ӀƖ ẟangue di ⱴe’ Ʀah

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PƦOLOGO + CAPITOLO PƦIMO ***
Capitolo 2: *** Ϯ CAPITOLO ẟECONDO Ϯ ***
Capitolo 3: *** Ϯ CAPITOLO TEƦZO Ϯ ***
Capitolo 4: *** Ϯ CAPITOLO QUAƦTO Ϯ ***
Capitolo 5: *** Ϯ CAPITOLO QUINTO Ϯ ***
Capitolo 6: *** ​Ϯ CAPITOLO ẟESTO Ϯ ***
Capitolo 7: *** Ϯ CAPITOLO ẟETTIMO Ϯ ***
Capitolo 8: *** Ϯ CAPITOLO OTTAⱴO + EPILOGO Ϯ ***



Capitolo 1
*** PƦOLOGO + CAPITOLO PƦIMO ***



Ciao a tutt*
Questa storia è diversa dalle altre, poiché l’impostazione richiama – in maniera più semplice – l’idea base del gioco Dungeons&Drangons. Il giudice ha chiesto a ciascun partecipante di creare un personaggio – con caratteristiche fisiche, psicologiche, equipaggiamento, lore –. Il mondo, in cui si sarebbero mossi, è stato invece tratteggiato da lui.
Il nostro compito, poi, sarebbe stato quello di inserirli tutti all’interno del racconto. Una specie di esperimento sociale, insomma :)
Per onor di cronaca, riporto di seguito i personaggi di ciascun partecipante:
  • Dark Sider: Kevset/Kewst Lamarcana
  • Nina Ninetta: Gar di Niihel/Garni
  • Swan: Damien di Grimson
  • Thors: Emeryl Astoria Ver Haret
  • Vodia: Stella O’Fleed
Non mi rimane che augurarvi buona lettura. Spero vi divertirete, perché io mi sono divertita a scriverla,
Nina^^

P. S. Questo primo capitolo potrebbe sembrarvi un pochino lungo perchè ho inserito anche il prologo, gli altri saranno meno "pesanti" ;)

 



 
Ϯ ӀƖ angue di e’ Ʀah Ϯ


 
PƦOLOGO

 
 
Il Gran Concilio della IV Era Glaciale si aprì durante l’ora dell’Alba Inoltrata, nella Sala dell’Arcaneum della prestigiosa Accademia dei Maghi di Valldysi, a ovest del Continente Verde di Magena.
Era stato l’Arcimago Tullius a richiedere la presenza dei più importanti signori del tempo, dopo aver ascoltato i timori del Sommo Sacerdote di Ve’Rah, la dea del Fuoco Sacro, e aver appreso che il Gelo imperversava oramai privo di controllo. Neanche le loro preghiere, le suppliche delle Vestali o i sacrifici animali bastavano più ad animare la Fiamma Sacra, che anzi si stava spegnendo senza precedenti. Di questo passo, i ghiacci avrebbero ricoperto ogni luogo, ogni terra, persino il Continente Desertico si sarebbe trasformato in un’immensa landa di ghiaccio e, a quel punto, il Fuoco Sacro sarebbe stato spento da un’ultima gelida folata.
Tullius lo aveva guardato dritto negli occhi, affermando che se fosse lì, a supplicarlo di intervenire, era evidente che esistesse ancora una speranza. Il Sommo Sacerdote di Ve’Rah aveva annuito piano: c’era, ma sarebbe servito l’intervento e la buona volontà di tutti.
Tullius aveva inviato emissari in ogni dove, giovani maghi il cui compito era stato quello di consegnare un invito a presenziare al Gran Concilio e non sarebbero stati accettati rifiuti: la nuova Era Glaciale era un problema che riguardava chiunque, nessuno escluso.
Quando l’Arcimago entrò nella grande Sala dell’Arcaneum e vide i grandi del Pianeta accomodati intorno all’imponente tavolo rotondo, di pietra spessa e grigia, avvertì un’estranea stretta alla bocca dello stomaco: paura, perché era chiaro avessero recepito la gravità della situazione in cui versavano. Mostrò i palmi in segno di saluto e si accomodò al suo posto, fra il Sommo Sacerdote e la Màthayr delle Din Nadair, entrambi con le mani posate in grembo e il capo basso, avvolti nei pesanti mantelli – verde la prima, porpora il secondo – che dimostravano l’appartenenza alle rispettive sette.
«Ringrazio ciascuno di voi per aver accettato l’invito a presenziare a questo Concilio che, come saprete, non ha precedenti nella storia del nostro Mondo» la voce calma e pacata dell’Arcimago risuonò nella stanza, sembrò rimbalzare contro le pareti di pietra e tornare indietro. Era una stanza spoglia, fredda e austera, fatta eccezione per i paramenti di velluto blu che pendevano lungo i muri, al cui centro svettava il simbolo dell’Accademia di Valldysi. Ai quattro angoli fiamme chiare ardevano in grosse anfore, illuminando e riscaldando l’ambiente.
«Ehi, vecchio! Ti sei fatto attendere parecchio!» Kobin Lamarcana alzò un boccale di legno grezzo facendo cadere del liquido scuro sui suoi pantaloni e sulla superficie ruvida del tavolo, poi ne bevve un lungo sorso e si pulì le labbra con il dorso della mano. «Avete proprio dell’ottimo vino in Accademia!» Rise sguaiato, ma nessuno dei presenti lo imitò.
«Kobin, non mi aspettavo di vederti qui…» Era stato l’autorevole re Vermyl a parlare. Un uomo avanti con l’età, ma alla sua sola presenza ancora tremavano le mura di tutto il palazzo. La sua era una storia triste, di mogli morte ed eredi che le avevano seguite, fino a quando non aveva sposato la bella e seducente Sheeira di Agran, la cui fama la precedeva. Ma anche con lei non era stato del tutto fortunato…
«Re Vermyl!» Lo salutò Kobin, brindando alla sua salute. «Io e il mio compare Dun’Gar, qui, siamo stati invitati in rappresentanza del Continente del Deserto e del giovane Regno di Niihel» Così dicendo, Kobin batté un paio di volte la mano libera sulla spalla dell’uomo che gli sedeva accanto. Quest’ultimo lo guardò di traverso, senza rispondere.
«Per rappresentare il mio continente sarei bastato io! Cane!» Digrignò tra i denti il Sultano di Agran, colpendo il tavolo con un pugno e scattando sull’attenti. A dividere lui e Kobin c’era solo Dun’gar, che infastidito si alzò e invitò entrambi a sedersi. I due non replicarono: in fondo era il doppio di loro per stazza e prestanza, quindi preferirono dargli ascolto.
«Signori, signori! Per piacere! Non vi ho convocati per litigare, oggi vi chiedo di mettere da parte i vostri disguidi e le vicende personali.» La voce pacata di Tullius tornò a espandersi nella sala. «Siamo qui per salvare il Mondo dalla glaciazione che da tempo ci affligge e non accenna a diminuire», l’Arcimago si prese una pausa, soppesando con cura le parole. «Il mio amico e Sommo Sacerdote di Ve’Rah mi ha aperto il suo cuore e allertato su quello che sta accadendo: la Fiamma Sacra si sta spegnendo e con lei ogni nostra speranza.»
«Quale pensi sia il motivo, Sommo di Ve’Rha?» Chiese re Vermyl, realmente preoccupato per l’attuale situazione del suo regno. Ogni giorno, infatti, contadini affamati e mercanti stanchi si recavano al suo cospetto per chiedere aiuti concreti: le terre gelavano e il cibo scarseggiava.
Il Sommo Sacerdote sollevò lo sguardo, tirando indietro il cappuccio del mantello. Il suo volto era ricoperto da una folta barba bianca, il capo glabro e due occhietti neri infossati e penetranti parevano provenire da un altro pianeta.
«L’Era Glaciale che imperversa sulle nostre città, sui nostri villaggi, sui cittadini e sulle nostre famiglie non è naturale.»
I presenti lo fissarono, metabolizzando le parole che quell’anziano sacerdote devoto alla dea della Fuoco Sacro aveva appena pronunciato.
«In che senso non è naturale?» Domandò il Sultano di Agran, un omino basso e tondo, con lunghi baffi grigi a tricheco.
«Nel senso che qualcuno ha risvegliato creature oscure dal profondo delle viscere!» Questa volta era stato Meldor a intervenire, Rettore dell’Accademia di Gamirhia, il quale aveva battuto i palmi sul tavolo e si era alzato in piedi, puntando il dito contro la donna che gli sedeva accanto: la Madre Superiora delle Din Nadair. «È colpa vostra, vero eretiche? Siete state voi a risvegliare chissà quale demone malvagio perché volete avere il controllo su tutto e tutti! Come vi fate chiamare? In-can-ta-tri-ci! Tzè! Streghe! Ecco cosa siete: delle streghe che andrebbero messe al rogo!»
«Meldor!» Tullius scattò in piedi, la sua voce non era più calma e pacata, ricordava invece quella di un padre che tuona contro lo sgarbo di un figlio ingrato. «Berenise è stata invitata da me personalmente. Tutti noi abbiamo bisogno del sapere delle Din Nadair, della loro conoscenza e delle loro arti arcane»
«Eretiche, vorrai dire!»
«Meldor! Se la sua presenza ti disturba tanto puoi abbandonare il Concilio, non ti tratterrò.»
L’Arcimago di Gamirhia lanciò un ultimo sguardo truce in direzione della donna, poi tornò ad accomodarsi e non aprì più bocca per tutta la durata dell’assemblea.
Kobin fischiò: «Certo che quando questi maghi si alterano è meglio restarne alla larga!» Rise, da solo. Di nuovo.
«Sommo Sacerdote, ti prego di riprendere il discorso di pocanzi» concluse Tullius.
«Grazie, mio caro amico.» Il Sacerdote di Ve’Rha ricominciò da dove si era interrotto. «Il Grande Gelo non è naturale, dicevo, ma abbiamo ragione di credere che sia stato richiamato da forze oscure, le stesse che stanno smorzando la nostra amata Fiamma Sacra. Se non interveniamo, questa si esaurirà del tutto e ogni forma di vita sul nostro pianeta morirà con lei.»
«C’è un modo per capire da dove nasca questa forza oscura? Potremmo annientarla e ripristinare la Fiamma» Re Vermyl si era sporto sul tavolo, le dita intrecciate e strette così forti da far sbiancare le nocche. Da tempo nel suo cuore albergava un presentimento che non era riuscito a mettere a tacere.
Il Sommo Sacerdote guardò l’Arcimago alla sua destra e quest’ultimo ricambiò lo sguardo, facendogli un cenno di assenso: poteva proseguire, aveva il suo consenso.
«Secondo le nostre ricerche, il Gelo è scaturito da Iberia…»
Tutti i presenti si voltarono in direzione dei due rappresentati del regno isolano: Globo, il reggente, e Shuva, Gran Sacerdote Leonid. Fu il primo dei due a parlare, scoppiando in una risata gutturale:
«Iberia? Davvero credete che il problema siamo noi? Noi, che siamo stati i primi a dover far fronte a questa catastrofe, adesso veniamo incolpati di aver causato la quarta e più tremenda Era Glaciale che il Pianeta abbia mai conosciuto? È semplicemente ridicolo!»
Per qualche secondo nessuno fiatò. Tutti conoscevano la storia di Globo, di come si fosse impossessato del ruolo che adesso ricopriva, del colpo di stato che aveva intessuto in gran segreto con l’ausilio dell’uomo che gli sedeva accanto e che lo accompagnava ovunque, simile a un cane fedele: Shuva, Gran Sacerdote dell’ordine dei Leonid, ossia gli uomini-leone fedeli alla dea O’Shu-Tal. Nel Regno di Iberia era stato instaurato un regime di terrore assoluto, senza i rimpianti genitori di Globo – reali buoni e giusti – e con la principessa erede al trono fuggita e probabilmente ammazzata per ordine del fratello stesso, il popolo era ormai in balia del caos.
«Forse delle ricerche sul territorio potrebbero aiutare a comprenderne meglio l’origine» Per la prima volta la Màthayr delle Din Nadair si era espressa, sollevando il suo sguardo fiero sugli uomini presenti. «Le mie discepole sono esperte ricercatrici e-»
«Nessuno metterà piede nel Regno di Iberia!» Il Gran Sacerdote Leonid la interruppe. «Non siamo noi il problema. Trovate un’altra soluzione.»
«Esattamente!» Gli fece eco Globo.
Di nuovo il silenzio cadde fra i presenti, ognuno chinò il capo, immerso nei propri pensieri, e di nuovo la voce antica del Sommo Sacerdote parlò.
«In verità, c’è un’altra strada da poter intraprendere. Più veloce, in un certo senso, e forse meno sanguinosa di una ricerca nel cuore delle tenebre.»
«Parla, dunque!» Lo incalzò il re di Magena.
«Nei nostri territori si aggira il figlio legittimo della dea del Fuoco Sacro.»
Dun’Gar ebbe un sussulto e si mosse nervosamente sulla sedia di pietra. Temeva che quel momento sarebbe arrivato, un giorno, si era illuso di essere pronto, ma adesso non ne era più tanto sicuro.
«Il suo sangue sarebbe una panacea per la Fiamma di Ve’Rha.»
«Perfetto! Qualcuno lo conosce? Sa chi è?» Il Sultano di Agran si rivolse ai presenti, con il suo modo frettoloso che lo contraddistingueva.
L’Arcimago Tullius e il Sommo Sacerdote fissarono entrambi lo sguardo sull’uomo che sedeva dall’altra parte del tavolo: Dun’Gar, capo della famosa gilda “I Lupi di Niihel”, nonché uno dei più potenti signori del neo Regno di Niihel, sorto da pochi decenni e che si reggeva su un gruppo di oligarchi, tra cui spiccava la famiglia di Kobin Lamarcana. Dun’Gar, però, innanzitutto, era stato capo delle guardie reali del Sultano di Agran – predecessore dell’attuale – e mandato in esilio dopo l’incidente del villaggio, 21 anni prima…
«No» disse solo Dun’Gar.
«Mio Signore, sapeva che questo momento sarebbe potuto arrivare» l’Arcimago cercò di parlargli con cautela.
«Non rivolgerti a me con epiteti che non mi appartengono, vecchio!» Dun’Gar batté un palmo sul tavolo e si alzò in piedi, era alto e dal fisico possente, nonostante sfiorasse orami le sessanta primavere. Inoltre, sebbene le temperature fossero ormai calate parecchio, lui si ostinava a portare gli abiti classici della sua gilda, comodi e freschi, dimostrando un’alta tolleranza al freddo e mettendo in risalto il tatuaggio sull’avambraccio destro: la testa stilizzata di un lupo, simbolo della sua corporazione. A entrambi i fianchi teneva due scimitarre, trattenute da una fascia rossa legata intorno alla vita. I capelli, lunghi alla nuca e quasi del tutto grigi, erano lisciati all’indietro, mentre sul viso grezzo e cotto dal sole non spuntavano peli.  
«Sappiamo tutti che il Gelo nasce da Iberia. Se il principino imberbe, lì, e la sua balia non vogliono collaborare aprendoci spontaneamente le porte del loro regno, allora sfondiamole e aiutiamo gli isolani a tornare al loro antico splendore!»
Globo scattò in piedi, la sua mano corse velocemente alla spada che teneva sulla schiena, ma Shuva lo fermò.
«Signore di Niihel, comprendiamo il suo disappunto: sacrificare un figlio non è mai cosa gradita. Eppure, se la memoria non inganna questo vecchio, il Sangue di Ve’Rha non è realmente figlio suo. Sbaglio forse?»
Dun’Gar sembrò rimpicciolirsi, strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nel palmo.
«L’Arcimago Tullius è stato così gentile da riunirci qui tutti per discutere della salvezza del Mondo e il Sommo Sacerdote ci ha espresso le sue preoccupazioni. Non solo si sono premurati di informaci, ma di darci anche una soluzione che – a detta del Gran Sacerdote – eviterebbe inutili spargimenti di sangue. Per questo motivo, inviterei tutti ad ascoltare cosa ha da dire e di trarre le nostre conclusioni alla fine. Non è d’accordo, mio Signore di Niihel?»
L’uomo del deserto fu costretto a calmarsi e si riaccomodò, senza alzare più lo sguardo. La sua mente e i suoi pensieri, inevitabilmente, corsero a quella notte di 21 anni prima, quando fu inviato dal Sultano al piccolo villaggio alle pendici di Vhulchanius, tempio della dea del Fuoco Sacro.
 
Le fiamme avevano divorato ogni cosa: case, orti, bestiame, donne, uomini, bambini. Poi, tra i crepitii del legno che ardeva e nel miasma generale che si era alzato da quel fumo scuro e acre, aveva udito i vagiti di un neonato. Non poteva crederci, era certo che fosse uno scherzo del suo inconscio, eppure l’istinto lo aveva portato a seguire quel pianto disperato e, contro ogni aspettativa, aveva trovato un pargoletto di pochi mesi completamente nudo che strillava con quanto fiato aveva in corpo, i pugni chiusi e le gambette all’aria, avvolto dalle fiamme, senza bruciare.
Subito gli aveva gettato addosso la sua divisa e, pur bruciacchiandosi le mani e le braccia, lo aveva cullato per rassicurarlo. Dopo pochi secondi, le fiamme che lo avviluppavano si erano spente. Non sapendo bene cosa fare, ma credendo che fosse un vero miracolo, aveva portato il piccolo al cospetto del Sultano, il quale ne era rimasto inorridito: quegli occhi da gatto erano uno scherzo della natura! Gli aveva ordinato di liberarsene.
«Mio Signore, in che senso liberarmene?» aveva chiesto.
«Uccidilo!»
Ma Dun’Gar, che con gli anni aveva scoperto di essere sterile, aveva accolto quel bambino come un dono divino e lo aveva cresciuto in gran segreto. Fino all’età di cinque anni, quando, durante la festa della stagione della Rinascita, il piccolo si era gettato nel falò propiziatorio che le Vestali di Ve’Rha avevano acceso, solamente per attirarne l’attenzione. La cosa aveva destato più di qualche sospetto e giunto all’orecchio del Sultano questo si era adirato fuori misura, bandendo Dun’Gar dal suo regno e mettendo a morte il piccolo trovatello. L’uomo, allora, si era rivolto al Sommo Sacerdote di Ve’Rha. Il primo discepolo della dea della Fiamma Sacra li aveva ospitati entrambi per qualche giorno e dopo ore di ricerche su vecchi tomi e qualche esperimento, aveva dedotto che il piccolo era davvero figlio di Ve’Rha. Spiegò che a volte capitava, che una delle Vestali – ancelle della dea – rimanesse incinta e desse alla luce un bambino con poteri divini, ma privi di magia. Il loro legame con la dea risiedeva esclusivamente nel Sangue, capace di rafforzare la Fiamma Sacra. Secondo alcune leggende, infatti, la I Era Glaciale era stata arginata proprio grazie al sacrificio del Sangue di Ve’Rha. Infine, l’anziano gli aveva detto che avrebbe potuto crescere il piccolo come figlio proprio, se lo avesse desiderato, a patto che un giorno – semmai fosse servito – sarebbe stato disposto a sacrificarlo per un bene più grande. Dun’Gar aveva accettato, ovviamente, seguendo inoltre il suo consiglio di portarlo all’Accademia di Valldysi, dove l’Arcimago avrebbe sicuramente saputo come fare per evitare che il bambino continuasse a giocherellare con il fuoco, richiamando su di sé attenzioni non gradite.
«I suoi occhi però non sono comuni, cosa mi inventerò?»
«Sono gli occhi della dea» aveva risposto il sacerdote, indicando la statua di Ve’Rha che troneggiava alle sue spalle. La dea, bellissima nelle sue nudità velate da alte fiamme, teneva le palpebre semichiuse, mascherando le pupille. «Solo ai più fortunati concede la visione dei suoi occhi di drago, il più antico dio del Fuoco Sacro.»
Dun’Gar aveva quindi accompagnato il bambino all’Accademia di Valldysi e qui l’Arcimago Tullius gli aveva donato delle rune incantate da mettere addosso al piccolo, in modo da neutralizzare il potere del suo Sangue.
«Bada, onorevole Dun’Gar, sono potenti rune della Luce, un utilizzo incauto potrebbe comportare lesioni profonde e imprevedibili.»
Dun’Gar disse di non preoccuparsi: suo figlio sarebbe stato un uomo avveduto e ponderato.
 
«Mio Signore Dun’Gar, mi ascolta?»
Dun’Gar sembrò risvegliarsi da un sogno a occhi aperti, Tullius se ne rese conto e perciò ripeté la domanda:
«Abbiamo bisogno di sapere dove si trova in questo momento il Sangue di Ve’Rha.»
«Non ne ho idea e anche se lo sapessi non ve lo direi. Cercatevelo da soli mio figlio!»
«Quindi qual è il piano? Troviamo il ragazzo, lo convinciamo a venire al tempio della dea, e poi? Gli conficcate un pugnale nel cuore, due goccioline del suo sangue e il calore invaderà il mondo fino a sciogliere i ghiacciai del Nord?» Kobin pronunciò quelle parole tutte d’un fiato, senza respirare.
«Un’antica pergamene contiene le parole sacre della cerimonia, senza di esse a nulla servirà il Sangue di Ve’Rha.» Il Sommo Sacerdote sospirò. «Ma non siamo sicuri di dove si trovi.»
«Splendido! Idee?» Continuò ancora Kobin Lamarcana.
«Le mie discepole sono specializzate nella ricerca di manufatti antichi» disse la Din Nadair e tutti la osservarono. «Potrei mettere su una spedizione nel giro di pochi giorni.»
«Non basta» aggiunse il Sacerdote. «La pergamena è legata al Sangue di Ve’Rha, è solo con la sua presenza che si manifesterebbe.»
«Il Sangue di Ve’Rha è a Magena» Vermyl parlò dopo aver taciuto per diversi minuti, mascherando bene il dispiacere di aver fatto un torto a Dun’Gar. Non si potevano definire amici, ma erano due uomini dal forte temperamento che si rispettavano a vicenda.
Berenise si alzò, il lungo mantello verde scivolò sinuoso fino al pavimento:
«Lasciate che me ne occupi io. I vostri regni sono già molto provati a causa del Grande Gelo, le mie discepole sono giovani, abili e discrete. Sapranno muoversi senza disturbare nessuno.»
«Vermyl, come fai a saperlo?» Seduto di fronte a lui, il reggente di Iberia lo fissò assottigliando gli occhi. Il Re di Magena fu tentato di fargli notare che nel suo regno chiunque non si rivolgesse a lui con il giusto rispetto era un potenziale condannato ai lavori forzati, ma scelse la via della diplomazia: era nervoso e voleva tornare a casa.
«È in missione per me con alcuni membri del suo clan» attese che Dun’Gar lo guardasse, ma il capo dei Lupi non lo fece, sembrava sovrappensiero. «Tra l’altro, ho sentito dire che è bravo a mettersi in bella mostra…» Vermyl cercò di far sorridere l’uomo di Niihel. «Mi dispiace Dun’Gar, è per il bene di tutti.» Aggiunse infine, intanto che l’altro stava lasciando l’Arcaneum.


 
Ϯ
CAPITOLO
PƦIMO
 
 
Il padrone della locanda “L’allegro Viandante” era un uomo di mezza età, ma ne dimostrava almeno quindici in più. Era rozzo e tarchiato, con una circonferenza che sbilanciava il baricentro in avanti e cozzava con il grembiule sudicio contro il bordo del bancone di legno. Dalle labbra strette spiccavano denti ingialliti dal tabacco e corrosi dall’idromele di pessima qualità che beveva e spacciava per ottimo sidro ai suoi clienti. Contò velocemente le monete che aveva incassato, spostandole dal cassetto alla borsa di tessuto nascosta sotto al grembiule, le mani erano grosse e impacciate, con folti peli scuri che spiccavano sul dorso delle dita. Quando ebbe finito, sollevò lo sguardo e studiò il locale vecchio e malandato, quella sera stranamente affollato. A dire il vero, erano diverse sere che i suoi tavoli si riempivano, soprattutto di uomini provenienti da Est. Lui lo sapeva che non era gente per bene, quelli come loro non si allontanavano mai dal Deserto se non per denaro, inoltre si muovevano sempre in gruppo, come un branco di… lupi! Ecco la parola giusta: sembravano tanti lupi in cerca di qualcosa… o qualcuno. 
Uno di loro, in fondo alla sala, lo richiamò con un fischio, mostrandogli il boccale a testa in giù in un gesto eloquente: voleva ancora da bere. Il locandiere gli fece cenno di aver inteso, poi si voltò di spalle per riempire un nuovo bicchierone, chiamando a gran voce sua figlia Karthia. Adagiò il boccale sul bancone e attese di vederla spuntare fra i tavoli, ma ciò non accadde. La chiamò ancora, più forte. Niente. Si affacciò nella cucina, dove trovò sua moglie alle prese con la cottura allo spiedo di un paio di conigli scuoiati. Le chiese se avesse visto Karthia, ma la donna gli rispose in malo modo e lui fece dietrofront. Scese velocemente le scale della cantina, imprecando a denti stretti che se l’avesse trovata lì sotto, a perdere tempo con stupidaggini da donna – come imparare a leggere – un paio di frustrate con la cinghia di cuoio non gliele avrebbe tolte nessuno. Tuttavia, la ragazza non era neanche in cantina. Risalendo i gradini, non senza una certa fatica a causa del peso, guardò il soffitto e si rese conto di essere stato uno stupido a non averci pensato prima: di sicuro la figlia si era chiusa nella propria stanza a leggere storie sdolcinate che le facevano male al cervello.
 
Le labbra carnose di Karthia si distesero in un sorrisetto malizioso mentre gettava la testa all’indietro e lasciava che lui la incastrasse tra il muro e la toilette sgangherata. Gli passò un braccio dietro la nuca e lo tenne ben stretto, in modo che capisse di dover continuare a baciarle il collo. Si sentiva euforica, le sembrava di vivere una delle scene che aveva letto decine di volte nei suoi libricini, quelli che narravano di bellissime fanciulle vergini salvate dall’eroe aitante e libidinoso di turno. Voleva essere come una di quelle protagoniste: sottratta all’orco cattivo – suo padre in questo caso – e diventare la moglie di un principe esiliato. Dell’Est, magari.
Con la mano libera, afferrò il turbante che copriva la testa del suo misterioso eroe e lo tirò via, rivelando riccioli castani e una ciocca colorata che gli ricadeva oltre il collo, fino a poggiare sul tatuaggio al centro dello sterno, messo in risalto dalla camicia bianca e sbottonata. Con le dita gli sfiorò il disegno nero sul petto liscio:
«Che cos’è?» Gli chiese.
«Un lupo affamato» fu la risposta.
Lei ridacchiò:
«Affamato di cosa?»
«Secondo te?!» Il ragazzo increspò le labbra e le strizzò l’occhio. Karthia allora si arrotolò la ciocca colorata intorno alla mano per attirarlo a sé, sfiorandogli le labbra con le proprie intanto che lo studiava.
«I tuoi occhi sono diversi.» Gli sussurrò quasi ansimando.
«È un problema, mia signora?»
«Assolutamente no!» Così dicendo lo baciò con foga e lui non si fece pregare: premendole una mano sui reni, per avvinghiarla a sé, con l’altra le accarezzò i seni, pieni e maturi, di una donna non vecchia, ma neppure più giovanissima quanto lo era lui. Avvertì l’eccitazione di lei crescere e decise di scendere un po’ più giù, appena sotto l’ombelico, quindi con delicatezza estrema trovò la tasca anteriore del grembiule, indossato al di sopra dell’ingombrante veste, e vi infilò le dita, pescando qualche moneta che furtivamente lasciò cadere nelle tasche del proprio pantalone. Tutto ciò, mentre continuava a baciarla tenendola contro la parete. Con la stessa mano risalì la scalata, un’altra palpatina al seno prima di chiuderle il palmo intorno al collo. Karthia ansimò al tocco delle sue dita calde, ormai sfinita da tutto quel piacere che prometteva di arrivare e non arrivava mai al culmine, gli afferrò il polso e se lo portò al di sotto della gonna:
«Prendimi, mio principe straniero, prendimi sub-»
«Karthia!»
La voce roca del locandiere tuonò in tutta la stanza. La sua espressione era un misto di rabbia e dispiacere profondo, gli occhi già arrossati di natura si riempirono di lacrime d’ira.
«Ops!» Esclamò il ragazzo, allontanandosi da Karthia un attimo prima che il genitore potesse colpirlo con la sedia.
«No, padre! Ti prego!» La fanciulla si aggrappò al braccio grasso di lui, cercando di fermarlo. Ma il locandiere l’allontanò da sé con una spinta e la figlia cadde supina sul letto alle sue spalle.
Il ragazzo, intanto, era balzato sul davanzale della finestra, ora spalancata e attraverso la quale soffiava una leggera brezza fresca. Troppo fresca, considerando che si trovavano nella stagione della Stella Lucente.
«Brutto demone maledetto! Vieni qui!»
«Padre… padre… ti prego!» Karthia era quasi alle lacrime, si portò le mani al collo per stringere l’amuleto della dea dell’Amore e non lo trovò. «Oh, per la dea De’bhella! La mia collana!» Sollevò lo sguardo in direzione del misterioso principe e vide la sua ametista ciondolare tra le dita di quell’impostore. «Brutto demone maledetto!» Esclamò, così simile a suo padre che al ragazzo vennero i brividi pensando a ciò che stavano facendo fino a qualche minuto prima. Comprese che era arrivato il momento di togliere il disturbo, perciò si acconciò il turbante sulla testa e si coprì il volto, salutando padre e figlia con un cenno delle dita si gettò nel vuoto. Il locandiere si affacciò alla finestra e lo vide fuggire sui tetti, allora urlò con quanto fiato aveva in corpo di prenderlo, di ammazzarlo: aveva offeso la sua innocentissima bambina e derubatala anche! Karthia gli fece subito eco.
 
Alcune guardie, che erano di ronda durante l’ora della Stella Nera, accorsero alle urla del locandiere e immediatamente si misero a rincorrerlo. Una di loro si fermò a prendere la mira, tese l’arco e scagliò una freccia che non lo colpì, ma lo fece inciampare nei suoi stessi piedi. Il ragazzo saltò sul terriccio inumidito dalla brina serale e riprese la sua corsa, portandosi due dita alla bocca per fischiare, ignorando gli ordini delle guardie di fermarsi in nome del Re di Magena. Di nuovo l’arciere scagliò un paio di frecce che tuttavia non lo sfiorarono neanche, ma dal buio di un vicolo cieco vide spuntare una bestia dagli occhi rossi e le zanne feroci che gli atterrò addosso. La guardia cadde a pancia in giù, lasciando la presa sull’arco che fu calpestato dalle altre sentinelle, poi si voltò per capire cosa lo avesse aggredito: si trattava di un lupo.
La bestia corse veloce fino a raggiungere il suo padrone, quest’ultimo gli fece un occhiolino a mo’ di complimento per l’effetto sorpresa. Il lupo ululò soddisfatto. Ormai le porte della città erano vicine, si scorgevano chiaramente. Il ragazzo sapeva che non le avrebbe mai oltrepassate indenne: le sentinelle di guardia erano già in allerta, pronte ad acciuffarlo. Non gli andava di combattere o di dover riconsegnare il bottino che si era guadagnato con tanto sudore…
«A sinistra, Màs!» Allargò il braccio e il lupo seguì l’indicazione, mentre lui virava a destra. Le sentinelle lì per lì rimasero immobili, non sapendo bene quale ombra seguire, poi il gruppo di guardie che era alle calcagna del ragazzo ordinarono loro di aprire immediatamente le porte!
Proprio come ricordava, c’erano alcuni massi che si erano staccati dalle mura di cinta del villaggio e li utilizzò per arrampicarvisi e saltare dall’altra parte. Si fermò per qualche istante lassù, a guardare il cielo e ad attendere di intravedere Màs al sicuro oltre i confini del paesello.
«Non c’è paragone con il cielo di Niihel, spiacente!» Constatò, notando poi la figura del lupo saltò dall’altra parte e atterrò con grazia.
Nonostante pensasse di essersela cavata egregiamente, come sempre, si ritrovò quattro bastoni magici puntati contro. Il ragazzo dell’Est rimase fermo, gli occhi felini puntati sulle due figure che lo fronteggiavano, senza contare le altre alle spalle. Le osservò per qualche secondo, indossavano lunghi mantelli verdi e il cappuccio calato sul capo: Din Nadair.
«Non sapevo che le incantatrici collaborassero con le guardie reali.» Sorrise beffardo, conscio del fatto che le maghe non erano ben viste nel Regno governato da Re Vermyl.
Un cavallo dal lucente manto ambrato avanzò lento e sinuoso, dall’alto della sua groppa se ne stava una donna con la schiena dritta e le fattezze di una dea. Acconciandosi il cappuccio del mantello sulle spalle rivelò un viso di porcellana e una folta treccia bionda, lunga e morbida fin oltre il seno. Una donna così bella e raffinata il ragazzo non l’aveva mai incontrata prima, neanche nel reame di Agran.
«Gar di Niihel?»
«Chi lo cerca?»
«Sono Emeryl Astoria ver Haret.»
Il ragazzo fischiò:
«Una nobildonna»
«Devi venire con noi. La Màthayr ti attende.» Emeryl tirò le redini del suo destriero per farlo voltare, convinta evidentemente che lui l’avesse seguita senza controbattere, o semplicemente più abituata a non sentirsi dire di no.
«Sono davvero rammaricato, mia signora Emeryl, ma non credo accetterò l’invito.»
Lei si girò di scatto, il volto inespressivo di prima aveva lasciato spazio a totale incredulità.
«Grazie lo stesso. E ringrazi la màtira.» Fece per andarsene.
«Màthayr!» Lo corresse Emeryl, il tono infastidito dalla sua impertinenza.
Le altre Din Nadair si strinsero ancor di più intorno a lui e fermarono Gar al secondo passo. Il ragazzo sospirò in maniera plateale.
Intanto, le porte della città si erano schiuse il necessario per consentire al gruppetto di guardie di raggiungere l’esterno.
«In nome della legge di Magena e di Re Vermyl, ti dichiaro colpevole dei seguenti delitti» l’uomo in divisa si schiarì la voce, poi sollevò lo sguardo su Emeryl e sbiancò. «Ma-ma tu-tu…»
Emeryl agitò velocemente il suo bastone e tutte le sentinelle caddero al suolo, profondamente addormentate.
Gar fischiò di nuovo, sorpreso.
«Deve essere comodo saper fare una cosa del genere. Complimenti davvero. Ci vediamo, allora.» Le rivolse un occhiolino e di nuovo tentò di andarsene. E di nuovo fu fermato. Ormai il cerchio intorno a lui si era stretto di molto.
«Mi dispiace, non posso lasciarti andare.» Disse Emeryl, dall’alto della sua sella.
Gar sembrò soppesare le alternative che aveva – poche – e alla fine esclamò:
«Non mi lasci altra scelta, mia signora» roteò sul posto e si abbassò allungando un piede per colpire una delle incantatrici, la quale cadde da seduta. Le altre brandirono il proprio bastone, bisbigliando fra le labbra parole incomprensibili, ma Gar si portò le dita alla bocca e fischiò. Màs spuntò dal nulla e con un balzo atterrò sopra una di loro e la tenne d’occhio. Il cavallo di Emeryl s’innervosì vedendo il lupo e fece per disarcionarla, perciò la Din Nadair dovette sussurragli parole in una lingua antica per calmarlo. Nel frattempo, Gar aveva sguainato la scimitarra che teneva lungo il fianco sinistro e in un attimo tutto divenne così bianco, così chiaro e luminoso che i presenti furono costretti a schermirsi gli occhi per non rischiare di accecarsi.
Anche Emeryl si coprì il viso con un braccio e quando quel bagliore si attutì abbastanza da poter sbirciare, lentamente la scena di Gar che teneva in ostaggio una consorella le si mostrò davanti.
Sebbene la Madre Superiora l’avesse rassicurata che il figlio di Dun’Gar non era un ragazzo cattivo, vedere una Din Nadair in pericolo le fece riaffiorare alla mente ricordi e sensazioni non proprio piacevoli, ossia i corpi esamini delle sorelle che erano partite in missione con lei. Anche quella lì non era stata classificata come missione pericolosa, eppure erano tutte morte… eccetto lei.
«Adesso posso essere libero di andare, mia signora?»
La ragazza sentì un turbinio di emozioni montarle dentro, la paura però prevalse su tutte, poi quella sensazione di perdere i sensi la pervase: non era come svenire, piuttosto le pareva di entrare in trance. Allargò le braccia e inclinò leggermente il capo all’indietro, le pupille sbiancarono e sopra le loro teste cominciarono ad addensarsi nubi che prima non c’erano.
«Ma che diamine…?» Gar di Niihel sollevò lo sguardò, sembrava che stesse per scatenarsi una tempesta.
«No, Emeryl! Fermati!» L’incantatrice, che il ragazzo teneva in ostaggio con un pugnale alla gola, allungò le braccia nella speranza di rassicurare la consorella.
Poi qualcuno colpì Gar alla nuca, un colpo secco e mirato che gli fece perdere i sensi. Emeryl tornò in sé, le nubi si diradarono e gli occhi azzurri ripresero a guardare il mondo che la circondava. Kewst, il mercenario assoldato – incomprensibilmente – da Berenise, si stava caricando sulle spalle il giovane del Deserto, simile a un sacco.
«Andiamo.» Disse.
«E di lui cosa ne facciamo?» Emeryl chinò lo sguardo sul lupo che ringhiava, pronto a difendere il suo padrone.
«Addormentalo».



 

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Capitolo 2
*** Ϯ CAPITOLO ẟECONDO Ϯ ***




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CAPITOLO
ECONDO
 
 
Gar di Niihel sollevò le palpebre lentamente, la luce che penetrava attraverso l’ampia vetrata gli causò una fitta lancinante, perciò si schernì gli occhi. Suo padre Dun’Gar lo aveva avvertito: se continuerai ad abusare del Potere della Luce prima o poi ne pagherai le conseguenze.
Aveva anche un dolore pulsante alla base della nuca, poi ricordò: la figlia del locandiere; la fuga oltre le mura di cinta; le Din Nadair – come aveva detto che si chiamava quella a cavallo? – la luce abbagliante; il buio…
Scattò a sedere al centro del materasso, ma la testa gli vorticò forte e si premette una mano sulla fronte.
«Bevi questo, ti farà bene.»
Gar sbirciò da un occhio, accettando la tazza di brodaglia verdastra che una sconosciuta gli stava porgendo. Annusò il liquido scuro e si meravigliò di scoprire che non aveva odore.
«Sei la madir che mi cercava?»
«Màthayr» lo corresse. «Sì, sono io…» La Madre Superiora delle Din Nadair si accomodò sulla poltrona ai piedi del letto, nonostante fosse avanti con l’età il suo fisico snello le permetteva ancora una certa agilità nei movimenti. Indossava un lungo abito verde smeraldo, decorato finemente con ghirigori dorati. Sul capo era adagiata una tiara d’oro e i capelli acconciati in una crocchia elegante. Sorrise a Gar, sistemandosi con le spalle contro lo schienale imbottito di velluto rosso e intrecciando le dita in grembo. Parlava piano, scandendo le parole.
«Emeryl mi ha raccontato che non è stato facile convincerti. Sei un tipo sospettoso
«No, semplicemente non mi andava. Dove mi trovo?»
«Sei nella Torre d’Opale, casa delle Din Nadair e io sono Berenise.»
«Dov’è Màs?»
Lei sollevò un sopracciglio, non aveva capito.
«Màs, il mio lupo.»
«Non ho visto nessun lupo, ma potrai chiederlo a Emeryl quando la incontrerai. O a Kewst.» Sorrise. «Non hai ancora bevuto. Bevi.»
Gar non l’ascoltò.
«Immagino che Kewst sia quello che mi ha colpito alla nuca.»
«È stato necessario. Dovresti bere.»
«Che cos’è?» Il giovane guardò nella tazza.
«Un decotto a base di erbe medicinali che ti aiuterà a stare meglio.»
«Cosa vuoi da me?»
Berenise si alzò con grazia e Gar adocchiò le sue armi adagiate su un antico comò. La donna gli sfiorò il dorso della mano con la quale teneva la tazza, accompagnandola alle labbra.
«Prima bevi, poi parleremo.»
«Facciamo il contrario, eh mader? Prima parliamo e poi, magari, se mi viene sete dal troppo parlare, berrò.»
«Màthayr» lo corresse di nuovo lei, tornando con la schiena dritta e sospirando. «Emeryl mi aveva avvertito sul tuo conto.»
«Sì, faccio questo effetto…»
La Madre Superiora gli tolse la tazza dalle mani e mosse le dita libere davanti al volto del ragazzo, sussurrando parole inafferrabili. Gar si addormentò dolcemente.
 
 
 
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Emeryl bussò con le nocche sulla porta della Sala delle Apparenze ed entrò, senza attendere che Berenise le desse il permesso. Trovò la Màthayr sul terrazzo, le mani dietro la schiena e lo sguardo fisso sulle stalle ai piedi della balconata. Emeryl la raggiunse, rabbrividendo e stringendosi nel suo stesso abbraccio.
«Fa freddo qui fuori, Màthayr, perché non rientra?»
«Come si è comportato alla sua prima missione?» Chiese invece la più anziana, continuando a tenere gli occhi verso il basso.
«Chi?» Emeryl seguì lo sguardo dell’altra e solo allora notò Kewst alle prese con la strigliatura di un cavallo. Era un uomo grande e grosso, di poche parole. Non aveva detto un’intera frase per tutto il viaggio, rispondendo a monosillabi e cenni del capo. Portava sulla schiena un martello da guerra che a occhio e croce doveva pesare quanto un essere umano, eppure lui pareva non risentirne affatto. Ciò nonostante, adesso, si stava prendendo cura di un cavallo con un’accortezza rara ed era stato sempre lui a dirle di addormentare quel lupo anziché di ucciderlo.
«Kewst non ama molto i maghi e la magia in generale. Ma sopporta quelle come noi. Forse perché sua madre era una Din Nadair» spiegò Berenise, senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzo.
«Una di noi?»
Finalmente la Màthayr sollevò la testa per scrutare gli alberi della Foresta delle Lame che circondava la Torre. Ricordò con una punta di nostalgia Anthalia Fiammardente: forse una delle discepole più capaci e intelligenti che avesse mai avuto. Soprattutto, ricordava ancora perfettamente il disperato grido di aiuto per quel figlio che non comprendeva: è intelligente, forte, ama studiare le arti arcane, Màthayr, eppure non riesce a visualizzare la magia!
Prima che la bella Anthalia morisse, Berenise le aveva promesso che si sarebbe presa cura di suo figlio, non lo avrebbe lasciato solo in un mondo dove suo padre era ancora in vita. Ma così non era stato: l’Est era lontano e altri avvenimenti – come la ribellione di Iberia, ad esempio – avevano discostato la sua attenzione da quel ragazzino. Si era rilassata, anche perché sapeva che Decilius era con lui, poi l’Arcimago era morto e del figlio di Anthalia aveva perso ogni traccia.
L’aveva creduto morto? No, quelli come lui non muoiono così facilmente.
Lo aveva cercato, aveva pagato uomini dalla dubbia moralità e alla fine l’aveva trovato. Aveva chiesto al capo dei Lamaercan – uno dei tanti clan mercenari in giro per il continente – di prenderlo con sé e di non allontanarsi troppo dalla Torre d’Opale.
«Dove vuole che ci piazziamo, mia Signora.»
«Ai confini della Foresta delle Lame andrà benissimo.»  
Quando l’Arcimago di Valldysi, Tullius, l’aveva convocata al Gran Concilio e lei si era presa l’onere di cercare il Sangue di Ve’Rah, il pensiero era corso immediatamente a Kewst, perciò aveva raggiunto l’accampamento dei Lamaercan e chiesto di parlargli.
Si era ritrovata dinnanzi un uomo di neanche trent’anni, ma con lo sguardo duro di chi ne ha passate tante. Era chiaro che il suo fisico imponente richiamasse il Sangue dei Giganti che gli scorreva nelle vene, eppure i suoi lineamenti erano dolci, fatta eccezione per una cicatrice che gli correva dall’occhio destro alla guancia sinistra. Sembrava imbarazzato.
«Sei Keveset Fiammardente-Lamarcana?»
A quel nome il ragazzo aveva alzato lo sguardo e occhi dello stesso colore dei ghiacci l’avevano guardata, spauriti.
«Kewst. Chi sei?»
Berenise gliel’aveva confessato chi era e come aveva conosciuto sua madre, ma gli aveva anche detto che aveva bisogno di lui, il mondo aveva bisogno non solo della sua forza, ma anche delle sue conoscenze.
«Màthayr?!» La dolce voce di Emeryl irruppe nei suoi ricordi. In lontananza le parve di scorgere uno scintillio tra le fronde degli alberi.
«Chiama Kewst, vi aspetto entrambi nella Sala Grande. È tempo di muoversi…» Così dicendo la più anziana lasciò la Sala delle Apparenze per prima.

 
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Gar fu di nuovo svegliato dalla Màthayr, questa volta riaprendo gli occhi senza provare dolore alcuno. Si sentiva riposato e in forma come se avesse dormito per giorni interi, mentre invece erano appena trascorse un paio d’ore.
«Prendi le tue cose e seguimi, figlio di Dun’Gar. Il tempo dei giochi è finito.»
Il giovane eseguì l’ordine, senza perderla un attimo di vista, muovendosi alle sue spalle lungo corridoi ampi, freddi e illuminati dalla flebile luce emessa dalle pietre incastonate nei bastoni magici delle Din Nadair. Quella di Berenise, però, sembrava brillare di più rispetto alle altre. Lungo il percorso incrociarono diverse giovani e tutte chinarono il capo dinnanzi alla Madre Superiora, indirizzando uno sguardo incuriosito al ragazzo che la seguiva. Quest’ultimo non mancò di rispondere con un occhiolino e un sorrisetto sghembo.
«Sa che potrei anche abituarmi a questo posto, matrin?! Non è male: belle donne, giovani fanciulle, aria buona…»
«Màthayr!» Sospirò Berenise. «Siamo arrivati!» Concluse, spalancando un ampio portone con entrambe le mani e una sala, con un unico trono sul fondo, si aprì a loro.
Ai piedi di quest’ultimo c’erano due persone: Emeryl e Kewst. Gar riconobbe lei e la indicò con un dito:
«Tu sei… Eryl!»
«E-me-ryl!» Scandì la Din Nadair dai lunghi boccoli dorati che aveva lasciato sciolti e fluenti sulla schiena.
«E tu…?» Gar si voltò verso il ragazzo dai folti riccioli scuri, imponente quanto una quercia.
«Kewst. Scusa per il colpo.»
«Sei stato tu? Perdonato, però la prossima volta avvisami quando stai per colpirmi» il giovane del Deserto gli strizzò l’occhio, ma evidentemente l’altro non afferrò la battuta poiché si limitò a rispondere con un atono “va bene”.
«Dov’è Màs?»
«Il lupo intendi? L’ho addormentato, tranquillo, è vivo.» Rispose Emeryl.
«Perfetto. Non che mi interessi più di tanto, ma mi segue da quando l’ho liberato e mi dispiacerebbe saperlo morto. Potete chiamarmi Garni, comunque.» Altro occhiolino.
«”Non che mi interessi più di tanto”» ripeté Emeryl abbozzando un sorriso di scherno. «Però, complimenti per la lealtà.»
Garni fece spallucce.
«Lo so, ho tantissime qualità! Imparerai a conoscerle tutte!»
Emeryl distolse lo sguardo con una smorfia, poi per fortuna la Madre Superiora li richiamò a sé, battendo la punta del bastone sul pavimento. Si voltarono a guardarla: si era accomodata sul trono, tenendo con la mano destra il bastone magico ritto al suo fianco. Si udì uno scoppio sordo provenire da fuori. I tre ragazzi si girarono verso l’ampia vetrata che dava sulla zona occidentale della Foresta delle Lame. Di nuovo Berenise batté il bastone affinché la loro attenzione fosse solo per lei.
«Màthayr…» bisbigliò l’incantatrice.
«Emeryl, mia cara ragazza. Dal primo giorno che ho accolto te e tua madre Sheeira qui, nella Torre, ho saputo che il tuo destino sarebbe stato arduo e difficile. Doloroso, anche. Ma importante.»
Quando Garni sentì pronunciare il nome della regina Sheeira si fece serio. Emeryl era sua figlia? Ciò significava che era anche la figlia di Re Vermyl, il regnante che sedeva sul trono di Magena da quasi mezzo secolo. Era quindi la principessa esiliata, l’erede al trono bandita dal suo stesso reame. La scrutò di sottecchi: bella era bella. Una figura eterea, priva di peso, simile a una nuvola nel cielo.
«Màthayr, che cosa significa?» La voce rotta dalla paura però la rendevano maledettamente umana e vulnerabile. Un nuovo scoppio, questa volta più vicino, la fecero sobbalzare.
«Tuttavia, non sei la protagonista del viaggio che intraprenderete. Questo gramo fardello spetta a te, figlio di Dun’Gar del Deserto.»
I presenti spostarono l’attenzione sul giovane.
«Io?!» Garni si indicò con il pollice, proprio all’altezza del tatuaggio del lupo. «Sapevo di essere importante, ma non credevo fino a questo punto» scherzò. Nessuno sorrise.
«Avrei voluto avere più tempo per spiegarvi, ma purtroppo il nemico è qui.» Berenise scattò sull’attenti al terzo boato a cui seguì una luce abbagliante, mentre alte fiamme divampavano tra gli alberi, a pochi chilometri dalla Torre d’Opale.
«Quale nemico, Màthayr?»
«Maghi» rispose Kewst, più parlando fra sé.
«Andate ora. Cercate l’Antica Pergamena del Drago e consegnatela al Sommo Sacerdote di Ve’Rah, al tempio della dea della Fiamma Sacra.» La Madre Superiora scese con agilità i pochi scalini e si rivolse a Kewst per primo:
«Anthalia Fiammardente era una donna forte e giusta, e tu hai ereditato il suo senso del dovere. I tuoi occhi sono buoni, nonostante le cicatrici che porti sulla pelle e qui…» gli adagiò una mano sul cuore, lo sentì battere veloce, non amava essere toccato da estranei, men che meno da qualcuno che adoperasse la magia. «Affido la missione al tuo pensiero analitico, alla tua saggia pazienza.»
Fiammardente, sì! Garni aveva già sentito pronunciare quel nome, da suo padre forse… o forse no! Accidenti a lui e a quando non aveva prestato attenzione ai racconti dei suoi compagni.
«Màthayr, che cosa sta succedendo?» La voce di Emeryl risuonò troppo stridula, preoccupata. Era tempo di salutare anche lei.
«Mia bella principessa, il tuo destino sarebbe dovuto essere quello di sedere un giorno sul trono di Magena. Evidentemente, i Divini hanno in serbo per te un compito ben più grande da onorare. Tu sei intelligente, caparbia e gentile. Smetti di temere la morte e sarà lei a temere te.» Berenise si prese qualche secondo. «Trova l’Antica Pergamena del Drago, non conosco altre persone capaci quanto te.»
«Che cos’è? Perché la dobbiamo trovare?»
La Madre Superiora guardò infine Garni, nonostante ciò che si dicesse in giro su di lui, Dun’Gar aveva cresciuto un bravo ragazzo.
«A te toccherà infine il compito più arduo, figlio di Ve’Rah.» Silenzio, il giovane del Deserto abbozzò un riso. «Il Sommo Sacerdote ti attende, sarà lui a spiegarti tutto.»
«Ehi, frena! Io non voglio essere invischiato in queste faccende. Mi basta vivere alla giornata.»
«A volte non siamo noi a scegliere il nostro Destino, figlio di Ve’Rah.»
«Temo proprio di sì, invece. E smettila di chiamarmi figlio di Ve’Rah. Io sono Gar di Niihel, figlio di Dun’Gar.»
«Tu sei il figlio della dea della Fiamma Sacra. Tuo padre ti trovò in un villaggio distrutto dal fuoco» la donna evitò di aggiungere che lui stesso era avvolto dalle fiamme e che forse era stato sempre lui ad appiccare l’incendio, seppur involontariamente.
Inconsciamente era la parola giusta.
Un nuovo boato, poi le vetrate alla loro sinistra esplosero e un paio di zampe fecero capolino sul davanzale. In un attimo, due uomini-leone balzarono nella Sala Grande: Leonid al servizio del Regno di Iberia.
Kewst afferrò il martello da guerra con entrambe le mani e colpì una delle due bestie antropomorfe, facendola volare dalla finestra, quindi atterrò l’altra, tenendola inchiodata al pavimento mentre le premeva l’impugnatura dell’arma alla gola:
«Chi vi manda, bestia?»
Quest’ultima tentò di graffiarlo.
«Non c’è più tempo, andate!» Berenise spinse Emeryl e Garni.
«Màthayr, io…»
«Cominciate dalla capitale di Magena, la biblioteca reale vanta i più antichi tomi mai ritrovati.»
Altri due Leonid spuntarono dalle fessure aperte.
«Andiamo, guerriero» Garni afferrò Kewst per un braccio e lo tirò via. «Emeryl muoviti, dannazione!»
La ragazza bionda era stata trattenuta dalla Madre Superiora che l’aveva fermata per la manica, sussurrandole parole che non avrebbe dimenticato facilmente:
«Tua madre è viva. Cercala. Salvala: qualsiasi cosa voglia dire.»
L’incantatrice fece per aprire bocca, ma la donna la spinse via appena prima che un Leonid potesse piombarle addosso. Berenise fulminò l’uomo-leone con una scossa elettrica scaturita dalla pietra del suo bastone. Emeryl si rimise in piedi e corse verso gli altri due, i quali la stavano aspettando fra i battenti aperti del portone.
«Andiamo alle stalle» disse Kewst, mentre scendevano a passo svelto le scale di pietra. Ormai la Torre d’Opale si era trasformata in un campo di battaglia. 
«No, devo passare prima per la mia stanza. Ho delle cose da prendere per il viaggio.» Ribatté Emeryl.
«Guarda che non è un viaggio di piacere!» Le fece notare Garni.
«Appunto!» Rispose lei, virando a destra al primo incrocio. Gli altri due la seguirono a ruota.
 
Giunti ai dormitori, dove tutto era ancora tranquillo, si chiusero all’interno della stanza, piccola ma ben tenuta. Kewst rimase con le spalle contro il muro, immobile, gli occhi bassi e a disagio per essere entrato in un luogo dove tutto era impregnato di magia. Garni, al contrario, si mosse libero e curioso, intanto che Emeryl riempiva un borsellino con diverse monete e indossava il suo mantello verde, simbolo di appartenenza alle Din Nadair.
«“Il Potere Arcano delle Donne”» Gar lesse il titolo del libro sulla scrivania e fischiò. «È una storia spinta o si attiene al significato letterale?»
Emeryl glielo tolse di mano e lo riadagiò sulla superficie del tavolo, parlandogli a una spanna dal viso. Era leggermente più alta di lui.
«Non-toccare-niente!» Poi armeggiò qualche secondo ancora con alcuni oggetti.
«Donne! Tu sembri uno che le capisce al volo!» Il giovane del Deserto si rivolse a Kewst, il quale non lo degnò neanche di uno sguardo. «Che compagnia allegra!»
«Andiamo!» Emeryl li oltrepassò entrambi, sbirciò il corridoio e quando fu certa che non ci fossero nemici, li invitò a seguirla con un cenno della mano: conosceva una scorciatoia per le stalle.
Ognuno salì su un cavallo diverso, in lontananza si potevano sentire ancora gli schiocchi della battaglia. La ragazza lanciò un’ultima occhiata alla Torre d’Opale che si ergeva nel cuore del bosco. Non era mai stata violata da quando vi aveva messo piede, e vederla sofferente, sapere che le sue consorelle stavano lottando per difenderla, mentre lei era pronta a scappare con un paio di sconosciuti, come una vigliacca qualunque, le faceva male al cuore. Eppure non poteva voltarsi indietro. La Màthayr le aveva affidato una missione e sussurrato parole importanti: tua madre è ancora viva. Devi aiutarla, salvarla, qualsiasi cosa significhi.
Già, cosa significava?!
Partì al galoppo, ignorando le incantatrici alle prese con i maghi e i Leonid, intanto che le lacrime le offuscavano la vista.
Dopo aver messo diversi chilometri tra loro e la Foresta delle Lame, finalmente poterono fermarsi a ragionare sul dà farsi.
«La Màthayr ha detto di cercare un’Antica Pergamena…» cominciò la Din Nadair
«L’Antica Pergameno del Drago» precisò Kewst, lei lo guardò male: non le piaceva essere corretta.
«E di portarla al Sommo Sacerdote di Ve’Rah, il cui tempio si trova a Est.» A questo punto guardò Garni, il quale stava sbadigliando senza preoccuparsi di coprirsi la bocca.
«Sì?»
«Mi stai ascoltando? Tu vieni dal Deserto, no? È lì che si trova il tempio della dea.»
«Credo di sì…»
«Non ci sei mai stato?»
«Perché avrei dovuto? Certo, mi hanno raccontato che le Vestali valgono la fatica del viaggio...»
Emeryl scosse il capo, sentiva un fastidio simile a un prurito che non si riesce a grattare montarle dentro, ma si costrinse a contare fino a dieci prima di continuare.
«Berenise ci ha anche detto di iniziare da Magena» voltò lo sguardo verso ovest, dove si potevano scorgere i pinnacoli della capitale, alti palazzi di vetro di smeraldo che si stagliavano contro il cielo. Il Regno di Magena era detto anche Continente Verde non solo per la rigogliosa natura che lo ricopriva, ma anche per quelle splendide costruzioni di un verde abbagliante, riconoscibili a chilometri di distanza. Si raccontava che nelle giornate terse, potessero ammirarne i riverberi anche dal Regno di Iberia, l’isola nel mezzo del mare.
«Puoi mettere piede nella città senza che le guardie ti assalgano?» Le chiese Kewst e l’incantatrice sorrise beffarda.
«Noi Din Nadair sappiamo come passare inosservate, quando vogliamo.»
«Bene, è stato un piacere conoscervi. Buona fortuna per tutto!» Garni fece per trottare via.
«Dove pensi di andare?» Lo fermò Emeryl.
«Non lo so di preciso…»
Sia Emeryl che Kewst lo fissarono sbalorditi.
«La Màthayr ha detto che tu sei fondamentale per la riuscita di questo piano, che sei il figlio della dea della Fiamma Sacra.»
«E allora? Io che ci guadagno?»
«Non sei almeno curioso di scoprire che cosa significa?» Emeryl era quasi sconvolta dalla totale assenza di dovere di quel ragazzo.
«Non tanto a dire il vero…»
«L’Antica Pergamena potrebbe trovarsi in un vecchio tempio ricolmo di oro» Kewst parlò piano e senza cadenza alcuna, come se stesse raccontando una leggenda passata. «Inoltre, essere considerato figlio di una dea ha un enorme impatto sociale.»
Garni lo fissò per un po' assottigliando gli occhi, quegli occhi così diversi dagli altri, unici. Poi annuì lentamente, si acconciò il turbante sulla testa e si coprì il volto.
«Mi hai convinto, “Senzamagia”» si era ricordato chi fosse Kewst mentre cavalcavano lungo la strada serrata del bosco. Era il figlio di Kobin Lamarcana, uno dei nobili più potenti del Regno di Niihel. Aveva sentito diverse storie su di lui da bambino, una in particolare sapeva di mito: si diceva che fosse stato gettato nelle fogne dal padre stesso, nel momento in cui si era reso conto che non ci fosse magia nel suo sangue, sebbene sua madre discendesse dai Giganti. Qui, il piccolo era sopravvissuto a un ratto dalle dimensioni di un elefante e ne era uscito fisicamente e mentalmente più forte.
La versione più plausibile della storia, ovviamente, lo dava per morto.
Kewst sfoderò una lunga spada con una tale velocità che quasi non lo videro, puntandola alla gola del ragazzo, il quale mostrò entrambi i palmi in segno di resa, eppure non c’era paura nel suo sguardo felino.
«Chiamami solo un’altra volta così e sarà l’ultima.»
«Va bene, basta così!» Emeryl abbassò la punta della lama con le dita. «Abbiamo già abbastanza problemi da risolvere, non serve che ci mettiate anche i vostri!» Così dicendo mosse le redini del suo cavallo in direzione della città di Magena. «Andiamo. Il viaggio è lungo.»
I tre galopparono a passo spedito fino alla capitale del Regno Verde.


 

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Capitolo 3
*** Ϯ CAPITOLO TEƦZO Ϯ ***




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CAPITOLO
TEƦZO

 
 
Magena era una città imponente, vivace e colorata. Intorno al Gran Palazzo Verde, sede della famiglia reale e delle casate più nobili, si sviluppava il paese, cuore pulsante dell’economia e della vita dei cittadini. Non c’erano mai stati veri poveri a Magena, chiunque poteva trovare lavoro come contadino, allevatore, mercante o artigiano. Tuttavia, il Grande Gelo aveva calato sul popolo un’ombra cupa: il terreno fertile ghiacciava, le bestie morivano di stenti e le malattie cominciavano a espandersi fra i meno fortunati.
I tre attraversarono i vicoli della città a cavallo e senza fretta. Soprattutto Emeryl si concesse qualche minuto in più per guardarsi attorno e studiare quella che un tempo era stata la sua casa. Vide uomini chiedere l’elemosina ai passanti, donne che vendevano il proprio corpo agli angoli delle case, bambini denutriti cercare residui di cibo sul retro di una taverna. Era cambiata molto quella città da quando era andata via, costretta a fuggire con sua madre come delinquenti qualsiasi. Si era calata il cappuccio sul capo per evitare che la riconoscessero, eppure un giovane ragazzo fu attratto da quella insolita comitiva. Era intento a curare una donna che lamentava dolori addominali, l’aveva appena visitata e si stava pulendo le mani con uno straccio, quando li aveva notati. Non era raro che Magena fosse visitata da stranieri, ma il trio composto da due giovani uomini dell’Est – la loro carnagione olivastra ne tradiva la provenienza – in compagnia di una Din Nadair era alquanto insolito. Inoltre, lei sembrava fin troppo accorta nel tenere il capo nascosto al di sotto del cappuccio. Dal momento che anche lui era un fuggitivo, sapeva riconoscerne uno quando lo incontrava. E parevano fossero diretti al Gran Palazzo Verde. Disse all’altro medico di far bere alla donna un intruglio a base di finocchio e camomilla, poi si chinò su quest’ultima e si congratulò: era in dolce attesa. Raccolse le sue poche cose e, appoggiandosi al bastone che gli faceva da supporto, s’incamminò a capo chino lungo la strada che portava al castello.
 
 
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Il Gran Palazzo Verde svettava fin quasi a sfiorare il cielo. Il colore brillante costrinse Garni a distogliere lo sguardo: era troppo abbagliante per i suoi occhi da gatto. Di guardia all’ingresso c’erano due guardie e senza un’udienza ufficiale con il re non avrebbero mai concesso loro di passare, senza contare che Emeryl non sarebbe neanche dovuta essere lì in città.
«Non ci faranno mai entrare.» Disse proprio quest’ultima, affranta.
«Lasciate parlare me» intervenne Garni, smontando da cavallo con un balzo e avvicinandosi alle sentinelle, le quali lo fermarono puntandogli contro le armi che impugnavano. Il giovane mostrò i palmi.
«Sono Gar di Niihel, faccio parte della gilda “I Lupi di Niihel”. Re Vermyl ha richiesto i nostri servigi. Ditegli che ho urgente bisogno di parlargli.»
Le guardie si lanciarono un’occhiata interrogativa, così come fecero Kewst ed Emeryl.
«Spiacente, devi passare dal ciambellano prima. Il re non riceve senza appuntamento.»
«Ditegli che ho novità su Sheeira.»
A quel nome, pronunciato con tanta leggerezza, anche l’aria parve fermarsi, in attesa.
«Entrate, dunque. Ma dirigetevi nell’ufficio del ciambellano nell’ala ovest del castello.»
«Bene.» Gar si voltò indietro, verso i suoi compagni e con un gesto li invitò a seguirlo.
 
Quando furono certi che le guardie non li vedessero più, Emeryl li condusse senza esitazione verso la biblioteca, provando una sorta di déjà-vu nel ripercorrere quei corridoi che un tempo erano stati la sua casa.
«Perché hai nominato la regina Sheeira? Lavori davvero per il re?» Sussurrò Emeryl al fianco di Garni.
«Per quanto ancora dovremmo fingere che tu non sia chi in realtà sei?»
La Din Nadair abbassò lo sguardo. Allora lo sapevano, conoscevano la sua storia.
«Re Vermyl ci ha chiesto di trovare la regina Sheeira, il perché non ci è dato sapere e a noi Lupi interessa solo il profitto. A proposito, tu per caso sai dove si trova?»
Emeryl strinse i pugni, Kewst qualche passo dietro di loro li ascoltava in silenzio.
«No, un giorno mia madre non ha fatto più ritorno alla Torre d’Opale. Le piaceva viaggiare e scoprire vecchie rovine, ma tornava sempre da me. L’ho cercata ovunque, arrivando ai confini del Continente Bianco, a Nord. Ma di lei nessuna traccia…» Emeryl soppesò l’idea di rivelargli quanto le avesse detto la Màthayr, tuttavia non sapeva ancora bene se e quanto potesse fidarsi di Garni, perciò decise di tacere.
Attraversarono un corridoio infinito, fino a trovarsi nuovamente all’aria aperta, in un giardino curato ma spoglio. La Din Nadair si guardò intorno: un tempo quegli alberi erano ricchi di natura lussureggiante e frutti di ogni genere, adesso, invece, il freddo lo stava uccidendo man mano. Raggiunsero la costruzione di forma ovale che si trovava alla fine del sentiero: la biblioteca. Vi entrarono e anche qui nessuno degli studiosi badò a loro.
Emeryl cominciò a scendere una scala a chiocciola, affermando che era lì che tenevano i libri più antichi.
«Lontano da fonti di luce» le fece eco Kewst e lei annuì.
«Cosa stiamo cercando, di preciso?» Chiese Gar, scrutando i titoli di alcuni volumi.
«Qualcosa che possa richiamare l’idea di pergamena, di Fiamma Sacra e draghi» specificò Kewst, più attento del solito.
Emeryl lo osservò: sotto la sua parvenza di uomo dedito alla guerra, c’era un appassionato di antichità arcane. Un conoscitore capace e spigliato. Quest’ultimo notò lo sguardo di lei voltandosi nella sua direzione e, tenendo un vecchio libro tra le mani, chiese:
«Sì?»
«Sembri uno che ne capisce di antichità. Dove hai imparato?»
«Decilius, Arcimago di Valldysi, è stato mio insegnante per diversi anni» Kewst evitò di aggiungere che era stato anche il suo solo e unico amico. «Nonostante io non prediliga la magia, ho imparato a riconoscere alcuni incantesimi.»
«Come si dice: conosci il tuo nemico se vuoi batterlo» Emeryl sorrise e l’altro arrossì.
«Mi sento di troppo qui sotto» la voce irriverente di Garni irruppe come un secchio d’acqua gelida. «Io non ne capisco niente di ‘sta roba! Alcuni libri sono scritti in modo strano…»
«È scrittura antica.» Specificò Kewst. «Usata dagli antichi sacerdoti che furono ispirati dai Divini. Contengono i segreti su cui si erge il Pianeta. Penso che la pergamena che stiamo cercando sia qualcosa del genere…»
Garni sbadigliò rumorosamente e si sedette sul pavimento con le gambe incrociate e le mani a sostegno della testa, abbassando le palpebre.
«Che stai facendo?» Lo richiamò Emeryl.
«Io ho già fatto la mia parte permettendovi di entrare. Ora tocca a voi eruditi.»
Trascorsero diversi minuti, forse ore, lì sotto il tempo pareva non avere valore. Emeryl era stanca, ormai convinta che non avrebbero trovato nulla, quando Kewst le mostrò una pagina di un tomo impolverato. Lei lesse dove lui stava indicando: secondo un’antica leggenda, i Giganti e i Draghi si erano dati battaglia fin dall’origine dei tempi. La coesistenza delle due specie permetteva anche un equilibrio climatico, ma un giorno i Giganti del Nord avevano ammazzato l’ultima femmina di drago, causandone l’estinzione. Tuttavia, quando il Drago Anziano aveva compreso che per la sua razza era ormai giunta la fine, aveva trascritto il Segreto del Fuoco su un’Antica Pergamena che aveva poi sigillato in una caverna di improbabile posizione. Il suo scopo era aiutare le generazioni future a combattere il Grande Gelo, qualora le preghiere e la devozione per la Fiamma Sacra non fossero bastate e il Sangue di Ve’Rah sarebbe rimasta l’ultima risorsa.
La Din Nadair sollevò lo sguardo su Kewst, pronta a chiedergli se secondo lui quel racconto fosse la chiave che stavano cercando, quando sentirono un rimestio al piano superiore della biblioteca e la voce del ciambellano tuonare di scovarli e consegnarglieli vivi!
«Ci hanno scoperto!» Emeryl si calò il cappuccio sul capo. Fece per svegliare Gar, ma si meravigliò di notare che il ragazzo si stava già rimettendo in piedi, stiracchiando le braccia. Quasi invidiava il suo essere rilassato in ogni situazione.
Kewst strappò il foglio su cui era riportata l’antica leggenda e se lo mise in tasca, poi tutti e tre uscirono dalla piccola porta sul retro di uno scaffale, salirono velocemente le scale e sbucarono in uno spazio angusto che odorava di muffa e stantio, dove in un angolo c’erano vecchissimi volumi gettati alla rinfusa. Uscirono finalmente all’aperto, percorsero svelti la strada a ritroso poi, appena prima di imboccare il corridoio che li avrebbe condotti all’esterno del castello, un gruppo di guardie reali puntò contro di loro armi affilate. Il ciambellano li raggiunse alle spalle, a capo di altre sentinelle. Batté le mani per irriderli, ordinando a uno dei suoi uomini di abbassare il cappuccio dell’eretica.
«Non ce n’è bisogno» disse Emeryl, mostrando il volto da sola.
«Hai un bel coraggio a tornare qui, esiliata!»
Kewst fece per afferrare il martello sulla schiena, ma avvertì la punta di una lancia sulla nuca.
«Sarete condannati a morte per alto tradimento e…»
«Nelle mie stanze! Adesso!»
La voce del Re si alzò su tutte. Le guardie chinarono il capo dinnanzi al proprio sovrano e lo stesso ciambellano si guardò i piedi. Gli unici che rimasero con la testa alta furono i tre fuggiaschi.
«Mio Sire, per fortuna le guardie mi hanno avvertito di questi farabutti che pensavano di farla franca» il tono del ciambellano non era più tanto fermo.
«Ho detto che li voglio nelle mie stanze, adesso!»
«Lasciate almeno che le mie guardie leghino loro le mani per disarmarli.»
«Sono un Re! Nessuno alzerà mai un’arma contro la mia persona.» Detto ciò, Vermyl si allontanò a grandi falcate e scomparve all’interno del castello.
«Ehi, giullare, se ci indichi la strada andiamo da soli» disse Garni, battendo un paio di colpi sulla schiena ingobbita del ciambellano. Emeryl trattenne a stento un sorriso.
 
 
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Re Vermyl non era cambiato poi tanto, forse gli si era infoltita la barba, di sicuro era imbiancata, così come i capelli. Ma la sua presenza augusta non si era scalfita neanche un po’, nonostante i mille dolori patiti nel corso della sua lunga vita. Emeryl avrebbe voluto chiedergli cosa ne pensava di lei, se la trovava cambiata, maturata magari. Era sempre la sua bellissima bambina? Invece, l’uomo le si rivolse come se un tempo non fossero stati padre e figlia -  come se non lo fossero tutt’ora.
«So perché siete qui. Berenise mi aveva avvertito.» Cominciò il sovrano senza batter ciglio. «Avete trovato qualcosa?»
Kewst gli mostrò il foglio che conteneva la leggenda, il sovrano la scorse velocemente e annuì con il capo, parlando poi a Garni.
«Tuo padre ti ha mai raccontato di averti trovato in un villaggio andato in fiamme quando eri solo in fasce?»
Il giovane scosse la testa.
«In te scorre il Sangue di Ve’Rah, e probabilmente sei l’unica speranza che abbiamo di fermare questa nuova Era Glaciale.» Vermyl scrutò il panorama oltre le alte vetrate. Oramai, le montagne a Nord erano del tutto ricoperte dalla neve e presto anche le fertili e verdi pianure di Magena sarebbero state una mera distesa bianca. Una farfalla dalle ali dorate volò rasente la finestra, era strano vederne una con quelle temperature, ma il Re non vi badò più di tanto: aveva altro a cui pensare. Tornò a voltarsi verso i suoi ospiti e da sotto l’abito imperiale sfilò un vecchio foglio arrotolato e ingiallito. Lo porse alla Din Nadair.
«È l’Antica Pergamena del Drago. Consegnatela al Sommo Sacerdote di Ve’Rah, la cui Fiamma si sta spegnendo.»
«Ce l’avevi tu?» Emeryl non poteva crederci.
«Ogni regno deve possedere un asso nella manica se-»
«Se vuole essere il più potente.» Finì la frase per lui la stessa ragazza. Avrebbe voluto aggiungere che ricordava ancora a memoria le massime che le aveva insegnato da bambina.
«Tutto qua?» Chiese Kewst, sembrava deluso dalla facilità della missione. «Cosa c’è scritto sulla Pergamena? Un antico incantesimo che ravviverà il Fuoco Sacro?»
Vermyl strinse i pugni che teneva l’uno nell’altro dietro la schiena.
«In un certo senso, sì.» Disse solo. «Il mondo sta morendo, inghiottito dalla morsa del gelo. Le suppliche delle Vestali non bastano più.» Abbozzò un sorriso. «È buffo notare come dei reietti ci salveranno tutti.»
«Siamo stati attaccati alla Torre d’Opale» disse Emeryl. «Leonid e maghi di Gamirhia.»
«C’era da aspettarselo.» Rispose calmo il sovrano. «Sarò franco con voi, che state mettendo a repentaglio le vostre vite per un bene comune: supponiamo che la IV Era Glaciale sia opera del Regno di Iberia, il quale pare stia collaborando da tempo con Meldor, Arcimago di Gamirhia. Non conosciamo ancora bene il motivo, ma immaginiamo ci sia un potere più grande e antico in gioco.»
«Perché non li fermiamo attaccandoli direttamente, allora?» Emeryl sembrava battagliera.
«Ciò causerebbe una guerra fra regni alleati e un numero cospicuo di morti» a rispondere era stato Kewst e il re gli diede ragione.
«Avete altre domande?» Domandò quest’ultimo.
«Cosa c’è scritto sulla pergamena?» Aggiunse Emeryl.
«Nulla» Vermyl si prese una pausa. «Immagino sia compito del Sommo Sacerdote saperla leggere.»
«Perché una cosa tanto antica e potente è nel Palazzo Verde?» Fu Kewst a esprimersi.
«Sheeira la teneva con sé il giorno che la conobbi. Non gliel’ho mai chiesto, ma penso l’abbia rubata al Sultano di Agran, forse temendo che potesse usarla in modo sconsiderato.»
Al nome della donna fu Garni a prendere la parola:
«Il contratto con “I Lupi di Niihel” è ancora valido?»
«Sì, certo.»
«La Màthayr mi ha detto che mia madre è viva. È così?» La voce di Emeryl si alzava sempre di un tono quando era nervosa.
«Non so in che natura, ma lo è» rispose il Re, incerto se proseguire o meno, poi decise di farlo, convinto che quei ragazzi meritassero la verità. «E ho ragione di credere che lei sia una delle cause di questa nuova glaciazione.»
«Che vuoi dire, padre?»
La parola “padre” le era uscita così spontanea che all’inizio non ci fece caso, ma risuonò finta e fuori luogo un attimo dopo. Emeryl fece un passo indietro, chinando il capo e sentendosi terribilmente stupida. Kewst provò pena per lei, comprendendo il suo stato d’animo. Lo stesso Garni, di solito poco attento a queste cose, si accorse dell’evidente disagio, perciò tolse tutti dall’impaccio:
«Noi allora siamo liberi di andare, Sire?»
«Sarò però costretto a sguinzagliarvi dietro le guardie. D’altro canto, se non siete in grado di badare a poche decine di sentinelle, non vedo come possiate affrontare i nemici che avete alle calcagna.» Sorrise, prima di aggiungere: «Vi lascio qualche minuto per allontanarvi dalla capitale. Abbiate cura di voi.»

 
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Capitolo 4
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CAPITOLO
QUAƦTO
 
 
La farfalla dalle ali dorate volò a ritroso, fino ad adagiarsi con grazia sull’indice del mago che l’aveva evocata. Gli rivelò ciò che aveva appreso e poi si volatilizzò, lasciando nell’aria solo granuli di polvere luminosa. Non era ancora pratico di magie di illusione, ma stava imparando e invocare una piccola bestiolina affinché fosse le sue orecchie e i suoi occhi gli riusciva abbastanza bene. Quindi, stando al racconto della farfalla magica, quei tre giovani erano stati incaricati di fermare la IV Era Glaciale. Proprio come aveva ipotizzato lui, questo freddo era anomalo, innaturale, e nasceva da Iberia. Il giovanissimo mago aveva sentito anche questo, lo aveva avvertito. Forse perché nelle sue vene scorreva sangue di elfo, ma era sempre stato particolarmente sensibile alla voce della natura e degli animali. Decise che non poteva lasciarsi sfuggire un’occasione del genere, era ciò che stava cercando, un motivo per indagare ulteriormente e – magari – agire. Pertanto li seguì.
 
 
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Re Vermyl era stato di parola: aveva permesso loro di fuggire da palazzo dando l’allarme solo diversi minuti dopo. Tra l’altro, grazie alla magia, Emeryl aveva fatto perdere le loro tracce.
Il viaggio verso il Continente del Deserto era troppo lungo per pretendere di affrontarlo in una sola giornata, avevano bisogno di sostare e riposare. E di far abbeverare i cavalli. Garni propose dunque di fermarsi a una locanda lungo la strada, non era un vero villaggio, ma c’era una fattoria a pochi metri dal locale che avrebbe badato ai cavalli. Era gente fidata, disse, così come il locandiere e la moglie. In effetti, sia Emeryl sia Kewst ebbero una buona impressione dell’anziano che prese in custodia le proprie bestie. Un’ottima accoglienza ricevettero anche alla taverna. Era evidente che conoscevano il giovane di Niihel, giacché lo accolsero con un saluto affettuoso. Si meravigliarono, però, di vederlo con un’insolita compagnia e non insieme ai compagni Lupi. Garni fu vago, disse che si trattava di un affare che stava svolgendo da solo, cose segrete che non poteva rivelare a nessuno, aggiunse rivolto in particolare alla moglie dell’uomo. Questa arrossì lievemente e chinò lo sguardo: Garni aveva la metà dei suoi anni e sebbene fosse abituata ad avances ben più spinte, quel giovane aveva uno sguardo e una sensualità che non aveva ritrovato in nessun altro.
La Din Nadair alzò gli occhi al cielo, sbuffando, quindi chiese alla signora se potevano restare per la notte e di quante camere disponessero.
«Quante ve ne occorrono, mia signora?»
«Minimo due» rispose Emeryl.
«Potremmo risparmiare ulteriormente…» Garni le strizzò l’occhio.
«Tre» rispose Kewst, il tono inflessibile come di consueto. «Ce ne servono tre.»
«Spendaccioni» aggiunse il giovane di Niihel.
Si accomodarono a un tavolo rotondo e la locandiera tornò poco dopo con una brocca di buon vino di ciliegia.
«Questo vi scalderà, le temperature sono calate parecchio negli ultimi giorni.»
Garni la ringraziò e bevve un lungo sorso di quel sidro del colore del fuoco.
Già, il fuoco… gli avevano rivelato che in lui scorreva il Sangue della dea Ve’Rah e che il suo destino era quello di salvare il mondo dalla IV Era Glaciale. Che idiozie! Lui, salvare il mondo? E che cosa c’avrebbe guadagnato poi?
Fama?
Denari?
Donne?
Certo, andarsene in giro a petto in fuori, pieno di orgoglio per essere un semidio – poteva definirsi tale? – non era cosa da niente. Anzi! Le donne semplici, come la moglie del locandiere – alla quale lanciò uno sguardo furtivo accorgendosi che lei lo stava già fissando – sarebbero cadute ai suoi piedi, letteralmente. E i mariti, i padri o i fratelli non avrebbero avuto di che lamentarsi: era il figlio di una dea, in fondo. L’eroe di un mondo senza gelo… portatore di vita.
Mentre pensava a tutte queste cose, e beveva, scorse una ragazza seduta di spalle al bancone. Era abbarbicata sul primo sgabello a sinistra, una gamba si muoveva nervosamente su e giù, impaziente. La testa era celata da una bandana, dalla quale erano sfuggite alcune ciocche di capelli color… argento?
Possibile?
Che razza di colore era?
Garni bevve ancora.
«Mi stai seguendo?» Emeryl gli passò il palmo davanti agli occhi.
«Sì, certo. Continua pure.»
«Dicevo con Kewst che forse dovremmo fare un turno di guardia, questa notte.»
«Ah-ah.»
Anche l’abbigliamento della ragazza con la bandana era singolare. Sulle spalle teneva adagiata una pelliccia di leone, le cui zampe parevano unirsi sul davanti, mentre un lungo abito bianco, sgualcito e con gli orli strappati, cadeva fino alle caviglie. Un abbigliamento insolito, appunto, non solo per l’abbinamento contrastante, ma perché quel vestito, che pareva richiamare uno status importante, era invece logoro e consunto. Come se fosse scampato a mille battaglie.
«Garni!» Emeryl batté un palmo sul tavolo, richiamando ancora una volta l’attenzione del compagno. «Smettila di fare gli occhi dolci alla locandiera o verremo sbattuti fuori e io sinceramente ho fame e voglia di riposare!»
Il giovane Lupo di Niihel le sorrise malizioso:
«Ti serve qualcuno che ti massaggi la schiena?»
Emeryl chiuse gli occhi e contò fino a dieci, sforzandosi di non rispondere. O di non fulminarlo.
In ogni caso, Garni ottenne l’effetto desiderato: ossia liberarsi della Din Nadair per poter tornare a scrutare la misteriosa ragazza. Questa volta notò l’armamentario che si portava dietro: ossia un’alabarda le cui estremità argentate spiccavano nel riverbero delle candele accese. Il locandiere le rivolse la parola, forse chiedendole se desiderasse altro, e solo così Garni poté scorgere un’ombra del giovane viso. Allora il ragazzo decise: riempì il proprio boccale di vino, afferrò quello ancora pieno di Emeryl, la quale lo fissò sbalordita mentre le diceva che tanto lei non lo beveva, e si allontanò.
«Dove vai?» Gli chiese.
«Auguratemi buona fortuna» fu la risposta di Garni facendo l’occhiolino a entrambi. Emeryl guardò Kewst che, serio, le chiese di mostrargli la pergamena che Vermyl le aveva consegnato.
 
Garni fece scivolare il boccale sulla superficie ruvida del banco, fino alla misteriosa ragazza. Quest’ultima si voltò di scatto, le pupille spalancate, simile a un felino colto di sorpresa e pronto a graffiare. Proprio come aveva immaginato il giovane del Deserto, era di una bellezza singolare. Non bella come Emeryl, la cui pelle di porcellana la faceva somigliare a una creatura eterea, ma bella come una ragazza che ha dovuto combattere per la propria vita. Lo dimostravano il suo abbigliamento, l’arma che teneva incollata alla schiena, il viso sporco di fuliggine e il tatuaggio dipinto sulla guancia sinistra. Il ragazzo fu la prima cosa che indicò:
«Simboleggia la tua appartenenza a qualche ordine, immagino. Come il mio…» disse, separando i lembi della blusa per mostrare la testa di lupo. Quello della ragazza misteriosa, invece, riprendeva un leone con le fauci spalancate.
«Che vuoi?» Lei pareva in allerta, si guardava intorno con circospezione, sebbene il locale fosse quasi deserto. Notò una Din Nadair in compagnia di un guerriero. Si chiese se fossero amici di quello… svitato.
«Solo fare due chiacchiere.» Garni sorrise amichevole.
«Vattene.» La ragazza si voltò dall’altra parte, studiando una via di fuga.
«Che maleducato! Non mi sono neanche presentato. Io sono Gar di Niihel, ma gli amici mi chiamano Garni.» Le allungò la mano, lei la fissò prima di rispondere.
«Noi non siamo amici.»
«Ma potremmo diventarlo» il ragazzo le strizzò l’occhio.
«Vattene, dico sul serio.»
«Almeno un brindisi?» Garni prese il boccale.
«Non bevo.»
«Sei astemia? Preferisci del latte?»
L’altra sbuffò platealmente, cominciava a stufarsi. Ormai non aveva neanche più il timore che volesse farle del male o fosse una spia inviata da suo fratello, semplicemente voleva rimanere sola. Avere un amico sarebbe stato bello, divertente, romantico anche… peccato che lei non potesse permettersi questo lusso. Già una volta era successo e aveva giurato a se stessa che non sarebbe capitato mai più.
«Te lo ripeto: vattene!» Esclamò infine, guardandolo dritto negli occhi. Era la prima volta che lo faceva, non aveva fatto caso a quelle iridi così particolari. Le parve di ricordare che una volta il suo maestro le aveva raccontato qualcosa su un’antica leggenda che riguardava i draghi e la dea della Fiamma Sacra, ma adesso non riusciva a farsela venire a mente. «Dico davvero, non-»
In quel momento, la porta venne scardinata ed esplose in mille schegge di legno. D’istinto Garni si gettò sulla misteriosa ragazza e insieme finirono sul pavimento. L’oste e sua moglie fecero capolino dalle cucine, standosene in piedi a pochi metri dai due giovani. Lui in particolare chiese spiegazioni. Scaglie di ghiaccio grosse quanto rami e appuntite come stiletti si conficcarono nel petto dei locandieri, i quali non ebbero neppure il tempo di realizzare ciò che era accaduto. Si accasciarono sul pavimento, gli occhi spalancati e un rivolo di sangue che fuoriusciva dalla bocca di entrambi.
«Per la dea O’Shu-Tal!» Blaterò la misteriosa ragazza, mentre Garni era ancora su di lei. Quest’ultimo lanciò uno sguardo verso Emeryl e Kewst e li vide già in posizione da combattimento, intanto che tre maghi di Gamirhia e due uomini-leone entravano nel locale.
«Mi dispiace,» cominciò il ragazzo, mettendosi in piedi e allungando una mano verso la giovane distesa di schiena. Questa volta lei gliela strinse e con il suo sostegno si tirò su. «Ci hanno trovato e ne andrai anche tu di mezzo. Sai difenderti?»
Lei lo guardò e sorrise spavalda:
«E io che pensavo fossero venuti per me.»
Garni la fissò di sottecchi, la fronte corrucciata.
«Spero che tu sappia difenderti, Gar-ni!» La ragazza afferrò l’alabarda sulla schiena e la divise a metà, brandendo così due lame, quindi si scagliò con un urlo contro uno dei Leonid.
Gar di Niihel ampliò il sorriso e si mise in posizione di combattimento, divaricando le gambe e portandosi le braccia all’altezza delle spalle, con i pugni chiusi. Era da tanto che non si allenava nello Stile del Lupo, le arti marziali che Dun’Gar gli aveva insegnato, meglio fare qualche ripassino. Con un sorrisetto di scherno fece cenno all’altro uomo-leone di farsi avanti e questo non se lo fece ripetere due volte.
I tre maghi sollevarono i propri bastoni, pronti a evocare un incantesimo, ma una frusta elettrica colpì i dorsi di ciascuno di loro. Si voltarono nella direzione in cui era scaturita la magia e videro la Din Nadair fissarli con aria di sfida, mentre al suo fianco un uomo grosso il doppio di qualsiasi persona normale brandiva un martello con entrambe le mani, che a occhio e croce doveva pesare quanto loro tre messi insieme. La bella incantatrice mugolò qualcosa fra i denti socchiudendo gli occhi, poi la testa del martello gigante si fece incandescente e Kewst partì alla carica, alzandolo sulla testa per poi farlo cadere a ridosso dei maghi. Due riuscirono a evitare il colpo, ma il terzo vide lo scudo magico che aveva evocato andare in frantumi e così il suo capo.
Garni si abbassò un attimo prima che il proprio avversario potesse colpirlo al volto, quindi lo falciò con un colpo dabbasso e quando l’altro perse l’equilibrio lo calciò in pieno stomaco, facendolo volare fuori dalla finestra. Diede un’occhiata veloce alla misteriosa ragazza: sembrava sapere il fatto suo. Poi, però, il Leonid che stava combattendo le afferrò la bandana, strappandogliela via e rivelando una folta capigliatura argentea, simile alla criniera di un leone, ma soprattutto due orecchie da felino. Incredibile!
Per lei fu come se avesse ricevuto un colpo in pieno volto e nel tentativo di nascondersi la testa il Leonid le fu addosso, urlando parole apparentemente incomprensibili:
«L’ho trovata! È la principessa Stella! È lei!»
«Lasciami andare! Lasciami and-»
Garni afferrò l’uomo-leone dalla nuca e lo scaraventò oltre la breccia che si era aperta quando era esplosa la porta.
«È così che si trattano le principesse?!» Esclamò, incamminandosi verso l’uscita per concludere una volta per tutte quella storia.
Stella si rimise in piedi e gli corse dietro, ormai dimentica delle orecchie leonine che spiccavano dalla criniera argentata.
Kewst ed Emeryl, i quali avevano assistito alla scena, sapevano che avrebbero dovuto lasciare quel luogo quanto prima e cancellare ogni traccia del loro passaggio. Era ormai evidente che qualcuno – Leonid e maghi dell’Accademia di Gamirhia a quanto sembrava – li voleva morti. O quantomeno fermare la loro missione. Re Vermyl aveva rivelato loro che la fonte del potere che aveva scatenato l’Era Glaciale in corso si trovava nel Regno di Iberia, dimora degli uomini-leone. Questo avrebbe spiegato il motivo dei continui attacchi da parte di quell’Ordine, ma i maghi? Che fossero invischiati anche loro?
Kewst rinsaldò la presa sulla propria arma, dicendo alla Din Nadair di occuparsi del mago alla sua destra, lui avrebbe pensato all’altro. Emeryl notò che la sua preda era già mezza stordita dal colpo precedente e si chiese se Kewst non avesse fatto quella scelta per agevolarla. Decise di dimostrargli che lei non aveva alcun bisogno di quelle gentilezze da femminucce, perciò si liberò facilmente del mago e, appena prima che Kewst potesse calare il colpo fatale sul proprio avversario, lo anticipò con una lingua infuocata. Kewst si voltò a guardarla, mentre lo raggiungeva con fare baldanzoso.
«Non ho bisogno di queste accortezze» gli sussurrò all’orecchio.
Kewst rinfoderò l’arma, abbozzando un sorrisetto sghembo. Forse era la prima volta che lo vedeva sorridere, perfino la cicatrice che gli attraversava il volto da parte a parte pareva rilassarsi. Era quasi bello.
«Va bene» disse solo, poi sentirono urlare Garni e si precipitarono all’esterno.
 
In realtà il giovane del Deserto aveva urlato di gioia. Dal nulla, proprio mentre stava per sferrare l’ennesimo calcio in pieno stomaco al Leonid, era spuntato Màs dal boschetto lì vicino e aveva conficcato i denti aguzzi nel polpaccio sinistro del nemico. Garni sguainò un pugnale dagli anfibi, pronto a sgozzare l’avversario inginocchiato davanti a lui, Màs lo teneva immobilizzato per una gamba, ma la ragazza – Stella – lo trattenne fermandogli la mano:
«Non lo uccidere!»
«Nel caso non lo avessi notato, ha cercato di farlo lui per primo!»
«Lo so, ma ti prego comunque di risparmiarli, entrambi.» L’altro uomo-leone giaceva supino sul terreno. «Te lo chiedo come favore personale.»
Garni la fissò negli occhi, erano così azzurri che sembravano di vetro. Gli sembrò che un orecchio si muovesse in un moto nervoso, proprio come fanno i gatti, poi capì: anche lei apparteneva alla schiera dei Leonid e, chissà perché, le stavano dando la caccia. Abbassò il braccio, lentamente.
«Se ci riprovano, però, li decapito» aggiunse e Stella annuì prima di rivolgersi al Leonid ai suoi piedi.
«Di’ pure a mio fratello Globo e al suo leccapiedi Shuva che sì, io sono ancora viva e con me il desiderio di liberare la mia gente! Va!» La ragazza accompagnò l’ultima sillaba con un cenno del braccio, l’uomo chinò il capo e piano piano si trascinò lontano.
Stella sospirò, pronta ad affrontare Garni e le mille domande che sicuramente le avrebbe rivolto, forse gli doveva anche un favore. Si voltò indietro, fece per parlare, ma contro ogni sua previsione lo trovò sdraiato di schiena con il lupo comparso dal nulla a leccargli la faccia. Rideva e Stella non poté fare a meno di sorridere a sua volta.


 
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Capitolo 5
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CAPITOLO
QUINTO

 
 
 
Kewst tirò su il secchio pieno d’acqua che aveva riempito nel pozzo, sito alle spalle della locanda, la stessa dove si erano fermati la sera prima ed erano stati attaccati. Avevano deciso di fermarsi comunque lì per trascorrere l’Ora della Stella Nera: mettersi in viaggio con il buio non era una buona idea.
Si spogliò della parte superiore della corazza, sgranchendosi i muscoli ancora addormentati. La sua schiena era una cartina di vecchie cicatrici, ricordi del suo passato tormentato. Immerse le mani nell’acqua e prese a lavarsi. Sapeva che l’acqua era gelida, così come le temperature, ne era consapevole, ma lui non lo avvertiva quel freddo di cui tutti si lagnavano, grazie ovviamente al Sangue di Gigante che gli scorreva nelle vene. Quando ebbe finito, si asciugò meglio che poteva e fu in quel momento che sentì uno scricchiolio alle spalle, simile a un rametto spezzato. Piano, si mosse in quella direzione, inoltrandosi nella fitta boscaglia che costeggiava la via. La nebbia non si era ancora diradata del tutto, ma per Kewst non fu un problema…
 
Garni sbadigliò vistosamente, seduto sul bancone della locanda mentre mangiava una fetta di pane raffermo, sulla quale aveva spalmato una conserva alla frutta. Màs era sdraiato ai suoi piedi, il muso adagiato sopra le zampe anteriori e gli occhi socchiusi. Emeryl e Stella erano sedute a un tavolo e discutevano, come aveva fatto la sera precedente. La Din Nadair, in particolare, stava rimproverando l’altra per il comportamento che aveva avuto in quegli anni, in cui tutti l’aveva creduta morta. Secondo lei, infatti, avrebbe dovuto lottare contro il fratello Globo e riprendersi ciò che le spettava di diritto, ossia il trono di Iberia. Come aveva potuto lasciare che il suo paese cadesse nelle mani di un delinquente? Stella, in tutta risposta, teneva il capo abbassato e le mani strette l’una nell’altra.
Kewst entrò nella locanda, ma non era solo. Lanciò, letteralmente, un giovane che cadde disteso sul pavimento. Lo sconosciuto si mise seduto, protendendo le braccia in avanti temendo che potessero attaccarlo, le orecchie a punta spiccavano fra i capelli castani. Emeryl e Stella scattarono in piedi e anche Màs sembrò attento a ciò che accadeva.
«Chi è, Kewst?» Chiese l’incantatrice.
«Dice di chiamarsi Damien. Ci seguiva.» Kewst strinse i pugni. «È un mago di Gamirhia.»
Garni fischiò, mordendo un altro pezzo di pane.
«Sei una spia, elfo?» Emeryl gli puntò contro il bastone.
«No, no! Aspettate, non sono una spia! Ve lo giuro!» Damien scosse la testa e i palmi sollevati. «Vi ho seguiti, è vero! Ma solo perché volevo aiutarvi.»
«Aiutarci?» Ripeté la Din Nadair.
«Sì, sì! Conosco la vostra missione e penso di sapere come fermare il Grande Gelo.»
Emeryl scoppiò a ridere, ritirando l’arma.
«Noi abbiamo già un piano, mago!» Disse poi.
«Lo so: l’Antica Pergamena e il Sangue di Ve’Rah…» Damien guardò il giovane del Deserto alle sue spalle.
Anche Stella lo fece, quasi non credendo a ciò che aveva appena sentito. Garni era il figlio della dea del Fuoco Sacro? Allora era vero, non l’aveva presa in giro quella notte, quando le aveva raccontato quale fosse la sua missione.
«Avete già letto le antiche parole riportate sulla Pergamena?» Chiese Damien.
Kewst ed Emeryl si guardarono, quel ragazzino sapeva davvero molto sul loro conto. Avrebbero fatto bene a rispondergli sinceramente, oppure era meglio tacere?
«Alcuni maghi di Gamirhia ci hanno attaccato. Tu indossi la loro tunica, sei un elfo... Perché dovremmo fidarci di te?» Continuò la donna.
«Mezz’elfo, da parte di madre» o almeno così gli era stato raccontato. «Non faccio più parte dell’Accademia, l’ho lasciata tempo fa…» Mentre lo diceva, sfiorò la spilla di zaffiro sulla spalla sinistra. «L’Arcimago Meldor è coinvolto nella vicenda della IV Era Glaciale e io voglio fermarlo.» Pausa. «Credetemi!»
Màs gli saltò addosso, cominciando a leccargli la faccia, ululando e scodinzolando. Garni balzò dal bancone con agilità, piegandosi su un ginocchio per tirare via il lupo.
«Io ti credo» affermò e gli occhi di Damien si spalancarono di gioia.
«Gar, forse dovremmo prima discuterne» intervenne Emeryl.
«Se uno sta simpatico al mio lupo, allora vuol dire che è apposto.»
«Lupa…» fece Damien. «È una femmina».
«Ti fidi così tanto del parere del tuo animale che non ti sei neanche accorto che è una femmina. Perfetto!» Lo canzonò l’incantatrice bionda.
«Io perlomeno non vado in giro indossando animali morti» rispose Garni, tornando in piedi e tendendo una mano al giovane mago, il quale l’accettò volentieri.
«Questo è il mantello delle Din Nadair! Ma che ne vuoi sapere tu!»
«So solo che è un cervo morto!»
Emeryl e Garni si fissarono negli occhi. Lei accigliata, adirata, lui con la sua calma irritante.
«Mettiamoci in marcia. Abbiamo già perso troppo tempo» concluse la donna, uscendo per prima dalla locanda.
«Mi dispiace aver creato problemi» si scusò Damien chinando il capo. Garni gli batté una mano sulla spalla, erano alti uguali.
«Cos’è che sai fare, mezz’elfo?»
«Sono un mago guaritore!»
Stella fu l’ultima a lasciare il locale, seguendoli a capo chino fino alla fattoria dall’altra parte della strada. Nessuno le aveva detto nulla, nessuno le aveva chiesto che intenzioni avesse. Era come se dessero per scontato che li seguisse. Li vide montare sui rispettivi cavalli, poi finalmente Garni le parlò:
«Monti con me?» Occhiolino.
Emeryl scosse il capo, sbuffando, poi lasciò che il suo destriero trottasse fino a mettersi fra Stella e il giovane di Niihel.
«Stella sta con me. Tu prendi il mago.»
«Che vita grama» fu il commento di Garni, prima di rivolgersi a Kewst. «Tu che ne pensi, guerriero?»
«Meglio andare.» Disse solo.
 
 
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Viaggiarono per diversi giorni, sostando nei piccoli e anonimi villaggi che incontravano lungo la strada. Scoprirono che Damien li conosceva tutti e, in più di un’occasione, le persone lo salutarono felici per aver salvato un proprio figlio o una moglie morente.
Anche Stella sapeva molti luoghi, segno evidente della sua lunga latitanza in giro per Magena.
Erano ormai arrivati al confine del Continente Verde, pochi chilometri ancora e sarebbe stata giurisdizione del Sultano di Agran. Ma loro erano diretti al piccolo Regno di Niihel, penultima fermata prima di raggiungere Vhulchanius, tempio della dea del Fuoco Sacro, nell’estremo est.
Avevano cavalcato fino all’esaurirsi dell’Ora dell’Alba Inoltrata, quando la Stella Chiara sfiora il mare a oriente e le ombre si accorciano. Sostarono per rifocillarsi e lasciar pascolare i cavalli, sedendo intorno a un piccolo falò. Dietro di loro si stagliava il mare: un’immensa distesa di acqua grigia e gelida.
Garni guardò Stella di sottecchi, era seduta di fronte a lui ma teneva la testa rivolta indietro, gli occhi persi all’orizzonte. Perfino lui sapeva che in quella direzione c’era Iberia. Spezzò un pezzo di pane che stava mangiando e lo diede a Màs.
«A-avete consultato l’Antica Pergamena?» Era stato Damien a irrompere nel silenzio.
«No» rispose Emeryl. «Non è compito nostro.»
Ci fu silenzio, poi Kewst decise di parlare:
«È bianca. Completamente.» rivelò.
Damien mosse il capo avanti e dietro, annuendo.
«Posso vederla?» Chiese.
La Din Nadair guardò Kewst e quando questo fece un cenno di assenso, la donna si sfilò la pergamena da sotto il mantello e gliela porse. Anche Stella adesso era interessata alla conversazione. Damien srotolò il foglio ed effettivamente constatò che non c’era scritto nulla. Niente di niente.
«Viene chiamata Antica Pergamena del Drago, giusto?» Pareva parlare più fra sé e sé che con gli altri. «Cosa sappiamo sui Draghi?»
Kewst allora gli porse il foglio che aveva strappato dal tomo conservato nella biblioteca reale di Magena, sostenendo che, stando a quella leggenda, i Draghi erano gli antenati della dea Ve’Rah.
«Il cui Sangue scorre nelle tue vene» aggiunse il mago indicando Garni, perciò lo invitò ad allungargli il braccio. Il giovane di Niihel lo fece e Damien fu così scaltro a ferirlo alla mano con un coltellino che Garni quasi non se ne accorse.
«Ahi!» Esclamò solo, tirando via l’arto e controllandosi la ferita al centro del palmo. Alcune gocce di sangue però erano cadute sulla pergamena. Per qualche istante non accadde nulla, ma all’improvviso lettere, parole e infine frasi intere cominciarono a comparire sul foglio dapprima immacolato. Sembrava che ci fosse un calamaio invisibile che scrivesse davanti a loro.
«Incredibile!» Sussurrò Stella «Ma cosa c’è scritto?»
In effetti, ciò che il sangue aveva rivelato sulla pergamena era incomprensibile. Si trattava di una scrittura antichissima, molto simile a geroglifici.
«Beh, suppongo che il Sommo Sacerdote sappia interpretarla» disse Emeryl.
«Immagino di sì» sospirò Damien.
Kewst rimase in assoluto silenzio, tenendo lo sguardo fisso sulle parole comparse. Lui sapeva cosa c’era scritto, aveva studiato Scrittura Arcana con Decilius e non era un messaggio neanche tanto complicato da comprendere, ma preferì tenere il segreto. Non era quello il compito che gli era stato affidato: semplicemente, avrebbe dovuto consegnare la Pergamena – e Garni – al Sommo Sacerdote di Ve’Rah.
Quando rinvenne dai suoi pensieri, incrociò lo sguardo con quello di Stella: la ragazza, infatti, lo stava scrutando con un cipiglio fra gli occhi ridotti a due fessure.
Emeryl arrotolò la Pergamena e la mise al sicuro, poi incoraggiò tutti a riprendere il cammino.
«Fra qualche miglio dovremmo incontrare un piccolo villaggio, potremmo fermarci» Affermò Damien, arrampicandosi alle spalle di Garni.
«Sei molto informato» notò quest’ultimo.
«Diciamo che ho viaggiato molto per…» il mago soppesò bene le parole da pronunciare. «… per curare gli ammalati.»
Stella attese che Emeryl salisse in groppa al proprio animale, stava ancora sbirciando Kewst quando la donna richiamò la sua attenzione.
«Vado con Kewst» disse la principessa di Iberia, inerpicandosi alle spalle del guerriero, il quale si irrigidì come un tronco d’albero. Non gli piaceva trovarsi troppo vicino a un’altra persona, men che meno intuendo che questa aveva qualcosa da chiedergli.
Damien stava ancora parlando della sua vita di mago guaritore itinerante, ma il suo interlocutore aveva la mente altrove. Garni stringeva le redini con forza, domandandosi perché Stella avesse scelto di cavalcare con il guerriero di ghiaccio e non con lui. Distolse lo sguardo, sentiva la rabbia pulsargli nelle tempie. Gli dava fastidio? Certo che sì! La vide cingergli il ventre e d’istinto colpì il suo cavallo con un tallone, spronandolo a partire a gran velocità. Il mago si strinse a lui appena prima di cadere all’indietro. Màs lo seguì di gran carriera.
«Gar, rallenta!» Emeryl lo seguì, bofonchiando insulti irripetibili per una donna del suo rango.
Infine, si mossero Kewst e Stella, la quale gli ordinò di moderare l’andamento del cavallo.
«Perderemo di vista gli altri»
«Li ritroveremo» aggiunse lei. «Cosa hai visto, Kewst?»
«Non capisco.»
Stella tirò le redini e l’animale frenò bruscamente. Saltò sul terreno roccioso, puntandogli addosso il suo sguardo colmo di avvertimenti, osservandolo dabbasso:
«Sì che capisci! Non fingere con me! Cosa c’era scritto sulla Pergamena?»
Kewst deglutì. Non poteva dirglielo, sarebbe corsa da Garni a rivelargli tutto e, con ogni probabilità, la missione sarebbe fallita e la colpa sarebbe stata sua. Una volta, almeno una, voleva dimostrare a se stesso di essere in grado di portare a compimento un dovere, un incarico. Se la IV Era Glaciale fosse finita, sarebbe stato anche merito suo, giusto? Così, suo padre non avrebbe avuto nulla da rimproverargli, non questa volta. Ma quella piccola Leonid rischiava di far saltare tutto, doveva mentire, sebbene andasse contro ogni sua morale.
Kewst Lamarcana fece per spiegarle che nessuno sarebbe stato in grado di decifrare quella scrittura, se non il Sommo Sacerdote, quando sentirono Garni urlare il nome di Màs. Entrambi voltarono l’attenzione sulla strada che si dipanava davanti a loro e che pareva cadere a picco sul mare, poi un lampo di luce bianca avvolse ogni cosa.
«Garni» disse solo Kewst, partendo al galoppo.
«Garni, cosa?» Ripeté Stella, mentre l’altro si allontanava. «Aspetta!» Il suo corpo si trasformò: gli arti divennero zampe, la bocca si allungò fino a diventare un muso, i capelli si tinsero di arancione, solo le orecchie da felino rimasero identiche. Divenuta un leone, si mosse all’inseguimento del compagno a cavallo, con tutte e quattro le zampe a terra.
La luce bianca era tuttavia troppo luminosa e accecante per sperare di scorgere qualcosa. Sentivano solo il respiro affannoso di Garni e i rantoli strozzati di qualcun altro. Poi, d’improvviso, così come era comparsa, la luce si diradò, rivelando un vero e proprio campo di battaglia, sul quale si ergeva un unico vincitore: Gar di Niihel. Ai suoi piedi, si contavano almeno cinque avversari, tre Leonid – sgozzati – e due giovani maghi di Gamirhia.
Damien accorse immediatamente, inginocchiandosi accanto a ciascun corpo e scuotendo il capo chiuse loro gli occhi.
«Non aveva neanche sedici anni» sospirò, sull’ultimo cadavere.
Stella tornò nella sua forma umana, la testa china e le lacrime trattenute a stento dalle unghie ficcate nei palmi. Gliel’aveva detto, in fondo, la sera che si erano conosciuti: se ci avessero riprovato, li avrebbe sgozzati. Beh, il Sangue di Ve’Rah era stato di parola. Sentì Damien chiamarlo per nome e rialzò lo sguardo, vedendo Garni – la camicia chiara aperta fino a metà torace era zuppa di sangue – oscillare avanti e indietro, premendosi i polsi contro le tempie, la scimitarra con le rune di luce ancora stretta nella mano destra e le palpebre strizzate.
«Garni, che cos’hai?» Damien lo sostenne.
«Màs» biascicò. «Màs è…»
Il mago aprì i palmi sul capo dell’amico e un tenue bagliore caldo prese ad avvolgerlo. Piano, il dolore parve sciogliersi e i mille aghi conficcati nelle pupille lo lasciarono in pace. Riaprì gli occhi, attese qualche istante che la vista tornasse normale, poi si mosse, ancora barcollando, verso la lupa riversa al suolo pochi metri più in là. Una grossa ferita le correva lungo la pancia, la cui pelle era stata squarciata, molto probabilmente opera di uno dei Leonid poiché erano chiari i segni degli artigli. Màs era ancora viva, ma respirava a fatica. Il ventre andava su e giù convulsamente e quando cercò di sollevare il capo per salutare il padrone non ci riuscì.
Garni era sconvolto, il volto rigato di lacrime. Avrebbe voluto accarezzare la propria bestia, ma aveva paura di farle male, continuava a ripetere il suo nome come un mantra. Per la prima volta, gli altri videro una persona diversa dal solito ragazzo allegro e frivolo, menefreghista per certi versi.
Stella si voltò dall’altra parte, vergognandosi di farsi vedere a frignare come una bambina.
«Allora a qualcosa ci tieni.» Disse Emeryl, il tono derisorio, mentre riponeva la propria arma sulla schiena e si acconciava il verde mantello delle Din Nadair.
Garni si rimise in piedi urlando tutta la sua frustrazione, afferrò uno dei tanti pugnali che teneva nascosti sul corpo e si scaraventò addosso alla donna, minacciandola con l’arma alla gola e sbattendola contro un tronco alle sue spalle. Alcune foglie rinsecchite caddero dall’alto e planarono ai loro piedi, silenziose. Emeryl gridò di lasciarla andare o se ne sarebbe pentito amaramente. Garni non era più alto o più grosso di lei, come Kewst, ma aveva una forza incredibile.
O forse era solo la forza della disperazione?
«Rivolgiti a me ancora una volta con quel tono e giuro ti uccido!» Le parlò a una spanna dal viso, premendole sempre più il coltello alla gola. La lama e le dita si macchiarono del suo sangue.
«Posso aiutarla» disse Damien, inginocchiato al fianco della lupa, ma nessuno lo sentì.
«Fammi vedere, Gar di Niihel, Sangue di Ve’Rah. Fammi vedere come fai, forza!» Gli occhi azzurrissimi di Emeryl si velarono di bianco, la testa si piegò all’indietro, mentre in lontananza si udiva il rimbombo di un tuono.
Dita gelide e tremendamente possenti si chiusero intorno al polso di Garni, tirandolo via dalla gola di Emeryl e facendogli perdere la presa sul pugnale. Kewst guardò il ragazzo dritto negli occhi, era grosso il doppio di lui e forse ancor più forte.
«Adesso basta» disse.
Emeryl, finalmente libera, si accasciò contro il tronco, tossendo e avvolgendosi il collo con entrambe le mani; Kewst l’aiuto a bere. In lontananza il cielo era tornato sereno.
«Garni» Stella gli si accostò, ma l’altro la superò senza degnarla di uno sguardo. «Gar…».
Il giovane raggiunse Damien e Màs, le cui ferite sembravano meno profonde ora e qualche graffio che teneva sparso sulla pelliccia addirittura rimarginato. Si mise seduto con le gambe incrociate, prendendo a carezzarle la testa, grattandola dietro le orecchie, proprio dove sapeva le piaceva di più.
«Ho sempre saputo che era una femmina» disse, senza smettere di coccolarla. «Ma preferivo far credere agli altri che fosse un maschio, così sarei sembrato più ganzo.» Alle sue spalle sentì i passi di Stella, Kewst ed Emeryl ovattati dal fogliame e non fu difficile immaginarli in piedi, a fissarlo. In attesa. «Non mi scuserò» cominciò, alzandosi e voltandosi per guardarli in viso uno per uno. Emeryl aveva ancora del sangue incrostato e il collo arrossato si stava gonfiando. Avrebbe potuto ucciderla, le sue ossa e la sua pelle erano così tenere che avrebbe tranquillamente potuto tagliarle la giugulare e nessuna magia sarebbe mai stata in grado di salvarla. Eppure, non provava pena.
«Non mi scuserò con voi. Nessuno di voi.»
Emeryl fece per parlare, portandosi una mano intorno alla gola, la voce le uscì strozzata. Era chiaro che provasse dolore. Kewst, però, le fece cenno di tacere: il viaggio era quasi terminato, una discussione si sarebbe rivelata alquanto sterile. Damien si avvicinò alla Din Nadair, chiedendole di lasciargli controllare la ferita, poi si rivolse a Garni, informandolo che Màs era fuori pericolo, ma aveva bisogno di qualche petalo di Achillea per preparare un unguento ed evitare che le ferite si infettassero.
«Dovresti trovarne qualcuno ai piedi del promontorio» aggiunse.
«Achi-che? Io non so distinguere un fiore da un ortaggio» ammise senza alcun imbarazzo il giovane di Niihel.
«Vado io» intervenne Stella. «Quanti te ne servono?»
«Cinque andranno bene. Grazie.»

Stella si allontanò diversi metri prima di tornare alla forma leonina, grazie alla quale sarebbe stato più semplice muoversi nelle rientranze rocciose e scendere sulla costa sabbiosa.
Era intenta a studiare alcune erbacee che crescevano lì vicino, trovò ciò che cercava e ne strappò tre steli, attenta a non rovinare la corolla, quando avvertì la presenza di qualcuno, ma non si allarmò: aveva imparato a riconoscere il suo odore, inoltre in quella forma ferina l’olfatto era oltremodo sviluppato.
«Sei molto carina anche così» scherzò, senza ottenere risposta. «Grazie per i fiori» aggiunse, indicandoli.
«Non ti illudere, non l’ho fatto per te. Anche io voglio bene a Màs.» Stella lo oltrepassò per cercare altri esemplari di Achillea.
«Lo so. Ti ringraziavo a nome suo» ancora silenzio. «Non ti chiederò scusa per i Leonid che ho ucciso, lo sai vero?»
«Lo so, mi avevi avvertito. Forse dovresti farlo con Emeryl.»
Gar di Niihel abbassò la testa e Stella si avvicinò.
«Potevi ucciderla» aggiunse lei.
«Ha quel suo modo di fare da superiore che mi dà sui nervi!» Garni sospirò, aveva ancora la camicia sporca di sangue, perciò Stella gli ordinò di toglierla, dopo aver raccolto altri due fiori. Garni sollevò un sopracciglio, arricciando le labbra.
«Muoviti, idiota! Non puoi stare con quella camicia macchiata!» Stella sorrise, mentre lo osservava tirarsi via la blusa e metteva in mostra il tatuaggio, il torace magro, ma definito, e la ciocca colorata che sulla pelle olivastra spiccava come non mai. Era bello Garni, doveva ammetterlo. E quando sorrideva con sincerità, senza camuffamenti, il viso pareva illuminarsi. La ragazza gli porse i fiori e prese in consegna l’indumento, quindi si diresse alla riva del mare e cominciò a lavarlo. Garni la seguì.
«Kewst ha visto qualcosa» cominciò lei. «Sulla Pergamena intendo.» Si alzò e fronteggiò il giovane, alto appena qualche centimetro in più. «Garni, penso che sia pericoloso andare al tempio.»
«Lo so.»
«Lo sai? E ci andrai comunque?»
Il giovane puntò i suoi occhi felini sull’orizzonte.
«Quando ho visto Màs in quelle condizioni... Ho provato una paura assurda e ho capito che comprendiamo quanto teniamo a qualcosa troppo tardi.» Guardò Stella. «Andrò al tempio e salverò il mondo perché ci sono responsabilità da cui non possiamo fuggire e persone a cui non voglio rinunciare.»
«Ad esempio?» La ragazza si pentì immediatamente di quella domanda.
Cosa si aspettava che rispondesse?
Garni sorrise, dolce:
«Andiamo, Màs ha bisogno di questi» concluse lui, mostrando i fiori.  


 
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Capitolo 6
*** ​Ϯ CAPITOLO ẟESTO Ϯ ***




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CAPITOLO
ESTO

 
Il Regno di Niihel era una roccaforte nel bel mezzo del deserto. Le mura alte e spesse proteggevano una cittadina vivace e colorata, le cui stradine si districavano fra abitazioni di mattoni dello stesso colore ambrato della sabbia.
Il bazar nella piazza centrale era un turbinio di sfumature calde e di odori forti, penetranti, ma non nauseanti. Alle spalle di alcuni venditori ambulanti, sopra un’insegna di legno, era inciso il muso stilizzato di un lupo: la tana della gilda “I Lupi di Niihel”.
Garni spalancò le porte a due battenti ed entrò nel locale con le braccia spalancate e un gran ghigno sulle labbra, inspirando profondamente:
«Aria di casa!» Esclamò.
I pochi presenti urlarono di gioia, qualcuno fischiò con entrambe le dita in bocca, qualcun altro sollevò un boccale di vino dandogli il bentornato.
Alle spalle del giovane, i compagni studiarono l’ambiente che li circondava: il posto all’apparenza ricordava una taverna, ma non lo era, non nel senso stretto del termine. Più tardi, lo stesso Garni spiegò loro che quella era la base dei Lupi, dove trascorreva la maggior parte del tempo, quando non era in missione.
«Ehi, bellezza!» La voce baritonale di Dun’Gar tuonò contro le assi di legno. L’uomo discese le scale passo dopo passo, le braccia aperte in attesa di un abbraccio che non tardò ad arrivare. Gar, infatti, lo strinse forte, e il padre lo sollevò di qualche centimetro da terra, poi gli diede un paio di buffetti affettuosi sulla guancia. Quindi si rivolse al resto della compagnia, presentandosi come Dun’Gar, capo della gilda, invitandoli a mettersi comodi: gli amici di Garni erano i benvenuti. Esitò qualche secondo di più su Kewst, il quale chinò lo sguardo sentendosi osservato e temendo che lo avesse riconosciuto. Non a caso, dopo cena, Dun’Gar lo raggiunse sul portico e, mentre fumava la sua pipa, con gli occhi puntati al cielo, gli chiese se fosse il figlio di Kobin Lamarcana e Anthalia Fiammardente. Il guerriero annuì, affermando che tuttavia preferiva essere il figlio di nessuno. L’uomo aveva tirato una lunga boccata di fumo e non aveva detto più nulla.
Quella sera stessa, il capo dei Lupi raggiunse Garni nella sua stanza. Lo trovò seduto sul davanzale della finestra aperta, gli occhi fissi all’orizzonte, dove si poteva scorgere il Tempio di Vhulchanius.
«Pensi all’innamorata?» Gli chiese scherzoso.
«Forse sì» rispose il giovane, mentre Màs ululava alla luna nel cortile interno.
«Immagino ti debba delle spiegazioni.»
«Non sei costretto. Ho sempre pensato che fossi un trovatello.» Gar fece spallucce. «Niente madre, nessuna somiglianza tra di noi, occhi da gatto…»
Dun’Gar abbozzò un sorriso:
«Sei uno sveglio, tu. Per questo, non riesco a capire perché domani andrai al tempio. Sai cosa ti aspetta? L’hai capito, ma capito davvero
«Nessuno sa di preciso cosa mi faranno, magari sarà un taglietto alla mano...»
«Parlano di sacrificio per un motivo!» Dun’Gar parve rimproverarlo con un’occhiata.
«Non ho scelta.»
«C’è sempre una scelta…»
«Se non lo faccio vi condannerò tutti!» Affermò il giovane di Niihel. Il suo era sempre stato un futuro incerto, credeva che avrebbe passato i giorni fra scorribande e amori voluttuari, mai si sarebbe aspettato che nelle sue vene scorresse il sangue di una dea e che perciò avrebbe dovuto sacrificarsi.
Già, ma fino a che punto?
Dun’Gar fissò negli occhi suo figlio. Era cambiato. Il ragazzo che conosceva si sarebbe ribellato, adesso invece pareva accettare il proprio destino.
Perché?
Cos’era cambiato?
«Sei davvero innamorato» sospirò l’uomo. «Chi è? La Leonid?»
Garni sorrise e tornò a guardare le stelle, scuotendo il capo.
«Hai messo su una compagnia importante: due principesse spodestate, il figlio di Lamarcana che credevamo morto…»
«Sai tante cose…»
«Garni, Garni, Garni» sospirò l’altro «Non posso fermati. Ho sempre permesso che fossi tu a scegliere il tuo destino e non cambierò rotta adesso. Ma voglio che tu sappia una cosa», gli afferrò il viso con entrambi i palmi. «Ti voglio bene, sei mio figlio e se non vorrai farlo combatterò al tuo fianco. Dovessi scatenare una guerra con gli altri regni!»
Garni lo abbracciò forte, volgendo lo sguardo al cielo per ricacciare indietro le lacrime. Di sotto, Màs aveva smesso di ululare, adesso teneva il muso verso l’alto e la coda bassa.
 
 
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Il Tempio di Vhulchanius, di puro oro colato, era stato plasmato sulla roccia del vulcano stesso, al cui interno ospitava la Sacra Fiamma di Ve’Rah. Era una struttura piramidale, aperta alla sommità per permettere al fumo di fuoriuscire. Era visibile già a chilometri di distanza, grazie anche ai raggi della Stella Chiara che vi si riflettevano addosso, emanando riverberi in lungo e in largo. L’entrata consisteva in un enorme bocca cavernosa, presidiata da due sacerdoti di Ve’Rah.
Garni e il resto della compagnia si erano messi in marcia durante l’Ora dell’Alba Nascente, silenziosi come non lo erano mai stati. Solo il giovane Sangue della dea scherzava, provando a stemperare la paura che gli torceva le viscere. Màs camminava al suo fianco, mogia, quasi come se sapesse che presto avrebbe dovuto salutare il suo adorato padrone.
Giunti dinnanzi all’ingresso, si presentarono ai seguaci della Fiamma Sacra, mostrando la Pergamena del Drago come segno tangibile della loro identità. Ma gli uomini vestiti di porpora dissero che il solo Figlio di Ve’Rah poteva oltrepassare le porte divine del tempio, gli altri ne erano banditi.
Stella provò a replicare, ma Emeryl la rimproverò:
«La nostra missione è finita.» Tirò le redini del cavallo e fece per intraprendere la strada a ritroso, poi si fermò per aspettare gli altri.
«E così dobbiamo salutarci…» sospirò Gar, sforzandosi di sorridere.
Kewst gli tese la mano, non era bravo con le parole lui e nemmeno con i gesti affettuosi. Era riuscito nel suo intento di portare a termine quella missione, avrebbe dovuto essere orgoglioso di aver dimostrato che valeva qualcosa, che non era un perdente come lo definiva suo padre. E allora perché si sentiva così… colpevole?
Garni gliela strinse:
«Su con la vita, amico» gli augurò.
«Va bene» furono le uniche due parole che l’altro riuscì a pronunciare.
Poi il giovane di Niihel sorrise a un Damien commosso.
«Sono in debito con te per aver salvato Màs.»
Damien lo abbracciò forte, sussurrandogli all’orecchio che era ancora in tempo per tirarsi indietro, avrebbero trovato un altro modo per fermare il Grande Gelo. Garni lo allontanò da sé tenendolo per le spalle:
«Ti affido Màs. So che te ne prenderai cura.»
Stella teneva le braccia conserte e lo sguardo puntato altrove, quando intuì che Garni la stava osservando si asciugò il viso dalle lacrime in un gesto furtivo:
«Sei un idiota!» Esclamò.
Garni ridacchiò, prendendole una mano per lasciarle cadere al centro una catenina con un ciondolo di ametista.
«È l’amuleto di De’bhella, la dea dell’Amore» spiegò il ragazzo.
«Lo so chi è De’bhella. Idiota!» Aggiunse lei fra i denti. Gar non smise di sorridere mentre le chiudeva le dita intorno alla pietra violacea.
«Voglio che sia tu a tenerla» concluse, posandole poi un bacio sulla fronte, ma Stella era tornata con le braccia conserte e il volto girato.
Infine, Garni si inginocchiò dinnanzi a Màs, accarezzando la sua pelliccia morbida e grigia, l’animale gli leccò una guancia.
«Io e te adesso dobbiamo salutarci, ma tu fai la brava e non cacciarti nei guai, me lo prometti?» La lupa abbaiò una volta soltanto: come risposta andava più che bene.
Il giovane del Deserto si rialzò, guardando Emeryl che gli dava le spalle.
«Mi dispiace» le disse. «Non volevo farti del male quella volta, quando Màs è stata ferita.»
La Din Nadair non rispose, si allontanò al trotto, stringendosi alle redini e piangendo come non faceva da tanto, tanto tempo.
Kewst, Stella e Damien attesero che Garni s’inoltrasse nel tempio, lo videro pian piano sparire, scortato dai sacerdoti. Màs si accucciò lì davanti e, nonostante tutti i tentativi della Leonid e del mezz’elfo, non ci furono versi di smuoverla.
«Ci raggiungerà quando sarà pronta» affermò il guerriero, alzando un’ultima volta gli occhi sull’imponente e dorata struttura fumante.
 
 
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Durante l’Ora della Stella Nera le temperature calavano di parecchio in quell’angolo di deserto. La forte escursione termica, però, era aumentata da quando era cominciata la IV Era Glaciale e sembrava peggiorare senza tregua.
Stella era in piedi sulla veranda della tana dei Lupi, studiando il ciondolo che Garni le aveva regalato. In lontananza, si distingueva nitidamente il fumo che si alzava dal tempio di Ve’Rah. Lo fissò per qualche istante, chiedendosi cosa stesse facendo Garni, se stesse bene, se avesse già trovato un’altra bella ragazza da corteggiare. Magari una vestale della dea… E Màs? Era ancora lì, dove l’avevano lasciata?
Kewst sedeva dietro di lei, intento ad affilare le armi.
«L’amuleto dell’Amore» la voce profonda di Dun’Gar irruppe nelle sue domande e Stella balbettò un sì. Il capo della gilda si accese la pipa, inspirò e poi lasciò andare una densa nuvola di fumo, tenendo gli occhi fissi sull’oscurità. «Nel Regno di Agran c’è un’antica leggenda su De’bhella. Si racconta che fosse innamorata di un guerriero mortale, il quale era solito regalarle un frammento di ametista quando partiva per le sue missioni, promettendole che sarebbe tornato per riprenderselo. Si capisce che era un pegno d’amore, no? Per questo motivo, noi dell’Est, abbiamo l’usanza di lasciare un ciondolo di ametista alla persona amata quando dobbiamo allontanarci per un lungo viaggio, con la promessa che torneremo sempre indietro, per riprendercelo.»
Stella fissò la pietra viola, senza sapere bene cosa rispondere, poi un lampo di luce rossastra si espanse dalla bocca del vulcano.
«È cominciato» affermò Dun’Gar, spezzando il bocchino con le sole dita.
«Cosa è cominciato?» Chiese Stella.
«Il rito» l’uomo rientrò nel locale tenendo i pugni chiusi e le spalle ingobbite.
La ragazza lo osservò andare via, senza capire veramente a cosa si riferisse, poi il rumore del grosso martello di Kewst che sbatteva sul soppalco di legno la fece sobbalzare. Lo guardò, seduto con le spalle tremolanti contro il muro e la testa fra le ginocchia.
«Kewst?»
«Lo uccideranno» singhiozzò. «Gli strapperanno il cuore dal petto e lasceranno che si dissangui come un… un animale! E io non l’ho fermato. Non ho fatto niente per fermarlo! E perché? Perché volevo dimostrare a mio padre che sapevo fare qualcosa, che ero bravo a portare a termine una missione?! E intanto, ho mandato a morire un amico!»
Stella lo fissava con gli occhi sgranati, il cuore impazzito e un solo pensiero nella testa.
«Va a chiamare gli altri! Io sello i cavalli.» Gli ordinò.
Pochi minuti dopo, Dun’Gar li vide partire al galoppo in pieno buio, quando anche le stelle vanno a dormire, diretti al Tempio di Vhulchanius e la speranza si riaccese.


 
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Capitolo 7
*** Ϯ CAPITOLO ẟETTIMO Ϯ ***



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CAPITOLO
ETTIMO

 
Appena prima di perdere i sensi, Garni udì la voce di Stella che lo chiamava. Mani e piedi gli erano stati legati all’altare a forma di croce al centro della sala, nel Tempio di Vhulchanius, sotto di lui si agitavano le Fiamme Sacre della dea. Una vestale di Ve’Rah, cavalcioni sul giovane, impugnava uno stiletto dorato, mormorando una preghiera incomprensibile, mentre gli tagliava in due la blusa. Garni pensò che avrebbe anche potuto provare soddisfazione in una posizione del genere, se non stesse rischiando di morire. Era frastornato, a causa dell’infuso che gli avevano fatto bere. Oramai riusciva a distinguere solo sagome indistinte, ma sapeva che l’uomo vestito di bordeaux sulla balconata superiore era il Gran Sacerdote e che teneva davanti a sé la Pergamena del Drago.
Poi sentì Stella urlare il suo nome e si voltò verso la fonte da cui era provenuta la voce. Gli parve di scorgere la Leonid, e forse c’erano anche gli altri… ma la vista si offuscava sempre più.
La lama sottile del pugnale gli si conficcò proprio al centro del petto, trafiggendo il muso del lupo che teneva tatuato. Fu un dolore acuto, profondo, lacerante. Svenne quasi subito, mentre il sangue scorreva da entrambi i lati del torace e gocciolava nelle fiamme sottostanti. Il Sommo Sacerdote sollevò i palmi e intonò una specie di litania, un mantra antichissimo e potentissimo. Le fiamme, dapprima dormienti, divamparono e avvolsero la giovane Vestale, la quale stava spingendo sempre più a fondo la lama nel petto del Figlio della dea. Ma quando la raggiunsero, dapprima gridò di dolore, poi la incenerirono. Garni invece non bruciò, sebbene il fuoco lo avesse ormai avviluppato tutto.
Sulle due rampe di scale, che circondavano l’altare sacrificale e che portavano alla balconata superiore occupata dal Gran Sacerdote, c’erano una decina di altri seguaci della dea, cinque per parte, inginocchiati in preghiera.
«Garni! Garni!» Stella fece un paio di passi per raggiungerlo, ma una lingua di fuoco le serrò la strada. Era stato uno dei sacerdoti, i quali presero a scendere le scale in ordine, senza scomporsi. Con le mani giunte invocarono esseri di fuoco grossi quanto querce e dalla pelle coriacea come le pareti del vulcano.
«Cosa sono?» Chiese Damien.
«Golem di Ve’Rah» rispose Emeryl stringendosi al suo bastone e Kewst la imitò, sguainando il martello.
«Stella» la chiamò quest’ultimo. «Tu pensa a Garni. Damien, va con lei. Questi lasciateli a noi.» 
La principessa di Iberia si tramutò in una donna-leone e prese a correre a quattro zampe, facendosi largo tra i nemici con l’agilità tipica dei felini. Il mago la seguì, defilandosi il più possibile per evitare di essere colpito. Uno dei golem, però, fece per atterrare la sua enorme mano sul ragazzo, ma Kewst lo bloccò con l’elsa del martello, spingendolo indietro. Quindi diede ordine a Damien di sbrigarsi.
Le Fiamme Sacre avevano quasi raggiunto la balconata superiore, sembravano letteralmente abbeverarsi del sangue di Garni. Stella lo chiamò, ma quello era del tutto privo di sensi – o quantomeno sperò che fosse solo svenuto. Invocò un incantesimo di protezione per difendersi dalle fiamme e con un balzo atterrò sull’altare, lacerando a morsi i lacci che tenevano immobilizzato l’amico, poi con un ultimo sforzo se lo issò sulla spalla e saltò dall’altra parte. Le fiamme le avevano bruciato la pelle, nonostante lo scudo magico, e Damien innanzitutto soccorse lei.
«Lascia perdere me» disse la ragazza. «Pensa a lui!» Le lacrime si facevano largo sul viso sporco di fuliggine. Teneva la testa di Garni adagiata sulle proprie cosce e lo fissava mentre gli accarezzava la testa. «Pensa a lui» ripeté, e il giovane mago lo fece.
Il Sommo Sacerdote urlò di frustrazione, le Sacre Fiamme si ritirarono nuovamente nel ventre del vulcano e la Pergamena si dissolse divenendo cenere.
«Folli! Cosa avete fatto?! Pazzi!» Urlò il primo seguace di Ve’Rah. «Così facendo avete alimentato il Grande Gelo!» Giunse le mani davanti al volto e invocò il proprio Golem di Ve’Rah: un essere ancor più grosso dei suoi simili, più potente.
Kewst ne aveva appena colpito uno alla gamba, lo vide cadere carponi, ma lo afferrò per una caviglia scaraventandolo lontano. Il guerriero si rimise in piedi, puntellandosi sul martello che usava in battaglia, scuotendo la testa per riprendersi dalla botta subita, sentì il sangue scorrergli lungo la guancia. Poi una di quelle creature magiche lo afferrò per il collo, sollevandolo diversi metri da terra.
Emeryl se ne accorse, fece per muoversi nella sua direzione intenta ad aiutarlo, ma un altro di quegli esseri la colpì in pieno stomaco e lei rimase senza fiato. Tossì ginocchioni, sputando saliva e sangue, sentiva i passi di quello stesso golem che si avvicinava, cercò a tentoni il bastone e si rese conto si averlo perso. Sollevò lo sguardo: Kewst stava lottando contro uno di loro, scalciando e dimenandosi; Damien aveva avvolto Garni di una luce azzurrognola e aveva la fronte imperlata di sudore, segno evidente che la situazione era critica. Stella, invece, stava fronteggiando il golem del Sommo, ma anche lì la lotta era impari, inoltre teneva le braccia scottate distese lungo il corpo e l’unica sua preoccupazione pareva quella di distrarre l’avversario, di tenerlo lontano da Garni e Damien. No, così non poteva andare. I passi del gigante di fuoco erano sempre più vicini, l’avrebbe spiaccicata al suolo con un solo piede. Chiuse gli occhi, richiamando tutto il potere che albergava in lei e per il quale era stata bandita dal suo stesso Paese. Il golem era ormai vicinissimo, allungò un braccio e le sfiorò il viso un attimo primo che lei riaprisse gli occhi – completamente bianchi – e lo fulminasse con una sola scossa. Del golem non rimase che un mucchietto di cenere.
Emeryl si mise in piedi, allargò le braccia e voltò il capo all’indietro. Sulla bocca del vulcano si addensarono nubi scure, mentre in lontananza si udirono i boati dei tuoni, poi una scarica di saette si abbatté all’interno del tempio, colpendo tutti i golem presenti, compreso quello del Gran Sacerdote. Kewst cadde a terra, cercando di far entrare quanta più aria possibile nei polmoni, mentre si guardava intorno: i golem erano diventati polvere. La Din Nadair tornò in sé, reggendosi a stento su gambe tremanti tentò di raggiungere Kewst che già le stava andando incontro, quindi si accasciò fra le sue braccia.
I golem erano stati annientati, ma i sacerdoti di Ve’Rah erano ancora vivi e vegeti e senza alcun graffio. Li videro unire di nuovo le mani, pronti a invocare nuovi mostri e questa volta non avrebbero avuto scampo, avevano esaurito ogni briciolo di energia, lo stesso Damien sembrava esausto.
D’un tratto, si udì un gran brusio provenire dal tunnel e la figura imponente di Dun’Gar ne fece capolino, seguito da un folto gruppo di Lupi di Niihel. Ai suoi piedi, Màs ululò.
I membri della gilda furono più scaltri dei sacerdoti e in breve li circondarono puntandogli pugnali alla gola, deridendoli e esultando come chi ha appena conquistato un villaggio. Dun’Gar raggiunse suo figlio e lo prese in braccio, sfiorandogli la fronte con la sua si scusò.
«Dun’Gar, questa tua azione scellerata si ripercuoterà sul mondo intero» tuonò il Sommo Sacerdote dall’alto.
Il capo dei Lupi di Niihel sollevò lo sguardo solo per squadrarlo, non rispose, gli diede le spalle e uscì.

 
  
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Trascorsero ore, giorni e settimane prima che Garni si risvegliasse. Quando lo fece, fuori era buio e lui era da solo. Lì per lì non si rese conto di dove fosse, né di cosa fosse accaduto. Gli ci vollero diversi minuti per ricordare l’ultima cosa che aveva vissuto: lui legato sopra un altare, una vestale che lo pugnalava, la voce di Stella. Tuttavia, ricordava anche altre cose, flash all’apparenza sconnessi. Durante quei dormiveglia, gli era sembrato di sentire suo padre implorarlo di combattere; la voce dei suoi compagni Lupi; Kewst chiedergli perdono; Emeryl domandare a Damien se ci fossero buone notizie; le lacrime silenziose di Stella. Il pelo caldo e morbido di Màs. E fu proprio quest’ultima a dargli il ben svegliato, leccandogli una guancia. Garni la strinse a sé, come non aveva mai fatto. Sentiva dolore ovunque, soprattutto al centro del petto, dove si apriva una profonda cicatrice che aveva reciso il tatuaggio del lupo in due. Si mise seduto sul letto, la stanza vorticò spaventosamente, perciò attese qualche istante prima di alzarsi. Non si udiva nulla, a parte il fischio del vento, ma aveva capito dove si trovava: alla Tana dei Lupi. Màs lo teneva d’occhio, scodinzolando felice. Anche sostenendosi a lei si issò, barcollò, infine riuscì a trovare l’equilibrio. Aveva una gran fame, perciò decise di scendere al piano di sotto con la speranza di trovare qualche avanzo della cena. Non gli andava di svegliare gli altri, desiderava restare da solo, per ora.
Dabbasso trovò del pane ancora morbido, del formaggio di capra e una caraffa di legno piena di vino di melograno: il preferito di Dun’Gar. Masticando, guardò fuori dalla finestra e notò una figura avvolta in una pelliccia di leone che se ne stava seduta sugli scalini della veranda, con la testa rivolta verso il cielo.
Stella.
Il giovane finì di mangiare, bevve un altro sorso di vino e raggiunse la principessa fuggiasca. Lei quasi urlò quando lo vide lì, in piedi.
Vivo, era vivo!
Saltò sul posto e lo abbracciò forte, piangendo di gioia e liberazione.
«Grazie a O’Shu-Tal!» Esclamò, ma quando la stretta divenne troppo confidenziale si allontanò, imbarazzata. Gli chiese scusa, tornando a sedersi sul primo scalino. Garni la imitò, senza smettere di osservarla con quel suo sorriso sornione. «Non farti strane idee! Ero solo preoccupata.» Lanciò un’occhiata all’interno della locanda, vuota e buia, fatta eccezione per Màs che si era sdraiata ai loro piedi e già sonnecchiava.
«Dormono» disse Garni.
Stella lo osservò: era sciupato, la carnagione abbronzata tendeva al grigio, ma era normale. Aveva perso tanto di quel sangue e… abbassò lo sguardo sulla cicatrice a forma di X, proprio dove un tempo teneva il tatuaggio. Allungò le dita per sfiorarla.
«Provi dolore?»
«Fastidio» Garni allora notò che le mani e le braccia di lei erano fasciate fino ai gomiti. Adagiò il palmo sopra le sue dita. «Ti sei bruciata? Sono stato io?»
Stella chinò il capo e lo scosse con vigore.
«Non avremmo mai dovuto lasciarti andare, è stato un errore.»
«Ho scelto io di andare. Voi non c’entrate nulla.»
La ragazza ritirò la mano e tornò a osservare le stelle.
«Non ho mai visto un cielo più bello.»
«Hai ragione» ammise lui, ma stava guardando lei che se ne accorse e lo colpì docilmente. Si sorrisero, poi Stella gli porse il ciondolo di ametista che le aveva dato.
«Dun’Gar ha detto che saresti tornato a prendertelo» Garni lasciò che glielo infilasse al collo. «Adesso è di nuovo tuo…» Lo studiò, mentre lui giocherellava con il gioiello, provando una fitta al cuore. Era bello come nessuno prima: i capelli mossi dalla brezza; la ciocca colorata che pareva disegnata sul petto messo in risalto dalla blusa aperta; i lineamenti delicati e lo sguardo felino gli donavano un’aura affascinante, tenebrosa. Il giovane sollevò lo sguardo e si accorse che Stella stava piangendo. Le sorrise accarezzandole il tatuaggio sulla guancia e lei inclinò la testa per bearsi di quel tocco. Aveva fallito, si era fatta poche promesse nella sua vita e le stava mancando tutte.
«Sono qui, vivo. Ho anche questa nuova cicatrice che mi dona un’aria da duro. Non che ne avessi bisogno, ma sai: le donne impazziscono per storie come queste» le strizzò l’occhio.
«Che idiota!» Disse lei, in un sorriso bagnato di lacrime. Si asciugò il volto. «Lo so che sei qui, ti vedo, ti sento» aggiunse, stringendogli la mano con la propria.
«Ma…?»
Stella sospirò.
«Ho giurato a me stessa che non avrei più aperto il mio cuore a nessuno. Ogni volta che mi sono concessa questo lusso, quelli intorno a me sono morti. I miei genitori, i Leonid che mi aiutarono a fuggire…» prese fiato, ripensare a quella notte era ancora dannatamente doloroso.
«Non sapevi avresti incontrato uno come me» nuovo occhiolino accompagnato dall’ennesimo sorriso.
«Non è questo» Stella scosse il capo e voltò il viso dall’altra parte. Forse aveva preteso troppo da lui, il fardello che portava non poteva dividerlo con nessun altro. Era suo e suo soltanto.
«Ehi…» Gar si inginocchiò davanti a lei, tenendo le sue mani fasciate nelle proprie. Lei lo guardò negli occhi, era serio. «Non puoi reprimere i sentimenti, nessuno ci riesce.» Accennò un sorrisetto sghembo. «Io no di certo.»
«Non è solo questo…» Stella mosse il capo in senso di diniego.
«E allora spiegami, cos’è?»
«Io sono stata addestrata per sedere sul trono di Iberia, un giorno! Per liberare il mio popolo dalla tirannia di mio fratello Globo, e cosa ho fatto finora?» Stella allargò le braccia, di nuovo sull’orlo delle lacrime, ma di rabbia. «Assolutamente nulla!»
Garni le prese mani e gliele riportò in grembo, parlandole a una spanna dal viso:
«Lo faremo insieme. Ti aiuterò io.»
«Tu?»
«Sì, io. Non mi ritieni capace?»
Stella trattenne un risolino:
«Tu non fai mai niente per senza niente.»
Lui annuì sornione:
«In effetti, potrei chiederti un pegno…»
«Ad esemp-»
Garni la baciò sulle labbra, socchiudendo gli occhi e premendo la bocca sulla sua. Le labbra di Stella erano morbide, calde e umide a causa delle tante lacrime. Quando si staccò da lei, il giovane si rese conto che l’altra era rimasta impietrita, non se lo aspettava, oppure…:
«Era il tuo primo bacio?»
«Certo, idiota! Sono una principessa, io!» Stella scattò in piedi, facendolo cadere con il sedere al suolo. Màs guaì. Era divertito e non lo sopportava. Gli diede le spalle e fece per tornare nella taverna, ma si arrestò sentendogli dire:
«Non stavo scherzando, principessa. Ti aiuterò a riconquistare il tuo regno e di sicuro saranno d’accordo anche gli altri. In fondo, è da lì che nasce il Grande Gelo, no? Anche Damien lo sostiene…»
Stella si voltò indietro, Garni era tornato in piedi e stava avanzando verso di lei, forse solo per tornare a dormire. Doveva essere esausto, il colorito pallido non smentiva il suo stato di salute.
Ripensò a quando lo avevano portato lì, esamine, senza quasi speranza di sopravvivenza. Damien aveva dato tutto se stesso per aiutarlo, senza dormire per ore intere. Anche Emeryl e Kewst si erano messi a disposizione, cercando erbe medicinali per preparare gli unguenti che erano perlopiù serviti a lei e alle sue bruciature. Cavolo, si era letteralmente buttata nel fuoco per salvarlo! Gli aveva dormito accanto nelle notti di maggior freddo, quando la febbre lo aveva quasi ammazzato e i brividi scosso come il vento percuote le fronde degli alberi. E ora che era lì, di fronte a sé, non sapeva neanche che cosa dirgli?
«Quindi lo fai per fermare il freddo?»
«Lo faccio perché mi va.» Gar la fissò negli occhi, arricciando gli angoli delle labbra. «Hai ragione quando dici che non faccio mai nulla senza ricevere niente indietro, ma ti svelerò un segreto che pochi conoscono…» si chinò in avanti per sussurrale: «Soprattutto, non faccio mai niente che non voglia» pausa. «Buonanotte, principessa.» Questa volta fu lei ad afferrarsi al suo collo per baciarlo sulle labbra. Garni le cinse la schiena e, avvertendo la sua bocca schiudersi, non esitò a lasciare che le lingue si incontrassero. Il bacio, lungo e appassionato, li lasciò entrambi con il respiro affannoso, denso di passione. In altri casi, il giovane avrebbe tentato un approccio ancora più arduo, ma quella ragazza che stringeva a sé e che stava guardando dritto negli occhi non era una fanciulla qualunque. Era una principessa, cavolo! E, fattore non da meno, provava per lei un sentimento che non aveva mai sperimentato prima.
«Preparati, si parte fra qualche giorno» cominciò lui. «Ho sentito Kewst parlarne con Emeryl.»
«Lo sapevi già?» Stella gli sfiorò il braccio con un pugnetto. «L’hai fatto apposta!»
«A volte mi svegliavo, ma ero così stanco che non riuscivo neanche ad aprire gli occhi, così mi limitavo a origliare.»
«Ti sei a-anche accorto che…»
«Che di notte sgattaiolavi nella mia stanza e ti sdraiavi vicino a me?!» Stella arrossì. «Sì.» Le accarezzò i capelli argentati. «Grazie» bisbigliò infine, lasciandole un ultimo bacio a fior di labbra.
 

 
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Capitolo 8
*** Ϯ CAPITOLO OTTAⱴO + EPILOGO Ϯ ***


 
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CAPITOLO
OTTAO

 
 
Partirono alla volta dell’Isola di Iberia a bordo di uno sciabecco di proprietà della gilda. Era una vecchia imbarcazione che tuttavia faceva ancora il suo sporco mestiere: ossia quello di scendere in mare per procurarsi pesce fresco da rivendere al mercato o per uso proprio. Di Dun’Gar, s’intende.
Fu proprio quest’ultimo a programmare la partenza, accompagnandoli personalmente al molo e affidandoli al suo pescatore di fiducia. Disse loro che non sarebbe potuto approdare personalmente sull’isola e sperare di non scatenare una guerra tra regni alleati. Sebbene anche un re potente come Vermyl sospettasse che il Grande Gelo fosse opera di Shuva e Globo, non avevano prove sufficienti per attaccarlo. Spettava quindi a loro l’arduo compito di fermare quella follia.
Màs rimase sulla terraferma con il capo dei Lupi, non amava particolarmente il mare e portarla con sé sarebbe stato fin troppo rischioso.
Le parole del Sommo Sacerdote, alla fine, si erano rivelate veritiere: il freddo era aumentato notevolmente da quando avevano fatto incursione a Vhulchanius, e lo stesso vulcano fumava molto meno.
Segno che le Fiamme Sacre si fossero ormai ridotte a un mero focolare domestico?
Non lo avrebbero mai saputo, adesso il loro nuovo obiettivo era giungere a Iberia, scovare Globo e fermarlo, qualsiasi cosa stesse tramando.
«E se scopriamo che l’Era Glaciale non dipende da lui?» Aveva chiesto Stella, spaventata a morte al solo pensiero di rivedere suo fratello.
«Ti riprenderai ciò che ti spetta di diritto» era stata la risposta di Garni, mentre cavalcavano le onde placide dell’oceano.
Dopo neanche una giornata di navigazione, erano sbarcati sulle rive dell’isola iberiana. Si erano aspettati guardie, Leonid o maghi ad attenderli, invece furono accolti dal deserto più assoluto. Lo sciabecco fece subito dietrofront, come gli era stato ordinato da Dun’Gar, e la comitiva di avventurieri cominciò la scalata verso l’omonima capitale del Regno di Iberia.
Seguirono Stella senza batter ciglio, sempre allerta e pronti a un agguato che, tuttavia, non avvenne, fino a che non entrarono in città.
Qui, trovarono Shuva in persona ad aspettarli, ma non sembrava allarmato o battagliero come si erano aspettati. Dietro di lui c’era un esercito di uomini-leone armati di lance e scudi. Addirittura, il Gran Sacerdote Leonid accennò un inchino dinnanzi alla principessa Stella, invitandola a seguirlo: suo fratello la stava attendendo.
«Bene» fu l’unica cosa che riuscì a proferire la ragazza, la quale si incamminò a testa alta per le strade che un tempo erano state affollate di gente in festa e attività commerciali delle più disparate. I suoi compagni le si accodarono, senza badare alle armi luccicanti che venivano puntate contro di loro. Shuva era in testa al corteo, vestito di tutto punto sembrava fluttuare diversi millimetri da terra.
Stella osservò il suo splendido regno ormai in assoluto stato di abbandono. Dove un tempo c’era stata la piazza centrale, adornata di una splendida fontana che spillava acqua da enormi sculture di pietra, ora non era che un monumento decaduto, rotto in più punti e con acqua stagnante nella vasca, di un verde melmoso. Le case sembravano accartocciate su loro stesse; qualche abitante fece capolino dalle finestre rattoppate con vecchi tendaggi, troppo somiglianti a cadaveri infetti. Se qualcuno l’avesse riconosciuta, quale principessa di Iberia, non lo diede a vedere.
Effettivamente, lì il freddo era peggio che altrove. Degli alberi dalle chiome rigogliose che costeggiavano la strada principale – dove ai fasti avevano sfilato i regnanti su splendide carrozze inneggiati dal popolo – erano rimasti solo rami rinsecchiti, di un triste grigio chiaro.
Anche il palazzo che si ergeva ora davanti a loro pareva aver perso ogni antico splendore. Stella lo ricordava luminoso, imponente e di un allegro azzurro vivo. Adesso era sbiadito, abbandonato, mesto.
All’interno, la temperatura calava quanto più si inoltravano nei corridoi. Le sale parevano fossero state profanate, paramenti di seta purissima erano stati strappati da artigli feroci. I mezzi busti dei re gettati al suolo e andati in mille pezzi. I quadri, che ritraevano le famiglie reali, graffiate e usurpati. Anche quello della dinastia ‘nDukan o’Fleed – la famiglia di Stella – era stato lacerato, fatta eccezione per il volto di Globo.
Stella a stento tratteneva le lacrime di rabbia, odio e dolore che minacciavano di sbucare agli angoli degli occhi. Sentiva la presenza di Garni e degli altri alle sue spalle e questo la confortava, ma il risentimento esplose del tutto quando varcò la soglia della Sala del Trono e notò suo fratello, seduto scompostamente sulla poltrona che era appartenuta a suo padre.
«Figlio di una cagna!» Esclamò, mutando forma e scagliandosi in avanti. Un gruppo di maghi di Gamirhia la fermò con un incantesimo d’aria che la sospinse contro la parete. Garni e Damien fecero per soccorrerla, ma i Leonid intorno a loro li fermarono all’istante.
Globo si alzò in piedi, era totalmente calvo e non più alto della sorella. Alle sue spalle si ergeva Meldor, Arcimago di Gamirhia, che non esitò a rivolgere la sua attenzione su Damien: l’aveva trovato, finalmente!
«Mia piccola sorellina! Mi sei mancata tanto!» Il reggente di Iberia si chinò sulle ginocchia e afferrò il mento di Stella per guardarla in faccia. Era lei l’ultimo ostacolo da sbaragliare, poi più nessuno avrebbe potuto accusarlo di sedere impropriamente su quel trono. Stella ricambiò lo sguardo con un’occhiata di puro disprezzo. «Uccidetela!» Disse poi lui, tornando sui propri passi per sedersi nuovamente.
«Uccideteli tutti, tranne il mago e l’incantatrice!» Ordinò Meldor.
Fu allora che Emeryl urlò, coprendosi la bocca con le mani.
Fino a quel momento nessuno aveva fatto caso alla figura appesa al soffitto con i polsi legati e le gambe penzolanti: era Sheeira e il suo corpo emanava una luce azzurrognola che si espandeva oltre il tetto scoperchiato.
«Madre! Madre!»
Anche gli altri alzarono gli occhi, la videro e allora capirono: Sheeira non era scomparsa, era stata rapita da quei mentecatti e pareva che tutto il gelo del mondo provenisse da lei. O meglio: lo alimentava.
«Purtroppo il suo potere non è forte come avevo immaginato» disse Meldor con il naso all’insù. «Perciò mi servi tu…» aggiunse indicando Emeryl. «E tu!» Continuò, spostando il dito su Damien. «Ho sbagliato i calcoli: credevo che il tuo immenso potere magico discendesse dal Sangue materno, ma quando è nato Damien ho capito di essermi sbagliato.» Meldor sorrise meschino. «È la famiglia reale a detenere il Sangue contaminato.»
Damien e la Din Nadair si guardarono, ciò significava che…?
«Esatto! Siete parenti!» Esclamò l’Arcimago, con troppa enfasi.
Shuva batté le mani, sarcastico:
«Due famiglie ritrovate. Che commozione!»
«Trattieni le lacrime, mademoiselle!» A parlare era stato Garni, il quale sguainò un paio di coltelli dagli anfibi e tagliò le corde che tenevano legata la regina Sheeira. «Kewst!» Urlò all’amico, che non se lo fece ripetere due volte, afferrando al volo il corpo gracile e macilento della donna. Era leggera come un fuscello. I Leonid non fecero neanche in tempo ad attaccare che Gar aveva già afferrato la scimitarra e una luce bianca, intensissima, li avvolse tutti.
Quando il bagliore scemò, diversi corpi giacevano al suolo, intorno al giovane di Niihel, il quale però era con un ginocchio a terra e si teneva la testa dolente. Prima o poi avrebbe dovuto smettere di usare quel trucco o sarebbe diventato cieco. O – peggio ancora – gli avrebbe fritto il cervello!
Kewst stava caricando alcuni maghi, lanciandoli in aria come birilli e colpendoli mentre ricadevano al suolo. Stella era scomparsa, insieme al fratello. Probabilmente si era buttata alle sue calcagna quando questo era fuggito. Anche Shuva non c’era più, solo Meldor sembrava rimasto nella sala, troppo preoccupato delle sorti di Sheeira, Damien ed Emeryl. Questi ultimi due avevano raggiunto la povera donna, tanto smunta in viso che la stessa figlia stentava a riconoscerla. Anzi, della donna bellissima che era stata non era rimasto più niente. Damien stava cercando di aiutarla con la sua magia, ma Sheeira stessa lo fermò, oramai non c’era più nulla da fare per lei, le restavano pochissime forze e non voleva sprecarle. Neanche loro avrebbero dovuto sprecare energia, ma risparmiarla per la battaglia che sarebbe scoppiata di lì a poco.
«Madre!» Il viso di Emeryl era una maschera di dolore.
«Shhh! Shhh!» Sheeira avrebbe voluto accarezzarle il volto, ma i polsi erano spezzati per quanto tempo erano stati legati al soffitto. «Non ti avrei mai lasciata senza darti mie notizie.» Deglutì a fatica. «Fin quando sarò in vita il gelo non si fermerà. E io non posso morire perché la mia vita vi è legata.» Tossì e un fiotto di sangue sporcò il mantello verde di Emeryl. «Meldor… un incantesimo»
«Va bene, madre. Ci pensiamo noi. Lo fermiamo noi. Non parlare, non affaticarti.»
Sheeira scosse il capo. Non capiva, sua figlia era accecata dall’amore che provava per lei, pertanto si rivolse a Damien: «Sei il figlio bastardo del principe di Magena. Tu lo sai, l’hai capito… se io vivo no-» altra tosse.
«Emeryl» Damien strinse un braccio della Din Nadair, ma questa se lo tolse di dosso, proprio mentre alcuni maghi stavano per attaccarli. La bella incantatrice si mise in piedi e diede ordine al giovane di curare sua madre. L’altro provò a replicare, ma lei non volle sentire ragioni, avanzò di qualche passo, spalancò le braccia e buttò la testa all’indietro. Le iridi chiare si velarono di bianco, da lontano si susseguì lo schianto dei tuoni e saette iridescenti piovvero all’interno della sala stessa, ferendo maghi e Leonid, senza distinzione alcuna.
«Devi uccidermi» la voce di Sheeira ricordava il gracchiare di un uccello. Damien la guardò e impallidì, serrando la mascella. Aveva capito perfettamente cosa gli stava suggerendo quella donna morente che, tuttavia, non poteva morire perché vittima di un rituale antico quanto l’Era Glaciale. Meldor le aveva fatto una specie di fattura, invocando forze oscure e terrificanti: lei era il gelo! Ma il suo fisico era troppo provato e la magia si stava prosciugando, per cui aveva bisogno di risorse nuove e fresche: lui ed Emeryl, nel cui Sangue albergava una forza enorme.
Ma uccidere Sheeira, la madre di Emeryl… osservò proprio quest’ultima, alle prese con i nemici. Il suo potere era spaventoso e spettacolare insieme. Inarrestabile. Tuttavia, restava un essere vulnerabile e quando la punta di una lancia le trapassò l’addome, da parte a parte, i tuoni cessarono, i fulmini scemarono e la Din Nadair cadde all’indietro, gli occhi spalancati verso il soffitto a cupola e il respiro spezzato.
«EMERYL!» Damien urlò, accorrendo al suo capezzale. L’incantatrice sembrava stesse soffocando nel suo stesso sangue. Se voleva avere una possibilità di salvarla, bisognava tirare via l’arma dal suo corpo, perciò chiamò Kewst a gran voce e il guerriero lo raggiunse di corsa, rischiando di incespicare.
«Imbecille!» Meldor si stava rivolgendo al Leonid che aveva ferito mortalmente Emeryl. «Vi ho spiegato che mi serve viva!» Esclamò, e quando l’uomo-leone gli fece notare che loro rispondevano solo a Shuva, l’Arcimago lo uccise congelandogli il sangue nelle vene.
Kewst tirò via la lancia dallo stomaco della compagna, la quale non trattenne un lamento di dolore e altro sangue zampillò sul pavimento. La ferita era molto profonda, ci sarebbe voluto tempo per rimarginarla e loro non ne disponevano.
«Kewst, ho bisogno che resti di guardia…» Gli disse il mago, posizionando i palmi sul torace di Emeryl, senza tuttavia toccarla.
«Va bene» rispose il guerriero, assumendo la posizione di difesa con l’enorme martello stretto tra le mani.
«Garni?» Continuò Damien, socchiudendo gli occhi per concentrarsi sugli incantesimi.
Kewst lanciò uno sguardo verso il giovane di Niihel:
«Si sta riprendendo.»
«Stella?»
«È corsa dietro al fratello» rispose Kewst, colpendo un paio di Leonid che avevano provato ad assalirlo.
Meldor intimò a tutti i presenti di fermarsi subito: se la Din Nadair fosse morta, il piano rischiava di saltare. Ciò nonostante, gli uomini-leone non gli diedero ascolto e non si fermarono.
 
Garni tentò di rimettersi in piedi, evitando con un balzò all’indietro una lancia che calava su di lui. Stordì l’avversario con un calcio ben assestato e in quell’istante udì la voce di Stella. Si precipitò nella stanza alle spalle del trono, sebbene il fortissimo mal di testa gli facesse vedere i colori fin troppo splendenti. Qui trovò la ragazza ginocchioni e la testa del fratello adagiatavi addosso, mentre gli premeva le mani sul collo, da cui scorreva copiosamente del sangue scuro. Accanto al corpo di Globo, giacevano le Zanne Gemelle di Stella. Shuva li sovrastava entrambi, teneva le labbra sottili distese in un sorriso meschino, tronfio.
«Non volevo!» Piangeva lei. «Non volevo!»
Gar di Niihel poté solo immaginare cosa fosse accaduto: nel combattere, la ragazza aveva colpito accidentalmente il fratello, ammazzandolo. Né lei, né il Gran Sacerdote si erano accorti dell’arrivo del giovane, perciò, quando l’uomo afferrò la ragazza per la folta capigliatura argentata, ringraziandola di averlo liberato da quel buono a nulla e minacciandola che le avrebbe tagliato la gola “come tu hai fatto con Globo”, la schernì, Garni ebbe tutto il tempo di lanciarsi contro il Leonid. Ma questo fu veloce, scaltro ed era forte, a differenza del ragazzo non al massimo della sua forma. Con una mano lo afferrò per la gola, sbattendolo al muro e serrandogli sempre più le dita intorno al collo.
 
Kewst schiacciò la testa di un altro Leonid, studiando il campo di battaglia. Molti nemici giacevano carbonizzati grazie alla magia di Emeryl, altri erano stati trafitti dalla scimitarra di Garni, qualcuno sbaragliato da lui stesso. Eppure, ce ne erano ancora troppi pronti ad attaccarli. Perfino i maghi di Gamirhia non sapevano più da che parte stare: ascoltare Meldor oppure no?
Inoltre, in quel marasma, gli era parso di udire le urla di Stella. Gar si era precipitato da lei, ma nessuno dei due aveva fatto ritorno.
Infine, c’era Emeryl.
Damien non aveva più spiccicato parola e la cosa non era un buon segno. D’altronde, erano in netta inferiorità numerica, come avevano anche solo potuto pensare di avere una chance di vittoria?
Il guerriero compì un mezzo giro sul posto, facendo volteggiare il martello davanti a sé e colpendo in pieno volto l’ennesimo uomo-leone che aveva spiccato un balzo con gli artigli sgranati. Ma un secondo Leonid era in agguato e lo graffiò alla schiena. Kewst inarcò le spalle, cadendo su un ginocchio. Era stanco, il martello cominciava a pesargli e la carne lacerata dalle affilate unghie leonine pareva bruciare. Sperò vivamente che non fossero avvelenate. Fece per rimettersi in piedi, però due nemici gli furono addosso e lo atterrarono, schiacciandogli una parte del viso sul pavimento.
Damien aprì gli occhi di scatto udendo le imprecazioni di Kewst e l’esultanza dell’Arcimago che ordinava ai suoi di non lasciarlo andare per niente al mondo. In questo modo, lui avrebbe avuto il tempo di invocare l’incantesimo di scambio che gli avrebbe consentito una specie di passaggio di consegne tra Sheeira e uno tra Emeryl e Damien. Proprio quest’ultimo tornò in posizione eretta, interrompendo le cure che stava somministrando all’incantatrice, ormai fuori pericolo. Era arrivato il momento di affrontare il suo mentore, l’uomo che gli aveva insegnato tutto, accudito come un figlio, ma dal quale era dovuto fuggire e nascondersi, fino a quel momento. Lo fronteggiò, guardandolo dritto negli occhi, mentre si strappava la spilla che gli teneva chiuso il mantello. Quel zaffiro di forma esagonale rappresentava la sua appartenenza all’Accademia di Gamirhia, per questo lo lasciò cadere a terra e lo distrusse calpestandolo. Meldor osservò la scena senza esprimersi, con un’espressione imperturbabile. Non era anziano, ma i numerosi anni sui libri gli avevano fatto spuntare la gobba e reso quasi cieco.
«Basta così!» Gli intimò il giovane mago e l’altro sorrise, cinico.
«Ti ho cercato ovunque. Ho aspettato e sperato che tornassi da me. Avevo grandi progetti per te. Per noi. Avremmo potuto regnare sul mondo intero…» Meldor spalancò le braccia, gli occhi spiritati, la voce infervorata. Era fuori di sé. «Adesso, invece, sarai solo uno strumento per la mia ascesa.» L’Arcimago puntò una mano in direzione di Emeryl, il cui corpo prese a levitare, poi fece lo stesso con Sheeira, mentre l’energia di una si fondeva a quella dell’altra.
«Smettila! Smettila subito!» Damien si mosse contro il suo vecchio maestro, al quale bastò una sola occhiata per scaraventarlo lontano da sé.
«Damien! Fa’ qualcosa, Damien!» Kewst tentò di rimettersi in piedi, ma i Leonid sopravvissuti lo tenevano inchiodato al suolo con le lance.
Damien rimase carponi scuotendo il capo per liberare la mente dal colpo ricevuto. Alcuni maghi gli si avvicinarono, tenendolo d’occhio.
Cosa poteva fare?
 
Garni abbassò le palpebre. Aveva tentato di liberarsi della presa di Shuva, invano. Il Gran Sacerdote Leonid disponeva di una forza animalesca. Probabilmente, se fosse stato nel pieno delle proprie forze, avrebbe potuto combatterlo, ma non in quelle condizioni. Stella sembrava in trance. La morte del fratello, avvenuta per mano sua, l’aveva svuotata di ogni forza e pensiero razionale.
Quando Garni perse i sensi, Shuva lo lanciò contro il muro come se fosse stato un vecchio pupazzo, ma fu in quel momento che Stella parve risvegliarsi da un sogno a occhi aperti. Il corpo esanime del compagno le diede la scossa che le serviva per portare a termine il suo compito. Brandì le armi – una delle quali macchiata del sangue di Globo – e si rimise in piedi, mormorando un’antica formula magica che le aveva insegnato il suo maestro Leonid, per aumentare la potenza fisica negli arti, e si scagliò contro Shuva. Questo parò ogni fendente senza evidente difficoltà, anzi facendosi beffe di lei:  
«La tecnica delle Zanne Gemelle. Saresti stata un’ottima reggente…» con la lancia la intrappolò al muro, parlandole a una spanna dal viso. «Vuoi vedere che ho sbagliato ad allearmi con quel fallito di Globo?!»
Stella lo allontanò da sé con un urlo, riunì le due armi per formarne una sola e lo trafisse da parte a parte. Shuva rimase sbalordito: non si aspettava di venir sconfitto da una giovane Leonid, né che Stella ne avesse il coraggio. Si tamponò la ferita al centro dello stomaco con le mani, il sangue scorreva copioso, poi rialzò gli occhi e cadde all’indietro, morto.
Stella si inginocchiò al fianco di Garni, tenendogli la testa. Non respirava:
«No! No! No!» Gli effettuò la respirazione bocca a bocca, urlando il nome di Damien, urlando che qualcuno accorresse ad aiutarla, continuando a praticargli il massaggio cardiaco.
 
Damien udì distintamente la voce di Stella che lo supplicava di aiutarla: Garni non respirava.
Il giovane mago sentì la testa vorticargli prepotentemente. I pensieri si sovrapponevano ad altri pensieri, stava perdendo lucidità e non andava bene. Meldor continuava a fissarlo con quel fare borioso di chi sa che ha la vittoria in tasca. Kewst era impossibilitato a muoversi, se lo avesse fatto lo avrebbero ammazzato. Anzi, Damien si meravigliava che non lo avessero già fatto. Emeryl stava letteralmente assorbendo il potere di sua madre e con esso il legame con le forze del Grande Gelo.
Stella urlò ancora, ma lui non poteva accorrere.
Si guardò i palmi delle mani, chiudendoli a pugno e chiedendo con fermezza all’Arcimago di fermarsi.
«Fermami tu, se ci riesci!» Fu la risposta dell’uomo e Damien lo fece.
Come Emeryl, le pupille si velarono di bianco, il collo si piegò all’indietro, tuttavia non arrivarono nuvole tempestose, né fulmini dal cielo. Fruste di elettricità scaturirono direttamente dal suo corpo, simili a tentacoli. Dapprima, sbaragliò i maghi che lo circondavano, poi liberò Kewst – al quale ordinò di correre in aiuto di Stella – e per ultimo infilzò Meldor in più punti. L’incantesimo di scambio si interruppe, i corpi delle due donne ricaddero sul pavimento con un tonfo. L’Arcimago abbozzò un sorriso, mentre un rivolo di sangue gli scendeva al lato della bocca:
«L’ho sempre saputo che eri speciale» furono le sue ultime parole, prima di accasciarsi al suolo senza vita.
Kewst intanto aveva raggiunto Stella e Garni, trovando lei in preda alla disperazione mentre gli premeva il petto su e giù.
«Kewst, grazie a O’Shu-Tal! Aiutami!»
Il guerriero si inginocchiò al fianco dell’amico e lo colpì con veemenza al centro del torace. Miracolosamente, il cuore riprese a battere e Garni tossì un paio di volte voltandosi di lato. Stella lo abbracciò, intanto che Damien si affacciava nella camera per sincerarsi delle condizioni degli altri. Tirò un sospiro di sollievo quando constatò che erano tutti e tre vivi e vegeti.
«È finita» disse mesto. «C’è solo un’ultima cosa da fare.»
 
Tornati nella Sala del Trono, trovarono Emeryl al fianco della madre.
In una situazione normale, quella donna sarebbe già morta, ma non poteva farlo. Non riusciva a morire perché la sua esistenza era legata al Gelo e – di conseguenza – il Gelo a lei.
«Aiutami, bambina mia. So che-» Sheeira tossì. «So che ti chiedo tanto.»
Emeryl piangeva, scuotendo il capo. Come avrebbe potuto fare una cosa simile? La ferita inferta dal Leonid le faceva un gran male, ma mai quanto il dolore che provava dentro.
«Damien» chiamò. «Potremmo curarla. I tuoi incantesimi sono potenti e-»
«Non capisci» la interruppe Sheeira. «Se mi curate, il Gelo s’intensificherà. Devi uccidermi!» Questa volta pronunciò la propria sentenza senza giri di parole.
Il primo ad avvicinarsi alla Din Nadair fu Kewst, posandole una mano sulla spalla – un gesto alquanto inconsueto per lui – affermò:
«Ricorda le parole della Màthayr.»
“Salvala: qualsiasi cosa voglia dire”.
Lo sapeva. Berenise aveva immaginato qualcosa, ecco perché tra le tante discepole aveva scelto lei, ecco perché le aveva sussurrato quelle parole prima che tutto cominciasse. E anche suo padre ne era al corrente, Re Vermyl, non a caso aveva chiesto ai Lupi di Niihel di cercare l’ex regina di Magena. Lo sapevano tutti, lo avevano intuito, eccetto lei.
Emeryl carezzò la testa di sua madre, dove un tempo c’era stata una dorata chioma fluente, adesso c’erano radi capelli incolore. L’altra mano gliela tenne al centro del petto, facendo combaciare le fronti. Sheeira sorrise, socchiuse gli occhi e la ringraziò. Fu un attimo, una scossa appena percettibile per gli altri attraversò il corpo emaciato di Sheeira, la quale – finalmente – spirò e morì, più serenamente di quanto avesse vissuto. Emeryl pianse in silenzio, nascondendo il viso nell’incavo del collo di sua madre, dove si era rifugiata tante di quelle volte che aveva perso il conto.
Kewst rimase in piedi lì vicino, la testa bassa e le mani chiuse a pugno; anche Damien teneva il capo chino e gli occhi lucidi. Poco più indietro, Stella adagiò il viso sul petto di Garni, debole ma vivo, e lui le cinse le spalle con entrambe le braccia, lasciandole un bacio sulla testa.


 
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Nel lontano Regno di Magena, Re Vermyl stava bevendo dell’ottimo vino di uva, affacciato alla vetrata della sua camera personale, quando una goccia gli sporcò gli abiti immacolati. Guardò quella macchia dello stesso colore del sangue e un pensiero gli attraversò la mente, fugace come una folata: e così che muore Sheeira di Agran. Strinse con veemenza il calice di cristallo, un lampo azzurrino scaturì dalle sue dita mandando in frantumi il bicchiere e spargendo vino rosso e schegge ovunque. Chiuse gli occhi e cacciò indietro le lacrime.
Adesso, era davvero finita.

 
 
  
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EPILOGO

 
Kewst bussò con le nocche sulla porta, attese una risposta che non arrivò, perciò entrò con fare circospetto e rimase fermo sull’uscio, osservando l’esile figura affacciata alla balconata.
Le tende di pregiato tessuto di Agran ondeggiavano sinuose verso l’interno della stanza, mosse dalla piacevole brezza proveniente dal mare. La Stella Chiara brillava alta nel cielo azzurro, non c’era neanche una nuvola all’orizzonte. Era passato solo un mese dalla fine della IV Era Glaciale e le temperature stavano diventando man mano più gradevoli.
«Maestà, siamo pronti» il guerriero piegò appena il capo in modo da guardare il pavimento.
«Ti ho detto di non chiamarmi così!» Lo redarguì Stella, rientrando dalla terrazza. La sua folta chioma color argento le incorniciava un viso non più macchiato di fuliggine, ma dalla pelle bianca come il latte, dove il tatuaggio spiccava più di prima. Indossava un abito morbido, di un delicato rosso pastello, legato in vita da una cintura dorata e sulle cui spalle aveva adagiato la pelliccia di leone, ripulita dalle mille battaglie. Oltrepassò Kewst e s’incamminò lungo il corridoio del palazzo di Iberia, rimesso a nuovo dopo quel…
Dopo.
Il cuore le martellava nel petto, chiuse le mani sudate a pugno, sperando che la smettessero di tremare. Il guerriero la seguì qualche passo più indietro, provando a intuire i pensieri dell’amica, tra poco neo eletta regina di Iberia.
Di sicuro, suppose lui, affacciata al balcone della propria camera, aveva cercato tra la folla in festa, che scemava verso la Sala Reale, volti noti: Emeryl, probabilmente, e Garni, di sicuro. Non era stato facile per lei affrontare i giorni che avevano seguito la morte del fratello: c’era un intero regno da rimettere in sesto, gente che si aspettava miracoli dall’erede al trono e alleanze con gli altri imperi da ricucire. Eppure, se l’era cavata abbastanza bene per essere solo una giovanissima donna, creduta morta per troppi anni.
Emeryl era ripartita quasi subito alla volta della Torre d’Opale, portando con sé il cadavere di Sheeira, alla quale, disse, intendeva dare una degna sepoltura e onorarla con le amate sorelle Din Nadair.
Anche Gar di Niihel si era congedato da loro, affermando che doveva tornare da suo padre Dun’Gar e – in particolare – da Màs. Kewst non sapeva cosa si fossero detti di preciso lui e Stella, ma una mattina si erano svegliati e il giovane del deserto non c’era più. Lui e Damien avevano trovato la Leonid in lacrime al centro della stanza che aveva condiviso proprio con Garni, si erano guardati in faccia e fatto spallucce scuotendo il capo, nessuno dei due era bravo nelle pene d’amore. Kewst avrebbe voluto dirle che, in fondo, poteva aspettarselo: Garni non si era mai contraddistinto per lealtà verso il prossimo. Invece, Stella era stata la prima a parlare, mettendosi in piedi e voltandosi indietro per guardarli dritto negli occhi:
«Ho bisogno di voi» aveva detto, risoluta. «Damien, sarai il mio primo consigliere e mago di corte.» Poi si era rivolta a Kewst. «E tu, generale delle truppe reali.»
Damien aveva provato a replicare, ma Stella lo aveva arrestato mostrandogli un palmo. «Non accetterò un no.» La sua espressione si era poi addolcita, di nuovo sull’orlo delle lacrime. «Per favore, non ho nessun altro» e non avevano avuto il coraggio di rifiutarle il loro supporto.
Proprio il mago li attendeva in piedi, alle spalle del trono riservato al reggente del Regno di Iberia. Scambiò uno sguardo d’intesa con il guerriero, mentre Stella si accingeva a sedersi al posto che le spettava di diritto.
La Sala Reale, dove si era combattuta l’ultima battaglia, era gremita di gente del popolo, accorsa ad acclamare la nuova regina. Tra le centinaia di volti ignoti, spiccò quello di Emeryl, paradossalmente ancora più bella di quanto non ricordassero, avvolta nel suo splendido mantello di cervo verde e con la lunga treccia bionda laterale a incorniciarle il viso simile a porcellana. Accanto a lei, il guerriero riconobbe Berenise, la Màthayr delle Din Nadair.
Spettò all’Arcimago dell’Accademia di Valldysi, Tullius, l’incarico di incoronare Stella e nel frattempo che proferiva la formula di rito, Damien si accostò impercettibilmente a Kewst, chiedendogli se avesse notizie di Garni. L’altro disse di no.
«Lunga vita alla regina Stella!» Esclamò Tullius, inginocchiandosi al cospetto della sovrana di Iberia, mentre dalla folla si sollevò un applauso scrociante.
 
 
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Stella rientrò nelle sue stanze solo all’Ora della Stella Nera. Le ante della balconata erano ancora spalancate e le tende svolazzanti lasciavano intravedere uno scorcio di cielo puntellato di luci.
La giovane regina rabbrividì, ma nonostante ciò uscì sul terrazzo per respirare l’aria buona che saliva dal mare. Da lì, si poteva anche udire il fruscio delle onde e in lontananza, quando il cielo era particolarmente sgombro da nubi – come in quel momento – si scorgevano le luci del porto del Regno di Niihel.
Stella si aggrappò alla balaustra con entrambe le mani e socchiuse gli occhi, respirando a fondo. Sentì l’aria accarezzarle la criniera argentata, passandovi attraverso come dita di una madre; l’abito leggero si smosse contro le gambe. Risollevò le palpebre e le lacrime le pizzicarono gli angoli degli occhi, ma non pianse. Era una regina adesso, aveva un compito ben più importante da portare avanti e non era sola. Non più. C’erano Damien e Kewst con lei, amici sinceri di cui poteva fidarsi – e affidarsi – a occhi chiusi. E c’era Emeryl. Anche se non era lì fisicamente, le aveva promesso che, se mai avesse avuto bisogno, sarebbe accorsa senza indugi.
E poi…
Poi Stella si sfilò la catenina che teneva al collo e ne osservò la pietra color lavanda che vi era legata. Era un gioiello dalla forma ovale, non più grande di una ghianda, avvolto da un filamento d’argento.
Il ciondolo di De’bhella.
Lo strinse forte, tenendolo al centro del palmo, quindi sollevò il capo per ricacciare di nuovo indietro l’emozione che rischiava di straripare e travolgerla.
Garni non le aveva detto addio, semplicemente una mattina si era svegliata e lui non c’era più. Al suo posto, però, aveva trovato il ciondolo di ametista e, con esso, la muta promessa che sarebbe tornato a riprenderselo.
Era il suo pegno d’amore.


 
 
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