And we'll be good

di Blakie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hold On ***
Capitolo 2: *** Home ***
Capitolo 3: *** «You». ***
Capitolo 4: *** One Step Back ***
Capitolo 5: *** Goodnight ***
Capitolo 6: *** Bonds ***
Capitolo 7: *** Guns'n'pancakes ***
Capitolo 8: *** Grief ***
Capitolo 9: *** Healing ***
Capitolo 10: *** Ten seconds ***
Capitolo 11: *** Conquer ***
Capitolo 12: *** Ambush ***
Capitolo 13: *** Battle ***
Capitolo 14: *** Words ***
Capitolo 15: *** Hereinafter ***



Capitolo 1
*** Hold On ***


And we'll be good CAP 1


And we'll
be good



Nonostante Noah fosse scosso per quello che aveva passato, insistette ugualmente per guidare. Ed io, seduta di fianco a lui, non potevo far altro che guardarlo preoccupata.
Il viaggio verso Richmond, Virginia, per ritrovare sua madre ed i suoi fratelli era stato inutile, purtroppo. Il vicinato in cui viveva e che, in teoria, era protetto da alte mura, non aveva retto all’avvento del nuovo mondo. Una volta scavalcati gli ostacoli, si era presentato davanti a noi uno scorcio tranquillo, silenzioso. E ciò non aveva presagito nulla di buono.
Sembrava una delle tante città fantasma che già troppe volte avevo incontrato, più che il tranquillo quartiere di Shirewilt Estates.
Avevo guardato Noah, che se ne stava al mio fianco con la fronte corrugata dalla preoccupazione ed il corpo rigido.
«Credi che–», avevo provato a dire, ma non mi aveva dato il tempo di completare la frase.
«Andiamo. Casa mia è poco distante dalle mura», aveva detto, con un tono talmente spento che non avevo trovato la forza di replicare.
Rafforzando la presa attorno alla pistola, lo avevo seguito, sperando con tutta me stessa che quella ispezione portasse a qualcosa di buono per Noah.
Le strade erano deserte e disseminate di cadaveri, ma lui aveva continuato a stringere i denti nonostante le lacrime che gli rigavano le guance scure, diretto verso casa sua.
Forse sua madre e i suoi fratelli si sono salvati, avevo pensato. Forse…
Le mie speranze si erano infrante definitivamente quando, entrati in casa sua, la prima cosa che avevamo visto era stato proprio il corpo di sua madre, riverso a terra e senza vita.
«N-No…», aveva sussurrato Noah, guardando la scena davanti a lui con gli occhi sbarrati e pieni di lacrime.
Mi ero avvicinata con uno slancio, stringendogli la mano e posandogli la fronte contro la spalla, premendo per fargli avvertire la mia vicinanza. «Mi dispiace tanto» erano state le uniche parole che erano riuscite a vincere il nodo che avevo in gola.
Era crollato per terra, singhiozzando, prendendosi la testa tra le mani e accucciandosi su se stesso. Ero rimasta in piedi in caso di necessità, pronta ad attaccare, ma la mia mano non ci aveva messo molto a trovare la sua spalla per stringerla. Gli occhi avevano iniziato a pizzicarmi, era stato insopportabile vederlo così.
Potevo capire come si sentiva ad aver perso la sua famiglia, ma in realtà non potevo comprendere fino in fondo il suo dolore. Lui non li vedeva da un tempo troppo lungo, non era con loro quando il peggio era successo. Aveva passato un anno lontano, senza sapere, aggrappato solo alla speranza che fossero ancora vivi e alla paura che non fosse così. Anche io avevo perso un padre, una madre ed il resto della mia famiglia, ma ero stata talmente fortunata, a differenza di Noah, da passare ogni minuto del mio tempo con loro, prima della fine. Solo di Maggie non sapevo nulla, e pensarci fu inevitabile.
Con cautela mi ero avvicinata al corpo della madre e, vedendolo più da vicino, avevo notato il cranio completamente sfondato, aperto, il sangue incrostato e nero che scendeva fino alla spalla. Poco distante c’era una stola, che usai per coprire il corpo in segno di rispetto.
«Riposa in pace», avevo sussurrato, conscia del fatto che, ormai, stava riposando da tanto tempo.
Avevo rischiato di fare la stessa fine una volta entrata in quella che doveva essere la camera dei fratellini di Noah. Uno dei gemelli mi era piombato addosso dal nulla, pronto a mordere, la follia negli occhi e la bramosia che smuoveva quel corpo morto che si esprimeva nei versi tipici dei vaganti.
Dallo spavento ero inciampata in un giocattolo lasciato a terra, e mi ero ritrovata a dover resistere all’irruenza del bambino, trattenendolo lontano da me per le spalle.
Noah, attirato dal mio urlo e dai ringhi era accorso in mio aiuto, piantando la parte più appuntita della riproduzione di una navicella spaziale nel cranio di suo fratello.
Quella volta era stato lui a coprire il cadavere con un lenzuolo, l’espressione addolorata ma ferma, presente.
«Finalmente può riposare», gli avevo detto sorridendo, per confortarlo.
Aveva risposto al mio sorriso, aggiungendo: «Andiamo, è pericoloso stare qui».
Prima di lasciare quel quartiere, avevamo cercato più provviste possibili sia in casa sua che in quelle dei suoi vicini: quella zona, fortunatamente, era abbastanza povera di erranti. Ne avevamo abbattuti cinque o sei, prima di correre di nuovo al lato delle mura dietro al quale avevamo lasciato il pick-up.
Ed eccoci lì, di nuovo in fuga verso un posto sicuro, di nuovo in viaggio senza una meta precisa.
Eravamo stati abbastanza fortunati con le provviste: diversi barattoli di cibo in scatola, bottiglie d’acqua, vestiti puliti, carburante e acqua per il motore. Il tutto raccolto in due grandi borse che ci avrebbero permesso di stare tranquilli almeno per una settimana, prima di cercare nuovi approvvigionamenti.
«Il tuo vicino era appassionato di armi, vedo», dissi, lanciando un’occhiata al fucile d’assalto sistemato nel sedile posteriore, che godeva della compagnia di un fucile a pompa, una pistola automatica e diverse munizioni.
Stiracchiò un sorriso. «Il signor Spencer era leggermente fuori di testa e molto paranoico. Il classico vicino che esce di casa imbracciando il fucile a canne mozze e minacciandoti di morte perché gli hai sfondato la finestra col pallone», replicò, tenendo gli occhi sulla strada.
Ridacchiai, abbassando il finestrino e godendomi l’aria che stava iniziando a rinfrescare l’abitacolo. «Dove credi che dovremmo andare adesso?», domandai poi, seria.
Non mi piaceva per niente l’idea di continuare a viaggiare soli, nonostante fino a quel momento fossimo riusciti a cavarcela. Mi sforzavo spesso di pensare “meglio in due che da sola”, ma la verità era che, tutte le volte che non eravamo al sicuro in macchina, avvertivo l’angoscia attanagliarmi lo stomaco.
Io... Io avevo paura. Guardavo i vaganti arrivare, circondarci, e dovevo reprimere il terrore per rimanere lucida e affrontarli, assieme a Noah. Mi sentivo sola, sentivo che io e Noah eravamo soli. E mi mancava il mio gruppo, la mia famiglia; mi mancava essere circondata da così tante persone sulle quali contare per affetto, protezione, gioco di squadra. Io e Noah, inutile negarlo, non eravamo fisicamente forti come molti di loro; non eravamo combattenti esperti come Rick, Michonne, Glenn, Carol o Daryl.
Daryl…
Solo con lui, nonostante avessimo viaggiato in due, mi ero sentita
sempre al sicuro. Non solo perché conoscevo le sue innate capacità di sopravvivenza, ma perché – contro ogni aspettativa – il suo comportamento schivo, diretto e forte mi infondeva sicurezza. Sapeva quello che faceva, e voleva dimostrarlo anche alle persone che lo circondavano.
Mi mancava Daryl.
Mentre ero al Grady avevo pensato spesso ai giorni passati da sola con lui, e mentirei se dicessi che quei ricordi non avevano rappresentato per me un rifugio dolce in cui nascondermi, quando le cose non andavano ed il senso di prigionia si faceva sentire. Tutte le volte in cui mi ero sentita sola avevo pensato al gruppo, ma ancora più spesso al tempo che avevo trascorso con Daryl Dixon.
Conoscendolo, sapevo che si era messo alla mia ricerca, e quel pensiero mi destava preoccupazione perché, se fosse arrivato all’ospedale, avrebbe rischiato la vita inutilmente. Speravo che si fosse ricongiunto con gli altri, e che non avessero trovato tracce per raggiungermi.
Era frustrante non sapere dove fossero, non sapere se li avrei rivisti di nuovo.


«Tu non ti rendi conto, tutti quelli che conosciamo sono morti!».
«No, questo non lo sai!».
«Beh, è come se lo fossero, perché tanto non li rivedrai mai più!».


Il nostro discorso mi tornò in mente senza che potessi farci nulla, e speravo davvero che Daryl si fosse sbagliato. Non volevo che restasse da solo, non volevo. Volevo che in quel momento fosse con gli altri, al sicuro, insieme a persone a cui teneva e che tenevano a lui.
Quel pensiero mi faceva felice e mi sarebbe bastato. Mi bastava sapere che forse erano davvero di nuovo tutti insieme, poco importava se non li avrei rivisti mai più.
«Pensavo di andare verso Washington», rispose dopo un po’ Noah, ridestandomi dai miei pensieri.
«Perché Washington?», domandai, incuriosita.
«È la città più grande che possiamo trovare da qui in avanti. Forse hanno resistito, o forse possiamo incappare in qualche rifugio in cui trascorrere l'inverno», ipotizzò.
L’idea, in tutta sincerità, mi allettava, ma una parte di me voleva ancora cercare la mia famiglia. Una grande parte di me lo voleva. Io sapevo che non erano morti, sapevo che prima o poi si sarebbero ricongiunti e avrebbero ripreso ad intraprendere lo stesso cammino. Noah ed io non eravamo in grado di resistere troppo a lungo vagabondando, da soli, senza un posto sicuro in cui rifugiarci. Se a Washington avessimo davvero trovato una zona sicura o qualcosa di simile, avremmo potuto sistemarci e tornare indietro a cercare la mia famiglia, magari portando dei rinforzi con noi.
E avevo fede che, prima o poi, ci saremmo riuniti a loro, in un modo o nell’altro.
«Ci sto», dissi, sorridendo. «Però dovremmo riposarci per un giorno o due. È stato lungo il viaggio da Atlanta fino a qui», osservai. Ci avevamo messo quasi una settimana ad arrivare; se non avessimo dovuto preoccuparci di cercare provviste e rifugi, ci avremmo impiegato poco meno di mezza giornata.
«Appena troviamo un posto sicuro», annuì Noah.
Fuggiti dal Grady, non eravamo riusciti a fermarci nemmeno per un secondo, per paura che gli uomini di Dawn ci trovassero e ci riportassero alla prigionia. Noah aveva sentito dire che la gente era stufa della leadership di Dawn, e che presto avrebbero provato a rovesciarla. Sperai che, a quel punto, ce l’avessero fatta davvero.
«Quanto ci vuole a raggiungere Washington, da qui?», domandai.
«Senza troppi intoppi, un paio d'ore».
Annuii, pensierosa. «Possiamo trovare un posto in cui passare la notte, per poi ripartire domani mattina», proposi, contenta che Washington non fosse poi tanto lontana. Se la macchina avesse retto, sarebbe andato tutto bene.
«Aspetta, ma non volevi tornare indietro a cercare la tua famiglia?», domandò con apprensione. «Non voglio importi cose che ti ostacolerebbero».
Sorrisi, intenerita dai suoi riguardi. «Loro sono forti, sono sicura che stanno bene. E se sono riusciti a ritrovarsi, sono numerosi e al sicuro. A differenza nostra, che siamo solo in due», affermai.
Mi lanciò uno sguardo preoccupato. «Sei sicura?».
«Assolutamente sì. Se saremo tanto fortunati da trovare ciò che cerchiamo, potremmo addirittura andarli a cercare aiutati da altre persone. Mal che vada, due ore di macchina non sono poi così tante per tornare indietro a cercarli», risposi, sorridendo.
Tolse per un secondo gli occhi dalla strada, rivolgendomi un'espressione poco convinta che trovò il mio sorriso – speravo – rassicurante: la questione era chiusa.
A metà pomeriggio, appena fuori Richmond, incappammo in un vecchio motel abbandonato, che sembrava abbastanza deserto. Nascondemmo il pick-up in un vecchio garage lì vicino e ci incamminammo con cautela all'entrata del motel. Perlustrammo il perimetro del cortile in cerca di qualche vagante, e ne abbattemmo due senza difficoltà. Decidemmo di sistemarci in una camera al pianoterra, così, se ci fosse stata la necessità, saremmo riusciti a correre fino all'auto più facilmente.
Sistemammo due sedie davanti alla porta, unendole tra loro con una corda alla quale avevamo appeso dei vecchi cerchioni e barattoli che avevamo trovato mentre cercavamo provviste. Era un trucco che utilizzavano sempre Daryl e gli altri per essere avvertiti nel caso un vagante si fosse avvicinato troppo al nostro rifugio; riprodurre quell'espediente senza di loro mi provocò un piccolo tuffo al cuore.
Sistemate le sedie, ci barricammo nella stanza, posizionando la piccola scrivania contro la porta e oscurando le finestre con i camici del Grady.
Era da un po' che non riposavamo su un letto, perciò non ci pensammo due volte a coricarci sul matrimoniale con sbuffi di soddisfazione, senza però lasciare andare le armi.
Chiusi gli occhi, respirando profondamente e sorridendo tra me e me. Rimanemmo in silenzio per non so quanto, ma non c'era bisogno di parlare. Noah non si era fermato un attimo da quando avevamo scoperto il terribile destino di sua madre e dei suoi fratelli, perciò volevo dargli il tempo di elaborare, per quanto possibile, quello che aveva passato.
«Non vergognarti», sussurrai, fissando il soffitto.
«Cosa?», domandò, la voce piatta.
«Se senti il bisogno di piangere, sfogalo. Non vergognarti», chiarii, voltando la testa alla mia destra, per guardarlo.
Lui non rispose, fissandomi per qualche secondo. Il suo sguardo era così addolorato, così stanco... si voltò dall'altro lato, dandomi le spalle. Con gli occhi al sicuro dai miei, scoppiò a piangere, singhiozzando piano e stringendo le ginocchia al petto. Osservai la sua schiena e le sue spalle sussultare e, lentamente, mi avvicinai a lui, poggiando la testa sul suo cuscino e la fronte contro la sua spalla.
Pianse per molte ore, ininterrottamente; quando crollò, esausto, le fessure che i nostri camici non erano riusciti a coprire facevano entrare le luci soffuse del tramonto. Mi alzai dal letto, attenta a non svegliarlo, e controllai la situazione nel parcheggio del motel: sembrava tutto tranquillo. Sperai con tutte le mie forze che sarebbe stato così anche durante la notte e la mattina dopo.
Quando Noah si risvegliò dopo un paio d'ore, consumammo la nostra carne essiccata e bevemmo un po' d'acqua, con parsimonia. Non eravamo sicuri che a Washington avremmo trovato quello che cercavamo, perciò dovevamo far durare le nostre scorte il più possibile.
Fortunatamente nel piccolo bagno della stanza c'era ancora un po' di acqua corrente, perciò, dopocena, ne approfittammo per rinfrescarci, a turno. Sistemammo le nostre borse vicino alla porta, in modo che, la mattina dopo, fosse stato tutto pronto per partire senza ulteriori indugi.
La notte calò e trascorse abbastanza tranquilla, anche se non riuscii a chiudere occhio, se non molto tardi. Non sapevo se Noah fosse riuscito a dormire, perché mi aveva dato le spalle tutta notte, perso nel suo lutto.
Alla mattina, dopo aver fatto una scarsa colazione, guardammo fuori dalla finestra e scoprimmo che tre vaganti si erano radunati nel cortile durante la notte: non erano molti, potevamo cavarcela se avessimo agito con velocità e precisione. Provai ad ignorare il nodo in gola causato dalla paura che quelle situazioni mi mettevano, e mi sforzai di concentrarmi.
Misi in spalla una delle due borse e Noah prese l'altra, imbracciando il fucile che si era portato dietro, mentre spiava i vaganti.
«Se ci sbrighiamo a raggiungere il pick-up, possiamo anche sparargli da lontano», affermò, la voce intrisa di concentrazione e fermezza.
«Speriamo che il rumore non ne attiri altri», mormorai, guardando anche io fuori dalla finestra.
«Se anche dovesse succedere, saremmo già a bordo del pick-up», ribatté, sforzandosi di sorridere.
Decidemmo di sparare ai vaganti dalla finestra, liberare la zona e correre il più velocemente possibile verso il pick-up. Una volta abbattuti, aspettammo qualche secondo per vedere se ne sarebbero arrivati altri; quando fummo certi di essere al sicuro, aprimmo con cautela la porta, scavalcando la corda tra le sedie cercando di non farla muovere. Ci osservammo intorno e, guardinghi, corremmo verso il capannone dentro al quale avevamo nascosto il pick-up.
Sul tetto di quella piccola costruzione erano cresciuti muschio e rampicanti, che funsero da perfetta copertura al nostro mezzo; ci eravamo curati persino di sporcarlo per farlo sembrare fuori uso, nel caso qualcuno avesse cercato di prenderlo.
«Sali a bordo, Beth», disse Noah, sottovoce ma concitato. Strappò velocemente i rampicanti dal tetto, in modo che fosse più facile uscire da lì, ma improvvisamente un vagante fu alle sue spalle, trascinandolo per terra. Afferrai il coltello che mi portavo sempre appresso e lo estrassi dal fodero, scendendo in fretta dal posto del guidatore.
Noah era a terra che tentava di mantenere le fauci del non-morto accasciato sopra di lui lontano dal suo collo, prendendolo per le spalle. Piantai il coltello nel cranio del vagante, e Noah spinse via la carcassa con un verso strozzato.
Gli presi la mano per aiutarlo a rialzarsi. «Tutto okay?».
Lui guardò il cadavere ai suoi piedi, respirando pesantemente. «Sì, grazie mille», rispose, cercando di tranquillizzarsi.
Con un movimento secco del braccio, tagliai di netto metà della “tenda” che i rampicanti formavano, occupandomi poi del resto. Rinfoderai il coltello e salii di nuovo al posto di guida, mettendo in moto e partendo alla volta di Washington.
«Sei sicura che vuoi guidare tu?», domandò Noah con tono spento.
«Tu hai guidato molto più di me, dovresti rilassarti un po'», lo rassicurai, sorridendo.
Per qualche secondo non disse nulla, ma non me ne preoccupai. Avevo notato che era diventato più silenzioso da quando eravamo stati a Richmond, ma era comprensibile.
«Tu ce la faresti anche senza di me», disse, all'improvviso. Nella sua voce ero riuscita ad udire un misto di ammirazione e frustrazione.
Gli lanciai uno sguardo veloce, per mantenere gli occhi sulla strada. «Non dire sciocchezze, Noah. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra», ribattei, accorata.
Gli sfuggì una risata amara. «Non è vero. Tu sei forte, Beth, molto più forte di me. Se mi lasci da solo per mezzo minuto vengo aggredito da uno di quegli esseri», disse, con disgusto.
«Sai quante volte mi sono distratta io, mettendo in pericolo me e...», mi bloccai, il nome di Daryl sulle mie labbra e il suo ricordo a pesarmi sul cuore. «...chi era con me? Tante. Non devi sottovalutarti, così come non devi sopravvalutare me».
«Però vuoi lo stesso andare a Washington, perché credi che io e te qua fuori non ce la faremmo. Non sei al sicuro con me, Beth. Non sono riuscito a proteggere mia madre ed i miei fratelli, figurati se riuscirei a tenere al sicuro te!», disse con rabbia. «Per questo vuoi arrivare là il prima possibile e trovare aiuto in qualcun altro. Hai le ore contate assieme a me».
Accostai con un gesto rabbioso ed uno stridore di ruote, tirando il freno a mano e mi voltai di scatto verso di lui.
«Smetta di dire queste cose!», esclamai alterata, incontrando finalmente il suo sguardo.
«Perché?!», domandò concitato, allargando le braccia.
«Perché sono tutte cazzate, Noah!»
Rimase interdetto dal mio eccesso d'ira, fissandomi incerto e con gli occhi spalancati. In effetti, per lui che mi aveva conosciuta come la dolce e gentile Beth, doveva essere stato strano sentirmi parlare in quel modo.
«Quello che hai trovato a Richmond ti ha sconvolto, lo capisco. Ma sbagli ad insinuare di essere tu il responsabile di quello che è successo a tua madre e ai tuoi fratelli, perché non è così. È Dawn che ti ha rinchiuso in quel maledetto ospedale per un anno, è colpa sua se non sei riuscito a tornare prima. È colpa di Dawn se non ho potuto ricongiungermi col mio gruppo. Non è colpa tua, e nemmeno mia, se siamo stati separati dalle nostre famiglie – sentii gli occhi riempirsi di lacrime e un nodo stretto stringermi la gola – non è colpa nostra se qualcuno che amavamo è morto. Entrambi abbiamo perso qualcosa di importante ed entrambi abbiamo bisogno l'una dell'altro per andare avanti.
Insieme siamo forti, okay? E invece che pensare a quello che non hai fatto, pensa a quello che hai fatto: non saremmo qui, non saremmo liberi, se non fosse stato per il tuo piano!».
Presi una pausa per respirare e calmarmi, ignorando le lacrime che erano scese a bagnarmi le guance; mi passai il dorso della mano sul viso per asciugarle.
Noah era ancora immobile a fissarmi, anche se gli occhi gli erano diventati lucidi; una lacrima gli rigò il volto quando sbatté le palpebre.
«Stai già soffrendo abbastanza, non peggiorare le cose addossandoti colpe che non hai», dissi, piano, guardandolo negli occhi.
Le mie parole sembrarono colpirlo così tanto che non trovò nemmeno la forza di rispondere o replicare: si sporse verso di me e mi abbracciò, stretta.
«Non so se ringraziarti o chiederti scusa», sussurrò, stringendo la presa.
Ridacchiai, scostandomi da lui. «Se proprio devo, accetto il grazie».
Lui mi rispose con un sorriso e si rimise al suo posto, sospirando.
Guardai nello specchietto retrovisore, e notai che alcuni erranti si stavano avvicinando al nostro pick-up.
«Abbiamo compagnia; meglio andare», dichiarai.
La successiva ora e mezza di viaggio scivolò tranquilla e senza particolari intoppi. Noah sembrava riprendersi lentamente di minuto in minuto, e lo provò il fatto che conversammo come due ragazzi normali: mi parlò della sua vita prima, di storie divertenti che coinvolgevano suo padre e i suoi fratelli, di come era Noah nel mondo che conoscevamo; anche io gli parlai di me, della fattoria, della mia famiglia e anche di come avevo conosciuto il gruppo di Rick. Non so che espressione avessi in faccia quando iniziai a raccontargli di
loro, ma qualcosa che vide nel mio sguardo lo spinse a cambiare subito argomento.
Come uno scherzo di pessimo gusto fatto da qualcuno con un senso dell'umorismo orribile, il nostro pick-up iniziò a tossire e ad arrancare qualche miglia prima di Washington, in una zona fitta di boschi e zone rurali.
Tanto per cambiare.
«Merda, abbiamo trovato ricche scorte di carburante e ovviamente la batteria se ne va a puttane», berciò Noah, richiudendo il cofano con un colpo secco; vi appoggiò le braccia e si guardò intorno. «Non c'è neppure qualche macchina attorno, per vedere se possiamo sostituirla».
Il pensiero di non avere un mezzo di trasporto con cui cercare un riparo e riprendere a viaggiare a piedi mi fece ingarbugliare lo stomaco. «Proviamo comunque ad andare avanti, ci siamo quasi», proposi, cercando di nascondere l'ansia. «Non possiamo arrenderci ora».
E non ci arrendemmo: portammo sulla nostra schiena i pesanti borsoni in cui trasportavamo provviste e le armi armi di scorta per un numero imprecisato di chilometri. Per tre lunghissimi giorni vagammo per i boschi, in costante pericolo, scappando di giorno e non chiudendo occhio la notte, sempre in allerta, senza sapere se la strada fosse quella giusta.
Eravamo stanchi, demoralizzati e le provviste cominciavano a scarseggiare. Fu in un vecchio fienile che Aaron ed Eric ci trovarono.
Si avvicinarono piano, senza far rumore, come si fa nei confronti di animali che potrebbero spaventarsi. Quando fecero capolino dall'ingresso della struttura, io e Noah scattammo in piedi nello stesso momento, puntando contro di loro la pistola ed il fucile in un gesto automatico.
La sensazione di essere in trappola mi offuscò la mente per i primi secondi, a tal punto che non mi resi subito conto che i due sconosciuti non avevano, a loro volta, tirato fuori le armi: si erano semplicemente limitati ad alzare le braccia, con cautela, in segno di resa.
«Salve», esordì uno dei due, con un sorriso. L'altro, anche se più nervosamente, lo imitò.
«State indietro», li minacciò Noah, avvicinandosi di un passo allo sconosciuto. Guardai il mio amico con apprensione, poi il mio sguardo gravitò nuovamente sui due uomini di fronte a noi.
L'uomo continuò a sorridere, abbassando le mani. «Tu devi essere Noah, vero?».
Noah strabuzzò gli occhi, aumentato la presa attorno all'impugnatura del fucile. «Come sai il mio nome?», domandò, accorato. «Chi siete?! Cosa diavolo volete?!».
«Io sono Aaron», si presentò, conciliante. «E lui è Eric», proseguì, indicando l'interessato con un cenno del capo. «Non vogliamo farvi del male, vogliamo soltanto aiutarvi».
«Certo», commentai con scetticismo sprezzante. «Ci credi tanto sprovveduti?».
«Niente affatto, Beth», replicò Aaron con un sorriso. Un brivido mi risalì lungo la spina dorsale e sussultai, inquieta. «Siete tutt'altro che sprovveduti e abbiamo avuto modo di vederlo, in questi giorni».
«Ci hanno spiato», mormorò Noah, incredulo.
«Sì», ammise Eric, «Ma non è come pensate. Non abbiamo cattive intenzioni, tutt'altro: vogliamo solo aiutarvi», ripeté.
«Se avessimo voluto attaccarvi lo avremmo già fatto, non credete? Vi avremmo presi alla sprovvista, puntandovi addosso un'arma come state facendo voi», disse Aaron, senza smettere di sorridere e cercando di essere il più convincente possibile.
«Siamo amici», aggiunse Eric.
In quel momento mi sorpresi ad elaborare un pensiero che fece capolino nella mia testa in modo improvviso ed inaspettato:
cosa farebbe Daryl?
Non dovetti pensarci su molto: avrebbe intimato loro di andarsene e, se fossero stati tanto stupidi da non ascoltarlo, li avrebbe uccisi lì dove si trovavano.
La nostra sicurezza prima di tutto, sempre: mai fidarsi delle altre persone, in un mondo del genere.
Mi sembrò quasi di sentire la sua voce avvertirmi ed ordinarmi di non fare stronzate, di non fidarmi di loro, per quanto potessero essere quasi rassicuranti i loro volti e i loro atteggiamenti. Potevano volerci fregare e quella poteva essere tutta una finta bene architettata... o forse no.
Dopotutto, non era stato Daryl stesso ad ammettere che stava iniziando a credere che esistessero ancora brave persone?

«Perché hai cambiato idea?».
Silenzio, ed uno sguardo talmente intenso che le parole non erano servite.
«Oh».

Al ricordo, il cuore mi si strinse in una morsa, che cercai di ignorare; studiai di nuovo Aaron ed Eric, apertamente, senza dire nulla.
Loro sembravano brave persone, decisamente.
Eppure, per una volta, decisi di riflettere prima, e mi sforzai di trovare un equilibrio tra la mia indole, troppo ingenua e ottimista, e quella di Daryl, sospettosa e diffidente.
Sorrisi ad Aaron ed Eric. «Immagino che non sia bello parlare a due persone che ti puntano una pistola in faccia», proferii.
Aaron ridacchiò. «Avete tutte le ragioni di farlo, non ci si può fidare degli altri in un mondo come questo. Nemmeno io lo farei. E comunque, ci siamo abituati».
Mai fidarsi delle altre persone, in un mondo del genere.
«Vi ascolteremo», dissi, guardando l'uomo negli occhi.
«Beth!», mi redarguì Noah, guardandomi scioccato.
Gli lanciai uno sguardo di rassicurazione. «Ad una condizione: dovete posare a terra tutto ciò che avete, armi comprese».
«I vestiti possiamo tenerli?», domandò Eric, sorridendo.
Una risata spontanea mi salì alle labbra. «Certo. Ma il mio amico dovrà comunque perquisirvi», ribattei in tono tranquillo.
«Niente in contrario», ribatté Aaron.
Dentro di me rimase la paura che ci fosse qualcuno, fuori dal capanno, pronti ad intervenire in caso di bisogno. Sperai che fossero solo loro due e che non fossero in maggioranza.
Si tolsero gli zaini e li posarono per terra, per poi dare una spinta col piede in modo che rotolassero a metà tra noi e loro, il tutto tenendo le mani alzate.
Con un cenno, diedi a Noah il benestare per iniziare a perquisirli: lo fece, ma non trovò nulla di sospetto addosso ai due uomini, che non smisero di sorridere nemmeno per un istante.
Noah si allontanò da loro e tornò al mio fianco, puntando di nuovo il fucile contro di loro. «Sembrano a posto», mi disse, poco convinto.
Lanciai ai due un ultimo sguardo, prima di abbassare la pistola. «Vi dispiace se tengo lo stesso in mano la pistola?», domandai, retorica. «Per sicurezza».
«Assolutamente no», rispose Aaron. Forse era la prima volta che gli veniva data la possibilità di parlare senza vedersi puntare addosso qualcosa.
«Bene», dissi, cercando di rilassarmi. «Volete accomodarvi?», chiesi, indicando la postazione vicino al fuoco con cui io e Noah cercavamo di combattere il freddo autunnale.
Ci sedemmo in cerchio, come in un normale falò. Noah continuava a mostrarsi sulla difensiva, rigido ma pronto a reagire in caso di bisogno.
«Allora, avete detto che volete aiutarci. Come?», domandai, senza troppi giri di parole.
«Avete un accampamento?», intervenne il mio compagno.
Aaron scosse la testa, più rilassato rispetto a quando era entrato. «No, viviamo in una vera e propria comunità, una piccola città eco-sostenibile protetta da mura di acciaio, che vive della risorsa più importante che possiede: le persone che la abitano».
Come al Grady, mi venne spontaneo pensare; mi irrigidii all'istante.
«Siamo appena fuggiti da un posto del genere», dissi in tono piatto. Sentii lo sguardo di Noah su di me, e non ebbi bisogno di guardarlo per capire che eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. «Costretti a vivere lì dentro senza possibilità di andarcene finché chi comandava non lo avesse deciso di sua spontanea volontà», aggiunsi, con tono disgustato e a pugni serrati. «È di questo che stiamo parlando?».
«No, Beth. La zona sicura di Alexandria non è niente di tutto questo», intervenne Eric, scuotendo la testa e parlando con tono rassicurante. «Nessuno è costretto a rimanere ad Alexandria, al contrario: chi non dà il proprio contributo alla comunità viene, ehm,
sollecitato ad andarsene. È una regola, una condizione per rimanere al sicuro, ma di certo chi arriva e decide di stabilirsi non ha debiti da saldare. Viverci - e accettare le condizioni - è una scelta, non un obbligo».
«Proprio così», commentò Aaron, guardando prima Eric e poi noi. «Alexandria è una comunità che funziona», continuò, con il tono che si usava per descrivere una terra promessa. «Ognuno degli abitanti ha un compito, un lavoro da svolgere che gli viene assegnato in base alle proprie competenze e capacità; in cambio gli viene data una casa, acqua corrente, elettricità, cibo e tutto quello che serve per vivere dignitosamente. Tutto questo al sicuro dal caos che vige qua fuori».
«Noah, per favore, guarda nello zaino di Aaron: dovrebbe esserci una busta con delle foto all'interno», disse Eric, indicando la sacca alle sue spalle. «Le foto vi faranno capire che non stiamo mentendo».
«Il vostro compito è cercare nuove persone da accogliere?», domandai ad Aaron, mentre Noah si alzava con cautela per prendere le foto.
«Esatto. Abbiamo iniziato ad osservarvi un paio di giorni fa, e ci siete subito sembrate due brave persone», rispose con convinzione. «È come se foste abituati a vivere qua fuori, come se sapeste come comportarvi di fronte ad ogni evenienza: sarebbe una risorsa enorme, per noi, avervi sotto la nostra protezione. Avremmo molto da imparare da voi».
Noah, che aveva già cominciato a sfogliare le foto, si fece più vicino per farle osservare anche a me. In quelle piccole immagini, che erano tutte in bianco e nero, c'era tutto ciò che Aaron ed Eric avevano decantato: mura alte e, all'apparenza, solide; case fotografate dall'esterno e che sembravano grandi ed accoglienti; una cisterna d'acqua enorme; una torre alta dalla quale si riusciva a vegliare su tutta la zona sicura; dei pannelli solari che garantivano una risorsa energetica praticamente inesauribile; una dispensa collettiva enorme e ben fornita, così come lo era il deposito di armi.
La zona sicura di Alexandria sembrava la concretizzazione di tutto ciò che io e Noah eravamo andati a cercare a Washington.
«Cosa ne pensi?», domandai a Noah in un sussurro, fingendo che Aaron ed Eric non fossero lì davanti a noi.
«Sembrano dire la verità», rispose, pensieroso. «Se rimaniamo qua fuori, moriremo. Se invece proviamo a fidarci, potremmo cadere in una trappola e morire comunque o...».
«Essere fortunati e trovare un posto sicuro in cui vivere», terminai, abbassando lo sguardo sulle foto. «Sei disposto a correre questo rischio?».
Dopo qualche secondo, rispose con un'unica parola: «sì».
Il mio sguardo corse prima a lui, poi ad Aaron ed Eric – che avevano assistito a quello scambio di opinioni senza proferir parola – ed infine alle foto che tenevo in mano: quella che ritraeva le mura era la prima del plico.
«Anche io».

~

Ci rimettemmo in viaggio non appena presa la decisione di fidarci, anche se rimanemmo comunque tesi e in allerta fino ai cancelli di Alexandria. Durante il viaggio non parlammo molto con Aaron, che guidava tranquillamente il SUV con il quale lui ed Eric – alla guida dell'altra auto – andavano in giro a reclutare le persone. Non so a cosa stesse pensando Noah che, in silenzio, se ne stava al mio fianco sul sedile posteriore, guardando fuori dal finestrino. Per quel che mi riguardava, non feci altro che sperare tra me e me di non aver fatto una cazzata a fidarmi, tutto il tempo. Mi sorpresi nuovamente a pensare a Daryl, a come si sarebbe comportato lui e, soprattutto, cosa avrebbe detto se mi avesse vista correre un rischio tanto grande riponendo la mia fiducia in persone che non conoscevo.
Sarebbe stato molto vicino a uccidermi, o forse non lo avrebbe fatto semplicemente per non negarmi il piacere di sentirlo inveire contro di me per la mia avventatezza. Immaginare il suo volto distorto dalla furia, però, mi fece sorridere; avrei anche accettato un'ora di insulti pur di averlo accanto a me, pur di vedere con i miei occhi che era vivo e che stava bene. Una piccola parte di me si domandò per quale strana ragione il mio pensiero corresse così spesso a lui, ma non ebbi il tempo di trovare una giustificazione o una risposta, perché la voce di Aaron mi distolse dai miei pensieri.
«Siamo arrivati», annunciò, voltandosi verso di noi per sorriderci.
Scendemmo dall'auto con cautela, le nostre borse ancora in spalla e le armi ben salde tra le dita.
Gli alti cancelli della zona sicura di Alexandria interrompevano bruscamente la strada che avevamo percorso in auto, ed era protetta ai lati dalla boscaglia che la contornava; anche dall'esterno si notava la stessa torre di guarda che avevo scorso sfogliando il plico di foto.
Aaron ed Eric si fecero riconoscere dall'uomo che stava di guardia al cancello d'ingresso, che era costituito da una solida grata che lasciava intravedere l'interno e da una lastra di acciaio che, invece, serviva ad oscurare la città a vaganti e umani.
«Nuove reclute?», domandò lo sconosciuto, con un ghigno.
«Nicholas», salutò Aaron con un cenno del capo, avnzando verso di lui mentre le barriere erano aperte. «Visitatori», lo corresse. «Ma io spero ardentemente che decidano di rimanere», aggiunse, voltandosi verso me e Noah, facendoci l'occhiolino. Mi venne da sorridere, spontaneamente.
Ci avvicinammo all'uomo che ancora imbracciavamo le pistole, quando con la mano fece fece segno di fermarci.
«Bellezza, devo chiederti di lasciarmi tutte le armi che hai», disse, guardandomi dalla testa ai piedi con un sorriso sghembo e lo sguardo viscido. «Anche a te, ragazzino», aggiunse poi con scherno, guardando di sfuggita Noah.
Chi distribuiva i compiti tra gli abitanti di Alexandria doveva essere straordinariamente bravo a comprendere chi fosse più tagliato per un certo ruolo di altri: se fosse stato Nicholas a trovarci in mezzo al bosco, non l'avrei mai seguito. Cercai di ignorare il disgusto per concentrarmi sulla sua richiesta, che aveva scatenato il panico dentro di me: cosa?! Dovevamo entrare in quel posto disarmati?! Guardai Aaron con gli occhi spalancati, in attesa di una spiegazione.
«Beth, fidati di me. Le armi non ti servono qui dentro», spiegò, col tono che si riserva ai bambini.
«Sono le nostre armi», intervenne Noah, alterato, sporgendosi in avanti.
«E rimarranno vostre: potrete usufruirne se andrete la fuori, in ogni momento; ma qua dentro non servono», replicò, in tono gentile ma fermo.
Come ci aveva ridotto quel modo, se non riuscivamo a pensare di vivere senza imbracciare un'arma?
Ignorando la parte di me che si opponeva a fidarmi di Aaron, allungai a Nicholas il borsone dentro il quale avevamo raccolto tutte le armi in nostro possesso: ignorai deliberatamente il ghigno vittorioso dell'uomo.
Aaron ci sorrise, come se fosse orgoglioso di noi e mi mise una mano sulla spalla. «Venite, vi porto da Deanna».
«Chi è Deanna?», domandò Noah, mentre Aaron iniziava a incamminarsi.
«La leader - se così si può definire - di questa comunità».
Mi fu impossibile evitare di pensare a Dawn e, scambiandomi una veloce occhiata con Noah, capii che nemmeno lui ci riuscì.
«La signora Monroe si occupa di assegnare i ruoli a chi vive qua dentro, e riesce a trovare il lavoro più adatto semplicemente parlando, chiedendo ad ognuno la propria storia. È straordinaria, non potremmo avere di meglio», continuò Aaron, senza nascondere l'ammirazione ed il rispetto che provava per la donna.
Aaron mi condusseda lei, da sola, e appena entrata in casa sua mi guardai attorno, girovagando per il vasto salotto: poche volte nella mia vita avevo visto case così eleganti e belle. Era la classica casa di città, così diversa da quella in cui ero cresciuta io.
«Ciao Beth, piacere di conoscerti», disse Deanna con voce soave, incurante del fatto che stessi curiosando in giro. Mi voltai di scatto, trasalendo dalla sorpresa.
«Salve, signora Monroe», risposi in un mormorio, rimettendo a posto il libro che tenevo tra le mani.
La osservai, ripensando alle parole di ammirazione che Aaron le aveva riservato: effettivamente, Deanna Monroe dava subito l'impressione di essere una donna tutta d'un pezzo, il volto rassicurante e l'atteggiamento deciso.
«Chiamami Deanna», ribatté, gentile, per poi sedersi su uno dei due sofà e indicandomi l'altro. «Prego, siediti».
Titubante seguii il suo consiglio, accomodandomi sul bordo del divano e stringendo le ginocchia tra le mani.
«Ti dispiace se filmo il nostro incontro?», domandò, e solo allora notai la telecamera ben sistemata sul cavalletto alle sue spalle. Scossi la testa.
«Allora, Beth, parlami un po' di te», mi sollecitò sorridendo, dopo aver capito che non avrei fatto il primo passo per iniziare la conversazione. «Da dove arrivate tu e Noah?».
«Da Atlanta», risposi, nervosa. Il suo sguardo attento e carico di aspettative mi metteva a disagio.
«Avevate un gruppo?», domandò, interessata.
«No. Cioé, non proprio», mi corressi. «Io avevo un gruppo, ma poi siamo stati divisi ed io ho finito per ritrovarmi a vivere nella comunità dove avevano imprigionato anche Noah»
.
Deanna alzò le sopracciglia. «Imprigionato?».
Annuii, abbassando lo sguardo. «Dawn, la leader, aveva il controllo sull'ospedale in cui vivevamo. Per come la vedeva lei, averci salvato la vita ci aveva messi nella condizione di esserle debitori. Avevamo un debito da saldare, lavorando nella comunità ed eseguendo ciò che ci veniva chiesto. Saremmo dovuti rimanere lì finché lei non avesse deciso di liberarci da quell'obbligo», spiegai, senza nascondere il disgusto.
«Poi cos'è successo?», domandò Deanna, sporgendosi inconsapevolmente verso di me.
«Siamo scappati», risposi, lapidaria.
I suoi occhi mi studiavano, pieni di ammirazione. «E siete riusciti ad arrivare fino a qui. Due ragazzi così giovani... Incredibile. Come avete fatto?».
«Il mio gruppo...», esitai un attimo, avvertento un groppo in gola. «Loro mi hanno insegnato a sopravvivere là fuori».
«Siete stati fuori per tutto questo tempo?», chiese di nuovo, lo sguardo ancora più sorpreso di prima.
«Quasi dall'inizio, ma è una storia lunga», tagliai corto. Non avevo voglia di ripensare a quando eravamo ancora tutti insieme, tutti vivi.
Papà...
«Lei invece?», domandai, per evitare che approfondisse la questione, più che per un interesse sincero. «Come è arrivata qui? Chi ha creato tutto questo?».

Se si accorse del mio intento di sviare il discorso, non lo diede a vedere. Mi raccontò invece che era stata un membro del congresso dell'Ohio che era stata rieletta. Quando era scoppiata la crisi, lei e la sua famiglia stavano cercando di tornare in Ohio, ma l'esercito li aveva fermati e condotti verso la zona che, già al tempo, era conosciuta come Alexandria Safe Zone. C'era, inoltre, un enorme centro commerciale in costruzione, vicino ad Alexandria, e lei e la sua famiglia avevano utilizzato i materiali del cantiere per costruire le mura attorno alla comunità. Man mano che il tempo passava, erano diventati sempre più numerosi: una comunità in piena regola, eco-sostenibile e autosufficiente.
«Perciò siete qui dentro dall'inizio», conclusi quando finì di parlare.
«Esattamente, Beth», asserì, lo sguardo deciso. «Per questo tu e Noah sareste un'enorme risorsa per noi».
«Noi non... Noi ce la caviamo, ma di certo non bene come la mia famiglia», ribattei, con la voce che si spezzò a fine frase.
«Dove sono loro? In quanti eravate?».
Avvertii gli occhi gonfiarsi di lacrime e guardai da un'altra parte, mordendomi un labbro. 
«Credo che siano ancora in Georgia... All'inizio non arrivavamo a venti persone, poi ci siamo stabiliti in una prigione e, essendo un luogo ben protetto, abbiamo iniziato ad accogliere altri sopravvissuti. Li andavamo a cercare, un po' come fanno Aaron ed Eric. Poi la prigione è andata distrutta e da lì ci siamo dispersi. Adesso non so quanti siano ancora vivi».
«La prigione è andata distrutta? Come?».
«La follia di un solo uomo può provocare danni enormi», risposi, atona. «Siamo come entrati in guerra con un'altra comunità, capeggiata da un omicida che si faceva chiamare Governatore. E' lui che ha iniziato tutto, è lui che si è presentato ai cancelli della prigione e li ha distrutti», raccontai, udendo ancora nelle orecchie il rumore delle esplosioni, delle urla e degli spari; avvertendo la stessa paura di quella volta scuotermi le membra,  mentre le immagini del Governatore che decapitava brutalmente mio padre mi riempirono i pensieri, dolorose.

«E per salvarvi, siete stati costretti a scappare ma non siete riusciti farlo insieme», concluse Deanna, gli occhi pieni di compassione.
«Sì», mormorai.

«Capisco. Mi dispiace moltissimo per quello che hai passato
», disse con sincerità.
Se sapessi davvero tutta la storia, ti dispiacerebbe di più, pensai fra me e me.
«
Per quel che riguarda il resto del tuo gruppo, se fossimo certi del fatto che si trovano più vicini, potremmo andare a cercarli». Il mio sguardo guizzò sul viso di Deanna, speranzoso.
«Ma, ora come ora, non riusciamo a compiere un viaggio così lungo. Un giorno, forse, ne saremo in grado», aggiunse subito dopo, attenta alla mia reazione.
Mi irrigidii, delusa. «
Un giorno potrebbe essere troppo tardi», ribattei, in tono piatto. 
«Beth, capisci che non posso mobilitare i miei uomini per cercare qualcosa che non siamo sicuri di trovare, vero?», domandò con fermezza.
«Anche Eric ed Aaron non sono sicuri di trovare persone da salvare, quando escono da quel cancello», mi infervorai. «In questo caso ne abbiamo la certezza: io so che sono vivi».
«Eric e Aaron non sono mai andati così lontano. È un viaggio lungo e rischioso, bisogna ponderare bene una decisione del genere», ribatté Deanna, cercando di farmi ragionare.
«Prenditi il tuo tempo per ambientarti qui, Beth. Se sono sopravvissuti fino ad ora, saranno in grado di continuare a farlo. Poi, quando sarà il momento giusto, ci mobiliteremo per andarli a cercare», disse, prendendo a guardarmi con uno sguardo che cercava di trasmettere tutta la sicurezza possibile, le labbra piegate in un sorriso.
La guardai per qualche momento, non sapendo bene cosa dire. Poteva dire la verità, come poteva dire una bugia, ma in entrambi i casi lo avrei scoperto solo rimanendo lì ed integrandomi nella comunità. Avrei potuto rifiutare l'offerta e tornarmene là fuori, in quel mondo impazzito; oppure avrei potuto attendere e cercare, col tempo, di convincere Deanna o Aaron ad aiutarmi, il tutto rimanendo al sicuro e conducendo una vita normale. Avrei avuto più possibilità di rimanere viva per cercarli se fossi rimasta al sicuro dietro le mura di Alexandria, lo sapevo.
E Deanna aveva ragione: ce l'avrebbero fatta in ogni caso. Mi fidavo di loro, delle loro capacità, della loro forza, del loro prendersi cura l'uno degli altri.
«Okay», dissi, espirando rumorosamente e appoggiando la schiena contro lo schienale del divano. «Rimarremo qui, ma non mi dimenticherò della mia famiglia», l'avvertii, con tono tranquillo ma fermo.
Deanna continuò a tenere i suoi occhi allacciati ai miei, sorridendo soddisfatta. «Sarebbe grave il contrario», ribatté. «Non potrei essere più
felice della tua decisione». Mi limitai a sorriderle in risposta, senza trovare nulla da dire. Dentro di me, speravo che Noah fosse d'accordo.
«Giusto per capire a quale compito sarà meglio assegnarti, cosa ti piaceva fare prima? In cosa eri brava? Stavi studiando per specializzarti in qualcosa di particolare?», domandò, interessata.
Ci pensai su un attimo. «Non saprei», risposi, scuotendo la testa. «Quando tutto questo è iniziato io ero ancora al liceo. Passavo le giornate nella fattoria della mia famiglia», iniziai a raccontare, fissando il vuoto e perdendomi nei ricordi. «Aiutavo mia madre nelle faccende, davo una mano a svolgere le mansioni della fattoria. Aiutavo mio padre, che era un veterinario e mi insegnava le basi della medicina. Avevamo un vecchio pianoforte, mia madre aveva cominciato a darmi lezioni... Mi piaceva suonarlo la sera, quando papà smetteva di lavorare. E amavo cantare», sussurrai, alla fine di quel discorso sconnesso e confuso.
Deanna capì cosa mi provocava ricordare la mia vecchia vita, e non mi fece ulteriori domande. Mi ringraziò per il tempo che le avevo dedicato e mi riaccompagnò da Aaron, mentre era il turno di Noah per colloquiare con la leader di Alexandria. Seguii Aaron fino ad una villetta che era più piccola rispetto alle altre che avevo visto quando avevo camminato per la via principale, ma altrettanto bella. Aveva un giardino, un patio e sembrava di costruzione recente per quanto tenuta bene.
«Questa sarà la tua nuova casa», annunciò Aaron, con un sorriso. «Quella lì vicina invece è destinata a Noah», aggiunse, indicando la villetta a destra della mia con un cenno del capo.
«Sono bellissime», sussurrai, facendo correre lo sguardo sulla porta, sulle finestre e sugli elementi architettonici che le caratterizzavano. «Sei sicuro che siano regalate?», domandai, voltandomi verso di lui con un'occhiata esageratamente sconcertata.
Scoppiò a ridere alla vista dei miei occhi spalancati. «Sicurissimo, è regalata ed è tua». Poi il suo sguardo si fece tenero e si avvicinò a me, appoggiandomi una mano sulla spalla. «Non riesco minimamente ad immaginare quello che tu e Noah possiate aver passato là fuori. Capisco che questa realtà vi disorienti e che facciate fatica a rilassarvi, ma adesso potete. Siete al sicuro, Beth, davvero. Qui dentro non si tratta di sopravvivere, si tratta di vivere. E voi ne avete il completo diritto».
Il suo tono di voce era talmente dolce, sincero e rassicurante che le lacrime salirono agli occhi senza che potessi farci niente.
Vivere, finalmente, non solo sopravvivere.
Se da una parte mi sembrava di scappare dai problemi e da quella che era la realtà del mondo fuori da quelle mura, dall'altra vedevo finalmente un nuovo inizio dopo mesi e mesi di stenti e sofferenze. Se solo gli altri fossero stati lì con me... Maggie, Glenn, Carl, Judith, Rick, Michonne, Bob, Sasha, Tyreese, Carol, Daryl: i loro volti cominciarono a susseguirsi nella mia mente ed il mio cuore si strinse in una morsa dolorosa.
«Vorrei che anche la mia famiglia ricominciasse a vivere, Aaron», mormorai, la voce spezzata.
Lui si fece vicino a me, coinvolgendomi in una sorta di goffo abbraccio. «Ci occuperemo anche di quello, Beth. Te lo prometto».

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Angolo autrice.

Allooora, salve a tutte/i!
Sono l'ennesima nuova leva nel fandom Bethyl - come autrice più che altro, visto che di fanfiction su TWD ne leggo/seguo parecchie - e, sì, ho deciso di uscire allo scoperto con una storia che mi vortica in testa da un bel po'. Da come avrete capito, è una "what if" con la quale vorrei salvare la vita a Beth e regalarle un happy ending con Daryl.
Perché li amo smodatamente, e non si meritano per niente quello che gli autori hanno avuto in serbo per loro nel telefilm originale.
Ci tengo molto a dare una versione alternativa della storia, e ci tengo soprattutto che sia coerente e credibile: sono molto attiva su Tumblr, e ogni tre per due incappo nei post del Team Delusional (così si fanno chiamare il gruppo di fan della Bethyl che credono che Beth sia ancora viva nonostante la 5x08), che mettono in piedi mille teorie ricche di indizi secondo i quali il colpo alla testa di Dawn non sia stato mortale per lei. Per quanto mi piacerebbe che il Team Delusional avesse ragione, mi riesce molto difficile crederlo. Mentre aspetto di essere contraddetta su tutta la linea dalla sesta stagione - magari! -, pasticcio un po' per conto mio con i miei due piccioncini preferiti :)
Per cui sì, per qualche fortunata ragione Noah e Beth sono riusciti a scappare con le loro forze e ad allontanarsi il più possibile da quella stronza di Dawn, alé alé!
Posso capire se il fatto che Beth non sia tornata indietro a cercare Daryl e gli altri possa stonare un po',  ma ho provato a immaginare come si sarebbe sentita a viaggiare in coppia con qualcuno non forte quanto Daryl (Noah ha passato quasi tutto il capitolo a piangere, per dirvi ahahah) o qualcun altro del gruppo. Io sarei morta di paura. Tornare indietro avrebbe comportato maggiori rischi, senza contare il fatto che non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare a cercare la sua famiglia.
Dovevano andare avanti.
Questo capitolo è lunghissimo, mi rendo conto, e probabilmente piuttosto noioso (vista la mancanza del nostro arciere o di colpi di scena), ma sarà l'ultimo così pesante. Dovevo inquadrare bene le situazioni e dare una base a tutto ciò che succederà nei prossimi capitoli e nel resto della storia.
Lo dico già da ora: non offrirò una versione tutta mia della sesta stagione, semplicemente perché non ho in mente niente di geniale o idee belle con le quali arricchire la trama originale. Questa storia si occuperà semplicemente del rapporto tra Beth e Daryl, episodi che trattano loro come coppia e molto spesso saranno pure discordanti tra loro (forse non seguirò nemmeno un ordine cronologico, chissà). Credo sarà una longfiction/raccolta di slice of life dei nostri amorini. Semplicemente ho dovuto dividere la parte iniziale da cui parte la mia versione alternativa perché già solo questo capitolo è lungo DICIOTTO PAGINE. Mi scuso già da ora per eventuali episodi di latte alle ginocchia!
Per aiutarvi a capire quanto tempo passa, mi sono scervellata sulla wikia di The Walking Dead e sono riuscita a elaborare una piccola linea temporale che dovrebbe aiutarvi a far quandrare meglio l'arco di tempo in cui si colloca tutto questo (e cosa succede lontano da Beth e Noah):

gg 504la prigione viene distrutta
gg 504-507 Beth e Daryl viaggiano assieme
gg 507Beth scompare
gg 510Beth e Noah scappano (4 gg per arrivare a Richmond)
gg 511il gruppo si riunisce dopo Terminus
gg 513cercano Beth ma non la trovano
gg 514il gruppo si muove verso Washington/
              Beth e Noah sono a Richmond/
              Sostano nel motel
gg 515arrivano a Washington
gg 516 Beth e Noah vagabondeggiano
gg 518Aaron li trova/Arrivano ad Alexandria
(Il gruppo dovrebbe arrivare più o meno dopo un mese rispetto a Beth e Noah)

Vi lascio inoltre il link al video che ho montato assieme, visto che un AU del genere su youtube non l'ho mai trovato:
https://www.youtube.com/watch?v=bEl1UtvtjnU
Potrebbe contenere spoilers, ma lo so sia io che voi che tanto questi due finiranno insieme, ahahah! Inoltre ci sono degli elementi di questa storia che non sono riuscita ad inserire nel video, perciò sono collegati, sì, ma non più di tanto :)
Potete anche visitare il mio tumblr che è tuuutto dedicato a loro, nel caso voleste chiedermi qualcosa riguardo la storia o per qualsiasi altro motivo!
Potremmo anche seguirci a vicenda, non mi stanco mai di vedere post sempre nuovi su Bethyl :F ecco il link:
http://itsbethylness.tumblr.com/ http://itsbethylness.tumblr.com/tagged/bethylness-fanart se volete vedere i disegni associati alla mia storia e alla Bethyl in generale.
Sì, sono ossessionata.

Qui invece scrivo tutto quello che riguarda solo la mia storia: http://blakieefp.tumblr.com/
E nulla, credo di avervi trattenuto anche troppo: prometto che è la prima e ultima volta. 
Domani partirò per le vacanze e credo che starò via un paio di settimane, dopodiché mi rimetterò a scrivere e a completare il secondo capitolo, che è già a buon punto!
Grazie mille a chiunque vorrà lasciarmi il suo parere, o anche a chi leggerà silenziosamente.

Un bacio!
Blakie



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Capitolo 2
*** Home ***



And we'll
be good
capitolo 2


Ci provai, nel mese successivo, a sentirmi a casa lì ad Alexandria: fu incredibilmente dura, molto più di quanto mi sarei aspettata.
La prima notte io e Noah dormimmo nel salotto della casa che era stata assegnata a lui;
dormimmo per modo di dire. Per quanto mi sforzassi di ripensare alla gentilezza di Aaron e alle parole rassicuranti di Deanna, non riuscii a chiudere occhio. Ogni minimo rumore mi faceva scattare e attendere il momento in cui qualcuno avrebbe sfondato la porta e ci avrebbe assaliti. Essere disarmata, inoltre, non mi aiutava a stare più tranquilla. Ma non successe mai nulla, nemmeno nella settimana successiva, e all'ottavo giorno ero talmente stanca e distrutta che dormii per dodici ore, dalle sette di sera alle sette del mattino successivo, in casa "mia".
Per me e Noah fu molto difficile abbassare la guardia dopo che, per un anno e più, aprire gli occhi la mattina significava stare in costante allerta, col pericolo sempre in agguato e con la speranza di riuscire ad arrivare vivi a fine giornata. La sopravvivenza non era una cosa affatto scontata, là fuori, per questo fu strano rimettersi nell'ordine delle idee che ora avevamo di nuovo una vita più o meno normale.
Inoltre, mi mancava la mia famiglia, fino a star male. Sapere che loro erano ancora là fuori mentre io ero lì, al sicuro, mi faceva scendere una lacrima tutte le notti prima di addormentarmi. I primi giorni non ero nemmeno riuscita ad alzarmi dal letto. Ero diventata più taciturna e avevo perso la voglia di cantare, perché il mio cervello era impegnato il novanta percento del tempo a pensare a come trovarli e salvarli. Avevo cercato di descrivere ad Aaron ed Eric le persone da cui era composto il mio gurppo, una ad una, per fare in modo che fossero riconoscibili per i miei due amici (ormai questo erano diventati per me) reclutatori. In un mese, Erano usciti dai cancelli di Alexandria tre volte, e tutte e tre le volte non avevano portato notizie di loro, non li avevano visti.
Ma noi eravamo pronti ad accoglierli.
Eravamo persino riusciti a scattare un'altra fotografia che mi ritraeva davanti ai cancelli di Alexandria, in modo che Rick e gli altri non pensassero che fosse un trucco di Aaron per attirarli in trappola.
Per fare in modo che Aaron ed Eric venissero presi sul serio dalla mia famiglia, ebbi l'idea di scrivere qualcosa nel retro della mia fotografia.

Alla mia famiglia:
sono viva, sono al sicuro e sto bene: l'unica cosa che mi manca qui siete voi.
Vi aspetto tra le mura di Alexandria. Vi voglio bene.

Beth
Ps: esistono ancora brave persone

Richiusi il pennarello, sperando con tutte le mie forze che la foto, le mie parole e quelle di Aaron servissero a convincerli che non era tutto un trucco e che stavo bene. Sperai soprattutto che il post scriptum per Daryl servisse come prova del nove: solo e io lui sapevamo il significato dietro quelle parole, nessun altro ad Alexandria avrebbe potuto riferirsi al nostro ultimo discorso. Sperai che sarebbe servito, di più non sapevo cosa fare.
L'unico modo in cui riuscivo a liberare la mente era lavorare come infermiera nel piccolo ambulatorio della zona sicura, affiancata dal medico-chirurgo Pete e dalla sua assistente, Josie. Passavo più tempo con Josie, infermiera anch'essa, che si premurava di istruirmi su tutto quello che mio padre non aveva fatto in tempo a insegnarmi; ma era successo anche che andassi a casa di Pete, per cenare con la sua famiglia. Jessie, sua moglie, era una donna giovane e deliziosa, così come i suoi figlii Sam e Ron erano educati e sapevano metterti a tuo agio; fu una bella serata, anche se qualcosa, nei modi materni con cui Jessie accolse a cena me e Noah, mi scavò un senso di vuoto nello stomaco.
Noah invece aveva trovato in Reg, marito di Deanna, un mentore che lo guidasse nello sviluppo della sua passione per l'architettura, della quale non ero a conoscenza e che mi sorprese. Passavano molto tempo insieme, discutendo su quale fosse il modo migliore per rinforzare le mura di Alexandria e dove trovare i materiali giusti, il tutto studiando, sulle mappe a loro disposizione, i dintorni circostanti la zona sicura. Per rendersi attivamente utile alla comunità, Noah si univa ogni tanto - quando Reg lo permetteva - alla squadra addetta alla ricerca di provvigioni e scorte. Avrei voluto unirmi a loro e non dover sempre aspettare il suo ritorno in preda all'ansia, ma quando avevo avanzato la richiesta, Deanna, seppur con gentilezza, mi aveva negato il permesso, ribattendo che la comunità necessitava la mia presenza
.
Ma rimanere entro le mura significava non fare nulla di entusiasmante per la maggior parte del tempo. Certo, ero grata per il lavoro che Josie stava facendo con me e l'attenzione con cui mi insegnava tutto ciò che sapeva: il problema era che non avevo modo di metterlo in pratica. Era una fortuna che la salute degli abitanti di Alexandria fosse tanto buona, ma in un mese mi ero occupata di aiutare prettamente persone anziane con i fastidi dovuti all'età e bambini che non avevano reagito bene al freddo che avanzava di giorno in giorno. Mi sentivo inutile.
Deanna lo sapeva, per questo, una mattina nuvolosa e piatta, era arrivata all'ambulatorio chiedendo a Josie se poteva sequestrarmi per un po'. L'espressione interrogativa era permeata sul mio volto finché non eravamo arrivate davanti al garage dove i bambini più piccoli avevano scuola, e Deanna li aveva salutati con un sorriso, annunciando: «da oggi in poi, ogni mercoledì, avrete una lezione speciale con Beth, la vostra nuova insegnante di musica».
Io l'avevo guardata con gli occhi spalancati, mentre i pochi bambini presenti sorridevano entusiasti assieme a Samantha, la loro maestra.
«Perché?»: ero riuscita a domandare solo questo, esterrefatta.
«In questo mondo si sta dimenticando l'importanza della musica. Non voglio che i bambini di oggi diventino adulti di domani che non sanno con quali canzoni far addormentare i propri figli», aveva spiegato, come se fosse la risposta più scontata da dare. La risposta più bella che mi potesse dare.
«Ti sono veramente grata, Deanna, ma... senza di loro, io...», avevo sussurrato, gli occhi che si riempivano di lacrime. «Non credo di riuscire più a cantare». 
Mi aveva messo una mano sulla spalla come gesto di conforto. «Se non te la senti posso capire, ma almeno pensaci. Non ti vedo affatto bene, Beth, e non sono l'unica a pensarlo», aveva replicato con lo sguardo preoccupato, riferendosi chiaramente ad Eric, Noah ed Aaron. Per un secondo avevo pensato che anche Aiden si fosse accorto del mio stato d'animo: dopo avermi conosciuta alla festa di benvenuto che Deanna aveva organizzato appositamente per me e Noah, ogni scusa sembrava essere buona per parlarmi o passare del tempo con me. Era un bravo ragazzo, più grande di me di qualche anno, e ancora non avevo capito se da me cercasse un'amicizia o qualcosa di più – o fingevo di non capirlo; ero certa solo del fatto che non ne avessi voglia. Più volte avevo reclinato i suoi inviti, persa com'ero nella mia bolla di malumore: sopportavo solo la compagnia di Noah e dei due reclutatori, o di Josie; in certe giornate, nemmeno quella.
«Sto bene», avevo detto, mentendo spudoratamente. «Credo solo di aver bisogno di tempo, ma ti prometto che ci penserò».
Deanna mi aveva sorriso. «Quando avrai preso una decisione dimmelo, qualunque essa sia».
Quella sera riflettei molto sulla proposta di Deanna, fissando il vuoto del soffitto comodamente stesa sul mio matrimoniale. Ogni volta che pensavo ad un motivo valido per accettare, la paura mi faceva fare un passo indietro; non sapevo esattamente cosa mi spaventasse o cosa mi facesse credere che non ne sarei stata in grado. Semplicemente, cantare non mi veniva più naturale come una volta: era questo che mi faceva davvero paura, che mi immobilizzava. La tristezza che mi provocava essere lontana dalla mia famiglia mi stava impedendo di fare ciò che amavo di più, e mi sembrava di non avere nessun mezzo per cambiare quella situazione. Ero prigioniera della mia stessa mente.
Forse, se avessi provato a ricominciare, ad andare al mercoledì successivo ce l'avrei fatta, questo pensai. 
E poi, così dal nulla, improvviso come un lampo nel cielo sereno d'estate, mi tornarono in mente la luce delle candele, i tasti d'avorio sotto le mie dita e la presenza di Daryl alle mie spalle che mi ascoltava in silenzio. Nella mia testa vissi di nuovo quell'episodio, avvertendo nel mio cuore un senso di sollievo; questa era una delle emozioni che mi provocava il pensare a lui: pace. Ricordai gli occhi di Daryl fissi nei miei, mentre si accomodava nella bara e mi esortava a continuare a cantare: era stato uno sguardo molto simile a quello che ci eravamo scambiati nella cucina, poco prima di separarci.
Intenso, confortevole e di difficile interpretazione, quasi quanto lo erano i sentimenti che mi suscitava qualunque cosa avesse a che fare con Daryl Dixon.
«Continua... continua a suonare. Canta».
Il suo suggerimento trascese il ricordo ed arrivò al mio cuore con un senso tutto nuovo: era come se allora mi avesse dato un consiglio che avrei dovuto seguire sempre, nonostante tutto. Qualunque cosa fosse successa, anche quando non ci sarebbe stato lui a proteggermi, avrei dovuto continuare a cantare, perché era questo che facevo io, questo che avevo sempre fatto: cantare, sempre. Andare avanti e vivere, sempre.
Il ricordo si srotolò davanti ai miei occhi finché non vidi me stessa esaudire la sua richiesta e iniziare a cantare, accompagnata dalla dolce melodia del pianoforte; senza che me ne accorgessi, la mia voce uscì da quel ricordo e mi ritrovai a muovere le labbra.
«
We'll drink up our grief and pine for summer», intonai, a bassa voce, con un lieve sorriso che sentii far capolino sulle mie labbra, «And we'll buy a beer to shotgun, and we'll lay in the lawn, and we'll be good... And we'll be good».
La mattina seguente, dopo quelle parole canticchiate, mi sentii più ben disposta nei confronti della proposta di Deanna: anzi, mi diede qualcosa di nuovo di cui occuparmi, un nuovo obiettivo, che per una volta non aveva a che fare con la routine dell'ambulatorio. Due mattine dopo mi ritrovai, quasi senza accorgermene, a segnare su un foglio tutte le canzoni che avevano fatto da sottofondo alla mia infanzia e che ero solita cantare assieme a Maggie e alla mamma. L'ambulatorio era vuoto come spesso accadeva, perciò ebbi tutto il tempo di pensare a cosa avrei potuto far cantare ai bambini, a come strutturare le lezioni e a come trovare un compromesso tra le diverse età dei miei piccoli allievi.
L'imbarazzo che provai quando mi presentai alla porta di Deanna per comunicarle la mia decisione era evidente, soprattutto a lei. Non ero sicura che fosse la scelta giusta, ma ero sicura del fatto che fosse giusto almeno provarci. Deanna accolse la notizia con entusiasmo, riservandomi persino uno sguardo orgoglioso. Iniziavo a credere che quella donna ci tenesse davvero a farmi diventare parte integrante della comunità, a prescindere dal fatto che li aiutassi con la sopravvivenza là fuori o meno. Che ci tenesse davvero a me.
Col mio verdetto, le portai anche la piccola lista di canzoni che avevo stilato, in modo da avere un suo parere a riguardo: ne discutemmo insieme e programmammo per bene gli orari e la struttura delle lezioni. Mi chiese se avessi bisogno di qualche strumento e - non senza un certo imbarazzo - le chiesi se potevo avere un pianoforte o una chitarra. Deanna si offrì di spostare il pianoforte che teneva in salotto nel garage adibito a scuola, aggiungendo che per la chitarra avrei dovuto chiedere ad Aiden, che mi avrebbe senz'altro prestato la sua.
Andai da Aiden il pomeriggio stesso, tanto per togliermi il pensiero, e la faccia sbattuta che mi ritrovai dopo aver passato due ore buone a cercare di dileguarmi fece ridere Noah; era venuto a prendermi perché quella sera eravamo invitati a cena da Eric: si sentiva solo dato che Aaron era uscito là fuori per cercare nuove persone e lui non aveva potuto accompagnarlo per una storta che si era procurato durante un'altra missione. Non ci avevo messo molto a scoprire che erano una coppia: una
bella coppia, a dire il vero.
«Ce l'hai fatta a liberarti», esclamò, con le mani infilate nelle tasche della giacca.
Feci una smorfia infastidita, alzando gli occhi al cielo. «Non so quante volte gli ho detto che dovevo andare. Trovava sempre una scusa nuova per trattenermi», mi lamentai, iniziando a camminare al suo fianco.
Noah rise, arruffandomi i capelli in un gesto affettuoso. «Le persone diventano pedanti quando prendono una cotta per qualcuno, non lo sapevi?», affermò con tono malizioso.
Sbuffai mentre mi sistemavo il disordine in testa regalatomi dal mio amico, stringendomi poi nel maglione. «Non ha una cotta per me», ribattei, per niente convinta.
«Come no, Greene! E' già tanto se non gli vengono gli occhi a cuore quando ti vede», disse, ridendo ancora.
Gli colpii il braccio con la mano. «Smettila, Noah!».
Se mi sforzavo di ignorare le prese in giro di Noah e l'insistenza imbarazzante di Aiden, mi resi conto che alla fine ero felice di avere tutto pronto in vista di quella nuova occupazione. Avrei iniziato, come stabilito dal principio, il mercoledì successivo dopo la pausa di metà mattina, dalle undici a mezzogiorno, cominciando con solo un'ora di “lezione”, giusto per conoscerci.
Mercoledì mattina aprii gli occhi presto, in preda a una piacevole agitazione, quella che si sperimenta nel momento in cui si sta per fare qualcosa di nuovo: era tanto che non provavo un'emozione del genere, e fui ancora più contenta di aver accettato l'offerta di Deanna.
Cercai di fare tutto molto lentamente, in modo da far passare il tempo e resistere fino alle undici. Preparai la colazione e la consumai con finta calma, perdendo tempo a ripassare il programma che avevo preparato per quella prima lezione mentre sorseggiavo il caffè e sgranocchiavo i biscotti preparati da Jessie. Invece di lasciare le stoviglie nel lavandino come mio solito, addirittura le lavai appena finita colazione, dirigendomi poi al piano di sopra per scegliere i vestiti da mettere. Cambiai idea due o tre volte, optando infine per dei semplici jeans abbinati ad una maglia a maniche lunghe, abbellita da qualche inserto di pizzo – tutti indumenti che mi avevano fornito i volontari al guardaroba di Alexandria.
Sentivo di non essermi vestita nel modo più adatto, forse perché non assomigliavo affatto alle insegnanti che avevo avuto quando ancora andavo a scuola, vestite sempre eleganti e di tutto punto. Per qualche motivo volevo presentarmi al meglio, nonostante sapessi che non era poi così importante – per Samantha o per i bambini – il modo in cui ero vestita.
Dato che era ancora presto, decisi di acconciarmi i capelli in una treccia più elaborata del solito, giusto per far trascorrere il tempo in modo ancora più impegnato.
Uscii di casa che mancava un'ora abbondante alle undici, perciò feci un salto all'ambulatorio per chiedere a Josie se avesse bisogno di aiuto: nonostante la sala d'attesa fosse vuota – l'unico paziente della mattina era stato Eric, che era andato lì per farsi controllare la caviglia – rimasi con lei per farle compagnia.
Più il momento si avvicinava, più spesso il mio stomaco si contorceva in fitte dolorose dovute al nervosismo; Josie mi domandò se volevo qualche tranquillante, ma rifiutai con un sorriso.
Era bello, dopo tanto tempo, essere nervosa per qualcosa di normale, di nuovo.
Era bello che fosse l'emozione a provocarmi fitte nello stomaco, e non la paura o l'angoscia.
Quando l'orologio sul muro bianco dell'ambulatorio mi rese noto che mancavano venti minuti alle undici, mi alzai e mi congedai da Josie, afferrando la chitarra che da quella mattina mi portavo appresso, per raggiungere il garage adibito a scuola.
La porta più grande del garage era chiusa – quel giorno faceva particolarmente freddo – perciò mi infilai nella porticina collocata ad un lato della struttura; mi ci volle qualche minuto per trovare il coraggio di bussare. E se fossi stata troppo in anticipo? E se avessi interrotto Samantha?
Inspirai dal naso ed espirai dalla bocca, profondamente, appena prima di decidermi, finalmente, a bussare. Samantha aprì la porta e, appena mi riconobbe, mi accolse con un gran sorriso.
«Ben arrivata, Beth!».
«Buongiorno, Samantha», mormorai. Era una donna giovane, e ciò mi rincuorò, specialmente perché il suo sorriso era caldo e rassicurante. «Spero di non essere troppo in anticipo».
«Sei in perfetto orario. Prego, entra!», esclamò, invitandomi con un gesto della mano. «Bambini, è arrivata Beth!», annunciò, mentre richiudeva la porta alle sue spalle.
Mi sentii addosso otto o nove paia di occhi, incuriositi ma sorridenti. Erano tutti bambini che non avranno avuto più di otto anni, ad una prima occhiata. Erano seduti ognuno al proprio banco e stavano disegnando tutto quello che a me parve avere a che fare con l'autunno: l'arancione ed il rosso erano i colori che dominavano sui loro fogli.
Da lì partimmo con le presentazioni e cercai subito di ricordarmi tutti i nomi e i volti: Claire e Jacob erano i bambini più piccoli e avevano entrambi tre anni. Alyssa, Grace, Joseph, William e Liam ne avevano sei e Cody e Paige, i più grandi, sette.
Avrei dovuto ricordarmene in modo da strutturare al meglio le mie lezioni, infatti mi segnai tutti i nomi e le età su un foglio.
Inizialmente fu difficile trovare il modo di dare il via alla lezione, perché avvertivo tutta l'inesperienza dalla mia parte, e ciò mi bloccava di tanto in tanto facendomi perdere il filo del discorso o facendomi inciampare nelle mie stesse parole mentre parlavo. Ma i bambini erano tanto buoni e cari, così come Samantha, che presto l'insicurezza lasciò il posto alla voglia di insegnare loro quanto bella e importante fosse la musica.
Partii dalle nozioni fondamentali, illustrando loro un pentagramma disegnato sulla lavagna bianca e riempendolo con le note musicali. Ripetei le nozioni un paio di volte, per poi terminare la lezione cantando assieme a loro una canzone che avevo imparato quando ero stata a mia volta una bambina, una cantilena che rendeva più facile ricordarsi i nomi delle note. Mi accompagnai con la chitarra di Aiden, e quando finii di suonare i bambini mi applaudirono entusiasti.
Samantha li esortò a mettere a posto i pennarelli e i fogli negli scaffali, prima di avvicinarsi a me con un gran sorriso.
«Sei andata alla grande, Beth», si complimentò, posandomi una mano sulla spalla.
Mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo, come se avessi finalmente ripreso a respirare dopo un'ora di apnea. «Non lo dici solo per farmi contenta, vero?», scherzai, sorridendo timida.
«Assolutamente no, sono sincera», replicò, serissima. «Deanna ci ha visto lungo: ci sai fare con i bambini, oltre che con la musica».
«Beh, grazie», risposi, imbarazzata da tutti quei complimenti, mentre il mio pensiero correva inevitabilmente a Judith e al soprannome che le aveva dato Daryl. Risi tra me e me.
Visto che era quasi ora di pranzo e che le parole di Samantha mi avevano trasmesso sicurezza, mi offrii di aiutare lei e un'addetta alla dispensa, Macie, a servire il pranzo ai bambini. Non c'era un reale motivo di trattenerli a pranzo, se non il fatto che fosse un'occasione in più per permettere a quei bambini di stare insieme, costruire amicizie e vivere il più possibile una vita simile a quella di prima.
Uscii dal garage verso le due e mezza psicologicamente provata: lo stress, l'emozione e il fatto che era parecchio tempo che non mi davo così tanto da fare mi avevano dato il colpo di grazia. Avevo mal di testa e mi sentivo stanca; l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era il momento in cui mi sarei finalmente buttata sul divano e avrei riposato un po'. Nonostante la stanchezza, però, ero felice di quell'esperienza: il mercoledì dopo sarebbe sicuramente andato meglio. Per un istante pensai di andare da Deanna per ringraziarla, ma non ero sicura di riuscire a resistere, visto che il desiderio pressante di riposarmi non mi lasciava stare.
Arrivai finalmente a casa e, chiusa la porta alle mie spalle, abbandonai la chitarra di Aiden vicino all'entrata e mi tolsi gli stivali, fiondandomi in salotto.
La sensazione che mi pervase quando sprofondai tra i morbidi cuscini del divano fu qualcosa di encomiabile che non provavo da molto: per un attimo mi sembrò di tornare indietro nel tempo, a quando mi stendevo dopo una giornata di scuola particolarmente stancante.
Mi sistemai a pancia in giù, abbracciando il cuscino e chiudendo gli occhi, lasciando andare un mugolio di soddisfazione: mi addormentai subito.
Non so dopo quanto tempo, ma ad un certo punto qualcosa mi trascinò lentamente fuori dal sonno, anche se subito non mi resi conto di cosa fosse. Ci vollero due o tre colpi alla porta per farmi finalmente capire che qualcuno stava bussando. Socchiusi gli occhi per un attimo, contrariata e senza la minima voglia di alzarmi.
«Chi è?», domandai scocciata e con la voce impastata dal sonno e attutita per metà dal cuscino.
«Ehi Beth, sono Aaron!», esclamò il mio amico da dietro la porta. Subito non riuscii a rendermi conto che era tornato da una delle sue spedizioni, intontita com'ero dal sonno.
«Entra», dissi a voce più alta, sbuffando e chiudendo nuovamente gli occhi, «è aperto».
Avvertii la porta aprirsi e Aaron dire «permesso», con una strana euforia nella voce alla quale non diedi subito peso. C'era qualcosa di strano nel modo in cui stava muovendo per il corridoio, ma non avevo abbastanza forza per aprire gli occhi e controllare. Tendendo l'orecchio e prestando più attenzione alla frequenza e al rumore dei suoi passi, con un po' di difficoltà, capii: Aaron non era solo.
La nebbia che mi pesava sugli occhi e rallentava la mia consapevolezza iniziò a diradarsi piano piano.
Aaron era stato fuori in perlustrazione, era tornato, non era solo. Non era solo. C'erano altre persone con lui. C'erano
molte altre persone con lui.
Non feci in tempo a capire – finalmente – ad aprire gli occhi e a scattare seduta che Aaron era già lì, di fronte a me.
«Beth».
Ma non era sua la voce che aveva chiamato il mio nome: era stata la voce di Maggie.
La stessa Maggie che, in carne ed ossa di fianco a lui, mi stava fissando con gli occhi spalancati e le labbra dispiegate in un sorriso tremante.
Ci impiegai un secondo a finire tra le sue braccia, le mie gambe si mossero da sole; o forse fu lei a venirmi incontro e ci incontrammo a metà strada, non lo sapevo. E non mi importava.

«Beth, oh mio Dio, Beth», continuava a singhiozzare Maggie, stringendomi a sé. Piangevamo, tutte e due. E ridevamo anche, perché era impossibile liberare un'emozione a discapito di un'altra, in quell'abbraccio che avevo creduto di non poter più dare. Eravamo libere di esternare ogni cosa.
Felicità, sollievo, paura, era mischiato tutto insieme e buttato fuori assieme alle lacrime che mi inzuppavano le guance. Si aggiunse anche il cordoglio, quando mi resi conto che quella era la prima volta che potevamo piangere in pace nostro padre, senza trattenere il dolore perché dovevamo pensare a scappare, come era successo invece alla prigione. Da sopra la spalla di Maggie incrociai lo sguardo commosso di Rick: Rick, che era diventato il più caro amico e alleato di mio padre, ed ora mi guardava con lo stesso sguardo paterno. Mi venne da piangere ancora più forte.
«P-Papà...», iniziai a dire, la voce spezzata dai sussulti del pianto. Non c'era bisogno che formulassi una frase completa, anche perché non avrei saputo come continuare. Maggie capì lo stesso.
«Lo so, piccola, lo so», singhiozzò, accarezzandomi i capelli senza sciogliere l'abbraccio. Nelle sue parole colsi il sollievo di poterlo finalmente piangere, lo stesso che avevo provato io. Rimanemmo strette ancora per un po', finché i nostri visi non diventarono completamente bagnati e convenimmo che, effettivamente, sarebbe stato meglio sistemarci un attimo. Aaron ci allungò due tovaglioli di carta che era andato a prendere nella mia cucina, ed io e Maggie ci asciugammo le guance e soffiammo il naso, ridacchiando imbarazzate.
Gli altri si strinsero intorno a noi, impazienti di salutarmi: era così bello rivedere i loro volti dopo averlo sperato così tanto, che la sensazione quasi mi frastornò. Li abbracciai uno ad uno, e per me fu come tornare alla vita, una stretta dopo l'altra. I loro sguardi commossi e felici non li avrei più scordati per il resto dei miei giorni, assieme alla sensazione di felicità autentica che provai.
Rick mi abbracciò per ultimo, il viso serio ma gli occhi accesi da una gioia che, in quegli ultimi minuti, avevo imparato a riconoscere.
«Beth, grazie al cielo», mi salutò con la voce intrisa di sollievo, lasciandomi un bacio sulla fronte poco prima di scostarsi da me per farmi salutare Judith. Tirai su col naso, ridendo, mentre altre lacrime iniziavano a scorrere. «Ciao, Rick. E ciao anche a te, piccola spaccaculi», mormorai verso la piccola, sfiorandole la punta del naso.
Poi mi bloccai: ecco cosa mancava, o meglio, chi. Nell'euforia del momento che aveva annebbiato la mia vista, e guardando i loro volti come se fossero qualcosa che faceva parte di una totalità indistinta, non mi ero accorta che in quella schiera di volti, quello di Daryl mancava.
Daryl non c'era.
«Dov'è
Daryl?», domandai a bruciapelo, spalancando gli occhi per la preoccupazione. Mi guardai intorno per cogliere un cambiamento nelle loro espressioni, in particolare mi soffermai su quella di Carol: non si era intristita o rabbuiata, perciò ne dedussi che a Daryl non era successo nulla di male.
«Credo che Deanna stia finendo il suo colloquio con lui in questo momento», confermò Aaron, ed io ripresi a respirare.
Infatti, qualche attimo dopo, sentii la porta di ingresso aprirsi lentamente e cigolare, seguita dal rumore di passi incerti. Mi sembrò di vederlo, mentre si guardava intorno diffidente, e non potei resistere un secondo di più. Potevo finalmente rivederlo, era vivo, stava bene ed era finalmente al sicuro, assieme a me e a tutti gli altri.
In tre falcate attraversai il salotto e mi affacciai al corridoio, rimanendo sulla soglia: lo vidi subito, accompagnato da Deanna e altri sconosciuti. E lui vide me.
Era come se fosse uscito perfettamente dai miei ricordi, dalla mia testa, con la balestra in spalla, il giubbotto di pelle e i suoi occhi blu penetranti e sempre circospetti. Non mi era mai sembrato tanto bello, mentre avvertivo il cuore battere impazzito e le lacrime minacciarmi di uscire di nuovo.
Ci fissammo, da un estremo del corridoio all'altro, per quello che a me sembrò un tempo infinito e breve nello stesso momento. Lui era lì, lo vedevo, ma questo non mi bastava: io dovevo sentirlo, dovevo sentire il suo corpo contro il mio e la sua vicinanza, per convincermi che fosse davvero così.
Daryl spalancò all'improvviso gli occhi e lasciò cadere la balestra che aveva in mano – come se solo in quel momento avesse realizzato che ero davvero lì.
«Beth!», esclamò, incredulo, mentre iniziava ad avanzare verso di me; lo stesso feci io.
Quasi gli saltai in braccio, logorata dall'impazienza di sentirlo finalmente stretto al mio corpo. Le sue braccia erano perfettamente strette e incastrate proprio sotto le mie, tanto che i miei piedi smisero di toccare terra molto presto, perché lui mi sollevò e mi strinse forte a sé.
Non avevo mai ricevuto un abbraccio del genere da Daryl Dixon, infatti – le poche volte che era successo – ero sempre stata io a prendere l'iniziativa o metterci più calore, tra i due. Ma non quella volta.
La sua fragranza mi inondò le narici: tabacco, cuoio, bosco, sudore, pelle. Era proprio come me lo ricordavo.
I miei singhiozzi non mi sorpresero per niente, al contrario degli strani respiri veloci e accorati che sentivo provenire dalla mia spalla, dove era affondato il volto di Daryl. O stava piangendo, o stava cercando di non piangere. Quel lato di Daryl che avevo solo intravisto, il fatto che stesse reagendo in quel modo
per me, mi fece sciogliere il cuore come neve al sole.
Quando non riuscì più a tenermi sospesa, iniziò a barcollare e mi posò gentilmente a terra, ma io lo trattenni a me e, nella foga del movimento, finii con la schiena contro al muro, mentre Daryl mi sovrastava ancora, stringendomi ancora più forte contro la parete. Affondai il volto nel suo petto, mentre il suo braccio destro mi circondava la spalla e l'altro mi teneva contro di lui premendo sulla schiena. Fu come se il tempo si fosse fermato, tornando poi ad avere un senso. Come se le altre persone che stavano assistendo alla scena non esistessero; quasi mi sembrava di vedere la sorpresa sui loro volti dato che, alla prigione, non avevamo certo dimostrato di avere il tipo di rapporto che spinge due persone ad abbracciarsi in quel modo dopo essere state separate a lungo. Ma non mi importava, ci sarebbe stato tutto il tempo per le spiegazioni.
Non ci potevo credere: quel mese di agonia, paura, solitudine era stato difficile, certo, ma la mia fiducia, la mia speranza, erano state ripagate. Avevo di nuovo la mia famiglia, lì con me, e avevo Daryl.
Stretta nel suo abbraccio caldo e disperato, tutto quello che avevamo passato insieme assunse ai miei occhi un nuovo significato, assieme a tutti i pensieri su di lui che avevano popolato la mia mente quando era lontano. Non potevo più ignorare il cuore impazzito nel mio petto, né la gioia che stava facendo agitare ogni mia singola cellula, o i miei occhi che agognavano nuovamente il suo viso, diventato così dannatamente attraente quasi da un momento all'altro. Non potevo più far finta di non capire perché il mio pensiero fosse corso così spesso a lui, mentre non c'era. Non sarei più stata in grado di fingere che la voglia disperata di proteggerlo e tenerlo al sicuro, e soprattutto di averlo vicino, fosse dettata da un affetto fraterno o da semplice amicizia.
Io provavo qualcosa per Daryl Dixon, ormai non aveva più senso mentire a me stessa.
Ne ero persino innamorata, forse.
Al culmine di tutti quei pensieri, Daryl mi diede il colpo di grazia scostandosi appena da me, per posarmi una mano tra il profilo della mascella e il collo e appoggiare, per un istante troppo breve, le labbra e la guancia contro la mia tempia sinistra, tornando poi ad abbracciarmi. Il mio cuore prese il volo e la testa iniziò a girarmi.
Se Daryl non mi avesse tenuta abbracciata così saldamente, probabilmente sarei svenuta: troppe emozioni, per quel giorno. Troppa confusione, in quel momento, per farsi domande e trovare risposte. Avrei avuto tutto il tempo di pensarci e capire, ora che il mio cuore era libero da qualsiasi altra preoccupazione.
La mia famiglia era lì, con me, al sicuro: nulla poteva più spaventarmi.


"This is a place where I don't feel alone
this is a place where I feel at home."
w
(The Cinematic Orchestra - To build a home)




Angolo autrice.
Oh, questa volta sono stata più brava, 12 pagine anziché 15! Stiamo facendo progressi :P
Beh, che dire di questo capitolo... finalmente Beth ha potuto riabbracciare la sua famiglia, era una lagna che non si sopportava più! Ahahah, scherzo, ovviamente.
Mi dispiace farvia assaggiare il biscotto e poi togliervelo, ovvero far comparire Daryl e finire il capitolo, ma spero mi perdonerete! Come al solito, stava venendo troppo lungo, e non volevo fare tutto frettolosamente solo per fare in modo che si parlassero e facessero qualcosa di più dell'abbracciarsi. Pensate solo che Daryl finalmente ha fatto la sua comparsa nella storia, e non se ne andrà più. A me riempie di gioia, a voi? Vi dico da subito che il prossimo capitolo sarà quasi totalmente incentrato su di loro, quindi resistete un altro po' e godetevi questa benedetta, agognata reunion!
Mi dispiace per la prima parte super pallosa, ma volevo cercare di sviluppare bene il personaggio ed il ruolo di Beth all'interno della comunità, in modo da non dover riprendere poi più avanti questo aspetto!
Ci tengo a puntualizzare una cosa sulla frase finale, che è chiaramente il verso di una canzone (
cercatela su youtube, è stupenda!): ho una playlist tutta mia che mi è servita di ispirazione per questa storia; particolarmente ricorrente sarà il tema di “casa” come posto in cui tornare, in cui arrivare, in cui restare. Certo mi riferisco ad Alexandria come luogo, ma anche a Beth che diventa la casa che Daryl ha cercato per tutta una vita. Quindi si parla di legami affettivi; in particolare in questo capitolo, volevo rendere accentuato il fatto che, come Rick e gli altri hanno trovato una casa nuova, per Beth il vivere in Alexandria ha riacquistato un nuovo significato appunto perché finalmente la sua famiglia è lì con lei: finalmente, può sentirsi a casa.
Ah, belli i mappazzoni psicologici!
Se vi interessa vedere gli outfit (fa tanto fanfiction.net ahahah), le immagini, le musiche e tutto ciò che mi ispira nella stesura di questa storia, potete visitare il tumblr che ho aperto appositamente per entrare in contatto più diretto con voi :)
http://blakieefp.tumblr.com/ è tutto qui!
Niente, direi che anche per stavolta è tutto! Ringrazio veramente di cuore le persone che hanno recensito lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/da ricordare e chi più ne ha più ne metta, e anche chi ha letto soltanto.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi farebbe molto piacere ricevere qualche parere :)
Alla prossima!
Un bacio,
Blakie



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Capitolo 3
*** «You». ***


and well be good capp 3 nvi

And we'll be good
capitolo 3

 


Sciogliere l'abbraccio con Daryl fu come ritornare coi piedi per terra, in due entità di nuovo separate e distinte.
Fu lui il primo a scostarsi, facendo scivolare le mani dalle mie spalle lungo le braccia e chiudendo delicatamente le dita attorno ai miei gomiti, allontanandomi con gentilezza. Anche se mi sentivo leggermente spaesata, riuscii comunque a chiedermi se avesse interrotto l'abbraccio perché, più di tanto, non sopportava il contatto fisico, o perché le persone intorno a noi erano stati spettatori di quel ritrovarsi carico di emozione. Forse era preoccupato di quello che avrebbero potuto pensare.
Fece un passo indietro, per darmi modo di respirare e riprendermi i miei spazi; alla luce di quello che avevo capito di provare per lui, adesso mi veniva difficile guardarlo in faccia senza provare un latente senso di imbarazzo. Mi sforzai di alzare lo sguardo per captare la sua espressione: era molto simile a quella che avevo scorto quella volta in cui era scoppiato a piangere davanti a quella vecchia baracca, con la differenza che sulle sue labbra aleggiava un sorriso appena accennato. Gli occhi erano pieni di sollievo e... qualcos'altro.
Sorridere a mia volta fu spontaneo, nonostante le lacrime e nonostante fossimo ancora al centro dell'attenzione.
Avrei potuto dirgli almeno un “ciao”, o qualcosa del genere, ma nessun saluto avrebbe retto il confronto con quello che i nostri occhi si stavano dicendo: così rimasi in silenzio a sorridergli, mentre lui sorrideva a me.
«Hai visto, Daryl? È viva e vegeta, come vi avevo promesso», intervenne Aaron, sorridendo e porgendo a Daryl la balestra che aveva lasciato cadere.
Daryl si voltò verso di lui, tornando diffidente e riprendendosi l'arma, senza dire nulla. Dentro di me mi venne da ridere, perché Daryl era stato l'unico che, evidentemente, era riuscito a imporsi per tenere con sé l'arma con cui aveva varcato i cancelli.
«Quanto hai faticato per convincerli?», domandai al mio amico, sorridendo a trentadue denti. Ero talmente felice che non riuscivo a crederlo. Mi guardai attorno, beandomi di nuovo della visione dei loro volti, rendendomi conto di quanto il corridoio fosse diventato improvvisamente affollato e stretto.
«Parecchio», rispose Rick al posto di Aaron. «Forse, senza la foto, non avremmo creduto che fossi davvero qui ad aspettarci».
Maggie mi affiancò, circondandomi i fianchi con un braccio. «Quando ti ho vista in quella foto, quando ho letto... non potevo crederci», sussurrò, baciandomi una tempia.
Misi la testa contro la sua spalla. «Lo sapevo che Aaron vi avrebbe trovati, prima o poi. Non ho mai perso la speranza». Sentii lo sguardo indecifrabile di Daryl su di me.
Deanna, che fino a quel momento aveva assistito al tutto con discrezione ed un sorriso ampio, si avvicinò a noi. «Né la determinazione: sapeste quanto ho faticato per riuscire a trattenerla qui dentro», esclamò la donna, accarezzandomi il capo con affetto.
«Non la ringrazierò mai abbastanza per questo, Deanna», disse mia sorella, stringendomi un po' di più a sé.
Deanna sorrise ma cambiò argomento. «Dammi del tu, Maggie. Immagino che avrete molto da raccontarvi, ma prima permetteteci di mostrarvi le vostre nuove abitazioni, così potrete darvi una rinfrescata e mettervi a vostro agio».
C'era qualcosa di diverso negli sguardi di ognuno di loro: diffidenza, certo, ma li trovavo molto più rilassati e ben disposti di come si sarebbero trovati in qualsiasi altra situazione. Forse, il fatto che io fossi ad Alexandria da un mese e più e che ci vivessi bene li rincuorava e li faceva sentire più sicuri. Sperai che, almeno per una volta, Rick potesse sentirsi al sicuro, assieme a Carl, Judith e a tutti noi.
Mi furono presentati gli sconosciuti che erano entrati assieme a Daryl: padre Gabriel, un prete che li aveva accolti in una cappella in cui erano rimasti per qualche tempo; Abraham, Eugene e Rosita, altri sopravvissuti che Glenn aveva incontrato poco dopo essere scappato dalla prigione, assieme a Tara, una ragazza che faceva parte del gruppo del Governatore. Mi si strinse il nodo in gola e capii che lei era stata semplicemente una pedina nelle mani di quel mostro, quando mi abbracciò e mi chiese scusa con la voce spezzata. Poi, fu il mio turno di abbracciare Sasha quando venni a sapere della morte di Bob. Furono degli scambi davvero veloci, in confronto a tutto ciò che era successo, perciò rimandammo i racconti a più tardi.
Alla mia famiglia vennero assegnate due grandi abitazioni, che si trovavano nel mio stesso viale, solo qualche casa dopo. Avrei voluto che Maggie e Glenn stessero da me, ma purtroppo la mia casetta non era abbastanza grande per tutti e tre. In quel momento, realizzai che Deanna non aveva voluto darmi un'abitazione con una camera in più per non provocarmi ulteriore dolore nel caso l'altra camera fosse rimasta vuota.
Le case erano bellissime e spaziose come mi aspettavo, e fu una gioia vedere i loro volti pieni di sorpresa, sconcerto e diffidenza davanti alle imponenti stanze che si trovarono davanti agli occhi. L'unico che non mostrò nemmeno il minimo accenno di stupore fu, ovviamente, Daryl: entrò in entrambe le case, guardandosi a malapena intorno, con lo sguardo indurito dalle sopracciglia aggrottate. Non rimase presente nemmeno il tempo di assegnarsi ad una camera da letto, perché scese le scale in compagnia della fedele balestra e uscì nel portico della casa che avrebbe diviso con Rick e i suoi figli, Michonne, Carol, Maggie e Glenn.
«Gli serve tempo», spiegò Carol, sorridendo serafica a Deanna e ad Aaron per spezzare il silenzio imbarazzato che era sceso quando Daryl era uscito.
Noah, che avevo già avuto modo di presentare alla mia famiglia – era difficile non notare tutte quelle persone entrate e poi uscite da casa mia – mi rivolse un sorriso di incoraggiamento; chissà che espressione avevo assunto. Preoccupata, sicuramente.
Terminammo il giro delle case e li lasciai tranquilli a sistemarsi, rinfrescarsi e prendere confidenza con l'ambiente; l'unico che non cedette alla voglia di farsi una bella doccia rilassante fu proprio Daryl.
Lo trovai ancora appoggiato alla colonna in legno del portico, intento a trafficare con la balestra, mentre uscivo da quella che ormai era casa di Maggie – e, beh, anche sua.
«Ti hanno lasciato la balestra», notai, per non rimanere lì in piedi davanti a lui a fissarlo in silenzio come un'idiota.
Lui alzò lo sguardo, con un'espressione perplessa stampata in volto. «E?».
Mi strinsi nelle spalle. «Beh, è strano, Nicholas non è il tipo da fare sconti».
«Chi è Nicholas?», domandò con tono piuttosto disinteressato, tornando a pulire la sua amata balestra.
«Il coglione che sta all'ingresso dei cancelli», spiegai, con tono irrisorio.
Non appena udì la mia offesa, alzò la testa di scatto, con un sorriso sardonico sulle labbra. «Non ti ricordavo così volgare, Greene», affermò, alzando un ginocchio e poggiandoci sopra l'avambraccio e facendo penzolare la mano, guardandomi divertito. Mi sentii avvampare dall'imbarazzo e temetti di aver esagerato, ma non riuscii a trattenere un sorriso.
«Non ti ricordavo così... - feci una pausa per squadrarlo dalla testa ai piedi, fingendo di cercare l'aggettivo – nero, Dixon. Perché non vai a farti una doccia? Ti farebbe bene», ribattei, canzonatoria.
Lui grugnì, sciogliendo la posa e riprendendo in mano la balestra. «Sto benissimo così».
«No, davvero, se le altre sono occupate puoi venire da me».
Accadde nello stesso momento: io sbiancai, rendendomi conto dell'implicazione maliziosa che avrebbe potuto avere la mia proposta, e Daryl mi guardò a occhi spalancati, sorpreso.
Stavo dispiegando le labbra per balbettare qualche giustificazione, ma lui non si lasciò scappare l'occasione di farmi morire di imbarazzo, ovviamente.
«Sei persino diventata sfacciata», ne convenne, ironico. Il suo sorriso derisorio mi fece desiderare di sprofondare o di piantargli qualcosa in fronte, ero indecisa.
Gli rivolsi l'occhiata più furiosa che riuscivo a fare, scendendo velocemente gli scalini con passo pesante, per chiudermi in casa mia e buttare la chiave. «Vai al diavolo, Dixon!», mi congedai, mentre sentivo il suo sorrisetto idiota perforarmi la schiena.
Meglio stronzo che morto, meglio stronzo che morto, ripetei tra me per provare a convincermene, mentre mi asciugavo i capelli e mi preparavo per cenare assieme alla mia famiglia. La doccia non era servita più di tanto a farmi passare le fitte di imbarazzo che mi scuotevano lo stomaco tutte le volte che ripensavo - o meglio, che il mio cervello mi faceva ripensare - allo scambio con Daryl.
Non avrei dovuto permettere alla mia bocca di scollegarsi dal cervello e farmi fare una figura simile, che diavolo mi era venuto in mente? Proporgli di fare una doccia. A casa mia. Per un secondo, il mio cervello mi fece apparire il flash di un Daryl nudo sotto il getto caldo della doccia alle mie spalle, senza che potessi impedirlo. Mi sentii sprofondare di nuovo dalla vergogna. Forse era la consapevolezza di ciò che provavo per lui ad amplificare qualsiasi emozione lo riguardasse; in ogni caso, ero fregata.
Seriamente, come mi era saltato in testa di...
innamorarmi - facevo persino fatica a pensarla, quella parola - di Daryl Dixon?
Era assurdo. Daryl era troppo grande per me, in fatto di età, certo, ma anche di mentalità: non si sarebbe mai sognato lontanamente di vedermi come qualcosa di diverso da una stupida ragazzina lagnosa che doveva essere salvata in continuazione. Mi era bastato stare separata da lui per un attimo, alla casa funeraria, per farmi rapire da quelli del Grady. E poco importava che fossi riuscita a fargli cambiare idea sulla bontà delle persone, ero ancora troppo poco per lui.
Avrei potuto considerarmi fortunata se i suoi occhi non mi avessero più vista come "un'altra ragazza morta", ma come quella che era riuscita a scappare da chi la teneva prigioniera e che era riuscita ad arrivare a Washington viva. Non avrei potuto aspirare ad altro, e andava bene così.
Daryl non si riteneva degno di essere amato da qualcuno, né si rendeva conto di quanto le persone del gruppo gli volessero bene: era questa l'impressione che avevo sempre avuto. L'unica cosa sulla quale non aveva da ridire era il suo valore come arciere, cacciatore e sopravvissuto, ma per il resto non si considerava una gran persona:
che idiota, pensai, con un sorriso.
A parte l'imbarazzo dovuto alle sue battutine e a tutte le mie paturnie su ciò che provavo per lui, non mi sentii a disagio quando lo salutai appena arrivata a casa sua, dove Maggie e gli altri stavano già iniziando a preparare tutto per la cena. Ero passata dalla dispensa comune per prendere quello che mancava, trasportando il tutto in una cesta piuttosto pesante. Si alzò dallo stesso angolo in cui si era seduto quel pomeriggio, nel portico, e mi chiesi se fosse rimasto lì da allora.
«Da' qua», disse in modo disinteressato, liberando le mie braccia da quel peso. Gli aprii velocemente la porta per aiutarlo e lo seguii non appena entrò, facendomi precedere in cucina. C'era un familiare viavai tra la cucina e l'enorme sala da pranzo: erano tutti lì, puliti, rinvigoriti, belli come non mai. Ai miei occhi, quella scena si presentò come il ritratto perfetto della felicità, ed ero talmente persa a godermela che a malapena mi accorsi dell'abbraccio di benvenuto di Maggie. Da quando ci eravamo ritrovate, sembrava che avesse il bisogno costante di abbracciarmi o anche solo toccarmi, per assicurarsi che fossi davvero lì con lei.
«Ehi!», esclamò per attirare la mia attenzione. Era radiosa.
«Uh, ciao Mag! Ho portato dalla dispensa comune quello che vi serviva», dissi, ricambiando l'abbraccio con un sorriso e indicando il cesto che Daryl aveva posato sulla penisola della cucina. Carol ci stava già rovistando dentro, mentre qualcuno era già ai fornelli ed altri si stavano occupando di apparecchiare la tavola. Quella sera saremmo stati solo e soltanto noi, senza Aaron, Deanna o chiunque altro, proprio come un tempo. Persino Noah aveva rifiutato con un sorriso, per permettermi di passare del tempo tra di noi: lo avevo minacciato promettendogli che, la prossima volta, non mi sarebbe sfuggito. Gli unici "sconosciuti" che si sarebbero seduti a quel tavolo erano Abraham e gli altri, ma capii che ormai facevano parte del gruppo e la cosa non mi dispiaceva.
Non fu la cena luculliana che avremmo potuto preparare nel mondo di prima, dato che il cibo di cui disponevamo era razionato equamente, ma fu lo stesso tutto perfetto.
Con il chiacchiericcio intorno a me che riempiva la stanza, mi persi un paio di volte nei miei pensieri,  assolutamente incredula del fatto che fossi davvero lì con loro, perché era tutto troppo bello per essere vero. Quando tornavo alla realtà, incrociavo gli occhi di Daryl, a qualche posto di distanza dal mio, che mi fissavano indecifrabili. Che si stesse preccupando per me?
«Beth, devi ancora dirci per bene cos'è successo dopo che ti sei separata da Daryl», intervenne Carl ad un certo punto, mettendo fine alle micro-conversazioni sparse per la tavolata.
«In realtà non mi sono separata da lui», precisai, lanciando un'occhiata al diretto interessato. Per un momento, mi venne il dubbio che davvero avesse pensato di essere stato lasciato indietro. Era forse impazzito? «Mi hanno rapita, dopo che siamo stati attaccati dai vaganti in quella casa funeraria. Non ricordo molto bene com'è successo, ricordo solo che mi sono risvegliata in un ospedale, da sola. Per fortuna io e Noah siamo riusciti a scappare: quel dannato posto era una prigione, avrei preferito mille volte rimanere con Daryl», conclusi, senza preoccuparmi di cosa avrei potuto far intendere con quelle parole. Sentivo lo sguardo preoccupato di Maggie su di me.
«Quel
fottuto posto è pieno di pazzi ingenui che non sanno un cazzo di come sta andando il mondo», mi corresse Daryl, prendendomi in contropiede.
Voltai il viso verso di lui con uno scatto, con gli occhi spalacati dalla sorpresa. «Come... Come fai a saperlo?!», domandai, esterrefatta.
«Buona parte di noi è venuta a cercarti, ma non ti abbiamo trovato. Siamo arrivati lì perché Daryl e Carol sono riusciti a trovare una tua traccia», spiegò Rick. Venni scossa da un brivido, quando mi resi conto del rischio immane che avevano corso solo per trovare me. Ero atterrita, completamente senza parole. Mi ci volle un grande sforzo per aprire di nuovo bocca.
«Come avete fatto a uscire vivi da lì? Cos'è successo?», domandai con la voce tremante. Maggie mi prese la mano e la portò sulla sua coscia, per poi stringerla, mentre il mio sguardo orbitava da Rick, Daryl e Carol.
Fu quest'ultima a rispondere. «Siamo arrivati e abbiamo chiesto di te. C'era una ragazza piuttosto giovane al comando, abbiamo parlato un po'».
Analizzai la sua frase, capendo subito che non era di Dawn che stava parlando: anche se non era vecchia era comunque adulta, vicina ai quaranta, e non le si poteva certo addebitare la nomea di "ragazza piuttosto giovane". Inoltre, era impossibile parlare con lei senza puntarsi qualcosa addosso a vicenda.
«Vi ha detto il suo nome?», domandai, impaziente.
«Shepherd, il nome non me lo ricordo», rispose Carol, ma il nome non importava. Mi bastava il cognome per capire che la leadership di Dawn era stata finalmente rovesciata.
Mi lasciai andare ad un lungo sospiro di sollievo, che non passò inosservato. «Che c'è?», domandò Daryl, burbero.
«Non sapete a cosa siete riusciti a scampare... Quando io e Noah siamo fuggiti, l'ospedale era sotto il controllo di un'altra donna, Dawn Lerner. Era convinta che qualcuno sarebbe arrivato a salvarli, un giorno, e noi eravamo costretti a stare lì perché ci avevano salvato la vita, perciò avevamo un debito nei loro confronti. Era la donna peggiore che potessi incontrare. Se ci fosse stata lei al vostro arrivo, sarebbe andata a finire peggio», spiegai, senza nascondere l'angoscia nella mia voce.
Glenn, accanto a me, mi accarezzò la nuca. «Sinceramente dubito che Dawn sarebbe stata una minaccia più grande rispetto a tutto quello che abbiamo passato», disse come battuta, anche se il sorriso era abbastanza forzato.
«Perché?», domandai, interdetta.
Ciò che mi raccontarono fu qualcosa al limite dell'orrore, dell'umanità, della ragione. Avevano più o meno tutti seguito le rotaie al limitare del bosco - sul momento non ricordai se anche io e Daryl ci fossimo mai arrivati - e alla fine di esse, secondo i messaggi che si trovavano in giro, avrebbe dovuto esserci questa comunità di accoglienza, chiamata Terminus.
Terminus altro non era che un covo di cannibali, che si approfittavano della disperazione dei sopravvissuti per attirarli in trappola e cibarsene, come i ragni fanno con le mosche. Mi raccontarono che Carol li aveva salvati tutti, al che mi voltai verso di lei e le rivolsi un'occhiata colma di riconoscenza: era una donna meravigliosa, forte, la donna che avrei voluto essere io. Dopo aver distrutto quell'angolo di inferno, si erano rifugiati nella cappella di Padre Gabriel, dove i cannibali superstiti li avevano trovati e minacciato di nuovo la loro sicurezza. Erano riusciti ad eliminarli una volta per tutte, ma non erano riusciti ad evitare che si cibassero di Bob - mi venne un conato a pensare a ciò che quel povero uomo aveva dovuto subire - quando lui in realtà era già stato morso: era così che Sasha lo aveva perso.
Mi raccontarono anche che Abraham era determinato ad arrivare a Washington perché Eugene aveva detto di avere in mano la cura per l'epidemia, anche se in realtà non era vero. L'uomo, durante quel racconto, si limitò a scolarsi tutta la bottiglia di birra che era rimasta sul tavolo, per poi alzarsi e uscire, grugnendo e tirando fuori il pacchetto di sigarette per fumare sotto al portico. Mi rabbuiai anche io, quando venni a scoprire che Maggie, nel frattempo, non si era minimamente curata di venirmi a cercare, ma aveva preferito partire con Abraham e gli altri per venire a Washinghton e salvare il mondo. Cercai di fare un respiro profondo e cancellare il rancore che provai in quell'attimo, ripetendomi che non era importante e che, ad ogni modo, ora eravamo insieme. Ma fu difficile, perché da quando ci eravamo separati, il mio pensiero era stato trovarli tutti quanti, mia sorella al primo posto, invece lei non era stata dello stesso avviso.
Tutto ad un tratto, la sua mano intrecciata alla mia iniziò a darmi fastidio, e mascherai un gesto stizzito con l'alzarmi per andare in bagno. Mi sciacquai la faccia, decisa a sorvolare e tornai da loro facendo finta di nulla.
Mi spiegarono brevemente tutta la fatica e le dimostrazioni che erano costate ad Aaron per convincerli del fatto che mi trovavo davvero ad Alexandria, ad aspettarli. La prova inconfutabile, come avevo sperato, arrivò quando Daryl riconobbe ciò che stava dietro il post scriptum, e capì che nessun altro, nemmeno Aaron, poteva capire a cosa si riferisse il mio messaggio. Il gruppo poteva non fidarsi di Aaron, ma si fidava ciecamente di Daryl. Gli offrii un sorriso, che provocò un'espressione perplessa sul suo viso.
Il cuore mi si riempì di gioia, quando realizzai che non aveva dimenticato tutto quello che avevamo condiviso e che non fosse rimasto indifferente ai miei segnali. Sapevo benissimo di non avere con lui la stessa connessione che poteva vantare Carol, ma per me era già qualcosa.
Qualcosa di infinitamente prezioso.
La cena si concluse quando Judith iniziò a piangere per la stanchezza, così, mentre Rick preparava la bambina per la notte a la poneva nel box del salotto, il resto di noi si attivò per sparecchiare e sistemare la cucina e le stoviglie.
Rimasi leggermente interdetta quando Michonne mi avvertì del fatto che, quella prima notte, preferivano dormire tutti insieme nell'ampio soggorno. Ma bastò un secondo, perché mi ritornò in mente che io avevo fatto lo stesso la prima notte – beh, le prime sette notti – che avevo passato qui, perciò non potevo proprio biasimarli. Michonne era un po' incerta, come se accamparsi tutti insieme nel salotto fosse una dimostrazione di scarsa fiducia nei miei confronti: le sorrisi e mi offrii di darle una mano per stendere il sacchi a pelo e qualsiasi cosa fosse utile per dormire sul pavimento e che poi avrei dormito con loro.
Rimanemmo svegli un'altra oretta e mezza, ma gli altri erano veramente stanchi, così a turno si prepararono per andare a dormire, mentre io facevo una corsa a casa mia per prendere i pantaloncini e la maglietta che usavo come pigiama.
Quando tornai, l'unico che non si era cambiato per dormire era Daryl: se ne stava vicino alla culla di Judith, accomodato alla seduta della finestra e osservava il buio di fuori, come se le persone intorno a lui non esistessero. Capii che si sarebbe sistemato lì per dormire perciò, senza farmi notare troppo dagli altri – alcuni erano già coricati e altri aspettavano il proprio turno per il bagno chiacchierando in cucina – e con la scusa di controllare Judith mi avvicinai a lui.
Appoggiai con delicatezza una mano al bordo della culla e mi chinai leggermente per guardare la piccola dormire beatamente.
«Non ti prepari per andare a dormire come gli altri, Daryl?», domandai con un lieve sorriso, senza smettere di ammirare la tenerezza della piccola Judith.
«Sono già a nanna, mamma; grazie. Fatti gli affari tuoi», rispose piatto, appoggiando il gomito sul ginocchio e mordicchiandosi l'unghia del pollice della mano destra.
«Hai intenzione di dormire qui?», domandai, guardandolo finalmente in faccia. Anzi no, visto che il suo viso era voltato e gli occhi ancorati a ciò che c'era fuori dalla finestra. «Starai scomodo», aggiunsi, cercando di dimostrarmi gentile nonostante la sua rispostaccia.
«Preferisci forse che dorma con te?», ribatté, seccato. Lo sapevo che aveva tutta l'intenzione di mettermi in imbarazzo nello stesso modo in cui l'aveva fatto quello stesso pomeriggio.
Non dovevo dargli la soddisfazione di abboccare alla sua provocazione. «No, il mio sacco a pelo è troppo piccolo per tutti e due. E poi devi ancora farti una doccia», controbattei senza guardarlo, sistemando velocemente la copertina di Judith e raddrizzandomi. Lui mi guardò con un'espressione illeggibile sul volto, e si mise a fissarmi; sostenni lo sguardo per qualche istante, cercando di dare un significato a quel nostro scambio silenzioso.
«Buonanotte Daryl», dissi, voltandogli poi le spalle e raggiungendo mia sorella in cucina.
Poco dopo, quando fummo tutti sistemati nel proprio giaciglio, chi per terra e chi sui tre divani, e Rick spense le luci, ci impiegai davvero poco a crollare: tutte le emozioni di quel giorno unite alla stanchezza che mi aveva provocato lavorare coi bambini, mi fecero addormentare praticamente subito, sprofondando in un sonno profondo.
Riaprii gli occhi nel buio del salotto qualche ora dopo, il silenzio che faceva da sottofondo ai respiri lenti e regolari della mia famiglia: dormivano tutti. Mi stropicciai gli occhi che ero appena riuscita ad aprire a fatica, cercando di non muovermi troppo per non svegliare Maggie che, stesa accanto a me, dormiva beatamente tra le braccia di Glenn.
I miei occhi appesantiti cercarono l'unica fonte di luce, ovvero la finestra alla mia destra, che faceva entrare l'illuminazione del lampione nel vialetto, attutendo il buio con spiragli di luce sparsi per il salotto. Con molta fatica, il mio cervello processò che la piccola seduta della finestra era vuota, quando in realtà avrebbe dovuto esserci Daryl, che l'aveva occupata quando era stato il momento di andare a dormire.
Mi sedetti, sforzandomi di guardarmi intorno per vedere se, magari, avesse solo cambiato posto, vinto dalla scomodità di quel piccolo spazio in cui si era costretto a dormire, ma mi sembrò di non riconoscerlo in mezzo agli altri.
Stando attenta a non svegliare nessuno, mi alzai in piedi con cautela e scavalcai Carol e Michonne, andando a recuperare la mia felpa e i miei stivali. Feci un salto in cucina a bere un bicchiere d'acqua, avanzando a tentoni nel buio e beandomi poi della luce che emetteva il frigo aperto. Non ci fu nemmeno bisogno di riflettere su dove potesse essere andato Daryl perché, da dove ero posizionata io, riuscii a vederlo oltre il vetro della finestra, seduto per terra nell'angolo del portico che, ormai, poteva considerarsi suo. Il suo viso era illuminato appena dal tizzone acceso e arancione della sigaretta.
Raggiunsi la porta di ingresso, ma prima di uscire, indossai la giacca e presi il giubbotto di pelle che avevano dato a Daryl, ma che lui si era limitato ad appendere all'attaccapanni. Sicuramente stava gelando lì fuori, coperto solo dal gilet smanicato con le ali che era la sua firma.
Aprii piano la porta, richiudendola altrettanto piano alle mie spalle. Mi aspettai qualche commento infastidito, o uno sbuffo seccato, invece si limitò a sollevare il volto verso il mio per guardarmi. Anche se era buio, i suoi occhi ebbero effetto ugualmente e mi sentii arrossire sotto il suo sguardo. Aspirò e liberò il fumo, togliendosi la sigaretta dalla bocca per parlare e tenendola tra l'indice e il pollice.
«Te l'ho detto che saresti stato scomodo», esordii con un sorriso, avanzando verso di lui e sedendomi al suo fianco, il giubbotto stretto al petto. Cercai di non arricciare il naso per l'odore di fumo e respirare solo con la bocca.
«Quello non c'entra», ribattè in tono neutro. «Non avevo più sonno».
Lo osservai attentamnte, provando a capire cosa si celasse dietro la sua improvvisa insonnia; nello stesso istante, cercavo di mantenere la calma davanti alla consapevolezza che quella fosse la prima volta che ci ritrovavamo soli e così vicini da prima che ci separassero. Mi ritornarono in mente le nostre confessioni da ubriachi nella vecchia catapecchia a cui avevamo dato successivamente fuoco, e tutta quella situazione sembrava essersi replicata lì ad Alexandria, con la sola differenza che, quella volta, ero al suo fianco.
«Devi rilassarti. Nessuno vi farà del male qui dentro», cercai di rassicurarlo, mentre lui buttava via la sigaretta, premendola per terra e lanciandola poi oltre la colonna del porticato.
«Immagino che la tua proverbiale prudenza ti abbia spinto a fidarti subito di questa gente, non è vero?», domandò sarcastico, senza guardarmi.
«Tutto il contrario», lo smentii, porgendogli il giubbotto; lui lo afferrò, ma lo ripose accanto a sé, dal lato opposto al mio. «C'è voluta una settimana prima che dormissi nel mio letto e altre due prima che smettessi di chiudermi a chiave in camera», raccontai, facendomi più vicino a lui. Il mio gomito toccò il suo braccio: se quel contatto lo infastidì non lo diede a vedere. «La prima notte io e Noah abbiamo dormito in salotto, esattamente come voi».
Iniziò a fissarmi, serio, come se stesse studiando ciò che gli avevo appena raccontanto: nemmeno nell'ultima sera insieme, seduti al tavolo della cucina della casa funeraria, eravamo così fisicamente vicini; il suo sguardo era così intenso e pericolosamente vicino.
Ero a distanza di idiozia dalle sue labbra ruvide e invintanti, perciò interruppi il contatto visivo, tossicchiando imbarazzata. Anche lui volse lo sguardo altrove.
«Non eri tu quella che credeva che esistessero ancora brave persone?», domandò retoricamente, quasi come se fosse sulla mia stessa lunghezza d'onda, come se i suoi pensieri lo avessero portato a rievocare ciò che stavo pensando io.
«Essere prudente non denota una mancanza di fiducia nel prossimo», mi giustificai. «Ero da sola, Daryl», sussurrai tristemente, osservando le ginocchia che tenevo strette al petto.
«Eri col tuo amico», mi ricordò.
«Eravamo solo in due».
«Anche quando siamo scappati dalla prigione eravamo solo in due», ribatté, infastidito.
«Non è la stessa cosa».
«Sì invece, i numeri non cambiano».
«Non è la stessa cosa», ripetei.
«Perché?!», esclamò spazientito e con una punta di esasperazione nella voce.
Rimasi in silenzio qualche istante, prima di parlare. «Lui non è te».
Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia dopo quella che lui, sicuramente, considerava come una “stronzata sentimentale” o qualcosa del genere. «Pfff, che risposta del cazzo», sbottò.
Infatti.
Mi formicolarono le dita, e mi voltai con uno scatto verso di lui. «Sarà anche una risposta del cazzo, ma io - calcai sul pronome – almeno rispondo chiaramente alle domande, a differenza tua!», esclamai, cercando di tenere un tono di voce basso.
«Cosa vorresti dire?», chiese, sulla difensiva. Stava stringendo un pugno.
«Voglio dire che non hai nemmeno avuto il coraggio di rispondermi come si deve in quella stupida casa funeraria, ma ti sei limitato a mugugnare e a fissarmi quando ti ho chiesto perché hai cambiato idea sulla bontà delle persone!».
Si irrigidì di colpo, arretrando leggermente e guardandomi con gli occhi socchiusi in una fessura arcigna e fredda. Lo guardai con lo sguardo eloquente di chi avrebbe accettato una risposta anche in quel momento, anche se molto dopo, non importava.
«Parli troppo, Greene», si lamentò invece, poggiandosi con la schiena contro la palizzata del portico.
Io non dissi nulla, rimanendo immobile per qualche istante; poi, cogliendolo di sorpresa, mi alzai e feci per allontanarmi da lui e rientrare in casa. Non ne fui in grado, perché si sporse verso di me e mi afferrò per un polso, trattenendomi. Abbassai lo sguardo verso di lui, senza il minimo cambio di espressione: dentro, invece, mi sentivo bruciare e il cuore batteva all'impazzata. Eccolo, il Daryl Dixon che mi aveva abbracciato il pomeriggio prima.
Sospirai, sforzandomi di trattenere un sorriso. Mi voltai appena, cercando il suo sguardo con la coda dell'occhio: era intenso e indecifrabile, come al solito.
Con un movimento leggero del braccio mi liberai dalla sua presa delicata, intrecciando subito dopo le mie dita con le sue per sollecitarlo ad alzarsi.
«Vieni, ti faccio visitare Alexandria», dissi, con un tono dolce ma che non ammetteva repliche.
Daryl rimase per qualche momento a osservarmi, con le nostre dita intrecciate, ma poi sciolse la presa con uno sbuffo e si alzò in piedi, tirandosi dietro il giubbotto e infilandoselo. Quando si apprestò a prendere anche la balestra, lo fermai.
«Non ti serve quella, Daryl. Prova a fidarti», sussurrai, con un sorriso.
Seppur con incertezza, la prese e aprì un istante la porta per appoggiarla al muro vicino all'attaccapanni, affiancandosi poi a me che lo aspettavo giù dagli scalini del portico.
Iniziammo a camminare lentamente tra le vie di Alexandria, in quella notte fredda ma tranquilla, come se fosse un piccolo tour improvvisato solo per lui, la persona che più di tutti aveva mostrato un rifiuto sin dal primo giorno. Gli mostrai l'ambulatorio, la casa di Pete, la scuola dove dalla mattina prima avevo iniziato a lavorare, il guardaroba collettivo, la biblioteca, la piccola cappella, il laghetto, la cisterna d'acqua. Lui ascoltò tutto il tempo i miei racconti, senza proferire quasi mai parola, con qualche «mmmh-mmmh» di asserimento per farmi capire che mi stava seguendo.
Quando arrivammo vicino alla dispensa, mi venne un'idea.
«E in questo deposito si trova la dispensa, la più importante fonte di cibo di tutta Alexandria, nonché l'unica. Dovremmo dare un'occhiata, non credi?», domandai, con un sorriso furbo che Daryl non riuscì a interpretare. Ad Alexandria vigeva la fiducia reciproca, per questo luoghi come la dispensa non venivano mai chiusi a chiave e sempre per questo entrai nella struttura senza alcun problema. Il lampione collocato dietro quella costruzione faceva entrare abbastanza illuminazione, perciò non accesi la luce, anche se avanzai con cautela e con Daryl dietro di me.
«Come hai avuto modo di notare, ad ogni famiglia di Alexandria è destinato un certo quantitativo di alimenti e c'è una razione equamente spartita per ogni categoria di cibo, mi segui?», spiegai a Daryl, mentre mi aggiravo per le mensole in modo da trovare ciò che mi serviva.
«Sì, quindi?», rispose lui, laconico.
Mi voltai verso di lui, che mi osservava appoggiato allo stipite dell'arco che separava quella parte di dispensa dal resto. «Alcuni alimenti sono più “rari” di altri, forse perché non fondamentali alla sopravvivenza», continuai, aprendo il freezer e lasciandomi scappare un «bingo!», soddisfatta, quando vidi le barrette di cioccolata impilate e avvolte nella carta argentata in fondo al congelatore.
Afferrai una tavoletta e la spezzai a metà, conservandone una e rimettendo l'altra al suo posto.
«Io e Noah non siamo molto soddisfatti della razione di cioccolata che ci spetta, perciò ogni tanto cerchiamo di arrangiarci a modo nostro», conclusi con un sorrisetto e ponendogli un'eventuale metà della tavoletta.
Le labbra di Daryl si piegarono in un sorriso sottile e appena accennato, ma che arrivò ai suoi occhi con un guizzo divertito. Riuscii a scorgere tutto, nonostante il buio. «Quindi uno dei tuoi passatempi preferiti qua dentro è derubare le scorte di cioccolata assieme al tuo amico?», domandò, addentandone un pezzo e masticando rumorosamente.
Risi, compiaciuta. «Beh, non c'è molto altro da fare qui», mi difesi, appoggiandomi al congelatore e mangiando la mia parte.
Non mi sfuggì la velocità con cui aveva fatto sparire il suo pezzetto di cioccolata, così non appena finii il mio, incrociai le braccia al petto e lo guardai con un sorrisetto ironico.
«Da quanto non mangiavi cioccolata?», domandai, divertita.
Smise di leccarsi le dita, mentre il suo viso diventava una maschera neutra ed i suoi occhi si allacciarono ai miei. Tossicchiò, pulendosi le dita nel tessuto dei jeans e borbottando. «Da un po'», disse, cercando di trattenere un sorriso.
Mentre stavo per ribattere, il mio sguardo passò sullo scaffale vicino a Daryl, e venne attirato da qualcosa che catturò la mia attenzione: le mie labbra si dispiegarono in un sorriso divertito e avanzai verso la mensola, allungando una mano.
«Oh, qui hanno qualcosa di tuo», dissi, afferrando il barattolo di latta e rigirandomelo tra le mani.
Quando lo guardai, Daryl aveva uno sguardo perplesso, che scomparve non appena gli misi davanti al naso ciò che avevo trovato. «Zamponi!», esclamai, rievocando quella volta alla casa funeraria in cui aveva reclamato gli zamponi dicendo che erano suoi. Mi lasciai andare ad una risata leggera, continuando a porgegli il barattolo e a guardarlo negli occhi, senza smettere di sorridere.
Lui invece, rimase serio. Abbassò lo sguardo su ciò che tenevo in mano e lo prese lentamente, portando poi il braccio lungo il corpo, con il barattolo ancora stretto tra le mani. E poi, come già tante volte era accaduto in quelle poche ore, allacciò gli occhi ai miei, serissimo, senza dire nulla e, senza che potessi prevederlo, iniziò ad avanzare verso di me.
Mi bloccai sul posto, senza riuscire a scostare il mio sguardo dal suo, come se ne fossi completamente ipnotizzata e quel volto immerso nelle ombre avesse il potere di paralizzarmi.
Era come se fosse più facile, per lui, muoversi al buio ed agire, perché il suo passo era sicuro così come il suo sguardo. Anche io, nonostante i suoi occhi mi intimidissero, mi sentivo più a mio agio: in quella piccola dispensa l'aria si era fatta carica di elettricità, e non so se fossero i miei sentimenti per lui e le conseguenti reazioni ai suoi gesti a farmi leggere ciò che stava succedendo in un modo totalmente sbagliato. Si fermò che le punte delle nostre scarpe quasi si toccavano, il suo corpo vicinissimo e il suo calore che si mischiava al mio. E quello sguardo... era tutto così intimo, nascosto, discreto. Come se, una volta rimasti soli, fosse più facile avere a che fare l'uno con l'altra, e in mezzo agli altri fossimo due persone diverse e con un legame altrettanto diverso.
Daryl non la smetteva di fissarmi mettendo alla prova i miei nervi e, nonostante avessi la gola improvvisamente secca, riuscii a bisbigliare: «cosa c'è?».
Lui, in tutta risposa, sollevò la mano ed il braccio liberi e mi circondò le spalle, mentre la mano con cui stringeva il barattolo l'appoggiò al congelatore dietro di me e si sostenne nel momento in cui si sbilanciò verso di me per abbracciarmi in modo goffo.
«Per te», sussurrò, a voce talmente bassa che, per un momento, credetti di essermelo solo immaginata.
Quella frase voleva dire tutto e niente ed espressa così fuori contesto, inizialmente, fu di difficile interpretazione. Nonostante il suo corpo contro il mio fosse una fonte di distrazione, dopo una giornata così non potei non arrivare quasi subito a cosa significassero quelle due semplici parole.
Come poteva essere il contrario, se in ogni suo gesto, parola o comportamento avevo trovato qualche rimando agli ultimi giorni che avevamo passato insieme prima di essere separati? Quella era semplicemente la risposta chiara e concisa alla domanda che gli avevo posto infinito tempo prima: «perché hai cambiato idea?»
Per te. Sei tu che mi hai fatto cambiare idea.
Anche se avevo capito dal primo istante quale fosse il responso, fu incredibile sentirselo dire, ancora di più se pensavo che era stato Daryl a esporsi così tanto.
L'orgoglioso, distaccato e burbero Daryl Dixon.
L'unica cosa che riuscii a fare fu affondare il volto nel suo petto e stringere le braccia attorno alla sua vita, stringendomi contro di lui, mentre il mio cuore, il mio corpo e la mia mente si animarono di emozioni tanto forti e luminose che sentii l'elettricità sprizzare da ogni mio poro. Inspirai a fondo il suo odore, incredula del fatto che tutto quello stesse succedendo davvero e ancora più consapevole dei miei sentimenti per lui. Ero troppo felice per farmi domande sul cosa lo avesse spinto a quei gesti – per lui – tanto eclatanti.
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon», sussurrai, nascondendo il sorriso nella sua camicia.
La sua presa attorno alle mie spalle aumentò appena, per poi allentarsi subito dopo, mentre sbuffava simulando una risata, allontanandosi da me.
«Sei ubriaca anche stavolta?», domandò, facendo un passo indietro.
Dissimulai l'imbarazzo ridacchiando a mia volta, portandomi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. «Certo che no», risposi timidamente.
Non senza un certo impaccio, convenimmo che fosse ora di tornare a casa, così uscimmo dalla dispensa, guardandoci intorno non appena fummo fuori. Il cielo cominciava a schiarirsi a poco a poco, di sicuro l'alba era vicina; camminammo fianco a fianco, in silenzio, fino a casa sua. Quando vide che non lo seguivo su per gli scalini, si voltò a guardarmi con uno sguardo interrogativo. Infilai le mani nelle tasche della giacca, piegando la testa prima da un lato e poi da un altro, facendo scricchiolare il collo.
«Credo che andrò a dormire a casa, il pavimento è un po' scomodo. E poi non voglio svegliare Carol o Michonne inciampandoci sopra». Tutto ad un tratto, il sonno si fece sentire, gravando sulle mie palpebre e sulle mie spalle. Eppure, non mi ero mai sentita così sveglia.
«Giusto. Dirò io a Maggie che sei tornata a casa tua», disse in tono neutrale – cioé, il suo solito tono. «Beh, buonanotte», aggiunse, voltandosi.
«Ehi, Daryl», lo chiamai a voce un po' troppo alta, prima che entrasse in casa. Si girò verso di me con la mano già sulla maniglia della porta, in attesa. «Perché domani non passi da me? Voglio darti una sistemata ai capelli», proposi, sperando che dicesse di sì.
Aggrottò le sopracciglia e arricciò le labbra, per niente allettato dalla proposta. «Scordatelo!», berciò, enfatizzando il tutto con un movimento brusco del braccio che non stringeva la maniglia.
Sorrisi angelica, incurante della sua risposta. «Bene, è questo lo spirito. Ti aspetto da me per le tre», stabilii, iniziando a incamminarmi verso casa. Ignorando le sue numerose proteste, quando fui ancora più lontana mi voltai, aggiungendo: «ah, mi raccomando: devi venire da me pulito, perciò fatti una bella doccia!».
«Sei una seccatura, ragazzina!», sbottò a voce alta, prima di sparire dentro casa accompagnato dalle mie risate.


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Angolo autrice.
Finalmente ce l'ho fatta, questo capitolo è stato veramente infinito da scrivere e mi dispiace di essere in leggero “ritardo”, ma ho avuto un mini-blocco. Perché io sono così: non scrivo per giorni, fisso per settimane una pagina che non vuole sapere di essere riempita e poi, boom, tutto d'un colpo completo il capitolo in una giornata. Vallo a capire il mio cervello...
Comunque, ci siamo: possiamo ufficialmente dare il via al rapporto tra i nostri due amorucci! È incredibilmente difficile provare a costruire caratteri e situazioni rimanendo fedele/rifacendosi alle poche situazioni che sono state ricreate nel telefilm, ci ho provato veramente in ogni modo e spero che il risultato sia abbastanza buono.
In questo caso ho odiato veramente l'italiano, che ha veramente tolto molto ad un dialogo che, tra loro due, è importantissimo: esatto, la famosa risposta sul perché Daryl ha cambiato idea sull'esistenza delle brave persone.
“What changed your mind?” è stato tradotto in italiano con l'odioso – per me – “perché hai cambiato idea?”, la cui risposta è veramente troppo lunga per uno di poche parole come Daryl.
Mentre in inglese avrei potuto cavarmela così:
“What changed your mind?” “You.”
in italiano mi è uscito quel maledetto “per te” che non ha veramente senso e toglie tutta la poesia della risposta laconica in perfetto stile Dixon.
Vabeh, prima o poi mi riprenderò, non preoccupatevi, ahahah!
È l'una e mezza di notte e sto per crollare, ma volevo veramente aggiornare il capitolo perché è passato molto tempo e non volevo farvi aspettare oltre. Domattina controllerò gli eventuali errori, intanto ringrazio veramente di cuore le sette persone che hanno recensito lo scorso capitolo (vi risponderò presto, giuro!) che sono state veramente di una gentilezza estrema, chi ha aggiunto la mia storia alle seguite/preferite e anche chi ha letto soltanto.
Rinnovo l'invito a passare sul mio tumblr per scambiare quattro chiacchiere e vedere tutto ciò che riguarda questa storia (
http://blakieefp.tumblr.com), mi farebbe piacere!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, vi aspetto al prossimo aggiornamento!
Un bacio,
Blakie

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Capitolo 4
*** One Step Back ***


and well be good 4 definitivo
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And we'll be good
capitolo 4



Nell'euforia del momento non mi resi conto che il giorno dopo non avrei potuto dare una regolata ai capelli troppo lunghi di Daryl: avevo un turno in ambulatorio che mi avrebbe tenuta occupata per tutta la giornata. Quando mi ricordai quel particolare per nulla irrilevante, imposi a me stessa di tenere ben presente, da quel momento in poi, che nonostante l'aria di novità e felicità che aveva portato l'arrivo della mia famiglia, le mie mansioni erano rimaste le stesse: come prima, avevo il dovere di svolgerle per il bene della comunità.
Così, la mattina successiva, mi recai a casa loro, sia per salutare mia sorella prima di andare in ambulatorio, sia per avvisare – e vedere – Daryl. Lo trovai sotto al portico, intento a fumarsi una sigaretta, coi gomiti appoggiati al parapetto; notai che non aveva la balestra con sé e per questo mi venne da sorridere.
«Buongiorno, Daryl», esclamai superandolo, mentre mi avvicinavo alla porta d'ingresso.
«Beth», rispose, a mo' di saluto e voltandosi verso di me.
Che bello, sentirlo pronunciare il mio nome. Come al solito non si lasciò andare a troppe parole: in un primo momento, pensai che si fosse in qualche modo pentito di quello che era successo poche ore prima, seppur non avessimo fatto proprio nulla di male.
Forse credeva di essersi avvicinato troppo? Cercai la risposta nei suoi occhi, che erano due specchi di quiete limpida e blu. Ora che lo guardavo meglio, gli angoli delle sue labbra erano appena sollevati.
Bussai alla porta, udendo già da lì fuori il tintinnio dei piatti e il vociare calmo della mia famiglia: stavano di sicuro facendo colazione. Mi aprì Carol che, appunto, reggeva nella mano una tazza fumante contenente, lo intuii dall'odore, del caffè.
«Buongiorno Beth», proferì con un sorriso, mentre si spostava di lato per farmi entrare. «Sei arrivata giusto in tempo per la colazione».
Prima che potessi rispondere, notai subito che aveva cambiato gli abiti con cui era arrivata qui il giorno prima. Non ero abituata a vederla così, avvolta in un golfino colorato e con una camicia piuttosto femminile addosso. «Wow, Carol, che cambio di look! Ti dona».
«Grazie, è per conservare le apparenze», disse, facendomi l'occhiolino.
«A me sembra soltanto ridicola», si intromise Daryl.
Carol si sporse quel tanto che bastò per lanciargli un'occhiataccia e dirgli: «Potrai parlare quando ti sarai fatto una doccia».
Scoppiai a ridere. «Speriamo accada presto», la appoggiai, seguendola dentro casa e lasciando Daryl a inveire contro la porta chiusa.
Li ritrovai attorno alla penisola della cucina che facevano colazione e, per un secondo, mi venne da dimenticare che, fuori dalle mura, c'era ancora l'inferno. Sembrava una mattina normalissima, di un giorno normalissimo, in un mondo normalissimo.
Sorrisi d'istinto, mentre Maggie mi abbracciava e mi augurava il buongiorno. «Ehi, Beth, sei venuta a fare colazione con noi?», domandò mia sorella, sospingendomi verso la penisola.
«Ho già fatto, sono venuta a salutarti prima di andare in ambulatorio», dissi, lanciandole un sorriso di scuse.
«Ah, giusto, i lavori di Deanna! Molti di noi la incontreranno stamattina».
«Io e Rick esclusi», intervenne Michonne. «Dice che deve ancora pensarci bene».
Le sorrisi, guardando prima lei e poi Rick, che stava dando il biberon a Judith.
«Deanna è molto perspicace in questo. Quando vi assegnerà un lavoro, sarà quello giusto per voi». Rick e Michonne mi sorrisero a loro volta, senza rispondere.
«Io vado allora», dissi, posando un bacio sulla guancia di Maggie. «Fate in modo di non avere bisogno di me, per oggi! Non voglio vedervi arrivare in ambulatorio», esclamai, con la mano già sul pomello della porta, mentre sentivo la mia famiglia liberare una risata.
Daryl mi dava ancora le spalle, quando uscii di casa. Lo affiancai, appoggiando i gomiti al parapetto per imitare la sua posizione. «Ehi, tutto bene?», domandai, voltandomi verso di lui per guardarlo. «Mi sembri serio. No, beh, più serio del solito», mi corressi infine.
Mi scrutò con la coda dell'occhio, prima di mugugnare un «mmm-mmmh» di affermazione. Laconico come sempre.
«Se è il taglio di capelli che ti preoccupa, per oggi puoi star tranquillo. Ho il turno in ambulatorio e devo rimanerci tutto il giorno, perciò non ho proprio tempo di occuparmi del tuo restyling», lo resi partecipe, sorridendo.
Alzò gli occhi al cielo, liberando un profondo sospiro di sollievo. Mimò un «grazie» con le labbra, piegando la testa all'indietro e volgendo il viso verso l'alto.
«Ehi!», esclamai, fingendomi offesa e tirandogli una gomitata nelle costole.
In tutta risposta, si voltò verso di me, sghignazzando e guardandomi negli occhi. Tutto d'un tratto tornò serio, le labbra gli si appiattirono tanto velocemente quanto si erano dispiegate. Lanciò un'occhiata fugace alle sue spalle, come ad accertarsi che nessuno ci stesse guardando o ascoltando. Si vergognava al tal punto di aver instaurato un legame con me?
«Devo parlarti», disse a bassa voce, prima che le mie paranoie prendessero il sopravvento.
Il mio cuore accelerò il suo ritmo in un battito di ciglia. «Accompagnami all'ambulatorio, ti va?».
Iniziammo fianco a fianco a percorrere le strade di Alexandria e, nonostante ci fossimo allontanati dagli altri – perché era evidente che non volesse farsi sentire proprio da loro – l'arciere non si decideva ad aprire bocca.
«Puoi parlare, adesso», gli ricordai, abbastanza preoccupata.
Si mise le mani in tasca, osservandosi le punte degli scarponi, mentre continuava a camminare. «Stamattina sono stato fuori dalle mura con Rick e Carol».
«Perché?», domandai, perplessa.
Lui esitò qualche istante, ma poi parlò, serio. «Siamo... Sono andati a riprendersi delle pistole che avevamo nascosto prima di entrare qui».
Mi voltai verso di lui, interdetta. «Cosa? Hanno delle armi?». Non rispose, né annuì, ma non ce ne fu bisogno.
Il suo atteggiamento la diceva lunga.
«Non capisco...», mormorai, delusa. «Loro... Non vi faranno del male! Non sono io stessa una prova sufficiente a riguardo?!».
Lui scosse la testa. «Non è questo il punto, Beth».
«Allora qual è?».
«Rick e Carol credono che questa gente, essendo vissuta sempre qua dentro, non sappia cosa bisogna fare per rimanere al sicuro, per combattere i vivi e i morti. Per sopravvivere», spiegò con tono tranquillo e, per la prima volta, conciliante.
«Pensano che ci metteranno nei casini...».
«Sì».
«E tu sei d'accordo?», domandai, cupa.
Attese qualche secondo, prima di rispondermi con un «sì» netto. Precedendo qualsiasi tentativo di protesta da parte mia, aggiunse subito dopo: «Però non sono d'accordo col fatto di tenersi delle armi di nascosto».
Lo guardai, attonita, provando ad ignorare il calore intenso che iniziava a nascere dal centro del mio petto. «Tu... non hai che la balestra, quindi?».
«Non ho che la balestra».
Provai a fermare le mie gambe che mi proiettarono verso Daryl, provai a tenere lungo i fianchi le braccia che, invece, si allargarono e andarono a circondargli il collo, stringendomi a lui. Ci provai, davvero, ma non ci riuscii. Fallii miseramente, perché più passava il tempo e più mi rendevo conto di che persona meravigliosa fosse Daryl. Non sapevo in che altro modo esprimergli la mia gratitudine. Riuscii a immaginarmi la sua espressione interdetta, mentre si domandava quale frase da lui pronunciata avesse scatenato quello slancio di affetto. La verità è che non lo sapevo nemmeno io il perché, ma ero orgogliosa di lui per non aver accettato le pistole rimaste nascoste là fuori. Voleva dire tanto per me, tutto. Era cambiato, tanto e in meglio. Stava iniziando a fidarsi di me, stava iniziando davvero a credere che esistessero persone buone.
«Grazie», dissi, stringendomi a Daryl e tenendomi in equilibrio sulle punte. Mi allontanai da lui subito, per non risultare troppo appiccicosa.
«Per cosa?», domandò, perplesso e cercando di restare sulle sue.
«Per la tua fiducia», risposi, le labbra piegate in un sorriso.
Daryl, in tutta risposta, sbuffò, volgendo lo sguardo da un'altra parte in evidente disagio. «Smettila con le tue cazzate sentimentali», sbottò infastidito, ma la sua voce era rimasta morbida.
«E tu smettila di fare la parte del burbero di turno a cui non frega nulla delle persone che ha attorno».
«A me non frega nulla, infatti. Puoi dirlo forte».
Alzai gli occhi al cielo. «Certo Daryl, per questo sei venuto a parlarmene, vero? Perché non te ne frega niente».
«Sono venuto a parlartene perché sapevo che sarebbe importato a te», rispose con prontezza, stringendosi nelle spalle. Quando voleva sapeva essere piuttosto abile nell'avere l'ultima parola. Rimasi in silenzio qualche secondo, notando distrattamente che eravamo arrivati davanti all'ambulatorio.
Lasciai il suo fianco per fermarmi di fronte a Daryl, guardandolo con sguardo preoccupato. «Pensi che dovrei parlare con Rick e Carol?».
Lui ci pensò qualche istante. «No», proferì, voltandosi poi ad osservare la porta dello studio medico. «Non ancora, ecco».
Mi sentii sollevata: non ero decisamente pronta per... affrontare? due membri così importanti della nostra famiglia. Credevo che fosse esagerato tenere delle armi di nascosto, certo, ma cosa avrei potuto dire a riguardo? Era grazie alla prontezza di due persone forti e decise come Carol e Rick se eravamo riusciti a sopravvivere fino a quel momento. Grazie ai loro metodi non sempre ortodossi – ma c'era rimasto qualcosa di ortodosso, in quel mondo? – e alla loro diffidenza. Loro sapevano destreggiarsi nel mondo là fuori, molto più di me e ancora di più rispetto agli abitanti di Alexandria, che si erano protetti con alte mura sin dal primo giorno, non sapendo assolutamente nulla di come si potesse sopravvivere ad una crisi del genere. Se però avessero cercato di fare del male – anche se mi riusciva molto difficile crederlo – a qualche membro della comunità, non sarei certo rimasta a guardare.
«Lo credo anche io. Magari hanno solo bisogno di ambientarsi...».
Daryl non mi rispose, ma dal suo sguardo capii che non riteneva quell'ipotesi fondata. Cercai di ignorare la cosa e evitai di farmi ulteriori problemi: tempo al tempo.
«Ad ogni modo, grazie per avermelo detto», aggiunsi dopo qualche secondo di silenzio, rivolgendogli un sorriso. L'arciere si strinse nelle spalle, mugugnando qualcosa di incomprensibile e guardando da un'altra parte. Sarei rimasta tutta la mattina con lui, se avessi potuto, ma purtroppo il dovere mi chiamava.
«Beh, io vado», lo informai, sollevando un braccio e indicando l'ambulatorio dietro di noi con il pollice.
«D'accordo, Infermiera Greene», rispose con un ghigno.
«Molto divertente», replicai, alzando gli occhi al cielo e lasciandomi scappare un sorriso. «Ah, a proposito: devi vedere anche tu Deanna questa mattina? Per i lavori, sai».
Mi avvicinai alla porta dello studio e lui mi seguì, sbuffando. «No. Deve ancora inquadrarmi», mi informò, enfatizzando l'ultima parola con tono sprezzante.
Scoppiai a ridere per la voce che gli era uscita. «Deve mettersi in fila, allora», commentai, lanciandogli uno sguardo eloquente.
Mi aspettai proteste o sbuffi di ogni tipo, che, però, non arrivarono: Daryl, contro ogni previsione, sollevò appena gli angoli delle labbra, guardandomi negli occhi e sorridendomi con spontaneità. Allacciai lo sguardo al suo, ricambiando il sorriso e lasciando che il calore che si stava diffondendo dal mio petto mi cullasse. Era un sorriso appena accennato, discreto, ma sincero. E del quale non riuscii a carpire il significato. Senza che potessi impedirlo, i miei occhi lasciarono i suoi e scivolarono verso le sue labbra ancora atteggiate a sorriso: per un secondo, nella mia mente balenò l'istinto di toccare il suo sorriso col mio. Guardai da un'altra parte non appena mi resi conto di come lo stavo guardando, rossa di imbarazzo, col cuore che iniziò a correre.
«Fila al lavoro, ragazzina». Il tono di Daryl era divertito, ma nella voce, quasi roca, percepii una lieve nota di rimprovero: se n'era accorto? Aveva captato il mio sguardo per nulla discreto?
Sentii il disagio strisciarmi nello stomaco.
«Vado», mormorai, afferrando la maniglia in un gesto repentino. Feci un respiro profondo e lo guardai di nuovo, provando a sorridergli per nascondere la soggezione. «Buona giornata, Daryl».
Rispose con un cenno del capo, sorridendomi in modo abbastanza enigmatico. «Infermiera Greene», replicò, a mo' di saluto: chiusi la porta alle mie spalle, con le labbra che ancora ridevano e il cuore più leggero.

~

Si respirava un'aria diversa, da quando la mia famiglia si era presentata ai cancelli di Alexandria, ed ero convinta che non fosse solo una mia impressione. Certo, per quel che mi riguardava era più che normale - ero coinvolta emotivamente nell'arrivo di miei cari - ma mi sembrava che questa novità avesse influito sulla quotidianità di chi viveva qui anche prima di me. Questa impressione si era accentuata quando Deanna aveva deciso che si sarebbe data una festa per celebrare l'entrata di Rick e gli altri nella comunità.
Deanna ce lo aveva comunicato mentre eravamo tutti insieme a cena, due giorni dopo l'arrivo della mia famiglia. A me era sembrata una splendida idea, ma, dando un'occhiata generale ai visi seduti alla tavola tutti intorno a me, gli ospiti d'onore della festa non sembravano essere dello stesso avviso. Forse erano contrariati dal fatto di essere finiti sotto i riflettori, forse organizzare una festa gli sembrava fuori luogo, abituati com'eravamo ad avere la sopravvivenza come unico scopo nella vita.
Le uniche reazioni "positive" arrivarono da Michonne -- che, assieme a Rick, era stata nominata poliziotto di Alexandria -- e da mia sorella. Ovviamente anche Carol si finse entusiasta all'idea, per non far saltare la sua copertura di casalinga mite e conciliante.
«L'organizzazione coinvolgerà tutti gli abitanti della comunità», ci informò Deanna sistemandosi dietro di me, posandomi le mani sulle spalle e facendo finta di non essersi accorta della perplessità dei miei cari. «Ci tengono molto a darvi il loro benvenuto».
«È da ieri mattina che continua ad arrivare gente alla nostra porta per darci il benvenuto. Abbiamo afferrato il concetto», sbottò burbero Daryl, che era seduto di fronte a me.
Io gli lanciai un'occhiataccia, ma Deanna scoppiò a ridere. «Beh, signor Dixon, grazie a questa festa eviterà la seccatura di sentire bussare ogni cinque minuti».
«Credo che eviterò direttamente la festa, signora Monroe», replicò Daryl, stringendosi nelle spalle e avventandosi di nuovo sulle pietanze nel suo piatto.
Alzai gli occhi al cielo, esasperata, tirandogli un calcio sotto il tavolo che non sortì nessun effetto: mi ignorò spudoratamente, continuando ad ingozzarsi con la sua solita grazia.
«Non è obbligato a partecipare, Daryl», chiarì Deanna, sorridendogli. Poi si guardò attorno, incrociando gli sguardi degli altri. «Nessuno di voi lo è, ma vi farebbe bene staccare la spina, non pensare a niente per una sera. In compagnia di persone amiche e della migliore birra che siamo riusciti a trovare».
«Birra, eh? Potrei fare uno sforzo», si lasciò sfuggire Abraham. Io soffocai una risata, imitata da Carl.
Con un certo sforzo, Rick sfoderò un sorriso appena accennato e diede il benestare a Deanna per organizzare la testa, per la mia contentezza. Non ero totalmente sicura, dopo la chiacchierata che avevo avuto con Daryl, del fatto che Rick non avesse qualche piano in mente, ma mi faceva piacere che ci stesse almeno provando. Deanna se ne andò sorridente e ci lasciò, scusandosi per aver interrotto la nostra cena.
Da quel momento, due giorni passarono veloci più o meno nella stessa routine, in un ritmo cadenzato e rassicurante.
A tutta la mia famiglia Deanna aveva assegnato delle mansioni da svolgere, dei lavori, che sembravano piuttosto azzeccati, a dire la verità. Maggie era stata affiancata a Deanna per aiutarla con la gestione e l'organizzazione della zona sicura; Glenn, Abraham e buona parte del gruppo erano stati assegnati ai gruppi che si occupavano di uscire dalle mura per raccogliere provviste e qualsiasi cosa fosse utile alla protezione della città; Carol sarebbe rimasta dentro le mura per cucinare e aiutare le persone poco autosufficienti, come gli anziani.
L'unica persona per la quale sembrava non esserci nulla di adatto era Daryl.
«Mi dispiace che Deanna non ti abbia ancora trovato nulla da fare», gli dissi, sincera, mentre fumava una sigaretta sotto al portico. Avevamo appena finito di cenare assieme a tutti gli altri, com'era diventata un'abitudine da quando erano arrivati.
Lui scrollò le spalle, indifferente. Provai a capire se fosse solo una facciata o se davvero non gliene importasse nulla. «Credo che questa volta l'infallibile signora Monroe abbia preso un grosso granchio», sghignazzò con soddisfazione.
Lo guardai contrariata. «Prima o poi assegnerà qualcosa anche a te. Non puoi fare nulla tutto il giorno, Daryl. Ti cacceranno».
«Che mi caccino, se proprio devono. E poi non è vero che non faccio nulla: ho ripulito la zona circostante da diversi vaganti, in questi due giorni».
«Già, sei stato fuori e non mi hai portato nemmeno un po' di stufato di serpente», mi lamentai, fingendomi risentita.
«Esco anche domani, te lo posso portare fresco».
«Domani sera c'è la festa, vedi di tornare per tempo».
«Ecco, adesso che me l'hai ricordato spero vivamente che un'orda di vaganti abbia la meglio su di me».
«Smettila!», esclamai, alzando gli occhi al cielo per nulla divertita.
Sapevo che stava scherzando, perciò la mattina dopo, quando partì, lo andai a salutare ai cancelli con l'animo piuttosto tranquillo. Lui rispose alle mie raccomandazioni con un cenno del capo, girò i tacchi e varcò le mura di Alexandria. Lo guardai finché il cancello non venne chiuso da Nicholas e Daryl sparì dalla mia visuale. Mentre tornavo indietro, incrociai Aaron, chiaramente diretto verso l'uscita della città.
«Ciao Beth», mi salutò, trafelato. Sembrava essere piuttosto di fretta.
«Ehi, Aaron. Stai andando a reclutare?», gli domandai, dubbiosa. Strano, era domenica.
«È il mio giorno libero», replicò infatti, con un sorriso. «Devo parlare con Daryl».
«Oh, è uscito poco fa! Se ti sbrighi dovresti riuscire a raggiungerlo, era diretto a sud», replicai, abbastanza sorpresa dalla sua risposta.
«Grazie!», esclamò, riprendendo la sua corsa.
Lo guardai allontanarsi, sempre più perplessa: per quale motivo avrebbe mai dovuto parlare con l'arciere? Forse non ero stata abbastanza attenta e mi era sfuggito, ma mi sembrava che in quei giorni i due non si fossero nemmeno rivolti la parola. Cercai di dare un freno alla mia curiosità e mi diressi a casa: con tutte le cose che avevo da fare, sarebbe stato facile non pensarci e attendere il ritorno dei due per una spiegazione.
Finire i preparativi per la festa mi impegnò per tutto il pomeriggio: mi occupai delle pietanze che sarebbero state servite durante la serata, con all'aiuto di Maggi e Carol e di altre volontarie di Alexandria. Quando fu tutto pronto, lasciai la casa di Deanna per tornare alla mia e prepararmi. Fui tentata dal fare una piccola deviazione per passare da Eric e assicurarmi che Aaron e Daryl fossero tornati, ma mi dissi che non ce n'era bisogno: stavano bene, erano tornati.
Dovevo cercare di non stare troppo addosso all'arciere: considerando il suo modo di essere, assumere un atteggiamento assillante sarebbe stata la via più facile per allontanarlo.
Mi rilassai sotto il getto caldo dell'acqua e lasciai che la stanchezza della giornata scivolasse via, preparandomi poi in tutta calma. Meditai a lungo su come vestirmi: nonostante cercassi di evitare quel tipo di pensieri per non sentirmi ridicola, non potevo fare a meno immaginare quale sarebbe stata l'espressione di Daryl se, per una volta, mi avesse vista truccata e pettinata al meglio.
Volevo che mi trovasse desiderabile e non potevo farci nulla. Volevo che mi vedesse come una donna bella e sicura di sé, almeno per quella sera, e non come la ragazzina che era solito bistrattare con commenti poco gentili. Probabilmente non gliene sarebbe fregato nulla del mio vestito o del mio make up, Daryl non sembrava certo il tipo da dare importanza a quelle cose. Forse avrei fatto solo la figura della ragazzina frivola.
Scossi la testa, sbuffando e lasciando perdere l'idea di sistemarmi in modo troppo elaborato. Aprendo l'armadio mi ricordai che, alla fine, non avevo poi una scelta così ampia, per quel che riguardava gli abiti eleganti. Puntai su un semplice tubino nero con fantasia floreale, abbinato a collant scuri e stivaletti: sarei stata comunque più carina di quando ci trovavamo in mezzo al bosco, almeno.
Decisi di stirare i capelli e lasciarli sciolti lungo le spalle, e di applicare sulle labbra del semplice lucidalabbra rosato, più una leggera punta di mascara per far risaltare gli occhi.
Uscii di casa con un sorriso, lo stesso che mi riservò Aaron quando aprì la porta dopo avermi sentito bussare.
Mi fece accomodare in cucina, dove Eric stava finendo di preparare la cena; mi offrii di apparecchiare, cercando di non saltare i convenevoli per chiedergli di cosa avevano parlato - se avevano parlato - lui e Daryl mentre erano nei boschi.
«Non pensarci nemmeno, Beth», mi rimbrottò Aaron. «Sei nostra ospite. Rilassati, finché non viene pronta la cena. I preparativi della festa devono essere stati stancanti».
«Non più di tanto», risposi, facendo spallucce e appoggiandomi all'isola della cucina. «Anzi, è stato bello mettersi così di impegno per qualcosa che non riguarda la sopravvivenza».
«I tuoi amici come si sono trovati? È ancora tutto nuovo, per loro», commento Eric con comprensione.
Gli rivolsi un sorriso. «Bene, tutto sommato. Credo solo che gli serva del tempo, ad alcuni più di altri».
Aaron mi lanciò un'occhiata allusiva. Risi, ricambiando lo sguardo d'intesa. «Allora, com'è andata là fuori? Lo hai trovato?».
«Ho rischiato una freccia in fronte, ma sì, l'ho trovato alla fine», rispose, ridendo e appoggiandosi al ripiano del bancone con le braccia incrociate.
«Sono sicura che gli sei arrivato alle spalle!», lo accusai con un sorriso, puntandogli contro l'indice. «Non lo sopporta. Daryl è un segugio, è lui che segue le persone a distanza, non il contrario».
«Lo conosci bene, eh?», commentò Eric. Notai una lieve nota maliziosa, dietro al tono apparentemente neutro.
Alzai gli occhi al cielo, ignorandolo. «Quindi, Aaron? Di cosa avete parlato?», domandai, arrendendomi alla mia stessa curiosità.
«Volevo solo capire come mai per Deanna è così difficile individuare il lavoro da assegnargli e capire un po' che persona è», mi spiegò, tranquillo.
Sorrisi, provando a immaginarmi un Aaron amichevole e un Daryl burbero e scostante, desideroso soltanto di farsi gli affari propri ma costretto a sopportare la compagnia indesiderata del reclutatore. «E ci sei riuscito?».
Mi sorrise, trionfante. «Sì, ci sono riuscito».
«I miei complimenti! Io devo ancora riuscire a capirlo del tutto», scherzai.
«Gli hai trovato anche un'occupazione?».
L'espressione allegra di Aaron si spense: quella che la sostituì non l'avrei definita preoccupata, più... indecisa, ecco. Lanciò uno sguardo fugace ad Eric, che si voltò subito per continuare a mescolare il sugo che stava preparando.
«Io... sì. Gliene parlerò stasera», rispose, titubante.
«Beh, è fantastico!», commentai, sinceramente entusiasta. Forse Daryl avrebbe cominciato veramente a sentirsi parte di quel posto. «Di cosa si tratta?», domandai, curiosa.
Aaron attese qualche attimo, prima di decidersi a parlare. «Pensavo di chiedergli se vuole prendere il posto di Eric e andare là fuori con me. A reclutare le persone».
Spalancai gli occhi, non sapendo bene cosa dire: la sua risposta mi aveva lasciata basita, e non so come Aaron interpretò la mia reazione.
Mi guardava intensamente, preoccupato. «Beth, ascolta, so che è egoista da parte mia chiedergli una cosa del genere e probabilmente mi odierai per questo-», cominciò, accorato, parlando in fretta come se si volesse giustificare.
«Aspetta», lo interruppi, perplessa. «Perché dovrei odiarti?!».
«Perché per tenere al sicuro la persona più importante per me, metto in pericolo quella più importante per te».
Strinsi le labbra, abbassando lo sguardo e cercando di non farmi travolgere dall'ondata di imbarazzo che mi montò dal fondo dello stomaco. Aaron aveva appena paragonato lui ed Eric - coppia, innamorati - a me e Daryl. Dovevo dire qualcosa, qualunque cosa. «Oh, ecco, no Aaron, ti sbagli, io e Daryl non...», balbettai, confermando ancora di più l'idea che si era fatto dei miei sentimenti per l'arciere. «No», terminai, chiudendo il mio intervento per nulla brillante. Feci un respiro profondo, ignorando lo sguardo di intesa che si scambiarono i miei amici. «Non ti considero egoista, né ti odierò se chiederai a Daryl di diventare reclutatore», sorrisi, ancora rossa d'imbarazzo. Lui mi studiò attentamente, valutando se poteva credermi o no.
«Quell'uomo, Beth», proferì, alzando un braccio e indicando con l'indice un punto imprecisato di ciò che lo circondava,«è incredibilmente bravo a capire la differenza tra le brave persone e le cattive persone», affermò, la voce intrisa di ammirazione. «Per questo voglio che diventi il nuovo reclutatore di Alexandria. Non riesco a pensare ad un sostituto più adatto di lui».
Lo fissai, senza dire una parola.

«Quindi credi che esistano ancora brave persone. Perché hai cambiato idea?».

Daryl era passato dal credere che non esistessero più persone buone, all'essere scelto come reclutatore proprio perché riusciva a riconoscerle, in quel mondo andato a rotoli. Ero orgogliosa di lui e assolutamente felice che Aaron gli riservasse quelle parole e che lo volesse con sé. Daryl aveva tanto da dare a quella comunità e lo avrebbe fatto, pur agendo fuori dalle mura. Sarebbe stata la soluzione perfetta per lui.
«È... fantastico, Aaron», sussurrai, sincera. «Non ti dirà di no. Hai trovato il modo perfetto per farlo rimanere qui senza che si senta soffocato dalle mura».
Lui ed Eric mi guardarono, sorridendo ampiamente. «Sei sicura?», domandò Aaron, avvicinandosi a me e posandomi le mani sulle spalle.
Lo guardai negli occhi, entusiasta. «Sicurissima. Sei un genio», dissi, abbracciandolo. Ero ben conscia di quello che mi aspettava se Daryl fosse diventato reclutatore: giorni interi di perenne ansia e preoccupazione, chiedendomi se, in quello stesso istante, ovunque si trovasse, stesse bene e fosse al sicuro; giorni interi senza vederlo, senza parlarci, senza averlo vicino.
Sarebbe stata dura, lo sapevo, ma Daryl sarebbe stato felice: era un incarico perfetto per lui, là fuori, nei boschi, in pericolo, certo, ma lontano da quelle mura che sembravano intrappolarlo in una realtà nella quale lui non si rivedeva.
«Parli del diavolo», intervenne Eric, divertito, scrutando qualcosa fuori dalla finestra. Seguii il suo sguardo, notando che Daryl, proprio il quel momento, stava passando davanti a casa loro. Senza rendermene conto, mi fermai a fissare la sua figura, resa poco visibile dall'oscurità.
«Chiedigli se vuole cenare con noi», mi suggerì Aaron, ancora coinvolto nel nostro abbraccio, sorridendomi intenerito.
Annuii, sorridendo imbarazzata e ignorando la risatina di Eric quando raggiunsi di corsa la porta di casa.
«Ehi, Daryl», lo chiamai quando fui uscita.
Lui si voltò verso di me, fermandosi e lanciandomi un'occhiata sorpresa. «Cosa ci fai qui?», domandò.
«Eric e Aaron mi hanno invitata a cena, ci vado dopo alla festa», spiegai, indicando la porta aperta alle mie spalle. «Piuttosto, potrei chiederti la stessa cosa».
«Lo sapevi che non sarei andato a quella buffonata», mi ricordò, burbero, mentre scendevo gli scalini e mi avvicinavo a lui.
«Aaron ha appena messo gli spaghetti in tavola, perché non mangi con noi?», gli domandai, con un sorriso ed ignorando il suo tono ostile. «Non hai cenato, immagino».
Daryl guardò prima me, poi – con diffidenza – la porta ancora aperta, alle mie spalle. «No, infatti».
«Allora vieni», lo esortai, prendendogli una mano tra le mie, con tutta l'intenzione di trascinarlo con me nella casa dei miei amici. Con mia enorme sorpresa, non oppose resistenza. Doveva essere davvero affamato, pensai, divertita. Volevo che restasse a cena non solo per il puro e semplice piacere di averlo vicino e al sicuro, ma perché non vedevo l'ora che Aaron gli facesse la sua proposta.
«Buonasera, Daryl», lo accolse Aaron, non appena facemmo il nostro ingresso in cucina. L'arciere rispose con un cenno del capo e uno sguardo illeggibile.
«Siamo contenti di averti a cena con noi», aggiunse Eric, mentre spegneva il fornello sulla quale poggiava un'enorme pentola colma di spaghetti al sugo. Aaron gli si avvicinò con fare premuroso, obbligandolo a sedersi per non affaticare la caviglia e a lasciare il resto a lui.
Io e Daryl ci sedemmo l'uno accanto all'altra e non mi sfuggì la rigidità con cui occupava il suo posto; Aaron mise la pentola in tavola e lo aiutai a distribuire gli spaghetti nei piatti. Ovviamente, a Daryl spettò la porzione più abbondante.
Iniziammo a mangiare in silenzio, un silenzio non proprio complice, ma nel quale si avvertiva un leggero senso di imbarazzo. La situazione, però, si alleggerì non appena fu palese la foga con cui Daryl, con la sua solita eleganza, si era avventato sulla sua porzione. Io ero abituata ai modi non proprio raffinati di Dixon di stare a tavola, ma lo stesso non si poteva dire dei due padroni di casa. Si guardarono con la coda dell'occhio dopo aver osservato l'arciere, poi lanciarono un'occhiata fugace anche a me: Eric si stava mordendo l'interno delle guance con disperazione, cercando di non ridere, mentre Aaron non riuscì a trattenere un sorriso appena accennato. Vedere come si sforzavano rischiò di fare ridere anche me, mentre Daryl continuava beato a strafogarsi di spaghetti, per nulla infastidito dal silenzio che aleggiava. «Grazie», bofonchiò dopo un po', divorando l'ultima forchettata di spaghetti.
«Felice che ti siano piaciuti», rispose Eric, sorridendo divertito. Daryl si raddrizzò sulla sedia, appoggiando la schiena contro lo schienale per sistemarsi in una posizione rilassata, liberando un sospiro soddisfatto e pulendosi le labbra con la manica della camicia.
Gli lanciai un'occhiataccia, guardandolo disgustata. «Daryl!», lo rimbrottai, dandogli una gomitata.
«Che vuoi?», berciò lui, in tutta risposta. «Esprimo il mio apprezzamento».
«Puoi esprimerlo anche senza comportarti da uomo delle caverne», replicai, sollevando un tovagliolo e parandoglielo davanti alla faccia. «Questi servono per pulirsi, lo sai?».
Daryl alzò gli occhi al cielo e sollevò le braccia, incrociando le dita dietro alla testa.
Aaron ed Eric ci osservavano, con sguardi maliziosi che temevo Daryl avrebbe notato. I loro occhi mi parlavano, senza che ci fosse bisogno di pronunciare mezza frase: “sembrate proprio una coppia”. Li guardai in modo piuttosto eloquente.
«Okay, prima che vi mettiate a litigare», proferì Aaron, attirando la nostra attenzione, «Daryl, vieni un attimo con me in garage».
L'arciere lo fissò per qualche secondo, senza dire nulla. «Perché?», domandò, in tono diffidente.
Alzai gli occhi al cielo. «Vai con lui», lo esortai, seccata dal suo fare sospettoso.
Daryl si alzò dalla tavola con uno sbuffo e, totalmente controvoglia, seguì Aaron. Insieme, sparirono dietro la porta che conduceva al garage. Nell'attesa che tornassero, aiutai Eric a sparecchiare e a sistemare la cucina. Sentivo le loro voci, attutite dalla porta che ci separava, ma non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo. Eric ridacchiò, notando la mia curiosità impellente.
Tornarono mentre io ed il mio amico stavamo chiacchierando, comodamente abbandonati sul divano. La prima cosa che cercai fu lo sguardo dell'arciere: sapevo che gli occhi con cui lo guardai erano pieni della speranza che accettasse.
«Allora?», mi lasciai sfuggire, impaziente.
Daryl mi guardò, interrogativo. «Cosa?».
«Hai accettato?», domandai, provocando la risata di Aaron.
«Tu lo sapevi?!», sbottò l'arciere, contrariato.
Alzai gli occhi al cielo, seccata dal suo rispondere alla mia domanda con un'altra domanda. Mi rivolsi al mio amico. «Ha accettato?».
La voce di Aaron coprì il grugnito di Daryl. «Martedì partiamo», disse soltanto, con un sorriso. Rimasi in silenzio qualche secondo, rivolgendo all'arciere un sorriso a trentadue denti.
«Lo sapevo che avresti detto di sì!», esultai, saltando in piedi e avvicinandomi a loro. Daryl borbottò qualcosa di incomprensibile, sminuendo la cosa con un'alzata di spalle e volgendo lo sguardo altrove; io continuai a fissarlo, sorridendogli emozionata.
«Propongo un brindisi per il nuovo reclutatore di Alexandria», intervenne Aaron. Stava per prendere la birra dal frigo, ma l'occhiata truce di Daryl lo gelò sul posto: «non ti azzardare», proferì con voce grave, «là fuori saremo solo io e te. Non ti conviene farmi incazzare».
Aaron alzò le braccia in segno di resa. «Okay, okay, niente brindisi», ritrattò, muovendosi tanto lentamente come avrebbe fatto se Daryl gli avesse puntato la balestra contro.
I ragazzi ci invitarono a bere un paio di birra in compagnia senza fare necessariamente un brindisi, ma rifiutai, dicendo che, in realtà, dovevamo fare un salto alla festa a casa di Deanna.
Nonostante qualche sua resistenza iniziale, riuscii ad uscire da quella casa con Daryl che, nonostante l'espressione funerea, acconsentì ad accompagnarmi alla festa.
La nostra famiglia ci accolse in modo caloroso, immersa da prima di noi in quell'atmosfera rilassata e quasi surreale. Tutti vestiti bene, tutti – più o meno – sorridenti, con il vociare indistinto e la musica a fare da sottofondo a quella realtà calda e luminosa.
Ancora una volta, in barba a quello che stava succedendo fuori dalle mura.
Studiai con attenzione i volti dei miei cari e non mi sfuggì la diffidenza che, nonostante tutto, continuava ad essere presente sul fondo del loro sguardo. Non erano a loro agio, nonostante i sorrisi e le voci allegre. Ma andava bene così: eravamo lì, ed eravamo insieme.
Mentre li osservavo, pensai che, forse, le cose avrebbero davvero potuto funzionare, quella volta. Che un giorno sarebbe stato possibile per loro fidarsi delle persone che mi avevano accolta. Che la mia famiglia e la mia comunità sarebbero potute diventare una cosa sola, cooperando in equilibrio perfetto.
Capacità di sopravvivere e quotidianità rassicurante, unite in modo vantaggioso.
La mia ingenuità si scontrò ben presto con la realtà. Fu un attimo, qualcosa di talmente improvviso che non riuscii a cogliere appieno: un'occhiata sbagliata, una battuta provocatoria della signora Neudermeyer nei confronti di Daryl, vicino a me.
L'arciere, ovviamente, si incazzò. Di brutto. La insultò, ribattendo che la macchina per la pasta se la sarebbe dovuta infilare in un certo posto.
Mi interposi tra loro, bloccando sul nascere un'altra cattiveria che sarebbe uscita dalla bocca di quell'arpia e difendendo apertamente Daryl. «Cristo, Shelly, le sue stronzate se le tenga per lei ogni tanto!», esclamai con rabbia.
Tutto questo, ovviamente, davanti agli sguardi basiti dei presenti. Deanna e Rick erano sul punto di intervenire, quando Daryl ci diede le spalle per andarsene e sbattere rumorosamente la porta.
Lanciai un'occhiata truce alla signora Neudermeyer, che mi guardava scandalizzata per le parole poco fini che le avevo appena rivolto, e mi precipitai fuori da quella casa per seguire l'arciere.
«Daryl, aspetta!», lo pregai, sbattendo la porta alle mie spalle per impedire agli altri di ascoltare. Si stava già allontanando e non mostrò la minima intenzione di volermi dare ascolto. Scesi di fretta gli scalini del porticato e lo raggiunsi, posandogli una mano sulla spalla e stringendo la presa, per fermarlo. «Daryl, resta! Possiamo sistemare tutto!».
Lui mi afferrò il polso e mi tolse la mano dalla spalla con un gesto brusco, poi si girò di scatto con un'espressione furiosa. «Puoi scordartelo! Sapevo che era un'idea di merda venire qui, lo sapevo, cazzo!».
«No, è Shelly Neudermeyer ad essere una stronza!», mi lasciai sfuggire. «Non devi ascoltarla, lei–».
«Oh, ma a me non frega un cazzo di quello che dice quella sgualdrina con le sue amichette, che parlino pure», ribatté con foga, interrompendomi.
Lo guardai perplessa. «Allora... Allora perché te ne sei andato?».
Mi guardò dal basso verso l'alto, sprezzante. «Perché non sopporto quella gente, ma sopporto ancora meno di essere difeso da altri, specialmente da una ragazzina testarda e impulsiva come te».
Sentii le mie labbra dispiegarsi, ma non uscì nessun suono. Le sue parole ebbero il potere di ferirmi e farmi sentire stupida per quello che avevo fatto. Poi ci pensai su: mi stava umiliando semplicemente perché avevo preso le sue difese?!
«Ma qual è il tuo problema?! Io volevo aiutarti!», sbottai con rabbia, stringendo i pugni e sporgendomi verso di lui.
«Non te l'ho chiesto!», ribatté, facendosi avanti anche lui e sovrastandomi in tutta la sua altezza. Il suo viso era distorto dalla collera, rosso, e i muscoli del collo erano tesi. Non mi intimorì per nulla, anzi, vedere quanto si stava stupidamente arrabbiando mi fece infuriare ancora di più.
«Ed io l'ho fatto lo stesso, perché voglio che tu ti senta finalmente parte di qualcosa di normale!».
Lui liberò una risata carica di disprezzo. «Oh, perfetto, ora la signorina Greene vuole imporre alle persone come sentirsi!».
«Beh, scusami se odio vederti nei panni dell'emarginato!».
«Tu vuoi solamente realizzare la fantasia della famigliola felice che vive in una villetta del cazzo, come se fuori dalle mura il mondo non stesse andando a puttane!», ribatté infervorato, affilando ulteriormente lo sguardo.
Spalancai gli occhi, basita. «Cosa stai dicendo?! Credi che abbia dimenticato? Pensi che sia tanto sbagliato volere un po' di normalità dopo tutto quello che abbiamo passato?!».
«Penso che sia fottutamente stupefacente vedere quanto poco ti ci è voluto per diventare una di loro!», affermò con durezza e di nuovo a voce alta.
Sentii gli occhi schizzare fuori dalle orbite, sempre più incredula di quello che stavo ascoltando. Aveva battuto forte la testa durante il viaggio fino a lì e non lo sapevo? «Una di loro? Io sono una di voi – per rafforzare il concetto, gli puntai l'indice contro il petto – siete voi la mia famiglia, cazzo, Daryl! Dici sul serio?!».
Scostò la mia mano con un gesto brusco. «Ormai parli come loro! Quali sono i problemi più grandi che ti toccano qua dentro, eh? Il fatto che non sei soddisfatta della razione di cioccolata che ti spetta? I miei fottuti capelli che sono troppo lunghi? O ancora, il fatto che non mi importa un cazzo dei discorsi vuoti delle persone lì dentro e non ci penso proprio ad adattarmici?! Apri gli occhi, ragazzina, e guarda le cose come stanno!», mi aggredì.
Aveva ripescato una ad una le cose che gli avevo raccontato e le aveva usate contro di me per farmi sentire ulteriormente idiota. Quella volta mi aveva ferita in un modo che probabilmente non avrebbe mai compreso. Non era stato come la litigata di fronte alla baracca, quando si era arrabbiato e mi aveva insultata per ragioni fondamentalmente giuste; Daryl mi stava accusando ingiustamente, insinuando che fossi cambiata in peggio.
Mi vedeva come l'abitante medio di Alexandria: inadatta a sopravvivere là fuori, afflitta da problemi stupidi e frivoli se confrontati con la crudeltà del mondo con cui io, Daryl e gli altri ci eravamo misurati fino a poco tempo prima.
Come se mi fossi dimenticata di tutte le persone che avevo perso.
Come se avessi scordato tutto quello che lui stesso aveva condiviso con me nel breve tempo in cui eravamo rimasti da soli.
Come se non avessi trovato il coraggio di scappare con le mie forze – senza aspettare tutti loro – per fuggire dal Grady Memorial.
Gli lanciai uno sguardo carico di delusione: non avevo nemmeno più voglia di urlare o spiegargli le mie ragioni, tanto non avrebbe capito.
Annuii, esibendo un mezzo sorriso pieno di amarezza. «Vedo che, nonostante tutto, la tua opinione su di me non è cambiata».
Per un secondo soltanto, intravidi nei suoi occhi una luce nuova, come se nelle iridi blu cobalto avesse lampeggiato il pentimento, ma fu qualcosa di talmente fugace che probabilmente lo avevo solo immaginato.
Daryl rimase in silenzio: non mi diede ragione né mi smentì. Rimase semplicemente a guardarmi con la sua solita, indecifrabile maschera di rabbia. Sentivo le lacrime spingere per uscire, non dovevo assolutamente permetterlo: mi morsi le guance e respirai profondamente, stringendo i pugni.
«Io torno dentro», dissi soltanto, voltandomi e dirigendomi verso la porta. Le lacrime scesero già prima che fossi in grado di afferrare la maniglia: fino a quel momento sperai che mi fermasse, mi chiamasse, facesse qualsiasi cosa.
Non fece nulla, assolutamente nulla: quando mi richiusi la porta alle spalle, se n'era già andato.







Angolo autrice.
Chi non muore si rivede, eh?
Prima di tutto, vi rinnovo le scuse per il ritardo. Sono stati dei mesi veramente di fuoco: ho iniziato l'università, per un periodo ho lavorato e a gennaio sono iniziati gli esami. Non ho avuto tempo per nulla. Ho avuto anche un calo di ispirazione, oltre all'oggettiva mancanza di tempo. Non so se sia stato dovuto alla (per me) deludente prima metà della sesta stagione di The Walking Dead: le ho viste tutte le puntate, ovviamente, ma ho fatto una fatica immonda. La prima parte mi ha annoiata, la seconda invece mi fa paurissima (Negan, vade retro!).
Voi invece che ne pensate di TWD 6? Vi è piaciuta fino ad ora? :) fatemi sapere!
Passiamo al capitolo: questa, in realtà, è solo la prima parte. All'inizio volevo pubblicarlo tutto, ma già fino a qui sono 15 pagine e stava uscendo qualcosa di infinitamente lungo, quindi ho deciso di tagliare e postare la seconda parte a breve!
Nonostante non succeda niente di particolare, ne sono abbastanza soddisfatta ma ho paura che a voi non piacerà, per la lunghezza appunto, o forse perché manca di azione e potrebbe risultare noioso: se è così, mi dispiace. Ma Beth, essendo coinvolta così “internamente” nella comunità di Alexandria – lavorando nello studio medico la maggior parte del tempo la passa tra le mura – non ha più molto modo di vivere situazioni che comportino dell'azione; non come nella serie, se non altro.
Prometto però che il prossimo sarà più movimentato: senza spoilerare troppo, ci sarà un acceso litigio tra le sorelle Greene e altre cose accadranno.
La festa in onore della nostra famigliola non è ancora finita ;)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che vogliate darmi il vostro parere a riguardo :) ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e chi l'ha inserita tra le seguite/preferite, ne sono contentissima!

Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
Blakie


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Capitolo 5
*** Goodnight ***


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AND WE'LL BE GOOD GIUSTO
And we'll be good
capitolo 5



Rientrai in casa tra le lacrime, chiudendo la porta con un'attenzione e lentezza snervanti, in modo da non fare rumore e attirare su di me le occhiate di mezza Alexandria. Per colpa di Daryl, mi vergognavo di quello che avevo fatto e detto per difenderlo. Strisciai verso il bagno senza farmi notare, per fortuna. Quando abbassai la maniglia e tirai la porta, la trovai chiusa. Mi appoggiai al muro con la schiena e incrociai le braccia, cercando di fermare quel pianto di nervosismo che doveva ancora esaurirsi. Se avessi trovato il coraggio di ripresentarmi in mezzo agli altri, la mia prima, stupida decisione sarebbe stata quella di raggiungere il tavolo con gli alcolici, in modo da rendere quella situazione imbarazzante più sopportabile.
D'un tratto, mi tornarono in mente le parole che l'arciere mi aveva rivolto quella volta in cui litigammo davanti alla vecchia baracca: «pensi solo ad ubriacarti come una stupida puttanella!». A quel ricordo, sbuffai. Ero stufa di essere aggredita da Daryl Dixon per ogni dannata cosa: se avessi iniziato ad avere comportamenti affini alle sue accuse, almeno avrebbe avuto motivi validi per attaccarmi. Ero già stufa di provare quello che provavo per lui, stanca di essere... innamorata di un uomo tormentato, scostante e lontano il più delle volte. Erano passati pochi giorni da quando avevo realizzato i miei sentimenti per lui e non era un buon segno che mi sentissi già così. Come avevo potuto essere tanto ingenua da avere addirittura delle fantasie sul fatto che Daryl, forse, potesse un giorno accorgersi di provare lo stesso per me? Mi avevano sfiorato quelle fantasie, era stato piuttosto inevitabile. È inevitabile che nasca la speranza dove si custodiscono sentimenti così forti.
Sei la solita idiota sognatrice, Beth Greene, dissi a me stessa. Dovevo smetterla di costruire castelli in aria e perdermi nelle mie stupide fantasie romantiche: così, forse, avrei smesso di essere costantemente vittima dei rimproveri di Daryl al quale, chiaramente, non era mai passata per l'anticamera del cervello l'idea di vedermi come una possibile compagna, fidanzata, amante o altro. Ero troppo poco per lui: questa consapevolezza era nata nello stesso momento in cui avevo capito la natura dei miei sentimenti per l'arciere.
Lo scatto della chiave nella serratura mi distolse dalle mie elucubrazioni e in un gesto del tutto automatico provai ad asciugarmi le guance, abbassando lo sguardo per non mostrare le mie pietose condizioni.
«Beth!», esclamò Maggie, uscendo dal bagno. L'imbarazzo non mi distorse lo stomaco in maniera meno violenta solo perché fu mia sorella a parlarmi dopo il teatrino che avevo messo in piedi poco prima, anzi. Continuai imperterrita a fissare il pavimento.
«Ehi, Beth», riprovò, posandomi dolcemente una mano sulla spalla e usando l'altra per farmi alzare il viso verso il suo.
«Maggie, io... Scusami», dissi soltanto, in un sussurro.
A fatica, feci incontrare il mio sguardo col suo. Mia sorella mi guardò senza rispondere, stringendo le labbra con preoccupazione.
«Dai, vieni», disse, sospingendomi dentro alla toilette e chiudendo la porta a chiave.
Mi suggerì di rinfrescarmi il viso e accettai il suo consiglio: l'acqua fredda fu un vero sollievo per le guance in fiamme e gli occhi che bruciavano. Maggie mi passò un asciugamano e mi sedetti con lei sul bordo della vasca. Quando finii di asciugarmi la faccia, lasciai andare un sospiro.
«Va meglio?», domandò, sorridendomi.
Ricambiai il sorriso, cercando di apparire il più credibile possibile. «Sì, Mag, sto meglio. Non ti preoccupare».
Lei mi studiò, per niente convinta. «Cos'è successo con Daryl?», chiese poi, affilando lo sguardo.
«Nulla di che. Non è la prima volta che ci urliamo addosso», provai a rassicurarla, alzando gli occhi al cielo per sminuire la cosa. Come se tutto quel casino non avesse l'importanza che, in realtà, gli attribuivo. «Solo, non avrei voluto coinvolgere la signora Neudermeyer».
«Già solo il fatto che abbiate qualcosa per cui urlarvi addosso mi sorprende, visto che alla prigione vi rivolgevate a malapena la parola», ribatté.
Stiracchiai una smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso. «Sono cambiate molte cose da allora».
«Spero che non siano cambiate troppo...», sussurrò, guardandomi con aria preoccupata.
La guardai, interrogativa. «Cosa intendi?».
Maggie non rispose subito, continuando a fissarmi con preoccupazione. «Ascolta, Beth, non mi va di fare la parte della sorella paranoica e iperprotettiva che vuole rinchiuderti in una campana di vetro, ma... - sospirò, prima di riprendere a parlare - mi sono accorta di come lo guardi».
Anche se il mio cuore perse un battito quando pronunciò quella frase, finsi ugualmente di non capire a chi si stava riferendo.  
«D-Di come guardo chi?», domandai, col tono di chi cadeva dalle nuvole.
«Daryl», chiarì Maggie, secca.
Spalancai gli occhi, portando avanti la mia commedia.
«Non capisco a cosa ti riferisci», dissi, a voce un po' troppo alta. Senza rendermene conto, iniziai a torturare il tessuto del vestito.
Lei rise davanti al mio pietoso tentativo.
«Beth, andiamo, ti ho vista crescere! Vuoi che non veda quello che provi?».
«Maggie...».
«Posso capire come ti senti», mi interruppe, posando la mia mano sulla spalla e guardandomi dritta negli occhi. «Pensavi che Daryl fosse l'ultima persona del gruppo che ti era rimasta, avete passato molto tempo insieme, ti ha protetta quando siete scappati dalla prigione; è normale che tra voi si sia creato un legame. È un uomo straordinario, molti di noi non sarebbero qui se non fosse per lui, ma... è un uomo, appunto. È troppo grande per te, Beth».
Il cuore iniziò a martellarmi nel petto.
«Non sai di cosa parli», le dissi, abbassando lo sguardo sulle mattonelle fredde del pavimento. «Non ho mai, mai, mai creduto che Daryl fosse l'ultima persona che mi era rimasta», aggiunsi, a denti stretti. «Ho sempre saputo che ci saremmo ritrovati, tutti». Credeva davvero che mi sentissi legata a Daryl solo per quello?
«Questo non cambia il fatto che ti sei presa una cotta per lui».
"Una cotta" non era abbastanza ampio e corretto come concetto per descrivere quello che sentivo per Dixon, e mi arrabbiai al suono di quelle parole: mi sembrò che Maggie volesse sminuire i miei sentimenti, come se fossi troppo piccola o ingenua per capire certe cose.
«Ti stai sbagliando, su tutta la linea. Ad ogni modo, non ho la minima voglia di parlarne», sbottai, incrociando le braccia al petto e alzandomi in piedi.
«Ti ferirà, Beth; lo sta già facendo. Daryl non ti vede come vorresti tu», rincarò la dose Maggie, con veemenza. Vedevo il suo sguardo riflesso nello specchio di fronte a me.
«So quello che faccio», ribattei, piatta.
«Non se si tratta di lui! Sei ancora troppo giovane per queste cose».
«Smettila con questa storia!», sbottai con esasperazione, voltandomi di scatto verso di lei.
Maggie mi studiò per qualche istante, stringendo le labbra e guardandomi con uno sguardo freddo. Abbassò gli occhi come a decidere se dire o meno quella che, alla fine, uscì dalle sue labbra come la più sbagliata delle minacce:
«non costringermi a parlargli».
Strabuzzai gli occhi, incredula per ciò che aveva appena detto.
«Cosa?!».
Aspettò qualche momento prima di rispondere.
«Mi hai sentita».
Rimasi a guardarla, interdetta e con le labbra appena schiuse; poi, senza riuscire a mettere un freno alla mia rabbia, liberai una risata che voleva essere sarcastica.
«E cosa vorresti dire a Daryl? "Quella stupida della mia sorellina si è presa una patetica cotta per te e tu devi starle lontano"?». Maggie fece per controbattere, ma glielo impedii. «Sai, Maggie, è curioso il fatto che adesso ti senti in diritto di proteggermi e di esercitare la tua autrorità di sorella maggiore su di me, quando siamo state separate per giorni e tu hai comunque preferito andare a Washington con degli sconosciuti a salvare il mondo, piuttosto che venire a cercare me! Ero già tua sorella, te ne eri dimenticata?!».
L'avevo detta grossa, lo sapevo. Me ne ero resa conto non appena terminata la frase, avvertendo quello slancio di rabbia e frustrazione crescere e sfumare con le mie parole. Ma, d'altronde, era quello che provavo. La delusione e il dolore di quando avevo scoperto come si era comportata mia sorella si erano riversati fuori di me come fossero veleno. Avevo cercato di dimenticare quella sensazione, di cancellare il rancore, concentrandomi sul fatto che non avesse più importanza, perché alla fine c'eravamo comunque ritrovate. Mi sbagliavo: di importanza ne aveva eccome. Mi ero sentita abbandonata da mia sorella, anche se "a scoppio ritardato", in un certo senso. Il mio unico pensiero da quando era crollata la prigione e mi ero ritrovata in fuga con Daryl, era stato quello di ritrovare tutta la nostra famiglia, certo, ma Maggie soprattutto. Sarebbe stato un pensiero dannatamente scontato e naturale per chiunque; non per lei, evidentemente.
Lei, che ora mi guardava scioccata, con gli occhi spalancati di chi avrebbe provato meno dolore se si fosse beccata uno schiaffo in pieno volto. Sembrava che le parole che le avevo appena rivolto le avessero tolto la capacità di parlare. Forse perché, alla fine, avevo ragione. Maggie abbassò lo sguardo, non mi parlava né mi guardava; io aspettavo una sua risposta che, probabilmente, non sarebbe arrivata, mentre fissavo i capelli che le ricadevano sulla sua espressione, nascondendola. In quel bagno calò un silenzio di tomba che non riuscii a sopportare a lungo.
Mi avvicinai alla porta, afferrai la maniglia e feci scattare la serratura. Stavo per uscire da lì, ma mi bloccai: avevo un'ultima cosa da dirle.

«Tanto per la cronaca», proferii, con tono tagliente e senza voltarmi a guardarla,
«è principalmente grazie a lui se puoi dire di avere ancora una una sorella. Se Daryl non si fosse fatto in quattro per proteggermi prima e per venirmi a cercare dopo, ora non sarei qui ad ascoltare te che mi imponi di stare lontana da lui».
Non aggiunsi altro: uscii dal bagno e sbattei la porta alle mie spalle, le mani che mi tremavano. Abbandonai il piano di rientrare nel vivo della festa, in mezzo agli altri, ma riuscii comunque a procurarmi tre bottiglie di birra che erano rimaste nella cassetta che era stata riposta nel sottoscala. Entrai di soppiatto in cucina, riuscendo a prendere in prestito un apribottiglie. Cercando di non farmi notare, mi riappropriai della giacca e uscii, raggiungendo il lagetto per fare la stupida in santa pace.
La luna che si specchiava sulla superficie dell'acqua ed i miei drammi furono l'unica, gradita compagnia, mentre stavo per finire la mia prima bottiglia. Era meno forte dell'alcool che avevo bevuto quella volta assieme a Daryl, ma non per questo il torpore dovuto al tasso alcolico della birra tardò ad arrivare.
Forse sono astemia e ci metto meno tempo ad ubriacarmi, pensai pigramente, portando la bottiglia quasi vuota davanti al viso, per osservarne il fondo. La appoggiai sull'erba umida ed aprii la seconda quando, all'improvviso, una voce familiare mi fece voltare.
«Cosa ci fai qui, Greene?», domandò Aiden, venendomi incontro e sedendosi di fianco a me. Se fossi stata appena più lucida, probabilmente la sua presenza mi avrebbe messa a disagio; invece gli sorrisi, cordiale. «Potrei farti la stessa domanda», ribattei, prendendo un sorso di birra.
«Ti stavo cercando per vedere come stavi. Spero di non aver interrotto niente», disse, ridacchiando ed indicato il recipiente nella mia mano.
Lo osservai, sorridendogli. Nonostante la sua tendenza a dimostrare il suo interesse nei miei confronti rendendosi troppo affettuoso o insistente, Aiden non era un cattivo ragazzo, anzi: le prime volte era stato davvero piacevole passare del tempo in sua compagnia.
«Di sicuro non hai interrotto una festa in maniera disastrosa, come ho fatto io», mi lasciai scappare, volgendo lo sguardo alla superficie scura del laghetto.
«Non è stata colpa tua», mi confortò, dandomi un buffetto sulla guancia. «In realtà-», proseguì, ma non lo lasciai finire.
«Se stai per dire che è stata di Daryl la colpa puoi anche andartene», biascicai, voltandomi verso di lui di scatto, in un moto di rabbia.
Aiden mi guardò e rise. «Veramente stavo per dire che la colpa è stata solo di Shelly», mi rassicurò, facendomi sentire una completa idiota.
«Oh», mormorai,  imbarazzata. «Scusami».
«Tranquilla. Non ti fa un bell'effetto la birra, eh?», scherzò.
Gli sorrisi, allungandogli la bottiglia che era rimasta sigillata.
«Pace?», offrii.
Lui la afferrò, facendo indugiare per un attimo la mano attorno alla mia.
«Pace».
Trangugiai la seconda birra in silenzio, ignorando la testa che iniziava a girare e ad alleggerirsi notevolmente. Possibile che riuscissi a reggere meglio l'alcool di contrabbando? Poi mi riordai che, prima che alla festa succedesse il disastro, senza accorgermene ne avevo finita un'altra... e mezzo. Ciò significava che ne avevo quasi bevute quattro, e tutto il mio corpo se ne stava accorgendo.
«Ehi, tutto bene?», domandò Aiden, riscuotendomi dalla mia apatia momentanea.
Mi voltai verso di lui, smarrita.
«Eh? Oh, sì», risposi, la voce spenta.
«Stai pensando ancora alla festa?», tirò a indovinare, bevendosi un sorso di liquido ambrato.
«Già», risposi. Quello stato di ebbrezza, seppur non esageratamente pesante, mi impediva di dire bugie. Tutte le mie difese si stavano abbassando, non pensavo veramente alle conseguenze di quello che dicevo. Forse era un bene che ci fosse Aiden con me e non Daryl, pensai confusamente: chissà quali altri casini avrei combinato.
«Non pensarci. La signora Neudermeyer ha veramente esagerato, stavolta».
«Pfff, peccato che mi dovrò scusare lo stesso», borbottai, sfregandomi le palpebre che iniziavano ad appesantirsi. Tutto stava iniziando a scorrere più lentamente.
«Non è necessario», ribatté Aiden e con la coda dell'occhio notai che scrollava le spalle. «Puoi anche non parlarle più».
Mi voltai verso di lui, che ora mi appariva in maniera leggermente annebbiata.
«Ah, se fosse per me non le parlerei più davvero, ma devo fare la brava», biascicai, scatenando un suo sorrisetto divertito. «Sai la cosa davvero divertente? Devo... Devo scusarmi anche con Daryl».
Il mio amico mi lanciò un'occhiata sopresa. «Con Daryl? Perché mai?».
Trovai la sua espressione estremamente divertente.
«Ah ah, vero che è assurdo? Eppure è così».
«Perché?», domandò ancora, paziente.
Mi strinsi nelle spalle.
«Boh. A lui non piace essere difeso. Non da me, perlomeno».
Se fossi stata pià lucida, mi sarei resa conto che non mi ero spiegata proprio per niente, o almeno, non in maniera abbastanza chiara. Infatti Aiden continuò a guardarmi perplesso. Mi bevvi un altro sorso di birra.
«Forse era così arrabbiato con Shelly da prendersela con te», ipotizzò, appoggiando la bottiglia vuota vicino a sé.
«Ma io sono stufa!», esclamai arrabbiata, strascicando la voce in modo irritante. «Non è colpa mia, non è quasi mai colpa mia, ma lui se la prende con me lo stesso». Finii anche la terza bottiglia in un moto di rabbia.
«Ehi, Beth, calma», disse Aiden, circondandomi le spalle con un braccio. «Sono sicuro che non è davvero arrabbiato con te. Tu non c'entri nulla».
In un moto di sconforto, abbandonai la testa contro la sua spalla, lamentandomi come se fossi improvvisamente regredita all'età di cinque anni.
«Daryl Dixon mi odia».
«Che assurdità. È impossibile odiarti, Beth», ribatté.
«Non per lui», mugugnai, chiudendo gli occhi e beandomi del calore del suo abbraccio. Aiden mi strinse un po' di più a sé.
«Sono sicuro che non è così. E se lo fosse, allora vuol dire che Daryl Dixon è un idiota», affermò, per consolarmi.
Aggrottai la fronte, tenendo gli occhi chiusi: quel commento mi aveva infastidita. Nessuno poteva parlare male di Daryl, non in mia presenza. Mi avrebbe dato fastidio da sobria, figuriamoci da mezza ubriaca, con le sensazioni amplificate e nessun freno alla mia lingua. Eppure non parlai, ma rimasi con la testa sulla sua spalla e mi lasciai andare soltanto ad uno sbuffo contrariato che, evidentemente, Aiden interpretò come un suono di assenso. Per un po', continuò a tenermi stretta, dondolandosi appena e sfiorandomi, di tanto in tanto, la fronte con le labbra, quasi come se volesse farmi addormentare. In realtà, iniziavo davvero ad avere sonno. Mantenni gli occhi chiusi e lasciai vagare i miei pensieri, offuscati dall'alcool, che si presentarono alla mia coscienza come flash confusi e aggrovigliati tra loro. Molti di essi avevano come protagonista Daryl, o parole che mi aveva rivolto, o suoi gesti, o situazioni che avevamo vissuto insieme.
La litigata di fronte alla baracca.
La sua schiena avvolta dal gilet con le ali.
La sua mano stretta alla mia.
«Odio gli addii». «Anche io».
Le lezioni di caccia.
Gli abbracci.
I giorni insieme che avevano cambiato tutto, tra noi e dentro di me.
«Perché hai cambiato idea?». «Per te».
Frammenti di ricordi che si susseguirono in maniera incoerente, uno dopo l'altro. Riaprii gli occhi, sperando che passassero, assieme al nodo alla gola.
«Voglio andare a casa», decisi, raddrizzandomi.
Mi allontanai da Aiden, cogliendolo di sorpresa; cercai di alzarmi velocemente da sola, ma non fu un'idea brillante, perché, quando fui in piedi, venni colta da un capogiro. Aiden si avvicinò subito per sostenermi e rise, vedendomi in quelle condizioni. I nostri volti erano vicinissimi, ma avevo la mente troppo annebbiata per allontanarmi. Aiden mi cinse i fianchi con un braccio, mentre con la mano libera mi scostò una ciocca di capelli che era finita fuori posto, sfiorandomi il viso.
«Sei bella anche quando sei ubriaca, lo sai?», sussurrò, ma la sua voce mi sembrava lontana e distorta. Avevo veramente esagerato, quella sera. La sua affermazione mi fece ridere e scacciò il turbamento di poco prima: pensai a quale aspetto potessi avere in quel momento e solo un aggettivo contrario a "bella" avrebbe potuto descrivermi egregiamente.
«Devi essere cieco», ribattei, ridendo in modo fastidioso. Poi mi fermai e biascicai: «o troppo poco lucido. Sei ubriaco».
Questa volta fu lui a ridere, senza mollare la presa su di me.
«Beth, non sei la persona più indicata, adesso, per accusare gli altri di ubriachezza».
Non seppi che rispondere, quindi mi limitai a guardarlo con un sorrisetto divertito; inizialmente fu l'allegria ad animare il suo volto, ma poi qualcosa cambiò. Il suo sguardo si fece serio ma il sorriso rimase, seppur accennato. Mi posò una mano sulla guancia, guardandomi con un'intensità che non mi sfuggì, nonostante l'annebbiamento.
«Beth...», mormorò, sempre più vicino.
Le mie braccia erano pesanti e abbandonate mollemente lungo i miei fianchi, per nulla coinvolta da quel momento; notai che il tocco di Aiden non sortiva su di me nessun effetto. Il cuore non mi batteva forte, il respiro era rimasto uguale: continuavo ad osservarlo, distante, indifferente nonostante una piccola parte di me avesse capito ciò che stava per succedere. Come se osservassi la scena da spettatrice esterna e non da protagonista.
Si chinò su di me lentamente, accompagnando il mio viso verso il suo in quella carezza delicata: quando le sue labbra si appoggiarono sulle mie, mi soffermai a studiare cosa si provasse ad essere baciata dopo così tanto tempo e mi resi conto di essermi dimenticata la sensazione di un paio di labbra contro le mie. Ero talmente stranita, apatica e indifferente che non ebbi la prontezza di respingerlo, ma ancora meno di ricambiare quel bacio a senso unico. Inizialmente non pensai a nulla di particolare, tanto che Aiden avrebbe potuto continuare a tenere le labbra contro le mie all'infinito, se solo avesse voluto. Quando, però, mi ritrovai a realizzare che erano state le sue labbra a baciarmi dopo mesi, dopo Zach, dopo così tanto tempo e non quelle di Daryl, mi riscossi da quella nebbia emotiva. Afferrai i suoi avambracci e mi allontanai con lentezza dalle sue labbra, abbassando lo sguardo.
Aiden sospirò, appoggiando la fronte contro la mia nuca.
«Non si può fare, vero?».
Scossi la testa, stiracchiando un sorriso per il nervosismo.
«Mi dispiace», balbettai.
Aiden mi lasciò andare, chinandosi per raccogliere le bottiglie vuote e l'apribottiglie. Senza il sostegno del suo corpo, traballai appena.

«Non mi tirerai un calcio nelle palle, vero?», scherzò, cercando di nascondere la delusione.
Gli sorrisi lievemente, le percezioni annebbiate e la testa che mi girava.
«Se mi accompagni a casa, no».
~
(Daryl)

Non appena rimasi solo, maledissi con ogni parte di me il momento in cui avevo accettato di andare a quella festa. Non lo feci prima perché la rabbia che mi aveva offuscato il cervello era stata tale da impedirmi di pensare a qualsiasi altra stronzata potesse venirmi in mente. Riflettendo a mente fredda e dopo che la sigaretta riuscì nel suo compito di distendermi i nervi, però, cominciò a punzecchiarmi l'idea che forse avevo esagerato. Non nei confronti di quella stronza della Neuder-quello-che-è, ovviamente, ma nei confronti della ragazzina.
Sbuffai, spegnendo la sigaretta contro il pavimento del portico e allungando le gambe in modo poco elegante. Avevo una specie di formicolio molto simile alla rabbia che mi tormentava le viscere, non riuscivo a stare fermo per un dannato minuto di fila. Ero irrequieto. Allo stesso tempo, però, sapevo che non sarei riuscito a muovere un solo muscolo per alzarmi da lì. Era questo l'effetto che avevano iniziato a farmi i litigi con Beth?
Merda, imprecai, tra me e me. Quella ragazzina mi avrebbe fatto impazzire, una volta o l'altra. E realizzare che fossi io stesso a permettierglielo mi fece ribollire il sangue nelle vene.
Una volta non me se sarebbe importato un cazzo di accontentare le sue richieste: niente alcool, niente taglio di capelli, niente festa da buffoni. Più che con lei, mi sarei dovuto incazzare con me stesso. Perché era quella e soltanto quella, la verità: non riuscivo a dirle di no. Non importava quanto fossero fastidiose le sue richieste, non ci riuscivo perché ancora mi sentivo responsabile per la morte di Hershel; in più, avevo davvero temuto di non vederla mai più, dopo l'agguato di quegli stronzi dell'ospedale. Mi ero sentito colpevole della sua scomparsa e terrorizzato da quello che sarei stato costretto a dire a Maggie, ovvero che non ero riuscito a proteggere sua sorella.
Ma c'era dell'altro, oltre a quello. Un'altra motivazione che avevo cercato di tenere lontano da me il più possibile, qualcosa che mi seccava dannatamente ammettere.
Il fatto in sé di non vedere mai più Beth mi faceva paura; e non c'entravano niente sua sorella o il senso di colpa per la morte di suo padre, ma perché Beth... era Beth. E, dato che provare tutto quello mi terrorizzava ancora di più, preferivo nascondere tutte queste stronzate trattandola con poca gentilezza, sperando che si allontanasse da me, che mi allontanassi io. Se avessimo litigato in modo così acceso ai tempi della prigione, probabilmente me ne sarei fregato altamente e l'avrei semplicemente evitata, riducendo le conversazioni alllo stretto necessario.
Il casino era che non ci riuscivo più. Se Beth avesse scoperto di avere questo potere sconosciuto, che non sapevo da dove cazzo arrivasse, su di me, beh, sarei stato fottuto.
Continuare a rimuginare in quel modo mi stava facendo venire la sconcertante voglia di scusarmi.
«Merda», sbottai, questa volta a voce alta, accendendomi un'altra sigaretta. Per un lasso di tempo indefinito ma abbastanza lungo, cambiai idea una ventina di volte sul da farsi: quando pensavo di lasciar perdere, quando mi convincevo che le sarebbe passata senza il bisogno di riparlarne, mi venivano in mente i suoi occhi bagnati dalle lacrime, la sua espressione ferita, e qualcosa dentro di me smuoveva la mia coscienza.
Spensi il mozzicone e lo lanciai lontano da me, con rabbia. Mi ero già rotto le palle di quei pensieri fastidiosi: l'unica alternativa sarebbe stata quella di mettere da parte l'orgoglio e scusarmi con Beth.
Non sapevo quanto tempo fosse passato, né a che punto fossero con la festa, quindi decisi che avrei aspettato Beth davanti a casa sua; prima o poi sarebbe dovuta tornare. Prima di cambiare idea, mi diressi a casa sua a passo spedito, impaziente di liberarmi da quei pensieri seccanti. Sarebbe stata la prima e ultima volta, perché, da quel momento in avanti, avrei ripreso il controllo di me stesso e non avrei più permesso a quella ragazzina di rigirarmi come voleva.
Un ghigno nacque sulle mie labbra, quando pensai a cosa avrebbe detto Merle se solo fosse stato ancora vivo. Mi avrebbe sfottuto, quello stronzo, ripetendomi all'infinito "quanto cazzo ti sei rammollito, fratellino". Beh, per lo standard di sensibilità che contraddistingueva noi Dixon, era vero. Il fatto era che -- e mi faceva paura dirlo -- il modo naturale con cui Beth si comportava nei miei confronti mi spiazzava, mi confondeva. Vedeva del buono in me che non esisteva. Non ero di certo tanto figlio di puttana quanto lo era stato il Governatore o altre persone schifose che avevamo incontrato sul nostro cammino, ma non ero ugualmente una bella persona; non quanto credeva lei, almeno. E da quando avevo ammesso di credere che esistessero ancora brave persone, la sua visione di me si era fatta ancora più distorta. Non capiva che erano stati i fatti a farmi cambiare idea, lei, non sentimenti di fiducia assoluta e speranza incrollabile che appartenevano a Beth: non ero provvisto di cose tanto buone, dentro di me. Non c'erano tutti quei buoni sentimenti, non in me. Per questo doveva finirla di ronzarmi attorno: saebbe stato più... facile. Per tutti e due.
Il pensiero mi faceva innervosire, ma avevo provato cose strane quando mi ero ritrovato a scappare assieme a lei, e anche quando ci eravamo ritrovati ad Alexandria, ma non avevo assolutamente intenzione di fare lo psicologo di me stesso del cazzo. O dare un certo significato alle sensazione che Beth aveva suscitato in me. Dovevo tenermi lontano da quel sentiero, altrimenti non sarebbe finita bene.
Era bella, Beth, sia dentro che fuori, ma era ancora una ragazzina e non potevo permettere di fare evolvere il nostro rapporto in qualcosa di equivoco, come uno schifoso depravato qualunque. Lei era troppo pura, troppo cristallina, mentre io rovinavo tutto quello che toccavo. Che lei non collaborasse e cercasse di far crollare le mie difese rendeva tutto più dannatamente complicato.
Mi fermai per un secondo, fissando il vuoto davanti a me realizzando che, puah!, stavo pure iniziando a farmi paturnie degne di un adolescente.
Arrivai davanti a casa di Beth: era tutto spento e, a meno che non fosse già andata a dormire -- ne dubitavo -- supposi che fosse ancora alla festa. Per un attimo, mi sfiorò l'idea di rimandare tutto alla mattinata successiva, quindi, onde evitare ripensamenti, mi sedetti sugli scalini del portico e attesi. Se fosse stato qualcun altro, me ne sarei sbattuto e sarei andato a dormire: mi seccava immensamente riconoscerlo. Tirai fuori dal pacchetto un'altra sigaretta e la fumai, senza spremermi troppo le meningi in merito a quello che le avrei detto per scusarmi: avrei improvvisato. Dopo averla fatta sfogare, ovviamente: era furiosa con me, ci avrei scommesso la balestra.
Dopo non so quanto tempo, la vidi arrivare, barcollante, aiutata da quel bamboccio del figlio di Deanna. Il ragazzo aveva avuto un interessante scambio di ganci destri con Glenn: non avrei avuto problemi ad occuparmi anche io del suo bel faccino. Mi convinsi che fosse stato quel trascorso a smuovere un irritante senso di fastidio alla vista del suo braccio attorno alle spalle di Beth. Mi fermai un attimo ad osservare il volto della ragazzina: era pallido, più pallido del solito. Aveva un aspetto orribile.
Scattai in piedi.
«Che cazzo le è successo?!».
«Calmati, Dixon. Ha solo esagerato con la birra», si affrettò a giustificare il belloccio, interponendo un braccio tra me e lui quando gli fui davanti. Lo ignorai, concentrandomi su Beth.
«Beth», la chiamai, posandole una mano alla base del collo e abbassandomi alla sua altezza per guardarla in viso. Teneva lo sguardo incollato al terreno. «Beth, stai bene?».
«Sta bene», si intromise Aiden.
«Non sto parlando con te!», ringhiai, guardandolo in cagnesco.
«Daryl, non... urlare», mugugnò Beth, posando la mano sulla mia. Cercai di ignorare il fremito che quel contatto mi provocò. Si sforzò di alzare lo sguardo, puntando gli occhi socchiusi e pesti di sonno nei miei. «S-Sto bene, sono solo... stanca...».
Aiden stava supportando la parte sinistra del corpo di Beth, così mi affiancai a lei a destra, accompagnando il suo braccio attorno alle mie spalle e, circondandole il fianco, incontrai come ostacolo la presa di Aiden.
«Posso pensarci io», protestò, gelido e aumentando la stretta attorno a lei.
«No, non puoi. Sparisci, prima che prenda a pugni il tuo bel faccino».
«Daryl», mi redarguì debolmente Beth.
«Ehi amico, ma sei suo padre per caso?! Devo avere il tuo permesso per parlarle?».
«Suo padre è morto, brutto coglione. Porta un po' di rispetto e non azzardarti a parlare di lui», lo minacciai, cercando di non strattonare troppo Beth, ma provando ugualmente ad allontanarla da lui.
«Smettetela», soffiò lei, appoggiandosi a me. «È... tutto a posto, Aiden. Grazie per avermi accompagnata... e per aver capito», concluse. Non sapevo a cosa si riferisse, quindi le sue parole suscitarono la mia curiosità, ma non avrei fatto domande.
Il suo velato congedo fece sorridere amaramente il belloccio.
«Ora ho capito», mormorò, spostando lo sguardo da lei a me. Anche se continuavo a non capire a cosa si stessero riferendo, mi sentii improvvisamente a disagio, e cercai di nasconderlo fulminandolo con un'occhiata. «Buonanotte, Beth», aggiunse.
Non lo guardai nemmeno mentre se ne andava, voltandomi verso la casa della ragazzina.
«Riesci a camminare?», le domandai, cercando di apparire il più premuroso e paziente possibile. Non era da me, ma già era arrabbiata -- anche se sul momento non lo rese particolarmente esplicito -- e l'alcool non avrebbe giovato a tutta quella situazione. Dovevo sforzarmi di essere gentile, almeno in quell'occasione.
Lei annuì, ma quando arrivammo agli scalini si scansò da me per sedersi. Si appoggiò al corrimano con il capo e una spalla, chiudendo gli occhi.
«Beth?», la chiamai, inginocchiandomi di fronte a lei.
«Ho sonno, Daryl», si lamentò, aggrottando la fronte.
Diavolo, ragazzina, l'altra volta non ti sei ridotta così male, pensai , trattenendo un sorriso divertito.
«Appunto per questo sto provando a trascinarti a letto», risposi, paziente.
Beth, per un istante, non disse nulla; poi, all'improvviso, spalancò gli occhi, chiaramente rossa in viso. Inizialmente non capii, poi ripetei mentalmente quello che avevo detto e trasalii.
«Santo cielo, ragazzina, ti sto trascinando a dormire!», specificai con urgenza.
«Okay, okay», borbottò. Chiuse di nuovo gli occhi, immusonita, e si schiacciò ancora di più contro il corrimano. «Anzi, no. Lasciami qui».
«Perché dovrei?».
«Perché mi odi».
«Io non ti odio, Beth».
«Sì, invece, ma hai ragione. Io... Io sono solo una stupida ragazzina che... che non ha capito niente. Che non ha mai capito niente». Era l'alcool, a parlare: Beth trascinava le parole senza abbandonare quell'espressione corrucciata. Preparato com'ero ad una sfuriata, quel suo discorso sconnesso mi prese in contropiede.
Sbuffai, alzandomi per sgranchire le ginocchia; poi mi sedetti accanto a lei. Si voltò appena verso di me, come se si vergognasse anche solo a guardarmi. Quella volta avevo davvero esagerato, insultandola semplicemente per aver preso le mie difese. Avrei dovuto dirglielo. Porgerle le mie scuse contornate da un bel discorso che le avrebbe fatto capire la mia consapevolezza del mio sbaglio, e che non pensavo davvero quello che le avevo detto.
Io, però, non ero così. Non ero quel tipo di persona. Non me la cavavo bene con le parole, coi discorsi lunghi o con i sentimentalismi di vario genere; preferivo i fatti, ma il problema era che non potevo fare nulla di concreto per far capire a Beth che sapevo di essere stato uno stronzo. Avevo bisogno di dirle qualcosa per cancellarle dalla testa quelle insicurezze che le mie parole le avevano provocato. Per qualche strana, assurda ragione, teneva all'opinione di un coglione come me.
Da dove diavolo comincio?
Allargai le gambe, poggiandoci sopra i gomiti e fissando il terreno per un po'. Poi volsi lo sguardo a Beth: ora teneva gli occhi socchiusi, fissi davanti a sé.
«Perché sei qui?», domandò, in modo un po' più chiaro rispetto a come aveva parlato fino a qualche momento prima. La sua domanda mi arrivò come un salvagente e come un pugno nello stomaco nello stesso momento. Decise di complicare tutto, allacciando lo sguardo al mio: la guardai, serio, come avevo fatto in quella dannata casa del becchino, sperando ch ei miei occhi dicessero quello che la mia stupida bocca non era in grado di tirare fuori.
Sono stato uno stronzo.
Mi dispiace.
Grazie per avermi difeso.
Continuai a guardarla, ma non riuscii a dire nulla di tutto quello. Beth, dopo un po' -- e stanca di aspettare e sperare in una mia risposta -- sospirò, muovendosi per alzarsi, mentre io guardavo impotente davanti a me. Si raddrizzò sulle sue gambe, ma fu colta da un capogiro e si sedette di nuovo accanto a me, finendomi addosso. Buona parte del suo corpo esile era premuto contro al mio, le nostre tempie si toccavano e il suo profumo mi svolazzò attorno, mentre i suoi capelli mi accarezzarono la guancia. Non ero ancora abituato ad averla così vicina e se, da una parte, mi sentii irrigidire, dall'altra desiderai che si stringesse ancora di più a me. Quando realizzai quello che avevo appena pensato, mi diedi del coglione da solo.
«Stasera ti va male, Dixon. Non sono abbastanza... lucida e autosufficiente da lasciarti scappare da discorsi che non vuoi fare», mi sbeffeggiò, sistemando un braccio lungo la mia gamba e accasciandosi contro di me. «Devi aiutarmi per forza», aggiunse, posando la testolina contro la mia spalla.
«Ti stavo aiutando, prima che piazzassi il tuo culo su questi scalini», ghignai, rivolto alla sua chioma bionda.
Beth tacque qualche secondo; poi, senza preavviso, alzò il suo volto verso il mio.
Il mio sguardo andò ad allacciarsi al suo, così verde e intenso anche nel buio della notte, che sentii ogni muscolo del mio corpo tendersi e rendermi immobile, come un animale di fronte al pericolo. Beth era fottutamente pericolosa per me e per la mia sanità mentale, più di quanto io lo fossi per lei. Mi guardava con quegli occhi dannatamente belli, in silenzio, torturandomi con la sola forza dello sguardo. Non capivo cosa stesse facendo, né a cosa volesse arrivare: i nostri corpi erano incollati, il suo braccio riposava ancora sulla mia gamba e tutta quella situazione, lo sapevo, non avrebbe portato a nulla di buono, nulla di giusto.
«Sei uno stronzo, Daryl», sussurrò, senza smettere di fissarmi in quel modo insopportabile.
Deglutii, la bocca secca. «Lo so».
«Sei un idiota».
«Lo so».
Per un secondo brevissimo, il suo sguardo si abbassò sulle mie labbra, per poi guizzare di nuovo contro il mio. Arrossì e fremette.
«Forse io la sono più di te...», soffiò, in un sussurro spezzato.
Non riuscii a muovere un solo muscolo e, dato che non ero in grado nemmeno di allontanarmi, mi limitai a sperare che Beth non facesse qualche cazzata. Una cazzata in particolare. Ero consapevole del fatto che ciò che aveva detto nascondeva tanto altro, ma non avevo nessuna intenzione di approfondire la questione o rifletterci sopra: temevo la conclusione alla quale sarei arrivato. Dopo qualche secondo, riprese a respirare, tornando ad una distanza accettabile, almeno col viso. Volse lo sguardo altrove, irrequieta. Per evitare che compiesse qualche gesto imprevisto, trovai la spinta necessaria a dirle quello che avrei dovuto.

«Scusa», mormorai, attirando di nuovo la sua attenzione. Mi sforzai di guardarla negli occhi e di non fuggire il suo sguardo. Anche se le usai come pretesto per evitare che compiesse qualche gesto stupido, erano scuse sentite. Avrei potuto dire di più, certo, ma sperai che capisse che dicevo sul serio, anche con una semplice parola.
Le labbra rosa di Beth si incurvarono in un sorriso, mentre i suoi occhi brillarono nei miei. Levò il braccio dalla mia gamba, intrecciandolo invece al mio e accucciandosi contro il mio petto, il capo contro il mio cuore.
«Non importa, Daryl. Scusami tu, sono stata troppo insistente. Mi dispiace».
Il suo calore mi rilassò appena, mentre cercavo di abituarmi a quella vicinanza e a quel gesto affettuoso. Inspirai il suo profumo, sperando che non se ne accorgesse. Non riuscivo a decidere cosa fosse più difficile per me, se dare affetto o riceverlo. Allo stesso tempo, non mi riusciva spontaneo essere affettuoso come lei: mi sembrava di fare qualcosa di cui avrei dovuto vergognarmi. D'altronde, non ero nato e cresciuto in una famiglia amorevole quanto la sua.
«Forse. Ma io so essere un bello stronzo, quando mi ci metto», ammisi, ghignando. Lei rise con me, mentre io mi sforzavo di aggiungere, in tono di nuovo serio: «Quello che ti ho detto... Non lo pensavo. Non sei come loro».
Lei mi guardò, sorridendomi sollevata.
«Quindi non hai cambiato opinione su di me?».
Scossi la testa.
«No». Avrei voluto aggiungere che non capivo perché le importasse tanto, ma qualcosa mi suggerì che avrei preferito non saperlo, così evitai.
Sospirò, stringendosi di più a me.
«Meno male».
Deglutii: per quella sera era troppo.
«Forza, ti accompagno di sopra», dissi, scuotendola appena e costringendola ad alzarsi, non senza incontrare una certa resistenza da parte sua.
Entrammo in casa e, solo in quel momento, mi accorsi che fuori faceva piuttosto freddo, quando avvertii il calore della casa di Beth avvolgermi.
Lei barcollava ancora un po', così la aiutai ad appendere la giacca, sostenendola con un braccio intorno alla vita. Non sarebbe riuscita a salire le scale, poco ma sicuro. Stavo per propormi di nuovo come cavallo a dondolo quando, nella penombra del salotto, si lasciò cadere sul divano con poca grazia. Uno sbuffo sfuggì dalle sue labbra e mi accorsi che non si era nemmeno tolta gli stivaletti. Sistemandosi  a pancia in giù, premette la faccia contro il cuscino, che attutì la sua voce quando mormorò qualcosa di incomprensibile.
Era dal giorno del nostro arrivo ad Alexandria che non entravo a casa di Beth e mi sentii leggermente fuori posto.
«Dormi qui, allora?», domandai, in piedi vicino al divano ed osservandola dall'alto.
«Mmmh-mmmh», asserì, raggomitolandosi in posizione fetale. Le sfuggì un piccolo brivido. Era talmente annebbiata da non riuscire nemmeno a vedere il plaid che era sistemato sullo schienale del divano. Lo afferrai.
«Beth, tieni», dissi, allungandoglielo. Lei aprì gli occhi con fatica e lo prese, coprendosi e stringendoselo attorno. Le sue palpebre tremolarono, segno che stava già perdendo conoscenza. Non le dissi nulla per non svegliarla: girai i tacchi e mi avviai verso la porta d'ingresso.
«Daryl», mi chiamò debolmente, facendomi bloccare sul posto. Da lì non vedevo il suo viso, quindi non sapevo se avesse gli occhi aperti o meno.
«Che c'è?».
Beth rimase in silenzio qualche secondo, prima di rispondermi.
«Resta qui... per un po'. Per favore».
Il mio primo impulso fu quello di rispondere di no, uscire da quella casa e andarmene a letto per ripristinare una certa distanza tra me e lei.
Invece mi voltai, raggiungendola. Mi sedetti per terra, vicino a lei ma di spalle, con le sue ginocchia che toccavano la mia schiena e la sua voce che mi accarezzava l'orecchio sinistro.
«Grazie», sussurrò, e dalla voce capii che stava sorridendo. Avvertii improvvisamente le dita sottili di Beth sfiorarmi alla base delle spalle, risalendo dal collo alla nuca e finendo per intrecciarsi tra i miei capelli, in una carezza delicata. Mi irrigidii, cercando di non badare al brivido violento che mi scosse la spina dorsale. Strinsi i denti, imprecando mentalmente. Dopo qualche breve istante, le impedii di proseguire con quella piacevole tortura. Le afferrai la mano con la mia sinistra e la portai lontana dal mio collo. Per non lasciarle pensare che la volevo respingere, mi voltai fino a quando non poggiai il braccio sinistro sul divano e vicino alle sue ginocchia, abbandonando la posizione di spalle e trovandomi finalmente il suo viso di fronte. Nel buio, rischiarato appena dalla luce del lampione che arrivava soffuso dalle finestre, il contatto fisico diventava più facile, per me. Lasciai che la sua mano piccola e calda scomparisse nella mia e la strinsi, intravendendo il viso di Beth nella penombra. Non riuscii a staccare gli occhi dai suoi chiusi, dalla sua espressione rilassata, dalle sue labbra sottili incurvate in un piccolo sorriso.
«Buonanotte, Daryl», mormorò, prima di scivolare in un sonno profondo.
Buonanotte, ragazzina.





Angolo autrice.
Santo. Cielo. Pubblicare questo capitolo è stato un parto! Eh sì, perché questo capitolo era già pronto ieri sera presto, ma poi sono incappata in problemi fastidiosissimi con l'HTML. Praticamente la formattazione che era risultata usando Open Office mi deformava tutta la pagina di EFP, spedendo le righe verso l'infinito e oltre.
Ho dovuto ricopiare tutto, riscrivendo di nuovo 15 dannate pagine in un nuovo documento. E' stato un parto, ma finalmente sono qui.
Beh, che dire di questo capitolo? Succedono un sacco di cose. Sono preoccupata di quello che penserete delle scelte che ho fatto e del modo in cui ho scritto e sviluppato certe cose, in particolare:
- il pov di Daryl
- l'ubriacatura di Beth
- il bacio con Aiden (che è meno rilevante di quanto pensiate)

Non ho molti commenti da fare a riguardo, anche per sono parecchio fusa a causa di questo imprevisto e gli occhi ormai mi si stanno incrociando davanti allo schermo. Spero che apprezziate tutto, o qualche parte, e che in ogni caso mi facciate sapere cosa ne pensate.
Volevo ringraziare tantissimo chi ha recensito lo scorso capitolo e chi ha messo la storia tra le preferite/seguite, ma anche chi ha letto soltanto! Grazie di cuore!
Prima di lasciarvi, vi lascio il link al mio blog che è tutto dedicato alla mia storia: https://blakiescrive.wordpress.com/

Avevo già un tumblr per questo, lo so, ma in wordpress c'è la sezione commenti e mi piacerebbe scambiare quattro chiacchiere con voi, ogni tanto :)
Altra cosa, volevo chiedervi cosa ne pensate della 6x09 di TWD! Io l'ho adorato come  episodio, sono partiti davvero alla grande! Mi sono emozionata tantissimo in più parti, l'ho trovato perfetto dall'inizio alla fine! A voi è piaciuto? Fatemi sapere!

Vi ringrazio ancora di cuore per tutto, al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
Blakie
PS: scusatemi per le eventuali sviste, ma ad un certo punto mi è venuto un male agli occhi incredibile.





 

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Capitolo 6
*** Bonds ***



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And we'll be good
capitolo 6



Non appena riaprii gli occhi, il mattino seguente, mi colpii il mal di testa più lancinante che avessi mai provato prima e dopo l'inizio dell'apocalisse. Era come avere le tempie strette in una morsa d'acciaio, mentre un peso invisibile mi gravava sul capo, peggiorando la situazione. Chiusi gli occhi di scatto, vinta dalla luce della mattina che inondava il mio soggiorno. Mi sentivo tutta indolenzita e con le ossa di gelatina a causa della dormita sul divano. Quando riuscii a riacquistare un po' di lucidità, cercai di ricordare per quale motivo mi trovassi lì e non nel mio letto.
Con un po' di fatica, rimisi ogni dettaglio al suo posto, nel confuso e intricato groviglio dei miei pensieri. Una sensazione di imbarazzo mi colpì lo stomaco un secondo prima che il ricordo della sera precedente facesse capolino sotto il riflettore della mia consapevolezza.
Non ricordavo molto i dettagli, i colori, o le parole esatte, ma in generale sì. Forse il – ugh – bacio di Aiden aveva avuto un impatto notevole sulla mia psiche; quasi quanto i discorsi senza senso – oh mio Dio – con cui avevo ammorbato Daryl
Uno strisciante senso di imbarazzo invase ogni centimetro del mio corpo, facendomi raggomitolare su me stessa e nascondere la faccia sotto al cuscino. Quasi mi mancò il fiato. Non potevo credere di aver fatto davvero una cazzata, anzi, diverse cazzate simili.
Che diavolo mi era preso?
Respirai profondamente, cercando di calmarmi e di armarmi del coraggio necessario a uscire da quel plaid e alzarmi da quel maledetto divano. Mi tirai su a sedere lentamente per non innescare nausea o capogiri, liberandomi della coperta e stiracchiandomi appena. Ero scombussolata, frastornata e spossata: uno straccio in tutto. Per non parlare di quanto la mia bocca fosse riarsa.
Dovevo bere dell'acqua al più presto e farmi una doccia per riprendermi.
Dal nulla, mi colpì il ricordo di Daryl, accanto a me, che mi teneva la mano per soddisfare il mio capriccio di averlo lì. Mi guardai intorno, controllando se fosse rimasto o meno: in quel soggiorno ero da sola. Tirai un sospiro di sollievo: non sarei riuscita a confrontarmi con lui, a guardarlo negli occhi dopo la pessima figura che avevo fatto quella notte. Almeno, non subito. In realtà, non ero nemmeno pronta ad incontrare Maggie, o Aiden.
Forse, per oggi, farei meglio a chiudermi in casa, pensai.
Facendo mente locale, mi resi conto che era lunedì; per un attimo mi prese il panico – sarei arrivata in ritardo in ambulatorio e in condizioni pessime, per giunta – ma poi mi ricordai che il lunedì avevo la mattina libera.
Chissà se Maggie avrebbe lavorato... Avrei potuto evitare di vederla durante il giorno, okay, ma come avrei fatto a rifiutare l'invito della mia famiglia a cenare con loro, quella sera? Come potevo giustificarmi? Avrei dovuto risolvere le cose con mia sorella al più presto, ma ero ancora arrabbiata. Mi tornò in mente anche la scenata della signora Neudermeyer che mi aveva spinta a urlare contro di lei davanti a tutta Alexandria e, ovviamente, davanti a tutta la mia famiglia. Altra fitta di imbarazzo nello stomaco. Sarebbe stata una buona idea barricarmi in casa e non uscire mai più da lì, avevo combinato troppi casini in una sera sola.
Finalmente mi alzai, con fatica immensa e mi trascinai su per le scale, chiudendomi poi in bagno. Mi liberai degli indumenti e rimasi nuda, entrando poi in doccia scossa da un piccolo brivido. L'acqua calda sulla mia pelle mi rigenerò e distese i nervi, facendomi passare un po' il male alla testa e la pesantezza che avvertivo sulle palpebre.
Uscii pulita e profumata, avvolgendo il mio corpo bollente nell'accappatoio. Mi frizionai i capelli e li lasciai sciolti sulle spalle, lavandomi bene il viso per rimuovere gli ultimi residui di trucco.
Dopo la doccia, mi sentii subito meglio. Legai i capelli ancora leggermente umidi in una coda e mi diressi in camera con indosso solo la biancheria intima. Cercai nell'armadio la felpa più comoda che avevo e un paio di pantaloni da ginnastica neri, indossandoli con piacere e facendoli scorrere sulla mia pelle rinvigorita. Visto che, tutto sommato, era presto – saranno state le nove del mattino – decisi di dormire un altro paio di ore: presi il cuscino che di solito usavo a letto e lo portai con me sul divano, sprofondando tra la morbidezza dei cuscini. Mi coprii col plaid e chiusi gli occhi, per dar pace al mio mal di testa. Crollai in uno stato di dormiveglia dopo poco e stavo per addormentarmi definitivamente, quando sentii bussare alla porta. Stropicciai gli occhi, sbuffando e raddrizzandomi con fatica. Mi trascinai lungo il soggiorno e il corridoio, pensando che avrebbe potuto essere mia sorella, o Daryl, o Aiden. In tutti e tre i casi, non sarei stata felice di aprire la porta.
«
Chi è?», domandai nervosamente, avvicinandomi all'ingresso.

«Sono Noah».
Sospirai di sollievo, girando la chiave e aprendo al mio amico.
«Wow, Beth, hai una cera orribile», proferì non appena mi vide. Alzai gli occhi al cielo e lo ringraziai, invitandolo ad entrare.
«Cosa ci fai qui?», domandai, mentre raggiungevamo il soggiorno. 
«Sono venuto a controllare che tu stia bene. Ieri sera ti ho persa di vista, dopo… beh, hai capito».
Gli sorrisi, grata delle sue premure. «Meglio così, avrei potuto creare problemi anche a te», sospirai, buttandomi sul divano e facendogli posto. Noah si sedette accanto a me con un'espressione perplessa. 
«Cos'è successo? Vuoi parlarne?».
Sì. Morivo dalla voglia di raccontarlo ad una persona amica, l'unica con cui non avessi mai avuto fraintendimenti di nessun tipo: Noah era diventato come un fratello per me, il mio migliore amico.
Sprofondai tra i cuscini del divano, strinsi le ginocchia al petto e iniziai a raccontare. Noah mi ascoltò senza fiatare, mentre continuavo a parlare, arrossendo e inciampando nel discorso di tanto in tanto.  Quando finii, attesi, senza guardarlo in faccia, un commento del mio amico.
«Avevo il sospetto che provassi qualcosa per Daryl. Evidentemente avevo ragione».
Mi sfuggì un lamento. «Non ti ci mettere anche tu, Noah. Ne ho avuto già abbastanza di questo discorso». 
«Ehi, noi non stiamo litigando!», si difese, alludendo a Maggie.
«Lo so, ma è un discorso inutile».
«Sei adorabile quando neghi certe cose a te stessa», affermò, arruffandomi i capelli.
«Non c'è nulla da negare!», sbottai.
«"Aiden non ha una cotta per me"», squittì, imitando il mio tono di voce. «Qualche giorno dopo: "Aiden mi ha baciata"».
Guardai da un'altra parte, gonfiando le guance e provocando le sue risate. «Chissà a cosa porterà il tuo "non provo niente per Daryl"», affermò con fare malizioso.
«Sei veramente insopportabile, Noah», berciai, incrociando le braccia contro il petto. 
«È per questo che sono il tuo migliore amico, no?».
«Umpf, spero che un giorno ti innamorerai anche tu, così sarò io a torturarti e a ficcare il naso negli affari tuoi».
Noah si aprì in un sorriso furbo. «Ma sentila, sei addirittura innamorata?». 
«Smettila!», urlai esasperata, afferrando il cuscino e colpendolo in faccia. 
«Okay, okay, scusami», si affrettò a rispondere, cercando di difendersi da una seconda cuscinata. 
Sospirai, abbandonando le braccia lungo il corpo e appoggiando una tempia contro la sua spalla. «Ho fatto un bel casino. Non ho il coraggio di uscire da questa casa…».
«Non puoi evitare Daryl per sempre».
Alzai gli occhi al cielo. «Noah, non riguarda solo lui, sai? Ora come ora non riuscirei a guardare in faccia nemmeno Maggie o Aiden. Per non parlare del fatto che, quando ho sbraitato contro Shelly, era presente mezza Alexandria. Ho rovinato tutto su più fronti». 
«Secondo me la vedi troppo tragica. Inoltre, toglierei subito Aiden dall'elenco delle persone con cui credi di aver rovinato tutto. Direi che tua sorella e Daryl vengono prima». 
«Non mi sono comportata bene nemmeno con Aiden», borbottai.
In risposta, alzò gli occhi al cielo. «Non hai fatto niente di male, Beth. Non puoi costringerti a baciarlo se non vuoi!». 
«Okay, questo te lo concedo. Cosa dovrei fare, invece, con mia sorella? Sono ancora arrabbiata con lei e, beh, non sono sicura che sia ancora pronta a riparlarne con calma».
«In effetti non hai molti motivi per non esserla. Ti ha trattata come una bambina». 
Rimasi in silenzio qualche momento, per decidere se chiederglielo o no. Alla fine, parlai. 
«Pensi anche tu che… insomma, Daryl…».
«Mi stai chiedendo se penso che Daryl sia troppo grande per te?». 
«Più che altro, se sono io ad essere troppo giovane per provare… questo nei suoi confronti».
Noah si strinse nelle spalle. «Beh, se devi provare "questo" per uno giovane quasi quanto te e il giovane in questione è Aiden, allora, tra i due, è meglio quello più attempato, non credi?».
Scoppiai a ridere di cuore. «Attempato! Vedi di non farti mai sentire da Daryl, non quando ha la balestra a portata di mano, almeno».
«Quello può uccidermi anche a mani nude», ribatté rabbrividendo e facendomi ridere di nuovo. 
«Dai, non è così violento! - esclamai, raddrizzandomi e dandogli una gomitata - È un po' burbero, okay, ma non ti farebbe mai del male per una cosa del genere». 
«Ma guardatela come difende l'uomo dei suoi sogni», mi provocò con finta aria sognante, pizzicandomi un fianco. Mi allontanai da lui per lanciargli un'occhiataccia. 
«Comunque, col tempo, Maggie capirà. Sei la sua sorellina, è normale che si preoccupi per te», affermò, ignorando il mio sguardo truce. 
«Vorrei solo che capisse che non sono una ragazzina che confonde i propri sentimenti e li scambia per qualcosa di diverso. Vorrei che rispettasse il legame che sento di avere con Daryl. Non capisco perché si preoccupa tanto, visto che, ad ogni modo, non sarò mai ricambiata». 
«Perché ne sei tanto sicura?», domandò Noah, curioso. 
«Perché Daryl… è Daryl. Tiene troppo ai suoi sentimenti e al suo orgoglio per metterli in gioco per una ragazzina come me. Io… Io non sono temprata per questo tipo di vita, lui invece è fatto apposta per questo mondo. Ha bisogno di una donna, una donna forte quanto lui che combatta al suo fianco, non che debba essere protetta», spiegai, attorcigliandomi attorno all'indice una ciocca di capelli sfuggita alla mia coda disordinata.
«Devo ricordarti che è merito tuo se siamo arrivati fino a qui? Stai dicendo un mucchio di cazzate, Beth», ribatté, alzando gli occhi al cielo.
«È merito nostro, Noah – lo corressi – E non è questo il punto». 
«Allora qual è?», sbottò, con tono spazientito. «Spiegamelo chiaramente, perché sinceramente a me sfugge. Credi davvero che gli serva conoscere una donna della sua età e che sappia uccidere i vaganti ad occhi chiusi e su una gamba sola, per innamorarsene? Ti sei messa in testa di non essere abbastanza per lui, ma abbastanza cosa? Grande? Forte?».
«Entrambi», sussurrai a occhi bassi, colpita dalle sue parole. 
«L'età ha sempre avuto importanza fino a un certo punto, figuriamoci nel bel mezzo di un'apocalisse di questa portata. Quanti anni avete di differenza, meno di venti? A me non sembra un divario così scandaloso. Ecco, se avesse avuto ottant'anni sarebbe stato più preoccupante». Lasciò che smettessi di ridere, prima di continuare. «La cosa che mi fa incazzare di più, però, è che non ti rendi conto del tuo valore e ti svaluti».
Gli lanciai un'occhiata abbastanza eloquente. «Da che pulpito, Noah».
«Sei una ragazza forte, Beth», proseguì, ignorando il mio commento. «Sei tenace, gentile e la speranza non ti lascia mai. Non ti arrendi. Non ti sei arresa con la tua famiglia, hai fatto di tutto perché Aaron li riuscisse a condurre qui e, nel frattempo, non hai mai smesso di sperare».
«Beh, non sono qualità che servono molto a sopravvivere», mugugnai, per nulla convinta delle sue argomentazioni.
«Servono per vivere. Vivere davvero. Servono a vivere la vita alla quale non è possibile aspirare quando si è là fuori, in pericolo. Cosa ti importa se non sei abile con le armi o non sei una cacciatrice esperta?».
«Sono un peso morto, ecco di cosa mi importa! In una situazione di emergenza Daryl, Maggie, Rick o chiunque altro, sarebbe costretto a controllarmi per proteggermi».
«Puoi chiedere a qualcuno di loro di aiutarti a migliorare la tua abilità con le armi, se pensi che questo serva a Daryl per vederti sotto una luce diversa», suggerì, esasperato.
Quel commento fece apparire incredibilmente stupido tutto quello che avevo detto fino a quel momento. Io dovevo voler migliorare le mie doti di sopravvivenza per me stessa, non per apparire migliore agli occhi di Daryl. Mi incupii all'improvviso e Noah lo notò, perché mi diede una carezza affettuosa sulla nuca.
«Sono proprio una stupida», mugugnai.
«No, non la sei. Sei una ragazza meravigliosa, Beth. Sono sicuro che Daryl lo sa ed è per questo che tenta di allontanarti».
Lo guardai, esibendo un'espressione perplessa che fece ridere il mio amico.
«Beh, non è ovvio? Tenta di allontanarti perché ha paura degli stessi sentimenti che stai provando tu. Secondo me quell'uomo si sta facendo più paranoie di te», scherzò.
«Noah, non stai azzardando a dire che Daryl mi ricambia, vero?», domandai, scettica. Come poteva pensare una cosa del genere? Era... Sarebbe stato assurdo.
«Secondo me tiene a te più di quanto tu riesca a comprendere. Altrimenti perché ti sarebbe venuto ad aspettare davanti a casa? Se senti di avere un legame tanto forte con lui, non puoi aspettarti che sia a senso unico. C'è un riscontro, da parte sua, altrimenti non proveresti certe cose».
No, no, no. Non potevo permettere a Noah di insinuare certi dubbi, certe illusioni nella mia testa. Io per Daryl ero un membro della famiglia esattamente come qualsiasi altro; come Rick, Michonne, Carol, Glenn, Maggie o Carl. Mi proteggeva e mi trattava come avrebbe fatto con qualsiasi altra persona nella nostra grande famiglia. Non potevo lasciare che nemmeno la più piccola parte di me credesse che i gesti di Daryl fossero frutto di un sentimento più forte. Dovevo farmi bastare quello che provavo io, senza pretendere nulla da lui. A sua detta, grazie a me, aveva ricominciato a credere che in quel mondo esistessero ancora brave persone, e questo bastava a rendermi felice. Era anche troppo.
«Io e lui facciamo parte della stessa famiglia, Noah, tutto qui. Probabilmente mi tratta con un occhio di riguardo perché si sente ancora responsabile per la morte di mio padre. Vuole mantenere non so quale promessa proteggendomi e preoccupandosi per me. Tutto qui. Non illudermi facendomi fraintendere certi suoi gesti. Ti prego», sussurrai con la voce stanca.
«Non volevo illuderti, Beth. Scusami», mormorò, guardandomi preoccupato.
Gli sorrisi, scuotendo il capo. «No, non scusarti. Apprezzo tutto quello che hai detto, davvero. Grazie».
«Però, davvero, secondo me dovresti chiedergli se può insegnarti come muoverti là fuori!», propose, allegro, cercando di sviare l'argomento.
Sbuffai. «Come no. Prima dovrei ritrovare il coraggio di parlargli e non so quanto tempo ci vorrà».
Noah allungò le gambe davanti a sé e poggiò la testa sullo schienale del divano, distendendosi. «Beh, potresti venire stasera a cena, per esempio, e fare pace anche con tua sorella. Via il dente, via il dolore».
Al solo pensiero, sentii attorcigliarsi lo stomaco. «Io... Non credo di essere ancora pronta». Mi voltai verso di lui. «Ti prego, Noah», lo supplicai. «Stasera di' agli altri che oggi, dopo il lavoro, mi sono sentita poco bene e che non riesco ad esserci per cena. Per favore».
«Beth...», provò ad opporsi lui.
«Solo per questa sera, Noah. Per favore».
«Lo sai che alcuni partiranno in missione, domani? Daryl compreso», mi rese partecipe. Io mi irrigidii all'istante: se fosse successo qualcosa a qualcuno di loro e il nostro ultimo ricordo non sarebbe stato una cena in famiglia, tutti assieme, lo avrei rimpianto per sempre. L'idea di affrontarli così presto, però, mi faceva contorcere lo stomaco allo stesso modo. Mi ero comportata troppo da idiota.
«Sanno cavarsela, Noah», dissi stancamente. «Sono fatti per stare là fuori. Domani sera torneranno e ceneremo tutti insieme e io mi scuserò, te lo giuro. Ma stasera... non ce la faccio», sbottai, raccogliendo le ginocchia al petto e poggiandoci sopra la fronte.
Noah mi osservò con uno sguardo di rimprovero. «Okay, Beth, va bene. Sappi solo che poi per rivedere Daryl ci vorrà un po' di più».
Non mi servì chiedergli cosa volesse dire, perché mi venne in mente pochi istanti dopo: se Daryl fosse uscito con Aaron, sarebbe stato via molto più tempo e non mezza giornata soltanto. Almeno una o due settimane.

Merda.
«Lo so», sussurrai, abbassando lo sguardo.
«E non vuoi comunque vederlo prima che parta?!», esclamò Noah, accorato.
Scrollai le spalle. «Forse è meglio così. Se non gli parlassi più lo libererei da un bel peso».
Il mio amicò grugnì per esprimere il suo disaccordo. «Sei veramente impossibile».
Scoppiai a ridere e gli rivolsi un sorriso. «Tanto quanto lui».
Noah mi lanciò un'occhiata maliziosa. «Siete fatti l'uno per l'altra allora».
Lo colpii di nuovo con un cuscino, mettendoci tutta la forza che avevo. «SMETTILA!».

~~~


Noah se ne andò poco prima di pranzo, ma non prima di avermi chiesto almeno una decina di volte se fossi sicura di star meglio. Quando finalmente riuscii a convincerlo e se ne andò, chiusi la porta, ci appoggiai la schiena e sospirai, sollevata.
Volevo rimanere sola, per un po'. Avevo ancora mal di testa, ma mi sarebbe passato. Tornai a sonnecchiare sul divano e puntai la sveglia che avevo trasferito dal comodino in camera mia al tavolino del salotto per andare all'ambulatorio nel pomeriggio.
La giornata proseguì tranquilla, come sempre. Balbettai le mie scuse a Josie, presente alla festa la sera prima, dicendole che non era stata mia intenzione rovinare la serata, ma lei mi sorrise, rincuorandomi e dicendomi di star tranquilla.
«Non è successo nulla di grave, Beth», mi rassicurò, mentre metteva in ordine degli antibiotici nella credenza dei medicinali.
«Lo so, ma è imbarazzante lo stesso», borbottai, seduta alla scrivania di Pete. I miei occhi si posarono su un grosso libro di medicina che non avevo mai visto prima. «Di chi è questo mattone?», domandai a Josie, indicando il libro sotto al mio naso.
«È il manuale di Denise», mi informò, richiudendo la credenza e avvicinandosi a me.
Denise era una sopravvissuta che era arrivata ad Alexandria poco tempo prima; stava studiando medicina al college prima che i morti riprendessero a camminare, ed era il secondo dottore, oltre Pete. In ambulatorio, però, non la vedevo quasi mai e non mi ero mai soffermata a interrogarmi sul motivo.
Josie prese il grosso libro tra le mani, sospirando. «Se continua a lasciarlo in giro, prima o poi Pete cambierà la serratura dell'infermeria e non la farà più entrare».
Guardai la mia collega, perplessa. «Perché dovrebbe fare una cosa del genere?».
«Pete non la vuole attorno», rispose, rabbuiandosi.
Sgranai gli occhi, interdetta. «Cosa? Dovrebbe insegnarle tutto quello che sa, invece. Avere due medici con noi è una grandissima risorsa».
«Lo so, Beth», rispose Josie, infilando il manuale nella sua borsa. «Ho provato a parlarne con lui, ma... Non era in vena di discussioni».
«In che senso? Ti ha trattata male?», domandai ingenuamente.
Il suo sguardo saettò nel mio, con urgenza. «No, Beth, no. Lui... Non importa».
Il suo tono si era fatto improvvisamente strano, come se avesse qualcosa da nascondere. Josie mi voltò le spalle e si trovò qualcos'altro da fare per evitare le mie domande, fingendosi impegnata.
Iniziai a rimuginarci sopra.
In effetti, ogni tanto Pete aveva dei comportamenti strani, e capitava che non si facesse vedere in ambulatorio per qualche giorno. A volte incrociavo Jessie per le vie della città e mi sembrava pensierosa, distratta. Quelle uniche due volte in cui ero stata invitata a cena a casa loro non lo avevo notato, ma in quel momento mi resi conto che Pete, troppo spesso, dava ordini a sua moglie, o le rispondeva male se non gradiva quello che lei gli diceva. Anche mio padre ogni tanto – specialmente quando era nervoso o stressato – si sfogava con mia madre, senza volere; ma Pete era strano, il modo quasi timoroso con cui Jessie si approcciava a lui era strano. Come se misurasse ogni parola per non far scattare suo marito, per non farlo arrabbiare. E adesso anche Josie parlava di lui in maniera così affrettata, come se una parola di troppo avesse avuto conseguenze negative. Senza dimenticare Denise, che si teneva alla larga dall'ambulatorio perché Pete aveva deciso così e non poteva essere il contrario.
Mi sentii una perfetta idiota a capire tutto solo in quel momento.
Come avevo fatto a non arrivarci prima? Pete era un uomo violento.
«Ti ha fatto del male?», domandai a Josie, riprendendo il discorso arrivando dritta al punto.
Vidi la sua schiena irrigidirsi e lei sospirò, voltandosi verso di me con aria preoccupata. «Beh, è stato aggressivo, ma no, non mi ha fatto nulla».
I suoi occhi erano però così pieni di paura che non riuscii a trattenermi dall'alzarmi e abbracciarla. «Mi dispiace Josie, io non sapevo nulla di tutto questo, non potevo immaginare–».
«Non devi dispiacerti per me, Beth», mi interruppe con un mezzo sorriso. «Io sto bene, è Jessie che... che non se la passa bene, con lui», disse, con voce grave.
Deglutii, mentre un fremito mi scuoteva la spina dorsale. «Lui la... ecco...», balbettai. Non avevo nemmeno il coraggio di porre la domanda al completo.
«Sì», disse Josie, abbassando lo sguardo. «Va avanti Dio solo sa da quanto. Jessie non mi ha mai raccontato nulla apertamente, ma una sera, prima che tu arrivassi qui, se l'è vista davvero brutta. Si è precipitata in lacrime da me, pregandomi di medicarla al più presto in modo che i suoi figli non vedessero come Pete l'aveva ridotta. Quella volta erano con altri ragazzini, per fortuna, ma si è lasciata sfuggire che, quando questo succede, Sam e Ron si chiudono nell'armadio e... mio Dio, non sembrava nemmeno lei».
Immaginai i figli degli Anderson chiusi a chiave in un armadio, mentre il padre picchiava la loro madre. Ero scioccata. «Perché? Perché fa tutto questo?!».
Gli occhi di Josie si riempirono di lacrime. «Perché è un alcolizzato figlio di puttana», sputò, con rabbia.
La afferrai per le spalle. «Josie, dobbiamo dirlo a qualcuno! Non possiamo lasciare che Pete continui così!».
Lei scosse la testa con veemenza. «Non possiamo dirlo a nessuno, non capisci? È l'unico dottore che abbiamo, non lo allontaneranno mai dalla città».
«Non sto dicendo di allontanarlo dalla città, ma da Jessie e i suoi figli. Quell'uomo va fatto ragionare, ha un problema di dipendenza che va risolto prima che sia troppo tardi!».
«Pensi davvero che Pete vorrà collaborare e fare il suo dovere, quando avrà tutti apertamente contro? Le persone lo sanno, sanno tutto, ma fanno finta di non accorgersene. Lui non accetterà mai di essere aiutato».
«Anche noi, se non diciamo nulla, facciamo finta di non accorgercene e diventiamo complici di questo schifo. Josie, io... Io posso parlarne con Rick, posso–».
«No, è inutile», mi interruppe. «Rick non può fare niente, Beth, niente! Abbiamo le mani legate», mormorò, con la voce sconfitta.
La sua voce esprimeva tutto il dolore che provava e la frustrazione di dover lavorare accanto a un omuncolo del genere. Io stessa mi sentii schifata e frustrata, senza la minima idea sul cosa fare e come.
Avrei dovuto parlarne con qualcuno: era un bisogno che sentivo forte fin dentro le ossa, perché non potevo sopportare di mantenere un segreto del genere.
La prima persona che mi venne in mente fu Maggie. Era l'unica che mi avrebbe ascoltata e sarebbe stata abbastanza cauta da non dirlo a nessuno, per il momento. Le altre persone a cui avrei potuto chiedere aiuto nella mia famiglia erano troppo risolute e pratiche, avrebbero ignorato le parole di Josie e le mie, risolvendo il problema alla radice.
Un motivo in più per fare pace con mia sorella al più presto.
La giornata, a parte quello, proseguì tranquilla. L'imbarazzo e la paura di rivedere la mia famiglia, dopo quello che era successo la sera prima, non mi avevano ancora abbandonata: scappai a casa quando terminò il mio turno in ambulatorio, sperando che Noah mantenesse la promessa e si inventasse una scusa per coprirmi le spalle, solo per quella volta.
Cenai con una tazza di latte freddo e cereali, visto che non avevo molta fame; poi mi stesi sul divano, cercando di immaginare come la mia famiglia avesse commentato la mia assenza alla cena. Forse avevo solo peggiorato le cose, facendo la figura della ragazzina immatura.
Avrei avuto tutto il tempo del mondo per chiarirmi con Maggie, ma Daryl sarebbe partito la mattina dopo e non sapevo a che ora. Dovevo assolutamente scusarmi, chiarire con lui prima che partisse. Provai a scavare nella memoria per capire se Aaron mi avesse mai detto, di solito, a che ora usciva a reclutare.
Solitamente, la quotidianità ad Alexandria prendeva il via verso le nove del mattino ed era probabile che anche Eric e Aaron uscissero dai cancelli per quell'ora lì. Avrei dovuto chiedere ad Aaron e, per quanto potesse essere imbarazzante, era l'unico modo per sapere quando avrei potuto incrociare Daryl prima che partisse.
Rimasi in tuta e mi infilai la giacca, diretta verso casa dei miei amici.
Aaron – che evitò di indagare troppo a fondo – mi informò che la mattina dopo, come previsto, avrebbero lasciato Alexandria verso le nove e che sarebbero rimasti fuori dalle mura per un paio di settimane. Ringraziai il reclutatore e mi scusai per il disturbo, tornando a casa mia in tutta fretta. Dovevo alzarmi in tempo e, per esserne in grado, sarei dovuta andare a dormire non troppo tardi: tolta la giacca e chiusa la porta a chiave, afferrai la sveglia che era rimasta sul tavolino da quella mattina e mi diressi a letto, puntandola per le otto della mattina successiva.
Prima di addormentarmi, mi torturai pensando a cosa avrei potuto dire, all'imbarazzo che avrei provato, a come avrebbe reagito Daryl, a come mi avrebbe trattata e se fosse arrabbiato con me per la mia codardia.
La mattina mi svegliai con un nodo stretto allo stomaco e l'ansia che mi opprimeva il petto. Mi vestii, feci colazione e mi diressi ai cancelli per aspettare di incrociare Daryl prima che uscisse per andare in missione.
Chiacchierai con chi era di guardia, finché non vidi l'arciere avvicinarsi assieme ad Aaron. Le parole mi si bloccarono in gola e mi dimenticai all'istante di cosa stessimo parlando. Balbettai qualche scusa e andai incontro ad un perplesso Daryl. Ci fermammo entrambi, a pochi passi di passi di distanza l'uno dall'altra, guardandoci.
Aaron, per lasciarci soli, blaterò qualcosa sull'aprire i cancelli e preparare le macchine e la moto di Daryl, che la sera prima avevano parcheggiato vicino alla torre di vedetta.
L'arciere aveva la balestra in spalla e mi osservava con occhi imperscrutabili, l'espressione neutra dietro la quale era solito nascondere tutto ciò che provava.
Non sapevo assolutamente cosa dire, ma sapevo che lui stava aspettando che parlassi per prima; al pensiero mi si attorcigliò lo stomaco e abbassai lo sguardo, a disagio.
«Così, uhm, state andando a reclutare» fu il mio imbarazzante esordire.
«Già», rispose lui, impassibile. Sembrava in attesa e sapevo bene di cosa: aspettava che dicessi qualcosa di sensato, visto che gli era chiaro che lo stavo aspettando e che ci fosse un motivo dietro. Non riuscivo ad aprire bocca perché avevo paura, paura che qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata stupida. Temevo di fare la figura della stupida, ai suoi occhi. Provai a parlare, ma non riuscivo a fare uscire dalla mia bocca nemmeno un suono; rimanemmo così per qualche minuto, e per tutto il tempo pregai che una voragine si aprisse sotto i miei piedi e mi inghiottisse una volta per tutte. Poi, prendendomi in contropiede, mi superò e si diresse verso la sua moto, con la stessa espressione illeggibile.
Ecco, si era seccato di aspettare che balbettassi una delle mie idiozie.
«Daryl», provai a fermarlo, voltandomi nella sua direzione con urgenza. Lo raggiunsi oltre il confine del cancello, fin dove aveva spinto la sua moto ancora spenta.
«Ci metteremo due settimane al massimo», affermò dal nulla, mentre montava in sella alla sua moto e cercava di tenerla in equilibrio. Mi sorprese: era forse un tentativo goffo di rassicurarmi?
«Lo so», dissi, avvicinandomi a tal punto che, con un movimento del braccio, avrei potuto toccare il manubrio della sua moto.
«Io... Io volevo chiederti scusa per l'altra sera», mormorai, incoraggiata dalla sua rassicurazione malcelata.
«Sei una seccatura, ragazzina», sbottò, alzando gli occhi al cielo. Accese il motore che, con un rombo, diede vita alla moto e catturò la mia attenzione. Quando spostai di nuovo lo sguardo su Daryl, notai che aveva le labbra appena ricurve in un sorriso.
Gli sorrisi di rimando, col cuore più leggero.
«Stai attento», gli dissi con premura, appoggiando una mano sul suo braccio teso, stringendo appena la stoffa della camicia e lasciandola andare subito dopo. Mi pentii amaramente di aver sprecato il giorno prima lontana da lui, soprattutto perché non trovai il coraggio di abbracciarlo e salutarlo come avrei voluto.
Daryl non disse più nulla: mi rispose con un cenno del capo e con quel mezzo sorriso, lo sguardo legato al mio. Non serviva altro: bastavano i suoi occhi blu per capire che, tra noi, era tutto a posto. Il mio cuore si riempì di serenità.
Rimanemmo a guardarci per qualche momento, finché la moto non ruggì nuovamente e lui partì, precedendo Aaron – alla guida del pick-up – sulla strada che portava lontano da Alexandria. Salutai anche il mio amico con una mano e li guardai allontanarsi finché non sparirono dalla mia visuale.
Sospirai a fondo, pronta alla logorante attesa che mi separava dal ritorno di Daryl.
Mentre tornavo indietro in direzione di casa mia, incrociai Maggie. La sua espressione era seria ma pacifica e probabilmente mi stava studiando per capire se poteva rivolgermi la parola o no; la tensione tra noi si era notevolmente allentata, ma forse non era il luogo migliore per chiarirci, non lì, in mezzo ai viali.
Senza che ci fosse bisogno di parlare, la seguii. Ci accomodammo sul dondolo bianco situato sotto al porticato di casa sua, che oscillava quieto.
Dal nulla, mi viene in mente una domanda. «Maggie, ma perché non chiedi a Deanna di assegnare una casa solo per te e Glenn?».
Lei si strinse nelle spalle.
«Potremmo, in effetti. Non ci ho pensato, ma comunque credo che Rick si senta più sicuro se, i primi tempi, rimaniamo qui tutti insieme».
«Giusto», ne convenni, annuendo. Dopodiché calò il silenzio tra di noi.
«Daryl è andato via?», domandò Maggie dopo un po', tranquilla.
Annuii, accennando un sorriso.
«Sei preoccupata?», chiese ancora.
«
Sto provando con tutte le mie forze a non esserla. Mi fido delle sue capacità e so che torneranno. Presto».
Lei mi sorrise con un fondo di tristezza negli occhi. E di comprensione. «È partito anche Glenn, ma loro torneranno in giornata. Se tutto va bene», mormorò infine, rabbuiandosi appena.
«Tutto andrà bene», affermai con convinzione.
Maggie rialzò lo sguardo su di me e mi rivolse un sorriso, che si spense subito dopo.
«Senti, Beth, riguardo l'altra sera…».
«
È tutto passato», la interruppi.
«No, ascoltami», insisté, toccandomi un braccio. «Mi dispiace, volevo che lo sapessi. Ho iniziato dicendo di non volere fare la parte della sorella apprensiva e invece, alla fine, ho fatto anche di peggio. Scusami».
«Ho sbagliato anche io a rinfacciarti di non avermi cercata, scusa. Non avrei dovuto».
«No, avevi ragione. Ho cercato di importi di stare lontana dall'unica persona che si è presa cura di te e ti ha protetta mentre io ero in giro a cercare una cura che non esiste. Scusami Beth, anche per non esserti venuta a cercare. Sono una sorella terribile».
La abbracciai stretta, avvertendo un forte calore al centro del mio petto.
«Non dirlo nemmeno», la minacciai, sprofondando il volto nella sua spalla.
Nel suo profumo ritrovai i nostri ricordi di noi bambine, la fattoria in estate, il volto di mio padre, le canzoni di mia madre, la risata di mio fratello. Maggie era la mia famiglia, non potevo nemmeno pensare di restare arrabbiata con lei a tempo indeterminato, di non parlarle più. Era sangue del mio sangue.
«Promettimi solo che starai attenta a non farti ferire, Beth», sussurrò Maggie, stringendomi più forte.
Mi domandai quanto dovessero costarle quelle parole, ma sperai che col tempo sarebbe arrivata a capire i miei sentimenti e ad accettarli.
Il solo fatto che ci stesse provando mi riempì di gioia.
Mi separai da lei, senza lasciarla andare. «Stai tranquilla, Daryl non potrà mai ferirmi nel modo che intendi tu».
Mia sorella mi rivolse uno sguardo colmo di perplessità. «Perché?», domandò, incerta. «Lui… non credo che mi vedrà mai nel modo in cui lo vedo io».
Mia sorella diede l'impressione di rifletterci sopra per un momento. «Beh, questo non puoi saperlo. Daryl è molto bravo a nascondere quello che prova».
Sorrisi, rendendomi conto che, in quell'aspetto, Daryl era un libro aperto per tutti.
«Eppure, in quei giorni che abbiamo passato insieme… è stato diverso. Non l'ho mai visto così», riflettei a voce alta.
«Ecco, dimmi un po' cosa ti ha fatto perdere la testa per lui», mi prese in giro Maggie, ma non riuscì a nascondere una sfumatura di apprensione, nel fondo di quelle iridi così simili alle mie.
I giorni passati con Daryl si srotolarono davanti ai miei occhi.
«All'inizio è stato… difficile», proferii. «Daryl non voleva cercarvi, non voleva fare niente, era come spento. Mi sentivo a disagio e mi ripetevo spesso che avrei preferito essere fuggita con qualsiasi altra persona che non fosse lui. Qualsiasi altro mi sarebbe andato bene. Mi trattava con freddezza, tanto quanto io mi comportavo da bambina capricciosa. Alla fine abbiamo litigato furiosamente ed è crollato, confessandomi che si addossava la colpa per quello che il Governatore ha fatto alla prigione e… a papà…». Con la coda dell'occhio vidi Maggie sussultare, ma continuai. Mentre raccontavo, rivedevo tutto, come se fossi una spettatrice di quello che io e Daryl avevamo passato insieme.
«Si è aperto con me, capisci? Abbiamo passato una sera intera a parlare dei suoi genitori, di suo fratello. Ho sentito quello che ha provato lui, anche se in minima parte; come un'eco, ma l'ho sentito».
Maggie rimase in silenzio, ammutolita dalla sorpresa. Sembrava incredibile anche a me; come se non stessi parlando di Daryl Dixon, ma di un'altra persona.
«Non mi sono mai sentita così vicina a qualcuno che non fossi tu, o papà ovviamente», continuai. Evitai di tirare in ballo Zach o Jimmy, qualcuno che potesse corrispondere all'idea di un fidanzato, per non preoccupare mia sorella. «Il giorno dopo mi ha insegnato a seguire le tracce, a cacciare. Siamo diventati una squadra e lui…», mi interruppi, travolta da un misto di imbarazzo e un'altra emozione indescrivibile quando ricordai i suoi occhi nei miei, così intensi ed eloquenti.
L'unica volta in cui mi ero sentita davvero in grado di capire quello che pensava.
«Lui?», mi spronò Maggie.
«Mi ha fatto capire che, grazie a me, ha iniziato a credere che in giro ci siano ancora brave persone. Ho visto della speranza, in lui».
Maggie mi studiò per qualche istante, senza dire nulla. Poi si sciolse nel sorriso di chi la sapeva lunga. «Come potrebbe essere il contrario?».
«
Cosa?».
«
Anche il più freddo degli uomini si scioglierebbe davanti ai tuoi occhioni e al tuo sorriso», rispose mia sorella, accarezzandomi una guancia e facendomi arrossire. Guardai da un'altra parte. «Smettila, Maggie».
«Ma è vero!» esclamò, circondandomi affettuosamente le spalle con un braccio.
«Peccato che non abbia funzionato coi nemici che abbiamo incontrato per strada», le ricordai, rabbuiandomi.
«Quelle erano persone cattive, non fredde», puntualizzò. «Comunque, ora ti ho capita un po' di più».
Mi voltai verso di lei. «Davvero?», quasi urlai.
Lei sorrise del mio entusiasmo e annuì, perdendosi con lo sguardo davanti a sé. «Sai, Beth, non so esattamente per quale motivo l'idea che tu provi questi sentimenti per lui mi faccia così paura. Forse mi sento in dovere di sostituire papà, perché lui non può preoccuparsi per te», disse, sorridendomi tristemente.
Le sorrisi. «Non avete niente di cui preoccuparvi Maggie, te l'ho detto».
«E se ti sbagliassi?», replicò, tranquilla. Una vampata di calore mi accese le guance, ma Maggie continuò. «Se Daryl ti ricambiasse?».
La guardai, provando a capire cosa stesse pensavo veramente. «Tu cosa faresti?», domandai, rivolgendole la domanda che lei stava facendo a me.
Mi osservò per qualche istante, seria; poi, le sue spalle si rilassarono e Maggie accennò a un sorriso. «Sei giovane, Beth», proferì, ed io ero già pronta a controbattere, quando lei parlò di nuovo. «Sei giovane, ma non sei più una bambina. Quello che hai passato ti ha resa più forte, lo abbiamo visto tutti. Mi fido di te e del tuo buonsenso, quindi, nel caso... Non farò nulla», concluse, mentre i battiti del mio cuore mi rimbombava nelle orecchie. «Sai, Beth, a volte penso a tutto quello che abbiamo perso, ed è così difficile da accettare che quasi mi sento mancare l'aria. Poi, però, mi viene in mente Glenn e mi ritrovo a pensare che, forse, tutto questo a qualcosa è servito. Se Daryl rappresenta lo stesso per te, e tu lo rappresenti per lui, non posso e non voglio ostacolarvi in nessun modo. Ma lo terrò d'occhio comunque, okay? Se prova a farti soffrire io–».
«Grazie», la interruppi, abbracciandola, mentre sentivo gli occhi inumidirsi.
Maggie, dopo qualche secondo di sorpresa, ricambiò l'abbraccio e mi strinse forte tra le sue braccia.
Mi sentii incredibilmente stupida a ripensare a tutta la paura inutile che mi aveva paralizzata. Le parole di Maggie significavano molto per me, tutto.
Sapere che accettava i miei sentimenti per Daryl, sentirla quasi paragonare il suo legame con Glenn – che era l'amore della sua vita, qualcosa che nessuno avrebbe mai messo in discussione – a quello che univa me e l'arciere mi riempì il petto di un calore dolce e rassicurante.
Si allontanò appena da me e mi guardò, lo sguardo colmo di affetto. «Papà sarebbe così fiero di te, Bethy. Per tutto».
Quando usò quel soprannome, la mia mente si riempì di un ricordo: vidi me stessa, a letto e mio padre al mio capezzale. Teneva la mia mano stretta nella sua, mentre mi canticchiava una filastrocca che la mamma mi aveva insegnato quand'ero piccola.
Mi mancava così tanto...
«Smettila Mag, o mi farai piangere», scherzai, asciugando una lacrima che stava per sfuggirmi.
Lei scoppiò a ridere e mi diede un'ultima stretta prima di lasciarmi andare. Rimanemmo sul dondolo un altro po', a parlare: non le raccontai di quello che era successo la sera della festa con Aiden, né di Daryl, ma ne approfittai per condividere con lei la mia preoccupazione riguardo tutta la questione di Pete.
I suoi occhi si accesero di inquietudine, ma mi promise che, per il momento, non ne avrebbe fatto parola con nessuno e che avremmo pensato a qualcosa, insieme.
Insieme: bastò quella parola, quella certezza, a rasserenare il mio animo.




Angolo autrice.

Innanzitutto mi scuso per il ritardo, ma sono stata talmente impegnata da non rendermi pienamente conto che l'ultimo aggiornamento risale a febbraio. Scusatemi.
Ma oggi, che è un giorno nefasto perché in America andrà in onda il terrificante finale di stagione (NEGAN AIUTO NEGAN), mi sembra una buona occasione per aggiornare la storia. Anche se non succede nulla in particolare Beth sta bene, i guai sono lontani e c'è amore tra sorelle dappertutto, il che mi pare un buon alleviante per quello che dovremo sopportare domani. Ho paurissima, non ce la posso fare.

Mi dispiace se Daryl in questo capitolo è stato quasi assente e se il loro chiarirsi non è appassionato e grondante di retorica, ma quello che ho deciso di inserire mi pare più adatto al personaggio di Daryl. Ho preferito lunghi sguardi a lunghi discorsi, e una promessa muta nascosta in un sorriso. Mi è sembrato più da loro, ecco :)

Per quel che riguarda Maggie, mi rendo conto che magari le ho fatte riappacificare presto, ma ogni minuto è prezioso in una situazione del genere e volevo che Beth prendesse la matura decisione di chiarirsi subito invece di serbare rancore.

Il prossimo capitolo, lo dico subito, sarà un po' difficile. Vi tranquillizzo da subito e vi assicuro che a Daryl non succederà nulla, tranquille.
Per esigenze di trama, mi serve dilatare il lasso di tempo da questo giorno e gli avvenimenti del prossimo capitolo di almeno un mese. Anche se mi pare che nella serie originale sia questione di pochi giorni. Quindi, tutti gli avvenimenti del telefilm saranno posposti di un mese, e la prossima volta vi spiegherò meglio!

Come sempre, vi ringrazio per le vostre visite, le vostre recensioni e per aver inserito la mia storia tra le seguite e le preferite.

Ce la possiamo fare ragazze, ce la possiamo fare.
Credo che scriverò un post/muro del pianto sul mio blog (https://blakiescrive.wordpress.com/) dopo la puntata di domani, se volete discuterne/piangerne lì, siete le benvenute.
Forza e coraggio, ragazze. Forza e coraggio.

Alla prossima!
Un abbraccio,
Blakie

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Capitolo 7
*** Guns'n'pancakes ***


and we'll be good 7

And we'll be good
capitolo 7




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Daryl e Aaron tornarono ad Alexandria poco più di una settimana dopo, il mercoledì successivo. Nel tempo che i due reclutatori passarono fuori dalle mura, la mancanza di Daryl e la preoccupazione per la sua sorte mi seguirono dappertutto, costantemente. Eppure, non riuscirono a scalfire nemmeno per un attimo la mia fiducia in lui, la mia speranza, la mia certezza che sarebbe tornato. Che lui e Aaron, insieme, sarebbero tornati.
Mentre Daryl era via, mi scusai con Aiden, con la signora Neudermeyer e anche con la mia famiglia, liberandomi di un gran peso. 

La vita ad Alexandria proseguiva tranquilla: la mia famiglia stava cominciando ad abituarsi alla vita tra quelle mura e ne fui felice. Rick impose a Deanna di stabilire dei turni di guardia in modo da sorvegliare il perimetro dalle torrette, e non solo davanti al cancello. Lei, per calmarlo, acconsentì subito, studiando in fretta un ciclo di turni assieme a Maggie, che era diventata la sua consigliera di fiducia. Insistetti per prendervi parte anche io, perché volevo rendermi utile anche fuori dalle mura. Maggie e Deanna me lo concessero, anche se ebbi tanto l'impressione di aver ricevuto un contentino. Un paio di giorni prima, infatti, avevo avanzato la richiesta di partire con uno dei gruppi che andava a cercare le provviste, ricevendo un rifiuto gentile ma secco da parte di Deanna. Mi fece presente che il mio aiuto era necessario all'interno delle mura, a scuola e in ambulatorio e che i gruppi di ricerca erano già stabiliti e andavano bene così.

Lì per lì, mi arresi, convinta che avrei ritentato. Prima dovevo migliorare la mia abilità con le armi, perciò mi ripromisi di seguire il suggerimento di Noah e chiedere a Daryl, a Carol o a chiunque altro sarebbe stato disposto, di insegnarmi ad utilizzare un'arma al meglio. Dovevo solo aspettare che Daryl tornasse.

Per non sentire troppo la mancanza dell'arciere e non soffrire la solitudine, mi circondai di persone: passai più tempo possibile con Maggie, con Noah e con il resto del gruppo. Raddoppiai il mio turno di insegnante di musica per i bambini, cominciando ad andare il mercoledì e il venerdì, affezionandomi sempre di più a Samantha e ai miei piccoli allievi. Suonare per loro e con loro, insegnargli ciò che mia madre, a suo tempo, aveva insegnato a me e portare un po' di leggerezza nella loro infanzia mi faceva sentire bene. Inoltre, Samantha aveva solo otto anni più di me e questo contribuì a farci diventare amiche. 

Quel mercoledì rimasi a scuola fino al tardo pomeriggio, aiutando Samantha a sistemare i materiali che avevamo usato coi bambini. Le chiesi se, quella sera, le avrebbe fatto piacere cenare assieme alla mia famiglia; accettò di buon grado, ringraziandomi con un ampio sorriso. Era bella, col naso e le guance costellati di lentiggini e una folta chioma di capelli rossi e ricciuti a contornarle il viso. E un'espressione dolce che non la lasciava mai; nessun'altra, nella comunità e fuori, avrebbe potuto fare la maestra al di fuori di Samantha. 

Prima di arrivare da Rick, decidemmo di fare tappa ognuna a casa propria per rinfrescarsi e fare una doccia prima di uscire per cena. Ci ritrovammo davanti a casa mia dopo esserci sistemate e ci incamminammo fianco a fianco, chiacchierando.

Quando arrivai davanti a casa di Rick e gli altri, mi morirono le parole in gola e mi fermai, fissando la persona che stava fumando sotto al portico.

Il cuore iniziò a battere furiosamente nel mio petto molto prima che realizzassi di avere Daryl lì, a pochi passi da me.

Daryl era tornato. Stava bene. Era vivo.

Si accorse di me pochi secondi dopo, ricambiando il mio sguardo con un'espressione indecifrabile. Forse me lo immaginai soltanto, ma mi sembrò che le sue labbra fossero curvate in un piccolo sorriso. Lasciai il fianco di Samantha e corsi sotto al portico, attenta a non inciampare.

«Daryl! Sei tornato!», esultai, parandomi di fronte a lui e sforzandomi in tutti i modi di non saltargli in braccio.

Mentre era via, avevo immaginato molte volte come sarebbe stato rivederci. Nelle mie fantasticherie, solitamente, gli buttavo le braccia al collo e lo stringevo in un abbraccio soffocante, ricambiata e stretta a mia volta tra le sue forti braccia. La realtà fu molto diversa e non seppi spiegarmi perché. Forse dovevo ancora capire fin dove potevo spingermi, con le dimostrazioni d'affetto nei confronti di un uomo così freddo e sprezzante del contatto fisico.

«Te l'avevo detto», rispose, inspirando una boccata di fumo. 

«Stai bene?», domandai, avvicinandomi a lui senza rendermene conto. 

«Mmmh-mmh», annuì, senza scomporsi. 

«E Aaron?», domandai di nuovo.

«Sta bene, sta bene», mi rassicurò, stiracchiandosi in un gesto casuale.

Osservai i suoi occhi, le sue labbra, i suoi capelli, le sue mani, le sue spalle: Dio, quanto mi era mancato. Tutta l'ansia, la preoccupazione e la paura che mi avevano seguita in quei giorni si dissolsero dalle mie spalle, come se non le avessi mai provate.

«È bello rivederti, signor Dixon. Bentornato a casa», mormorai, sorridendogli.

I suoi occhi si legarono ai miei, per qualche attimo, persi in uno sguardo intenso che disse più di mille parole.

Poi sbuffò e guardò da un'altra parte, a disagio. «Quante smancerie», sbottò, buttando la sigaretta ormai finita.

Risi, intenerita, poi mi voltai verso Samantha, che aveva assistito al nostro scambio con un sorrisetto divertito. Ci raggiunse sotto il portico e si presentò a Daryl, che si sforzò di essere gentile. Avevo così tanta voglia di chiedergli di raccontarmi com'era andata là fuori, cosa lui ed Aaron avevano fatto o visto, ma mi sarei sentita in imbarazzo a parlargli così tanto in mezzo agli altri. Io e Maggie non avevamo più discusso l'argomento che ci aveva fatte litigare, ma sembrava che mia sorella stesse accettando l'idea. Mi era stata molto vicina nel periodo di lontananza da Daryl e le fui grata per questo. 

Sentivo il bisogno di stare con Daryl, da soli, perché era solo da soli che riuscivamo a trovarci a nostro agio in reciproca compagnia. Quando eravamo insieme al resto della nostra famiglia, non ci parlavamo molto. Non arrivavamo ad ignorarci, questo no, ma limitavamo le nostre interazioni allo stretto necessario. Non sapevo se Daryl lo facesse per non destare sospetti su di noi - sospetti per cosa, poi? - o per altri motivi. Sapevo solo che volevo assecondarlo, nonostante pensassi che non ci fosse nulla da nascondere. O forse era lui che temeva di far trasparire qualcosa di cui mi sarei accorta anche io?

Passammo una bella serata, comunque, di nuovo tutti insieme. Samantha si ambientò bene e parlò molto con la mia famiglia, mettendomi addirittura in imbarazzo, mentre decantava le mie doti di "maestrina di musica". Io abbassai lo sguardo, borbottandole, imbarazzata, di smetterla. Non mi sfuggì il ghigno divertito di Daryl, che mi osservava dall'altra parte del tavolo. Lo guardai male, col solo risultato di divertirlo ancora di più. Maledetto

Per evitare di strozzarlo, pensai piuttosto a quando e come chiedergli di insegnarmi a usare le armi, a cacciare, a qualsiasi cosa sarebbe servita a tenere in vita me e gli altri in caso di bisogno. Forse potevo chiedergli di accompagnarmi a casa, senza preoccuparmi di cosa avrebbe pensato la nostra famiglia vedendoci andare via assieme. Sarebbe stato più sospetto se avessimo continuato a quasi-ignorarci in quel modo.

Con una faccia tosta di cui non mi credevo capace, mentre la serata stava volgendo al termine e bellamente circondata dagli altri, avanzai verso Daryl, che stava giocando con Judith sul tappeto del soggiorno. Mi fermai un secondo ad osservarli: la piccola stava giocherellando coi bicchieri di carta, il suo gioco preferito sin dai tempi della prigione. Daryl, seduto a gambe incrociate di fronte a lei, l'assecondava, impilando i bicchieri e facendoli poi cadere, scatenando le risate della bambina. Risate che, ogni volta, facevano comparire un piccolo sorriso sulle labbra dell'arciere.
Poche cose mi facevano tremare il cuore quanto vedere un uomo così forte e dall'aspetto talvolta poco rassicurante, giocare con un esserino fragile e piccolo come Judith.  Per un secondo, mi domandai intimamente come se la sarebbe cavata Daryl nei panni di padre. Sorrisi tra me e me, conoscendo la risposta: egregiamente.

Scacciai presto quel pensiero e mi avvicinai a loro, accomodandomi dietro la piccola Judith. «Cosa state facendo?», domandai, prendendo la bambina in braccio.
Da quando lavoravo in ambulatorio e a scuola, non avevo più modo di stare con lei spesso quanto avrei voluto, e la cosa mi dispiaceva. Era una bambina dolcissima, occuparsi di lei non era mai stata una fatica, alla prigione.

«Stiamo giocando coi bicchieri, roba seria», scherzò Daryl, dando un buffetto alla guancia di Judith e allungandole un altro bicchiere.

«Accidenti, roba serissima!», esclamai, chinandomi e cercando lo sguardo della piccola, come se mi stessi rivolgendo a lei. Judith mi guardò con gli occhi di Lori e si aprì in un sorriso smagliante, agitando la coppa rossa, divertita.

Mi beai della morbidezza di quel piccolo miracolo che stavo stringendo tra le braccia, poi guardai Daryl. «A proposito di cose serie, puoi accompagnarmi a casa? Devo parlarti», gli dissi, senza smettere di sorridere. 

Lui mi lanciò un'occhiata perplessa. «Sei ancora ubriaca e hai bisogno di qualcuno che ti trascini a casa?», domandò, aprendosi in un ghigno.

Avvampai, tappando le orecchie a Judith e sussurrandogli un «vaffanculo» a denti stretti. Tra le sue risate, cercai di continuare. «Per favore Daryl, è importante».

L'arciere mi studiò, diffidente. «Cos'hai combinato mentre ero via?».

Alzai gli occhi al cielo, esasperata. «Non puoi semplicemente fidarti di me e accompagnarmi senza fare tutte queste storie?!».

«Va bene ragazzina, come vuoi», si arrese in modo sbrigativo, visibilmente seccato. Credetti che volesse solo farmi stare zitta e non attirare troppe attenzioni su di noi. Paranoico.

Quando, una mezz'ora dopo, uscimmo di casa assieme - Sam se n'era andata prima - vidi le spalle di Daryl rilassarsi vistosamente, mentre camminavamo lentamente fino a casa mia. Che si trovava nello stesso vialetto, quindi dovevo sbrigarmi e trovare subito il coraggio di chiedere quello che dovevo all'uomo accanto a me. Il rumore dei nostri passi sull'asfalto era l'unico sottofondo, nel silenzio della sera.

«Sei stato così sbrigativo prima, riguardo la tua missione con Aaron. Sei sicuro che si andato tutto bene?», esordii, spezzando il silenzio.

Daryl si voltò a guardarmi. «Si tratta di questo, quindi? Vuoi farmi il terzo grado?», domandò. Il suo tono era tranquillo, nonostante tutto. Meno sulla difensiva di quanto lo fosse prima.

«No, Daryl, sto solo facendo conversazione», scandii. «Sai, è una cosa che le persone fanno».

Si strinse nelle spalle. «Sono stato sbrigativo perché non è successo niente che valga la pena di essere raccontato. Siamo tornati indietro prima per un motivo».

«Avete trovato qualcosa di utile? Provviste?», domandai, curiosa.

«No. Evidentemente, siamo andati nella direzione sbagliata».

Annuii, senza sapere bene cosa rispondere. Dopo qualche momento di silenzio e quando, ormai, eravamo arrivati davanti a casa mia, presi il coraggio a due mani e parlai. «Comunque, ti ho chiesto di accompagnarmi per chiederti una cosa», proferii confusamente, parandomi di fronte a lui.

Daryl non disse niente ma mi guardò negli occhi, aspettando che parlassi.

Feci un respiro profondo, prima di avanzare la richiesta. «Volevo chiederti se puoi aiutarmi a migliorare con le armi».

La sua espressione rimase impassibile, ma notai un sussulto di sorpresa che gli scosse appena le spalle. «Armi?».

«Sì. Da fuoco, se possibile», spiegai, raddrizzando la schiena e mostrandomi determinata.

«Vuoi imparare a sparare», indagò. «Non ti ricordi più nulla dell'addestramento alla fattoria?», domandò. Per un istante, ebbi l'impressione che stesse parlando di una vita fa. Quanto tempo era passato, quante persone si erano unite alla nostra famiglia, quante ne avevamo perse...

«Certo che sì. So usare la pistola, ma non bene come vorrei. Anzi, non bene come serve. Devo migliorare la mira, imparare a utilizzare al meglio armi come fucili e cose così. Devo imparare a cacciare e a seguire le tracce».

«A cosa ti serve tutto questo, qua dentro?».

La sua domanda mi sorprese. «Mi serve là fuori».

Serrò la mascella. «Tu non esci dalle mura». Dal tono, più che una considerazione, sembrò un ordine.

«Ora come ora no, ma potrei, un giorno. Per qualsiasi motivo. Anche qua dentro potrebbe essermi utile essere brava come voi. Voglio imparare a difendere me stessa e gli altri, Daryl. Non è possibile che io ancora non ne sia in grado, dopo tutto questo tempo. Carl è più piccolo di me eppure è già esperto, perché a me non è concessa questa competenza?!», esclamai, con una nota di esasperazione nella voce.

«Tu sai difenderti e sai come difendere gli altri», replicò, studiandomi serio.

«Ah sì? Con qualche colpo di pistola sparato a caso e un coltello? Questo non mi aiuterà se dovesse essere necessario difendermi a distanza».

«Credo che tu non abbia bene idea di quello che mi stai chiedendo, Beth».

«Ti sto semplicemente chiedendo di aiutarmi a non essere un peso», replicai, accorata.

Daryl affilò lo sguardo. «Lo sai che sarai costretta ad uccidere? Non solo vaganti, ma anche essere umani. Soprattutto essere umani».

La cruda realtà che Daryl mi mise davanti agli occhi mi ammutolì per qualche secondo. Non riuscivo nemmeno a immaginare di essere in grado di togliere la vita a un'altra persona viva. Certo, all'ospedale avevo provocato la morte di Gorman, ma era stata Joan a ucciderlo. Impugnare una pistola e premere il grilletto sarebbe stata tutta un'altra cosa.
Se qualcuno di crudele, come il Governatore, o Dawn, rappresentava una minaccia, avrei dovuto essere pronta a uccidere. Non tanto per salvare la mia vita, quanto quella della mia famiglia. Erano loro la cosa più importante e la loro sicurezza aveva un prezzo.

Un prezzo che ero pronta a pagare. Finalmente mi sentivo davvero pronta.

«Lo so, Daryl. Ma se uccidere significa proteggere la mia famiglia... sono pronta a farlo. Non voglio mai più assistere alla morte di qualcuno di voi come ho dovuto fare con mio padre. Mai più», terminai sussurrando e abbassando lo sguardo per reprimere le lacrime. Quando lo rialzai, vidi che Daryl mi stava osservando intensamente, combattuto, come se si stesse preoccupando più del dovuto della mia innocenza, della mia bontà. Dimenticandosi che lui stesso, pur essendo una delle persone più buone, generose e disinteressate che avessi mai conosciuto, aveva ucciso delle persone. E non si poteva fargliene una colpa, perché, se non l'avesse fatto, sarebbe toccato a qualcuno di noi morire.

«Okay», disse, alla fine, con la voce esausta. 

Il mio cuore iniziò a battere forte. «Grazie, Daryl. Significa molto per me».

Lui borbottò qualcosa di incomprensibile, salendo le scale del mio portico e sminuendo la cosa con un gesto della mano. «Domani ne riparliamo. Ci saranno da chiedere le armi a Olivia ed il permesso per uscire da questa gabbia», affermò, per distogliere l'attenzione dalla mia gratitudine.

«Da quando sei il tipo di persona che chiede il permesso?», domandai ironica, appoggiando le mani sui fianchi.

Daryl grugnì. «Devo chiederlo per te, ragazzina», sottolineò, sprezzante. «Io posso uscire quando diavolo mi pare».

Scoppiai a ridere per l'espressione indisponente che gli animò il volto. «Daryl Dixon, il Ribelle dell'Apocalisse», lo sbeffeggiai, stringendo i pugni ed allargando le spalle, tutta impettita.

«Fila a letto, prima che la tua simpatia mi faccia cambiare idea», disse con un ghigno, indicando la porta di ingresso con un cenno del capo.


«Sissignore!», esclamai, scoccando un saluto militare.

Daryl alzò gli occhi al cielo, ma accennò appena a un sorriso. «'Notte», si congedò, dandomi le spalle e avviandosi verso casa.

Rimasi a guardarlo, mentre si stava allontanando. Poco dopo, inaspettatamente, qualcosa tremò dentro di me, formicolandomi nelle dita e spingendo le mie gambe a muoversi.
Appena prima che Daryl scendesse il primo scalino del portico, afferrai la sua mano. Preso di sorpresa, si voltò verso di me, ma non gli diedi il tempo di dirmi nemmeno una parola.
Gli circondai la vita con le braccia e mi strinsi a lui, affondando il volto nella sua camicia. 

Mi era mancato il suo odore, il suo corpo contro il mio, il battito del suo cuore sotto il mio orecchio. Averlo lì, tra le mie braccia, al sicuro da un mondo dal quale, là fuori, non potevo proteggerlo, mi fece sospirare di felicità.

«Beth...», protestò debolmente. Avvertii i battiti del suo cuore aumentare e il suo respiro farsi più pensante.

«Stai zitto», mormorai contro la stoffa della sua camicia, stringendolo ancora di più a me.

Contro ogni aspettativa, dopo qualche momento di indecisione, Daryl abbandonò le braccia sulle mie spalle e mi strinse a sé. Poi appoggiò il capo contro al mio, in un abbraccio protettivo. Era tutto intorno a me. Deglutii, per trovare il coraggio di esprimere quello che stavo per dire.

«Voglio proteggerti, Daryl. Non mi importa di nient'altro. Se non posso farlo quando sei lontano da me, voglio riuscirci quando siamo insieme», sussurrai, talmente piano che, per un momento, temetti che non mi sentisse. Quando finii di dirlo, però, avvertii Daryl respirare profondamente e stringermi, subito dopo, un po' più forte. Come in un muto ringraziamento.

Ripensai alle parole rabbiose che mi aveva rivolto in quel capanno che avevamo bruciato insieme.

«Non ho mai contato su nessuno per farmi proteggere. Cazzo, non ho mai contato su nessuno per niente!».

Non avrei mai potuto comprendere fino in fondo la sofferenza che aveva dovuto sopportare Daryl, sin da giovanissimo. Me lo immaginai da bambino, con un padre violento, una madre troppo debole per proteggerlo e un fratello che non aveva mai saputo come essere un vero fratello.
Pensare a tutto quello che doveva aver passato mi strinse il cuore in una stretta dolorosa, soprattutto perché Daryl non si era meritato l'infanzia che aveva avuto.
La sua unica colpa era stata quella di nascere in una famiglia che non aveva saputo prendersi cura di lui, amarlo, proteggerlo. E quella consapevolezza mi faceva male.

Era questo che ammiravo così tanto in Daryl: nonostante il suo passato difficile, le ferite profonde che, lo sapevo, non avrebbero mai smesso di bruciargli dentro, era diventato una delle persone migliori che avessi mai conosciuto. E anche una delle più fragili.

Daryl pensava di aver cambiato idea sulla bontà delle persone grazie a me, in realtà era successo l'esatto opposto: ero io a non poter perdere speranza nell'umanità, se mi ero ritrovata accanto un uomo come lui. Era stato grazie a lui se le mie speranze non erano morte del tutto. E grazie a mio padre, a Rick, a tutte le persone buone che avevo incontrato sulla mia strada.

Avrebbe potuto tentarne di ogni per allontanarmi, non mi sarebbe importato: gli sarei stata vicina, in qualsiasi modo possibile. Ci sarei stata per lui, lo avrei protetto, lo avrei fatto sentire importante e degno di essere amato. Volevo che capisse che esisteva qualcuno a cui importava davvero di lui. Non sarebbe mai riuscito a tenermi lontana, mai.

Rimanemmo allacciati in quell'abbraccio per un tempo che, a me, parve infinito. Avrei potuto davvero rimanere così per sempre. L'arciere, invece, fu in grado di sopportare quella vicinanza fino ad un certo punto. Dopo un po', in silenzio, mi lasciò andare; mi guardò negli occhi senza dire nulla e si voltò, tornando a casa.
Mentre osservavo la sua schiena
che si allontanava, coperta dal giubbotto con le ali d'angelo, pensai che avevo fatto la scelta giusta chiedendogli di insegnarmi a sopravvivere.
Avevo troppo da perdere.

Troppo per cui combattere.

¨¨¨

La mattina dopo, mentre camminavamo fianco a fianco verso casa di Deanna, il nervosismo mi pervase, perché non ero affatto sicura che la mia richiesta sarebbe stata accettata. Sapevo che avrei trovato anche Maggie, a casa Monroe: lei e Deanna stavano lavorando ad un progetto sulle sementi da andare a cercare nei dintorni della zona sicura, in modo da iniziare a coltivare pomodori, patate e altre verdure. Un po' come quando eravamo alla prigione: io, Maggie e Rick avevamo avuto l'insegnante migliore.

«Tutto bene?», domandò Daryl, dopo il mio ennesimo sbuffo agitato. Forse aveva notato quanto fossi silenziosa; maledetto lui ed il suo spirito di osservazione.

«Sì, sì. Sto solo pensando a quali parole usare per convincerle a lasciarmelo fare», risposi, provando a contenermi.

Alzò le spalle con fare strafottente. «Dici loro che lo vuoi fare e che lo farai, punto».

Scoppiai a ridere, divertita dal suo finto tono arrogante. «Convincente, ma ti ricordo che solo tu puoi permetterti questo tipo di approccio», replicai, guardandolo. 

Lui mantenne un'espressione burbera per qualche momento, poi ridacchiò a sua volta, scuotendo la testa e continuando a camminare. «Anche questo è vero».

La presenza di Daryl, nonostante tutto, mi rassicurava e mi trasmetteva la calma che mi serviva. Rimase in piedi, quando Deanna ci fece accomodare nel suo salotto, come un angelo custode che mi guardava le spalle. Provai a parlare con calma, a spiegare le mie ragioni e cercai di non dare troppo peso all'espressione preoccupata di Maggie, seduta sul divano di fronte a me. Riuscivo a capire quello che pensava: era in ansia, ma sapeva che avevo ragione. Dovevo puntare su quello, era l'unica che poteva capirmi. Deanna non aveva mai vissuto quello che avevamo passato noi, perciò non poteva comprendere cosa mi spingesse a fare loro quella richiesta. Secondo lei, mi stavo mettendo in pericolo inutilmente.

«Beth, noi abbiamo bisogno di te qui», mi ripeté, come quando le avevo chiesto di poter andare in missione.

«Per fare cosa? Controllare che nessuno entri in ambulatorio? Non abbiamo quasi mai niente da fare lì, Deanna. Ed è un bene, significa che nessuno ha bisogno delle nostre cure perché sta bene. Josie mi sta insegnando tanto e adoro lavorare a scuola con i bambini, ma ho bisogno di altro. So com'è il mondo fuori da quelle mura e voglio essere in grado di affrontarlo», ribattei, accorata. 

Lei mi studiò, l'espressione corrucciata e la postura rigida. Non era arrabbiata, lo capii, solo non sapeva come ribattere. Perché avevo ragione. Si voltò verso Maggie, per chiedere la sua opinione o per ricevere aiuto per riuscire a convincermi, non riuscii a comprendere. Lo sguardo di mia sorella gravitò da me a Deanna, poi di nuovo si posò su di me e, infine, su Daryl. L'arciere aveva assistito a tutto lo scambio, senza dire una parola, ma ascoltando concentrato.

Maggie sospirò. «L'idea non mi entusiasma, ma non posso oppormi. Questo posto è sicuro, ma va comunque difeso e serve gente per questo», spiegò Maggie, mentre il mio cuore cominciava ad accelerare. Maggie si voltò verso di me, guardandomi negli occhi e sorridendo. «Ognuno di noi ha un compito», aggiunse ed era quello che ci diceva sempre papà. Le sorrisi di rimando, sperando che potesse vedere il ringraziamento nei miei occhi.

Deanna sospirò. «E va bene», si arrese. «Se per il signor Dixon non è di disturbo».

Ci voltammo tutte verso Daryl contemporaneamente, mentre lui si stringeva nelle spalle, come se non desse importanza alla questione. 

«Per il signor Dixon non è un disturbo», rimbeccò l'arciere, con tono annoiato. Il mio sorriso si allargò a dismisura: avrei voluto stringere sia Daryl che Maggie in un abbraccio soffocante, tutti e due nello stesso momento.

Io e Daryl ci recammo da Olivia per chiederle di dare un'occhiata all'armeria, dopo averle assicurato che disponevamo del benestare di Deanna. Mi ritrovai assieme a Daryl di fronte a quel muro zeppo d'armi. Non ne avevo mai viste così tante tutte assieme; quando avevo visitato Alexandria il primo giorno, avevo intravisto l'armeria solo dall'esterno.

«Cos'hai usato fino a questo momento?», domandò l'arciere. Senza pensare, si toccò il mento con le dita, mentre ispezionava tutti quegli armamenti con fare interessato. 

Provai a fare mente locale. «Uhm, pistola e fucile d'assalto. E balestra», aggiunsi, rivolgendogli un sorrisetto.

«La balestra non conta, hai fatto schifo quella volta», ghignò Daryl, scansandosi prima che potessi colpirlo in qualche modo. «Ti sei trovata meglio con la pistola o il fucile?».

«Pistola. Riesco a prendere meglio la mira», risposi senza pensarci, sfiorandone una con le dita. «Quale credi che sia meglio?».

«Beh, in teoria col fucile d'assalto hai più margine d'errore, visto che vengono esplosi più colpi, ma la pistola va benissimo. Devi allenare la mira. Ogni proiettile è importante».

«Pensi che ci siano armi più adatte a me?», domandai, sentendomi improvvisamente insicura di me stessa.

«Qualsiasi arma è adatta se devi sopravvivere. Un fucile d'assalto, un fucile a pompa, una carabina: non fa differenza», ribatté Daryl. «La pistola è un buon punto di partenza. Quando avrai migliorato la mira e ci avrai preso la mano, maneggerai ogni arma con più sicurezza e ti troverai bene anche con quelle più impegnative», spiegò. 

Non lo avevo mai sentito parlare così tanto e in modo così appassionato. Era davvero bello, avere finalmente qualcosa di cui discutere in modo tanto fluido. Aveva preso sul serio il suo ruolo di "mentore" e ci teneva che mi sentissi tranquilla, rispetto le mie capacità, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Ero davvero fortunata.

Nonostante Daryl a volte si dimostrasse irruento e preda facile di attacchi d'ira, quando insegnava qualcosa era la persona più paziente e disponibile con cui avessi mai avuto a che fare. Ne avevo già avuto prova quella volta che aveva iniziato a insegnarmi a cacciare, e lì ad Alexandria ne ebbi nuovamente conferma. Passò le successive tre settimane ad addestrarmi ogni volta che eravamo liberi entrambi. 

Mi insegnò come migliorare la mira, usando una pistola silenziata simile a quella che aveva Carl. Avevamo un posto tutto nostro, un piccolo spiazzo tra gli alberi, dove operare. Solitamente utilizzavamo dei barattoli vuoti come bersagli: Daryl li posava su un tronco d'albero tagliato ed io li dovevo colpire da varie distanze. Quando mi sentii più sicura della mia mira, iniziai anche ad esercitarmi con i vaganti, che fungevano da bersagli mobili. In quel caso, per non sprecare troppe munizioni, utilizzavo molto spesso la balestra di Daryl. Non ero diventata brava come lui, ma almeno non aveva più pretesti per prendermi in giro. A Maggie non avevo detto nulla per non farla preoccupare, io stessa non ero preoccupata: con Daryl mi sentivo al sicuro. Mi sarei sempre sentita al sicuro. Avevo persino ampliato le conoscenze base su come seguire le tracce, sulla sopravvivenza e anche un po' di autodifesa se mi fossi trovata in situazioni particolarmente ostili. 

In quelle settimane, sentii il mio legame con Daryl rafforzarsi ancora di più. Era bello passare così tanto tempo in sua compagnia, uniti da un obiettivo comune. Lui non aveva iniziato ad essere più espansivo o affettuoso, ma riuscivo a capire che, finalmente, si sentiva a suo agio in mia presenza. La sua postura era meno rigida, meno pronta alla ritirata in caso di contatto fisico, e la sua espressione era rilassata. Qualche volta ci era anche capitato di ridere assieme dopo un mio errore o una battuta. Il suo viso cambiava totalmente, quando rideva: la prima volta che lo fece me lo sognai persino la notte. 

Anche le prime lezioni sulla postura da tenere per migliorare la mira, le sognai. Semplicemente perché, per farmi capire meglio come dovevo posizionarmi, Daryl si era messo alle mie spalle. La sua bocca era vicino al mio orecchio, il suo petto a pochi centimetri dalla mia schiena: quella vicinanza mi scatenò istantaneamente dei brividi per tutto il corpo. Aveva allungato le braccia accanto alle mie, chiudendo le mani sull'arma che stavamo stringendo entrambi per guidarmi alla posizione corretta. 

«È meglio se tieni le braccia così», mi aveva istruita, mentre io mi concentravo, invece, sul suo tono di voce: mi era sembrato più basso e meno fermo del solito.

«O-Okay», avevo balbettato, col suo respiro che mi solleticava l'orecchio. 

Quando era stato il momento di rispolverare la balestra, mi aveva aiutato a sollevare meglio il gomito e a ruotare le spalle, posandomi anche le mani sui fianchi per sistemarmi la postura. Quegli avvicinamenti erano stati così improvvisi che, per un momento, mi avevano frastornata. Avevo sentito la pelle percorsa da piccole scosse di elettricità, non riuscivo a stare ferma e calma, sapendolo così vicino a me. 

Non riuscii mai a capire se si accorse dell'effetto che mi fece averlo così vicino a me. 

Ad ogni modo, il mio addestramento si interruppe quando Daryl venne ingaggiato da Aaron per una nuova missione di reclutamento. Me lo disse dopocena, due giorni prima della sua partenza.

«Lunedì parto», disse soltanto, avvicinandosi a me mentre stavo cullando Judith per conciliarle il sonno, sul divano di Rick.

Mi voltai verso di lui e gli sorrisi. «Va bene», risposi a voce bassa, per non dar fastidio alla piccola.

Lui mi osservò per qualche momento, con le mani infilate nelle tasche e i suoi occhi blu che mi scrutavano. Stava tentando di capire se ci fossi rimasta male? «Ho chiesto a Carol se può allenarti lei, mentre io sono via», mi informò, e notai una nota di apprensione nella sua voce neutra.

«Carol ha già il suo bel da fare, dovendo cucinare per mezza Alexandria», replicai, con voce ferma. «Non ti preoccupare Daryl, aspetterò che torni», aggiunsi, addolcendo il tono. Lo sguardo che gli rivolsi non riuscì a sostenerlo; balbettò qualcosa e se ne uscì a fumare una sigaretta, senza aggiungere altro.

Sorrisi tra me e me, riportando l'attenzione su Judith, ancora stretta, in dormiveglia, tra le mie braccia. Facendo attenzione a non sballottarla troppo, mi alzai in piedi e salii le scale, per riporla nel suo box. La appoggiai con delicatezza sul lettino e le rimboccai le coperte, chinandomi per darle un bacio sulla sua testolina bionda. Salutai la mia famiglia e tornai a casa con un'idea che mi ronzava in testa. 

Il giorno dopo, l'ultimo prima della partenza di Daryl, avrei dovuto fare addestramento di mattina. Pensai, quindi, che sarebbe stata una bella idea fare colazione insieme nel bosco. Preparai dei pancake, usando la ricetta che mi aveva insegnato mia madre tanto tempo fa. Me li faceva trovare nel piatto la mattina, per colazione, ma io ero sempre in ritardo per la scuola e li trangugiavo mentre correvo verso l'autobus. Sorrisi al ricordo, poi mi domandai se qualcuno avesse mai preparato qualcosa di simile per Daryl. Poco importava: lo avrei fatto io, adesso.

La mattina successiva mi presentai davanti ai cancelli di Alexandria con i pancake ben conservati in un contenitore. Nessuno aveva trovato dello sciroppo d'acero da mettere nella dispensa comune, quindi mi ero arrangiata portandomi dietro del burro d'arachidi e la marmellata della signora Abbot. Nel thermos che avevo riposto nello zaino, vi era del tè che sarebbe servito a scaldarci. Infatti, quando ci allenavamo di mattina, Daryl preferiva sempre uscire poco prima che sorgesse il sole. Faceva freddo, ma le albe a cui avevo assistito in quelle settimane difficilmente me le sarei dimenticate.

«Cos'hai lì dentro?», mi domandò Daryl, una volta usciti dalle mura, alludendo a ciò che tenevo stretto tra le mani.

«Qualcosa di buono», risposi, scoccandogli un sorrisetto furbo.

«Vuoi forse avvelenarmi?», chiese, ghignando e sistemandosi meglio la balestra in spalla.

Alzai gli occhi al cielo. «Mi hai beccata», sbuffai, fingendomi infastidita.

Raggiungemmo il nostro solito posto, sedendoci su un tronco per consumare la nostra colazione. Appoggiai il contenitore ed il thermos nello spazio tra noi, posandoli sopra un tovagliolo. L'aria era ancora freddo, ma il sole stava già iniziando a sorgere, rischiarando tutto il resto. C'eravamo solo io, Daryl e la quiete tutta intorno a noi. Aprii il contenitore e allungai a Daryl il coltello per spalmare i pancake, lasciando che fosse il primo ad assaggiarli.

Mentre divorava il primo, osservai estasiata la sua solita eleganza, sforzandomi di non ridere. Quando lo finì, si leccò le dita sulle quali era rimasto del burro d'arachidi. Si accorse che lo stavo osservando.

«Cosa?», bofonchiò, ingoiando l'ultimo boccone. 

Ridacchiai, prendendo il mio pancake e scuotendo la testa. «È sempre una soddisfazione cucinare per te».

Rimanemmo in silenzio a gustarci la colazione, osservando il nuovo giorno nascere. Sarei rimasta così per sempre, con Daryl, in quel bosco, a godere della bellezza dell'alba. 
Lo osservai mentre beveva il tè: avevo una cosa da dirgli, prima che andasse via. Anche se non sapevo come avrebbe reagito, dentro di me coltivavo la speranza che non si sarebbe opposto troppo duramente.

«Daryl», chiamai la sua attenzione.

Lui si voltò verso di me. «Mh?».

Feci un respiro profondo prima di parlare. «Partirò anche io, tra una decina di giorni», confessai, tenendo lo sguardo fermo nel suo.

Se fossimo stati ai tempi della fattoria o della prigione, quando ancora non lo conoscevo così bene, non avrei notato l'irrigidirsi delle sue spalle. Fu un cambiamento quasi impercettibile, ma io lo notai subito. I suoi occhi mi guardavano, illeggibili. «Sì?».

Annuii, abbassando lo sguardo sulla terra bagnata ai miei piedi. «È solo una di quelle spedizioni che finiscono in giornata. Parto col gruppo di Glenn, è riuscito a convincere Maggie e Deanna a darmi una possibilità».

Lui rimase in silenzio qualche istante. «Ci sono anche quegli idioti di Nicholas e Aiden. Era la loro squadra, o sbaglio?». 

Cazzo. Speravo che non se lo ricordasse. «Sì, ma--».

«Stai attenta. Quei due non sono affidabili», disse l'arciere, sistemando il thermos nella sua sacca e raccogliendo ciò che avevamo usato per la colazione. Sembrava che non volesse approfondire l'argomento; e non capivo quanto c'entrasse Aiden di per sé, o il fatto che già una volta Daryl avesse quasi fatto a botte con Nicholas o se fosse semplicemente preoccupato per la loro inadeguatezza durante le spedizioni. Glenn non ne aveva mai parlato bene e temeva che quei due potessero mettere in pericolo sé stessi e l'intera squadra. Rimasi in silenzio, senza sapere bene cosa rispondere. Certo che sarei stata attenta. 

«Hai paura?». 

Mi voltai verso Daryl e notai che mi stava fissando, col capo inclinato, provando a capire cosa mi stesse passando per la testa. Raddrizzai le spalle e sbuffai. «Certo che no!».

Lui abbozzò un sorriso, trasmettendomi coraggio e sicurezza in me stessa con la sola forza del suo sguardo. «Ne ero sicuro», ribatté, e il mio cuore accelerò il suo battito. 

Dopo quelle settimane scandite dalla presenza costante di Daryl nelle mie giornate, fu ancora più difficile guardarlo andare via. Come l'altra volta, non ci dicemmo addio, odiando entrambi quella parola. Lo accompagnai semplicemente ai cancelli, la mattina in cui partì; ci scambiammo un lungo sguardo e poche parole. Ci trovai della preoccupazione, nel fondo delle sue iridi cobalto e sapevo che aveva a che fare con la mia spedizione, anche se Daryl non aveva più detto niente a riguardo. 

«Continua ad allenarti», fu l'unica raccomandazione che mi rivolse, prima di andarsene. 

«Quando tornerai, sarò talmente brava che non avrò più bisogno di te», risposi, sorridendogli. Lui sorrise di rimando e si voltò, raggiungendo Aaron fuori dalle mura.

Avrei voluto abbracciarlo, ma mi trattenni: avrei conservato quell'abbraccio per il suo ritorno. Doveva tornare, ed ero sicura che l'avrebbe fatto. Ci saremmo rivisti, saremmo andati entrambi in missione e saremmo tornati a casa, sani e salvi. 

Ero sicurissima che sarei partita per la spedizione, finché, la mattina prima della partenza, non mi svegliai con febbre, male alle ossa e gola che bruciava. Imprecai tra me e me, mentre mi trascinavo al piano di sotto per indossare la giacca più pesante che avevo e mi recai da mia sorella - che, finalmente, si era trasferita in una casa tutta sua assieme a Glenn - per dirle di avvisare suo marito e Deanna: non sarei potuta partire per la missione.

Ero furiosa col mio maledetto sistema immunitario, specialmente perché non sapevo quando mi sarebbe capitato di ricevere di nuovo il permesso di uscire con una delle squadre di spedizione. 

«Lo vedi che il tuo posto è qui?», mi prese in giro mia sorella, mentre mi preparava un infuso caldo. Io, avviluppata in una coperta e priva di forze, la mandai a quel paese dal suo divano. Maggie, infatti, aveva insistito affinché rimanessi da lei, così si sarebbe potuta prendere cura di me.  

«Hanno trovato qualcuno che mi sostituisca?», domandai, senza nascondere il malumore. 

Lei si sedette sul tavolino di fronte al divano e mi allungò la tazza. «Noah si è offerto di prendere il tuo posto», mi informò.

Mandai giù la prima sorsata dell'infuso. «Se stasera lo vedi per cena, puoi chiedergli di passarmi a salutare domani mattina?», domandai, continuando a bere.

«Stasera restiamo con te, ma tranquilla, glielo dirà Glenn domani mattina», disse Maggie, accarezzandomi la nuca in un gesto affettuoso; io annuii, senza aggiungere altro. Era da moltissimo tempo che non mi ammalavo in quel modo; persino quando c'era stata quella terribile influenza alla prigione, ero riuscita a rimanere immune. Sospirai, arrendendomi ai fatti e mi accoccolai su me stessa, vinta dalla spossatezza.



¨¨¨


Anche l'impensabile, alla fine, accadde.

In quei mesi che avevo passato ad Alexandria avevo cambiato atteggiamento nei confronti della nostra quotidianità: ero più tranquilla, guardavo a tutto come se il pericolo non fosse più l'elemento principale delle nostre vite. Certo, ero preoccupata comunque per la sorte della mia famiglia, ma ogni giorno mi alzavo con la certezza che fossero al sicuro, dietro le alte mura che proteggevano la città. E anche quando uscivano per cercare rifornimenti, avevo troppa fiducia nelle loro capacità di sopravvivenza, per preoccuparmi più del dovuto. 

Non avevo perso consapevolezza del pericolo, avevo semplicemente cercato di essere ottimista. Mi ero adagiata, avevo abbassato appena la guardia, e quello fu l'errore più grande che potessi fare. 

Lo capii quando Glenn tornò dalla missione alla quale avrei dovuto partecipare anche io.

Al mio secondo giorno di influenza, non ero ancora abbastanza forte per uscire fuori di casa, ma lo ero abbastanza per andare in cucina a prendermi un bicchiere d'acqua. Avevo mandato giù il primo sorso, quando sentii la porta di casa aprirsi. Mi recai all'ingresso lentamente, per vedere di chi si trattasse.

Entrò Glenn, con i vestiti sporchi, il volto emaciato e lucido di sudore. Non lo avevo mai visto così. Gli andai incontro, preoccupata: quando gli fui più vicina, notai che aveva le mani imbrattate di sangue.  

«Oh mio Dio, Glenn, le tue mani!», esclamai, reggendo il bicchiere in una mano e afferrandogliene una con l'altra, per controllare che non fosse stato ferito o morso. Non appena toccai la sua pelle, mi accorsi che stava tremando.

Lo guardai in faccia, incontrando la sua espressione sconvolta. «Cos'è successo?», domandai, l'ansia che si stava espandendo in ogni parte di me. Alle mie spalle udii Maggie scendere le scale.

«Cosa diavolo è successo?», quasi urlò Maggie, allarmata. 

Lo sguardo di Glenn gravitò da me a lei, poi tornò a me. I suoi occhi si riempirono di lacrime, mentre mi guardava con l'espressione stralunata, frastornata, confusa. Dispiegò le labbra e cercò di parlare, ma era talmente sconvolto che non uscì alcun suono. 

Maggie mi spinse gentilmente da un lato per prendere il viso di suo marito tra le mani. «Glenn, guardami», gli ordinò. Tremava anche lei.

Per qualche motivo, respirare iniziò a diventare difficile. C'era qualcosa che non andava. Qualcosa di tremendamente sbagliato, che mi gravò sul petto tutto in una volta. Ma cosa?

«Glenn, dimmi cos'è successo», disse ancora mia sorella, la voce rotta.

Glenn le prese le mani con le sue, imbrattate di sangue, e le abbassò, per potersi voltare nella mia direzione. Il suo sguardo perforò il mio con una disperazione straziante. Lasciò le mani di Maggie e, con un'ampia falcata, si parò di fronte a me.

Prima che potessi parlare, respirare o tapparmi le orecchie, mi strinse forte a sé. «Mi dispiace Beth, mi dispiace tanto», sussurrò, la voce rotta dal dolore.

La mia mano lasciò andare il bicchiere, che cadde sul pavimento e si frantumò in mille pezzi, assieme a una parte di me.

«Noah-», proferì, ma non gli lasciai completare la frase.

Sentii le mie braccia allontanarmi dal corpo di Glenn, le gambe cedermi e le mie ginocchia sostenere il peso del mio corpo; udii l'urlo straziante e le lacrime bruciarmi sulle guance; vidi Maggie afferrarmi le spalle e sostenermi come se fossi un pezzo di materia inanimata. Vidi tutto, come se guardassi me stessa dal di fuori del mio stesso corpo. Non era vero, non poteva esserlo. 

Noah è morto.
















| Angolo autrice |

Eeee iniziamo con le parti deprimenti, sigh.
Lo so che, essendo una fanfiction, una what if, avrei potuto decidere di salvare Noah, ma... No. Ho preferito che Beth vivesse questo dolore, in questo contesto. Perché capisse che non sempre tutto va bene come si pensa. Vi posso già dire che si sentirà in colpa, perché al posto di Noah ci doveva essere lei e, beh, non la prenderà bene. Ma ne parleremo al prossimo capitolo.
Non so quanto a voi piaccia Noah (a me piace, non è uno dei miei personaggi preferiti ma lo apprezzo!), ma spero che la parte triste sia stata ben compensata dalla luuunga parte pucciosa prima. Dato che nel capitolo 6 Daryl non si è praticamente visto, ho voluto rimediare a questo giro ;)  spero che le parti fluffose e sdolcinate vi siano piaciute! Ci volevano, dopo quel dannato finale di stagione. AAARGH, le sofferenze.

Ad ogni modo, niente, il capitolo è questo! Nonostante non sia successo nulla di che, mi ha divertito scriverlo, soprattutto perché è mooolto incentrato sui nostri piccioncini!
Ho fatto uno schizzo della parte in cui Beth e Daryl giocano con Judith, attenzione, rischio diabete:

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Ultima cosa! Sto traducendo una fanfiction molto conosciuta nel fandom Bethyl anglofono, 18 Miles Out!
Se vi va di darci una letta, la sto pubblicando in questo account: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=933022! (La aggiorno ogni venerdì!)

E niente, per oggi mi fermo qui perché mi si stanno incrociando gli occhi davanti allo schermo.
Grazie per le vostre letture, recensioni, seguite, preferite :) significa molto per me!
Un abbraccio, alla prossima!
Blakie

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Capitolo 8
*** Grief ***


And we'll be good 8

And we'll be good
capitolo 8

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Rimasi letteralmente paralizzata dal senso di colpa e dal dolore. Il tempo aveva smesso di avere un senso. Mi raggomitolai sul divano, guardando il vuoto, chiudendo il mondo fuori. Glenn e Maggie parlavano, ma la loro voce era lontanissima, mentre gli unici pensieri che ero in grado di produrre si rincorrevano in circolo nella mia testa.
Noah è morto.
Noah non c'è più.
Noah se n'è andato.
È stata colpa mia.
Se non mi avesse sostituito sarebbe ancora vivo.
L'ho ucciso.
Riuscivo a darmi la colpa nonostante Glenn mi avesse detto chiaramente che Noah era morto perché Nicholas aveva fatto il codardo. I miei occhi erano fissi sul suo volto, mentre mi metteva al corrente dell'accaduto, ma non vedevo nulla. Ero spenta. Sarei dovuta uscire da quella porta e avventarmi su Nicholas, prenderlo a pugni finché non mi fossi ritenuta soddisfatta, ma la rabbia che montava dentro di me non bruciava che per me stessa. Il rimorso mi aveva serrato le viscere in un nodo indissolubile. Non riuscivo a parlare, a piangere, a mangiare. La febbre mi si alzò un paio di volte, nell'insieme di quelle ore senza logica: furono gli unici momenti in cui riuscii a dormire un po'. Ma il sollievo e quel poco di pace provati mentre ero incosciente mi abbandonavano non appena riaprivo gli occhi nella vita reale. Quel nodo doloroso non si scioglieva.

«Beth, se domani stai meglio, organizziamo una commemorazione per Noah ed Aiden», mi informò ad un certo punto Maggie. Era piegata sulle ginocchia, di fronte a me - ancora abbandonata sul divano - e mi accarezzava il viso con dolcezza. 

La mia unica risposta fu un cenno debolissimo del capo. Maggie sospirò e si alzò, lasciandomi sola. Un funerale simbolico, perché Glenn e gli altri non erano riusciti a recuperare i corpi di Noah e Aiden, sbrindellati dai vaganti.
Arrivò il momento della funzione. Mia sorella mi aiutò ad alzarmi dal divano, a darmi una rinfrescata e a vestirmi. Mi trascinò sottobraccio fino al piccolo cimitero collocato vicino alle mura, dove i nomi dei miei amici scomparsi erano già stati aggiunti a quel memoriale di acciaio. La gente di Alexandria era riunita attorno a due croci che erano piantate su due fosse vuote. Io ero circondata dalla mia famiglia, di cui avvertivo gli sguardi preoccupati tutti su di me. 
La mia attenzione, però, era rivolta alla parte opposta alla mia. Osservai Deanna, devastata, accasciata contro Reg. Lo sguardo dell'uomo era colmo di dolore gravitava dalla croce di Aiden a quella di Noah. Il pensiero di quanto lui e il mio migliore amico si fossero avvicinati in quei mesi, per rendere Alexandria ancora più sicura, mi fece tremare il cuore. Reg aveva perso due figli, non uno solo. 
Accanto a Spencer che, come me, piangeva la perdita di un fratello, si trovava Nicholas. Se il mio sguardo fosse stato in grado di ucciderlo, quel bastardo si sarebbe accasciato al suolo in quel momento. Vederlo di persona fece esplodere l'odio che, fino a quel momento, avevo rivolto solo a me stessa. Incrociò la mia occhiata torva, abbassando lo sguardo immediatamente, come il verme che era. 
Tornai a fissare la croce di Noah, mentre la predica di padre Padre Gabriel era l'unico sottofondo a quel silenzio. Mi sfiorò il debole pensiero di dire qualcosa a Deanna, dirle che mi dispiaceva, ma non ne avevo la forza. Come potevo confortarla, se io per prima ero distrutta? 
Quando il funerale terminò,
mi diressi a casa mia, tra le deboli proteste di mia sorella. Quando entrai non mi tolsi nemmeno il vestito; ignorai Maggie, che mi aveva accompagnata, e mi trascinai su per le scale, infilandomi sotto le coperte, a luci spente e chiudendo il mondo fuori. Provò a convincermi a scendere, a mangiare qualcosa, a stare in compagnia con la nostra famiglia: non ne volli sapere. 
Non era difficile immaginare perché fosse così preoccupata per me e perché non volesse lasciarmi da sola: temeva che ricadessi nello stato catatonico che mi aveva colpita quando la mamma era uscita dal fienile come vagante. Temeva che volessi di nuovo farla finita. 
Beh, si sbagliava. Il rimorso era talmente opprimente che non avrei mai trovato la forza di suicidarmi: sarebbe stato come mancare di rispetto a Noah, che era morto per colpa mia. Sarebbe stato troppo facile rinunciare a tutto e liberarmi di quel dolore: dovevo sopravvivere e trascinarmi dietro quello sbaglio – e la sofferenza che ne conseguiva – per tutta una vita, perché era quello che mi meritavo.
 
Dentro di me, molto in profondità, sapevo che prima o poi sarei riuscita a rialzarmi, a scrollarmi di dosso quella apatia, ad affrontare il mio dolore e i miei rimorsi. Ma era ancora troppo presto per riuscire a reagire.
Nascondermi sotto le coperte, al buio, mi riempì di sollievo. Lì non dovevo fingere di poter sopportare tutto quello, non dovevo confessare quanto in colpa mi sentissi, non dovevo sostenere e affrontare lo sguardo angosciato di chi mi voleva bene. Potevo elaborare la cosa, o almeno provarci, a modo mio.
Le ore ripresero a dilatarsi in maniera sconnessa e lenta. Quando, non so quanto tempo dopo, scesi per bere un bicchiere d'acqua, trovai la cucina immersa nella penombra fredda del tramonto. Il piano di sotto era deserto e silenzioso: Maggie se n'era andata, e ne fui sollevata. Non aveva senso che restasse lì e io volevo stare da sola.
Portai con me una bottiglia d'acqua, mi imposi di indossare qualcosa di comodo e mi rintanai nuovamente sotto le coperte, persa nell'oblio della mia mente. Mi addormentai a più riprese, il mio sonno disturbato dall'incubo di Noah divorato in modi diversi. Quando non ero incosciente, tenevo gli occhi fissi su un punto imprecisato davanti a me, o li chiudevo, senza riposare. 
Molte ore dopo, Maggie bussò appena prima di entrare in camera mia, chiedendomi con dolcezza se volessi fare colazione. Aprii gli occhi e li fissai sulla finestra che, con gli scuri semi accostati, faceva filtrare la luce del mattino. Un'altra notte era passata.

«Ehi, Bethy», mi chiamò, sedendosi sul bordo della parte di materasso in cui mi ero rannicchiata. Non risposi.

Mia sorella sospirò, prendendo ad accarezzarmi la nuca con fare materno. «Beth, tesoro, parlami. Non tenerti tutto dentro. Io sono qui, per te, siamo tutti qui per te, lo sai questo?», domandò in un mormorio, guardandomi con lo sguardo pieno di tristezza. 

La guardai, senza muovermi di un centimetro. Mi sforzai in ogni modo di trovare la forza di parlare: non per raccontarle come mi sentivo, ma semplicemente per assicurarle che non doveva preoccuparsi, che mi sarebbe passata... Ma non ci riuscii. Non mi sentivo in grado di parlare, ma forse potevo trovare ugualmente un modo per risponderle, per farle capire che la sentivo e che avevo capito. Con lo sguardo ancora legato al suo, annuii. Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato, ma gli occhi erano pieni di sollievo. Mi accarezzò nuovamente, fermandosi poi con il palmo contro la mia guancia. Mi studiò per qualche istante, in silenzio.

«Beth, tu... non è come alla fattoria, vero?», mi chiese, cercando di non sembrare troppo in ansia. 

Il mio sguardo, senza che potessi controllarlo, corse al mio polso sinistro, che riposava sul cuscino: osservai la cicatrice rosea e chiarissima che era rimasta, là dove avevo usato un frammento di specchio per tentare farla finita. Scossi il capo, continuando a fissare la linea che mi segnava la pelle.

«Vuoi che rimanga al piano di sotto, così se hai bisogno sono più vicina?». Mia sorella aveva capito che riuscivo a comunicare solo tramite domande alle quali potevo annuire o negare, senza aprire bocca. 

Scossi nuovamente il capo. 

Lei si chinò verso di me, lasciandomi un bacio sulla tempia. «Quando vorrai parlarne, sai dove trovarmi», mi ricordò con dolcezza, alzandosi e allontanandosi da me. Aprì la porta e mi osservò per qualche istante, prima di andarsene. 

Sperai che rispettasse davvero il mio volere e che mi lasciasse sola. Non avevo bisogno d'altro. Dovevo capire come superare quel vuoto che sentivo, come convivere con il senso di colpa. Il dolore che mi portavo dentro era immenso, eppure non riuscivo nemmeno a sfogarlo con un pianto o qualche reazione che mi rimettesse finalmente in connessione col mondo esterno.
Per quell'aspetto, quello che stavo passando era simile all'apatia che mi aveva costretta sul mio vecchio letto, dopo la fine di mia madre. Questa volta, però, avevo altri motivi per vivere. Il primo fra tutti era proprio Noah. Sarei stata un'ingrata a farla finita dopo che lui era morto per avermi sostituita. Mi sarei rialzata e avrei difeso casa nostra, onorando la sua memoria. Dovevo solo capire come fare. Come smettere di incolparmi per la morte del mio migliore amico, come affrontare il dolore.
Riuscii a dormire un paio d'ore nel pomeriggio, andai in bagno e bevvi un po' d'acqua per mantenermi idratata. Era più facile fare certe cose, se nessuno mi guardava. Non mi sentivo ancora pronta ad affrontare la mia famiglia, non volevo che si concentrassero tutti su di me. Non mi sentivo pronta a condividere il mio dolore con loro. Nell'intimità e nella solitudine di casa mia, invece, mi sentivo più libera. "Riposare" così tanto, inoltre, mi aveva fatto passare del tutto l'influenza. Un altro giorno trascorse, finché la luce fuori dalla finestra non lasciò spazio ai colori della sera.
Mi ero appena rimessa a letto dopo aver mangiato un po' della frutta secca che tenevo in cucina, quando sentii dei rumori provenire dal piano di sotto: qualcuno stava bussando. Chiunque fosse, sperai ardentemente che desistette e se ne andasse. Quando iniziai a ragionare su chi potesse essere, sentii la porta aprirsi e richiudersi. Solitamente la chiudevo a chiave, ma, pensa com'ero, mi era proprio passato di mente.
Forse Maggie, passando di lì per qualche ragione, mi aveva vista in cucina. Magari aveva pensato che mi sentissi meglio, se avevo trovato la forza di alzarmi e mangiare. Non mi venne in mente nessun altro. Avvertii una specie di rabbia montarmi da dentro, pensando all'eventualità che mia sorella non avesse tenuto in considerazione ciò che le avevo detto. Non volevo parlare, non stavo meglio: che diavolo ci faceva in casa mia?
Sentii dei passi salire le scale: quel suono fu talmente angosciante, nel buio della mia camera che, per un secondo, venni sopraffatta dalla paura che potesse essere qualcuno con cattive intenzioni. Allungai una mano verso il coltello che, riposto nella sua fodera, troneggiava sul mio comodino: lo afferrai e lo nascosi sotto il cuscino, spinta da un'irrazionale paura.
Quando udii bussare anche sulla porta di camera mia, mi tranquillizzai: se fosse stato un malintenzionato, sarebbe entrato senza troppe cerimonie. Sospirai, sollevata, prima che il senso di fastidio tornasse alla carica.

«Vattene, Maggie», sbottai, con una voce che non sembrava nemmeno la mia. 

Tutto quel tempo passato nel mutismo aveva reso le mie corde vocali stanche. Il suono uscito dalle mie labbra risultò flebile e leggermente roco. 
Subito non ricevetti risposta. Notai solo il fascio di luce che proveniva dal vano della porta e che aveva appena rischiarato le ombre nella mia stanza. Poco dopo, tornò la penombra e udii la porta chiudersi piano. Alzai la testa dal cuscino, per allungare il collo oltre la coperta e accertarmi se Maggie se ne fosse andata. 
Riconobbi i suoi tratti anche nella semi-oscurità ed ebbi un tuffo al cuore: Daryl mi osservava, muto, in piedi vicino alla porta che aveva appena chiuso. 

«Sono io», rispose in tono basso, dicendo l'ovvio. 

Posai nuovamente la testa sul cuscino e mi tirai la coperta fin sopra i capelli. All'improvviso, venni travolta dal panico: che cosa ci faceva lì? Non volevo che mi vedesse in quelle condizioni, che mi guardasse, che mi parlasse. Mi vergognavo troppo di me stessa. Ero una ragazzina debole, come mi aveva sempre considerata lui; non volevo dargliene l'ennesima prova. Sarebbe stata un'umiliazione, farmi vedere in quello stato. Udii i suoi passi leggeri aggirare il mio letto e raggiungermi dal mio lato; sentivo la sua presenza al mio capezzale, nonostante ci fosse la coperta a dividermi da Daryl e il mondo esterno, come una barriera.

«Beth», mi chiamò, con la voce ferma e grave. Mi raggomitolai ancora di più su me stessa, e Daryl notò il mio movimento, perché, a quel punto, la sua voce mi arrivò più vicina. «Guardami, Beth», ritentò, e lo sentii afferrare il lembo di coperta sopra la mia testa. 

«No», mormorai, schiacciando il mento contro il petto e coprendomi il volto con le mani nello stesso momento in cui lui mi riportava la coperta sopra le spalle. 

Il vuoto dentro di me era talmente grande che non riuscii nemmeno a rendermi conto che Daryl era tornato dalla sua spedizione e che stava bene. Non provavo niente, niente che non fosse vergogna. 

«Vai via, Daryl», sussurrai, senza forze, il viso ancora nascosto tra le mie dita. 

«Puoi scordartelo, ragazzina», replicò, con voce un po' più alta. 

Forse sperava di suscitare la mia stizza, chiamandomi in quel modo. Credeva che sarebbe riuscito a farmi reagire, ma alla fine fu come se non avesse aperto bocca. Forse potevo fare lo stesso con lui. Se lo avessi fatto arrabbiare, probabilmente se ne sarebbe andato e mi avrebbe lasciata stare. Dovevo sforzarmi di rispondergli male. 

Aggrottai le sopracciglia e mi scoprii il volto, provando ad affilare lo sguardo come meglio potevo. «Non ho intenzione di suicidarmi, se è questo che temi anche tu. Chiaro? Perciò vattene, ora, e lasciami in pace», sputai flebilmente, guardandolo negli occhi. 

Daryl non batté ciglio, né si scompose. Si era seduto alla mia altezza, con la schiena contro il muro dietro di noi, un ginocchio alzato per sostenersi il braccio e il volto verso di me. Continuò a fissarmi coi suoi occhi illeggibili, che riuscivano ugualmente a risaltare nell'oscurità. Mi aspettai che si incazzasse, che mi insultasse, che se ne andasse, invece non fece nulla. Il suo sguardo che scavava nel mio mi spaventava a morte. Stava abbattendo ogni barriera che avevo alzato tra me e il resto, mi rendeva nuda e vulnerabile. Eppure, non riuscivo a guardare da un'altra parte.

«Vai via, Daryl. Vai via». Questa volta, dalle mie labbra, uscì una supplica. Avvertii un nodo chiudermi la gola; gli occhi, ancora fissi nei suoi, si inumidirono. 

Eccolo, il dolore che non ero ancora riuscita ad esternare. Mi si aprì nel petto tutto in una volta, espandendosi in ogni mia cellula, scacciando il vuoto e facendomi sentire tutto. E tutto questo perché c'era Daryl, a vegliare su di me. 

«D-Daryl», tentai ancora, ma il suo nome si spezzò in gola e si trasformò in un singhiozzo disperato. Il primo di tanti. 

Fece scivolare una mano sul materasso, lentamente, prendendo la mia. Sussultai, guardando prima le nostre mani intrecciate, poi lui. 

Era lì, con me. Per me. Fu quella, la consapevolezza che mi fece crollare.

Come mille altre volte, in sua presenza, mi sentii al sicuro. Protetta. Potevo finalmente piangere, affrontare il dolore, combattere il rimorso, se c'era lui al mio fianco. Il baratro in cui avevo rischiato di cadere... riuscivo finalmente a vederlo: era lì, a pochi passi da me, ma la mano salda di Daryl era stretta alla mia, per impedirmi di scivolarci dentro. Mi raggomitolai ancora di più, aggrappandomi alla sua mano con le mie, premendo la fronte contro il nostro groviglio di mani.
Scoppiai a piangere, con un singhiozzo che provocò una fitta dolorosa al petto. Fu straziante e liberatorio, in egual misura, sentire finalmente le lacrime bruciarmi sulle guance e bagnare il cuscino, i sussulti scuotermi il petto, la sofferenza scivolare in parte fuori da me e divenire più sostenibile, dentro al mio cuore. Daryl mi aveva salvata, ancora una volta. Era incredibile il fatto che non fossi riuscita ad aprirmi con mia sorella, così dolce e materna, ma ci riuscii con Daryl, che non era certo maestro di tatto. Forse, fu proprio la sua solidità a darmi la forza di sfogarmi, finalmente. Con lui non dovevo preoccuparmi di ricevere compassione o pietà: avrebbe compreso il mio dolore, mi sarebbe stato vicino, ma senza soffocarmi. 
Non disse una parola, continuò solo a tenermi la mano, senza allentare mai la presa. Quella crisi di pianto mi aveva totalmente stravolta: piansi per ore, finché non crollai, esausta, ancora aggrappata alla mano di Daryl. Col petto finalmente libero da quello strazio che mi aveva tormentata per giorni, riuscii a dormire profondamente. 
Mi risvegliai supina, un paio d'ore dopo. Superato l'annebbiamento iniziale, spalancai gli occhi e mi rizzai a sedere, allarmata. Mi guardai attorno, ritrovandomi immersa nel buio soffocante della mia camera. Abbassai lo sguardo sulla mia mano destra, libera dalla stretta di Daryl. L'uomo non era più al mio fianco, seduto per terra accanto al mio letto.  
Confusa, spostai lo sguardo alla finestra: là fuori era ancora buio, probabilmente era notte fonda. In effetti, Daryl era arrivato a casa mia piuttosto presto, non più tardi delle sette, otto di sera... Guardando meglio, però, notai che il vetro era aperto. Mi domandai come non riuscii ad accorgermene prima, visto che entrava l'aria fredda della notte. 
Rabbrividii e mi alzai, avvicinandomi alla finestra. Scorsi la sagoma di Daryl, bellamente accomodato su quella porzione di tetto e mi sentii subito sollevata: non se n'era andato. Prima che si accorgesse che mi ero svegliata, decisi di andare in bagno per darmi una rinfrescata al viso. Mi sentivo gli occhi pesti, secchi e l'acqua fredda in faccia non mi avrebbe fatto che bene. 
Quando uscii,
mi avvolsi nel plaid che tenevo sulla testiera del letto e mi affacciai alla finestra.
Eravamo circondati dal silenzio della notte e, nonostante la situazione, essere lì assieme a Daryl mi faceva sentire più serena. Almeno un po'.

Mi schiarii la voce, sperando che non uscisse troppo impastata. «Cosa ci fai qua fuori?», gli domandai in un sussurro, per non rovinare quell'atmosfera. 

Lui non sobbalzò, né si voltò, anche se di sicuro mi aveva sentita. Rimase semplicemente a fissare il vuoto davanti a sé, mentre io attendevo con ansia che volgesse la sua attenzione a me. A dirla tutta, mi intimidiva incontrare il suo sguardo, ora che ero più lucida: mi aveva vista crollare e ci eravamo tenuti per mano, a lungo. Non sapevo cosa pensasse di tutta quella storia e mi intimoriva l'idea di scoprirlo. Di nuovo quella irrazionale paura di non essere abbastanza forte ai suoi occhi. 

Si voltò lentamente verso di me e si strinse nelle spalle. «Avevo il culo piazzato sul tuo pavimento da qualcosa come quattro ore. Dovevo sgranchirmi».

Mi scappò un sorriso, senza che potessi farci nulla, e la cosa mi sorprese: era la prima volta, da quando avevo perso il mio migliore amico, che mi veniva spontaneo sorridere. Era sincero, inaspettato e non serviva certo a rassicurare la persona con cui stavo parlando. Senti il cuore accelerare il suo battito, sempre più meravigliata da quello che Daryl era in grado di fare per me, senza nemmeno rendersene conto.
Facendo attenzione, scavalcai il davanzale, sistemando meglio la coperta in modo che non mi fosse di intralcio, e strisciai lentamente affianco a lui. Mi resi subito conto che il tetto, in quel punto, era abbastanza piano; sarebbe stato possibile scivolare di sotto solo se l'avessi voluto. 

«Vai dentro, se hai freddo», mi redarguì Daryl, continuando a guardare un punto imprecisato davanti a sé.

«No, sto bene», lo rassicurai, stringendo di più la coperta attorno al mio corpo. 

Rimanemmo in silenzio per un po', immersi nel buio e nella frescura notturna. Daryl finì di fumare la sua sigaretta e la lanciò nel vuoto, con un rapido movimento del braccio. Io continuavo a stare in silenzio, a capo chino, persa nei miei pensieri. Per la prima volta, dopo giorni, riuscii a pensare a qualcosa di diverso dai miei sensi di colpa, dalla mia sofferenza e da Noah. Mi stavo domandando perché Daryl fosse rimasto e non se ne fosse semplicemente andato una volta accertatosi che mi ero addormentata. Avrei voluto chiederglielo, ma non volevo tirare fuori un argomento che, di sicuro, lo avrebbe messo a disagio. Qualsiasi fosse stata la sua motivazione, sapevo che difficilmente ne sarei stata messa al corrente.
La cosa più sorprendente, in realtà, fu l'incredibile e improvviso bisogno di parlargli di come mi sentivo. Uno strano formicolio mi corse lungo le braccia e le mani, mentre avvertivo dentro di me una strana agitazione. Non potevo più tacere a riguardo, o sarei crollata. Inoltre, mi sentivo in dovere di giustificare il mio comportamento degli ultimi tre giorni: volevo fargli capire che i miei non erano i capricci di una ragazzina incapace di accettare che esiste anche la morte. 
Il mio era il dolore paralizzante di chi si sentiva responsabile. E chi, meglio di Daryl - che si era incolpato persino per la caduta della prigione e per la morte di mio padre - poteva capirmi? 

«È stata colpa mia», confessai, in un sussurro. Senza rendermene conto, mi avvicinai di più a lui. Ormai le nostre spalle si toccavano. 

Lo sentii voltarsi verso di me e guardarmi. «Cosa?», domandò Daryl, in tono basso.

«Noah». Pronunciare il suo nome mi provocò una fitta al cuore. Non lo avrei rivisto mai più; cielo, non lo avrei rivisto davvero più.

«Non dire cazzate, Beth», ribatté.

«È la verità», protestai stancamente.

«No, non è la verità. Glenn mi ha raccontato la verità: è stata tutta colpa di quel figlio di puttana», ribatté, riferendosi a Nicholas, «e di nessun altro».

«Noah ha preso il mio posto», ribattei con più energia, voltandomi verso di lui. «Sarebbe ancora vivo, se non avesse partecipato a quella spedizione».

Daryl mi osservò qualche istante, con la sua espressione seria e imperscrutabile. «Questo discorso non ha senso», sentenziò, infine.

Rimasi in silenzio, senza rispondere subito. Osservai il suo profilo, i capelli appena mossi dal vento e lo sguardo saldo. Mi sentii stupida per aver temuto la sua reazione di fronte al mio crollo. Daryl non spiccava per delicatezza, ma non era insensibile quanto voleva far credere. Meditai sulle sue parole: anche se potevano sembrare una conclusione affrettata, detta tanto per tirarsi fuori dalla conversazione, mi resi conto che non era così. A mente fredda, mi rendevo conto anche io che sarei potuta andare avanti all'infinito, controbattere a qualsiasi cosa mi avesse detto, ma non sarebbe servito. La realtà era quella e discuterne, provando a cambiarla, non avrebbe modificato o cancellato ciò che era successo. 
Di chiunque fosse stata la colpa, Noah ed Aiden erano morti. 

«Lo so», annuii dopo un po', stringendomi nel plaid, «So che non posso incolparmi per essermi ammalata. So che, se Nicholas non avesse fatto il vigliacco, probabilmente non sarebbe successo. So che Noah ha fatto il suo dovere, come tutti noi. So che, come tutti noi, conosceva i rischi che comporta lasciare le mura. So tutte queste cose, eppure...», mi interruppi, mentre la gola mi si stringeva in un nodo doloroso e gli occhi mi si riempivano di lacrime. «Eppure non riesco a smettere di pensare che, se fossi andata io al suo posto, lui sarebbe ancora vivo». Le parole si spensero in un sussurro, mentre una lacrima mi rigava la guancia. Abbassai lo sguardo per nascondermi da Daryl e l'asciugai in fretta, raccogliendo le ginocchia al petto. Il silenzio calò nuovamente, finché non venne spezzato

«Beth, è andata come doveva andare. Non farti del male addossandoti colpe che non hai», disse, con un tono gentile che non gli avevo mai sentito usare.

Alzai il viso e incontrai i suoi occhi, che mi guardavano come se volessero scavarmi dentro. Come se cercassero nuovamente il modo di tenermi aggrappata a lui, per non lasciarmi cadere. Era convinto di quello che mi stava dicendo, ci credeva davvero. Anche se in una maniera piuttosto contorta, mi aveva detto che non voleva che soffrissi. Avrebbe potuto riempirmi di attenzioni, di parole, di incoraggiamenti, ma mi bastava guardarlo negli occhi per avere tutto quello, tutto insieme. Perdendomi nel suo sguardo, le paure mi davano fiato e il dolore si allentava. Spesso io e Daryl eravamo lontani fisicamente, ma con nessun'altra persona che non fosse parte della famiglia, mi ero sentita tanto vicina; e poco importava che ci toccassimo appena. Non avrei scambiato ciò che provavo e che mi legava a Daryl con nient'altro al mondo.
Quando un nuovo singhiozzo scosse il mio petto, mi sbilanciai appena verso di lui, appoggiando il capo nell'incavo della sua spalla. Subito lo sentii irrigidirsi, mentre gli sfioravo la pelle del collo con la  mia fronte. Avevo solo bisogno di sentirlo vicino a me e inspirare il suo odore forte e avvolgente; non mi importava che non fosse espansivo, che non usasse troppe parole o gesti affettuosi. 
Le lacrime continuavano a scivolare sulle mie guance, ma era un pianto più silenzioso e composto rispetto a prima. Non ero più offuscata dal dolore, ma ero consapevole di quello che era successo alla persona per cui stavo versando quelle lacrime. Stavo finalmente facendo spazio alla sofferenza, accettandola, rendendola parte di me.
Quando il mio corpo fu scosso da un brivido di freddo, mi accorsi che la coperta, vista la mia postura sbilanciata verso destra, mi aveva lasciato una spalla scoperta. Non feci in tempo a sistemarla, che Daryl afferrò quel lembo di plaid, me lo risistemò addosso e usò quel gesto come scusa per stringermi un po' di più a sé. Sorrisi tra me e me, facendomi ancora più vicina a lui. 

«Hai freddo?», bisbigliai, in un confuso tentativo di offrirgli una parte di coperta.

«No», rispose, ma la sua voce mi sembrò più roca e il suo respiro più irregolare del normale. 

«Neanche io», dissi, prima di voltarmi nuovamente col viso verso il suo collo. 

Avrei voluto fermare il tempo e restare così per sempre, in quell'istante solo nostro e lontani da tutto. Se ne avessi avuto il coraggio, avrei posato le labbra sulla sua pelle, gli avrei parlato a cuore aperto, gli avrei chiesto perché era rimasto con me. Gli avrei chiesto quali sentimenti si nascondevano dietro a tanti suoi gesti che non avevo compreso chiaramente, ma per il momento andava bene così. Volevo aspettare di essere più lucida, se mai avessi desiderato affrontare quell'argomento che avevo sempre cercato di evitare. Avrei messo le carte in tavola un'altra volta. 
L'abbraccio di Daryl era così caldo e accogliente che, ad un certo punto, nonostante la temperatura non proprio favorevole, mi appisolai. Quando se ne accorse, mi riscosse appena e mi disse di andare a dormire. Leggermente insonnolita, mi allontanai da lui e mi stropicciai gli occhi, attenta a mantenermi in equilibrio sul tetto. Mi aiutò a scavalcare il davanzale e rientrò in camera mia dopo di me. Richiusi la finestra e ci ritrovammo l'uno di fronte all'altra, a fissarci in silenzio nella penombra della mia stanza. Sentivo che avrei dovuto dire qualcosa, ma non trovavo le parole e non riuscivo a capire perché. Per quanto avessi voluto ringraziarlo, dalla mia bocca non uscì un suono. Mi limitai semplicemente a sostenere il suo sguardo.

«Sarà meglio che vada», proferì Daryl, interrompendo il silenzio. 

Avvertii il mio cuore sussultare e un opprimente senso di vuoto aprirsi nel mio stomaco: no, non volevo che se ne andasse. Se lo avesse fatto, gli incubi avrebbero preso di nuovo il sopravvento e il senso di colpa mi avrebbe nuovamente impedito di dormire. O di svegliarmi e scendere dal letto la mattina seguente. L'alba doveva ancora arrivare e non ce l'avrei fatta ad affrontarla senza Daryl al mio fianco. Promisi a me stessa che quella sarebbe stata l'ultima notte di apatia: mi sarei rialzata assieme al nuovo giorno, ma avrei avuto bisogno di lui, per farlo. Era un pensiero del tutto irrazionale, lo sapevo bene, ma non potevo fare a meno di volere l'arciere con me. 

«No!», proruppi, sentendomi subito in imbarazzo, davanti alla sua occhiata perplessa. Presi un respiro profondo e cercai di controllare i battiti impazziti del mio cuore. «Resta con me», sussurrai.

«Beth...», cercò di protestare lui. 

«Ti prego. Solo per stanotte», bisbigliai, imponendo a me stessa di sostenere il suo sguardo.

Rimanemmo in silenzio, lasciando che fossero soltanto i nostri occhi a comunicare. Come sempre. Dopo un tempo che a me parve infinito, Daryl sospirò, pesantemente; non so cosa lesse nella mia espressione, ma lo convinse. Borbottò un «che seccatura» e mi superò, tornando a sedersi dove si era sistemato per tutte quelle ore, per terra accanto al mio letto. Io lo guardai, e rimasi immobile dov'ero. Non era proprio quello che intendevo...

«Cosa c'è adesso?», berciò, spazientito.

Deglutii, prima di trovare il coraggio di parlare. «Sei scomodo, seduto lì».

«Sei tu che mi vuoi qua», mi fece presente in modo ostile, allungando le gambe e incrociando le braccia al petto. 

«Non voglio che stai per terra. Ci sei stato anche troppo», temporeggiai, in difficoltà.

«Cristo, Beth, deciditi. O ti metti a dormire, o me ne posso anche--».

«Puoi dormire nel letto, con me», lo interruppi, tutto d'un fiato. Non potevo credere di averglielo proposto davvero. Nemmeno Daryl riusciva a capacitarsene, vista la sua espressione: mi guardava, gli occhi spalancati e le spalle rigide. Nonostante la penombra, notai che stava stringendo un pugno. 

«Non se ne parla, Beth», affermò, con asprezza. 

Aggrottai le sopracciglia. «Perché? Cosa ci sarebbe di male?», replicai, ritrovando un po' di sicurezza.  

«Non posso dormire con te».

Incrociai le braccia al petto, irritata. «Abbiamo già dormito insieme, quando siamo scappati dalla prigione», gli ricordai.

«Non è la stessa cosa», obiettò, con la sua espressione illeggibile. Era nervoso, quasi imbarazzato, e quello non poté nasconderlo. Il suo corpo parlava per lui, non servivano i suoi occhi per capirlo. Pensai che dietro al suo rifiuto, ci fosse lo stesso motivo che lo aveva spinto a rimanere con me; a tenermi la mano; a tornare da me a scusarsi, quella sera in cui avevamo litigato e io mi ero ubriacata; a tutti quei gesti che volevano allontanarmi, ma che avevano sortito l'effetto opposto.
Daryl si sentiva così a disagio all'idea di dormire con me, la rifiutava così fermamente, perché... forse perché non gli ero indifferente. Avrei potuto credere che fosse perché non mi sopportava, ma, in quel caso, non si sarebbe preso la briga di venire fino a casa mia, di sostenermi durante il mio crollo, di rimanere anche dopo. Ci teneva a me. Forse Noah non aveva avuto tutti i torti, tutte le volte che, dietro a una battuta, aveva nascosto la convinzione che l'arciere provasse qualcosa per me. Sarei potuta andare avanti con quel botta e risposta, chiedergli spiegazioni, ma ero stanca, e avevo solo bisogno di sentirlo vicino a me. 

«Ti prego, Daryl», ritentai, addolcendo il tono e abbandonando il tono di sfida. «Mi basta che rimani finché non mi addormento, poi puoi anche andartene», negoziai, incurvando le spalle. 

Lui grugnì e alzò gli occhi al cielo, rimettendosi in piedi con fare svogliato. «Forse sarei dovuto andarmene quando me l'hai chiesto», borbottò, cercando di sgranchirsi il collo. Sentii un sorriso enorme aprirsi sulle mie labbra e il cuore aumentare il suo ritmo. Sarebbe rimasto con me; qualsiasi incubo mi avesse tormentata quella notte - o quello che ne rimaneva, non sapevo più che ore fossero - Daryl ci sarebbe stato. Non avrei affrontato l'arrivo del mattino da sola. Leggermente imbarazzata, mi avvicinai al bordo del letto dove dormivo di solito e mi sedetti, lanciando il plaid in fondo al letto. Evitai di guardare Daryl, mentre si toglieva gli scarponi e si buttava senza grazia sul materasso, facendomi rimbalzare appena. Mi sistemai sotto le coperte, supina, fissando lo sguardo al soffitto. Gli lanciai un'occhiata veloce, notando che era rimasto sopra le coperte e seduto, con la schiena appoggiata alla testiera del letto.

«Se hai freddo--», iniziai, ma lui mi interruppe.

«Dormi», mi ordinò, incrociando le braccia al petto. 

Cercai il suo sguardo nel buio, per lanciargli un'occhiataccia, ma sembrò non notarla nemmeno. Appoggiò la nuca alla testiera e chiuse gli occhi, inspirando profondamente. 

Io tornai a fissare il soffitto, la mente completamente sgombra per la prima volta dopo giorni. Sentivo una strana frenesia percorrermi da capo a piedi, che mi impediva di abbassare le palpebre e cercare il sonno. L'unica cosa a cui riuscivo a prestare attenzione era il calore del suo corpo vicino al mio, al suo respiro regolare che era l'unico rumore nel silenzio della notte. Era insopportabile l'idea di averlo così vicino a me, di essere da soli e non poterlo stringere. I sentimenti che provavo nei suoi confronti stavano iniziando a crescere in maniera ingestibile, non avrei potuto fare finta di niente ancora a lungo. Specialmente perché una piccola parte di me era convinta che Daryl sapesse, ma che avrebbe cercato in tutti modi di evitare l'argomento. 
Volsi lo sguardo a lui, attenta a non farmi scoprire: aveva ancora gli occhi chiusi e dentro di me ne gioii, così avrei potuto osservarlo. Osservai il suo profilo, la linea del suo mento, la frangia che gli copriva gli occhi, i muscoli delle braccia che risaltavano. Dio solo sa quanto avrei voluto toccarlo. Trattenendo il respiro e cercando di muovermi senza farlo tornare vigile, mi avvicinai a lui. Mascherai il movimento fingendo di sistemarmi meglio sul materasso, sperando che non si accorgesse di quanto fossero ora vicini i nostri corpi. Quando fui certa del fatto che avesse ancora le palpebre serrate, mi feci ancora più vicina. Aspettai qualche secondo per trovare il coraggio e, ignorando il cuore che mi batteva all'impazzata nel petto, mi raggomitolai contro Daryl, sprofondando col volto nel suo fianco. Lo sentii irrigidirsi subito.

«Beth», mi ammonì, ma con meno energia di prima.

Io non dissi nulla: chiusi semplicemente gli occhi, ignorando la sua protesta. Sorprendentemente, non insisté, né mi allontanò: rimase fermo, lasciandomi accoccolata a lui. Avrei voluto vedere l'espressione che aleggiava sul suo volto, ma non ero intenzionata a muovermi nemmeno di un centimetro. Con il calore di Daryl attorno a me, ben presto mi rilassai e il sonno mi trascinò dolcemente a sé. Non ebbi incubi, né mi agitai durante quel che rimaneva di quella lunga notte. 

Aprii gli occhi nel chiarore del primo mattino: per la prima volta dopo giorni, non fu un senso di oppressione al petto, la prima cosa che avvertii appena sveglia, ma il calore di Daryl ancora accanto a me. Il suo braccio, che mi offriva protezione, posato delicatamente sulla mia schiena. 

Non se n'era andato.
















| Nota autrice |

Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che è arrivato dopo due mesi dall'ultimo e che ho fatto una fatica immane a scriverlo. E che è più corto del solito.  In realtà, non sono nemmeno troppo soddisfatta del risultato, ma non credo di riuscire a fare di meglio, in un periodo come questo. Sono distratta, bloccata e piena di cose da fare. La mia allegria è pari a quella di Daryl, tanto per intenderci, ahahah.
Sì lo so, capitolo triste e super deprimente, ma almeno abbiamo una piccola svolta tra 'sti due. All'inizio avevo scritto una cosa un po' diversa, poi ho perso il capitolo, l'ho riscritto ed è uscito così. Avevo in mente più dialogo tra i due, specialmente circa i sensi di colpa di Beth. Ma come sempre, ho pensato di optare per qualcosa di più breve e diretto, in pieno stile Dixon (o almeno, ce se prova). Spero vi piaccia! Qualsiasi cosa ne pensiate, specialmente se negativa, per favore, ditemelo. Perché ho notato che non ricevo più molto feedback e il primo pensiero che mi viene è di aver sbagliato qualcosa (sono un'insicura cronica). Quindi, davvero, se secondo voi c'è qualcosa che non va non fatevi problemi a dirmelo; ci tengo molto a questa storia e, se vi sono errori, vorrei rimediarvi o comunque tornare sulla retta via con la narrazione. Scusate il momento lagnoso ahahahah
Ringrazio chi segue questa storia, chi l'ha messa tra le preferite e ricordate; anche chi legge soltanto :)
E nulla, sperando che la sessione estiva non mi risucchi di ogni energia, ci sentiamo - presto - al prossimo aggiornamento.
Un abbraccio,
Blakie

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Capitolo 9
*** Healing ***


And we'll be good

capitolo 9

 

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(Daryl)


Quando vidi Beth respirare più regolarmente e profondamente, capii che si era addormentata. Nella penombra, osservai i tratti rilassati del suo viso e le ciocche sottili dei capelli che le ricadevano sulla fronte e sulle guance. Era serena e rilassata per la prima volta da quando, quella sera, ero entrato in casa sua. Non potevo dire lo stesso di me. Io non ero rilassato, affatto. Sentivo la voglia irrefrenabile di scappare, eppure non riuscivo a muovermi. E non solo perché la sua fronte era appoggiata contro di me - sembrava dormire così profondamente che, anche se mi fossi mosso, non l'avrei svegliata - ma perché il mio corpo tutto mi impediva di farlo. Di andarmene, di mettere nuovamente dei paletti tra lei e me. Tutte le volte che cedevo e mi avvicinavo, ero sempre meno in grado di allontanarla nuovamente, dopo. Il desiderio di starle vicino era diventato più forte della volontà di distaccarmene e mi sentivo uno schifoso egoista, per questo.
Nelle settimane che avevo passato ad insegnarle come usare le armi, non avevo potuto non accorgermi di come mi guardava; di come la sua voce tremava quando mi mettevo alle sue spalle per correggere la postura delle braccia, di come il suo corpo si irrigidiva alla vicinanza col mio; dei sorrisi luminosi che mi rivolgeva di mattina non appena mi trovava davanti alla porta di casa sua; di tutte le attenzioni che mi riservava. Subito avevo detto a me stesso che, cazzo, lei è dannatamente gentile e sorridente con tutti, sempre; ma non potevo illudermi che fosse quella la verità. Non quando ero cosciente di tutto quello che avevamo passato insieme e di come era cambiato l'atteggiamento di Beth nei miei confronti. Lo avevo capito, così come mi ero reso conto di essere finito in un grande casino. Beth provava qualcosa per me, quindi era anche lei in un grande casino.
Incasinati entrambi, fino al collo. E io avevo ancora paura ad ammettere chiaramente con me stesso che c'era un motivo, se ricambiavo i suoi sguardi; se la mia voce diventava più roca, quando le correggevo la postura e avevo le labbra vicine al suo orecchio; se i suoi sorrisi alla mattina mi smuovevano qualcosa al centro del petto; se le sue attenzioni stavano diventando una necessità.
Le missioni con Aaron, da una parte, mi davano un po' di respiro da quei pensieri contorti e contrastanti. Là fuori dovevo tenermi sempre concentrato sulla sopravvivenza e compiere gesti meccanici - freccia, colpo, ricarica - senza arrovellarmi troppo. Ma quando la notte arrivava e il lieve russare di Aaron faceva da sottofondo al mio turno di guardia, avevo tutto il tempo del mondo per pensare. Subito dopo essermi chiesto come se la stessero passando ad Alexandria, il volto di Beth si accendeva nella mia mente e spazzava via tutto il resto. Era andata in missione con quei bambocci? Le era successo qualcosa? Stava bene? O era rimasta al sicuro tra le mura? Non potevo fare a meno di pensarci, dandomi del coglione per il fatto di non essere nemmeno più in grado di controllare quello che mi passava per la testa.
Avrei potuto allontanarla in ogni modo, ma in ogni modo sarebbe riuscita a rientrare con prepotenza nella mia vita e nella mia testa. Così era Beth e, probabilmente, non riusciva a rendersene pienamente conto. Non riusciva a capire fino in fondo la sua capacità di ottenere quello che voleva, non era in grado di comprendere il potere che aveva su di me. Beth era troppo buona per manipolare volutamente qualcuno: infatti bastavano i suoi occhi così puri, il suo maledetto candore e i suoi modi gentili per fare tutto il lavoro sporco al posto suo. E io ci ero caduto come l'ultimo degli allocchi, neanche fossi un adolescente in calore. 

Merda, merda, merda.

Persino il suo dolore, ora, era in grado di farmi restare. Sollevai il palmo della mano che aveva stretto la sua per tutte quelle ore e lo osservai. Beth non era più la ragazzina debole che avevo conosciuto alla fattoria, ma, nonostante il suo notevole cambiamento, non era ancora in grado di sopportare il peso di un lutto. Anche se, probabilmente, tutta quella storia l'avrebbe presa diversamente, se Noah non l'avesse sostituita. Mi seccava ammetterlo, ma nel dolore di Beth e nel suo profondo senso di colpa, avevo visto una parte di me. Io stesso mi ero addossato la responsabilità di quello che era successo alla prigione e, ancora peggio, a suo padre. Davanti a quella baracca fatiscente, era stata lei a farsi carico dei miei sensi di colpa. Forse eravamo più simili di quantocredessi, anche se ammetterlo non aiutava certo ad allontanarmi da lei. Anzi. Non permisi che il pensiero che lei avrebbe potuto trovarsi al posto di Noah si facesse troppo vivido nella mia testa. Non riuscivo nemmeno a pensarci e mi sarei sentito un pezzo di merda a decidere chi avrei preferito che morisse tra lei e lui. Nessuno si sarebbe meritato di morire, forse solo quello stronzo di Nicholas. Prima o poi, gliel'avrei fatta pagare, in un modo o nell'altro. 
Come se i miei tormenti interiori stessero toccando anche lei, Beth si agitò appena di fianco a me, facendo aderire ancora di più la fronte contro il mio fianco. Non l'avevo mai avuta così vicina, prima di allora. Il suo corpicino era caldo, accanto a me e il suo torso si alzava e abbassava regolarmente. La mano che tenevo ancora alzata, lentamente, andò a posarsi sulla sua schiena incurvata dalla sua posizione raggomitolata; il mio braccio la circondò, come a volerla proteggere da quello che aveva passato in quei giorni.
Mi sarei ucciso pur di non ammetterlo ad alta voce, ma, nella mia testa - seppur con riluttanza - potevo affrontare la realtà: ormai, tutto quello che succedeva a Beth, tutto quello che la feriva, tutto quello che provava, si rifletteva in me come in uno specchio, condizionandomi.

L'ho già detto "merda"?
Merda.


 
...


 
(Beth)


È rimasto. È rimasto qui, con me.

Non riuscivo a pensare ad altro, tanta era l'incredulità e la gioia di svegliarmi accanto a lui. Ed era un passo avanti, rispetto alle mattine precedenti in cui il dolore per la perdita di Noah e il senso di colpa mi avevano investita non appena aperti gli occhi. Per quanto l'emozione mi facesse battere il cuore e avvertissi una strana frenesia pizzicarmi nelle vene, mi imposi di rimanere immobile. Non volevo, per nessuna ragione al mondo, rischiare di svegliarlo. Non volevo che il suo braccio lasciasse la mia schiena, non ancora. Daryl non mi aveva mai degnato di un gesto così affettuoso, prima d'ora. Non di sua spontanea volontà: di sicuro, doveva aver simulato quella specie di abbraccio mentre dormivo. Non avrebbe mai avuto il coraggio, o la voglia, di farlo con me cosciente, perché così era l'arciere. Pensare che, di sua iniziativa, aveva deciso di compiere quel gesto - poco importava che l'avesse fatto di nascosto - accelerò ulteriormente il ritmo del mio cuore.
Lentamente, cercando di non muovermi troppo e di non fare rumore, alzai lo sguardo per cercare il suo viso. I suoi tratti erano rilassati, mentre era ancora addormentato. Avrei fatto qualsiasi cosa per fare in modo che provasse quella serenità anche da sveglio. Gli dovevo così tanto. Non mi aveva solo protetta, non si era limitato a salvarmi la vita: mi era stato vicino nel modo in cui ne avevo bisogno, senza sguardi di compassione o accondiscendenza. Trattandomi come una persona normale che stava provando emozioni destabilizzanti che, troppo spesso, in passato, avevano rabbuiato il cuore di Daryl. Lui mi aveva capita.
Avrei fatto qualsiasi cosa anche per potermi stringere a lui senza la paura di svegliarlo o di essere respinta, come se fosse una cosa normale nel nostro rapporto. Come se avessi il diritto di farlo ogni volta che lo desideravo. Ugualmente, ero grata per quel risveglio, per il suo corpo caldo accanto al mio, per il suo respiro profondo e regolare e la sua mano posata su di me. Sarei rimasta così per sempre, col cuore ebbro di gioia e l'animo così leggero.
Qualsiasi cosa avessi dovuto affrontare quella giornata, il giorno dopo e tutti quelli a seguire, non avrei avuto paura.
Qualsiasi pensiero doloroso mi avesse colta all'improvviso, che si trattasse di persone che avevo perso da poco o da tanto, non avrei avuto paura.
Quasiasi senso di colpa mi avesse bloccata e fatto dubitare di me stessa, non avrei avuto paura.
E, se mai l'avessi avuta, mi sarebbe bastato ricordarmi del volto di Daryl e della sua presenza discreta ma rassicurante accanto a me, per tranquillizzarmi.

Nulla poteva farmi davvero paura, con Daryl Dixon al mio fianco.

Compresi che stava iniziando a svegliarsi quando lasciò andare un sospiro pesante e le palpebre iniziarono a tremolargli. Si mosse appena, mentre io continuavo ad osservarlo. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui, non riuscivo ad allontanarmi dal suo calore. La sua mano rimase salda su di me. A fatica, sbatté le palpebre un paio di volte, prima di aprire gli occhi davanti a sé. Dopo aver lasciato vagare lo sguardo perso e assonnato per qualche secondo, focalizzò la propria attenzione su di me. I nostri occhi si incrociarono: io non mi mossi e lui continuò a cingermi col braccio. Ci guardammo, osservammo, studiammo per diversi momenti - o almeno, così mi sembrò. Le sue iridi cobalto erano un mare di quiete, seppur non del tutto leggibile; non riuscivo a immaginare che espressione potessi avere io in quel momento.
Avrei voluto dire qualcosa, ma temevo di far scoppiare la strana bolla nella quale i nostri sguardi ci avevano racchiusi. Parlare avrebbe significato mettere fine a tutto quello, tornare alla vita normale e rischiare di vedere Daryl allontanarsi nuovamente. Avrei tanto voluto sapere cosa gli stesse passando per la testa, ma era una battaglia persa cercare di capirlo o fargli ammettere quello che pensava. 

«Ho qualcosa in faccia?», borbottò Daryl infastidito, spezzando il silenzio.

Il suo prendere l'iniziativa mi colse totalmente impreparata. «N-No», balbettai, scuotendo la testa.

«Allora piantala di fissarmi», ordinò con tono piatto, alzando lo sguardo verso il soffitto.

Perché mi trattava così ma non mostrava la minima intenzione di allontanarsi da me?

Io mi accucciai contro di lui, distogliendo lo sguardo senza dire niente; la sua mano e il suo braccio erano ancora appoggiati sulla mia schiena, con delicatezza. Il modo in cui si comportava era strano, era nuovo. Non aveva mai fatto così, prima di allora. Era bastato quello che era successo la notte prima - nulla di rilevante, in fin dei conti - a cambiare tutto? A cambiare i suoi comportamenti nei miei confronti? Subito mi imposi di tenere i piedi per terra, ma era difficile controllare il turbinio di emozioni e fantasie che mi stavano facendo tremare il cuore.
Avevo paura anche solo a pensarlo, ma, forse, avevamo compiuto un passo avanti. E questa volta davvero.

«Daryl», lo chiamai e, per la prima volta, in una situazione del genere, non mi fu necessario prendere un respiro profondo prima di parlare. Però non lo guardai in viso, rimasi dov'ero.

«Mh?».

«So che sarò ripetitiva e scontata, ma... grazie. Stamattina non mi sarebbe tornata la forza di alzarmi da questo letto, se tu non mi fossi stato vicino. Ti devo tantissimo», affermai con gratitudine, piano.

«Non ti sei ancora alzata», mi fece notare.

Non capii se mi sentivo più indignata per il fatto che avesse ignorato i miei ringrazianmenti, o più divertita dal suo irriducibile sarcasmo.

Mi alzai di scatto issandomi sui gomiti, voltandomi verso di lui per rivolgergli un'occhiataccia. «Un "prego" sarebbe bastato», sbottai, cercando di non ridere. 

Lui alzò gli occhi al cielo, sbuffò e si tirò su a sedere, finendomi di fianco. «Ti è tornata pure la forza di rompere i coglioni», si lamentò, puntando l'indice contro la mia fronte e spingendo per punzecchiarmi.

«Ehi!», esclamai, colpendolo al braccio in un gesto automatico.

Fu come se non l'avessi nemmeno toccato. Mi ignorò nuovamente, dandomi le spalle per infilarsi gli scarponi che aveva lasciato dal suo lato del letto. Osservai il suo gilet con le ali d'angelo, sempre più convinta che fosse stato fatto apposta per lui. Perché quello era Daryl, per me. 
Cercai di scacciare quei pensieri oltremodo diabetici e uscii anche io dalla coltre di coperte, lasciandomi scappare un brivido di freddo una volta uscita da quel giaciglio caldo. Mi infilai le pantofole e legai i capelli nella mia solita coda, mentre sentivo il materasso appiattirsi una volta privato del peso di Daryl.
«Da quanto non mangi?», domandò all'improvviso, severo.

Io mi voltai a guardarlo, imbarazzata. «Da ieri».

Alzò gli occhi al cielo. «Come si deve, intendo. Tua sorella mi ha detto che hai fatto lo sciopero della fame».

Maledii mentalmente Maggie. «Mia sorella è la solita esagerata. Avevo poco appetito, tutto qui. Ho mangiato», mi giustificai. 

«Perfetto, allora vestiti: vieni a fare colazione con gli altri», ordinò, imperativo, aprendo la porta di camera mia. Aggiunse persino un piccolo cenno col capo, tanto per essere più eloquente. 
 
Anche se Maggie mi aveva rassicurata dicendo che tutta la mia famiglia era lì per me, mi sentii molto in imbarazzo all'idea di tornare tra loro. Razionalmente, sapevo che si trattava di una paranoia infondata: non mi avrebbero mai giudicata per non essere stata in grado di gestire lucidamente la perdita di Noah, né mi avrebbero rimproverata di essermi isolata totalmente per tre giorni. Eppure, l'entusiasmo che avevo provato fino a poco prima si spense. Sentii le spalle abbassarsi e il capo chinarsi da un lato.

«Che c'è?», domandò Daryl, con la mano che ancora teneva aperta la porta.

Abbassai lo sguardo. «Non so se me la sento di vedere gli altri».

Lui grugnì. «Quante storie, ragazzina. Sei diventata asociale peggio di me o sbaglio? Cammina!».

Nonostante il tono imperioso di Daryl, che era autoritario e non ammetteva repliche, mi sfuggì una risata. Non lo avevo mai sentito prendersi in giro, prima di allora. Pensare che, forse, lo aveva fatto per aiutarmi ultieriormente a risollevarmi il morale, mi riscaldò in un punto imprecisato in mezzo al mio petto. Ero così fortunata ad avero accanto a me. Non sapevo quanto tempo ci avrei messo ad uscire, senza di lui.

Mi stiracchiai e, a fatica, mi alzai in piedi. «Dubito che riuscirò mai ad essere così tanto asociale», ribattei.

Daryl esibì un sorrisetto arrogante. «In effetti, è pregio di pochi».

Alzai gli occhi al cielo, stiracchiandomi e abbandonando finalmente il letto. «Certo Daryl, certo».

L'arciere fece un altro cenno con la testa, sempre in direzione della porta. «Avanti, ci stanno aspettando. Muoviti».

Allargai le braccia in un gesto esasperato. «Non posso venire in pigiama, devo vestirmi!».

«Allora vestiti! E sbrigati!».

Io rimasi a guardarlo in silenzio, incrociando le braccia al petto. Mi misi a fissarlo insistentemente, senza dire una parola.

«E adesso perché fai la bella statuina?», domandò Daryl, confuso e abbastanza irritato.

«Devo vestirmi», ripetei.

«Lo hai già detto», sbottò, spazientito. «Senti, o ti dai una mossa o—».

«Daryl, santo cielo, devo togliermi il pigiama! Vuoi assistere, per caso?!», lo interruppi, alzando la voce in un moto di esasperazione.

La sua espressione mutò ad una velocità inaudita. Quasi sbiancò e i suoi tratti si sciolsero in un'espressione imbarazzata, gli occhi spalancati e che non sapevano dove guardare. Balbettò qualcosa di incomprensibile a bassa voce e mi diede le spalle con uno scatto, trascinando la porta con sé e chiudendola rumorosamente. Mi misi a cercare nell'armadio qualcosa da mettere, sforzandomi di non ridere a voce troppo alta ripensando alla sua espressione. Daryl era un uomo forte, grande e grosso: così difficile da uccidere, ma così facile da mettere in imbarazzo. Erano due lati di lui che, nella loro coesistenza, mi facevano provare tenerezza nei suoi confronti.
Quando uscii dalla mia camera, lo trovai appoggiato contro al muro di fronte a me, a braccia incrociate. Ogni ombra di imbarazzo aveva lasciato il suo volto, anche se, ne ero sicura, era stata semplicemente nascosta dietro alla maschera illeggibile che il suo viso aveva assunto. Decisi di non torturarlo con qualche battutina e feci finta di niente.

«Sono pronta», annunciai, senza troppa convinzione.

Daryl rispose con un cenno del capo, precedendomi giù per le scale. Io lo seguii, mentre avvertivo il mio cuore accelerare il suo ritmo: l'ansia stava iniziando a farsi strada dentro di me. Ogni scalino che scendevo mi riportava verso una quotidianità che avevo messo in pausa per tre giorni, troppo persa nel lutto per riuscire a viverla. Il fatto che quel periodo fosse finito - solo la parte dell'isolamento; mi ci sarebbe voluto molto di più, prima di superare la perdita di Noah - mi sollevava e spaventava allo stesso tempo. Con Maggie, Rick o Michonne non era come con Daryl: se fossi stata in silenzio, magari con lo sguardo perso da un'altra parte, in compagnia dell'arciere, a lui non sarebbe importato. Mentre con gli altri - magari era una mia impressione - mi sarei sentita in dovere di farmi vedere tranquilla, magari fare qualche sorriso, di tanto in tanto.

«Ti stanno aspettando tutti», disse l'arciere ad un certo punto, senza voltarsi.

Io mi fermai, a metà scalinata, mentre le sue parole riempivano lo spazio tra noi. Ancora una volta, aveva provato a rassicurarmi, in modo celato e abbastanza contorto. Ma l'aveva fatto. E immaginare di rivedere gli altri, di parlarci di nuovo e inserirmi di nuovo nella comunità, con Daryl silenziosamente al mio fianco, era uno scenario che potevo sopportare più volentieri. Le mie labbra si aprirono in un sorriso, anche se lui non poteva vederlo, perché mi dava ancora le spalle.

Quando mi fui infilata il giaccone, Daryl aprì la porta. La mia casa, che era stata il mio rifugio durante quei giorni, era illuminata dalla luce del mattino che filtrava dalle finestre. Uscire di nuovo alla luce del sole, sentire la brezza fresca sul viso e respirare all'aria aperta mi fece stare meglio da subito. Il dolore per quel lutto terribile non mi aveva abbandonata, ma, ora, riuscivo a sopportarlo un po' meglio. Era molto meglio che stare al letto, al buio e in stato quasi catatonico. Percorremmo il tratto che ci divideva dalle due grandi case fianco a fianco, come già tante altre volte avevamo fatto. Era diventata una cosa normale, ormai; una cosa tra noi.

«Chiederò a Jessie di darti una spuntata ai capelli», dissi all'improvviso, come se quell'idea mi avesse sorpresa tutto d'un tratto.

«Ci risiamo», grugnì Daryl. La sua espressione contrariata mi fece sorridere.

«Guarda che lo faccio per te! Come fai a prendere bene la mira, con tutti quei capelli che ti coprono la visuale?».

«La mia mira va alla grande. Preoccupati della tua, piuttosto», replicò, piccato.

Scoppiai a ridere davanti alla sua espressione immusonita. «Dovresti essere contento che alla fine non sia io a tagliarteli».

«Ti sei ricordata che non sai nemmeno come prendere in mano le forbici?».

«Una cosa del genere», ammisi. «Appena me la sentirò, andrò a chiedere a Jessie se può occuparsene. Con Rick ha fatto un bel lavoro».

Daryl assimilò l'informazione, ma non rispose. A quel punto, mi accorsi che eravamo arrivati a destinazione. Il battito del mio cuore accelerò e una sensazione di pesantezza si fece strada nel mio petto. Ero nervosa e si vedeva benissimo. Daryl mi superò e salì la scala del portico; il mio sguardo si soffermò sulle sue spalle forti, sulla schiena ampia e i suoi capelli scuri e disordinati.

E lì ricordai: non ero sola. Non lo ero mai stata.

Con quella consapevolezza, il nodo stretto dell'ansia si allentò appena ed entrai in quella casa, preceduta dall'arciere.

Mi resi conto che tutte le mie paranoie su come si sarebbero comportati gli altri erano inconsistenti. La mia famiglia mostrò solo una grande gioia nel riavermi di nuovo tra loro. Mi trattarono normalmente e non mi parve di vedere nei loro occhi nemmeno un briciolo di compassione, nemmeno per un istante. Non fu difficoltoso, per me, stiracchiare un sorriso quado Carol mi passò uno dei suoi biscotti, o farmi scappare una risata quando Carl fece una battuta. Sentii che, nonostante tutto, stavo finalmente tornando alla normalità. Persino mia sorella aveva smesso di guardarmi con apprensione, come se fossi stata capace di crollare davanti a lei da un momento all'altro.

Mentre ero seduta a quel tavolo e cercavo di riabituarmi a vivere al di fuori del mio dolore, notai che Daryl non aveva preso parte alla tavolata. Me ne accorsi solo in quel momento, perché prima ero stata travolta dalle attenzioni degli altri. Mi guardai in giro e notai che, come suo solito, se ne stava appollaiato alla seduta della finestra, guardando di fuori. Forse stava cercando di rimettere distanza tra di noi; forse temeva che mia sorella e gli altri, vedendoci arrivare insieme, si fossero fatti delle domande.

Le mie congetture vennero interrotte quando Daryl si voltò e il suo sguardo incrociò il mio.

In quel momento, non pensai più a nulla. La mia mente si riempì di un unico pensiero che, sperai, l'arciere potesse leggere nei miei occhi.

Grazie.


 
...
 
 

| Nota autrice |

Scusate.

Credo che sia il modo più opportuno per iniziare, dopo ben sei mesi di assenza. Mi dispiace, davvero e me ne vergogno. Specialmente se penso all'entusiasmo e alla prontezza con cui avete messo  a tacere le paturnie che vi ho esposto nell'ottavo capitolo. Alle mie insicurezze avete risposto con nove recensioni meravigliose. Vi ringrazio e vi chiedo scusa dal più profondo del cuore.
Sono stati mesi tosti, nei quali molte cose sono cambiate, ho dovuto studiare, dare esami; ho persino iniziato a lavorare per racimolare qualche soldino. E in tutto questo, ho iniziato a scrivere a rallenty. Scrivevo, ma poco e non di frequente. Qualcuna di voi potrebbe mettere in dubbio la passione che affermo di provare per la scrittura, ma vi assicuro che non è stato facile per me arrendermi al fatto che o non avevo tempo di scrivere, o ero bloccata.
Penso seriamente di avere addosso una "maledizione dell'ottavo capitolo"; praticamente arrivo all'ottavo capitolo di una long e mi blocco totalmente. Infatti, un'altra storia che ho scritto si è fermata inesorabilmente al capitolo ottavo. Spero, per questa volta, di aver scongiurato questa maledizione, visto che, alla fine, il capitolo 9 è uscito.
Già, il capitolo.
Per la prima volta da quando ho iniziato a pubblicare questa storia, pubblico un capitolo animata da una paura viscerale. Non la classica "ansia da prestazione", no; proprio paura nel vero senso della parola. Ho paura che non ci sarà quasi nessuno a leggere, che non vi piacerà, che rimarrete deluse. So che è corto rispetto agli altri, ma non mi sentivo davvero di aggiungere altro. Ho cancellato e riscritto la parte dopo il "grazie" venti volte e tutte e venti le volte sono rimasta insoddisfatta da quello che ho scritto.
Spero comunque che abbiate apprezzato il poco con cui sono tornata perché, davvero, non succede nulla. Capitolo di passaggio, se così si può dire. Ma nei prossimi succederanno più cose, ve lo prometto. Come vi prometto che non passerà così tanto tempo per il prossimo aggiornamento. Ho deciso che mi "imporrò" di pubblicare almeno un capitolo al mese e, se non ce la farò per il mese di gennaio, vi avverto subito che sarà colpa degli esami. Ma vi prometto ugualmente che ce la metterò tutta.

Mi fermo qui perché altrimenti le note diventano più lunghe del capitolo.
Ancora grazie e ancora scusatemi.
Un abbraccio,
Blakie

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Capitolo 10
*** Ten seconds ***


And we'll be good 10


And we'll be good
capitolo 10

Il pomeriggio, Daryl lo passò in garage. Avevo saputo che lui ed Aaron erano tornati indietro così presto per un guasto al furgone. Le coincidenze, a volte. Era bastata una cosa così piccola a fare in modo che l'arciere tornasse giusto nel momento in cui avevo avuto più bisogno di lui.

Questo pensavo, mentre camminavo per le vie della città, intenta a raggiungere il piccolo cimitero che avevamo allestito vicino alle mura. Anche se sapevo che Noah non era lì, mi faceva sentire meglio lo stesso, andare a posare qualche fiore sulla sua tomba. Il piccolo mazzo di fiori di campo me lo aveva portato Samantha, che mi era venuta a trovare subito dopo pranzo. Mi disse che quello era da parte sua e dei bambini a cui insegnavo musica, che erano dispiaciuti per me e che mi aspettavano tutti a braccia aperte, non appena me la fossi sentita di tornare. Quel piccolo gesto mi commosse e mi fece sentire fortunata. Avevo perso tanto, da quando la fine dell'umanità era iniziata, ma avevo ottenuto altrettanto.
Vedi di ricordatelo più spesso, dissi a me stessa.

Arrivai a destinazione e notai subito la figura esile di Deanna, in piedi di fronte alla tomba di Aiden. Era stata sicuramente lei, assieme a Reg e Spencer, quella più colpita da ciò che era successo. La osservai in viso, mentre mi avvicinavo: sembrava invecchiata di dieci anni e la sua espressione era vuota. In quel momento, non assomigliava per nulla alla leader forte e decisa che avevo conosciuto superati i cancelli della città. Probabilmente, era addirittura la prima volta che perdeva qualcuno che amava, da quando il mondo era andato a rotoli. 

Mi avvicinai a lei, dato che le due tombe erano vicine.

«Deanna», la chiamai, piano, poggiandole una mano sulla spalla.

Sembrò riscuotersi dal vuoto che aveva negli occhi e mi guardò; la sua espressione era talmente smarrita che, per un attimo, temetti che non mi avrebbe riconosciuta.

«Beth... ciao».

«Come stai?», le domandai, quasi con timore. Non sapevo bene come comportarmi.

Deanna annuì distrattamente e distolse nuovamente l'attenzione da me, posando lo sguardo sulla croce di legno di fronte a lei. Io abbassai lo sguardo su quella di Noah e mi chinai, appoggiando con cura i fiori lì vicino.

«Mi dispiace tanto», sussurrai.

Lei non disse niente per un po', poi si rivolse nuovamente a me con lo stesso tono spento. «Anche a me, per Noah».

Annuii, in segno di ringraziamento. «Io... ti posso capire».

Deanna fece incontrare i nostri sguardi e un sorriso amaro le incurvò le labbra. «Hai mai perso un figlio, Beth? Allora no, non puoi capire».  

Nonostante fosse il dolore a parlare e provassi immenso rispetto per quello, non potei frenare la mia lingua dal ribattere: «no, ma ho perso una madre e un fratello per colpa dei vaganti. E molte altre persone a cui volevo bene». Nella mia voce non c'era risentimento, solo tristezza provocata dal ricordo di quello che avevo perso.

«Non sono stati i vaganti a uccidere mio figlio», replicò a denti stretti, dopo qualche secondo di silenzio.

Sentii perfettamente i miei occhi che si spalancavano dalla sorpresa. «Cosa?».

Le sue labbra sottili si strinsero, come a cercare di trattenere qualcosa che non andava detto e i suoi occhi fuggirono i miei.

«Deanna», la spronai, cercando di controllare la mia voce.

La donna espirò dal naso, rassegnata, incrociando le braccia al petto. Sembrò tentennare, alzando un braccio per posare le labbra sopra le nocche, come a voler riflettere sul come esprimersi. 

«Nicholas c'era e... mi ha detto delle cose», ammise.

Solo a sentire quel nome mi si infiammarono le vene. E capii in un secondo, dove stesse andando a parare Deanna. Cercai di mascherare la rabbia che stava montando dentro di me, convincendomi che, a perdere le staffe, non avrei risolto nulla.

«Lo so che c'era. Forse è meglio parlarne altrove», suggerii, cercando di tenere un tono di voce controllato.

Alla fine ci ritrovammo nel suo salotto, sedute l'una di fronte all'altra come il giorno in cui ero arrivata ad Alexandria. Questa volta, però, alle sue spalle non c'era nessuna telecamera pronta a registrarmi, bensì un computer poggiato sul tavolino tra noi. Lo schermo, che mostrava un fermoimmagine di Nicholas, era aperto nella mia direzione: lo aveva "intervistato" per capire meglio cosa fosse successo là fuori. La guardai e lei annuì, così feci partire il video.

Cercai di prestare la massima attenzione agli sguardi e al modo in cui parlava Nicholas in quel video. Sembrava a disagio, come se sperasse che quell'intervista finisse il prima possibile. Come se non fosse in grado di mentire ancora per molto.

«Aiden stava cercando di salvarci da un vagante, gli stava sparando. Poi Glenn lo ha distratto... Loro volevano andarsene, io no. Non lo avrei lasciato lì».

Premetti la barra spaziatrice con un gesto rabbioso, per fermare il video.

«Sta mentendo!», sbottai, senza riuscire a togliere lo sguardo dalla faccia di quello stronzo. «Glenn mi ha raccontato tutt'altro. Sono tutte bugie, Deanna, Mio cognato non lascerebbe mai indietro nessuno!».

«Continua a guardare, Beth».

Strinsi le labbra con stizza, cercando di calmarmi e proseguii con la visione.

«E Tara?», domandò la voce fuoricampo di Deanna.

«Non l'avrei lasciata lì», rispose Nicholas, con lo stesso tono accorato.

«Certo. E cos'è successo con Noah?».

Sussultai come se qualcuno mi avesse toccato il braccio con uno spillo. Qualcosa mi si mosse nello stomaco e sentii un grande bisogno di scappare. Non volevo il racconto dettagliato di com'era morto il mio migliore amico, ma mi imposi di rimanere calma. Dovevo farlo per Glenn.

Quei pensieri mi riempirono la mente a tal punto che, per fortuna, mi persi una parte di racconto.

«Poi quando siamo arrivati all'ingresso batteva contro il vetro, spingeva per aprire la porta - continuò Nicholas, riferendosi sicuramente a Glenn. Io sapevo la verità ed era come se stesse parlando di sé in terza persona - Mi avrebbero ucciso, o almeno ci stavano provando, o non gli importava niente. E se non avessi respinto la porta sarei morto anch'io. È stata colpa loro, sono stati loro».

«Ma siete tornati tutti insieme. Com'è successo?».

Nicholas che, a quel punto, sembrò davvero in difficoltà, venne salvato dall'interruzione di Spencer, che domandava a sua madre cosa stesse facendo. Deanna sentenziò il divieto di uscire e di usare armi; in particolare disse di non permettere di uscire nemmeno a Glenn, finché non avesse esaminato la situazione fino in fondo. A quel punto, Nicholas scattò in un moto di frustrazione che confermò ancora di più i miei sospetti sul suo conto.

«Che c'è da esaminare?! Ti ho raccontato com'è andata. Quelle persone devono andarsene, loro non sono come noi. So che te rendi conto anche tu».

«Non sai di che cosa mi rendo conto, Nicholas, e mi rendo conto di molte cose». Fu a quel punto che il video si interruppe.

«Io... io non capisco, Deanna».

Lei mi guardò senza dire niente, come a esortarmi a continuare.

«Per come me ne hai parlato prima, sembrava che incolpassi Glenn e gli altri del mio gruppo per la morte di Aiden. Per il modo in cui hai risposto a Nicholas, invece, sembra chiaro come il sole anche a te che sta mentendo spudoratamente».

Lei abbassò lo sguardo, ma non fece in tempo a nascondermi il tormento che si celava in esso. «Non mi è chiaro niente, Beth».

«E allora di cosa ti rendi conto?», incalzai. «C'era anche Eugene, con loro. Hai fatto le tue domande anche a lui?».

«No, Beth. Non ho ancora chiesto la versione di Glenn», ammise, lo sguardo perso.

Mi soprese che una donna così pratica e sempre attenta ad ogni sfumatura della storia non avesse ancora pensato di interpellare la controparte coinvolta in quella questione. Forse non voleva affrontare la verità, non voleva realizzare che suo figlio era morto per colpa di uno della sua gente. Mi resi conto solo in quel momento di quanto impatto avesse avuto la morte di Aiden su di lei; la vedevo improvvisamente così diversa dalla Deanna che avevo conosciuto.

«Ora capisco perché hai ancora dei dubbi», affermai con voce monocorde. «Se ti fossi degnata di chiedere anche la loro versione della storia, non ne avresti. Glenn ha cercato di aiutare Aiden, lo sai? Non è come ha detto Nicholas. Anzi, è proprio lui che ha abbandonato per primo tuo figlio, Noah e Glenn hanno cercato fino all'ultimo di aiutarlo. Il mio migliore amico è morto perché quel codardo è scappato. Stava per aggredire Eugene, perché voleva aspettare che tornassero Glenn e Noah e invece lui voleva andarsene col furgone».

Deanna fece un sospiro profondo, appoggiando i gomiti sulle gambe e massaggiandosi le tempie, come a volersi aiutare ad elaborare tutte quelle informazioni.

Cercai di addolcire un po' i toni. «Deanna, c'è sempre stata molta chiarezza tra noi, fin dal primo momento in cui ci siamo incontrate la prima volta. Io conosco quelle persone: se ti assicuro che Glenn dice la verità, perché non puoi fidarti di me?».

Lei tornò a guardarmi, le labbra che formavano una linea sottile. «Io mi fido di te, Beth. So com'è fatto Nicholas e, certo, è molto più probabile che sia vero ciò che dice Glenn. Ma puoi davvero garantire per tutte le persone che ci sono nel tuo gruppo?».

La sua domanda mi lasciò interdetta per qualche istante. Aggrottai le sopracciglia. «In che senso?».

«Puoi davvero dire che, tra loro, non ci sia nessuno di pericoloso?», incalzò lei, ma dal tono in cui espresse la domanda, sembrava già avere la risposta.
Ed era negativa.

«Spiegati», la invitai, sentendomi improvvisamente tesa.

Fece una piccola pausa, prima di parlare. «Parlo di Rick».

«Cos'ha fatto Rick?», domandai, cercando di trattenere l'allarmismo e di controllare la mia voce.

«Nulla, per adesso. Ma potrebbe, Beth. Ha un metodo che non è il mio; che non è il nostro. Non può venire da me e dirmi che possiamo decidere chi muore e quando. Chi giustiziare e quando».

«Chi vuole giustiziare Rick?», domandai, ma mi resi conto della risposta non appena finii di formulare la domanda.

«Pete».

Annuii, trovando conferma nelle sue parole. Maggie mi aveva aggiornata su quello che era successo mentre io ero stata assente; mi aveva detto che Carol e Rick avevano capito che Jessie e i suoi figli venivano picchiati da Pete e mi aveva anche messo al corrente delle intenzioni di Rick. Il nostro leader era sempre più contrario dal modo di pensare che vigeva in quella città, sempre più convinto che chi vivesse ad Alexandria non avesse la minima idea di quanto fosse cambiato il mondo e le leggi che lo governano. La storia di Pete doveva solo essere la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e non aiutava di certo Rick ad essere più conciliante. Mio malgrado, mi resi conto di trovarmi nel mezzo, esattamente a metà tra due modi di pensare che, per certi versi, erano giusti entrambi.

«Non posso tollerare richieste tanto incivili», mormorò Deanna.

Un moto di stizza mi fece fremere sul divano. «Perché lasciare che un uomo picchi sua moglie e i suoi figli è una cosa civile, vero?».

Deanna mi scrutò, rabbuiandosi. «Sei d'accordo con Rick?».

Iniziai a stropicciare un lembo della camicia, stringendolo tra le dita. «Io... è una questione delicata».

«Basterebbe semplicemente esiliare Pete», replicò Deanna, cercando di ammorbidire il tono, «ma Rick dice che potrebbe ritornare e rappresentare nuovamente un pericolo. Personalmente, invece, credo che sia già una condanna chiuderlo fuori dalle mura e lasciarlo a se stesso. Non penso che riuscirebbe a sopravvivere».

«E se ci riuscisse e si verificasse ciò che teme Rick?», le domandai, preoccupata. «Jessie e i ragazzi sarebbero di nuovo in pericolo. Ed io conoscevo la situazione degli Anderson già da prima che Rick lo venisse a sapere; è stata Josie a dirmelo».

Deanna sospirò e si alzò, fermandosi ad osservare fuori dalla finestra. Di nuovo, con un braccio piegato sotto il seno e l'altro appoggiato sopra di esso, mentre si sfiorava le labbra con la punta delle dita, visibilmente preoccupata.

«È sempre così difficile, là fuori, fare la cosa giusta?», domandò con voce stanca.

Ci pensai su qualche secondo, fissandomi la punta degli scarponi. «Il mondo fuori dalle mura è cambiato. Anche io ci ho messo tanto ad accettarlo e, se mi conosci un po', sai che è vero. Non sono solo i vaganti a costituire un pericolo per la nostra comunità, ma anche le persone. In questo mondo non si può permettere che ci siano pericoli anche dentro le mura che ci proteggono».

«Quindi dobbiamo ucciderlo», affermò, incerta.

Scossi il capo. «Penso che, per adesso, la cosa veramente importante sia mettere Jessie e i suoi figli al sicuro. Poi si penserà al resto. Dobbiamo fare in modo che non vivano più sotto lo stesso tetto».

Deanna annuì, preoccupata. «Non sarà facile... Pete non accetterà tutto questo in silenzio».

Mi alzai, avvicinandomi a lei. «Lo accetterà. Glielo faremo accettare». Le sorrisi, cercando di infonderle coraggio e le posai una mano sulla spalla. «Non devi farlo da sola, Deanna. Rick, o chiunque tu voglia del mio gruppo, può aiutarti».

Lei ricambiò, sfiorandomi l'avambraccio in segno di ringraziamento.

Stavo per dire qualcosa, quando la porta di ingresso si spalancò e Reg fece capolino nel salotto.

«Deanna!», chiamò. Era entrato di corsa, concitato, l'espressione intrisa di angoscia e urgenza. L'interessata non fece domande e lo seguì, cambiando repentinamente espressione. Ci fiondammo tutti e tre fuori casa, mentre avvertivo il mio stomaco attorcigliarsi per la preoccupazione: cosa ci aspettava là fuori? Un vagante che era riuscito a sfuggire alla vedetta? Un gruppo di uomini che ci stava attaccando?

Quando la nostra corsa si arrestò, il tempo sembrò scorrere a rilento per un attimo: prima notai che eravamo di fronte alla casa degli Anderson, poi che c'era un gruppo di cittadini di Alexandria che guardavano qualcosa, o meglio, qualcuno. L'ultima cosa che notai fu il giubbotto con le ali di Daryl, di spalle assieme agli altri, prima di avanzare e accorgermi che Rick era per terra, che stava lottando con Pete.

In quel momento, nello sgomento generale, Jessie si buttò su suo marito che, a cavalcioni sopra Rick, stava tentando di avere la meglio su di lui prendendolo per il collo. La donna tentò di trattenerlo per le spalle e fargli liberale la presa, col solo risultato di essere scaraventata a terra da una violenta bracciata di Pete, che la colpì in pieno viso. Non ci pensai due volte e corsi in suo aiuto, chinandomi accanto a lei e trascinandola per allontanarla. 

Daryl si parò tra noi e i due uomini, mentre mi circondavo le spalle con un braccio di Jessie per aiutarla a rialzarsi. Quando fu in piedi, i suoi occhi continuarono a seguire febbrilmente la colluttazione: vidi di sfuggita Rick, col volto rigato di sangue, che spingeva via Carl mentre riprendeva vantaggio sull'avversario. Il suo braccio si strinse attorno al collo di Pete come un serpente, nel chiaro tentativo di soffocarlo. La schiena ampia dello sceriffo era rigida e tutto il suo corpo era impiegato per bloccare il dottore contro l'asfalto. Da dove ero io, non riuscivo a vedere che espressione avesse.

Tutto ciò di cui avevamo parlato io e Deanna qualche momento prima, stava diventando tragicamente reale. 

«Basta! Smettetela immediatamente!», intervenne imperativamente Deanna.

Rick sibilò qualcosa all'orecchio di Pete, ignorando totalmente la donna, che rincarò: «dannazione, Rick! Ho detto basta!».

Tobin e altre persone iniziarono ad avanzare verso lo sceriffo nell'intento di dividerli, ma tornarono a fare un passo indietro quando si videro puntare contro la revolver di Rick.

«Altrimenti che fai? Mi cacci via da qui?», la provocò. Il braccio era ancora teso davanti a lui e gravitava da destra verso sinistra e viceversa, puntando la pistola contro chiunque avesse davanti, come l'ago di una bussola impazzita.

Ammutolii, sgranando gli occhi, non riuscendo a credere a ciò che stava facendo Rick. Cercai lo sguardo di Daryl che, però, aveva lo sguardo puntato su Grimes, la mascella serrata e le spalle rigide. Sembrava pronto a scattare, nel caso Rick avesse fatto qualche mossa troppo azzardata.

«Metti giù quella pistola, Rick», gli ordinò nuovamente Deanna, il tono basso ma fermo.

Rick si dondolava sulle ginocchia, la schiena incurvata e le spalle che si alzavano e abbassavano a causa del fiato corto. Non potevo vedere la sua espressione, ma non mi serviva per sapere che era fuori di sé. «Ancora non capisci», rantolò, continuando a dondolarsi febbrilmente. «Nessuno di voi capisce! Noi sappiamo cosa fa fatto e lo facciamo. Noi siamo quelli che sopravvivono». E del "noi" a cui si stava riferendo in quel momento di delirio, io non sentii di fare parte.

«Voi? Voi state qui seduti, a fare piani, a esitare», continuò, senza nascondere il profondo disprezzo che celava la sua visione di Alexandria.

Dall'espressione di Deanna, capii che Rick stava guardando dritto negli occhi, come se quel discorso fosse rivolto solo e soltanto a lei. «Fingete di sapere, ma non è così. Vorreste che le cose non stessero come stanno... Volete vivere? Volete che questo posto rimanga in piedi? Il vostro modo di gestire le cose è fallito. Le cose non migliorano solo perché voi volete che migliorino. D'ora in poi, dobbiamo vivere nel mondo reale. Dobbiamo controllare - scandì - chi vive qui dentro».

Con mia sorpresa, Deanna riuscì a ribattere. «Questo concetto mi è chiaro adesso più che mai».

«I-Io? Io? Tu... eh, tu intend-intendi me?», domandò Rick, ridendo sprezzante. Poi si irrigidì nuovamente. «I tuoi metodi distruggeranno questo posto», sibilò, finendo poi per gridare: «uccideranno delle persone e hanno già ucciso delle persone! E io non resterò fermo qui a lasciare che succeda. Se non combatti, muori! Non resterò fermo a-».

Il momento di maggiore climax nel monologo dello sceriffo venne bruscamente interrotto dal colpo che Michonne gli sferrò alla nuca. Rick cadde di lato, incosciente e Michonne ne approfittò subito per raccogliere la revolver e tenerla al sicuro nella sua mano. Col fiatone, osservò l'uomo che aveva appena messo k.o. e poi guardò Deanna. In quel preciso istante, la tensione che aleggiava tra i presenti si sarebbe potuta tagliare con un coltello. Tutti si scambiavano occhiate, nessuno sapeva cosa dire, talvolta abbassavano lo sguardo su Rick. Ricordava la quiete del mattino dopo una notte di tempesta.

«Portatelo in isolamento», sentenziò Deanna, ancora scossa, rompendo il silenzio.

Spencer e Tobin si chinarono per sollevare il corpo esanime di Rick, aiutati da Michonne, Carl e Glenn. Jessie si scostò da me, superando Daryl - che non si era mosso di un centimetro - e invitandoli a trasporarlo prima in infermeria per medicargli le ferite. Altri uomini di Alexandria aiutarono Pete a rialzarsi; una volta in piedi, se li scrollò di dosso con un gesto rabbioso, probabilmente dovuto al fatto che Jessie non fosse rimasta ad aiutarlo.

«Pete, da questo momento ti sarà assegnata un'altra casa», stabilì Deanna. «Hai tempo fino al tramonto per portare via le tue cose».

L'uomo ringhiò qualcosa e ritornò nella sua abitazione, sbattendo forte la porta dietro di sé.

«Andrebbe medicato», mi lasciai sfuggire. E fu un secondo, una frase dovuta alla mia stupidità e ingenuità. Per un secondo soltanto, mi dimenticai di che razza di uomo fosse e provai solo un'infinita pena per lui. Chi non riuscì a provare pena nemmeno per un attimo fu Daryl, del quale quasi avvertii il moto di rabbia accanto a me, come un'ondata di energia negativa.

«Sei impazzita?», sbottò, afferrandomi per la spalla e facendomi voltare nella sua direzione. «Tu non ci entri là dentro».

Quando mi voltai, trovai il suo volto poco distante dal mio, assieme al suo corpo che era completamente proiettato verso di me. Come se volesse assicurarsi che non me ne andassi e avessi capito bene quello che mi aveva appena detto. Ignorando il brivido che mi procurò quella vicinanza improvvisa, tornai a volgere lo sguardo verso la casa degli Anderson; più per mantenere il controllo e sfuggire allo sguardo di ghiaccio di Daryl che per altro. In realtà, rimasi sorpresa dal fatto che avesse azzardato un contatto del genere in mezzo ad altre persone, anche se alcune, turbate, erano tornate nelle proprie case. Come se fosse riuscito a leggermi nel pensiero, il suo sguardo saettò sulla mano stretta intorno alla mia spalla e mi lasciò immediatamente, come se si fosse scottato al contatto con la mia camicia.

«Sì, certo. Era solo per dire», risposi, con voce incolore.

«Tornate nelle vostre case», ordinò Deanna, incrociando le braccia sotto il seno, cupa in volto.

«Tutto qui?!», sbottò Nicholas, poco distante da noi. «Quel pazzo ci ha minacciati con una pistola e la tua soluzione è mandarci ognuno a casa propria?! Questa gente va cacciata, subito!».

Dopo quello che era successo a Noah per colpa sua, non riuscivo nemmeno a guardarlo. Mi disgustava persino sentire il suono della sua voce e sentire dei mormorii di assenso degli altri presenti mi fece ribollire di rabbia. Anziché rispondergli a tono, iniziai a contare fino a dieci nella mia testa; non era il caso di scatenare un altro stupido dissidio. La situazione era già abbastanza tesa.

Uno, due, tre.

«Non spetta a te deciderlo, Nicholas. Ci troveremo tutti insieme, come comunità - scandì - e parleremo di quello che è successo. Spargete la voce».

«Una riunone? Vuoi aspettare che uccidano qualcun altro?!».

Quattro, cinque, sei.

Ero arrivata a sette nella mia testa e sarei arrivata con tranquillità alla fine della conta, se quel codardo non se ne fosse uscito con la cosa più sbagliata che potesse dire. Noah era morto, per colpa sua. Era stato il suo essere smidollato a uccidere il mio migliore amico e aveva persino il coraggio di dire una cosa simile? Le mie mani iniziarono a tremare, incontrollate, la rabbia che vibrò dalla punta dei capelli fino a quella dei piedi.

Otto, nove, dieci.

In quei tre secondi che mi separavano dal punto di non ritorno raccolsi tutto l'odio, il dolore e la rabbia che provavo nei suoi confronti. Ero sicura che alla fine dei dieci sarei esplosa come una granata: sentii che stavo per perdere il controllo, ero pronta a scattare e invece accadde tutt'altro. Gli insulti mi morirono in gola quando vidi Daryl passarmi davanti come un uragano e colpire in pieno viso Nicholas con un pugno.

«Daryl!», esclamai allarmata, in mezzo ai sussulti sorpresi delle altre persone presenti.  

L'arciere stava costringendo Nicholas a terra, afferrandolo per il colletto della camicia e spingendolo verso il terreno. I capelli lunghi gli ricadevano sul volto, quindi non riuscii a vedere quale espressione potesse avere in quel momento, ma la potevo immaginare.

«Chiudi la tua cazzo di bocca, stronzo».

«Daryl, basta!», esclamai, provando a trattenerlo per le spalle.

«La difendi ancora la tua biondina, eh? Come hai fatto con Aiden», sputò Nicholas  e, vicina com'ero, riuscii a sentirlo nonostante avesse quasi sussurrato, come il codardo che era.

Non mi ci volle molto per capire che si riferiva alla sera della festa di benvenuto; Aiden doveva avergli raccontato il modo brusco in cui Daryl l'aveva cacciato per prendersi personalmente cura di me. Immaginai che fosse stato facile per quei due arrivare alla conclusione più maliziosa sul perché Daryl fosse stato così protettivo nei miei confronti.
Quella provocazione idiota colpì nel segno: Dixon inspirò dal naso, sussultò di rabbia e alzò nuovamente il pugno, pronto a colpire di nuovo quel verme. Il fatto che ora Daryl avesse meno presa su Nicholas, consentì a quel verme di liberare il braccio destro e ricambiare il colpo con cui era stato atterrato. Daryl lo schivò per un pelo, ferendosi di striscio solo il labbro, da quel che mi parve di vedere.

«Separateli!», ordinò Deanna.

«Adesso basta», sibilai all'orecchio di Daryl, trattenendolo per il gilet e cercando di bloccarlo. «Non ne vale la pena». 

Il suo respiro accelerato ritornò nella norma poco a poco, mentre continuava a tenere Nicholas a terra. «Basta, Daryl. Basta».

Con uno sbuffo pesante, seguito da un verso di disprezzo, mi diede ascolto e si alzò da terra. Raccolse la balestra e si allontanò da Nicholas, continuando a guardarlo, sorridendo sardonico.

«Vieni in ambulatorio con me, ti disinfetto il labbro», dissi a Daryl, gentilmente ma con una fermezza che non ammetteva obiezioni. Lui mi superò senza dire una parola; lanciai un'occhiata a Deanna, come ad assicurarle che era tutto a posto. Almeno, Daryl non aveva puntato nessun'arma contro nessuno.

Quando fummo abbastanza lontani dagli altri, accelerai il passo per affiancarlo.

«Stai bene?», gli domandai, appoggiandogli una mano sulla spalla. Lui se la scrollò bruscamente di dosso, entrando in ambulatorio col suo passo pesante. Era visibilmente alterato e, mi dissi, forse aveva solo bisogno di tempo per sbollire. Imposi a me stessa di non insistere e di lasciar perdere il fatto che mi stesse apertamente ignorando. Sospirai, raccogliendo tutta la pazienza di cui disponevo per non farmi irritare dai suoi atteggiamenti burberi.

«Puoi sederti sul lettino, così posso darti una controllata», lo invitai.

Daryl continuava a evitare il mio sguardo ma mi ascoltò, lasciandosi andare sulla branda in modo sgraziato. Fortunatamente, per chissà quale ragione, né Josie né Denise erano in turno in quel momento, perciò potevo occuparmi di Dixon in tutta tranquillità. C'era Tara, che, purtroppo, era rimasta gravemente ferita alla testa durante la missione in cui Noah aveva perso la vita. Lei, però, la tenevano in una stanza separata, di solito controllandola a turno.

Avanzai verso l'armadietto dei medicinali e ne tirai fuori il disinfettante e una garza pulita. Mi riavvicinai al mio paziente con l'occorrente in mano e lo appoggiai sul lettino. Daryl era comodamente stravaccato su esso, le gambe aperte che penzolavano appena e quasi toccavano terra, quindi non dovetti nemmeno avanzare l'imbarazzante richiesta di allargarle per permettermi di controllarlo meglio e più da vicino. Ero consapevole di quanto mi sarei dovuta avvicinare e la cosa mi elettrizzava e imbarazzava in eguale misura. Sperai che non si accorgesse del mio battito accelerato.
Mi posizionai di fronte a lui e mi avvicinai per vedere meglio. Non era necessario ai fini del controllo, ma non potei fare a meno di cingergli il profilo della mandibola per tenerlo fermo. Come se la sua pelle mi chiamasse. Le mie dita si posarono leggere sull'ispido della sua barba incolta, e avvertii Daryl irrigidirsi immediatamente. Sentii i suoi occhi su di me, perciò tossicchiai nervosamente a labbra serrate, focalizzando lo sguardo nel punto in cui il suo labbro era segnato da quel taglio rosso vivo. Un po' di sangue era uscito e gli aveva leggermente bagnato le labbra e il mento.

«Ti fa male?», domandai, con voce malferma.

«No».

Non ero mai stata così vicina alle sue labbra, prima di allora. Sarebbe bastato sbilanciarmi leggermente in avanti, per ottenere quello che desideravo da tempo. Deglutii a fatica, mentre il mio sguardo lasciava le sue labbra invitanti e si scontrava con quello di Daryl. La tensione che avevo avvertito prima, dopo la scenata di Rick, non era nulla rispetto a quella che mi stava attorcigliando lo stomaco in quel preciso istante.

Non sapevo bene cosa stessi facendo, né  da dove arrivasse tutto quel coraggio. Forse era stata la notte prima a segnarmi nel profondo. Il modo in cui Daryl mi era stato vicino aveva cambiato tutto, me ne resi conto solo in quel momento. Sapevo che, da quel momento in poi, mi sarebbe stato impossibile cercare di trattenere il mio entusiasmo e i miei sentimenti nei suoi confronti. Il battito del mio cuore mi pulsava nelle orecchie, mentre rimanevo bloccata in quella bolla che solo lo specchiarci l'una negli occhi dell'altro riusciva a creare. Tutto il caos che, fino a poco prima, si era riversato in quella via di Alexandria, e gli stati d'animo che aveva suscitato in me, si cancellò in un attimo. Dimenticai persino che poteva esserci qualcuno, di là, nella stanza di Tara adiacente a quella in cui ci trovavamo. Non mi importava.

Né io, né Daryl sembravamo intenzionati a farla esplodere, quella bolla. Avrebbe potuto fare davvero qualsiasi cosa per farci tornare alla realtà; qualsiasi espediente, più o meno diretto, sarebbe stato sufficiente per mettere uno stop a quella situazione che poteva trascinarci al punto di non ritorno. Proprio lui, che di solito era quello che cercava di rimettere distanza tra noi, quella volta rimase immobile come un animale di fronte al pericolo.

Da bambina, ero solita sfidare il destino con scommesse sciocche, del tipo: "se la prossima canzone che passa il walkman non mi piace, mi metto a fare i compiti"; oppure, da più grande, "se entro cinque minuti non mi scrive lui, gli scrivo io".

Se nei prossimi dieci secondi non dice nulla, lo faccio.

Uno, due...

Ti prego, stai zitto.

Tre, quattro, cinque...

Perché è diventato così difficile respirare?

Sei, sette, otto...

Quando la porta si spalancò, sobbalzai violentemente e mi scostai da Daryl con uno scatto. L'uomo, invece, balzò giù dal lettino ed io mi allontai ulteriormente. Disorientati, voltammo all'unisono lo sguardo verso l'ingresso dell'ambulatorio, mentre Rosita stava entrando. Era venuta lì assieme a Glenn. Diedi un'occhiata fugace alle loro espressioni: non sembravano essersi accorti di nulla.

«...è un bel problema. Ehi, ragazzi», ci salutò mio cognato, quando finì di rivolgersi a Rosita. Nonostante ci avesse rivolto un sorriso, i suoi occhi tradivano preoccupazione. Forse, sarebbe riuscito a non notare il fatto che io e Daryl fossimo in piedi in mezzo all'ambulatorio come due stupidi. 

«C-Ciao», balbettai, cercando di controllare la mia voce. «Avete bisogno?».

«Sono venuta a prendere dei cerottini per medicare Rick. Jessie li ha finiti», mi rispose Rosita, sorpassandoci per andare a rovistare nell'armadietto. Poi si fermò e si voltò a guardarci, esibendo un'espressione perplessa quando il suo sguardo gravitò sul volto di Daryl.

Nello stesso istante, Glenn domandò: «amico, che ti è successo?!».

«Ho preso a pugni quel coglione di Nicholas», fu la fredda replica.

«Quando ve ne siete andati con Rick, ha esortato Deanna ad esiliarci tutti», aggiunsi, con voce grave. Anche per giustificare il fatto che l'arciere lo avesse colpito, sì.

Glenn strinse le labbra e sospirò. «Nicholas dovrebbe imparare a chiudere quella bocca».

«Io ho fatto», annunciò Rosita, uscendo dalla porta reggendo a braccetto quello che le serviva.

«Come sta Rick?», domandai a Glenn, preoccupata.

«È ancora incosciente. Lo stiamo per trasferire in una delle celle di Alexandria, almeno per stanotte. Deanna vuole così».

Annuii, abbassando lo sguardo, provando una grande amarezza dentro di me. Quando tutta la mia famiglia mi aveva raggiunta tra quelle mura, non avrei mai creduto possibile che saremmo potuti arrivare ad una situazione del genere. «Deanna vuole parlare di quello che è successo, domani sera. Con tutti», lo informai, scioccamente.

«Sì, ce l'ha detto. Maggie vorrebbe parlare con gli altri abitanti di Alexandria, sai. Per metterci una buona parola».

«Questa gente è troppo stupida per arrivarci», sentenziò Daryl, cupo.

Gli rivolsi un'occhiataccia. «Sono solo spaventati. Non sanno tutto quello che noi abbiamo passato, che Rick ha passato. Probabilmente, un uomo che punta una pistola contro altre persone è la cosa più scioccante, vaganti a parte, che hanno visto qua dentro».

Lui non rispose, volgendo lo sguardo altrove con uno sbuffo. Così mi rivolsi nuovamente a Glenn. «Di' a Maggie che la aiuterò io, domani, a parlare con gli altri. Conosco voi e conosco loro e so che la convivenza è possibile».

«Contiamo tutti su di te, allora, domani sera».

«Farò il possibile».

«Lo so», annuì Glenn, sorridendo. Si voltò e fece per andarsene, ma, prima di congedarsi, disse: «io vado ragazzi, vi lascio di nuovo soli».

E chiuse la porta alle sue spalle, mentre l'eco di quelle parole dette con tono canzonatorio continuava ad aleggiare nella stanza. Merda, ci aveva visti? Sospettava qualcosa? Maggie glielo aveva detto? Decisi di non condividere i miei imbarazzanti dubbi con Daryl. 

«Forza, siediti, così finalmente ti disinfetto il taglio», lo esortai, evitando il suo sguardo e afferrando nervosamente garze e disinfettante.

«Per il tempo che ci hai messo si è già rimarginato», mi provocò, con sufficienza.

Non potei evitare di guardarlo male. «Ah ah, molto divertente».

Quando la garza fu abbastanza imbevuta di disinfettante, gliela tamponai con delicatezza sulla ferita. Il taglio gli bruciò appena e lo capii perché, non appena appoggiai la medicazione sul suo labbro, Daryl aggrottò le sopracciglia e sussultò impercettibilmente. Fu impossibile trattenermi dal sorridere.

«Sadica», mi accusò, burbero.

«Io ho fatto. Ti do un po' di ghiaccio, hai la guancia leggermente gonfia», dissi, serafica. Presi il ghiaccio in gel dal freezer e glielo allungai, notando la sua espressione di sollievo non appena il freddo entrò in contatto con la sua pelle.

«Va meglio?», gli domandai.

Lui annuì, senza dire una parola.




...



Camminammo insieme fino alla cella dove avevano rinchiuso Rick. Trovammo Carl e Michonne a vegliare su di lui, che giaceva profondamente addormentato sulla brandina, spogliato della casacca da poliziotto. Il viso, ora rilassato, era tempestato di cerottini bianchi. Mi tornò in mente di quando Shawn, alle prese con la prima barba, li usava per medicare le piccole ferite che la sua mano inesperta gli infliggeva col rasoio.

Le celle di Alexandria erano dei seminterrati inabitati, in cui i vari scomparti erano separati tra loro da porte di ferro che mi ricordarono molto il cancello principale. Carl era seduto sull'unica sedia disponibile, mentre Michonne se ne stava in piedi al suo fianco, appoggiata al muro con le braccia incrociate. Quando io e Daryl entrammo, non dissero nulla, ma continuarono a guardare Rick con aria cupa.

Mi avvicinai a Carl, appoggiandogli una mano sulla spalla. «Come stai?».

Lui mi scrutò da sotto la visiera del cappello da sceriffo. «Meglio di lui sicuro».

In risposta, come gesto di conforto, gli sfregai una mano contro la schiena. «Non cacceranno tuo padre; loro si fidano di me, mi conoscono e io non permetterò che succeda. Andrà tutto bene».

Carl annuì, per nulla convinto.

«Domani sera, alla riunione, sarà dura», intervenne Michonne, realista.

Cercai di sorriderle in modo incoraggiante. «Ce ne sono capitate di peggiori e siamo sempre riusciti a cavarcela. Sono sconvolti, ma capiranno. Troveremo un modo per collaborare e vivere tutti insieme, in pace».

«E se non capissero?».

«A quel punto dovremo riporre la nostra fiducia in Deanna. Prenderà lei la decisione definitiva, quindi, alla fine, è lei che dobbiamo cercare di convincere», risposi.

Michonne mi scrutò con i suoi grandi occhi scuri, poi spostò lo sguardo sullo sceriffo. «Questo non significa che il problema con Rick sarà risolto. Potrebbe farlo di nuovo. Lo sappiamo tutti che Pete non è il problema principale, è solo un capro espiatorio. E Rick, stasera, l'ha ampiamente dimostrato».

«Cambierà idea. Dobbiamo soltanto dimostrargli che gli abitanti di Alexandria possono imparare a difendersi», replicai, accorata e sporgendomi verso di lei. «Io vi conosco, e conosco loro. So che ciò è possibile. Vanno soltanto addestrati».

Michonne tornò a guardarmi, cercando di stiracchiare un sorriso. «Lo so», rispose, con la voce di chi non ci credeva per niente.

Sentii le spalle afflosciarsi e sospirai, lo stomaco attorcigliato su se stesso. Io e Daryl rimanemmo lì un altro po', finché Michonne non decise che per Carl era venuto il momento di tornare a casa. Nonostante le proteste, riuscii a trascinarlo con me e gli preparai la cena, aiutandolo poi a mettere a letto Judith. Daryl rimase lì con noi, cercando di tirare su il morale a Carl; ad un certo punto, mentre preparavo la piccola per la nanna, vidi l'arciere uscire sul portico assieme a Carl. La porta era socchiusa e, dal poco che riuscii a sentire, capii che Daryl aveva voluto prenderlo da parte per infondergli un po' di coraggio; sorrisi in direzione dell'ingresso e salii le scali con Judith in braccio. Non avevo idea di dove fossero gli altri; forse, erano andati a fare compagnia a Michonne. Me lo sarei aspettata da Glenn, Maggie e Carol. Probabilmente, stavano studiando insieme un piano.

Dopo che anche Carl ci diede la buonanotte, io e Daryl ci ritrovammo da soli sul pavimento portico. Mi ero proposta di aspettare che finisse di fumare la sua sigaretta, e poi sarei tornata anche io a casa mia.

«Come pensi che andrà, domani?», domandai, spezzando il silenzio.

«O male, o di merda», sentenziò, inspirando una boccata di fumo.

Gli lanciai un'occhiataccia. «Pensavo che volessi dare una chance a questo posto. Non è forse per questo che hai rifiutato le armi da Rick e Carol?».

Lui rimase in silenzio qualche attimo, senza guardarmi. «Infatti, ma questo non significa che credo che questa gente sappia difendersi».

«Devono solo imparare», replicai di getto, poi mi illuminai. «Potresti insegnarglielo tu! Sei un maestro formidabile!».

Daryl si voltò a guardarmi, con un'espressione quasi scandalizzata. «Non ci penso nemmeno. Già faccio il mio sporco lavoro salvando il culo ad Aaron ad ogni missione».

«Con me ti sei prestato però, e devo dire che sei veramente bravo ad insegnare», dissi, ammorbidendo il tono.

«Appunto, basti e avanzi, ragazzina incompetente».

Mi lasciai sfuggire un verso di indignazione, colpendolo forte al braccio. «Come ti permetti?!».

«La verità fa male», sentenziò candido, continuando a fumarsi la sua sigaretta.

Grugnii, alzandomi in piedi con un moto di stizza. «Tolgo il disturbo, così non faccio diventare incompetente anche te».

Lui ridacchiò poi si fermò, mentre io avevo già sceso gli scalini. «Beth», mi chiamò.

Io mi voltai. «Che c'è?», domandai, sgarbata.

«Come pensi che andrà, domani?».

Me lo domandò con lo sguardo che perforava il mio. Mi sentii di nuovo risucchiare nella bolla. Cercai di rimanere lucida e mostrai di pensarci sopra qualche secondo, guardando altrove. Poi, i miei occhi ritrovarono i suoi, e un sorriso speranzoso mi si aprì sulle labbra.

«Andrà tutto bene», risposi, con convinzione.

Daryl perse qualche secondo a cercare conferma nei miei occhi, poi piegò un angolo delle labbra.

«Lo so».

Perché hai cambiato idea?






Note autrice.

Sì, ho tardato nuovamente, quindi comincio le note con le solite scuse. Perdonatemi, ero seriamente convinta di riuscire ad aggiornare prima questa volta. Speravo, a marzo, di poter finire di scrivere e pubblicare; ma, tra esami e lavoro (+ blocco di ispirazione) non ce l'ho fatta. Perdonatemi ç_ç

Se può esservi di mera consolazione, almeno, questo capitolo è mooooooolto più lungo del precedente e ricco di avvenimenti. Speravo di poter "risolvere" la questione "Rick fa il pazzo e minaccia tutti + Rick fredda Pete" in un capitolo solo, e invece nada. Fingiamo che il prossimo capitolo sia il finale di stagione, suvvia :D Anche perché mi sento indietro sulla tabella di marcia, visto che sono ancora alla quinta stagione e già mi serve tutto il supporto psicologico per risorbirmi e fare il ripasso della prima parte della sesta (che ho trovato noiosissima). Statemi vicine.

Non so bene come commentarlo, in realtà. Ho fatto tanta fatica a completarlo forse perché non è la mia parte preferita di storia, ma ho fatto il possibile. Spero che non troviate il mancato sbaciucchiamento con Daryl fuori luogo o troppo prematuro (per il loro stardard da lumaconi - anche se, ehm, è colpa di Daryl). Nel caso, sono aperta alle vostre opinioni, anche sulla posizione di Beth rispetto a Pete, su Daryl che perde le staffe e malmena Nicholas, insomma, su tutto.

Ho voluto inserire sfacciatamente l'headcanon di Glenn che li becca/sospetta qualcosa per primo perché è una cosa che ho trovato in modo ricorrente su Tumblr e, personalmente, l'adoro :'D Spero abbia fatto sorridere anche voi!

E niente gente, per questo capitolo è tutto. Ringrazio veramente di cuore tutte le persone che hanno letto lo scorso capitolo, che hanno aggiunto la storia alle seguite e alle preferite. Un grazie particolare a chi ha recensito infondendomi coraggio e rassicurandomi, nonostante la mia sparizione di sei mesi. Siete un amore <3

Ci sentiamo al prossimo capitolo.

Un abbraccio,
Blakie


PS: pareri sulla settima stagione? Io l'ho trovata noiosissima. Si salvano solo la premiere (SIGH) e l'ultima puntata. Quello che c'è nel mezzo MEH.
PPS: ah stavolta niente immagine di testa, il mio html non collabora -.-


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Capitolo 11
*** Conquer ***


AND WELL BE GOOD 11 HTML
And we'll be good

Capitolo 11

 

L'ottimismo che avevo cercato di infondere a me stessa e a Daryl, sembrò avermi abbandonata la mattina successiva, quando mi svegliai. Anzi, alzai la testa dal cuscino con un opprimente senso di angoscia che mi attanagliava le viscere. Mi sedetti sul bordo del letto non appena uscita dalle coperte, fissando il panorama fuori dalla finestra con una brutta sensazione addosso. Scossi la testa, cercando di scacciare quel malessere e mi alzai, tenendomi impegnata con la solita routine mattutina.

Dopo colazione, uscii di casa per recarmi a casa di Maggie: ero ancora intenzionata ad aiutarla a parlare con gli abitanti di Alexandria, per convincerli che Rick non si meritava l’esilio.

Rick. Chissà se si è ripreso, pensai.

«Wow, riusciamo a trovarci persino senza metterci personalmente d’accordo».

Mi riscossi dai miei pensieri, mentre osservavo Maggie scendere dagli scalini del portico e raggiungermi. In effetti, non mi ero accordata direttamente con lei, il giorno prima, ma avevo solo avvisato Glenn. Le sorrisi. «Ormai non c’è da sorprendersi più di niente».

«Beh, mi sorprende che tu sia già sveglia, questo sì. Stavo giusto venendo a casa tua, convinta di doverti trascinare giù dal letto», mi prese in giro.

Mi strinsi nelle spalle, prendendo a camminare accanto a lei. «Non sono più la dormigliona di un tempo. E comunque, stanotte non ho dormito molto bene, tanto valeva alzarsi».

Maggie mi guardò, rabbuiandosi. «Sei preoccupata?».

Anche se non lo esplicitò, sapevo che quella frase aveva un seguito: per oggi. E per stasera. Era la prima occasione, dal giorno prima, che mi si presentava per parlare con Maggie di ciò che era successo con Rick; quindi, puntai sulla sincerità.

Annuii, incerta. «Tu?».

«Abbastanza. Non pensavo che Rick sarebbe scoppiato in quel modo. Né che la situazione con Pete sarebbe precipitata così velocemente». A quel punto, mia sorella mi rivolse uno sguardo colpevole. «Non ne abbiamo più parlato Beth, scusa. Con tutte le cose che sono successe, non mi è venuto in mente di fermarmi a rifletterci sopra e trovare una soluzione».

Scossi la testa. «Non ti preoccupare. Lo sai che anche io ho avuto altro per la testa».

Maggie piegò le labbra in un sorriso velato di tristezza. «Lo so», rispose, accarezzandomi di sfuggita una guancia con fare materno.

Cambiai discorso in fretta. «Comunque, hanno spostato Pete in un’altra casa».

«Sì, Glenn me l’ha detto. Ora dobbiamo occuparci della questione più difficile».

«Già», commentai e mi sentii abbastanza stupida.

Maggie sospirò. «Ho detto che sarei andata a parlare con gli abitanti, ma non so quanto servirà».

Abbassai lo sguardo, calciando via un sasso con la punta dello scarpone, mentre continuavamo a camminare in silenzio. Non capii se fosse frutto del mio cervello, ma mi sembrò di respirare un’aria diversa, quella mattina. Come se tutta la tensione esplosa il giorno prima avesse contaminato l’aria attorno a noi; c’era un’atmosfera strana, di attesa. Era tutto uguale, ma incredibilmente diverso.

«Dobbiamo parlare con Deanna, prima di tutto».

Mia sorella mi diede una gomitata. «Secondo te non stiamo andando da lei? Sto solo allungando il giro perché sto pensando a cosa dirle di convincente».

Realizzai solo in quel momento che avevamo iniziato a camminare senza meta, assorta com’ero. Ridacchiai, scuotendo la testa. «Non arriveremo più, allora».

Maggie si rabbuiò, così mi affrettai a rassicurarla. «Sto solo scherzando, Mags. Pensa un po’ le coincidenze, io e Deanna stavamo proprio parlando di Pete e Rick, quando ieri è successo quel casino».

Lei annuì. «Diciamo che, per alcuni di noi, non è stata una sorpresa».

«Esatto. Ho solo… paura di scoprire come la pensa adesso. Già ieri era preoccupata per l’impazienza di Rick e lo sai che ci serve il suo appoggio, per farlo restare. A questo punto, però, non sono più sicura di niente».

Maggie si fermò e mi appoggiò una mano sulla spalla per incoraggiarmi. «Riusciremo a convincerla. Lo sa anche lei che Alexandria ha bisogno di noi».

Mi rabbuiai, pensando che il giorno prima ero stata io a infondere coraggio agli altri, mentre quella mattina mi riusciva più difficile del solito. Non dovevo lasciarmi abbattere dagli eventi, era sempre stata quella la mia filosofia. Ma le tensioni tra la mia famiglia e le persone che mi avevano accolta quando io e Noah eravamo rimasti soli, si riflettevano in me come uno specchio e mi facevano sentire divisa a metà.

Arrivammo a casa di Deanna e ci accolse Reg, facendoci attendere in soggiorno mentre la cercava. Notai che mia sorella fissava fuori dalla finestra con sguardo torvo. Quando mi sporsi per vedere, capii il perché: fuori c’era Padre Gabriel. Mia sorella aveva sentito per sbaglio una conversazione tra il prete e Deanna, che veniva avvertita del fatto che fossimo pericolosi e che non ci si dovesse fidare di noi. Da allora lo avevamo guardato con sospetto; in realtà, mi amareggiava che un uomo di fede potesse essere così meschino con persone che lo avevano salvato.

Reg ci invitò fuori, in veranda, dove ci attendeva Deanna. Non appena uscimmo, parlò, saltando qualsiasi convenevole. Non l’avevo mai vista così seria.

«Di che cosa mi dovete parlare?».

Maggie prese da subito in mano il comando della conversazione. Forse mi aveva visto troppo turbata, per permettermi di mediare ancora una volta. «Della riunione di stasera».

«Maggie, se potessimo discutere–», intervenne Reg, che venne subito interrotto da Deanna.

«Voglio parare con tutti di quello che è successo e di che cosa dobbiamo fare».

Mia sorella mantenne un’espressione ferma. «Se questo prevede cacciare Rick, non funzionerà».

«Dimmi che cosa intendi», rispose la donna, alzando un sopracciglio.

«Lo hai lasciato entrare, come hai fatto con tutti noi. Hai parlato con noi, hai deciso. E ora vuoi affidare questa decisione a della gente spaventata che non conosce l’intera storia», continuò mia sorella, poi fece una pausa, prima di parlare di nuovo. «Non è da leader».

Deanna aveva ascoltato tutto senza fiatare, lo sguardo che gravitava da me a Maggie, indecifrabile. Reg intervenne nuovamente e cercò di tranquillizzarci, dicendo che, quello previsto per quella sera, era solo un incontro per raccogliere le opinioni di tutti.

«Ed io prenderò la decisione finale, come ho sempre fatto», concluse Deanna, scrollando le spalle.

Ci avevo visto giusto, quindi.

«Era solo frustrato. Ha visto tante cose, ha perso tante cose. Tutti noi le abbiamo perse».

Deanna le rispose con la voce spezzata. «Anche noi abbiamo perso tante cose».

Maggie la osservò qualche istante, come me e Reg, prima di parlare nuovamente e con sicurezza. «Noi ne abbiamo perse di più».

A quel punto, Deanna iniziò ad agitarsi. «Rick ha puntato la pistola contro delle persone!».

Mia sorella rimase impassibile. «Non ha premuto il grilletto», le fece notare e io la guardai.

«E ci basiamo su questo?!», esclamò la donna, fissando gli occhi nei miei, come a cercare un sostegno. Forse pensava che non parlassi perché, in realtà, ero d’accordo con lei.

«Sì», risposi, per conto di Maggie.

«Beth, tu dovresti sapere come funzionano le cose qui».

«So anche come funzionano là fuori. E se lo sapeste anche voi, Deanna, credimi che non sareste così sconvolti da un uomo che punta una pistola contro altre persone. Fuori dalle mura, questo non è niente», risposi, cercando di non farmi sopraffare dalle emozioni.

«Là fuori è là fuori, ma qui dentro cerchiamo di mantenere una certa civiltà. Chi vive qui deve sentirsi al sicuro, non uscire di casa e vedersi minacciato con una pistola».

«Per Rick la sicurezza è la cosa più importante. Era solo frustrato», ribattei, accorata, riprendendo le parole di mia sorella. Avanzi verso Deanna e le presi le mani tra le mie. «C’è bisogno di Rick, qua. Lo sappiamo noi come lo sai tu. Se non vuoi fidarti di Maggie, o di chiunque sia qui da poco tempo, almeno fidati di me. Per favore».

Deanna mi osservò per qualche istante, l’espressione contrita e gli occhi che facevano da specchio per il suo conflitto interiore. Erano successe tante cose in poco tempo e ne era stata sopraffatta, lo vedevo.

Abbassò lo sguardo. «Beh… farò quello che devo fare», mormorò a voce spenta. Si divincolò dalla mia presa senza energia e ci voltò le spalle, tornando a fare quello che stava facendo prima che arrivassimo.

Udii mia sorella, dietro di me, sbottare di frustrazione, e la vidi scendere le scale come un fulmine e per andarsene. Prima che potessi raggiungerla, quando ormai ero sull’ultimo scalino, Reg mi afferrò per un braccio. Mi voltai.

«Beth, le parlerò. Parlerò con tutti, questa sera. Dobbiamo smetterla di scappare e iniziare a vivere tutti insieme, se vogliamo “mantenere una certa civiltà”», mi rassicurò, citando ciò che aveva detto sua moglie.

Gli sorrisi. Reg era un brav’uomo e in quel momento mi tornarono in mente tutte le volte che lo avevo visto progettare qualcosa assieme a Noah. Vedere come il mio migliore amico pendeva dalle sue labbra mi aveva sempre fatta divertire, ma Reg era davvero una persona saggia. Sperai che le sue parole servissero a dare manforte alla nostra causa.

«Grazie», risposi, prima di voltarmi e raggiungere mia sorella.

Il dissidio avuto con Deanna non ci scoraggiò minimamente. Impiegammo tutta la mattina per parlare con più abitanti di Alexandria possibili. Notai molta incertezza sui loro volti, confusione e paura; non potevo certo biasimarli, ma speravo che la mia parola potesse contare qualcosa, per loro. Dopotutto, mi conoscevano da prima che arrivassero i “nuovi, spaventosi individui” salvati da Aaron. Seppur diffidenti, le uniche persone dalle quali ricevetti apertamente supporto furono Josie e Samantha, mie colleghe. Anzi, Josie aveva sorvolato di cuore sul comportamento di Rick, gioendo con ferocia delle botte inferte a Pete e del suo successivo isolamento in un’altra casa.

«È forte l’infermiera», disse Maggie con le mani in tasca, mentre tornavamo a casa sua.

Ridacchiai, ripensando alla risposta accorata di Josie. «Chissà da quanto aspettava che qualcuno rimettesse Pete al suo posto».

Mia sorella sorrise, ma non disse nulla. La vedevo pensierosa: sicuramente, si stava interrogando sull’esito del nostro giro di persuasione, se così si poteva chiamare. Camminammo per un po’ in silenzio, poi Maggie parlò di nuovo.

«Non ho visto Daryl, in giro».  

«Credo che sia uscito stamattina. Per cambiare un po’ aria, sai».

Lei sospirò, afflosciando le spalle. «Lo capisco, lo farei anche io se potessi».

Sorrisi tra me e me, contenta che Daryl potesse stare, anche solo per qualche ora, lontano da quell’atmosfera così opprimente. Era la prima volta che provavo un vago senso di soffocamento, dentro quelle mura. Se avessi potuto, come Maggie, sarei scappata fuori dal cancello in quello stesso momento e sarei rimasta fuori con Daryl finché le acque non si fossero calmate. Solo io e lui, come era successo dopo la distruzione della prigione; come gli allenamenti all’alba del mese precedente. E invece sarei rimasta dentro, continuando col mio disperato tentativo di fare da cerniera[1] tra due mondi che, in quel momento, sembravano quasi inconciliabili.

 

~

 

L’assemblea si sarebbe svolta nel cortile sul retro della casa di Deanna; attorno al piccolo fuoco che era stato acceso per scaldarci in quella fredda serata autunnale, c’erano gli abitanti di Alexandra da un lato e la mia famiglia dall’altro. Io mi trovavo esattamente in mezzo e, opposti a me, si erano sistemati Reg e Deanna. Maggie, di fianco a me, continuava a lanciare occhiate ansiose all’ingresso del cortile. «Dov’è finito Glenn?».

Nel suo sussurro avvertii tutta l’angoscia dovuta al fatto che non lo vedeva da quella mattina e non potei biasimarla; nemmeno Daryl si era fatto vedere. In realtà, non erano gli unici ad essere assenti: mancavano Rick, Pete, Nicholas e Padre Gabriel.

Deanna, con fermezza, sentenziò che l’assemblea sarebbe iniziata ugualmente anche senza i due “protagonisti” principali. Chi aveva qualcosa da dire, poteva già iniziare a farsi avanti. Fu come una specie di strana coreografia parlata, in cui si alternavano le opinioni degli abitanti di Alexandria e le “nostre”, anche se, per quel che mi riguardava, la divisione non era poi così netta. Mi sentivo perfettamente in mezzo alle due parti.

Vennero espressi dubbi, più o meno blandi, sull’affidabilità di Rick; da qualcuno venne espressa la paura che, un giorno, il nostro leader avrebbe potuto di nuovo perdere la testa e uccidere senza farsi troppi scrupoli. Ci fu anche chi gli diede ragione – Josie, con Jessie sottobraccio – affermando che Pete era pericoloso e che era ora che qualcuno lo rimettesse al suo posto.

Chi conosceva Rick da ben prima, non mancò di difenderlo con vigore: prima Michonne, poi Carol, Abraham, Maggie e altri di noi si alternarono per convincere i dubbiosi che la scelta migliore per tutti era che Rick rimanesse lì.

Mi lasciarono il tempo di riflettere su cosa dire, come fossi una mediatrice tra i due gruppi: nessun altro aveva vissuto abbastanza tempo con entrambi come me. Quando fu il mio momento di parlare, mi sentii un po’ nervosa; di certo, non era come cantare davanti a un pubblico. Dovevo scegliere le parole giuste, anche se molte cose che avrei voluto esprimere erano già state dette da mia sorella e dagli altri.

Feci un respiro profondo e parlai.

«Io, come mia sorella, come Rick, ne abbiamo passate tante. Siamo cambiati, siamo dovuti cambiare, per sopravvivere. Quell’uomo ha avuto il coraggio di sobbarcarsi del difficile incarico di leader, per permettere a tutti noi di andare avanti e proteggerci, dagli uomini e dai vaganti. So che i suoi modi possono apparire poco ortodossi, ma è grazie a questi se io posso essere qua con voi, in questo momento, a parlarne. È grazie a questi se io sono arrivata fino a qui e sono stata salvata assieme a… a Noah – feci una pausa per ricacciare indietro le lacrime – Abbiate fiducia in me, se ancora non riuscite ad averla in chi è arrivato per ultimo qua dentro. Avete bisogno di Rick, come Rick ha bisogno di questo posto, solo che ancora non lo sapete, come non lo sa lui. Dobbiamo solo… restare uniti».

Dopo il mio intervento, seguì qualche istante di silenzio, attenuato dallo scoppiettare delle braci di quel piccolo falò. Sperai che, nonostante quel silenzio, ciò che avevo voluto dire fosse arrivato. Che chi mi aveva ascoltata avesse capito.

Dato che nessuno ebbe nulla da aggiungere, Deanna riprese la parola e fece sapere – in nome della trasparenza – ciò che le aveva riferito Padre Gabriel, aggiungendo poi che ciò che aveva fatto Rick ne fosse la conferma; strinsi i pugni, mentre avvertivo un’ondata di rabbia invadermi. Dovevo stare calma.

«Io speravo che Gabriel fosse qui, stasera», concluse, facendosi nuovamente da parte.

«Io non lo vedo, Deanna. Stai riferendo ciò che ha detto qualcun altro», le fece notare Jessie. «L’hai registrato?».

«Non è qui», intervenne Maggie.

«Nemmeno Rick», replicò Deanna con durezza.

Mia sorella la fissò per qualche istante con la stessa durezza nello sguardo; poi si congedò con un «scusatemi» e se ne andò. Mi venne spontaneo seguirla ma mi bloccai, ricordandomi che il mio compito era rimanere lì a difendere Rick.

Tutti hanno un compito.

Dopo un iniziale momento di imbarazzo, decise di prendere la parola Tobin, uno degli abitanti originari di Alexandria. Stava portando avanti il suo intervento incerto quando lo vidi bloccarsi e fissare un punto davanti a sé con aria sorpresa. Seguii il suo sguardo, come fecero tutti: all’ingresso del cortile di Deanna era apparso Rick, sporco di sangue in volto e con un corpo issato sulla sua spalla destra. Per un millesimo di secondo, ebbi il terrore che le gambe che penzolavano addosso a lui fossero di Pete.

Rick mi smentì – ci smentì tutti probabilmente, buttando per terra ciò che si rivelò essere il cadavere di un vagante. «Non c’erano sorveglianti davanti al cancello. Era aperto!», proferì, con tono concitato e aggressivo.

Vidi Deanna chiedere spiegazioni a Spencer con un solo sguardo.

«Avevo chiesto a Gabriel di chiuderlo», si giustificò il ragazzo.

«Vai!», gli ordinò Deanna, con espressione grave.

Rick si fece avanti, avvicinandosi al fuoco. «Non l’ho portato dentro io. È arrivato qui dentro da solo», sottolineò. Poi, si voltò verso Deanna e Reg, che lo osservavano interdetti vicino al muretto. «Entreranno sempre, i morti e i vivi, perché noi siamo qui e la gente là fuori ci darà la caccia e ci troverà. Proverà a usarci, proverà ad ucciderci, ma noi uccideremo loro. Noi sopravvivremo: vi mostrerò come».

Mentre parlava, Rick si guardò intorno, incontrando uno per uno lo sguardo degli altri abitanti di Alexandria; quando incrociai i suoi occhi chiari – che risaltavano in contrasto con il rosso che gli imbrattava il volto - sentii qualcosa smuoversi nel mio stomaco. Era la consapevolezza che ciò che stava dicendo fosse vero e sperai che quella presa di coscienza scattasse anche in quelle persone che lo stavano guardando con timore. Guardai Deanna, che era sempre più scura in volto; forse, stava iniziando a rendersi conto che affidarsi a Rick fosse l’unica cosa che Alexandria potesse fare per salvarsi dal mondo esterno.  

«Sapete, stavo pensando…», Rick si grattò una tempia col dito e assunse un’espressione quasi neutra. «Stavo pensando a quanti di voi dovrò uccidere per salvarvi la vita».

Mi sentii gelare, mentre incrociavo lo sguardo di disappunto di Carol, come se fossimo entrambe d’accordo sul fatto che quella frase se la sarebbe potuta risparmiare. Non era certo una cosa da dire a un gruppo di persone spaventate e che stava discutendo del suo esilio.

«Ma non c’è bisogno che io lo faccia: voi cambierete»», aggiunse, con un tono di voce più… conciliante? Poi, si rivolse direttamente a Deanna. «Non mi pento di quello che ho detto ieri sera: mi pento di non averlo detto prima. Non siete pronti, ma dovete esserlo. Adesso dovete esserlo… La fortuna vi abbandonerà».

Le sue parole riempirono il silenzio e continuarono a galleggiare tra noi presenti, come l’eco di qualcosa che spaventava, ma che andava affrontato per non rischiare la distruzione. E poi lo vidi: il volto pieno di cerotti e l’espressione deformata da una rabbia folle. Pete.

«Non sei uno di noi», proferì, dando il tempo a tutti e a Rick per voltarsi verso di lui. «Non sei uno di noi!», ripeté con un grido. Quando alzò le braccia in un gesto di frustrazione, mi accorsi che aveva in mano una katana. Un terrore improvviso mi arpionò allo stomaco, mentre la paura si faceva largo anche tra i presenti. Solo Rick rimase impassibile.

Reg gli andò incontro, cercando di calmarlo, mentre Deanna chiamava il nome di suo marito per avvertirlo di non stare troppo vicino a quel folle armato. Rick fissava Pete con uno sguardo di ghiaccio, la mano pronta sulla fondina della pistola. Sentii il cuore balzarmi in gola.

E poi accadde. Quel momento di confusione, di concitazione, raggiunse l’apice ed esplose il caos. Successe talmente velocemente che il tempo sembrò scorrere a rilento: Reg che cerca di bloccare Pete, Pete che, per liberarsi da quella presa indesiderata, lo spinge via con vigore. La katana stretta nella mano sbagliata che taglia la gola a Reg con un colpo solo; lo schizzo di sangue e il corpo dell’uomo che si tende all’improvviso; poi l’urlo di Deanna.

Le orecchie presero a fischiarmi, ma le mie gambe scattarono verso Deanna, che continuava ad urlare disperata mentre accompagnava Reg che si accasciava per terra. La mano che si era portato alla gola tremava furiosamente, ma non era nulla in confronto ai gorgoglii che emetteva mentre soffocava a causa del suo stesso sangue.

Mi inginocchiai di fronte a loro, disperata, mentre cercavo di scacciare l’immagine di mio padre che veniva decapitato dal Governatore. Mi accorsi che anche Josie era accanto a me, così le sfilai il foulard senza neanche chiederglielo e, tra le lacrime, provai a tamponare con urgenza il macabro sorriso che Pete aveva aperto sulla gola di Reg, dal quale continuava a zampillare sangue. Lo sapevo che non sarebbe servito a nulla, eppure non potei fermarmi, non con Deanna che continuava a gridare e piangere dalla disperazione. Il cuore mi batteva furiosamente nelle orecchie e il respiro quasi mi si bloccò in gola.

«Reg, resta qui, resta qui», sussurrai, continuando a premere la stoffa sul suo collo.

Sentii la mano di Josie posarsi sulla mia spalla. «Beth», disse soltanto. È finita, non c’è più niente da fare. Come conferma a ciò che la mia collega aveva omesso, sentii sul dorso della mia mano l’ultimo respiro che Reg esalò, prima che il suo sguardo si spegnesse e la sua mano, inerme, rimanesse a mezz’aria.

No, non doveva andare così, non doveva andare così.

«Come pensi che andrà, domani?».

«O male, o di merda».

«Come pensi che andrà, domani?».

«Andrà tutto bene».

Sollevai il foulard madido di sangue e lo lanciai da qualche parte alla mia sinistra, come se avesse improvvisamente iniziato a scottare. Mi allontanai dal corpo di Reg e mi accasciai contro la ringhiera degli scalini, mentre mi arrivavano indistinte e ovattate le grida di Pete, che continuava a ripetere: «è lui! È colpa sua!».

Con la vista annebbiata dalle lacrime, vidi che Abraham aveva atterrato quell’assassino e lo teneva fermo, la guancia premuta contro il terreno. Vidi Deanna che cercava lo sguardo di Rick come fosse un’ancora di salvezza. La pistola che Rick stringeva tra le mani era puntata su Pete.

«Rick», mormorò la leader di Alexandria.

Un secondo di silenzio, il più lungo, prima che la donna parlasse di nuovo.

«Fallo» e mi venne istintivo guardare altrove.

Un colpo, il rumore assordante del bossolo che tintinnava sul terreno, un silenzio ancora più assordante che venne interrotto da una voce sconosciuta, in quel momento sospeso.

«Rick?».

Nonostante fossi sconvolta, riuscii ad alzare lo sguardo sull’uomo che aveva appena parlato. Lo vidi offuscato, ma la persona che si trovava accanto a lui la misi a fuoco subito; era l’unica della quale avessi bisogno in quel momento. O in qualsiasi altro momento.

Il suo nome si formò sulle mie labbra e uscì in un sussurro inudibile.

Daryl.

Non capii come, ma l’arciere sembrò udire il mio mormorio, perché subito dopo il suo sguardo incrociò il mio: la sua espressione mutò come se avesse appena visto un fantasma. Probabilmente, sconvolta com’ero, assomigliavo davvero a un fantasma. Le lacrime non accennavano a fermarsi, mentre con la coda dell’occhio vedevo Josie che aiutava Deanna ad alzarsi; qualcuno aveva spostato il corpo di Reg dalla pozza di sangue che si era creata.

Avevo sbagliato tutto: non era andata bene, per niente. Era andata di merda, come aveva previsto Daryl. Ci sarebbe stato un momento in cui avrei smesso di essere un’illusa? Alzai lo sguardo appena in tempo per vedere Daryl che si inginocchiava di fronte a me.

«Beth», mi chiamò, con gentilezza.

Mi bastò osservare il suo volto per sentirmi un po’ meglio e annuire. Feci per alzare le mani e sfregarmi le guance per asciugarle dalle lacrime, ma con un gesto fulmineo Daryl mi afferrò per i polsi e mi bloccò. Lo guardai interrogativa, poi lo notai e ricordai: le mie mani erano impregnate del sangue di Reg.

«Aspetta», disse, lasciando la presa e facendo sparire la mano dietro la schiena. Quando la riportò avanti, stringeva il suo fazzoletto nero. In un flash, mi ricordai di quando eravamo appena scappati dalla prigione e mi era stato prestato per raccogliere le bacche, per noi e per la nostra famiglia. Sentii un tuffo al cuore.

Scossi la testa e strinsi gli occhi, ritirando le mani. «Te lo sporcherò», mormorai, con la voce rotta.

Lui sbuffò. «Da’ qua», mormorò, poi mi riafferrò con gentilezza il polso. Con la mano coperta dal fazzoletto, massaggiò la mia per pulire via il sangue; con meticolosità, passò la stoffa sul palmo, sul dorso, sulle dita. Poi, fece lo stesso con l’altra; il suo tocco era piacevole e delicato come una carezza, il cui conforto mi si irradiò fino al cuore. Nel frattempo, non riuscii a scostare lo sguardo dal suo volto, celato in parte dai capelli che gli ricadevano sulla fronte.

«Fatto», disse, lasciando le mie mani. Ripose il fazzoletto nel taschino anteriore della camicia che indossava.

«Se me lo lasci te lo lavo».

Si strinse nelle spalle. «Dopo lo butterò nel lago. Forza, alzati», mi invitò, spostandosi di lato e poggiandomi una mano sulla schiena. Tornare in piedi fu come essere immersa nuovamente nella realtà. Il vociare indistinto si era affievolito appena: molti degli abitanti non c’erano più – sicuramente Rick doveva aver dato l’ordine di tornare ognuno a casa propria – così come i due cadaveri; forse era stato Abraham a portarli via. In piedi attorno al fuoco erano rimasti lo sceriffo, l’uomo a me sconosciuto e Carol. Poi, Deanna, che era seduta per terra, di fronte alla pozza di sangue di suo marito e fissava il vuoto.

La guardai, piena di compassione, mentre Daryl si rivolgeva a Rick. «Che diavolo è successo, amico?», ma non ascoltai la risposta.

Mi avvicinai a Deanna, chinandomi accanto a lei. «Deanna…».

«Ho sbagliato tutto», mormorò, senza guardarmi. In realtà, non ero nemmeno sicura che si stesse rivolgendo a me. Sospirai, piena di dispiacere. Avevo capito a cosa si riferiva, che ragionamento stava facendo: se avesse allontanato prima Pete, se avesse ascoltato prima Rick, Reg sarebbe stato ancora vivo. Lo avevo fatto anche io, con Noah. E sapevo che l’unica cosa da fare, fosse quella di lasciarle spazio, seppur con riluttanza. Le strinsi la spalla per un secondo, poi mi alzai e mi allontanai. Lanciai un’occhiata alle mie spalle, gli “adulti” che stavano discutendo fittamente di strategie, scelte, cose che in quel momento non avevo la minima voglia di sentire. Volevo solo tornare a casa e farmi una doccia, provare a dormire e affrontare tutto il giorno dopo.

Me ne andai silenziosamente, lasciandomi alle spalle quel luogo di morte. Dopo essermi allontanata di qualche metro dal cortile di Deanna, sentii dei passi alle mie spalle: mi voltai, allarmata – da cosa, poi? – per tranquillizzarmi immediatamente quando capii che era Daryl. Mi fermai in mezzo alla strada, osservandolo mentre mi raggiungeva.

«Ehi», proferii, quando si fermò di fronte a me. Che strana voce mi era uscita. Mi schiarii le corde vocali, prima di continuare. «Stai andando da qualche parte per conto di Rick?».

Lui tergiversò qualche istante, torturando la tracolla della balestra con le dita, issata sulla sua spalla destra. «Uhm, no».

Rimasi in silenzio, osservandolo perplessa, in attesa che aggiungesse qualcosa. Abbassò lo sguardo: sembrava… in imbarazzo? Cosa gli prendeva?

Stavo per parlare, quando Daryl alzò nuovamente lo sguardo nel mio.

«Stai bene?», domandò, in tono basso.

La nostra bolla ci risucchiò nuovamente, quando capii che non stavamo andando nella stessa direzione per motivi diversi, ma lui mi aveva raggiunta perché era preoccupato per me. Voleva assicurarsi che stessi bene. Appena realizzai, mi si riempirono gli occhi di lacrime, mentre una sensazione calorosa si diffuse nel mio petto.

Cercai di sciogliere il nodo che avevo in gola. «Potrei stare meglio», ammisi.

Lui annuì, studiandomi per qualche momento. Le perle azzurre che aveva al posto degli occhi mi intimidirono, per qualche ragione, così abbassai lo sguardo sul terreno, torturando la stoffa delle tasche del mio giaccone. Non volevo usare nuovamente Daryl come muro del pianto, o sfogare con lui il malumore per tutto quello che era successo.

L’aria frusciò accanto a me, e mi accorsi che Daryl mi aveva superato e si stava incamminando. «D-Dove vai?», gli domandai, incerta.

Lui si fermò, rispondendomi senza voltarsi. «Andiamo a casa», disse, nascondendomi la sua espressione.

Una sensazione confortante, come quella che avevo provato poco prima, raggiunse ogni terminazione nervosa nel mio corpo. Io stavo male e lui era lì, con me, per starmi vicino. Senza nemmeno il bisogno di chiederglielo. Gli occhi mi si inumidirono di nuovo, ma, questa volta, non per la tristezza. Per il sollievo.

Ricacciai le lacrime che minacciavano di uscire, raggiungendolo con uno scatto frettoloso. Daryl si assicurò che fossi al suo fianco, prima di riprendere a camminare, in silenzio. Il cuore iniziò a battermi forte, quando, con timidezza, allungai la mano verso la sua e la sfiorai. Avvertii il tremore che gli scosse la mano, ma non si tirò indietro, nemmeno quando intrecciai le mie dita con le sue. La sua mano era calda, ruvida e accogliente come mi era sembrata davanti a quella lapide, nel giardino della casa funeraria. Come mi era sembrata quando Daryl era stato con me una notte intera, mentre sfogavo il mio cordoglio per la morte di Noah.

Come in un tacito accordo, ci dirigemmo verso casa mia, raggiungendola dopo qualche minuto. Sulla porta di casa, mentre la aprivo, lo guardai con una domanda nello sguardo: mi seguì dentro, senza lasciare la mia mano. Chiuse la porta e mi guidò verso il salotto buio, invitandomi a sedermi sul divano. Lasciò la mia mano per appoggiare la balestra contro il tavolino, sul quale appoggiò il fazzoletto che aveva usato per pulirmi le mani.

Scattai in piedi. «Te lo lavo subito». Cercò di protestare, il volto corrucciato visibile nella penombra, ma lo fermai. «Per favore», dissi, guardandolo negli occhi, mentre prendevo quel pezzo di stoffa imbrattato dal tavolino. Non so cosa intravide nella mia espressione, ma mi lasciò andare. Gli sorrisi per ringraziarlo. «Torno subito».

Mi recai piuttosto velocemente in bagno, accendendo la luce – che, per qualche secondo, mi infastidì – e presi la bacinella che tenevo sotto il lavandino. Immersi il fazzoletto nell’acqua calda, cercando di ignorare i residui di sangue che rilasciò a contatto con l’acqua. Aggiunsi il detersivo e il disinfettante, usandoli per lavarmi bene le mani sotto il getto caldo, mentre la bacinella si riempiva. Diedi un’occhiata alla mia immagine riflessa, il mio viso emaciato che mi restituiva lo sguardo, fissandomi con occhi gonfi e arrossati. Decisi di darmi una rinfrescata anche al viso e sistemare la coda che, nel trambusto generale, si era disfatta. Chiusi il rubinetto e lasciai il fazzoletto ammollo, ritornando in salotto.

«Mi sono lavata le mani, nel frattempo. Vuoi?», gli domandai, indicando alle mie spalle con il pollice. Daryl mi aveva aspettata in piedi, tra il divano e il tavolino e lo trovai buffo, nel suo sentirsi ospite.

«Mh», mugugnò, superandomi e raggiungendo il bagno.

Mentre lo aspettavo, mi tolsi gli scarponi e mi accoccolai contro lo schienale morbido del divano, raccogliendo le ginocchia al petto. Non so se fosse il frutto di tutto quello che era accaduto, ma sentivo che tra me e Daryl c’era qualcosa di diverso. Forse lo vedevo più rilassato e aperto nei miei confronti? Forse cercava di starmi vicino come poteva, perché doveva avermi vista molto scossa, a casa di Deanna. E, beh, la ero.

Quando tornò, si sedette accanto a me, sul bordo del divano e gli avambracci appoggiati alle cosce, sporto in avanti.

«Puoi metterti più comodo, se vuoi», gli suggerii. Mi sentii un po’ stupida.

Daryl mi lanciò un’occhiata di sottecchi e rizzò le spalle, impacciato, appoggiando lentamente la schiena contro lo schienale e i palmi sulle cosce. Mascherai la risata che mi uscì spontanea con un colpo di tosse. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, immersi nella penombra del soggiorno.

«Stai meglio? Rispetto a prima, intendo», domandò all’improvviso, cogliendomi di sorpresa. Era la seconda volta, in una sola serata, che me lo chiedeva. Non era da lui.

«Io… più o meno. Dovevo solo allontanarmi da tutto quel trambusto. Perché me lo chiedi?», domandai, con cautela. Non volevo che si mettesse sulla difensiva.

Si strinse nelle spalle, con fare indifferente. «Così. Ti vedo strana».

La sua risposta mi incuriosì. «In che senso?».

Daryl mi lanciò un’occhiata indecifrabile, per poi guardare subito altrove. «Niente, lascia stare».

Lo guardai, incurvando le labbra in un mezzo sorriso. «Sai, penso di aver capito. Sono più silenziosa del solito, vero? Almeno con te». Si girò nuovamente a osservarmi, ma non mi smentì, così continuai. «Beh, il fatto è che non voglio usarti come muro del pianto e delle lamentele come faccio di solito», ammisi.

«Tu parla, poi quando mi stanco posso sempre far finta di ascoltarti», replicò, con finto tono burbero.

«Perché, non lo fai sempre?», scherzai. Poi abbassai lo sguardo, giocando con un filo sfuggito alle cuciture della manica della camicia. «Comunque, non saprei nemmeno cosa dire. Ho un tale caos in testa, in questo momento… Sono incazzata e delusa, delusa da come sono andate le cose. Delusa perché, ancora una volta, mi sono comportata come una che vive nel mondo delle fiabe. Che stupida – risi, amaramente – ero convinta che la riunione di stasera potesse risolvere tutto. Invece è finita con due persone uccise».

«Certe situazioni possono solo degenerare», commentò Daryl.

«Sì, ma… non l’ho mai preso in considerazione, quello scenario. Ancora non ho imparato che bisogna sempre essere pronti al peggio. Ricordarsi che esiste quella possibilità che le cose potrebbero andare male», mormorai, stringendo le braccia al petto. «Ieri sera, quando ti ho detto che sarebbe andato tutto bene, ne ero fermamente convinta. Non esisteva un’altra alternativa per me».

«Beh, è il tuo ruolo, quello di sperare».

Sorrisi, triste. «Sto iniziando a pensare che non sia poi così positivo, come modo di pensare. Tutte le volte che poi mi scontro con la realtà è come ricevere un pugno nello stomaco. Forse non sono ottimista, sono semplicemente stupida».

«Non dire stronzate», sbuffò Daryl. «Tanto non si sa un cazzo del futuro comunque, meglio essere positivi nell’attesa che le cose succedano, no? Belle o brutte che siano».

Il suo incoraggiamento, brusco ma sincero, mi fece sussultare. Mi voltai a guardarlo, senza riuscire a nascondere la meraviglia. Era sempre così incoraggiante, confrontarsi con lui, anche se amava interpretare il ruolo di persona burbera e indifferente. Quando non lo era affatto. Sentii gli occhi pizzicarmi, commossa dall’abilità di Daryl di trovare sempre le cose giuste da dirmi per farmi forza.

Abbassai lo sguardo sulla sua mano e gliela strinsi, sbilanciandomi verso di lui e accoccolandomi contro il suo corpo caldo.

«Grazie, Daryl», sussurrai, la voce spezzata. Ma il cuore era pieno di sollievo.

La cosa che mi soprese fu che non si irrigidì, quando mi appoggiai contro di lui: non riuscii a capire se fosse perché se l’aspettava – vista la piega che avevano preso le cose – o perché, forse, stava iniziando ad abituarsi al contatto fisico con me. Anzi, aumentò per un secondo la stretta sulla mia mano e appoggiò la guancia contro la mia nuca, senza dire altro. Il suo calore mi circondava e mi faceva sentire sicura, sicura anche del fatto che non sarebbe stato necessario chiedergli esplicitamente di rimanere. Non quella notte. Rimanemmo in silenzio per un po’; dopo non so quanto tempo, mi venne in mente una domanda.

«Chi era l’uomo con cui sei arrivato?».

Pensai che Daryl si fosse addormentato, perché ci mise qualche istante a rispondere. «Si chiama Morgan. È un amico di vecchia data di Rick. Cioè, è la prima persona che Rick ha incontrato in questo mondo di merda».

«Come hai fatto a trovarlo?».

«Ci siamo incontrati in mezzo ai boschi, a qualche miglio di distanza da qui. Si era perso e mi ha mostrato una cartina, sulla quale era scritto il nome di Rick. Abraham gli aveva lasciato un messaggio prima di partire per salvare il mondo, te la ricordi la storia?».

«Sì». In realtà, fu molto difficile concentrarmi su qualcosa che non fosse la naturalezza con cui riuscivamo a parlare con le mani intrecciate.

«Ecco. Non so come, è riuscito a trovarla. È tosto, quel figlio di puttana».

Risi dell’espressione colorita che gli uscì, stringendomi di più contro la sua spalla. «Si può dire che fosse nel luogo giusto, al momento giusto».

«Si può dire», asserì, facendo spallucce.

Ritornò di nuovo il silenzio complice nella quale eravamo immersi poco prima, ma, quella volta, fu lui a interromperlo.

«Domani seppelliranno Reg», mi informò.

Sospirai. C’erano troppi funerali in quel periodo, per i miei gusti. «Immaginavo. E Pete?».

«Penso che Rick lo voglia fuori dalle mura».

Mi irrigidii e il mio pensiero corse subito ai suoi figli, Ron e Sam. Immaginai come si sarebbero potuti sentire, vedendo il corpo del padre ripudiato dall’intera comunità. «Oh».

Daryl mi guardò di sottecchi. «Cosa?».

Mi strinsi nelle spalle. «Nulla, è che… da una parte lo capisco, dopo tutto quello che Pete ha fatto. Ha distrutto la sua famiglia e quella di Deanna. Però penso ai suoi figli, soprattutto a Ron. Se volessero andare a trovarlo, per ricordarlo… non potrebbero. Non è nemmeno giusto così».

«Pete era un pezzo di merda, credo che anche i suoi figli lo sappiano».

«Certamente, però… è morto. Ormai non può più fare del male a nessuno. Secondo me è giusto che chi rimane abbia un luogo dove piangere le persone che ha perso». I miei pensieri corsero al mio migliore amico e sentii un nodo doloroso stringermi la gola. «Sai, sono andata, per modo di dire, a trovare Noah. So che è stupido, che è una formalità, ma sapere che lui lì non c’è, perché i vaganti lo hanno ridotto in niente… sapere che non ha nemmeno avuto diritto ad essere seppellito, se ci penso mi fa stare male. Me ne sono resa conto solo ieri mattina».

Non so se lo immaginai, ma sentii la stretta di Daryl aumentare, attorno alla mia mano. Continuai, la voce che mi tremava appena. «Mi sarebbe piaciuto avere qualcosa da portare sempre con me, per ricordarlo. Ma siamo arrivati qui con niente e io non ho ancora avuto il coraggio di andare a casa sua. Anche se penso che l’abbiano già svuotata».

Daryl rimase in silenzio, probabilmente per darmi il tempo di ricompormi, o per rispettare i miei sentimenti. Non c’era molto che potesse dire o fare, per consolarmi. Ormai era andata così. Il silenzio calò di nuovo e, da lì in poi, non parlammo più. Ad un certo punto, sbadigliai sonoramente e Daryl, a quel punto, con un’insolita decisione, lasciò la mia mano per circondarmi le spalle con un braccio e farmi accoccolare contro il suo petto, mentre distendevo le gambe sul divano. Lo sentii rilassarsi: in tacito accordo, decidemmo di dormire lì, per quella notte. Allungai un braccio per afferrare il plaid che tenevo ripiegato sul bracciolo del divano e cercai di coprire entrambi alla bell’e meglio.

Cullata dal respiro di Daryl nel silenzio, lasciai che la stanchezza avesse la meglio e scivolai nell’incoscienza del sonno.

Quando mi svegliai la mattina dopo, mi ritrovai in posizione fetale sul divano, coperta totalmente dal plaid. Mi alzai a sedere e mi stropicciai gli occhi, infastidita dalla luce che filtrava dalle finestre, leggermente indolenzita. La balestra era sparita, così come Daryl: ero da sola. Rimasi qualche istante a contemplare il vuoto, cercando di capire dove potesse essere andato, senza che me ne accorgessi. Mi trascinai fino al bagno e mi sciacquai la faccia: trovai il fazzoletto di Daryl strizzato e messo ad asciugare sulla struttura della doccia. Forse doveva fare qualcosa con Rick, quella mattina.

Andai in cucina, dove l’orologio segnava poco più delle otto e mezza. Mentre ingurgitavo pigramente uno dei biscotti di Carol, mi ritrovai ad osservare la mano che Daryl, la sera prima, aveva stretto per così tanto tempo. Si era pentito di essersi avvicinato così tanto a me? Aveva bisogno di riordinare un po’ le idee, dopo il caos della sera prima? Cercai di non pensarci e non farmi troppe domande. Decisi di farmi una doccia, mi lavai i denti poi andai di sopra a indossare dei vestiti puliti. Decisi di andare da Maggie e poi dal resto della mia famiglia, per vedere un po’ come fosse la situazione. Mentre buttavo i vestiti del giorno prima nella cesta dei panni sporchi, sentii bussare alla porta.

Quando andai ad aprire, mi ritrovai Daryl sulla porta.

«Buongiorno. Posso?», esordì, indicando il corridoio con un cenno del capo.

Gli sorrisi, piacevolmente sorpresa. «Oh, buongiorno. Sei venuto a riprenderti il fazzoletto? Non è ancora del tutto asciutto», proferii, mentre lo lasciavo entrare. Quando raggiunse il soggiorno, notai che portava con sé uno zainetto nero, molto simile a quello che avevamo trovato al country club. Cercai di soffocare la mia curiosità, mentre lo osservavo fermarsi in mezzo alla stanza.

«Va bene lo stesso, si asciugherà nella mia tasca», rispose, stringendosi le spalle.

Annuii. «Pensavo fossi a casa, con gli altri. Stavo per passare», lo informai. Lui mi squadrò per qualche istante, poi si voltò e si diresse in cucina, appoggiando lo zaino sul tavolo. Lo seguii, perplessa. A quel punto, non riuscii più a trattenermi.

«Daryl, cos’è quello?», domandai, osservandolo dall’altra parte del tavolo, mentre lo apriva. Sembrava… teso?

«Sono stato a casa del tuo amico, stamattina», disse, senza guardarmi, mentre mi porgeva lo zaino aperto. Mi bloccai e per un momento mi sembrò di non riuscire più a respirare. Il cuore iniziò a battermi furiosamente, rimbombando nelle orecchie. «Non l’hanno ancora sgomberata».

Mi sforzai di non restare lì impalata e mi avvicinai, per vedere il contenuto dello zaino: c’erano vari oggetti, al suo interno. Con la mano tremante, la prima cosa che estrassi furono tre o quattro CD di un cantante che non avevo mai sentito, ma che sicuramente piaceva a Noah. Li appoggiai sul tavolo, passando agli oggetti successivi. Estrassi un blocco piuttosto pesante e lo aprii: erano pieno di appunti e schizzi di elementi architettonici che doveva aver prodotto durante tutto il tempo che aveva passato con Reg. Se n’era fatto procurare uno, dopo che il suo “mentore” gli aveva suggerito di segnarsi tutto ciò che riteneva importante. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime, che andarono a bagnare le guance quando tirai fuori ciò che era finito in fondo lo zaino: era una foto, scattata sicuramente da Aaron, che ritraeva me e Noah, che ridevamo per qualcosa. Riconobbi la cucina del reclutatore, doveva essere stata scattata dopo una delle varie cene a cui eravamo stati invitati, appena arrivati, spaesati. L’aveva avuta Noah, per tutto quel tempo. Il mio migliore amico…

Con la mano che non stringeva la foto, mi asciugai le guance, alzando lo sguardo su Daryl. Sentivo di avere un’espressione sconvolta, ma non riuscii a trovare le forze di ricompormi.

«È tutto quello che sono riuscito a trovare», disse, in tono basso, fuggendo il mio sguardo. Portò la mano alla cintura, alla quale era appesa una fondina, con una pistola al suo interno. «E questa. Era sua».

Quando me la allungò oltre il tavolo, la presi in mano e la osservai: sulla guancetta in legno, era intagliata una “N”, non molto grande, ma dai contorni ben definiti.

«Olivia mi ha permesso di prenderla. Io ho solo intagliato la sua iniziale, così…», proferì, interrompendosi subito. Sbuffò, ficcando le mani nelle tasche. «Beh, hai capito. È tua, adesso».

Così sarà sempre con te, sul campo di battaglia.

Io continuavo a fissarlo, senza parole. Per la prima volta, rimasi totalmente a corto di cose da dire: era tutto troppo. Cercai di elaborare tutto quello che avevo appena vissuto: Daryl era andato a casa di Noah, al posto mio, perché io non me la sentivo. Aveva raccolto degli oggetti del mio migliore amico, come ricordi in suo onore. Era andato all’armeria e aveva inciso l’iniziale del nome del mio migliore amico, come se in quel modo potessi averlo sempre con me, a proteggermi dai pericoli di quel mondo.

Non c’era niente di abbastanza che potessi dire per poter esprimere la profonda gratitudine che stavo provando per Daryl, in quel momento. Per tutto quello che aveva fatto per me. Gratitudine che, lo avvertii chiaramente, si mischiò assieme a tutti i sentimenti che provavo per l’arciere. Il mio cuore rischiava di strabordare, tutto quell’insieme di emozioni rischiava di sopraffarmi. Il nodo che mi stringeva la gola era stretto, per quello capii che non sarei stata in grado di parlare: ero arrivata a livello. Non potevo più rimandare, fingere, accantonare quello che provavo per Daryl. Non dopo ciò che aveva fatto per me in quelle ultime ore. Per una volta, non mi sarei servita delle parole, sarebbero state inutili e riduttive. Sarei passata ai fatti, come era solito fare lui.

Cercai di controllare il respiro, mentre con lentezza appoggiavo la pistola sul tavolo. Il mio sguardo incrociò il suo e, da quel momento, non lo lasciò. Nemmeno mentre, con la stessa lentezza, aggiravo il tavolo per fermarmi di fronte a lui.

Tutto ciò che a avevo intorno, sparì; tutto quello che non era il suo sguardo di ghiaccio, animato dall’incertezza e sì, anche dalla paura – aveva intuito dove ci avrebbe portato tutto quello? – il suo volto poco distante dal mio, la sua pelle che mi chiamava scomparve dalle mie percezioni. Esisteva solo Daryl, c’era sempre stato solo lui. E sapevo che poteva capirlo dalla determinazione, mista a desiderio, con cui lo stavo guardando.

Con lentezza snervante, iniziai ad avvicinare sempre di più il mio volto al suo. Avvertii subito che il suo respiro si era fatto irregolare, così come il mio.

«Beth», protestò debolmente, con voce bassa e arrochita. Cercò fino all’ultimo di sottrarsi, allontanando il viso dal mio man mano che mi avvicinavo. Ma non glielo permisi perché, nello stesso momento in cui mi issai sulle punte dei piedi con uno scatto, gli afferrai il colletto della camicia e lo avvicinai bruscamente a me, facendo scontrare le nostre labbra.

Frastornata dall’impeto di quel gesto, ci misi qualche secondo per elaborare che stavo baciando Daryl: a occhi chiusi, cercai di concentrarmi sulle sue labbra, ruvide ma calde. Avevo aspettato così tanto di scoprire che effetto facessero, contro le mie…

In un primo momento, l’arciere oppose resistenza, afferrandomi entrambe le braccia, probabilmente per allontanarmi da sé. Ma non lo fece: dopo qualche secondo, lo sentii rilassarsi – o, forse, rassegnarsi – lasciando andare un respiro profondo, spezzato da un tremito. Trovai il coraggio di dispiegare appena le labbra, per assaggiare le sue con la punta della lingua.

Mi allontanai da lui per mancanza d’aria, entrambi avevamo il fiato corto. Riportai i talloni per terra, senza lasciargli il colletto, e lui si sporse verso di me, sovrastandomi, facendo scendere le mani sui miei fianchi, mentre riprendeva fiato con la fronte appoggiata alla mia. Ci guardammo, più vicini che mai: l’intensità con cui mi guardava avrebbe potuto farmi cedere le ginocchia, se non fossi stata aggrappata al suo corpo.

E non capii cosa lesse nel mio sguardo, se fu quello l’attimo esatto in cui si arrese totalmente a quello che provavamo. Riuscii solo a sentire la sua mano destra che risaliva il mio braccio e arrivava a posarsi sulla mia guancia, mentre con l’altro braccio mi cingeva i fianchi per stringermi a sé. Quella volta, Daryl ricambiò il bacio con timido trasporto, dispiegando le labbra e sfiorando la mia lingua con cautela, come se non volesse lasciarsi andare del tutto. Come se fossi un oggetto fragile da maneggiare con cautela.

E invece, in vita mia, non mi ero mai sentita così forte come tra le sue braccia.

 

 

Note autrice

Eeeee con questo, si conclude la stagione cinque in questa storia! Non mi sembra vero di essere arrivata a questo punto di svolta, ma, finalmente, è successo. Sinceramente, vi "dono" questo capitolo con molta, molta ansia. 

Un po' (anzi, tanto) perché come al solito ho tardato con l'aggiornamento. Ho passato veramente un brutto periodo questo giro (ergo, sono stata lasciata), non mi sentivo proprio in vena di portare avanti quella che è, a tutti gli effetti, una storia d'amore. Adesso mi è passato tutto e sto benissimo, l'unico problema, ultimamente, è stata la mancanza di tempo. Ho sempre avuto tanti problemi di organizzazione, ma ho iniziato seriamente a lavorarci. Questa storia va lenta, me ne rendo conto, ma nonostante tutto non ho mai pensato un secondo di mollarla, e non l'ho fatto. Ora che ho finito di lavorare, avrò del tempo in più da dedicare al rewatch della stagione 6 e alla scrittura, quindi, ecco, spero di poter aggiornare una volta al mese. Ci proverò, seriamente.

Altro fattore d'ansia: il bacio. A) perché sono arrugginita con la descrizione di baci B) perché sono Beth e Daryl, e con loro mi sembra sempre di camminare su un campo minato. Questo capitolo è, a tutti gli effetti, un finale di stagione. Perciò, ho cercato di non calcare troppo la mano sul bacio finale, che non è il punto focale di questo capitolo, ma un punto di svolta che serve per passare a una fase successiva della storia. Magari vi sarà sembrato un po' lasciato a metà, non troppo approfondito, ma l'ho fatto apposta. Come se fosse una specie di cliffhanger, in un certo senso.

Mi dispiace se il capitolo vi può risultare pesante, specialmente nella prima parte, ma volevo concentrare tutto qui per far finire la quinta stagione e passare alla sesta, senza ulteriori allungamenti.

Quindi, questo è. Spero che abbiate apprezzato il capitolo e che vogliate condividere le vostre impressioni con me :) Intanto, ringrazio di cuore Tracey, vannagio (che mi ha "suggerito" questo interessante spunto nella sua recensione[1])
e psichedelia95 che hanno recensito lo scorso capitolo.

Grazie per il supporto che mi date, anche solo leggendo e mettendo tra le preferite/seguite, nonostante io sia un disastro.

Alla prossima,
Blakie 

P.S.: per questa volta, mi sono permessa di rubare il titolo alla puntata. Buona parte di questo capitolo ruota intorno ad essa. Inoltre, lo vedo bene anche per quello che, finalmente, Beth riesce a conquistare: il coraggio di farsi avanti con Daryl :P

 

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Capitolo 12
*** Ambush ***


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12. Ambush

 

Da quando Pete era morto, Denise aveva iniziato a venire in ambulatorio molto più frequentemente. Nel giro di qualche giorno, si era ritrovata ad essere il nuovo medico di Alexandria e la cosa l’aveva messa piuttosto in agitazione. Ne avevo parlato con Josie, che era un’infermiera professionista, e avevamo convenuto che fosse meglio lasciarle da sole, in modo che Denise potesse sentirsi libera di “ripassare” con Jo senza sentire le pressioni di una terza persona che assisteva – cioè io.

Per questo, quella mattina, mi ritrovai nel garage adibito a scuola assieme a Samantha e ai bambini, a vestire nuovamente i panni di insegnante. Dovermi occupare di quei piccoletti mi dava la possibilità di non pensare a tutto quello che era successo. E a quello che non era successo. Anche se non funzionò molto bene.

«Beth, stai bene?».

La domanda di Sam arrivò a penetrare lo spesso strato di pensieri che mi stava isolando dalla realtà. La sua voce mi risvegliò come da una dormita leggera. Non ero riuscita a capire bene cosa mi avesse chiesto.

«Uhm?».

Lei sembrò divertita dalla mia espressione di smarrimento. «Ti ho chiesto se stai bene. Sono cinque minuti buoni che fissi quel libro, pensavo fossi caduta in uno stato catatonico».

Abbassai lo sguardo sul libricino colorato che tenevo in mano. Cosa stavo facendo?

Mi strinsi nelle spalle. «Beh, il Ragno Itsy Bitsy mi ha appassionata», scherzai, riponendolo nello scaffale davanti al quale mi ero incantata.

Samantha sorrise, guardando i bambini che stavano disegnando le avventure del ragnetto che poco prima avevo cantato assieme a loro. «Ci sono pennarelli e colori anche per te, se vuoi».

Ridacchiai e incrociai le braccia al petto, guardando altrove con leggero imbarazzo. Sentii la sua mano che si posava sulla mia spalla, incontrando poi il suo sguardo preoccupato. «A parte gli scherzi, Beth, sei sicura che vada tutto bene? Ti vedo pensierosa».

Abbozzai un sorriso, grattandomi una tempia. «Se ti dicessi di sì non te la berresti, vero?».

«Non sei molto brava a mentire, ti ho già scoperta. Sei preoccupata per chi è andato alla cava? In tal caso dovresti stare tranquilla, stamattina fanno solo una prova generale», mi ricordò.

Io annuii, cercando di essere convincente. «Sì, lo so. Però sai, tutti quei vaganti… Forse è la mia ansia inconscia che mi sta facendo un brutto scherzo», bluffai.

Samantha stava per rispondermi, quando uno dei bambini richiamò la sua attenzione per farsi aiutare col proprio disegno. Tra me e me, sospirai di sollievo; mi sentii anche leggermente in colpa per essermi chiusa, di fronte alle premure di Sam. Però era tutto così… assurdo, che non me la sentivo di sfogarmi con qualcuno. Per evitare che la mia collega tornasse alla carica, iniziai a mettere a posto i giocattoli che avevano usato i più piccoli prima della canzone, voltandole le spalle. Con le mani impegnati e una finta espressione assorta, potei finalmente permettermi di far viaggiare i pensieri.

Rick aveva indetto quella riunione con massima urgenza, esigendo che ci fossimo tutti. Ricordavo benissimo la sua espressione preoccupata ma irremovibile mentre ci raccontava di questa cava mineraria enorme, a qualche miglio – comunque troppo vicina – dalla città. L’aveva trovata quando, dopo il funerale di Reg, era uscito assieme a Morgan per lasciare il corpo di Pete da qualche parte nei boschi.

Deanna – o meglio, l’ombra di quella che era stata la leader di Alexandria – era caduta dalle nuvole. Non ne sapeva niente, nessuno degli abitanti si era mai accorto di niente, perché non avevano mai avuto nulla da cercare in quella zona. Ero riuscita a leggere l’espressione quasi di biasimo che aveva animato gli occhi di Rick davanti all’ennesima inconsapevolezza di chi era ad Alexandria dall’inizio. Ma non ci sarebbero stati problemi, Rick aveva un piano in mente: allontanarli e portarli a miglia e miglia di distanza dalla città. Lo sceriffo aveva ricevuto un’adesione più o meno unanime dai presenti, con qualche remora da parte di Carter, uno degli abitanti originari di Alexandria. Il piano sarebbe stato elaborato e perfezionato comunque, a discapito degli scettici.

Io avevo tentato di farmi avanti, ma due perle azzurrissime e glaciali avevano bloccato la mia intenzione sul nascere, squadrandomi dall’altra parte del salotto di Deanna. Che razza di faccia tosta, avevo pensato, con rabbia. Avrei voluto incazzarmi e dirgliene di ogni, ma non avrei potuto così, davanti a tutti. Perciò avevo lasciato che la rabbia non logorasse altri che me e me ne ero stata zitta.

Era dal bacio del giorno prima che Daryl non mi aveva più rivolto la parola. Eravamo stati interrotti dal bussare di Maggie, che mi era venuta a cercare per andare al funerale di Reg. Sul momento, mi ero concentrata per fingere che tra me e Daryl non fosse successo niente, mentre aprivo la porta a mia sorella, quindi non avevo avuto modo di dire qualcosa all’arciere. Qualunque cosa.

“Possiamo parlarne più tardi, ti va?”

“Va tutto bene?”

“A cosa pensi?”

Invece non avevo avuto un’altra occasione di parlare con Daryl perché, dopo il funerale, era sparito per tutto il pomeriggio. Si era ripresentato per cena, a casa di Rick e gli altri, ma mi aveva totalmente ignorata. Ed io non avevo potuto fare nulla. Il modo in cui si stava comportando con me, mi faceva sentire come se avessimo fatto qualcosa di male. La sua freddezza mi aveva totalmente paralizzata e non riuscivo a darmi una spiegazione. Non ero riuscita a capire perché il suo atteggiamento, invece di farmi infuriare e tendergli un agguato quando fosse rimasto solo, mi aveva resa totalmente incapace di reagire. Alla fine me ne ero andata con mia sorella e Glenn, dopo cena, senza cercare il minimo contatto con Daryl.

“Magari ha solo bisogno di tempo,” avevo pensato. “Forse domani gli sarà passata.”

Avevo cercato di rimanere positiva, di escludere la possibilità che Daryl fosse caduto nelle sue vecchie abitudini e che stesse cercando di allontanarmi di nuovo. Forse aveva solo bisogno di tempo per accettare quello che aveva provato, accettare che le cose tra noi erano cambiate e che eravamo arrivati ad un bivio.

E invece no. 

La prova generale della missione progettata da Rick aveva offerto a Daryl la scusa perfetta per evitarmi anche il giorno successivo. C’erano state lamiere da radunare, posti di blocco da organizzare, squadre da coordinare e strategie da decidere a tavolino: tutto questo, Daryl l’aveva usato come escamotage per fuggire da discorsi che non voleva fare con me, togliendomi la parola ed il saluto. Ed io non riuscivo a capire. Non volevo fargli chissà quali discorsi, sentirmi promettere amore eterno o altre scemenze simili. Volevo solo che non scappasse così, come il vigliacco che stava dimostrando di essere.

«Stronzo», sputai tra i denti, a voce bassa. L’irritazione scaturita da quei ricordi mi graffiava nel petto e affiorava sulla mia pelle con piccole scosse che quasi mi sembrava di percepire. Quindi, sì, ero preoccupata per la cava, ma, soprattutto, era stata l’indifferenza di Daryl a far calare a picco il mio umore. E a farmi incazzare, dopo il tiro che mi aveva fatto quella mattina…

I miei pensieri vennero interrotti dal grido che udii e che arrivava dalla strada. Scattai in piedi nel silenzio che era calato in garage ed incontrai lo sguardo di terrore di Samantha.

«Maestra, chi ha urlato?», mugugnò Jacob, che era più vicino a me, nascondendosi dietro alla mia gamba.

«Jake, vai vicino alla maestra Sammie», sussurrai, invitando il bambino a raggiungere il gruppetto che si era radunato attorno alla mia collega. Con lentezza, mi avvicinai alla porta laterale del garage, guardando oltre la finestrella in vetro per capire cosa stesse succedendo in strada. Ad un primo sguardo, sembrò tutto tranquillo. Poi, vidi una persona – che non era dei nostri – trascinare per i capelli una delle amiche della signora Neudermayer. Lo stomaco mi si rivoltò, quando quella bestia calò un machete sulla donna, tagliandole la gola.

Mi venne istintivo, con uno scatto, appiattirmi contro il muro e distogliere lo sguardo da quella scena orribile.

«Beth?», domandò Samantha a bassa voce, senza riuscire a nascondere il panico.

Corsi all’attaccapanni per indossare con gesti veloci la cintura alla quale erano appese la fondina con la pistola di Noah e il fodero col coltello. Anche se Rick aveva caldamente consigliato di essere sempre armati, da quando era successo il casino con Pete, non me l’ero sentita di indossare delle armi mentre avevo dei bambini attorno.

«Sono arrivati i mostri?», sentii mugolare Grace, la voce spaventata.

Mi parai davanti ai bambini, parlando piano ma cercando di mantenere un tono controllato. «Ascoltatemi. Adesso faremo il gioco del silenzio, ma difficile: dovete tutti seguire la maestra Sammie e nascondervi con lei nella stanzina della lavanderia. Starete un po’ stretti, ma fate finta di essere amici del ragnetto Itsy Bitsy, okay? Piccolini come lui».

I bambini mi guardarono un po’ incerti, così come Sam. Aveva capito che non sarei andata con loro, ma cercò di mantenere il controllo per non trasmettere panico ai piccoli.

«Forza, bambini», proferì a bassa voce. «Tutti in fila e in silenzio».

Mentre i nostri piccoli allievi si rintanavano uno ad uno dietro la porta del piccolo stanzino adiacente, Sam mi si avvicinò, non riuscendo a celare il terrore e la paura che esprimevano il suo sguardo.

«Beth, vieni anche tu. Ti prego, non posso lasciare che-».

«Sam, ascoltami. Devi chiuderti lì e aspettare che venga a liberarvi io, okay? C’è la nostra gente che sta morendo, là fuori. Hai il coltello con te?».

«Sì, ma tu-».

«Io non posso lasciare che chi ci sta attaccando entri qui dentro e ne esca vivo. Non se poi andrà ad ammazzare qualcun altro dei nostri amici. Vi proteggerò, non puoi fare niente per impedirmelo», sussurrai, con decisione. Provò a dire qualcos’altro, ma non glielo consentii. «Forza, nasconditi adesso e chiuditi dentro. Vai!».

Con riluttanza, mi ascoltò. Mi lanciò un ultimo sguardo tormentato, prima di raggiungere i bambini e far scattare la serratura. Io sospirai di sollievo, contenta che almeno loro fossero al sicuro. Non sapevo come stesse mia sorella, o gli altri della mia famiglia che erano rimasti tra le mura. Non sapevo nemmeno se quello che avevo elaborato fosse un buon piano, ma dovevo provarci.

Mentre mi assicuravo personalmente che la porta fosse ben chiusa, sentii un rumore fortissimo e continuo di clacson squarciare l'aria.

«Merda», sibilai, raggiungendo la porta e facendo scattare nuovamente la serratura per riaprirla. Cosa diavolo stava succedendo? Proprio mentre i più forti di noi erano fuori dalle mura...

Respirai profondamente per non farmi prendere dal panico e mi piazzai al centro della stanza, prendendo la pistola dalla fondina e puntandola contro la porta. Raccolsi tutte le mie forze per non farmi vincere dalla paura anche se, all’improvviso, era diventato veramente difficile respirare regolarmente.

Mi tornò in mente ciò che mi aveva detto Daryl quella sera in cui gli chiesi se mi avrebbe insegnato ad usare le armi.

«Lo sai che sarai costretta ad uccidere? Non solo vaganti, ma anche essere umani. Soprattutto essere umani».

Alla fine, quello che aveva prospettato l’arciere si stava per avverare, come la più inevitabile delle verità. Ma era una verità che dovevo affrontare, se volevo proteggere la mia famiglia. Era arrivato il momento di difendere le persone che amavo, la mia città, anche se farlo avrebbe significato uccidere.

«È meglio se tieni le braccia così». La voce di Daryl tornò dal passato, portandomi alla mente i nostri giorni insieme durante gli allenamenti. Pensarlo alle mie spalle, che mi correggeva e mi consigliava, come se fosse lì con me, mi aiutò a fare un respiro profondo e mantenere la calma. Dovevo fare ciò che andava fatto e ci sarei riuscita.

Devi essere sicura di te. Devi difendere Samantha e i bambini. Devi rimanere in vita, così quando Daryl tornerà –

I miei pensieri vennero bruscamente interrotti quando la porta del garage si spalancò e sulla soglia apparvero un uomo e una donna. Il cuore mi balzò in gola, bloccandomi il respiro. Lui era alto, massiccio e biondo; lei era bassa, tozza e scarmigliata. Il mio cervello ci mise mezzo secondo a registrare e elaborare i loro volti; mezzo secondo dopo, consapevole che fossero miei nemici, aggiustai il tiro, premetti il grilletto e colpii l’uomo in piena fronte.

Crollò a terra, morto. Incredula, abbassai lo sguardo sul cadavere che era scivolato sul pavimento. Ci ero riuscita davvero e mi sembrava impossibile. Nonostante il cuore che mi batteva all’impazzata e l’adrenalina che mi scorreva nelle vene, riuscii ugualmente a leggere la sorpresa e il terrore che si dipinsero sul volto della donna. Il suo viso era sporco e una “W” era incisa sulla sua fronte, notai, puntandola con la pistola e caricando il secondo colpo.

Riuscii a sentirla ringhiare, prima che scappasse e scomparisse dalla mia vista.

«Merda!», esclamai questa volta, scattando nella direzione verso cui era sparita.

Uscita dalla porta, mi guardai intorno, ma non c’era nessuno. La cosa più logica fu pensare che si fosse nascosta dietro al garage o che stesse girando attorno la casa per nascondersi dalla mia vista e guadagnare tempo. Alzai nuovamente le braccia e puntai la pistola davanti a me, iniziando ad avanzare verso destra per andare nel retro del garage. Girai l’angolo col cuore in gola ed il colpo pronto, ma non c’era nessuno. Abbassai la pistola e avanzai nell’erba, cercando di non fare rumore e strisciando contro la parete laterale del garage.

Mi sporsi con la testa oltre l’angolo, ma la via era libera. Non riuscivo a trovarla.

Feci appena in tempo a muovere un passo per tornare indietro, che la donna si avventò su di me con violenza, strappandomi un urlo di sorpresa. Caddi con la schiena sul manto erboso, l’aria che mi sgusciò fuori dai polmoni a causa dell’impatto improvviso col terreno. La prima cosa che mi venne istintiva fare, fu cercare la pistola che, per la sorpresa, avevo lasciato cadere. Non si trovava lontana da noi, ma la donna, che gravava su di me con tutto il suo peso, mi impediva di allungarmi e riappropriarmi della mia arma.

Ero stata presa talmente tanto alla sprovvista che, inizialmente, cercai di concentrare tutte le mie forze per non venire sopraffatta. Non riuscivo a pensare lucidamente ad un modo per renderla inoffensiva e riappropriarmi della pistola. I pensieri andavano troppo veloce, la mia visuale era offuscata e l’unico punto fermo al quale riuscivo a prestare attenzione era la “W”, incisa sulla fronte della sconosciuta come un macabro tatuaggio. Anche quell'uomo ce l'ha... fanno parte di qualche strana setta?

Provai, con difficoltà, a ignorare il panico che mi stava assalendo, scacciando via la sensazione di essere in trappola. Raccolsi tutta le forze che avevo per resistere alla mia nemica, che stava cercando di immobilizzarmi per poter calare su di me il pugnale che aveva sfilato dalla cintura. 

Nonostante fosse una donna di mezza età – forse un po’ più giovane di Carol – la sua stazza le dava molta più forza di quel che mi sarei aspettata. I suoi occhi folli erano piantati nei miei e brillavano, in contrasto con lo sporco della sua faccia. I muscoli delle mie braccia bruciavano per lo sforzo che stavo facendo nel cercare di respingerla, bloccando il polso della mano che stringeva il pugnale con entrambe le mie.  La lama era vicinissima al mio occhio sinistro, se non fossi riuscita a fare qualcosa, per me sarebbe finita. 

Iniziai a dibattere le gambe il più possibile, spingendo col ginocchio sinistro verso di me, per liberarlo dalla morsa delle gambe della donna - a cavalcioni su di me. Era un osso duro, più per il suo peso che per le sue abilità di combattimento. Quando le braccia iniziarono a tremarmi, un senso di urgenza mi strinse lo stomaco ed un nuovo slancio di determinazione mi scosse. 

Affondai le unghie nella pelle della donna, raccogliendo tutte le forze per strattonarle il polso e far scontrare il suo pugno chiuso contro la sua guancia, per distrarla. Nello stesso istante, mi voltai verso destra, dove col braccio libero si stava sostenendo a lato della mia testa. Mi allungai a fatica per morderla, cercando di ignorare quanto fosse sporca la sua pelle. 

Grazie a quella manovra dolorosa, mentre si lasciava sfuggire un ringhio di dolore che ben poco aveva di umano, riuscii a sbilanciarla con uno strattone e trascinarla contro il terreno, a sinistra rispetto il mio corpo. Approfittai del suo sbilanciamento per liberare una gamba e disarcionarla da me, facendola crollare sull'erba. Le mie mani erano ancora strette attorno al suo pugno; ma non avevo calcolato la sua mano libera, che mi assestò uno schiaffo in pieno viso. Nonostante il dolore, che mi disorientò per un secondo, cercai di rimanere lucida per contrastare la forza del suo corpo. Se solo fossi riuscita a sfilare il coltello dal fodero, avrei potuto mettere fine a tutto quello. Era quello, il mio obiettivo finale.

Avevo pensato di ribaltare le posizioni e bloccarla come lei aveva fatto con me, ma con la ferrea resistenza che stava opponendo mi fu impossibile. Troppo impegnata a mantenere la presa sulla sua mano armata, mi ritrovai improvvisamente l'altra stretta attorno il mio collo, come le spire di un serpente. L’improvvisa mancanza d’aria mi lasciò spiazzata e diventò difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse la sua presa che mi stava bloccando la respirazione.

Dovevo afferrare il coltello a tutti i costi, lo sapevo, eppure cominciavo a sentire le forze abbandonarmi. In un ultimo, disperato tentativo, riaffondai le unghie nei suoi polsi il più profondamente possibile, graffiandolo. Mentre lei grugniva dal dolore ed io cercavo di ignorare il mio, con uno slancio disperato e rabbioso, sfilai velocemente il coltello dal fodero. Con un singulto, le affondai la lama nello stomaco, come un pezzo di burro.

I suoi occhi verdi si spalancarono, così come la sua bocca, incatenandomi in uno sguardo incredulo che non avrei mai dimenticato. Senza riuscire a guardare da un’altra parte, cercai di regolarizzare il respiro e impedirmi di svenire mentre la sua mano allentava la presa attorno al mio collo. Anche la mano che stringeva il pugnale iniziò lentamente ad abbassarsi. Presa da un impulso che non avevo mai sentito prima dentro di me, rigirai la lama nella ferita, cercando di andare più a fondo per lacerarle il più possibile le viscere. Ricambiai lo sguardo della selvaggia con orrore, come se quella mano che la stava uccidendo non fosse mia.

Ero terrorizzata da ciò che stavo facendo, ma l’istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento e, allo stesso modo, sentivo che non mi sarei fermata per nessuna ragione al mondo. Ero molto più consapevole e lucida di quanto mi sarei mai aspettata, pensandomi in una situazione del genere. Avevo già ucciso altri esseri umani, in verità: avevo spinto O'Donnell nella tromba dell'ascensore e lasciato che Gorman venisse divorato da Joan, al Grady Memorial. Ma accoltellare qualcuno con le mie mani o sparargli in fronte era tutta un'altra cosa.

Mi scostai da lei, togliendole il pugnale di mano e gettandolo alle mie spalle.

 

«Siete g-già tutti... tutti morti», gorgogliò la donna, cogliendomi di sorpresa. La osservai sconvolta, mentre un rivolo di sangue le colava dalle labbra, giù per il mento.

Cosa significa?

 
Seduta sull'erba, disorientata, le voltai le spalle quando capii che non sarei riuscita a guardarla un secondo di più. Raccolsi le ginocchia al petto e mi presi la testa tra le mani, cercando di respirare profondamente. Mi imposi di mettere in ordine i pensieri: va tutto bene, sei viva, hai protetto Samantha e i bambini, se non li avessi uccisi quei due avrebbero fatto del male alle persone a te care, sei capace di difendere le persone. È tutto finito. Potrai rivedere Daryl.

Daryl…

Dopo due giorni interi, mi ero stufata di giocare al gioco del silenzio. O meglio, mi ero stancata di subirlo da Daryl. La sera prima della prova generale, Rick aveva organizzato un incontro tra i vari gruppi per ripassare l’itinerario. La riunione aveva avuto luogo a casa di Deanna ed ero riuscita a partecipare semplicemente perché ero stata a cena da Maggie e Glenn – ottenendo così la scusa perfetta per intrufolarmi. Ero sinceramente curiosa di sapere a che punto erano arrivati, ma ancora di più avevo sperato di riuscire a mettere alle strette Daryl.

Dopo la riunione, molti di noi si erano fermati a scambiare due parole e a fare compagnia a Deanna; l’arciere, invece, si era dileguato immediatamente. Senza dare troppo nell’occhio, avevo deciso di seguirlo; con una certa sorpresa, mi ero resa conto molto presto che non si stava dirigendo verso casa, bensì verso il laghetto.

Quando si era appoggiato alla staccionata sulla riva e si era acceso una sigaretta, mi ero fermata ad osservarlo, restandomene in disparte. Nonostante la rabbia per il suo comportamento, mi era venuto spontaneo chiedermi – con una certa preoccupazione – che cosa gli stesse passando per la testa, tanto era assorto il suo sguardo. Forse voleva semplicemente rimanere solo?

«Vuoi stare lì a fissarmi ancora per molto?».

Quando la sua voce aveva spezzato il silenzio ed il flusso delle mie elucubrazioni, l’imbarazzo per essere stata colta con le mani nella marmellata mi aveva paralizzata per un secondo. Poi, all’istante, era subentrata la rabbia.

«Ti disgusta così tanto parlarmi che, piuttosto, preferisci essere pedinato per tutta Alexandria e fare finta di niente?», avevo ribattuto, con una risata amara e il tono ostile.

L’unica risposta di cui mi aveva degnata, tra una sbuffata di fumo e l’altra, era stato uno schiocco di lingua sprezzante. Mi dava le spalle, ma ero riuscita a immaginare benissimo la sua espressione: ci avevo impiegato un secondo a perdere le staffe. Con qualche ampia falcata, spinta dall’esasperazione dovuta a quei due giorni di silenzio, lo avevo raggiunto, parandomi davanti a lui.

«Si può sapere cosa stai cercando di fare?!».

«I cazzi miei», aveva risposto prontamente Daryl, con tono di ovvietà.

«Sai benissimo che non mi riferisco a questo», avevo insistito, avvicinando il viso al suo per guardarlo negli occhi. Lui aveva spostato lo sguardo altrove.

 «Mi hai seccato, ragazzina», aveva risposto, lapidario, prima di scansarsi e provare ad allontanarsi da me.

In un attimo, avevo allungato la mano per afferrargli la manica della giacca di pelle per trattenerlo e mi ero fatta sotto al suo volto con frustrazione.

«Non puoi ignorarmi per sempre, lo sai?!».

«Ti stai facendo dei viaggi con la testa, tu», aveva borbottato, sprezzante. La cosa peggiore era stata sentirmi davvero una stupida, nonostante fossi consapevole di essere nel giusto. Era stato capace di farmi sentire così, ma nemmeno lui sembrava credere a ciò che stava dicendo.

«Cristo, Daryl, non farmi ridere! Non mi guardi neanche in faccia!».

Si era scostato bruscamente da me, liberandosi il braccio dalla mia mano.

«Non fare la voce grossa con me», mi aveva avvisato, con tono severo. O meglio, quasi... minaccioso. Come quella volta, davanti al capanno. 

Nonostante la mia rabbia, le sue parole avevano avuto effetto; avevo fatto un respiro profondo e cercato di ricompormi, senza però abbandonare il risentimento.

«E tu non prendermi per il culo come stai facendo con te stesso», avevo replicato, abbassando leggermente i toni.

«Come, scusa?».

«Hai sentito bene. Fingi di non avermi baciata – a dirlo ad alta voce, mi ero sentita arrossire – e poi hai preso nuovamente le distanze; non mi rivolgi più la parola, mentre solo due giorni fa sei stato di un premuroso nei miei confronti... Hai fatto una cosa meravigliosa per me. Per aiutarmi. Ti sei preoccupato per me, quando mi hai vista scossa per quello che era successo con Pete. Mentre adesso sembra che, per te, io non sia nessuno. Questo non si chiama prenderci per il culo?».

Daryl era rimasto totalmente muto, di fronte al mio sfogo. I suoi occhi, due specchi cupi e illeggibili, mi avevano scrutato senza tradire alcuna emozione.  Lo avevo capito subito che non aveva nessuna intenzione di parlare, commentare quello che avevo detto.

«Sono stanca, Daryl. Ogni volta mi illudo che abbiamo fatto un passo avanti, ogni volta tu scappi e mi allontani. E perché? Perché è la strada più facile e ti manca il coraggio di parlarne da adulti».

Non aveva aspettato nemmeno che finissi di parlare: si era fatto avanti a muso duro, incenerendomi con lo sguardo a due centimetri di distanza dal mio volto. 

«Ascoltami bene, ragazzina», aveva proferito, in tono basso e roco. Infuriato. «Io non scappo da niente e da nessuno, ficcatelo bene in testa. E non venirmi a dare lezione su come ci si comporta da adulti, quando tu stai facendo tutti questi capricci semplicemente perché non hai tutte le cazzo di attenzioni che vuoi. Questo mondo di merda non gira attorno alla Principessa Greene e alle sue stronzate sentimentali, renditene conto».

Era stato un duro colpo, quello. Mi aveva ferita, tanto; le sue parole taglienti mi avevano fatto più male di uno schiaffo ben assestato e avevo sentito gli occhi farsi subito lucidi. E forse se ne era reso conto anche lui, ma non gli avevo dato modo di dire nulla.

Con lo stesso tono basso e la voce che tremava incontrollata, avevo sibilato, sostenendo il suo sguardo: «io, almeno, non sono terrorizzata da quelle stronzate sentimentali. A differenza tua».

Non credevo che ci sarei mai riuscita, ma dopo quella frase lapidaria gli avevo voltato le spalle e me ne ero andata. Mi ero concessa di piangere solo quando fui sicura che non mi avrebbe visto. Non mi aveva mai fatta sentire così umiliata e denigrata; come se fossi ancora la stupida ragazzina che si era tagliata i polsi alla fattoria. Una seccatura con la quale avere a che fare, che si era costruita enormi aspettative per un semplice bacio, come l’ultima delle ingenue.

Quella notte avevo dormito malissimo, un po’ per la preoccupazione del giorno dopo, un po’ per il litigio con Daryl; nonostante ciò, la mattina dopo mi ero comunque svegliata in tempo per salutare Glenn e gli altri che sarebbero partiti in missione. Ero ancora arrabbiata con l’arciere, tuttavia mi ero ripromessa di soffocare il risentimento e cercare di salutarlo civilmente, una volta incontrato al cancello. La missione che stavano per andare a svolgere, nonostante fosse un collaudo, non era priva di rischi: era bastato questo – senza perdermi troppo in paranoie – a dissuadermi dall’ignorare Daryl. 

Arrivata al cancello, avevo notato subito la sua assenza. Mi ero avvicinata a Rick, teso e concentrato, per chiedergli dove fosse finito Dixon. La sua espressione, a quella domanda, era diventata strana, quasi confusa.

«Daryl è partito stamattina presto. Voleva fare una ricognizione e controllare come sono messi gli autoarticolati che bloccano i vaganti, giù alla cava».

Era stata come una secchiata d’acqua gelida in piena faccia. Se n’era andato senza dirmi niente, semplicemente perché avevamo litigato. Odiavamo gli addii, ma ero sempre andata a salutarlo prima di una missione. Quella mattina avrebbero fatto una prova, ma avrebbero avuto comunque a che fare con una cava mineraria piena zeppa di vaganti. E se qualcosa fosse andato storto e non ci fossimo rivisti mai più? Non ci aveva pensato, a questo?

Il peso che aveva gravato sul petto in quei momenti, si trascinò fuori dai ricordi e mi sorprese lì, mentre ero ancora raggomitolata a terra, riportandomi alla realtà. Non dovevo permettere a quei pensieri di distrarmi, non in un momento del genere: solo perché ero riuscita a… sconfiggere due di loro, non significava certo che il pericolo fosse passato.

Stringendo le labbra, guardai la donna stesa a terra, al mio fianco: i suoi occhi erano chiusi, il suo corpo immobile tra i fili d’erba alti, che si muovevano appena sfiorati dal vento. Era morta.

Respirai profondamente e le affondai il coltello nella tempia, per evitare che si risvegliasse. Leggermente riluttante, pulii la lama dal sangue alla bell’e meglio, utilizzando la maglia che indossava. Mi alzai e cercai la pistola che avevo perso poco prima. La trovai a pochi passi dal cadavere della donna e la raccolsi, fermandomi un attimo ad osservare la “N” che Daryl aveva sapientemente inciso sulla guancetta, seguendone gli intagli nel legno. Sospirai, riponendola nella fondina e ritornai dentro al garage, per assicurarmi che non fosse successo nulla a Samantha e ai bambini; erano ancora tutti stipati nella lavanderia, smarriti e spaventati, ma per lo meno stavano bene.

Dissi a Samantha che sarei andata a cercare mia sorella e le ordinai di bloccare la porta del garage con la libreria, in modo da non far stipare nuovamente i bambini dentro a quello stanzino stretto. Lei non mosse nessuna replica, cercando di mostrarsi forte.

«Io vado. Se dovesse succedere qualcosa, ritornate subito nella lavanderia», mi raccomandai, prima di schizzare fuori dal garage. Con la pistola ben salda tra le mani, mi mossi contro i muri delle varie abitazioni, cercando di non farmi vedere. Le strade erano disseminate di cadaveri di cittadini di Alexandria, orribilmente mutilati o marchiati con quella “W” maledetta sulla fronte. Mentre percorrevo una laterale del vialone principale, girato un angolo mi ritrovai la pistola di Rosita puntata in faccia: la abbassò subito, con un sospiro e notai che alle sue spalle c’era Aaron.

«Beth! Stai bene?», domandò a voce bassa il reclutatore, posandomi una mano sulla spalla. Aspettò che mi avvicinassi, prima di sfiorarmi sotto la guancia sinistra. «Cosa ti è successo? Sei ferita».

Passai una mano sulla guancia interessata e trovai del sangue tra le dita. La donna doveva avermi ferito di striscio, quando l’avevo trascinata a terra; dopotutto, la lama era stata vicinissima al mio viso. Ero stata fortunata a non farmi di peggio. «Nulla di importante, sono stata presa di striscio quando mi sono azzuffata con una di loro. Ero a scuola con Samantha quand’è successo, le ho detto di chiudersi dentro coi bambini e dobbiamo recuperarli al più presto. Avete visto Maggie?».

«L’ho vista andare da Deanna, questa mattina, ma con questo caos dubito che siano rimaste lì», intervenne Rosita.

«Potrei provare a vedere», dissi, muovendo un passo.

«Dobbiamo stare uniti, adesso. Tua sorella sa cavarsela, ci verremo incontro a vicenda», replicò la ragazza, sfiorandomi un braccio per invitarmi a restare.

«Tutti i selvaggi che abbiamo visto hanno asce o coltelli, sicuramente tutti gli spari che si sono sentiti sono della nostra gente», sottolineò Aaron. «Sono sicuro che la maggior parte delle persone che sono entrate sono già state fermate».

Annuii, riluttante. «Allora andiamo a fermare quelle rimaste».

Continuammo ad avanzare in quella fila di case, uccidendo altre quattro persone, fino alla via principale. Lì, infatti, avvenne proprio quello che aveva prospettato Rosita: trovammo mia sorella intenta a neutralizzare uno di quelli, che stava facendo a pezzi uno dei nostri; o meglio, che stava facendo a pezzi il suo cadavere.

«Maggie!», la chiamai, correndole incontro.

Lei si voltò verso di me, afflosciando le spalle. «Beth! Stai bene», esclamò, piena di sollievo. Intercettai il suo sguardo quando anche lei notò il taglio sotto l’occhio sinistro. «Che hai-».

Alzai gli occhi al cielo con un mezzo sorriso. «Sono stata affettata di striscio, non è niente», la interruppi, sbrigativa. «Hai visto qualcun altro di noi?».

«Carol, mi ha dato questa», rispose, mostrandomi la pistola, «e poi c’è Spencer fuori dalle mura, a proteggere Deanna».

«Noi prima abbiamo portato Holly in infermeria, è stata ferita gravemente. L’abbiamo lasciata con Denise e Josie; ci sono anche Tara e Eugene», ci fece il resoconto Aaron, incupendosi.

«Penso che la maggior parte di loro siano morti, di sicuro la situazione è più tranquilla di prima», valutò Maggie, guardandosi intorno.

Mi rivolsi a lei, posandole una mano sul braccio. «Volevo solo assicurarmi che stessi bene. Devo tornare a scuola da Samantha: le ho detto di nascondersi con i bambini e aspettarmi. Quando avete finito con la ricognizione venite ad avvisarci».

«Ci sono da recuperare anche Deanna e Spencer, trovare Carol e gli altri. Inoltre, dobbiamo impedire a chi non è stato colpito alla testa di risvegliarsi», elencò Maggie, cercando di ordinare i pensieri in tutto quel caos. Le strade della città erano un disastro e, sinceramente, in quel momento non volevo pensare a quanti di noi avessero perso la vita.

Tornai alla scuola assieme ad Aaron, che aveva insistito per accompagnarmi. Ci muovemmo con cautela per i viali, ma la situazione sembrava davvero essere tornata alla normalità, se si ignoravano i corpi e le pozze di sangue sparse in alcuni punti dell’asfalto. Avevamo quasi raggiunto il garage, quando percepii Aaron bloccarsi dietro di me, chinarsi su un corpo e raccogliere qualcosa. Vidi il suo volto sbiancare nel giro di un attimo. Si accasciò contro gli scalini della casa che aveva di fronte, uno zaino stretto tra le mani.

«Aaron!», esclamai, allarmata, avvicinandomi a lui.

Non mi rispose, scavando nello zaino e pescando qualcosa che aveva una forma quadrata. Erano… fotografie? Fotografie di Alexandria, mi resi conto, quando iniziò a guardarne una dopo l’altra.

«Cosa ci fanno queste, qui?», domandai confusa, guardandolo.

Aaron inspirò a vuoto. «L’ho perso io, questo zaino», mormorò, fissando la foto della recinzione che stringeva nella mano tremante. Poi si voltò e puntò gli occhi pieni di tormento nei miei. «Sono arrivati qui per colpa mia».

***

Il reclutatore ripeté lo stesso, qualche ora dopo, davanti ad altri abitanti di Alexandria, come in una confessione di pubblica piazza. Lo disse anche davanti a Michonne e a Rick, che era tornato di corsa con un’enorme orda di vaganti alle spalle. Ci raccontò che, per un imprevisto, avevano dovuto mettere subito in pratica il piano, senza prove generali. Altro imprevisto, il clacson – che scoprii poi essere quello di un camion che gli invasori avevano fatto schiantare vicino alla torre di vedetta, fuori dalle mura – aveva attirato metà della mandria della cava verso Alexandria. Rick aveva perso i contatti con Glenn e Nicholas, pur rassicurandoci che mio cognato sarebbe tornato; Michonne disse a Maggie che, nel caso, Glenn le avrebbe mandato un segnale quando possibile. Rick riprese la parola, aggiungendo che la squadra composta da Daryl, Abraham e Sasha era munita di mezzi e che sarebbero riusciti ad allontanare buona parte dell’orda che non era uscita dal tracciato.

A sentire parlare di Daryl, mi si rivoltarono le viscere dall’angoscia. Erano solo in tre a condurre una mandria di vaganti e chi lo sapeva quando sarebbero riusciti a tornare? Scacciai quel pensiero, voltandomi verso mia sorella: la sua espressione era il perfetto riflesso della mia. Per lo meno, Daryl era con persone affidabili, a differenza di Glenn che era sparito assieme a Nicholas. Poi, scorsi con lo sguardo, uno dopo l’altro, tutti i volti che mi circondavano: erano emaciati, sfiniti. L’attacco di quegli stranieri era durato un’oretta, quella mattina, eppure ci era voluta buona parte del pomeriggio per raccogliere tutti i cadaveri, pulire le strade, andare di casa in casa per cercare i sopravvissuti.

Per fortuna, non era successo nulla né a Samantha, né ai bambini; purtroppo, però, tre di loro avevano perso chi il padre, chi la madre. Nemmeno Holly ce l’aveva fatta e Scott – che aveva partecipato al piano, in squadra con Michonne – non si era ancora svegliato, a causa di una ferita alla gamba che si era procurato e che si era infettata. Senza contare altre vittime, trovate durante la ricognizione. Nonostante le perdite, però, eravamo comunque riusciti a difendere Alexandria, proteggendo più vite possibili.

Volevo solo andare a casa farmi una doccia e stendermi, dopo una giornata del genere. Proposi a mia sorella di andare da lei per farle compagnia – nessuna di noi aveva bisogno di stare da sola; lei mi disse di andare pure a casa sua e che sarebbe tornata per cena. Di fronte al mio sguardo perplesso, mi disse che doveva andare da Deanna per finire di parlare di alcuni progetti sui raccolti. Mi sembrò strano, ma non indagai ulteriormente: forse, pensai, voleva semplicemente distrarsi dal pensiero di avere Glenn là fuori, disperso chissà dove.

Maggie tornò poco dopo il tramonto, con la faccia sconvolta e i vestiti sudici; i pantaloni erano intrisi di melma, che formava delle incrostature sui suoi scarponi. Dopo essermi fatta la doccia, mi ero messa sul divano a leggere qualcosa, per cercare di non pensare a Daryl. Mi alzai da lì con uno scatto e le corsi incontro.

Le posai le mani sulle spalle. «Gesù! Cosa ti è successo?», esclamai, guardandola da capo a piedi con gli occhi fuori dalle orbite.

Lei mi rivolse un mezzo sorriso stanco; notai che aveva gli occhi arrossati. «Mi sono comportata da sorella irresponsabile». Il suo sorriso ironico svanì dalle labbra e gli occhi le si riempirono di lacrime. «…E da madre irresponsabile».  

A quelle parole sussultai, il cuore che iniziò a battermi furiosamente nel petto. Ho capito bene? «Maggie…».

Affondò il volto nelle mani, lasciandosi sfuggire un singhiozzo dopo l’altro. Doveva essere stata una giornata particolarmente dura, per lei. Senza che potessi farci niente e cercando di arginare l’entusiasmo dovuto a quella che, ormai, era la realtà, un sorriso intenerito mi incurvò le labbra.

«Vai a farti una doccia, ne parliamo dopo», la invitai, circondandole le spalle con un braccio e accompagnandola davanti alla porta del bagno. Maggie si asciugò le lacrime, strofinando gli occhi contro il braccio. Sparì per una buona mezz’ora e, quando tornò, fu palese che fosse più lucida, pulita e rilassata. Incrociai le gambe sul divano e la invitai a raggiungermi, tamburellando le dita sul cuscino e sorridendole.

Accennò un sorriso e mi raggiunse, sedendosi al mio fianco e appoggiando il braccio sinistro sullo schienale del divano, rivolta verso di me.

«Quindi, cosa stavi dicendo poco fa?», le chiesi impaziente, sorridendo sorniona.

Per quanto fosse in pena per tutta quella situazione, i suoi occhi non poterono fare a meno che accendersi di emozione. «Vuoi la conferma ufficiale?», domandò sorridendo, alzando gli occhi al cielo.

«Assolutamente sì!».

«Beth Greene, presto sarai zia. Contenta?».

In tutta risposta, mi sbilanciai verso di lei, stritolandola in un abbraccio. «No, super-contenta! Oddio, non ci credo. Ma ne sei sicura? Da quanto lo sai? Perché non me lo hai detto prima?».

Maggie, ridendo, cercò di dileguarsi dalle mie spire. «Vuoi soffocarmi, per caso? Lo sappiamo relativamente da poco. Non so perché ci ho messo tanto a dirtelo», disse, in tono di scuse. «Volevo che fosse una bella sorpresa per tutti, ma ultimamente sono capitati solo casini e ho preferito aspettare un momento più tranquillo. È per questo che Glenn non ha voluto che andassi con lui, sai?». Dalla gioia iniziale, la sua voce si abbassò gradualmente, così come il suo umore. Ed il mio. «Dove sei stata, prima?», domandai, seria.

«Ho provato ad uscire dalle mura per andare a cercare Glenn. Aaron mi ha intercettata nell’armeria e ha insistito per venire con me. Mi ha detto che conosceva una via alternativa per uscire, senza calarmi dalle mura. Siamo passati per le fogne, ma quando siamo arrivati all’imboccatura del sistema fognario, ho capito che saremmo stati in pericolo comunque. Dovevo capirlo già lì sotto, quando ho rischiato di essere morsa da un vagante che era più fango che carne», concluse, arrabbiata con se stessa.

«Non essere così dura con te stessa, è andata bene», replicai, posandole una mano sulla spalla.

«Sì, ma non avrei dovuto farlo. Così come non avrei dovuto lasciare andare Glenn da solo».

«Maggie, sono certa che Glenn stia bene. Sa quello che fa; se non ti ha ancora mandato un segnale, è perché non gli è stato possibile. Ma succederà presto. Io sono contenta che tu sia rimasta qui, avete fatto la scelta giusta».

Lei mi osservò in silenzio per qualche istante, forse cercando di convincersi a credere a quello che le avevo detto. Il suo sguardo era tormentato, lontano dal mio, ma forse aveva iniziato a capire che, alla fine, potevo aver ragione. Fece un respiro profondo, poi aggiunse, guardandomi con aria colpevole: «Sai, ho dovuto dire ad Aaron perché volevo fermarmi. Quindi, tecnicamente, lo ha saputo prima lui di te. Mi dispiace, Beth. Sono una sorella pessima».

Sminuii la faccenda con un gesto della mano. «Non dire sciocchezze, dopo quello che hai passato è un miracolo che tu sia riuscita a tornare indietro per dirmelo».

Si voltò verso di me, con un’espressione finto-scandalizzata. «Devi proprio rincarare la dose?!», esclamò, dandomi un leggero colpo sul braccio.

Mi scappò da ridere e, per un solo istante, mi sembrò di essere nuovamente a casa, nella fattoria in Georgia, a stuzzicarci come due sorelle normali. Poi pensai a nostro padre e a quanto sarebbe stato felice nel sapere che sarebbe diventato nonno. Una parte delle speranze che avevo confessato all’arciere sotto a quel portico in mezzo al bosco, era diventata realtà. Avrei voluto condividere quella gioia con papà; e con Daryl.

Stavo per parlare di papà a Maggie, quando lei mi anticipò. «Sei preoccupata perché nemmeno Daryl è tornato?».

Mia sorella mi scrutava, in pensiero e mi domandai che faccia cupa doveva essermi venuta e come diavolo ha fatto a capire che stavo pensando proprio a lui?

«Più che altro, incazzata», replicai, stringendomi nelle spalle e sorridendo senza allegria. «È partito prima per evitarmi, perché ieri sera abbiamo avuto una… discussione. Ma lui è fatto così, quindi non ha nemmeno senso parlarne», tagliai corto.

Maggie aggrottò le sopracciglia. «Avete litigato? Come mai?».

Nello stesso istante, capii di aver detto troppo e mi maledissi mentalmente. Sentii le guance andarmi in fiamme e presi a torturare l’orlo dei jeans, poggiando il mento sulle ginocchia piegate. «Niente di grave, davvero. Spero solo che torni presto, così potrò presentargli il conto per essere sparito senza dire nulla».

Mia sorella, dopo qualche attimo di silenzio, si sporse verso di me per darmi una carezza sulla testa. Alzai lo sguardo nel suo e vidi sul suo volto un’espressione intenerita. «Siete proprio carini voi due, lo sai? Comunque stai tranquilla, Bethy. Daryl tornerà sicuramente e potrai fargli tutte le ramanzine che vuoi. Anche se, a quel punto, credo che quasi quasi rimpiangerà l’orda di vaganti».

Ignorai l’imbarazzo per il suo commento affettuoso e scoppiai a ridere. «Non sai quanto hai ragione!».

Maggie si diede una pacca sulle gambe con entrambe le mani e si alzò in piedi. Mi allungò una mano per invitarmi a prenderla con la mia. «Mentre tornavo indietro, ho notato che qualcuno ha aggiunto i nomi di Glenn e Nicholas al memoriale. Li voglio cancellare, mi aiuti?».

Nonostante quello che mi aveva appena detto, mia sorella aveva un sorriso che le piegava le labbra fini. E una nuova determinazione nel suo sguardo che, irrimediabilmente, contagiò anche me. Mi alzai in piedi e le sorrisi a mia volta, prendendole la mano.

«Assolutamente».

 

 

 

Note autrice.

Questo capitolo è stato dannatamente impegnativo da scrivere. Non solo perché è lunghissimo (perdonatemi), ma anche perché sapevo dall’inizio cosa sarebbe dovuto succedere, eppure è stato ugualmente difficoltoso metterlo nero su bianco. Intanto ho avuto un mezzo blocco dello scrittore (=leggasi, TWD mi ha talmente deluso nell’ultima stagione che ci è andata di mezzo pure la stesura di questa ff); e poi, mi sono bloccata quando è stato il momento di scrivere la scena di lotta tra Beth e la tizia dei Wolves. L’ho scritta e riscritta, non sono del tutto soddisfatta del risultato, ma sono contenta di essermela lasciata alle spalle e ad essere arrivata alla fine del capitolo ahahah!

Anche questa volta sono stata in dubbio sul tagliare il capitolo/lasciarlo così, ma ho preferito “togliermi il pensiero” subito; anche perché questa parte della sesta stagione non è il massimo. Ho deciso di adottare il metodo “flashback” delle scritte in corsivo, per richiamare gli spezzoni della prima puntata in bianco e nero, che alternano scene passate alle scene presenti. Ho usato questo escamotage per riuscire ad inserire anche Daryl e quello che è successo dopo il bacio dello scorso capitolo. Mi dispiace se non c’è stato molto Daryl in questo, ma vi assicuro che nel prossimo capitolo sarà moooooolto più presente! E c’è in particolare una scena super fluffy che muoio dalla voglia di farvi leggere, quindi portate pazienza :P

Spero che l’aver cambiato il carattere semplifichi la lettura – mi ero stufata del Tahoma, viva il Segoe! :P – e che la nuova impaginazione del titolo vi piaccia! E ovviamente spero che vi sia piaciuto anche il capitolo, nonostante la lunghezza e la scena di combattimento pessima. Brrr.

Ringrazio psichedelia95, Heihei e vannagio che hanno commentato lo scorso capitolo; e, come sempre, chi legge, aggiunge ai preferiti/seguiti/da ricordare questa storia. Significa molto per me <3

Anche per questo giro, è tutto. Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
Blakie



EDIT: come al solito devo avere qualche problema col carattere e la formattazione, giustamente >:| mi ha cambiato il carattere e l'ha rimpicciolito, spero si legga bene comunque! *sigh*
EDIT#2: il ragnetto a cui si fa riferimento a inizio capitolo è Itsy Bitsy, protagonista di una filastrocca molto popolare nei paesi anglofoni. Sarò scema ma mi fa una tenerezza unica ahaha https://www.youtube.com/watch?v=w_lCi8U49mY

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Capitolo 13
*** Battle ***


and we'll be good tredici ok

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13. Battle

Daryl

Sono. Fottuto.

Fu questa la prima cosa che pensai quando le labbra di Beth sfiorarono le mie. Un istante dopo, realizzai che, in realtà, ero già fottuto da tempo. Quel bacio ebbe lo stesso effetto di uno schiaffo in faccia e un pugno nello stomaco, contemporaneamente: avevo passato il segno. Abbassato la guardia, fine. Capolinea. Si era avvicinata più del dovuto, definitivamente, ed io non avevo fatto nulla per impedirlo. La sera prima, insieme, sul suo divano a parlare, la notte passata a dormire l'uno accanto all'altra... Tutti quei gesti a cui, sul momento, non avevo dato eccessivo peso, li riconsiderai sotto una luce nuova. Non ero mai stato così vicino a lei, prima di allora e sicuramente non di mia spontanea volontà. Che cazzo mi era preso? Per quale fottuto motivo non riuscivo nemmeno a trovare la forza di interrompere quel bacio? Per quale fottutissimo motivo la stavo ricambiando?! Dovevo essermi fritto il cervello in qualche modo. Qualcuno doveva avermi drogato nel sonno peggio dei tossici che frequentava Merle. Perché nel modo in cui stavo baciando Beth a mia volta, nel modo in cui le mie braccia la stavano stringendo per trattenerla a me, nel mio petto che quasi stava per aprirsi in due, non c'era niente di razionale.
È solo una ragazzina, fottuto viscido bastardo
, provò a protestare una voce nell'angolo del mio cervello. La ignorai bellamente, troppo impegnato a non lasciarmi travolgere dalla foga come un animale. Era dall'inizio dell'apocalisse che non avevo più toccato una donna, certo, ma non avrei mai permesso che la ragazzina ne pagasse le conseguenze. Io le donne le avevo sempre e solo baciate per poi farmele, nulla di più. Quelle con cui ero stato non erano state niente, nessuno per me; se il bacio non fosse stato un pretesto per arrivare a scoparci, in alcuni casi lo avrei evitato volentieri.

Ma questo bacio era tutta un'altra storia. Non era possibile che fosse una ragazzina come Beth a mettermi sotto scacco così. Io non sapevo nulla di quelle stronzate sdolcinate da liceali con cui si era sempre misurata lei, eppure non potevo ignorare il cuore che mi si schiantava in petto e quel familiare formicolio nei pantaloni. Ero come un fottuto adolescente alle prime armi e Beth ne sapeva sicuramente molto più di me, riguardo a quello che stavo provando. Quelle sensazioni totalmente sconosciute mi arrivarono addosso tutte in una volta, a sopraffarmi. Il suo sapore era dannatamente buono, la sua lingua era calda e morbida contro la mia, le sue mani stavano bruciando le mie guance e il suo corpo piccolo stretto contro il mio stava per scatenarmi delle reazioni non proprio innocenti.

Il bussare improvviso alla porta arrivò come un salvagente. Ci allontanammo repentinamente l'uno dall'altra, come se avessimo preso la scossa. Beth aveva gli occhi spalancati, due biglie azzurre che mi fissavano, smarrite. Le sue labbra erano socchiuse e leggermente arrossate. Guardai altrove, deglutendo a vuoto.

«Beth, sono Maggie».

La voce della maggiore delle Greene arrivò attutita dalla porta e dal salotto che ci dividevano - grazie a Dio. Chissà in quanti modi diversi mi avrebbe torturato Maggie, se mi avesse beccato a baciarmi la sua sorellina.

«V-Vado ad aprire», farfugliò Beth con un'espressione smarrita. Quasi si mise a correre, per raggiungere il prima possibile la porta di ingresso.

Rimasto solo, un pensiero urgente mi riempì il cervello: devo uscire da qui. Avevo l'assoluto bisogno di rimanere per conto mio, calmarmi, pensare a tutto quello che era successo. Sicuramente Beth avrebbe voluto parlarne e io non ne ero assolutamente in grado, al momento. Feci un respiro profondo e mi incamminai verso la porta di ingresso. Beth e Maggie stavano ancora parlando di non so cosa sulla soglia e fui grato di quella fortunata coincidenza: la ragazzina non mi avrebbe mai fermato, con sua sorella lì. Le seguii al funerale di Reg senza dire una parola; arrivati lì, cercai di confondermi tra le altre persone per poter sparire senza che Beth se ne accorgesse. Mi dileguai senza sapere bene dove andare. Mentre camminavo in fretta, mi ricordai del laghetto che avevo intravisto la prima volta che Aaron ci aveva fatto fare il giro di Alexandria. Era abbastanza lontano dal cimitero della cittadina, quindi sarei riuscito a starmene tranquillo per un po'.

Mi piazzai sotto un albero, nel punto più nascosto possibile e mi accesi una sigaretta. Il silenzio che mi circondava rendeva tutto quello che mi passava di mette fottutamente rumoroso. In testa avevo una matassa informe di pensieri che mi colpivano tutti insieme, tutti nello stesso momento e tutti in disaccordo l'uno con l'altro. Ma cosa cazzo mi era successo, per arrivare a farmi tutte quelle seghe mentali per una ragazzina che aveva quasi vent'anni in meno di me? Cosa mi era passato per la testa?

L'avevo baciata, cazzo. E tanti saluti ai miei propositi di tenerla a giusta distanza. Mi era bastato vederla a casa di Deanna, sconvolta e con le mani insanguinate, per rammollirmi come un idiota. Non contento, avevo accettato di andare a casa sua e di dormire con lei, tenendola stretta. La cosa che veramente mi lasciava incredulo era che l'iniziativa l'avevo presa io. A parte il bacio, certo. Sul momento ero rimasto sorpreso, ma, riflettendoci col senno di poi, tutto aveva riacquistato una logica precisa.

Si parlava di Beth, che provava - assurdamente - qualcosa per me e che non si era mai arresa, in quei mesi, nonostante i miei tentativi di allontanarla in diverse occasioni. Non solo le avevo mandato dei segnali, ma le avevo offerto su un piatto d'argento il pulsante che avrebbe sganciato la bomba, l'occasione perfetta per farsi avanti. Avrei dovuto far recuperare quello zaino a qualcun altro, merda.  Cosa cazzo mi aspettavo, una pacca sulla spalla e un vassoio di biscotti come ringraziamento? Non in quei giorni, non in quel momento.

Idiota, idiota, idiota. Ci ero caduto con tutte le scarpe ed era tutto un dannatissimo, gigantesco errore nella quale non mi sarei dovuto infilare. Avrei dovuto respingerla, allontanarla, impedirle anche solo di provarci. Come potevo sperare che Beth dimenticasse quello che era successo, se avevo praticamente ammesso che anche io provavo qualcosa per lei?

Pensarlo apertamente mi aprì una voragine nello stomaco e mi assalì un panico sottile.

Io non andavo bene per lei e non c'entrava solo la differenza di età: Beth e io eravamo troppo diversi. Lei non aveva sperimentato che una piccola parte della merda che sa essere il mondo; io, quella merda, me la portavo dentro da ben prima che lei nascesse. Lei era così gentile, pura e ancora integra. Migliorava la vita delle persone che aveva attorno col suo ottimismo e le sue assurde idee sulla bontà della gente - che erano riuscite a cambiare le mie convinzioni. Io, invece, ero solo uno zoticone che se la cavava con la balestra, si incazzava ogni tre per due e non riusciva a far avvicinare nessuno. Sapevo riconoscere le brave persone, per questo io non pensavo di esserlo fino in fondo. Certo, ero migliorato rispetto all'inizio, ma la parte più buia di me non mi avrebbe mai abbandonato. Anzi, probabilmente, col passare del tempo, avrebbe solo oscurato la luce che c'era nella ragazzina, se lei avesse continuato a ronzarmi intorno. Tutti quei sentimenti positivi che Beth aveva conosciuto fin da bambina, io non sapevo nemmeno cosa fossero. Avevo avuto una parvenza di famiglia solo quando era iniziata l'apocalisse e a malapena avevo capito cosa significasse avere un rapporto di amicizia o fraterno sani.

"Romanticismo", "dolcezza" o "innamoramento" per me erano solo parole vuote, cazzate di cui avevo sentito parlare in uno di quei film sentimentali che si sorbiva Merle quando, da strafatto o ubriaco, si metteva a fare zapping. Non avrei mai potuto offrire niente di tutto quello a Beth e rabbrividivo alla sola idea di fare la parte del... fidanzato. Ugh. Ruolo che non avrei comunque interpretato a lungo perché, tanto, Maggie mi avrebbe ucciso e dato in pasto ai vaganti molto prima, non appena avesse scoperto di noi. Con buona pace del resto del gruppo. Lo zotico che ha finito per traviare una ragazzina innocente: mi avrebbero ricordato così, nella storia di Alexandria.

Non potevo permettere che accadesse. Allo stesso modo, non era nemmeno possibile illudersi di riuscire a far tornare le cose come erano prima. Ormai eravamo arrivati al maledetto "punto di non ritorno" e le opzioni erano due: andare avanti o fermarsi. E fermarsi significava fare finta di nulla. Fare incazzare talmente tanto la ragazzina, con la mia indifferenza, da indurla a togliermi anche il saluto. Dopotutto, Beth era giovane e tutto ciò che non avrebbe dovuto provare le sarebbe passato presto. Prima o poi sarebbe arrivato ad Alexandria un ragazzo come Zach, coetaneo di Beth o poco più grande e si sarebbero naturalmente trovati, senza troppi problemi e senza troppo vociare. Tanto, anche se avessimo continuato a parlare, prima o poi saremmo arrivati sempre allo stesso punto. La piccola Greene sapeva essere testarda: se non ci avessi dato un taglio netto, lei magari avrebbe pazientato ancora e ci avrebbe riprovato più avanti.

I primi due giorni era stato facile rimanere nelle mie convinzioni e proseguire con i miei propositi: l'avevo ignorata tutto il tempo - tenendomi lontano anche dal resto del gruppo, a dire il vero e lei non era mai venuta a parlarmi. Inoltre, Rick che aveva trovato quella dannata cava piena di vaganti mi aveva offerto la scusa perfetta per rimanere fuori dalle mura. Lo sceriffo mi aveva anche comunicato la sua idea di non accogliere più nuove persone nella zona sicura, lasciandomi con il culo per terra. Stavo riflettendo sulla sua decisione, quando Beth mi trovò in riva al laghetto. Come un coglione, mi ero domandato - senza nemmeno accorgermene - quale sarebbe stata la sua opinione riguardo ai piani di Rick, e lei mi era comparsa alle spalle con una puntualità terrificante. A quel punto, urlarci addosso fu inevitabile. Sempre la stessa storia. L'avevo trattata di merda, lo sapevo. Avevo esagerato, sicuramente. Ma era l'unico modo per mantenere le distanze senza crearle spiragli di speranza.

"È per il suo bene", ripetei a me stesso, osservando la figura di spalle di Beth mentre si allontanava, delusa e incazzata. E ne ero convinto, al cento percento; allora perché non riuscivo a scacciare quel peso che mi era strisciato sullo stomaco? Merda.

Tornai a casa dopo un bel po' e incrociai Rick che teneva la Piccola Spaccaculi in braccio, sul dondolo del portico. Salii gli scalini e mi avvicinai a loro.

«Non riesce a dormire?», domandai, sfiorando quella testolina bionda.

«È incredibile, sembra sempre capire quando qualcosa non va. Si agita e fatica ad addormentarsi», spiegò Rick, iniziando a cullarla. «Beth è molto più brava di me, a fare addormentare Judith».

Ignorai la pesantezza al petto che avvertii al nome della ragazzina, concentrandomi sulla piccola. «Forse sa che domani saremo col culo in una cava piena di vaganti».

«Sei preoccupato?», domandò, quasi provocatorio.

Feci spallucce. «Nah. Piuttosto, andrò a farci un giro all'alba, per vedere come sono messi gli autoarticolati». Avevo fatto in modo che fosse un'affermazione, più che una domanda. Non volevo il suo permesso e lo avrei fatto comunque, perché avevo bisogno di sparire prima che gli altri si radunassero davanti ai cancelli, prima della partenza. Beth sarebbe di sicuro venuta a salutare e non era il caso di farmi trovare. Anche se, ne ero consapevole, quello era il modo per farmi odiare definitivamente.

Lo sguardo dubbioso di Rick mi trapassò da parte a parte. «Non è necessario che tu vada là prima. Soprattutto, non da solo».

«Ti preoccupi per me, mammina?».

«Daryl...».

«Rick. È solo uno scrupolo mio, okay? Guarderò il sole sorgere assieme a quei bastardi, sarà un'esperienza. Tu tieniti addosso la ricetrasmittente, così ti informo in tempo reale della situazione», lo liquidai, muovendomi verso la porta d'ingresso. Lui sospirò, ma non cercò di dissuadermi ulteriormente. Non poteva certo dimenticare quanto me la cavassi meglio di chiunque altro, là fuori.

Avevo già la mano sulla maniglia, quando lo sceriffo richiamò nuovamente la mia attenzione. «Ehi». Tornai a guardarlo, notando l'espressione poco convinta che aveva ancora stampata in faccia. «Va tutto bene?», domandò, ma sembrava conoscere già la risposta—no.

Mi infilai le mani nelle tasche, stringendomi nelle spalle. «Va, sceriffo».

Rick soppesò le mie parole qualche secondo: il suo sguardo era preoccupato, ma capii che non avrebbe indagato oltre e gliene fui grato. 

«Stai attento, domattina», si raccomandò, per poi aggiungere: «buonanotte». Gli risposi con un cenno del capo e mi infilai in casa, il sollievo che mi inondò non appena varcata la porta.

Provai lo stesso sollievo qualche ora più tardi quando, in sella alla mia moto, uscii dal cancello principale di Alexandria. La trascinai a mano oltre la cancellata, parcheggiandola un attimo per riuscire a sistemare la balestra sul retro. Il rumore dell'inferriata che si richiudeva mi fece alzare lo sguardo e rimasi qualche istante a fissare le lamiere di rinforzo, come se aspettassi qualcuno. O come se quello che avevo davanti fosse tutto sbagliato e in realtà il cancello dovesse essere aperto, mentre salutavo la ragazzina che mi raccomandava di fare attenzio—basta, cazzo! Montai in sella alla moto con un movimento brusco, partendo in quarta con la speranza di lasciarmi indietro tutte quelle fottute seghe mentali.

Alla cava, neanche a dirlo, era tutto a posto. Mi sedetti su un masso, a distanza, per non attirare l'attenzione dei vaganti e mi accesi una sigaretta. L'aria del mattino era fresca e un toccasana per la mia mente incasinata. Riuscii a non pensare a nulla per un po', osservando quell'orda di non-morti e fumando in pace. E la cosa più bizzarra fu rendermi conto che non ne avevo paura. Forse ero diventato un non-morto anche io.

E invece col cazzo. Perché realizzai, solo qualche ora più tardi, che di paura ne avevo ancora da vendere. Era bastata quella sola, maledetta frase, pronunciata da Rick e arrochita dalle interferenze della ricetrasmittente, a farmi rendere conto di quanto ancora fossi capacissimo di provare terrore. Non-morto un paio di palle.

«Si sono divisi. La metà sta andando verso Alexandria».

Smarrimento, il cervello che si scollega dal resto del corpo.

Un tempo infinito dopo, il buio momentaneo nella mia testa viene rischiarato dall'immagine del volto Beth, che mi lampeggia davanti agli occhi come un'insegna luminosa.
La metà sta andando verso Alexandria.

La metà sta andando verso Beth.

Gli ingranaggi ripresero a funzionare. Una paura viscerale mi fece contorcere le budella, mentre accostavo il pensiero di quell'orda immensa al corpo piccolo e fragile di Beth. Non mi ci volle molto per arrivare ad una sola conclusione: dovevo tornare indietro. Per me non fu più ammissibile nessun'altra opzione. Poco importava degli ordini di Rick o delle proteste di Sasha e Abe. Dovevo tornare ad Alexandria ad ogni costo, 'fanculo le quindici miglia che ci mancavano da percorrere per far disperdere la mandria. Le mie remore - sicuramente provocate dagli occhioni da Bambi di Sasha - durarono un istante e morirono nel momento esatto in cui superammo un vecchio cartello che stava per essere inghiottito dal verde del bosco.

"Un nuovo inizio: Alexandria, il principio della sostenibilità".

«Nah. Ho fiducia in voi due», e accelerai, sperando di correre più veloce dei miei rimorsi. 




***


Beth

Siamo fottuti.

Eppure le cose, fino al pomeriggio, erano scivolate via tranquille. Il ritorno di Rick ci aveva dato un'enorme sicurezza in più: era stato confortante vederlo aggirarsi per le mura sin dal mattino per rafforzare le recinzioni. I vaganti si erano ammassati contro di esse e ne sentivo i versi vibrare oltre il ferro, ronzanti come uno sciame d'api. Ero con Maggie sulla torretta di guardia, ad aspettare un segnale di Glenn.

«Questo rumore mi angoscia», borbottai, lanciando uno sguardo più in basso. Le teste dei vaganti ciondolavano e le loro mani battevano contro le lastre di ferro che li tenevano fuori.

Lei ridacchiò, per allentare la tensione. «Rick dice che penseremo ad allontanarli con calma. Fortunatamente sono sparsi e le recinzioni reggono ancora».

Annuii. «Purtroppo c'è il rumore che mi ricorda della loro presenza, quando cammino per la città».

«A me un po' ricorda di quando infilzavo i vaganti oltre la rete, alla prigione».

«Ma se eri sempre sulla torretta di guardia con Glenn», replicai, lanciandole un'occhiata maliziosa. «Lo sapevamo tutti come passavate il vostro tempo. Altro che guardia».

Il volto di Maggie si aprì in un'espressione scandalizzata, ma le labbra erano piegate in un sorriso. Stava per rispondermi, quando qualcosa alle mie spalle attirò il suo sguardo, più in alto del mio volto, fino al cielo. Gli occhi le si accesero di confusione, incredulità e speranza. La guardai perplessa per un attimo, poi mi voltai a guardare anche io. In lontananza, fuori dalle mura e oltre i tetti delle case di Alexandria, un gruppo di palloncini verdi si stava librando nell'azzurro di quella giornata serena.

«Glenn... Quello è il segnale di Glenn!», esclamò mia sorella.

Mi voltai a guardarla, gli occhi spalancati.

«Cosa?».

Ma lei non rispose, anzi, scattò per scendere gli scalini della torre di guardia in tutta fretta. Mi limitai a seguirla, correndo con lei per la via di Alexandria. Raggiungemmo Rick, che stava fortificando le mura assieme ad altri uomini, nella zona dei pannelli solari. Con lui c'erano Deanna e Tobin, tutti col naso all'insù.

«È Glenn», affermò Maggie, guardando Rick con sollievo. Lui annuì, accennando un sorriso.

Ma quell'attimo di felicità durò poco.

All'inizio si sentì uno scricchiolio strano e non capii subito da dove provenisse. Poi il rumore di qualcosa che vacillava, di legno che si spezzava... Il mio udito si accorse da quale direzione provenivano quei rumori e guidò il mio sguardo, molto prima che me ne rendessi conto. I miei occhi corsero alla torre esterna, quella che il giorno prima era stata colpita dal camion guidato da quei selvaggi. Sentii qualcuno - forse Maggie? - afferrarmi un braccio e trascinarmi via, mentre continuavo a guardare, incapace di smettere. Ogni altro rumore si azzerò, ogni pensiero venne congelato dall'incredulità di quello a cui stavo assistendo: la torre oscillò verso la nostra recinzione e, dopo un tempo breve e infinito contemporaneamente, crollò rovinosamente su essa, con un frastuono assordante.

I vaganti che ci avevano circondato tutta notte iniziarono a infilarsi nella breccia, finalmente liberi di superare la recinzione ed entrare. Emersero dalla nebbia di polveri che aveva provocato il crollo, come da un incubo. Fu allora, che guardai in faccia la spaventosa realtà. Siamo fottuti, pensai, mentre la voce rabbiosa di Rick che ci ordinava di andarcene mi riscuoteva dallo shock. Le mie gambe seguirono il suo consiglio prima che il mio cervello riuscisse ad inviare qualsiasi impulso, e cominciai ad arretrare.

Poi udii la voce di mia sorella che urlava qualcosa e tornai completamente lucida: Maggie. Dovevo mettere in salvo lei e mio nipote. Iniziammo a correre fianco a fianco, per allontanarci da quell'orda di non-morti. Quando uno di quelli si avvicinava troppo a mia sorella o a me, mi voltavo per sparargli in fronte, senza mai smettere di indietreggiare e lasciando sempre più avanti Maggie. Non dovevano nemmeno sfiorarla.

Dopo qualche metro, intravidi la torretta di guardia più vicina e capii cosa avrei dovuto fare. I vaganti non erano solo alle nostre spalle, ma ci stavano circondando anche sul lato destro.

«Maggie, la torre!», urlai, fermandomi ad abbattere alcuni vaganti in testa all'orda.

«Sì!», rispose a sua volta, imbracciando il fucile e aiutandomi ad ucciderli. Il nostro obiettivo era davvero vicino e, quando finalmente ci fummo avvicinate abbastanza, mi fermai nuovamente per rallentarli, dando le spalle a mia sorella.

«Sali!», le ordinai.

Avvertii il suo sguardo pieno di preoccupazione incollato alla nuca. «Beth...».

«Prima sali tu, poi mi arrampico anche io!», la incitai, ricaricando la pistola e sparando un altro colpo.

In realtà, non avevo la minima intenzione di salire assieme a lei. Innanzitutto, perché non saremmo riuscite ad arrampicarci entrambe prima di essere circondate totalmente da vaganti, erano troppo vicini. Inoltre, se quei non-morti si fossero accalcati in massa attorno alla fragile struttura della torretta, quella sarebbe crollata nel giro di niente. Sarebbe servito che qualcuno ne allontanasse buona parte e dovevo farlo io. Non mi rasserenava l'idea di lasciare Maggie da sola, ma se fossi rimasta per terra sarei potuta andare a cercare aiuto. Anche con una sola persona, forse quella torretta non avrebbe retto a lungo. Avrei dovuto fare in fretta.

Sparai ai vaganti vicini, mentre mia sorella si arrampicava sulla scaletta. Lanciai un'occhiata in alto, verso di lei, incontrando il suo sguardo apprensivo. Si era sporta verso di me, guardando in basso da sopra la torre. Era al sicuro. «Beth, sali subito!».

Respinsi un vagante con un calcio. «Cerco di allontanarne il più possibile, poi andrò a cercare aiuto».

«Cosa?! Beth, NO!», gridò Maggie.

«STAI GIÙ, quelli più avanti non ti hanno ancora visto! Tornerò presto», promisi, concitata.

Distolsi lo sguardo da quello angosciato di mia sorella ed iniziai a sbracciarmi e a urlare, attirando l'attenzione dei vaganti per allontanarli dalla torre. Molti di loro mi seguirono ma, in un attimo di distrazione, inciampai e mi ritrovai per terra. Il cuore iniziò a battermi furiosamente nel petto, le orecchie mi fischiavano. Strisciai all'indietro, sparando verso i quattro vaganti che stavano per sopraffarmi. Quando premetti il grilletto a vuoto, mi riempì la testa un solo pensiero: sono morta.

Poi, all'improvviso, udii una lama sibilare, del sangue mi schizzò addosso e quei vaganti caddero ai miei piedi. Guardai in alto, al mio fianco: Michonne.

«Alzati, Beth!», gridò, parandosi tra me e altri che stavano arrivando. Obbedii, portandomi alle sue spalle e guardandomi attorno. Notai che, poco distante da me, Deanna stava zoppicando aggrappata a Rick. Mi voltai e incontrai lo sguardo di Michonne.

«VAI!».

Raggiunsi Rick e Deanna, circondandomi le spalle con l'altro braccio della donna per aiutarli. Ci allontanammo di fretta, ben presto seguiti da Michonne. Incontrammo Jessie, che ci fece segno con urgenza di entrare da lei. Una volta chiusa la porta, mi accorsi che casa sua era piuttosto affollata: c'eravamo io, Rick, Deanna, Michonne e lì vi trovai padre Gabriel, Carl, Judith e i figli di Jessie. Mentre trascinavo Deanna su per le scale per farla stendere, gli altri si occuparono di barricare le finestre e le porte. La feci stendere sul primo letto disponibile che trovai. Nello stendersi, Deanna si lasciò scappare un singulto di dolore.

«Dove ti sei ferita?», domandai, sistemandole meglio i cuscini dietro alla testa.

«Alla gamba. E al fianco. Sono caduta su qualcosa di affilato, vicino al cantiere», boccheggiò.

In tutto quel casino e sorreggendola dalla parte opposta, non mi ero resa conto della grossa macchia scura che si stava espandendo sul suo fianco sinistro. Strappai un pezzo di lenzuolo per pulire le ferite e cercare di tamponarle. Mi sforzai di ignorare il pensiero che Denise o Josie sarebbero state molto più utili di me, in quel momento. Il taglio alla gamba era abbastanza profondo: non era gravissimo, ma sarebbe servita una garza per fermare l'emorragia. Corsi in bagno, rivoltando i cassetti di Jessie e per fortuna trovai quello che cercavo. Medicai la gamba di Deanna al meglio delle mie capacità, lanciandole un'occhiata di scuse ogni volta che sussultava dal dolore.

«Tranquilla, piccola. Stai andando alla grande», mi rassicurò, tentando di trasformare quella smorfia di tormento in un sorriso incoraggiante. «Mi stai facendo un male cane, ma posso perdonarti».

Le sorrisi, stringendole una mano. «Devi portare pazienza, un'altra medicazione e poi ti lascerò in pace», la rassicurai, spostandomi per essere più vicina al suo addome. Le sollevai con delicatezza la maglia, posandoci subito sopra le garze. Quando diventarono zuppe, ne preparai altre per cambiarle. Fu allora che me ne accorsi, proprio mentre Rick e Michonne entravano.

Deanna si era tagliata, sì: e il taglio, poco profondo, era collocato... subito sopra un morso di vagante. Mi sentii sbiancare, anche Michonne - che stava dicendo qualcosa - si interruppe. Alzai di scatto il volto, guardando Deanna con espressione stralunata. Quello che lessi nei suoi occhi mi fece male: era lo sguardo addolorato e rassegnato di una donna fiera che si rendeva conto che il suo tempo stava per scadere.

«Beh... cazzo».

***


Tenevo in braccio Judith, sbirciando dalla fessura di una tenda i vaganti che avevano invaso le strade. Rick mi aveva chiesto di prendermi cura di lei, mentre gli altri bloccavano le entrate al piano di sotto. In un primo momento, tentennai, perché avrei preferito rimanere assieme a Deanna. Lei, con uno sguardo, lo aveva capito e mi aveva rassicurata: «resisterò ancora per un po', Beth. Quando avranno finito, potrai salutarmi».

Avevo cercato di essere forte, in presenza di Deanna: avevo trattenuto le lacrime il più possibile ma, una volta chiusa la porta della camera di Jessie, mi ero lasciata andare, stringendo Judith al mio petto. Deanna si sarebbe trasformata in uno di quei mostri, mentre Alexandria aveva ancora bisogno di lei e delle sue idee. Ripensai inevitabilmente al giorno in cui l'avevo conosciuta, a come mi era sempre sembrata forte e materna al tempo stesso, specialmente con me e Noah. Non riuscivo ad immaginarmi una Alexandria senza Deanna e invece sarebbe andata proprio così. Sempre se fossimo riusciti a sopravvivere a quell'inferno.
Come se le mie emozioni negative la stessero disturbando in qualche modo, Judith si agitò appena tra le mie braccia. La cullai, accarezzandole i capelli ricciuti, cercando di tranquillizzare lei e me stessa. Mi sedetti sul bordo del letto, asciugandomi le lacrime e provando a calmare i miei singhiozzi. In quel momento, la porta si aprì, piano. Alzai lo sguardo, allarmata, e scattai in piedi, sfoderando il coltello. Da dietro la porta spuntò Deanna, aggrappata allo stipite e col volto smunto madido di sudore.
«Posso?», domandò, stiracchiando un sorriso.

Sussultai, muovendomi in fretta per adagiare Judith nella culla e aiutare Deanna a stendersi.

«Non ti saresti dovuta alzare», la redarguii, con voce spenta, mentre si adagiava sui cuscini.

«Sarà la mia ultima fatica», sdrammatizzò. «Volevo vedere la piccola».

Io rimasi in piedi accanto al letto, in silenzio, guardandola col tormento che mi si agitava nel cuore, nello stomaco, in ogni cellula. Non sapevo bene cosa dire. Probabilmente Deanna si accorse dei miei occhi arrossati e gonfi, perché non riusciva a distogliere lo sguardo dal mio. «Perché piangi, Beth?», domandò con dolcezza. Sentii gli occhi inumidirsi di nuovo e strinsi le labbra.

«Vieni qui», mi invitò, tamburellando il materasso al suo fianco con una mano. Io obbedii, sedendomi accanto a lei con le spalle incurvate e lo sguardo incollato al pavimento.

«Non devi essere triste, bambina mia. L'ho detto anche a Michonne: me ne vado sentendomi fortunata, perché ho fatto tutto quello che volevo, assieme alla mia famiglia. Non ho rimpianti», mi rassicurò, appoggiandomi la mano sulla coscia. La febbre la stava consumando al punto da impedirle di riuscire ad alzare un braccio per accarezzarmi la guancia. Strinsi la sua mano bollente tra le mie.

«Mi dispiace farmi vedere così, ma... Non ci riesco», mi scusai, la voce rotta dai singhiozzi che mi stavano scuotendo. «Dopo tutto quello che hai fatto per me, per il mio gruppo, per la gente di Alexandria... non è giusto».

Deanna sorrise debolmente, gli occhi improvvisamente più lucidi. «Io sono felice di essere riuscita a farlo. Adesso tocca a voi e sono sicura che ce la farete. Alexandria è le persone che la abitano, Beth. Non sono solo io, non è solo Rick. Devo lasciare a te il compito di fare aprire gli occhi a chi ancora non vuole vedere quanto nel profondo, in realtà, facciamo già tutti parte della stessa famiglia».

«Io n-non so se ne sarò in grado», mormorai, abbassando lo sguardo.

«Se non ne fossi in grado, non te lo chiederei», replicò Deanna, con la voce sempre più sottile, ma sempre più dolce. «Tu sei sempre stata il comune denominatore dell'alleanza che io e Rick abbiamo provato a mettere insieme. Sei la prima, tra tutti noi, che ha capito quanto ci apparteniamo tutti. Devi solo credere un po' di più nel tuo ruolo all'interno del gruppo».

Mi passai un braccio sul volto, per asciugare le lacrime nella stoffa e farmi vedere forte. Annuii, aumentando la presa attorno alla sua mano. «Ti prometto che ce la farò. Te lo giuro sulla mia vita»
Le sue labbra pallide si aprirono in un sorriso. «Brava la mia ragazza».

Le sorrisi, il cuore addolorato ma pieno di affetto. «Deanna, io... volevo solo dirti grazie. Grazie per avermi accolta. Grazie per aver dato una possibilità alla mia famiglia. Sei stata una grande leader».

Deanna annuì, commossa. Si sforzò di darmi una carezza sul viso, con la mano tremante. La afferrai per aiutarla a sostenerla. «Prenditi cura di te e della nostra famiglia, Beth». Poi, improvvisamente, i suoi occhi si fecero più furbi, così come il suo sorriso. «E, mi raccomando, prenditi cura del signor Dixon».

Io mi sentii avvampare, colta di sorpresa, ma non riuscii a trattenere un sorriso. Annuii. «Ci puoi giurare».

Presi in braccio Judith e, con cautela, la avvicinai a Deanna, che non riuscì a far altro che darle una lieve carezza tra i capelli biondi. A quel punto, Rick entrò nella stanza, scuro in volto. «Dobbiamo andare. Al piano di sotto si sta mettendo male, siamo circondati».

Mi voltai istantaneamente verso Deanna, cercando di non ricominciare a piangere. Lei stiracchiò un sorriso, comprensiva e annuì nella mia direzione. «Mi raccomando, Beth».

Rimasi seduta, spostando Judith sull'altra spalla e stringendo la mano di Deanna con la mia libera. Forte e per l'ultima volta. Annuii, sforzandomi in ogni modo di sorriderle a mia volta, ma senza la forza di dirle nient'altro. Poi mi alzai in fretta e mi allontanai con la piccola in braccio, mentre Deanna chiedeva a Rick di scambiare due parole.

Quando ritrovai gli altri, l'ondata di lacrime che rischiava di travolgermi venne spazzata via: seguii la voce di Michonne e, in un primo momento, rimasi allibita sulla soglia. In mezzo all'anticamera, sul pavimento, trovai ammassi di roba molliccia e rossa che registrai quasi subito come interiora. Ad un'occhiata più attenta, mi resi conto che fuoriuscivano dai due vaganti che erano stati uccisi e poi sventrati che giacevano in mezzo alla stanza. Sentii un'ondata di nausea travolgermi, ero sicura di essere anche sbiancata.

Carl mi si parò davanti, distogliendomi da quella visione disgustosa. «Beth, prendi un lenzuolo. Dobbiamo andare all'armeria e coprirci con le loro interiora per passare inosservati». Abbassai lo sguardo e notai che mi stava porgendo un lenzuolo ripiegato. Ricordai che Glenn mi aveva raccontato di quella volta in cui aveva usato quell'esperienza per salvarsi dai vaganti, assieme a Rick. Il disgusto che avevo provato non era paragonabile a quello scatenato dalla consapevolezza di doverlo fare davvero.

Annui, tentando di controllare le ondate di nausea. «Okay, dammelo», risposi a denti stretti, ignorando l'odore orrendo che stava impregnando la stanza.
Quando Rick tornò, iniziammo a prepararci e a vestirci con quelle tuniche fatte di interiora. Puzzavano terribilmente, perciò iniziai a respirare con la bocca e a pensare a qualcos'altro. Sentii un ronzio nell'orecchio, mentre tentavo di controllare l'ansia che mi provocava l'idea di passare in mezzo a quei mostri. Sentivo la voce di Jessie in lontananza che cercava di incoraggiare uno spaventatissimo Sam.

Scendemmo le scale con cautela e in religioso silenzio e pregai che Judith, che avevo nascosto sotto il mio lenzuolo, non emettesse un fiato. Quando Rick scostò il materasso che ci divideva dall'orda che aveva invaso l'ingresso di Jessie, trattenni il respiro. Mi aspettai che uno di quelli lo addentasse da un momento all'altro e, come aveva pronosticato lo sceriffo, non successe: Rick iniziò ad avanzare, guardando il primo vagante negli occhi. Questo non ebbe nessuna reazione e, a quel punto, capii che potevo riprendere a respirare. Il piano di Rick funzionava, avrebbe funzionato e ce la saremmo cavata.

Il cuore iniziò a battermi all'impazzata quando fu il mio turno di attraversare quella marea di non-morti ma, ovviamente, ignorarono anche a me. Finsi di stare attraversando un locale troppo affollato durante un concerto. Presi una boccata d'aria fresca, quando ci ritrovammo sul portico. Le strade erano invase di vaganti e, per un attimo, non ebbi nemmeno più l'impressione di trovarmi ad Alexandria. Quello era un incubo fatto e finito; era come ritrovarsi di nuovo fuori dalle mura, in un mondo immenso e pericoloso.

Rick prese per mano Carl, che prese per mano Jessie e così via, fino a formare una catena umana. Io mi ritrovai penultima, tra Ron e Padre Gabriel. Scendemmo in strada, camminando in mezzo ai morti. Per non farmi prendere dal panico e per sentirmi meno sola, finsi che l'unica mano che stavo stringendo – che era di Gabriel – fosse di Daryl, per infondermi del coraggio. Immaginai le sue dita ruvide e calde strette alle mie, assieme alla sua presenza rassicurante che vegliava su di me. Chissà se ci rivedremo...

Riuscimmo a superare parecchi vaganti, prima che Rick si fermasse dietro a una siepe, di nascosto dai non-morti. Lanciò delle occhiate attorno a sé, guardingo. «Nuovo piano: non andremo più all'armeria. Ci sono troppi vaganti e troppo sparpagliati, i razzi non basteranno ad allontanarli. Riporteremo tutti i veicoli alla cava, guideremo tutti così riusciremo a circondarli. Andiamo e torniamo».

Ebbi un fremito, al pensiero di lasciare Alexandria mentre mia sorella era ancora da sola su quella torre, per nulla al sicuro. «Rick, Maggie è intrappolata su una torretta di guardia, non posso lasciarla lì».

I suoi occhi di ghiaccio incontrarono i miei, traboccanti di indecisione. «Beth...».

Jessie venne in mio soccorso. «Io ci sto per il piano. Ma Judith… È troppo pericoloso per lei, andare e tornare dalla cava». Istintivamente, strinsi la piccola – ancora nascosta – a me.

«Posso trovarle un posto sicuro e poi andare a salvare Maggie, il camuffamento ha funzionato. Ti giuro che la proteggerò a costo della mia vita ma, ti prego Rick, lasciami andare», lo pregai, mettendocela tutta per risultare convincente.

«Le proteggerò io», si fece avanti Padre Gabriel. Io, Rick, Michonne e Carl ci voltammo a guardarlo contemporaneamente, con sorpresa e diffidenza insieme. Ma lui non si scoraggiò. «Accompagnerò Beth in chiesa e lì terrò Judith al sicuro, mentre Beth va ad aiutare Maggie».

Nei suoi occhi, nonostante i precedenti, scorsi una luce nuova. Stava dicendo la verità, con un tono deciso che non gli avevo mai sentito usare. Ero molto vicina a fidarmi di lui. Rick si concesse qualche secondo per rimuginarci sopra, ma si accorse presto che il tempo a nostra disposizione era poco e correva veloce.

Scambiò una lunga occhiata prima con me, poi con Padre Gabriel. Il prete si fece più vicino a me, senza distogliere lo sguardo da quello di Rick. «Le terrò al sicuro».

Prima di lasciarci andare, lo sceriffo ci lanciò un ultimo sguardo, indugiando su quello di Gabriel e ci congedò con una sola parola: «grazie».

***

Arrivammo alla chiesa senza intoppi, grazie al cielo. Passammo dal retro senza dare nell'occhio, ma ormai, fortunatamente, eravamo al sicuro. Anche perché Judith aveva esaurito la sua pazienza e stava iniziando ad agitarsi tra le mie braccia, emettendo qualche lamento. Chiusi a chiave la porta, lasciandomi andare a un sospiro.
«Padre, si tolga quella schifezza e prenda Judith. Non ne può più, piccolina», dissi, cullando la bambina.
Lui mi rivolse un sorriso stanco, felicissimo di accontentare la mia richiesta. Sollevai il lenzuolo che ancora mi ricopriva e gli porsi Judith, che si agitò contrariata. Lui la cullò, cercando di tranquillizzarla. In quel momento, sentimmo dei rumori provenire da dietro la porta che conduceva all'altare. Io e Gabriel ci lanciammo uno sguardo allarmato e gli intimai di fare silenzio portandomi l'indice contro le labbra.

Mi avvicinai silenziosa alla porta, aprendola senza fare rumore. Dopo aver estratto il coltello dal fodero e aver preso un respiro profondo, aprii di getto la porta e mi misi in posizione di difesa, con la lama in offensiva. La abbassai immediatamente, quando mi accorsi che, davanti a me, c'era Glenn.

«Glenn!», esclamai, piena di sollievo.

La sua espressione si distese e mi venne incontro, posandomi una mano sulla guancia Evitò accuratamente di toccarmi dal collo in giù. «Beth, stai bene?», domandò concitato, storcendo il naso per la puzza di viscere.

«Sto bene, vestito di interiora a parte».

«Ho visto Maggie sulla torre, è circondata. Dobbiamo andare a salvarla».

Repressi un fremito di terrore. «Lo so. Sono venuta qui per mettere al sicuro Judith, l'ho lasciata a Padre Gabriel per tornare ad aiutare Maggie».

Decidemmo in fretta il da farsi e scoprii che anche Enid ci avrebbe aiutati. Glenn aveva pensato di distrarre i vaganti, mentre la ragazzina si sarebbe arrampicata sulla torretta per aiutare Maggie a scendere dall'altro lato delle mura.

«Se Padre Gabriel resta qui, potremmo usare il suo lenzuolo e darlo a Maggie per camuffare il suo odore», proposi, cercando di riflettere.

Glenn ci pensò sopra. «Non so, è da molto che ce l'avete addosso? L'odore potrebbe essersi indebolito. Non posso permettere che Maggie passeggi tra quei mostri».

«Va bene, l'importante è muoverci», asserii. Con un gesto stizzito, mi liberai di quella veste disgustosa. «Facciamo le cose alla vecchia maniera. Ti aiuterò a distrarre i vaganti», replicai, con tono deciso.

Mio cognato annuì e mi porse un caricatore per la pistola. Mi ricordai in quel momento che ce l'avevo scarica. Lo afferrai senza esitazione. «Andiamo!».

Uscimmo nell'oscurità, iniziando a correre. Evitammo più vaganti possibili, muovendoci a ridosso delle mura. Quando arrivammo da Maggie, la torretta aveva già iniziato a barcollare pericolosamente, mossa dai vaganti che vi si agitavano sotto, nel tentativo di arrivare a mia sorella. Glenn urlò a Enid «va' a prenderla!» e ci separammo da lei, iniziando a sparare e a urlare per attirare l'attenzione dell'orda. Negli spazi vuoti, ne approfittai per sfoderare il mio pugnale e affondarlo nel cervello di qualche vagante.

«Ehi, venite qui! Siamo qui! Venite qui! Avanti!».

Le nostre urla e i nostri spari non attirarono solo l'attenzione dei non-morti. Ad un certo punto, sentii anche le grida di paura di mia sorella, che chiamava una volta me e una volta suo marito. Eravamo arretrati verso la direzione opposta alla torre, allontanandoci di qualche metro. Da lì riuscii a vedere Enid che si arrampicava, mentre la folla attorno alla struttura in legno si stava diradando. Il nostro piano stava funzionando, se non fosse stato per il fatto che Maggie non riusciva a smettere di disperarsi mentre ci guardava fare da esca, e per il fatto che, molto presto, io e mio cognato ci ritrovammo circondati dai vaganti e con le mura alle nostre spalle.
Mentre guardavo il muro di zombie farsi sempre più vicino, e senza nessuno spiraglio di fuga disponibile, per la seconda volta in quella giornata mi venne da pensare che ero spacciata. Non provai disperazione, ma un vago senso di rassegnazione.
I pensieri mi si ammassarono nella testa uno dopo l'altro, mentre mi preparavo a difendermi – inutilmente – solo con il pugnale, perché avevo fatto fuori anche quella ricarica di proietti.

Sono riuscita a salvare Maggie. Glenn si deve salvare, mio nipote non può crescere senza un padre. Non potrò mantenere la promessa che ho fatto a Deanna. Spero che la mia famiglia sopravviva. Spero che Daryl sia vivo e che torni presto a casa.

L'urlo di Maggie fu l'ultima cosa che udii quando venimmo sopraffatti dall'orda di vaganti. Per una frazione interminabile di secondo, vidi solo vestiti sdruciti e mani che arrancavano verso di me, mentre li spintonavo via come potevo. Ci fu un momento in cui loro ebbero la meglio ed io mi arresi, accucciandomi su me stessa, in attesa del primo morso… che non arrivò.

Un rumore assordante di fucili d'assalto squarciò l'aria e, nello stesso momento, il muro di zombie crollò, come una schiera di birilli. Una pioggia di proiettili ci stava cadendo addosso, senza ferirci, ma salvandoci. Cristo, eravamo ancora vivi!
Mi ritrovai accucciata a terra, una spalla contro la lastra di lamiera alle mie spalle, a proteggermi con le braccia mentre mi lanciavo un'occhiata esterrefatta con Glenn.
Guardai in alto, verso il cancello di ingresso: trovai Abraham e Sasha che impugnavano due grossi fucili, rivolti verso di noi. Eccoli, i nostri salvatori.

«Puoi aprire il cancello? Lo apprezzerei, amico!», urlò Abe all'indirizzo di Glenn, esibendo un sorriso cameratesco e tornando a ripulire dai vaganti lo spazio attorno a noi.
 
Quando fummo liberi di muoverci, avanzammo verso il cancello principale e lo aprimmo in tutta fretta, illuminati dai fari del grosso camion con cui avevano fatto ritorno Sasha, Abraham e… Nel momento in cui mi resi conto che c'era Daryl alla guida di quel mezzo, un'emozione indescrivibile mi si schiantò nel petto e respirare diventò improvvisamente difficile. Mi immobilizzai a fissarlo, mentre lui mi scrutava da sopra il volante, con un'espressione indecifrabile. Le sue labbra erano socchiuse, i suoi occhi sembravano avere appena visto un fantasma.

Sentivo di avere anche io un'espressione incredula, mentre i miei piedi iniziarono a muoversi verso la parte del guidatore, indipendenti dalla mia volontà. Mi arrampicai su per la scaletta, schiacciando il corpo contro lo sportello e sporgendomi nell'abitacolo grazie al vetro abbassato, mentre mi aggrappavo al finestrino.
Alla guida c'era davvero Daryl, ricoperto di sporco, ma era vivo. Ed era tornato finalmente a casa.

Sentii il sollievo travolgermi e gli occhi inumidirsi. «Bentornato, signor Dixon», sussurrai, con la voce spezzata.

Le sue labbra ebbero un fremito ed annuì, ma non parlò. Prendendomi contropiede, posò la mano che non teneva il volante sulla mia e la strinse, forte. Le nostre dita si intrecciarono, proprio come avevo immaginato quel pomeriggio, mentre Daryl mi guardava in quel modo – come alla casa funeraria.

Daryl mollò la presa quando Glenn si infilò nell'abitacolo, ma non mi importava. Avevo riacquistato la fiducia per credere che Alexandria ce l'avrebbe fatta, quella notte e che noi due avremmo potuto riparlarne. Prima avevamo un'ultima battaglia da affrontare. Daryl fermò il camion vicino alla sponda del lago, mentre Glenn, Abe, Sasha, Enid e Maggie ritornarono nel cuore della città per aiutare gli altri a resistere all'invasione. Io rimasi con Daryl, per coprirlo mentre apriva il tubo del carburante e lo faceva fluire nell'acqua.

Mi aiutò a salire sul tetto del rimorchio, mi passò un lanciarazzi che aveva trovato chissà dove – ignorando la mia reazione perplessa – e salì, sparando dritto nel lago. Il razzo, a contatto con la benzina, trasformò quello specchio d'acqua in un lago di fuoco. Il rumore e la luce attirò moltissimi vaganti, che iniziarono a camminare mollemente verso l'acqua, finendo per bruciarsi.

Osservai la scena accanto a lui, con un sorriso allibito dipinto sulle labbra. «Non ci credo… Ha funzionato! Hai avuto un'idea grandiosa!».

Non riuscii a capire se fosse la luce rossiccia dovuta alle fiamme, ma mi parve di vederlo arrossire. Raddrizzò le spalle. «Questo dovrebbe richiamarne la maggior parte», commentò, stringendosi nelle spalle.

Ritornai improvvisamente seria. «Le strade sono comunque piene. Dobbiamo andare ad aiutare gli altri», replicai. Mi voltai e feci per scendere da lì, ma sentii la sua mano afferrarmi il polso.

«Beth, ascolta un secondo – », proferì, ma scossi la testa, sollevai una mano e abbozzai un sorriso.

«Ne parliamo più tardi, okay? E so cosa stai pensando, che non è detto che vedremo entrambi l'alba con tutto il casino che c'è. Invece, sai che ti dico? Ce la faremo, tutti e due». Prima che potesse replicare, gli circondai il collo con le braccia e mi strinsi a lui, forte. Quando, timidamente, posò le sue mani sui miei fianchi, mi scostai per guardarlo. «Non ho la minima intenzione di fartela passare liscia e stai pur certo che non ti basterà un secondo», aggiunsi, con un sorriso serafico prima di sciogliere l'abbraccio.

Daryl non riuscì a trattenere uno sbuffo, ma sembrò più che altro una risata. Alzò gli occhi al cielo e mi seguì giù per l'abitacolo, scendendo in strada al mio fianco.

Abbattemmo un vagante dopo l'altro, facendoci strada per ricongiungerci agli altri. Li trovammo fare lo stesso ed eravamo inarrestabili. Un corpo e una mente unici, mentre difendevamo casa nostra con le unghie e con i denti perché non ci venisse portata via. La determinazione che ci smuoveva tutti era tale che sembrava quasi di assistere ad una coreografia. Io stessa, ad un certo punto, mi sorpresi di quanto fosse diventato meccanico, come schema: schiva, afferra, affonda la lama. Schiva, afferra, affonda la lama…

Volevamo tutti vivere, non soltanto sopravvivere. Mentre mi avventavo su un vagante, su quello dopo e su quello dopo ancora, alimentata da una forza di cui non mi credevo capace, si susseguirono nella mia testa i volti di tutte le persone per cui stavo combattendo così duramente: mio padre, mia madre, Noah, Maggie, Carl, Lori, Judith, Rick, Samantha, Reg, Deanna, Daryl; per tutti quelli che avevamo perso e per quelli che avrei continuato a proteggere con tutte le mie forze.

Mi piace ricordare quella notte come quella in cui si dissolse qualsiasi confine tra i due gruppi. Mentre combattevamo fianco a fianco, cessò di esistere un “noi” e un “loro”, perché eravamo tutte persone che stavano combattendo per riconquistare Alexandria e il diritto di vivere al sicuro tra le sue mura.
E, per la prima volta, lo stavamo facendo tutti insieme.



| Note autrice |
E anche questo capitolo infinito è andato! Ho fatto il possibile per non tardare moltissimo con l'aggiornamento, ma purtroppo sono in piena sessione d'esame e il tempo è quello che è.
Come avete letto a inizio capitolo, sì: ho deciso di cimentarmi nuovamente con il POV di Daryl. O almeno, ci ho provato ed è stato abbastanza impegnativo. Quando ho rivisto la puntata e mi sono ricordata che Daryl ha voluto fare marcia indietro, ho gongolato e ho voluto rigirare la frittata, facendo intendere che in realtà voleva solo correre a casa da Beth. Però, come avete capito, anche in questa versione il nostro biker ha dei ripensamenti e alla fine resta con Abe e Sasha. Anche perché il suo incontro con Dwitght nella foresta bruciata servirà anche a me, quindi non potevo farglielo evitare.
Un'altra cosa che volevo specificare: lo scorso capitolo ho creato dell'attesa menzionando una parte fluffy tra i nostri beniamini. Beh, quello che avete letto non è quello a cui mi riferivo. Come al solito il capitolo mi è cresciuto tra le mani mentre lo scrivevo e ho deciso di posticipare il chiarimento tra questi due. Il prossimo capitolo sarà incentrato quasi esclusivamente su Beth e Daryl, questa volta posso garantirvelo al 100%. Inoltre, l'ho già praticamente scritto tutto, mi mancano solo degli aggiustamenti e integrare delle parti (=aggiornamento più veloce). Per il resto, sarà davvero tutto cuore e ammore. Spero che l'assaggino di questo capitolo vi sia comunque piaciuto :)
Direi che ho finito di ammorbarvi. Ringrazio di cuore cuorissimo Tracey, keplerf62, Sil94 e ovviamente vannagio per le recensioni allo scorso capitolo. Mi hanno fatto felicissima, appena ho qualche secondo libero in più vi rispondo come si deve!
Spero che abbiate apprezzato anche questo capitolo e che mi farete sapere cosa ne pensate :) un bacio e alla prossima!
Blakie



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Capitolo 14
*** Words ***


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14. Words

 

L'alba arrivò finalmente a rischiarare la più oscura delle notti, a mettere fine alla più lunga delle giornate. Nel chiarore del primo mattino, avanzavo con stanchezza per le strade della città, disseminate di cadaveri di vaganti. Arrivai davanti all'infermeria, dove le stesse persone che avevano combattuto per proteggere Alexandria stavano aspettando di essere medicate. Ciò che si presentava di fronte a me era l'esatto ritratto della quiete dopo la battaglia. Scorsi con lo sguardo i loro volti esausti, la loro postura leggermente ricurva, mentre aleggiava il silenzio.

Ce l'avevamo fatta: eravamo riusciti a difendere la nostra città, a combattere fianco a fianco come una comunità unita, a proteggerci gli uni con gli altri. Il sole era sorto e Alexandria era ancora nostra, proprio come avrebbero voluto Deanna, o Reg, o Noah. Eravamo distrutti, sfiniti, ma ancora vivi.

Mentre attraversavo il porticato, sorrisi stancamente alla mia gente, felice di poterlo ancora fare. Avevamo perso delle persone, purtroppo, ma la zona sicura era ancora in piedi e noi, nonostante l'orda immensa di vaganti, eravamo sopravvissuti.

«Ho portato le bende e i disinfettanti», mi annunciai, chiudendo la porta alle mie spalle. Denise si stava occupando delle ferite riportate da Glenn, Maggie era stesa su un lettino mentre Josie controllava la sua salute e quella del mio futuro nipotino – il cuore ancora mi si riempiva di tenerezza e sorpresa, tutte le volte che ci pensavo. Michonne, sulla soglia della stanza da letto al piano terra e con in braccio Judith, osservava Rick al capezzale di Carl.

Quando lo avevo ritrovato in infermeria, con un occhio bendato e privo di sensi, ero rimasta scioccata. Lo shock era raddoppiato quando mi avevano raccontato come era successo: Sam aveva attirato l'attenzione dei vaganti ed era morto divorato, come Jessie. Ron, sconvolto, aveva provato a sparare a Rick, ma quando Michonne lo aveva trafitto per impedirglielo, era partito il proiettile vagante che aveva colpito Carl. Tutto quello mi era sembrato inconcepibile, assurdo.

«Come sta?», domandai a bassa voce a Michonne, osservando il mio amico.

Lei si lasciò andare ad un sorriso stanco. «Si sta riprendendo».

Annuii e sorrisi fiduciosa, appoggiandole una mano sulla spalla. «Carl è forte. Ed è già sopravvissuto a una cosa simile, dopotutto».

Michonne cullò Judith, che si era agitata appena, e le appoggiò le labbra sulla fronte. Poi si voltò verso di me. 

«Rick ha cambiato idea, Beth».

«Riguardo a cosa?».

«Su Alexandria e la gente che è arrivata qui prima e che, stanotte, ha combattuto con noi. Rick... lui ha visto un cambiamento in loro: adesso è convinto che possano farcela, che tutti insieme possiamo riuscire a rendere Alexandria la comunità che Deanna ha sempre sognato. Vuole ricostruirla e vuole che Carl veda l'inizio di questo nuovo mondo. Alexandria è il nuovo mondo, Beth. Ora Rick lo sa, l'ha capito».

Se non fossi rimasta così imbambolata da quella rivelazione, probabilmente avrei gridato per la gioia. Era tutto quello che avevo desiderato sin da quando la mia famiglia si era presentata ai nostri cancelli: che Rick capisse il potenziale di questo posto e che il nostro viaggio poteva finalmente terminare, perché eravamo a casa. Ero così felice che l'unica cosa che riuscii a fare fu stringere appena la spalla di Michonne e appoggiare la tempia alla sua, i nostri sguardi rivolti al nostro leader e a suo figlio.

«Possiamo ricominciare da capo, tutti insieme. Come sognava Deanna», affermai, senza riuscire a smettere di sorridere.

Michonne, spostando Judith sull'altra spalla, sollevò la mano verso di me e mi accarezzò una guancia, in modo materno. «Deanna ci ha accolti ma, se non fosse stato per te, non sono certa che saremmo rimasti qui».

Scossi la testa, un po' imbarazzata e un po' emozionata. «Nah, ci sarebbe voluto un po' più di tempo, forse. Ma il risultato non sarebbe cambiato. Io sono semplicemente stata una garanzia in più sul fatto che qui sareste stati al sicuro».

«Quello ha aiutato molto, certo. Però sei tu quella che ha creduto sin dall'inizio in una convivenza pacifica, nonostante le difficoltà. Ed è proprio di questo che avevamo bisogno», replicò, materna.

Devi solo credere un po' di più al tuo ruolo all'interno del gruppo.

Mi tornarono in mente le parole di Deanna ed il cerchio si chiuse. Fu la prima volta in cui sentii di essere importante per il gruppo e non soltanto la ragazzina spacciata che andava sempre e costantemente protetta. In seguito a quella specie di epifania, emersero dai ricordi anche le parole che mi aveva rivolto Daryl qualche sera prima: beh, è il tuo ruolo, quello di sperare. Com'era possibile che lo avessero capito tutti e ben prima di me? Io ero utile, per la mia famiglia. Avevano bisogno di me e finalmente ero abbastanza forte per riuscire a proteggerli.

Quella nuova consapevolezza mi riscaldò il petto e mi diede la grinta per mettermi al lavoro e aiutare Josie e Denise a occuparci dei feriti. Non ci fermammo un attimo, se non per mantenerci idratate; la notte era stata un inferno e non avevamo dormito, ma nessuna di noi sembrò essere tanto stanca da non riuscire a prendersi cura delle persone a cui disinfettammo, ricucimmo o bendammo qualsiasi ferita ci venne presentata. Eravamo inarrestabili e non ci saremmo fermate fin quando non ci fossero più stati abitanti di cui prenderci cura.

Solo quando controllai nuovamente Carl – stava ancora dormendo, ma i segni vitali erano molto buoni – mi lasciai andare su una sedia, stravolta, ma con un gran sorriso sulle labbra e la gioia che traboccava dal mio cuore.

Ora che avevo più tempo per pensare, mi resi conto che l'unica persona che mancava all'appello dei pazienti era Daryl Dixon. Mi alzai e andai a disinfettarmi le mani, in vista della mia ultima fatica.

«Denise, sai dov'è Daryl?», domandai alla mia collega, mentre buttava via ciò che le era servito per medicare Rosita.

«Ha preferito lasciare andare prima gli altri, si è accontentato solo di un tampone per coprire la ferita», mi rese partecipe. «È qui fuori, ora lo chiamo e lo ricucio».

«Non preoccuparti, ci penso io. Vai a riposarti, te lo meriti».

«Ma Beth, hai una faccia esausta e–», tentò di protestare, ma la interruppi.

«Dovresti vedere la tua», ribattei, con un sorriso. «L'intervento che hai fatto a Carl è stato difficile, in più ti sei occupata anche degli altri. Vai a riposare: tra qualche ora, se vuoi, puoi darmi il cambio».

Prima di ritirarsi in camera sua, al piano di sopra, provò ad opporsi e a ringraziarmi un altro paio di volte, ma non mi sfuggì il sollievo che le infondeva l'idea di stendersi, finalmente, su una superficie morbida. Il chiarore dell'alba stava lasciando lentamente posto alla luce del mattino, anche se i toni erano rimasti tenui e l'aria era ancora fredda. Trovai Daryl abbandonato su una poltroncina del portico, che sonnecchiava con le braccia incrociate al petto e il busto leggermente inclinato da un lato, per non gravare sulla ferita alla schiena, le gambe allungate davanti a sé.

Guardando il suo viso, la consapevolezza che ero stata vicinissima a perderlo si accese nel mio petto con un'intensità dolorosa. Fissai i suoi tratti, le sopracciglia aggrottate e gli occhi chiusi, ricordando quanto mi fossi dannatamente spaventata quando se n'era andato in missione senza dirmi una parola, sparendo i successivi due giorni. Tutta la rabbia che avevo represso quando lo avevo rivisto, iniziò a ribollirmi sul fondo dello stomaco, cancellando qualsiasi altro sentimento amichevole.

Ero grata di potermi ancora arrabbiare con lui, di poter litigare con lui.

«Daryl, è il tuo turno», lo svegliai, con fermezza.

Sussultò appena, aprendo gli occhi fissi sul pavimento. Si stiracchiò, attento a non farsi male alla schiena e si alzò in piedi.

Prima che entrasse, aggiunsi: «lì devo sistemare tutto. Ti medicherò di sopra, prima stanza a sinistra».

Annuì, superandomi senza degnarmi di una parola.

Sapeva che ero arrabbiata e che le cose tra di noi non erano a posto: se non altro, aveva preso sul serio il mio avvertimento di poche ore prima.

Entrò nell'ambulatorio, lasciandomi sotto il portico da sola: dopo qualche secondo di esitazione, lo seguii. Mi fermai un momento a prendere l'occorrente per mettere dei punti alla sua ferita. Salii le scale e, quando entrai nella stanza, lo trovai che mi aspettava, scrutando fuori dalla finestra, vicino al lettino.

Quando sentì la porta chiudersi, si voltò verso di me, incatenando lo sguardo al mio. Anche se erano una decina di passi a separarci, i suoi occhi ebbero lo stesso effetto che avrebbero avuto se me lo fossi trovata davanti: erano profondi, freddi ma accoglienti. Erano capaci di ipnotizzarmi e farmi dimenticare qualsiasi cosa, qualsiasi dolore. Ci stavamo studiando, stavamo discutendo senza dire una parola: dal canto mio, lo guardai con l'espressione più seria e sostenuta che riuscissi a fare. I primi momenti li passammo così, ad osservarci l'un l'altra.

Tossii nervosamente, per schiarirmi la gola e avanzai verso di lui. «Siediti».

Lanciò uno sguardo a quello che avevo in mano, mentre prendeva posto sul lettino. «Non mi servono i punti».

Gli andai alle spalle, notando subito quanto fossero logori i suoi vestiti. Le sue braccia erano ricoperte di sangue, terriccio e... cenere? 

«Lascia che sia io a deciderlo. Avresti potuto farti una doccia, rischi di beccarti un'infezione così», sbuffai, aiutandolo a togliersi il gilet; anche la camicia che indossava sotto si era sdrucita irrimediabilmente: la parte che copriva la schiena si era del tutto scucita dal colletto. Chissà cosa gli era capitato.

Daryl borbottò qualcosa, contrariato; sussultò, quando gli posai la garza imbevuta di acqua fredda sul braccio destro e iniziai a strofinare, per pulirlo. Ripetei lo stesso procedimento con l'altro braccio e finii sulla schiena, cercando di levare lo sporco, soprattutto attorno alla ferita. Non era molto profonda, ma sarebbero stati comunque necessari un paio di punti. 

Lo asciugai con un tovagliolo di carta e imbevetti una nuova garza col disinfettante, tamponando la ferita con cura. «Il taglio non è molto grave, ma va comunque cucito», lo avvisai, distaccata. 

«Avevo proprio voglia di fare la bambola di pezza», mi schernì con uno sbuffo, ma lo ignorai.

Iniziai a ricucirlo con delicatezza, concentrandomi su quello che stavo facendo per evitare di fargli male. Era tosto, Daryl: anche se non avevo anestetizzato la zona attorno al taglio, stava sopportando il dolore come se nulla fosse. Riuscivo a notare i muscoli della schiena ben tesi, nonostante cercasse di mantenere una postura rilassata.

Mi resi conto che non avevo mai visto Daryl senza maglia e, mentre tagliavo il filo da sutura in eccesso, mi ritrovai ad indugiare con lo sguardo sulla linea delle sue spalle nude. La sua pelle era calda e tesa sotto le mie dita e la sua schiena, libera da ogni indumento, sembrava ancora più ampia e accogliente. Pensai alle volte in cui mi ero stretta a lui, affondandoci il volto e sentendomi a casa. A quando lo avevo tenuto stretto a me mentre sputava fuori la rabbia per se stesso, fuori dal capanno. E a quanta voglia avevo, anche in quel momento, di toccare la sua pelle per sentirmi al sicuro.

Era dolce e doloroso insieme, perché le vecchie cicatrici che gli solcavano la schiena mi ricordarono quanto Daryl avesse sofferto fin da giovanissimo. Era la prima volta che le vedevo e scatenarono subito un forte senso di protezione, dentro di me; mi venne da pensare che lui, in realtà, fosse ancora più fragile di quel che pensavo, nonostante la sua facciata da duro. Il nodo allo stomaco si strinse e la mia mente cominciò a riempirsi sempre più di pensieri, consapevolezze e immagini: avrei potuto perderlo, quella notte. Avrei potuto perderlo, mentre era là fuori, disperso assieme ad Abraham e a Sasha. Ed io non potevo, per nessuna ragione al mondo, perdere Daryl Dixon. Tutto il terrore e l'angoscia che avevo provato in quelle ore interminabili che ci avevano separato mi si riversarono addosso, attanagliandomi lo stomaco, gonfiandomi la gola e riempiendomi gli occhi di lacrime. Misi ago e filo da parte, e, lentamente, appoggiai la fronte contro la sua spalla.

«Non farlo mai più», singhiozzai, arrabbiata. «Non ti azzardare mai più ad andartene senza dirmi una parola»

Daryl ebbe un fremito ma non si scostò, né mi rispose.

«Sono morta di paura, stronzo. Sono morta di paura, lo sai?», inveii in un sussurro, circondandogli i fianchi con le braccia e stringendolo a me.

In un primo momento, l'arciere rimase immobile, mentre continuavo a singhiozzare contro la sua pelle e a tenerlo stretto. Poi, ad un certo punto, sentii una sua mano posarsi sulle mie, ancora allacciate sul suo ventre. Le sue dita scivolarono poi sulla pelle del mio braccio e si chiusero attorno al mio gomito, come a trattenermi. Non potevo vederlo in viso, ma ormai lo conoscevo abbastanza da riuscire ad immaginare la sua espressione.

«Odiavamo entrambi gli addii, o sbaglio?», mormorò, la voce spenta. Mi sembrò improvvisamente stanchissimo, con la schiena ricurva e le spalle afflosciate.

Sentii l'irritazione pervadermi e formicolarmi sottopelle. Continuai a tenerlo stretto ma alzai il capo per per cercare i suoi occhi, ma non voltò la testa di un millimetro.

«Non rigirare la frittata, adesso. Sei sparito nel nulla, Daryl!», lo accusai con rabbia, divincolandomi poi dalla sua stretta, come se scottasse. Raggirai il lettino e mi parai di fronte a lui. «Sei sparito senza dirmi niente mentre qui andava tutto a puttane!». Tutto il nervosismo, la paura, il terrore che avevo provato in quei giorni infernali stavano scivolando fuori da me in quello sfogo rabbioso; era come se la bolla d'aria che mi stava opprimendo il petto si stesse lentamente svuotando.

«Prima l'attacco di quei selvaggi, poi Glenn che sparisce, le mura che crollano, la gente che muore. Ciliegina sulla torta: tu che te ne vai senza dire una parola, perché sei Daryl Dixon! E sei incazzato puoi fare il codardo, puoi fare quello che ti pare e non degnarmi nemmeno di un “ciao”, prima di andartene! Hai pensato, anche solo per un secondo, a come mi sarei sentita io, se ti fosse successo qualcosa?! A maggior ragione se l'ultima volta che ci siamo visti abbiamo litigato, tanto per cambiare».

Daryl continuava imperterrito a sorbirsi tutte le mie accuse, guardandomi con un'espressione indecifrabile, resa torva e illeggibile a causa capelli gli ricadevano sul volto. Sembrava quasi… triste. E tormentato. Ma la sua espressione ricordava vagamente anche quella con cui aveva cercato di farmi capire che aveva cambiato idea sulle persone, grazie a me. Un'espressione alla quale non potevo restare indifferente. Ero incazzata, certo, ma Daryl mi stava guardando così. Dannazione. I pensieri si stavano facendo sempre più confusi nella mia testa, ma provai comunque a sostenere il suo sguardo.

Dopo qualche istante di silenzio, Daryl si degnò di rispondermi. O meglio, provocarmi.

«Non credevo di doverti chiedere il permesso per uscire da qui», disse, con lo stesso tono di voce indifferente.

Sentii chiaramente il sangue salirmi al cervello e gli occhi spalancarsi dall'esasperazione. «Che ragionamento è?! Solo perché una persona tiene alla tua incolumità vuol dire che vuole automaticamente farti da balia? Pensavo che lei fosse più intelligente, signor–».

Daryl chiuse gli occhi e grugnii. Ed io non riuscii a continuare, perché si era improvvisamente allungato verso di me, mi aveva afferrato per un polso e strattonato contro il suo petto, intrappolandomi in un abbraccio.

«Mi sono mancate le tue chiacchiere estremamente irritanti, ragazzina», sospirò tra i miei capelli.

Sentii la mia rabbia disinnescarsi in un secondo, stretta così tra le sue braccia, ma cercai disperatamente di rimanere coerente ai miei propositi.

«Vaffanculo, Daryl», sbottai, la voce spezzata attutita dalla sua spalla.

Lo sentii sbuffare una risata e, a quel punto, non ci fu più niente da fare per me: ricambiai quella stretta con energia, beandomi del calore della sua pelle nuda contro la mia – e desiderai segretamente di avere qualche strato di tessuto in meno anche io. Ripensai alle cicatrici e lo strinsi ancora più forte.

Rimanemmo abbracciati per un po', finché non mi scostò con gentilezza da sé.

«Sei stata brava», disse all'improvviso, cercando di mantenere un'espressione neutrale. Appoggiò gli avambracci sulle cosce, facendo dondolare le gambe.

«Perché?».

«Perché ce l'hai fatta anche senza di me».

Rimasi interdetta per qualche secondo. Cosa diavolo significava, quell'uscita? Pensai che, probabilmente, stava solo cercando di sdrammatizzare, o prendermi per il culo. O forse, in maniera molto contorta, mi stava facendo... un complimento? Era orgoglio, quello che sentivo nella sua voce?

La mia confusione doveva essere evidente, perché si schiarì la voce e cambiò posizione, distendendo il busto all'indietro e appoggiando le mani sul lettino. «Ti sei fatta valere».

In quel momento, mi sentii esattamente come quando si era presentato a casa mia con le cose di Noah: con il cuore che traboccava di emozioni che non sarei mai riuscita a trasmettergli a parole. La voglia di rispondergli con un bacio si fece spazio dentro di me con l'irruenza di una tempesta. Pensai al fatto che avrebbe potuto respingermi fermamente stavolta e rifiutarmi; che avrebbe potuto allontanarsi di nuovo; o, ancora, che avrebbe potuto insultarmi per essermi presa troppe libertà, contro il suo volere e le sue maledette paranoie.

In tutti e tre i casi, trovai un'unica risposta: al diavolo!

Approfittando del fatto che fosse seduto e che la sua altezza fosse più accessibile, gli presi il viso tra le mani e mi sbilanciai verso di lui, intrappolando le sue labbra in un bacio – che preferii non approfondire. Lui, ovviamente, si irrigidì dalla sorpresa, ma la sua reazione non fu repentina come l'altra volta. Dopo qualche attimo separò le nostre labbra, ma con gentilezza. Contro ogni previsione, nelle sue iridi non trovai tormento, rabbia o dubbi, ma un mare di calma.

Io, invece, mi sentivo le guance in fiamme e il cuore mi martellava nel petto, ancora incredula per la reazione pacata che Daryl aveva avuto. Sfiorai il suo naso col mio e appoggiai la mia fronte alla sua, chiudendo gli occhi per cercare di reggermi sulle mie gambe di gelatina.

Ha lasciato che lo baciassi, realizzai. Il che non equivaleva a dire “mi ha baciata”, ma eravamo sulla buona strada. Chissà cosa era mutato in lui, per arrivare a cambiare atteggiamento così repentinamente, da un giorno all'altro.

Deglutii a vuoto, sentendomi la testa leggera. Era un po' come essere brilla, ma era il suo respiro contro il mio ad essere così inebriante.

«D-Dovremmo parlare di alcune cose. Sempre che tu non te ne voglia andare di nuovo, ma questa volta ti rincorrerei con ogni mezzo. Perché, sì, sai, dobbiamo assolutamente parlare», vaneggiai in un sussurro, tenendo ancora gli occhi chiusi.

Daryl inspirò dal naso, rispondendomi solamente con un «mh-mh» e scostò la fronte dalla mia, raddrizzando la schiena.

«Bene», conclusi, riaprendo gli occhi e allontanandomi a mia volta. «Se provi a sparire di nuovo, l'invasione di ieri ti sembrerà una passeggiata», lo minacciai, raccogliendo tutto quello che avevo usato per medicarlo per portarlo al piano di sotto. La mia voce aveva riacquistato un po' di vigore.

«Brrr, me la sto facendo sotto – mi schernì, alzando le mani in segno di resa – Sono a posto?», domandò, indicandosi la schiena con un cenno del capo. Era stranamente calmo, quasi rassegnato. Non volevo illudermi che quella fosse la volta buona per riuscire a mettere le cose in chiaro una volta per tutte, ma il suo atteggiamento era piuttosto promettente.

«Vorrei cucirti quella boccaccia, ma non posso. Quindi sì, per ora sei a posto».

Lui balzò in piedi ed indossò il gilet, raccogliendo anche la camicia che giaceva appallottolata sul ripiano vicino al lettino.

«Fatti una doccia, se puoi; bisogna tenere la pelle pulita per evitare le infezioni», gli suggerii, mentre scendevamo le scale.

«Se non c'è la fila», replicò. «Devo anche aiutare a sgombrare le strade da tutti quei putridi, là fuori è un macello».

Storsi le labbra, un po' impressionata dall'idea del tappeto di vaganti, un po' contrariata. «Dovresti riposarti, per non avere fastidio ai punti».

Daryl sminuì il mio consiglio con un'alzata di spalle e non disse nulla. Quando arrivammo al piano terra, notai che la porta della camera di Carl era mezza aperta. Io e Daryl sbirciammo dentro, trovando Rick addormentato, disteso contro lo schienale e la testa appoggiata al muro. La sua mano era ancora stretta a quella di suo figlio.

La socchiusi, cercando di fare meno rumore possibile.

«Come sta il ragazzo?», domandò Daryl.

«Non è ancora del tutto cosciente, ma si sta riprendendo». Mentre rispondevo, notai che non aveva distolto lo sguardo dalla porta. Le sue sopracciglia erano aggrottate e la mascella tesa.

Gli appoggiai la mano sul braccio e lui si riscosse, voltandosi verso di me.

«Starà bene», cercai di rassicurarlo, con un sorriso.

Daryl rispose con un sorriso appena accennato, avviandosi poi verso la porta.

«Possiamo parlare, più tardi? Per favore», gli chiesi, poco prima che iniziasse a scendere gli scalini del portico.

Lui si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata indecifrabile che, tuttavia, non sembrava ostile. «Mi sono offerto per il turno di guardia».

«Oh…», mormorai, leggermente preoccupata. Non sarebbe stato meglio se si fosse riposato, dopo tutto quello che aveva passato fuori dalle mura?

Daryl si voltò e pensai che stesse per andarsene, quando aggiunse: «puoi venire a farmi compagnia. Mi è toccata la torretta a sud. Monterò la guardia dopocena».

Il sole del primo mattino, che filtrava timido dalle nuvole, mi sembrò tutto d'un tratto più luminoso.

Gli sorrisi, rimanendo sulla soglia. «Ci sarò».

 

***


 

«Dovresti ricucirti anche il gilet», proferii sovrappensiero.

Avevo raggiunto Daryl sulla torretta, dopocena, come prestabilito. Quella macchia di sangue incrostato e lo squarcio sull'ala sinistra erano state le prime cose che avevo notato dopo aver salito la scaletta: avevo trovato l'arciere di spalle, intento a controllare la situazione oltre la recinzione. Era una serata tranquilla, senza nuvole; la luna illuminava lo spazio attorno a noi quasi a giorno.

Lui si voltò a guardarmi, poi il suo sguardo scese sulla sua schiena e alzò la spalla per riuscire a vedere meglio. Mi avvicinai a lui di un passo, sfiorando lo strappo col pollice. In quel momento, realizzai che – in tutto quel casino – non gli avevo ancora chiesto cosa fosse successo là fuori.

«È un bel taglio, come te lo sei fatto?», domandai, cercando di non sembrare troppo apprensiva.

«Siamo stati trattenuti», mi liquidò, mentre nella mia testa si stava ammassando una marea di domande.

«Da persone o vaganti?», domandai stupidamente.

«Come qui, da persone. Aaron mi ha raccontato tutto».

Annuii, affiancandolo e appoggiandomi in avanti sul parapetto della torre. «Non ce la siamo passata bene. Sono stati giorni movimentati per tutti, a quanto pare», commentai. Studiai la sua espressione assorta, le nostre braccia che quasi si toccavano. «Non vuoi parlarne?».

L'arciere rimase in silenzio per un po', ed io arrivai a dubitare che mi avesse sentito. Quando provai ad aggiungere qualcosa, parlò.

«Degli stronzi hanno iniziato a spararci addosso, mentre stavamo tornando qui. Mi sono dovuto separare da Sasha e Abraham e nel bosco ho trovato delle persone. Ho cercato di aiutarli, di convincere a venire qui, ma alla fine me l'hanno messa nel culo», raccontò. La sua voce era bassa e neutrale, ma notai che stringeva un pugno.

Che begli ingrati, pensai.

«Sono loro che ti hanno ferito?».

Daryl scosse la testa. «Mi hanno solo fottuto la balestra e la moto e mi hanno lasciato andare».

A quella rivelazione, trasalii: immaginare Daryl senza la sua arma di fiducia, giù dalla sella della moto che gli aveva regalato Aaron… non riuscivo nemmeno a concepirlo. 

«Comunque sono riuscito a ritrovare gli altri due. E stavamo tornando a casa con quel mostro di furgone, quando un altro gruppo di stronzi ci ha sbarrato la strada per prendere le nostre cose e minacciato di ucciderci. L'abbiamo scampata, ma a me hanno lasciato il ricordino», concluse, accennando alla ferita con un movimento del capo.

Annuii, sorpresa di essere riuscita a scucirgli un racconto che superasse in lunghezza mezze frasi, sillabe e mugugni. Vagai con lo sguardo nell'oscurità, leggermente turbata dal resoconto di Daryl.

«Tutto bene?».

Mi riscossi, raddrizzando la schiena. «Sì, è solo che a stare sempre qui dentro mi sono dimenticata che razza di persone girano là fuori». Mi voltai verso di lui, appoggiando la mano sulla sua. «Sono davvero felice che siate tornati a casa sani e salvi. Eravamo molto preoccupati per voi». Io soprattutto, perché temevo che non ti avrei più visto, ma quel pensiero lo lasciai al sicuro nella mia mente.

L'arciere scrutò la mia espressione, quegli occhi blu che cercavano di indagare se ci fosse dell'altro. Mi sentii quasi nuda, sotto quello sguardo. Interruppe il contatto visivo e guardò un punto indefinito davanti a sé, trattenendo la sua mano calda sotto la mia.

«Sono stati solo due giorni di merda, semplice sfiga; la gente là fuori… non sono tutti così», replicò, stringendosi nelle spalle.

Sorrisi tra me e me, rendendomi conto di quanto si fossero invertiti i ruoli: adesso era il suo turno di rassicurarmi sulla bontà delle persone.

Per un po' rimanemmo in un silenzio complice: io tenevo la mia mano sopra la sua e gli occhi chiusi, godendomi la frescura della sera. Daryl sembrava molto assorto da chissà quali pensieri e mi ricordai che non ero andata lì soltanto per parlare di quello che ci era successo in quei giorni. Lo sapeva anche lui.

Mi schiarii la voce, scostando la mano dalla sua e incrociando le braccia sotto al seno, rimanendo appoggiata al parapetto.

«Senti Daryl, riguardo l’altra sera… quando ti ho detto quelle cose…».

«Non è necessario», disse, infilandosi nervosamente le mani nelle tasche.

«Sì invece. Mi sono comportata da stupida, ancora una volta. Avrei potuto parlartene con calma, invece di aggredirti... come se ormai non conoscessi il tuo modo di affrontare le cose», proseguii, ridacchiando. Lui mi lanciò un'occhiata fugace, poi abbassò lo sguardo. «È che il tuo silenzio mi ha scoraggiata, ho pensato due giorni interi a come iniziare il discorso e... beh, forse avevo anche paura di essere rifiutata».

«Non ti dovresti preoccupare di questo», replicò, alzando gli occhi al cielo.

Io mi voltai verso di lui di scatto, con gli occhi sbarrati e una stretta allo stomaco. Cosa intendeva? Che un rifiuto da parte sua non era un'opzione?

«C-Come?».

Non appena si rese conto del significato che avrebbe potuto assumere la sua affermazione, spalancò gli occhi a sua volta e si irrigidì, raccogliendo le braccia al petto.

«Intendevo solo dire che non ci dovrei essere io in questa situazione, con te».

Aggrottai le sopracciglia, provando ad ignorare il colpo che la delusione mi aveva inferto ad altezza dello stomaco. «E chi altri ci dovrebbe essere?». 

Sospirò profondamente e mi scrutò da sotto la frangia, che gli celava in parte gli occhi. Sempre a braccia incrociate. «Lo sai».

«L'unica cosa che so è che sei l'unico che ne sta facendo un problema. Perché è la differenza di età che ti preoccupa, non è vero?». 

«Non dovrebbe?», replicò, incupendosi.

«No. Per me non conta niente, ad esempio».

«Questo perché sei molto meno assennata di me». 

«Non è vero», lo rimbrottai, fingendomi offesa; poi tornai seria. «Sono abbastanza grande per capire cosa voglio, Daryl».

L'arciere si concesse qualche istante di silenzio, prima di incatenarmi sul posto con i suoi occhi di ghiaccio.

«E cosa vuoi?». 

Era una mia impressione, o la sua voce si era fatta improvvisamente più profonda e... calda? Lo stava sicuramente facendo apposta, per mettermi in difficoltà e farmi desistere. Il suo tono provocatorio non mi lasciò indifferente, anzi, mi intimidì; eppure mi sentivo determinata, e non avevo la minima intenzione di cedere. Arrivati a quel punto, non aveva più senso lasciar perdere; dei discorsi lasciati in sospeso mi ero già bella che stancata. Il cuore iniziò a battermi furiosamente nel petto, schiacciante quanto la consapevolezza che, da lì, non sarei più potuta tornare indietro. Era giunto il momento di mettere le carte in tavola. 

Lo guardai di sottecchi, per cercare di carpire una sua qualche reazione. Aveva il mento alzato e osservava il buio, che vegliava sopra le nostre teste come una cupola.

O la va o la spacca.

«Ormai non posso più nascondere quello che provo, né voglio farlo. Le cose sono irrimediabilmente cambiate e siamo arrivati ad un punto in cui penso sia impossibile fare finta di nulla, o dimenticare quello che è successo». La voce mi tremava leggermente e non mi accorsi di quanto mi stavo torturando le mani, incrociando le dita tra loro senza una logica. Eppure, allo stesso tempo, avvertivo il sollievo di chi si stava liberando di un gran peso.

«Dovremmo, invece», mormorò lui.

«Se lo pensassi davvero mi avresti respinta, stamattina!», sbottai, voltandomi verso di lui. «Io vorrei solo capire quello che vuoi tu, Daryl. È chiaro a entrambi quali sono i miei sentimenti, ma non si può dire la stessa cosa di te. Avrò sbagliato il modo di dirlo, l'altra sera, però è vero che tutte le volte che ci siamo avvicinati, subito dopo sei finito per prendere le distanze». Totalmente presa da ciò che gli stavo dicendo e che mi ero tenuta dentro per troppo tempo, non mi ero resa conto che, dal suo fianco, mi ero ritrovata faccia a faccia con lui. «Ti allontani, ti riavvicini e facciamo sempre finta di niente. Io non voglio cambiare ciò che sei; vorrei solo che, se provi i miei stessi sentimenti, tu ti conceda di provarli. Se per te, invece, quei baci non hanno significato nulla, o vuoi veramente dimenticare questa storia, me ne farò una ragione. Ma per favore, per favore, sii sincero. Con te stesso e con me».

Daryl mi osservava assorto, senza dire una parola. Il silenzio che ci circondava era assoluto: mi sembrava di essere sospesa in una fetta di realtà nella quale il tempo aveva uno svolgimento tutto suo. Le mie parole rimbombavano ancora in quel silenzio, ronzandomi nell'orecchio. Le parole che avrebbe pronunciato Daryl di lì a poco mi avrebbero resa la persona più felice sulla terra, o mi avrebbero annientata. In entrambi i casi, ero pronta: avremmo chiarito la situazione una volta per tutte, a prescindere dal verdetto finale - che spettava solo e soltanto a lui. 

Si lasciò andare ad un respiro profondo, incurvando le spalle e lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Poi puntò il pugno di una mano su un fianco e, con l'altra, si massaggiò la nuca con nervosismo. Quando i suoi occhi, quasi ridotti a due fessure, si specchiarono nuovamente nei miei, feci in tempo ad udirlo sbottare un «'fanculo», prima che la mano abbandonasse il suo collo e mi afferrasse per la vita. Mi attirò a sé, si chinò su di me e premette le labbra contro le mie.

Quel gesto impetuoso spazzò via ogni mia cautela: gli presi il volto tra le mani e gli accarezzai subito il labbro inferiore con la lingua, in modo da stimolare Daryl ad approfondire il bacio. Venni presto accontentata. 

Le mie mani lasciarono il suo volto e si insinuarono tra i suoi capelli lunghi, circondandogli, infine, il collo con le braccia. Mi strinsi a lui, fortissimo, mentre con un braccio mi tratteneva per la vita e con l'altra mano percorreva la mia schiena in una carezza desiderosa e possessiva. Le nostre labbra continuavano a muoversi in modo febbrile e cambiammo spesso inclinazione della nuca in modo da assecondare la danza delle nostre lingue. Il suo sapore mi confondeva, il suo respiro contro il mio mi inebriava, il calore del suo corpo mi fece impazzire il cuore nel petto. Quanto tempo avevo aspettato quel bacio. 

Dopo un tempo che parve infinito, separai le labbra dalle sue quel tanto che bastava per far riprendere fiato a entrambi, ma non mi mossi di un millimetro in più. Sentire il respiro di Daryl accelerato e concitato contro il mio mi fece rabbrividire di piacere e mi sfuggì un tremito, stretta ancora nel suo abbraccio.

«Lo sai che, dopo questo, non potrai più tirarti indietro, vero?», sussurrai affannata contro la sua bocca, guardandolo negli occhi.

Il suo sguardo era incollato al mio, così serio che mi provocò una fitta al petto. Non aveva lasciato la presa su di me.

«Lo so», disse soltanto.

Mi scostai leggermente per guardarlo meglio, ma abbandonai le braccia sulle sue spalle per non farlo allontanare. Con mia grande sorpresa, mi posò entrambe le mani sui fianchi e si fece un po' più vicino a me.

«Sei sicuro?», sussurrai.

«Non troppo, però...  È come hai detto tu: ormai non possiamo più fingere». E qualcosa, nel suo sguardo, mi suggerì che nemmeno avrebbe voluto.

Mi accorsi improvvisamente che ci eravamo messi entrambi a parlare sottovoce. Era tutto così intimo che, per un instante, mi sembrò di essere gli ultimi due esseri umani rimasti sulla terra. Mi sforzai notevolmente per non soccombere a quella frenesia gioiosa che, tutta in una volta, rischiava di travolgermi, dopo quel bacio. 

Daryl si accorse del mio sorriso da ebete e mi squadrò, leggermente in imbarazzo. «Che c'è?».

Coi polsi incrociati dietro alla sua nuca, giocherellai con le dita tra i suoi capelli, tentando di riportare il mio sorriso a dimensioni normali. «Niente, sono solo felice».

Lui sospirò. «Non dovresti».

«Perché non dovrei? Smettila di mugugnare», borbottai.

Si separò da me, appoggiandosi al parapetto della torre di guardia. Qualsiasi traccia di allegria sparì dal suo volto. Rieccolo, il Daryl tormentato che pensava troppo.

Il suo sguardo vagò nel buio per qualche istante, mentre sul suo viso aleggiava un'espressione seria. «Perché non ti rendi conto che io sono diverso da quei ragazzini sdolcinati con cui sei stata fino ad ora, Beth. Non so quali aspettative tu ti sia fatta, ma potrei deluderle tutte». Il suo tono era quasi derisorio, amaro, eppure non mi sfuggì la nota di insicurezza che tradivano i suoi modi.

«L'unica cosa che mi delude è vedere la pessima opinione hai di me. Credevo che ormai avessi capito quanto sono cambiata. Non sono più la ragazzina sognante di una volta, come potrei? E quando mi sono-», mi bloccai improvvisamente, avvampando. Non dire "innamorata"! «Cioè, q-quando ho iniziato a provare certe cose per te, sapevo a cosa sarei andata incontro».

«Ad una montagna di merda e casini, ecco cosa».

Io lo fulminai con un'occhiataccia. «Ho capito cosa stai cercando di fare e, mi dispiace, non ci riuscirai. Non puoi dire nulla per convincermi a vederti come ti vedi tu».

Daryl rimase in silenzio, a scrutarmi. Più ricambiavo il suo sguardo, più mi veniva voglia di baciarlo di nuovo, per calmare le sue insicurezze e la poca considerazione che aveva di se stesso, ma non volevo tirare troppo la corda. 

«Ti ricordi quando mi hai detto che avevi cambiato idea sulle brave persone grazie a me?».

L'arciere non rispose, ma presi il suo incrociare le braccia al petto come un “sì”.

«Poco tempo dopo, mi sono resa conto che a me era capitata la stessa cosa. O meglio, ho realizzato che, se credo che esistano ancora brave persone a questo mondo, è solo perché ne ho molte al mio fianco. E tu, Daryl Dixon, sei una di quelle. Hai i tuoi difetti e certe volte, giuro su Dio, non so cosa darei per riuscire a capire cosa ti passa per questa testa – ridacchiai, avvicinandomi per puntargli l'indice contro la fronte - ma ci sei sempre stato, quando ho avuto bisogno di te. Se la nostra differenza di età è così tanto un ostacolo, allora com'è possibile che tu mi capisca meglio di chiunque altro? Come riesci a farmi stare meglio sempre, pur parlando così poco?».

Daryl non rispose a nessuna delle domande - retoriche - che gli avevo posto, ma continuò a guardarmi. La patina di tormento sui suoi occhi si era sgretolata, la sua espressione era cambiata. Sembrava che lo avessi zittito, più che altro. Tutto quello che gli avevo detto, aveva fatto centro. Era il suo sguardo a dirmelo ed era impossibile da descrivere a parole. 

Mi avvicinai a lui, sfiorandogli la barba ispida con la punta delle dita. «Sai, parlando tanto io stessa, mi sono sempre sentita più confortata da chi spendeva tante parole per me. Da quando ti conosco, invece, ho capito che le parole non possono tutto. Quando ti ho confessato di stare ancora male per Noah, tu non hai detto nulla, ma hai fatto qualcosa per me; invece di rifilarmi le solite frasi di circostanza, hai agito per fare in modo che potessi portare il ricordo del mio migliore amico sempre con me. Ed è un gesto che non dimenticherò mai, Daryl, mai».

Presi un attimo fiato per non lasciarmi travolgere da tutto quello che stavo provando, usando il suo sguardo saldo come ancora. Il cuore mi batteva così forte da farmi temere uno svenimento.

«Tutto questo sproloquio infinito - cielo, sono senza speranze! - per farti capire che non mi importa un fico secco se non sei come i ragazzi che ho avuto. Tu non sei come gli altri, e...», feci un respiro profondo, prendendo il coraggio a due mani, «ed è proprio per questo che sei la persona di cui ho più bisogno al mio fianco».

Daryl continuò a non dire nulla, fissandomi insistentemente. Se prima ero riuscita quasi a perdermi in quello sguardo, ora iniziava a mettermi a disagio. Il suo silenzio mi stava facendo innervosire; mi sentivo le guance in fiamme e il cuore galoppante per la dichiarazione che gli avevo appena fatto. Con tutte quelle emozioni in circolo ad amplificare tutto, il fatto di non sapere cosa gli stesse passando per la testa, o quale fosse la sua opinione, mi fece innervosire. Incrociai le mie braccia al petto come lui.

«Puoi dire qualcosa, per favore?», sbottai. 

In un gesto repentino, si scostò dal parapetto, raddrizzandosi e parandosi davanti a me. Alzai il mento verso di lui per guardarlo, perplessa. In quel momento, mi sembrò più alto; mi sovrastava e, con le sue ampie spalle, nascondeva la luce della luna dietro di lui. I suoi occhi erano due specchi neri che guizzavano da sotto la frangia scomposta, che mi dicevano tutto quello che non sarebbe mai riuscito a uscire dalla sua bocca.  

Prese una ciocca di capelli che era sfuggita alla mia coda tra le dita e la sfiorò, come fosse seta. «Tu parli troppo. E sei davvero senza speranze, ragazzina ma, cazzo, io lo sono molto più di te», mormorò con tono rassegnato.

Cosa avrei dovuto rispondere ad una affermazione del genere? Rimasi qualche secondo perplessa, finché non iniziai ad ascoltare la reazione del mio cuore a quello che aveva appena detto Daryl; a cosa si stava scatenando dentro di me, mentre mi guardava con quegli occhi. Ciò che poteva sembrare un banale rimprovero, una banale autocritica, detto da Daryl in quel modo,  suonò alle mie orecchie come una dichiarazione meravigliosa. Eravamo finiti nei casini, ma ci eravamo finiti insieme. 

«Daryl...». 

«Sai quanto questa... roba sia difficile per me. Ero sicuro di fare la cosa giusta allontanandoti, ma sono stato un coglione a dirti quelle cose», ammise. 

Inspirai a vuoto, colta dalla sorpresa. Si stava scusando? 

«N-Non importa», balbettai, abbassando lo sguardo sulle sue dita, che stavano ancora giocando nervosamente coi miei capelli. 

Anche lui stava guardando in quella direzione, assorto. «Arriverà il giorno in cui mi manderai a fanculo, in cui ti renderai conto che so essere anche più coglione. Però, ecco, fino a quel momento ci proverò. A far funzionare... questo», continuò tentennante, aumentando, per un istante, la stretta delle dita sulla mia ciocca. Poi la lasciò andare e mi guardò negli occhi. «Ricorda una cosa, però: io non sono quello che credi. Quando mi incazzo divento uno stronzo e questo, probabilmente, non cambierà mai. Inoltre non so un cazzo di romanticismo, o di quelle smancerie che si vedevano in TV, né voglio saperne».

«Non mi importa», replicai subito.

«Ma ti importerà, il giorno in cui manderò tutto a puttane. Prima o poi succederà, solo che adesso ti rifiuti di capirlo. Tu non mi conosci così bene come pensi, Beth».

Sentirlo pronunciare il mio nome con quella voce bassa e arrochita dal nervosismo, mi provocò una cascata di brividi che si riversò giù per la mia spina dorsale. 

Mi avvicinai ancora di più a lui, così tanto da sentire il suo respiro sul mio viso. 

«Voglio conoscerti sempre meglio, allora», sussurrai. Gli strinsi la mano che, poco prima, aveva giocato nervosamente con i miei capelli.

Osservando l'espressione quasi smarrita di Daryl, mi venne in mente un animale ferito e  selvatico che viene addomesticato per la prima volta e che si arrende alle cure che aveva sempre rifiutato. Era lo stesso, identico sguardo che mi aveva riservato nella casa del becchino, quello del mio «oh», quando pensavo di aver capito e invece non avevo capito un bel niente. In quell'istante di silenzio assoluto, mi invase lo stesso calore al petto e mi sembrò di essere catapultata di nuovo in quella villa, seduta ad un tavolo imbastito a lume di candela e con un uomo che avevo appena imparato a conoscere. Totalmente ignara di quanto quei sentimenti ancora flebili si sarebbero trasformati, nel corso del tempo, e quanto sarebbe diventato importante per me quell'uomo così burbero. 

Daryl mi riportò alla realtà, con la stessa veemenza di sempre: approfittando delle nostre dita intrecciate, mi strattonò contro di sé e fece collidere le nostre labbra, la mano libera a trattenermi per la nuca. 

Non ho paura di quello che sei, avrei voluto dirgli, ma l'irruenza con cui mi stava baciando non mi permise di dire nient'altro, così gli buttai le braccia al collo e mi lasciai baciare. 

Ebbi così l'assoluta conferma che Daryl Dixon preferiva dimostrare quello che provava a fatti, più che a parole. E quello che mi stava dimostrando valeva più di mille discorsi.  

Rimasi sulla torretta a fargli compagnia, cercando di comportarmi normalmente nonostante l'euforia. Mi sentivo sempre la stessa, eppure, al contempo, totalmente diversa e piena di consapevolezze nuove. Ci avrei messo un po' a processare il fatto che, finalmente, tutti quei mesi di confusione, passi falsi e parole non dette, avevano trovato la loro conclusione... la più meravigliosa delle conclusioni. 

Era passata da poco la mezzanotte, quando mi riaccompagnò a casa dopo essersi fatto dare il cambio da Tobin. Evitai di prenderlo per mano perché non mi aspettavo certo che, tutto d'un tratto, si comportasse come un fidanzato normale. In realtà, persino nella mia testa mi risultava difficile accostare quella figura stereotipata a Daryl, mi veniva quasi da ridere. Aveva accettato di non ignorare più i sentimenti che nutrivamo l'un per l'altra, e tanto mi bastava. Avrei imparato col tempo fin dove potevo spingermi con le dimostrazioni d'affetto.

Una volta arrivati sotto al portico di casa mia e sicura che fossimo al riparo da sguardi indiscreti, mi alzai in punta di piedi per salutarlo con un bacio. Ero sicura che non ci fosse nulla di male, invece Daryl mi bloccò seduta stante: posò la sua grande mano contro la mia clavicola, irrigidendosi e allontanando il volto dal mio. 

«Beth», sibilò. 

«Daryl - lo scimmiottai - non c'è nessuno in giro! ».

L'arciere grugnì, ficcando le mani nelle tasche. «Non voglio dare spettacolo».

Cercai di trattenere un sorriso per non dargli l'impressione di prenderlo in giro. 

«Lo so, lo so, l'avevo messo in conto. Però non puoi dare spettacolo se non hai spettatori, no?», replicai, circondandogli il collo con le braccia e arrivando a sfiorare il suo naso col mio.

Daryl sbuffò, posando controvoglia una mano sul mio fianco destro. 

«Mi stai già dannatamente seccando, ragazzina», mormorò sulle mie labbra, prima di zittirmi in maniera piuttosto convincente. 

Erano state usate abbastanza parole, per quella sera. 

 

 

 

 

 

 

| Note autrice |

Avete presente quando scrivete pezzi di capitoli, che vi esaltano e che non vedete l'ora di postare, ma che dovete tenere lì perché ancora non è il momento?
Ecco, questo capitolo è costituito per l'80% da frammenti scritti mesi e mesi fa. Anzi, addirittura arrivano all'anno e mezzo di età. E' cominciato tutto quando ho iniziato a vedere Beth nella battaglia di Alexandria, dalle prime righe in giù. Avevo scritto l'embrione della scena in infermeria secoli fa e, al tempo, era molto diversa. Il capitolo era quasi tutto completato, se non fosse che l'ho aggiustato e riaggiustato, perché volevo essere totalmente soddisfatta, in ogni dettaglio. 
Morivo dalla voglia di scrivere di questa loro svolta, quindi sono stata più puntigliosa del solito.
Tutti questi preamboli, per spiegarvi come mai questo aggiornamento giunge così presto - rispetto ai miei vergognosi standard.
Ho appena deciso di battezzare questo "il capitolo dei limoni" e direi che era anche ora! Onestamente sono troppo contenta di essere arrivata all'avvicinamento definitivo di questi due, perché fino ad ora li ho sempre fatti trattenere, forse anche troppo. Ma è così che mi sono immaginata il loro percorso, fin dall'inizio, e spero che questo capitolo praticamente tutto incentrato su di loro vi abbia ripagato di tutta l'attesa. Ora mi sento finalmente libera di sbizzarrirmi con tutte le scene fluff che voglio, ovviamente nei limiti del carattere schivo di Daryl :) forse si scioglierà appena, chi lo sa! Già in questo capitolo ha fatto dei passi avanti, che spero non stonassero col personaggio. Diciamo che ho voluto presentare un Daryl finalmente "rassegnato" a quello che prova. Vedete quanto insegna, avere un'orda di zombie che rischia di distruggere una città con una certa ragazzina dentro? :D
Finisco di importunarvi che è meglio ahaha
Ringrazio tantissimo ancoranoi, keplerf62 e psichedelia95 che hanno recensito lo scorso capitolo e le persone che hanno messo tra le seguite/preferite/ricordate questa storia. Spero che il nuovo capitolo vi sia piaciuto  e che vogliate condividere la vostra opinione (in questo, più dei precedenti)
. Ci tengo e mi farebbe molto piacere! ;)
Alla prossima!
Blakie

 

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Capitolo 15
*** Hereinafter ***


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15. HEREINAFTER


Era passata poco più di una settimana da quando l'orda aveva invaso Alexandria, dalla morte di Deanna e da quando io e Daryl ci eravamo finalmente avvicinati, una volta per tutte. In una sola giornata si erano condensate tante cose brutte, ma anche qualche cosa bella. Il lutto per le persone che avevamo perso e il senso di vittoria per essere riusciti, alla fine, a difendere la nostra casa si intrecciavano in uno strano miscuglio di sensazioni e consapevolezze, che da quel momento in poi aveva permeato ogni cosa.

Tutte le attività e quotidianità che avevano reso Alexandria una realtà molto simile a quella precedente l'apocalisse erano state sospese. Tutti i cittadini che si erano salvati dal massacro erano stati ingaggiati per occuparsi di quelle che erano diventate le priorità: ricostruire le mura, ripulire la città, bruciare i corpi dei vaganti. Si era rivelata una cosa lunga, dal momento che i resti dei vaganti erano molti e si doveva fare avanti e indietro fuori dalla zona sicura diverse volte, per bruciarli. Perciò, anche io mi ero ritrovata ad aiutare a raccogliere corpi, a ripulire le strade dal sangue, a dare una mano all'ambulatorio.

La parte più difficile, però, era stata aggiungere più di un nome al muro commemorativo: Deanna, Jessie, Sam, Ron, Ted, Lucy, Maya e Pascal. Purtroppo, di tanti di loro non era rimasto praticamente niente da poter seppellire in maniera degna. 

In quelle giornate difficili, mi tornava spesso in mente il versetto che (un neo-redento) Padre Gabriel aveva scelto per concludere la commemorazione in onore di chi ci aveva lasciato: Davide disse a Salomone suo figlio: "Sii forte, coraggio; mettiti al lavoro, non temere e non abbatterti, perché il Signore Dio, mio Dio, è con te. Non ti lascerà e non ti abbandonerà finché tu non abbia terminato tutto il lavoro per il tempio". E, come Salomone, anche noi stavamo cercando di ricostruire il nostro tempio.

«Ormai la breccia è stata liberata dalle macerie della torre collassata. Anche con lo sgombero dei corpi abbiamo quasi finito».

Dopo una settimana così estenuante, le parole con cui Rick iniziò quella riunione di fine giornata arrivarono come la più bella delle notizie. Ci eravamo riuniti nel vecchio studio di Deanna, come era ormai d'abitudine. Al centro del tavolo attorno al quale eravamo raccolti, svettavano una mappa e i progetti per l'espansione di Alexandria che Deanna aveva lasciato a Michonne e Rick. 

«Quindi non rimane che issare il telaio delle pareti e trovare i pannelli per richiudere quella dannata breccia», ne convenne Abraham.

«Mentre tornavamo dall'ultima spedizione, io e Daryl abbiamo visto dalle parti di Ashburn un grosso cantiere edile. Forse anche quello serviva per la costruzione di un centro commerciale», intervenne Aaron, cerchiando con la matita la città sulla cartina al centro del tavolo.

«Dal momento che il cantiere qui vicino lo abbiamo ripulito, si potrebbe dare un'occhiata. Se siamo fortunati, potremmo trovare lo stesso tipo di pannelli. Invece il materiale per l'intelaiatura che ci è rimasto dovrebbe essere sufficiente», commentò Abraham.
 
«Ashburn non è molto lontana da qui. Possiamo tornarci domani», si offrì Daryl, guardando Aaron. Il quale, però, si scusò, dicendo che per il giorno dopo era già impegnato con un'altra squadra. A quel punto, prima che qualcun altro potesse farlo, mi offrii di accompagnare Daryl per recuperare quelle lamiere: con mia grandissima sorpresa, nessuno mosse chissà quali obiezioni, lui in primis.

Dopo aver stabilito tutti i dettagli di quella spedizione ed aver messo appunto l'organizzazione delle squadre per la giornata successiva, Rick sciolse la riunione ed ognuno tornò alla propria abitazione. Dopo quello che era successo, avevo deciso di tornare a vivere assieme al resto della mia famiglia nella grande casa che gli era stata assegnata, perciò seguii Rick, Michonne e gli altri. Si era infatti liberata una camera per me quando Maggie e Glenn avevano, al contrario, deciso di occupare la casa degli Anderson, ormai inabitata. Si trovava subito dopo la casa in cui abitavano Abraham, Rosita, Eugene, Tara, Sasha e Tyreese: il perfetto compromesso tra il rimanere vicini e avere un nido tutto per loro nel quale prepararsi per l'arrivo di mio (o mia?) nipote.

Mia sorella mi affiancò mentre camminavamo nella stessa direzione. Accanto a lei c'era Tara. «Come ti senti alla vigilia della tua prima spedizione?».

Mi voltai per sorriderle. «Tutto sommato, tranquilla. È giusto che mi renda utile».

«Perché, non ti sei resa utile, fino ad ora?», domandò Tara. «Denise mi ha detto che è stata più volte sul punto di portarti fuori dall'ambulatorio di peso, per convincerti ad andare a casa».

Abbassai lo sguardo e scalciai via un sassolino, sorridendo imbarazzata. «Denise esagera. Intendevo dire che è giusto che ogni tanto esca anche io, non posso stare sempre al sicuro dietro ad una recinzione».

«Non mi pare che siamo stati molto al sicuro qua dentro, ultimamente», commentò Maggie.

Sospirai. «Già. Però penso che mi farà bene uscire un po'».

Quando arrivammo davanti a casa sua, Maggie mi abbracciò. «Stai attenta, domani».

«Ehi, dimentichi forse chi verrà con me? Sono in una botte di ferro», la rassicurai, sciogliendo l'abbraccio.

Lei mi diede un buffetto affettuoso sulla guancia, accompagnato da un sorrisetto malizioso. «Non l'ho affatto dimenticato», mi rispose, lanciandosi uno sguardo d'intesa con Tara.

«Ma smettetela», le rimbrottai arrossendo, ma senza riuscire a impedirmi di sorridere.

Le salutai con una linguaccia e, quando entrai, trovai Judith sul divano assieme a Michonne e Carol. Mi fermai un po' lì con loro: era bello tornare a casa sapendo che ci sarebbe sempre stato qualcuno della mia famiglia ad attendermi. Non rimpiangevo per niente il fatto di non avere più una casa tutta per me, non dopo quello che avevamo passato e non dopo l'enorme rischio di perderli che avevo corso. In quelle giornate difficili, era stato bello sapere che, una volta finiti i miei doveri, non sarei rimasta sola in una casa troppo vuota per me.

Michonne mi disse che Rick era passato in ambulatorio a dare la buonanotte a Carl, che si stava lentamente riprendendo dopo la grave ferita che aveva subito all'occhio. Daryl, invece, si era fermato a preparare il furgone per il giorno successivo, assieme ad Abraham.

Quando l'arciere rincasò, nel soggiorno ero rimasta solo io. Stavo leggendo un libro alla luce della lampada ad olio posizionata sul tavolino, avvolta in una coperta e circondata dal silenzio. Nel momento in cui sentii la porta aprirsi, mi voltai e guardai oltre lo schienale del divano.

«Ehi», mi salutò non appena mi vide, chiudendosi la porta alle spalle.

Gli sorrisi, chiudendo il libro. «Ehi».

Mi raggiunse sul divano, sedendosi accanto a me. Si lasciò andare sui cuscini con una sonora sbuffata, allungando le gambe per appoggiare i talloni sul tavolino. Si voltò verso di me. «Che ci fai ancora sveglia? Domani partiamo presto».

Osservai il suo viso, illuminato di arancione dalla lampada che, in contrasto al buio attorno a noi, creava un'intima penombra. Lanciai un'occhiata al corridoio, immerso nell'oscurità: quando fui sicura che non ci fosse nessuno, lo presi sottobraccio e mi accoccolai a lui. Sentire il suo corpo contro il mio e la pelle del suo collo così calda contro la mia fronte mi provocò un senso di tranquillità e sollievo istantanei.

In quelle giornate così frenetiche, in cui rimanevamo distanti la maggior parte del tempo, impegnavo buona parte della mia mente a immaginare il momento in cui saremmo potuti, finalmente, stare un po' vicini. Le ultime sere nella mia vecchia casa, prima di tornare a vivere con la mia famiglia, le avevamo trascorse guardando dei vecchi DVD, parlando del più e del meno (beh, per la maggior parte del tempo era stato lui ad ascoltare le mie ciance), oppure appollaiati sul tetto mentre Daryl fumava ed io stringevo la coperta attorno ai nostri corpi, in un silenzio complice. Una sera, vinto dalla stanchezza, aveva sonnecchiato per un po' sul mio divano, con la testa sulla mia coscia, mentre leggevo un libro che avevo recuperato dalla libreria comune. Altre volte, gli facevo compagnia mentre era di guardia. Dopo aver passato un po' di tempo insieme, Daryl se ne era tornato sempre e comunque a casa. Era bello  vivere nuovamente sotto il suo stesso tetto, anche se avevamo dovuto dire addio ad un po' di privacy.

«Lo so, ma volevo vederti un attimo, prima di andare a dormire. Sei stato fuori tutto il giorno».

«Quelle carcasse non si bruciano da sole», replicò, posando la sua mano destra sulla mia coscia avvolta nella coperta. La naturalezza con cui, ormai, si era abituato a toccarmi mi faceva sussultare di emozione ogni volta. Sembrava molto più a suo agio quando era con me: non si irrigidiva più quando cercavo il contatto fisico e mi lasciava fare.

Tutto questo, ovviamente, quando eravamo soli. In compagnia degli altri, Daryl aveva continuato a mantenere il massimo riserbo, per non far capire a nessuno cosa stesse succedendo. A me non importava niente delle opinioni altrui, anzi: talvolta era una faticaccia trattenere i gesti affettuosi mentre eravamo insieme ad altre persone, specialmente se Daryl faceva una delle sue battute sagaci oppure mostrava il suo lato più tenero mentre giocava con Judith. Ma avevo comunque intenzione di rispettare questo suo bisogno di riservatezza. Ogni tanto mi concedevo di sfiorargli la mano di sfuggita, quando ero sicura che nessuno ci guardasse; era capitato che anche lui indugiasse in maniera discreta con la mano sulla mia schiena, o che mi desse una carezza leggera sulla nuca, di nascosto da tutti. Nonostante io non sentissi lo stesso bisogno di discrezione di Daryl, nonostante fossi consapevole che, se anche lui fosse stato dello stesso avviso, avrei vissuto il tutto molto più liberamente anche davanti agli altri... dovevo ammettere che era bello avere qualcosa solo per noi, da custodire con cura.

«Sembri esausto», sussurrai dopo un po', osservando Daryl che teneva la testa mollemente appoggiata allo schienale del divano, con gli occhi chiusi.

«Lo sono», confermò.

«Andiamo a letto?».

«Vai, vai», mi spronò, accompagnando le parole con dei leggeri colpetti sulla gamba. «Appena ritrovo le forze ci vado anche io».

Lo guardai di sottecchi, mordendomi nervosamente il labbro. Non aveva capito. «Veramente... Insomma, dormono tutti al piano di sopra e tu ti sei sistemato nel seminterrato, no? Intendevo che, magari, almeno per questa sera potevo fermarmi da te», spiegai, con titubanza.

Si voltò di scatto ed il suo sguardo allarmato fu immediatamente nel mio, mentre sibilava: «Beth». Pronunciò il mio nome come se fosse un rimprovero e la cosa non mi sorprese: sapevo benissimo quale sarebbe stata la sua reazione.

«Domattina partiamo prestissimo, nessuno si accorgerà che non sono in camera mia. Anche perché nessuno verrebbe mai a controllare, a prescindere», replicai.

«Non è il caso», borbottò, togliendo la mano e alzandosi in piedi.

«Certo, non sia mai che a qualcuno venga in mente di fare irruzione nel seminterrato in piena notte».

Nella semioscurità, notai che Daryl si era lasciato sfuggire un sorrisetto divertito: non era la prima volta che lo vedevo beffarsi della mia esasperazione davanti alle sue paranoie. Inaspettatamente, mi prese per il polso, costringendomi con poca grazia ad alzarmi. La coperta scivolò sul pavimento, mentre le sue mani mi circondarono i fianchi per far aderire il suo corpo al mio. Le sue labbra erano ad un soffio dalle mie ed il suo sguardo mi stava facendo diventare le gambe molli come gelatina.

«Non tirare troppo la corda, Beth».

Appoggiai le mani sul suo petto, provando a rispondergli a tono. «E tu non metterti sulla difensiva. Non ho in mente niente di strano».

«Ci mancherebbe altro!».

Sbuffai. «È solo che, per svegliarmi all'alba, di solito mi servono le cannonate. Se invece dormiamo insieme, non rischio di svegliarmi tardi o di farti perdere tempo. Quando ti alzi tu mi alzo anche io, te lo assicuro. Sto semplicemente pensando al lato pratico della questione», spiegai, con un tono esageratamente innocente.

«Il lato pratico, ah?», ironizzò.

«Assolutamente sì. Prometto solennemente che non attenterò in nessun modo alla sua virtù, signor Dixon».

«Pfft, la mia virtù!», berciò sottovoce, alzando gli occhi al cielo.

Non riuscii a fare a meno di sorridere divertita, sollevando il mignolo della mano sinistra, ben dritto. «Possiamo fare sul serio col giuramento del mignolo, se non ti fidi».

«Pure le stronzate da boy scout», borbottò, scrollandomi di dosso. Mentre aggirava il divano ed io, ridendo sottovoce, raccoglievo la coperta che era caduta per terra, lo sentii aggiungere: «muoviti, prima che cambi idea». Sentii nascere sulle labbra un sorriso trionfante e lo seguii, ma non prima di aver spento la lampada ad olio, facendo piombare nuovamente il soggiorno nel buio.

Ne è valsa la pena insistere, mi ritrovai a pensare un quarto d'ora dopo, beatamente accoccolata a Daryl sul letto a una piazza e mezzo che era stato sistemato nel seminterrato apposta per lui. Non era spazioso quanto il matrimoniale che troneggiava in camera mia, ma mi offriva la scusa perfetta per stargli avvinghiata. 

Anche quella volta, Daryl si era coricato su un paio di cuscini che lo mantenevano in posizione leggermente rialzata rispetto alla mia. Nonostante ciò, ero riuscita a sistemarmi contro di lui, la fronte appoggiata contro la sua spalla e la mia mano aggrappata al suo braccio, che teneva incrociato all'altro sul suo petto. Era palesemente sulla difensiva e mi divertiva il pensiero che un uomo grande e grosso come lui assumesse certi atteggiamenti nei confronti di una ragazzina. Come se rappresentassi realmente un pericolo per la sua incolumità.

«Non stai scomodo così?», sussurrai nel buio.

«No. Dormi».  

«Hai una certa età, stare in quella posizione può rovinarti la schiena», rincarai, dopo qualche istante. Lo stavo deliberatamente punzecchiando, più del solito. In risposta ottenni soltanto un grugnito seccato e a quel punto non riuscii a trattenere una risata sommessa. In realtà, dormire stava risultando più difficile del previsto: avevamo già dormito insieme, prima e dopo l'arrivo ad Alexandria, ma quella volta era diverso. L'euforia di avere Daryl così vicino sotto le coperte, nell'intimità della sua stanza buia e considerata la svolta che c'era stata tra noi... Sì, era decisamente diverso. Mi strinsi di più a lui, sfregando la punta del naso contro la maglia che usava per dormire, inspirando il profumo del bagnoschiuma che aveva utilizzato per farsi la doccia. Sarebbe stato un insulto non approfittare di quel momento di intimità così raro e miracoloso.

«Daryl...», lo chiamai in un sussurro.

«Ti ho detto di dormire». Il suo tono era secco ma calmo, anche se avvertii i muscoli del suo avambraccio guizzare per la stizza.

Strinsi le labbra per soffocare un'altra risata. «E il bacio della buonanotte?».

«Domani ti lascio a casa», mi minacciò in tutta risposta, abbassando il volto verso il mio. Grazie alla luce del lampione esterno che filtrava dalla finestra sopra di noi, riuscii a distinguere nella penombra i suoi occhi, ridotti a due fessure.

«E daaai! Giuro che poi mi metto a dor-».

La mia promessa venne bruscamente interrotta dalle sue labbra, che si erano avventate sulle mie con un sospiro esasperato. Daryl sciolse il mio abbraccio, sbilanciandosi verso di me per farmi stendere sulla schiena; puntellò il gomito per non gravarmi addosso col busto, le gambe ancora distese sul materasso vicino alle mie. Quando dischiuse le labbra per approfondire il bacio, la mia lingua rispose con entusiasmo alla sua, assecondandone i movimenti. Gli allacciai le braccia al collo per far aderire i nostri corpi, completamente in balia del suo sapore e delle sensazioni che mi provocava sentirlo così vicino dopo un'intera giornata lontani. Era come un'onda di impaziente calore che cresceva: più ne ricevevo, più ne volevo.

Faceva correre le sue mani lungo le spalle, le braccia, le costole e i fianchi con gesti febbrili, separando di tanto in tanto le nostre bocche per riprendere fiato. Sentivo il suo respiro concitato contro il mio e avvertii una fitta nel bassoventre, quando la sua mano sollevò il mio ginocchio per fare in modo che la mia gamba gli circondasse il fianco. Quando le sue labbra scesero a baciare e a mordere la pelle del mio collo mi lasciai scappare un gemito. Passai una mano tra i suoi capelli, facendo correre l'altra sulla sua schiena per cercare la sua pelle calda sotto la maglia. Con una manovra inaspettata, mi fece rotolare sul fianco e si stese alle mie spalle, continuando a lasciarmi baci umidi sul collo. Poi appoggiò la testa al cuscino, mi allacciò un braccio intorno alla vita e mi strinse a sé. 

«Adesso dormi», ordinò. La sua voce arrochita e il suo respiro, alterato e caldo contro il mio orecchio, mi provocarono una cascata di brividi che scese lungo tutta la spina dorsale, fino all'ultima vertebra. Annuii, incapace di parlare e restando ad ascoltare i nostri respiri affannati che, pian piano, tornavano ad un ritmo regolare.

Avere Daryl stretto a me, con il suo corpo che aderiva perfettamente al mio, mi provocava una sensazione talmente bella e appagante, che avrei voluto rimanere vigile tutta la notte, per non perdermi un solo istante. Ma la giornata era stata lunga e sfiancante e quel bacio della buonanotte mi aveva dato il colpo di grazia. Complice il silenzio assoluto, mi addormentai, cullata dal respiro di Daryl e dal calore del suo corpo che avvolgeva il mio.

***

«Non riesco ancora a credere che tu mi abbia lasciato venire con te», proferii, seduta al posto del passeggero nell'abitacolo del furgone su cui viaggiavamo. Presi il pacchetto di sigarette che svettava dal vano portaoggetti, sfilandone una e offrendola a Daryl.

«Non che ci fossero alternative», replicò, tenendo lo sguardo fisso sulla strada mentre afferrava la sigaretta e se la portava alle labbra.

Gli sfilai lo zippo dalla tasca e gli accesi la sigaretta. «Ah ah, molto divertente».

Prese la prima boccata. «Sono serio come la morte», disse, ma stava sorridendo.

«Sei seriamente uno stronzo», mi lamentai, distendendomi contro il sedile e accavallando le gambe sul cruscotto. Guardai fuori dal finestrino abbassato, sorridendo tra me e me. A quell'ora del mattino, la nebbia che si infilava tra gli alberi del bosco e che nascondeva l'orizzonte rendeva l'atmosfera ovattata. «So che è strano, ma sono contenta di essere finalmente uscita da Alexandria. Avevo bisogno di allontanarmi, prendere un po' d'aria...». Mi voltai verso di lui, senza smettere di sorridere. «Tutto questo non ti ricorda qualcosa?».

Lui mi lanciò un'occhiata interrogativa, continuando a fumare in silenzio.

«Beh, io e te, soli qua fuori... Come quando siamo scappati dalla prigione. Che di per sé non è stato un bel momento, ovviamente, ma è stato in quei giorni che abbiamo iniziato a conoscerci. Ci parlavamo a malapena, prima».

«Ah sì, è stato quando mi hai dato del criminale».

«Ehi, tu hai detto che mi stavo comportando come una puttanella del college che pensa solo a ubriacarsi!», replicai, colpendolo sull'avambraccio e fingendomi offesa. Daryl, le mani sul volante e la sigaretta tra le labbra piegate in un mezzo ghigno, cercò di ritrarsi dalle mie proteste, lanciandomi uno sguardo furbo da sopra la spalla destra.

Decisi di essere clemente e incrociai le braccia al petto. «Ti ho anche fatto cambiare idea sul fatto che ci siano ancora brave persone in giro. Questo non lo ricordi, eh?», aggiunsi, con un sorriso sornione. Se c'era una cosa in cui Daryl non era cambiato, era la sua ritrosia a parlare di sentimenti, emozioni o altri argomenti che potevano farlo sentire troppo esposto a livello emotivo.

Infatti, si limitò a minimizzare la cosa con una scrollata di spalle ed un'espressione in volto che voleva simulare indifferenza. La presi con filosofia, tanto lo aveva già ammesso una volta e, per me, era stata più che sufficiente. Però mi venne in mente una domanda che volevo fargli da qualche giorno.

«A proposito, tu ed Aaron ricomincerete a reclutare, quando sarà tutto sistemato?».

Daryl prese l'ultima boccata di fumo e buttò il mozzicone fuori dal finestrino. «Non credo».

Annuii, gettando lo sguardo sulla strada. Mi aveva messa al corrente del fatto che Rick, il giorno prima della missione alla cava, gli avesse detto che non dovevamo più accogliere persone nuove. «Prova a riparlarne con Rick. Sono sicura che ha cambiato idea, nel frattempo».

Mi voltai a guardarlo: stava tamburellando nervosamente le dita di una mano sulla sommità del volante, senza dare segno di voler rispondere. Fin troppo concentrato sulla strada davanti a noi. Lo studiai ancora per qualche istante, prima di capire quale fosse la verità.

«Oh... Sei tu ad aver cambiato idea».

«Non è così», si mise sulla difensiva, la postura improvvisamente più rigida. «Cioè, non lo so. Avere delle bocche in più da sfamare, scommettere su nuova gente... Abbiamo altro a cui pensare, al momento».

Tolsi le gambe dal cruscotto e mi avvicinai a Daryl. 

«Non vergognarti di pensarla così», lo rassicurai. «Quello che è successo ha lasciato il segno, in tutti noi. È per questo che ho avuto bisogno di uscire, sai? Volevo evitare di chiedermi, almeno per oggi, chissà quando capiterà la prossima volta. Sono giorni che non penso ad altro».

Daryl ascoltò in silenzio ciò che non avevo avuto il coraggio di dire neanche a Maggie, mantenendo gli occhi sulla strada.

«Non è facile rimanere positivi con tutti i casini che sono successi, eh?», commentò poco dopo, lanciandomi un mezzo sorriso.

Gli sorrisi di rimando, sentendo gli occhi inumidirsi per il sollievo di essermi tolta quel peso. «Per niente», risposi, scuotendo la testa. «La Beth sempre ottimista si è presa una vacanza, a quanto pare».

«Spero torni presto. C'è bisogno del suo ottimismo irritante», disse, senza guardarmi.

Tirai su col naso, lasciandomi scappare una risata. Il cuore mi si era alleggerito all'improvviso, come se Daryl avesse afferrato a piene mani il peso che lo opprimeva e lo avesse gettato via.

«Glielo riferirò», promisi, rilassandomi contro il sedile.

Il viaggio verso Ashburn, che durò poco più di una quarantina di minuti totali, filò liscio e senza intoppi. Viaggiammo attraverso le vie deserte della cittadina, prima di arrivare alla periferia e trovare ciò che stavamo cercando. Per nostra fortuna, il cantiere, a differenza di quello vicino ad Alexandria era delimitato da reti: se fossimo riusciti a chiudere il perimetro, avremmo potuto raccogliere quello che ci serviva in tranquillità, senza temere l'arrivo di vaganti dall'esterno. Superammo l'entrata del cantiere a bordo del furgone, per dare un'occhiata generale restando in sicurezza.

Lo spazio che ci ritrovammo davanti era delimitato, dal lato opposto al nostro, dall'enorme struttura che costituiva lo scheletro dell'edificio, attorniato dalle impalcature. Lo spazio attorno a noi era disseminato di cumuli di terra rossiccia, grosse tubature sparse quà e là, blocchi di cemento impilati, escavatori, bulldozer e macchinari di vario tipo.

«Questa impresa edile doveva essere una di quelle coi controcoglioni, guarda che ufficio», disse Daryl, indicandomi una specie di prefabbricato costituito da due livelli.

«Vale la pena darci un'occhiata. Ci sono molti mezzi, forse hanno anche delle taniche di carburante, da qualche parte. Viste tutte le spedizioni che stiamo facendo, non è mai abbastanza».

«Priorità ai pannelli», mi ricordò, indicandomi con un cenno del capo una pila di lamiere ondulate che erano state lasciate nelle vicinanze dell'ufficio. «Anzi, prima di tutto chiudiamo il perimetro». 

Il cantiere non era molto affollato, dal punto di vista dei vaganti: lo spazio ampio li manteneva sparpagliati, perciò riuscimmo ad affrontarne non più di due per volta. Usai il pugnale non soltanto per evitare di fare troppo rumore, ma anche perché alcuni indossavano ancora il casco di protezione, quindi dovevamo trafiggergli il cervello passando per il bulbo oculare.

«È troppo strano vederti combattere senza la balestra», commentai, mentre mi rialzavo dopo aver atterrato l'ultimo vagante presente nello spiazzo. Invece le ali d'angelo del suo gilet, dopo una piccola rammendata, erano tornate belle e dispiegate sulla sua schiena.

Daryl si strinse nelle spalle, buttando per terra il bastone di ferro che aveva utilizzato come arma. «Di sicuro non vado a cercare quello stronzo per farmela ridare».

«Te ne troverò un'altra io, infatti», gli promisi, puntellando i pugni sui fianchi e allargando le spalle con atteggiamento spavaldo.

Lui mi sospinse verso il cumulo di lamiere, senza nascondere un mezzo sorriso divertito. «Ma cammina».

I pannelli erano lunghi e larghi, ma fortunatamente non molto pesanti: sollevandoli io da un lato e Daryl dall'altro, riuscimmo a caricarli sul cassone del furgone, che avevamo già parcheggiato vicino alla pila di lamiere. Trovammo anche qualche tanica di benzina vicino ad un escavatore, che riponemmo nel cassone insieme ai pannelli.

«Diamoci una mossa. Non voglio stare fuori troppo».

«Abbiamo raccolto tutto quello che dovevamo e non è nemmeno mezzogiorno», dissi, alzando lo sguardo verso il sole. «Possiamo dare un'occhiata con calma e fermarci un attimo»,

«Prima torniamo meglio è», replicò Daryl, guardandosi attorno con aria diffidente ed estraendo la pistola dalla fondina.

Mi addossai alla porta del prefabbricato, una mano sulla maniglia e l'altra sulla mia pistola, mentre Daryl si sistemava a lato della soglia. Quando mi fece cenno col capo, aprii la porta di scatto e lui si infilò nell'ufficio, con le braccia tese e l'arma puntata davanti a sé.

«Libero», sentenziò la sua voce da dietro la porta, così lo seguii.

Il primo livello dell'ufficio era composto da un corridoio abbastanza stretto, sul quale si affacciavano due porte ravvicinate tra loro. La prima porta era socchiusa e Daryl vi sbirciò dentro, assicurandosi che fosse vuota: quando mi diede il suo benestare, entrai anche io. Era una sorta di sala riunioni, con un tavolo tondo posizionato al centro della stanza, attorniato da sedie, e un piccolo schedario sotto la finestra; addossata al muro, si trovava una lavagna magnetica, tappezzata dai progetti del cantiere. Daryl si mise a rovistare frettolosamente nei cassetti dello schedario e, non trovando nulla di utile, mi invitò ad uscire dalla stanza con un colpetto sulla schiena.

La seconda porta celava una specie di mini deposito con scorte di calcestruzzo, legno, attrezzi da lavoro e altre diavolerie da cantiere che non avevo mai visto. Daryl raccolse nel suo zaino degli strumenti che potevano servirci anche ad Alexandria, poi ci recammo al secondo livello del prefabbricato, salendo la scala che si trovava all'esterno del box. Dietro alla prima porta, come enunciava la targhetta, si trovava il bagno. L'ultima stanza che ci attendeva doveva essere stato l'ufficio del capo-cantiere. Contro le pareti verde scuro erano posizionati schedari e scaffali con portadocumenti vari. Opposta all'entrata, c'era una scrivania di legno ricoperta da scartoffie e cianfrusaglie varie; in tutta quella confusione, svettava la foto di famiglia di un uomo, calvo e sulla quarantina, che mi sorrideva dalla cornice assieme alla moglie e alle loro due figlie. Un altro viso che mi guardava, questa volta però in maniera lasciva, era quello della bambolona mora e svestita stampata sul calendario appeso al muro. Al centro della scrivania era sistemato il computer, spento da chissà quanto tempo e ingrigito dalla polvere. Anche il resto della stanza sembrava ricoperto da una cortina polverosa. Se non fosse stato per la coperta di lana stesa sotto alla scrivania, avrei giurato che quel posto non vedesse visitatori da un sacco di tempo.

Daryl interruppe il suo frugare in giro per osservare quel picnic improvvisato con le sopracciglia aggrottate. Abbandonati sul pavimento c'erano anche un binocolo, un piede di porco e due bottigliette d'acqua piene.

«Ci vive qualcuno, qui», azzardai, affiancandolo.

«Può essere. O forse hanno dovuto levare le tende e non torneranno», rimuginò. A lato della scrivania vi era un castello fatto con dei barattoli di latta vuoti, che Daryl fece crollare toccandolo con la punta dello scarpone.

«Magari sono solo andati a cercare provviste», dissi. Sfilai due latte di cibo in scatola dal mio zaino e le posizionai per terra, sulla coperta. Daryl mi lanciò un'occhiata di traverso.
 
«Che c'è?», domandai, risistemando lo zaino sulle spalle.

«Lo sai che a casa stanno iniziando a diminuire le scorte».

«Olivia mi ha detto che c'è stato un leggero calo rispetto ai mesi scorsi, sì. Ma sicuramente ce la stiamo passando meglio di chi vive accampato sotto ad una scrivania», replicai, facendo spallucce. 

«Rischi di lasciarle qui per niente. Nessuno ti assicura che, chiunque fosse qui, tornerà».

Allungai un braccio all'indietro per recuperare due cucchiai da una tasca laterale dello zaino. Ne feci sventolare uno sotto il naso di Daryl. «Facciamo così, allora: una la mangiamo noi e una la lasciamo qui. Questo posto non è male e, sicuramente, prima o poi ricapiterà che si fermi qualcuno. Se possiamo aiutare qualche sconosciuto, perché no? Non sarà un barattolo in meno a farci morire di fame».

Daryl si allontanò da me e si lasciò andare sul divano malandato che si trovava sotto la finestra. «Come ti pare».

Raccolsi la lattina di fagioli stufati e mi sedetti accanto a lui, offrendogli nuovamente il cucchiaio. Mantenni il barattolo sollevato tra noi per attingervi a turno e iniziammo a mangiare in un silenzio complice. Mentre masticavo mi guardai in giro, cercando di individuare cosa avrei potuto portare via tra tutta quella roba. Sarebbe stato utile prendere i fogli e la cancelleria, per la riapertura della scuola: Sam sarebbe stata felicissima di avere del nuovo materiale con cui poter lavorare. E Michonne avrebbe apprezzato quel blocco di fogli per la progettistica, dal momento che lei e Rick avevano accennato ad un ampliamento delle mura. Se avessimo setacciato anche il bagno, forse, avremmo potuto trovare qualche scorta medica per l'infermeria.

Mentre mettevo insieme un inventario tra me e me, Daryl continuava a mangiare in silenzio.

«Non sono tutti come i due che hai incontrato nel bosco», mi venne da dire, all'improvviso.

Lui alzò lo sguardo nel mio, senza nascondersi dietro a finte espressioni sorprese e senza falsi interrogativi. Aveva capito benissimo quello che volevo dirgli. Scrollò le spalle, avvicinando il barattolo a sé e scavandoci dentro col cucchiaio per guardare altrove.

«E me lo stai dicendo perché...?».

«Perché ti comporti diversamente, da quando li hai incontrati. Era da tanto che non ti vedevo così diffidente», ammisi con cautela.

«Essere diffidenti ci ha salvato il culo molte volte».

«È vero, però mi seccherebbe molto sapere che sono bastate due persone spaventate a farti invertire la marcia sui reclutamenti», replicai, con un sorriso. «Lo hai detto tu stesso, quella sera: è stata semplice sfiga e non sono tutti così. Ci hai forse ripensato?».

«Ho solo fatto due calcoli, a mente fredda... La paura rende stronzi e gli stronzi sono una minaccia. Quella volta è andata bene perché c'ero solo io, ma avrebbero potuto aspettare, entrare ad Alexandria e fare del male a qualcuno. Non mi va di correre ancora rischi inutili e mettervi in pericolo». Quando smise di parlare, ebbi l'impressione che si fosse tolto un gran peso. Chissà da quanto covava quell'idea e chissà quanto ci aveva rimuginato sopra.

«Sappiamo difenderci», gli ricordai. Il fatto che Alexandria fosse ancora in piedi, dopo tutto quello che era successo, ne era la prova. A prescindere da tutte le ricadute emotive del caso. «E stiamo cercando di rimetterci in piedi dopo un brutto momento. Rialzarsi non significa dimenticare il dolore della caduta, o che scompaia la paura di cadere di nuovo».

Daryl mi guardò di sottecchi. «Non sembravi pensarla così, prima. Cos'è, la Beth ottimista è già tornata dalla vacanza?».

Appoggiai il barattolo ormai vuoto per terra e gli sorrisi. «Ha dovuto farlo, nel momento in cui hai iniziato a dire assurdità. Tu non potresti mai metterci deliberatamente in pericolo, Daryl, non l'hai mai fatto. Anzi, hai salvato molti di noi, più volte. Una minima parte di rischio c'è sempre... Non vivremmo dove viviamo ora, se Aaron non avesse rischiato. Fa parte del gioco». Gli sfiorai il volto e la punta delle mie dita passarono tra le ciocche della sua frangia scompigliata. «Devi solo darti del tempo. Sono sicura che, quando le mura saranno di nuovo in piedi e torneremo alla normalità, tornerai là fuori a cercare persone. Perché è questo ciò che fai, è questo ciò che sei».

Sul viso di Daryl c'era un'espressione che poche volte gli avevo visto assumere: era distesa, con un angolo delle labbra appena arricciato in un sorriso e uno sguardo più tenero del solito. L'azzurro delle sue iridi che, fino a quel momento, era stato incupito dai pensieri, si schiarì nuovamente. Mi ricordò il cielo terso che si apre quando il sole spazza via le nubi dopo una mattinata di pioggia incessante. Si sporse col busto verso di me, sistemandomi una ciocca di capelli dietro all'orecchio. Poi, cinse il mio volto con una mano e mi baciò morbido, senza aggiungere altro.

Mi sentivo molto meglio di quanto mi fossi sentita in quella settimana. Riuscire a condividere certi stati d'animo con Daryl, rendermi conto che anche lui poteva aver bisogno del mio ascolto, che potevo aiutarlo a stare meglio, anche solo parlando... riusciva a spazzare via qualsiasi pensiero negativo mi avesse tormentata in quei giorni. Rassicurando lui, ero riuscita a rassicurare anche me stessa, a ricordarmi che, qualunque cosa fosse successa, non sarei stata sola.

«Andiamo?», chiese Daryl, schiarendosi la voce dopo aver separato le nostre labbra.

Annuii, allontanandomi da lui controvoglia. «Sai, pensavo di raccogliere qualche materiale di cancelleria, per la scuola. Potremmo anche trovare qualche rifornimento per l'infermeria se ci fermassimo un attimo a ricontrollare nel bagno».

Daryl si alzò, offrendomi la mano per tirarmi su. Con un balzo, fui di nuovo in piedi.

«Okay», concesse, «ma cerchiamo di spicciarci».

«Buongiorno, stranieri!».

Il mio corpo reagì prima che potessi rendermi pienamente conto di quella voce sconosciuta: con un gesto fulmineo, la mano destra andò a recuperare la pistola dalla fondina, spianandola davanti a me. Con la coda dell'occhio, notai che anche Daryl era scattato in posizione di difesa.

«Una domanda veloce: siete stati voi a mettere in sicurezza il perimetro, qua fuori?».

Daryl non rispose. Chissà che sguardo aveva, in quel momento. Di sicuro non molto amichevole. 

«Lo prenderò come un sì. Vi devo ringraziare, è stato bello tornare e trovare il cortile di casa libero dai masticatori. Posso...».

«Ce ne stavamo andando».

«E dai, amico, sto solo cercando di avere una conversazione civile! Era da tanto che non mi succedeva di avere degli ospiti. Non che mi dispiaccia essere un lupo solitario, eh, ma quattro chiacchiere ogni tanto fanno sempre piacere e non hanno mai ucciso nessuno».

«Lo dici tu».

Durante quello scambio, misi a fuoco il ragazzo davanti a noi: sembra avere poco più di trent'anni, indossava un paio di camperos e, sotto la giacca di jeans, svettava su una maglietta il logo di qualche band metal a me sconosciuta. Aveva i capelli neri e ricciuti, lo sguardo era scuro e gentile. Ci sorrideva, per nulla intimorito dal proprio svantaggio numerico; anzi, continuava a parlarci senza difendersi dietro qualche arma, a differenza nostra. Lo studiai, per cercare di capire se avesse qualche asso nella manica, nonostante entrambe le braccia fossero abbandonate lungo i fianchi. Nel momento in cui notai l'arma che lo sconosciuto stava tenendo mollemente appesa alla spalla, non potei fare a meno di sorridere. Continuai a tenerlo sott'occhio, sporgendomi appena verso Daryl.

«Te lo avevo detto, che ti avrei trovato un'altra balestra».



Note autrice

Ciao, a chiunque stia leggendo. Sono passati quattro anni dall'ultimo aggiornamento e l'ultima cosa che credevo è che, un giorno, sarei tornata a pubblicare.
Un po' perché ho avuto un blocco enorme che non mi ha permesso di scrivere nemmeno una riga, un po' perché l'entusiasmo per The Walking Dead è scemato nel tempo, a causa delle ultime stagioni che - a mio parere - non hanno nulla da spartire con le prime. Non mi hanno appassionata come le prime e quindi anche la mia voglia di scrivere di questo mondo mi ha abbandonata per tanto tempo.
Il fatto, però, che la storia principale sia conclusa e che, per sapere come finisce, io abbia recuperato il tutto... mi è servito a riprendere in mano questa storia. Anche perché il mio ammore per i Bethyl è sempre stato lì, nonostante non sia riuscita a scriverne per tanto tempo. Ad ogni modo, per chiunque sia ancora qui: SCUSATE.
Passando al capitolo... ci sono praticamente solo Beth e Daryl perché io per prima ho avuto bisogno di riprendere confidenza con loro due, ora che sono diventati essenzialmente una coppia. La trama non è andata avanti più di tanto, me ne rendo conto, ma spero abbiate apprezzato questa panoramica del loro rapporto e di come stiano cercando entrambi di rapportarsi all'altro, alla luce dell'avvicinamento che c'è stato tra loro.
Guardando Daryl nelle ultime stagioni, ho notato che si è lasciato andare, a livello interpersonale, e che ha molto ridotto l'idiosincrasia per affetto/emozioni/contatto fisico (specialmente grazie ai bambini). Ho immaginato, quindi, che avrebbe potuto fare questa evoluzione anche grazie a Beth, che si sarebbe ammorbito prima se le cose avessero preso una piega diversa. Spero di non averlo snaturato, ecco.
Prima di lasciarvi, devo dire un grazie E N O R M E a vannagio che ha accettato di betare questo capitolo con grande disponibilità e cura <3 e un grazie altrettanto grande ad AkaneT87 che con il suo sostegno inaspettato via dm mi ha spronata a riprendere in mano questa storia. E anche ad Ariane, che mi sprona sempre off-line <3
Dovrei riuscire ad aggiornare tra un mesetto (questa volta mi rifiuto di far passare gli anni, giuro); intanto ringrazio  chiunque avrà voglia di leggere e di lasciarmi un suo parere.
Alla prossima!

 

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