L'altra faccia di Roma

di Puffardella
(/viewuser.php?uid=1071317)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Geppetto ***
Capitolo 2: *** Una scelta difficile ***
Capitolo 3: *** Nel ventre della balena ***
Capitolo 4: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 5: *** Peppino il pescatore ***
Capitolo 6: *** La stravagante gente di Genzio ***
Capitolo 7: *** Marina ***
Capitolo 8: *** Come in un bel sogno ***
Capitolo 9: *** Un brusco risveglio ***
Capitolo 10: *** Il sole splende sui tetti di Roma ***



Capitolo 1
*** Geppetto ***


I tipi a cui mi aggregai per la rapina del secolo non erano gli stessi che mi avevano introdotto nel mondo della criminalità. Quelli, in confronto, erano dei poppanti. Questi, invece, erano dei professionisti, ultra pregiudicati, ben organizzati e decisamente più esperti.
Io, con i miei ventuno anni, ero il più giovane. Uno di loro andava per i quaranta, gli altri due li avevano superati da un po’.
Non so perché accettarono di farmi entrare nella banda. Avevano sentito parlare bene di me. Sapevano che ero uno di cui ci si poteva fidare e che, nel caso in cui le cose si fossero messe male e fossi stato beccato, non li avrei mai traditi. Inoltre erano a corto di uomini in quel momento, non è che avessero molte alternative.
Io, di questa “promozione”, ero onorato e preoccupato allo stesso tempo. Non si trattava più di spaventare un banchiere e qualche cliente con delle armi giocattolo. Questi, le armi, le preferivano vere e cariche. Quasi me la squagliai quando mi misero in mano una beretta 92FS.
Guardai il tipo che me la consegnò con sgomento e orrore, e quello sghignazzò strafottente: «Ehi, questo se la fa sotto a prenderla in mano, una pistola, figuriamoci se trova il coraggio di usarla…»
Il capo, allora, venne da me e mi sorrise benevolmente.
«Oh, tranquillo, mica le dobbiamo usare. Mai sparato a nessuno in vita mia, nemmeno ad una bestia. Ma non andiamo a rapinare un supermercato, e in una banca che si rispetti le armi da fuoco le sanno distinguere benissimo. Ed entrare in una banca con dei giocattoli significherebbe mandare a monte il piano. Hai capito?» Feci cenno di sì con la testa, ma non osai pronunciare parola. Ero troppo spaventato, dalla voce sarebbe trapelata la mia emozione e quelli mi avrebbero lasciato fuori dai giochi. Ed io avevo un disperato bisogno di soldi.
Avrei preferito restare fuori a fare il palo, ma il capo disse che non era un compito che si poteva affidare ad uno inesperto come me, e che sarei stato più utile all’interno della banca, a fare numero con la mia presenza.
Tutto si svolse con rapidità. È impressionante come sia facile fare irruzione in una banca al giorno d’oggi. Basta mostrare le armi e tutti collaborano. Del resto non ha senso fare gli eroi. Le banche sono assicurate contro le rapine. Inoltre, chi ci lavora sa benissimo che prima si conclude la rapina, meglio è per tutti.
Ma la guardia di sorveglianza che quel giorno era di turno non viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda del resto dei dipendenti di quella dannata banca. Sebbene gli fosse stato ordinato di mettersi in ginocchio con le mani sulla testa, inizialmente ubbidì, per poi cambiare idea quando mi avvicinai a lui per disarmarlo. Impugnò la pistola, ma non fece in tempo ad usarla. Il capo, quello che non aveva mai sparato nemmeno ad una bestia, gli scaricò due colpi che lo colpirono sulla spalla e sul petto. E in breve tutto precipitò nel caos totale. La guardia mi cadde fra le braccia, tra le urla isteriche di donne terrorizzate. Io lo afferrai.
«Che cazzo hai fatto?» urlai angosciato al capo. L’altro afferrò le borse piene di contanti e strattonò il socio.
«Andiamo via, cazzo, saranno qui a momenti!» ci disse.
«Sbrigati, lascia andare quel pezzo di merda!» mi intimò il capo, dirigendosi verso l’uscio.
«Sta morendo dissanguato, Cristo! Tu sei il pezzo di merda!» gli urlai di rimando. Mi strappai il passamontagna dalla testa, e gridai al direttore di chiamare un’ambulanza, presto per la miseria!
«Ti sei bevuto il cervello?» digrignò il capo con ferocia, mentre l’altro continuava a gridare: «Via, cazzo, andiamocene da qui!»
«Sei fottuto, hai capito, moccioso? Fottuto!» mi minacciò.
«Vuoi spararmi, coglione? Fallo, non me ne frega niente. Ma io non mi renderò complice di un omicidio!»
Quello valutò un istante l’idea di farlo sul serio, poi la scartò e se ne fuggì via.
La guardia mi guardava con sgomento e terrore. Mi teneva così stretto da farmi male. Stava perdendo un mucchio di sangue.
«Chiamate un’ambulanza!» tornai a sbraitare, in preda allo shock. Non volevo finisse in quel modo, anche se ne avevo avuto il timore tutto il tempo. Non mi accorsi dell’arrivo dei polizotti. Me ne resi conto solo nel momento in cui mi strapparono con brutalità dalla guardia e mi fecero sdraiare prono sul pavimento, con le mani dietro la schiena, per infilarmi le manette.
Prima di portarmi via, il direttore volle parlarmi.
«Non sei ancora così irrecuperabile, ragazzo. Lascia perdere quella vita, non fa per te.»
Lo guardai con durezza. «Non ne conosco altra» sibilai con disprezzo.
«Metterò una buona parola per te. Tutti qui hanno visto che non sei stato tu a sparare, e che nemmeno avresti voluto che succedesse…» Non ebbi il tempo di ribattere nulla. Fui trascinato con rudezza fuori la banca dove fui investito da improperi di ogni tipo prima di essere spinto dentro l’Alfa Romeo e condotto via a sirene spiegate.

Per fortuna, la guardia imprudente si rimise in fretta.
Fu presto libero di uscire dall’ospedale, al contrario di me, che fui rinchiuso a Regina Coeli dopo aver subito un processo per direttissima.
Dovetti rassegnarmi all’idea di cancellare la parola libertà dal mio vocabolario per un sacco di tempo. Fui infatti condannato a sette anni di reclusione. La pena fu sostanzialmente alleggerita grazie alle testimonianze del direttore della banca e di tutti i presenti, i quali dichiararono la mia completa estraneità alla sparatoria e il mio immediato intervento di soccorso a favore della guardia ferita. E avrebbe potuto essere ancora più leggera, se solo avessi fatto i nomi dei miei colleghi. Cosa che non presi mai nemmeno in considerazione. Ladro sì, spione mai, e questo è un altro codice d’onore vigente fra i delinquenti vecchio stampo. Fra la maggior parte di loro, per lo meno.
Conobbi così la popolare e famigerata Regina Coeli. Se Rebibbia mi era sembrata una tortura inimitabile, dovetti ricredermi: c’era di peggio. Regina Coeli è un lager camuffato da centro di riabilitazione. Non ho mai capito perché ci si ostini a dare a certi luoghi definizioni così fuorvianti. Un carcere non riabilita nessuno. Il carcere ha l’unico scopo di brutalizzare e incattivire il detenuto, rendendolo, alla fine della sua obbligata permanenza in quel contenitore dimenticato da Dio e dagli uomini, più pericoloso di quanto non sia già al suo arrivo.
Fui alloggiato per pochi giorni nel settore “Nuovi giunti”, in attesa che venisse deciso il mio reparto di destinazione. Dopo quattro giorni fui trasferito alla sesta sezione, dove vengono rinchiusi i “giovani”, dai diciotto fino ai venticinque anni di età.
Ma restai poco anche lì, giusto il tempo di familiarizzare con i miei nuovi compagni. Il direttore del carcere, visto la natura della rapina cui avevo partecipato, pensò bene di darmi una lezione di vita e farmi saggiare un po’ di vero carcere, al piano terra, nell’ottava sezione, chiamata anche “sezione protetta”, dove di norma vengono messi i detenuti più pericolosi tenuti il più lontano possibile dagli altri carcerati.
Venni sistemato in una cella da quattro, che di fatto ne ospitava sei, squallida e maleodorante, due letti a castello a tre piani addossati alle pareti scrostate, proprio davanti alla finestra.
La cella era umida, un grappolo di scarafaggi banchettava indisturbato con gli avanzi del pranzo di chissà quale giorno. Mi sentii sopraffatto da un sentimento di sconforto. Ero sfibrato dagli ultimi eventi cui avevo preso parte mio malgrado, demoralizzato per i continui spostamenti, terrorizzato dalla cattiva fama che aveva quella parte del carcere, dove ero destinato a passare i miei prossimi sette anni di vita.
Cercai tuttavia di nascondere l’agitazione e assunsi un’aria da duro, disinteressandomi di tutto e di tutti. Dopo aver sistemato la mia roba nell’armadietto assegnatomi - anche se non avevo molto da sistemare, visto che mia madre si era rifiutata di venire e mio zio mi aveva portato appena un cambio di tutto - mi sdraiai sulla branda e lì rimasi giorni interi, a fissare il vuoto.

Invidio le mense nelle carceri dei film americani, quelle dove puntualmente i detenuti si azzuffano creando, se non altro, un diversivo di cui parlare per molti giorni, fino alla zuffa successiva e al nuovo motivo di chiacchiere. Oltre al fatto che recarsi in una mensa avrebbe consentito di mangiare comodamente e civilmente seduti ad un tavolo.
Non so nelle altre carceri italiane ma a Regina Coeli, come a Rebibbia, il pasto lo devi consumare nella tua cella, in piedi o seduto in branda, a causa del sovraffollamento. L’alternativa è fare a turno per mangiare seduti al tavolino, troppo piccolo per ospitare tutti insieme, ed era quello che i miei compagni di cella facevano.
Io, invece, preferivo mangiare in branda.  
Non avendo niente da fare, i giorni passavano con una lentezza esasperante. Le cose più dure da sopportare erano la mancanza assoluta di privacy e il doversi sciroppare le chiacchiere ad alta voce degli altri “ospiti” e la televisione a tutto volume. Questo creava spesso attriti e malumori.
Più di una volta ero quasi arrivato alle mani con uno dei miei compagni. Vittorio, questo era il suo nome. Si era beccato quindici anni per tentato omicidio e aggressione ai danni di un pubblico ufficiale. Un tipo fuori di testa, permaloso e litigioso. Capitava spesso che le guardie somministrassero sonniferi ai soggetti più agitati per farli dormire tranquilli. A lui raddoppiavano sempre la dose.
Non so per quale motivo mi avesse preso tanto in antipatia. Ero l’ultimo arrivato, quasi un bambino in confronto agli altri. Forse ai suoi occhi ero un bersaglio facile su cui sfogare la rabbia accumulata in anni di permanenza in quel posto degradato e degradante. O forse fu a causa delle voci che le guardie si divertivano a mettere in giro, per noia o per sadismo. Tutti sapevano del mio “ammutinamento”  durante la rapina, e sebbene non avessi fatto i nomi dei miei soci, ero agli occhi di quei malviventi comunque un traditore.
Qualsiasi fosse il motivo del suo odio, Vittorio detto Scirocco ce l’aveva con me. Faceva del tutto per provocarmi, a parole e a fatti. Mi spintonava senza motivo, alle mie spalle si divertiva a fare versi idioti, per non parlare degli insulti verbali e delle vessazioni varie.
Un giorno non potei sopportare oltre. Ero sdraiato sulla branda. La mia era quella in basso. Sapevo che mi stava fissando da minuti con un ghigno da fesso stampato sulle labbra, ma cercai di ignorarlo. Fino a quando non mi venne davanti e mi afferrò un polso.  Mi colse alla sprovvista e, prima di riuscire a capire cosa stesse succedendo, si portò la mia mano sul suo sesso.
«Sai dove te lo infilo questo, prima o poi?» mi disse sogghignando. Balzai in piedi, e come spesso mi accadeva quando venivo colto da uno dei miei accessi d’ira, non ragionai più, né ebbi coscienza di me e di come fossi arrivato a spaccargli la faccia in quel modo.
Tornai in me solo dopo che furono intervenute le guardie, le quali mi bloccarono con le braccia dietro la schiena, mi ammanettarono e mi portarono via.
In seguito venni a sapere che avevano portato Vittorio detto Scirocco in infermeria, per medicargli le ferite. Aveva il naso fratturato e gli erano saltati due denti.
Da quel giorno in poi mi stette alla larga.

Fu grazie a quell’episodio e al successivo cambio di cella che conobbi Geppetto, ed ebbi modo di stringere il legame più significativo di tutta la mia vita.
L’inizio non fu dei più promettenti, se devo essere sincero. Il giorno in cui mi presentai nella sua cella lo feci con timore reverenziale. Geppetto era uno dei pochi a essere rispettato e temuto da tutti, perfino dalle guardie. Nessuno sapeva bene chi fosse prima di diventare un carcerato, né perché fosse finito dentro. Perfino le guardie, che in genere si divertivano a divulgare ogni sorta di dicerie sui detenuti, tacevano riguardo a lui.
La sua era una cella da due, l’unica ad essere stata risparmiata dal sovraffollamento. Entrai quindi quasi in punta di piedi, e rimasi fermo sulla soglia con il respiro trattenuto e le mie poche cose fra le mani, a osservarlo.
Era seduto al tavolo, un libro aperto e gli occhialetti dalle piccole lenti rettangolari calati su un buffo naso, largo e dalla punta devastata da decine di sottili capillari. La sua figura mi fece venire in mente il Geppetto di Pinocchio. Per fortuna lo tenni per me, perché la prima cosa che mi disse fu un avvertimento. Mi guardò dal basso in alto, abbassò ulteriormente gli occhiali da vista per focalizzarmi meglio e si presentò, asciutto: «Sarà meglio chiarire subito: non amo storpiare i nomi o dare soprannomi idioti, né tollero che lo si faccia con me. Mi chiamo Antonio, e non desidero essere chiamato diversamente.»
Feci per aprire bocca, ma quello continuò, imperterrito:  «Non amo gli schiamazzi, la maleducazione, la sporcizia e gli scherzi di nessun genere, ancora meno che si usi un linguaggio scurrile. Sta’ al tuo posto e andremo d’accordo. Intesi?»
Lo fissai a lungo, con fastidio. Trovai il suo benvenuto di un’arroganza insopportabile, ma me lo tenni per me.
Annuii a denti stretti e pensai, con disprezzo: “Come no, Geppetto…”

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Una scelta difficile ***


Esiste una disperazione così ingiusta ed assoluta capace di spingerti a compiere azioni inconsulte. Questo tipo di disperazione ha il colore sbiadito e confuso di sogni cupi nelle notti agitate. Ha l’odore acido di immondizia nei vicoli malfamati di periferie dimenticate da Dio. Ha il timbro acuto e rauco di grida e pianti nelle case abbandonate dalla giustizia. Ha il volto dimesso di mia madre, scavato dalla sofferenza e dall’impotenza dinanzi ad un mucchio di bollette non pagate e non pagabili. Ha il gusto di serate alcoliche fra amici, mentre ti distruggi il fegato per dimenticare chi sei, almeno per un po’. Ha gli occhi spenti del tossico di turno che ti chiede l’elemosina per una dose. Ha l’aspetto sciatto di un vecchietto lasciato a marcire nella sua solitudine, in una casa che non ha mai avuto modo di ascoltare le urla giocose dei suoi nipotini.
Questa disperazione ha un nome, e il suo nome è povertà.

Sono nato e cresciuto in questo deprimente quartiere romano, la Nuova Ostia. Una borgata infelice, covo di tossici e delinquenti vari, teatro di risse, sparatorie e omicidi e per questo spesso citata nei servizi di cronaca nera di telegiornali e quotidiani.
Mio padre avrei preferito non averlo mai conosciuto. Era un ubriacone violento, capace solo di piangersi addosso. Aveva un hobby, sfogare la propria frustrazione su di me e mia madre. Con le mani, con la cinghia, con le scarpe, qualche volta con le sedie.
Non ricordo la prima volta che usò violenza su di me, ma di sicuro ricordo quale fu l’ultima volta che lo fece con mia madre.
Avevo sedici anni, e tornavo dall’officina di mio zio dove per un ipotetico stipendio cercavo di imparare il mestiere del meccanico. Sentii le urla prima di entrare nell’androne delle scale di una delle palazzine fatiscenti di via Baffigo. Le sentii entrando nel cortile condominiale e iniziai a correre per precipitarmi in casa.
Siete abituati a scene di violenza? Avete mai visto picchiare qualcuno con la cinghia dei pantaloni? Avete mai sentito lo schiocco della fibbia che impatta sulla carne? Avete mai udito le grida di una persona a voi cara mentre viene ripetutamente colpita con brutalità, mentre implora il suo carnefice di avere pietà, di risparmiarle quella tortura?
Io subivo quelle scene da una vita.
Trovai mia madre raggomitolata in un angolo della sala da pranzo, le braccia sulla testa nel tentativo di difendersi dalla furia di mio padre che continuava a sferzarla con la cintura, un colpo dietro l’altro, inarrestabile, feroce, con la bava alla bocca e gli occhi invasati, come un animale impazzito. Glielo tolsi di dosso urlando e iniziai a colpirlo con rabbia.
Non ricordo chi fu a fermarmi, so solo che gli salvò la vita perché probabilmente lo avrei ammazzato di botte, tanto non ne potevo più della sua cattiveria, dei soprusi, delle umiliazioni cui ci obbligava da sempre.
Se ne andò quel giorno, e non tornò più.
Il giorno dopo mio zio, fratello di mia madre, mi licenziò. Disse che lo faceva per il mio bene. Avevo deciso di essere il capofamiglia e dovevo iniziare a cercarmi un lavoro che mi consentisse di provvedere ai bisogni miei e di mia madre. Lui non poteva permettersi di retribuirmi più di quanto faceva.
Iniziai a fare ogni tipo di lavoro. Nei ristoranti come cameriere, nei cantieri come muratore,  nelle spiagge come bagnino, negli appartamenti come imbianchino, e così via. Un amico una volta mi propose di iniziare l’attività di spacciatore, ma non volevo avere niente a che fare con quella roba, e rifiutai. Poi un pomeriggio, tornato a casa da uno dei miei tanti lavori provvisori, la trovai vuota. Lampade, divano, televisione, quadri, la cassapanca intarsiata, il mio computer, il mio stereo, tutto…
Mia madre aveva chiesto un finanziamento per farmi prendere la patente e per l’acquisto della mia prima macchina. Io non lo sapevo. A me aveva detto che quei soldi li aveva risparmiati un po’ alla volta e li teneva da parte per le necessità. In ogni modo, con il suo magro stipendio di cuoca nelle mense e i miei introiti striminziti e poco regolari, era riuscita a pagare solo le prime rate. Gli strozzini avevano lasciato solo il tavolo, le sedie, i letti e gli armadi. Il valore degli oggetti pignorati era stato stimato intorno ai millecinquecento euro. Dovevamo ancora restituirne più del doppio. Mia madre era china sul tavolo della cucina, la testa fra le braccia che piangeva e singhiozzava convulsamente. Io ero troppo scioccato per dire o fare niente. Mi fermai sulla soglia della cucina, la bocca spalancata per lo stupore. Lei mi guardò addolorata e mi chiese scusa. E in quel momento avrei voluto non essere lì. Avrei voluto essere in un altro posto, in un’altra cucina, in un’altra casa, in un’altra vita.


                                                               ***             


Mia madre mi faceva tenerezza, e al tempo stesso rabbia. All’epoca avevo solo diciannove anni e non ero in grado di badare a lei. Non ero nemmeno in grado di badare a me stesso, figuriamoci. Non avevo un’istruzione elevata, non riuscivo a mantenere un lavoro per più di tre mesi, né ad impegnarmi in una relazione sentimentale stabile. Vivevo alla giornata, come la stragrande maggioranza della gente che conoscevo.
Mio padre lo avevo cacciato fuori di casa a suon di calci tre anni prima, e quindi ripiegavo la mia frustrazione sull’unico genitore che avevo a disposizione: mia madre. Così, inevitabilmente, lei diveniva la causa di tutti i miei insuccessi.
Senza rendermene conto stavo diventando come mio padre.
Un giorno, durante uno dei nostri litigi, mia madre mi rovesciò addosso questa verità, urlandomela. Ricordo che questo mi fece schizzare il sangue al cervello. La costrinsi al muro, la guardai con odio, alzai il pugno, e solo allora capii che aveva ragione. Fu il terrore nel suo sguardo, lo stesso che aveva quando veniva picchiata da mio padre, a fermarmi.
Colpii con rabbia il muro sopra la sua spalla per scaricare l’adrenalina e mi allontanai da lì correndo.

L’uomo è un essere fragile. Può lottare una vita nel tentativo di persuadere se stesso di essere diverso da ciò che è naturalmente, e metterci un attimo ad annientare quella convinzione e andare incontro senza più protestare al proprio destino. Furono le parole urlate da mia madre, quelle mi misero di fronte alla realtà. Io avevo lo stesso sangue di mio padre nelle vene. Tutto in me era simile a lui: fisicamente e caratterialmente. Alto, robusto, lo sguardo di chi è sempre arrabbiato, i modi bruschi di fare, gli scatti d’ira, la tendenza all’alcol e la scarsa predisposizione al lavoro. Per quello mi convinsi che, per quanto io cercassi di sembrare diverso, non potevo sfuggire alla mia sorte.
Mio padre, di mestiere, faceva il ladro di appartamenti. Conosceva le carceri romane più della sua stessa casa, e ne andava quasi fiero. Ripeteva con ostentato orgoglio il motto dei carcerati di Regina Coeli: “A via de la Lungara ce sta ‘n gradino. Si nun salisci quello nun sei romano. Nun sei romano, e nemmanco trasteverino.” E lui si sentiva più romano di tutti.
Era un ladruncolo di appartamenti, e come ogni ladro che si rispetti, di quelli vecchio stampo, aveva una moralità tutta sua: mai derubare un poveraccio. Sceglieva con cura le case da svuotare, che appartenevano tutte a ricconi.
Determinai che valeva la pena tentare quella strada. In quel modo avrei ristabilito la pace in casa, pagando i debiti che mia madre aveva contratto a causa mia. Inoltre avrei provato sulla pelle se quella era davvero la vita che faceva per me, il mio destino.
Andai a trovare il mio amico, quello che mi aveva proposto di mettermi in affari con la droga, e gli chiesi se aveva del lavoro per me, purché non si fosse trattato di spaccio da cui m sono sempre tenuto lontano. I tossici venivano regolarmente a bussare alla nostra porta e a quella di tutti i condomini. Venivano a chiedere i limoni che usavano per sciogliere l’eroina che si iniettavano in vena, e poi andavano a bucarsi nell’angolo più buio del sottoscala, dove si piegavano in due a vomitare e dove, oltre ai loro rifiuti organici, lasciavano anche le loro siringhe sporche di sangue, prima di andarsene a collassare in qualche panchina di uno dei tanti parchi del quartiere, disseminati un po’ ovunque con la speranza di rendere vivibile una realtà troppo brutta per essere migliorata con così poco. Tutti conoscevamo quei ragazzi e le loro famiglie e il dramma che vivevano ogni giorno, ed io non volevo averci niente a che fare. Non mi sarei mai reso responsabile delle lacrime di una madre.
Mi sentivo già abbastanza in colpa per quelle che facevo versare alla mia, di madre.
Il mio amico mi disse che di appartamenti non ne “facevano”, ma che aveva sentito dire che stavano organizzando una rapina in qualche posta. Così mi presentò ad un gruppetto di ragazzi, alcuni dei quali conoscevo di vista. Fu stabilito che per cominciare avrei potuto fare il palo e guidare la macchina al momento della fuga, dal momento che ero famoso per la mia passione per i motori e per la mia guida spericolata ma precisa. Il giorno della rapina ai danni della piccola posta nel quartiere della Magliana la tensione era così alta che vomitai anche le budella prima di uscire di casa, tanto che mia madre si affacciò preoccupata in bagno e mi disse che dovevo smetterla di bere tanto.
Fui sollevato che lei avesse associato il mio malessere ad un dopo-sbornia.
Eravamo in tre, quel giorno. Mi dissero di aspettare in macchina e di tenere gli occhi ben aperti e, nel caso in cui avessi notato movimenti strani, di strimpellare il clacson come un forsennato. Andò tutto liscio. In pochi minuti, entrarono ed uscirono con un sacchetto pieno di banconote. Abbandonammo la macchina rubata in una delle campagne dell’agro pontino romano, recuperammo le nostre vetture, e chi in macchina chi in moto, ci lasciammo con la prospettiva di incontrarci la sera da Fulvio, la sala biliardo a Piazza Gasparri. E così facemmo. Mi fu data una quota inferiore rispetto alla loro, dal momento che avevo corso meno rischi, ma non mi lamentai. Intascai i miei cinquecento euro, e mi ritenni soddisfatto. Quello fu l’inizio della mia carriera da delinquente.

La prima volta che fui arrestato mi beccarono in flagrante a rubare una vettura, che avremmo dovuto usare per una rapina ai danni di un supermercato. Avevo vent’anni, ed ero al mio primo arresto. Ma ero incensurato, e questo giocò a mio favore. Tornai a casa dopo pochi giorni. Mia madre, da quel momento, non mi rivolse più la parola, né accettò più da me alcun aiuto finanziario.
Piangeva ogni notte. Sentivo i suoi lamenti soffocati, attraversavano i muri e arrivavano alle mie orecchie, mi aggredivano come una sentenza,  mi procuravano dolore, oltre che rabbia. Perché accidenti piangeva? Che vita credeva avrei potuto fare in un quartiere come quello? Quali prospettive aveva uno come me, figlio di un pregiudicato, senza un diploma né alcuna competenza specifica? Aveva sposato un poco di buono, aveva subito in silenzio per anni le angherie di quell’uomo e, soprattutto, aveva permesso che le perpetrasse anche su di me. Non aveva mai fatto nemmeno un tentativo per cambiare la sua, e la mia, vita. Era un po’ tardi per le lacrime, ed io mi rifiutavo di sentirmi l’unico responsabile del modo in cui stavo indirizzando la mia esistenza.
Se c’erano delle responsabilità da assumersi, lei ne aveva di sicuro più di me.

Al mio secondo arresto le cose non mi andarono così bene. Non mi fermai ad un posto di blocco e tentai una fuga grottesca, terminata dopo poche centinaia di metri. La macchina era rubata, e all’interno vi trovarono diversi etti di cocaina, di cui però non sapevo nulla. Appartenevano al proprietario dell’auto, il quale, ovviamente, negò di esserne il possessore. Mi diedero due anni e sei mesi, ma ne scontai solo la metà grazie alla condizionale nel carcere di Rebibbia.  
Il carcere ti segna per sempre, anche se lo hai vissuto per poco. Ti segna in senso negativo, di sicuro non ti recupera. Mia madre non venne mai a trovarmi, si vergognava di me. O forse provava troppo dolore nel vedermi ridotto in quello stato. Stipato in una cella di tre metri per quattro, adatta a due detenuti ma che di fatto ne ospitava il doppio; in un angolo la turca, dalla quale provenivano esalazioni disgustose, e sul lato opposto un lavandino che si reggeva in piedi per miracolo. Veniva concessa un’ora d’aria al giorno in uno spiazzale cementato, senza piante né colori. Perfino quel rettangolo di cielo, in quel contesto, perdeva il suo caratteristico azzurro ed assumeva un colore indefinito, come avvolto da una coltre di nebbia sottile che lo lasciava appena intravedere ma di certo non apprezzare.
Persi due cose in quella fogna: i chili di troppo e la parlantina svelta. Uscii da lì con un fisico da atleta, anche se i miei muscoli si erano atrofizzati a furia di poltrire in una branda, e poca voglia di socializzare. Ciò che non persi fu la capacità di mettermi nei guai.
Solo che, stavolta, andai in cerca di quelli seri

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Nel ventre della balena ***


Col tempo imparai ad apprezzare quel vecchio scontroso. Moltissime erano le cose che avevamo in comune. L’amore per il mare in inverno, ad esempio, o l’attrazione per la notte, con il suo profumo inconfondibile, quando tutto tace e tu sei finalmente libero di dare voce al tuo malessere interiore e ascoltare te stesso. Il silenzio, la privacy, lo stormire delle foglie nei giorni di vento, il freddo…
Inoltre, entrambi eravamo stati dimenticati dalle rispettive famiglie, ed entrambi ce ne facevamo una colpa. Questo pesava sulle nostre coscienze come un macigno, anche se non lo avremmo mai confessato apertamente. Del resto, non ce n’era bisogno. Lo sconforto lo leggevamo nei nostri occhi nei giorni in cui tutti gli altri ricevevano visite. Allora succedeva che, mentre vedevamo sfilare dinanzi a noi i detenuti fortunati, raggianti e ciarlieri come mai, ci chiudevamo in un silenzio carico di parole.
C’erano però anche delle sostanziali differenze, tra di noi. Cose sulle quali eravamo in disaccordo. I libri, tanto per dirne una. Geppetto passava la maggior parte del tempo a leggere, e la cosa mi faceva arricciare il naso.
Un giorno, mentre era assorto in una delle sue letture, sbuffai disgustato. Lui chiuse il libro tenendo il segno con un dito, abbassò gli occhialetti sul naso e disse, in tono sarcastico: «I somari ragliano con più dignità…»
«Alla faccia di quello che non ama gli insulti…» brontolai.
«Non era un insulto, ma una constatazione. E, secondo un diverso punto di vista, perfino un complimento…»
«Che complimento sarebbe essere paragonato a un somaro?»
«Era un complimento per il somaro...» precisò incolore, tornando ad interessarsi al suo libro.
«Grazie mille, Geppetto» gli restituii l’apprezzamento, enfatizzando particolarmente sul nomignolo, sapendo di fargli cosa poco gradita. Lui, infatti, chiuse il libro con un colpo secco, restò un istante a fissarmi con aria contrariata e poi, contro ogni previsione, proruppe in una sonora risata. Che mi rinfrancò non poco. Avevo infatti temuto di ricevere una randellata sulle gengive. Geppetto scoppiò quindi in una fragorosa, lunga risata, scosse il capo asciugandosi le lacrime e si alzò dalla branda per mettersi di fronte a me.
«Lo hai mai letto almeno, il libro? Quello di Pinocchio, intendo…» mi chiese.
«Perché, c’hanno fatto pure un libro?»
«Come immaginavo… Cosa sei, il classico ribelle incompreso con una famiglia disfunzionale e la licenza delle medie concessa per grazia ricevuta?»
Gli scoccai un’occhiataccia e risposi, glaciale: «E tu chi sei, uno di quegli psicanalisti falliti che per la frustrazione fanno fuori le famiglie?»
«Famiglie? Naaa, solo i compagni di cella…»
Mi sollevai sui gomiti. «Sei uno strizzacervelli?» cercai conferma, incuriosito. Erano due anni che condividevamo tutto, e ancora ignoravo la sua vera identità.
«Ho l’aria di uno psicologo?» chiese strafottente.
Feci spallucce. «Hai l’aria di uno che potrebbe essere un sacco di cose…»
«Questo è perché leggo molto. Leggere significa conoscere le cose, e conoscere le cose arricchisce, rende persone migliori, persone di spessore… Tu che persona speravi di diventare, prima di darti al crimine?»
«Non credo di avere mai avuto molte scelte al riguardo, perciò che importanza ha chi avrei voluto essere…»
«Balle. Tutti noi possiamo scegliere di essere migliori, se lo vogliamo davvero. Dubito altamente che tu sognassi di diventare un rapinatore e di passare gli anni migliori della tua vita in un carcere insieme ad un vecchio noioso con l’aria da Geppetto.»
«Già, peccato che ormai sia andata.»
«Andata?» fece lui. La sua voce si era riempita di biasimo. «Quanti anni hai, moccioso?»
«Ventitré» risposi perplesso, sorpreso dalla sua reazione.
«Quando uscirai da questa fogna ne avrai ventotto, e a ventotto anni la vita è appena iniziata. Hai cinque anni per darti da fare, e sperare di poter condurre il resto della tua esistenza in maniera dignitosa, lontano dai guai.»
Balzai a sedere, punto sul vivo. «Cos’è, ti va di sfottere? Come cazzo potrei darmi da fare, qui dentro?»
«Modera il linguaggio, ragazzino. Ho chiuso un occhio quando mi hai chiamato Geppetto, non sfidare la buona sorte…» mi rimproverò tutt’altro che amichevolmente. Poi distese i lineamenti del volto e, dopo aver sospirato, continuò con la predica.
«Vuoi sapere cosa facevo prima di essere arrestato?» Quella domanda mi colse alla sprovvista. Annuii, trattenendo il fiato. Geppetto intensificò lo sguardo. Posò il libro sul tavolo, si tolse gli occhiali, li poggiò con delicatezza sopra il libro e tornò a guardarmi, con fare solenne.
«Ero un poliziotto» confessò, con la voce incrinata. Quella affermazione mi investì come un tir impazzito coi freni andati. Tra tutte le possibili identità che gli erano state affibbiate, quella era in assoluto la più insospettabile. La mia espressione incredula non passò inosservata, perché annuì gravemente, fece una smorfia e disse: «Già. Incredibile, non trovi?»
Ero troppo scioccato per rispondergli, perciò rimasi in silenzio.
«Un maledetto poliziotto con uno stipendio da fame, una moglie malata, una bambina da crescere… Eppure non era quello che avevo sognato di fare da ragazzo. Io volevo diventare un giornalista. Un giornalista con la G maiuscola, uno di quelli tosti, scomodi, capaci di far tremare i cattivi con fastidiose inchieste… Ci penso spesso, sai, alla piega che avrebbe potuto prendere la mia vita se avessi avuto l’opportunità di diventare un reporter. Sai perché sono stato costretto a mettere da parte le mie aspirazioni e mi sono arruolato?»
Scossi il capo debolmente, anche se la risposta mi sembrava ovvia.
«Gli studi... Non mi fu possibile proseguire oltre la terza media. Mio padre era un operaio, mia madre una bidella, cinque bocche da sfamare, l’affitto da pagare, poche entrate, bla bla bla bla…»
«Questo dimostra solo che ho ragione» lo interruppi con disappunto.
«Questo dimostra solo che continui a ragliare senza dignità. Credi che io abbia passato questi ultimi dodici anni a rigirarmi i pollici e a piangermi addosso? No, che non l’ho fatto. Mi sono preso la mia rivincita. E quel maledetto diploma l’ho preso proprio qui dentro, chiuso in questa gabbia! Mi sono diplomato in lettere, e non è detto che io non mi iscriva all’università, prima o poi.»
Avevo sentito parlare dei corsi per i detenuti che venivano organizzati con lo scopo di prepararli agli esami di stato, che venivano dati nel carcere di Rebibbia, ma non ne vedevo l’utilità. Risi con amarezza. «E cosa diavolo te ne fai di un diploma, qui dentro?» contestai.
«Te lo dico io, cosa me ne faccio di un diploma qui dentro. Averlo preso mi ha fatto guadagnare la stima di me stesso. La mia e quella degli altri. Molti dei carcerati non sanno scrivere una lettera di senso compiuto, e ancora meno comprendere il contenuto di documenti che li riguarda. Gli avvocati, come tutti i vari dottori dei miei stivali, amano fare sfoggio della loro cultura, conquistata dopo anni di studi universitari. Poco conta che i destinatari di tali impeccabili gioiellini letterari siano persone che sanno a malapena far di conto. L’arroganza, si sa, risiede nel seno degli stupidi... Hai visto l’andirivieni che c’è in questa cella, no? Le persone che vengono qui non vengono a fare due chiacchiere sul tempo. Vengono a chiedermi di decifrargli quegli stramaledetti documenti. Questo fatto, da solo, mi riempie di onore. Tuttavia hai ragione: il valore del mio diploma è prettamente simbolico, non mi frutta certo guadagni in moneta. Ma vorrei che tu riflettessi su questo, caro il mio somaro ragliante: quanta gente istruita finisce in carcere? Poca. Oh, ce n’è, non dico di no, ed è anche vero che dovrebbe essercene molta di più, ma questo non cambia una realtà assoluta: in carcere ci finiscono soprattutto i disperati, quelli che si sono arresi alla tirannia della vita in partenza, che non hanno avuto nessuna opportunità o che, semplicemente, non hanno voluto raccoglierla. In genere, la disperazione va a braccetto con la povertà, e la povertà con l’ignoranza. Perciò, Fabio Costantini, ora ti rifarò la stessa domanda: chi avresti voluto essere? Perché hai cinque anni per trarre qualcosa di buono da questa fogna, darti da fare, diplomarti, uscire da qui e dare qualità alla tua finora mediocre esistenza.»
Ripenso sempre con infinita riconoscenza a quel giorno, il giorno in cui uno “scarto di società” mi incoraggiò a dare valore a me stesso. Sono molti i motivi per cui mi sento in debito con Geppetto. Il fatto che io sia riuscito a diplomarmi in carcere è indubbiamente il primo.


Sette anni sono lunghi, soprattutto se sei costretto a passarli chiuso in uno spazio ristretto. Sono fermamente convinto che l’affermazione secondo la quale non basti una vita a conoscere del tutto il proprio partner enunci il vero. Eppure, un sistema per conoscersi a fondo e in molto meno tempo esiste.
Vuoi  sapere tutto, ma proprio tutto di una persona? Chiuditi con lei in una cella di tre metri per due, e poi butta via la chiave.
È la verità. Quando sei obbligato a stare a stretto contatto con qualcuno, finisce che impari a conoscerlo intimamente. Per quanto uno possa essere una persona riservata, il tempo a disposizione e la noia contribuiscono a far riemergere i ricordi e, spesso, a condividerli col tuo compagno.
Di me non è che avessi molto da raccontare. La mia breve vita era andata avanti più o meno sempre nello stesso modo, in maniera piuttosto lineare, tra le grida di un padre sempre ubriaco e quelle della strada, poche ragazze, tanta birra, pochi soldi, tante umiliazioni… E poi l’avvio alla criminalità, il primo arresto, le carceri… Ecco, la mia vita era tutta qui, si riassumeva con poche parole.
Geppetto non amava parlare del motivo per cui si era ritrovato all’improvviso dall’altra parte della barricata. Faceva trapelare qualcosa da brevi affermazioni, che però restavano alquanto brevi. La moglie malata di cancro, l’opportunità di portarla da specialisti in America e di farla operare con buone possibilità di riuscita, e il conto in banca che, invece, non concedeva nessuna speranza. E lui, l’opportunità, se l’era creata lo stesso. O almeno ci aveva provato. In quale modo, però, era un argomento impossibile da affrontare.
Venti anni si era beccato. Per cosa, rimaneva un mistero.
In compenso parlava molto del paese dove era nato e cresciuto, dove si era sposato, dove sua figlia era nata e continuava a vivere, insieme alla madre: Genzio, un piccolo abitato marchigiano di poche centinaia di anime, arroccato su un altopiano che si affaccia sull’Adriatico.
Geppetto aveva un’abilità descrittiva sorprendente per cui, ogni volta che parlava della sua terra, riusciva a trasportarmi nei luoghi dei suoi racconti, a farmi sentire il profumo di salsedine e delle piante fiorite, il vento che soffiava dal mare e che sferzava il viso con forza nei giorni di bufera, con gentilezza in quelli di tregua.
Aveva la capacità di farmi vivere le stesse emozioni provate da lui nella sua fanciullezza alle feste del paese, soprattutto quelle che si svolgevano di notte intorno ai fuochi durante le sagre del vino, dove i racconti dei vecchi riempivano di mostri e fantasmi le teste dei più piccoli, i quali, inevitabilmente, passavano dallo stato di eccitazione a quello di terrore quando arrivava per loro il momento di mettersi a letto.
Ridevo con lui quando parlava della stravaganza dei suoi concittadini, che imparai a conoscere per nome uno per uno, e mi commuovevo fino alle lacrime quando si faceva prendere dallo sconforto della nostalgia e troncava di netto il suo raccontare.
La sua famiglia, invece, era un argomento che preferiva non toccare. Li aveva delusi, e loro lo avevano abbandonato. Non c’era molto altro da dire. Poi, un giorno, inaspettatamente, tre anni prima della mia ritrovata libertà, ricevette la visita della figlia.
Ricordo che lo invidiai, per quello.
Tornò in cella dopo pochi minuti. Aveva un aspetto orribile. Era pallido, stravolto. Teneva tra le dita una foto, se la tenne stretta per tutto il giorno. Non disse nulla, né io gli chiesi nulla. Ci sono dei momenti in cui le parole servono solo a fare stare peggio.
Il giorno dopo appese la foto al muro sopra la sua brandina. Raffigurava una giovane ragazza sorridente. Una montagna di vaporosi capelli biondi incorniciavano un ovale perfetto, le labbra carnose piegate in un candido sorriso. Eccola lì, la figlia che custodiva gelosamente nel fondo del suo cuore. La trovai terribilmente bella. Troppo, per essere esposta agli occhi di uomini costretti ad una forzata astinenza.
I primi tempi evitavo di alzare lo sguardo su di lei, per paura che Geppetto riuscisse a leggere dentro i miei occhi il turbamento che quella splendida ragazza appesa al muro provocava nel mio intimo, procurandogli così altro dispiacere. La evitavo, così come lui evitava di spiegarmi il motivo del suo dolore. Per giorni si chiuse in un ostinato silenzio, ed io fui grato del fatto che, in quel periodo, passavo molto tempo sui libri a studiare. Vederlo soffrire faceva stare male anche me.
Se ne uscì fuori un giorno, all’improvviso, senza preamboli e senza guardarmi, gli occhi fissi sulla foto di Marina, sua figlia.
«Mia moglie è morta.» Questo disse, per poi richiudersi in un impenetrabile silenzio.
Soffriva, ma lo faceva con dignità, senza versare una lacrima. Tornò alla normalità un po’ per volta; ci mise molto tempo, e solo dopo essersi ristabilito del tutto mi raccontò i magri dettagli della visita della figlia. Lei lo aveva messo al corrente della morte della madre con una freddezza spietata. Gli aveva dato quella foto dicendogli che, da quel momento in poi, sarebbe stato l’unico modo che aveva di rivederla.
Provai una terribile pena per lui. E quando mi guardò con occhi pieni di dolore e rammarico, sentii una stretta al cuore.
«Fabio, non odiare tua madre. Scrivile, cerca il suo perdono. Non aspettare a farlo. La vita è crudele, ti gioca brutti tiri… Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, non rimandare a domani questioni urgenti…» mi disse con affetto.
Avrei voluto rispondergli qualcosa, ma il rancore che nutrivo nei confronti di mia madre era più forte del mio amore per lei. Per tutta la vita mi ero sentito abbandonato a me stesso, tanto più in quel buco, dove non si era mai degnata di venire a trovarmi. L’ultima volta che avevo tentato un riavvicinamento con lei, fu quando la misi al corrente che mi ero iscritto al corso con l’intenzione di diplomarmi. Non ricevetti nessuna risposta, ed io smisi di sperarci. Come poteva Geppetto chiedermi di umiliarmi di nuovo?
Rimasi in silenzio, e quel silenzio mi pesa ancora oggi. Se avessi trovato il coraggio di ribattere, forse sarebbe riuscito a convincermi a cedere con una delle sue filosofiche argomentazioni. Io non lo so perché Geppetto mi fece quella macabra esortazione, quel giorno. Mia madre godeva di ottima salute… Fu per questo che non presi seriamente le sue parole, che le ignorai con ostinata determinazione. Già, mia madre godeva di ottima salute, eppure morì sette mesi prima del mio rilascio, investita da un auto pirata. Mi fu comunicato dal direttore del carcere il quale, insieme alle condoglianze, colse l’occasione di congratularsi per il mio esito positivo agli esami di maturità, superato con 80 su 100.
Lei ne sarebbe stata altrettanto orgogliosa?
Non lo saprò mai.


Il giorno del mio rilascio ero più terrorizzato che felice. Il carcere aveva compiuto il suo dovere: annientare la mia individualità. Avevo paura di affrontare la società, perché avevo dimenticato come ci si muoveva fuori delle sue mura.
Se solo avessi avuto persone amiche ad aspettarmi… L’unica persona amica me la stavo lasciando alle spalle. Quando lo dissi a Geppetto, sorrise comprensivo.
«Dai, ragazzino, che se non ci lascio le penne prima, tra due anni ti raggiungo. Anche io non ho più nessuno ad aspettarmi lì fuori, sai? A parte te…» mi disse. E poi mi mise in mano un libro liso. Pinocchio. Risi scuotendo la testa. «L’ultima deve essere sempre la tua, eh, Geppetto dei miei stivali?»
«Geppetto dei tuoi stivali? Hai una confusione in testa, te. Quello con gli stivali era un piccolo felino, non un ragazzino piagnucoloso… Ecco quello che succede quando si legge poco… Non mi stancherò mai di ripetertelo: leggi, leggi più che puoi, va’ avanti con la conoscenza, non trascurare mai il tuo cervello, tienilo costantemente in allenamento.»
Aprii il libro per dargli un’occhiata, mentre finiva di parlare. Nella prima pagina c’era una dedica. Diceva: “A Marina, la mia piccola principessa. Perché tu ricorda sempre che, finché sarò in vita, nessuna balena potrà mai inghiottirti”.
Sollevai immediatamente il mio sguardo su di lui, stravolto, e quello che vidi mi atterrì anche di più. Non avevo mai visto piangere Geppetto, e ora invece…
»Io non posso accettarlo…» farfugliai.
«Tu devi! Sei l’unico figlio che mi rimane…»
Non so quanto tempo rimanemmo abbracciati. So solo che, mentre sentivo le sue lacrime calde bagnarmi il collo, ripeteva senza sosta, singhiozzando: «L’ho abbandonata… l’ho abbandonata… ho permesso alla balena di inghiottirla, e lei ora è là, nel ventre della bestia, tutta sola…»
E all’improvviso capii cosa dovevo fare, lì fuori. Lui mi aveva fatto dono di un sentimento paterno che per tutta la vita mi era stato negato. Mi aveva aiutato a rendere la realtà del carcere meno brutta, a trarne profitto, ad uscirne fortificato, un individuo migliore. Ora toccava a me restituirgli il favore.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ritorno a casa ***


Capitolo 2

Mentre procedevo senza fretta per le vie affollate del centro, sentivo l’ansia montarmi nell’animo. I pensieri mi si affastellavano nella mente, dolorosi e inevitabili. Da quanto mancavo da casa? Sette anni, quattro mesi, dodici giorni. Tanto tempo. Troppo. Eppure niente sembrava essere cambiato.
Macchie scure e dense imbrattavano strade e marciapiedi. Alberi di oleandro in fiore piantati senza un ordine preciso tentavano di dare colore a uno scenario grigio, dove cemento e mattoni la facevano da padrone. Addossati uno sull’altro, alti palazzoni soffocavano il cielo, riducendolo a un fazzoletto sbiadito che dava l’impressione di sventolare appeso a un’antenna, come una lacera bandiera senza più patria né gloria. Nonne in ciabatte dall’aspetto trasandato entravano e uscivano dai discount, che a partire dagli anni ’90 avevano proliferato come funghi nei boschi in un giorno di sole dopo uno di pioggia. Di tanto in tanto un motorino “truccato” sfrecciava rumoroso, facendo lo slalom tra le macchine bloccate nel traffico dell’ora di punta. Donne affacciate ai balconi parlavano tra di loro, come se si fossero trovate comodamente sedute nel salotto di casa propria davanti ad una tazza di caffè. E qualcuna chiamava a gran voce il figlio, in un tono che non consentiva ritardi. Frotte di giovani ragazze vocianti ridevano fragorosamente tenendosi strette per le braccia, ubriache di sole e d’estate. Diverse, incrociandomi, mi avevano fatto oggetto di attenzioni, cosa della quale non ero abituato. Qualcuna mi aveva perfino sorriso con malizia, ed io avevo abbassato il viso, non desideroso di essere riconosciuto. Ma come avrebbero potuto, ragazzine con l’acne sulla fronte e l’apparecchio ai denti, ricordarsi di me?
Mancavo da casa da troppo tempo ed io, al contrario del mio quartiere, ero cambiato fin troppo. In meglio, in peggio, chi poteva dirlo? Otto anni prima pesavo venti chili di troppo, ero lento, pigro, sciatto, passavo inosservato agli occhi delle ragazze. Mentre quest’altro me, magro, sbarbato, vigile, a quanto sembrava riusciva perfino a fare colpo.
Non ero cambiato solo nell’aspetto fisico. Gli anni di latitanza mi avevano reso più scaltro, anche se terribilmente schivo.
Era un bene, o no? Ma anche il ragazzo che ero stato aveva i suoi pregi. Sorrideva di più. Si fidava di più. Amava di più. Cose delle quali ero convinto di non essere più capace.
Senza rendermene conto, perso dietro alle mie considerazioni, mi ritrovai fermo davanti alla vetrina della pasticceria a due isolati da casa, o quella che era stata la mia casa. Non c’era più nessuna casa dove andare, perché non c’era rimasto più nessuno ad attendermi. Sollevai stancamente lo sguardo sulla mia immagine riflessa nella vetrata del negozio. Avevo gli occhi spenti, vitrei, le guance scavate rese ruvide dalla barba incolta di due giorni.
Come avevo potuto ridurmi a essere il fantasma di me stesso?
Alla mia immagine si sovrappose quella di una graziosa commessa che mi fissava con un sorriso cortese sulle labbra. Tentai di restituirle il sorriso, ma gli angoli delle bocca non ne volevano sapere di piegarsi verso l’alto. Poi spostai la mia attenzione sull’uomo che era comparso al fianco della giovane. Enrico, il proprietario del negozio. Anche lui mi stava guardando, e non c’era traccia di sorrisi nel suo volto, nessuna manifestazione d’amicizia nei suoi occhi. Solo ostilità e diffidenza. Allora compresi: lui mi aveva riconosciuto. E quello sguardo glaciale, quello fui in grado di restituirlo.
Sistemai lo zaino sulla spalla e proseguii per la mia strada. Il cuore prese a battermi a mille, ora che mi avvicinavo alla meta. Lessi l’insegna sopra la testa: officina specializzata Bove&figlio. Inconsapevolmente feci una smorfia di disappunto. Bove e figlio. Zio e cugino. Difficile dire chi dei due odiassi di più. Sospirai pesantemente. Avrei voluto risparmiarmi quello spiacevole incontro, ma avevo bisogno di soldi. E di una macchina. Mi feci coraggio ed entrai. L’odore forte del grasso dei motori mi riempì le narici e mi schizzò dritto al cervello. Me ne riempii i polmoni come se si fosse trattato del profumo di una donna seducente.
Da ragazzino avevo amato quell’officina. Avevo amato quel lavoro. Avevo amato mio zio. Quando era successo? Un secolo prima…
Un ragazzo indaffarato sotto una fiat uno sgangherata fece scivolare il carrello su cui era sdraiato in avanti, e si affacciò a guardarmi. Non lo conoscevo. Un nuovo acquisto, probabilmente. Gli affari dovevano andare a gonfie vele, allo zio. Si riaffacciò prepotente il ricordo doloroso di quando, tanti anni addietro, dopo aver buttato fuori mio padre di casa, il mio amato zio, il fratello di mia madre, pensò bene di licenziarmi. Dovevo imparare a provvedere a me stesso e a mia madre senza contare su di lui, questo, in pratica, era stato il suo messaggio. Fu quello il giorno in cui smisi di amarlo. Fu anche il giorno in cui la mia vita aveva preso la piega che mi aveva condotto fino a lì.
Il giovane continuava a fissarmi con uno sguardo interrogativo. «Hai bisogno?» si decise a chiedere, dal momento che continuavo a tacere. Non dovetti rispondergli. Mio zio comparve sulla scena in quel momento, mentre si sfregava le mani con uno straccio lurido, con l’unico risultato di renderle ancora più sudice. Aveva la fronte increspata.
«Fabio?» disse sbigottito, come se avesse visto un fantasma. Strinsi le labbra e i pugni, che nascosi nelle tasche dei jeans logori.
«Ciao, zio» risposi senza entusiasmo.

«Genzio? Che diavolo ci vai a fare a Genzio?» mi chiese mio zio allontanando con la mano il piatto vuoto imbrattato del sugo della pastasciutta. La moglie, l’unica a salvarsi in quel covo di serpi, servì a entrambi un bicchierino di limoncino ghiacciato. Aveva arrotondato i fianchi e messo qualche ruga intorno agli occhi. Non era mai stata bella, eppure da adolescente l’avevo fatta oggetto di fantasticherie più o meno romantiche. Le sorrisi, sorprendendo me stesso per  essermi lasciato andare ad una manifestazione d’affetto. Sorriso che si spense appena tornai a guardare mio zio.
«E qui che ci dovrei rimanere a fare?» risposi con stizza.
«Va bene, ma perché Genzio? È un paesino sperduto che non viene segnato nemmeno sulle cartine stradali, figurati…»
«C’è il mare. La collina. Poca gente. Non chiedo di meglio. Voglio solo godermi questo momento lontano da tutto e da tutti, essere lasciato in pace. Voglio prendermi del tempo per dare una regolata alla mia vita, rimettermi in sesto come si deve…»
Mio zio mi guardò con sospetto, per niente convinto da quella spiegazione. Che poi, in effetti, non aveva spiegato proprio niente.
«Bè, la vita è la tua. E anche i soldi. Sono quelli della liquidazione di tua madre... Non sono molti, ma per un po’ dovrebbero bastare a mantenerti… Qualche mese, per lo meno…»
«Non intendo stare via così a lungo…» mormorai, assorto nei miei pensieri. Sentire nominare mia madre mi faceva male, sempre.
«E dopo?» volle sapere lui.
«Al dopo ci penserò poi.»
Seguì un lungo silenzio carico di riflessioni personali.
«Pensi di andare al cimitero a trovarla?» mi  chiese infine. Mi ero aspettato quella domanda. Me l’ero aspettata, eppure ebbe ugualmente su di me l’effetto di uno schiaffo in pieno volto.
Erano mesi che mi ponevo lo stesso quesito, e siccome non mi ero ancora dato una risposta, non avevo risposte da dare a lui, perciò non dissi nulla.

Decisi di ripartire subito dopo pranzo, anche se gli zii fecero di tutto per convincermi a trattenermi con loro almeno per quella notte. Tuttavia mi mostrai inflessibile. Avvertivo la necessità impellente di allontanarmi da lì.
Seguii lo zio in garage, e quando vidi la vecchia punto, la macchina che era appartenuta a mia madre, il cuore mi si strinse dolorosamente nel petto. Lo zio mi consegnò le chiavi, riluttante. Me ne accorsi, ma lo ignorai. Sedetti al posto di guida, portai indietro il sedile, aggiustai gli specchietti e misi in moto. Il vecchio motore tossì non poco.
«Ha il carburatore sporco» mi informò mio zio, come se ce ne fosse stato bisogno. Lo avevo sentito da me. Ci sono alcune cose che, una volta imparate, non si dimenticano più. Come andare in bicicletta. O guidare una macchina. O far gemere di piacere una donna. O riconoscere gli acciacchi di una vecchia carretta come quella al solo rombo del motore.
Lo zio se ne stava lì, in piedi, un braccio sul tettuccio dell’auto e uno sullo sportello aperto, e non si decideva a lasciarmi andare.
«La macchina è intestata a me, non so se mi spiego…» disse asciutto ad un certo punto. Sentii l’adrenalina arrivare a livelli di allarme e pulsarmi violentemente nelle tempie. Ecco perché non potevo restare, perché avevo fretta di allontanarmi da lì, da lui.
«Ti sei spiegato benissimo. Provvederò il prima possibile a fare il passaggio di proprietà. Nel frattempo tranquillo: mai fatto una rapina con una macchina che non fosse rubata» ironizzai con rancore.
«Non te la prendere. Fa piacere che tu sia di nuovo fra noi, e che in quel posto tu sia stato capace di diplomarti ha dell’incredibile. Ma si fa fatica a perdere certe abitudini…»
«Si fa più fatica a prenderle. Non si nasce delinquenti, ti ci spingono a diventarlo. E credimi, per esperienza ti dico che quando a farlo sono le persone che avrebbero l’obbligo morale di aiutarti, allora è proprio dura da accettare… Non basta una vita a dimenticare, meno che mai a perdonare» sibilai con rancore guardandolo dritto negli occhi, con aria di sfida. Lui fece una smorfia di disappunto, ma non trovò nulla da ribattere.
Premetti un po’ sull’acceleratore, per fargli comprendere che ero impaziente di mettermi in viaggio. Chiusi con decisione lo sportello, feci un cenno di saluto col capo e finalmente fui libero di allontanarmi da lì, libero di percorrere nuove strade, di prefiggermi obiettivi, di respirare il cielo a pieni polmoni.
Libero… Ma era davvero così?
 
L’acqua della doccia mi avvolgeva come un caldo abbraccio. Avevo dimenticato cosa volesse dire lavarsi senza fretta, senza restrizioni di tempo. In carcere mi ero dovuto abituare a farlo in cinque minuti. Cinque  minuti per ogni doccia concessa, e le docce concesse erano tre a settimana. Anche d’estate, quando l’afa faceva sudare come porci, e puzzare anche di più. Per una pulizia sommaria si doveva fare affidamento al lavandino nella cella, ma quello si faceva a meno di usarlo in modo appropriato. Veniva utilizzato più che altro come orinatoio.
Sollevai il viso e mi lasciai sferzare dall’acqua, godendo di ogni singola goccia che mi lambiva la pelle. Il ricordo di mia madre si riaffacciò ostinato. Più cercavo di ricacciarlo indietro, più acquistava forza. La rivedevo bloccata al muro, che guardava con terrore il mio pugno sollevato su di lei, pronto a colpirla.
Dopo aver lasciato mio zio, all’incrocio di Ostia Antica, avevo trovato il semaforo rosso. Il cuore aveva iniziato a battermi forte. Il cimitero dove era stata seppellita era a poche centinaia di metri. Sarebbe bastato voltare a destra, niente di più facile. Ma quando era tornato il verde, avevo tirato dritto e imboccato la Via del Mare. Avevo alzato lo stereo a palla e avevo cercato di non pensarci.
E ora che mi trovavo a centinaia di km di distanza da lei, il rimorso non mi dava tregua.
Mi tornarono in mente le parole singhiozzate di Geppetto appena tre giorni prima, il giorno del mio rilascio: «L’ho abbandonata, e lei ora è lì, tutta sola, nel ventre della balena…»
Questa idea, l’idea di lei tutta sola sepolta nel ventre di un mostro ben peggiore di una balena, uno dal quale non esisteva nessuna possibilità di fare ritorno, non mi dava tregua.
Gemetti di dolore. Era stato molto più conveniente, per me, recitare la parte della vittima, del figlio abbandonato a se stesso. Adesso, invece, nella mia testa, cercava di prendere forma un’altra verità. Lei era stata la vera vittima. Lei, quella ad essere stata ignorata. Lei, quella ad essere stata abbandonata.
Il gemito divenne un urlo di rabbia. Colpii le piastrelle davanti a me con il pugno, una, due, diverse volte. Infine mi coprii il viso con le mani e piansi amaramente. Mi lasciai cadere sul pavimento piastrellato della doccia e restai così, seduto, il corpo scosso dai singhiozzi, mentre l’acqua della doccia continuava a scivolarmi addosso ed io ripetevo debolmente, all’infinito: «L’ho abbandonata… l’ho abbandonata…»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Peppino il pescatore ***


Tutto era esattamente come le immagini prodotte dalla mia mente per merito dei racconti di Geppetto  mi “ricordavano”.
Luoghi e persone mi erano divenuti così familiari da darmi l’impressione di esserci nato io stesso, in quel posto. Riconobbi la piazza ciottolata a forma circolare, circondata dai negozietti caratteristici. L’edicola era sempre gestita dal rubicondo Saverio, con i suoi inequivocabili baffi rossicci alla cosacca. Il ristorante “Da Chesco” esisteva ancora, come anche la frutteria, il fioraio e il piccolo negozio di alimentari. Al posto della merceria era comparso un negozio di abbigliamento, che vendeva anche costumi da bagno e tutto l’occorrente per il mare. E il bar, l’unico in tutto il paese, ospitava ai tavoli esterni i soliti nullafacenti. Dalla piazza, situata a metà del pendio su cui il paese era stato costruito, si vedeva il mare.
Avevo parcheggiato la macchina ed ero sceso a respirare l’aria salmastra che proveniva dal basso.
Affacciandosi dal parapetto in legno che delimitava la parte più esterna della piazza, si poteva scorgere il famoso camminamento alberato che costeggiava la spiaggia, meta serale ambita delle coppiette innamorate. L’intensa fragranza dei tigli in fiore si mischiava con quello pungente della salsedine, e mi investì con prepotenza. Ma era un profumo dolce, che mi inebriava e mi riempiva l’animo di un sentimento di pace.
La piccola baia, chiusa da rocce bianche di falesia su cui boschi di pini e tigli spiccavano con prepotenza con il loro verde scuro, era caratterizzata dalla spiaggia di ciottoli calcarei, bianchissimi e levigati. E il mare limpido, cristallino, sotto il quale si distingueva chiaramente il fondale di sassi, si fondeva armoniosamente con l’azzurro intenso del cielo.
Decisi di lasciare la macchina nel parcheggio e di proseguire a piedi. Mi inerpicai per le strette stradine; imboccai deliziosi vicoli dove, dai balconi delle vecchie casette in sassi, rigogliose piante di surfinia si alternavano a quelle dei gerani, in un festoso coacervo di colori.
Tutt’intorno regnava una piacevole quiete che mi rinfrancava oltre modo. Solo il gorgoglio di una fontanella, addossata ad una delle caratteristiche case, con il suo stillicidio perenne, spezzava quel silenzio assoluto senza però incrinarlo.
Le strade erano ombreggiate e umide; l’aria si incanalava nelle vie dando vita a deliziose correnti fresche che donavano sollievo dal caldo già opprimente, nonostante fosse giugno.
Non ero abituato a tutta quella quiete, che mi rinfrancava sopra ogni dire. Ora capivo perché Geppetto ne parlasse sempre con tanto fervore. Peccato che avesse lesinato con altrettanto fervore informazioni sulla figlia. Sapevo davvero poco, di lei. Non sapevo dove abitasse, che lavoro facesse, quali fossero le sue abitudini. Insomma, avrei potuto impiegare giorni per rintracciarla. E chiedere di lei agli abitanti del paese non mi sembrava una buona idea. Volevo parlarle privatamente, senza sbandierare ai quattro venti il motivo della mia visita. Perciò, quando in fondo alla strada di una delle vie ciottolate che salivano verso la cima del colle, appeso alla persiana di una delle finestre superiori di una piccola palazzina, vidi il cartello di affittasi, presi la palla al balzo. Non sarebbe stato difficile incontrare Marina in un paese così piccolo e, nel frattempo, cosa mi impediva di godermi un po’ di quella pace?
Il cartello diceva semplicemente: AFFITTASI MESI ESTIVI. CHIEDERE DI PEPPINO AL BAR.
Sorrisi. Peppino il pescatore, probabilmente. Mi avviai di nuovo verso la piazza, mentre nella testa prendevano forma le immagini di alcuni aneddoti simpatici che Geppetto mi aveva raccontato di quell’uomo singolare.
 
Era sorprendente constatare come la maggior parte delle cose di cui avevo udito narrare tante volte avessero conservato il loro aspetto originale a dispetto degli anni passati. All’interno del bar, un jukebox straordinariamente funzionante e “aggiornato” cantava una modernissima We are young dei Fun., mentre un gruppetto di ragazzini giocava col bigliardino disposto in un’appendice laterale del locale che dava all’esterno, spazio riparato da un pergolato su cui si era avviluppata con tenacia una rigogliosa pianta di glicine. Nell’angolo opposto al bigliardino, un attempato giovanotto che sembrava essere uscito da un episodio di Fonzie, faceva trillare un flipper.
A dire il vero, tutto il locale sembrava appartenere ad un’altra era.
Fui accolto dagli astanti con un improvviso silenzio carico di sguardi. Non si vedeva tutti i giorni uno straniero da quelle parti. Quelli, gli stranieri,  affollavano il ristorante di fronte e la gelateria ai piedi del paese, che si affacciava sul mare. Ma difficilmente entravano nel bar, frequentato quasi esclusivamente dagli abitanti della zona. Detestavo sentirmi osservato. Mi sforzai di ignorare gli sguardi e mi avvicinai al barista, un omone alto e panciuto con un grembiule stretto in vita che rievocava un’inquietante figura da macellaio. Ovviamente avevo sentito parlare anche di lui, ma di persona era decisamente più impressionante. In vetrina erano stati disposti tramezzini di ogni tipo, e solo in quel momento mi resi conto di quanto fossi affamato. Me ne feci quindi servire un paio insieme ad una birra e, mentre aspettavo la mia spina, ne approfittai per farmi una panoramica del locale in cerca del mio uomo.
Almeno un paio di quelli seduti ai tavoli esterni avevano le caratteristiche dell’anziano pescatore di Genzio. Uno in particolare. La pelle aveva l’aspetto di un foglio accartocciato e poi riaperto, e conservava il colore bruciato di anni di bagni di sole. Gli occhi erano piccoli e vivaci, lo sguardo penetrante. Consumai in fretta quel pasto frugale, e quando fu il momento di pagare chiesi di Peppino al barista-macellaio. Che mi indicò il vetusto con un cenno del capo, borbottando qualcosa di incomprensibile.
Ringraziai e mi avviai fuori. Mi fermai dinanzi al pescatore, che era impegnato in una fitta conversazione con un altro matusalemme, il quale non aveva l’aria di uno che stesse ascoltando, sebbene annuisse di continuo. Teneva la testa poggiata su un pugno e gli occhi chiusi. In effetti, a guardarlo da vicino, era chiaro che non stesse annuendo: la testa gli ciondolava di continuo in avanti, appesantita dal torpore.
«È lei il signor Peppino?» chiesi quindi all’anziano ciarliero. Quello sollevò lo sguardo su di me, stringendo gli occhi e riducendoli a due fessure strettissime.
«Chi lo vuole sapere?» chiese a sua volta, sospettoso.
«Mi chiamo Fabio Mastieri» mi presentai porgendogli la mano e mentendo spudoratamente sul cognome. Me ne pentii subito, rendendomi conto che non ci avrei fatto una bella figura in seguito, se quello mi avesse chiesto i documenti per regolamentare il contratto d’affitto. E in quel preciso istante fui assalito da un dubbio atroce, un dubbio che riguardava la certificazione antimafia che l’affittuario aveva la facoltà di richiedere alla prefettura.  
Sentii un tuffo al cuore, e iniziai a sudare freddo. Perché accidenti non ci avevo pensato prima? Se avevo stabilito di parlare con discrezione a Marina, senza sbandierare il mio passato da carcerato, avevo probabilmente scelto il modo peggiore di farlo. Il vecchio si accorse del mio disagio, perché mi chiese sarcastico: «Oh, mica mi vorrai svenire davanti.»
«Svenire? Perché dovrei?» farfugliai stizzito. Il vecchio pescatore fece spallucce. Fissò la mia mano ma non la strinse, e dopo un po’ la ritirai mortificato.
«Te lo dico subito. Se è per l’affitto possiamo parlarne, per tutto il resto non sono interessato…» enunciò in tono burbero.
«È per la casa. Vorrei prenderla in affitto per qualche giorno.»
«Ah! Quand’è così siediti pure, ragazzo mio. Perché non lo hai detto subito, anziché startene lì impalato a fissarmi con quella faccia da fesso? Siediti, dai…» mi invitò gaio, facendo stridere una seggiola di plastica che mi mise praticamente sotto il sedere.
Sedetti mogio. Cercavo con frenesia un modo di tirarmi fuori dall’impiccio in cui mi ero cacciato.
«Allora, te lo dico subito, prima di discutere di soldi e tutto il resto. Non intendo fare contratti. Ce la sbrighiamo io e te, con un accordo a voce. Capito?»
Spalancai la bocca. Non poteva credere di essere stato così sfacciatamente fortunato. Un segno del destino, mi dissi. Di nuovo, l’arzillo vecchietto si accorse del mio stupore, perché strabuzzò gli occhi ed esclamò: «Oh, sicuro di stare bene?»
«Come? Sì, bene… Fa un caldo pazzesco oggi, o no?»
«Te lo dico io che ti ci vuole: una birra ghiacciata ti ci vuole» e così dicendo si alzò, entrò nel bar e ne uscì un istante dopo con tre boccali di birra. La sua la trangugiò con una rapidità incredibile, seguito dal suo compare.
«Allora, hai capito la questione del contratto? Niente burocrazia, né perdite di tempo e di soldi inutili. Intesi?» ribadì con enfasi.
«Per me va bene.»
< Risi di gusto. Mi piaceva il modo diretto di fare di quell’uomo, anche se un po’ ruvido. «Non ho bambini. Nessuna famiglia.»
«Amici? Perché te lo dico subito, in casa evitate di fare orge o cazzate simili. Sotto ci abita una brava famigliola, e non mi va di crearle problemi.»
«Sono solo!» mi affrettai a precisare, visto la piega che stava prendendo il discorso. A quel punto, però, il pescatore corrugò la fronte e tornò ad essere sospettoso.
«E per quanto tempo ti serve la casa?» domandò, penetrandomi con gli occhi.
«Dipende… Una settimana… forse due…»
«Dipende da che?»
Mi passai una mano sul mento. Iniziavo ad averne abbastanza di quell’interrogatorio. Mi feci glaciale. «Dipende» tornai a ripetere freddo.
«Figliolo, non te la devi mica prendere. Si tratta di darti in consegna il mio immobile sulla fiducia. E io ci tengo a quella casa. Un minimo di informazione su di te la devo pure prendere, no? E te lo dico subito, mi fa un po’ strano che un ragazzo giovane si venga a chiudere in questo buco dimenticato da Dio e dagli uomini tutto da solo…»
«È tutto ciò di cui ho bisogno al momento. Di stare solo in un buco dimenticato da Dio e dagli uomini…»
Il pescatore restò ancora un po’ a fissarmi, poi sembrò animarsi.
«Non sarai mica uno di quegli artisti un po’ strambi in cerca di ispirazione. Non è che mi ritrovo la casa imbrattata di colori che non si tolgono più… Come si chiamano quei colori dei pittori strambi?»
«Colori ad olio?» suggerì il compare, uscito chissà come da un coma profondo indotto da un numero spropositato di boccali di birra.
«Ad olio, esatto. Le tempere le lavi via, ma quelli ad olio…»
«Non sono un pittore» lo rassicurai. «Diciamo che in questo momento sto cercando di dare un senso alla mia vita… ritrovare la mia identità… Di riscrivere la mia storia, ecco.»
«Ah, ma perché non lo hai detto subito? Sei uno scrittore!» proclamò il vecchio, sicuro di sé.
«Scrittore? No… non scrivo… »
«Tranquillo, qui troverai di nuovo l’ispirazione e tornerai a scrivere. Sicuro. Anzi, sai che ti ci vuole per iniziare a riprendere fiducia in te stesso? Un bel boccale di birra!» esclamò, e senza darmi tempo di ribattere si alzò di nuovo e tornò nel bar, per uscirne poco dopo con tre nuovi boccali di birra. Che stavolta tracannai tutto d’un fiato, battendoli entrambi sul tempo.
Stavo iniziando a prenderci gusto. Il sole aveva cominciato a picchiare di brutto, e il caldo afoso a farsi opprimente. Grossi goccioloni di sudore mi scendevano lungo la pancia e la schiena, appiccicandomi addosso la camicia di cotone. La birra mi donò un istante di refrigerio. La testa mi si fece leggera, e fui presto pervaso da una sensazione di calma e di fiducia.
Quel vecchio aveva avuto un’idea geniale al posto mio, e me l’aveva suggerita. Di più, mi aveva fabbricato un’identità su misura, e me l’aveva cucita addosso. Interpretai anche quello come un segno del destino. Perciò colsi l’occasione al volo.
«Non ti sfugge proprio niente a te, eh?» dissi ammiccando.
«No no, sono un tipo sveglio io. E te ce l’hai stampato in faccia che sei uno scrittore.»
Mi sporsi in avanti divertito e lo guardai con curiosità.
«E da cosa lo hai capito?»
«C’hai quell’espressione tipica dello scrittore maledetto, con quell’aria da bel tenebroso…»
«Devi averne conosciuti parecchi di scrittori.»
«No, te sei il primo.»
«Ah… Davvero arguto.»
«Ecco, lo vedi? Da questo genere di cose si capisce che sei uno scrittore. Arguto, è una parolona difficile… Che accidenti significa?»
«Significa che sei un tipo sveglio…» bofonchiò l’amico, per poi ripiombare in uno stato catatonico.
Sorrisi a trentadue denti, allargai le braccia e sentenziai entusiasta: «Esatto!»
«Certo che lo sono. Non mi sfugge proprio niente, a me…» dichiarò il vecchio sorridendo a sua volta, scoprendo due file di gengive disseminate da una manciata di denti marci.
«Sono un tipo sveglio, io. E sento le cose prima che accadano. Come quella volta che mi rifiutai di uscire in barca, e venne giù l’ira di Dio. Me la scampai bene, quella volta. O come stamattina, quando sei arrivato con quel catorcio di macchina. Me lo sentivo che avrei finalmente affittato quella dannata casa. A pensarci bene, potresti scriverci un libro, su di me.»
Ero a conoscenza di quell’episodio, dell’episodio del suo scampato pericolo in mare a cui si riferiva. Geppetto, ovviamente, me ne aveva parlato. Lui era appena un bambino quando la tempesta che si abbatté sulle coste centrali dell’Adriatico decimò le barche da pesca della zona. Quella di Peppino fu in effetti una delle poche ad essere risparmiata. Ma la versione che conoscevo io differiva sensibilmente da quella del pescatore. Peppino era stato risparmiato dalla furia del mare perché impegnato a ingurgitare barili di birra.
Per dirla tutta, quando il giorno successivo alla tempesta si era risvegliato coi postumi della sbronza, dell’evento funesto non conservava nessuna, memoria visto che, in pratica, quel giorno non era uscito in mare. Se era a conoscenza dei particolari di quello che accadde, lo doveva a ciò che gli fu raccontato in seguito dagli abitanti del paese.
Geppetto aveva saputo descrivere il vecchio pescatore in maniera ineccepibile. Peppino era un uomo decisamente singolare. Sprizzava energia da tutti i pori. Lo fissai con più attenzione, e non mi sorpresi di notare che non sudava. Io ero lì, che boccheggiavo come un pesce fuori dall’acqua, e quel vecchietto senza età non sembrava nemmeno accorgersi che la temperatura si era fatta terribilmente alta. Pensai divertito che, se fossi stato davvero uno scrittore e avessi saputo scrivere, sarebbe stato interessante renderlo protagonista di un romanzo.
«Però te lo dico subito: su di me non devi scrivere balle. La mia storia te la racconto io, non fartela raccontare in giro…»
«Contaci.»
«Bene allora, affare fatto. Ti sei aggiudicato la casa.»
«Fantastico!» esclamai entusiasta. «Lo sai cosa ci vuole a questo punto?» suggerii scattando in piedi.
«Un’altra birra…» intervenne il comatoso. Lo indicai con il pollice, guardai il pescatore con occhi ridanciani e dissi: «È un tipo sveglio pure lui. Siete fratelli, per caso

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La stravagante gente di Genzio ***


Mi sentivo leggero ed euforico. Era una sensazione meravigliosa. Era come sentirsi finalmente a casa. Anzi, mi sentivo più a casa in questo paese sconosciuto di quanto non mi fossi mai sentito nella mia città natale.
Mentre procedevo tra i freschi vicoli del paese, di tanto in tanto facevo tintinnare le chiavi che tenevo nella tasca dei jeans, soddisfatto dell’esito che aveva avuto quella giornata. Era ormai tardo pomeriggio, e le stradine ciottolate, che al mio arrivo erano sembrate desolatamente vuote, si erano animate di seggiole e matrone indaffarate in cicalecci più o meno bisbigliati. Al mio passaggio, come mi era già capitato nel bar qualche ora prima, le chiacchiere si erano interrotte e le donne avevano alzato su di me uno sguardo glaciale e guardingo. Tentai un debole approccio alzando timidamente il braccio in segno di saluto e abbozzando un sorriso cortese, ma quelle rimasero ostinatamente seriose.
Mi strinsi nelle spalle e continuai per la mia strada.  Avevo già pagato al vecchio pescatore l’affitto di una settimana e intendevo godermi sette giorni di assoluto relax, che agli abitanti del paese piacesse o meno.

Entrato nell’appartamento, ebbi appena il tempo di percepire il sentore di aria viziata. Non mi misi a esaminare le stanze. Depositai il borsone che conteneva i miei quattro stracci sul pavimento all’entrata, andai in cerca del bagno, espletai bisogni fisiologici e mi diressi direttamente nella camera; mi gettai di peso sul letto e lì mi addormentai in men che non si dica, ancora vestito e con le scarpe ai piedi.
Dormii un giorno intero. Ne avevo un  gran bisogno. Mi svegliai madido. Il lezzo di sudore era andato a mischiarsi agli altri sgradevoli odori che appartenevano alla casa, ammorbando ulteriormente l’aria.
Stentai a crederci quando controllai l’ora: le sette di sera. Mi alzai pieno di dolori, con un cerchio alla testa e la bocca impastata. “Ecco cosa succede a chi non beve alcolici da una vita e decide di rifarsi tutto una volta”, mi dissi.
Andai ad aprire la finestra; una gentile brezza mi lambì la pelle. Chiusi gli occhi e mi lasciai deliziare da quella fresca carezza. In strada, le matrone avevano già preso le stesse postazioni del giorno precedente. Qualcuna sollevò gli occhi su di me ed io mi ritirai, per nulla ansioso di essere fatto nuovamente oggetto di occhiatacce malevole. Lo stomaco si contorse dalla fame. Dovevo provvedere a riempirlo al più presto. Presi dallo zaino un cambio pulito e mi infilai sotto la doccia, dove rimasi a lungo. Per fortuna, i precedenti inquilini avevano lasciato un flacone di bagno schiuma. La barba, invece, avrebbe dovuto aspettare. Nell’armadietto sopra il lavandino avevo trovato delle lamette, ma quelle mi rifiutai di usarle. Chissà a chi erano appartenute…
Prima di uscire, diedi un veloce sguardo all’appartamento: una camera da letto, un piccolo soggiorno, uno stretto cucinino e un bagno con una vasca smaltata piuttosto consumata. L’arredamento era spartano e ridotto all’essenziale. La casa era senza pretese, ciò nonostante sorrisi soddisfatto: era molto più di quanto avrei potuto desiderare, considerato dove avevo passato gli ultimi anni della mia vita.
Appena misi il naso fuori dal portoncino, il chiacchiericcio delle donne si interruppe, ed io abbassai il capo imbarazzato. E quando quelle mi salutarono tutte allegre, le guardai parecchio sorpreso. Piacevolmente sorpreso. Ricambiai saluti e sorrisi, e mi avviai pimpante verso la piazza. Era tardi per fare la spesa, e poi non avevo nessuna voglia di chiudermi in casa. Avevo bisogno di respirare aria fresca a pieni polmoni, di sentire il vuoto intorno a me, di sentirmi circondato da spazi aperti, e non da mura.
Decisi di mangiare un boccone al ristorante.
La piazza era gremita di gente che chiacchierava seduta alle panchine disposte su tutto il suo perimetro, a intervalli regolari. Anche qui fui accolto benevolmente da ossequiosi saluti, ai quali risposi con entusiasmo. Era bello essere trattato con simile ospitalità. E quando entrai nel locale, poco ci mancò che mi srotolassero il classico tappetino rosso sotto i piedi. Questo mi parve un po’ eccessivo, ma decisi di approfittare di tutta quella cortesia senza pormi troppi interrogativi. Sedetti ad uno dei tavoli esterni e mi concedetti una cena luculliana a base di pesce, gustandomi senza fretta ogni singola portata.
Quanto tempo era che non facevo un pasto decente, a parte quello consumato da mia zia il giorno del mio rilascio, pochi giorni prima? E quando mi recai a pagare il conto, il proprietario del ristorante mi elargì un sorriso a trentadue denti e disse gioviale: «Ci mancherebbe che le facessi pagare la cena. Per questo ristorante, il ristorante da Chesco, è un vero onore averla ospitata. Spero che ci verrà a trovare tutti i giorni. Il ristorante da Chesco sarà lieto di mettersi a sua disposizione…»
Spalancai la bocca. Ora era decisamente troppo. Che stava succedendo?
«Non capisco… Insomma, la ringrazio della cortesia, ma non credo che…»
«Ah, ma non lo dica nemmeno, caro mio. Non deve mica sentirsi obbligato chissà in quale modo. No no, davvero! Se questo è il messaggio che le ho dato me ne dispiaccio e le porgo le mie più sentite scuse…»
Ero sempre più confuso, ma a quel punto avevo solo un desiderio: allontanarmi da lì. Il padrone del locale mi porse la mano con un sorriso smagliante; io, nel tentativo di restituirglielo, atteggiai le labbra in qualcosa di simile ad un aborto di sorriso. Strinsi a disagio la mano ed uscii dal locale, con la coda tra le gambe.
C’era qualcosa che non tornava, in tutta quella spropositata ospitalità, ma cosa? Lo scoprii nella gelateria ai piedi del paese, quella che si affacciava sul mare. Erano anni che non assaggiavo un gelato, come avrei potuto resistere alla tentazione? Il locale era affollato, e quando, dopo una fila interminabile, arrivò il mio turno di mettere mano al portafogli, la ragazza alla cassa mi sorrise gentilmente.
«Lei è lo scrittore, vero?» mi disse, ed io mi sentii sprofondare. Ecco svelato il mistero.
«Scrittore? Oddio, no, non direi proprio…» farfugliai timidamente. Ma la ragazza annuì con fare comprensivo, allargando ulteriormente il sorriso.
«Sì sì, lo so, me lo hanno detto: ha il blocco dello scrittore. Vedrà che qui le passerà. Intanto il gelato lo offre la casa…»
Restai a fissarla con una espressione da ebete stampata in faccia non so per quanto tempo. Troppo, a giudicare dal gelato che aveva iniziato a sciogliersi e dagli sbuffi poco tolleranti della gente in coda. Di nuovo, ringraziai timidamente e me ne uscii con la coda in mezzo alle gambe. Sedetti su una panchina sotto una pianta di tiglio e mi dedicai al gelato, confuso e un po’ atterrito.
Solo il giorno prima, quella di essere scambiato per uno scrittore in crisi mi era sembrata un’idea geniale, e ora invece…
Geppetto mi aveva parlato della stravaganza degli abitanti di Genzio ma, a quanto sembrava, aveva omesso un particolare importante: erano tutti pazzi. Più cercavo di negare, più si ostinavano a darmi del romanziere. Scossi il capo, sospirando. Cercai di non pensarci. Mi concentrai sull’immensa distesa di acqua scura sulla quale sbrilluccicava il riflesso di centinaia di stelle.
Il mare sbuffava placidamente mentre le onde si infrangevano sulla battigia. Il suo ritmico sospirare era sovrastato da suoni decisamente meno melodiosi prodotti dalla folla. La gente passeggiava serena sul camminamento alberato e in riva al mare, godendosi la frescura serale; a turni sfilavano davanti ai miei occhi famigliole di turisti con bambini festosi e comitive di giovani allegri; vecchietti concentrati in accese diatribe e coppie di innamorati che si scambiavano languide occhiate.
Mi accorsi del trascorrere del tempo quando la gelateria chiuse i battenti. Lentamente, la confusione andò assottigliandosi e, ben presto, quelle delle onde del mare furono le uniche voci protagoniste.
In spiaggia era rimasta una sola coppietta. Era un po’ che li osservavo, affascinato dalle effusioni amorose che si scambiavano. Erano arrivati tenendosi per mano, si erano fermati dinanzi a me senza però accorgersi della mia presenza, presi com’erano l’uno dell’altra. Si erano scambiati un lungo bacio appassionato, che si era ripetuto all’infinito nella più totale immobilità dei loro corpi. Poi si erano seduti sui sassolini bianchi, e avevano ripresero a baciarsi. Un attimo dopo si erano distesi. E qui lo scenario si era fatto più ardito. Ero completamente rapito dal movimento delle loro mani, che esploravano ansiose, sempre più ingorde. Viso, capelli, collo, gambe, fianchi, ogni centimentro di corpo venne scrupolosamente esaminato, fino a quando le mani di lui si posarono sui seni della ragazza.
Quella scena mi provocò non poco turbamento. Buttai fuori l’aria dai polmoni con un sonoro wow.
Li invidiavo. Erano giovanissimi, quasi due ragazzini, probabilmente ai primi approcci col sesso, così belli, vibranti, passionali… Cercai di ricordare la mia prima esperienza con una donna. Dovetti scavare molto nella mia memoria: era passato un mucchio di tempo non solo dalla prima volta che avevo fatto sesso, ma anche dall’ultima. E, comunque, per quanto cercassi di ricordare, le mie avventure erotiche erano state tutte piuttosto squallide. Niente che si avvicinasse nemmeno lontanamente a qualcosa di così intenso e puro, come il momento che questi due ragazzi si stavano dedicando.
Ma era il loro momento, ed era giusto che se lo godessero da soli, senza nessuno a spiarli. Perciò mi alzai in piedi e feci per andarmene. Prima, però, mi fermai a dare ai due amanti un’ultima, fugace occhiata.
«Godetevela, ragazzi» bisbigliai con un pizzico di malinconia, e me ne andai.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Marina ***


I giorni passavano con una velocità incredibile, come succede di solito quando si sta bene, ma di Marina nemmeno l’ombra.
Avevo suddiviso le mie giornate in appuntamenti fissi: la mattina molto presto scendevo in spiaggia e mi concedevo il lusso di lunghe nuotate, per rimettere in sesto i muscoli rilassati, impigriti da anni di sciopero forzato. Tornavo a casa appena i bagnanti iniziavano ad affluire e, dopo la doccia, uscivo nuovamente per dedicarmi a escursioni rupestri, o andavo nei centri commerciali delle città più vicine a fare acquisti. Ero stato costretto a rinnovarmi il guardaroba, dal momento che i pochi indumenti che avevo erano, oltre che datati, anche decisamente troppo abbondanti. Dopo pranzo, di solito, mi mettevo a leggere, disteso sul divano della sala, con la televisione accesa. Non la guardavo, ma avevo bisogno di sentirla chiacchierare per concentrarmi seriamente nella lettura, e questa era una di quelle abitudini prese in carcere che faticavo a lasciarmi dietro.
Avevo iniziato a leggere Pinocchio, il libro che mi aveva donato Geppetto, non tanto per il suo contenuto ma perché, in qualche nodo, mi faceva sentire più vicino al mio vecchio compagno di cella, che mi mancava terribilmente.
Nel tardo pomeriggio mi recavo al bar, dove mi divertivo ad ascoltare le bizzarre storie di Peppino e di tutti gli avventori abitudinari del locale, i quali speravano, con i loro racconti originali e spesso grotteschi, di impressionarmi, così da essere ricordati e menzionati nel libro che continuavano a credere stessi scrivendo, o che avrei scritto presto. Ogni giorno mi chiedevano se mi fosse tornata l’ispirazione, e quando rispondevo di no mi elargivano pacche benevole e frasi di incoraggiamento: l’ispirazione sarebbe tornata.
La loro ostinata ingenuità mi commuoveva, per certi versi.
Fu questo, credo, che mi spinse a comperare un quadernino sul quale iniziai a scribacchiare appunti, dapprima per un assurdo senso di dovere nei confronti dei simpatici paesani, in seguito con convinzione. Ci presi tanto gusto che iniziai a portarmelo dietro dovunque, dando così l’impressione che fossi finalmente “guarito”.
Scrivere si rivelò presto una gradita sorpresa. Mi purgava. Mi faceva stare bene. Scrivevo di tutto: riflessioni, descrizioni, appunti. Scrivevo di Genzio e dei suoi abitanti, ma anche di me, della mia adolescenza, della vita in carcere. E scrivevo anche di mia madre, per la quale continuavo a nutrire sentimenti contrastanti. La cosa che più mi faceva rabbia, era che se ne fosse andata senza avermi dato l’opportunità di parlarle, di chiederle scuse, di dirle quanto la amassi… Mi aveva abbandonato di nuovo, in maniera definitiva, rafforzando in questo modo il mio rancore nei suoi confronti.
Dopo cena, di solito, mi recavo di nuovo in spiaggia a scambiare altre chiacchiere con gli abitanti del paese, o semplicemente ad osservare la gente godersi gli ultimi istanti della giornata.
Tuttavia, nonostante tutte le chiacchiere e il tempo che passavo fuori di casa, Marina continuava a rimanere nascosta. Non mi riuscì mai di vederla, né nessuno mi parlò mai di lei. Eppure, della figlia di un carcerato, un ex poliziotto che doveva averla combinata bella grossa per essersi beccato venti anni di galera, mi sarei aspettato almeno un cenno, una chiacchiera, un pettegolezzo. Invece niente, tanto che iniziai a credere che, dopo la morte della madre, si fosse trasferita altrove. Decisi allora che avrei provato a fermarmi qualche altro giorno prima di arrendermi del tutto, tornare a casa e cominciare a darmi da fare a cercarmi un lavoro.
Fu proprio all’inizio della seconda settimana di permanenza che feci l’incredibile scoperta. Quel pomeriggio non ero uscito di casa. Ero sul divano che finivo di leggere il libro di Geppetto con la televisione in sottofondo, come al solito. Tutte le finestre di casa erano spalancate per far circolare l’aria. Dalla strada giungevano le consuete chiacchiere delle comare. Le loro voci arrivavano indistinte, ovattate. Ero totalmente disinteressato ai loro discorsi, ma quando qualcuna pronunciò il nome di Marina, la mia attenzione fu totale. Smisi di leggere, sollevai la testa, drizzai la schiena e le orecchie e rimasi in attesa, concentrato. E quando sentii la voce di una ragazza rispondere, mi alzai di scatto e corsi in camera, alla finestra. Mi affacciai col cuore in gola. Marina stava tentando di aprire il portoncino di una delle case di fronte a quella dove alloggiavo io, pochi metri più a valle. Ogni tanto si voltava e scambiava parole e sorrisi con le anziane compaesane, le quali sembravano pendere dalle sue labbra.
Ero emozionato. E sorpreso. L’avevo cercata in lungo e in largo, e lei si trovava a due passi da me. La studiai a lungo, avidamente. Dal vivo era ancora più bella che in foto. Teneva i lunghi capelli biondi legati, e indossava una gonnellina ampia di cotone e una camicetta attillata, che le metteva in risalto le curve generose del seno. Calzava dei sandali aperti, e pensai che aveva dei piedi graziosi. Con mio grande rammarico riuscì ad aprire la porta -sarei rimasto ad osservarla all’infinito- e, prima di entrare, tornò a voltarsi un’ultima volta verso le donne, con un ampio sorriso sulle labbra. Poi, come se si fosse sentita chiamare dal mio sguardo, sollevò gli occhi su di me. Io rimasi immobile, impietrito, incapace di muovere un singolo muscolo.
Marina increspò le sopracciglia, forse sorpresa dalla sfacciata invadenza con la quale continuavo ad osservarla, ma distolse subito lo sguardo e infilò la porta d’ingresso.
Iniziai a percorrere in lungo e in largo l’appartamento, agitato. Non sapevo cosa fare. Non mi sembrava opportuno scendere e bussare alla sua porta davanti a decine di occhi curiosi, anche se avevo una voglia matta di farlo. Tornai ad affacciarmi cercando di rimanere nascosto, e sbirciai l’interno delle sue finestre. Gli scuri erano stati aperti. Un’anta della persiana al piano terra era stata appoggiata al muro esterno, probabilmente il legno marcio aveva ceduto all’altezza dei cardini.
Passai il resto della serata a dedicarmi a questa nuova attività: lo spionaggio. Verso le dieci di sera, Marina uscì di casa, si fermò a scambiare due parole con le donne che di solito restavano fuori fino alle undici, chiuse di nuovo le persiane incastrando quella rotta al posto che gli competeva, e tornò dentro.
Quella notte dormii poco e male, preso com’ero dall’eccitazione. La mia mente galoppava frenetica, i pensieri si ammucchiavano indisciplinati. Iniziai ad immaginare qualsiasi tipo di situazione: io che andavo a bussare alla sua porta per parlarle di perdono e misericordia; io e lei seduti ai tavolini del ristorante in piazza, impegnati in una galante conversazione; lei che mi ringraziava di essere stato così premuroso nei confronti del padre, e di averla fatta ragionare, di averle fatto capire quanto il padre avesse bisogno di lei. Elaboravo discorsi strappalacrime, scegliendo accuratamente le parole, ripetendomele all’infinito per memorizzarle, fino a che scivolai esausto in un breve sonno agitato. E qui lo scenario assunse connotazioni tutt’altro che cavalleresche. I sogni, si sa, spesso rappresentano desideri repressi, inconfessabili, e lo fanno liberamente, senza inibizioni.
Avevo già fantasticato su me e Marina in carcere, nei momenti in cui mi concedevo un po’ d’amore con me stesso. Fino a quando, con mio enorme disappunto, Geppetto non si era accorto degli sguardi insistenti che dedicavo alla figlia, e aveva deciso di relegarla dentro le pagine ingiallite di uno dei suoi libri. In seguito avevo smesso di usarla nelle mie fantasticherie erotiche, soprattutto per rispetto nei confronti di Geppetto. Fino a quella notte...
Sognai di tenerla tra le braccia, i nostri corpi distesi sui ciottoli bianchi in riva al mare, le mie labbra sulle sue, le mie dita tra i suoi capelli, sul suo viso, sui suoi seni. Mi svegliai di soprassalto, turbato e confuso, e mi vergognai di me stesso.
Era l’alba, e decisi di rimettere in riga i sensi con una doccia fredda. Sensi e pensieri. Ero indeciso sul da farsi, non sapevo quale tipo di approccio usare con lei. Tutti i propositi e i discorsi ripassati mentalmente con febbrile ossessione appena poche ore prima, erano sfumati via, dileguati insieme alle tenebre della notte. Sapevo solo che dovevo sbrigarmi a portare a termine ciò che mi ero prefisso: parlare con Marina e restituire il favore al mio vecchio compagno di cella. Che era poi il motivo per cui mi ero spinto fino a lì. Eppure, per la prima volta, riflettei onestamente su una questione che mi ero rifiutato di ponderare fino a quel momento: e se, invece, quello fosse stato solo un pretesto?
Passai il giorno bighellonando in giro senza meta né costrutto. Evitai le chiacchiere al bar; avevo bisogno di riflettere, di stare per conto mio. Dalla piazza presi il sentiero occidentale che portava in cima al colle, dove c’era una piccola chiesa di stampo medievale circondata da un fitto bosco di tigli. C’ero già stato qualche giorno prima. Lì passai buona parte del pomeriggio, assorto in un silenzio meditativo che, se anche non mi portò a soluzioni di sorta, mi rigenerò nello spirito.
A risolvere il mio dilemma ci pensarono le matrone sotto casa. Erano quasi le sette di sera, lo stesso orario in cui Marina era rincasata la sera prima. Anche se non lo avevo fatto intenzionalmente, rincasare a quell’ora si dimostrò provvidenziale. Al mio arrivo, fui accolto dalle simpatiche anziane con i soliti sorrisi e le domande di rito sul libro-quadernino che stavo scrivendo. Dopo pochi minuti di chiacchiere, già non ne potevo più. Ero sudato, iniziavo a emettere un odore sgradevole e morivo dalla voglia di mettermi sotto la doccia. Poi la vidi arrivare dal fondo della strada. Le donne continuavano a rivolgermi domande, ma a quel punto ero ormai mille miglia lontano con la testa. Una di loro, accortasi del mio interesse nei confronti di Marina, mi sorrise e mi disse qualcosa in dialetto, ma io non ne afferrai il senso.
«Come, scusi?» chiesi.
«Marina è una bella figliola. Su di lei si dovrebbero scrivere poesie, altro che romanzi… Poesie d’amore, si dovrebbero scrivere su Marina. Lei le scrive, le poesie d’amore?»
Mi grattai la testa, e sorrisi imbarazzato. «No, non credo… Cioè, non credo di essere capace di scrivere poesie, non che non si dovrebbero scrivere su di lei…» e mentre finivo di dare l’impressione dell’idiota totale, lei raggiunse la sua abitazione. Fu subito accolta da un coro di voci eccitate che la invitavano ad aggregarsi a noi. Quella che mi aveva chiesto se scrivevo poesie, iniziò a gesticolare animatamente per spronarla a raggiungerci. E quando si decise a farlo, visibilmente a disagio, si precipitarono a presentarci, tutte insieme.
«Quindi è lei, il famoso scrittore di cui si parla tanto a Genzio…» mi disse per pura cortesia, dopo i convenevoli. Aveva due splendidi occhi verdi, scuri, profondi, come laghi di montagna incastonati in fitti boschi di abeti, ed io pensai distrattamente che mi sarei immerso volentieri, in quelle acque. Scossi il capo rassegnato. «Servirebbe a qualcosa dire che “scrittore” è una definizione alquanto generosa e per nulla meritata?»
«L’artista non vede mai se stesso come tale…» fu la risposta diplomatica. “Un vero artista può anche permettersi di fare il modesto…” pensai, ma me lo tenni per me. Eravamo già a corto di argomenti, perciò ne tirai fuori uno a caso, prima che se ne andasse.
«Dovrebbe fare qualcosa, per quella…» improvvisai, indicando la persiana rotta.
«Lo so… Temo che dovrà attendere. I falegnami sono piuttosto cari, da queste parti…» farfugliò, e in quel momento mi sembrò infinitamente sola. Se avesse avuto un uomo in casa non avrebbe avuto bisogno di rivolgersi ad un artigiano per lavoretti di manutenzione come quelli.
Non ero certo un falegname ma in carcere, per una paga prettamente simbolica, mi era cimentato nei lavori più svariati, anche di falegnameria. Lo Stato ha modi migliori in cui usare i soldi dei contribuenti che impiegarli in lavori di ristrutturazione agli istituti penitenziali, perciò quei lavori vengono svolti dai detenuti stessi. E siccome desideravo prendermi cura di lei, così come avrebbe voluto fare Geppetto, azzardai: «Qualcuno poco fa mi suggeriva di scriverle una poesia. Non ne sono capace, purtroppo. Però posso fare di meglio. Se vuole posso sistemargliela io, la persiana.»
Ovviamente restò interdetta. Diede una veloce occhiata alle anziane signore, forse in cerca di quella che mi aveva commissionato la poesia, e dopo un lungo momento di esitazione disse, in tono incerto: «Lei è in vacanza, non dovrei guastargliela…»
«Mi fa piacere, invece.»
«Fa il falegname, oltre che lo scrittore?»
«In realtà faccio solo il falegname...» precisai sorridendo, suscitando l’ilarità generale. Erano tutte convinte stessi scherzando.
Le matrone la incoraggiarono ad accettare il mio aiuto, garantendo per me. Ero una persona affidabile, così premuroso e gentile… E che bel ragazzo… In pratica, stavano cercando di convincerla a prendermi in considerazione come pretendente, non come falegname. Chissà se avrebbero cambiato idea su di me, se le avessi messe al corrente del mio passato. Comunque le lasciai fare, divertito. Le indicai sorridendo e dissi: «Dia ascolto a chi le vuole bene.»
«E quanto mi verrebbe a costare?»
«Io? Mi offro gratis, non le costerò nulla.»
Le strappai un sorriso e, dopo averci ulteriormente riflettuto su, alzò le spalle.
«E va bene: è assunto.»
«Bene. Vada ad aprire le imposte, così gli do un’occhiata…»
Lei si guardò nuovamente intorno, imbarazzata, ma fece quanto le avevo chiesto, e dopo un attimo mi ritrovai con la persiana tra le mani. Il legno non era così marcio come avevo creduto. Anzi, era in ottime condizioni, senza ombre di tarli. Si erano allentate le giunture, tutto qui. Mi bastò dare un giro di cacciavite, e la persiana tornò a restare in piedi al suo posto.
«Dovrebbe dare una tiratina d’orecchie all’uomo di casa. Chiamare un falegname per una cosa del genere sarebbe stato fuori luogo…» dissi, più che altro per avere conferma che fosse single.
Conferma che mi fu data. Marina, infatti, rispose: «Temo che la tiratina d’orecchie la debba dare a me, allora… Mi sento proprio una stupida… Insomma, avrò fatto la figura dell’idiota. Per stringere delle viti non serviva proprio nessuno, potevo farlo anche da sola…»
«Ora non sia così severa con se stessa. E poi, se ci avesse pensato lei, non avrei potuto esibire le mie capacità.» Poi mi avvicinai a lei un po’ di più e bisbigliai: «Sa, credo che queste simpatiche signore stiano cercando di sistemarmi… Per qualche ragione si sono convinte che io sia un ottimo partito, e non mi andava di deluderle…»
Marina proruppe in una risata cristallina che mi rinfrancò. Era così bella… La fissai a lungo, estasiato. Infine mi feci coraggio e le proposi, tutto d’un fiato: «Le andrebbe di cenare con me stasera? Conosco un ristorantino nella piazza del paese davvero delizioso, dove si mangia un ottimo pesce.»
«Quello di fronte al bar?» chiese in tono scherzoso, reggendo il gioco.
«Lo conosce anche lei? Ed io che credevo di avere l’esclusiva…»
Marina ci pensò appena un attimo e poi rispose, semplicemente: «Perché no?»

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Come in un bel sogno ***


L’aria era piacevolmente fresca, ed era satura della fragranza dei tigli in fiore. La piazza era affollata ma, come al solito, in maniera composta, dignitosa. La gente, tutt’al più, emetteva un placido brusio.
Mentre Marina parlava, ogni tanto si affacciava nella mia mente il discorso che mi ero preparato da giorni e che avevo imparato a memoria. Perfino prima di uscire di casa, dopo aver fatto la doccia tanto agognata, ero rimasto a lungo a ripetermi le parole con cui avevo scelto di parlarle, ed ora che ne avevo l’occasione non ne trovavo il coraggio.
Ma, forse, il coraggio non c’entrava niente. Marina era davanti ai miei occhi, in carne ed ossa, e parlava di sé. Finalmente avevo l’opportunità di conoscerla, di sapere chi fosse. Era meraviglioso starla ad ascoltare, non desideravo altro. Quando il senso del dovere si riaffacciava a rimproverarmi, lo scacciavo via in malo modo. Che male facevo? Geppetto per anni aveva accresciuto il mistero sulla figlia, tacendo riguardo a lei. Volevo solo completare il quadro che lui stesso aveva iniziato a dipingere parlandomi di Genzio, omettendo al tempo stesso il particolare più bello: lei.
Marina si era diplomata in agraria, anche se quel diploma non le aveva offerto molti sbocchi lavorativi. La madre malata era andata peggiorando drasticamente negli ultimi anni, così che lei aveva rinunciato all’università per starle vicino, e aveva trovato un posto in una delle biblioteche comunali di Ancona, che dista pochi chilometri dal paese. Lo stipendio era basso, ma lei era felice così. Le piaceva stare in mezzo ai libri, respirare ogni giorno l’odore della carta stampata e della polvere, camminare tra gli scaffali e prendersi cura di loro. Amava le parole scritte, molto più di quelle pronunciate.
Le lanciai un’occhiata di stupore e compiacimento, inclinando la testa di lato, e sorrisi impercettibilmente: aveva la stessa passione del padre. Marina mi sorrise di rimando, abbassò lo sguardo e arrossì leggermente.
«E tuo padre?» azzardai dopo. Lei smise di sorridere, il suo sguardo si fece duro. «Se ne è andato quando ero piccola. Non credo che avrò modo di rivederlo in futuro» rispose laconica.
«Andato dove?» tentai ancora, ma lei strinse le labbra in una smorfia di disappunto. «Se n’è andato. Dove non è una cosa che mi interessa.» ribadì con fastidio, e il suo tono mi indusse a demordere. Seguì un attimo di silenzio imbarazzato, carico di pensieri.
«E di te cosa mi dici? Qual è il tuo lavoro? Quello vero, intendo…» volle sapere dopo un po’.
«Quindi, non credi alla storia dello scrittore?» chiesi a mia volta, sorpreso. Lei scoppiò a ridere. «Direi di no, anche se ne avresti tutta l’aria.»
«Finalmente, qualcuno che lo ha capito!» esclamai sinceramente sollevato.
«Credimi, tutti gli abitanti di Genzio lo sanno. La loro è solo una fantasticheria collettiva.»
«Che vuol dire?»
Marina scrollò le spalle. «Guardati intorno. Genzio è un paesino di seicento abitanti, con una spiaggia di poche centinaia di metri chiusa da pareti rocciose, accessibile solo dalla piazza del paese. In genere i turisti ci snobbano, preferiscono affollare città come Ancona, o Fano, dove oltre al mare possono svagarsi in altri modi. Qui non succede mai niente. Di giovani ne sono rimasti pochi, e trascorrono le loro giornate nelle città, sia che lavorino o che si incontrino per svago, mentre i vecchi passano intere giornate sulle panchine a rinvangare ricordi che appartengono ad altre epoche… Tutti sanno che Peppino ama far galoppare la fantasia, ma stanno al gioco perché è bello pensare che questo piccolo paesino possa essere rivalorizzato, essere menzionato nel romanzo di un grande scrittore.»
Rimasi a lungo a riflettere su quelle parole, non sapendo bene come interpretarle. Non riuscivo a decidermi se la cosa mi dava più sollievo o fastidio. Avevo iniziato a calarmi bene nel ruolo dello scrittore maledetto, a ricavare soddisfazione nell’essere considerato tale, perché avevo scoperto che scrivere mi piaceva, e mi veniva anche piuttosto bene.
Presi a torturare l’insalata di polpo che avevo nel piatto, corrucciato, come un moccioso a cui viene di colpo proibito di giocare col suo giocattolo preferito. E nel frattempo cercai una risposta da darle. Che lavoro facevo? Cosa risponderle? Avrei voluto far finta di niente ed evitare così l’argomento, ma sapevo che non sarebbe stato possibile. Marina, infatti, continuava a fissarmi, in attesa di una risposta.
«Faccio il meccanico. Al momento, però, sto cercando di rimettermi in sesto da un periodo piuttosto negativo, perciò sono senza lavoro…» risposi evasivo. Avvertivo lo sguardo di Marina addosso, mi penetrava nelle ossa, fin dentro l’anima, e ne fui turbato.
«È a causa di una donna? È per lei che sei qui?» mi chiese a bruciapelo. Sapevo che si stava riferendo ad altro, ma pensai che, in fondo, aveva ragione: io ero lì per lei. Perciò risposi di sì.
Grazie al cielo non mi fece altre domande in proposito. Si era convinta che avessi avuto una delusione di tipo sentimentale e che mi fossi recato in quel paese per dimenticarmi di qualche ragazza, e rispettava il mio dolore. E questa cosa mi procurava un dispiacere enorme. Non mi andava di mentirle. Dovevo trovare il coraggio di dirle la verità. Tuttavia, quando mi decisi a farlo, il fiato con cui mi ero riempito i polmoni uscì dalle labbra in un sospiro privo di voce, che Marina probabilmente scambiò per sofferto stato d’animo dovuto alla delusione d’amore.
La serata proseguì piacevolmente tra chiacchiere frivole e simpatici aneddoti. Ma era mercoledì e Marina il giorno dopo si doveva recare al lavoro, perciò si concluse presto.
E una volta tornato a casa mi disprezzai. Avevo avuto l’occasione di parlarle di Geppetto, invece avevo pensato solo a me stesso. Marina mi piaceva, speravo di passare con lei altri momenti. E questo dimostrava solo una cosa: in fondo continuavo ad essere la persona che ero sempre stato. Diplomato sì, ma pur sempre un mediocre.


Passammo i giorni successivi a rincorrerci. Trovavamo ogni pretesto per vederci, anche solo per pochi minuti. Cercavo sempre di farmi trovare sotto casa al suo rientro dal lavoro, e se non mi trovava, allora era lei quella che mi aspettava, attardandosi a parlare con le matrone con la speranza di vedermi arrivare, o affacciare dalla finestra.
Qualche volta, di sera, scendevamo in spiaggia a mangiare un gelato, o una fetta d’anguria. Marina mi piaceva ogni giorno sempre di più, ed io piacevo a lei. Flirtavamo, e sebbene fosse piacevole presto divenne sfibrante. Non ci bastava più. Ogni volta che le stavo vicino, il calore del suo corpo accendeva i miei sensi, il suo odore mi inebriava. E non avevo dubbi che fosse così anche per lei.
Ecco perché quel sabato, due settimane dopo il nostro primo incontro, sapevo già che sarebbe accaduto. Lo sapevo prima di uscire di casa per recarmi alla festa della mietitura del grano, che si celebrava ogni anno e che prevedeva perfino i fuochi di artificio.
Avevamo stabilito di andarci insieme, Marina ed io, e mi sentivo eccitato come uno scolaretto al primo appuntamento. Eccitato ed atterrito allo stesso tempo. Marina era come un bel sogno da cui avevo il terrore di svegliarmi, anche se sapevo che sarebbe stato inevitabile, prima o poi. Mi ero fermato a Genzio più del consentito. Non potevo procrastinare ancora per molto. Dovevo tornare alla realtà e cercarmi al più presto un lavoro: i soldi non sarebbero durati per sempre.
E poi c’era la questione di Geppetto. A quel pensiero sentii una fitta al cuore. Mi chiesi cosa avrebbe pensato di me se lo avesse scoperto, se avesse scoperto che mi trastullavo con la figlia. Non me lo avrebbe mai perdonato, ecco cosa sarebbe accaduto. Si sarebbe sentito tradito, e l’amore che provava per me si sarebbe trasformato in risentimento e odio. Mi aveva dato tutto il suo affetto, e questo era il modo in cui lo ripagavo.
Ero davanti allo specchio dell’armadio in camera che mi rimiravo mentre mi facevo queste considerazioni, e in quel momento mi odiai. Andai a frugare nel borsone e tirai fuori il libro di Pinocchio, con l’infantile speranza che mi desse il coraggio di tornare in me, di fare ciò che era giusto. Lo strinsi forte tra le dita, mi portai il libro sotto il naso e ne aspirai a fondo l’odore. Le lacrime iniziarono ad offuscarmi la vista, e un groppo mi chiuse la gola. Mi recai in cucina, gettai il libro sul tavolo e riempii un bicchiere d’acqua, che bevvi avidamente per liberarmi dal nodo. E quando mi avviai all’appuntamento, lo feci con uno spirito abbattuto.
Ciò nonostante mi bastò vedere Marina per rincuorarmi. Mi ero innamorato di lei, che potevo farci? Non si trattava solo di attrazione fisica. Io le volevo bene davvero. Ecco perché era difficile per me rassegnarmi all’idea di rinunciare a lei. Mi accolse con un sorriso raggiante, che mi scaldò il cuore. Mi prese a braccetto e ci dirigemmo verso la piazza, sotto gli sguardi compiaciuti e ammiccanti delle matrone che non rinunciavano alle loro seggiole spartane e alle loro innocue chiacchiere nemmeno in quella sera di festa.
Nonostante il cielo plumbeo minacciasse pioggia, passammo una serata deliziosa all’insegna del buon umore, in compagnia di altri giovani del paese, ragazzi semplici e spassosi, che spesero gran parte del tempo a convincermi a ballare, inutilmente. Non ne ero capace, e non ci tenevo a coprirmi di ridicolo. Ma quando l’orchestra che si stava esibendo sul palco nel centro della piazza propose un lento, Marina mi prese per mano, mi guardò implorante e mi trascinò lentamente in mezzo alle altre coppiette. Scossi la testa sorridendo a mia volta, ma non mi opposi.
Iniziammo a muoverci piano, guardandoci intensamente. Presto ci estraniammo da tutto e da tutti. C’eravamo solo io e lei, e l’eco dei nostri cuori che galoppavano impazziti. Marina appoggiò la testa sul mio petto, ed io la strinsi più forte a me, emozionato e felice. Le diedi un bacio sulla testa e subito dopo, quando la musica cessò, un boato assordante diede inizio ai fuochi di artificio che venivano fatti esplodere dalla spiaggia di ciottoli. Tutti iniziarono a correre verso la staccionata, e così facemmo anche io e Marina, tenendoci per mano. Quello era tutto ciò di cui riuscivo a essere consapevole in quel momento: della sua mano intrecciata alla mia.
Avrei voluto fermare il tempo, fissarlo per sempre a quell’unico istante, con i nostri nasi incollati al cielo e il piacere che ricavavamo da quel semplice contatto. Ma poi, l’ultimo dei tre caratteristici boati che annunciano di solito la fine dei fuochi, esplose espandendosi nello spazio vuoto del cielo e riecheggiando a lungo nell’aria, e venne il momento dei saluti. Saluti che furono affrettati dal frastuono di tuoni vigorosi che anticipavano pioggia. E quella non si fece attendere molto. In breve tutti si dileguarono, ciascuno verso le proprie destinazioni, chi in macchina chi verso casa. Io e Marina imboccammo correndo lo stretto vicolo in fondo al quale c’erano le nostre dimore, ridendo felici, e quando la pioggia si trasformò in un vero e proprio diluvio, tolsi la giacca di cotone e la sollevai sulle nostre teste.
Piombammo letteralmente sul portoncino. Marina si affrettò ad aprire, mentre io continuavo a ripararla dalla pioggia con la giacca. Poi si voltò verso di me, sorridendo. Sapevamo entrambi cosa volevamo, e lasciammo che accadesse. Mi chinai su di lei e ci baciammo.
Quanto avevo desiderato quel momento. Tremavo dall’emozione, e sentivo fremere il suo corpo nello stesso modo. Abbassai le braccia per stringerla a me, e la giacca scivolò sulla strada. La pioggia ci sferzava con furia, eppure noi non ce ne curavamo. Tutto ciò di cui riuscivamo ad avere percezione, era il desiderio di noi che si faceva sempre più intenso. Ma quando Marina mi prese per mano e mi condusse all’interno della sua casa, tornai in me. Mi bloccai sull’uscio e le feci cenno di no con la testa. Lei mi guardò frastornata, le guance arrossate e gli occhi lucidi dall’eccitazione.
«È meglio di no, Marina…» bisbigliai. La desideravo da stare male, ma non potevo farle questo. Non potevo farlo a Geppetto. E nemmeno a me stesso. Se lo avessi lasciato accadere me ne sarei sicuramente pentito, in seguito.
«Scusa, io credevo che… Sono proprio una stupida. Stupida ed egoista. È ovvio che tu non te la senta… Perdonami, davvero…»
«No, non è come pensi, credimi… Marina, io devo dirti delle cose. O meglio, dovrei dirtele, ma non trovo il coraggio…»
«Tu non devi spiegarmi niente, davvero. Non ce n’è bisogno…»
«Sì, invece!»
«No, credimi, non devi farlo. Non sei costretto a farlo… Non importa, davvero… Scusa Fabio, ma in questo momento non riuscirei ad affrontare altro. Ho solo bisogno di restare da sola…» farfugliò imbarazzata. La fissai a lungo, indeciso sul da farsi. Poi annuii lentamente, mi girai e me ne andai. Rimanere non avrebbe comunque risolto niente, visto che non trovavo la forza di dirle la verità. Sarebbe solo servito a farla stare peggio, ed io non volevo farle altro male. Gliene avevo già fatto abbastanza, umiliandola in quel modo.
In casa iniziai a girare per le stanze rantolando, come un leone ferito. Una parte di me voleva tornare da lei e porre fine una volta per tutte a quella faccenda, confessandole il mio passato e il motivo della mia visita; l’altra, invece, voleva lei e basta.
Più volte infilai la porta, per tornare subito dopo sui miei passi, più confuso e atterrito che mai. Infine decisi di farmi una doccia per calmare i bollori, ma non servì a molto. Mi strinsi un telo intorno alla vita e mi lasciai cadere di peso sul letto.
Rimasi a lungo ad ascoltare lo scroscio della pioggia che picchiava con forza sulle tegole e sulla strada, mentre lampi sempre più distanziati filtravano di tanto in tanto dalle fessure delle persiane chiuse e illuminavano la stanza, proiettando strane forme sulle pareti e sul soffitto. Poi, all’improvviso, smise di piovere. E poco dopo sentii il citofono gracchiare.
Balzai sul letto col cuore in gola. Non avevo mai smesso di sperarci. Aprii le imposte della finestra, e quando di sotto vidi Marina con la mia giacca stretta in mano, mi affrettai ad aprirle. Entrò senza dirmi nulla, con lo sguardo basso. Mi porse la giacca fradicia, ed io la gettai in un angolo della sala. Marina si morse il labbro inferiore, riempì d’aria i polmoni e fece un gesto ampio con la mano.
«Avevo detto che non m’importa, però non è così. M’importa, invece. Ho bisogno di saperlo, almeno questa cosa: sei sposato?» disse tutto d’un fiato.
«Sposato? No, certo che no!»
«E… lei. La donna che ti ha fatto del male… la ami ancora?»
Scossi la testa con fare deciso. Non c’era nessun’altra donna, non c’era mai stata. Avrei voluto dirglielo, ma ero troppo emozionato per farlo. Marina si avvicinò a me lentamente. «Ed io ti piaccio? Pensi che potresti amarmi?»
«Io credo di amarti già…» ammisi debolmente.
Ci baciammo di nuovo, con rinnovato ardore.
E facemmo l’amore, tutta la notte. 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Un brusco risveglio ***


Marina dormiva rannicchiata contro il mio corpo, la testa sul mio petto e una gamba che avvinghiava le mie. Fuori le cicale avevano ripreso a frinire, e nel cielo corvino della notte erano nuovamente comparse le stelle. L’aria che entrava dalla finestra aperta profumava di terra bagnata e di mare. E, come accadeva di solito la notte, quando tutto il resto taceva, i miei pensieri presero a rumoreggiare dentro di me.
Continuavo a spostare lo sguardo dal rettangolo di cielo incorniciato dalla finestra a Marina. La mia coscienza non mi dava tregua, mi accusava con ferocia. Ora, dopo quello che era accaduto, dirle la verità sarebbe stato impossibile. L’avrei persa definitivamente. E tuttavia, quale altra alternativa avevo?
Se non avessi provato niente, per lei, avrei potuto andarmene il giorno dopo senza dirle nulla, sparire da Genzio e dalla sua vita senza rimorsi né ripensamenti. Però io l’amavo. L’amore che provavo per lei, questo mi avrebbe dato la forza di dirle la verità, anche se questo poteva significare perderla.
Con questa determinazione scivolai nel sonno senza rendermene conto, stremato. Fui svegliato da rumori di stoviglie che provenivano dalla cucina, e dalla voce di Marina che canticchiava a bassa voce un motivo allegro. La luce del giorno entrava con prepotenza nella camera. Gli occhi ci misero un po’ ad abituarsi alla luce e a riuscire a restare aperti senza essere feriti.
La fragranza del caffè mi giunse invitante alle narici. Mi concessi un attimo di tregua gustando quel momento così intimo, consapevole che la donna che amavo trafficava nella mia cucina. Poi i rumori cessarono, e Marina smise di cantare. Increspai le sopracciglia, mentre una strana inquietudine si faceva largo nel mio cuore. E all’improvviso mi ricordai del libro, quello di Pinocchio che la sera prima avevo lasciato sul tavolo della cucina, quello che era appartenuto a lei...
Saltai giù dal letto e corsi in cucina, e quando mi affacciai mi sentii morire. Marina era in piedi, il libro aperto tra le mani, le lacrime agli occhi. Quando mi vide trasalì.
«Chi sei?» mi chiese in tono d’accusa. Ma non aspettò risposta. Si precipitò furiosa verso l’ingresso.
«Lo so, avrei dovuto dirtelo. Perdonami, ti prego…» balbettai seguendola. Lei si voltò di scatto e mi urlò contro, con foga: «Ti manda lui, non è così?» Di nuovo non aspettò risposta. Fece per aprire la porta, ma io la richiusi con un gesto secco, assalito dalla disperazione.
«No, aspetta, non te ne andare, lascia che ti spieghi, ti prego…» avevo iniziato a supplicarla, ma le parole mi morirono nella gola quando mi accorsi che indietreggiava spaventata. Spalancai la bocca, spiacevolmente sorpreso.
«Lasciami andare, o mi metto a urlare» disse, e questo mi procurò dolore. E indignazione.
«Urlare? Perché dovesti urlare? Di cosa hai paura? Che ti possa fare del male? Hai sempre avuto questa paura o è nata ora, all’improvviso, a causa del pregiudizio che adesso nutri nei miei confronti?»
«Tu… tu sei stato in carcere…»
«E questo fa necessariamente di me una persona pericolosa?»
«Il fatto che tu me lo abbia nascosto, questo fa di te una persona poco affidabile…»
«Se te lo avessi detto, tu non mi avresti mai conosciuto per come sono realmente. Non me ne avresti dato la possibilità. Mi avresti trattato con diffidenza e disprezzo, esattamente come stai facendo adesso!» l’accusai con risentimento.
Marina rifletté un istante su quelle parole.
«Perché sei venuto qui? Cosa vuoi da me?» mi chiese con la voce strozzata.
«Perché speravo di convincerti a perdonare tuo padre… A dargli un’altra opportunità…»
«Tu lo sai perché si trova dove si trova? Tu lo sai cosa ha fatto?»
«No, e non mi interessa saperlo. E vuoi sapere perché? Perché qualsiasi cosa ha fatto, qualsiasi sia il grado di colpevolezza che ha nei confronti della società, ha già pagato a sufficienza il suo debito. Anzi, non finirà mai di pagarlo, perché i sensi di colpa che lo dilaniano ogni singolo giorno, di sicuro continueranno a farlo per tutta la vita. Non mi interessa sapere chi era prima perché io ho visto la persona che è adesso, Marina! E quello che ho avuto il privilegio di conoscere è un uomo buono, onesto, leale, che merita rispetto e affetto…»
«Come accidenti fai a dirlo?» gridò lei con acredine.
«Perché ho passato gli ultimi sette anni della mia vita insieme a lui, ventiquattro ore al giorno. E perché lui ha fatto di me un uomo migliore. Se non avessi incontrato tuo padre ora probabilmente starei in giro in cerca di nuovi guai. Ecco perché ero venuto. Volevo parlarti di lui, convincerti a dargli un’altra opportunità, e restituirgli così il favore che mi ha fatto concedendomi la sua stima e il suo affetto… Ma poi ti ho conosciuta, ho conosciuto gli abitanti di questo stupendo paese, ed è stato meraviglioso. Allora mi sono lasciato distrarre, ho egoisticamente pensato solo a me stesso. E mi sento un verme per questo, perché anziché rendere un favore all’unica persona che abbia mai dimostrato affetto nei  miei confronti, l’ho dimenticata, ignorata… abbandonata.» Piangevo senza ritegno, ormai. Per il rimorso, per i sensi di colpa, per il dolore che ne scaturiva.
«Non avrei mai pensato che mi sarei potuto innamorare di te. Non volevo che accadesse. Io volevo solo restituire un favore… Mi dispiace per averti ferita, Marina, credimi. Mi dispiace…» bisbigliai sollevando una mano sul suo viso. Ma lei scosse la testa, mi guardò con una luce di biasimo negli occhi e mi disse: «Avresti potuto essere una cosa importante. Non saprai mai quanto» Aprì di nuovo l’uscio, e stavolta non feci nulla per fermarla. Richiusi lentamente la porta, ci appoggiai sopra la testa e finii di versare tutte le lacrime che avevo.

Peppino non fece nulla per mascherare la delusione quando gli consegnai le chiavi dell’appartamento quella stessa mattina.
«Ma hai ancora una settimana di tempo, prima di lasciare la casa...» obiettò. Mi strinsi nelle spalle. «Lo so, ma degli imprevisti mi obbligano a tornare a casa prima del previsto» spiegai debolmente.
Il violento temporale che si era abbattuto la notte prima sulle coste marchigiane aveva liberato l’aria dall’umidità, l’aveva resa frizzante. In altre circostanze avrei ricavato piacere dal suo tocco fresco. Ma non quella mattina.
Dopo che Marina se ne era andata, decisi che la vacanza era finita e che era ora di tornare alla realtà, di affrontare la mia nuova vita, di darmi da fare come individuo libero e utile alla società. Raccolsi le mie cose e mi avviai. Quando mi trovai davanti alla porta di Marina non resistetti all’impulso e tentai un’ultima volta di parlarle. Non per me stesso, ma per Geppetto. Bussai alla sua porta più e più volte, inutilmente. Sapevo che era lì dietro, ed ero altrettanto consapevole che non mi avrebbe aperto. Non si fidava di me, e non potevo certo biasimarla per questo.
Presi il libro e il quadernino, quello su cui avevo iniziato a scrivere febbrilmente pochi giorni dopo il mio arrivo a Genzio, e li infilai entrambi nella cassetta della posta. Se avesse trovato la forza e la voglia di leggerlo, avrebbe potuto capire tante cose. In quel quaderno avevo messo a nudo la mia anima, senza ipocrisie e falsità.
«Almeno hai finito di scrivere il libro?» volle sapere Peppino, strappandomi dalle mie elucubrazioni .
«È uno di quei romanzi senza il finale, sai…»
Peppino si decise a prendere le chiavi e mi strinse con calore la mano.
«Tanto ci rivediamo presto» disse infine sorridendo fiducioso, costringendo le pieghe della pelle raggrinzita del suo viso ad ammucchiarsi una sull’altra.
Avrei tanto voluto crederlo possibile, ma non potevo.
Ciò nonostante gli restituii il sorriso e gli risposi: «Chi può dirlo?»

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il sole splende sui tetti di Roma ***


La strada per il reintegramento nella società si dimostrò tutta in salita. La cosa più difficile fu trovare un lavoro. Nessuno sembrava disposto a dare fiducia ad un ex rapinatore di banche. Qualsiasi tipo di approccio usassi durante i colloqui, falliva miseramente.
Dopo circa tre mesi di umiliazioni, un vecchio meccanico in una delle periferie appena fuori dalle porte di Roma mi offrì un’opportunità. Arrivai al colloquio in ritardo, e quando me lo fece notare risposi amareggiato che cominciavo a non poterne più di ricevere porte in faccia, e che quindi partivo già prevenuto.
Quello mi squadrò dalla testa ai piedi, poi mi disse, in tono brusco: «Nello spogliatoio troverai una tuta appesa all’attaccapanni. Dovrebbe andarti. Era del tipo che ho licenziato sabato. Fammi vedere di cosa sei capace, e alla fine della giornata ti dirò se puoi presentarti anche domani.»
Non aspettò la fine della giornata per dirmi che ero assunto: lo fece all’ora di pranzo.

Due anni dopo, Marco, il titolare dell’officina, andò in pensione. Mi permise di rilevare la sua attività e di continuare ad usare il capannone e tutte le sue attrezzature in cambio di un affitto simbolico. In gioventù si era fatto dieci anni a Rebibbia, sapeva bene quanto fosse difficile per un ex carcerato inserirsi in maniera onesta nella società. Non si era mai sposato, non aveva figli, nessun parente a cui rendere conto. Mi aveva preso a benvolere, senza che avessi fatto nulla di speciale per meritarmelo.
Avevo quasi trentuno anni, e la vita cominciava a sorridermi. La banca presso la quale avevo aperto il conto mi propose un mutuo vantaggioso per l’acquisto della mia prima casa. Una piccola casa arroccata nel punto più alto di uno dei castelli romani, che offriva una vista mozzafiato sul lago di Genzano. La comunità era discreta, tutti mi conoscevano e mi rispettavano. Ero relativamente sereno. Avevo ottenuto più di quanto avessi mai sperato: svolgere il lavoro che amavo, la facoltà di entrare in una banca e prelevare dei soldi direttamente dallo sportello senza terrorizzare nessuno, amici, stima, una macchina che non tossiva ogni volta che veniva messa in moto…
Ciò nonostante, i fantasmi del passato continuavano a tormentarmi, di tanto in tanto. Pensavo spesso a mia madre, che andavo a trovare almeno una volta al mese e per la quale nutrivo ancora sentimenti contrastanti. E a Geppetto, con la quale mi sentivo ancora in debito.
Ma soprattutto pensavo a Marina. Nonostante avessi tentato con tutto me stesso di dimenticarla, impegnandomi in un paio di relazioni, queste non ebbero lunga vita. Marina era diventata il metro di paragone con il quale giudicavo tutte le altre, e dal quale uscivano regolarmente sconfitte. Nessuna avrebbe mai potuto reggere il suo confronto.
Un anno dopo aver rilevato l’attività di Marco, ricevetti un’inaspettata telefonata al cellulare. Era una fredda mattina di febbraio. Risposi senza badare al numero, oberato com’ero dal lavoro. Riconobbi la sua voce immediatamente, e mi gelai.
«Allora, ragazzino, ce l’hai fatta a stare lontano dai guai?» mi disse Geppetto allegramente.
«Che mi venga un colpo… Geppetto dei miei stivali… Come stai? Sei già uscito dal carcere?»
«Presto, presto… Senti, non ho molto tempo. Lo sai, le telefonate dalle mie parti hanno i minuti contati. Volevo solo ringraziarti.»
«Ringraziarmi? Per cosa?»
«Per avermi ridato mia figlia»
Strinsi forte gli occhi, profondamente scosso da quella rivelazione. Ero così felice che non riuscii a dire nulla, tanto che lui fu costretto a chiedermi se c’ero ancora. Risposi di sì, e sospirai.
«Devo chiederti un ultimo favore.»
«Certo. Tutto quello che vuoi…»
«Bene. Domani esco da questa fogna. Marina voleva venire a prendermi, ma le ho detto di no. Tu conosci già la procedura, lo sai che può essere più lunga del previsto. Non sopporto l’idea di saperla fuori, costretta ad aspettarmi chissà per quanto tempo… Speravo potessi venire tu, piuttosto. Mi piacerebbe rivederti. Abbiamo molte cose di cui parlare, tu ed io.»
Non so perché, ma l’ultima frase la percepii come un rimprovero. Ipotizzai che desiderava vedermi da solo per potermi urlare contro il suo biasimo per come mi ero comportato con la figlia. Del resto me lo meritavo.
«Certo, contaci» dissi. Quando riattaccai lo feci in preda ad uno stato confusionale terribile. Il giorno dopo avrei rivisto il mio vecchio compagno di cella, e non sapevo decidermi se questa cosa mi procurasse più gioia o sconforto.

Il giorno dopo mi alzai presto. Sapevo che avrei potuto aspettare davanti al carcere per ore, ma volevo comunque evitare il traffico intenso del mattino, e arrivai davanti al carcere di Regina Coeli poco dopo l’alba.
La sagoma del penitenziario della Capitale si stagliava come un’ombra minacciosa e dominava con prepotenza tutto lo spazio intorno, prevaricando perfino sul cielo, nascondendolo dietro le sue possenti mura. Solo allora notai quanto fosse deprimente quell’edificio, e quanto ne fossi ancora terrorizzato.
Sapevo di essere stato fortunato ad aver incontrato nella mia strada due uomini straordinari come Geppetto e Marco. Geppetto mi aveva insegnato ad avere fiducia in me stesso, Marco mi aveva dato la possibilità di rifarmi una vita. Era grazie a loro se ora mi trovavo all’esterno del carcere e potevo contemplarlo dal di fuori.
Avevo parcheggiato la BMW poche decine di metri dall’entrata e, nell’attesa che il sole rischiarasse il nuovo giorno, mi appisolai. Mi risvegliai giusto in tempo per accorgermi che davanti all’entrata c’era del movimento. Qualcuno stava uscendo. Feci il pieno d’aria, prima di uscire dalla macchina, del tutto ignaro della sorpresa che mi attendeva. Ancora oggi non so trovare le parole per spiegare ciò che provai a trovarmela davanti. Impallidii, il cuore mancò qualche battito, il fiato si fermò nei polmoni.
Marina mi fissava, a sua volta sorpresa. Era bella, bella come ricordavo, come non mi era mai riuscito di dimenticare.
«Ciao…» le dissi, cercando di controllare l’emozione nella voce.
«Ciao…» rispose lei.
«Non sapevo che ti avrei trovata qui, oggi.»
«Nemmeno io.»
«Però ne sono felice…»
Marina mi sorrise. «Anche io…» rispose.
Geppetto non era tra le persone uscite dal carcere, ma non ne rimasi sorpreso. E quando, poco dopo, squillò il cellulare, sapevo già che era lui.
«Quando sei uscito?» gli chiesi senza tanti preamboli.
«La settimana scorsa» rispose divertito. Marina aveva intuito che stessi parlando col padre, e mi guardava con apprensione.
«L’ultima deve essere sempre la tua, vero, Geppetto dei miei stivali?»
«Ovvio. Marina è lì con te?»
La guardai con amore. «Sì» risposi.
«Le vuoi bene?»
«Sì.»
«Bene. Perché anche lei te ne vuole. Perciò ora ti dico qual è il favore di cui ti accennavo ieri…»
«Pensavo fosse quello di venire a prenderti.»
«Macché... Figurati se avevo bisogno della balia che mi venisse a prendere... Il favore che ti chiedo è questo: prenditi cura della mia bambina. Amala, rendila felice come merita. Pensi di poterlo fare?»
Fissai Marina negli occhi, il cuore mi faceva male tanto ero felice.
«Non dipende da me… Non da me soltanto, per lo meno…»
«Ma sì, ma sì, ho già avuto modo di parlare con lei, e so che ti ama. È con te che non ho mai affrontato il discorso. Allora, pensi di poterla amare come merita?»
«Non ho mai smesso di farlo» ammisi, senza mai staccarle gli occhi di dosso.
«Bene. Appena posso ti verrò a trovare di persona. Verrò a trovare tutti e due.»
«Ma dove accidenti sei, ora?»
«In un piccolo paesino della Basilicata. Lo Stato mi ha trovato un posto come bibliotecario, e il parroco del paese mi ha offerto una sistemazione in una delle case che appartengono alla diocesi ad un’unica condizione: quella di dare ripetizioni di italiano a giovani extracomunitari. Così potrò continuare a far fruttare il mio diploma e a rendermi utile in altri modi. E tu? Hai poi fatto fruttare il tuo?»
«Ho aperto un’attività tutta mia. Senza, al giorno d’oggi, non è possibile.»
«Già, immagino. Il mondo è cambiato, in questi anni… Bene, devo andare. Ricordati la promessa che mi hai fatto.»
«Non era un favore?»
«È entrambi le cose.»
«Non ti deluderò…»
«Non ne ho dubbi. A presto asino.»
«A presto, Geppetto.»
Quando attaccai, Marina scosse il capo, rassegnata.
«È già uscito, non è così?» mi chiese.
«Sì.»
«Quindi, ci ha fatti venire qui per farci incontrare.»
«Così sembra.»
Lei esitò a lungo, prima di chiedere ancora: «E ora?»
Io sollevai una mano per farle una carezza, e lei me lo lasciò fare.
«Ora, forse, posso finalmente dare un bel finale alla storia che avevo iniziato a scrivere tre anni fa. Il problema è che questo non è un finale che posso decidere da solo…»
Marina sospirò commossa, annuì convinta e mi rispose: «Proviamo a scriverlo insieme, allora. Ma ad una condizione...»
«Quale?»
«Basta con le menzogne. O con i segreti. Lascia che io ti conosca davvero. Che conosca tutto di te. Dammi la possibilità di amarti senza timori, o dubbi…»
La strinsi forte a me, riconoscente, mentre il mio corpo veniva scosso dai brividi di gioia. Non l’avrei mai più delusa.
Il sole splendeva alto sopra i tetti di Roma, ora. Sorrideva ai signori e ai poveracci, ai quartieri signorili e a quelli malfamati. Riscaldava allo stesso modo il ragazzo che si accingeva ad uscire da scuola con lo zaino sulle spalle, e quello piegato in due a vomitare in un angolo buio di periferia, il laccio emostatico ancora stretto al braccio; deliziava i belli e i brutti, i buoni e i cattivi, senza pregiudizi né parzialità di sorta, offrendo a tutti le stesse opportunità.
Pensai distrattamente che il fato aveva molto in comune con il sole. Allo stesso modo, lui elargiva a tutti la sua benevolenza, presto o tardi. E poi restava a guardare. Perché non è lui che ha il dovere di determinare le nostre vite. Quel dovere appartiene solo a noi. Lui può offrirci un’occasione, ma siamo noi che dobbiamo coglierla, noi gli unici responsabili di noi stessi.
Io mi sentivo un privilegiato. A tutti prima o poi viene concessa un’opportunità, a me ne era stata concessa più di una. Ero stato inghiottito dalla balena, ed ora avevo la facoltà di osservarla dal di fuori. Avevo perso la donna della mia vita, e ora la stringevo di nuovo tra le mie braccia. Mi sentivo felice e completo, e per niente al mondo avrei rinunciato a quella sensazione.
Guardai Marina, lo feci a lungo e intensamente, e poi la ringraziai.
«Per cosa?» mi chiese con un filo di voce.
«Per essere tra tutte l’opportunità più bella…»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4046662