Alter ego

di Aaeru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***
Capitolo 4: *** Parte IV ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Quel pomeriggio piove a dirotto. Piove a dispetto del crepuscolo ventoso e infuocato che, solo poche ore prima, ha visto spegnersi le speranze matrimoniali del colonnello de Girodelle. Lo sciabordio della pioggia sui vetri non l’ha mai infastidita, anzi, quel rumore ha sempre lenito i suoi pensieri più cupi. 

È passata a trovare André in infermeria in mattinata. Una visita molto breve, dovuta certamente alla premura di non affaticarlo, ma soprattutto all’ostinata reticenza di lui.

Due colpi impertinenti alla porta, e subito la figura gagliarda e imponente di Alain de Soissons si staglia all’ingresso dell’ufficio del colonnello de Jarjayes, come previsto.

Oscar non stacca quasi gli occhi dal foglio mentre invita il nuovo arrivato a chiarire le motivazioni di quella visita per nulla inaspettata.

“Comandante, sono venuto a chiedervi di accordare un congedo al soldato Grandier. Stanotte sono stato con lui in infermeria per evitare che gli facessero altri scherzi ma non posso fargli da balia per tutta la convalescenza”, nonostante l’impegno le parole escono più secche del voluto. D’altronde, de Soissons non è uso a tenere imbrigliata la propria indignazione.

“E chi ti dice che non glieli abbia accordati?”, risponde il colonnello, meglio addestrata alla sottile arte della dissimulazione, “È  stato lui a rifiutarli.  Come si è rifiutato di dirmi i nomi degli autori del pestaggio. Ma forse tu potresti farlo al posto suo…”

Lo guarda dritto negli occhi mentre pronuncia quest’ultima frase, così che sia chiaro che non si tratta di un invito. 

“Sono il loro capo, comandante: non posso tradirli, perderei autorità”, si schermisce de Soissons mostrando le zanne, “La questione, in realtà, è già risolta, ma mi sentirei più tranquillo se André passasse la convalescenza a casa sua. O, meglio, vostra”. 

Non ha tempo di godersi la stoccata che l’altra ribadisce proterva: “Sta a lui decidere”. 

Una breccia negli argini friabili della baldanzosa sufficienza di lui.

Ad ogni passo che lo avvicina all´altra la rabbia tracima: “Quel ragazzo vi ama così tanto che darebbe la vita per voi, ed è con questa indifferenza che lo ripagate?!”  Restando al proprio posto, Oscar si alza in piedi ergendosi in tutta la sua statura. 

Si fronteggiano. Alain prega di leggere un segno, anche minimo, ma dal viso del colonnello traspare null’altro che severa e testarda alterigia.

Che cosa ci trovi in una donna simile, André?, è la seconda volta che se lo chiede in meno di ventiquattr’ore. Eppure in armeria le ha visto l’orrore dipinto in volto.

Ma che ne vuoi sapere tu di noi?, viene da rispondere a Oscar che, invece, opta per un’asciutta indulgenza: “Alain, comprendo perfettamente che tu sia preoccupato per il tuo compagno, ma non ti permetto di rivolgerti a me in questi termini”.

“Con tutto il rispetto, comandante, in infermeria c’è un uomo massacrato di botte il cui unico pensiero è che voi non lasciate l’uniforme per sposarvi con un altro. Un uomo che ha sacrificato tutto per voi e che valuta la propria vita in base ai momenti che può passare al vostro fianco. Un uomo così lo chiamerei pazzo, ma sento che non sta a me giudicarlo. Invece non riesco a sospendere il giudizio su di voi, che tutto questo lo sapete,  ma che vi comportate come se la cosa non vi riguardasse”, non ce la fa proprio a stare zitto ma, in fondo, sta solo  dicendo la verità. 

Gli pare di cogliere un lieve fremito nella figura fiera, gli occhi di Oscar si sfilano dai suoi per posarsi sul plico di carte in bella vista sulla scrivania. Poi torna a guardarlo, con espressione seria ma rischiarata.

“Alain, giudicami pure come ti pare: non mi importa. Ad ogni modo, bisogna saper scegliere le proprie battaglie e questa non potrei mai vincerla”, il tono della voce è fermo quanto sibillino il significato delle parole. Eppure de Soissons giurerebbe di aver visto balenare un sorriso divertito sulle labbra dell’algido comandante.

 

L’istinto della volpe in cerca del cucciolo smarrito guida Marie Grandier nel dedalo degli stanzoni luridi e incolori della caserma della Guardia Metropolitana. Non ha avuto la pazienza di aspettare che il piantone le facesse strada, ha preferito rischiare di perdersi piuttosto che attendere i comodi di quel giovinastro indolente che l’ha accolta senza riguardi per la sua età e i suoi abiti zuppi.

Mentre si fa strada lungo il porticato interroga i passanti mescolando gentilezza e piglio militaresco, secondo l´intuito e una vaga conoscenza delle mostrine.  L’ultimo della serie è un ragazzone bruno dall’aria disinvolta, mani in tasca e un foulard rosso legato pigramente intorno al collo:  “Questo qui ha l’aria di essere un frequentatore abituale”, valuta oculatamente Marie.

“Giovanotto, per cortesia, sapreste indicarmi dove si trova l’infermeria?”

Alain, sovrappensiero, si ferma ad osservare con simpatia quella vecchina tonda ma energica e gli ci vuole poco a realizzare. Diavolo di un comandante!


 

“Allora dillo che stai facendo di tutto per farmi morire di crepacuore, ingrato di un nipote!”, ruggisce Marie spalancando la porta dell’infermeria, alle sue spalle Alain, divertito e ammirato. Le fa eco lo strillo assai poco marziale della recluta Cassel, il cui avambraccio è, proprio in quel momento, sottoposto ad una delicatissima operazione di steccatura, inficiata dal collaterale sobbalzo del dottor Faber.

“Madame, per cortesia, qui stiamo operando!”, sbotta giustamente il medico.

“Monsieur, perdonatemi, non avevo considerato…”, si ammansisce, mortificata, l’anziana governante.

“Immagino che siate qui per il soldato Grandier. Sta riposando. Potete raggiungerlo ma moderate il tono di voce”, raccomanda il dottore accennando alla porta alla sua sinistra.  

Gli occhi sciupati di Marie faticano a penetrare il buio della stanza, illuminato debolmente da un doppiere che trova appoggiato su un basso armadietto all’ ingresso. L’odore aspro dell’alcol scadente usato per la disinfezione è uno schiaffo alle narici. Ma l’udito le riporta l’ansito di un solo uomo, così afferra il candelabro e, senza ulteriori esitazioni, va incontro a quel suono angosciante.

“Vergine Santissima, André! Che ti hanno fatto?!”, esclama con voce chioccia alla vista del volto tumefatto del nipote, lampante nella sua rovina anche alla tenue luce delle candele. Istintivamente corre ad aprire le tende, solo per rendersi conto che, con quel diluvio, l’illuminazione non migliora di molto.  Appoggia il doppiere sul comodino sgombro di fianco al capezzale e si siede sul basso sgabello messo a disposizione dei rari visitatori. 

L’altro prova a minimizzare sollevandosi e abbozzando un allegro: “Ehi, nonna!”, ma il dolore mozza il respiro.

“Calma, giovanotto, non è il caso di esagerare!”,  interviene Alain che, sordo alle maledizioni del dottor Faber, ha deciso di non perdersi la scena.

Con tono quasi professionale spiega a Marie: “Suo nipote ha tre costole incrinate, ma gli è andata di lusso, per come l’ho trovato ieri”. 

Gli occhi sgranati della donna gli fanno capire che ha già parlato troppo. 

“André, ma che cosa è successo?”

“Nulla, Madame. Sono solo gli inconvenienti della vita da caserma”, s’intromette di nuovo de Soissons per far risparmiare fiato all’amico.

“Vita da caserma?! Roba da pazzi! Ma che vi è preso a tutti e due? Prima mademoiselle Oscar che lascia la Guardia Reale e scappa in Normandia, poi tu che sparisci e ti arruoli, ora questo. Vuoi farmi morire, André? Perché se sono queste le tue intenzioni, dillo subito che potrei anche accontentarti, alla mia età…”, il viso paffuto va a nascondersi dietro le piccole mani nodose.

“Ma no, nonna”, risponde il nipote in un sussurro, “non dirlo neanche per scherzo…”

“E allora perché hai rifiutato il congedo? Mademoiselle Oscar mi ha detto che ti ha firmato un permesso di dieci giorni, ma tu sei ancora qui”, lo incalza Marie, la cui rabbia ha ripreso vigore.

“Non sono sotto un ponte, sono in infermeria, dove si curano i soldati: esattamente dove devo essere”, si schermisce debolmente l’altro.

“Se ti hanno accordato dieci giorni di congedo significa che qui non puoi starci più di tanto, questi letti serviranno anche ad altri!”, obietta Marie pragmatica,“Vieni a casa con me, André, ti prego”.

“Devo restare nonna”, ribatte l’altro cercando di imprimere tutta la propria pervicacia in un filo di voce.

“Perché? Per far sì che quelli che ti hanno ridotto così finiscano il lavoro? André, ti prego, se non vuoi farlo per questa povera vecchia, fallo almeno per mademoiselle Oscar”. Non avrebbe voluto arrivare a tanto, ma è così cocciuto…

“Che c’entra Oscar adesso?”, si sforza di fare il vago ma il cuore perde un battito.

“Pensi che le faccia piacere saperti qui così, con il rischio che ci riprovino?”

“Nonna… È tutto a posto, davvero. Non avete nulla di cui preoccuparvi”, insiste fiacco. Ogni sillaba pronunciata è una stilettata. Rinuncia a parlare, ché tanto la nonna fa per due.

“Ha già così tanti pensieri, povera ragazza…”

Posso immaginare…

“Beh, ecco la questione del matrimonio…”

Appunto…

“Ora che ha rifiutato la proposta del colonnello de Girodelle…”

E chi altri, se non lui?!

Strano non averci pensato, anche se di tempo, invero, ne ha avuto poco per farlo.

Però ha rifiutato!

“...verrà dato un ballo in suo onore per permetterle di conoscere altri pretendenti…”

Non fai in tempo a gioire, che arriva subito un’altra botta! E tu che sei solo un servo potrai solo ammirarla da lontano. Come sempre, del resto. 

“André, mi stai ascoltando?”

Lui annuisce piano.

“André, non ho mai nascosto la mia contrarietà rispetto ai progetti del Generale per mademoiselle Oscar, quindi dovrei essere la prima a gioire di questo ripensamento da parte sua. Ma la cosa non mi convince: la mia bambina mi sembra molto turbata, forse è troppo tardi per tornare indietro, per farle cambiare vita. Sono davvero preoccupata e tu sei l’unico che riesce a interpretare i suoi stati d’animo. Ti supplico, vieni a casa per qualche giorno, parla con lei. Lì sarete più liberi di farlo”, gli accarezza leggera la fronte.

“Nonna, Oscar non vuole più che io mi occupi di lei”, un cenno alla giubba blu  abbandonata in fondo al letto, “questo è il massimo che possa fare ormai”.

Le labbra dell’altra si increspano ma il proverbiale senso pratico maschera il disappunto: “Sospettavo che fosse questo il motivo del tuo improvviso colpo di testa. Ad ogni modo, conciato così sei solo un peso per lei: è meglio che tu faccia una convalescenza come si deve. Poi, se vorrai provare a parlarle, sarà tanto di che  guadagnato”, chiosa in cerca del compromesso.

“Dovresti dar retta a tua nonna”, spunta di nuovo Alain, “non posso passare il tempo a badare a un relitto: prima ti rimetti, meglio sarà per tutti!”

Sono commosso da tanto affetto!, pensa André tra ironia e irritazione. Abbassa per un istante le palpebre: il tempo di riprendersi dall’ultima fitta prima di dichiarare la resa.

 

È passata già una settimana dall’ultima volta che l’ha vista, ma Victor Clément Florian de Girodelle è un uomo d’onore, e non poteva mancare di far visita a un superiore ferito, anche se costui è il padre della donna che lo ha rifiutato senza la premura di una ragionevole spiegazione. Scortesia perdonata soltanto perché è di lei che si tratta.

Avanzando senza fretta tra i noti corridoi di Palazzo de Jarjayes, Victor realizza che le occasioni che l’hanno visto ospite tra quelle ragguardevoli mura, eccettuata la penultima, hanno sempre coinciso con momenti emergenziali, in cui la sua presenza era giustificata unicamente dal suo legame professionale con l’ormai ex colonnello delle Guardie Reali. In altre parole, non ha mai messo piede a palazzo in veste quantomeno di conoscente intimo di colei che, solo pochi giorni fa, ha chiesto in sposa. È stato forse questo il suo errore, dare per scontato un rapporto di amicizia che, a dispetto dei lunghi anni di frequentazione, non è mai riuscito a svilupparsi oltre i cancelli della Reggia di Versailles? Credere che quella quotidianità fatta di ordini dati ed eseguiti, di cordiale confronto su questioni attinenti la protezione dei Reali, potesse rappresentare la base di un rapporto più profondo?

Nondimeno, riconosce che è difficile parlare di intimità in relazione a una donna tanto singolare: così austera, riservata, aliena ai vizi del proprio genere. 

Nessuno potrebbe vantare un’autentica confidenza con una creatura tanto straordinaria!

Il sollievo della conclusione scema mano a mano che mette a fuoco l’immagine del soldato semplice che gli viene incontro con passo cauto e la schiena leggermente flessa.

“Diamine, Grandier! Che vi è successo? Avete la faccia che sembra un campo di battaglia!”, domanda  con un ghigno compiaciuto.

L’altro risponde con il saluto militare più dignitoso che gli consentono le costole in via di guarigione e spiega laconico: “Inconvenienti del mestiere, colonnello”.

Inconvenienti del mestiere?!

Istantaneamente il divertimento di Victor muta in panico.  Sa che Grandier l’ha seguita anche nella Guardia Metropolitana, quindi…

“Quando è successo? Ditemi, anche mademoiselle Oscar… intendevo, il Colonnello de Jarjayes è stato ferito?” 

Possibile che non ne abbia saputo nulla?! Perché nessuno mi ha detto niente?!

Cerca sul viso malconcio della recluta una risposta che tarda ad arrivare. Lo afferra istintivamente per il bavero dell’uniforme.

“No, ero solo”, risponde infine André, atono. Ma Victor non fa in tempo a rilassarsi che l’altro aggiunge con un luccichio sardonico nell’occhio scoperto: “Oscar mi ha soccorso dopo”.

Oscar, Oscar, lui la chiama semplicemente Oscar

Victor sente riacutizzarsi quel prurito fastidioso che l’ha tormentato nei lunghi anni di indesiderata collaborazione, come incredulo testimone della loro illogica intesa. Deve sapere di più.

“Quando è successo? Rispondi!”, gli ordina con inutile protervia.

“Una settimana fa”.

“Una settimana fa”, ripete il novello comandante delle Guardie Reali mentre in testa riecheggia la chiosa dolente dell’amata: “Noi siamo nobili. Né voi né io sappiamo cosa voglia dire essere un servo”.

La sua mente si ancora a quell´attimo tanto da non accorgersi delle parole che scivolano dalla bocca: “Mi chiedo se si renda conto di quanto tu sia parte di lei”.  Ma nessuno dei due ha tempo di realizzare la portata di quel pensiero, poiché un rumore di passi ben noto a entrambi pone fine alla conversazione.

“André che ci fai in giro? Non devi esagerare, lo sai! Ah, Girodelle ci siete anche voi!”, il sorriso cortese e insperato di Oscar non distrae Victor dalla nota di apprensione esclusiva che avverte nel rimprovero indirizzato all’ex attendente.  

Mademoiselle, ero venuto ad accertarmi delle condizioni di vostro padre e sono lieto di apprendere che non ci saranno gravi conseguenze. È un piacere rivedervi, ma ora è il caso di togliere il disturbo. Buona convalescenza anche a voi, André”, si ritira svelto nella speranza di alleviare presto la morsa che gli ha preso lo stomaco.

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Capitolo 2
*** Parte II ***


Dunque, André ha ceduto, pur con la prudenza circospetta della bestia selvatica.  I primi giorni li ha passati a letto, facendosi scudo della sofferenza fisica per non dire, o fare, più di quanto si era ripromesso. Lei è sempre andata a trovarlo nei momenti liberi, ma, più che parlare, si è goduta la sua presenza, il loro esserci di nuovo. Mano a mano che André riacquistava  forze e voce, hanno cominciato timidamente a discorrere mescolando ironia e gravità, con lo sguardo rivolto al passato più innocuo per sollevarsi da un presente opprimente. Un equilibrio fragile e farlocco che, lo sapevano entrambi, non poteva durare. Infatti, è stato spezzato dall´ennesimo incidente, che stavolta ha colpito l’artefice delle loro assurde esistenze.

Strozzata dall’angoscia, in maniera assai poco marziale, lei è crollata al capezzale paterno e se l’è ritrovato davanti, con il sorriso ammaccato e un impeccabile fazzoletto di batista per asciugare le  lacrime. Com’era sempre stato e come avrebbe sempre dovuto essere. 

Non hanno avuto modo di assaporare il momento, sciupato dalle miopi pretese  del Generale, e ora rischiano di smarrirsi ancora. 

Oscar s’è voltata in tempo per cogliere l´occhio buono di André che si sgranava e poi riparava sotto il capo chino. 

Perché non rifiuti?, domanda muta e reciproca, persa tra le raccomandazioni del ferito e gli ammonimenti di Nanny, che li ha invitati a lasciare la stanza per permettere al padrone di riposare.

 Perché non hai rifiutato?, stava per chiedere Oscar, fuori dalla camera, vedendo André incamminarsi docilmente verso il piano inferiore. 

Le è uscito tutt’altro: “Perché indossi l’uniforme qui, in casa?” Cancellando ogni illusione, avrebbe voluto aggiungere.

André si è fermato, ha girato appena la testa verso di lei, con aria falsamente stupita: “E me lo chiedi proprio tu che, a momenti, con l’uniforme ci vai pure a dormire?!”, ha risposto scoppiando nella sua indimenticata risata discola. 

Ma c’era ben poco da scherzare. È tornato indietro di qualche passo, affinché lei potesse leggere chiaramente il suo viso mentre le diceva con voce ferma e un sorriso lieve: “Serve a ricordarmi quale sia il mio posto ora”. 

Perché non hai rifiutato?, sarebbe stato il suo turno di chiederlo ma non se l’è sentita e l’ha lasciata sola a sostenere il peso della recente rivelazione.

Adesso, però, mancano due giorni al rientro in caserma, ci ha dormito sopra e ha capito di non poter rimandare oltre. Si augura che valga lo stesso per Oscar, assorta nel tentativo di cogliere cosa lui e Girodelle si stessero dicendo poco prima del suo arrivo.

“Oscar, ti andrebbe di tirare un po’ di scherma?”

“Scherma?! Non ti sembra di correre troppo? Hai cominciato a muoverti sul serio solo due giorni fa…”

“Sì, ma fra poco rientro in caserma e non potrò certo battere la fiacca: ho bisogno di riattivare la muscolatura!”

“E va bene”, acconsente lei, poco convinta, “ma ti avverto: non ci andrò leggera! Non aspettarti trattamenti di favore perché sei convalescente!”

“Esattamente quello che voglio!”

Escono in giardino con i fioretti in mano e i polmoni che si dilatano avidi della brezza profumata dai narcisi. Oscar è grata al caldo sole di fine aprile che obbliga André a levarsi quella giubba blu, diventata fonte di inquietudine. Ma  i movimenti cauti con cui lui sfila piano la manica del lato ferito impongono nuovamente il dubbio: “Sicuro che riuscirai ad andare in affondo col braccio destro?”

“In effetti, hai ragione, non l´avevo considerato”, conviene André sfregandosi il mento. Un sorriso furbo affiora sulle labbra.

 “Ad ogni modo, con la faticaccia che ho fatto per diventare ambidestro”, prosegue passandosi l’elsa dalla mano destra alla sinistra, “dovrò pur avere qualche vantaggio,  non ti pare?”

Per un momento,  Oscar lo osserva stupita menare all’aria fendenti decisi con la mano “del diavolo”, poi ricorda che André sarebbe mancino: è stato il loro primo precettore, père Lagarde, a imporgli l’uso della destra a suon di bacchettate ed esorcismi in latino. E il Generale non si è opposto, in quanto usare la sinistra, in una realtà dominata da spadaccini destrorsi, avrebbe posto il ragazzo in una condizione di inferiorità rispetto agli avversari.

“Mi rendo conto che lo stile lasci un po’ a desiderare, ma anche il sinistro è forte: lo tengo allenato alternando le mani quando lavoro”, spiega André orgoglioso.

Lei stavolta non dubita perché ha saggiato la forza di quel braccio che l’ha sorretta al termine di ognuna delle loro risse, di quella mano che l’ha trattenuta tante volte dal cadere nelle intemperanze del suo carattere fumantino. Ne avverte ancora il calore sulla propria, rievocando l’ultima alba della loro infanzia. 

Quanto hai dovuto cambiare di te stesso, André, per stare al mio fianco?

Ha esaurito la già scarsa voglia di battersi, ma André è entrato in prima posizione e la invita a farsi sotto con un cenno della mano libera. Combattono specularmente: l´ombra è divenuta riflesso. I movimenti sono netti sebbene non particolarmente rapidi, l’esitazione pensosa di lei è bilanciata dagli affondi sorprendenti di lui.  Le lame si incrociano e si respingono, i corpi avanzano l’uno contro l’altro e subito sfuggono. Gli sguardi, invece, sono saldamente intrecciati, come un tempo. 

“Così non va, Oscar: avevi detto che non ti saresti risparmiata!”, lamenta André tra una parata e una botta dritta. 

“Non mi era mai capitato di combattere contro un mancino”, si giustifica Oscar, scartando di lato per effettuare una cavazione, “oltretutto uno scellerato la cui salute sta più a cuore alla sottoscritta che al diretto interessato!”

“Niente scuse”, incalza André aumentando il ritmo. Il riposo forzato ha giovato alla vista: le immagini risultano meno sfuocate, nessuna traccia di diplopia, per il momento. Cerca di portare Oscar al limite perché sa che, nella smania del combattimento, lei non può nascondersi. Non da lui.

Quando arriva il momento è il cuore gonfio di adrenalina a gridarlo. 

“Allora, andrai a quel ballo?”, domanda stringata, perché i muscoli intercostali sono ancora rigidi e il fiato è già troppo corto. 

“Cos…? Ma che razza di domanda è?!”, si schermisce lei che quasi inciampa, ma subito è costretta ad arretrare per evitare un fuetto.

“Una di quelle semplici. Nel caso, potrei dover chiedere un cambio di turno, perciò gradirei saperlo prima”, logica tagliente che offende al pari della lama che obbliga  l’altra a una seconda cavazione.

“Quindi lo faresti davvero? Davvero mi accompagneresti?”,  contrattacca Oscar, preparandosi a una presa di ferro. Tuttavia, non le riesce di spiazzarlo.

 “Sono un servo, Oscar, la mia volontà conta poco. E, comunque, tutto dipende da cosa sceglierai tu”, ribatte André azzardando una frecciata, ma una fitta improvvisa gli fa perdere l’equilibrio ed è un attimo travolgere anche lei. Rovinano nell’erba, le braccia di lui serrate d’istinto per attutirle l’impatto con il terreno, visi e cuori irrealmente vicini.

“André, ti sei fatto male?”,  chiede Oscar allarmata. 

“Tutto a posto”, risponde lui, ma una smorfia lo tradisce mentre la libera del proprio peso ruotando sul fianco sano.

“Direi che per oggi abbiamo finito”, sentenzia Oscar aiutandolo a rialzarsi.  Poi si accomoda sul bordo della fontana maggiore. André la raggiunge con un po’ di fatica, gli sguardi vagano per il giardino in attesa che il respiro torni regolare.

 

“André… Obbedirai davvero all’ordine di mio padre?”, chiede Oscar senza voltarsi.

“Gli devo tutto: se non fosse per il Generale non avrei avuto una casa, un’istruzione, un lavoro. Senza contare che non ti avrei mai conosciuta…” 

Forse sarebbe stato meglio per te non avermi mai incontrata…

“E, ribadisco, tutto dipende da cosa farai tu: se deciderai di andare al ballo io obbedirò, altrimenti sarò impossibilitato a farlo.”

“Giusto. Non ci avevo pensato.”

“Dunque?” 

Perché tanta esitazione, Oscar? Hai paura di dirmi che lo farai?

“Ma come fai?”,  svicola lei.

“A fare cosa?”, stringe lui.

“A sopportare che gli altri ti impongano sempre il peso delle proprie scelte?”, Oscar scatta in piedi come morsa da un’aspide, gli occhi saettano d’indignazione. E di pena.

Curioso, potrei farti la stessa domanda…

André sospira guardando di fronte a sé: “ Devo molto a tuo padre…”

“L’hai già detto. Ma come potresti accompagnarmi se non vuoi? Solo per obbedire a un ordine?”, domanda assurda da rivolgere a un servo ma pronunciata all’apice della stizza.

Il tono di voce si alza di un’ulteriore ottava mentre agita i pugni stretti, le unghie conficcate nei palmi: “Tu non vuoi che io mi sposi, lo so, ti ho sentito! Allora come puoi pensare di farlo?!”

Ma che importanza ha, Oscar?

“Rispondi, André!”, ordina quasi sprezzante.

“Lo sai…” 

“No, non lo so…”, insiste testarda. 

“Perché non ho scelta, Oscar, dannazione! NON HO SCELTA!È questo che vuoi sentirmi dire?”, sbotta André alzandosi per fronteggiarla, “O preferisci che ti preghi in ginocchio di non andare? Meglio svenuto sul pavimento dell’armeria mentre mormoro il tuo nome? Sarebbe INUTILE!”

Il ricordo di lui riverso e incosciente la inchioda. André ora la sovrasta, furente.

Perché ti diverti a giocare con me, Oscar?

“Perché sono solo un servo, sì, ma soprattutto perché non posso importi la mia volontà, quello è un “privilegio” che lascio ad altri! Malgrado i miei sentimenti, ti voglio, e ti ho sempre voluta, LIBERA!”, allarga le braccia per resistere alla tentazione di stringerla a sé.

“Ecco perché sarebbe corretto, da parte tua, dirmi chiaramente che cos’hai intenzione di fare. Anche se un’idea ce l’ho, purtroppo”, affonda amaro.

“Che intendi dire?”

“Beh, rifiuti Girodelle, l’unico tra quei nobili con cui hai  un minimo di affinità, per acconsentire a un ballo di cicisbei imbellettati che ti ronzeranno attorno come mosche sul miele…”

“Ma io non ho mai detto nulla del genere!”

“Non l’hai nemmeno negato, Oscar. Se non ci vuoi andare perché non l’hai detto chiaramente a tuo padre?”

“Perché lui è ferito e…”

“E tu non volevi deluderlo. Mi pare chiaro che non sono il solo a subire il peso delle scelte altrui”, conclude André, la rabbia compressa nei tratti tesi del volto. 

Lei tace, in cerca di parole che non vogliono farsi trovare.

Ti prego, Oscar, di’ qualcosa!

Allora l’altro si fa avanti, la affianca, le stringe la mano sinistra nella sua. Sente che è l’ultima occasione per chiarire la sua verità. 

“Oscar, io ho sempre saputo di non poter ambire al ruolo di pretendente ma, purtroppo, non ho potuto fare a meno di innamorarmi di te. E non vivrò abbastanza per scontarlo. Del resto, i miei sentimenti sono un problema che riguarda unicamente il sottoscritto. Tu devi solo promettermi che non ti sposerai, a meno che tu non lo voglia davvero, perché meriti molto di più di un matrimonio di convenienza. So che non avrei diritto di chiedere dopo ciò che ho fatto, ma credimi quando dico che desidero solo il meglio per te. E il meglio non è sicuramente un damerino impomatato che non ha la benché minima idea di chi davvero sia Oscar François de Jarjayes”.  

È tutto. Senza attendere risposta indossa la giubba e si avvia verso il palazzo. Sta valutando l’idea di chiedere un rientro anticipato, quando si sente afferrare per la manica sinistra.

“André, io… io non credo che mi sposerò tanto facilmente”, le parole sussurrate dalla voce da contralto alle sue spalle gli scivolano addosso come le carezze che ha potuto solo sognare. 

André sorride: capisce che l’ha davvero perdonato. E ora può perdonare se stesso.  

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Capitolo 3
*** Parte III ***


E così ci è andata da sola al ballo: una comparsata che sarebbe arduo definire di cortesia. Si è mostrata per quello che è: una donna in divisa finalmente padrona del proprio destino.
Non ha voluto che André la accompagnasse perché fosse chiaro che quel gesto apparteneva solo a lei e a nessun altro: la marionetta ora cammina senza guida, ha strappato i fili che la tenevano avvinta al suo burattinaio.

Lo ha intuito pure Victor, che non ha resistito a prendere parte a quell’inutile farsa unicamente per vederla splendere di luce propria.
E si è sentito stranamente deluso, quando volgendo lo sguardo attraverso l’enorme vetrata del salone di Palazzo Bouillé, non ha scorto quell’altro in beffarda attesa, briglie in mano e ghigno compiaciuto.
Allora ha cercato conferma dall’uomo che avrebbe desiderato per suocero ma ha trovato solo laconica rassegnazione.

 

Li ha visti tornare insieme nella promettente mattina di un tiepido inizio di maggio, mentre stava per smontare dal turno di guardia notturno.
I raggi del sole erano ancora morbidi della sfumatura rosata dell’alba, così ha pensato di stare sognando, perché non esiste motivo al mondo per avere tanta fretta di rientrare in quel mondezzaio che è la caserma della Guardia Metropolitana.
Hanno cavalcato affiancati fino quasi all’ingresso, poi il cavallo nero della recluta Grandier ha rallentato per ristabilire l’ordine naturale delle cose.
Alain è sceso di corsa per andare incontro almeno all’amico, poiché l’altra aveva già riparato nel suo ufficio. E s’è fatto bastare quell’aria beata di chi non ha più nulla da chiedere alla vita dipinta sfacciatamente sul volto di André, perché ci vuole cautela con le persone felici.  

Resta che, pur conservando intatto il suo contegno freddo e distaccato, il colonnello ora si porta Grandier ovunque e, ironia della sorte, a lui tocca fare da reggimoccolo.
Ma nemmeno da questa posizione grottescamente privilegiata la sua frustrata curiosità trova soddisfazione.  Poi succede di andare in missione per scortare dei nobili spagnoli e allora, finalmente, li vede. comprende

È tutto lì, in quegli attimi sospesi nel boato di un’esplosione che li scaraventa in tre sugli argini di un fiume: la fredda determinazione con cui André attira Oscar a sé per farle da scudo con il proprio corpo e la docilità fidente con cui lei si abbandona all’abbraccio parlano di una fisiologica consuetudine.

Si dà del cretino per non esserci arrivato prima: non è testarda illusione quella di André, bensì piena cognizione di sé e dell’altra. Il cuore burbero di Alain esulta di cameratesca soddisfazione vedendo la mano del compagno stringere saldamente il polso del comandante nell’oblio dell’incoscienza.

Poi il mondo prende a vorticare e gli amici diventano nemici, ogni certezza appena acquisita vacilla: si sospetta che il comandante abbia denunciato quel tordo di Lassalle per essersi venduto il fucile e a de Soissons non resta che difendere l’onore suo e del resto della Compagnia B. Mentre Grandier torna a essere  lo stolto senza speranza ammaliato da una virago.

Dura poco, fortunatamente, anzi è la suddetta virago a smuovere montagne per salvare la recluta sprovveduta, così gli stanzoni ammuffiti della caserma risplendono del nitore inedito della fiducia.

Mancherebbe solo un bel matrimonio a completare il grazioso quadretto, si sorprende a pensare Alain in un momento di ozio in branda, ma bisogna osservare prudenza con i desideri.  Perciò gli manca poco a schiattare nel momento in cui la sua dolce sorellina gli annuncia di essere in procinto di maritarsi.

Un sentore di cattivo presagio lo prende quando gli dicono che quei due sono andati a Parigi, di sera, per rendere grazie al tal generale che ha interceduto per Lassalle. Ovviamente il comandante ha scelto André quale rappresentante della brigata, ché loro altri non si sanno comportare in società ed è meglio evitare ulteriori figuracce. Ma non sono né la gelosia né l’invidia a pungere il cuore di Alain bensì una schietta inquietudine: l’assalto ai cocchi aristocratici sta diventando un passatempo popolare, in tutte le accezioni possibili dell’aggettivo e del termine, e qualcosa gli dice che finirà male. 

 

La carrozza di casa de Jarjayes ha appena imboccato l’ingresso del faubourg Saint-Antoine quando l’aria si fa pesante. 
Non è per quella cappa di umidità che precede i temporali estivi, né una questione di odori, comunque non particolarmente sgradevoli in questo angolo di città votato all’ebanisteria, quanto di vibrazioni, percepite dai cavalli prima che dagli uomini.
Nel vano tentativo di scongiurare il pericolo gli animali rallentano il passo fino ad arrestarsi, scuotono le teste e nitriscono nervosi, sferzati inutilmente dal vetturino Pierre che, distratto dall´anomalo comportamento, non fa caso all’attimo in cui il buio, malamente rischiarato dai pochi lampioni ad olio, si accende del fuoco delle fiaccole di decine di convenuti.

È l’ora dello sfogo serale, di quel rito che richiama, senza bisogno di annunci, chi è avido di giustizia brutale. Accecato dalle fiamme e dal terrore, Pierre non ha modo di distinguere volti e corpi, confusi e amalgamati dalla fame e dalla rabbia.
Ma può sentire l’ansito opprimente dei petti, i passi inesorabili, i latrati furiosi, lo stridore degli attrezzi impugnati goffamente come armi. E, infine, lo schianto del proprio corpo sbalzato dalla pedana un secondo prima di perdere i sensi. 

Ai passeggeri non va molto meglio: André è il primo a essere trascinato fuori dal finestrino, agguantato per il bavero della giacca, i  piedi non toccano nemmeno terra mentre viene sballottato dalla marea umana che lo trascina nella direzione opposta a quella in cui vede sparire Oscar, inghiottita da flutti di carne e di rancore.

Si chiamano, implorano pietà non per sé ma per l’altro, ciascuno prega di essere la sola vittima del massacro, perché sopravvivere altrimenti non sarebbe fortuna ma punizione. 

Ma i minuti scorrono lenti, inesorabili e André non riesce a intravedere spiragli di fuga, men che meno quando si ritrova schiacciato in un cantone sotto una gragnola di colpi. Sta per aggrapparsi all’esangue consolazione di non dover assistere alla morte dell’amata, quando nei suoi orecchi esplode un grido che ferma il tempo e attutisce il dolore. La voce di una madre del popolo, la voce di Thérèse Lassalle. È grigia e macilenta, ma nei suoi occhi si scorge fiera indignazione.

L’angolo in cui hanno intrappolato il soldato è attiguo all’ingresso di quel tugurio che lei e i suoi figli chiamano casa e Thérèse non ha potuto restare indifferente riconoscendo nella vittima designata un commilitone del suo primogenito. Ci si è buttata addosso come se si fosse trattato del suo Gérard, senza esitazione alcuna, malgrado non ne conosca nemmeno il nome.

Così quelle belve si sono fermate e lei adesso glielo può dire cosa pensa delle loro iniziative, che un conto comunque è prendersela con i nobili, un altro con quei poveri giovani che si arruolano per un tozzo di pane. E che magari quel tozzo neanche lo tengono per sé ma devono lasciarlo ai genitori, ai fratelli e alle sorelle. Grida che la fame è fame e c’è mica da far tanto gli schizzinosi, o gli idealisti, quando si deve sopravvivere.

Non che il discorso suoni particolarmente convincente, ma l’inopportuna interruzione ha guastato la gioiosa atmosfera di rappresaglia e la sete di sangue andrà placata altrove.

Come un solo uomo gli aguzzini della recluta Grandier si voltano per riunirsi all’altra metà della spedizione punitiva. Il sollievo di André viene spazzato via dalla forza della disperazione che lo rimette in piedi per cercare una scorciatoia che gli permetta di raggiungere Oscar prima di loro. Li ha sentiti inneggiare all’impiccagione e c’è un solo posto, nelle vicinanze, dove certe aspirazioni possano essere realizzate in maniera plateale.
Thérèse Lassalle gli indica la direzione, il resto lo fanno le sue gambe galvanizzate dall’adrenalina e i ricordi dei loro sopralluoghi, delle loro serate balorde nel ventre della città.

Sbuca arrancando di fronte al sagrato dell’abbazia di Saint-Antoine-des-Champs proprio mentre il drappello dei Dragoni di Svezia irrompe per disperdere i riottosi. Lo sguardo si perde nel bailamme dei corpi, allora grida il nome di lei nella vana speranza di ottenere un’eco in mezzo al fragore degli spari. Appoggia le spalle al muro e si risolve ad attendere, sopraffatto dalla propria impotenza. 

Quando gli ultimi rivoli di violenza defluiscono dalla piazza, finalmente, li vede.

 

Ogni fibra del suo corpo è impastata di dolore, ma la bocca di Oscar riesce ancora ad articolare un’unica frase di senso compiuto, la denuncia dell’assurdo scambio di identità che condanna André. Queste le sue ultime parole mentre sente dita robuste ghermire la gola per ficcarle la testa dentro il cappio lasso.

Se bastasse questo a salvarlo morirebbe volentieri, ma sa bene che non è così. Allora si dimena in un ultimo guizzo d’orgoglio e di vita, cogliendo di sorpresa i suoi carnefici che mollano la presa, ma scivola all’indietro. 

Rinviene per terra, con le spalle mollemente appoggiate a un cassone di legno che avrebbe dovuto fungere da patibolo improvvisato. La sua coscienza si lascia guidare dalla calda voce baritonale che scandisce le sillabe del suo nome con sconcertante apprensione.

Lo sguardo nebuloso trova le iridi grigie del conte di Fersen: il compimento di un sogno che appartiene ormai a un’altra vita, a una donna che  lei non è più. O che forse non è mai stata davvero. Allora delusione e sgomento rimescolano il sangue, i muscoli sfranti si tendono per mettersi alla ricerca di colui che le appartiene. Ed è colui a cui sente di appartenere.
Lo realizza nel momento esatto in cui sancisce tale proprietà con la banalità di un aggettivo possessivo accostato al nome di André, invocato con forza.

“Va bene, Oscar, non preoccupatevi: penserò io a salvare il vostro amico”, la rassicura Fersen, un poco sorpreso, forse, ma non così stupito. 

“OSCAR!”, richiamo insperato che rende il tempo della ricerca breve: André compare alle spalle del conte, piegato ma non spezzato dalle busse. Una sola immagine riflessa nella luce smeraldina dell’occhio scoperto. Si accovaccia cauto sulle gambe stremate e tende una mano per stringere quella di lei, che lo fissa incredula e stravolta. 

“Il mio André, devo trovarlo…”, balbetta l’altra un’ultima volta.

“Sono qui. È tutto finito, Oscar. Sono qui. Torno sempre da te, lo sai”, sussurra lui attirandola piano a sé. Lei si accoccola contro la sua spalla, rinfrancata dal profumo della pelle salva e abbassa le palpebre, mentre il comandante dei Dragoni manda a chiamare una vettura senza stemmi per ricondurli a casa. 

C’è qualcosa di solenne  nel corteo militare che scorta l’umile carrozza fuori dalle porte della città.  Giunti all’altezza di quella radura dove, tanti anni prima, si è congedato sperando di riuscire finalmente a proteggere la donna amata,  il conte di Fersen fa arrestare la marcia e si avvicina all’abitacolo per un ultimo saluto:

“André, non ho motivo di raccomandarvi di prendervi cura della nostra Oscar: l’avete sempre fatto e nessuno saprebbe farlo meglio di voi. Ma c’è una cosa che tengo a dirvi, per quel che può valere di questi tempi: non esiste al mondo un uomo più degno di lei”. Pronuncia queste parole con ansiosa convinzione, quasi temendo che l’altro possa non credergli.

“Vi ringrazio, conte di Fersen, grazie di tutto”, risponde André, orgoglioso ma anche un po’ commosso: avrebbe potuto odiare l’uomo che ha tenuto il cuore della sua Oscar lontano per tanto tempo, ma sarebbe stato un errore.  Ora, più che mai, ne ha la conferma. Del resto, è facile essere magnanimi quando stringi tra le braccia l’amore della tua vita nella fulgida aurora di un futuro che non è più solo da immaginare.

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Capitolo 4
*** Parte IV ***


Giungono a Palazzo Jarjayes sotto la pioggia battente. Marie è ancora sveglia, intenta a passare meticolosamente in rassegna i piani del lussuoso edificio per assicurarsi che ogni finestra sia ben chiusa. Avrebbe potuto delegare il noioso compito a qualcuna delle servette più giovani, come Julie o Armandine, ma non ha ancora perso la vecchia abitudine di attendere, senza farsi notare, il ritorno dei “suoi bambini” e vagare tra un’ala e l’altra è una buona scusa per dissimulare un’inquietudine che sente più opprimente del solito.

Il fulmine che squarcia il buio fradicio svelando l’anonima carrozza dà, infine, ragione dell’acidità che le impasta la bocca. Non ha bisogno di aprire lo sportello per indovinare l’identità dei passeggeri, così lascia che sia Jacques, il giardiniere, a farlo per lei. Lo sa Dio dove l’anziana governante trovi la forza di non svenire di fronte al tremendo spettacolo di quei tre corpi in vita malgrado i segni inequivocabili del massacro. Chiama in aiuto Robert e Marc per aiutare Jacques a scaricarli quando André si ridesta regalandole un sorriso sghembo: “Siamo vivi, nonna, siamo vivi”, mormora mentre cerca di raddrizzarsi, attento a non lasciar scivolare Oscar, abbandonata contro la sua spalla sinistra.

“Lo vedo, André”, risponde Marie con un filo di voce.

 

“Nonna, devo restare con Oscar”, puntualizza il nipote quando si accorge che Robert lo sta accompagnando nella sua stanza.

“Sì, ma prima dovete essere visitati”, concede Marie severa.

L’altro capisce di doversi far bastare quella secca rassicurazione e si arrende. Ma gli pare infinita l’attesa del dottor Lassonne da cui spera di ottenere notizie positive, non tanto riguardo alle  proprie condizioni quanto a quelle di lei, che deve aver battuto la testa piuttosto violentemente a giudicare dal gonfiore all'altezza della nuca che ha sentito stringendola a sé.    

Risponde distratto alle domande dell’assistente del medico, mentre l'eccitazione del pericolo ha ormai lasciato il posto a un dolore sordo che morde tendini e muscoli con la tenacia ossessiva di un cane rabbioso. Tuttavia, si bagna appena le labbra con il laudano offertogli dal giovane dottor Perrin temendo di addormentarsi prima che Lassonne passi di lì.

Le membra cominciano a cedere al languido abbraccio degli oppiacei, quando  sente bussare discretamente e sulla porta della camera appare il volto tanto atteso.   Dopo un puntuale resoconto, Perrin si congeda lasciando André nelle mani  del superiore.

“Ultimamente ci si vede troppo spesso per i miei gusti”, scherza il dottor Lassonne cercando di stemperare la tensione.

“Non vi do torto, dottore”, conviene André fiacco e porge l’unica domanda che davvero gli preme “come sta Oscar?”

“La spalla sinistra era lussata ma ho già provveduto a sistemarla. Certo, avrà bisogno di qualche settimana per riacquistare piena mobilità, prima di riprendere le normali attività lavorative”, risponde l’altro sfregandosi il collo, incerto su come proseguire. L’esitazione non passa inosservata.

“Sì, ma la testa?” 

Sospira Lassonne cercando di prendere tempo. 

“Dottore?”, insiste André, i cui sensi sono acuiti dall’apprensione. 

Inutile fingere…

“Non ti nascondo, figliolo, che la botta sembra essere stata forte: per saperne di più devo tenerla in osservazione ancora per qualche ora. Comunque è già buono che si sia svegliata dopo la caduta. E prima che tu me lo chieda: non è il caso che tu vada a trovarla subito. In situazioni simili ho osservato spesso forme di amnesia temporanea: potrebbe non ricordare quanto è avvenuto nelle ultime ore e vederti in queste condizioni la agiterebbe inutilmente. Ma, quando sarà possibile, farò in modo di avvertirti. Intanto pensa a riposare: non ne hai meno bisogno di lei”.

“Vi ringrazio, dottore”, risponde André, deluso e sollevato allo stesso tempo. 

“Prima di andarmene… Come va l’occhio destro? Immagino sia inutile ribadire che la vita militare non sia certo l’ideale per un uomo nelle tue condizioni…”

“Vi sono riconoscente, dottor Lassonne, ma sapete già come la penso su questo punto: qualunque cosa succeda, ho un impegno che devo onorare. Ad ogni modo, negli ultimi tempi sono stabile”, mente risoluto il giovane, “piuttosto, avete avuto notizie da quel vostro collega di Lione? Come si spiega il mio caso, con tanti uomini che vivono tranquillamente con un occhio solo?”

“Francamente, André, neanche il mio esimio collega, che pure è un luminare, ne è ancora venuto a capo. Però dovrebbe passare da Parigi il mese prossimo e sarà ben lieto di visitarti, se lo vorrai”.  

“Grazie infinite, dottor Lassonne, non mancherò”.

“Purtroppo non posso fare di più, André. Ora riposa”, si congeda il medico porgendo al paziente il bicchiere col laudano. Il giovane beve un lungo sorso e si abbandona, finalmente, al sonno. 

 

Sono invece imperiosi i colpi che trascinano la coscienza di André fuori da un torpore vischioso e senza sogni. Le palpebre svogliate si ritirano lasciando la pupilla superstite inerme di fronte al chiarore sorprendentemente fastidioso di un’alba senza nuvole. 

Gli ci vuole un attimo a realizzare l’identità dell’inopportuno, quanto solerte, visitatore. Quando ci riesce, la stanchezza è più forte di ogni obbligo di rango e così gli è impossibile assumere una posizione consona a salutare dignitosamente il Generale Jarjayes, che lo sta fissando rigido ai piedi del letto. Si sorprende di notare che saranno passati ormai vent’anni dall’ultima volta che quell'uomo da lui temuto, amato e, talvolta, anche odiato, ha bussato alla sua porta. Allora gli aveva ordinato di influire sulle scelte di Oscar: intuisce che stavolta non sarà diverso. 

“André, dobbiamo parlare”, esordisce il padrone, il tono della voce indecifrabile. Con un enorme sforzo di volontà il servo solleva il busto per mettersi almeno seduto, mentre l’altro prende a passeggiare nervosamente per la stanza. Il comportamento anomalo allarma André, ormai del tutto sveglio, nonostante l’ebbrezza indotta dal farmaco. 

“Pensavo fosse finita, André, pensavo che voi…”,  riprende il Generale senza guardarlo, come parlando a se stesso. 

Illudendosi di aver compreso il giovane s’inserisce nel flusso di parole con pacata risolutezza: “Generale, sono mortificato per quanto avvenuto  ieri sera: comprendo di aver mancato al mio dovere di difendere Oscar. Vi chiedo perdono, non sono stato all’altezza del compito, malgrado l’inferiorità numerica possa, in qualche modo, giustificare il mio fallimento. Ma forse avrei comunque potuto fare di più: credetemi, non mi darò mai pace per questo. Sono pronto ad accettare qualsiasi castigo riterrete opportuno”.

Alla parola “castigo” il Generale si ferma e si volta lanciando ad André uno sguardo allucinato. “Che hai capito, sciocco!”, latra avvicinandosi alla pediera e aggrappandosi come per evitare di sprofondare, “Credi forse che pretenda l’impossibile da te?! Non è questo che intendevo! Piuttosto dimmi che state combinando! Pensavo che fosse finita tra voi, mi aveva detto che era FINITA!”

L’altro trasalisce dallo stupore. Ma de Jarjayes incalza: “Mia figlia ha rifiutato fior di pretendenti. Si è giustificata dicendo che, nonostante l’abbia cresciuta come un uomo, si è innamorata come qualsiasi altra donna. Anzi, mi ha ringraziato dicendo che proprio l’addestramento a cui è stata sottoposta, fin da bambina, le ha permesso di superare la delusione di un amore senza futuro”.

Non è di me che stava parlando, Generale, verrebbe da ribattere ad André, inaspettatamente colto dall’effimero pizzicore di una gelosia antica. Nondimeno tace, consapevole della vacuità di un tale puntiglio.

“Confesso che non ho osato chiedere di più perché temevo la risposta”, prosegue il Generale, la voce rabbonita dall’imbarazzo, “e poi Oscar mi aveva fatto capire che, di chiunque si trattasse, era acqua passata”. 

Acqua passata… Il cuore di André esulta malgrado la paradossalità del momento. 

“Quindi ho cercato di essere comprensivo quando si è presentata al ballo organizzato da Bouillé in uniforme e tu non hai fatto nulla per farle cambiare idea”, prosegue torvo de Jarjayes avvicinandosi al capezzale.

“Ti ho perdonato, André. Ma non illuderti di poter pretendere di più: NON È COSÌ CHE ANDRÀ”, tuona sovrastando il disorientato ex attendente.

“Generale, io…”, cerca inutilmente di schermirsi il giovane: l’altro ha già ripreso la sua filippica, abbrancando  le spalle tumefatte del ferito.

“Bada, André, sto facendo uno sforzo immane per non  pensare a quello che potrebbe essere già successo tra voi: se cedessi ti ammazzerei immantinente.  Ma per rispetto a quella povera donna di tua nonna, che mi serve fedelmente da tanto tempo, e la devozione che tu stesso hai dimostrato nei confronti della nostra famiglia, mi accontenterò del fatto che non ci siano state conseguenze irreparabili. Tuttavia, non posso ignorare che mia figlia, ferita e stordita dal laudano, abbia passato la notte a invocare il tuo nome con lo struggimento di un’amante. Non te la posso lasciare, André, non posso lasciartela. Sarebbe PERDUTA per sempre!”, chiosa paonazzo, l’ultimo grido si strozza in gola. 

Di colpo molla la presa e si volta come a prendere le distanze dal momento troppo concitato. Il tempo di riprendere fiato prima di pronunciare l’imposizione definitiva con ritrovato cipiglio e lo sguardo implacabilmente puntato sull’insospettato nemico: “Ti ordino di andartene, André: appena sarai in forze lascerai questa casa e, soprattutto, la Guardia Metropolitana. Potrai tornare a trovare tua nonna quando vorrai, ma solo in assenza di Oscar. Non c’è altra soluzione, mi dispiace”.

È tutto?, si chiede poi con amarezza. No, c’è ancora qualcosa da aggiungere: “André, sappi che non ho preso questa decisione a cuor leggero. Anzi, sono consapevole di causare profonda sofferenza a tutti, me compreso.  Se tu fossi stato un nobile, avrei caldeggiato la vostra unione perché so che l’avresti fatta felice, ma il destino ha deciso diversamente. Sei un uomo intelligente, lo sei sempre stato, quindi sono certo che capirai”. Potrebbe congedarsi ma resta in silenzio, in attesa di una risposta che avverte non così scontata. 

Sulle prime, il volto adulto di quel ragazzetto bretone, mite ma caparbio, che ha accolto sotto il proprio tetto al solo scopo di intrecciarne il destino con quello della figlia, non restituisce alcuna emozione. Poi le labbra si muovono articolando una sola sillaba, tra tutte, la più inopportuna, per un servo e per un soldato: “No”.

De Jarjayes trasecola, mentre l’altro prosegue senza dargli tempo di ribattere:  “No, Generale, mi spiace, ma non posso farlo. Non posso fare quello che mi chiedete”.  E con tono assurdamente gentile, quasi dispiaciuto, ma fermo, dichiara: “ho preso un impegno con voi e non verrò meno alla promessa fatta. Ho giurato di proteggere Oscar da qualsiasi cosa, o persona, possa minacciare la sua incolumità, compresa lei stessa, e non posso infrangere questo giuramento. Nemmeno se è lei o se siete voi a chiedermelo. Lascerò questa casa, se ritenete la mia presenza inopportuna, ma non lascerò la Guardia Metropolitana finché Oscar ne sarà il comandante. Non abbandonerò  vostra figlia finché avrò vita”.

“Idiota! Ti rendi conto della conseguenza delle tue azioni? Non si tratta di te, si tratta di…”, cerca di ribattere il Generale con incerta protervia.

“Si tratta di Oscar, certamente. E non farei mai nulla che possa danneggiarla. Sarebbe inutile, ormai, negare i sentimenti che nutro per vostra figlia. D’altra parte, non c’è ordine al mondo che possa cancellarli. L’unico limite ad essi è la volontà di Oscar”.

    “Attento a come parli, André: non abusare della mia pazienza! Per sposarsi un nobile ha bisogno del permesso del re!”, ruggisce il Generale. 

    “I sentimenti di un re sono uguali a quelli di qualsiasi altro uomo: non servono permessi per innamorarsi. Del resto, non ho pretesa alcuna, nemmeno che vostra figlia mi corrisponda”, replica André con composta ostinazione. L’orgoglio del cuore innamorato  è più efficace  del laudano sui dolori della nottata appena trascorsa: “Tornerò in caserma oggi stesso”, annuncia ebbro di sincerità. Ma la spavalderia ha ormai rotto pericolosamente gli argini:

“Permettetemi di farvi una domanda, Generale: perché avevate deciso di concedere la mano di Oscar?”, affonda insinuante, “Non credo che fosse perché non la ritenete all’altezza  del compito affidatole: avreste fatto un torto alle capacità di vostra figlia e a voi stesso. E i fatti lo hanno dimostrato. Credo piuttosto che vi siate reso conto di cosa sta diventando la Francia e che voleste ingenuamente sottrarla al pericolo incombente: allora sappiate che essere sposata a un nobile non le avrebbe risparmiato un fato diverso da quello che ci ha sfiorati stasera, se non addirittura peggiore”. 

Il manrovescio stizzoso che infierisce sulla guancia enfiata di André ha il sapore amaro del déjà-vu, ma l’effetto è alquanto diverso, com’è diversa la mano che si è abbattuta. 

“Generale, vi chiedo perdono: mi sono spinto troppo oltre con le mie parole”, si ammansisce, mentre nello sguardo dolente dell’altro legge la fine del loro rapporto, di qualunque natura esso sia stato.

“Niente scuse, André. In fondo, c’è del vero in quello che hai detto. Questo però non cambia la realtà delle cose, purtroppo”, ammette il Generale, “Come padre ho il dovere di vegliare su mia figlia, fare tutto ciò che è in mio potere per evitare che si rovini l’esistenza. Non posso agire diversamente, per quanto doloroso sia. Ti ho trattato come un figlio, nei limiti delle insopprimibili differenze di classe che ci dividono.”

 Insopprimibili per questa società, forse…

I due uomini si fissano in silenzio per un istante che pare infinito. È  André a infrangere la ritrovata calma apparente: “Generale, vi sarò eternamente riconoscente per tutto ciò che mi avete dato, ma non posso venir meno alle mie priorità nemmeno per la gratitudine che provo nei vostri confronti. Mi dispiace”.

“Anche a me. Sappi che non serbo rancore nei tuoi confronti ma non si può fare altrimenti. Che Dio ti protegga, André. Addio”, si congeda in fretta de Jarjayes per non tradire oltre la sua commozione.

Rimasto solo il giovane si siede, con qualche incertezza, alla scrivania per vergare poche frasi dalle linee traballanti quanto netto è il pensiero che le guida. Infila il foglio asciugato in una busta bianca, raccoglie poche cose utili in una sacca, indossa un’uniforme pulita e scende nelle cucine dove  trova Marie già indaffarata ad avviare complessi ingranaggi che mandano avanti Palazzo Jarjayes.

“André, che ci fai in piedi?!”, esclama con voce chioccia l’anziana governante, desolata alla vista del nipote in divisa. 

“Te ne vai già?”, chiede con un filo di voce.

“Tornerò presto, nonna”, promette lui attirandola a sé e depositando un bacio lieve sulla cuffietta inamidata.

“Ma perché?”, domanda inutilmente Marie, che conosce già la risposta. Non può guardarlo in faccia mentre lo chiede perché lui la sta stringendo forte.

“Hai passato con lei gran parte della notte, quindi l’hai sentita. Lo sai perché”, risponde il giovane intenerito. Poi tira fuori di tasca la busta bianca: “Questa è per Oscar. Dagliela solo quando sarà bene sveglia e in forze, per cortesia. E se, nel frattempo, ti chiede di me, dille di non preoccuparsi, che sarò in caserma ad aspettarla. Ti voglio bene, nonna. Grazie di tutto”.

“Ti voglio bene anch’io, figliolo”, risponde Marie in un singhiozzo mentre si riempie gli occhi della figura del nipote che si allontana verso una nuova vita.

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