alle sue spalle, mentre una figura alta ed elegante di donna se ne stava ritta in piedi al suo fianco, intenta a spazzolare con cura una ciocca ribelle dei suoi lunghi capelli castani.

“Non è dorata come quella di tua sorella ma, lo stesso, hai una chioma che sembra fatta di seta, figlia mia” commentò Cordelia Lynwood, il tono di voce carico di un insolito affetto. “E sono ugualmente sorpresa: non pensavo nemmeno fosse cresciuta fino ad arrivarti al giro vita!”

La ragazza presa in causa alzò allora lo sguardo scuro sulla madre, come se quest’ultima si fosse materializzata all’improvviso nella stanza e non fosse in sua compagnia da almeno mezz’ora. Forse, si trovò poi a pensare, Cordelia si era finalmente accorta di avere sul serio un’altra figlia, ora che la prediletta non era più con loro: non ricordava l’ultima volta in cui aveva avuto l’occasione di udire la donna rivolgersi a lei in quella maniera, piuttosto che attraverso parole di biasimo inerenti alla sua condotta.

O forse è solamente merito del fatto che ora sono sposata, proprio come hai sempre desiderato.

Ignorando il turbamento presente nella sua coscienza, Saffie decise di dedicare un debole sorriso al riflesso della madre; una donna che – come lei – alla fine non aveva potuto decidere che esistenza vivere. “Vi ringrazio, mamma” cercò di articolare, muovendo appena le labbra. “Sono contenta passiate questi ultimi momenti insieme a me.”

Già, perché quella era la terribile sera della prima notte di nozze e, al solo pensiero, la sua anima fremeva di un panico e una rabbia mai provati in precedenza. Tre mesi erano infatti passati in un lampo e, quella notte, lei avrebbe incontrato dopo tanto tempo gli occhi di quell’uomo.

Lì, in una delle lussuose camere da letto della tenuta dei Worthington, lei e l’ammiraglio erano chiamati ad ottemperare al loro cosiddetto dovere coniugale.

Tutto questo è profondamente sbagliato, perché non dovrei esserci io qui, ma Amandine.

Che cosa sto facendo?

Cordelia Lynwood piantò gli occhi azzurri sul viso della primogenita e vi lesse un’incertezza improvvisa e spaesante, resa ancora più palese da uno sguardo fatto di due iridi spaventate, da cerbiatto in fuga. “Ho sempre voluto vederti accasata degnamente, pure se speravo non in questo modo” disse allora la donna, accarezzando dolcemente la piccola spalla di Saffie con la mano. “Ormai non puoi più tornare indietro, perché tuo padre non scherza affatto, figlia mia.”

La strada per il manicomio.

“Non temete, madre: compirò i miei doveri di moglie, se è questo che tanto vi preoccupa” rispose di getto Saffie, stringendosi nella sua fine sottoveste azzurro pallido. “So bene cosa mi aspetta, se il matrimonio venisse annullato per inadempienza.”

Anche se, ne era più che certa, la sola idea di passare la notte insieme disgustava lei e Arthur Worthington alla stessa identica maniera.

Le dita lunghe e curate della Duchessa scivolarono via dalla sua spalla e schioccarono in aria, attirando l’attenzione della brigata di serve ancora intente a rassettare una stanza già di per sé perfetta e illuminata dalla luce soffusa di fin troppe candele accese. “Vi concedo cinque minuti per sbrigare gli ultimi preparativi e abbandonare la camera” ordinò, cominciando ad avviarsi lei per prima verso l’uscita con un gran fruscio di gonne e sottogonne costose; si girò solo una volta, giusto il tempo di poter dire, ad una Saffie pietrificata davanti alla specchiera: “Ora pensi che sia terribile ma, con il tempo, imparerai ad apprezzare l’uomo al tuo fianco e, chissà, potresti perfino innamorartene.”

La ragazza non si voltò e nemmeno si sognò di risponderle, poiché sapeva che altrimenti sarebbe scoppiata a riderle crudelmente in faccia con vero e isterico scetticismo. Fissava il suo stesso sguardo allo specchio, in attesa come un soldato pronto a scendere in guerra.

Innamorarmene.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.



§



Infine, anche l’ultima giovane domestica si ritirò dalla camera, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle e lasciando così sola una Saffie Lynwood in preda ad un agghiacciante turbamento. La ragazza si alzò lentamente dal morbido sgabello in velluto su cui era seduta e, cercando di dominare il tremolio delle sue gambe incerte, si fece strada verso il letto a baldacchino preparato per l’occasione.

Fissò le lenzuola candide e profumate, nuove di zecca, con uno strano senso di nausea e rifiuto: era lì che avrebbe dovuto adempiere al suo dovere coniugale, pena l’annullamento del matrimonio stesso in caso di inadempienza.

“…tuo padre non scherza affatto, figlia mia.”

Le preoccupate parole pronunciate neanche un’ora prima da Cordelia Lynwood riecheggiarono improvvise nella testa di Saffie, ancora intenta a fissare l’elegante alcova come se fosse uscita da un incubo. Quelle parole, di nuovo, suonarono da cupo e terribile monito.

“…di obbedirmi, e l’unica strada che percorrerai sarà quella per il manicomio.”

Questo, ovviamente, era inaccettabile. La ragazza si lasciò cadere sul bordo del materasso pesantemente, come se fosse stata un fagotto informe. Con aria assente, alzò lo sguardo sulla porta d’ingresso alla camera, poiché sapeva che il momento doveva essere vicino: non poteva sfuggire in alcun modo all’incontro con il tanto odiato Arthur Worthington, come non poteva più sfuggire a quella vita cui era stata condannata.

“L’ho sempre pensato: in fondo, non sopportavi l’idea che Amandine fosse la preferita, non è vero?”

Il cuore già di per sé stravolto di Saffie si fece pesante, traboccante di risentimento e dolore. “Se davvero non ti avessimo mai incontrato” pensò disperata, serrando le mani in grembo per ingannare il loro tremore leggero “Se solo quel giorno tu fossi arrivato, ora lei sarebbe qui al posto mio. Sarebbe viva e felice.”

E io non sarei divorata da questo implacabile odio.

La visione dei suoi occhi scuri si fece annebbiata e confusa senza che la ragazza potesse farci nulla. Allora Saffie abbassò lo sguardo scuro di scatto, cercando di concentrare la sua attenzione sulle sue stesse piccole dita, incrociate le une con le altre: era un metodo infallibile certificato da lei e Amandine, quello di spostare il proprio interesse su delle sciocchezze per dimenticare la sofferenza.

“Non dovrai mai piangere per me, quando non ci sarò più.”

Una singola lacrima cadde sul dorso della mano di Saffie.

““È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice”

“Non è vero” bisbiglio solo, lasciando ai suoi lunghissimi capelli castano chiaro la libertà di coprirle il viso congestionato. “Mi dispiace, Amandine. Mi dispiace così…”

Fu in quel momento che la porta si aprì con uno scatto discreto quanto inaspettato. Il qualcuno al di là della soglia, evidentemente, non aveva ritenuto necessario prendersi il disturbo di bussare ed annunciare la propria presenza. Non che la signorina Lynwood si fosse aspettata niente di diverso da lui, ormai.

Se l’ammiraglio Worthington si era aspettato di trovarsi di fronte a una Saffie sull'orlo di una crisi isterica, oppure pronta a vomitargli addosso altre accuse di malvagità o insulti rabbiosi, dovette rimanere profondamente deluso. Gli occhi verdi e vuoti dell’uomo si posarono su una piccola sagoma tremante, seduta sul letto dove di lì a poco avrebbe dovuto farla sua.

L’uomo osservò con un bizzarro sentimento di disprezzo e disagio la veste da notte blu pallido avvolgere le esili forme della ragazza castana, i cui capelli ricadevano liberi sulle spalle e quasi arrivavano a toccare il bordo del materasso stesso: la piccola strega si nascondeva alla sua vista, rifugiando il viso dietro a quelle lunghe onde, così diverse dai boccoli dorati di Amandine.

“… lei ti aspettava, ma è stata la tua ambizione ad ucciderla.”

Il suo sguardo verde si fece limpido d’odio, mentre considerava il fatto di non riuscire a provare assolutamente nulla che andasse al di là di quel sentimento e della rabbia, nell’osservare la figura di Saffie Lynwood. “Maledico il giorno in cui ti ho incontrata” pensò d’impulso, come se potesse ferirla solo con quel pensiero tagliente.

Poiché credevo di averla seppellita, la persona che ero un tempo.

Quella capace di fare del male.

L’uomo allora avanzò in silenzio verso la ragazza in questione, che ancora non osava alzare il volto nella sua direzione e sommergerlo delle sue solite vane chiacchiere. Aspettò di essere a neanche un metro da lei, prima di fermarsi con le mani poggiate sui fianchi snelli e dire, quasi sputando veleno: “Buonasera anche a voi, moglie. Tutto avrei pensato, tranne questo”.

Due occhi grandi e lucidi si sollevarono di scatto sui suoi; e Arthur dovette incassare uno sguardo costituito non di terrorizzata attesa, quanto di un disprezzo più che cristallino: Saffie lo guardava con un’espressione di sfida che – per un attimo - gli aveva dato letteralmente i brividi.

“Avreste dovuto rifiutare le nozze, allora” gli rispose una voce esile, ma allo stesso tempo di una ironia disarmante e crudele “Pure voi siete caduto in basso, marito”.

L’uomo assunse un’aria sprezzante e le sue iridi furono attraversate da un bagliore di sinistra e calma rabbia: a quanto pareva, la signorina Lynwood aveva tutte le intenzioni di ingaggiar battaglia.

Non combattere contro di me, ragazzina.

Non puoi vincere.

Dal canto suo, Saffie ringraziò le domestiche per aver allontanato dalla camera qualsiasi oggetto contundente, visto il folle desiderio nato non appena aveva osato alzare la testa e guardarlo: avrebbe volentieri ferito a morte quella persona che ora incombeva alta su di lei, e cercava di dominarla con parole d'odio. Un rancore che, si disse la ragazza, era lo specchio del suo.

“…sparire per sempre dalle nostre vite.”

Ora invece non possiamo più liberarci l’uno dell’altra.

Arthur allungò lentamente una mano verso il viso di Saffie e passò distrattamente le dita fra le onde dei suoi capelli sciolti, assaporandone a malapena la morbidezza con i polpastrelli. “Ah, quanto detesto la tua lingua lunga” ammise di getto, sfoderando un sorrisetto glaciale che non si preoccupò minimamente di nascondere.

Saffie sgranò lo sguardo scuro e uno strano brivido di soggezione le attraversò la spina dorsale a tradimento, malgrado i suoi tentativi di non soccombere e cedere terreno al giovane uomo in piedi a nemmeno un passo di distanza. Eppure, Arthur Worthington le si rivelava ogni volta sotto un aspetto diverso e, ovviamente, questo non le piaceva affatto.

L’ambizione ha sempre un lato oscuro.

Ma lei non si sarebbe arresa per niente al mondo. Oh, proprio no.

“Sei il benvenuto” gli disse allora Saffie, buttando alle ortiche il formale voi come aveva fatto l’ammiraglio; le sue piccole dita andarono a contatto con la mano grande di lui, allontanandola dai suoi capelli con finta dolcezza. “Perché la tua arroganza è detestabile.”

Il silenzio calò nuovamente fra i due combattenti, che ben sapevano di stare aspettando l’una la mossa dell’altro; la tensione e la rabbia aleggiavano nel piccolo spazio che li divideva come una nebbia palpabile, quasi potesse tagliarsi con un coltello affilato.

Saffie stava per decidersi a parlare di nuovo, forse chiedergli la motivazione per cui aveva accettato la loro unione, quando fu l’uomo a decidere di agire per primo: si chinò su di lei, allungando le braccia ai lati del suo corpo minuto e puntando le dita sul morbido materasso, imprigionandola così tra sé e la voluminosa pila di cuscini adagiata alla spalliera del letto.

Presa in contropiede, e con il cuore improvvisamente schizzato in gola, la ragazza castana non ebbe la forza di mantenere i suoi propositi di guerriera coraggiosa, poiché arretrò leggermente all’indietro e, di impulso, cercò di non guardare il volto di Arthur, ora fin troppo vicino a quello di lei. Abbassò gli occhi scuri sul petto dell’ammiraglio e riuscì a intravedere perfettamente i suoi muscoli tonici tra le pieghe della raffinata camicia bianca.

No, si disse Saffie arrossendo come una ciliegia matura, non era stata affatto una buona ritirata strategica.

Arthur dovette subire ancora una volta lo sguardo di quegli occhi da cerbiatto innocente che, questa volta, si piantarono su di lui con sorpreso timore. Non se ne stupì affatto: d’altronde, non gli era sfuggito lo scatto della piccola strega, quando aveva accennato a metterla all’angolo.

“Non farò nulla che non vorrai” si ritrovò quindi a dirle, usando un tono più serio e calmo di quanto si sentisse nella realtà dei fatti. “Dimmi di andarmene, e uscirò da questa stanza con grande gioia e piacere.”

Saffie continuò a fissarlo con le mani chiuse contro il petto e un cuore che, almeno quello, pareva volersi calmare un poco. “Come se mi fidassi delle sue parole” pensò dubbiosa “Inoltre, potrebbe uscire da qui e usare ovviamente la mancata notte di nozze come scusa per annullare il matrimonio”.

E nei manicomi le donne scomode trascorrono una vita di solitudine, rinchiuse in una minuscola stanza.

“Non temete, madre: compirò i miei doveri di moglie, se è questo che tanto vi preoccupa.”

Non c'era alcuna vita, alcuna fuga, se ora voltava le spalle alla promessa fatta ad Amandine: come avrebbe fatto a vivere anche per lei, se costretta a farlo dietro alle sbarre di una cella infernale?

Non posso farle questo.

Ma, questa notte…

“…non possiamo nemmeno fingere” mormorò a sé stessa e all’ammiraglio Worthington. L’uomo la fissava di rimando con i suoi occhi mortalmente seri e freddi, il viso attraente disteso in un’espressione indecifrabile che poteva voler dire qualsiasi cosa. Eppure, lei lo sentiva, era ancora il loro odio a tirare le fila.

“No, non possiamo fingere” le fece eco Arthur in un sussurro, sporgendosi di nuovo verso la ragazza e sorridendo infine con crudele ironia “Sei perspicace come sempre, vedo”.

Saffie cercò di ignorare con tutte le sue forze il turbamento provocato dalla sua vicinanza e - malgrado si sentisse impotente come un fragile uccellino intrappolato fra gli artigli mortali di un predatore - ebbe l’audacia di scoccargli un’occhiata di sfida coraggiosa, quasi sbuffando seccamente su quelle labbra sottili, ora a pochi centimetri dalle sue.

“Dovremo fare qualcosa per mettere a tacere anche questa tua seccante abitudine” commentò lui per tutta risposta, ghignando di quella che alla ragazza sembrò pura malvagità.

Ecco chi sei.

La signorina Lynwood avrebbe dovuto sapere molto bene di avere davanti un uomo abituato a vivere di battaglie mortali e, nello specifico, Arthur Worthington era il tipo di persona che attaccava sempre per prima. Allo stesso modo, l’ammiraglio annullò senza alcuna esitazione la distanza fra i loro corpi, aderendo a quello esile di lei con il petto ampio e superando al contempo il viso arrossato di Saffie, proprio nel momento in cui quest’ultima credeva che lui stesse per baciarla.

La ragazza sentì quasi immediatamente il suo alito caldo sfiorarle il collo con una strana delicatezza. “Tu sei mia, adesso” le disse Arthur glaciale, in un tono di genuino disprezzo, prima di passare appena la punta della lingua sulla sua pelle e morderla con cattiveria, come se volesse marchiarla.

Imprimere il suo odio su di lei.

Suo malgrado, Saffie non riuscì a trattenere un lieve lamento e, per questo, il rancore nei confronti dell’uomo che la teneva imprigionata sembrò raddoppiare e gonfiarsi come un vento di tempesta; ma odiò anche sé stessa: sentiva di stare letteralmente bruciando, ed era strano, vista i dannati brividi che avevano cominciato a scuotergli il corpo.

È tutta, tutta colpa tua.

Di questo disprezzo, che ci acceca.

La ragazza castana portò allora una mano sulla chioma ribelle dell’ammiraglio, stringendo con forza le ciocche dei suoi capelli scuri. “Io non sarò mai tua” disse solo, impegnandosi di parergli perfettamente controllata.

“Come se io lo volessi davvero” fu il commento acido soffiato sulla sua spalla “Questo è un contratto che entrambi siamo costretti a onorare”.

Arthur portò finalmente il viso davanti a quello di Saffie e la osservò con fredda determinazione: l’espressione della signorina Lynwood era la rappresentazione del rancore e del disgusto, pure se contrastava in maniera incredibile con l’adorabile rossore che l’aveva invasa da capo a piedi.

I suoi occhi, così grandi e innocenti, lo sfidavano ancora senza alcun rispetto.

Non puoi vincere.

Ragazzina, il mio odio è accecante.

“Credevi veramente che ti avrei lasciata tornare a Londra, alla tua vita di sempre, come se niente fosse accaduto?” ironizzò l’ammiraglio, implacabile. Un senso di trionfante soddisfazione si impadronì di lui nell’esatto momento in cui vide lo sguardo della ragazza tradire una certa sorpresa e, forte di questo, non fece nemmeno caso al suo lieve sussulto spaventato, non appena cominciò a far scorrere le dita sotto il tessuto della sua fine sottoveste.

E io solo, avrei dovuto sopportare il peso dell’inferno che hai creato.

Sei stata così stupida da accettare di legarti a me, credendo che io mi sarei tirato indietro. È questo il modo in cui mi hai già fatto vincere.

Risalì lentamente la pelle accaldata delle sue cosce e aggiunse, senza battere ciglio: “Verrai con me fino alla fine del mondo, se io te lo ordinerò. Sprofonderai nell’infelicità.”

“Quindi non si tratta solo di ambizione…questa è vendetta” pensò Saffie Lynwood con rabbia, insensibile al fatto che, in fondo, Worthington non era venuto a conoscenza dei misericordiosi piani di suo padre, in caso di mancato matrimonio. “E non dovrà mai venirli a sapere.”

Mi rinneghesti su due piedi, non è vero?

La tua arrogante superiorità sarà la tua disfatta, povero ammiraglio.

Le piccole dita della ragazza mollarono allora la presa sulla chioma scura di Arthur, scendendo fino al suo avambraccio tonico e fasciato dalla larga manica della camicia bianca, su cui esse si aggrapparono. “In questo caso, saremo in due, ad affogare” soffiò quindi lei sulle labbra sottili dell’uomo, che si piegarono in un sorrisetto più scettico che crudele.

Ma non si trattava solo di ingannare l’ammiraglio Worthington, ovviamente. Saffie cercava ancora una volta di ingannare anche se stessa, rinnegando l’effetto di controversa repulsione e aspettativa provocato dal lento percorso di quelle mani calde sulla sua pelle: non voleva più riconoscerlo come suo, quel piccolo corpo esile, che reagiva contro la sua stessa volontà.

Le dita dell’uomo risalirono fin dentro di lei e cominciarono a torturarla con una lentezza estenuante. Una cascata di nuovi brividi la aggredì di nuovo, e Saffie si sentì per un momento come sperduta in un mare indomabile. Si sforzò con tutta sé stessa di non farsi sfuggire nemmeno una sillaba dalle labbra e strinse con forza le dita contro il tessuto della camicia di Arthur, la cui espressione seria degli occhi verdi non sembrava voler comunicare più nulla.

Non possiamo fingere.

E dovette combattere pure per non tirarsi indietro, per non piangere, visto l’enorme senso di colpa e la grande vergogna che ricaddero improvvisi su di lei perché, in quel momento, senza via di fuga fra le braccia dell’ammiraglio, non provava nessun tipo di paura.

Perdonami, Amandine. Perdonami, perdonami ti prego.

Senza dire una parola, Arthur si mosse verso Saffie con delicatezza, obbligandola sdraiarsi sul candido materasso, i lunghi capelli castani che si allungavano come macchie di colore intorno a lei, facendola apparire più innocente di quanto fosse in realtà. All’uomo sembrò un angelo precipitato in mezzo alla neve, e lì abbandonato; ma nemmeno questo bastò a far cedere il suo animo colmo di freddo risentimento.

Perché tu non sei lei.

Non sei la donna che ho amato.

“Onoriamo i nostri doveri” le mormorò neutro, guardandola per l’ultima volta negli occhi: la ragazza lo osservava dal basso con un incredibile sguardo liquido eppure fermo, che comunicava un misto fra attesa e testarda sfida. Un violento brivido traditore sembrò attraversare Arthur come un fulmine a ciel sereno, ma lui si rifiutò categoricamente di riconoscerlo come tale. “E non saremo più obbligati a occuparci l’uno dell’altra, né a frequentarci seriamente” aggiunse, facendosi strada con il bacino fra le gambe di Saffie, che non oppose alcuna resistenza.

“È un contratto, in fondo” sibilò quindi lei, prestando a malapena attenzione alle mani grandi dell’ammiraglio che, permute sui morbidi cuscini, provvedevano a imprigionarla nuovamente. Con il cuore in tumulto e un odio invincibile nel petto, sperò solo che a Worthington non venisse in mente di provare a baciarla. Questo, non l’avrebbe mai permesso.

“Proprio così.”

Da quel momento in poi, nessuno dei due si guardò più negli occhi. Fedeli entrambi alla repulsione nei confronti di ciò che stava accadendo e, in generale, al rifiuto l’uno dell’altra, decisero di adempiere a quell’atto come se fosse stata una cosa dovuta, di cui non volevano essere consapevoli. Sia la ragazza che l’uomo, nel profondo, sentivano un opprimente senso di colpa nei confronti di Amandine: sapevano che non poteva esserci nulla di più sbagliato, di più sporco, di quel legame forzato. Era come se la stessero uccidendo di nuovo, proprio loro, che più di tutti gli altri l’avevano amata.

E quella loro accecante oscurità si fece ancora più grande.

Saffie passò tutto il tempo a fissare il petto ampio dell’uomo muoversi, senza quasi battere ciglio. Non avrebbe mai ammesso con sé stessa di sentirsi letteralmente in fiamme, quindi figurarsi mostrare qualsiasi segno di debolezza di fronte al terribile diavolo che aveva preso in marito. Inoltre, aveva paura ad alzare lo sguardo, poiché non voleva incontrare i suoi glaciali occhi verde smeraldo, seppure dubitava fortemente che lui la stesse guardando.

Solo una volta la ragazza rischiò di tradire il suo stato d’animo. Era bastato che la camicia slacciata dell’uomo scivolasse lungo una delle sue solide spalle, lasciando così alle iridi scure di Saffie la libertà di osservare una sconvolgente cicatrice dal bianco quasi innaturale palesarsi fra le pieghe del tessuto: era un largo e frastagliato percorso che risaltava sui muscoli tonici del petto di Worthington e, intuì lei raggelata, doveva trovare una sua fine sul fianco destro, nascosto ai suoi occhi.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Senza vera coscienza di sé, Saffie allungò timidamente una piccola mano verso lo sfregio di Arthur e riuscì a sfiorarlo appena con la punta delle dita, prima che la presa fulminea dell’uomo si richiudesse attorno al suo polso sottile come una trappola mortale.

“No” le disse solamente lui, con una nota di malcelata collera nella voce roca.

Gli occhi dei due si incatenarono per un secondo e l’ammiraglio la uccise con uno sguardo di pietra, dalla freddezza impressionante. Allontanò il braccio di lei dal suo petto e lo tenne premuto con forza sul materasso, quasi per timore che la ragazza potesse di nuovo provare a toccarlo.

Allora Saffie non badò più al suo cuore furibondo e, voltando la testa castana sul cuscino, decise di ignorare la cicatrice che faceva bella mostra sul torace dell’uomo. L’avrebbe dimenticata, come avrebbe fatto con il resto di quella terribile notte di nozze.

Infine, dopo un tempo che a entrambi parve interminabile, tutto giunse a conclusione. Senza scambiare nemmeno una parola o un’occhiata, Arthur e Saffie si allontanarono l’uno dall’altra meccanicamente: l’ammiraglio si sedette sul bordo del letto, dando le spalle a una signorina Lynwood che si voltò subito su un fianco, raggomitolandosi su sé stessa come una bambina piccola.

“Tu sei mia, adesso.”

“Almeno non ha provato a baciarmi” pensò scioccamente la ragazza castana, combattendo contro un pianto che in ogni caso lui non avrebbe potuto vedere. Desiderava solo essere lasciata finalmente sola con sé stessa e, al massimo, in compagnia del suo schiacciante senso di colpa: le sembrava quasi di vederla, Amandine, mentre puntava su di lei uno sguardo deluso e terribile.

Sarai contenta ora, Saffie?

No, non è vero.

Saffie non si curò nemmeno di voltare la testa, né di controllare il tono di voce tremante, nel pronunciare ciò che si sentì in dovere di ammettere: “Ti disprezzo più di ogni altra persona al mondo”.

Arthur incassò quelle parole con indifferenza, poiché nemmeno un fremito percorse i suoi occhi verdi, piantati sull’unica finestra presente nella camera, assenti. Si allacciò quindi la camicia bianca fino al colletto, occultando la sua vergognosa cicatrice e rispose, stoico: “Anche io ti odio con tutto il mio animo, ragazzina”.

Sì, questa oscurità è accecante.



Angolo dell’autrice:


Un imperdonabile ritardo di non uno, ma ben due mesi!! (T.T)

Chiedo scusa a coloro che seguono questa storia e si stanno appassionando: so che Away with you non è famosissima, ma comunque è una questione di principio e posso solo addurre come giustificazione i miei impegni lavorativi, che mi tengono occupata pure durante il weekend!

Ringrazio quindi chi ha pazientato in queste settimane e coloro che mi hanno scritto in privato per sapere che fine avesse fatto la storia di Saffie e Arthur! Questa è una vicenda che mi sto divertendo a scrivere e che vorrei proprio portare fino in fondo (a grandi linee ho infatti già tutta la trama in mente), ma sapere che qualcuno oltre a me è curioso di sapere che fine faranno i protagonisti mi riempie di gioia.

Ora, due parole sul capitolo: per farmi perdonare del ritardo, è pure più lungo degli altri, ma spero davvero non sia risultato troppo pesante, in tutti i sensi. Desideravo descrivere in maniera corretta e coerente i sentimenti dei nostri due, il contesto sociale in cui essi sono costretti a muoversi, poiché i temi qui citati non possono essere affrontati alla leggera.

Ok, sono anche una brutta persona, visto che l’ultimo paragrafo mi sono divertita parecchio a scriverlo: adoro che né Arthur né Saffie abbiano paura l’uno dell’altra o, al contrario, si temano in dei modi che non sono mai riusciti a comprendere. A me è chiara come il sole l’istintiva curiosità che ha colpito entrambi fin dall’inizio, e a voi?

Ah, penso se ne vedranno delle belle!

Spero che il mood di questa storia si possa risollevare un poco, andando avanti con i capitoli. Per quel che concerne questo, chiaramente, non mi era in alcun modo possibile spezzare la tensione ma, adesso, si entra nel vivo della storia. E dire che, nella mia testa, il passato di Saffie e Arthur (l’anno e mezzo trascorso fino al loro imbarco sulla nave diretta a Kingstown) doveva risolversi in un capitoletto veloce…e invece no, ben quattro capitoli. Niente, io amo andare per le lunghe!

Vi chiedo ancora perdono per il ritardo: cercherò di essere più celere la prossima volta, pure se il modo in cui scrivo mi impegna tempo e ripensamenti.

Spero taaaaanto tanto che il capitolo vi abbia appassionato! Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate, perché mi farebbe veramente tanto piacere, sapete?

Un abbraccio forte,

Sweet Pink

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Capitolo 6
*** Quinto. La vera lezione. ***


CAPITOLO QUINTO

LA VERA LEZIONE




“Signora Worthington, il regalo di nozze dei Duchi di Lynwood è arrivato.”

Saffie continuò ad osservare il brulicante traffico di persone e carrozze che si muoveva sotto di lei, dall’altra parte del vetro sporco di una minuscola finestrella. Erano le prime ore di una mattinata che si prometteva stranamente tiepida e splendente, ma comunque gli uomini e le donne su cui la ragazza posava lo sguardo non avevano l’espressione di chi si ferma ad osservare il cielo azzurro, ma il volto inciso bensì da premature rughe e pesanti preoccupazioni.

Era la prima volta – e probabilmente anche l’ultima – che visitava Bristol; mai prima di allora si era avvicinata così tanto a un quartiere popolare: nemmeno a Londra la Duchessina di Lynwood era stata sfiorata dal pensiero di avventurarsi nelle strade in mano al proletariato, ma ugualmente si era preoccupata dei diritti di quella povera gente senza aver avuto effettivamente testimonianza diretta del modo in cui solevano vivere.

“…senza alcuna esperienza diretta del mondo.”

Quelle che lui aveva chiamato un mucchio di sciocchezze.

“Tu sei mia adesso.”

Il tocco di una mano grande e forte che si stringeva attorno al suo polso sottile con ferma rabbia, il ricordo di un paio di iridi verde smeraldo, tanto profonde e fredde da essere quasi dolorose da guardare. Sì, Saffie aveva promesso con sé stessa di dimenticare la disastrosa notte passata in compagnia del suo odiato marito, il famoso Ammiraglio Worthington, eppure non c'era istante in cui la consapevolezza di essere irrimediabilmente legata a lui non provocasse nel suo petto un sentimento di profonda oppressione, accompagnato da un altrettanto schiacciante senso di colpa nei confronti di Amandine.

“Signora Worthington?”

No, questo non è il mio nome.

La voce si fece più alta, facendosi spazio fra i suoi pensieri e squarciando così il velo che sembrava dividerla dalla realtà. Dopo essersi concessa un pesante sospiro, la ragazza presa in causa si voltò in direzione di colui che aveva parlato, cercando di parere la fanciulla più pacata e serena del mondo, proprio come le era stato insegnato da ventisette anni a quella parte.

All’altro capo della stanza, il proprietario della locanda presso cui Saffie aveva trovato ospitalità la osservava con grande deferenza, stringendo nervosamente fra le dita delle mani rovinate un informe cappello di lana. L’uomo in effetti trovava incredibile la fortuna che gli era piombata addosso da un momento all’altro: non solo il grande e ricchissimo Arthur Worthington aveva scelto proprio il suo piccolo locale sul porto come alloggio per la giovane moglie, ma quest’ultima era pure una graziosa quanto importante Duchessina!

“Vi ringrazio vivamente per avermi avvertito, signore” asserì cordialmente la ragazza, sfoggiando un luminoso sorriso di gentilezza “Scenderò immediatamente”.

Dopo un profondo inchino, l’uomo si ritirò dalla camera quietamente, considerando quanto bizzarro dovesse essere in effetti il mondo dei nobili: mai avrebbe immaginato fosse loro usanza quel genere di regalo. In ogni caso, pensò poi, non era affatto affar suo il capriccio di qualche Duca; non finché l'ammiraglio garantiva il lauto pagamento dell’affitto.

Dal canto suo, la figlia del nobile in questione aveva già cominciato a scendere i gradini della locanda in silenzio, sperando ardentemente di non trovare ad attenderla in salotto l’ennesimo baule ricco di pregiati vestiti all’ultima moda. Da quando aveva salutato la sua famiglia e si era messa in viaggio per raggiungere Bristol e il suo detestato coniuge, Cordelia aveva fatto in tempo a inviarle ben due ‘regali’ di nozze: abiti e accessori di qualsiasi foggia e colore, tutti fabbricati secondo i diktat della moda francese, strabordavano da valigie portate a fatica dai servi messi a disposizione di Saffie da Alastair Lynwood.

Il fatto che i doni dei genitori la trovassero puntualmente ad ogni tappa del suo itinerario, le fece considerare quanto ancora l’influenza e i mezzi di suo padre fossero senza alcun limite.

“Almeno una di noi sarà libera”

No, alla fine sono solo passata da una prigione all’altra.

Alzò gli occhi scuri con rassegnazione rabbiosa, giusto in tempo per incrociare lo sguardo più triste e spaventato che avesse mai visto in tutta la sua intera esistenza.

“Signora Worthington! Duchessina! È veramente un onore per noi incontrarvi di persona! Il Duca Vostro padre manda i suoi omaggi!” esclamò tutto d’un fiato quella che, ad una prima occhiata, pareva essere un’anziana e rigida istitutrice. Anche se, in effetti, era stata la persona a cui si accompagnava ad aver attirato l’attenzione della ragazza castana.

Saffie fece a malapena caso al tono lascivo e stridulo con cui quella sequela di frasi era stata pronunciata - come nemmeno si accorse di essere stata chiamata nuovamente con il nome del maledetto Ammiraglio - perché davanti a lei si ergeva in piedi una figura paffuta fatta di nervi e brividi, tremante come un bastardino in mezzo ad una bufera di neve.

Una ragazza che non doveva avere più di diciassette anni era impegnata ora a evadere il suo sguardo, posando gli occhi neri e nervosi su qualsiasi angolo di quel piccolo salotto fumoso. Un ciuffo ribelle di capelli corvini faceva capolino da una tenera cuffietta bianca; nuova di zecca come la divisa ricca di merletti che qualcuno doveva averla costretta ad indossare proprio in occasione di quella presentazione.

A Saffie si strinse immediatamente il cuore, nel vedere l’espressione sperduta che si palesava sul suo volto tondo e pallido, così bello quanto stanco.

È infine questo il vostro ultimo regalo, padre.

“Buongiorno” salutò quindi con dolcezza la Duchessina di Lynwood, come a voler far comprendere che non c'era alcun bisogno di aver paura di lei.

Uno sguardo timido scattò sul viso di Saffie, salvo poi tornare ad abbattersi subito al suolo; mentre, senza fosse in alcun modo richiesto o necessario, l’arcigna donna che aveva parlato poco prima decise di intervenire di nuovo, spingendo in avanti la ragazzina al suo fianco con fin troppa forza. “Saluta come si deve, disgrazia!” sbraitò, cambiando completamente tono di voce rispetto a come si era rivolta nei confronti della signora Worthington. “È questo il modo in cui ti presenti a chi d’ora in poi sarà la tua nuova padrona?!”

Dopo uno squittio sorpreso e un secondo di silenzio teso – in cui Saffie ne approfittò per lanciare un’occhiataccia all’anziana signora – la ragazza cominciò a parlare. “Bu-buongiorno, io mi-mi chiamo Keeran By-Byrne” balbettò, la voce esile che quasi usciva a fatica “Per-per me è un grande onore es-essere la vostra domestica pe-pe-personale”.

Keeran si inchinò poi meccanicamente, rossa in viso e provata come se fosse appena uscita da una vera e propria battaglia mortale: era d’altronde evidente come il suo problema di linguaggio fosse per lei fonte di grande vergogna e totale disistima.

Intenerita da tanto impegno, Saffie si prodigò in un bel sorriso incoraggiante e avrebbe anche detto la sua se, ancora una volta, la fastidiosa accompagnatrice di Keeran non avesse fatto sentire la voce stridula e saccente.

“Quante volte ti ho detto di non balbettare come una stupida!” sibilò, inacidita “Ringrazia di essere un’illegittima, sennò ti avrei già sbattuto per la strada come me…”

“Credo sia venuto il momento per voi di andarvene.”

La voce gelida di Saffie Worthington aveva interrotto a metà il monologo crudele della tutrice di Keeran Byrne che, insieme alla ragazzina in questione, si voltò nella sua direzione di botto, presa in contropiede dal tono usato dalla ragazza castana. Quest’ultima la fissava infatti con le mani appoggiate saldamente sui fianchi, lo sguardo scuro ora limpido di un sentimento molto simile al disgusto: pareva essersi trasformata all’improvviso, quella giovane nobile dall’aria mite, come se ora parlasse qualche terribile forza al suo posto.

Dopo qualche momento di giusto e sbalordito silenzio, in cui l’anziana serva sbatté le palpebre due o tre volte con aria sconvolta, la voce di Saffie si fece sentire di nuovo: “È tutto, direi. Portate a mio padre i miei più sentiti ringraziamenti, signora” asserì la ragazza con una vena di neanche troppo sottile ironia.

“Non posso che porgervi le mie più sentite scuse, mia signora” cercò di giustificarsi l’altra donna, inchinandosi leggermente. Saffie la vide allungare la sua mano rugosa verso la spalla di Keeran e aggiungere, con rancore: “Riporterò questa ragazzina indietro e, vedrete, ne troverò una più adatta al vostro eccellente rango.”

Due occhi neri si sollevarono su Saffie, terrorizzati e supplichevoli come quelli di un animale in punto di morte.

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà, di quello che è stata Amandine.”

“Forse non ci siamo comprese chiaramente, signora mia” disse allora Saffie con una rabbia che, davvero, avrebbe ridotto alle lacrime più di un bambino. “Sto chiedendo a voi di uscire da qui, non alla signorina Byrne. La ragazza rimane con me, ovviamente.”

“Ma, signora…!”

“Devo ripetermi?” la interruppe l’altra, sfoderando un sorrisetto un poco inquietante “O devo forse informare il Duca di questa vostra insolente insistenza?”.

Uno strano gorgoglio sembrò uscire dalla gola dell’accusata che, se non altro, ebbe la decenza e il buon senso di togliersi dall’impiccio in cinque minuti scarsi: un veloce inchino di ringraziamento, nemmeno un’occhiata alla giovane che aveva allevato per più di dieci anni ed era già uscita dall’edificio a gambe in spalla.

Una volta rimaste sole, Saffie si voltò verso la sua nuova domestica personale e Keeran ebbe la sorpresa di vederle in viso un’espressione di incredibile gentilezza spuntata da chissà dove in un attimo.

“Il tuo nome è molto particolare, vero?” commentò la Duchessina come se niente fosse accaduto, puntandosi pensosamente il piccolo indice sotto il mento “Ci pensavo già da prima: non è inglese, giusto?”

“N-no” rispose la signorina Byrne, cauta. “Io so-sono irlandese, pa-padrona.”

Mi hanno sempre detto che fra essere stupida, illegittima e irlandese, quest’ultima è la peggiore delle tre.

Ora che l’ha scoperto, vorrà punirmi?

“Keeran.”

La voce lievemente severa di Saffie attirò la sua impaurita attenzione: la ragazza castana la guardava con gli occhi più dolci che avesse mai visto, così come un sorriso non le era parso più bello e rassicurante di quello sfoggiato ora dalla signora Worthington.

“Chiamami Saffie, te ne prego.”



§



20 Marzo 1730 – Nel presente

Un cielo limpido e azzurro, svuotato di qualsiasi nuvola, si apriva sereno sopra una piatta superficie scura e immensa, a malapena increspata da qualche rara onda.

Si trattava in effetti di un oceano che, da sempre, custodiva in silenzio misteri, sogni e speranze; il suo essere così enigmatico agli occhi di chi si soffermava ad osservarlo era reso ancora più palese dal contrasto con la luminosa cupola che lo sovrastava: il mare era un mondo oscuro e affascinante, che attirava l’uomo tanto quanto faceva la vastità di un cielo dove quasi si aveva l’impressione di poterci cascare dentro, se lo si fissava troppo a lungo con lo sguardo.

Sulla linea dell’orizzonte si incontravano questi due elementi all’apparenza fin troppo diversi; un luogo che si poteva innegabilmente vedere, ma in realtà inesistente.

Perché aria e mare mai si incontrano davvero.

La piccola mano appoggiata all’albero di prua e gli occhi chiusi su un viso dall’espressione finalmente rilassata, Saffie Worthington sembrava impegnata a godersi la brezza salmastra che arrivava pungente fino alle sue narici: un odore forte a cui ancora non era abituata del tutto, ma che comunque respirava a pieni polmoni. Le sue orecchie non udivano nulla al di là del vento che scuoteva le vele con dolcezza, o dello sciabordio dell’acqua contro lo scafo della nave; il rumore provocato dai marinai al lavoro alle sue spalle – come le loro voci – le risultava lontano e ovattato, come se stesse sognando.

Uno strano senso di pace sembrava propagarsi dal suo petto e volersi diffondere lentamente in tutto il corpo, donandole un momento di tranquillità che sentiva di non provare da ormai parecchi mesi.

La ragazza aprì pigramente gli occhi castani, stupendosi per l’ennesima volta dell’immensità che si andava ad aprire di fronte a lei, piccola formichina sperduta in un mastodontico universo. Le sue labbra rosee si incurvarono appena, trasformandosi in un sorriso leggermente divertito: non lo voleva ammettere nemmeno con sé stessa, ma non le dispiaceva affatto stare su quella nave, a contatto con il cielo e il mare. Anzi, poteva quasi dire di trovarlo davvero meraviglioso.

Ma tu non hai nessun diritto di pensare una cosa del genere, no?

“Io e Arthur ci sposeremo, Saffie! Sono talmente felice da sentirmi morire!”

Un piccolo sussulto la scosse all’improvviso e lei si strinse nelle spalle di scatto, preventivamente pronta a ricevere la visita del suo ormai inseparabile senso di colpa. Avrebbe potuto benissimo dargli un nome proprio, si trovò a considerare Saffie con triste ironia, visto che la inseguiva in ogni momento della sua giornata come un cagnolino fedele.

“Non devi pensarci, ma vivere per Amandine” si disse allora la ragazza castana, ripetendo probabilmente per la milionesima volta quello che era diventato il suo mantra personale, la frase magica inventata per scacciare la sua terribile sofferenza. Per allontanare l’ombra di qualsiasi colpa.

Voltò quindi il busto verso la poppa della nave, cercando di respirare profondamente. Il suo sguardo disperato scandagliò il ponte con attenzione, alla ricerca della rassicurante quanto morbida figura di Keeran Byrne, sua compagna di ventura e ora più fida alleata.

La giovane e timida domestica di Saffie aveva pure il compito di vera e propria dama di compagnia, quindi era suo dovere stare accanto alla moglie del freddo ammiraglio Worthington per la maggior parte della giornata, a meno che quest’ultima non ordinasse il contrario. E siccome per la ragazza castana ogni istante passato in solitudine equivaleva pensare alla morte di Amandine, le cure dell’irlandese erano non solo accettate di buon cuore, ma quasi necessarie.

“L-le na-navi mi fa-fanno paura, in-in realtà.”

Un sospirò comprensivo sfuggì alla Duchessina di Lynwood, mentre continuava a setacciare con gli occhi un ponte sopracoperta brulicante di tutto e di tutti, eccezion fatta per la signorina Keeran Byrne. “Povera creatura. Non so se riuscirò mai a convincerla ad una passeggiata insieme fino al fondo dell’Atlantic, visto il suo timore per questa nave” pensò Saffie rassegnata, rispondendo con un sorriso al saluto deferente di due marinai che si trovarono a passarle di fianco. “Mi piacerebbe molto aiutarla a frantumare il terribile guscio che la tiene prigioniera, ma non mi va affatto di costringerla.”

In fondo, la sua timidissima domestica personale le ricordava proprio un pulcino appena nato, che non sapeva bene come comportarsi nel mondo.

Quando la signora Worthington non era impegnata a leggere sul castello dell’Atlantic Stinger – la prua del vascello era infatti diventata il suo rifugio personale – lei e l’irlandese trascorrevano tutto il loro tempo nella lussuosa cabina che le era stata assegnata.

Ovviamente, l’ammiraglio alloggiava altrove: il capitano Inrving gli aveva infatti ceduto volentieri la sua altrettanto ricca stanza, sacrificandosi per la causa e decidendo così di dormire nelle cabine degli Ufficiali. A nessuno era parso strano che Arthur avesse fatto esplicita richiesta di esser sistemato lontano dalla moglie: le loro stanze erano comunque situate ai capi opposti dello stesso corridoio, a poppa della nave, eppure nessun membro dell’equipaggio ebbe di che domandare riguardo a quella decisione a dir poco bizzarra. E, se anche qualcuno avesse voluto saperne qualcosa di più, il solo pensiero di affrontare l’ira dell’ammiraglio bastava per mettere a tacere qualsiasi anima coraggiosa.

La cabina dedicata a Saffie era grande e comoda, corredata di un letto a baldacchino e di qualche mobile dalla fattura pregiata, mentre un’ampia vetrata dava modo di esplorare con lo sguardo ciò che la nave si lasciava alle spalle durante la sua traversata. Ormai accadeva sempre più spesso che Keeran e la sua padrona decidessero di sedersi sopra l’esotico tappeto posto davanti alla finestra e, con gli occhi persi sull’orizzonte lontano, gustassero una tazza di tè in santa pace.

Un altro sorrisetto scappò dalle labbra della ragazza castana, poiché ricordava perfettamente la faccia sconvolta e pallida dell’irlandese, quando per la prima volta l’aveva invitata a sedersi insieme a lei, dandole un ordine rivoluzionario.

“Ma-ma pa-padroncina! I-io non ho il di-diritto di stare a-accanto a voi!”

“Certo che ce l’hai: sei mia amica ora, Keeran.”

Il sorriso gioioso di Saffie si spense lentamente, su un viso dall’espressione nuovamente malinconica.

Già. Sei la mia unica amica, ormai.

Perché in quel quadro di viaggio tutto sommato felice, era l’intera cornice a crollare in pezzi.

Il motivo per cui si trovava lì era una cicatrice incancellabile nel suo animo cosciente, in fondo, del fatto che non avrebbe mai più messo piede in Inghilterra, o visto nessuna delle sue conoscenze. Di aver detto addio a Cordelia e Alastair.

L’uomo su cui riversava il disprezzo e la colpa della morte di sua sorella l’aveva infine trascinata in un inferno più profondo di quanto avrebbe potuto aspettarsi poiché, accettando di sposarla, aveva deliberatamente condannato entrambi all’eterna infelicità.

“…che ti avrei lasciata tornare a Londra, alla tua vita di sempre, come se niente fosse accaduto?”

Un’oscurità che non lasciava intravedere alcuna via di salvezza.

No, non era questo il modo in cui volevo essere libera.

Saffie serrò le mani in grembo con forza, visto che avevano cominciato a tremare leggermente, dalla tensione. Cercando di parere la fanciulla più serafica di tutta la nave – ed erano solo in due – la ragazza castana cominciò a percorrere lentamente la lunghezza del ponte sopracoperta, cieca di fronte alle occhiate segrete e maliziose dell’equipaggio. L’alto ponte di comando si faceva sempre più vicino e lei si trovò a considerare come - a parte l’incidente avvenuto con il nostromo Shaoul Brown più di due settimane prima – non ci fosse stata altra occasione di incontrare il suo tanto odiato marito.

“E non saremo più obbligati a occuparci l’uno dell’altra, né a frequentarci seriamente”

Arthur Worthington era rimasto fedele alla parola data, decidendo di rimanerle alla larga, e Saffie stessa era più che sollevata di questo fatto: nelle settimane trascorse, la ragazza non l’aveva visto che poche volte e, a dire la verità, si era trattato più che altro di incrociare il suo sguardo smeraldino da lontano.

Nulla nelle iridi incredibili dell’uomo sembrava essere mutato, come d’altronde niente era scomparso nemmeno dagli occhi di lei: la rabbia si era solamente trasformata in freddo distacco, gelida accettazione. Ma, pensava Saffie, il loro odio avrebbe di sicuro preso il sopravvento, se avessero provato a parlarsi di nuovo. Non che lo volesse, chiaro.

Le andava infatti benissimo continuare a vederlo sì e no due volte al giorno, per una manciata di secondi, mentre dal ponte di comando dominava con uno sguardo di puro acciaio i cinquecento uomini sotto di lui, incurante dei capelli scuri mossi con leggerezza dalla brezza marina.

E sarebbe andata alla perfezione una volta giunti a Kingston dove, a quanto aveva scoperto, un antico forte aspettava solo l’arrivo del famoso Ammiraglio Worthington, pronto a prendere il comando di una delle cittadine più ricche dei Caraibi Inglesi: se il detestato manichino avesse deciso di vivere nell’enorme caserma che ospitava l'esercito e il suo ufficio personale, la ragazza e Keeran avrebbero avuto la casa padronale tutta per loro.

Ciò stava a significare vederlo praticamente sparire dalla sua vita, se non per doverlo incontrare due o tre volte l’anno, a causa delle incombenze sociali a cui era richiesto partecipassero come marito e moglie.

“Chissà…potrebbe persino trovarsi una ricca amante in città e chiedermi in questo modo il divorzio” pensò Saffie, finalmente giunta di fronte al cassero della nave, dove due impettite guardie armate di moschetto e divisa rosso fuoco sorvegliavano le scalinate che conducevano al ponte di comando.

Non che i vostri sentimenti nei confronti di Amandine fossero così intensi, no?

“Saffie, perché non è arrivato?”

“Si-signora Saffie!”

Grazie al cielo, fu la voce fievole di Keeran a trarla in salvo da quel ricordo doloroso e traditore. Alla ragazza castana venne da considerare che, davvero, la presenza della giovane serva nelle sue giornate era una vera ancora di salvezza: non poté infatti trattenersi dal sorridere nuovamente, con una strana tenerezza nel cuore, nel vedere quella morbida figura avvicinarsi a lei tutta agitata.

Keeran le stava infatti venendo incontro con il solito incedere cauto e intimidito – da cane randagio – ma l’espressione di malcelata eccitazione stampata sul suo viso paffuto e arrossato tutto diceva di ciò che stava per accadere. Era arrivata quell’ora del giorno.

“Ho-ho portato i-i fogli!” esclamò ancora l’irlandese, alzando nella direzione di Saffie un plico stropicciato di carta con genuino entusiasmo. “E ho an-anche l’inchiostro!”

Soffocando un risolino divertito fra le piccole dita della mano, la ragazza presa in causa cercò di darsi un finto contegno da rigida istitutrice, lo stesso da lei tenuto nei confronti dei suoi ricchi ex-alunni. Si schiarì quindi la voce con forza e commentò, annuendo soddisfatta: “Molto bene, mia cara. Direi che possiamo dare inizio alla lezione di oggi.”

E, con orrore della domestica, iniziò ad avviarsi a poca distanza dal parapetto della nave, appoggiando il materiale per scrivere sopra quello che era a tutti gli effetti un barile sigillato, di cui nessuno pareva servirsi da parecchio tempo. “Ma-ma non do-dovremmo a-a-andare de-dentro, si-signora?” osò infine chiedere Keeran, balbettando più del solito, segno di uno stato d’animo improvvisamente poco sereno: non le piaceva affatto stare sul ponte dell’Atlantic Stinger, con così tanta gente che poteva guardarla.

“Sei come una grossa oca che vaga senza padrone: né bella, né intelligente.”

Una mano si protese nella sua direzione con delicatezza, nel medesimo istante in cui il suo stesso corpo si irrigidiva di colpo, terrorizzato. Keeran alzò gli occhi neri, sgranati, e mise a fuoco il sorriso sereno di Saffie.

“Andrà tutto bene” le disse la ragazza castana, in tono tranquillizzante. “Puoi riuscire in tutto ciò che vuoi e, fra le altre cose, ci sono io qui con te.”

Posso farcela per davvero?

“La tua stessa nascita è una disgrazia. A cosa dovrebbe mai servirti imparare a leggere?”

Saffie ebbe la soddisfazione di vedere il viso dell’irlandese illuminarsi di gratitudine e gioia, mentre prendeva coraggio e si accostava a lei, davanti al barile su cui avrebbero dovuto studiare. “È una ragazza veramente deliziosa” considerò la Duchessina di Lynwood infine, lanciando un’occhiata alla stupenda chioma corvina di colei che aveva al fianco. “Che vergogna. Come hanno potuto ridurla in questo stato di eterna paura?”

D’altronde, sull’Atlantic Stinger erano sì in molti a guardare la diciassettenne Keeran Byrne, ma la stessa ragazza non si poteva rendere conto che erano ben altre, le ragioni di quegli sguardi.

“Ri-ricominciamo da qui?” domandò quest’ultima, ora ignara dell’agitazione che si stava animando alle spalle sue e di Saffie Worthington. “A-avevo appena fi-finito di scri-scrivere Il cielo oggi è azzurro, mentre il mare è blu.”

La ragazza a cui quella domanda era stata posta decise di non rispondere subito. Saffie si guardò intorno e sul suo volto si aprì un mezzo ghigno, nel notare come i marinai al lavoro intorno a loro paressero improvvisamente impegnati nell’attività di osservare a bocca aperta la sua domestica personale intenta a scribacchiare con solerte attenzione, la mano stretta attorno al pennino piumato di cui la Duchessina le aveva fatto generosamente dono. Di certo, non doveva essere una scena a cui assistevano tutti i giorni.

Saffie sollevò poi gli occhi castani sul ponte di comando sgombro, per fortuna, di qualsiasi sagoma potesse anche solo lontanamente assomigliare ad Arthur Worthington. Con tutta probabilità, l’uomo doveva essersi rinchiuso nell’ufficio del capitano Inrving, luogo in cui passava il tempo quando non era impegnato a terrorizzare la povera gente sopracoperta.

Lui potrebbe rappresentare un problema, se venisse a sapere di questa lezione all'aperto.

“Chissà in quali delle tue inutili sciocchezze dovevi essere impegnata, non è vero?”

Eppure, la sola idea di mettere l’odiato marito in difficoltà, riempiva la ragazza di crudele aspettativa. Sperava lui la lasciasse in pace ma, di certo, non si sarebbe ritirata di fronte ad alcuna battaglia.



§



Stranamente, Keeran Byrne non era l’unica persona a prendere lezioni dalla graziosa consorte dell’implacabile ammiraglio Worthington. Dopo un prudente corteggiamento durato almeno due settimane, costituito di vaghi sguardi e apparentemente casuali camminate nelle vicinanze dei luoghi in cui Saffie soleva leggere, un altro essere umano aveva espresso la volontà di imparare a scrivere almeno il proprio nome.

Malgrado l’iniziale timore nei confronti della giovane donna, il mozzo difeso dalla ragazza all’inizio della loro traversata si era infatti avvicinato a lei e, arrossendo a vista d’occhio, le aveva chiesto se poteva insegnargli come si facevano le lettere dell’alfabeto.

Con una improvvisa allegria nel cuore e un sorriso a trentadue denti, l'interpellata si era detta più che disposta ad aiutarlo nell’ardua impresa.

Anche quel giorno, quindi, il diciottenne Douglas Jackson si era fatto vedere sul ponte di poppa dove Keeran e la sua padroncina stavano per l’appunto studiando: il ragazzo salutò le due donne con un cortese quanto intimidito cenno della testa bionda e, indugiando con gli occhi azzurri un secondo di più sull’irlandese, disse di avere dieci minuti di pausa.

“Unitevi pure a noi, allora” lo invitò Saffie, sorridendogli con gentilezza “Immagino non abbiate avuto molto tempo per esercitarvi, signor Jackson”.

Douglas si appoggiò al parapetto con i gomiti, l’aria effettivamente esausta. La signora Worthington non poté fare a meno di notare quanto la sua figura alta risultasse magra e deperita, come se il povero mozzo non mangiasse, né riposasse da fin troppi giorni.

“Sto cercando di scrivere nei momenti morti, o durante le ore notturne” spiegò infine il ragazzo, addentando con aria noncurante una mela comparsa magicamente dalle tasche dei suoi larghi calzoni. “Ma desidero a qualsiasi costo imparare a firmare con il mio nome completo, e non essere più obbligato a mettere una croce tutta storta sui documenti”.

“È un nobile intento, il vostro.”

Douglas annuì, grato delle parole piene di rispetto della signora Worthington che, parola sua, era la più strana creatura avesse mai visto: si chiese se tutte le giovani di sangue nobile fossero di buon cuore come lei, pure se già sapeva di trovarsi di fronte alla classica eccezione che confermava la regola. Senza rimuginarci troppo sopra, il ragazzo tirò fuori dal nulla altre due mele verdi e succose; dopo averle strofinate alla meno peggio contro la sua camicia stropicciata, le porse verso Saffie e Keeran con una smorfia d’imbarazzo. “Volete favorire, signorine? Sappiate, sono veramente squisite.”

Dopo aver preso la sua mela, la Duchessina di Lynwood si divertì moltissimo a spostare lo sguardo dal rossore violento comparso all’improvviso sulle guance del signor Jackson, alla figura improvvisamente ansiosa della sua domestica personale, giratasi di scatto nella sua direzione come se quell’offerta fosse stata questione di vita o di morte. “Prendila pure, se vuoi” acconsentì Saffie di buon grado, ammiccando verso l'imbarazzato ragazzo biondo, che ancora attendeva con la mano alzata.

Arrossendo come un peperone lasciato al sole, Keeran si decise infine ad allungare il braccio verso il signor Jackson e a mormorare un timido ringraziamento a testa bassa, ma senza alcun balbettamento.

A quanto pareva, si trovò a considerare la ragazza castana con uno strano sorrisetto, i due non riuscivano a guardarsi per più di due secondi consecutivi senza rischiare di diventare dello stesso colore di un’aragosta arrostita. “Quindi sono io ad essere diventata il terzo incomodo, ora?” si prese in giro Saffie, distogliendo lo sguardo dalla scena e puntandolo sui fogli dalla grafia orribile abbandonati sopra il barile.

Come uno squarcio inaspettato della realtà, le figure abbracciate di Amandine e Arthur Worthington galleggiarono crudeli davanti ai suoi occhi. D’altronde, ricordava perfettamente la prima volta in cui aveva sorpreso l’ammiraglio e sua sorella nel grande parco della tenuta di famiglia, senza che loro se ne rendessero nemmeno conto.

L’istante in cui hai pensato che si amassero per davvero.

Un disagio sgradevole si fece sentire dentro di lei, e la ragazza cercò in tutti i modi di reprimerlo.

L’ultimo momento in cui hai sofferto per le attenzioni dell’uomo che ora detesti a morte.

Senza accorgersene, Saffie portò la sua piccola mano a contatto con il tessuto della sua semplice veste da giorno, sopra un cuore traditore che aveva cominciato a battere furiosamente.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

Esiste solo l’uomo che ha ucciso tua sorella.

“Bene, bene!” fece una voce roboante e selvaggia, comparsa da chissà dove. “Guarda un po’ chi ha deciso di meritarsi una punizione.”

Tre teste si votarono contemporaneamente verso colui che aveva parlato: la figura tozza e paonazza di Shaoul Brown si ergeva in tutta la sua bassezza davanti a loro, le mani grasse e rovinate chiuse a pugno sui larghi fianchi, gli occhietti liquidi pieni di infida soddisfazione che non si staccavano da un Douglas Jackson ora in preda a violenti brividi di terrore.

“Signore! Non ho fatto nulla di male!” scattò sull’attenti quest’ultimo, cercando di non far caso ai corpulenti uomini con cui il nostromo s’accompagnava, ritti in piedi alle sue spalle. “Sto solo godendo dei miei dieci minuti di riposo!”

“Quelle mele…dove le hai prese?” continuò imperterrito il signor Brown, come se Douglas non avesse parlato per davvero “Mozzo, sai bene che uno della tua risma non è autorizzato a prenderle.”

“È stato il cuoco a donarmele” rispose subito il giovane ragazzo, punto sul vivo. Si portò coraggiosamente davanti al naso di Shaoul, nascondendogli così alla vista Keeran e la mela che quest’ultima stringeva fra le dita tremanti “D’altronde, voi sapete bene di non potervi permettere un sottoposto della mia risma ridotto alla fame”.

Il silenzio che cadde fra i presenti si fece di secondo in secondo più pesante, al passo con il rossore furioso apparso sul viso di un certo nostromo, pronto a scoppiare da un momento all’altro: il fatto che la nullità di fronte a lui si fosse permessa di ribattere a tono – alla presenza della signora Worthington, fra l’altro – lo riempì di un’enorme e terribile vergogna.

Dal canto loro, Saffie e Keeran osservavano la scena pietrificate e mute, sperando ardentemente tutto potesse risolversi al meglio e senza l’intervento di qualche Ufficiale di guardia (o che venisse di conseguenza attirata l’attenzione dell’Ammiraglio, per quanto concerneva la Duchessina di Lynwood). Fu il sibilò irato del signor Brown a scuoterle di botto, colpendole come una doccia d’acqua ghiacciata.

“Bugiardo.”

Shaoul fece cenno ai due marinai dietro di lui e, in un battito di ciglia, la figura scarna di Douglas già veniva trascinata via, spinta di peso in direzione dell’albero maestro, suscitando così l’attenzione degli altri uomini al lavoro. “Dovrei farti mettere ai ferri, per la tua insolenza” asserì il nostromo, tornando al suo tono di gretta superiorità. “Ma penso che, per questa volta, cinque frustate saranno sufficienti a ricordarti il tuo posto.”

Come risvegliata da un incantesimo, Saffie sgranò tanto d’occhi alle parole dell’uomo e, in due passi risoluti, lo raggiunse in tempo per poter protestare davanti a quella che non le pareva altro se non una cattiveria gratuita. “Signor Brown!” lo chiamò, il tono vibrante di spaventato allarme “Non è necessario tutto questo! Lasciategli almeno la possibilità di spiegarsi!”

“Non c’è nulla che debba essere chiarito, signora Worthington. Questa gente comprende un unico linguaggio.”

Attorno a loro si era ormai formato un capannello di persone in trepidante attesa, mentre la ragazza aveva fatto a malapena caso ad una pallidissima Keeran che le si metteva al fianco, pronta a sostenerla: questo perché, nella folla, i suoi occhi colsero immediatamente la presenza di almeno tre eleganti sottotenenti intenzionati a non intervenire in alcuna maniera.

Tutto questo è disumano.

La fronte premuta contro il legno dell’albero maestro e gli occhi azzurri ben chiusi fra le palpebre, Douglas Jackson si lasciò passivamente legare e, con silenziosa rassegnazione, non fiatò nemmeno quando gli strapparono di dosso la vecchia camicia con un unico violento gesto, esponendo una schiena sudata e già percorsa da una fitta rete di cicatrici.

“Dio mio” sussurrò Keeran con le lacrime agli occhi, portando le mani a coprirsi la bocca tremante.

Con un sentimento simile nel cuore, Saffie si volse di nuovo verso il nostromo ed esclamò, implorante: “Abbiate pietà, ve ne prego! È solo un ragazzo!”

Shaoul Brown non si degnò neanche di voltarsi nella sua direzione, poiché il suo crudele interesse era tutto per l’inerme giovane a qualche metro da lui: il mozzo avrebbe imparato a chinare la testa al suo passaggio, come gli era dovuto. Ogni membro dell’equipaggio, quel giorno, avrebbe imparato una vera lezione.

“Un ragazzo avvezzo al vocabolario della sferza, vedo” commentò infine ad alta voce, facendosi così sentire dai presenti “È ora che ascolti un altro po’delle sue parole”.

Con una fitta di panico nello stomaco, la Duchessina di Lynwood lo vide stringere fra le mani un terribile oggetto che poteva benissimo essere uscito da un romanzo; uno strumento di tortura che lei mai aveva visto realmente. Provò a fare un altro passo disperato verso il nostromo, ma venne inchiodata sul posto da una presa ferma, seppur gentile: voltandosi, ebbe modo di specchiarsi negli occhi grigi del tenente incontrato a prua dell’Atlantic Stinger più di due settimane prima.

“Mi dispiace trattenervi con queste maniere, signora Worthington; ma nessuno può mettere in discussione le leggi dell’Impero” asserì l'ultimo arrivato, facendole un cenno riverente con la testa imparruccata.

“È una crudeltà bella e buona, non una legge!” si lasciò sfuggire la ragazza in risposta, girando poi la testa castana verso l’alto albero maestro, senza lasciare all’altro alcuna possibilità di controbattere. La ragazza sentiva di avere il cuore in fiamme, tanto picchiava contro la cassa toracica da fare male; ma, si disse, cosa poteva effettivamente fare?

Così, in un lasso di tempo infinito e al contempo breve, le cinque frustate giunsero al termine nel silenzio più assoluto, lasciando un povero Douglas quasi esanime, grondante di lacrime e sangue. Sul suo viso faceva la sua comparsa un pallore mortale eppure, con grande valore, il ragazzo non si era mai lasciato sfuggire un lamento dalle labbra livide.

Attorno a lui, la folla di marinai si comportava come se quell’avvenimento fosse cosa da tutti i giorni mentre Saffie, con gambe tremolanti, sosteneva per un braccio una Keeran Byrne sull’orlo dello svenimento. Durante la punizione, le due non erano state capaci di staccare lo sguardo dai tagli sanguinanti che si aprivano frustata dopo frustata sulla schiena dell’ansimante signor Jackson.

Lieta almeno che tutto fosse concluso, la ragazza castana lanciò un’occhiata fugace a Shaoul Brown e sbiancò in viso, poiché lo vide fare il gesto di alzare nuovamente la sferza, un sorriso malvagio che s’apriva su un’espressione da fanatico impazzito.

Non ha intenzione di fermarsi.

Il cuore di Saffie smise di battere in meno di un secondo mentre, senza nemmeno darsene conto, le sue gambe già si muovevano da sole, verso il centro della scena.

Tutto questo è disumano.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

In quel frangente, era lei – nel suo ruolo di giovane donna nobile e moglie di Worthington – l’unica a poter fermare la mano del folle nostromo. No, forse non si era trattato nemmeno di questo. Forse, si era mossa solo perché voleva salvarlo.

Fu un attimo: Saffie corse fra Douglas e il signor Brown, mettendosi davanti a quest'ultimo con le braccia aperte, puntando i suoi occhi scuri e spaventati sul tozzo uomo pronto a tirare l’ennesima sferzata, la mano che stringeva la frusta già a mezz’aria.

Se fossi almeno la metà di quello che è tua sorella, io e tua madre potremmo morire felici.”

Non impari mai qual è il tuo posto.

Non poteva in alcun modo evitare di essere colpita, ormai. Reagendo d’istinto, il piccolo corpo di Saffie si rannicchiò su sé stesso, in cerca di protezione, mentre la ragazza strizzava gli occhi con forza per non guardare, eppure pronta a sentire il dolore arrivare da un momento all’altro.

Le sue orecchie udirono solamente l’urlo terrorizzato di Keeran e lo schiocco violento della frusta. Poi più nulla, solo silenzio.

Non mi ha colpito?

“Ammiraglio!”

Al suono di quell’unica parola, Saffie riaprì gli occhi di scatto e, voltandosi nella direzione in cui avrebbe fino a qualche secondo prima trovato il nostromo, non riuscì a vedere altro se non il colore blu.

“Anche io ti odio con tutto il mio animo, ragazzina”.

Arthur Worthington era in piedi davanti a lei, girato di spalle, il lungo cappotto elegante che ancora si muoveva a causa del suo intervento tempestivo, atto a schermarla dalla terribile sferza di Shaoul Brown.

Con il cuore per la seconda volta in tumulto e un groviglio intricato di emozioni contrastanti bloccato nello stomaco, la ragazza castana spostò gli occhi sbalorditi sul braccio alzato del marito perché, davvero bizzarro, qualcosa stava gocciolando sul pavimento della nave.

La manica dell'importante divisa dell’ammiraglio era infatti strappata in due, zuppa di un sangue che ne alterava la tonalità blu scuro: come se si fosse trattato di una cosa da nulla, Arthur aveva bloccato il colpo indirizzato alla Duchessina di Lynwood.

Questa dolorosa consapevolezza cadde addosso alla ragazza, pesante e fulminea.

Perché?

“Esigo delle spiegazioni” sillabò Worthington, di cui lei non poteva vedere l’espressione del volto, pure se le bastava e avanzava il suo tono di voce omicida per intuire quanto fosse a dir poco furioso. “E le esigo adesso.”

“Vo-vostra moglie si è messa in mezzo, Ammiraglio!” squittì subito il nostromo Brown, trasformatosi all’improvviso in un topino riverente e impaurito “Stavo solamente punendo secondo la legge questo piccolo sconsiderato!”

“È la verità?” chiese Arthur, glaciale. Sembrava parlasse rivolto al vuoto, ma Saffie ben sapeva che si stava rivolgendo a lei e ne ebbe la conferma quando udì le successive parole dell’uomo: “Vi siete messa in mezzo?”

“Dovremo mettere a tacere anche questa tua seccante abitudine.”

L’ammiraglio Worthington abbassò il braccio ferito lungo il fianco, senza dare alcun cenno di volersi voltare nella direzione della ragazza. Così, Saffie si ritrovò a fissare le onde ribelli della sua chioma scura e a dire, dopo aver preso coraggio: “Se…se l’ho fatto, è stato solo a causa del signor Brown, che stava andando oltre! Voleva infierire su questo povero ragazzo!”

Abbassò poi lo sguardo castano sulla mano destra di Arthur e il suo cuore si fece di piombo, nel vedere il sangue scuro dell’uomo colare lentamente dalle sue dita.

Perché l’hai fatto, se mi odi quanto ti odio io?

Qualcuno nella folla parlò, forse un giovane ufficiale, ma la Duchessina di Lynwood lo udì a malapena, tanto si sentiva turbata da un opprimente sentimento per lei difficile da decifrare.

Esiste solo l’uomo che ha sacrificato tua sorella alla sua ambizione.

“Signore, vostra moglie ha ragione: Douglas Jackson aveva già scontato le sue cinque sferzante di punizione!”

Arthur Worthington si girò finalmente verso Saffie e due taglienti occhi verdi furono su di lei in un attimo. “Slegate quel ragazzo” ordinò l’uomo freddamente, senza però distogliere lo sguardo dalla piccola figura tremante della Duchessina “Che qualcuno gli presti le prime cure”.

James Chapman, il borioso tenente che poco prima aveva trattenuto la ragazza, ebbe l’ardire di farsi avanti e asserire, con genuina ansia: “Ma Ammiraglio! Siete ferito seriamente! Dovreste essere voi, piuttosto, il primo ad essere ricevuto dal medico di bordo!”

“Quello a cui dovreste prestare attenzione tutti voi, invece, è non giocare con la mia pazienza: se non erro, sono parecchi i compiti che vi attendono” ribatté acidamente Arthur, tornando a ignorare colei che, alle sue spalle, ancora lo fissava immobile come una statua di sale. “Non dovete di certo venire a dare ordini a me.”

“Giusto Cielo, ora credo di capire il motivo per cui venite chiamato Generale Implacabile, caro Arthur.”

La voce di divertita leggerezza che aveva parlato apparteneva a un avvenente giovane uomo, dalla corporatura esile ma molto alta, che lo faceva assomigliare ad uno spillo vivente. Dietro un paio di sottilissimi occhialetti da lettura dorati, brillava uno sguardo di vivace intelligenza.

“Dottore” sibilò l’ammiraglio con rabbia, le labbra sottili piegate in una smorfia sprezzante, a denotare il pressoché inesistente entusiasmo per la comparsa del medico di bordo. Arthur chinò appena il capo bruno in direzione del sofferente Douglas Jackson e aggiunse, stoico: “Già che siete qui, rendetevi utile nel rimettere in piedi il ragazzino. Non voglio alcun peso morto su questa nave”.

In tutto questo frangente, la Duchessina di Lynwood pareva essersi trasformata in una gorgone di pietra: attorno a lei, il capannello di marinai si era disperso come un banco di sardine spaventate di fronte alle due parole in croce di Worthington, che ora lei guardava come se non comprendesse bene chi fosse. Eppure bastò l’ultima frase dell’uomo a svegliarla di botto, quasi qualcuno le avesse schioccato le dita davanti agli occhi.

“…poiché non esiste alcuna pietà per chi incrocia il suo cammino!”

Saffie si alzò in piedi lentamente, aiutata da una solerte Keeran, corsa al suo fianco non appena la folla aveva cominciato a diradarsi. “Sta-state bene, si-signora?”

“Forse mi tremano un poco le gambe, ma sono del tutto illesa, mia cara.”

Come posso stare bene, se lui continua a comportarsi in modi per me impossibili da capire?

Il medico di bordo, che rispondeva al nome di Benjamin Rochester, lanciò uno sguardo pieno di compassione su Douglas, finalmente libero da alcuna fune e malamente tenuto in piedi dalle braccia di due forzuti marinai. “Mi occuperò di lui nell’immediato, ma non prima di aver dato un’occhiata al vostro braccio” fece dunque il dottore, con un mezzo sorriso “Sarebbe una tragedia per la Corona perdere uno dei più abili maestri di spada dell’Impero.”

“Sai sorella mia, Arthur sembra capace di eccellere in qualsiasi cosa!”

Saffie si voltò di scatto verso l’ammiraglio, colta dalla sorpresa e fulminata da un sentimento divorante che si rifiutò di riconoscere come senso di colpa. Già così, si disse lei, era abbastanza difficile – se non impossibile – fare chiarezza sul groviglio di sentimenti sgradevoli che in quel momento le stava crescendo dentro: lui l’aveva aiutata ma, per qualche motivo, la ragazza sentì di odiarlo per questo.

Pare a tutti così dannatamente perfetto. Abbagliante.

“…voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine.”

Le sue piccole dita tremanti si aggrappano con forza alle pieghe della sua gonna elegante ormai stropicciata.

“Sprofonderai nell’infelicità.”

Perché io lo so bene, chi sei davvero.

Non fece in tempo a pensare ad altro che, di nuovo, lo sguardo penetrante e serio di Worthington le fu addosso. Arthur sembrava essersi ricordato all’improvviso della presenza della moglie a pochi passi da lui e, guardandola come se fosse stata un soprammobile fuori posto, ordinò freddamente: “Tenente Chapman, scortate queste due donne nella loro cabina: penso la Duchessina abbia già dato abbastanza spettacolo, per oggi”.

Un rigurgito d’ira risalì veloce la gola della suddetta nobile ragazza che, ovviamente, non riuscì a trattenersi dal ribattere, velenosa come un serpente a sonagli: “Le due dame in questione sanno benissimo dove alloggiano e, di sicuro, non hanno bisogno di una scorta. Andremo da sole, grazie”. E, dopo aver incenerito con due grandi occhi di fuoco un impassibile ammiraglio, Saffie voltò la testa castana con sdegno. “Vieni, Keeran.”

Dopo un’occhiata spaventata a Worthington, James Chapman si lanciò all’inseguimento delle due giovani, lasciando il medico e Arthur soli a osservare la sagoma minuta di Saffie allontanarsi a furibondo passo di marcia.

“Davvero notevole” commentò dopo poco Benjamin, con interesse. “Tutto questo e non ha nemmeno dovuto respirare dei sali.”

“Di notevole, c’è solo il suo essere una fastidiosa spina nel fianco” commentò di rimando l’uomo, trattenendo a malapena una vena di rancore nel tono di voce forzatamente controllato. Lasciò che Benjamin si chinasse ad esaminare il suo braccio ferito e aggiunse, come rivolto al vuoto: “Non dovrebbe nemmeno esserci lei, qui”.

Da sopra gli occhiali, il signor Rochester lanciò uno sguardo di fugace severità all’ammiraglio. “Potete almeno fare finta che vi importi del benessere di vostra moglie davanti all’equipaggio e al capitano Inrving?”

“… lei ti aspettava, ma è stata la tua ambizione ad ucciderla.”

“Ho già fatto abbastanza, mi pare.”

Benjamin continuò a fissare il volto imperscrutabile di Arthur per due altri pensosi secondi, prima di arrendersi e dire, abbassando nuovamente gli occhi sul taglio dell’uomo: “Questa lascerà un segno. Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici”.

Uno strano sudore freddo cominciò a imperlare la fronte di Worthington, senza che lui potesse averne alcun controllo.

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

I suoi occhi scattarono, taglienti, sull’unica persona rimasta in piedi di fronte a loro: il nostromo Shaoul Brown teneva ancora in mano la frusta coperta di sangue ed aveva la stessa espressione di un condannato a morte.



§



“Non si ripeterà mai più un incidente di questo genere” sillabò Arthur Worthington con l’usuale contegno impassibile, dedicato esclusivamente ai suoi sottoposti. “Farò finta di credere voi abbiate perso il conto delle frustate, signor Brown. Ed è ciò che è accaduto, non siete d’accordo?”

L’uomo a cui l’ammiraglio si stava rivolgendo era niente di meno che l’irascibile nostromo dell’Atlantic Stinger, ormai incarnazione degli incubi del povero Douglas Jackson: il tozzo Shaoul Brown era stato convocato nemmeno mezz’ora prima nello studio del capitano Inrving, ora convertito a ufficio temporaneo di Worthington; e, per tutto il tempo, quest’ultimo aveva parlato con gelida calma di come sarebbe stato davvero un peccato per la Marina Britannica perdere un marinaio dall’esperienza decennale, a causa di un irrilevante fraintendimento.

“Il cuoco di bordo ha confermato la versione del giovane Jackson: il ragazzo non ha rubato alcuna razione dalle cucine, ma si trattava di un dono atto a impedire che uno dei nostri uomini morisse di fame” aveva infatti spiegato Arthur Worthington con noncuranza, nascondendo il viso dietro le mani intrecciate. “Ringraziate di essere sotto il comando di Henry Inrving da così tanti anni, poiché in altre circostanze non sarei affatto passato sopra al vostro vergognoso abuso di potere.”

L’ammiraglio era parso per tutta la durata del colloquio perfettamente calmo e controllato ma, non c’era alcun dubbio, nei suoi occhi verdi era presente un disgusto che riempì il nostromo di grande vergogna.

“Siete riccamente stipendiato per essere responsabile dei vostri uomini, vedete di non dimenticarvene ancora. Sappiate pure che, se dovesse accadere, vi farò frustare fino a quando non imparerete la lezione.”

Ogni membro dell’equipaggio, quel giorno, avrebbe imparato una vera lezione.

E allora l’attempato nostromo non aveva potuto fare altro se non chinare la testa grigiastra, arrendendosi di fronte alle terribili parole dell'ufficiale più temuto di Inghilterra: ora comprendeva chiaramente il motivo per il quale Arthur Worthington era chiamato l’Implacabile, malgrado la sua giovane età e l’atteggiamento all’apparenza di elegante compostezza. Nello sguardo e nelle maniere dell’ammiraglio si celava infatti una determinazione d’acciaio, che non conosceva opposizioni di sorta.

Come un pericoloso fuoco che sembra covare sotto un abbondante strato di cenere.

Il signor Brown ne ebbe la conferma quando fu il momento di venire freddamente congedato, senza che fossero sprecati troppi preamboli. Una volta raggiunta la porta della stanza, si voltò con discrezione, lanciando uno sguardo timoroso alla persona seduta dietro la spoglia scrivania del capitano Inrving: l’ammiraglio aveva rilassato le ampie spalle contro lo schienale della sedia, come se fosse stato colto da un’improvvisa stanchezza; eppure, lo sguardo con cui continuava a fissarlo andarsene faceva letteralmente venire i brividi.

“Non…non vi darò più modo di dubitare della mia integrità, ammiraglio” si congedò il nostromo, cercando di dominare l'incredibile senso di soggezione nato dentro al suo animo impaurito. “Vi prego di perdonarmi, per aver ferito la Vostra onorevole persona e, soprattutto, per aver messo in pericolo la vita della signora Worthington.”

“…che stava andando oltre! Voleva infierire su questo povero ragazzo!”

Una dolorosa spina nel fianco.

Lo sguardo di Arthur si fece limpido di chiaro disprezzo, tagliente come una lama di rasoio.

“Tornate ai vostri doveri” ordinò, glaciale.

L’uomo a cui quella frase era stata rivolta non se lo fece ripetere di certo due volte e, senza voltarsi indietro, si chiuse la porta alle spalle, sparendo in corridoio e dalla vista dell’Implacabile.

Arthur Worthington aspettò di udire i passi pesanti del nostromo svanire in lontananza, prima di crollare a pezzi.

Si chinò sul tavolo della scrivania e, appoggiando la fronte abbronzata contro il legno fresco, lasciò alle onde dei suoi capelli scuri il compito di nascondergli un’espressione improvvisamente tormentata e sofferente.

No, non aveva alcun tipo di controllo sulla parte di sé che detestava di più.

Un sudore ghiacciato e mortale lo colse nel medesimo istante in cui i suoi polmoni sembrarono chiudersi dentro alla cassa toracica, lasciandolo a boccheggiare per avere anche solo un briciolo d’aria. Come sempre accadeva in quei casi, l’uomo si odiò per la paura opprimente che sembrava volerlo schiacciare senza alcuna pietà e, con un gesto meccanico, portò le dita tremanti sul fianco destro, dove avrebbe trovato la sua vergognosa cicatrice.

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

Dimenticalo. Dimentica tutto.

Delle immagini confuse e terribili premevano le une contro le altre nella sua testa, rischiando di farla esplodere. Una frusta nero pece schioccava e sibilava per aria. Una figura tremante urlava e urlava, senza mai smetterla. Un bambino tanto gracile che no, non ricordava di essere lui, si metteva in mezzo a braccia aperte. È l’ora della punizione.

Arthur non si accorse nemmeno di stare tremando mentre, ancora, cercava disperatamente di immettere aria nei suoi polmoni impotenti. Si raggomitolò su sé stesso, stringendosi nei fianchi e affossando la chioma scura contro le ginocchia, cercando riparo. Nascondendosi.

“Puoi nasconderti finché vuoi ma, non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

“Va tutto bene. Va tutto bene. Lei sta bene” mormorò più e più volte, cercando di calmare quel suo assurdo stato di panico che tanto odiava. “Sono arrivato in tempo, sta bene.”

Sì, avrebbe dovuto sapere molto bene di non aver alcun tipo di controllo, quando arrivava la paura.

L’immagine di Amandine si fece strada fra le altre, tanto nitida quanto dolorosa: la bellissima ragazza lo guardava immobile e muta, gli occhi turchesi puntati su di lui con evidente disprezzo. Era questo che volevi?

Lo sai già, di avermi uccisa tu.

E ora la tua ambizione ha imprigionato mia sorella, che tu giuri di odiare.

Il senso di colpa calò su di lui, immediato e letale. “Non è vero” si disse, bisbigliando a bassa voce “Quella donna ti ha abbandonata, pure se doveva occuparsi di te.”

Dal buio dei suoi ricordi, il volto bianco di Amandine si aprì in un sorriso di scetticismo crudele.

Meglio fare del male agli altri e proteggere sé stessi, no?




Angolo dell’autrice:



Volevo a tutti i costi pubblicare prima della fine di Agosto e, Santo Cielo, ce l’ho fatta! :D

Beh, intanto Buonasera! Come dice il proverbio, chi non muore si rivede: ho scritto questo quinto capitolo in un mese circa e, non lo nego, mi ha impiegato parecchio tempo; tra buttare giù la struttura, trascrivere il tutto a computer (spesso scrivo su carta, ebbene sì) e revisionare il risultato, non ho proprio potuto velocizzare la pubblicazione! (T.T)

In generale, ho pure dovuto tagliare due scene che convergeranno nella sesta parte della storia, visto che sarebbe diventato un capitolo troppo lungo! Un po’mi è dispiaciuto, poiché era presente più coinvolgimento tra Saffie e Arthur, ma in ogni caso lo potrete leggere più avanti. :D

Infine, a me piacciono molto i personaggi e i sentimenti complicati…e i due protagonisti lo sono parecchio! È difficile, ma sto cercando di rendere al meglio il conflitto di Saffie ed Arthur che, disprezzo a parte, sono in tutto e per tutto esseri umani, con il loro bel carico di debolezze.

Oh, non vedo l’ora di andare avanti a scrivere per vedere come potranno interagire durante questo viaggio!

*risata maligna di Sweet Pink in sottofondo*

Sono riuscita finalmente a introdurre al meglio qualcuno dei personaggi secondari! Onestamente, non vedevo l’ora di poter scrivere di Keeran, e di farla muovere nel racconto.

Ringrazio chi mi legge per essere arrivato fin qui e per la pazienza nell’aspettare i miei aggiornamenti! Spero ne valga la pena, perché io mi ci sto affezionando un sacco ad Away with you, sapete?

Erano nove anni che non scrivevo più qualcosa di così completo e questa esperienza mi sta entusiasmando e spaventando al tempo stesso! Quindi grazie, grazie e ancora grazie, a chi mi segue e un grande abbraccio a chi si è preso un po’di tempo per farmi sapere cosa ne pensa della storia! :)

Mi impegnerò al massimo per pubblicare entro fine Settembre!

Un bacione virtuale,

Sweet Pink




Arthur puntò le mani sul corrimano del parapetto, a fianco delle sue, imprigionandola ancora una volta fra le braccia senza che lei potesse farci nulla. I capelli castani della ragazza sfiorarono appena la camicia bianca di Worthington, che si chinò su di lei il giusto per poterle sussurrare, in tono di crudele soddisfazione: “Sbaglio, o sei stata tu la prima ad acconsentire volontariamente a questa unione?”

(Dal Sesto capitolo)

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Capitolo 7
*** Sesto. Inesistente linea di confine. ***


CAPITOLO SESTO

INESISTENTE LINEA DI CONFINE




Una incredibile luna piena brillava accecante e meravigliosa, specchiandosi sulla superficie piatta di un oceano denso di oscurità, immobile e immutabile come l’antico sonno di un essere mitologico. Ancora una volta, il cielo e il mare sembravano fondersi proprio sulla sottile linea che avrebbe dovuto in realtà dividerli.

Di fatto, era l’esistenza stessa di quel confine a fare in modo che si potessero incontrare.

“È bellissimo” pensò una Saffie Worthington insonne, gli occhi grandi e luminosi puntati sull’orizzonte lontano, sul panorama mozzafiato che s’apriva di fronte a lei, oltre alla grande vetrata della sua lussuosa cabina. “Forse non riuscire a prendere sonno si è rivelato un bene, dopotutto.”

La Duchessina di Lynwood era infatti sdraiata sul suo comodo letto a baldacchino da parecchie ore e, dopo essersi girata e rigirata per altrettanto tempo senza alcun rimedio, aveva infine deciso di rimanersene distesa sul fianco destro, così da poter godere di quello straordinario spettacolo notturno che – muto – pareva illuminare di polvere argentata l’intera camera.

Per un fugace attimo, si ricordò delle notti stellate e serene in cui lei e Amandine spalancavano con coraggio le finestre della loro camera e di come sua sorella le indicasse la volta celeste, sorridendo di genuina eccitazione. Pure allora era presente quella magica luce fatata, come se Saffie e la ragazza al suo fianco fossero le uniche testimoni della meraviglia del cielo.

“Non potremo stare insieme per sempre ma, ricorda, basterà guardare verso l’alto per incontrarci.”

Saffie non credeva in certe sciocche superstizioni popolari, eppure si trovò a sperare con tutta sé stessa che Amandine fosse diventata una stella luminosa e bellissima, tanto quanto lo era stata in vita, nella sua forma umana. Oppure, si immaginò un misterioso futuro in cui sua sorella era rinata forte e in salute, dove avrebbe potuto alzare lo sguardo turchese sulla notte senza doversi preoccupare di nulla che non fosse una banalità. Dove avrebbe potuto vivere per davvero, pure senza alcun ricordo della remota vita precedente e di Saffie Lynwood che, a secoli di distanza, stava osservando la sua stessa luna.

Il cielo in cui desideravamo poter volare, come due candidi canarini chiusi in una ricca gabbia dorata.

Per fortuna, l’unico rumore udibile dalle orecchie della ragazza castana era il lieve e confortante russare prodotto dal naso della sua ormai inseparabile domestica personale: l’irlandese Keeran Byrne giaceva infatti a pancia in giù sulla sua piccola cuccetta, un pallido braccio inerte e abbandonato fuori dalle coperte, mentre la lunga chioma corvina andava a nascondere un viso esausto dalle forti emozioni di quella lunga giornata.

“…Ma penso che, per questa volta, cinque frustate saranno sufficienti a ricordarti il tuo posto.”

Lo sguardo ancora perso nel pallore della grande luna che le ammiccava da lontano, Saffie non poté fare a meno di ritornare con la mente ai momenti successivi al loro ritorno in cabina: Keeran aveva fatto ogni sforzo possibile per evitare di scoppiare in singhiozzi spaventati di fronte a lei e, complice un improvviso stato di panico, aveva cominciato ad aggirarsi per la camera senza pace alcuna, balbettando frasi sconnesse su come avrebbe provveduto subito a prepararle un bagno caldo, o chiedendole per l’ennesima volta se desiderasse una bevanda calda perché, certamente, era in grado di compiere il suo dovere.

Dimostrarle una forza d’animo in quel momento inesistente.

“Io-io p-posso ancora la-la-lavorare, pa-padrona!”

La signorina Byrne era talmente sconvolta da aver pure dimenticato l’unico ordine diretto impartitole dalla Duchessina, ossia non chiamarla mai – per nessuna ragione – in quel modo. E, a dimostrazione di questa tesi, quando la signora Worthington si era azzardata a interrompere il fiume di parole dell’irlandese per ricordarle di non rivolgersi a lei come sua padrona, Keeran si era voltata nella sua direzione di scatto, fermando il suo folle girovagare e impallidendo come se fosse stata morta.

A Saffie era sembrato fin da subito che la ragazza temesse di essere punita, o che pensasse di meritarlo, persino. Per qualche assurda ragione, Keeran si era immedesimata nella sofferenza di Douglas Jackson, unica persona sull’Atlantic Stinger ad essere in una situazione simile alla sua: forse, aveva considerato la signora Worthington, le cinque frustate inferte al ragazzo avevano ricordato all’irlandese un passato fin troppo recente.

“Riporterò questa ragazzina indietro e, vedrete, ne troverò una più adatta al vostro eccellente rango.”

Allora la ragazza castana aveva deciso di prendere quelle paffute dita tremanti fra le sue e aveva cercato di rassicurare la sua domestica con parole di tenero incoraggiamento: non era forse stata molto coraggiosa sul ponte sopracoperta, visto che le era corsa affianco per aiutarla e sorreggerla quando più Saffie aveva avuto più bisogno di lei?

“No-non siete in co-collera, qui-quindi?”

Gli occhi grandi di Saffie non si spostarono dal panorama stellato nemmeno quando una spiacevole consapevolezza cominciò a farsi strada fra le pieghe del suo animo.

Se lei ha paura di tutto ciò che la circonda, io non faccio alcuna eccezione.

La Duchessina mosse le esili gambe sotto il tessuto fresco delle lenzuola, ignorando a fatica il senso di solitudine provocato da quel pensiero: similmente a un cucciolo abbandonato, Keeran continuava a guardarla con sguardi pieni di un timore rispettoso che, nel profondo, nascondevano grande diffidenza.

No, forse non sarebbero mai riuscite a diventare veramente amiche.

È un’illegittima, una cosiddetta Maledizione di Dio.

Cresciuta considerando la sua stessa esistenza un peccato mortale.

“Abbiamo ancora parecchia strada da fare, Keeran” sospirò a bassa voce Saffie, allungando le mani sotto al cuscino e incontrando così la ruvida copertina del libro. Se la fredda bara bianca rappresentava l’ultima immagine di Amandine, allora il loro vecchio quaderno era l’unico oggetto con cui la ragazza poteva identificare sua sorella minore; il solo superstite del vortice oscuro in cui la sua vita si era ormai trasformata. Malgrado le sue fantasie di poco prima, il Libro delle nostre fiabe era l’ultimo luogo in cui lei viveva, attraverso parole d’inchiostro sbiadito.

“Ma non posso di certo arrendermi, vero Amandine?”

Nessuna miracolosa risposta giunse in suo aiuto e alla Duchessina di Lynwood venne quasi da ridere.

Sono ridicola. Non può rispondermi.

Un’altra fitta di dolore l’attaccò senza alcuna pietà e la ragazza si raggomitolò su sé stessa, in posizione fetale. Perché era un turbamento diverso, quello che ora si affacciava alle porte del suo cuore.

Mi è stata portata via da Arthur Worthington.

Un disprezzo impressionante e meschino travolse Saffie in un battito di ciglia, cogliendola comunque impreparata di fronte alla portata dei suoi stessi sentimenti. Le sue piccole dita si aggrapparono quindi al tessuto liscio del cuscino con forza, mentre lei decideva di stringerlo stretto a sé, abbracciandolo come avrebbe fatto una bambina con il suo prezioso orsacchiotto. Lo so, che è colpa sua.

Il suo viso arrossato andò a cercare rifugio contro quella stoffa morbida e pregiata, affondandoci con grande vergogna. Lo so.

Eppure, perché non riesco in alcun modo a dormire?

No, non poteva nascondersi da sé stessa, né dai suoi stessi pensieri che, opprimenti, giravano intorno ad un unico perno, un’unica conclusione: il sentirsi maledettamente in colpa nei confronti dell’uomo che detestava e, di conseguenza, la repulsione verso questo sentimento sgradito, che lei non desiderava provare.

E dire che la responsabilità, in fondo, era stata anche sua: Saffie era ben conscia di aver commesso un grave errore, poiché non avrebbe mai dovuto cedere alla tentazione di voltarsi indietro e lanciare un’occhiata segreta a Benjamin Rochester e Arthur Worthington, intenti a parlottare senza più prestarle alcuna attenzione.

“…sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

Il bruciante senso di colpa della ragazza si fece enorme, pesante come un macigno, e si andò a scontrare con l’odio all’apparenza inossidabile che già giaceva dentro di lei da parecchio tempo, quasi cercasse di avere la meglio su quest’ultimo. Quasi le volesse far provare dispiacere per il tremendo Ammiraglio.

L’immagine del petto nudo di Arthur e dell’estesa cicatrice che ne deturpava il lato destro si formò davanti ai suoi occhi, ben chiusi dietro alle palpebre. Si era domandata più volte quale ne fosse l’origine, malgrado avesse cercato con tutte le sue forze di lasciarla indietro, dimenticarla.

“E all’inferno devono essere rispediti, senza alcuna eccezione”.

Il caos dentro al suo animo era ormai una voragine divorante di oscurità impossibile da sopportare.

Saffie si alzò a sedere di scatto, i lunghissimi capelli castano chiaro che scendevano – tutti arruffati – sulle piccole spalle tremanti. La lussuosa stanza intorno a lei si era fatta carica di un’aria asfissiante e tossica, lasciando la ragazza in preda a una sensazione di cocente soffocamento; le parve quasi di stare andando letteralmente a fuoco, tanto sentiva ardere dentro di sé quei sentimenti controversi.

Tu hai giurato di odiarlo.

E ora, da dove viene questo tuo bisogno di dirgli “Grazie”?

Cercando di non provocare il benché minimo rumore, la ragazza scese dal letto e riuscì persino ad infilarsi una ricca veste da camera alla meno peggio, guadagnando poi la porta della cabina a piccoli passettini silenziosi, senza svegliare il suo esausto angelo custode.

“Devo assolutamente uscire di qui” pensò d’impulso Saffie, dando le spalle a una luna bianca che pareva voler annunciare una notte di battaglia.


§


In questa maniera Saffie arrivò di tutta fretta fin sul ponte sopracoperta, grata di poter sentire la brezza fresca e pungente della notte accarezzare con dolcezza le sue gote arrossate. Arrovellarsi il cervello su Arthur Worthington e, nello specifico, sopra il suo incomprensibile carattere stava provocando in lei sentimenti sgraditi e scomodi, seppure orrendamente famigliari.

Non puoi proprio fare a meno di pensarci, non è vero?

La Duchessina di Lynwood avanzò di qualche passo e si prese il viso fra le mani, constatando di non essere stata affatto ingannata da un’illusione, perché le sue guance stavano bruciando per davvero. Grazie al Cielo l’Atlantic Stinger aveva rallentato la velocità di navigazione fino a raggiungere un’andatura pigra e tranquilla, cosicché il ponte era praticamente sgombro da anima viva: la ragazza sentiva di poter a malapena sopportare sentirsi in quel modo, quindi figurarsi far vedere il suo rossore furioso a tutto l’equipaggio!

Gli occhi di Saffie indagarono l’opaca oscurità in cui era sprofondata la nave dove, illuminati dalla calda e soffice luce di qualche lanterna, le sagome stravaccate di diversi marinai male in arnese se la ronfavano beatamente, probabilmente distrutti dall’ennesima giornata di massacrante lavoro. La ragazza si chiese se pure il signor Jackson fosse con loro, sdraiato sulle assi di quel vecchio pavimento, oppure fosse ancora fra le mani dell’abile medico di bordo; in ogni caso, sperava con tutto il cuore lui potesse rimettersi presto e tornare ad esercitarsi nella scrittura insieme a lei e Keeran.

“Slegate quel ragazzo…che qualcuno gli presti le prime cure.”

L’ardente sentimento che aveva deciso di divertirsi un mondo nel torturarla affondò nuovamente le unghie sulla sua anima turbata, al pari passo con una nuova ondata di rossore non richiesto apparso all’improvviso sul suo grazioso visino ovale. “È ormai ufficiale: la Duchessina Saffie Lynwood sta diventando matta!” si prese in giro con rabbia, ridendo di sé stessa e cercando contemporaneamente di evitare il solo pensiero che, da quel pomeriggio, si rifiutava di prendere seriamente in considerazione.

Di affrontare a viso aperto.

Eppure, per quanto provasse a voltare il capo dall’altra parte e non guardare, quel pensiero – quella immagine – era sempre davanti ai suoi occhi, proprio come la spaventosa cicatrice di Arthur Worthington.

Ti odia, ma è corso a salvarti.

Come se già il suo schiacciante senso di colpa non fosse abbastanza!

Saffie si strinse nella sua lunga veste da notte, trattenendo un brivido sottopelle. Cominciava a fare freddo, ma lei a malapena ci fece caso mentre, senza vera consapevolezza, alzava lo sguardo verso l’alto ponte di comando, territorio invalicabile.

Perché dovresti volermi proteggere?

“Si è dimostrato piuttosto comprensivo nei confronti del povero Douglas, fra le altre cose” considerò la giovane, sbilanciandosi di lato con il busto, così da poter sbirciare il fondo della scalinata che conduceva al piano superiore: nemmeno lì pareva esserci qualcuno. D’altronde, gli stessi Ufficiali di Guardia sembravano essere impegnati a prua del vascello, troppo assorbiti in una entusiasmante giocata d’azzardo con i pochi marinai rimasti svegli per fare attenzione alla piccola figura che ora stava salendo freneticamente i gradini, quasi ci stesse correndo sopra.

Saffie e il suo furioso cuore arrivarono così sani e salvi sull’elegante ponte di comando, luogo dove l’odiato Ammiraglio trascorreva la maggior parte delle sue giornate.

Anche se l’avesse fatto per salvare le apparenze, non puoi frenare questo tuo morboso bisogno.

Comprendere Arthur Worthington, che è così diverso da te.

E fu odiandosi come non mai, lei e i suoi pensieri traditori, che la ragazza castana incatenò le iridi con quelle nere e a dir poco sbalordite del timoniere di turno.

“Si-signora Worthington, buonasera!” la salutò l’uomo, dopo un silenzioso attimo di sorpresa. Il marinaio contemplò ad occhi sgranati la sagoma piccola di Saffie come se fosse direttamente uscita da un incubo e, non senza impallidire, le sussurrò in tono tanto timoroso quanto reverenziale: “Lo sapete, invero, che non potete stare qui?”

La giovane presa in causa sbatté due o tre volte le palpebre, perplessa di fronte a quella reazione a suo parere esagerata: sapeva molto bene di essere una donna, ma l’uomo la stava guardando con lo stesso sguardo con cui si osserverebbe un fantasma, un’allucinazione; Saffie quasi poté giurare di vedere vere gocce di sudore freddo fare la loro comparsa sulla sua testa pelata e bruciata dal sole.

“Ma certo! Qualcosa deve essere sicuramente accaduto!” esclamò dopo poco il timoniere, alzando inspiegabilmente il tono di voce tinto di finta noncuranza. “È per questo che dovete aver deciso di infrangere le regole, immagino. Volevate incontrare vostro marito, d’altronde!”

Un brivido tremendo scosse interamente la Duchessina, mentre quest’ultima realizzava il reale significato delle parole dell’uomo in piedi di fronte a lei: evidentemente, il ponte di comando non era poi deserto come sembrava.

A conferma di ciò, Saffie seguì con lo sguardo il cenno timoroso del timoniere di turno e, con grande orrore, i suoi occhi castani si scontrarono immediatamente con due incredibili iridi verde smeraldo, che quasi sembravano splendere pericolose nell`oscurità.

“Anche io ti odio con tutto il mio animo, ragazzina.”

Arthur Worthington in persona la stava fissando a neanche dieci metri di distanza e, ovviamente, non pareva proprio per nulla contento del fatto di trovarla lì, a calcare un luogo che alle donne era del tutto vietato. O più probabilmente, si trovò a considerare la ragazza, l’ammiraglio non era affatto felice di incontrare proprio lei, fra le cinquecento anime che potevano decidere di salire sul ponte di comando a quell’ora di notte.

Con il cuore schizzato improvvisamente in gola senza alcun permesso, Saffie non poté trattenersi dall’osservare come la figura alta e imponente dell’uomo riuscisse a trasmettere uno strano senso di soggezione misto ad eleganza pure in una situazione come quella, dove Arthur non stava facendo nient’altro che sedere in maniera scomposta su una sedia di vimini, le gambe toniche allungate sopra un piccolo sgabello e la testa scura appoggiata sul palmo di una mano. Tra le dita dell’altra, un libro aperto che ad una prima occhiata lei non riuscì a riconoscere.

“…William Shakespeare. Non ho mai avuto cognome, quindi il signorino ha voluto deciderne uno per me.”

La Duchessina di Lynwood si accorse pure di come il marito non indossasse la sua importante quanto odiosa divisa dorata, accecante simbolo di ambizioso potere: a vederlo così, con un paio di semplici calzoni chiari e una larga camicia bianca, egli poteva benissimo essere scambiato per un uomo comune e non per il ricchissimo Generale che tutti sembravano venerare, e che lei invece disprezzava.

Davanti agli occhi immobili dell’uomo, così simili a quelli di un animale pronto all’attacco, Saffie sentì il razionale dovere di tagliare la corda, andarsene ed evitare un incontro che potesse portare a galla il loro risentimento reciproco e, con esso, il fare inevitabilmente i conti con l’incarnazione della terribile colpa di cui si erano macchiati: intravedevano entrambi un peccato mortale l’uno negli occhi dell’altra, come se si specchiassero in un’unica sofferenza, un’unica vergogna che non volevano vedere.

Perché tu sei responsabile.

Nel contempo, le gambe della ragazza sembrarono essersi fuse con il pavimento, poiché ancora lei non si era effettivamente decisa a scappare via, trattenuta sul posto da una curiosità che proprio non riusciva a spiegarsi. Perché l’hai fatto, se mi odi quanto ti odio io?

Aveva giurato odio eterno ad Arthur Worthington, ma dentro di sé sapeva di doverlo ringraziare per essere intervenuto in difesa sua e di Douglas Jackson, mettendosi a rischio senza pensarci due volte.

Voleva salvare le apparenze, ma ti ha protetta in ogni caso.

Di nuovo, quello strano sentimento a metà fra la ripugnanza e l’imbarazzo la colse nell’esatto istante in cui udì la voce profonda dell’ammiraglio tagliare in due il silenzio della notte, facendo sussultare sia lei che l’attento timoniere.

“Vi è proibito mettere piede qui, moglie” sillabò l’uomo, chiudendo il suo voluminoso libro con un gesto seccato e lanciando nella sua direzione un altro sguardo di disarmante freddezza. “Tornate nei vostri alloggi. È molto tardi e, se proprio desiderate un colloquio con me, vi vedrò domani mattina.”

Era chiaro come il sole che Arthur non pensava affatto di mantenere il suo intento, difatti a Saffie non venne difficile smascherare la sua perfetta farsa: stava ancora mantenendo le apparenze, Worthington, e l’evidenza più lampante stava nel suo rivolgersi a lei utilizzando il formale voi, cosa che più non accadeva da quando Amandine era morta.

Perché la tragedia lì aveva fatti riconoscere nemici naturali, tracciando una netta linea di confine fra loro.

La rabbia cominciò a montare nel petto della ragazza castana, mentre quest’ultima già sapeva di non poter scampare alla battaglia imminente, sebbene lei per prima non provasse alcun desiderio di sottrarsi dal combattimento. “Non posso preoccuparmi per mio marito?” lo sfidò quindi, articolando ad alta voce quella domanda da mogliettina devota e, contemporaneamente, avanzando verso di lui a passo lento e misurato. Sul suo grazioso viso comparve un inaspettato sorriso mielato, dalla falsità disarmante, che ovviamente non ingannò Arthur Worthington nemmeno per un secondo. “Avete subito un grave attacco oggi pomeriggio, mio caro.”

Saffie si fermò a meno di un metro da lui, serafica, le mani elegantemente giunte in grembo come da etichetta; i suoi occhi scuri caddero però sul braccio bendato dell’uomo e, per un doloroso momento, lei cercò con scarso successo di provare più crudele soddisfazione che tormentato senso di colpa.

“In questo caso, saremo in due, ad affogare.”

Infine, il Generale Implacabile e la Duchessina di Lynwood si trovarono l’uno di fronte all’altra dopo più di un mese dalla notte in cui si erano dichiarati disprezzo reciproco, ma risultò subito cristallino a tutti e due come niente sembrasse essere poi così diverso: una placida e pericolosa ira giaceva sul fondo delle iridi smeraldo di un Arthur che – Saffie poteva scommettere – stava trattenendosi a malapena dal perdere tutto il suo famoso contegno elegante. Le aveva ordinato di andarsene ma, seriamente, come aveva anche solo potuto pensare che lei gli avrebbe ubbidito per davvero?

Non te l’ho forse detto, che sarei stata la tua spina nel fianco?

Eppure, fu ancora Saffie a sottovalutare l’imprevedibile carattere dell’uomo che era stata costretta a sposare: con sua enorme sorpresa, la ragazza vide l’ammiraglio sporgere la schiena verso di lei, mentre un leggero ghigno s’andava ad aprire, diabolico, su un’espressione di ironia conturbante. Una mano grande si allungò fino a raggiungere le sue, sfiorandone la pelle fredda con delicatezza.

“Mi onorate, cara” fece Worthington, non prima di aver lanciato un’occhiata in direzione del timoniere ficcanaso, che se ne stava girato a guardarli a bocca aperta, come se Saffie e Arthur fossero due raffinate divinità uscite da chissà quale oceano.

La ragazza osservò, ad occhi spalancati, le dita lunghe di Arthur scivolare lentamente lungo il palmo della sua piccola mano, per poi portarsela alle labbra con una dolcezza finta che sapeva di battaglia. Il suo cuore perse un battito e lei seppe di non potersi opporre in alcuna maniera a quel gesto; ovviamente, non era l’unica ad esserne consapevole: dal basso, due taglienti occhi di pietra continuavano a fissarla con disprezzo mortale, in attesa di un suo solo passo falso.

“Sprofonderai nell’infelicità.”

Un altro brivido la fulminò da capo a piedi, tanto che udì appena l’ammiraglio parlare di nuovo, questa volta rivolto alla persona presente alle sue spalle: “Signor McCavoy, vedete di tenere lo sguardo piantato a prua della nave, come da ordini. Questa donna e gli affari di cui discuto con lei non sono di certo nel vostro interesse”.

Chiaramente, era bastata quell’unica frase per far saltare sul chi va là l’attempato timoniere. L’uomo fece subito un rigido inchino, deferente, e si voltò bruscamente dall’altra parte, come se li avesse già dimenticati del tutto.

Non appena la testa glabra del signor McCavoy si fu girata in direzione della rotta che l’Atlantic Stinger doveva percorrere, Saffie tirò indietro la mano con uno scatto deciso e veloce, mentre un rossore diffuso faceva la comparsa sul suo viso. Il gesto di Worthington l’aveva colta impreparata e, per questo, un fastidiosissimo batticuore ora pareva risuonare forte nelle sue orecchie, assordante e violento; cercando di non prestarci troppa attenzione, la ragazza si trovò a bisbigliare, in tono sommesso: “Come pensavo. Sei un eccellente bugiardo, Ammiraglio”.

Gli occhi penetranti dell’uomo furono attraversati da un gelido bagliore rancoroso e, senza un rumore, egli abbassò nuovamente il braccio sul morbido sostegno della poltrona. “Anche tu sei stata all’altezza delle mie aspettative, ragazzina” le rispose, il sorriso di scetticismo malvagio che ancora non accennava ad abbandonare il suo volto virile.

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine.”

“Non sono una bambina” sibilò Saffie, di getto. “Non chiamarmi così.”

L’espressione della ragazza si chiuse in un muto disprezzo e lei decise di non voler più guardare dentro le iridi piene di oscurità di Worthington. Era l’Arthur della prima notte di nozze quello che ora si trovava ad affrontare, non di certo l’orgoglioso Ammiraglio che diverse ore prima l’aveva salvata, né il raffinato gentiluomo di cui sua sorella si era perdutamente infatuata.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

Saffie si morse il labbro inferiore con forza e, mossa da un improvviso sentimento di amarezza saltato fuori da chissà dove, voltò la testa castana senza dire più nulla, cominciando ad avviarsi verso il fondo della nave e superando così l'immobile figura del marito.

Come aveva potuto pensare di ringraziarlo per averla aiutata?

Figuriamoci, non riusciamo nemmeno a dialogare decentemente.

Veloce e fulminea, la presa micidiale di cinque dita strette attorno al suo esile braccio la bloccò sul posto, a nemmeno due passi da un ammiraglio Worthington che non pareva intenzionato a muoversi da dove era seduto. “Cosa pensi di fare?” le arrivò la sua voce profonda e dura come l’acciaio, di una serietà tremenda. “Ci sono cinquecento uomini su questa nave: non credere di poter saltellare di qua e di là a quest’ora di notte, perché commetteresti un enorme sbaglio. Torna nei tuoi alloggi, Duchessina. Qui non sei al sicuro.”

Voleva salvare le apparenze, ma ti ha protetta in ogni caso.

“Io e voi siamo molto diversi, non è così?”

Il cuore già di per sé esausto di Saffie perse un battito e, quando quest’ultima si voltò ad osservare l’uomo, ebbe la sorpresa di non trovarlo voltato verso di lei come si sarebbe aspettata: Arthur si nascondeva alla sua vista, dietro a una massa di capelli scuri che le impediva di poter indagare l'espressione del suo viso da nobile elegante.

“Come aria e mare, signorina.”

E, per un istante, la ragazza si trovò a desiderare con tutte le sue forze che lui si girasse a guardarla.

Saffie rilassò senza accorgersene il braccio stretto tra le dita forti di Worthington, come un debole uccellino ormai arresosi alle fauci del suo violento predatore. “Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi” sussurrò piano, con timida incertezza.

Due elementi che mai si incontrano davvero.

L'esile voce della piccola strega arrivò ad Arthur più diretta di una fucilata, cogliendolo inerme di fronte a parole che mai si sarebbe aspettato di sentir pronunciare proprio da lei. L'uomo voltò quindi la testa bruna di scatto, troppo sorpreso per poter costruire qualsiasi facciata e, se Saffie riuscì finalmente ad osservare il suo viso, l’ammiraglio fu ucciso sul posto da due grandi occhi innocenti e puliti, che avevano lavato via qualsiasi macchia di tremenda accusa. Ora, uno sguardo combattuto e triste si specchiava nel suo, ed era così intenso da fare male.

Di fatto, era l’esistenza stessa di quel confine a fare in modo che si potessero incontrare.

“Io…” continuò esitante la Duchessina di Lynwood, abbassando lo sguardo verso terra “Io ho pensato di doverti ringraziare per ciò che hai fatto oggi.”

Un rossore acceso, adorabile, faceva mostra di sé sulle guance della donna che Worthington aveva dichiarato di detestare, eppure l’ultima frase di lei lo riempì non solo di un contorto sentimento cui preferì non dare alcun nome ma, soprattutto, di un'agghiacciante quanto opprimente paura.

Perché quella linea di confine era in realtà inesistente.

“...che sai solo fare del male? D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te.”

La tozza mano di Shaoul Brown, stretta attorno alla frusta insanguinata, comparve per un fugace attimo nella sua mente; così come il corpo rannicchiato e inerme della sorella tanto amata da Amandine che, mossa dalla sua solita testardaggine coraggiosa, aspettava di ricevere il colpo.

Questo era accaduto perché lui l’aveva imprigionata.

Ma di chi è la colpa, se ora sei in questa situazione?

Perché pensavi di averla seppellita la persona che eri un tempo. Quella capace di fare del male.

Allora il suo sguardo smeraldino si tinse di un’oscurità tremenda, costituita di un disprezzo nuovamente accecante e rabbioso. Un taglio all’ingiù trasformò le sue belle labbra sottili e diede al suo viso sempre attraente un’espressione di repulsione palese, che ben nascondeva il suo vero stato d’animo: un terrore confuso e caotico torturava il suo animo a pezzi, e Arthur pensò che avrebbe preferito morire, piuttosto che mostrarsi debole di fronte all’odiata Duchessina di Lynwood.

Meglio fare del male agli altri e proteggere sé stessi, no?

“Non desidero alcun pietoso ringraziamento da parte tua” sillabò infine Worthington, mollando la presa su Saffie come se la sua pelle fosse diventata incandescente all’improvviso. “Non quando avresti potuto evitare di fare una scena di fronte ai miei Ufficiali. Sono stato costretto ad aiutarti.”

Davanti a quella risposta dal sapore velenoso, il cuore della ragazza si strinse in maniera dolorosa e angosciante. Se fino a qualche attimo prima aveva creduto di intravedere una qualche malinconia in fondo a quelle iridi dalla durezza disarmante, adesso Saffie dovette arrendersi al fatto di essersi completamente illusa: non esisteva alcuna umanità nell’uomo che aveva sacrificato Amandine alla sua disgustosa ambizione.

È un confine troppo grande da poter colmare con le parole.

No, non esiste un mondo in cui potremo perdonarci per davvero.

E fu con grande rabbia che la ragazza decise di voltargli le spalle, non senza prima aver sibilato: “Dal momento in cui hai accettato questo vergognoso legame, sei tu ad averci condannati a questa infelicità”. Raggiunse in due piccoli passi il parapetto di legno dell’Atlantic Stinger e vi appoggiò sopra entrambe le mani, cercando di inspirare l’aria salata e pungente della notte; il suo sguardo turbato si perse nel fitto buio che s’apriva davanti a lei, dove niente poteva essere effettivamente visto. Solo un oceano e un cielo di un nero disturbante, così diversi da quelli che poco prima aveva tanto ammirato.

La nostra oscurità accecante.

Saffie sapeva molto bene di non dover lasciare intendere al timoniere di turno come in realtà le loro conversazioni fossero ben lontane da quelle che avrebbero avuto due sposini innamorati ma, ugualmente, moriva dalla voglia di sbattere in faccia a Worthington tutta la sua rancorosa sofferenza repressa.

“Avrei preferito essere colpita da quella frusta, piuttosto che sentirmi in questo modo” pensò di impulso la ragazza, ricacciando indietro le lacrime traditrici che stavano cominciando a formarsi agli angoli dei suoi occhi scuri. Tutto, pur di non piangere a causa sua.

Che altro potevi aspettarti da lui, piccola sciocca?

I suoi pensieri vennero però mandati a gambe all’aria da due braccia toniche e forti che, inattese, entrarono nel suo campo visivo. Senza che lei se ne fosse data conto, Arthur si era alzato in piedi e l’aveva raggiunta in silenzio; l’uomo puntò le mani sul corrimano del parapetto, a fianco delle sue, imprigionandola un’altra volta tra le sue braccia…proprio come l’ultima volta.

“Sbaglierei, nell’affermare che sei stata tu la prima ad acconsentire volontariamente a questa unione?”

I capelli castani di Saffie sfiorarono appena la camicia bianca dell’ammiraglio Worthington, mentre quest’ultimo si chinava su di lei il giusto per poterle sussurrare, in tono di crudele soddisfazione: “Mi chiedo, quale sarà mai il vero motivo dietro alla tua decisione?”

“…di obbedirmi, e l’unica strada che percorrerai sarà quella per il manicomio.”

La ragazza sgranò gli occhi sul vuoto e un tremore leggero cominciò a scuoterla interamente, andando a pari passo con l’ondata di odio che le invase l’anima; ma disprezzò pure sé stessa, poiché nemmeno in quel frangente poté ignorare ciò che la vicinanza dell’uomo sembrava provocare in lei: un paradossale senso di aspettativa e rifiuto, di curiosità e timore. Di voler allontanarsi e, nel contempo, attraversare un confine.

“Ora non sei più la viziata Duchessina di Lynwood, ma mia moglie” continuò l’ammiraglio, implacabile come suo solito. “Come tale, mi devi obbedienza”.

“Tu sei mia, adesso.”

Sei un maledetto demonio, Arthur Worthington.

“E se decidessi che non è così?” mormorò per tutta risposta la ragazza con sommessa ironia, senza osare voltare il capo nella sua direzione. “Se non volessi sottostare ai tuoi ordini?”

Gli occhi verdi di Arthur si fecero lucidi di una fredda determinazione che Saffie ovviamente non poté vedere.

Non finisci mai di provocarmi, vero, ragazzina?

L’uomo raggiunse il braccio sinistro della moglie e lo sollevò con gentilezza, intrecciando le sue dita lunghe con quelle morbide di lei, di modo che la ragazza potesse ben vedere le due sottili fedi nuziali brillare inquietanti nell’opaca luce della luna.

“Provaci e trasformerò questa pagliacciata in una vera e propria guerra, mia cara.”

“…non esiste alcuna pietà per chi incrocia il suo cammino!”

Un silenzio di piombo, interrotto dal rumore di qualche rara onda, fu ciò che seguì alla dichiarazione dell’uomo e Arthur stesso se ne stupì, poiché aspettava da Saffie uno dei suoi commenti da smorfiosetta saccente, non un mutismo di cui non riusciva a comprendere l’origine.

Finalmente si accorse che la sua figura minuta aveva preso a tremare appena, come se – per la prima volta – la ragazza dimostrasse di avere timore di lui.

Della oscura ambizione di cui lui viveva, e che l’aveva imprigionata.

Un disagio fastidioso ricominciò ad agitarsi nello stomaco di Worthington che si trovò a chiedere, senza nemmeno saperne la ragione: “Perché stai tremando?”

Era stato solo un sussurro roco soffiato al suo orecchio ma, per qualche misteriosa motivazione, Saffie ne fu sconvolta più di qualsiasi altro gesto lui avesse compiuto durante quella nottata. Un rossore furioso, incontrollabile, le invase con violenza il viso, mentre il suo stesso corpo sembrò avere la meglio su di lei, costringendola a voltarsi di scatto fra le braccia dell’uomo che ancora la teneva intrappolata.

Di nuovo, le certezze inamovibili di Arthur furono spazzate via in un battito di ciglia: la piccola strega lo guardava con due occhi sorpresi e pieni di lacrime, illuminati da un turbamento irresistibile.

“…Se la signorina Saffie Lynwood non sia più simile a te di quanto credi.”

No. Questo mai.

La ragazza lo vide sbarrare gli occhi verdi e impallidire di colpo, come se l’uomo avesse capito una realtà di fatto impossibile; osservò immobile l’ammiraglio fare un passo indietro, allontanarsi fisicamente da lei e abbandonare così il campo di battaglia. Fu quasi come se fosse stata la Duchessina di Lynwood a siglare una vittoria su di lui, dopo un combattimento estenuante; eppure, Saffie non provò alcuna soddisfazione.

Perché quelle iridi incredibili ora la guardavano con paura e repulsione.

Marito e moglie si fissarono per un infinito attimo silenzioso, sul limitare del loro odiato confine: una linea netta che li aveva divisi e – allo stesso tempo – sembrava unirli in un legame indissolubile.

L’Atlantic Stinger rollò con dolcezza a babordo, svegliando la Duchessina di Lynwood da qualsiasi incantesimo le avesse obnubilato la mente. Senza una sola parola, la ragazza castana interruppe bruscamente il contatto visivo con Arthur e raggiunse di tutta fretta le scalinate che portavano ai ponti inferiori, agile come un cerbiatto in fuga.

Rimasto pressoché solo sul largo ponte di comando, l’uomo si diresse passivamente verso la lussuosa poltrona in vimini dove, aperto a metà, giaceva il libro regalatogli da Amandine poco dopo il loro fidanzamento e che lui si stava impegnando a finir di leggere. Prima, sembrava non aver mai trovato abbastanza tempo per farlo.

Un mal di testa doloroso aggredì le sue tempie, pulsante e crudele come il ritmo del suo oscuro cuore che, a tradimento, picchiava forte contro la cassa toracica.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

Worthington portò meccanicamente le dita lunghe sugli occhi e un lieve rossore gli tinse le guance abbronzate. Di impulso, odiò sé stesso e Saffie Lynwood come mai gli era capitato da quando si erano incontrati.

“Dannazione!” sbottò ad alta voce, attirando l’attenzione del timoniere a diversi metri da lui, che si voltò a guardarlo, sgomento di fronte al colorito vocabolario del famoso e raffinato Ammiraglio Arthur Worthington.


§


Un rumore di fondo, lontano ma armonioso, arrivò alle orecchie di una signorina Lynwood ancora addormentata. Il piccolo corpo abbandonato fra le coperte, rannicchiato su sé stesso, e i lunghi capelli arruffati che si allungavano senza controllo sul morbido materasso la facevano sembrare più una bambina indifesa, che una giovane dal nobile lignaggio.

Là fuori, dall’altra parte della finestra, il suono continuava a farsi sentire imperterrito e cristallino. Saffie socchiuse allora gli occhi castani, lucidi di sonno, e strusciò i piedi sul tessuto delle lenzuola, assaporando il pigro tepore di cui poteva ancora godere per qualche momento.

È già mattina?

Una luce tiepida filtrò dolcemente nella camera da letto sfatta, dove un mucchio di vestiti giaceva abbandonato sul pavimento di legno dalla sera precedente. La ragazza si chiese se Kitty, o qualcuna delle altre domestiche, avrebbe notato il tessuto stropicciato del suo abito da notte e sperò ardentemente di poter tornare nelle sue stanze senza essere scoperta.

All’esterno, il canto mattutino degli uccellini di casa Lynwood si fece insopportabile.

“Earl” chiamò quindi, senza voltarsi dall’altro lato del letto “È molto tardi e devo andare: Amandine non potrà coprirmi ancora a lungo”.

Il lamento di una voce profonda giunse da dietro di lei mentre, con un gran fruscio di coperte, due lunghe braccia toniche si allacciarono alla sua vita sottile, tirandola indietro, a contatto con il calore di un corpo nudo e muscoloso.

Saffie non poté fare a meno di arrossire furiosamente, con il cuore in gola, nel sentire il tocco gentile di una mano grande e morbida perdersi all’interno delle sue cosce, provocandole immediati brividi di piacere e aspettativa. “Earl” mormorò appena, trattenendo un gemito “Devo…devo andare”.

L’uomo dietro di lei non sembrò nemmeno udire la sua debole protesta. Senza che fosse sprecata parola alcuna, la ragazza dovette subire il tocco passionale di due labbra affamate farsi strada fra le sue scapole e risalire lentamente verso la pelle del suo collo indifeso, inseguendo la linea della spina dorsale con la lingua.

Saffie ora non si curava nemmeno più di trattenere la voce, perché sapeva di essere totalmente preda della persona dietro di lei e di come non vi si potesse opporre. Di come non volesse affatto opporsi.

Mac'era anche un qualcosa di bizzarro: non era da Earl prenderla con tanta passionalità e fame, cercare di dominarla in quella maniera così subdola eppure irresistibile. Crudele.

“È questo il modo in cui hai deciso di combattere?” soffiò una voce profonda al suo orecchio, tanto ironica quanto tentatrice. “Non mi stai opponendo alcuna resistenza, Saffie Lynwood.”

“…mi devi obbedienza.”

La ragazza castana sbarrò gli occhi sul vuoto, terrorizzata. La consapevolezza di non essere con Earl la colpì come un fulmine a ciel sereno e, senza esitare, si voltò di scatto verso colui che ancora la teneva imprigionata saldamente fra le braccia.

“Perché stai tremando?”

Due occhi di un verde incredibile brillavano sprezzanti dietro una massa ribelle di capelli castano scuro, mentre un sorriso appena accennato, da diavolo, si apriva a pochi centimetri dalle sue labbra schiuse dalla sorpresa.

“Tu mi desideri, non è vero?” mormorò Arthur Worthington con voce roca “Questa bocca dice di odiarmi, ma la verità è che mi ha sempre voluto, fin dall’inizio”.

“N-no!” balbettò Saffie, rossa in viso e sconvolta, mentre tentava in tutti i modi di divincolarsi dalla presa dell’ammiraglio. “Io ti detesto più di ogni persona al mondo, per ciò che hai fatto ad Amandine!”

Perché non hai mantenuto la tua promessa?

“Sarai contenta ora” fece la voce di sua sorella minore, sbucata ai piedi del letto senza che Saffie se ne accorgesse. Il viso di Amandine era freddo e senza emozioni, bianco e scavato come quello di un cadavere ma, si disse subito la ragazza castana, era di terribile delusione lo sguardo con cui quelle due iridi turchesi la stavano fissando. “Sei tu che mi hai uccisa, abbandonandomi quando più avevo bisogno di te; questo perché sei veramente meschina come nostro padre.”

Saffie cercò di scendere dal letto, di raggiungerla prima che fosse troppo tardi.

“Non ti lascerò questa volta, lo prometto!”

Perché non sono rimasta con lei, come è sempre stato?

La Duchessina di Lynwood aprì gli occhi castani di scatto, ansimante e ricoperta da un pesante sudore freddo. Fece appena in tempo a mettere a fuoco il soffitto in legno della sua lussuosa cabina, prima che il suo cuore impazzito le riportasse alla mente l’incubo spaventoso dal quale era appena riemersa: alla fine, il suo schiacciante senso di colpa aveva deciso di prendere forma e tormentarla più di quanto già non facesse durante le ore diurne. “E ovviamente, non poteva che trattarsi di Amandine” pensò con rassegnazione Saffie, coprendosi il viso con le piccole mani tremanti “Non importa quanto io possa dire che mi dispiace, che voglio vivere per te…”

…non finché questo odio non vuole saperne di lasciarmi in pace, di trasformarmi ogni volta in una persona che non riesco a riconoscere.

Il canto soave degli uccellini fu sostituito da quello più reale e stonato di qualche inspiegabilmente gioioso marinaio impegnato sopracoperta: in quei giorni, la ragazza aveva infatti imparato come la Royal Navy scoraggiasse qualsiasi atteggiamento potesse ricordare solo lontanamente la condotta tenuta dagli spregiudicati criminali che infestavano le acque dell’Impero. E se il capitano Inrving chiudeva bonariamente un occhio sulla questione, non si poteva chiaramente dire altrettanto del suo inflessibile marito.

Un leggero rossore si diffuse sulle sue guance, ben nascoste tra le piccole dita.

Tanto tempo fa, anche io ho amato qualcuno.

Ma erano due iridi verdi e penetranti, quelle che ora le bruciavano addosso.

Con una sgradevole sensazione che giaceva in fondo allo stomaco, Saffie Worthington serrò le labbra le une contro le altre, odiando sé stessa con grandissima forza.


§


Keeran Byrne respirò a pieni polmoni l’aria salmastra di quella tarda mattinata, sentendo un’inebriante senso di vittoria impossessarsi di lei: non solo era riuscita ad uscire sul ponte della nave tutta da sola e a rispondere con un cenno timido della testa ricciuta ai saluti imbarazzati degli uomini al lavoro; ma aveva pure scritto di suo pugno un breve biglietto alla padroncina Saffie, lasciandolo poi di fianco al vassoio della ricca colazione preparata dal cuoco di bordo.

La moglie del tremendo Ammiraglio le era sembrata profondamente addormentata e, dopo gli avvenimenti del giorno precedente, l’irlandese non se l’era sentita di svegliarla.

In ogni caso, l’ansia sociale di Keeran non le aveva mai impedito di essere una buona osservatrice e, anzi, le era bastata una prima occhiata al ponte sopracoperta per comprendere che quella giornata non si annunciava affatto simile a quelle che l’avevano preceduta: una frenesia bizzarra serpeggiava fra i membri dell’equipaggio tutto; dalla prua dell’Atlantic Stinger fino all’importante ponte di comando un viavai di formiche si contorceva ansioso, mentre altrettanti piccoli puntini scuri correvano sugli alti marciapiedi dei pennoni che sorreggevano le vele, ora totalmente spiegate e gonfie di vento freddo.

Un piccolo plotone di soldati in divisa rosso sangue superò la ragazza a passo veloce, ignorandola completamente e dirigendosi verso un nutrito capannello di Ufficiali della Marina riunito nelle vicinanze dell’albero maestro. Tra loro, Keeran individuò immediatamente la figura salda – da padre bonario – del capitano Inrving impegnato, a quanto pareva, nello scrutare un punto imprecisato dell’oceano attraverso un elaborato cannocchiale; al suo fianco, l’imponente Ammiraglio Worthington parlava veloce, probabilmente impartendo misteriosi ordini ai comandanti e tenenti raccolti intorno a lui.

La giovane pensò che l’espressione dell’uomo sembrava più cupa e fredda del solito, e se ne chiese il perché.

Che sia a causa della signora Saffie?

In effetti, la notte prima era successo qualcosa di parecchio originale: l’irlandese ricordava di essere stata svegliata dal suo sonno ristoratore proprio dalla Duchessina che, disordinata e sconvolta, irrompeva in camera e si buttava a faccia in giù sul suo morbido letto, lasciandosi sfuggire un lamento che alla domestica era parso di puro imbarazzo e nervosismo.

Ed era stato strano per lei vedere la sua padroncina in quello stato, poiché considerava Saffie Worthington alla stessa stregua di una incantevole salvatrice: dall’alto dei suoi ventisette anni e della sua quieta intelligenza, l’irraggiungibile figlia di uno dei nobili più importanti di Inghilterra era per l’irlandese un incrollabile simbolo di speranza, tanto luminoso da averne forse più paura di tutto il resto.

Tutto il contrario dell’uomo con cui si era unita: Keeran identificava il Generale Implacabile con un abisso oscuro e tetro, dove era meglio non immergersi troppo a lungo perché, di certo, non si poteva mai sapere cosa attendeva in agguato sul fondo.

Saffie e Arthur erano due elementi fin troppo diversi, che non potevano incontrarsi davvero.

L’irlandese non fece in tempo a pensare ad altro, poiché un urlo giovanile ed entusiasta le arrivò dall’alto ed ebbe l’effetto di distrarla di botto dai suoi ragionamenti. “Signorina Byrne! Da questa parte!” fece la persona misteriosa, alzando il tono di voce. “Quassù!”

Gli occhi neri della diciassettenne si levarono in direzione del ponte di comando dove, stagliato contro un cielo di un azzurro incredibile, stava in piedi l’alto Douglas Jackson, apparentemente in forma smagliante. Le braccia appoggiate al parapetto e una massa di riccioli biondi che si agitava sul suo viso da combinaguai, il ragazzo non pareva la stessa persona che, neanche ventiquattro ore prima, era stata colpita con tanta cattiveria dalla frusta del nostromo. Anzi, i suoi occhi brillavano di un fuoco vivo e sfrontato, sia pericoloso che attraente.

Come un angelo che lei, povera creatura dannata, non poteva sperare di raggiungere.

Arrossendo a vista d’occhio, Keeran si portò le dita sugli occhi infastiditi dal sole e osò chiedere, non senza la sua classica dose di timore ansioso: “Buon-buongiorno! State bene, signor Jackson?”

La ragazza fu fiera di sé stessa e della sua frase, infine pronunciata senza troppi balbettamenti: forse la signora Saffie non aveva poi tutti i torti, nel continuare a dirle che non era di certo nata solo per essere un fallimento vivente. Che poteva essere come tutti gli altri o, come insisteva la Duchessina, semplicemente sé stessa.

Il sorriso mascalzone del mozzo sembrò allargarsi sul suo giovane viso, mentre quest’ultimo esclamava, avvicinando una mano all’orecchio e cominciando a ruotarla con noncuranza: “Dovrete avvicinarvi di più!”

“Cre-credete possa raggiungervi fin las-lassù?”

“E perché no?” la raggiunse ancora quella voce sorniona, malgrado le folate di forte vento che scuotevano la nave. “Oggi pare siano tutti troppo occupati per interessarsi a gente della nostra risma!”

Una strana risata sfuggì dalle labbra carnose dell’irlandese e questa volta toccò a Douglas arrossire di cocente imbarazzo. Fu così che decise di aggiungere, alzando le mani rovinate davanti a sé: “Non…non che voi siate poco importante, signorina Byrne!”

Rilucenti come una pietra preziosa, due occhi di un nero innaturale furono su di lui in un momento. Keeran lo guardò con grande sorpresa, mentre inconsciamente si faceva vicino alle scalinate che conducevano al ponte superiore.

“Cioè, siete la dama di compagnia della Duchessina di Lynwood, niente meno!”

Fu altrettanto fulminea la tristezza pungente che le attraversò il cuore al suono di quella frase, proprio nell’attimo in cui il suo piede si poggiò sul primo gradino.

Ti stavi già montando la testa, illegittima?

Da sola, non sei niente.

Dopo un profondo respiro di incoraggiamento, l’irlandese risalì le gradinate con una strana furia in corpo, come se volesse far dispetto al pensiero che poco prima l’aveva colta a tradimento. Di certo, era quello che avrebbe fatto anche la signora Saffie!

Una volta che ebbe raggiunto Douglas, si concesse di ricambiare timidamente il sorriso che quest’ultimo le dedicò, pieno di soddisfatta ammirazione.

“Ben arrivata, signorina Byrne” le disse lui, divertito. Fece un inchino profondo nella sua direzione, portandosi una mano sul petto, come avrebbero fatto gli importanti Ufficiali che di solito dominavano tutto e tutti dall’alto di quella postazione, insensibili alle fatiche della forza lavoro sotto di loro.

E allora Keeran Byrne si inchinò a sua volta con la grazia di un fragile cigno, parendo più una morbida principessa che una ragazzina sperduta. “Vi ringrazio, messere” riuscì persino a scherzare, alzando elegantemente i lembi del suo semplice abito verde.

Dietro di loro, il timoniere di servizio – il signor McCavoy, per l’appunto – li guardava a bocca spalancata, sbalordito per la seconda volta in meno di quattordici ore.


§


Letteralmente sbalordita…sì, era proprio quella la definizione giusta.

Da cinque minuti buoni, Saffie Worthington fissava con occhi spiritati le figure ignare e beate di Keeran Byrne e Douglas Jackson chiacchierare allegramente, i volti arrossati più dall’emozione che dalla forte brezza marina. Parlottavano sul ponte di comando alla domestica proibito, forse più di quanto non fosse per la stessa Duchessina, noncuranti pure nei confronti dell’uomo di mezza età inchiodato davanti al grande timone dell’Atlantic Stinger; il signor McCavoy guardava i due giovani con occhi atterriti, forse incerto se richiamare l’attenzione di qualche Ufficiale oppure lasciar perdere.

Ma niente, l’irlandese rideva ora con l’aria più adorabile e impacciata del mondo alle parole misteriose di un mozzo che, dopo la punizione del giorno precedente, sembrava voler a tutti costi giocare con il fuoco.

La ragazza castana si lasciò scappare un sorrisetto beffardo e, al contempo, scettico: si era svegliata da neanche due ore e, davvero, non sapeva se provare più orgoglio o rabbia nei confronti della sua domestica personale, piccolo pulcino che stava cercando di abbandonare il suo guscio.

Fra le altre cose, alla signorina Byrne diceva fortuna che Saffie avesse deciso di affrontare quella attraversata vestendo solamente pregiati abiti dal taglio semplice, e non di certo i pomposi vestiti francesi procurati da Cordelia. Altrimenti, si trovo a pensare Saffie con divertimento, le sarebbe toccato aspettare rinchiusa in cabina che Keeran si ricordasse della sua esistenza!

“E allora ci conviene fare in fretta. Su questo non voglio alcuna discussione.”

Una voce di terribile freddezza e autorità si fece sentire dietro di lei, ghiacciandola sul posto. Con il cuore in gola, la ragazza castana girò il viso giusto in tempo per inquadrare le figure di diversi ufficiali avvicinarsi pericolosamente al ponte superiore, dritti nella direzione in cui si trovavano Douglas e l’irlandese. Fra loro, ovviamente, Arthur Worthington apriva pomposamente la fila.

Se non si fosse decisa a fare qualcosa, sarebbero stati guai seri sia per la sua domestica personale che per lo sciocco signor Jackson. Non erano nemmeno da considerare, poi, le fastidiose frecciatine che il suo noioso marito non si sarebbe di certo risparmiato di lanciarle addosso; e Saffie stessa non se la sentiva proprio di incontrarlo, non subito dopo il loro confuso ultimo incontro.

Per non parlare dell’assurdo sogno fatto quella notte.

Animata quindi da buonissime ragioni, la ragazza si fiondò sulle scalinate del ponte di comando a passo di marcia, senza perdere neanche un istante. Raggiunse i primi gradini in due minuti netti, scansando con indifferenza il nutrito gruppo di marinai al lavoro intorno a lei.

“Keeran!” sibilò con urgenza, non appena i suoi occhi si furono agganciati a quelli neri e sorpresi della domestica, come se l’irlandese non si aspettasse affatto di trovare la Duchessina di Lynwood lì, già a metà scalinata, tutta trafelata e in evidente stato di agitazione.

“Si-signora?”

Dal canto suo, Saffie stava per aprire di nuovo le labbra e parlare, se il rollio violento della nave non l’avesse colta alla sprovvista proprio nel momento peggiore, con una gamba protesa in avanti e le mani strette nervosamente attorno alla fine seta della gonna, quindi ben lontane dalla sicurezza del corrimano di legno. In un secondo, la ragazza sentì il suo stesso corpo sbilanciarsi pesantemente all’indietro, inseguire inerme una forza di gravità contro cui non era possibile lottare, mentre i suoi occhi spaventati si aprivano su una porzione caotica di cielo azzurro e candide vele.

Non fece neppure in tempo a maledire la sua immancabile goffaggine – o la sconsideratezza di Keeran e Douglas – che la sua schiena non impattò contro il duro pavimento dell’Atlantic Stinger, ma bensì aderì a una superficie inaspettatamente morbida.

“Non desidero alcun pietoso ringraziamento da parte tua…Sono stato costretto ad aiutarti.”

Un muto attimo di silenzio pietrificò la scena finché, d’istinto, Saffie si decise ad alzare lentamente la testa castana, strusciando la nuca contro il petto di un Arthur Worthington più seccato che mai. Dall’alto, due iridi di un verde cristallino la osservavano con durezza e distacco, incastonate su un volto dall’espressione indecifrabile.

“Tu mi desideri, non è vero?”

Un rossore fulmineo colorò il viso della Duchessina, che non riuscì a fare altro se non continuare a fissare l’uomo come una perfetta ebete, le graziose labbra schiuse e nessun suono che effettivamente vi usciva fuori. Non sapeva bene come reagire, ed era parecchio inusuale per una come lei.

“Stai attenta a dove metti i piedi” le mormorò l’ammiraglio freddamente e, facendo leva sulle forti braccia, spinse con delicatezza il leggero corpo di Saffie in avanti, di nuovo al sicuro sui gradini della scala. Poi, senza aggiungere una sillaba né guardarla, Arthur la superò con indifferenza, trincerato nella sua importante divisa blu e oro, che sembrava quasi risplendere accecante ad ogni suo passo.

Eppure, Saffie fece in tempo a intravedere la mano sinistra dell’uomo premere con forza sul braccio ferito e fu fulminata dal ricordo delle sue stesse dita che, tremanti, si stringevano attorno alle braccia di Worthington, protese in avanti per afferrarla; e dire che, durante la sua caduta di pochi istanti prima, nemmeno se ne era resa conto.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi”

Fu quindi con un doloroso groppo incastrato in gola che la ragazza provò a dire, mentre fissava l’ampia schiena dell’uomo allontanarsi: “Il tuo braccio sta…”

“Vi avevo detto di non venire qui, se non sbaglio” la interruppe subito Arthur, voltando appena la chioma bruna nella sua direzione “Voglio che oggi ve ne stiate chiusa nei vostri alloggi; portate pure con voi la vostra dama di compagnia”. Detto ciò, si rivolse a un più che atterrito Douglas e lo uccise con uno sguardo carico di mal controllata rabbia. “Signor Jackson, non fatemi pentire di aver fermato la mano del nostromo, ieri. Tornate al vostro lavoro di fatica senza fiatare.”

E allora Saffie non poté fare altro che piantarsi le unghie nei palmi delle mani, mentre un risentimento velenoso cominciava a bruciare dentro il suo stomaco, a pari passo con la rabbia del maledetto uomo che – ignorando tutto e tutti – provvedeva a sparire sul ponte di comando in poche lunghe falcate.

Già, si trovò a considerare, come aveva potuto essere così stupida?

È un uomo che non puoi comprendere, proprio perché così diverso da te.

“A-ehm.”

Uno strano suono roco si fece sentire forte e secco alle sue spalle, distraendola dall’odiato Arthur Worthington.

Carica di abbastanza veleno per uccidere un intero reggimento, Saffie voltò il busto di scatto e i suoi occhi da Medusa pietrificarono per l’appunto il piccolo gruppo di Ufficiali della Marina radunatosi sul fondo della scalinata, impegnati a guardarla come tante mute pecorelle. Con grande forza d’animo, Henry Inrving si fece avanti e chiese, sorridente come sempre: “Mia cara signora Worthington, credete di poter concedere anche a noi il permesso di salire di sopra?”


§


Il mare era gonfio di onde selvagge, sospinte da un vento freddo e pungente. Il cielo che fino a un’ora prima si apriva limpido sopra di loro era diventato una massa grigiastra di nuvole asettiche e in qualche modo minacciose, sempre in movimento. Il tempo era difatti mutato in uno schiocco di dita, senza che la signora Worthington e la sua turbata ira ci facessero troppo caso.

“Voglio che oggi voi ve ne stiate chiusa nei vostri alloggi; portate pure con voi la vostra dama di compagnia”

“Dannato Worthington!” sbottò a bassa voce Saffie, abbattendo con ben poca nobile grazia la sua piccola mano sul parapetto di legno del ponte di prua, luogo in cui si era rifugiata disobbedendo così agli ordini insensati del suo tedioso coniuge. “Ancora pensa di potermi comandare come se fossi, non so, una bambola di porcellana?”

“Per te Amandine rappresentava solo l’ennesimo trofeo da appendere alla parete: lei ti aspettava, ma è stata la tua ambizione ad ucciderla.”

La ragazza abbassò gli occhi scuri sulle sue dita fredde, intrecciate le une con le altre sulla lucida superficie della balaustra. Ed era uno sguardo di combattuta tristezza quello che ora trasmettevano le sue iridi, specchio del sentimento disturbante presente nel suo cuore da diversi giorni a quella parte. Un dubbio che era riuscito a germogliare dentro di lei fin troppo facilmente, proprio come aveva fatto l’odio nei confronti dell’ammiraglio.

Saresti stata felice con lui, Amandine?

Sciocca. Ma davvero non hai capito che Worthington l’avrebbe trattata come il suo tesoro più prezioso?

Fu come se il colpo di sferza che ieri era riuscita ad evitare la colpisse diretto e letale, ma pur sempre a tradimento. Saffie si portò una mano sul petto in maniera automatica, nel patetico tentativo di arginare quell’improvviso e non richiesto dolore.

Sei tu ad aver negato loro la felicità.

Gli angoli dei suoi occhi grandi cominciarono a riempirsi di lacrime, al ritorno del suo inseparabile senso di colpa e di pensieri tanto confusi quanto terribili.

Nemmeno se fossi stata figlia unica, lui ti avrebbe mai considerata.

Grazie al cielo, il pianto annunciato di Saffie fu frenato da due piccole mani che, inaspettate, si aggrapparono alla gonna celeste della Duchessina, iniziando a tirarne il tessuto verso il basso con fastidiosa forza. Dopo un sussulto spaventato, la ragazza voltò lo sguardo lucido alla sua destra, inquadrando un paio di occhi azzurri e incuriositi: al suo fianco, era silenziosamente apparsa la figura di un bambino non troppo pulito che, a suo parere, qualcuno doveva esser riuscito a vestire in maniera almeno decente a suon di minacce e sculacciate. I capelli castani erano malamente pettinati di lato, sporchi di uno strano grasso di cui lei non volle nemmeno provare a indagarne la provenienza.

“Buongiorno” esordì quindi Saffie, prodigandosi in un sorriso rassicurante e gentile. “Tu devi essere il piccolo ragazzo di bordo, non è vero?”

A conferma della sua ipotesi, la testa del bambino si piegò una volta sola, in avanti. Prima che la ragazza potesse aggiungere qualcos’altro e chiedergli il suo nome, l’ultimo arrivato sillabò: “Quello”.

“Quello?” ripeté Saffie perplessa, inclinando la testa castana di lato.

Il ragazzo di bordo annuì ancora e alzò un esile braccio, indicando un punto imprecisato di fronte a loro senza però staccare gli occhi turchesi da lei. “Cos’è quello?”

La Duchessina voltò il viso in direzione del mare agitato e, con uno strano brivido sottopelle, comprese immediatamente a cosa il bambino stava facendo riferimento: Quello era un imponente vascello che, scivolando muto sulle acque scure, puntava dritto, dritto sull’Atlantic Stinger a velocità sostenuta.

Saffie udì un grido, o forse il suono lontano di una campana, mentre i ricordi delle storie che aveva scritto per il divertimento di Amandine tornavano – paradossali – alla sua mente in meno di un secondo. Spostò gli occhi nuovamente sul bambino che, attaccato alle sue gonne, ancora attendeva una risposta e lo guardò con atterrita incertezza.

Perché la nave che correva verso di loro non batteva alcun tipo di bandiera.




Angolo dell’autrice:

Buonasera e Buon fine Settembre! :D

Sono riuscita a mantenere la mia promessa di pubblicare entro fine mese, visto?

*Sweet Pink sospira di sollievo misto a rassegnazione*

Ahimè, mi sono resa conto che non mi è possibile in alcun modo velocizzare la redazione dei capitoli di Away with you che, come già vi avevo accennato, è una storia a cui sto cominciando a tenere molto: mi sto affezionando al rapporto complicato di Saffie e Arthur, all’ambientazione, alla trama…e, per questo, non ho intenzione di sacrificare la profondità sull’altare della pubblicazione veloce! Oddio, in realtà credo che non ci riuscirei nemmeno se volessi! XD

Stesso discorso vale per la lunghezza dei capitoli: so bene che sarebbe molto più conveniente spezzarli in tante parti e così aggiornare in maniera molto più frequente, ma penso che il mio modo di scrivere ne risentirebbe. Mi parrebbe di avere di fronte una storia zoppicante, quando io ho bisogno di avere chiari in mente blocchi interi di avvenimenti, di dare una continuità a ciò che accade.

Poi, volete mettere la mia difficoltà nel trovare un titolo a – che so – Ottanta o Novanta capitoli? XD

Tutto questo per chiedervi scusa, nel qual caso abbiate trovato questo Sesto capitolo troppo lungo e, almeno, spero ne sia valsa la pena, ecco!

Io mi sono divertita un sacco a scriverlo!

*Sweet Pink se la ridacchia in maniera beffarda*

E il prossimo….oh, il prossimo! Non vedo l’ora di vedere che accadrà!

Soprattutto alla luce del caos che regna nei cuori di Arthur e Saffie: i due si giurano ancora odio? Mh, penso che questo confine li obbligherà ad affrontarsi nuovamente…o forse affrontare sé stessi, chissà!

Ah! Non dimentico mai di ringraziare chi mi segue, chi mi ha scritto in privato e anche chi si è preso un po’di tempo per lasciarmi una recensione! Grazie, grazie, grazie! Mi date un sacco di forza e spero possiate darmene ancora, facendomi magari sapere cosa ne pensate di questo capitolo!

Vi è piaciuto?

*Sweet Pink abbassa gli occhi, sperando tanto di sì*

Ce la metterò tutta per pubblicare entro fine Ottobre!

Un abbraccione virtuale,

Sweet Pink

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Capitolo 8
*** Settimo. Prede e predatori. ***


Avvertenza: Il seguente capitolo affronta tematiche sensibili quindi, per favore, procedete nella lettura con cautela.

Io sarò ad aspettarvi nel mio Angolino, a fine lettura.

Grazie mille.




CAPITOLO SETTIMO

PREDE E PREDATORI




Non c’era più alcun dubbio: il puntino sfocato che solcava le acque scure stava avanzando dritto nella loro direzione, diventando di minuto in minuto più grande e definito. Un nero vascello dalle dimensioni piuttosto imponenti correva infine verso l’Atlantic Stinger, e sembrava avere tutte le intenzioni di piombare loro addosso.

Senza lasciar trasparire alcun tipo di emozione, Arthur Worthington accettò l’elaborato cannocchiale che il capitano Henry Irving gli porse e vi scrutò dentro in pensoso silenzio. Attraverso la lente dell’apparecchio, il suo sguardo poté però cogliere alla perfezione non solo il brulicante viavai galvanizzato di marinai male in arnese, ma pure una bandiera che veniva issata tra risate e urla di guerra.

E si trattava di una bandiera nera.

Un disgusto nauseabondo gli risalì bruciante nella gola, seppure gli angoli delle sue labbra sottili si piegarono all’insù impercettibilmente.

“Hanno issato la Jolly Roger” disse dopo poco, ancora senza alcuna particolare inflessione di tono.

Dietro di lui, si fece sentire la voce entusiasta e ammirata del giovane tenente James Chapman: “È andata proprio come pensavate, Ammiraglio!” esclamò il ragazzo, con grande soddisfazione “Eravamo realmente inseguiti dalla Mad Veteran!”

“Sconsiderato da parte loro attaccare una nave da guerra, contando la nostra potenza di fuoco.”

“Il loro capitano deve essere un vero folle: non battiamo alcuna bandiera che indichi la presenza di un Alto Ufficiale, ma è pur vero che l’Atlantic Stinger non assomiglia per nulla ad un vascello mercantile.”

Arthur Worthington ignorò i commenti perplessi dei sottoposti riuniti sul ponte di comando, poiché non erano di certo informazioni né nuove, né importanti per lui. Difatti, una smorfia di crudele aspettativa sembrò profanargli il volto attraente all’improvviso; ed era quel genere di espressione che solo chi aveva combattuto al suo fianco poteva dire di aver imparato a riconoscere.

Perfetto” sussurrò l’ammiraglio, senza riuscire a trattenere un sorriso di famelica malvagità. “Preparate gli uomini, capitano: aspettiamo visite.”

Come a voler confermare la sua tesi, il coro di urla fanatiche e belluine che prima poteva solo udirsi in maniera impercettibile si fece più vicino e chiaro, mentre la nave pirata si approssimava alla loro.

Il tenente Chapman alzò un sottile sopracciglio chiaro, gli occhi grigi specchio di ironia e ilarità. “Sentite come sono carichi!” commentò, incrociando le braccia al petto con eleganza. “Quella feccia pensa veramente di poter aver ragione su di noi?!”

Henry Irving fece un lieve cenno silenzioso con la testa imparruccata a due tesi sottotenenti che, senza perdere un attimo, girarono i tacchi e sparirono di corsa nei ponti inferiori; i suoi occhi sempre ridenti comunicavano ora una serietà inflessibile mentre, corrugando la fronte, si voltava in direzione dell’imponente figura di Arthur. “Siete sicuro di voler combattere, Ammiraglio?” chiese, in tono piatto e apparentemente casuale “L’Atlantic Stinger è un vascello molto veloce, pensato per azioni di mobilità agile. Possiamo ancora affondare quella nave o, nel caso, seminarla.”

Di tutta risposta, l’uomo preso in causa chiuse il cannocchiale con un gesto secco e si girò a sua volta, piantando due limpidi fanali verdi sul viso del capitano che, inconsapevolmente, si irrigidì di colpo. Non aveva sprecato alcuna parola, eppure l’ammiraglio era riuscito a comunicargli tutta la sua glaciale determinazione solo con un’unica ferma occhiata.

Dietro le ampie spalle di Worthington, James Chapman guardò Inrving come se quest’ultimo fosse impazzito di botto e avesse cominciato a sragionare.

“La Mad Veteran è il vascello da guerra appartenuto al defunto Seymour Porter, l’uomo che l’anno scorso si è ammutinato contro di noi, rinnegando così i suoi doveri di corsaro della Corona” spiegò infine Arthur con calma granitica, porgendo il cannocchiale ad un onoratissimo tenente Chapman. “Ora che hanno commesso il grave errore di mostrarsi, non perderò di certo questa opportunità. Quella nave è veloce quasi quanto questa e io la voglio.”

“Dite di volerla…per l’Impero, o per voi?”

“Entrambe le cose. C’è altro?”

Gli occhi seri di Arthur erano pervasi da un’emozione costituita di puro e irrefrenabile desiderio, adamantina forza di volontà; ed Henry Irving ebbe modo di comprendere che ogni opposizione sarebbe stata vana contro l’inamovibile ambizione dell’ammiraglio: un leggero brivido di soggezione corse lungo la spina dorsale del capitano, mentre a quest’ultimo venne da pensare – quasi a tradimento – che sul fondo di quelle iridi verdi si nascondeva ben più di quanto Worthington lasciasse intendere.

“Era questo dunque il vostro intento?” osò quindi chiedere, deglutendo a fatica. “Ieri avete dato ordine di rallentare la velocità di navigazione…è a questo che miravate?”

Un ghigno disumano, di beffarda intelligenza, si palesò sul volto dell’uomo di fronte a lui che commentò, in maniera vaga: “L’Atlantic Stinger è un vascello costruito per inseguire, non essere inseguito”.

Senza aspettare risposta alcuna, cominciò poi ad avviarsi verso le scalinate che conducevano ai ponti inferiori, raggiungendole in pochi grandi passi. Sotto di loro, un viavai di soldati in divisa provvedeva a mettersi in posizione lungo la linea di fuoco, imbracciando con tesa solerzia i lunghi moschetti, pronti a dare il benvenuto agli schifosi criminali in arrivo; mentre, dei restanti marinai, la maggior parte stringeva tra le mani spade o coltelli dalla fattura rozza e in muto silenzio si preparava alla battaglia imminente, a malapena smossi dalla potente voce di un Shaoul Brown più carico che mai.

Arthur si fermò in cima alle scale, voltandosi per l’ultima volta indietro. La sua chioma scura e ribelle si agitava sul viso trasformato in una maschera di letale brutalità, ed egli parve proprio la rappresentazione di un terribile diavolo. “Che non sia sparato un solo colpo di cannone. Farò mia la Mad Veteran senza che ne venga danneggiata una sola parte.”

È questa mia sfrenata ambizione ciò che più amo, questo mio dovere incorruttibile, che inghiotte tutto il resto.

“Bene” rispose infine Henry Irving, stiracchiando le labbra in un sorriso tanto storto quanto teso. Gli pareva quasi di star parlando con la notte stessa e fu forse per questo motivo che un sudore ghiacciato si impossessò di lui: il combattimento era questione di minuti ed era chiaro che il famoso Generale Implacabile non avrebbe perdonato nessun errore.

“Bene” ripeté ancora, mentre decideva di accostarsi all’elaborato timone della sua nave, dove un pietrificato signor McCavoy osservava la scena pallido come un cadavere vivente. Il capitano agitò appena una mano nella sua direzione e il fido timoniere si fece subito da parte, lasciandogli il posto con un rigido inchino deferente. “Se dobbiamo farlo, allora che sia un lavoro coi fiocchi” disse, afferrando i pomelli con tranquillità, sebbene l’occhiata che lanciò in direzione di Arthur comunicò più che altro livida concentrazione. “Prenderò io stesso il comando.”

Il ghigno stampato sul viso di Arthur sembrò allargarsi in maniera indecente.

“Era ciò che pensavo, capitano” commentò, prima di girarsi e scendere velocemente i gradini, seguito a ruota da un improvvisamente ansioso James Chapman. Il giovane tenente se ne stette in silenzio fino a metà scalinata ma, incapace di trattenersi oltre, osò chiedere: “Farete parte della prima linea, signore?”

Un silenzio strano fece seguito alla domanda del ragazzo che, perplesso, alzò timoroso gli occhi grigi sull’alta figura al suo fianco: non era una novità che l’ammiraglio non gli rispondesse – ormai ci aveva fatto l’abitudine – quanto piuttosto il fatto che si fosse fermato di botto, come se si fosse ricordato di qualcosa all’improvviso.

“Signore?”

Gli occhi glaciali dell’uomo erano però fissi in avanti, inchiodati con evidente rabbia su un punto imprecisato a prua dell’Atlantic Stinger.

“Quella maledetta ragazzina.”

Si era trattato di un sibilo da serpente a sonagli, schietto e velenoso, ma ebbe l’effetto di far tremare persino il cuore del fedele James che voltò nervosamente il viso, non senza una buona dose di improvvisa agitazione. Non gli ci volle effettivamente molto per inquadrare la piccola sagoma della testarda signora Worthington: ignorando del tutto gli ordini del marito, la ragazza era un puntino celeste sperduto nella caotica organizzazione dei preparativi, ma la vera disgrazia stava nel fatto che si fosse trasformata in un bersaglio fin troppo visibile, una preda inaspettata e ambita.

“E se decidessi che non è così? Se non volessi sottostare ai tuoi ordini?”

L’ira contenuta nelle iridi chiare di Arthur sembrò mutare in genuino disprezzo mentre, a labbra serrate, osservava Saffie girarsi atterrita in direzione del ragazzo di bordo e sussurrargli parole misteriose; gli occhi dell’uomo saettarono poi sulla Mad Veteran: la nave era talmente vicina da essere a tiro dei cannoni dormienti. Non c’è tempo.

In fondo, che ti importa di lei?

È il potere che conta davvero.

Per l’ennesima volta, si trovò a considerare l’ammiraglio, sua moglie rappresentava l’elemento al di fuori della cornice, l’oggetto estraneo posto sopra una scrivania perfettamente ordinata. Ancora, la dannata Duchessina di Lynwood era colei che portava disastro nella sua perfetta visione delle cose, scombinandogli i piani proprio come aveva fatto fin dal primo momento in cui si erano incontrati.

“Parli proprio tu, grande Ammiraglio…per te Amandine rappresentava solo l’ennesimo trofeo da appendere alla parete.”

Una fastidiosa crepa sulla superficie liscia dello specchio, di quelle che ne deformano il riflesso, e restituiscono un’immagine diversa da ciò che ci si aspetta di vedere.

Poiché credevo di averla seppellita, la persona che ero un tempo.

La collera cieca si contorceva orribile e incontrollata dentro di lui, chiedendogli a gran voce di lasciare la piccola strega al suo destino e così non solo liberarsi di lei ma, sopra ogni cosa, punirla per la vergognosa colpa di cui la riteneva responsabile.

Che perfetta occasione, no?

Arthur la vide chinarsi sul bambino impaurito e prenderlo per mano con dolcezza, cercando di rassicurarlo e contemporaneamente provare ad avviarsi in direzione degli alloggi, quasi come se l’inferno non stesse per abbattersi su di loro. Eppure, lo sguardo attento dell’uomo colse subito l’espressione di muto terrore stampata sul viso grazioso di Saffie; malgrado questo, lei cercava in tutti i modi di sorridere pacata, di non tradirsi di fronte allo sperduto ragazzo di bordo.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

“Maledizione!” sbottò seccato, non sapendo se essere più disgustato di sé stesso o arrabbiato nei confronti della ragazza castana. Con un balzo agile, Worthington saltò gli ultimi gradini della scalinata e – senza far caso ad uno sbalordito tenente Chapman che provava a tenergli dietro – cominciò a correre lungo il ponte sopracoperta, un terribile sguardo inciso nelle iridi smeraldine.

A metà strada, voltò appena la testa scura per sbraitare, in direzione del ragazzo alle sue spalle: “Rimanete qui, per Dio! Non ho bisogno di una balia!” e, dopo aver incontrato lo sguardo colpito di James, aggiunse “Sapete bene ciò che dovete fare”.

Il tenente Chapman fermò i suoi passi e uno strano sorrisetto freddo stirò le sue belle labbra da insolente. “Certo” commentò sottovoce, portando la mano pallida sull’elsa elaborata della sua amata spada; perché, in effetti, pochi sapevano che lui stesso aveva già combattuto diverse volte al fianco dell’ammiraglio, in quegli anni. “Devo ucciderne più che posso.”



§



All’approssimarsi della misteriosa nave e alle grida indistinte che cominciavano ad udirsi provenire da essa, un infimo sudore ghiacciato strisciò sotto la pelle della Duchessina di Lynwood, permeandone i vestiti eleganti e lasciandola preda di un sentimento nuovo, molto simile al terrore cieco.

Incapace di muovere un solo muscolo, la ragazza non poteva fare altro che osservare l’oscuro vascello farsi di secondo in secondo più vicino, tagliando silenziosamente l’acqua come se fosse stata burro fuso, senza effettivamente incontrare alcuna resistenza da parte dell’oceano agitato: a Saffie parve quasi che il mare stesso si preparasse ad essere il perfetto campo di una battaglia imminente, creando un contesto identico a quello dei romanzi d’avventura che piacevano tanto a lei e ad Amandine.

Solo che, questa volta, sta accadendo per davvero.

“No, non ci sarà alcun combattimento” pensò subito la ragazza, serrando con forza le mani tremanti attorno alla balaustra di legno del parapetto, poiché sentiva di avere le ginocchia in procinto di cedere da un momento all’altro. “Siamo ancora in tempo per poterli seminare, non è vero?”

Il cuore martellava forte contro i suoi timpani mentre, stupidamente, Saffie cercava di convincersi che il capitano Inrving e i suoi Ufficiali avrebbero optato per l’attuazione di una strategia difensiva, atta a preservare sia gli uomini che l’incolumità dell’Atlantic Stinger. Eppure, dentro di sé, sapeva già di starsi solamente ingannando.

Perché era solo una, la persona che comandava sul serio.

“… è un rischio che sono disposto a correre volentieri, se ciò significa assicurare una caduta sorda a quei disgraziati.”

Seminarli? Come aveva potuto anche solo pensare un’eventualità del genere?

Ingenua. Arthur Worthington non ha alcuna pietà.

Una stretta micidiale agguantò lo stomaco della ragazza castana, facendole venire un improvviso e nauseabondo senso di vomito imminente: l’ansia penetrava a fondo tra le pieghe della sua anima sperduta, mentre lei continuava a fissare ad occhi spalancati la nave davanti a loro issare una bandiera tragicamente nera.

Il rumore provocato dai battiti del suo cuore impazzito era insopportabile, ma mai quanto il sottofondo incessante dei suoi pensieri spaventati, che rimbalzavano senza alcun ordine da una parte all’altra della sua mente. Si trattava di un indistinto lavorio furioso, tanto tremendo che a Saffie quasi venne da coprirsi le orecchie con le dita, proprio come faceva quando era una bambina piccola e non voleva ascoltare i rimproveri della onnipresente Kitty.

“Hanno issato la Jolly Roger!”

“Maledetti schifosi! Pensano di spaventarci?”

“Che vengano allora!”

Un coro di urla rabbiose esplose dietro le sue esili spalle tremanti, facendola sussultare sul posto con violenza. Il sentimento orribile di cui era preda parve allora ingigantirsi come un’onda fatta di tenebre, da cui non poteva esserci via di fuga. Ci si affogava dentro…morendo sul fondale.

Che devo fare? Non riesco a muovermi. Ci sono tante urla. Devi scappare. Non riesco a muovermi! Moriremo! Voglio tornare a casa. Nasconditi! Perché non riesco a muovermi? Voglio vedere mio padre. Sciocca, sciocca, sciocca! È colpa di Worthington! No, tu meriti questo!

Saffie serrò le palpebre di scatto, deglutendo a fatica. Cercava di nascondersi, ma tutto sembrava essere inefficace contro l’essere orribile partorito dal vortice ininterrotto dei suoi stessi pensieri: immersa nell’oscurità accecante del suo animo, la paura di morire se ne stava a fissarla con due crudeli occhi di fuoco.

Il tremore delle sue piccole mani si fece più intenso, e fu un movimento violento che prese a scuoterla tutta, andando a pari passo con le urla attorno a sé, l’odore nauseabondo di polvere da sparo e la sensazione angosciante di imminente pericolo. Che devo fare?

Non voglio morire!

Una pallida manina si poggiò con delicatezza sulle sue dita fredde e Saffie Worthington aprì gli occhi sul vuoto. La ragazza castana si voltò lentamente in direzione della persona che l’aveva toccata, stampata sul viso grazioso l’espressione stravolta di un animale in punto di morte: il giovane ragazzo di bordo era ancora in piedi al suo fianco e, non solo non era scappato a gambe levate, ma i suoi occhi turchese la guardavano con ansia crescente, come se si aspettasse da lei una illuminazione divina.

“Che facciamo?” pigolò infine, stringendo le sue piccole dita attorno a quelle di Saffie.

Come se fosse stata una pazza, l’immagine fugace delle labbra nervose di Amandine le galleggiò davanti per un secondo.

“Saffie! Oddio, che agitazione! Come farò?”

Il bambino aveva lo stesso incredibile sguardo di sua sorella minore e le stava chiedendo aiuto. Era indifeso, impaurito, e aveva bisogno di lei perché – in mezzo a tutti quegli adulti che si erano scordati della sua esistenza – lui non sapeva proprio cosa fare.

Sapeva solo di avere paura e di non voler morire.

Fu tutto ciò che volle a Saffie per riacquistare una manciata di autocontrollo perduto mentre, forzando un sorriso gentile, ricambiava la stretta del piccolo con tenerezza. “Non ti preoccupare” cercò di rassicurarlo, ignorando il tremolio incerto della sua stessa bocca. “Dobbiamo solo…”

“Guardate!” la interruppe il grido esaltato di un marinaio ignoto “L’Ammiraglio Worthington combatterà in prima linea!”

Un tuffo al cuore si fece sentire a tradimento nel petto della Duchessina di Lynwood che, senza poterci fare nulla, voltò in automatico la testa castana in direzione dell’alto ponte di comando dove svettava controluce l’imponente figura del suo tanto detestato marito: l’uomo si era fermato in cima alla scalinata e Saffie lo intravide girarsi parzialmente indietro, per poi iniziare a parlare con qualcuno che lei ovviamente non poteva vedere. Una massa ribelle di capelli scuri si agitava sul volto virile di Arthur, nascondendo la sua espressione a chi lo stava osservando dal basso, mentre il cappotto dalle eleganti rifiniture dorate gli si muoveva addosso con una strana grazia ipnotica, inseguendo la violenta brezza marina.

Non poteva vederlo in viso ma, per un attimo, a Saffie parve di comprendere il motivo dell’ammirazione cieca che l’equipaggio nutriva nei suoi confronti: dall’alto della sua orgogliosa ambizione, il Generale Implacabile le parve uguale al tremendo demone che li avrebbe condotti tutti alla vittoria schiacciante, senza sé e senza ma. Nessuna gloria sembrava essere irraggiungibile, nessuna battaglia vana, se l’uomo più temuto dell’Impero ora combatteva insieme a loro.

E quell’uomo era proprio suo marito.

Saffie sentì le gote ghiacciate scaldarsi leggermente nel medesimo istante in cui Arthur voltò bruscamente la testa e cominciò a scendere i gradini della scalinata, seguito a ruota da un ansioso James Chapman.

Con un piccolo sussulto agitato, la ragazza si chinò di scatto sul bambino al suo fianco, nuovamente pronta a intraprendere la sua missione di salvataggio e apparentemente dimentica dei secondi appena trascorsi: rifiutava categoricamente di aver formulato quel pensiero ma, sopra ogni cosa, non era di certo il momento più adatto per perdersi in assurde fantasie!

Poiché c’era in effetti qualcosa che lei sola poteva fare: condurre sé stessa e il piccolo ragazzo di bordo al sicuro, nascondersi insieme a lui in un luogo difficile da raggiungere e aspettare la fine dell’assalto cercando – per quanto possibile – di non perdere né la testa, né la calma. Saffie era difatti dolorosamente consapevole di essere diventata quello che si poteva definire un bersaglio facile: sia lei che il suo brillante abito celeste risaltavano in maniera fin troppo nitida in mezzo una massa di colori scuri e sguardi di rabbia ferale, selvaggia. Il fatto che fosse la nobile moglie di Arthur Worthington, poi, non poteva che essere l’elemento peggiore dell’intera faccenda, perché nemmeno voleva immaginare cosa avrebbero potuto farle, se fossero riusciti a catturarla.

Fu a seguito di questi ragionamenti che la Duchessina di Lynwood si decise ad afferrare saldamente la mano del bambino silenzioso e sussurrargli, in tono pacato: “Non lasciare la presa per niente al mondo, d’accordo?”. L’interpellato fece un unico muto cenno d’assenso di cui la ragazza si ritenne più che soddisfatta e, senza perdere altro tempo, i due cominciarono ad avviarsi in direzione degli alloggi dedicati agli Ufficiali e alla signora Worthington con passo spedito.

Saffie si stupì di fendere la calca costituita di marinai male armati e soldati della Corona impegnati a formare una rossa fila di fuoco senza che nessuno si degnasse di prestare loro attenzione, come se il richiamo della morte fosse un canto ammaliatore e contemporaneamente orrendo, di quelli a cui non si poteva non prestare l’orecchio.

Il nero vascello pirata era ormai visibile in ogni suo dettaglio e Saffie vi gettò sopra una fugace occhiata costituita di spavento, poiché sapeva di essere ancora parecchio lontana dalla poppa della nave; fu grata, in quell’istante, di non doversi preoccupare pure della sicurezza di Keeran: era quasi passata mezz’ora da quando l’irlandese era sparita nelle camere della Duchessina, visto che quest’ultima le aveva chiesto di portarle il libro. La ragazza castana riponeva parecchia fiducia nei solerti Ufficiali di Guardia, ed era propensa a pensare che essi avessero impedito alla sua domestica di uscire sopracoperta, una volta avvistata la minaccia di un conflitto all’orizzonte.

Almeno, si disse, sia lei che l’unico ricordo rimasto di Amandine sarebbero stati al sicuro.

Ma lo sarebbero stati veramente?

Saffie fu scossa da un violento brivido ghiacciato e cercò di accelerare il passo senza strattonare troppo il braccio del ragazzino dietro alle sue spalle che, in ogni caso, riusciva a tenerle dietro senza spiccicare né un lamento o una parola. Considerandolo in un certo qual modo più coraggioso di lei, la Duchessina voltò appena il capo nella sua direzione e commentò, con una leggera ironia riesumata chissà dove: “Sei un ometto valoroso, signorino. Qual è il tuo nome?”.

Il ragazzo di bordo – che era stato tutto il tempo con lo sguardo fisso sull’esile schiena di Saffie – spostò gli occhi turchese sul suo viso e venne sorpreso da un’espressione di gentilezza materna a cui non era comunque abituato. Di fronte a quel sorriso rassicurante e sereno, il bambino non poté impedirsi di arrossire leggermente, di strano imbarazzo. “Io…”cominciò a borbottare, monocorde “Io mi chiamo…”.

Ma il piccolo non ebbe modo di finire la sua frase, poiché un’alta ombra oscurò il volto suo e della ragazza castana che, voltatasi di scatto, si trovò faccia a faccia con un Arthur Worthington fuori di sé dalla rabbia. Una tremenda espressione di furia glaciale faceva mostra sul volto sempre severo dell’uomo, anche se furono i suoi occhi verde scuro a turbarla per davvero: due luminose pozze di disprezzo si aprivano omicide su di lei, immobili e oscure. Crudeli.

“Non desidero alcun pietoso ringraziamento da parte tua. Sono stato costretto ad aiutarti.”

“Eccoti qui, dannata strega” fece infine la voce profonda e velenosa di un Arthur più simile ad un serpente inferocito che ad un impeccabile ammiraglio. La mano destra dell’uomo si protese fulminea in direzione del polso della sua tanto odiata moglie e, come il giorno in cui Amandine era morta e loro avevano perso la ragione, le sue dita lunghe catturarono Saffie con fin troppa facilità. “Adesso mi obbedirai, che tu lo voglia oppure no.”

Senza aspettare alcuna risposta o obiezione, Worthington li guidò di nuovo verso la prua dell’Atlantic Stinger, trascinandosi dietro Saffie e il ragazzo di bordo quasi fossero stati due cuscini fatti di piume. Come era accaduto neanche due ore prima, egli non sembrava essere intenzionato a dedicare alla Duchessina di Lynwood né uno sguardo, né una parola in più del necessario e quest’ultima si ritrovò a incespicare sui suoi passi, impotente di fronte al suo atteggiamento e alla sua presa d’acciaio.

“…dannata strega.”

Saffie aggrottò le sopracciglia e fulminò con rabbia la chioma scura di Arthur, cercando di ignorare il sentimento di dolorosa indignazione che si era affacciato alle porte del suo animo a seguito delle parole da lui pronunciate. Di certo, se fossero stati in una situazione di normalità, gliele avrebbe volentieri fatte rimangiare una per una ma, fra le altre cose, la ragazza poteva ben intuire il motivo della collera cieca dell’ammiraglio: con il senno di poi, era chiaro che l’uomo le avesse ordinato di chiudersi in camera insieme a Keeran proprio per tutelare entrambe dalla battaglia in arrivo; pure se, si ritrovò a pensare lei con amarezza, come avrebbe potuto immaginarlo, se lui si ostinava a non comunicare in maniera decente?

O per meglio dire, se non le parlava affatto?

Come se voi due aveste dei validi motivi per volervi parlare.

“Avevo…avevo pensato di nascondermi nella mia stanza” tentò quindi di dire Saffie, lottando ferocemente contro il rospo che le si era incastrato in gola. “Ho creduto fosse la soluzione più sicura.”

“Lo sarebbe stata se tu mi avessi ubbidito fin dall’inizio” arrivò subito la risposta piccata di un Arthur ancora ben intenzionato a non guardarla negli occhi e che, anzi, decise di rincarare la dose, aggiungendo: “Sei troppo lontana dagli alloggi e quei criminali sono quasi su di noi. Mi stupisce che la testolina di cui tanto ti vanti non ci sia arrivata prima”.

“Devi crederti così superiore agli altri, signorina Lynwood.”

Se mai uno sguardo avesse posseduto la capacità di uccidere, allora il famoso Ammiraglio Worthington avrebbe concluso la sua sfolgorante carriera stramazzato contro le assi di legno dell’Atlantic Stinger, tanto l’occhiata che la Duchessina gli lanciò fu di rancore a malapena represso. “Come io sono ugualmente sorpresa del fatto che il grande Generale Implacabile abbia dato per scontato indovinassi magicamente le sue intenzioni” commentò quindi Saffie con forza, incapace di trattenersi oltre; sentiva addosso lo sguardo sbalordito del piccolo ragazzo di bordo, ma non ci fece minimamente caso. “Se mi avessi detto dell’attacco, allora probabilmente ti avrei dato ascolto, proprio perché non sono la strega che mi accusi di essere!”

“Al di là di tutto, penso davvero che voi possiate rendere felice mia sorella.”

Un secondo di pesante silenzio calò fra i tre, che finalmente raggiunsero il castello della nave dove – senza emettere un solo fiato – stavano appostati diversi militari pronti ad aprire il fuoco. Arthur Worthington fermò i suoi passi di fronte al boccaporto di prua che conduceva direttamente alle cucine deserte ma, per un motivo a lui ignoto, non accennò a lasciare la presa sul piccolo polso di Saffie; un disagio strano e confuso si fece infatti sentire di nuovo dentro la sua anima a pezzi, ed era lo stesso sgradevole sentimento provato la sera prima.

“Io ho pensato di doverti ringraziare per ciò che hai fatto oggi.”

Lo odiava. Odiava che lei si comportasse in modi a lui impossibili da comprendere.

“Non ho bisogno di spiegarti un bel niente” sibilò infine, girandosi poi a guardarla con evidente fastidio. “Tu devi solo imparare qual è il tuo posto.”

Un paio di occhi grandi e innocenti si aprirono su di lui sorpresi, eppure l’uomo lesse immediatamente la sofferenza che in effetti vi era contenuta: Saffie lo guardava ancora una volta con stampata sul grazioso viso un’espressione costituita non di disgusto, ma di un incertezza dolorosa e angosciante che – comprese Arthur – non provocava in lui la malvagia soddisfazione che si sarebbe aspettato.

Perché continui a guardarmi con quegli occhi, se mi detesti quanto lo faccio io?

Dimentica anche questo, Arthur.

Non lasciare che qualcun altro prenda il controllo, rendendoti vulnerabile.

La Duchessina di Lynwood sentì la stretta dell’uomo allentarsi e lo vide abbassare il capo bruno in direzione del boccaporto, facendole un cenno vago e sbrigativo con la testa. “Scendete e vedete di non emettere un solo suono” ordinò in tono piatto a lei e al ragazzo di bordo, ancora impegnato a fissare la ragazza castana come se fosse uscita da qualche bizzarra favola. “Quando tutto sarà finito, verrà un Ufficiale a prendervi.”

Con una dolorosa stretta allo stomaco, Saffie intuì su due piedi che Arthur nuovamente aveva preso ad evadere il suo sguardo, ad evitare la scocciatura di avere a che fare con lei, la donna che riteneva colpevole di aver distrutto la sua felicità.

In fondo, non aveva fatto altro se non trattarla con disprezzo, no?

Ma continui a venire a salvarmi, pure se hai detto di odiarmi con tutto il tuo animo.

E, per la prima volta, alla ragazza parve che l’orgoglioso e implacabile Arthur Worthington non si voltasse nella sua direzione a causa non del loro reciproco rancore, ma bensì di una paura che lei non riusciva a comprendere. Per un momento, pensò che lui stesse in realtà cercando di nascondersi.

L’ammiraglio non aspettò di vedere i due scendere nelle cucine e, al contrario, diede loro le ampie spalle, con l’intenzione di avviarsi verso il parapetto e raggiungere la nutrita linea di fuoco che – di lì a secondi – avrebbe cominciato a sparare contro la vergognosa ciurma di una Mad Veteran pronta all’arrembaggio.

“E se non tornasse, Saffie? Se gli accadesse qualcosa?”

La ragazza osservò l’alta figura del marito cominciare ad allontanarsi e, guidata da uno strano impulso inconscio, alzò timidamente un braccio nella sua direzione. Le sue piccole dita si strinsero appena sulla morbida manica blu della divisa di Arthur senza che lei quasi se ne accorgesse: dentro di sé, sapeva di dover portare il bambino subito al sicuro, ma la sua mano si era mossa in automatico, come se avesse voluto trattenere l’ammiraglio.

Come se non volesse farlo andare via.

Saffie sapeva di stare sbagliando, perché a lei non era concesso toccare Arthur in quel modo. Sapeva, nel profondo, di stare attraversando l’inesistente confine che loro stessi avevano costruito, innalzando invisibili muri di disperato odio. E, in ultimo, lo seppe con assoluta certezza quando l’uomo voltò il busto nella sua direzione di scatto, sottraendosi alla sua presa con uno strattone violento e improvviso.

Toglimi le mani di dosso.”

Se la sua voce era stata un ringhio tagliente e altrettanto glaciale, furono gli occhi verdi di Worthington ad ucciderla sul posto. Uno sguardo costituito di oscura e inossidabile determinazione la attraversava da parte a parte, cristallino e spietato come quello di un essere uscito direttamente dall’inferno.

Era dunque questa, l’incarnazione della crudele ambizione che l’aveva imprigionata.

L’inamovibile forza che aveva ucciso Amandine.

Reagendo d’istinto, Saffie chiuse le mani tremanti sul petto e si allontanò di un passo da Arthur, terrorizzata.

Senza bisogno di aggiungere nemmeno una parola, l’uomo interruppe il contatto visivo con gli occhi lucidi della ragazza e si allontanò a larghi passi spediti, sguainando l’elaborata spada con un unico e fluido gesto elegante.

“Dobbiamo scendere” fece la provvidenziale vocina del piccolo ragazzo di bordo che, si disse la Duchessina, aveva dimostrato di possedere sicuramente molto più sale in zucca di lei. Il bambino l’attirò debolmente lungo la scalinata e aggiunse, in tono piatto: “Andiamo”.

“Sì-sì, certo” acconsentì Saffie, balbettando appena. Cominciò quindi a scendere velocemente i gradini scricchiolanti del boccaporto, a malapena consapevole dei luoghi angusti e sporchi in cui lei e il ragazzino si stavano andando a infilare: una sensazione orribile e fredda strisciava malvagia sotto le pieghe del suo abito, lasciandola preda di un pensiero che la sua mente non riusciva ad ignorare.

Aveva appena scrutato dentro ad un immenso abisso di tenebra, dove non penetrava alcuna luce.



§



I rumori provenienti dall’esterno si facevano di minuto in minuto sempre più insopportabili da ascoltare.

Saffie e il ragazzo di bordo avevano trovato rifugio nell’angolo più remoto delle anguste cucine dell’Atlantic Stinger e, da almeno mezz’ora a quella parte, se ne stavano accucciati uno accanto all’altra, dietro ad una consistente pila di calderoni abbandonati. Come suggerito dall’ammiraglio Worthington, i due non avevano effettivamente scambiato una parola in croce e, in qualche maniera, riuscivano a comunicare tramite qualche ansiosa occhiata e sporadici sorrisetti di nervoso incoraggiamento.

La ragazza trovava incredibile anche solo il fatto di essere riuscita ad affrontare quei lunghi trenta minuti senza cedere terreno alla paura angosciante che teneva in ostaggio il suo cuore, quasi volesse impedirle di respirare decentemente. Se non altro, si disse, doveva tenere duro per l’incolumità del bambino al suo fianco che, con grande coraggio, si aggrappava saldamente alle sue dita fredde e non emetteva nemmeno un lamento, né si lasciava sfuggire alcuna lacrima.

Tutto questo era di per sé un piccolo miracolo, visto l’Inferno che si stava scatenando sopra di loro: un pungente odore di sangue permeava l’aria immobile della stanza, mentre Saffie non contava nemmeno più le urla di agonia che – indistinte – arrivavano alle sue orecchie e rafforzavano così la sua impressione di trovarsi in un girone Dantesco. Spari e tonfi sordi si susseguivano l’uno dopo l’altro, accompagnati raramente da folli risate o, più spesso, da terribili imprecazioni che una figlia dell’Alta Aristocrazia come lei poteva dire di non aver mai udito. C’era stato un momento in cui aveva creduto di sentire la voce roboante di Shaoul Brown, persino.

In generale, un opprimente presentimento di morte era calato sulle loro teste e sembrava osservarli beffardo, aspettando un istante che prima o poi sarebbe arrivato.

No, questo non assomiglia per niente alle storie tanto amate da Amandine.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Un bruciante sentimento di consapevolezza si fece sentire, inopportuno e sgradito, dentro al suo animo terrorizzato. La ragazza si portò allora le ginocchia al petto e vi affondò la testa castana nervosamente, mentre ingaggiava una lotta contro le sue stesse lacrime: era tragicamente vero, lei non aveva mai saputo un bel niente del mondo a cui appartenevano Douglas Jackson o Henry Inrving, dell’esistenza condotta per tutti quegli anni da Arthur Worthington.

Tutto questo è disumano.

Là fuori, continuava a ruggire il suono metallico provocato da duelli mortali e scontri di spade, stridendo nella mente di Saffie in maniera dolorosa. Delle fastidiose unghie che raschiavano su una lavagna.

Fin da bambina…io ho sempre e solo desiderato essere libera.

“Tu sei mia, adesso.”

Le dita tremanti di Saffie si strinsero con forza sul tessuto leggero della gonna ormai sporca di polvere poiché, come un fulmine a ciel sereno, non furono più le odiate iridi verdi di Arthur a bruciarle addosso, ma uno sguardo nero pece emerse dall’oscurità dei suoi ricordi. Vide due occhi di una gentilezza impossibile, che lei credeva di esser riuscita a dimenticare.

“Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.”

Era dannatamente vero: non conosceva affatto la Marina Britannica e le sue assurde leggi, né riusciva a comprendere il carattere del detestabile uomo che suo padre le aveva imposto di sposare e, a questo punto, era sempre più convinta che Amandine non avrebbe trovato altro se non sofferenza in una vita al fianco di Worthington, pure se trattata alla stregua di un trofeo tanto ambito quanto prezioso.

L’aveva visto dentro all’abisso…un uomo che sapeva portare solo dolore e disgrazia intorno a sé.

No, l’Ammiraglio non le avrebbe dato modo di farsi comprendere, ma la verità stava nel fatto che non avrebbe mai dovuto esserci lei lì, a combattere disgustosi sentimenti e sensi di colpa aberranti.

Aveva solo desiderato di poter volare libera, di amare chi voleva.

“…la mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Proprio nel momento in cui sentiva di star per cadere dinnanzi al soffocante odio che viveva in pianta stabile dentro al suo cuore, un rumore di legno spezzato esplose violento e assordante nei suoi timpani, facendole alzare la testa di scatto. Un’espressione di ansioso allarme trasformò il suo viso smorto in un attimo e, altrettanto velocemente, essa mutò in puro orrore: un uomo che palesemente non era parte dell’equipaggio dell’Atlantic Stinger era entrato nelle cucine, scardinando con fin troppa facilità la porta chiusa a chiave.

La piccola manina del ragazzo di bordo si strinse subito attorno alle dita di Saffie, stritolandole con improvviso e nervoso terrore. La ragazza, dal canto suo, voltò appena la chioma nella sua direzione e si portò l’indice alle labbra tremanti, livide come quelle di un cadavere: doveva essere coraggiosa, poiché gli occhi azzurri del bambino al suo fianco la fissavano con un tremendo sguardo perduto e, ancora, lei pensò alla morte.

I due si appiattirono contro le grandi pentole, cercando di farsi il più piccoli possibile, di scomparire fra le fitte ombre di una cucina non più così deserta. La Duchessina portò lentamente un braccio attorno alla vita del ragazzo di bordo come se, con quel patetico gesto, potesse farlo sentire protetto e al sicuro; poiché sembrava quasi stessero scampando alla ricerca di uno squalo silenzioso, che si aggirava famelico per tutta la stanza.

“Dannata Marina Britannica!” lo sentirono sbottare, con la voce roca di un animale braccato. “Se solo avessimo saputo prima che proprio l’Implacabile è imbarcato su questa piccola nave!”

Sgranando tanto d’occhi, Saffie lanciò una fugace occhiata sopra il muro di calderoni alle sue spalle e, nel medesimo istante, intravide con chiarezza un malandato uomo di mezza età a nemmeno cinque metri da loro. Era la prima volta che la ragazza vedeva un pirata in carne ed ossa; ovviamente, non aveva niente in comune con i fantastici e attraenti personaggi di cui tanto si parlava nelle storie d’avventura: oltre allo strato di evidente sporcizia incrostato sulla pelle e tra i radi capelli grigi, il ghigno stampato sul suo volto consumato dal sole contava all’appello ben pochi denti rimasti in piedi.

“Demoni dell’inferno, ognuno di loro.”

“Troppo grande questa cucina. Conviene fare in fretta e tagliare la corda” sillabò in maniera confusa il criminale, e a Saffie parve come se avesse difficoltà a mettere in fila due frasi di senso compiuto. La Duchessina lo osservò calciare con ferocia un piccolo baule di provviste che, con un tonfo sordo, si rovesciò all’indietro, rivelando il suo carico di brillanti mele verdi; lo sguardo itterico dell’uomo parve illuminarsi di una gioia primitiva e infantile, confermando così i sospetti della ragazza castana.

“L’Atlantic Stinger non è caduta e ora loro ripiegano sull’unica cosa di cui hanno disperatamente bisogno” concluse Saffie, con le iridi scure ancora inchiodate sul pirata impegnato a riempirsi mani e tasche di frutta. “Stanno morendo di fame.”

Ma perché c’è solo lui?

“Maledetto Worthington” imprecò nuovamente l’uomo, sputando vero veleno. “Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

“E all’inferno devono essere rispediti, senza alcuna eccezione.”

Una sferzata di fredda sorpresa si abbatté sulla ragazza castana che, in automatico, raddrizzò la schiena di botto; il suo piccolo piede scivolò così in avanti e strisciò in maniera perfettamente udibile contro la ruvida superficie del pavimento polveroso.

Il pirata girò il viso rugoso immediatamente, nella direzione in cui lei e il ragazzo di bordo erano nascosti mentre, con una fitta di panico, Saffie si accucciava nuovamente a ridosso delle pesanti pentole, maledicendosi per essere stata una stupida incauta.

No. Sei stata una stupida e basta, perché ti sei tradita a causa di ciò che provi per lui.

I passi pesanti e strascicati dell’uomo si facevano sempre più vicini al loro nascondiglio e Saffie si accorse di aver preso a tremare con violenza, malgrado la sua ferma volontà di rassicurare il bambino che era con lei. Alzò lo sguardo castano sul suo volto spaventato nel medesimo istante in cui quest’ultimo vide una testa grigiastra sbucare dietro alla schiena della ragazza: una faccia deformata da un’espressione di trionfante mostruosità, resa palese da un sorriso largo che non era altro se non una fessura nera e orribile.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

Desideri che Worthington arrivi a proteggerti, malgrado il confine d’odio tracciato fra voi.

“Dietro!” urlò il ragazzino con vera e propria isteria, puntando l’indice sopra la testa castana della Duchessina di Lynwood. “Dietro di voi!”

“Troppo tardi, per giocare a fare i topini.”

Sempre ad illuderti, Saffie Lynwood.

A pochi centimetri dal suo orecchio sinistro, una voce dall’alito nauseante aveva soffiato quella crudele presa in giro tra le ciocche dei suoi capelli disordinati, che si mossero appena sulle sue guance ghiacciate e bianche.

Ancora non hai imparato la lezione?

La ragazza non ebbe nemmeno il tempo di provare un qualsivoglia spavento, visto che le mani ruvide dell’uomo si aggrapparono brutalmente alle sue esili braccia, trascinandola indietro con uno strappo violento e separandola nel contempo dall’abbraccio in cui lei e il bambino si erano stretti; in meno di un secondo, il pirata l'aveva fatta alzare in piedi e Saffie stessa si accorse in maniera vaga di essersi lasciata scappare un lamento di dolore, nel sentire la sua schiena sbattere contro una rozza dispensa di legno scricchiolante.

Lui non verrà. Nessuno verrà per te, che sei responsabile della morte di tua sorella.

Che, più di ogni altra cosa, desideravi essere una principessa come lei.

Delle dita sporche apparvero dal nulla e la inchiodarono al mobile alle sue spalle, premendo senza alcuna pietà sulla pelle morbida del suo collo indifeso.

Fu il momento in cui Saffie colse l’arrivo della morte e cominciò così a boccheggiare, dimenarsi, scalciare in maniera caotica e incoerente, improvvisamente pazza di un terrore che rendeva incapace qualsiasi ragionamento. Faceva male e, contemporaneamente, non riusciva a provare nulla: le pareva di venire inghiottita in un’oscurità ovattata e definitiva.

Un abisso senza alcuna luce.

“Bello spreco” udì l’eco di quelle parole lontane, sputate a poca distanza dal suo viso con crudele ironia. La ragazza sentì la mano libera dell’uomo cercare di infilarsi sotto le sue vesti con impaziente eccitazione e un orrore agghiacciante si impossessò di lei, mentre il tocco sudato del suo aggressore era viscido come quello di una biscia che tentava di risalire all’interno delle sue cosce.

L’uomo lanciò poi un’occhiata da fanatico sulla figura tremante del ragazzino di bordo, pietrificato dalla paura qualche metro da loro. “Chissà, se dopo toccherà a te?”

Gli occhi scuri di Saffie si spalancarono quasi oltre al loro limite, le iridi terrorizzate diventate ora due puntini minuscoli in mezzo ai bulbi bianchi. No, Worthington non sarebbe arrivato a salvarla, e lei non era stata nemmeno capace di proteggere un bambino indifeso. Di mantenere la promessa fatta ad Amandine.

“Giuramelo. Giurami che andrai avanti e sarai libera.”

Era stata solo capace di nutrirsi di risentimento e poi morire.

Al contrario di ciò che si potrebbe immaginare, il momento precedente alla morte non è caratterizzato dal vedere il riassunto della propria vita scorrere davanti agli occhi come una fulminea messa in scena teatrale, ma bensì dalla cristallizzazione di un singolo ricordo dell’esistenza trascorsa. Quello che Saffie vide – al posto del pazzo davanti a lei – fu l’immagine di suo padre: Alastair Lynwood sedeva con la sua solita pigrizia elegante su una delle panchine del loro lussureggiante parco secolare e la fissava con sofferente accondiscendenza.

Ricordò di avergli chiesto: “Come fate a dire di essere orgoglioso di me?”

Lui allora aveva sorriso con fare misterioso e, alzando appena le spalle, aveva commentato: “Perché sei stata intelligente, scegliendo di tornare”. Il luccichio inquietante di un affilato coltello da cucina abbandonato attirò l’attenzione della ragazza nel medesimo istante in cui i suoi occhi poterono cogliere solo le labbra sottili di suo padre articolare l’unica frase che mai avrebbe dovuto dimenticare. “Hai capito che, quando si nuota in mezzo agli squali, il più forte è colui che vuole sopravvivere a tutti i costi.”

Le sue piccole dita si strinsero lentamente attorno al manico del coltello, senza che il suo aggressore se ne accorgesse. In fondo, era solo uno squalo arrogante, che aveva commesso l’errore di pensare lei fosse una preda facile.

Non è chi ha niente da perdere, ma chi vuole sopravvivere, che vince sempre.

“Lasciami!”

Un gesto improvviso e Saffie pugnalò l’uomo con violenza cieca e terrore vero, affondando la lama più e più volte nel suo collo: del sangue scuro e grumoso ne zampillò subito fuori, abbondante come il getto di una fontana, mentre il criminale spalancava gli occhietti itterici con spaventato stupore. “Toglimi le mani di dosso!” urlò la ragazza senza smettere di colpirlo, ignara del liquido scarlatto di cui le sue mani erano ormai zuppe; sapeva solo di non dover mollare la presa sul manico del coltello, perché altrimenti la persona che aveva davanti avrebbe ucciso sia lei che il bambino. “Lasciami!” gridò ancora, piena di folle paura. “Lasciaci in pace!”

Non avrebbe visto un altro innocente morire per colpa della sua noncuranza.

Infine, la Duchessina di Lynwood si fermò con il braccio sospeso per aria e, stravolta da un aberrante sentimento impossibile da metabolizzare, osservò ad occhi spalancati il pirata barcollare all’indietro e ricambiare il suo sguardo pieno di lacrime: Saffie non poté fare a meno di specchiarsi in due iridi in fondo molto simili alle sue, che la guardavano agonizzanti e spaventate, come se lei stessa fosse l’incarnazione della morte.

“Tu…” biascicò solo l’attempato uomo, facendo il gesto di protendere una mano nella sua direzione, prima di roteare gli occhi spiritati all’indietro e stramazzare al suolo con un unico tonfo sordo.

Un’oscura pozza di sangue cominciò ad allargarsi sulle assi del pavimento, riempiendo il campo visivo della Duchessina di Lynwood di un insopportabile ed accecante colore rosso. Non un suono fendeva l’aria e, per il resto, le sembrò di non riuscire a cogliere nient’altro che quel colore, mentre un pensiero vorticava sempre più insistente nella sua mente anestetizzata.

Ho ucciso una persona.

Le gambe della ragazza cedettero di botto e lei cadde in ginocchio, di fronte al cadavere supino del pirata che – davvero assurdo – le sembrò un pupazzo intento a fissare il soffitto di legno sopra le loro teste, la bocca schiusa da una muta e infinita sorpresa.

“Te l’avevo detto, sei tremenda: mi sembrava di avere davanti papà!”

Infine, Saffie si accorse di aver mollato la presa sul coltello insanguinato e di stare fissando le sue stesse mani che, sporche del suo orribile peccato, ricominciarono a tremare con violenza incontrollabile. Dentro alla sua anima, il vuoto di poco prima lasciò spazio ad una sofferenza del tutto nuova, evocata insieme a quell’onnipresente pensiero.

Meschina e disposta a tutto, proprio come tuo padre.

Non avresti mai potuto essere neanche la metà di ciò che è stata Amandine.

Non si accorse delle piccole dita del ragazzo di bordo, permute sulla sua spalla in un silenzioso gesto di coraggiosa comprensione; come nemmeno si diede la pena di alzare la testa castana e guardare i due alti Ufficiali che, correndo, erano entrati nella stanza buia. Non li vide fermarsi all’istante sulla soglia, sbarrare gli occhi di fronte alla scena terribile che si palesò loro davanti.

Perché Saffie aveva finalmente realizzato.

“Sprofonderai nell’infelicità.”

No, entrambi si erano condannati volontariamente ad un abisso dove non penetrava alcuna luce.



§



Erano state delle prede fin troppo arrendevoli.

Con un elegante gesto preciso, Arthur Worthington sfilò la spada insanguinata dallo stomaco del malcapitato a cui era venuta la sfortunata idea di mettersi in mezzo alla sua strada e, senza degnare di uno sguardo il corpo del suddetto crollare a terra, voltò la disordinata chioma scura in direzione della Mad Veteran, il cui rimanente equipaggio era impegnato in disperate manovre di fulminea ritirata.

Gli occhi verdi dell’ammiraglio sembrarono allora risplendere di una voracità malvagia e ferma, nell’osservare come fossero rimasti ben pochi resti dell’esaltata ciurma che – fino a un’ora prima – sputava nei loro confronti urla di convinta vittoria: da quando il corsaro Seymour Porter si era ammutinato contro l’Impero Britannico, portando via con sé il famigerato Nero vascello di cui era capitano, un susseguirsi di imprese disastrose aveva segnato la storia della nave ed il culmine era stato proprio la morte violenta di colui che la comandava. Nel giro di un anno, la Mad Veteran si era trasformata – da temuta predatrice – ad agonizzante preda e, ovviamente, Arthur voleva aggiungerla alla sua già nutrita flotta da guerra.

È colpa della mia sfrenata ambizione questa fame insaziabile, che inghiotte tutto e mi consuma.

Gli sporadici marinai rimasti a bordo della nave pirata formavano un piccolo gruppo di uomini disorganizzati e stanchi, che a malapena potevano sperare di sopravvivere per più di due settimane di navigazione in mare aperto.

Worthington li osservò allontanarsi con un ghigno inquietante stampato sul viso virile. “Come se veramente potessero sfuggire a me” commentò fra sé e sé, rivolgendosi poi verso l’interno di un ponte sopracoperta letteralmente dipinto di rosso: un aspro odore di sangue, a cui lui comunque era abituato, risalì forte le sue narici, ricordandogli il massacro appena avvenuto senza che effettivamente vi fosse il bisogno di soffermarsi con lo sguardo sulle centinaia di corpi di cui il pontile era ricoperto. Inerti manichini ammassati l’uno sopra all’altro, a faccia in giù o occhi al cielo.

Un’immagine che poteva dire di avere visto decine e decine di volte.

Senza che la sua anima venisse mossa da una qualsivoglia emozione, Arthur portò una mano al bavero bianco della camicia e lo allentò con noncuranza, sfilandosi dal collo il costoso fazzoletto di seta.

In quei momenti, non provava niente.

L’uomo alzò la brillante lama scarlatta davanti al viso impassibile e procedette a pulirla lentamente, con calma quasi metodica, mentre attorno a lui innumerevoli lamenti di sofferenza e morte si susseguivano all’infinito, seppure si facessero di secondo in secondo sempre più deboli.

Aveva imparato a dimenticare, perché si trattava di sopravvivere oppure morire.

“La morte indiscriminata non è la soluzione!”

La saccente voce della piccola strega risuonò fastidiosa e inaspettata nelle sue orecchie; e Arthur alzò lo sguardo smeraldino dalla sua elaborata spada, chiedendosi come fosse possibile che le parole della ragazzina lo cogliessero di sorpresa pure in un frangente come quello. Di nuovo, una fastidiosa sensazione aggredì la bocca del suo stomaco e lui cercò di non prestarvi ascolto poiché, in qualunque caso, non era di certo il momento più adatto per inutili quanto impossibili pensieri.

Aveva giurato di odiarla.

Eppure, Saffie pareva essere presente nella sua mente più di quanto avrebbe mai creduto possibile.

“Signore!” esplose la voce carica di adrenalina di un James Chapman coperto di sangue, che gli si faceva incontro con calma, come se stesse partecipando ad uno spensierato Déjeuner. “Il capitano Inrving è sopravvissuto e si accinge ad inseguire gli schifosi, come da voi pianificato!”

Arthur Worthington si lasciò sfuggire un pesante sospiro seccato, mentre i suoi occhi chiari indagavano la figura del suo più fedele tenente: era sollevato nel vedere il giovane pressoché illeso, pure se da ogni combattimento egli ne doveva per forza uscire più insanguinato degli uomini a cui aveva tolto la vita con tanta letale solerzia. “Un impeccabile lavoro, come al solito” gli concesse in tono piatto, inarcando un sopracciglio scuro di fronte al sorrisetto di emozionata superbia che fece la comparsa sul volto del ragazzo. “Una nota di demerito va fatta al vostro vocabolario, temo. Dovrò degradarvi, se continuerete ad esprimervi così.”

Veloce come era venuta, l’espressione trionfante di James svanì di botto e quest’ultimo venne infine completamente ignorato da un Arthur ora intento a scrutare attentamente il viavai di gente che – sotto pressante insistenza di Benjamin Rochester – egli aveva accettato di assumere per dare man forte al dottore di bordo: erano marinai dotati di utili competenze mediche, quelli che ora si agitavano per tutto il ponte sopracoperta, pronti a prestare i primi soccorsi ai soldati e agli uomini di mare rimasti vivi.

In effetti, Worthington aveva faticato parecchio nel convincere l’Ammiragliato a concedergli la costosa forza lavoro richiesta dal medico ma, quando i suoi occhi verdi colsero in lontananza la figura esausta di Douglas Jackson farsi medicare la schiena insanguinata, Arthur si disse che ne era in fondo valsa la pena.

Io ho pensato di doverti ringraziare per ciò che hai fatto oggi.”

L’uomo abbassò lo sguardo serio sul suo stesso braccio e constatò senza troppo stupore di avere la ferita del giorno precedente nuovamente aperta.

“Questa lascerà un segno. Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

La fastidiosa sensazione di strisciante disagio ricominciò a contorcersi dentro di lui e Worthington decise di non prestarvi alcuna attenzione, rivolgendo così il suo interesse su un abbattuto James Chapman, ancora ritto in piedi a pochi metri di distanza. “Tenente, trovate al più presto il signor Rochester e conducetelo da me” ordinò in tono aspro, facendo per avviarsi in direzione del ponte di comando. “Finché ci manteniamo sulla scia della Mad Veteran, posso tracciare una rotta che non ci faccia allontanare troppo dalla nostra meta.”

L’interpellato stava per scattare sull’attenti e portarsi rigidamente una mano alla fronte coperta da un ridicolo parrucchino anch’esso incrostato di sangue, che proprio la figura dinoccolata di Benjamin Rochester arrivò correndo a passo sostenuto e ansioso.

Arthur!” gridò nervosamente il medico di bordo, raggiungendo i due e guardandoli ad occhi spalancati come se nemmeno li riconoscesse. “Non lo trovo da nessuna parte! Non riesco a trovare Ben!” continuò poi a straparlare, gesticolando in maniera affrettata, confusa. “E dire che gli avevo imposto di rimanere chiuso nel mio ufficio insieme al resto della servitù! Perché… perché quello sconsiderato non mi ascolta mai?!”

“Calmatevi, dottore” soffiò l’ammiraglio Worthington, lanciandogli una ferma e severa occhiata cristallina. “Il ragazzino è al sicuro insieme a…”

Ammiraglio!”

Ci fu qualcosa, nel tono atterrito con cui quella voce aveva pronunciato il suo onorifico, che fece salire un freddo brivido premonitore lungo la spina dorsale di Arthur. Il suo viso scattò immediatamente sull’Ufficiale di Guardia a cui aveva dato l’incarico di scortare l’insopportabile Duchessina fuori dalle cucine e lo vide camminare nella sua direzione, bruciando a grandi passi lo spazio che li divideva; il soldato lo fissò con sperduta ansia ed esclamò, quasi balbettando: “Vo-Vostra moglie, signore! Per favore, dovete venire subito!”

In fondo, che ti importa di lei?

Senza neanche un istante di esitazione, le gambe di Worthington si mossero in automatico e l’uomo raggiunse il boccaporto di prua in meno di due minuti, apparentemente ignaro della presenza del signor Rochester e di James alle sue spalle: una gelida paura era emersa infine dalle profondità del suo nero abisso e, con essa, uno schiacciante senso di colpa che lui ancora si rifiutava di riconoscere come tale, di cui detestava non avere il controllo.

“E se decidessi che non è così? Se non volessi sottostare ai tuoi ordini?”

Ti conviene averlo fatto, piccola sciocca.

Ignorando il doloroso rumore di fondo provocato dal suo stesso cuore, Arthur attraversò i corridoi angusti del ponte sottocoperta e fu sulla soglia delle cucine in un attimo. Davanti all’entrata, egli vide un'altra Guardia che, stringendosi nella sua divisa scarlatta, fissava l’interno della stanza con una faccia da pesce morto.

Sentendo la combriccola arrivare, il giovane voltò il viso pallido nella loro direzione e sussultò, nel vedere il tremendo Generale Implacabile venirgli incontro con due verdi occhi di fuoco.

“A-ammiraglio, le-lei è…”

“Fuori dai piedi!” ringhiò subito Worthington, mortale, spingendo il ragazzo di lato senza nemmeno fermarsi a guardarlo una volta sola. Non si curò nemmeno di aver buttato alle ortiche il solito contegno elegante perché, in quel momento, non esisteva assolutamente nulla che avrebbe potuto impedirgli di raggiungere Saffie Lynwood, la sua insopportabile crepa sulla superficie liscia dello specchio. La seccante sorella della ragazza che lui aveva amato e ucciso.

“…non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

Ti prego, fa che non sia morta.

Dominato da questo unico pensiero, Arthur irruppe nella cucina e seppe immediatamente che, negli anni a venire, non avrebbe mai potuto dimenticare l’orribile terrore contenuto nelle iridi spalancate della ragazza inginocchiata all’altro capo della stanza. L’uomo si fermò di botto e i suoi occhi chiari si posarono sul sanguinolento percorso che, da un anonimo cadavere, si allungava liquido sul pavimento con una lentezza estenuante, quasi volesse arrivare fino a lui.

D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te.”

Saffie alzò la testa castana e lo inchiodò sul posto, lanciandogli uno sguardo spiritato che con lei non aveva niente a che vedere. Le sue mani piccole si sollevarono nella direzione dell’ammiraglio, tremanti e sporche di un sangue non suo, aberrante e osceno. “Io l’ho ucciso” sussurrò attonita, gli scuri che cominciavano a riempirsi di lacrime. “Ho ucciso un uomo.”

“Sprofonderai nell’infelicità.”

Era questo che volevi?

E fu il momento in cui l’uomo si sentì morire, inghiottito dall’abisso che per tanto tempo era riuscito a ignorare.

Arthur…quante persone dovrai rovinare, prima di sentirti soddisfatto?

Un fugace attimo, il tempo di vedere una lacrima solitaria scorrere sulla guancia di Saffie, che l’uomo già aveva portato la sua imponente figura su quella stravolta della ragazza: Arthur si chinò su di lei e le prese il viso ghiacciato fra le mani, indugiando con delicatezza sulla sua pelle, anch’essa deturpata da uno schizzo di sangue che non avrebbe dovuto esserci.

Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

“Sei ferita?” domandò a fatica, cercando di dominarsi, di parerle controllato e rassicurante; le sue dita lunghe scivolarono però lungo la linea del suo collo sottile, esplorandolo con tocchi lenti e minuziosi. “Ti ha fatto del male?” si trovò a chiederle ancora, lanciando un’occhiata sprezzante al corpo morto dietro di loro.

“N-no” balbettò di tutta risposta Saffie, specchiandosi per la prima volta in due iridi lucide di tormentata preoccupazione. “Ma-ma ha provato a farlo.”

Nessun suono uscì dalle labbra sottili di Worthington, strette nervosamente l’una contro l’altra. Arthur non accennò comunque ad allontanarsi da lei e la ragazza gli fu grata per questo: le mani grandi dell’uomo, ferme e gentili, emanavano un calore da cui non si sentiva ancora pronta a separarsi.

Alla fine, sei arrivato a salvarmi.

“Papà!”

Il silenzioso ragazzo di bordo era stato per tutto il tempo ritto in piedi alle spalle della Duchessina di Lynwood ma, non appena i suoi occhi turchesi intravidero l’alta figura di Benjamin Rochester entrare sconvolta nella stanza, egli scattò immediatamente in avanti e si precipitò sul medico di bordo, che già stava spalancando le braccia per accoglierlo.

“Mio Dio!” esclamò il dottore con stanco sollievo, premendo una mano bianca sui capelli castani del figlio; l’uomo si portò poi con il viso all’altezza di quello del bambino e i suoi occhialetti sottili sembrarono essere attraversati da uno scintillio di inquietante rabbia. “Sappi che sono furioso nei tuoi confronti, Ben” lo informò, il tono severo da genitore pronto ad una lunga ramanzina. Al contrario di ciò che si poté immaginare, il signor Rochester appoggiò entrambe le mani sulle piccole spalle del ragazzino e aggiunse, con più accondiscendenza: “Devi dirmi subito se hai subito qualche ferita, o se stai bene.”

“Io sto bene, papà!” rispose subito Ben, con incredibile tranquillità. Il ragazzino alzò quindi l’esile braccio in direzione di Arthur e Saffie, puntando l’indice sulla ragazza castana. “La signora Worthington mi ha protetto da quell’uomo spaventoso: aveva detto di volermi fare qualcosa e poi ha cercato di strangolarla!” spiegò tutto d’un fiato, impassibile come se stesse raccontando al padre una giornata di noiosi giochi. “È stata proprio coraggiosa!”

“Ne sono sicuro, figliolo” commentò solo Rochester, mentre i suoi occhi neri scivolavano sul cadavere del pirata con quello che alla Duchessina Lynwood parve vero e proprio odio. “Ma è tutto finito adesso.”

La ragazza non ebbe il tempo di notare altro, poiché la sua attenzione fu attirata dalla carezza leggera di due dita che, lente, inseguivano un misterioso tracciato sulla pelle esposta del suo collo. Con un piccolo sussultò sorpreso, spostò lo sguardo nuovamente su Arthur Worthington e gli lesse in volto un’espressione indecifrabile, le iridi verdi puntate sul segno livido lasciato dalle disgustose mani del suo aggressore. “Voleva ucciderti” le sussurrò infine. “Ma tu non gliel’hai permesso.”

No, io gli ho tolto la vita… ed è una cosa diversa.

Saffie gli rispose scuotendo la testa castana, come se volesse negare le parole dell’ammiraglio, e abbassò gli occhi sull’ampio torace di lui, trattenendosi dallo scoppiare in lacrime davanti a tutti: sarebbe stata una reazione naturale, ne era consapevole…eppure, le sembrava di sentire ancora la voce di suo padre dentro di sé.

…il più forte è colui che vuole sopravvivere a tutti i costi.”

Come se si fosse accorto solo in quell’istante dello stato pietoso in cui giaceva la Duchessina, Benjamin si raddrizzò di scatto e la fissò ad occhi spalancati, colto da un improvviso allarme. “Signora Worthington!” la chiamò, cominciando a incamminarsi nella sua direzione con urgenza. “Dovete assolutamente lasciare che vi dia almeno un’occhiata, pure se dite di essere illesa. Spostatevi, Ammiraglio.”

Decidendo di soprassedere sul tono autoritario usato dal dottore, Arthur fece per alzarsi in piedi, ma fu trattenuto dalla stretta nervosa delle piccole dita di Saffie che, fulminee, si aggrapparono al tessuto della sua giacca blu con forza.

“Ti prego…no.”

Era stato solo un basso pigolio pietoso, uscito di getto dalle labbra tremanti di una Saffie che, ugualmente, si detestò per il suo gesto impulsivo: di nuovo, era cosciente di stare attraversando un invisibile confine, del fatto che Worthington non poteva sopportare di essere toccato da lei; eppure, in quel disperato frangente, le sembrò di riconoscere solo il tanto odiato Arthur, in mezzo ad un contesto totalmente estraneo.

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine”.

Ancora non hai imparato a stare al tuo posto?

Ma, questa volta, l’ammiraglio non la respinse affatto. Senza una parola, Arthur allungò una mano verso la figura di Benjamin Rochester, fermandolo immediatamente sui suoi passi; e lo stupore della ragazza fu infine enorme, nel vedere gli occhi chiari di Worthington tornare a guardarla con quella che poteva essere scambiata per vera gentilezza. No, si disse Saffie, lui non l’aveva mai guardata in quel modo.

Non era mai stato per lei, quello sguardo dalla profondità incredibile.

“Qualsiasi cosa sentirai là fuori, non guardare.”

La Duchessina di Lynwood non comprese subito le parole dell’uomo, ma ebbe modo di farlo nell’istante in cui si sentì sollevare da terra con un unico gesto leggero: come se fosse stata fatta di piuma, Arthur l’aveva presa in braccio senza alcuno sforzo e l’uomo era tanto più imponente di lei, che a Saffie parve di essere una bambina indifesa al suo confronto. Malgrado la statura minacciosa di Worthington, la ragazza sentì nuovamente lo strano tepore rassicurante di poco prima e decise quindi di dare ascolto all’ammiraglio, girando il viso smunto e annuendo piano contro il tessuto della sua divisa dorata.

“Ripulite tutto” lo udì ordinare in tono monocorde, probabilmente rivolto alle guardie in muta attesa sulla soglia della stanza. “Tenente Chapman, assicuratevi che il capitano Inrving si mantenga sulla scia della mia nave.”

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

Un tuffo al cuore tradì Saffie, ma lei fu fin troppo brava a tenere gli occhi spaventati ben nascosti dietro alle palpebre, il volto seppellito nel petto ampio del marito. Perché sapeva cosa avrebbe udito, una volta arrivati sul ponte sopracoperta, e non voleva assistere ad altre scene di morte o essere preda dell’orribile senso di colpa che ora stava consumando il suo cuore…non voleva sentire più niente.

Una brezza fredda aggredì la sua pelle, facendole venire la pelle d’oca, e fu molto peggio di quanto aveva temuto: il nauseante odore di sangue era ovunque, forte e aspro, mentre i lamenti che fino a un’ora prima poteva dire di sentire in maniera confusa quanto ovattata, ora gridavano angoscianti a nelle sue orecchie.

Ringraziò il cielo per la camminata veloce di Arthur che, a grandi falcate, provvedeva a raggiungere gli alloggi degli Ufficiali senza guardarsi indietro; la Duchessina non desiderava infatti ascoltare i tremendi frammenti di discorso che – impietosi – sembravano arrivarle direttamente dal cielo.

“Dobbiamo amputare, se non…”

“…no, i corpi restanti buttateli direttamente in mare.”

Animali. A quanto pare, dovremo promuovere un nuovo nostromo.”

Al suono di quest’ultima parola, Saffie fu incapace di trattenersi e socchiuse gli occhi castani, pentendosi immediatamente di averlo fatto: le sue iridi caddero sul tozzo Shaoul Brown e vide che giaceva inerme a terra, lo sguardo sempre incollerito ora appannato da un velo grigio, definitivo; ma non si era trattato solo di questo, perché il corpo dell’uomo era stato fatto letteralmente a pezzi.

“Il si-signor Brown...” cominciò a balbettare, aggrappandosi alle spalle di Worthington senza rendersene nemmeno conto. “Il-il signor Brown è…”

L’ombra di cinque dita lunghe entrò nel suo campo visivo all’improvviso, oscurando del tutto i suoi occhi lucidi di terrore.

“Ti ho detto che non devi guardare” le sibilò Arthur, lasciandosi sfuggire una nota di malcelata rabbia nel tono di voce tinto di inossidabile indifferenza.

Per fortuna, a nessuno venne in mente di fermare l’ammiraglio e i due arrivarono finalmente all’alloggio della ragazza, dopo un tempo che ad entrambi era parso pressoché infinito. L’uomo entrò nella cabina senza curarsi di nessuna cerimonia o formalità e i suoi occhi verdi si incatenarono subito con quelli ansiosi di una Keeran Byrne in preda alle lacrime.

“Sia rin-ringraziato Idd-dio!” urlò la diciassettenne, alzandosi in piedi di scatto e attirando l’attenzione della Duchessina di Lynwood, che si voltò a guardarla come se l’irlandese fosse l’incarnazione di un angelo del Paradiso. “Signora Saffie! Si-siete salva!”

“Anche tu, Keeran” fece debolmente quest’ultima, forzando le sue labbra a piegarsi leggermente all’insù. “Ne sono felice.”

“Ma que-quel sangue!”

“Non è il suo” spiegò bruscamente Arthur Worthington, lasciando con delicatezza la presa sul corpo esile della moglie, aiutandola così a mettersi a sedere sul morbido letto a baldacchino. “Serva, vai a preparare un bagno caldo alla tua padrona. Subito.”

Gli occhi dell’interpellata fremettero di incertezza e la ragazza mora lanciò un silenzioso sguardo di smarrimento in direzione di Saffie che, dal canto suo, annuì appena con la testa. “Vai pure, Keeran” acconsentì la Duchessina, sommessamente. “Io sto bene.”

Meschina e bugiarda. Come puoi pronunciare queste parole dopo quello che hai fatto?

Dopo un nervoso e veloce inchino, Keeran si precipitò fuori dalla camera, lasciando soli un Arthur e una Saffie che, in effetti, non sapevano bene cosa potersi dire. Un silenzio strano cadde fra loro e sembrò come se l’esistenza del confine si facesse nuovamente visibile, palpabile persino: non era più solo il rancore e il senso di colpa a imprigionarli, ma bensì un groviglio di non detto difficile da sbrogliare.

“La mia serva ha un nome” buttò lì la ragazza, senza nemmeno sapere il perché, mentre il suo sguardo scuro precipitava verso il basso, alle sue dita intrecciate sulle ginocchia. “Si chiama Keeran Byrne.”

Uno sbuffo seccato provenne dall’alto, così come il commento piatto di Worthington: “Anche in un momento come questo, la tua lingua lunga non ti smentisce mai”.

Saffie non rispose e nemmeno alzò la testa per guardarlo, perdendosi in questo modo l’opportunità di scoprire che – ancora – gli occhi verdi dell’uomo erano puntati su di lei con pensoso interesse. Un doloroso sentimento si contorceva infatti tra le pieghe dell’animo di Arthur e non gli dava pace alcuna, perché egli lo sapeva già da un pezzo che era stata tutta colpa sua.

No, si disse l’uomo, non era solo questo.

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

La piccola strega gli aveva rammentato un ragazzino gracile e spaventato, in attesa della morte. Un passato ormai dimenticato, dove lui aveva dovuto scegliere se essere preda o predatore.

E si era ricordato che quel bambino aveva infine scelto di sopravvivere, buttandosi ad occhi chiusi dentro all’abisso.

“Se la signorina Saffie Lynwood non sia più simile a te di quanto credi.”

Una mano grande si protese lenta verso Saffie, i polpastrelli tesi a sfiorarle il viso pallido e tremante.

“Ammiraglio!”

Arthur Worthington rinsavì di botto e ritrasse il braccio all’istante, voltandosi con il busto nella direzione della voce seria che l’aveva chiamato e lanciando contemporaneamente una delle sue migliori occhiate taglienti alla porta dove, improvvisamente pietrificato dalla soggezione, stava la figura di un giovanissimo sottotenente. “Perdonate l’intrusione” fece subito quest’ultimo, scattando sull’attenti “Ma il capitano chiede urgentemente di voi, afferma di non poter aspettare oltre”.

“Così sia, allora” sillabò Worthington, senza curarsi di nascondere il suo disappunto.

In questo scambio di battute, Saffie era rimasta a testa china e pensieri spenti, cercando di dominare sia il pianto imminente, sia la voce insistente che l’accusava di essere un’orribile assassina. Non si era accorta del tormento presente nel cuore del detestato Ammiraglio, ma non poté non accorgersi del cappotto blu che venne adagiato sulle sue piccole spalle scosse dai brividi: l’accecante simbolo di potere del Generale Implacabile la avvolse del tutto, come una coperta confortevole e rassicurante.

“Hai salvato una vita, oggi. Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Piena di sorpresa, la ragazza alzò lo sguardo luminoso su Arthur, giusto in tempo per vedere la sua ribelle chioma scura sparire dietro la porta. Un silenzio fatto di suoni ovattati e lontani si fece sentire attorno alla Duchessina, lasciata sola a fare i conti con sé stessa.

“Ti ha fatto del male?”

Le sue dita piccole sfiorarono le rifiniture dorate della giacca di Worthington, mentre Saffie si lasciava cadere di lato sul materasso pulito e profumato. Il suo viso affondò nel tessuto di quella stessa divisa che lei aveva sempre dichiarato di detestare – forse più dell’uomo che l’indossava – e un tepore gentile la accolse subito in un morbido abbraccio.

“…sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Un rossore leggero invase le gote della ragazza, al pari passo con le lacrime che finalmente cominciarono a scendere copiose dai suoi occhi castani, inumidendo la pregiata stoffa della giacca di Arthur. “È così calda” commentò a bassa voce Saffie, stringendola a sé.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

“Io e voi siamo molto diversi, non è così?”

E pianse, pianse per ore intere, perché il suo cuore non era più sicuro di niente.





Angolo dell’Autrice:

Dunque, sembrerebbe giunto il primo punto di svolta della storia.

Intanto, buonasera! :D

Non sapete quanto sono felice di poter pubblicare questo capitolo e di essere riuscita a farlo entro il limite di tempo che mi ero prefissata! Urrà!

Per una scadenza rispettata, c’è un altro condizionamento che invece non sono riuscita a rispettare: il numero di pagine minimo in cui ho deciso di suddividere i vari capitoli. Di solito cerco di non superare mai le diciotto pagine, ma questo capitolo me ne ha prese una ventina! (-.-)’’

Ho provato a dividerlo in due, ma non avrebbe avuto alcun senso e credo sarebbe andato a perdersi molto dell’insieme di ciò che accade…oh, ma a proposito!

Che ne pensate di questa settima parte? Vi è piaciuta? :D

Io spero tanto di sì perché, per quanto mi riguarda, rappresenta un momento chiave del racconto: non credo che Saffie ed Arthur riusciranno a guardarsi come prima, no?

Oh, non vedevo letteralmente l’ora di arrivare a scrivere questo capitolo (sadismo?) che, in effetti, avevo bene in niente fin dal principio! Pure se, devo ammetterlo, spero di essere riuscita a trasmettervi qualcosa, ad emozionarvi ecco!

Detto ciò, vi ringrazio di tanto per aver dato una possibilità a questa storia, di avermi lasciato una recensione (mi si scalda il cuore, sul serio), di averla votata (per chi mi ha trovata, nascosta tra i misteriosi algoritmi di Wattpad) e di aspettare con pazienza un capitolo al mese. Io spero sempre ne valga la pena, davvero.

Quindi, se vi va, fatemi sapere le vostre impressioni!

Come sempre, farò il possibile per pubblicare entro fine Novembre!

Un abbraccio virtuale,

Sweet Pink


Post Scriptum: Ma quanto sono carini Saffie e Arthur nell’ultima parte del capitolo? (*w*)

Sì, sono un fangirl dei miei stessi personaggi, lo ammetto.

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Capitolo 9
*** Ottavo. Il legame crudele. ***


CAPITOLO OTTAVO

IL LEGAME CRUDELE





Un sole tiepido e inaspettato illuminava la lussureggiante vegetazione di Hyde Park, ed era un chiarore tanto brillante che a Saffie quasi parve di non poter più cogliere nulla della persona di fronte a lei.

Quest’ultima si limitava semplicemente a scomparire nella nebbia di luce bianca e accecante, lasciando la ragazza indietro, ad incespicare sullo scricchiolante sentiero di ghiaia, nel patetico tentativo di provare a raggiungerla per tempo.

Non lasciarmi qui!” provò a dire Saffie anche se, si rese subito conto, persino il canto dei passerotti nascosti fra le fronde degli alberi era più forte della sua stessa voce.

Eppure, davvero strano, l’uomo intento a camminarle davanti fermò immediatamente i suoi passi e divenne di nuovo visibile. La Duchessina vide le sue stesse esili dita protendersi nella sua direzione, tendersi con ansiosa urgenza e cercare di afferrare la mano grande di colui che amava, pure se le era proibito farlo.

Una brezza improvvisa e fredda turbò la pace di quel pomeriggio soleggiato, scuotendo le chiome verdi degli alberi con violenza e sollevando un turbinio di brune foglie morte che oscurarono gli occhi castani di Saffie, spalancati dallo stupore: un viso imbarazzato e un sorriso intriso di dolce gentilezza, fu tutto ciò che riuscì a intravedere.

Non c’è altro modo” disse allora l’uomo, i capelli rossicci che s’agitavano sulla fronte bianca. “Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.

Ipnotizzata dalle sue parole, la ragazza mosse un piccolo piede in avanti, come a voler raggiungere l’alta figura che se ne stava girata verso di lei in muta attesa. No, Saffie sapeva di doverla raggiungere a tutti i costi.

Non fece mai in tempo.

Dietro alle sue spalle, una porta venne spalancata con decisione e sbatté contro il muro in mattoni del piccolo appartamento londinese che le aveva dato rifugio, producendo un secco suono di condanna a morte. Saffie si voltò di scatto, nelle iridi scure lo sguardo braccato di una preda messa all’angolo: infine, erano riusciti a trovarla.

Due uomini vestiti di rosso entrarono nella stanza e la ragazza seppe che la stavano fissando con riprovazione, seppure i loro volti fossero privi di alcun lineamento. “È lei, signore” esordì la voce lontana di uno di quei bianchi manichini, ridicolmente abbigliati da Ufficiali dell’Impero. “È la figlia di Alastair Lynwood.”

Dal buio del corridoio, emerse la figura storta e aberrante del pirata a cui Saffie aveva tolto la vita: gli occhi dell’uomo la inchiodarono al pavimento, poiché erano due iridi bianche e immobili quelle che la stavano giudicando; mentre un sorriso malvagio e senza denti si andò ad aprire su un’oscena faccia rosso sangue.

Proprio così” disse il criminale, trionfante di gioia. “Non puoi nasconderti a me, dannata assassina.

Non puoi nasconderti né da tuo padre, né dai tuoi stessi peccati.

La Duchessina di Lynwood socchiuse lentamente gli occhi castani, e scoprì di avere le ciglia incrostate di lacrime ormai rapprese. Si rese immediatamente conto di avere pure il viso smorto affondato tra le morbide lenzuola, il piccolo corpo rannicchiato su sé stesso, sotto un accogliente e caldo giaciglio fatto di coperte mentre – fuori dalla sua tana – un mormorio basso e armonioso spezzò il silenzio in cui la camera da letto era immersa.

Incuriosita, Saffie alzò appena la testa castana, ricercando la fonte di quella timida voce da pulcino appena nato: tra le lunghe ciocche dei suoi capelli disordinati, la ragazza riuscì a inquadrare la morbida figura di Keeran Byrne seduta a poca distanza, solennemente assorta nel complicato ricamo di una cuffietta nuova di zecca.

Le iridi nero pece della diciassettenne non si smuovevano dal lavoro preciso e abile delle sue stesse mani, mentre le labbra carnose si schiudevano appena e, da esse, uscivano fuori suoni misteriosi, mormorati piano come fossero il canto ammaliatore di una sirena.

…Sí’n bhean í dtug mo chroí gra dí” intonò l’irlandese, cadenzando con grande naturalezza parole ignote a Saffie ma, non per questo, meno affascinanti. Un lieve sorriso triste fece la sua comparsa sul viso paffuto e pallido di Keeran che continuò a cantare, ignara di avere un’interessata ascoltatrice silenziosa: “Chuala mé an smólach ‘s a’lon dubh a’ra’…gur éalaigh mo ghra’ thar sàile”*.

Di nuovo, il silenzio cadde nella ricca stanza della signora Worthington ma, con grande sorpresa della ragazzina mora, esso fu subito spezzato dal rumore ovattato di due piccole mani che battevano l’una contro l’altra, producendo un piccolo applauso d’ammirazione. Keeran alzò gli occhi di scatto e li posò sul nascondiglio in cui la signora Saffie aveva deciso di seppellirsi negli ultimi due giorni: una testa arruffata sbucava infatti dalle pesanti coperte, mentre uno sguardo di liquida pacatezza venne lanciato nella sua direzione, risultando all’irlandese fin troppo intenso e penetrante.

Non a caso, la signorina Byrne si rinchiuse subito nella sua consueta aria di paurosa prudenza e, senza riuscire ad impedirselo, un imbarazzo violento tinse le sue gote sempre rosa di un acceso quanto adorabile rosso ciliegia. “Si-signora!” balbettò infine, stringendo le dita nervose sui ferri da ricamo. “Vi-vi chiedo su-scusa! Non in-intendevo svegliarvi.”

“Mia cara, non credo tu debba farti perdonare di possedere una voce che farebbe letteralmente morire d’invidia molte delle più intonate nobili fanciulle” tentò di scherzare Saffie, il tono tinto di sommessa ironia; pure se, comprese, probabilmente non sarebbe mai più riuscita ad essere la stessa ragazza irriverente che tanto piaceva ad Amandine. La Duchessina puntò le dita sul morbido materasso e si tirò su a sedere, poggiando le spalle sui numerosi cuscini che la sua solerte dama di compagnia le aveva procurato; dopo aver incrociato elegantemente le mani sul grembo, aggiunse: “Confesso di essere parecchio gelosa anche io!”

Al suono di quest’ultima affermazione, Keeran riuscì a diventare incredibilmente ancora più rossa e, spalancando tanto d’occhi, alzò le mani bianche davanti al viso, cominciando poi ad agitarle con incoerente timidezza. “Qu-questo non credo si-sia possibile, signora!” esclamò con forza, non prima di aver lasciato cadere lo sguardo rassegnato verso terra. “Voi siete così bella e intelligente…e di ce-certo non potreste essere in alcun modo invidiosa di una come me.

“Tuo padre sarà pure un Barone, ma non pensare di essere uguale a lui o alle tue sorellastre…tu sei il nulla.”

Saffie osservò con grande dolcezza il volto turbato di Keeran e, per un momento, quest’ultima le ricordò un’altra ragazza fragile che – proprio come lei – si sentiva prigioniera della sua stessa condizione. In un battito di ciglia, le sembrò di essere tornata indietro nel tempo e di trovarsi nella sua lussuosa camera nel Northampton in compagnia, non della diciassettenne, ma di una Amandine dagli occhi bassi e malinconici.

“Ti hanno costretta a tornare, sorella mia. Anche se una come me non ne vale di certo il sacrificio.”

E dire che sua sorella minore non aveva mai veramente saputo quanto per Saffie ne fosse valsa effettivamente la pena, come mai avrebbe potuto immaginare di essere in realtà invidiata oltre misura da colei che reputava il suo punto di riferimento incrollabile. Tutto questo perché, per una volta sola, la Duchessina di Lynwood aveva desiderato poter essere anche lei una principessa…e non un personaggio simpatico e utile, ma infine destinato a rimanere sullo sfondo della storia.

Come se li avesse evocati, frammenti disordinati del sogno avuto neanche mezz’ora prima tornarono a galla impietosi nella sua mente esausta: davanti ai suoi occhi lucidi, danzò l’immagine crudele e dolorosa di colui che era stata obbligata a dimenticare; era passato tanto tempo, eppure la ragazza ricordò con fin troppa lucidità la timida gentilezza di due disarmanti iridi nere. Uno sguardo rassicurante e così caldo.

“Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Un fulmine a ciel sereno si abbatté su Saffie e il tocco delicato delle mani grandi di Arthur Worthington si fece sentire prepotente dentro la sua anima, tanto intensamente che quasi le parve di sentire di nuovo le dita dell’uomo premere con gentilezza sulle sue guance fredde. Al solo pensiero dell’Ammiraglio, un leggero rossore le imporporò il viso e, ancora peggio, un batticuore furioso le esplose a tradimento nel petto.

I suoi occhi verdi non l’avevano mai guardata in quel modo.

“Davvero, non vuoi sentire i miei terribili solfeggi” si affrettò a commentare quindi la ragazza castana, sventolando con strana agitazione una mano verso Keeran. Non desiderando fare i conti sia con la scomoda apparizione del tanto detestato marito, sia con i confusi sentimenti che ne derivavano, Saffie decise di farli sparire entrambi concentrandosi sulla canzone gaelica della sua domestica personale: “Ciò che stavi cantando poco fa…cosa significano quelle parole?”

Un sorrisetto spontaneo e triste stiracchiò le belle labbra di una Keeran ignara dell’improvviso turbamento a cui la sua padrona stava tentando con scarso successo di opporsi. “Oh! È solo una scio-sciocchezza, un’antica can-canzoncina che mia nonna soleva cantarmi quand’ero in fasce” spiegò l’irlandese, sistemandosi goffamente una ciocca di capelli corvini dietro all’orecchio. “Sa-sapete, già allora da-davo parecchi fastidi.”

Hanno detto che sono nata per portare disgrazia e morte, poiché tutti gli illegittimi sono dannati.

“Una melodia così bella non può essere affatto una stupidaggine ma, anzi, penso sia stupendo che tua nonna te la cantasse per farti addormentare” emerse dal nulla la voce gentile e comprensiva di Saffie Worthington, ancora quietamente impegnata a fissarla con interesse. “In effetti, si potrebbe considerare un vero gesto d’amore, questo.”

Le iridi nere della signorina Byrne si allargarono stupite, mentre una sensazione di calda gratitudine si propagava a poco a poco nel suo animo diffidente.

Come ci riesce?

Forte delle leggi incrollabili che governavano il loro mondo, la Duchessina di Lynwood era nella posizione di fare di lei ciò che più l’aggradava: avrebbe potuto schioccare le dita e farle subire umilianti punizioni, o muovere la bocca e costringerla a spezzarsi la schiena per i minimi capricci, insultarla tutto il giorno senza che Keeran avesse il diritto né di rispondere, né di poter dubitare del contrario; eppure, Saffie continuava a sedere sul letto, serafica, e la guardava con due occhi castani colmi di un rispetto a cui l’irlandese proprio non riusciva ad abituarsi.

Alla facilità con cui riesce a farmi credere possa esistere una speranza per una come me.

Pure se posso solo ammirare da lontano il suo cielo luminoso e irraggiungibile.

Fu in questa maniera, quasi non accorgendosene, che l’irlandese prese un bel respiro d’incoraggiamento e schiuse appena la bocca, lasciando fuoriuscire una voce sì sottile, ma incredibilmente intonata, da usignolo sperduto: “Un anno colmo di nostalgia ho passato in questa città, per cercare di trovarla; lei, la ragazza mora che mi ha spezzato il cuore” cantò Keeran, socchiudendo le palpebre con assorta concentrazione, come se stesse ricordando qualcosa di nostalgico. “Ho trovato la sua lettera che mi diceva che se n’era andata. Il tordo e il merlo hanno raccontato a tutto il mondo che il mio amore è andato oltre l’oceano”.

Per una qualche ragione assurda e straziante, il cuore di Saffie si strinse nel petto e lei si ritrovò ad abbassare gli occhi sulle sue piccole mani, chiuse nervosamente l’una contro l’altra. La sua visione cominciò a farsi confusa, preda di lacrime che minacciavano di trasformarsi in un esplosivo pianto a dirotto.

“Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.”

Invece adesso esiste solo il soffocante abisso.

Un enorme sentimento di opprimente senso di colpa si impadronì di lei ed era così difficile da sopportare che Saffie si strinse nelle spalle tremanti, impaurita da un qualcosa che non voleva comprendere: poteva ben vedere la voragine oscura e, sul fondale, l’imponente figura di Arthur Worthington attendeva, come un glaciale e determinato predatore.

Hai detto di odiarlo, ma la verità è che tu lo desideri e lo temi allo stesso tempo.

Un brivido ghiacciato la scosse a tradimento e Saffie si preparò a scoppiare in patetici singhiozzi da un momento all’altro. Fortunatamente, prima che ciò potesse accadere, vennero le dita morbide di Keeran Byrne a salvarla: l'irlandese andò contro tutte le principali regole dell’etichetta di rango e poggiò coraggiosamente una mano bianca sul dorso di quelle della giovane padrona, cercando con tutta probabilità di trasmetterle un qualche conforto di sorta.

“Scu-scusate, signora” sussurrò “Non volevo rendervi ancora più triste e abbattuta; non dopo gli avvenimenti di due giorni fa.”

Assassina.

Le iridi lucide della Duchessina si persero tra le piatte e ripetitive forme della coperta ricamata, mentre quest’ultima a malapena udiva le seguenti parole di Keeran, il cui tono vibrava di preoccupazione: “Avete salvato il figlio del medico di bordo da quel tremendo pirata, proprio come l’eroe di un racconto!”

No, io mi sono semplicemente rivelata uguale a mio padre.

Malgrado le ruggisse in petto una violenta tempesta di insostenibili sentimenti, Saffie fu comunque grata del sostegno della sua più fida alleata e tentò di gratificarla a sua volta, premiandola con un sorriso debole, dalla pacata allegria. “Ti ringrazio, amica mia” disse quindi, intrecciando le sue dita esili con quelle della domestica. “Non fare caso alle mie stupide lacrime, poiché la canzone era davvero bellissima come pensavo. Ma…giusto! Dimmi piuttosto del valoroso Douglas Jackson: che mi racconti di lui?”

Un prevedibile rossore acceso colorò tutto il viso di Keeran e la ragazza castana si trovò a sperare – per il bene sia dell’irlandese che del ragazzo – in un miglioramento repentino delle condizioni di salute in cui il mozzo attualmente versava: il giorno precedente Saffie aveva infatti ricevuto l’esagitata visita del piccolo Ben che, non solo l’aveva informata della partecipazione del signor Jackson alla battaglia, ma di come egli fosse attualmente nelle grinfie del suo inflessibile padre. In conclusione, aveva infine spiattellato il bambino con l’aria di chi la sapeva lunga, le ferite aperte sulla schiena di Douglas avevano fatto infezione ed egli era febbricitante da almeno ventiquattro ore.

“Ho-ho provato a chiedere di lui al signor Rochester, ma-ma il dottore mi ha solo detto di pensare a ri-rimanervi accanto” rispose con un mormorio basso e vergognoso Keeran, abbassando la testa corvina e lasciandosi scappare un pesante sospiro rassegnato. “So-sono stata invadente.”

Per certo, la Duchessina di Lynwood sapeva in prima persona cosa significava voler bene a una persona costretta a letto in preda a terribili febbri ed era altrettanto sicura che la sua timida dama di compagnia non avrebbe trovato pace tanto presto. O almeno, si trovò a pensare Saffie inarcando un sopracciglio, non finché il medico di bordo le impediva di vedere Douglas di persona: Keeran non l’avrebbe mai ammesso di sua spontanea volontà, ma era più affezionata al mozzo di quanto desse ad intendere.

“Beh, posso dire di aver goduto di un sonno ristoratore, non credi?” esordì la signora Worthington con noncuranza, elargendo sulla mano della domestica due o tre colpetti affettuosi. “Riferisci pure questo al signor Rochester, poiché desidero tu vada a far visita al povero Douglas.”

“Si-signora, non pos-posso!”

“Come no?” ironizzò l’interpellata, ridacchiando sommessamente. “Sono appena le tre del pomeriggio e non credo la pendola possa in alcun modo mentirci! Ergo, hai parecchio tempo, mia cara.”

“Ma-ma il dottore…”

Uno sguardo di ferma gentilezza mandò gambe all’aria le deboli proteste della diciassettenne che, non senza un fremito di soggezione, si zittì di fronte all’espressione improvvisamente determinata di Saffie. “Speravo di non arrivare a tanto ma…questo è un ordine, Keeran” disse la ragazza castana, sfoderando uno dei suoi rari sorrisini inquietanti. “Ora va’, e porta i miei saluti al signor Jackson.”

Ovviamente, l’irlandese non poteva opporsi in nessuna maniera alle volontà impartite direttamente dalla Duchessina; e fu così che la signorina Byrne si vide costretta a prendere la porta, pure se sul suo viso paffuto aleggiava un’espressione costituita più di imbarazzato divertimento, che di intimorita obbedienza. Una volta raggiunta la soglia della stanza, si fermò per prendere congedo con un inchino di profonda reverenza, dicendo solo: “Sarò sempre serva vostra, signora Saffie.”

Quest’ultima venne dunque lasciata sola nella ricca camera da letto e non poté che rivolgere un sorriso da ebete al lucido legno della porta chiusa, provando un affetto profondo nei confronti della persona che se n’era appena andata. “Forse non è troppo tardi” pensò Saffie, accarezzando distrattamente le lenzuola “Magari riusciremo a diventare amiche un giorno”.

Forse anche io e Arthur potremo riuscire a comprenderci, a perdonarci. Ad essere amici.

La ragazza si concesse di ascoltare il disturbante sentimento contro cui aveva ingaggiato guerra da almeno quarantotto ore a quella parte, ossia da quando l’ammiraglio Worthington l’aveva portata sana e salva in cabina, tenendola fra le braccia come se Saffie fosse stata una vera principessa.

Sciocca, da quando il tuo odio si è tramutato in timore e desiderio?

Per l’ennesima volta, le sue guance si arrossarono fino a scottare, pure se quel sentimento dentro di lei non faceva altro se non provocarle angosciante dolore.

Da due giorni a questa parte?

Sei una ridicola bugiarda. Un’ipocrita.

Il sorriso radioso e pieno di speranza di Amandine galleggiò subito nella sua mente, con malefico tempismo.

Meschina.

Il caldo rifugio di coperte le parve improvvisamente una prigione insopportabile e, mossa da una forza che non riuscì a riconoscere, Saffie si scostò di dosso le lenzuola con un unico gesto infastidito, balzando giù dal letto come un agile cucciolo di cerbiatto. Ignorando il pavimento freddo sotto i piedi nudi, la Duchessina si incamminò lentamente in direzione del lussuoso scrittoio in mogano, pure se tutta la sua attenzione era per ciò che vi stava appoggiato sopra: il lungo cappotto blu di Arthur era stato piegato con cura e le sue abbottonature dorate sembravano ammiccarle da lontano, superbe e pompose.

“Ti ha fatto del male?”

Dopo un attimo di incertezza, la ragazza allungò le dita e accarezzò piano il ricco tessuto della divisa, quasi avesse timore potesse succedere qualcosa di orribile. Anche se, si trovò a considerare, l’uomo non l’aveva respinta ma, anzi, si era dimostrato protettivo e gentile con lei.

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

Ma stava mentendo a sé stessa, poiché il suo cuore non poteva dirsi più sicuro di sapere nulla.

“Dovrò restituirgliela” sussurrò Saffie, ipnotizzata dal movimento del suo stesso indice, impegnato ad esplorare le larghe spalline d’oro della giacca. E fu l’istante in cui un’emozione nuova emerse a tradimento dalle pieghe della sua coscienza, divertendosi un mondo a prendersi gioco di lei: poteva affermare di non essere più sicura di niente, tranne che di un solo stupido e scomodo desiderio.

“Io…voglio vederti, insopportabile Ammiraglio” ammise con sé stessa, sentendosi in colpa come non mai.



§



Ad una prima superficiale occhiata, il lungo ponte dell’Atlantic Stinger non rassomigliava affatto al sanguinoso campo di battaglia che due giorni prima aveva mietuto decine di vittime e, anzi, due ordinate file di marinai armati di ramazza erano al momento occupate a tirarlo a lucido, cancellando definitivamente qualsiasi traccia del massacro perpetrato dalla Marina Britannica di Sua Maestà.

Se la vita degli uomini relegati alla bassa manovalanza sembrava essere tornata ad una parvenza di normalità, quasi lo stesso stava avvenendo sul ponte di comando dove, riuniti in un gruppetto compatto, le eleganti figure vestite di blu degli Ufficiali rimasti in vita osservavano dall’alto le attività di chi se la passava molto peggio di loro.

Deciso a non rendere vana la morte di tanti suoi uomini, il capitano Henry Inrving se ne stava saldamente aggrappato al timone del vascello, inseguendo la scia della sfortunata Mad Veteran, ora un puntino lontano che non aveva alcuna possibilità di seminarli; mentre il solerte James Chapman confabulava con i suoi sottotenenti a braccia conserte, sbirciando di tanto in tanto i documenti di cui questi ultimi gli stavano facendo mostra.

In generale, un caldo pressante era subentrato alla nefasta brezza fredda dei giorni precedenti e il capannello di gentiluomini – tutti fedeli alle severe regole della Marina – era fra le altre cose stoicamente impegnato a sopportare la temperatura opprimente senza battere ciglio: si trattasse di candidi parrucchini, o di lunghi cappotti dorati, grande era l’invidia provata dagli Ufficiali per l’unico uomo che stonava in mezzo a loro.

Sfidando l’Ammiragliato e l’etichetta stessa, Arthur Worthington lavorava chino sul tavolo che ospitava le carte di navigazione con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e l’elegante panciotto bianco sbottonato; i capelli castano scuro cadevano mossi sula fronte abbronzata, poiché egli aveva sempre trovato assurdo che un uomo d’azione dovesse in effetti portare uno scomodo parrucchino durante le lunghe traversate in mare. In ogni caso, l’ammiraglio era noncurante e ignaro della gelosia bruciante dei sottoposti e, pennino in pugno, continuava a seguire con gli occhi verdi le rotte da lui ricalcolate poco prima, anche se sapeva di non aver lasciato spazio a margini d’errore.

Eppure la tua testa sembra trovarsi altrove, ultimamente.

Era difatti un sentimento fastidioso e scomodo quello che si agitava in continuazione dentro il suo animo, malgrado i numerosi tentativi di metterlo a tacere; non per la prima volta in quelle ultime quarantotto ore, Arthur dovette subire l’irruzione nella sua mente di Saffie e dei suoi occhi, non saccenti e pieni di rancore, ma traboccanti di un dolore disperato che lui poteva dire di conoscere molto bene.

“Io ho ucciso un uomo.”

In fondo, se il suo tanto odiato senso di colpa era sempre presente, ora l’uomo si trovava a dover fare i conti con una nuova preoccupazione che mai si sarebbe aspettato di poter nutrire nei confronti della piccola strega a cui aveva dichiarato disprezzo eterno.

“Come pensavo. Sei un eccellente bugiardo, Ammiraglio.”

Perché è da molto, molto più tempo che la tua ambizione l’ha imprigionata. Rovinata.

Odiandosi per la sua totale mancanza di autocontrollo, Worthington sollevò quindi le iridi smeraldine e le lasciò libere di indagare l’indaffarato viavai sottostante, alla ricerca di un guizzo di colore differente dalla solita indistinta massa scura, di un paio di occhi innocenti e così diversi dagli sguardi servili che lo circondavano.

Lei, il famoso elemento al di fuori della cornice.

L’uomo avrebbe scelto di morire, piuttosto che ammettere di stare a tutti gli effetti aspettando di vedere la Duchessina di Lynwood uscire sul ponte sopracoperta, ma non c'era altra spiegazione alla dilaniante urgenza che gli ruggiva dentro.

Un desiderio morboso, che non era suo diritto provare.

“…le loro perdite sono state ingenti” emerse dal nulla una piatta voce alle sue spalle, con tutta probabilità appartenente a un anonimo sottotenente. “Di cinquecento uomini, noi ne abbiamo persi circa un centinaio.”

“Poco male” commentò James Chapman, in tono spavaldo. “Siamo alle calcagna di quella feccia e, per un vascello da guerra come l’Atlantic Stinger, cento uomini sono quasi superflui.”

Gli occhi verdi di Arthur si abbatterono nuovamente sulle mappe spiegate sotto di lui e un improvviso tremolio incerto prese a scuotergli le mani, che si strinsero subito a pugno; nel contempo, egli poté chiaramente udire il suono del suo stesso cuore che – dannazione – aveva preso a battere violento contro la cassa toracica: a tradimento, il senso di colpa stava trasformandosi in paura.

“…pure dei ragazzini, che a malapena hanno coscienza di ciò a cui andranno incontro. La morte indiscriminata non è la soluzione!”

Non adesso. Ti prego, non adesso.

Un sudore ghiacciato bagnò la sua camicia elegante e Arthur inarcò leggermente la schiena in avanti, tentando di prendere abbondanti boccate d’aria senza che nessuno si accorgesse di come stesse perdendo il controllo.

“Guardatevi da ciò che dite, Chapman” esordì Henry Inrving, la cui voce dalle sfumature bonarie faceva trasparire una quieta quanto minacciosa rabbia. “State offendendo la memoria dei miei valorosi uomini che, vi ricordo, hanno dato la vita per servire l’Impero.”

O, più precisamente, per accontentare i capricci della tua oscura ambizione?

A Worthington parve che il terrore dentro di lui avesse infine preso vita propria e provò l’impellente bisogno di nascondersi, come se fosse ancora il ragazzino gracile che a tutti costi aveva voluto dimenticare. Era tanto turbato, che quasi non udì l’affermazione ironica del giovane James: “È nostro dovere e onore, non è così?” disse quest’ultimo, sorridente. “Pure se non dubito che, per alcuni, sia stata più che altro una possibilità di riscatto: penso al signor Brown, ad esempio.”

Un’esplosione di indignata collera piombò addosso al gruppetto di Ufficiali, nello specifico rivolta al tenente Chapman che, davvero, poteva fregiarsi del titolo di uomo più sfacciato dell’intera Marina Britannica. “Come osate!” abbaiò Inrving. “Shaoul Brown ha servito fedelmente me e la Corona per ben trent’anni di carriera!”

“Non…non vi darò più modo di dubitare della mia integrità, ammiraglio.”

“Oh, andiamo!” rispose l’altro, piccato. “Era un sadico e un collerico, che adorava umiliare i suoi uomini!”

“…che stava andando oltre! Voleva infierire su questo povero ragazzo!”

Un vortice di oscurità annebbiava i pensieri di Arthur, diventati frammenti confusi di immagini e suoni che s’accavallavano l’uno sull’altro senza alcuna coerenza: su tutti, un'unica voce rimbombava nella sua testa più forte delle altre, ed era quella che continuava ad accusarlo di riuscire a rovinare chiunque, poiché era nato per questo. Ricordò le mani insanguinate di Saffie protendersi imploranti nella sua direzione e il suo cuore patì un colpo di sofferenza tanto diretto, che pensò fosse stato trafitto a morte.

“Non vi permetto di…”

L’alterco nato fra il capitano dell’Atlantic e il tenente Chapman fu spezzato in due dal suono di una mano aperta che, con violenza cieca, si abbatté sul tavolo in legno pregiato. Interdetti, i presenti voltarono le teste imparruccate verso il responsabile del rumore e vennero immediatamente uccisi da due taglienti occhi verde scuro, il cui sguardo glaciale faceva ben intendere un umore a dir poco nero. “Vedete di piantarla entrambi” sibilò Arthur Worthington, senza curarsi di aver buttato alle ortiche il suo celebrato contegno elegante; le sue iridi si posarono poi sul suo più fedele tenente con la calma di un letale predatore. “James Chapman, siete a un passo dall’insubordinazione. Devo procedere a farvi strappare le maniche?”

La bocca del ragazzo accusato si aprì di scatto, tanto lo shock subito fu grave; perché non era il vocabolario usato da Arthur a sconvolgerlo, né la sua terribile minaccia, ma piuttosto era la prospettiva di poter perdere il suo rispetto ad essere inaccettabile. James divenne quindi bianco in un colpo solo e, persa tutta la baldanza di fronte all’ira del suo idolo, si prodigò subito in un profondo inchino di contrizione; si portò dunque una mano tremante sul petto e asserì, balbettando: “Chi-chiedo il perdono Vo-vostro e del Ca-capitano Inrving, Ammiraglio. Starò al mio posto.”

Henry Inrving diede credito alla sua reputazione di Ufficiale dal cuore morbido e annuì solamente con la testa, ammutolito dall’atteggiamento di un Worthington all’apparenza fuori di sé: nessun altro sul ponte di comando aveva in effetti fatto troppo caso al leggero tremolio della sua figura imponente, ma al capitano non sfuggì il pallore che aveva fatto mostra di sé sul volto sprezzante dell’Ammiraglio. Quest’ultimo aveva raddrizzato le ampie spalle e si stava avvicinando a loro con le mani rigidamente incrociate dietro alla schiena, ma gli occhi perspicaci di Inrving colsero al volo la benda insanguinata attorno al braccio destro di Arthur.

“Molto bene, Chapman” commentò bruscamente Worthington, annuendo appena con la testa bruna. “Pure se – sappiate – non ci dovrà essere una prossima volta.”

Henry aprì la bocca, forse per mettere a parte l’orgoglioso ammiraglio del suo stato di salute, che un’altra voce parlò per lui e intervenne alta fra le serie discussioni del gruppo di Ufficiali al comando dell’Atlantic Stinger.

In effetti, la dinoccolata sagoma di Benjamin Rochester svettava in piedi davanti a loro, giunta all’imboccatura del ponte superiore senza che anima viva l’avesse sentita arrivare. “Parola mia, non ho mai conosciuto un gentiluomo dotato della vostra maledetta cocciutaggine” asserì infastidito il medico di bordo, anche lui incline a buttare alle ortiche il registro richiesto dal suo ceto sociale; e, ovviamente, tutti compresero a quale cocciuta persona stesse facendo riferimento. “Siete senza speranza, Arthur Worthington!”

L’accusato voltò il busto nella direzione del dottore e il suo sguardo di tagliente brutalità bastò a fare intendere a quest’ultimo quanto fosse sgradita la sua inaspettata apparizione, seppure Benjamin non fosse un uomo abituato a scomporsi mai troppo, soprattutto di fronte al carattere adamantino del Generale Implacabile, che lui conosceva da parecchio tempo. A parte una certa graziosa ragazza castana, Benjamin era l’unico che osava affrontare a viso aperto Worthington e, forte di questo, lo raggiunse in due lunghi passi, sbottando: “Non vi siete presentato nel mio studio, stamattina. Fatemi vedere quel braccio…subito.”

Un bagliore di pericolosa rabbia attraversò le iridi di un Arthur pallido, dall’espressione livida. “Non pensate nemmeno per un secondo di poter dare ordini a me.”

Il signor Rochester si incupì di botto e stava per dire la sua, se il nostromo appena promosso non avesse fatto anche lui la sua comparsa, irrompendo nella affollata scena con ansiosa urgenza. “Eccellenze!” chiamò, inchinandosi leggermente “Ho portato i prigionieri sopracoperta, come richiesto”.

“Andiamo, dunque” sillabò Worthington freddamente, e stava per avviarsi verso le scalinate dei ponti inferiori insieme al resto dei suoi Ufficiali che una stretta decisa lo trattenne sul posto: a quanto pareva, Benjamin era dell’idea di non arrendersi troppo presto.

Da sopra i suoi occhialetti sottili, il medico di bordo lo squadrò con la severità di un maestro insopportabile. “Se il taglio fa infezione, rischi di morire sul serio” gli sibilò, premendo appena le dita lunghe sulla sua spalla. “Quando la smetterai di trascurarti volontariamente?”

“Questa lascerà un segno. Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

Le labbra bianche di Worthington si strinsero l’una con l’altra, mentre un’altra nauseante fitta di panico agguantò le sue viscere in maniera dolorosa. “Ho dei doveri da compiere” rispose aspro, allontanandosi dal signor Rochester con uno scatto rabbioso. “Verrò da te non appena finito qui, sperando che questo ti faccia smettere di ammorbare le mie giornate.”

Come da canovaccio, non aspettò di sentire alcuna obiezione e si allontanò a passo sostenuto, rifiutandosi di continuare una conversazione che lui riteneva non solo inutile, ma soprattutto scomoda. Raggiunse il ponte inferiore in un attimo e, noncurante dei marinai che si discostavano timorosi al suo passaggio, intravide subito gli sparuti prigionieri allineati lungo il parapetto della nave: si trattava di una decina di giovani male in arnese, dagli occhi sperduti e i magri corpi tremanti.

“…non lo sai, che tu sai fare solo del male?”

Arthur dovette fare uno sforzo enorme, disumano, per domare i suoi veri e disgustosi sentimenti, gli stessi che complottavano per togliergli il controllo. Chiuse gli occhi per un infinito secondo e, quando li riaprì, nelle sue iridi verdi non vi era nulla, se non la presenza di un limpido quanto inossidabile disprezzo. “Avete chiesto di parlamentare con chi è alla guida di questa nave” esordì infine, percorrendo rigidamente la linea immobile di prigionieri con le braccia incrociate dietro la schiena. “Io sono colui che la comanda.”

“Sappiamo chi siete, Ammiraglio Worthington” rispose quello che doveva essere il portavoce dei pirati, il più anziano del gruppo. “Per questa ragione, avanziamo una richiesta.”

“Voi non siete nella posizione di avanzare alcunché” lo interruppe subito la voce minacciosa dell’uomo, il cui volto livido era spaventoso da osservare. “E nemmeno promesse di immaginari bottini nascosti in chissà quale sperduta landa dimenticata da Dio mi faranno considerare di risparmiarvi la vita. Questi sono trucchetti fin troppo vecchi e, credetemi, voi arriverete a Kingston solo per vederne il patibolo.”

Il prigioniero alzò allora la testa bionda e Arthur poté leggergli sul viso consumato dal sole un’espressione sarcastica che non gli piacque affatto. “Come se non sapeste da chi è stato ucciso il vecchio Seymour Porter” gli sussurrò piano il pirata, per non farsi udire dagli altri membri della Marina. “La sua ricchezza non è immaginaria, ma è tanto reale quanto il ricordo che voi avete di lui.”

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

Un’oscurità tremenda si impossessò del volto di Arthur, trasformatosi ora nella maschera spaventosa di un demone dall’odio invincibile; ed egli assottigliò lo sguardo tagliente, cristallino di una rabbia a malapena repressa. “Dovrei giustiziarti seduta stante, per ciò che hai detto” sibilò glaciale, cercando di domare infimi brividi di terrore allo stato puro.

“È quello che chiediamo” fece quindi il pirata ad alta voce, sollevando le mani sporche e incatenate dai ferri. “Scegliamo la giustizia del mare – qui ed ora – e non un finto processo dall’esito già segnato.”

Prima che Worthington potesse pronunciare una sillaba, il tono presuntuoso di un James Chapman poco incline ad imparare dai suoi errori si fece sentire tra la folla di Ufficiali e Marinai in attesa: “Ammiraglio, è una richiesta fin troppo perfetta! Questa feccia ci sta offrendo su un piatto d’argento l’occasione di liberarci subito di loro!”

“…sono solamente dei disperati disposti a tutto pur di non morire per strada e di fame nelle colonie.”

“Parafrasando il giovane tenente, la legge è dalla nostra parte: dal momento in cui hanno issato la Jolly Roger,due giorni orsono, ci hanno dato il via per giustiziarli direttamente sulla nave, senza alcuna possibilità d’appello” spiegò Henry Inrving, pure se Arthur poteva dire di conoscere a memoria il Codice della Marina Britannica. Il capitano si affiancò alla sagoma imponente dell’ammiraglio e si stupì di vedergli nel viso virile un’improvvisa indecisione che non gli apparteneva affatto.

“La morte indiscriminata non è la soluzione!”

Pure se tu sei nato per questo.

Un sudore ghiacciato continuava a impregnargli i vestiti e lui si detestò, perché non riusciva in alcuna maniera a frenare né la parte di sé che detestava di più, né la voce insistente di Saffie nella sua mente. Voltò la testa scura verso il capitano e, come se fosse stato maledetto, le sue iridi smeraldine colsero immediatamente la morbida figura di Keeran Byrne sullo sfondo: la ragazzina stava probabilmente tornando negli alloggi della sua insopportabile padrona, pure se ora se ne stava ferma a guardare tutti loro con i suoi magnetici occhi nero pece.

Per assurdo, comprese solo in quel momento il morboso desiderio – la bruciante urgenza – che da quarantotto ore non gli stava dando pace alcuna.

Voglio vedere la piccola strega.

“Ammiraglio?”

“I prigionieri rimarranno in cella fino a Kingston. Portateli via” sentenziò infine con freddo pragmatismo Arthur, portando lo sguardo di nuovo su un Henry Inrving perplesso. “E mandate qualcuno a chiamare il signor Rochester al più presto.”



§



La pendola aveva appena annunciato la mezzanotte e, da almeno dieci minuti a quella parte, la Duchessina di Lynwood se ne stava ritta in piedi di fronte alla porta dell’alloggio di Worthington, dandosi della stupida incauta mentre ne fissava il pomello elaborato.

“…e lo sguardo dell’Ammiraglio, signora! Pen-pensavo li avrebbe fatti giustiziare tutti sul posto!”

Era vero, Keeran le aveva raccontato del colloquio richiesto dai pochi prigionieri della Mad Veteran e del loro conseguente incontro con un Generale Implacabile dall’umore a dir poco nero; inoltre, sia Saffie che la sua insonnia ne erano sicure, l’uomo doveva essersi ritirato nella sua cabina da meno di mezz’ora, sbattendo con mala grazia la porta dietro di sé. Tutto questo era tanto reale quanto il suo assurdo desiderio di parlare di nuovo con Arthur, per quanto lo stato d’animo di quest’ultimo non promettesse affatto bene.

Non voglio che il nostro odio prenda il sopravvento su di noi.

Insomma, si trovò a considerare, come poteva pretendere di fargli visita – nel cuore della notte poi – e restituirgli la giacca, se non aveva nemmeno trovato il coraggio di uscire dalla sua cabina durante i due giorni passati?

Non che quella fosse una situazione socialmente sconveniente, in fondo: lei e l’ammiraglio erano legalmente uniti in matrimonio, anche se entrambi ripudiavano l’idea di essere considerati l’uno il coniuge dell’altra; perché il loro non era un legame veritiero, ma bensì nato dalle ceneri della straziante tragedia di cui si erano incolpati a vicenda. La morte di Amandine aveva tracciato il confine d’odio su cui lei ed Arthur si erano infine incontrati, creando un rapporto malato che altrimenti non avrebbe mai avuto ragione di essere.

Era un confine inesistente, un filo invisibile e crudele, quello che li teneva legati l’uno all’altra.

Eppure, qualcosa in me è cambiato.

Un’amarezza strana si impossessò di Saffie e le provocò un fastidioso groppo in gola che cercò di ignorare, vista la sua determinazione nel mantenere la promessa fatta a sua sorella minore e ridurre così i piagnistei da lacrimosa fanciulla, sebbene ultimamente le venisse piuttosto difficile attenersi al piano. Non desiderava infatti pensare né ad Arthur Worthington, né all’abisso di oscurità accecante a cui si erano volontariamente condannati e, sopra tutto, voleva dimenticare ciò che era accaduto durante l’ultima battaglia.

Non puoi scordare di aver tolto la vita a una persona.

Un piccolo sussulto di dolore la scosse appena, mentre stringeva al petto l’elegante divisa dell’Ammiraglio, aggrappandosi al tessuto come un bambino spaventato avrebbe fatto con le gonne della madre. In quel momento, il calore rassicurante trasmesso dal cappotto dell’uomo le sembrò l’unico appiglio su cui poter contare e, pensò la ragazza, le parve quasi di aver preso in prestito un po’dell’abbondante coraggio di Arthur.

“Hai salvato una vita, oggi. Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Fu quindi con un groviglio di sentimenti contrastanti bloccato nello stomaco che la signora Worthington alzò lo sguardo castano sulla porta che l’avrebbe condotta dritta fra gli artigli del suo implacabile marito. Alzò la piccola mano tremante e, dopo aver preso un bel respiro profondo, bussò con delicatezza contro la superficie di legno, producendo un timido suono timoroso di cui si vergognò profondamente.

In un istante di pazzia, Saffie sperò di non essere ricevuta, di trovarsi davanti all’incrollabile muro di freddezza e repulsione dietro al quale l’ammiraglio si rintanava ogni volta che i suoi occhi si posavano su di lei, pure se una parte della sua anima desiderava con altrettanta forza che accadesse il contrario; poiché era un altro, lo sguardo penetrante che voleva rivedere.

“Ho dato preciso ordine di non essere disturbato, se non erro” si fece sentire una voce soffocata, ma ugualmente dura come l’acciaio. “Andatevene.”

No, non prometteva affatto bene. La Duchessina chiuse gli occhi per un infinito secondo e, ignorando il brivido traditore che le corse lungo la spina dorsale, decise di provare un ultimo tentativo patetico, maledicendosi per aver mandato a passeggio la sua dignità in favore di un sentimento che nemmeno lei sapeva identificare. “Vi…vi chiedo scusa per l’improvvisata” disse quindi, pigolando come un canarino terrorizzato; e si accorse di non sapere in che modo continuare la conversazione, vista l’incomunicabilità pressoché totale tra lei ed Arthur. “Volevo restituirvi il vostro cappotto, ma…ma penso sia meglio che lo faccia consegnare dalla mia domestica personale domani mattina.”

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

È ridicolo che proprio io, fra tutti, sia così preoccupata per te.

Ad occhi bassi, Saffie stava quasi per girare i tacchi e tornarsene dall’altra parte del corridoio, al rassicurante conforto dei suoi appartamenti, che la voce dell’Ammiraglio Worthington le arrivò diretta come un secchio d’acqua ghiacciata e la ragazza ebbe da sorprendersi della voce profonda del marito, perché le sembrò avesse tradito una nota di strana incertezza.

“No” sillabò solo. “Venite.”



§



Se Saffie aveva pensato di trovarsi ad affrontare il solito orgoglioso e impeccabile Arthur, dovette rimanere profondamente delusa; così come l’uomo, dal canto suo, si stupì di non vedere l’insopportabile ragazzina di sempre venirgli incontro. Erano bensì due povere anime straziate dalla disperazione, quelle impegnate a studiarsi ai lati opposti di una ricca stanza a malapena illuminata dalla luce soffusa di qualche candela accesa.

Worthington sedeva sconvolto su una poltrona solitaria, l’aria disordinata e il viso pallido di un uomo dall’anima a pezzi. A Saffie non sembrò subito di riconoscerlo e, comprese, doveva essergli costato molto riceverla in quelle condizioni; fu con una stretta al cuore che se ne chiese il motivo, se era altrettanto genuino il rancore provato dall’Ammiraglio nei suoi confronti.

“Anche io ti detesto con tutto il mio animo, ragazzina.”

“Lascia la giacca dove vuoi” le disse Arthur monocorde, tralasciando il formale voi come ormai usava fare ogni qual volta si trovassero da soli. La ragazza lo osservò strofinarsi il viso esausto con le dita, per poi abbandonarsi contro lo schienale della sedia in una posa scomposta e inelegante che non gli apparteneva. “E ora dimmi qual è il vero motivo per cui sei qui” aggiunse freddamente, facendo un vago gesto con la mano nella sua direzione, l’espressione indecifrabile di una tigre pronta a balzare sulla preda.

Un altro brivido di soggezione scosse appena le spalle di una Saffie impegnata a darsi di nuovo della sciocca, poiché avrebbe dovuto ben conoscere le spaventosa capacità d’analisi dell’uomo che aveva di fronte: Worthington non si era bevuto nemmeno per un secondo né la storia riguardante la divisa, né il suo tono di fintissima noncuranza e la ragazza si disse che la richiesta di Arthur era in fondo più che legittima. Ma cosa avrebbe potuto effettivamente rispondergli, se lei stessa non conosceva l’esatta ragione per cui aveva voluto vederlo?

Oppure, lo sai, è proprio questa la tua vera motivazione, il tuo desiderio.

Nel disperato tentativo di prender tempo, Saffie si incamminò quindi in direzione dell’Ammiraglio, evadendo il suo penetrante sguardo smeraldino e infine poggiando con maldestra calma la giacca dorata sul tavolo più vicino, pieno zeppo di misteriosi documenti dall’aria importante. I suoi occhi si soffermarono per un momento sulle carte – ordinate in maniera quasi maniacale – e lei si rese conto di non sapere proprio un bel niente della vita dell’odiato Arthur Worthington, malgrado ormai lo conoscesse da parecchio tempo; il confine esistente fra loro li aveva sì portati ad incontrarsi, ma mai per davvero. “Io vorrei poter dire di saperlo con sicurezza” esordì incerta, in bilico su quella sottile linea all’apparenza invalicabile. “Forse… mi sono solo preoccupata per il tuo braccio. E per te.

“In questo caso, saremo in due, ad affogare”

Gli occhi verde scuro dell’Ammiraglio si dilatarono appena, senza che il viso di quest’ultimo riuscisse a tradire nessun tipo di emozione pure se, dentro al suo cuore, era grande il terrore provato. “Ah!” esclamò con crudele ironia Arthur, stiracchiando debolmente le belle labbra sottili in un sorriso che alla ragazza risultò di malinconica amarezza. “Proprio tu dici questo. Proprio tu, ragazzina, che più di tutti mi disprezzi. No, non voglio la tua pietà, né la tua preoccupazione.”

Uno come me non la merita, né la meriterà mai.

Quindi smettila e torna ad odiarmi, ad accusarmi della tua infelicità.

Ma, ancora una volta, Saffie sconvolse le sue aspettative e i suoi desideri, poiché si fece più vicina alla poltrona su cui lui era seduto e tentò di affrontare il suo atteggiamento distante non attraverso parole di saccente rancore, ma con uno sguardo talmente luminoso e limpido, di innocente comprensione, che ad Arthur non parve più di avere davanti la solita piccola strega.

“Non hai la mia pietà, Ammiraglio, né l’avrai mai” gli disse la ragazza, ora giunta di fronte all’alta figura del marito, che la vide abbassare gli occhi ed arrossire in maniera adorabile, mentre decideva di aggiungere, in tono imbarazzato: “Mi hai protetta di nuovo e io ti ringrazio per questo”.

“Ma tu verresti a salvarmi, come hai fatto oggi.”

Perché, per un fugace istante, il viso rosso di Saffie sembrò ad Arthur quello di una donna tanto bellissima quanto triste, come se fosse in realtà una fragile apparizione pronta a scomparire al primo sbuffo di vento.

Il tempo di pensarlo, di ammettere con sé stesso di aver cominciato a guardarla diversamente, che l’immagine di Amandine gli ritornò alla memoria, inaspettata e crudele. Un disagio doloroso si contorse nel suo stomaco e lui si sentì di nuovo uno stupido ipocrita, un bugiardo: non sapeva quando fosse successo; quando esattamente avesse iniziato a pensare alla saccente Duchessina molto più di quanto avrebbe dovuto… e questo, ovviamente, era del tutto sbagliato.

Non vorrai mica avvicinarti a lei, Arthur?

Chissà, potresti persino finire per ucciderla.

“Basta” commentò quindi l’uomo, a fatica. Abbassò la testa bruna e si odiò immensamente, per la facilità con cui aveva lasciato a Saffie l’occasione di vederlo ridotto a un impotente fascio di nervi; pure se dentro di sé era perfettamente consapevole che il desiderio di rivederla si era infine rivelato troppo forte. “Sono stanco di ripetermi, di dirti che per me questo è solo un obbligo.”

“Sei ferita?”

No, non è la verità.

Una morsa atroce si strinse sul cuore di Saffie che, senza sapere quale forza misteriosa l’avesse portata a questo, si inginocchiò con lenta cautela davanti all’uomo che era stata costretta a sposare, insensibile all’idea di impolverare il ricco tessuto del suo abito da camera.

Perché continui a nasconderti?

Desiderava guardare nelle iridi tormentate di Worthington, scavare e comprendere di non essere mai stata l’unica a soffrire e disperarsi, ma che pure Arthur subiva la sua stessa sofferenza. Il suo stesso senso di colpa.

“Stai mentendo” gli sussurrò infine, stringendo il tessuto della veste tre la dita nervose: poteva leggere il dolore nel suo viso stravolto e affascinante, che quasi desiderò trasmettergli il proprio, cancellare il confine. “Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

Forse non siamo poi così diversi, tu ed io.

Due iridi luminose e lucide, oneste oltre ogni dire, frugavano dentro all’animo oscuro di Worthington e quest’ultimo pensò di non poter sopportare l’intensità di quello sguardo innocente tanto a lungo. La ragazzina lo fissava infatti con una tristezza disarmante, così simile alla sua che l’uomo sentì l'urgenza improvvisa di toccarla, l’assurdo bisogno di riversare in lei un tormento incrollabile.

“Se la signorina Saffie Lynwood non sia più simile a te di quanto credi.”

Arthur allungò il braccio sulla poltrona e le sue dita sfiorarono le guance fredde di Saffie, che sussultò appena, sorpresa dalla delicatezza del suo gesto. “La solita testarda” commentò piano, sorridendo di una strana malinconia, come se stesse ricordando un passato fin troppo lontano; la sua mano passò lenta fra i capelli sciolti della ragazza e lui ne assaporò la morbidezza quasi vergognandosene. “Va’ via, finché sei in tempo.”

Perché già so di non poterti far avvicinare a me…e per più di una ragione.

Il braccio di Worthington ricadde inerte sul sostegno della poltrona nel medesimo istante in cui Saffie seppe che non avrebbe per niente al mondo dato retta alle parole del marito; fedele alla sua testardaggine, la ragazza non si mosse di un centimetro e, anzi, si concesse di abbassare gli occhi sull’ampio torace dell’uomo di fronte a lei, fasciato solamente da una candida camicia bianca. Sapeva che quella notte rappresentava un’eccezione impossibile – un’irripetibile parentesi – e non desiderava separarsi tanto presto da un Arthur così diverso dal solito…così vero.

Non dirmi di andarmene. Di lasciarti solo nel tuo inferno, che è identico al mio.

Non senza un leggero timore, Saffie si sporse in avanti in silenzio e allacciò le esili braccia attorno alla vita di un Worthington che rimase incredibilmente immobile; malgrado la sua paura di essere nuovamente respinta, la ragazza rilassò il corpo fra le gambe dell’uomo e aspettò di sentire la carezza tiepida del tessuto della sua camicia solleticarle il volto arrossato, prima di mormorare: “Lei mi manca così tanto.”

Infine, aveva deciso di muovere un passo in avanti ed attraversare il confine.

La Duchessina sentì Arthur irrigidirsi leggermente, ma poté dirsi sollevata – persino felice – nel sentire il tocco delle dita grandi dell’ammiraglio posarsi sulla sua nuca spettinata con gentilezza: lui non l’aveva mai trattata in quel modo e, forse, l’indomani sarebbe tornato tutto come prima, ma né a lei, né al suo sciocco cuore sembrò importare più di tanto.

“Anche a me manca molto.”

Da morire.

“Penso avrebbe amato sia l’Atlantic Stinger, che la vastità dell’oceano” gli disse la ragazza, socchiudendo gli occhi castani, quasi potesse godersi meglio il calore rassicurante emanato dal corpo tonico di Worthington. “Non l’avevamo mai visto prima.”

“Ora sei tu che stai mentendo” fece la voce incolore di Arthur, concentrato più che altro a domare il fastidioso istinto di stringere la moglie fra le braccia e nel contempo sopprimere un enorme senso di colpa latente. Questo gli divenne ovviamente molto più difficile nel momento in cui Saffie alzò di scatto il grazioso visino su di lui, con l’espressione perplessa di un cucciolo ingenuo.

Da quando la tua ambizione l’ha imprigionata?

“Il viaggio l’avrebbe traumatizzata” spiegò, spostando le iridi verde scuro lontano da quelle di Saffie, inchiodate sulle sue. “Penso tu te ne sia resa benissimo conto.”

Un sorriso amaro si aprì sul viso della ragazza, presa in contropiede dalla schietta onestà di un Worthington che forse nemmeno sua sorella aveva mai avuto modo di conoscere. “Sì” ammise, in un sussurro pieno di taciuti sensi di colpa. “Ma ciò che più desiderava era venire via con te.”

Perdonami Amandine. Io…non so più cosa provo per lui.

Un silenzio carico di tormento cadde fra i due, impegnati a capire se stessero in effetti abbattendo il loro muro invisibile o, al contrario, lo stessero erigendo più alto: c’era tanto che forse avrebbero potuto o voluto dirsi, ma troppe cose erano accadute e troppo poco loro potevano dire di sapere l’uno dell’altra.

Innumerevoli erano i segreti che li tenevano in catene.

“Il segno sta scomparendo” osservò dopo qualche minuto Arthur, socchiudendo con interesse gli occhi chiari, limpidi di rimorso. La sua mano si mosse di nuovo, ipnotica, verso il collo sottile di Saffie e le sue dita lunghe ne accarezzarono la pelle livida con dolcezza, proprio nel punto dove altre disgustose mani avevano osato toccarla. “Ti fa ancora male?”

Saffie scosse appena la chioma castana, facendo un cenno di diniego. “Non è questo, il dolore che mi preoccupa” gli rispose sommessamente, lanciandogli uno sguardo di sperduto e disarmante timore.

È l’abisso da cui non riesco a scappare, ciò che mi spaventa a morte.

Un suono lontano e dolce irruppe fra loro. La pendola la scoccò l’una di notte, avvisandoli di quanto in effetti fosse ormai tardi.

Lo sguardo serio di Arthur continuò a seguire il percorso delle sue stesse dita, impegnate a rincorrere il segno violaceo che faceva mostra di sé sul collo di Saffie, mentre l’uomo decideva di mormorare, in tono indecifrabile e freddo: “Rimani qui stanotte, Duchessina.”

È in fondo solo nostra, questa oscurità accecante.

La mano destra di Worthington risalì lenta sulla guancia arrossata della ragazza, sfiorandone appena le labbra schiuse con inconscia delicatezza, e lui stesso si stupì di vederla annuire piano contro il suo palmo aperto, come se ricercasse quel morbido contatto.

Dal canto suo, Saffie già sapeva che non avrebbe opposto alcuna resistenza.

Perché lo temi e lo desideri allo stesso tempo, questo vostro legame crudele.



§



Se una settimana prima le avessero detto che si sarebbe trovata a passare di sua stessa volontà la notte in compagnia dell’uomo a cui aveva dichiarato eterno disprezzo, la Duchessina di Lynwood avrebbe probabilmente riso di puro e isterico scetticismo, disgustata all’idea di ripetere un’esperienza anche solo lontanamente simile alla sua tremenda prima notte di nozze.

Nemmeno nei suoi più remoti pensieri aveva mai considerato la possibilità che potesse accadere uno scenario di quel genere; con lei sdraiata accanto al suo nemico giurato come se niente fosse, entrambi stretti sopra un morbido materasso a recitare una parte non loro. Eppure, si disse Saffie arrossendo furiosamente, le sembrò la cosa più naturale del mondo accoccolarsi contro il petto solido di Arthur, pure se non sarebbero mai stati il marito e la moglie che tutti credevano fossero.

Forse domani torneremo ad ignorarci, ma stanotte ci incontriamo sul nostro invisibile confine.

Le mani dell’uomo si allungarono sulla schiena della ragazza e la cinsero in una stretta leggera, piena di delicato timore. Worthington stesso non sapeva bene dire perché le aveva chiesto di restare con lui e – al di là di un mero capriccio temporaneo – sentiva di non volerla vedere tornare tanto presto al cielo luminoso che le apparteneva, ma desiderava bensì trattenerla nel suo abisso di oscuro senso di colpa. Sentiva che lei poteva comprenderlo.

Che condividevano il medesimo dolore.

Saffie si sentiva esausta, ma il calore emanato dall’ammiraglio prometteva sicurezza e protezione, le stesse provate due giorni prima, quando l’ennesima goccia aveva infine inclinato il piatto della bilancia e tutto pareva esser stato stravolto. Se riusciva ad ammettere con sé stessa di non capire quali sentimenti la muovessero verso l’orgoglioso marito, ben più confusione le creava l’atteggiamento di un Arthur che non lasciava trasparire alcun pensiero, né alcuna emozione: dimostrava di preoccuparsi per lei, ma forse non avrebbe mai smesso di disprezzarla…di ritenerla un’irritante seccatura.

“Hai salvato una vita, oggi. Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Una piccola fitta di amarezza si fece sentire dentro Saffie, mentre le sue piccole dita incerte andavano a sfiorare il candido tessuto della camicia di Worthington, inseguendo il percorso immaginario della sua vergognosa cicatrice…quella che lui non le avrebbe mai permesso di vedere. “L’altro giorno hai detto che sono stata coraggiosa, perché ho salvato Ben” soffiò infine la ragazza, senza alzare lo sguardo verso il viso dell’uomo, immerso nell’opaca oscurità della stanza. “Erano veritiere, le tue parole?”

Non stavi salvando alcuna apparenza, non è vero?

Arthur intuì immediatamente il significato della domanda della piccola strega, così come non gli venne affatto difficile cogliere il suo stato d’animo. “Questa è un’altra delle cose che ormai dovresti ben sapere di me, ragazzina” cominciò a dirle, tentando di ignorare il turbamento provocatogli dall’avere il respiro caldo di Saffie fin troppo vicino.

Uno sbuffo scocciato si perse nell’oscurità. “Non mi chiamo così.”

Le labbra sottili dell’Ammiraglio si piegarono appena, trasformandosi in un segreto ghigno di divertimento. Portò l’indice sotto il mento della ragazza e le sollevò il viso con gentilezza, prima di aggiungere: “Io dico sempre la verità, Saffie.”

Gli occhi castani dell’interpellata si spalancarono, stupiti dall’udire la voce profonda e seria dell'uomo pronunciare il suo nome per la prima volta. Un brivido le corse sottopelle, lungo tutte le forme del suo corpo minuto, mentre un rossore violento la colse del tutto indifesa e impreparata; ringraziò le candele spente e il buio della stanza, perché non avrebbe sopportato farsi vedere da lui in quello stato.

Tanto tu non sei e non sarai mai alla stregua della donna che ha amato.

“Ma se siamo più simili di quanto avremmo mai immaginato, forse non è impossibile perdonarci” concluse fra sé Saffie, accantonando i suoi scomodi e inopportuni sentimenti in un angolo. “Provare ad essere amici”.

Soddisfatta da quella considerazione, decise quindi di abbandonarsi fra le braccia di Worthington, nascondendo il volto assonnato nell’incavo del suo collo e perdendosi così in un profumo pungente che sapeva di avventure lontane. “Grazie” gli bisbigliò solo, prima di cadere preda di un sonno tanto profondo quanto tranquillo, come se ogni suo rancore passato fosse stato spazzato via all’improvviso.

Dall’altra parte, Arthur faticava invece ad addormentarsi e rimase per più di un’ora con le iridi verdi puntate sull’oscurità che s’apriva innanzi a al suo sguardo, maledicendosi per essere stato uno stupido sconsiderato: come avrebbe potuto trovare riposo, se le esili curve della Duchessina gli bruciavano addosso?

Worthington chinò la testa scura sul volto della moglie e quasi non sopportò di sentirne il respiro leggero solleticargli la pelle con serafica e innocente incoscienza. Senza sapere cosa gli stesse succedendo, l’uomo si abbassò su di lei lentamente e le sue labbra sfiorarono quelle di Saffie, in un silenzio che sapeva di muta attesa.

Ragazzina, tu non ti rendi neanche conto di quanto riesci a sconvolgermi.

“Devi trovare una persona.”

Ad un passo dall’inevitabile, nella mente di Arthur esplose l’inatteso ricordo di una voce famigliare e meschina; e fu come se qualcuno gli avesse sparato un colpo di pistola dritto nel cuore che – a tradimento – ricominciò a battere di concreta paura.

Impallidì di colpo e allontanò con uno scatto il viso da quello della ragazza addormentata al suo fianco, mentre si ritrovò suo malgrado a deglutire a vuoto, la testa pulsante di un improvviso e acuto dolore; serrò gli occhi turbati dietro alle palpebre, nel suo solito patetico tentativo di nascondersi…pure se sapeva quanto fosse impossibile scappare.

“Come pensavo. Sei un eccellente bugiardo, Ammiraglio.”

Da quando la tua ambizione l’ha imprigionata?

Le iridi terrorizzate di Arthur si riaprirono su una stanzetta oscura e lercia, dal puzzo nauseabondo di sangue rappreso. Si trattava di una camera angusta che conosceva molto bene, poiché era il luogo dove lui aveva deciso di rinchiuderlo, come un rognosa bestia attaccata alla catena.

Fuori echeggiava un rumore continuo, violento e spaventoso, che si tramutò subito nell’immagine vivida di una scintillante lama coperta di rosso: davanti ai suoi occhi spenti, il legno della porta chiusa a chiave venne martoriato più e più volte da un’ascia affilata, mentre nell’aria immobile schizzavano impazzite schegge di legno scuro.

Erano venuti a prenderlo. Un terrore annichilente, immenso, si impossessò del suo piccolo corpo ossuto che, d’istinto, si raggomitolò in posizione fetale e cercò di mimetizzarsi nel buio circostante, di nascondersi e dimenticare come si faceva a respirare. Desiderò morire, di non patire più alcuna fame.

Con un cigolio inquietante, la porta si inclinò in avanti e ricadde di botto sulle assi del pavimento, sollevando un’enorme nube di polvere nera che gli arrivò addosso. Un fascio di fastidiosa luce colpì il suo viso scavato ed egli lanciò uno sguardo sperduto al responsabile di quell’incubo: sulla soglia della stanza non si ergeva in piedi lui, ma bensì un grosso uomo vestito d’oro.

Finalmente” disse la voce lontana dello sconosciuto, impegnato a fissarlo con due occhi d’acciaio. “Ho trovato mio figlio.

Al suono di quelle parole, Worthington alzò lo sguardo smeraldino dal fascio di importanti missive che stava esaminando e lo spostò sull’attempata figura del padre, in attesa al centro dello studio di quella che era stata la sua casa di Londra. “Una visita inattesa” sentì sé stesso commentare con indifferenza, per poi dare nuovamente attenzione alle informazioni provenienti dalle Colonie Americane.

Dopo un pesante e rassegnato sospiro, Simeon prese elegantemente posto sulla poltrona più vicina e incrociò le gambe con fare noncurante, alzando poi gli occhi grigi su di lui. “Non potrei essere più fiero di te, Arthur: non hai ancora compiuto i ventinove anni e già sei Commodoro” asserì, sfoderando un sorriso da rettile, sottile e beffardo. “Anche se dubito possa bastare a placare la tua fame.”

No di certo” commentò in risposta il giovane uomo, lasciando infine cadere il plico di fogli sulla lussuosa scrivania. Aderì con le spalle ampie allo schienale della sedia e decise di aggiungere, il tono tinto di pericolosa insofferenza: “Piuttosto, perché non vediamo di saltare i convenevoli e arrivare direttamente al punto?

Allora il sorriso di suo padre si fece enorme, osceno da osservare. “Mi è stata fatta una richiesta d’aiuto piuttosto particolare” cominciò a spiegargli, e l’eco delle sue parole parve rimbombare cupo in tutta la camera. “Desidero che tu dia fondo alla tua fitta rete di contatti qui a Londra. Devi trovare una persona.

E che vantaggio mi promettete, in cambio?

Oh, figliolo” sibilò Simeon, diventato ora un orribile e crudele serpente. “Vedi, ho appena stretto un patto davvero interessante.

Meglio ferire gli altri e proteggere sé stessi, d’altronde” commentò crudelmente il cadavere bianco di Amandine, comparso dal nulla al fianco dell’animale. “Pure se la vita ha un’ironia tutta sua, non trovi?

Perché Saffie non lo sa, da quanto tempo la tua disgustosa ambizione l’ha imprigionata.




Angolo dell’autrice:



Pensavate fosse arrivato proprio quel momento, eh?! :D

Buonasera!

Sulla fine di questo infinito Novembre, eccomi dunque tornata ad aggiornare con un ottavo capitolo a dir poco chilometrico, sebbene abbastanza denso di emotività. Non nascondo che è stato difficoltoso destreggiarmi nella sua intricata trama, poiché c’erano fin troppe cose che volevo far emergere – dopo aver seminato solo qualche misera briciola di pane nei capitoli precedenti – e, nel contempo, cercavo di comprendere come poter rendere al meglio l’evoluzione dei nostri due, come sempre pieni zeppi delle loro complicazioni: arrivati a questo primo snodo, è impensabile che si odino alla stessa maniera di prima ma, d’altra parte, non sono tutte rose e fiori!

Oh, però mi piace moooolto farli interagire! Quasi quanto i momenti in cui ammettono le loro stesse debolezze e cercano di divincolarsi tra i fili di questo loro crudele legame!

*L’eco della sadica risatina di Sweet Pink si perde in lontananza*

Ma bando alle ciance! Io spero veramente con tutto il cuore di avervi trasmesso qualcosa con questo nuovo capitolo, di avervi emozionato o stupito…insomma, spero tantissimo che l’abbiate apprezzato e che non sia risultato noioso. (T.T)

Se mi volete far sapere cosa ne pensate con una recensione, beh, sarò felicissima di leggerla! Sono sempre degli interessanti spunti di riflessione, sapete? :D

Grazie per essere ancora qui con Saffie ed Arthur, e tutti gli altri!

Darò il massimo per aggiornare entro fine Dicembre e farvi gli Auguri! :D

Un abbraccione virtuale,

Sweet Pink

* Tá Mo Chleamhnas Déanta/ Ta Mo Chleamhnas A Dheanamh, canzone gaelica della tradizione irlandese , il cui titolo in italiano potrebbe tradursi con: “Il mio Matrimonio è stato combinato”.

Ho speso quasi un intero pomeriggio per trovare una canzone in lingua, adatta alle circostanze della storia e che potesse avere una tradizione orale antecedente ai fatti narrati in Away with you! XD

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Capitolo 10
*** Nono. Conoscersi. Prima parte. ***


Avviso importante: I capitoli Nono e Decimo sono due parti di un unico blocco, che ho deciso di separare. Per questo motivo, oggi pubblico solo il Nono mentre – rullo di tamburi – la settimana prossima verrà aggiornata la storia con il Decimo. Se vorrete fermarvi con me in fondo al capitolo, vi verrà fornito qualche dettaglio in più.

Buona lettura e scusate ancora per il ritardo.




CAPITOLO NONO

CONOSCERSI

Prima parte




“No, vi imploro! Non fategli alcun male!”

Il fascio di una luce gentile e tiepida cadde sulle sue palpebre chiuse, come a volerla salvare dalle sue stesse urla, che le esplodevano disperate nella testa.

“È me che cercate! La figlia di Alastair Lynwood! Earl non ha alcuna colpa!”

E poi, ovviamente, suo padre.

“Ti concederò una scelta, Saffie: libertà insieme al tuo disgustoso plebeo o Amandine, e la prigionia nel Northampton. Fai attenzione a ciò che deciderai di fare, poiché è in mezzo agli squali che stai nuotando.”

Gli occhi assonnati della signora Worthington si aprirono piano, con lenta cautela, mentre quest’ultima si rendeva conto che l’alba doveva essere appena sorta. Un chiarore pallido filtrava dalle vetrate poste di fianco al letto vuoto su cui si era svegliata, tramutando la stanza in un caleidoscopio di colori pastello che si infrangevano sul suo esile corpo rannicchiato, sui lunghi capelli castani sparpagliati fra le lenzuola e sul suo volto da bambina sperduta.

Le dita di Saffie si allungarono leggere di fronte a lei, esplorando la porzione di morbido materasso su cui – fino a qualche ora prima – avrebbe trovato il corpo tonico del Generale Implacabile. Le lenzuola erano fredde e inospitali, così diverse dal gentile abbraccio che l’aveva stretta la sera prima: il fatto che l’uomo non fosse al suo fianco, le fece provare più freddo di quanto ce ne fosse nella realtà dei fatti.

“Lui non c’è” considerò, e fu il primo pensiero della giornata.

Mi è stata concessa una falsa scelta, ma sono stata io a decidere.

“Io dico sempre la verità, Saffie.”

In fondo, lo aveva detto che Arthur era un eccellente bugiardo, ma anche lei si era dimostrata tale.

Saffie si alzò leggermente con il busto e osservò la stanza vuota, notando subito l’assenza del cappotto dorato che aveva restituito a Worthington. Strinse al petto le coperte, assordata dal silenzio pressante della camera e aggredita da un sentimento fastidioso, contrastante.

Lui non c’è.

Davvero, sciocca, che altro ti eri aspettata?



§



Il sole splendeva alto e accecante nel bel mezzo di un vasto cielo celeste, libero da qualsiasi uccello o nuvola; mentre il mare aperto accoglieva sereno l’Atlantic Stinger, nave da guerra occupata in un inseguimento logorante e instancabile ai danni del veloce vascello nero che prima o poi si sarebbe arreso al suo triste fato.

Erano passati tre giorni dalla sanguinosa battaglia che aveva strappato a tanti valorosi uomini la vita e, in quello stesso caldo pomeriggio, la Duchessina Saffie Worthington si decise a fare la sua apparizione sopracoperta: accompagnata dalla fedele dama di compagnia, la ragazza percorse la lunghezza del ponte con tutta calma, stringendo al petto un libro e nell’altra mano un candido parasole costituito più di pomposi merletti che altro.

“È di-di certo ricco di preziosi dettagli, si-signora” aveva commentato qualche istante prima Keeran Byrne, cercando di non sorridere di fronte alla faccia sconvolta della sua padroncina; avevano aperto uno dei numerosi bauli procurati da Cordelia – alla disperata ricerca di un ombrellino – e si erano trovate davanti quello che a prima vista sembrò loro essere un paralume coperto di trine e nastrini. Cosa che, per quanto fosse cresciuta tra l’Alta Aristocrazia e i salotti di Londra, non fece che aumentare la repulsione di Saffie per i doni di nozze generosamente offerti dai suoi genitori.

La Duchessina sapeva di dover scrivere al padre una volta arrivata a Kingston ma, pure questo, parve provocarle una sensazione di istintivo rifiuto. Certo, poteva forse dire che i rapporti con il suo autoritario marito si stessero lasciando alle spalle l’odio cieco degli ultimi mesi, anche se la ragazza non poteva dimenticare le azioni inumane di suo padre, né che lei non avrebbe dovuto – o voluto – trovarsi in quella posizione.

Aveva preso il posto di Amandine, ed era stata imprigionata da un’oscura ambizione.

Malgrado la verità di queste affermazioni, la ragazza castana dovette fare uno sforzo immane sia per domare l’agitazione ansiosa che le agguantò il petto, sia l’impulso di voltarsi e alzare lo sguardo sul ponte di comando dove, ne era certa, avrebbe incontrato la sagoma alta di Arthur Worthington.

“Sono pr-proprio contenta di vedervi di nuo-nuovo pronta per le vostre passeggiate!” esordì la voce allegra della ragazza mora al suo fianco, ora non più impaurita di uscire sopracoperta come accadeva un tempo. “Quale racconto leggeremo oggi?”

Saffie lanciò un’occhiata a Keeran e fu a sua volta sollevata nel vedere il suo viso bianco distendersi in un’espressione di quieta serenità, come se finalmente la diciassettenne stesse facendo capolino con la testa fuori dal suo guscio di impaurita diffidenza. “È una sorpresa” le rispose quindi, agganciando il braccio a quello della domestica e affrettando il passo in direzione della sua tanto amata prua, rifugio personale e luogo eletto per le letture all’aperto.

“Qu-quanta energia, si-signora!”

La ragazza castana gratificò con un sorriso gentile i marinai al lavoro intorno a loro, che si voltarono ossequiosamente a salutarla e si spinsero addirittura a levarsi i berretti al suo passaggio. “È l’entusiasmo di questi uomini che non comprendo, Keeran. Da quando veniamo accolte con così tanta benevolenza?”

“Oh, certo!” si stupì la diciassettenne, voltandosi a sorriderle con ammirazione, i capelli corvini che sfuggivano ribelli dall’acconciatura. “In questi ultimi giorni non si è fatto che parlare di voi sull’Atlantic Stinger: vi trattano in questo modo poiché sanno bene quanto siete stata coraggiosa, nel salvare il piccolo Ben!”

Un timido imbarazzo si propagò dentro Saffie, che abbassò il capo verso terra in silenzio. “E io che pensavo mi avrebbero giudicata come una sorta di donnaccia incapace di stare al suo posto…” commentò piano, rivolta forse più a sé stessa che alla ragazza in sua compagnia.

“Se fossi almeno la metà di quello che è tua sorella, io e tua madre potremmo morire felici.”

Le dame giunsero infine davanti al castello della nave, dove un gruppetto di cordiali uomini di mare fece loro posto, portando due rozzi sgabelli di legno e facendo gesto di accomodarsi. Malgrado i funesti pensieri della Duchessina, l’equipaggio al servizio di Sua Maestà si poteva dire ormai acclimatato alla presenza della signora Worthington e della bella Keeran Byrne; non l’avrebbero mai ammesso nemmeno sotto tortura, ma era un toccasana per le orecchie poter ascoltare le ragazze leggere ad alta voce e allietare così giornate di massacrante lavoro.

“È un piacere rivedervi, signora” asserì un giovane uomo, facendo un cenno reverente con la testa castana. “Nuovo libro?”

“Ciò che pure io vorre-vorrei sapere!” commentò l’irlandese con forza. La signorina Byrne si mise seduta di fronte alla sua padrona e continuò, sistemandosi le pieghe della gonna blu con impacciata indifferenza: “La signora oggi è piuttosto mis-misteriosa!”

A quanto pareva, pensò Saffie, Keeran aveva trovato più sicurezza anche nell’interagire con gli altri e, in segreto, ringraziò Douglas Jackson per questo. La Duchessina sfoderò la solita espressione soddisfatta nel vedere gli uomini attorno a loro arrossire di fronte all’atteggiamento di adorabile ingenuità della sua serva, per non parlare del successo che riscuoteva la sua bellezza da creatura fragile, pure se quest’ultima non se ne rendeva affatto conto. “Dovrete aspettare ancora qualche secondo, temo” rispose divertita la ragazza castana, aprendo solennemente il libro che aveva portato con sé; e ne avrebbe rivelato il titolo se due manine famigliari non fossero comparse dal nulla per tirarle i lembi del suo prezioso abito rosa pallido.

“Il-il piccolo Ben Rochester!” esclamò la signorina Byrne, entusiasta di rivedere il figlio dottore, con cui ormai aveva stretto amicizia. “Vostro padre vi ha lasciato libero, vedo.”

“Dice di essere troppo occupato per potermi tenere costantemente d’occhio, seppure io non credo di essere un combinaguai” disse la sua il ragazzino, puntando poi due gemme turchesi sul viso di Saffie. “Tendete la mano, signora.”

Perplessa, la ragazza castana fece come le era stato chiesto e aspettò di vedere il piccolo pugno di Ben aprirsi sul suo palmo, prima di chiedere: “Un… biglietto?”

Loquace come al solito, il bambino annuì una sola volta e – mentre Saffie era impegnata a studiare il pezzo di carta che aveva fra le dita – commentò, stoico: “Lui ve lo manda.”

Gli occhi dell’interessata si spalancarono sul vuoto, mentre un fastidiosissimo rossore cominciò a bruciare sul suo volto sorpreso.

“Ah, ma certo” fece la vaga Saffie, non osando alzare lo sguardo su niente che fosse il biglietto scritto dall’ammiraglio Worthington: null’altro che un foglio di pergamena strappato su cui l’uomo aveva scritto un’unica fredda frase e, ovviamente, la sua grafia non poteva che essere ordinata ed elegante.

Altre lezioni all’aperto, ragazzina?

“Gli ho già detto di non chiamarmi in questo modo” sbottò fra sé la ragazza, sbuffando sonoramente. Era irritata dal lato di Worthington che sembrava non riuscire a fare a meno di provocarla: fin dal loro primo incontro, in effetti, l’ammiraglio si era sempre dilettato nel colpirla attraverso sottili frecciatine dalla punta avvelenata di superiorità. Come dimenticare il suo pomposo Padre, vi prego di non mettere in imbarazzo la signorina Lynwood con il vostro rumoroso entusiasmo; seppure credo sia difficile possa succedere una cosa del genere?

Saffie ricordò di essersi interrogata già allora sul senso della frase indifferente dell’uomo, che la conosceva da nemmeno mezz’ora e si era permesso di giudicarla alla stregua di uno dei suoi famigliari; come se, in due battute scarse, avesse compreso alla perfezione il suo carattere!

Inoltre, era diventato palese che Arthur fosse a conoscenza delle lezioni che soleva impartire a Keeran e al povero Douglas Jackson, ma questo la lasciò piuttosto indifferente, al confronto con le emozioni discordanti provocate dal ricevere un biglietto proprio da lui. Così, si sporse verso il ragazzo di bordo e disse, mettendosi una piccola mano davanti alla bocca: “Grazie, Ben. Riferisci pure questo messaggio al mio caro e premuroso consorte…”

Nell’ascoltare il bisbiglio misterioso della signora Worthington, il figlio del medico di bordo strabuzzò tanto d’occhi e si voltò a guardarla con un’aria esterrefatta, quasi a voler controllare che la ragazza non stesse scherzando. “De-devo riferire queste parole?” balbettò infine il piccolo, sfregandosi nervosamente le manine pallide. “No-non si arrabbierà?”

“Oh, no” rispose soavemente Saffie, ignorando lo sguardo perplesso dell’irlandese seduta a poca distanza. Anzi, un sorrisetto nervoso si fece strada sul suo viso ovale e lei continuò, tradendo una nota di malcelata rabbia: “D’altronde, io sono la futura Duchessa che a tutti i costi ha voluto sposare”.

“Dal momento in cui hai accettato questo vergognoso legame, sei tu ad averci condannati a questa infelicità”.

Il mio cuore si è smarrito, ma io non potrò mai dimenticare.

È stato Arthur stesso a chiudere il lucchetto di questa mia odiata gabbia dorata.

Gli occhi sempre luminosi e gentili della signora Worthington furono attraversati da un’emozione strana, ma tremenda da osservare. Il tempo di un secondo, che quel momento sembrò essere passato e la ragazza voltò la chioma castana di nuovo verso Keeran, sorridendo gaia come non mai. “Ora, sveliamo il tanto atteso segreto” asserì, mostrandole il frontespizio del libro che teneva fra le mani. “Hai mai sentito parlare di Shakespeare e dell’opera chiamata Re Lear?”



§



Trincerato nella sua pomposa divisa blu, Arthur Worthington studiava le carte di navigazione che i suoi comandanti gli avevano aperto davanti e, più osservava la complessità delle mappe, più si rendeva conto che sarebbe stata dura concentrarsi, quel giorno.

E non c’entrava nulla il fatto che si fosse svegliato con la ferita nuovamente sanguinante, nascosta sotto l’abbondante strato di bende applicato da un seccatissimo Benjamin Rochester; quanto, piuttosto, l’aver aperto gli occhi ed aver trovato l’insopportabile Duchessina ancora rannicchiata contro di lui, il piccolo corpo adeso al suo e un’adorabile espressione serena stampata su quel viso che lui aveva detto di disprezzare.

“Stai mentendo. Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

Da quando suo padre l’aveva ritrovato, Arthur non aveva permesso a nessuno di vedere il lato di sé che più odiava, di cui più aveva paura: era difatti cresciuto esercitando un controllo irreprensibile su sé stesso e su tutto ciò che gli era attorno, trasformandosi di sua volontà nel famoso Generale Implacabile. Aveva giurato davanti alla morte che sarebbe diventato un predatore senza alcuno scrupolo o pietà, proprio come i disgustosi demoni che l’avevano strappato alla sua vita e lo avevano venduto al diavolo, costringendolo fin troppo presto a sporcarsi le mani di sangue.

E a scegliere se voltare le spalle a tua madre o sopravvivere.

Dimenticalo. Dimentica tutto.

Arthur sapeva di aver costruito un’armatura incrollabile, di perfezione e grandezza, dietro alla quale nessuno avrebbe più potuto fargli del male ma, proprio per questo, ne aveva anche pagato il giusto prezzo: un sentimento di terrore annichilente su cui non aveva alcun potere e che cresceva tanto quanto la sua ambizione si faceva più grande. Un odio e un senso di colpa immensi, che sembravano non placarsi mai.

La tipica voracità capricciosa di chi vuole impossessarsi di tutto, compreso ciò che non può avere.

Eppure lei aveva compreso i suoi sentimenti con un’immediatezza che l’aveva lasciato completamente spiazzato. Non avrebbe mai voluto farsi vedere in quelle condizioni dalla strega che aveva designato come nemica, ma ogni difesa era crollata di fronte all’ennesimo attacco di Saffie e di una tristezza che giorno dopo giorno riconosceva sempre più simile alla sua.

Così uguale e diversa da me, che non ho voluto lasciarla andare.

Le iridi verdi di Worthington si sollevarono e guardarono oltre al parapetto in legno, inquadrando la piccola figura di Ben Rochester avvicinarsi di corsa all’imboccatura delle scale del ponte di comando, l’espressione da solito combinaguai stampata sul volto paffuto.

Aspettò di vederlo salire i gradini e scansare le alte figure degli Ufficiali al lavoro – che si voltarono a osservarlo come se non l’avessero mai visto a bordo della nave – prima di commentare, facendogli cenno di avvicinarsi al suo tavolo: “Hai fatto presto, Ben. Sei stato bravo”.

Gli occhi turchesi del ragazzino saettarono sul viso virile dell’Ammiraglio con nervosismo e quest’ultimo pensò subito che qualcuno di sua conoscenza ne avesse combinata una delle sue. “Lei ha un messaggio per voi, Eccellenza” sussurrò dopo poco il piccolo, strusciando un piede per terra. “Mi ha detto di riferirvelo personalmente.”

Malgrado fosse un uomo adulto ed ammirato, Arthur Worthington dovette subire l’assalto di un sorpreso imbarazzo che, a tradimento, si fece strada dentro al suo cuore spezzato; certo, si sarebbe dovuto aspettare una qualche reazione da parte di Saffie a seguito del biglietto che le aveva fatto recapitare, ma non aveva creduto per davvero in una sua possibile risposta.

In effetti, nemmeno lui sapeva bene perché avesse deciso di mettersi in contatto con lei e provocarla.

Forse desidero che quella di ieri notte non sia stata solamente un’eccezione al nostro odio accecante.

“Dimmi, ragazzo” disse quindi a Ben, staccando le ampie spalle dalla poltrona di vimini e appoggiando i gomiti sulle ginocchia, le dita lunghe delle mani che si intrecciavano le une con le altre.

Dal canto suo, il figlio del signor Rochester prese un bel respiro di incoraggiamento e si sporse verso la testa scura di Arthur, portandosi le piccole manine attorno alle labbra con fare confidenziale. “Ehm...ha detto di riferivi che Non dovete essere invidioso, poiché vi darà il permesso di partecipare alle sue lezioni se lo desiderate” recitò parola per parola Ben, all’orecchio di Worthington. “Pure se non siete un amante dei Tea Party.

“…di non aver molto tempo per organizzare dei deliziosi tea party sopracoperta con i miei ufficiali.”

Un ghigno di sardonico divertimento comparve sul viso di Arthur, infastidito e al contempo internamente soddisfatto dalla risposta di una Duchessina di Lynwood che, come solito, non era intenzionata a farsi mettere i piedi in testa. “La tua è una bocca tanto bella quanto presuntuosa, mia cara” pensò con ironia l’Ammiraglio, voltando lo sguardo a prua dell’Atlantic Stinger e ricordando che era stato così fin da subito, fra loro due: un bizzarro gioco di arroganza e presunzione nato al primo sguardo.

Al primo sguardo?

Il suo forse lo era, ma il tuo…non è che hai dimenticato pure questo?

Il tempo di pensarlo e una nuova ondata di brividi gelati lo scosse interamente, provocandogli un giramento di testa nauseante e doloroso; ancora, lo stato di malessere che da qualche giorno a quella parte sembrava perseguitarlo senza sosta piantò le sue unghie affilate nelle sue viscere e Arthur ebbe l’impulso di rimettere il poco che era riuscito a mangiare.

“Ammiraglio, state…state bene?”

Il piccolo Ben lo guardava con uno sguardo preoccupato, le iridi celesti e incredibili inchiodate sulle sue. In un momento di follia, Worthington pensò fossero identiche a quelle di Amandine e si stupì di non essersene accorto prima di allora.

“Io…”

Feccia! Perché li avete portati di nuovo quassù?!”

La voce incollerita e indignata di James Chapman si era levata sopra tutti loro, congelando per un secondo l’intero vascello da guerra e uccidendo sul posto un povero nostromo fresco di promozione, che si rattrappì su sé stesso. Dietro le sue spalle magre, stavano in silenzio i dieci prigionieri della Mad Veteran che, ferri arrugginiti alle caviglie e ai polsi, non osavano alzare lo sguardo da terra.

“Sono stato io ad ordinarlo.”

La figura salda e robusta di Henry Inrving si avvicinò al parapetto dell’Atlantic e, braccia incrociate dietro la schiena, lanciò uno sguardo agli uomini incatenati sotto di loro. “Questi criminali hanno richiesto nuovamente di poter parlamentare” spiegò il capitano, ignorando gli occhi improvvisamente pericolosi dell’Ammiraglio Worthington, seduto a poca distanza da lui. “Inoltre, hanno smesso di accettare cibo e acqua.”

“Non potete discutere gli ordini del Generale Implacabile!” gli sibilò contro il tenente Chapman, quasi digrignando i denti dalla rabbia.

“E invece posso eccome” rispose tranquillamente l’altro uomo, voltando la testa grigia in direzione di Arthur e guardandolo in quieta attesa. “Se questi ordini contravvengono alle leggi dell’Impero.”

Un sorriso livido apparve sulle labbra sottili di Arthur Worthington ed egli raddrizzò la schiena lentamente, con la calma di un serpente letale. “Quale sorpresa, capitano Inrving” sillabò freddamente, piantando due ferme iridi chiare sull’uomo che aveva osato sfidarlo. “Sono fremente di curiosità, lo ammetto: che intenzioni avete, per l’esattezza?”

Tutti, sul ponte di comando, colsero la sfumatura di collera con cui quella domanda era stata pronunciata. Più di un Ufficiale trattenne il respiro e ringraziò il Cielo di non essere al posto di colui che aveva avuto la folle idea di disturbare il mostro dormiente; eppure, a nessuno di loro venne in mente come – nella sua lunga vita – Henry avesse dovuto affrontare sfide molto più pericolose del confrontarsi con il tanto temuto Worthington. Sì, era genuina la soggezione che il giovane uomo incuteva anche ad un lupo di mare come lui ma, davanti all’onore e alla salute del suo equipaggio, non esisteva Generale Implacabile di sorta.

“Dare a questi uomini il giudizio che loro stessi chiedono” spiegò semplicemente, toccandosi la falda del tricorno blu con indifferenza. “Il nostro dovere di servitori dell’Impero ci impone di giustiziarli seduta stante ed evitare in questo modo che continuino a sprecare preziose razioni di cibo e acqua.”

“In ogni caso, rimanete un semplice Capitano!” rimarcò il punto James, gli occhi grigi colmi di indignato nervosismo. Il ragazzo stesso era consapevole di essere in linea di massima d’accordo con le parole di Inrving, ma il solo fatto che quest’ultimo si permettesse di sovvertire la volontà di Arthur gli sembrò inaccettabile. “L’Ammiraglio Worthington ricopre il grado apicale della nostra gerarchia, non voi!”

Il volto da padre benevolente di Henry si tese in un’espressione di sprezzante insofferenza. “E voi dimenticate ancora il vostro posto, Chapman” lo rimbeccò severamente. “Potete anche essere il protetto del Generale, ma rimanete un tenente fra i migliaia presenti nelle file della Marina.”

Un silenzio gelido scese per la seconda volta tra gli astanti e il capitano si sentì libero di continuare, riportando il suo interesse su un Arthur immobile come una terribile statua di pietra. “Ho perso cento uomini nella battaglia di tre giorni fa. Cento valorosi soldati che non hanno avuto alcuna giustizia, mentre questi criminali implorano di essere dati in pasto all’oceano” gli disse, tornando ad ammorbidire il suo tono di voce. “Forse il vostro attuale stato di salute vi ha impedito di agire con la fermezza che vi contraddistingue, Ammiraglio.”

“Stai mentendo. Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

Dimenticalo.

E allora lo sguardo negli occhi chiari dell’uomo si fece limpido di una determinazione gelida e crudele, inamovibile. “Ben” chiamò, attirando l’attenzione del bambino al suo fianco, impegnato a fissare i corpi malandati dei prigionieri come se fossero usciti direttamente da un incubo. “Desidero tu faccia ritorno negli alloggi di tuo padre.”

Il ragazzo di bordo voltò la chioma castana verso Arthur con uno scatto meccanico. “Ma papà ha detto…”

“Niente Ma” lo interruppe seccamente Worthington, alzandosi dalla poltrona ed ergendosi davanti a lui in tutta la sua minacciosa statura. “Se tu assistessi a ciò che sta per accadere, il Dottore non me lo perdonerebbe mai.”

Non è ironico?

Tu alla sua età avevi già ucciso una persona, Arthur.

Scrollandosi di dosso l’assurdo sudore ghiacciato che aveva ricominciato ad insinuarsi sotto la sua divisa, Worthington avanzò fin davanti al parapetto del ponte superiore, indossando la sua migliore maschera di irreprensibile autorità. Al di sotto delle sue iridi smeraldine, il gruppetto di pirati attendeva di esser sottoposto al giudizio del mare e, dietro alle sue spalle, altrettanto facevano i suoi inferiori: aspettavano di vederlo dare l’ordine senza che vi fosse alcuna esitazione o, peggio, alcuno scrupolo.

Perché il Generale Implacabile non dimostrava mai nessuna pietà.

Un macigno sembrò crollargli sulla schiena, soffocante.

“La morte indiscriminata non è la soluzione!”

“In effetti, ho pensato fosse assai strano vi fossero dei prigionieri” bisbigliò un giovane sottotenente, non abbastanza a bassa voce per non essere udito dall’Ammiraglio. Un altro gli rispose subito, mostrandosi d’accordo con lui: “Con l’Implacabile al comando, perlomeno. In ogni caso, non ha senso portarli fino a Kingston…che senso ha sfamarli, se il Governatore non esiterà a firmare la loro condanna a morte?”

Dimenticalo. Dimentica tutto, Arthur.

Un sentimento difficile da decifrare si fece strada sul volto raffinato dell’Ammiraglio, tanto che gli fu difficile mantenere il suo amato controllo.

Ma è stata lei a farti riscoprire la persona che credevi di aver seppellito sotto un abbondante strato d’oro.

Questo, non riesci a dimenticarlo.

“In nome di Re Giorgio e della Corona, che in questa sede io rappresento, giudico i prigionieri della nave corsara rinominata Mad Veteran come colpevoli di pirateria, omicidio e saccheggio” recitò ad alta voce, in modo che tutti potessero udirlo, criminali compresi. “Di questi crimini risponderanno con la condanna a morte per fucilazione, che avverrà immediatamente.”

Un mormorio d’assenso si fece sentire dietro di lui e, di nuovo, ad Arthur venne da essere disgustato di sé stesso.

“Fucilazione?” chiese perplesso Henry Inrving, avvicinandosi di qualche passo alla sagoma imponente dell’Ammiraglio. “Non dovremmo appenderli?”

Per quanto il capitano volesse vendicare e rendere giustizia alla morte di tanti suoi uomini, ogni altra protesta gli si bloccò in gola, alla vista del viso di Arthur. L’uomo si voltò con il busto nella sua direzione, i capelli castano scuro che s’intrecciavano sulla fronte alta e un pallore mortale sul viso contratto di rabbia. “Non un’altra parola” gli sibilò, in un tono terribile. “Otterrete la giustizia che tanto avete preteso, ma osate mettere un’altra volta in dubbio la mia autorità e farò impiccare voi davanti a tutto l’equipaggio.”



§



Keeran puntò gli occhi nero pece sulle righe del libro, aggrottando le sopracciglia e cercando di concentrarsi sulla fila di lettere che si susseguivano una dopo l’altra, più che sul contenuto dell’opera tragica proposta quel giorno dalla signora Worthington. “Il principe tene-tenebroso” cominciò a leggere ad alta voce, il tono incerto di chi sta soppesando una questione piuttosto importante. “No. Il principe delle tenebre è un gentiluomo.

“Molto bene, cara mia” annuì con vigore Saffie, le mani giunte in grembo e un’espressione soddisfatta stampata sul viso leggermente arrossato dal sole. “Davvero, hai fatto dei notevoli progressi nella lettura e – da ciò che mi hai mostrato finora – posso anche azzardare tu possa cominciare a redigere un diario tutto tuo.”

La diciassettenne alzò pigramente gli occhi dal libro aperto sulle sue ginocchia e commentò, timidamente: “È solo merito delle vostre lezioni, signora. Per quanto ancora io confonda al-alcune sillabe o non riesca a vedere le-le paro…” e si interruppe per un momento infinito, arrossendo furiosamente. “Un dia-diario, avete detto?”

La ragazza seduta di fronte a lei rise piano, divertita dall’innocente stupore della sua serva. “Ma certo! D’altronde ogni signorina che si rispetti tiene un suo Journal nel cassetto!”

Le iridi da cucciolo spaurito della signorina Byrne si abbatterono verso terra, sulle sue cosce tornite. “Io non-non sono una signorina perbene, però” mormorò alla sua padrona, cercando di non farsi udire dai marinai al lavoro intorno a loro.

“…tu sei il nulla.”

I lineamenti dolci della Duchessina di Lynwood si fecero malinconici, specchio di un dispiacere che non sapeva come esprimersi: in quelle lunghe settimane, Saffie aveva infatti provato a chiedere all’irlandese qualche informazione sulla sua vita di prima ma, ogni volta, la giovane si era dimostrata elusiva nei suoi confronti, rinchiudendosi subito dentro al suo guscio impenetrabile. E così, la signora Worthington aveva pensato fosse meglio lasciare che fosse Keeran stessa a venire da lei, quando si trovasse pronta ad aprirsi sul suo passato.

Questo, ovviamente, non stava a significare che si sarebbe arresa!

Rinvigorita dal suddetto pensiero, la ragazza castana si sporse con la schiena in avanti e attirò l’attenzione della sua dama di compagnia. “Keeran” la chiamò sottovoce, con sommessa pazienza. Aspettò di vedere il paffuto viso della diciassettenne alzarsi sul suo, prima di continuare: “Hai fiducia in ciò che dico?”

Gli occhi oscuri dell’interpellata si spalancarono, sorpresi. “Lo-lo sapete benissimo!” rispose con energia, per poi portarsi una mano tra i capelli corvini con goffo imbarazzo. “Io-io credo a qualsiasi cosa esca dalla vostra bocca, signora.”

“Cielo, forse così è un po’troppo” rise di nuovo Saffie, sventolando una mano nella sua direzione. “In questo caso, io non solo affermo che tu sei una gentildonna degna di avere un diario, ma pure una ragazza intelligente e di rara bellezza. Non siete d’accordo, signori?”

E voltò la chioma castana in direzione di un piccolo gruppo di giovani marinai in ascolto a pochi passi da loro che, a vedersi presi in causa dalla signora Worthington in persona, scattarono sull’attenti e divennero rossi tanto quanto un grappolo di ciliegie mature.

“Non potevate essere più onesta e giusta” si fece avanti il più coraggioso dei ragazzi, inchinandosi profondamente come fosse un paggetto di corte. “La signorina Byrne ha la beltà eterea e irraggiungibile di una sirena, se mi permettete l’ardire.”

“Ben detto!” si dimostrò d’accordo Saffie, ignorando una pietrificata Keeran che – a bocca aperta – li osservava tutti senza spiccicare parola. “Apprezzo l’analogia, signor mio!”

“Si-signora!” esclamò infine l’irlandese, sforzandosi di non sorridere dal divertimento e dalle lusinghe ricevute.

Riesce a condividere con me questo suo paradiso, pure se non mi appartiene.

“Sono più che decisa a farti dono di un diario, una volta arrivati a Kingston” continuò imperterrita la Duchessina, tornando a guardarla con i suoi occhi grandi e allegri. “Ne saresti felice?”

Illegittima, a nessuno importa della tua felicità.

“Io…sì, mi farebbe tanto piacere” disse l’irlandese, aprendosi finalmente in un sorriso di spontanea gratitudine; e stava per chiedere alla sua padroncina se c’era ancora tempo per continuare a leggere, ma qualcuno intervenne sulla scena e la precedette.

“Buongiorno, signora Worthington.”

Le due dame si voltarono contemporaneamente e inquadrarono subito la figura slanciata di James Chapman, rigidamente in piedi al loro fianco. Il tenente le osservava con una strana ansia dipinta sul viso da arrogante, mentre le iridi metalliche si posarono sulla moglie dell’Ammiraglio con tesa urgenza. “Perdonate l’interruzione, ma dovete seguirmi immediatamente” disse, tradendo una nota di incertezza nella solita voce pomposa.

“È successo qualcosa di grave?” venne naturale chiedere a Saffie, il cui cuore perse un battito. La ragazza non ne conosceva esattamente il motivo, ma poteva scommettere che il suo indecifrabile marito c’entrasse qualcosa con l’apparizione di Chapman. “Non si tratterà di un’altra battaglia?!”

Il tono impaurito della Duchessina non sembrò smuovere più di tanto James, il cui sguardo grigio lasciò intendere un fastidio nemmeno troppo velato. “Non sta a me parlare, né a una donna come voi interessarvi degli affari della Marina, mia signora” commentò acidamente, sfiorando la mancanza di rispetto.

Nello stesso istante in cui Saffie aveva modo di stupirsi della reazione del tenente che – comunque – era sempre stato ossequioso nei suoi confronti, l’aiuto venne da una persona abbastanza improbabile: Keeran si alzò di scatto dal suo sgabello e, a pugni chiusi, affrontò Chapman. “Ri-ripulite il vostro vocabolario, signore!” esclamò, tremando leggermente. “Siete al cospetto di una Du-Duchessina; dovete ricordare il- il vostro posto!”

La mandibola della nobile in questione cedette di botto ed ella si trovò a spostare gli occhi spalancati su un esterrefatto James, che si volse a guardare la sua serva come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza. “Non mi stavo rivolgendo a voi” sillabò il tenente con voce gelida, lanciando su Keeran uno sguardo di sprezzante superiorità. “La vostra padrona vi lascia parlare senza essere interpellata?”

Saffie capì che era giunto il tempo di intervenire fra i due giovani e sventare una tragedia annunciata. “La signorina Byrne non è la mia schiava, tenente” si intromise con severità, alzandosi in piedi e aprendo sopra la sua testa l’elegante parasole merlettato. “Ora, ritiriamoci nelle nostre stanze e proseguiamo la lezione al sicuro da questo sole cocente.”

L’interessata chinò subito la voluminosa testa nera e chiuse le mani bianche in grembo, facendo un piccolo inchino. “Come desiderate, signora” fece e, dopo aver lanciato una coraggiosa occhiata di rabbia a James, si affrettò a raggiungere la figura minuta di una Saffie già in marcia verso gli alloggi degli Alti Ufficiali.

Il ragazzo seguì Keeran con lo sguardo, chiuso in un silenzio costituito di orgoglio e dignità offese. “Stupida servetta” la insultò con il pensiero, traboccante di quella stessa insofferenza che da giorni non lo lasciava in pace: perché tutti continuavano a rimarcare il fatto che lui non valesse un bel niente.

Ehm

Al suono indistinto che udì, i suoi occhi d’acciaio si sollevarono con indifferenza e inquadrarono un piccolo capannello di uomini di mare intenti a guardarlo di sottecchi, come se lui fosse un bambino appena colto con le mani nella marmellata. “Dunque? Siamo arrivati in porto e non me ne sono accorto?!” ironizzò, quasi gridando. “Tornate immantinente al vostro lavoro!”

Lasciati indietro il tenente Chapman e la sua insopportabile superbia, la Duchessina di Lynwood e l’irlandese superarono l’albero maestro a passo sostenuto, scostando con grazia il viavai di marinai indaffarati e sollevando il giusto le loro gonne colorate, per non imbrattarle più del necessario.

“Sono fiera del tuo intervento di prima, Keeran” commentò la ragazza castana, il cui sguardo era stato attirato da una strana agitazione in corso a poppa dell’Atlantic Stinger. “Devo ringraziarti per esser intervenuta in mia difesa.”

“Ve l’ho de-detto, signora” la sentì dire, seppure in maniera vaga. “Io sarò sempre serva vostra.”

Saffie avrebbe voluto veramente dare ascolto alla sua domestica, ma il suo sguardo attento e curioso si posò sugli Ufficiali riuniti appena al di sotto del ponte di comando e sul capitano Henry Inrving ma, soprattutto, sulla fila di persone incatenate davanti al parapetto della nave. In un secondo, ogni cosa divenne chiara.

Un’esecuzione.

“Capitano!” esclamò quindi senza riuscire a controllarsi, il tono già vibrante di preoccupazione. “Cosa significa tutto questo?”

La Duchessina si portò in due piccoli passetti vicino a un più che serio Inrving e cercò di non far troppo caso agli sguardi di scandalizzata sorpresa che si dipinsero sulle facce anonime dei restanti gentiluomini: la ragazza era ben cosciente di star calpestando un territorio ostile, dal quale solitamente ogni donna era bandita ma – come sempre – ciò non fu sufficiente a fermare né lei, né la curiosità testarda per cui era tanto famosa in Inghilterra.

“Tua madre ti ha avvertita più di una volta, se non erro: la tua lingua lunga non può portarci altro che fastidi.”

Henry si volse a guardarla con aria dispiaciuta e contrita, da genitore premuroso. “Vi chiedo perdono, signora Worthington” asserì, facendole un vago gesto di saluto con la testa. “Se questo nostro insignificante contrattempo ha ostacolato le vostre attività all’aperto.”

La Duchessina scosse la testa castana con vigore e lanciò un’occhiata atterrita sulle persone tenute in catene a neanche tre metri da loro. Un insieme di ossa ricoperte di pelle sporca e malata, di occhi scavati e senza alcuna luce, si mostrava a una Saffie dal cuore ghiacciato; la sua mente tornò indietro di tre giorni in un battito di ciglia e la ragazza vide di nuovo lo sguardo terribile di colui a cui aveva tolto la vita. Uno scheletro malnutrito, che si era cibato solo di ignoranza e povertà.

“Non è questo” commentò infine la ragazza, sudando freddo. Si sforzò di distogliere lo sguardo dai prigionieri ed aggiunse, prendendo in mano una manciata di autocontrollo: “Pensavo…pensavo l’Ammiraglio avesse deciso di garantire loro almeno l’arrivo a Kingston.”

“Voleva ucciderti. Ma tu non gliel’hai permesso.”

Saffie abbassò gli occhi sulla punta delle sue scarpette rosa, colpita da una vergogna che non riusciva a comprendere. “Perché sto dicendo queste cose?” pensò, piantandosi le unghie nei palmi delle mani. “Perché, proprio io, sto dicendo queste cose?!”

“È così, infatti.”

Sbalordita, la ragazza alzò di nuovo il capo su Inrving, guardandolo con stampata sul grazioso visino un’espressione da bambina perplessa. Trincerato dietro a un atteggiamento di indifferente professionalità, l’uomo la fissava di rimando e aggiunse, lasciandosi sfuggire però un sorrisetto piuttosto nervoso: “Credo di aver tirato un po’troppo la corda, perché ho seriamente rischiato di trovarmela stretta attorno al collo questa volta.”

“Signore, non capisco cosa questo…”

“Sono stato io a costringerlo, signora Saffie” la interruppe dolcemente il capitano, incrociando le mani dietro alla schiena. “Avrò giustizia per la morte dei miei uomini, pure se ho dovuto forzare al Generale Implacabile la mano.”

Le iridi castane della Duchessina si sgranarono, mentre comprendeva il significato delle parole di Henry Inrving. “Non l’ha ordinato lui” diede debolmente voce all’ovvio, a malapena conscia del gesto di assenso che l’attempato uomo fece a seguito della sua affermazione. Muta dalla sorpresa, si voltò indietro a guardare una Keeran Byrne che – in silenzio pure lei – pareva essere più preoccupata per la sua, di reazione.

Saffie si portò una mano sul petto, d’istinto.

Cos’è questa nuova sofferenza?

Dietro alla testa corvina dell’irlandese, un movimento attirò la sua attenzione. Saffie alzò gli occhi e incontrò subito quelli smeraldini di Arthur Worthington, impegnato a scendere le scalinate del ponte superiore con fredda calma; eppure, lei sentiva che l’uomo non doveva sentirsi per davvero in quel modo.

Sapeva che si stava nascondendo.

E, nell’istante in cui lo vide evadere il suo sguardo, non fu più in grado di tenere alcun suo senso di dignitoso orgoglio o distante cortesia. Superò Keeran e il capitano dell’Atlantic, portandosi davanti all’imboccatura delle scale con decisione, sbarrando il passo all’Ammiraglio Worthington. “Non siete obbligato a farlo” gli mormorò preoccupata, aggrappandosi con le dita al corrimano di legno.

“Spostatevi, moglie.”

Incassando quelle due misere parole glaciali, la Duchessina decise di non cedere terreno alcuno e piantò i piedi, trattenendosi dal piangere con sforzo disumano. “Potete decidere di concedere loro almeno la possibilità di un processo” continuò, odiandosi per il suo patetico tono tremante. “Perché sei tu l’Ammiraglio. Tu sei colui che comanda.”

Le iridi dell’uomo scattarono su di lei, limpide di furia tagliente. “Ho detto che dovete spostarvi, Duchessina” sillabò marmoreo, il viso livido di sudore freddo. “I miei complimenti: avete finalmente compreso che i miei ordini sono legge su questa nave. Quindi, ubbidisci e vattene.”

Non dirmelo. Non dirmi di lasciarti solo in questo inferno così simile al mio.

E fu altrettanto faticoso il tentativo di Worthington di ignorare la sofferenza dipinta sul grazioso visino ovale di Saffie che, tutto rosso, si abbassò fino a celarsi ai suoi occhi. Un silenzio opprimente calò fra loro e, in quell’infinito secondo, entrambi sentirono tutto il peso del loro legame crudele.

Non desidero che l’altra notte sia stata solo un’eccezione.

Ti prego, vai nei tuoi alloggi” le sussurrò alla fine l’ammiraglio con voce roca, tradendo la stanchezza che da giorni pareva divorarlo dentro e fuori. “Non devi vedere anche questo.”

Non voglio farti vedere un altro disgustoso lato di me.

Saffie si accorse di non star vivendo un’allucinazione uditiva, ma che il marito la stava pregando sul serio. Posò un’altra volta lo sguardo sul suo volto virile e fu colpita in pieno da un’esplosione di annichilente dolore: due profonde iridi verdi splendevano controluce, tanto tormentate e tristi da assomigliare a quelle di un Re in catene.

Cos’è questa nuova sofferenza che non riesco a comprendere?



§



Lo aveva sempre saputo che, prima o poi, sarebbe giunto il culmine.

Ne era a conoscenza e non aveva mai nutrito alcun tipo di dubbio in merito, perché ciò era accaduto ogni maledetta volta in cui la paura che abitava dentro al suo cuore era riuscita infine a prendere il controllo, lasciandolo solo un fascio inerme di muscoli e nervi tesi.

“Hai condannato la mia sorella adorata alla prigionia eterna e me alla morte” gli disse ancora Amandine nella sua testa, ed era come al solito un bianco cadavere dallo sguardo aberrante. “Vuoi negarlo, ma sei diventato esattamente come lui.”

“…vorrai solo crepare, marmocchio.”

Bruciava.

Il terrore bruciava nel suo torace dolorante, nei suoi polmoni alla disperata ricerca d’aria e nelle sue tempie pulsanti di sofferenza e vergogna. Era un fuoco ghiacciato e insopportabile che lo torturava ininterrottamente, provocandogli brividi violenti e terribili.

Solo nella sua camera immersa nella tenue oscurità della sera, Arthur si raggomitolò su sé stesso, nascondendo la chioma scura e ribelle fra le ginocchia tremanti. L’enorme senso di colpa riempiva tutta la stanza, come fosse un mostro crudele e insistente, che incombeva sulla sua figura inerme e rannicchiata: l’uomo sapeva di non dover alzare lo sguardo, altrimenti quella creatura l’avrebbe inghiottito. Ucciso.

“Va tutto bene” mormorò piano, a sé stesso. “Va tutto bene, lui non è qui. Non siamo uguali.”

“Ah, no?!” ironizzò aspramente Amandine, ridendo con una crudeltà che in vita non le era mai appartenuta. “Non ti basta più disseminare morte e disgrazia, ma ora cominci a desiderare di avere Saffie solo per te.”

Non ti ricorda qualcuno?

“Come se la tua vergognosa madre avesse avuto molta scelta, comunque.”

Il dolore dentro di lui divenne immenso, mortale. Insopportabile.

L’ammiraglio cercò di nascondersi nel buio che lo circondava, celarsi agli occhi di quel mondo che tanto si aspettava da lui e che egli aveva l’urgenza di conquistare, possedere. Sentì le sue spalle scuotersi con violenza, aggredite da altri brividi freddi, e come sempre l’uomo riversò un disprezzo impressionante su sé stesso: si vergognava e si odiava al contempo, per quello stato su cui non aveva alcun controllo.

Lo chiamavano Generale Implacabile, ma gli altri non vedevano le sue pesanti catene.

Quando la paura lo riduceva così, Arthur non si sentiva nemmeno un uomo degno di questo nome.

Ovviamente, aveva serrato gli occhi dietro alle palpebre, ma ciò non bastava mai a frenare i suoi confusi ricordi, i frammenti taglienti della sua coscienza corrotta: davanti alle iridi verdi, Worthington vide i corpi dei dieci prigionieri cadere di botto sotto al fuoco incrociato del plotone di esecuzione. Gli era bastato dire una sola parola e già un secondo dopo quei giovani criminali non erano più .

“Non siete obbligato a farlo.”

No, gliel’aveva detto…che lei non sapeva un bel niente.

“Forse, sarebbe stato meglio se fossi morto molto tempo fa” si disse a bassa voce, contro i palmi delle mani tremanti, chiuse sul suo viso.

Quasi si aspettava di sentire di nuovo Amandine commentare con un mielato e malvagio: “Oh! Dopo trentatré anni, l’hai infine compreso”, ma fu un’altra la voce che le sue orecchie udirono.

“Ammiraglio?”

Alla stessa stregua dell’esile tono che aveva pronunciato il suo onorifico, due piccole mani incerte si posarono leggere sulle sue spalle larghe e scosse dai brividi. “Devo…devo chiamare il dottor Rochester?”

Saffie.

Worthington poté quasi visivamente intravedere la sua disgustosa vergogna esplodere dentro di lui e ferirlo a morte, come se fosse stato un colpo di cannone sparato dritto contro di lui. Un vortice di pensieri si accavallarono nella sua testa in meno di un secondo e l’uomo non riuscì a districarne la matassa. Non mi deve vedere così. Non lei, non lei! Quando è entrata? Perché è entrata?!

Ora tornerà ad odiarmi, ad avere paura di me.

Stava per aprire le belle labbra sottili e dirle di andarsene al Diavolo, che le dita della ragazza risalirono lente e rassicuranti fin alla base del collo, andandosi a intrecciare con le ciocche ondulate dei suoi capelli castano scuro. “È tutto a posto. Va tutto bene, davvero” la udì mormorare, con una voce tanto dolce e comprensiva che l’uomo dubitò Saffie stesse rivolgendosi a lui. “Stai bruciando. Ora, se…se non ti arrabbi, andrò a chiamare il medico di bordo.”

Arthur riconobbe la sfumatura di nuovo incerta nel tono della piccola strega e si rese conto di doverla mandare via a tutti i costi, di doverla allontanare definitivamente, perché l’aveva scoperto. Eppure, nemmeno lui stesso si aspettava di vedersi agire nel modo in cui alla fine fece: non appena sentì i polpastrelli della moglie discostarsi dalla sua pelle sudata, l’uomo si raddrizzò di scatto con la schiena, il braccio teso a trattenere quello della ragazza, le sue lunghe dita strette attorno alla piccola mano di lei.

“Stai mentendo. Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

L’hai compreso per davvero?

“Non chiamare Benjamin” bisbigliò, a fatica. La sua visione divenne offuscata e tremolante, ma aspettò di vedere la Duchessina girarsi con il busto verso di lui, prima di attirarla a sé e continuare, con voce roca: “Resta, ti prego. Ancora un poco.”

Il cuore incastrato in gola, Saffie sgranò tanto d’occhi e seguì docilmente la presa del marito, che la avvicinò di nuovo al letto su cui si era messo a sedere. Le iridi scure della ragazza osservarono preoccupate Worthington portare un braccio attorno alla sua vita sottile e affondare la chioma scura sul suo petto, tremante come un bambino impaurito da un temporale.

Non disse più nulla, e lei sentì solo il suo respiro irregolare contro la pelle esposta della scollatura.

Incapace di trattenersi oltre, la Duchessina di Lynwood lasciò spazio alle sue lacrime traditrici perché, ancora, una sofferenza infinita si fece sentire in fondo al suo stomaco; strinse a sé il corpo imponente dell’uomo che aveva scelto come suo nemico naturale, come se potesse così lenire il suo stesso dolore. “Questo legame è crudele per davvero” si disse, socchiudendo gli occhi lucidi di un pianto annunciato.

“È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice.”

Di cosa è costituita questa nuova sofferenza, che non riesco a comprendere?

Infine, un mezz’ora veloce passò nel silenzio più assoluto e Saffie comprese di non poter attendere oltre, ma che era essenziale mettersi in contatto al più presto con il medico di bordo. Arthur si era lasciato totalmente cadere fra le sue braccia e lei non pensava di riuscire a sostenerlo ancora tanto a lungo; inoltre, era oltremodo preoccupata per il suo stato di salute: la ragazza era sicura lui fosse in uno stato di semi-incoscienza dovuto alla febbre alta che gli stava consumando le forze, e pensò subito al taglio sul suo braccio, quello che si era procurato per proteggerla.

Abbassò lo sguardo e riuscì appena ad intravedere quelle che parevano essere delle bende insanguinate e nuove schegge di senso di colpa si insinuarono nel suo cuore furibondo e sofferente.

A causa di qualche intervento divino, una persona bussò forte contro la porta di legno, riempiendo Saffie di sollievo e gratitudine.

“Ammiraglio, sono il capitano Inrving” fece la voce seria di Henry, al di fuori della camera. “Vorrei conferire con voi in privato sullo stato in cui versa la Mad Veteran e sul nostro arrivo a Kingston.”

“Siate ringraziato, Capitano!” esclamò la ragazza, fissando l’uscio con le lacrime agli occhi. “Entrate!”

“Si-signora Worthington?”

Saffie non fece caso all’imbarazzo sorpreso di Inrving, ma anzi aggiunse subito: “Dovete aiutarmi a stendere sul letto l’Ammiraglio, vi prego! La ferita deve aver fatto infezione ed ora è febbricitante…e mandate immediatamente qualcuno ad avvertire il signor Rochester!”

Dal momento in cui il Capitano dell’Atlantic Stinger aveva eseguito le istruzioni della signora Worthington e si era precipitato vicino al letto per aiutarla, passarono esattamente cinque minuti e – incredibilmente – la figura allampanata di Benjamin fece la sua muta comparsa.

“Dottore!”

Saffie si volse a guardarlo agitata e colse in un attimo il suo sguardo limpido di rabbia. “Siate dannato, Arthur” sibilò volgarmente, serrando le labbra bianche e avanzando verso di loro a grandi passi. “Fatemi spazio, per cortesia” imperò con voce terrificante, aggiustandosi gli occhialetti sul naso adunco.

La Duchessina di Lynwood e il capitano Inrving si fecero da parte contemporaneamente, con un unico gesto nervoso. Di solito Benjamin era una persona abbastanza tranquilla e posata, dalla quieta educazione, ma entrambi compresero quanto in effetti il medico dovesse essere fuori di sé dalla rabbia.

Le mani aggraziate e pallide del signor Rochester si aggrapparono alle spalle dell’Ammiraglio Worthington, inchiodando la sua possente figura tremante al materasso. “Non vuole mai darmi ascolto” commentò acidamente, scrutando il volto mortalmente pallido di Arthur. “Da quando è in queste condizioni?”

“È importante?”

E il tono con cui il dottore decise di rispondere alla domanda del capitano tutto fece intendere del suo umore e della gravità della situazione: “È essenziale, signor Inrving; o, almeno, finché il nostro brillante Generale continua a portarsi fino al limite dell’autodistruzione.”

Un piccolo sussulto scosse Saffie che, con una stretta al cuore, unì le mani contro il petto e si sporse in avanti, cercando di affrontare l’ira del medico di bordo. “Penso si tratti solo di qualche ora” ipotizzò, la voce flebile di un passerotto impaurito. “Ho visto molte volte questo tipo di stati febbrili, signor Rochester: posso senz’altro darvi una mano, se doveste averne bisogno.”

Ancora, l’avvenente uomo non si volse verso di lei. “Ne avete viste molte, avete detto?”

“Mia sorella minore era una ragazza di salute cagionevole” spiegò in un mormorio basso, chinando il capo castano sul pavimento. “Amandine soffriva grandemente sia a livello fisico che psicologico.”

Benjamin si voltò nella sua direzione di scatto e alcune ciocche di fini capelli biondo cenere sfuggirono dal suo disordinato codino basso, mentre l’espressione dei suoi lineamenti delicati sembrò tradire una certa sorpresa. “Soffriva?”

“Sì” bisbigliò la ragazza castana, nascondendosi alla vista degli uomini intorno a lei. “È morta l’Autunno passato.”

Le mani di Rochester si chiusero subito a pugno, stropicciando il tessuto dell’elegante camicia di Arthur, e il dottore aprì la bocca per dire qualcosa, se una vocina non li portò tutti a voltarsi indietro: dentro una cornice di luce soffusa, stava la figura in piedi del piccolo Ben. “Papà, Douglas Jackson sta delirando di nuovo. Perde un sacco di sangue” disse in tono piatto e maturo, appoggiando una mano all’uscio della camera e fissando i tre adulti con i suoi occhi dall’incredibile color turchese. “Come sta l’Ammiraglio?”

“Maledizione” sbottò a sua volta l’interpellato, sbiancato pure lui in viso nell’arco di un battito di ciglia. Raddrizzò la lunga schiena e tornò a guardare Saffie, aggiungendo: “Avrò bisogno del vostro supporto, Duchessina di Lynwood.”

In un istante di pazzia, la ragazza realizzò due verità assolute: la prima stava nel fatto che il dottore non l’aveva mai chiamata in quella maniera e, la seconda, che gli occhi neri dell’uomo la fissavano come se avesse appena visto un fantasma.



§



L’oscurità era infinita e sorda. Sprofondava la camera da letto in uno stato di spettrale immobilità che a Saffie risultò fin troppo famigliare, poiché riusciva a udire solo il respiro irregolare e affaticato dell’Ammiraglio Worthington, sdraiato supino sopra le lenzuola candide.

Una pallida luna brillava alta nel cielo, facendo intendere alla ragazza che doveva essere ormai notte fonda. Una luce bianca, quasi argentata, penetrò le vetrate e carezzò con magica dolcezza il visino esausto della Duchessina, oltre che il corpo malato dell’uomo di fronte a lei.

Lasciandosi sfuggire un pesante sospiro, la signora Worthington immerse una pezza di stoffa nella bacinella di acqua ghiacciata che il signor Rochester aveva lasciato di fianco al letto sfatto e la sollevò dopo poco, stringendola con forza fra le mani. Cercò di ignorare i violenti tremiti che continuavano a scuotere un Arthur incosciente e si sporse su di lui, premendo con cautela il panno sulla sua fronte pallida e sudata.

Il medico di bordo aveva prestato i primi soccorsi all’Ammiraglio e se n’era poi andato di tutta fretta, chiuso in un silenzio piuttosto enigmatico. Si era trattenuto il giusto per poterle dire quanto fosse imperativo tenere sotto controllo la temperatura di suo marito, e che quindi Saffie avrebbe dovuto provvedere non solo a vegliarlo per tutte le ore successive ma – fra le altre cose – asciugare il suo sudore malato ogni qual volta lo ritenesse necessario.

“…perché mi sono scelta io questa morte, come una stupida accecata dall’amore”.

Una fitta di dolorosa malinconia si fece strada nel cuore della ragazza castana, che non poté fare a meno di ripensare ad Amandine; in fondo, si disse, aveva passato innumerevoli notti insonni per starle accanto e confortarla, ma occuparsi dell’insopportabile Arthur era tutto un altro paio di maniche: credeva di aver appena iniziato a lasciarsi indietro il disprezzo che per mesi aveva nutrito nei suoi confronti e non sapeva bene come doversi sentire, nell’accarezzare le tempie bollenti dell’uomo con la pezza bagnata, per poi scendere lentamente lungo la linea del suo collo saldo e forte.

Nell’oscurità opaca della camera, gli occhi luminosi di Saffie scivolarono sul volto sofferente di Worthington che, da quando era svenuto fra le sue braccia, non aveva più accennato a risvegliarsi. Un respiro spezzato, irregolare, sfuggiva a più riprese dalle sue belle labbra sottili, bianche come quelle di un cadavere.

“…o, almeno, finché il nostro brillante Generale continua a portarsi fino al limite dell’autodistruzione.”

“Mi hai salvato così tante volte” gli sussurrò, forte del fatto che lui non potesse udirla. “Ti prego, non abbandonarmi anche tu.”

Il percorso della sua piccola mano tremante si fermò sul petto dell’Ammiraglio, dove le allacciature della sua stropicciata camicia bianca ne segnavano il confine. Un rossore pudico imporporò le gote di Saffie, anche se la ragazza ben sapeva di dover accantonare qualsiasi imbarazzo e proseguire nel suo lavoro, asciugando il torace sudato dell’uomo.

So così poco di te, mentre vorrei comprendere tutto.

Incerte, le dita della ragazza tirarono uno a uno i lacci di seta e discostarono i lembi della camicia ormai aperta, rivelando al suo sguardo intimidito un petto muscoloso, temprato da una vita di fatica e battaglie mortali. Un corpo sfregiato da un’unica, enorme cicatrice.

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

L’orrore si impossessò del suo cuore, mentre i suoi occhi continuavano a riempirsi dell’immagine che a lungo era stata curiosa di poter vedere: un largo e candido taglio si faceva strada sulla pelle di Worthington, partendo dall’addome fino ad arrivare al suo torace ansante. Era una cicatrice tremenda, che attraversava l’uomo da parte a parte, e lei ricordò la sua prima notte di nozze, di come aveva sfiorato quel segno a malapena visibile e di come altrettanto velocemente Arthur le aveva impedito di andare oltre.

Ora, invece, la cicatrice era lì in tutta la sua aberrante interezza.

Vorrei sapere tutto di te.

Stretta attorno al panno, la mano di Saffie accarezzò il petto del marito, inseguendo la linea frastagliata e bianca del taglio di cui tanto quest’ultimo si vergognava.

Come è stata la tua infanzia?

La pezza bagnata proseguì fino agli addominali di Arthur, senza che la ragazza provasse più alcun imbarazzo.

Chi ti ha fatto questo?

Il suo piccolo indice sfiorò la pelle nuda dell’Ammiraglio. Gli occhi castani e assenti attirati – ipnotizzati – dalla grande cicatrice crudele.

Mi odi ancora?

Improvvisa e inaspettata, una mano grande e calda coprì la sua, stringendole le dita con rabbiosa forza. “Cosa ti è saltato in testa di fare?”

“Toglimi le mani di dosso.”

La Duchessina alzò lo sguardo di scatto, spaventata. Arthur aveva voltato la scarmigliata testa scura nella sua direzione e la osservava ad occhi socchiusi, esausto. “Non dovresti essere qui” le sibilò ancora, la voce arrochita dalla febbre. “Non tu.”

Uno sguardo triste si palesò sul viso ovale di Saffie che rispose, rilassando la mano nella stretta dell’uomo. “Non posso andarmene” soffiò, arrossendo nel buio. “Perché mi hai chiesto di restare insieme a te.”

“E, dimmi, è ciò che desideri?”

Cos’è questa nuova sofferenza, che non riesco a comprendere?

Saffie si poteva dire troppo basita per poter rispondere alle parole di un Arthur che, davvero, non sapeva se poter giudicare come delirante oppure no. Inoltre, per un secondo, il suo cuore aveva perso un battito e lei aveva capito che non sapeva cosa sarebbe stato più giusto dire.

Dopo un attimo di pesante silenzio, la voce profonda dell’Ammiraglio si fece sentire di nuovo. “Ieri notte sei rimasta, ma non significa che tu non abbia in realtà paura di me” disse a fatica, mollando bruscamente la presa sulla mano piccola della moglie. “Il tuo posto non è al mio fianco, Duchessina.”

Perché lo temiamo entrambi, questo inesistente e crudele legame.

Una morsa di dolore agguantò l’anima della ragazza castana che, dentro di sé, sentì di essere in gran parte d’accordo con il discorso dell’uomo: il loro rapporto somigliava ogni giorno di più al moto consistente dell’onda, che tanto si ritirava per tornare più violenta e grande. Distruttiva.

Un respingersi ed avvicinarsi pericoloso.

“Mi occuperò di te, Ammiraglio” asserì infine Saffie, adorabilmente irremovibile. Si sporse su Arthur e premette nuovamente la pezza sulla sua fronte, ignorando con un sorrisetto saccente la smorfia infastidita dell’uomo. “Vi sono molteplici matrimoni senza amore, ma dove il rispetto e l’amicizia fioriscono deliziosamente.”

Davvero, sciocca, puoi essere più bugiarda?

“Questa frase l’hai letta in una delle tue operette, ragazzina?”

Saffie arrossì per la milionesima volta nel giro di sei giorni. “Chiudi gli occhi e riposa, arrogante marito.”




Angolo dell’Autrice:

*Se vi è piaciuto il capitolo, spero considererete di votarlo/recensirlo/fammi sapere cosa ne pensate!*

Buonasera e Buon Anno nuovo a tutti!! :D

Come spiegato nella mia Bio, arrivo in ritardo sulla pubblicazione a causa di un mese che – sul fronte della salute – mi ha messo veramente KO. (-.-)

Io già di mio non sono famosa per avere una salute di ferro ma, ovviamente, la ciliegina sulla torta di malanni non poteva essere che il “poco” dilagante Omnicron! (T.T) Quindi, eccoci qui, in ritardo di una settimana sul piano d’azione “aggiorniamo Away with you con cadenza regolare”.

Ora, ripeto qui quello che già vi ho accennato a inizio capitolo: la settimana prossima pubblicherò il Decimo capitolo (e seconda parte di Conoscersi)! Olè!

Difatti, il nono stava diventando veramente troppo, troppo lungo: è vero che, di base, io ho un’allergia per i capitoli corti, ma troppe info tutte insieme penso creino pesantezza e confusione! Inoltre, ho pensato fosse giusto nei vostri confronti (e farvi così un piccolo regalo in ritardo) pubblicare un altro aggiornamento a poca distanza, così da poter “recuperare” il tempo perduto!

Perdonatemi il ritardo! (T.T)

Parlando un po’della storia, devo ammettere di star amando questa parte centrale, seppure siamo ancora lontani dalla sua conclusione. Una volta – nove lontani anni fa – mi è stato detto che sono piuttosto sadica nei confronti dei miei personaggi (che dire, amo il Drama), ma mi sono divertita molto anche a descrivere questo avvicinamento timoroso da parte dei nostri due: in fondo, cerco di ricordare che Arthur e Saffie sono umani, e non due sagome di cartone con un tratto caratteriale a testa.

Spero di non essere l’unica ad aver apprezzato questo capitolo! (T.T) Sob!

Infine, vi ringrazio tanto per la pazienza nell’aspettarmi e per stare dando una possibilità al mio racconto, perché io ci tengo tanto! E sono altrettanto onorata se riesco a trasmettere qualcosa, a farvi sognare, in questo periodo di buio, stress e fatica!

Alla prossima settimana!

Un abbraccio virtuale,

Sweet Pink



Due respiri divennero uno, e fu il solo suono che poterono udire. Come guidato da un incantesimo, Arthur abbassò il capo scuro su Saffie con una lentezza estenuante, timorosa, e il suo naso dritto sfiorò appena quello di lei.

(Dal Decimo capitolo. Conoscersi, seconda parte)

\(*w*)/

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Capitolo 11
*** Decimo. Conoscersi. Seconda parte. ***


CAPITOLO DECIMO

CONOSCERSI

Seconda parte





“Oh, che amore potente!

Che a volte fa di un uomo una bestia,

e altre, di una bestia un uomo!”

Keeran Byrne smise di leggere ad alta voce e, rassegnata, lanciò uno sguardo al di sopra delle pagine del libro che teneva ben stretto fra le mani pallide. Era tutto inutile.

La figura deperita e malata di Douglas Jackson giaceva davanti ai suoi occhi nero pece, apparentemente insensibile a qualsiasi stimolo proveniente dal mondo esterno. Il povero ragazzo si trovava da parecchi giorni accasciato sulla brandina che lo stesso Benjamin Rochester aveva sistemato nei suoi comodi alloggi: viste le condizioni disperate del mozzo, il dottore aveva ritenuto una vera crudeltà anche solo l’idea di lasciarlo sottocoperta insieme al resto dei marinai, in balia di precarie condizioni igieniche e chissà Dio che altro.

In effetti, il resto dei feriti – o almeno, coloro che non erano spirati nelle ore successive alla battaglia – stava già riprendendosi con discreto successo ma, ugualmente, la decisione del medico di bordo aveva lasciato di stucco gli Alti Ufficiali dell’Atlantic Stinger, non abituati alle eccentriche pratiche del signor Rochester: già era sconvolgente che l’Ammiragliato gli avesse concesso l’aiuto di un gran numero di personale medico ma, addirittura, egli aveva proibito categoricamente a chiunque di praticare il tanto famoso salasso e di aiutare i pazienti facendo assumere loro ingenti quantità di liquore. Di sanguisughe, poi, non voleva nemmeno sentir parlare!

Un sorrisetto triste si fece strada sul volto paffuto di Keeran che, sospirando, decise di poggiare momentaneamente il volume sulle ginocchia. Grazie alle instancabili cure del dottore, tutti i feriti avevano potuto tirare un sospiro di sollievo e sperare di cavarsela; tutti, tranne il gradino più basso della gerarchia, il mozzo più giovane della nave. “Il signor Rochester non vuole dirmelo, ma è convinto non ci sia più nulla da fare” pensò l’irlandese, stringendo con forza le dita bianche sulla copertina ruvida del libro. Lottava con le sue stesse lacrime, contro un sofferente pianto che non vedeva l’ora di traboccare fuori. “Dovevo aspettarmelo. Dovevo sapere che è questo il destino di chi è come me.”

“La tua stessa nascita è una disgrazia.”

La ragazza abbassò il capo e lunghe onde di capelli corvini, lucidi come le piume di un corvo, nascosero il suo volto rabbuiato. “Lo so molto bene io per prima” si disse ancora, mentre una smorfia di sofferenza trasfigurava i suoi lineamenti da ammaliante sirena. “Di cosa, allora, dovrei sorprendermi?”

Le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance paffute senza che lei se ne rendesse conto, tanto era concentrata su quell’unico pensiero, quella sola sensazione di bruciante delusione.

“…perché tu sei il nulla.”

Non desiderare un paradiso che non puoi raggiungere, che non ti apparterrà mai.

Il sorriso gaio e incoraggiante della signora Worthington si fece strada nella sua mente e, a tradimento, si sovrappose con quello non troppo diverso di Douglas. Keeran alzò lo sguardo sul corpo martoriato del ragazzo biondo di fronte a lei e pensò che la gente come Saffie o Benjamin Rochester avrebbero potuto provare e riprovare all’infinito, ma non sarebbe mai cambiato nulla. Alla fine, loro non sapevano un bel niente.

Non avrebbe mai voluto illudersi, perché ora provava un sentimento nuovo e difficile da gestire, che non sapeva riconoscere.

Inoltre, la diciassettenne poteva dire di aver visto la sua padroncina solo per pochi minuti in quei due giorni, vista e considerata la situazione in cui versava l’Ammiraglio Worthington: senza fornire alcuna spiegazione, la Duchessina era infine sparita negli alloggi del marito per non fare più ritorno. “Non che lei sia tenuta a dare attenzione, né a giustificare le sue azioni alla sua serva” concluse Keeran, con una dolorosa stretta al cuore. I suoi occhi se ne stavano inchiodati su un Douglas quasi esanime, dal respiro pesante, e lei si sentì sola come non mai; dentro alla sua anima, quella nuova emozione che faticava a comprendere continuò a contorcersi, a crescere in silenzio.

Una rabbia vergognosa, che non sapeva a chi rivolgere.

“Il pianto non vi si addice affatto”

Inizialmente, Keeran pensò di esserselo sognato. Le sue iridi color carbone si spostarono impercettibilmente e incontrarono subito quelle azzurre e stanche del signor Jackson, socchiuse tra due palpebre livide. “Si-signore!” esclamò, balzando in piedi e facendosi il segno della croce con goffa agitazione. “Si- siete sve-sveglio! Co-come state?”

Un sorriso strano, tinto di amarezza, si fece vedere sulle labbra screpolate del ragazzo che, misteriosamente, decise di non rispondere alla domanda. “Siete rimasta a vegliarmi tutto il tempo?” chiese infine, alzando gli occhi sul soffitto di legno sopra alla sua testa, e Keeran notò immediatamente quanta difficoltà lui avesse nell’articolare le parole, quanta energia gli costasse anche solo muovere la bocca.

“Sì, qu-quasi tutti i giorni” gli rispose allora la ragazza, facendo il patetico tentativo di sorridere a sua volta.

“Non so se doverne essere onorato oppure detestarmi per questo.”

Al suono di quel commento ironico, il cuore dell’irlandese si strinse in una morsa costituita di paura e inadeguatezza: sentiva che non sarebbe riuscita a sopportarlo, se pure Douglas ora le avesse detto di quanto fosse stata inutile quella sua ridicola decisione. “Perché di-dite così?” pigolò quindi, accostandosi lentamente alla brandina e chinando appena il busto su di lui. “Io l’ho fat-fatto senza nessun obbligo, ma-ma solamente per mia vo-volontà.”

Di nuovo, un’enigmatica espressione si palesò sul voltò sconvolto del mozzo che, davvero, pareva invecchiato di vent’anni nell’arco di cinque giorni. “Eppure è mia la colpa se ora piangete” le sussurrò, tornando a guardarla con due occhi colmi di malinconia e a Keeran parve quasi che Douglas le stesse per dare un addio. “Per niente al mondo avrei voluto vedere la vostra bellezza sporcarsi a causa di uno come me, che non vale niente al vostro confronto.”

“Andrà tutto bene. Puoi riuscire in tutto ciò che vuoi e, fra le altre cose, ci sono io qui con te.”

Prendendo in mano un’abbondante manciata di coraggio, la ragazza allungò il braccio e intrecciò le dita con quelle lunghe e inerti del signor Jackson, che non oppose alcuna resistenza. Rassicurata dal ricordo delle parole gentili della signora Worthington, Keeran avvicinò il suo adorabile viso tondo a quello sorpreso del ragazzo, portandosi la mano di quest’ultimo contro la guancia arrossata e calda. “Non dovete parlare in questo modo” gli sussurrò dolcemente, ignorando il rossore furioso comparso sul volto di Douglas. “Poiché è grazie a voi se mi sono sentita meno sola, in mezzo a persone che non ci riconoscono.”

“Ah! Mi sento fortunato, allora” scherzò il mozzo, facendo forza sulla sua voce affaticata. La sua mano grande si mosse appena sulla pelle morbida dell’irlandese e la punta delle sue dita sfiorò i capelli neri di quest’ultima, in un tocco di intima delicatezza. “Non sono riuscito a imparare a scrivere il mio nome per intero” aggiunse, socchiudendo gli occhi azzurri, lucidi di febbre. “Eppure, sono così felice di avervi potuto incontrare, dopo aver sofferto per una vita intera…somigliate ad un angelo caduto, Keeran Byrne.”

No, tutti gli illegittimi sono dannati.

Altre lacrime scesero dalle lunghe ciglia nere della diciassettenne e bagnarono la mano tremante di un Douglas di nuovo sul punto di perdere conoscenza. In quei giorni, più di una persona aveva cominciato a complimentarsi con lei per una bellezza che non riusciva a riconoscere come sua ma, in quel momento, Keeran realizzò che sentirselo dire da Douglas le provocava una felicità insperata e nuova, come se quelle parole le stesse aspettando proprio da lui. “Voi siete un angelo, Douglas Jackson” asserì sottovoce, fermandosi per un lungo secondo ad osservare i riccioli biondi del ragazzo, adagiati sulla sua fronte pallida. “E il vostro valore è mille volte superiore a quello di qualsiasi membro dell’equipaggio, pomposi Ufficiali compresi.”

“Che espressione temeraria” commentò il mozzo, mentre un’espressione di fugace divertimento attraversava il suo volto esausto, seppure paradossalmente sereno. Il ragazzo si arrese alla stanchezza e le sue palpebre ebbero la meglio su di lui, occultando le sue splendide iridi celesti, ma vi fu il tempo per un’ultima frase, mormorata teneramente fra le labbra secche: “Avete smesso di balbettare, Keeran.”

Un opprimente silenzio cadde nella stanza, mentre la mano di Douglas ricadeva inerte sulle morbide coperte bianche, scivolando via dalla presa dell’irlandese. Un sonno profondo e febbricitante si era ripreso indietro il signor Jackson e sembrava volerle far intendere che – meglio non illudersi – egli non sarebbe mai stato suo per davvero.

Non voleva illudersi, eppure continuava a sperare.

Alla ragazza non rimase altro da fare se non allontanarsi con cautela e riporre il volume prestatole dal medico di bordo sul primo scaffale della piccola libreria sistemata contro la parete. Chiusa in un cupo mutismo, Keeran raggiunse lentamente l’uscio della camera e fu grata di uscire sopracoperta, respirare l’aria salata dell’oceano e venire abbagliata da un sole cocente, cucito su una infinita coperta celeste.

Come i suoi occhi. Come il paradiso a me proibito, perché mi è stato insegnato a essere il nulla.

“Ammetto di aver preso un bello spavento.”

La diciassettenne non ebbe bisogno di alcun aiuto per riconoscere la voce che aveva fatto prepotentemente irruzione nei suoi pensieri visto che, in quelle settimane, aveva conosciuto solo una persona dotata di un tono così fastidioso e arrogante. I suoi occhi neri si discostarono dal cielo azzurro per abbattersi al suolo, dritti sulla figura alta del tenente James Chapman: il giovane se ne stava mollemente appoggiato con la schiena al parapetto dell’Atlantic, le braccia incrociate sul petto e tutta l’aria di chi era in attesa dell’arrivo di qualcuno.

Keeran fece del suo meglio per trattenere un brivido di soggezione e timore; poteva dire di aver preso più sicurezza in sé stessa ma, ugualmente, l’ufficiale in questione continuava a provocarle una diffidenza di cui lei aveva paura. In fondo, due giorni prima si era alzata in difesa della sua padroncina, affrontando con rabbia un uomo, un tenente dell’Impero che – stando a sentire i pettegolezzi dei marinai – era sotto la diretta protezione del Generale Implacabile. Come dimenticare poi di averlo intravisto di sfuggita poco dopo la conclusione della battaglia, visto che era passato davanti agli alloggi degli Alti Ufficiali coperto da cima a fondo di sangue!

“Avevo notato una figura di donna entrare di soppiatto nella camera da letto del signor Rochester, ma eravate solo voi, dopotutto” continuò a dire il ragazzo in tono piatto, forando le iridi dell’irlandese con il suo superbo sguardo grigio. “Per quale ragione vi siete spinta negli alloggi del medico di bordo?”

Veloce quanto una folata di vento, il timore annidato nel petto prosperoso di Keeran si trasformò in ruggente fastidio, sopita collera. Il nuovo sentimento a cui non era abituata ora pareva essersi insinuato con troppa facilità dentro di lei, e con altrettanta semplicità la diciassettenne scoprì che era naturale farlo scaturire fuori. Questo perché Chapman conosceva benissimo il motivo per cui era andata nelle camere del signor Rochester, ma voleva farglielo ammettere direttamente.

Sapeva che la signorina Byrne era tenuta ad obbedirgli, soprattutto se la signora Worthington non era nei paraggi.

“Ho pens-pensato fosse cosa da buo-buoni cristiani fare vista al povero signor Jackson” gli rispose infine, serrando i denti per non trovarsi a ripetere lo spiacevole incidente avvenuto nei giorni precedenti. In più, si accorse con amarezza di aver ripreso a balbettare come una sciocca. “Ora, se-se volete scu-scusarmi.”

Fece due timidi passi in avanti, con l’intenzione di passargli di fianco e superarlo, ma James alzò pigramente il braccio in avanti, sbarrandole la strada. “Non così di fretta, serva” le fece freddamente, scrutando in due iridi che, spaventate, si alzarono di scatto sul suo volto sbarbato; e, proprio come era accaduto a Douglas qualche istante prima, il tenente pensò che Keeran assomigliasse veramente ad un angelo triste.

“De-desiderate altro?”

Dal basso, a nemmeno un metro da lui, l’irlandese lo guardava con un’espressione di timoroso coraggio stampata sul visino paffuto, le guance arrossate da quello che sembrava essere stato un pianto a dirotto. L’arrogante senso di superiorità e possesso con cui i suoi genitori l’avevano cresciuto si fece sentire con insistenza dentro alla sua anima, sussurrandogli all’orecchio un pensiero folle e altrettanto ripugnante.

Oh sì, desidero molto altro.

Ciò che invece rispose fu un distaccato: “Avete dimenticato il vostro libro a prua, l’altro giorno”. Sollevò la mano stretta attorno al volume davanti agli occhi inebetiti di Keeran e cominciò a sventolarla con noncuranza, come se volesse gettare l’opera di Shakespeare in pasto al mare sotto di loro. “Forse eravate troppo impegnata a scordare di stare al vostro posto.”

Alla vista del libro affidatole dalla signora Saffie in persona, l’irlandese protese subito le braccia in avanti, cercando goffamente di salvarlo dalla presa delle dita forti del tenente Chapman. “Re-restituitelo!” esclamò, incurante dell’ultima frase di James, evidentemente pronunciata con l’intenzione di offenderla o umiliarla; tutte cose a cui comunque Keeran poteva dirsi abituata. “No-non è vostro!”

Non vedendo la diciassettenne reagire come si sarebbe aspettato da una servetta del suo calibro, l’espressione di James si rabbuiò e quest’ultimo sollevò sopra la testa il libro, allontanandolo dalla portata della bella irlandese. “Vi date arie da signorina perbene, ma agite da contadinotta di provincia” asserì e seppe di aver colto nel segno nel medesimo secondo in cui gli occhi oscuri della ragazza scattarono su di lui con uno strano misto di indignazione e paura. “Re Lear è una lettura fuori dalla vostra portata, non trovate?”

“Io non-non sono una signorina perbene, però.”

Perché mio padre è un barone che si è innamorato di una misera contadina irlandese.

All’improvviso, Keeran si vergognò di aver reagito alle provocazioni dell’insopportabile Chapman, di aver sofferto per la lontananza della signora Worthington e, addirittura, di non essersi sistemata a dovere l’acconciatura, perché al tenente doveva essere sembrata veramente una ridicola nullità la signorina Byrne, mentre saltellava con il suo impacciato grosso corpo e una marea disordinata di capelli corvini si sparpagliava tutt’intorno alle sue spalle.

“La mia padro-padrona mi sta insegnando a leggere” disse infine, abbassando il capo scuro e arrossendo dall’imbarazzo, come se le costasse ammettere una cosa che in effetti era fuori dall’ordine naturale del mondo. “Ho impa-imparato tutto quello che mi ha insegnato con successo.”

“Hai fiducia in ciò che dico?”

Di nuovo, il sorriso gentile e comprensivo di Saffie galleggiò davanti al suo sguardo combattuto e la diciassettenne chiuse le mani tremanti a pugno, tentando di mantenersi coraggiosa di fronte all’assalto del borioso Chapman. O almeno, si ripeté, la signora Worthington avrebbe esattamente fatto la stessa cosa al suo posto. “La mia padrona ha detto che sono una gentildonna…e io le credo!” esclamò poi con forza, senza nemmeno un balbettio o un’incertezza.

Un taglio netto e sottile, all’ingiù, trasformò le labbra di James in un attimo: il ragazzo socchiuse le iridi metalliche ed osservò Keeran con sprezzante scetticismo, poiché tutta la sua baldanzosa superiorità stava lasciando il posto ad un’insofferenza sempre più fastidiosa, incollerita. Fu forse questo motivo ad indurlo a chinarsi sulla ragazza, facendola arretrare indietro di qualche passo e riuscendo così a imprigionarla tra lui e la porta chiusa degli alloggi del signor Rochester; alle sue spalle, un viavai lontano e indaffarato di marinai si agitava sul ponte dell’Atlantic Stinger, ma nessuno sembrò far caso al predatore che aveva appena messo all’angolo la sua preda.

Il cuore in gola, Keeran aderì con la schiena alla superficie di legno e sgranò gli occhi di fronte al sorrisetto soddisfatto che si dipinse sul volto da principe capriccioso del tenente Chapman. Malgrado ciò che avevano sempre sostenuto su di lei, la diciassettenne non era affatto una stupida: dentro di sé, si rendeva benissimo conto che l’ufficiale desiderava vendicarsi per l’affronto subito due giorni prima, eppure – considerò follemente – davvero avrebbe osato colpirla di fronte a tutto l’equipaggio?!

Il ragazzo alzò un braccio e la signorina Byrne si irrigidì sul posto, sussultando. Al contrario di ciò che si era immaginata, le dita di James la superarono ed egli si puntellò alla porta, premendo la mano aperta sopra la testa corvina dell’irlandese. “Voi lo credete” la prese in giro a bassa voce, abbassandosi su di lei e godendosi la sua espressione da creatura sperduta. “Oh, ma sapete benissimo di essere una signorina nessuno, non è vero?”

“…tu sei il nulla.”

No. La signora Saffie e Douglas non la pensano così.

E fu nel medesimo istante in cui James Chapman pensò di aver siglato la sua vittoria sulla inutile servetta della signora Worthington, che la ragazza decise di fare la sua inaspettata mossa letale. “È fa-facile parlare e da-darmi ordini” sibilò, uccidendolo con due iridi di oscurità profonda. “Eppure, io stessa credo di non ricordare nemmeno il vostro nome, visto che siete un tenente fra i tanti.”

“E voi dimenticate ancora il vostro posto, Chapman.”

Non potrai mai diventare come l’Implacabile, né paragonarti ai tuoi tanto odiati fratelli maggiori.

“Riprendete il libro” sbottò James, senza riuscire in alcun modo a controllare la sua collera. Spinse di malagrazia il volume contro lo stomaco di Keeran e aspettò di vedere le sue dita bianche stringersi attorno alla copertina, prima di aggiungere, in un tono stranamente più serio: “Lui non ce la farà. Se desiderate illudervi, fate pure; ma sappiate che ciò vi porterà solamente sofferenza.”

Non cambierà mai nulla. Illuditi, e ne pagherai il prezzo.

Una parte di Keeran si stupì delle parole che il tenete Chapman le aveva rivolto, ma lo stupore non superò il dolore e il rifiuto provati istintivamente: Douglas non si sarebbe arreso, malgrado chiunque continuasse ad affermare il contrario; era un ragazzo valoroso e gentile, che meritava di sopravvivere. Di avere una possibilità.

“Le vos-vostre parole sono dis-disgustose” commentò piano, incurante del fatto che il viso affilato di James fosse a pochi centimetri dal suo, come se le stesse per rivelare un’intima confidenza.

“Mai quanto il vostro atteggiamento da…”

“Allontanatevi immediatamente dalla mia dama di compagnia, tenente Chapman.”

Una voce di donna proruppe da dietro le ampie spalle del ragazzo e quest’ultimo – insieme a Keeran Byrne, del resto – si stupì dello spasmo spaventato che agguantò la bocca del suo stomaco a tradimento. James voltò la testa imparruccata con un gesto meccanico, da marionetta, e i suoi occhi grigi inquadrano la piccola figura della signora Worthington ergersi in piedi a qualche metro da loro: la moglie dell’Ammiraglio li fissava vibrante di indignazione e di collera, le mani poggiate sui fianchi e tutte le intenzioni di rovesciare la sua proverbiale saccenza su di lui.

Siccome lo sguardo della Duchessina non sembrava promettere nulla di buono, Chapman decise di attuare una prudente ritirata strategica e così disse, raddrizzandosi rigidamente: “Signora Worthington, è un piacere rivedervi. Stavo giustappunto per chiedere alla vostra domestica se vi erano buone nuove riguardo a vostro marito, il nostro Generale Implacabile”.

“Keeran, vieni” asserì in tutta risposta Saffie, allungando una mano in direzione dell’irlandese e facendole cenno di raggiungerla. Aspettò di vedere la sua serva sgusciare via dalle braccia di James e avvicinarsi di gran carriera a lei, prima di aggiungere in tono scettico: “È bizzarra davvero questa vostra richiesta, se contiamo che avete passato l’intera mattinata a piantonare gli alloggi di mio marito”.

Il tenente spalancò la bocca di botto, dallo sbalordimento, mentre un rossore violento imporporò il suo volto per intero, facendolo assomigliare ad un’aragosta con la parrucca. Di certo, non si era aspettato di scoprire la signora a conoscenza delle ore che aveva trascorso a passeggiare avanti e indietro per il corridoio, senza riuscire ad accumulare il coraggio di bussare alla porta ma – stava cominciando a crederlo – forse l’ammiraglio non aveva avuto poi tutti i torti, a definire Saffie Lynwood una strega.

“Io non…non volevo disturbare Sua Eccellenza” borbottò infine, abbassando gli occhi e tradendo per un attimo tutti i suoi diciannove anni. “Non quando è gravemente malato.”

In questo scambio di battute, Keeran aveva fatto in tempo a nascondersi dietro le esili spalle della sua padroncina e lanciava sporadiche occhiate di timido interesse al tenente Chapman, incredula di fronte alla preoccupazione dimostrata da colui che finora aveva palesato solo sprezzante superiorità.

Dal canto suo, la Duchessina si lasciò sfuggire un sorrisetto comprensivo: le sue iridi attente avevano infatti colto al volo il libro tenuto da Keeran, ed era ovviamente lo stesso che avevano dimenticato a prua due giorni prima. “Signor James, signor James” pensò Saffie, sospirando. “Siete proprio simile a un bambino viziato, che non sa bene come esprimersi con gli altri.”

E, proprio per questo, siete una persona altrettanto imprevedibile.

“L’Ammiraglio è un uomo dalla volontà di ferro, questo lo sapete anche voi” concesse la Duchessina, intenerendosi un poco di fronte all’espressione rabbuiata del tenente Chapman. “Ha già ripreso conoscenza, pure se rimane alquanto…come dire, intrattabile.”

“Oh, bene” biascicò il ragazzo, nascondendo gli occhi metallici dietro alla falda del suo tricorno scuro. “Sono sollevato di sentirlo.”

Forse accorgendosi della situazione sconveniente in cui si era andato ad infilare, quest’ultimo comprese di dover prendere congedo al più presto dalle due donne e filarsela al sicuro sul suo amato ponte di comando, dove avrebbe potuto maledirsi e metabolizzare la rabbiosa vergogna di cui in quel momento si sentiva preda impotente.

Sì, impotente: era quella la definizione più giusta.

“…l’ultimogenito che ha la spina dorsale di una femminuccia! Non è vero, James?”

“Perdonate” fece il ragazzo, inchinandosi profondamente e assumendo di nuovo il modo ossequioso con cui Saffie era abituata a vederlo. “I miei doveri di Ufficiale della Corona mi attendono. Vi auguro una serena giornata.”

Per la seconda volta nell’arco di dieci minuti, l’espressione che comparve sul viso grazioso della signora Worthington non promise nulla di buono, né di sereno. Una determinazione ferma e tagliente trasformò lo sguardo sempre gentile della ragazza, mentre quest’ultima esclamava, in un tono tanto allegro quanto inquietante: “Un’ultima, ridicola e irrilevante questione!”

Un brivido premonitore corse sotto la pelle bianca di Keeran, che aveva ben riconosciuto la sfumatura pericolosa assunta dalla voce della sua padrona. All’orizzonte, si profilava un mare di guai.

“Come posso farvi onore, mia signora?”

Saffie unì le mani davanti a sé, quasi avesse intenzione di iniziare ad applaudire o a pregare. “Se devo essere sincera, stavo proprio cercando voi” cominciò a spiegare, soave. “Avrei un favore da chiedervi, in nome della vostra lealtà nei confronti di mio marito.”

Ed allora anche James sentì l’identico brivido provato dall’irlandese, davanti al sorriso di furbizia intelligente sfoderato dalla Duchessina di Lynwood.

Un sorriso da serpente, o da strega.

“Sono incastrato” pensò il ragazzo, sudando freddo.



§



Una settimana dopo.

3 Aprile 1730.




“Tradite ancora tutta la vostra inesperienza” commentò in tono saccente James Chapman, facendo un gesto vago con la mano pallida. “Dovete tenere più alta la vostra guardia, signora Worthington.”

“Siete un maestro piuttosto esigente” lo rimbeccò la dama a cui quel rimprovero era rivolto, alzando appena la spada nella sua direzione e guardandolo come una scolaretta punta sul vivo. “Le voci su di voi non mentivano affatto.”

“E, sentiamo, cosa dicono queste misteriose voci?”

Un piccolo sbuffo esasperato sfuggì dalle labbra rosee di una Saffie impegnata a sopportare tutta la pomposa superbia del tenente più sfrontato dell’intera Marina Britannica di sua maestà: in quei giorni, aveva imparato come il giovane Chapman avesse una maniera tutta sua di mostrarle il rispetto dovuto e, per quanto si prodigasse in cerimoniose reverenze e manfrine, non mancava mai di punzecchiarla sottilmente con il suo solito sorrisetto da ragazzino presuntuoso.

Doveva avere pochi anni in più rispetto a Keeran e a Douglas Jackson, ma ugualmente pareva comportarsi alla stregua di un bambino capriccioso e volubile. Poteva atteggiarsi da integerrimo Ufficiale ma, secondo Saffie, i suoi perspicaci occhi grigi tradivano un ironia pericolosa e lei pensò che da una persona del genere ci si potesse aspettare qualsiasi cosa.

“Oh, ma sapete benissimo di essere una signorina nessuno, non è vero?”

“Niente di segreto, temo” rispose freddamente la Duchessina, cercando di allontanare l’immagine del viso pallido e impaurito della sua domestica personale. “Vi tacciano di avere un talento di cui andate fiero oltre misura, poiché non c’è uomo che possa sfuggire al giudizio della vostra lama.”

Allora James sorrise a sua volta, di pomposa soddisfazione, seppure l’espressione incisa nei suoi lineamenti raffinati non assomigliasse per nulla a quella dell’altrettanto letale Ammiraglio Worthington: era palese che il ragazzo puntasse ad essere simile a lui, ma c’era qualcosa di diverso nel suo viso da leoncino ambizioso. “Eppure siete qui” commentò infine, alzando la sua arma verso la ragazza castana. “Credo sia a causa di questa mia particolare abilità, se vi siete spinta a chiedermi di insegnarvi almeno le basi dell’arte della spada.”

“…ho un favore da chiedervi, in nome della vostra lealtà nei confronti di mio marito.”

L’interessata si morse un labbro, colpita e affondata dalle parole del tenente. Era ormai passata una settimana dall’inizio delle loro lezioni private e, puntuali come un orologio, lei e James si erano incontrati a prua dell’Atlantic Stinger, lontani dal ponte superiore e dagli indignati sguardi degli altri Ufficiali al comando: rivelandosi di giorno in giorno più simile al Duca Alastair, Saffie aveva fatto leva sulla sua posizione di moglie di Worthington e così era non solo riuscita a convincere il riluttante Chapman, ma pure a tacere i restanti gentiluomini che – forse per timore rispettoso – si erano ben guardati dal riferire alcunché all’Ammiraglio convalescente. Rimaneva fuori dal suo raggio di influenza l’inflessibile e sveglio Benjamin Rochester ma, per qualche ignota ragione, il medico di bordo sembrava guardare con ammirata simpatia al progetto di Saffie di imparare a tenere in mano una spada.

Tanto lo verrà a sapere ugualmente, prima o poi.

Un brivido lieve aggredì le spalle esili della ragazza e lei cercò di scuotersi di dosso la sensazione di ansia ghiacciata che le si era infilata sottopelle a tradimento. Non voleva nemmeno immaginare la reazione di Arthur, una volta scoperto che stava prendendo lezioni di scherma alle sue spalle…proprio lei, la donna insopportabile che aveva sposato per obbligo e vendetta. La sua dolorosa spina nel fianco.

“Resta, ti prego. Ancora un poco.”

Ma qualcosa è cambiato adesso. Non è forse così?

Un leggero imbarazzo tinse le gote della Duchessina, mentre la sua mente tornava indietro alle ore successive al crollo di Arthur, a quando le era stato concesso di rimanere accanto al marito febbricitante e aveva potuto passare le ore di una lunga notte a vegliare su di lui, visto che il signor Rochester si era professato troppo impegnato a soccorrere un povero Douglas quasi morente; a Saffie era sembrato come se il medico di bordo fosse in un qual modo in collera con l’ammiraglio Worthington, ma aveva pure considerato che non era di certo quello il momento più indicato per fare alcuna domanda.

Ovvio, Arthur si era dimostrato piuttosto intrattabile – non che fosse una novità – ma alla fine le aveva permesso di prendersi cura di lui e, nei giorni successivi, aveva persino sopportato con calma granitica il vederla entrare e uscire dalla sua cabina come una solerte quanto testarda balia.

Per quanto il dottore fosse dovuto intervenire a più riprese ed avesse aiutato Saffie nell’impresa di convincere un imbronciato Arthur ad assumere un discreto quantitativo di medicine, nonché a lasciare che cambiassero la sua fasciatura almeno due volte al giorno, la ragazza aveva dovuto ammettere che le brevi conversazioni fra lei e il suo stoico marito non erano mai state né sterili, né noiose. O, almeno, non tanto quanto avrebbe preventivato: certo, non riuscivano ancora ad avere un intero dialogo senza provocarsi o sfidarsi a vicenda, ma poteva dirsi un inizio.

Pure oggi sei venuta qui. Non c’è qualche altro marinaio bisognoso delle tue preziose lezioni di ortografia?” le aveva detto un giorno, perforando con due splendenti occhi verdi il suo viso seppellito tra le pagine di un libro piuttosto importante. Di tutta risposta, Saffie non si era nemmeno degnata di alzare lo sguardo e aveva commentato, in tono apparentemente casuale: “Sì, Ammiraglio. Quale curiosa coincidenza, che io stia leggendo per lui proprio in questo momento”.

E aveva osato lanciargli una fugace occhiata divertita da sopra il volume, solo per vederlo voltare la testa bruna dall’altra parte, nascondendo con scarso successo il lieve rossore che aveva invaso il suo volto virile. “Stai giocando con la mia pazienza, ragazzina” le aveva mormorato poi, con voce indecifrabile.

Prometteva a sé stessa di essergli amica ma, in quell’istante, l’aveva trovato stupendo.

“Non trovi che sia bellissimo, Saffie?”

Un nauseante senso di colpa si fece sentire dentro la sua coscienza nello stesso secondo in cui il rumore metallico prodotto dalla lama di Chapman arrivò alle sue orecchie arrossate. Ritornata alla realtà, la ragazza castana alzò di scatto gli occhi sorpresi sul giovane di fronte a lei, trovandolo a neanche un metro di distanza, già pronto a fare breccia nelle sue fragili e patetiche difese.

“Signora Worthington” esordì James, sollevando il sopracciglio con insofferente scetticismo. “Essere distratti è il primo errore da non commettere, o vi troverete a cadere senza aver messo a segno un colpo.”

Il tenente non aspettò di sentirla rispondere per incrociare di nuovo la spada con quella di Saffie, costringendola ad arretrare e difendersi, a utilizzare le nozioni basilari imparate in una settimana. I suoi attenti occhi grigi osservarono le posizioni assunte dalla Duchessina ed egli si disse comunque soddisfatto dei progressi che era faticosamente riuscito a farle raggiungere: poteva pure essere una pacata donna cresciuta nei pigri salotti cittadini, ma la graziosa moglie di Worthington imparava piuttosto in fretta, bisognava ammetterlo.

“Mi avete chiesto di insegnarvi a difendervi” le disse ancora, parlando senza troppa difficoltà un timido attacco di Saffie. Ghignò nel vedere la sua piccola figura ansante cercare di stare dietro al suo passo, mentre lui sembrava stare compiendo una passeggiata di piacere; così aggiunse: “Ma siete comunque una donna. Non sarebbe meglio lasciar perdere queste sciocchezze, e delegare la vostra protezione a chi di dovere?”

Imparare qual è il tuo posto.

A sua volta, la Duchessina schivò un affondo con incredibile naturalezza, prima di rispondere, sbalordendolo: “Sono una donna che ha già ucciso per salvare qualcuno, tenente. Niente mi ha mai impedito di proteggere chi amo.”

Non essere bugiarda. Amandine è morta per colpa della tua noncuranza.

James Chapman la vide incupirsi leggermente e ripensò alle iridi piene di annichilente terrore che aveva visto nelle cucine della nave, a battaglia conclusa; alla Saffie sotto shock che sì aveva tolto la vita ad un pirata, ma allo stesso tempo non si era fatta vedere per due giorni consecutivi sul ponte sopracoperta, come se avesse voluto nascondersi agli occhi del mondo. Forse, si trovò a considerare il giovane, era questa la risposta che la ragazza aveva trovato per affrontare il suo trauma e, per un folle momento, la Duchessina gli ricordò Arthur Worthington.

Due elementi così diversi eppure paradossalmente eguali.

Un sole rosso si immergeva con lenta cautela sotto la linea dell’orizzonte, penetrando in un mare tranquillo e sereno, ammantando la nave e i suoi abitanti di una dolce luce aranciata. La Mad Veteran era di giorno in giorno più vicina – esausta come un animale ferito a morte – ma nessuno sembrò volerci fare troppo caso...e prendere coscienza che, di lì a poco, ci sarebbe stato un altro bagno di sangue.

“Le vos-vostre parole sono dis-disgustose!”

James si diede dello stupido, per aver richiamato alla memoria la paffuta figura di Keeran Byrne senza nemmeno comprenderne il motivo; eppure gli era venuto spontaneo pensare anche a lei, ora che si trovava davanti allo sguardo determinato della Duchessina di Lynwood.

L’irlandese non era altro se non un anatroccolo impaurito, al confronto con il grazioso cigno a cui ubbidiva.

Nelle viscere del ragazzo cominciò ad agitarsi un disagio che non gli era famigliare, poiché sapeva quanto lui stesso si fosse spesso e volentieri sentito in quel modo, ogni qual volta si trovasse ad osservare l’incrollabile Arthur Worthington.

Così inadeguato, così lontano.

“Ricorda, James: tu sarai sempre l’ultimo di noi quattro!”

Le sue iridi ghiacciate si sollevarono pigramente su Saffie e, in un attimo, il suo cuore sembrò fermarsi del tutto, paralizzato da un sentimento di impotente orrore. James pensò subito di essere letteralmente fregato e, senza alcun dubbio, poté dire di sentire il suo piedistallo di pluridecorato tenente cigolare in maniera fastidiosa perché, alle spalle di una ignara Duchessina, si ergeva in piedi l’unica persona che non avrebbe mai dovuto vederli.

“Non era mia intenzione ammutolirvi, caro James” sogghignò la ragazza castana, facendo un passetto indietro e cercando di mettersi in posizione di difesa. “Spero almeno ammettiate che sono stata capace di imparare!”

In maniera inaspettata, la schiena di Saffie non incontrò il vuoto ma bensì un solido ostacolo.

“Imparare…che cosa, esattamente?”

Una voce profonda e seria si levò sopra la sua testa e la signora Worthington sentì una secchiata di brividi ghiacciati cascarle addosso, visto che aveva immediatamente riconosciuto il tono autoritario di Arthur. Le sue piccole spalle si irrigidirono appena e lei pensò – a ragion veduta – di essere nei guai.

Oh, cielo.

Fu il suono strozzato uscito dalla bocca di un tenente Chapman inchiodato alle assi del pavimento a svegliarla di botto. Di sicuro, James non era in condizioni di prestarle alcun aiuto e così Saffie decise di voltarsi di scatto, pronta ad affrontare a denti stretti l’ira del nuovo venuto. “Niente, signore!” rispose fin troppo allegramente, con dipinta in viso una falsissima maschera di noncuranza. “Solo, il solerte Chapman ha accettato di assecondare i miei capricci e insegnarmi qualche trucco per potermi difendere!”

Il tempo di incatenare il suo sguardo con quello del marito, che la ragazza fu fulminata da due occhi immobili, difficili da decifrare. Arthur aveva indossato nuovamente la sua sfolgorante divisa dorata ed effettivamente incombeva su di lei minaccioso come sempre, ma la fissava senza lasciar trasparire alcunché. “Qualche trucco?” ripeté freddamente l’ammiraglio, apparentemente tornato in perfetta forma. “È un modo tutto vostro per dirmi che vi è saltato in testa di cominciare a tirar di spada?”

Senza attendere alcun commento da parte della moglie, l’uomo si chinò sul suo viso e un’espressione di malvagio divertimento trasformò i suoi lineamenti. “Una decisione riprovevole” aggiunse soave, sfoderando un inquietante sorrisetto pieno di scetticismo, di quelli che a Saffie ricordavano il Worthington della prima notte di nozze. “Vediamo quanto avete imparato dal caro James.”

Un coro di deboli proteste si levò alla sua affermazione: Saffie odiò con tutta sé stessa il suo cuore impazzito e sbottò un patetico “Ammiraglio, siete ancora convalescente!”; al contempo, Chapman si era ripreso quel tanto dallo shock per poter pronunciare un balbettante “Signore, le ho so-solo insegnato le basi! Nulla di pericoloso e inopportuno, ave-avete la mia parola!”.

Chiaramente, fu come se non avessero parlato affatto. Worthington ignorò le loro suppliche e superò la figura minuta della ragazza come se nemmeno la vedesse, mentre imprimeva negli occhi spaventati del suo più fedele tenente uno sguardo costituito di una calma tagliente, pericolosa. E Saffie poté scommettere di non averlo mai visto guardare qualcuno in quel modo.

“Vi siete rivelato inopportuno nell’istante in cui avete deciso di prendere mia moglie come allieva” asserì l’uomo, marmoreo. “Ora vorrete perdonarmi, se desidero accertare di persona l’efficacia delle vostre lezioni private.

Perplessa, la Duchessina osservava lo strano atteggiamento del marito, chiedendosi perché non l’avesse ancora ripresa per essersi rivelata una scandalosa donna che non riusciva a stare al suo posto e, come un fulmine a ciel sereno, una consapevolezza impossibile le piombò fra capo e collo.

No, Arthur non poteva essere geloso di lei.

Non di Saffie Lynwood, la giovane donna che non aveva mai guardato una seconda volta.

Un luccichio abbagliante attirò la sua confusa attenzione e la ragazza si volse a guardare i due Ufficiali in piedi di fronte a lei. Una fitta di panico colpì il suo stomaco, poiché inquadrò alla perfezione l’ammiraglio Worthington sfoderare l’elaborata spada con un gesto elegante e fluido, senza sbavature. “Siete congedato dai vostri doveri, James Chapman. Andatevene.” ordinò monocorde l’uomo. I suoi occhi smeraldini scattarono su Saffie e la trafissero da sopra la lama affilata. “Vogliamo cominciare?”

La sua voce era di seta, ipnotica come il sibilo di un serpente velenoso. La Duchessina di Lynwood puntò i piedi a terra e prese in mano una dose di abbondante coraggio, per tentare di affrontare l’atteggiamento distaccato del Generale Implacabile; aspettò di vedere il giovane tenente sparire dal suo campo visivo – diretto al ponte di Comando con la stessa aria di un prigioniero scampato alla pena capitale – prima di asserire, sommessamente: “Non è necessario tutto questo, davvero. So che può sembrare sconveniente, ma desideravo solo potermi difendere da sola.”

“E hai pensato bene di coinvolgere un ragazzino in questa tua piccola missione segreta” la rimbeccò sarcastico Arthur, lasciando intendere il suo fastidio più di quanto in realtà avrebbe voluto. “Ora affrontami con tutto quello che hai da offrire, Duchessina; poiché io non sono uomo da concedere alcuna pietà.”

Illuso. Credevi veramente che te ne avrebbe parlato?

Lei non si fiderà mai di te.



§



La differenza di abilità fra il Generale Implacabile e il ragazzino che rispondeva al nome di James Chapman era tanto grande quanto l’oceano rosso fuoco che li circondava. Arthur era talmente veloce e preciso, letale, da far dubitare a Saffie di aver effettivamente imparato a tener in mano la spada e, vergognandosi, ella si sentì come un bambino impacciato che brandiva la sua rozza arma di legno: non era ovviamente riuscita a mettere a segno nemmeno un affondo, mentre al suo insopportabile marito veniva fin troppo facile sbaragliare le sue difese senza sprecare energia alcuna; Worthington l’attaccava infatti con il braccio sinistro elegantemente piegato dietro la schiena e sembrava godersela un mondo a vederla in difficoltà. A schiacciarla con il peso di tutta la sua superiorità.

“Stai esagerando!” sbottò infine la ragazza, gonfiando le guance rosse e parendo improvvisamente più un criceto furibondo, che una ventisettenne sul lastrico. “Non puoi pretendere che io riesca a sostenere questo ritmo, e lo sai bene!”

La lama dell’uomo fendette l’aria con un sibilo leggero e Saffie lo vide tornare rigidamente in posizione con noncuranza, nemmeno un capello scuro fuori posto. “Se avessi fatto sul serio, saresti già morta” commentò, senza in flessioni di tono. “Piuttosto, avresti dovuto rivolgerti ad un vero maestro di spada e non a quello sconsiderato di Chapman.”

“Non avrei saputo a chi chiedere aiuto!”

Un sopracciglio castano si inarcò leggermente, dando al volto virile di Arthur un’aria scettica. “Permettimi l’ardire, ma dicono io sia piuttosto ferrato sull’argomento.”

Dal canto suo, Saffie sgranò tanto d’occhi: il Generale Implacabile stava dicendo sul serio?

“Se non ti conoscessi, azzarderei che tu ti stia divertendo a prendermi in giro” gli disse quindi, dopo un secondo di silenzio sbalordito.

“Potrei dire lo stesso di te, ragazzina.”

“Non devi chiamarmi così! Io sono una donna!”

“D’accordo, d’accordo!” acconsentì l’uomo, concedendosi un pesante sospiro di insofferenza. “Touché.”

La brezza fresca della sera mosse un poco le onde ribelli dei capelli di Arthur, ed esse si agitarono su un’espressione di lieve divertimento che non si confaceva per nulla alla sua reputazione di Ufficiale inflessibile e autoritario. Il cuore furioso di Saffie saltò un altro battito ed ella pensò per la seconda volta che Worthington fosse stupendo.

E parlare con questa naturalezza, ogni qual volta facciamo cadere la nostra maschera.

La Duchessina ripensò nuovamente ai momenti passati in compagnia dell’odiato marito durante la settimana passata e realizzò che, inconsciamente, entrambi si erano avvicinati l’uno all’altra in maniera impercettibile; era come se avessero deciso di assottigliare la famosa linea di confine sulla quale si ergevano in piedi, dandosi le spalle a vicenda. Voltarsi indietro e guardarsi negli occhi, questa volta per davvero.

Un sorriso spontaneo e adorabile comparve sul viso di Saffie che disse, quasi ridendo: “Pensavo saresti andato in collera con me, una volta venuto a sapere di questa mia idea da signorina così poco nobile e perfetta.”

“Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine.”

Un mutismo strano fece seguito alla sua battuta e la ragazza se ne stava quasi per chiedere il motivo, che la voce profonda di Arthur venne a sorprenderla di nuovo: “Sono…ammirato” sussurrò, tradendo un lieve rossore imbarazzato che – secondo la ragazza – lo rese ancora più attraente. “Non ho mai conosciuto una donna come te.”

“Sei stata molto coraggiosa, Duchessina.”

Quello sguardo, quelle parole gentili, non erano mai state per lei.

L’uomo abbassò il capo scuro e si portò rigidamente una mano alla base del collo, massaggiandola con un impaccio da ragazzino intimidito, alla prima cotta; spostò gli occhi smeraldini altrove, sulle assi del pavimento umido, evadendo lo sguardo luminoso della moglie. E allora Saffie pensò, arrossendo a dismisura, che forse lui si era veramente dimostrato geloso nei suoi confronti, poco prima.

“Come se io lo volessi davvero. Questo è un contratto che entrambi siamo costretti a onorare”.

Le sue piccole dita si strinsero sull’elsa della spada, convulsamente.

No, non doveva lasciarsi ingannare dai suoi stupidi e insensati sentimenti.

Nemmeno se fosse stata figlia unica, lui l’avrebbe mai considerata…guardata.

“Torna alla realtà, stupida ingenua che non sei altro” riproverò sé stessa con forza, mandando giù un enorme groppo di vergognoso risentimento e cercando di focalizzarsi sul perché fosse a prua dell’Atlantic Stinger con un’arma in mano. Doveva imparare a difendere sé stessa e chi amava, così da non dover più sperare nell’impossibile arrivo di un salvatore.

“Il tuo posto non è al mio fianco, Duchessina.”

Di dover appoggiarsi a Worthington che, al massimo, per lei provava simpatica compassione.

Approfittando del momento di distrazione dell’Ammiraglio, Saffie portò il braccio in avanti con un unico gesto fulmineo e, proprio come aveva imparato da Chapman, riuscì a disarmare l’uomo di fronte a lei, che si girò subito a guardarla sorpreso oltre ogni dire. L’elaborata spada di Arthur cadde a terra con un suono metallico, decretando così l’improbabile vittoria della Duchessina di Lynwood.

“Ah!” esclamò quest’ultima, il tono trionfante da bambina gioiosa. “Pare io abbia appreso almeno come coglierti di sorpresa, Generale.”

Worthington si poteva effettivamente dire sbalordito dall’atteggiamento di sfida della smorfiosetta che aveva preso in moglie, perché – per quanto credeva di conoscerla – gli sembrava di riscoprire di volta in volta un lato diverso di Saffie Lynwood: la ragazza lo fissava con il suo miglior sguardo di innocenza irriverente a pochi metri di distanza, le lunghe ciocche di capelli castano chiaro cadevano attraenti sul viso arrossato dalla fatica, ma un sorrisetto adorabile stampato su un’espressione da piccola combinaguai. Ancora, come stava accadendo fin troppo spesso in quegli ultimi giorni, l’uomo la trovò di una bellezza quasi insopportabile e provò il tremendo bisogno di avvicinarsi a lei più di quanto mai avesse fatto in quel momento.

O rovinarla più di quanto tu abbia già fatto, a causa della tua fame insaziabile?

Arthur decise di trincerarsi dietro a un ghigno di laconica ironia e scosse la testa bruna con noncuranza, prima di commentare, sardonico: “Una mossa a dir poco sleale, per una signorina tanto ligia alla giustizia e alla bontà come te”.

“Non siete obbligato a farlo. Potete decidere di concedere loro almeno la possibilità di un processo.”

Colpita dall’affermazione del marito, Saffie sgranò gli occhi castani e abbassò la sua arma lentamente, come presa da un’improvvisa incertezza. “Di fronte alla battaglia, alla morte, non c’è alcun tempo per essere leali” gli sussurrò infine, vergognandosi al contempo delle sue stesse parole perché, lo sapeva, era esattamente ciò che suo padre avrebbe detto al suo posto. L’allegra Saffie di un tempo non avrebbe mai pronunciato parole simili.

Ma, lo sai, che quando si nuota in mezzo agli squali solo chi vuole sopravvivere vince sempre.

Lo sai, perché hai ucciso una persona.

La mano stretta attorno all’elsa della spada si abbassò del tutto, mentre le iridi della Duchessina si tingevano di una tristezza lontana e segreta. Il suo sguardo cadde quasi per caso sulla mano destra di Arthur, dove poté vedere un misero taglio a malapena sanguinante aprirsi sul dorso, proprio nel punto in cui la lama della ragazza l’aveva colpito.

Lo sai, perché hai scelto di voltare le spalle a chi avevi giurato e spergiurato di amare.

In fondo, hai fatto del male agli altri solo per proteggere te stessa.

Nel medesimo istante in cui intravide la nuova ferita dell’Ammiraglio, il cuore di Saffie sembrò stringersi su sé stesso, stritolarsi in una morsa di doloroso senso di colpa, e lei avanzò subito di un passo verso l’uomo, allungando le piccole dita in direzione della mano grande di lui. “Cielo! Io…ti ho ferito!” disse preoccupata e, forse per questo, del tutto insensibile all’espressione interessata con cui Arthur la stava osservando. “Dobbiamo subito portarti dal signor Rochester! Lascia che dia un’occhiata, prima di tutto!”

Gli occhi chiari di Worthington si posarono sulla ragazza pigramente, limpidi di quel desiderio che a tutti i costi non desiderava provare e di cui, al contempo, non riusciva a fare a meno.

Sei ancora così ingenua, ragazzina.

Passò un eterno secondo e, dal niente, apparve la sottile lama di un pugnale d’acciaio, tanto elaborato quanto mortale. Worthington chinò il volto serio su quello sbalordito della moglie e si portò a pochi centimetri dalle sue labbra senza nemmeno rendersene conto. “È solo un graffio da nulla” le sussurrò neutro, esercitando una leggera pressione sullo stomaco della ragazza con il fedele coltello da cui non si separava mai. “Non esiste nessuna lealtà di fronte alla morte. Hai centrato subito il punto, ma comunque sei caduta in un grave errore.”

“…poiché non esiste alcuna pietà per chi incrocia il suo cammino!”

Due enormi occhi da preda indifesa si sollevarono di scatto su di lui e Worthington si pentì immediatamente del suo gesto improvviso, perché pensò di aver esagerato nei confronti della piccola strega, di aver sopravvalutato la sua sfrontata testardaggine. Degno di nota, Arthur maledì fra le altre cose sia sé stesso che l’orgoglio adamantino di cui solitamente andava fiero, visto il suo inspiegabile desiderio di dimostrare a Saffie di essere un maestro di spada superiore a James Chapman.

La verità è che ultimamente mi sento un perfetto idiota, ogni qual volta mi trovo insieme a lei.

E, a conferma della sua considerazione, l’uomo udì la ragazza castana ridere di quello che a prima vista sembrò sommesso divertimento. “Come immaginavo, sei sempre tu a vincere, Ammiraglio” fece Saffie con quieta ironia, sorridendo serena come una dama intenta a giocare a carte e non sotto la minaccia di un pugnale affilato; si arrese del tutto a Worthington e mollò la presa sulla sua spada, lasciandola cadere sulle assi del pavimento senza battere ciglio, poiché il suo sguardo era del tutto catalizzato dalle iridi incredibili di Arthur. Erano così profonde e ipnotiche, che desiderò cascarci dentro. “Spero tu voglia concedermi pietà” lo sfidò infine, prendendolo in giro in maniera neanche troppo sottile.

Sono una vera sciocca, poiché non riesco più a distinguere la differenza fra ciò che temo e ciò che desidero.

L’espressione da demone crudele dell’uomo si fece vicina al suo volto bruciante e Saffie seppe di essere perduta per sempre. “Pietà?” le fece eco l’ammiraglio con beffardo sarcasmo, soffiando quell’unica parola sulle sue graziose labbra schiuse, quasi quest’ultime fossero solo in attesa di essere imprigionate.

Sull’Atlantic Stinger era ormai calata la sera e il sole si era totalmente immerso al di sotto della linea dell’orizzonte, tuffandosi in un oceano color petrolio, congelando il paesaggio in una stasi silenziosa e innaturale. Alla stessa maniera, in un silenzio muto e carico di inconscia attesa, il Generale Implacabile e la Duchessina di Lynwood si resero conto di essere troppo vicini: soli a prua della nave, entrambi videro l’inesistente confine e – di nuovo – qualcosa dentro di loro li spinse a cancellarlo.

Due respiri divennero uno, e fu il solo suono che poterono udire. Come guidato da un incantesimo, Arthur abbassò il capo scuro su Saffie con una lentezza estenuante, timorosa, e il suo naso dritto sfiorò appena quello di lei.

Un brivido violento colse la ragazza castana e quest’ultima si rese conto di non riuscire più a pensare a nulla, al di fuori del suo doloroso desiderio: una tremenda forza aveva soggiogato la sua mente e sembrava volerla attrarre verso le labbra sottili dell’Ammiraglio, come se le loro bocche fossero due magneti dai poli opposti.

Nient’altro pareva esistere.

Fallo” si trovò a pensare Saffie all’improvviso, vittima di quell’impulso irrefrenabile che era nato dentro alla suo animo straziato; e, per un vergognoso attimo, ricordò che c’era stato un tempo in cui la sola prospettiva di essere baciata da Worthington l’avrebbe riempita di disgusto e odio.

Mentre ora lo voleva tanto da soffrirne, persino.

E fu una lucida scintilla nell’oscurità, di quelle che avevano il potere nascosto di stravolgere qualsiasi cosa. Le labbra dei due si incontrarono lentamente, in un tocco timido e timoroso. Nemmeno il tempo di saggiare la morbidezza del labbro inferiore della ragazza, che Arthur si allontanò appena dalla sua bocca, cercando di ignorare l’attrazione disperata su cui non riusciva ad avere alcun controllo; i suoi occhi verdi si sollevarono su quelli di Saffie ed egli venne ucciso da un lucido sguardo costituito di irresistibile aspettativa.

Non sarebbe riuscito a resistere.

No, non voleva resistere.

Guidato da una nuova determinazione, Arthur portò nuovamente il viso su quello di Saffie, il respiro a mescolarsi con quello di lei. “Permettimelo” pensò, follemente. “Solo questa volta. Ti prego, permettimelo.”

Con pessimo tempismo, il suono ovattato e lontano del rintocco di una campana si intromise fra loro, rinsavendoli di botto. Si accorsero solo in quell’istante della prua totalmente deserta, del buio opaco delle prime ore della sera e di come, in effetti, la maggior parte dei membri dell’equipaggio fosse riunito a poppa della nave, impegnato ad elemosinare una misera ciotola di zuppa calda.

Saffie distolse lo sguardo dal nutrito gruppo di ignari marinai e si volse in silenzio a guardare l’alta figura del marito, ora intento a fissarla in maniera indecifrabile. Si erano allontanati automaticamente l’uno dall’altra eppure, a differenza da altre volte, la ragazza non volle affatto darsela a gambe, né dire alcunché per levarsi dall’imbarazzo della situazione: in fondo al suo cuore, sapeva che se avessero parlato la realtà di sempre li avrebbe inghiottiti, facendoli tornare nei ruoli prestabiliti, nella tormentata sofferenza che avevano abbracciato e scelto come loro.

L’abisso di oscurità accecante.

La ragazza osservò la mano di lui protendersi sul suo viso e sistemarle una ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio con gentilezza, prima di ritirarsi lentamente e arrendersi. Il cuore in doloroso tumulto, lo guardò raccogliere la sua spada e fare per allontanarsi, dimenticare ciò che era appena accaduto. Fu quello l’istante in cui Saffie decise di puntare i piedi sul suo odiato confine e trattenere con sé l’ammiraglio Worthington, aggrappandosi al tessuto della sua giacca blu senza che lei stessa sapesse bene cosa le fosse preso.

No, era solo una ridicola bugiarda.

Arthur si voltò verso di lei, impassibile come una statua di pietra. Non la respinse, né parlo in alcun modo, ma la Duchessina seppe con assoluta certezza di aver appena firmato la sua condanna a morte: lui non aveva alcuna espressione, ma le sue iridi verdi rilucevano di un desiderio pericoloso e inamovibile, molto simile a quello che la ragazza aveva veduto poco prima della battaglia.

Le dita dell’uomo si agganciarono sul suo sottile polso con decisione e, in uno strano silenzio, la guidarono lungo tutto il ponte sopracoperta, fin sulla soglia degli alloggi degli Alti Ufficiali dove due guardie in divisa rosso fuoco stavano ritte in piedi, pompose ed eleganti.

Bugiarda. Sai benissimo cosa ti è preso.

“Non voglio essere disturbato per alcuna ragione” ordinò Arthur monocorde, superando le giovani sagome degli Ufficiali di guardia senza nemmeno degnarle di una sola occhiata mentre, dal canto suo, la signora Worthington lo seguiva a testa rigorosamente china, un rossore acceso che le infiammava il viso grazioso.

“Che cosa sto facendo?” si chiese scioccamente Saffie, senza però mostrare alcuna incertezza nel varcare la soglia dello studio di Arthur, dopo che quest’ultimo le aveva aperto la porta e si era fatto elegantemente da parte con l’intento di farla passare. La ragazza avanzò fino al centro della stanza e, quando udì la porta chiudersi di scatto alle sue spalle, seppe che il momento era infine giunto: non c'era più alcun tempo per tornare indietro, scappare.

Si girò in direzione dell’Ammiraglio e lo vide appoggiato alla porta chiusa, gli occhi smeraldini inchiodati su di lei. Un brivido violento la scosse da capo a piedi e, ancora, Saffie seppe di star mentendo a sé stessa: non voleva tornare indietro, fuggire via.

Un battito di ciglia e Arthur si trovò a pochi centimetri dalla moglie senza neanche sapere come fosse giunto fin lì; forse era stata tutta colpa della misteriosa forza che da tempo complottava contro di lui e contro la sua volontà, poiché sentiva di non aver alcun controllo né sulle sue azioni, né sui suoi sentimenti. Permettimelo. Ora più un imperativo, che una richiesta.

Come un serpente avrebbe stretto le sue spire su una preda, allo stesso modo l’uomo allacciò con lentezza ipnotica le sue braccia forti attorno alla vita di Saffie, imprigionandola in una stretta decisa e ferma. Due piccole mani si allungarono incerte sul suo viso sbarbato, schiudendosi in una carezza tanto innocente quanto sensuale e lui strinse la ragazza a sé, portando i loro bacini a contatto.

Di nuovo, i loro nasi si trovarono a sfiorarsi, e il loro respiro divenne l’unico suono udibile. Il microcosmo di quella stanza immersa nella penombra il solo esistente.

Permettimelo.

E quando Saffie chiuse gli occhi, non ci fu più bisogno di chiedere.

Fallo.

Stavano sbagliando, superando un confine all’apparenza invalicabile, ma a entrambi non sembrò importare affatto. Le loro labbra si incontrarono senza alcuna esitazione e niente era più urgente di ciò che stava accadendo, nessuna situazione dolorosa: l’odio che per mesi avevano nutrito l’uno per l’altra, il senso di colpa causato dalla morte di Amandine e Amandine stessa…tutto sparì in una nuvola di incoscienza. Ogni pensiero venne inghiottito da quella misteriosa forza che – ancora non sapevano – poteva liberarli dalle loro opprimenti catene, tanto quanto era in grado di renderli prigionieri.

Il legame crudele che temevano e desideravano.

Saffie allacciò le braccia al collo di Arthur, inseguendo con la testa castana il movimento che la lingua dell’uomo imprimeva dentro di lei, mentre combatteva con la sua una battaglia mortale. Non c'era alcun impaccio o imbarazzo in quel bacio così poco casto, così passionale, che la ragazza credette che entrambi stessero riversando l’uno nell’altra un’identica sofferenza, infliggendosi a vicenda le stesse cicatrici e sfogando così quel morboso sentimento cresciuto scontro dopo scontro, mentre erano occupati ad accusare sé stessi e l’altro della tragedia che era avvenuta a causa della loro noncuranza.

Le mani grandi dell’Ammiraglio risalirono fino alle spalle esili di Saffie e strinsero il suo piccolo corpo a sé con forza, avvolgendolo quasi del tutto, inghiottendolo. La Duchessina aderì al torace tonico dell’uomo, la pelle nuda della scollatura premuta contro le fredde abbottonature dorate della sua divisa altolocata; ed era la stessa uniforme che aveva smesso di detestare, perché ora contributiva a sfamare il tremendo bisogno esploso nella sua anima: Arthur era un uomo dal potere incrollabile, ma il suo sguardo nascondeva in realtà il tormento di un Re imprigionato. E Saffie lo trovò talmente irresistibile da non credere di poterne più fare a meno.

A conferma di ciò, l’uomo passò con lenta malizia la lingua fra le labbra schiuse della moglie, prima di entrarvi nuovamente e conquistare quella bocca che sembrava in attesa della sua. La sentì lasciarsi sfuggire un lieve gemito, che si perse dentro di lui, e fu fulminato da una scarica di desiderio tale da lasciarlo senza fiato.

Quasi senza rendersene conto, Worthington aveva fatto arretrare la ragazza fino a raggiungere la scrivania alle sue spalle, mentre continuava a baciarla con una voracità strana, dalla delicatezza ferma seppure inarrestabile. Malgrado l’avesse messa con le spalle al muro, Saffie non cedeva terreno e gli teneva testa con grande testardaggine e coraggio, senza mostrargli alcun segno di timidezza o indignato pudore: in fondo, era sempre stata una degna avversaria.

Quella cocciutaggine che aveva sempre dichiarato di odiare, ora risultava sensuale ai suoi occhi; come l’insopportabile Duchessina gli sembrava una donna tanto triste quanto bellissima. Così tanto da non volerla più lasciar andare, pure se sapeva di non poterla tenere vicino a sé.

Ma faceva parte del suo terribile carattere, impossessarsi di tutto ciò che non poteva avere.

Perché credeva di averla seppellita, la persona che era stata un tempo.

Senza alcuno sforzo, le dita dell’uomo si agganciarono ai fianchi di Saffie e la sollevarono, mettendola seduta sulla lussuosa scrivania con un unico gesto costituito di affamata urgenza. Un fruscio leggero di carte, e i documenti importanti di Arthur caddero sul tappeto indiano in un disordine caotico a cui nessuno sembrò dare attenzione.

In effetti, Saffie stessa era troppo impegnata a duellare con la famelica lingua di un Worthington intenzionato a non concedere né tregua, né un briciolo di pietà. Fu forse per questo che la ragazza intrecciò le dita con i capelli scuri di Arthur e cercò di imprimere più forza al loro ennesimo bacio…voleva fargli comprendere che – oh no – lei di certo non si sarebbe per nulla arresa.

Avrebbe riversato fino all’ultima goccia della sua sofferenza repressa dentro di lui.

L’ammiraglio sembrava pensare la stessa cosa. Saffie sentì il tocco ruvido delle mani dell’uomo salirle lungo la schiena e aggrapparsi al tessuto del suo abito verde con fin troppa forza, per poi tirarne bruscamente i lembi di stoffa pregiata e scoprire due esili spalle tremanti di aspettativa.

Fu quello il momento in cui Arthur abbandonò la bocca ansante della moglie, seppur con riluttanza. Quest’ultima aprì gli occhi castani, lucidi di eccitazione, e seguì con lo sguardo la testa bruna di Worthington abbassarsi su di lei, superare il suo volto arrossato; il suo cuore perse un battito non appena sentì l’alito bollente dell’uomo sfiorarle delicatamente il collo: sapeva ciò che stava per succedere. Lo ricordava.

Arthur leccò appena la sua pelle accaldata, prima di morderla con la stessa crudeltà tentatrice della prima volta. E, ancora, aveva deciso di colpirla nello stesso identico punto, come a volerle far intendere che il messaggio non era affatto cambiato.

Tu sei mia.

Una tempesta si abbatté su Saffie e lei seppe che l’unica differenza stava nel fatto che, questa volta, lei lo voleva. Voleva essere travolta dai brividi provocati dalla bocca maledetta di Arthur, voleva esser presa da quelle mani forti che non avevano fatto altro se non respingerla, allontanarla. Voleva provare piacere dalla tortura che il detestato marito le stava infliggendo e illudersi che, in qualche perversa maniera, loro non si stessero in effetti usando a vicenda, ma che ci fosse qualcosa di diverso.

Condividiamo il medesimo dolore, ma…

Saffie si protese in avanti e abbracciò stretto il corpo imponente dell’uomo. Seppellì la chioma castana nella sua spalla mentre, con grande imbarazzo, lasciò il suo corpo agire per lei, schiudendo leggermente le esili gambe: un taciuto permesso a valicare l’altro confine, quello che avevano spergiurato di non voler mai più attraversare.

Eppure entrambi lo desideravano.

Arthur si portò nuovamente di fronte alla ragazza e, malgrado i suoi occhi chiari non comunicassero altro che vorace lussuria, dentro alla coscienza dell’uomo era bruciante la consapevolezza di non aver mai visto niente di più bello della piccola strega, ora intenta a fissarlo con due luminose iridi piene di controversa innocenza.

Anche se non puoi tenerla per sempre con te, chiusa dentro al tuo soffocante abisso.

Come una falena attratta dalla fiamma, le labbra di Worthington si fecero vicine a quelle di Saffie. “Solo questa volta” soffiò infine su di esse, facendo scorrere le lunghe dita sotto la gonna della ragazza, assaporando con i polpastrelli la morbidezza tiepida delle sue cosce.

Perché proprio tu, fra tutti, sei l’ultima persona che dovrebbe avvicinarsi a me.

Una punta di dolorosa amarezza si fece sentire dentro all’anima della Duchessina, ma lei l’accantonò subito in un angolo buio della sua corrotta coscienza. “Solo questa volta” ripeté contro la bocca del marito, mescolando il suo respiro a quello di lui.

So di non poter lasciare ai miei stessi sentimenti il controllo.

Condividiamo il medesimo dolore, ma non potremo mai amarci per davvero.

Un battito di ciglia, e di nuovo le loro labbra erano unite in un bacio di passione feroce, dal sapore amaro.

Tu non potresti mai amarmi.

Proprio nell’istante in cui le dita di Saffie stavano per raggiungere le abbottonature dei pantaloni bianchi dell’uomo, un rumore continuo quanto timoroso irruppe nelle loro orecchie, facendoli sobbalzare. Qualcuno stava bussando timidamente alla porta dello studio e pareva non essere intenzionato ad andarsene troppo presto.

“Siano dannati” sbottò sottovoce Arthur, con voce roca, prima di allontanarsi leggermente dalla figura minuta della moglie e asserire, senza nascondere il suo evidente fastidio: “Da quando in qua nessuno ascolta più i miei ordini, su questa nave?”

“Vi chiedo perdono, Eccellenza” rispose la voce contrita da dietro la porta, che apparteneva ovviamente al seccante e pomposo James Chapman. “Ma penso voleste sapere che siamo ormai addosso alla Mad Veteran. Appena un giorno di vantaggio.”

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

Saffie lo vide subito, il cambiamento inquietante nell’espressione dell’Ammiraglio Worthington: I lineamenti nobili e raffinati del suo volto si incurvarono fino a formare un ghigno di soddisfazione brutale, malvagia attesa. Lo sguardo tagliente di un predatore che sta per azzannare la preda.

“Proprio il momento che stavo aspettando con tanta ansia” commentò l’uomo, sorridendo impercettibilmente.

Fu come se l’Arthur protettivo e gentile degli ultimi giorni fosse stato spazzato via in meno di un secondo, sostituito dal Generale Implacabile che tutti conoscevano e ammiravano, ciechi però di fronte alla crudeltà che s’accompagnava alle sue brillanti conquiste, ai massacri sanguinosi che precedevano i suoi successi.

All’oscura ambizione che tutto inghiottiva, consumando Worthington stesso.

“Quali sono le direttive, Ammiraglio?”

“Dite a McCavoy di lasciare al capitano Inrving il comando della nave” fece monocorde l’interessato, voltandosi a fissare negli occhi una preoccupata Duchessina di Lynwood. “Io lo raggiungerò a breve.”

“Come desiderate, signore” commentò con solerzia James che, memore dello spiacevole incontro avuto poco prima con Arthur, decise saggiamente di dileguarsi sul ponte di comando senza aggiungere una sillaba in più del dovuto.

“È la stessa nave che ci ha attaccato, non è vero?” chiese Saffie, abbassando lo sguardo castano sulle rifiniture eleganti della sua uniforme dorata. Allungò lentamente una mano e cominciò ad accarezzarle con cautela, come se volesse in realtà studiarle; cercava di nascondere la sua ansia crescente, di parere a Worthington disinteressata e calma.

“Sì” ammise Arthur, osservando i movimenti delle dita piccole della ragazza con freddo distacco. “Non poteva sfuggirmi tanto a lungo.”

Due occhi grandi e perplessi si alzarono di scatto sui suoi, ed erano tanto profondi da affogarci dentro. “E cosa farai, una volta che l’avrai raggiunta?” domandò ancora la Duchessina, fermando la mano sulle larghe spalline dell’Ammiraglio, vicina al suo viso, ma altrettanto timorosa nel toccarlo nuovamente.

“Non siete obbligato a farlo.”

Un’espressione di disarmante malinconia attraversò veloce il volto di Arthur, pure se si trattò solo di un istante. L’uomo passò un’ultima volta la mano fra i capelli sciolti della moglie, godendosi la visione delle sue umide labbra schiuse, del suo sguardo ancora troppo ingenuo…che non sapeva nulla. “Quello che deve essere fatto” le rispose infine, trincerandosi dietro al suo consueto orgoglio e staccandosi da lei definitivamente.

Non si voltò indietro, né Saffie cercò di trattenerlo e questo, in un certo qual modo, gli provocò una sensazione di delusione tanto inusuale, che lui rifiutò di pensarci seriamente. A che sarebbe servito?

Lei era l’elemento al di fuori dalla perfetta cornice.

Uscì allo scoperto, sul ponte sopracoperta gremito di gente indaffarata e respirò a pieni polmoni l’aria fresca e pungente della sera, cercando di dimenticare che era stato a un passo dal possedere Saffie, farla sua per davvero.

E che vantaggio mi promettete, in cambio?

Oh, figliolo. Vedi, ho appena stretto un patto davvero interessante: è ora di negoziare un’unione a noi favorevole.”

Il senso di colpa si insinuò infimo nelle sue viscere e Arthur non poté fare a meno di sentirsi un disgustoso bastardo.



§



La battaglia incombeva su tutti loro, Saffie Worthington ne era questa volta dolorosamente consapevole.

Lei e Keeran stavano passando la serata come la consuetudine sociale richiedeva alle giovani signorine di fare: sedute l’una di fronte all’altra, le due graziose dame ricamavano in silenzio e assorta concentrazione. O, per lo meno, stavano cercando di metterci tutto l’impegno possibile perché, ovviamente, erano ben altri i pensieri che si affollavano nelle menti di entrambe.

Erano ormai passate diversi giorni da quando l’irlandese si era offerta di insegnare alla padroncina la delicata arte del cucito – attività nella quale la Duchessina si era sempre calata senza troppo entusiasmo – ma ancora Saffie faceva fatica a mettere insieme due punti senza pungersi le dita. Anche quella sera, quindi, la diciassettenne aveva consumato insieme a lei la cena in cabina e aveva poi timidamente proposto di riprendere le loro lezioni di ricamo, riempendo di gratitudine l’animo della signora Worthington.

Saffie sapeva che la sua domestica si era lanciata in quest’idea del cucito perché desiderava sdebitarsi in una qualche maniera per tutto l’aiuto che le era stato fornito in quei mesi ma, ugualmente, era una distrazione come un’altra, utile a distogliere l’attenzione su ciò che le turbava per davvero.

Tra le due ragazze non volava nemmeno una mosca e questo era forse il segnale più evidente di una serata destinata a non essere come tutte le altre perché, a prescindere dall’attività in cui erano impegnate, il chiacchiericcio era sempre stato una costante fra le due: la Duchessina era la fonte degli argomenti e delle risate, mentre Keeran ascoltava assorta e rispondeva infine con le sue timide affermazioni.

C’era qualcosa…un presentimento opprimente.

In quei giorni, Keeran non era riuscita a stare insieme alla sua padroncina tanto quanto avrebbe voluto, visto che quest’ultima sembrava esser stata assorbita da Arthur Worthington e dall’urgenza di assisterlo nel suo percorso di guarigione; la diciassettenne non comprendeva chiaramente come Saffie potesse stare accanto ad una persona che aveva dimostrato di odiare, e che reciprocamente non voleva avere niente a che fare con lei.

L’irlandese si rese conto di non sapere praticamente nulla del passato della Duchessina di Lynwood, se si escludeva la morte prematura dell’amata sorella Amandine. Solo di una triste realtà era ormai praticamente certa: il matrimonio fra la signora e l’Ammiraglio non era stato altro se non l’ennesimo concordato tra famiglie potenti, il classico contratto imprescindibile che garantiva vantaggi e sacrificava la felicità degli individui.

Le iridi nere di Keeran scivolarono lentamente sulla ragazza seduta a nemmeno un metro da lei e le lanciarono una segreta occhiata: dolcemente illuminata dalla luce soffusa delle candele accese, Saffie tentava goffamente di ricamare un centrino tutto storto, mentre una strana espressione di assorto imbarazzo non accennava ad abbandonare il suo viso tanto rosso quanto quello di una ciliegia matura. Di nuovo, un sentimento sgradevole si contorse nello stomaco della diciassettenne e quest’ultima comprese subito che qualcosa doveva essere accaduto tra la sua padroncina e il Generale Implacabile.

“Lui non ce la farà. Se desiderate illudervi, fate pure; ma sappiate che ciò vi porterà solamente sofferenza.”

Keeran abbassò lo sguardo sulle sue mani pallide, stette attorno ai ferri dorati. Si odiò per aver richiamato alla memoria le parole che l’arrogante tenente Chapman le aveva dedicato una settimana prima, perché in effetti Douglas non accennava a migliorare, mentre Arthur Worthington già aveva ricominciato a terrorizzare la gente sopracoperta come se nulla fosse accaduto.

“Eppure, sono così felice di avervi potuto incontrare, dopo aver sofferto per una vita intera…”

Perché deve essere tutto così ingiusto?

E ora le avevano costrette a starsene rinchiuse negli alloggi della Duchessina fino a contrordine. Come Saffie, pure l’irlandese sapeva che il giorno dopo ci sarebbe stata l’ultima battaglia, quella che avrebbe condannato a morte certa la Mad Veteran, garantendo a tutti loro di poter finalmente arrivare a Kingston senza altri impedimenti di sorta; ed era anche consapevole del turbamento presente nell’anima della sua padrona, ma qualcosa di indefinito sembrava impedirle di indagare oltre. “Non è tenuta a mettermi a parte dei suoi sentimenti” pensò la domestica, con amarezza. “È più grande di me e io sono di sua proprietà e…e comunque non mi avrebbe raccontato nulla in ogni caso.”

“Sei come una grossa oca che vaga senza padrone: né bella, né intelligente.”

Nel medesimo istante in cui la pendola scoccò le undici di sera, un visitatore inaspettato bussò alla porta. Sorprese, le due ragazze si voltarono in direzione dell’uscio della camera contemporaneamente e uno strano brivido scorse lungo la loro spina dorsale.

“Sì?” fece solamente Saffie, sgranando gli occhi castani come una bambina spaventata.

La porta si aprì un poco e la testa bionda di Benjamin Rochester fece capolino, rivelando ad entrambe un viso esausto ed altrettanto combattuto. Triste.

“Mi dispiace disturbarvi a quest’ora, ma ho pensato fosse giusto informarvi” cominciò a dire, a bassa voce. I suoi occhi neri si sollevarono su quelli dell’irlandese ed egli la guardò con un dispiacere che le trafisse il cuore. “Douglas Jackson è morto.”




Angolo dell’autrice:

IMPORTANTE! Giusto due piccole precisazioni, prima di salutarvi: no, non ho intenzione di trasformare questo Romance storico in una storia alla Pirati dei Caraibi (per quanto io AMI alla follia la saga cinematografica), quindi non vedrete mai Saffie duellare con strane creature marine in cima al pennone dell’albero maestro di una nave. In ultimo, quest’ultima rivelazione finale è l’esatto motivo per cui non ho mai portato troppo a fondo la caratterizzazione del povero Douglas, che è sempre rimasto sulla superficie.

Ora! A noi! :D

Buongiorno e Buona Domenica!

Sono riuscita a pubblicare entro la settimana, visto?

Un po’all’ultimo, lo so. (T.T) Scusatemi, ma volevo sistemare alcune cose!

Per quanto io sia l’autrice, mi dispiace molto per Douglas Jackson: la vita non è mai giusta tanto quanto vorremmo, ed è ironico il fato che infine ha unito lui e Shaoul Brown. Vittima e persecutore, eppure entrambi sacrificati di fronte all’altare della battaglia, del potere...no, Keeran ha ragione: come può tutto questo essere giusto?

Passando ad argomenti più allegri…

Voglio ringraziare tutti voi! Un grazie enorme a chi ha speso un po’del suo tempo per recensirmi, a chi ha votato la mia storia, ma pure a coloro che l’hanno aggiunta nelle loro letture/seguite/preferite ecc. Mi date un sacco di forza!

Quindi, grazie sia a chi mi segue su Efp che su Wattpad! \(*w*)/

Sono felice di aver potuto approfondire James Chapman, questo odioso e insicuro tenente!

E che mi dite di Saffie e Arthur?

L’ambiguità del loro rapporto è sicuramente uno dei cardini centrali dell’intera storia, quindi finalmente l’attrazione tormentata che provano è riuscita a fare breccia! Sarebbe bello poter scrivere un bel “Fine, vissero tutti felici e contenti” a breve, ma chi ci crede!

Io no (^.^)”

Credo ci sia ancora troppa carne al fuoco e, di certo, se c’è qualcuno che non è onesto con sé stesso e con l’altra persona…beh, questi penso siano proprio i nostri due protagonisti!

Vi va di farmi sapere che ne pensate del capitolo? Io ne sono sempre molto felice! :D

Vi abbraccio forte, forte!

Sweet Pink

P.S: Direi che avrete mie notizie nel mese di Febbraio! :)

P.P.S: Sto molto meglio di salute! Questo per rispondere e ringraziare coloro che mi hanno scritto! Thanks!

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Capitolo 12
*** Undicesimo. Cieli stellati e storie lontane. ***


CAPITOLO UNDICESIMO

CIELI STELLATI E STORIE LONTANE





Benjamin Rochester sussurrò quelle ultime parole ed esse parvero echeggiare in tutta la stanza, prima che quest’ultima sprofondasse in un pesante silenzio raggelato. L’opprimente presentimento che da diverse ore sembrava pesare sulle teste di Keeran e Saffie divenne ora una tremenda rivelazione, una aberrante realtà che si palesò cristallina davanti ai loro occhi spalancati.

Douglas Jackson è morto.

Senza nemmeno respirare, Saffie voltò lentamente la testa castana in direzione della sua dama di compagnia e fu l’istante in cui tutto rallentò in maniera esasperante: il cuore della Duchessina si strinse dal dolore e dalla paura, poiché riuscì a vedere distintamente i graziosi lineamenti dell’irlandese contrarsi in una smorfia di sofferenza infinita; i suoi occhi nero pece – sempre così brillanti – si persero in due enormi ovali bianchi, risultando in questo modo nient’altro che puntini miseri e opachi. Il tempo stesso parve fermarsi in un lungo secondo infinito, decretando l’attimo in cui entrambe si resero conto che lui era morto per davvero, per quanto la loro mente rifiutasse irrazionalmente di crederci.

Saffie cercò di combattere contro il presentimento di pianto imminente e si azzardò a parlare per prima, le iridi lucide che si rifiutavano di abbandonare la figura tremante della sua domestica. “Keeran, io…”

“Perdonatemi, signora.”

Eppure, in tutti quei mesi, niente avrebbe potuto farle prevedere la reazione della ragazza seduta al suo fianco: Keeran si era alzata in piedi di scatto e non solo aveva lasciato cadere a terra i suoi ferri dorati con mala grazia, ma aveva osato interromperla senza alcun balbettio di sorta, articolando quell’unica frase con un tono sì tremolante, ma dalla terribile determinazione rabbiosa. E ancora, la diciassettenne non accennava a voltarsi verso la sua padrona, ma nascose il paffuto viso dietro a lunghe onde di nero inchiostro, nascondendosi alla vista delle persone attorno a lei.

Non ditelo. Non usate le vostre solite parole di compassione gentile.

Forse, in fondo, fu un bene per Saffie non poter vedere l’espressione di distruttivo dolore dipintasi sul volto bianco di Keeran o ne sarebbe rimasta sconvolta e ferita più di tutto il resto.

Hanno detto che sono nata per portare disgrazia e morte, poiché tutti gli illegittimi sono dannati.

Chapman aveva ragione. Tutti, alla fine, hanno sempre avuto ragione.

“Io…perdonatemi” ripeté in maniera confusa, stringendo i piccoli pugni con forza, fino a farsi male. “Perdonatemi.”

Aveva creduto di potersi illudere, e ora ne pagava le giuste conseguenze.

La signora Worthington non comprese immediatamente il significato delle sue parole stravolte ma, senza dubbio alcuno, ebbe occasione di avere chiarezza non appena vide la morbida sagoma della diciassettenne scattare in direzione della porta quasi ne andasse della sua stessa vita. Il cuore cominciò a martellare spaventato nel petto di Saffie ed ella si alzò subito in piedi, seguendo con lo sguardo esterrefatto un impassibile signor Rochester farsi da parte, lasciando così a Keeran campo libero per poter proseguire nella sua fuga.

“Keeran!” chiamò quindi la ragazza castana, il tono tinto di bruciante preoccupazione. Le sue gambe si mossero in automatico e lei si trovò sull’uscio della stanza in un attimo, la mano protesa in direzione delle spalle dell’irlandese che, come se si fosse trasformata in un etereo fantasma, continuava a scomparire nella tenue oscurità del corridoio. “Keeran aspetta! Torna indietro!”

In ultimo, furono i capelli corvini della ragazza a svanire.

Saffie udì il cigolio delle porte che davano direttamente sul ponte sopracoperta aprirsi e poi rinchiudersi con un rumore secco, definitivo; infine, fu il silenzio a calare nuovamente su di lei. Una muta assenza di suono che le fece capire quanto, in quei giorni, avesse ignorato i sentimenti della sua stessa domestica: Keeran aveva tradito tutti i suoi diciassette anni ed era scappata via, pure se doveva essere ben consapevole della gravità e delle conseguenze che il suo gesto poteva provocare. “Non ha nemmeno dato ascolto ai miei ordini” considerò la Duchessina, appoggiando una mano sullo stipite della porta e indagando con gli occhi il buio circostante. “Le avevo promesso di esserle amica, ma sono stata una perfetta sciocca.”

Avresti dovuto accorgerti della sua sofferenza, ma hai pensato solo ad Arthur Worthington.

Un allucinante senso di colpa si fece sentire dentro alla sua anima e la ragazza fece per muovere un passo in avanti, pronta ad uscire dalla stanza e lanciarsi all’inseguimento dell’irlandese che – si disse – di sicuro aveva bisogno di lei e del suo supporto. Inoltre, non doveva dimenticare che era stato impartito ad entrambe l’ordine di starsene rinchiuse in cabina, vista la battaglia che disgraziatamente si profilava all’orizzonte!

“Sto arrivando, amica mia” pensò Saffie, cercando di afferrare una manciata di determinazione e coraggio perduti; avrebbe voluto anche lei poter condividere il suo dolore per la morte del povero Douglas, ma sapeva di non essere nella posizione per concedersi un lusso simile. Era Keeran, in quel momento, ad aver bisogno del suo aiuto e conforto.

Dal nulla, una mano leggera e gentile si posò sulla sua esile spalla con tenerezza, facendola sussultare dallo spavento. Voltandosi, la Duchessina ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte a Benjamin Rochester: l’uomo era intento a guardarla con un’espressione di gentilezza stampata sul suo giovane viso attraente e Saffie si rese conto di essersi totalmente scordata della sua presenza, tanto il suo bisogno di raggiungere la diciassettenne era urgente.

“Lasciatela andare” le mormorò pacato, come se le stesse comunicando un affare da nulla. “Il ponte sopracoperta è ben pattugliato dagli Ufficiali di guardia e la ragazza ha bisogno di un momento di solitudine. Sarà al sicuro.”

“Ne siete certo?” chiese ingenuamente la signora Worthington, alzando due occhi grandi e tormentati su di lui.

Il medico di bordo si concesse un leggero sospiro e le sue labbra si sollevarono leggermente, donando ai suoi lineamenti delicati un’aria di laconica ironia. “All’inizio della traversata avrei potuto rispondervi piuttosto negativamente, ma avete guadagnato il rispetto degli uomini dell’Atlantic Stinger” asserì monocorde, spostando lo sguardo scuro sull’interno della camera, prima di aggiungere: “Pure se, sopra tutto, è l’ira del famoso Generale Implacabile ciò che più temono.”

“… poiché io non sono uomo da concedere alcuna pietà.”

Come un fulmine a ciel sereno, Saffie ricordò il corpo imponente dell’Ammiraglio incombere su di lei, mentre decideva di conquistare le sue labbra schiuse con una bocca famelica e crudele, pericolosa. Le gote della ragazza si imporporarono con violenza perché, per quanto fossero passate diverse ore da quando aveva lasciato lo studio di Arthur, ancora il tocco malizioso della sua lingua non accennava ad abbandonare la sua memoria; anzi, poteva quasi dire di non essere riuscita a pensare ad altro in tutto quel tempo.

Gli occhi lucidi di Saffie si abbassarono sulle assi del pavimento, mentre la sua stessa piccola mano andava inconsciamente a posarsi sulla spalla sinistra. Le dita scivolarono sopra al ricco tessuto della veste da camera, i polpastrelli tesi a sfiorare il punto esatto in cui lui aveva deciso di marchiarla.

“Tu sei mia, adesso.”

Faceva male…e non solo fisicamente.

Cos’è questa nuova sofferenza, che non riesco a comprendere?

Era un pensiero scomodo e doloroso, su cui Saffie non desiderava soffermarsi troppo, poiché temeva più di ogni altra cosa la risposta che avrebbe potuto farsi sentire dentro alla sua anima; una consapevolezza impossibile, che lei non sarebbe stata in grado di affrontare. Gli avvenimenti delle due settimane passate si erano susseguiti in maniera così repentina, che lei stessa non poteva dice con certezza quando esattamente avesse lasciato spazio a impulsi e pensieri vergognosi. A sentimenti che non avevano diritto di essere.

Continui a chiedertelo, ma la verità è che conosci già da parecchio tempo la risposta.

“…imparerai ad apprezzare l’uomo al tuo fianco e, chissà, potresti perfino innamorartene.”

Da più di quanto tu stessa voglia ammettere.

Una morsa di terribile paura si strinse attorno al suo cuore e la ragazza fu preda di un istintivo rifiuto, ostinata negazione. “No. No, questo non accadrà mai” pensò con vera e propria disperazione, trovando in Benjamin Rochester la sua ancora di salvezza: il medico di bordo stringeva infatti fra le lunghe dita pallide un volume consumato che Saffie poteva dire di conoscere molto bene; e quasi la Duchessina si stupì di non averlo notato prima.

“Questo libro…” cominciò quindi lei a voce bassa, scacciando dalla sua mente la figura imponente di Arthur Worthington e dalla sua pelle i brividi freddi che avevano cominciato a torturarla. “Questo libro è una raccolta di poesie: si tratta de I Sonetti di Shakespeare.”

Come soleva fare il figlio, Benjamin annuì una volta sola e sollevò il braccio, per darle modo di osservare meglio tutti i dettagli della copertina, ora illuminata dalla luce soffusa proveniente dalla camera di Saffie. “È esatto. L’ho portato per la signorina Byrne, a dire il vero: la vostra serva non faceva altro che leggere per il mio paziente e, in particolare, era proprio questa l’opera prediletta. Ho pensato potesse farle piacere averla per sé” spiegò il medico, osservando con due malinconici occhi neri il volto avvolto nella penombra della Duchessina di Lynwood. Un breve silenzio seguì le sue affermazioni ed egli decise poi di aggiungere, sfoderando un sorriso che poco o niente aveva a che fare con l’allegria: “Quella ragazzina mi ha ricordato qualcuno che ho conosciuto.”

Saffie sorrise a sua volta, di nostalgica tristezza, e si volse verso l’interno della sua stanza, entrandovi lentamente. “Posso dire di comprendere perfettamente le vostre parole” commentò cupamente, prima di lasciarsi cadere sulla sua sedia con una strana stanchezza; aspettò di vedere la sagoma dinoccolata del medico avvicinarsi a lei e recitò, senza nemmeno conoscerne la ragione: “Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; è la stella-guida di ogni sperduta barca, il cui valore è sconosciuto…”

“…benché nota la distanza” continuò Benjamin, abbassando il capo biondo cenere. Il medico di bordo non fece caso alle ciocche di lisci capelli che, sfuggendo dal suo codino basso, andarono per un attimo a nascondere il suo viso bianco e poggiò con delicatezza il libro sul tavolino più vicino, proprio accanto ai primi falliti tentativi di ricamo di Saffie. “Potrei recitarvi l’intero sonetto a memoria” le disse infine, con una strana ironia, senza alzare lo sguardo dalla copertina usurata del libro. “Pure se non dovrebbe stupirmi vedervi a conoscenza di questa poesia.”

In tutta risposta, Saffie si strinse nelle spalle e lasciò le sue iridi castane libere di indagare il posto vuoto di fronte a lei, lasciato da una sconvolta Keeran in fuga.

“Sorella mia, leggilo un’ultima volta, te ne prego! Solo un’altra volta!”

“È perché erano i suoi preferiti” gli disse, in tono vago e assente. Il suo volto triste fu di nuovo sul signor Rochester ed ella fu fulminata da due fermi occhi di tenebra, che quasi parevano brillare dietro una sobria montatura sottile. Uno strano brivido premonitore la colse, ma non riuscì a spiegarsene affatto il significato. “Mia sorella Amandine era innamorata dei sonetti di Shakespeare.”

Non poté sbagliarsi: Saffie colse al volo l'espressione di fredda e nascosta sofferenza che attraversò Benjamin, come non poté fare a meno di notare che l’uomo si era irrigidito leggermente e aveva chiuso le mani a pugno, dal nervoso. Ma fu un istante; alla ragazza bastò sbattere le palpebre una volta per ritrovarsi di fronte il solito signor Rochester, trincerato dietro al consueto atteggiamento di educata gentilezza.

E alla Duchessina venne in mente la collera a malapena repressa che l’aveva colto dieci giorni prima, quando era venuto in soccorso di un Ammiraglio Worthington in preda ai deliri dovuti dalla febbre alta. Uno strano sentimento di opprimente premonizione si agitò di nuovo dentro di lei poiché, si disse, c’era un qualcosa di indefinito che continuava a scapparle dalle dita.

“Dovevate volerle molto bene, non è vero?” chiese il medico, sorridendo appena.

“La adoravo. Forse tenevo a lei più di quanto non facessi con la mia stessa vita” ammise subito la ragazza, senza alcuna esitazione. Le sue piccole dita si andarono a stringere le une con le altre, per non tradire alcun nervosismo, mentre le sue stesse labbra decidevano di articolare l’unica verità che – in tutti quei mesi – non aveva avuto il coraggio di rivelare ad anima viva: “Sapete, doveva esserci lei al mio posto. Era destinata ad essere la moglie di Arthur Worthington e andare via insieme a lui; ed era così felice di poter dirsi finalmente libera da nostro padre…ma poi, poi è successo” sussurrò, abbassando il capo castano e vergognandosi, sentendosi maledettamente in colpa. “Vi chiedo scusa, signor Rochester; non so perché vi sto dicendo queste cose così tristi.”

Non che serva a ripulirti la coscienza, vero?

Nessuna risposta giunse dall’uomo che le stava davanti e la ragazza pensò di aver oltrepassato il segno, di essersi lasciata andare ad uno sproloquio disdicevole e scandaloso proprio di fronte ad un uomo che aveva dimostrato di conoscere il suo odiato marito da molti anni. Saffie stava quasi per scusarsi di nuovo, ma un tocco gentile le tolse qualsiasi parola di bocca: Benjamin aveva posato con dolcezza una mano sulla sua chioma morbida, come volesse darle una sorta di pallido conforto.

“Non avete nulla di cui scusarvi con me” lo sentì dire con un tono strano, vibrante di un sentimento che lei non riuscì ad identificare; inoltre, le sue dita aggraziate sembravano tremare leggermente, dalla tensione. “So per esperienza quanto le famiglie potenti forgino attorno ai loro figli soffocanti catene.”

“…la mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Proprio così.

Il calore trasmesso dalle dita del medico di bordo sparì non appena le sue dita scivolarono lontano dalla ragazza, per ricadere inermi lungo il fianco dell’uomo. “So che sarete indulgente con la signorina Byrne” aggiunse, cambiando tono di voce e tornando alla pacatezza per cui era conosciuto da ogni membro dell’equipaggio. “Ma, se ci tenente così tanto ad essere sua amica, allora dovete essere la prima a fidarvi di lei.”

“Ve l’ho de-detto, signora. Io sarò sempre serva vostra.”

La Duchessina sgranò tanto d’occhi di fronte alla perspicacia di Benjamin Rochester e alzò il viso di scatto, sorpresa. Lo vide darle le spalle e avviarsi in direzione della porta con noncuranza, l’alta figura snella che non lasciava intendere alcun tipo di turbamento; e Saffie allora sorrise, piena di calda gratitudine. “Io…grazie” gli disse solo, fissando la sua schiena allontanarsi.

L’uomo alzò appena una mano diafana, senza accennare a voltarsi verso di lei. “Non dovete neppure ringraziarmi” asserì. “Ora, sono costretto a prendere congedo da voi, signora: è molto tardi e sono sicuro di trovare quel piccolo sconsiderato di mio figlio fin troppo sveglio. Non si direbbe, ma ha solo cinque anni.”

Di nuovo, la ragazza ebbe modo di stupirsi delle parole del signor Rochester: era vero, di quei tempi innumerevoli vascelli potevano contare a bordo la presenza di bambini piccoli – i cosiddetti Ragazzi di bordo – che venivano usati per incarichi di bassa manovalanza, mentre lei stessa si era immediatamente accorta di quanto Ben dimostrasse di essere più maturo di quanto effettivamente fosse; eppure, venire a conoscenza dell’età del figlio del medico le provocò comunque un certo sbalordimento.

“Davvero? Cinque anni?”

“Vivere in un ambiente come questo significa essere obbligati a crescere in fretta. Quel bambino ha dovuto sopportare dispiaceri e fatiche che diversi suoi coetanei non affronteranno mai” le rispose Benjamin, fermandosi sulla soglia e voltandosi indietro, lanciandole infine uno sguardo costituito di una tristezza disarmante e infinita. “Inoltre, anche sua madre era parecchio alta, quasi quanto lo sono io.”



§



Le acque scure e grumose schiumavano sotto i suoi piedi, spaventose e implacabili. Si trattava di un liquido all’apparenza torbido, che andava a scontrarsi rumorosamente contro l’enorme scafo dell’Atlantic Stinger, ora lanciata a tutta velocità in direzione di una nera sagoma immersa nell’oscurità.

Hanno sempre avuto ragione, in fin dei conti.

Dietro alle sue spalle, la luce opaca di qualche rara lanterna illuminava a malapena lo sparuto viavai di marinai e Ufficiali di guardia che cercavano di adempiere al loro mestiere nel silenzio più assoluto, seppure i loro lineamenti immobili tradissero in una qualche maniera lo stato d’animo comune: il conflitto con la Mad Veteran sarebbe avvenuto con tutta probabilità in mattinata ma – per quanto l’equipaggio dovesse essere avvezzo a situazioni del genere – il massacro compiuto dieci giorni prima era impresso a fuoco nelle menti di tutti.

Come aveva potuto pensare che le cose sarebbero andate diversamente?

Forse era per questo motivo che a nessuno era venuto in mente di fermarla; d’altronde era stata invisibile agli occhi di chiunque per ben diciassette anni di vita. Non vi era motivo per cui quella notte dovesse in fondo rappresentare un’eccezione, visto che non era cambiato assolutamente niente.

“Lui non ce la farà. Se desiderate illudervi, fate pure; ma sappiate che ciò vi porterà solamente sofferenza.”

Le dita bianco latte strette attorno alle sartie, Keeran Byrne fissava ad occhi spalancati l’oscuro oceano ruggire sotto di lei, misera figura in piedi sul parapetto di una delle navi più temute della Marina di Sua Maestà. Una brezza fresca, quasi fredda, pareva voler prendere a schiaffi il suo bel viso rigato di lacrime, mentre una nuvola di soffici capelli corvini s’agitava tutt’attorno a lei, pure se l’irlandese non se ne riusciva a rendere affatto conto. Le sue iridi color carbone erano infatti ipnotizzate dal movimento continuo della lontana onda, parecchi metri sotto la punta delle sue umili scarpette da domestica.

Si chiese cosa sarebbe successo se adesso avesse deciso di buttarsi nell’acqua ghiacciata, come sarebbe stato sprofondare dentro a un vuoto liquido e silenzioso. Non riuscire a sentire più niente.

“…tu sei il nulla.”

Un dolore sordo e persistente si contorceva sotto la sua stessa pelle e si faceva di secondo in secondo più insostenibile, perché era quel genere di sofferenza che lasciava tanto attoniti quanto confusi. Increduli, quasi come se si avesse visto con i propri occhi il cielo cadere.

Ed era uguale al sentimento che aveva provato per l’ultima volta dieci anni orsono, quando la morte le aveva strappato dalle braccia l’amata nonna, l’unica persona che si fosse mai interessata per davvero al suo interesse. Dopo, la sua esistenza non aveva più potuto chiamarsi tale.

“…ma, anzi, penso sia stupendo che tua nonna te la cantasse per farti addormentare.”

Lo sguardo pieno di rispetto di Saffie si palesò davanti ai suoi occhi, emergendo crudele dall’acqua nera. “Io mi sono illusa di poter diventare simile a lei” pensò Keeran, mordendosi il labbro inferiore con forza. “Perché deve essere tutto così ingiusto?”

Anche mio padre è un nobile, ma mi ha rifiutato come se non valessi niente.

La presa delle sue dita morbide sulle corde si allentò leggermente, al passo del richiamo delle onde sotto di lei che invece sembrava divenire di secondo in secondo più assordante. Un suono che la invitava a tuffarsi nell’abisso e non provare più alcun senso di impotenza e nessun dolore; ma, chissà, forse poter raggiungere Douglas, il primo ragazzo di cui si fosse mai innamorata.

Ovvio, le era stato negato pure che potesse sopravvivere e renderla felice; anche se l’irlandese era ben cosciente – dentro di sé – del motivo per cui ciò era accaduto. Avevano sempre avuto tutti perfettamente ragione nell’additarla come la nullità che aveva portato sfortuna intorno a sé: lei era il frutto di un terribile peccato mortale, la conseguenza di un atto che non sarebbe mai dovuto avvenire.

“La tua stessa nascita è una disgrazia.”

Lui era innamorato di mia madre, non di me. E io l’ho uccisa quando sono venuta al mondo.

Perdonami, Saffie” sussurrò Keeran, nella bocca il sapore salato delle lacrime. “Sei stata l’unica amica che io abbia mai avuto.”

E fu con un cuore gonfio di dolore e risentimento che la ragazza chiuse gli occhi fra le palpebre e lasciò la presa dalle funi, muovendo un passo in avanti, sul vuoto.

Ma io sono una delusione, davvero.

Con la stessa velocità di un fulmine, due braccia forti si allacciarono sotto il prosperoso seno dell’irlandese e la strinsero in un abbraccio d’acciaio, allontanandola di peso dal parapetto. Uno squittio sorpreso sfuggì dalle labbra carnose della ragazza ed ella cadde all’indietro, spalancando le iridi su una porzione di incredibile cielo stellato. “Meraviglioso” pensò solo, del tutto irrazionalmente, mentre la sua schiena aderì bruscamente ad una superficie sì solida, ma non tanto quanto si sarebbe aspettata dal pavimento dell’Atlantic Stinger.

“Tu devi essere veramente una stupida!” ringhiò un voce al suo orecchio, il tono vibrante di una collera mortale. “Spostati, pazza.”

Dopo un secondo attonito, Keeran si rese finalmente conto di essere sdraiata sopra al corpo di un certo qualcuno e, come sempre, non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere chi aveva appena parlato. Un piccolo sussulto spaventato la scosse e, senza perder tempo, rotolò di lato, inginocchiandosi sulle assi del ponte e lanciando così uno sguardo sperduto sulla sagoma slanciata di un James Chapman fuori di sé: il tenente la fissava con due iridi glaciali, ed era stranamente in maniche di camicia, trafelato e in disordine. Non portava il suo ridicolo parrucchino da Ufficiale e la diciassettenne poté notare dei cortissimi capelli castani sfiorare appena una fronte pallida e impregnata di sudore freddo.

“…Se desiderate illudervi, fate pure; ma sappiate che ciò vi porterà solamente sofferenza.”

Le iridi oscure della ragazza si abbatterono subito al suolo, offuscate da un lucido velo di lacrime.

“Io…”

Prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa, o tentare di giustificare un gesto che lei stessa non era ben cosciente di aver tentato di compiere, il tocco leggero di cinque dita ruvide la stranì quel tanto da ammutolirla del tutto: James aveva infatti allungato in silenzio una mano verso il viso sconvolto di Keeran, trattenendole appena il mento e, al contempo, obbligandola con dolcezza a voltarsi nella sua direzione.

“No, non si tratta di un livido” commentò sottovoce, in maniera enigmatica, fissando gli occhi metallici sul piccolo alone violaceo che faceva bella mostra di sé sulla guancia dell’irlandese. Il suo sguardo si chiuse poi nella solita fredda superiorità ed andò a scontrarsi con quello sperduto dell’irlandese, impegnata a guardarlo di rimando, le belle labbra schiuse e un’impacciata figura tutta tremante. I suoi lucidi e ricci capelli corvini parevano ribellarsi allo stato stesso della natura, nel loro caotico modo di incorniciare un volto bianco latte, su cui brillavano due straordinarie gemme nere.

Tale ad un angelo caduto, al quale sono state strappate le ali.

“Rimani comunque una pazza” aggiunse il tenente Chapman in tono piatto, parendo in ogni caso sollevato nel vedere illesa la domestica personale della signora Worthington. Il ragazzo passò lentamente il pollice sulla morbida e fredda pelle di quest’ultima, rimuovendo così la misera macchia di sporco che Keeran doveva essersi procurata quando aveva deciso di arrampicarsi sul parapetto della nave. “Credi davvero che lui sarebbe stato felice, nel saperti morta a causa sua?”

“Eppure, sono così felice di avervi potuto incontrare, dopo aver sofferto per una vita intera.”

Come un pesante macigno, fu enorme la vergogna che piombò addosso di una signorina Byrne ancora inginocchiata sul rigido pavimento dell’Atlantic Stinger. Una devastante realizzazione dolorosa esplose nella sua mente all’improvviso e la ragazza sembrò rendersi finalmente conto della realtà che la circondava, della sofferenza provocata dalle dure e umide assi di legno sotto di lei, del suo cuore terrorizzato e della tarda notte oscura; a pochi centimetri di distanza, James Chapman attendeva una sua risposta, osservandola con un’espressione a metà fra la rabbia e l’indignazione stampata sul viso da principe arrogante. Sono stata una perfetta stupida.

“Ti avevo avvertito” asserì freddamente il giovane Ufficiale, ritraendo il braccio e abbandonando il viso dell’irlandese, seppure – non l’avrebbe mai ammesso nemmeno con sé stesso – la tentazione di prolungare quel contatto era vergognosamente grande. “Il mondo a cui io e quel Jackson apparteniamo è una realtà dominata dalla morte, dove nessuna luminosa illusione piò sopravvivere.”

Ed è lo stesso abisso, l’identico fondale, a cui anche Arthur Worthington si è condannato.

Trincerata in un mutismo costituito di diffidenza e disperazione, Keeran guardò James inarcarsi leggermente in avanti e appoggiare le braccia toniche sulle ginocchia, assumendo un’aria da pigro mascalzone che non gli apparteneva per niente; non sembrava affatto lo stesso impettito tenente dell’Impero che, proprio come un cagnolino fedele, seguiva ogni passo del Generale Implacabile. Fra le altre cose, il suo volto era in realtà leggermente abbronzato, cosparso da una leggera spruzzata di lentiggini rossicce e, notò la diciasettenne per la prima volta, i suoi occhi rilucevano di un grigio chiaro incredibile.

Uno sguardo da bambino tanto annoiato quanto solo.

Senza che se ne rendesse conto, le iridi vuote di James scivolarono di nuovo su di lei e sulla sua morbida figura inginocchiata. “Che hai da guardare tanto?” le chiese in tono improvvisamente stizzito, inarcando un sopracciglio scuro. “Mi sono dimostrato così terribile da non meritare nemmeno una tua parola?”

“Oh, ma sapete benissimo di essere una signorina nessuno, non è vero?”

“Sì, lo siete stato” pensò d’impulso Keeran, arrossendo violentemente e abbassando gli occhi neri di scatto, inchiodandoli per la milionesima volta sul pavimento; anche se, in quell’attimo, una serie di sentimenti contrastanti le imperversò dentro e l’irlandese scoprì di avere la voce bloccata in gola, poiché non sapeva cosa e come rispondere all’arrogante tenente Chapman. Era proprio come se fosse tornata indietro al tempo in cui Saffie l’aveva salvata, sottraendola all’inferno in cui si era meritata di stare: imprigionata dentro al suo guscio di paura, non osava allungare le mani e provare a forzarlo, liberarsi. Non osava parlare.

Lui si era dimostrato terribile ma, di certo, non era affatto un ragazzo cattivo.

Se solo fosse bastata questa considerazione a sciogliere le sue inossidabili e tremende diffidenze, allora forse la signorina Byrne sarebbe riuscita a ringraziare come si deve il ragazzo di fronte a lei per averla salvata sia dalle acque scure che da sé stessa. “La mia padrona sarà in ansia” esordì infine, quasi a caso, raggomitolandosi dentro le profondità dal suo guscio spezzato. “Vi chiedo la cor-cortesia di congedarmi, tenente.”

E la ragazza la vide subito, la sorpresa delusione che attraversò per un eterno secondo il viso raffinato di James, prima che quest’ultimo si trincerasse a sua volta dietro un’espressione di sprezzante superbia. “Ah, ma certo: devono essere molti i compiti che vi attendono” commentò glaciale, tornando a rivolgersi a lei con un sorrisetto storto e il formale voi di cortesia; il ragazzo si alzò poi in piedi con uno scatto agile e, senza essere sfiorato dal pensiero di aiutarla ad alzarsi, aggiunse: “D’altronde, siete una serva.”

Ancora due occhi da angelo triste si spalancarono timorosi sui suoi, provocandogli una sgradita fitta di bruciante senso di colpa, nauseante disgusto per sé stesso; malgrado questo, non riuscì a mettere a tacere il rabbioso senso di inadeguatezza e inferiorità che continuava a prendersi crudelmente gioco di lui.

“Piccolo James, ma davvero non hai compreso che così non ti farai mai nessun vero amico?”

L’eco di quelle parole lontane gli arrivò alle orecchie nel medesimo istante in cui egli decise di dare le spalle alla signorina Byrne, di non affrontare più alcuna impotenza o disillusione. Si avviò a grandi passi verso gli alloggi dedicati agli Ufficiali e non si guardò indietro, poiché tanto era più che certo la ragazza non avrebbe provato di nuovo a compiere alcun gesto da folle sciocca. Inoltre, a un ricco tenente dalle nobili origini come lui, cosa poteva interessare della sorte di una plebea qualunque?

“Un Marchese, figuriamoci! Tu, l’ultimo e il più stupido dei miei figli maschi!”

Una smorfia aberrante si dipinse sul volto di James, che alzò gli occhi grigi in tempo per inquadrare la figura altissima di Benjamin Rochester attenderlo sulla soglia delle cabine, mollemente appoggiato allo stipite della porta con una spalla e le braccia lunghe incrociate sul petto. “Devo fare i complimenti all’attenta vigilanza di cui si fanno vanto gli Ufficiali di guardia” scherzò il medico di bordo con un mezzo sorriso. “Fortuna che ho pensato bene di avvertire il letale braccio destro dell’Ammiraglio Worthington.”

“Siete voi il braccio destro dell’Implacabile” lo rimbeccò James, sibilando alla stessa stregua di un inferocito cobra velenoso. “Grazie tante per avermi buttato giù dal letto a quest’ora; mi chiedo cosa vi sia saltato in mente di fare, nel chiamare proprio me, fra quattrocento uomini disponibili.”

Benjamin sorrise con fare vago e misterioso. Aspettò di vedere la figura slanciata di James passargli accanto, prima di lanciargli la giacca blu della sua amata divisa da tenente, che il ragazzo prese al volo. “Oh, non credo il vostro innato talento nel strappare vite altrui sarà in alcun modo toccato da questa faccenda. Domani sarete come nuovo” commentò infine, insensibile allo sguardo omicida di Chapman. “Perché, dalla furia con cui siete corso in aiuto della ragazzina, posso dedurre che qualcuno qui si sia preso una bella cotta.”

“De-desiderate altro?”

Oh sì, desidero molto altro.

Nel buio, il volto da bambino capriccioso di James arrossì con violenza mai vista.

“Andatevene al Diavolo, Rochester!”

Il destinatario di quelle gentili parole sospirò con pazienza infinita e non disse nulla fino a quando non udì le porte degli alloggi chiudersi sonoramente dietro di lui, quasi il tenente Chapman le avesse volute in realtà rompere. “Il cucciolo adottato da Worthington è piuttosto feroce” considerò fra sé, socchiudendo gli occhi nero pece e lasciandosi contemporaneamente sfuggire un ghigno piuttosto ironico. “Pure se non è molto bravo a dare un peso alle parole.”

“Sapete, doveva esserci lei al mio posto.”

Uno strano senso di amarezza e disprezzo risalì la gola di Benjamin a tradimento, facendogli intendere che non sarebbe riuscito a liberarsi tanto presto dell’ossessivo pensiero di cui gli ultimi dieci giorni erano stati costituiti.

“Il suo braccio destro, eh?”

“Era destinata ad essere la moglie di Arthur Worthington e andare via insieme a lui.”

Dai suoi remoti ricordi, emerse la figura di un bambino alto e ossuto, forse più lacero e sporco degli stessi vestiti che indossava. Il dottor Rochester ricordò di essersi nascosto dietro alle possenti gambe di Simeon Worthington, poiché spaventato dallo sguardo vuoto e immobile di colui che l’Ammiraglio aveva presentato all’improvviso in casa.

Benjamin, ti presento mio figlio. Si chiama Arthur” aveva detto l’uomo, con voce profonda e roboante, piena di commosso orgoglio. “Ti ho parlato di lui, ricordi?

E allora Benjamin aveva alzato i grandi occhi neri su colui che, da parecchi anni a quella parte, rappresentava non solo la figura di padre adottivo, ma il suo intero mondo. “Arthur” si era limitato a ripetere piano, aggrappandosi al ricco tessuto dei pantaloni di Simeon con forza. “Il pirata?

Le labbra del medico di bordo si incurvarono leggermente all’insù, al ricordo del suo primo incontro con quel testardo uomo che rispondeva al nome di Arthur Worthington. Eppure, quel giorno, non aveva conosciuto solo lui.

Chapman sbagliava: il dottore non era affatto il suo braccio destro.

Benjamin ricordava di aver avuto un migliore amico capace di sacrificare sé stesso e chiunque altro all’oscura fame che con lui conviveva, e che mai lo lasciava solo.



§



Keeran Byrne bussò timidamente alla porta della stanza che condivideva con la sua padroncina, palesandosi poi sull’uscio illuminato con la stessa faccia di un condannato diretto al patibolo. La ragazza temeva più di ogni altra cosa la reazione della signora Worthington alla sua ricomparsa silenziosa, dopo che aveva non solo infranto qualsiasi regola imposta dall’etichetta, ma – soprattutto – disobbedito agli ordini impartiti: la domestica sapeva fin da subito di essere corsa via come una pazza, ignorando volontariamente i richiami preoccupati di Saffie.

Se solo tu riuscissi a non essere una delusione per tutti.

Malgrado la paura nei confronti della possibile punizione che avrebbe potuto subire per il suo pessimo comportamento, Keeran non riusciva in effetti a mettere a tacere l’insistente voce di James Chapman presente dentro alla sua testa; le parole schiette che il ragazzo le aveva dedicato solo un quarto d’ora prima risuonavano moleste e crudeli, ma dolorosamente vere: si era comportata per davvero come una folle, poiché di certo Douglas non avrebbe mai desiderato nulla del genere e, fra l’altro, cosa sarebbe potuto cambiare con il suo insensato gesto?

Nulla, come sempre. Ma una volta superato quel confine, lo sai, non c’è più modo di tornare indietro.

Con gli occhi grigi di James puntati addosso e un meraviglioso cielo stellato dispiegato sopra la sua testa, Keeran aveva d’un colpo compreso che desiderava ardentemente vivere, pure se la sua era un’esistenza da anatroccolo ripudiato.

Un bizzarro insieme di sollievo e incredulità emerse infine dalle pieghe del suo cuore, mentre era altrettanto strana la realizzazione che derivò da quei due diversi sentimenti: poteva quasi definirsi comico, che proprio l’insopportabile e arrogante tenente Chapman le avesse fatto inconsapevolmente capire questa verità assoluta.

Ti ha tratta in salvo dall’abisso. Non dimenticarlo.

L’irlandese non ebbe il tempo di approfondire la questione, poiché il suo il suo liquido sguardo nero fu attirato dall’unica figura presente nella stanza e un brivido di soggezione parve annullare tutto il resto: la signora Saffie sedeva rigidamente sullo stesso sgabello in cui l’aveva lasciata nelle ore precedenti, la schiena dritta e le piccole mani chiuse in grembo; una cascata di onde castane ricadeva disordinata sul viso esausto della Duchessina, fino ad arrivare a lambire i fianchi sottili, ben fasciati da una tenera veste da notte blu pallido. Gli occhi grandi erano fissi su di lei, pieni però di una quieta serenità che la stranì.

Ed era un angelo irraggiungibile, di cui aveva sempre temuto il luminoso e ridente sguardo.

“Si-signora, io…”cominciò a balbettare l’irlandese, stringendosi nelle solide spalle per darsi coraggio e nel contempo sostenere la vergogna provocata dal solo avere la padroncina seduta davanti. “So-sono stata una per-perfetta scio…”

“Siediti al mio fianco, Keeran.”

L’ordine era stato articolato senza alcuna particolare inflessione di tono, ma il tenue sorriso gentile che si palesò sul viso di Saffie chiarì qualsiasi dubbio all’irlandese: la padrona non sembrava essere mossa da rabbia alcuna, né desiderosa di punirla troppo presto. In ogni caso, la diciassettenne non si sentì abbastanza sicura di poter spiccicare ancora parola, per cui obbedì alla richiesta della signora Worthington senza fiatare.

“Vorrei raccontarti una storia” le disse Saffie con calma, una volta che Keeran ebbe preso posto sulla sedia accanto alla sua; e aspettò di incrociare lo sguardo confuso di quest’ultima, prima di continuare: “Ti andrebbe di ascoltarla?”

Confusa oltre ogni dire, l’irlandese annuì lentamente e, raccolto un pugno di abbondante temerarietà, si decise a chiedere a sua volta: “Di-di che narra?”

Un silenzio strano cadde nella stanza e, per un istante, fu come se un velo di opaca malinconia fosse andato a coprire il piccolo corpo di Saffie Worthington. Alla luce fioca e calda delle candele accese, una tristezza disarmante invase gli occhi e il viso della ragazza che, muta, osservava la sua dama di compagnia con un sguardo di strana ironia dolorosa. “È la mia storia” le rispose infine, e l’ultima parola quasi parve risuonare più alta nella camera.

Sbalorditi, le iridi color pece di Keeran si spalancarono sul viso tormentato della signora Worthington.

“Sai di Amandine e della sua malattia, non è forse così?” cominciò dunque la Duchessina, spostando il viso ovale in direzione della porta chiusa e osservandone il legno con assente interesse. “Ma ancora non sai che non siamo sempre state insieme, malgrado l’affetto reciproco: è esistito un tempo in cui ci…mi sono illusa di poter ottenere la libertà che fin da bambine avevamo sempre sognato.”

Come se qualcuno avesse aperto la nostra detestata gabbia fatta d’oro.

“Parlo dei due anni che ho trascorso a Londra” chiarì Saffie, voltandosi nuovamente verso una signorina Byrne dal fiato sospeso e le tenere labbra socchiuse dalla sorpresa. “Dovevo trovare un marito o, almeno, questo era ciò che i miei genitori si auguravano per me e per il bene del Casato dei Lynwood.”

Un sospiro pesante sfuggì dalle labbra della Duchessina ed ella abbassò il capo castano sulle sue stesse piccole dita, fermamente intrecciate le une con le altre. Non avrebbe mai dimenticato l’immenso senso di liberazione provato quando – per la prima volta – la ricca carrozza di famiglia era finalmente giunta entro i confini della capitale dell’Impero e lei si era sporta coraggiosamente fuori dal finestrino, gli occhi spalancati sul caotico viavai presente in strada; ed il suo viso si era subito aperto in un’espressione di radiosa felicità, perché era stata forte la tentazione di credere che una nuova vita fosse appena incominciata.

Di essersi liberata dalle solide sbarre costruite da suo padre.

Una vita lontana dal Northampton e dall’inconsistente vanità dei Duchi di Lynwood, dal cono d’ombra in cui la malattia di Amandine l’aveva relegata per praticamente la sua intera esistenza, dove a nessuno era mai veramente importato ciò che realmente avesse da dire o le piacesse fare. “Io amavo mia sorella e ne sentivo la mancanza, davvero” spiegò Saffie a bassa voce, senza alzare gli occhi scuri. “Eppure non ho esitato un attimo a buttarmi fra le braccia della Società di Londra, a ricambiare la capricciosa curiosità che il mio arrivo aveva suscitato fra le famiglie nobili della città. Ho partecipato a tanti di quei fastosi ricevimenti che, non ci crederesti, passavo solo due sere a settimana in casa!”

L’eco di una leggera risata divertita aleggiò fra le due ragazze, ma l’espressione di colei che l’aveva prodotta rimase comunque l’incarnazione della nostalgica malinconia. “Ed è stato nella capitale che ho conosciuto lui.”

“Lu-lui?” ripeté perplessa Keeran, sporgendosi leggermente in avanti, come a voler cogliere ogni sfumatura del tono usato dalla padroncina; non aveva bene compreso dove quest’ultima volesse andare a parare con il suo racconto, ma poteva dire di nutrire un bruciante interesse nei confronti di ciò che concerneva il suo passato.

Il visino ovale di Saffie si sollevò di nuovo in direzione del suo e l’irlandese pensò che il sorriso rassegnato della ragazza castana fosse insostenibile da guardare. “Earl Murray” spiegò poco dopo la quest’ultima, annuendo appena. “L’uomo di cui mi sono innamorata.”

Saffie notò in modo vago il piccolo sussulto che colse la sua dama di compagnia e, anzi, si portò inconsciamente una mano a coprirsi la spalla sinistra, poiché – ancora – era l’imponente figura di Arthur Worthington ad infestare la sua mente. O meglio dire la avvelenava, visto che non riusciva più a pensare ad altro.

“Tu sei mia, adesso.”

Si sentiva come se lui fosse infine riuscito a marchiarla per davvero.

“Era il vostro fida-fidanzato?”

“Oh, no!” esclamò immediatamente l’interpellata, scuotendo la scarmigliata chioma castana con forza, prima di abbassare nuovamente il capo. “Come se mio padre avrebbe mai potuto acconsentire ad un legame del genere.”

A pensarci adesso, è stato ridicolo da parte mia pensare che potesse accadere sul serio.

“Come ben saprai, è costume di ogni fanciulla della Buona Società essere accompagnata a qualsiasi evento da uno Chaperon…e la sottoscritta, per certo, non faceva eccezione!” aggiunse ancora, quasi ridendo al ricordo dell’anziano maggiordomo che Alastair le aveva messo alle costole. “Rimpiango siano passati solo sei mesi, prima che il Duca venisse messo a parte della disdicevole abitudine del mio accompagnatore: la serata era iniziata da nemmeno dieci minuti, che già lo si poteva trovare a sonnecchiare su qualche divanetto appartato!”

Uno strano e malcelato grugnito fuoriuscì dalle narici di Keeran ed ella provvide subito a portarsi una mano bianca alla bocca, per nascondere dietro alle dita un leggero ghigno divertito. Pure se, nel profondo, si sentì grata nei confronti della Duchessina: cercare di ignorare il fatto che Douglas non esistesse più era tanto doloroso quanto impossibile, ma il racconto di Saffie serviva allo scopo.

“Povero Gregory!” disse quest’ultima, mentre un smorfia di spigolosa ironia si palesava sul suo volto grazioso. “Ma, probabilmente, sarebbe stato meglio per tutti se mio padre non avesse deciso di sostituirlo.”

E la signora Worthington non poté impedirsi di vedere un paio di timidi occhi neri, incastonati su un volto imbarazzato, ma dalla bellezza onesta e pulita. Una mano grande che andava a posarsi nervosamente sopra una disordinata capigliatura rossiccia, dello stesso colore di una foglia d’Autunno.

Un ragazzo alto e impacciato comparso sulla porta della sua lussuosa residenza cittadina, proprio nel primo giorno di quella fredda stagione.

“Il mio nome è Earl Murray, Vostra Grazia. E…e, ecco, ricopro il ruolo di vostro Chaperon d'ora in avanti. Spero di poter aiutarti…cioè, rendervi adeguatamente onore.”

Saffie sorrise e il suo cuore cominciò a dare i primi segni di esausto cedimento; sentiva che sarebbe crollata a piangere da un momento all’altro, per quanto avesse promesso ad Amandine di non farlo.

Già. Come avevo creduto di non potermene innamorare?

“Earl era a tutti gli effetti un servo alle mie dipendenze, Keeran; proprio come lo sei tu. Sai, suo padre è stato per molti anni uno degli uomini incaricati di occuparsi dei nostri giardini secolari e, in nome della fiducia che il Duca riponeva in lui, è toccato al figlio accollarsi la capricciosa Saffie Lynwood” raccontò la nobile in questione, con il medesimo sguardo assente di chi sta rivivendo qualcosa di scomparso per sempre. “E dire che io e Amandine ci siamo trovate a passargli accanto innumerevoli volte senza accorgercene.”

Un’altra atroce fitta dentro al cuore, pungente come un ago appuntito, e la ragazza ricordò quando lei e sua sorella giocavano a rincorrersi lungo i sentieri del parco di casa, superando con indifferenza l’anonima figura di un ragazzino chino sulle aiuole in fiore.

Perché non ti ho mai guardato prima?

Forse così avremmo avuto più tempo.

“Se la mia vita nella residenza della capitale era comunque sorvegliata da un nutrito stuolo di domestici, ero presente agli eventi mondani e culturali solo grazie alla sola compagnia di Earl Murray, da cui dipendevo in toto” fece Saffie, alzando infine le iridi vuote sulla profondità della camera da letto, senza però riuscire a vedere nulla. I suoi occhi castani erano ormai troppo lontani. “Eravamo praticamente coetanei e trovavo estremamente divertente la sua difficoltà nell’approcciarsi a me con i suoi goffi modi da finto gentiluomo. Forse mio padre aveva pensato che non vi sarebbe stato alcun pericolo, nel mettermi a fianco un ragazzo che lui stesso aveva considerato infinitamente inferiore a me; sebbene l’avesse fatto istruire per poter apparire davanti agli occhi della Società senza essere giudicato come un plebeo qualunque.”

Sì, aveva passato i primi mesi a prenderlo in giro per i rigidi modi ossequiosi con cui continuava a rivolgersi nei suoi confronti, a divertirsi nel cercare di sfuggire al suo timido controllo; sparendo fra la calca danzante di un importante ballo, o in mezzo ad un fitto giardino costituito di fitte siepi ornamentali, ad esempio. Non riusciva ad ammetterlo per bene neanche con sé stessa, ma era in realtà affascinata e al contempo infastidita dall’atteggiamento di pacata pazienza con cui Earl continuava a cercarla, trovandola puntualmente e sorridendole infine come se non fosse accaduto nulla, né lui fosse minimamente turbato dalle sue volontarie fughe.

Il viso di Saffie si accese di un tenue rossore diffuso, ma altri aghi vennero a pugnalare crudelmente il suo cuore spezzato. No, aveva giurato a suo padre che l’avrebbe dimenticato e ad Amandine di non versare più alcuna frivola lacrima.

Ma già sapeva sarebbe stato tutto inutile.

“Non siete un po’troppo sicuro di voi, signore?” ricordò di aver scherzato uno di quei giorni lontani, quasi sbuffando in faccia al suo accompagnatore. “Non vi dimostrate mai preoccupato di potermi perdere per davvero!”

Earl si era fermato di botto, voltandosi poi nella sua direzione con due ridenti occhi di tenebra. “Questo perché so di potervi ritrovare facilmente, signorina Lynwood” aveva commentato in maniera laconica, infilando le mani nelle tasche dei calzoni con fare vago.

“Come ho detto prima, siete fin troppo sicuro di voi stesso. Mi chiedo cosa vi dia tutta questa confidenza!”

Le aveva dette ridendo allegramente, quelle parole. Eppure, era stato con un amaro groppo in gola che si era decisa a girarsi ed aveva ricominciato a camminare sullo scricchiolante sentiero di ghiaia di Hyde Park. In quell’istante, non un suono sembrava fender l’aria, a parte il vento che aveva preso a scuotere le chiome degli alberi con gentilezza.

Dovresti averlo già compreso.

La voce seria di Earl era arrivata dall’alto, come se fosse piovuta dal cielo; ed egli l’aveva afferrata dolcemente per il braccio, attirandola a sé con una strana lentezza ipnotica. “È da me che stai fuggendo, Saffie” le aveva mormorato piano, imprigionandola contro il suo corpo alto e solido.

Poi si era chinato su di lei e l’aveva baciata a lungo, approfittando della quiete solitaria e oziosa del primo pomeriggio.

“Lo amavo così tanto, Keeran” confessò alla fine la Duchessina, il cui tono di voce aveva cominciato a incrinarsi ad ogni parola pronunciata, gli occhi castani lucidi di lacrime. Ella si voltò verso la sua domestica e l’irlandese poté indagare un viso rosso, consumato dal rimorso e dalla sofferenza. “E anche Earl era innamorato di me. Abbiamo mantenuto questo nostro vergognoso segreto – questo sentimento impossibile – per quasi un anno intero…cercando disperatamente di scordare chi eravamo davvero.”

Due mondi a cui non è mai stato concesso di incontrarsi.

Cinque morbide dita si posarono sopra le mani tremanti di Saffie, in un timido gesto di comprensivo conforto. “E…Amandine lo sapeva?” osò chiedere la signorina Byrne, ignorando il fastidioso sapore che si era fatto strada nella sua bocca al nominare l’amata sorella della Duchessina per la prima volta; inoltre, aveva ancora infranto le regole dell’etichetta di rango, ma entrambe non sembrarono curarsene affatto.

“Certo” fu la schietta risposta che ricevette. “Io e Amandine ci tenevamo in contatto tramite innumerevoli lettere e, in generale, ci siamo sempre dette tutto.”

Sul serio?

Perché, lo sai, sull’Ammiraglio non hai fatto altro che mentire.

Un enorme senso di colpa le cadde addosso nel medesimo istante in cui il tanto detestato pianto trovò la strada per fuoriuscire dai suoi occhi e Saffie seppe di essere totalmente impotente di fronte ai suoi disgustosi sentimenti, gli stessi che lei non credeva di avere il diritto di provare: un desiderio e una speranza avevano infatti cominciato a svegliarsi dentro al suo cuore, allontanando l’odio di cui si era scioccamente nutrita in quei mesi. Come poteva lasciare loro il controllo, dopo aver voltato le spalle all’uomo che aveva giurato di amare?

E aver desiderato di essere al posto di Amandine, a cui hai nascosto la verità.

Saffie si strinse nelle spalle, pronta a ricevere il colpo.

Volevi essere tu la sorella amata da Arthur Worthington…fin dal primo momento.

“Poi cos’è accaduto?” si fece strada nella mente la voce flebile di Keeran, la sua ancora di salvezza.

La Duchessina cercò di ripulirsi le guance con il dorso della mano e fece un cenno vago, di finta noncuranza. “Oh, nulla che non avessi potuto prevedere” disse, posando nuovamente le dita in grembo, su quelle fredde dell’irlandese. “Si sa, ogni storia prima o poi giunge al termine.”

Non c’è altro modo. Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.

“Avevo ventitré anni ed ero innamorata, Keeran” continuò la ragazza castana, il tono rotto dal pianto. “Sono stata presuntuosa e stupida, poiché non ho pensato ad altro se non a liberarmi dalla gabbia dorata in cui avevo sempre vissuto. La mia reputazione e quella della mia famiglia, Amandine…no, non ho pensato più a nulla.”

“…la mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Un sospiro pesante, affaticato, e di nuovo Saffie abbassò le iridi liquide sul pavimento di legno lucido. “Era scontato che il Duca lo venisse a scoprire, visto che mio padre è a capo di uno dei casati più antichi di Inghilterra; amicizie influenti e mezzi a disposizione non gli mancano di certo. E, figuriamoci, non avrebbe mai sprecato la sua primogenita così, dandola in sposa al figlio di un giardiniere!”

Sono catene impossibili da spezzare, quelle forgiate dalle famiglie di potere.

Saffie ricordò di aver preparato un misero bagaglio in tutta fretta, di come era riuscita a sgattaiolare fuori dalla sua residenza senza che alcun domestico sospettasse una sua possibile fuga e di quanto si era sentita pervasa di un sentimento di libertà terrificante, una volta arrivata sulla soglia del lussuoso appartamento dei signori Gardiner, benestanti intellettuali e amici, ora complici di averla aiutata nel suo scandaloso piano.

Dopo poco era arrivato anche Earl e le si era subito fatto incontro, abbracciandola con forza, come se non potesse credere alla sua presenza lì…al fatto che Saffie avesse scelto di stare insieme a lui per davvero.

“Farò di te mia moglie, Saffie. Così nessuno potrà né imprigionarti di nuovo, né separarci.”

“Mio padre ha impiegato meno di due giorni per trovare il nostro nascondiglio” concluse la Duchessina, sorridendo con triste e amara ironia. Agli occhi della sua domestica, sembrò quasi che il suo viso grazioso e rosso si fosse adombrato di botto, attraversato da chissà quale emozione crudele. “Deve aver chiesto l’aiuto di qualcuno molto ricco ed influente, ne sono sempre stata convinta.”

Saffie si risparmiò di raccontare a Keeran la parte in cui, quasi scardinando la porta del salotto di casa Gardiner, due impassibili Ufficiali dell’Impero avevano fatto irruzione nella stanza ed erano praticamente saltati addosso ad Earl, bloccandolo poi contro il freddo pavimento di marmo con violenza. Dal buio del corridoio, erano poi sbucate le figure silenziose di un altro Ufficiale e di Kitty, la sua vecchia balia; ed era stato di oscena indignazione lo sguardo con cui gli occhietti dell’anziana domestica l’avevano fulminata.

“No, vi imploro! Non fategli alcun male!”

Trattenuta a malapena dalle rugose mani di Kitty, Saffie aveva urlato quelle parole isteriche al vento, poiché gli Ufficiali avevano evidentemente ricevuto l’incarico di punire Earl Murray per il suo orrendo e scandaloso crimine. No, non avrebbe mai dimenticato l’espressione colma di dolore e preoccupazione con cui il ragazzo l’aveva guardata per l’ultima volta, alzando la testa rossa e scarmigliata di scatto.

“È me che cercate! La figlia di Alastair Lynwood! Earl non ha alcuna colpa!”

Due iridi nere come la notte stessa si erano aperte su di lei, colme di un amore smisurato. “Non avvicinarti, Saffie” aveva sussurrato, incurante del sangue che colava dal suo labbro spaccato. “Devi lasciarmi andare.”

Poi, ricordava solo di essere stata trascinata di peso sul tiro a quattro di suo padre, i cui cavalli neri sbuffavano nervosamente, quasi fossero pure loro ansiosi di portarla via.

“Da allora, non l’ho più rivisto” asserì sottovoce la Duchessina, colma di insopportabile sofferenza.

Le dita paffute di Keeran si strinsero su quelle della ragazza al suo fianco, premendo con delicatezza contro le mani tremanti di quest’ultima. “Mi-mi dispiace veramente tanto, signora” pigolò, sperando di poter essere di un qualche sollievo per lei. “Gra-grazie per avermi raccontato di Earl Murray.”

Un ennesimo sorriso triste e il volto dall’espressione rassegnata di Saffie fu di nuovo visibile, alla luce sempre più fioca delle candele. “Ho pensato a lungo che fosse stata in fondo colpa mia: ho osato desiderare l’impossibile, illudermi di poter cambiare le cose ed essere felice” le spiegò, guardandola di nuovo con la sua solita espressione di empatica gentilezza. “Ero preda di un sentimento distruttivo e, per un istante, ho forse desiderato di essere morta.”

“Credi davvero che lui sarebbe stato felice, nel saperti morta a causa sua?”

Gli occhi neri di Keeran si spalancarono all’improvviso, e lei fu colta di sorpresa dalla fastidiosa voce seria di un James Chapman che – davvero – non accennava ad abbandonare in alcun modo la sua mente. L’irlandese comprese in un fulmineo attimo l’intero discorso della signora Worthington, del perché avesse deciso di sacrificare i suoi ricordi per la sua inutile servetta, abbandonandosi ad un dolore che sapeva sarebbe sicuramente giunto a tormentarla; un’altra rivelazione si svelò nell’anima nascosta della diciassettenne ed ella fu invasa da un caldo quanto benevolo sentimento.

E, per la prima volta, si sentì veramente vicina a Saffie. Uguale a lei.

“Siete stata tan-tanto coraggiosa, in mia opinione” disse la sua Keeran, annuendo fieramente, i riccioli corvini che si allungavano tutt’intorno alla morbida figura. “Io, invece, dovrei so-solo chiedervi perdono per il mio pes-pessimo comportamento.”

“È una notte molto triste per entrambe” glissò la signora Worthington, posandole una piccola mano sulla spalla con fare confidenziale. Infine, le sorrise per l’ultima volta, instancabile. “Cosa ne dici di dormire nel mio enorme e comodo letto da aristocratica, al posto della angusta cuccetta che occupi?”

“Ma, se ci tenente così tanto ad essere sua amica, allora dovete essere la prima a fidarvi di lei.”

Immersa nell’oscurità della camera, Saffie ripensava al consiglio pieno di gentilezza di Benjamin Rochester. La ragazza aveva preso a dormire con sé una Keeran letteralmente distrutta dagli eventi della giornata ed ora le sue iridi sveglie erano intente ad osservare la sagoma nera dell’irlandese ronfare al suo fianco, raggomitolata su sé stessa come un riccio spaventato. “Spero di poterti essere stata di conforto e distrazione, amica mia” pensò la Duchessina, tormentata però da un segreto e pressante pensiero.

Ah, sì? E, dunque, perché non le hai raccontato come è finita realmente la storia?

Le sue dita si aggrapparono al cuscino con forza, come se Saffie avesse deciso di strappare via l’imbottitura di piume. Per assurdo, le venne in mente il sogno fatto due settimane prima e di come Earl Murray fosse riuscito a sfuggire dalle pieghe dei suoi ricordi, confondendosi fra fantasia e realtà: erano stati amanti per un anno, ma non avevano consumato nessuna passione fra le lenzuola di casa Lynwood, né Amandine li aveva mai coperti direttamente.

E Arthur Worthington non aveva ancora stravolto la tua vita.

Il volto esausto di Saffie si nascose nel tessuto profumato e morbido, mentre la proprietaria cercava di frenare il flusso di immagini e suoni che vorticava incessantemente dentro alla sua testa; aveva deciso di scoperchiare un vaso di Pandora e ne doveva affrontare le giuste conseguenze.

come è finita realmente la storia?

“Certo che ho dato ordine di punire quel disgraziato” confermò Alastair, rilassandosi pigramente contro il divano e osservandola con due annoiati occhi castani. “Ecco cosa ci si guadagna a mostrare benevolenza nei confronti dei plebei: diventano irrispettosi e si montano la testa, dimenticando qual è il loro posto nel mondo.”

Un secondo di silenzio pesante e suo padre aveva fatto un lieve cenno nella sua direzione, agitando appena la mano ingioiellata come se volesse congedarla dal salotto vuoto al centro del quale lei si ergeva in piedi, tremante e pallida. “Anche tu continui a dimenticare il tuo posto” continuò il Duca, in tono piatto. “Sei preziosa. La mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Ancora, non aveva trovato coraggio alcuno e si era limitata a fissare l’alta figura del padre con due grandi occhi terrorizzati – stranamente muta di fronte alle sue fredde parole – e aveva compreso solo di essersi rivelata una completa folle, nell’aver creduto di poter spezzare le sue catene d’oro. La gabbia, alla fine, non era mai stata aperta per davvero.

Un sospiro insofferente era infine sfuggito dalle labbra pallide di un Alastair Lynwood a cui, da sempre, era piaciuto mettere alla prova l’intelletto testardo della figlia maggiore; giocare sadicamente con i suoi sentimenti, per forzarla a diventare più simile a lui di quanto avrebbe mai desiderato. “Devo comunque riconoscerti un certo scaltro egoismo, figliola...un lato che certamente devi aver ereditato dal sottoscritto” aveva ammesso, sorridendo appena. “E, per questo, ti concederò una scelta, Saffie: libertà insieme al tuo disgustoso plebeo o Amandine, e la prigionia nel Northampton. Fai attenzione a ciò che deciderai di fare, poiché è in mezzo agli squali che stai nuotando.”

Con il senno di poi, avrebbe dovuto già saperlo come sarebbe andata a finire. Ugualmente, la ragazza aveva alzato la testa castana e aveva osato finalmente chiedere, balbettando: “Mi-mi lascerete decidere?”

Il sorriso da volpe astuta del Duca si era fatto sottile ed inquietante. “Oh, certo” aveva risposto, sporgendosi verso di lei, la lunga parrucca ricciuta che andava a sfiorare la sua splendente giacca rosso sangue. “Lascerò che tu parta insieme a Earl Murray e non sentirai mai più parlare del tuo malvagio vecchio. Eppure, mi chiedo, potrai sopportarne le conseguenze?”

Due iridi luminose e pene di lacrime si erano aperte su quelle di Alastair Lynwood, ed erano tanto identiche quanto paradossalmente diverse.

“Perderai tutto. Non sarai chiamata con il mio nome e mi assicurerò personalmente che tu non venga ricevuta in Società; verrai ripudiata ed allontanata dalla tua cerchia di amicizie e, ovviamente, dovrai dire addio alle frivole passioni di cui vai tanto fiera” aveva sentenziato suo padre, inchiodando due taglienti occhi castani sulla primogenita. “Sarai costretta a vivere nella miseria del proletariato e chinerai il capo tutta la vita, perché è questo il mondo a cui appartiene Murray. Non vedrai mai più Amandine.”

Ignorando il leggero russare di Keeran in sottofondo, Saffie continuò a premere il viso rigato di lacrime contro il cuscino, combattendo un senso di colpa immenso e letale. Un dolore insostenibile premeva contro la sua cassa toracica, bruciandogli nel petto e rendendole faticoso persino l’atto di pensare, poiché in effetti era solo una, la frase che rimbalzava dentro alla sua anima ferita.

Non è chi ha niente da perdere, ma chi vuole sopravvivere, che vince sempre.

“Era forse una falsa scelta, ma sono stata io a decidere. Ad abbandonare Earl” pensò la ragazza, facendosi volontariamente del male. Di fronte alla prospettiva di perdere Amandine, di dover vivere un’intera vita senza la possibilità di poter dedicarsi ai suoi interessi, l’amore provato da Saffie aveva vacillato e lei stessa si era odiata immensamente, poiché aveva compreso subito quale sarebbe stata la sua risposta. Ed era stato disgustoso da parte sua, sciocca ventitreenne viziata, avvinghiarsi con le unghie e con i denti alla comoda esistenza da Duchessina che fino ad allora aveva vissuto.

La verità è che anche io sono un’eccellente bugiarda, tanto quanto lo è Worthington.

Saffie si rannicchiò in posizione fetale, abbracciando stretto il suo stesso piccolo corpo tremante di sofferenza. L’aberrante sentimento che credeva di essersi lasciata alle spalle riemerse dentro di lei a tradimento e, in un attimo, la ragazza capì che il disprezzo non l’aveva in realtà mai abbandonata. Comprese, finalmente, di aver sempre odiato sé stessa.

Le dita della Duchessina sfiorarono la pelle livida della sua spalla sinistra ed il suo senso di colpa le sussurrò all’orecchio quanto lei non fosse riuscita a cambiare affatto, che sarebbe rimasta per sempre una scandalosa e meschina donna.

Piangeva per Earl, mentre il suo più grande desiderio era lasciarsi cadere fra le braccia di Arthur.



§



“Amami o odiami, entrambi sono a mio favore.

Se mi ami, sarò sempre nel tuo cuore.

Se mi odi, sarò sempre nella tua mente.”*

Arthur alzò gli occhi smeraldini dal libro stretto fra le dita e li rivolse verso il cielo notturno, dove un’immensa e luminosa coperta di stelle si dispiegava al suo sguardo vuoto. Una impietosa folata di vento freddo spettinò appena i suoi capelli scuri, onde d’inchiostro che s’infrangevano sopra un viso aristocratico ed indifferente, come se l’uomo stesso fosse in realtà ben lontano dalle meraviglie attorno a lui.

“E cosa farai, una volta che l’avrai raggiunta?”

Similmente alla sera che aveva preceduto il primo scontro con la Mad Veteran, egli aveva deciso di ritirarsi nella quieta oscurità del ponte superiore dove – poteva scommetterci – il timoniere ed i marinai di servizio non avrebbero osato avvicinarlo. Difatti, il pontile poteva dirsi sgombro del pomposo viavai di Ufficiali che contraddistingueva le ore diurne e, in generale, il luogo risultava essere parecchio silenzioso: nessuno pareva morire dalla voglia di parlare e realizzare ad alta voce l’unico pensiero che monopolizzava le menti di tutti.

In fondo, l’imponente sagoma nera che stavano braccando era l’incarnazione stessa di una preda ormai spacciata.

“Quello che deve essere fatto.”

Ed è in questo modo che hai sempre ragionato, non è vero?

Le mani grandi dell’Ammiraglio si strinsero nervosamente sul volume donatogli da Amandine fin troppo tempo prima, sebbene l’uomo si rese conto di non stare affatto pensando a lei. No, la verità stava nel fatto che non riusciva più a pensare a nulla al di fuori di Saffie Lynwood e all’opprimente bisogno di possederla, di sentirle dire che desiderava essere fatta sua.

Pure se hai già vinto, Arthur.

Fu come se la sua fedele e morbosa ambizione gli sorridesse dal buio dell’abisso, mostrandosi infine crudelmente soddisfatta. Là, da qualche parte dentro di lui, Worthington poté vedere l’immagine della Duchessina e della Mad Veteran sovrapporsi fino a formare la rappresentazione di un unico obbiettivo.

Tutto, tutto gli sarebbe appartenuto.

Le sue iridi chiare fremettero di uno strano e pericoloso sentimento, ed egli dovette subire l’arrivo di un violento brivido di trionfante appagamento, tanto dolce quanto lussurioso.

D’altronde, il suo famoso dovere incorruttibile non era nient’altro che una implacabile fame desiderosa.

Un battito di ciglia e, a tradimento, il cielo stellato gli restituì il sorriso di incauta allegria della piccola strega. Un immediato senso di repulsione e colpa venne a galla dalle sue viscere, oscurando così i suoi pensieri da Re capriccioso: perché Saffie sorrideva, certo…ma non a lui. Nascosta dalle discrete mura di un elegante cortile interno, di gusto Quattrocentesco, la ragazza aveva mostrato la sua migliore espressione di imbarazzata felicità ad una persona che Arthur non era riuscito subito ad intravedere.

È una promessa” aveva sussurrato l’insopportabile Duchessina, sfoggiando un viso e un tono radiosi. “Hai dichiarato di voler prendere in moglie questa viziata fanciulla...non puoi proprio tirarti indietro!

L’Ammiraglio ricordò di averla udita ridere divertita, mentre l’eco di quel suono era riuscito a riecheggiare tra le pareti, somigliando al verso che avrebbe fatto un candido uccellino finalmente libero dalla gabbia; ed egli aveva fatto in tempo ad accarezzare con lo sguardo le sue labbra rosee, prima che l’altra persona facesse la sua comparsa sulla scena: un alto ragazzo rossiccio si era portato vicino a lei, stringendola subito fra le braccia con fare intimidito, quasi avesse timore di poter vedere la piccola figura di Saffie svanire da un momento all’altro.

“Sarai libera, Saffie” le aveva assicurato il plebeo, baciandola teneramente fra i capelli castani. “Saremo felici. Te lo giuro.”

Un sentimento aspro si era affacciato subito alle porte della sua anima imprigionata nell’abisso, senza che lui stesso se ne rendesse conto per davvero. Arthur aveva quindi voltato la testa bruna seccamente, nascondendosi all’ombra del porticato e inchiodando il suo sguardo sul viso pallido del soldato che lo accompagnava. “È lei?” aveva domandato solo, in tono brusco.

Il giovane ragazzo aveva annuito una volta sola e Worthington si era ritenuto soddisfatto da quella risposta, visto che aveva deciso di girare i tacchi senza aggiungere altro, né degnare di un’altra occhiata la minuta Saffie Lynwood. L’uomo rimembrò di aver aspettato di giungere fin sulla trafficata strada principale prima di asserire, con la consueta compostezza elegante: “Non mi resta che informare il padre della ragazza e assicurarmi il vostro silenzio”.

“Co-commodoro?”

Arthur si era avvicinato ad una lussuosa carrozza parcheggiata a bordo strada e non aveva esitato un secondo nel voltarsi indietro, fulminando con due glaciali occhi d’acciaio il poveretto alle sue spalle. “Non farete parola di questa faccenda con anima viva né ora, né mai” l’aveva minacciato a bassa voce. “Se ciò dovesse sfortunatamente accadere, sappiate, non ci sarà uomo alcuno che potrà proteggervi dalle conseguenze.”

“È così dannatamente lontana” pensò Worthington, le iridi smeraldine ancora perse nella cupola luminosa. Il suo braccio destro si mosse in automatico, di lato, avvicinandosi al lucido tavolo di legno al suo fianco; altrettanto inconsciamente, le dita lunghe dell’uomo si strinsero attorno ad un freddo bicchierino colmo di liquore ed egli se lo portò alle labbra senza nemmeno guardarlo, bensì bevendone il contenuto in un colpo unico. “Irraggiungibile.”

Sentì l’alcool bruciare dentro alla sua gola, amaro, ma stranamente questo non sembrò servire a distrarlo dal dolore che stava sperimentando in quell’istante. Una nuova sofferenza…che lui non comprendeva e non desiderava spiegarsi.

Vuoi impossessarti di lei, pure se non ti amerà mai?

Chissà, potresti persino finire per ucciderla sul serio questa volta.




Angolino dell’Autrice:

*se vi è piaciuto il Capitolo, spero prendiate in considerazione di Recensirlo/Votarlo/Farmi sapere cosa ne pensate!*

Buonasera e Buon Febbraio! :D

Come promesso, sono tornata entro la solita scadenza mensile, pure se questa volta ho seriamente temuto di avere un ritardo nella pubblicazione: sono tornata alla mia vita di sempre dopo i miei problemi di salute, ma pare che i miei ritmi lavorativi siano diventati più serrati! (-.-)”

Inoltre, per quanto ci tenga ad aggiornare con almeno un minimo di decenza, la mia priorità rimane scrivere in maniera per me soddisfacente e quindi mi ci vuole un po’di tempo, prima che i capitoli giungano a conclusione. Questo, in particolare, mi ha richiesto un’attenzione tutta speciale.

Comunque, comunque! Ho intenzione di pubblicare il prossimo Capitolo sì a Marzo, ma nell’arco di una/due settimane da oggi…ce la farò?(TvT)

E ora alla storia. Non ho molto da dire, in realtà: tutto ciò che volevo esprimere l’ho riversato nella scrittura del Capitolo, che è forse simile ad un continuo viaggio fra passato e presente. Spero tanto di non aver creato momenti di confusione!

Avrei voluto vedere Saffie e Arthur interagire ancora ma, tranquillizziamoci (oppure no?), perché l’Undicesimo Capitolo – e i due che verranno – li ritengo fondamentali per il racconto. Oddio, non vedo l’ora di scoprire dove i miei due mi condurranno…ed è comunque difficile per me da dire con un certo grado di sicurezza!

Ah, ultima cosa! Sono veramente felice di aver potuto finalmente parlare di Earl Murray e farlo “muovere” nel racconto, come non sono altrettanto convinta di quanto mi piaccia il buon James Chapman! Insomma, alle volte quel ragazzo mi fa tenerezza, lo ammetto.

E voi? Spero stiate bene e in serenità! (*w*)

Ora, vi saluto e vi abbraccio tanto, poiché procedo proprio nella pubblicazione di questa Undicesima parte: voglio pubblicarla a tutti i costi oggi e se continuo a scrivere faccio notte!

Spero vogliate farmi sapere se vi è piaciuta! :D

Un baso grande,

Sweet Pink


*W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate.

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Capitolo 13
*** Dodicesimo. Questo significa essere me. ***


Avvertenza: Rating Rosso per questo capitolo, pure se personalmente non credo vi siano scene troppo “sconvolgenti”, ma preferisco avvertire!

Io sarò ad attendervi sul fondo come al solito, quindi – se vi va – ci vediamo a fine lettura! :D

Buon proseguimento.





CAPITOLO DODICESIMO

QUESTO SIGNIFICA ESSERE ME






Doveva trattarsi solamente di una insignificante questione di affari.

Una trattativa indolore, come tante ce n’erano state negli anni passati. Un accordo pianificato da due fra le più potenti e antiche famiglie dell’Impero Britannico, atto a garantire la prosperità e gli interessi di ambedue le parti, perché era quella la maniera in cui le persone civili regolavano le esistenze del mondo a cui appartenevano. Ed era lo stesso mondo di cui anche lui faceva parte o, perlomeno, questo è ciò che Simeon Worthington gli aveva sempre detto e ripetuto fin da quando l’aveva riportato alla luce.

Non era stato affatto facile per Arthur abituarsi al modo di pensare di suo padre, per lui del tutto nuovo e incomprensibile, quasi quanto lo era la sciocca spensieratezza di Benjamin Rochester, l’orfano che l’Ammiraglio aveva preso sotto la sua protezione per sopperire alla perdita del figlio vero. Quale senso poteva avere sprecare preziose ore inchiodato su una sedia per imparare nozioni inutili – frivole regole di comportamento – quando bastava allungare le braccia e afferrare a piene mani ciò che si desiderava possedere?

Oh, ma aveva imparato comunque ad adeguarsi alla ricchezza…al potere.

D’altronde, se c’erano due cose che gli erano sempre venute naturali come respirare, queste erano l’eccellere e il fingere: non aveva impiegato che pochi mesi ad apprendere tutto ciò che avrebbe potuto far di lui un perfetto piccolo gentiluomo – un adorabile signorino istruito – mentre, d’altra parte, era stato forse più complicato nascondere la fame crudele che gli aveva fatto compagnia durante i suoi ultimi cinque anni di prigionia; quel morboso bisogno di prendere e prendere ancora, protendersi verso una luce lontana e irraggiungibile, si agitava ogni minuto dentro alle sue viscere senza lasciargli pace alcuna.

Suo padre gli era infine venuto in aiuto una seconda volta, pronunciando la frase che l’aveva salvato.

“Questa tua fame non è un male, Arthur. Trasformala in incrollabile forza di volontà e, vedrai, potrai esaudire ogni tuo desiderio, mettere in ginocchio il mondo intero.”

Così, a undici anni appena compiuti, egli aveva compreso con cristallina chiarezza dove avrebbe condotto la sua strada poiché, fedele alle parole di Simeon Worthington, aveva forzato la sua voracità capricciosa a tramutarsi in ambizione inamovibile e assoluta. Il resto era venuto da sé, visto che scalare la gerarchia della Marina Britannica era stato tanto facile quanto dare da bere a delle oche in uno stagno: certo, all’inizio l’influenza e le sterline dell’Ammiraglio erano state fondamentali, ma era bastato veramente poco tempo per far comprendere alla Royal Navy con chi effettivamente aveva a che fare.

Aveva imparato a comportarsi da gentiluomo in un anno, mentre già uccideva da cinque.

Un’abilità che aveva appreso a suon di frustate da lui in persona. Lui, l’uomo che incarnava il fondale del suo amato ed odiato abisso di oscurità accecante; lui, l’incubo a cui cercava di sfuggire inutilmente da ventidue anni, malgrado un voce molesta dentro al suo animo continuasse a sussurrargli quanto gli stesse diventando ogni giorno più simile. Di come, volente o nolente, egli portasse disgrazia e rovina nelle vite delle persone che gli si avvicinavano, perché era nato per questo…saper solo fare del male.

Non che questo gli fosse mai importato troppo, in realtà. Finché aveva potuto lasciare il controllo alla sua crudele e ferma ambizione, al terribile carattere che ne derivava, appropriarsi di un denaro e un potere smisurati era stata una passeggiata dolce e piacevole, dove le vite altrui rappresentavano in fondo dei minuscoli sassolini sul bordo della strada. Non vedeva perché dovesse mostrarsi misericordioso nei confronti dei pochi che si opponevano alla sua volontà, di chi aveva la sventurata intenzione di fargli del male, come se lui fosse ancora il gracile e spaventato bambino di un tempo.

Nessuno poteva più toccarlo, ferirlo per davvero.

Al di là della fame capricciosa, dell’ambizione, Arthur poteva affermare di non provare altro sentimento se non l’alienante paura che di tanto in tanto si divertiva un mondo a tornare a galla e ridurlo ad un inutile fascio di patetici nervi, mentre gli diveniva impossibile sia respirare che ignorare le facce vuote di coloro che aveva ucciso. Non guardare gli occhi verdi ed esausti di sua madre, prima che quest’ultima gli voltasse le spalle e corresse via, disperata. No, terrorizzata.

“Come se la tua vergognosa madre avesse avuto molta scelta, comunque.”

Dimenticalo. Dimentica tutto.

E lui aveva dimenticato, cancellato.

In questo modo aveva proceduto, camminato senza voltarsi indietro, lasciando dietro di sé una scia di sangue che di anno in anno diventava tanto più lunga quanto la sua carriera e la sua reputazione si facevano grandi. Così, con la stessa fredda indifferenza, aveva ascoltato la proposta fattagli da suo padre un lontano giorno del 1725: Worthington prospettava di stringere un accordo con il suo fidato amico d’un tempo, lo scaltro e vanitoso Duca di Lynwood, di modo che potessero pianificare un legame degno di entrambe le famiglie, unendo ricchezza e lignaggio; il matrimonio con la minore delle sue figlie era ciò che lo stesso Alastair aveva promesso a Simeon, ma solo a patto che trovassero ad ogni costo Saffie Lynwood, sconsiderata primogenita e – da quello che l’Ammiraglio aveva dichiarato con gran divertimento – testarda combinaguai.

“Dicono che la signorina Amandine possegga la bellezza di una Dea, malgrado la fragilità della sua sfortunata salute” aveva dichiarato suo padre, sbuffando alla stregua di un bambino capriccioso. “E dire che, fino a un mese fa, credevo Alastair avesse intenzione di destinarti sua figlia maggiore…insomma, è pur sempre senza marito!”

Uno strano e sgradevole sentimento si era agitato per un istante dentro al cuore di Arthur, ed egli aveva incrociato le braccia al petto ampio, appoggiandosi appena alla parete dietro di lui con la schiena. “Non ho intenzione di prendere in moglie una donna che, per amore di un plebeo qualunque, è capace di gettare al vento qualsiasi ragione e dimenticare il suo posto, rovinandosi la vita.”

Un breve silenzio era caduto fra loro e Simeon aveva alzato due acute iridi grigie su di lui, sorpreso dal tono leggermente aspro con cui il figlio aveva articolato quelle parole al limite dell’ingiurioso. “Oh, non hai che di preoccuparti: Alastair mi ha incastrato, stavolta” aveva commentato alla fine, sorridendo appena, ma continuando a studiare l’espressione di disapprovazione comparsa sul volto di Arthur con grande interesse. “Tre anni a partire da oggi. Approfitta di questo periodo e assicurati una vera posizione di potere, così che il mio caro amico non abbia nulla da dire per potersi tirare indietro. Non che io dubiti di lui, ovviamente.”

Arthur aveva scosso il capo scuro con noncuranza, ghignando di malvagio sarcasmo. “No di certo.”

Suo padre aveva allora incrociato le mani sul suo bastone da passeggio argentato, puntellandosi su di esso con una certa finta spensieratezza e facendo orecchie da mercante. “Saffie è preziosa per il Duca e tu l’hai riportata da lui in due giorni scarsi; per questo motivo sono praticamente certo che si atterrà ai patti e ti concederà la mano della figlia minore. Anche se credo Alastair abbia preso la decisione più per punire Amandine, che la sua primogenita.”

Il viso abbronzato di suo padre si era chiuso in un’enigmatica espressione fredda, ma Arthur non ci aveva dato troppo peso e – considerata la questione chiusa – si era voltato in direzione della finestra, osservando il viavai di carrozze e persone con pigra apatia. In verità, non vedeva l’ora di tornare sull’oceano, a contatto con l’elemento che più sentiva affine e con il mondo al quale era sempre appartenuto; perché i frivoli ricevimenti mondani di Londra e dintorni con lui non avevano niente a che vedere.

Voleva togliersi dalla testa il sorriso allegro di una ragazzina che aveva visto una volta sola, di sfuggita.

Non che le donne gli fossero mai importate un granché ma, anche così, non erano di certo mancate le occasioni di potersi svagare con chiunque la sua capricciosa voracità gli indicasse di prendere. Malgrado Arthur stesso si considerasse il tipo di persona che attaccava sempre per prima, non era sua abitudine fare il primo passo con il gentil sesso, né concedere seconde volte; eppure loro – le donne – continuavano a ronzargli attorno come api imperterrite e fastidiose.

Che fossero donnette di strada, viziate aristocratiche già sposate o, ancora, impressionate fanciulle dell’emergente ceto borghese, questo per lui era sempre contato ben poco: si era infatti accorto fin da ragazzo degli sguardi di sospirato desiderio che solevano accompagnarlo ovunque andasse, ma nessuna notte di passione aveva infine smosso il suo animo impaurito, ben raggomitolato sul fondale oscuro dell’abisso. Non erano esistite labbra che fossero riuscite a crepare l’incrollabile armatura di controllo che aveva costruito intorno a sé.

Gli bastava protendere le braccia e loro diventavano sue, proprio come tanto desideravano.

Quel matrimonio non sarebbe in fondo stato tanto diverso, poiché si trattava di un semplice scambio. Un dare per ricevere. Una questione d’affari, per l’appunto.

“Benjamin ha espresso la volontà di tornare a servire come medico della Marina di Sua Maestà” si era fatta sentire la voce asettica di un Simeon ancora in piedi alle sue spalle. “E anche io desidero sia così.”

Senza che potesse impedirselo, un’espressione sprezzante aveva fatto comparsa sul viso virile di Arthur, ma l’uomo non aveva accennato a distogliere lo sguardo serio dal panorama cittadino sottostante. “Quale gradita sorpresa” aveva ironizzato con vera crudeltà, incrociando la mani dietro la schiena. “È diversi anni che le nostre strade hanno smesso di incontrarsi…non aveva deciso di abbandonare il fianco del suo spietato fratello adottivo ed esercitare la professione sulla terraferma?”

Chiaramente, suo padre aveva di nuovo ignorato la domanda sarcastica ed un tintinnio leggero aveva suggerito ad Arthur che l’attempato gentiluomo doveva essere impegnato a versarsi da bere, forse prendendosi del tempo per macchinare Dio solo sapeva cosa. “Tra tre anni sposerai la signorina Amandine, senza se e senza ma” aveva sentenziato Simeon dopo pochi secondi, come se volesse inculcargli bene in testa il concetto. “E ti sforzerai di entrare nelle grazie della sua famiglia, Saffie Lynwood compresa.”

Sì, una trattativa che doveva andare liscia come l’olio; indolore e quasi dovuta, poiché nel loro mondo erano ben rare le unioni celebrate per vero e reciproco sentimento d’amore.

Non che fosse mai stato sfiorato dal pensiero di potersi innamorare sul serio.

Forse, nel profondo, avrebbe dovuto immaginare fin da subito che un disgustoso uomo come lui non poteva permettersi in alcun modo di farsi sciocche illusioni, impossibili pensieri.

Tre anni erano dunque passati fra sanguinose attraversate intercontinentali e oscuri giochi di palazzo; ed Arthur era stato talmente occupato a cercare di uscirne vivo da entrambi, che quasi aveva scordato l’accordo matrimoniale stretto con i Duchi di Lynwood.

Era stato quindi da ricchissimo Contrammiraglio in carriera che si era palesato davanti alla porta della suddetta famiglia, durante un soleggiato pomeriggio di inizio Primavera. La compostezza elegante per cui era ammirato, che aveva imparato così presto e bene a fingere, non aveva vacillato nemmeno quando – con suo grande stupore – si era trovato improvvisamente davanti gli occhi grandi e luminosi di colei che aveva imprigionato: non avrebbe mai immaginato di poter trovare Saffie sola ed indifesa al centro del salotto di casa, ma la ragazza gli aveva immediatamente sorriso con la stessa allegria irriverente che lui in futuro avrebbe imparato a conoscere; ed era stato difficile non venirne affascinato, malgrado la disapprovazione per ciò che anni prima la Duchessina aveva tentato di fare. La signorina Lynwood aveva agito da canarino tanto incantevole quanto sciocco visto che, per chi viveva rinchiuso tra Gabbie Dorate o in Oscuri Abissi, non poteva esistere alcuna libertà.

Non aveva senso provare a risalire in superficie, o forzare le sbarre, perché se ne soffrivano solo le conseguenze.

Arthur ricordava in maniera vaga di aver scambiato qualche battuta con Saffie, piacevolmente colpito dalla naturalezza dei suoi modi scherzosi…da un sguardo che si soffermava su di lui né con ammirato timore, né diffidenza terrorizzata. La ragazza gli aveva forse rivolto una domanda a cui non aveva fatto in tempo a rispondere, perché poi lei era entrata come un incantevole tornado nella quiete della stanza, sconvolgendo i suoi pensieri in un battito di ciglia.

Amandine Lynwood era comparsa davanti a loro in un istante e la sua figura alta era talmente irreale, incorniciata dalla fitta vegetazione del giardino alle sue spalle, che l’uomo aveva dato ben ragione a chiunque l’avesse definita alla stregua di una Dea scesa in terra. Le sue iridi, poi, erano fisse su di lui e rilucevano di un turchese incredibile.

E aveva compreso subito di volerla per sé, che l’avrebbe portata via.

Nei giorni seguenti, un senso di trionfante soddisfazione, di vittoria esaltante, si era fatto strada nel suo animo vorace: l’accordo era andato sul serio alla perfezione e garantiva fin troppi vantaggi alla sua oscura ambizione.

“…l’ennesimo trofeo da appendere alla parete: lei ti aspettava, ma è stata la tua ambizione ad ucciderla.”

Ciò con cui non aveva previsto di dover fare i conti era stata proprio l’insopportabile Duchessina che, fin dal principio, si era rivelata lo scomodo elemento al di fuori della cornice, dell’ordine perfettamente costituito delle cose. Di fronte all’inopportuna sfrontatezza di Saffie, ogni istintiva simpatia era stata prontamente abbandonata, poiché – davvero – nessuna donna aveva mai osato rivolgersi nei suoi confronti con il tono di ironica sfida che la ragazza gli dedicava ogni due per tre.

E Arthur ne aveva concluso che ella fosse nient’altro se non una saccente e viziata ragazzina che non sapeva stare al suo posto; cosa, fra l’altro, ampiamente dimostrata in passato.

Doveva risolversi tutto come una banale questione d’affari. Un’inerzia.

Ma poi Amandine era morta, uccisa dalla loro noncuranza.

Dalle ceneri della tragedia, erano infine nati un invisibile confine ed un legame crudele.

Così, guidato dal disprezzo e dalla disperazione, sospinto in avanti dalla sua inossidabile ambizione, Arthur aveva riscoperto la parte più oscura di sé e aveva deciso di imprigionare una seconda volta la piccola strega, questa volta per sempre. Non avrebbe permesso che tornasse a Londra, alla vita da cui già l’aveva strappata, ma bensì Saffie l’avrebbe seguito fin dove lui avesse trovato conveniente e, nel contempo, sarebbe stata la sua garanzia per il dominio su Kingston.

Se solo quella sua stessa crudeltà non gli si fosse rivoltata contro. Aveva fatto della ragazza sua moglie, impadronendosene, ma in sole due settimane la piccola sciocca era misteriosamente riuscita a sconvolgerlo in una maniera che Arthur stesso non poteva dire di comprendere appieno o, men che meno, di desiderare: per qualche assurda necessità, entrambi avevano scelto di smettere di contorcersi fra i fili del loro invisibile legame e riconoscersi una sofferenza uguale, reciproca.

Era stato il momento in cui aveva cominciato a temere Saffie e, con lei, il nuovo sorriso imbarazzato che di quando in quando aveva preso a rivolgergli, così dolorosamente simile a quello che tanti anni prima l’aveva colpito…pure se dedicato a qualcun altro. Aveva iniziato a temerla e, disgraziatamente, a desiderarla per sé, scoprendo nuovi aberranti sentimenti e altri allucinanti sensi di colpa che – neanche da dirlo – Arthur non voleva affrontare. Eppure, giorno dopo giorno, il morboso bisogno di possederla per davvero si era fatto sentire in modo opprimente, ed era tanto frustrante che Arthur era pronto ad ammettere di non aver mai voluto una donna con la stessa forza con cui desiderava Saffie.

Anche se, una minuscola parte della sua anima lo sapeva, non si trattava solamente di mettere a tacere l’impulso di portarla di peso in camera da letto, ma bensì provava un qualcosa di diverso.

Oh, ma questo sentimento ti è proibito, ricordi?

Perché hai mentito pure a Benjamin, e non solo a Saffie.

“Potremmo sempre trattare: quegli uomini sono disperati. Voi che ne pensate, Ammiraglio?”

Sei tu il vero cattivo della storia, Arthur.

“Ammiraglio Worthington?”

Sentendosi preso in causa, l’uomo si riscosse di botto dai suoi pensieri e, dopo una noncurante scrollata di spalle, alzò gli occhi verdi sulla Mad Veteran: a diversi metri di distanza, quasi fosse stata una carcassa abbandonata in balia delle onde, la nave pirata li attendeva chiusa in un orgoglio glaciale e pericoloso; a conferma di ciò, l’equipaggio rimasto pareva evidentemente pronto all’abbordaggio da parte dell’Atlantic Stinger, visto che rivolgeva verso i membri di quest’ultima i suoi migliori insulti sboccati e bellicosi, sfoderando le rozze armi con una carica adrenalinica derivata più che altro dalla cieca disperazione.

Una smorfia di sprezzante disgusto inasprì i lineamenti aristocratici di Arthur. “Non è il momento per certi sgradevoli pensieri” concluse fra sé, freddamente, prima di rivolgere il capo scuro sulla figura impassibile di Henry Inrving: l’attempato capitano lo fissava senza lasciar trasparire alcunché, ma in evidente attesa di una sua risposta. “Non lasceremo loro quartiere” sentenziò infine Worthington, voltandosi nuovamente in direzione del vascello nemico mentre, dal nulla, un’espressione di trionfante brutalità comparve a sostituire il contegno tenuto fino a poco prima. “Quei criminali continuano a volerci sfidare, è ovvio. Se è un massacro ciò che chiedono, beh, non vedo perché non accontentare l’ultimo desiderio di un condannato a morte.”

“Ne siete certo, Eccellenza?”

L’ammiraglio sorrise appena, stranamente benevolo. Ma Inrving capì subito che si trattava di un sorriso in realtà freddo ed inquietante, spietato; ancora una volta, il Generale Implacabile aveva il potere di spegnere qualsiasi opposizione o resistenza senza sprecare una sola parola.

“Io sono conosciuto per essere un uomo di parola” commentò Arthur in tono vago ma terrificante, dando poi l’ampia schiena al parapetto della nave ed affrontando con una calma d’acciaio le facce livide dei suoi numerosi Ufficiali, riuniti in un gruppetto compatto appena sotto il ponte superiore, a poppa dell’Atlantic Stinger.

“Che nessuno venga risparmiato” ordinò quindi, osservandoli tutti con due iridi di fuoco. “Rispedite quei maledetti demoni all’inferno da cui provengono e portatemi la Mad Veteran, poiché è grande la gloria che ci attende una volta giunti a Kingston.”

Non esisteva legame crudele, nessun invisibile confine, che avrebbe mai potuto fermare la sua mano.

Un coro di voci entusiaste si levò a seguito delle sue parole e Worthington ignorò volutamente lo sguardo fin troppo severo con cui il capitano Inrving lo stava guardando. L’ammiraglio aspettò di vedere i suoi sottoposti scattare agilmente ai loro posti e cominciare ad abbaiare ordini schietti alla tesa ciurma del vascello, prima di portare la sua attenzione su colui che lo comandava. “È bizzarro questo vostro mutismo” fece dopo poco, incrociando le braccia dietro alla schiena con noncuranza. “Devo dedurne che non vi troviate di nuovo in accordo con i miei metodi?”

“Lo avete detto voi stesso” rispose Henry, lanciandogli un’attenta occhiata fredda da sotto la falda del tricorno scuro. “Sarà un massacro unilaterale.”

“La morte indiscriminata non è la soluzione!”

Ancora, l’inattesa voce di sua moglie si fece sentire – fastidiosa – nella mente, provocandogli il consueto sentimento di doloroso disagio, aberrante colpa, che lui aveva paura di affrontare. Con un moto di rabbia, Arthur cercò quindi di relegare la figura della piccola strega in un angolo e abbandonarla lì, dimenticarla: aveva forse smesso di detestare Saffie, ma questo nulla doveva togliere al suo essere il Generale Implacabile, all’ambizione che gli aveva permesso di risalire l’abisso.

Bugiardo. Tu sai di essere ancora sdraiato sul fondale, mentre lei è irraggiungibile come un cielo stellato.

“Se queste devono essere le conseguenze, allora preferisco non averla affatto” pensò d’impulso Arthur, portandosi una mano grande davanti al viso, come se volesse nascondere i turbati occhi chiari al resto del mondo. “Sono stato incauto. Un perfetto idiota.”

“E cosa farai, una volta che l’avrai raggiunta?”

Tra le dita lunghe dell’uomo, due iridi fremevano di una cristallina e letale determinazione, molto simili a quelle di un predatore in attesa. Insensibile ad ogni suo sforzo, l’immagine delle mani sporche di sangue della Duchessina emerse crudele dai suoi ricordi. Un osceno percorso violaceo, impresso a fuoco sulla pelle della ragazza terrorizzata. “Oh, li ucciderò tutti” considerò fra sé, mosso dalla stessa forza inamovibile che continuava a consumarlo da una vita intera.

Attorno alla sua figura alta e imponente, un viavai di soldati in divisa si agitava lungo il pontile, fino a formare l’ordinata fila di fuoco che avrebbe provveduto a dispensare la giustizia di Sua Maestà a suon di proiettili, pure se l’abbordaggio era cosa ormai scontata. In mezzo ai ferventi preparativi della battaglia, le figure altezzose di Inrving e Worthington stavano in piedi l’una di fianco all’altra, coraggiosamente rivolte in direzione della sventurata Mad Veteran; in quel momento, non potevano di certo sapere quanto la loro presenza impassibile desse coraggio agli uomini di mare presenti sulla nave.

“Avete chiesto con tanta insistenza un’esecuzione di massa, ed ora mi venite a rimproverare la stessa fermezza che avreste voluto vedere nei confronti dei prigionieri?”

Ad Henry non sfuggì il tono di malvagio scetticismo con cui quella domanda gli era stata posta, ma comunque si impedì di provare una qualsivoglia soggezione o timore di sorta. “Ritengo fossero due situazioni diverse” commentò in tono piatto, senza voltarsi. “Quei disgraziati hanno chiesto il giudizio del mare ed avevano smesso di mangiare pur di ottenerlo.”

“Non siete obbligato a farlo.”

“Io penso solo che gli uomini della Mad Veteran debbano essere grati che gli conceda la possibilità di morire in uno scontro onorevole” disse la sua Arthur, inasprendosi di botto. “Avrei potuto farli a pezzi già da parecchi giorni, se solo avessi voluto.”

Il capitano Inrving ispirò un’abbondante dose di aria salmastra e si voltò, finalmente pronto ad affrontare la determinazione del Generale Implacabile. “Voi volete vedere quella nave nella vostra flotta, lo comprendo” asserì, facendo un cenno in direzione dell’oceano sotto di loro. “Ma possiamo risparmiare delle vite, oggi; e sto parlando soprattutto per i nostri uomini.”

L’ammiraglio abbassò gli occhi verdi, in silenzio.

“Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

Stai lasciando a qualcun altro il controllo, Arthur?

“Ca…Capitano?”

Un fulmine a ciel sereno, e la voce esitante della piccola strega piombò addosso a Worthington, cogliendolo impreparato ed indifeso.

Arthur e Henry si voltarono quindi di scatto ed inquadrano subito la figura minuta di Saffie che, una mano appoggiata sullo stipite, quasi pareva volersi nascondere dietro alle porte d’ingresso degli alloggi. In piedi fra il corridoio e il ponte esterno, la ragazza castana li osservava ad occhi spalancati ed era di genuina perplessità l’espressione stampata sul suo visino grazioso.

A tradimento, il cuore di un certo Generale iniziò a battere furiosamente, come se fosse stato preso da un’improvvisa pazzia; e l’uomo si chiese perché – ancora – la Duchessina avesse deciso di disobbedire ai suoi ordini, uscendo dalle sue stanze a pochi minuti da uno scontro imminente. Malgrado questo turbamento, nessuna emozione mutò il volto di Arthur, che rimase un’irreprensibile maschera di severità.

“È vero?” chiese infine la ragazza con strano imbarazzo, guardando a malapena l’imponente figura del marito e, anzi, abbassando lo sguardo sulle assi del pavimento. “Non ci sarà alcuna battaglia?”

“L’argomento è appunto in via di discussione” le rispose il capitano in maniera enigmatica, lanciando uno sguardo significativo in direzione della persona al suo fianco, ma non sembrando in ogni caso troppo stupito nel sentire la moglie di Worthington interessarsi ad argomenti a lei proibiti. “Pure se dovremo comunque usare il pugno di ferro per riuscire a soggiogare la nave pirata.”

“E…e voi pensate possano arrendersi senza che debba accadere un altro massacro?”

Di fronte alle parole esitanti di Saffie, Arthur chiuse nervosamente le mani a pugno senza nemmeno accorgersene, mentre fu un fastidioso sentimento d’insofferenza quello che si affacciò alle porte della sua anima: oltre ad avergli disobbedito, sua moglie continuava imperterrita a rivolgersi a Henry Inrving, come se il capitano fosse da solo e lui non esistesse affatto.

Come se il giorno precedente non fosse accaduto nulla.

“Sono positivo nel pensare che…”

“Forse state dimenticando chi è al vertice della catena di comando” s’intromise alla fine Worthington, la voce traboccante di gelida furia. L’uomo fece un lungo passo in avanti, occupando così quasi la totalità del campo visivo di Saffie e obbligandola ad alzare gli occhi castani sul suo volto autoritario. “Io sono colui che decide, qui. Io comando.”

Un rossore acceso si diffuse sulle guance della Duchessina, ma i suoi occhi sempre luminosi lo guardarono invece con una nuova paura che, sul serio, egli desiderò cancellare in un istante. Un'altra impietosa ondata di rabbia venne a sommergerlo, perché capì che in fondo non era cambiato niente…Saffie rimaneva l’elemento al di fuori della cornice, la ragazza che avrebbe continuato a sfidarlo, a non fidarsi di lui. A temerlo, persino.

Quale immensa ipocrisia, Arthur…visto che sei tu il primo ad averne paura.

“Perché non avete obbedito agli ordini?” continuò, implacabile e freddo. “Tornatevene nei vostri alloggi, moglie.”

Dal canto suo, Saffie portò le mani sul petto, accorgendosi di stare tremando e di aver fatto un istintivo passo indietro, allontanandosi dalla figura che incombeva minacciosa, terribile. Una morsa di crudele delusione si strinse subito attorno alle sue viscere e la ragazza pensò di essere stata una perfetta stupida ad aver seguito il suo istinto, ad essersi spinta fin sulla soglia del corridoio perché in realtà preoccupata per Arthur, per lo sciocco desiderio di vederlo prima dello scontro con la Mad Veteran.

L’uomo gentile delle settimane precedenti era stato spazzato via da un'odiosa ambizione.

Fu in questo modo, mossa da un fastidio che lei stessa non seppe bene da dove fosse spuntato, che Saffie aggrottò le sopracciglia scure e si trincerò dietro alla sua migliore espressione da Duchessina sfrontata. “Potete evitare uno spreco di vite, allora, Generale” lo rimbeccò con forza, sorda alle parole precedenti del marito. “Se deciderete per la battaglia, non farete altro che mandare al macello i vostri uomini.”

Le iridi smeraldine di Worthington si dilatarono appena, tradendo una certa indignata sorpresa. Ora, dentro al suo animo, era grande la rabbia provata.

Ti detesto quando fai così, ragazzina.

“Vedete di chiudere quella vostra bocca impertinente” rispose al fuoco l’uomo, quasi ringhiando alla stessa stregua di un animale feroce. “Io sto solo adempiendo al mio dovere di Ufficiale dell’impero Britannico; tutti, su questa nave, conoscono il loro posto, così come io da tempo ho scelto il mio. Vedo che voi, al contrario, continuate a dimenticare il vostro.”

“Sono…ammirato. Non ho mai conosciuto una donna come te.”

Agghiacciante e penoso, un eterno attimo di silenzio cadde fra i due e – in quell’istante – Arthur venne ucciso da due iridi lucide di sofferente delusione: Saffie aveva infatti spalancato gli occhi di botto, osservandolo con lo stesso sguardo di una persona ferita. Tradita.

Oh, ma è questo ciò che accade quando ci si avvicina a te, no?

Non volendo fare i conti né con lo stupido senso di colpa che prese a pulsargli dentro, né con il turbamento provocatogli dall’espressione piena di amarezza della piccola strega, l’ammiraglio alzò la testa bruna e lanciò un’occhiata di fuoco sopra un giovane militare che si trovò sfortunatamente a passar loro accanto. “Voi, soldato” lo chiamò, in tono secco e brusco. “Scortate la signora Worthington nei miei alloggi e rinchiudetela dentro; mia moglie non uscirà dalla stanza e tantomeno lascerete che qualcuno vi metta piede, altrimenti a me personalmente ne risponderete.”

Il povero ragazzo interpellato si fermò di botto, scattando sull’attenti in meno di un secondo. “Agli ordini, Ammiraglio!”

Worthington portò di nuovo l’attenzione sul visino sbalordito della ragazza, ma non un'emozione ammorbidi i suoi lineamenti stravolti dal rancore. “Spero che queste direttive vi siano finalmente chiare, Duchessina.”

Incapace di trattenersi oltre, Saffie mandò del tutto all’aria il poco contegno da ricca aristocratica rimastole e fece un minuscolo passetto in avanti, cercando di soffocare sia il timore nei confronti del temperamento d’acciaio di Arthur, che la sua stessa rabbia repressa. Come era accaduto settimane prima, il marito continuava a rivolgersi a lei nell’identica maniera indifferente con cui avrebbe spostato un soprammobile fuori posto…solo, si era illusa che quei tempi fossero ormai passati.

“Chiudermi a chiave, figuriamoci! Sono su questa nave!” gli disse quindi, alzando la voce e, al contempo, odiandosi per il suo patetico tono isterico. “Se queste devono essere le circostanze, piuttosto preferisco impugnare la spada e difendermi!”

“…e poi ha cercato di strangolarla! È stata proprio coraggiosa!”

Un battito di ciglia, e la presa ferrea di cinque dita lunghe si strinse come una morsa attorno all’esile braccio della ragazza che, dal canto suo, poté dire di non aver nemmeno visto il marito muoversi. In un baleno, Arthur l’aveva afferrata con malagrazia, portando il piccolo corpo della moglie vicino al suo e, anzi, attirandolo a sé senza pietà alcuna. “Sono stanco delle tue sciocchezze” le bisbigliò, marmoreo. I suoi occhi chiari si posarono per un secondo sulle labbra schiuse di Saffie ed egli considerò di essere stato un vero sconsiderato in quegli ultimi giorni. Fu così che alzò la testa bruna sul soldato in attesa e ordinò, freddamente: “Portatela via”.

Perché aria e mare sono due elementi che mai si incontrano per davvero.

Annichilita da un sentimento di devastante umiliazione e ira, Saffie osservò il maledetto Arthur Worthington voltarle l’ampia schiena con un gesto dall’agilità elegante e raggiungere in pochi passi un Henry Inrving piuttosto interdetto, dall’espressione livida stampata sul volto sempre bonario. Distrutta da un’emozione che lei stessa aveva deciso di reprimere, la ragazza si riscoprì crudele tanto quanto era capace di esserlo il marito ed aprì la bocca quel tanto per poter sibilare: “Amandine mi raccontava di quanto eravate fiero dei vostri uomini. Diceva che un Ammiraglio degno di questo nome pensa sempre alla sicurezza degli altri, prima che alla sua ambizione.”

L’alta e imponente figura di Arthur continuava ad allontanarsi in silenzio, rinchiusa dentro ad un’accecante armatura blu e oro…la stessa che, una volta, l’aveva protetta come una coperta rassicurante.

E Saffie si preparò a vibrare il colpo, pur sapendo che ne avrebbe sofferto lei stessa.

“Lei mi manca così tanto.”

“Forse, su di voi, mia sorella si era fatta un’idea del tutto sbagliata.”

“Anche a me manca molto.”

La ragazza lo vide immobilizzarsi sul posto, pure se fu solo un momento: senza voltarsi neanche una volta, l’uomo riprese infatti a camminare con passo spedito e raggiunse il capitano dell’Atlantic Stinger, mentre quest’ultimo aveva ora nei lineamenti lo stesso terrore muto di chi sta guardando negli occhi un demonio.

“Mia signora, lasciate che vi scorti nelle stanze di vostro marito.”

La Duchessina di Lynwood annuì piano, vagamente conscia della figura del giovane al suo fianco. I suoi occhi grandi si abbassarono sulle assi del pavimento, colmi di lacrime amare. “Ti odio quando fai così, Generale” pensò, ben conscia del senso di colpa che aveva ricominciato a mangiarle il cuore.

Perché anche Saffie pensava di averla seppellita la persona che era stata un tempo, quella capace di fare del male.



§



Sono stata una sciocca.

Saffie Worthington sedeva sul bordo del ricco letto di Arthur, lo sguardo chino sulle piccole dita intrecciate sul grembo e la schiena dritta, rigida come le stecche dei soffocanti bustini che per tanti anni era stata costretta ad indossare. Allo stesso modo, la sua postura doveva riflettere un atteggiamento di pacata e graziosa compostezza, un carattere dolce ed educato, che non veniva turbato da avvenimenti di sorta; seduta sul sofà rococò di casa Lynwood, la figlia maggiore dei Duchi era sempre apparsa agli occhi dei visitatori come un curioso uccellino canterino, a cui erano state tagliate le ali.

I suoi genitori l’avevano sempre accusata di non riuscire a comportarsi alla stregua delle altre figlie dell’alta Aristocrazia e, soprattutto, di non poter sperare di eguagliare sua sorella minore, la divina Amandine…fragile colomba dalla bellezza inarrivabile.

Se fossi almeno la metà di quello che è tua sorella, io e tua madre potremmo morire felici.”

Quelle parole l’avevano maledetta per quasi tutta la vita, perché erano in fondo rimaste nascoste in un angolo sperduto della sua mente e – per quanto Saffie avesse con fermezza deciso di rivendicare la sua diversità dalla sorella – esse avevano continuato a punzecchiarle fastidiosamente l’animo. La ragazza sapeva di aver in segreto invidiato Amandine e si era detestata immensamente per aver lasciato a quel sentimento negativo terreno facile: sua sorella era infatti una ragazza malata che non aveva mai lasciato le mura della loro dimora nel Northampton, a cui erano stati proibiti tutti i divertimenti e piccole libertà invece concesse alla capricciosa primogenita.

Come aveva potuto essere stata sfiorata dal pensiero di abbandonarla al suo destino e fuggire via con Earl Murray?

Un ghigno triste si palesò sul viso pallido della signora Worthington. “È andata proprio come quella fiaba che abbiamo inventato, Amandine” pensò, rivolgendosi al fantasma invisibile della sorella. “Trovandosi di fronte allo sperduto cielo pericoloso, il passerotto decise di tornare dentro alla sua bella gabbia fatta d’oro e chiuderne per sempre la porta.”

Aveva voltato le spalle al vero amore ed era tornata tre mesi più tardi nel Northampton, percorrendo il viale di ghiaia a testa bassa, insensibile al richiamo degli uccellini che cantavano felici fra le fronde degli alberi. Un sole pallido illuminava la candida facciata della villa mentre, sull’uscio, un’alta figura bionda attendeva ad occhi spalancati; e, non appena le iridi tristi di Saffie si erano incontrate con due gemme turchesi piene di lacrime, Amandine le era corsa incontro chiamando il suo nome. Sua sorella l’aveva infine abbracciata con fin troppa forza, parendo alla primogenita più sconvolta dall’intera faccenda di quanto non lo fosse stata lei stessa.

Sono a casa, sorella mia” le aveva sussurrato in tono mite, intrecciando le dita con i suoi bei boccoli biondi. “Mi dispiace di essere stata così sciocca. Non lascerò mai più il tuo fianco.

Ed era stata una bugiarda, visto che tre anni dopo aveva infranto il suo giuramento.

Amandine aveva continuato ad abbracciarla per tanti eterni secondi, muta e tremante. “No, Saffie” aveva detto, chinandosi su di lei e nascondendo il viso pallido nella sua spalla. “Io sono stata una perfetta sconsiderata, perché ho perso…

Ma Alastair era comparso improvvisamente al loro fianco, emergendo dal nulla come un essere onnisciente e terribile, inchiodando i suoi fermi occhi castani sui visi intimoriti delle figlie. Amandine si era taciuta di botto e, da quel momento in poi, nessuna delle due aveva osato tirare di nuovo fuori i due anni in cui erano state lontane: si era trattato di un tempo mai esistito, su cui era stata tirata una riga di nero inchiostro, perché le loro vite erano ricominciate in una finta spensieratezza che, anzi, aveva forse rinsaldato il loro imprescindibile legame.

Non solo; le due avevano ripreso in mano anche il loro vecchio quaderno ed erano ricominciati i racconti fantasiosi… le loro fiabe, appunto. Tra queste, vi era anche quella del passerotto che sognava un cielo in cui poter volare ma, infine spaventato dai pericoli di uno spazio sconosciuto, decideva di sua spontanea volontà di far ritorno dentro alla gabbia d’oro che condivideva con una timida colomba bianco latte.

Amandine aveva scritto di suo pugno l’ultima battuta della storia, facendo voltare il candido uccellino in direzione del suo amico passerotto.

“Non si può uscire” cinguettò la colomba, facendosi tutta triste. “Una volta sola ho provato a farlo…e subito il padrone mi ha castigata, strappandomi la cosa a me più preziosa.”

Il suono lontano di una scarica di spari entrò prepotente nelle orecchie della Duchessina ed ella sussultò sul posto, impallidendo di colpo. Come se fosse stata svegliata da un sogno, Saffie comprese di essere ancora negli alloggi del tanto detestato Ammiraglio e della realtà che la circondava: era diventata contro i suoi desideri la signora Worthington, degna moglie di colui che veniva chiamato dai più Generale Implacabile.

L’uomo a cui aveva giurato eterno disprezzo e che invece era finita per desiderare come suo.

La ragazza castana si strinse nelle spalle, cercando di ignorare il brivido che l’attraversò tutta, strisciando sottopelle ed avvelenandole di nuovo i pensieri. “Ieri è stata una follia” pensò di getto, passando i polpastrelli sopra il tessuto leggero del suo semplice abito di seta, accarezzando piano il punto dov’era il marchio di Arthur. “Posso forse aver smesso di accusarlo della morte di Amandine, di odiarlo, ma questo non cambia l’idea che lui ha di me.”

Un passerotto è ben poca cosa, per chi ha amato la bellezza di una fragile colomba.

Nulla poteva mutare la falsità dell’unione crudele, il fatto che il legame che li univa era una farsa da loro non desiderata e, anzi, osteggiata fin dall’inizio. Se Saffie aveva riconosciuto negli occhi dell’Ammiraglio una sofferenza molto simile alla sua, era altrettanto reale la diffidenza che nutrivano l’uno nei confronti dell’altra.

Non avrebbero mai potuto amarsi per davvero, perché il loro rapporto era simile al moto consistente dell’onda. Di molto si ritirava per poi ritornare, tanto grande quanto distruttiva.

“È difficile lasciarsi alle spalle il rancore” si disse infine la Duchessina, con tanto di sospiro rassegnato. “Ancora non mi capacito di avergli detto quelle parole così cattive.”

Accusava di meschinità Arthur, quando lei stessa si era rivelata altrettanto infima e, proprio come avrebbe fatto Alastair, aveva colpito lì dove sapeva avrebbe fatto più male. Nella parte più vera dell’uomo, quella che veniva tanto gelosamente custodita e nascosta: era l'abisso in cui Worthington reprimeva ogni sentimento a lui scomodo e doloroso, compreso l’affetto nutrito per Amandine e il senso di colpa provocato dalla sua morte.

L’immagine di un Arthur tremante ed indifeso si formò nella mente di Saffie che, con il cuore gonfio, ricordò la sera in cui il Generale Implacabile le aveva impedito di chiamare il medico di bordo e l’aveva anzi stretta a sé come avrebbe fatto un bambino spaventato a morte. L’aveva attirata fra le sue braccia senza la fredda violenza di un’ora prima, ma quasi la sua presenza gli fosse stata al contrario necessaria; si era mostrato vulnerabile, così umano.

Allora, dimmi, perché dobbiamo continuare a farci del male?

“No-non muovete un sol passo!”

Gli occhi castani della ragazza si alzarono sorpresi, all’udire la voce che si era fatta sentire sul corridoio, piena di tensione e trattenuto timore.

“Siete già spacciati! Arrendetevi e posate le armi!”

“Piuttosto, morirò portando con me la tua patetica vita.”

No. Ti prego, no.

Dall’altro lato della porta esplose il rumore assordante di uno sparo – che la fece scattare in piedi terrorizzata – ed un fastidioso suono metallico venne subito dopo, forse ad indizio di uno scontro di spade.

“Ah, povero ragazzo.”

In quell’attimo, una morsa aberrante si chiuse attorno al cuore impazzito della Duchessina ma, stringendo i piccoli pugni tremanti, quest’ultima fece un disumano sforzo per non cedere alla paura e non perdere di conseguenza la testa. Doveva rimanere concentrata, questo era stato il primo insegnamento di James Chapman: se un pirata era riuscito ad arrivare fin sulla soglia delle cabine degli Alti Ufficiali, doveva essere sicuramente stato a causa della fortuna che soleva assistere i disperati, poiché la Mad Veteran e i suoi membri erano ormai come prede ridotte alla fame.

Però, lo sai bene cosa può comportare la disperazione.

Le gambe tremolanti della ragazza si mossero verso la porta chiusa ed ella appoggiò lentamente una mano sulla maniglia d’ottone, cercando di carpire un qualche altro rumore.

Eppure, Saffie non poteva sapere quanto quella situazione fosse effettivamente frutto più di un destino beffardo, che della disperata fortuna di un condannato a morte. Questo perché, sotto la leggera pressione delle sue dita, il meccanismo della porta scattò ed essa si aprì senza un minimo cigolio, socchiudendosi appena; e due iridi piene di orrore si posarono sul metallo dorato della maniglia mentre, di nuovo, il cuore della ragazza parve voler cedere all’oscurità. La porta non era stata chiusa a chiave.

Quale comico, assurdo e ridicolo fato.

Cosa farai questa volta? Scapperai o ucciderai un’altra persona?

Davanti ai suoi occhi, spalancati come quelli di un cerbiatto davanti a un cacciatore, si aprì lo spiraglio di una scena spaventosa. Poco distante dalle porte che davano sul ponte esterno, stava il giovanissimo soldato che aveva ricevuto l’ingrato compito di tenerla d’occhio; ed era caduto in terra scompostamente, quasi fosse scivolato per sbaglio sui raffinati tappeti del corridoio. Saffie lo osservò puntellarsi sui gomiti e lanciare un’occhiata sgomenta alla malmessa figura che era riuscita a disarmarlo: un pirata molto magro si ergeva infatti sopra di lui, dando le spalle ad una Duchessina di Lynwood che ebbe tutto il tempo di notare una ferita piuttosto profonda aprirsi sulla sua gamba e sanguinare copiosamente, sporcando il pavimento sotto i piedi dei due.

“Pagherai caro questo tuo sparo” sputò con vero e proprio disgusto il giovane criminale, puntando la sua spada alla gola scoperta e indifesa del suo avversario, che raggelò all’istante. “Beh, non che ti avrei comunque concesso alcuna pietà.”

“Sono una donna che ha già ucciso per salvare qualcuno, tenente.”

Cosa farai, Saffie?

E, ancora, accadde.

Similmente a ciò che era avvenuto il giorno in cui aveva protetto Douglas – o a quando aveva salvato il piccolo Ben – l’intero mondo rallentò fin quasi a fermarsi e, all’interno di quella stasi innaturale, Saffie riuscì a muoversi inconsciamente e a correre in direzione di un oggetto abbandonato sul pavimento. Un oggetto a cui il pirata non stava più prestando alcuna attenzione.

“Ah! Pare io abbia appreso almeno come cogliervi di sorpresa, Generale.”

Approfittando della distrazione del pirata davanti a lei, la ragazza si buttò sopra alla spada caduta dalle mani del giovane militare. L’afferrò con forza, rialzando il busto giusto in tempo per incrociare le lame con il suddetto criminale e riuscire così a disarmarlo grazie a quella che probabilmente era stata pura carità divina.

Un’enorme espressione di sbalordimento si dipinse in un secondo sul viso infantile e bruciato dal sole del ragazzo che aveva di di fronte. A giudicare dall’aspetto, Saffie considerò non dovesse essere più grande di Keeran.

“Una donna con una spada in mano” commentò dopo poco, scoppiando a ridere in maniera folle ed isterica. “Ora le ho viste tutte! Avete anche una pistola, sotto quelle graziose gonne?”

“A-arrendetevi!” balbettò la Duchessina ad alta voce, cercando di parergli sicura di sé e non sull’orlo di un possibile svenimento; perché le sue labbra, in realtà, erano gelide.

Il ragazzo fece spallucce nella sua camicia unta e lacera, sorridendo in modo davvero terrificante. “Sono solo un povero disperato” le spiegò freddamente, prima di portare con agilità una mano alla cintura ed estrarre un’arma da fuoco che puntò nella sua direzione senza alcuna incertezza.

“N-no! Signora Worthington!”

Saffie non udì nemmeno l’urlo pieno di orrore del militare a cui era corsa in aiuto. Le sue parole non le arrivarono alle orecchie, visto che nella sua mente era esploso un unico pensiero…un unico nome.

E, dentro di sé, la ragazza lo chiamò tanto intensamente da fare male.

Arthur!

Un guizzo di colore blu scuro apparve all’improvviso mentre, dall’abisso, emerse l’alta figura dell’Ammiraglio che – veloce come un fulmine – le si parò davanti e la spinse via, allontanandola da lui. Il cappotto elegante si mosse appena sul suo corpo tonico, inseguendo un movimento invisibile e dalla precisione fluida, letale.

Eccolo di nuovo, il legame che ci porta sempre l’uno dall’altra.

La pistola del giovane filibustiere cadde a terra con un tonfo sordo e quest’ultimo osservò il viso da demonio di Worthington con terrore e soggezione veri. “L’Implacabile!” si lasciò sfuggire dalle labbra rovinate, facendo un zoppicante passo indietro.

Perché due freddi occhi verdi rilucevano nella penombra del corridoio, traboccanti di una rabbia feroce e inarrestabile. “Adesso morirai” disse Arthur in un tono che sembrò essere l’incarnazione dell’oscurità stessa, mentre fu impercettibile il ghigno di soddisfazione brutale stampatosi sul suo volto virile.

Dimentica tutto, Arthur. Sono solo dei sassolini sul bordo della strada.

Ed era pronto a vibrare il fendente, se due deboli braccia non fossero comparse all’improvviso e avessero cercato di trattenerlo con una forza patetica, allacciandosi al suo braccio alzato.

“No!” urlò Saffie, strizzando gli occhi, sforzandosi inutilmente di tirare indietro la figura possente del marito. “È disarmato, lasciate che si arrenda!”

Dall’alto, uno sguardo tagliente scattò sulla ragazza castana e sul suo visino sì sconvolto, ma tutto rosso di una determinazione testarda.

Eccola di nuovo, l’insopportabile crepa sulla superficie liscia dello specchio.

Un coro di Urrà gioiosi e trionfanti si levò dal ponte sopracoperta, suggerendo agli astanti che la battaglia per la conquista della Mad Veteran doveva essersi finalmente conclusa.

Rinvigorito dalla notizia e dalla presenza del Generale, il soldato salvato dalla signora Worthington si rialzò di scatto e provvide a immobilizzare lo scarno pirata, che comunque poteva dire di reggersi in piedi per miracolo. “Lo porterò immantinente nelle celle della stiva, Ammiraglio!”

Arthur non gli rivolse parola e, anzi, voltò il capo scuro e ribelle verso la moglie, mostrando finalmente a Saffie un’espressione a dir poco omicida, come se l’uomo avesse intenzione di passare la giovane donna a fil di spada.

Ti avevo detto di non combattere” le sibilò, furibondo come non mai.



§



Una battaglia si era appena conclusa, mentre un’altra stava per avere inizio.

Dopo aver dato pochi schietti ordini ai gentiluomini al comando dell’Atlantic Stinger – lasciando il controllo della situazione in mano ad un esausto ma vivo Henry Inrving – Arthur Worthington era entrato a passo di marcia nella sua camera da letto e aveva sbattuto di malagrazia la porta dietro di sé, attirando l’attenzione dell’unica persona presente.

Sussultando spaventata, Saffie voltò il busto in direzione del marito e raccolse un’abbondante manciata di coraggio da chissà dove, perché non pensava di poter riuscire a sostenere lo sguardo gelido di un demone.

“Ah, cosa c’è, hai deciso di restare nei miei alloggi adesso?!” cominciò a prenderla in giro l’uomo, abbandonando ogni elegante formalità in favore di un linguaggio sboccato e pieno di rancore.

Ovviamente, non poteva esserci alcun margine di dubbio: l’ammiraglio era in collera con lei e la ragazza ammise di non averlo mai veduto così fuori di sé dal tragico giorno di pioggia in cui Amandine era scomparsa. Non che fosse un mistero, in fondo, il motivo di tutta quella ira a malapena repressa, visto che Saffie aveva deciso di disobbedire su tutta la linea alla volontà ferrea del marito, tirando fuori lo stesso carattere testardo da lui tanto detestato.

“E se decidessi che non è così? Se non volessi sottostare ai tuoi ordini?”

La Duchessina era cosciente di aver fatto un grave errore nel decidere di attendere il ritorno di Arthur ma, pure se erano volate parole pesanti fra loro, Saffie non era riuscita a mettere a tacere lo stupido desiderio di vederlo nuovamente.

“Provaci e trasformerò questa pagliacciata in una vera e propria guerra, mia cara.”

Eppure, ti ho chiamato dal profondo del cuore e tu sei comparso a salvarmi.

Worthington si portò vicino al suo scrittoio pieno zeppo di documenti ordinati e, senza dire una parola, sfilò il cappotto dorato dalle spalle ampie, rivelando una camicia immacolata, che non faceva intendere ferite di sorta. “Vattene” asserì poco dopo, freddamente; e fu come se stesse rivolgendosi al vento, perché non si sognò nemmeno di guardarla in faccia.

Saffie non poteva infatti sapere quanto il solo averla lì – sola ed indifesa nella stanza – riuscisse a turbare Arthur nel profondo; l’uomo stesso non comprendeva se avrebbe preferito vederla sparire come per magia o trascinarla direttamente nel letto vuoto dietro di lei.

Chiaramente, la ragazza non si mosse di un millimetro da dov’era e, anzi, cominciò ad arrossire in maniera adorabile, seppure imbarazzata. “Io…Io volevo solo sapere se avevi punito il giovane incaricato di sorvegliarmi” mormorò la Duchessina, senza in flessioni di tono. “Ti chiedo di non infierire su di lui in alcun modo: ha comunque cercato di proteggermi, rischiando la vita nell’intento.”

Un paio di taglienti iridi chiare scattarono sulla piccola figura di Saffie, animate ora da un nuovo moto di rabbia. Ancora, la piccola strega si prendeva la briga di dirgli come agire.

“Che – permettimi di sorprenderti – sarebbe il suo mestiere” commentò quindi Arthur senza perder tempo, ma bensì inacidito oltre ogni dire dalle parole della moglie. “Il nostro dovere è servire gli altri e l’Impero, mettendo in conto di poter morire nel frattempo. Continui a non arrivarci, ragazzina.”

A non trovare il tuo posto nel mondo, a sbattere le ali contro la tua bella gabbia dorata.

Saffie incassò il colpo e piantò bene i piedi a terra, rispondendo al fuoco con tutta la sua migliore caparbietà. “Ma sono intervenuta” ribatté con forza. “E ho salvato un vita…anzi, forse due.”

“È disarmato, lasciate che si arrenda!”

Oh, sapeva che l’avrebbe fatto andare letteralmente fuori di testa. Sapeva di star smuovendo le ceneri sotto le quali giaceva un violento e pericoloso fuoco sopito, ma alla ragazza non sembrò importare: non avrebbe permesso ad Arthur di continuare a riversare la sua crudele e arrogante superiorità sulla sua testa; anche se era insopportabile pensare che entrambi riuscissero a rivelarsi così diversi e, al contempo, identici. Due elementi contrapposti, ma paradossalmente simili.

“Credi per davvero di aver fatto questo?” la voce profonda di Worthington si era levata nella stanza, sormontando i rumori provenienti dall’esterno: tutta l’Atlantic Stinger festeggiava la vittoria a cui il Generale Implacabile li aveva condotti, mentre in quella camera si consumava l’ennesimo scontro fra un uomo e una donna che non si erano scelti l’uno con l’altra.

L’ammiraglio non attese risposta dalla moglie e, con la solita velocità da predatore, si portò in pochi passi di fronte a lei, mostrandole un viso pieno di sprezzo. “Hai messo quel ragazzo in difficoltà, come hai fatto anche con me” sentenziò, chinandosi sulla ragazza che – dal canto suo – non poté impedirsi di diventare ancora più rossa. “È il nostro lavoro e tu ti sei messa in mezzo, intralciando il combattimento.”

“Quel pirata stava per ucciderlo!” lo interruppe la Duchessina ad alta voce, quasi arrivando ad urlare in faccia ad Arthur che, sul serio, aveva indossato una maschera d’ira spaventosa da osservare. “Cosa avrei dovuto fare?!”

“Rimanere al sicuro!” ruggì l’uomo, allargando le braccia in un unico gesto nervoso, come se avesse voluto spezzare l’aria. “Hai rischiato di morire e rendere vano il sacrificio di qualcuno che aveva proprio il compito e il dovere di proteggerti ad ogni costo! Lo capisci, questo?!”

Colpita dal rimprovero del marito, Saffie decise di abbassare momentaneamente lo sguardo scuro sulle punte delle sue scarpette eleganti e degli stivali neri di Worthington. “Avevi detto di ammirare questo mio lato” mormorò con un’ingenuità non sua, vergognandosene immensamente subito dopo.

“Non quando decidi di agire da perfetta stupida” fu la secca e brusca risposta che ricevette dall’uomo, rinchiuso nella sua incrollabile sicurezza. “Continui a volerti immischiare in affari che non ti riguardano, malgrado tu non sappia nulla della Marina Britannica e della mia vita.”

Il visino ovale della ragazza fu di nuovo sul suo e Arthur dovette subire l’attacco di due iridi sorprese e, in un qualche modo, ferite.

“Io non pensavo…”

“Non pensavi” intervenne ancora l’ammiraglio, portandosi con una strana noncuranza la mano al colletto della camicia bianca; cominciò ad allentarlo lentamente, le dita strette attorno al costoso fazzoletto di seta. “Tu, Duchessina, non pensi mai agli altri o alle conseguenze, non è vero?”

Saffie osservò con vero e proprio stupore il lembo di stoffa cadere a terra ed il suo cuore perse un battito nel medesimo istante in cui rivolse di nuovo la sua attenzione alla figura imponente del marito, sempre troppo vicino a lei; e le sue guance si arrossarono fino a scottare di bruciante imbarazzo, poiché le dita di Arthur erano scese sul tessuto della camicia, i cui bottoni cedettero uno ad uno, svelando tra le pieghe della veste la terribile cicatrice crudele.

“Credi di poter parlare e comprendere le vite degli altri come se fossero la tua” le disse l’uomo, acidamente. L’ultimo bottone fu infine libero dall’asola e Saffie scoprì di non riuscire a staccare lo sguardo dal petto muscoloso del Generale Implacabile, dall’enorme sfregio che si palesava sopra di esso. “E pretendi senza alcun rispetto di vedere cose a te proibite.”

Di poter realmente capire l’oscurità del mio infinito abisso.

Arthur” pigolò la ragazza castana, facendosi sfuggire quella parola dalle labbra tremanti e, contemporaneamente, cercando di fare un passo indietro. “Non…non devi…”

Ma l’Ammiraglio non era intenzionato a concedere né tregua, né pietà alcuna. “Non chiamarmi per nome” la minacciò con voce roca, tinta di rabbia e rifiuto. Uno strano sorriso spigoloso fece mostra di sé sul volto di Worthington ed egli aggiunse, sardonico: “Hai sempre voluto vedere la mia cicatrice, se non sbaglio.”

Una morsa di paura si strinse sullo stomaco di Saffie che, in un battito di ciglia, vide la mano grande del marito allungarsi nella sua direzione e afferrarle le dita, imprigionarle fra le sue. “Eccola” asserì Arthur quasi ridendo, e si portò la piccola mano della ragazza al petto, premendola con forza sulla sua pelle calda, sulle venature della sua vergognosa cicatrice. “Questa mi ha quasi ucciso.”

Pure se aveva già avuto modo di intravedere da vicino lo spaventoso segno, la Duchessina comprese di non poter sfuggire all'aberrante orrore che esso continuava a provocarle e, di conseguenza, alla morbosa ossessione provata nei confronti del passato dell’uomo di fronte a lei. L’unica differenza stava nel fatto che Saffie non avrebbe mai voluto vedere la cicatrice in questo modo, impotente davanti non solo alla rabbia, ma anche al terrore provati da Arthur. Per la prima volta dopo diverso tempo, scoprì di avere la voce incastrata in gola, di non sapere bene cosa dire.

“Non era ciò che volevi?!” la prese in giro l’uomo, crudele come un predatore ferito a morte. Mollò bruscamente la presa dalle dita tremanti della piccola strega e, quasi il mutismo stravolto della moglie fosse cibo per la sua rancorosa ira, egli aggiunse: “Oh, ma non è di certo finita qui.”

A questo punto, Saffie e il suo cuore pieno di dolore avrebbero solo voluto sparire per sempre. “Ti prego, smettila” gli sussurrò la ragazza, gli occhi grandi pieni di lacrime.

Smettila di farti del male.

“…Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

No, avrebbe dovuto sapere che – ormai – aveva già superato con entrambi i piedi l’odiata linea di confine dietro cui aveva sempre osservato Worthington, che non le era più possibile tornare dall’altra parte. Era in bilico sull’orlo dell’abisso di Arthur e, forse, cominciava a comprendere quanto esso fosse in effetti profondo.

“Un Ammiraglio degno di questo nome pensa sempre alla sicurezza degli altri, hai detto?” lo sentì dire, raddrizzando il ribelle capo scuro; pure le ciocche disordinate dei suoi capelli castani sembravano prese da chissà quale tremendo sentimento. Senza far caso al sussulto sorpreso della moglie, l’uomo si sfilò con un gesto indifferente la camicia e scoprì del tutto le spalle larghe mentre, quasi rilucenti di disperata ironia, un paio di iridi smeraldine scivolarono lontano dal volto rosso di Saffie. “Prima che alla sua ambizione?

Smetti di infliggerti questa umiliazione, ti prego.

E nell’esatto momento in cui Arthur si volse, la ragazza udì distintamente il suono del suo cuore spezzarsi in due, morire di una sofferenza atroce e fulminante. Infine, ci era arrivata: non avrebbe mai potuto comprendere l’abisso a cui Worthington stesso si era condannato, per quanto si riconoscessero un dolore simile. Non avrebbe mai potuto raggiungerlo per davvero.

Sono stata così stupida.

Incapace di controllarsi, Saffie si portò le mani alla bocca e cominciò a piangere in silenzio, tremante e sconvolta, mentre il suo sguardo castano, sgranato di paura, non riuscì a staccarsi dalla schiena dell’uomo: perché la pelle di Arthur non era più pelle, ma un caotico e infinito insieme di tagli cicatrizzati e bianchi; forme indefinite ed eterne, opera disgustosa e malvagia di un diavolo che lei non conosceva.

“Questo significa essere me” asserì alla fine Arthur, la voce tornata piatta e controllata, monocorde. L’ammiraglio strinse le dita lunghe attorno al tessuto pregiato della camicia e abbassò la testa bruna con fare rassegnato. “Vattene via da qui. Tu non puoi comprendere.”

Fu forse quella, la frase che fece male più di tutto il resto.

La ragazza non si curò di asciugare alcuna lacrima e, anzi, si avvicinò in silenzio alla figura alta dell’Ammiraglio. Come era accaduto la sera in cui aveva deciso di voltarsi nella direzione dell’odiato marito e sbilanciarsi sulla linea inesistente che li divideva, Saffie si sporse verso di lui e l’abbracciò con cautela, appoggiando la fronte alla sua schiena sfregiata senza alcun disgusto. “No” soffiò contro la sua pelle martoriata, la voce incrinata e patetica.

“Ho detto, vattene” ripeté Arthur, irrigidendosi sotto il tocco delicato di dieci dita piccole, intrecciate sul suo petto. Il terrore e il desiderio si agitavano in egual maniera dentro alla sua anima nera, lottando una feroce guerra e provocandogli pensieri scomodi, impossibili.

Perché, perché non hai paura di me?

Le afferrò le mani, allontanandole dalla sua grande e vergognosa cicatrice.

“E io non voglio farlo” si impose la ragazza castana, testarda e adorabile come sempre. Saffie aveva forse deciso di buttare la dignità di Duchessina fuori dalla finestra, ma desiderava più di ogni altra cosa che lui la lasciasse stare al suo fianco senza respingerla ancora.

So di non potermi illudere, ma lasciarti solo nel tuo inferno mi ferirebbe a morte.

“Porti un peso troppo grande” gli sussurrò, con in bocca il sapore salato del pianto. Prese coraggio e intrecciò le dita con quelle dell’uomo, decidendo di aggiungere sommessamente: “Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Un silenzio pesante cadde fra loro e Saffie pensò che probabilmente lui l’avrebbe allontanata in ogni caso, perché le sue stupide parole non potevano di certo raggiungere il fondale dell’abisso; non le sue, almeno…non quelle della donna che aveva giurato di odiarlo, e che Worthington stesso aveva scelto di imprigionare.

Non la voglio questa sofferenza, che non riesco a comprendere.

“Sciocca.”

Saffie alzò lo sguardo luminoso e si sorprese di vedere il marito voltarsi a guardarla con dipinta in viso un’espressione di tormentata tristezza. Ancora una volta, le sue incredibili iridi chiare parevano quelle di un sovrano in catene ed erano stupende da vedere.

Una mano grande si allungò sul volto arrossato e bagnato di lacrime della ragazza, sfiorandone la pelle con delicatezza. “Non devi piangere per uno come me” le disse Arthur, passando lentamente il pollice sulle sue tenere labbra socchiuse. “Poi non venirmi a dire che non ti ho avvertita.”

“La solita testarda. Va’ via, finché sei in tempo.”

E si chinò su di lei, impossessandosi della sua bocca senza pensarci due volte, baciandola con un’urgenza irresistibile e vorace; rabbrividendo non appena la sentì rispondere al suo bacio con altrettanta passione a malapena repressa, come se anche Saffie non potesse farne ameno. Perché, in realtà, il giorno prima era esistito per entrambi.

“Te l’ho detto che saremmo stati in due ad affogare” soffiò la ragazza sulle labbra dell’uomo, staccandosene per un solo momento.

Pure se tu non mi amerai mai, colmiamo questa sofferenza.

La nostra oscurità accecante.

“Mentre io ti ho già detto quanto la tua sveglia testolina mi faccia andare fuori di testa, Saffie” si sentì rispondere da una voce ironica e sorniona, tentatrice.

L’interessata non fece in tempo a metabolizzare la gioia di averlo sentito pronunciare il suo nome, che l’uomo la sollevò di peso e – come se la Duchessina fosse stata di piuma – decise di avviarsi verso il fondo della camera, ammantata ora dell’oziosa luce del primo pomeriggio.

Saffie non si stupì più di tanto nel ritrovarsi sdraiata sopra un morbido materasso ma, ugualmente, il suo cuore impazzito e il rossore acceso del suo viso grazioso dicevano tutto sul suo reale stato d’animo. “Non è vero” commentò con grande imbarazzo, osservando Arthur portarsi sopra di lei e premere le mani grandi ai lati della sua testa castana. “Non è vero che detesti la mi…”

Ma di nuovo la chioma scura di Worthington si era fatta vicina alla sua, e lui aveva ripreso a baciarla con affamata foga, soffocando qualsiasi sfrontata parola. Un lieve lamento sfuggì alla Duchessina ed ella schiuse le labbra, arrendendosi alla lingua maledetta del marito che, ovviamente, non aspettò per insinuarsi in lei e conquistare tocco dopo tocco la sua bocca ansante.

Era un crudele e pericoloso demonio, un monarca dalla fame capricciosa e insaziabile, l’uomo che ora incombeva su Saffie con tutta la sua minacciosa statura; come se fosse ancora su un letale campo di battaglia, egli si preparava a fare sua la sfuggente preda che tanto aveva combattuto, rifiutato e odiato: non aveva smesso nemmeno per un secondo di baciare la Duchessina, ma quest’ultima dovette subire anche l’assalto di due mani calde e forti, che s’insinuarono sotto la gonna leggera del suo abito e cominciarono una lenta risalita, scoprendo così la pelle delle sue esili gambe.

Fu nel momento in cui Arthur l'accarezzò con dolcezza fra le cosce e una cascata di brividi colmi di desiderio le si riversò addosso, che la ragazza socchiuse gli occhi castani e lanciò una timida occhiata al corpo muscoloso dell’Ammiraglio; arrossendo a dismisura, lo vide slacciarsi i pantaloni con un unico gesto sicuro, mentre cominciava a farsi strada fra le pieghe della sua veste stropicciata con il bacino e, di nuovo, premeva le labbra affamate sulle sue, umide e arrossate.

Attraversiamo il confine invalicabile, la sofferenza che entrambi vogliamo colmare.

Aspetta” sussurrò Saffie all’improvviso, discostandosi appena dalla bocca del marito e puntando contemporaneamente dieci piccole dita contro il suo petto nudo.

Il Generale Implacabile inseguì per un attimo il viso della ragazza, come se ne fosse irrimediabilmente attratto; poi, furono due splendide iridi smeraldine ad aprirsi su di lei.

Senza essere ben conscia delle sue stesse azioni, la Duchessina alzò il busto e si mise seduta sul morbido materasso, portandosi di fronte ad un Arthur che si era fatto leggermente indietro; e un’espressione cauta si andò subito a dipingere sul suo volto leggermente abbronzato, attraente. Saffie pensò fosse davvero bellissimo, così fragile e indifeso, ma ugualmente pericoloso e incontrollabile.

“Io…” cominciò a dire quindi la ragazza con voce fioca, accorgendosi di star tremando leggermente. “Io voglio che anche tu mi veda.”

Vorrei sapere tutto di te…e che tu scopra tutto di me.

Tanto rossa da fare concorrenza a Keeran, Saffie portò le dita sulle semplici allacciature del suo abito, scoprendo con grande imbarazzo le esili spalle e il segno violaceo con cui lui l’aveva marchiata; svelando il mistero di un corpo minuto, da uccellino grazioso, di due seni piccoli ma irresistibili.

L’anima oscura di Arthur cominciò a fremere di nascosto, di terrore e desiderio, poiché – in un attimo – egli fu fulminato da una tremenda realizzazione.

No. Non avrebbe mai incontrato un’altra come lei.

La mano destra dell’uomo si mosse in avanti con una lentezza strana ed ipnotica, portandosi a contatto con la pelle fredda della ragazza, sfiorando il livido sulla spalla e risalendo poi fin sulla linea del collo sottile. “Una volta hai detto che non saresti mai stata mia” le disse Arthur in tono fin troppo serio, ma sorridendo infine come un diavolo tentatore. Si portò di nuovo vicino alle labbra schiuse di Saffie e il suo naso dritto quasi sfiorò quello di lei. “Invece lo desideri.”

Vuoi essere mia.

La bocca dell’uomo superò il viso della ragazza e proseguì fino al suo orecchio bollente di vergogna. “Ma non si tratta solo di questo” soffiò ancora l’ammiraglio, intrecciando le dita con i lunghi capelli di una Duchessina in balia di nuovi brividi. “Tu mi vuoi.”

E poggiò le labbra sottili sulla sua guancia, baciandola con una tenerezza che non gli apparteneva. “No?” le chiese ancora, sollevando lo sguardo chiaro sul visino sconvolto della piccola strega. Oh, si disse, le avrebbe strappato quelle parole di bocca. “Non è così?”

La baciò nuovamente, tanto delicato quanto crudele, indugiando sull’angolo della sua graziosa bocca; mentre decideva di scivolare con la mano lungo la schiena nuda della ragazza e attirarla a sé con possessività. Saffie si lasciò cadere fra le sue braccia ed egli dovette reprimere la fitta di scomoda felicità che gli si insinuò nel cuore, quando la sentì annuire piano contro la sua spalla.

“Sì” ammise lei, in un sussurro da canarino perduto nella tempesta; ed era tanto stravolta dai tocchi delicati di Worthington che si accorse appena di come il marito l’avesse guidata sopra di lui, mettendola in effetti seduta sopra le sue gambe toniche. Anche così, Saffie continuava a sembrare una fanciulla piccola e indifesa, al suo confronto.

Io ti temo e ti desidero più di quanto tu stesso immagini, pure se questo legame crudele non è amore.

In questo modo, spogliati per metà dei loro vestiti e delle loro paure, entrambi attraversarono il confine che più avevano odiato, ripudiato dal profondo del cuore.

Arthur premette le mani sui fianchi esili di Saffie, obbligandola con gentilezza ad abbassarsi su di lui, non stupendosi di vederla seguirlo docilmente e trovandola al contempo tanto bella da aver paura di corromperla per sempre. “Tu sei mia” le disse con voce spezzata, arrocchita dall’eccitazione. Cominciò a muoversi dentro di lei e – insieme a lei – rincorrere con una intensa lentezza un piacere inarrestabile. “Mia” ripeté sulle labbra della ragazza, raccogliendo il suo respiro ansante. “Solo mia.”

Pure se non ti amerà mai?

Eppure la vita di quel pensiero durò un istante poiché le dita di Saffie, aggrappate alle sue spalle larghe, risalirono inattese fin sul suo volto e la ragazza annullò definitivamente le distanze, attirandolo a sé e baciandolo come se ne andasse della sua stessa vita, soffocando i suoi gemiti dentro di lui.

Non dire queste parole Arthur, perché così mi ucciderai per davvero.

I movimenti dell’uomo si fecero tanto più veloci ed intensi, che la ragazza sentì di essere preda impotente di una forza mai sperimentata prima; una forza, una terribile fame, che lei voleva la inghiottisse del tutto. Le dita forti permute sulla pelle accaldata dei suoi fianchi, il marito le si rivelava in tutta la sua implacabile crudeltà, imponendole il suo ritmo e piegandola alla sua volontà senza pietà alcuna.

Ed è sulla linea di un orizzonte inesistente che aria e mare diventano un elemento solo.

Allo stesso modo, nessun loro dolore od oscuro senso di colpa sembrò esistere nel momento in cui si appartenevano l’uno con l’altra, perché sfogavano una sofferenza e un desiderio specchio di un sentimento che non volevano comprendere. Tutto cessava di essere così importante, se non l’aversi per sé.

Il massimo piacere arrivò per entrambi nello stesso straziante momento, in un eterno e lento secondo che li lasciò sudati e senza fiato, come se fossero due soldati scampati a una battaglia mortale.

In uno strano e pigro silenzio, Arthur si staccò dalle labbra rosse di Saffie e prese un profondo respiro, quasi cercasse di immettere aria nei polmoni, o si fosse liberato da chissà quale terribile peso. Le iridi chiare dell’uomo brillarono incredibili e verdi, posandosi sul viso adorabile della piccola strega: la ragazza lo guardava di rimando con due occhi grandi e innocenti, gentili; un’espressione di dolce stanchezza faceva mostra di sé fra lunghissime onde di capelli castano chiaro.

“Dio, sei stupenda” le disse, sorridendole per davvero.

Saffie sorrise a sua volta, radiosa come l’uomo non aveva mai avuto modo di vederla da due anni a quella parte, da quando l’aveva rincontrata. “Lo pensi seriamente, Generale?” gli chiese con finta ingenuità, tradendo un certo imbarazzato divertimento.

Allora Arthur la strinse a sé con forza, nascondendo nella spalla della moglie un volto tanto bello quanto rosso. “Te l’ho detto che sei una sciocca, ragazzina.”

“Mentre io ti ho detto che non voglio essere chiamata così” sbuffò la ragazza, portando le dita esili sulla sua chioma bruna e disordinata.

E stettero abbracciati nella quiete della stanza per qualche tempo, contenti che il rumoroso mondo di fuori si fosse dimenticato della Duchessina di Lynwood e del Generale Implacabile per un po’.





Angolo dell'autrice:

(scritto il 16/03)


*Spero consideriate di Votare/Recensire questa Dodicesima parte, se vi va!*

Finalmente ho potuto scrivere questo capitolo! \(*w*)/

Buonasera e Buon Mercoledì!

Non vedevo letteralmente l’ora di poter vedere interagire Arthur e Saffie così tanto come è successo in questo capitolo! Ho appena finito di ricontrollarlo per l’ennesima volta – alla ricerca di eventuali errori nascosti – quindi se questo mio intervento risulterà un attimo confuso/sgrammaticato, posso solo giustificarmi dicendo che ho la testa un attimo “fumante”!

Quindi vi chiedo scusa, ma volevo che il Dodicesimo Capitolo avesse meno Errori-Orrori possibili! :D

E sono contenta di poter pubblicare oggi, pur se ho sforato di qualche giorno il limite di due settimane di tempo che mi ero data. \(T.T)/ Questo va un po’meno bene, ma penso ne sia valsa la pena…oddio, in realtà non so, spero che vi sia piaciuta questa parte!

Io, da parte mia, volevo a tutti i costi incentrarla totalmente su Saffie e Arthur, anche se credo sia il punto di vista di quest’ultimo quello più presente. Ma, detto questo, ho letteralmente A-D-O-R-A-T-O vederli scontrarsi durante tutto lo svolgimento del Capitolo per poi buttarsi l’uno tra le braccia dell’altra alla fine! Forse sarà un po’ strano, ma io sono una grande fangirl dei miei stessi personaggi, per quanto a volte tenda ad essere sadica nei loro confronti!

Ma è tutto per il bene della storia! (U.U)

Ora, voglio ringraziare tantissimo chi – arrivati fin qui – continua a leggere “Away with you”, a votarla, aggiungerla fra le sue letture, a seguirla e a dedicare un po’del suo tempo nello scrivermi un recensione! Per me vale tantissimo, perché contribuisce a darmi tanto coraggio e fa sentire i miei sforzi ripagati! Quindi, ancora Grazie a Tutti! :D

In ultimo, una novità: pensavo di cambiare il nome alla storia in breve tempo (e anche la copertina su Wattpad), quindi penso sia meglio dirlo in anticipo! ^^

Un forte abbraccio virtuale,

Sweet Pink

P.S: Conto di pubblicare il Tredicesimo Capitolo nelle solite tempistiche, ma visto che si tratta di una – se non forse LA – parte importante della storia, potrebbe volermici qualche giorno di più! Vi chiedo perdono, ma voglio che sia scritta in maniera decente. ^^

See you soon!

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Capitolo 14
*** Tredicesimo. Il Segreto di Amandine. L'inizio. ***


No, non c’è l’ho fatta: un altro capitolo che ho dovuto spezzare in due parti a causa dell’eccessiva lunghezza…sta diventando una sorta di vizio, questo! (T.T) Sob!

Posso solo dirvi che la seconda parte la voglio pubblicare a tutti i costi entro la fine di questo stesso mese, quindi non perdiamo la speranza!

Avvertenza: Il seguente capitolo ha rating rosso, poiché alcune scene potrebbero urtare la sensibilità di qualcheduno. Quindi, procedete nella lettura con le dovute cautele.

Io sarò nel mio Angolo ad attendervi, a fine lettura! \(°u°)/



CAPITOLO TREDICESIMO

IL SEGRETO DI AMANDINE

L’inizio






Un vento fresco e gentile soffiava sulle cime verdi degli alberi, smuovendone le foglie verdi e producendo così un suono armonioso, che induceva chi lo ascoltava a fermarsi con il naso all’insù, in direzione di un cielo dall’azzurro ammaliante. In generale, una calma bizzarra regnava su tutto il parco circostante e l’uomo fermo sul sentiero di ghiaia chiuse per un momento gli occhi castani, lasciando che la brezza primaverile spettinasse i corti capelli grigi, finalmente liberi da qualsiasi opprimente parrucca ricciuta.

Come è diventato tutto silenzioso, da quando Saffie e Amandine non ci sono più.

“È inaudito!”

Dopo un sospiro pesante e rassegnato, Alastair Lynwood si voltò lentamente indietro – in direzione della candida villa che apparteneva al Casato da tre secoli a quella parte – e le sue iridi annoiate inquadrarono immediatamente l’alta figura di Cordelia venirgli incontro a furibondo passo di marcia, le dita pallide strette nervosamente sulla costosa gonna color lavanda e un’espressione di evidente irritazione stampata sul viso truccato. “Che accade, amore mio?” le chiese in tono piatto, quando la donna fu a portata di voce. “La Marchesa di Middleton ha di nuovo rifiutato il tuo invito al nostro Picnic sull’erba di Sabato?”

“Come se potessi veramente dare importanza alla presenza di Lottie Middleton!” sbottò di tutta risposta la Duchessa, portandosi di fronte al marito e aprendo di scatto un lezioso ventaglio fatto di piume, nascondendo il suo disappunto dietro di esso. “Ci crederesti, se ti dicessi che il Marchese ha dovuto cambiare per la quarta volta la sua dama di compagnia visto che ha scoperto come – di nuovo – ella non condividesse con la moglie solo ricami e passeggiate, ma pure le coperte?”

“Interessante” commentò monocorde Alastair, abbassando pigramente lo sguardo sulle iridi turchesi della donna che trent’anni prima era stato costretto a sposare: non l’aveva mai amata, la sprezzante Cordelia Bailey, ma aveva sempre trovato estremamente divertente la sua compagnia. “È una disgrazia, che dopo tanto tempo ancora non abbia imparato ad abbassare il suo tono di voce.”

Il Duca di Lynwood la vide chiudere il ventaglio di scatto e concedergli un leggero colpetto scherzoso sul petto; ed era il tradizionale segno con cui lei gli soleva dimostrare il suo altezzoso apprezzamento, quasi gli stesse concedendo chissà quale raro onore. “Fin troppo vero, mio signore. Fin troppo vero” gli disse, mentre l’ombra di un ghigno divertito sembrò passare su quelli che un tempo erano stati tra i lineamenti più ammirati dell’intera aristocrazia inglese. “Ma non sono stati ovviamente i vizi della Marchesa di Middleton a turbarmi oltre misura.”

Due iridi color turchese, le stesse ereditate da Amandine, si abbatterono al suolo e Alastair pensò di non aver più visto sua moglie sorridere da parecchio tempo. Considerò che probabilmente non sarebbe riuscito a strapparle una sola risata, poiché erano entrambi invecchiati di cent’anni nel giro di soli sei mesi e avevano visto il loro bel Paradiso bruciare davanti ai loro occhi, malgrado la crudeltà con cui avevano sempre cercato di preservarlo.

Avevano perso una figlia…la loro bellissima Amandine.

Mosso da un dolore incolmabile, Alastair afferrò con gentilezza le dita fredde della moglie, stringendole con una empatica comprensione che non era in effetti famigliare né a Cordelia, né a lui stesso. “Cos’è accaduto?” le domandò ancora, ammorbidendo la voce e cercando di scavare nell’espressione improvvisamente triste di colei che aveva davanti, come se non la conoscesse meglio di chiunque altro.

Cordelia scosse la testa bionda con noncuranza, evitando ostinatamente lo sguardo attento del Duca. “Oh, sono stati quegli inetti dei nostri servitori” mormorò, con il tono incrinato e le lacrime agli occhi. “Il baule con tutti i vestiti e i ricordi della mia piccola principessa, quello che avevo deciso di tenere una volta svuotata la sua camera...scopro ora che è stato erroneamente imbarcato insieme agli effetti di Saffie sull’Oceanic Stinger, o come si chiama la nave posseduta dall’ammiraglio Worthington.”

“È l’Atlantic Stinger, mia cara.”

“Non è questo il punto, Alastair!”

Il grido pieno di isterica disperazione spezzò in due la quiete di quel pomeriggio d’Aprile. In un gran frullo d’ali, uno stormo di spaventati passerotti volò via, mentre non un suono sembrò fender l’aria da quel momento in avanti; persino il Duca di Lynwood ammutolì di fronte alle lacrime della moglie che, da quando l’aveva conosciuta, era stata capace di piangere solo di fronte alle sue ridicole questioni e mai aveva dato alcun peso alla vanitosa superficialità dell’uomo con cui aveva condiviso la vita. “Non ho più niente di Amandine. Più niente!” esclamò, lasciando la mano di Alastair e portandosi le dita sul viso congestionato, nascondendo così il suo dolore e la sua vergogna dietro di esse. “Mentre abbiamo punito Saffie per la sua morte, sacrificandola all’ambizione di quell’uomo e ai nostri interessi!”

Un senso di colpa insopportabile da sostenere traboccava infine dalle labbra tremanti di Cordelia e, per la prima volta in cinquantun anni, il Duca si trovò indifeso e impotente di fronte ad una situazione che scoprì di non saper come gestire: sua moglie era sempre stata un appoggio silenzioso e mansueto, ma incrollabile; e ora la trovava in pezzi, distrutta giorno dopo giorno dalle crepe che avevano infranto la maschera. “Non abbiamo avuto scelta” provò a dirle cautamente, allungando le braccia verso il suo corpo da cigno elegante. “Dovevamo salvare il Casato e rispettare il patto stretto con Simeon. Non ho avuto scelta, Cordelia.”

“Non hai avuto scelta, perché solo chi vuole sopravvivere vince sempre” commentò la donna di rimando, crudele ed ironica. Si fece indietro, sfuggendo dalle mani tese di Alastair e continuò, incurante del trucco pesante ormai colato sulle guance bagnate di lacrime: “Siamo stati dei genitori orribili, che in verità hanno avuto la possibilità di scegliere fin dall’inizio e hanno invece deciso di essere meschini e crudeli, imperdonabili.”

Gli occhi castani del Duca si spalancarono sul vuoto, sorpresi.

“…imperdonabile, Alastair! Benjamin è come un figlio per me, lo sapete bene!”

“Il Cielo ci ha già punito per questo” fece la voce arrocchita della Duchessa di Lynwood, ora tinta di uno strano misto di rabbia e rimorso. “E adesso non mi resta altro che pregare per Saffie: se Dio vorrà castigarmi un’altra volta, allora esaudirà il tuo desiderio e la farà diventare uguale a te, più di quanto tu non l’abbia già plasmata.”

Senza aggiungere una sola parola, né aspettare alcuna risposta da un immobile Alastair, Cordelia decise di voltargli le spalle e avviarsi di tutta fretta lungo la china del sentiero di ghiaia, sparendo dalla vista del marito, lasciandolo solo con i suoi pensieri e le sue consuete macchinazioni. Con i suoi ricordi.

Ma non è il vostro vero e legittimo erede, Simeon” pensava di aver detto alla figura massiccia del suo amico di un tempo, entrato come un inatteso terremoto dentro al lussuoso studio di casa Lynwood. “Non insultate la mia intelligenza, ve ne prego; non dopo che l’orfano sotto la vostra protezione ha osato offendere il Casato in maniera irreparabile.”

Egli è parte dei Worthington, tanto quanto lo è Arthur” aveva quindi ringhiato Simeon, portandosi davanti alla scrivania dietro alla quale il Duca sedeva in tutta tranquillità e fissandolo con due taglienti occhi metallici. “Vuoi fare scoppiare uno scandalo?”

Un lucente sguardo castano si era sollevato pigramente, fermo e pericoloso come quello di un serpente in attesa di colpire. “No, ma sembra che tu lo voglia” aveva ribattuto Alastair, abbandonando a sua volta il formale voi di cortesia. “Il dottore è un Rochester: un figlio di plebei, di due dei tuoi più fedeli domestici per la precisione. Pensi sul serio che la tua reputazione e, soprattutto, quella di tuo figlio non ne risentiranno?”

Oh, Alastair sapeva benissimo che avrebbe visto il suo migliore amico di sempre vacillare di fronte alle sue ultime parole; esitare, se posto davanti alla prospettiva di distruggere la sfolgorante carriera del tanto amato Arthur: in fondo, un grande peso gravava sulle spalle di Simeon e si trattava del soffocante senso di colpa per non essere riuscito a sventare il rapimento non solo del figlio prediletto, ma anche della madre di quest’ultimo.

Non accetterò mai un plebeo nella mia famiglia ed è già tanto io non abbia fatto uccidere il tuo Benjamin per ciò che ha combinato” si era quindi sentito libero di continuare, poggiandosi pigramente con il capo grigiastro sul palmo aperto della mano ma, in verità, continuando a fissare Worthington con due occhi pieni di collera mortale. “Come credi io possa perdonare un'onta simile?”

Dall’alto, un’espressione di sprezzante indignazione si palesava sul volto severo di un Simeon fuori di sé. “Forse stai tralasciando il coinvolgimento di tua figlia nella faccenda” aveva mormorato infine l’ex Ammiraglio, sfoderando un freddo sorrisetto storto; e si era sporto in avanti lentamente, puntellandosi alla scrivania con le mani grandi e rovinate, decidendo di aggiungere, minaccioso: “Chi può dirlo, che non sia stata proprio lei a sedurre il mio figlioccio?”

A poca distanza dal suo, uno sguardo castano riluceva immobile e tagliente, glaciale. “Sembra tu abbia scelto la via dello scandalo e della rovina, Simeon.”

Un silenzio pesante era calato fra i due amici d’infanzia, impegnati ad affrontarsi su un terreno accidentato ed altrettanto periglioso, scomodo. Proprio nel momento in cui Alastair credeva di averla spuntata e di star piegando la volontà di Worthington ai suoi desideri, l’uomo di fronte a lui aveva schiuso le labbra e pronunciato le ironiche parole che avevano di nuovo cambiato tutto: “In questo caso, sarà la disgrazia ad abbattersi sul tuo Casato, Alastair…perché, davvero, non sarebbe opportuno ti informassi meglio sulle discutibili compagnie frequentate dalla tua primogenita nella Capitale?”

Ancora in piedi nello stesso punto del sentiero in cui la moglie l’aveva abbandonato, il Duca di Lynwood ricordò con dolorosa vergogna di essersi alzato di scatto dalla sedia, quasi come se Simeon gli avesse vomitato addosso una bestemmia irripetibile.

Ah, l’ho sempre saputo che, nel profondo, è la signorina Saffie la tua preferita” aveva commentato con vera crudeltà Worthington, raddrizzandosi e sorridendo infine di un oscuro divertimento. L’ex ufficiale aveva poi voltato le spalle robuste ed aveva scelto di sparire di scena, interrompendo così il loro colloquio. “Parleremo nuovamente, Alastair” aveva aggiunto solamente, fermandosi per un istante sulla soglia della stanza. “Raggiungerò mio figlio a Londra e vi risiederò per alcune settimane, o almeno fino alla sua nuova partenza per le colonie. Sentiti libero di scrivermi o raggiungermi in città, se mai avessi qualcosa di interessante da propormi.”

E, dopo un ultimo sorriso terribile, era uscito dallo studio, abbandonandolo in preda a una furia e una preoccupazione annichilenti, distruttivi.

Un tramonto dolce e caldo tinse di sfumature rosso sangue il cielo terso, ma Alastair Lynwood sembrò non curarsene affatto. Alzò lo sguardo sulla cupola magnifica che sovrastava la sua testa grigia, sentendosi in qualche modo giudicato da essa: era come se, dall’alto, gli occhi turchesi di Amandine lo guardassero con un odio profondo e riuscissero a vedere ogni cosa dentro di lui, peccati mortali compresi.

Lo so, ho costruito io le sbarre della vostra gabbia dorata. Io vi ho imprigionate.

Però tu, Amandine, hai stravolto le nostre vite nell’esatto momento in cui ti sei innamorata di quel maledetto Dottore.



§




C’era stato un giorno in cui si erano detti “Solo per questa volta” ma, da quando avevano iniziato, non erano più riusciti a fermarsi.

La battaglia decisiva contro la Mad Veteran si era infine conclusa senza troppe difficoltà, proprio come previsto dal tremendo Generale Implacabile; pure se, contro qualsiasi previsione, erano stati i momenti successivi allo scontro a decretare la vittoria del legame crudele di cui Saffie e Arthur non potevano più liberarsi: si erano arresi entrambi al suo potere, al disperato desiderio che ne derivava.

Avevano passato le pigre ore del pomeriggio in silenzio, sdraiati l’uno di fianco all’altra sul morbido letto dell’Ammiraglio, a malapena coscienti dei sobri festeggiamenti che si stavano consumando in tutta la nave. Similmente alla notte in cui si erano lasciati alle spalle il reciproco disprezzo, Worthington l’aveva stretta fra le braccia con lenta cautela e, in uno strano quanto sereno silenzio, aveva chiuso gli occhi verdi fra le palpebre, abbandonandosi ad un sonno ristoratore.

“Deve essere esausto” aveva pensato Saffie, alzando lo sguardo sul volto affascinante del marito. Il suo cuore impazzito martellava forte contro la cassa toracica, suggerendole che con tutta probabilità non sarebbe riuscita affatto ad addormentarsi tanto presto. “Grazie al Cielo non ha riportato alcuna ferita.”

Le iridi castane della ragazza si erano poi posate sulle sue stesse piccole dita, ben permute contro il petto nudo di Arthur, i polpastrelli a contatto con la ruvidità della sua bianca e malvagia cicatrice. Il respiro dell’uomo al suo fianco era regolare e tranquillo; ed egli non sembrava più l’oscuro e terribile Ufficiale che l’aveva imprigionata, condannandola a seguirlo fin nelle profondità del suo abisso. Pareva così umano e fragile, pure se lei poteva dire di non conoscere veramente nulla della sua vita.

Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

Di non sapere niente di ciò che era stato in passato.

Ovviamente, quella pacata stasi irreale non poteva durare per sempre: c’era stato anche il momento in cui era dovuta tornare nelle sue stanze, abbandonare il giaciglio condiviso con uno stranamente silenzioso Worthington che, da quando si era svegliato, le aveva dedicato solo due o tre parole imbronciate, come se non fosse affatto favorevole all’idea di vedere la moglie uscirsene dai suoi alloggi così presto.

“La battaglia si è appena conclusa e io sono stata assente troppo a lungo” aveva cercato di spiegargli Saffie in un sussurro imbarazzato, tradendo un rossore acceso che le aveva imporporato le gote in modo adorabile. Eppure, la ragazza si era accorta di aver nell’anima un’agitazione nuova e – per assurdo – felice. “Keeran sarà in pensiero per me.”

Dal canto suo, Arthur non aveva risposto alle sue parole esitanti e si era invece limitato ad osservarla con le sue incredibili iridi smeraldine, inseguendo con uno sguardo indecifrabile le mani della piccola strega lottare con le allacciature del semplice abito da giorno che aveva deciso di indossare. “Dimostri un’ardente preoccupazione per la tua serva” aveva commentato solo, lasciando andare il capo scuro contro la tastiera elegante del letto.

La signorina Byrne” l’aveva corretto Saffie senza voltarsi a guardarlo, ma bensì passando le mani sul tessuto stropicciato della gonna. “Come se l’ammiraglio Worthington non vegliasse in gran segreto sull’indisciplinato James Chapman.”

“A volte mi pento di aver preso quel ragazzino capriccioso sotto la mia protezione.”

Uno sbuffo divertito e scettico si era fatto sentire nella stanza. “Bugiardo” era stata l’unica parola uscita dalle labbra sorridenti della Duchessina che, davvero, scoprì di non riuscire in alcuna maniera a voltarsi e posare gli occhi sul corpo imponente del marito; appoggiato con la schiena alla spalliera del letto, l’elegante abbandono di Arthur lo faceva assomigliare ad una quieta e magnetica statua greca.

Saffie sapeva che, se si fosse girata verso di lui, sarebbe stato impossibile non cedere alla tentazione di tornare sotto le coperte e buttarsi nuovamente fra le sue braccia, dimenticare ogni cosa.

Anche se questo legame crudele non può essere amore.

Era stato quindi con un fastidioso groppo in gola che la ragazza aveva cominciato a camminare in direzione dell’uscio della camera, raggiungendone la porta in una manciata di eterni secondi: non capiva bene come dover prendere commiato da Worthington perché – ora che avevano entrambi attraversato il confine – cosa sarebbe potuto cambiare fra di loro?

Al di là della soglia, si udivano suoni confusi e indistinti; parole e risate piene di sollievo che le fecero intendere come le ore passate non avessero smorzato l’entusiasmo dell’equipaggio per il trionfo dell’Atlantic Stinger: grandi onori attendevano il Generale Implacabile a Kingston, ma pure tutti gli uomini della ciurma ne avrebbero goduto i conseguenti vantaggi.

Sulle sue mani, il sangue di centinaia di uomini, poiché non esiste alcuna pietà per chi incrocia il suo cammino!”

Ma in realtà tu non sei solo questo, Arthur.

“Certo che il Capitano Inrving è stato piuttosto avventato!” aveva esclamato con tono fin troppo gioioso un Ufficiale, probabilmente in piedi nel corridoio. “Concedere a tutti una sana bevuta…e un giro di Rhum, nientemeno!”

“Sono sollevato nel sapere la graziosa dama di compagnia della signora Worthington al sicuro insieme al nostro inflessibile medico di bordo” era stata la risposta di un altro, accompagnata da una sonora risata. “Per certo, lei e il piccolo figlio di Rochester staranno dando una mano a medicare i pochi feriti che abbiamo avuto.”

“Più Alcool per noi, allora!”

Una mano grande era entrata all’improvviso nel campo visivo di Saffie, premendo contro il legno della porta chiusa. “Te l’ho detto: ti preoccupi troppo per la ragazzina” aveva soffiato contro il suo orecchio una voce profonda, dalle sfumature tentatrici. “Sembra tu non abbia più nessuna scusa per andartene.”

La ragazza aveva sgranato gli occhi sorpresi sul vuoto e il cuore le era schizzato in gola in meno di un secondo, poiché ancora le mani di Arthur stavano provvedendo a imprigionarla crudelmente; ad accarezzarla con una leggerezza sì calda, ma irremovibile. Ricordava di essersi lasciata travolgere da un’alta e buia onda, che la lasciò annaspante e piena di brividi, tanto da costringerla ad appoggiarsi con le braccia alla porta davanti a lei.

“Sei scorretto” era riuscita a sussurrargli solo, tremante e rossa come una foglia d’Autunno.

Oh, lo sono sempre stato” le aveva risposto il marito in tono sarcastico, sorridendo contro la sua guancia bollente e parendole così lo stesso diavolo della loro prima notte di nozze. All’identica stregua dell’assurdo sogno di qualche settimana prima, le dita lunghe dell’uomo si erano insinuate lente fra le sue cosce e Saffie aveva boccheggiato, trattenendo con uno sforzo disumano la voce.

“Ma anche tu lo sei, Duchessina” aveva continuato il maledetto Worthington, soave come non mai, quasi godendo del dominio che riusciva ad esercitare sulla sua preda tremante. “Quanto lo sono io.”

Scorretti, egoisti e bugiardi, persino con noi stessi.

Siamo uguali, io e te.

In questo modo l’aveva fatta sua un’altra volta. Lì, contro la porta chiusa e con gli Ufficiali a portata d’orecchio, premendo una mano contro la sua bocca ansimante.

Non farti sentire” le aveva imperato una volta sola; e l’aveva fatto con una voce talmente irresistibile, che Saffie aveva deciso di punirlo per la sua sfrontatezza: aveva così girato il viso e incontrato le sue labbra sottili, baciandolo per prima e assaporando tutta la soddisfazione di essere riuscita a prenderlo in contropiede.

Così si erano presi l’uno con l’altra disperatamente, come se fosse stata una questione di vita e di morte e – da allora – non erano più riusciti a fermarsi, a farne a meno.

Le stanze dell’Ammiraglio erano infatti diventate il loro nascondiglio, il microcosmo a cui ritornavano e in cui volontariamente si rinchiudevano, sfuggendo in questa maniera alla sofferenza che in realtà continuava a essere dentro di loro. Avevano entrambi deciso di scordarla, poiché il loro crudele legame aveva il potere di cancellare qualsiasi consapevolezza o senso di colpa, tanto quanto nei mesi precedenti era riuscito a provocarne.

L’Atlantic Stinger e la Mad Veteran procedevano a vele spiegate in direzione della loro meta mentre, con una apparente noncuranza, Saffie e Arthur continuavano a rivolgersi a malapena la parola durante il tempo che trascorrevano sopracoperta. Sotto, al contrario, approfittavano di ogni occasione per poter bruciare la loro insaziabile passione, quasi fossero due amanti nascosti e non marito e moglie: se per la maggior parte delle ore ricoprivano il ruolo di Duchessina di Lynwood e Generale Implacabile – distanti nella loro routine giornaliera – non si poteva dire lo stesso dei momenti in cui si incontravano nella camera dell’Ammiraglio, dove potevano essere solo Saffie e Arthur.

Dove il passato non contava più nulla.

L’uomo l’abbracciava, sollevandola di peso e, quasi ridendo l’uno sulle labbra dell’altro, entrambi si lasciavano cadere sul letto pronto ad accoglierli.

Arthur le sorrideva e la guardava con una gentilezza che non era mai stata per lei.

C’erano state alcune volte in cui un scomodo pensiero si era infilato nella sua mente a tradimento, malgrado gli sforzi fatti dalla ragazza per non credergli terreno alcuno: alla stessa stregua di una fanciulla ingenua e impressionabile, la Duchessina si era chiesta se il marito avesse amato altre donne in quella famelica e sofferta maniera, se le avesse prese con l’identica disperazione; e, a causa di quel vergognoso dubbio, un nuovo sentimento sgradevole aveva cominciato ad affacciarsi di tanto in tanto alle porte del suo cuore.

Non trovi sia bellissimo, Saffie?”

Una gelosia che non aveva nessuna ragione di essere.

Una folata di vento caldo passò delicatamente sopra il suo viso e la ragazza castana sbatté due o tre volte le palpebre, rendendosi conto di essersi estraniata ancora dal mondo circostante e, di conseguenza, di non aver risposto alla domanda posta dalla sua domestica personale.

“Come hai detto, mia cara?”

Keeran alzò il viso paffuto su quello arrossato della padroncina e si concesse un leggero sbuffo d’insofferenza, parendo alla Duchessina un pulcino tutto scocciato: erano difatti passate quasi due settimane dalla morte di Douglas Jackson e se di primo acchito Saffie era stata in pena per le conseguenze che il dolore avrebbe potuto causare alla diciasettenne, di certo non si era aspettata di vederle una luce diversa nello sguardo già il giorno dopo. Ciò aveva portato la signora Worthington a chiedersi se la nuova impacciata determinazione di Keeran fosse merito solo del suo doloroso racconto, oppure non fosse in realtà accaduto altro che lei evidentemente ignorava.

In barba alle preoccupazioni nutrite dalla ragazza castana, la signorina Byrne aveva dimostrato un notevole cuore e un indomito coraggio fin dai momenti successivi alla battaglia avvenuta contro la Mad Veteran, poiché Benjamin Rochester stesso era rimasto piuttosto interdetto nel vederla comparire sottocoperta con un’espressione tesa stampata sul tremante viso pallido. Da quanto era stato poi raccontato a Saffie da un impressionato piccolo Ben, Keeran si era offerta di aiutare il medico di bordo e il personale al suo servizio nelle procedure necessarie a salvare quante più vite possibili, visto che non desiderava starsene con le mani in mano mentre diversi uomini di mare rischiavano la stessa sorte del povero Douglas.

“Sta-stavo chiedendovi della dimora che occuperemo a Kingston” ripeté infine l’irlandese, balbettando appena. “Come vostra dama di compagnia e domestica personale è mio dovere or-organizzare lo spostamento dei vostri effetti. E vi-vi assicuro che avete portato con voi non pochi bauli!”

La Duchessina si concesse un tenero sorriso divertito, di fronte al tono leggermente spazientito di Keeran. “Sembri cambiata, amica mia” pensò con vera ammirazione e, al contempo, ricordando il giorno in cui l’aveva incontrata per la prima volta: non era più un cucciolo sperduto e terrorizzato colei che le stava accanto, ma un’incantevole ragazza dagli occhi magnetici e alquanto determinati; la diffidenza impaurita che una volta vi si leggeva dentro era infatti sparita per sempre.

Hai infine scelto di vivere anche per Douglas e di provare a fidarti di coloro che ti circondano, me compresa.

“Non dovresti pensare a queste piccolezze, adesso” commentò Saffie con frivola noncuranza, sventolando la piccola mano in direzione della domestica. “Dovresti solo tenere compagnia alla sottoscritta e goderti il resto della traversata, perché necessiti di riposo. In fondo, io stessa non saprei darti troppe informazioni su ciò che ci attende al nostro arrivo.”

A Kingston. Il futuro che non ho scelto e a cui Arthur mi ha condannata senza pensarci due volte.

Uno strano e sgradevole brivido scosse interamente il suo corpo minuto, lasciandola preda di un freddo pungente che niente aveva in comune con quella calda giornata. La ragazza castana spostò quindi gli occhi oltre al parapetto della nave e osservò l’oceano scuro ruggire sotto di loro, poiché era stata distratta da un angoscia tanto improvvisa quanto terribile.

E non saremo più obbligati a occuparci l’uno dell’altra, né a frequentarci seriamente.”

Se Saffie aveva sempre aspettato con ansia il momento dell’arrivo nella ricca cittadina dei Caraibi Inglesi, ora la sola prospettiva non le provocava null’altro che un’agitazione dolorosa, accompagnata da un desiderio altrettanto scomodo.

Stupida. Tu non hai il diritto di illuderti, né di poter sperare che lui scelga di restarti accanto.

Il tuo posto non è al mio fianco, Duchessina.”

Grazie al cielo, venne la voce sorpresa di Keeran a riportarla con i piedi per terra. La diciassettenne scosse la ricciuta chioma corvina con fin troppa energia e – questo almeno non era cambiato – un acceso rossore imbarazzato si diffuse sul suo viso tondo in un attimo. “Lo sa-sapete benissimo che non sono affatto stanca!” esclamò subito, quasi mostrandosi scandalizzata dalle parole a dir poco rivoluzionarie della padroncina. “No-non comprendo cosa ve l’abbia suggerito, signora Saffie!”

“Oh, ma non hai passato gli ultimi tempi ad imparare dal signor Rochester i segreti del mestiere?” domandò ingenuamente l’interpellata, fingendosi tanto innocente quanto sorpresa. Il viso di nuovo sorridente della signora Worthington si rivolse a prua del vascello dove, ignara e zoppicante, l’alta figura da principe capriccioso di James Chapman incespicava sulle assi umide del pavimento: una stampella di legno a sostenerlo, l’ufficiale prediletto di Arthur controllava le attività massacranti dei marinai con incisa nei lineamenti una irritazione davvero notevole. E allora il ghigno divertito di Saffie sembrò allargarsi a dismisura, mentre quest’ultima decideva di aggiungere, soave: “Dicono tu abbia salvato la gamba al tenente Chapman; ma, d’altronde, so per prima quanto tu sia portata per il cucito”.

Un qualcosa di indefinito e muto attraversò le iridi di Keeran e lei seppe di aver fatto centro. A conferma di ciò, la sua domestica si voltò all’indietro di scatto e osservò ad occhi spalancati James parlottare freddamente con il nostromo.

Al solito, lo sguardo grigio del tenente non pareva comunicare altra emozione al di fuori della noia.

Mi sono dimostrato così terribile da non meritare nemmeno una tua parola?”

Mossa da un fastidioso senso di colpa, l’irlandese si costrinse a distogliere la sua attenzione dal ragazzo in questione e, anzi, spostò il viso rosso dalla parte opposta, in direzione del ponte di comando e dei suoi pomposi componenti. Di certo, aveva impiegato il suo tempo nell’aiutare il medico di bordo a medicare i feriti ed era altrettanto vero che era stata lei stessa ad occuparsi della ferita del tenente Chapman, ma Saffie non poteva sapere quanto le era effettivamente costato farlo.

Con il senno di poi, Keeran avrebbe preferito ricucire e disinfettare altri cento uomini, piuttosto che essere costretta a passare un’opprimente ora in compagnia dell’atteggiamento glaciale di James. Dimostratosi all’altezza di colui a cui aspirava, il tenente aveva difatti accompagnato all’altro mondo un discreto numero di anime ma – caso strano – era uscito dal conflitto con un taglio abbastanza profondo e, aveva pensato la ragazza mora, era stato forse a causa della vergognosa ferita che Chapman si era presentato davanti al signor Rochester coperto non solo di sangue, ma pure di un’abbondante dose di sprezzo.

Ovviamente, il fatto che il dottore l’avesse immediatamente lasciato alle cure di una ragazzina ingrata non aveva aiutato il suo stato d’animo. Il cuore fattosi improvvisamente pesante, Keeran ricordò il volto da bambino viziato di James farsi livido in un istante, mentre i suoi occhi chiari rilucevano freddi nella penombra della stanza, inchiodati su di lei; e la ragazza aveva cercato di ignorare qualsiasi timore, chinandosi sul suo corpo insanguinato senza proferire parola, ma cominciando a medicarlo come se nemmeno l’avesse riconosciuto.

Quando tutto era giunto a conclusione, il ragazzo non aveva voluto sentir le ragioni del signor Rochester e si era anzi alzato in piedi in un secondo, lasciandosi alle spalle una Keeran ancora seduta sul rozzo sgabello di legno, quasi si fosse già dimenticato della sua presenza nella stanza o, ancora peggio, non sopportasse di star vicino a lei un minuto di più.

“Fermo là, signore!” aveva esclamato un ignoto marinaio, non si sapeva se armato più di coraggio o avventatezza. “È questo il ringraziamento per chi vi ha appena salvato la pelle?”

La diciasettenne si era irrigidito subito sul posto, vinta dallo spiacevole presentimento che le aveva agguantato il cuore in un attimo: aveva saputo subito ciò sarebbe accaduto, le parole che lui le avrebbe dedicato ma, comunque, la sua voce altezzosa e ironica le era cascata addosso come fosse acqua ghiacciata.

“Quel che è giusto è giusto” aveva detto il tenente con voce sarcastica, decidendo evidentemente di sorvolare sulla mancanza di rispetto dell’uomo di mare al suo fianco. “Come ho potuto trattare chi mi ha salvato la vita con questa tremenda scortesia?”

Al solo ricordo della scena, Keeran chiuse gli occhi per una manciata di vergognosi secondi; pure se era impossibile ignorare il sentimento disturbante che le rodeva l’animo.

Perché anche in quel frangente il suo sguardo era quello di una persona annoiata e distante.

Così sola.

“Ho solo cercato di rendermi utile” mormorò piano, socchiudendo gli occhi neri e tornando a mettere a fuoco l’elegante ponte superiore, da dove vide spuntare un qualcuno di molto interessante. “Mi pi-piacerebbe trattenermi a parlare con voi, signora; ma credo di dover presto abbandonare la sc-scena.”

“E perché mai, di grazia?” chiese Saffie perplessa, lasciandosi al contempo sfuggire un’espressione abbastanza corrucciata: alla Duchessina non era sfuggito affatto il turbamento della sua dama di compagnia e poteva scommettere che quest’ultima stesse per aprirsi di nuovo con lei; cosa che accadeva raramente, malgrado la loro nuova confidenza. “Non pensavo di arrecarti offesa, quando mi sono concessa di scherzare sulla tua indole da angelo salvatore!” si trovò quindi ad aggiungere di tutta fretta, poggiando le esili dita sul morbido braccio di Keeran. “Sappi che sono pronta a porgerti le mie sincere scuse, amica mia.”

Dal canto suo, l’irlandese sorrise di un adorabile quanto impacciato divertimento e disse, schiudendo le belle labbra carnose: “Oh no, avete perfettamente ragione; ma pendo mi abbiate fraintesa, signora Saffie: insomma, non cre-credo desideriate essere salvata da colui che sta venendo da questa parte.”

Ovviamente, fu il turno di una certa Duchessina girarsi di botto, le membra rigide come quelle di una vecchia marionetta. E Saffie ebbe un tuffo al cuore nel medesimo istante in cui le sue iridi castane si posarono sull’Ammiraglio Worthington che, trincerato dietro alla solita maschera di contegno elegante, si faceva loro incontro in assoluta tranquillità, le braccia incrociate dietro alla schiena ampia.

Ed era lo stesso uomo coperto di cicatrici che la notte prima l’aveva posseduta con una fame disperata, assoluta.

La ragazza sentì le gote andare a fuoco, bruciare di un sentimento dolorosamente famigliare. I suoi occhi sgranati si incrociarono con quelli verdi di Arthur ed ella vi trovò una profondità disarmante, ma nessuna traccia di brutale severità; e quando un lieve sorriso affascinante increspò le labbra sottili dell’uomo, Saffie pensò che il suo povero cuore se la sarebbe letteralmente data a gambe dall'emozione, quasi lei fosse stata un’adolescente inesperta e non un’aristocratica ventisettenne sposata.

Dio, sei stupenda”

Come posso credere che tutto questo non sia un sogno?

“Buongiorno” salutò Arthur con voce profonda e cordiale, fermandosi rispettosamente a qualche metro dalle due fanciulle. “Spero di non avervi disturbate, signore.”

Nel tentativo di scongiurare l’infarto imminente, la Duchessina abbassò lo sguardo sul pavimento ed eseguì un’educata riverenza, inchinandosi insieme a una fin troppo sorridente signorina Byrne.

“Ne-nessun disturbo, A-ammiraglio” esordì la diciasettenne, ignorando il viso sbigottito con cui Saffie si era voltata a guardarla. Sfoggiando un coraggio mai visto prima, Keeran osò alzare gli occhi neri sulla figura minacciosa del Generale Implacabile e aggiunse, quietamente: “La signora Worthington stava giusto dicendomi quanto ormai ci sia rimasto ben poco da fa-fare, nella giornata di oggi!”

La mascella di Saffie cedette in un secondo, dalla sorpresa. Dal nulla, le parole insofferenti del marito riguardanti James Chapman affiorarono nella sua mente e la ragazza considerò che egli non aveva avuto poi tutti i torti: aveva commesso lei stessa un tremendo errore, nel prendere Keeran sotto la sua ala protettrice?

A quanto pare, il pulcino è uscito dal guscio senza che me ne rendessi conto.

“Fortuna che sono arrivato io a distrarvi, allora” commentò di rimando Arthur, dimostrando anche nei confronti dell’irlandese un’insolita gentilezza, molto simile a quella che Saffie aveva avuto modo di conoscere brevemente nel Northampton. “Vorreste farmi la cortesia di lasciarmi solo con mia moglie per un momento? Temo di dover conferire con lei in privato.”

Davanti al tono educato e calmo del Generale Implacabile, la Duchessina di Lynwood non poté trattenersi dallo spostare più volte gli occhi sgranati da lui alla sua domestica personale: Giusto Cielo, che stava accadendo da qualche tempo a quella parte sull’Atlantic Stinger?

La diciasettenne fece un cenno d’assenso con la testa ricciuta. “Ovviamente, Su-sua Eccellenza.”

“Vi ringrazio, signorina Byrne.

Una calda gratitudine si espanse nell’anima tormentata di Saffie che – buttando all’aria qualsiasi imbarazzo – sollevò il viso su Arthur, concedendogli un sorriso radioso, adorabile.

La mia serva ha un nome. Si chiama Keeran Byrne.”

Un altro inchino ossequioso all’Ammiraglio e alla signora Worthington, ed ecco che la diciasettenne era già partita verso la prua del vascello…diretta di gran carriera nella stessa direzione in cui erano guarda caso passati James Chapman e la sua stampella.

“Che abbia seriamente intenzione di diventargli amica?” pensò Saffie follemente mentre, del tutto sconvolta, seguiva con lo sguardo la morbida sagoma di Keeran allontanarsi.

“Di giorno in giorno più loquace, vedo” fu il commento caustico di Arthur Worthington, la voce bassa tinta da una sfumatura di sardonico divertimento. “Ormai hai portato la ragazzina su una cattiva strada.”

La Duchessina girò appena il viso nella sua direzione e inarcò un sopracciglio scuro, fingendosi indignata. “Non comprendo affatto il significato delle tue parole, Ammiraglio. Anzi, potrei persino decidere di esserne offesa a morte” buttò lì in maniera vaga, facendo spallucce. “Piuttosto, trovo aberrante che obblighi il caro James a prestare servizio sul pontile, considerate le sue condizioni!”

Uno strano ghigno si palesò sul volto virile di Arthur ed egli pensò che la piccola strega non si sarebbe mai stancata di provocarlo, di giocare con la sua pazienza; pure se – gli venne da considerare – trovava stupidamente semplice stare al suo gioco, se in cambio poteva vederla voltarsi verso di lui con quel suo adorabile viso da bambina gioiosa e sorridente.

E più vedeva il suo sorriso radioso, più era difficile mettere a tacere il suo insaziabile desiderio. Sopprimere la fastidiosa speranza che si era infilata dentro al suo cuore di nascosto, illuminando l’abisso di una luce tanto tenue quanto gentile…una luce, in verità, di cui Arthur si poteva dire genuinamente terrorizzato.

“…che sai solo fare del male? D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te.”

Come poteva anche solo pensare di avere il diritto di illudersi, di credere che lei volesse rimanere al suo fianco, quando era stato capace solo di ferirla e metterla in pericolo?

Di strapparla dalle braccia dell’uomo che aveva amato per davvero?

Non desiderando fare i conti con la morsa che si strinse improvvisa attorno alle sue viscere, il Generale Implacabile scosse la testa scura e fece un cenno di diniego, trincerandosi senza alcuna difficoltà dietro a una maschera di rilassata noncuranza. “Non ho alcun merito, né alcuna responsabilità nella decisione del mio zelante tenente” le disse infine, alzando le mani grandi come se si stesse discolpando di qualcosa o arrendendo. “Ma devo ammettere di vederlo piuttosto… distratto, ultimamente; e la ferita alla gamba ne è una prova.”

“Sei sempre così esigente nei suoi confronti?”

“Affatto. Esigo da tutti i miei uomini la stessa identica disciplina e pretendo che essi vi si attengano senza fiatare” fu la secca e monocorde risposta che Saffie ricevette. “Solo, mi stupisce Chapman sia uscito ferito da uno scontro come quello che abbiamo appena sostenuto. Una battaglia da niente.”

“…malgrado tu non sappia nulla della Marina Britannica e della mia vita.”

Dell'oscurità che aveva inghiottito il suo passato.

Stranamente, Saffie si astenne dal rispondere al marito e, anzi, si portò di un passo più vicina al parapetto lucido della nave, su cui appoggiò le piccole mani. L’Ammiraglio Worthington la vide abbassare il capo castano e sorridere con grande malinconia, le iridi luminose e tristi perse in lontananza, sulla linea di un orizzonte inesistente; la brezza marina agitò con dolcezza la gonna del suo abito chiaro ed ella parve ad Arthur un passerotto pronto a prendere il volo, scomparire per sempre.

Dal momento in cui hai accettato questo vergognoso legame, sei tu ad averci condannati a questa infelicità.”

Silenziose e delicate, le dita lunghe di Arthur si allungarono sotto il seno della ragazza, scivolando leggere lungo il tessuto del suo vestito beige. L’uomo l’attirò dolcemente indietro senza dire una parola e si chinò su di lei, portando il corpo minuto della moglie contro il suo, sfiorando con le labbra la pelle arrossata del suo orecchio. “Non manca molto all’arrivo: fra meno di un mese saremo nelle Colonie” soffiò sulle sue guance, abbassando la voce e tradendo al contempo una nota di strana incertezza. “Pensi di poter essere felice a Kingston?”

Bastò quell’unica domanda per far sobbalzare il cuore di Saffie dalla sorpresa e dall’agitazione perché – era chiaro come il sole sopra di loro – quelle parole esitanti non erano affatto nello stile dell’Arthur che aveva imparato a conoscere, né rispecchiavano il carattere adamantino e severo dell’uomo che fino all’ultimo aveva continuato a respingerla, allontanarla. Inoltre, inutile mentire, esse parevano aprire uno spiraglio su un qualcosa di diverso.

La ragazza arrossì leggermente, dall’imbarazzo, ma i suoi occhi castani rimasero comunque velati di una tristezza muta e nascosta; in fondo, entrambi erano consapevoli del fatto che la vita a cui stavano andando incontro non era quella desiderata da Saffie.

Eppure ora sono qui fra le tue braccia.

Una mano fredda raggiunse le dita lunghe di Arthur e ne accarezzò la ruvidezza. Saffie rilassò il capo sul petto del marito, aderendo con delicatezza alla sua figura solida e alta, quasi nascondendosi fra le pieghe del suo cappotto dorato ed elegante. “Non saprei” mormorò infine, alzando il viso sull’Ammiraglio e uccidendolo sul posto con uno sguardo costituito di luminosa onestà, attraverso un sorriso radioso e adorabile. “Ma non vedo l’ora di scoprirlo.”

Forse potremo risalire insieme questo nostro abisso di oscurità accecante.

Una bizzarra espressione di malinconica amarezza balenò sul volto attraente di Arthur mentre, in un attimo, quest’ultimo decise di mandare all’aria le rigide regole imposte dall’etichetta sociale e posare le labbra sottili sulla guancia della ragazza, baciandola con una tenerezza che le spezzò il cuore.

Ricominciare.

“Dieci minuti” sussurrò l’uomo, ritornando a parlarle con il solito tono da incantatore di serpenti. “È il tempo che ti concedo per raggiungere le mie stanze, signora Worthington.

E detto questo, l’Ammiraglio sciolse il loro abbraccio e si allontanò subito dalla figura sconvolta della moglie senza guardarsi indietro ma, bensì, camminando lungo il ponte sopracoperta come l’uomo più tranquillo del mondo intero; lasciandosi così alle spalle una Saffie tutta rossa e dal cuore a dir poco in tumulto.

“…signora Worthington.”

Gli occhi sgranati inchiodati sull’ampia schiena di Arthur, la Duchessina si portò inconsciamente le dita sulla pelle bruciante della guancia, lì dove il marito l’aveva baciata.

Era stato…diverso.

Stavolta Saffie non poté farne a meno, né riuscì a trattenersi: un sentimento caldo, dalla forza terrificante, si propagò dentro di lei all’improvviso e la invase da capo a piedi, riempiendola della stessa felicità che lei aveva tentato di reprimere in ogni modo possibile.

Tu sei mia. Solo mia.”

Una felicità che non pensava avere il diritto di provare e di cui, al contempo, era spaventata a morte.

Come posso credere che tutto questo non sia un sogno?



§



Oh, era davvero disgustoso l’odore che ancora permeava l’aria salmastra. Come nauseabondi erano i lamenti spaventati dei fantasmi tutt’intorno; pallide facce moribonde e patetiche…esseri che poteva dire di aver visto solo nei suoi incubi più spaventosi.

Solo che, allora, bastava aprire gli occhi per trovarsi al sicuro tra le confortevoli coperte e la compagnia dei suoi adorati animali di pezza.

Oh no, no e ancora no, marmocchio” diceva una voce lontana e aspra, crudele come quella di un diavolo in preda alla collera. “Non mi vorrai mica morire adesso, invero? Sono molte le lezioni che dobbiamo inculcare in quella tua nobile testolina.”

Era insopportabile e viscida, la sensazione lasciata dal suo stesso sangue che, scivolando lentamente lungo la sua gracile schiena, finiva per gocciolare sulle assi di legno umide e sporche del pavimento. Annichilente, il dolore provato da ogni fibra del suo piccolo corpo tremante.

Non lasciatelo svenire. Che gli venga sparso del sale sulle ferite.”

Oh, e la paura. Dio, se voleva tornare a casa. Se le lacrime versate avessero potuto fare in modo che suo padre apparisse come per magia e salvasse lui e sua madre da quell’incubo senza fine, da quegli uomini così cattivi.

Posso andare avanti così per ore, mentre dubito tu possa durare a lungo” aveva commentato la voce del diavolo, ora fattasi più vicina. Tra le nebbie grigie e tremolanti, il suo sguardo aveva colto una sagoma alta e inginocchiata, un viso malvagio incastonato da una massa di lunghi capelli nero pece. “Hai un coltello in mano. Usalo, piccolo Arthur.”

Un altro lamento spaventato e angosciante sembrava essere allora emerso dal nulla, trapassandogli l’anima terrorizzata. Esausta.

L’uomo dai lunghi capelli corvini gli aveva sorriso con una gentilezza agghiacciante. “Più esiterai, più io continuerò a punirti. Ti farò frustare fino a che non deciderai di piantare quella dannata lama nel collo del nostro povero prigioniero.”

Le sue piccole mani avevano continuato a tremare con violenza mai vista, stringendosi convulsamente contro l’arma affilata. Arthur si accorse di non riuscire a fare neanche un passo in avanti, di essere solo capace a tenere gli occhi fissi su un unico punto sotto di lui, perché tutt’intorno era pieno di gente morta.

Voglio tornare a casa. Voglio il mio papà.

Un peccato” aveva sospirato dopo poco il diavolo, alzando due taglienti iridi smeraldine su qualcuno di sconosciuto e facendo contemporaneamente un leggero cenno d’assenso con la testa. “Continuiamo, dunque! Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

La frusta nera aveva cominciato a schioccare nell’aria e lui aveva strizzato gli occhi, intravedendo nel buio la sagoma alta ed elegante di Amandine Lynwood. Il bianco cadavere vestito di nastrini e seta azzurra si era voltato con noncuranza nella sua direzione, sentenziando freddamente: “Impossessarti di tutto ciò che non puoi avere, proprio come se fossi diventato lui in persona”.

Un pianto soffocato attirò l’attenzione di Arthur che, girando il viso livido di sudore freddo, incrociò gli occhi innocenti e distrutti dalle lacrime di Saffie. “Perché mi hai fatto questo?!” gli urlò la piccola strega, stringendo le dita esili attorno alle sbarre di una gabbia dorata, mastodontica. “Io mi fidavo di te e tu non hai fatto altro che mentire!”

No Saffie, io…” cominciò a dire l’uomo, il cuore in preda ad un turbamento doloroso e terribile. E stava per correre verso la ragazza imprigionata che venne trattenuto da una mano misteriosa, stretta attorno al suo braccio come una morsa d’acciaio.

Lei non sarà mai tua” gli disse Earl Murray, strattonandolo con forza. “L’hai strappata a me, l’uomo che ha amato al punto da abbandonare tutto. Il cuore di Saffie è mio, mio soltanto.”

Un battito di ciglia, e l’Ammiraglio Worthington si svegliò di soprassalto, ritrovandosi avviluppato nel soffocante abbraccio delle coperte. Immobile, l’uomo ascoltò il silenzio della stanza dove – assordante come il rintocco di una campana – era il suo cuore a emettere l’unico suono che potesse udire; mentre era un genuino ed aberrante terrore il solo sentimento che s’aggrappava alle sue viscere e contraeva i suoi muscoli tesi, pulsava nelle sue tempie velate di sudore freddo.

Sopra la sua testa bruna non vi era più il soffitto della camera, ma una orribile creatura che gli sorrideva crudele e lo fissava con due occhi pieni di accusa, riempiendo in realtà tutto lo spazio attorno a lui. Ancora, il senso di colpa sembrava volerlo inghiottire in un sol boccone.

Più esiterai, più io continuerò a punirti.”

Arthur si tirò su a sedere lentamente, facendo uno sforzo disumano. “Di nuovo” commentò fra sé, portandosi una mano tremante davanti al volto attraente, ma pallido come quello di un condannato a morte; tra le dita lunghe, risplendevano due occhi verdi e freddi, che traboccavano un sentimento oscuro e indescrivibile: dentro alla sua anima a pezzi, l’odio e la paura s’abbracciavano l’uno con l’altra, fondendosi e prendendo la forma di un demone impazzito. “Che siano maledetti. Che tutti, tutti loro siano maledetti.”

Non avere paura. La tua mamma non ti abbandonerà mai, Arthur.”

Bugie.

Proprio nel momento in cui il mostro stava per avventarsi su di lui, il tocco leggero e delicato di cinque piccole dita si fece sentire sul suo braccio, squarciando l’oscurità annichilente del suo abisso.

Le iridi chiare di Worthington scattarono spaventate alla sua sinistra perché, molto probabilmente, egli non sarebbe mai riuscito ad abituarsi a quella meravigliosa quanto terribile visione: un piccolo passerotto dormiva rannicchiato su sé stesso, ignaro e inconsapevole di apparire in realtà alla stessa stregua di un fragile miraggio. Gli occhi chiusi e una graziosa espressione rilassata sul visino da bambina sperduta, l’insopportabile Duchessina dormiva con il fianco rivolto verso di lui, mentre lunghe onde di colore s’allungavano tutt’attorno al suo corpo minuto, affascinante.

Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Un sorriso triste, appena accennato, comparve sulle labbra del Generale Implacabile. L’uomo allungò lentamente una mano verso Saffie e le sfiorò la guancia con lenta cautela, accarezzandone la morbida pelle con le nocche delle dita. “Sei riuscita a comprendere anche questo, ragazzina?”

Stai mentendo. Tu odi te stesso molto più di quanto detesti me.”

Il solo fatto di averla lì, a completa disposizione, avrebbe dovuto riempire il suo animo famelico di malvagia soddisfazione ma – se doveva essere completamente sincero – provava un sentimento del tutto nuovo, dalla difficile definizione. Ed era la stessa forza che l’aveva portato ad interrogarsi in merito all’arrivo a Kingston, sulla ridicola apprensione che lo aggrediva ogni qual volta provasse a chiedersi cosa ne sarebbe stato di loro, se sarebbero riusciti sul serio a dimenticare tutto.

Il cuore di Saffie è mio, mio soltanto.”

A quanto pareva, la voce fastidiosa di Earl Murray non voleva saperne di lasciarlo in pace e , anzi, riecheggiava nella sua testa mescolandosi con le immagini ben più reali del suo orrendo diavolo.

Pure se lei non ti amerà mai?

Ipocrita. Come se tu fossi pronto ad ammettere di esserti innamorato di lei.

La mano di Arthur si discostò dal viso sereno della ragazza ed egli si passò nervosamente le dita fra le ciocche della sua chioma disordinata, tradendo in un unico gesto una dolorosa frustrazione.

No, non si trattava di ammettere alcunché. La verità era che non riusciva a comprendere chiaramente cosa provava per Saffie; e, in ogni caso, non sentiva sarebbe stato giusto indugiare sopra un pensiero che andava solo ad aggiungere altro terrore alla sua anima incatenata sul fondale dell’abisso.

Questo perché lei ancora non sa da quanto tempo la tua disgustosa ambizione l’ha imprigionata.

Forse sarebbe stato meglio per entrambi che lui non avesse smesso di respingerla, allontanarla: ora, era quasi impossibile mettere a tacere l’assurda speranza di poter trovare una sorta di redenzione e ricominciare così dall’inizio, come se il Generale Implacabile non avesse mai fatto del male alla famiglia della Duchessina e, soprattutto, a Saffie stessa. Come se non avesse condannato sé stesso e lei a un futuro che non avevano veramente scelto, voluto.

Incapace di sopportare un minuto di più il senso di colpa che permeava l’intera stanza, Arthur scese con un gesto agile dal letto sfatto e si infilò una camicia bianca alla meno peggio, allacciandola ovviamente fino al collo, nascondendo in questo modo il petto e la schiena vergognosamente marchiati.

Un peccato. Continuiamo, dunque!”

“Spero lui sia ancora sveglio. D’altronde, non mi risulta che abbia mai dormito per più di quattro ore consecutive” ipotizzò infine l’Ammiraglio, avviandosi a passo svelto in direzione del corridoio, quasi avesse intenzione di precipitarsi nello studio del suo seccante fratello adottivo.

Ad Arthur vollero esattamente cinque minuti netti per lasciarsi alle spalle la figura che da qualche tempo a quella parte era causa di gran parte dei suoi tormenti e presentarsi davanti alla porta degli alloggi di Benjamin Rochester. Sul ponte sopracoperta immerso nel buio della sera, nessun uomo di mare sembrò far caso all’alto e imponente Worthington che, senza curarsi di annunciare la sua presenza, faceva letteralmente irruzione nella stanza del medico di bordo. In realtà, Arthur stesso era a malapena cosciente di apparire come un uomo fuori di sé, ma sapeva di preferire la morte, piuttosto che essere visto di nuovo da Saffie ridotto in quelle condizioni, in particolar modo quando non c’era alcuna ferita a poterlo giustificare.

Credi potrebbe mai amare un uomo patetico come te?

E fu sopprimendo un’allucinante ondata di sofferenza che i suoi occhi verdi si scontrarono con due ferme iridi nere, piene di freddo distacco; ovviamente, Worthington comprese immediatamente che non sarebbe stato un colloquio né piacevole, né facile: a conferma di ciò, uno strano ed agghiacciante brivido gli corse lungo la spina dorsale a tradimento. “Ho bisogno dei tuoi servizi” sillabò infine l’uomo, forzandosi a far uscire le parole dalle labbra gelide. “Devi darmi un rimedio per…qualsiasi dannata malattia sia questo.”

Dal canto suo, Benjamin osservò con apparente indifferenza il Generale Implacabile fare un ampio gesto con il braccio, come se volesse mostrargli l’ampiezza della stanza. Dopo un breve momento di silenzio, il dottore si decise a parlare e lo fece con stampato in faccia un sorrisetto storto, dal scetticismo evidente: “Davvero incredibile. Non credevo avrei visto il giorno in cui ti saresti abbassato a chiedermi aiuto di tua spontanea volontà” commentò freddamente, voltandosi poi in direzione di una vetrinetta piena zeppa di flaconi scuri e riprendendo l’attività da cui l’arrivo dell’Ammiraglio l’aveva distratto; le sue mani aggraziate spostarono in maniera meccanica qualche boccetta di liquido, senza nemmeno leggerne l’etichetta o soffermarsi a pensare. “Non esiste una vera medicina, un reale rimedio, per placare le conseguenze del passato, Arthur. Ora come ora, posso darti dell’oppio per calmare i nervi, niente di più.”

Detto questo, il medico dell’Atlantic Stinger si rinchiuse nel suo miglior atteggiamento di glaciale cortesia, continuando a ordinare i suoi flaconi di vetro con noncuranza, senza sognarsi di degnare di un’occhiata l’imponente figura dell’uomo che un tempo aveva rappresentato non solo il suo migliore amico, ma pure il suo concetto di famiglia.

La tensione nella stanza si poteva tagliare con un cucchiaino e, per certo, Arthur sentiva che Benjamin stava a malapena trattenendosi dal vomitargli addosso tutta la sua collera repressa: Worthington lo conosceva forse meglio di chiunque altro, per cui gli bastava e avanzava osservare il suo viso affilato per indovinarne lo stato d’animo; inoltre, non aveva affatto ignorato il comportamento che il dottore aveva tenuto nei suoi confronti in quei ultimi giorni, evitandolo non appena ne aveva occasione.

E quando Benjamin parlò di nuovo, fu come se la temperatura fosse precipitata di botto, perché Arthur si irrigidì subito, impotente e indifeso di fronte al significato delle parole del medico di bordo.

“Non posso credere tu sia arrivato a tanto” aveva sibilato l’uomo, fissando il mobile come se nemmeno lo vedesse per davvero. “Anche se, forse, me lo sarei dovuto aspettare da te.”

L’ammiraglio chiuse gli occhi smeraldini per un infinito secondo e, quando li riaprì, essi non esprimevano altro se non un tormento incolmabile.

Perché sei tu il cattivo della storia, no?

“Benjamin” provò a richiamare la sua attenzione l’uomo, la voce bassa ora tinta di una serietà forzata, dall’incerto autocontrollo. No, si trovò a pensare Arthur, non poteva di certo crollare a pezzi in quell’istante, malgrado la tempesta dentro al suo cuore avesse appena iniziato a gonfiarsi, suggerendogli di essere in trappola…che non sarebbe mai riuscito a fuggire da sé stesso.

“Per poi passare tutto il tuo tempo libero in compagnia della Duchessina di Lynwood! Guarda caso, proprio la donna per cui avevi detto di non provare niente; o per meglio dire, per cui non avevi altro che disprezzo!”

“Benjamin.”

“Mi chiedo quando la tua ambizione cesserà di rovinare le nostre vite.”

Arthur…quante persone dovrai rovinare, prima di sentirti soddisfatto?

L’immagine delle mani sporche di sangue di Saffie balenò davanti ai suoi occhi ed Arthur fece un largo passo in avanti, avvicinandosi alla dinoccolata figura del medico di bordo. “Lo sai che è stato un matrimonio combinato” tentò di giustificarsi, in tono monocorde. “Lo hai sempre saputo, che non è stata una mia libera scelta.”

Benjamin allora si voltò di scatto verso il fratellastro, incurante dei lunghi capelli biondi che s’andavano ad intrecciare sul viso improvvisamente incollerito, finalmente libero da qualsiasi facciata. “Certo” sibilò, le iridi nere che brillavano di rancore da dietro gli occhialetti sottili. “Anche se non posso credere tu non mi abbia detto nulla di Amandine.”

“Cosa sai?”

Tutto” rispose il signor Rochester, avvicinandosi a sua volta ad un livido e sconvolto Arthur Worthington e, nel contempo, odiandolo per il granitico controllo che cercava di fingere ed imporre a sé stesso pure in quel frangente. “Avresti dovuto sposare lei, non la sorella maggiore; ma immagino la sua morte abbia sconvolto i tuoi ambiziosi piani.”

“Benjamin, lei…”

Il dottore non gli fece mai terminare la frase. Non curandosi della differenza di corporatura che intercorreva fra sé e il Generale Implacabile, Benjamin si scagliò in un secondo su di lui e lo spinse contro la parete alle sue spalle, premendo un braccio contro al suo petto ampio. “Non nominarla. Non tu” disse, il tono incollerito spezzato in due da un singhiozzo doloroso, tremendo. “Pensi che avrei sopportato di vederla girare liberamente per la nave con te al suo fianco?”

“No, non lo penso. Ma ho acconsentito al patto stretto tra mio padre e il Duca molto prima che tu mi comparissi di nuovo davanti, stringendo quella minuscola creatura fra le braccia.”

Ogni fibra del corpo del signor Rochester cominciò a tremare liberamente, mentre quest’ultimo lottava contro le lacrime comparse agli angoli delle sue iridi oscure. Contro una sofferenza immane, che non pensava di poter nascondere troppo a lungo.

“Sono andato nel Northampton per dovere nei confronti degli accordi presi da mio padre, Benjamin” si fece sentire la voce profonda di Arthur, anche lui impegnato a osservare il volto straziato del dottore senza sentirsi morire a causa del suo fedele senso di colpa. “Non potevo sottrarmene in alcun modo. Pure se c’è stato un...istante in cui ho pensato mi avrebbero concesso di riformulare un nuovo accordo.”

Mi avete solo colta di sorpresa, signore. Sono Saffie Lynwood, primogenita del padrone di casa.”

Dentro all’abisso, l'insaziabile e crudele ambizione con cui era cresciuto si contorceva su sé stessa perché, ormai, sentiva di non aver alcun potere. Avrebbe dovuto ricordare a Benjamin il suo posto di inferiorità sociale, minacciarlo di farlo mettere ai ferri per le sue parole, perché lui aveva ogni diritto di nascita per ottenere tutto ciò che desiderava; al contrario, la consapevolezza che esplose dentro all’animo di Arthur fu solo una: forse, sarebbe stato meglio per tutti se fosse morto molto tempo fa, se avesse deciso di essere una preda e non un predatore.

“Ma poi l’ho vista” si trovò ad ammettere in un sussurro, abbassando lo sguardo smeraldino. “Ed era davvero bellissima, Benjamin.”

E la sua ambizione aveva compreso subito di volerla per sé, che l’avrebbe portata via.

Perché faceva parte del suo terribile carattere, impossessarsi di tutto ciò che non poteva avere.

“Certo che lo era!” alzò la voce il dottore, quasi urlandogli addosso; mentre, inconsciamente, premeva con più forza il braccio contro il torace immobile di Worthington. “Ma non era solo questo! Lei non era solamente il trofeo tuo o della famiglia Lynwood: era sorprendentemente intelligente, buona e…e l’unica che io abbia mai amato! Lei era la mia Amandine!”

Due occhi neri, colmi di lacrime e sofferenza mortale, si sollevarono su quelli tormentati del Generale Implacabile e gli trapassarono il cuore.

“Esiste un abisso infinito fra il possedere e l’amare, Arthur! Puoi comprendere un sentimento del genere?!”

Un volto grazioso e sorridente, una cascata di capelli castano chiaro, tanto lunghi da sembrare quelli di un angelo caduto tra le lenzuola. L’immagine di un espressione di allegro divertimento, di intelligenza irriverente.

Non saprei. Ma non vedo l’ora di scoprirlo.”

Sì, sto cominciando a capirlo anche io, proprio ora che mi riscopro più crudele di quanto mai avrei immaginato.



§



La mattinata era appena iniziata e Keeran si era data come missione quotidiana la sistemazione dei numerosi effetti personali che la padroncina Saffie aveva portato con sé dall’Inghilterra; per quanto il giorno precedente la stessa Duchessina di Lynwood le avesse suggerito di lasciar perdere, la giovane irlandese era più che determinata nel dimostrare tutta la sua gratitudine e il suo impegno. Non aveva difatti dimenticato il racconto del doloroso passato di Saffie, né quanto si fosse sentita simile a lei almeno nella sofferenza e, dentro di sé, aveva compreso che la vicinanza della signora Worthington l’aveva aiutata a cambiare, in un qualche misterioso modo. Se il cambiamento fosse positivo o negativo, questo per Keeran era ancora tutto da vedere.

Eppure, è come se avessi capito che la mia esistenza può avere un valore.

Davanti ai suoi occhi neri comparve l’immagine di Douglas Jackson e lei credette per un attimo di poter sentire di nuovo il tocco gentile della sua mano rovinata accarezzarle dolcemente la guancia.

“… sono così felice di avervi potuto incontrare, dopo aver sofferto per una vita intera.”

Sotto un’immensa e spettacolare volta stellata, la diciassettenne aveva compreso che niente aveva importanza poiché, al di là di una esistenza di umiliazione, la sua anima continuava ad aggrapparsi alla vita con una determinazione disperata. Aveva conosciuto dieci anni di inferno e punizioni, costituiti solo da scherno e disgusto, non immaginando che da qualche parte potesse esistere un piccolo miracolo pure per una creatura dannata come lo era lei: invece, la vita le aveva fatto incontrare Saffie e Douglas, il capitano Inrving e Benjamin Rochester…e tante altre persone che si erano rivelate gentili nei suoi confronti, sconvolgendo giorno dopo giorno l’idea che aveva maturato di sé stessa.

Credi davvero che lui sarebbe stato felice, nel saperti morta a causa sua?”

Alla fine, anche James Chapman era stato in una qualche maniera buono con lei, pure se l’aveva dimostrato attraverso dei comportamenti tutti suoi.

Non puoi continuare a ignorare il fatto che ti ha salvata dalle acque scure.

E questo era un altro poco trascurabile problema.

Arrossendo dalla vergogna, la domestica finì di piegare la veste da camera di Saffie e si diresse con aria assente verso il fondo della camera da letto dove, abbandonati nella penombra, giacevano i bauli che non erano stati messi in stiva, il cui contenuto era stato evidentemente ritenuto necessario per affrontare la traversata.

“Non è tanto la questione di chiedere perdono al tenente per la mia scortesia a spaventarmi, quanto la prospettiva di rivolgergli la parola in generale” pensò Keeran sospirando; e si inginocchiò lentamente sul pavimento di legno, ben decisa ad aprire i bauli uno ad uno. “Da quale dei tre dovrei partire?”

Nessuna risposta emerse dal silenzio della stanza e la signorina Byrne si portò un dito sotto il mento, pensierosa. Le sue palpebre si abbassarono sulle iridi nere ed ella si maledì, visto che non riusciva ancora a scacciare il rossore bruciante comparso sulle sue gote paffute. “Oh! Se solo ieri avessi trovato il coraggio di avvicinarlo mentre era sul ponte di prua!”

Ma temo lui si prenda gioco di me un’altra volta…che mi chiami nullità.

Gli occhi della ragazza si schiusero malinconiche sopra un viso bianco, dall’espressione combattuta.

Continua a sembrarmi così solo. Triste.

Dal corridoio, le arrivarono le voci soffocate e pompose dei due Ufficiali di Guardia e, come risvegliatasi da un Incantesimo, Keeran sbatté due o tre volte le lunghe ciglia corvine, considerando che non sarebbe stato saggio passare il resto della giornata a rimuginare sul misterioso carattere di un certo qualcuno.

In generale, il tenersi occupata si era rivelato un ottimo metodo per distrarsi dalla sofferenza e, in virtù della sua decisione di vivere anche per Douglas, l’irlandese aveva passato quelle ultime due settimane fra i suoi doveri di dama di compagnia e gli insegnamenti generosamente elargiti da un paziente dottor Rochester.

Voi mi ricordate una persona a cui ero molto legato” le aveva detto un giorno, in tono vago e laconico. “Perché avete la stessa bontà di cuore.”

Così, la diciassettenne dovette ammettere che quei giorni erano in effetti volati senza che lei soffrisse in abbondante misura le continue assenze di una Saffie che, comunque, passava in sua compagnia la maggior parte della giornata. Keeran ancora non poteva dire di comprendere chiaramente il legame che intercorreva tra la sua padroncina e Worthington, ma ogni dubbio svaniva di fronte alla radiosa allegria della Duchessina di Lynwood: l’irlandese credeva di non averla mai vista così tanto sorridente come in quell’ultimo periodo.

“Non può che essere un bene, no?” pensò fra sé e sé Keeran, sporgendosi verso il baule posto contro la parete, quasi nascosto rispetto agli altri due. “Eh, questo credo di non averlo aperto neanche una volta, da quando ci siamo messe in viaggio.”

Uno scatto polveroso, e il chiavistello cedette con un suono secco e metallico, che parve rimbombare nell’intera camera da letto. Una volta aperto, il contenuto del baule si rivelò essere un caotico insieme di abiti piegati alla meno peggio, nastrini stropicciati e cofanetti pieni zeppi di gioielli luccicanti, di una bellezza che la diciassettenne pensava di non avere mai visto.

Questi oggetti non sono della signora Saffie.

L’irlandese non ne sapeva dire il motivo, ma fu questo il pensiero che si fece subito sentire nella sua mente confusa.

Timorosa e diffidente, la ragazza rovistò con cautela tra le vesti e le sue dita incontrarono un oggetto piuttosto spigoloso nascosto dalla morbidezza delle stoffe: misteriosamente avvolto in quella che a prima vista doveva essere una soffice stola color cipria, un quaderno dalla rilegatura in cuoio abbastanza rovinata comparve infine davanti al suo viso incuriosito.

Incantata – e con il cuore che batteva eccitato – Keeran lo aprì alla prima pagina, avida di informazioni.

In un istante, la presenza di una piccola sagoma intenta a inginocchiarsi al suo fianco entrò nel suo campo visivo, rischiando di farla saltare sul posto come una cavalletta impazzita.

“Mi sembrava di averti ordinato di riposare, cara la mia disobbedienti fanciulla!” scherzo un’ignara Saffie, poggiando una mano sulla spalla della sua domestica con il solito fare confidenziale. “Non volevo spaventarti, ma sono genuinamente curiosa di sapere cosa avevi in mente di tirare fuo…”

Gli occhi ridenti e luminosi della ragazza castana scivolarono con noncuranza sul quaderno che Keeran teneva aperto fra le mani pallide e, in un battito di ciglia, la frase finì sospesa per l’eternità.


DIARIO

Il mio nome è Amandine Lynwood, vivo nel Northampton e non penso che riuscirò mai a uscire da qui

















Angolo dell’Autrice:

*Se il Capitolo ti è piaciuto, spero prenderai in considerazione l’idea di votarlo e/o recensirlo*

Sono solo io che intravedo delle nuvole nere all’orizzonte?

Intanto, buondì! (°u°)/

Ne approfitto per farvi anche gli Auguri di Buona Pasqua in anticipo, visto che non penso di riuscire a fare uscire la seconda parte del “Segreto di Amandine” entro una settimana; mi impegnerò al massimo per pubblicare entro fine Aprile ma – vista l’importanza di questi capitoli – non posso proprio aggiornare nel giro di una settimana.

Vi ringrazio per la pazienza! (^u^)

Non lo nego, questo capitolo è stato abbastanza difficoltoso da redigere e l’ho in prima battuta scritto su carta. Sopra ogni cosa, è stata la parte centrale a darmi le maggiori difficoltà: descrivere in maniera chiara la confusione dei sentimenti di Arthur e Saffie non è stata cosa da poco, poiché volevo far capire quanto stiano dondolando fra la speranza di poter essere felici e la diffidenza, i dubbi, che ancora non li hanno abbandonati del tutto. Meh, più ci penso, più entrambi non mi sembrano due persone pronte ad amarsi veramente, ad essere oneste con sé stesse.

E non dimentichiamo i due elefanti nella stanza: Amandine e il terribile Diavolo. Da una parte si sta svelando la trama, dall’altra si comincia a intravedere qualcosa dell’intreccio. Sì, sì, non mi piacciono le cose semplici, lo so! (U.U) Di fatto, dovreste vedere quanti bigliettini e note mi sono fatta con le linee temporali, con le date di nascita ecc…ho anche riletto tutti i capitoli su Wattpad e Efp, per correggere qualche frase che magari creava qualche confusione/incoerenza! (^.^)”

Diciamo che sono più perfezionista nella scrittura e parecchio distratta nella vita vera! (U.U)

Sul resto, non voglio dire troppo, perché preferisco la storia si racconti da sé; ma posso dire con assoluta certezza che il Dottore sta diventando un personaggio a me molto caro! (*w*) E Arthur! Spero riuscirà a liberarsi del mostro che ha dentro, trovare una vera redenzione…magari insieme a Saffie?

Vedremo!

Voglio ringraziarvi ancora tantissimo per essere qui con me e per i commenti carinissimi che mi avete scritto sia sotto forma di recensione, sia come messaggi privati! (*w*) A me fa sempre felice sapere cosa ne pensate della storia, quindi se volete spendere due secondi del vostro tempo per recensirmi, io ne sarò entusiasta!

Un abbraccione virtuale,

Sweet Pink

AH! Dimenticavo!

Cosa ne pensate del titolo nuovo? “Away with you” mi piaceva, ma ho sempre saputo che sarebbe stato provvisorio, in fondo!!

See you soon


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Capitolo 15
*** Quattordicesimo. Il segreto di Amandine. La fine. ***


Vi chiedo scusa per il ritardo, ma questo è stato uno dei capitoli più difficili che io abbia mai scritto.

Spero di vedervi in fondo alla lettura.

Sweet Pink





CAPITOLO QUATTORDICESIMO

IL SEGRETO DI AMANDINE

La fine, o l’altro passato.



Marzo 1724.


DIARIO

Il mio nome è Amandine Lynwood, vivo nel Northampton e non penso che riuscirò mai a uscire da qui



“Non è di certo la maniera più felice con cui iniziare a redigere un Journal” considerò Amandine, poggiando il pennino piumato sullo scrittoio in mogano e concedendosi al contempo un pesante sospiro. “Pure se non credo ci siano molte altre parole che possano descrivere la mia intera esistenza!”

Con un movimento lento e pieno di cauta attenzione, la figlia più piccola di casa Lynwood si lasciò andare contro lo schienale imbottito della sedia e chiuse gli occhi per un lungo secondo, lasciando al silenzio della camera il dovere di distrarre i suoi pensieri dalla sofferenza provocata non solo dalla fatica di immettere aria nei polmoni, ma anche dalla mancanza di Saffie nella vita di tutti i giorni.

Per lei la porta della gabbia è sempre stata socchiusa, non è così?

Un eccesso di tosse improvvisa la colse impreparata e indifesa, obbligandola a spalancare di botto le iridi turchesi sul muro bianco che aveva di fronte, sopra le due righe con cui aveva deciso di aprire il suo diario nuovo di zecca.

In fondo, avrebbe potuto cominciare scrivendo della sua malattia: erano nate insieme, lei e la frustrante condizione che l’obbligava a starsene rinchiusa fra quattro mura dorate. Certo, aveva passato i primi sedici anni di vita confinata entro i limiti di un’immensa e altrettanto lussuosa tenuta secolare, perdendosi fra i suoi corridoi e i suoi ricchi giardini, ma questo nulla toglieva al fatto che la proprietà era in realtà una vera e propria prigione.

L’eco dei colpi di tosse andò via via indebolendo e Amandine prese un respiro profondo, sofferente. I suoi occhi azzurri scivolarono sul bicchiere colmo d’acqua che Kitty le aveva tempo prima messo vicino allo scrittoio e la ragazza lo guardò con intensa rabbia, quasi lo volesse rompere con il pensiero. Odiava la malattia, la sua instancabile compagna fedele; non sopportava di dover sostenere in continuazione le invasive cure di medici indifferenti, che la lasciavano esausta per intere settimane e, ugualmente, la nauseava l’atteggiamento di superficiale preoccupazione con cui i Duchi si interessavano a lei: da quando ne aveva memoria, suo padre e sua madre nutrivano un morboso attaccamento per tutto ciò che la concerneva, comprese le più sciocche delle questioni.

Perché si parlava ovviamente di Amandine, la figlia che possedeva la bellezza di una Dea e che doveva quindi essere protetta a tutti i costi, celata al mondo di fuori.

Come se mi avessero mai vista e amata per ciò che sono davvero.

Una smorfietta di frivolo fastidio deturpò il suo bel visino e la ragazza voltò la testa bionda in direzione del piccolo mobile al suo fianco, su cui capeggiava un adorabile cestino di vimini pieno zeppo di lettere provenienti da Londra. Era partita già da due mesi, ma Saffie non aveva perso l’abitudine di inondarla di missive affettuose con cui provvedeva a descriverle nel dettaglio le meraviglie che la Capitale aveva da offrire.

Vorrei tanto fossimo insieme, sorella mia”, aveva scritto un giorno. “Ma descriverti le mie attività quotidiane mi fa credere tu sia qui con me per viverle. Guardi il cielo stellato, ogni tanto? Io lo faccio sovente, perché sei spesso nei miei pensieri.”

Amandine ricordò di aver riso delle parole scritte di tutta fretta dalla sorella maggiore. Insomma, Saffie avrebbe dovuto pensare a trarre più godimento possibile dal suo soggiorno in città e non indugiare troppo con la mente sulla povera malata che si era lasciata alle spalle insieme all’oppressione di Alastair Lynwood.

La ragazza strinse fra le dita bianche l’ultima lettera arrivata da Londra e pensò che sicuramente il Duca aveva sempre trattato con durezza finanche eccessiva la maggiore delle sue figlie ma, allo stesso tempo, Amandine non nutriva alcun dubbio su chi fosse la favorita fra le due. Saffie stessa non se n’era forse resa conto – impegnata com’era a tentare di ribellarsi alle sciocche convenzioni che regolavano il loro mondo – ma era più simile ad Alastair di quanto la minore delle Lynwood avrebbe mai potuto aspirare ad essere: la vivace intelligenza e curiosità che contraddistinguevano la primogenita, agivano infatti su loro padre come uno sprone, una leva per metterla alla prova ogni giorno con maggior forza.

Non l’aveva mai confessato, ma probabilmente egli vedeva molto di un giovane sé stesso nello sguardo allegro e scanzonato di Saffie, pure se era un eufemismo dire che aveva sempre dimostrato il suo affetto per la figlia in maniera pessima.

“Non che questo possa venire prima degli interessi del nostro Casato” considerò Amandine, girando la busta sigillata dall’altro lato e scrutando la grafia minuta della sorella con aria assente. “Almeno, la sua gabbia è ben più spaziosa della mia.”

Da una parte, la ragazza bionda era felice che a Saffie fosse stata finalmente concessa l’opportunità di mettere piede al di fuori dei loro domini, seppure quella nuova libertà fosse in funzione della ricerca di un buon partito con cui poter stringere una degna unione. Non a caso, i loro genitori avevano messo alle costole della sorella il povero Gregory – il maggiordomo più fidato e anziano di casa Lynwood – che aveva il compito di accompagnarla ovunque andasse e assicurarsi così l’integrità della futura Duchessa agli occhi della Società.

Un risolino divertito sfuggì dalle labbra rosee di Amandine, che ricordò una delle recenti lettere di Saffie: a quanto pareva, Alastair era stato purtroppo informato della brutta abitudine del suo servo di addormentarsi su praticamente ogni divano di Londra, lasciando in questo modo la preziosa primogenita incustodita e libera di vagare dove meglio credesse!

“Mi chiedo come si trovi Saffie in compagnia del suo nuovo Chaperon” pensò la ragazza bionda, decidendo di mettere da parte il diario regalatole dal padre per dare precedenza alla missiva della sorella. “Gli avrà fatto una buona impressione?”

Nell’istante in cui le sue dita stavano per rompere il sigillo in ceralacca, un suono discreto s’insinuò nella pace della stanza e la sedicenne si voltò in tempo per cogliere la figura raggrinzita di Kitty stagliarsi sulla soglia, i due occhietti ossequiosi puntati su di lei. “Perdonatemi, padroncina” esordì, chinando un capo avvolto da una morbida cuffietta bianca. “Il Duca desidera la vostra presenza dabbasso con una certa urgenza.”

Un lieve sbuffo scocciato fu la risposta che ricevette. “Ora?” chiese infine Amandine, corrucciandosi un poco. “Pensavo proprio di leggere le ultima notizie di Saffie, adesso.”

“La questione non può aspettare, signorina” fece di rimando la domestica, in ogni caso abituata agli atteggiamenti capricciosi della più giovane delle Lynwood. “Vostro padre vuole presentarvi una persona, visto e considerato che l’ultimo medico è passato a miglior vita poco tempo fa e vostra sorella non è qui per potervi assistere.”

Oh, perfetto. Un altro dottore dalla faccia smorta.

“D’accordo, allora” si arrese la ragazza, alzandosi faticosamente in piedi e rifiutando il braccio teso di Kitty, venutale incontro di tutta fretta per sostenerla. “Ce…ce la faccio da sola.”

“Come desiderate, padroncina.”

Quella giornata primaverile del 1724 era quindi iniziata non troppo diversamente dalle altre per la candida colomba del Casato dei Lynwood e nessuno, in fondo, avrebbe potuto prevedere quanto da lì in avanti il suo destino avrebbe subito un mutamento radicale, quanto il fato di altre persone ne avrebbe risentito in futuro. Era bastato un momento, e due famiglie erano state condannate all’infelicità.

Amandine scese lentamente la scalinata di marmo bianco che dava sul grande salone d’ingresso, una mano sottile che scivolava ipnotica lungo il corrimano e nello sguardo la malinconia di un animale imprigionato. Alzò il viso pallido sulla persona che attendeva al centro della sala e, in un battito di cuore, fu grande la sorpresa che agguantò il suo animo: era un giovane uomo molto alto e vestito di tutto punto, quello che ora stava togliendosi l’elegante soprabito verde smeraldo, lasciandolo nelle mani del maggiordomo con un leggero sorriso di distante cortesia stampato su un volto affilato, attraente.

La ragazza non poté fare a meno di arrossire dall’imbarazzo e così fermarsi a metà scala, timorosa di fare un altro passo in avanti. Le capitava di rado di vedere estranei in casa e, al di là dei suoi medici, i gentiluomini amici di suo padre erano tutte persone attempate per cui nutriva scarso o nullo interesse.

Il nuovo venuto sollevò gli occhi neri e la guardò nel medesimo istante in cui Alastair entrò in scena, accostandosi all’imboccatura delle scale a braccia spalancate. “Ah! La mia straordinaria creatura” esordì l’uomo, riferendosi alla figlia quasi come se ella fosse un raro trofeo di caccia. “Scendi, presto. Desidero farti conoscere il figlioccio del mio caro Simeon.”

Dietro due sottili occhialetti cerchiati d’oro, un paio di iridi oscure la osservavano attentamente ed era uno sguardo tanto intenso, che Amandine si sentì attraversata da parte a parte. “Certo, padre” asserì quindi, ubbidiente e compassata, cercando di scrollarsi di dosso la sensazione strana che lo sguardo magnetico dello sconosciuto le provocava.

“Worthington, ricordi?” continuò a cianciare il Duca, una volta che la sedicenne li ebbe raggiunti. “È lui che mi ha personalmente raccomandato il suo pupillo: dicono abbia compiuto veri miracoli quando serviva la Marina di Sua Maestà.”

“La Marina?” ripeté colpita Amandine, schiudendo la bocca e girando il voluminoso capo dorato in direzione del ragazzo al suo fianco.

Quest’ultimo si strinse nelle spalle e scosse con noncuranza la testa, schernendosi: “Non merito tali parole” commentò, lanciandole un’altra occhiata, questa volta velata di sarcasmo. “Ho solo compiuto il mio dovere di medico di bordo, ma ormai non faccio più parte della Royal Navy.”

“Su, su! Worthington si fida di voi al punto di lasciarvi in gestione temporanea la dimora che si erge a pochi chilometri da qui e, sopra ogni cosa, assumere il ruolo di nostro medico personale…dopotutto, avete pur sempre vent’anni!”

Di nuovo, la voce di Alastair Lynwood sembrò rimanere un suono ovattato in sottofondo, poiché la figlia minore continuava ad osservare l’alta figura del suo nuovo dottore con due meravigliosi occhi spalancati e il suddetto si trovò ad arrossire leggermente, dandosi prevedibilmente dello stupido.

“Un medico?” domandò ancora Amandine. “Alla vostra età?”

Lui sembrò divertito dalla sua ignara ingenuità, dal suo spensierato non sapere.

“Benjamin Rochester, per servirvi” si presentò infine, inchinandosi appena e ignorando al contempo le fastidiose ciocche di capelli biondo cenere sfuggite dal morbido codino basso. “Vi prego di non celebrare troppo i miei talenti: d’altronde, ho un fratellastro che è di gran lunga più interessante e meritevole di me.”

“Ah, sì: il legittimo erede dei Worthington” si intromise con leggerezza la voce del Duca, mentre un’ombra di freddezza parve passare veloce sul viso del dottor Rochester. “E come sta, il giovane Arthur? Ho sentito grandi cose di lui e delle sue ultime imprese.”

“Sanguinario come sua consuetudine, ma vivo e vegeto. Non siamo in contatto da parecchio tempo, pure se posso dire a mio padre di scrivergli i vostri saluti, Eccellenza.” gli rispose soavemente Benjamin, alzando il capo e mostrandosi indifferente di fronte al velato insulto del padre di Amandine che, comunque, era impegnato ad ascoltare più che altro sé stesso.

A conferma di ciò, l’uomo ignorò totalmente il figlio adottivo di Simeon e cominciò a spiegare, voltandosi verso una esterrefatta signorina Lynwood: “Non è notevole? Ventotto anni e già è stato nominato Commodoro. Certo, non ha un lignaggio paragonabile al nostro, ma debbo ammettere che le sue capacità gli rendono pienamente onore.”

“Papà, voi non avete ascoltato neanche una parola, non è vero?” pensò rassegnata Amandine, scuotendo impercettibilmente la testa piena di bei boccoli dorati; e stava per aprire bocca, se un suono bizzarro – uno strano e a malapena trattenuto grugnito – non l’avesse distratta all’istante: a neanche due passi da lei, Benjamin Rochester nascondeva un ghigno piuttosto ironico fra le lunghe dita aggraziate, mentre il Duca Alastair continuava imperterrito la sua tiritera celebrativa.

Le iridi nere del dottore incrociarono le sue e anche alla ragazza sfuggì un sorrisetto divertito, complice.

Ed era stato strano, perché aveva sentito subito di conoscerlo, malgrado non l’avesse mai visto prima.


§


Luglio 1724.


“Non siate capricciosa! È da escludere che io vi legga un’altra volta questa poesia!”

“Oh? Rifiutate di ubbidire a un mio ordine, dottor Rochester?”

“Il mio dovere nei vostri confronti è circoscritto alla vostra salute, cara signorina. Per tutte le altre esigenze, avete un nutrito stuolo di domestici pronto a leggervi qualsiasi sonetto desideriate e per quante volte voi lo riteniate necessario.”

“Se la mettete in questa maniera…ebbene, non prenderò la mia medicina fino a che non rileggerete la poesia in questione! Shakespeare piace anche a voi, se non sbaglio!”

Detto questo, Amandine Lynwood picchiettò l’indice sulle righe incriminate, voltandosi poi all’indietro e sfoderando un’espressione di innocente candore che non fece altro se non renderla ancora più bella. “Accettereste la mia proposta?”

“Questo è un ricatto, non un’offerta, lo sapete?”

Nascosti tra le lunghe ombre degli alberi, Amandine e Benjamin sedevano su due rozzi scalini di pietra coperti d’erba, incuranti del misterioso fruscio provocato dal sottobosco attorno a loro. E come avrebbero potuto, quando la reciproca vicinanza era un peso che premeva sul cuore, senza lasciare pace alcuna?

Erano passati quattro mesi dal loro primo incontro e i due avevano cominciato a passare via via sempre più tempo insieme, avvicinandosi e scoprendosi in questo modo due anime in fondo simili. Entrambi solevano vivere nella solitudine e, malgrado la sostanziale differenza dei loro natali, il dottor Rochester e la signorina Lynwood erano due secondi figli, due trofei che dovevano sopperire l’uno la scomparsa del fratello maggiore e l’altra le mancanze della sorella più grande.

Soddisfare aspettative di cui né Saffie, né Arthur si erano mai curati minimamente.

Così, se all’inizio i loro incontri erano motivati solamente da mere ragioni mediche, le settimane ormai trascorrevano veloci tra passeggiate in giardino e rendez-vous in biblioteca perché, per quanto insolito potesse sembrare, Amandine e Benjamin trovavano un toccasana la reciproca compagnia. Una fresca sorsata di acqua pulita, di quelle che ti fanno venir voglia di berne ancora e ancora.

“Sono la figlia di un Duca” commentò con un sorrisetto frivolo la ragazza, raddrizzando la schiena fra le lunghe gambe del medico, seduto dietro di lei. “Io non ho bisogno di ricattare chicchessia per vedere esauditi i miei desideri.”

I suoi occhi turchesi fissarono il volto serio del dottore, immerso nella calda penombra a poca distanza dal suo; e il cuore di Amandine saltò subito un battito, perché la sedicenne comprese in un attimo che era una strada pericolosa, quella che stava percorrendo con tanta sconsideratezza: stava dando i suoi primi sentimenti in pasto a un ragazzo che non avrebbe dovuto desiderare vicino…eppure, doveva essere ormai troppo tardi persino per prenderne consapevolezza, visto che non voleva tornare indietro sui suoi passi.

“Allora non fatelo. Nemmeno con me” le rispose Benjamin, sfoderando un’espressione malinconica. “Pure se non avete bisogno di subdoli ricatti, per potermi tenere nel pugno della vostra mano.”

Poco lontano, un passerotto cantò tra gli arbusti e la signorina Lynwood trattenne il fiato, chiedendosi se il dottore stesse ancora facendo riferimento ai suoi capricci e al sonetto di Shakespeare.

No. Stai parlando di noi, non è forse vero?

Fu un movimento inconscio, quello che la portò a schiudere le labbra e ad avvicinarsi lentamente al viso affilato di Benjamin. Amandine fece in tempo a sentire il respiro caldo del ragazzo sulla bocca e a vederlo sporgersi a sua volta verso di lei, prima che delle bianche dita non la bloccassero sul posto, premendo con dolcezza sulle sue spalle.

Di nuovo, quell’espressione così assurdamente triste non accennava ad abbandonare i lineamenti del signor Rochester.

“Non tentare un uomo disperato” le disse sottovoce, soffiando parole dolorose sulle sue belle labbra rosee.

E fu rinchiuso in un pesante silenzio che Benjamin si alzò in piedi e cominciò ad allontanarsi dalla ragazza bionda, lasciandola sola nel bel mezzo di un magnifico parco a lei improvvisamente sconosciuto.


§


Dicembre 1724.


Amandine Lynwood percorreva a passo di marcia i lussuosi corridoi immersi nella opaca oscurità della sera, i piccoli tacchi delle scarpette rosa che si abbattevano sul pavimento di marmo con rabbiosa frustrazione. Al di là dei vetri delle finestre, una gelida luna illuminava un volto bianco e irrigidito dalla tensione, ma allo stesso tempo bellissimo e irreale come quello di un’antica divinità.

“Ricordati cosa dice sempre tua madre, sciocca” si riproverò con rabbia, ricacciando indietro lacrime amare e traditrici. “Una signorina perbene non piange per chissà chi e, di sicuro, non lo fa a causa di un dottore di origini plebee!”

Malgrado il suo impegno e tutta la sua determinazione, l’oscuro sentimento che le stava mangiando il fegato da una mezz’ora a quella parte – e cioè dal momento in cui era letteralmente fuggita dal salotto gremito di gente – ancora non voleva saperne di lasciarla in pace.

Suo padre aveva chiamato presso di sé qualche amico della sua cerchia di importanti e tronfi aristocratici, presentandola ovviamente al loro cospetto con la solita aria fiera da cacciatore che mostra un animale impagliato e appeso alla parete. Tra il suo imbarazzo e i mormorii ammirati dei signori presenti, Benjamin Rochester era rimasto dignitosamente sullo sfondo e sorseggiava un bicchiere di vino con impresso negli occhi neri uno sguardo freddo, distante.

Un doloroso spasmo aveva stretto la bocca dello stomaco di Amandine, che l’aveva visto poi abbassare il capo biondo con indifferenza e rigirare fra le dita aggraziate il bicchiere di cristallo ormai vuoto. No, in realtà non era stato quello il momento che aveva rappresentato il colpo di grazia.

Sovrastando le vane chiacchiere del Duca di Lynwood, una delle poche dame presenti alla serata – una ammiccante Marchesa di nome Lottie Middleton – si era rivolta a Benjamin esclamando, con grande sorpresa: “Oh, certo! Ora ricordo dove ho già sentito parlare di voi: ma a Londra, ovviamente! Ho incrociato giusto un mese fa il Commodoro Worthington a teatro, cosa già di per sé rara…se non fosse per le notizie che portava con sé! È dunque vero che vostro padre sta pensando di accasarvi nel prossimo futuro, signor Rochester?”

Il viso dell’interpellato si era irrigidito per un secondo, mentre un’emozione strana era balenata nelle sue iridi oscure, dietro alla montatura sottile degli occhiali. “Se è ciò che mio padre desidera, non vedo alcun motivo per cui dovermi opporre al suo volere” aveva risposto infine il ragazzo in tono marmoreo, senza sognarsi di voltarsi nella direzione di una Amandine pietrificata.

Non tentare un uomo disperato.”

Era stato l’istante in cui la ragazza aveva scoperto come fosse stato del tutto inutile fare finta che quel giorno di cinque mesi prima non fosse mai esistito. Si era bendata gli occhi, ma aveva testardamente proseguito sulla pericolosa strada che l’aveva portata a sacrificare il suo primo amore a Benjamin Rochester, a cedergli il cuore senza nemmeno rendersene conto: avevano entrambi passato le settimane in una finta incoscienza, cercandosi con lo sguardo e con le parole proprio come avrebbero fatto due amici; mentre, durante la notte, Amandine non riusciva a fare altro che pensare a lui in continuazione.

E al desiderio vergognoso che ne derivava.

Anche se, avrebbe dovuto saperlo, non esisteva alcuna libertà di scelta per due figli trofeo come lo erano loro.

Di fronte al comportamento freddo del suo medico personale, la figlia di Alastair si era ritrovata impotente e altrettanto delusa; aveva deciso così di dare retta alle sue gambe tremanti e voltarsi di scatto, guadagnando poco educatamente l’uscio della stanza proprio mentre la Marchesa di Middleton scherzava con suo padre del fatto che, a questo punto, avrebbe potuto dare in sposa la primogenita al famoso Arthur Worthington.

“Oh, se solo sapesse di Earl Murray!” pensò di getto Amandine, continuando a fuggire chissà dove, a nascondersi fra le fredde ombre dei corridoi. Più che mai, la ragazza sentì l’impellente bisogno di vedere Saffie e confessare gli stupidi sentimenti che per mesi aveva nutrito nei confronti di colui che aveva il compito di occuparsi del suo stato di salute. Aveva pensato spesso di scriverle a proposito di Benjamin, in realtà; ma alla fine non ne aveva mai trovato il coraggio: era sicuramente stata una sciocca decisione, quella di voler custodire quel segreto tutto per sé. Il suo primo amore, un tesoro che doveva appartenere a lei sola.

Pensi che potrò anche io innamorarmi, un giorno?”

Così aveva scritto sul libro delle nostre fiabe diversi anni prima.

Certo che potrai.”

La luna brillava accecante nell’oscurità e la ragazza venne fulminata all’improvviso da un sentimento bruciante e terribile, che segnò le sue guance bianche di pianto. “Non la desidero questa sofferenza, che non riesco a comprendere” realizzò, portandosi le mani su due incredibili gemme turchesi e splendenti, tentando così di asciugarsi le lacrime in maniera patetica, infantile. “Preferisco il dolore della malattia, se vedere lui ogni giorno è una tortura che non riesco a sopportare.”

Amandine stava giusto decidendosi a prendere la via per le sue stanze e a trascorrere l’intera nottata a piangere tra il morbido conforto dei suoi cuscini, che il tocco deciso di cinque dita lunghe si fece sentire sulla pelle del suo braccio magro. Nel silenzio della notte, ella si voltò di scatto e fece in tempo a intravedere la sagoma altissima del dottor Rochester apparire alle sue spalle come un tormentato fantasma gotico.

“Potete essere più sconsiderata?!”

Quelle quattro parole incollerite le erano volate addosso nello stesso momento in cui Benjamin provvedeva a spingerla di lato e a imprigionarla senza troppi complimenti fra il suo corpo snello e la parete. “Non dovete correre” le sibilò poi in un tono di tremendo disappunto, chinando il viso su quello stravolto di lei. “Quante volte dovrò ripetervelo?”

“Lo dite solo perché siete pagato per occuparvi di me e della mia salute” ribatté subito la ragazza bionda, alzando uno sguardo bagnato e sofferente sul dottor Rochester. “Se è mio padre ad avervi detto di inseguirmi, beh…beh, po-potete dirgli che sto bene!”

Il suo tono si era fatto via via più esile ed incerto perché, di nuovo, il respiro di Benjamin s’infrangeva sulle sue labbra e la tentava, invitandola ad avvicinarsi alla bocca del ragazzo in questione.

Una mano premuta contro il muro e l’altra ancora stretta attorno al braccio di Amandine, il dottor Rochester si abbassò lentamente sulla ragazza e la sua fronte sfiorò quella di lei. “Siete in errore” le mormorò con una voce strana, non incollerita ma bensì assorta, quasi ammaliata. “Ha pensato steste male, ma io vi avrei raggiunta pure se lui non me l’avesse chiesto…”

Immerse nella stasi innaturale di pochi secondi fatali, le labbra dei due si tesero l’una verso l’altra disperatamente, quasi si fossero sempre cercate, appartenute.

“…perché condividiamo un tormento che ci è proibito provare.”

Gli occhi pieni di inesauribili lacrime, la signorina Lynwood si allontanò di botto da Benjamin e cercò di sgusciare via dalle sue braccia, ignorare il suono del suo stesso cuore infranto; riuscì solo a girare il viso bagnato e a puntare le sue mani sul petto del ragazzo, nel debole tentativo di respingerlo, allontanarlo.

Sono una stupida ragazzina malata che si è nutrita di inutili fantasie.

Ma, inaspettatamente, furono le dita di Benjamin a trattenerla, allungandosi sulle sue guance fredde e intrecciandosi con i bei boccoli dorati dell’acconciatura. “Troppo tardi” disse il dottore, obbligandola dolcemente a voltarsi di nuovo nella sua direzione. “Ormai, la tua stessa esistenza è una tentazione per me.”

Non tentare un uomo disperato.”

E raggiunse una bocca in attesa della sua, baciandola con una intensità dolce e lenta, piena di amore disperato.


§


Giugno 1725.


La porta della gabbia era chiusa. Sigillata.

Benjamin era stato chiamato fuori città per qualche giorno e lei era svenuta per la seconda volta nel giro di una settimana, spingendo due allarmati Alastair e Cordelia a chiamare un medico dalla contea più vicina, malgrado le sue insistenze per non farlo, per convincerli ad aspettare il ritorno del signor Rochester.

Amandine si rese conto di avere le dita pallide strette nervosamente attorno alle lenzuola pulite del letto su cui l’anziano medico aveva appena finito di visitarla; tremavano con violenza, le sue mani, come se avessero già previsto prima di lei ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto. Pure i suoi occhi azzurri, spalancati d’ansia, se ne stavano inchiodati sulla porta chiusa della camera perché – non poteva esserci errore alcuno – al di là erano riuniti i Duchi di Lynwood e il dottore, ora impegnati a discutere animatamente.

Il cuore incastrato in gola, la ragazza udì una cacofonia di voci indignate esplodere all’improvviso e, sopra tutte, riconobbe quella isterica di Cordelia: “Oh, Dio!” aveva urlato sua madre, il tono incrinato da un pianto imminente. “Siamo rovinati, Alastair! Rovinati!”

Il suono prodotto da un susseguirsi di passi infuriati le arrivò subito dopo alle orecchie e uno spasmo di agghiacciante paura attraversò le sue viscere, causandole un senso di nausea crescente; qualcuno stava marciando lungo il corridoio, diretto verso la stanza in cui l’avevano abbandonata, e la signorina Lynwood già sapeva che si trattava del padre.

Benjamin…vieni a salvarmi, ti prego.

La ragazza bionda fece in tempo a farsi scudo con il lenzuolo, a stringerselo al petto scosso dai brividi, che la porta si spalancò e sbatté con violenza contro il muro, tanto forte da produrre un secco rumore di spaventosa condanna. Sulla soglia, incorniciato dalla luce soffusa proveniente dal corridoio, stava l’alta e demoniaca figura del Duca di Lynwood: l’uomo fissò su di lei due iridi intrise di un rancore glaciale, tremendo, mentre le sue labbra erano solo un taglio sottile che sembrava aver trasformato i suoi lineamenti in quelli di un pericoloso serpente. Un’espressione che la diciasettenne poteva dire di non aver mai visto faceva mostra di sé sul volto livido di Alastair…una furia che non avrebbe incontrato ostacoli di sorta.

“Pa-padre, vi pre…”

“Non parlare” la zittì l’uomo con un sibilo carico di veleno, tanto incollerito da farla sussultare sul posto. “Non una parola verrà mai pronunciata in questa casa, sulla vergogna che tu e quello sporco plebeo avete rovesciato su tutti noi.”

Gli occhi turchesi di Amandine si riempiono di lacrime, alla vista della mostruosità impossessatasi di suo padre ed ella si portò inconsciamente le mani sul grembo, come a voler proteggere una leggera rotondità a malapena visibile.

Arriva e portaci via da qui, ti prego.

“Che io venga dannato, se lascerò il mio Casato affondare; che io sia maledetto, se permetterò a un misero dottore di sporcare il mio nome” continuò imperterrito il Duca, parlando in una maniera alla figlia del tutto estranea, continuando a stare in piedi sulla soglia e a fissarla senza avere alcuna intenzione di avvicinarsi. “Oh, verrete puniti entrambi e farò in modo che nessuno al mondo possa più sentir parlare di Benjamin Rochester.”

Fu quello l’unico istante in cui la bianca colomba imprigionata provò a uscire dalla gabbia dorata, a volare via dalle possessive mani del suo padrone. “Lu-lui vuole sposarmi, padre!” urlò quindi, cercando di non fare caso al suo balbettio impaurito. “Essere figlio adottivo di Simeon Worthington gli garantisce il privilegio di poter aspirare alla mia mano! Lo-lo sapete, che è così!”

“Quanto sei ingenua, figlia mia” rispose con crudele ironia Alastair, sorridendo freddamente. “Tu e Saffie siete la mia eredità e io mi assicurerò con ogni mezzo possibile che lo restiate finché sarà conveniente e opportuno. Il Dottore, un Worthington? Non farmi ridere.”

“Benjamin mi ama!”

“Non ne dubito, ma il suo amore non vale niente ai miei occhi” sentenziò il Duca di Lynwood, tendendo un braccio verso il centro della camera da letto. “Ringrazia tua madre, che mi ha implorato di non farti rinchiudere in un convento. Rimarrai qui, confinata in quest’ala della casa fino al momento del parto. Non riceverai alcuna visita, né parlerai ad anima viva di questa storia, soprattutto a tua sorella maggiore.”

Un viso scavato ma bellissimo, incorniciato da una cascata di boccoli biondi, si aprì in un’espressione di perplessità dolorosa, spaventata. “E…e mio figlio?”

“Tu non hai un figlio” arrivò la risposta lapidaria di suo padre, e fece male come una coltellata dritta nel cuore. L’uomo le diede le spalle e fece per uscire dalla stanza, rinchiuso dentro a una corazza di spietato orgoglio; si fermò quel giusto per poter aggiungere, in tono piatto: “Prego tu sopravviva alla gravidanza, perché partorirai questo bambino, pure se non sarà mai tuo…come d’ora in avanti Benjamin Rochester sparirà per sempre dalla tua vita.”

“…e farò in modo che nessuno al mondo possa più sentir parlare di Benjamin Rochester.”

Incapace di sostenere oltre il dolore che si propagava ad ondate dentro di lei e, al contempo, di osservare le spalle di suo padre allontanarsi, la diciassettenne si sporse in avanti, affondando le mani nel materasso.

Almeno lui…che almeno lui possa vivere lontano e felice.

“Vi imploro di non fargli alcun male, padre!” singhiozzò infine, chinandosi sopra le sue stesse dita intrecciate e bagnandole di pianto; pareva stesse pregando una qualche terribile divinità, la bellissima Amandine Lynwood. “Lasciate che porti via il bambino con sé e se ne vada lontano, giurando di non far più ritorno!”

Alastair voltò appena il capo grigiastro e lanciò alla figlia un’occhiata di lontana indifferenza: inginocchiata e tremante, la ragazza piangeva lacrime di sofferenza straziante, nascondendo il volto sul dorso delle mani incrociate.

“Farò qualsiasi cosa voi mi chiediate!” aggiunse, disperata. “Qualsiasi cosa!”

Vivrò prigioniera per l’eternità, ma lasciatelo vivere questo mio primo e sfortunato amore.

Il silenzio calò pesante nella camera, interrotto solamente dai singhiozzi di Amandine e dal ticchettio anonimo della pendola. Poi, Alastair prese la sua decisione, fece la sua terribile scelta.

“Molto bene” acconsentì, annuendo appena con la testa. “Ma non dimenticare le tue parole, figlia, perché hai detto qualsiasi cosa.”

Detto ciò, se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé e abbandonando Amandine alla consapevolezza orribile che si fece immediatamente strada nelle sua mente: non avrebbe mai più rivisto Benjamin…e non aveva nemmeno avuto la possibilità di dirgli addio.

Un dolore mortale la fulminò sul posto e lei si lasciò cadere su un fianco, il lungo corpo magro che s’aggrappava con forza alle coperte calde, ormai zuppe di pianto.

Io ti amo e ti amerò per sempre, fino alla mia morte.


§


Luglio 1725.


Il malvagio fato le diede molto presto l’occasione per cominciare a tener fede alle sue parole.

Similmente a ciò che era accaduto esattamente un mese prima, Alastair Lynwood fece irruzione nella camera dove Amandine se ne stava rinchiusa, cogliendola di sorpresa e del tutto impreparata. La ragazza sussultò spaventata, chiudendo con uno scatto nervoso il diario che era impegnata a redigere e coprendosi allo stesso tempo la pancia gonfia con una mano.

“Pa-padre, buongiorno” balbettò, lasciandogli un’occhiata cauta e altrettanto perplessa. In fondo, non lo vedeva dal giorno in cui gli aveva sacrificato non solo l’anima, ma anche la sua stessa esistenza.

“Voglio sapere chi è” esordì l’uomo, avanzando a grandi passi nella direzione in cui stava la figlia, rigidamente seduta davanti a un elegante piccolo scrittoio posto vicino alla finestra. “Se c’è qualcuno che ne è a conoscenza, allora quella persona sei sicuramente tu, Amandine.”

Il Duca la raggiunse in un attimo e la luce bianca che filtrava dalle vetrate illuminò il suo volto pallido, sconvolto da un sentimento di preoccupazione folle e oscura. La ragazza non ebbe bisogno di indagare oltre per comprendere a chi si stava facendo riferimento, perché solo una persona aveva il potere di far assumere a suo padre quel genere di espressione.

Saffie.

“Io non ho davvero idea di…”

“E io non sto scherzando affatto questa volta!” la ghiacciò l’uomo, abbattendo una mano aperta sulla superficie liscia del mobile, colpendolo con rabbiosa violenza e facendo sobbalzare la cancelleria che vi stava appoggiata sopra. “Non dimenticare l’obbedienza cieca che mi hai promesso, figlia.”

Due occhi turchesi si spalancarono sul vuoto e somigliarono proprio a quelli di una preda senza più alcuna via di fuga, spacciata.

“Esigo conoscere il nome di colui che ha osato toccare la mia preziosa primogenita, che l’ha sporcata” ripeté una seconda volta suo padre, tremando di una furia tenuta a malapena sotto controllo. “Dimmelo, Amandine. O farò ribaltare questa stanza da cima a fondo, pur di trovare il posto in cui hai nascosto le lettere di tua sorella.”

La diciasettenne schiuse le bianche labbra tremanti, colta da un’improvvisa incertezza. Il rancore che traboccava dall’uomo di fronte a lei era tanto terrificante da essere insopportabile da sostenere, perché era chiaro quanto il Duca fosse effettivamente fuori di sé, molto più di quando era venuto a conoscenza della sua relazione con il dottor Rochester e del frutto del loro vergognoso amore.

Ogni cosa doveva essere sacrificata sull’altare del Casato dei Lynwood.

Persa Saffie, il loro finto paradiso dorato avrebbe cominciato a cadere nell’abisso.

Inoltre, la primogenita era la preferita del Duca Alastair ed era evidente che gli accadimenti degli ultimi mesi non avevano fatto altro se non aumentare la considerazione dell’uomo nei suoi confronti, ora disattesa nella peggiore delle maniere: come aveva tentato di fare Amandine, anche lo sveglio passerotto si era illuso di poter abbandonare la cattività e aveva cercato di volare via, finalmente libero. Entrambi gli splendidi uccellini cresciuti da Cordelia e Alastair si erano ribellati al loro dominio, minacciando in questa maniera di rovesciare la gabbia e farla cadere dal tavolo, piegandone per sempre le sbarre.

Ma il padrone non avrebbe mai lasciato correre un’offesa del genere.

“Non posso farle questo” pensò di getto la ragazza bionda, abbassando lo sguardo lucido sulle sue stesse dita, intrecciate sul ventre rotondo. Le lacrime le annebbiarono la vista e lei pensò a Benjamin, al suo bambino, alla maledetta promessa che aveva fatto a suo padre. “Come posso farle questo?”

La voce imperiosa di Alastair si levò di nuovo, piombandole sulla testa e opprimendole il cuore. “Hai fatto un giuramento” le ricordò l’uomo, come se ce ne fosse veramente bisogno. “Se mi riveli il nome, io non farò alcun male a quel plebeo che Worthington ha avuto la disgraziata idea di presentarmi; rivelamelo, e lascerò che il bambino cresca con suo padre e non in un pulcioso orfanotrofio.”

Come posso tradirla così?

Avrebbe dovuto saperlo molto bene, che contro la volontà del Duca di Lynwood non poteva esserci né opposizione, né vittoria alcuna. Persino Saffie – che aveva ereditato il suo stesso ingegno – era impotente davanti a lui; quindi, come avrebbe potuto anche solo sperare di spuntarla lei, che era solo una ragazzina malata e compromessa?

Ovviamente, suo padre non aveva finito di parlare: “Dimenticavo” aggiunse soave, tornando di botto a parlarle con il tono carezzevole con cui era abituata a sentirlo. “Il tuo silenzio non sarà affatto d’aiuto a tua sorella: parla e io la riporterò qui nel Northampton, come è sempre stato. Altrimenti, credi davvero di poterla vedere un’altra volta?”

Amandine alzò la testa dorata di scatto e incrociò due iridi castane e immobili, che la osservavano dall’alto con una serietà tagliente e inamovibile. Nel profondo, l’anima esausta della diciassettenne tremò e si arrese del tutto, perché lei capì subito che perdere pure Saffie era un concetto semplicemente inconcepibile.

“…il venti di questo mese. È il giorno in cui io ed Earl abbiamo deciso di fuggire, per poter poi diventare marito e moglie.”

Perdonami, Saffie.

“Si tratta del vostro servo” fu infine la tremenda confessione, mormorata a bassa voce come si fa con un peccato mortale. “Colui che avete scelto per farle da accompagnatore. Earl Murray.”

Un’espressione di sorpreso disprezzo deformò i lineamenti aristocratici di suo padre in un secondo e la ragazza chinò di nuovo il capo, distrutta. “Saffie progetta di scappare con lui e di unirsi in matrimonio cosicché voi non possiate esercitare più alcuna influenza.”

Perdonami, ma non posso condannare mio figlio e Benjamin, né vivere in questa gabbia senza di te.

“Quando?”

“Il venti di questo mese.”

Un gelido istante e, in un baleno, la figura alta del Duca di Lynwood si staccò dallo scrittoio con un unico gesto violento, quasi cominciando a correre verso la porta della stanza; mentre un ghigno strano appariva sul volto sfinito di Amandine. “Già” pensò, guardando Alastair allontanarsi con la coda dell’occhio. “Il venti di Luglio è oggi.”

Non riuscirete a fermare la sua fuga, pure se già so che il Cielo mi punirà per questo tradimento.

All’ultimo, la sagoma riccamente vestita di suo padre rallentò la sua corsa ed egli si voltò sulla soglia della camera da letto, nello stesso modo in cui aveva fatto il mese precedente. “Trascinerò tua sorella a casa, pure se so già che non avrò bisogno di usare la forza per convincerla” le disse, sfoderando un sorriso agghiacciante. “Tu e Saffie imparerete una sonora lezione da tutto questo, perché pagherete le conseguenze di non aver dato il giusto valore al vostro posto

“Non-non sarà così facile per voi trovarla!” commentò la ragazza con forza, stringendo le mani bianche sulla veste da camera. “Nessuno è a conoscenza del luogo in cui si trova!”

L’uomo non batté ciglio e, anzi, guardò la figlia con una tenerezza strana, quasi egli si trovasse davanti un bambino un po’duro di comprendonio. “Direi che Simeon Worthington mi deve ben più di un favore, non credi?” asserì Alastair, marmoreo. “E suo figlio è ormai uno degli uomini più ricchi e influenti dell’Impero.”


§


Aprile 1728 – Ottobre 1729.


Si era trattato quasi certamente di un miracolo. Amandine l’aveva sempre creduto e continuava a ringraziare ogni divinità celeste per aver ricevuto un dono che non credeva di aver meritato.

Il piccolo era venuto alla luce prematuro, ed era nato durante una giornata di vento e pioggia del Settembre 1725. Distrutta dalla stanchezza e dal dolore, la ragazza aveva fatto in tempo a intravedere una minuscola creaturina coperta di sangue e a udire il suo primo vagito, che subito una delle levatrici aveva avvolto il neonato in una coperta ed era scomparsa dalla stanza per non farvi più ritorno.

Amandine pensava di sapere cosa significasse avere il cuore infranto ma, in quella manciata di secondi, ella conobbe con assoluta certezza il dolore vero e la sua anima morì quello stesso giorno, perché il legame con Benjamin e con suo figlio era ormai spezzato per l’eternità. Non avrebbe mai potuto baciare di nuovo le labbra del suo grande amore, né stringere fra le braccia il bambino frutto del loro sentimento proibito.

La sua anima era morta e lei aveva desiderato di essere portata via dalla malattia.

Eppure si parlava pur sempre di un oscuro miracolo. Infine, la sua compagna fedele si era rivelata più crudele e beffarda del previsto, poiché Amandine era riuscita a portare a termine la gravidanza e a partorire, sopravvivendo contro ogni pronostico. Da quel momento in avanti, però, il suo stato di salute non sarebbe mai più stato lo stesso e, anzi, le conseguenze della malattia si fecero ancora più gravi e pesanti da sostenere.

Non a caso, quando Saffie era finalmente tornata nel Northampton due mesi più tardi, la ragazza non si era ancora ripresa del tutto ma, comunque, aveva deciso di attendere l’arrivo della sorella appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, la mano pallida aggrappata agli intarsi di metallo dorato.

Le due si erano abbracciate dopo fin troppo tempo e – da allora – una spessa riga di nero e incancellabile inchiostro era stata tracciata sugli avvenimenti accaduti nei due anni in cui erano state lontane.

“…né parlerai ad anima viva di questa storia, soprattutto a tua sorella maggiore.”

Forse era bastata e avanzata l’opprimente presenza del padre per ridurla al silenzio, proprio lei, che a Saffie aveva sempre detto tutto; oppure, si trattava di un desiderio puro e semplice: quello di dimenticare, poiché si era infine rassegnata a dover vivere fra le sue belle e inamovibili sbarre d’oro. Come aveva scritto sul quaderno che lei e la sorella avevano ripreso a compilare, solo una volta aveva provato a forzarle e ne doveva pagare le conseguenze, visto che le era stato strappato via ciò che più aveva di prezioso.

Non che Saffie si fosse interrogata troppo sul vero significato di quell’ultima frase.

Entrambe avevano in fondo compiuto false scelte, ma pur sempre terribili.

Erano in questo modo passati tre anni, giorni che si susseguivano l’uno dopo l’altro paciosi e apparentemente sereni, ore intrappolate in una bolla di finta spensieratezza che Amandine trascorreva fra le solite frivolezze dell’Alta Aristocrazia. Quando le capitava di soffrire a causa della malattia o di esser giù di morale – tutte cose che capitavano spesso – allora la ragazza si concedeva di pensare a Benjamin e al suo bambino: era stranamente confortante l’idea che i due fossero in quel momento insieme ed era certa che il dottore avrebbe un giorno parlato al figlio di sua madre, della ragazza sciocca di cui si era innamorato.

Poi, era accaduto.

Un mite giorno di primavera, uno di quelli in cui la sua malattia decideva di fare un passo indietro e lasciarla in pace, Amandine aveva corso di tutta fretta verso casa, interrompendo una delle sue rare passeggiate e facendo così irruzione nel salotto come un piccolo tornado. Questo perché Cordelia si era lasciata scappare il nome del gentiluomo che suo padre attendeva di ricevere in visita.

Arthur Worthington, il famoso fratellastro di Benjamin.

Era apparsa di fronte a sua sorella maggiore e al Contrammiraglio come la fanciulla più innocente e ignara del mondo, considerando subito che l’uomo era in effetti più attraente di quanto le avessero mai descritto. Talmente piacente, dal magnetismo intelligente e raffinato, che persino Saffie ne era rimasta ammaliata al primo sguardo: prima che i due si voltassero nella sua direzione, Amandine aveva fatto in tempo a notare un sorriso radioso aprirsi sulle labbra della sorella, un rossore leggero colorare il suo viso emozionato. Sì, l’aveva colta al volo, la complicità che sarebbe potuta nascere fra loro, ma non aveva comunque esitato a ignorarla, ad essere capricciosamente egoista.

Non era voluto molto tempo nemmeno a una fanciulla ingenua come lo era lei per comprendere quanto l’arrivo del Contrammiraglio non fosse una visita casuale, ma bensì il via agli ingranaggi di un piano matrimoniale che la vedeva come protagonista, diretta interessata nell’unione di due tra le famiglie più importanti dell’Impero.

Ed era stato un altro miracolo o, con più probabilità, una vera punizione divina.

Avrebbe calpestato i timidi sentimenti di una Saffie dal cuore ormai chiuso, perché solo sposando Arthur Worthington ci sarebbe stata la misera possibilità di incontrare nuovamente Benjamin, di poter vedere il piccolo che le era stato strappato dalle braccia; suo padre aveva forse deciso la sua punizione – il suo sacrificio – ma le andava bene anche solamente osservarli da lontano. L’avrebbe sopportato, come era pronta a farlo anche con il rancore che l’uomo di cui era sempre stata innamorata avrebbe potuto nutrire nei suoi confronti.

Sarebbe stata la mansueta moglie di un Worthington che – similmente a tutti gli altri – non riusciva a vedere oltre alla sua bellezza, perché in quel modo pure Saffie avrebbe ritrovato la sua tanto amata libertà: con il tempo, Alastair avrebbe riconosciuto alla sua preziosa figlia maggiore il permesso di tornare nella Capitale, visto che non vi era più alcuna utilità nel tenerla isolata nel Northampton; la primogenita dei Lynwood era infatti tenuta in alta considerazione da molte delle famiglie nobili di Londra e questo non poteva essere dimenticato.

Non trovi che sia bellissimo, Saffie?”

Tutti avrebbero dovuto pensare che lei stessa era la più contenta all’idea di quel matrimonio combinato. Tutti, ma soprattutto sua sorella maggiore che, per qualche ragione, non riusciva ad andare affatto d’accordo con Arthur Worthington. Amandine la conosceva meglio di chiunque altro: se le avesse dimostrato di essere veramente infatuata dell’uomo e di stravedere all’idea di una vita insieme a lui, allora Saffie non avrebbe sofferto per la questione e, anzi, ne sarebbe stata felice.

Avrebbe lasciato stare la sua inutile e non corrisposta attrazione.

D’altra parte, si era trovata spesso sola in compagnia del Contrammiraglio che, alla stessa stregua di suo padre e del signor Simeon, non pronunciava mai parola alcuna su Benjamin Rochester o su ciò che era accaduto. Non sembrava nemmeno egli avesse un fratello adottivo, quasi come se lo avesse dimenticato per strada; eppure, pensava la ragazza bionda, l’uomo doveva conoscere per forza di cose le circostanze in cui tutto aveva avuto inizio.

Aveva osato sondare il terreno una volta sola, ma senza alcun effettivo risultato. Complice una lunga passeggiata nel labirintico parco della tenuta, Amandine aveva trovato il coraggio necessario per fermarsi davanti alla vecchia fontana e per commentare, con una voce esile e apparentemente vaga: “Se…senza dubbio la mia famiglia ha molto di cui esservi grato, contrammiraglio! Ecco, è un gran servizio quello che ci avete reso!”

La ragazza aveva sperato che Worthington sarebbe stato incline ad aprirsi sugli avvenimenti di tre anni prima e su Benjamin, se fosse stata lei la prima a parlarne. “A quale servizio vi riferite, piccola signorina?” le aveva detto invece con una divertita gentilezza l’uomo, chinandosi appena nella sua direzione e guardandola con due incredibili iridi verde scuro, incrociando le braccia dietro la schiena con fare elegante.

“Oh!” aveva esclamato allora la ragazza, unendo le mani in grembo. “Parlo della mia amata sorella Saffie, ovviamente: non avrei sopportato di esserne separata per sempre e sono a conoscenza del fatto che…”

§

Keeran alzò gli occhi neri di scatto e li portò subito sulla persona che sedeva al suo fianco, sulle assi dure del pavimento di legno. Nel giro di un istante, il suo viso bianco e pieno di tensione si tramutò in una maschera di impaurita ansia, perché vide un sentimento nuovo e aberrante impossessarsi dello sguardo perso di Saffie Lynwood: la padroncina tremava tutta, da capo a piedi, mentre ancora non osava alzare il capo castano dal diario della povera Amandine; sembrava non essersi accorta né della preoccupazione della sua domestica, né dell’oscurità in cui il suo cuore stava precipitando.

Gira pagina, Keeran” le ordinò con una voce che, sul serio, poteva provenire da un altro mondo. Di nuovo, i suoi occhi spalancati non si allontanavano dal foglio e dalla grafia ordinata della sorella.

La domestica allora ubbidì in silenzio, pentendosi di aver aperto quel maledetto baule.

§

“…siete stato voi a trovarla in due giorni scarsi, riportandola così fra le mani di nostro padre.”

“Ho fatto solo il mio dovere di gentiluomo e di Ufficiale dell’Impero” aveva glissato con noncuranza Arthur, scuotendo la testa scura e dimostrandole in questo modo di non esser particolarmente incline a voler parlare di Saffie. “Ma accetterò in ogni caso il vostro ringraziamento.”

Amandine aveva alzato gli occhi turchesi sul suo volto tanto attraente quanto irreprensibile, ed aveva pensato che non sarebbe riuscita ad ottenere alcuna informazione da lui. Un silenzio strano era calato fra loro e la ragazza si era sentita in dovere di sporgersi verso l’uomo e baciarlo sulle labbra, così da suggellare l’unione desiderata dalle due famiglie; ed era tanto presa da questo unico pensiero, che non fece nemmeno caso al lontano rumore di misteriosi passi che scricchiolavano sul sentiero di ghiaia e al loro interrompersi improvviso.

Annunciato il fidanzamento, doveva solo attendere con pazienza che passassero i mesi e che Worthington potesse essere libero di tornare per portarla all’altare, ma era stato in un triste giorno d’Ottobre che il Cielo aveva deciso infine di far cadere sopra alla sua testa la punizione, di farle scontare le vere conseguenze dei suoi peccati e delle sue bugie, dei suoi tradimenti: a poche settimane dalla cerimonia, Arthur – ormai divenuto Ammiraglio – non si era presentato all’appuntamento e aveva così infranto il suo giuramento, senza neanche degnarsi di inviare un servo o una nota a giustificarne il motivo; ed era stato il cuore impaurito di Amandine a tradirla proprio sul gran finale, perché il panico si era impossessato di lei e l’aveva spinta a correre fuori casa…in attesa dell’uomo che avrebbe dovuto salvarla, riportarla da coloro che amava.

“…e se non volesse sposarmi più?”

In quell’istante, aveva creduto che ogni speranza fosse stata vana, che non li avrebbe più rivisti.

E la sua malattia ne aveva approfittato crudelmente, punendola infine con la morte.

“Questa è anche la mia, di punizione” si continuava a ripetere nei giorni d’agonia dove, come era sempre stato, solo Saffie aveva il coraggio necessario per rimanerle accanto. “In questo modo finisce, la mia vita da colomba imprigionata.”

Non aveva alcun dubbio su come sarebbe andata a finire, non ne aveva mai avuti. Forse per questo si era decisa a non rivelare nulla alla ragazza che da una settimana non abbandonava il suo fianco ma, anzi, aveva scritto di tutta fretta un’ultima misera pagina del suo doloroso diario, prima di avvolgerlo nella stola che Saffie le aveva regalato per il suo sedicesimo compleanno e nasconderlo così tra le stoffe di un abito inutilizzato da tempo.

A cosa servirebbe, aggiungere adesso altra sofferenza nel cuore della mia tanto amata sorella?

Sono stata ingenua e sciocca, capricciosa ed egoista, persino crudele; ma se c’è una persona che amo alla stessa stregua di Benjamin e del mio piccolo, questa è proprio la mia povera sorellona. A che scopo, rivelarle un’altra terribile realtà, questo tremendo passato?

Non sei tu Saffie, ma tutti noi che dobbiamo chiederti perdono, per le parole che non abbiamo avuto il coraggio di pronunciare; perdonaci e perdona anche l’ambizione di Arthur Worthington, poiché so bene cosa accadrà quando non sarò più qui.

Perdonalo, poiché in questi mesi lui è stato molto buono con me e mi ha sempre scritto tante lettere cariche d’affetto. Perdonalo perché, in una qualche strana maniera, egli mi è stato amico ed è grazie a te e ad Arthur se me ne vado felice.

Sconto la mia punizione in pace. Accetto il giudizio della mia fedele malattia, perché sapere che Benjamin e il mio bambino sono insieme è la consolazione più grande. Non desidero andarmene con l’odio nel cuore.

Mi auguro tu non venga mai a leggere queste righe ma, se così dovesse essere, ti prego di dire a Benjamin che l’ho amato fino all’ultimo respiro – cosa imminente, temo – e che nostro figlio è sempre stato nei miei pensieri. Cielo, prego Dio perché tu possa incrociare il loro cammino!

Ti voglio un bene immenso,

Tua Amandine.”



§



“…e visto tramite i tuoi occhi, sorella mia. È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice.”

Non erano rimaste che poche pagine vuote, oramai. Del diario di Amandine era già stato letto tutto, svelato ogni mistero e rivelate verità di cui Saffie poteva dire di non aver mai saputo o sospettato assolutamente nulla; perché sua sorella minore aveva in fondo perfettamente ragione: si trattava di una realtà diversa, in cui la primogenita dei Lynwood era stata non solo un’ignara spettatrice, ma anche una stupida pedina.

Una marionetta manovrata e ingannata da tutti, sorella compresa.

No, Saffie non si diede nemmeno la pena di dare ascolto alle esitanti e preoccupate parole di una Keeran ancora al suo fianco, poiché tutto intorno era solo buio, oscurità accecante. Lo stesso corpo della ragazza non reagiva al suo vortice di pensieri e continuava anzi a tremare con violenza, seppure inchiodato al pavimento freddo mentre lei – povera creatura sperduta – riusciva solo a fissare ad occhi spalancati i fogli scritti da Amandine.

Devi crederti così superiore agli altri, signorina Lynwood”

Le iridi castane della Duchessina scattarono meccanicamente verso l’alto, a studiare le piatte forme della parete come se non l’avesse mai vista prima di allora. Solo il frastuono assordante di un cuore trafitto le rimbombava nei timpani e riempiva tutta la stanza, pure se Saffie poteva dire di sapere a malapena dove si trovasse in quel momento. Non che fosse inesatto, pensò follemente lei, poiché all’improvviso tutto era diventato estraneo, sconosciuto.

Era difatti un oscuro sentimento ghiacciato a scuoterla con forza, facendole provare un freddo intenso e mortale. Un freddo tanto implacabile e doloroso da lasciarla attonita; e, in un attimo, fu come se Saffie si fosse risvegliata sul fondale di un profondo abisso, lo stesso che aveva ingenuamente creduto di poter risalire.

Usata da Arthur Worthington, che non ha fatto altro se non prenderti in giro.

Come pensavo. Sei un eccellente bugiardo, Ammiraglio.”

Nella mente stravolta della ragazza, ogni cosa divenne cristallina nel giro di un atroce secondo: la fiaba scritta da Amandine, il contegno pieno di superiorità con cui l’ammiraglio l’aveva giudicata fin dall’inizio, la rabbia del dottor Rochester nei confronti di quest’ultimo e, infine, la straziante sofferenza con cui lui stesso le aveva confidato come Keeran gli ricordasse una persona del suo passato. Quel famoso qualcosa che aveva continuato a sfuggirle dalle dita, ora si mostrava in tutta la sua aberrante natura: un dipinto della sua immensa sconsideratezza poiché, dall’alto della sua supponente intelligenza, la Duchessina di Lynwood si era rivelata la più ignorante e ottusa di tutti.

“…respirate, signora” continuava a dire la voce ovattata e lontana di Keeran. “Signora…signora!”

Come fosse in grado di sentire alcunché. Saffie era impegnata a dominare l’insostenibile insieme di rabbia e umiliazione che minacciava di affogarla e ucciderla, pure se già sapeva sarebbe stato tutto inutile…riusciva a vederla, l’abominevole onda scura che stava tornando a lei, più grande e distruttiva.

Credi veramente che ti avrebbe amata? Proprio tu, il passerotto a cui ha strappato le ali?

Senza quasi rendersene conto, la ragazza si alzò in piedi di botto e barcollò di lato, facendo qualche passo in direzione del letto, prima di ricadere pesantemente in ginocchio sul tappeto indiano. Le mani solerti della sua serva vennero subito a sostenerla per un braccio e Saffie si aggrappò con le dita al materasso, mentre Keeran l’aiutava a raddrizzarsi. “Signora!” esclamò per ‘ennesima volta l’irlandese, con le lacrime agli occhi. “Dovete sedervi, ve ne prego!”

Tu, signorina Lynwood, la discutibile donna che ha imprigionato da molto, troppo tempo.

Dio, sei stupenda.”

Un disgusto dal sapore acido risalì la sua gola a tradimento e le bruciò nella bocca, provocandole un senso di nausea vertiginoso, insopportabile. Fu così che la ragazza strinse a sé il diario di Amandine e si diresse lentamente verso l’uscita della camera, tremante e muta come un uccellino morente.

Tutte bugie. Tutti enormi inganni.

Keeran cercò timidamente di trattenerla e allungò il braccio, tendendo le dita sulla piccola spalla della padroncina; ma fece appena in tempo a sfiorarla, perché quest’ultima la pietrificò sul posto immediatamente: “No” le imperò con una voce non sua, senza neanche voltarsi. “Non provare a fermarmi, Keeran.”


§


La guerra che per lungo tempo erano riusciti a evitare, ora minacciava di scoppiare come un violento temporale nel bel mezzo dell’estate, di quelli preceduti solo da un’aria immobile e quieta, minacciosa.

A Saffie sembrò di camminare immersa in un mondo di fredde acque scure, dove nessun suono o luce poteva raggiungerla per davvero: camminò in questo modo – rigida e assente – fin sulla soglia del poco distante alloggio di Worthington, senza degnarsi di annunciare la propria presenza ed entrandovi in silenzio.

“…perdona anche l’ambizione di Arthur Worthington, poiché so bene cosa accadrà quando non sarò più qui.”

La ragazza era pronta a piantonare le stanze del marito fino all’alba pur di affrontarlo ma, fortuna o sfortuna, il fato volle che i due si incontrassero subito, perché la porta si aprì su un Ammiraglio seduto dietro alla scrivania piena zeppa di registri impilati l’uno sull’altro e carte dalla solito aspetto importante: lo sguardo verde perso tra le righe e il pennino stretto fra le lunghe dita, l’uomo non diede subito segno di averla sentita entrare. Sulle sue larghe spalle, le spalline dorate della giacca rilucevano inquietanti e malvagie, quasi a voler farle intendere che, no, non ci sarebbe mai stata alcuna vittoria contro la sua inamovibile fame di potere.

Oh, Amandine…eppure dovevi sapere che io sono tale e quale a mio padre.

Worthington sollevò lo scarmigliato capo scuro dai documenti che stava compilando e le lanciò un’occhiata sorpresa, come se non fosse lo stesso disgustoso demonio che per tutto quel tempo si era preso gioco di lei.

“Tu…” cominciò Saffie, il tono incrinato e patetico di chi sta per scoppiare in lacrime. “Tu l’hai sempre saputo, non è così?”

Due livide occhiaie solcavano il viso esausto di un Arthur a cui, dal canto suo, bastò guardare per un attimo il faccino rosso e stravolto della moglie per comprendere al volo di che cosa si stesse parlando. Se non fosse per le notevoli capacità d’analisi che egli vantava già di suo, l’ammiraglio poteva anche pensare di essere stato vittima di una vera maledizione – di una punizione divina – visto che furono le parole di Benjamin a tornargli subito in mente.

“…esiste un abisso infinito fra il possedere e l’amare, Arthur!”

La luce accecante del pomeriggio filtrava dalle vetrate, illuminando di bianco l’espressione immobile del Generale Implacabile; mentre, all’altro capo della stanza, la sagoma minuta e tremante di Saffie lo fissava di rimando con le lacrime agli occhi. In quei giorni, si erano amati innumerevoli volte fra le pareti di quello spazio dove non esisteva più alcun confine ma, ora, ad entrambi parve di poter fisicamente percepire la presenza di un alto muro invisibile innalzarsi fra loro.

La concreta linea tracciata dai peccati che avevano unito il loro passato.

“Lo sapevi fin dall’inizio” ripeté la ragazza, cercando al contempo di sostenere l’espressione indecifrabile e altrettanto vuota dietro cui si era trincerato il detestato marito. “Di Amandine, di…di me ed Earl.”

In seguito alle sue parole sofferenti, un nuovo silenzio opprimente scese nella camera dell’Ammiraglio e la Duchessina si trovò a sperare come una stupida che Arthur si alzasse in piedi e negasse ogni cosa con la consueta arrogante superiorità, che andasse in collera con lei e respingesse le sue accuse…chiedendole di cosa diavolo stesse blaterando.

Ma, ovviamente, Worthington non fece nulla di tutto questo. L’uomo si limitò a lasciar cadere sul foglio il pennino che ancora stringeva fra le dita e a rilassare l’ampia schiena all’indietro, aderendo con apparente indifferenza allo schienale della sedia. “È stato Benjamin a dirti di lui e Amandine?” chiese di rimando, glissando palesemente su Earl Murray; e la ragazza lo detestò per il tono monocorde e controllato con cui aveva pronunciato quella frase, quasi le stesse chiedendo del tempo e fosse cieco di fronte al dolore della persona a cui aveva rovinato la vita.

“È stata Amandine stessa a dirmelo” rispose allora lei, ora più incollerita che sconvolta, alzando un esile braccio e mostrando così ad Arthur il diario in cuoio che stringeva fra le dita. Si avvicinò di qualche piccolo passo alla scrivania e decise di non far caso allo sguardo penetrante di Worthington perché, anche quello, era tanto freddo da fare male. Così, disse: “Non lo neghi, quindi? Non hai intenzione di negare, Ammiraglio, di avermi portata via dall’unico uomo che io abbia mai amato?”

Oh, ma è questo ciò che accade quando ci si avvicina a te, no?

Un’ombra sembrò passare sul volto stanco di Arthur e il suo sguardo si indurì, tradendo un sentimento pieno di combattuto tormento che l’uomo non desiderava mostrare. “No, non ho intenzione di farlo” fu la piatta risposta che distrusse definitivamente il cuore della ragazza in piedi a nemmeno un metro da lui. “Sono io il responsabile del tuo ritorno nel Northampton. Io ti ho trovata e portata a tuo padre, al Duca.”

Ma è più facile fare del male agli altri e proteggere così sé stessi, no?

Davvero, fu dura per Saffie non perdere la testa e saltare dall’altra parte del tavolo, perché avrebbe volentieri preso a schiaffi quella faccia così schifosamente severa e impassibile. Così bugiarda.

“Perché…Perché lo hai fatto?”

Oh, sciocca creatura! Per quale motivo, in fondo, non avrebbe dovuto farlo?

“Si è trattato di una mera questione d’affari” sillabò l’Ammiraglio Worthington, scuotendo appena la chioma bruna. “Niente di personale.”

Il dolore di sua moglie era traboccante e atroce, insopportabile. L’uomo abbassò allora gli incredibili occhi chiari sui documenti che l’attendevano perché, di certo, non poteva perdere di nuovo il controllo di fronte a lei; già era stato del tutto sbagliato permetterle di avvicinarsi e sconvolgerlo, quando avrebbe solo dovuto allontanarla, respingerla. Proprio lei, l’odiata ragazzina che era riuscita a toccare la sua anima raggomitolata sul fondo dell’abisso oscuro.

Ma lo hai sempre saputo, che questa volta l’avresti uccisa per davvero.

“Niente di personale” la sentì ripetere in un mormorio sommesso, dall’ironia disperata. “Hai solamente coperto di menzogne la mia vita e hai continuato a mentire, anche se io avevo deciso di fidarmi di te…infine usandomi, proprio come una delle tante proprietà in tuo possesso!”

Perché quello sguardo, quelle parole gentili, non erano mai state per lei.

Arthur alzò il capo di scatto e dovette affrontare le lacrime di Saffie, che ora scendevano copiose lungo il suo viso pallido e stravolto; un senso di colpa orribile gli morse il cuore e lui asserì, stringendo le mani grandi attorno ai braccioli della sedia: “Non è così che stanno le cose…e tu lo sai”.

Finalmente, le gambe dell’uomo decisero di muoversi e Worthington si alzò in piedi, dominando su Saffie con la sua minacciosa statura. “Sì, ho creduto di odiarti con tutto il mio animo e ammetto di non aver mai avuto la benché minima intenzione di rivelarti alcuna verità” le spiegò schiettamente, ignorando lo sguardo sorpreso con cui la moglie lo guardò portarsi vicino a lei. “Ma è stato prima di noi.”

Con la stessa lentezza di un serpente, Arthur portò le mani sul volto bagnato della ragazza e le accarezzò le guance con le dita, prima di chinarsi su di lei e sfiorare le sue labbra schiuse, tremanti. “Prima di questo.”

Dimentica Earl Murray e continua a condividere questa sofferenza con me.

Dal canto suo, Saffie sentì di essere una perfetta ipocrita perché – malgrado il dolore e la rabbia – il suo corpo si sporse automaticamente verso quello alto del marito, come se non potesse farne a meno; ma, all’ultimo, ella trovò il coraggio di abbandonare la sua bocca e lo allontanò bruscamente, premendo una piccola mano sul suo petto ampio. “Questo…” cominciò a dire, alzando due luminosi occhi pieni di lacrime sul volto attraente dell’uomo. “Cos’è questo? Cosa sono io per te?”

Cos’è questa nuova sofferenza che non riesci a comprendere, e che non hai mai desiderato?

Arthur si irrigidì subito e i suoi occhi tradirono un’incertezza che colpì la ragazza castana come una vera e propria coltellata nel petto: Amandine aveva usato le ultime forze per chiederle di perdonarlo ma, di fronte al silenzio spaesato del marito, Saffie comprese che non avrebbe potuto esserci alcuna pace fra loro, nessun futuro felice; perché era proprio vero che si erano infine usati a vicenda...che lui non l’avrebbe mai amata.

Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine”.

No, il mutismo di Worthington era già una risposta sufficiente; e allora la ragazza lo odiò dal profondo dell’anima, tanto quanto disprezzò sé stessa per aver lasciato che l’uomo si insinuasse nel suo cuore con fin troppa facilità. L’oscurità accecante si impossessò di lei e, crudele, annebbiò qualsiasi rimasuglio di razionalità o lucidità rimaste, facendole pronunciare le terribili parole da cui non poté più tornare indietro:

“La tua ambizione è mostruosa” singhiozzò, abbassando lo sguardo offuscato sul pavimento di legno. “Tu sei un mostro, Arthur.”

Che lui la ripudiasse e suo padre la facesse rinchiudere per il resto della sua vita in manicomio; per quel che la riguardava, niente avrebbe potuto farla stare più male della realtà che le era piombata addosso. Un bel nulla avrebbe potuto sconvolgerla più di quel passato di cui era stata tenuta all’oscuro.

“Quindi è questa l’opinione che hai di me, ragazzina.”

Oh, era cambiata con la stessa velocità di una gelida folata di vento la voce di Arthur Worthington. L’uomo fece un passo indietro all’istante e le sue dita scivolarono lontane dalla pelle di Saffie, di nuovo strette a pugno lungo i fianchi. “Posso aver salvato la tua vita più e più volte, eppure rimango colui che ha mandato all’aria non solo il tuo ritorno a Londra, ma anche la stupida fuga d’amore con un plebeo che non avresti nemmeno dovuto guardare” disse ancora, quasi ringhiandole addosso quell’ultima frase carica di velenoso disprezzo e, anzi, osservandola con due occhi privi della gentilezza che fino al giorno prima le aveva dedicato.

Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Nessuno può comprendere.

Infine, Arthur aveva scelto, perché era sempre stato fin troppo facile scendere e nascondersi nel suo schifoso abisso: doveva solo raggomitolarsi su sé stesso e premere le manine ossute sulle orecchie, non ascoltare le parole crudeli di chi pensava di potergli fare del male, ferirlo. Chiudersi e dimenticare. Azzerare.

E se per Saffie Lynwood lui non era altro che un mostro di cui essere disgustati, oh, Arthur non avrebbe avuto alcun problema a comportarsi come tale. Tutto, pur di allontanarla e non sentirla più parlare, di non dover fare i conti con un dolore e un senso di colpa di cui era terrorizzato oltre ogni dire.

Sei un mostro, Arthur. Un orribile mostro che non può amare, né essere amato.

Quasi a conferma di quest’ultimo pensiero, Saffie lo guardò con due iridi arrossate e piene sì di lacrime inesauribili, ma colme pure di una rabbia sconvolgente, tremenda: nulla dei giorni passati fra le coperte, ad amarsi l’uno nelle braccia dell’altra, sembrava rimasto negli occhi della ragazza castana. “Rimarrò tua moglie, ma non oserai né rivolgermi parola, né avvicinarti a me o alla mia dama di compagnia” sentenziò lei, il tono pericoloso che stonava incredibilmente con la sua piccola figura tremante, da passerotto zuppo di pioggia. “Non mi toccherai mai più in tutta la tua vita.”

Alla fine, l’onda li aveva travolti ed erano stati in due ad affogare.

“E sia” disse Worthington, in tono di genuino e glaciale disprezzo, mentre un’espressione da demone beffardo – crudele – andava definitivamente a spazzare via l’uomo gentile che Saffie si era illusa di conoscere. “Vedi di tenere fede alle parole che hai appena pronunciato, Duchessina; perché, lo sai, mettersi contro di me non porta vittoria alcuna.”

“…chissà, potresti perfino innamorartene.”

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

In silenzio com’era venuta, la ragazza se ne andò dalla stanza senza voltarsi indietro, lasciando un Arthur immobile vicino alla scrivania; solo in compagnia di un sentimento di sorda collera, del solito senso di colpa che voleva cibarsi di lui come una bestia insaziabile.

Perché sei tu il mostro della storia e, probabilmente, sarebbe stato meglio morissi tanto tempo fa.

L’ammiraglio colpì la pila di registri al suo fianco con il braccio, facendoli cadere con un tonfo secco; ed egli stesso crollò seduto a terra scompostamente, nascondendo un viso pieno di tormento fra le mani.


§


Saffie uscì fuori sul ponte sopracoperta e i suoi occhi stravolti si rivolsero immediatamente in alto, verso il cielo azzurro che tanto le ricordava Amandine. Anche adesso, non riusciva a provare odio nei suoi confronti o per tutto ciò che le aveva nascosto, per averle mentito fin dal suo ritorno nel Northampton, quando invece lei le era sempre stata accanto per sostenerla e confortarla; sentiva che avrebbe avuto bisogno di un po’di tempo per metabolizzare e perdonarla, ma sapeva che non l’avrebbe mai detestata per niente al mondo.

Ma lo avrei protetto, lo sai, il tuo prezioso segreto.

Il tempo di pensarlo, che due piccole manine si aggrapparono con forza alla gonna di seta della Duchessina e tirarono insistentemente verso il basso per attirare la sua attenzione. “Buongiorno, signora Worthington” la salutò dal basso il piccolo Ben, inchiodando sul suo volto smunto due grandi occhi turchesi. “Ma voi piangete!”

In veste di ricca aristocratica e futura Duchessa di Lynwood, Saffie avrebbe dovuto mantenere un quieto e dolce contegno di fronte ai numerosi uomini di mare al lavoro attorno a loro, ma fallì miseramente nell’intento perché, senza nemmeno rendersene conto, si era già chinata sul bambino e l’aveva abbracciato, stringendo lo forte a sé. “È il figlio di Amandine” pensò la ragazza, chiudendo gli occhi e affondando il capo castano sulla piccola spalla di Ben. “Il caro, caro figlio che ha sempre amato.”

“È…vi sentite male, signora?” lo sentì chiedere con una vocina improvvisamente confusa e spaesata, che le fece tornare la voglia di ridere.

“No, affatto” mentì quest’ultima, scuotendo appena la testa. “Solo, pensavo…”

“Ben! Che hai combinato stavolta?”

Il cuore di Saffie fece una capriola e lei alzò il viso di scatto, incontrando subito gli occhi neri di Benjamin Rochester. Osservò per un momento il volto affilato dell’uomo assumere un’espressione sorpresa, prima di sorridere leggermente e dire: “Va tutto bene. Penso sia giusto che questo lo abbiate voi, dottore; vi prego, leggetelo fino alla fine”.

Così, senza aggiungere una parola di più, alzò un braccio verso il grande amore di Amandine e gli porse il diario che conteneva la loro storia, la testimonianza di ciò che era stato.

Cielo, prego Dio perché tu possa incrociare il loro cammino!”






Qui finisce la prima parte della storia


Angolo dell’Autrice:

*Se ti è piaciuto il capitolo, spero prenderai in considerazione di votarlo/recensirlo (soprattutto questo, che mi ha tolto ore di prezioso sonno).*

Vi prego di ricordare che il mio sadismo è tutto rivolto al bene della storia! (TuT)

Buongiorno e Buon Lunedì!

Vi chiedo nuovamente scusa per il ritardo di ben due giorni sulla tabella di marcia ma, come dico spesso, non credo riuscirei mai a pubblicare qualcosa che ritengo non all’altezza di ciò che voglio comunicare solo per pubblicare più in fretta! Quindi, vi chiedo perdono e spero di essermi comunque di aver rimediato con questa Quattordicesima parte: insomma, oltre alla lunghezza, mi auguro vi sia piaciuto! \(*w*)/

L’ho detto anche all’inizio, l’importanza del contenuto del capitolo ha pesato non poco sulle mie tempistiche di scrittura e su quanto io ne fossi coinvolta emotivamente, perché volevo davvero comunicare tanto e bene. Cosa non facile, visto che ho dovuto sciogliere uno dei nodi principali della storia, collegando le diverse “briciole” da me sparse fra le righe fin dal primo capitolo…e poi, Amandine, cara Amandine!

Si meritava che io scrivessi di lei, che le dicessi “Addio” degnamente. Punto.

Non posso negare di aver sofferto questo Capitolo, alla fine. Ho pensato più volte che non vi sarebbe piaciuto e che, anzi, vi avrebbe annoiato, ma questo era il punto di svolta che doveva arrivare per forza: la famosa fine della prima parte, dove lasciamo una Saffie e un Arthur non abbastanza forti – o sinceri – per riuscire ad affrontare un ostacolo così grande, l’inganno che ha unito il loro passato. Ho sempre pensato non fossero pronti per amarsi veramente, dopotutto.

E ora?”, chiederete giustamente voi.

Ora, entriamo nella seconda metà della storia e so già che intitolerò il prossimo capitolo Kingstown. Scalpito per cominciare a trascrivere i miei appunti! \(*w*)/

Davvero, è stato noioso il capitolo?

Io e le mie notti insonni speriamo di no! \(TuT)/

Un abbraccio forte,

Sweet Pink

Ah! Ho inserito una citazione di Romeo e Giulietta di Shakespeare nel capitolo, qualcuno l’ha trovata? :D

See you soon!

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Capitolo 16
*** Quindicesimo. Kingston. ***


Errata corrige: La cittadina coloniale su cui oggi mettiamo piede si chiama in realtà Kingston, ed è in Giamaica. Ho già provveduto a correggere i precedenti capitoli. Buona lettura.

Io vi attenderò con trepidazione seduta nel mio Angolino.




CAPITOLO QUINDICESIMO

KINGSTON





Keeran non ci avrebbe scommesso una sterlina, ma le due settimane che avevano preceduto il loro arrivo a Kingston passarono veloci tanto quanto un battito d’ali.

Di fatto, era ormai arrivato Maggio e, dopo innumerevoli giorni passati a osservare un panorama costituito solamente di un misterioso e conturbante oceano oscuro, ecco che nel cielo azzurro cominciavano ad apparire le prime sinuose sagome danzanti. Gli uccelli marittimi solcavano l’aria salina sopra i due infastiditi equipaggi dell’Atlantic Stinger e della Mad Veteran, tornando di tanto in tanto sulla scia dei due vascelli della Marina, come a volerli sfidare ad essere più veloci di loro.

Keeran sapeva che la terraferma doveva essere molto vicina, poiché era stato il Capitano Inrving stesso a spiegarle l’affascinante comportamento dei volatili: l’attempato gentiluomo al comando della nave ammiraglia aveva sorriso con la sua solita intenerita pazienza e le aveva detto che gli uccelli non si avventuravano mai fin sull’oceano; per questo esatto motivo rappresentavano al contempo una promessa e una speranza, ossia quelle di poter giungere tutti in porto al più presto sani e salvi.

“Sia ringraziato il Cielo, per averci fatti arrivare così presto” considerò l’irlandese fra sé e sé, lasciandosi sfuggire un gran sospiro sollevato. “Prima la padrona metterà piede giù da questa nave, meglio sarà per la sua salute e per il suo spirito.”

La diciassettenne percorreva in solitudine – a schiena dritta e mani intrecciate dignitosamente sul grembo – il ponte sopracoperta gremito di uomini di mare impegnati nel solito lavoro massacrante, ma che comunque continuavano a trovarsi il tempo per lanciarle timide occhiate piene di segreta ammirazione.

“…somigliate ad un angelo caduto, Keeran Byrne.”

Al solito, le gote paffute dell’irlandese andarono a fuoco, mentre quest’ultima cercava di ignorare con tutte le sue forze gli sguardi degli uomini intorno a lei. Insomma, poteva dire di averci quasi fatto l’abitudine e affermare che forse la sua morbida figura non era poi così sgradevole come le avevano sempre detto; però, di sicuro, esserne convinta e sentirsi a proprio agio con il proprio corpo era tutto un altro paio di maniche.

Quindi, si domandò Keeran, era con ogni probabilità quella la ragione che l’aveva indotta non solo a irrigidirsi di botto, ma pure a non riuscire a staccare lo sguardo dal ragazzo in piedi a poca distanza dall’albero maestro?

“Oh, ma sapete benissimo di essere una signorina nessuno, non è vero?”

Uno spasmo di dolorosa ansia alla bocca dello stomaco, e la povera Keeran dovette letteralmente trattenersi dal voltare la voluminosa chioma corvina di scatto, scappare a gambe levate dall’ingombrante presenza di James Chapman, non a caso soprannominato Il principe arrogante da tutto l’equipaggio. Sì, la ragazza stava lentamente accettando che gli altri avessero un’idea ben lontana da quella che lei aveva maturato di sé stessa, ma non sapeva se questo potesse valere anche per il tenente protetto dall’Ammiraglio Worthington.

“D’altronde, siete una serva.”

Eppure, c’era da considerare il fatto che lui l’aveva tratta in salvo quando nessun altro si era accorto né del suo dolore cieco, né del gesto folle che ne stava per conseguire. L’irlandese sapeva pure che, se voleva ringraziarlo e chiedergli perdono per la sua tremenda maleducazione, beh, allora doveva farlo al più presto: non le era permesso esitare ulteriormente poiché – stando alle parole di Henry Inrving – l’arrivo a Kingston era previsto per il giorno seguente, salvo imprevisti di sorta. Una volta scesi a terra, non vi sarebbero state molte occasioni per incontrare di nuovo l’ufficiale in questione; anzi, probabilmente non ce ne sarebbe stata nessuna.

“Andrà tutto bene. Puoi riuscire in tutto ciò che vuoi e, fra le altre cose, ci sono io qui con te.”

Per l’ennesima volta, il sorriso incoraggiante di Saffie galleggiò davanti al suo sguardo e, come sempre, sembrò darle la spinta giusta per avvicinarsi timidamente al gruppetto di marinai che le stava di fronte: deglutendo a vuoto dalla tensione, Keeran si portò goffamente a fianco dell’alta figura di James senza che quest’ultimo se ne rendesse conto e fece in tempo a udire la sua insofferente voce da bambino viziato.

“Non so quante volte dovrò ripetervelo” esordì il ragazzo, gli occhi annoiati persi fra le pagine del voluminoso registro che teneva aperto fra le mani, pieno zeppo di parole di cui l’irlandese non riuscì ovviamente a cogliere il significato. “Forse tutti voi pensate che Port Royal sia quella di trent’anni fa, a questo punto.”

Il capannello di uomini di mare a cui quel rimprovero era stato rivolto continuò a lavorare sulle funi a testa china, mentre solo uno di loro ebbe l’ardire di alzare leggermente il capo e dire, quasi stesse borbottando a bassa voce: “Di certo non pensavamo di abbandonare il nostro incarico una volta sbarcati, tenente”.

“Credo che il nostro benevolente Capitano vi lascerebbe questa libertà di scelta” commentò in risposta Chapman, sorridendo freddamente. “Ma vorrei ricordarvi che se Kingston è diventata la cittadina più ricca della Giamaica, Port Royal è ora il luogo ove vengono appesi coloro che pensano di opporsi alle leggi della Marina Britannica.”

E, dopo queste allegre parole rassicuranti, nessun marinaio parve intenzionato a riprendere alcun discorso inerente progetti di baldoria a breve termine nella città che un tempo si fregiava del colorito appellativo di Sodoma del Nuovo Mondo.

Davanti al silenzio rassegnato della ciurma, James sfoderò un’espressione di arrogante soddisfazione e voltò il viso con noncuranza, solo per venir ucciso sul posto da due esterrefatte iridi color carbone, più oscure della notte stessa.

Ehm” si schiarì la gola Keeran, abbassando subito lo sguardo e ignorando così il passo indietro di un a dir poco sbalordito Chapman. “Buon-buongiorno, tenente.”

Di sicuro, nessuno sull’Atlantic Stinger si sarebbe mai aspettato di poter vedere l’ufficiale più sconsiderato della Royal Navy diventare rosso ciliegia nel giro di un nanosecondo e, dal canto suo, pure Keeran ebbe modo di stupirsene mentre – per qualche misteriosa ragione – ella dovette subire l’attacco di un batticuore piuttosto fastidioso. “La-la vostra gamba sta me-meglio, spero?” chiese quindi la ragazza, imbarazzata più che altro a causa degli sguardi allusivi dei marinai, impegnati a spostare gli occhi da lei al tenente e viceversa.

“S-sì” rispose l’interessato, abbassando la testa castana e nascondendosi per un momento dietro al tricorno blu scuro; corrucciandosi, visto che l’ingrata servetta di Saffie Worthington l’aveva preso del tutto in contropiede. “Sono pressoché guarito.”

“Oh! Oh, bene!”

Un silenzio pieno di vergogna scese su di loro e il rumore del vento che scuoteva le vele aleggiò tutt’intorno, sovrastato solamente dalle grida degli uomini al lavoro e dal verso di qualche raro gabbiano.

“Cosa desiderate da me, signorina Byrne?”

Infine, James si era ripreso quel tanto da rivolgere nuovamente parola a Keeran, seppure il tono di fredda diffidenza tutto lasciava intendere del suo stato d’animo poco sereno; e fu davvero assurdo che in quell’istante l’atteggiamento del ragazzo avesse ricordato all’irlandese non solo sé stessa, ma anche il doloroso sentimento di sfiducia nutrito nei confronti degli altri per una vita intera.

Sembra sempre così solo. Triste.

“Vorrei che mi co-concedeste un momento, se possibile” fece la diciasettenne, forzando le sue belle labbra carnose a piegarsi all’insù. “Non vi ruberò mo-molto tempo.”

Di nuovo, gli occhi d’acciaio di James tradirono un certo stupore. “Accordato” sillabò, spostandosi da un piede all’altro e guardandola con un disagio da randagio malfidente, impaurito. Il quaderno che stringeva fra le dita venne chiuso con uno scatto nervoso e il tenente voltò appena il capo, per abbaiare un imperioso “Al lavoro, voialtri!” in direzione del gruppetto di marinai che ancora li osservava ghignandosela beatamente.

I due cominciarono a camminare lentamente lungo il ponte sopracoperta, avvicinandosi alla poppa della nave ammiraglia.

“Io…ecco, io volevo…” cominciò esitate Keeran, mentre Chapman incrociava le braccia dietro la schiena snella, tentando con scarso successo di imitare il contegno fiero ed elegante di un certo Arthur Worthington. “Come sta l’Ammiraglio?”

Sciocca, sciocca oca! Non è questo che volevi dire!

La ragazza mora si morse la lingua nello stesso momento in cui James si voltava di scatto a guardarla, le iridi grigie che già si rinchiudevano in una muta delusione. “Il Generale Implacabile?” domandò a sua volta, sforzandosi di parere del tutto indifferente. “È la vostra padrona ad avervi ordinato di venire a parlarmi?”

“Oh, Dei del Cielo! No!”

Keeran alzò entrambe le mani davanti al viso bianco e iniziò ad agitarle con forza, il mare di ricci corvini che si muoveva sopra un’espressione piena timoroso allarme. “Sono qui di mia spo-spontanea volontà, tenente!” esclamò ad alta voce, prima di incupirsi di botto e abbandonare di nuovo le braccia lungo i fianchi, rassegnata. “La signora Saffie non vuole nemmeno che si nomini il marito in sua presenza, però io sono convinta che lei pensi all’Ammiraglio molto più di quanto voglia ammettere.”

Dall’altra parte, James Chapman continuava a sbalordirsi del comportamento di una signorina Byrne dal candore fin troppo ignaro, come se ella non fosse al corrente del rischio che poteva correre nel confessare con tanta leggerezza i sentimenti della padrona proprio a lui, il viziato Ufficiale adottato da Arthur stesso.

Ancora, il ragazzo si trovò ad arrossire di nascosto e a suo malgrado, poiché non aveva ma visto una serva rivolgersi a lui in quel modo: men che meno se lo sarebbe aspettato dalla creatura tremante e spaurita che la Duchessina di Lynwood aveva portato con sé da Bristol, da colei che non desiderava sentire simile a lui.

No, era tutta un’altra questione quella che ora gli stava facendo venir voglia di vederla aprirsi in un sorriso, piuttosto che continuare a osservare un visino paffuto e meraviglioso, ma pieno di tormentata preoccupazione.

“…figuriamoci! Tu, l’ultimo e il più stupido dei miei figli maschi!”

Non era abituato a venir avvicinato in quel modo, ad accogliere la fiducia delle altre persone.

“Non dovrebbe essere una domestica a provocarmi questi pensieri” pensò James, prima di sospirare pesantemente e commentare, con aria vaga: “Non sono nella posizione di poter dire alcunché, ma lo stesso sembra valere per il Generale; devo ammettere che in queste settimane quasi non mi sembrava di riconoscerlo. Pure se, alla fine, è sempre e solo uno il mondo in cui apparteniamo per davvero”.

La realtà è un abisso dove non ci possiamo fidare di nessuno, perché nessuno ci può comprendere.

Due iridi nere si spalancarono sul suo volto cosparso di lentiggini e James dovette ingaggiar battaglia contro un improvviso batticuore furioso, di cui si vergognò immensamente.

“Dovete ammirarlo molto.”

Il tenente annuì leggermente e la sua espressione altezzosa si rilassò subito, mentre un piccolo sorriso spontaneo comparve sulla sua bocca sottile. “È un uomo come non se ne sono mai visti, tanto sa essere tremendo e al contempo dimostrare un animo gentile, generoso” le disse, pieno d’ammirazione. “Lo seguirei anche all’inferno se me lo ordinasse, poiché mi ha preso sotto la sua protezione e salvato così la vita.”

“Figlio mio, l’esercito è il tuo posto. Chissà che tu non riesca a creparci e portare un po’ d’onore alla famiglia.”

Un’ombra terribile passò veloce sul suo viso giovane e a Keeran non sfuggì; fu forse per questo che la diciasettenne si affrettò a parlare di nuovo: non l’avrebbe confessato neanche a sé stessa, ma non desiderava veder tornare James al solito sprezzo distante, quando un sorriso da niente aveva il potere di renderlo semplicemente bellissimo.

“Io…io volevo ringraziarvi, in realtà” pigolò la ragazza, arrossendo da capo a piedi. “Mi avete salvata e non ho fatto che trattarvi con una ma-maleducazione immensa.”

Ma ero sconvolta perché, fra tanti, siete stato proprio voi ad accorgevi di me.

“Vi siete comportata da perfetta sciocca, questo non si può negare” disse la sua James, dopo un secondo di pensoso silenzio. “Eppure anche io non sono stato da meno.”

Erano arrivati ai piedi del ponte di comando, ormai.

I due rallentarono il passo e l’irlandese si girò verso il tenete con un movimento pieno di inusuale grazia, da sirena ammaliante. I suoi lucidi capelli corvini si mossero leggeri e svelarono al ragazzo i lineamenti di un viso tanto dolce quanto timido, su cui due gemme nere brillavano di innocente curiosità; ed era talmente bella, la servetta di Saffie Worthington, che il tenente Chapman ebbe l’impulso di attirarla a sé, fra le sue braccia. In un attimo, si trovò a desiderare che fosse solo sua, cosicché nessuno su quella nave avrebbe continuato a guardarla con occhi colmi di disgustosa lussuria.

Ma io non sono come l’Implacabile, abituato ad ottenere tutto ciò che la sua voracità desidera.

“…posso dedurre che qualcuno qui si sia preso una bella cotta.”

“Maledetto dottore” considerò fra sé e sé James, prima di fare un noncurante cenno all’irlandese e aggiungere, con falsa tranquillità: “Non mi sono rivelato affatto un gentiluomo, soprattutto se contiamo che siete stata voi ad aver salvato la mia gamba. Possiamo dirci pari, signorina?”

Ed ebbe la sorpresa di sentirla ridere per la prima volta: un suono cristallino sfuggì dalle labbra schiuse di Keeran; una risata che si perse nel cielo azzurro. “Sì, lo siamo” disse lei, tradendo un divertimento del tutto inusuale. “Pe-pensate che potremo anche diventare amici, dunque?”

Le iridi grigie del tenente si abbassarono pigramente sulle mani pallide della diciassettenne che, strette l’una contro l’altra, tradivano uno strano tremore agitato. “Non vedo perché no” fu la risposta monocorde del ragazzo. “Ma solo se promettete che non dovrò più correre a salvarvi.”

Amici. Come se tu ne avessi mai avuto uno, James.

L’irlandese fece un goffo segno di assenso con la testa scura, dedicandogli un altro sorriso allegro, di quelli che erano capaci di ferire il cuore.

Come se tu non desiderassi molto, molto altro.

“Tenente?”

“Sì?”

“Non indossate la vos-vostra parrucca, oggi.”

“Il caldo è insopportabile, signorina; e se la nostra amicizia deve iniziare con queste domande inopportune, allora siamo spacciati!”

In questo scambio di battute a metà fra il cauto imbarazzo e l’allegro sollievo, Keeran e James non avrebbero potuto accorgersi che un altro paio di occhi oscuri aveva osservato la scena con tenerezza. “Sembrano proprio andare d’accordo” commentò Benjamin Rochester, lasciandosi andare all’indietro e appoggiandosi così al parapetto di legno con i gomiti; una folata di vento caldo agitò i suoi lunghi capelli biondi ed egli continuò, come rivolto al vuoto: “Quei due mi fanno tornare indietro nel tempo.”

E si voltò appena, guardando con la coda dell’occhio la persona al suo fianco.

Saffie lanciò un’ultima occhiata di triste malinconia alla sua domestica personale e all’aristocratico tenente con cui aveva scelto infine di stringere amicizia, prima di rivolgere la sua attenzione alle nere acque che si aprivano di fronte a lei. “Forse, in fondo, potrà nascere qualcosa di buono da tutta questa storia” disse al medico di bordo, il tono incolore di chi sta in realtà cercando di sopprimere un insieme di terribili sentimenti. “Già aver incontrato il figlio della mia amata Amandine è stato un vero miracolo.”

Cielo, prego Dio perché tu possa incrociare il loro cammino!

Lo sguardo di tenebra del dottore rimase inchiodato sul viso grazioso della Duchessina per qualche altro pensoso e muto istante, come se l’uomo avesse bensì voluto analizzare ogni dettaglio della coraggiosa ragazza che aveva sposato lo spietato Arthur Worthington, cogliere la nascosta sofferenza di colei che negava di aver abbandonato il proprio cuore fra le mani di un mostro.

Erano ora altre pesanti e dolorose catene, quelle che la tenevano prigioniera nell’abisso.

“Non avete bisogno alcun bisogno di fingere con me” fece il signor Rochester, sollevando gli occhi e rivolgendoli al cielo terso, inseguendo il volo di una giocosa gabbianella. “Sono suo fratello, d’altronde.”

Non una parola, né alcun suono, seguì alla sua affermazione. Benjamin aspettò ancora qualche secondo, prima di spezzare il pesante silenzio che era calato fra loro: in quelle due ultime settimane, la sorella di Amandine aveva passato quasi tutto il tempo in compagnia di suo figlio, cercando con discrezione di conoscerlo meglio e legare in un qualche modo con lui, di diventare una figura amica; di conseguenza, il dottore poteva dirsi ormai acclimatato alla presenza della signora Worthington nelle sue giornate. Difatti Saffie era diventata una persona sì fidata e ben voluta, ma non solo per il piccolo Ben.

Ma forse avevo già compreso da tempo il motivo per cui le volevi così bene, Amandine.

Consapevole di questa realizzazione, il dottore si concesse un sospiro e abbassò il capo biondo verso terra, scuotendolo con rassegnazione. “Lo sappiamo meglio di chiunque, quanto può decidere di rivelarsi un uomo terribile” si azzardò a dire, senza guardarla. “Ma i vostri reali sentimenti sono dipinti chiaramente sul vostro viso, signora.”

Un invisibile velo di lacrime annebbiò gli occhi grandi della ragazza, che rimasero inchiodati sull’orizzonte lontano. Inesistente.

“Questo significa essere me. Vattene via da qui… Tu non puoi comprendere.”

“Vi ho già dato il permesso di chiamarmi Saffie, Benjamin” fece infine la Duchessina, sorda e cieca di fronte al significato di ciò che le stava comunicando il padre del piccolo Ben. “Forse non vi farà piacere sentirlo, ma siete il poco di famiglia che mi è rimasto, oramai. Nient’altro conta.”

Non è nulla. Taci, cuore mio.

“E voi state divagando, cara Saffie. C’è la possibilità che Arthur sia…”

No. Ve ne prego, non parlatemi di lui.”

Fu un sussurro da niente, che si perse nel vento salmastro, ma colmo di una disperazione tale da ammutolire il dottor Rochester all’istante.

Chiuditi e dammi la forza per alimentare il mio odio, perché solo così potrò dimenticare quell’uomo.



§



Lei aveva pronunciato quelle parole solo una volta.

La luce delle candele accese era soffusa e calda, tanto da avvolgere l’intera camera di un dolce manto di oziosa tranquillità; difficile per chi l’occupava non avere l’impressione di trovarsi in un mondo a parte: una bolla separata dalla realtà e da essa sospesa, poiché il tempo era un concetto lì inesistente. Si trattava solamente di un fermo ed eterno momento, di quelli che si vorrebbe durassero per sempre.

“Sentiamo, Duchessina” ricordava di aver detto Arthur, incrociando le braccia dietro allo scarmigliato capo scuro e abbandonandosi così fra le morbidezze dei cuscini. “Qual è il tuo colore preferito?”

In quei lunghi minuti, la piccola strega non aveva fatto altro che starsene rinchiusa in un pigro silenzio, la testa castana abbandonata sul suo petto e le dita che accarezzavano distrattamente la grande cicatrice di cui lui si vergognava da una vita intera. Egli stesso, in effetti, aveva pensato che non sarebbe mai riuscito a capacitarsi dell’ossessione nutrita dalla moglie per i disgustosi sfregi che gli deturpavano il corpo.

Come se non le provocassero alcuna repulsione, ma volesse bensì capirne i segreti che vi si celavano dietro.

Un leggero brivido di paura l’aveva scosso in gran segreto, ma fortunatamente i suoi occhi chiari erano stati attirati dal movimento improvviso di Saffie che, puntellandosi sui gomiti, si era sdraiata a pancia in giù e al suo fianco, noncurante dei capelli che s’allungavano ovunque sulle lenzuola, attorno all’esile corpo nudo.

“Il mio colore preferito?!” aveva ripetuto la ragazza, sfoggiando un adorabile sorrisetto divertito che l’aveva fatta assomigliare definitivamente a un’ammaliante ninfa dei boschi, uscita da chissà quale mito greco. “La tua domanda mi lascia del tutto sconvolta, Ammiraglio Worthington.”

Arthur allora aveva spostato lo sguardo smeraldino sul soffitto con fare vago. “Siamo marito e moglie, ma non so praticamente nulla di te” le aveva confidato infine, arrossendo leggermente e tradendo in questo modo un odioso imbarazzo. “Certo, se lasciamo da parte la tua insopportabile testardaggine, il tuo essere una imperterrita ficcanaso e, ovviamente, la lingua lunga che…”

Un colpetto leggero sul braccio, e la Duchessina gli aveva impedito di proseguire oltre, mentre era stato un caldo sbuffo spazientito a farsi sentire sulla pelle della sua spalla. “Non che tu abbia mai lasciato troppo tempo per le conversazioni, in questi giorni” aveva borbottato poi a bassa voce la ragazza e lui si era voltato con un ghigno piuttosto beffardo in direzione di un visino tutto rosso di vergogna, ma bellissimo da vedere. “Inoltre, potrei affermare lo stesso, Generale: siamo sposati, pure se io non conosco niente della tua vita di prima.”

“Puoi nasconderti fin che vuoi ma, non lo sai, che tu sai solo fare del male?”

Senza poterselo impedire, Arthur si era irrigidito nel giro di un battito di cuore, anche quello ghiacciatosi pressoché all’istante dall’angoscia. “…vita di prima?” aveva tentato di chiederle, sforzandosi di parere più perplesso che genuinamente terrorizzato; e si era pure chiesto come dovesse essere in quel momento la sua espressione, poiché un velo di triste malinconia si era posato sulle iridi castane di Saffie: la ragazza aveva abbassato infatti lo sguardo sulla sua detestata cicatrice, prima di guardarlo nuovamente con una maschera di goffa e falsissima noncuranza.

“Prima che Arthur Worthington diventasse il famigerato e temuto Generale Implacabile, terrore dell’Oceano Atlantico” spiegò sua moglie, alzando il piccolo indice come a voler indicare il soffitto. “Devi essere stato anche tu un bambino; però mi viene difficile immaginarlo: ad esempio, hai mai avuto un animale da compagnia? Io e…e Amandine avevamo un gatto persiano che mia sorella ha voluto ad ogni costo chiamare Hobgoblin.”

“Puck, il folletto di Sogno di una notte di mezza estate?”

Ricordava di essersi lasciato sfuggire una risata roca e impercettibile, mentre Saffie – tutta sorridente – annuiva vigorosamente con la testa arruffata.

“A casa, in Inghilterra, ho uno stallone nero piuttosto anziano, ma a cui tengo più della maggior parte dei miei sottoposti. Si chiama Bharat” le aveva detto, allungando una mano grande sul viso ora sorpreso della moglie, intrecciando le dita con le morbide ciocche dei suoi lunghi capelli e, al contempo, sorridendo di una strana e lontana malinconia. “È stato l’ultimo regalo di mia madre.”

L’aveva vista schiudere le belle labbra rosee e, dopo un breve secondo pensoso, la mano di Saffie aveva raggiunto la sua. “Doveva volerti molto bene” aveva commentato infine, il tono pieno di ignara dolcezza.

“Non avere paura. La tua mamma non ti abbandonerà mai, Arthur.”

Come se non fosse stata la prima ad averti voltato le spalle, a non comprendere.

No, Arthur non aveva risposto in alcuna maniera alle ingenue parole della ragazza al suo fianco e, di sicuro, la fredda morsa che si era stretta attorno al suo stomaco gli aveva suggerito che non avrebbe voluto farlo nemmeno in futuro. Dal suo punto di vista, era già stata una follia tirare fuori due parole in croce su un argomento che era letteralmente sepolto sotto il fondale dell’abisso; pure se – gli toccava ammetterlo – cominciava ad abituarsi al fatto di essere in un qual modo vulnerabile di fronte a sua moglie, al potere che lei sola possedeva: la piccola strega gli faceva venir voglia di aprirsi e parlarle di cose proibite, inaffrontabili.

Ed era proprio in questi momenti che più temeva Saffie e la luce gentile che portava con sé.

Probabilmente per questo motivo aveva cercato di ristabilire una sorta di posizione di dominio, di rinchiudersi dentro alla sua armatura di adamantino controllo. Arthur ricordava di aver alzato il busto e di essersi sporto lentamente sulla Duchessina, obbligandola a sdraiarsi sulla schiena…di nuovo prigioniera delle sue braccia, indifesa fra le sue mani. “Abbiamo parlato abbastanza, non credi?” le aveva sussurrato, portandosi a pochi centimetri dalla bocca di una Saffie impegnata a fissarlo con un bizzarro misto di imbarazzo e disappunto. Non volendo vedere quell’espressione corrucciata, aveva deciso di premere le sue labbra su quelle soffici di lei, per poi scendere sul collo sottile della ragazza e cominciare a torturarlo lentamente, senza fretta. “Adesso ho fame.”

Una risata tinta di allegria e desiderio era arrivata subito a lui, riempiendogli il cuore suo malgrado. “Ammiraglio, siete un gentiluomo rispettabile e non un animale, dovete ricordarvelo!”

“Come se cercassi mai di sfuggire per davvero alla mia presa” era stato il commento sibillino di Arthur che, incapace di resistere all’innocenza irriverente di sua moglie, si era subito fatto strada in lei senza esitare ma, al contrario, cominciando a muoversi sopra il suo piccolo corpo con una lentezza dolce e al contempo crudele. “Non mi opponi alcuna resistenza, Saffie. Questo perché…tu sei come me” aveva continuato a spiegarle a fatica, dominando i suoi stessi ansiti, ma godendo di quelli che uscivano dalla bocca tremante della Duchessina.

Era l’oscurità accecante, il dolore che condividevano e che solo loro potevano colmare.

Saffie lo guardava dal basso con il suo adorabile visino tutto rosso e accaldato, mentre due iridi piene di un sentimento disperato brillavano su un’espressione che a prima vista poteva quasi essere scambiata per sofferenza. I suoi lunghissimi capelli castani, anche quelli, si agitavano intorno a lei e creavano infinite onde di inchiostro chiaro.

Dio, era così bella che aveva desiderato poterla tenere imprigionata per l’eternità.

“Ti…ti sbagli” aveva soffiato infine lei, allacciando le esili braccia al suo collo sudato e – sfacciata come sempre – inseguendo le sue spinte con un’intensità che l’aveva fatto impazzire. “No-non è questo il motivo.”

E poi aveva pronunciato le parole che non avrebbe più avuto modo di sentire.

Saffie l’aveva attirato a sé, abbracciandolo stretto e nascondendosi contemporaneamente alla sua vista, così prendendolo alla sprovvista, totalmente impreparato. “Non ho alcun bisogno di scappare” era stato il patetico mormorio che gli aveva trafitto il cuore a tradimento. “Io sono tua, ormai.”

Oh, la sua anima oscura ne era rimasta talmente turbata e scossa, che Arthur ricordava di aver preso Saffie con una forza tremenda, consumandola e inghiottendola in un sol boccone; e tanto l’aveva provata, che in seguito la ragazza non aveva potuto fare altro se non crollare addormentata tra le sue braccia, distrutta dalla stanchezza.

Prima di cadere anche lui preda del sonno, Arthur l’aveva stretta al petto e le aveva posato un tenero bacio fra i capelli, forte del fatto che la moglie non se sarebbe potuta accorgere. Era stato l’istante in cui si era domandato come avesse fatto a odiarla in passato; come, esattamente, avesse potuto essere l’uomo sciocco che non aveva notato la sua bellezza fin da subito, il suo essere così incredibilmente diversa dalle altre.

Ma, una parte di lui, già sapeva di star mentendo a sé stesso.

Aveva quindi chiuso gli occhi verdi ma, invece del sonno, era il buio – ora – ad avvelenare il suo ricordo.

“Tu sei un mostro, Arthur” disse la figura lontanissima di Saffie Lynwood, un puntino vestito di bianco in piedi a molti metri da lui. “Sei un disgustoso mostro che non mi toccherà mai più in tutta la sua vita.”

Dall’oscurità, emersero un paio di mani pallide e grandi, che si posarono sulle piccole spalle di sua moglie con possessività; ed egli dovette osservare impotente Earl Murray comparire dietro alla ragazza castana. “Lei non sarà mai veramente tua” fece l’uomo rossiccio, attirando a sé la Duchessina. “Il cuore di Saffie è mio. Mio soltanto.”

Arthur non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare la bruciante rabbia che gli ribollì nelle vene, poiché fu il tocco gelido di cinque dita rovinate a farlo rabbrividire e voltare di scatto, la mano già pronta a impugnare la sua fedele spada.

I suoi occhi si spalancarono e, d’un tratto, fu solo terrore vero.

“Dove credi di andare, piccolo Arty?” gli sibilò il suo Diavolo, sorridendo con la consueta accondiscendenza letale. “Tu mi appartieni. Mi appartieni e non scapperai mai dall’abisso in cui ti ho gettato: esso è solo tuo, perché io l’ho creato per te.”

Le dita tremanti dell’Ammiraglio si strinsero sul vuoto ed egli scoprì di non aver più spada alcuna, di essere anzi vestito con qualche straccio sporco e non con la sua elegante divisa da Alto Ufficiale. Non era neanche più un adulto, se per questo.

“Hai visto, oppure no, che chiunque si avvicina al precipizio poi ti abbandona, Arthur?” fece in tono conciliante lui, chinandosi e portando la dinoccolata figura alla sua altezza di bambino spaurito. “Senza nemmeno provare a comprendere questa oscurità, ma solo dandoti le spalle alla prima occasione…esattamente come la tua povera e codarda madre.”

Il diavolo protese una mano e puntò l’indice contro il suo piccolo petto scosso dai brividi. “Ora va’” gli disse, inchiodando due occhi di un verde allucinante sul suo visino scarno. “Va’ e fai di non dimenticare ancora ciò che ti ho insegnato. La crudeltà è forza, Arty.”

Il controllo è potere.

Arthur Worthington, trentatreenne ammirato e di successo, si risvegliò fra le lenzuola di un letto vuoto e altrettanto inospitale, freddo. Il volto attraente e severo, affondato nel cuscino, si sollevò appena dalla morbidezza delle stoffe, mentre un paio di iridi chiarissime sembrarono risplendere alla tenue luce di un mattino che prometteva di essere fin troppo luminoso.

L’uomo udì fin da subito il fastidioso e acuto richiamo dei gabbiani, probabilmente impegnati a inseguire la scia della nave con le loro grandi e candide ali tese ad afferrare il vento.

Oh, la vedeva eccome, la tanto disprezzata luce che aveva osato sconvolgere il suo profondo abisso.

Una voragine tanto immensa quanto atroce si era difatti aperta insieme alle sue palpebre e nel suo cuore, facendolo precipitare tra gli artigli di un sentimento a lui inconcepibile, ma doloroso oltre ogni dire.

“Tu lo hai sempre saputo, non è così?”

Dimenticalo. Dimentica tutto, Arthur.

Worthington si alzò a sedere lentamente e portò una mano grande a strofinarsi il viso esausto, scostando poi con noncuranza le coperte riccamente adornate di fili d’oro. Sopra i suoi muscoli tesi e tremanti, le cicatrici inferte dal disgustoso uomo che l’aveva cresciuto parevano esse stesse più bianche e tremende, brucianti testimonianze di un passato – di una persona – che lui non avrebbe mai potuto abbandonare.

Sulla sua scarmigliata testa bruna, il rintocco di una campana lontana risuonò a più riprese, ma furono lo scalpiccio furioso e le voci dei marinai al lavoro a far intendere ad Arthur ciò che, ovviamente, stava accadendo: infine, erano giunti a Kingston, la ricca cittadina mercantile di cui egli avrebbe preso l’effettivo comando.

Il Generale Implacabile si voltò in direzione della grande vetrata che dava direttamente sull’oceano ormai alle spalle dell’Atlantic Stinger, mentre un’espressione di straziante ironia si impossessò del suo viso leggermente abbronzato; perché, di certo, aveva ottenuto tutto ciò che la sua malvagia ambizione aveva desiderato, no?

Anche se, d’ora in avanti, non vedrai mai più Saffie sorridere.

Sì, era stato un perfetto stupido a pensare di poter risalire insieme a lei l’abisso di oscurità accecante in cui aveva vissuto prigioniero per tutti quegli anni; si era rivelato ben più ingenuo di quanto avrebbe potuto considerare visto che, nel profondo, l’uomo era sempre stato cosciente di quanto la piccola strega fosse in realtà una donna fuori dalla sua portata. Irraggiungibile, proprio come un cielo stellato.

Erano due elementi destinati a non comprendersi, perché aria e mare non si incontrano per davvero.

“A questo punto, tanto vale essere il mostro che credi io sia” pensò Arthur con rabbia, gli occhi verdi inchiodati sulla linea dell’orizzonte. “È il solo modo che ho per poterti dimenticare, ragazzina.”

Ed è questo il modo in cui hai sempre proceduto, non è vero, Arthur?

Poiché credevi di averla seppellita, la persona che eri un tempo. Quella capace di fare del male.



§



3 Maggio 1730

La città sorgeva fra una verde e lussureggiante vegetazione, ricca di edifici più o meno alla moda e di un marasma di persone tutte diverse fra loro, perché la Colonia più ricca dei Caraibi Inglesi era – come tutte le altre – il prodotto di un massacro che risaliva i secoli, di una conquista che aveva portato nel Nuovo Mondo sia Europei in cerca di ricchezze, che schiavi pronti a essere utilizzati come manodopera nelle proprietà dei conquistatori.

Sia Saffie Worthington che la signorina Byrne erano ben consce delle leggi che regolavano questa loro Società ma, ugualmente, non poterono fare altro se non sgranare tanto d’occhi di fronte alla folla riunitasi presso la banchina dell’immenso porto di Kingston: sfidando il selciato bagnato e il viavai degli uomini al lavoro sopra gli altri vascelli all’ormeggio, un folto gruppo di cittadini sventolava braccia e mani nella direzione dell’Atlantic Stinger che, ovviamente, precedeva con fierezza la Mad Veteran, ossia la famigerata nave nera di Seymour Porter; e, man mano che le navi della Marina avevano modo di avvicinarsi alla costa, per la Duchessina e la sua serva non fu difficile distinguere una notevole diversità nell’abbigliamento e nei colori di coloro che li attendevano. Facce esotiche e affascinanti, dietro cui si celavano identità e culture che una viziata Aristocratica di Londra come lei non avrebbe mai immaginato di poter incontrare.

Il cuore della ragazza castana fece un’inaspettata capriola emozionata e quest’ultima premette le piccole mani sul legno del parapetto della nave, sfidando la brezza marina e sporgendosi in avanti, quasi potesse in questo modo essere già con un piede sulla terraferma. “Somiglia a ciò che io e Amandine tanto fantasticavamo” pensò Saffie d’impulso, respirando a pieni polmoni l’aria salmastra e comprendendo che, infine, ci aveva davvero fatto l’abitudine. “Quanto vorrei fossi qui con me per vedere Kingston, sorella mia.”

Eppure lei già sapeva cosa sarebbe avvenuto in futuro.

Veloce com’era venuta, l’allegria provocata dalla vista mozzafiato sulla misteriosa città svanì, solo per venire sostituita dall’oscuro e ormai consueto sentimento che non voleva saperne di lasciarla in pace: Amandine le aveva mentito fin dall’inizio, non si poteva negare; ma, con il senno di poi, sarebbe stato meglio per tutti se avesse sposato l’Ammiraglio Worthington, no?

Lei stessa avrebbe finalmente fatto ritorno a Londra e ai suoi tanto amati circoli culturali, alla sua vita di ricevimenti e di insegnamento; mentre era certa che sua sorella e Benjamin non si sarebbero accontentati di osservarsi da lontano, ma avrebbero bensì trovato una via per ritrovarsi e crescere insieme il figlio nato dal loro amore proibito. Pure Cordelia e Alastair avrebbero avuto così il loro Finale felice, contenti di aver preservato il finto Paradiso che avevano plasmato con la loro malvagità.

Perché, in un modo o nell’altro, Arthur avrebbe ottenuto il potere che tanto desiderava, inseguiva.

A quindici giorni di rancore erano equivalsi, ovviamente, quindici giorni di glaciale silenzio. Incredibile come due persone che fino al giorno precedente si erano perse l’una fra le labbra dell’altra, condividendo corpo e vita, ora potessero essere diventate sconosciute…o, per meglio dire, di nuovo nemiche.

“…lo sai, mettersi contro di me non porta vittoria alcuna.”

Non pensare. Chiudilo, chiudi il cuore.

“Guardate!” le irruppe nella mente la voce entusiasta di Keeran, distraendola in maniera provvidenziale dai suoi tristi pensieri. La sua dama di compagnia allungò il braccio e puntò poco educatamente l’indice in direzione degli alti rilievi montuosi che s’intravedevano all’orizzonte, ai piedi dei quali la città era stata fondata più di trent’anni prima. “Sono le Blue Mountains! La ca-catena montuosa che protegge Kingston! Mentre le distese di sabbia che abbiamo appena su-superato vengono chiamate palisadoes…pensate che il capitano Inrving mi ha spie-spiegato come anch’esse salvaguardino il porto e la colonia!”

Non si poteva non sorridere di fronte all’emozione tradita dalla diciasettenne che, orgogliosa di poter fornire utili informazioni alla sua Duchessina, ancora fissava le montagne ricoperte di alberi tropicali con un gran sorriso stampato sul viso paffuto. La sua eccitazione era infine contagiosa, tanto che Saffie decise di scordare il dolore che l’accompagnava e sorridere a sua volta, smettere di essere l’aristocratica musona che stava rovinando l’arrivo non solo a Keeran, ma anche a sé stessa. “Hai imparato davvero tante cose da questo viaggio, mia cara” le disse quindi, forzandosi di parere noncurante e allegra.

L’irlandese si voltò di scatto verso di lei e i suoi occhi neri brillarono di una felicità che Saffie non le aveva mai visto, i capelli corvini che s’agitavano attorno alle sue spalle larghe e la facevano assomigliare a un essere sovrannaturale. “Sì!” esclamò Keeran, quasi ridendo. “Perché è merito vostro e di coloro che ho inco-incontrato, se posso pensare che questa sia per me una nuova vita.”

“Somigli veramente ad Amandine, amica mia” considerò fra sé la ragazza castana, prima di spostare lo sguardo sulla folla a cui si stavano lentamente avvicinando e dire: “Una nuova vita, eh? Beh, penso che avremo parecchio da esplorare in questi mesi, pure se non ho dimenticato la mia promessa di regalarti un Journal tutto tuo. Oh, perché no! Potresti scrivere delle avventure che ci aspettano!”

“No-non mi starete sopravvalutando, si-signora?!” chiese una Keeran sconvolta, seppure internamente sollevata nell’udire la padrona ridacchiare sotto i baffi dopo due settimane in preda alla muta sofferenza; perché la Duchessina aveva passato quei giorni evitando sì qualsiasi contatto non necessario con gli Ufficiali, ma per il resto comportandosi come se non le fosse accaduto nulla. Non voleva sentir parlare del tanto detestato marito, né lei osava nominarlo, quasi non l’avesse mai incontrato o conosciuto; eppure, erano evidenti a tutti i violenti sentimenti che Saffie cercava disperatamente di mettere a tacere.

Talmente chiari, insostenibili, che la ragazza e il Generale Implacabile non erano più capaci di stare nel medesimo luogo contemporaneamente, per quanto fisicamente lontani potessero essere l’uno dall’altra. Giocoforza, Saffie aveva passato la maggior parte del tempo nelle sue stanze con Keeran o in compagnia del piccolo Ben e del signor Rochester, mentre Arthur Worthington era tornato a terrorizzare l’intera ciurma dal ponte di comando, dominando tutto e tutti con due determinati occhi d’acciaio.

Ed era stato come guardare due persone incatenate sul fondo dello stesso abisso.

Saffie ovviamente ignorava i ragionamenti della sua domestica e l’eco della sua risata cominciò a scomparire nel medesimo istante in cui i suoi occhi luminosi furono attirati dalla strana agitazione che sembrò prendere il capannello di gente in attesa sulla banchina.

“Chissà, forse potrò perdonarti e riuscire a vivere questa nuova vita anche per te, sorella mia” pensò la Duchessina, mentre osservava con interesse la sagoma di un lussuoso tiro a quattro arrivare nei pressi del porto: i cavalli attaccati alla carrozza evitarono all’ultimo di travolgere una bambina mulatta che, dopo un urletto terrorizzato, scappò via e sparì fra le vie della città; senza battere ciglio, il cocchiere fermò il mezzo e scese pomposamente, aprendo lo sportello con l’aria di chi sta per annunciare la presenza di Sua Maestà in persona. Una piccola scarpetta infiocchettata si appoggiò sul predellino dorato e Saffie inquadrò alla perfezione l’esile figura di una fanciulla comparire dal nulla, una mano guantata appoggiata al finestrino e il visino sveglio ora sollevato in direzione delle navi possedute dall’ammiraglio Worthington.

Le iridi castane della ragazza fecero in tempo a cogliere una ricca acconciatura rosso rame e uno sguardo dello stesso colore di un campo di grano, che uno spaventoso spasmo le aggredì la bocca dello stomaco a tradimento. Non seppe dire il perché ma, per la seconda volta in quei mesi, un agghiacciante senso di premonizione si abbatté su di lei.

Hai forse pensato di poter essere più importante della sua insaziabile ambizione?

L’ignota giovane vestita di tutto punto scese a terra con un frivolo saltello, mentre un ometto piuttosto anziano veniva al seguito e – ovviamente – non poteva che trattarsi del padre della suddetta bellezza americana.

Oh, oppure ti sei forse illusa di essere stata la prima? L’unica?

Non è nulla. Taci, taci, stupido cuore.

Un leggero spostamento d’aria, e la figura slanciata di James Chapman si portò silenziosamente al suo fianco e nel suo campo visivo. Saffie non ebbe alcun bisogno di guardarlo in faccia per accorgersi non solo dell’imbarazzo con cui il ragazzo si era avvicinato a lei, ma pure del sottile disagio che doveva in realtà scuoterlo dentro.

Ehm…signora Worthington, signorina Byrne” le salutò il tenente, facendo un rigido cenno del capo e schiarendosi al contempo la voce leggermente ansiosa. “Sono qui per riferire un messaggio dell’Ammiraglio per voi, signora Saffie: egli desidera non scordiate il ruolo che vi compete e che – come futura Duchessa di Lynwood – rappresentate.”

Non un muscolo si mosse sul viso dell’interpellata. Una fredda maschera di pietra continuava infatti a fissare la folla in festa a qualche metro di distanza, senza che venisse battuto ciglio; al contrario, erano ben altri i sentimenti che bruciavano dentro al cuore della ragazza.

“Tu sei mia. Solo mia.”

È questo il modo in cui mi hai ingannato.

“Ha detto di ricordarvi che siete sua moglie e, come tale, vi comporterete” continuò in tono esitante un James a dir poco sulle spine, gli occhi grigi puntati su Saffie. “Gli Ufficiali scenderanno per primi dalla nave, poi seguirete voi e la vostra dama di compagnia. Su questo, l’Ammiraglio non ammette alcuna discussione.”

Le piccole dita della ragazza si artigliarono al legno del parapetto con forza, fino a che quest’ultima non sentì i polpastrelli fare male. “Quale gentilezza, caro marito” ironizzò in un sussurro pieno di rabbia, prima di rispondere, senza degnare il tenente di uno sguardo: “Così sia, allora. Vi ringrazio per esservi fatto carico dell’incombenza, tenente Chapman”.

Un minuscolo sorriso di fredda cortesia si fece vedere sulle labbra sottili del ragazzo in questione che, dopo essersi scambiato un’occhiata fugace con Keeran, decise saggiamente di girare i tacchi e allontanarsi dal terribile e oscuro dolore della signora Worthington.

In questa crudele maniera sei riuscito a vincere.

Il vento caldo della Giamaica portò alle orecchie di Saffie un secco e pesante rumore di passi, stivali neri che si abbattevano sul pavimento della nave per l’ultima volta. No, la ragazza non riuscì a farne a meno: staccò inconsciamente una mano dal parapetto e girò appena il busto all’indietro, alzando lo sguardo sull’uomo che da due settimane a quella parte non aveva voluto vedere, affrontare; lui, la nemesi con cui condivideva un legame crudele.

Stagliato contro un cielo dall’azzurro incredibile, l’imponente Generale Implacabile avanzava lungo il pontile con la calma di un predatore letale, sembrando agli occhi di chi lo osservava un uomo affascinante e, al contempo, spaventoso. Le sue iridi verde scuro, fredde e distanti, scivolarono su James Chapman per un attimo, mentre quest’ultimo si faceva rispettosamente da parte con un inchino profondo, simbolo di fedeltà incrollabile e assoluta; ma Arthur lo superò con indifferenza, il cappotto blu che s’agitava ad ogni passo e un lussuoso tricorno piumato che provvedeva a nascondere l’espressione da nobile sprezzante. Da demonio rinchiuso nell’abisso.

Lo spasmo doloroso agguantò di nuovo le viscere di Saffie e si fece impossibile da sostenere poiché, come un fulmine a ciel sereno, lei pensò che non ce l’avrebbe in realtà mai fatta a sostenere il peso della vita a cui era stata condannata, per quanto cercasse con tutta sé stessa di illudersi del contrario.

Ti sei impossessato del mio cuore e me l’hai strappato via.

È questo il modo crudele in cui sei riuscito a vincere.

Lui continuava ad avanzare e, ancora, non si era sognato di guardarla in faccia; eppure, non poteva esserci margine d’errore, doveva per forza averla vista. Gli occhi scuri della ragazza cominciarono a pizzicare, fastidiosi, nello stesso istante in cui si rese conto di aver preso a tremare leggermente, da capo a piedi. Davvero, come poteva Arthur non accorgersi della sua presenza lì, a neanche dieci passi di distanza?

Fu il tempo di un battito di ciglia.

Worthington sollevò pigramente le palpebre, guardandola forse per un secondo, o anche meno; e Saffie desiderò non fosse accaduto, visto che dietro a quelle iridi chiare si celava il nulla. Tutto era stato cancellato, azzerato.

“Dio, sei stupenda.”

Dimenticato.

Un piccolo brivido la scosse e lei si voltò di scatto, le lunghe ciocche di capelli ribelli che andavano a incorniciare un viso tanto grazioso quanto congestionato, in lotta contro un pianto imminente e non desiderato. Abbassò la testa e cercò di concentrarsi sulle sue stesse dita intrecciate; tutto pur di ingannare i brividi maledetti che la scuotevano, soffocare la sofferenza di un cuore martellante e stravolto.

“Tu sei un mostro, Arthur.”

Infine, si era dimostrata per davvero la degna figlia di Alastair.

“Sta arrivando. Re-respirate profondamente” squarciò il buio delle profondità la voce bassa di Keeran. L’irlandese posò con dolcezza una mano sulle sue e aggiunse, mormorando in un dolce tono rassicurante: “Respirate, signora. Non ci vorrà molto.”

Come sospesa in un sogno, l’interessata annuì appena, senza nemmeno accorgersi di averlo fatto. Seguendo il consiglio della sua dama di compagnia, Saffie prese una profonda boccata d’aria salata nel medesimo frangente in cui Arthur le passò accanto con gelida noncuranza; un baleno dorato, ed ecco che lui se n’era già andato, incamminato sulla passerella che era stata calata sulla banchina di Kingston e che lo diede in pasto alla folla in festa sotto di loro, ora visibile in ogni dettaglio.

Un frastuono assordante e caotico, costituito di battiti di mani e cori ammirati, si levò all’apparizione dell’alta figura del Generale Implacabile, mentre Saffie credette davvero che sarebbe morta.

Non era mai esistito altro, se non l’oscura ambizione che tutto consumava, compreso Worthington stesso.

Con uno sforzo disumano, la Duchessina si convinse ad alzare il viso e lì lo vide, il suo terribile demonio: di fronte alle facce sorridenti e anonime di innumerevoli manichini tutti uguali, Arthur allargò le braccia toniche e si chinò leggermente, portandosi infine la mano destra sul petto, a contatto con le bordature d’oro della divisa d’Alto Ufficiale. Si inchinava, il Generale Implacabile, ma sembrò quasi come se egli fosse in realtà un Imperatore in gran trionfo, perfetto e abbagliante.

Ma tutta questa gente le conosce, le vergognose cicatrici che ti deturpano dentro e fuori?

“Ammiraglio Worthington! Qui!” cinguettò la voce sciocca della fanciulla dai lisci capelli rossi, impegnata a saltellare graziosamente sul posto con l’esile braccio alzato e un fazzoletto ricamato stretto fra le dita guantate. “Visto? Io e mio padre siamo venuti ad accogliere voi e l’equipaggio!”

“Via, via, figliola! Stai facendo un gran baccano!”

Lei lo sa, che stai recitando una perfetta farsa?

Saffie girò il palmo della mano verso l’alto e afferrò quella di Keeran con disperata urgenza, stringendola forte. “Non so se ce la faccio” le confessò sottovoce, per non farsi udire dagli Ufficiali impegnati a scendere a terra. Quasi piangendo, girò la testa in direzione della sua serva e le si mostrò per la prima volta veramente fragile, malgrado l’adulta delle due fosse lei stessa e non l’irlandese.

Per assurdo, la sua domestica le dedicò un sorriso triste e ricambiò la sua stretta, posando anche la mano sinistra sulle loro dita intrecciate. “Non cre-credo nemmeno a una parola di quello che dite, signora” le sussurrò dopo poco. “Voi siete la donna più co-coraggiosa e buona che io abbia mai incontrato. Dimostrate a tutta questa gente chi è la Duchessina di Lynwood, colei che ha salvato la vita a due persone e si è gua-guadagnata l’ammirazione dell’intera Atlantic Stinger.

Un lieve rossore si espanse sulle gote della signora Worthington ed ella provò ad annuire piano, colta da una timidezza a lei inusuale; ed era così impegnata a sorprendersi di quella situazione in cui i ruoli parevano essersi invertiti, che vide all’ultimo la sagoma dinoccolata di Benjamin Rochester portarsi vicino a loro.

“Sottoscrivo in pieno” commentò il medico di bordo, con una tranquillità che Saffie non poté fare a meno di invidiare. Detto questo, l'uomo chinò la testa biondo cenere in direzione del piccolo Ben e fece il gesto di prenderlo per mano, mentre quest’ultimo fissava il viso smunto della moglie del Generale Implacabile con i suoi due attenti occhi turchesi. “Verremo anche io e mio figlio insieme a voi. Non è vero, Ben?”

Il bambino annuì una volta sola e scansò le dita del padre, senza però smettere di guardare Saffie. “Voglio…voglio scendere insieme alla signora” sillabò, in tono monocorde. “Posso, papà?”

“Giuramelo. Giurami che andrai avanti e sarai libera, che non verserai più alcuna lacrima per la tua frivola e fragile sorella.”

Tre paia di occhi scattarono sull’interessata, in muta attesa, e la Duchessina seppe di non avere altra scelta se non farsi forza e rispolverare i vecchi insegnamenti di sua madre perché, se era un Imperatore quello che si era mostrato all’intera Kingston, allora lei sarebbe comparsa sulla scena come una vera e propria Regina.



§



Alla fine, Keeran e Benjamin si erano rivelati più lungimiranti di Saffie, per quanto entrambi fossero più giovani di lei.

I curiosi che si erano riuniti sulla banchina per attendere l’arrivo dei due minacciosi vascelli da guerra apparsi all’orizzonte avevano sì applaudito il magnetico e famigerato Arthur Worthington, ma furono ben pochi coloro che non spalancarono tanto d’occhi di fronte alla graziosa creatura stagliatasi sullo sfondo di candide e maestose vele: aiutata da un ossequioso marinaio, la moglie dell’Ammiraglio si incamminò con lenta grazia sulla passerella di legno e, malgrado indossasse un semplice abito azzurro privo di qualsiasi fronzolo, il suo portamento dolce ed elegante la fece sembrare a tutti come un irraggiungibile miraggio sceso dal cielo; il fatto che i suoi luminosi occhi castani si posassero su ognuno con ridente gentilezza, poi, non fece altro se non aumentare il fascino della donna che il Generale Implacabile si era portato dietro dall’Inghilterra.

Degno di nota, dietro le piccole spalle della Duchessina, veniva il candido angelo di cui l’intera Kingston si sarebbe innamorata da lì a qualche mese.

“Una Dea!” commentò un ragazzo di colore, rimanendo a bocca aperta dallo stupore.

“Come se la moglie di Worthington fosse da meno” si fece sentire la voce scettica di un altro. “C’era da scommetterci…non esiste tesoro prezioso che quell’uomo non riesca a possedere.”

“Zitto, idiota! Vuoi farti sentire da lui e finire sulla forca entro l’alba?!”

L’uomo vestito di stracci che aveva osato parlare in quel modo dell’Ammiraglio sussultò spaventato, al cenno dell’amico che l’accompagnava: neanche venti passi più indietro, stava proprio l’alta sagoma dell’interessato, intento a guardare nella loro direzione con due occhi pieni di rancore cristallino. Eppure – i due ignoti cittadini lo compresero subito – quelle iridi non stavano affatto fissando loro con quel sentimento spaventoso che ne traboccava fuori, ma erano bensì inchiodati sull’esile corpo di una Saffie impegnata a sorridere teneramente al piccolo Ben Rochester, mentre quest’ultimo avanzava tutto rigido al suo fianco.

“Io sono tua, ormai.”

Bugiarda. Quando mi guardi, non vedi che un mostro.

Le labbra sottili dell’uomo si piegarono all’ingiù, trasformandosi in un taglio netto e sprezzante. Consapevole che presto la detestata ragazzina e il suo corteo d’accompagnamento sarebbero giunti per forza di cose fino a lui, Arthur decise di voltare le spalle e girarsi seccamente verso le due eleganti persone che per prime gli si erano fatte incontro: come da previsioni, Lord Chamberlain e sua figlia Catherine non avevano aspettato un attimo prima di piombargli addosso.

“Caro amico mio!” esclamò dal basso l’ometto che rispondeva al nome di Richard Chamberlain, prodigandosi in esagerati gesti con le piccole mani rugose. “Devo ammettere di essere sorpreso…no, che dico, assolutamente sbalordito! La notizia del vostro matrimonio ha attraversato le acque, ma non pensavo vi foste unito all’antico Casato dei Lynwood; e ne avete sposato la graziosa primogenita, nientemeno!”

Un’espressione di fredda cortesia fu la sola risposta che il Lord ottenne, poiché fu la voce della figlia a precederlo: “Parola mia, Ammiraglio, avevate promesso al Governatore di accasarvi con una donna capace di valorizzare voi e il vostro ruolo di potere. Mi sarei aspettata di vederle addosso un abbigliamento più, come dire, consono al suo posto di rilievo” chiocciò in tono saccente Catherine, gli occhi nocciola puntati addosso a un’ignara Saffie. “Ma possiamo pure definirla passabile, direi.”

Se la ragazza si aspettava di intaccare la facciata di marmo assunta da Arthur con le sue parole, beh, dovette rimanere profondamente delusa. Anzi, la bocca dell’uomo si aprì in un sorrisetto piuttosto beffardo ed egli protese una mano grande in avanti, afferrando con gentilezza le dita guantate della signorina Chamberlain e portandosele vicino alle labbra con fare galante. “Siete gelosa, milady?” le chiese con voce di seta, rinchiudendosi nel fare elegante per cui era conosciuto al di là dei massacri compiuti in mare. “Non dovete esserlo, visto che siete la splendida figlia di un Lord.”

Catherine divenne dello stesso colore dei suoi capelli fiammanti nello stesso secondo in cui Saffie raggiunse i tre, paralizzandosi alla vista della scena e provando subito un sentimento doloroso di cui preferì ignorare l’origine.

Non è niente. Niente.

“Oh, Cielo!” squittì Lord Richard, quasi saltellando sul posto. “Finalmente siete qui, cara signora Worthington!”

Per una volta, Saffie ringraziò la rigida educazione che le era stata impartita fin da bambina perché – alla stessa stregua dell’odiato Arthur – la ragazza non fece alcuna fatica nel rilassare subito il viso e aprirsi in un sorriso dalla falsità tanto disarmante quanto nascosta. “Vi ringrazio per essere venuti ad accoglierci, signore” disse quindi, mielosa. “È di certo un gran piacere vedere così tanta gente riunita per l’occasione del nostro sbarco.”

“Oh!” sospirò Chamberlain, socchiudendo gli occhi chiari. “Il vostro è il contegno dei Lynwood, non c’è alcun dubbio! Già so che sarete un’ottima amica per la mia adorata Catherine.”

E spostò il piccolo braccio di lato, facendo mostra della figlia come se stesse in realtà facendo vedere un trofeo. Senza posare lo sguardo su un Arthur che ancora non si degnava di voltarsi nella sua direzione, la Duchessina si inchinò cortesemente, seguita a ruota da Keeran e dal piccolo Ben; solo il signor Rochester, stranamente, non mosse un muscolo ma, anzi, spostò le annoiate iridi scure dall’altra parte della strada.

In effetti, la stessa Catherine gli dedicò un’occhiata piena di indignato sconcerto e alla signora Worthington sembrò quasi la ragazza stesse fissando il medico con lo stesso sguardo con cui si osserva uno scarafaggio. “Benvenuta” la accolse infine la futura Lady Chamberlain, inchinandosi a sua volta. “Non vedo l’ora di poter passare del tempo con voi e conoscere così i talenti di colei che è riuscita ad ammaliare il nostro Ammiraglio.”

Nulla. Ho voltato le spalle a questa sofferenza, l’ho rifiutata.

“In questo caso, sarò più che lieta di aggiornarvi nei dettagli.”

“Che bella idea! Perché non subito?” strillò la voce gioiosa di Richard. “La nostra carrozza è spaziosa e sono sicuro la signora Worthington voglia vedere i dinto…”

Non credo proprio che accadrà nulla del genere.”

Arthur aveva articolato quell’unica gelida frase senza mutare la sua espressione di granitica severità, ma Saffie ben sapeva che non erano permesse repliche di sorta. Due occhi pericolosi la congelarono da sotto la falda del cappello piumato e lei si sentì attraversata da una scarica di timore che odiò con tutto il cuore.

“Voglio prendere immediatamente possesso di Rockfort e stabilirmici insieme ai miei Ufficiali” spiegò nel silenzio Worthington, posando una mano sull’elsa della spada. “Mia moglie andrà nella dimora padronale che ho scelto per lei; sarà provata dal viaggio ed è quello il posto che le compete.”

Fra disordinate ciocche di capelli castano scuro, un volto di pietra se ne stava rivolto verso di lei, sfidandola anche solo a provare di ribellarsi ai suoi ordini.

Maledetto demonio.

“Al diavolo l’etichetta e l’entrata da Regina di Saba” pensò d’impulso Saffie, facendo un rabbioso passetto in avanti e sporgendosi verso la minacciosa figura di Arthur, pronta a mandare a gambe all’aria il trionfo del pomposo manichino che era stata costretta a sposare.

Sfortuna o fortuna, fu la mano di una persona più che improbabile a salvare la situazione. Cinque dita grassocce si posarono con tenerezza sulla piccola spalla della Duchessina che, voltandosi, ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte all’espressione soave e bonaria del capitano Inrving.

“In questo caso, sarò più che felice di accompagnare vostra moglie fino a casa Zuimaco, Ammiraglio” esordì l’attempato Ufficiale, apparentemente ignaro della tensione palpabile fra Saffie e Arthur. “Sono anche io diretto lì, dopotutto.”

Dopo un muto secondo, Worthington fece uno sbrigativo cenno d’assenso con la testa e, rinchiuso nella profonda oscurità del suo abisso, diede le spalle a tutti loro con un gesto agile, cominciando a camminare lungo la banchina umida e affollata; non si era curato di prendere congedo nemmeno dalla moglie che, fra l’altro, fu costretta guardare la sua ampia schiena allontanarsi con uno strano groppo incastrato in gola: infine, era questo il modo in cui si separavano l’uno dall’altra.

“Pensi di poter essere felice a Kingston?”

Qui cessa di esistere il nostro legame crudele.

“Che ne dite, signora Worthington, accetterete di venire con me in carrozza?”

Due lucidi occhi scuri si sollevarono di scatto su quelli grigi di Henry Inrving e lo guardarono con una tristezza che spezzò il cuore dell’uomo. “Sarà un vero piacere, Capitano” acconsentì la ragazza, quietamente. “Solo, penso dovremo stringerci per far posto anche ai miei accompagnatori!”

Keeran e Benjamin si scambiarono un’occhiata divertita, ormai abituati al fare noncurante con cui la Duchessina riusciva a proporre cose letteralmente fuori dal mondo. Non a caso, sia Catherine che Lord Chamberlain strabuzzarono gli occhi di fronte alla proposta di Saffie: inaudito, una serva e un medico seduti sullo stesso mezzo di un’aristocratica e di un gentiluomo?!

Ma non ebbero modo di esprimere la loro indignazione, poiché la figlia di Alastair Lynwood si voltò a guardarli con un’espressione di inquietante determinazione incisa nei lineamenti sempre gentili. “Sono addolorata, ma temo di avere più importanti questioni di cui occuparmi al momento. Con permesso” si congedò in due parole di fredda cortesia, piantandoli in asso non troppo diversamente da come aveva fatto Arthur Worthington.



§



La villa coloniale chiamata da tutti i cittadini con l’appellativo di Zuimaco si ergeva maestosa e bellissima sopra Kingston intera: si trattava di un monolite bianco latte che osservava dall’alto di un dolce pendio verdeggiante non solo la ricca baia, ma anche l’orizzonte di un mare infinito. Solo l’antico fortino seicentesco – il famoso Rockfort – era superiore alla casa destinata a Saffie, poiché si arrampicava spaventoso su un’altura e sembrava davvero essere nato per stagliarsi contro un cielo e un oceano ammalianti, cristallini.

Entrambi gli edifici – così lontani l’uno dall’altro – dominavano la città più prosperosa della Giamaica Inglese come due giganti regali e quieti, ma la Zuimaco aveva il pregio di essere attorniata da una flora fitta ed esotica; se le acque facevano da cornice al dominio di Arthur, il regno della Duchessina di Lynwood era un parco luminoso e colorato, dove decine di uccelli misteriosi cantavano il loro inno al sole, ben nascosti fra le fronde degli alti alberi mossi dal vento caldo.

Un paradiso ignoto uscito direttamente da un romanzo d’avventura, un Eden di cui Saffie e Amandine avevano letto a più riprese durante le lunghe serate passate davanti al camino acceso del loro salotto di casa, nel Northampton.

Ma era il cielo terso che attendeva Amandine, non me.

“Anche se sei stata pronta a ingannarmi, pur di ottenerlo a tutti i costi” pensò con amarezza la signora Worthington, sospirando; come sempre, l’abitudine di rivolgersi direttamente al fantasma di sua sorella era dura da abbandonare. “Forse pensavi che non sarei riuscita a comprenderti? Aiutarti?”

Erano due settimane che continuava a fare queste domande ad Amandine e, di conseguenza, a sé stessa; non che riuscisse a trovare una risposta pronta a soddisfare il senso di rabbiosa delusione impossessatosi di lei: dopo essere stata tenuta all’oscuro dell’altro passato, sua sorella minore le aveva chiesto persino di perdonare l’uomo che l’aveva rinchiusa nella gabbia dorata, infine strappandola dalle braccia di Earl.

Bugiarda. Continui a voler giustificare il vero carnefice, Saffie?

Grazie al Cielo, non fece in tempo a pensare ad altro.

Ridendo tutto contento, Ben scese per ultimo dalla carrozza presa a nolo dal Capitano Inrving e le passò a fianco correndo sul sentiero di ghiaia con una spensieratezza che lo fece finalmente assomigliare a un bambino della sua età. “Dov’è Teresa?” esclamò sorridendo apertamente, rivolgendosi agli impassibili domestici in attesa sui gradini della scalinata d’ingresso alla casa. “Il Capitano ha detto che sarebbe stata qui per darci il bentornato!”

Un’espressione piena di tenero affetto rilassò il visino ovale di Saffie, che non fece subito caso alle parole del figlio del medico dell’Atlantic Stinger.

Credevi non sarei stata capace di proteggere il tuo segreto più prezioso?

“Ben! Quante volte dovrò ripeterti che non puoi correre incontro alle persone in questa sgarbata maniera?”

“Vi chiedo scusa, papà!”

“Non siamo in mezzo ai marinai, dove puoi comportarti come ti fa comodo!”

Lo sguardo della ragazza castana si sollevò sulla figura altissima del signor Rochester ed ella lo vide fermarsi accanto a lei, mentre ancora osservava il figlio con quieta serietà, i capelli lisci che inseguivano la brezza tropicale. L’uomo portò seccamente le mani sui fianchi snelli e gli occhi curiosi di Saffie scivolarono su quelli di Benjamin: due biglie nere dall’intensità attraente, che studiavano ogni cosa da dietro un’elegante montatura sottile.

Anche su questo mi hai ingannata, sorella mia.

A tradimento, il suo cuore fece una capriola agitata.

Non è mai stato Arthur, colui che hai amato per davvero.

Quasi l’avesse chiamato a voce, il dottore si volse verso di lei. “Non siete curiosa di visitare la vostra nuova casa, signora Saffie?” le chiese con gentilezza, sorridendole e parendo una volpe irriverente, furbastra.

“Sono stata la più ignorante di tutti” realizzò fra sé l’interpellata, prima di annuire vigorosamente e arrossire di nascosto, come fosse stata colta con le mani nella marmellata. “Ardo di curiosità, Benjamin! Spero vivamente di trovarvi una biblioteca e, soprattutto, una stanza in cui poter dimenticare i vestiti francesi di cui mia madre mi ha fatto generosamente dono!”

E si voltò all’indietro, osservando con pietosa compassione Keeran e il cocchiere lottare con la pila di bauli che erano riusciti a caricare sul tiro a quattro mentre, a qualche passo di distanza, il Capitano Inrving teneva discretamente d’occhio le pericolose manovre della diciassettenne.

“Forse ci sarà bisogno dell’aiuto dei domestici di casa” commentò il medico, seguendo il suo sguardo e alzando un sottile sopracciglio biondo. “Senza contare che Teresa sarà a dir poco furiosa, quando verrà a scoprire che siete arrivata in sua assenza.”

“Potete giurarci, caro signor Rochester!”

L’uomo alzò gli occhi al cielo proprio nel momento in cui tutti furono aggrediti dalla roboante voce che esplose nel cortile della Zuimaco, tacendo persino il canto dei pappagallini appostati fra le palme. Una bassa donna di colore era apparsa sul primo scalino d’ingresso, guardando la combriccola Inglese come se stesse avendo a che fare con un branco di bambini capricciosi; gli occhi della donna – leggermente a mandorla e di un incredibile color cioccolato – scivolarono sui domestici in attesa ai piedi della scalinata con quella che sembrò vera e propria ira funesta. “Andate subito ad aiutare quella povera ragazzina a scaricare i bauli, prima che racconti all’Ammiraglio Worthington della vostra inettitudine” abbaiò, piantando le dita sui fianchi giunonici. “I motivi per cui non sono stata avvertita dell’arrivo della signora dovranno attendere, immagino.”

“Teresa!”

Sentendosi chiamare dalla voce gioiosa di Ben, i lineamenti esotici della donna si rilassarono subito e un sorriso spontaneo si aprì sulla sua bocca carnosa. “Eccoti qui, piccolo bianco” disse, scendendo i gradini con una strana grazia, in un gran fruscio di gonne e sottogonne voluminose. “Corri dentro casa, forza: ho fatto preparare dolci per un intero reggimento e tu sei diventato fin troppo magro, proprio come quello spillo di tuo padre. Il mio invito vale anche per voi, Dottore.”

Al bambino non servirono ulteriori motivazioni per scaraventarsi al di là dell’uscio della candida villa coloniale. Tradendo un sospiro di cupa rassegnazione, Benjamin fece un vago cenno di congedo con la testa a Saffie e seguì a passo svelto il figlio, rallentando solamente per dedicare una smorfia dispettosa a colei che gli veniva incontro in tutta tranquillità: la ragazza castana pensò subito che i due fossero parecchio in confidenza e gli parve quasi di vedere una mamma alle prese con il figlio disubbidiente; inoltre, considerò lei, era un sollievo constatare come la situazione lì fosse molto diversa, rispetto all’accoglienza pomposa e rigida dei Chamberlain.

Forse quassù il mio cuore potrà trovare un po’di pace e guarire. Dimenticare.

Teresa fu davanti a Saffie e quest’ultima notò che si trattava proprio di una donna molto bella, sui cinquant’anni. Il suo volto era sì severo, ma i suoi occhi profondi facevano mostra di una sicurezza rassicurante e materna; inoltre, la Duchessina fece caso solo in quell’istante del fatto che ella non vestisse alcuna divisa: aveva comandato a bacchetta la servitù come avrebbe fatto una domestica in capo, pure se indossava un abito corallo ricco di rifiniture preziose, di fronzoli in pizzo che inseguivano la scollatura e lasciavano immaginare un seno prosperoso, abbondante. Insomma, ricordava in tutto e per tutto una matrona dei salotti di Londra.

“Miei Dèi” soffiò la donna di colore, scuotendo i lisci capelli neri, imprigionati in un’acconciatura piuttosto elaborata. “Siete fin troppo bella per quello sconsiderato del Generale Implacabile.”

Malgrado la piccola fitta di sofferenza che le provocò sentirle nominare Arthur all’improvviso, Saffie si lasciò sfuggire un risolino divertito e cercò di coprirsi educatamente le labbra con le dita. “Vi ringrazio, madama” disse, sapendo già che Teresa si sarebbe rivelata una grande alleata. “Sono Saffie di Lynwood, ma di questo eravate forse già a conoscenza.”

Le due si inchinarono brevemente. “Non del vostro nome, mia cara. Benvenuta in Xaymaca, la nostra bella terra del legno e dell’acqua” asserì la più grande, alzando le incredibili iridi cacao e lanciando un’occhiata al di sopra della testa di Saffie, inquadrando così la persona timidamente in piedi dietro di lei. “Ah, quale onore. Vi siete degnato di venire anche voi fin quassù, vedo.”

Henry Inrving, attempato capitano di vascello tanto rispettato quanto temuto, si trovò ad arrossire furiosamente come un ragazzino vergognoso, di fronte alle parole di pietra piombate su di lui. Ignorando lo sguardo sbigottito della signora Worthington, l’uomo si portò al fianco di Teresa e il suo sguardo grigio si piantò a terra, sui minuscoli sassolini del suolo di ghiaia. “Duchessina” cominciò piano, accarezzando con una bizzarra cautela la spalla della donna di colore, quasi avesse paura di romperla in mille pezzi. “Vi presento mia moglie, la signora Teresa Inrving.”

“Meglio tardi che mai, mio caro” fu il commento piatto dell’interessata. “Su, su! Siete il comandante di cinquecento uomini, eppure ancora vi imbarazzante di fronte a me!”

“Formate davvero una bella coppia” disse loro la ragazza in tono allegro, insensibile al fatto che un’unione del genere sarebbe stata del tutto impensabile in Inghilterra: sua madre, probabilmente, avrebbe accusato un malore al solo pensiero e Alastair…beh, non che se la sentisse di pensare troppo a suo padre.

Una nuova vita in questo nuovo paradiso, lontano dalla gabbia e dall’abisso.

“Vero?” fece la voce orgogliosa di Teresa, in sottofondo. “Se solo il famigerato Capitano Inrving non dimenticasse di ottemperare ai suoi doveri coniugali, visto che è tanto fedele a quelli della Marina Britannica!”

“Ma-ma cara, devi comprendere che…”

Qualcosa, forse uno spasmo ansioso, attraversò il volto bonario di Henry e Saffie si morse le labbra, girando il busto sottile per non scoppiare a ridere davanti ai due coniugi. Il suo sguardo ridente e allegro cascò sul fondo del sentiero, da dove ella vide un esiguo plotone di soldati dell’Impero risalire la china: divisa rosso sangue e lunghi moschetti stretti fra le dita, il gruppo di uomini marciava verso di loro e la ragazza pensò si trattasse di una ronda di vigilanza, atta a garantire la sicurezza degli importanti abitanti della Zuimaco.

La Duchessina stava per chiedersi se la presenza dei soldati fosse conseguenza di un ordine dell’Ammiraglio Worthington stesso ma, come nei suoi ricordi, una folata di vento tiepido la abbracciò con dolcezza e lei lo vide.

La brezza della Giamaica scompigliò lunghe ciocche di disordinati capelli rosso sangue ed egli si passò distrattamente la mano diafana sulla fronte, le dita perse fra onde di colore

In un battito di cuore, Arthur venne spazzato via dalla sua mente.

Saffie osservò, ghiacciata, l’alta figura dell’uomo in fondo alla strada voltarsi nella direzione sua e degli Inrving, alzare un braccio e fare il gesto di salutarli…se solo i suoi occhi pieni di oscurità non si fossero inchiodati su di lei, uccidendolo a sua volta sul posto.

“Farò di te mia moglie, Saffie. Così nessuno potrà né imprigionarti di nuovo, né separarci.”

Per assurdo, la ragazza quasi non si accorse della sua divisa scarlatta, né del fatto che lui fosse alla testa del plotone di soldati della Corona; questo perché era assordante e terribile, il terremoto che frantumò la sua anima e per poco non la fece cadere in ginocchio, tremante come un passerotto ferito a morte.

Cinque anni. Sono passati cinque anni.

Earl.

“Oh, che curiosa coincidenza!” esclamò la voce sorpresa di Teresa, che si alzò quel tanto per aggiungere, quasi urlando: “Luogotenente Murray! Venite qui e lasciate che vi presenti la graziosa moglie del Generale Implacabile!”

Un sentimento impossibile da decifrare trasformò l’espressione sorpresa dell’uomo, indurendola, trasformandola in una maschera dietro la quale poteva celarsi qualsiasi cosa; e a Saffie venne in mente – per assurdo – la canzone che Keeran aveva cantato per lei diverse settimane prima.

“Il tordo e il merlo hanno raccontato a tutto il mondo che il mio amore è andato oltre l’oceano.”





Angolo dell’Autrice:

*Se il capitolo ti è piaciuto, spero tu prenda in considerazione di votarlo e recensirlo*

Mentre scrivevo questo capitolo ho pensato più volte non stessero succedendo molte cose, ma durante la mia revisione di oggi mi sono resa conto che è una parte abbastanza piena di accadimenti, direi?

Sono tornata dagli Abissi anche io, come potete ben vedere! \(^u^)/

Come state? Spero questi giorni siano stati sereni e meno impegnativi di quanto lo sono stati i miei (sob!): avete presente quei mesi in cui l’accumulo di Lavoro o Studio si concentrano in poche deliranti settimane? Ecco, per me Maggio è stato un periodo così dal punto di vista strettamente professionale e di vita, tanto che ho sudato freddo…ma mi sono detta: “No! Devo mantenere la scadenza promessa a chi mi segue!” (U.U)

E quindi sono qui. Spero vi sia piaciuto il primo capitolo della seconda parte di Gabbie Dorate e Oscuri Abissi, perché ho investito diverso tempo in ricerche storiche, visto il mio vizio di non voler buttare parole a casaccio e soprattutto perché desideravo si potesse “respirare” l’aria esotica di Kingston…ditemi, sono riuscita a farvi immergere nell’ambientazione della Colonia Inglese?

Certo, mi sono presa come sempre delle libertà narrative ma, nel mio piccolo, ho anche corretto l’errore fatto per tutto questo tempo: prima di pubblicare, ho infatti revisionato sia su Efp che Wattpad tutti i capitoli in cui compariva la parola “Kingstown”, cambiandola con il nome corretto della città. Kingstown è infatti una città delle Antille e, penso, facesse parte al tempo del dominio francese! (-.-)”

Ma torniamo alla carne della storia: quanti personaggi ho fatto muovere in questo capitolo? Quanti ne ho introdotti? XD

Qualcuno ha detto forse la parola Gelosia? Sento, da lontano, l’eco di una guerra in arrivo? Oh, oh, oh, non voglio sbilanciarmi più di tanto, visto che vorrei lo scopriste leggendo; come è sacrosanto che sia! (*u*)

Finalmente ho potuto rivedere Earl e introdurre Catherine e Teresa! Sarei curiosa di sapere quale dei tre vi ha colpito di più! Ditemi, ditemi! :D

Cercherò di pubblicare presto e non lasciare passare un mese, visto che non sopporto vedere Saffie e Arthur lontani! Io amo farli interagire, nel bene e nel male…cielo, riusciranno a ritrovarsi?

Un GRAZIE enorme a chi continua a seguire la mia storia, a recensirla e a votarla! Se vi va, scrivetemi pure i vostri pensieri al riguardo! Io ne sono sempre tanto felice! (*w*)

Un abbraccione virtuale,

Sweet Pink

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Capitolo 17
*** Sedicesimo. Superato il limite, non si può più tornare indietro. ***


Avvertenza: Questo capitolo ha Rating Rosso, per quanto personalmente non penso vi siano scene che possano sconvolgere in maniera particolare qualcheduno, ma mai dire mai. Per cui, procedete nella lettura con cautela.

Inoltre, per farmi perdonare del ritardo di tre giorni sulla pubblicazione e per aver quindi saltato il mese di Giugno, questa parte sarà un poco più lunga delle altre.

Se vorrete, io sarò ad aspettarvi nel mio angolino.




CAPITOLO SEDICESIMO

SUPERATO IL LIMITE, NON SI PUÒ PIÙ TORNARE INDIETRO.





"Tanto vale essere il mostro che lei crede io sia, poiché i suoi occhi non mi guarderanno mai nello stesso modo in cui guardano lui, né il suo cuore potrebbe essere custodito da queste mani capaci di distruggere qualsiasi cosa.”


§


La Zuimaco era la tipica struttura coloniale su più piani; ricca di stanze pronte ad accogliere non solo le famiglie che vi abitavano, ma anche i loro ospiti: si trattava di edifici le cui camere imitavano il gusto opulento in voga nel Vecchio Mondo, ma con un'impronta di originalità che già faceva intendere uno stile del tutto nuovo, americano.

Saffie, da novella cittadina di Kingston, aveva subito trovato il modo di stupirsi delle grandi e ariose stanze della casa padronale, illuminate dalla luce accecante che penetrava direttamente da innumerevoli vetrate dalle notevoli dimensioni. Inoltre, similmente alla dimora dei Worthington nel Northampton, la Zuimaco era piena zeppa di cimeli tanto misteriosi quanto esotici; oggetti ignoti, che la Duchessina non vedeva l'ora di poter esaminare.

Durante il suo primo giorno di permanenza, la ragazza non aveva avuto la possibilità di scoprire se la sua nuova casa avesse una biblioteca in cui potersi rinchiudere, poiché era stata rapita immediatamente dal parco retrostante l'edificio: il lussureggiante cortile in cui la carrozza presa a nolo da Inrving aveva fatto la sua entrata non era nulla al confronto con il giardino di palmeti che si ergeva sopra alla testa castana di Saffie.

Forse a causa di questa magnificenza da Eden perduto, la signora Worthington si era lasciata indietro la combriccola con cui era arrivata – impegnata a sorseggiare del buon tea inglese in tutta tranquillità – per perdersi tra le ombre degli alberi e i canti dei pappagallini colorati.

O, più probabilmente, la colpa era da dare in toto all’improvvisa comparsa di colui che era stata costretta a dimenticare; l’uomo che cinque anni prima lei stessa aveva giurato di amare e così ingannato, sacrificandolo poi sull'altare della sua comoda vita da figlia dei Lynwood senza alcuna esitazione.

E che aveva forse rappresentato il suo primo passo verso il fondo dell'abisso.

"Non ho mai visto nulla del genere in Inghilterra" si sforzò quindi di dire Saffie, cercando con scarso successo di parere l'allegra Duchessina di un tempo, quasi gli anni e la distanza intercorsi fra lei e l’uomo alle sue spalle non fossero mai esistiti. "Credo di aver persino adocchiato una scimmietta saltare fra i rami di quell'albero, poco fa!"

Earl Murray non emise alcun suono in risposta ma, anzi, rimase chiuso nello stesso silenzio che aveva accompagnato il loro nuovo incontro; e Saffie non poté fare a meno di sentirsi patetica.

“Già…”ricominciò quindi a dire sommessamente, abbassando il tono di voce e la testa all’unisono; sorridendo infine con un tormento disarmante stampato sul viso in verità stravolto. “Come se le palme e gli animali esotici fossero la più grande delle sorprese di oggi.”

Un altro minuto di nulla doloroso seguì le sue parole, ma il commento leggermente ironico dell’uomo risorto dalle ceneri del suo passato le sferzò la schiena, trovandola paradossalmente impreparata e – ovviamente – indifesa di fronte al suo stesso senso di colpa.

“Non che io mi sia mai svegliato alla mattina con la convinzione di poter rivedere nuovamente la futura Duchessa di Lynwood” aveva infatti detto il luogotenente Murray, prima di aggiungere in un tono incolore che poteva significare qualsiasi cosa: “Mi credevate forse morto, Saffie?”

“Devi lasciarmi andare.”

Non lo so nemmeno io in cosa ho creduto, poiché ho voluto cancellarti dal mio cuore.

Era stato sicuramente un altro crudele scherzo del suo beffardo fato, se la sua strada aveva incrociato un’altra volta quella dell’uomo che aveva promesso di liberarla dalla gabbia dorata; si era trattato di un tremendo castigo divino perché, quel giorno, entrambi avevano deciso di incamminarsi sul bianco sentiero di ghiaia e passeggiare insieme, lasciarsi alle spalle le persone facenti parte della loro nuova realtà e fingere con una strana naturalezza di essere tornati ai tempi felici di Hyde Park.

Il fatto che il luogotenente Murray si fosse discretamente offerto di accompagnare una pallida signora Worthington nella scoperta dei suoi nuovi giardini non era apparso affatto strano agli occhi dei coniugi Inrving e di Benjamin, ma bensì questi ultimi avevano creduto fosse in fondo parte del dovere dell’ufficiale a capo del plotone di sorveglianza alla casa fare gli onori alla padrona; in fondo, si stava parlando pur sempre dell’uomo che avrebbe da lì in poi scortato l’importante moglie del Generale Implacabile in città, assicurandosi di proteggere lei e il suo seguito di servitori.

Solo Keeran – una volta scoperto il nome dell’affascinante soldato apparso nell’ampio salone della Zuimaco – aveva irrigidito le larghe spalle di botto e stretto nervosamente le labbra le une contro le altre, voltandosi per un fugace attimo in direzione della signora Saffie. La domestica ne aveva letto lo smarrimento disperato nei lineamenti ma, purtroppo, non era nella situazione più opportuna per poter intervenire e darle conforto: ciò avrebbe significato fare intendere a tutti che qualcosa non stava funzionando per il verso giusto e mettere in dubbio pubblicamente la reputazione della figlia di Alastair Lynwood.

Così aveva dovuto tacere e lasciar correre, continuando a farlo pure qualche ora dopo quando, senza troppa sorpresa, i suoi occhi nero pece avevano colto la docilità triste con cui la padroncina aveva accettato che Murray l’accompagnasse nella sua passeggiata esplorativa. L’irlandese aveva osservato impotente le sagome dei due sparire oltre le alte siepi del giardino e le sembrò come se fossero stati inghiottiti dal passato, come se Saffie stesse dimenticando ciò di cui poteva esser capace l’uomo terribile che aveva sposato.

In realtà, non sapeva quanto i sentimenti rinchiusi nel cuore della ragazza castana fossero ben diversi; Keeran non poteva saperlo, poiché nemmeno la Duchessina poteva dirsene propriamente consapevole. Lì, nascosti fra le incantevoli ombre delle palme, Earl e Saffie potevano forse dire di essersi ritrovati di nuovo malgrado le forze che avevano voluto dividerli, ma – la ragazza lo sentiva – c’era un qualcosa di differente.

Il tempo era passato per davvero, mostrandole la donna viziata e bugiarda che era sempre stata.

L’aveva infine vista anche Saffie, la sua personalissima crepa sulla superficie dello specchio.

Fu in questo modo, senza badare alle lacrime traditrici che avevano cominciato a inumidirle lo sguardo colmo di turbamento, che lei si voltò in direzione dell’alta sagoma di Earl, ancora in attesa a neanche un metro di distanza; lo affrontò con un’espressione di concreta sofferenza stampata sul suo grazioso visino ovale, tanto evidente che il luogotenente Murray ebbe difficoltà a riconoscere nella fanciulla davanti a lui l’allegro passerotto che aveva amato tanto da voler potare via.

“Sì” gli disse Saffie, quasi vomitando dolore. “Non ho avuto alcuna notizia di voi e di ciò che vi avevano fatto; così ho pensato…oh sì, l’ho creduto, che foste morto a causa mia.”

Per un attimo, i versi degli animali intorno a loro riempirono le orecchie di un Earl sconvolto da quel tormento insostenibile; ed egli fece un passo avanti timidamente, alzando con incertezza il braccio verso la piccola spalla della Duchessina, cercando di sfiorare il tessuto della sua veste, di raggiungerla per tempo.

“Signora Worthington, io…”

Pure se il loro destino non era mai stato quello di incontrarsi su uno stesso confine, di potersi amare.

Difatti Saffie sfuggì alle sue dita protese e si allontanò di poco da lui con un violento scatto all’indietro. “Non chiamarmi con quel nome” singhiozzò la Duchessina, nascondendo il viso rigato di lacrime fra le mani tremanti, detestando la sé stessa che ancora non riusciva a mantenere la promessa fatta ad Amandine; odiando la patetica donna fragile che, alla fine, giaceva dentro di lei. “Non era questo ciò che desideravo, non avrei mai voluto...ti prego perdonami, Earl. Mi-mi dispiace, mi dispiace per tutto!”

E si sfregò con forza le guance bagnate di pianto, fino a farsi male, fino a sentire la pelle bruciare più del suo annichilente senso di colpa; pure se un bel niente avrebbe potuto lenire la vergogna di trovarsi davanti allo sguardo pieno di compassione dell’uomo che aveva tradito, abbandonato. Non le importava affatto di star tenendo una condotta del tutto indegna dell’Aristocratica che avrebbe dovuto essere, di aver buttato all’aria l’ultimo briciolo di dignità rimastole in quel periodo, perché sapeva di star pagando il prezzo del tremendo peccato commesso in passato.

Ho promesso di amarti per l’eternità, mentre adesso io…

Neanche il tempo di formulare quello spaventoso pensiero, che la ragazza vide un guizzo rosso balenarle davanti, a malapena visibile fra le fessure delle sue dita sottili. Un momento di sorpresa, un battito di cuore, ed ecco che il luogotenente Murray era riuscito a raggiungerla e l’aveva attirata a sé con l’urgenza disperata di un uomo senza più alcuna speranza.

“Sei tu che devi scusarmi, Saffie” bisbigliò Earl sulla nuca della ragazza, stringendola fra le braccia e dandosi contemporaneamente dello stupido incauto: aveva commesso un grave errore nel trattenersi a casa Zuimaco quel giorno e, soprattutto, nel seguire la Duchessina in giardino; come aveva potuto pensare di trovarsi di fronte allo stesso allegro e spensierato passerotto di cinque anni prima?

Lo aveva notato fin dall’inizio, l’abisso profondo nei suoi occhi.

Saffie affondò il viso tra le pieghe della divisa scarlatta di Murray e si lasciò cadere contro di lui, incapace di credere ch’egli fosse concretamente lì ad abbracciarla e che, sopra ogni cosa, non la detestasse con tutta la sua anima; che non le serbasse rancore per essersi arresa così facilmente alla volontà di suo padre, per non aver lottato in difesa del loro impossibile amore.

“Sono stata così stupida.”

Ma Earl non la conosce, né la conoscerà mai, la falsa scelta che hai compiuto.

“Continui ad addossarti le colpe di Alastair Lynwood, vedo” commentò in maniera vaga Earl, mantenendo comunque un tono di voce morbido, rassicurante. “Di nuovo, non ho alcun diritto di toccarti, ma non ho mai sopportato vederti piangere.”

Due iridi liquide e sorprese si alzarono su di lui e la ragazza inquadrò le labbra del luogotenente aprirsi in un sorriso tanto malinconico, quanto gentile. “Il tuo viso è fatto per l’allegria e non per le lacrime, Saffie.”

“Me lo dicevi spesso, un tempo” gli rispose a bassa voce l’interessata, increspando a sua volta la bocca all’insù, lasciandosi sfuggire una sfumatura di nostalgico divertimento arrivata da chissà dove. “A quanto pare non ho ancora imparato la lezione, perché avrei voluto incontrarti e sorridere.”

"Mi stai sorridendo adesso" fece Murray, gli occhi neri inchiodati sull'espressione stravolta della Duchessina; portò una mano sulla sua guancia arrossata e asciugò un'ultima lacrima solitaria, prima di aggiungere: "Ho temuto per lungo tempo l'ira che tuo padre avrebbe potuto riversare su di te, ma ora vedo che non è riuscito a plasmarti tanto quanto desiderava. È un sollievo."

Non è vero. Posso lottare all’infinito, ma rimarrò sempre la figlia che ha ereditato la sua meschinità.

Eppure, Saffie fu grata a Earl per le sue parole dal sapore dolceamaro poiché, malgrado la vita li avesse cambiati entrambi, egli restava la persona con cui le veniva sorprendentemente naturale essere sé stessa, il ragazzo timido e generoso che accettava ogni suo isterico capriccio e con cui poteva crollare in pezzi anche a distanza di cinque anni, perché la conosceva forse meglio di chiunque altro.

Una fitta fastidiosa punzecchiò il cuore della ragazza che, abbassando lo sguardo offuscato, considerò come invece fosse stato difficile avvicinarsi ad Arthur in quei mesi e quanto dolore le avesse infine provocato farlo.

Ma qualcosa in te è cambiato, non è così?

Non solo in lei.

A conferma della sua tesi, la presa del luogotenente Murray si allentò lentamente e l'uomo fece leva sulle braccia, allontanandola da lui con una strana cautela. "L'Inghilterra ora è lontana, Saffie. Lui è lontano. E Worth...cioè, il Generale Implacabile non è un uomo che ami passare il suo tempo in compagnia delle donne, men che meno quindi si diletta nel maltrattarle."

"Pensi di poter esser felice a Kingston?"

Sì, questo è vero. Ormai non si contano più, le volte in cui mi ha salvata.

La pulsante fitta attraversò per la seconda volta il suo cuore esausto, diventando forte tanto quanto il bruciante sentimento che lei aveva deciso di rifiutare, di non vedere.

"Earl...tu già lo conoscevi quindi, l'Ammiraglio?" chiese la Duchessina di Lynwood, cercando di ignorare senza successo ciò che veramente le stava passando per la testa.

Seppe di averci preso nello medesimo istante in cui un rossore imbarazzato si impossessò del volto dell'uomo che, in modo piuttosto goffo, voltò la testa rubina in direzione degli arbusti di ibisco in fiore e li fissò con uno strano sguardo assorto. "Non credo esista persona alcuna nell'Impero che non conosca il suo nome, in realtà" le rispose Murray, enigmatico, prima di riportare le iridi sulla ragazza e dire, cambiando completamente tono di voce: "Ma è stata comunque una sorpresa per tutti, visto che si dava per certo egli sposasse la futura Lady Chamberlain".

Credevi di essere stata l'unica donna che la sua insaziabile fame ha consumato?

L'ennesimo spasmo doloroso, e al suo turbamento si aggiunse la gelosia, nuovo detestato veleno.

Saffie scosse la chioma castana, in un vago cenno di diniego. "Mio padre e il signor Simeon Worthington hanno stretto un accordo matrimoniale diversi anni fa; ovviamente, non potevamo sottrarcene" fece, risparmiando a Earl le tristi circostanze da cui quel contratto aveva preso vita.

Con il senno di poi, anche Arthur non ha potuto compiere una vera e propria scelta.

"Cielo, sicuramente devi avergli dato parecchio filo da torcere" si fece sentire il commento divertito del luogotenente Murray, che si lasciò andare in un lungo sospiro; il suo viso da ragazzino impacciato fu attraversato da un'allegria fugace e Saffie lo capì con chiarezza, cosa esattamente era mutato.

Earl la guardava con gli occhi di un uomo che l'aveva ormai dimenticata.

Un fulmine a cielo sereno si abbatté su di lei, attraversandola da parte a parte e deflagrando dentro alla sua mente, vincendo qualsiasi resistenza. Infine, quel pensiero – quella consapevolezza – esplose nella sua anima trafitta e la ragazza non poté continuare a voltarsi ciecamente dall'altra parte.

Non è più Murray, l'uomo di cui sei innamorata per davvero.

"No" si disse Saffie, cercando disperatamente di porre un freno ai sentimenti che traboccavano in lei. "Non pensarci. Non è vero...non sarà mai vero."

Oh, ma lo sai già da parecchio tempo di aver lasciato il cuore fra le mani di colui che ha chiuso a chiave la tua bella gabbia fatta d'oro.

È infine questo, il vero confine che eri terrorizzata di poter superare.

Da qualche parte, il benedetto canto di un misterioso volatile la riscosse dal suo abisso e la ragazza si ricordò di essere una ricca aristocratica sposata, di doversi comportare come tale; di smettere i piagnistei di cui sua madre si sarebbe vergognata oltre misura. Doveva sorridere, perché sia Amandine che Earl erano sempre stati felici, quando lo faceva.

"No-non mi hai detto ancora nulla di questa divisa, piuttosto" cominciò allora Saffie, incerta, sforzandosi di far apparire un'espressione di tranquilla pacatezza; cosa comunque non facile, vista la crisi isterica sfiorata poco prima.

"Oh, è una storia piuttosto, come dire, complicata."

Entrambi si allontanarono definitivamente l'uno dall'altra e fecero un passo indietro che seppe di addio.

"Ora sono ancora più curiosa di sentirla! Earl, lo sai bene che adoro le complicazioni!"

I due si avviarono nuovamente lungo il sentiero di ghiaia, camminando in direzione della Zuimaco dove – beatamente inconsapevoli – gli ospiti continuavano a chiacchierare in salotto, ben visibili dietro alle vetrate luminose. Solo Keeran vide tornare il luogotenente e la signora Worthington; e lo sguardo della domestica tradì una certa perplessità, poiché entrambi non le parvero le stesse persone che aveva veduto andare via un'ora prima.

"Direi che ci sarà il tempo per i racconti, signora" disse la sua Murray, tornato ora a un registro più formale, visto che si stavano avvicinando alla casa. "D'altronde io e i miei uomini siamo preposti alla sicurezza vostra e del vostro seguito."

Un paio di occhi castani saettarono su Earl Murray, per poi tornare sulle murature bianche della Zuimaco. "È stato mio marito ad affidarvi questo compito?" chiese incolore, quasi si stesse parlando del clima tropicale e non di un passato rovinato dalla crudeltà di due famiglie potenti.

“Questo significa essere me. Tu non puoi comprendere.”

Perché più il tempo passa, meno mi sembra di conoscere di te?

Saffie si portò le mani sul petto e strinse il tessuto della sua ricca veste di seta, aggrappandosi alle arricciature di pizzo della scollatura come se ne andasse della sua stessa vita. Non si accorse che la fronte pallida del luogotenente si era imperlata di un bizzarro sudore freddo, né che quest’ultimo aveva serrato nervosamente le labbra ma, d’altro canto, nemmeno l’uomo pareva aver fatto troppo caso al turbamento della Duchessina.

“Beh, ecco – a essere sinceri – non oserei dire che sia andata propriamente in questa maniera” asserì Earl, sfoderando un sorrisetto piuttosto gelido.

Il chiacchiericcio sereno proveniente dalla dimora padronale era ormai perfettamente udibile e distinto: il tempo del confronto con l’enorme demone generato dalle scelte di Alastair Lynwood era giunto a conclusione, ma Saffie non seppe dire se ne era uscita più sollevata o distrutta.

Dedicò un’ultima occhiata perplessa all’uomo al suo fianco e gli lesse nel volto un’indecisione timorosa che non poteva lasciare dubbio alcuno: pure Earl, infine, sembrava avere una sua verità taciuta; una realtà che non voleva comunicarle e di cui pareva essere seriamente impaurito.

Lo so. Conosco molto bene l’espressione dolorosa di chi è costretto a nascondere qualcosa.

L’immagine di una schiena muscolosa e piena di oscene cicatrici si formò nella sua mente a tradimento, lacerando qualsiasi pensiero. Saffie si detestò a morte, perché era diventato sempre e solo lui, il cardine attorno al quale continuava a volare morbosamente, la gabbia contro cui sbatteva testardamente le ali sporche di sangue.

Il nero abisso che desiderava conquistare. Comprendere.


§


L’idea di lei era un soffocante pensiero che riempiva tutta la stanza. Ossessivo. Doloroso.

“Non intendo consultarvi su niente del genere” ghiacciò i presenti la voce mortalmente seria di un Arthur Worthington seduto capotavola, dietro un fascio di carte usurate dal tempo, stropicciate. “La situazione di Kingston richiede la mia supervisione ed è una priorità, visto che è sotto il mio diretto comando. La decisione è ormai presa, Ammiraglio Aubrey.”

L’interessato si irrigidì leggermente sul posto e i suoi occhi azzurri tradirono per un fugace secondo un disappunto che però egli fu bravo a nascondere prontamente, trincerandosi dietro una facciata da gentiluomo impassibile. “Non vi ho mai chiesto di prendere una decisione su due piedi, né di abbandonare questa ricca cittadina e salpare domani stesso” chiarì poi l’uomo, incrociando le mani dietro la schiena e dedicando al Generale Implacabile uno sguardo distaccato, distante. “Sto solo dicendovi di considerare l’idea di unirvi a questa missione o, perlomeno, di prestarmi l’aiuto delle vostre navi.”

"Ho detto che la mia decisione è presa, Aubrey."

Un silenzio vibrante di tensione calò sulle teste dei pochi gentiluomini riuniti nella grande stanza: difatti, l'importante Ammiraglio al centro della discussione e Lord Chamberlain non ribatterono subito alle parole d'acciaio di Arthur, ma si limitarono a starsene in piedi ai lati del lungo tavolo in mogano, immobili come due stoccafissi.

D'altronde, non era per nulla semplice affrontare la determinazione pericolosa dell'uomo che si era guadagnato il soprannome di Generale Implacabile in così giovane età.

Davanti ai loro sguardi interdetti, Worthington sedeva con apparente tranquillità, una gamba mollemente appoggiata al ginocchio e le spalle larghe adese allo schienale della sedia; i suoi occhi verdi, però, rilucevano tanto glaciali quanto fermi, incastonati fra ribelli onde di capelli castano scuro. Fra le altre cose, considerò Stephen Aubrey, il figlio del suo vecchio amico Simeon aveva detto quelle due misere frasi senza nemmeno degnarsi di alzare la testa dal pugno chiuso che la sosteneva, quasi si stesse discutendo di frivole questioni e non di una possibile nuova guerra in arrivo.

"Non ha mai avuto un briciolo di rispetto" fu il conseguente pensiero velenoso dell'Ammiraglio più anziano, le cui mani grasse cominciarono a tremare dal nervoso. "Qualcuno dovrebbe ricordargli da quale schifoso buco dimenticato da Dio io e suo padre l'abbiamo tirato fuori."

E, per giusta misura, era stato il solo Simeon a trarne il vantaggio più grande.

"Voi cosa avete da dire in merito, Lord Richard?" chiese quindi Stephen, tirando in causa l'ometto che cercava di starsene pateticamente nascosto fra gli alti schienali delle sedie. "Fate parte del consiglio coloniale, se non erro. La vostra parola ha un peso presso il Governatore."

Ovviamente, il maledetto Worthington non batté ciglio.

"Io?" pigolò Chamberlain, stringendo le piccole mani rugose attorno al bracciolo di una sedia. "Beh, ecco...io sono solo un povero nobile che poco o nulla sa della Marina Britannica, signori! Chiedere la mia opinione! Cielo! Magari potremmo rimandare la discussione a dopo la cerimonia di insediamento del..."

"È del tutto irrilevante" tagliò corto Arthur, le iridi inchiodate sul volto rubicondo dell'Ufficiale suo pari grado. "La Corona mi ha dato piena libertà decisionale sulle navi della mia flotta e – ve lo ripeto – Kingston è ora sotto la mia tutela. Non sposterò alcun vascello né da qui, né da Port Royal, solo perché avete creduto a delle voci di strada."

"Dannato marmocchio" pensò di getto Stephen, prima di perdere il controllo e abbattere due mani enormi sulla superficie del tavolo, provocando un suono roboante.

Era dunque questo il ringraziamento per averlo strappato via dalle mani di un mostro?

“Badate bene, Worthington!” latrò infine, con le vene del collo gonfie e ben visibili attraverso la pelle sudaticcia. “La pace con la Spagna è precaria e se ci sarà un attacco francese alle forze stanziate nella mia città, sarete voi a esserne chiamato responsabile!”

“È una minaccia, questa?”

Il tono di voce usato dal Generale Implacabile era mutato subito, nel giro di un battito di ciglia, e Stephen non si rese nemmeno conto della subitanea paura che gli si insinuò nel cuore a tradimento. L’uomo poté solo fare un pesante passo indietro, un istintivo gesto di autodifesa, nel vedere la figura imponente di Arthur alzarsi in piedi lentamente e dominare su tutti loro, quasi egli fosse un predatore apparso all’improvviso nell’erba alta; uno spasmo bizzarro agguantò il suo stomaco, poiché – del tutto assurdamente – Stephen ricordò il bambino coperto di sangue che già si era macchiato di omicidio.

“I miei informatori in Giamaica rivelano movimenti sospetti, ma niente che possa giustificare lo spiegamento massiccio di forze militari. Non vogliamo provocare la Francia e dare loro una buona motivazione, non è così?” continuò come se nulla fosse Arthur, sfoderando un’espressione di chiaro scetticismo che fece venir voglia al Generale più anziano di passarlo a fil di spada all’istante. “Verrò in vostro aiuto se le circostanze lo richiederanno, Aubrey; ma fino ad allora non indebolirò il mio insediamento per inseguire l’aria.”

Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, il silenzio adombrò la stanza e Chamberlain spostò gli occhi intimoriti tra i due contendenti, pregando il colloquio potesse trovare presto conclusione: il Lord non trovava difatti alcun interesse nel discutere di conflitti armati e possibili morti di innocenti; certo, erano ovviamente accadimenti terribili, ma lui era un uomo cresciuto fra i fasti della Corte Reale inglese ed era più a suo agio nel discutere dell’organizzazione di un ballo, che di una battaglia. Insomma, aveva chiesto di essere ricevuto dall’Ammiraglio Worthington per parlargli della ricca cerimonia in onore del suo nuovo ruolo, ed ecco che Aubrey gli rompeva le uova nel paniere!

I due Generali erano ignari dello sciocco turbamento di Lord Richard ma, pure se non lo fossero stati, non gli avrebbero dedicato nemmeno mezzo pensiero. Arthur, dal canto suo, sapeva di aver il coltello dalla parte del manico e attendeva che l’altro si arrendesse perché, c’era da starne certi, l’avrebbe fatto eccome.

Sei solo un sassolino sul bordo della strada. Non mi dirai cosa fare.

Anche Stephen sembrava aver compreso i ragionamenti taciuti di Worthington e, forte di questo, le sue labbra carnose si aprirono in un sorrisetto cortese, di una falsità visibile a un chilometro di distanza. “Ne hai fatta di strada, ragazzo” commentò, all’apparenza soave, ma godendosi immensamente la sorpresa che si fece strada sul volto virile dell’uomo davanti a lui. “Simeon ha compiuto un lavoro eccellente, c’è da ammetterlo. Chi l’avrebbe mai detto che saresti diventato uno degli uomini più ricchi e temuti dell’Impero, quando è il fango, la realtà da cui ti abbiamo risollevato?”

Continuiamo, dunque! Sto per farti tanto di quel male che vorrai solo crepare, marmocchio.”

“Ora sono io che vi consiglio di porre attenzione alle vostre prossime parole” lo avvisò Arthur in un tono a dir poco osceno, da diavolo incollerito. La sua espressione mutò in un ghigno crudele e freddo, gli occhi smeraldini splendevano di un rancore cristallino, tagliente; ed egli si fece vicino ad Aubrey scostando al contempo un lembo del suo cappotto blu scuro, da dove quest’ultimo intravide il luccichio inquietante di una spada argentata. “Perché state attraversando un confine dal quale non c’è ritorno.”

Che tutti siano maledetti da questo mio odio profondo, incorruttibile.

“Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

La voce preoccupata della ragazzina fu solamente un eco nella sua testa ma, ugualmente, ebbe l’effetto di sconvolgerlo in meno di un baleno: un bruciante e odioso sentimento si propagò dentro al suo animo oscuro, torcendogli il cuore. Si trattava – figurarsi – di una sensazione a lui del tutto nuova, ignota.

E dire che erano passate quasi due settimane dal loro arrivo in città.

Perché diavolo non riesco a smettere di pensare a lei?

Non era di certo la prima volta che voltava le spalle a una donna e spariva senza fornire troppe spiegazioni, visto che non aveva mai concesso né seconde notti, né permesso che qualcuna delle sue amanti occasionali diventasse più di un semplice sfogo; non che queste ultime non fossero consapevoli del suo inesistente coinvolgimento sentimentale ma, ovviamente, era toccato a Saffie Lynwood l’onore di stravolgere le cose.

L’odiata moglie con cui aveva ingaggiato battaglia nei mesi precedenti era diventata l’unica donna temuta da Arthur, proprio perché egli sentiva, in cuor suo, di desiderarla per ragioni che andavano al di là del mero e gretto possesso. Ragioni che, a quanto sembrava, gli rendevano impossibile persino lasciarla indietro, dimenticarla.

Anzi, più le sei lontano, più questa sofferenza ignota ti divora, Arthur.

“Ohi, ohi! Parola mia, non intendo di certo provocare un duello!” interruppe il suo flusso di pensieri la voce ora beffarda del vecchio Ammiraglio Aubrey, che alzò le grosse braccia davanti a sé, quasi volesse difendersi da un attacco. “Persino io so di essere impotente, contro la spada che ha decimato i ranghi del disgustoso He...”

Una voragine si aprì nel pavimento e Worthington pensò di venire inghiottito dall’abisso.

“Oh, ti arrenderai e imparerai a temere il mio nome, piccolo Arty.”

Il Generale Implacabile stava per fare un passo in avanti e afferrare per il collo taurino lo scellerato essere che evidentemente si era stancato di vivere una vita da ricco Ufficiale ma, per la fortuna degli astanti, fu l’ingresso di un Henry Inrving sorridente a mandare all’aria sia i sanguinosi piani di Arthur che la tensione nella stanza. “Davvero, oggi è stata senz’altro una giornata impegnativa giù al porto!” commentò l’uomo in tono bonario, varcando la soglia della camera dopo aver bussato mezza volta. “Mi avete mandato a chiamare, Ammiraglio Wor…”

Il Capitano dell’Atlantic Stinger si bloccò alla vista della scena, soffermandosi appena sulla minuscola figura di Lord Chamberlain, trincerato dietro il tavolo, ma bensì concentrando lo sguardo sui due gentiluomini più vicini alla porta, intenti a guardarsi con il rancore fermo di due cani pronti ad azzannarsi a vicenda; le iridi smeraldine di Arthur, poi, erano di una rabbia impossibile sostenere.

“Ah, caro Henry!” latrò Stephen, spezzando il silenzio e allontanandosi prudentemente dalla sagoma minacciosa di un Ammiraglio Worthington pronto a uccidere. “Mi stavo giusto chiedendo se sarei riuscito a salutarvi prima della mia partenza, pure se – ahimè – direi che dovrete portare alla vostra esotica donna i miei omaggi.”

Un’espressione anomala, costituita di gelida cortesia, si dipinse sul viso del nuovo venuto. “Forse volevate dire La signora Inrving, ammiraglio” fece Henry monocorde, per poi trovarsi a pensare: “Aubrey. Ora mi spiego perché il nervosismo in questa sala si taglia con un coltello.”

E perché Worthington abbia a malapena il controllo su di sé.

“Giusto, giusto: avete fatto di una discendente dei Taino vostra moglie. Il suo popolo è quasi del tutto estinto, non è così?” ironizzò crudelmente l’Alto Ufficiale, forte della sua superiorità di rango. Si portò sull’uscio della stanza in pochi pesanti passi e poggiò la mano sulla spalla del Capitano, quasi i due fossero amici di vecchia data. “Il futuro! Un tempo i nostri avi hanno collaborato a massacrare quei selvaggi e ora ci mischiamo con loro, persino.”

Mostro.

Inrving non riuscì a concretizzare altra realizzazione, perché fu Arthur a parlare, salvandolo così a sua volta. “Aubrey, non rivolgetevi al Capitano Inrving, ma all’uomo che lo comanda” si levò il tono di pietra dell’Ammiraglio, che aspettò di vedere Stephen voltare la testa imparruccata nella sua direzione per aggiungere: “Volevate vedermi e avete ottenuto ciò per cui siete venuto: sarò io stesso a soccorrere le vostre navi se le circostanze lo richiederanno, ma non osate offendere me o l’onore dei miei sottoposti un’altra volta, perché il giorno che lo farete sarà quello in cui vi spedirò all’inferno.”

Un fremito di terrore nascosto attraversò i lineamenti dell’interessato. “Sboccato come sempre, ragazzo” commentò infine, sardonico. I suoi occhi azzurri guardarono per un’ultima volta il demonio che lui e Simeon avevano liberato dalle sue pesanti catene perché, se fosse stato possibile, Aubrey avrebbe scelto di tornare indietro e lasciar morire di fame il ragazzino ossuto che Il Grande Diavolo aveva reclamato come suo.

Sei stato maledetto da Dio, Arthur Worthington.

“Ricordate: se le circostanze lo richiederanno” fu il saluto enigmatico con cui l’ammiraglio Stephen si congedò dai tre signori presenti, sparendo nei corridoi della fortezza e lasciando dietro sé il tanfo di una colonia tanto forte quanto nauseabonda.

“Serpente” fece l’agitata vocina di Lord Richard, una volta che Aubrey fu fuori portata di voce. “Dico io, voler pronunciare il vero nome di quell’uomo davanti all’Ammiraglio! È stato terribilmente spiacevole e inopportuno!”

Come se nulla fosse accaduto, Arthur si voltò con il solito movimento agile e tornò a sedere a capotavola, lasciandosi cadere stancamente sull’imbottitura della sedia e portando le lunghe dita davanti agli occhi chiari, i polpastrelli tesi a sfiorare la fronte ampia. Ancora, il suo sguardo freddo sembrava perdersi dentro a un’oscurità lontana, ma sempre presente.

“...che sai solo fare del male? D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te.”

Mi sono illuso che Saffie potesse comprendere, ma ora anche lei mi vede come un mostro.

“Stephen Aubrey cerca di screditarvi, Ammiraglio. Ha sempre cercato di farlo” gli disse Henry, avvicinandosi al tavolo e intenerendosi di fronte alle fragilità nascoste del tremendo Worthington. “Oggi ha superato il limite, ma non dovete lasciare alla sue parole alcun potere.”

“La sua sola presenza nella Marina getta discredito sulla nostra professione. Inoltre, ha insultato Teresa.”

“Oh, se è per questo, io e la mia signora abbiamo dovuto affrontare ben di peggio in questi lunghi anni di matrimonio. La mia ricchezza tiene al sicuro Teresa, ma saranno sempre in tanti a non approvarci” glissò l’argomento il capitano Inrving, seppur lanciando uno sguardo significativo verso un certo Lord che – guarda caso – dimenticava puntualmente di invitarli ai suoi fastosi ricevimenti. “Per quale motivo mi avete mandato a chiamare, Ammiraglio?”

Un secondo di muto silenzio aleggiò nella stanza e a Henry parve quasi che Arthur esitasse a parlare. Alla fine, l’uomo schiuse le belle labbra sottili e chiese, in un tono impossibile da decifrare:

“Mia moglie ha tutto ciò che le serve alla Zuimaco? Le occorre qualcosa?”

Non si era degnato di alzare la testa scura, ma Inrving colse al volo la preoccupazione che le domande dell’uomo celavano: era cosa nota a tutti la lontananza che intercorreva fra quest’ultimo e la Duchessina Saffie di Lynwood; non si trattava chiaramente dei chilometri che distanziavano la casa padronale da Rockfort, ma di un freddo e rancoroso distacco.

Quasi quindici giorni erano passati da quando Worthington aveva preso possesso di Kingston, eppure l’uomo non si era recato nemmeno una volta in visita alla casa padronale dove risiedeva Saffie che, da parte sua, non aveva fatto alcuno sforzo per mettersi in contatto con il forte e, di conseguenza, con suo marito. La città più ricca dei Caraibi Inglesi era grande, ma le voci correvano in fretta; tutti, ormai, erano a conoscenza del netto rifiuto che i coniugi provavano l’uno per l’altra.

Uno strano sorrisetto stiracchiò le labbra di Inrving. “Parete preoccupato, Ammiraglio” fece Henry, per poi incassare un’occhiataccia smeraldina e aggiungere, di gran fretta: “La Duchessina non potrebbe essere meglio sistemata: passa gran parte del suo tempo nei giardini della Zuimaco e si è recata spesso in città insieme a Teresa, accompagnata ovviamente dalla scorta che le avete messo a disposizione. Devo dire che è stato un gran sollievo per me, saperla sotto la protezione del luogotenente Murray!”

Uno scatto nervoso mosse la testa scura di Arthur, che si voltò subito verso il Capitano dell’Atlantic Stinger, tradendo uno stupore che non gli era famigliare. “Come avete detto?”

“Beh, che il luogotenente e i suoi uomini scortano sovente la signora Worthington durante i suoi spostamenti, visto che è pur sempre vostra mo…”

“No” lo interruppe bruscamente l’altro, in un tono che stava cominciando ad assumere sfumature pericolose. “Parlo di Murray. Earl Murray?”

Gli occhi grigi di Henry si spalancarono leggermente ed egli si chiese il perché di quel cambiamento d’umore improvviso, quasi Aubrey fosse rientrato nella stanza e loro non se ne fossero accorti. “S-sì, Ammiraglio” gli rispose, cauto. “È un giovane veramente attento e a modo, ve lo posso assicurare. Un ottimo ragazzo. Mi ha accompagnato lui fin qui dal porto, oggi.”

“Non hai intenzione di negare, Ammiraglio, di avermi portata via dall’unico uomo che io abbia mai amato?”

Come se non avesse ogni ragione per detestarti. Ipocrita. Mostro.

Quel sentimento nuovo opprimeva il suo cuore, intossicandolo e facendogli provare una rabbia che non sapeva se rivolgere a Saffie o a sé stesso; perché l’uomo non intendeva riconoscerne il vero nome. Il solo pensarci, lo riempiva di un terrore cieco, su cui non aveva alcun controllo.

Ma la mancanza di lei brucia da morire.

Arthur non fu cosciente di essersi alzato in piedi in automatico, di aver preso congedo da Richard e Henry con una voce da vero assassino. “Incantevole. Desidero parlare con questo zelante soldato di persona” gli sembrò di aver detto, mentre guadagnava la porta a passo svelto e ignorava al contempo lo sguardo pensieroso del Capitano, che non era comunque uno sprovveduto.

“Forse farete in tempo a trovarlo vicino alle stalle” disse quest’ultimo, alzando un sopracciglio grigio.

Arthur non gli rispose nemmeno e, anzi, sparì nel corridoio sbattendo la porta dietro di sé, piantando i due gentiluomini in asso senza troppi complimenti.

Dopo un secondo di mutismo sbigottito, fu Lord Chamberlain a parlare: “Ma…dovevamo organizzare la festa di insediamento” commentò debolmente, abbassando gli occhietti tristi verso terra.


§


Earl Murray uscì tranquillamente dalla stalla dove aveva lasciato il suo fedele Grigio e fece appena in tempo a pensare di essersi meritato un buon boccale di birra schiumante, che non comprese nemmeno cosa gli piombò addosso.

I suoi occhi neri avevano colto solo un fulmine blu, mentre una forza spaventosa l’aveva spinto all’indietro e fatto barcollare fino a una trave di legno grezzo, antistante il recinto di un cavallo che aveva nitrito sonoramente, infastidito. Il luogotenente aveva allora cercato di allungare una mano diafana e afferrare l’elsa della spada ma, ovviamente, fu la voce glaciale e beffarda che udì a farlo desistere immediatamente dal suo intento.

“Guarda, guarda chi ho incontrato” scherzò Arthur Worthington, pure se il suo tono omicida non promise affatto bene. “Non eravate di stanza a Port Royal, Murray?”

L’interpellato alzò la testa rossiccia e un cipiglio piuttosto infastidito si palesò sul suo viso da ragazzino; una volta passato l’attimo di timorosa soggezione che gli aveva provocato il trovarsi davanti un a dir poco inferocito Generale Implacabile, il luogotenente poté dirsi più che altro seccato dall’agguato dell’uomo in questione. “Lo ero fino a pochi mesi fa, ma sono stato riassegnato qui prima che tornaste” gli rispose, cercando di non mettersi sulla difensiva. “Sono passati cinque anni, ammiraglio…e ancora non vi fidate di me?”

Uno strano bagliore pericoloso attraversò le iridi chiare di Arthur, prima che quest’ultimo si allontanasse di un passo da Earl e lo asciasse così respirare liberamente, senza incombere su di lui come una bestia affamata. “Certo, fiducia. Avete una bella maniera di provarmi di esserne degno.”

“Solo perché sono un plebeo, non signi…”

“È perché non mi avete avvertito di essere a Kingston, dannato ragazzo!” esplose Worthington, spazzando l’aria con un unico gesto nervoso del braccio. “Oh, ma immagino siate stato troppo impegnato a riunirvi felicemente con delle vecchie conoscenze, non è vero?!”

Non lo desidero questo sentimento opprimente. Non lo desidero e, al contempo, non riesco a liberarmene.

Con enorme rabbia, Arthur notò la sagoma alta di Earl irrigidirsi sul posto, il suo sguardo oscuro abbattersi sul pavimento pieno di paglia. “Dovevo immaginarlo” asserì il luogotenente, dopo una prima incertezza. “È chi, se non la Duchessina di Lynwood, può essere la causa di questa vostra furiosa preoccupazione? Temete io le abbia rivelato il motivo per cui sono ancora in vita?”

È questo ciò che più temo?

“Il cuore di Saffie è mio, mio soltanto.”

No, la verità è ben altra.

“Lo dirò solo una volta” fece quindi l’ammiraglio, con una voce di pietra, che non metteva repliche. Si avvicinò di nuovo a Murray e si puntellò sul recinto di legno con una mano, il volto virile stravolto da un sentimento spaventoso. “State alla larga da mia moglie.”

Dal canto suo, Earl ebbe di che stupirsi: non era un mistero il disinteresse pressoché totale del Generale per le donne, così come chiunque era a conoscenza dello sterile rapporto coniugale che lo univa alla Duchessina; la stessa Saffie non si sbottonava mai sull’argomento, evitandolo come la peste. Eppure, al luogotenente vennero in mente gli occhi combattuti e tristi con cui la ragazza gli aveva chiesto se fosse stato Worthington ad assegnargli il compito di sorvegliarla.

In un attimo, lo vide anche Earl Murray, il legame crudele che gli aveva portato via Saffie per sempre.

“Non mi avvicinerei mai alla signora Worthington nel modo che credete voi, penso lo sappiate bene” disse il luogotenente, scuotendo la chioma rosso sangue. “Inoltre, potrebbe andare a vostro vantaggio, se lei venisse a scoprire gli accadimenti di cinque anni fa.”

Arthur scrollò le ampie spalle, quasi quell’argomento non gli suscitasse altro che indifferenza. “Come se questo potesse cambiare le cose, ormai” pensò l’uomo, tentando di ignorare la fitta dolorosa che gli trapassò il cuore a tradimento.

Non posso fare a meno di questo bruciante sentimento, anche se Saffie mi odierà per sempre.

“Avete fatto un giuramento” tornò a rivolgersi a Murray, distruggendo ogni sua altra patetica opposizione attraverso un unico sguardo minaccioso. “Ergo, non le rivelerete un bel niente.”

“Come ordinate, Sua Eccellenza. Solo – permettetemi di dirvelo – siete sempre stato molto perspicace nei confronti degli altri, ma cieco quando si tratta di voi stesso” osò commentare Earl, grattandosi distrattamente la testa e arrossendo al contempo di imbarazzo, rivelandosi per l’uomo tanto impacciato quanto onesto che aveva fatto innamorare la Duchessina di Lynwood.

Arthur, tu non potrai mai essere come lui.

Una smorfia infastidita deturpò i bei lineamenti del Generale Implacabile: avrebbe preferito morire, piuttosto che ammettere ad alta voce di essere invidioso dell’uomo davanti a lui.

“E voi state ciecamente dimenticando il vostro posto, luogotenente” sbottò. “Vedete di non giocare con la mia pazienza, perché oggi non sono affatto in vena.”


§


In barba alle preoccupazioni ansiose di Lord Chamberlain, la cerimonia prevista per celebrare l'insediamento del famoso Ammiraglio Worthington ebbe infine luogo una settimana più tardi, durante una di quelle calde e serene mattinate che facevano venire voglia di rimanere a zonzo tutto il giorno.

Il cielo sopra Kingston era infatti terso, privo di qualsiasi cupa nuvola che avrebbe potuto annunciare una tempesta in arrivo e così rovinare la festa agli eccitati partecipanti. In primis Lord Richard che – ovviamente – si palesò indossando un timido justaucorps ricamato d'oro, ricco di pizzi e merlettature; il fatto che il colore della veste fosse un brillante verde acido, poi, lo fece sembrare una ranocchia velenosa, solo troppo cresciuta.

Accanto a lui, si mostrò l’altezzosa Catherine, bellissima ed elegante nel suo vestito rosa cammeo, pure se la gonna era talmente voluminosa da averle dato non poche difficoltà nell'attraversare il volto in pietra che dava accesso al cortile interno di Rockfort.

Il fortino seicentesco era stato difatti preparato di modo che potesse accogliere non solo gli Ufficiali e i soldati riunitisi per l’occasione, ma anche gli ospiti più in vista della florida cittadina commerciale: lasciando da parte i sobri addobbi, era stata chiamata a suonare l'orchestra del teatro inaugurato a Kingston l’anno precedente mentre, vero piatto forte della cerimonia, non sarebbe venuto a mancare un prelibato banchetto all’aperto.

Così, a un quarto d’ora dall’entrata in scena di Worthington, ogni partecipante aveva fatto la sua comparsa, i gentiluomini della Marina Britannica svettavano in prima fila come era richiesto che fosse e gli stessi servitori assunti per l’occasione parevano prontissimi a servir da bere. Uno stupendo quadro della grandezza raggiunta dal Generale Implacabile, se non fosse stato per l’evidente ritardo di una certa persona.

Non mancavano che quindici minuti allo squillo di trombe e Arthur già schiumava di vera e propria rabbia, messa a malapena a tacere. Osservando il suo bel volto irreprensibile e severo, nessuno avrebbe potuto dire con certezza che l’ammiraglio, in realtà, stava covando nelle viscere quintali di rancore inesploso; nemmeno lui stesso, in effetti, avrebbe immaginato che Saffie fosse intenzionata a muovergli guerra per davvero.

La versione ufficiale che venne fornita più tardi agli astanti fu uno sfortunato colpo di calore della signora Worthington, ma l’ufficiosa – che si diffuse in una notte tra i vicoli della città – disse ben altro: in verità, dalla Zuimaco era giunta una carrozza vuota, al cui interno era stato lasciato un biglietto indirizzato all’attenzione di Worthington. In due misere righe, la Duchessina di Lynwood aveva espresso la ferma volontà di non prendere parte al ricevimento e, di conseguenza, rifiutava cortesemente l’invito del marito.

Per fortuna, toccò al solo James Chapman assistere alla scena che effettivamente accadde, poiché la reazione di Arthur non fu di certo quella che ci si sarebbe aspettata da un gentiluomo del suo calibro; men che meno dall’affascinante Ammiraglio che tanti aveva ammaliato con il suo contegno elegante.

“Le ho fatto recapitare una missiva tre giorni fa, ordinandole di essere presente alla cerimonia in qualità di moglie e di futura Duchessa” ringhiò Worthington, passeggiando avanti e indietro a braccia incrociate dietro la schiena, incapace di tenere a freno il suo stesso corpo in preda all’ira. “Perché non si è ancora fatta vedere?”

Oh, odiava sentirsi in quel modo. Preda di un sentimento così ossessivo e opprimente.

“Potrebbe essere incorsa in un contrattempo, signore. Un ritardo, magari?” fu la frase di un poco convinto James, impegnato a inseguire la figura possente di Arthur con due ansiose iridi metalliche. “Ricordo che mia madre impiegava delle ore alla toeletta, quando doveva prepararsi per un ricevimento.”

Ovviamente, il Generale Implacabile non aveva neanche voltato la testa scura nella sua direzione. Dietro la falda del suo importante tricorno piumato, due occhi di un chiaro terrificante si alzarono di botto sul vialetto d’ingresso e l’uomo che li possedeva fece subito un violento scatto in avanti, nell’udire il suono di ruote e zoccoli che calcavano il selciato.

“La principessa ci ha finalmente degnato della sua presenza” commentò ad alta voce, il tono traboccante di un’ironia oscura, malvagia; ed era talmente fuori di sé, che non aveva pensato nemmeno a quanto fosse triste incontrare di nuovo Saffie in quella maniera, dopo aver annegato il suo tormento fra le sue braccia, condiviso una medesima sofferenza. “Per quale dannato motivo ci avete messo così tanto?”

“A-Ammiraglio, ecco…”

Il balbettio e la voce tremolante del cocchiere alla guida del mezzo non aiutarono affatto. Il cuore di Arthur saltò un battito ed egli si portò vicino alla carrozza, spalancando con decisione il portello e osservando con uno sguardo orribile i cuscini delle sedute tragicamente vuote, come se già da lontano non si fosse accorto della realtà dei fatti.

“La tua ambizione è mostruosa. Tu sei un mostro, Arthur.”

L’idea di rivedermi ti disgusta a tal punto?

Allora il suo cuore precipitò dentro a una voragine immensa, un abisso fatto di sensi di colpa e sentimenti tanto contrastanti quanto crudeli, gli stessi che con tanta forza lui stava continuando a respingere, a voler dimenticare. Sì, pensò, tanto valeva comportarsi come il mostro che lei lo aveva accusato di essere, piuttosto che continuare a soffrire in quel modo nuovo, mai sperimentato prima.

Il biglietto lasciato dalla piccola strega venne letto in due secondi netti, caratterizzati da un glaciale silenzio:

“Ho detto che sarei rimasta vostra moglie, non la vostra schiava. Non sarò mai l’ennesimo trofeo che tanto desiderate mostrare al mondo intero, Ammiraglio.”

No, tu sei l’insopportabile crepa sulla superficie liscia dello specchio.

Un’ira immensa, incontrollabile, esplose infine dentro al suo animo a pezzi ed egli perse del tutto il controllo. Arthur sbatté la portiera con una violenza inaudita, facendo tremare i vetri dei finestrini e sobbalzare di paura il cocchiere ancora alle redini dei cavalli; insensibile alla soggezione che stava spargendo intorno a sé, l’uomo si voltò seccamente verso Chapman e commentò, brutale: “Donna presuntuosa!”

James si era fatto pallido tutto di un colpo, presagendo – a ragione – guai all’orizzonte. “Signore?”

“La mia amata consorte vuole fare l’impertinente, ma pagherà cara questa sua provocazione” disse Worthington, incamminandosi a larghi passi spediti verso l’interno di Rockfort, dove metà Kingston stava aspettando solo lui. “Io sono un uomo di parola, dopotutto.”

Scoppiò in questa maniera, ciò che i cittadini chiamarono La piccola guerra fra la Zuimaco e Rockfort.

Il mattino seguente la cerimonia, una tranquilla Saffie di Lynwood scese dabbasso di buon ora, pronta per la ricca colazione fatta preparare dall’inflessibile Teresa Inrving, che ormai teneva compagnia alla Duchessina praticamente cinque giorni su sette.

La signora Worthington poteva affermare di essersi svegliata di buon umore, malgrado ben sapesse di aver appena mosso in avanti la prima pedina di una pericolosa scacchiera. Aveva inizialmente pensato di partecipare al ricevimento, in realtà; questo, finché non era giunta dal forte la breve lettera con cui il Generale Implacabile le ordinava perentoriamente di essere presente nel suo ruolo di figlia del famoso Duca Alastair e di moglie, ricordandole con molto tatto quanto egli non fosse incline ad accettare alcuna disobbedienza:

“Avete deciso di vostra spontanea volontà di rimanere legata a me, per cui agghindatevi con i migliori gioielli che possedete, indossate il vostro abito più bello e mettete su la dolce facciata che tanto bene fingete. Entrambi sappiamo quanto siete brava a farlo.”

Se avesse potuto, la ragazza castana avrebbe risposto che non vi era altra opzione disponibile, tranne quella di venire rinchiusa in manicomio e cadere in disgrazia; pure se una piccola e sofferente parte di lei le aveva suggerito che ormai non si trattava più di scampare alla minaccia di suo padre.

La confusione nella sua anima era immensa, ma ben sapeva su che fondale giaceva il suo cuore.

Così, infuriata sia con sé stessa che con l’ammiraglio Worthington, Saffie aveva deciso di prendersi una minuscola e personale rivincita, comportandosi forse come una fanciulla viziata ma, davvero, godendosi un senso di trionfale soddisfazione inebriante.

“Io so-sono pronta quando volete, signora Saffie” disse Keeran, palesandosi timidamente in sala da pranzo non appena l’altra ragazza ebbe concluso la colazione e in questo modo distraendola dai suoi pensieri su un certo Arthur. “Part-partiamo subito?”

La moglie dell’Ammiraglio lanciò un’occhiata intenerita all’entusiasmo contagioso della sua dama di compagnia e sorrise, annuendo con la testa. “Immediatamente” le rispose con gentilezza, alzandosi in piedi e andandole incontro con le mani giunte leziosamente in grembo. “Ho già dato ordine di preparare una carrozza abbastanza spaziosa per noi e la signora Inrving.”

“Oh, ha deciso di recarsi giù in ci-città?”

Saffie emise un leggero sbuffo divertito, mentre provvedeva a raggiungere il cortile insieme a Keeran. “Ha detto che se il suo impegnato Capitano non viene da lei, allora sarà lei ad andare dal suo Capitano” ridacchiò infine, ormai abituata al carattere a dir poco adamantino della donna di colore. “Inoltre, quale migliore guida per noi, amica mia? Oggi finalmente visiteremo la scuola che Teresa ha collaborato a fondare l’anno scorso, grazie alla generosità di suo marito!”

“So-sono entrambe due persone molto buo-buone, signora” concluse l’irlandese, arrossendo di imbarazzo e chinando il capo corvino, memore dei modi paterni con cui il capitano dell’Atlantic Stinger l’aveva trattata durante la traversata in mare.

“Non potrei essere più d’accordo, Keeran. Ah! Non dimentichiamo di fermarci dal signor Goddard: oggi è il giorno in cui riceverai il tuo primo Journal, no?”

Le due dame varcarono la soglia della Zuimaco e vennero investite da una luce calda e accecante, dai versi allegri degli animali e dalla sagoma ingobbita di un vecchio domestico africano piuttosto in ansia. L’espressione serena di Saffie si disfece in un secondo e quest’ultima precedette la sua domestica, scendendo i gradini di legno bianco in tutta fretta, raggiungendo il centro di un cortile privo – in effetti – di qualsiasi tiro a quattro in attesa. Perplessa, la Duchessina domandò: “Buongiorno, Charles. Dov’è la carrozza che ho ordinato di preparare?”

Un fremito strano, ma inquietante, attraversò gli occhi neri dell’attempato servitore ed egli si inchinò profondamente, nascondendo i lineamenti impauriti del suo volto alla padrona. “Signora Worthington, sono veramente dispiaciuto, ma…ecco, a proposito delle carrozze…”

“È a causa di un guasto?” chiese ancora la ragazza castana, genuinamente confusa dal comportamento del povero Charles che, senza alcun dubbio, pareva essere in evidente difficoltà. “Se è così, sono sicura potremo stringerci e prendere una carrozza più piccola, tra le altre che ho a diposizione.”

Il domestico scosse la testa piena di corti riccioli grigi con forza, come a voler negare le parole della Duchessina. “Per voi” sillabò alla fine l’uomo, avvicinandosi a lei e porgendole una busta chiusa con mani tremanti. “È arrivata stamattina presto, mentre ancora dormivate.”

“Qual è la provenienza?”

Charles non rispose e un orribile presentimento si affacciò nella mente di Saffie che, il cuore improvvisamente furioso, ruppe il sigillo di ceralacca, dispiegando la carta di pergamena davanti ai suoi grandi occhi sbalorditi:

“Siccome non avete intenzione di muovere un dito per ottemperare ai vostri doveri matrimoniali, allora d’ora in poi non vi sposterete affatto.”

“Il padrone ha fatto portar via ogni mezzo” chiarì l’ovvio la voce bassa di un Charles imbarazzato oltre ogni dire. L’uomo si spostò da un piede all’altro nervosamente e, al contempo, il suo sguardo pieno di timore scivolò lontano dalla Duchessina perché, in realtà, egli temeva la reazione della testarda creatura che l’Ammiraglio Worthington aveva portato con sé dal Vecchio Mondo: prima che Arthur lo mettesse a capo della servitù di casa Zuimaco, Charles aveva vissuto una vita da schiavo nei possedimenti agricoli di mezza Giamaica e mai, in cinquantacinque anni di sofferenza, aveva incontrato una donna simile a Saffie di Lynwood.

Al contrario delle altre altezzose figlie dei bianchi, la giovane aveva tenuto un comportamento alquanto singolare fin dal suo primo giorno in città, presentandosi con cortesia al piccolo schieramento di domestici messole a disposizione dal marito e ordinando con gentile fermezza che nessuno la chiamasse con l’appellativo di Padrona, ma solo signora Saffie o – se proprio dovevano – signora Worthington.

Insomma, Charles poteva dire di ben conoscere il carattere orgoglioso dell’uomo che dieci anni prima gli aveva salvato la vita, quindi non fu difficile per lui indovinare la misura in cui la moglie doveva avergli dato un diavolo per capello. Pure se, aveva considerato il domestico di colore, era bizzarro intravedere una sorta di somiglianza fra la ragazza e il suo padrone.

Sono uguali, poiché i loro occhi promettono guai terribili.

E difatti, Saffie non ebbe di che deluderlo visto che, dopo un minuto di attonito silenzio, ella si voltò indietro, piantando le sue meravigliose iridi castane sulla signorina Byrne, rigidamente in attesa come una statua scolpita nel marmo. “Hai sentito, Keeran?” domandò in maniera palesemente retorica la Duchessina, aprendo con uno scatto pieno di sdegno il suo ventaglio colorato. “Sembra che il mio tanto ammirato marito abbia voluto usare il suo potere per tagliarmi fuori dal mondo.”

“Po-potremo mandare un se-servitore a prendere una carrozza a nolo, magari?”

“Sarò onorato di recarmi fino in città a piedi” si propose con slancio Charles, quasi dovesse farsi perdonare il colpo basso di Arthur. “È meno strada di quanto si pensi, anche se è il caldo a rappresentare una vera difficoltà.”

Dal canto suo, la moglie di Worthington ascoltò le parole dei due chiusa in un mutismo pensoso, distante; dentro al suo cuore si contorcevano due sentimenti fin troppo chiari, ma in lotta fra loro. I denti bianchi della ragazza affondarono nella morbida carne del labbro inferiore ed ella pensò che, ancora, quel doloroso senso di vuoto non accennava ad abbandonarla; così come non riusciva a mettere da parte la rabbia per essere stata tradita da colui con cui aveva creduto di condividere una identica sofferenza.

Avrei voluto mi parlassi dell’altro passato. Di te. Invece non hai nemmeno provato a risalire l'abisso in cui ormai sei rinchiuso per tua sola volontà. Hai scelto di continuare a mentire e così condannarci entrambi.

L’attenzione di Saffie fu catturata da un movimento dietro le spalle larghe di Keeran e il suo visino grazioso inseguì distrattamente la figura minuta di una servetta africana, intenta ad attraversare il cortile con uno strabordante cesto del bucato stretto fra le braccia.

Non so che fare, di questo sentimento che mi mangia l’anima, morboso e terribile.

Un sorrisetto combinaguai si dipinse su un’espressione di intelligenza vivace, di immaginazione fin troppo accesa. “Charles” chiamò infine la ragazza, gli occhi assorti nella contemplazione del misero quanto leggero vestito di cotone della giovane domestica che – a una prima occhiata – giudicò avere le sue stesse misure. “Ci sarà un cambio di programma. Ho deciso che la gita di stamattina si trasformerà in una bella camminata.”

Il servo preso in causa chiuse per un attimo le palpebre e si disse che avrebbe dovuto aspettarsi una cosa del genere dalla moglie del Generale Implacabile, l’irriverente e ingestibile Duchessina di Lynwood.


§


Il pettegolezzo si sparse per tutta Kingston con la velocità di un fulmine. Alla stessa stregua della storia riguardante l’assenza della signora Worthington alla cerimonia dell’Ammiraglio e della conseguente vendetta di quest’ultimo, il fatto che la moglie del Generale avesse preso l’abitudine di scendere in città aiutata solo dalle sue nobili gambe provocò in tutta la cittadinanza un divertimento che superò di gran lunga l’indignazione: certo, la futura Lady Chamberlain era quasi soffocata nel suo tea quando era venuta a conoscenza della cosa, ma Saffie incassò per lo più l’ammirata simpatia della gente attorno a lei.

Ora, si chiedevano tutti, quale sarebbe stata la prossima mossa dell’Implacabile?

Ovviamente, la voce arrivò alle orecchie di Arthur nel giro di due giorni netti, lasciandolo in preda a una fredda ira che aspettava solo di poter essere sfogata. Tra le vie di Kingston, in mezzo agli scaffali dei negozietti e alle bancarelle dei venditori, si mormorava che solo gli impegni urgenti dell’Ammiraglio trattenevano quest’ultimo dal prendere doverosi e dolorosi provvedimenti.

“Dio ci salvi, signora Worthington” sospirò rassegnato il luogotenente Murray, massaggiandosi la fronte con le dita diafane. “Ci protegga dalla tempesta che sta per piombare sul nostro collo.”

Un brivido sottopelle, tanto dolce quanto indesiderato, scosse in gran segreto la Duchessina di Lynwood che, con una noncurante scrollata di spalle, lanciò uno sguardo piuttosto beffardo sul suo fidanzato di un tempo. “È passata una settimana e ancora non ho visto nessuno barricare le porte della Zuimaco” commentò Saffie, alzando davanti al viso sorridente un cappellino piumato dalle vivaci tonalità verdastre. “Questo sarebbe piaciuto molto ad Amandine.”

“…perdonaci e perdona anche l’ambizione di Arthur Worthington, poiché so bene cosa accadrà quando non sarò più qui.”

Già. Sono stata io la sciocca, mentre tu avevi visto tutto.

“Mi dispiace così tanto per la sua sorte, davvero. So quanto eravate legate.”

La ragazza annuì piano, muovendo appena la testa castana, i cui capelli raccolti in un’acconciatura morbida davano l’idea che lei fosse un’affascinante popolana, e non la discendente di uno dei Ducati più antichi di Inghilterra. “Era serena, nella fine” sillabò poi, fissando le piume di pavone che adornavano il cappello con una strana intensità, tacendo in questo modo i segreti di sua sorella a Earl. Saffie sapeva che non sarebbe stato giusto rivelarli, perché avrebbe scoperchiato un’altra volta un vaso di Pandora.

Inoltre, erano passati cinque anni e lei aveva l’impressione che Murray in realtà conoscesse il detestato marito molto più di quanto aveva dato ad intendere.

I fili del legame crudele non sono spariti, perché continuano a portarmi a lui.

Saffie stava per approfittare di quel momento in cui era miracolosamente sola con il suo accompagnatore, che il campanello appeso alla porta della merceria tintinnò sonoramente e mandò all’aria i suoi piani di investigazione. Un soldato della Corona entrò nel negozio e, dopo aver salutato i presenti con un rigido cenno del capo, richiese l’immediata presenza del luogotenente Murray in strada.

“Andate pure” disse la ragazza, leggendo l’incertezza negli occhi di Earl. “Penso di potermela cavare per qualche ora pure senza la vostra diligente scorta!”

“Non ho dubbi in merito, signora. Solo, non allontanatevi dal quartiere commerciale: se vi succedesse qualcosa, Teresa non me lo perdonerebbe mai…e nemmeno io, del resto.”

Detto questo, l’uomo se ne andò insieme al suo sottoposto, lasciando Saffie sola con un leggero rossore imbarazzato. Se era vero che il suo cuore non apparteneva più a Murray, altrettanto veritiera era la gratitudine che provava nell’averlo nuovamente nella sua vita, quando invece aveva pensato suo padre l’avesse condannato a morte certa per ripagare l’affronto subito.

Saffie passò un’altra decina di minuti nel negozio, prima di decidere di proseguire nel suo giro di acquisti settimanale: d’altronde, la signora Inrving si era recata di nuovo al porto per vedere il suo elusivo marito e avrebbe dovuto aspettare sia il suo ritorno, che quello di Earl. Così, varcò la soglia della merceria, solo per venir uccisa sul posto non dalla pungente aria salmastra, ma dalla voce che aveva giurato di non voler più ascoltare.

“È stata piacevole la passeggiata, moglie?”

Una sferzata diretta al cuore avrebbe forse causato meno paura, meno dolore. La ragazza sobbalzò e voltò il visino sbalordito alla sua destra dove, appoggiato con la schiena al muro dell’edificio, stava in agguato il tanto detestato Arthur Worthington: le ampie spalle adese alla parete e le braccia incrociate sul petto tonico, l’uomo le parve un imponente monumento dalla bellezza mozzafiato. I capelli scuri si muovevano con la brezza marittima e, tra le ciocche ribelli, due iridi di un verde incredibile la fissavano in attesa di una sua risposta, immobili e fredde.

Un rossore violento, ben diverso da quello provocatole da Earl poco prima, infiammò il volto di una Saffie dal cuore impazzito. Il sentimento che da settimane giaceva dentro alla sua anima esplose in tutta la sua portata e lei dovette fare uno sforzo immane per metterlo a tacere, per rimanere coerente con la delusione rabbiosa che effettivamente provava nei confronti del Generale Implacabile.

“Oltremodo rilassante, Ammiraglio” riuscì a rispondere a tono la ragazza, inchinandosi leggermente; e alzando con apparente innocenza la veste di cotone grezzo con cui soleva scendere in città. “Devo ringraziarvi per il favore che mi avete reso.”

Gli occhi da predatore di Arthur scesero sul misero abito della Duchessina senza lasciar intendere emozioni di sorta, ma, oh, Saffie sapeva quanto l’uomo stesse in verità sforzandosi di mantenere una parvenza di contegno elegante in pubblico. Sentiva di aver mosso un’altra pedina sulla scacchiera di un gioco tanto pericoloso quanto desiderato.

Piangi i torti che ti hanno inferto, ma rimani una donna ipocrita, Saffie. Bugiarda con tutti e con te stessa.

Non volendo dare ascolto ai suoi pensieri, la ragazza interruppe il contatto visivo con il marito e gli diede le spalle, cominciando a camminare lungo la via affollata, pregando perché lui non la seguisse. Non sapeva affatto come comportarsi, ora che Arthur le rivolgeva la parola per la prima volta dopo il loro tragico ultimo incontro. Dopo che lei lo aveva chiamato mostro.

“Deve dilettarvi parecchio la compagnia di Earl Murray” fu il crudele commento di Worthington che, implacabile, cominciò a seguirla tenendosi a breve distanza; l’uomo vide la moglie irrigidirsi leggermente e fu grande il tormento provato. “Forse avete dimenticato con chi siete sposata.”

“Mentre voi dimenticate di aver promesso di non rivolgermi la parola” asserì subito Saffie, infastidita dal senso di arrogante superiorità di un Arthur che, davvero, non aveva capito un bel niente.

“Non vi devo alcuna promessa, visto che avete deciso di muovermi guerra.”

“Vedi di tenere fede alle parole che hai appena pronunciato, Duchessina; perché, lo sai, mettersi contro di me non porta vittoria alcuna.”

L’ammiraglio raggiunse Saffie ed ella poté quasi sentire il calore del suo corpo contro la schiena. “Vi siete rivelata sciocca, mia cara” la prese in giro Arthur, godendosi ogni parola pronunciata, trionfante soddisfazione di chi sta covando un’ira incontrollata.

Finalmente, la piccola strega si voltò di scatto nella sua direzione e un mare di onde castane sfuggì dall’acconciatura, andando a incorniciare un visino corrucciato, ma bellissimo. “Ah!” esclamò Saffie, senza potersi trattenere. “E voi siete un esperto di ricche donne sciocche, non è vero?”

“Ma… di cosa diavolo state parlando, ragazzina?!”

“Del fatto che non avete alcun diritto per farmi la predica sul luogotenente Earl Murray; anzi, siete l’ultimo nella posizione di poter dire alcunché! Lo sapete molto bene, no?”

Arthur si fermò di botto, tanto colpito quanto sorpreso.

Insaziabile bugiardo. L’hai sempre saputo di essere un mostro, no?

Perché la crudeltà è forza, il controllo è potere.

Dal canto suo, la Duchessina era talmente concentrata a mettere pace all’ossessivo e morboso sentimento che le aveva azzannato il cuore, da non accorgersi di starsi comportando esattamente come una preda terrorizzata. Un cervo indifeso che si mette all’angolo di sua volontà: nel disperato tentativo di sfuggire al marito, imboccò un vicolo a caso e cominciò a percorrerne le anguste ombre senza vera coscienza di sé.

Uno spasmo alla bocca dello stomaco fu tutto ciò che provò nel trovarsi il passo sbarrato da un alto steccato di legno. I lineamenti del suo volto si pietrificarono in un istante, mentre fu uno strano sudore freddo a riempirla di brividi. Era in trappola.

Neanche il tempo di rendersene conto, che la presa di una mano grande si agganciò alla sua vita sottile. Arthur non aveva più sprecato parola alcuna e, anzi, aveva approfittato dell’occasione che gli si era presentata su un piatto d’argento, catturando colei che ancora si illudeva di poter ribellarsi alla sua volontà.

Saffie si sentì tirare indietro con un unico gesto rabbioso e un piccolo urletto sorpreso le sfuggì dalle labbra, poiché la sua schiena sbatté contro l’addome tonico di Worthington che – figurarsi – non aspettò un secondo prima di attaccarla di nuovo, ingaggiare battaglia con lei: l’uomo chinò l’imponente corpo su quello della ragazza, che quasi pensò di venir inghiottita da un’alta onda di oscurità. “Questi vestiti non si addicono alla moglie di un Generale” le sussurrò una voce roca e piena d’ira all’orecchio. Le dita lunghe di Arthur scivolarono sopra il tessuto ruvido del suo abito da popolana, lasciandola in balia del disprezzo che nutriva per sé stessa: la sua collera, il suo rancore, erano lo specchio di quelli del marito, ma non sapeva che dire del bruciante desiderio che quel demonio aveva il potere di causarle solo sfiorandola.

Come se, dentro al suo cuore bugiardo, non avesse in realtà mai smesso di aspettare Arthur tornasse dal lei.

Saffie di Lynwood tremava tutta, da capo a piedi, rinchiusa fra le braccia possenti dell’uomo che l’aveva condannata all’abisso da cui non riusciva più risalire. Le dita minute premute conto i polsi di Arthur, la ragazza provò con forza patetica e troppo poca convinzione ad allontanarsi dal marito, liberarsi dall’opprimente sentimento che le stava offuscando i pensieri.

Worthington, dal canto suo, pareva avere ben altri piani. “Questi sono gli abiti di una serva” continuò imperterrito l’Ammiraglio, il tono fattosi di pietra; e quando la moglie provò a dimenarsi, lui strinse di più la sua presa, lasciando il corpo aderire alla schiena di Saffie. “Perché li state indossando?”

Oh, Arthur, non è questa, la sciocchezza che ti ha fatto perdere la testa.

“Ve l’ho già detto: non…ciò che faccio del mio tempo libero, non è affar vostro” fu il balbettio rabbioso di una Duchessina ormai in fiamme. “Il nostro è un contratto, dove non esiste alcuna clausola che ci obblighi a occuparci l’uno dell’altra.”

L’eco di quelle parole lontane, uscite direttamente dalla loro prima notte di nozze, risuonò cupamente fra le pareti di quel vicolo deserto e ricordò a entrambi la tragedia da cui ogni cosa aveva avuto inizio, il disgustoso e falso confine su cui avevano costruito quei loro sentimenti così violenti, disperati.

“Mia moglie gira per la città vestita come una domestica, coprendosi di ridicolo” disse infine Arthur, tagliente; il suo volto virile e tanto ammirato, stravolto ora dalla rabbia, scese vicino a quello arrossato di Saffie, quasi accarezzandone le guancia bollente. “Questi sono affari che mi riguardano eccome.”

Ma è un’altra, la domanda che ti sta facendo impazzire per davvero.

“Perché vi siete vestita in questa maniera?” chiese una seconda volta, prima di abbassare il capo scuro su di lei. Saffie sentì i capelli dell’uomo solleticarle il viso e un alito caldo sfiorare le sua spalla, nel medesimo attimo in cui Worthington posò le labbra sottili sul suo esile collo; egli cominciò poi a tormentarlo lentamente, baciandolo e mordendolo con la dovizia di un torturatore nato, succhiando lembi di pelle indifesa. “Per chi vi siete vestita in questa maniera?”

Le mani grandi di Arthur si allungarono sui seni della ragazza, stringendoli attraverso la morbidezza delle stoffe.

È per lui, per quel plebeo, che l’hai fatto?

Tra le acque oscure di quell’irresistibile piacere, le ultime parole dell’Ammiraglio trapassarono il cuore di Saffie come una fucilata e, con grande amarezza, lei pensò di nuovo che il maledetto marito non riuscisse a capire nulla. Fu forse questa considerazione a farle alzare leggermente la testa verso di lui, incrociando così lo sguardo cristallino e feroce di due iridi verdi, irresistibili.

“Per te” soffiò piano, trattenendosi dal sbattergli in faccia non solo il dolore, ma anche il senso di ingiustizia provato in tutti quei giorni. “L’ho fatto per sfidarti, Generale.”

Sì, sono una ipocrita perfetta perché, in fondo, una piccola parte della mia anima voleva ferirti. Costringerti ad accorgerti di me.

Oh, Arthur non aspettò un altro invito per accogliere la provocazione della moglie: in un secondo, le dita dell’uomo spinsero l’esile corpo della ragazza castana di lato, contro il muro di mattoni a neanche un metro da loro. La schiena di Saffie aderì alla parete e due occhi enormi, da cerbiatto spaventato, si alzarono di scatto sull’espressione brutale di un Ammiraglio veramente fuori di sé, consumato dal terribile buio di una fame indomabile; ferito da un sentimento nuovo che non voleva comprendere e di cui lei, la fastidiosa crepa sullo specchio, era responsabile.

Due iridi verde scuro brillarono pericolose nell’ombra dell’angusta via e i due poterono solo udire il suono emesso dai loro respiri.

Divorala, Arthur. Cancella con la forza il ricordo di Earl Murray dalla sua mente.

La vorace ambizione sussurrava idee velenose al suo orecchio, corrompendogli i pensieri. Dall’alto della sua statura, l’ammiraglio si chinò in avanti e dominò su una Saffie che non si mosse di un millimetro, come se attendesse di essere colpita a morte: in un silenzio pieno d’attesa, le mani dell’uomo si allungarono sulla mascella della ragazza, intrappolando il suo visino da preda impotente. Un brivido sottopelle, ed ecco che il pollice di Arthur premette sulle labbra della moglie, obbligandola a schiudere le labbra per lui, ad arrendersi.

Ancora, Saffie continuava a osservarlo con uno sguardo colmo della sua strana innocenza irriverente, tanto mansueta e docile che quasi al Generale Implacabile non sembra di riconoscerla. Un desiderio tremendo fulminò il basso ventre di Worthington ed egli capì che la piccola strega non gli avrebbe impedito di farla sua.

Era questo il modo in cui bensì l’avrebbe combattuto, ferendolo con la sua stessa bocca impertinente.

Entrambi, alla fine, parevano non riuscire a farne a meno.

In bilico sull’odiato confine che li portava sempre l’uno fra le braccia dell’altra, Saffie e Arthur si avvicinarono contemporaneamente, mossi da un sentimento costituito da pura disperazione desiderosa. Una forza ossessiva e crudele, che si alimentava non solo del rancore, ma pure della mancanza che i due negavano di provare.

Era quella stessa sofferenza che non volevano più riconoscere come loro, ma da cui non potevano fuggire.

Le bocche arrivarono a sfiorarsi, il respiro caldo e ansante era un invito a perdersi nell’abisso.

Pure se non ti amerà mai?

Mostro. Assassino.

All’ultimo, proprio quando Saffie credeva lui l’avrebbe baciata, l’uomo si tirò indietro con un unico gesto violento, quasi strappandosi via da lei. Neanche un secondo dopo, ella udì il rumore sordo di un pugno che veniva picchiato contro la parete di mattoni, sopra la sua tesa castana.

“Dannazione.”

Era stata solo un’imprecazione bassa e roca, ma alla Duchessina parve come se Arthur gliela avesse urlata contro.

Appoggiato con il braccio al muro, l’ammiraglio continuava a dominare sul minuto corpo della moglie, ma due iridi di un chiaro agghiacciante si sollevarono sul viso rosso di quest’ultima, tradendo il tormento di un sovrano in catene. “Perché la tua esistenza deve torturarmi così?”

“Non tentare un uomo disperato.”

Saffie non seppe dire perché il diario di Amandine le venne alla mente ma, di sicuro, poteva essere dolorosamente certa del batticuore esploso dentro al suo petto. Senza aggiungere una parola, Worthington si staccò dalla parete e lei lo vide voltarle le spalle, facendo per allontanarsi a passo lento.

“Torna a casa e togliti quei vestiti di dosso” le ordinò monocorde, non sognandosi di voltarsi nella sua direzione. “Avrai di nuovo accesso alle carrozze oggi stesso, ma fa’ che Kingston non debba vederti più in questo stato.”

Fa’ che io non ti veda più così vicina a Earl Murray…anche se, lo so, non mi sorriderai mai come sorridi a lui.

Io non posso custodire il tuo cuore, né so in che modo dovrei starti accanto.

Saffie non ribatté e Arthur stesso guadagnò la strada principale in pochi minuti, attraversando il vicoletto e letteralmente scappando dall’unica donna che poteva affermare di temere, oltre che desiderare.

In mezzo a una folla che i suoi occhi non riuscivano a riconoscere, fu un miracolo per l’uomo intravedere una carrozza a nolo, mantenere quel tanto di presenza di spirito per avvicinarsi al cocchiere e lanciargli una moneta d’oro, sibilandogli di dirigersi immediatamente a Rockfort.

“Ammiraglio Worthington!”

Dal nulla, apparve la sagoma vestita di rosso del maledetto luogotenente Murray. L’uomo si stava avvicinando a lui con la sua migliore espressione da bambino ingenuo e perplesso, ma Arthur lo bloccò subito sui suoi passi, inchiodandolo sul posto con due occhi pieni di severità brutale. “Mia moglie deve essere scortata alla Zuimaco” disse, indicando il vicoletto con un gesto rigido del braccio. “Portatela a casa subito.”

“Cosa le avete fatto?”

Non posso risalire questo abisso e raggiungerti nel paradiso luminoso che ti appartiene.

“Obbedite al mio ordine senza fiatare” asserì Worthington, glaciale. Al solito, non aspettò che l’altro gli rispondesse ma entrò dentro al tiro a quattro come se ne stesse andando della sua stessa vita; una volta che il mezzo fu partito, egli non si rilassò sulle morbide imbottiture ma, anzi, si chinò in avanti, i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa castana fra le mani tremanti.

Un tormento insopportabile infuriava dentro di lui, lasciandolo impotente di fronte al desiderio che continuava a divorarlo dentro. Una sete tremenda, insoddisfatta.

Maledizione. Sono riuscito a trattenermi a malapena.

Nei suoi pensieri comparve l’immagine del visino stravolto e adorabile della piccola strega, impegnata a fissarlo nella penombra con gli occhi grandi pieni di lacrime e di attesa. Arthur immaginò di aver premuto le dita sulle cosce accaldate della ragazza e, senza poterne fare a meno, si vide sollevarla di peso e prenderla con disperata urgenza; lì, contro il muro di una casa ignota.

Gli sembrò persino di udire distintamente i gemiti di Saffie, soffocati contro la stoffa della sua divisa blu; sentire le piccole mani della moglie aggrapparsi alla sua schiena, quasi fossero aghi penetrati nella pelle. Dolorosi. Letali.

Perché mi appartiene. È mia, solo mia.

Un’altra scarica di desiderio lo riportò alla realtà e l’uomo si riscoprì febbricitante, il cuore che gli martellava nella cassa toracica fino a fare male fisicamente.

Pure se non ti amerà mai?

Il sorriso gentile di Saffie squarciò la sua anima lussuriosa e l’ammiraglio si disprezzò immensamente.

“Ho superato il limite” sibilò a sé stesso, sottovoce. “Dovrei solo vergognarmi.”

Mi sono comportato da animale disgustoso, come il mostro che lei pensa io sia.

Non posso nemmeno essere paragonato all’uomo per cui ha abbandonato ogni cosa.

Il Generale Implacabile non avrebbe potuto immaginare che, in quello stesso momento, i sentimenti della moglie non erano poi dissimili dai suoi: quel loro ultimo incontro, lì sulla linea del confine invisibile, aveva provocato nella Duchessina di Lynwood pensieri a dir poco impuri.

Difatti, Saffie non riuscì a muovere un solo muscolo per diversi minuti, tanto l’aver avuto Arthur così vicino l’aveva fatta impazzire; infine, la ragazza si portò le dita alle labbra umide e i suoi polpastrelli premettero sulla morbida carne, provocandole una serie di brividi nascosti.

Le mani di suo marito lasciavano marchi di sofferenza e piacere che lei non desiderava dimenticare.

La schiena della signora Worthington aderì alla parete dietro di lei, mentre quest’ultima alzava il visino verso l’alto, su un cielo azzurro che non era nient’altro se non un ritaglio sottile fra gli alti tetti delle case. Si concesse un pesante sospiro, nel tentativo disperato di calmarsi e poter far ritorno alla strada principale senza far mostra di alcun vergognoso rossore, ma con la grazia che veniva richiesta a una donna del suo ceto sociale.

Il silenzio faceva da padrone al vicolo angusto e buio. Tutt’attorno, la presenza di Worthington bruciava ogni cosa.

“Perché la tua esistenza deve torturarmi così?”

Sono io, che dovrei farti una domanda del genere.

Per fortuna, venne a salvarla un Earl Murray in allarme. La ragazza vide con la coda dell’occhio la sua figura alta sbucare in lontananza, dal fascio di luce proveniente dalla strada trafficata, e continuò a guardarlo mentre si portava di tutta fretta vicino a lei, correndo.

“Saffie!” la chiamò, buttando alle ortiche qualsiasi onorifico, ansimando. “Ero così in ansia! L’Ammiraglio Worthington ti ha spaventata? Minacciata?”

Il luogotenente ebbe la sorpresa di vederla scuotere le sue lunghe onde con forza e rispondere, accennandogli un sorriso breve, dalla tristezza disarmante: “No. Solo, pensavo…non ce la faccio più”. Una singola lacrima attraversò la guancia fredda della Duchessina ed ella si portò una mano sul viso, sfregandoselo con la stessa goffaggine che avrebbe usato un bambino e cancellando così l’unica evidente traccia del suo dolore. “Sono così meschina, come sempre è stato!”

Ma non puoi continuare a mentire a te stessa, Saffie.

Sei innamorata del terribile Arthur Worthington e il tuo desiderio più grande è stare al suo fianco, essere ricambiata da lui, pure se il vostro è un passato fatto di dolore, di peccati.

Lo hai già superato da un pezzo, il confine di cui più avevi paura e, forse, nemmeno te n’eri accorta.

Di nuovo, fu la voce seria di Murray ad essere fondamentale. Il luogotenente si tirò indietro i capelli rosso sangue con una mano, mostrando alla ragazza un volto rassegnato, due oscuri occhi velati di malinconia. “Ti porterò a casa” le disse, con la solita gentilezza che scaldava il cuore. “Prima di questo, però, vorrei venissi in un posto insieme a me: ci sono delle persone che mi piacerebbe molto presentarti.”


§


“Questo è un legame più crudele di quanto potessi immaginare, perché si era nascosto nel mio cuore, facendomi credere di avermi abbandonata quando, in realtà, mai se n’era andato.





Angolo dell’Autrice:

*Se il capitolo ti è piaciuto, spero prenderai in considerazione di Votarlo e Recensirlo!*

C’era una scena, che poi non ho potuto trascrivere, in cui Teresa definiva Saffie e Arthur come due bambini ottusi e litigiosi.

Beh, credo abbia qualche ragione per affermarlo!

Buonasera! \(^u^)/

Come state? Spero vada tutto bene e che i vostri giorni siano passati serenamente, che vi siate divertiti a abbiate fatto tante cose interessanti!

Io, ahimè, sono caduta sotto i colpi del lavoro e di uno stato di salute che – a causa del caldo incessante – mi ha dato parecchie grane! (T.T) Purtroppo non sono riuscita a pubblicare entro Giugno, ma eccomi qua!

Per quanto sia stata un’odissea portarlo a termine, devo dire che la piccola guerra fra i nostri protagonisti mi ha divertito parecchio! Oh, penso che finalmente Saffie abbia ammesso con sé stessa i suoi veri sentimenti, accettandoli per quello che sono…e Arthur? Mh, non so, intravedo un percorso di crescita, ma lui è un uomo parecchio enigmatico, di difficile comprensione, non è vero?

L’unica cosa certa è che volevano saltarsi addosso! XD

A parte gli scherzi, ho deciso di rendere più “realistica”(?) l’interazione tra Murray e la protagonista: Earl e Saffie hanno consumato un amore proibito all’età di ventitré anni, per poi ritrovarsi a quasi ventotto. La vita e gli anni cambiano le persone, quindi sono anche i sentimenti a mutare.

Beh, la gelosia non manca comunque, direi? (*w*)

Vorrei ringraziare tutti coloro che continuano a seguire con pazienza la mia storia, che si prendono un po’del loro tempo per recensirla, farmi sapere cosa ne pensano e votarla! Mi fate veramente felice, sapete?

Ora, la domanda più ovvia: vi andrebbe di farmi sapere cosa ne pensate di questo Sedicesimo Capitolo? :D

Voglio provare a pubblicare entro fine Luglio! Dita incrociate!

Vi abbraccio forte, forte.

Sweet Pink


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Capitolo 18
*** Diciassettesimo. Ciò che il cuore desidera. ***


CAPITOLO DICIASSETTESIMO

CIÒ CHE IL CUORE DESIDERA





Un uomo scorretto. Ricordava di averglielo detto.

Il tocco leggero di una mano piccola e tremante scivolò sopra una pelle non più accaldata, ma ancora segnata da due fameliche labbra insaziabili. Bugiarde.

"Oh, lo sono sempre stato...ma anche tu lo sei, Duchessina."

Al di sotto di una marea d'onde castane, le dita di Saffie Lynwood continuarono ad accarezzare distrattamente il punto dove – ancora – Arthur l'aveva voluta marchiare come sua; reclamare la proprietà su di lei attraverso un comportamento possessivo che la ragazza non sapeva spiegarsi del tutto: nei mesi della loro lunga traversata in mare, l'Ammiraglio Worthington non aveva fatto altro se non respingerla e allontanarla, reagendo spesso con orgoglio incollerito ai suoi approcci testardi.

Nascondendosi e nascondendo una paura che Saffie poteva dire di aver incominciato a intravedere fra le crepe della maschera.

In fondo, a ripensarci in quel momento, la ragazza si rese conto di essere sempre stata lei a fare i primi e tragici passi in direzione del confine oltre al quale avrebbe trovato Arthur, come non aveva esitato nel guardare di volta in volta dentro a un abisso che desiderava ardentemente comprendere. Non senza un fastidioso spasmo alla bocca dello stomaco, la Duchessina ricordò d'un tratto l'avventatezza con cui era salita sul ponte di comando in piena notte, il suo essersi presentata sovente nell'ufficio del marito e, cosa più dolorosa di tutte, il fatto che era stata lei a dare il via ad ogni loro abbraccio, a trattenere l'uomo con sé quando lui l'aveva baciata per la prima volta.

Aveva con tanta determinazione stretto le mani attorno ai fili del loro legame crudele, il giorno in cui Arthur l'aveva infine fatta sua, divorata.

Ed era stato solo in seguito che gli occhi chiari di quest'ultimo avevano preso a rivolgersi a lei colmi di una gentilezza sì cauta, ma tanto dolce da farle credere di essere in un sogno; perché Worthington aveva cominciato ad avvicinarsi per primo, richiedendo sempre più spesso la sua presenza e volendola tutta per sé.

"Pensi di poter essere felice a Kingston?"

Poi, era stata di nuovo Amandine a sconvolgere ogni cosa, a far vedere loro quanto sciocchi si fossero dimostrati nel chiudere gli occhi e gettarsi a capofitto l'uno nella disperazione dell'altra: per quanto violentemente si amassero notte dopo notte, Saffie e Arthur rimanevano gli stessi di prima; bugiardi in catene, incapaci di fare i conti sia con i loro sentimenti contrastanti, che con un passato pieno di vergogna e peccato.

Infine, si erano voltati le spalle a vicenda, di nuovo in piedi sul confine tracciato dalle loro stupide paure.

Saffie spostò i luminosi occhi castani sul panorama verdeggiante e spoglio di case eleganti, mondane. Il sentiero sterrato serpeggiava in leggera salita, facendosi strada fra cespugli di Ibisco e palme da cocco intente a sfidare il cielo azzurro; la solita brezza calda soffiò dalla costa e la ragazza si girò indietro, dove l'alta figura di Earl Murray la seguiva con le braccia incrociate dietro la schiena, tenendosi a discreta e giusta distanza.

"Siamo quasi arrivati, Saffie" si azzardò a dire l’uomo con un sorrisetto indecifrabile, forte del fatto che non vi fossero orecchie indiscrete. "Non dovrai camminare ancora per molto, te lo prometto."

Il visino della Duchessina si distese in un'espressione piena di cortese tenerezza; ed ella scosse la chioma illuminata dal sole, internamente divertita di fronte al consueto atteggiamento di gentile accortezza del luogotenente che tanto aveva amato. Erano passati cinque lunghi anni, di cui lei sapeva ben poco, ma che non avevano in fondo cambiato i modi del luogotenente nei suoi confronti.

“Per chi vi siete vestita in questa maniera?”

Arthur non si era mai avvicinato a lei in quel modo spaventoso.

Cosa, dunque, poteva essere cambiato?

Quel giorno, la povera Duchessina di Lynwood aveva già ammesso con sé stessa di essere innamorata persa dell'Ammiraglio Worthington e sarebbe stata pura crudeltà pretendere dal suo cuore di accettare che – forse – pure il freddo marito poteva provare un sentimento simile.

Non importava quanto profondamente lo desiderasse.

Così, probabilmente per non dare ascolto al suo batticuore fastidioso, Saffie commentò, noncurante: "Non mi scoccia allungare questa mia bella passeggiata, Earl; anche se tutto questo mistero comincia a incuriosirmi oltremisura!"

Un'ombra di divertimento passò sopra il volto da ragazzino di Murray che, scuotendo appena la chioma rossiccia, si portò al fianco della figura minuta della Duchessina. "Se parliamo di misteri, allora nemmeno tu mi hai accennato nulla riguardo gli anni che ci hanno tenuti separati."

Le spalle della ragazza si irrigidirono subito, segno di un turbamento che al luogotenente non sfuggì. "Non hai mai chiesto" fece lei, lo sguardo assente inchiodato sul fondo della via, da dove si incominciava a intravedere una fila di case dalle dimensioni e aspetto piuttosto modeste.

Earl si portò una mano grande alla fronte, tirandosi indietro le ciocche ribelli e tradendo un goffo imbarazzo. “Saperti sposata al Generale Implacabile e venire a conoscenza della morte di tua sorella sono stati due motivi più che sufficienti a farmi tacere, ad aspettare un tuo invito.”

“Perché?”

Il debole sussurro stanco della ragazza giunse alle orecchie di un Murray dall’espressione strana, che trasmetteva nient’altro se non amara malinconia; ma l’uomo ancora sorrideva imperturbabile, proprio come aveva sempre fatto, persino nel giorno in cui aveva chiesto Saffie di lasciarlo andare.

Le sue iridi nere scivolarono sul visino della giovane donna accanto a lui mentre, attorno a loro, un panorama del tutto diverso da Hyde Park si offriva al loro sguardo: non solo una realtà diversa, tanto esotica quanto lontana dall’Inghilterra, ma bensì una vita nuova, dove il passato poteva rappresentare solo un eco flebile, a malapena esistente.

Se solo tu potessi comprenderlo per davvero, Saffie.

“Te l’ho detto, credo: lui non è riuscito a plasmarti come credeva o desiderava” iniziò a rispondere il luogotenente, abbassando il mento sul colletto nero della sua divisa rosso fiammante e così guardandosi la punta degli stivali neri. Dopo un secondo esitante, egli riprese: “Mi hai raccontato solamente di essere stata al fianco di Amandine e ora ti ritrovo qui, forse più bella e fiera del tempo in cui ci siamo detti addio”.

La porta della gabbia dorata costruita da tuo padre è spalancata davanti ai tuoi occhi e tu continui a non volerne uscire.

Un rossore improvviso fiammeggiò sulle gote leggermente abbronzate di Saffie ed ella girò la testa di scatto, i lunghissimi capelli castani che s’agitavano sul volto sorpreso, su tenere labbra schiuse.

“Non sta a me chiederti alcuna spiegazione, né pretendere il tuo dispiacere per ciò che è accaduto cinque anni fa” aggiunse Murray in tono terribilmente serio, senza accorgersi di aver inconsciamente imboccato insieme alla Duchessina il vialetto di un giardinetto piccolo, ma curato a dovere. “Non è più un mio diritto e non deve per forza essere il peso che continua a gravare sul tuo cuore, Saffie.”

“Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Alla stessa stregua dell’uomo, anche Saffie di Lynwood poteva asserire di non aver compreso appieno di aver mosso un passo davanti all’altro e di essere giunta in quel cortile modesto, su cui si ergeva un piccolo cottage che differiva totalmente dal paesaggio giamaicano circostante. “Dove…dove mi hai portato, Earl?” chiese infine la ragazza, spalancando sul luogotenente due occhi enormi, colmi di timorosa incertezza.

“A casa mia. O, per lo meno, lo è diventata da quando ci siamo trasferiti da Port Royal.”

Continui a voler rimanere seduta sul fondo della tua bella gabbia vuota, soffrendo per qualcosa che non esiste più.

Forse quel pensiero fu comune, realizzato da Earl e Saffie nello stesso istante, ma quest’ultima poteva solo accoglierlo del tutto impreparata, ammutolita dall’ennesima realizzazione dolorosa di una giornata in cui – col senno di poi – non avrebbe mai dovuto metter piede giù dal letto. Il bruciante sentimento dentro alla sua anima riprese a torturarla con maggior forza e la Duchessina chiuse le piccole mani a pugno, accorgendosi di star tremando leggermente.

Ricordava vagamente di aver pensato di poter iniziare una nuova vita insieme a Keeran, di voler ricominciare.

Ma non smetti di punire te stessa per ciò che è stato, sempre giustificando il vero carnefice.

Infine, Earl parlò:

“Vivo qui insieme a mia moglie e a una piccola peste di due anni e mezzo” furono le parole che piombarono addosso alla ragazza attonita, accompagnate da una risata tanto leggera quanto imbarazzata; ma fu solo un secondo, visto che il viso infantile e cosparso di lentiggini del luogotenente si distese ed egli le dedicò un altro sguardo oscuro, pieno di compassione. “Sei stata il mio primo amore e la mia prima grande sofferenza, la donna che custodisco nel mio cuore con cura, il cui ricordo mai è stato corrotto. Ma, sai, si tratta pur sempre di un ricordo, Saffie.”

Oh, la ragazza poteva sentirlo eccome, l’orribile sentimento dentro di lei. Lo percepiva crescere e sussurrarle all’orecchio parole che non voleva sentire, scomodi giudizi. Verità nascoste.

“Devi lasciarmi andare” aggiunse Murray, con la solita tenera onestà. “Io con te l’ho fatto già da parecchio tempo e ho costruito una nuova vita qui, insieme a Mary Anne e senza alcun rancore. Abbandona il tuo senso di colpa per un peccato che non hai commesso, perché ora le catene di Alastair Lynwood non possono raggiungerti.”

Le udiva chiaramente quelle parole malvagie e vere, che nella sua testa sovrastavano la voce morbida dell’uomo che tanto capricciosamente aveva amato.

Ipocrita donna. Tu e Arthur Worthington siete davvero uguali; rinchiusi di vostra volontà dentro abissi che per primi non desiderate risalire.

Oltre a detestarti, hai mai fatto qualcosa per perdonare te stessa?

Un grosso groppo di dolore si incastrò nella gola della ragazza ed ella si ritrovò ad affondare di nuovo i denti nella morbida carne del labbro inferiore, quasi desiderasse porre un freno al turbamento che imperversava con violenza dentro alla sua anima. Un sentimento dalla portata colossale, un pensiero terribile e spaventoso, che da settimane continuava a torturarla senza sosta…perché Saffie sapeva ciò che il suo cuore più bramava nel profondo.

Aveva superato il limite e non poteva più tornare indietro.

No. La verità stava nel fatto che non voleva affatto farlo: era esausta di mentire a sé stessa, all’Ammiraglio Worthington e a chiunque le fosse intorno; non ne poteva più di dover combattere i fantasmi di un passato forgiato dalla crudeltà di Alastair e del signor Simeon, oscurato dal senso di colpa che l’aveva plasmata fino a farla diventare una creatura colma di rancore e sofferenza. Desiderava con ogni fibra del suo essere riuscire ad ascoltare una volta per tutte le ultime parole della sua dolce Amandine e dimenticare ciò che era stato, ricominciare dal principio.

“Giuramelo. Giurami che andrai avanti e sarai libera, che non verserai più alcuna lacrima per la tua frivola e fragile sorella.”

Ho pensato di non meritarlo. Sono un’egoista, ora, a desiderare una cosa del genere?

“Voglio una nuova vita in cui potermi perdonare ed essere felice” ammise tra sé e sé Saffie, abbassando appena il capo castano, arrendendosi definitivamente all’inarrestabile forza che spingeva contro le porte della sua coscienza. “Così da lasciarmi alle spalle la gabbia e tendere una mano ad Arthur, perché io lo…”

Baba!”

Il versetto stridulo si levò nell’aria calda, stroncando a metà le considerazioni di una certa Duchessina e ovviamente spaventando a morte non solo quest’ultima, ma anche il serio luogotenente Murray. I due, ancora in piedi sull’ingresso del piccolo cortile, fecero un timido sobbalzo e voltarono le teste di scatto, come due lepri che drizzano le orecchie al primo accenno di pericolo.

“Ohibò! Pensavo fosse l’ora del pisolino, questa.”

“Baba” fece ancora la creaturina bionda, aprendo e chiudendo le manine più è più volte, le braccia grassocce tese verso un rassegnato Earl. “Ba-BA!”

A Saffie non sfuggì la sfumatura minacciosa con cui l’ultima sillaba era stata pronunciata. Inoltre, come non notare le due sottili e minuscole sopracciglia bionde che si erano prontamente aggrottate sopra uno sguardo di scocciato disappunto?

Basita, la ragazza fece in tempo a soffermarsi sulla minuscola sagoma che era trotterellata loro davanti, quando un paio di graziose mani bianche entrarono nel suo campo visivo e afferrarono con cautela il corpicino della suddetta creatura. Un urletto seccato sfuggì dalle labbra della bambina nell’esatto momento in cui il petto di Saffie fu trapassato da una fucilata di stupore.

“Combinaguai che non sei altro” soffiò una voce tenera e armoniosa, la stessa che avrebbe avuto una ninfa. “Non vedi che tuo padre sta parlando con la sua vecchia amica?

La donna era indubbiamente bellissima, tanto quanto lo era stata Amandine Lynwood. La sua figura dritta e sinuosa svettava alta contro lo sfondo della casa di mattoni scuri ma, notò la Duchessina, era la cascata di lunghi capelli biondi a renderla degna di vera attenzione: si trattava di morbidi boccoli dorati, che sembravano trattenere la luce di un viso gentile e raffinato, la brillantezza di due lucidi occhi azzurro mare. Un gioiello travestito da pietra grezza, questo era la giovane moglie del luogotenente.

La signora Murray prese in braccio la figlia e la sua gonna di cotone ruvido, sporca di fango, si agitò appena intorno ai suoi piedi. “Non pensavo saresti tornato a casa, oggi” fu il suo commento, prima di inchiodare le iridi curiose su una pietrificata Saffie, che la osservava a bocca poco rispettosamente aperta. “È lei, Earl?”

Come da copione, un rossore imbarazzato tinse le guance dell’uomo interpellato ed egli rispose, grattandosi lo scarmigliato capo rossiccio: “Si è trattato di un’improvvisata, tesoro mio. Sai bene che desideravo presentarti la moglie del Generale Implacabile”.

Sotto lo sguardo intenso e indecifrabile di Mary Anne, la consorte di Worthington si irrigidì leggermente e maledì l’ex fidanzato di un tempo per quella trovata a dir poco scomoda. Non poteva di certo dire di essere in rapporti idilliaci con Arthur, ma la ragazza castana ben sapeva quale sarebbe stata la sua reazione se quest’ultimo si fosse palesato davanti a lei insieme a Catherine Chamberlain, chiedendole con serafica tranquillità di prendere un tea in compagnia.

Sciocca! Ma a che diavolo stai pensando?

Eppure, un sorriso allegro si aprì sul volto della giovane di fronte a loro ed ebbe il potere di spazzare via qualsivoglia preoccupazione ansiosa. “Attendevo questo istante da quando siete arrivata!” commentò quest’ultima con entusiasmo, chinando la testa bionda in un gesto di profonda reverenza. “Avrei voluto farmi trovare in condizioni migliori, ma spero possiate godere comunque dell’ospitalità della nostra umile dimora.”

“Non inchinatevi davanti a me, ve ne prego” fece di getto Saffie, allungando debolmente una mano tremante in direzione della ragazza. “Voi non dovete farlo.”

Per ragioni ignote e tutte sue, la figlia di Earl rise di gusto e protese la manina paffuta in direzione della signora Worthington, la quale – ovvio – si sentì aggredire da un’altra ondata di amara tristezza.

Non prostrarti. Non tu…la donna responsabile della felicità di colui che io ho amato e a cui mio padre ha rovinato la vita.

Mary Anne si raddrizzò lentamente e lanciò al contempo uno sguardo sperduto al marito che, dal canto suo, si limitò a sospirare con pazienza. “Non possiamo trattenerci molto ma, malgrado gli ordini dell’Ammiraglio, penso vi sia il tempo per una buona tazza di tea” spiegò alla fine l’uomo, portandosi accanto alla signora Murray e prendendole dalle braccia la famosa piccola peste di due anni e mezzo. “Inoltre, ho voglia di stare un po’insieme alla mia Jane!”

“La vedresti sovente, se non passassi così tante ore a Rockfort, amore mio.”

Eh. Kingston è cambiata parecchio, da quando l’Implacabile ne ha preso il comando: pare nessuno possa più godere di un minuto libero, parola mia!”

Incorniciati dalla tenera e calda luce della Giamaica, i tre apparvero agli occhi stupiti di Saffie come fossero un dipinto tanto sacrale quanto spaventoso: la scena di un futuro che la figlia di Alastair non avrebbe mai creduto possibile si mostrava dinnanzi ai suoi occhi lucidi di emozione e colmi – finalmente – di sollievo.

Ho creduto lui ti avesse privato della possibilità di ricominciare e, invece, eccoti qui.

La riga di spesso inchiostro che la ragazza aveva tracciato sopra ai tragici avvenimenti di cinque anni prima sparì e, insieme a lei, sparirono pure il rimorso, la vergogna…i disgustosi sentimenti colpevoli di aver corrotto i ricordi di un amore vero. Puro e semplice, giovanile.

“Devi lasciarmi andare.”

“Allora, cosa ne pensate, signora Worthington?”

“Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Saffie di Lynwood rispose apertamente al sorriso un poco intimidito dei coniugi Murray, sciogliendosi in un’espressione di disarmante gentilezza. “Rimarrò con molto piacere, luogotenente. Sono contenta di poter conoscere le persone che costituiscono la vostra felicità” acconsentì, colma di gratitudine.


§


“Vi prego, guardatelo: a vederlo così, non direste mai si tratti di un Ufficiale dell’esercito imperiale di Sua Maestà.”

Le due donne voltarono il capo contemporaneamente, cogliendo alla perfezione il momento in cui il luogotenente Murray – beatamente sdraiato sull’erba del giardino in fiore – sollevò le braccia verso il cielo e con esse la piccola Jane che, ovviamente, scoppiò a ridere divertita. “Chi sa volare?” chiese l’uomo con la sua voce bonaria, i capelli rossi che si allungavano attorno al viso sorridente. “Chi sa volare? Ma è la mia bambina, ovviamente!”

Un’espressione piena di tenerezza si palesò sul visino ovale di Saffie ed ella riportò la sua attenzione sulla moglie dell’uomo, incrociando il suo sguardo con due occhi azzurri e allegri, di una limpida onestà molto simile a quella di Earl. “Sembrano divertirsi” commentò infine la ragazza castana, arrossendo di un timido imbarazzo che non le era famigliare. “E vostra figlia è davvero uno splendore.”

“Una splendida combinaguai, vorrete dire!”

Alla risata di Jane si aggiunse quella cristallina di Mary Anne e la Duchessina di Lynwood pensò che, nell’ultima ora, la felicità dei coniugi Murray non l’aveva messa a disagio nemmeno una volta; si era aspettata di trovare un’accoglienza diffidente dalla donna che il suo fidanzato di un tempo aveva sposato ma, fortunatamente, così non era stato. Anzi, la giovane aveva subito fatto entrare nella sua modesta casa la moglie del ricco Ammiraglio Worthington e, come nulla fosse, si era dedicata a preparare il tea, per poi servirlo nel giardino sul retro, dove ora le due se ne stavano sedute attorno a un piccolo tavolino in ferro battuto.

Saffie era grata di quell’occasione in cui poteva finalmente sedere e rilassarsi a dovere, lasciandosi indietro il confuso accaduto di qualche ora prima, quando lei e Arthur si erano trovati l’uno di fronte all’altra, di nuovo riconoscendo l’esistenza del loro legame crudele. Persa fra i cespugli curati di quel cortile, la ragazza sentiva quasi di essere entrata in un altro mondo, in cui poter frenare i pensieri e distendere l’animo: il sole iniziava la sua discesa verso l’orizzonte invisibile, ma una bella arietta tiepida si muoveva intorno a lei, facendole venir voglia di rimanere inchiodata alla sedia fino a sera inoltrata.

I Murray non erano né ricchi, né di nobili e antiche Casate, ma non vi era alcun dubbio che avessero trovato il loro Paradiso, nella nuova vita che avevano costruito in Giamaica.

Non sempre, dal seme della tragedia, viene generato un fiore d’odio.

“Mi dispiace la signora Inrving sia dovuta tornare a casa con una carrozza a nolo” disse Mary Anne, sorseggiando la sua bevanda con la stessa grazia di una nobildonna decaduta. “Ma sospetto Earl volesse stare un poco con Jane, oltre che presentarvi a noi; sapete, a volte è triste pensare di essersi lasciati alle spalle i propri cari per venire fin quaggiù, quando le probabilità di poterli rivedere sono pressoché inesistenti. Penso che pure voi possiate comprendere bene ciò di cui si sta parlando.”

“Ora sei una nobildonna sposata, Saffie; ma, te ne prego, non dimenticare di scrivermi sovente e farmi sapere di te, d’accordo? Aspetterò con ansia una tua lettera e…e anche a tuo padre farebbe piacere riceverne.”

Una tristezza combattuta e inopportuna, fastidiosa, pizzico le corde più intime dell’animo di Saffie e, al contempo, la portò a stringere le mani sul grembo nervosamente, di nascosto dallo sguardo attento della signora Murray. Le dita esili della Duchessina agguantarono il tovagliolo di stoffa che la ragazza aveva poggiato sulle gambe, quasi volessero farlo a brandelli; perché, nel profondo, era una tortura sapere di sentire la mancanza di persone per cui non era mai stata altro se non un prezioso investimento.

Io e Amandine abbiamo passato una vita nella speranza di essere amate da voi per le figlie che eravamo.

“Oh, quanto ci piacerebbe far conoscere nostra figlia al cugino di Earl e alla sua famiglia!” esalò Mary Anne, scuotendo con grande rassegnazione la voluminosa chioma bionda. Poggiò leziosamente la tazza sul piattino di ceramica e aggiunse: “Ma temo che sarà impossibile.”

La signora Worthington ringraziò il pragmatismo dell’altra giovane, cogliendo al volo l’occasione per allontanare i pensieri da Cordelia e Alastair e in questa maniera chiedere, forzando una serena noncuranza nel tono di voce: “William? Ho avuto modo di intravederlo in una sola occasione, ma…non sarebbe disposto a raggiungere suo cugino qui e stare insieme a voi? Da quel che ho potuto vedere nelle ultime settimane, questo è un luogo pieno di possibilità e di occasioni.”

Una smorfietta malinconica deturpò il visino perfetto di Mary Anne, ricordando a Saffie le espressioni frivole che Amandine usava spesso e volentieri. “Ha un figlio malato, purtroppo” le rispose infine la signora Murray, allungandosi di lato, in direzione di un ricco piatto di biscotti canditi. “Inoltre, da qualche anno ha trovato per puro miracolo lavoro stabile a Londra: un artigiano molto ricco di nome Gerald McCarty – o qualcosa del genere – ha inaugurato un’attività tessile nella capitale e gli affari sembrano promettere bene. Se tutto procedesse come si deve, William avrebbe assicurato un impiego non solo a sé stesso, ma anche ai suoi nipoti e bisnipoti.”

Saffie sbatté due o tre volte le palpebre e un piccolo versetto interessato sfuggì dalle sue labbra schiuse. I suoi grandi occhi spalancati se ne stavano difatti inchiodati su Mary Anne, perché le era sempre piaciuto imparare cose nuove su un mondo che non conosceva affatto; un mondo da cui il Ducato di Lynwood era lontano anni luce e che lei stessa da brava codarda aveva rifiutato, infine cedendo all’opprimente pressione di suo padre.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Con il senno degli accadimenti passati, Arthur aveva avuto ragione su ogni cosa.

“Cielo!” esclamò all’improvviso la ragazza bionda, apparentemente insensibile al mutismo cupo di una Saffie provata dagli eventi della giornata, quindi non troppo incline al solito chiacchiericcio. “Dovrete pensare che io sia una gran maleducata, signora Worthington! Un’ora di chiacchiere e non vi ho nemmeno chiesto come è stata la vostra traversata…è vero ciò che dicono le voci della città?” domandò quindi la signora Murray, chinandosi in avanti e sorridendole con irriverenza, come se si stessero scambiando chissà quale intimo segreto. “Avete impugnato la spada e sconfitto da sola non uno, ma ben due pirati.”

Non è vero, assassina?

Un brivido ghiacciato corse su per la spina dorsale della Duchessina ed ella sfoderò la sua migliore maschera di distante cortesia, sorridendo con falsa pacatezza. “Delle persone erano in pericolo e io ho fatto tutto il possibile per salvarle” disse, abbassando lo sguardo castano sulla sua tazzina vuota. “Pure se sono a conoscenza di non aver agito come ci si aspetterebbe da una donna.”

“Io penso abbiate dato prova di gran valore, invece; ed anche Earl è d’accordo con me.”

Saffie si trovò ad arrossire di nuovo e commentò, mossa da gratitudine: “Mi solleva saperlo. Vi ringrazio per le vostre parole, davvero.”

Un cenno noncurante della mano era stata la reazione di Mary Anne per il suo ringraziamento ma, al contempo, un’espressione pensosa si affacciò sul volto della ragazza in questione che, portandosi un dito sotto il mento appuntito, asserì: “Dovete aver impressionato persino il Generale Implacabile, contando quanto è famoso per il crudele sprezzo con cui tratta quella gente”. Ignorando totalmente il sussulto sorpreso che scosse le spalle minute dell’altra, la ragazza continuò: “Pover uomo! Non ha alcuna pietà, ma nessuno può dire di esserne veramente sconcertato o, perlomeno, non dopo aver saputo la storia del suo terribile rapimento.”

Quell’ultima parola echeggiò nella mente della Duchessina, che trattenne il fiato senza quasi rendersene conto. In un battito di cuore, un’orribile sensazione si propagò in lei e, come veleno, cominciò a bruciarle dentro, dolorosa. “Un…un rapimento, avete detto?” mormorò piano, la voce fattasi esile e piena di sconcerto.

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

Mary Anne si specchiò nello stupore di Saffie e sgranò gli occhi azzurri di botto, colpita dall’atteggiamento della signora Worthington. “Non può essere” commentò, facendosi leggermente indietro con la schiena. “Nessuno vi ha mai detto niente? Vostro marito non vi ha mai raccontato niente?”

Tu non puoi comprendere.”

Sì, era proprio vero. Non aveva mai capito quanto la realtà dell’abisso fosse sempre stata davanti a lei.

“Ecco, noi…lui non parla molto con me, in verità.”

La moglie di Earl osservò con grande pietà il leggero tremore nervoso che aveva iniziato a scuotere la figura minuta della Duchessina, quasi ella fosse un passerotto zuppo d’acqua. “Dicono il Generale Implacabile sia un uomo di immenso orgoglio; chissà, forse ha temuto la vostra commiserazione, la vostra pietà” provò a dire con delicatezza Mary Anne, rimanendo comunque coerente con la schietta onestà che condivideva con il luogotenente Murray. “Pure se non sono affatto segreti, i cinque anni che lui e la madre hanno passato fra le mani degli uomini capitanati dal Grande Diavolo. Si dice che quell’efferato pirata abbia inflitto all’Ammiraglio ogni sorta di crudele tortura, mentre di sua madre non si è più saputo nulla.”

Non fu l’immagine della grande cicatrice a comparire davanti alle iridi lucide di Saffie, né la schiena coperta di candidi sfregi, ma bensì il ricordo del giorno in cui il marito febbricitante l’aveva attirata e stretta a sé con forza, impedendole di allontanarsi. Abbracciandola infine con la fragilità di un bambino terrorizzato.

“Non chiamare Benjamin. Resta, ti prego. Ancora un poco.”

Perché, perché non me ne hai parlato?

Un istante atroce, un fugace attimo d’agonia, ed ecco che la realizzazione di ciò che le era stato raccontato la colpì in pieno petto, trapassandola da parte a parte; in quel secondo di tensione sospesa, fu grande la sofferenza provata da Saffie per ciò che era accaduto ad Arthur e, soprattutto, per non essere riuscita a saperlo prima. “L’ho chiamato mostro” pensò la ragazza, i pensieri colmi di disperato senso di colpa. “Mi ha salvata così tante volte e io l’ho chiamato mostro.”

A Saffie non importò di risultare una donna inopportuna e infantile agli occhi impietositi di Mary Anne. Semplicemente non riuscì a farne a meno: il suo corpo scosso da brividi di insopportabile tormento si mosse da solo e lei premette il mento sul petto, nascondendo il viso congestionato dietro una massa di capelli ondulati, cercando di non scoppiare in patetici singhiozzi.

Quali altre prove pretendo?

Un cenno, una parola, e io ti donerò tutta me stessa, perché il mio cuore è tuo, tuo soltanto.

A diversi metri da loro, Jane ed Earl ancora ridevano insieme, immersi nell’erba alta. Non era passata che una mezz’ora, ma alla Duchessina erano sembrati cent’anni almeno, tanto quella giornata era stata lunga come una vita intera.


§


Il rumore costante e secco della pendola era dannatamente fastidioso.

Nauseante, il ticchettio regolare echeggiava nella sua testa, somigliando al suono che avrebbero prodotto delle gocce di sangue nell’infrangersi sul pavimento freddo. Pareva quasi di poterle visualizzare con il pensiero, mentre si abbattevano contro la superficie pulita e tirata a lucido, sporcandola di un liquido rosso e grumoso, osceno.

“Cos’è questo? Cosa sono io per te?”

Era un brutale percorso sanguinoso, penoso da vedere, che si allungava lentamente sulle assi di legno e proseguiva fin sulle mani tese di una giovane donna tremante. Sconvolta e pallida, la ragazza l’aveva guardato poi con uno sguardo smarrito, distante; negli occhi un terrore cieco che lui non poteva fare a meno di prendere come un’accusa. Un giudizio impietoso, definitivo.

Arthur…quante persone dovrai rovinare, prima di essere soddisfatto?

Due mani grandi si strinsero subito a pugno, mentre il responsabile di quei pensieri chinò appena il ribelle capo scuro sulle missive che aveva riunito davanti a sé, per poi abbandonarle dopo una prima e superficiale lettura.

Per quanto tu voglia nasconderti tra le ombre dell’abisso, le persone che hai ucciso e coloro che hanno sofferto a causa tua sono ancora tutte dentro di te.

Un cuore oscuro batteva contro la cassa toracica, lasciando ben poco spazio all’immaginazione: di nuovo, il mostro che da una vita intera continuava a perseguitarlo si palesò nella stanza, ingombrante senso di colpa di cui non si poteva che essere disgustati. Il mostro lo osservava a fauci spalancate, arrampicato sul soffitto dell’elegante e lussuoso ufficio che lui aveva ereditato dal precedente proprietario grazie ai sanguinosi peccati di cui si era macchiato in quegli ultimi anni.

Come Earl Murray e Amandine Lynwood. Per non parlare poi di tua madre.

Saffie è solo il tuo ultimo capriccio di bambino affamato.

“No” pensò d’impulso Arthur Worthington, aggrottando le folte sopracciglia scure su due iridi limpide di un chiarore glaciale e sofferente; al contempo, fu disumano lo sforzo dell’uomo per mettere a tacere il terrore malvagio che il mostro cercava di instillare dentro di lui. “Lei è…non è come le altre volte.”

Oh?” disse la vorace creatura che abitava dentro al pozzo nero della sua coscienza, parlando con la stessa voce suadente che avrebbe avuto il dannato Grande Diavolo. “Hai già ferito il suo cuore diverse volte e lo farai ancora, perché è questa la tua natura, Arty. Ricordi cosa diceva sempre l’ammiraglio Aubrey?

Un lampo doloroso, e l’immagine di un sorriso schifato e sprezzante, cucito sopra una grassa faccia sudaticcia, si palesò davanti ai suoi occhi.

“…che sai solo fare del male? D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te.”

Qualcosa di pungente – forse gli artigli del suo fedele senso di colpa – premette sul suo petto, ostruendogli i polmoni e affaticando così il suo respiro, tanto da costringerlo a tirare violentemente indietro la sedia, che si mosse sul pavimento con uno stridio pericolosamente acuto. Insopportabile.

Le braccia tese e le dita aggrappate al bordo del tavolo, il Generale Implacabile non sembrava più l’adamantino Ufficiale che aveva trucidato le fila dei nemici dell’Impero Britannico senza battere ciglio, ma bensì un bambino impaurito, la cui battaglia con il suo personalissimo uomo nero non era destinata ad avere mai fine.

Solo che, in quella lotta infernale, Arthur non desiderava più coinvolgere Saffie di Lynwood.

Per quanto il prezzo da pagare per aver ottenuto tanto potere e denaro fosse stato lasciare il controllo a una sola parte di sé, soffocando quella che più lo rendeva vulnerabile agli occhi del mondo, Worthington non si era mai fatto troppi problemi a travolgere gli altri con quel suo carattere terribile e altrettanto volubile, freddamente inamovibile. Meglio fare del male agli altri e proteggere sé stessi, no?

Questo, finché una certa persona adorabile e testarda non aveva sconvolto la sua vita, mettendo a nudo con una facilità disarmante ogni sua debolezza e svelando una parte del vero sé, quello che tanto gelosamente custodiva dentro l’abisso. Il dannato uomo che l’aveva cresciuto era responsabile di aver creato un precipizio senza fondo, ma Arthur non avrebbe mai pensato che un giorno qualcuno avrebbe potuto scoprirne il mistero.

Rischiararne le profondità con una tiepida luce gentile, che gli faceva venir voglia di risalire. Di essere una persona diversa.

Il bisogno di possedere Saffie non era solo una febbre dovuta a una bruciante passione insoddisfatta, questo lo aveva compreso fin troppo bene: già dalla prima volta in cui si erano così disperatamente amati, l’Ammiraglio aveva preso a desiderare segretamente di poterle stare al fianco per tutta la vita; e di certo non perché erano stati obbligati da uno sterile contratto matrimoniale. Comprenderlo, nel momento in cui la ragazza gli aveva confessato di essere sua, era stata una realizzazione tra le più spaventose della sua esistenza. Perché, di certo, lui pensava di non averne alcun diritto.

Come aveva potuto essere così sciocco da credere che lei lo avrebbe perdonato per tutto il male causato?

E quando Saffie lo aveva ucciso con i suoi meravigliosi occhi pieni di lacrime, chiamandolo mostro, per l’uomo era stata forse una consolazione, un crudele sollievo, poter tornare al suo nascondiglio, alla rabbia che nutriva per tutti e per sé stesso.

Il mostro dentro alla sua coscienza corrotta sorrise, scettico. “E quale impeccabile lavoro hai svolto, finora” fece quello, agitandosi in maniera sgradevole nelle viscere di Arthur. “Avvicinarti ancora a quella donna non farà altro che renderti patetico, come un piagnucoloso bambino che pesta i piedi per avere un po’di attenzioni.”

Le belle labbra sottili di Worthington si strinsero le une contro le altre, livide come quelle di un morto. La luce aranciata delle prime ore della sera penetrò le finestre e illuminò un attraente volto di pietra, insensibile anche al panorama mozzafiato che si poteva intravedere al di là delle vetrate: una baia costituita da intrecci di vie e case dai colori vivaci, tra cui l’angusto vicolo in cui neanche due giorni prima le sue mani affamate di possesso avevano catturato il piccolo corpo di un passerotto in fuga.

Dove un limite era stato vergognosamente superato.

“Già, perché è questo ciò che in realtà è successo” si disse Arthur con stanca rassegnazione, alzando finalmente il capo castano e lasciando le sue iridi immobili vagare fin sopra il sostanzioso mucchio di lettere arrivate dall’altro capo della Giamaica. La pendola continuava il suo ticchettio incessante, ricordandogli che – rimorsi o non rimorsi – lui vestiva ancora i panni del temuto Generale Impalcabile e, in quanto tale, non poteva ovviamente permettersi di ignorare tanto a lungo le notizie fornitegli dai suoi informatori nelle ultime due settimane.

Al solo pensiero del contenuto delle missive, il respiro irregolare di Arthur si calmò subito e i battiti dolorosi del suo stesso cuore, poi, rallentarono fino a raggiungere un ritmo di quieta calma; non era nient’altro che l’ennesima maschera dietro cui aveva imparato a nascondersi in maniera eccellente, l’apparente sensazione di conforto che buttarsi a capofitto nel lavoro poteva dargli: nel profondo, l’Ammiraglio Worthington aveva deciso da diverse ore cosa sarebbe stato opportuno fare, per riuscire ad allontanare da sé il sentimento che lo riportava ossessivamente a Saffie Lynwood.

I suoi polpastrelli sfiorarono le ruvide carte spiegate di fronte a lui, soffermandosi inconsciamente sulla parola Guerra.

Non sarò mai l’uomo capace di renderla felice, ma so di non volerle fare più del male.

E di non volerne fare nemmeno a me stesso.

Arthur sollevò l’ultima lettera che la sua spia francese gli aveva frettolosamente redatto e se la portò davanti al viso esausto, tradendo al contempo una triste incertezza che non gli era famigliare. “Forse in questo modo sarai libera di ricominciare una nuova vita, piccola strega” pensò, senza volersi soffermare troppo sul peso doloroso che sembrava premere sul suo cuore a pezzi.

Man mano che il tempo passava, diventava sempre più difficile mentire a sé stessi.

Dio, mi mancherai da morire.

Il tempo di pensarlo, che la porta del suo ufficio si spalancò con rabbiosa decisione. L’ammiraglio dal canto suo non si mosse, ma i suoi occhi verdi scattarono freddamente sulla figura allampanata apparsa sulla soglia: a quanto pareva, Benjamin Rochester aveva deciso di fare irruzione nella stanza e imporgli la sua presenza senza dare avviso alcuno. Non a caso, il medico non aspettò il consenso del fratello adottivo per farsi avanti, perché guadagnò il centro della camera in due lunghi passi e gli lanciò addosso un’occhiataccia da volpe inferocita.

“Se è un colloquio con l’Implacabile che desideri, allora devi prendere appuntamento” spezzò il silenzio Arthur, nella voce un sarcasmo piuttosto glaciale. “Sono pur sempre l’uomo più impegnato della città.”

“Dimmi che non hai seriamente intenzione di farlo.”

Un breve mutismo pensoso e una leggera inarcata di sopracciglia fu tutta la soddisfazione che il signor Rochester ottenne per la sua frase sibillina. “Dovrei sapere a quale mia presunta crudeltà stai facendo riferimento, per caso?” domandò retoricamente Worthington, rilassando l’ampia schiena contro le imbottiture della sedia e incrociando le gambe con fare vago, da gatto assonnato. Il suo viso, però, venne deturpato da un ghigno piuttosto incollerito, crudele. “Sono sorpreso. Non credevo ti avrei mai visto qui, considerando quanto tempo tu e Ben passate alla Zuimaco, in compagnia della vostra nuova famiglia.”

Si parlava evidentemente della Duchessina di Lynwood e del suo seguito, ma Benjamin non seppe dire – indagando i lineamenti dell’uomo seduto di fronte a lui – a chi fosse esattamente rivolta la gelosia di Arthur. Il dottore decise di non rispondere alla provocazione che gli era stata lanciata, ma bensì avanzò in direzione della scrivania e i suoi occhi neri si ridussero a due fessure piene di sdegno, nel vedere quanto la figura possente del fratello apparisse in realtà trasandata, in disordine.

“Cristo, guardati: sei ridotto a uno straccio, Arthur. Da quanto tempo hai smesso di dormire?”

Un fremito di smarrimento attraversò le iridi chiare dell’Ammiraglio, ma esso fu prontamente seppellito sotto un abbondante strato di distante brutalità. “Direi che sono affari non più nel tuo interesse, dottore” ringhiò l’uomo, mettendo così una pietra tombale sopra all’argomento. “Perché sei venuto da me?”

Benjamin raddrizzò appena il lungo busto snello e rispose, aggiustando gli occhialetti sul naso con l’atteggiamento saccente che Worthington aveva sempre detestato: “Ho sentito che hai infine deciso di chinare la testa davanti a quello scellerato di Stephen Aubrey. Di norma, l’avrei ritenuta una cosa a dir poco ridicola, se non fosse per la persona a cui l’ho sentito dire”.

“Ah, ma certo” sillabò Arthur, aprendosi per la seconda volta in un’espressione di ironia terrificante. “Sembra che vi siate tutti guadagnati la fedeltà di un cane randagio.

“Hai visto, oppure no, che chiunque si avvicina al precipizio poi ti abbandona, Arthur?”

Non un muscolo si mosse sul volto affilato e bianco di Benjamin. “James Chapman è diventato molto amico della signorina Byrne” gli spiegò dopo poco, continuando a osservare con attenzione il volto di marmo dell’Ammiraglio Worthington. “Quel ragazzo non è mai riuscito a legare veramente con qualcuno, ma sai molto bene che morirebbe per te.”

Altri minuti di silenzio ammantarono la stanza e ai due fratelli sembrò di essere tornati ai tempi dell’infanzia, ai giorni in cui un Simeon in preda alla frustrazione decideva di rinchiuderli per ore intere dentro alla biblioteca, di modo che – volenti o nolenti – fossero obbligati a parlare e fare amicizia.

“Si reca spesso alla Zuimaco?”

“Non tanto quanto vorrebbe, in realtà.”

Uno sbuffo bizzarro sfuggì dalle labbra del Generale Implacabile, mentre quest’ultimo scuoteva la testa castana con poca convinzione. “Almeno questo faciliterà le cose” commentò poi in tono piatto. I suoi occhi verdi scivolarono lontano da quelli perplessi del fratello e si persero fuori dalla finestra, in un cielo tanto bellissimo quanto irraggiungibile. “I miei informatori confermano i sospetti di Aubrey per quanto concerne le attività ostili delle forze francesi. Non ho altra scelta se non mobilitare al più presto la maggior parte dei vascelli da guerra in mio possesso.”

Un velo di pallida tensione scese immediatamente sull’espressione indecifrabile del signor Rochester, le cui dita aggraziate si allungarono in avanti, stringendosi attorno allo schienale della poltrona che gli stava di fronte. “E… e la Corona?”

“Il Re prega perché io vada in aiuto di quell’uomo indegno del suo nome” fu la risposta sprezzante di Worthington. Una stanchezza penosa si mostrò sul volto virile e abbronzato dell’uomo; ed egli chinò appena la testa bruna di lato, trattenendo il capo con le dita, come se stesse soppesando un malinconico pensiero.

“Pensi ci sarà una guerra?”

Le iridi chiare dell’Ammiraglio inseguirono il volo libero e vivace di due giocose gabbianelle, intente a sfidare un sole rosso fuoco. “Questo non riguarderà te o Ben” soffiò infine Arthur, senza sognarsi di guardarlo in faccia. “Voi rimarrete a Kingston e così farà l’Atlantic Stinger, tenente Chapman compreso.”

Dietro la sottile montatura metallica, gli occhi color carbone di Benjamin Rochester si spalancarono di botto, al comprendere l’intrinseco significato di ciò che il Generale Implacabile gli stava comunicando. Da quando era tornato in servizio presso la Marina Britannica, il medico e suo figlio non avevano mai abbandonato il fianco dell’Ammiraglio, né James aveva accettato di imbarcarsi su altre navi che non fossero quelle dove era presente pure Arthur.

“Tu andrai, ovviamente.”

Il dottore non si era preso la briga formularla sotto forma di domanda, quella frase.

“La tua ambizione è mostruosa. Tu sei un mostro, Arthur.”

L’ombra di un freddo sorriso stiracchiò la bocca di Worthington. “Ovviamente” ripeté quest’ultimo, apparentemente insensibile al nervosismo sempre più evidente dell’uomo a poca distanza da lui. "Ho promesso di recarmi io stesso in aiuto degli uomini di Aubrey e non ho intenzione di rimangiarmi la parola data."

"Al diavolo le promesse, soprattutto quelle fatte a Stephen Aubrey!"

Dette queste colorite parole, il signor Rochester prese posto sulla poltrona e si protese in avanti, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani incrociate davanti al viso serio, mortale. "Potresti rimanere anche tu in città" asserì, cercando di ignorare la preoccupazione che, suo malgrado, aveva cominciato a metter radici nella sua anima. "Sei al comando della cittadina più florida dei Caraibi Inglesi e sei tanto ricco da poter comprare l'intero Derbyshire, se volessi. Arthur...non esiste nessun'altra grandezza da conquistare, ormai."

È il modo in cui hai proceduto per una vita intera, non è vero?

"C'è sempre qualche altra occasione che aspetta di essere afferrata a piene mani."

Worthington si voltò finalmente verso di lui e gli lanciò una profonda occhiata in tralice. "Tu mi conosci, Ben. Sai che non sono mai sodisfatto."

Questo terribile carattere che mi porta a voler possedere e possedere ancora, non può fare altro se non ferire le persone intorno a me.

Il medico chinò la testa bionda e le lunghe ciocche di capelli lisci si mossero leggere sulla sua ricca giacca di seta. "Sì, lo so bene" mormorò Benjamin, pacatamente. "Ma Amandine aveva visto qualcosa in te e in Saffie Lynwood."

Un breve sussulto sorpreso scosse Worthington e le spalline dorate della sua altolocata divisa blu rilucerono accecanti nella penombra della stanza: era in tutto e per tutto diventata una persona di grande potere, la terrorizzata creatura salvata dall’ammiraglio Simeon più di vent’anni prima; pure se al signor Rochester era sempre venuto facile scoprire il tormento annidato sotto abbondanti strati di orgoglioso sprezzo, spietato autocontrollo. Li aveva notati subito, fin dal loro primo incontro, il dolore e la rabbia che si celavano dietro gli occhi glaciali di un bambino impassibile.

"Ho letto il suo diario" confessò infine Benjamin, dopo un primo momento di incertezza. L’uomo si sfregò appena le mani delicate – da pianista mancato – e aggiunse, il tono fattosi malinconico all’improvviso: “Lo devo soprattutto alle sue parole, se oggi sono qui: malgrado ciò che è accaduto, le sei stato amico durante i mesi di malattia e, fino alla fine, lei ha conservato un ricordo pieno d’affetto nei tuoi confronti. Ha scritto che le inviavi molte lettere.”

“Forse, su di voi, mia sorella si era fatta un’idea del tutto sbagliata.”

Io… le ho voluto bene per davvero. Ma non è servito a fermare la mia sfrenata ambizione.

Il silenzio atroce che cadde fra i due parve confermare la determinazione di Arthur nel rimanere asserragliato dietro il suo miglior mutismo gelido, così da non dover proferire parola alcuna su Amandine e Saffie Lynwood, le sorelle che sentiva di aver ucciso, sebbene in modo diverso. Probabilmente l’avevano capito entrambi, ma l’uomo non desiderava rivelare apertamente a Benjamin quanto fosse stato effettivamente gretto il suo iniziale desiderio di possesso nei confronti della più giovane, soprattutto se messo a confronto con il sentimento disarmante che provava per la maggiore: l’aveva infine compresa, l’enorme differenza che intercorreva fra l’amare e il possedere qualcuno.

Perché, per la prima volta, ho desiderato essere una persona diversa, una persona che Saffie potesse amare.

“Devi dirglielo.”

Di nuovo, la voce profonda di Benjamin provocò in Arthur un brivido ghiacciato e tremendo, che gli fece irrigidire i muscoli di botto, contrarre i lineamenti di un viso stanco. Aveva colto al volo a cosa il fratello adottivo stesse facendo riferimento e, per quanto lo riguardava, la sua risposta era una sola.

“Devi essere tu stesso a dire alla signora Saffie della tua partenza” continuò Benjamin, gli occhi scuri ora inchiodati su di lui. “Prima che lo venga a sapere da qualcun altro.”

Un altro sorriso a fior di labbra, di disperato scetticismo, mutò l’espressione indifferente dell’Ammiraglio.

E per cosa, poi? Per perdere di nuovo il controllo e ferirci a vicenda?

“Lei non vuole avere niente a che fare con me, il suo malvagio e insensibile consorte” decise di ironizzare quest’ultimo, per non ascoltare la mancanza che, in realtà, era ormai una costante nella sua anima. “No, Ben. Non lo farò.”

“E pensi serva a qualcosa continuare a punirti in questa maniera? Fuggire?” lo incalzò il signor Rochester, alzando la voce vibrante di frustrazione. Il medico sporse la sua alta figura verso il Generale Implacabile e disse: “O, forse, la tua paura più grande è affrontare Saffie, perché sai che potrebbe spezzarti il cuore.”

Falla finita” sibilò Worthington, aggrottando le sopracciglia scure su due limpide iridi pericolose, brutali.

Benjamin si fece indietro, quasi accasciandosi contro lo schienale della poltrona scarlatta su cui era seduto. “Stai sbagliando ancora, Arthur. Lo so, perché Amandine non è stata la sola ad aver visto qualcosa in te e quella testarda ragazza, che ti è così simile.”

“Non è questo il motivo. Non ho alcun bisogno di scappare…Io sono tua, ormai.”

Il dolore gli si contorse forte nel cuore, provocandogli un’ondata di paura e, al contempo, di tremenda incertezza. L’immagine sorridente della piccola strega galleggiò per un attimo davanti ai suoi occhi verdi, ma fu prontamente sostituita dal ghigno crudele di Stephen Aubrey, dall’eco delle sue parole sprezzanti:

D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te. Non importa ciò che l’Ammiraglio ha fatto per ripulire il nome di tua madre dal fango, perché questo è il destino di coloro che sono stati maledetti da Dio” aveva sentenziato l’uomo, non appena un ignaro Simeon Worthington aveva fatto l’errore di lasciarli soli. “Ricordalo, marmocchio: sei solo un vergognoso figlio illegittimo.”

Assurdamente, Arthur ricordò di aver battuto forse una volta sola le ciglia, prima di essere saltato addosso al corpo gigantesco di Aubrey e avergli strappato il bastone da passeggio dalle mani. Era un bambino di undici anni appena, ma non aveva esitato un secondo a colpire l’amico di suo padre ancora e ancora, fino a incidergli sulla pelle i ricchi intarsi dell’oggetto che stringeva fra le piccole dita sporche di sangue.

Eppure, gli anni passati non avevano fatto altro che dimostrare la verità di quelle parole.


§


Al centro della piazza, un gruppetto di bambini vestiti di stracci dai colori anonimi si divertiva a rincorrere una palla scucita che, in maniera piuttosto buffa, incespicava sul terreno irregolare e sbatteva contro le strabordanti bancarelle di venditori infastiditi.

“Ehi!” chiamò un ragazzino dall’aria sveglia, allargando le braccia e pure un sorriso privo di un incisivo. “Passa qua!”

Il destinatario di quel grido divertito scosse una matassa di intricati capelli color carota, ma si preparò a calciare comunque il pallone, sfoderando un’espressione fin troppo concentrata. Dopo una breve rincorsa, il bambino calciò con forza e, un attimo dopo, ecco che un misterioso oggetto sferico sfrecciava nell’aria, per poi ricadere dritto sulla testa di un robusto donnone di mezz’età, la cui colpa era stata quella di trovarsi nei pressi del pozzo con un secchio in mano.

Tra le grida dei mercanti e le risate di scherno dei marmocchi in fuga, gli occhi ridenti di Keeran Byrne seguirono con lo sguardo la donna farsi rabbiosamente strada fra la folla; dietro di lei, un cagnolino pulcioso e magro le andava appresso, scodinzolando tutto contento.

Passata la lavandaia furibonda, il traffico della piazza si rinchiuse su sé stesso: una mescolanza di cappelli e teste dai colori più eterogenei, così come lo erano le provenienze dei cittadini della ricca Kingston. Da quando il celeberrimo Implacabile aveva preso dominio del luogo – ovvero, solo un mese – già si potevano contare i risultati della sua inflessibile gestione; primo fra tutti il maggior numero di pattuglie di soldati della Corona, che setacciavano le strade ed erano pronte a intervenire al minimo cenno di disordini. In generale, uno stato di quiete e sicurezza regnava nelle ultime settimane e in Kingston, grande colonia dove più nuclei culturali si trovavano a vivere a stretto contatto.

La dama di compagnia della signora Worthington non ci pensò troppo su e, al contrario, abbassò lo sguardo sulle sue ginocchia tornite, ritornando a dare interesse al bel diario rilegato di cui Saffie le aveva fatto dono: il quaderno se ne stava ancora aperto davanti al suo sorrisetto ebete, in attesa che lei stringesse fra le dita il pezzo di carboncino e finisse l’abbozzo cominciato dieci minuti prima; l’immagine sfumata di due allegri bambini della plebe, il suo capolavoro per sempre incompiuto.

Certo, pensò l’irlandese, la signora le aveva regalato un diario perché continuasse a esercitarsi con la scrittura ma, doveva ammettere, le stava piacendo molto immortalare su carta le bellezze che la sua nuova vita aveva da offrirle. Il suo cuore desiderava timidamente, quasi di nascosto, di poter continuare a sorprendersi di un’esistenza che lei aveva creduto proibita.

Ci hanno sempre detto che gli illegittimi sono delle maledizioni di Dio, nati per portare disgrazia e vergogna.

Il ricordo della vecchia istitutrice che gestiva l’orfanotrofio in cui era cresciuta irruppe nella sua mente con l’intenzione di sconvolgerla, ma Keeran prese un bel respiro e levò il grazioso nasino all’insù, dondolando appena le gambe incrociate sotto al suo abbondante strato di gonne. “Eppure, ho incontrato solo amore da quando Saffie mi ha presa con sé.”

Mio padre mi ha ripudiata, ma per la prima volta sento di appartenere a una vera famiglia.

Seduta in disparte sul muretto sbeccato di un vecchio portico, la signorina Byrne non era pienamente consapevole degli sguardi maliziosi e ammirati degli uomini attorno a lei. In fondo, Saffie stessa non sarebbe stata molto d’accordo nel saperla lì da sola, persa fra il marasma del quartiere al limitare della città, non propriamente conosciuto per i suoi personaggi affidabili; eppure, Keeran aveva rischiato molto nel chiederle un giorno libero per poter sgattaiolare fino a quella piazza gremita di gente.

“Perdonatemi, signora” pensò la diciassettenne, incupendosi un poco. “Ma è per voi sola che sono giunta fin qui.”

La ragazza mora non fece in tempo a pensare ad altro, perché la voce lasciva e soffice di un uomo di mezza età si fece strada tra le sue considerazioni. Keeran voltò il capo verso di lui, sorpresa, mentre il nuovo venuto le si faceva mollemente incontro, gli occhietti liquidi colmi di inquietante desiderio. “Siete coraggiosa, bambina. Farete venire delle strane idee a qualcuno, se ve ne state seduta qui tutta sola.”

Il signore le si fece talmente vicino che l’irlandese poté contargli i peli sul viso goffamente sbarbato e uno spasmo di paura le agguantò il cuore, nell’istante in cui le ginocchia nodose dell’uomo andarono a sfiorare le sue gambe irrigidite. “Potrebbe essere pericoloso, non credete?” soffiò quest’ultimo, divertendosi nel vedere il gesto nervoso con cui Keeran si era stretta al petto prosperoso il suo diario.

“E sarà ancora più pericoloso per voi, se non vi allontanerete immediatamente dalla dama di compagnia della signora Worthington.”

Quella fredda minaccia era stata pronunciata da una persona giunta alle spalle curve dell’uomo; un qualcuno, pensò di getto l’irlandese, che doveva essere – a ragion veduta – parecchio infastidito. Keeran si sporse di lato e la sua testa corvina fece capolino da dietro la figura immobile di colui che l’aveva sfortunatamente importunata; ciò che vide, le strappò un sorriso tanto ansioso quanto adorabile.

“Te-tenente Chapman!” esclamò, arrossendo leggermente, sollevata nel vedere il suo amico ma, contemporaneamente, a disagio per la rabbia con cui il ragazzo la stava fissando. “Sie-siete arrivato!” provò ad aggiungere, sorridendo un po’meno.

Per tutta risposta, James stiracchiò le labbra e un’espressione di scanzonata supponenza comparve sul suo viso giovane, facendolo assomigliare al Principe arrogante conosciuto durante la traversata in mare. “Visto che ci tenevate così tanto a vedermi” fu il suo commento vago, accompagnato da una alzata di spalle noncurante. In due calmi passi, il tenente si portò al fianco del viscido rospo che aveva osato rivolgere parola alla signorina Byrne e, approfittando del cauto timore provocato dalla sua divisa da Ufficiale, lo afferrò per un braccio senza incontrare troppe difficoltà o resistenze. “Per il vostro bene, vi consiglio di continuare a camminare e non voltarvi più indietro.”

“Ma…ma io…”

Non che Chapman avesse intenzione di ascoltarlo sul serio. Anzi, spinse l’uomo in avanti e lo guardò incespicare sui suoi passi per non cadere a terra, un’espressione di muta paura impressa sul suo viso sudaticcio. “Davvero disgustoso” commentò poi James, con il solito tono di voce strascicato e sofferente, da signorino viziato; smise di curarsi di colui che aveva con tanta gentilezza congedato e si girò pigramente verso Keeran, commentando: “Certo che la feccia si riconosce ovun…”

“Non mi stavo rivolgendo a voi. La vostra padrona vi lascia parlare senza essere interpellata?”

Davanti a due meravigliosi occhi spalancati, il senso di colpa spezzò in due la frase di James che – maledicendosi – frenò la lingua per tempo. “Chiedermi di incontrarci proprio in un posto come questo: l’avevo detto, che siete una pazza” la schernì infine, come se quelle parole migliorassero la situazione di molto. “Lo sapete cosa sarebbe potuto accadere, se non fossi arrivato io?”

“Ma sie-siete qui” sussurrò la vocina imbarazzata e ammaliante dell’irlandese. “Ero certa che sareste venuto.”

Sotto di lui, Keeran se ne stava ancora seduta a osservarlo con un’espressione davvero bizzarra stampata sul viso paffuto, le sottili sopracciglia sollevate e la bocca carnosa graziosamente aperta; un rossore violento aveva colorato le sue guance, rendendola ancora più splendida di quanto non fosse già. In un vergognoso attimo, il tenente Chapman provò l’impulso irrefrenabile di chinarsi su di lei e fare sue quelle labbra maledette che, davvero, parevano in attesa di chissà cosa.

“Ho pens-pensato fosse cosa da buo-buoni cristiani fare vista al povero signor Jackson”

Già. Il povero e defunto Douglas Jackson.

James Chapman era un diciannovenne nato in una ricchissima famiglia di Marchesi viziati e vanesi, i cui membri avevano sempre dimostrato nei suoi confronti ben poco interesse: crescere all’ombra di un padre e di tre fratelli che non provavano un briciolo di empatia nei suoi confronti, l’aveva portato a ricercarne disperatamente le attenzioni e, da affettuoso bambino insicuro, il tenente era diventato un ragazzo altezzoso, sprezzante. Una sgradita forza oscura continuava a spingerlo a comportarsi come suo padre avrebbe voluto, ma persino lui comprendeva che essere gelosi di un giovane morto e seppellito in mare non lo rendeva affatto una persona decente. O, perlomeno, il genere che Keeran avrebbe potuto apprezzare.

Così, invece di lanciare fuori dalla finestra l’etichetta e baciarla, James si fece vicino all’irlandese e si lasciò andare contro una delle grezze colonne che adornavano il portico, appoggiandosi alla dura pietra con la spalla. “Temo dovrete essere breve” le disse, incrociando le braccia al petto, sugli alamari dorati della divisa. “Non ho tutto il giorno e sono atteso dall’Ammiraglio a Rockfort.”

Come risvegliatasi da un incantesimo, la ragazza abbassò la testa di scatto e la scosse appena, sorridendo poi con grande malinconia. “È proprio a causa sua e della signora Saffie che vi ho scri-scritto qualche giorno fa, tenente.”

“Ed ecco svelato il motivo per cui non avete aspettato una mia visita alla Zuimaco” chiarì James, lasciandosi sfuggire un cenno frustrato del capo castano, libero da qualsiasi pomposa parrucca. “A questo punto, immagino la moglie del Generale abbia saputo della sua imminente partenza.”

Il ricordo del visino sorpreso e ferito della Duchessina provocò nella sua domestica uno spasmo doloroso, di afflitta preoccupazione. In quegli ultimi giorni, Saffie si era fatta assente e silenziosa, distante; non si era aperta molto con lei per quanto concerneva i suoi pensieri riguardo la pericolosa missione a cui il marito avrebbe preso parte, ma era evidente a tutta casa Zuimaco la sofferenza che doveva in realtà mangiarle il cuore.

“Dobbiamo fa-fare qualcosa” disse la diciassettenne, dopo aver preso un respiro d’incoraggiamento; e si voltò di nuovo verso il tenente Chapman che, dal canto suo, non aveva smesso di fissarla con i suoi indecifrabili occhi grigi. “Non possiamo lasciare che l’Ammiraglio Worthington parta per la battaglia senza che lui e la signora Saffie si siano pa-parlati nuovamente!”

Un brivido d’ansia scosse le spalle larghe di Keeran, alla vista dell’impassibilità con cui Chapman la stava osservando, attento e vigile come un predatore. “Avete considerato la possibilità che la moglie dell’Implacabile non desideri essere forzata ad affrontarlo?” chiese infine in tono piatto, quasi cadenzando le parole. “Potrebbe andare in collera con voi e, inoltre, state trascurando il Grande ballo indetto da Lord Chamberlain.”

“La signora Inrving dice che i ricevimenti del Lord sono famosi per essere un te-terribile caos danzante, dove è impossibile avere un briciolo di intimità” gli spiegò l’irlandese, stringendo le dita sul suo prezioso diario. “Mi prenderò le mie re-responsabilità, tenente; ma, vi pre-prego, ho bisogno del vostro aiuto!”

Ed erano due nere iridi piene di fiducia, quelle con cui la ragazza lo stava ora guardando. James osservò il morbido corpo della ragazza tremare leggermente, dalla tensione, e pensò che era cambiata veramente tanto, la bellissima domestica della Duchessina di Lynwood.

Lei è la mia prima amica e, al contempo, l’unica donna che desidero.

Nessuno gli si era mai fatto vicino nella misura in cui aveva fatto lei, soprattutto da quando aveva lasciato il Casato ed era diventato famoso nell’intera Marina Britannica per il suo particolare talento nel strappare vite altrui. Forse, in un qualche misterioso modo, l’universo gli stava dicendo che pure per uno come lui non era impossibile cambiare direzione, mutare il suo futuro da patetico ultimogenito viziato.

“Dio” si arrese infine, sorridendo appena e abbassando il capo sui suoi stivali sporchi di polvere. “L’Ammiraglio mi ucciderà, lo so.”

L’allegria comparsa sul viso bianco dell’irlandese, però, lo ripagò di ogni sua preoccupazione. “Di-dite seriamente?” gioì Keeran ad alta voce, raddrizzando il busto e sporgendosi inconsciamente verso di lui, le belle labbra rivolte all’insù. “Vi ri-ringrazio davvero!”

Il tenente Chapman non l’avrebbe mai ammesso, ma l’allegria impacciata della ragazza lo divertì immensamente, riempiendogli il cuore di un caldo sentimento a cui non era affatto abituato. Qualcosa dentro il suo animo lo portò a incrociare le mani dietro la schiena e chinarsi in avanti a sua volta, canzonando Keeran con la sua migliore aria da ragazzino impertinente. “Oh, un grazie mi sembra il minimo, visto quanto mi costringete a rischiare: chissà, un giorno potrei chiedervi di ricambiarmi il favore.”

La folla chiassosa del mercato continuava il suo andirivieni sotto un sole cocente, incurante dei due ragazzi all’ombra del porticato e di quell’unico istante cruciale, in cui entrambi si accorsero di essere in effetti a pochi centimetri l’uno dall’altra.

E James di certo si sarebbe tirato lentamente indietro, se non fosse stato per un paio di mani tanto graziose quanto ipnotiche: nel tempo di un respiro, l’irlandese si lasciò cadere il diario in grembo e levò le braccia verso l’alto, imprigionando il volto sbarbato di Chapman in una carezza dolce e languida, attirando il ragazzo nella sua direzione. Un paio di labbra premettero su una guancia bruciante di imbarazzo, trasformandosi in un bacio pieno di gentile tenerezza.

Un batticuore furioso rombò nel petto di un più che sconvolto tenente, ormai marinaio indifeso fra le grinfie di una sirena. “Io…”soffiò sulla sua pelle la voce esitante di Keeran, senza che quest’ultima abbandonasse la presa delle sue dita su di lui. “Io sono così contenta che voi non dobbiate partire, perché potrò continuare a vedervi.”

Fu una stella di impossibili emozioni a esplodere dentro al cuore del diciannovenne, i cui occhi metallici se ne rimasero inchiodati sull’intonaco crepato del muro che aveva di fronte perché, di certo, la sua mente in quell’istante non sarebbe riuscita a pensare proprio un bel niente. Oltre all’inaspettato bacio della signorina Byrne – che fino a quattro mesi prima nutriva solo paurosa diffidenza nei suoi confronti – James avrebbe potuto sconvolgersi per altro, come l’essersi pubblicamente esposti; ma nemmeno il doloroso fatto che Arthur avesse deciso di lasciarlo indietro sembrò avere ora tanta importanza per lui.

Perché Keeran non aveva più timore di lui ma, anzi, era felice di potergli stare accanto.

Il grido gioioso di un neonato irruppe nella stasi che s’era creata e i due vennero risucchiati di nuovo nella realtà di ogni giorno, dove il colorito di una certa irlandese si fece rosso fuoco in uno schiocco di dita, al pari passo con quello del ragazzo così vicino a lei.

Ehm no, ec-ecco…” iniziò a balbettare sottovoce la diciassettenne, abbassando due imbarazzate iridi nere sulla labbra di Chapman, tanto vicine al suo volto in fiamme da poterne sentire il fiato leggermente caldo. Le sue mani pallide scivolarono subito via dal tenente, sfiorandone la mascella, evanescenti come il tocco di una piuma; dentro all’anima della ragazza, invece, era bruciante l’insieme di vergogna e paura provati.

Illegittima, a nessuno importa della tua felicità.

Keeran non desiderava ascoltare l’orribile voce del passato proprio in quel momento e, per fortuna, venne James a distrarre la sua attenzione: con uno scatto piuttosto rigido, da bambola rotta, il tenente si raddrizzò in un secondo, schiarendosi sonoramente la voce e facendole mostra di un volto sì da principino viziato, ma scarlatto oltre ogni immaginazione. “Co-come dicevo, devo andare” asserì piuttosto confusamente, forse cercando di congedarsi da una signorina Byrne che – con il suo sguardo da angelo perduto – iniziava a dargli letteralmente il tormento. “Posso…posso chiamarvi una carrozza?”

Dopo un piccolo sussulto sorpreso, la domestica di Saffie abbassò la testa sulle rilegatura del suo diario e si nascose dietro i lucidi ricci corvini, celando al tenente un’espressione che quest’ultimo desiderò ardentemente vedere; al contempo, Keeran scosse la testa una volta, facendo segno di no e tornando a un mutismo uscito direttamente dalla notte stellata in cui James le aveva salvato la vita.

“Davvero, ne sarei onorato.”

Di nuovo, una zazzera di capelli si mosse a indicare una sommessa risposta negativa. Pareva essere intenzionata a non degnarlo più di un altro sguardo, la timidissima servetta della signora Worthington, ma Chapman non avrebbe potuto immaginare quanto in verità lei fosse impegnata a darsi della perfetta stupida.

Doveva essere un ben strano miracolo, che James ancora non le ridesse in faccia, beffandosi del comportamento di una donna così inferiore a lui.

“Ho rovinato tutto” considerò Keeran, nel medesimo secondo in cui il tenente preferito di Arthur allungò pigramente la mano destra verso il suo morbido viso: il ragazzo le sfiorò il mento con la punta dell’indice e lo sollevò appena, con una dolce lentezza che fece venire i brividi alla sua anima di orfana spaurita.

Obbligata a guardarlo, la signorina Byrne incontrò la limpida inquietudine di due iridi grigie, seppure belle come poche cose al mondo. “Non fare così” le sussurrò James a bassa voce, abbandonando per strada il formale voi di circostanza. “Mi hai colto alla sprovvista, Keeran. Ho promesso di esserti amico, ma le tue parole mi fanno venire voglia di avere più di questo.”

Ed è un desiderio che il mio capriccioso cuore cela a sé stesso da troppo tempo.

Keeran riuscì solo a sgranare i bei occhi neri sul volto spruzzato di lentiggini di Chapman, perché una musica diversa le cominciò a suonare dentro, toccando corde che la ragazza non si sarebbe mai aspettata. In un battito di lunghe ciglia nere, in un attimo di terrificante sorpresa, comprese quanto l’idea di essere qualcos’altro per quel ragazzo dall’anima sola l’avrebbe resa felice come non mai.

Senza rendersene conto, aveva ingenuamente lasciato che il Principe arrogante facesse breccia dentro di lei.


§


Erano passate due settimane, dall'ultima volta che Saffie l'aveva visto. Quindici lunghi giorni in cui si era tormentata come avrebbe fatto un'adolescente in preda al mal d'amore, senza avere il coraggio di affrontare a viso aperto Arthur Worthington; proprio lei, che non si era mai fatta troppi problemi nell'immischiarsi con grande testardaggine nella sua vita.

"E per fare cosa poi?" aveva continuato a pensare in quei lunghi giorni. "Per confessargli i miei sentimenti, quando siamo stati capaci di farci solo del male?"

"Ma è stato prima di noi. Prima di questo."

Se era vero che la paura nascosta dentro al suo animo la faceva ritornare ossessivamente ai momenti di guerra – di odiosa incomunicabilità – accaduti fra loro, non poteva al contempo negare di ricordare sempre più spesso la gentilezza di cui l'Ammiraglio poteva essere capace, il coraggio con cui l'aveva a più riprese salvata senza pensarci su due volte.

Arrossiva alla stessa stregua di una scolaretta, l'irriverente Duchessina di Lynwood, perché il suo stesso sentimento complottava contro di lei: non riusciva in alcuno modo a impedirsi di pensare quanto Arthur fosse in realtà un uomo valoroso e forte; di un magnetismo intelligente che trascendeva le sue fragilità più nascoste, sebbene pure queste ultime erano una delle ragioni per cui la ragazza si era infine arresa a ciò che il legame crudele aveva creato. Anzi, era stato proprio perché aveva toccato con mano la sofferenza del marito, visto con i suoi occhi le oscene cicatrici, che poteva dire di amarlo per l’uomo che riusciva a intravedere sul fondo dell’abisso, tra le crepe di una maschera fatta di brutale autocontrollo.

Si erano odiati e avevano combattuto disperatamente l’uno contro l’altra, solo per poi scoprirsi identici nel dolore.

Da quando Saffie era tornata da casa dei Murray, non aveva fatto altro che pensare e ripensare al racconto di Mary Anne, soffrendo sia per ciò che Worthington era stato costretto a subire da bambino, sia per il vuoto che giorno dopo giorno la dilaniava in maniera sempre più straziante. Entrambe le cose la portavano al desiderio di vedere Arthur sopra ogni altra cosa e, in qualche occasione, era capitato che se ne stesse imbambolata davanti alle finestre della sua camera per delle mezz'ore intere, sperando il marito decidesse di venire a lei un’altra volta.

“Cos’è questo? Cosa sono io per te?”

Il suo cuore era ben certo dei propri desideri, ma ancora Saffie non riusciva a muovere un solo passo avanti; questo perché, lo sapeva, lui l’avrebbe di certo allontanata, respinta di nuovo. No, si era detta, non era sicura di poter sopportare il sentirgli dire parole che l’avrebbero fatta pezzi; doveva solo aspettare la prossima incombenza sociale a cui avrebbero partecipato nella loro falsa veste di marito e moglie. C’era tempo.

Ma, un giorno, Teresa Inrving aveva fatto la sua scocciatissima comparsa alla Zuimaco, palesandosi nel ricco parco della signora Worthington con un’espressione di evidente frustrazione dipinta sui suoi bei lineamenti decisi. “Sono fuori di me!” aveva esclamato, varcando la soglia delle porte a vetro con l’altezzosa rabbia di un’antica regina guerriera. “Quell’uomo non ha un minimo rispetto per sé stesso e per sua moglie, lo dico io!”

Attorno al lezioso tavolo da giardino su cui era stata servita un’abbondante merenda, tre persone si erano voltate contemporaneamente, negli sguardi spalancati un’ansiosa perplessità. Keeran aveva sollevato gli occhi neri dal libro di fiabe irlandesi che stava leggendo all’attentissimo figlio del signor Rochester, mentre la mano di Saffie si era fermata a mezz’aria, ancora stretta attorno al coltellino colmo di marmellata; come consuetudine, persino i pappagalli addomesticati riunitisi attorno alla Duchessina e alla sua combriccola se la diedero in un precipitoso frullo d’ali, davanti alla furia di Teresa.

“Che accade, signora Inrving?” aveva osato chiedere dopo poco Saffie, osservando ad occhi sgranati la figura vestita d’azzurro della donna farsi loro incontro a pesanti passi di marcia.

Oh, se le aveva sentite penetrare dolorosamente dentro, le parole fatali che erano giunte in risposta.

“Pare che vostro marito salperà al più presto, mia cara” aveva sentenziato schiettamente la discendente dei Taino, portandosi le mani sui fianchi. “Guiderà le sue navi fino ai confini delle acque francesi e, se le divinità vorranno, eviteremo una guerra pagandola al prezzo di una sanguinosa battaglia. Per una volta l’Atlantic Stinger è stata esentata dalla missione ma, ci credereste, il mio amato Henry vuole partire lo stesso!”

Le ultime rabbiose parole di Teresa erano ovviamente svanite sullo sfondo di un atroce spasmo al petto, che aveva fatto perdere a Saffie la presa sul coltello stretto fra le dita tremanti. Ignorando di aver sporcato la tovaglia candida, la Duchessina aveva subito spostato lo sguardo su Keeran e l’aveva uccisa con due iridi piene di spaventata preoccupazione; eppure, non aveva affatto visto la sua domestica…non era riuscita a vedere proprio nulla.

Questo, perché un unico pensiero aveva accecato la sua mente anestetizzata:

No. Non andartene via, ti prego.

Uno sbuffo di rassegnata pazienza era infine sfuggito dalle labbra carnose della donna di colore, di fronte alla muta reazione di Saffie. “Dovreste cominciare a comportarvi alla stregua degli adulti che siete” aveva commentato, accantonando l’ira nutrita per il Capitano Inrving e socchiudendo gli occhi a mandorla, dubbiosi. “Tutta Kingston sa che vi rivolgete a malapena parola, ma i vostri veri sentimenti sono di tutt’altra natura, non è vero?”

Uno scossone turbò la quiete della carrozza e la signora Worthington fu catapultata nella realtà di una splendida notte calda e stellata, nel presente di un viaggio fatto più di ansia che di elettrizzata agitazione. Il mento appoggiato alla mano guantata, la ragazza castana spostò gli occhi assenti sul panorama oscuro che scorreva attorno a lei, ed era tanto buio che le fu impossibile cogliere sagome di sorta.

“Beh, per una volta sono grata a Lord Chamberlain: le sue feste sono un vero caos danzante ma, chissà, il ricevimento che ha indetto per celebrare la partenza del Generale Implacabile potrebbe essere una nuova occasione. Non che io e il caro Inrving saremo invitati, ovviamente.”

Già, si trovò a pensare la ragazza, il Grande Ballo.

Neanche a farlo apposta, il giorno dopo aver appreso la notizia della partenza di Arthur, un emissario dei Chamberlain era arrivato pomposamente in sala da pranzo e aveva consegnato a una Saffie insonne la bella lettera d’invito al sopracitato ricevimento. Attraverso una missiva di preziosa carta bordata d’oro, Lord Richard prometteva il ballo della stagione, uno come non se ne erano mai visti: nell’immensa villa dell’ometto, non sarebbero infatti mancati né spazi adibiti ai divertimenti, al ballo e al gioco d’azzardo. Per non parlare poi del dispendioso spettacolo di fuochi d’artificio!

Insomma, celebrare la missione dell’Implacabile e dei suoi uomini era stata più che altro una scusa per far festa, poiché Saffie era certa Worthington avrebbe letteralmente odiato ogni secondo della serata a cui era tenuto a presenziare. Come la ragazza castana ne aveva vissuto l’attesa in preda a un’ansia terribile, tenuta a malapena sotto controllo dalle frivole distrazioni quotidiane; al contrario dell’ultima volta, suo marito non si era sognato di richiedere personalmente la sua partecipazione, ma lei sapeva di doverci essere.

Ed era talmente incoerente da parte sua, voler incontrare l’uomo che tanto aveva detto di odiare.

Così il giorno era arrivato e la Duchessina si era vestita di tutto punto, aiutata dalle solerti mani di una Keeran Byrne che pareva più eccitata di lei. “Siete una visione, signora” aveva commentato con un sorriso gaio l’irlandese, facendo un passo indietro e contemplando il viso leggermente truccato della padrona, che aveva rifiutato categoricamente di farsi infarinare la faccia e i capelli di bianco. “Il Generale rimarrà abbagliato dalla vostra bellezza, ve-vedrete!” aveva anche avuto il coraggio di commentare in aggiunta, probabilmente godendosi il rossore comparso senza permesso sulle guance di Saffie.

E ora alla ragazza castana toccava affrontare il viaggio in carrozza chiedendosi se quello che aveva detto la sua dama di compagnia sarebbe stato vero: non contava quanta rabbia avessero nutrito l’uno nei confronti dell’altra, quale disperato desiderio il suo cuore nutrisse per Arthur; quella sera, il vero tormento stava nel rivederlo e sperare come una sciocca che l’uomo la trovasse bella, tanto da volersi di nuovo avvicinare a lei con la stessa violenta passione di due settimane prima.

Perché la sua anima era nel profondo egoista e capricciosa, tanto quanto lo era quella di Worthington.

L’imponente tiro a quattro entrò nel cortile illuminato di Villa Chamberlain e annunciò ai numerosi ospiti riuniti ai piedi della candida scalinata d’ingresso l’arrivo della figlia dell’importante Alastair Lynwood; infine, il mezzo si fermò a breve distanza da un elegante capannello di persone in attesa e a Saffie venne un colpo al cuore, costituito più di elettrizzata tensione che altro.

“Siete bella oltre ogni dire, signora Worthington” emerse dall’oscurità la voce di un luogotenente Murray seduto sui sedili di fronte ai suoi, e di cui Saffie aveva completamente dimenticato l’esistenza. “Sono onorato di avervi potuto fare da scorta fin oltre ai cancelli della tenuta, in questa serata per voi così importante. Cielo, sembra quasi di essere tornati ai vecchi tempi, invero?”

Due grandi occhi castani, splendenti di malinconia, risposero al sorriso impacciato che Earl le dedicò a seguito delle sue parole. “Penso sia meglio io scenda da sola” fu il commento secco della proprietaria di quelle iridi, la cui voce tremolante tradiva un quintale di agitazione repressa. “Grazie per avermi fatto compagnia durante il viaggio e per non esservi fatto scoraggiare dal mio fastidioso silenzio!”

Saffie ferì Murray con un sorriso forzato e nervoso, mentre la sua piccola mano scossa dai brividi già s’allungava verso il portello della carrozza. “Passate una bella serata” era stato il triste saluto della ragazza, pronta per darsi in pasto alla folla dell’Alta Società a cui apparteneva e che non faceva altro se non ricordarle i crudeli intrighi di suo padre.

Ma io voglio vedere Arthur sopra ogni altra cosa.

La Duchessina stava per aprire lo sportello e posare la graziosa scarpetta madreperla sul predellino, quando la stretta delle dita forti del luogotenente Murray si strinse attorno al suo braccio con decisione, ghiacciandola sul posto.

Voglio vederlo e dirgli che dal nostro legame crudele potrebbe nascere una vita in cui dimenticare l’abisso e la gabbia dorata, dove nessuno dei due sarà più solo.

“Scusami, Saffie” disse a bassa voce Earl, una volta che la ragazza ebbe voltato di scatto il suo bel visino truccato su di lui; un secondo di silenzio pesante, carico di significato, e un determinato sguardo di tenebra venne inchiodato sull’espressione sorpresa della signora Worthington. “Ho fatto un giuramento, ma non posso guardarti soffrire per l’Ammiraglio e continuare a tacere.”

Sono una donna meschina, ora, a volergli perdonare ogni suo peccato per inseguire i desideri del mio cuore?


§


“Lo giuro, perbacco! Vi chiamano Implacabile in ogni angolo dell’Impero e voi non battete ciglio, Ammiraglio Worthington” chiocciò leziosamente una donna dal viso bianco calce, le cui gote truccate di rosso acceso risaltavano su un volto dalla malizia vomitevole. “Non so se giudicarvi più scandaloso o temibile, per questa vostra serenità nell’accettare nomignoli simili.”

L’uomo a cui la nobile stava parlando – il celebre e attraente Generale Implacabile, per l’appunto – stiracchiò impercettibilmente le labbra sottili all’insù, limitandosi ad annuire con un freddo gesto della testa bruna, nascondendosi infine dietro l’elaborato bicchiere di cristallo che Benjamin gli aveva prudentemente messo fra le mani non appena avevano varcato la soglia della casa di Richard Chamberlain, ora stracolma di gente.

“Sia dannato anche lui” pensò d’impulso Worthington, ignorando lo sguardo affamato dell’attempata gentildonna che se ne stava ancora a blaterargli davanti e ingollando l’ultimo rimasuglio di liquore rimasto con una sorsata piena di esasperazione. “Odio questo posto.”

Odio tutta questa gente e la sua inconsistenza, di cui io non ho mai fatto parte per davvero.

“Oh, ecco dov’era finito l’ospite d’onore della serata!”

Sebbene il signor Rochester riuscisse a fingere meno bene di lui l’affabile cortesia richiesta dalla loro Società in occasione di simili eventi mondani, la sua voce serafica venne accolta da Arthur con un sospiro di enorme sollievo e quest’ultimo si voltò subito, pronto a cogliere al volo l’opportunità per potersi liberare sia della nobildonna, che del suo opprimente chiacchiericcio.

Ovviamente, ogni istintiva e altrettanto inusuale gratitudine per il fratello adottivo venne meno non appena i suoi occhi verdi si posarono sulla scena che gli si aprì davanti e, soprattutto, sulla persona che – titubante – camminava al fianco del maledetto Benjamin.

“Guardate chi ho incontrato nel salone d’ingresso, Arthur” canticchiò quasi il dottore, con stampata sul viso affilato e pallido la stessa espressione che avrebbe avuto una volpe soddisfatta. “Ma vostra moglie ovviamente! L’ho strappata giusto in tempo dalle grinfie di un onoratissimo Lord Chamberlain e, chiaramente, ho pensato di doverla condurre sana e salva fino a voi.”

Di fronte alla piccola figura di Saffie, elegante come non aveva mai avuto modo di vederla, il cuore di Worthington ebbe un fremito pericoloso e tremendo, tanto intenso che l’uomo non si accorse nemmeno più delle voci eccitate intorno a lui. Solo, osservò impotente la ragazza avanzare lentamente nella sua direzione e fermarsi a poca distanza, l’atteggiamento posato di una degna figlia dell’Alta Aristocrazia Inglese.

Eppure, considerò l’uomo, c’era qualcosa di differente in lei.

“Buo…buonasera” lo salutò infine la Duchessina con un sussurro imbarazzato, piegando la testa castana e concedendogli una reverenza cortese, ma nascondendosi così al suo sguardo impietrito.

“Giusto Cielo! Siete dunque voi, l’unica erede dei Lynwood?” esclamò una frivola voce che comunque rimase sullo sfondo, patetica tanto quanto la vanesia nobile donna che l’aveva pronunciata.

Saffie alzò finalmente il grazioso visino sulla figura alta e possente di Arthur che, dal canto suo, venne fulminato non solo da un batticuore a dir poco letale, ma da una consapevolezza che lo colse del tutto impreparato. Indifeso di fronte allo spaventoso sentimento di cui non poteva più negare l’esistenza.

Nei mesi trascorsi, lei non l’aveva mai guardato nel modo in cui lo stava facendo ora.

Due grandi occhi meravigliosi si persero dentro ai suoi e l’uomo vi lesse dentro la presenza di un qualcosa di nuovo, prima del tutto assente.


§


“Gli ho giurato di non farne parola ad anima viva, di dimenticare gli accadimenti di cinque anni fa, ma è solo grazie a lui se oggi sono vivo, se ho potuto costruire una famiglia e ricominciare: Saffie, è stato Worthington a fermare la mano di tuo padre e a raccomandarmi per l’esercito di Sua Maestà, pure se non so cosa abbia visto in me. Lo chiamano Implacabile, ma penso tu abbia compreso benissimo la reale natura del suo cuore.”





Angolino di Sweet Pink plus unamini-curiosità:

*Se il Capitolo ti è piaciuto, spero prenderai in considerazione di lasciarmi un voto e una tua impressione* \(°w°)/

Prima di iniziare, vorrei condividere con voi una curiosità: tempo fa, qualcuno dei miei lettori ha chiesto se il cognome di Earl fosse frutto di una casualità o Murray fosse una scelta voluta, visto che il protagonista maschile della storia che scrissi nove anni fa si chiama Adam Murray (“La Sognatrice e il Re” è un romance storico che ho pubblicato su Efp); ebbene, posso dire che nella scena in cui Mary Anne parla del cugino di Earl – rimasto in Inghilterra – questo dubbio viene finalmente chiarito. William Murray è effettivamente un antenato di Adam tanto quanto Gerald McCarty, ricco artigiano che gli ha dato lavoro, lo è di Lullaby McCarty (il nome della protagonista femminile del racconto).

Insomma, a me piace molto legare le mie storie da un filo comune e fare così intendere che accadano in uno stesso universo narrativo! (°u°)

Ora!

Buongiorno e Buon Sabato!

Da voi si muore di caldo tanto quanto succede qui dalle mie zone? (T.T)

Apro questo mio piccolo intervento ringraziandovi per la pazienza che avete nell’aspettare i miei aggiornamenti e seguire la mia storia; spero tanto che sentiate ne sia valsa la pena, perché io tengo molto al racconto e, se a volte mi prendo un po’di tempo, non è solo a causa dei miei impegni, ma anche per scrivere in una maniera per me soddisfacente. Il problema è che non sono mai soddisfatta! Uffi! (U.U)

Quindi, sapere che “Gabbie Dorate e Oscuri Abissi” emozioni e incuriosisca è per me motivo di grande forza! Dunque mille volte Grazie per essere qui a leggere questa diciassettesima parte (Diciottesima, se contiamo il prologo)! (*w*)/

Non posso negare che questo capitolo, intitolato “Ciò che il cuore desidera”, è stato per me di difficile redazione: descrivere i mutamenti non è affatto facile, vi dirò; non voglio che i miei personaggi cambino idea e atteggiamento in uno schiocco di dita, senza provare a trasmettere il percorso che li ha portati a questo punto. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il mare…come si suol dire!

Ho tentennato e riscritto parecchio, ma penso di aver ottenuto un risultato efficace. O, almeno, lo spero e lo desidero anche io con tutto il cuore! (T.T)

Non vedo l’ora di scrivere del Grande ballo e di scoprire il piano strategico di Keeran e James (fra l’altro, li trovo sempre più carini insieme)! Anche perché, diciamocelo, odio lasciare Saffie e Arthur troppo lontani l’uno dall’altra, pure se è la storia che ogni tanto me lo richiede!

Vi è piaciuto il capitolo? Io spero tanto di sì! (TwT)

Vi abbraccio virtualmente, ma molto forte e con tanto affetto,

Vostra Sweet Pink

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Capitolo 19
*** Diciottesimo. Grande Soirée. ***


CAPITOLO DICIOTTESIMO

GRANDE SOIRÉE



§

Risplendevano alla tenera luce delle candele accese, il belletto rosso e i frivoli nastrini



A pensarci bene, era accaduto tutto durante una serata molto simile a quella che da lì a poco avrebbe avuto inizio.

“Giratevi da questa parte, mia signorina.”

Senza un breve cenno d’assenso, né una parola, l’interpellata ubbidì e voltò il voluminoso capo di lato, mostrando al pittore che suo padre aveva messo al suo servizio un viso tanto bianco e perlaceo, da far dubitare appartenesse a una persona vivente. Non a caso, gli occhi assorti e concentrati dell’uomo davanti a lei si spalancarono brevemente, pieni di soddisfatta sorpresa, prima che quest’ultimo si protendesse in direzione dei suoi strumenti di lavoro e ne riemergesse con un lungo pennellino stretto fra le dita aggraziate.

“Ora, aggiungiamo un po’ di colore alle vostre belle labbra” disse con educato entusiasmo, prima di chinarsi nuovamente sul suo volto, che comunque non tradì imbarazzo alcuno. “Io suggerirei un bel rosso appassionato, così da far risaltare il vostro incarnato e abbagliare ogni ospite presente.”

Un fremito di timorosa eccitazione attraversò i grandi occhi nocciola della ragazza, il cui colore era per davvero molto simile a un campo di grano in piena estate. Eppure, nessuno – nemmeno suo padre – avrebbe potuto dire di riuscire a indovinare quanto lei effettivamente fosse in fervente attesa del Grande ballo che avevano organizzato, aprendo le porte a più gente di quanta ne avessero mai invitata in vita loro.

Pure allora la villa strabordava di uomini e donne eleganti, mentre una fresca notte stellata dominava il suo sguardo ancora innocente. Ingenuo.

Non che le importasse davvero il numero delle personalità presenti. Non avevano un briciolo della sua attenzione i pietosi signorotti sempre pronti a farle una corte fin troppo interessata alla sua preziosa dote, le dame giovani e vecchie che lanciavano invidiose occhiate cariche di veleno al suo passaggio: la ammirassero o detestassero pure, fin quanto il loro animo desiderava, perché in ogni caso erano e sarebbero rimaste povere comparse al confronto con l’importanza ricoperta nell’Impero dalla sua famiglia.

Ed era un discorso maggiormente veritiero quella sera perché, dopo tanto tempo, avrebbe potuto rivedere lui.

Oh, si disse la ragazza, era talmente ovvia la sua presenza al Grande ballo; in fondo, come avrebbe potuto sottrarsene?

Nulla, nulla era più importante potergli stare accanto un’altra volta.

La giovane dama abbassò leziosamente le palpebre e chiuse gli occhi, schiudendo appena le labbra con l’intento di agevolare l’operato di colui che aveva l’onorevole compito di renderla una perfetta lady alla moda. “Ora rilassate il viso, signorina Chamberlain” le sussurrò il mastro pittore e lei sentì le setole del pennellino imbevuto di fattibello scarlatto premere sul suo labbro inferiore con ferma delicatezza, decisa precisione.

“Questa vostra bocca da nobildonna pronuncia parole pericolose, signorina.”

Un brivido nascosto, dolce e al contempo tremendo, inseguì la spina dorsale di una Catherine seduta dritta sul suo morbido sgabello di velluto, ma internamente impegnata a sopprimere il caos turbolento che minacciava di mandare a gambe all’aria la sua facciata di aristocratica altezzosa. Un insieme di sgradita ansia ed elettrizzata eccitazione serpeggiava sottopelle, attraversando ogni centimetro del suo piccolo corpo esile, facendole di fatto battere il cuore come un sonoro tamburo di guerra, quasi vi fosse chissà quale battaglia all’orizzonte.

Il morbido pennello scivolava sopra le sue labbra lentamente, ricordandole la morbidezza del bacio che lei e quell’uomo si erano scambiati; i tocchi esperti del pittore rievocavano l’intensità con cui due bocche ansanti si erano incontrate ancora e ancora, insaziabili.

Passione sfrenata mischiata al dolce sapore alcolico del liquore.

Era una ragazza del tutto diversa, ai quei tempi.

Catherine socchiuse gli occhi nocciola ed essi rilucerono assenti alla luce dei ricchi candelabri fatti d’oro, mentre la sua elaborata capigliatura rubina parve prendere fuoco, tanto le pietre preziose incastonate fra i capelli riflettevano il colore aranciato delle fiammelle. La futura Lady Chamberlain piantò le unghie limate e tirate a lucido nel lussuoso satin azzurro della sua veste, trattenendo il tessuto fra le dita minute, tentando con scarso successo di uccidere il ricordo che – inevitabilmente – aveva cominciato a farsi strada dentro alla sua mente.

Una stupida ragazzina inconsapevole e ingenua, che aveva incontrato una bocca colma di disperazione.

“Abbiamo finito?” sbottò corrucciata, infine con l’intenzione di allontanare da sé il pensiero di cui aveva più timore, la consapevolezza che in quegli anni aveva chiuso a chiave dentro a un cassetto della sua memoria, ovviamente giurando di non tornare mai ad aprirlo. “Le prove dell’orchestra staranno giungendo a conclusione, ormai. Se mi farete tardare al ricevimento, sarà a mio padre stesso che ne risponderete.”

L’uomo a cui erano state rivolte le secche parole della ragazza non si scompose troppo ma, anzi, un sorrisetto saccente si dipinse sul suo volto colmo di pazienza; non che fosse una novità per lui – pittore tra i più richiesti dall’Alta Società coloniale – dover affrontare l’atteggiamento capriccioso e scostante della nobiltà. “L’arte non deve avere fretta, signorina” le rispose con assoluta tranquillità, tirando poi fuori dal nulla un oggetto tanto vaporoso quanto piumato, che cominciò a premere sulle gote di Catherine senza troppi complimenti. “Ma non vi spaventate, perché è pur sempre con un professionista che state parlando: un po’di tenero su queste guance ed eccovi pronta. Su, guardatevi allo specchio!”

Tossicchiando infastidita, la ragazza sventolò la mano davanti al viso e disperse gli ultimi grani di polvere colorata che aleggiavano nell’aria. Come accaduto poco prima, non si sognò di rispondere o dedicare un sorriso all’uomo che da ore stava lavorando incessantemente per lei, ma bensì voltò sdegnosamente il nasino dall’altra parte e si specchiò con le sue stesse iridi traboccanti di superficialità.

No, c’erano stati anni in cui il suo sguardo restituiva la stessa allegria e gentilezza di Saffie Worthington.

Catherine increspò le labbra rosse e il suo riflesso fece lo stesso; ed ella vide solo un bel visetto bianco su cui il belletto colorato faceva un contrasto più che evidente, una massa di capelli ramati montati su una impalcatura ridicola e due piccoli seni strizzati tra le stecche di un bustino stretto, asfissiante. Forse suo padre avrebbe gonfiato il petto con orgoglio e l’avrebbe mostrata agli ospiti come la più bella delle creature presenti ma, in un angoscioso attimo, la futura Lady Chamberlain si sentì patetica.

Una ricca donna miserabile e gretta, soprattutto se paragonata alla tenera naturalezza cui la celebrità del momento – l’irriverente e scandalosa Duchessina di Lynwood – aveva fatto breccia nei cuori dell’intera cittadinanza di Kingston: a quanto pareva, la moglie del Generale Implacabile non aveva impiegato che un mese per affascinare finanche i ceti bassi della colonia, attratti dalla noncuranza con cui la ragazza soleva scendere in mezzo alla povera plebe senza battere ciglio. “Figurarsi!” si trovò a considerare Catherine con scettica ironia, distogliendo poi lo sguardo dalla fredda dama al di là dello specchio. “A quest’ora, ogni schiavo o domestico starà schiumando invidia per coloro che servono sotto la benevolente protezione di Saffie e Arthur Worthington!”

C’erano stati giorni in cui anche lei aveva scioccamente creduto di poter essere amata dalla città in cui era nata e cresciuta. Giorni perduti dietro un velo di amarezza e cinismo, delusione.

“Dite, non vi sentite splendida come una regina?”

La ragazza si voltò rigidamente, mostrando al mastro pittore in attesa un’espressione di sofferente insufficienza. “Un lavoro decente, oserei dire” lo ghiacciò sul posto Catherine, alzando le spalle con un gesto di frivola noncuranza e infine congedandolo in due secondi, sventolando la sua bella manina curata in direzione della porta di servizio, quella riservata ai servi di casa. “Il ballo più atteso della stagione comincerà a breve, signor…oh, qualsiasi sia il vostro nome! Di certo capirete il motivo per cui non potete andarvene da dove siete arrivato, non è vero?”

Ovviamente non aspettò di vedere nessun indignato sconcerto dipingersi sul viso dell’uomo, perché la sua figura esile si rivolse per la seconda volta allo specchio e a colei che vi intravedeva dentro.

Pigre ore notturne, vissute tra le lacrime di una attesa infinita, i momenti che avevano mutato per sempre i suoi occhi.

Forse il pittore avrebbe voluto dire qualcosa, ma la signorina Chamberlain sapeva che la sua posizione di figlia di un Lord facente parte del consiglio coloniale l’avrebbe salvata da qualsiasi aperta riprovazione; solo, intravide con la coda dell’occhio l’uomo prendere la porta a larghi passi furiosi e sparire con lo stesso cipiglio di glaciale distanza di chiunque gravitasse attorno alla sua vita fatta di deliziosi nastrini e belletti dai colori brillanti.

Non importava. La Grande soirée stava per iniziare e lei avrebbe potuto incontrarlo ancora, dopo che l’uomo era stato assente dalla Giamaica per sei lunghi mesi; ci sarebbe stata occasione di passare un’intera serata nello stesso posto e vederlo sorridere con l’identica elegante raffinatezza del giorno in cui l’aveva conosciuto.

Lo stesso giorno in cui le ombre della notte avevano celato una passione intensa e inaspettata. Le stelle brillavano meravigliose la notte in cui lui le aveva rubato cuore e innocenza.

Catherine allungò una mano lentamente, le dita protese verso la sé stessa dello specchio, i cui occhi tristi e impauriti ora non si nascondevano a persona alcuna. “Ricordi, anche quattro anni fa c’era una notte bella come questa” bisbigliò a un interlocutore invisibile e sconosciuto, ignara del tormento che ora minacciava di esploderle dolorosamente nel petto.

Stupida donna viziata.

Le iridi attraenti della ragazza si riempiono di insopportabili lacrime e quest’ultima le odiò, visto che rischiavano di rovinarle il suo bel visino fresco di trucco.

Puoi farti bella quanto vuoi, ma lo sguardo dell’uomo che ti ha voltato le spalle non si rivolgerà mai verso di te.

“Continui a torturarti e ad amare quella donna, malgrado tu ben sappia quanto ella sia irraggiungibile” disse al riflesso con improvvisa rabbia, chiudendo la piccola mano a pugno, sopra agli occhi disperati e rossi dell’altra sé stessa.

Era la Grande Soirée, la sfortunata notte in cui avrebbe incontrato l’uomo che amava senza avere alcuna speranza.


§

Una imponente villa di marmo candido, nei cui giardini si affaccendavano le lucciole



Il Grande ballo promesso da Richard Chamberlain era iniziato da due ore e nello spazioso cortile della tenuta continuavano a giungere sia lussuose carrozze trainate da cavalli abbigliati con vezzose piume di pavone, che calessini di dimensioni ben più contenute; mentre c’era persino chi varcava a piedi gli alti cancelli della proprietà, dimostrandosi tanto volenteroso di partecipare al ricevimento, da non dar peso né alla camminata in salita, né a quanto fosse socialmente discutibile arrivare in quel modo.

Centinaia di capi acconciati secondo le ultime tendenze del Vecchio mondo si accalcavano sulla soglia di casa del Lord; e i proprietari di suddette teste allungavano il collo, si alzavano in punta di piedi, pur di dare una sbirciata ai divertimenti che li attendevano oltre al mastodontico colonnato di ingresso. D’altronde, Richard Chamberlain stesso aveva curato l’organizzazione della serata, assegnando a ognuna delle sue ariose stanze un ruolo ben preciso nella grande e opulenta macchina della Grande soirée: vi era, ovviamente, un salone dedicato al ballo, già occupato da chi si era buttato nelle contraddanze e nelle schermaglie di seduzione; una camera in cui erano i giochi di carte e – per i signori – il Gioco d’azzardo a fare da padroni, pure se non bisognava sottovalutare nemmeno il resto della tenuta, dove le sale facevano sfoggio non solo di angoli in cui sedersi e conversare, ma anche di spettacoli circensi in miniatura, eseguiti con maestria da artisti che il Lord aveva profumatamente pagato per l’occasione.

Insomma, agli occhi di un nuovo avventore, partecipare al ricevimento equivaleva a farsi travolgere da un’esplosione di musiche orchestrali e colori vivaci, entrare in un fantomatico mondo fatto di sfarzi che chiaramente non trovava alcun riscontro nella ben più crudele realtà di ogni giorno.

Sebbene i denari spesi da un soddisfatto Richard arrivassero vicini alle esorbitanti cifre investite nelle Corti Reali del Vecchio continente, l’eleganza pretenziosa dei ricchi ospiti non riusciva comunque a essere all’altezza delle feste che lì vi si tenevano. In effetti, ad attirare l’attenzione della folla non fu la bella ereditiera dei Marshall – giovanissima, con i suoi diciassette anni appena compiuti – né il libertino più eccentrico della colonia caraibica, il signor Trevor Cavill, detto anche lo Spezzacuori; ma bensì furono i coniugi Worthington a calamitare gli occhi di tutti i presenti.

In barba a qualsivoglia canone estetico, non c’era dama che non trattenesse il fiato emozionata, di fronte alla figura possente e statuaria del Generale Implacabile, i cui severi occhi verdi contribuivano ad alimentare uno strano magnetismo, costituito da un fascino sì intelligente, ma al contempo brutale e selvaggio: pareva quasi l’uomo incarnasse un territorio tanto misterioso quanto proibito, dolcemente pericoloso. Infine, Arthur passava accanto alle suddette signore con galante indifferenza, provocando i loro sospiri rassegnati e, di conseguenza, attirando occhiate di fuoco da parte di molti signorotti invidiosi e ignorati.

Alla stessa stregua del marito, Saffie Worthington camminava serafica accanto all’Ammiraglio e la sua figura minuta, da ragazzina innocente, si muoveva con grazia innaturale attraverso il flusso di invitati, a cui la Duchessina dedicava qualche gentile cenno del capo o tenero sorriso di circostanza. Non indossava alcuna parrucca, né il suo adorabile viso riluceva di bianco alla luce delle candele accese, ma il filo di perle e fiori freschi che adornava i suoi lunghi capelli raccolti – insieme a due iridi luminose e splendide – bastò per far voltare più di una testa nella sua direzione.

La notevole differenza di altezza fra Arthur e Saffie, poi, faceva sembrare lui un gigante e lei una bambina, come se entrambi fossero usciti direttamente da una ignota fiaba. Ne risultava quindi una coppia bizzarra, ma tanto incantevole da non riuscire a fare a meno di seguirla con lo sguardo.

Non che l’Ammiraglio e la Duchessina dessero realmente peso ai bisbigli celati dietro a ventagli merlettati o a mani guantate, al chiacchiericcio pettegolo che la loro prima apparizione pubblica doveva aver scatenato nella gente in fermento: in fondo, entrambi conoscevano fin troppo bene le regole del gioco, vista la durezza degli insegnamenti che ne avevano costellato l’adolescenza e le soffocanti aspettative scaricate su di loro, figli primogeniti di due tra le famiglie più potenti dell’Impero Britannico. Erano le pesanti catene forgiate da Alastair e Simeon, infine costituite da sciocche convenzioni sociali e superficiali regole di comportamento, atte a garantire la continuità dell’altezzoso splendore dei Worthington e dei Lynwood.

Due bugiardi in catene, per l’appunto. Ipocriti che avevano imparato alla perfezione la loro parte nella farsa.

Questo fu il pensiero di una imbarazzata Saffie mentre, di nascosto, lanciava l’ennesima occhiata fugace in direzione del volto impassibile del marito, chiuso nel suo consueto contegno elegante e dignitoso. Gli occhi grandi della ragazza si soffermarono un secondo di più sullo sguardo smeraldino dell’uomo che, ovviamente, non si era più sognato di guardarla in faccia dal momento in cui si erano incontrati: le sue incredibili iridi chiare se stavano ostinatamente puntate in avanti, tanto severe quanto inaffrontabili.

E dire che, fino a un’ora prima, la Duchessina avrebbe scommesso di aver letto un qualcosa di diverso nell’espressione sorpresa dell’Ammiraglio. Arthur l’aveva infatti osservata avvicinarsi a lui e salutarlo con la stessa aria di un bambino spaventato ma, alla fine, una rassegnata malinconia aveva aleggiato per un attimo sui suoi lineamenti virili.

Buonasera” aveva poi sillabato Worthington in tono freddo e asettico; tanto distaccato che a Saffie era sembrato di non riconoscerlo. Forse, una coltellata in pieno petto avrebbe causato meno dolore poiché, dopo ciò che era successo fra loro l’ultima volta, la ragazza si era aspettata tutto meno che un atteggiamento indifferente da Arthur.

“Perché la tua esistenza deve torturarmi così?”

Oh, era stata bruciante la delusione provata, fuoco che andava a consumare le sue timide e ingenue speranze.

Allora Saffie non aveva trovato di meglio da fare che voltare il capo di scatto, con noncuranza, dedicando un falso e costruito interesse all’attempata dama che stava facendo compagnia al marito. Quest’ultima l’aveva squadrata da capo a piedi, prima di aprire la larga bocca truccata e sommergere con la sua voce stridula sia lei che Benjamin Rochester di vane chiacchiere; l’ammiraglio Worthington non aveva fatto nemmeno in tempo a presentarla, che la donna già aveva raccontato metà della sua vita di povera vedova altolocata.

Come se non bastasse, dieci minuti dopo un Lord Chamberlain più che festaiolo era piombato loro addosso indossando il suo sgargiante completo dorato e, allargando gaiamente le braccia corte, si era messo subito al fianco di Saffie, sentenziando quanto fosse imperativo per la Duchessina vedere le delizie che la casa aveva da offrire. “Seguitemi, signori!” aveva esclamato l’ometto, probabilmente ringalluzzito dall’alcool che aveva cominciato a scorrere a fiumi. “Oh, anche voi, Worthington! Non vorrete lasciare vostra moglie in balia di questa calca, non è vero?”

No di certo, vero, Arthur?” gli aveva fatto eco il signor Rochester, prima di nascondersi a sua volta dietro un elaborato bicchiere di cristallo, prevedendo l'occhiataccia che da lì a poco l’avrebbe fulminato sul posto.

Un bagliore di puro e rabbioso sprezzo era in effetti balenato negli occhi di Arthur, sebbene egli non avesse perso un briciolo del suo odioso autocontrollo nemmeno in quel frangente, visto che Saffie aveva sussultato sorpresa, nel vedere il braccio del marito sporgersi con gelida cortesia nella sua direzione. Un gesto formale e dovuto, che l’uomo aveva compiuto senza voltarsi verso di lei.

“Pare che vostro marito salperà al più presto, mia cara.”

Un groppo di amara sofferenza si era incastrato nella gola della ragazza, mentre le sue piccole dita si stringevano sulla morbida manica dell’Ammiraglio. Non aveva sprecato fiato per alcuna parola di ringraziamento, visto che Arthur stesso evidentemente non pensava ci fosse bisogno di scambiare due frasi in croce.

Scorretto e sleale. Tanto da voltarmi le spalle e andartene, dopo avermi spezzato il cuore.

In questo modo era passata la prima ora di ricevimento, tra saluti e presentazioni di rito che mai avevano trovato la strada per una conversazione decente fra i due.

“Perché…Perché ancora non mi hai degnato di uno sguardo, di una parola?” pensò la Duchessina, ricacciando indietro lacrime tanto inopportune quanto traditrici. Il suo stesso cuore era un traditore, visto che batteva forte nella cassa toracica senza lasciarle un attimo di pace: la ragazza lo odiava e odiava sé stessa, per aver passato ore davanti alla toeletta con il desiderio di poter far breccia nell’impassibile marito, di avere la possibilità di parlare con lui e chiedergli della sua partenza. Ringraziarlo per aver salvato la vita a Earl.

Si trattava della questione che più le premeva risolvere ma, di fatto, non era certo l’unica a turbarla.

“Non trovi che sia bellissimo, Saffie?”

Già, così bello da arrossire come una sconsiderata ogni qual volta i suoi occhi saettavano sulla sua figura alta, autoritaria. L’unico vero risultato che Saffie era riuscita a raggiungere in quei lunghi minuti, alla fine della giostra, consisteva nell’aver accumulato quintali di imbarazzo represso e nell’impossibilità di respirare senza sentirsi andare letteralmente a fuoco; questo, perché Arthur era una vera tortura da osservare: non indossava la sua solita divisa da Alto Ufficiale, ma un elegante completo blu notte, formale e costoso, la cui giacca di seta era intessuta di sottili filamenti argentati che andavano a disegnare forme evanescenti, indistinte; al contrario della maggioranza dei gentiluomini presenti, non indossava alcuna parrucca e le onde dei suoi capelli bruni scivolavano scandalose sul fazzoletto bianco legato attorno al collo.

Così bello, così abbagliante, da dubitare lui possa un giorno abbandonare il suo abisso per una come me.

Saffie era tanto presa dai suoi cupi ragionamenti e dal suo tormento che, pure volendo, non avrebbe potuto indovinare in quale enorme misura l’Implacabile stava facendo forza su sé stesso per mettere a tacere l’insaziabile fame annidata dentro al suo animo oscuro. Da quando i suoi occhi si erano posati sul piccolo corpo della moglie, un aberrante misto di vergogna e lussuria si era fatto strada con forza nelle sue viscere, travolgendogli il cuore e provocandogli il bisogno impellente di portare Saffie via con sé, imprigionarla fra le ombre della villa e baciarla, farla di nuovo sua.

Riversare la sua disperazione, il sentimento che non sapeva esprimere a parole, dentro di lei.

Gli occhi chiari di Arthur slittarono verso il basso, soffermandosi sulla ragazza e sulla generosa scollatura del suo abito rosa pastello, che lasciava a malapena intravedere l’incavo del suo piccolo seno; accorgendosi di star arrossendo leggermente, l’Ammiraglio cercò di distogliere lo sguardo e le sue iridi si sollevarono pigramente, incontrando per sua sfortuna la morbidezza di due labbra umide e truccate. Invitanti.

Ma poi feriresti ancora il suo cuore, Arthur…perché è questa la tua disgustosa natura di figlio illegittimo.

Non puoi nemmeno essere paragonato a Earl Murray.

La tristezza nascosta e profonda di Arthur, la stessa colta brevemente da Saffie poco prima, fu la dolorosa forza che lo spinse a distogliere lo sguardo dal visetto sorridente della moglie ed egli osservò – non senza una buona dose di amara ironia – che, se dovevano essere simili in qualcosa, questa era l’eccezionale capacità di fingere. Sicuramente suo padre e Alastair Lynwood sarebbero scoppiati d’orgoglio nel vederli in quell’esatto momento; l’impeccabile Generale e la pacata Duchessina, i figli che con tanta determinazione avevano plasmato a loro immagine e somiglianza.

Eppure entrambi avevano colto l’uno negli occhi dell’altra, la loro personale crepa sulla superficie dello specchio.

“Dio” imprecò Arthur tra sé, stringendo le mani grandi a pugno e inchiodando gli occhi sulla schiena snella del maledetto fratello adottivo che, apparentemente ignaro di tutto, lo aveva lasciato indietro insieme a Saffie per cominciare a parlottare beatamente con Lord Chamberlain. “Devo lasciare la città al più presto.”

Dopo una risatina frivola, Richard si voltò appena e dedicò un sorrisetto divertito in direzione della moglie di Worthington, prima di dire: “Assolutamente splendido, non trovate? Vi imploro di descrivere la festa nei suoi minimi dettagli, la prossima volta che invierete una lettera al Duca Vostro padre!”

“…d’accordo? Aspetterò con ansia una tua lettera e…e anche a tuo padre farebbe piacere riceverne.”

Un piccolo sussulto sorpreso scosse le spalle di Saffie ed ella concesse all’ometto davanti a lei un debole cenno d’assenso, cercando di ignorare al contempo il Generale Implacabile, che aveva girato la testa e se ne stava a guardarla con chissà quale espressione fredda stampata in faccia. “Vi autorizzo a riprendermi, se non dovessi scrivere almeno due pagine in merito al Grande Ballo, Lord” scherzò infine la ragazza, senza osare alzare lo sguardo su Arthur e pensando che, chissà, magari sentire nominare suo padre dopo diverse settimane aveva riportato l’uomo al giorno in cui avevano ripudiato il loro legame crudele.

“Tu sei un mostro, Arthur.”

Il senso di colpa le morse ferocemente lo stomaco e fu l’unico sentimento che riuscì a riconoscere, prima che qualcuno o qualcosa decidesse di piombarle addosso con forza e sospingerla all’indietro, minacciando di farla cadere tra la calca che camminava alle sue spalle. La ragazza alzò gli occhi spaventati di scatto e fece in tempo a cogliere un guizzo brillante e giallo, evidentemente il colore dell’abito indossato dalla giovane dama che l’aveva urtata con così tanta irruenza; eppure, sopra ogni cosa, fu la presa salda di due mani forti ad annichilire ogni suo pensiero.

“Lo chiamano Implacabile, ma penso tu abbia visto benissimo la reale natura del suo cuore.”

Dimostrando di avere per davvero dei riflessi micidiali, Arthur Worthington afferrò Saffie per la vita e se la tirò addosso in un baleno, contro la soffice stoffa della sua lunga giacca pregiata.

“Oh, Giusto Cielo, vi chiedo immensamente perdono, signora!” chiocciò l’ignota nobildonna con una risata dall’intonazione tremula, stravolta con ogni probabilità dai numerosi bicchierini già svuotati. Detto questo, ella rivolse un malizioso battito di ciglia all’Implacabile e riprese la sua strada, ridendo a crepapelle insieme ai suoi altrettanto alticci accompagnatori, due giovanissimi gentiluomini dai justaucorps striminziti.

"Donna sconsiderata" commentò l’Ammiraglio sottovoce, lanciando un’occhiataccia alla nobile in allontanamento, ma continuando a premere con gentile delicatezza la mano aperta sulla schiena della moglie, trattenendo il suo corpo minuto contro di lui e proteggendola così dalle persone di passaggio nell’ampio corridoio sovraffollato.

Dal canto suo, Saffie provò l'impellente bisogno di seppellirsi sotto i marmi dal pavimento, tanto ebbe paura che tutta Villa Chamberlain potesse sentire il battito impazzito del suo cuore colto alla sprovvista. E fu del tutto assurdo, in un momento simile, ricordarsi di un lontano ricevimento nel Northampton, dove l’Ammiraglio aveva protetto Amandine allo stesso modo.

L'aveva trattata come il suo tesoro più prezioso.

Due occhi spalancati, da cerbiatta intimorita, si sollevarono sul volto brutale e severo di Arthur che, forse sentendo quel magnifico sguardo inchiodato su di lui, abbassò a sua volta la testa bruna, lasciando alla ragazza l’occasione di indagare un'espressione strana, di ammaliante turbamento.

Ma è questa tua gentilezza nascosta, Arthur, che mi fa impazzire sul serio.

Per evitare di cadere addosso al marito, Saffie aveva istintivamente appoggiato le mani sul suo petto solido e, in quel secondo di stasi irreale, Worthington poté sentire fin troppo chiaramente il tocco leggero dei polpastrelli della ragazza insinuarsi appena sotto la sua giacca di seta, trasformandosi in una misera carezza quasi casuale.

“Non ho alcun bisogno di scappare…Io sono tua, ormai.”

Ancora, le iridi luminose di Saffie lo osservavano piene di un'innocenza controversa, davanti alla quale l’uomo era sempre stato stupidamente debole; una scarica di insopportabile desiderio lo sconvolse e lui riuscì solo a pensare: "Smettila di guardarmi così, maledizione”.

Come se la stessa Duchessina non fosse ipnotizzata dalla liquida e oscura eccitazione presente negli occhi chiari dell'Implacabile, dal tiepido calore emanato dal suo corpo alto e imponente. Le sue dita penetrarono inconsciamente sotto il gilet blu dell’uomo, accarezzando la stoffa della camicia bianca, percependo i suoi muscoli tesi e ben definiti.

E fu una tortura piacevole, un incantevole colpo all’anima, sentire la stretta della mano di Arthur premere nervosamente su di lei, bruciare sulla sua schiena percorsa dai brividi. Quasi non le importava di poterne di nuovo soffrire terribilmente.

Portami via da qui e consumami con la tua disperazione. Divorami.

"Saffie” la redarguì l’uomo con voce roca, trasformando il suo nome in un sussurro sì guardingo, ma colmo di sofferta tentazione.

Non tentare un uomo disperato.

Il viso dell’interpellata si colorò di rosso ciliegia e Arthur sciolse in silenzio quel loro abbraccio incidentale, voltando freddamente il capo dall’altra parte, così incontrando l’espressione di pietrificata cortesia con cui Catherine Chamberlain si stava facendo loro incontro: l’unica figlia di Richard avanzava difatti fra gli invitati senza alcun bisogno di sgomitare o lasciare a persona alcuna il passo, poiché erano gli stessi ospiti a scostarsi con garbata educazione al passaggio della padrona di casa, concedendole inchini e riverenze ricambiati con noncurante superiorità.

“Ah, figliola cara! Cominciavo a temere che le danze e le chiacchiere di Trevor Cavill ti avessero rapita!”

La ragazza rispose con una smorfietta sdegnosa all’esclamazione gioiosa del padre, poiché i suoi occhi nocciola si rivolsero subito sulla figura imponente di Worthington. “Generale!” lo chiamò quindi, schiudendo le belle labbra scarlatte a formare un sorriso tanto seducente che avrebbe trafitto il cuore di più di un gentiluomo. “Vi ho trovato, finalmente!”

Decisa e leziosa come una principessa, Catherine non aspettò di udire la risposta dell’uomo per avvicinarsi a lui e alla moglie ma, al contrario, li raggiunse con l’aria più soave del mondo, passando accanto a Benjamin Rochester senza degnarlo di uno sguardo; e, in un qualche modo, sembrò a tutti che la ragazza non l’avesse nemmeno visto o non lo ritenesse degno di respirare la sua stessa aria.

“Non sapevo di essere tanto ardentemente atteso, signorina” fu il commento neutro dell’Ammiraglio, il cui tono si intenerì un poco e gli valse un’occhiata perplessa da parte di Saffie.

“Mi dovete ancora un ballo, ricordate?” chiocciò la futura Lady, aprendo il ventaglio ricamato e nascondendosi dietro di esso, prima di lanciare un’occhiata irriverente a una ghiacciata Duchessina di Lynwood che, dall’altra parte, non avrebbe mai ammesso di star covando tonnellate di gelosa collera. “Me l’avete promesso giusto prima che partiste per l’Inghilterra! Oh, non temete signora Worthington: vi assicuro di restituirvi il mio amico tutto intero.”

Tra i fumi velenosi della sua non richiesta gelosia, uno spasmo di paura torse lo stomaco di Saffie e un pensiero crudele le oscurò la mente per l’ennesima volta.

Ingenua. Credi di essere stata la prima, l’unica, che la sua insaziabile sofferenza ha consumato?

Se Catherine Chamberlain aveva pensato di mettere in difficoltà la ragazza al suo fianco, beh, era destino dovesse rimanere amaramente e totalmente delusa: pene d’amore o no, la signora Worthington rimaneva pur sempre la figlia preferita del Duca Alastair e non era di certo un caso se a lui tanto rassomigliava, malgrado lei per prima detestasse questo fatto. “Non mi preoccupo di certo” fu dunque il commento divertito di Saffie, le cui iridi improvvisamente beffarde scivolarono pigramente sul viso bianco della giovane. “Sarei oltremodo sconcertata e delusa, se mio marito non riuscisse a tenere il passo di una fanciulla ancora così inesperta. Anzi, oserei forse temere che possa finire per trarne noia!”

Questa sofferenza è niente, Saffie. Chiudi il cuore e fatti rispettare, perché è in mezzo agli squali che stai nuotando.

Un’espressione livida velò i lineamenti bianchi della signorina Chamberlain, ed ella irrigidì le piccole membra tremanti di vergogna in mezzo secondo.

“Forse non vi sovviene che io e voi abbiamo pressappoco la medesima età, signora.”

Al basso ringhio di Catherine, la ragazza castana drizzò la testa con uno stupore tanto finto quanto adorabile, portandosi poi la mano destra sulla guancia leggermente abbronzata dal sole. “Quale fortuna avete!” asserì allegramente, continuando però a tenere lo sguardo piantato in quello dell’altra. “Dimostrate tanti meno anni della vostra reale età…e dire che siete un fiore!”

In questa maniera – in quattro e quattr’otto – Saffie aveva distrutto le provocazioni della signorina Chamberlain senza compromettere la sua reputazione, o risultare fuori luogo. Oh, considerò poi la Duchessina, sicuramente dall’altra parte dell’oceano ad Alastair e Cordelia sarebbero fischiate le orecchie!

“Via via, figliola!” intervenne la vocina allarmata del Lord, preoccupato per la maggior parte di poter perdere il favore dei Worthington a causa dei vanesi capricci della sua unica erede. “Lascia correre i tuoi futili desideri per una volta e passa un po’di tempo in compagnia del tuo vecchio! Stavo giusto per portare i nostri tre ospiti nella sala del Gioco d’Azzardo; perché non ti unisci a noi, per cominciare?”

Stranamente, gli occhi chiari dell’interpellata furono attraversati da un sentimento di incertezza che a Saffie non sfuggì e, mentre la prima si trovò ad abbassare con ubbidienza il magnifico capo rosso rame, all’altra venne da considerare – del tutto pazzamente – che con quel gesto la figlia del Lord le aveva ricordato sé stessa.

Come era identica la loro irriverenza testarda, che tanto sembrava piacere ad Arthur Worthington.

Lo spasmo si fece sentire per la seconda volta nelle viscere della ragazza castana ed ella si costrinse a dimenticarlo, reprimerlo sul fondo di un’anima esausta. Fu probabilmente per distrarsi, che Saffie rivolse il visino verso l’unica figura presso cui credeva di poter trovare un supporto, una simpatica empatia: al contrario del previsto, il suo sguardo non incontrò affatto il volto affilato e gentile di Benjamin. La figura magra del signor Rochester era sì in piedi a qualche metro da loro, ma se ne stava girata freddamente dall’altra parte e studiava con aria assente il viavai di persone eccitate come un fantasma avrebbe osservato un mondo estraneo, di cui non desiderava fare parte.

Due biglie nere e distaccate brillavano dietro la montatura sottile, mentre il padre di Ben decideva di prendere un altro abbondante sorso dal suo bicchiere colmo di liquore; e la Duchessina considerò che non era solo Arthur a comportarsi diversamente dal solito quella sera.

Un non detto aleggiava su tutti loro, povere creature che non potevano fare altro se non mentire a loro stesse.

Spronati dalla stancante gaiezza di Lord Chamberlain, la combriccola ricominciò a camminare verso il fondo del corridoio. Eppure, nessuno notò il fatto che Arthur fosse rimasto volontariamente indietro a chiudere la fila; come, in effetti, non un anima si accorse del sorriso leggermente divertito che sfuggì al suo impeccabile autocontrollo e gli piegò all’insù le belle labbra sottili.

Un movimento pigro delle dita lunghe e l’uomo si portò la mano alla bocca, nascondendo al mondo il momento di debolezza che la perspicace intelligenza di una certa persona gli aveva provocato.


§

La musica di mille strumenti magici suonava per loro, fino ad arrivare alle stelle lontane



All’interno del Salone da ballo, i cui marmi erano stati tirati a lucido dall’esercito di domestici dei Chamberlain, due lunghe file di uomini e donne stavano in attesa di poter dare inizio alla prossima danza, scambiandosi di tanto in tanto occhiate colme di allegra malizia, disinteressata cortesia o timido imbarazzo.

La ricca orchestra ingaggiata per l’occasione – la stessa presente alla festa d’insediamento dell’importante Ammiraglio Worthington – mise mano agli strumenti e, dopo un secondo di silenzio eccitato, le prime note vibrarono nell’aria, andando a formare la melodia ritmata di una scatenata Country dance. Ed era di una ipocrisia stupefacente, il fatto che una danza nata durante le umili feste rurali inglesi, avesse ora conquistato i salotti eleganti e le Corti Reali del mondo occidentale.

Non che Saffie di Lynwood avesse la serenità e il lusso di potersi soffermare su una consapevolezza del genere, poiché era troppo impegnata nel ballare con il suo ossequioso cavaliere e al contempo mettere a tacere l’opprimente peso che gravava sul suo cuore da quando aveva incontrato gli occhi distanti di Arthur. Una insopportabile forza premeva sul suo petto e sulla sua anima delusa, tanto da sfidarla a trattenersi dal piangere di fronte alle centinaia di personalità pronte al pettegolezzo.

Perché, sul serio, come poteva l’uomo trattarla in quel modo, dopo aver per primo superato il limite che avevano scelto di tracciare? In quale crudele maniera, ora, decideva di non rivolgerle la parola e andarsene via, quando era stato lui a imprigionarla, a torturarla, fra le ombre della città?

Come, esattamente, lei stessa non era riuscita a intravedere l’aberrante verità delle cicatrici che gli deturpavano il corpo?

Eccola spiegata, infine, l’origine del profondo abisso sul cui fondale il vero Arthur continuava a sedere, spaventato e indifeso.

“Questo significa essere me. Vattene via da qui…tu non puoi comprendere.”

Il grosso nodo incastrato nella sua gola si fece tanto intricato e doloroso da sopportare, che la ragazza castana dubitò per un attimo di poter sostenere la sua impeccabile maschera di giovane nobildonna dell’Alta Società. Agli occhi superficiali degli avventori, la moglie del Generale Implacabile forse pareva una fanciulla adorabile, mentre volteggiava con grazia per la sala insieme a Lord Chamberlain, ma Saffie ben sapeva qual era l’ardente desiderio del suo cuore speranzoso: trovare l’opportunità per poter stare sola con il marito, sebbene l’uomo per primo non desse a vedere di morire dalla voglia di affrontarla.

“Eppure” pensò la ragazza, lanciando un segreto sguardo all’imponente figura dell’Ammiraglio, appoggiato alla parete sul fondo della sala. “Prima mi hai stretta fra le braccia come se io fossi un tesoro per te prezioso.”

La Duchessina riuscì appena a intravedere Arthur prendere un sorso dal bicchiere che stringeva fra le mani e spostare i suoi incredibili occhi smeraldini su Benjamin Rochester, pure se non pareva molto interessato a ciò che il medico gli stava dicendo. Worthington era un uomo distante da tutto e da tutti, ma così magnetico da attirare ogni sguardo; talmente nascosta era la sua tristezza infinita, che a Saffie venne l’impulso di piantare in asso Richard Chamberlain e correre da lui, ergersi in punta di piedi e stringerlo a sé con forza.

Ricominciare a condividere con lui la sofferenza del legame crudele, da cui poteva nascere una vita diversa.

Ma quell’istante passò, tra i movimenti e le note della allegra melodia. Rossa in viso e con il cuore in tumulto, Saffie fu costretta a ruotare su sé stessa e cambiare posizione, porgere poi la mano a un Lord a corto di fiato. “Almeno questa danza è divertente” le venne da considerare, saltellando due o tre volte sul posto, mentre l’ometto davanti a lei faceva lo stesso. “Se solo ripenso alle tremende ore passate nella Sala del Gioco d’azzardo!”

C’era da ringraziare il Cielo, se i lunghi minuti in cui era stata costretta a condividere il tavolo con la signorina Catherine erano giunti a conclusione senza drammi. Una volta entrate nella sala piena zeppa di giocatori – soprattutto uomini pronti a perdere interi capitali – le due dame erano state fatte accomodare al tavolo dell’innocuo Tressette mentre, con grande disperazione della padrona di casa, Arthur Worthington aveva raccolto la sfida di coloro che stavano giocando d’azzardo al Faraone.

Ovviamente, l’uomo eccelleva anche nel campo delle carte e Saffie stessa non aveva potuto fare a meno di girarsi nella direzione dell’affollato tavolo dietro cui il marito era seduto, ammirando di nascosto la noncurante sicurezza con cui faceva le sue giocate; infine imbarazzandosi alla medesima stregua di una bambina, quando i gentiluomini lo accusavano scherzosamente di star spillando loro tutti i risparmi e lui rispondeva con un ironico: “Siete voi signori ad avermi implorato di sfidarvi e mandarvi in rovina”.

Appariva a tutti sempre così perfetto. Abbagliante.

Allora la ragazza girava la sua elegante chioma ornata di fiori, nascondendo il suo sentimento dietro alle carte e tornando a dare attenzione al chiacchiericcio insofferente di Catherine. In fondo, era più bizzarro che fastidioso il comportamento della giovane dai capelli rossi: rivolgeva il suo sguardo e la sua parlantina solo alla moglie di Worthington, ignorando a piè pari la presenza del signor Rochester che – poveretto – era stato costretto dagli eventi a sedere insieme a loro.

“Ora che il Generale è così impegnato da abbandonare noi fanciulle al nostro destino” aveva infatti chiocciato la signorina Chamberlain, girando l’esile busto e quasi dando le spalle a un Benjamin dall’atteggiamento a dir poco glaciale. “Siete obbligata a raccontarmi del vostro primo incontro! È stato nei pressi della tenuta dei Lynwood?”

Saffie aveva lanciato uno sguardo supplichevole sul medico ma, di nuovo, era stata delusa nel vederlo rinchiuso in un mutismo alquanto anomalo. La ragazza l’aveva infatti osservato posare distrattamente il bicchierino colmo di chiaretto sul tavolo e pescare poi una carta dal mazzo in silenzio, bloccandosi brevemente solo quando dalle labbra della futura Lady Chamberlain erano sfuggite le parole Tenuta dei Lynwood; gli occhi della Duchessina non poterono ingannarsi, perché l’uomo aveva irrigidito di botto le ampie spalle e, al contempo, il suo sguardo era stato attraversato da un turbamento oscuro, indefinibile.

Io ti amo e ti amerò per sempre, fino alla mia morte.

Come un fulmine a ciel sereno, il contenuto del diario di Amandine era tornato alla mente di Saffie che, sorridendo pacata, aveva fatto ogni sforzo per glissare l’argomento e allontanare la conversazione da terreni pericolosi. Infine, ci era riuscita facendo leva sulla vanità di Catherine e chiedendole così dello splendido lavoro del pittore che l’aveva preparata per la Grande soirée, per quanto la risata fin troppo forzata della signorina Chamberlain le avesse fatto intuire quanto pure lei stesse fingendo una serenità inesistente.

Lo sentì in quel momento, tutto l’angosciante peso del non detto che minacciava di travolgerli.

L’ennesimo qualcosa di cui la ragazza era stata tenuta in disparte, la domanda feroce che martellava ossessivamente nella sua testa pure due ore dopo, nell’apparente superficialità di una danza frenetica:

Hai amato anche lei con la stessa disperazione con cui hai consumato me?

“Adesso viene il bello!” esclamò Richard, avanzando verso di lei e afferrandole le mani con decisione, fortunatamente riportandola al mondo dove la Country dance era in pieno svolgimento.

Dall’altra parte della sala, intanto, l’Ammiraglio Worthington e Benjamin Rochester sembravano dilettarsi nell’attività di sostenere la parete alle loro spalle, tenendosi in disparte sia dalla folla danzante, che dal capannello di ospiti in attesa di poter ballare la canzone successiva.

“Certe cose non cambieranno mai” commentò in maniera enigmatica il dottore, aderendo con la schiena snella al muro. “C’è più caldo qui dentro, che su un vascello in balia dell’oceano a mezzogiorno.”

Nessuna risposta giunse dalla persona al suo fianco. Ignaro degli sguardi appassionati di chi gli passava davanti, lo statuario Generale Implacabile sembrava avere occhi solamente per la graziosa giovane vestita di rosa che volteggiava per la sala in compagnia di un paonazzo Lord Chamberlain: leggiadra come un passerotto in volo, la piccola strega sorrideva adorabile e divertita, mentre porgeva l’esile braccio all’ometto, decidendo di trascinarselo dietro nell’esecuzione di un’altra complessa figura.

Ragazzina, tu neanche ti accorgi di quanto mi stai mettendo in difficoltà stasera.

Worthington abbassò la ribelle testa bruna sul suo bicchiere, cercando di fare i conti con un moto d’invidia inaspettato e sgradito perché, di certo, doveva ben aver toccato il fondo se adesso si trovava a essere geloso del grottesco Richard Chamberlain. Senza poterne fare a meno, i lineamenti del suo volto virile si contrassero in una smorfia corrucciata e, alla stessa stregua di un bambino riluttante, l’uomo ammise che sarebbe piaciuto pure a lui ballare con Saffie come se niente fosse.

Questa sua naturalezza gioiosa, questo suo sorriso che ogni cosa illumina intorno a sé, a me sono proibiti. Irraggiungibili.

“È davvero bellissima, non sei d’accordo?” fu il sussurro confidenziale di Benjamin; parole che ebbero l’effetto di attraversare un cuore terrorizzato.

Non riesco a sperare di poter essere amato da Saffie, a cui io tanto ho fatto del male, infine privandola di ogni libertà. Mentendole fin da principio per mio solo egoismo.

“Se i tuoi uomini ti vedessero in questo istante, imbambolato di fronte a tua moglie, dubito fortemente continuerebbero a temerti e chiamarti Implacabile.”

Finalmente, due verdi fari rabbiosi scattarono di lato, piombando addosso a un signor Rochester dall’inamovibile tranquillità. “Hai intenzione di andare avanti ancora per molto?” gli sibilò l’Ammiraglio, inviperito come un serpente provocato troppo a lungo.

Un ghigno beffardo trasformò i lineamenti affilati di Benjamin ed egli rispose, scrollando le spalle: “L’hai detto tu stesso, Arthur: io ti conosco bene e, se vuoi, posso scommettere che in questo preciso istante ti stai trattenendo a malapena dal chiuderti a chiave con Saffie di Lynwood in una delle tante camere del Lord. Oh, ma ti avverto! A quest’ora rischi di trovarle tutte occupate, oramai.”

“Se fossi in te, scommetterei sul mio immenso desiderio di farti tacere” fu il commento lapidario di un Worthington dalla voce omicida. “Tieni a freno quella tua lingua saccente, Ben.”

“Non credo. Non siamo più sull’Atlantic Stinger” disse il dottore, scuotendo la testa biondo cenere e fingendo poi di guardarsi intorno con sorpreso interesse. “O, perlomeno, io non vedo alcun albero maestro!”

“Una volta reggevi meglio gli alcolici. Devi smetterla di bere.”

Il signor Rochester ricambiò il commento del fratello adottivo con un breve quanto enigmatico sorriso, prima di accettare con un vago cenno di cortesia l’offerta silenziosa di un cameriere di passaggio che, rigido e professionale, si era chinato nella loro direzione con un vassoio d’argento colmo di frutta stretto fra le mani guantate. Benjamin prese un piccolo grappolo d’uva e ne trasse un succoso acino verde, che l’uomo cominciò a rigirare pensosamente fra le dita bianche. “Potrei dirti la stessa cosa, Arthur” fece dopo pochi secondi, senza alzare lo sguardo liquido ma – ancora – lasciandosi andare in un’espressione piuttosto beffarda. “Ci sarebbe quasi da ridere, no? Dopo tutti questi anni, proprio tu vieni a farmi la predica, quasi fossi diventato nostro padre.”

Quando era sempre toccato a lui, vergognoso figlio di domestici, rincorrere e vegliare sull’Implacabile. Arthur, il fratello maggiore che poteva per diritto di nascita ottenere tutto ciò che il suo volubile carattere desiderava.

Un sospiro pesante uscì dalle labbra di Worthington ed egli chiuse gli occhi chiari per un attimo, prima di portarli sulla folla intenta a divertirsi. “Sei davvero ubriaco” sentenziò infine, in un tono paziente che non gli apparteneva; seppure, nel profondo, l’Ammiraglio aveva già indovinato da un pezzo i reali sentimenti dell’uomo al suo fianco.

Un figlio illegittimo e un orfano plebeo. Quale scelta poteva essere più scontata.

Simeon aveva deciso di riconoscerne solo uno dei due, condannando involontariamente l’altro a uno stato di eterna inferiorità. A una condizione agiata, certo, ma pur sempre limitata al giudizio di coloro che si ergevano con tanto sprezzo davanti a lui...l’ingiustizia che gli aveva fatto perdere Amandine.

“Non sono portato per le ricche feste di palazzo, tutto qui” fu la piatta risposta del signor Rochester, prima di portare alla bocca l’acino d’uva.

E nel momento in cui Arthur decise di parlare di nuovo, con il suo schietto tono autoritario che lui a volte proprio non sopportava, il dottore desiderò essere da tutt’altra parte; perché, dietro una frase apparentemente casuale, il Generale Implacabile aveva nascosto un’allusione più che concreta.

“Catherine Chamberlain sta dando il meglio di sé questa sera, visto che non credo ti abbia guardato nemmeno mezza volta.”

Una disarmante espressione di freddezza mutò il voltò malinconico di Benjamin nel giro di un battito di ciglia, trasformando i suoi lineamenti in una maschera distante e anonima, indecifrabile. “Dovrebbe interessarmi?” domandò il dottore, con una voce altrettanto glaciale e – davvero bizzarro – pericolosa.

“Interessa a entrambi, direi” lo uccise subito Arthur, cambiando a sua volta atteggiamento e tornando così a parlargli con un tono di pietra. “Sono anni che continua a girarmi attorno, fingendo una patetica attrazione, quando sono ben altre le attenzioni che cerca disperatamente di avere per sé.”

Lo sguardo oscuro del signor Rochester scattò sul fratello maggiore, pure se nulla cambiò nella imperscrutabilità del suo viso appuntito. “Non mi risulta tu abbia mai battuto ciglio, di fronte agli attacchi della futura Lady Chamberlain” ironizzò, stranamente sprezzante. “Nemmeno quando tutta Kingston credeva sareste convolati a nozze.”

All’altro capo della sala, Saffie sorrideva di luminosa allegria e Arthur la sentì lontana come non mai.

“E voi siete un esperto di ricche donne sciocche, non è vero?”

“La situazione è cambiata” sillabò l’Ammiraglio, monocorde. L’uomo prese un distratto sorso di liquore dal suo bicchiere, dandosi contemporaneamente dello stupido ipocrita, vista la sua decisione di partire per la battaglia e abbandonare la moglie, lasciarsela alle spalle.

Il mio cuore la desidera, ma non voglio farle del male, né comprendo in che modo dovrei starle accanto.

I due fratelli si appiattirono alla parete in silenzio, lasciando spazio a un’attempata coppia di signori in attesa della danza successiva. Benjamin aspettò di udirli cominciare a parlottare fra loro, prima di girarsi languidamente su un fianco, puntellandosi alla parete con una spalla e affrontando l’impettita figura di Arthur con un’alzata di sopracciglia. “Oh, ecco svelato il segreto!” fece, sollevando pigramente la mano stretta attorno al grappolo d’uva e puntandogli l’indice contro. “Ora ogni tua scelta ruota attorno alla Duchessina di Lynwood, non è vero?”

L’ammiraglio non si mosse di un millimetro, né voltò la testa castana, ma il dottore sentì addosso tutta la ferma ira di due iridi verdi e cristalline, la consapevolezza terribile di starsi pericolosamente avvicinando al confine: d’altronde, si disse, avrebbe dovuto sapere molto bene che contro l’orgoglio adamantino di suo fratello non esisteva opposizione di sorta; quando decideva di seppellire un argomento nel fondale del suo abisso, non c’era forza al mondo che potesse riportarlo alla luce.

O, per essere più precisi, non esisteva forza al mondo che non fosse Saffie stessa.

“Ti ho già detto di piantarla con queste stupidaggini” ringhiò Worthington sottovoce, lo sprezzo improvviso di una persona in realtà terrorizzata. “Credi non mi sia accorto del tuo tentativo di cambiare discorso?”

Oh, il volto pallido del giovane medico si trincerò immediatamente nella fredda indifferenza che così tanto contrastava con lui e con la solita furba educazione, immensamente differente dall’intensità del suo sguardo attento. L’uomo spostò il capo biondo sul centro del salone, ma non una luce brillava nelle sue iridi nere.

“Ho amato una sola donna nella mia vita” confessò infine al fratello, come se niente fosse. Un altro servo si avvicinò a loro e Benjamin posò sul vassoio il grappolo d’uva, scambiandolo con un bicchiere colmo di alcolico, ignorando ovviamente l’occhiata di disapprovazione dell’Ammiraglio. “Farlo mi ha strappato l’anima in pezzi. Eppure, non sono riuscito a fermarmi.”

Esattamente dall’altra parte della sala, al di là delle facce tutte uguali della gente in festa e di un’incantevole Saffie, la figura fin troppo elegante di Catherine Chamberlain se la rideva leziosamente con due o tre gentiluomini sconosciuti; tra le centinaia di teste imparruccate e piume ornamentali, Benjamin poté cogliere solo i capelli della ragazza risplendere come una ardente fiamma accesa, mentre il movimento della sua piccola mano fendeva l’aria con un movimento grazioso, incantevole.

“Perché non avete mai risposto a nessuna delle mie lettere?”

Il dottor Rochester distolse lo sguardo dalla figura minuta della donna responsabile non solo del suo gelido malumore, ma anche di un senso di colpa che non desiderava riconoscere come tale. In fondo, si era trattato solo di un momento di disperata follia, ormai perso nella corrente degli anni trascorsi a pensare ad Amandine.

“A me non importa niente delle vostre origini! Né…né che abbiate già un figlio da un’altra donna!”

Pure se lo poteva ancora sentire dentro, l’insostenibile dolore di quelle parole stravolte dalle lacrime.

Le iridi nere di Benjamin affondarono assenti nel pavimento di marmo, nascoste alla vista di Arthur da lunghe ciocche di capelli lisci che, contrariamente al solito, il signor Rochester aveva deciso di lasciare sciolti sulle spalle. “La mia anima appartiene e apparterrà sempre ad Amandine Lynwood. Non mi interessano le ragazzine infantili e viziate” mormorò alla fine, tanto freddamente da far dubitare a Worthington di riconoscere l’uomo che aveva di fianco.

Il Generale Implacabile schiuse appena le labbra sottili e forse avrebbe detto qualcosa, se la voce gaia della piccola strega non gli fosse penetrata nelle orecchie a tradimento, cogliendolo impreparato e – di conseguenza – pietrificandolo sul posto nel giro di un spaventoso istante.

“I musicisti sono stati superlativi!” aveva esclamato Saffie, accompagnando la sua frase da un’adorabile risata cristallina. “E voi siete un ballerino eccezionale, Lord Chamberlain!”

“Oh, non merito tali complimenti, cara signora Worthington; d’altronde, ho faticato parecchio a stare al vostro passo!”

La Duchessina rise ancora e, forse facendosi trascinare dall’allegria della danza appena conclusasi, voltò il suo bel viso sorridente in direzione dei due gentiluomini in attesa del loro ritorno, raggiungendoli infine come la fanciulla più felice del mondo. “Siamo sopravvissuti alla Country Dance!” annunciò al signor Rochester con gioiosa noncuranza, girandosi poi inconsciamente verso il severo marito. “È stato davvero…”

Saffie incrociò lo sguardo raggelato di Arthur e, in un baleno, il suo stesso colorito leggermente abbronzato assunse pericolose tonalità purpuree, facendola assomigliare a una dama sull’orlo di un colpo di caldo. “Da-davvero, ecco…”si trovò a balbettare la povera ragazza, affievolendo il tono di voce e abbassando la testa castana, poiché incapace di affrontare il suo personalissimo misto di vergogna e batticuore furioso. “…divertente.”

L’aggettivo cadde nel silenzio pieno di tensione, nell’incomunicabilità a cui lei e Worthington erano ritornati quasi senza accorgersene ma, in effetti, per loro unica volontà. Una gabbia dorata e un abisso oscuro erano il luogo dove due ragazzini impauriti continuavano a sedere in solitudine, soffrendo e disperandosi, ma senza fare nulla per forzare le sbarre o risalire in superficie.

L’espressione di Saffie si adombrò di amara tristezza, poiché lei aveva compreso molto bene quanto ancora le catene di Alastair fossero salde attorno ai suoi polsi, malgrado la sua timida volontà di cambiare le cose. Sapeva, in fondo, che Arthur avrebbe continuato a nascondersi e negarle la possibilità di renderlo felice.

Pure se era esistita per davvero, la fragile speranza che aveva scacciato la loro oscurità accecante.

“Ne sono contento.”

La voce profonda di Arthur non aveva tradito alcun sentimento di sorta, se non una cauta incertezza che fece letteralmente esplodere il cuore della Duchessina dall’emozione; ed ella riuscì solo a osservare ad occhi spalancati l’uomo protendere un braccio verso di lei, infine rabbrividendo sotto il tocco ruvido delle dita lunghe di Worthington, che scivolarono lente e ipnotiche sul suo palmo. No, Saffie non sarebbe stata capace di muovere un solo muscolo, nel momento in cui lo vide chinare l’imponente figura nella sua direzione e portare alle labbra il dorso della sua piccola mano.

La bocca dell’Ammiraglio premette brevemente sulle esili dita guantate, baciandole con una gentilezza inaspettata, quasi reverenziale.

Ed era un altro asettico gesto atto a salvare le apparenze, ma la ferì più di tutto il resto.

Questo perché Arthur aveva alzato i limpidi occhi chiari e l’aveva uccisa attraverso uno sguardo carico non di rabbioso rancore, lontana indifferenza, ma bensì di una malinconia tanto intensa da fare fisicamente male: tra ribelli ciocche di capelli castano scuro, brillava quello che alla ragazza parve lo sguardo tormentato di una persona che le stava dicendo il suo addio.

Un altro spasmo di spaventata preoccupazione aggredì l’anima stanca di Saffie e quest’ultima ricordò che un simile momento era già accaduto fra loro, diversi mesi prima.

Per te non è contato nulla ciò che da allora è accaduto fra noi?

Ti prego, non dirmi che è troppo tardi. Non andartene via.


§



Esplosioni di luci meravigliose, la cui vita nel cielo nero durava solo pochi meravigliosi istanti

Era notte fonda, ormai.

Lord Chamberlain, instancabile a dispetto dei suoi anni, aveva fatto riunire la maggior parte degli ospiti nel mastodontico giardino della sua tenuta giamaicana, dove le sagome di innumerevoli animali fatti di cespugli vegliavano nel buio sugli invitati ora con il naso all’insù. In effetti, furono molti i cori ammirati che si levarono verso la cupola stellata, una volta che Richard ebbe dato l’ordine di far cominciare lo spettacolo che rappresentava il piatto forte della serata e la conclusione stessa della Grande soirée.

Saffie Worthington aveva varcato come tutti gli altri le grandi porte a finestra che davano direttamente sul parco illuminato da una lunga fila di candelabri accesi ma, al contrario della folla intorno a lei, non poteva dire di essere veramente emozionata alla prospettiva di assistere ai fuochi d’artificio. Ovvio, non che non le piacessero, ma la ragazza ben sapeva cosa quell’evento andava in realtà a comportare.

Il Grande ballo era finito e anche il suo tempo insieme a Worthington stava per giungere al termine.

“Non ho trovato l’occasione per poter parlare con Arthur” pensò con grande rassegnazione la Duchessina, rallentando il passo e lasciandosi superare dall’indifferenza elegante degli invitati che, per quanto la concerneva, non erano altro che manichini senza alcun lineamento. Gli occhi castani di Saffie si rivolsero alle sue mani giunte in grembo e alla punta delle sue scarpette madreperla, che scricchiolavano fastidiose sulla ghiaia del sentiero. “No, sono una perfetta stupida. Non ho trovato il coraggio di affrontarlo e parlare con lui.”

Le tenere labbra truccate della ragazza si strinsero le une sulle altre, tanto nervose quanto tremanti.

I mesi passati avevano infine rivelato l’immensa portata della sua debolezza di carattere, della sua ingenua ottusità.

“Voi non sapete un bel niente, signorina Lynwood.”

Con il suo incedere lento, Saffie era stata lasciata indietro dalla combriccola con cui aveva trascorso la serata e dal marito stesso che, figurarsi, era rimasto coerente con l’atteggiamento distante assunto per l’intera durata del ricevimento. Così, la ragazza si trovò a fermare il passo a breve distanza dal sostanzioso gruppo di persone che ora se ne stava ad osservare il cielo a bocca aperta, le tenere luci colorate dei primi fuochi d’artificio s’infrangevano su decine di visi truccati di bianco; una risata poco lontana, e lo sguardo della Duchessina venne attratto dalla dama vestita di giallo che ore prima l’aveva quasi fatta cadere: la donna – la cui espressione stravolta dall’alcool era di una malizia a dir poco oscena – le passò accanto senza vederla, il braccio pallido ben agganciato a quello di uno dei due giovani che erano insieme a lei.

Un leggero sbuffo divertito sfuggì dalla bocca di Saffie Worthington e quest’ultima pensò che almeno qualcuno sembrava aver tratto una quantità di divertimento smisurata dalla Grande soirée. Le sue iridi illuminate dalle luci artificiali inseguirono pigramente la signora e il suo accompagnatore, che si fermarono nemmeno cinque metri più avanti, accanto alle sagome del Generale Implacabile e della futura Lady Chamberlain.

Le mani disperate dell’uomo avevano stretto altre donne, mentre la sua bocca maledetta riversava un inamovibile dolore dentro di loro.

Una tremenda sferzata di sofferenza allo stomaco, e Saffie trattenne il fiato, senza riuscire a staccare lo sguardo da Arthur e Catherine, immersi nell’oscurità. Stagliati contro le sagome colorate che esplodevano rumorose nel buio, l’Ammiraglio e la ragazza dai capelli rossi si sporsero l’uno verso l’altra con fare confidenziale, intimo; una mano piccola si posò leziosa sul braccio di Worthington, due piccole scarpette si ersero in punta di piedi, ed ecco che le labbra scarlatte della signorina Chamberlain sussurravano un qualcosa di misterioso all’orecchio del Generale Implacabile.

Un velo liquido e invisibile appannò gli occhi grandi della Duchessina di Lynwood, creatura sola tra le retrovie del giardino in fiore.

Hai veramente creduto che le sue parole e i suoi gesti fossero solo per te?

Troppo male vi siete inferti a vicenda. Insuperabile, infine, il confine che le vostre famiglie hanno tracciato fra voi.

La ragazza vide il marito girarsi appena e dedicare un lieve sorriso affascinante a Catherine, annuire con la sua ribelle testa bruna, guardandola con le sue disarmati iridi smeraldine. Una tranquilla naturalezza da cui Saffie era sempre stata crudelmente esclusa, fin dai tempi di Amandine e del Northampton; un’illusione che si era nutrita delle notti passate a consumare una disperata passione fra le coperte.

Aveva lasciato il suo cuore nelle mani di un uomo capace di distruggere qualsiasi cosa.

Il peso che gravava nella sua anima la schiacciò senza pietà, lasciandola in balia di un dolore che Saffie pensò di non poter sostenere ancora per molto. Voltò quindi il capo castano di scatto e, in silenzio, si incamminò velocemente verso l’ingresso di casa Chamberlain, pregando che nessuno potesse cogliere le sue vergognose lacrime.

Attraversò i corridoi deserti come l’avrebbe fatto un fantasma, ignorata dagli impettiti domestici presenti e dalle poche comparse che si trovavano nelle stanze vuote. La vista offuscata da un odioso pianto imminente, la Duchessina degnò di un’occhiata assente i rari ospiti rimasti negli ampi saloni, perlopiù nobili addormentati sulle poltrone e amanti neanche troppo nascosti: in un angolo della sala da ballo, la ricca ereditiera dei Marshall sospirava misteri all’orecchio di una sua imbarazzata coetanea, intrecciando le dita guantate con quelle dell’amica e sorridendo di falsa innocenza, il neo a forma di cuore incollato sopra una piccola bocca da combinaguai.

In lontananza, il rumore ovattato dei fuochi d’artificio continuava imperterrito, coprendo sia il suono dei tacchi di Saffie, che il suo stesso cuore furioso. Quest’ultimo batteva forte e maligno dentro alla sua cassa toracica, facendole venir voglia di continuare a camminare e anzi correre via, scappare di fronte al sentimento di bruciante delusione che provava nei confronti di sé stessa e del freddo marito.

Come era stato fin dal principio della loro storia, il suo si era rivelato essere un amore misero, a senso unico.

Saffie fermò la sua fuga all’improvviso, inconsapevole della muta maestosità dei marmi che la circondavano, del vacuo sguardo dei dipinti appesi alla parete e della bellezza di un alto soffitto affrescato, di quelli che ricordavano le basiliche della bella Roma. Sola al centro della stanza, la ragazza rilassò le braccia lungo i fianchi e strinse le mani a pugno, tremando per la tensione e lo sforzo di dominare lacrime che non desiderava versare.

“Sciocca. Non devi piangere per uno come me.”

Eppure, sembra tu riesca a non farmi fare altro, Arthur.

“Se continuerete a sparire in questa maniera, la gente comincerà a mormorare.”

Un sorriso tinto di doloroso scetticismo piegò le belle labbra della ragazza all’insù, trasformando il suo visino grazioso in una smorfia a metà fra il rabbioso e l’esasperato. “Come se vi deste pensiero della reputazione di vostra moglie, visto e considerato il rapporto che tanto volentieri intrattenete con la figlia di Lord Richard.”

Un secondo di silenzio pesante, interrotto solo dai botti provenienti dall’esterno, e la ragazza si girò all’indietro, lanciando un lacrimoso sguardo di sfida all’uomo che si ergeva alto nella penombra della camera: le mani incrociate elegantemente dietro all’ampia schiena e l’espressione guardinga di un predatore sulle spine, Arthur Worthington la osservava quieto con i suoi due incredibili occhi chiari e, similmente a due settimane prima, Saffie sentì l’intero mondo iniziare a bruciare.

“Non mi sembravate così indignata o affranta, mentre passavate questi ultimi giorni in compagnia di Earl Murray” ribatté l’uomo con voce leggermente inacidita, mettendosi in effetti sulla difensiva, ma non tradendo alcun turbamento di sorta. “Vedete di ripensare le vostre accuse, prima di venirmi a parlare di reputazione.”

“Il luogotenente è un uomo sposato, Ammiraglio; un gentiluomo rispettabile con una famiglia che lo ama.”

“Oh, lo so molto bene, Duchessina; ma non è dei suoi sentimenti e del suo onore che si sta parlando.”

La fredda ironia dell’uomo ricadde nel nulla, nel vago eco di quella sala spoglia di mobilio. Saffie abbassò il capo castano, nascondendo al marito la stanca rassegnazione dei suoi occhi da cerbiatta triste.

“… grazie a lui se oggi sono vivo, se ho potuto costruire una famiglia e ricominciare: Saffie, è stato…”

“Siete stati amanti?” chiese di getto la ragazza, spezzando a metà il flusso dei suoi stessi pensieri e odiandosi al contempo per il suo patetico tono nervoso, da donna che continuava ad annegare nella sua stessa ipocrisia. “L’hai…L’hai amata?”

Continui a farlo anche adesso?

Un livido sentimento attraversò il volto virile di Arthur ed egli si avvicinò con lenta tranquillità a lei, fermandosi poi a neanche un metro di distanza, le mani infilate nelle tasche dei calzoni blu notte. “Ho avuto molte donne in questi anni” ammise schiettamente, perforando gli occhi grandi e sorpresi della moglie con un fermo sguardo smeraldino. “Nessuna di queste rispondeva al nome di Catherine Chamberlain.”

“Ma è stato prima di noi. Prima di questo.”

Prima che una terribile luce illuminasse le tenebre di questo mio infinito abisso, stravolgendomi la vita.

“Sei soddisfatta, adesso?” aggiunse Worthington, articolando quella domanda senza preoccuparsi di trattenere un amaro ghigno di disappunto; infine tradendo il sentimento egoista che lo portava a ricadere nella sua impaurita diffidenza. “Ho risposto bene ai tuoi dubbi sull’ennesima mancanza di rispetto dell’Implacabile, l’uomo che hai detto di disprezzare più di chiunque altro?”

“Tu sei un mostro, Arthur.”

Dal basso, due iridi illuminate dalle lacrime scattarono sull’Ammiraglio ed era tale la sofferenza repressa che vi era contenuta – il senso di colpa di un traboccante vaso di Pandora – da far tremare l’anima a pezzi dell’uomo.

“Non è per questo motivo che ti ho domandato di lei!” protestò Saffie, facendo un passetto in avanti e sporgendosi verso la minacciosa sagoma di Arthur, come se fosse stata una bambina pronta a ingaggiare battaglia con un Imperatore. “Né è la ragione per cui me ne sono andata!”

“Ah, no?” ironizzò ancora l’uomo, gli occhi verdi frementi di una malinconia che la ragazza non poteva cogliere. “Perché ricordo perfettamente la convinzione con cui hai affermato che il nostro matrimonio non è altro se non un contratto dove nessuno dei due è tenuto a occuparsi degli affari dell’altro.”

È dunque questo, il modo orribile e bugiardo in cui ci diciamo “addio”?

“Ho mentito!” esplose la voce vibrante di pianto della Duchessina di Lynwood, che rimbombò nella camera e nel cuore oscuro di Arthur alla stessa stregua di una fucilata. La ragazza piantò i piedi per terra e si irrigidì tutta, abbassando la testa castana e finalmente lasciando sfogo a ogni suo tormento, scoppiando in singhiozzi infantili proprio di fronte all’unico uomo da cui non voleva farsi cogliere in quello stato.

Ma trabocca inarrestabile dai miei occhi, questa sofferenza che per lungo tempo non ho voluto riconoscere.

“Non voglio vederti dare così tante attenzioni alle altre donne, non mi importa chi esse siano!” disse ancora Saffie, portando subito le mani al viso stravolto e cominciando ad asciugarsi con forza, per cancellare la vergogna a cui sentiva di starsi sottoponendo. “Come posso sopportare questa tua indifferenza, ora che il mio cuore ti appartiene?”

“Non è questo il motivo. Non ho alcun bisogno di scappare…Io sono tua, ormai.”

Oh, ma è il desiderio più vero e nascosto della tua anima di bambino spaventato, no, Arthur?

Fu tutto così veloce che Saffie poté dire di non accorgersene nemmeno. Un fulmine nell’oscurità della notte, un guizzo blu fra le lacrime, e la ragazza sentì una presa micidiale stringersi attorno al suo polso e attirarla con violenta urgenza in avanti, a contatto con il caldo abbraccio di un corpo saldo e forte, ma come il suo tremante di tensione a malapena tenuta sotto controllo.

“Io… non ho fatto altro che pensare a te in questo mese” soffiò al suo orecchio la voce roca e piena di turbamento del Generale Implacabile. “Ho pensato a te per tutto il tempo, Saffie. Sempre.”

Al nostro legame crudele e tanto detestato. Alla spaventosa volontà di risalire per primo l’abisso e raggiungerti nella luce.

Il cuore della ragazza si sciolse di dolcezza e dolore, mentre quest’ultima stringeva le piccole mani sulla schiena dell’uomo, affondando le dita nella stoffa della sua giacca pregiata. “Giurami che è la verità” sussurrò lei, il viso rigato di pianto premuto contro il petto dal marito; pure se già sapeva di non aver bisogno di parola alcuna, poiché il cuore dell’uomo batteva tanto forte da penetrarle nelle vene.

“Ci sono stati momenti in cui avrei voluto non fosse vero, in cui avrei preferito illudermi di essere tornato a odiarti” fu la risposta di Worthington, il cui tono sofferente era tornato a rivolgersi a lei con la gentilezza che Saffie aveva tanto sognato. Arthur si sollevò lentamente e guardò la ragazza a pochi centimetri da lui con due occhi incredibili, risplendenti di malinconica tenerezza. “Non posso che arrendermi di fronte al potere che eserciti su ogni scelta o intenzione, infine sulla mia stessa anima.”

L'uomo sorrise appena nel vederla schiudere le tenere labbra dallo stupore e un’espressione strana attraversò il suo viso attraente. Quasi senza vera coscienza, portò una mano sulla guancia calda di Saffie e ne lavò via un’ultima lacrima solitaria con il pollice, accarezzandole la pelle e intrecciando le dita con i suoi soffici capelli castani; infine, quasi obbligandola a tenere il volto sollevato sul suo.

D’altronde, sei nato per portare disgrazia e morte a chi si avvicina a te…perché questo è il destino di coloro che sono stati maledetti da Dio”

Gli occhi grandi di Saffie, luminosi e innocenti, si persero dentro a quelli di Arthur, uccidendolo con uno sguardo colmo di una timorosa attesa che gli bruciò dentro.

Oh, ferirai ancora il suo cuore...eccome se lo farai, perché è nella tua disgustosa natura. È il modo in cui “lui” ti ha cresciuto.

“Al diavolo.”

Non aveva neanche fatto in tempo a udire quell’imprecazione, che la ragazza venne subito aggredita dalle labbra fameliche del marito, conquistata dai tocchi meschini della sua lingua irresistibilmente vorace. L’uomo l’attirò a sé e Saffie si erse in punta di piedi, inseguendo la passione di quel loro bacio lungo e ansante, intrecciando a sua volta le sue esili dita alle ciocche ribelli dei suoi capelli castano scuro.

Nella penombra silenziosa e quieta della stanza, tutto intorno a loro bruciava, cancellando per sempre il confine invisibile su cui si erano incontrati e su cui avevano combattuto con tanta disperazione. Proprio come l’aria e il mare, due elementi che s’incontravano ancora e ancora sul limitare dell’orizzonte lontano.

Worthington si staccò leggermente dalla bocca rossa e umida di Saffie, riprendendo fiato e al contempo osservandola con due iridi piene di improvviso timore. “Io…” le sussurrò con voce roca, in un tono d’incertezza tale da spezzare il cuore alla ragazza di fronte a lui. “Io non voglio spaventarti; non…non è come l’ultima volta.”

Un sorriso tenero e dolce, dalla bellezza disarmante, illuminò il volto arrossato della Duchessina di Lynwood; ed ella si sporse piano in avanti, sfiorando la fronte dell’uomo con la sua. “Lo so” mormorò a sua volta, cercando di prendere coraggio e ignorare il suo stesso imbarazzo, la sua eccitata felicità. “Non ho alcuna paura, Arthur.”

Perché è una fragile gentilezza nascosta, la reale natura del tuo cuore.

E poggiò le sue labbra su quelle sottili del marito, lasciandovi un breve bacio gentile, dal sapore fin troppo casto.

Un giusto attimo di sorpresa lasciò il famoso Generale Implacabile in balia di un lieve e inusuale rossore, prima che quest’ultimo dominasse di nuovo sulla ragazza castana, chinando l’alta figura su di lei e commentando, con la sua magnetica voce bassa: “Sarai la mia rovina, Saffie di Lynwood.”

“Sono sicura di averti avvertito anche su questo punto, a suo tempo!”

I due sorrisero divertiti l’uno sulle labbra dell’altro e, di certo, avrebbero ripreso a perdersi nel desiderio represso che li aveva fatti dimenticare totalmente della Grande soirée, se le voci frivole al di là del corridoio non fossero arrivate a loro inaspettate.

“Uno spettacolo di fuochi a dir poco mozzafiato!” chiocciò un’ignota donna di passaggio, facendo sobbalzare sia Saffie che Arthur come due bambini colti sul luogo del misfatto.

“Invero, è un peccato sia già ora di tornare a casa” fece l’altra, mostrandosi d’accordo con l’amica. “Piuttosto, avete notato il justaucorps di Lord Chamberlain? Assolutamente ridicolo!”

L’ovattato scoppiò di risate che seguì alle parole della dama si fece via via più lontano e indistinto, segno inequivocabile che le due donne si stavano allontanando dalla stanza occupata dalla Duchessina e dall’Ammiraglio.

“È tardi” asserì Worthington con dolcezza, tornando a girarsi verso la moglie e accarezzando la morbida pelle del suo visino adorabile. “Devi andare.”

Saffie strusciò la guancia contro il palmo della mano di Arthur, socchiudendo gli occhi e annuendo appena. “Pensi che possiamo…” cominciò a dire, arrossendo di una strana vergogna ed evitando ostinatamente lo sguardo dell’uomo. “Possiamo rivederci?”

Il Generale Implacabile sorrise. “Sarò impegnato a Rockfort per parecchi giorni a causa della mia partenza, ma ci rivedremo” la rassicurò, eppure tradendo una sorta di indecifrabile malinconia. “Dobbiamo parlare, Saffie.”

“…eviteremo una guerra pagandola al prezzo di una sanguinosa battaglia.”

No. Non andartene via proprio ora che ci siamo ritrovati.

Un paradossale spasmo di preoccupazione misto a felicità si propagò nell’anima della Duchessina, che non disse nulla e poté solo seguire con gli occhi l’imponente sagoma del marito allontanarsi da lei, sciogliendo con riluttanza l’abbraccio che li aveva uniti.

Infine, Arthur parlò un’altra straziante volta:

“Ti ho guardata per tutta la sera. Sei bellissima, piccola strega.”

Un battito di cuore doloroso, un’ultima carezza al suo viso di ragazzina perduta e il tempo della Grande soirée era giunto al termine.


§



Le ultime pigre ore

Non mancava poi molto all’alba. Solo qualche ultima pigra e sonnolente ora d’oscurità, che presto avrebbe lasciato il posto al risveglio del Sole, disco dorato ancora addormentato al di sotto della linea dell’orizzonte.

Catherine Chamberlain osservò, appollaiata sullo spazioso terrazzo di casa, le ultime carrozze allontanarsi dal cortile d’ingresso e varcarne gli alti cancelli, come di consueto allontanandosi dalla sua vita di sfarzi con indifferente superficialità. Gli occhi nocciola della ragazza si abbassarono pigramente sul tiro a quattro della Duchessina di Lynwood e quest’ultima lo inseguì con sguardo assente, mentre una sgradita tristezza accorreva a invadere il suo cuore di fanciulla vanitosa.

Anche tu un tempo avevi il suo stesso sguardo aperto e gentile, la sua stessa allegria contagiosa.

“È una ragazza sveglia” concesse Catherine, stringendosi nelle piccole spalle fasciate di seta azzurra e trattenendo al contempo un leggero brivido di freddo, per quanto fosse assurdo parlare di basse temperature in Giamaica. “Mi chiedo se…se vada d’accordo anche con il figlio del signor Rochester.”

Le dita della ragazza cominciarono a tremare leggermente ed ella le strinse sulle morbide maniche del suo abito pieno zeppo di merletti, cercando di sopprimere il feroce morso di sofferenza che affondò nel suo petto, ignorare il sentimento terribile causato da quel pensiero scomodo. Da qualche parte là fuori, tra le fronde dei fitti alberi esotici, gli uccellini colorati cominciarono a cantare il loro inno al giorno e una brezza scompigliò un poco gli splendidi capelli ramati della signorina Chamberlain, provocandole una voglia di piangere infinita.

Il tempo della Grande soirée si era concluso e non era riuscita ad affrontare il dottore, anzi rifuggendo nella sua antipatica codardia.

“Però, almeno, ha giocato a carte insieme a me” si disse Catherine, sorridendo però quasi subito di ironica quanto amara malinconia, le labbra scarlatte schiuse su un viso di porcellana.

Sono davvero una donna patetica.

Ed era tanto presa dalla sua stessa autocommiserazione, che quasi non si accorse del rumore leggero di passi in avvicinamento.

“Immaginavo di trovarvi qui, a prendere freddo e poi ammalarvi di malattie che negherete ostinatamente d’avere” fece una voce piatta alle sue spalle, trafiggendole il cuore dalla sorpresa e facendola voltare di scatto, le membra tese come una corda di violino. “Certe cose non cambiano davvero mai.”

Perché era quello il luogo in cui l’uomo le aveva dato lo stupido bacio che lei non riusciva a dimenticare.

L’alta figura snella di Benjamin Rochester si stagliava sulla soglia della terrazza, una mano pigramente appoggiata alla porta socchiusa e i lunghi capelli biondi che si muovevano al primo vento del mattino, attorno a un volto tanto affilato quando glaciale.

“Dobbiamo parlare del vostro comportamento, signorina Chamberlain” disse ancora il medico, il cui tono di calma freddezza fece fare un inconscio e spaventato passo indietro alla ragazza, che si trovò a sbattere la schiena contro il parapetto bianco del balcone.

Una notte uguale a quella appena conclusasi, il tempo in cui lui le aveva detto che il suo cuore apparteneva a un’altra.






L’Angolino di Sweet Pink:

*Se il capitolo ti è piaciuto, spero vorrai lasciarmi un voto e farmi sapere cosa ne pensi* \(°w°)/

Ho fatto diverse ricerche storiche prima di cominciare a redigere questa parte? Certo che !

Mi sono presa diverse libertà narrative? Ovviamente!

Buongiorno e Buon Sabato! (^u^)

Spero stiate tutti bene e che queste settimane siano state per voi produttive e felici, tanto quanto le mie sono state costellate da due settimane di meritate ferie e di vacanze. Non partivo per andare in vacanza dall’anno del mai, praticamente! (T.T)

Purtroppo questo mio intervento sarà più breve del solito, visto che ci tengo tanto ad aggiornare oggi e, osservando l’orologio, mi rendo conto di dover cominciare a prepararmi per andare a un matrimonio, pena ritardi terribili. L’ho già detto nella mia Bio, credo: sono tanto distratta nella vita reale, quanto pignola per quanto concerne il mio modo di scrivere! XD

Comunque! La mia speranza più grande è che questo capitolo vi sia piaciuto, perché ho cercato di descrivere al meglio l’intero svolgimento della Grande soirée, pensandolo in funzione delle interazioni tra i personaggi che vi si muovono dentro. Ho fatto anche delle ricerche storiche, quindi spero di essere riuscita almeno un poco a farvi respirare l’aria festosa e caotica del ricevimento.

Oh, e l’ultima parte del Capitolo! Giuro, mi sono sciolta a scrivere di Saffie e Arthur che, finalmente, sembrano intenzionati ad affrontare per davvero i loro stessi sentimenti! (*w*) Poi, per me non è stata una sorpresa scoprire un passato fra Catherine e Benjamin, perché lo avevo pensato da tanto tempo, in realtà: fin dallo sbarco a Kingston, dove avevo inserito un piccolo indizio in questo senso.

Però…eh, Benjamin, chi l’avrebbe mai detto che saresti diventato tu il playboy della storia! Prima Amandine e ora Catherine! XD

Ora, chiudo ringraziandovi immensamente! Un grazie enorme a chiunque segua la mia storia, a chi l’ha votata e recensita, perché mi riempite il cuore di gioia!

Un abbraccio virtuale ma fortissimo,

Sweet Pink

(°u°)/’’

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Capitolo 20
*** Diciannovesimo. La codardia del Dottore, la crudeltà della Signorina perbene. ***


Questa è la rappresentazione di me quando, a Ottobre, ho detto che sarei riuscita a mantenere la scadenza mensile: *INSERIRE IN QUESTO SPAZIO L'IMMAGINE DI UN INTERO CIRCO PIENO DI PAGLIACCI CHE BALLANO*

Malgrado le mie parole da pagliaccia, giuro di aver trascorso dei mesi difficili, tanto che non nego di aver incontrato delle difficoltà anche nella redazione di questo capitolo, scritto lentamente, ma controllato diverse volte.

Vi fermerete con me in fondo alla lettura? Io sarò nel mio angolino!

(*w*)/




CAPITOLO DICIANNOVESIMO

LA CODARDIA DEL DOTTORE, LA CRUDELTÀ DELLA SIGNORINA PERBENE



§



Prima di lei



Erano tutti stupidamente convinti che fosse stato semplice crescere un bambino senza madre; allevare il figlio di un amore proibito e disperato, la cui nascita non solo aveva segnato per sempre il destino di due famiglie, ma aveva infine causato la morte dell’unica donna che avesse suscitato in lui un sentimento tale da stravolgere ogni regola del loro mondo. Per la prima e unica volta in vita sua, aveva osato ignorare le volontà ferree del padre adottivo, pagandone le crudeli conseguenze.

Siete stato graziato dalla vostra miserabile fortuna e ancora avete la presunzione di voler entrare in casa mia” aveva detto cinque anni prima un glaciale Duca Alastair, il giorno in cui Benjamin si era fatto vedere nella tenuta dei Lynwood, pretendendo che gli facessero vedere Amandine. “Oh no, voi vivrete con la consapevolezza della vostra immensa inferiorità; una vita senza mia figlia, ma con la presenza costante del peccato che avete commesso.”

Ricordando le parole sprezzanti dell’uomo, a Benjamin Rochester venne da pensare che – probabilmente – quel demonio bastardo del padre di Saffie avesse pianificato già allora il matrimonio fra Arthur e la sua Amandine.

Voi e questa creatura non metterete mai più piede nel Northampton. Sappiate: non vi sto elargendo una grazia, dottore, ma bensì la vostra punizione divina.”

Oh, all’inizio continuare a vivere era stato un vero e proprio inferno. In fondo, era un ragazzo di ventuno anni appena compiuti, in compagnia di un neonato che piangeva ogni santo giorno e della sola prospettiva di finire in uno stato di vergognosa indigenza, peggiore di quella da cui Simeon l’aveva sollevato quando i suoi veri genitori erano deceduti. Per il bene suo e del bambino, Benjamin aveva dovuto decidersi a rientrare nei ranghi della Marina Britannica, accettando la salvezza che per la seconda volta Worthington gli aveva offerto; una mano tesa nella sua direzione e che l’aveva sottratto dalla disperata voglia di distruggere qualsiasi cosa avesse intorno a sé.

Perché era insostenibile, ovviamente, il dolore provocato dal sapere Amandine per sempre lontana da lui e dal piccolo Ben.

Era stata Teresa ad aver scelto il nome del figlio del dottore. Durante i lunghi mesi di traversata, infatti, Benjamin si era letteralmente immerso nel suo ritrovato lavoro, mentre il bambino era stato lasciato alle cure maldestre dei marinai e di un Capitano Inrving inaspettatamente paterno; persino il giovane Commodoro Worthington, di tanto in tanto, passava a dare un’impassibile occhiata al neonato senza nome. Solo il medico di bordo pareva non curarsi del suo stesso figlio e, anzi, non sprecava mai parola alcuna su di lui, né si era preso la briga di spiegare da dove fosse saltato fuori.

Forse per rispettare questa muta volontà, o per chissà quale altra oscura ragione, Arthur non aveva fatto cenno con il fratello dell’argomento e, alla stessa stregua delle Lynwood, una incancellabile riga nera era stata tracciata sul lungo periodo in cui i due fratelli si erano allontanati.

Come poteva parlare con qualcuno, quando gli era impossibile anche solo volgere lo sguardo sul piccolo di cui Amandine gli aveva fatto dono?

Benjamin sentiva di aver paura di affrontare il bambino e tutto ciò che poteva comportare crescerlo, amarlo. Tra le braccia di emozionati uomini di mare da troppo tempo lontani dai loro figli, la minuscola creatura che agitava in aria le manine, scalciava con le sue gambe paffute, non era altro se non il costante ricordo di ciò che l’uomo aveva fatto ad Amandine.

Troppo doloroso immaginarla rinchiusa e sola, in attesa che la crudeltà del Duca la mettesse tra le disgustose mani di qualche sua ricca conoscenza.

In questo modo codardo il medico di bordo aveva ignorato la presenza del piccolo ed era sbarcato a Kingston, abbandonandolo alla Zuimaco, davanti agli occhi esterrefatti di una indignatissima Teresa Inrving. Malgrado la donna di colore avesse fatto più di un tentativo per convincerlo a prendersi le sue responsabilità di padre o, almeno, fare una qualche sporadica visita a Ben, nessun intento era riuscito a smuovere l’impassibile distacco dietro cui l’uomo aveva nascosto la sua dolorosa paura.

Erano in questa maniera passati i primi mesi di vita del figlio di Amandine; un figlio che, nel profondo, Benjamin ardentemente amava e aveva desiderato come suo. Eppure, ancora, il ricordo delle ultime parole di Alastair Lynwood era il solo suono che continuava a ronzare ininterrottamente nella sua mente e fra i suoi pensieri, avvelenandogli un’anima a pezzi.

Aveva gli stessi occhi turchesi della donna amata, il suo vergognoso peccato mortale.

No, si era detto il medico, il senso di colpa era un macigno di tale portata, che solo rifuggendo negli asettici quanto pressanti doveri della sua professione poteva sperare di trovare il barlume di un qualcosa che assomigliasse vagamente alla pace. Così, i giorni si erano accavallati l’uno sull’altro e tutti uguali, caratterizzati da un senso di vuoto e di una quiete anestetizzata, ma mai reale; questo suo stato di fredda sopravvivenza risultava ancora più evidente nei rari momenti in cui la sfortuna gli concedeva del tempo libero: era ormai andato perduto, il conto di tutte le volte che i soldati di Rockfort avevano mandato a chiamare il Commodoro Worthington con urgenza; gli occhi iniettati di sangue di Benjamin Rochester si alzavano sulla porta spalancata ed ecco che il tanto perfetto e celebrato fratellastro faceva la sua muta comparsa, entrando nella stanza con un’espressione di rabbiosa severità stampata sul viso da demonio.

Complimenti. Hai di nuovo distrutto ogni cosa” commentava tutte le dannate volte Arthur, girando appena il capo castano da una parte all’altra della camera, prima di piegare le gambe e chinarsi su di lui, gli occhi smeraldini immobili e duri come lo sarebbe stata una pietra. “È questo il genere di uomo che hai deciso di essere, mentre il marmocchio cresce senza suo padre?

Oh, lo ricordava ancora, il modo atroce in cui il suo stesso viso si era trasformato in un ghigno sprezzante e osceno, al solo udire le parole colme di superiorità di colui che per diritto di nascita poteva avere ogni cosa. “Sei qui per punirmi, Implacabile?” aveva quindi ribattuto, schioccando la lingua e quasi ridendo, infine allungando un braccio pallido sul ginocchio e abbandonandosi con le spalle alla parete, i lunghi capelli biondi che – selvaggi – ricadevano sul petto fasciato da una logora camicia bianca. “Quanto deve essere orgoglioso nostro padre di te e della tua perfezione; quanta, quanta gioia devono portargli le notizie del sangue versato dal figlio che conosce solo la morte!”

Benjamin aveva riso subito della sua stessa presa in giro, giudicandosi un patetico sciocco reso crudele dall’alcool e dal senso di colpa che, in effetti, continuava a impedirgli di fissare i fermi occhi verdi di un Worthington dall’espressione indecifrabile.

Sei ubriaco” aveva sentenziato dopo poco quest’ultimo, scuotendo la testa con fredda rassegnazione, prima di rialzarsi in piedi e aggiungere dall’alto del suo arrogante sprezzo: “Non ho alcuna intenzione di perdere tempo a combattere contro la tua stupida autocommiserazione; non quando ti devo venire a recuperare in questo disonorevole stato.”

“Ah! Chiedo perdono a Sua Eccellenza il Commodoro per averlo strappato dai suoi numerosi impegni giornalieri!”

Arthur gli aveva lanciato una glaciale occhiataccia di sbieco, senza però sprecare un solo fiato per ordinare a due sottoposti rigidamente sull’attenti di rompere le righe e sollevare di peso il corpo scarno del fratello. Era bastato solo un suo lieve cenno del capo, ed ecco che i due giovani soldati si erano staccati dalla porta con un gesto secco, impassibili come due statue di marmo. Un lieve “Oh!” liquoroso era uscito dalle labbra di Benjamin, mentre veniva messo sulle gambe a forza, obbligato ad affrontare la silenziosa e incrollabile determinazione del cosiddetto Generale Implacabile.

Qui non si tratta solo del tuo dolore, ma c’è molto di più in gioco” aveva commentato poi il Commodoro, avvicinandosi a lui e prendendogli il viso fra le mani abbronzate, quasi volesse inculcargli nella testa le parole che si apprestava a dire. “Non ti è concesso il lusso di pensare a ciò che ti sei lasciato alle spalle, adesso. Dimenticalo, fratello. Dimenticalo o distruggerai ogni sacrificio che nostro padre ha fatto per noi.”

Se non fosse che lui, al contrario di Arthur, non aveva mai posseduto un abisso a cui tornare. In cui nascondersi.

Per te” lo aveva corretto immediatamente il dottore, aprendosi in un lieve sorrisetto, tanto inquietante quanto disperato. Fra le ciocche dei suoi capelli biondo cenere, le dita di Worthington cominciavano a tremare dal nervosismo e Benjamin aveva ben compreso di star facendo leva su un nervo scoperto. “Stai parlando dei sacrifici che ha fatto per te, degli sforzi che ha sempre compiuto per preservare la strada che con tanta spietatezza tu hai scavato, arricchendoti di potere e denaro, ma solo dispensando morte. Nostro padre finge di non vederlo, ma sa benissimo quanto tu sia giorno dopo giorno sempre più simile a Hector.”

Hector, il Grande Diavolo che divora ogni cosa.

A ripensarci negli anni a venire, Benjamin si era domandato molte volte come esattamente Arthur fosse riuscito a mantenere una presenza di spirito tale da non ucciderlo sul posto. Non che allora gli sarebbe poi importato molto di morire a causa delle sue terribili parole di ubriaco; no, inutile mentire: al tempo, nemmeno il piccolo Ben l’avrebbe smosso quel tanto, se la prospettiva era quella di poter incontrare di nuovo Amandine, fosse ella in Paradiso o all’Inferno.

Worthington non l’aveva ucciso quel giorno, ma – Dio – se i suoi occhi chiari non erano diventati quelli di un demonio pronto a farlo a pezzi! L’uomo aveva aggrottato le sopracciglia brune sulle iridi immobili, mentre un taglio disgustato si era formato sulle sue labbra sottili, strette le une contro le altre come se il proprietario stesse facendo uno sforzo immane per trattenersi dal strangolarlo con le sue stesse mani.

Stupido plebeo” l’aveva insultato a sua volta, quasi ringhiando fuori le parole; e a tutti e due era probabilmente parso di tornare agli anni in cui, da bambini, non facevano altro se non riempirsi di ingiurie in continuazione, per grande disperazione di Simeon. Un secondo di pesante silenzio era intercorso fra loro, prima che Arthur mollasse bruscamente la presa e si allontanasse di un passo, aggiungendo solo: “Non ci rimane che sperare Lord Chamberlain si dimostri incline alla misericordia.”

“La testa di quell’uomo è tanto vuota, tanto sono di frivola vacuità i suoi pensieri, che dubito desideri trascinare la nostra famiglia e sé stesso in una situazione disdicevole.”

“È l’influenza che esercita presso il Governatore ciò a cui io guardo con grande attenzione” aveva commentato a sua volta il Commodoro, con freddezza. “Mi sarà utile per raggiungere il mio obbiettivo. Vedi di ricordartene, la prossima volta in cui ci sarà occasione di incontrare lui e, sopra ogni cosa, sua figlia Catherine.”

Un forte spasmo di nauseante paura aveva agguantato in un attimo lo stomaco di Benjamin, tanto da fargli venire l’istinto fugace di rimettere fino all’ultimo litro di liquore ingerito; si era così liberato con uno strattone violento dalla presa degli uomini di Worthington e aveva detto, impallidendo come un cadavere: “Non vedresti i tuoi desideri facilmente esauditi, se fossi tu a sposare la futura Lady Chamberlain?

Arthur stava giusto preparandosi a prendere congedo dal fratello e andarsene dalla stanza che, in un secondo, uno strano turbamento parve inchiodare sul posto la sua possente figura autoritaria. L’uomo si era bloccato a metà del suo movimento, le mani ancora intente a sistemare il bavero del suo cappotto blu, gli occhi anch’essi fermi su un imprecisato punto del pavimento; non l’aveva guardato, il malconcio fratello minore, ma quest'ultimo aveva colto subito il tono di incerta cautela con cui poi lui aveva parlato, quasi il Commodoro fosse incerto su cosa dirgli. “Non rientra nei piani di nostro padre” erano state le parole soffiate fuori dalle sue labbra sottili. “Io non posso sposarla.”

Chissà, se già allora il Commodoro stesse facendo riferimento al patto stretto con il disgustoso Duca Alastair; se, in una qualche strana maniera, Arthur stesse contemplando l’idea di parlargli di ciò che aveva fatto a Saffie Lynwood e le circostanze in cui la loro tragedia stava continuando a prendere forma.

Se in quel momento io e te ci fossimo parlati come due veri fratelli, avremmo potuto trovare una soluzione insieme?

Avresti dimenticato, solo per un istante, l’oscura ambizione che ti divora dentro?

Ovviamente, non era andata in quel modo: Benjamin ricordava di aver abbassato il capo biondo con rassegnazione e Arthur gli aveva voltato le spalle, uscendo dalla stanza rinchiuso nello stesso orgoglio con cui era arrivato. Non si erano parlati più di tanto nemmeno una settimana dopo, quando entrambi erano stati costretti a partecipare alla Grande Soirée che Lord Chamberlain organizzava almeno una volta all’anno non solo per smisurato capriccio, ma anche per ricordare all’intera Kingston chi era l’uomo più ricco e influente dell’intera colonia caraibica.

Qualche giorno prima dell’evento, Worthington aveva assoldato una più che agguerrita Teresa Inrving che, presentandosi nelle stanze del dottore con un nutrito manipolo di servi al seguito, si era data la missione di rendere presentabile il giovane uomo in questione. Benjamin si era infine arreso alle cure della moglie del Capitano Henry ma, di nuovo, rifiutava di ascoltare qualsiasi argomento di conversazione riportasse al piccolo Ben e al suo stato di salute; e si era trattato di uno sforzo in realtà vano: il signor Rochester poteva dire di aver varcato la soglia della tenuta dei Chamberlain come un raffinato gentiluomo dalla bellezza quasi efebica, mentre nella sua mente vorticavano oscuri e ossessivi i pensieri riguardanti il figlio che aveva abbandonato.

Aveva cominciato a bere quasi subito, confondendosi fra la folla in festa ed evitando abilmente ogni conversazione con un affascinante sorriso e un gentile cenno del capo, allontanandosi tutte le volte con una scusa diversa…sospinto da un’inadeguatezza dolorosa sempre più in alto, verso i margini e le stanze abbandonate della casa. Infine, aveva varcato l’ultima soglia, messo piede sopra una terrazza che dava direttamente sull’oscuro orizzonte lontano, ma illuminata dal chiarore soffuso di qualche candela accesa. Stagliata contro un immenso cielo pieno di stelle, la cui scia era di un bianco accecante, stava la figura di lei.

E per un folle attimo, aveva creduto si trattasse della sua Amandine.

Poi il cuore di Benjamin aveva saltato un battito e l’esile figura si era girata di botto, un mare di lisci capelli rosso fuoco che si erano mossi sopra un visetto di capricciosa bellezza, frivolo fascino. “Siete fuggito anche voi, signore?” aveva domandato la ragazza misteriosa, sbattendo due o tre volte le lunghe ciglia rossicce con fare ingenuo. “Sappiate, questo è il mio nascondiglio segreto.”

Non assomigliava per nulla alla madre di suo figlio ma, per contro, un desiderio vergognoso era lascivamente serpeggiato dentro di lui, malevolo. Nauseante.

Questo, infine, il modo in cui aveva incontrato per la prima volta Catherine Chamberlain. Non che nei mesi passati non ne avesse mai sentito parlare, vista l'insistenza con cui Simeon Worthington aveva cominciato a girare attorno all’argomento già da prima del suo lungo soggiorno nel Northampton: suo padre gliela aveva descritta come una fanciulla dai modi impeccabili e di una frivola ingenuità a dir poco disarmante, la cui bellezza non veniva in alcun modo scalfita dai scandalosi capelli color tramonto; fosse nata figlia di un altro ceto sociale, la tonalità della chioma fiammante le avrebbe garantito un’esistenza di riprovazione tale a quella condotta dagli illegittimi. Non che avesse aggiunto troppe informazioni di più, il buon vecchio Simeon, ma aveva domandato con fare vago se Benjamin non avesse in interesse a conoscerla di persona una volta libero dall’impegno preso con il Duca Alastair.

In fondo, quest’ultimo non aveva mai preso in considerazione l’idea di tenerlo presso di sé come medico per sempre.

E allora, Dio, perché hai dovuto mettere sul mio cammino Amandine Lynwood?

Non ci rimane che sperare Lord Chamberlain si dimostri incline alla misericordia.”

Eppure, lei gli aveva subito chiesto quale fosse il suo nome e il suo piccolo viso ammaliante si era aperto in un sorriso pieno di emozione, non appena aveva compreso chi aveva effettivamente davanti. Nessun orgoglio ferito o sconcertata indignazione aveva fatto mostra di sé nell’espressione della ragazza che, al contrario, lo aveva invitato a raggiungerla presso la balconata.

Fra i nebbiosi fumi dell’alcool, Benjamin aveva fatto in tempo a chiedersi se – dopo tutto ciò che era accaduto – Lord Chamberlain non si fosse completamente bevuto il cervello.

Non poteva non sapere del vergognoso bambino che il fratello dell’Implacabile aveva portato via dall’Inghilterra.

Di nuovo, Catherine lo aveva osservato a luminosi occhi spalancati, quasi non potesse credere della presenza dell’avvenente dottor Rochester a pochi metri da lei, ora languidamente appoggiato con le braccia lunghe al balcone di pietra bianca e un intenso sguardo nero rivolto in avanti, verso chissà che terra lontana. Al dottore era parso che la ragazza lo studiasse per qualche titubante secondo, prima di trovare il coraggio di aprire la graziosa boccuccia e dire: “Vi... vi sta piacendo la serata, signore?

Non ricordava nemmeno di averle risposto pure se, di certo, doveva averlo fatto. Dovevano aver scambiato per forza due o tre frasi di rito, formale cortesia, alle quali lui aveva prestato poca attenzione: in verità, dentro alla sua anima a pezzi covava la smisurata paura di una preda che sente le sbarre della gabbia stringerglisi addosso, mentre vorrebbe solo scappare via.

Però più si agitava tra le catene del suo indissolubile dolore, più quest’ultimo si faceva pesante, spaventoso.

Le vostre parole non riflettono affatto il vostro sguardo” aveva commentato ad una certa la signorina Chamberlain, forse corrucciandosi per le beffarde e secche risposte ricevute da lui. “Ho sentito molto parlare di voi, ma non credevo foste il tipo d’uomo capace di mettere una signorina dabbene in imbarazzo.”

Qualcosa in fondo alle sue viscere, forse uno spasmo di irritato fastidio, si era fatto sentire in maniera prepotente e inaspettata, portando Benjamin a voltarsi inconsciamente di lato, il viso pallido di sofferenza ora completamente alla mercé dello sguardo sorpreso della ragazza. “Oh?” si era espresso a sua volta, piuttosto ironicamente, alzando appena l’angolo delle sue belle labbra e risultando senza saperlo ancora più affascinante. “È questo che state dunque sottintendendo? Ammetto di non vedervi particolarmente sconvolta, né imbarazzata.”

A disagio, credo sia la definizione più calzante” erano state le parole uscite subito in risposta dalla bocca di una sveglia e perspicace Catherine che, in ogni caso, continuava a osservarlo a occhi spalancati. “Io sono la figlia di un Lord, non ho bisogno di sottintendere alcunché.

“Sono la figlia di un Duca. Io non ho bisogno di ricattare chicchessia per vedere esauditi i miei desideri.”

Nessuno. Nessuno sarà mai come lei.

Di certo, sarebbe stata una bugia dire che non era stato facile assecondare il suo impulso tormentato, spogliato da qualsiasi filtro a causa dell’alcool. Ricordava di essersi sporto su una Catherine emozionata, di averla imprigionata fra sé e il balcone di pietra e, in un attimo, di aver letto una languida attesa nei suoi occhi color del grano. “Questa vostra bocca da nobildonna pronuncia parole pericolose, signorina” le aveva sussurrato quasi ridendo, mentre il rossore apparso sul volto truccato della ragazza era andato ad alimentare la sua insensata voglia di farla sua, così da poter annegare il ricordo di Amandine e di Ben in quelle belle labbra schiuse. “Non sapete nulla di me.”

“So…”aveva boccheggiato lei, sporgendosi inconsciamente in avanti. “So quello che mi ha detto mio padre. Gli piacete, ma sostiene che siete uno degli uomini più tristi che abbia mai visto.”

“E voi cosa pensate, signorina Chamberlain?”

“Penso che abbia ragione.”

Una risata silenziosa aveva fatto vibrare l’aria fra loro, suggerendo a entrambi che qualcosa di pericoloso stava per accadere. L’espressione da volpe furbastra di Benjamin si era fatta ancora più evidente, tanto quanto era stata concreta la stretta delle mani aggraziate dell’uomo sulla vita di Catherine che, trattenendo il fiato, si sentì attirare seccamente contro l’addome snello del dottore. “Ah, è così?” aveva sussurrato sulla bocca della ragazza, quasi ignaro del tocco delicato delle sue piccole dita tremanti sul petto. “Devo essere come un libro aperto per voi, allora.”

“Siete voi ad averlo detto, non io” gli aveva risposto Catherine a bassa voce, ipotizzata dal movimento della testa bionda dell’uomo che si abbassava sulla sua, portando i loro nasi a sfiorarsi lentamente ed entrambi infine a respirare la stessa aria riscaldata dall’alcool, dall’impazienza. Dall’incoscienza.

Ragazza furba.”

Non aveva aspettato oltre per baciarla con una strana veemenza passionale, portando le loro bocche a contatto con urgenza e insinuando la sua lingua desiderosa fra due labbra morbide, inesperte. Esse si erano schiuse subito per lui e, inutile negarlo, Benjamin avrebbe sempre conservato il ricordo dell’innocente languore con cui Catherine aveva risposto timidamente al suo bacio: una resa piena di delicatezza, che l’uomo non pensava di meritarsi.

Solo un attimo di follia codarda, dove avrebbe potuto uccidere il pressante ricordo di colei che amava.

Come sempre era stato a Kingston, la brezza calda della notte aveva soffiato alta e abbracciato i loro sospiri segreti, nascosto l’inconsapevole gemito sfuggito dalle labbra umide dell’ancora ingenua signorina Chamberlain che, alla stessa stregua di Saffie Lynwood, non aveva mai incontrato l’annichilente disperazione di un uomo in catene. Entrambe, a quel tempo, non avrebbero potuto immaginare quanto crudele si rivelava l’oscurità che essi custodivano.

Oh, ma gli anni a venire avrebbero rivelato a tutti loro la crepa sulla superficie liscia dello specchio.

Immersa nella sua profonda incoscienza di frivola ventunenne viziata, Catherine si era anzi lasciata cadere senza remore fra le braccia dell’uomo di fronte a lei, premendo il piccolo seno contro il suo addome snello e infine socchiudendo appena gli occhi chiari, colmi di non troppo nascosta eccitazione. A pochi centimetri dalla sua bocca affaticata, la luce della luna le rivelava la bellezza di un volto bianco ed efebico, affilato e irreale; pure se, erano gli occhi neri incastonati su quello stesso viso a essere terrificanti: l’intensità di uno sguardo quasi impossibile da sostenere, dietro cui si celavano sentimenti pericolosi e oscuri.

Paura e rancore. Tristezza.

Malgrado l’abbondante alcol in circolo nel sangue e la frustrante pulsione provata nei confronti della fanciulla che suo padre tanto l’aveva invitato a conoscere, Benjamin stesso si era accorto del modo in cui la suddetta signorina lo stava fissando e, non volendo fare i conti con il suo stesso vergognoso stato, aveva quindi deciso di proseguire sulla strada che, in fondo, tutti avevano deciso per lui. Nel profondo, sapeva quanto ciò fosse ingiusto ma, d’altra parte, quale giustizia vi era stata nel perdere Amandine a causa del suo essere un plebeo?

Oh, stupido idiota, devi essere grato. Riconoscente di esserne uscito vivo, dopo aver volontariamente infranto le regole del tuo stesso mondo.

Proseguire, dunque. Non era stato difficile, visto l’infimo e capriccioso desiderio che lo portava a guardare la figlia del Lord con due iridi di fuoco. Dio, era bella oltre ogni dire – tanto da spezzare il cuore di un uomo – ma il dottore era cosciente di starla usando per ben altri motivi; motivi di cui avrebbe dovuto vergognarsi immensamente.

Vedi di ricordartene, la prossima volta in cui ci sarà occasione di incontrare lui e, sopra ogni cosa, sua figlia Catherine.”

Quale giustizia poteva esserci nel dover essere il fratello che non aveva alcun diritto di nascita?

Un gesto impercettibile della testa bionda ed ecco che aveva di nuovo rapito la bocca di Catherine, costretto le labbra contro la sua pelle morbida e profumata, stringendola a sé come se intendesse possederla proprio lì, sulla terrazza di una villa in festa. Chissà, forse sarebbe stato davvero capace di farlo, di scoprirsi così meschino da farla voltare con il petto contro i marmi della balconata e prenderla poi con l’urgenza di un animale fuori controllo, gli esili fianchi prigionieri delle sue mani lussuriose e una marea di onde rosse che si sparpagliavano ovunque nella notte.

D’altronde, non era forse ciò a cui su padre e Richard Chamberlain avevano pensato fin da prima della sua partenza per il Northampton?

Malgrado io sia un figlio di plebei e lei l’unica figlia di un Lord. Questa crudele ironia, beffarda sorte, mi fa venire voglia di distruggere ogni cosa.

La foga del momento non era che l’ennesima dimostrazione di quanto egli potesse dimostrarsi un uomo codardo e infimo, di una ben nascosta indole feroce che, in fondo, non era troppo dissimile da quella del suo tanto perfetto fratello adottivo. Nell’ombra della notte calda, le dita lunghe del medico erano risalite lente sul viso ingenuo di Catherine, scivolando con leggerezza sopra la linea della mascella e infine fermandosi sulle labbra truccate di rosa della ragazza, premendo contro la carne ed esigendo che la bocca della ragazza si schiudesse per lui, per la sua lingua crudele.

Di più e più a fondo. Annega nella mia profonda disperazione.

Cielo, se Saffie di Lynwood e la signorina Keeran Byrne l’avessero visto e conosciuto in quegli indecorosi anni, di certo avrebbero faticato molto a riconoscere nell’uomo di fronte a loro Benjamin Rochester, l’affabile e gentile dottore dell’Atlantic Stinger.

Si-signore, non credo…non credo sia saggio per noi andare tanto oltre. Qualcuno – Dio non voglia mio padre – potrebbe vederci” aveva sussurrato imbarazzata la futura Lady Chamberlain che, riluttante, si era discostata leggermente dall’uomo, pur continuando a premere una piccola mano aperta sulla stoffa della sua giacca intessuta d’oro. “Avremo tutto il tempo del mondo per conoscerci meglio, lo sapete bene.

Benjamin avrebbe sempre ricordato la timida delicatezza del primo bacio di Catherine, mentre non sarebbe mai riuscito a dire con certezza se le parole piene di sciocca speranza di quest’ultima avessero rappresentato una fortuna o una sfortuna: di fronte agli occhi chiari e civettuoli della ventunenne, al suo ammaliante sorriso illuminato dalle poche candele presenti in terrazza, l’uomo si era sentito improvvisamente precipitare al suolo e inghiottire dalla realtà in cui era stato incastrato; di nuovo nei suoi panni di fortunato plebeo che aveva voltato le spalle al suo unico figlio.

È questo il genere di uomo che hai deciso di essere, mentre il marmocchio cresce senza suo padre?

Ancora, nelle vesti del codardo ingrato che non era riuscito a stare al suo posto.

“Io...non posso” le aveva detto alla fine, scrutando in due occhi sperduti, da usignolo ferito. “No” aveva continuato con voce tremante, allontanandosi di un passo da una raggelata Catherine e sentendosi anch’esso preda di dolorosi brividi di terrore. “Non posso farlo.”

Non posso tradire Amandine e Ben, perché questa mia anima a pezzi è tutto ciò che ho.

Ovviamente, le parole del medico erano piombate sulla testa della giovane Catherine come una inaspettata pioggia fredda, di quelle che non si sa bene da dove provengano, in effetti capaci di rovinare una bella giornata di sole. “Ma io…io non capisco” era stato il commento esitante della ragazza, un pietoso pigolio che aveva squarciato sia i rumori della festa in svolgimento sotto di loro, sia il cuore pieno di colpa del signor Rochester. “Io credevo…mio padre ha detto che anche voi eravate d’accordo.”

Oh, quanto, quanto si era rivelato lo stesso impulsivo e stupido idiota che aveva compromesso Amandine Lynwood.

Negando qualsiasi risposta a una signorina Chamberlain sull’orlo delle lacrime, Benjamin si era agilmente voltato di spalle e aveva cominciato a incamminarsi a grandi passi in direzione dell’ingresso di casa, il cuore che batteva violento dentro alla sua carcassa di gentiluomo mancato. La sua figura alta e snella aveva quasi raggiunto la soglia della porta, se la presa feroce di cinque piccole dita non l’avesse trattenuto sul posto: in un attimo silenzioso e fatale, Catherine aveva raggiunto l’uomo e si era aggrappata lui, stringendo la mano attorno al suo polso ossuto.

“Se…se è la questione della reputazione a preoccuparvi!” aveva esclamato d’un fiato la ragazza dai capelli rossi, sorpassando il signor Rochester e piazzandosi davanti a lui, così da sbarrargli la strada. “A me non importa niente delle vostre origini! Né…né che abbiate già un figlio da un’altra donna!”

Non poteva esserci frase più sbagliata, più fatale. Forse l’ingenua signorina Chamberlain aveva voluto assicurarsi la fiducia e il rispetto dell’uomo al centro delle fantasticherie che suo padre le aveva inculcato nella testa, ma niente poteva cancellare la disgustosa natura dal rapporto che le loro famiglie stavano cercando di costruire, convenientemente ignorando l’esistenza dei due anni precedenti.

Eppure sono esistiti e mi hanno dato un figlio. Il mio piccolo Ben, che mai potrò abbandonare per davvero.

Così Benjamin aveva distrutto in una notte il cuore giovane e allegro di Catherine Chamberlain.

Io l’amo” aveva sentenziato quindi in tono di pietra, sia ignorando il sussulto stupito della ragazza, sia trascurando volontariamente il fatto che quest’ultima sapesse della sua situazione di padre di un bambino illegittimo, ancora non riconosciuto. “Il mio cuore e la mia anima apparterranno eternamente alla madre di mio figlio.”

Un muto secondo e il cielo s’era fatto più nero, prima che la scia rossa d’un fuoco d’artificio salisse dritta nel cielo, fischiando e scoppiettando allegramente. Una stella di luci dorate era poi esplosa e Benjamin si era inchinato di fronte alla figlia del Lord, i capelli biondi che andavano a nascondere un viso privo di emozione, freddo e indifferente.

“Perdonatemi.”

Non le aveva detto null’altro.

Il dottore aveva sceso le immense scale di marmo e se n’era andato dalla festa, scappando da una folla di manichini imbellettati che non s’erano nemmeno avveduti di lui e del suo dolore; finalmente conscio del luogo dove avrebbe veramente voluto stare, determinato a raggiungere la Zuimaco ad ogni costo, quasi ne andasse della sua stessa vita. Una volta raggiunto l’ingresso della bianca tenuta coloniale e superato fisicamente la furia di una Teresa Inrving costretta a destarsi alle quattro di un fresco mattino, Benjamin si era precipitato nella stanza dove il piccolo Ben dormiva beato e ne aveva raggiunto il lettino quasi correndo, incespicando sui suoi stessi passi.

Il tempo di stringere fra le braccia il corpo della creatura sua e di Amandine, di crollare in ginocchio e piangere, che Catherine non esisteva più nella sua mente. Nulla contava più del suo fragile figlio, un bel niente importava tanto quanto il tenerlo in braccio e sentire contro la guancia il tocco della sua pelle morbida e profumata di talco, l’udire distintamente i suoi vagiti confusi e un poco spaventati.

“Non avete un minimo di tatto, signor Rochester” aveva sentenziato seccamente Teresa Inrving, dopo uno sbuffo pesante. La donna di colore – che se ne era stata per un po’ad osservarlo dalla porta con due penetranti occhi da mamma orsa – si era avvicinata alla sagoma elegante dell’uomo, ancora inginocchiata sul pavimento e sconvolta dai singhiozzi. “Sembra che abbiate deciso quale strada percorrere d’ora in avanti.”

Benjamin aveva allora annuito una volta sola, proprio come avrebbe imparato a fare suo figlio negli anni a venire.

Quella ragazza è davvero bella da spezzare il cuore, ma io non sono che un codardo dall’anima a pezzi.

“Forse mi converrebbe fuggire oggi stesso e portare con me Ben” aveva osservato il dottore, voltandosi con un mezzo sorriso in direzione della donna in piedi dietro di lui. “Perché stavolta non ho alcuna intenzione di assecondare i piani di mio padre e del mio caro fratellastro.”

Le mani grandi di Teresa si erano chiuse subito, due pugni stretti contro i fianchi giunonici della moglie del Capitano, mentre quest’ultima alzava il mento sdegnosamente, fissando il viso affilato di Benjamin con uno sguardo terrificante. “Non sottovalutate il pesante tormento di Simeon Worthington, né l’affetto che nutre nei vostri confronti. Continuate a dimenticare le volte in cui vi ha teso la mano.”

Già. Ancora una volta, non mi rimane che sperare nella misericordia degli altri.

Alla fine, Lord Richard Chamberlain si era rivelato realmente un uomo di frivola vacuità, i cui interessi stavano unicamente nel vivere nel suo bel mondo di mobili d’oro e passeggiate a cavallo, senza che interferenza alcuna potesse intaccare la reputazione del suo nome e, con essa, lo stile di vita che per generazioni la sua famiglia aveva condotto. Era bastata una semplice visita per risolvere il tutto: l’Implacabile in persona si era recato nella tenuta del suddetto omuncolo, portando con sé una lettera redatta dall’Ammiraglio Worthington e trattenendosi giusto il tempo di un tea formale, di cortesia; una volta finito il colloquio, Arthur aveva potuto incontrare Benjamin e comunicargli di essere un uomo finalmente libero di fare ciò che più gli piacesse, purché promettesse di servire esclusivamente sotto il suo comando da quel momento in avanti.

Il bel contrappasso atto a espiare i suoi errori passati.

Al contrario del Duca Alastair, Richard Chamberlain non aveva scelto la via della crudeltà, ma bensì sorvolato sul dolore della giovane figlia con il solito superficiale atteggiamento di chi è capace di insabbiare facilmente ogni problematica. La purezza della sua unica figlia era rimasta intatta; il resto era solo un piccolo ostacolo sulla strada tracciata per lei.

La pietà del Lord aveva anche messo a tacere con la forza le lettere che Catherine era riuscita a inviare alla Zuimaco di nascosto: inchiostro inumidito dalle lacrime, parole che Benjamin non riusciva a leggere per davvero, carta destinata a finire in mille pezzi sul pavimento lucido.

“Perché non avete mai risposto a nessuna delle mie lettere?”

L’ultima frase che lei aveva sprecato sull’argomento, indirizzandosi a lui con un tono stravolto dalla sofferenza e dall’umiliazione. La ragazza aveva aspettato con tenacia che il dottore tornasse dalla sua prima missione alle dipendenze del Commodoro Worthington ed era riuscita a intercettarlo al suo arrivo al porto, lanciando infine uno sguardo spaventato sul bambino alle spalle di Benjamin, che se la ronfava beatamente tra le braccia di una balia assunta per l’occasione.

“Non so di cosa stiate parlando, signorina Chamberlain” aveva risposto brevemente il signor Rochester, rinchiudendosi nell’atteggiamento freddo e distante che le avrebbe sempre riservato. “Prendo congedo. Vi auguro una buona giornata.”

Aveva sorpassato il suo corpo da piccola principessa senza aggiungere altro, ignorando il colpo al cuore che il ritrovarsela davanti all’improvviso gli aveva procurato ma, anzi, proseguendo passo dopo passo sul sentiero che aveva scelto per sé stesso.

Non importa a quanto dovrò rinunciare, a chi dovrò obbedire, se posso vivere insieme a Ben.



§



Dopo di lei

Grande Soirée del 1730




Una lunga serie di passi in avanti, compiuti senza la vera e propria coscienza di star vivendo per davvero ma, in fondo, continuando a camminare solo in memoria del sacrificio di Amandine e di ciò che ne era stato generato: Ben, il figlio che non sarebbe mai dovuto esistere, reale incarnazione del peccato mortale che aveva stravolto l’esito degli eventi, forzato il corso di un destino già scritto nel libro delle loro vite da prigionieri.

Eppure, non sono riuscito a fermarmi.

Senza battere ciglio, ma bensì immobile come una fredda e altera statua, il dottor Rochester spostò pigramente lo sguardo vuoto sul corpo minuto e scosso dai brividi di Catherine Chamberlain, evitando così di indagare più a fondo sia le colpe del suo passato da vergognoso plebeo, che la paura improvvisa in cui erano annegati gli occhi nocciola della ragazza.

Sapevo molto bene che avrei dovuto obbedire a mio padre e aspettare pazientemente la moglie decisa per me. Non avrei dovuto nemmeno guardare Amandine, figurarsi innamorarmi di lei.

La giovane di fronte a lui si strinse nelle spalle con forza e non smise di tremare nemmeno per un attimo, quasi non riuscisse ad abituarsi alla presenza di Benjamin nella stessa maledetta terrazza. Quasi non riuscisse a credere che, dopo quattro anni, l’uomo fosse venuto a cercarla.

Amare Amandine Lynwood mi ha strappato l’anima in pezzi; eppure, ancora, non sono riuscito a fermarmi.

E ora si trovava lì, a raccogliere i risultati di ciò che aveva seminato o, per meglio dire, i cocci rotti dei suoi imperdonabili errori.

Il sole tanto tiepido quanto dolce del primo mattino sorse alle spalle di Catherine; un disco d’oro che incendiò la chioma rubina della ragazza, ed egli fu obbligato a riportare la sua attenzione sull’espressione atterrita del suo visino solitamente sprezzante.

“Perché non avete mai risposto a nessuna delle mie lettere?”

Il senso di colpa del fratellastro di Arthur continuò a rimanere sullo sfondo di una indifferenza impressionante, ma questo non stava a significare che esso fosse in realtà meno presente nella mente di quest’ultimo. “Per comportamento intendo, come ovvio, la vostra spaventosa arroganza e invadenza nei confronti della signora Worthington” fu la frase piatta che uscì dalle labbra gelide di Benjamin, apparentemente deciso a fornire precisazioni sulle parole che poco prima aveva pronunciato e che erano rimaste ad aleggiare fra loro, nell’aria di quella fresca giornata. “Non che intendessi altro, sia chiaro” aggiunse il dottore, monocorde.

“A me non importa niente delle vostre origini! Né…né che abbiate già un figlio da un’altra donna!”

Dopo un piccolo sussulto sorpreso, le spalle esili di Catherine caddero verso il basso, tradendo così una delusione che quest’ultima avrebbe voluto rimanesse nascosta agli occhi dell’uomo di fronte a lei. Pure se, piuttosto bizzarro, le iridi con cui la ragazza lo stavano fissando erano specchio di una frustrazione cristallina, mortale.

Seriamente” commentò infine la presuntuosa Lady Chamberlain, il cui tono di voce era tremulo e fragile come una foglia mossa dal vento. Anche Catherine, in fondo, poteva dire di sentirsi attaccata debolmente a un sottile ramo; l’ultimo barlume di superficiale orgoglio che la tratteneva dal cadere al suolo e rivelare così all’impassibile signor Rochester la vera sé stessa…la donna patetica e sciocca che continuava ad amarlo senza alcuna speranza. “Seriamente?!” ripeté quindi, forzando le sue belle labbra in un sorriso di frivola presa in giro. “Chi siete voi, signore, per poter dire come comportarmi nella mia stessa casa?”

Tu, l’uomo che ha rubato la mia allegra spensieratezza e poi mi ha detto di aver dato il suo cuore a un’altra, stravolgendo il mio mondo pieno di ricchezza.

Oh, di certo, quella lontana notte di quattro anni prima aveva rappresentato una vera lezione; perché niente, da allora, era più rimasto lo stesso: la sua viziata esistenza fatta di bei nastrini e leziosi belletti colorati non era che la farsa dietro cui si celava una vita ben più crudele. Ingiusta.

“Siete altro, se non un fortunato plebeo?” aggiunse allora Catherine, inacidita, ricacciando indietro odiose lacrime e disgusto per sé stessa; a diversi metri da lei, il dottore non batté ciglio e, per questo, la ragazza si detestò ancora più intensamente. “No. Ringraziate io non abbia deciso di allertare i domestici per farvi sbattere fuori.”

Le parole vibranti di finto sdegno ricaddero nella noncuranza di un muto ghigno, ossia quello che deformò appena i lineamenti affilati di Benjamin. L’uomo sogghignò leggermente e sul suo bel volto candido apparve un’espressione di scetticismo evidente: non pareva essere stato toccato in alcun modo dall’insulto della figlia di Richard ma, al contrario, agli occhi di quest’ultima il viso del dottore risultò tale e quale al muso di una inquietante volpe divertita.

“Entrambi sappiamo che non farai nulla del genere, signorina Chamberlain” asserì il signor Rochester, il cui tono si fece freddo e pericoloso, nel qual mentre egli si incamminava verso il centro della terrazza, portando la sua figura snella a poca distanza dalla giovane dama che continuava con tanta stupidaggine a sprecare il suo amore per uno come lui. Il tutto, perché egli aveva ceduto alla follia di una calda notte stellata, dove aveva creduto di poter uccidere il ricordo di Amandine con altre labbra in attesa delle sue; ed era stato talmente codardo da parte sua sparire nel nulla, quasi quel momento di passione reciproca non fosse mai esistito.

Decidendo sì di assumersi finalmente le sue responsabilità di padre, ma infine fuggendo di nuovo dalle conseguenze di ciò che aveva commesso.

Sono io, lo sporco plebeo che ha continuato a condannare tutti con le sue disgustose azioni, Catherine compresa. A causa mia, la storia di ognuno è stata riscritta.

Un sorriso distante si palesò sulla bocca del medico ed egli pensò bene di annegare il suo rivoltante senso di colpa continuando il discorso per cui, in fondo, aveva deciso di affrontare la vanitosa figlia del Lord; colei che – da sempre – vedeva lontana anni luce da lui.

Un abisso incolmabile e senza fine la distanziava da Amandine.

“Infine, il mio fratellastro sembra essersi stancato di voi e della vostra insistente attenzione” disse quindi Benjamin, con finta soavità. “Io stesso devo riconoscergli di aver dimostrato una qual certa pazienza nei confronti dei vostri capricci; ma stasera avete oltrepassato il limite, signorina.”

Catherine spalancò tanto d’occhi e un rossore violento rese il suo volto bianco latte del tutto paonazzo, fulminato da una vergogna che la giovane fu fin troppo brava a nascondere dietro un contegno tra i più offesi. Due sottili sopracciglia ramate si abbassarono di botto, aggrottandosi sopra due iridi lucide di rancore: poteva dirsi lo stereotipo dell’aristocratica frivola e altolocata, ma questo non significava lei fosse anche un sciocca; d’altronde, aveva colto al volo a chi Rochester stesse facendo in realtà riferimento, nel suo parlare di limiti superati.

Non l’aveva nominata direttamente, la perfetta Saffie di Lynwood, ma Catherine non aveva affatto ignorato il turbamento con cui gli occhi desiderosi dell’Implacabile si rivolgevano a lei, né l’affettuosa tenerezza che il dottore dimostrava a più riprese nei suoi confronti. Una gentilezza, uno sguardo aperto e disponibile, che la ragazza dai capelli rossi aveva segretamente desiderato e non era mai riuscita a ottenere, vista e considerata l’indifferenza con cui gli occhi del medico si erano in quegli anni soffermati su di lei.

Un amore non suo, l'impietoso fuoco che aveva consumato interamente l’ingenua allegria della sua giovane anima.

Oh, considerò Catherine, rigurgitando altra acida e insopportabile rabbia, se ripensava a quanto ardente era stato il desiderio di poter incontrare l’avvenente figlio adottivo di Simeon Worthington!

“Padre, è dunque vero che il dottor Rochester è ritornato dal Vecchio Mondo? Oddio, sono così curiosa di scoprire se è bello e malinconico tanto quanto dicono!”

In un atroce secondo, la futura Lady Chamberlain si sentì sospingere all’indietro, inghiottire dalle nebbie di un’altra Grande soirée, ed ella nemmeno si accorse di aver compiuto un risoluto passetto in avanti. Il suo piccolo corpo da principessa si mosse da solo, sporgendosi verso un Benjamin ancora di pietra, mentre lei decideva finalmente di controbattere: “Quale curiosa e assurda pretesa la vostra, dal momento che sembrate avere un talento naturale nell’oltrepassare i limiti per poi fuggire via!”

“Questa vostra bocca da nobildonna pronuncia parole pericolose, signorina

E, ovviamente, il ghigno soddisfatto che arricciò le labbra scarlatte della ragazza andò pari passo con l’improvviso stupore che s’impossessò delle iridi oscure di un Benjamin ritornato – anche lui – al ricordo di un passato scomodo; un tempo che avrebbe voluto dimenticare o, per la precisione, riscrivere dall’inizio.

“Ho amato una sola donna nella mia vita… Farlo mi ha strappato l’anima in pezzi.”

Aveva superato il confine che per niente al mondo avrebbe dovuto valicare. Eppure, ancora, non era riuscito a fermarsi.

“Con quale arrogante superiorità osate venirmi a rimproverare? Con che titolo?” continuò Catherine, quasi gridando fuori le parole, ma puntandogli addosso due occhi accesi come un campo di grano in fiamme. “Avete sputato in faccia alla vostra fortuna, all’accordo concesso dal mio sciocco padre, nell’istante in cui vi siete dimenticato del posto che occupate nel mondo!”

Ed era talmente smaniosa di rigurgitare la sua rabbia repressa addosso al dottore, la bella e malvagia signorina Chamberlain, che nemmeno si accorse di quanto lei stessa non sembrasse più l’altezzosa figlia di Lord Richard, né di quanto in profondità Benjamin Rochester stesse precipitando. In fondo, pensò la ragazza, che importava se ora impazzivano entrambi, dopo quattro anni di soffocante non detto?

Come se riportare ogni cosa alla superficie servisse per fare in modo che lui si accorga di me, dimenticando così quella donna morta.

“La codardia è l’unico abito che vi sta bene addosso, malgrado continuiate a travestirvi da gentiluomo” rincarò allora la dose Catherine, ben decisa ad annientare i soffocanti sentimenti nutriti per l’uomo che si era preso la briga di parlarle dopo anni solo per tutelare Saffie Worthington; così, chiuse le dita a pugno e si chinò in avanti, affrontando l’espressione a dir poco tremenda dipintasi sul viso affilato del dottore. “Siete un codardo le cui azioni hanno portato solo disgrazia. Tutti credono il Generale Implacabile un uomo senza pietà o scrupolo alcuno ma, in realtà, siete voi il fratello più crudele dei due.”

Perché sono io la donna che ha ingenuamente aspettato di poterti incontrare. Sono sempre stata io, la donna a cui avresti dovuto giurare amore eterno.

Dal canto suo, Benjamin ascoltava impotente le parole letali della giovane Chamberlain, infine riconoscendosi incapace di opporsi o reagire all’ondata di sprezzo che quest’ultima gli stava riversano addosso. Anzi, si ritrovò anch’egli preda di glaciali brividi sottopelle, solido rancore, perché non c’era divinità alcuna che potesse salvarlo dalla verità di quelle maledette labbra rosse.

Non tentare un uomo disperato.

Una folata di brezza calda scompigliò i suoi lisci capelli biondi e glieli mosse appena sul viso smorto mentre, nella luce della pigra mattinata, apparve Amandine e lo sguardo di disperata tristezza che aveva offuscato un meraviglioso color turchese: come se si fosse trattato di quello stesso istante, Benjamin la vide voltarsi di scatto e correre via, sparire fra le ombre della tenuta dei Lynwood.

“…se non fosse per le notizie che portava con sé! È dunque vero che vostro padre sta pensando di accasarvi nel prossimo futuro, signor Rochester?”

Le parole affettate e frivole di una maliziosa Lottie Middleton.

Poi, nel buio della notte, aveva forzato la gabbia della bella colomba e, così facendo, dato il via a un fato che non aveva riguardato solo lui.

L’immagine di Arthur e Saffie si costituì nella mente del dottore che, sul serio, poté quasi percepirlo dentro di sé, il tormento di quelle due anime imprigionate tra gli stretti fili – le pesanti catene – forgiati dalla indifferente malvagità dei loro ricchissimi padri. Un legame crudele che Benjamin stesso aveva in principio iniziato a plasmare con simile noncuranza, senza fermarsi a pensare alle conseguenze.

Pure se, alla fine, i primi figli dei Worthington e dei Lynwood avevano dimostrato di conoscere molto bene le gabbie in cui dimoravano, mentre il figlio dei plebei non aveva alcun abisso a cui tornare per nascondersi.

Così, ogni colpa o peccato si trovò svelato nelle dolci e calde ore che seguirono alla Grande soirée; una giornata piena di sole accolse Catherine e il dottor Rochester, contrastando in maniera stupefacente con la violenza male controllata dei due che vi erano immersi.

Complimenti. Hai di nuovo distrutto ogni cosa.”

La figlia del Lord ancora lo fissava immobile, gli occhi pieni di lacrime e i capelli che ardevano al vento; tanto odiosamente bella e desiderabile, quanto ormai lontana dalla ragazzina ingenua che aveva incontrato per la prima volta su quella stessa terrazza. Aveva violato una bocca che sapeva di liquore e speranza, godendosene il sapore, ma poi scappando di nuovo di fronte al limite che aveva superato.

Una volta superato il limite, non si può più tornare indietro.

Ora, a distanza di così tanto tempo, Benjamin osservò di nuovo le deliziose labbra di Catherine schiudersi e pronunciare frasi pericolose, poiché esse minacciavano di spalancare le porte che davano su una strada morta e sepolta, inaffrontabile. Onnipresente, il cui nome veniva taciuto.

“Amandine Lynwood, Amandine Lynwood e ancora – sempre! – Amandine Lynwood” fece ad alta voce la signorina Chamberlain con voce isterica e tremolante, strizzando al contempo gli occhi per impedirsi di piangere, ma in questo modo parendo solo una bambina capricciosa. “Quattro anni fa mi avete detto che il vostro cuore e la vostra anima le sarebbero appartenuti in eterno; e da allora continuate a volgere lo sguardo altrove…lontano, sopra un orizzonte inesistente che non potete raggiungere! Anche quando era in vita non potevate farlo! La sorella della signora Wor…”

“…il suo nome.”

Fu un mormorio basso e monotono ma, oh, se la sfumatura di freddo disprezzo che vi era contenuta non servì ad ammutolire Catherine all’istante: la ragazza alzò gli occhi sorpresi su quelli del dottore e impallidì di botto, indietreggiando inconsciamente verso la balconata. “Co-cosa?” riuscì a sbottare, balbettando in maniera patetica; e si sentì perduta, poiché le iridi nere di Rochester erano spaventose da guardare.

“Ho detto: il suo nome. Non ve l’ho mai rivelato, non è vero?” ripeté atono Benjamin, da parte sua avvicinandosi pericolosamente alla signorina Chamberlain con lunghi passi cadenzati e tranquilli, che risuonarono sui marmi del pavimento come una condanna a morte. “Voi conoscete la storia di Amandine. Chi vi ha riferito il suo nome? Mio fratello, forse?”

Un ghigno osceno e affilato, di disperata ironia, deturpò la gentilezza dei lineamenti del dottore, tanto che allo spaventato cuore di Catherine non parve di riconoscere più chi aveva di fronte.

“Oh, voglio proprio saperlo” aggiunse con finta soavità l’uomo, il tono intinto in un divertimento crudele e beffardo. “Voglio proprio sapere chi è la persona che vi ha fatto credere di poter pronunciare il suo nome davanti a me.”

Un rossore violento e pieno di vergogna folgorò per la seconda volta la figlia di Lord Richard, mentre quest’ultima abbassava gli occhi lucidi e turbati sull’elegante panciotto sbottonato del dottore, aderendo a un mutismo che voleva negare risposte di sorta. Il lungo busto snello di Benjamin era a neanche trenta centimetri di distanza e, considerò lei, sarebbe stata una sciocchezza allungare la mano. Raggiungerlo.

Dimmi cosa è dunque stato quel bacio, se da allora riusciamo a tirare fuori la parte peggiore di noi stessi?

Catherine decise di stringersi nelle spalle, richiudendo sé stessa nel consueto silenzio gelido e indignato. Le sue iridi accese di un muto sentimento terribile scivolarono di lato, lontano da Benjamin e dalla rabbia di quest’ultimo, negandogli così risposte di sorta.

Un bel niente, ecco cosa è stato. Poiché è servito solamente a farmi piangere lacrime inesauribili.

Dall’alto della sua cocente delusione, della sua nevrotica tristezza di dama abbandonata, Catherine non poté in effetti accorgersi di come le sue parole avessero aperto una lacerante breccia dentro al dottore, per quanto la ragazza avrebbe potuto benissimo immaginarlo: aveva nominato la donna a cui il signor Rochester aveva donato il cuore, sputato fuori dalle labbra il nome della madre di suo figlio, ormai morta e persa per sempre; e, come se non bastasse, l’aveva fatto con una sprezzante superiorità di cui la signorina Chamberlain già si pentiva amaramente.

Di certo, non era stata una grande idea tirare in ballo Amandine Lynwood e questo era comunque reso palese dall’espressione disgustata di Benjamin, che dominava sul piccolo corpo tremante di Catherine come se avesse la seria intenzione di sollevarla di peso e buttarla giù dal balcone.

Se non avessi mai incontrato quella sfortunata donna, ora magari saresti al mio fianco e felice…invece di guardarmi con questo inamovibile odio negli occhi.

Chiaramente, il dottore non la spinse al di là della balconata, ma – lo stesso – si rivelò piuttosto crudele nei confronti della ragazza, tanto quanto lei lo era stata con lui. Una mano bianca si allungò con grazia sul bel visetto frivolo di Catherine, imprigionandone il mento tra il pollice e l’indice, infine obbligandola senza un briciolo di gentilezza ad alzare lo sguardo sorpreso, a guardare il signor Rochester in faccia.

“Lascia perdere me e questo tuo amore a senso unico” le disse lui a bassa voce, nascondendo la sua malinconia da uomo privo di anima dietro una strana freddezza elegante. “Non posso nemmeno paragonarti ad Amandine.”

Oh, quante volte il cuore di una donna è in grado di morire per mano dello stesso uomo?

Una codardia simile, infine, quella che aveva portato Benjamin e Catherine fino a quel punto. Un passato che poteva essere e non era stato, il punto di svolta responsabile di aver tracciato l’ennesimo confine invisibile fra un uomo e una donna inizialmente destinati a stare insieme. Di nuovo Amandine, infine, il deus ex machina di un legame d’odio che né il dottore, né la figlia del Lord desideravano avere.

Il sole della Giamaica posò la sua dolcezza su due occhi nocciola tanto chiari da sembrare un campo di grano in piena estate, svelando la lucentezza di uno sguardo pieno di lacrime.

Se non l’avessi mai incontrata…cosa saremmo potuti diventare l’uno per l’altra?



§



Keeran Byrne uscì canticchiando dalla porta principale della bianca e accogliente Zuimaco, andando incontro a una giornata colma di luce, ovviamente calda e tropicale. La bella testa ricciuta dell’irlandese si voltò da una parte all’altra dell’ampio cortile d'ingresso, mentre gli occhi neri di quest’ultima, belli come due gemme preziose, scandagliavano il suolo di ghiaia con grande aspettativa.

In fondo, si disse la diciassettenne, aveva più di una ragione per essere di buon umore e piena di agitata attesa: era passata più di una settimana dalla Grande Soirée e la signora Saffie era ritornata dal ricevimento del Lord in compagnia di una felicità del tutto inaspettata, che la domestica aveva subito imputato ad Arthur Worthington. L’importante e indaffaratissimo Generale Implacabile, però, non aveva fatto ancora la sua comparsa nella tenuta che aveva destinato alla moglie e il sorriso della povera Duchessina di Lynwood diventava giorno dopo giorno più debole e tremulo, specchio di una pensosa preoccupazione.

“La signora non si deciderà mai a raggiungerlo per prima. Sono entrambi così orgogliosi!” pensò Keeran concedendosi un piccolo sospiro rassegnato, nel contempo che la sua testa corvina si rivolgeva al fondo della via, dove un uomo a cavallo aveva fatto la sua improvvisa comparsa. “Fortuna che il tenente Chapman ha deciso di concedermi il suo aiuto.”

L'uomo misterioso rallentò la corsa del suo animale, che la raggiunse a un gioioso trotto. “Buongiorno” la salutò infine il cavaliere, rivelatosi essere un soldato di Rockfort appena adolescente. “Ho una missiva per la signorina Byrne. Siete voi, non è vero?”

“Bu-buongiorno” disse a sua volta l’irlandese, alzando le mani bianche, pronte a ricevere la busta che il ragazzino stringeva fra le dita. “Come a-avete fatto a indovinarlo?”

Un sorrisetto imbarazzato solcò il viso del giovane ambasciatore “Il mio tenente ha detto che la destinataria del suo messaggio è una dama dai capelli neri e di una bellezza rara, senza eguali” rispose poi, cercando di ignorare con educazione il rossore furioso comparso sul viso paffuto della diciassettenne. “Contando che sembravate aspettare la mia venuta, quella fanciulla non può essere altri che voi.”

“Mi hai colto alla sprovvista, Keeran. Ho promesso di esserti amico, ma le tue parole mi fanno venire voglia di avere più di questo.”

La signorina Byrne annuì goffamente e strinse al petto la lettera scritta da James, congedando il soldato con un ringraziamento balbettante che comunque ammaliò il cuore di quest’ultimo. La ragazza lo guardò partire al galoppo e scendere la china del sentiero, sparendo in una nuvola di polvere che la lasciò preda del suo cuore impazzito e dello strano tormento ormai ospite delle sue giornate.

Da quando Chapman aveva pronunciato quelle parole, Keeran non era riuscita a pensare ad altro che a lui.

A come sarebbe stato sentire la presa di due mani appassionate sulla pelle calda, piacere consumato fra candide lenzuola.

“È la prima volta che mi trovo a pensare a queste…a queste cose” ammise con sé stessa la ragazza, provando al contempo un bruciante sentimento di inadeguatezza e vergogna. Ugualmente, cinque piccole dita risalirono la linea del suo collo pallido, accarezzandone la pelle con gentilezza e provocandole dei brividi la cui natura era per lei un mistero o, almeno, lo era stato fino al momento in cui il Principe arrogante le aveva confessato di vederla non solo come un’amica piuttosto impacciata, ma anche come donna.

Lui ti desidera, ti vuole per sé. E tu lo desideri a tua volta, molto più di quanto non facessi con Douglas Jackson.

Un singhiozzo fatto di senso di colpa risalì il petto dell’irlandese e quest’ultima si forzò a spezzare l’incantesimo, concentrando la sua attenzione sul sigillo di ceralacca che chiudeva la busta proveniente da Rockfort. Il fortino seicentesco era meno distante dai domini di Saffie di quanto si potesse in realtà considerare e, realizzò Keeran in un secondo, la bella giornata che li aspettava poteva rivelarsi l’occasione giusta per mettere in atto il piano suo e di James.

Difatti, la ragazza spiegò il foglio di pergamena davanti agli occhi interessati e lesse esattamente ciò che si era prospettata di trovarsi davanti; una frase all’apparenza enigmatica che ebbe l’effetto di strappare un sorriso eccitato alle sue belle labbra carnose:

“Mi devi un favore, Keeran Byrne”





*Se il capitolo ti è piaciuto, spero prenderai in considerazione di votarlo e di farmi sapere le tue impressioni*

\(*w*)/

Angolo dell’autrice:

Bentrovati e tanti auguri di Buon Natale, Oh-oh-oh! (^u^)

Ho cercato in tutti i modi di pubblicare per le festività, così da potervi dare un capitolo dopo tanto tempo dal mio ultimo aggiornamento; tre mesi, perbacco!

Ho sofferto molto per questo mio stesso ritardo, ma posso dirvi che ho avuto diverse sfortune (chiamiamole così” dalla mia: in primis problemi di salute uno dopo l’altro, poi il lavoro che mi faceva tornare a casa massacrata (io lavoro anche durante il weekend, sob!), un trasloco, svariati problemi sentimentali annessi e connessi, per concludere con altri piccoli fastidi di salute. In tutto questo carosello, ammetto di aver dubitato delle mie stesse capacità di scrittura ed ero talmente stressata da approcciarmi alla mia storia con un sentimento di inadeguatezza, malgrado il mio ardente desiderio di completarla.

Mi dispiace inoltre di non aver fatto comparire i miei tanto attesi Arthur e Saffie, ma il loro racconto è anche il racconto di chi sta loro attorno, dei fili che intrecciando si sono andati a formare l’arazzo attuale. Inoltre, volevo troooppo approfondire Benjamin, visto che non gli ho mai dedicato troppa caratterizzazione o interiorizzazione…volevo anche dare profondità a Catherine e farvela conoscere! Devo dire che la storia a volte mi porta dove vuole lei, ma ammetto di apprezzare le interazioni fra questi due! (*w*)

Questo può sembrare un capitolo di passaggio, ma era dovuto. So che avrei potuto scrivere intere pagine di sesso sfrenato fra Arthur e Saffie (ehm, ehm…si incontreranno a breve, lo sapete, vero?), ma malgrado tutto io punto a descrivere qualcosa che mi soddisfi, sentimenti che posso sentire per davvero.

Io spero tanto che questa ventesima parte vi sia piaciuta, anche se arrivata in ritardo sulla tabella di marcia. Punto d’ora in poi a rispettare la scadenza prefissata fin dall’inizio, quindi una volta al mese!

AH!

Grazie, grazie, cento volte grazie per avermi aspettata e per aver continuato a votare la mia storia, per le letture, per l’apprezzamento! Di solito scrivo a tutti, ma per i problemi detti sopra so di non aver ringraziato qualcuno personalmente…rimedierò in breve tempo!

Un bacio fortissimo,

Sweet Pink

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Capitolo 21
*** Ventesimo. Tu possiedi il mio cuore e io la tua anima. ***


AVVISO! Questo ventesimo capitolo sarà lungo, molto più dei precedenti, poiché ho deciso di: 1) Non dividerlo per una questione di coerenza narrativa, elemento a cui io tengo tantissimo; 2) Lasciarvi una parte più lunga anche per farmi perdonare del mio ritmo di scrittura lento e ringraziarvi di aver atteso tanto (non dimentico, infine, che il capitolo su Benjamin e Catherine era il più corto tra tutti quelli che ho pubblicato fin ora).

Non penso ci sia bisogno di mettere un Rating rosso a questa parte, ma potrebbe esserci qualche elemento di disturbo per qualcuno, quindi preferisco sempre avvertire!

Buona lettura!

Sapete già dove sarò ad attendervi! (*u*)







CAPITOLO VENTESIMO


TU POSSIEDI IL MIO CUORE, IO LA TUA ANIMA






“Dobbiamo parlare, Saffie.”

La signora Worthington portò i suoi bei occhi castani sulla grande finestra della camera da letto dove, incorniciate fra il vetro e le imposte bianche, le cime delle alte palme da cocco sussurravano parole misteriose al vento caldo. Dietro di esse si apriva il solito cielo dall’azzurro sconvolgente e – per un fugace attimo – la ragazza credette di aver finalmente ottenuto la libertà che per tanti anni aveva agognato, al di là delle sbarre dorate forgiate da Alastair Lynwood.

Hai mai fatto qualcosa per perdonare te stessa?

Un’emozione calda e avvolgente, di quelle che poteva dire di non provare da diverso tempo, l’abbracciò tutta nel medesimo istante in cui ella strinse a sé le fresche lenzuola candide, le esili dita aggrappate alla stoffa e un adorabile rossore celato dietro alle morbidezza del tessuto, dunque nascosto alla tiepida luce di quella nuova mattinata. Come accadeva spesso negli ultimi giorni, la sagace Duchessina Saffie – ventotto anni da compiere in Autunno – si imbarazzò alla stessa stregua di una ragazzina ingenua di fronte al pensiero che galleggiò per primo nella sua mente ancora intorpidita dal sonno: da quando era tornata dal fastoso ricevimento indetto da Lord Chamberlain, la ragazza sembrava non riuscire a concentrarsi su altro al di fuori di ciò che era accaduto durante la Grande Soirée e, in particolare, della gentilezza con cui gli occhi chiari di Arthur Worthington erano tornati a guardarla.

Un sospiro sognante fuggì dalle labbra di Saffie ed ella si portò subito una mano sulla bocca sorridente, quasi volesse occultare anche a sé stessa l’eccitata felicità che le stava facendo compagnia nell’ultima settimana; per quanto la ragazza ci avesse tanto ardentemente sperato, era comunque difficile credere al fatto che pure il freddo marito avesse scelto di stare con lei per davvero, infine accettando i loro reciproci sentimenti per quello che erano, ma anche decidendo in questa maniera di cominciare insieme una vita dimentica dei peccati commessi. Un’esistenza fragile e colma di luce, in cui non vi sarebbe stato bisogno di alcun abisso a cui tornare.

Ce ne abbiamo messo di tempo, non è vero?

“Oh!” considerò Saffie con vera e propria gioia, saltellando giù dal letto a baldacchino come un giovane passerotto. “Lui è orgoglioso tanto quanto lo sono io! Siamo così simili!”

Il tempo di infilarsi la veste da camera merlettata di cui sua madre le aveva fatto dono prima della sua partenza per le colonie, che già la Duchessina si era avvicinata alla finestra illuminata dal sole ormai alto, sbirciando la strada sottostante con ansiosa attenzione: in fondo, scrutare il viale d’ingresso alla tenuta era diventato il rito con cui iniziava le sue giornate; non c’era mattina in cui dimenticasse anche solo per sbaglio di buttare una timorosa occhiata di sotto, vivendo così nella timida speranza di poter cogliere l’arrivo dell’Ammiraglio Worthington. Ovviamente, si trattava di una sciocchezza di cui Saffie stessa era dolorosamente consapevole, per quanto non riuscisse a farne a meno; smettere di spiare il cortile era difficile tanto quanto mettere a tacere i pensieri che l’invitavano a dubitare di non trovarsi in un sogno.

Diversi metri più in basso, a contrasto con la ghiaia bianca del sentiero, la paffuta figura di Keeran riceveva dalle mani di un giovane corriere arrivato a cavallo ciò che Saffie immaginò fosse la posta del giorno. Lo sguardo scuro della ragazza castana si intenerì un poco, alla vista della quieta serenità impressa sul volto splendido della sua domestica personale, solennemente intenta a leggere un biglietto evidentemente indirizzato a lei: d’altronde, non passava giorno senza che la signorina Byrne ricevesse qualche anonima confessione d’amore o appassionata proposta di matrimonio!

Possiamo pensarlo tutti, di starci incamminando sulla strada che noi stessi abbiamo deciso di intraprendere?

Le mani diafane di Keeran se ne stavano ancora bloccate a mezz’aria, strette attorno alla missiva ricevuta, mentre l’irlandese si lasciava sfuggire un sorrisetto in fondo molto simile a quello della signora Worthington. “Ah, è straordinariamente ovvio” considerò quest’ultima, cogliendo al volo l’espressione da creatura innamorata della diciasettenne. “James Chapman.”

Saffie avrebbe voluto spalancare le finestre della camera e attirare l’attenzione della diciasettenne, così da chiederle di raggiungerla al più presto, ma fu il discreto rumore di un qualcuno intento a bussare contro la porta a mandare gambe all’aria ogni suo piano da aristocratica ficcanaso. La Duchessina di Lynwood sussultò sul posto, fulminata da una scarica d’ansia improvvisa di cui si vergognò immensamente; una morsa agguantò il suo cuore e lei si voltò di scatto, le onde dei suoi lunghi capelli castani che inseguivano un movimento costituito d’aspettativa: malgrado il suo stato d’animo, la ragazza non si aspettava seriamente di trovarsi di fronte Arthur e, in effetti, le sue previsioni non vennero deluse, per quanto lei stessa avesse desiderato di sbagliarsi.

“Siete già desta, signora Worthington?” domandò la voce ovattata di Teresa Inrving, altra costante incrollabile della sua routine giornaliera. “Beh, spero vivamente lo siate, visto che sto per entrare.”

“Sono sveglia e presentabile, amica mia” ribatté Saffie, sollevando un sopracciglio e sbuffando divertita fra sé, prima di aggiungere un quieto: “Potete farvi avanti”.

Sarà per un altro giorno, vero? Lui verrà…lo ha promesso.

La moglie del Capitano dell’Atlantic Stinger spalancò la porta con decisione, giusto in tempo per poter cogliere la leggera smorfia di sofferenza che passò veloce sul viso dolce della Duchessina; una fitta di doloroso panico di cui la ragazza stessa, nel frattempo, non seppe individuare l’esatta origine. Teresa alzò i suoi profondi occhi color cioccolato su Saffie e la vide stringersi nelle piccole spalle con finta noncuranza, evadendo così il suo sguardo attento; dopo un attimo di pensosa analisi, la donna di colore sorrise con soddisfatta comprensione: l’espressione turbata e il rossore della signora Worthington facevano letteralmente a pugni con il sorriso radioso che stava cercando di nasconderle.

“A quanto vedo, il Grande ballo di Lord Chamberlain ha dato i suoi frutti” fu il commento neutro che la signora Inrving si concesse, accompagnando le sue parole vaghe con un noncurante inchino di cortesia; e avrebbe glissato sull’argomento se non fosse che, nel vedere una imbarazzatissima Saffie alzare il capo di scatto nella sua direzione, ogni sua compostezza da signora perbene cedette il passo a una educata risatina divertita. “Oh, non dovete vergognavi di fronte a questa vecchia strega” aggiunse poi, aprendo il suo ventaglio colorato davanti al viso sorridente e truccato. “Sono solo contenta che l’Ammiraglio abbia smesso di comportarsi come un bambino scontroso e fin troppo cocciuto.”

Insensibile allo stupore della sua giovane interlocutrice, Teresa si incamminò in tutta tranquillità verso il centro della stanza e raggiunse il tavolino coperto di trine su cui Keeran aveva poco prima lasciato incustodite la teiera e le tazzine in porcellana. “Spero per lui che abbia promesso di ritagliarsi del tempo da passare con voi prima della sua imminente partenza, oppure – parola mia – se la dovrà vedere con la sottoscritta” chiosò infine, versandosi una tazza di tè come se niente fosse e non stesse in effetti minacciando il Generale Implacabile, uno degli uomini più temuti dell’Impero Britannico.

“… ma ci rivedremo. Dobbiamo parlare, Saffie.”

Di nuovo, il tono colmo di calda tenerezza dell’Ammiraglio Worthington si fece strada nel cuore di Saffie e lei cercò di riprendersi una manciata di autocontrollo e dignità perduti, chiudendo di botto la sua bocca spalancata dalla sorpresa e forzandosi di non parere troppo colpita dalle inquietanti doti conoscitive della moglie di Henry Inrving. “Non so se spaventarmi o chiedervi la fonte di tali informazioni, così tremendamente specifiche e accurate!” scherzò dopo poco la Duchessina di Lynwood, forzando il sorriso sulle sue labbra a non allargarsi troppo, ma bensì a rimanere pacato come quello della nobile donna adulta che avrebbe dovuto essere.

Una parte egoista di me vorrebbe tenere stretta questa felicità, quasi io avessi il timore di vederla svanire nel momento in cui oserò esprimerla ad alta voce.

Da parte sua, Teresa preparò una seconda tazza di tè anche per la signora Worthington e increspò appena la belle labbra scure, ghignando di una strana e muta ironia. “Uno dei lati positivi dell’essere sia ricca che un’ex domestica sta proprio nell’avere più contatti di quanti si possa immaginare” spiegò con calma la donna di colore, avvicinandosi alla finestra e a Saffie, infine porgendole con l’aria più serafica del mondo la bevanda ancora fumante. “Un po'di tè?”

“Mi avete anche letto nel pensiero, cara amica.”

“Siate cauta” commentò la signora Inrving, facendole un ben poco aristocratico occhiolino. “Questa non è porcellana di Sevrès, ma bensì il servizio Ming che anni orsono il padre dell’Ammiraglio fece importare dalla Cina come dono per la moglie: la vostra piccola Keeran ha indubbiamente un ottimo gusto, ma osate sbeccare anche solo uno di questi piattini e potete dirvi rovinata.”

Per tutta risposta, la ragazza castana ridacchiò sommessamente, pure se le sue mani presero l’oggetto smaltato di blu che la donna continuava a offrirle come se si fosse trattato del vero Santo Graal. In fondo, considerò, poteva dirsi ormai perfettamente acclimatata al fare vigile e materno della sua vicina di casa, anche se continuava a sorprendersi non tanto del colorito vocabolario che soleva utilizzare ogni due per tre, quanto piuttosto della confidenza con cui parlava della famiglia Worthington e – in particolare – dello stesso Arthur.

Saffie aveva pensato fin dal primo istante che la moglie del Capitano Inrving sarebbe stata una preziosa alleata nella sua nuova vita in Giamaica, mentre ora il suo animo eccitato sentiva che avrebbe potuto trovare in Teresa una persona attraverso cui imparare di più sul suo severo marito.

Arthur possedeva il cuore di lei e Saffie l’anima di lui, ma entrambi rimanevano due estranei che troppo poco conoscevano l’uno dell’altra.

“Posso dunque presupporre che non vi si possa nascondere nulla” fece la Duchessina di Lynwood, ingurgitando un sorso della sua bevanda dolce e profumata. “È praticamente trascorsa una settimana dalla Grande Soirée…insomma, comincio a credere egli sia partito in gran segreto senza nemmeno lasciarmi una lettera di arrivederci!”

“…non sei arrivato! Le avevi giurato che non avrebbe più dovuto aspettarti e lei ti ha creduto!”

Atroce e inatteso, uno spasmo di paura attraversò impietoso il suo piccolo corpo di donna innamorata, costringendola a chiudere gli occhi per un muto istante.

“Io non voglio spaventarti; non…non è come l’ultima volta.”

No, adesso è tutto diverso. Noi siamo diversi, perché abbiamo spezzato con le nostre mani le catene del legame crudele.

“Vi assicuro che l’Ammiraglio Worthington è ancora fermo a Rockfort” disse Teresa, i cui grandi occhi a mandorla la fissavano con grande interesse, enorme profondità. “Potreste andare voi a trovarlo, per esempio.”

“Non…non è che non ci abbia mai pensato” borbottò sottovoce Saffie, tradendo una insolita timidezza e, consapevole di questo, nascondendosi dietro la sua preziosa tazza cinese. “Ma so per esperienza quanto il Generale disprezzi ogni intromissione nel suo lavoro e ho pensato che, ecco, magari fosse troppo impegnato per poter stare insieme a me.”

Un paio di occhi grandi, tutti tristi, si abbatterono verso il pavimento e le sue forme piatte, mentre la moglie dell’Implacabile constatava con grandissimo fastidio che, in quei mesi, lei stessa si era rivelata via via una donna ben lontana dall’immagine che aveva dipinto di sé: erano passati anni dall'ultima volta in cui si era innamorata di qualcuno, ed era vero; ma non sapeva che dire della sua patetica titubanza, quando in precedenza non si era fatta poi tanti scrupoli nell’intromettersi negli affari di Arthur, per quanto quest'ultimo ne fosse stato estremamente seccato.

“Un uomo dovrebbe sempre trovare del tempo per la propria moglie” imperò la signora Inrving, portandosi un pugno contro il fianco con risolutezza. “E Arthur Worthington non fa eccezione. Di cosa avete paura, realmente?”

Colpita e affondata. Come aveva commentato pochi secondi prima, era proprio vero che a Teresa non si poteva tenere nascosto nulla. Saffie formulò questo pensiero pieno di ironia, prima di voltarsi pigramente in direzione delle luminose finestre che s’aprivano sullo sconfinato cielo azzurro. “Cosa temo, chiedete?”

“Dobbiamo parlare, Saffie”

È una fragile gentilezza, la vera natura del suo cuore sopravvissuto all’abisso. Lo so.

Le iridi malinconiche della ragazza continuarono a fissare il panorama di una volta celeste fin troppo sconfinata, distante: nei suoi ventisette anni di vita aveva sempre creduto che, alla stessa strega dell’oscuro e cupo oceano, la profondità senza fine del cielo stesso fosse la principale ragione di tanta curiosità e meraviglia; carpirne i misteri significava cadere dentro all’ignoto, senza effettivamente sapere cosa ci sarebbe stato al di là o – nel caso del mare – sul fondo.

Sono pronta ad affrontare l’abisso che tanto ho voluto conquistare?

“Posso presentarmi al mondo come la moglie dell’Ammiraglio Worthington” disse la Duchessina, a malapena percependo la figura robusta di Teresa portarsi con discrezione al suo fianco. “Pure se la verità è che niente sappiamo l’uno dell’altra; non conosco nulla del passato di colui che sono stata costretta a sposare.”

“Continui a volerti immischiare in affari che non ti riguardano, malgrado tu non sappia nulla della Marina Britannica e della mia vita.”

Mi respingerai di nuovo, anche se adesso ti ho confessato di voler stare al tuo fianco per sempre?

In una situazione normale, la signora Inrving avrebbe tentato di rassicurare la ragazza al suo fianco dicendole come fosse la norma, nella loro società, avere un estraneo per coniuge e che – di giusta conseguenza – ci volesse un bel po’ per conoscersi a vicenda: la stessa Teresa, a esempio, poteva affermare con tutta sicurezza di aver impiegato i primi anni di matrimonio ad abbattere l’enorme barriera costituita dai diversi preconcetti con cui lei e Henry erano cresciuti. Eppure, d’altra parte, la donna di colore ben sapeva che se si parlava di Arthur Worthington non potevano esserci situazioni normali.

“Parete preda di feroci dubbi, mia povera creatura” azzardò la moglie del Capitano, indovinando di fatto lo stato d’animo di Saffie, passerotto consumato sia dalla felicità che dall’indecisione. “Eppure! Non penso sia affatto una buona idea lasciarlo partire senza che gli abbiate espresso con onestà come vi sentite in merito al sua vita passata, soprattutto se per voi essa è così importante.”

Detto ciò, ella tacque il giusto per poter osservare il grazioso viso della ragazza al suo fianco mutare in un piccolo ghignetto divertito che pareva voler dire: “Più facile a dirsi che a farsi”. I meravigliosi occhi da mamma orsa della donna mulatta rimasero in effetti immobili anche quando, con assurda noncuranza, quest’ultima decise di parlare di nuovo e sparare al cuore della Duchessina di Lynwood. “Voi lo amate, non è vero? Lo amate molto più di quanto non diate a vedere.”

Dopo un breve attimo di smarrimento, le spalle di Saffie si irrigidirono appena e la ragazza stessa sussultò sul posto, reagendo come una bambina colta sul luogo di una marachella. Un rossore violento aggredì le sue guance e si diffuse persino fin sulla linea del suo collo sottile, bruciando sopra una pelle scossa da brividi agitati.

“Non posso che arrendermi di fronte al potere che eserciti su ogni scelta o intenzione, infine sulla mia stessa anima. Ti ho guardata per tutta la sera…sei bellissima, piccola strega.”

Sfugge dalla mia presa questa insensata felicità, perché le parole gentili di Arthur sono mie, mie soltanto.

Infine, si arrese. Un sorriso spontaneo e aperto, dalla bellezza incredibile, nacque sulle labbra rosee di una Saffie che, inconsciamente, si voltò verso la signora Inrving e la fulminò con uno sguardo luminoso, colmo di allegra eccitazione. “Sì!” confessò la ragazza, quasi ridendo, il viso perso fra infinite onde di capelli castano chiaro, rilucenti di luce. “Oh, Teresa, lo amo da impazzire!”

Dal canto suo, la donna spalancò tanto d’occhi e il suo cuore fece una capriola nel petto perché, in un battito di ciglia, ella tornò indietro di vent’anni e ricordò le notti in cui tutta la servitù della Zuimaco si agitava per la casa, alla ricerca spasmodica dell’adolescente che continuava a scomparire dalle sue stanze senza lasciare traccia di sé. Al tempo, Teresa era ancora una domestica e l’unica in grado di trovare il signorino: puntualmente raggomitolato in qualche oscura e angusta credenza polverosa, Arthur si nascondeva al mondo e tremava dal terrore, le mani pallide permute forte contro le orecchie, le dita affondate tra le onde ribelli della sua chioma bruna.

“Arthur è il mio orgoglio, ma non nego di essere preoccupato per il suo futuro” diceva di tanto in tanto un Simeon Worthington in vena di confidenze. “Quale donna potrà amarlo, mi chiedo, se non imparerà a soffocare questi suoi penosi atteggiamenti?”

“Vi sbagliavate di grosso, signore” venne da pensare istintivamente a Teresa che, di fronte all’espressione perdutamente innamorata della signora Worthington, non poté fare a meno di scoppiare a ridere con gran tenerezza e sollievo. “E allora non avete niente da temere, mia cara” disse quindi la discendente dei Taino, al solito sicura di sé. “Poiché mi risulta che pure il cuore di quel ragazzino sconsiderato sia ben stretto tra le vostre mani.”

“Credete…credete dunque che l’ammiraglio Worthington si aprirebbe per davvero con me sul suo passato, se glielo chiedessi direttamente?” le domandò Saffie, tradendo di nuovo la titubanza che con lei aveva poco o niente a che vedere, sebbene un’eco della risata precedente fosse ancora presente sul suo visetto grazioso. “Voi parete conoscere lui e Benjamin talmente bene! Ammetto di essere un po’gelosa di voi, signora.”

L’interpellata alzò un sopracciglio scuro, assumendo un’espressione stranamente altezzosa. “Potete dirlo forte” fu la colorita chiosa finale della donna, apparentemente dimentica del suo ruolo di ricca dama rispettabile. Al contrario, Teresa lasciò il fianco di Saffie con uno scatto brusco e raggiunse a passo pesante il divano rosa pastello – ovviamente in stile rococò – che i domestici avevano accomodato contro la parete, esattamente al di sotto del grande dipinto a olio raffigurante un paesaggio tanto bucolico quanto irreale: un paradiso fitto di verde e abbondante d’acqua cristallina, dove festeggiavano le ammalianti e selvagge ninfe.

La signora Inrving si lasciò cadere con malagrazia fra le morbidezze dei cuscini ricamati e continuò, incurante e ignara degli sguardi dispettosi dei cherubini dipinti a bordo della cornice, appena sopra la sua testa corvina. “Duchessina di Lynwood” cantilenò. “Chi credete si sia occupata dei figli del celeberrimo Ammiraglio Simeon Worthington, quand’essi non erano altro che due ragazzini fuori controllo?”

Saffie non poté dirsi troppo sconvolta da quella rivelazione, visto e considerato che, da quando era giunta a Kingstown, vi erano stati molti indizi a puntare verso quello scenario in fondo prevedibile. Nei limiti del possibile, Henry Inrving aveva elevato la condizione sociale ed economica di Teresa, ma la signora Worthington trovò commuovente il pensiero che, malgrado tutto, ella fosse voluta rimanere vicina ad Arthur e al signor Rochester; era come se la donna continuasse a vegliare su di loro, pure se avrebbe potuto tranquillamente permettersi una vita lontana dai luoghi del suo passato da domestica.

“Avevo immaginato qualcosa del genere, in effetti.”

“E io che speravo di cogliervi assolutamente impreparata!” si lagnò la moglie del Capitano, sbattendo pericolosamente la sua tazza Ming su un piattino in porcellana abbastanza costoso. “Ditemi, quale errore mi ha tradita?”

“Non ho mai sentito nessuno parlare di…ehm, mio marito nel modo in cui lo fate voi, signora” rispose la ragazza castana, arrossendo leggermente a causa dell’imbarazzo nel chiamare Arthur in un modo a cui doveva ancora paradossalmente abituarsi; non che non l’avesse mai fatto nei mesi trascorsi, ma ora quella parola aveva sulle sue labbra un sapore del tutto diverso. “Immagino avrete visto molti lati del suo carattere!”

“Da un certo punto di vista è sempre stato un bambino silenzioso, che amava imparare bene e in fretta” commentò con vaghezza Teresa, prima di nascondersi dietro un sorso di tè ormai tiepido. “Ma chiedete e vi sarà risposto.”

Senza una vera e propria coscienza, la Duchessina si portò una mano sulla spalla sinistra e si appoggiò al muretto del davanzale dietro di lei, prendendo poi una boccata d’aria che sapeva più che altro di muto timore. “Di-di sicuro anche la madre dell’Ammiraglio deve essere stata una persona straordinaria, tanto quanto lo è il signor Simeon!” commentò infine Saffie cercando di sembrare disinteressata mentre, dentro di sé, si maledì per il tono tremulo con cui aveva pronunciato quell’ultima frase.

E, difatti, un paio di penetranti occhi a mandorla scattarono subito su di lei, seri e indecifrabili come quelli di un orso pronto all’attacco. “Irina era una donna conosciuta soprattutto per la sua bellezza” fece la signora Inrving, con inquietante voce piatta. “Cosa desiderate sapere, per l’esattezza?”

Gli occhi luminosi di Saffie lampeggiarono di ansiosa incertezza. “Cosa le è accaduto, Teresa?”

Qual è il nome dell’abisso in cui lei e Arthur sono caduti?

“Questo argomento è un tabù” chiosò duramente la donna di colore, scuotendo appena la sua bella chioma. “Non se ne fa parola tra le mura di questa casa, né con persona alcuna e, sopra ogni cosa, con il Generale Implacabile. Parlarvene, mia cara, significherebbe dovervi parlare anche di Hector e di ciò che egli rappresenta per vostro marito, dei peccati che l’ha costretto a commettere.”

“Muoia all’inferno, se ha dimenticato chi è l’uomo che l’ha cresciuto!”

La signora Worthington fu percorsa da uno strano brivido ghiacciato all’udire il nome di colui che Mary Anne aveva chiamato il Grande Diavolo e, per l’ennesima volta, l’immagine di una schiena coperta da profonde cicatrici balenò davanti al suo sguardo smarrito. “Una volta Arthur mi ha parlato di come sua madre le avesse regalato uno stallone a cui tuttora vuole molto bene” buttò lì Saffie, quasi a caso e stringendosi nelle spalle, forse per allontanare la stretta di tristezza che s’era fatta sentire nel suo cuore.

La mandibola di Teresa cedette di botto e quest’ultima alzò il volto di scatto, sbalordita. “Lui vi ha parlato della signora Irina spontaneamente” mormorò infine, forse rivolta più a sé stessa. “Vi ha parlato di sua madre e di Bharat. Cielo, allora forse…perché no, amica mia, penso proprio che l’Ammiraglio possa davvero rischiare di aprirsi con voi pure sul suo altro passato.”

Dal canto suo, Saffie di Lynwood osservò la signora Inrving prendere un’ultima tazza di tè con l’aria scettica di chi temeva una crudele in giro e, forse, avrebbe espresso il suo pensiero ad alta voce, se l’entrata nella stanza di una signorina Byrne dal capo chino non avesse mandato all’aria i suoi piani di pronte battute pungenti. “Oh!” fece quindi Saffie, staccandosi dalla parete con un gran sorriso. “Avevi detto saresti tornata nel giro di pochi minuti e invece stavo per mandare qualcuno a denunciare la tua scomparsa, Keeran!”

“Perdonatemi, signora” asserì l’irlandese con la sua solita vocina suadente, inchinandosi davanti alle due dame di rango superiore al suo, le pallide mani intrecciate sul grembiule bianco.

Saffie sventolò frivolmente un braccio nella sua direzione e non perse tempo nel provocarla, dando sfoggio di un tono piuttosto allusivo. “Lo hai sempre saputo, che io sono una nobile tanto sciocca quanto benevolente, quindi sei ovviamente perdonata. Saltati i nostri convenevoli, che mi racconti della posta di oggi?” chiese, quasi ridendo. “Ha scritto qualcuno di interessante?”

Il rossore improvviso che imporporò il viso paffuto dell’irlandese ebbe l’effetto non solo di colmare la signora Worthington di soddisfazione, ma anche di scacciare almeno un poco le nubi di malinconia che s’addensavano sopra la sua testa castana. “James Chapman verrà per la merenda delle cinque anche questo Sabato?”

“Mi chiedo quando quel ragazzino si deciderà a chiedere la vostra mano, Keeran” rincarò la dose una Teresa Inrving ancora beatamente sprofondata tra i cuscini dal sofà. “Ho sentito che giù in cucina c’è persino chi sta organizzando un giro di scommesse inerente alla sua confessione d’amore. Io e il mio adorato Henry abbiamo puntato forte, sappiatelo.”

A quel punto, la domestica presa in causa premette il mento contro il petto e seppellì il viso ardente dall’imbarazzo fra la matassa dei suoi splendidi ricci e, se ne poteva star certi, il batticuore furioso che l’aggredì provava solamente che le donne davanti a lei avevano ragione da vendere. Persino Keeran stessa ne era vagamente consapevole, per quanto la sua mente si rifiutasse di credere che James potesse veramente prendere in considerazione di legarsi a una nullità senza dote come lei.

I figli dei Marchesi non sposano le misere contadinotte di provincia. È questa, una delle regole imprescindibili del nostro mondo.

Dimostrando di non essere più la pavida creatura che aveva lasciato Bristol tanti mesi prima, la signorina Byrne fu più che brava a scrollarsi dalle spalle larghe il tormento provocato da quell’ultima crudele considerazione per alzare la testa di scatto e asserire, con timida convinzione: “Si-signora Saffie! Ricordate la promessa di qualche giorno fa? È arri-arrivato il momento di mantenere la vostra parola!”

Da parte sua, Saffie ridacchiò sommessamente, coprendosi educatamente la bocca con le dita. “Non è straordinario, Teresa?” commentò poi con un tono a metà fra l’ammirato e l’affettuoso. “La settimana scorsa ho accordato alla mia dama di compagnia un giorno libero e lei mi ha fatto giurare che l’avrei seguita per una gita fuori porta!”

“Oh, rivoluzionario per davvero!” commentò la moglie del Capitano, mentre la diciassettenne annuiva piena di emozione.

“Ebbene, mia cara, sono proprio curiosa di sapere quale sorpresa mi riserverà la giornata di oggi!”


§


Quella mattina, James Chapman poteva dirsi l’incarnazione della frustrazione stessa.

Il sole delle undici picchiava duramente con i suoi raggi caldi sulle murature dell’ampio cortile interno di Rockfort, in quel momento brulicante di accaldati uomini in maniche di camicia e armati di spada. Nel bel mezzo del marasma di corpi sudati e muscoli tesi, il tenente si trovò a maledire la bella Keeran Byrne e il suo incomprensibile ritardo sulla tabella di marcia che con tanta solerzia avevano pianificato; ma, ovviamente, non si riduceva tutto a una questione sola: il tenente preferito di Arthur Worthington era anche impegnato a mascherare lo stato di ansiosa attesa che serpeggiava dentro di lui da quando aveva proposto – con una pomposa solerzia che gli aveva fatto guadagnare l’odio dei suoi commilitoni – un tempo supplementare da dedicare agli esercizi d’arma previsti per quella giornata.

Così, il povero ragazzo si trovava a dover far fronte non solo al suo fastidio per l’assenza di Keeran e della persona che doveva portare con sé, ma pure agli attacchi fin troppo energici del suo compagno di allenamento. Chiaramente, se fosse stata una battaglia reale, l’adolescente soldato di fronte a Chapman sarebbe stramazzato al suolo nei primi due minuti di lotta ma, come gli aveva insegnato Arthur nei primi lontani giorni del suo addestramento, in quei frangenti il tenente era obbligato a trattenersi.

Ai tempi, era solo un sedicenne viziato e insicuro che l’Implacabile aveva salvato dall’oscurità.

“Alzate quella guardia, dannazione” s’intromise nei suoi pensieri una voce dura come l’acciaio, che sovrastò le grida dei suoi compagni e i colpi metallici delle spade in azione attorno a lui. “Dove sta vagando il vostro sguardo, tenente Chapman?”

A sentirsi interpellato dal tono spazientito della terribile persona in attesa a pochi metri di distanza, il giovane preso in causa deglutì un fastidioso groppo di soggezione e voltò subito la testa castana, distogliendo gli occhi grigi dalle ombre del palchetto in legno dove il Capitano Inrving e un altro sparuto manipolo di Ufficiali stavano consultando delle carte di navigazione con grande interesse. Dietro alla schiena curva del bonario Henry si apriva l’ingresso al cortile della fortezza, ancora tragicamente deserto.

“Da nessuna parte, signore” rispose prontamente James, sudando freddo in gran segreto e parando, al contempo, l’ennesimo affondo del ragazzino di fronte a lui senza troppe difficoltà. “Non ho interesse che per il mio avversario.”

“A vedervi ora, non sembrerebbe” commentò di rimando la voce, il cui tono severo non si ammorbidì di una virgola. “Più vi guardo muovervi, più sono convinto di aver fatto bene a scegliere di non portarvi con me nella prossima missione.”

Oh, non vedo l’ora di chiederti conto del debito che hai nei mei confronti, cara signorina Byrne.

James ovviamente non rispose alla provocazione dell’uomo che, da almeno tre ore a quella parte, si aggirava per tutto il cortile a passo lento, le braccia elegantemente incrociate dietro la schiena e una maschera dall’espressione indecifrabile indossata sopra il solito viso dai lineamenti aristocratici. Non era stato un caso, difatti, se il tenente Chapman era riuscito nel miracolo: l’Ammiraglio Worthington era sì l’uomo più impegnato della città, ma il suo protetto ben conosceva l’inclinazione di Arthur nel voler seguire personalmente l’addestramento dei suoi uomini e – partenza o non partenza – quell'allenamento mattutino non faceva alcuna eccezione; così, l’Implacabile aveva trascorso il tempo a gironzolare attorno ai contendenti armati di spada e si fermava presso di loro di tanto in tanto, osservandone i movimenti con due iridi risplendenti di ferma concentrazione.

Il piano, quindi, era una trappola tanto semplice quanto sciocca, poiché prevedeva di far incontrare la Duchessina di Lynwood e il Generale proprio lì all’aperto, un luogo lontano dagli uffici, dai colloqui e dalle innumerevoli carte che attendevano giornalmente Arthur. Certo, si trovò a considerare James, sempre se un certo qualcuno avrebbe portato a compimento la sua parte di piano che, a ben vedere, era straordinariamente più elementare di quella toccata in sorte a lui.

Insomma, non si credesse che fosse stata una passeggiata di piacere strappare Worthington ai suoi impegni di Alto Ufficiale e, men che meno, trattenerlo sotto il sole cocente con la sola scusa di sovrintendere alle esercitazioni di un branco di giovani ben al di sotto del suo grado!

Il tempo di trovare una sorta di soddisfatta consolazione in quel ragionamento e, al contempo, di sbaragliare con successo le difese del suo avversario con un noncurante colpo di lama, che i suoi nervi già abbastanza tesi ebbero da patire un altro attacco a sorpresa; quest’ultimo non provenne dall’adolescente davanti a lui, ormai sconfitto e disarmato, ma bensì dall’Ammiraglio stesso: ben lontano da concedere parole di apprezzamento per la vittoria di James, Arthur aveva già distolto gli occhi verdi da quest’ultimo e aveva fatto per voltare la sua imponente figura vestita d'oro con la solita agilità brusca, sulle labbra sottili le parole che piombarono sul povero tenente come una vera condanna a morte.

“Troppo lento, tenente” gli sillabò il Generale Implacabile, con una distante noncuranza a cui comunque Chapman poteva dirsi abituato perché, ovviamente, fu il commento che ne seguì a turbarlo per davvero. “Io torno nel mio Ufficio. Il tempo delle esercitazioni è finito.”

L'immagine del visino candido e deluso di Keeran folgorò sul posto il suddetto diciannovenne che, preso del tutto in contropiede, ebbe solo la forza di esclamare un allarmato: “Ma, signore!”.

“Non ho altro da aggiungere” fu la risposta monocorde di Worthington. Ignaro dell'agitazione del giovane James, l’uomo alzò appena il mento e fece un cenno vago con la testa bruna, congedando con due parole in croce anche gli impassibili comandanti che insieme a lui avevano sovrinteso agli allenamenti. “Che ognuno torni ai propri doveri, signori.”

“Avete sentito l’Ammiraglio!” abbaiarono subito in risposta gli Alti Ufficiali, disperdendosi verso l’interno del cortile e fra le ordinate file di giovani. “Soldati, rinfoderate le vostre spade! Immantinente!”

Il borbottio d’assenso della folla si perse nel batticuore assordante che picchiava forte nelle orecchie di un tenente Chapman ancora con la sua arma levata, la mano pallida e tremante stretta attorno all’elsa di quest’ultima; nei suoi occhi grigio chiaro, si specchiavano le spalle larghe di un Generale Implacabile intento ad allontanarsi da lui. Di nuovo, l’orribile sentimento di impotenza con cui era cresciuto si affacciò alle porte della sua anima, quasi esso fosse un sorridente ospite indesiderato e inatteso.

“…l’ultimogenito che ha la spina dorsale di una femminuccia! Non è vero, James?”

Ancora, i meravigliosi occhi neri di Keeran Byrne evadevano il suo sguardo, colmi di delusione, lucidi d’amarezza.

Ecco ciò che accade, quando qualcuno decide di riporre la sua fiducia in te. Per questo, non hai mai avuto amici.

Eppure, in quell’istante cruciale, il ragazzo comprese una verità che lo lasciò completamente senza fiato e, fra le altre cose, gli diede la forza di agire in un modo che fino a qualche mese prima avrebbe giudicato una vera follia: tra le crudeli ombre del suo senso di inferiorità, James capì che l’idea di rendere triste Keeran era diventata per lui inaccettabile, malgrado l’avesse già fatto volontariamente in passato; e tanto lo pensò con forza, che opporsi al Generale Implacabile non parve poi così tremendo.

Doveva prendere tempo. Ma come?

“Io…” iniziò allora il tenente, il tono di voce stridulo e le gambe tremolanti a causa della stessa paura che avrebbe avuto un prigioniero diretto al patibolo. “Io intendo protestare!”

Quel grido riecheggiò forte all’interno del cortile di pietra ed ebbe l’effetto di farlo sprofondare dentro un agghiacciante silenzio colmo di sorpresa.

Chiudendo per un breve attimo gli occhi, lo sconsiderato Chapman raccolse ogni sua forza interiore e osò parlare di nuovo, a voce forte e chiara. “Non sono d’accordo con il vostro giudizio e ve ne chiedo conto, signore. Intendo sfidarvi qui e adesso, Generale Implacabile!”

In un battito di ciglia, tutti i presenti trattennero a giusta ragione il fiato e un centinaio di teste si voltarono all’unisono in direzione dell’uomo a cui era stata fatta quella coraggiosa dichiarazione di intenti. Persino Henry Inrving e gli Ufficiali riuniti sotto il porticato si raddrizzarono di colpo, forse colti dal dubbio di aver compreso male le parole di un James Chapman che stava letteralmente facendo i capricci con il demonio.

Un altro secondo muto congelò i presenti e l’Ammiraglio Worthington si voltò lentamente, lasciando a James la possibilità di cogliere un sorriso disumano allargarsi su un viso abbronzato, incorniciato da onde di capelli castano scuro. “Guarda, guarda cantilenò Arthur, la cui espressione pericolosa non si sapeva se comunicava più rabbia o divertimento. Noncurante dei brividi del suo tenente, l’uomo scostò poi con un gesto leggero della mano un lembo della sua giacca blu e posò le dita sull’elsa d’argento della sua inseparabile spada. “La sfrontatezza di questo ragazzino ingrato” continuò, abbandonando il tono formale ma assumendo un’aria di glaciale ironia che avrebbe fatto scappare a gambe levate più di un fanciullo.

“Co-come rispondete, Ammiraglio?” chiese James, tenendo i piedi puntati a terra e i nervi ben saldi, seppur si sentisse come se la morte o – peggio – il licenziamento fosse questione di minuti.

Arthur si volse del tutto verso di lui, tanto imponente quanto spaventoso. Sul suo volto virile, gli occhi chiari brillavano di un sentimento inusuale e, malgrado incutesse la solita soggezione, James realizzò che, per assurdo, Worthington era in verità di buon umore. “Accordato” disse poi l’uomo, sfilandosi la giacca elegante e lasciandola tra le mani di un zelante soldato accorso a prenderla. “Ti darò una vera lezione oggi, caro James.

“Non era mia intenzione ammutolirvi, caro James.”

Ovviamente, il riferimento alle parole usate mesi prima dalla Duchessina di Lynwood nei confronti di Chapman e alle lezioni private che quest’ultimo le aveva impartito in gran segreto era tutto meno che casuale. Un brivido traditore corse lungo il corpo del povero cucciolo adottato da Arthur ed egli assunse istintivamente una posizione di difesa, pronto a ricevere il colpo di un Worthington ancora tranquillamente intento ad arrotolarsi le maniche della camicia sulle braccia muscolose; infine, l’Ammiraglio sfoderò la sua spada con un gesto elegante, fluido, e piegò il braccio sinistro dietro l’ampia schiena, offrendo un vantaggio al suo impaurito avversario.

“Attaccatemi, dunque” disse poi con una calma che non s’addiceva per niente al feroce ghigno stampato sui suoi lineamenti aristocratici.

E James attaccò. Al contrario di quanto fatto durante le ore d’allenamento, il ragazzo considerò quel suo duello con l’Implacabile alla stessa stregua di un combattimento reale e, in meno di un battito di ciglia, il suo braccio saettò in avanti, la lama scintillante della sua spada pronta a ferire il cuore dell’avversario. Il cortile intero ammirò in silenzio la velocità letale per cui il tenente era in effetti conosciuto ma, d’altra parte, ognuno sapeva che contro Worthington non ci poteva essere paragone di sorta.

L’arma di Chapman stridette contro il metallo di quella di Arthur, scontrandosi con essa e quasi rimbalzando indietro a causa della fermezza incrollabile con cui quest’ultimo teneva presa sull'elsa argentata. Fu il momento in cui James temette un contrattacco a cui non avrebbe potuto opporsi, visto che poteva dire di non aver nemmeno visto l’Ammiraglio muoversi per difendersi dal suo affondo precedente; gli occhi verdi di Worthington, poi, lo fissavano da sopra il filo di lama con la determinazione di un uomo pronto a uccidere.

Sono spacciato, non è vero?

“Fa-fatevi forza, tenente Chapman!”

La voce timorosa e altrettanto angelica che aveva urlato quelle parole piombò addosso ai presenti e a un James sull’orlo del crepacuore con la stessa violenza inaspettata che avrebbero avuto gli spari di un intero plotone d’esecuzione. Si voltarono tutti, nessuno escluso, in direzione della donna che era coraggiosamente intervenuta solo per dare il suo sostegno morale al giovane Ufficiale e, indubbiamente, fu grande l’invidia che i ragazzi d’arme provarono non appena riconobbero la figura paffuta di Keeran Byrne: la diciassettenne se ne stava ritta in piedi sotto il porticato d’ingresso, le graziose mani bianche ancora alzate davanti alle labbra schiuse e un’aria preoccupata stampata sopra un viso timido che, secondo dopo secondo, si stava facendo tragicamente più rosso; al suo fianco, il Capitano Inrving la guardava con una qual certo intenerito orgoglio, mentre una esterrefatta Saffie di Lynwood aveva posato gli occhi luminosi non sulla sua serva, ma bensì sullo statuario e impassibile marito.

Un mormorio deluso serpeggiò fra gli ammiratori dell’irlandese e il famoso Principe arrogante abbassò la spada di botto, sollevato di essere riuscito a portar a compimento il piano, ma totalmente sconfitto dai fastidiosi sentimenti provocati dalla comparsa di Keeran.

La prima amica e la sola che desidero, malgrado io sia un nobile viziato che sa solo uccidere. Nient’altro.

“James.”

Sentendosi chiamare per nome dal Generale Implacabile, il diciannovenne si voltò di scatto, nelle iridi grigie un baleno di fugace timore: come aveva potuto essere così idiota da dimenticare la sua sfida con Worthington?

Eppure, avvenne l’impensabile. James alzò lo sguardo sperduto su Arthur, me ebbe la sorpresa di vederlo scuotere la ribelle testa bruna con una strana noncuranza e portarsi una mano grande davanti agli occhi turbati, forse per nascondergli il leggero rossore che stava facendo capolino sul suo volto. “Per oggi chiudiamola qui” disse l’Ammiraglio, il tono insolito di una persona che non sapeva bene che fare. “Ti concederò una vera sfida una volta tornato a Kingston. Nel frattempo, vedi di allenarti come si deve.”

Detto questo, si voltò in direzione del porticato e la sua espressione fredda si intenerì in un attimo nel vedere la sagoma minuta della moglie concedergli un piccolo inchino da lontano, infine sorridendogli piena di emozione.

E a James non parve più il terribile Implacabile, ma l’uomo fragile e gentile che era stato gettato sul fondo dell’abisso.


§


Senza capirci un bel nulla, la Duchessina di Lynwood studiò a occhi spalancati la complessità delle mappe che Inrving e gli altri Ufficiali avevano spiegato sopra il tavolo in mogano; non che l’intento fosse quello di comprenderle per davvero, ovviamente, ma ciò risultava ben più difficile se ci si metteva in mezzo l’indomabile vortice di emozioni che la ragazza sentiva imperversare dentro di sé. Un bizzarro miscuglio di ansia e aspettativa che le faceva venire la paradossale voglia di fuggire via, malgrado il suo più grande desiderio era quello di aspettare che Arthur venisse da lei.

Fra le altre cose, Saffie non sapeva bene se essere in collera con Keeran oppure farle i più sentiti complimenti, per averla così abilmente attirata fino a Rockfort con la scusa di una gita di piacere a sorpresa! Da un lato, c’era da essere orgogliosi della fiducia che l’irlandese aveva maturato nei confronti di sé stessa e degli altri (insomma, aveva anche trovato il coraggio di sostenere il tenente Chapman a gran voce come una Lady medievale avrebbe fatto nei confronti del suo cavaliere), ma dall’altro la ragazza castana si dava della sciocca per aver lasciato alla sua serva diciasettenne la briga di far incontrare lei e Worthington.

Ora la moglie del Generale Implacabile si trovava lì, sola sotto il porticato e in agitata attesa, visto che la signorina Byrne aveva deciso di approfittare del suo giorno di libertà per sparire in cerca di chissà chi e lo stesso Capitano Henry aveva preso congedo, trascinandosi dietro i suoi sottoposti con l’aria di uno che la sapeva lunga.

Insomma, in tutto questo, la Duchessina di Lynwood continuava a sentire di starsi comportando come una ragazzina alle prese con i primi corteggiamenti e si maledì, chiedendosi dove fosse finita la pacata Saffie che piaceva tanto ad Amandine.

“Dobbiamo parlare, Saffie.”

Il suo cuore saltò un battito, ma ella fu fin troppo brava a nasconderlo, impegnata com’era a seguire una misteriosa linea d’inchiostro con il piccolo indice. Il suo dito seguì il tracciato della rotta attraverso coste e mari mai visti, allontanandosi progressivamente da Kingston e andando incontro al luogo in cui probabilmente era prevista la battaglia a cui suo marito avrebbe preso parte, rischiando di non far più ritorno.

Non te ne andare. Lasciami scoprire chi sei davvero.

Un’ombra oscurò il suo viso nello stesso momento in cui nel campo visivo di Saffie apparvero due mani grandi, i cui palmi premuti contro le carte dalla mappa ne celavano i segreti. L'indice della signora Worthington sfiorò appena la ruvidezza di quelle dita lunghe, prima che quest’ultima alzasse il visetto sorpreso e i suoi occhi spalancati si incrociassero con la lucentezza di due iridi tanto profonde da affogarci dentro.

“Non troverete nessun incredibile tesoro su queste mappe” le mormorò Arthur con gentilezza, il tono leggermente divertito. “O state forse cercando di scoprire dove sono diretto?”

Dopo aver dato qualche sbrigativo ordine ai suoi comandanti, l’Ammiraglio l’aveva raggiunta presso il tavolo e ora la guardava con interesse, la figura alta controluce e un sorriso affascinante stampato sul volto sempre serio; così, cercando di ignorare il battito del suo cuore stravolto, Saffie abbassò inconsciamente lo sguardo sul petto del marito e ne intravide appena i muscoli fra le trasparenze della camicia bianca, il candore della cicatrice crudele emergere dai lembi di quest’ultima.

Un trauma che si poteva nascondere al mondo, ma sempre e continuamente presente.

Proprio come la morte di Amandine.

“È già molto che io abbia saputo della vostra partenza” lo provocò in risposta la ragazza, utilizzando il formale voi di cortesia che solevano usare in pubblico e, in certa misura, sentendosi una sciocca per il sorrisetto emozionato che era comparso senza permesso sul suo volto: entrambi avevano cancellato il confine inesistente di loro volontà, ma la Duchessina di Lynwood aveva – paradossalmente – più difficoltà ad approcciarsi al marito di quanto non fosse accaduto durante i loro mesi di odio reciproco.

In fondo, una volta spogliati del rancore e dei peccati che avevano unito il loro passato, Saffie e Arthur erano due estranei che ben poco conoscevano l’uno dell’altra.

“Ho persino creduto...che vi foste dimenticato della vostra promessa” continuò lei con finta noncuranza, stringendosi nelle spalle ed evadendo lo sguardo intenso di Worthington. “Mi ha sorpreso, sapervi ancora a Rockfort!”

Dall’altra parte del tavolo, il Generale Implacabile non sembrò scomporsi troppo, ma Saffie stessa non avrebbe mai potuto immaginare quanto l’uomo fosse in realtà preda di un turbamento che ancora faticava a riconoscere. Arthur osservò per un altro breve attimo il sorriso appena accennato della moglie e, senza una parola, si avvicinò alla sua figura da ragazzina innocente, facendo scivolare le dita sul bordo della scrivania; d’altronde, averla davanti dopo una settimana dalla Grande Soirée provocava in lui non solo tormento, ma anche una insopportabile fame desiderosa. “E cosa hai pensato?” le chiese infine, un sussurro roco che fece rabbrividire la Duchessina. “Cosa hai pensato, quando hai creduto che non sarei venuto da te?”

“Tu, piuttosto, non sei arrivato! Le avevi giurato che non avrebbe più dovuto aspettarti e lei ti ha creduto!”

Un velo di amarezza calò per un attimo sugli occhi di Saffie, che si diede della stupida per aver tirato fuori da chissà dove il ricordo scomodo del giorno di pioggia in cui si erano per la prima volta riconosciuti un eguale disprezzo. "Ho…ho pensato di voler continuare a sperare di poterti rivedere al più presto" decise di rispondere a bassa voce e, approfittando della penombra del porticato deserto, allungò con incertezza una mano verso il marito, accarezzando le morbidezze della sua camicia di seta. "Però, sappi, sono stata anche molto triste!" aggiunse poi, forzando una leggera risata divertita.

Arthur osservò le dita della piccola strega scivolare lente sopra il suo petto e uno strano sospiro pesante gli sfuggì dalle labbra; egli chinò poi la figura alta su quella di Saffie, portando la chioma bruna vicino al viso in fiamme di lei, l’alito caldo che s’infrangeva sulla sua pelle leggermente abbronzata dal sole.

Oh, voglio farla mia a tutti costi, questa luce che posso solo intravedere dal fondo dell’abisso.

"Scusami" soffiò sul suo orecchio, e lo fece con un tono tanto incerto che alla Duchessina quasi non sembrò di riconoscere il distaccato Worthington di sempre. "È tutto così… nuovo per me. Non so come dovrei comportarmi."

Le braccia dell'uomo cinsero con dolcezza la vita della Duchessina, attirandola in avanti lentamente e portando in questo modo i loro bacini a incontrarsi in un morbido contatto. “Ma non dubitare mai di ciò che ti ho detto durante la Grande Soirée” continuò ancora l’uomo, la cui voce sofferente era solo un patetico indizio di quanto in quei giorni lui si fosse odiato per non essere riuscito a raggiungere la moglie a causa dei suoi numerosi impegni di lavoro. “Il solo pensiero di te mi fa andare fuori di testa, ragazzina. Tanto che fatico a credere tu sia venuta qui per davvero.”

“Sarai la mia rovina, Saffie di Lynwood.”

Dopo un giusto secondo di violento imbarazzo – in cui la ragazza castana quasi credette di poter svenire da un momento all’altro a causa del suo cuore innamorato – l'espressione di Saffie si distese con meravigliosa grazia e gentilezza, specchio di una gioia che non era più intenzionata a nascondere. “Sono qui” asserì piano, portando una mano sul viso sbarbato dell’Ammiraglio. “Volevo vederti, Generale.”

Ora che hai il mio cuore, lasciami comprendere ogni cosa di te.

Un sorriso affascinante arricciò le labbra sottili di Arthur, che annuì appena contro le dita fredde della ragazza. Una mano grande e ruvida andò a coprire quella della signora Worthington; al contempo, due occhi verde smeraldo la fissavano con lo sguardo di un uomo ancora imprigionato da pesanti catene.

Dimentica, ti prego, l'oscura ambizione che ti ha trasformato nell’Implacabile.

Il suono di un educato colpo di tosse fulminò entrambi Arthur e Saffie sul posto, proprio nel momento in cui quest’ultima aveva creduto l’Ammiraglio stesse per chinarsi su di lei e baciarla in pubblico, mandando così al diavolo le regole d'etichetta. Chiaramente, l’Ammiraglio raddrizzò il busto e si allontanò da lei in tutta tranquillità, cosa che provocò alla Duchessina una certa invidia nei suoi confronti e una buona dose di muta collera per chi aveva pensato bene di arrivare proprio in quel momento sulla scena.

“Capitano” osservò Arthur freddamente mentre, al suo fianco, la moglie puntava il suo miglior sguardo corrucciato su un Henry Inrving dall’aria fin troppo soddisfatta.

“Perdonate l’infelice intrusione” si scusò in gran fretta l’attempato uomo, nascondendosi dietro il suo tricorno blu scuro, ma ghignando come avrebbe fatto un padre pieno d’orgoglio. “Vi ruberò solo un secondo del vostro tempo e solo per una questione di una certa importanza, ve lo posso assicurare.”

“È arrivata un’altra missiva dalle spie francesi?”

Il marito di Teresa scosse la testa imparruccata e mantenne saldo il sorriso bonario che l’aveva fatta innamorare a prima vista; dietro le sue spalle leggermente curve, il cortile andava via via svuotandosi, lasciando solo i soldati di guardia sulle alte mura. “La giornata si prospetta tranquilla ed è proprio per questo che mi sono permesso di disturbarvi, giacché vostra moglie è qui a Rockfort: io e gli altri Ufficiali pensiamo di poter alleggerire il carico sule vostre spalle almeno per qualche ora, Ammiraglio. Perché non ne approfittate per accompagnare la signora Worthington in città?”

E si girò noncurante verso una Saffie ora decisamente più in vena di elargire gratitudine, il cui sorriso sembrava andare da un orecchio all’altro. “Mi è parso di sentire foste diretta lì” ipotizzò infine Henry, con fare vago e soave. “Non è forse vero, signora?”

Anche Arthur si voltò nella sua direzione, l’indecisione di un bambino sperduto incisa sul volto di uomo di potere e, dopo avergli lanciato un’occhiata fugace, la ragazza seppe che gli sforzi di Keeran non sarebbero andati sprecati. “Avete sentito benissimo, Capitano” confermò quindi lei, facendo sfoggiò della sua proverbiale faccia tosta. “Accetterei volentieri compagnia nella mia passeggiata quotidiana! Sempre se…se a voi può andar bene.”

L’ultima parte della frase era ovviamente rivolta al marito, che Saffie guardò con due iridi luminose di speranza e aspettativa; seppure una minuscola parte della sua anima temesse di vederlo respingere la proposta con un distaccato pragmatismo a lei tristemente famigliare.

“…perché no, amica mia, penso proprio che l’Ammiraglio possa davvero rischiare di aprirsi con voi pure sul suo altro passato.”

Al contrario dei timori nutriti dalla Duchessina, Worthington parve – incredibile a dirsi – divertito dal teatrino allestito dalla ragazza e dal Capitano, di cui lui aveva comunque scoperto subito la natura di messa in scena. “E sia” acconsentì l’uomo, inchinandosi con irriverente cortesia di fronte a una Saffie di nuovo a rischio d’infarto; i suoi occhi chiari e penetranti scattarono sul visino grazioso della ragazza, ed egli aggiunse: “Muoio di curiosità, mia cara.”

Ora che posseggo il tuo cuore, lasciami vedere com’è vivere sulla superficie.


§


Kingston intera non poteva credere ai propri occhi.

Quel giorno, la cittadina più ricca e fiorente della Giamaica inglese si era levata allo spuntare del sole come accadeva da generazioni a quella parte: le donne avevano spalancato le imposte di legno delle finestre e i tepori della mattinata avevano accompagnato il sollevarsi delle prime voci sulla strada e nelle case, i vagiti dei bambini, le urla dei lavoratori. Una routine destinata a proseguire quindi senza troppi sconvolgimenti di sorta fino all’ora del tramonto e della quieta sera.

Si può dunque immaginare l’enorme sorpresa che piombò sulla testa dei cittadini impegnati nelle solite commissioni, quando videro entrare nel quartiere commerciale due figure piuttosto insospettabili: Arthur e Saffie Worthington camminavano insieme, fianco a fianco, senza curarsi delle numerose teste che si voltavano a seguire il loro passaggio; similmente alla sera del Grande ballo, marito e moglie parvero a tutti i presenti uno spettacolo innaturale da osservare, due creature strane e affascinanti, lontane anni luce dai poveri diavoli che abitavano quelle strade. Eppure, il fatto veramente incredibile non era vederli passeggiare lungo la via senza la compagnia di alcun soldato di scorta ma, piuttosto, la strana aria da fidanzatini che aleggiava attorno all’uomo e alla donna tra cui c’era stato – almeno agli occhi di Kingston – un viscerale odio reciproco.

Non poteva però esserci margine d’errore alcuno. La graziosa Duchessina di Lynwood era perfettamente riconoscibile da chiunque mentre si fermava di tanto in tanto presso le bancarelle ricche di merce tanto colorata quanto esotica, sorridendo con cortesia agli onoratissimi venditori e ponendo loro domande piene di curiosità; come non vedere poi il minaccioso Generale Implacabile che, dietro le piccole spalle della ragazza, si chinava su di lei per osservare gli oggetti esposti sui banchi con il solito contegno severo ed elegante per cui era tanto famoso.

Sconvolgente, infine, il modo in cui le iridi verdi dell’uomo tornavano sul visetto emozionato della moglie e la fissavano con l’intensità di chi sta guardando qualcosa per la prima volta.

E sembrò come se egli avesse trovato un tesoro prezioso oltre ogni dire, una ricchezza che avrebbe protetto a costo di affondare il mondo intero.

I fortunati presenti all’evento (insomma, non capitava certamente ogni giorno di vedere Worthington sorridere) non potevano sapere quanto la stessa Saffie faticasse a credere alla sua, di fortuna: era difficile pensare di stare vivendo insieme ad Arthur momenti che si presupponevano essere di tranquillità coniugale, senza dubitare che vi fosse una trappola pronta ad attenderla da qualche parte. Non a caso, anche la Duchessina di Lynwood lanciava a più riprese occhiate timide e discrete al volto virile del marito, quasi convincendosi di star camminando al fianco di un uomo che non riconosceva del tutto; una persona uscita direttamente dai giorni lontani del Northampton, il cui sguardo e le cui parole si rivolgevano a lei spogliate del rancore disperato che li aveva crudelmente uniti.

…perché ciò che la tragedia divide, l’amore è capace di unire.

Ricordare proprio in quell’istante la citazione di un libro strappalacrime letto chissà quanto tempo prima, provocò in Saffie un rossore sì vergognoso, ma pure sintomo del sentimento caldo che si impossessò del suo cuore all’improvviso. Gli occhi scuri della ragazza saettarono ancora verso l’alto, sopra un Worthington impegnato a scambiare qualche fredda parola con lo spaventato venditore di fronte a loro.

Ti arrabbieresti, se adesso ti dicessi che ti amo?

“Oddio, sono una donna così stupida!” pensò di getto la Duchessina, sgridando sé stessa e al contempo portandosi entrambe le mani sulle gote brucianti di imbarazzo, girandosi dall’altra parte, così da nascondere la sua espressione ebete a un Ammiraglio che – parola di Saffie – era fin troppo bello da guardare senza rischiare scandalose conseguenze. Alla fine del carosello, considerò lei, era diventata esattamente come le donne che durante la Grande Soirée si erano lasciate andare a un concertino di sospiri appassionati ogni qual volta Arthur si trovava a passar loro davanti!

“Dobbiamo parlare, Saffie.”

Già. Meglio inoltre sorvolare sulle opprimenti domande che premevano nella sua mente fin dal ricevimento di Lord Richard; la ragazza si era ripromessa di ringraziare il marito per aver salvato Earl dal destino a cui il Duca Alastair l’aveva condannato e, se proprio doveva essere sincera, il suo animo egoista desiderava sopra ogni altra cosa infrangere il tabù rappresentato dal Grande Diavolo, così da poter chiedere ad Arthur cosa era accaduto in passato e che ne era stato di sua madre Irina.

In cuor mio, so che forse sarebbe sbagliato forzarti a parlare di chi ti ha inferto le cicatrici che ti deturpano il corpo, rivivere in questo modo un passato che hai voluto dimenticare nell’abisso.

Le mani di Saffie scivolarono via dalle sue guance calde, distendendosi di nuovo lungo i fianchi sottili.

Ma è distruttivo e soffocante, questo mio desiderio di immergermi sempre più in profondità. Voglio scavare ancora e ancora, scoprire le tenebre e conoscere ogni cosa di te…compreso ciò che non vuoi farmi vedere.

Invece no! Durante le ore trascorse insieme alla discreta e seria compagnia dell’Ammiraglio, la ragazza castana non aveva fatto altro che parlare ad Arthur del più e del meno, come la scuola fondata dagli Inrving un anno prima e presso cui lei aveva cominciato a presenziare per qualche lettura ai bambini; non era nemmeno riuscita a gravitare attorno agli argomenti che rimanevano sospesi fra loro, quindi figurarsi affrontarli per davvero.

Paradossalmente, c'era stato pure il tempo di farsi coinvolgere in quello che doveva essere una sorta di gioco di scherma all’aperto organizzato da un manipolo di cittadini pronti a divertirsi: lei e Arthur avevano fatto in tempo a metter piede in una delle piazze più trafficate della città, che il Generale Implacabile era stato subito invitato a salire sul misero palco in legno ospitante i contendenti, mentre tutt’attorno si affaccendava una gioiosa folla in vena di scommesse.

A Saffie era inizialmente parso che il marito non intendesse partecipare a un duello contro un comune civile, ma poi la voce dell’alticcio organizzatore si era levata alta da sopra l’arena e aveva chiocciato un provocatorio: “Ma come! L’Implacabile rifiuta di battersi contro uno di questi poveri diavoli?! Dateci mostra delle doti per cui siete temuto in tutto l’Impero!”

Sudando freddo, la ragazza aveva alzato il viso di scatto su Arthur, temendo una sua possibile funesta reazione; ma l’uomo ebbe di che sorprenderla: invece di chiamare le guardie e far sgomberare folla e manifestazione, egli aveva sorriso con le sue belle labbra sottili e, parendo un predatore pronto alla strage, si era voltato verso di lei, la chioma bruna che si muoveva leggera su un’espressione di ironia conturbante.

“Aspettami qui” le aveva detto a bassa voce, facendole trattenere inconsapevolmente il fiato a causa, ancora una volta, del tono gentile con cui si era rivolto a lei. “Non ci vorrà molto. Cinque minuti, non uno di più.”

Ed era stato un uomo di parola perché, secondo Saffie, era tutto finito in meno di due. Il tempo di vederlo salire sul palchetto e inchinarsi di fronte ai due eccitati avversari – un paio di uomini di mare dagli sguardi truci – che questi ultimi avevano fatto per attaccarlo subito, sfoderando le loro rozze armi sbeccate; la ragazza aveva stretto le mani nervose sulla stoffa leggera delle sue gonne ma, ovviamente, non c’era nulla per cui essere spaventati: un secondo prima dell’attacco il profilo di Arthur rivelava una concentrazione ferma e mortale, mentre quello successivo gli uomini davanti a lui erano già a terra, disarmati e confusi. Nessuno fra la folla, Saffie compresa, poteva dire di aver visto chiaramente Worthington muoversi.

Un secondo di silenzio era piovuto sui presenti, nel quale l’Ammiraglio ne aveva approfittato per rinfoderare la sua spada argentata con un gesto di seccata insoddisfazione. Il tempo di farlo, che la folla era esplosa in un coro di applausi e urla ammirate mentre, in gran segreto, la ragazza aveva soffocato una timida risata divertita al vedere il marito inchinarsi di nuovo di fronte ai pietrificati contendenti.

“Con vostra licenza, miei signori” gli aveva sentito dire con distaccato garbo e il sorrisetto che lei era impegnata a trattenere fra le sue piccole dita era diventato più largo, sfuggente.

Non l’aveva mai compreso fino ad allora, quanto Arthur fosse in realtà amato dalle persone che aveva giurato di proteggere.

Un basso suono roco, forse uno sbuffo colmo di scetticismo, irruppe nelle suo orecchie e dietro le sue spalle, facendola tornare alla realtà in un battito di ciglia. Un odioso batticuore si fece beffe di lei in mezzo istante, ma Saffie fu bravissima a celarlo dietro l’espressione di soave tranquillità con cui si voltò in direzione dello statuario marito. “Mh?” fece, spalancando due grandi occhi perplessi su di lui. “Hai detto qualcosa, mio signore?”

La Duchessina quasi si pentì di averlo provocato utilizzando quell'appellativo, poiché lo sguardo che Arthur le puntò addosso fu tanto intenso da farle correre un violento brivido lungo tutta la spina dorsale. Infine, fu lui ad abbassare gli occhi per primo, due biglie verdi che scivolarono su un punto impreciso della strada ai loro piedi. “Mi chiedo se non sia un altro crudele scherzo del fato” le confessò incolore, ma arrossendo in maniera impercettibile. “Parlo di me e di te qui, oggi. Proprio noi, che ci siamo odiati fin dal profondo dell’anima.”

Lo avevamo giurato a noi stessi. Non sarebbe mai esistito un mondo in cui ci saremmo perdonati a vicenda.

“Non dirmi che senti la mancanza del nostro stato di guerra, Generale” commentò Saffie, cercando di parere allegra e ignara, ma tradendo in effetti un sorriso piuttosto malinconico. “Vorresti forse tornare indietro?”

Neanche il tempo di finire di dirlo, che la ragazza si sentì attirare dolcemente in avanti dalla presa della mano grande del marito, stretta attorno al suo polso con delicatezza. “Oh, mai e poi mai” scherzò sottovoce e la Duchessina si rese conto, come un fulmine a ciel sereno, che avevano cominciato a darsi del tu anche in pubblico. “Non ti ho mai vista così remissiva nei miei confronti come in queste ultime ore, ragazzina.”

“Sì, credo sia decisamente il caso io ricominci a pensar male di voi. Cosa ne dite?”

Ignorando l’adorabile sguardo di sfida della moglie, l’Ammiraglio Worthington fece scorrere le dita sulla pelle morbida di quest’ultima e ne raggiunse la linea del collo sottile, appena sopra un marchio non più visibile ma – oh se lo sapeva – ben presente. “Dico che vinceresti di nuovo la tua battaglia contro di me” mormorò, ipnotico, mentre le sue lunghe dita salivano fino ad accarezzare la guancia rossa di Saffie, sfiorandone le tenere labbra schiuse. “Ma forse, questa volta, mi arrenderei più facilmente.”

Arthur…quante persone dovrai rovinare, prima di essere soddisfatto?

No, non è così. Fammi risalire con te nella luce, dove non ti farò più del male, né ne farò agli altri.

Dopo un attimo in cui gli occhi castani della ragazza si specchiarono preoccupati in quelli pieni di tormento di Arthur, ella inclinò appena la testa sul palmo aperto dell’uomo. “Siamo…siamo in mezzo alla gente, Ammiraglio.”

Lui, per tutta risposta, ghignò di beffarda ironia. “Detto dalla scandalosa Duchessina che mi ha messo le mani addosso durante la Grande soirée.”

“È stato un incidente!” sibilò con forza una Saffie imbarazzata a livelli a dir poco catastrofici. “Lo sai che stavo per cadere!”

Arthur le lanciò un’occhiata piuttosto scettica, ma si fece indietro comunque e la ragazza ringraziò di poter di nuovo respirare liberamente. “Piccola bugiarda” commentò poi lui, in un tono che non si sapeva se era più di tenerezza o divertimento. “Dimmi, dove ti piacerebbe andare adesso?”

La signora Worthington allora gli sorrise, sfoggiando un’espressione di luminosa speranza che lo ferì dentro.


§


Era il luogo che, in sciocchi anni di fantasie passati dentro alla gabbia dorata, lei e sua sorella più avevano desiderato vedere.

Le quiete onde di un mare cristallino si infrangevano sulla distesa di sabbia bianca, riflettendo i raggi del sole e illuminando così il panorama circostante di una luce in verità accecante ma, nello stesso momento, piena di bellezza mozzafiato. La spiaggia era deserta a quell’ora del giorno e, proprio come predetto da Amandine in punto di morte, Saffie ne percorse la lunghezza quasi correndo, lasciandosi indietro Worthington e ridendo felice quando un’onda più invadente delle altre tentò di lambire la sua ricca veste dai colori vivaci; la ragazza si fece da parte con un saltello da cerbiatto e, all’ombra delle palme mosse dal vento caldo, si girò in direzione del marito, uccidendolo con i suoi bei occhi grandi e meravigliati.

La libertà tanto sognata al di là delle sbarre costruite da suo padre ora sembrava averla raggiunta per davvero.

“In tutte queste settimane, non ho mai avuto occasione di vedere la spiaggia!” esclamò la Duchessina, osservando il marito farsi tranquillamente vicino a lei con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni bianchi. “Sarei venuta prima, se avessi saputo della bellezza di questo posto!”

Arthur mostrò di stupirsi e si girò appena con il busto, i capelli castano scuro che si muovevano ribelli alla calda brezza marina. “Mi stupisce Teresa non ti ci abbia portato” fece l'uomo. “Di solito, è il pezzo forte che riserva agli ospiti in visita a Kingston.”

In effetti, Saffie ricordava vagamente il grande entusiasmo dimostrato dalla signora Inrving alla prospettiva di portare lei e Keeran a esplorare l’incantevole spiaggia del suo paese natio; di certo, considerò poi la Duchessina con una certa dose di improvvisa ansia, Teresa sarebbe diventata una furia guerriera nel saperla lì senza la sua compagnia!

“A…adesso che ci penso, potrebbe avermene fatto cenno” balbettò la ragazza, cercando di glissare sull’argomento e sulla possibile ira della donna di colore. “Parliamo di molte cose, a dire il vero. Oh! Sono rimasta stupita nel sapere che è stata lei e crescere te e il signor Rochester come se foste figli suoi!”

Fantastico. Dopo aver cercato di affrontare il discorso per ore intere, ecco che quest’ultimo veniva fuori da solo e, chiaro, nella maniera meno discreta possibile. Non a caso, Saffie realizzò di essere una stata una sciocca nel medesimo secondo in cui due iridi verde scuro scattarono su di lei, taglienti e pericolose.

“Ah, ma davvero?” chiese Arthur, la cui espressione impassibile non si adeguava proprio per niente al suo tono distante, freddo. “È solo questo che ti ha detto?”

In uno schiocco di dita, l’Ammiraglio Worthington era tornato a pararle con i tono diffidente e brusco di chi è sulla difensiva: i lineamenti aristocratici del suo bel volto si erano induriti fino a formare la maschera di brutale severità che Saffie aveva visto fin troppe volte e quest’ultima lo percepì nel vento, che l’uomo era pronto a rinchiudersi al di sotto delle acque oscure.

“…dovervi parlare anche di Hector e di ciò che egli rappresenta per vostro marito, dei peccati che l’ha costretto a commettere.”

“Sì, ma…Teresa non ha alcuna colpa. Sono stata io a voler sapere di più sulla tua famiglia” si azzardò a rispondere in un sussurro spaurito lei, accorgendosi di aver cominciato a tremare leggermente da capo a piedi.

“Perché?”

Non farlo. Non mi allontanare di nuovo, ti prego.

Nel disperato tentativo di trattenerlo con sé in superficie, la ragazza allungò entrambe le mani in avanti e raggiunse il petto del marito, scivolando con le dita sopra alla candida camicia di seta e alzando al contempo il viso preoccupato verso l’alto, sulla glaciale indifferenza dietro cui si era nascosto Arthur. “Voglio comprendere” gli disse, i palmi che premevano con delicatezza sull’invisibile cicatrice crudele. “A volte penso che tu conosca così tanto di me e del mio passato, mentre io non so nulla del tuo.”

“Chiedimi ciò che vuoi e lo esaudirò, ma non questo.”

“Pe...però, mi sei sembrato così felice quando hai parlato di Bharat e di tua madre Iri…”

“Come se la tua vergognosa madre avesse avuto molta scelta, comunque.”

“Saffie, ho detto di no!” la interruppe l’uomo, alzando la voce e facendosi indietro con uno gesto tanto rabbioso da far sussultare la figura minuta della Duchessina sul posto.

Oh, è il modo in cui “lui” ti ha cresciuto. La ferirai ancora e ancora, perché è nella tua disgustosa natura.

Di fronte agli occhi colmi di timore della moglie, l’animo dell’Ammiraglio vibrò dello stesso doloroso senso di colpa che tanto aveva fatto suo negli anni, tanto lo accompagnava ovunque andasse.

Non la meriti, Arthur. Non meriti che lei abbia scelto un uomo come te, patetico e bugiardo oltre ogni dire.

E, quando la vide abbassare lo sguardo verso terra, fu grande il terrore di averla persa di nuovo a causa della sua pietosa debolezza, del suo carattere capace di distruggere qualsiasi cosa. Così, quasi senza pensare, annullò con un passo incerto lo spazio che lo divideva da Saffie e si abbassò sul suo visetto triste, per poi superarlo e affondare la fronte nell’incavo della sua esile spalla. “Perdonami, io non…non avevo intenzione di spaventarti” soffiò sulla pelle della ragazza con quella che ella riconobbe come vera sofferenza; e le cinse la vita sottile con il braccio, quasi lei potesse svanire in un soffio di vento. “Ma non chiedermi più di mia madre. Tutto, meno che questo.”

“Un'altra sua disdicevole abitudine, Arty. Non che mi stupisca vedere la noncuranza con cui lei ti ha abbandonato fra le mie mani, una volta compreso quanto io e te siamo uguali.”

Una morsa atroce si strinse attorno al cuore della Duchessina che, dopo un secondo di muto silenzio, decise di non dire nulla e stringere il corpo imponente dell'uomo fra le sue piccole braccia; e la ragazza comprese che non esisteva Arthur più vero, più onesto, di quello che ora si lasciava andare contro di lei, facendole mostra delle fragilità che in fondo li accumunavano.

Le pareva quasi di vederlo, il ragazzino spaventato e gentile che risiedeva dentro all'abisso.

Saffie aveva già ottenuto molto da Worthington quel giorno e, probabilmente, non sarebbe stato giusto insistere sopra un argomento così pericoloso, quando il rischio era rovinare una giornata che per la Duchessina poteva essere benissimo paragonata a un sogno.

Non era la fine. Ci sarebbe stato tempo per conoscersi meglio, per guarire le reciproche cicatrici.

"Mi dispiace" fece a sua volta Saffie, il tono di voce incrinato dal rimorso, soffiando quelle parole sulle morbide onde brune del marito. "Sono stata invadente e sciocca, come sempre."

Il Generale Implacabile scosse appena la testa, in un rassegnato cenno di diniego. "Sono io che dovrei dispiacermi, continuare a chiederti scusa" commentò lui, sollevandosi e infine lasciando libero il suo incredibile sguardo smeraldino di indagare il viso perplesso della moglie. "Te l'ho detto: ti desidero in un modo che mi distrugge l'anima" le confessò, distogliendo gli occhi dal rossore acceso di lei. "Ma non posso fare a meno di pensare di averti rovinato la vita, di averti strappato un futuro in cui saresti potuta essere davvero felice."

"Pensi di poter essere felice a Kingston?”

Com'era accaduto nella penombra quieta di Rockfort, Saffie portò di nuovo una mano sulla guancia del marito e l'obbligò con gentilezza a girarsi nella sua direzione.

Arthur, tu mi hai salvata. Hai salvato Earl e ti sei dimostrato amico di Amandine che, ora lo so, avresti trattato come il più fragile dei tuoi tesori.

“No” gli disse con enorme tenerezza, una volta che l’uomo tornò a guardarla. “Non è così, Arthur: sono altri, i carnefici che hanno scritto la nostra storia, guidato gli errori per cui abbiamo già pagato. Perdoniamoci a vicenda, perché io sola ho scelto a chi dare il mio cuore.”

La spuma dell’onda avanzava sulla sabbia, per poi ritirarsi e ricominciare da capo, in una danza continua e infinita che faceva da sfondo all’uomo e alla donna fermi sulla spiaggia, le cui membra continuavano a tendersi l’uno su quelle dell’altra, a ricercarsi, a sfiorarsi anche solo per un attimo. Era un’urgenza frustrante, ma invincibile, quella che portava Saffie e Arthur a incontrarsi ancora e ancora sul confine del legame non più crudele, quasi non potessero farne a meno.

“Dio” fece l’uomo, cingendo la moglie anche con l’altro braccio e attirandola a sé mentre, inatteso, un sospiro rassegnato usciva dalle sue labbra sottili. “Parli come una donna che non sa di tenere la mia anima nel pugno della sua mano.”

Senza che me ne rendessi conto, sei diventata l’unica per cui sarei disposto ad abbandonare l’abisso.

Gli occhi luminosi della Duchessina si sgranarono dalla sorpresa e lo fissarono increduli, adorabilmente dubbiosi, mentre le sue dita fredde scivolavano via dalla sua guancia sbarbata, solo per tornare di nuovo sopra il torace tonico di Worthington, dentro cui batteva un cuore feroce.

Il passerotto che canta sull’orlo del mio buio precipizio. La mia Saffie.

E, quando parlò ancora, Arthur lo fece con una tale serietà nella voce da far trattenere il fiato alla ragazza davanti a lui: “Saffie, io ti…

“Ammiraglio Worthington! Signore!”

L’esclamazione allarmata che aveva interrotto con pessimo tempismo uno dei momenti più difficili della vita del Generale Implacabile era, ovviamente, di un giovane e rigido tenente a cui Arthur avrebbe volentieri tirato il collo. Ignaro del rischio che stava correndo la sua stessa vita, il ragazzo intento a incespicare goffamente sulla sabbia si fermò di botto alla vista della scena e, soprattutto, degli occhi pericolosi con cui l’Ammiraglio si era voltato a guardarlo, senza però far cenno di allontanarsi dalla figura tutta rossa di una Saffie di Lynwood stranamente imbambolata a fissare il vuoto.

“Si-signora Worthington!” gridò allora l’ufficiale, colto da un folgorante imbarazzo. “Vi chiedo scusa, ma se non fosse stato importante io…”

“Fai rapporto, soldato” lo interruppe Arthur, tornato al solito contegno di pietra. “E fa di modo che sia breve.”

Il tenente scattò immediatamente sull'attenti, come ovvio. "Lord Chamberlain e il Consiglio coloniale chiedono di voi con urgenza, Ammiraglio."

L'espressione di quest'ultimo non mostrò emozioni di sorta, ma i suoi occhi chiari si indurirono all'istante. "A quanto pare non ho scelta" sillabò dopo poco l’uomo, in maniera piuttosto enigmatica. "Molto bene. Verrò con voi, in questo caso."

“…e, se le divinità vorranno, eviteremo una guerra pagandola al prezzo di una sanguinosa battaglia.”

Come se le avessero battuto le mani davanti al viso, Saffie si risvegliò dal suo coma di botto e alzò lo sguardo sul volto irreprensibile di Worthington: suo marito guardava il giovane a qualche metro da loro, ma le sue iridi non lo vedevano per davvero; bensì, andavano oltre e si perdevano lontano, verso un'oscurità il cui nome era alla ragazza sconosciuto. Allora, fu straziante la preoccupazione che fulminò l'anima della povera Duchessina di Lynwood.

“Hai sempre voluto vedere la mia cicatrice, se non sbaglio. Eccola. Questa mi ha quasi ucciso.”

Prima che potesse fare alcunché, Arthur sentì il tocco tremante delle mani di Saffie aggrapparsi alla sua veste con forza e riportò subito la sua attenzione su di lei, sorpreso.

"È proprio necessario?" gli sussurrò ingenuamente la ragazza, spostando gli occhi grandi verso terra e tradendo una titubanza che non le era famigliare. "De-devi andare per forza?"

E, dopo averlo detto, si detestò immensamente, perché sapeva di starsi comportando da perfetta sciocca; come poteva pretendere che lui trascurasse i suoi doveri di Alto Ufficiale per trascorrere altro tempo insieme?

Sepolte nel suo cuore, in realtà, erano molte le parole che avrebbe voluto dire.

Resta, resta qui con me. Non partire.

"Se fai così, mi rendi più difficile allontanarmi da te" fu il commento di Arthur, detto con una malinconia che piombò pesante sulla testa castana della Duchessina.

Eppure queste parole gentili, l'anima fragile di Arthur, sono mie e mie soltanto.

L'uomo ancora non accennava a lasciarla andare, stringendola fra le braccia come una ricchezza preziosa. La sua ricchezza preziosa. Intrecciò le lunghe dita con quelle della mano sinistra di Saffie e portò il suo piccolo palmo davanti al viso abbronzato, baciandolo con una delicatezza strana, reverenziale.

"Non preoccuparti di nulla" disse, soffiando le parole sulla pelle di lei mentre, tra le dita della sua mano aperta, la ragazza intravide il bagliore dorato della fede nuziale e lo sguardo fermo, affamato, con cui le iridi chiare di Worthington la stavano fissando. "Stasera verrò alla Zuimaco. Pensi di potermi aspettare?"

Il cuore della Duchessina fece una capriola agitata e quest'ultima sfoggiò un'espressione tanto splendente, che fece venir voglia al Generale Implacabile di mandare tutto al Diavolo, di spogliarla subito e farla sua direttamente sulla spiaggia deserta.

Dirle, infine, che non desiderava più essere l'uomo di un tempo, colui che sapeva solo possedere e distruggere.

"Sì!" gli rispose Saffie, quasi ridendo con le sue belle labbra rosee. "Se...se lo vuoi, potremmo cenare insieme, visto che non l'abbiamo mai fatto in tutti questi mesi!"

Dal canto suo, la ragazza temeva Worthington rifiutasse in blocco la sua frivola proposta, ma questo non accadde: anzi, l'Ammiraglio le concesse un ultimo morbido bacio fra i capelli, prima di sciogliere il loro abbraccio e allontanarsi con stampato in faccia un ghigno di beffardo divertimento.

"Guai a te se ti addormenti, ragazzina" la avvisò, il tono di soave presa in giro, la figura alta che già si incamminava in direzione di un giovane soldato letteralmente scarlatto di vergogna.

E, per l'ennesima volta in quella lunga settimana, Saffie temette di star vivendo solamente uno dei suoi sciocchi sogni.


§


“Parli come una donna che non sa di tenere la mia anima nel pugno della sua mano.”

Arrossendo appena, l’importante moglie dell’Ammiraglio Arthur Worthington nascose bocca e naso sotto la superficie dell’acqua calda, godendosi il tepore del bagno che i domestici di casa avevano preparato per lei. La ragazza cercò di ignorare l’intorpidimento delle sue membra stanche e spostò gli occhi sulle grandi finestre della camera da letto, dove una grande luna le ammiccava misteriosa e pallida fra le imposte di legno aperte; senza distogliere lo sguardo, del tutto inconsciamente, l'importante figlia del Duca Alastair cominciò a soffiare sott’acqua e a produrre così una serie di bolle scoppiettanti che le ricordarono i tempi dell’infanzia: erano state tante le volte in cui – ignorando i richiami indignati della sua tata Kitty – soleva far divertire una piccolissima Amandine con quel giochetto da niente.

“Guai a te se ti addormenti, ragazzina.”

Le bolle cessarono all’improvviso, mentre lei si cingeva distrattamente le gambe nude con le braccia, raggomitolandosi contro la superficie liscia dell’ampia vasca. “Avevo proprio pensato che ci saremmo visti per cena” borbottò fra sé, quasi sbuffando sullo specchio d’acqua increspato da decine di petali di rosa. “Invece non si è fatto vedere. Mi chiedo se non sia il caso di andare a dormire, a questo punto!”

Come era accaduto spesso in quell’ultima mezz’ora, lo sguardo della Duchessina vagò in cerca della pendola e del suo orario, per poi abbattersi di nuovo verso il basso con muta rassegnazione. Erano le dieci e mezza passate, ormai.

Alla fine, l'unica compagnia nella serata di Saffie era stato il battere sordo e continuo del suo cuore furioso: la ragazza aveva difatti sovrinteso alla preparazione della cena come una vera e propria padrona di casa, preoccupandosi suo malgrado di dettagli e sciocchezze a cui non aveva dato mai troppo peso; infine, aveva atteso l’arrivo del marito seduta rigidamente a capotavola, mentre la luce dei candelabri accesi diventava di secondo in secondo più fioca. La sua feroce agitazione non era stata intaccata nemmeno quando era giunto un messaggero da Rockfort che, tutto trafelato e di gran fretta, l’aveva informata del ritardo con cui il marito si sarebbe presentato a cena.

“L’Ammiraglio si scusa con voi, mia signora” aveva detto il soldato, inchinandosi profondamente. “Ma l’incontro con il consiglio coloniale sta richiedendo più del previsto. Il Generale ha detto di riferirvi che verrà appena possibile, di sicuro”.

Ed era stato aggrappandosi a quelle due misere frasi, che la ragazza aveva deciso di cominciare a mangiare in silenzio, comunque turbata da un’emozione a cui si erano aggiunte la delusione per l’assenza di Arthur e – soprattutto – l’ansia dovuta alla missione sanguinaria che lo attendeva: proprio nel momento in cui sentiva di averlo ritrovato, di essersi lasciata alle spalle il male che li aveva imprigionati, ecco che la sua ambizione lo portava di nuovo lontano da lei. Non che fosse ragionevole nemmeno mettergli i bastoni fra le ruote e impedirgli di compiere il suo mestiere; la Duchessina sapeva di essere la moglie di un Alto ufficiale dell’Impero e, di conseguenza, doveva essere anche pronta a comprendere i rischi a cui Worthington poteva andare incontro. In fondo, ne aveva avuto testimonianza lei per prima, durante la traversata che l’aveva condotta a Kingston.

Le aveva viste, le orribili cicatrici inferte dal demonio che aveva creato l’abisso.

Un nero grumo di paura e dolore le si annidò dentro, al solo pensiero delle torture che l’uomo chiamato Hector aveva crudelmente inflitto al Generale Implacabile. Pensando a questo, Saffie si sporse lentamente in avanti, scivolando nella vasca come avrebbe fatto una sirena, le infinite ciocche di capelli castani che s’allungavano a pelo d’acqua. “Non desidero vederlo mettere a repentaglio la sua vita solo per inseguire un incubo passato” si disse la ragazza, aggrappandosi con le esili dita al bordo ruvido e, al contempo, ignorando il gelido presentimento che s’era fatto strada nella sua mente. “Perché quando combatte non ha alcun riguardo per sé stesso.”

“Sembra voi non siate mai stanco di riempirvi di cicatrici.”

Un abbondante sciabordio d’acqua, una spina dolorosa nel cuore, e Saffie di Lynwood si era già alzata in piedi alla ricerca del morbido conforto dei panni lasciati sulla cassettiera poco distante. Un abbraccio tiepido accolse il suo corpo nudo e bagnato, provocandole un leggero mugolio di stanca soddisfazione; ora, era forte la tentazione di infilarsi sotto gli strati di coperte fresche, malgrado la voglia di attendere l’arrivo dell’indaffarato marito.

“Saffie, io ti…”

L'eccitato batticuore che aveva accompagnato la Duchessina in quella lunga giornata divenne violento e insopportabile, tanto assordante da offuscare persino le sue ansie per la partenza di Arthur. L’uomo le stava per dire sul serio quelle parole, o era un’altra delle sue fantasie da donna capricciosa ed egoista?

Mi manchi, Generale.

Saffie girò appena la testa e osservò ancora il panorama degli alberi esotici immersi nella penombra dell’accecante luna piena. Una sfera di luce accecante che era la stessa della notte in cui si erano trovati per la prima volta l’uno di fronte all’altra, in piedi sul loro confine inesistente.

Vieni da me adesso, ti prego.

Al chiarore argentato della stanza, la forma di due mani grandi apparve dal nulla e la ragazza si sentì tirare con gentilezza indietro, stringere nella dolce trappola che aveva continuato ad attendere. “Ti ho presa” soffiò una voce profonda e calda, leggermente sardonica, al suo orecchio arrossato. “Sei rimasta sveglia ad aspettarmi per tutto questi tempo?”

Sì, ti ho atteso sul limitare del nostro orizzonte inesistente. O forse, come sempre, sull'orlo del tuo abisso.

Il rossore violento che folgorò il visetto di Saffie andò di pari passo con un forte spasmo di eccitata sorpresa, e lei si volse subito fra le braccia del marito, premendo dieci piccole dita fredde sul suo petto ampio. "Arthur!" esclamò in maniera patetica, cercarlo di allontanarlo senza troppa convinzione. "Sono appena uscita dalla vasca...così ti bagnerai!"

Fu come se non avesse mai parlato. Nell'oscurità, gli occhi dell'uomo risplendevano cristallini, lucidi di un desiderio inamovibile, dolce e al contempo pericoloso. Si chinò in silenzio sulla moglie, attirandola a sé e dominando su di lei con la sua alta figura statuaria; il tempo di un respiro spezzato e, similmente a quella stessa mattina, egli affondò lo scarmigliato capo bruno sulla spalla della moglie, inebriandosi del profumo gentile dei suoi capelli umidi.

"Non importa" parlò finalmente, la voce bassa e roca che s'infrangeva calda sulla pelle della Duchessina. Worthington cominciò poi a strofinare con lenta delicatezza il naso dritto contro il collo sottile di lei, seguendone la linea con il volto esausto. "Non ho fatto altro che desiderare questo per tutto il giorno."

"Grazie al Cielo siete qui, Ammiraglio! È arrivato un messaggero giusto un'ora fa e le informazioni che..."

Tu gli appartieni, Arthur.

Il Generale Implacabile fece uno sforzo disumano per reprimere sia il ricordo della vocina allarmata di Richard Chamberlain, sia il brivido di genuino terrore serpeggiato lungo la sua schiena. Inoltre, sapeva di non volere per nulla al mondo che Saffie si accorgesse di quanto lui stesse rischiando di perdere il controllo.

"Diverse navi corsare affiancheranno quelle della Marine Royale; ed è comprovato che siano tutte del Grande Diavolo. Dobbiamo anticipare la partenza, Generale, poiché potrebbe esserci l'occasione giusta per abbattere la preda più ambita."

Oh, tu sarai sempre suo e, appartenendo a lui, appartieni anche all'abisso.

Saffie nemmeno ebbe il tempo di prevederlo, il bacio violento che rapì le sue tenere labbra da ragazzina. Worthington aveva raggiunto il suo viso in un attimo, baciandola con la veemenza lussuriosa e inarrestabile che tanto la faceva impazzire; e non ci volle molto prima che l'uomo decidesse di andare più in profondità: Arthur imprigionò il mento della Duchessina fra le dita e le sollevò il viso, violando con la lingua la debole resistenza della bocca di lei, riversandone dentro una fame disperata, dolorosa.

E Saffie stessa accettò docilmente gli attacchi del marito, pure se riusciva a percepire che, rispetto a prima, c'era qualcosa di diverso in lui. Lo poteva persino sentire fisicamente, quel qualcosa che non andava; lo sentiva nella voracità con cui Worthington continuava a sconvolgere le sue labbra, attraverso il tremore delle mani forti dell’uomo, premute sulla stoffa morbida del panno come s'egli avesse paura lei potesse svanire da un secondo all'altro.

Una sanguinosa battaglia. Cicatrici crudeli.

"A-Arthur...!" mugolò piano Saffie, cercando di allontanarsi dalla bocca del marito che, implacabile, le si avvicinò di nuovo per baciarla ancora e ancora, soffocando opposizione o protesta alcuna.

Hector, il Grande Diavolo che consuma ogni cosa.

Improvvisa e delicata, una piccola mano si posò sulle labbra umide del Generale Implacabile, i cui occhi verdi si schiusero sorpresi: a qualche centimetro da lui, il visetto di sua moglie lo fissava con una bizzarra e incerta preoccupazione. "È successo qualcosa durante l'incontro con il Consiglio?"

Il silenzio della notte cadde fra loro per qualche secondo, prima che Arthur annuisse leggermente con la testa castana e dicesse, allontanando con cautela le dita di Saffie da lui. “Devo partire domani mattina.”

“Domani…mattina?” ripeté la ragazza, lanciandogli uno sguardo smarrito, al contempo sentendosi come se il suo cuore fosse precipitato direttamente sul fondo dello stomaco perché, al di là della sua delusione, sapeva che il marito non le avrebbe detto a cosa esattamente stava andando incontro. “Ma perché?”

Possedeva la sua anima, ma era ancora tragicamente lontano l’oscuro fondale.

Un brivido freddo la colse nell’esatto momento in cui sentì le mani di Arthur sciogliere il nodo del panno che l’avvolgeva e lasciarlo poi scivolare lungo le forme del suo corpo, infine guardarlo cadere a terra con un’espressione di indifferenza stampata sul volto serio. “Perché è il mio dovere, il compito che sono chiamato a svolgere” asserì piano, abbassandosi di nuovo su di lei e chiudendo con quella sterile spiegazione bugiarda l’argomento, visto che la sua bocca da demonio aveva ricominciato ad aggredirla crudelmente, marchiandole luoghi prima nascosti e irraggiungibili; un percorso bruciante di piacere che confondeva i sensi e distruggeva le intenzioni, riducendo Saffie – oh, se ne era consapevole – a una vittima in trepidante attesa del colpo di grazia.

Un sospiro desideroso le sfuggì dalle labbra e lei fece almeno il patetico tentativo di insistere, malgrado i suoi occhi liquidi d’eccitazione seguissero ogni minimo gesto dell’uomo come se ella ne fosse stata totalmente ipnotizzata. “Sta-stai mentendo” riuscì a dire, la voce spezzata a causa del tocco ruvido che premeva sui suoi piccoli seni, sconfitta infine dalla determinazione di due calde mani affamate di possesso. “Non è solo questo.”

Per quanto volesse sapere, conoscerlo, era troppo forte la volontà di essere divorata da lui.

“Sì, sto mentendo” sussurrò l’alito caldo di Arthur sulla sua pelle vibrante di brividi, ora tutt’altro che freddi. Le dita dell’Ammiraglio accarezzarono con ferma dolcezza i capezzoli della moglie e, apparentemente ignaro del gemito che strappatole, la sua lingua leccò per un’ultima volta l’incavo del suo collo sottile, prima che aggiungesse: “Ma, proposito di bugiardi, come mi hai chiamato oggi, Duchessina?”

Se non fosse stato per il suo tono così meravigliosamente pericoloso, Saffie si sarebbe chiesta il significato della domanda di Worthington ma, con la stessa velocità e violenza di un fulmine, egli l’aveva già spinta sul letto a qualche passo di distanza, imprigionata fra le lenzuola fresche di bucato. Sorpresa e con il cuore in tumulto, la ragazza alzò gli occhi grandi sulla figura che incombeva su di lei, tentatrice e minacciosa; vide il Generale Implacabile puntellarsi languidamente con un ginocchio sul materasso e fare per slacciarsi il costoso fazzoletto di seta con una naturalezza elegante che fece pensare a Saffie di essere perduta per sempre.

Mio signore, è esatto?” le chiese, alla fine, sorridendo brutale. “Oh, non ho fatto che pensare ad altro.”

E si allungò sopra al suo minuto corpo da passerotto tremante, adombrandolo e divertendosi nel vedere il visetto ovale della moglie diventare scarlatto nel giro di un istante. “Dimmelo di nuovo” le ordinò soave e malvagio come lo era stato durante la loro prima notte di nozze, mentre chinava la testa bruna per lambire con la bocca sorridente il seno indifeso di Saffie. “Dimmelo, che sono il tuo signore.”

Dimmi che sono tuo e solo tuo. Dimmi che aspetterai il mio ritorno disperandoti e pensando solo a me.

La ragazza annegò nel tono di serpente del Generale Implacabile e si portò il dorso della mano sugli occhi, dominando con scarso successo non solo i suoi ansiti, ma pure il suo stesso orgoglio di aristocratica ormai in pezzi. “…mio signore” disse con grande vergogna e, dal basso, due profondi occhi verdi scattarono su di lei, attenti; poi, nel silenzio caldo e colmo di desiderio, furono le dita di Saffie a intrecciarsi con le ciocche ribelli dei capelli di Worthington. “Io sono tua e tua soltanto.”

Un uomo scorretto, ricordava di averglielo detto.

Il volto virile dell’uomo si aprì in un’espressione di enorme soddisfazione lussuriosa, perché il suo era un carattere terribile per davvero. Eppure, quando egli sollevò l’ampia schiena per avvicinarsi alla Duchessina e guardarla negli occhi, divenne di grande malinconia lo sguardo che le dedicò. “E io ti apparterrò per sempre” le disse a sua volta, specchiandosi nel candore della sua innocente sorpresa. “Abbiamo solo stanotte, Saffie.”

Pure se continuo a credere che non potrai avere alcuna libertà, né una vera vita felice, finché questa patetica imitazione di uomo non riuscirà ad aggiustare sé stesso.

Una mano grande e ruvida raggiunse la guancia di Saffie, accarezzandone il labbro inferiore con il pollice, mentre quest’ultima restituiva uno sguardo di triste sofferenza. “Non andare via” confessò finalmente la ragazza, aggrappandosi al braccio muscoloso del marito con le dita. “Resta anche domani. Resta con me.”

Durò un secondo, l’indicibile tormento che deformò i lineamenti di un Worthington che, no, nemmeno in quel frangente sentì di potersi concedere il lusso di lasciarsi il passato e il dannato Grande Diavolo alle spalle. Entrambi, in fondo, avevano un enorme debito di sangue nei suoi confronti.

Non posso” mormorò allora l’uomo, appoggiandosi con la fronte a quella della ragazza. “Ho fatto giuramento di proteggere l’Impero, ma anche se così non fosse…non posso rimanere, Saffie.”

Dal canto suo, la figlia di Alastair Lynwood trattenne le lacrime di fronte alla sensazione che il fato si continuasse a prendere gioco di lei e di Arthur poiché, proprio come il modo dell’onda, entrambi continuavano ad avvicinarsi per poi scappare via. Esserne consapevole era un peso doloroso sul cuore, ma l’anima di Saffie non era fatta per arrendersi, né per lasciare che quella da ragazzino fragile di Worthington morisse sola e oscura nell’abisso; così, si forzò di sorridere al marito e allargò le esili braccia verso l’alto, pronta ad accogliere tutta la sua disperazione.

Un angelo caduto nella neve, e lì abbandonato.

“Allora non chiederò altro se non annegare insieme a te, Ammiraglio” gli disse con la solita aria adorabile e divertita, squarciando le tenebre del precipizio con la sua luce gentile.

In questo modo tremendo, sofferto e al contempo tanto dolce da sembrare un sogno, i due si amarono nella penombra della notte stellata. Momenti di sospiri infranti su labbra appassionate, di tocchi leggeri che scivolavano sopra cicatrici atroci e muscoli provati dalla fatica; attimi di un desiderio mai sazio, costituito di mani intrecciate su lenzuola in disordine, di corpi che si appartenevano l’un l’altro con straziante e intensa disperazione, quasi vi fosse l’urgenza di diventare una cosa sola.


§


Era un’alba appena sorta, fresca, ma piena di luce.

Sola sul grande letto a baldacchino, Saffie Worthington aprì pigramente i grandi occhi castani e realizzò di essere sdraiata su un fianco e nuda, il corpo minuto indifeso fra le lunghe onde di capelli arruffati, sparsi ovunque intorno a lei. Davanti al suo sguardo assonnato, si apriva il solito panorama paradisiaco della mattina precedente e di quella ancora prima, con tanto di verdi palme da cocco che le ammiccavano oltre i vetri della finestra.

Il giorno dell’ “addio” era infine arrivato.

Il busto della ragazza si raddrizzò con un veloce scatto ansioso ed ella si mise seduta sul materasso, sgranando le sue iridi spaventate sul vuoto della stanza, in cerca dell’uomo che non c’era più. Fu solo il silenzio della camera e il canto gioioso dei pappagalli nel parco ad accoglierla; un consueto saluto mattutino a cui lei poteva dirsi abituata, ma che adesso rendeva reale – insopportabile – l’assenza di Arthur e, di conseguenza, l’idea di dover stare separata da lui tanto a lungo.

“Saffie, io ti…”

Il viso della Duchessina si trasformò in una smorfia di amara malinconia, mentre un sorriso stanco le stiracchiò le labbra debolmente all’insù. “Alla fine, non sei riuscito a dirmelo” pensò, spostando il capo in direzione del materasso vuoto e sentendosi precipitare dentro alla voragine del suo cuore spezzato. “Ma io stessa ho taciuto troppo di quello che avrei voluto dirti.”

E stava giusto per concedersi un rassegnato sospiro da povera anima in pena, forse addirittura ritornare a nascondersi sotto le coperte che aveva condiviso con un Generale Implacabile affamato oltre ogni dire, che la vista di un misero biglietto di pergamena abbandonato sul mobile vicino al letto attirò la sua attenzione. Facendosi avanti a fatica, Saffie si sporse verso la missiva e allungò un braccio, stringendosi al contempo le lenzuola bianche al petto; non l’avrebbe mai voluto ammettere nemmeno con sé stessa, ma si odiò immensamente per lo spasmo eccitato che la colse nel riconoscere la scrittura elegante di Worthington.

Insomma, si schernì indirettamente, la maggior parte delle ricche donne sposate non avrebbe mai tenuto il suo infantile e lacrimoso comportamento ma, anzi, avrebbe gioito della lontananza del marito, quando essa poteva significare una maggiore libertà decisionale in qualsiasi aspetto della propria vita, feste e amanti inclusi!

Ridacchiando sommessamente del suo stesso ridicolo pensiero, la Duchessina cercava in una qualche maniera di distrarsi dal suo stesso umore sotto i tacchi e, nel frattempo, dominare il senso d’aspettativa creato dal biglietto di Arthur, che ora stringeva con forza fra le dita. I suoi occhi si abbassarono sulle righe fresche d’inchiostro redatte dal Generale e, in un battito di ciglia, la sua anima venne stravolta da ciò che vi lesse:

“Piccola strega. Mai, nel resto degli anni a venire, potrò dimenticare la giornata di ieri, né la tua bellezza di stanotte.”

Il foglio strappato su cui Arthur aveva trovato il coraggio di scrivere quella singola frase cominciò a tremare leggermente davanti agli occhi appannati della ragazza, ed ella si portò le dita sulle labbra schiuse, quasi volesse arginare tutta la sofferenza che stava per traboccare fuori. “Dopo averti odiato e ferito con le mie stesse crudeli parole, ora tu…”

Nemmeno io sono riuscita a dirtelo.

Un rumore dabbasso irruppe nella mente confusa della Duchessina, seppure fu ben riconoscibile il suono scricchiolante della porta d’ingresso che veniva aperta e delle voci che ne seguirono, entrate nell’ampio salone di casa come un piccolo scoppio di polvere da sparo. Era il tono pomposo e professionale dei comandanti dell’Ammiraglio Worthington, quello riconosciuto da una Saffie già scesa con un balzo giù dal lussuoso letto a baldacchino.

La Duchessina di Lynwood si infilò di tutta fretta la sua veste da camera e ne abbottonò i lacci alla meno peggio, tanta era la sua premura di raggiungere le scale che davano al piano inferiore. Una volta uscita fuori dalla stanza, la penombra del corridoio deserto avvolse la sua piccola corsa e lei raggiunse i primi gradini di marmo, cominciando a discenderli senza far caso ai capelli castani che ballavano intorno a lei o, soprattutto, alla faccia sbigottita con cui gli Ufficiali riuniti nell’ingresso la stavano guardando arrivare.

I suoi occhi erano solo per l’imponente uomo girato di spalle, che si voltò in tempo per vedersi una piccola freccia vestita di rosa piombargli fra le braccia.

“Saffie!”

L'interpellata alzò il viso rosso per lo sforzo e l’imbarazzo, incatenando lo sguardo con gli occhi sorpresi di Arthur Worthington. “Io…sarò qui ad aspettarti quando tornerai” gli disse solo, sorridendo incerta fra le lacrime.

Allora l’uomo l’attirò a sé con forza, contro le bordature dorate della sua altolocata divisa blu, abbracciandola come se non volesse più lasciarla andare. “Tornerò. Te lo prometto.”

“Mi arrabbierò moltissimo se non lo farai.”

Un’ultima bassa risata divertita dell’uomo sancì lo scadere del loro tempo insieme.

“Ci conto, Duchessina.”

Furono le ultime parole che le disse, prima di voltarsi e incamminarsi verso l’uscita con i suoi sottoposti, parendo a Saffie per la prima volta irraggiungibile e lontano, proprio come lo vedevano tutti gli altri. I domestici chiusero le massicce porte della Zuimaco e un rumore sordo rimbombò nell’androne in cui lei era rimasta sola.

No, non sono riuscita a dirtelo.

Anche io ti amo, Arthur.


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Al di là delle floride coste giamaicane, dietro alla linea dell’orizzonte visibile e oltre lo stesso conosciuto, diversi atolli paradisiaci costellavano l’oceano, conducendo un’esistenza pacifica ancora per pochi anni nascosta al controllo delle potenze commerciali, fossero quest’ultime appartenenti ai governi del Vecchio Mondo come la Compagnia delle Indie oppure flotte di vascelli mercantili comandate da ricchissimi privati.

Si parlava in effetti di vere e proprie oasi sorte in mezzo all’acqua turchese, che – in alcuni casi – potevano coprire aree vaste centinaia di chilometri e offrire un rifugio a chi avesse necessitato non solo di sparire per un po’ dall’affaccendarsi del mondo civile, ma pure dalle leggi che lo regolamentavano.

Isole tanto misteriose quanto ambite, attorno le quali nascevano leggende di diversa natura, destinate a serpeggiare e diffondersi fra le strade delle colonie americane così come nei palazzi delle antiche monarchie affamate di conquista: erano storie terribili, quelle che passavano di bocca in bocca da generazioni, poiché narravano di feroci tribù cannibali e di fuorilegge bramosi di sangue, di morte; eppure, vi era anche chi parlava di enormi ricchezze sepolte sotto la sabbia, monete d’oro e trofei sottratti a seguito di epiche battaglie mortali combattute contro i bastardi della Royal Navy britannica, della Real Armada spagnola e della Marine Royale francese. La maggior parte di queste narrazioni non era altro che un ammasso di improbabili fandonie atto a spaventare i bambini e impressionare i fanciulli, costringendo i primi ad andarsene a letto presto e spingendo i secondi a lasciarsi alle spalle una vita di indigenza per false promesse di benessere e lusso, donne e gloria, mentre la realtà era ben più crudele di quanto raccontato; una volta imbarcati su una nave battente bandiera pirata, gli ignari giovani sperimentavano sulla propria pelle stenti e malattie, senza contare l’opprimente caccia delle autorità militari e corsare che solitamente culminava con la famosa caduta sorda.

Malgrado la verità fosse dunque ben lontana dalle storie di trionfante libertinaggio, ciò non stava a significare che esse fossero del tutto false.

I pesanti stivali di cuoio affondati nella sabbia candida della spiaggia, l’uomo dai lunghi capelli neri non sembrava curarsi affatto di tutte queste cose e di quanto rischiasse a trovarsi lì ma, al contrario, continuò a tenere gli occhi chiusi al di sotto delle palpebre, le orecchie tese ad afferrare qualsiasi mutazione del vento salmastro. Onde d'inchiostro scuro si infrangevano rabbiose sopra il suo viso abbronzato e affascinante, sebbene scavato da qualche sporadica ruga; ed egli decise di non farci troppo caso, a quella sua fastidiosa chioma impazzita, perché rimase immobile e in piedi ad ascoltare ciò che l’abisso aveva da dire.

Sì, la brezza si era fatta indubbiamente più fredda nelle ultime ore, tagliente e affilata come una lama di rasoio.

Quanta calma, quanta pace, c’è stata fino ad ora.

Lo sguardo ancora nascosto nel buio, l’uomo si concesse un respiro a pieni polmoni, profondo e liberatorio: l’isola verdeggiante che aveva scelto come rifugio prediletto era stata una scoperta dettata dal caso, ma infine rivelatasi una vera manna dal cielo, piena zeppa di risorse preziose e grotte dagli anfratti angusti; un luogo ideale sia per depositare i suoi bottini che per un eventuale scontro con ospiti indesiderati. Certo, prima di prendere possesso dell’atollo era stato necessario compiere dei sacrifici, una giusta e doverosa pulizia; ma, d’altro canto, lui non era mai stato abituato a condividere nulla con nessuno da quando era venuto al mondo, figurarsi quindi un’isola con un branco di selvaggi inconsapevoli della propria fortuna.

“Troppa calma” considerò fra sé il Grande Diavolo, schiudendo pigramente le palpebre e osservando così il vasto oceano con stampata in faccia una leggera smorfia di disgusto. “Troppa pace.”

La brezza aveva portato fino a lui un odore acre e pungente, di nauseabondo sangue rappreso. Un peccato che quell’olezzo gli avesse fatto tornare alla mente i disdicevoli avvenimenti di solo due ore prima!

“Si-signore…posso?”

Il vento freddo che aveva lo stesso odore della morte soffiò ancora e un paio di iridi dal chiarore stupefacente si aprirono del tutto, immobili e senza alcuna fiamma di vita. Due occhi verdi che potevano benissimo appartenere a un cadavere, se non fosse che chi li possedeva era un uomo vivo e vegeto, dall’altezza tremenda, tanto quanto il suo sorriso appena accennato, da suadente incantatore.

La persona che aveva parlato affondò con mala grazia i piedi screpolati nella sabbia calda e sussultò sul posto, al sol vedere il suo signore girarsi all’indietro con languida noncuranza, i lunghi capelli che si muovevano ipnotici sopra un cappotto sontuoso, nero pece, ma bordato d’oro come quello del più importante degli Ufficiali. “Parla, fedele amico mio” disse infine il Grande Diavolo, non prima di aver lanciato un’occhiata disinteressata a ciò che aveva provocato nel suo secondo l’incertezza timorosa con cui si era rivolto a lui. “Parla” ripeté atono, voltandosi completamente verso il suo sottoposto. “E non ti curar di loro.”

Dopo un secondo di silenzio teso, in cui l’interpellato deglutì a vuoto, quest’ultimo annuì e fece un timido passo avanti, lasciandosi alle spalle i loro a cui il suo Capitano aveva fatto riferimento. Di sicuro, poteva ubbidirgli e fare finta che quelle mute presenze non esistessero, ma era davvero impossibile ignorare il soffocante odore prodotto dai tre corpi che il Grande Diavolo aveva fatto impiccare davanti a tutti: due prostitute e il timoniere più anziano della ciurma, le vittime che Hector aveva fatto frustare a morte e poi appeso al più robusto degli alberi nelle vicinanze; e ora i cadaveri se ne stavano a penzolare lì da qualche ora, le facce gonfie e violacee che si rivolgevano a terra, a fissare la pozza di sangue rosso scuro formatasi sotto i loro piedi. Un nugolo di insetti affamati s’affaccendava attorno alle loro membra stravolte, ronzando di eccitata bramosia.

“È tutto pronto per la nostra partenza di domani mattina” affermò il secondo in comando, accorgendosi con gran terrore di star visibilmente sudando freddo. “Il vento ci sarà favorevole.”

In fin dei conti, anche l’uomo morto e stecchito dietro di lui aveva fatto parte dei “demoni” più fedeli al Grande Diavolo.

“Indubbiamente” commentò un Hector sorridente; ed era di tanta dolcezza il suo sorriso, che egli risultò – come sempre – una visione spaventosa da osservare. “Sta arrivando una tempesta…finalmente.”

Detto questo, l’uomo si fece incontro al sottoposto con gran tranquillità e la sua figura da titano sembrò adombrarsi, quasi egli riuscisse a risucchiare la luce turchese di un mare che, dietro la sua schiena, gli faceva da perfetta cornice. Allungò poi una mano coperta di cicatrici e la lasciò cadere sulla spalla del suo secondo, ormai trasformatosi in un fascio di patetici brividi.

“…tua sorella? Alla fine, non fai pietà nemmeno a lei. Non più, ormai.”

Le dita robuste di Hector si artigliarono alla casacca lacera del vicecomandante, strappando dalle labbra di quest’ultimo uno squittio di dolore a malapena trattenuto. “Una tremenda delusione” soffiò il Grande Diavolo, il cui viso brutale pareva quello di un genitore rattristato per le marachelle di un figlio disubbidiente. “Che io abbia perso la Mad Veteran a causa non solo di un equipaggio di incapaci, ma anche per via delle informazioni di queste tre spregevoli spie. Non ho ucciso Seymour Porter per far sì che il Nero vascello finisse tra le mani di Arthur Worthington.”

“Si…signore, nessuno di noi ha ricevuto notizie dalla Mad Veteran per parecchio tempo; dovevano essere talmente disperati che qualsiasi promessa di un bottino facile deve esser suonata nelle loro orecchie come una benedizione!”

“Ed eccoci qui” concluse pacatamente Hector, allentando la presa dalla veste del suo sfortunato sottoposto. Senza un rumore, la mano dell’uomo si spostò lenta verso l’alto e scivolò sopra la gamba martoriata di una delle due povere donne appese, sfiorando con delicatezza il sangue rappreso sulle ferite. “Per mesi quell’indegno marmocchio ha infilato delle sgualdrine chiacchierone nei nostri letti, ricavandone dei servizi ben più soddisfacenti di quelli che noi abbiamo ricevuto” commentò poi, gli occhi smeraldini inchiodati sul viso irriconoscibile della suddetta giovinetta. “Per non parlare dei misteriosi mezzi con cui è riuscito a corrompere il caro Edmund; non avrei mai dubitato della buona fede del mio timoniere, se non fosse che è sempre stato lui a procurarci le ragazze da bordello.”

Il corpo scarno del fu Edmund dondolò leggero al passaggio di un’altra folata d’aria salmastra, quasi quest’ultimo si sentisse preso in causa dal tono paradossalmente quieto del Grande Diavolo.

Ovviamente, colui che intervenne fu l’unica anima viva nelle vicinanze di Hector. “A…a questo punto, è lecito ipotizzare che si aspettasse di essere attaccato sulla rotta per Kingston già prima di salpare dall’Inghilterra” disse la sua il secondo in comando, prendendo in mano una manciata di intraprendenza e coraggio.

“È stato ben informato; così come la ciurma di idioti alla guida della Mad Veteran ha ricevuto informazioni e ordini che non provenivano da me. Oh, sicuramente il mio Arty li avrà massacrati dal primo all’ultimo!”

Un fremito strano e inquietante, specchio di un sentimento impossibile da decifrare, attraversò le iridi immobili di un Hector che, sospirando, si concesse un altro folle sorriso pieno di tenerezza. “Malcom, ci crederesti che quel ragazzino è tanto cresciuto da diventare tale e quale al sottoscritto? Cielo, non so nemmeno se dovrei essere fiero di lui e punire invece chi di voi bambini non si è accorto dei traditori che vivevano fra le nostre file!”

“È completamente pazzo” pensò di getto l’uomo interpellato, sebbene fosse più impegnato a nascondere sul fondo dello stomaco l’annichilente paura che l’aveva fulminato da capo a piedi, non appena il significato delle parole di Hector l’aveva raggiunto. Sentiva il suo viso diventare una maschera di secondo dopo secondo più livida ma, non c’era da scherzarci sopra, crollare di fronte al Grande Diavolo stava a significare raggiungere i tre poveretti appesi all’albero vicino.

Non che sia una sorpresa vederlo ridotto in queste condizioni.

No, in quei lunghi anni di servizio, non era una notizia per gli uomini di Hector vederlo andare fuori di testa a causa del marmocchio che con tanta crudeltà aveva deciso di reclamare come suo. Fu così che Malcom si azzardo a dire, utilizzando estrema cautela e altrettanto servilismo: “Avete indubbiamente svolto un lavoro eccellente con lui, Capitano”.

Il tempo di un’altra nauseabonda brezza di vento ed egli poté sentire lo schiacciante peso di un paio di iridi chiarissime inchiodarsi di scatto sul suo viso sudato, scavargli dentro come se l’uomo che le possedeva potesse in effetti leggere tra le sfumature della sua mente e capirne i pensieri nascosti, proibiti. “Arthur si è rivelato un ingrato, ma il successo delle sue azioni è dovuto unicamente ai vostri insegnamenti” si affrettò a dire, levando il berretto dalla testa pelata e inchinandosi, mostrando così il suo rispetto – no – tutta la sua deferenza di fronte al demonio. “Se dovete punire qualcuno, allora è la vostra ciurma, l’intera Leviathan, che non merita di veder sorgere l’alba di domani.”

Piombò un silenzio che Hector non accennò a voler spezzare tanto presto con recriminazioni o minacce di sorta. Se ne stava lì in piedi, la figura possente ferma accanto alla prostituta che aveva ordinato di trucidare e gli occhi di un verde innaturale fissi sulla nuca del suo sottoposto.

“Temere…te? Io sono ricco e posso avere tutto ciò su cui il mio sguardo si posa.”

“Malcom” chiamò infine il Grande Diavolo, il cui tono sembrò provenire direttamente dal più profondo degli abissi. “Chi è colui che domina queste acque?”

Il vicecomandante annuì debolmente, ma non osò alzare lo sguardo. “Voi, mio signore.”

“Tu sei niente, Hector. Non hai nulla, né rappresenti nulla...ed è questo il posto che ti compete nel mondo.”

“Chi, in questi trent’anni, ha accumulato più ricchezze dello stesso William Kidd?”

“Voi, signore.”

“E, dimmi, conosci il nome dell’uomo che ha messo in ombra la voracità crudele del povero Edward Low?”

“Siete voi quell’uomo, mio signore” ripeté per la terza volta Malcom, senza lasciarsi ingannare nemmeno per un secondo dalla voce infinitamente carezzevole del Capitano. “Che il cielo abbia in gloria Low e la dannata Marina Britannica possa bruciare fra le fiamme dell’inferno immortale.”

Hector sorvolò sulla viscida pomposità del suo secondo e un altro sospiro malinconico sfuggì dalle sue labbra sottili. “Era un buon amico, un vecchio diavolo da cui si poteva solo prendere ispirazione” concesse alla fine, rilassando il viso da brutale mangiafuoco. “Brav’uomo.”

Come se non avesse appena tessuto le lodi di uno dei più efferati criminali del loro tempo, il comandante della Leviathan diede un’ultima generosa pacca sulla spalla di Malcolm, facendogli in realtà venire un atroce colpo al cuore: d’altronde, era quella la vita a cui erano destinati coloro che servivano direttamente sulla nave ammiraglia del Grande Diavolo. Il vascello da guerra che quest’ultimo aveva sottratto molto tempo prima a Simeon Worthington incarnava alla perfezione il trono di terrore su cui Hector sedeva sorridente e mai sazio, mentre il nome ne rivelava la vera natura.

Era il Leviatano, il serpente del Grande Abisso, demone dell’invidia che consuma ogni cosa.

“È per questo che tu sei qui e non appeso per il collo insieme a quegli esseri indegni della mia benevolenza” soffiò Hector, noncurante dei lunghi capelli che s’agitavano ovunque intorno a lui, sopra gli alamari dorati della sua lunga giacca nera. Infine, allungò ancora la mano e portò l’indice sotto il mento del suo sottoposto, obbligandolo con gentilezza a guardarlo in faccia. “Temi il mio nome e ti disperi in mia presenza, come è giusto che sia. Questi sono i sentimenti più onesti che tu possa provare, lo stato d’animo che io apprezzo sopra a tutti gli altri: non c’è bugia, maschera alcuna, nel terrore.”

Poiché la crudeltà è forza, il controllo è potere.

Il verso di un ignoto volatile penetrò il continuo andirivieni dell’onda e il soffio del vento freddo mentre, senza aggiungere parola, Hector raddrizzava la figura robusta, volgendo poi le spalle a un vice comandante i cui pensieri si riducevano a un ossessivo: “L’ho scampata. Oddio, l’ho scampata per davvero”.

Ma non ci fu altro tempo per gioire. Il Grande Diavolo s'incamminava verso l’entroterra e, di certo, si aspettava che l’altro lo seguisse a ruota alla stessa stregua di un adorante cagnolino. “Temo sia arrivato il momento di affrettare i nostri passi” disse. “Sta arrivando il genere di tempesta che piace a me.”

“Signore?”

“Le guerre e i conflitti non portano solo morte, ma anche occasioni d’enorme guadagno” spiegò l’uomo in risposta, il tono incolore. “Pioveranno monete d’oro.”

Non sapendo se essere per la maggior parte allarmato o eccitato a seguito delle parole del suo signore, il secondo in comando si scapicollò dietro la schiena di Hector, raggiungendolo in pochi passi e quasi incespicando sulla sabbia bianca. “Ma! Non avrete intenzione di…”

No, mio stupido e fedele Malcom. Ho già concesso diverse navi corsare alla Marine Royale, quindi non vedo perché dovrei entrare direttamente in gioco ed espormi, soprattutto quando il piccolo Arty sembra aver dimenticato di avere dei nemici ben più vicini di quanto non lo sia io” fece il Capitano della Leviathan, la cui espressione si fece specchio di una soddisfazione a dir poco oscena. “Come Stephen Aubrey, per esempio. Ah, di quale fantastico marciume è fatto quell’uomo!”

Un sospiro pieno di sollievo si fece sentire dietro le sue larghe spalle, ma Hector non vi fece troppo caso.

“Inoltre, il mio sguardo è altrove. Ho saputo di una ricchezza inaspettata, un tesoro che Arthur custodisce con grande cura e a cui sembra tenere sopra ogni immaginazione” continuò, per poi girarsi un’ultima volta verso Malcom e sorridergli con una crudeltà strana, dolce e languida, ma ugualmente agghiacciante. “Spero tanto che il buon Aubrey ripaghi i miei copiosi sforzi!”

Il vento urlò forte fra i palmeti e, dietro alla sagoma imponente del Grande Diavolo, si incominciarono a intravedere grumi di nuvole nere addensarsi lungo la linea dell’orizzonte quasi invisibile; allo stesso tempo e con la stessa lentezza, un sentimento di pura crudeltà cominciò a impossessarsi di due occhi da serpente, cristallini e immobili. “Ma, se così non dovesse essere, allora credo proprio che dovrò intervenire di persona.”

“Hector! Posso avere una vita diversa! E…e tu con me!”

Irina. Voce inopportuna e fastidiosa.

Soffocherò con le mie stesse mani la debole luce che ti sei illuso possa salvarti, mio caro Arty.




Se il capitolo ti è piaciuto, spero potrai considerare di votarlo e scrivermi le tue impressioni*

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Angolo dell'autrice:

Scrivo questo intervento veloce prima di volare di tutta fretta a lavoro, solo per dirvi che spero con tutto il mio cuore questa parte (luuuunga) vi sia piaciuta: tengo molto a questo capitolo, che non è stato di facile redazione, perché vi si descrive un diverso rapporto fra Saffie e Arthur, in cui vi sono ancora diversi nodi e difficoltà da sciogliere; inoltre, ho introdotto il Grande Diavolo per la prima volta!

Che ne pensate di lui?

Oddio, vorrei scrivere così tante cose e invece devo correre a lavorare! (T.T)

Ho voluto comunque dare una tregua ai miei poveri protagonisti ed è stato bello poter descrivere delle scene piene di tormento ma anche tenerezza; alcune, fra l'altro, erano scene che avevo buttato giù a matita la sera in cui l'idea del racconto aveva cominciato a prender forma, quindi ben due anni fa ormai!

Che dire, ora devo proprio scappare, ma mi inchino di nuovo di fronte a voi e vi ringrazio con tutta l'anima per essere ancora qui a leggere la mia storia!

Vi abbraccio forte forte e virtualmente,

Vostra Sweet Pink

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