SKAZKI OB ISTINNOM MORE

di RLandH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Prologo (SHIOBAN, 16 DF) ***
Capitolo 3: *** Dominik I (28 DF) ***
Capitolo 4: *** Lu-Wan I (22 DF) ***
Capitolo 5: *** Matthias (40 anni dall DF) ***
Capitolo 6: *** Vasilissa I (40 DF) ***
Capitolo 7: *** Lu-Wan II (22 D.F.) ***
Capitolo 8: *** IOREN I (28 D.F.) ***
Capitolo 9: *** Vasilissa II (40 DR) ***
Capitolo 10: *** JORDAN I (28 D.F.) ***
Capitolo 11: *** ELEN (22 D.F.) ***
Capitolo 12: *** Vasilissa III (40 DR) ***
Capitolo 13: *** Maestra Ekaterina (22 DF) ***
Capitolo 14: *** JORDAN II (28 D.F.) ***
Capitolo 15: *** Drina I (28 dalla D.F.) ***
Capitolo 16: *** Mattias II (40 D.F.) ***
Capitolo 17: *** Malcom I (22 D.F.) ***
Capitolo 18: *** IOREN II (28 D.F.) ***
Capitolo 19: *** Alina I (40 D.F.) ***
Capitolo 20: *** Matthias III (40 D.F.) ***
Capitolo 21: *** Min-Han I (40 D.F.) ***
Capitolo 22: *** Vasilissa IV (40 df) ***
Capitolo 23: *** Dimitriji I (40 D.F.) ***
Capitolo 24: *** Alina II (40 D.F.) ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


Premessa

Prima di pubblicare questa storia devo fare una lunga è fastidiosa premessa.
La storia è una classica Future!Fic con i Figli ed un sacco di OC; ma proprio davvero, davvero, tanti personaggi originale.
Inoltre poiché sono una pazza psicopatica la storia si alterna su tre linee temporali diverse (cinque se si considera il prologo e l’epilogo) che potrebbero a loro volta subire una successiva bipartizione.
La prima linea è il 22 dalla Riunificazione di Ravka/Dissoluzione della Faglia ed è una storia d’avventura che probabilmente tinte oscure e non sempre gentili (con probabilmente una certa dose di TW), la seconda ambientata  nel 28 RR, ha una trama un po’ più intrigante e politica (se io fossi in grado di scriverla) e l’ultima nel 40 RR è praticamente un episodio di Bridgerton.
Tutti gli altri eventi non compresi in queste tre linee saranno probabilmente narrati in flashback a meno che non sia necessario avere un momento specifico.
Comunque, tutti i capitoli avranno una delimitazione temporale.
Ho scelto tre linee narrative perché volevo raccontare tre diverse storie ed in un certo senso sono tutte collegate, a modo loro. All’inizio le storie saranno equamente divise, ma ciò non toglie che andando avanti potrei concentrarmi per diverso periodo su una, rispetto le altre e così via. Ovviamente, non posso lasciare che una storia rimanga troppo indietro.
In base ai capitoli, cercherò di fornirvi una timeline e/o liste di personaggi.
Ed un sacco di note per spiegarvi perché ho preso una decisione o meno che non fosse spiegata nel testo (Praticamente sono diventata Jay Kristoff). E spero di poter risolvere la “Questione Fjerdiana” che nei libri ho trovato un po’ troppo semplicistica.
Come dicevo un sacco di oc, però, insomma appariranno anche i personaggi del nostro cuore (Genya e Nina su tutti, però insomma anche Inej e Zoya, Wylan ha addirittura una scena, probabilmente la persona che si vedrà di meno è Kaz Brekker, perché chi sa scrivere Kaz? Io no, anche se avrà un momento – che qualcuno mi accuserà di essere assolutamente ooc). Riguardo alle ship: tutte le ship presentate nel finale di RoW sono rimaste canon, ma non sempre il loro rapporto è stato idilliaco (insomma la storia copre quasi quarant’anni di eventi), tipo Zoya e Nikolai. Chi ne è uscito indenne sono stati i Kanej (perché probabilmente si vedono complessivamente un mese in un anno e camminano troppo sulle uova per ferirsi, ma questo è del tutto relativo).
Per i figli dei personaggi, ho cercato di trovare un buon compromesso tra i loro genitori, mischiato con la vita e gli avvenimenti che li hanno visti coinvolti.
Oltre questo, i Reali hanno, come vuole le tradizioni, più nomi di quanto sia richiesto.

Per il Design dei personaggi mi sono rifatta alle descrizioni librarie e non telefilmiche (Alina e Mal sono Ravkiani, Genya ha gli occhi scuri, Kaz neri, etc) con l’unica eccezione di Zoya a cui ho lasciato i suoi splendidi occhi blu-zaffiro ma ho dato l’incarnato più scuro, nonostante nei libri venga detto che è pallida (diciamo che nella mia testa il suo incarnato è simile a quello di Meghan Merkle, ha senso?).

Il titolo: skazki ob istinnom more, è russo, la cui traduzione corrisponderebbe a: Fiabe del Mare Vero (Per gentile concessione della mia amica che studia russo) Tecnicamente Skazki che è la parola (plurale) con cui i russi si riferiscono a favole/fiabe, andrebbe tradotto letteralmente come “E’ detto”.

Detto questo: la storia è un caos e fedele alla Bardugo il prologo è abbastanza slegato dalla vicenda e alla stessa maniera non lo è.
Cielo, che disagio.
Buona Lettura.

Ps- Ho una DSA e nessuna beta. Moriamo come Drsukelle.

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Capitolo 2
*** Prologo (SHIOBAN, 16 DF) ***


SKAZKI O ISTINNOYE MORE

SHIOBAN
(16 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

 

Quando aveva toccato con i piedi la terra, Shioban si era chinata ed aveva rimesso il suo pranzo dritto sul terreno, evitando di poco i suoi stivaletti di cuoio. Non era la sua prima volata in cielo, anzi ne aveva accumulate un po’ sulle spalle, ma il suo stomaco – e la sua testa – sembravano non abituarsi mai.
“Oh” aveva esclamato una donna alle sue spalle. Shioban si era tirata su, era stata la prima a scendere dall’imbarcazione. Aveva vomitato due volte mentre erano in viaggio, abbracciata alla balaustra ed aveva deciso, appena atterrati, di non voler mai più tenere un piede sulla nave, per almeno il resto del pomeriggio.

“Mi pare di comprendere che non gestisci bene i viaggi” aveva commentato la donna che l’aveva raggiunta, mettendole una mano cordiale su una spalla. “Se gli uomini fossero fatti per volare, avremmo le ali” aveva borbottato Shioban. “Sciocchezze, gli uomini fanno tantissime cose per cui non sono costruiti” aveva risposto l’altra, con un tono non curante. Con l’unico fiammeggiante occhio d’ambra aveva rivolto lo sguardo allo splendido veliero volante da cui erano appena scesi.

L’Alcione.


Nonostante il nome dell’uccello, ciò che sventolava sulle vele dell’albero maestro era lo stendardo della famiglia reale di Ravka Drago Incorano della Regina, a quattrozampe, con le fauci aperte, squartato nel primo e nel quarto quadrante, l’Aquila Bicefala del Re Consorte, leggermente più contenuto, nel terzo e in ultimo un sole raggiante, nel secondo quadrante più piccolo completava la triade.
Un tempo l’aquila era simbolo del regno, ma le cose erano cambiate. A Shioban, però, i draghi piacevano di più.
La nave era un bilandro di dimensioni modeste, con un albero maestro a vela quadrata e uno di mezzana a randa, ignorando le vele laterali retrattili, che permettevano il volo. L’Alcione poteva andare sia per cielo sia per mare – come l’uccello di cui portava il nome – ma raramente veniva utilizzata per quello scopo. In mare esistevano i pirati di ogni luogo, di ogni dove, anche sotto la superficie dopo la costruzione degli Squali, in cielo … c’era gente, ma decisamente meno.

Shioban si era forzata di rispondere, con fatica, con un sorriso di circostanza. “Lasciami aggiustare il tuo aspetto o spaventeremo i bambini” aveva detto la donna attirando la sua attenzione, in quel momento il luccicante occhio ambra era fisso su di lei.

Shioban aveva annuito, “Di solito mi prendo un quarto d’ora di lunghi respiri, ma sono molto curiosa” avev ammesso, presentando il volto; aveva affrontato già abbastanza viaggi in volo da sapere che la sua pelle avesse raggiunto una tonalità più vicina al verde che il solito roseo pieno che sfoggiava di solito.
“Se riuscissi a far passare la nausea” aveva proposto Shioban, “Chiedi al tuo amico healer, come si chiama Vladimir?” aveva considerato quella, mentre apriva la sua borsa da viaggio, per permetterle di recuperare i materiali con cui lavorava per plasmare l’aspetto. Shioban trovava quel talento incredibilmente intrigante, in realtà trovava tutto quello che aveva a che fare i grisha, davvero interessante. “Vladyslaw, ma noi lo chiamiamo semplicemente Vlad” aveva risposto Shioban.

Aveva sollevato lo sguardo per permettere alla donna di giocare con le sue guance – una mano al suo viso, ed una stretta al petalo di una rosa rossa – accompagnata da un leggero pizzicorino, mentre lei aveva osservato gli altri scendere dal pontile. Come fosse stato evocato Vlad si era palesato davanti ai suoi occhi. Stava scendendo dal ponte dell’Alcione, con un passo lento e cadenzato, per nulla turbato dal turbolento viaggio. La kefta rossa scarlatta, che portava aperta sul petto, come fosse stata un cappotto, ondeggiava ai picchi del vento. In quella maniera Vlad sembrava quasi un nobile signore, con uno svolazzante mantello.
Quello che a Shioban piaceva in Vlad era il fatto che era sempre elegante, prima di essere qualsiasi altra cosa, anche un grisha, d’altronde era un Effimov, un’antica e illustre famiglia di Ravka ovest.
Aveva un viso olivigno e capelli neri, agitati e mossi – come le onde increspate del mare – lunghi fino alle spalle. Suo padre era Pavel Effimov, signore di Kyoska e ammiraglio di divisione della marina ravkiana – per questo che fosse in cielo o in terra, Vlad si trovava a casa su una barca – e della sua concubina suli heartrender. Era da lei che aveva eredito i suoi poteri e gli occhi attenti. Vlad l’aveva guardata e le aveva fatto l’occhiolino, amichevole come sempre. Non era il primo viaggio su un aliante che facevano assieme.

Erano ormai due anni che lavoravano fianco a fianco.

“Ti piace questo tuo Vlad?” aveva chiesto divertita la tailor, mentre si occupava di sistemare la sua pelle in un colore che somigliasse al chiarore di una rubiginosa. “Molto e non in quella maniera” aveva risposto senza indiscrezione, dicendo il vero. Sapeva che triunviro era una donna sfacciata, elegante, ma senza peli sulla lingua.

Era avvampata dopo, però. Quando Vlad aveva raggiunto il fondo della passerella e si era messo a strillare con quel suo tono sempre vigoroso, autoritario, verso gli altri. Così, dalla sommità, baciato dal sole stesso era apparso: Igor. Nonostante il suo aspetto splendente, il suo viso era contratto in un’espressione seccata. Shioban aveva dovuto distogliere lo sguardo, anche se Igor non l’aveva degnata neanche di uno sguardo, non aveva degnato nessuno dei presenti di un’occhiata, preferendo guardare con espressione contrita il panorama misero che quella landa offriva. “Lui, però, d’altro canto …” era stato invece il commento della donna, con l’occhio ambra di Ravka aveva studiato per bene il ragazzo in kefta blu. Igor sfoggiava la sua migliore espressione accigliata e sofferente, “Parla poco, sta sulle sue ed ha sempre la testa rivolta nei libri, così mi è parso sull’Alcione?” aveva indagato la donna.

Shioban aveva sorriso appena, piena di vergogna, “Sì, Igor è così” aveva commentato. Non era bellissimo, aveva un naso dritto ed appuntito, tutto di lui era spigoloso, dal mento, alle spalle, perfino lo sguardo. La donna aveva sorriso, aveva labbra rosee tormentate da tagli, i segni del suo martirio, anche se non era una santa. “Comprendo, comprendo” aveva considerato, voleva esserci gioco, ma l’occhio si era inumidito, “Anche mio marito era così”. Non aveva idea se la conversazione potesse proseguire o meno, perché era accaduto altro.

“Shioban, potresti approfittarne per farti sistemare la tua gobba sul naso” aveva strillato, qualcuno, invece, osceno ed assolutamente indisciplinato. Shioban aveva deragliato lo sguardo verso chi aveva parlato: Gavrilo in tutto il suo selvaggio splendore! Shioban si era sporta per fargli la linguaccia, “Non ti muovere o invece di piene guance rosse, ti ritroverai una fronte bitorzoluta” era stata bacchettata dalla donna.
Gavrilo aveva saltato a pie pari il ponte, atterrando sull’erba e per un miracolo dei santi non si era ferito, “Guarda che non ti riparerò un’altra volta quella caviglia!” lo aveva ammonito Vlad, subito, “Se ti fai male zoppicherai da qui ad Os Alta” lo aveva avvertito.

Gavrilo aveva riso scacciando la voce di Vlad con un movimento della mano. Era un otkazat’sya, ma la questione non sembrava averlo mai turbato.  La prima volta che Shioban lo aveva visto, aveva avuto di lui l’idea fosse una persona di ferro, forgiata dalle ascetiche regole monastiche richieste ai seguaci dell’Apparat, monaci-soldati, ma era bastato che sfuggisse di poco all’occhio della disciplina perché prendesse vizzi ed un’attitudine più molleggiante.  La giacca d’ordinanza dei Soldat Sol, bianca spessa con il sole oro-e-rosso sulla schiena era lasciata aperta, sulla camicia di lino grezzo ed i calzoni di pelle della divisa. Aveva occhi allungati unico ricordo del suo sangue Shu, ma con l’iride nero pece. “Ai miei tempi i soldati del sole erano diversi” aveva confidato la donna piena di divertimento. “Gavi è un modello tutto suo” aveva dichiarato Shioban.
Le piaceva Gavrilo, era decisamente una persona vivace con cui avere a che fare, era certa che se si fossero conosciuti nel campo d’addestramento sarebbero divenuti migliori amici fin dagli albori. La donna aveva sorriso con confidenza, “Il tuo naso va bene anche così, secondo me, se vuoi posso renderlo perfetto, certo” aveva considerato quella.

Shioban si era morsa un labbro, “Mi piace il mio naso, sono diciannove anni che lo ho lì, mi sembrerebbe strano altrimenti. Potresti, però, sollevare l’arcata sopraccigliare sinistra, ho una leggera asimmetria nel volto” aveva considerato quella. “Va benissimo” era stata insospettabilmente accontentata Shioban. Una mano aveva raggiunta l’altra ed aveva spinto la ragazza ad inclinare il capo in diverse direzioni, perché le sopracciglia potessero essere studiate da ogni angolazione.

Nel mentre, Shioban aveva osservato gli ultimi due membri dell’Alcione scendere a terra. Le sorelle Rurik, non erano gemelle, ma si somigliavano come due fiocchi di neve. Come era d’uopo aspettarsi da due grisha erano alte, bellissime e potenti. Indossavano con orgoglio e nobilita d’animo le loro kefte blu pavone, broccate di grigio-argento. Nonostante la lunga fatica della traversata, ambedue sembravano intenzionate a mostrarsi irreprensibili. Bianche come il marmo cesellato, con zigomi alti, labbra piene, occhi plumbei e capelli biondo-fragola, che scendevano in morbide onde. L’unica notabile differenza andava ritrovata in Anastasja, la minore, leggermente più bassa, che portava stritolato intorno alla gola una girocolla ricavata dalla lisca sottile del corpo di una murena, saldata in ferro grisha.
Shioban aveva saputo Asja stava cercando raggiungere la capacità di tidemaker. Era possibile d’altronde. Dal simile al simile, la materia di cui tutto era fatto ed altre frasi che Shioban aveva sentito ripetere infinite volte.
Si chiedeva se quello fosse vero, dal simile al simile, dove doveva collocarsi, allora, lei?

 
“Ecco, fatto, ora hai delle splendide sopracciglia simmetriche, per quanto andrebbero rifatte da principio. Però non sembri più uscita dritta dalla Faglia e non terrorizzerai nessun bambino” aveva scherzato la donna con le mani nel suo viso. Ormai, quella frase non era che un modo di dire, come un altro, ma lasciava lei, sempre confusa, inorridita. Shioban, del Nonmare non aveva nessun ricordo, se non una fitta, nerissima, coltre di nero. Aveva tre anni quando Novakirbisk, la sua città, era stata fagocitata per intero, ma lei e la sua famiglia – per un fortuito caso del destino – non era stati in città e, poi, sua madre non ne aveva voluto sapere di tornare lì, di avvicinarsi ancora.

Shioban ci era tornata, con suo padre, quando aveva sei anni, non ricordava tutto benissimo, ricordava di aver camminato per l’arena arida, tra gli scheletri delle VeleSabbia, della città e delle speranze infrante.
E poi aveva avuto quindici anni, quando aveva compiuto il Cammino dei Pellegrini ed aveva portato corone di fiori alle chiese del Sole e acceso candele al Senzastelle, lì, nell’Agroverde[1]. Dove un tempo era stata la morte ed il deserto, ove, in quel momento, sorgeva la vita con una potenza virulenta.
E nonostante non ci fosse più nulla a testimoniare il non-mare, di vivo e di concreto, ma solo ricordi e racconti, la faglia somigliava ad un brutto ricordo doloroso che sanguinava in Ravka, che qualcosa di tangibile, che era stato vero.

Però di una cosa era certa Shioban, per quanto dovesse somigliare ad uno straccio usato, scesa dall’Alcione, era certa che l’aspetto di chi avesse affrontato la Faglia dovesse essere quello della donna che le parlava.
Le avevano detto che un tempo Genya Saffin era stata, probabilmente, la donna più bella del mondo ed aveva pagato il coraggio e la ribellione con la sua bellezza. Per Shioban era un pensiero stupido, per lei Genya Saffin era ancora la donna più bella del mondo. I suoi capelli erano del rosso più vivo che avesse mai visto ed il suo occhio d’ambra era il più intenso di tutta Ravka.

L’Occhio d’Ambra del triumvirato – dicevano.


Era stata l’agente segreto dell’Oscuro e amica di Sankta Alina, seguace del Korol Renzi e fedelissima della Sankta Koroleva, membro del triumvirato grisha, quando ancora i grisha erano diffidati. Aveva rovesciato una dinastia che governava da secoli. Re, nobili, generali, santi, tutti passavano ma Genya Saffin rimaneva.
Imperitura come la pietra. E le cicatrici erano il simbolo del suo coraggio, di chi si era opposto con fervore ad ogni tiranno che avesse incontrato. “Grazie” aveva detto alla fine Shioban.
Genya Saffin le aveva sorriso ancora prima di accompagnarsi a Vlad, prendendolo per un braccio, l’healer era stato incredibilmente felice di accompagnare la donna. Era una leggenda fra loro, inoltre, una volta il giovane grisha le aveva confidato che avrebbe tanto voluto avere Genya Saffin come maestra, ma era piuttosto negato come tailor, nonostante tutta la buona volontà.

Shioban aveva fatto passare il pollice sul suo sopracciglio sinistro, per sondare se si sentisse diverso o meno al patto, pareva tutto drammaticamente uguale. “Solo tu potevi avere la più talentuosa tailor del mondo e l’hai usata per curare un difetto neanche visibile” aveva considerato Gavrilo, mettendole una mano sulla spalla, “Mi piace la mia gobbetta al naso, ci sono affezionata” aveva risposto lei, sorridendo divertita.
Poi il sorriso divertito di Gavrilo si era raffreddato e la presa intorno alle sue spalle si era sciolta subito, quando aveva scorso Igor guardarli, “La posizione, Soldat Sol, noi siamo qui come vicari della Corona e dell’Apparat” li aveva rimproverati.

Gavrilo si era irrigidito ed aveva annuito, raggiungendo Vlad e Genya passo marziale. Il suo atteggiamento duro era rimasto impassibile anche davanti alle domande delle sorelle Ruskin.
“Di solito la gente tende a considerarci meglio quando siamo meno formali” aveva commentato Shioban. Igor non lo sapeva, ovviamente, usualmente li accompagnava per noia, per girare, per vedere luogo nuovi, rifornire la sua collezione di libri, appuntarsi cose che avrebbero potuto interessarlo. Ogni tanto li rendeva invisibili davanti a qualche mezzo ad aria troppo audace.

Però, era ovvio, che le cose dovessero essere diverse in quell’occasione.


Igor stesso aveva dato voce ai suoi pensieri, “Non è strano?” aveva chiesto, aveva il forte accento di Ravka ovest, come Shioban, ma era l’unica cosa che avessero mai avuto in comune; “Sono strane un sacco di cose, a quale ti riferisci esattamente?” aveva domandato con finta ingenuità, lisciando con le mani la sua kefta.
Non era come quella dei grisha, certo resisteva ai proiettili come le loro – così come la giacca da Sol Soldat di Gavrilo– ma era di un azzurro acceso, come un cielo di un dipinto di DeKappel, non era broccata ne aveva filature particolare, un unico colore omogeneo che l’avvolgeva. L’unico tratto distintivo era dato dal drago oro sul fondo bianco, inquadrato su uno scudo, sulla schiena – come simbolo del suo servigio alla corona. Shioban aveva sistemato sul cuore due spille commemorative.

“Che la Razrushhost sia voluta venire qui, con noi?” aveva domandato Igor, ignorando il suo gioco. “Non mi chiedo mai le ragioni delle persone potenti. Conoscono sempre più di quanto ci diranno mai” aveva considerato con un sorriso di circostanza Shioban. Ovviamente Igor aveva ragione, era abbastanza inusuale che una persona come Genya Saffin, membro del triunvirato, amica e consigliera della Regina Drago, avesse voglia di accompagnare un gruppo spaurito come loro, in un viaggio in quella landa semi-sconosciuta di Ravka.
“Sei stupida allora. Conoscenza è potere” aveva commentato Igor, secco, aggrottando le sopracciglia. “Sì, è strano. Evidentemente qui vicino deve esserci qualcosa di interessante. D’altronde tu sei qui, nel cortile, invece che essere stesso in plancia a farti un bagno di sole mentre leggi” aveva commentato Shioban.
Ovviamente era stato strano, quando pronti alla partenza avevano ricevuto una comunicazione da Os Alta che gli aveva informati di un nuovo passeggero. Shioban si era aspettata un giovane soldato o … be, chiunque, ma non la Grande Genya Saffin in persona. Ma così era stato.

Igor era trasalito a quel commento, “Mi è stato detto di comportarmi adeguatamente al mio rango” si era giustificato, con le guance arrossate di indignazione, raggiungendo anche lui il resto di loro, seguito a ruota da Shioban. Prima della comunicazione di Genya, anche Igor aveva ricevuto un messaggio ed aveva dovuto incontrare l’Apparat in persona. Era strano il modo in cui agiva lui e quelli come lui, alcuni di loro erano praticamente grisha come gli altri, ma altri erano quasi Soldat Sol, fedeli e seguaci dell’Apparat Vladim che altro. Forse era perché il culto di Sankta Alina era il Culto di Ravka per eccellenza, più di quello di Sankt Ilya o della Regina Sankta Vivente. Per Shioban era strano, ma forse, per quanto mirabolanti fossero le gesta della Regina, il suo essere ancora viva, tangibile, umana non le regalava quell’assolutismo ultraterreno che il martirio e la parusia regalavano ad Alina Della Faglia.

 

Genya aveva condotto la fila dell’equipaggio, verso il loro luogo di incontro. Era un edificio niente male, sembravano i resti di un palazzo nobiliare, ma molto più pieno di vita e colori. Al posto di arzigogolati giardini, organizzati in corridoi di siepi e cespugli, presentava grandi parchi alla maniera delle isole erranti.
Le pareti della villa erano di mille colori vivaci, stuccate nuove. E quel posto brulicava di vita e di gioia.
Due persone l’aspettavano all’ingresso di un cancello aperto. Uno era un giovane uomo, poteva avere qualche anno in più di Shioban, era carino. Occhi grandi, pieni di vita, un’espressione calorosa sul viso formata da un sorriso dolce.

Lei era più breve di statura ma più grande d’età, una donna intera e matura, aveva capelli scuri, di un colore intenso. I suoi occhi erano scuri ma scintillanti di vigore e fulgidi d’amore.
Genya aveva sciolto la presa da Vlad e si era diretto verso la donna, si erano abbracciate come vecchie amiche, poi aveva guardato anche il ragazzo. “Com’è che diventi sempre più bello Misha?” aveva chiesto Genya.
Il ragazzo era gradevole, con gli occhi limpidi e l’espressione rilassata, “Mangio un sacco di verdura” aveva risposto. Genya aveva tirato un buffetto delicato sulla spalla del giovane, prima di rivolgere lo sguardo nuovamente alla donna. “Ma cosa hai fatto ai tuoi capelli?” aveva chiesto Genya con espressione piuttosto accigliata, “Li ho tinti” aveva replicato l’altra con espressione quasi divertita. “Sì, grazie, questo lo vedo. Quello che mi chiedo … non hai trovato un modo?” aveva chiesto quella, sollevando con un dito i capelli dell’altra, “Ehi” si era difeso il giovane uomo che era sulla porta, “Si, è stato Misha ad aiutarmi” aveva spiegato Alina, “E sì, non possiamo godere della compagnia di una talentuosa sarta, quindi, ho ricorso ad una vecchia tintura per capelli” aveva ghignato l’altra, tirandole uno buffetto sulla mano per farle lasciare i capelli. Genya aveva sorriso, “Ricordami di sistemarli prima di andare via. Non si dica che un’amica di Genya Saffin sia impresentabile” aveva dichiarato.

“Non si dica” le aveva fatto il verso l’altra.

 “Ora hai la tua risposta” aveva detto Shioban, guardando le due. Genya aveva preso il polso, delicatamente, della donna e l’aveva guidata verso di loro, seguita poi dal giovane uomo. Poi la donna aveva fatto le presentazioni dovute, senza sbagliare neanche un nome, come se fossero stati suoi vecchi amici e non avesse dimenticato il nome di Vlad qualche momento prima. La donna aveva sorriso educata e gentile, era stata amichevole, stringendo le loro mani. Aveva guardato con estrema curiosità la kefta azzurra di Shioban – entrata in vigore probabilmente dopo l’ultimo censimento in quella zona – ed ovviamente Igor. Come d’altronde, non si poteva?

Igor indossava il blu brillante degli etherealki, ma l’abito era istoriato con motivi oro-rosso. Tutti sapevano cosa volesse dire.

I Sun summoner.

 

La padrona di casa si chiamava Marina, gestiva lei l’orfanotrofio di quel piccolo villaggio, assieme al suo compagno – aveva portato i ragazzi più grandi (che avevano già affrontato il censimento) a caccia quella mattina presto, ma che sarebbe rincasato presto, come aveva tenuto a sottolineare – ed il giovane uomo di nome Misha. Nel corso degli anni, in quel mestiere Shioban era stata accolta in ogni sorta di maniera, con aspettativa, intolleranza, qualsiasi cosa tra quelle due oscillazioni del pendolo, ma mai con così tanta famigliarità.
Marina aveva fatto preparare per loro, dalle cucine, un buon banchetto, non così lauto e fasto, ma degno di rispettare l’ospitalità ravkiana del sud.

Sul tavolo aveva fatto mettere oltre al kvas anche latte, miele e quant’altro. Ekaterina Ruskin, si era scolata da sola due boccali di latte speziato caldo, per recuperare la fatica del viaggio. “Per caso ha anche della jurda?” aveva chiesto sfacciata. “Certo!” aveva cinguettato Marina, mandando un giovane ragazzo a prenderlo. “Potete rimanere qui quanto tempo desideriate, sono contenta di dire che qui Keramzin abbiamo letti vuoti” aveva detto con orgoglio la donna, guardando i suoi bambini.

Shioban aveva osservato la scena, i bambini erano per lo più ravkiani, qualche Shu o mezzo-Shu. Però non erano tanti, non come quando lei era piccola e gli orfanotrofi erano strapieni di bambini figli della guerriglia di confini, della guerra civile, della guerra della jurda, della faglia. Shioban era felice che nonostante non fossero pochi i bambini erano un numero esiguo rispetto quanti avrebbero potuto essere.
“Credo ci abbia invitato per tenersi più tempo, la signora Saffin” aveva sussurrato Gravilo nell’orecchio di Vlad. “Ed anche se fosse, qui mi piace un sacco” aveva ridacchiato Anastasja, mentre beveva latte e miele.
Lei doveva riconoscerci una certa dolcezza, calore, aveva sempre avuto l’impressione che quei posti fossero tetri e tristi.

Si era voltata verso Igor, che come sempre stava studiando l’ambiente al suo meglio, i suoi occhi erano stati incantati dall’enorme ritratto che dominava sulla lunga tavolata da pranzo. Sankta Zoia dva Urga[2], con le due dita sollevate in posizione orante e sulla chioma scura portava la sua corona drago. Per Shioban era davvero un ottimo ritratto, l’artista aveva fermato l’espressione orgogliosa della Regina Santa, riproducendo perfettamente la giusta tonalità di blu. Era diversa dalle altre rappresentazioni che aveva visto della donna, per prima cosa la mano che l’aveva dipinta non sembrava eccelsa, così come la rappresentazione non pareva di carattere adulatoria, ma tragicamente reale in qualche modo. L’imperfezione della mano era acquietata dalla riproduzione dell’espressività.  Non era solo il preciso blu più degli occhi della Santa Vivente, ma anche la severità e la fierezza della posa, dello sguardo.

Chiunque l’avesse dipinta aveva guardato il viso della Regina con i propri occhi, per abbastanza tempo da catturare su tela la sua austerità. “Ti piace!” aveva parlato una bambina, attirando la sua attenzione, non era lontana da Shioban, “Lo ha fatto la mamma!” aveva dichiarato con orgoglio. Shioban aveva fatto scattare lo sguardo verso Marina la tenutaria che parlava con Genya e ridevano di una battuta di spirito di Ekaterina e di quello che aveva l’impressione fosse un giovane maestro. Forse Marina era stata amica anche della Regina Drago oltre che del triumviro. Si chiedeva, com’è che una persona che aveva avuto amici tanto importanti fosse finita lì, così defilata …

Poi aveva riportato lo sguardo sulla bambina.

Era, ovviamente, la figlia di Marina, non poteva essere altrimenti, anche se non si fosse dichiarata tale, aveva la stessa curva morbida del volto, il naso piccolo e delicato e gli occhi grandi pieni di calore. C’era qualcosa di qualcun altro, ovviamente, come iridi turchesi, quasi iridescenti, labbra piene e rosa. “Molto bello” aveva considerato Shioban. Era una bambina forse sui dieci anni, forse anche meno, magra ma in salute, con capelli scuri e lunghi che le scendevano come un mantello spesso sulla schiena. “Sì, un’ottima mano” aveva considerato Igor, circostanziale, anche se non era vero. Non nella maniera in cui lo pensava Shioban.
Il sun summoner era devoto all’Apparat più di quanto lo fosse alla Regina. Non conosceva, non aveva visto anzi, come Shioban lo sguardo fierissimo della Regina Zoya da così vicino da apprezzare quanto fedele fosse quel quadro.

Un altro bambino aveva parlato, era più piccolo della ragazzina – sicuramento meno di dieci anni – aveva gli occhi allungati degli Shu, lo stesso colore del miele e capelli nerissimi come una macchia di pece, attirando la loro attenzione. “Puoi… fare quello?” aveva domandato pieno di aspettativa. Alla sua richiesta si erano appellati, altri fanciulli smaniosi.

“Bambini!” li aveva richiamati all’ordine Marina, notandoli vicinissimi a loro due. “Queste persone sono qui come emissari della corona non per intrattenerci” aveva considerato materna, li aveva richiamati ma senza un aspro rimprovero, prima di rivolgersi a loro, “Perdonateli: i bambini non hanno mai visto un sun summoner da queste parti” aveva spiegato lei, la sua voce si era incrinata. “Pensavo che Sankta Alina fosse di Keramzin” aveva considerato Gavrilo. Un’espressione tesa si era formata sul viso di Marina, “Circa” aveva considerato, “Era dei Due Mulini, in realtà, ogni anni portiamo i più grandi a fare un pellegrinaggio alle rovina e alle cascate di fuoco” aveva considerato Misha. “Ci piacerebbe molto andare” aveva vagliato Igor, ammiccando a Gavrilo. “Avete sentito il sole” aveva risposto l’altro. C’era stata un gentile sorriso che aveva illuminato il salottino, “Certamente, domani, se vorrete, prima di ripartire” aveva concesso Marina.

 

“Quindi la kefta azzurra?” aveva domandato Marina, “È la kefta di rappresentanza di quello che potrebbe essere definito i rimasugli del primo esercito” stava spiegando Genya, alla donna, “Anche se ormai non esiste più un primo o un secondo” aveva detto didascalica il triumviro. “Azzurro è sempre stato il colore di Rafka” aveva valutato Marina.

Shioban aveva ascoltato quel discorso parzialmente, le piaceva indossare un kefta, li rendeva tutti uguali, sebbene in combattimento risultasse forse troppo impostata, anche i grisha non le indossavano più durante gli scontri, preferendo tenerle come rappresentanza, favorendo l’uniforme regolare dell’esercito con i loro colori di appartenenza. “Pensavo che, visto, le recenti teorie della materia, aveste cominciato a sperimentare nuovi colori?” aveva proposto. “Qualche grisha ultimamente collauda. Alcuni squaller e tidemaker si trovano affini. Ogni tanto spunta fuori una Kefta blu con istori argento-azzurri” aveva cominciato, “Alkemi e Durast lo sono sempre stati” aveva considerato Marina. Genya aveva annuito, con l’occhio giallo pieno di tormento – Shioban sapeva che il suo defunto marito era stato un fabrikator – “Sì, ormai i nostri decori sono totalmente opzionali. Anche noi sarti stiamo rivalutando, stavo pensando di passare dal rosso al porpora, per specificare meglio questo essere a metà con i materialki, ma starebbe malissimo con i miei capelli” aveva considerato il triunviro.

Shioban si era allontanata con la risata di Marina a riempirle le orecchie; aveva deciso di non disturbarle, era ovvio fosse un incontro tra due vecchie amiche ed aveva preferito lasciare così, sedute su morbidi divani nel loro privato.

Ekaterina e Anastjasia invece avevano deciso di accettare la proposta di Marina e concedersi un meritato riposo, dalla Palude Dorata, il viaggio era stato insospettabilmente lungo, anche con la jurda erano crollate, nonostante tutto il loro impegno nell’apparire impeccabile. D’altronde ambedue erano state istruite dal triunviro Andrik, il sankto asimmetrico. Vlad, compagnia che Shioban avrebbe apprezzato tantissimo, aveva deciso di farsi scortare per la tenuta da Misha e lei lo aveva lasciato ai suoi riti di seduzione. L’healer non nascondeva mai il suo appetito. Era un uomo vorace.

Aveva perciò cercato Gavrilo e Igor. Si aspettava di trovare il primo ad intrattenere l’orda di bambini con qualche racconto trucolento o uno eroico, o una pessima combo di entrambi, mentre il buon Sun summoner per fatti suoi, seduto sull’erba a leggere qualcosa di suo gradimento. Igor amava così tanto leggere che un giorno, Shioban lo aveva scoperto gustarsi anche le carte catastali di Sikursk; non aveva fine la sua fame di conoscenza né alcun discernimento, evidentemente. Ogni informazione, ogni nozione, andava ingurgitata.
Una volta lo aveva anche sentito desideroso di andare alle Rovine dell’Arcolaio per raccogliere tutto quello che doveva essere rimasto, di libri, volumi e pergamene.

Invece, si era dovuta dichiarare sorpresa; i due erano insieme. In una parte del Parco Errante, Marina aveva fatto costruire un gazebo in legno bianco, abbastanza grande perché una tavolata per quindici persone potesse trovare riparo dal sole estivo di Ravka. Il tavolo però era stato messo da parte e tutti i bambini sedevano a semicerchio.

Tutti i loro occhi erano per Igor, c’era anche qualche precettore della casa, un po’ in disparte, che si fingeva disinteressato ma che continuava a guidare gli occhi verso Igor, come una falena attirata dalla fiamma. Il grisha stava intrattenendo i bambini con sfere luminose, mentre il Soldat Sol lo osservava posato ad un pilastro di legno, con gli occhi sognanti. Erano tutti devoti uomini alla corona di Ravka, ma Gavrilo aveva un giuramento sacro che lo legava ai miracolati di Ravka, il cui potere era sorto dopo il martirio di Sankta Alina.

I prescelti.

Se Shioban ci pensava a lungo era strano che non ci fossero sue icone, erano comunque vicini al luogo della sua nascita e dove era vissuta. Forse Marina e suo marito non erano poi troppo credenti. Il tributo a Sankta Zoya, era il tributo ad una amica, realizzava.

I bambini sembravano completamente rapiti dalle movenze di Igor, aveva dita lunghe ed ogni suo movimento sembrava delicato. Le sfere crescevano e diminuivano di grandezza ed intensità, così come la posizione con una certa sequenzialità, non ne era sicura ma aveva l’impressione che Igor stesse suonando, senza note, senza voce, ma solo con la luce. Intensità, grandezza, ritmo. E nel farlo stava sorridendo ed era così carino quando lo faceva, peccato sorridesse poco o niente. Si era avvicinata con lentezza al gazebo di legno, mentre osservava i bambini chiedere con vivacità di dare alla luce le forme più svariate.

Non aveva raggiunto il gazebo, però, spaventata di rompere quell’equilibrio. Per un secondo, un solo secondo, aveva giurato che gli occhi intensi di Igor l’avessero raggiunta, ma era stato un secondo. Il rumore del cancello l’aveva distratta.  Si era voltata osservando un uomo, con una carabina legata sulle spalle, aprire il cancello, dietro di lui c’era un ragazzetto sui sedici anni, che teneva una cestina ed un fucile a spalla, seguito da una coetanea, alta che teneva con un bastone i resti in un cinghialotto legato a reggere l’altra estremità c’era un ragazzo, altissimo. Il chiudi-fila era una ragazzina che non poteva avere neanche quattordici anni.

“Oh”, aveva esclamato l’uomo, guardandola. Aveva dei vibranti occhi azzurri, come il cielo riflesso sull’acqua pulita, la stessa tonalità della figlia di Marina, immaginava perciò che fosse il marito di Marina. I quattro ragazzi alle sue spalle avevano drizzato la schiena, “Sei una grisha?” aveva chiesto immediatamente la giovane alta che teneva la prima parte della canna. “No, sono un soldato” aveva risposto calma, “Caporale Maggiore Shioban Veleski, di stanza … ad Os Alta” aveva detto con fervore. Era una menzogna, ma non aveva il permesso di divulgare ai civili la posizione della sua base. “Io sono Shevich Rosen, il marito di Marina” aveva dichiarato l’uomo, ammiccando a sua moglie che aveva abbandonato il salottino, per unirsi in giardino, in compagnia di Genya Saffin. “Loro sono: Rebah, Stygor, Yue e Andrej, i miei ragazzi” aveva detto.
“E vedo che avete preso un cervo per cena” aveva commentato con estrema allegrezza Marina, “Nonostante avessimo già una dispensa piena” aveva aggiunto.

“Non ero uscito con quell’intento” aveva ammesso colmo di imbarazzo Shevich, “Però sapevo sarebbero arrivati” aveva aggiunto, ammiccando proprio a Shioban. “Comunque non è stato facile!” aveva dichiarato subito la ragazzina di quattordici anni, Shioban immaginava dovesse essere Yue, aveva occhi tondissimi, ma screziati di oro Shu, “Sì, ma sono stati tutti bravi, Andrej ha un vero futuro da tracciatore” aveva detto Shevich, le sue parole erano pesanti sulla lingua. Il ragazzo con il cestino era arrossito, aveva delle delicate efelidi sulle guance che lo rendevano adorabile “Il tracciatore è un mestiere terribilmente sopravvalutato” aveva replicato Marina. “Ci sfama solamente” si era lamentata Rebah, “Adesso basta, andremo in cucina a scuoiarlo, Genya vuoi farmi compagnia?” aveva chiesto Martina, con una certa imperiosità.
Genya, durante questo scambio, si era avvicinata ed aveva baciato sulle guance, piena di calore, di Schievich. Il triunviro aveva battuto gli occhi, Shioban non era abituata a vedere nessuno così autoritario con la rovina, neanche la regina drago.

“Secondo te vivo ancora a piccolo palazzo perché adoro scuoiarmi la cena da sola?” aveva domandato retorica la grisha, ma lo sguardo scuro e pieno di devozione dell’altra era bastato perché cedesse, “Marina, se non abitassi in un posto così dimenticato dai Santi, mi trasferirei qui solo per come mi guardi” aveva sentito Genya dire, mentre Rebah e Stygor portavano via il cervo.

“Quindi vi porterete via qualcuno?” aveva chiesto subito affamata Yue, “Non sono ancora stati testati” era stata la pigra risposta di Shioban, prima di aggiungere, riconoscendo uno sguardo pieno d’apprensione, “Anche se risultassero grisha, il servizio militare obbligatorio è stato sospeso” l’aveva rassicurata.
Shevich aveva messo le mani sulle spalle della ragazzina, paterno, “Ne abbiamo già parlato” le aveva detto bonariamente, “L’addestramento a grisha può salvare un nostro fratello, dai pericoli e da se stesso” aveva ripetuto come una cantilena la ragazzina. Questo era inaspettato.

Ravka era sempre stata la patria dei grisha, il posto dove ognuno di loro si sentiva a casa. Avevano un luogo, il palazzo, un ruolo, il secondo esercito, ma il mondo era sempre stato spaccato in due. Solo negli ultimi anni, dopo la Santa Regina Grisha, la percezione era cambiata, ma ancora di quei tempi la gente era sempre poco entusiasta di sapere che i loro figli lo erano. Shioban aveva sorriso verso Shevich, “Sì” aveva confermato. “Ehi guarda!” aveva detto Andrej, attirando lo sguardo della ragazza su Igor ed i suoi giochi, “Andiamo!” aveva esclamato subito la ragazzina rianimata dal desiderio, “Screanzati i funghi!” aveva urlato dietro il padre putativo, ritrovandosi poi la cestina tra le mani. “Scusali, di grisha se ne vedono anche a Keramzin ma di sun summoner pochi” aveva confidato.

“Credo abbiano paura di girare così vicino al confine di Shu-Han” aveva ammesso Shioban, “Può esseri in vigore il Concordato, ma certe abitudini sono due a morire” aveva considerato.
L’accordo era stato istituito, in vero, tra Makhi Kir-Taban e Nicolai Lanstov, ma nessuno dei due governava più, non con quell’assolutismo prima. La regina Makhi era stata retrocessa a co-reggente – e Shioban aveva sentito alla Palude che qualcuno commentava che il suo governo non era stato legittimo – e Nikolai si era rivelato un figlio spurio ed era passato da Re Legittimo a Re Consorte.

Shevich aveva guardato quasi rapito i giochi di luce, e lei aveva visto nel suo sguardo un ricordo. D’altronde conosceva Genya, forse aveva servito nel primo esercito, forse aveva visto la Sankta Alina della Faglia ed i suoi giochi di luce … forse Shioban stava fraintendendo.

 

 

Mentre i ragazzi più grandi ed alcuni servi della casa si erano impegnati nella preparazione del cervo e della cena – anche Shevich sarebbe voluto andare ma sua moglie lo aveva convinto a rimare. Shioban aveva l’impressione che lui fosse terribilmente preoccupato dalla loro presenza (il suo atteggiamento appena Rebaj si era allontanata si era fatto molto meno sicuro) – mentre la signora della casa si era occupato di radunare i bambini, tutti i bambini, anche quelli non in età.

Erano quindici, esclusi quattro più grandi che si erano chiusi in cucina.

Avevano scelto come luogo una delle sale da pranzo della tenuta. Abbastanza grande perché non fosse necessario spostare il tavolo perché fossero comodi. Oltre i bambini e loro, nella stanza c’erano tutori incuriositi e servi. Sembravano tutti molto ansiosi. Il più grande tra i bambi lì presenti era un giovanotto di tredici anni con un’espressione contrita, che continuava a far saettare gli occhi blu su tutti loro.
Normalmente era Shioban che parlava con la folla, ma in quel momento con loro era presente la leggendaria Genya Saffin, così aveva chiesto alla donna se avesse voluto farlo lei. “Santi del cielo, no, parlare con i bambini non è uno dei miei molti talenti” aveva ammesso Genya, con un sorriso quasi nervoso.

Non era quello che aveva sentito Shioban da Vlad, ma forse la donna non voleva solo imporsi.
Così Shioban si era ritrovata in piedi di fronte i bambini, con Vlad alla sua sinistra con espressione calma e rilassata e la signora Marina alla sua destra.

“Salve, giovane figli di Ravka, come già sapete noi siamo qui per stabilire se tra voi ci saranno dei grisha” aveva cominciato a parlare, “Eseguirò io l’esame, sono Shioban, membro dell’esercito di sua maestà la regina e mi assisterà in questa prova il guaritore Vladimir” aveva parlato in maniera informale Shioban, anche se Vlad era un soldato quanto lei ed anche di un grado superiore.  “La prova sarà semplice, prenderò la vostra mano e valuterò la vostra condizione” aveva stabilito.

Quello era; solo un amplificatore. Umano. Una rarità, dicevano.

Gli amplificatori umani erano rari, per lo più erano grisha, ma Shioban era un’abbandonata. “A volte capita che con qualcuno sia più difficile di altri, in quel caso sarà necessario fare un piccolo taglio, non preoccupatevi è sempre un caso raro ed abbiamo il buon Vlad per questo. Se qualcuno di voi, risulterà un grisha, ci occuperemo di prove più pratiche per stabilirne l’ordine di indole. Per Materialki ed Corporalki potremmo anche qui … e la specializzazione probabilmente sarà impossibile da determinare ora e qui, ma ci vorrà del tempo, vedere le vostre inclinazioni. Per gli etherealki sarebbe il caso di andare in giardino, questa è una bella casa e nessuno vorrebbe distruggerla” aveva dichiarato con un sorriso calmo.I bambini avevano ridacchiato a quella battuta.


Aveva deciso di saltare la parte in cui spiegava che gli ordini era una visione leggermente arcaica, che in quegli anni i grisha stavano cominciando a sperimentare. Come la Regina Zoya che governava tre – le più note – su cinque delle discipline degli etherealki e qualcosa di materialki, oppure Genya Saffin che con le sue abilità di plasmare-le-forme era a metà tra un corporalki ed un materialki. O anche solo Anastasja.

Un ragazzino aveva sollevato la mano, poteva avere sui nove anni massimo, magro, con le guance secche e grandi occhi verdi, “Puoi parlare” aveva concesso.“Se fossimo … ecco … grisha?” aveva chiesto.
“Quello che desiderate. Potete rimanere qui, unirvi alla scuola del Piccolo Palazzo, dove vi sarà insegnato ad usare il vostro potere, se vorrete entrare nell’esercito ad una certa età potrete, se vorrete restare a studiare potrete rimanere, se vorrete tornare qui o andare ovunque; esistono molti luoghi oggi dove si insegna ai grisha e no, il mondo vi appartiene. Magari qualcuno di voi è un etherealki ma scoprirà di avere una propensione per i numeri ed il denaro e vorrà studiare per bene” aveva ammesso, prima di dare la parola a Vlad, quella parte spettava a lui.

“Potete anche rimanere qui. So che esistono grisha tutori che insegnano, non so se ne abita qui uno vicino e se la signora Rosen ha intenzione di assumerne uno” aveva cominciato a dire posato, con quella sua eleganza innata. Shioban poteva vedere che una macchia rosa puntellata, svettava appena sotto il colletto della camicia, sulla pelle caramello.

 “Ma una cosa è certa: dovrete allenarvi. La piccola scienza ci nutre, un grisha che non manifesta i suoi poteri si ammala. E come le vostre braccia e le vostre gambe, avete bisogno di usarle, sempre, per muovervi” aveva spiegato gentile, “O si atrofizzeranno. Così sono i poteri”. I bambini la ascoltavano come se le sue parole fossero state di miele. “Va bene, bambini, cominciamo. Niente di tutto questo deve farvi paura” aveva detto Marina, battendo le mani, infondendo calma e gentilezza. Era luminosa, Shioban non sapeva neanche spiegare come. “Pensate a Zaara, che anche se ha giurato la scorsa primavera alla regina, continua a tornare a trovarci” aveva spiegato calma, poi aveva chiamato la prima persona.

Era stato il ragazzino di tredici anni silenzioso ma con gli occhi blu accesi. Shioban aveva toccato delicatamente il suo polso e non aveva sentito niente. “Peccato” aveva detto lui. Shioban aveva cercato di sorridere, comprensiva, perché conosceva quella delusione, “Non necessariamente. Puoi diventare un bravo medico senza essere un healer, così come stoppare un cuore o dare fuoco a qualcuno” lo aveva cercato di consolare.
“Cambiare una faccia?” aveva chiesto il bambino, “Con una scorta di cosmetici e paraffina” aveva dichiarato Shioban, arruffandoli i capelli. Il ragazzo non era stato molto contento, ma era sembrato più sollevato a quegli ultimi commenti. Poi aveva chiamato anche gli altri. Alcuni bambini erano sembrati turbati di non esserlo ed altri anche contenti. Aveva avuto bisogno di tagliare una ragazzina, ma anche quel fremito di resistenza si era rivelato nulla – paura di essere qualcosa.

Aveva trovato un grisha.

Un ragazzino, con del sangue fjerdiano, che a dodici anni era alto come uno di sedici. Aveva tenuto il suo polso per bene, poi aveva sorriso, “Puoi andare vicino a Gavrilo. È quel Soldat Sol, con l’espressione da pesce-lesso sulla faccia?” aveva domandato retorica. Il ragazzino aveva annuito, e così aveva fatto.
Shioban aveva sentito Marina trattenere il respiro, perché aveva capito. Altri due bambini e poi era rimasta solo la figlia dei due tenutari.

“Drina su, tranquilla!” l’aveva incalzata la madre con dolcezza ed amorevolezza, dando un colpetto gentile alla spalla della figlia. La ragazzina si era voltata verso i suoi compagni, ma Shioban aveva riconosciuto che il suo sguardo cercava quello di suo padre. Shevich era posato contro una parete con sguardo leggermente preoccupato. Aveva cercato di sorridere verso sua figlia incoraggiante, ma non c’era abbastanza sicurezza in lui.
Marina si era chinata sulla figlia e le aveva messo le mani a coppa sul viso, materna, “Moya Milaia[3] non hai nulla di cui preoccuparti” le aveva detto, dandole un bacio dolce sulla fronte. La ragazza aveva sfacciatamente rivolto lo sguardo al padre, in cerca di qualcosa. L’uomo si allontanato dal muro e si era avvicinato alla bambina, calmo. Aveva sussurrato qualcosa all’orecchio della figlia.
La madre che si era cucciata davanti a Drina, si era sollevata. Shioban vedeva solo il retro di una chioma scurissima, ma immaginava che l’espressione sul suo volto non dovesse essere serenissima.

Il padre aveva condotto Drina davanti a Shioban, lasciando Marina indietro.

Quando lei aveva visto il viso della donna, aveva potuto riconoscere un’espressione mista sul viso, tristezza e tradimento. “Io, noi, non crediamo sia n…” aveva cominciato a dire Shevich, “Sono una grisha. Lo so” aveva dichiarato la bambina con convinzione, sollevando il polso con sicurezza verso Shioban. Lei aveva annuito, “A volte capita che i bambini se ne accorgano da soli” aveva commentato, prendendole delicatamente il polso, “Un mio amico ha fatto esplodere le tubature della sua casa a soli sei anni” aveva aggiunto, ricordando quel racconto. Voleva mettere a suo agio la bambina. Drina, però, non sembrava nervosa, aveva uno sguardo avido, mentre rivolgeva l’attenzione alle dita di Shioban; però con la mano libera, teneva le dita del padre.

Shioban aveva chiamato e, poi, aveva sentito la risposta. Non ne aveva mai sentita una così potente, brutale quasi. “Wow” si era lasciata sfuggire senza controllo, “Decisamente sì!” aveva esclamato colpita Shioban.
Drina era arrossita, voltando il capo verso il padre e poi anche verso la madre, quasi colpevole.  Marina era in viso chiara come la cera, si era avvicinata con un passo lento, quasi timoroso, “Si … si sa cosa?” aveva chiesto con un principio di ansia. “Adesso vediamo, per tutti e due. Sempre se Drina non sappia già cosa è” aveva considerato.

Il ragazzino di sangue Fjerdiano si tirato su, preso in contropiede. Tutti gli occhi della stanza erano su Drina. La ragazzina aveva sollevato una mano, stendendo però solo due dita, un gesto incerto, aveva strizzato gli occhi e corrugato la fronte come se quello che stesse facendo le costasse fatica, per concertarsi … per un po’ non era successo nulla, ma poi un rumore aveva rotto il silenzio di respiri strozzati che aveva accolto il salone.
Un bottone d’osso della kefta verde di Shioban era caduto per terra, aveva strappato i fili che lo sostenevano.
“Materialki” aveva detto Marina, prima ancora di lei, il suo tono era stato quasi funereo. Probabilmente, addirittura una durast già conclamata.
Shevich si era voltato verso la moglie, mentre riportava la bambina verso di lei. Shioban si era chinata per raccogliere il suo bottone.



Il ragazzino mezzo-fjerdiano, Kos, si era rivelato un inferno. Shioban era costata una buona mezz’ora di chiamate, gli aveva tenuto la mano mentre Ekaterina lo spingeva a richiamare alle sue mani tutti gli elementi.  Vlad aveva fatto partire una scintilla ed il ragazzino aveva evocato il fuoco la prima volta. Era costato un albero.
“Ecco perché dovremmo portarci un tidemaker!” aveva esclamato indignato Igor, mentre Anastasja si impegnava ad usare l’acqua del pozzo per spegnarlo, con estrema fatica. Ekaterina invece aveva tirato via l’ossigeno da quel punto dell’aria per riuscire a spegnerlo. “Bene quel che finisce bene!” aveva dichiarato Yue, “È pronta la cena se qualcuno non vuole dare fuoco a qualcos’altro!” aveva esclamato la ragazzina iena di vigore.

Il tavolo era stato imbandito modo che tutti gli abitanti del castello potessero di nuovo riunirsi per la cena.
Alcuni ragazzini continuavano a tirare buffetti di congratulazioni sulle spalle di Kos che era rosso e pieno di gioia.
Shioban aveva sorriso, mentre prendeva posto al tavolo.

Gavrilo aveva fatto per sedersi accanto a lei ma era stata Genya ad accomodarsi, rubandoli sfacciatamente il posto, “Perché non ti siedi vicino a quella maestrina lì, ti trova molto carino” aveva dichiarato subito, facendo ridacchiare il Soldat Sol, “Io ho fatto un voto, mia signora, ma una bella vista non si nega a nessuno” si era defilato Gavi. Lei aveva ridacchiato, guardando Genya di sottecchi, non l’aveva più vista dopo la prova della piccola Drina, si era isolata a parlare con i genitori della bambina. Forse nessuno di loro si aspettava che fosse una materialki, o una grisha in generale, forse erano pronti a vedere i bambini che crescevano andare via ma non il sangue del loro sangue. Eppure, continuava a pensare al sospiro di Marina quando aveva detto Materialki, come una condanna.

“Posso farti una domanda, Shioban?” aveva chiesto Genya con un tono basso e misurato, “Non credo potrei impedirle di fare alcunché, moia razrushost” aveva risposto Shioban, “La chiamata di Drina, quanto era forte?” aveva chiesto, il suo tono era terribilmente serio. I suoi occhi avano raggiunto la ragazzina, sembrava pallida e nervosa, mentre il ragazzino con origini Shu, che cercava di tirarla su. Anche la signora Marina e suo marito continuavano a lanciare sguardi preoccupati alla figlia, forse timorosi che scegliesse di andare al Piccolo Palazzo. “La chiamata non tanto, la risposta, è stata sfolgorante! Probabilmente la più potente che io abbia mai sentito” aveva ammesso. Aveva cercato di mettere a fuoco nella sua memoria se c’era mai stata un’altra risposta così secca, così focosa, ma non le veniva in mente. Genya si era morsa un labbro, pregna di preoccupazione.

Fu evidente a Shioban, che le mancasse qualche informazione.



[1] All’interno del Grishaverse non viene dato nessun altro nome alla Faglia (oltre nonmare) specie dopo la sua … uhm … bonifica? Però, ecco, mi sembrava coerente che nessuno si rivolgesse più a quel luogo così. Ho scelto Agro Verde per ovvissime ragioni,

[2] Santa Zoya del Vento

[3] Mia Ragazza Dolce, riferendosi alla Wiki del rafkiano

Spero vi sia piaciuta Shioban perchè probabilmente non la vedrete più :^

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Capitolo 3
*** Dominik I (28 DF) ***


CAPITOLO PROVA

Bene, nonostante il poco successo, ho deciso di provarci lo stesso. Dopo una lunga analisi ho deciso di scegliere come linea di partenza quella del 28 RR/DD, per tre ragioni: appaiono dei personaggi citati nel prologo, il setting è Ketterdam (inoltre, per quanto caotica, mi piace il gruppo dei personaggi del 28) ed ha l’inizio più soft da gestire.

Allego a questo link l’immagine della famiglia reale di Ravka nel 38 RR: https://www.deviantart.com/rlandh/art/Ravka-s-Royal-Family-in-the-28-DF-943408459

(In realtà ho disegno la famiglia Reale di Ravka in tutte e tre le linee temporali; forse disegnerò altri personaggi)
E a questo lo stemma della Famiglia Reale:
https://www.deviantart.com/rlandh/art/RAVKA-943408942
(Sì, mi diverto con poco).

DOMINIK
I
28 anni dopo la Dissoluzione della Faglia

 

La verità era abbastanza semplice da accettare. Lo aveva svegliato il senso di colpa e la voglia. Più la seconda che il primo.

 La voglia di non tenere i suoi pensieri fastidiosi ed insidiosi come tarli nella sua testa e cavalli imbizzarriti nei suoi sogni, quando non riusciva a reprimerli con il garbo gentile con cui i suoi genitori lo avevano educato.
Sua madre nella via dell’indifferenza e supponenza e suo padre con le sue maschere. Dominik non era come i suoi genitori e non era come sua sorella maggiore. La tempestosa Liliyana era balzata nella sua mente; così seriosa, elegante e terribilmente diversa da Dominik.

Tutto quello che lui voleva era camminare per le vie dell’università, starsene in biblioteca a ridacchiare con i compagni, partecipare ai variopinti esperimenti di fisica del professor Blede. Anche lavorare al porto con Magnus, nei cantieri dei Dyk.

Giocare a birch con Jordie al Silver Six.

Ed ovviamente baciare, toccare, scopare …

Sei un principe, non può andare avanti oltre’ ma Dominik, non senza vergogna, pensava di essere era già oltre, ovunque fosse quell’oltre.

Labbra, pelle.

“Stai avendo un sogno bagnato?” aveva sentito una voce, ripescarlo dai suoi pensieri non proprio pudici. Aveva schiuso un occhio, anche se sapeva, esattamente di chi fosse la voce che lo aveva svegliato. Non aveva visto nessuno nel suo campo visivo, ma quando si era sfilato – di poco – dalle coperte e si era puntellato sui gomiti, potendo godere della visuale della stanza.

Una figura vestita di nero era sulla sedia imbottita, vicino alla sua scrivania da camera. Lo schienale era rivolto verso lo scrittoio e la seduta verso il letto. L’altro era appollaiato sopra come un corvo, gambe lunghissime, una dritta e l’altra ad elle kerchiana con la caviglia della gamba sinistra, appena sopra la rotula della gamba destra.
“Perchè sei vestito come un banchiere?” aveva risposto Dominik scivolando fuori dal letto, incurante di essere ancora nel suo pigiama da camera. “Perché sono andato in banca” aveva ricevuto come risposta. L’altro indossava una blusa elegante di un grigio scuro, sopra un gilè nero, con sottili decorazioni grigio perla, sopra quello sfoggiava un elegante giacca nera, con le maniche tirate, assieme a quelle della camicia, lasciando scoperto il polso buccia-di-mandorla. I pantaloni scuri erano abbinati, così come le scarpe lucidissime.
“E cosa sei andato a fare in banca?” aveva chiesto Dominik. “Ti interessa davvero?” si era sentito rispondere.

Dominik aveva sorriso stanco, “Come sei entrato?” aveva chiesto poi Dominik, “Ti interessa davvero?” aveva replicato il suo ospite, con una punta di divertimento. “In realtà no, ma devo sapere se entrare nella stanza dello zapasnoy tsarevich[1] di Ravka sia facile come entrare in una taverna” aveva replicato Dominik, senza perdere la faccia – anche se non era bravo come suo padre in quello. Nikolai Lantsov era un maestro delle facce di bronzo. “Se può rincuorarti, per gli altri non lo sarebbe” aveva commentato il suo amico, “Perché tu sei il migliore” lo aveva stuzzicato Dominik, “Sì … e perché differentemente da gran parte delle persone che avrebbero interesse a farlo, io sono passato dalla porta principale dell’ambasciata” aveva risposto onesto, non aveva parlato nel volgare kerchiano, ma in un buon ravkiano, non raffinato come quello dei nobili, ma del volgo, però un accento credibile e soprattutto autentico. “Lo dimentico sempre” lo aveva preso in giro Dominik.
Ricordava la prima volta che si era visti, sulla costa bianca ravkiana, con le città in festa, per l’onomastico della tsaritsa.

“Perché sei qui? E, sì, questa volta mi interessa davvero” aveva detto guardando il suo amico, mentre cominciava a sfilare i bottoni dall’asola, per togliersi la camicia da notte. Quando viveva a Ravka aveva l’abitudine di dormire nudo, ma aveva smesso a Ketterdam, un po’ perché l’umidità della città era letale, anche nelle calde mura dell’ambasciata, un po’ perché il palazzo a Piccola Ravka, non godeva della stessa intimità del Corridoio Principesco. Ringraziava i Sankti, comunque, sarebbe stato imbarazzante essere nudo come un verme davanti al suo amico. “E non dire che perché sentivi la mia mancanza, quello è ovvio” aveva aggiunto Dominik, mentre il silenzio si susseguiva.

L’altro aveva sorriso, in una maniera un po’ storta e divertita, prima di alzarsi dalla sedia, “Sentivo la tua mancanza” lo aveva stuzzicato, senza vergogna. Dominik aveva sollevato un sopracciglio biondo, provocatorio, “Juliana voleva assicurarsi che tu ti svegliassi” aveva concesso alla fine, quasi infastidito di dover dire la verità, “E che fossi pronto e preparato per la colazione di mezza-mattina”.
Dominik si era tolto anche la camicia, per indossare la blusa elegante, ignorando apertamente quell’ultimo commento; quando una cameriera aveva aperto la porta. Minuta, pallida e con indosso una veste bianco-e-oro. “Oh perdonatemi, moy tsarevich! Io … il conte Dubrovin … perdonatemi!” aveva squittito, chiudendosi poi la porta alle spalle. “Cosa è appena successo?” aveva chiesto affilato il suo amico, “Credo che, Marija, abbia appena pensato fossimo amanti” aveva risposto, con una punta di divertimento. L’altro non aveva nascosto la smorfia, “Andiamo a fare colazione o il conte Dubrovin penserà davvero che ieri io mi sia dato alle più sfrenate dissolutezze” aveva considerato Dominik, “E così non era?” aveva ricevuto come verso dal suo amico, “Solo ad inizio serata, poi sono tornato all’ambasciata dritto-dritto come un bravo bambino” aveva risposto mordace.

Il Conte Mikhail Dubrovin era l’ambasciatore di Ravka a Kerch e – a parere del medesimo, come li piaceva sempre dire – l’uomo più sfortunato del regno intero, perché oltre a dover presentare la gola ai kerchiani, compagni piuttosto indigesti della grande Ravka, al conte Dubrovin era capitata l’incombenza di curarsi di Dominik, doveva assicurarsi che prendesse con serietà i suoi studi, che non finisse incantato dall’ammagliante sirena che era Ketterdam e che non morisse.

Mikhail non era stato amico dei suoi genitori, né conoscente. Era cresciuto a Ravka Est, vicino le montagne, aveva imparato a fare i conti, prima ancora di marciare a cavallo, in vero in quell’ultima attività era ancora piuttosto scadente, ma era svelto con i numeri e con le chiacchiere e tanto era bastato perché quell’incarico li cadesse sulla testa come una benedizione e quando Dominik aveva deciso di voler studiare a Kerch, anziché nella Prima Università di Ravka, al povero conte Dubrovin era capitata anche quella maledizione.

L’uomo era seduto al tavolo da pranzo con espressione rotta, le dita strette intorno alla tazzina maiolica, colma di caffè fino all’orlo. Dominik lo aveva trovato nella piccola sala da pranzo privata, non quella adibita alle cene di rappresentanza o quella degli incontri formali. Era una stanza informale, per la crema della società ravkiana che abitava il palazzo. E tutto sotto l’egida del campo squartato, con le i due draghi, l’aquila ed il sole. Quella bandiera era appesa per tutto l’edificio dell’ambasceria e per tutto il quartiere di Piccola Ravka sfovalazzano simboli simili, a volte solo il drago incoronato di sua madre o l’aquila bicefala di suo padre. Una volta Dominik aveva visto ad una finestra il sigillo personale di sua sorella maggiore, aveva pensato forse di doverne avere anche uno lui.

Dubrovin, come capo in carica, occupava il capo del tavolo quadrato, dagli orli smussati. La tavola era coperta da una lunga tovaglia bianca broccata d’oro, su cui erano stato imbandita una colazione degna di un principe, con dolciumi, frutta di stagione – e non – e succhi di ogni genere, un samovar per il tè ed anche una caraffa di vero caffè.  

Gli altri avventori erano i soliti volti noti che da un paio d’anni a quella parte occupavano il posto di membri della Corte Oltre-Mare, o come piaceva dire al popolo, per urtare la Principessa Liliyana, la corte del Principe. Dominik era decisamente ingordo di quello stupido nomignolo.

Accanto a Dubrovin, alla sua sinistra, c’era Varvara sua amante, dal viso lungo e l’espressione sempre divertita. Di fronte la donna, c’era Kostantyn, con la kefta blu piuma di pavone, lucente, con i rivoli rossi come fiamme, che seguivano i bordi. All’Inferno non importava di nascondere ciò che era e ciò che poteva fare; era lo scudo giurato di Dominik, o meglio la sua balia. Non erano particolarmente vicini, onestamente Dominik non credeva di piacere molto al grisha, ma l’uomo era la sua solida ombra.

Poi, al tavolo, c’era la giovanissima Tatiana Dubrovin, cugina di quarto grado di Mikhail, che aveva gli stessi occhi porcini del cugino, i capelli biondi, riccioluti come un putto, ma un sorriso composto da denti storti. Tatiana non aveva ne madre ne pare, solo Mikhail.

C’era uno dei Soldat Sol dell’Apparat, Gavrilo, che avrebbe dovuto essere l’ibrido tra un letale guerriero ed un monaco ascetico, ma che a Dominik piaceva molto perché non lo era affatto, più che dedito ai vizi e offrire i suoi servigi a Ghezen che a Sanka Alina della Faglia. Ludoscevic che era un commerciante brillante quanto l’oro che portava alle orecchie forate, poi l’ammiraglio Statislao, che era venuto mesi fa per una questione urgente, ma non era più andato via, catturato dalla sirena Ketterdam.

E poi … po c’era Drina, che era arrivata qualche settimana fa. Sedeva un po’ in disparte, mentre tagliava con forchetta e coltello un acino d’uva. Dominik ricordava la ragazza, donna sì corresse – perché ora, con ventuno anni sulle spalle non era più una ragazzina – quando era bambina e come era bella e solare. E poi era cresciuta ed i suoi occhi blu erano diventati distese di inquietudine. Differentemente da Kos non sembrava così ansiosa di sfoggiare la sua kefta grisha.

Drina, comunque, non poteva essere lì per piacere – Dominik era a conoscenza del fatto che fosse una nolnik di suo padre, il corpo di soldati scelto del Re Consorte, composto da inventori, costruttori ed ingegneri, di cui buona parte capacissima di uccidere a mani nude un uomo. E prima di essere uno degli zeri di Nikolai, Drina era stata un Opričnik di sua sorella. “Qual buon vento” aveva detto spento il conte Dubrovin, “Il principe ci ha onorato della sua presenza” aveva sferzato senza gioia.
“Sicuramente non il gruzeburya” aveva risposto divertito Dominik; il vento brutale, quello che più di tutti sua madre e sua sorella sapevano domare come vere streghe. Liliyana dva gruzeburya[2] suonava maledettamente bene.
“Abbiamo un ospite!” aveva invece esclamato la piccola Tatiana, inghiottendo qualsiasi commento frustrato del cugino”, Tatiana aveva con gli occhi porcini rivolti al suo amico, piena di curiosità. Tutti avevano guardato interessati il nuovo venuto, “Obbligato, Jordie Ghafa” aveva risposto l’altro cortese, con la mano sul petto e con un inchino appena accennato ma rispettoso, così ben vestito e signorile da apparire quasi una persona accettabile in un ravkiano. “Immagino il figlio del leggendario Capitano Ghafa, il terrore degli schiavisti!” aveva detto Varvara, con la voce colma di ammirazione ed esuberanza. “Sì, mia signora” aveva dichiarato con calma Jordie. Non aveva nascosto il sorriso, non aveva senso, Dominik lo sapeva, Jordie amava ed onorava sua madre.

Dopo quell’ammissiono, era stato necessario altro, perché fosse apparecchiato anche per il nuovo venuto, non chè Jordie avesse avuto bisogno di sfruttare il suo nome, come amico di Dominik avrebbe avuto tutti gli onori che spettavano. Ma il suo cognome esercitava fascino; i nobili erano animati da curiosità ed i popolani da ammirazione. Inej Ghafa era un eroina – ed era quasi strano che non l’avessero consacrata a santka vivente – degna di una storia epica. Una suli senza nulla, venduta come schiava, che dalla polvere, dal nulla, si era eretta a paladina dei giusti, dei poveri. E Jordie, dietro i modi fini, disinteressati e pieni di veleno, aveva lo stesso cuore traboccante di bontà.

Sankta Inej iz nichyevo. Santa Inej dal nulla, suonava bene; poteva essere un’idea.

“Oh, sì, ci siamo conosciuti da bambini, in realtà, però sì, siamo diventati compagni di studi all’università” stava raccontato Dominik con calma, intervallandosi con Jordie in quei discorsi.
“Quindi sei di Ravka anche tu? Di dove? Io vengo da Polezinya!” aveva detto Tatiana, dieci anni e ribollente di energia. “In realtà sono di qui, sono nato a Ketterdam! Mia madre però è di Ravka, sì, una Suli, non so in che città precisamente e nata. I suli non restano mai nello stesso posto allungo” aveva risposto Jordie, delicato.
E così è mia madre’ aveva sentito Dominik, anche se il suo amico non lo aveva detto ad alta-voce. .
“Sì, sì, una volta ho visto uno spettacolo Suli a Os Kervo” aveva dichiarato Dubrovin ricordando qualcosa del passato, con poco interesse, “Sì e una donna con una maschera da sciacallo ci ha predetto il futuro!” aveva dichiarato Varvara prendendo la mano del suo amante, “Ci disse che saremmo stati il re e la regina di un palazzo, circondati da acque nere, maleni e spirti malvagi. Direi che ci ha preso” aveva aggiunto. Una risata soffusa si era dipinta per il tavolo.

“Non definirei kerch un luogo infestato da spiriti malvagi, o un sant’uomo come me non dovrebbe sentirti così a suo aggio” aveva commentato Gavrillo, guadagnandosi un’occhiata divertita da Kostantyn, che aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli biondissimi, che tradivano il suo sangue settentrionale, da fjerdiano, “Trovo questo posto adorabile, anche il clima” aveva commentato Gavrilo. Avevano riso tutti quanti con un certo divertimento.
Il clima di Ketterdam era una delle punizioni peggiori che Dominik avesse mai affibbiato a sé stesso. Non si poteva definire la città in nessun altro modo che bagnata, l’aria sapeva di acqua salmastra, l’odore era lo stesso della palude, l’umidita era così intensa da perforare il corpo fino alle ossa e lasciarti stanco e spossato. Dominik era nato ed aveva vissuto, per lo più, ad Os Alta dove l’inverno, fuori dalle mura di casa, diventava così freddo da gelare il respiro nei polmoni, ma era comunque meglio dell’umidità penetrante di Kerch, del vento del mare sprezzate e potente. E poi l’estate ad Os Alta, il mondo si riempiva di fiori e colori. Eppure, Dominik condivideva i sentimenti di Gavrilo, a lui piaceva Kerch, davvero, per le sporche strade di Ketterdam si era sentito più libero di quanto avesse mai fatto per le vie di Os Alta, nelle grandi aule dell’università più di quanto avesse fatto per i corridoi del palazzo.

“Sei un principe della corona non devo dirti io come comportarti” era stata l’unica ammonizione del conte Dubrovin quel giorno. Dominik aveva annuito, senza pretese, con la testa spoglia e neanche l’ombra di una corona principesca a decorarla. Non voleva abituarsi al peso di qualcosa che non avrebbe mai indossato veramente, un mero palliativo. C’era stato un momento, un momento difficile, in cui sua madre lo aveva guardato con la morte negli occhi ed aveva pensato …

Non era importante, Dominik poteva essere un principe ma era solo il zapasnoy tsarevich, il principe di scorta.


“Vieni con me?” aveva chiesto a Jordie, il suo amico si stava sistemando la giacca che si era tolto per la colazione, “No, Juliana mi ha mandato a fare il piccione viaggiatore, non la balia” aveva risposto Jordie, mentre con lo sguardo seguiva il profilo snello di Drina, che sopra la veste iris, aveva sistemato una giacca viola, del colore delle kefte dei materialki. La giovane li aveva guardati, aveva sorriso, un piccolo accenno di cortesia. “Sei qui per lei” si era lasciato sfuggire Dominik quasi tradito da quella rivelazione.  Jordie non si era scomposto, non era arrossito, non si era ritratto né si era giustificato, “Ci possiamo vedere dopo. Al Caffè, così mi racconti” aveva detto solamente Jordie, aggiustando un pilucco inesistente della giacca, “Io vorrei dare un’occhiata prima alla libreria di questa reggia. Ho sentito parlare di una varietà di volumi antichi così ampia da fare invidia alla biblioteca del Gran Palazzo” aveva dichiarato il suo amico con tranquillità, “Sai che non è vero, come sai che la biblioteca dell’Università, a cui, hai accesso è decisamente più fornita. E oserei dire che anche quella di Juliana lo sia” aveva considerato Dominik.

“Solo libri contabili e racconti d’avventura e-o erotici. Già spulciata tutta, due volte” aveva risposto Jordie senza perdere neanche un briciolo della sua compostezza. “Non ti facevo tipo da letteratura erotica” aveva valutato Dominik, con un sorriso svelto sulle labbra. “Un ragazzo deve pur imparare in qualche modo e, differentemente da te, non avevo un’orda di fanciulle desiderose di spiegarmelo bene” aveva considerato Jordie senza perdere neanche un briciolo del suo tono tranquillo. “Non so perché ma ho i miei dubbi” aveva risposto Dominik senza perdere il suo zelo, versandosi una tazza di latte caldo. Jordie aveva arricciato le labbra in un mezzo-sorriso, “Certo, ho provato a chiedere a Juliana, ma lei mi ha detto che avrebbe preferito leccare un rospo” aveva aggiunto. Dominik aveva riso a quel commento, immaginando per bene la scena. Juliana, con i suoi vestiti ben confezionati, con quel suo sorriso svelto ed un po’ storto che leccava il dorso di un rospo.

La risata che li aveva colti si era esaurita in un silenzio placido, mentre Jordie si serviva del tè nero, da accompagnare con dei biscotti al burro e marmellata di fragole. Jordie lo aveva guardato con una certa curiosità, quando si era accorto che Dominik aveva toccato a malapena il suo latte e lo stava fissando in maniera quasi morbosa. Voleva porgli una domanda, non lo aveva volito fare all’inizio, ma la voglia era cresciuta durante quel primo pasto, assieme alla fase di leccornie. Doveva chiederlo, ma sapeva fosse stupido chiederlo, perché non avrebbe mai dovuto, perché aveva deciso di non farlo. Perché gli era stato chiesto di non farlo. Jordie lo aveva guardato, con quei suoi occhi neri, “Sì, lo ho incontrato ieri sera, in biblioteca” aveva detto solamente, sistemandosi di nuovo il cappello nero, era un Fedora lucido, al nastro nero aveva aggiunto la penna di un nibbio. Jordie era stato categorico nella sua risposta, non aveva permesso a Dominik altre illazioni, perché aveva ritenuto più utile seguire Drina in un’altra stanza, la ragazza aveva preso un passo lento, ed aveva indugiato ancora sulla porta, per assicurarsi di qualcosa, quando aveva visto Jordie incamminarsi, era scivolata via anche lei.

Ieri in biblioteca.

Ovviamente, questo confermava i sospetti di Dominik, qualcuno lo stava evitando.
Con quei pensieri in testa, distratto, non aveva notato Kostantyn.

Aveva visto l’Inferno osservare con gli occhi glicine, ridotti a fessure, attento tutte le interazioni mute che si erano susseguite tra Jordie e Drina. “Tutto bene, Kos?” aveva chiesto al grisha suo custode, “Si, moy tsarevich. Posso chiederle che genere di uomo è il suo amico?” aveva chiesto freddamente l’Inferno, senza perdersi in chiacchiere, “Il genere di uomo che può essere amico del principe di Ravka” aveva risposto pruriginoso Dominik, ma aveva visto l’espressione del grisha non mutare affatto, prima di realizzare che quell’animosità poteva avere una ragione più che semplice. “Non volevo mancare di rispetto moy tsarevich.  Negli ultimi tempi lo ho veduto spesso gironzolare da queste parti, intorno a … io e Drina siamo cresciuti insieme” aveva spiegato cercando di mantenersi rispettoso. “Ho due sorelle, comprendo, certo la maggiore potrebbe spezzare qualsiasi spasimante troppo irruente con solo l’imposizione di una mano e ‘Lina è solo una bimbetta” aveva risposto.
Ricordava in maniera nitida tutte le attenzioni che avevano sempre circondato sua sorella, non solo per la corona che un giorno avrebbe indossato o perché era bellissima, ma perché era vibrante e vivace e ricordava con altrettanta chiarezza tutti i modi, dai raffinati a brutali, con cui la principessa ereditaria di Ravka aveva spento tutti i suoi corteggiatori. Tranne il povero Dimitrj che le sarebbe probabilmente stato fedele fino alla fine dei tempi – nessuno aveva ancora compreso se l’amore del nobil uomo fosse per il trono di Ravka o per la sua principessa.  Dominik si era sempre ritenuto un tipo romantico, ma le ultime settimane, avevano teso i suoi pensieri.

Kostantyn aveva annuito, ignorando i voli pindarici che si erano messi a galoppare nella testa di Dominik, “Sì, moy Tsarevich, posso confermare quanto detto sulla principessa” aveva considerato, lasciandosi sfuggire un sorriso gentile Kos. Kostantyn era stato educato al Piccolo Palazzo, con gli altri grisha e doveva aver avuto modo di conoscere sua sorella, non solo come l’erede di Ravka, ma come potente e brillante guerriero. Tirando ad indovinare Liliyana doveva avere suppergiù cinque anni in meno dell’Inferno. “Una volta ho visto la tsarevich far volare un ragazzo troppo fastidioso fin dentro il lago, da metri e metri di distanza. Aveva solo dodici anni” aveva aggiunto Kos. Un piccolo rossore era apparso sulle sue guance. Dominik aveva sorriso, pieno di divertimento, ma macchiato di amarezza.

Aveva sentito la mancanza di Lilyana durante la sua infanzia, sua sorella maggiore aveva solo pochi anni più di lui e quando aveva compiuto otto anni, si era trasferita dal Gran Palazzo al Piccolo, dove sarebbe stata educata come Grisha. Ovviamente si erano visti, Dominik era andato a trovarla, sua sorella aveva girato spesso per i corridoi del Palazzo, nelle cene, ogni tanto aveva dormito nella sua vecchia camera, nel Corridoio Principesco, alla porta accanto quella di Dominik. Però, quel cambiamento, quell’allontanamento, aveva portato un inguaribile frattura tra loro. Invece, Alina, la sua sorellina era nata quando lui aveva dieci, quasi undici anni. Il frutto dell’Autunno! Dominik e la piccola ‘Lina era troppo distanti d’età, per essere davvero vicini. In quei giorni, mentre lui si godeva l’università a Kerch, il whisky sulla lingua ed il sesso disordinato, sua sorella di sei anni cominciava a frequentare la scuola e imparava a scrivere in corsivo.
Aveva avuto dei compagni di gioco quando era giovane, Dominik lo ricordava come qualcosa di distante, aveva avuto qualcosa di simile agli amici. Figli di nobili, figli dei servi, qualche servo, ma quel senso di completezza, di unità, che vedeva in sua sorella maggiore, lo aveva trovato solo nelle strane genti di Ketterdam.
“Perché sospetto che questo ragazzo troppo fastidioso fosse un grisha alto, biondo e un po’ piromane?” aveva chiesto retorico, una risata divertita aveva attraversato l’espressione di Kostantyn.

“Spero che non vorrai andare così, mio principe. Puoi essere l’uomo più bello di Ravka, ma ci si aspetta sempre una certa classe!” aveva ridacchiato con un certo divertimento Varvara, attirando l’attenzione su di lei, prendendo senza vergogna Dominik sotto il braccio e Kos con l’altra. Una donna bruttina, dal viso lungo cavallino, di un pallore quasi malaticcio, che non le donava, con capelli neri come l’onice, ma comunque dotata di un fascino che per il Conte Dubrovin era imprescindibile. D’altronde una volta Dominik aveva studiato, come aneddoto, che la principessa Olga Lantsov, sorella di Re Aleksander III, era una donna di eccezionale bruttezza ma che aveva avuto una schiera di corteggiatori che percorreva tutta la Faglia. Dominik vedeva l’amore tra Varvara e Mikhail nei loro sguardi, da loro modo di guardarsi, che l’amore ardeva potente come la lumya tra loro.

“Pensavo di impressionare, la signorina Nassau con il mio fascino” aveva considerato Dominik, “Oh, tesoro!” aveva risposto Varvara con un tono estremamente stucchevole, “Quello è scontato. Con un viso come il tuo, probabilmente quella giovincella tornerà pazza d’amore, ma tu qui sei Ravka, molto più di Mih’ka. E Ravka non può andare in giro con la camicia spiegazzata” aveva replicato Varvara, con un sorriso luminoso. Dominik era arrossito per l’imbarazzo.

 

Grande lavoro per Domenik era stato convincere Varvara del fatto che la sua presenza non fosse necessaria, ma solo dopo aver cambiato la camicia in una di velluto, abbastanza calda per il clima di Ketterdam, per quanto fossero illustri le personalità presenti, era un incontro di mezza mattina informale. Il colore del velluto era crema ed aveva dei decori azzurri che si arricciavano in volute floreali stilizzate.

Varvara aveva desiderato di venire a tutti costi, ma alla fine Dominik l’aveva fatta comunque desistere. Avrebbe già potuto godere dell’attento sguardo di Kos, che esibiva con orgoglio la sua kefta senza alcun timore e di almeno altri due soldati, al piccolo corteo si era aggiunto anche Gavrillo, ma avevano perso il monaco soldato lungo la via per la Geldstraat. “Povero, Gavi, da quando Igor lo ha cacciato è diventato ancora più vizioso” aveva dichiarato con un tono di voce rammaricato Kos, mentre osservava la schiena del soldat sol sparire in un vicolo diretto verso la Stave. Dominik non aveva la minima idea di chi fosse Igor, cosa fosse successo e come potesse essere un Gavrillo non vizioso, e se in altre circostanze si sarebbe informato, come lo spingeva sempre suo padre, in quell’occasione doveva dirsi meno propenso.

“Hai visto la signorina Nassau?” aveva chiesto Domenik mentre riconosceva l’aspetto delle lunghe cancellate e ville della Ketterdam da bene. Non erano impressionati come i palazzi nobiliare ravkiani ma erano splendidi. Giardini decorati, con siepe e fiori, con queste ville colorate, appariscenti, che facevano un contrasto vertiginoso con le case piccole, strette, curve e rotte del resto della città. Non un filo di sporco e di polvere vigeva sulla Geldstraat, rispetto al piccolo inferno che era il resto.
I fratelli Dyk l’aspettavano davanti la cancellata tinta d’oro del più ricco mercante di Ketterdam, forse anche di Kerch. Dominik li aveva riconosciti da lontano. “Sì, la ho vista qualche settimana fa” aveva risposto Kos con calma, “Non avrei potuto permettere questo incontro, altrimenti” aveva spiegato con calma. Giusto. Uno dei motivi per cui Dominiki aveva amato l’università, per la prima volta si era seduto al fianco di suoi coetanei senza che fossero stati fatti scrupolosi controlli. Estranei. Come un ragazzo normale.
Ilsebelle Dyk si era sbracciata per salutarli. Era una perfetta donna kerchiana, infilata in un bustino stretto, nonostante l’abito spezzato sotto il seno prospero, una gonna liscia sui fianchi, di un avorio brillante, l’orlo superava la zona dei piedi, di non poche dita, spazzolando il pavimento della strada ed i capelli biondi ordinati in una crocchia ed un cappello a falda larga di un vibrante magenta, suo fratello anche tirato a lucido, bellissimo, non riusciva mai a sembrare perfettamente a suo agio. Dominik lo sapeva come Magnus si trovasse sempre più comodo sulla chiglia di una nave e le dita sporche di inchiostro, con qualche progetto davanti, come lui, come Linnea e come Nikolai. Una volta aveva espresso che finiti i suoi studi di topografia, avrebbe voluto imbarcarsi con Inej Ghafa – nonostante suo padre possedesse una compagnia mercantile con diversi battelli.
“Cugino amatissimo!” aveva detto Ilsebelle, che era figlia della sorellastra di suo padre, non era più un segreto che suo padre fosse un bastardo, ma non era neanche una cosa da sbandierarsi ai quattro venti, ma ad Islebelle non importava. “Ilsebelle!” aveva risposto Dominik, mentre osservava la donna andare verso di lui. Ilse non aveva ereditato l’aspetto regale degli Opjer, sfoggiava una carnagione bianca ma con le guance rosse bruciate, i capelli biondo sporco e gli occhi liquidi, dall’espressione un po’ sciocca – che non rispecchiava la sua mente – eredità di Wotan Dyk suo padre.

Quando erano stati alla sua portata, Ilsebelle lo aveva stretto in un abbraccio pieno di amore e famigliare e lasciandoli baci umidicci e macchie di rossetto sulle guance. Dominik si era concesso tutto quell’amore famigliare senza battere ciglio. Non credeva che Liliyana lo avesse mai salutato con così tanto calore, neanche quando era tornato a Ravka, alla fine del semestre, per la festa di Sankt Ilya.

 Dopo aveva salutato anche suo cugino, con una stretta sicura di mano ed i due avevano salutato anche il grisha. “Kos, è una mia impressione o ogni volta diventi più alto” aveva ridacchiato Ilse, ammiccando alla taglia possente di quest’ultimo. Ad occhio esterno, Kos sembrava un vero e proprio orso del permafrost, chiaro di capelli, occhi di ghiaccio e con una croce di spalle così grande da poter sostenere il mondo. “Più uso il mio potere, più cresco sano e forte” aveva risposto con onestà il grisha, facendo ridere sua cugina.

Dopo qualche convenevole, in cui Ilsebelle aveva raccontato qualche succoso pettegolezzo delle nobil-donne di Kerch, avevano proceduto ad andare all’interno della casa più ricca e bella di Ketterdam. Erano stati accolti da un valletto, un ragazzo giovane che li aveva condotti all’interno della casa, passando per il giardino. “La signora ha fatto preparare la stanza del tè” aveva detto, facendoli entrare nel corridoio di ingresso della villa. “Ma il tempo è così bello oggi, potevamo stare in giardino” aveva considerato Ilse, “Puoi togliere una ragazza da Fjerda ma non Fjerda da una ragazza” aveva scherzato Magnus.

Dominik aveva guardato invece i corridoi della villa. I pavimenti erano marmi di Novyi Zem, bianchi con sfumature aranciate. Le pareti erano decorate di quadri, pregni di simbolismo, o panorami.
C’era anche un via-vai di servi, molto più chiassosi e vistosi di quelli che erano presenti a Ravka. Immaginava fosse dovuto al fatto che non importava quanto potessero essere ricchi i kerchiani, erano ancora tutti uomini alla stessa maniera – nessun sangue nobiliare. A Ravka, in bianco ed oro, i servi erano istruiti a muoversi senza fare rumore, senza mai far pesare o notare la propria presenza, tranne quando richiesto. Nessun nobile sembrava mai badare a loro, tranne suo padre, che conosceva il nome ed il cognome di tutti.

“Siete in ritardo e pensare che ho anche mandato quel piccolo mostriciattolo a svegliarti” lo aveva rimproverato Juliana, appena, lo aveva visto, nonostante ci fosse un tono bonario nella sua voce. La padrona di casa stava scendendo giù da una scalinata di marmo nero con clasti verdi. Il suo passo era morbido e candensato.
“E tu come sempre non hai idea di cosa voglia dire avere un po’ di classe” aveva dichiarato Ilse, sporgendosi per schioccare due baci sulle guance dell’amica, quando Juliana aveva raggiunto il pian terreno.
Se sua cugina indossava uno splendido completo da signora dell’alta società, Yuliana indossava i pantaloni cachi, con le bretelle sopra la camicia,  più simile ad una contadina che una mercantessa, tranne che le cuciture erano ordinate, la stoffa dei pantaloni era lampasso pregiato e la camicia era di seta; i capelli oro sciolti ed indisciplinati. “I corsetti sono strumenti di tortura, che solo mia madre può apprezzare” aveva risposto, prima di salutare anche Magnus con un abbraccio, veloce, e poi si era rivolta verso Dominik, facendo un inchino fintamente cerimonioso, “Sretan mi je sto te vidim[3]” aveva affermato Yuliana. “Anche per me” aveva risposto Dominik. Juliana era kerchiana di padre e di madre, ma l’amante di sua madre era un suli, così come lo erano i suoi mezzi-fratelli spuri. Così Juliana aveva imparato quella lingua, così come anche Dominik.  Non aveva molte occasioni per parlarla, così apprezzava quelle piccole concessioni della giovane donna.

“Aldeer sei dispensato, avrai sicuramente cose da fare. Porta del tè a Marie, ha deciso di non unirsi a noi” aveva asserito Yuliana, prendendo per mano Dominik. “Certo mia signora, VanEck” aveva detto quello, prima di sparire lungo la scala. “Mi dispiace che la signora Marya non voglia unirsi a noi” aveva commentato Ilse, sfacciata, dispiaceva anche a Dominik se doveva essere sincero, la signora Hendrick era una personalità molto particolare ed aveva sempre un gran numero di storie ed aneddoti divertenti da raccontare. “Tu fratello e il suo compagno?” aveva chiesto, invece, lui incuriosito; in altre occasioni Jesper sarebbe già stato lì ad accoglierli.
“Wylan è al consiglio dei mercanti. Jesper è a fare qualcosa che non dovrebbe fare, probabilmente” aveva scherzato Juliana con un tono quasi infastidito. “Avrei voluto che Wylan suonasse il flauto, avrebbe fatto sicuramente colpo. Temo, invece, che dovrete accontentarvi della mia capacità con il violino, sfortunatamente ho ereditato lo stesso talento musicale di mia madre” aveva dichiarato Juliana poi, voltandosi aveva aggiunto: “Kos devi cantare con me, qualche canzone sconcia non adatta alle orecchie del principe” aveva cinguettato. L’Inferno aveva sorriso, divertito e tutti avevano ridacchiato, anche i due soldati alle loro spalle. “Dove hai lasciato quel mostriciattolo?” aveva chiesto Juliana a Domink poi, riferendosi al buon Jordie, mentre un servo apriva una stanza tonda, con una tavolata riccamente imbandita; aveva lo stomaco ancora pieno della prima colazioni, che non era sicuro sarebbe riuscito ad ingurgitare altro. “In biblioteca” aveva risposto annoiato Dominik, “A quanto pare la Biblioteca dell’Ambasciata ha una certa fama”.  Il principe doveva riconoscere che le biblioteche, in taluni luoghi senza luce, fossero anfratti interessanti in cui sbaciucchiarsi. “Ghezen, in biblioteca. Mio padre riderebbe tantissimo” aveva dichiarato Juliana, “Ma lo comprendo; ritengo sia stato un crimine contro l’umanità intera lasciare sprecata una mente come il padre di Jordie al Barile” aveva ripiegato la giovane donna con un’onesta disarmante. Juliana era più vecchia di lui, quasi un decennio – onestamente Dominik non aveva mai contato gli anni precisi – ma parlava sempre come se fosse stata vecchia mezzo-secolo.

“La signora Nassau?” aveva chiesto Mangus, attirando l’attenzione, nella stanza, a parte due domestiche molto divertite che si scambiavano pettegolezzi a mezza-bocca non c’era nessuno.  “Le ho dato un orario diverso. Ha il vizio di arrivare sempre in tempo, se non addirittura in anticipo e non volevo che si sentisse a disagio e nervosa” aveva replicato Juliana. “Puntuale, quindi?” aveva indagato Dominik, “Penso potrebbe essere qualcosa che potrebbe insegnarti, moy tsaverich” lo aveva rimproverato con divertimento lei. “Juls, io sono il principe, quindi vuol dire che sono sempre in orario, sono gli altri che arrivano sempre in anticipo” aveva risposto, guadagnando un’occhiata divertita dalla padrona di casa. “Hai fatto preparare una colazione degna di re” aveva considerato Ilse avvicinandosi al tavolo.  Sul tavolo imbandito, oltre piatti di ceramica, con bordi d’oro era possibile vedere cesti di frutta, ancora fresca, mele, arance, delle fette di melone, pere, perfino delle banane (a Kerch erano scandalosamente costesa e a Ravka neanche arrivavano), oltre che crostate di frutta di ogni genere, poste su dei vassoi rialzati. C’era anche un piatto colmo di bon-bon spolverati di zucchero a velo, impilati e serrata dal caramello filante. Sul tavolo c’erano anche dei formaggi e delle marmellate, oltre che succo d’arancia, latte e kvas. Dominik aveva sorriso a quella fragranza così famigliare.
“Di un Re no, ma di un principe sì” aveva replicato Yuliana, prendendolo in giro, facendo ondeggiare i capelli biondo dorato.

Non si erano accomodati al tavolo, aspettando l’ultima ospite; Dominik aveva invitato anche le sue due guardie a consumare la colazione del mezzo-giorno con loro, abbastanza sicura che ne Juliana ne alcuno dei suoi dipendenti avrebbe cercato di ucciderlo. Forse aveva una visione troppo rosea della vita.
“C’è anche un pianoforte lì, nell’angolo” aveva considerato Magnus. “Be, Dyk se vorrai concederci di ascoltare le tue doti, tutto tuo” aveva considerato la proprietaria di casa con un gesto ampio della mano, invitando il cugino di Dominik a sedersi allo sgabellino. “Sai vero che so suonale solo: ‘Oh Djel benedici questi campi’, si?” aveva chiesto retorico lui, “Dai, Dyk benediciamo questi campi, allora” aveva scherzato Juliana.

Il fjerdiano non era una lingua bella, non aveva la stessa grazia del ravkiano, nè la scioltezza del kerchiano, o la musicalità del suli. Era una lingua dura, fredda, come lo erano i suoi parlanti. Magnus era un musicista mediocre ed un cantate ancora peggiore, con il suo fjerdiano stirato dall’erre kerchiane e le palatali sonore. Conosceva quella canzone, perché era stato il motivo ricorrente che aveva ascoltato nelle sessioni di studio al caffè, nell’ultimo anno. Fischiettata decisamente meglio, più a ritmo. Sì, realizzava Dominik, esistevano certi fjerdiani che avevano voci che erano poesie. Ed improvvisamente si era sentito male, quasi stordito, da avere il desiderio di fuggire via dalla casa imbellettata dei Van Eck e … rifugiarsi nella biblioteca della cittadella a studiare vecchi manuali. A bevicchiare con Jordie. E, santi …

“La signorina Merissa Nassau è qui” aveva detto un attendente, attirando la loro attenzione, fermando il battito di mani ritmiche che stavano accompagnando la sgangherata musica di Magnus.
Dominik si era voltato, vedendo il domestico farsi da parte ed esponendo alla loro vista una giovanissima donna. Pelle scura come il tek, cappelli riccissimi di un bruno, con delle sfumature rossastre – forse per una tinta, o i residui di una sartoria – e occhi nocciola, espressivi e buoni. “Oh, Juls!” aveva scherzato Merissa Nassau, “Sono così felice di questo invito” aveva dichiarato, facendo grandi falcate, aiutata dalle sue gambe lunghe, per raggiungere la padrona di casa.

Merissa era infilata in un bustino, con maniche gonfie sulle spalle e le maniche a buffo. La gonna lunga e liscia senza gonfiature improprie. L’orlo della stoffa amaranto, troppo corto, così che le caviglie nude tek e le scarpe morbide tempestate di pietruzze fossero esposte. “Oh, Merissa, ma come sei cresciuta” aveva squittito Juliana con una dolcezza quasi finta, schioccando baci sulle gote ibellettate. “Miei gentili e riveriti ospiti, lei è Merissa Nassau, la figlia dell’illustrissima di Pleunie Dresden, uh, be, nipote del più celebre Hoost Dresden, un vecchio socio in affari di mio padre. Il suo, invece, di Padre è Mikiusan Nassau” aveva cinguettato. Juliana non lo aveva detto ad alta voce, ma l’uomo, il padre di Merissa, era noto come il Signore della Jurda, perché possedeva il più grande appezzamento di terra di Noviy Zem, quasi tutta la jurda che arrivava a Ravka, che arrivava ovunque, era sua.

La padrona di casa aveva poi preso la mano di Merissa conducendoli lì e ricambiando il favore presentandoli. “Meri, dolcezza, loro sono invece i fratelli Dyk, la loro madre è Linnea Opjer, sì quella del ponte-a.trazione Il grosso orso bianco è Kostantyn, è un grisha, eh già e quel bellissimo ragazzo lì è Granduca di Udova e principe di Ravka, Dominik Nazyalensky!”

Merissa lo aveva fissato con intensione e curiosità, ovviamente Domink sapeva di essere il partito migliore, aveva sorriso accattivante, perché sapeva che anche Merissa sapeva di quanto lo fosse lei.
La ragazza aveva raccolto la stoffa della gonna, di poco, ed aveva fatto un inchino, “Oh, è un piacere sua maestà” aveva dichiarato gentile, con le labbra piene dipinte di viola, “Obbligato, mia signora” aveva ricambiato lui, “Ma non sono un Re” aveva detto poi, avrebbe dovuto dirle che il suo titolo era sua altezza, ma Dominik aveva detto alla fine, “Potete chiamarmi Dominik.”

‘Juliana vuole presentarmi una donna, la chiama la principessa della Jurda’

‘Sei un principe, non potresti avere niente di meno che una principessa’

   

 




[1] Zarevic di Scorta, almeno secondo google traduttore italiano-russo.

[2] DRAMALLAMA DELLA BARDUGO. In S&B “dva” è utilizzato come Due, DVA STOLBA sono i due mulini, ma nella Duologia di Nikolai, “dva” viene utilizzato come di/dei/del (Zoya viene definita Rebe dva Urga, figlia del vento). Quindi bho.  Comunque in questo caso è Lilyiana del Vento Brutale.

[3] Sono felice di vederti, in un brutto mix tra croato e serbo (come pare sia il suli)

Timeline provvisoria:

  • Nascita di Igor, Vlad -5
  • Nascita di Shioban -3
  • Ekaterina, Anastasjia -1
  • S&b (R&R) 0
  • SoC 2
  • Nascita di Juliana, Kos 3
  • Fine KoS/RoW 4
  • Magnus e (Rinnovo) del Concordato di ShuHan-Ravka5
  • Nascita di Drina 7
  • Nascita della Principessa Liliyana 8
  • Nascita di Jordie; 10
  • Nascita del Principe Dominik11
  • Nascita di Merissa Nassau 12
  • Raccolta dei bambini di Kerazin, 16
  • Nascita della principessa Alina 23
  •  Il Principe Dominik conosce Merissa Nassau, 28

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Capitolo 4
*** Lu-Wan I (22 DF) ***


Buongiornissimo Kaffè, hai tempi questi era il primo capitolo che avevo scritto di questa storia. La trama del 22 DF è la più ostica da scrivere lo ammetto ed è, al “momento” quella più slegata delle tre, così come dai personaggi canonici del grishaverse.
Probabilmente è pieno di refusi, help.
Devo comunque dire dei TW (spezzano un po’ il pathos): Disumanizzazione, Esperimenti sulle persone, Angoscia.

 

LU-WAN

22 anni dopo la Dissoluzione della Faglia

 

Lu-Wan aveva guardato il contorno dell’acqua grigia, infrangersi contro il lato nella nave e rigettarsi in spuma bianca. Un moto perpetuo. Ogni onda si infrangeva contro lo scavo e si rovesciava alle sue spalle, in una perpetua lotta tra natura e uomo. Lu era aggrappato al parapetto, sporto così che i capelli neri scivolassero sul viso e sugli occhi, catturati da quel sempiterno moto, incapace di … affrontare il resto della nave.

Una tirata d’orecchi, letterale, l’aveva riportato alla realtà. La prima cosa che aveva visto era stata la camicia verde, con i decori d’oro sulle maniche e sul colletto. “Cos’hai?” aveva chiesto sua madre senza grazia alcuna, con un tono ritto e severo come solo lei poteva essere, “Hai iniziato a soffrire di mal-di-mare?” aveva chiesto leggermente irritata lei.

“No, no” si era difeso subito lui, alzando anche le mani. L’espressione sul viso di sua madre era rimasta leggermente stranita. Lo aveva inchiodato con quei suoi occhi gialli come pietre d’ambra, stretti e lunghi, fasciati di kajal nero. Anche nel mezzo del mare, lontano da occhi giudicanti, Kokejin Kir-Wen non poteva rinunciare alla sua letale bellezza. Lu sapeva che lo faceva per due motivi: nutrire la sua superbia ed irretire i suoi nemici, come i vibranti colori di una pianta velenosa. La sua pelle era liscia come una porcellana, con tratti ancora così infantili che ad un occhio disattento la donna sarebbe apparsa come la sorella di Lu che sua madre; ed i suoi capelli lucidi e nerissimi come ematite. Lavoro di un tailor.

“Ti prego, Kebben’a, non farmi pentire di averti portato con me” aveva dichiarato sua madre, il suo tono non era particolarmente morbido, così come era impossibile nascondere la severità dietro le sue parole. Lu sapeva che sua madre era seria. “No, mai” aveva dichiarato lui con un singulto. Conosceva la durezza della donna che l’aveva messo al mondo, la dedizione che metteva nel suo studio, che dietro tutta le sue piccole manie, era una persona diligentissima. Per Lu sua madre era sempre stata oggetto di ogni invidia, aveva una mente eclettica, era brillante ed intelligente, se la bellezza era il suo veleno, l’intelligenza era il suo stiletto, dove suo padre non era nulla. Un giovane edonista, dedito ai piaceri e la mollezza. Mai un’accoppiata probabilmente più strana si era vista in Shu Han. Kokejiin aveva guardato poi Lu, con aspettativa, “Bene, vai a controllare come stanno i nostri soggetti” aveva dichiarato, “Sempre se tu non voglia di cercare i Sildroher tra le onde” aveva considerato. Lu era arrossito pesantemente sulle guance, per la vergogna, prima di chinare il capo e fuggire via dal ponte, per eseguire l’ordine di sua madre.

La Ji-Han non era semplicemente una nave, era un leviatano, una bestia enorme che con la sua ombra poteva oscurare il mare. Aveva tre alberi con vele quadre, ma anche un motore che andava a combustibile, perché potesse sopravvivere ad ogni cosa.  La nave in rutelio, acciaio grisha e quant’altro, una mostruosità enorme, che neanche gli squali[1] ravkiani e kerchiani poteva predare. Una bestia dell’ingegneria umana e prodotto della Piccola Scienza. Parem, per lo più.
Era composta da più piani, da più vagoni, abbastanza da non potersi perdere nei meandri degli stretti corridoi. Lu aveva passato i primi mesi sulla Ji-Han a perdersi, sotto lo sguardo deluso di sua madre. Il Leviatano era la sua casa, il suo corpo ed il suo stesso figlio ne era un estraneo. Però aveva imboccato il lungo corridoio dei grisha.

Il soffitto non era troppo alto, illuminato da flebili luci blu, da ogni lato aveva porte serrate di ferro grisha, bloccate con una serratura inviolabile. Ogni porta aveva un oblo che permetteva loro di spiare la cella dove erano i soggetti. Aveva recuperato il suo taccuino ed aveva scritto quello che poteva osservare dalle finestre. Ogni porta portava scritta nel vecchio dialetto delle regioni sud – che nel loro fiorente paese si studiava poco e fuori ancora meno lo conoscevano – il grifo corrispondente all’ordine dei grisha ed accanto al simbolo del loro elemento.

Ad alcuni era stato tracciato il drago intrecciato che divorava la sua coda, quelli che sua madre aveva deciso fossero soggetti speciale a cui voleva rivolgere maggiore attenzione e a tempo debito.  Le figure nelle celle erano pallide, bianche e mangiate, anche gli zemeni, i suli, i coloni del sud, completamente privati della luce del sole e delle force necessarie. Alcuni avevano raschiato quando l’avevano visto passare, piangendo tutti all’unisono una sola parola: parem! Parem! Lu aveva sorriso accondiscendente davanti quella pateticità bestiale.

C’erano volute quattro porte a destra e cinque a sinistra perché incontrasse il primo drago senza coda, a fianco. Era una etherealki squaller. Differentemente dagli altri soggetti non aveva ricevuto ancora nessuna dose della droga della jurda, nonostante fosse arrivata sulla Ji Han da almeno dodici giorni.
Era alta per la sua età; era giovanissima. Secondo Lu non poteva avere più di quattordici anni, l’avevano avuta da Evgraf il Ravkiano, uno schiavista con uno squalo personale, che anche il Wraith riusciva a trovare[2] (D’altronde, lo sapevano tutti che nessuna nave poteva combattere contro uno squalo, forse solo la Ji-Han). Sua madre aveva chiesto ad Evgraf il Ravkiano dei soggetti giovani, non ancora fossilizzati nei loro doni, ancora malleabili.

Evgraf era stato bravo, non si trovavano bambini grisha, il Piccolo Palazzo e la Corte di Ghiaccio erano colpi eccesivi anche per lui – e dalle altre parti del mondo i bambini si guardavano bene dal dire di essere grisha. Sua madre si era fatta andare bene la ragazzina.

Lu l’aveva guardata, chiedendosi come sarebbe apparsa in condizioni normali, se la pelle olivigna spellata, scavata e gli occhi annebbiata dal gambo, come dovessero essere al massimo del suo aspetto. Un viso pieno e ridenti occhi castani, chiari come il miele denso. Lei lo aveva guardato tramite l’oblo. Quando l’avevano presa dagli schiavisti i suoi capelli erano stopposi, neri ed aggrovigliati, zuppi di sale ed acqua stagnata, così come l’abito che indossava – nessuna kefta – le era marcito addosso. Dal sangue secco sui lobi, Lu aveva intuito le avessero strappato gli orecchini.
Kokejin le aveva dato dei vestiti puliti, nuovi, una lunga toga bianca, l’aveva fatto lavare e purificare dalle condizioni dello Squalo e rasare i capelli, fino alla nuca, per evitare i pidocchi. Dopo due settimane, piccoli ricci ondulati stavano cominciato a riformarsi sulla calotta. Lei lo aveva guardato dal materasso imbottito che le avevano dato e si era tirata su, con fatica. Quando l’avevano presa le avevano fissato da metà della parte alta del braccio, fino al polso delle aste di acciaio grisha. Una cinta sul braccio ed una sul polso del medesimo materiale. Dal polso si dipanava una raggera di fili di ferro, attraversavano i palmi e raggiungevano le dita, limitandone la mobilità.
Era una precauzione contro il suo potere. L’armamento le limitava molti movimenti (non poteva rotare il polso, piegare i gomiti ed agitare le dita le dava fastidi) così non poteva evocare. Alcuni grisha sapevano farlo senza muoversi, ma ci voleva esperienza e lei non l’aveva, probabilmente sua madre le voleva giovani anche per questo.

La ragazza aveva ciondolato fino alla finestra e Lu aveva allungato una mano per tirare giù la levetta del bocchettone, per l’interfono – ne esistevano diverse, una per oblo, una per la gattaiola del cibo – così che potessero passare. Tutti i grisha cercavano di parlare con lui, con o senza parem, qualcuno per la droga, qualcuno solo per la compagnia, qualcuno più ardito cercava di convincerlo a lasciarlo andare, di irretirlo. Lu sapeva anche perché, era giovane, non aveva ancora compiuto sedici anni ed aveva ereditato l’esilità di suo padre ed il viso infantile di sua madre. E lui cedeva sempre alle loro chiacchiere, aveva detto ai dottori che lo faceva per divertimento, era sempre bello vedere quando disperati potessero essere. Sua madre lo aveva rimproverato, “Non c’è nessuna gloria nella cattiveria, nessuna dignità nell’umiliare” lo aveva rimproverato, severa, con ancora le mani sozze di sangue, dopo una vivisezione. La verità era che Lu era curioso, era sempre stato curioso dei grisha, dei loro doni, di come gli utilizzavano, di come funzionasse la Piccola Scienza. E del perché.

“Buongiorno Elen, come va?” aveva chiesto nella lingua formale di Shu Han, si era accorto che la giova grisha la parlava, molto bene, ma non doveva stupirsi, al Piccolo Palazzo anche il figlio dell’ultimo contadino di ravka riceveva l’educazione di un nobile. “Buongiorno, signor Dottore, male. Ho vomito di nuovo, probabilmente sono intollerante a qualcosa” aveva replicato tranquilla Elen, la sua voce era calma e misurata, come se nulla potesse smuoverla. Lu era stato offeso, maledetto, in ogni lingua, ma una ragazzina non più grande di quattordici anni teneva sempre un tono misurato, come se fosse ad una lezione particolarmente difficile anziché in un buco in mezzo al mare, alla mercè di qualcuno interessato a vivisezionarlo. Neanche i primi giorni Elen aveva urlato, ma immaginava che i lividi che avesse ricevuto da Evgraf il Ravkiano dovessero aver condizionato molto il suo portamento.

“Mi dispiace, vedrò se riesco a farti preparare qualcosa di diverso” le aveva detto con un tono calmo Lu, “Immagino la gioia dei cuochi da dover preparare piatti specifici per i prigionieri difficili” aveva scherzato Elen. “In realtà lo fanno anche, la dottoressa capo ritiene che una buona e mirata dieta aiuti in moltissime cose” aveva risposto calmo. Non chiamava mai davanti ai soggetti sua madre con il titolo di genitore e lei faceva lo stesso. ‘Non vogliamo che pensino di poter usare l’un l’altro come leva, no?’ aveva risposto sua madre quando lui aveva chiesto perché. “Anche mia madre sarebbe d’accordo. Non mancavano mai cavoletti alla sua tavola” aveva dichiarato la grisha. Lu si era lasciato sfuggire un sorriso, “Mi sono sempre chiesto … ma non è crudele portare via i bambini dalle proprie case?” aveva domandato.“Direi che al momento la mia idea di crudeltà è piuttosto rinnovata” aveva replicato mordace Elen. Lu era arrossito per la vergogna

Elen era la più tranquilla della nuova partita, nelle ultime due settimane si era dimostrata molto collaborativa, immaginava per la capacità di leggere la situazione, ma ogni tanto anche lei si lasciava andare a puerilità, ma Lu non poteva biasimarla a parti inverse, lui starebbe forse urlando e scalciando, imprecando tutti i santi e dei. “Si può scegliere se andare o meno al Piccolo Palazzo, almeno da quando la Regina Drago siede sul torno di Ravka” aveva spiegato Elen, piena di amore. Lu aveva avuto in brivido nell’immaginare la signora di Ravka e la sua enorme ombra che copriva il continente, con artigli lucidi e fiato di fuoco. La Ji-Han poteva soccombere a poco, immaginava che un drago potesse far capitolare il leviatano.

“I miei genitori sono di Os Alto, quindi, ammetto di non aver sentito una profonda mancanza di casa” aveva raccontato con voce insolitamente calma lei. Lu la poteva vedere dall’oblo sorridere appena, sottilmente. “Non sono mai stato ad Os Alta, ma dicono che dopo la ricostruzione della guerra sia la città più bella del mondo” aveva considerato Lu. Os Alta ed il Piccolo Palazzo erano state distrutte dall’Oscuro e la sua orda di mostri buio e poi era stata bombardata dall’aviazione fjerdiana. Ma era risorta dalle sue ceneri come una fenice, o meglio un drago. “Lo è” aveva ammesso Elen, “Credo che il Piccolo Palazzo sia in realtà il posto più bello del mondo. L’anno scorso abbiamo costruito una serra, capace di os… immagino non conti molto ora” la dolcezza delle parole di Elen, si sfumata nell’amarezza. Lu aveva visto quegli occhi scuri farsi carico di molta tristezza, “Sospetto morirò qui dentro” aveva considerato, forzando una battuta.

Lu era rimasto in silenzio, consapevole della gravità e della sincerità di quelle parole, perché non poteva contraddirla in alcuna maniera, “Mi mancano le serre, erano bellissime, anche più dei giardini” aveva commentato, “Però anche i Giardini erano belli, c’era quello degli aranci, il Giardino delle anime della Regina” aveva raccontato, “Ogni pianta era per un morto, ma poi sono spuntate anche quelle per i viv”.

“Ti piacerebbe della frutta?” aveva chiesto alla fine Lu dopo averla fatta parlare per tempo, uno stupido pensiero infantile l’aveva colpito, gli piaceva ascoltare Elen parlare di terre lontane. Quando era salito sulla Ji-Han aveva pensato avrebbe visto qualcos’altro, oltre i confini della tenuta di suo padre, ma era passato dai limiti della terra di suo padre ai limiti della nave di sua madre. “Da” aveva risposto in ravkiano la ragazza. Lu aveva continuato il suo giro, realizzando a tre porte di distanza che non aveva scritto nulla su Elen.

 

Aveva cercato di parlare con l’healer nella stanza trentasette, aveva un drago annodato come Elen ed era venuto dal suo stesso lotto. Le sue dita erano bloccate da fascette, in modo da dover tenere sempre i palmi stesi. Differentemente da Elen, lui aveva parlato solamente in ravkiano e le sue parole erano solo sentenze religiose. Si chiamava Anchel, aveva del sangue zemeni, evidente dall’incarnato nero come la lagna di quercia bruciata. Ogni tanto nei suoi improperi revkiani buttava parole della sua lingua madre. Lu era carente in zemeni, ma immaginava che non dovessero differire troppo dal discorso.
Ogni sua domanda otteneva come risposta una massima religiosa. “Credo di apprezzare il tuo bagaglio di conoscenze in materia, se dovessi convertirmi al culto dei santi, ricordami di venire da te” gli aveva detto chiudendo l’interfono Lu. Poi aveva sospirato, “E che i tuoi santi ti diano conforto” aveva pensato, grattando il segno del drago infinito, sua madre aveva deciso di cominciare a sperimentare le abilita curative di un healer con la nuova formula – e quanto tempo ci avrebbe messo a collassare il corpo – e di quella tipologia di grisha, non ancora assuefatti sulla Ji-Han ve ne erano solo due. Poi aveva proseguito il giro.

Non accostumati dalla parem rimanevano solo altri due ospiti. Uno ethearealki inferno che era stato acquistato più di un mese prima, lo avevano avuto dai pirati lungo la Via delle Ossa. Lu non si era disturbato a parlarci, il ragazzino parlava solo kaelish ed il suo vocabolario era composto da sole parolacce. Inoltre, Lu doveva ammettere di essere turbato dallo sconosciuto – in un mese non erano riusciti a strappare il suo nome – per il suo aspetto. Non lo avevano consegnato intero. Mancava di un dito della mano destra, due alla sinistra, qualche falange anche ai piedi, della pelle. Il padiglione di un orecchio ed ancora altri pezzi. Era stato uno dei dottori della nave a chiarire perché di quelle mutilazioni, “Gli abitanti delle Isole Erranti credono che il sangue ed il corpo dei grisha sia miracoloso” aveva spiegato asettico. E i kaelish avevano trattato il grisha come una reliquia vivente, strappandone parti da vendere o conservare come cimelio. Lu era certo che parte del motivo per cui sua madre stava aspettando nello sperimentare con il giovane evocatore era da ricercare proprio nelle sue mutilazioni – voleva ricostruirle, Lu ne era certo.


L’ultima ancora cosciente di sé stessa era la materialki.

Su tutta la nave ne avevano solo due, erano difficili da trovare. Tra tutti i talenti grisha erano i più facili da nascondere ed anche se non era più così inusuale trovare un fabrikator combattere, i materialki preferivano vivere nei laboratori. La ragazza era una durast e sua madre la teneva sul palmo di una mano.

“Quando mi darete la parem?” aveva chiesto la materialki, appena aveva sentito il suono dell’interfono. Parlava nella lingua shu, il suo accento ravkiano era molto più morbido di quello di Elen, segno della sua origine meridionale, forse confinante con Shu da qualche parte.“Vuoi la parem?” aveva chiesto confuso Lu.  Di solito nessuno voleva spontaneamente la parem, tranne i grisha volontari e disperati di Shu Han. “No, ma … l’altro materialki non durerà ancora” aveva spiegato lei.

Lu era rimasto per un secondo fossilizzato da quel commento. Le stanze erano studiate perché non fossero possibili contatti, perché fossero insonorizzate completamente, eppure lei lo aveva scoperto. Lu non poteva negarlo, ormai Kvasir era arrivato agli sgoccioli. La sua pelle non era più il bianco calore del latte ma era diventata cagliata, squamosa come quella di un pesce e le vene blu evidenti come fiumi su una carta geografica. I capelli erano fili sottili di bianco, privi di ogni colore. Da una persona vera, era diventata una macchia informe senza colore. Sua madre non voleva che si affezionasse ai soggetti, non voleva che sapesse i loro nomi e le loro storie, ma Lu non poteva non farlo. Era vero, erano grisha, ma in qualche modo erano ancora viventi e non voleva dimenticarli, il loro sacrificio avrebbe aiutato Shu, ma anche tutti gli uomini che sarebbero arrivati dopo di loro. Così cercava di ricordare i loro nomi e quanto fosse riuscito a scucire delle loro storie. E Kvasir, l’altro materialki era alla fine della sua. Lu si era sporto un po’ per guardarla.

La grisha materialki non aveva gli occhi rivolti all’oblo, ma a sé stessa, anzi alle sue mani.  Dita viola e nere, contorte come rami secchi. Sua madre non l’aveva fatta legare, le aveva fatto rompere le dita e risaldare in maniera sbagliata le ossa, perché non fosse agevole nel suo potere e le faceva bere più gambo degli altri. Si vedeva anche nello sguardo, era più vitreo, le sue palpebre erano a mezza-asta. Sapeva che sua madre le avrebbe fatto risistemare le sue dita dopo la prima dose di parem, quando per averne un’altra sarebbe stata disposta ad eseguire ogni loro comando e la fuga sarebbe stata nulla più che un’idea sconsiderata. Non si sopravviveva alla parem, quasi mai.

Lu aveva sentito delle storie, delle leggende. Senza antidoto la morte era quasi certa e quando non lo era, lui aveva sentito di grisha che avrebbero voluto esserlo. “Quindi la parem?” aveva chiesto di nuovo lei, ad occhi chiusi, Lu avrebbe potuto quasi scambiarla per una shu. “Non lo so” aveva ammesso lui colpevole poi, “Tua madre non te lo ha detto?” aveva chiesto provocatoria quella. Lu aveva tirato su veloce la leva, chiudendo l’interfono, quasi scottato da quel commento. Aveva scritto veloce, sotto il numero della cella corrispondente, come la ragazza fosse ancora impertinente, nonostante il Gambo, e troppo attenta. Poi aveva concluso il giro di osservazioni, cercando di sistemare le informazioni dei dipendenti con più celerità possibile, perché sua madre fosse soddisfatta.

 

“… e la stanza settantotto era vuota” aveva spiegato eclettico Lu-Wan a sua madre ed al dottor Xiao.  La stanza era quella del soggetto che rispondeva al nome di Kvasir, il materialki sotto parem. “Lo ha davanti, mio signore” aveva considerato l’uomo. Era più vecchio di sua madre, aveva anche più esperienza, ma sembrava infintamente più piccolo davanti il cipiglio severo di Kokijin.

Lu aveva abbassato lo sguardo, sul tavolo, morto, c’era il giovane materialki che avevano utilizzato nei lavori negli ultimi tempi. “Sì, il nostro giovane soggetto settantotto è morto” aveva considerato Kokijin piatta, “Mentre io ed il dottor Xiao ci occupiamo dell’autopsia, vorrei che tu recuperassi tutti il materiale relativo alla parem. Quando ha cominciato a prenderla, quanta ne ha presa per volta, quanto gli intervalli” aveva ordinato sua madre, elencando attentamente tutto ciò che voleva facesse.
Lui aveva annuito.

“Kvasir è stato con noi per un po’” aveva commentato il dottor Xia, allungando una mano per toccare con il pollice la fronte tonda del ragazzo. La sua pelle era bianca, trasparente come la carta davanti una fiamma. Capelli bianchi, distrutti e sfibrati. Poteva avere vent’anni o cinquanta e Lu non lo avrebbe dedotto. “Sì, otto mesi e venti-tre giorni, di cui sei mesi e undici giorni consumando jurda parem” aveva detto sua madre ammirata. “Wow” si era lasciato sfuggire Lu, “Sì, una buona formula, la migliore finora e lui è stato il soggetto migliore, speriamo di fare meglio. Detesto lo spreco di risorse” aveva detto sua madre, “Anche quando non sono umane” aveva stabilito.
Lu aveva annuito e si era allontanato.

 

Nonostante avesse lavorato al meglio delle sue capacità, alternando caffè annacquato e foglie di jurda da masticare, ci aveva messo più di quanto avesse voluto a mettere a posto tutta la documentazione. Specie perché sulla Ji-Han si tendeva a scrivere in un linguaggio criptato. Non solo la grafia della vecchia regione del sud, ma anche le parole avevano un significato differente. Sua madre era ossessionata che i suoi progressi fossero rubati dai nemici di Shu. Lu non trovava le sue preoccupazioni troppo eccessive, forse dal Patto di Os Kervo e del Concordato esisteva una pace.
Ma era una pace fallace, che non comprendeva i floridi zemeni, gli agguerriti kaelish, i ricchi kerchiani e i coloni che desideravano la loro sovranità. E bisognava considerare quanti gruppi non aderissero alla perfezione a quel governo.

Druskelle recidivi, i seguaci della Seconda Regina Shu ed anche i ravkiani separatisti.
Il mondo era una partita di ghenga. L’equilibrio funzionava tanto quanto erano abili i giocatori a spostare le tessere. E Lu concordava con sua madre quando la donna si lamentava dei comportamenti dannatamente approssimativi dell’umanità.
Sapeva che forse la storia non li avrebbe ricordati bene, i grisha stavano diventando sempre più obsoleti come armi, ma sempre più considerati come individui, ma lui sapeva che il loro lavoro lì sulla Ji-Han era per il meglio. Per il futuro. Aveva recuperato tutti i diari ed uno a posta, dedicato a Kvasir solamente aveva cominciato a trascrivere tutti gli appunti.

Avevano cominciato con una dose minima. Tanto ne bastava perché cominciasse la dipendenza. Dieci grammi la prima volta. Due giorni dopo, altri dieci.
In seguito sua madre aveva cominciato a dimezzare le dose ed aumentare i giorni.
Kvasir si era dimostrato incredibilmente confacente a questo sistema, la dipendenza non era scesa, ma i poteri si erano mantenuti acuti e le sue capacità intellettive anche. Dopo una settimana intera senza parem il corpo aveva cominciato a dimostrare delle manchevolezze nella piccola scienza ed onde evitare che sviluppasse le capacità contrarie – sua madre voleva fare uno studio anche su quello, ma più avanti – procedeva nell’introdurre di nuovo parem. Ogni volta i poteri di Kvasir si era dimostrati pesantemente più dotati. Il suo corpo stava reagendo bene.
Poi negli ultimi due mesi, i giorni senza parem si erano ridotti drasticamente, inversamente alle dosi che erano aumentate.

Kvasir aveva cominciato a manifestare la mancanza dei poteri prima dopo tre giorni, poi erano diventati due giorni, dopo due settimane erano diventato un giorno e poi senza almeno cinquanta grammi di parem – che dati la prima volta, potevano provocare quasi la morte – non era in grado di manipolare neanche dopo un paio d’ore. Nei suoi ultimi giorni Zurik non era in grado neanche di alzarsi senza la parem, ma neanche di pensare ad altro se non alla droga.

Ogni traccia di umanità era scomparsa da lui, come il colore. Lu nel leggere le ultime analitiche considerazioni di sua madre e degli altri dottori, doveva dichiararsi nauseato. Però non aveva vomitato – quella volta. La prima volta che aveva visto un grisha distrutto, disintegrato nella sua umanità nella parem lo aveva fatto. Sua madre lo aveva guardato con quel suo cipiglio privo di gentilezza e comprensione. “Forse ho fatto male. Forse aveva ragione tuo padre” li aveva detto. Suo padre non era un uomo cattivo e non aveva per Lu crudeli ambizioni, anzi aveva grandi speranze, voleva facesse l’ambasciatore. Gli aveva fatto studiare le lingue, la politica, la mediazione, ma a lui non era mai interessato di quella piccola partita di shenga del mondo. Sapeva di poter avere un ruolo lì, ma solo in virtù di un sangue che non aveva chiesto, ma la scienza e la piccola scienza potevano essere qualcosa che avrebbe conquistato con la sua mente.

I grisha lo avevano sempre appassionato, da quella volta che aveva conosciuto la piccola Min, che aspettava sempre in cucina quando i suoi genitori lavoravano. Min aveva imparato a leggere ascoltando la lezione di Lu e a Lu non aveva mai dato fastidio che volesse imparare, neanche a sua madre – come Min, neanche lei era figlia di un sangue nobile. E lei era intelligente e vivace, fino a ché un giorno non aveva aiutato Lu ad addormentarsi parlando dolcemente e rallentando il suo cuore. Era stato strano, si era reso conto lui e così lo aveva raccontato a sua madre. Per la prima volta, ricordava che Kokijin che usualmente lo ascoltava disattenta, con il naso infilato nei libri, rispondendo accondiscendente ai suoi commenti, si era voltata di scatto verso di lui. “Puoi ripetere, tesoro?” aveva chiesto quasi con dolcezza e gli occhi di melassa quasi scintillanti di morbosa curiosità.

Min era una grisha, una heartrender. Quella era stata il primo incontro di Lu con quel potere, con la Piccola Scienza, con quella sconosciuta realtà ed era stato amore a prima vista.

Aveva chiuso il taccuino dedicato interamente a Kvasir ed aveva sistemato il materiale preso ordinatamente. Ogni caso diviso in ordine di numero del soggetto ed ordinati i fascicoli per data, per scacciare il senso di inquietudine che il giovane corporalki morto li aveva lasciato. Quando aveva sollevato lo sguardo, dall’oblo dello studio, notando che ormai l’unica luce che illuminava la stanza era quella fittizia. Il sole era sceso. Aveva passato tutta l’intera giornata chiuso dentro il piccolo studio.

Aveva lasciato la stanza con ancora nelle ossa una sensazione di disgustoso, che aveva cercato di ricacciare per sé stesso ed aveva raggiunto sua madre per assicurarsi di darle tutti i suoi appunti trascritti. Kokijin era esattamente dove l’aveva lasciata: nell’obitorio. Kvasir non c’era più, il tavolo dell’obitorio era completamente vuoto, così come mancava l’altro dottore; in compenso erano fioriti ogni dove barattoli colmi di formalina, dove galleggiavano piccole parti che un tempo avevano composto la grandiosa macchina che Kvasir era stato; oltre che fiale di sangue coagulato.
Cercavano quello che rendeva i grisha così speciali, negli organi interni, in qualsiasi cosa, dal cuore all’appendice. Per Kvasir sua madre aveva deciso di conservare anche le dita, giacché, anche più dei corporalki, i materialki lavoravano a stretto contatto con le loro dita.

“Ecco, a te, madre” le aveva detto calmo, ignorando quei barattoli così evidenti. Sua madre lo aveva guardato, seria, aveva preso il taccuino ed aveva fatto scorrere le pagine velocemente, osservando con gli occhi attenti tutte le pagine, poi li aveva concesso un sorriso morbido, così inusuale. “Sei stato bravo, Kebben’à” le aveva detto con dolcezza quasi materna. Lu era arrossito in maniera quasi invadente, davanti a quell’improvviso complimento. “Andiamo a cena, non mangio da oggi e mi sento piuttosto affamata” aveva commentato Kokijin con dolcezza, allungando una mano verso di lui e strusciando i palmi contro la sua spalla, in una buffa imitazione di una carezza, “E sei hai ereditato la mia diligenza, anche tu, scommetto” aveva detto. Lu aveva annuito, prima di avere un’illuminazione. “Certo! Devo fare una cosa prima!” aveva dichiarato, sgusciando via dalla presa di sua madre.

Aveva abbandonato la donna a passi svelti per infilarsi di forza nelle cucine.
Era entrato di fretta, osservando come gli inservienti fossero già a lavoro. Lo avevano salutato con posatezza che si adduceva al suo standard. Lu li aveva salutati di fretta, andando a cercare tra la frutta che avevano imbarcato qualche settimana prima al porto di Weddle, a Noviy Zem. La frutta non durava mai molto, così ne compravano poca, quasi per piacere, e tendeva a finire entro la prima, massimo seconda, settimana di viaggio. Le mele però no, sua madre aveva costruito una cremagliera che aveva fatto sistemare nella zona più fresca della nave, per la lunga conservazione.
Aveva recuperato un paio dall’aspetto più succose, rosse e lucenti. Anche se di quel genere ne erano rimaste poche, ma aveva deciso di sacrificarle alla causa e svelto come era arrivato, si era dato via. Era tornato al corridoio delle celle con velocitò, preferendo le scale lucide che l’ascensore per non essere visto ed osservato.

Aveva raggiunto verace la porta di Elen, aveva gettato subito uno sguardo all’oblo, non avevano ancora servito la cena ai soggetti. Di solito mangiavano dopo di loro, si era anche dimenticato di far presente le intossicazioni alimentari di cui aveva sofferto la grisha ethearalki. Aveva abbassato la leva per l’interfono e l’aveva chiamata, quasi esitante.

Elen era seduta al bordo del suo materasso, aveva le ginocchia al petto, le braccia costrette nella posizione rigida e la testa posata sulla parete. L’espressione era pensierosa e gli occhi castano pieni di cattive nubi, come immaginava dovesse essere normale quando la propria esistenza era diventata una stanza. Elen si era ridestata quando aveva sentito la sua voce. “Salve dottore, sei tornato?” aveva chiesto quasi con gentilezza, si era tirata su, con un movimento poco fluido, posando i palmi stesi sul muro e puntando la schiena anche su esso, per darsi una spinta con le sole gambe sottili.
Ogni volta che ricominciava a parlare in shu, l’accetto ravkiano raschiava nella sua gola, come un graffio. Ravkiana pura, con un po’ di Suli, per la declinazione della pelle olivigna.
“Sì, io ti ho portato la frutta” le aveva detto, incerto delle sue stesse parole, sollevando la leva della gattaiola per poterle allungare almeno una delle mele. Avrebbe dovuto darle tutte? Non sentiva il bisogno di darle agli altri, magari poteva darlo al corporalki e alla materialki, presto avrebbero cominciato con la parem e dopo la parem il cibo non aveva più lo stesso sapore, perdeva ogni gusto e succosità, ogni cosa, anche la più deliziosa diventava cenere, esisteva solo la droga. Sarebbe stata la loro ultima squisitezza. Elen aveva allungato una mano rigida ed aveva preso con fatica la mela, non potendo chiudere bene le dita, nè potendo torcere il polso.

Lu era rimasto a lungo sui suoi pensieri e non si era accorto del suo gesto, così era stato strano, quando le punta delle loro dita si erano sfiorate. “Grazie, sei stato gentile” aveva detto lasciando comunque la meta sulla piccola sporgenza dopo la gattaiola, “Ma non potendo piegare il gomito, dovrai tagliarmela e imboccarmi o togliermi questo arnese” lo aveva avvertito lei, con una punta di divertimento. Lu aveva sentito il rosso dell’imbarazzo e della vergogna esplodere sul suo viso. “Non ho il permesso per toglierlo, ma forse posso tagliare la mela” aveva detto, cercando di riprenderla, ancora confuso dalla sua stupidità. Elen aveva riso e Lu era stato confuso da un suono così leggero, fresco, quasi dolce.

Aveva guardato la ragazzina dall’oblo e si era chiesto senza vergogna come avrebbe reagito non sapendo cosa fosse, se l’avesse incontrata per le vie di Bhez Ju. “Quanti anni hai?” la domandata di Elen lo aveva colto di sorpresa. “Come?” aveva chiesto confuso, “Sembri molto più giovane degli altri” aveva considerato l’altra poi senza particolare enfasi, “Oltre che essere l’unico che risponde” aveva valutato Lu senza vergogna, “In effetti parlare aiuta. I pirati non parlavano molto e i dottori ancora meno” aveva confessato lei. Lu aveva sorriso stanco, e colmo di colpa fino all’orlo a quelle parole, “Quindici” le aveva detto. Elen aveva sorriso, “Oh, be, io ne ho tredici” aveva confidato, anche se Lu lo sapeva già, “Siamo praticamente coetanei” aveva detto la ragazzina.
E Lu aveva l’impressione di sapere cosa sarebbe arrivato dopo, quale frase lo avrebbe raggiunto, ma Elen lo aveva stupito, “Riesci a dormire bene la notte?” aveva chiesto.
La domanda lo aveva così colto di sorpresa – era sicuro che Elen avrebbe premuto sulla loro vicinanza d’età sulla sua giovinezza per convincerlo a lasciarla andare – ed invece le aveva chiesto quello. A Lu era scivolata la mela che aveva tenuto nella mano, finendo per rotolare a terra ed ammaccarsi. “No, vero?” aveva chiesto Elen, c’era quasi dolcezza nella sua voce. Lu si era ripreso, “Sì, invece. So che quello che sto facendo è giusto” aveva ripreso, nervoso, lasciando la mela lì e dandole veloce le spalle, portandosi via le altre mele. “Non hai spento l’interfono!” lo aveva rimproverato Elen, con una sfumatura quasi di divertimento.

Lu era stato intrattabile a cena, quella sera ed anche dopo. Sua madre lo aveva guardato quasi con una curiosità materna, non scientifica. “Sei turbato, bekkan’a?” aveva domandato quasi con gentilezza. Le labbra piccole dipinte di rosso, stese in un sorriso. Lui era sempre turbato dal fatto che sua madre sembrava sempre di buon umore dopo un’autopsia. “Il soggetto tredici, l’etherealki squoller” aveva ammesso lui, pensando ad Elen e quella mela abbandonata nel corridoio. Il sorriso quasi dolce di sua madre si era arrestato immediatamente, ritornando ad una stretta linea serrata, “Ti ho detto molte volte di non conversare con i soggetti” lo aveva rimproverato fredda, gli occhi d’oro giudicatori.
“Sto cercando di capire perché ci tieni così tanto. Di etherealki se ne trovano di continuo” aveva mentito Lu, “L’età, tredici anni sono malleabili e non ancora limitati. La regina di Ravka evoca almeno tre elementi, vuol dire che è possibile. Corporalki e Materialki hanno una divisione interna quasi fittizia, assolutamente discrezionale, ma per gli evocatori la distinzione è quasi netta. Però è possibile e voglio sapere come, senza la parem e senza il mezorast” aveva dichiarato senza battere ciglia, con una voce dura e severa.

Lu sapeva dove era la verità, capire come funzionava la Piccola Scienza voleva dire capire come replicarla.  Sua madre voleva rendere ogni uomo al mondo un grisha, o almeno ogni uomo di Shu-Han e voleva una parem che non distruggesse il corpo e che amplificasse il potere – senza la dipendenza, come nulla più di un eccitante. Lu aveva sorriso, perché condivideva quel nobile ideale e quando sarebbe stato così non ci sarebbe stato più bisogno di loro. Eppure, quei pensieri erano offuscati dalla raschiante voce ravkiana di una tredicenne.

Dormi bene la notte?

 

La Ji-Han era così grande che l’acqua non spingeva per nulla il rollio della nave. Così calma, che Lu-Wan a volte dimenticava di vivere su una barca in un mare, tanto era piatto il ponte, tranne nelle giornate di gran burrasca. Ma quella notte il mare era una tavola, la Ji-Han era ferma come fosse inchiodata al tempo e Lu non aveva scuse per non riuscire a dormire. Era rimasto steso nella sua brandina con le dita arricciate intorno alla coperta e gli occhi rivolti al soffitto nero.  Sulla sua scrivania c’erano ancora le me che non aveva dato.

E poi qualcosa aveva inclinato la nave, pesantemente come se un’onda si fosse gonfiata immediatamente ed avesse colpito su un fianco la nave. Lu era quasi stato sbalzato via dal suo lettuccio. Si era tirato su e aveva aperto la porta, ritrovandosi nel caos.
Sapeva di tempeste che sorgevano dal nulla, ma non credeva che potesse capitare una così violenta da scuotere anche il palazzo galleggiante della Ji-Han.

Si era tirato su a fatica, dal mondo improvvisamente inclinato e si era messo a correre in ogni direzione, mentre sentiva le campane dell’allarme risuonare per la nave. Aveva incontrato uno dei marinai e con rabbia, a malapena notato, quasi strattonato e buttato giù aveva chiesto cosa fosse successo ma era stato ignorando dal panico dilagante. Si era tirato su ed era corso verso l’ufficio di sua madre, certa che la donna non fosse stata nei suoi alloggi, mentre saltava le scale, quasi due a due, cercando di non rimettere sballottato dalle vertigini.

Il mondo non esisteva più come una linea dritta. Tutta la sua realtà era stata rovesciata.

“Mamma! Mamma!” aveva urlato a perdifiato, infrangendo ogni regola di comportamento che la donna aveva voluto per loro. Lungo le scale aveva incontrato dottori, marinai e servitori, scendere e salire le scale, alcuni integri, altri macchiati, feriti e tormentati. Il panico si dipanava come una macchia d’olio sulla stoffa. E poi tra il Sali-e-Scendi aveva riconosciuto la sua genitrice. I suoi capelli erano sconvolti, un taglio le attraversava una tempia e rivoli di sangue e sporco le scendevano sul viso bianco.

Lu si era ritrovato stretto in un abbraccio pressante, sulla tromba delle scale, prima ancora di riuscire a formula la parola ‘madre’. “Kebben’a, sesh’a” aveva detto lei piena di amore e dolcezza, umana, come mai credeva di averla sentita. Kokjin si era allontanata da lui, con le mani a coppa sul viso, accarezzandoli una gota con un pollice, materna. “Che succede?” aveva chiesto lui alla fine, sua madre aveva emesso un suono con le labbra, somigliava ad un sospiro, ma non uno di quelli carichi di fastidio ed irritazione, ma di consapevolezza e … fatica; poi con una calma quasi innaturale, assolutamente inadeguata alla sua espressione, al caos dirompente ed il mondo capovolto, lei aveva detto: “I soggetti… si sono liberati.

 



[1] Con squalo faccio riferimento allo strano sommergine di Nicolai, che ha un simpatico nome ravkiano che mi rifiuto di credere che sia adottato dal resto del mondo (d’altronde io chiamo i dirigibili: dirigibili non zepplin, è zepplin è pure una parola bella).

[2] La povera Inej non può affondarla, a parte che il macchinario le direbbe solo che esiste uno squalo, ma in una guerra sarebbe impari (Quindi purtroppo Inej ha le mani legate; ma ci sta provando. Lo giuro).

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Capitolo 5
*** Matthias (40 anni dall DF) ***


Questo non doveva essere il primo capitolo del 40 (il primo capitolo doveva riguardare la corte ravkiana, ma …) non vedevo l’ora di introdurre questo pg.
Questo personaggio, questo pov e questa trama, in generale, mi servono per introdurre la «Questione Fjerdiana».
Cos’è la Questione Fjerdiana?
Il pastrocchio in cui la Bardugo ha lasciato Nina ed Hanne.
Pastrocchio, dico? Sì.
Al momento i due posano come Mila e Rasmus, solo che Rasums non è u orfano senza arte ne pare, ma ha una madre molto affezionata, un padre ancora vivente e un fratello minore, comunque citato.
Oltre ciò Mila era la dama di compagnia della sfortunata “Hanne Brum” e ragazza di umilissime origini (vedova di un pescivendolo, che faceva la guida turistica) che è riuscita a raggiungere il cuore del principe dopo il suicidio della sua precedente signora e “quasi” promessa del Principe Ereditario. E in tutto questo sono due grisha, che possono anche voler spingere Fjerda in una direzione avanguardista, ma non credo potranno sventolarlo ai quattro venti, visto che fino a cinque minuti prima i Grisha erano cacciati.
Quindi sì la questione è problematica e forse non la risolverò neanche bene ma ci proverò giuro.

Detto questo il capitolo non è stato betato.
Un bacio
RLandH


MATTHIAS

(40 anni dalla Dissoluzione della faglia)


Djerholm e Os Alta avevano una distanza tutt’altro che ragionevole.

Impraticabile a piedi, passando per le terre innevate, in quel periodo dell’anno. Aveva pensato avrebbero preso il mare, ma sua madre aveva deciso di voler assolutamente arrivare alla Capitale e non doversi fermare ad Os Kervo ‘Ravka Ovest non mi ha mai portato gioia’ aveva giustificato pigra la sua risposta.

Avevano preso una nave volante, non era un modello elegante e raffinato come quelle Ravkiane o Zemeni, anzi il contrario, era una bestia nera roborante, che si volteggiava nel cielo, in maniera goffa, tenuta su da un pallone, la cui forma era sostenuta da due sedicenti grisha etherealki, perfettamente addestrati. Era però un motore vero a carbon fossile che rovesciando una scia di fumo nero, che dava la spinta ed un capace timoniere che guidava la direzione. Altri squallor manovravano i venti per addolcire il viaggio. La direzione era stata tracciata da un cartografo prima.

Il Skära-vind, taglia-vento, fjerdiano riusciva a superare in altezza le navi volanti Ravkiane, raggiungendo temperature dove respirare era difficile ed il freddo era pungente.
Sulla sommità, scoperti, l’aria era tenuta da un gruppo di grisha, che avevano creato una bolla di aria respirabile. Un inferno si occupava di riscaldare l’ambiente, ma moderatamente.
Il fuoco di quel tipo di grisha era sempre pericoloso, più d’attacco, sarebbe stato meglio avere dei sun summoner, ma Fjerda non ne aveva, gli unici esistenti erano a Ravka, ai piedi dell’Apparat.
Però, quell’altezza così vertiginosa, con quelle misure così accorte, rendeva l’ambiente più sicuro, erano soli, dominavano il cielo, con un quarto delle abilità di manovra delle navi volanti e forse la metà della potenza di fuoco. Ma questo era superbo, i cieli di Ravka erano cieli pacifici.
Almeno di quei tempi, si diceva così.

“Era lì” stava dicendo il vecchio nobile Karl, con voce rude, mentre indicava alla giovane Stiorra, sua nipote, qualcosa nel panorama visibili dagli oblo. Erano finestre di vetro lavorato dai grisha, un grande spessore, capace di trattenere freddo e fuoco, ma così lido da essere a malapena percepito ad uno sguardo distratto, “Un muro nero, che si alzava verso il cielo. Come se Djel avesse chiuso gli occhi proprio in quell’unico punto” aveva detto volutamente tetro Karl.
Stiorra aveva avuto un singulto, mentre con gli occhi chiari cercava in quel vasto panorama. Verde e più pianeggiante di quanto non fosse Fjerda, così vivo da stordire l’idea che quello fosse l’unico tangibile ricordo del Nonmare.

La piaga che aveva devastato Ravka, spezzandola, dentro nel profondo, di cui, in quei tempi, era rimasta solo l’ombra negli occhi di chi l’aveva venduta. “Dei miei amici ci sono entrati una volta. Chi ne è uscito non era più intero, né dentro né fuori” stava spiegato il vecchio Karl ad un ammirata Storria.

Lui si era voltato verso sua madre, invece, non aveva avuto bisogno di porre ad alta voce la domanda, “Una volta, l’ho vista quando ero ragazzina” aveva detto, ma sapeva di menzogna e Matthias non aveva chiesto altro.

A sua madre piaceva tenere i suoi segreti e lui aveva cominciato a capire perché.

 

Sua madre aveva un aspetto impeccabile, se non si contava la macchia di zucchero a velo che le impolverava una guancia e che era caduta anche sulla parte superiore del vestito acquamarina e sulla generosa scollatura. “Ti sei macchiata” le aveva commentato alla fine.
“Oh Santi! Senza tuo padre sono proprio perduta” aveva riso con un leggerò divertimento lei, senza reale preoccupazione nella voce, “Sarebbe stato imbarazzante incontrare Zoya sempre così elegante, con il vestito macchiato di zucchero”.

 Matthias le aveva sorriso indulgente, nonostante fosse arrabbiato con lei. Sua madre aveva allungato una mano per scompigliarli i capelli. Entrambi avevano una tonalità di biondo simile, chiarissimo, fjerdiano, in comune avevano anche la carnagione bianca come la luna. Forse.
Suo padre aveva scelto di non venire, di rimanere a Fjerda, sul trono, assieme a Joran, suo consigliere personale. Dopo il tentativo di colpo di stato di Hartfag Grimjor, in combo ai cambiamenti per il mondo che suo padre stava costruendo, il trono di Fjerda si era fatto bollente e suo padre non poteva permettersi di lasciarlo.

“Non hai messo la tua corona” aveva considerato sua madre, Matthias aveva allungato la mano per posarla sopra la sua testa, dove di solito indossava l’anello di ferro ed argento, su cui era incisa la testa di profila di un insenulf, le volute intrecciate ed il motto principesco, trovando, però, solo i capelli morbidi; il suo capo era nudo, differentemente da quella di sua madre. La regina esibiva con orgoglio la corona matrimoniale di Fjerda: un anello di ferro, argento, con dei topazi azzurri, in sintonia con gli occhi della donna. Dall’anello, si dipanavano delle aste, che si stringevano poi punte affilate, che ricordavano delle spade in miniatura. “Mi sembrava irrispettoso” aveva commentato Matthias, “Ho sentito che nessuno dei principi di Ravka indossa la corona” aveva dichiarato, neanche le principesse. Sua cugina Isadora indossava sempre diademi delicate, con piccoli diamanti luccicanti come stelle.

Sua madre aveva mosso una mano come se avesse dovuto scacciare una mosca, “Quello fa parte del fascino di Zoya e delle strategie politiche di quella volpe di suo marito” aveva ridotto alla cosa, con un sorriso gentile sul viso, nonostante le parole che aveva usato non c’era alcuna cattiveria.
Il Korol Rezni, l’uomo che aveva perso la corona per il sangue spurio e l’aveva riconquistata in camera da letto, la Volpe Troppo Furba di Ravka. Sua madre lo ammirava moltissimo, meno di quanto facesse con la Regina Drago, ma provava per il Re Consorte di Ravka una genuina meraviglia.
Matthias aveva annuito, stanco.

Ovviamente per i cuccioli del drago, non valevano le stesse regole che doveva giocare lui.
Zoya Nazialensky era divenuta Regina in virtù di una volontà più grande: potere e pietà, aveva sposato un conclamato bastardo ed istituito una nuova linea reale. Tutti i figli di Zoya sarebbero stati principi anche senza bisogno di indossare le loro corone, perché la loro madre era la Regina e a Ravka non importava se la loro regina fosse nata con sangue Suli, povera e da un villaggio senza nome. Era una santa, un’eroina e un drago.

Il lignaggio della casa Grimjor era sempre in discussione. Re Egmond era un uomo forte, un visionario, che aveva dimostrato il valore di uomo, ma che aveva rivoluzionato un mondo intero[1]. Forse, la gente diceva, era stata a causa della malattia che da ragazzino aveva sentito sulla pelle, che lo aveva quasi ucciso – Matthias voleva ridere pieno di disperazione, per quelle parole – ma aveva comunque sposato una vedova di un pescivendolo, che era stata cameriera della sua precedente innamorata.
Si erano raccontate molte cose su Mila Jerdestand, le più dolci dicevano che la giovane donna aveva aiutato il principe a superare il dolore del lutto, che gli univa, della morte della sfortunata Hanne Brum, suicida dopo i gesti avventati di suo padre – lei che aveva già affrontato il dolore della morte di un marito e che aveva teneramente voluto bene alla signora. Le altre dicevano che Hanne Brum si fosse suicidata per le azioni di suo padre e perché il principe che amava si era fatto sedurre dalla sua cameriera. Si era detto della buona regina Mila che fosse un’avida sgualdrina che dal nulla avesse raggiunto quanto mai più era concepibile per una donna, a quei tempi. Che aveva irretito e corrotto la giovane Hanne quando era Sorella della Fonte, che si era insediata nella sua casa ed era stata l’amante di Jarl Brum, che avesse usato l’influenza del suo amante fino alla corte e che avesse poi sedotto senza vergogna il giovane principe ingenuo e sfiorito. Qualcuno, folli, osavano anche insinuare che Egmond Grimjor avesse ucciso con le sue stesse mani Hanne, per soddisfare l’amore di Mila.

Raccontavano ancora tutti, quando con troppo coraggio ed audacia, Mila aveva preso la mano del principe e pregato per lui all’inizio del Cuore di Legno.  Sapeva dei sussurri che ancora aleggiavano nella corte, che Mila governava Fjerda, tenendo come scettro il membro di suo marito.
Matthias sapeva non potesse essere vero: sua madre era una donna gioiosa, intelligente, a volte anche spietata, ma non una cospiratrice brutale e suo padre non era un giovane imberbe, non era manipolabile, era duro come il ghiaccio della corte. Re Egmond aveva sempre raccontato che l’amore per sua moglie pescivendola era come quello di Re Justinien Grimjor che si era innamorato della sua regina Diede, che aveva visto esibirsi all’angolo della piazza come un’attrice[2]. Era stato un matrimonio scandaloso, ma aveva regalato a Fjerda la sua epoca d’oro e tutti dicevano che con i suoi genitori era accaduto di nuovo.

Sicuramente così era stato per i grisha e gli emarginati, come il popolo.

Il popolo amava Mila Jardeset, che in pochi anni era passata dall’essere: La Regina Pescivendola, la Regina Puttana, alla Buona Regina Mila.


Tutte le storie erano comunque sbagliate; Matthias, lo aveva scoperto e la verità era … Inqualificabile.
Matthias non riusciva a far fronte alla verità. Per questo, quando sua madre aveva chiesto di accompagnarla a Ravka per il secondo ventennale aveva deciso di accettare senza colpo-ferire. Solo quando aveva osservato dall’igloo del mostro volante, gli ettari di foresta nerissima, confine naturale tra Fjerda e Ravka, aveva realizzato che tutto il mondo, incluso sua madre, avrebbero dato per scontato che aveva deciso di prendere una moglie.

La terribile Zoya daja Kerkenning aveva ancora una figlia nubile, di qualche anno meno di Matthias – diciassette se non sbagliava – che lui aveva conosciuto una volta da bambino, durante i concordati su alcune vie commerciali che riguardavano il meridione di Fjerda e il settentrione di Ravka.
Alina Zoyaenva Nazialensky, il Frutto dell’Autunno,
tret'ya tsarevich. La ricordava come una bambina dal viso olisse, capelli castani come il legno d’acero, mossi come le onde del mare ed occhi azzurrissimi come le acque dell’Isenvee. Ricordava anche una risata gioiosa e la rivedeva pattinare sul ghiaccio di un lago senza remore, seguita dagli attenti occhi di una schiera di grisha vestiti in blu pavone, con decori argentati e verdi. Ricordava di non aver fatto una bella impressione alla giovane principessa.

“Vostra altezza reale! Vostra maestà!” lo aveva chiamato Stiorra immediatamente. Matthias si era voltato, incrociando lo sguardo con la ragazza hedjut. Infilata sotto una mantella rosso vermiglio, con le mani posate sull’oblò guardava con interesse il mondo sotto di lei, al suo fianco c’era l’istitutore di Mattias, l’unico uomo che fosse mai riuscito a convincerlo a studiare la geografia, era anche un bravissimo poeta, anche se le sue poesie erano racconti su amori dolorosi, che finivano in sangue, dolore e lacrime.

Si era avvicinata alla ragazza con curiosità, seguendo la direzione dei suoi occhi chiari. Davanti a lui si era aperto uno spettacolo magnifico, una landa di terra di dimensione vastissima, pareva un innaturale giardino del paradiso. Aranceti, limoneti, meli, ogni genere di albero da frutto, si estendeva in una lingua di terra che tagliava metà la terra, davanti e sotto di loro.
Tra i giardini e gli alberi apparivano piccoli edifici dalle forme di bolle, che si univano in punte aguzze, alcuni avevano anche un minareto. “Un tempo questa era la Faglia, dopo l’ascesa di Senje Zoya al trono di Ravka, la terra arida è fiorita” aveva raccontato il suo tutore, “Questo è capitato anche alle zone che erano state mangiate dal vampiro” aveva detto lo zio di Stiorra. “Djel e i Santi dovevano proprio approvare quell’incoronazione” aveva detto lui, secco.

Il popolo di Fjerda era stato felice di dover rimporre le armi, meno i suoi generali attempati, famelici di guerra e lontani dai campi di battaglia, che avevano giudicato aspramente la decisione dell’all’ora principe di cedere ad un trattato di pace, ma quando anche gli alberi di pesco erano cresciuti, miracolosi, nella morte anche loro avevano dovuto ammettere che Djel ed i suoi figli dovevano essere soddisfatti.

Il tributo del sangue era stato pagato.


“Un tempo c’era la vita, poi il nulla, poi la morte ed ora un miracolo” aveva esclamato Stiorra estasiata, incrociando le mani tra loro, colta dall’estasi vera. “Se posso permettermi mia signora, io non credo ai miracoli, credo alle gesta di cui sono capaci gli uomini, otkazat’sya o grisha” aveva detto il suo tutore lucido.

“Io no” aveva rimarcato lei, senza perdere quello sguardo sognante, “I grisha manovrare le materie, io posso creare ottime creazioni con ago e filo, ma quello, non potrò mai, mai, fare qualcosa di questo genere” aveva dichiarato onesta. Matthias aveva continuato a guardare il giardino delle meraviglie. Lo chiamavano l’Agroverde e sapeva che tra i giardini da frutto e l’erba erano state costruite anche chiese dedicate a vari Sankti, Alina della Faglia ed il Senza Stelle, il Cammino dei Pellegrini lo chiamavano, a Matthias sarebbe piaciuto farlo, forse Stiorra avrebbe voluto accompagnarlo. “Questo è il riassunto di Ravka! Non importa quanto sia ferita e sanguinate, rinasce sempre splendida” aveva detto sua madre, con un sorriso pieno di nostalgia. L’avevano ascoltata tutti, “Madre, sembri un po’ troppo innamorata di questo paese” aveva considerato Matthias, “Sono assolutamente innamorata di questo paese: ha un clima migliore, un cibo migliore e, santi, una poesia migliore” aveva replicato sua madre, senza perdersi d’animo, aveva sorriso piena di malinconia. “Potrei dissentire” aveva detto il suo istitutore.

“Inoltre, i ravkiani permettevano alle donne di cavalcare con le due staffe, lavorare e difendersi ben prima che cominciasse Fjerda” aveva insistito Stiorra. “Ma tu cavalchi con le gambe da un lato solo e l’unica arma che mai hai impugnato è stato il ferretto uncinato per l’uncinetto” aveva risposto Matthias. Stiorra si era voltata subito verso di lui, facendo oscillare i capelli riccioluti, erano stretti in due trecce, a sua volta fermati in girelle sui lati della testa, ma alcuni ciuffi particolarmente sfuggenti, cadevano come rami di salice. “Oh! Ovviamente, vostra altezza reale. Ma ho potuto scegliere. Adoro stare a bere tè con le signore, indossare bei vestiti e passare il tempo a cucinare le iniziali sopra i fazzoletti degli uomini importanti della mia famiglia. Spero di non dover mai prendere una pistola in mano e di non dover mai sparare un colpo” aveva chiarito Stiorra, “Ma sono grata ogni giorno di aver potuto scegliere come condurre la mia vita.”

Matthias era avvampato per l’imbarazzo di quelle parole. Il suo istitutore aveva scosso il capo, mentre con una mano nascondeva un sorriso poco lusinghiero per lui, il conte Karl era avvampato, “Stiorra!” l’aveva rimproverata, oltraggiato dal tono che sua nipote aveva utilizzato con il principe.
La regina Mila aveva sorriso, soddisfatta, “Ah, ragazzina, adoro la tua lingua” aveva considerato, poi l’aveva guardata con gli occhi azzurri intensi, “Quando ero giovane io non desideravo altro che smettere di essere la pavida ragazzina fjerdiana con gli occhi velati che non aveva coraggio di dire e fare nulla” aveva risposto la regina, mettendo comunque una mano intorno alle spalle di Stiorra, “Ma sono d’accordo con te” le aveva detto.

Stiorra aveva sorriso piena di soddisfazione, con gli occhi luccicanti, “Voi mi rende onore, maestà” aveva detto. La giovane fjerdiana era la Signora della Camera da Letto della Regina Mila, un ruolo prestigioso per molte donne, di solito veniva dato a rispettabili donne sposate o enke, di età vicina alla signora. Ma Stiorra aveva vinto il titolo conquistando con una risata la regina. Aveva venti-due anni e non era ancora sposata, si era evitata le Fanciulle della Fonte o altro, specie perché non le mancava nulla come ottima moglie Fjerdiana, aveva anche ricevuto inviti di matrimonio, nonostante non avesse mai debuttato nel suo Cuore di Legno. Matthias aveva la sgradevole sensazione che Stiorra aspettasse lui.

Doveva confessare di averci pensato, ma perché Stiorra era una persona carina ed andavano abbastanza d’accordo.

“Oh certo, senza dimenticare quel piccolo dettaglio insignificanti in cui i figli di Djel venivamo bruciati sul rogo” aveva aggiunto Stiorra. “Insignificante” aveva ripetuto Mila. Insignificante aveva pensato Matthias.

“Comunque, spero di poter vedere il Giardino della Regina” aveva attirato, poi, l’attenzione su di lei la ragazza, “Forse non sarà magico come i miracoli, ma dicono che il Re lo abbia riprogettato a mano per lei e che sia una delle opere architettoniche più belle del nostro tempo” aveva considerato.
“Dopo la corte di ghiaccio.”

“Ovviamente dopo la corte di ghiaccio.”

Matthias ed il suo istitutore avevano parlato all’unisono.

“Non credo possa esserci qualcosa di bello al Gran Palazzo. Amo Ravka ma quel luogo è un’offesa ad ogni buon gusto, perfino con i restauri post-guerra” aveva commentato sua madre, “Ma il giardino di Zoya è molto bello. Molto caotico qualcosa che non si addice a lei.”

 

Non erano atterrati ad Os Alta, non erano neanche atterrati vicino, sarebbe stato davvero preoccupate per i cittadini vedere un alio-nave fjerdiana atterrare alle porte della città.
Erano passati meno di quaranta anni dalla fine della guerra, dal primo poco plausibile concilio ad Os Kervo, al trattato post-Incoronazione, all’Accordo delle Tre Regine, un decennio. Certe guerre di confine non si erano fermate, erano diminuite, avevano cominciato a somigliare a guerriglie ed incuriosioni. Ravka e Fjerda, Os Alta e Djerholm potevano aver siglato la pace, ma esistevano genti, separati da un confine aleatorio che si erano odiati per secoli non erano disposti a lasciare andare il proprio odio. Ma avevano avuto il permesso di poter ammarare nel Reka, il fiume di Ravka, nei pressi del Vy la strada maestra che univa Os Alta a Kirbisk, un tempo necessaria per raggiungere Os Kervo.
Non dovevano più attraversare la Faglia, o il suo deserto, Vy era stata sostituita da NovaVy, una strada dritta che univa le due grandi città direttamente. Ma da quello che poteva vedere Matthias dal cielo, gli abitanti erano rimasti fedeli alle loro abitudini. Il Vy offriva molto. Uomini a cavallo, in carrozza, carri, anche pellegrini a piedi.

Un fiume umano che attraversava Ravka, per raggiungere la sua Capitale, proprio per il Secondo Ventennale.


“Il Reka non è troppo stretto per un ammarraggio di questa portata?” aveva chiesto preoccupata Stiorra. “Sarebbe stato sicuramente preferibile un atterraggio, ma lo Skära-vind non è progettata così” aveva spiegato subito Mila, “Ma andrà bene” aveva aggiunto con sicurezza, guardando i due giovani.
“Il Reka è abbastanza ampio da necessitare in alcune zone il trasporto a battello da una riva all’altra, quindi non è un problema, inoltre non atterreremo in corrispondenza della Vy, dove c’è la strettoia ed il ponte, ma più a sud, alla cataratta, dove l’acqua è profonda” aveva chiarito il suo insegnante.
“Sua maesta!” aveva chiamato uno dei gli uomini, era un grisha etherealki, indossava un’uniforme regolamentare dell’esercito fjerdiano, di una tonalità di blu notte, su cui era state aggiunte decorazioni argento, con i capelli rasati corti ed una barba appena accennata, più vecchio ed adulto di Matthias, “Abbiamo individuato il punto predisposto e stiamo procedendo con le manovre di riduzione di quota” aveva detto quello prontamente.

Sua madre aveva sorriso, “Grazie,  Ibe” aveva detto lei gentile, diplomatica aveva aggiunto, “Darò a tutti l’ordine di sedersi ai posti prefissati per non sbilanciare lo Skära” aveva aggiunto, prima di impartire l’ordine ad un soldato che si era prodigato nello spargerlo a tutto il velivolo.
Sua madre era andata verso una delle panche di legno, imbottita di cuscini e comodità, dove si era seduta al centro, Stiorra si era accomodata alla sua sinistra con un leggero nervoso sul viso e Matthias aveva raggiunto sua madre alla sua destra. “Legatevi bene con la fune” aveva spiegato la donna con imperiosità. Avevano seguito tutti e due l’ordine.

La discesa era stata improvvisa. Matthias aveva sentito la pressione nelle orecchie.
Stiorra si era lanciata in un urlo piuttosto spaventato, “Djel, proteggi la mia anima, Senje Adrik l’Assimetrico, Senje Demiyan proteggeteci!” aveva esclamato, stringendo le mani al petto, così tanto che le sue nocche erano diventate bianche. Sua madre si era voltata verso Matthias, con gli occhi blu pieni di aspettative. Non aveva avuto bisogno di parlare, aveva guardato le due mani, si era concentrato sulle sue dita e le aveva flettete e poi ripiegato, lo aveva fatto un paio di volti ed il terrore di Stiorra sembrava essersi ridotto. “Va meglio, tesoro?” aveva domandato Mila alla sua Dama della Camera da Letto, “Sì, mia signora. Fischiano solo un po’ le orecchie” aveva commentato Stiorra molto più rilassata. Mila si era voltata verso di lui, strizzando un occhio.

Matthias aveva sorriso, tornando a guardare le sue mani, corporalki, l’ordine dei vivi e dei morti, se fosse stato a Ravka lo avrebbero definito così, avrebbero dato a lui una kefta rossa, aveva indossato una camicia di quel colore apposta; ma quale decorazione avrebbe accompagnato i bordi.
Il nero degli heartrender? Il grigio degli healer? Probabilmente non il blu dei tailor – aveva dimostrato in più occasione di essere un pessimo plasmaforme, ma non importava. Sapeva di non essere come gli altri corporalki.

I suoi genitori avevano sempre detto, che il confine tra heartrender ed healer era assolutamente aleatorio, anche i tailor in effetti, sebbene quelli stessi si classificassero in una scienza a metà tra corporalki e materialki. La Regina Zoya infondo eccelleva in gran parte delle piccole scienze grisha. Matthias avrebbe voluto esercitarsi, molto, molto di più.


L’ultimo tratto di discesa della taglia-vento era stato più ripido, uno dei due etherealki aveva smesso di lavorare sul pallone, “Prepararsi all’impatto” aveva gridato lui, “Adda sta a te” le aveva detto.
Una soldatessa con l’uniforme blu con i decori verde-acqua, si era avvicinata al bordo della mano ed aveva sollevato le braccia come se avesse voluto abbracciare il mondo. Doveva star lavorando con l’acqua del Rava per assicurare che l’ammarraggio fosse più piacevole possibile.
“Ah, quanto saremmo state avanti con le drusjie, se non fossimo stati così ciechi” aveva ammesso Karl Espen, con espressione ammirata, davanti la schiena dritta della donna.

“L’importante è che poi siate migliorato, mio buon amico” aveva detto la regina Mila con calma.
Karl Espen, il nonno di Stiorra, era stato uno dei druskelle di Jarl Brum, era stato sul fronte di Ravka Est quando il Korol Renzi e la Senje Dreki avevano scatenato i loro spettrali miracoli.

 

L’ammaraggio era stato delicato, era stato come un leggero tocco, prima che la nave smettesse di ondeggiare. “Manovra completata, mia signora” aveva dichiarato Ibe con un tono professionale. Così Mila si era sciolta per prima dalla corda che la teneva saldamente seduta e si era alzata in piedi. C’era gioia sul suo viso, ma anche nervosismo.

Dei soldati avevano fatto scendere il ponte della nave, affinché si collegasse con il pontile che si dipanava dall’ansa. Erano saltati fuori subito per poter assicurare il ponte al meglio.
Il primo a scendere era stato Karl, “Così se ci fosse un aguato sarebbe solo questa vecchia cariatide a morire” aveva detto l’uomo, senza vergogna. Il viso segnato dalle rughe, i capelli un tempo biondi e fluenti erano sottili fili di bianco e grigio, radi, lasciando la calotta della testa scoperta. Nonostante il tempo lo avesse fiaccato, incurvato, quando aveva sceso il levatoio era stato fiero.
Lo aveva seguito uno dei nobili maggiore, membro del consiglio reale, accompagnato da una soldatessa. Stiorra era scesa tenendosi all’istitutore, lui e sua madre li avevano seguito, lasciandosi indietro altri soldati.

“Sono contenta che tu abbia deciso di indossare questa giacca rossa” aveva commentato sua madre, Matthias aveva sorriso, riconoscendo l’accezione di quella frase, ‘sono quello che sono madre. Quello che tu mi hai reso’ aveva pensato, ma le aveva solamente detto: “Sei bellissima mamma.”
Differentemente da suo padre, sua madre utilizzava la piccola scienza in quantità sempre inferiori rispetto quanto fosse auspicabile per una grisha, per essere sana, per essere forte, ma sempre abbastanza perché il suo volto non traducesse in maniera corretta la sua età. Matthias sapeva che suo padre fosse un grisha, uno estremamente talentuoso – nato healer ma divenuto tailor – ma sua madre era eccezionale. Unica nel suo genere.

Sua madre aveva sorriso, “Ovviamente! Mi sono fatta aggiustare un po’ da tuo padre, pare che Zoya non sia invecchiata di un giorno” aveva scherzato Mila. “Sei proprio contenta di rivederla” aveva valutato Matthias, pensando che ogni volta che il viso di sua madre si illuminava le volte che aveva incontrato la regina di Ravka, “Sì, molto” aveva ammesso sua madre, “Zoya è sempre stata una persona importante per me, avrei voluto vederla più spesso questi anni” aveva dichiarato, mentre mettevano piede sulla terra, dopo aver attraversato il pontile.

Sue magnificenze” aveva detto l’uomo che gli aveva accolti, doveva essere sulla sessantina, come Karl, aveva gli occhi liquidi e a pensiero di Matthias, mancava il mento, come se il viso ed il collo fossero un unico blocco. Indossava una redingote datata di un pervinca accesso, tempestata di piccole gemme. “Vadik! Mi chiami addirittura Magnificenza!” aveva detto la regina con una punta di acredine nulla voca, “Lo sai, Fetla” sua madre si era rivolta a lui, utilizzando quel soprannome che gli aveva dato da bambino: Uccellino, non era molto principesco, ne molto imperioso.  “Quando ho conosciuto il nobile Demidov, lui mi aveva a malapena notata. Ero con tuo padre, sai” aveva raccontato Mila con confidenza divertita.

“Uno dei miei molti errori di gioventù, maestà. Il veleno dell’Apparat non avvelenava solo il mio cuore, ma anche la mia vista” aveva risposto bonariamente l’uomo senza nessun turbamento, prima di passare alle presentazioni.

Il signor Demidov era un nobile, appartenente alla famiglia Lastov, non era venuto da solo, alle sue spalle erano presenti diverse persone, alcuni con la kefta verde, che aveva confuso Matthias, altri con kefte più tradizionali, con i bordi decorati. Alcuni di loro si erano fatti avanti, una splendida grisha di massimo una ventina d’anni corporalki – Matthias aveva avuto un tremore davanti il colore sanguigno del vestito – dall’incarnato olivastro, con capelli biondo cenere, ricci, lunghi fino alle spalle, il suo aspetto era  gradevole .“Luogotenente Meesha Effimov”, un altro era un uomo che non poteva avere più di quarant’anni, con un’espressione serena ed ammirata, particolarmente verso Mila, con occhi chiari e capelli neri, indossava una kefta verde basilico, a tinta unica, con alcune medaglie sul petto, “Maggiore Generale Aleksander Hrapovitzki” aveva detto Demidov, prima di presentare l’ultima persona, era una giovane donna, forse di pochi anni più grande di Matthias e Stiorra. Era una civile, come si poteva riconoscere dal vestito riccamente decorato, che le stringeva sul busto e cadeva morbido sui fianchi, con uno scollo generoso. Aveva gli occhi porcini, il viso rosa, agghindato con molto trucco e capelli biondi pieni di ricci. “La nobile Tatiana Dubrovin” aveva detto in ultimo Demidov.
Tatiana si era esibita in un inchino molto generoso, pieno di rispetto, per quanto i suoi occhi scuri non avevano mai lasciato un punto. Matthias si era aspettato fosse lui, o sua madre – tutti guardavano la buona Mila – ma lei era stata interessata al suo istitutore. “Sua maestà la Regina Drago Zoya si rammarica di non esser potuta vedere di persona, ma vi è assicuro che è pregna di gioia della vostra visita. Sua maestà ha fatto predisporre dodici carrozze e quaranta uomini per scortarvi” aveva dichiarato Dubrovin. “Quarata uomini? Si aspetta che veniamo attaccati?” aveva chiesto Karl, “No, certo che no, Fjerda è nostra amica. Solo che sono molti i pellegrini che si stanno riversando alla capitale per i festeggiamenti” aveva spiegati quello. “Mi chiedo perché non si siano fatti nell’Agroverde” aveva chiesto Storria, il suo ravkiano non era eccellente, ma era ancora comprensibile. “Li abbiamo festeggiato il decimo e venticinquesimo anniversario e, presumo, anche il cinquantesimo” aveva considerato annoiato Demidov, “Ma quelli nella capitale sono festeggiamenti più intriganti, potete scommetterci, inoltre, sono previste anche gite a
Lazlayon” aveva detto molto più estasiato.

“Spero in molto cibo. Adoro Fjerda: ottima musica, ottimi balli, ma cibo mediocre” aveva dichiarato la regina facendosi prendere sottobraccio dal nobile ravkiano. “Penso che tu abbia fatto colpo egregio” aveva sentito Stiorra ghignare al fianco dell’istitutore, che era ancora oggetto dell’interesse della nobile Tatiana, “Ma cosa vai dicendo, screanzata” si era difeso debolmente l’uomo, pieno di nervosismo. Matthias aveva osservato quella scena, senza il giusto interesse, attirato più dalla donna corporalki. “Sei … lei è una healer” aveva detto, pieno di imbarazzo, affiancandola. “Sì, sua altezza reale[3]” aveva risposto Meesha con gentilezza, le maniche, così come il collo, della sua kefta avevano decorazioni con volute e fili intrecciati di grigio scuro. “A Fjerda i grisha non indossano le kefte, però abbiamo adottato i colori” aveva dichiarato Matthias non del tutto certo delle sue parole, non era mai stati un chiacchierone, nonostante i suoi genitori lo avessero spinto più volto a fare discorsi in pubblico. Si era sentito stupido l’attimo dopo aver parlato e si era sentito così nudo con la sua giacca rossa indosso.

“Be, se mi è concesso; lo trovo comprensibile. Rivelo le kefte molto scomode e poco pratiche, sono un retaggio vecchio ormai di secoli, per rappresentanza sono molto belle, ma per i combattimenti meno” aveva risposto Meesha, stupendolo.  Matthias le aveva sorriso, “Luogotenente Effimov, giusto?” aveva ripetuto lui, per esserne sicuro, “Sì, sua altezza reale” aveva risposto lei con un tono rispettoso, inchinando la testa e facendo oscillare i capelli ricci, voleva chiedere altro ma non sapeva esattamente come. Si era accompagnato luogotenente Meesha Effimov in silenzio, era più bassa di lui di statura, ma aveva una fierezza quando camminava che faceva sentire Matthias piccolo. “Pensavo che gli healer non avessero un ruolo predominante nell’esercito” aveva buttato fuori, la ragazza aveva spostato una ciocca di capelli dietro un orecchio, con un movimento lesto, “Non sono sicura di poter dare informazioni sull’esercito ad un principe straniero” aveva considerato, ma non c’era nessuna accusa nella voce, aveva avuto comunque l’effetto di arrossare le guance bianche di Matthias. Demidov lo aveva salvato quando aveva annunciato ben felice il loro arrivo alle carrozze.
Splendide, alcune da due, altre da quattro posti, bianchi, con decori azzurri, sembravano quasi ricamate, ognuna di esse era tirata da una coppia di splendidi cavalli, alti, potenti, erano pezzati, ma non per questo meno belli.

“Oh, spero ci siano dei waffle ad attendermi” aveva detto la regina di fjerda, Tatiana aveva riso, la sua voce era squillante e poco gradevole, “In effetti sì, sua maestà. Il Generale Saffin lo ha raccomandato due volte” aveva confidato svelta la nobile.

 



[1] Per ovvie ragioni (in primis perché Hanne stessƏ nel finale sembra identificarsi in uomo) ci si rivolgerà ad Hanne al maschile. Oltre ciò, sebbene ho visto praticamente il fandom adottare il nome “Ilya” trovo molto improbabile che il Re di Fjerda possa assumere il nome di un Santo Ravkiano, specie dopo aver firmato un trattato di pace che ha scontentato mezzo regno, perciò ho pescato il nome di un santo fjerdiano. Nella storia spiegherò perché proprio quello.

[2] Si, sì, in pratica ho riciclato la storia di Giustiniano e Teodora. Comunque, Hanne&Nina hanno preferito utilizzare la versione Teodora-Giustiniano, mentre per le malelingue Nina somigliava più ad Hurrem/Roxelania con Solimano (una che è passata da essere una schiava alla sultana dell’Impero Ottomano). Insomma, viva la storia!

[3] Ho deciso in maniera del tutto arbitraria che i Ravkiani usano il LEI, mentre i Fjerdiani il VOI. So che in inglese non è così, ma non so, mi piaceva che ci fossero delle differenze.

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Capitolo 6
*** Vasilissa I (40 DF) ***


Questo capitolo è cronologicamente anteriore al precedente, ma di poco – qualche giorno.
Non ho una beta. Help.

 

Vasilissa
(40 anni dopo la disgregazione della faglia)

 

Erano solo all’ora di pranzo e Vasilissa si doveva dichiarare stanca; non c’era da stupirsi, il palazzo era in completo subbuglio in quei giorni. Non esisteva nessun cameriere, inserviente e domestico che non stesse vivendo giorni di pure fiamme.
Genya Safin aveva spiegato tutto il reggimento dei domestici del Gran Palazzo – ed anche del Piccolo – per la preparazione della festa.
L’Anniversario dei quaranta anni della Disgregazione della faglia, della Fine della Guerra Civile e, il più importante, la Riunificazione di Ravka.
Vasilissa era entrata cheta e con un passo felpato come quello di un gatto nella camera, per raccogliere la biancheria sporca.
Non era entrata in una stanza, ma in veri e propri appartamenti. Un salottino da ricevimento, grande due volte la stanza di Vasilissa, era separato da due ampie porte in frassino bianco – lasciate spalancate – verso un corridoio stretto, accompagnato da candele, in quel momento spente. C’erano tre porte, che conducevano ad un bagno privato, uno studiolo e una stanza per la notte, abbellita da un armadio imponente ed un grande letto a baldacchino.  I tre ambienti erano collegati tra di loro da fenditure nel muro, ma l’unico modo per accedervi era la porta bianca. Quando era chiusa, erano solo poche le persone autorizzate ad aprirle, fisicamente proprio; la serratura era stata opera di un fabrikator.
Vasilissa si sentiva sempre rapita dalla bellezza assoluta di quelle stanze.
Sua madre aveva sempre lavorato al Gran Palazzo come cameriera ed anche suo padre, come valletto, lei era nata in quel luogo, certo non in quella stanza, decisamente molti metri più in basso, ma era nata lì, nel Gran Palazzo, come gli tsarevich. Aveva avuto persino un guaritore grisha come ostetrico, ad aiutare sua madre, già che aveva avuto la sgraziata idea di rovesciarsi nella stanza.
Così era cresciuta lì, tra quei lussi e ricchezze che le sembrano assolutamente inarrivabili. Aveva guardato con dolcezza un tavolino basso, perfettamente livellato di un castano pallido, come le ossa, di un ovale perfetto, con le gambe curve e i piedi da leone. Sopra era posata una tavola di marmo giallo crema, screziato d’arancione, come una gemma d’ambra.
Affianco al tavolino, c’erano due divanetti ad angolo. Una era un’ottomana, l’altra era invece con schienali e braccioli. Sul divanetto, con i cuscini pacchiani su cui era cucito fiori d’uncinetto, aveva osservato un indumento. Inizialmente aveva pensato fosse una vestaglia da notte, ma era invece una blusa di velluto, per ampiezza doveva essere da uomo, ceruleo, con dei fini decori arancio, sul colletto e bottoni d’osso. Così aveva notato dietro il divano dei pantaloni eleganti, li aveva recuperati ed infilati tutti e due nella cesta.
“Buongiorno Lissa!” si era sentita chiamare.
Lei si era voltata leggermente turbata, gli unici due precetti che la governante Elizaveta ed il maggiordomo Karl si erano sempre e solo raccomandati di essere quanto mai più silenziosa possibile. I servi nel Gran Palazzo dovevano essere tutti fantasmi, assolutamente invisibili, tranne quando richiesto.
Aveva incontrato il viso d’ambra, incorniciato negli umidi capelli corvini arricciati di una donna.
Moya Tsaritsa! Buongiorno! Non volevo disturbarla” aveva detto chinando il capo in un’ampia riverenza. Si sentiva piena di disagio, per un secondo era stata sul punto di dire che non si fosse aspettata la presenza della regina lì, nelle camere. Certo, secondo le consuetudini settimanali che aveva imparato a mena dito, da quando aveva cominciato a sgambettare per portare il tè, sapeva che di norma, in quei giorni, la regina avrebbe dovuto trovarsi ancora nella Sala delle Udienze ad ascoltare nobili e popolani, con le loro rimostranze. Inoltre, non c’erano guardie davanti la porta.
“Stai ancora sostituendo Marius’ka?” aveva domandato la regina con tranquillità. Sua madre aveva detto a Vasilissa che quel comportamento, conoscere il nome e le storie della servitù, era qualcosa che la Regina aveva ereditato da suo marito, cosa che a Vasilissa sembrava molto intelligente da fare, bisogna conoscere le persone che ti stavano sempre a torno. “Sì, il parto la ha destabilizzata un po’, moya tsarevica” aveva ammesso, pensando alla ragazza più grande che si era presa dei giorni di malattia per il bambino. La regina aveva avanzato un passo verso di lei, indossava una vestaglia da notte di un color cipria, con decorazioni a volute floreali color argento.
Era una donna più vecchia della madre di Vasilissa, di qualche anno, ma di una bellezza stregante, le età invisibile su un volto, che pareva ancora bellissimo, e giovane. Sapeva che certi Grisha invecchiavano con una lentezza inumana, si diceva che alcuni di essi smettessero di farlo, addirittura, i più potenti. Ed esisteva qualcuno di più potente della Regina Drago?
“Non ti stancare troppo, moya milaya potrebbe risultare persa senza di te” le aveva detto con calma serafica la donna. Era sempre difficile interpretare la regina, il re era un uomo sempre gentile, gioviale, con un sorriso accattivante, mentre lei, potente e fulminante, pareva sempre tesa. “Nazyalensky lo sai che non provo vergogna, ma inizio a non avere più l’età per stare nudo senza far niente!” aveva sentito una voce chiamare dalle spalle, da una delle stanze – la camera da letto.
Vasilissa era arrossita fino alla punta dei capelli, “Perché non raggiungi la principessa, per assicurarti che arrivi in tempo a pranzo, pettinata possibilmente?” aveva chiesto con nervosismo la regina. “Tutto quello che desiderate” aveva risposto Vasilissa prima di congedarsi, portandosi via la camicia e i pantaloni del re. Tutto quello che aveva sentito, prima di chiudersi la porta delle stanze della koroleva alle spalle era stato un ringhio degno di un rigido, “Per tutti i Sankti, Nikolai!” aveva sentito strepitare.

Aveva portato gli indumenti a Cignez, che si occupava di tutto il bucato, più pregevole. “Dove è il resto?” aveva domandato, osservando solo i vestiti del re, “La regina stava ancora utilizzando la biancheria da letto, quando sono entrata” aveva commentato con voce colma di imbarazzo, “Oh” si era lasciato sfuggire Cignez, era un ragazzo-uomo, con le gote rosse come mele mature e gli occhi neri intriganti, dalla forma allungata come un ragazzo shu o del meridione ravkiano. “Io credo fosse in dolce compagnia del Re” aveva azzardato Vasilissa.
Non aveva visto l’uomo, ma riconosceva la blusa come una di quelle che indossava di solito il sovrano, oltre, che ovviamente il suo nome.
Era strano, ma gradito.
C’era stato un certo allontanamento tra i due sovrani, almeno all’interno delle camere da letto, qualche anno prima il re consorte aveva fatto spostare gran parte delle sue cose dagli appartamenti della regina a quelli che tecnicamente erano i suoi.  In pubblico, nel consiglio, nella vita pubblica e politica erano rimasti una coppia affiatata e coordinata. Pragmatici, anche.
Ravka non aveva saputo nulla, il mondo intero neanche.
In realtà nessuno aveva saputo, neanche nel palazzo si era arrivata ad una risposta.
La regina non aveva preso amanti, né il re aveva anche solo mai guardato un’altra donna. Si erano solo allontanati.
Cignez aveva battuto le palpebre, poi aveva sorriso, compiaciuto come un gatto su un cuscino, “Forse, forse, il quarantesimo anno della Ravka unita, li ha ricordato i loro legami passati” aveva proposto quello.
“Mio buon, Cignez. Io ho smesso di chiedermi cosa e perché, molto tempo fa” aveva risposto lei.
Quello aveva annuito, prima di guardare la blusa di velluto.
“Comune, piccola, Lissa hai preso solo i vestiti del re?” aveva chiesto, “Si, certo” aveva risposto Vasilissa come se fosse stato ovvio; Cignez aveva ridacchiato.
“Allora speriamo che il Korol Renzi abbia degli abiti di scorta negli appartamenti di sua moglie o dovrà girare per il palazzo, avvolto nelle tende del baldacchino … di nuovo” aveva replicato l’uomo.
Vasilissa era rimasta muta e colta dalla vergogna, sapeva che era avvenuto una volta, ma lei a quei tempi, passava le giornate in cucina rubando le carote sbucciate dal cuoco; “Non chiamarlo così” era riuscita a dire alla fine, per quanto il rimprovero, con gli anni, fosse diventato sterile.
Il re stesso non era sembrato più provato da quell’orrido soprannome.


Pensava di doverlo raccontare alla principessa, probabilmente sarebbe stata contenta. Così con quel pensiero – e l’ordine di aiutare la nobil donna a prepararsi – Vasilissa si era diretta nel Corridoio Principesco. Era chiamato così, perché nel corso degli anni, le camere dei principi di Ravka avevano occupato quelle stanze, una volta trasferiti dal nido – proprio di fianco gli appartamenti della regina. Il Corridoio Principesco era in una guglia del palazzo; un corridoio raggiungibile solo da una porta nota, se non si conoscevano i passaggi segreti
Ormai a vivere in quella lungo androne, con pavimenti cesellati, ritratti di Sankti ed eroi mitologici, c’era solo la Tret’ya Tsarevich.
La maggiore, che aveva lasciato le camere quando aveva avuto otto anni, quasi non ci aveva abitato – a dir si voglia – per occupare degli alloggi al Piccolo Palazzo, non aveva mai fatto ritorno al Corridoio Principesco. Dormiva ancora nel regno dei Grisha, in vero. Vasilissa sapeva avesse solo cambiato alloggi, in uno dove potesse stare comodo anche il principe consorte, anche se sera un Otkazat'sya e i loro due figli.
Lei aveva sentito parlare le due principesse di spostare quando avesse avuto l’età adatta uno dei bambini lì, ma la madre non aveva affatto interesse nel separarsi da alcuno dei suoi figli.
 Il principe invece, il mezzano, tecnicamente, in quei giorni era tornato ad abitare quegli alloggi, ma li aveva lasciati in precedenza, da giovane per girare il mondo.
Quando Vasilissa era passato davanti alla sua stanza, aveva trovato invece dei due soldati di consueto, la guardia adibita ad assicurarsi che nessuno entrasse per vili fini. Lui l’aveva salutata con diligenza, lei aveva ricambiato, scavalcandolo e continuando.
La terza principessa aveva la camera più lontana.

“Buongiorno Malachi, buongiorno Lukyan” aveva salutato le due guardie di palazzo, ritte come pali davanti la porta della principessa. Malachi indossava un’uniforme nera da oprichnik, segno del suo elitarissimo, riguardo all’altro uomo vestiva un informe da soldato solo declinata in un bianco candito con decorazioni viminee color oro. Lo stesso schema di colori del sarafan di Vasilissa.
“Buongiorno signorina” lo aveva salutato con garbo Malachi facendosi da parte, “Sho sol, Koja Lissa. Oggi sei più bella delle tselai” le aveva detto sfacciato Lukyan.
Vasilissa era arrossita, prima di aprire la porta della terza tsarevich, prima di scivolare dentro.
Lukyan era gradevole alla vista, alto, con occhi nocciola luccicanti e capelli scuri come il mogano. Presa da quel pensiero, non si era accorta delle condizioni indecenti della camera.
Per poco non era inciampata nei volumi e nelle carte sparse per terra. “Sho Sol! Lissa” aveva dichiarato la principessa vivace. “Moya Tsarevich!” aveva esclamato Vasilissa non vedendola.
La ragazza era comparsa da sotto un mucchio di coperte. “Eccomi, eccomi!” aveva esclamato la ragazza. “Cosa è successo qui?” aveva chiesto atterrita Vasilissa, guardandosi intorno, “Ieri era tutto perfetto” aveva guaito, ricordando la gran dedizione che ci aveva messo.
Vasilissa era partita come cameriera, ma con il tempo era diventata la cameriera personale della principessa. O così era da che le avevano trovato a giocare a campana in uno dei cortili interni; la nobile signora aveva tre anni in meno di lei, ma erano cresciute insieme. Ricordava sua madre sconvolta tirarla via, piena di vergogna, mentre bofonchiava scuse. Vasilissa, come la principessa, non comprendevano. “Non preoccuparti, le ragazze stavano solo giocando” aveva dichiarato il Re consorte con la sua calma e dolcezza irresistibile.
“Si, scusa, Lissa! Potrei essermi fatta prendere la mano, ieri sera non avevo sonno!” si era giustificata Vasilissa, “Poi ovviamente mi sono addormentata per terra e, sankti, che ore sono? Ho perso la colazione e le udienze. Mamma sarà infuriata” aveva dichiarato la principessa come un fiume in piena.
“La regina non è arrabbiata” aveva stabilito Vasilissa, spostando con un piede quelle che aveva tutta l’impressione fossero la raffigurazione di un vasto bosco. “Dici?” aveva chiesto la principessa, “No, era terribilmente rilassata” aveva ammesso la cameriera. Colma di imbarazzo.
“Allora mia sorella sarà furiosa con me” aveva considerato la principessa.
Quello era più probabile. “Ma cosa è successo qui?” aveva chiesto Vasilissa, chinandosi per raccogliere alcuni vecchi volumi. La principessa l’aveva guardata con gli occhi blu splendenti, soddisfatta di quella domanda, prima di cominciare a sciorinare come risposta: “Be, ieri sera Juris insisteva con questa fiaba che aveva sentito da suo padre, che mi aveva dato da pensare; quindi, ho iniziato a fare delle ricerche …”
Vasilissa aveva smesso di ascoltarla, preferendo concentrarsi maggiormente nel rimettere in ordine quel caos che era esploso nella camera, sembrava che fosse passata un’orda di volcra.
“… è così mi sono concessa ad un’orgia selvaggia con il ministro Babin nella Cappella principale sotto lo sguardo dell’Apparat!” aveva terminato soddisfatta la principessa, piombando sul letto.
I capelli neri sparsi in ogni direzione, con indosso ancora i vestiti del giorno prima, con la camicia di cotone ed i pantaloni spessi. “Molto interessante, principessa” aveva mentito Vasilissa senza perdere un briciolo di credibilità, “Aspetta: hai detto orgia selvaggia?” aveva sputato fuori, dimenticato tutta l’educazione e il modo formale a cui doveva rivolgersi.
“Sì lo ho detto, sì mentivo. Le mie avventure sentimentali iniziano e finisco con tu-sai-chi durante l’ultima festa del burro, dopo troppo kvas. E solo che avevo l’impressione non mi stessi ascoltando Lissa” aveva detto la principessa con un po’ di imbarazzo.
Vasilissa e la principessa Alina avevano ecceduto con le scorte di kvas rubato e questo si era tradotto in un comportamento decisamente inappropriato. La principessa si era concessa qualche bacio molto audace con una grisha del Piccolo Palazzo ed anche lei, solo che non era stato né con un aitante soldato, né con qualche domestico, o popolano, ah no, un bel giovane nobile, da cui lei era stato consigliato di stare alla larga.
“La regina mi ha comandato di aiutarla a prepararsi per pranzo” aveva comunicato alla fine Vasilissa, “Una volta eri più simpatica” le aveva detto senza malizia o reale cattiveria la principessa, “Anche tu” aveva risposto di getto lei, “Volevo dire: mi dispiace, moya tsarevich” aveva aggiunto, senza volersi realmente correggere con una pesante riverenza.
La principessa le aveva lanciato un cuscino, senza grazia, “Va bene, mi sistemerò per il pranzo, ma non metterò quello stupido vestito pervinca che Genya mi ha fatto fare” aveva considerato con nervosismo la principessa. “Per i sankti, direi proprio di no, è orrendo” le aveva detto Vasilissa, comprensiva. La principessa aveva riso, piena di gioia. “Giuro una volta aveva più buon gusto, sai quella cosa che i grisha sono longevi e compagnia? Credo si cristallizzino, anche nella moda” aveva dichiarato Alina, spietata.

 

Avevano ordinato i capelli della principessa, e non senza fatica, in una coda cavallina, che la faceva apparire più alta e slanciata di quanto non fosse. Non aveva indossato l’orrido vestito viola, né alcun altro tipo di vestito abitudinario delle donne. Aveva indossato una redingote blu brillante a doppio petto, con i bottoni di madreperla e code a rondine; con maniche plissettate alle spalle, aderenti al braccio e svasata sulle mani. Pantacalze bianche e stivali di cuoio neri, lucidi, fino al ginocchio. Decisamente più in linea ad un giovane signorotto che una principessa.
Vasilissa aveva visto la giovane principessa avanzare marziale nelle stanze, senza aspettare di essere annunciata, fino alla camera privata del pranzo, quello dove la famiglia, e gli stretti, si riunivano.

 

La cameriera aveva osservato mentre la principessa scivolava su una sedia, accanto a suo fratello, il principe, che si era sporto per darle un bacio delicato sulla nuca. La tavola contava non pochi avventori: la regina, suo marito, i loro tre figli, i due figli della maggiore – due piccoli ed esuberati pesti – mancava il principe consorte, c’era il generale Safin con i capelli rossissimi, proprio alla destra della regina.  Sedevano anche i due gemelli Baatar, con la moglie di uno dei due che sedeva in mezzo, una brillante grisha etherealki con tutte le carte per essere materialki. C’era il ministro dell’agricoltura, una grisha materialki con i capelli pieni di boccoli e l’ambasciatrice di Novy Zem.
“Quindi Nikolai c’è un particolare motivo per un tuo così divertente vestimento?” aveva chiesto Genya Safin sfacciata, mentre sedeva alla destra della regina, proprio di fronte al re.
Nikolai Lantsov, re consorte di Ravka, indossava una camiciola, con le maniche svasate con i fronzoli di un celeste tenue, in contrasto con dei pantaloni piuttosto vivaci, come se fossero stati indumenti pescati alla rinfusa. “Questa mattina mi sono svegliato creativo, Genya” aveva risposto lo tsarin con un sorriso accattivante. “No, sai quel tipo di camicia è passata di moda” aveva insistito la grisha, con espressione luccicante nell’unico occhio sano, “Nulla di quello che indosso passa mai di moda” aveva risposto l’altro con un sorriso soddisfatto da gatto sornione.
“Oh, Alina ben arrivata, sei in ritardo” aveva dichiarato la principessa Liliyana con un tono di voce duro, quando aveva visto la sorella minore.
Le due si somigliavano, avevano lo stesso incarnato color olivigna, i capelli della principessa ereditaria erano di un nero più profondo, come onice lucido. La morbidezza dell’infanzia che spiccava in Alina, nella futura regina però si era completamente assorbita. La Tsarevich Liliyana
Nazyalensky era una donna fatta e finita, fatta di ferro grisha. Invece, degli abiti principeschi richiesti dal suo ruolo indossava la kefta più finemente realizzata nella storia dei vestimenti.
Blu marino, con le maniche così lunghe da strusciare per terra, con decorazioni argentee e azzurre di ben tre sfumature diverse, che si inerpicavano dai bordi delle maniche, fino ai gomiti, fiorivano dal colletto e si diramavano sul petto.
L’unica cosa che rompeva quel suo aspetto di bellezza assoluta erano alcune cicatrici sottili e bianche che correvano lungo i palmi, sulle giunture delle dita e che, Vasilissa non poteva vedere in quel momento, ma sapeva, percorrevano l’avambraccio fino ai gomiti.
Una volta Vasilissa aveva sentito dire il Re che avrebbero Lilyana la Koroleva Renzi.
“Scusami moya sestra” aveva commentato Alina, colta di sorpresa, “Non tormentarla troppo” si era inserito Dominik, il figlio mezzano.
Quando Vasilissa era stata bambina, il principe era stato il ragazzino più bello di Ravka. Aveva nove anni, quando Dominik, sedicenne, aveva abbandonato le stanze del palazzo per dedicarsi a studi più fruttuosi, ma da quel momento era tornato in terra natia diverse volte. Ogni volta che lo aveva visto tornare le era parso sempre più attraente.
Somigliava a suo padre, condividevano il sorriso argentino, il naso, lo sguardo smaliziato, così come i riccioli biondi. Aveva però gli stessi occhi blu zaffiro della regina, come quelli di Alina.
“Anche tu, mi avete lasciato a fare le udienze completamente da sola” si era lamentata. “Be, un giorno sarai regina, sarà tutto sulle tue spalle, dolce sorelle!” aveva ghignato lui.
Liliyana l’aveva guardato con un certo biasimo, “Inoltre, ho intrattenuto i tuoi piccoli malachi!” aveva dichiarato il principe, raccogliendo proprio in quel momento il più piccolo dei due principi, aveva poco più di un anno. Il bambino più felice del mondo, con guanciotte grasse e tonde e gli occhi vispi e bellissimi, con un incredibile attitudine a scatenare piccolo tornado quando piangeva.
“Bambini, smettete di litigare” li aveva richiamati con un’ammonizione quasi divertita la regina. I suoi capelli erano asciutti, indossava un abito elegante, ma sopra una kefta raffinata. Era strano guardarla, dietro la bellezza regale e fulgida, appariva … umana, quando gli occhi si riempivano d’amore, per quei tre principi.
Vasilissa si era congedata con quella scena, con Juris, l’altro piccolo principe, che correva per sedersi sulle gambe di Alina, mentre la principessa Liliyana si lamentava con sua madre di qualcosa. Genya Safin aveva pungolato ancora sua maestà il re, per il suo abbigliamento sconveniente.
Alina non le aveva chiesto di unirsi a loro, aveva smesso da un paio di anni, da quando ostinatamente Vasilissa aveva continuato a defilare le sue offerte, nonostante desiderasse.

 

 

Vasilissa aveva continuato a fare i suoi doveri, come cercare di mettere in ordine definitivamente la stanza della principessa.
Anche senza le due guardi abituali, c’erano sempre qualcuno a pattugliare i corridoi, per questo viveva con quello strano senso di tranquillità – nessuno attaccava il palazzo da più di un trentennio – per questo si era lasciata cogliere da un urlo inaspettato, quando si era sentita prendere per il braccio.
Ritrovandosi infilata in una stanza delle scope e delle altre rifornimenti. “Yusuf!” aveva dichiarato quando aveva riconosciuto l’aiuto cucina. Un ragazzo giovane, dal naso piatto, gli occhi scuri, di origine suli.
“Santi, Lissa! Ho fatto un casino!” aveva dichiarato lui.
“Be, ovviamente, o non mi avresti rapito” aveva sputacchiato lei, quando lui aveva tolto la mano. “Ho conosciuto una ragazza, Ania’ka, davvero, fantastica, bellissima, piena di luce” aveva raccontato. “Sono contenta per te, Jusuf” aveva ammesso Vasilissa decisamente confusa da quella confessione. “Ecco, Ania’ka è fidanzata con un altro uomo, con cui dovrebbe sposarsi” aveva ammesso alla fine, “Sì, lo so. Anatov che lavora nelle stalle” aveva considerato lei, se avesse pensato ad una Anya fidanzata avrebbe immaginato fosse quella.
“No, non è Anya Kamirazin!” aveva dichiarato Yusuf confuso, “Peccato, Anya è dolce e carina, ma Anatov effettivamente potrebbe ucciderti con un rastrello” aveva considerato Vasilissa.

Jusuf aveva fatto schioccare le labbra, “Sarebbe meglio lo stalliere. Comunque, Anyaka la mia, non quella di Anatov, deve sposarsi tra due settimane” aveva spiegato.
“Cosa mi stai per chiedere, Yus’ka? Di aiutarti a fuggire? Di parlare con i genitori per interrompere il fidanzamento?” aveva chiesto lei, con leggera apprensione. “Ania’ka è incinta” aveva esclamato Yusuf, lasciandola di stucco, “Congratulazioni?” aveva ipotizzato Vasilissa, “Bellissimo, sì, ho sempre desiderato dei bambini, ma avevo sempre voluto sposarmi prima e non rischiare di essere accoltellato alla schiena o sfidato ad un duello mortale. Io so cucinare, chiedimi di avvelenare qualcuno, ma combattere?” aveva esclamato quello allarmato.
“Mi stai per chiedere di aiutarti ad organizzare un matrimonio a sorpresa? Racimolare una dote ed evitare un incidente?” aveva chiesto Vasilissa.
“Tutte assieme?” aveva proposto il suo amico, “Io ho dei soldi da parte, ma so cosa penseranno, sono uno sguattero suli, mentre lei è … figlia di mercanti” aveva buttato fuori.
“Non è Anya Karkoff, figlia del Signore della Seta? Quella fidanzata con il giovanissimo duca di Os
Grevyakin” aveva considerato lei, con un moto di preoccupazione. Specie perché conosceva il giovanissimo nobile!
L’espressione sul viso di Yusuf si era mostrata terribilmente esplicativa.

 

“Sai Lissa, non capisco tutti questi problemi! Genya sta organizzando tutto questo per il secondo ventennio, quando tra dieci anni dovrà organizzare una cerimonia ancora più imponente per il Giubileo della Riunificazione e dopo qualche anno ci sarà anche quello dell’incoronazione di mia madre!” aveva dichiarato con un tono di voce distrutto la principessa Alina, chiamata così in onore della Sol Koroleva.
Vasilissa aveva sciolto il nastro dai capelli di Alina, con un movimento gentile, lasciando cadere i capelli morbidi sulla schiena. “Inoltre, sono nervosa, credo che mia sorella voglia trovarmi un marito! Altrimenti perché invitare tutti giovani pretendenti da Fjerda alle Colonie del Sud?” aveva chiesto Alina con nervosismo.
“Non le piacerebbe sposarsi, Moya Tsarevich?” aveva domandato Vasilissa, pensando a Yusuf e le nozze che dovevano essere evitate nell’immediato. “Con un uomo che vorrà che io metta una gonna, impari a cucire e sorridere a comando?” aveva chiesto retorica la principessa, “Perdoni la mia imprudenza, ma né la Regina né la Principessa mi sembrano così costrette” aveva considerato Vasilissa.
Era difficile parlare con Alina a volte, erano cresciute insieme, quasi coetanei e a quei tempi mentre si divertivano per il Gran Palazzo, correvano assieme, sembravano uguali, ma con il tempo, Vasilissa aveva dovuto ricordare il suo ruolo, anche nel modo di parlare.
Era difficile non scivolare con un tu, di tanto in tanto.
Alina aveva sbuffato, “Ovviamente, ma loro sono la Regina e la Principessa … e sono grisha, grisha. Mia madre può trasformarsi in un drago, mia sorella può creare un tornado, mentre io sono un’abbandonata” aveva dichiarato con voce secca.
Vasilissa l’aveva guardata seriamente, certa di avere un cipiglio sul viso; incerta su come dover dosare la cattiveria che le era ribollita nelle viscere.
Amava Alina, come la sorella che non aveva mai avuto e come l’amica con cui aveva condiviso ogni cosa. Amava Alina, ma a volte, aveva l’impressione che il loro mondo di facesse sempre più distante. Una frattura inguaribile.
Era la principessa, sua madre era la Regina-Drago, sua sorella avrebbe un giorno governato, nessun uomo, neanche il più folle, neanche se l’avesse disprezzata – e Vasilissa trovava impossibile che qualcuno potesse disprezzare Alina, perché era buona e dolce – l’avrebbe mai trattata con disonore, neanche il più stupido.
Moya Tsarevich, tu sei la principessa di Ravka, nessun uomo ti dirà mai come comportarti” le aveva detto con calma Vasilissa senza rispettare l’etichetta, decidendo che la sua rabbia non aveva ragioni. Se la principessa Liliyana aveva dovuto affrontare nolente la crudeltà del mondo ed il principe Dominik avesse cercato l’avventura – e la realtà – la Regina aveva tenuto la sua figlia minore lì, con lei, sempre alla vista del suo sguardo.


 Alina le aveva sorriso, attraverso lo specchio: “Lissa sei sempre così gentile e disponibile. Lo so, che hai tanto da fare, ma, comunque, mi ascolti sempre quando mi lamento” aveva dichiarato Alina.
“Ci ho fatto il callo, principessa” aveva dichiarato senza battere ciglia Vasilissa, “Inoltre è generalmente più facile che pensare a come sbarazzarmi del corpo di una principessa lamentosa” aveva aggiunto, un po’ più mordace.
Alina aveva riso in maniera frizzante e divertita, “Secondo me Luchya ti darebbe aiuto senza dubbio, sarebbe già fuori alla porta con una pala alla mano” aveva commentato la principessa, Vasilissa aveva permesso che un sorriso carico di imbarazzo si delineasse sul suo viso.
Una risata divertita aveva permeato le stanze, una risata onesta, condivisa tra due giovanissime donne, che per un momento, erano state amiche di vecchia data, anziché principessa e cameriera.


“Presto avremmo il palazzo invaso di gente, di nemici anche. Dovremmo farci nascere gli occhi dietro la nuca” aveva detto stanca Alina, che si era nel frattempo sfilata la Redingote. “La delegazione fjerdiana sarà la prima ad arrivare, me lo hanno detto oggi. Praticamente entro una settimana” aveva considerato con voce spenta, “Ovviamente perché la mamma adora la Regina Mila, che casualmente ha un figlio maritabile” aveva sputato fuori Alina.
“Dicono che il principe di Fjerda sia molto bello” aveva considerato Vasilissa, ricordava che qualche mese prima era arrivato una miniatura che lo raffigurava. Nei ritratti i nobili tentavano di abbellirsi molto, cosa che andava considerata, se pensava al giovane figlio del Duca Razin che nei dipinti pareva la meraviglia del mondo ma dal vivo era piuttosto scadente, ma anche a parere del principe Dominik, che era stato ospite recentemente alla Corte di Ghiaccio, l’erede di Fjerda rendeva giustizia ai suoi ritratti.
“Non vedo Matthias da quando avevo nove anni, era un ragazzino assolutamente goffo e terribilmente triste” aveva raccontato Alina, “Ci hanno fatto ballare insieme ma lui era incapace. Durante gli Accordi del Corridoio. Li ho chiesto di pattinare con me, sul ghiaccio, ma lui ha preferito rimanere nella baia a leggere un vecchio trattato. Se dovessi prendermi per forza un fjerdiano, sicuramente vorrei suo cugino Bjorn, certo ha quasi trent’anni, ma è bello, coraggioso ed ha ucciso un lupo come Sankt Grigori, peccato che è diventato sacerdote di Djel. Ricordo che un paio d’anni fa ha fatto strizzare le gonne anche a mia sorella e a mia sorella odia tutt” aveva raccontato la principessa.
Vasilissa aveva sollevato lo sguardo, ricordando la questione del prete, “Mi serve un prete” aveva considerato a mezza-bocca.
“Una confessione di mezzo-pomeriggio? L’Apparat credo sia in cappella” aveva considerato Alina, “Potremmo andare!” si era proposta, saltando su dalla sedia su cui si era appollaiata.
“No, moya tsarinech. Lei ha lezione di kerchiano e storia! Ed io non ho bisogno di confessarmi” aveva vagliato Vasilissa con gentilezza.

 

 

Era entrata nella cappella principesca, non sotto lo sguardo dei tre santi: Ilya, Alina e Gregory. Le finestre erano vetrate colorate, che raffiguravano i miracoli dei santi, dai più variopinti colori. Una di queste raffigurava la Regina-Drago, alle cui spalle si innalzava la bestia alata. Le luci ed i colori creavano una mistura di suggestione e colore. Il pavimento era di pietra bianchissima, lucida, nelle pareti, con pavimenti cosmateschi.
Panche di legno affilate per la messa.
Guardava le tre lunette sentendo giudicata.
C’era un uomo ad accendere delle candele, non era ovviamente l’Apparat, lui esercitava nella grande basilica cittadina e in quella del palazzo solo durante determinate funzioni – matrimoni, funerali e saltuariamente incoronazioni.
Vasilissa sapeva che c’era stato un tempo che l’Apparat sobillasse nell’orecchio dei reali, ma quello accadeva quando erano i Lanstov al comando e il prete era un’amorfa figura ambigua. L’uomo che indossava quella carica era stato un Soldat Sol, uno dei benedetti di Sankta Alina Dva Stolba, un sunsummoner, che aveva partecipato alla distruzione della Faglia e la caduta dell’Oscuro. L’Apparat Vladim era un uomo profondamente religioso e spirituale, fedele ai suoi santi ma anche ai suoi reali, ma del tutto disinteressato alle questioni politiche – forse per questo piaceva abbastanza, ai ricchi, poveri, nobili e quant’altro.
L’uomo, comunque, non era Vladim, era più giovane, di poco meno una ventina d’anni – sapeva che anche lui era un evocatore, sopra il saio, indossava la kefta blu con i decori oro fulvo. Non che fosse facile comprenderlo, i sunsummoner non erano più una rarità, anzi erano piuttosto comuni, ma differentemente da altri grisha, possedevano ancora un potere fuori dal comune, che si rifletteva nella loro estetica; invecchiavano lentamente.
Il grisha aveva un viso stanco, gli occhi cerchiati dalle occhiaie e capelli biondo oro, fragili. “Sho sol, mio signore” aveva chiamato Vasilissa, lui si era voltato. “Il sole sta tramontando, signorina” le aveva detto l’uomo con voce tetra e spenta. “Non volevo disturbarla prima della cerimonia crepuscolare, ma avrei bisogno di un favore, uno importantissimo, padre” aveva dichiarato.
Gli occhi chiari del religioso la stavano guardando, “Come ti chiami?” le aveva chiesto poi, “Vasilissa Pavlov, sono la cameriera personale della Tret’ya Tsarevich[1]” aveva spiegato con una voce calma; lui aveva annuito calmo.
“Io sono Igor, solo Igor” aveva commentato con voce spenta, “È un piacere conoscerla” aveva commentato lei, mentre l’uomo la guidava a sedersi su una delle panche. Lasciando in pace l’altare con le candele, ne erano accese almeno una ventina. “State cominciando a preparare i festeggiamenti per il disfacimento della Faglia” aveva considerato lei. “Sì, l’Apparat vuole grandi festeggiamenti. Tutti i sunsummoner sono convocati, dall’Apparat stesso alla piccola Saryana, l’ultima nata” aveva riportato il prete; si era chiesta come mai quasi o tutti i sunsummoner prendessero la via religiosa. Forse era nella loro educazione, sapeva fosse leggermente diversa
“Ho visto le spettacolo di luci del trentennale, fenomenale” aveva ammesso Vassilina.
“Credo lo sarà anche quello di quest’anno, l’Apparat non ha intenzione di far tramontare il sole per la Festa di Sanka Alina” aveva spiegato Igor, “Lei la ricorda la Faglia?” aveva chiesto alla fine lei, non era andata lì per parlare della faglia o dell’evoca luce, ma doveva ammettere di trovare affascinante tutta quella vicenda, in qualche modo, sapeva fosse una pagina nera della storia di Ravka, la distruzione della faglia aveva dato fine alla scissione, alla guerra civile, ma aveva anche dato inizio alla guerra di confine. Avevano bombardato Os Alta, quando i suoi genitori vivevano lì, vivevano anche al Palazzo quando erano entrate gli esseri d’ombra.
Vassilina era ammirata, da come avessero fatto a sopravvivere i suoi genitori, lei aveva vissuto tutta la sua vita nella pace.
Igor aveva scosso il capo, “Sì, è scomparsa quando avevo cinque anni. Vivevo a Velijki a Ravka Ovest, era lontana da NovaKirbirsk, ma era comunque vicina alla linea della faglia. Si dice che DeKkappel la abbia dipinta da lì. La ho vista dissolversi davanti i miei occhi, mentre luccicavo come una lanterna” aveva raccontato l’uomo, con un tono quasi dolce.
Igor doveva avere almeno quarantacinque anni, eppure, dal suo viso non lo sembrava per nulla. “Ma non sei venuta qui a parlare della Faglia?” aveva chiesto Igor con calma, con un sorriso stanco sul viso, delle rughe d’espressione si erano formate intorno alle labbra. “No, ma sono sempre stata interessata. Quaranta anni nell’orologio delle cose non sono nulla, ma, sono difficili anche da immaginare e … una volta sono stata sul dorso della Regina Drago” aveva confessato con un certo divertimento ed elettricità, ricordando quel giorno, con un brivido. Era stata Alina ad insistere. Vasilissa non poteva semplicemente crederci.
“Quindi?” aveva chiesto Igor, “Un mio amico ha bisogno di celebrare delle giuste nozze il prima possibile” aveva risposto lei.
L’uomo aveva sollevato un sopracciglio; “Appartengono a due ceti sociali differenti, lei rischia di sposare un uomo che non ama, solo per rendere felice i suoi …” aveva raccontato Vasilissa, piena di nervosismo, “I soldi non sono un problema” aveva aggiunto, realizzando forse che al giovane monaco non doveva interessare troppo delle quisquiglie romantiche dei servi.
Ovviamente i soldi sarebbero stati un problema, ma la cosa era decisamente secondaria. Lei aveva qualcosa da parte, Yusuf anche probabilmente, non aveva idea su Anya, ma sperava che la figlia di un mercante si fosse salvaguardata un po’, era certa che Cignaz avrebbe offerto qualcosa – perché era buono ed un inguaribile romantico – forse anche qualche altro servo avrebbe aiutato a pagare una tangente. Se questa storia fosse finita alle orecchie della principessa Alina non avrebbe messo in dubbio che anche lei avrebbe voluto partecipare!
Igor l’aveva guardata, poi aveva sollevato una mano, facendo ondeggiare due dita, una piccola scintilla luminosa, come una bolla, s’era alzata dalle sue dita, fino ad ingrandirsi. La luce della candela era stata soffocata, come se fosse apparso un piccolo sole, aveva illuminato l’intera cappella. Era come se improvvisamente nelle stanze della cappella palaziale, fosse sorto il sole. Un caldo gentile si era diramato nell’aria, come la mattina presto d’estate, non troppo afoso, non troppo soffocante. “Cosa sono i soldi a chi ha il potere del sole?” aveva domandato il prete senza che il suo tono tradisse nulla, né rabbia, ne fame, ne fastidio. Atona verità.

“Mangiare” aveva risposto senza belligeranza Vasilissa; perché si era resa conto di essere a corto di qualsiasi altra risposta. Igor le aveva sorriso, in qualche maniera umana, ma l’allegrezza non aveva superato il confine delle labbra, gli occhi erano due pozzi di tristezza. Erano gli occhi di un uomo che aveva amato e sanguinato per questo, si chiese se lungo la strada per il sacerdozio avesse perso qualcuno o se un cuore martoriato lo avesse guidato per una vita religiosa. Per un momento Vasilissa fu tentata di chiedere, ma non era la sua storia, né da chiedere, né da forzare, così era rimasta in silenzio. Il globo lucente aveva sfarfallato, prima di spegnersi e rigettare la cappella nella sua luce sussurrata. “Non preoccuparti per il tuo amico e te, accetto volentieri di sposarvi” aveva commentato lui, “Ho un discreto debole per le storie d’amore osteggiate.” Vasilissa era arrossita per l’imbarazzo a quel fraintendimento, “Grazie, padre Igor, che i sankti la benedicano, non sono io la donna, ma riporterò la notizia” aveva detto, prima di congedarsi con un piccolo sorriso.

 



[1] Terza Tsarevich (Secondo Google almeno). Comunque, nel corso della serie non abbiamo mai una Principessa. In russo si usava Tsaverna, però bho, ho lasciato il termine neutro. Anche perché Tsarevich è il termine arcaico, che poi è stato sostituito con Tsesarevich. La differenza è che gli Tsarevich erano i figli (maschi) dell’Imperatore, mentre lo Tsesarevich era il Figlio-Erede, e gli altri principi si chiamavano velikiy knjaz (Gran Duca/Gran principe). Però, ecco, Ravka è Ravka e non l’Impero Russo e ci sta che non corrisponda tutto e la Bardougo non si sia “infognata troppo” con la linguistica. Morale della favola: tutti i figli di Zoya sono Tsarevich.

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Capitolo 7
*** Lu-Wan II (22 D.F.) ***


Siamo tornati alla trama più ostica, quella del 22 DF – avevo scritto questo capitolo un po’ di tempo fa, ma diciamo che la visione della serie tv mi ha spinto a riprendere questa storia.

Tw. Esperimenti sulle persone, consumo di droga, consumo di droga non consensuale, morte, prigionia e conversazione su omicidi

LU-WAN

(22 anni dopo la Dissoluzione della Faglia)

 

Kebban’a, io ti amo, ti amo. Voglio che tu lo sappia, nulla di ciò che ho fatto e mai farò, non mi darà mai più orgoglio di quanto me ne dai tu” aveva sussurrato sua madre, baciando le sue palpebre.
L’aveva vista, tenersi la gola, come se una forza invisibile le avesse stretto il collo. Poi il mondo era esploso, bruciato.
E tutto, tutto si era fatto buio.
E freddo.
E senza contorni.

Così questa è la morte?

Lo aveva accompagnato, come pensiero, nell’obblio. Sentiva, lontano, il ricordo delle braccia di sua madre, del suo singulto. L’obblio era freddo, distante, aveva forzato gli occhi, aperti, ma la luce si era fatta sempre più lontana. Il mondo era ovattato, blu, freddo.
Intorno a lui, colavano a picco pezzi della Ji-Han squarciata dalla pancia come una bestia. Ma cadeva in silenzio, bruciata, nelle acque.
Perché era in acqua. L’irrazionale paura vinse sul resto e Lu apri la bocca per urlare, anziché nuotare. L’aria era schizzata via dal suo corpo e l’acqua l’aveva investito. Insidiandosi in ogni foro.
Cercò di recuperare l’aria, ma lo sapeva. Lo sapeva.
Sarebbe morto.

Lu-Wan stava leggendo un manuale di filosofia. Trovava la filosofia stupida e qualunquista. Sapeva fosse il linguaggio politico per eccellenza, anche più dell’economia, suo fedele compagno. Ma per comprendere la filosofia che muoveva il pensiero, gli uomini, le rivoluzioni; prima bisognava passare per quella classica, quella degli uomini e dei semi, dei carri nel cielo e nei dei distanti. Lu-Wan soffriva ogni parola vergata sulla carta come una pugnalata nel petto. Non era uomo da chiacchiere, ma da numeri e dati. Un tocco gentile lo aveva ripreso. Si era voltato, incontrando gli occhi attenti di sua madre. “La via dei Cento Pensieri?” aveva domandato sua madre, senza curiosità, “Si, me lo ha dato il maestro Ib Yul-Tau” aveva risposto celere lui, “Sì, sì, credo abbia costretto tutti gli abitanti di questo castello a leggerlo. Non voglio disturbarti, a modo suo, quel libro mi ha dato molti spunti” aveva considerato la donna, posandosi con il fianco sul tavolo. Lu le aveva sorriso, “A breve ritornerò in mare, lontano dagli occhi della Reggente Ehri” aveva dichiarato sua madre, che aveva sempre parteggiato per il partito di Mahki.
Lu aveva annuito, sua madre non restava mai troppo a lungo, le sue ambizioni e la sua diligenza aveva sempre bisogno di essere nutrita. “Certo, madre” le aveva detto, “Vorrei tu venissi con me” aveva detto la donna, facendo picchiettare le unghie sul tavolo di legno smaltato.


Le mani di sua madre erano calde, per quanto il mondo fosse ghiaccio intorno a lei, prima di sentire qualcosa di nuovo.
L’aria. Aveva sentito qualcosa, una lingua, non era Shu Han, prima che sentisse la sua bocca forzarsi, i suoi polmoni contrarsi ed aveva vomitato l’acqua, senza il suo controllo.
Vivrà” aveva stabilito una voce, la lingua era il ravkiano, così volgare, “Purtroppo” aveva risposto una voce più dura.
Aveva forzato gli occhi, l’intenso nero-blu dell’acqua lo aveva avvolto, ma non lo stava toccando. Lui era dentro una bolla, provò a divincolarsi, trovando due forti braccia a trattenerlo. Qualcuno, una voce famigliare, aveva urlato in ravkiano – Lu non aveva capito – e prima che potesse fare altro era stramazzato, nell’incoscienza.

“Vorrei che tu leggessi questo” aveva detto suo padre. Gli occhi dell’uomo erano lucidi, screziati di rosso, con lacrime incastrate nelle ciglia. Lu non aveva mai visto suo padre piangere, lo aveva visto triste, distrutto, quasi disposto ad annegarsi nella grappa e nel vino, ma mai piangere. Non avrebbe pianto neanche in quell’occasione, ma sembrava volesse farlo.
Lu aveva raccolto il piccolo libro che gli era stato porto. ‘Ni yu ye sesh’ aveva letto. Era piccolo e sottile, con una copertina in pelle. “Grazie, padre” aveva detto calmo. “Spero sempre che questa esperienza possa guidarti a prendere la strada della diplomazia” aveva ammesso tuo padre.
Sua madre aveva brontolato, “Sesh’a, al mondo esistono fin troppi chiacchieroni” lo aveva rimproverato lei, allungandosi per baciarlo sulle labbra. Sua madre era più alta di suo padre. Era snella, splendida ed ancora giovane in viso, rispetto suo padre, la cui età sembrava pesare su di lui mortalmente. “Ah, Sesh’a” aveva risposto lui, “Il mondo avrà bisogno di più chiacchieroni, presto, spero” aveva ammesso.
Sua madre aveva fatto oscillare il capo, “Padre, un mondo senza studiosi è un mondo morto” aveva detto lui, “Esatto bambino mio, di tutti gli studiosi, anche delle arti”.

 

Il cuore aveva ricominciato a battere, forte, e tutto in lui si era riacceso. Aveva schiuso gli occhi, sentendo per prima cosa il sole freddo sulla pelle, prima ancora di percepire la mano calda sul suo collo, non una presa, ma un tocco leggero. Aveva visto le particelle d’acqua che lo appesantivano sollevarsi da lui, una ad una, mentre formavano una coperta di liquido, che si era rinchiuso in una palla.
Aveva sentito la spiaggia ghiaiosa sotto la sua schiena ed il rumore del mare.
“Riesci a separare l’acqua dal sale?” la voce aveva parlato in uno shu quasi perfetto, delle zone del nord, musicale. “Sì, signora” aveva risposto una voce, anche quella in shu, ma tutt’altro che pulita, una voce maschile, greve che conosceva.
Si era sollevato, incontrando il viso stanco di Hati, era uno degli etherealki su cui sua madre aveva condotto degli esperimenti, era sotto parem; numero dodici. “Bene, metti l’acqua qui dentro ed il sale qui; invece” aveva sentito ancora la voce, riconosceva fosse quella di donna, aveva fatto roteare lo sguardo ed aveva visto la materialki lì. Era completamente asciutta, ma le gambe bianche erano esposte, aveva strappato l’orlo della gonna della vestaglia per fabbricare un sacchetto per il sale, quello dell’acqua lo aveva fatto con dei legni bianchi, come ossi.
Lu aveva provato a sollevarsi ma nel momento in cui aveva provato, la materialki lo aveva spinto di nuovo supino. “Non provarci” aveva stabilito, “Oh Anchel ti fermerà di nuovo il cuore” lo aveva avvertito.
“Il babinik si è svegliato?” aveva domandato una voce maschile, quella volta in ravikiano. Era Anchel il corporalki, era strano sentire la sua voce pronunciare qualcosa di diverso da litanie religiose.
“Da” aveva detto la materialki, “Su!” aveva impartito Anchel a Lu, in lingua shu, andando contro i precedenti ordini della sua compagna. Era stata una fatica abbissale per Lu sollevarsi anche solo con la schiena, restando seduto sulla nuda terra. Anchel aveva passato qualcosa alla Materialki, Lu non aveva visto cosa fosse, la ragazza era presto sparita alle sue spalle. Aveva provato a spiarla girando il capo, ma il suo corpo doleva tutto, aveva risolto l’arcano quando aveva sentito qualcosa di freddo ai suoi polsi; erano manette.  “Non ho trovato di meglio” aveva ammesso Anchel, con voce quasi spenta. “Va bene, è un otkazat’sya; se tieni il suo cuore calmo sarà rilassato e poco incline alla fuga” aveva risposto lei.
Lu aveva teso i polsi più possibile, lontani tra loro, realizzando di non avere manovra. Le sue manette erano fatte d’ossa. “Buon lavoro” aveva valutato Hati, in shu con sguardo spento, guardando i suoi polsi, avendo finito di dividere acqua e sale.
“Non diverso da un amplificatore” aveva spiegato sbrigativa la ragazzina, tirandosi in piedi, le ginocchia nude erano marchiati dai segni della ghiaia, su cui si era accovacciata. Parlava la lingua del trono celeste.
“Grazie! Se non avessi squarciato la nave non saremmo scappati” aveva aggiunto la materialki con un tono gentile, mettendosi prima una mano sul cuore e poi prendendo quella di Hati.  
Il ragazzo che era più vecchio di lei, più grosso e più alto si era sciolto in un sorriso gentile ed aveva ricambiato la stretta, mettendo la mano che aveva libera sul suo cuore.
“Grazie per avermi liberato ... e buon tempismo. Se avessi aspettato solo un’ora, non lo avrei fatto” aveva risposto sincero Hati, facendo scorrere il pollice sul dorso della mano della materialki in un gesto d’affetto.
“Parem, loro, dato te” non era stata una domandata quella di Anchel, aveva parlato in uno shu brutto e zoppicante. “Sì, da un paio di mesi. Mi avevano appena dato la dose giornaliera. Ero … soddisfatto” aveva spiegato Hati. Era strano, il suo viso era del colore della terra secca, aveva riccioli neri, che sfumavano quasi un castano rossiccio; gli occhi erano allungati, ma non come quelli degli shu e le sue iridi erano nerissime.
Lo avevano catturato a largo delle coste delle Colonie del Sud, mentre pescava – muovendo le acque stesse.
“Sei stato molto coraggioso. So che anche nel pieno dell’ebbrezza la parem è …” la materialki sembrava insicura delle sue parole.
“Sapevo non ci sarebbe stata una prossima dose” le aveva detto Hati, “Speravo solo di essere morto per quanto anche il mio corpo l’avrebbe realizzato” lo aveva comunicato con una leggerezza d’animo che aveva atterrito Lu e dal singulto della corporalki anche lei.

“Come vi siete liberati?” aveva chiesto Lu, mentre Anchel lo aiutava – lo speronava – a tirarsi su.
La grisha femmina lo aveva guardato, aveva un viso asciutto, l’incarnato chiaro ed occhi blu letali, il viso incorniciato da scuri capelli castani, arricciati dal sale e dall’area salmastra della costa. “Non volevo prendere la parem e non volevo che la prendesse Anchel” lo aveva detto piatta lei, prima di sollevare le dita, erano ancora nere e viola, ma dritte, “Le ossa sono ossa, vive o morte. Con il resto è stato più difficile” aveva replicato.
Lu si era lasciato sfuggire un vero di pura sorpresa.
Sapeva di grisha capaci di sfidare la materia, senza parem o magia, e dominare gli altri elementi del proprio dominio. Etheralki che potevano evocare fuoco ed acqua, corporalki – be, loro erano quasi la medesima cosa – che potevano guarire ed uccidere, materialki che potevano lavorare materia solida e liquida, ma la materialki aveva lavorato come una corporalki.

“Si è svegliato?” questa volta la voce era arrivata, urlante, in ravkiano.
Lu aveva fatto scattare la testa come gli altri tre; Elen li stava raggiungendo, a grandi falcate, il viso sembrava pienissimo, rispetto i giorni prima, non aveva più le costrizioni, doveva aver cominciato ad utilizzare nuovamente il suo potere.
La bolla d’aria!
Dietro di lei c’era l’impertinente inferno mutilato e poi una ragazza pallida come un fantasma, il soggetto quarantadue, una kerchiana, heartrender sotto parem; differentemente da Hati, lontana dalla sua prossima dose. Lei si guardava intorno con nervosismo ancestrale, continuando a grattarsi una spalla, per scaramanzia.
L’inferno aveva rovesciato un paio di pesanti vestiti per terra, ne aveva le braccia piene, non era il solo anche Elen ne aveva.
“Sei sicura che non possiamo affogarlo?” aveva chiesto Anchel in ravkiano, che teneva una mano sulla sua spalla, “Net” aveva risposto Elen, con sicurezza, rivolgendoli uno sguardo carico di rancore.
Era strano essere guardato così da lei, aveva pensato Lu. “Concordo, è un buon prigioniero” aveva detto la materialki, sorridendo verso l’altra – occhi blu scintillanti di affetto. Venivano dallo stesso lotto, erano presso chè coetanee, Lu pensava stupidamente: dovevano essere state amiche prima, militanti alla scuola del Piccolo Palazzo, forse erano in una città costiera per gioco.
Il kaelish aveva cominciato a distribuire quello che aveva racimolato: vestiti pesanti. Era ancora bella stagione, ma il clima era pungente e freddo, dovevano essere da qualche parte a nord.
“Siamo a Fjerda” aveva confermato Elen i suoi pensieri, ma si era rivolta alla materialki.
“Speriamo di non essere troppo a settentrione” aveva considerato la sua amica, morendosi l’unghia del pollice. “Non ne ho idea, non conosco il paese e non ho parlato con gli abitanti” aveva risposto Elen piena di timori, guardandosi intorno.
Fjerda Nord, vicino le terre degli hedjut, rimaneva in parte profana, legata ai propri modi e i propri dei. Se intorno a Djerholm, come una macchia d’olio, oltre Djel si veneravano i santi, e i grisha non erano più druje ed abominazioni. Nord non si vedeva tutta questa gioia.
Anchel lo aveva guardato, “Dove noi? Dove nave va?” aveva chiesto ferace, con gli occhi scuri scintillanti di rabbia. “Non so! Non ho mai guardato le mappe! So che siamo a Fjerda!” aveva mentito, sapeva in che direzione stavano andando, perché per quanto potente la Ji-Han doveva approdare. “No credo” aveva stabilito Anchel, stringendo le mani in un pugno, Lu aveva sentito il suo petto contrarsi, i suoi polmoni distendersi, come se non fosse stato più capace di respirare. Era crollato a terra, boccheggiando aria, ma non entrava, poi il corporalki lo aveva lasciato andare. “Dove?” aveva chiesto di nuovo lui.
Lu aveva tenuto la bocca chiusa ed ancora una volta aveva sentito il suo corpo tradirlo.
“Dove?” aveva chiesto di nuovo Anchel.
“Utsel” aveva sputato fuori Lu, con l’ultimo briciolo di aria, prima di poter respirare ancora, annaspando nell’aria. “Avevamo un accordo con il loro porto” aveva pianto.
Elen aveva guardato la Materialki, lei si era morsa l’interno della guancia, pensierosa, “Nel terzo crostone, nel golfo infestato a settentrione della regione dell’Avenjfall, su a nord, ma non nelle terre dei Hetqualcosa” aveva spiegato in Ravkiano la materialki.
Il kaelish aveva ringhiato qualcosa, la loro lingua era piena di r dure e  striscianti, non conosceva bene le loro parole, ma sospettava fosse un lamento nel non comprendere la loro lingua. O forse si stava chiedendo perché non Lu respirasse ancora.
“Dottore” lo aveva chiamato Elen, nel suo shu imbastardito, “Che altra lingua parli? Il ravkiano? Il kaelish? Il kerch?” aveva domandato esigente.
“Il kerch” aveva risposto lui, mentendo.
La materialki aveva assestato un colpo sul fianco di Lu, con il polpaccio della sua gamba, facendolo gemere. “Mente, questo beznako[1], almeno in parte. Sicuramente capisce il ravkiano” aveva avvertita perentoria la ragazza.
Lu si era voltato verso di lei, sprezzante.
“Capisci il kerch?” Elen lo aveva chiesto al kaelish, quello aveva sputato per terra, “Quanto basta” aveva risposto poi, non aveva guardato la ragazza bionda muta, ma aveva guardato Hati, “Sono delle Colonie del Sud” aveva risposto lui, “La nostra lingua ufficiale è una variante di Kerch” aveva detto, recitando bene le parole. “Ma presto non capirò più una parola” aveva ammesso sconfitto Hati.
Elen aveva guardato i suoi amici, “Lo sai, no” aveva replicato Anchel, grattandosi una guancia color rame scuro; “Odio quella lingua” aveva ammesso con un leggero fastidio la materialki.

Elen aveva sorriso nervosa, poi si era voltata verso il kaelish, “Dovremmo cercare di arrivare djerholm, non importa cosa abbiano fatto il Re e la buona Regina Mila per Fjerda, certe tradizioni non muoiono mai” aveva parlato in maniera diplomatica.
“Perché dovremmo seguire te?” aveva chiesto il kaelish.
“Perché senza di noi sareste ancora su quella barca, perché la mia amica è una brava cartografa, perché noi faremo così” aveva risposto pragmatica Elen.
Aveva voltato lo sguardo verso Hati, “Non sono sicuro di poter arrivare fino a lì, che non morirò o impazzirò prima” aveva spiegato quello calmo, osservando la sua mano, dritta, nessun tremore, non ancora. “A Ravka, David Kostyk aveva sintetizzato un antidoto, non importa quanto raffinata si questa parem, anche le soluzioni di Ravka sono sempre più sottili” aveva detto Elen con certezza bruciante.
“Moriremo prima” aveva pianto la kerchiana, “Io già non riesco a pensare ad altro. Avrei avuto la mia dose domani, non potevate aspettare domani?” aveva pianto la corporalki.
“No” aveva risposto l’amica di Elen, “Abbiamo aspettato anche troppo” aveva detto velenosa, piena di rabbia.
Forse avevano aspettato, quanto tempo ci avesse impiegato a capire come riparare le sue ossa, le sue dita, per tornare ad avere tutte le sue sensazioni, con l’anestetico al gambo, che la rallentava ed intontiva.
“Vorrei che veniste con noi” aveva ripreso Elen con voce cheta, “Sulla nave c’erano più di settanta grisha prigionieri e noi siamo gli unici. Spero che altrove siano approdati altri” aveva detto colma di tristezza.
“Va bene, aveva detto il Kaelish, ma posso ucciderlo?” aveva domandato, riferendosi a Lu, la cui schiena era diventata dritta, “No, è un buon prigioniero, una buona merce di scambio” aveva risposto Elen, lanciandoli uno sguardo al vetriolo, “Un buon … soggetto?” aveva chiesto retorica, guardandolo.
Lu aveva sentito la nausea salire nella sua gola, con la bile, e i brividi lungo la schiena. Ed anche un altro sentimento, a cui non voleva dare nome.
“E se dovessimo essere inseguiti da un orso potremmo lanciarglielo in pasto” aveva scherzato la materialki.
Per un secondo erano rimasti tutti in silenzio, poi una risata si era aperta sulle loro labbra, perfino nella kerchana che stava in piedi a fatica.
Era una battuta, ovviamente, ma Lu sapeva, sapeva davvero, che in una situazione del genere lo avrebbero fatto, senza esitazione.

“Avremmo bisogno di fermarci, comunque, in qualche villaggio, prendere altri vestiti, del cibo, abbiamo l’acqua da bere, non tanta ed il sale per conservare il cibo, sia sotto-sale che con la salamoia” stava spiegando la materialki didascalica. “Così mi fai rimpiangere gli schiavisti” era stata la risposta di Elen, con una risata stanca, quasi nervosa. “Io quello l’avevo già fatto!” aveva scherzato Anchel.
Lu si era fatto rigido, come una stecca di legno, quando aveva sentito quel termine, schiavisti. Loro non lo erano, non lo erano affatto, lavoravano per un proposito futuro. Aveva sentito l’impulso di dirlo ad alta voce, ma poi la consapevolezza che il kaelish non desiderasse altro che avere una scusa per colpirlo ed ucciderlo, lo aveva fatto tacere.
La materialki aveva ripreso: “Inoltre, ci serviranno delle scarpe migliori di quelle che abbiamo, o almeno qualcosa con cui possa fabbricarle. Se abbiamo deciso di tagliare per obliquo non passeremo per molti villaggi e dubito fortemente troveremo vere strade.”
La sua voce era sicura, certa, non quella di una persona che era stat rapita, venduta e tenuta in prigionia per settimane e sopravvissuta ad un nubifragio. Gli altri, Lu riusciva a vederlo, erano ancora spossati, anche Elen che si impuntava di rimanere dritta e fiera, era curva e distrutta.

La materialki guidava la fila, a passo rallentato sì, dando il ritmo alla coda; si era messa il braccio della kerchiana intorno alle spalle, con una mano le sorreggeva il polso e con il braccio destro, libero, invece, abbracciava la vita sottile della grisha corporalki.
La sosteneva, anzi la trascinava.
“Va bene” aveva affermato piccato il kaelish, “Probabilmente gheobhaidh muid go léir bás[2] di freddo o mangiati dai lupo di cazzo[3]” aveva aggiunto rabbioso. La sua lingua non era sciolta, era piena di imperfezioni, eccentricità ed accenti sbagliati, ogni parola più che pronunciata, sembrava tirata via con delle ganasce dalla sua bocca. Suoni sporchi ed orribili, anche in una lingua inzaccherata come quella di Ghezen.
Neanche Lu-Wan sembrava un poeta quando parlava la lingua del denaro, ma immaginava che l’educazione di un signorotto Shu-Han e quella di un kaelish venduto sulla Via-delle-Ossa non dovesse essere paragonabile. Gli altri avevano ignorato le lamentele dell’Inferno.

Avevano marciato per altro tempo, fortunati che non fossero finiti a Fjerda nel periodo più freddo, ma se le sue nozioni di geografia erano mai valse a qualcosa, l’entroterra era rialzato, era più freddo e probabilmente avrebbero trovato della neve e la materialki aveva ragione, avrebbero avuto bisogno di scarpe più resistenti. L’unico ad averle in cuoio era lui, ma sospettava non sarebbe rimasto così a lungo; Lu era magro, basso rispetto i suoi compagni, con piedi insospettabilmente piccoli, probabilmente le sue scarpe non sarebbero mai state a nessuno degli uomini, ma immaginava che a una delle ragazze potessero andare.

 

“Dovremmo anche approfittare delle capacità di Caitlyn per plasmarci, per essere più fjerdiani. Siamo un gruppo decisamente eterogeneo e variopinto; in compenso possiamo imputare i capelli corti al culto di Djel” aveva valutato la materialki burrascosa. Lu aveva schiuso le labbra, confuso da quel nome, prima di realizzare che stesse parlando della corporalki kerchiana, Non aveva mai saputo il suo nome, era stato uno dei soggetti restii a parlare ed alla fine non aveva indagato oltre. Però, loro si erano presentati, si erano parlati, forse mentre lui era svenuto sulla sabbia.
La materialki aveva ragione però, davano nell’occhio; Elen aveva un incarnato olivastro che poteva passare per una discendenza hedjut, ma le mancavano i denotati, Hati … era una combinazione di chi sa quali stirpi, Anchel aveva la pelle scura che tradiva una sangue zemeni, il kaelish sfoggiava troppe mutilazioni per passare inosservato, la kerchiana era di un pallore malaticcio e lui era uno Shu, in manette d’osso. L’unica che forse non avrebbe dato nell’occhio era la materialki, che era chiara di carnagione, ma era inequivocabilmente ravkiana.
“Si, desideravo proprio rasarmi i capelli per sembrare un’adepta di Djel” aveva replicato Elen con una voce spenta, riducendo le labbra piene in una linea dritta, come un taglio.  
“Mi … mi dispiace; io non sono una… tailor” aveva commentato a faticata Caitlyn, come se ogni parola pronunciata fosse un’agonia bruciante, “So ritoccare qualcosa, colori, pienezze … fermavo … cuori” aveva aggiunto. La kerchiana aveva quasi avuto una caduta, mentre tentava di parlare e camminare insieme, ma l’altra l’aveva sostenuta.
“Anchel ti può insegnare. Come sarto fa schifo, ma ha imparato qualcosina da Genya Saffin” aveva esplicitato la materialki, rassicurante. Caitlyn aveva provato a dire qualcosa, “Inoltre, è brutto quello che sto per dire, ma dobbiamo approfittare della parem nel tuo sangue. In questo stato noi grisha siamo … al di là di ogni comprensione” aveva considerato la ravkiana, c’era quasi ammirazione nella sua voce.
“Morirò” aveva risposto la kerchiana, stanca.
“Posso raccontarti la storia di Nina Zenik?” aveva domandato con più gentilezza la ravkiana, “Chi?” aveva chiesto pavida Caitlyn.
Lu aveva smesso di ascoltare.
Le due ragazze guidavano la fila, costringendo tutti ad un’andatura più lenta, come i lupi, dietro c’era Malcom, seguito da Hati ancora in forze, ma che presto avrebbe sperimentato gli effetti della lontananza.
C’era lui, che camminava con le mani dietro la schiena, Elen a pochi passi, pensierosa con le labbra ancora strette in un taglio, in ultimo chiudeva la fila Anchel.
“Pensi … pensi che siano morti tutti sulla nave?” era stata la prima volta in almeno un paio d’ore che aveva parlato. Aveva pensato a sua madre, non riusciva a ricordarsi, aveva memorie frammentate, pensava al loro incontro sulle scale, le sue parole, le sue carezze. Sua madre non era mai stata inclina alla gentilezza, all’amore, ma continuava a ricordare quella dolcezza.
Sua madre era morta? Sua madre sapeva che sarebbe morta? Era stata gentile per questo? Gli aveva concesso un ultimo atto d’amore.
Lo chiamava sempre Kebban’a, però, mio caro, di solito lo usavano i kebban, i gemelli, un’anima in due corpi … ‘Ma esiste una relazione più stretta di una madre con un figlio?’, forse era quello.
Elen lo aveva guardato con i suoi grandi occhi, “Spero di no” aveva ammesso la grisha, la sua voce era pregna di senso di colpa, tormento, “C’erano centinaia di persone sulla nave” aveva aggiunto la ragazza.
Lu era rimasto scosso, prima, quando aveva parlato con l’Inferno e con Caitlyn aveva parlato di grisha, si era riferita solo a loro, aveva pensato solo a loro. Ai suoi simili.
Ma quella volta si era riferita a tutti, ai dottori, i marinai, gli inservienti. I suoi nemici.
Elen aveva ripreso a guardare la strada, dando a Lu la visione del suo profilo; tormentata, chiusa, imprigionata, Elen pareva ancora fiero.
“Stavi pensando a tua madre?” aveva chiesto Elen, senza guardalo. Lu era diventato rigido. “Lo ha ipotizzato” aveva aggiunto, ammiccando alla sua amica che guidava la fila.
Ebbe la netta impressione che se la materialki avesse detto ad Elen che il cielo era verde, l’altra ci avrebbe creduto. “Ha un ottimo intuito ed è un’osservatrice capacissima, spesso più di me” aveva considerato la grisha etherealki, ma sicuramente si sapeva destreggiare meno.
Lu si era morso il labro, “Non era mia madre, ma pensavo a lei” aveva mentito – almeno in parte.
La grisha aveva annuito, continuando a guardare la strada davanti a lei, “Bene” aveva considerato, poi si era voltato di nuovo, i suoi occhi non avevano più dolcezza, erano pozzi neri senza fondo, l’espressione tatuata sul viso era priva di dolcezza, di accondiscendenza, “Lei no” aveva detto Elen, con un tono quasi rassicurante, “Lei non è sopravvissuta. Ce ne siamo accertate.”

Linea temporale:

-          Nascita di Igor, Vlad -5

-          Nascita di Shioban -3

-          Ekaterina e Anastasjia Rorik-1

-          S&b 0

-          SoC 2

-          Nascita di Yuliana Van Eck 3

-          Fine KoS/RoW 4

-          Nascita di Lu-Wan, Magnus e Trattato Fjerda-Ravka 5

-          Nascilta di Hati 6

-          Nascita di Drina, Anchel 7

-          Nascita di Elen, Caitlyn, Malcom, Ilsebelle 8

-          Nascita di Jordie; Concordato dei Tre Stati 10

-          Nascita di Dominik 11

-          Nascita di Merissa Nassau Kir-Taban 12

-          Raccolta dei bambini di Kerazin, 16

-          Nascita di Vassilissa e Mesha Effimovich 20

-          Nascita di Matthias Grimjor 21

-          Distruzione della Ji-Han 22

-          Nascita della principessa Alina 23

-          Principe Dominik incontra la Principessa della Jurda 28

-          Nascita del principe Juris Nazyalensky 35

-          Nascita del Piccolo Nikolai Nazyalensky 39

-          Festa dei 40 anni della Riunificazione; Il Principe Matthias “cerca” moglie 40



[1] Causa persa

[2] Moriremo tutti, in irlandese

[3] Una volta una mia amica che sa parlare quelle comode sei lingue, mi disse che la cosa che le dava più problemi erano gli articoli e le desinenze plurali/singolari. Il Kaelish ha detto che parlava Kerch “quanto basta” quindi sì, non bene.

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Capitolo 8
*** IOREN I (28 D.F.) ***


Nuovo narratore, vecchia linea temporale. Il prossimo aggiornamento non arriverà così presto.
Lascio qui il link della pagina di A3O su cui ho postato alcuni disegni: https://archiveofourown.org/works/43797621/chapters/116046700

 

Ioren I

28 anni dalla Dissoluzione della Faglia

 

Mio carissimo principe amico Bjorn

Ho interessanti notizie da comunicarti

Devo dirti cose importanti

Ho da dirti davvero

Sono arrabbiato con te per la posizione in cui mi hai messo

Sono arrabbiato con tuo zio Rasmos

Vorrei che tu fossi qui, così non dovrei fare la spia e sono sicuro che apprezzeresti Kerch meglio di quanto faccia io

Mi manchi

Sento la tua mancanza

Ho sempre pensato che non avrei mai sentito la mancanza che provo pensando a te rivolta a qualcun altro

Molte nuove da Ketterdam

Ioren si era arreso; aveva provato a scrivere quella lettera infinite volte e continuava a cancellare ripetutamente le iscrizioni, infinite ed infinite volte.
Trovava quasi fastidioso scrivere quelle lettere, fisicamente.
Aveva accartocciato i fogli per l’ennesima volta, prima di allungare una mano per bersi un mezzo bicchierino di vino ai lamponi.
Una figura sottile si era avvicinato a lui, una ragazzina vestita da uomo, con i capelli lunghi fino alla schiena e l’incarnato scuro.  “Sera, Ioren, senza le guardie?” aveva chiesto subito lei, facendo strisciare la sedia per accomodarsi accanto a lui. “’Sera, Bridgit. Guardie, per me?” aveva domandato retorico.
“Be, tra me e te, non sono io figlia di un qualche conte e ambasciatore” aveva considerato Bridget, facendo oscillare i capelli castano sabbioso, “Sono il quinto figlio di un margravio minore e vivo solo all’ambasciata” aveva replicato Ioren, continuava a ripetere quella frase infinite ed infinite volte, ma la gente sembrava sempre diffidente nel crederci.
Ovviamente a Kerch esisteva un ambasciata e la sua corte, esisteva anche una rete di spie fenomenale, ma Ioren non era tra questi. Era solo un ragazzo particolarmente dotato nelle materie umanistiche che si era allontanato dal clima freddissimo di Fjerda, dall’educazione Avfalle e da Bjorn.
Quell’ultima era colpa di suo fratello Styborn.
“A chi scrivevi?” aveva chiesto Bridgit, mentre lui si occupava di nascondere tutte le cartacce nella sua cartella. “Ad un mio amico, un prete. Vuoi della grappa ai lamponi?” aveva domandato.
“Qui al Barile? No, ci tengo a tornare a casa con tutto quello che ho addosso” aveva considerato quella, con una risata frizzante.
Ioren aveva sorriso alla fine, “Comprensibile” aveva considerato.
Aveva conosciuto Bridget all’università, era una giovane nelle campagne, con una mente estremamente portata alla matematica, venuta a Ketterdam – come Ioren – per l’università.
La prima settimana l’avevano completamente derubata ed era rimasta con solo il suo appartamento provvisorio, pagato per due settimane grazie all’anticipo.
Ketterdam divorava ed inghiottiva gli ingenui ed erano pochi quelli che riuscivano a riemergere.  I Kerchiani erano fatti così, ogni loro giorno si divideva tra Morte e Successo. Una parte di Ioren era assolutamente intrigato da questo, ma allo stesso tempo, ne era disgustato, d’altronde: lui era un fjerdiano, era stato educato in un certo modo … così aveva offerto il suo aiuto a Bridgit, quando l’aveva vista piangere in biblioteca.

Una cameriera aveva portato loro due piatti di carne di maiale speziato. Bridget aveva guardo la carne con espressione critica, “Non potevamo andare al Caffè?” aveva domandato lei alla fine.
Il Caffè era un locale, nella zona universitaria, dove si riversavano tutti gli studenti. Era sempre ghermito di persone, di loro, ed era il luogo dove loro si riunivano sempre. La Compagnia.
“Non mi andava” aveva risposto frustrato Ioren. Era sicuro che Jordie e Dominik fossero lì, probabilmente in compagnia di Magnus, a brindare su come il giovane principe di Ravka avesse affascinato e sedotto la giovane ereditiera zemeni.
Ed il pensiero lo disturbava ed arrabbiava. “Hai un’espressione tristissima, sembri una patata in un hutspot” aveva commentato Bridgit. Ioren aveva sorriso verso di lei, con una certa stanchezza, “Mi sento anche così” aveva ammesso, “Mi manca casa” aveva aggiunto.
La ragazza aveva inclinato il capo, facendo scintillare i ricci sabbiosi, “Davvero? Così improvvisamente?” aveva domandato lei.
Ioren non aveva perso il suo sorriso, per quanto fosse consapevole che la luce della gioia non avrebbe raggiunto gli occhi, “Mi manca sempre casa, ora un po’ di più” aveva ammesso.
Non gli mancava casa, forse, non era né una menzogna né la verità. Sentiva la mancanza di sua madre ed i suoi involtini di verza, di suo padre e le sue maniere fredde, i suoi fratelli con tutti i loro difetti e, Djel, a Ioren mancava Bjorn e le loro battute stupide, durante il seminario.
Ioren aveva trovato così crudele quando Reidar – il maggiore dei suoi fratelli – li aveva allontanati ed aveva messo tra di loro il Mare Vero.
Fjerda poteva essere rifiorita sotto il suo Re, ma era ancora lontana …
“Ti capisco, anche a me, manca tantissimo la mia casa! Specie i campi, come era è bello camminare, tra le spighe di grano al tramonto, respirando aria pura” aveva dichiarato con divertimento lei, “Questa città fa schifo” aveva aggiunto.
Ioren le aveva dato ragione. “Vengo dall’Avefall, a nord, terribilmente a nord. Da casa mia, si vede l’aurora” le aveva detto.
Gli occhi verdi di Bridgit si erano illuminati, non doveva mai averglielo detto, ma sembrava davvero, davvero, colpita dalla sua confessione.
Prima che lui potesse riuscire a descrivere meglio, qualcosa aveva attirato la sua attenzione: Jordie.
Jordie con la sua andatura svelta ma silenziosa, come una lince, vestito interamente di nero. Alle sue spalle c’era una giovane donna.
Ioren aveva sollevato la mano per salutarlo; Bridgit si era voltato verso i nuovi venuti con incredibile interessa, “Oh, quella non è decisamente il principino” aveva scherzato lei, osservando la ragazza con interesse.
Jordie aveva ricambiato il saluto, la donna aveva guardato verso di loro e Ioren aveva sentito un brivido lungo la schiena. La sconosciuta aveva degli occhi azzurri privi di espressione, quasi morti, poi la ragazza aveva alzato la mano per salutarli ed aveva sorriso, appena.
Il suo amico aveva sospirato e poi aveva marciato verso di loro, guidandola.
“Loro sono due miei compagni d’università: Ioren, Bree” aveva detto svogliatamente, “Lei è Drina, una vecchia amica” aveva spiegato.
Obbligata” aveva risposto Drina, aveva un accento ravkiano pesante, che si sentiva anche in quell’unica parola. Ioren come il bravo fjerdiano che era aveva preso la mano di lei e ne aveva baciato le nocche rispettosamente, “Con me non fai mai così” si era lamentata Bridgit, con un tono giocoso nella voce.
“Puoi restare con loro, mentre io, sbrigo un’incombenza” aveva detto Jordie, sistemato il capello, con la piuma di corvo meglio sulla visiera. Drina aveva annuito, spostando una sedia e accomodandosi.
“Sei di Ravka, giusto?” aveva indagato subito Bridgit.
Drina doveva avere qualche anno più di loro, un viso ovale, pallido come la neve, capelli scuri come il legno bruciato, da cui scendevano ciuffi incerti sulla fronte tonda ed occhi blu come le acque gelide del mare del nord. Ioren non era particolarmente patito delle bellezze femminili, tra la ragazza e Jordie – con la sua pelle di zucchero cotto e gli occhi neri come quelli di un demjin – sapeva esattamente chi avrebbe scelto per un giro in gondola, ma Drina era gradevole, anche se immaginava dovesse avere altre doti che un aspetto grazioso per attirare il suo amico.
Da” aveva risposto Drina, tranquilla. “Come hai conosciuto il nostro Jordan?” aveva chiesto interessata Bridgit, non era mai stata particolarmente brava a farsi gli affari propri, curiosa come una gatta. “Sua madre salva le povere anime vendute come schiave e mio padre gestisce un orfanotrofio, un luogo dove spesso finiscono bambini che non hanno più nessuno” aveva spiegato candida la ragazza, passando il pollice sul bottone della manica della camicetta bianca. “Ammiro moltissimo il capitano Ghafa, non potevo crederci quando ho scoperto che Jordie era il figlio” aveva detto ammirata Bridgit.
“Siete compagni di studi?” aveva indagato Drina, continuando a passare il pollice sulla manica della camicia bianca, “Sì-e-no” aveva risposto Ioren, “Io frequento alcuni corsi con un amico in comune, Magnus Dyk conosce?” aveva risposto  Bridgit, “Sì – conosco meglio sua madre” aveva risposto Drina, “Sì, ecco … io conoscevo Magnus e Magnus mi ha presentato Jordie” aveva spiegato calmo. La ragazza aveva annuito, voltano poi il capo verso Ioren, con gli occhi blu quasi scintillanti di vita, “Tu?” aveva chiesto, “Ho conosciuto Bridgit la prima settimana” aveva risposto, mentre la sua amica si lanciava proprio nel racconto del loro incontro in biblioteca dopo il suo sfortunato ingresso a Ketterdam.
Ioren aveva deciso fosse meglio omettere che aveva conosciuto Dominik, per conto suo – sembrava strano, sporco, dirlo ad una ravkiana.

Jordie era riapparso, indossava ancora la giacca scura ed il cappello con la punta di corvo, che lo faceva assomigliare quasi ad un membro di una banda di criminali del Barile, che ad un rispettabile studente dell’università, figlio di un’eroina popolare e figlioccio del più ricco mercante di Ketterdam.
Non era venuto da solo, alle sue spalle, bella come una mattina di autunno, il Capitano Inej Ghafa lo seguiva.
Ioren non aveva sentito avesse approdato a Kerch, non che la donna usasse pubblicizzarlo, a Ravka, Novyi Zem ed alcuni porti di Fjerda, il suo arrivo era visto come una benedizione, non godeva della stessa popolarità in altri porti, però tornava sempre a Ketterdam.
Drina si era alzata dalla sedia per andare verso il Capitano Ghafa. Era più alta della donna Suli, anche se non di molto, con spalle, torace e busto più spesso.
Ma questo a Ioren piaceva, dava una strada idea che una creatura dall’aspetto così piccolo, dall’impressione di potersi libare nell’aria come una farfalla, come il Capitano Ghafa potesse incutere così tanto terrore negli occhi e nei cuori dei marci.
Jordie le somigliava, con l’incarnato di un tono appena più tenue, il sorriso dolce ed il cuore fiero.
Drina aveva chinato il capo davanti al Capitano Ghafa come se davanti ai suoi occhi ci fosse stata la regina  drago di Ravka, in persona. La donna più adulta le aveva preso le spalle facendola ritornare dritta e l’aveva poi stretta con un abbraccio deciso, ma informale.
Jordie era rimasto poco distante, passando il peso da un piede ad un altro.
“Ghezen, stiamo assistendo ad una vera magia” aveva ghignato Bridgit, “Jordie Ghafa si è infatuato” aveva considerato lei.
Ioren aveva osservato la postura del suo amico, incerta, con una certa perplessità. Aveva notato che giovani fanciulle fossero rimaste interessate al suo amico, durante l’anno che avevano spesso nell’università. Jordie era bello, era intelligente ed aveva un cognome evocativo, era perciò naturale, ma il ragazzo non aveva mai provato il minimo interesse per nulla e per nessuno.
A Jordie interessava solo una cosa: smontare le cose.
Tanto quanto a Dominik piaceva montarle.
Perciò passavano tanto in tempo insieme. “Dobbiamo fare squadra: due ragazzi con sangue suli, a Kerch, con madri con cognomi importanti” aveva detto Dominik, un giorno, avvolgendo il braccio attorno alle spalle di Jordie.
Ioren con loro stava un po’ come le rape con la marmellata di ciliege.
“Io devo tornare all’ambasciata, o rischiamo di ritrovarci qualche druskelle a spasso per Kerch ed un incidente diplomatico” aveva detto, frugando nella borsa dell’accademia per estrarre il sacchetto dove teneva le monete, “Lo aveva detto” aveva scherzato Bridgit senza perdere verse, lui aveva posato delle Kruge sul tavolo, “Offro io” le aveva detto, “Fatti anche un giro alla ruota, questa sera la trovo fortunata” le aveva detto.
Lei aveva ridacchiato, “Se dovessi vincere, non ti restituirei neanche una moneta” aveva chiarito la kerchiana.

 

Ioren aveva lanciato un ultimo sguardo a Jordie, il suo amico aveva ricambiato, con un gesto del capo, toccandosi almeno il cappello. Il capitano Ghafa aveva imboccato la porta per il piano di sopra, dove il Re del Barile, Manisporche, governava il suo impero di scarti.
Non si parlava mai del padre di Jordie, non perché il suo amico se ne vergognasse, anzi assolutamente no, solo che era complicato spiegare ai ricchi ragazzini kerchiani e no, che se sua madre era un’eroina del popolo, suo padre era un uomo che lucrava su ciò che più esisteva nel marcio del mondo.
Deve essere un brav uomo se La Spezza Catene lo ama, no?’ aveva proposto un giorno Bridgit. Ioren non riusciva a pensare neanche come potessero essersi incontrati … Manisporche le aveva fornito nomi di schiavisti che vedevano ai suoi rivali? Aveva sfruttato il dolore di una ragazza che aveva subito la schiavitù per i suoi fini? O si era innamorato poi di quella lucida rabbia, della Vendicativa signora degli Abissi?
O era ancora un trucco fine.ì? O c’era una storia dietro che ai molti non sarebbe mai stata raccontata. Forse Manisporche era come il Buon Signore Robin delle Isole Erranti, un uomo che aveva fatto del dolore e della miseria un’armatura per un cuore delicato, che di notte aiutava i poveri e di giorni si mostrava crudele.
Strani eroi, quelli Kaelish.
Io non lo conosco, ma persone che amo e di cui ho piena fiducia lo rispettano’ aveva detto un giorno Dominik, Ioren aveva riso amaramente, ‘Juliana o Wyliam VanEck? Mercanti kerchiani devoti al solo dio denaro? Lo sai che Wylan ha fatto sbattere il suo stesso padre in galera?’ aveva chiesto retorico Ioren.
Non gli piacevano i fratelli Van Eck, perché si mostravano lindi, eleganti ed assolutamente onesti, ma erano marci. Avevano ingannato, mentito e tradito per essere dove erano, avevano stretto alleanze e pugnalato alle spalle. La parte peggiore era che se questo a Fjerda sarebbe stato guardato con disprezzo, per Kerch erano solo onori.
Dominik lo aveva guardato con intensità ed aveva detto una cosa che Ioren, ricordava con un sentimento ambiguo: ‘I miei genitori.’
Lo aveva trovato strano, ma aveva annuito, messo un braccio attorno alle spalle di Dominik ed avevano ripreso la loro camminata molleggiante per la festa notturna che aveva animato la piazza davanti la Chiesa di Barter dopo uno spettacolo scandaloso della Comedia Bruta.
Quando era tornato a casa, nelle stanze dell’ambasciata, al sicuro dalla fame di Kerch, ma sotto l’occhio attento di Fjerda aveva vergato la confessione di Dominik … e si era sentito una bestia per quello.
Aveva sorriso verso Bridgit e si era allontano dal tavolo, ma la sua amica lo aveva guardato appena, più interessata a come spendere i soldi.
Tutto sommato a Ioren piaceva moltissimo La Stecca, così come il Silver Six e il Club dei Corvi, da frequentare, era il brivido del pericolo e della lontananza, che rendeva la sua casa a Avefall così sicura.

Djel, comunque, doveva averlo preso in antipatia per le sue empietà, perché appena lasciata la bettola aveva incontrato una delle persone che più di tutti non voleva incontrare.
Non era da solo.
Prima aveva riconosciuto la bellezza selvatica di Ilsebelle Dyk, con gli occhi turchesi ed i capelli scuri che poco somigliava alla sua rispettabile madre fjerdiana. Ioren faticava terribilmente ad immaginarla alla Corte di Ghiaccio, durante il Cuore di Legno; le cose erano cambiate nell’ultimo ventennio alla corte. Il re era stato, abbastanza, rivoluzionario – per molti, il periodo che aveva passato nell’isolamento della sua malattia aveva dovuto offrire una prospettiva diversa da quella dei suoi predecessori – e la regina lo aveva assistito in tutto, un vero turbine di cambiamento, però certe cose erano restie a cambiare.
Ilse non era da sola, pero, c’era lui …
Carnagione ambrata, occhi blu come lampi e riccioli biondo-sabbia, alto, elegante – anche negli abiti meno eleganti del creato – ed assolutamente a suo aggio. Era lì, soddisfatto, perfettamente a suo comodo nelle strade ketterdiane, sotto gli abiti mondani da uomo qualunque, lo aveva visto con lo stesso agio all’università, indossare i vestiti di studente diligente, alle feste delle confraternite scintillante, come ragazzo allegro e pieno di facezie per la testa, all’ambasciata fjerdiana come perfetto diplomatico, lindo e pinto. O il ragazzo dall’aspetto semplice, quando si addentravano per le vie meno felici di Ketterdam e fingevano di essere due giovani ricchi, sciocchi e raggirabili.
“Meglio così, meglio così, nessuno ti prende sul serio, se sembri sciocco” lo aveva avvertito.
Dominik, Dominik con tutte le sue bellissime bautte.
Eppure c’era un ricordo della mente di Ioren, che non poteva, non poteva essere una maschera, ma era solo un ricordo ed i ricordi avevano il vizio di rimanere soffocati tra un’idea nostalgica ed una memoria corruttibile. Un giorno non avrebbe avuto più memorie o se le avesse avute sarebbero state guaste come l’acqua nera dello Stave.
Lo poteva vedere, chiaro come il sole, nella sua mente che sfoggiava il suo sorriso per incantare gli occhi della Principessa della Jurda.
E, siccome, quella non era la sua serata – e alla ruota il suo numero si fermava sempre sul colore che non sceglieva – aveva potuto vedere gli occhi blu elettrico, anche nella più fosca delle notti kerchiane, trovarlo.
Il sorriso sul viso di Dominik era ampio e sembrava autentico, anche se gli occhi erano macchiati di un sentimento meno sereno: il disagio.
Ioren ne era permeato interamente di quel sentimento.

“Oh, ma non è un lupacchiotto scappato dalla sua cuccia?” lo aveva preso in giro Ilse quando lo aveva veduto. La donna non aveva nessun amore per la patria di sua madre, nonostante le sue fortune e la sua ricchezza fossero da attribuire a Fjerda, anche più delle ricchezze del suo padre kerchiano. D’altronde il loro paese non era stato gentile con loro.
“Lupo?” aveva chiesto retorico lui, “Al massimo sarei un cagnolino da passeggio, che piacciono tanto alle nobildonne” aveva risposto Ioren. Ilse aveva ridacchiato, “Ho detto quello che ho detto” aveva considerato.
Sol Sho Ioren” aveva detto invece Dominik attirando la sua attenzione, “Buonasera” aveva risposto lui rigido, “Non sei venuto al Caffè oggi pomeriggio” aveva considerato il ravkiano. Ioren aveva scosso il capo, “No, stavo ultimando il saggio di letteratura” aveva dichiarato, anche se non era vero, lo aveva terminato alcuni giorni prima, “Dentro ci sono Jordie, Bridgit e … una ravkiana di nome Drina” aveva detto, per invitarli ad entrare.
Ilse aveva guardato Dominik con rinnovato interesse, curiosa di quella informazione, “Abbiamo una nuova amica?” aveva chiesto, “Una vecchia! Conosco Drina da tutta la vita” aveva raccontato Domik. Altra informazione utile “Anche Jordie, a quanto pare” aveva dichiarato Ioren.
E Drina aveva detto di conoscere Linnea Opjer, cosa che Ilse Dyk non sembrava sapere.
“Sai, lo sospettavo? Non lo hanno detto esplicitamente, ma mi pareva proprio che quell’infamello fosse troppo interessato a Drina” aveva scherzato Dominik.
“Anche Jordie Ghafa è umano” aveva dichiarato Ioren, allora, con sarcasmo, “Adesso scusate, devo andare, la strada per l’ambasciata è lunga e spesso accidentata” aveva raccontato, “Buonaserata, signori miei” aveva detto, con gentilezza.
“Vai Ilse, raggiungi gli altri, io devo parlare con Ioren” aveva spiegato Dominik. Brividi di freddo avevano attraversato la schiena del fjerdiano, “Ti accompagno per un tratto” aveva detto. Ioren sapeva cosa avrebbe dovuto fare, declinare, ma aveva annuito invece, “Per un tratto” aveva ripetuto Ioren.

 

Avevano percorso la strada in un silenzio pesante, l’aria più tesa del ferro sotto sforzo. Ioren voleva dire qualcosa, ma allo stesso tempo non sapeva come articolare le parole.
Dominik non stava aiutando e questo era un male, perché di solito era abituato a riempire tutti gli spazi possibili con le sue parole; senza però mai parlare a vanvera.
“Questa sera sei particolarmente silenzioso, è successo qualcosa?” aveva chiesto alla fine il principe Ravkiano, con una genuina preoccupazione nella voce.
Ioren lo aveva guardato con la coda dell’occhio, “Hai incantato la tua principessa della Iurda?” aveva chiesto a bruciapelo lui, prima di maledirsi per averlo domandato.
“Ovviamente” era stata la risposta di Dominik, senza neanche un ciglio battuto, “Il mio essere principe le bastava e avanzava, anche senza la promessa di una corona, ma devo ammettere che la mia personalità la ha conquistata. Domani la rivedrò ai giardini comunali per una passeggiata” aveva risposto lui, senza nessuno sforzo.
“Buon per te, per lei” aveva detto stanco Ioren, per il tuo paese e per le casse affamate di Ravka, per la stupida lettera che dovrò scrivere per comunicarlo a Bjorn. Lui non era una spia, non era affatto per essere una spia, per prima cosa aveva una morale ed infiniti sensi di colpa. Quando suo fratello lo aveva spinto ad a provare l’Università di Ketterdam, aveva avuto in incontro con la Buona Regina Mila.
Non vogliam che tu sia una spia,” aveva detto la donna, con la stessa gentilezza materna che aveva sua madre; era pallida come la luna, con capelli d’argento e gli zigomi alti, bella, sì, ma non in quella maniera cristallina, letale, era umana. “È un sentiero solitario, impervio e disturbante, che si nutre di sé. Ma sarai in terra straniera, devi prenderne atto, ogni informazione che raccoglierai sarà un bene per Fjerda ma soprattutto per te” lo aveva rassicurato la Buona Regina Mila. E Ioren guardando i suoi occhi era stato sicuro, che le sue parole non fossero menzogne, lo aveva letto nei suoi occhi.
Così, ogni informazione che aveva captato, dal prezzo dello zucchero che saliva, all’arrivo di qualche illustre straniero in città – che passasse per i canali ufficiali o lo si vedesse giocare a carte al Barile – Ioren lo riportava come informazioni futili, quasi casuali, nelle lettere al suo buon amico Bjorn, prete di Djel, di cui era stato compagno di scuola.
E quando durante le lezioni di Etica – una materia piuttosto ironica ad essere insegnata a Kerch – Ioren aveva visto entrare il Principe di Ravka, aveva saputo, prima ancora che arrivasse un biglietto, che avrebbe dovuto scrivere molto di lui.
Dalla Santificazione di Senje Zoya ed in seguito il Trattato di Os Kervo, i rapporti tra Fjerda e Ravka si erano decisamente aggiustate.
“Lei ha una bella risata” aveva dichiarato Dominik, “So che è una cosa stupida, però mi piace, è musicale, fragorosa, come di qualcuno che non si vergogna affatto di esprimere quello che prova” aveva aggiunto.
Ioren quella volta si era voltato direttamente verso di lui, con occhi accusatori, “Per chi è questa critica, drekiprins[1]?” aveva chiesto mordace.
Dominik si era fatto rigido, come la lama di un coltello, “Per me ovviamente” aveva dichiarato alla fine, stanco. Ioren lo aveva guardato, sentiva nel suo corpo un tumulto infinito di sentimenti, senza riuscirne ad indentificare uno, su tutti; tristezza, rabbia, compassione e … amore.
“Mi stai evitando” aveva detto alla fine Dominik, con un tono sincero e gli occhi azzurri come zaffiri piantonati nei suoi.
Dominik era slanciato, ma era leggermente più basso di lui, Ioren aveva ereditato l’altezza tipicamente fjerdiana degli uomini della sua famiglia, Birstorr, ma non la stessa prestanza, risultando una figura sgraziata, troppo lunga per il suo corpo … Dominik, invece, era così aggraziato, ben costruito e cesellato, anche se era più basso di lui e per ragione dovesse guardare Ioren da una prospettiva minore, tra i due, lo sguardo che deteneva il controllo era quello del ravkiano.
“Mi sto comportando di conseguenza” aveva replicato Ioren, sentendosi colpevole come un ladro. Di conseguenza a cosa? Aveva pensato e lo aveva letto anche nello sguardo di Dominik.
“Sei qui a raccontarmi di come hai incantato la tua ricca signora Zemeni, o di come tua madre vorrebbe mandarti a Nuova Città[2] per conoscere la sorella minore del Marshall” aveva dichiarato spento. “Oh, ti prego non dimenticare Lilyana che ha pensato che sarei un concubino perfetto per la futura Regina Dalai Kir-Taban” aveva replicato l’altro, la sua voleva essere una battuta, ma la sua voce era uscita tesa, strozzata.
Ioren aveva chiuso gli occhi con amarezza.
“Cosa vuoi che ti dica?” aveva chiesto poi Dominik ad una sua mancata risposta, “Sei tu che mi hai detto che dovevo pensare al mio dovere e mettere la testa a posto” aveva aggiunto a tradimento.
Ovviamente, Ioren lo aveva fatto, perché era un maestro nel soffocare i suoi patemi, i suoi dolori. Aveva guardato Dominik con gli occhi azzurri quasi lucidi. Ioren non poteva pensare fosse così abile nel vendersi da non essere sincero in quel momento, “Quando io non faccio altro che pensare a come vorrei baciarti” aveva sussurrato Dominik e siccome non aveva pietà della povera anima immortale di Ioren, aveva aggiunto: “E al nostro giorno all’Isola di Endocth.”
Ognuna di quelle frasi erano state un coltello conficcato nel petto di Ioren.
Anche-io erano le parole che bruciavano sulla sua lingua, forte e brucianti come tizzoni ardenti, desiderio secondo solo al volerlo baciare, stringersi, unircisi ancora.
Ma non poteva.
Non poteva perché Dominik era un principe e sebbene la sua terra permettesse di unirsi con le persone del medesimo genere[3], Fjerda non ancora – per quanto il proselitismo dei reali non fosse mancato – e Dominik era un principe, prima di uno studente, di un ragazzo o di un amante. I principi non sposavano i ragazzi conosciuti all’università, specie quelli che erano i quinti figli di una famiglia non particolarmente agiata e con un titolo nobiliare quasi assente, di un altro stato. ‘Ma il re Egmond aveva sposato una pescivendola delle campagne!’ una voce insidiosa, fastidiosa, lussuriosa aveva riverberato nelle sue orecchie.
E soprattutto Dominik non meritava di sposare una spia, che aveva venduto ogni informazione, ogni confidenza al suo paese, perché quello era il suo dovere.
“Sono stato ingiusto con te, hai ragione” aveva ammesso alla fine Ioren, perché era vero, lui aveva interrotto la loro relazione, ma aveva punito Dominik per aver soddisfatto quello che gli aveva chiesto. “E che la sola idea di vederti con qualcuno mi fa sentire prenda del Vampiro” aveva ammesso.
Dominik aveva sorriso, amaro, con gli occhi azzurri ancora coperti da un velo di lacrime e poi si era sporto per baciarlo sulle labbra, del tutto incurante che fossero stati nel mezzo di una strada di Ketterdam.
Ioren aveva accolto quel bacio, prima riottoso, insofferente, del male che stava causando, poi aveva schiuso le labbra, divorato dalla fame e dal bisogno. Dall’egoismo.

 

Si era innamorato di Dominik nella stessa maniera in cui ci si immergeva in un lago. All’inizio era stato lento, incerto, con il freddo dell’acqua che pungeva la pelle, ma cominciava ad intorpidirla e dopo pochi passi, s’apriva l’abisso, profondo e pesante e si scivolava giù, nel freddo e nel nulla, leggero ed opprimente allo stesso tempo.
E nuotare era bello, anche si era difficile stare a galla e le correnti non erano sempre gentili.
A Dominik sarebbe piaciuto essere uno scrittore, ma non era certamente un poeta, li piaceva scrivere di quotidianità, della borsa che scendeva, dello scandalo delle infestazioni di Birgitta Schenck[4], dei brogli del Consiglio di Thomas Radmakker, degli affari sinistri di Quinto Porto – di cui nessuno aveva mai risposto – fino ai comportamenti impropri tenuti dall’Assistente Duval nell’università.
Aveva anche cominciato a lavorare come articolista, in incognito, per il Krant, il giornale dell’università di Ketterdam[5].
Però, quando pensava a Dominik, si riscopriva desideroso di poter scrivere, di poter esprimere, con il giusto linguaggio, le giuste metafore, i sentimenti che provava, senza però riuscirci.
Ricordava ancora la prima volta che lo aveva visto entrare nell’aula della professoressa Stirling, con quel suo passo audace, principesco, di che nella vita non aveva mai dovuto reclamare nulla che non possedesse già.
Luminoso e vistoso, con un frac celeste, nuovo di zecca, così Ravkiano, sopra un panciotto arancione, una camicia bianca e pantaloni scuri. Come aveva attraversato la porta e risalita tutta la piccionaia di posti in cerca del suo, ogni sguardo era stato rapito, da quei suoi occhi blu zaffiro, i capelli biondi perfetti e quella stravaganza ostentata ed intrigante.
“Non so te, ma mi sono innamorata” aveva canticchiato languida la sua vicina di posto, una ragazza di cui lui non aveva alcun valido ricordo. Ioren era rimasto in silenzio, perché … perché era bello, in maniera irrisoria, spavaldo in maniera fastidiosa e scommetteva fosse audace in maniera stucchevole.
Dominik non si era seduto lontano da loro, ma neanche aveva dato segno di averli notati. “Secondo te e figlio di qualche mercante importante?” aveva chiesto, “No, è un ravkiano” aveva risposto lui, senza battere ciglio, perché aveva imparato nei mesi precedenti all’inizio dei corsi, mentre si muoveva  per le vie sporche di Ketterdam aveva imparato ad osservare.
I kaelish erano caotici, allegri, per lo più, gli zemeni accomodanti, gentili quasi, gli shu erano silenziosi, quasi invisibili, i kerchiani – la maggioranza – erano figure effimere, con tante promesse in bocca e pugnali alla schiena, i fjierdiani erano possenti, orgogliosi, rumorosi e i revkiani erano eleganti, spavaldi.
“Che sciocchi che siete” aveva detto qualcuno alle loro spalle, Martijin Dresden, il figlio di un ricco mercante kerchiano, parente ad un membro del Consiglio, “Quello è il Syndrakona” aveva dichiarato senza vergogna, con gli occhi avidi rivolti a Dominik.
Il figlio del Drago. Il principe di Ravka.
Con quei pensieri in testa si era voltato, per osservare il profilo perfetto di Dominik, inconsapevole, bellissimo ed addormentato al suo fianco.
Con la carnagione ambrata, piena e viva, in contrasto con il suo pallore bianco lunare. Si era chinato e gli aveva dato un bacio delicato sullo zigomo, sottile, appena un contatto, perché non voleva svegliarlo.
Si era tirato su, con fatica, sentendo ancora un po’ di dolore ed indolenzimento, dal letto ed aveva cercato di recuperare i suoi vestiti sparsi per la stanza.
Avevano preso una camera al Silver Six, registrandosi con falsi nomi – non che fosse necessario, in fine dei conti, ben certi, che il mattino dopo Manisporche avrebbe letto il libro degli ospiti sapendo esattamente quale faccia corrispondesse al nome, al di là delle menzogne.
Non avevano preso una delle stanze più in alto, eleganti e belle, ma più vicine alle sale da gioco, nei piani bassi.
Una piccola camera che conteneva una stanza, con un grande letto, un baule per sistemare pochi averi ed un bagno privato, così piccolo da permettere una sola persona di entrarci e stare comunque scomoda, sfornito di una doccia.
L’essenziale, il minimo, per quegli avventori che rimanevano una notte, desiderosi di tenere ogni kruga possibile per il gioco ai casinò.
Aveva infilato veloce tutti i suoi vestiti, prima di recuperare la giacca nuova dal taglio kaelish, però aveva visto la sua tracola da studio abbandonata e i resti accartocciati delle sue lettere.
Aveva spiegato un foglio osservando quel marasma di cancellatura e righe nere che si aprivano davanti a lui.
Incerto.
“Fuggi, già?” aveva chiesto Dominik, con la bocca impastata di soddisfazione, non ancora del tutto consapevole.
I sentimenti che albergavano in Ioren erano spaccanti, da un lato c’era la consapevolezza di dover fuggire, tornare a casa ed incontrare l’ambasciatore Cotter – che non si curava di Ioren come un pulcino, ma a cui lui doveva ancora riferirsi – e l’altra che lo supplicava di tornare nel letto e fare ancora, ed ancora, l’amore con Dominik.
Ancora una volta, da pessimo fjerdiano quale era, Ioren si era lasciato scivolare accanto Domik, sul materasso bitorzoluto della stanza.  Il principe si era messo a sedere, ancora nudo e non turbato che tanta pelle fosse esposta, ancora lucida di sudore e dei segni voraci dei baci e delle unghie. “Vorrei vivere in un letto con te per tutta la vita” aveva ammesso Ioren, sporgendosi e baciandolo sulle labbra ancora.
“Non lo dire a me” aveva risposto Dominik, con una risata piena di amore, posando una mano gentile sulla sua guancia, “Credo che dentro di te, sia il mio posto preferito” aveva detto baciandolo, mentre l’altra mano era premuta sul suo pettorale, dove era il cuore. Ioren si sarebbe voluto togliere anche la camicia per sentirsi ancora pelle a pelle, aveva condotto le mani a coppa sulle guance dell’altro, “Sei orribilmente sfacciato” aveva dichiarato divertito Ioren.
“Non è colpa mia se a Fjerda siete freddi come l’Inverno nel Permafrost” aveva commentato Dominik tra una risata e l’altra. “Non sai che Avefall, la gente prega che Senje Zoya venga a riscaldare le pianure innevate, per dare ristoro” aveva raccontato Ioren.
“Fidati, l’ultima cosa che i fjerdiani dovrebbero volere è vedere mia madre che sputa fuoco” aveva considerato. Ioren non sapeva neanche come immaginarlo un drago in tutto il suo spaventoso splendore, immaginava una bestia enrome, composta di squame duro ed affilate come rasoi, nero, rosso, letale e spaventoso. Immaginava quando la regina librava in volo, come una nuvola nera enorme, capace di oscurare il sole accompagnata di fulmini, saette e tempeste.
… e Dominik era figlio di un drago.
“Ti sento distratto, ma non preoccuparti ho ancora un autostima così ampia da non prenderla sul personale, anche se sono qui, nudo, in un letto” lo aveva bonariamente rimproverato il principe.
“Stavo pensando a tua madre” aveva dichiarato Ioren, “Be, amico, se volevi rompere la tensione, questa era la frase giusta” aveva riso Dominik.
“Ho visto i draghi solo nelle raffigurazioni, per me, è fuori dalla capacità di immaginazione, anche solo creare nella mia mente la figura di … un drago” aveva ammesso Ioren.
“Bene, allora, per le prossime vacanze, vieni a Ravka con me, ti presenterò mia madre e le chiederò anche se ci fa fare un giro sul suo dorso” aveva detto senza vergogna Dominik.
Ioren era rimasto impietrito a quelle parole. Andare a Ravka con lui, essere presentato da lui, ai leggendari ed eroici sovrano.
“Ci permetterebbe di farlo?” aveva scherzato Ioren, nervoso e sudante, “Assolutamente no! Ma mio padre si offrirebbe di portarci in giro con il suo bel mostro di tenebre” aveva riso Dominik.
Ioren aveva avuto un fulgido tremore alla menzione del Korol Rezni, in grado di tramutare se stesso in una creatura infernale o staccarla da lui, un doppione oscuro, di quelli che tutti gli uomini avevano, ma che lui vedeva, chiaro, tangibile e reale.
“So cosa stai pensando, ‘Per Djel, suo padre ha un mostro d’ombra, sua madre un drago e la capacità più eccezionale di Dominik è essere bellissimo’” aveva dichiarato il principe, con una risata nervosa,
“Però bellissimo in maniera assoluta, più di chiunque altro al mondo” aveva risposto Ioren, baciandolo ancora.
“Così bello da fermare una battaglia con la sola presenza?” aveva indagato divertito il principe.
Perché sua madre lo aveva fatto, era discesa su una battaglia ed anche i druskelle, i più feroci, i più inflessibili tra i fjerdiani, avevano deposto le armi e piegato le ginocchia.
“Così bello da fermare una guerra” aveva confermato Ioren.

 

Era tornato all’ambasciata direttamente il mattino dopo, consapevole che la notte non sarebbe mai fatto rientrare. Lo aveva fatto alle prime luci dell’alba, quando il cielo perdeva quella sfumatura di blu profondo e si di addensava in un blu marino, macchiato da bande di rosso, rosa ed arancio, fino a che l’azzurro spariva divorato dai colori caldi.
Con quella luce aranciata, anche i sanpietrini umidi di Ketterdam, risorgevano di tonalità cotte, le pareti si coloravano e la città oscura, diveniva bella.
Era quasi bello, camminare durante l’alba, perché se il tramonto offriva uno spettacolo simile, ma pullulante di turisti, avventori e disperati, l’alba era per gli ultimi ritardatari e i primi del giorno. Il silenzio era sovrano, rovinato e turbato solo dalle navi che lasciavano i porti ed il buon giorno dei gabbiani.
Si era beato ancora, all’aria di quei colori e rumori e poi era tornato dentro, chiuso nella Fortezza.
Nel comodo della sua piccola stanza, la metà di quella del Silver Six, ma arredata con un armadio per i vestiti ed una scrivania dove studiare alla luce di una lampada la sera – al posto delle aule lettura – ed un bagno personale provvisto anche di una vasca-doccia, Dominik aveva soffocato la sua coscienza.

Mio caro amico Bjorn,

sento la tua mancanza. Anche se sei un uomo di fede e l’unica devozione che hanno in questa città dimenticata da Djel e i suoi Figli è per il Dio-Denaro, credo riusciresti ad apprezzarla. In particolare, la mattina presto, quando il mondo tace ed i colori trasformano ogni cosa. Inoltre, credo che la tua presenza renderebbe più piacevole ogni cosa, probabilmente anche un soggiorno all’Anticamera dell’Inferno.
Spero che a Djerholm ogni cosa continui ad andare bene e che tu riserva preghiere per sua altezza il re, la regina ed il piccolo principe.
Spero che il tuo studio al seminario continui buono, un po’ mi manca confesso, una vita austera, ma una vita dignitosa per un fjerdiano.
Ho apprezzato molto la tua ultima lettera e le tue considerazioni sui Tratti di Senje Cnut. Spero che i libri che allegherò a questa lettera saranno di tuo gradimento – potrei aggiungerne uno che il buon Padre Ubbe non approverebbe affatto. Giusto, un altro motivo per cui ti vorrei a Ketterdam e sapere quanto apprezzeresti frequentare l’università; hai sempre avuto una mente più eclettica e brillante, per quanto apprezzi e rispetti i precetti di Djel e dei suoi figli, trovo ingiusto saperti confinati in essi. Inoltre, con il tuo carattere pieno di vita ti faresti molti più amici di quanti me ne sia fatti io, come ben sai, come ha sempre detto mio fratello, sono una creatura tendente alla solitudine. Sospetto che il nostro gruppo di amici si allargherà ancora.
Jordan, ricordi? Si è invaghito di una bella ravkiana, una sua vecchia amica, la ha addirittura presentata ai suoi genitori. La ragazza mi ha detto di essere vecchia amica di Jordan, perché i loro genitori hanno lavorato fianco a fianco, ma pare che la ragazza da giovane si sia intrattenuta con compagnie anche più regali. Comunque, mi viene proprio un patema d’animo, perché l’amore è proprio nell’aria. Oltre Jordie, pare che Juliana abbia deciso di organizzare un incontro tra il mio compagno di bevute – sempre morigerate –  preferito ed una sua amica, una certa nobildonna zemeni, ricca, di orgine kerchiane. Che strana combo, no? Visto l’eterna guerra che esiste tra le due nazioni.
Comunque, pare che l’incontro sia stato un successo, penso rimarrò solo a breve, con la sola compagnia di Bridgit.
Per questo la tua presenza sarebbe un balsamo, perché, come sai, ti tengo sempre nel cuore.

Tuo
amico Ioren.

Amava sinceramente Dominik.
Si era innamorato di Dominik nella stessa maniera con cui si immergeva in un lago, prima poco a poco, poi come un tuffo da sovrastarlo interamente.
Ma quando pensava alla prima volta che era andato al lago, ricordava di aver avuto undici anni scari, che la primavera era ruggente nell’acqua e le distese di ghiaccio lasciavano spazio a specchi d’acqua purissima e, soprattutto, ricordava la mano di Bjorn prenderlo e condurlo tra le acque fresche, con fiducia, anche se erano a malapena conoscenti.
Amava Dominik, ma amava Fjerda, amava il modo in cui Re
Egmond stava ricostruendo il loro paese, la buona regina Mila ed amava il ricordo di Bjorn.
E sperava che un giorno Dominik non lo avrebbe odiato troppo.

 



[1] Prins, è principe in norvegese/Islandese/Svedese, Dreki è drago in Islandese

[2] Ho deciso che le isole erranti si beccheranno i Nomi “italiani”, poiché mentre tutti i continenti hanno nomi invetati (fjerda, Ravka ETC), le Isole Erranti sono le uniche scritte in Inglese (in originale), oltre le colonie del sud.
Ed io credo che se un autore prende la decisione di scrivere nella sua lingua un nome è perché vorrebbe che il significato fosse immediato (es. Tolkien presenta ‘Gran Burrone’ e Gondor) e ciò mi ha portato a cercare coerenza narrativa.

[3] Mi pare che Nadia e Tamar siano sposate e alla cosa non venga concessa troppa importanza.

[4] E’ un personaggio tratto dai libri, per distinguerla da Bree, ho scritto il nome dell’altra ragazza all’Inglese invece che all’Olandese (d’altronde Kaz non è un nome Olandese e Uailan neanche ci somiglia alla pronuncia corretta di Wylan – fingiamo che non sia uno di quei casi random dove scrivi in un fandom e ci metti nomi inglesi che non ci stanno per nulla).

[5] Krant: Giornale in Olandese. Ora, S&B/SoC/KoS sono ambientati in un mondo ‘700-‘800 circa, dove la stampa aveva il suo bel perché in importanza. “Il giornale de Letterarti” era in circolazione dalla seconda metà del 1600, quindi diciamo che ho sempre trovato molto strano che nel Grishaverse non ci fossero, anche perché era un modo abbastanza semplice di far circolare le notizie. Nella mia testa il Krant è un giornale Universitario, pensato per gli universitari, ma distribuito e seguito da tutti gli intellettuali locali, a Ketteram, che si presenta come un giornale sia di denuncia (come gli articoli di Ioren), però anche legato ad analisi politiche, critica sociale e pure editoriale di poesia e letteratura. Non so se ha senso?

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Capitolo 9
*** Vasilissa II (40 DR) ***


PRIMA DI TUTTO: BUONA PASQUA
Ho deciso di pubblicare un capitolo con un certo anticipo e probabilmente il prossimo verrà tra eoni (anche perché sto aspettando un incarico).
Scrivere i capitoli di Vasilissa mi diverte un sacco – perché sostanzialmente non le frega una cippa – ma è anche abbastanza complicato perché dovrei distribuire informazioni sulla coorte.



La vestizione della Tsarevich Alina



VASILISSA
(40 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

“Stai organizzando un matrimonio?” aveva chiesto con genuina curiosità la terza principessa, guardandola attraverso lo specchio.
“Sì, ho convinto la signora Bum a preparare qualcosa per spezzare il primo pasto” aveva risposto lei senza vergogna, mentre osservava con crudo interesse i dipinti tremendamente femminili appesi all’armadio. “Posso ordinarglielo se vuoi” si era intromessa Genya Safin guardandola.
Vasilissa era saltata, sapeva che prima di essere un triumviro la donna era stata una servitrice. Doveva essere stata eccezionale – lo era ancora in quel momento – perché Vasilissa non sarebbe mai passata da cameriera personale della principessa a pericolosissimo generale ed animale politico.
Non era abbastanza intelligente.
Aveva osservato il generale, la migliore Tailor di tutti e due i palazzi, posare le dita sulle labbra della principessa e l’altra su una rosa di un colore rosso-bruno, che aveva tinto del medesimo colore la bocca della principessa. Alina aveva sorriso.

Genya si era presentata nella camera della principessa, fermando l’opera di vestimento in atto, da parte di Vassilissa, ed annunciando che sarebbe stata lei a preparare la principessa.
La signora Safin era venuta poiché Lissa ed Alina non erano state molto reattive, più che aiutare la principessa a prepararsi per il grande incontro, Lissa si era lasciata assorbire un paio di libelli erotici che la principessa aveva trovato.
Questa è su mia madre. Questo su mio padre.
Questo su mia sorella. Questo su mio fratello …
… e
Sankti questo su mio fratello e mia sorella!
Genya le aveva trovate così, “Mi preoccupo io della principessa” aveva stabilito, mentre Alina aveva cominciato a metter via tutte le cartacce.
Però, quando Vasilissa aveva deciso di andare via, Alina le aveva chiesto di rimanere e Genya non aveva fatto commenti in merito. “Quindi chi si sposa?” aveva domandato proprio la nobile Safin.
“Il mio amico Yusuf, fa lo stalliere. È un ragazzo molto dolce” aveva spiegato subito Vassilissa, “Un po’ impulsivo, ogni tanto” aveva ammesso.
“Oh, giovani amori, pieni di fuoco e passione” aveva considerato Genya.
“Che schifo” aveva replicato Alina, mentre la tailor le allungava ed ispessiva le ciglia, nerissime e lunghe, “Oh, prima o poi capitolerai anche tu. Lo ho fatto persino io, una volta” aveva scherzato, con l’occhio d’oro colmo di tristezza.
Tutti sapevano che Genya fosse rimasta vedova il giorno della sua stessa celebrazione di nozze. Vasilissa aveva sentito parlare del famoso David Kostyk, il più brillante materialki da Ilya Moronzova probabilmente,  aveva creato uno degli amplificatori di Sankta Alina, ricreato la lumya e progettato una nave di vetro, capace di passare la faglia.
Aveva aiutato alla creazione degli izmars’ya.
Aveva progettato ogni sorta di armamento bellico, e tutti si rammaricavano di cosa avrebbe potuto creare in pace.
Ed era stato il marito di Genya Safin.
“La sposa ha un vestito?” aveva chiesto subito Alina, “Credo che abbia qualcosa” aveva considerato lei. Annia’ka non era povera, ma immaginava non potesse far confezionare l’abito da un sarto per l’occasione, giacché doveva essere tutto fatto di nascosto.
“Oh santi, Genya non è assurdo che una sposa indossi un abito definibile come qualcosa” aveva starnazzato Alina melodrammatica, “Scommetto che stai per proporle il tuo abito pervinca” aveva risposto il triumviro.
“Non si sposa bene con la mia pelle” si era giustificata la principessa, “Si sposa benissimo con la tua pelle” aveva risposto Genya.
“Ma è brutto, anche Vassilissa concorda” l’aveva trascinata in mezzo la principessa.
Lei era saltata dall’angolo in cui si era ritirata, non sapendo bene come muoversi, si era allontanata solo per chiedere un vassoio di biscotti, ma non era mai andato a prenderlo.
L’occhio oro di Ravka l’aveva guardata, non c’era tensione nel suo viso, solo melodrammatica delusione, “Davvero?” aveva chiesto.
“Il modello è un po’ …” aveva provato la cameriera, con le parole in bocca come tizzoni ardenti, come poteva dirlo senza sembrare scortese, sgarbata, “Superato, Genya” aveva insistito Alina.
La dona aveva battuto le palpebre del suo occhio sano, “Oh, Santi! Sapevoc he questo giorno sarebbe arrivato” aveva ammesso, allontanandosi, sedendosi sul divanetto di rappresentanza.
Genya Safin è diventata obsoleta” aveva commentato con voce neutra. A parere di Vasilissa tutto poteva esser detto della donna tranne che fosse inutile, era caparbia, intelligente ed un’ottima politicante. Nonostante le cicatrici che segnavano il suo corpo, che a priva vista lasciavano storditi, riusciva sempre ad intrattenere ed affascinare tutti.
Aveva superato i sessanta anni, i suoi poteri grisha la rendevano dall’apparenza più giovane – non quanto la regina Zoya – ma di poco, la facevano apparire ancora matura, ma sempre piacente. Anche i suoi vestiti, retaggio di una moda passata erano comunque belli, pregiati e confezionavo l’idea di una donna che non aveva bisogno di un viso liscio per apparire eccezionale e mirabile.
“Oh, sei tutto tranne che obsoleta. Ravka sarebbe già bruciata senza di te e brucerebbe domani se tu decidessi di ritirarti a vita privata” le aveva detto subito Alina, piena di vigore.
Genya aveva sorriso, “Oh sankti, zuccherino, lo so benissimo, ho ancora una mente attenta e tanto da offrire a Zoya, ma la mia impeccabilità per la moda, per i costumi, santissimi, quella è passata” aveva ammesso, come se la cosa fosse stato un dramma.
“E la cosa ti rattrista davvero?” aveva domandato Alina piena di perplessità.
“Certo, ho creato io lo stile, io la moda. Ho modellato il gusto di questa nazione da quando avevano quindici anni. Ho vestito, sante, regine, ambasciatori. Sembra stupido, ma curarmi di questo è sempre stato … rilassante” aveva confidato, “Diventa un po’ triste scoprire di essere superati” aveva commentato, con un po’ più di verve.
Poi si era sollevata, “Bene, Vassilissa prendi l’abito pervinca ed un altro vestito dall’armadio della principessa, uno più … moderno” aveva dichiarato senza perdersi d’animo.
“Dolcezza, vestiti come più ti aggrada” le aveva detto.
Le due giovani donne avevano eseguito i comandi senza perdersi d’animo, “Op, op, seguitemi!” aveva ordinato la donna.

Genya non le aveva condotte in nessun luogo del Gran Palazzo, ma invece avevano preso il cortile esterno del Piccolo. “Aspetta ne reggo uno” aveva detto Aline, togliendo a Vasilissa l’incomodo di dover portare i due lunghi vestiti in modo che non fossero pendenti.
Genya era alta ed aveva le gambe lunghe, era leggiadra quando camminava, ma aveva lunghe falcate, Alina, poco femminile le marciava al fianco, allo stesso ritmo. Solo Vasilissa più bassa, faceva fatica a starle dietro; era notevolmente più bassa di ambedue le donne e con un portamento decisamente meno imperioso.
Una variopinta corte di grisha in kefte di ogni colore – di quei tempi non erano più solo tre colori – che si erano spostati immediatamente quando avevano visto passare le tre donne, un corridoio.
Ogni occhio pregno di ammirazione e rispetto era apparso davanti a loro, chiaramente non per Vasilissa ma per il triumviro e per la principessa.
Aveva riconosciuto un principio di tensione ed imbarazzo balenare in Alina, che alzava una mano per salutare educatamente, diversamente da Genya che camminava a mento alto, dispensando saluti a destra e manca con confidenzialità.
Il Piccolo Palazzo doveva essere il suo regno, era la più longeva ad aver mai ricoperto la carica di Triunviro: quaranta anni tondi, o così sarebbe stato a breve.
Forse per questo stava tenendo così tanto ad organizzare una cerimonia così perfetta. Era l’anniversario della riunificazione di Ravka, della distruzione della faglia ma anche la nascita del Triunvirato e del suo ruolo.
Avevano attraversato velocemente il palazzo, fino ai piani dei laboratori dei materialki. Vasilissa sapeva fossero solo una parte, ne esistevano diversi in giro per il ravka, sapeva ne esistesse uno segretissimo non lontano da lì, dove lavoravano umani e materialki.
“Oh, non ti aspettavamo Genya” erano stati accolti da una voce.
Un giovane uomo vestito di viola, con ricami delicati grigi li aveva salutati, Grigori Nabisky il nuovo triunviro, rappresentante dell’ordine dei materialki, dopo che Sankta Leoni delle Acque si era ritirata dal ruolo – Vasilissa aveva saputo, dai servi del Piccolo Palazzo, che la donna si riteneva fin troppo donna d’azione che amministratrice e che il ruolo le era sempre stato stretto.
Grigori era un giovane uomo, sulla trentina, il viso fresco, dall’incarno chiaro, con i capelli neri e gli occhi verdissimi come le foglie; quando sorrideva aveva piccole fossette che si formavano sulle gote che lo facevano apparire più giovane.
Con lui c’era lo Shu Nebhan, che nonostante fosse un etherealki inferno, passava molto tempo nei laboratori dei materialki o nelle feste sfrenate della palude d’oro. Vasilissa era eccitata per le feste previste nei prossimi giorni, alcune nella tenuta dei Kirigen.
Alina non aveva mai avuto il permesso di andare, prima di quel momento, e così era stato anche per Vasilissa. Sarebbe stato: eccitante.
“Oh, lo so, lo so. Ho bisogno di uno dei tuoi materialki, uno bravo come stoffe ed altre facezie, tesoro” aveva scherzato Genya con un sorriso allegro, guardando il giovane Triumviro, “Devi fare esplodere qualcosa?” aveva chiesto Nehban, aveva occhi d’oro come il prosecco frizzante, era più vecchio del suo collega, ma più giovane di Genya, come tutti i grisha la loro età sembrava sospesa nell’etere.

La donna aveva fatto oscillare i riccioli rossi in un segno di diniego, “Oh no, devo sistemare due vestiti” aveva considerato facendo stendere ad Alina e Vasilissa i vestiti sul grande tavolo da lavoro. I due grisha si erano accorti solo in quel momento di loro, “Oh! Sua altezza, benvenuta in queste umili stanze” aveva detto subito Grigori.
Alina aveva sorriso colma di imbarazzo.
“Proprio non riesco a concepire sia la figlia di Zoya e Nicolai” aveva detto sfacciato lo shu, Alina non l’aveva presa a mano.
“Perdonami, ma non esistono sarti per questo?” aveva chiesto Grigori, dopo essere stato salutato come d’uopo dalla principessa, guardando Genya.
“Non per questo vestito e non con il tempo stretto. Sai cosa accadrà tra un paio d’ore?” aveva domandato retorica Genya.
“La buona Regina Mila passerà le porte della città!” la risposta era venuta alle loro spalle.
Si erano voltati tutti e la principessa Lilyana era lì, sulla soglia dei materialki.
Indossava una kefta di seta elegante di un blu intenso, aveva maniche amplissime che quasi strisciavano per terra, la vita era fermata da una cintura composta di fili d’argento intrecciati come nastri viminei, da cui fiorivano foglie e fiori, troppo delicati per essere manifattura umana. L’unico gioello e punto di luce nel suo vestiario
Ai ghirigori d’argento squaller, si aggiungevano arzigogoli azzurri, tidemakers, che tracciavano i confini dei bordi del collo, delle maniche e dell’orlo. Alcune decorazioni fiorivano anche sulle spalle.
La kefta era stretta e scivolava fino ai piedi come un vestito.
I capelli erano una cascata di boccoli neri che scendevano delicati ai fianchi delle orecchie, fino alle spalle, aveva le labbra lucide di trucco e la polvere azzurra sulle palpebre. “Oh, principessa” aveva detto subito Genya senza perdere colore, Vasilissa si era chinata come d’ordinanza, mentre i grisha erano rimasti immobili davanti alla presenza, non particolarmente turbati.
D’altronde, prima di essere la principessa erede di Ravka, la principessa Lilyana era una grisha del Piccolo Palazzo.
Attaccato alle sue gonne c’era il piccolo tsarevich Juris
Secondo Vasilissa, il principino era un bambino adorabile, e lei tendeva poco ad avere quella considerazione, anche se era terribilmente curioso. Il viso del piccolo bambino si era illuminato quando aveva visto la zia, era lasciato la presa della kefta della madre per correre con vigore verso la ragazza.
Alina aveva abbracciato subito il nipote e lo aveva tirato su, “Buongiorno bel ragazzo” aveva detto immediatamente. Il bambino era arrossito sulle guanciotte tonde.
“Stiamo sistemando il vestito di tua sorella” aveva considerato Genya, attirando nuovamente l’attenzione, “Stai per dire che i materialki del Piccolo Palazzo abbiano di meglio da fare” aveva commentato Alina, sua sorella l’aveva guardata con severità.
Vasilissa lo sapeva che le due donne si volevano bene, ma non era mai stato facile tra loro.
“Si e no; penso ci siano ottimi sarti al Gran Palazzo, ma un lavoro del genere può essere un buon esercizio” aveva considerato la principessa erede, “Seguitemi, se volete” aveva considerato la principessa ereditaria.

Genya sembrava colpita da quella svolta degli eventi ed aveva ordinato di prendere il vestito, tenendo tra le braccia il vivace nipote, Alina non si era proposta di aiutarla, così Vasilissa aveva raccolto ambedue i vestiti e mosso a compassione il triumviro ci aveva ragionato, forse incuriosito anche lui.
Avevano seguito la principessa lungo un corridoio, fino ad una stanza. C’erano otto bambini, il più piccolo non poteva avere più di otto anni ed il più grande non più di dodici, indossavano tutti le kefte ametista, senza decori, una lunga macchia monocolore.
Erano sistemati lungo una grossa tavola di legno dalla forma di ferro di cavallo, davanti a loro c’erano cianfrusaglie di ogni tipo. Ingranaggi, pozioni, rotelle e vari macchinari smontati.
Con loro c’era una donna matura, però, Vasilissa la riconobbe prima ancora che voltasse lo sguardo verso di loro.
Sankta Leoni delle Acque, con i capelli neri striati di grigio raccolti in sottili trecce, fermate con anelli d’oro.
Sapeva che la donna era rientrata in città per i festeggiamenti, ma non pensava stesse insegnando ai bambini.
I ragazzini erano saltati immediatamente quando avevano veduto chi era entrato si erano subito prodigati in una tentativo di saluti formali, risultando più che altro abbastanza caotici.
Vasilissa immaginava che tre principi e due triunviri dovessero essere uno spettacolo piuttosto insolito.
“Buongiorno Leoni” aveva detto Genya affabile, “La principessa Lilyana ha una proposta per i bambini presumo” aveva considerato.
“Sì, alla mia dolce sorella, serve aggiustare i suoi vestiti molto velocemente. A breve gli emissari di Fjerda saranno qui e non vorremo di certo sfigurare” aveva considerato la principessa.
Genya aveva fatto un cenno a Vasilissa che aveva steso sul tavolo davanti ai ragazzi. “Perché due?” aveva chiesto un ragazzino.
“Questo pervinca deve diventare dello stesso modello di questo blu …” aveva cominciato Genya, “Magari con la vita un po’ più stretta?” lo aveva specificatamente chiesto a Vasilissa, “Allungherei l’orlo della gonna e sistemerei le spalle, più bombate” aveva ammesso piena di incertezza.
“Perfetto, quest’altro invece vorrei che diventasse oro” aveva dichiarato Genya, “Magari con qualche decoro, intrecci viminei crema e …” aveva fatto una pausa, guardando per la stanza, “Le perline, sul busto” aveva detto Vasilissa raccogliendo una ciotola piena di piccole perle di vetro  non perfettamente tonde, alcune lucide ed altre opache.
“Qualcuno si sposa?” aveva chiesto una ragazzina mentre raccoglieva da un tavolo mentre raccoglieva una foglia d’oro crepata.
“Un’amica di Lissa” aveva detto Genya, mentre prendeva le perle dalle sue mani.
“Visto le ottime mani in cui vi sto lasciando in mani più che ottime verrò qui a vedere il lavoro dopo” si era declissato Gregori. “Stai tranquillo amico mio, il tuo lavoro è pieno di impegni. Ho preso io in custodia i cuccioli oggi” aveva detto la vecchia triunviro con tranquillità, osservando come i ragazzini osservavano curiosi i vestiti.
La principessa Lilyiana aveva scosso il capo, “Io andrò ad organizzare per bene gli alloggi. La Buona Regina Mila ed il Principe saranno in arrivo in un paio d’ore, ma entro una settimana avremmo tutti i nobili del mondo. Vogliamo che questo palazzo non esploda” aveva ammesso Lilyana, “La Regina Dalai ha già mandato missive per far sapere che entro tre giorni sarà alle porte della città. Non ho capito se la sua fosse una minaccia” aveva ammesso, raccogliendo suo figlio dalle braccia della sorella, “Voglio stare con la zia!” aveva replicato subito il bambino. Alina aveva riso divertita, “Da quel che ho sentito in giro, è infervorata perché hai sposato l’uomo che voleva come compagno” aveva risposto la preferita.
Liliyana aveva preferito ignorare apertamente sua sorella, per rispondere al suo bambino: “La zia deve provare un sacco di vestiti e fare attività noiose”, senza battere ciglio, “Anche tu fai tante cose noiose” aveva replicato il bambino prontamente, “Infatti: ti porterò dal Nonno e potrai nascondere tutte le sue scarpe sinistre” aveva aggiunto la principessa, dando un bacio sulla guancia del figlioccio.
Vasilissa presa da quello scambio non aveva affatto notato l’audace bambina che aveva parlato prima, l’aveva notata solo quando il generale Safin aveva esclamato: “Oh, sei bravissima!” attirando la loro attenzione.
L’abito blu della principessa Alina era diventato della stessa tinta d’oro della foglia, per mano della bambina, “Grazie” aveva detto lei, lasciando cadere il foglio. Vasilissa non aveva potuto fare a mano di trattenere la sua mano che era saltata fino alla stoffa, trovandola ancora ugualmente morbida, di velluto. “Per un secondo avevo pensato sarebbe stata d’oro!” aveva esclamato lei, sconvolta.
La ragazza aveva sorriso ed era arrossita a quel complimento. Era giovane, poteva avere non più di otto anni, con capelli scuri come le ali di un corvo, le medesime sopracciglia alte e nere. I suoi occhi erano di un castano così scuro da risultare quasi indistinguibile dalla pupilla.
L’incarnato era ambrato, probabilmente come le principesse doveva avere qualche goccia di sangue suli, ma per lo più sembrava Ravkiana, tranne il naso appuntito.
“Sì, non c’è da stupirsi” aveva detto la principessa ereditaria, “Spero vorrai trattenerti al piccolo palazzo più di qualche settimana” le aveva detto quasi materna.
La bambina aveva sorriso, “Ci penserò, sua altezza reale” aveva detto composta la bambina, con estrema maturità.
Il principe Juris si era avvicinato alla bambina con una certa curiosità, era più bassino di lei e come tutti i bambini era ancora morbido e tondeggiante, dove lei sembrava quasi una signorina per la posa fiera ed imposta, lui sembrava figlio della sua età.
“Come ti chiami?” aveva chiesto sfacciato, “Caitlyn, sua altezza” aveva risposto misurata lei. “Non hai la faccia di Caitlyn!” aveva ribattuto il bambino.
Sankti, Juri!” aveva esclamato la principessa Liliyana indignata dalla sfacciataggine del principe, per quando il commento avesse fatto sorridere la principessa Alina, che aveva guadagnato un’occhiataccia dalla sorella.
“Questa linguaccia mi ricorda qualcuno” aveva detto Genya tirando una gomitata gentile a Liliyana, che era arrossita come una mela matura – qualcosa che Lissa non aveva mai visto.
Prima che la principessa potesse rimproverare il figlio e lo obbligasse a scusarsi, Caitlyn aveva perso tutta la sua grazia signorile, “Be, tu non hai la faccia da principe” aveva dichiarato la bambina, “I principi sono belli” aveva esclamato.
“Caitlyn scusati immediatamente con il principe” aveva detto Leoni, voleva apparire imperiosa ma non c’era riuscita.
Tutti i bambini sembravano congelati, anche Lissa si sentiva così, che si era voltata verso Alina che aveva un’espressione a metà tra lo sconvolto ed il divertito.
“Posso farti volare fino al soffitto” il principe l’aveva minacciata, “Ed io posso trasformare i tuoi vestiti in fango!” aveva risposto Caitlyn.
La risata di Zoya aveva soffocato tutti i loro pensieri, “Sankti proteggetemi da questo” aveva detto il generale, ma Lissa era certa che dietro tutto quel melodramma ci fosse una certa gioia.
Il principe Juris si era nascosto dietro le gambe di sua madre.

 

 

Vasilissa aveva nascosto il vestito da sposa modificato, impacchettandolo con spago in una stoffa.
“Avete decisamente esagerato con i nastri!” aveva dichiarato Alina attirando la sua attenzione, “Trattieni il respiro” aveva replicato decisa Genya che stava stringendo i laccetti del bustino della principessa. “Preferisco decisamente gli abiti da uomo” aveva replicata l’altra senza colpo ferire.
“Non sono molto esperta, ma ho trovato la ragazzina … Caitlyn molto capace” aveva considerato a mezza-bocca non sapendo bene cosa dire, “Lo è. Qualcuno direbbe che fosse inevitabile, non conta molto però …” aveva confermato Genya, con lo sguardo distratto, “L’età non dice molto. Sono stata una grisha estremamente capace fin da bambina, più giovane di lei in effetti, così come Zoya. Eppure, conoscendoci si potrebbe dire siamo giunte a livelli completamente diversi. Ci sono stati molti grisha promettenti da bambini che non sono riusciti a farcela e ci sono stati grisha tutt’altro che capaci agli inizi che si sono rivelati eccezionali, come Alina Starkov” aveva considerato la grisha, raggiungendo il fondo del corpetto.
“Quella bambina ha talento, sì, moltissimo, come una bambina che disegna vividissimi fiori, ma è lontana dall’essere una brava pittrice, dovrà lavorare moltissimo su di lei, sul suo potere, su tutto” aveva ammesso Genya.
“La domanda” aveva detto Alina, cercando di tirare il bustino per allargarlo un po’, “Come fa Layla ha dominare due elementi, fare la diplomatica, la madre e la principessa” si era lamentata un po’, “Ministro dell’Istruzione, anche” aveva osato rispondere Vasilissa, guadagnandoci solo una smorfia dalla sua signora.
Genya aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli rossi, “Pensa che tua madre era anche più giovane di lei quando è diventata un drago” aveva considerato. Alina non aveva detto nulla, “Così come la Sankta del Sole ha sconfitto l’Oscuro, distrutto la Faglia e Messo fine alla Divisione con un anno in meno di me” aveva commentato, “Diciamo che le grandi aspettative che i miei avevano per me con questo nome, deve averli delusi, riesco a malapena ad essere una principessa” aveva ammesso.
“Lissa!” Genya l’aveva chiamata, mentre lei finiva l’unico nodo, “Sì mia signora?” aveva chiesto prontamente, “Lo senti questo suono? È il tragico violino che accompagna la storia di una principessa sfortunata” aveva replicato. Alina era arrossita di imbarazzo, “Ogni giorno io, come i tuoi genitori, siamo grati che tutto quello che tu debba preoccuparti e di non fare brutta figura con i funzionari” le aveva detto Genya più gentile. Aveva allungato una mano e le aveva accarezzato la guancia materna, Alina si era sciolta in un sorriso dolce.
“Alina di cui porti il nome, non ha avuto un glorioso avvenire. Aveva sedici anni quando aveva fatto tutte quelle cose e poi non ha avuto altro, non ha avuto la bellezza di poterti vedere la gloria, tua madre e te, così bella e fiera[1]” aveva aggiunto.

Vasilissa aveva recuperato i cuscinetti da mettere sui fianchi per gonfiare la gonna, che Alina aveva preso con nervosismo.
In seguito le due donne si erano attivate per far indossare l’abito pervinca perfettamente modificato. Oltre allo scolo a barca generoso, che metteva in risalto le morbidezze del seno e le maniche a buffo, era stata snellita la vita ed alcune pietre luccicanti – Vasilissa era quasi certa non fossero veri gioielli ma creazioni grisha – erano state sistemati lungo tutto l’orlo dello scollo, ma anche sulla vita del bustino e cadevano a cascata sulla gonna, il luccichio rifletteva il pervinca-blu del vestito, ma anche ogni altro colore della stanza.
Gli occhi erano tinti di un rosa audace, come le labbra viola. I capelli scuri erano lucenti come pietra, raccolti in una crocchia ordinata.
Vasilissa era rimasta incantata nel guardarla, nel vederla, così, Alina sembrava in tutto e per tutto una splendida principessa. “Me… Matthias di Fjerda resterà senza fiato?” aveva chiesto retorica Alina, guardandola, secondo Vasilissa non era quella la domanda che aveva voluto porre.
“Credo che tutta Ravka lo farà” aveva ammesso senza esitazione Lissa, senza menzogna.

 

“Ho parlato con Padre Igor, ha accettato di farvi sposare” aveva dichiarato Vasilissa, “Sankti grazie! Uomo buono e tu mia santka personale. Accenderò un certo per te” aveva detto subito l’uomo, prendendole le mani e baciandole. Quasi le aveva fatto perdere la presa sul pacchetto, “Scusa scusa, sai che sono imbranato” aveva detto Yusuf, “Sì, è colpa di Stella-Bianca e la zoccolata che ti ha tirato” aveva commentato lei secca, “Non mi chiedi quanti soldi vuole il prete per il matrimonio clandestino?” aveva domandato retorica lei.
Yusuf era divenuto bianco come la neve, “Che disgraziato. No! Quanto vuole?” aveva detto.
“Una fetta di torta e scegliere il nome del tuo primogenito” aveva risposto lei.
L’espressione sul viso di Yusuf si era fatta prima di sconcerto e poi di gioia, aveva preso Vasilissa per la vita e l’aveva fatta girare come una trottola, pieno di gioia e risate, cosa che lei aveva condiviso.
Oh sanktissimi, spero non si chiami: Ajiwulf o un altro nome così brutto” aveva detto preso da una risata Yusuf, “Si chiama Igor, perciò immagino che non dovrebbe suonare così male: Igor Kunzestov” aveva ripreso lei. “Suona meglio di Yusuf Kunzestov, in effetti” aveva valutato lo stalliere.
“Nel mentre, prendi anche questo, un dono della tsarevich Alina. Fallo provare ad Ania’ka, se non le si addice lo modificheremo” aveva considerato Vasilissa, “Cos’è?” aveva chiesto confuso lui, guardando il pacchetto che lei stava porgendo.
“L’abito da sposa, non vorrai che la ragazza abbia un brutto vestito alle sue nozze improvvisate. Probabilmente la sua famiglia la ripudierà … e vedendolo dopo potrete farci abbastanza monete” aveva considerato.
Il tessuto era velluto pregiato, le perle erano materiale-grisha e forse non era il più ricco dei vestiti, ma era abbastanza.
Sankta Lissa dovrebbero chiamarti!” aveva detto Yusuf, “Spero di no, si contano sulle dita di una mano i Santi che non hanno vissuto il martirio ed io ci tengo” aveva risposto lei.
Sankta Zoya della Tempesta, regina, grisha, drago.
Sankto Adrik l’Asimmetrico, che aveva salvato innumerevoli grisha dalla prigionia di uno stato ed aveva offerto il suo braccio alla guerra civile, grisha.
Sankta Leoni delle Acque, grisha, salvatrice, inventrice …
Sankta Inej delle Catene Spezzate, l’ultima – e non riconosciuta – santa vivente, l’unica, forse nella storia, Santa non grisha mai esistita.
Non esistevano alteri a lei dedicati, non c’erano preti, non c’erano santi e nessuno vedeva le sue ossa. Ma ogni sera tutta Ravka ed anche oltre il male accedevano una candela per la Piratessa che aveva dedicato la vita a combattere gli schiavisti. Che quasi raggiunti i sessanta anni, senza più un capello nero sulla testa, ancora lo faceva.
Ogni tanto apparivano dipinti della Spettro della Vendetta[2].
“Bisogna solo decidere quando fare questa cerimonia. Sarebbe il caso che fosse prima di ritrovarci tutte le corti del Mare Vero in giro, o come l’impressione di quei tempi la cappella palaziale farà molto turni. Tutti, anche se a modo loro, credono nei Santi” aveva considerato Yusuf.

 

Vasilissa aveva spalancato la tenda per poter osservare il cortile di ingresso del Gran Palazzo.
Riusciva a riconoscere la schiena dritta e rigida della Principessa Erede Liliyana, al fianco di suo marito, altrettanto rigido, vestito in stoffe di seta lucida, di un colore acceso, luccicante, quasi opposto al blu intenso di lei.
Liliyana teneva per mano il giovane Juris che continuava a ballare sui tacchi – forse ancora infastidito dalla lingua di Caitlyn – mentre il marito reggeva il giovane Nikolai, ormai vecchio di nove mesi.
Al fianco della donna c’era suo padre, il Re Consorte Nikolai vestito con l’azzurro di Ravka, dalla posizione in cui era, Lissa vedeva la schiena, nessuna aquila bicefala, ma un drago ad ali spiegate che oscurava un sole scintillante. Alina vestita di tutto punto, pervinca, era lì di fianco, come Juris anche lei sembrava nervosa, facendo oscillare il peso da un piede all’altro. Genya Safin al suo fianco era una statua di granito.
Poi Vasilissa riconosceva i soldati scelti da palazzo, i servi, li conosceva tutti e riusciva a riconoscerli tutti.
Lukya, l’Apparat in persona, il nobile Poldunist e la sua moglie soldato, l’ammiraglio Effimov ed altri. Tutti lì, perfettamente in fila, con le armi pronte, ma dall’atteggiamento disteso ad aspettare il sobakcha di Fjerda.

Nel cortile d’avanti uno spiazzo, occupato solo da una fontana ornamentale.
Due donne, fatte di marmo e ferro, vestite con due kefte, con un panneggio così delicato da sembrare vero ed increspato dal vento: Sankta Alina con le braccia alzate, i grisha materialki avevano lavorato con un intricato gioco di specchi sulle dita e delle candele – che andavano accese ogni tramonto ed ogni alba – in modo che le sue mani luccicassero sempre.
Alina era in piedi, con la testa rivolta al cielo, mentre davanti a lei, inginocchiata c’era la Regina Zoya, con la corona di drago, che le dava le spalle, non era in una posa di supplica, anzi no, aveva la schiena dritta e guardava fisso l’ingresso del parco, le mani erano stese orizzontalmente, con i palmi rivolti al cielo, dalle mani sgorgavano zampilli d’acqua che riempivano la vasca ellittica, da cui spuntavano altri zampilli.
Lissa aveva visto, lontano quasi, le due guardie aprire i cancelli e permettere ai primi cavalieri entrare. Aveva riconosciuto subito, come la prima stella del mattino, il principe Dominik guidare la fila.

“Eccolo, il nostro luccicante principe! Quasi ci si aspetterebbe che fosse un Sunsummoner!” aveva sussurrato una voce nel suo orecchio, Vasilissa aveva avuto un piccolo spasmo di terrore, assorta a vedere le carrozze entrare nel parco, non aveva sentito nessuno avvicinarsi.
Si era stretta alla tenda, girando lo sguardo, per osservare chi l’aveva avvicinata.
“Mio signore, nobile Semyon” aveva detto colma di imbarazzo, riconoscendo il viso del giovane uomo; mai del tutto spensierato mai del tutto serio.
“Mio signore nobile Semyon?” aveva chiesto retorico quello, “Dove è finito il Vit’ya di qualche luna fa?” aveva chiesto retorico quello, con quella voce così inquietantemente bilanciata. Vasilissa era arrossita a quel commento, “Mio signore è finita la Festa del Burro” aveva risposto irreprensibile.
Viktor Semyon, il nobile Viktor Semyon, aveva sorriso a quel commento, “Una vera maledizione, mi sono trovato così bene” aveva ammesso lui, senza perdere un briciolo di quel suo tono. Aveva allungato una mano ed aveva sfiorato la guancia di Vasilissa, senza toccarla per davvero, ma lei stessa aveva chinato la guancia per permettere che la sua mano la toccasse. “Anche io” aveva ammesso melanconica, perché non era una menzogna, ma solo un grossolano errore.
“Questo però non smetterà di rendere me meno una me e lei meno lei” aveva detto, spostandosi e sfuggendo alla carrozza.
“Eppure, credici, che preferirei di gran lunga essere meno me, in questo momento” aveva confidato il nobile, con quella stessa annacquata malinconia che piaceva tanto sfoggiare ai giovani nobili, nel tentativo di apparire tormentati e con un cuore sanguinante.
Una recita che Vasilissa in realtà amava particolarmente, frutto di troppi romanzetti d’amore, supponeva. “Quale tragico avvenire ti aspetta, mio signore?” aveva chiesto, “A me spettano un sacco di lenzuola da cambiare” aveva aggiunto.
“Mia zia vuole che sposi la figlia di un ricco mercante, una certo Karkav, Karkiff” si era lamentato Vitya, “Karkoff” aveva risposto Lissa per lui, “Devi sposare la figlia di Vladimir Karafoff, il Re della Seta” aveva aggiunto. Il nobile Viktor Smyon aveva spalancato gli occhi stupito, “Ti sei tenuta informata?” aveva indagato, quasi compiaciuto, “Noi cameriere sappiamo tutto” aveva risposto Lissa, “Inoltre, la signora Karkoff era così felice che un nobile sposasse la sua figliola che credo abbia appeso i manifesti da qui ad Os Petyor” aveva dichiarato.
Non era solo per quello ovviamente; non aveva mai, mai, pensato che Viktor Semyon l’avrebbe sposata, infondo, lei era solo una ragazzina senza ne arte né parte, ma poi era stato annunciato il suo matrimonio con la Principessa della Seta – che era ricca, ma senza una goccia di sangue nobile o regale.
… E poi c’era la faccenda di Yusuf.
Viktor aveva riso stanco, “Volgare. Mia zia vuole questo matrimonio” aveva commentato, “Pensavo mi avesse tirato fuori dal mio bel feudo per farmi imparare la politica della corte, per farmi corteggiare il Frutto dell’Autunno, ma no, per accalappiarmi ad un matrimonio con una vendi stoffe” aveva aggiunto.
Lissa aveva scosso il capo, davanti tutta quella barbosa pantomima, “Dicono che Anya Karkoff sia bella come una perla” aveva replicato lei, pensando alla ragazza, a quella specifica ragazza.
Non aveva idea di che aspetto avesse Anya Karkoff, sapeva che avesse fatto parte della schiera di giovai donne, ricche e nobili che erano state presentate alla principessa Alina per essere sue dame da compagnia.
Nessuna aveva resistito alla principessa.
“Dicono anche che è una campionessa nello sputo di nocciolo di ciliegia, che indugi in comportamenti lascivi con i servi e che balli sui tavoli alle feste di Kirigin” aveva risposto seccamente Viktor. C’era da chiedersi come una compagnia del genere non fosse rimasta nella vita della principessa Alina, sembrava la compagnia che quella avrebbe amato.
“Qualcosa in comune lo avrete” aveva risposto leggermente risentita Vasilissa, “O il suo essere nobile e uomo, cambia le cose?” aveva domandato retorica.
L’uomo l’aveva guardata con un’espressione mortificata, “No, certo, Lissa, no” aveva detto alla fine pieno di vergogna, “Temo solo che sarò bloccato per l’eternità con una donna che renderà la mia vita un inferno vivente” aveva ammesso.
Lissa lo aveva guardato con serietà, “Allora, mio signore, non sposatevi” aveva ricambiato.
Anche perché la sposa non aveva alcun interesse nel presentarsi all’altare, almeno a detta di Yusuf.



[1] Ovviamente Genya sta mentendo come mai ha fatto in vita sua, ma non è neanche del tutto finto. Alina Starov è morta e qualsiasi cosa volesse essere o potesse essere, non lo è mai diventata. Nel canone, come in questa storia, ha avuto una vita felice, ma … Ecco, le storie servono a educare principesse.

[2] Io amo tutta la retorica dei Santi-Grisha e blabla, ma ciò che dice l’Apparat è vero “I santi piacciono perché soffrono come gli uomini”, per me la storia di una ragazzina venduta prima agli schiavi e poi che ha dedicato al vita ad eradicare lo schiavismo e liberare tutti, dai bambini, dai grisha e co … per me Santa la hanno fatta, forse non ancora canonica (Poi per me Nikolai ha sfruttato a pieno questa idea di questa ravkiana suli per rinforzare l’idea di una ravka forte e piena di simboli, così come riforgiare l’Opinione di Ravka su Suli e Grisha). Però sì.
Inoltre è Inej.
Quindi sì.

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Capitolo 10
*** JORDAN I (28 D.F.) ***


Ho aggiornato prima del previsto, la cosa non si ripeterà, perché A) Ho quasi raggiunto i capitoli già scritti e sono andata a rilento nella scrittura, B) Ultimamente non ho tempo neanche per dormire …
Tre cose veloci:

1.        Il 28 DF è il periodo con più cambi di POV (siamo letteralmente 3 diversi pg su 3; c’è un perché, è questo capitolo da qualche indizio in merito)

2.        Su A3O ho fatto una sezione con solo disegni: https://archiveofourown.org/works/46401199/chapters/116827018 (Ancora Nessun Jordan perchè non so disegnare gli uomini, ma presto un Matthias).

3.        Ho scritto una OS Kaneji che sebbene sia slegata da questa è in qualche modo correlata, essendo ambientata nello stesso universo, chiamata: JORDAN (Probabilmente in seguito ci saranno altre Os in questo universo, insomma, mi piacerebbe scrivere di Alina che deve spiegare a Genya perché sua figlia si chiama Drina).

Jordan
(28 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

Jordan aveva spostato la zuccheriera osservando la polvere oro-arancio davanti i suoi occhi. Aveva sfilato un guanto – non aveva davvero necessità di metterli, lo faceva più per estetica, Jesper diceva che era tipico dei bambini imitare i propri genitori – ed aveva inserito un dito nella zuccheriera, per raccogliere la polvere e godersene il sapore sulla lingua. Aveva sentito una sensazione frizzante sulla lingua per prima cosa, poi aveva sentito il sapore dolce, zuccherino, ma aveva anche percepito il retrogusto amarognolo che giungeva in ritardo sul palato. Il sapore era tutt’altro che era sgradevole.
Non aveva permesso però alla sua gola, alla sua fame, di vincere ed aveva resistito da succhiarne altro dal dito.
“Ottima, vero?” aveva chiesto con eccessivo zelo Juliana, davanti a lui, con le labbra aperte in un sorriso da faina.
Juliana indossava una giacca da uomo, corta fino ai fianchi, con il colletto ripiegato e i risvolti sulle maniche, lo schema era kaelish, una stoffa viola prugna, attraversata da linee rosse e bianche, alternate, che creavano quadrati di diverse dimensioni. Sotto la giacca, si vedeva la camicia crema da uomo, con le maniche troppo lunghe, e i calzoni beige da uomo. Di solito, le donne kerchiane, erano sicuramente meno precise delle fjerdiane, tendevano a abbigliarsi sempre in una maniera responsabile, impeccabile e femminile, almeno quelle da quel lato del fiume, le donne per bene, ma non Juliana.
Juliana Van Eck si vestiva come un uomo, in particolare come Jesper Fahey, solo con colori più sobri, anzi cupi. “Sì, penso la migliore Jurda che ho leccato. C’è da dire una cosa: perché vuoi darla ai ravkiani?” aveva chiesto Jordan, relativamente interessato.
Mai mostrare le proprie carte, specie quando c’erano soldi sul tavolo.

“Perché i Ravkiani sono i consumatori più accaniti di jurda, in fin dei conti” aveva cominciato a raccontare Juliana, rimettendo il coperchio di porcellana sulla zuccherriera piena di Jurda, per concedersi poi un biscotto al burro, per metà glassato di cioccolata.
“Quindi, dai la jurda come dote a Ravka, per dare la tua amica in moglie al principe?” aveva domandato retorico Jordan, “Sì” aveva ammesso Juliana, finendo di spizzicare il biscottino. Jordan aveva preso la teiera dal tavolo ed aveva versato un po’ del tè caldo, nelle due tazzine del servizio buono di Juliana. Era stato invaso dal calore del liquido e dall’odore pregnante, tè alla rosa, non era kerchiano, veniva da Shu Han ne era certo; “Mi sfugge il tuo piano” aveva detto.
Juliana aveva preso la tazza di tè senza che lui la porgesse, assertiva come solo lei sapeva essere, “Tuo padre lo capirebbe” l’aveva rimproverato bonariamente lei. “Sì, probabilmente” aveva ammesso Jordan, senza rancore.
Era difficile essere all’altezza dei suoi genitori – ma lui poteva ammettere di aver smesso di provarci. Era stata la sua cara madre a dirglielo, spostando i capelli dal viso e schioccando un bacio materno sulla sua fronte.
Era affrontabile, voleva trovare una soluzione per sé stesso, ovviamente, ma Juliana lo rendeva difficile.
Voleva molto bene alla Signorina Van Eck, erano cresciuti insieme, era stata la sorella che non aveva mai avuto, né voluto. Aveva vissuto, per certi versi, più a lungo nella casa della
Geldstraat dei Mercanti di dove avesse mai fatto altrove, era nato letteralmente in quelle stanze. Se pensava a quel dolce sentimento che era casa, pensava alla chiassosa e colorata casa dei Van Eck
Sapeva di avere una camera in quella villa, proprio accanto a quella di Juliana e dei fratellastri di lei; ma aveva notato nel tempo mutare la giovane donna da una ragazzina vivace, matura, fulgida ad una kerchiana in piena regola.
L’unica cosa che distingueva Juliana dagli altri mercanti – avidi e macchinatori – della sua risma era l’ammirazione, assolutamente non recondita, per Manisporche.
Il mondo provava repulsione per i signori del crimine, ma non Juliana.

“Hai servito il tè e non mi hai chiamato, dolce sorella” aveva commentato una voce maschile, Jordan si era voltato verso l’uscio di ingresso della sala di rappresentanza. Dal corridoio era apparsa una figura, un uomo non molto alto, con un viso giovane e cereo, coperto di lentiggini e capelli rosso-oro, modellati in ricci morbidi. Calmo all’apparenza ed esplosivo sotto la carne.
 Wylan VanEck, il capo-famiglia, fratellastro di Juliana e referente al Consiglio dei Mercanti.
“Ero venuta prima, ma da certi rumori che avevo sentito avevo immaginato che tu e Jes foste impegnati” aveva risposto Juliana con un sorriso di bronzo sul viso. Wylan aveva soghignato alla sfacciataggine di sua sorella.
Si somigliavano, avevano lo stesso apparente viso giovale e gli occhi azzurri dolci.
“Buongiorno Jordie, come stai?” aveva chiesto Wylan direzionando lo sguardo verso di lui, la solita gentilezza nella voce; ignorando il commento della sorella minore.
“Buongiorno! Sto molto bene, passavo di qui e volevo scoprire quali piani stava macchinando Juliana” aveva ammesso Jordan, Wylan non aveva perso il suo sorriso calmo, mentre si era avvicinato a loro.
“Sei sempre il benvenuto qui, Jordan, anche senza secondi fini, lo sai vero” aveva dichiarato Wylan, arruffandoli i capelli, quasi paterno, prima di occupare una sedia, intorno al tavolo rotondo.
“Comunque, se vuoi risolvere i complotti della mia sorellina, da solo, non avrai indizi da me” aveva valutato Wylan versandosi anche lui un abbondante tazza di tè, “Resti per pranzo? Ho invitato anche tua madre” aveva aggiunto con molto zelo. “Mio padre no?” aveva domandato divertito Jordan, “Questa casa è interdetta a tuo padre, specialmente quando il sole è alto” aveva risposto con una punta di divertimento Wylan.
Se la presenza di suo padre era parecchio osteggiata in casa Van Eck[1], differentemente era per sua madre, sempre benvenuta. “Vorrei di molto cuore, ma ho un appuntamento” aveva ammesso con onestà Jordan.
Un sorriso cattivo era luccicato sul viso di Juliana, “Ma guarda il nostro audace Jordie, scommetto che è con la giovane donna ravkiana con cui sei stato visto ultimamente” aveva considerato sfacciata.
“Sì” aveva deciso di non mentire Jordie.
Wylan lo aveva guardato, interessato, aveva spostato la sedia per accomodarsi meglio. Suo padre non aveva fatto domande in merito a Drina, ‘è la tua vita, vivila come vuoi’ aveva detto sintetico, senza troppa animosità, sua madre era stata abbastanza contenta, aveva già incontrato Drina e provava per la ragazza un affetto autentico, per quanto, a mente di Jordie, fosse malriposto.
Lui apprezzava moltissimo Drina, ma non era cieco!
“Ti va di parlarne?” aveva chiesto Wylan, paterno, come solo lui sapeva essere, “Posso essere molto meno imbarazzante di Jesper” aveva aggiunto con un guizzo di malizia.
Jordie aveva sorriso, “Sicuramente meno imbarazzante di parlare con mio padre di sesso sicuro” aveva rivelato. A Juliana era andato di traverso il tè, mentre Wylan aveva conservato una parvenza di dignità, “Pensavo che avessi parlato di questo con Jesper” aveva detto insicuro.
Ovviamente, con api, fiori ed altre splendide definizioni che lo avevano terrorizzato da ragazzino, “Sì, e mio padre ha convenuto fosse più dannoso che altro” aveva ammesso Jordan. “Oh, Ghezen sarei proprio curiosa” aveva detto Juliana recuperando il suo colorito e smettendo di tossicchiare, “Io no, santi, niente mi mette più terrore di Kaz che spiega a qualcuno come fare sesso … spero non ti abbia portato in un bordello o che so io” aveva considerato Wylan.
“No, è stata una tranquillissima conversazione” aveva risposto Jordie, il che non era una bugia, ma neanche una verità. L’unica persona che avesse mai spinto suo padre a tentennare era stata sua madre, per il resto del mondo suo padre era un bastardo senza colore che non si sbilanciava mai – tranne quella volta con il re consorte di ravka, ma Jordie non sapeva cosa fosse successo, tranne che suo padre aveva imprecato, colto di sorpresa. Racconto che lui aveva avuto da Dominik, non da suo padre – e per quanto brutto che fosse, da pensare, Jordan non lo aveva mai scioccato, non lo aveva mai sciolto, mai sconvolto.
Kaz Brekker lo amava, doveva farlo, anche solo per tenerlo in giro così a lungo, ma … era complicato.
Così, quando suo padre aveva saputo della lezione dell’affettività da parte di Jesper, aveva convenuto fosse il caso di metterci una pezza. Jordan aveva adorato quella giornata, perché per la prima volta al posto del composto e rigido Signore del Barile davanti a lui si era palesato un uomo terribilmente umano.
“Non credo di avere abbastanza fantasia per immaginarlo” aveva ammesso Wylna, “Io sì!” aveva ribattuto invece Juliana, “Ma se la prossima volta le serve un’assistente pratica può chiamarmi” aveva cinguettato, prendendosi una strigliata dal fratellastro.
“Adesso devo andare, mi aspettano” si era congedato Jordan, un tono un po’ troppo alto, leggermente imbarazzato da quella confessione spontanea. “Oh, se vuoi portare questa signorina a pranzo, saremmo ben felici di conoscerla” aveva considerato Wylan, “Ovviamente intende, interrogarla e vivisezionarla per stabilire se è degna del suo figlioccio” aveva tradotto Juliana.
“Ovviamente” aveva concordato Wylan.
“Non mi permetterei mai di fare un giro in gondola con alcuna compagnia, senza la benedizione tua e di Jesper” aveva ammesso Jordie, senza mentire.
Si era dunque alzato dalla sedia ed aveva recuperato il capello e la giacca che aveva fatto cadere rovinosamente su un divanetto, invece di affidarla ai servi, per metterla di nuovo.
“Juliana” aveva chiamato la sua amica, Jordan sistemando il fedora nero, con la piuma di corvo incastrata nella banda – troppo palese, troppo poco suo – “I ravkiani sono già i compratori di jurda maggiori, perciò con il matrimonio del principe e della signorina Nassau caleranno gli introiti di Novy Zemi e le spese di Ravka, ma è probabile che nessuno si risentirà troppo, perché Novy Zemi è la più grande alleata dei ravkiani dalla Guerra con i Lupi.
 Ravka sarà grata a te per aver fatto diminuire le loro più grandi spese e Novy Zem quale stato giovane e senza una regalità, entrerà ufficialmente come dignitario nel panorama politico del Mare Vero. Inoltre, avranno la più solida degli alleati, la Vendetta su Ali Nere e la malen'kiy drakon non solo non è ancora sposata, ma sembra anche poco interessata ad esserlo” aveva considerato Jordie. Era divenuto abbastanza noto che la principessa ereditaria Liliyana Nezialensky avesse rifiutato ogni buon pretendente del continente da Shu Han a Fjerda. Non erano arrivate ancora proposte da aldilà del mare, ma solo perché la gente tendeva ad essere intimidita dalla malen’kiy.
Jordan aveva vista poche volte nella sua vita la principessa, ma era una furente copia-carbone della Santa Zoya e tutti si aspettavano da lei lo stesso fervore, ma con un quarto della diplomazia – e a detta di suo padre e di Wylan la regina non era nota per la sua pazzia. Secondo sua madre, la Principessa però aveva preso anche qualcosa da suo padre: sapeva farsi amare e sapeva vendersi. Due definizioni che Jordan riusciva a far collidere insieme con estrema fatica.
Secondo Dominik sua sorella, alla fine, stremata, si sarebbe arresa al suo ruolo e avrebbe sposato un certo Dimitrij, dignitario, giovanissimo conte e probabile futuro ministro – che agognava la corona di Ravka più di quanto lo facesse la stessa principessa Lilyana.


Juliana si era fatta cogliere di sorpresa per un breve momento, le sue labbra, tinte di color mattone, si erano schiuse prima di ritrovare la sua solita compostezza, “Forse” aveva concesso.
“Questo ovviamente vuol dire che per recuperare gli introiti che avevano da Ravka, i commercianti di Novy Zem dovranno abbassare il costo della jurda per le altre nazioni, ergo, Brigitte Scheck perderà probabilmente il monopolio qui, a Kerch, così, come dovranno probabilmente alzare il prezzo dei loro altri prodotti. L’unico prodotto invariato sarà lo zucchero, perché Kerch compra lo zucchero solo dalle colonie e sono i Van Eck a gestire lo zucchero” aveva aggiunto.
Un settanta-trenta, ovviamente, una parte era di Kaz Brekker, ma non era qualcosa di pubblico dominio.
“Sì, cambia un po’ gli equilibri e si rende oggetto di gratitudine da grandi paesi del mondo[2]” aveva detto Wylan, “Ovviamente se riuscirà a combinare il matrimonio” aveva aggiunto.
“Lo farò, la dolce Merissa è già in brodo di giuggiole all’idea di essere tsarina” – Juliana aveva utilizzato senza colpo ferire il termine regale, che sarebbe dovuto appartenere malen’kiy ma già vedeva sfoggiato dalla futura moglie di Dominik – “ E riguardo al bel prins, lui vuole solo fare contenta la mamma e riportare a casa una bella moglie con una dote che faccia bene al suo paese” aveva aggiunto con spregiudicatezza.
“Vincono tutti, così, no?” le aveva risposto sarcastico Jordan.
Wylan aveva guardato sua sorella, nel suo sguardo lui riusciva a leggere qualcosa, di molto specifico: accondiscendenza.
Come il padre di Jordie, anche Wylan lasciava Juliana giocare alle sue macchinazioni, per fare esperienza, le ossa.
“Esatto” aveva risposto la donna, “Grazie ancora per il tè” aveva risposto lui.

 

Ovviamente il piano di Juliana per quanto aleatorio, avrebbe potuto funzionare, a pensiero di Jordie, ma alla sua buona sorella putativa mancavano alcune informazioni chiave: la fame d’amore di Dominik e il troppo amore della regina Zoya.
La signora di Ravka avrebbe rinunciato anche al suo peso – nella forma di drago – in oro come dote se questo avesse reso infelice il suo piccolo bambino. La regina Nazyalensky riconosceva l’importanza delle alleanze, ma lei stessa aveva sposato un principe bastardo decaduto, che al governo era sempre stato terribilmente competente, e sebbene molti pensassero lo avesse fatto per pura politica, Jordie pensava fosse per amore – perché Kaz Brekker lo pensava.[3] E se suo padre che aveva fatto del cinismo il suo stato naturale credeva a qualcosa di così incerto come l’amore, allora doveva essere vero. La Sakta Vivente avrebbe concesso a suo figlio qualsiasi matrimonio lui avesse desiderato, che fosse la figlia più ricca di Novy Zem, oppure l’ultima contadina di Ravka o l’ambiguo Ioren che aveva conosciuto all’università.
Con quei pensieri in testa aveva raggiunto il quartiere universitario godendosi qualche chiacchiera lungo la strada con qualche compagno di corso, assistente o addirittura professore.
“Signor Ghafa, sto ancora aspettando il suo saggio sulla Sociologia Positivista” aveva detto il professor Hekebert, con i baffi macchiati di crema e l’espressione pasciuta e felice.
“Sarà fatto” aveva risposto Kaz senza esitazione, consapevole di quei compiti. Trovava terribilmente noiose alcune delle lezioni che doveva frequentare, ma sembrava indispensabile per avere un’educazione a tutto tondo. Jordie non credeva di averne, suo padre era l’uomo più intelligente di Ketterdam e non aveva mai frequentato un solo giorno di scuola, con le eccezioni delle elementari in qualche sperduto paese di campagna; ma Jordan sapeva di quanto fosse necessario sapersi presentare. Presentarsi.

Drina era sul portico del bar degli universitari, seduta ad un tavolino con un libro di letteratura in mano, leggeva poche righe e poi gettava uno sguardo verso la marmaglia di studenti ed il canale del fiume lì vicino. Incorniciata sotto il pergolato in fiore di quel lato del Caffè, sembrava in pieno una studentessa – anzi forse un assistente. Con indosso la giacca pesante, aderente, ma lascia sbottonata, la camicia scura e la gonna dalla vita alta blu, che scendeva come una campana fino alle caviglie. Aveva raccolto i capelli scuri in una crocchia ordinata, tranne per i ciuffi della frangia, e tutto di lei sembrava suggerire un’idea: anonimato.
L’unico motivo per cui la gente pareva interessata alla sua direzione, al suo tavolino, era data dalla presenza di Dominik, elegante e ben vestito come sempre, che sfoggiava un sorriso salubre di soddisfazione.
Jordan ricordava ancora vividamente quando si erano conosciuti da bambini. Sua madre aveva riportato un gruppo di schiavi ravkiani, grisha o no ad Os Kervo e la regina in visita aveva voluto ringraziarla personalmente. Jordie aveva saputo che sua madre aveva già avuto modo di conoscere il Drago di Ravka – come non sarebbe stato possibile, sua madre che era tanto devota? – ma quella volta era capitato anche a lui.
Ricordava la regina Zoya come un immagine distante, ma non il bambino che l’aveva accompagnata, più o meno coetaneo di lui.
Dove Jordie aveva ancora i capelli impregnati di acqua salmastra, era vestito come un mozzo, l’altro era ordinato, pettinato e profumato.
D’altronde Dominik era il principe di Ravka e Jordie era il bastardo del Capitano Ghafa, ma come le loro madre a dispetto del loro titolo, della loro origine e del loro ruolo si rispettavano, così avevano fatto Dominik e Jordie.
E poi si erano ricontratti in università. Ovviamente, Jordie aveva saputo prima del mondo intero, che quando era attraccata la Bol'shoy Siniy, grande blu, un piroscafo, quasi unico, innovativo nel suo genere, con due canne fumerie cilindriche al posto di alberi, con fumo nero come una cortina – una mano grisha ed una mente regale come si era detto, una delle nuove creature di Nikolai di Ravka – tra i veri dignitari, incluso il Re Consorte in persona era scivolato fuori anche il principe.
Solo che quando la bestia di fumo aveva ripreso il mare, alcuni dignitari erano rimasti e tra questi il bel principe dagli occhi zaffiro.
Jordie lo aveva rincontrato lungo la cittadella universitaria una settimana dopo, era stato Dominik a chiamarlo, a gran voce, da un lato all’altro del giardino di botanica. Lo aveva chiamato con lo stesso tono che si rivolgeva ad un vecchio e caro amico.
Non lontano dai due sedeva il grisha inferno che seguiva pedissequamente sempre il principe, solo che in quell’occasione aveva dismesso la sua kefta blu, in favore di qualcosa di più comune, anche se Jordie sapeva non fosse affatto preoccupato di girare per la città con indosso il suo abito simbolo, ‘Che provassero a prendermi, adoro la carne di maiale alla brace’ aveva risposto una volta quando Jordie lo aveva interrogato.

Quando si era avvicinato ai due, aveva sentito Drina parlare, aveva una voce morbida come il velluto, era qualcosa che aveva dovuto costruire negli ultimi quattro anni. La prima volta che si erano conosciuti, Jordie aveva solo quattordici anni e Drina sedici, eppure sembrava che il vissuto che gli aveva attraversati fosse un abisso profondo.
‘Ogni tanto le persone vivono esperienze, traumi, che li invecchiano. Vedere ogni giorno l’innocenza nei tuoi occhi è una delle mie più grandi gioie’ aveva detto sua madre, quando Jordan, tredicenne senza arte né parte aveva chiesto perché Drina fosse così vuota.
In realtà, Jordan pensava che Drina avesse, anche, in quel momento ancora una certa vacuità. La conservava negli occhi blu che sembravano sempre guardare lontano e contemporaneamente non vedere niente, la piega in giù delle labbra quando pensava di non essere guardata, ma per tutto il tempo si sforzava di apparire piena. Aveva cambiato la sua voce, invece che rigida e raschiante, come quella di un animale, in quel momento era di velluto, come se tutto l’atteggiamento di Drina volesse esprimere mistero.
Aveva modificato anche l’aspetto, non erano semplici modifiche date dall’età, infondo Drina aveva smesso di essere una ragazza per apparire una donna di ventuno anni, ma era lavoro degno di una forgiata tailor, aveva assottigliato il naso, appena un po’ il mento sporgente, reso la pelle di una tonalità più rosea e viva, le ciglia più nere e lunghe. Sarebbero stati cambiamenti impercettibili, invisibili, se Jordie non avesse impresso ogni cosa di Drina quella volta che l’aveva conosciuta anni prima.
E da quel momento aveva fatto ogni cosa per vederla ancora, senza sapere perché. Era andato ad Os Alta, era andato a Keramzin, sua madre si era totalmente innamorata del Castello, dell’Orfanotrofio – e, Jordie quasi osava dire, della padrona di casa[4] – si era infilato nella Palude D’Oro – suo padre quando lo aveva saputo si era tolto il capello ed aveva sorriso con fierezza, qualcosa a cui Jordan non era abituato – l’aveva incontrata altre volte; si erano anche scritti.
Era stato eccitante, quando il messo dei quartieri alti aveva fatto sapere lui che una lettera era giunta alla dimora dei Van Eck, per lui, da Os Alta.
A Drina non piaceva mai restare troppo a lungo in posto, ovviamente per Jordie questo era stato ancora meglio, infondo sua madre era una girovaga, la sua famiglia era Suli, per i Suli non esisteva mai un luogo che valesse la pena di essere vissuto troppo a lungo.
E poi qualche settimana prima, con il mare nero dritto come una tavola tra i mercantili di carico e scarico, a Quinto Porto Drina era scesa, la kefta viola rovesciata, perché si vedesse il nero imbottito e non il colore, gli occhi blu pieni di caos ed i capelli lunghi arricciati dalla salsedine.
La grisha che ti piace molto è arrivata a Ravka’ aveva detto solamente suo padre, con un tono incolore, come lui sapeva fare, ‘E ho la netta sensazione che la vedremo presto in giro.’
Ovviamente Kaz Brekker non aveva sbagliato.

“Vorresti che andassi a Shu Han?” aveva domandato Dominik, “Certo a breve ci sarà l’incoronazione della nuovissima regina Taban: Dala? Dalai? Dali? Sarà la prima incoronazione dopo un decennio in cui parteciperanno tutti i dignitari, incluso tua madre e tua sorella” aveva raccontato Drina, “E sarà la prima regina, a Shu Han, ad essere incoronata in ventiquattro anni” aveva aggiunto pratica.
“Buongiorno” li aveva interrotti senza grazia Jordan.
Fino a quel momento, prima della scelta della giovanissima principessa Dalai, sedici anni compiuti da un mese, il trono era stato equamente diviso dalle due sorelle Maki ed Erhi, “E sì, Drina ha ragione, finirà l’epoca della Reggenza” aveva dichiarato lui.
Nonostante nessuna delle due potesse fregiarsi del titolo di regina Taban, spesso il loro popolo, o letteralmente chiunque, si era riferito a loro come le “due regine”.
L’epoca della Reggenza, l’Epoca delle due Regine, non aveva più senso. Erhi era stata sostenuta da Ravka, Makhi da Kerch – quasi per infastidire Ravka – Novi Zem e le Colonie avevano seguito i loro alleati per eccellenza e Fjerda e le Isole Erranti si erano tenuti alla larga del conflitto.
Nessuna delle due Regine aveva mai sottomessa l’altra, Shu Han era resistita, quasi ad un quarto di secolo, a quello che i letterati avevano chiamato l’Invisibile Guerra Sociale; il paese era stato diviso e logorato a metà dai due partiti.
Erhi la buona e Makhi la saggia.
Kerch ne aveva mangiato un po’ con armi, cospirazione, guadagnando i territori del Corridoio di Terra ed anche la buona Ravka, aveva ristabilito, senza troppo eccedere – forse un po’ –definitivamente i suoi confini meridionali, prendendosi anche qualcosa in più … ma l’Anarchia Shu Han giungeva alla fine: la Regina Dalai avrebbe ricucito il suo paese.
“Lo so, evento mistico, il trono Celeste tornerà occupato, Dalai – Drina questo è il nome –  non può prendere marito, ma ha cugine e cugini a volontà. Inoltre, pare che mia sorella stia valutando di mandarmi come concubino, citando il caso di un tale Jiao Yul-Kaatar che è riuscito a scacciare tutto l’harem di sua moglie, la regina Hua Kir-Taban e diventare il suo unico amante e padre dei suoi figli” aveva dichiarato annoiato Dominik, sciorinando le sue conoscenze in storia internazionale e comparata. Secondo Jordan c’era boria nello sguardo del principe, probabilmente come preventivato da Juliana, Dominik stesso si vedeva già camminare per la navata della cappella palaziale con la giovane Merissa Nassau – e probabilmente sognava di farlo con Ioren.
“Certo, peccato che hanno avuto tutti figli maschi” aveva replicato Drina, “Il trono è andato a Siam Kir-Taban nipote di Hua, figlia del fratello gemello, che prese una schiera di trenta uomini come compagni – sebbene si dica che dormisse ogni notte con Toyla Yul-Taban ,suo cugino, figlio del famoso Jiao” aveva risposto a tono Dominik. “Vedi è perfetto” aveva chiocciato Drina, “Non pensarci neanche, signorinella” aveva ribattuto il suo amico.
“Buongiorno, Jordie sono felice di vederti” aveva detto poi Drina, voltandosi verso di lui, dopo aver scosso il capo, e sorridendo.
“Sì, Jordie, salvami dal mio futuro in un harem” aveva commentato Dominik con un tono immensamente melodrammatico, “Amante della donna più importante di Shu, con la possibilità di mangiare frutta vera, vestito di sete, con le tasche traboccanti d’oro, lontano da tua madre e tua sorella e dal loro potere e, soprattutto, circondato degli uomini più belli del mondo? Oh, che triste destino ti aspetta amico mio” lo aveva spietatamente preso in giro Jordie.
“Oh, santi, se la metti così, prendo un cavallo e vado dritto sul Corridoio di Terra, per gettarmi nudo sui cuscini di seta di Dalai, ora” aveva dichiarato Dominik senza perdere mordente.
“A parte gli scherzi, mio principe, dovresti andare. Shu Han sarà nervoso, per la riunificazione, per dover apparire splendidamente con tutti i dignitari, tra cui un drago e … la principessa non è una donna molto diplomatica” aveva commentato Drina, “Il fascino di cui godono gli uomini della famiglia Nazyalensky converrebbe” aveva aggiunto.
“Liliyana è assolutamente la regina della diplomazia – la ho vista intrattenere il Marshall di Isola Errante un’intera serata parlando solamente dei lanci del ceppo” aveva considerato Dominik, “E posso assicurarti che ad inizio della serata al Marshall interessava conversare con me di ceppi”.
Forse era vero, forse no, ma le chiacchiere che aveva raccolto Jordie dipingevano la principessa della corona come una figura tragicamente contraddittoria.
“Come potrai ben ricordare, ci sono cose e persone che rendono tua sorella una persona difficile” aveva insistito Drina, con i denti stretti, “Inoltre, sarà un momento eccezionale. L’ultima volta che tanti dignitari sono stati presenti ad una incoronazione, era tua madre la protagonista della vicenda” aveva considerato. “E tua madre è un drago” Jordan aveva aiutato Drina.
Lei aveva ricambiato con un sorriso, che aveva quasi raggiunto gli occhi.
“Ci penserò Drina, ma ora ti abbandono alla compagnia di Jordie, ho un saggio di letteratura che non si scriverà da solo” si era declassato il principe.
Dominik lo aveva guardato, “Mi raccomando, Jordie, caro, non farmi sfigurare” gli aveva detto affabile, ammiccando a Drina. Lui aveva sollevato un sopracciglio, “Salutami Ioren” aveva replicato Jordan, desideroso di infastidire il suo amico, ma anche pago che i due ragazzi avessero fatto la pace.
Dominik non aveva dato soddisfazione di impensierirsi.
Anche Kos l’Inferno si era congedato senza una particolare parola e solo uno sguardo al vetriolo verso di lui – Jordie sospettava fosse infatuato di Drina.
“Alla malen’kiy mancherà la diplomazia, ma a te manca la sottigliezza” aveva considerato Jordie. Drina lo aveva guardato con un certo biasimo, “Non chiamarla così” lo aveva rimproverato.
Un’espressione mortificata era balenata sul viso di Jordan, Drina aveva ripreso: “Sì, non lo ho mai negato, non pecco di modestia, ho moltissimi pregi e talenti, ma non so danzare in una sala da ballo né con le parole” aveva ammesso Drina senza scomporsi, “Mio padre era un soldato ed è un cacciatore ed io sono come lui, sono una donna che lavora con i fatti non con le parole” aveva ammesso. “Scommetto che invece sai ballare molto bene” aveva considerato lui, “Mezzo Piccolo Palazzo può confermarti che ho la stessa grazia di una mucca in tullè” aveva replicato mordace Drina, prima di voltare lo sguardo con un certo distacco al libro che stava leggendo.
Jordie lo aveva guardato: ‘Racconti di Eventi realmente successi ma mai avvenuti’.
“Lo ho letto. Interessante” aveva considerato Jordie, “Quale ti piace di più? Il principe che era un pirata? La Santa che non è mai morta? Il finto concilio delle maree che interrompe l’asta dell’Avvelenatore? La Drusja che ha mentito ad una nazione?” aveva chiesto Drina rinvigorita.
Racconti di Eventi realmente successi ma mai avvenuti era una simpatica raccolta di storie improbabili, ma non impossibili, di eventi teorizzati ma mai dimostrati in pieno, mai avvenuti, nonostante qualcuno spergiurasse di essere stato lì. Si diceva che il libro fosse stato scritto dal Santo del Libro, lo stesso che aveva vergato Istorye’Sakti, nessuno ne aveva la prova, ma le copie, come piccoli miracoli erano cominciati ad apparire un po’ ovunque e poi le tipografie avevano fatto il resto.
“Mi piace la Drusja, mi piace che il suo dolore così forte, così stordente non le hanno avvelenato il cuore e che sia riuscita ad amare ancora e salvare gente che non le avrebbe mai reso la stessa cortesia” aveva ammesso Jordie. “Hai un’anima romantica Jordan Ghafa” aveva considerato Drina, quasi emozionata. “Nonostante il mondo in cui viviamo, non ne ho mai fatto un segreto” aveva dichiarato lui.
Il sorriso di Drina era rimasto onesto sul viso chiaro.
“Ho bisogno del tuo aiuto” aveva detto alla fine lei, “Per quello che hai chiesto a mio padre?” aveva chiesto circospetto. Drina aveva scosso il viso, in segno di diniego, “No, no. Come ricorderai: amo molto viaggiare ma non ho mai avuto molto senso dell’orientamento, o meglio, ritrovò sempre il vero nord, ma sono meno fortunata con il nord in generale” aveva spiegato Drina, “Devo raggiungere un paese Nejegem o Nijegem non ricordo, so che si trova a sud” aveva confessato lei, “Un luogo di granchi, sale e poco futuro”.
“Ti confido che non ne ho la più pallida idea, non sono mai andato troppo a sud, solo nella tenuta di campagna dei Van Eck dove vive la madre di Juliana” aveva ammesso, c’era stato un lungo momento di pausa. Aveva pensato ad Alys, che aveva gli occhi pieni, lo stesso naso all’insù di sua figlia, che cantava stonata come una campana con il suo amante suli e i suoi due figli spuri misti.
Come Jordie.
“Ma sarei felice di aiutarti a trovare questo posto ed andare se tu mi dicessi perché” aveva considerato.
Drina non aveva perso il sorriso, “Giustamente per metà sei figlio di ravka, ma l’altro lato è tutto kerch. Dare-avere è sempre la prima regola” aveva risposto lei. “Oltre i santi, credo in Ghezen è quello è il suo unico comandamento” aveva confessato Jordan.
“Niente di troppo scabroso o pericoloso, voglio solo andare a trovare una vecchia amica” aveva concesso Drino. Nonostante avesse cercato di nasconderlo, un tono pregno di angoscia si era gonfiato nella sua voce.
“Elabora” aveva replicato Jordan.
L’altra non aveva perso il sorriso ma i suoi occhi si erano fatti leggermente cupi, “È una persona a cui tengo molto e che non vedo da anni, abbiamo condiviso qualcosa, brevemente, ma è stato importante” aveva spiegato. A Jordie, in tutta la sua meschinità, quella descrizione non era piaciuta.
“Dopo questa visita, andrai anche tu ad Ahmrat Jen per l’insediamento del Trono del Cielo?” aveva chiesto Jordie, per rompere il silenzio creato.
“Oh, sì, be, ero stata invitata, sorprendentemente, ma credo proprio andrò nella direzione opposta” aveva considerato Drina, il suo tono era acuto e preoccupato.



[1] Questa cosa è canon nei libri, la dice Jesper che Wylan ha interdetto l’accesso a Kaz.

[2] NON HO IDEA SE QUELLO CHE HO DETTO E’ PLAUSIBILE. Non sono così intelligente da sapere se quello che ho scritto è possibile, se il ragionamento di Juliana è intelligente o meno. La gente fa comunque un sacco di cose strane, nel seicento la gente si è indebitata ed andata in bancarotta per dei bulbi di tulipano in Olanda, quindi bho …

[3] Per quanto Zoya Regina sia una cosa bellissima e per quanto lei abbia il potere (e parafrasando ASOIAF) ed il suo diritto al trono lo abbia conquistato con un drago. Zoya è un soldato, non è diplomatica, brutalmente sincera e poco incline ai giochi politici; quindi, per quanto mi paia brutto e penso che i due facciano un ottima squadra, dal punto di vista politico (ma anche legislativo: riforme agrarie e quant’altro) Nikolai governa.
Immagino che molta gente abbia visto il loro legame come politico (Nikolai comunque era un bravo re) o comunque con accezioni non sempre bellissime, ma per altri (come Kaz che ha potuto goderne con i suoi occhia) lo abbia visto come una storia d'amore da favola ... D’altronde tutta Ravka era convinta fossero amanti.

[4] Nell’universo libresco: Inej non ha mai conosciuto Alina di persona (siamo stati privati di uno splendido incontro), nonostante ciò, Inej è l’unica persona – di cui almeno noi sappiamo – che riconosce Alina durante l’Incoronazione di Zoya, per quanto non possa confermarlo (comunque Ode ad Alina, che si veste da contadina ad una celebrazione lol). Nel contesto di questa storia Inej ed Alina si sono conosciute per altre vie (La cosa è anche accennata nella OS sulla nascita di Jordan).

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Capitolo 11
*** ELEN (22 D.F.) ***


Capitolo più breve del solito, perché chiaramente i capitoli del 22 sono i più “pesanti” da scrivere ed ammetto di non sentirmi mai troppo a mio agio neanche io. Nella mia testa doveva essere tutto molto più turpe di quanto non appare, ma, ehi, ho scoperto di essere molto più “morbida” di quanto credessi.
TW:
Utilizzo di droghe, utilizzo di droghe non consensuale, riferimenti ad esperimenti su soggetti umani, riferimenti a schiavismo, rapimento, de-responsabilizzazione e riferimento alla morte.

Elen

(22 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

Caitlyn si era accasciata per terra, non riusciva più a camminare.
Ogni sua frase, ogni suo pensiero, continuava a finire unicamente ad un pensiero: Parem!
So che hai la parem!

Datemi la parem!

Parem!

Ho bisogno della Parem!

Cazzo! Vi odio, loro avevano la parem!

Parem!

Parem!

 

Elen le aveva accarezzato i capelli, quasi materna, imitando i gesti che sua madre, la maestra Ekaterina e di tanto in tanto Shioban facevano per calmarla quando aveva la febbre ed era scossa dai tremori.
“Falle bere un po’ d’acqua” aveva sentito la sua amica, era arrivata, con una coppa fatta di pietra e legna lavorata, per avere un beccuccio, con cui bagnare le labbra crepate di Caitlyn.
Nei giorni precedenti erano riusciti a malapena a farla mangiare. Elen aveva studiato che la parem prosciugava ogni emozione, ogni forza, ogni pensiero, lasciava quello che era un essere umano come null’altro che un vuoto, un niente, un nichelov’ che poteva essere riempito e soddisfatto solo dalla fame di parem.

Anche Hati era riuscito a mangiare solo un paio di strisce di carne secca, del daino che erano riusciti a catturare con fatica.

Caitlyn non aveva mangiato nulla, o quasi, e quel pochissimo che le era stato infilato di forza in gola era stato rivomitato dopo poco dopo. Il loro tentativo di rinforzarla non aveva fatto altro che fiaccarla.


Malcom aveva vomitato un po’ di improperi, nella sua lingua, prima di guardarle, con lo stesso sguardo furente di una bestia ferita, “Per lei è tardi” aveva detto, voleva essere duro, crudele, ma sembrava solo disperato.

Elen sapeva fosse così, se fossero stati a Ravka avrebbero avuto un antidoto, e se non l’avessero avuto per quella formula, Leoni lo avrebbe trovato. Elen aveva posato le mani sulle guance di Caitlyn, usando i venti per raffreddarle, per abbassare il calore bruciante del suo corpo.

Anchel si era chinato accanto a loro, il suo bellissimo Anchel dal viso magro, l’incarnato come lo zucchero-cotto, quasi livido, e sudato che continuava a premere e schiudere le dita per rallentare un cuore galoppante.

Caitlyn non riusciva più neanche a muoversi, ogni suo respiro pareva un’agonia.

Elen sapeva che la parem poteva anche fare quello, ma non lo aveva mai veduto; nessun grisha, in nessuna parte del mondo, moriva più di parem.

Hati si era avvicinato a loro, le aveva messo una mano sulla fronte di Caitlyn, i suoi occhi scuri erano vuoti.

Consapevole di vedere il suo avvenire, pensava Elen con melanconia.

“Sei una materialki, giusto?” aveva chiesto Hati, anche se ne era già consapevole, guardando la ragazza con l’acqua.

Aveva trascinato lei fino a quel momento Caitlyn ed aveva aiutato a fabbricare i vestiti con tutto quello che erano riusciti a rubare, dalle pelli lasciate ad essiccare e le tovaglie stese al sole.
“Sì, lo sono” aveva risposto quella, “Ho ancora della parem in circolo, puoi … puoi estrarne un po’ da dare a lei?” aveva chiesto pieno di dolore ed incertezza.
L’altra aveva schiuso le labbra, colta di sorpresa a quella richiesta, “Io … sì, io penso di potere” aveva confermato, posando la ciotola colma d’acqua sulla terra umida.

“No!” aveva gridato Elen, invece, “Se lo facesse rischierebbe di avvelenarsi anche lei ed a quel punto sareste in tre ad avere una dipendenza” aveva esclamato, ricomponendo la sua figura composta – ‘ Sempre composta, bambina. Sempre composta’ una voce aveva echeggiato in lui – ma dentro di lei spaventata che quella folle della sua amica potesse davvero farlo. “Inoltre, la parem che ti prenderebbe non soddisferebbe Caitlyn e lascerebbe anche te in agonia” aveva aggiunto misurata.

La verità era che non voleva rischiare di perdere la sua migliore amica.

Non poteva perderla! Ne lei, ne Anchel ovviamente!

La materialki aveva sospirato, “Si può sopravvivere alla parem, anche senza antidoto, anche abbastanza a lungo senza antidoto. Con una versione molto meno raffinata di quella della Ji-Han, Sankta Leoni e Sankt Adrik sono riusciti a portare una nave di donne grisha drogate di parem fino ad Os Kervo, da Gafvalle” aveva spiegato Anchel.

Elen lo aveva guardato, “Nina Zenik, no, lo dicevi anche tu?” aveva aggiunto retorico il corporalki, guardando la loro amica.

“Chi è questa Nina Zenik?” aveva chiesto Malcom avvicinandosi a loro. Si muoveva circospetto come una bestia selvatica ferita, costretto all’aiuto degli esseri umani contro ogni suo principio. “Una grisha corporalki. Ha preso una dose di Parem, mentre era alla Corte di Ghiaccio ed è sopravvissuta” aveva spiegato chiara la sua amica, “Di ritorno a Ravka ha scritto un resoconto sugli stati della dipendenza e disintossicazione” aveva spiegato cristallina Elen.

Anchel aveva disteso le sue dita e le palpebre di Caitlyn erano tremolate prima che scendessero per chiudersi, così come il respiro si era fatto più lento, ma ampio. “La ho fatta addormentare, così soffrirà di meno” aveva spiegato Anchel gentile.

“Sembri il maestro Mikhail, ora” aveva sospirato Elen, “Speravo più in Vladislaw Effimov” si era concesso un sorriso timido Anche. La scena che si era intessuta tra loro era durata poco, in quanto il suo amico aveva aggiunto: “Però, Caitlyn ha bisogno di un letto, uno vero, dove poter riposare” aveva ammesso.
“Questa zona pullula di villaggini da dieci case massimo, forse un letto lo possiamo trovare” aveva commentato la sua amica, passando ad Elen l’acqua, “Io e Malcom andremo a cercare qualcosa” aveva stabilito lei, alla fine. “Perché decidi sempre tutto tu?” aveva chiesto il kaelish con espressione turpe, “Perché senza di me, saresti ancora in una gabbia” aveva replicato lei, senza battere ciglio. Sempre sicura e sempre forte, perché sentiva bisogno sempre di mostrarsi una roccia, anche se quello avrebbe dovuto essere il ruolo di Elen, che era invece sempre così patetica.
Elen aveva sorriso davanti a tutta quella spavalderia, anche se sapeva fosse solo scena, per lo più.
“Hati, puoi … puoi andare con loro?” aveva chiesto, invece Elen, con più gentilezza, verso il ragazzo delle colonie. Non lo conosceva bene, non lo conosceva abbastanza, ma avevano vissuto lo stesso dolore.
Lui aveva annuito.

 

Così erano rimasti loro: Caitlyn che dormiva, stesa sulla terra, Anchel che si occupava di lei ed Elen che continuava a camminare avanti ed indietro piena di ansia, nervosismo e sufficienza.
Ed ovviamente il giovane sadico dottore Shu.

Elen gli aveva lanciato uno sguardo, sperando di trovarlo ancora sofferente, non aveva più detto una parola da quando avevano parlato della dottoressa.

Lei non aveva voluto elaborare oltre la sua risposta. Non aveva mai, mai, ucciso nessuno prima della donna, o le vittime accidentali, che erano scaturiti dalla sua fuga, o tutti gli abitanti della nave, ma la dottoressa … la dottoressa era stata la prima persona che Elen aveva mai voluto uccidere e … l’aveva fatto.
Le aveva strappato l’aria dai polmoni, l’aveva vista morire così, annaspando per l’aria.

Troppo velocemente.

Troppo dannatamente veloce.

E solo ore, ore, dopo mentre Hati aiutava ad asciugare l’acqua che la impregnava aveva sentito il senso di colpa annegarla.

 

“Morirà?” aveva chiesto alla fine al ragazzo Shu, attirando la sua attenzione.
Era seduto in disparte, con gli occhi d’oro, pieni di cattivi pensieri, come un cielo nebuloso, i polsi arrossati dalle ossa di narvalo.

“Credo di sì” aveva risposto lui, dopo un momento di silenzio, colto di sorpresa per essere stato interrogato. “No! Voglio i dati alla mano, tutti quei maledettissimi appunti che hai preso” aveva dichiarato lei, ferace.

Il ragazzo era soprassalito, non aspettandosi quell’aggressività, ovviamente fino a quel momento Elen si era mostrata sempre calma e gentile, perché la cortesia era un’armatura e perché sapeva di dover guadagnare la fiducia dei suoi carcerieri. Prima i pirati schiavisti, Elen aveva osservato Ekaterina cercare di riuscire a negoziare con loro, avevano cercato di utilizzare ogni arma in suo possesso per aiutarli, ma era tutto finito in polvere.

Quando era arrivata la Pazmer Kosti[1] - così l’avevano chiamata gli schiavisti, un nome, un presagio – per prenderli, con quegli occhi gialli come quelli di un falco, predatori, per sceglierli, nessuna delle parole della maestra Ekaterina avevano avuto successo. “Questi li ho presi proprio pensando a te” aveva dichiarato lo schiavista, tirando Anchel per un orecchio, orgoglioso come se offrisse il miglior fagiano ucciso durante la caccia.

Elen ricordava ancora nella sua testa le suppliche di Ekaterina, alternava richieste di lasciarli o di prenderla, di prenderla con loro o solo lei.

Non riusciva a smettere di pensare alle sue suppliche, ai suoi grigi occhi grandi come quelli di una cerbiatta e … santi, l’avrebbe mai, mai, rivista? Cosa le era successo? Cosa ne avevano fatto li schiavisti? Dove era finita?

Lo shu si era morso un labbro, “Credo … l’ultima dose la ha avuta otto giorni fa, una misura di quindici grammi. Aveva cominciato il nuovo protocollo due settimane fa, quindi, non avevamo ancora una chiara idea” aveva ammesso con le mani tremolanti, che continuavano a tamburellare tra loro.
“Sankti” aveva ringhiato Elen, colta dalla frustrazione, “Le avremmo dato la parem oggi, forse domani” aveva aggiunto, incerto, come se avesse voluto rendersi utile.
Anchel si era voltato verso di loro, gli occhi scuri quasi luccicanti, carichi di rabbia e dolore; “Lo sapete, voi, bestie infernali, che esiste un accordo per il trattamento dei Grisha nel vostro paese?” aveva ringhiato.

“Sì” aveva risposto il ragazzo senza battere ciglio, “Non eravamo in terra Shu, non agiamo sotto una bandiera Shu” aveva cercato di giustificarsi, Elen aveva dovuto combattere l’istinto di prenderlo a schiaffi.
“Inoltre” aveva osato parlare ancora lui, “L’accordo era stato firmato da Nikolai Lanstov e Makhi Kir-Taban, ambedue al potere illegittimamente” aveva dichiarato, con voce cupa.
Elen lo aveva guardato con odio, “L’accordo è stato confermato dalla Regina Leyti Kir-Taban, rinnovato dalla Reggenza e dalla Regina Zoya Nazialesky e … scommetto sarà riconfermato dalla futura regina-Shu-che-verrà” aveva ripetuto cercando di recuperare la sua diplomazia.
Poi lo aveva visto, su quel viso contrito, l’unica espressione che fino a quel momento Elen aveva voluto vedere: più del dolore, più della paura, addirittura più del dispiacere, la vergogna.
Un dipinto intenso, la consapevolezza dello sbaglio, il senso di colpa, la vergogna verso se stessi. Aveva sorriso di quello, in una maniera quasi, quasi, soddisfatta, se non si fossero ritrovati nel pieno nord dell’entroterra fjerdiano, dopo aver passato settimane di prigionia dagli schiavisti e poi sai sadici scienziati Shu.

Sentiva ancora dolore alle braccia, per quanto l’avevano costretta alla sua innaturale rigidezza, proibendole di usare il suo potere. Si era sentita più di una sankta, quando era stata finalmente libera, una dea.

“Provi rimpianto?” aveva chiesto mordente. Dormi bene la notte?

“Sì, a dispetto di quel che potete credere, non avevamo alcun interesse nel torturare grisha. Non abbiamo creato Cuori-di-ferro, né assassinato consiglieri” aveva replicato calmo il giovane Shu. “Oh, certo, quale era la nobile missione?” aveva detto Elen, ironica, ma una parte di lei, sottile, anche curiosa.
“Ridurre gli effetti collaterali della parem. Rendere la possibilità di usarla, senza incontrare rischi, dalla dipendenza alle alterazioni permanenti” aveva ammesso, sembrava stanco.
“Torturandoci” aveva esclamato Anchel, introducendosi nel discorso.
Pochi per i molti. Liberi dai limiti della forma” aveva commentato, “Non è diverso dall’utilizzare un amplificatore. Non diverso dal trasformarsi in un drago” aveva dichiarato lo shu, “Quello era uno dei nostri compiti” aveva sottolineato.

Uno dei. Quali altri?

“La parem non è come un amplificatore – corrotto o naturale che sia – è come il mezorast. È tentare di dominarla è un’eresia. Utilizzarlo è una follia” aveva dichiarato con un tono spento, incolore Elen, ricordando quel discorso fatto infinite ed infinite volte dalla Fenice e dagli altri insegnanti al Piccolo Palazzo.
“Il mezorast ha creato la faglia, la parem morte, infinita” aveva aggiunto con voce acre.
“Il mezorast ha creato la faglia e la ha anche distrutta!” aveva replicato lo Shu, “Esiste un detto, da noi, a Ji-Han nel profondo sud, esistente da prima che Shu Han stessa esistesse. Quando era il tempo dei Regni Combattenti, Id shid bol bidnii tailbarlaj chadakhgüi bükh medleg yum![2] che è sempre stato il mio credo” aveva affermato il ragazzo.

Elen si era fatta rigida, riconosceva un po’ di shu in quelle parole, ma non abbastanza, “Non so cosa voglia dire” aveva ammesso, consapevole che avesse sentito alcuni scienziati parlare sulla nave. “Magia è tutto il sapere che non possiamo spiegare” aveva risposto lui, “Li Ji-Han erano un popolo di osservatori. Mentre nel mondo si raccontava che la pioggia fosse un dono dei sei guerrieri, a Ji-Han si studiava come e perché, nessun uomo nel cielo” aveva spiegato. “A Ravka chiamate la magia con lo stesso termine antico con cui intendete le abominazioni, ma chiamate la piccola scienza in maniera diversa, perché ne riconoscete una diversità, ma a Novyi Zem, piccola scienza, miracolo e magia hanno il medesimo nome. Sai perché? Perché la magia è probabilmente una scienza non ancora conosciuta. Lo hai detto tu la Parem è come Magia, solo che non lo è, è scienza. Allora forse anche la magia è scienza. Dall’altronde fino a quattrocento anni fa, la piccola scienza era magia, per le Isole Erranti è ancora così.

Ma come dite sempre: non è magia è solo manipolazione delle particelle. La parem è stata creata da un uomo, può essere modificata, aiutata, come le prime abitazioni erano di fango e legna ed ora costruiamo ville di pietra enormi con lussureggianti giardini; forse anche il mezorast è nato da mano umana, da Ilya Morozova magari, o un altro di quei santi. Forse un modo per accedere alla materia in maniera più profonda” il ragazzo aveva fatto un lungo respiro, dopo aver vomitato tutte quelle informazioni.

 “Come un tempo guardavamo gli alberi bruciare, colpiti dai fulmini, interrogandoci, ora sappiamo controllare il fuoco, ricrearlo, con la piccola o la grande scienza se permetti.”
Elen lo aveva guardato, poi aveva sollevato le mani e molto lentamente le aveva unite in una serie di battiti ironici molto lenti, “Ottimo comizio, davvero” aveva dichiarato, “Ma le vostre ricerche sono state fatte sulla pelle di povera gente e Caitlyn sta male” aveva detto fredda, nascondendo l’incertezza nella voce.

Voleva scalciare via quei pensieri dalla sua testa, ma era certa che difficilmente sarebbe riuscita a farlo; perché riusciva a trovare un senso a quelle parole e non voleva, non voleva dover giustificare nulla.
Aveva declinato il suo sguardo a Caitlyn, Anchel si era tolto la giacca pesante per avvolgerla attorno alle spalle della ragazza. “Pochi contro molti” aveva ripetuto l’uomo tentennante. Elen aveva sentito le nocche sbiancare, per tanto che aveva stretto i pugni.

“Perché non la hai presa tu la parem?” aveva chiesto retorica Elen. “Alcuni dottori lo hanno fatto, hanno testato ogni nuova varietà che creiamo nella speranza di trovare una varietà che permetta di funzionare anche su uno otkazat'sya, ma moriamo. Solo quest’anno solo morte dodici persone” aveva raccontato. “Sono sicura fossero più i grisha” aveva replicato lei, fredda.

Il ragazzo l’aveva guardata, negli occhi gialli, come quelli di una tigre, aveva ancora la vergogna incisa in lui, “Facevamo quello che ritenevamo giusto, Yuyeh Sesh così si dice, ma accetto il tuo odio ed il tuo rancore, perché è un tuo diritto” aveva detto quello.

Elen era rimasta scottata da quella frase, “Ma non chiederò scusa” aveva detto lui, “Bene, perché la mia cultura non le accetta” aveva replicato lei, senza perdere mordente.
Le sopracciglia del ragazzo si erano incrinate, confuse da quell’unica frase.

 

La conversazione non aveva avuto seguito, specie perché i loro compagni erano tornati, “Non avete trovato nulla?” aveva chiesto Anchel prima ancora di lei.

“Abbiamo trovato un paese non molto grande” aveva ammesso Malcom, “Pastori per lo più” aveva detto, “L’ultimo guaritore che avevano se ne è andato, non ho idea del perché” aveva raccontato poi Hati, ma Elen poteva chiaramente vedere sul viso della sua amica ci fosse qualcosa di più. “Non sembrano minacciosi, ma lei ha insisito nel non farsi vedere” aveva spiegato il kaelish
“Cosa vuoi dirmi?” aveva domandato poi, la sua amica l’aveva presa per mano e l’aveva allontanata, con sguardo marziale.

“Ho rubato della jurda” aveva detto con voce bassa, frugando in una tasca che si era fabbricata nel cappotto rubato, estraendo un sacchetto, “La Jurda costa molto, specie qui nel nord, alla strettoia, lontano dalle vie commerciali del Mare Vero. La ho percepita appena sono arrivata al paese” aveva considerato, passandola a Elen, “Così mi sono detta: o hanno trovato il modo di coltivare la jurda, cosa che neanche nelle serre di Ravka sono mai riusciti – e fidati ho passato molto tempo in quelle serre – o hanno una fornitura molto buona” aveva considerato cupa.
“E se hanno una fornitura buona, hanno chi può averla portata” aveva risposto Elen, voltandosi verso lo shu.

Il ragazzo le aveva guardate, le stava ascoltando – probabilmente doveva farlo sempre. Il ragazzo era ancora seduto sulla terra, ma si era sforzato di tirarsi su; era difficile trovare il baricentro con le mani legate dietro la schiena.

Lui le aveva guardate, poi aveva concentrato gli occhi ambra sulle loro mani, “Sì” aveva commentato, riferendosi alla jurda.  Elen si era morsa una labbra, “Forse non mente quando diceva che la JiHan era senza bandiera” aveva considerato, “Avevano contatti con gli schiavisti, avevano della frutta zemeni, commerciavano Jurda qui” aveva considerato lei con voce bassa.
“Certo, una rete occultata che si estende per tutto il Mare Vero” aveva considerato la sua amica, “Provo rabbia, ovviamente, nel pensare agli zemeni così cari alleati dei Ravkiani che considerano i Grisha Benedetti, lavorare con questi macellai shu” aveva aggiunto con più rabbia.
Elen aveva pensato alle parole del ragazzo, che aveva pronunciato prima. “Immagino un’infelice combinazione di potere, denaro ed illusione” aveva ammesso.

Gli scienziati della Ji-Han volevano creare una parem senza vizio, che non distruggesse la mente, la vita, di un grisha. Capacità al di là di ogni immaginazione, senza dover dare nulla in cambio, impossibile da pensare. Quasi abominevole.

… ma Elen non era così ingenua da pensare che quello che muoveva i dottori della Ji-Han fosse un intento più utopistico. Grisha dipendenti da Jurda Parem erano enormemente più convenienti che piccoli dei a spasso, perciò, Elen riusciva a pensare ad un’altra parte della missione di cui il ragazzo non aveva parlato.

Il dominio della piccola scienza.

Il generale dominio; cosa che gli zemeni consapevoli della benedizione avrebbero compreso, non tutti, non a quelle condizioni, ma qualcuno sì.

“La Ji-Han era progettata per restare il mare per mesi, ma aveva comunque bisogno di attraccare. Questa zona di Fjerda commercia uova di pesce, baccalà e grasso di balena, tutte cose utili” aveva spiegato il ragazzo.

“Torturiamo i grisha, ma possiamo darli almeno il caviale” aveva scherzato forzatamente la sua amica, con una voce rauca, quasi divertita. Elen aveva sospiro, “Per favore, al massimo noi avremmo avuto le uova di lompo” le aveva detto.

La sua amica aveva riso, in una maniera divertita, non una vera risata, ma una prova, un accenno, ma sincera, la prima da quando le avevano catturate in quel viaggio a sud di Os Alta – era colpa sua, ovviamente, lei li aveva convinti ad allontanarsi, ad andare al mare, per divertirsi. Erano lontani dal mare, erano lontani dal pericolo, così aveva pensato nella sua ingenuità. La maestra Ekaterina li aveva scoperti, ma invece di fermarli lì aveva accompagnati, corrotta dagli occhi dolci di Elen, dalle suppliche della sua amica e dalle richieste di Anchel. Sempre debole al loro amore.
Ekaterina, Ekaterina.

Quale folle rapirebbe quatto grisha nel cuore di Ravka non lontano dal piccolo palazzo e dalla sua regina drago?

Schiavisti dannatamente folli e bravi.

Ekaterina li aveva protetti, al massimo delle sue forze, era una squaller, era una squaller brava, Adrik l’Asimetrico l’aveva educata …

La sua amica aveva sospirato, “Questo sarà un pensiero per un altro giorno, quando saremo a djelorm o almeno a casa. Provo a dare la jurda a Caitlyn, nei diari di Nina Zelnik c’era diversi commenti su come la jurda avesse aiutato ad affrontare l’astinenza” aveva dichiarato, aveva gettato un ultimo sguardo pieno di rancore al ragazzo shu e si era allontanato.

Elen lo aveva guardato, aveva guardato il tremolio delle sue labbra incerte, voleva dire qualcosa, ma aveva taciuto. Aveva deciso così, dopo aver visto con la coda dell’occhio, la sua amica portare della polvere di jurda sulle gengive di Cait. Ancora una volta era balenato negli occhi quel chiaro sentimento, la vergogna, per sé stessa, per le sue azioni. E soprattutto era anche uno sguardo pieno di ignoranza, di qualcuno

“Vuoi dirmi che non hai mai dato della parem a nessuno, vero?” aveva chiesto retorica lei, “Non hai neanche visto nessuno morire da così vicino?” aveva aggiunto, carica di dolore.
Lo Shu lo aveva guardato, ancora, “Come ho detto: non chiederò scusa” ma la sua voce sembrava molto meno perentoria di quella di prima.

Elen aveva sorrisa piena di rabbia, “Ne brinte, quando dovremmo piangere la sua morte ne riparleremo” aveva detto lapidaria.



[1] La Spacca Ossa – credo.

[2] THAI secondo google traduttore

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Capitolo 12
*** Vasilissa III (40 DR) ***


Se questo capitolo avesse un titolo sarebbe: Vasilissa ha gli ormoni a mille e/o Nikolai è SHADY AF
Sarò onesta, come capitolo mi ha leggermente indisposto ed è stata una sutura chirurgica perché avremmo dovuto avere Matthias II nel 40 che slitta avanti. Comunque, un sacco di Guest Star apparse nelle varie timeline.

 

VASILISSA III
(40 dalla Dissoluzione della Faglia)

Lissa era stata svegliata dalla mano gentile di sua madre, “Lapuskha, è ora, il sole è già sorto” aveva canticchiato lei con una gentilezza che quasi non le si addiceva. Nadja Petrovich era tante cose: era buona, era volenterosa e instancabile – a suo dire – ma non era una persona gentile, ‘la gentilezza è per chi se la può permettere’ recitava.
Lissa si era tirata su, negli ultimi anni aveva diviso il guanciale sempre più spesso con Alina, finendo per dormire nella stanza principesca; spesso era capitato senza volerlo, assorte nelle chiacchiere, ma altre volte, non era stato un errore o una stanchezza, Lissa lo aveva fatto di proposito. Era sempre stato difficile – e Lissa sospettava non sarebbe mai migliorato – stabilire dei confini.
Erano serva e signora, anzi principessa, ma Lissa era l’unica compagna che Alina avesse mai avuto ininterrottamente ed a modo suo anche per lei era stato così.
Alina aveva avuto delle dame di compagnia, figlie di nobili signori ravkiani, ricchi mercanti e dignitari stranieri, ma nessuna di loro era durata mai a lungo, alcune volte per incompatibilità di carattere, altre volte per ragioni superiori di cui ne Alina ne Vasilissa avevano mai potuto indagare troppo.
“Marja come si sente oggi?” aveva indagato, ancora scossa sulle palpebre dalla stanchezza, trovandosi accolta da una tazza di caffè fumante, appena aveva raggiunto il tavolo della sala comune.
I servi avevano alloggi nascosti, con piccole camere – Lissa aveva dovuto compiere sedici anni prima di smettere di dividere lo spazio con altre tre ragazze ed avere una piccola stanza tutta per lei – non lontano dalle cucine. Chiamavano l’anticamera della cucina la sala comune, non sapeva perché. Era uno dei pochi posti dove riuscissero a fermarsi senza doversi prodigare di essere invisibili, non che fosse complicato esserlo: per la cucina e l’anticucina passavano più persone che sulla Via dei Pellegrini.
“Ha chiesto se puoi sostituirla ancora” aveva risposto qualcuno piena di vergogna, “Nessun problema” aveva ammesso Lissa, non era vero e non era neanche giusto, ma dopo aver partorito il suo piccolo bambino, Marja non sembrava stare bene, la sua non sembrava solo una stanchezza fisica, non era strano che le puerpere occupassero tempo per riprendersi, ma sul viso di Marja si formava una strana tristezza di volta in volta. “Sì, tanto ultimamente non devo dar seguito alla principessa, credo che le stiano organizzando un matrimonio” aveva scherzato Vasilissa e quel pensiero le aveva ricordato che doveva parlare con Padre Igor e Yusuf di quello segreto.
E Viktor …

 

 

Le stanze della Principessa Liliyana nel Corridoio Principesco non erano presiedute dalle solite due guardie da palazzo, che sfoggiavano le uniformi bianco ed oro, ma da due figuri vestiti in nero lucido gli opričnik che rispondevano direttamente alla futura regina. Lissa non gli conosceva, poiché di solito essi occupavano il loro tempo nel Piccolo Palazzo, le due servitù non erano completamente estranee l’una all’altra, ma non erano neanche un unico corpo. Inoltre, i guardiani della Principessa non erano servitori, non come lei.
Uno di loro aveva sorriso accomodante a Vasilissa quando l’aveva vista, era giovane, forse suo coetaneo, con le guance rubirosse e gli occhi buoni, l’altro era allampanato e magro come un fuso, con alcune cicatrici che segnavano orribilmente un viso austero. Occhi di brace.
“Oh, Malcom non sapevo che le cameriere al Gran Palazzo fossero così belle” aveva scherzato quello più giovane, mentre si faceva da parte per permettere a Lissa di passare con il suo vassoio, “Ricordami perché non ti ho ancora bruciato la faccia?” aveva risposto secco l’uomo dal viso rovinato, che doveva essere Malcom.
Ad uno sguardo più attento la sua kefta non era nera, ma era blu, un blu intenso, profondo e scuro, da sembrare quasi nero, decorato con lingue rosse-brune, che ricordavano volute di fuoco, un inferno. “Perché ormai nessuno sopporta più il tuo brutto carattere” aveva replicato il più giovane con allegrezza.
Vasilissa aveva approfittato delle ante aperte per sgusciare nelle stanze della Principessa Ereditaria.

La principessa Liliyana Nazyalensky non era da sola, occupava il soggiorno, su un divano basso, assieme ad un’altra nobildonna.
Come ogni volta, la principessa vestiva nel caratteristico blu degli etherealki, ma invece della kefta indossava un’ordinata veste, stretta sul petto, con le spalline gonfie, la gonna dritta che scendeva da una cintura fatta di perle, cinta sotto il seno florido, la sua compagna indossava un abito della stessa moda, ma di un più virulento color tangerine, con soli ricamati sull’orlo della gonna, che metteva in risalto la carnagione zucchero cotto. Era la moglie del Conte Poldunist di Ivets, la donna suli che era passata da soldato a nobile donna.
“Quando arriva quella screanzata?” aveva chiesto la contessa – Lissa non riusciva a ricordare il nome – “Al Bosco di Sankt Feliks non danno permessi speciali?” aveva indagato.
Ricordava che la principessa Alina le avesse detto fosse una ragazza Suli, che era stata portata al palazzo, con alcuni membri della sua famiglia, per permettere ai giovani principi di socializzare con il loro retaggio, che era alla regina piuttosto estraneo. La ragazza aveva scoperto al palazzo le sue inclinazioni e da compagna di studi, era diventata prima amica, poi soldato della Principessa Erede, fino a … nobile signora e compagna di tè.
“Buongiorno Lissa” aveva detto Liliyana ignorando l’amica, mentre lei si chinava per posare sul tavolino basso, dalla forma ogivale, composto di marmo rosato il vassoio d’argento che aveva ricevuto dalla cucina, composto del tè da immettere sul samovar e dei dolciumi. “Sol Sho, moya tsarevic, sol sho contessa Poldunist” aveva risposto Vasilissa concedendosi in una riverenza educata.
“Oh, no, non altri dolci, ultimamente sto lievitando, così tanto che potremmo usare me come pala per la partita di croquet[1] contro tua cugina” aveva considerato la donna suli. “Per favore, Najima, l’ultima cosa che voglio ricordami è dell’arrivo di mia cugina Ilse e di Juliana” aveva sbuffato la principessa, “Sono quasi più felice di vedere quella babnik di Dalai” aveva ammesso aspra. Di solito, quando Lissa entrava in una stanza, per i nobili non cambiava nulla, ma non per gli uomini della Principessa Erede; Liliyana teneva moltissimo ad assicurarsi che i suoi segreti restassero tali, ma se la giovane contessa aveva dato libero sfogo a quelle chiacchiere con lei presente era perché ritenevano che fossero alla portata delle sue orecchie.
Nonostante i suoi buoni propositi, Najima aveva preso i dolcetti con cioccolato nell’impasto e marmellata di more come accompagnamento, “Non capisco perché, adoro Ilse, anche se si è rubata quel bel ragazzone di Kos” aveva squittito.
“Disse la donna che ha rubato il mio fidanzato” aveva replicato con una punta di acidità Liliyana, “Per favore, avevi già rifiutato Dimitrji così tante volte quando ci siamo innamorati” aveva sbuffato divertita Najima, “Inoltre, non mi pareva che disdegnassi il tuo dolce principe consorte” aveva aggiunto.
Vasilissa aveva sistemato la teiera sul samovar.
Un rossore inaspettato era sorto sul viso ieratico della principessa, “Oh! Ma certo, io amo mio marito, più del sol, delle tselai e tutto quel disagio lì” aveva risposto onesta, “Ciò non toglie che Dimitrji aveva giurato che mi avrebbe adorato più di ogni altra cosa al mondo e poi vi siete innamorati” aveva squittito.
“Aveva dodici anni” aveva difeso l’onore del marito la contessa Poldunist.
Vasilissa si era affrettata ad allontanarsi dalla stanza, ma era stata richiamata da Liliyana, “Puoi fermarti un attimo con noi?” aveva chiesto.
Sembrava una domanda, ma non era una richiesta.
“Sì, sua altezza reale, come chiedete” aveva detto lei, chinando il capo e rimanendo in piedi, come una canna, alla presenza di un lago, “Penso tu possa anche sederti” aveva scherzato la contessa.
Vasilissa era avvampata di imbarazzo, mentre si guardava intorno per cercare una sedia o qualcosa, dovendo poi ripiegare su un divanetto, imbottito, di un sobrio verde pistacchio. “Una volta ero così anche io, quando sono arrivata a palazzo, balbettavo solamente” aveva scherzato la contessa Najima, “Non aiutava che Dominik fosse il bambino più bello del mondo” aveva squittito divertita, “Ogni volta che mi era vicino, diventavo rossa come un peperone e dimenticavo persino come si respirasse.”
“I sankti mi hanno maledetto il giorno che hanno permesso che un viso così bello, fiorisse su un cuore così smaliziato” aveva sospirato la principessa, “Non tutti possono essere bellissimi ed intangibili come te” l’aveva stuzzicata Najima, “Posso assicurarti di essere tangibilissima, babnik!” l’aveva rimproverata bonariamente la principessa.
Vasilissa era ammirata, la principessa Liliyana aveva molte facce e molte coperture, ma nel privato era sempre una donna distante, Lissa l’aveva vista così morbida con poche persone: i suoi bambini, le sue strette confidenti e con Gernya. In quel momento, con quell’atteggiamento, somigliava terribilmente ad Alina.
“Allora Vasilissa, ignora per cortesia le parole di Najima, fior-fior di corporalki la hanno controllata per cercare di capire che intoppo ci fosse tra la sua bocca e la sua testa, senza risposta” aveva replicato Liliyana, con un sorriso furbetto; Lissa si era lasciata sfuggire una risata, inaspettata e fuori controllo. “Volevo parlare di mia sorella” aveva ripreso Liliyana, “E di quel bel bocconcino del principe di Fjerda” si era intromessa Najima che non sembrava affatto turbata dalle parole della sua amica. “No”, aveva risposto Vasilissa, “Sì, no” aveva replicato Liliyana, “Sei la più grande confidente di mia sorella, non ti chiederei di tradire i suoi segreti, come Najima non tradirebbe mai i miei” aveva considerato. “Non direi mai, mai, per un buon prezzo lo farei” aveva scherzato la contessa, ma nonostante il tono divertito nella sua voce, Vasilissa non dubitava della considerazione della principessa ereditaria.
“Io non tradirei mai Al… La principessa Alina” aveva ammesso Lissa, “Neanche per Lei, moya tsarevic.”
“Sebbene io sia Ravka, sono anche felice che mia sorella abbia tanta dedizione” aveva detto onesta la principessa.
Vasilissa aveva sorriso. “Credi che mia sorella sia ben disposta verso il principe Fjerdiano?” aveva cominciato Liliyana, “Io lo sarei, divorzierei da mio marito, senza battere ciglio” aveva aggiunto Najima, “O verso uno dei pretendenti?” aveva chiesto.
Alla corte di Ravka si erano aggiunti alcuni rappresentati delle Colonie e la cerchia del Marshal Kaelish, mancavano all’appello gli Zemeni – che sarebbero arrivati nei prossimi giorni –  gli Shu, il cui ingresso era previsto per il fine settimana e i kerchiani, la cui data di arrivo sarebbe stata unicamente qualche giorno prima del secondo ventennale. E con loro ci sarebbe stata la partita di croquet, di cui discutevano le due.
“La principessa Alina vorrebbe organizzare un incontro con il principe Matthias” aveva sputato fuori Vasilissa.
Era più un’idea che Genya aveva fatto cadere diverse volte, che un pensiero vero e proprio della principessa.
“Sanktissima, c’è sul serio la possibilità che la nostra piccola ‘Lina diventi la Regina di Fjerda” aveva sghignazzato Najima, “La cosa divertente è che a quel punto avrete pari grado” aveva valutato.
Liliyana aveva uno sguardo sagittabondo verso la sua amica, “Io sarò regina regnante, non consorte” aveva risposto lapidaria, “Sfido a dire che la buona Regina Mila non governi lei il palese” aveva risposto Najima con un sorriso storto e furbetto.
Il suono del tè che aveva raggiunto la bollitura aveva interrotto quel discorso, Vasilissa si era alzata per compiere il suo dovere, ma era stata anticipata dalla contessa, “Ci penso io, qui a Os Alta non avete idee di come si facciano gli infusi, neanche i materialki” aveva detto calma, recuperando un porta gioie di latta, che aveva fatto scattare, per mostrare con gioia foglie tritate.
“Non ti crucciare Lissa, Najima ha sempre preparato il tè per me” aveva ammesso Lilyiana, “Neanche avere una bella tiara ed un titolo nobiliare mi salva da questo ingrato compito” aveva squittito la donna suli, mentre spostava la teiera dal samovar, per infondere poi nell’acqua le sue erbe.
“Mal, vuoi un po’ di tè e biscottini?” aveva strillato.
“No, Najima sono in servizio, io” aveva replicato offeso la voce da dietro la porta. “Sono passati dodici anni e non mi ha ancora perdonato” aveva ammesso Najima, con un sospiro.
“Malcom ha un talento naturale per conservare il rancore, sì” aveva ammesso Liliyana stanca, probabilmente la situazione non doveva aver fatto molti progressi in dodici anni.
Dodici anni … dodici anni prima, Lissa aveva otto anni.
“Alexiei, tu caro?” aveva chiesto all’ora la contessa Poldunist, “La ringrazio moya grafinya” aveva risposto dall’altro lato della porta con cortesia uno dei guardiani.
“Devi sapere Lissa che prima di essere strizzata in questo bel vestito di velluto, addobbata con questi ori e guadagnare tutti questi chili, ero una fantastica soldatessa e opričnik . Ovviamente non sapevo toccare un insetto in mezzo agli occhi con una carabina, ma ho tirato certi pugni che hanno fatto fare le capriola anche a qualche grisha” aveva detto didascalica Najima, “Ne sono consapevole, moya grafinya” aveva ammesso Lissa, lo ricordava a stento; Najima prima di essere la contessa, vestita del nero della guardia speciale, ma sapeva che spesso si riferivano a lei come la moglie soldato del Conte[2], di tanto in tanto anche Lissa la chiamava così.
“Bene, Mal che era mio amico non ha mai perdonato questo mio affronto” aveva spiegato, mentre portava la teiera sul tavolo, “Sai: aver lasciato il servizio, aver cambiato classe sociale” aveva considerato, leggermente frustrata.
“Sono vecchie storie, ho detto a Malcom di inghiottire i suoi malumori e dissapori, se voleva continuare a stare dinanzi la mia porta” aveva spento la conversazione la principessa.
Vasilissa cominciava a sentire la scomodità di quella posizione, “Inoltre, credo che tutta questa storia non interessi a Vasilissa, probabilmente ha tante cose a cui pensare” aveva valutato la principessa.
Lissa si era morsa il labbro, mentre Najima le allungava una tazza di tè caldo ed odoroso, sapeva di rosa e bianco-spino; non sapeva cosa era richiesto che rispondesse. “Come il vestito che dovrà mettere per andare a Lazlayon” aveva considerato Najima, “Il cosa?” si era lasciata sfuggire senza controllo, assieme quasi alla tazzina bollente. “Alla festa di inaugurazione dei Dieci Giorni Sankti, farai da accompagnatrice ad Alina, no?” aveva considerato la principessa.
“Io penso di sì” aveva ammesso, era la prima festa alla palude d’oro che Re Nikolai avrebbe permesso alla sua figlia minore di frequentare, si diceva fosse un luogo di delizie e perdizioni, “Non è un pensare, è un fatto noto” l’aveva corretta la principessa, “E come dama di compagnia della Principessa di Ravka, non puoi andare con nulla che non sia degno della dama di compagnia” aveva replicato.
“Ma io non sono la dama di compagnia” si era lasciata sfuggire stupidamente, era la cameriera, la serva, la segretaria e nel privato delle loro stanze l’amica. Non la dama di compagnia, la guardarobiera o quel ruolo che di solito spettava a donne con un certo perché, che fosse titolo o denari, come la vivace Tatiana Dubriv, o Anya Karkoff o Svetlana Petriosky. “Cambieremo questo” aveva detto Liliyana con un sorriso quasi rassicurante.
Lissa si era sentita stordita quasi da quella notizia.
“Sicuramente dovremmo cominciare da un vestito, non fraintendere l’oro sta benissimo con la tua sfumatura di occhi miele e, sankti, ti sta bene il bianco cosa che non si sposa con nessuno che non abbia la carnagione più chiara di una mandorla” aveva soffiato Najima con un certo divertimento, “Ma c’è bisogno di qualcosa di molto – molto – più vivace” aveva considerato. “Su questo ti lascio alle sapienti mani di Najima, io da che ho nove anni che indosso kefte o vestiti che somigliano a kefte” aveva risposto la principessa Liliyana, “E tutto rigorosamente in blu” l’aveva presa in giro Najima, “Una gran fortuna che il blu-fulmine sia il mio colore” aveva scherzato la principessa.
Vasilissa era quasi agghiacciata da quanto fosse strano vedere la principessa così allegra e divertente, sembrava un contrasto così forte con la figura austera con cui lei ed Alina si erano sempre confrontate. Alexiei aveva aperto la porta, “Sua altezza il Principe Juris di Os Alta e sua grazia il nobile Andreji di Ivets” era riuscita a dire a malapena prima che due ragazzini entrassero come mulinelli nella stanza.
Il prince Juris nei suoi cinque anni di vivace furore ed il figlio di Najima, che aveva il doppio degli anni ed uno sguardo furbetto.

“Quello che volete fare è completamente folle” si era lamentato Cignaz, mentre sistemava la biancheria pulita in una cesta.
A Lissa piacevano i locali della lavanderia, odoravano sempre di lavanda e pulito, e le vettovaglie stese creavano un intricato labirinto di stoffe. “Completamente folle è entrare nella faglia con una nave fatta di vetro e Lumiya, questo è un matrimonio” aveva replicato Yusuf con una finta calma.
“No, tu vuoi sposare una signorina della seta, promessa sposa ad un nobile. Va bene che di questi tempi noi servi non vediamo più battuti sulla schiena, ma rimani ancora un nobile” aveva spiegato Cignaz, “Digli qualcosa Lissa” era stata interpellata lei.
“Ormai il dado è tratto. Abbiamo parlato con il prete, concordato con le cuoche per spezzare il pasto – non sarebbe un vero matrimonio senza – e perfino trovato un vestito” aveva scherzato Lissa, “E tutto d’oro” aveva aggiunto.
“Certo, ma come intendete celebrare un matrimonio di nascosto? Quando? E soprattutto che farete poi, ho i miei dubbi che i Karkoff accetteranno che la loro principessina fugga con lo stalliere e non oso immaginare il conte Semyon” aveva ricordato Cignaz, “Non potrai nasconderti dietro le spalle di Lissa, sono piccole” aveva stabilito ammiccando a lei.
“Cignaz, solo perché sei più grande non sei il nostro tutore” lo aveva rimproverato Lissa, mentre metteva da parte le biancherei di cui aveva bisogno. “Va bene, avete ragione, sbagliate come volete. D’altronde sono stato giovane, ingenuo e stupido anche io, un tempo” aveva ammesso melodrammatico.
Yusuf aveva roteato gli occhi esausto, mentre Vasilissa lo aveva guardato con una certa tristezza, ricordando che il buon Cignaz era stato innamorato per molto tempo di una persona, che aveva finito per sposare un altro. Marja le aveva detto non era stato poi così drammatico, per nessuno, lo stesso Cignaz aveva accettato che lui e la sua bella vivessero in mondi più che diversi.
“Però. Il buon Cignaz ha ragione, quando dovrebbe essere il matrimonio?” aveva inquisito, “Sarebbe meglio prima di ritrovarci tutti i più potenti signori del mondo in giro per il Gran Palazzo, ma non la vedo così semplice” aveva valutato Lissa, “La cappella per il secondo ventennale è sempre piena di gente” aveva aggiunto, “Inoltre, Anya’ka è sempre piena di gente attorno” aveva considerato Yusuf.
“Credo dovrebbe essere durante la festa alla Palude. In quel momento tutto i nobili saranno lì, tutti, nel Gran Palazzo resteranno solo i servitori, qualche guardia ed i bambini, scommetto che se lo chiederemmo al prete che avete chiesto resterà anche lui” aveva proposto Cignaz, “Anya sarà alla festa a Lazlayon” aveva considerato Yusuf, “Come tutti i nobili, i ricchi e i dignitari” aveva precisato l’uomo con calma, “Ma le feste di Kirigian e Deimov sono devastanti sotto molti fronti, posso testimoniarlo” aveva spiegato l’addetto della lavanderia, “Ho dovuto tenere la testa di Kos, più di una volta” aveva raccontato.
“Kos … Kostantyn … l’Inferno che faceva da guardia del corpo al Principe?” aveva chiesto con interesse Lissa, quasi confusa, “Per me è Kos, il ragazzino insoddisfatto che viveva a Keramzin con me” aveva ridacchiato Cignaz, “E che ora si gode i soldi della sua bella moglie kerchiana”.
“Però, potrebbe avere senso” aveva parlato Yusuf, “Non ho mai partecipato, ma immagino che la festa possa effettivamente degenerare e scommetto che nella confusione che animerà la festa, forse Anya’ka potrebbe riuscire a sgattaiolare a suo padre e al suo fastidioso fidanzato” aveva considerato.
Vasilissa aveva avuto un tremore difficile da spiegare alla menzione di Viktor, “Certo, solo come dovrebbe fare?” aveva inquisito Cignaz, riportando l’errore, “La posso riportare io, andrò alla festa come dama … una delle due potrebbe fingere di sentirsi male e di essere riaccompagnata dall’altra” aveva considerato, “E sarà la scusa se saremmo fermate” aveva considerato, “Ci serve un cocchiere” aveva considerato poi. “Lo chiediamo ad Anatov, sai l’Anatov dell’Altra Anya” aveva proposto Yusuf, “Se interrogato, potrà dire che ha eseguito gli ordini di due signore” aveva considerato.
“Il piano è improbabilissimo” aveva considerato Cignaz, “Ma è il meglio che abbiamo” aveva concordato Vasilissa, “Io parlo con il prete, Yusuf con la sua bella e Anatov e tu con la cuoca – non esiste matrimonio Ravkiano che non debba concludersi con lo spezzarsi del cibo” aveva impartito.
“Oh, Lissa così assertiva mi piaci” aveva miagolato Yusuf, “Hai già ingravidato una donna, non essere avido, amico mio” aveva sospirato lei.

Prima di raggiungere il misterioso cappellano, Lissa aveva dovuto svolgere le sue opere e quelle di Marj’ka che ancora faticava ad alzarsi dal letto dopo il suo parto – almeno il suo bambino stava crescendo grasso e sano, la madre di Vasilissa adorava strizzargli le guance.
Uno di questi compiti riguardava occuparsi degli appartamenti della regina – e del Re, visto che egli era tornato ad occupare le stanze di sua moglie – qualcosa che preferiva ad occupare il tempo nelle stanze della principessa. Adorava Alina, ma era terribilmente caotica, Lissa spendeva tantissimo tempo nel sistemare quelle stanze, per ritrovarle vittima di un terremoto il giorno successivo.
Le stanze della Regina Zoya erano sempre ordinatissime ed organizzate, quasi da immaginare che la regina sistemasse le sue camere da sola, Marj’ka le aveva detto che era così in realtà.
Forse era un retaggio del Piccolo Palazzo, sebbene esistesse una servitù anche lì, la regina Zoya aveva dovuto sviluppare qualche stranezza – o forse paranoia.
Non aveva molti contatti con la servitù del Piccolo Palazzo, ma aveva sentito che alcuni dei bambini che venivano portati lì dalle zone più rurali o che venivano dall’estero, erano ossessionati che qualcuno potesse sottrarre loro quel poco che avevano.
O forse era solo guidato dal fatto che la regina Zoya fosse la regina e non trovasse piacere nell’essere spiata, neanche dalla sua servitù.
In virtù del fatto che le stanze di sua maestà erano quasi sempre in ordine, se non sconvolte dalle frenesie di qualche incontro romantico con il Re, Lissa aveva dovuto dichiararsi stupita da ciò che era capitato davanti i suoi occhi.
Le stanze delle Regina erano vittime di una tormenta, non era il disordine della Principessa Alina, era un caos più primordiale e violento, come una colluttazione, come se qualcuno avesse lottato, come se una fiera avesse trovato il suo terreno di caccia in quella stanza.
Il tavolino ogivale in marmo era spacco in due, i due divani bassi erano squarciati nei cuscini, spezzati nel regno e rovesciati, la carta da parati era distrutta, il nero del carbone, aveva consumato una parte del pavimento, del muro e l’odore del bruciato impregnava l’aria.
La porta del bagno con la vasca, privato era scardinata, così come l’interno della stanza era rovinata. La porta bianca lucida che conduceva nelle stanze più private, dove erano lo studio, poi la camera da letto ed un altro bagno più piccolo, era stata scardinata e bruciata.
Lissa avrebbe urlato se non avesse sentito un rumore provenire dal fondo del corridoio della regina.
“Chi c’è là?” aveva indagato con una voce sottile come quella di un gatto, muovendosi in quella direzione, non sicura delle sue azioni ed anche spaventata a morte.
Quando aveva raggiunto la stanza da letto della regina, dove il letto a Baldacchino era spaccato nella parte superiore, aveva trovato, affianco ad un materasso rovesciato una figura avvolta in un bozzolo.
“Sua maestà?” aveva chiesto perplessa e dalle lenzuola di seta bianca aveva fatto capolinea la chioma nero corvino della regina, seguita dal suo viso macchiato dal pallore di una malanno.
“Sua maestà” aveva ripetuto Lissa, senza controllo, lanciandosi verso la regina, quest’ultima aveva cercato di tirarsi su, sotto le stoffe aggrovigliate, indossava una camicia da notte di velluto, lunga fino alle ginocchia. Le gambe della regina Zoya avevano traballato, erano nude e macchiate da lividi viola e blu, così come le sue braccia erano rovinate e segnati da graffi, unghia nere spezzate.
“Devi stare zitto” aveva sussurrato Zoya, appoggiandosi a lei, quando Vasilissa era riuscita a riprenderla, per evitare che cadesse a terra, “Solo Lissa, non è pericolosa” aveva aggiunto.
“Sua maestà, cosa è successo?” aveva chiesto preoccupata Lissa, mentre cercava di condurre la regina in un posto dove potesse sedersi, raggiungendo solamente il materasso rovesciato per terra.
“Loro sono così rumorosi, Lissa” aveva risposto la regina, con un tono quasi doloroso, con gli occhi blu distanti, aveva parlato con lei, aveva risposto, ma non stava davvero conversando con lei.
Vasilissa non era neanche sicura di poter chiedere cosa fosse successo, non era neanche sicura del perché, sembrava che nelle stanze della regina fosse passata una bestia ed un pensiero sinistro aveva cominciato a serpeggiare lungo la sua schiena, fino alla sua nuca.
“Come posso aiutarla?” aveva chiesto alla fine, gentile, pensando che tutto sommato, quello era il suo lavoro: servire.
La regina Zoya si era voltata verso di lei, le labbra piene schiuse, scossa da un qualche tremito e gli occhi azzurri, come zaffiri – come quelli di Alina – rivolti verso una direzione quasi vaga. Era stranissimo, Lissa riusciva a comprendere che la regina la percepiva, ma non riusciva davvero a comprendere che fosse lì. Rispondeva lenta e distratta, “Io … credo di aver bisogno di … Alina” aveva ammesso la regina.
Lissa era scattata su come una molla, “Certo, vado subito a chiamare la princ-” aveva cominciato a dire, ma era stata afferrata dalla regina che l’aveva di nuovo tirato giù sul vecchio materasso, solo in quel momento, Lissa aveva notato ci fosse una serie di squarci simile alle zampate di un gatto – un gatto gigante, da unghi affilatissime. Una bestia ben più grande e ben più pericolosa.
“No, Vasilissa io ho bisogno di Alina, di Alina!” aveva insistito la regina.
La teneva per un braccio con una morsa così stretta quasi da dolerle, la pelle della regina Zoya era bollente, come se fosse stata fatta di fuoco vivo e Vasilissa sentiva sulla carne una morsa quasi ustionante. “Sì, certo sua maestà, andrò subito a chiamare la sua Alina” aveva provato, quasi squittito.
“Sì, sì, Alina. Ho bisogno che Alina torni qui” aveva ripetuto la regina, senza lasciare la sua presa.
“Mi … dovete lasciare sua maestà o non potrò” aveva provato all’ora Vasilissa piena di incertezza, perché mai nessuna cameriera avrebbe potuto dire alla potente regina drago cosa era dovere o meno per lei fare.
Zoya era sembrata scossa dalle sue parole, ma aveva lasciato la presa sul suo braccio, “Scusami, Lissa, scusami, a volte … è difficile avere a che fare con il mio corpo” si era scusata, umilmente, come se fosse stata l’ultima delle cameriere.
“Non c’è nulla di cui doversi scusare, sua maestà” aveva provato lei, nascondendo il braccio dietro la schiena, avendo percepito appena, con solo la coda dell’occhio una macchia rossa sull’avambraccio.
“Oh, certo, c’è tanto di cui scusarsi” aveva cominciato la regina, ma la loro interazione era morta lì, quando una presenza si era palesata alla porta.
“Zoya, moya tselai” la voce di Re Nikolai, aveva invaso le camere con apprensione crescente, prima che la sua figura apparisse davanti la porta scardinata. Non era più giovane, ma era ancora pregno di tutto il suo fascino e compostezza regale.
“Nikolai” aveva detto con una dolcezza quasi stucchevole la regina Zoya quando lo aveva veduto. Nikolai aveva compiuto dei passi verso di lei, Lissa doveva dichiararsi ammirata dalla sua capacità di auto-controllo, si muoveva tra le macerie come la stessa grazia di un acrobata e non sembrava turbato da nulla. “Nikolai … sono rumorosi” aveva sussurrato Zoya. Nikolai aveva annuito, avvicinando la moglie a ste per abbracciarla in maniera delicata e protettiva, baciandola poi con gentilezza su una tempia. Vasilissa aveva sentito il re sussurrare qualcosa in una lingua che non conosceva, doveva essere ravkiano antico o forse Suli, la principessa Alina aveva studiato ambedue le lingue, anche se queste non avevano mai particolarmente catturato il suo interesse, né si era rivelata particolarmente brava, così non aveva mai costretto Lissa ad esercitarsi con lei.
La conversazione tra la regina ed il re sembrava comunque molto intima e Vasilissa si era ritrovata improvvisamente angosciata dalla sua presenza, forse di troppo in quel momento. Di solito i nobili tendevano a non percepire neanche i servitori quando erano nella stanza, ma Re Nikolai non permetteva a nessuno di sfuggire al suo attento sguardo.
Quando Lissa aveva fatto un passo indietro per congedarsi, gli occhi del re l’avevano raggiunti. Erano scuri ed attenti, come quelli della Principessa Liliyana.
Alina diceva sempre che per quanto sua sorella potesse apparire come una copia carbone della regina, aveva dentro tanto del loro padre.
“Lissa, per favore aspetta fuori” le aveva ordinato cortese.
Vasilissa aveva fatto una riverenza cortese ed aveva lasciato la stanza.
Re Nikolai non era venuto da solo, poiché Vasilissa fuori dalla porta aveva trovato due baldanzosi soldati, nella kefta azzurro lucente dell’uniforme di Ravka. Erano soldati, non guardie di palazzo. Lissa non li conosceva; uno era giovane, con il viso carino e giovanile, l’altro era più attempato ma ancora in forma. Il più piccolo dei due le aveva sorriso in maniera sfacciata, ma non aveva fatto cenni di volersi presentare o altro. Lissa aveva comunque sorriso verso di loro, notando fossero molto più disciplinati delle guardie che girovagavano al palazzo, più vicini all’opričnik della Principessa Ereditaria.

Poi erano rimasti tutti e tre in un silenzio un po’ lugubre, che a Vasilissa sembra colmo di nervoso imbarazzo, ma il sentimento non sembrava condiviso. I due soldati apparivano piuttosto a loro aggio nel ruolo, nello stare fissi in silenzio davanti ad una porta.
Sembravano più guardie di Palazzo delle guardie di Palazzo. L’unico accenno di distrazione era dato dal giovane che di tanto in tanto faceva guizzare lo sguardo con la coda dell’occhio verso Vasilissa.
Cosa che la faceva sorridere con un po’ troppo nervosismo e distogliere lo sguardo, colma di prurigine. Non avrebbe dovuto mai giacere con Viktor, aveva aggrovigliato i suoi intestini.
Questi pensieri erano stati interrotti dalla salvifica apparizione del re che era emerso dalle sue stanze.
“Possiamo parlare Lissa?” aveva chiesto con un tono cortese, ma nonostante suonasse come una domanda, Lissa sapeva fosse un ordine. Re Nikolai era sempre cortese e gentile, ma era comunque un Re.

Non si erano allontanati molto dalla stanza della regina, ma Re Nikolai l’aveva condotta in un piccolo salottino privato, Lissa aveva provato un senso di spaesamento quando si era resa conto che non conosceva quella stanza, ne era sicura di aver visto la porta quando l’avevano passata. “Era una serratura materialki?” aveva esclamato sconvolta, non riuscendosi a controllare. Vergognandosi terribilmente della sua imprudenza. Nikolai si era voltato verso di lei, con un sorriso gentile – aveva lo stesso modo di sorridere di Alina, sebbene, per qualche ragione, la principessa sembrava sempre raggiante quando rivolgeva quello sguardo. “Questo palazzo ha ancora tantissimi segreti, Lissa. Vivo qui da tutta la mia vita e mi riserve ancora sorprese” aveva detto l’uomo, invitandola a sedersi su un divanetto rosa cipria con bande turchesi. Vasilissa poteva comprenderlo.
Lissa si era seduta piena di imbarazzo, realizzando fosse la seconda volta in una giornata che finiva ad occupare lo spazio di fronte un reale, in un luogo per nulla consono.
“Immagino avrai molte domande, Lissa” aveva detto accomodante il re, “No, sua maestà, non è il mio compito farmi domande” aveva risposto spenta lei, abbassando lo sguardo.
“Oh, questo è un peccato Vasilissa, interrogarsi sulla realtà è il modo più sicuro per progredire” aveva spiegato calmo il re, “Inoltre, il tuo modo risiede in queste stanze – per quanto io mi auguri che tu voglia un giorno esplorare quello che c’è oltre la mura del Palazzo, il mondo è spaventoso ma bellissimo – è normale che tu sia curiosa di quello che avviene” aveva spiegato con un calma invidiabile il re.
Lissa non aveva potuto trattenere un piccolo sorriso che era sorto sulle sue labbra, davanti quella prospettiva: il mondo, sembrava qualcosa di così lontano.
Alina aveva spesso fantasticato di una realtà in cui si sarebbe unita nell’esercito e poi ne avrebbe approfittato per sfuggire dalle mani di sua madre ed anche se spesso parlava al plurale, Vasilissa non vedeva se stessa in quel futuro.
“Sarebbe bello, sua maestà” aveva ammesso alla fine con estrema calma.  Il sorriso del re non si era spostato di un centimetro, così come il suo sguardo.
E poi, Vasilissa aveva avuto un pesante brivido lungo la schiena ed un terribile sospetto che aveva segnato la sua mente, quasi velenosa, “Verrò mandata via?” aveva chiesto, realizzando che non aveva senso nasconderlo.
Evidentemente Vasilissa aveva visto qualcosa che non doveva vedere e sua maestà cominciava a parlare di vedere il mondo, non era così male, fino ad un centinaio d’anni prima, probabilmente avrebbero fatto sparire Vasilissa dietro un muro di mattoni.
La Tsarina e lo Tsar non sembravano quel tipo di monarchi, ma nessuno aveva più visto il precedente Apparat dopo il Vertice di Os Kervo.
“Vuoi andare via?” aveva chiesto Nikolai, perplesso, prima di essere colpito da un’epifania, “Oh! Sankti no! Vasilissa, no! Stai tranquilla” aveva esclamato subito, realizzando forse i suoi pensieri, alzandosi dal divanetto opposto al suo, “Non era una minaccia o che so altro. Solo un flusso di pensieri, sono una chiacchierona … un brutto vizio che non ho mai perso” aveva spiegato subito.
Lissa aveva annuito tutt’altro che rincuorata, “Non vorrei che tu parlassi di quello che hai visto, ma niente di più" aveva ripreso il Re, “La corte brulica di persone, di dignitari, Zemeni, Fjerdiani e Kaelish, presto arriveranno anche gli Shu e poi i Kerchiani, oggi esiste la pace, ma non tutti sono così appassionati della pace” aveva spiegato didascalico il re.
“Oh” si era lasciata sfuggire Vasilissa, che di politica non capiva un granché. “Qualcuno ha cercato di fare del male alla regina?” aveva chiesto poi, audace. “Qualcuno cerca sempre di fare del male a Zoya” aveva risposto Nikolai, “Mia moglie è una Sankta e come saprai spesso i sankti hanno guadagnato odio e martirio” aveva ammesso stanco.
“Ma la Regina è imbattibile” aveva detto Lissa, vergognandosi l’attimo dopo la sua audace. “Oh no, ti confesso Vasilissa che la regina è immortale, forse sì anche imbattibile, ma questo non vuol dire che non possa essere ferita, purtroppo” aveva ammesso Nikolai, girovagando per la stanza, leggermente nervoso.
Non controllo bene il mio corpo, così aveva detto la regina, probabilmente quando aveva pronunciato quelle parole doveva essersi ripresa da una colluttazione, forse da una trasformazione. Lissa aveva un ricordo un po’ sfocato della regina drago quando riprendeva la forma umana.
Un po’ traballante ed un po’ confusa, di come era cambiata brutalmente la sua percezione del mondo. “Non voglio che si pensi che Ravka, che il palazzo non è sicuro. Presto ci saranno tre regine, svariati principi e capi di stato … e non voglio far preoccupare i miei figli, se posso essere sincero Lissa, più di mia moglie o chiunque altro” aveva ammesso Nikolai.
Vasilissa aveva annuito, “Oh, sì, io capisco, moy tsar” aveva detto, “Terrò gli occhi aperti, per ogni evenienza” aveva miagolato sottile, “E se posso permettermi di parlare dei principi, sua maestà, la tsarina chiedeva della principessa Alina” aveva riportato.
Un guizzo era balenato negli occhi del re, “Certo, penserò io a condurre ‘Lina da sua madre, tu puoi continuare con i tuoi doveri Vasilissa, presumo tu sia molto impegnata” l’aveva congedata il re, con quelle parole e con gli occhi castani, leggermente distanti.

Aveva raggiunto la cappella palaziale dopo ore – ore in cui aveva dovuto svolgere i suoi lavori, non senza aver avuto la mente affollata da quanto era stato detto dal re e dal comportamento della regina.
Provava un senso di nausea e vertigine nell’immaginare nemici di Ravka, così bravi da essere in grado di turbare anche la regina drago ed un pensiero ancora più preoccupante si era insediato nella sua mente, come un tarlo fastidioso: se qualcuno avesse provato a ferire Alina?
Lei non possedeva i doni di sua madre o di sua sorella … O i piccoli principi?
Juris era un etherealki ma era ancora acerbo come un frutto.
Erano pensieri terribilmente angoscianti, di cui Vasilissa era certa non si sarebbe mai riuscita a liberarsi.
Camminava per i corridoi del palazzo guardando i piedi di ogni persona con cui aveva incrociato il cammino, estranei da terre straniere, visi poco noti, fino ai più conosciuti – la nobile Genya poteva cambiare le fattezze di chiunque, qualcun altro aveva la sua maestria?
Anche un sorriso amichevole da un volto familiare, non la tranquillizzava più.
Era stato piacevole raggiungere la capella, perché lo aveva fatto appena dopo la messa dell’ultimo pomeriggio, mentre il cielo, oltre le mura, si tingeva di un rosso sangue.
Vasilissa aveva seguito la fiumana di gente che abbandonava la messa, riconoscendo la regina più sicura e fulgente al braccio del figlio maschio, seguita da un’annoiata Alina incastrata tra Tatiana Dubrovin con un sorriso troppo soddisfatto e Anya Karkoff che nascondeva la figura non più così snella, sotto una mantella pesante che non si addiceva alla stagione.
Alina le aveva fatto un cenno della mano ed un sorriso allegro e luminoso, che Vasilissa aveva ricambiato con una riverenza profonda.
Aveva intravisto l’Apparat con quei suoi capelli biondi – quasi bianchi, non per natura, ma per diletto – vestito tutto d’oro che conversava con un paio di Fjerdiani. La regina Mila, la sua dama di compagnia dall’incarnato di rame ed un giovane nobile uomo.
Dietro di loro, come un condannato a morte, il principe Fjerdiano – il giovane più bello su cui Vasilissa avesse mai posato gli occhi – strisciava i piedi incastrato in una conversazione che non sembrava stimolarlo affatto tra la principessa ereditaria Liliyana e l’ambasciatrice di zemeni Merissa Nassau.
Vasilissa scioccamente aveva distolto lo sguardo, quando gli occhi azzurri del principe, in cerca di evasione dalla sua conversazione l’avevano quasi trovata.
Si era infilata nella cappella, quasi urtando il Marshal – dalle spalle larghe e la faccia puntinata di efelidi rosa sulla pella chiara – e suo fratello, più spesso e nerboruto, con somma vergogna.

La stanza non era illuminata dalle suggestive luci delle candele o dal sole filtrato dai vetri di mille colori. Le cere erano spente e fumanti, come le imposte tirate per coprire le vetrate, l’unica fonte di luce nella stanza era un fuoco fatuo raggiante, come un piccolo sole, splendente e vibrante.
Erano le mani di padre Igor a sostenerlo.
Non indossava il saio grezzo bianco dell’ultima volta, ne l’abito cerimoniale d’oro con cui chiamava la messa, il suo corpo spigoloso era rinchiuso in una kefta blu accompagnata da decorazioni d’oro e rosso-arancio che ricordavano raggi ondulati dalle punte acuminati, di piccoli soli. Un grisha, più che un uomo di chiesa.
Guardando quella luce brutale, Vasilissa ebbe un brivido, simili a quelli del freddo.
“Sempre magnifico, devo dire” aveva cantato una voce femminile, all’ora con imbarazzo Vasilissa aveva notato che nella cappella non erano rimasti solo lei ed il prete, ma anche un’altra persona.
Vasilissa aveva seguito con lo sguardo il rumore, trovando una giovane donna, seduta su una panca. Prima aveva notato il rosso carminio dei corporalki, segnata da acuminati intrecci di nero corvino. Illuminata dal sole artificiale la sua pelle sembrava più arancia che olisse, come i capelli nerissimi parevano più chiari, ma il viso dalla forma di cuore ed il naso con una leggera gobbetta non potevano essere falsati dalla luce.
Meesha Effimov.
“Benvenuta Lissa” aveva detto padre Igor non preoccupandosi di rispondere a Meesha, con ancora le mani protese in un gesto d’orazione, senza che il sole sfarfallase di una sola vibrazione.
“Oh! Vasilissa!” aveva cantato Meesha voltandosi verso di lei con gli occhi scuri, si era alzata dalla panca. Alta, dalle spalle larghe e dall’espressione sempre così posata. Erano nate nello stesso anno, nella stessa colorata primavera, ma per Vasilissa tra loro doveva apparire il Mare Vero intero, “Sono felice di vederti!” aveva detto la grisha, il suo tono era allegro e nascondeva un accento dell’ovest mal celato. Meesha era nata ad Os Alta al Piccolo Palazzo, ma aveva genitori e nonni nelle terre vicino al mare, sia da madre sia da padre. Mezzo-secolo prima avrebbe avuto una vita assai diversa e le loro strade non si sarebbero mai incontrate.
“Oh, mia signora è tornata” aveva detto accostumata Vasilissa che non ricordava il grano militare di Meesha, “Il mare mi era venuto a noia. Sia dannato il giorno che ho ascoltato mio padre e non mi sono unita all’aviazione” aveva ammesso Meesha con un tono piuttosto divertito, “Ma sono davvero contenta di essere tornata, ancora di più di avere i piedi su qualcosa che non oscilla al primo vento di ponente” aveva scherzato lei, prima di avvicinarsi e cogliere Vasilissa in un abbraccio amichevole, a cui lei non si era sottratta.
Meesha era una grisha, era un rispettabile membro dell’esercito – della marina! – e suo padre era stato il figlio di un matrimonio morganatico di un nobile. Non erano e non sarebbero mai state sullo stesso piano, ma Meesha aveva detto – tanti anni prima – che non erano che umili servi della Vendetta su Ali Nere.
‘Alina sarà così felice di rivederla’ avrebbe dovuto dire Vasilissa perché era vero, ma si era limitata a dire solamente: “Bentornata” con dolcezza.

La grisha aveva sciolto l’abbraccio. “Cosa hai fatto al braccio?” aveva chiesto subito Meesha, osservando come sulla sua pelle capeggiasse l’arrossatura della presa della regina, “Io … credo di essermi cotta un po’, ma non fa male, tranquilla” aveva detto, cercando di tirare via il braccio dalla vista di Meesha. La grisha era stata scattante ed aveva fermato il suo polso con delicatezza. “Ci penso io” aveva detto languida, “È un’heartrender non una healer” aveva ricordato Vasilissa.
“La materia è la stessa” l’aveva rassicurata la grisha, mentre scioglieva il polso di Vasilissa, aveva poi posato tre dita della mano destra sulla scottatura, mentre con la mano sinistra aveva fatto roteare l’indice, come se avesse voluto imitare un mulinello e Lissa aveva sentito un leggero formicolio sulla pelle. Quando Meesha aveva terminato il suo ruotare, aveva stretto indice e pollice come se avesse afferrato un filo sottile come quello di una ragnatela ed aveva tirato uno strattone – come se avesse voluto stuccarlo – Lissa aveva sentito un lieve bruciore, come la cera tiepida sulla pelle, per un solo momento.
Meesha aveva tolto le mani e la pelle di Lissa era tornata di un roseo timido.
“Grazie” aveva detto onesta e strabiliante – era sempre incredibile vedere e sentire la piccola scienza.
“Come mai da queste parti?” aveva indagato indiscreta, “Un bisogno spirituale, presumo” aveva sospirato Padre Igor, “Meesha, credo che tu abbia del lavoro da fare ed io non sono più paziente” aveva aggiunto.
Meesha aveva fatto una smorfia, “Prima eri più divertente, zio Igor” lo aveva rimproverato, “No, non lo sono mai stato, eri solo una bambina ottusa che non ascoltava le mie parole” aveva aggiunto. Meesha aveva fatto una smorfia, ma era stata felice di dar loro le spalle.
“Sembrate molto unite” aveva considerato Igor, mentre il suo piccolo sole domestico perdeva grandezza e potenza, trasformandosi in un fuoco fatuo. Poteva sembrare strano che una grisha del Piccolo Palazzo ed una domestica del Gran Palazzo potessero avere qualcosa in comune, “Oh, siamo sorelle di latte” aveva ammesso.
Padre Igor aveva frammentato il suo solo lucente in piccole scintille che avevano accesso lo stoppino delle candele – Vasilissa aveva spalancato gli occhi: era scienza da Inferno? – e l’aveva guardata: “Sorelle di Latte?” aveva chiesto. Vasilissa si era persa nel guardare le fiamme tremolanti delle candele e non aveva ascoltato la domanda di primo acchito, così il prete aveva ripetuto. “Sorelle o fratelli di latte è l’espressione che si usa quando due bambini si sono nutriti dello stesso seno” aveva spiegato. “Lo so cosa vuol dire” aveva replicato Igor con quel suo tono terribilmente rigido Vasilissa si era morso un labbro, “Uhm … siamo nate a due mesi di distanza, circa. Mia madre aveva molto latte, mentre la madre di Meesha …” aveva cominciato a spiegare, arrestando le sue parole, “È morta, sì, lo so” l’aveva anticipata Igor. Vasilissa aveva annuito, era così, la madre di Meesha era morta dandole alla luce. “Ed io mangiavo poco” aveva scherzato Vasilissa, “Forse per questo io sono uscita così secca e Meesha così alta” aveva considerato, voleva alleggerire l’atmosfera ma l’espressione cupa di Igor non favoriva affatto la situazione. Vasilissa era stata stupida, Meesha conosceva l’uomo sin da quando era bambina, si era rivolto all’uomo con il gentile appellativo di zio ed aveva una famiglia paterna ben nota, probabilmente sua madre doveva essere stata sorella di Igor o comunque a lui molto vicina.
“Sono qui per parlare del matrimonio” aveva ammesso alla fine, “Non lo avrei mai detto” l’aveva presa in giro Igor senza vergogna. Vasilissa aveva ridacchiato con un certo nervosismo, “Hai scelto la data?” aveva indagato il prete, “Sì, no … lo sposo la ha scelta e non è il mio matrimonio” aveva ricordato, probabilmente il sunsummoner si sarebbe convinto della veridicità delle parole di Vasilissa solo quando avrebbe visto Anya presentarsi vestita da sposa.

Aveva lasciato la cappella dopo aver concordato con l’uomo l’orario più propizio ed aver professato con lui, alcune preghiere per raccomandare la buona riuscita dei loro piani a Sankta Maradi e che la loro vita fosse sempre illuminata dallo sguardo amorevole di Sankta Alina.
Vasilissa aveva avuto un tremore nel pensare alla Sankta del Sole, guardando il ritratto nell’abside della cappella che aveva sostituito quello di Sankta Elizaveta delle Rose. La Sankta Alina della capella era diversa dalla giovane donna con le mani oranti nella statua della fontana, era una donna fatta e sicura, nel suo sguardo c’era la decisione dell’età adulta, gli occhi erano neri in contrasto alla pelle fatta di tessere grigio-azzurre ed i capelli bianchi di pietra finissima e sembravano guardarti sempre, in qualsiasi punto della capella scegliessi. L’Alina del mosaico, aveva un gomito piegato e sollevava due dita – indice e medio, uniti – sotto il mento, indicando la propria bocca.
Una strana iconografia.
Tutto era strano per Vasilissa della Sankta principale di Ravka, perché era stata viva fino a quarant’anni prima, meno di mezzo-secolo, esistevano ancora persone che la conoscevano e che potevano parlare di lei non come di un’emanazione del divino in terra, ma di come una ragazza. Sembrava stupido: Vasilissa aveva incontrato la Drakon Koroleva, la sakta Vivente, aveva visto Adrik L’Asimetrico e Leoni delle Acque, ma tutti e tre sembravano così tremendamente umani, rispetto le austere e fredde raffigurazioni della Salvatrice.
Era strano pensare che Sankta Alina, che era una ragazzina vera, con sogni e passioni – erano diverse le passioni che spettavano ad un sankto. E quando era morta era stata più giovane della principessa Alina, nominata in suo onore.
Con ancora il cuore pesante per lo sguardo austero della sankta e la mente occupata dalla litania quasi malinconica di Padre Igor, Vasilissa non aveva guardato affatto dove avesse messo i piedi, prima di scontrarsi con un ostacolo di stoffa e carne.
“Sei stata dentro un sacco, Lissa, pensavo di diventare vecchio” aveva detto Viktor Semyon con un sorriso tremendamente fastidioso sul viso.
“Mio signore” aveva detto lei scansandosi, come se fosse stata scottata.
“Cosa fate qui?” aveva chiesto con più preoccupazione, guardandosi intorno allarmata, chiedendosi da quanto tempo fosse stato lì, se avesse udito la conversazione tra lei e Igor, “Ti aspettavo, ti ho visto entrare qui da sola ed ho pensato che una volta finita la tua confessione, volessi … non so … commettere nuovi peccati?” aveva proposto Viktor senza vergogna.
Vasilissa si era lasciata sfuggire una smorfia, trovando profondamente vergogna, prima di sospirare: “Forse” aveva ammesso.
Anche solo per scoprire cosa aveva ascoltato.

 

 

 

Timeline fin’ora

-          Nascita di Igor, Vlad -5

-          Nascita di Shioban -3

-          S&b 0

-          SoC 2

-          Nascita di Yuliana 3

-          Fine KoS/RoW 4

-          Nascita di Lu, Ilsebelle e Trattato Fjerda-Ravka 5

-          Nascilta di Hati, Dimitri 6

-          Nascita di Drina, Anchel, Najima 7

-          Nascita di Elen, Caitlyn, Malcom 8

-          Nascita di Jordie (+ un qualche trattato politico di una certa importanza) e Magnus 10

-          Nascita di Dominik, Ioren, Bridget 11

-          Nascita di Merissa Nassau12

-          Raccolta dei bambini di Kerazin, 16

-          Nascita di Vassilissa, Meesha 20

-          Nascita di Matthias Grimjor

-          Rapimento dei bambini 22

-          Nascita della principessa Alina 23

-          Qualsiasi dramallama stia accadendo, incluso il matrimonio di Najima e Dimitriji  28

-          Nascita di Andreji Poldunist 30

-          Nascita di Juris 35

-          Nascita del Piccolo Nikolai 39

-          Festa dei 40 anni della Riunificazione di Ravka 40

 



[1] Ho cercato un altro termine per sostituire il Croquet, non esistendo nel Grishaverse un corrispettivo ne della Francia ne del Francese, ma ahimè, il gioco è quello.

[2] La stessa Vasilissa usa questa espressione in Vasilissa II

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Capitolo 13
*** Maestra Ekaterina (22 DF) ***


SignorƏ sono simpaticamente fuori sede a catalogare materiali, lavoro difficile e piuttosto lungo (ma il luogo è molto bello) e probabilmente non avrò molto tempo per scrivere.
Questo capitolo è il più breve (help) ed è stato scritto una vita fa – prima che andasse in onda la serie, se devo essere onesta e la cosa mi ha fatto giustamente ridere.
Comunque buona lettura ed un grazie di cuore ad Amnesia_the_crazy_cat_lady.

 

 

MAESTRA EKATERINA
(22 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

Aveva perso i bambini.
Sapeva, in maniera freddamente lucida che doveva essere più spaventata per chi aveva perso, ma l’unico pensiero che assediava la mente di Ekaterina era che aveva perso i bambini. I suoi bambini. I bambini che le avevano affidato.
Una volta i Grisha vivevano dentro i confini del Piccolo Palazzo, non conoscevano niente al di fuori.
Ekaterina aveva vissuto così, per un po’. Lei ed Asja erano state portate alla capitale un decennio dopo la distruzione della faglia, pochi anni, davvero pochi, dalla siglatura del concordato.
Due ragazzine ravkiane, nate e vissute lì, sull’orlo del permafrost, con i fjerdiani che somigliavano sempre a nemici, anche dopo la pace.
Asja aveva manifestato i poteri, ma sua madre aveva portato entrambe ad essere testate ed anche se nulla pareva di dire che Ekaterina potesse essere magnifica come sua sorella, si era rivelata una grisha anche lei.
E poi erano finite lì, chiuse nel piccolo palazzo per quasi un decennio, prima di essere affidate ai trasporti.
Ma non era più così, sua maestà Sankta Zoya si era impegnata perché non fosse più così.
Perché i grisha non vivessero più nella loro gabbia dorata, estranei a quel che capitava al resto di Ravka.
Così era normale, era accettato portare i ragazzini in gita, specie quelli di un età accettabile.
Os Kervo era grande, sì, ma era sicura.
Ma i ragazzini si erano voluti allontanare ed Ekaterina li aveva dovuti seguire, perché non avrebbe mai potuto allontanarsi da loro e ne mai avrebbe avuto il coraggio di dire di no.
“Questo è il tuo martirio, amica mia” aveva commentato Vlad, con eccezionale divertimento, mentre faceva cullare la sua piccola bambina – con gli occhi stanchi, le occhiaie, ma pieno di eterno amore.
“Staranno bene” aveva replicato Ekaterina con un sorriso gentile sulle labbra, prima di darle le spalle, per assicurarsi di non perdere di vista i ragazzi.
“Saresti un’ottima madre” le aveva detto Vlad con assoluta tranquillità, “È una proposta di matrimonio, Vladislaw?” aveva chiesto retorica lei, mentre li spiava.
Anchel era rimasto più indietro, ma con gli occhi non perdeva di vista, affatto, le due ragazze.
Nessuno di loro indossava la kefta, per precauzione, ma indossavano tutti una giacca giallo-arancio sgargiante perché non potesse perderli di vista.
Ekaterina, invece, non aveva quelle remore ed indossava la kefta blu pavone, con i ghirigori argentei. “Oh, Katin’ka mi hai scoperto. Meesha ha bisogno di una madre e io una persona che mi aggiusti il colletto della kefta” aveva squittito con divertimento lui. Ekaterina era arrossita, perché la kefta rosso corporalki dell’uomo era dritta e perfetto, il colletto spiegato e liscio. Vlad era splendido e perfetto.
Per un secondo la melancolia l’aveva colta, perché aveva ricordato con dolcezza il giorno che si era sposato e come era felice …
 “Fai attenzione ai ragazzi. Mi raccomando, porti con te il futuro di questo mondo” l’aveva riportata alla realtà Vlad, con tranquillità.
Ekaterina aveva sorriso verso di lui ed aveva sentito anche la colpa, leggera, sottile, pensando alla piccola Meesha, con la risata allegra e fragorosa che non avrebbe mai conosciuto sua madre.
Aveva allungato una mano ed aveva accarezzato la testa della piccola bambina. Vlad le aveva sorriso, pieno di gentilezza, “I bambini, Katin’ka!” aveva dichiarato.
“Certo” aveva risposto ancora lei.

Ed aveva perso i bambini.
Non era riuscita a difenderli, lei una grisha, lei così capace.
Non era come Asja, così brava da dominare due elementi, lei … quando aveva smesso di far volare le navi aveva cominciato ad insegnare ai bambini.
E li aveva persi.
I suoi bambini.
I suoi allievi.
E pensava al povero Anchel, che non aveva nessuno al mondo, solo i Grisha.
Voleva piangere, ma non ne aveva più le forze.
L’avevano costretta a bere, più e più volte, intrugli fatti con gambo di jurda per costringerla ad uno stato di docilità obbligatoria.
Non gli aveva visti i rapitori, finché non era stato troppo tardi.
Ci aveva provato a difendere i ragazzini ed altrettanto loro si erano difesi, erano stati educati per questo, erano stati bravi, ma non abbastanza.
Erano cresciuti nelle comode stanze del palazzo, graziate di non aver mai veduto la guerra – ed anche Ekaterina era stata così.

“Che ne facciamo di lei?” aveva chiesto uno degli schiavisti, era fjerdiano, aveva l’accento della Fjerda meridionale, così simile a quello del nord di ravka, del confine, del permafrost.
Ekaterina era tsiberiana, cresciuta lì, dove per anni si era consumato il conflitto del confine, dove nemici ed amici erano la stessa cosa.
L’uomo era più giovane di Ekaterina, ma non più un ragazzo, doveva essere nato dopo l’unificazione di Ravka.
Aveva un viso pallido come la neve e delle forme affilate come un coltello, lungo ed un sorriso crudele. Si era chinato e le aveva sollevato il viso, di forza, “Secondo me qualche casa di piacere può prenderla” aveva considerato, parlava un ravkiano duro, rozzo.
“Si, immagino che abbia il suo fascino, ma le case di piacere non vogliono grisha, al massimo qualche giovane corporalki … ed in generale i Kerchiani non vogliono streghe addestrate” aveva risposto quello che doveva essere il capo.
Era vecchio, con i baffi sale e pepe, la pelle cotta dal sole, di anni di marinatura e l’espressione cruda e cattiva, ravkiano, del sud-est, dalla punta dei capelli rasi a quella degli stivali rovinati. “L’affare migliore era la Pazmer Kosti, ma anche lei si è fatta parecchio pretenziosa” aveva aggiunto.
Pazmer Kosti, la spaccaossa, doveva essere la donna Shu che aveva preso i suoi ragazzi senza colpo ferire, con quello sguardo così freddo, predatorio.
Ekaterina lo aveva sentito in lei, più che in tutti gli schiavisti sulla Tenʹakuly, lo squalo ombra, quell’assoluta convinzione che nel guardare lei, o gli altri grisha – ma anche le altre persone – non vedessero umani, ma solo carne.
“Che facciamo con lei, allora? A Shu, un paio li possiamo vendere, ma questa?” aveva chiesto il fjerdiano, “Conosco qualche compagno zemeni che sarebbe contento di avere una squaller nella sua compagnia, ma continuo a pensare che sia troppo … io punterei alle colonie, sono kerchiani ma più disperati” aveva considerato il Ravkiano, tirando i capelli di Ekaterina per valutarli. Erano sporchi, a ciocche e coperti di sale.
L’avevano quasi affogata per trascinarla nella nave sotto l’acqua.
“Potremmo tenerla noi, con un po’ di parem, sono sicura diventerebbe dolce-dolce” aveva sussurrato il fjerdiano, prendendole le guance con una mano.
Aveva occhi cattivi.
Il Ravkiano aveva riso con un gusto divertito, “Come sei schiocco, Jarl” lo aveva rimproverato  poi, con una punta di cattiveria, “Si vede che sei giovane, non riconosci lo sguardo di un soldato, dalle una goccia di parem e la userà per piegare l’aria in falci di venti per farci a pezzi e non le importerà di morire per questo” aveva spiegato calmo, “Ravka è sempre stata brava in questo.
Anche Fjerda” si era intromesso quello più giovane, per voler difendere il suo popolo.
“Oh, no. Fjerda ha un popolo di guerrieri, sì, abili, brutali …cresciuti così, ma Ravka ha sempre avuto un popolo di disperati. Fjerda combatteva per la gloria, ma Ravka … anzi, noi combattevamo, lo facciamo ancora, a dir si voglia, per sopravvivere. Per i grisha poi è ancora peggio” aveva detto. Il Fjerdiano aveva aggrottato le sopracciglia pallide.
“Prima di Sankta Alina e di quel gran pezzo di figa della regina Zoya, i grisha sapevano di dover combattere per dimostrare il loro diritto di vivere” aveva spiegato.
Ed Ekaterina aveva riconosciuto una terribile verità in quelle parole. Il Fjerdiano sembrava confuso, da tutti quei discorsi, “I grisha venivano reclutati da bambini, credo succeda ancora. Bambini-soldato che vengono cresciuti con il dovere di dover dimostrare di essere degni di vivere. Fidati, Jarl, mostrale anche solo per sbaglio la gola e questa puttana ti azzannerà come una vampira” aveva detto l’uomo.
“Parli come un uomo che sa quello di cui parla” aveva sussurrato Ekaterina, stanca.
“Ma certo, dolcezza, prima di essere me, sono stato un ragazzino disperato in cerca di pane” le aveva detto, “Mi sono arruolato da ragazzino a Polinzey, quattordici anni, appena. Ho fatto l’addestramento con la vostra bella Sankta del Sole” aveva scherzato feroce, senza gioia, aveva voltato lo sguardo verso Jarl: “E mentre Fjerda educava ed ingrassava i suoi soldati con promesse di gloria e rituali su rituali, a Ravka eravamo così disperati da mangiare anche i sassi” aveva detto calmo e spento, ma sapeva di ciò che stava parlando, del tipo di delusione di cui era ammantato, questo non lo aveva salvato dal suo giudizio.
Ekaterina lo aveva guardato con l’odio, che le montava dentro quando pensava ai traditori, dello stato e della patria, dell’onore.
“Essere un druskelle era un onore, un tempo, e nonostante tutte le corruzione a cui la Puttana Pescivendola gli ha costretti, restano la fanteria più letale del continente, anche migliori delle Donne-di-Pietra di Shu Han” aveva replicato punto il fjerdiano, con sicurezza quasi assoluta.
“Come ti pare, con i vostri capelli lunghi, riti e lupetti non sembravate così letali. Facevano più paura i vostri corpi dritti e sani, pieni di cibo” aveva spiegato spento il ravkiano, “Avresti dovuto vederla, Alina Starkov, prima che illuminasse il fottuto non-mare come era. Più pallida di un malachi, con occhi così infossati da sembrare uno scheletro” aveva risposto quasi con divertimento, “Un giorno ha provato tre volte ad arrampicarsi sulla fune ed è caduta ogni volta, senza neanche essere vicina alla cima. Non sembrava proprio una dea, in quel giorni”
Ekaterina avrebbe voluto ringhiare, era un desiderio quasi animale.

“Io la ho sempre trova incredibile, invece” aveva detto una voce femminile.
Ekaterina aveva drizzato le orecchie, c’erano donne, sulla nave, che lavoravano con e per i due schiavisti, nessuna di loro aveva mai osato parlare, tranne una nerboruta donna kaelish con spalle ampie e pelle tormentata da cicatrici di ogni genere, ma non aveva quella voce, così delicata, esente da accenti di qualsiasi tipo e soprattutto pregna di reverenza.
Era una piccola donna suli, con la pelle come lo zucchero di canna ed i capelli nerissimi come il carbone, stretti in una crocchia, indossava una giacca nera scura, che le arrivava fino alle ginocchia, calzoni e stivali da marinaio.
“E tu …” aveva provato il Fjerdiano ma la sua voce si era interrotta subito, quando un pugnale preciso e svelto si era conficcato nella profondità della sua gola.
Jarl si era accasciato a terra, annaspando aria, mentre il sangue zampillava, sembrava quasi un pesce che si dimenava sulla terra, ma quell’azione aveva risvegliato tutta la stanza, colma di incatenati prigionieri che avevano cominciato a gridare per attirare l’attenzione.
“Immagino io abbia l’onore di conoscere Lo Spettro dei Mari” aveva ghignato il Ravkiano, muovendo una mano, “Prendi la pistola ed avrei il piacere di conoscere la mia Sankta Alina, che manca della misericordia della Sol Koroleva” aveva detto pratica, l’attimo prima che la stiva fosse riempita di uomini armati.
“Fantasma è decisamente un nome più che meritato” aveva commentato lo schiavista, Ekaterina doveva considerare il suo disinvoltura eccezionale, perché non sembrava decisamente turbato.
E non mancavano le motivazioni per esserlo, il Capitano Ghafa, aveva assaltato un ismars’ya – un mezzo di per se imprendibile, che viaggiava sotto il livello del mare – nel completo silenzio, senza che nessuno emettesse un rumore.
Fantasma era sicuramente un nome adatto.

“Sarò lieto di seguirti a Kerch” aveva risposto lo schiavista, “No” aveva detto Inej, la sua voce era dritta e letale come quella di una spada, poi un’altra voce aveva parlato, “Evgraf Ipatily sei ufficialmente in arresto per i crimini di: diserzione, sottrazione di armamenti militari, occupazione illecita di una struttura militare, rapimento, detenzione illegale e traffico di esseri umani” aveva detto qualcun altro.
Ekaterina aveva vibrato, quando aveva visto scendere dalle scale del boccaporto Vlad
Effimo, con la sua kefta rossa come il sangue, con le lambiccature grigio-nero.
“… Per conto di sua maestà la Regina Zoya Jurisevna Nazialensky[1]” aveva detto.
“Vlad!” aveva detto Ekaterina con coraggio, guardandolo. Lui aveva smesso di guardare con odio lo schiavista per vederlo, i suoi occhi erano lucidi e pieni d’amore.
“Ravka, dolce Ravka” aveva ammesso Evgraf senza battere ciglio, con le mani ancora alzate, “Ora lavori per la puttana-drago? La spezza-catene ha indossato una bandiera?” le aveva chiesto.
“Taci” aveva risposto solamente Inej Ghafa, con una voce aspra come l’acciaio, “Tutti i prigionieri saranno liberati e scortati ovunque desiderino” aveva dichiarato con voce forte e portentosa, che poco si addiceva ad una donna di statura così esile e minuta.
Lo spettro si era voltato verso Vlad, “Puoi prendere tutti gli schiavisti, ma i prigionieri sceglieranno per se, anche i Ravkiani” aveva detto. Il suo amico aveva annuito, “Riceverai la taglia che la corona ha messo su Ipatly” le aveva ricordato.
“E l’ismars’ya?” aveva domandato uno degli uomini di Inej, un ragazzo alto, grosso e dal viso forse troppo giovane, guadagnando uno sguardo leggermente accusatorio dalla sua capitana.
“So che di norma sventrate le navi, ma questo è un ismars’ya sottratto alla corona” aveva dichiarato con sicurezza Vlad.
“Magari, occupiamoci di queste povere anime, prima di decidere a chi appartiene cosa” aveva dichiarato Inej, brutale.
Vlad aveva annuito, le guance le si erano imporporate di rosso, per l’imbarazzo, davanti quella sua venalità, aveva fatto cenno a due uomini che si erano prodigati a prendere per le braccia lo schiavista e lo avevano trascinato sopra al ponte.
Ogni uomo che non aveva un’arma alla mano, una marasma tra pirati e kefte variopinte, si erano riversate nella stiva per soccorrergli.
Vlad l’aveva raggiunta, “Katin’ka” le aveva detto quasi dolce.
Le aveva messo una mano sulla guancia ed Ekaterina aveva sentito il calore e la carma rifiorire in lei, dopo tutto quel tempo sotto l’acqua.
“Mi servono le chiavi per queste manette, o un materialki” aveva gridato subito, “Come stai piccola?” le aveva chiesto dolce.
“Ho perso i bambini” aveva risposto Ekaterina stanca.
Il viso di Vlad si era fatto cereo, mentre si sollevava, guardando la stiva piena di anime che venivano liberate.
Uno degli uomini di Inej Ghafa aveva sciolto le sue manette, riscaldandole. Ekaterina era crollata in avanti senza più i due ceppi a sorreggerla, sarebbe finita sul pavimento se lo stesso Spettro non l’avesse afferrata per una stanza.
Vlad l’aveva lasciata, senza neanche accorgersene.
“Va tutto bene?” aveva chiesto Inej, non era chiesto se stesse ponendo quella domanda ad Ekaterina o se lo stesse facendo a Vlad che si guardava intorno, disperato.
Poi Vlad era corso al piano di sopra frenetico, “Devo seguirlo” aveva squittito Ekaterina, sentendo le gambe molli, “Dovresti riposarti” aveva detto Inej, “No, no devo seguirlo. Dovevo badare ai bambini” aveva pianto e il capitano aveva compreso mettendola sottobraccio, era terribilmente più alta di Inej, ma sembrava così piccola e debole in confronto alla donna, che l’aveva guidata lungo il bocca-forte, fino alla plancia e poi più in alta, sul ponte nudo.
Affianco a loro vorticavano pareti d’acqua alte metri, come se fossero stati prigionieri di un tornado. Dei grisha etherealki, alcuni con kefte blu con ghirigori azzurri ed argentei, altri vestiti, imbrigliavano le acque.
Più in alto, dove era la superficie, quasi lontanissime, due navi sostavano ai margini del mulinello da cui scendevano corde e scalette morbide.
“Riportate in superficie questa mostruosità” aveva ringhiato Inej.

Lo schiavista era al centro e Vlad lo aveva già colpito una volta.
Dove sono?” aveva gridato.
“Tre grisha marmocchi? Venduti da un pezzo” continuava a rispondere l’altro, “La hanno chiamata la Pazmer Kosti” aveva sussurrato Ekaterina; ricordando stralci di quei dialoghi, ma non ne era certa. Erano stati diversi giorni, forse settimane, prigionieri nella stiva, lei ed i bambini, quando l’uomo ravkiano aveva parlato.
‘Sta arrivando la Pazmer Kosti’ aveva detto, ma alla donna si era rivolto sempre e solo con un sarcastico ‘Signora’.
“Chi è?” aveva gridato Vlad, con rabbia e furore negli occhi di solito così dolci.
Lo schiavista aveva sogghignato sarcastico, ma era stata Inej a rispondere.
“Non lavora per nessun governo, a quanto pare” aveva spiegato didascalica, “Tutti gli schiavisti che conosco la hanno descritta come una donna Shu, compra schiavi un po’ da tutte le rotte del Mare Vero, la sua nave viene considerata un Palazzo sull’acqua, lo chiamano il Leviatano” aveva rivelato.
“La ho cercata, ma sembra invisibile alla vista e ai sensori. Direi manovalanza materialki sotto parem, forse un retaggio di vecchi esperimenti Shu” aveva considerato Inej.
“Allora le Taban dovranno rispondere” aveva ringhiato Vlad, mollando il bavero dello schiavista.
“Buona fortuna, da quel che ho appreso io a Shu Han non piace rispondere a nulla di ciò che fanno” aveva detto cupa Inej.
“Mi dispiace, mi dispiace” aveva sussurrato ancora Ekaterina, “È colpa mia, è colpa mia” aveva pianto.
Ed era vero, lei aveva perso i bambini.
“Perché la chiamano la Spacca-Ossa?” aveva chiesto Vlad ad Inej, “Si dice faccia esperimenti sulle persone che compra e che raramente rimangano integre, ma nessuno lo sa per certo” aveva raccontato.
“Com’è che io non ne ho mai saputo nulla?” aveva chiesto Vlad.
Inej Ghafa aveva mosso le spalle, “La Spacca-Ossa non è una schiavista, compra per i suoi esperimenti, ma è una contrabbandiera, ha contatti in ogni porto scontento, in ogni luogo inimmaginabile e colleziona segreti” aveva dichiarato.
“Fanculo, stai dicendo che i governi fanno finta di non notarla?” aveva ringhiato un uomo, Ekaterina lo conosceva, si chiamava Sanjen, indossava la kefta azzurra degli abbandonati.
“Sto dicendo che certi uomini, senza scrupoli, si sono adoperati per non rendere nota la sua esistenza. Os Alta è lontana dal mare, dalla costa” aveva ammesso Inej, “Conosco la grande giustizia della Regina Zoya e il grande cuore della Regina Mila per esperienza diretta, così come la giusta fama di Ehiri l’Amata, non crederei mai che tre donne simili permettano l’esistenza di un’ingiustizia così abnorme se ne avessero idea” aveva commentato, “Ma la Spacca-Ossa è quasi una leggenda che una donna vera” aveva raccontato.
“Ma è molto vera, perché ha preso i bambini” aveva ringhiato Vlad.
L’espressione sul viso di Inej si era fatta granitica, rispetto il suo amico, lei doveva aver già sfiorato quel mostro.
Vlad aveva rivolto lo sguardo di fuoco allo schiavista, “Dove cazzo è andata?” aveva ringhiato, “Che vuoi che ne sappia?” aveva riso l’altro.

“Zaara, dai l’ordine di portare su questo affare” aveva dichiarato subito lui, perentorio; ma anche con gentilezza ad una grisha. indossava la kefta viola dei materialki, con i decori grigi degli alkemi. I capelli biondo grano raccolti in una treccia spessa.
Ekaterina non pensava di conoscerla, forse era stata reclamata prima di lei ed era stata al Piccolo Palazzo quando lei lavorava ancora sull’Airone.
Zaara aveva guardato il suo capitano in maniera intensa, come se si fosse aspettato altro, “Chiedi a
Shevich  di preparare le carte, dobbiamo cominciare a tracciare una nuova rotta” aveva ammesso con voce spenta e collerica Vlad. Allora lei aveva annuito, anche se gli occhi si erano macchiati di una consapevolezza piena di dolore
Inej lo aveva guardato, “Prendete i viveri e noi prenderemo i beni preziosi” aveva dichiarato quella. Vlad l’aveva guardata, “Avete più bocche da sfamare” aveva considerato il grisha, “Sì, ma il porto di Nieuwemarkt e quattrocento miglia marine da qui” aveva considerato Inej.
“Porti una nave libera da schiavi alle Colonie?” aveva considerato Vlad, con una certa preoccupazione, “Il mare vero è uno, ma i suoi porti, le sue rotte, quelle sono infinite” aveva risposto Inej, “I corsari, i pirati ed altri, sanno dove attraccare, senza che l’occhio ufficiale li noti” aveva ammesso calma.
Vlad aveva annuito, “Allora accetterò il cibo e soddisferò la pancia dei tuoi uomini con l’oro” aveva ammesso lui.
Una forte scossa li aveva distratti, gli squaller ed i tidemakers si erano adoperati per portare lo squalo sulla superficie.
Le gambe di Ekaterine, molli per la prigionia si erano fatti inutili, era caduta, quasi spezzata, quella volta non era stata Inej a recuperarla ma era stato Vlad.
“Mi dispiace” aveva sussurrato ancora Ekaterina verso di lui, Vlad le aveva toccato con più gentilezza la fronte, spostando una ciocca di capelli.
“Farò portare i naufraghi sulla mia nave” aveva spiegato Inej, “Ma chiedo il permesso di salire sulla vostra con il cartografo” aveva dichiarato il capitano, “Forse posso indicarvi alcune rotte. Non ho mai trovato la Spacca-Ossa ma la ho cercata; forse Shevich avrà più successo di me, Marina ha sempre detto fosse un tracciatore abilissimo” aveva considerato. Vlad aveva annuito, “Dovrebbero chiamarvi Sankta” le aveva detto, Inej aveva sorriso, “Io? Non credo” aveva considerato Inej,

 

Asja le aveva baciato le palpebre, le guance, e l’aveva stretta quando l’aveva veduta. “Ho temuto di averti persa” aveva sussurrato la sua piccola sorella, “Ho perso i bambini” aveva ammesso lei, colma di quel dolore senza fine.
Asja le aveva sfregato la mano sulla schiena, con dolcezza e gentilezza, “Li troveremo” aveva detto decisa, sicura, “Sono intelligenti, capaci e terribilmente più bravi di noi” aveva considerato.
Questo non aiutava affatto Ekaterina, “Ma io li ho persi. Erano lì e io non li ho protettetti” aveva considerato.
Poi si era palesato Gavi, con il sorriso sul viso. “Ma tu non …” ma non era riuscita a formulare le sue parole, “L’Alcione non lascia nessuno a terra” aveva risposto il Soldat Sol, con l’uniforme bianca rovinata dai giorni in mare, carezzandole gentile il viso.
Ekaterina aveva annuito, con le lacrime agli occhi. Era più di un lustro che nessuno di loro serviva più sulla Nave Volante – ne erano più stanziati alla Palude D’Oro.
“Sì, è venuto perfino Igor” aveva dichiarato Asja, “Ha deciso di interrogare lui lo schiavista, per … cominciare la nuova rotta” aveva ammesso sua sorella.
“Voglio parlarci” aveva detto Ekaterina sollevandosi dalla brandina dove era stata riposta, “No, dolcezza devi riposare” aveva impartito sua sorella, mettendole le mani a coppa sul viso. “No, Asja” aveva detto Ekaterina con voce spezzata, “Ho perso i ragazzi” aveva detto, cercando di essere più sicura di sé, “Se non parlerò con lui adesso, non parlerò con lui mai più. Igor lo farà a pezzi per avere le sue risposte” aveva ammesso.
Solo alzarsi le aveva dato le vertigini, aveva sentito le gambe così morbide da pensare si sarebbero ripiegate su sé stesse, “Prendi un po’ di jurda, Katin’ka” le aveva detto Gavi, recuperando un sacchetto da dentro la tasca interna della sua giacca, prima di aprirla.
La grisha aveva allungato un dito e l’aveva immerso nel sacchetto, sentendo la sostanza polverosa, sotto il polpastrello e l’aveva strisciata sulle sue gengive.
“No, lui arriverà a Ravka, lo processassero, avrai tutto il tempo che vuoi” aveva provato a parlare sua sorella, tenendola, spaventata che potesse cadere.
No, non lo avrebbe avuto.
Aveva continuato a passare la lingua sulle gengive, ancora ed ancora, alla ricerca di quel fulmine di energia, che sentiva abitualmente, ma non aveva avuto successo.
Non sentiva nulla.
Ho perso la principessa …



[1] Vorrei darvi una spiegazione molto particolare sul secondo nome russo che la mia amica russofona una volta mi ha dato ma non la ricordo. Per farla breve è una sorta di gentilizio (paterno), se non ho svalvolato ogni volta che ho presentato il nome di un figlio di Zoya lo ho messo con il nome di Zoya (essendo LEI la regina e dunque il suo nome quello più potente). Ho pensato che dopo l’ascesa al trono anche Zoya avrebbe avuto bisogno di un “gentilizio” però avendo ripudiato sia sua madre sia suo padre e per legare la sua figura a quella del Sankto a lei più caro ho pensato fosse carino che adottasse quello di Juris. Per il mondo Juris è il Sankto che ha ucciso il Drago e non IL Drago, ma immagino che la cosa potesse funzionare lo stesso. Quindi sarebbe qualcosa sul genere Zoya Di Juris. Comunque tecnicamente il russo ha le declinazioni maschili e femminili, mentre il ravkiano no, però ho deciso di seguire il modo “russo”.

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Capitolo 14
*** JORDAN II (28 D.F.) ***


Non sapevo quando avrei aggiornato ed alla fine ho deciso di aggiornare presto, poi davvero non so quando aggiornerò, ero insicura se qui ci stesse bene Jordan, se prima avessi dovuto pubblicare Ioran o un altro personaggio, ma alla fine ho deciso di andare con Jordan e la simpatica giornata a Nijejem.
Sarò onesta: non sono sicura di tutte le parti drammatiche ma mi sono divertita un sacco a scriverlo (e inventare usi e costumi random).
Detto questo: buona lettura e spero apprezziate,
Un ringraziamento speciale ad Amnesia_the_crazy_cat_lady

Ps- Non so quando potrò aggiornare ancora, probabilmente agosto

 

 

JORDAN II

(28 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

Nijejem era una cittadina minuscola, nella frazione più a meridione-est di Kerch, si affacciava davanti ad acqua cheta e calma, e più lontano la spaziosa isola di Masterich; non era particolarmente famosa per la pesca, essendo questa attività fagocitata dalle altre città. La pesca non mancava a Kerch ed era spesso controllata da alcuni precisi conglomerati, a nord, almeno, che era generalmente più ricco. Martjin Dyke, in associazione con suo suocero Magnus Opjer, possedeva diversi cantieri navali e arsenali a Ketterdam ed altre grandi città della costa, ma nessuna faccia di volpe occupava gli hangar di Nijejem, in vero non esistevano neanche stabilimenti in quella città.

La spiaggia era ghiaiosa, corta, l’acqua cheta ristagnante, a causa di alcune correnti sfavorevoli, date dal canale secco, composto dalla grande isola continentale di Kerch e Masterich.

Il porto era ancora composto in una banchiglia di legno a mezza-luna, su cui erano ormeggiati diversi pescherecci, alcuni dei quali piuttosto vecchi e mal ridotti. Nessuno di loro però era attrezzato alle lunghe traversate e la pesca da mare aperto.

L’attività principale di Nijejem era la pesca di granchi.

Anton Boer lo aveva invitato ad andare con lui, era il periodo delle moeche. Jordan sapeva cosa fossero delle moeche, non si trovano a Ketterdam, acque profonde e putride, diceva suo padre, che era uno dei pochi uomini da potersele permettere.

Jordan aveva capito l’antifona: doveva andare via.

Dopo che Drina aveva confessato all’arcigna proprietaria del locale che era venuto a rendere gli onori alla sua amica Cait – sua amica morta, Jordan non lo aveva visto arrivare – le cose erano diventate strane.
La signora era rimasta spiazzata, ma quando Drina si era presentata meglio era stato chiaro alla signora chi fosse esattamente. Meno a Jordan.

 

Erano stati alloggiati in due stanze diverse; sì, Jordan doveva ammettere di aver fantasticato sull’idea di dividere una camera con Drina, sulla tensione e sull’imbarazzo che avrebbe intessuto ogni loro respiro, forse ingenuo e fin troppo libresco, ma aveva sottovalutato lo scarso turismo autunnale di Nijejem.
Le stanze non mancavano.

Il letto era stato duro, nodoso, con un cuscino sottile e fastidioso come una tavola di legno e Jordan ne aveva odiato ogni secondo. La mattina era stata un po’ meglio, si era svegliato con un odore dolciastro che aveva stuzzicato le narici e quando aveva schiuso gli occhi, aveva visto tremolante la faccia divertita di Drina.
La frangia invece di essere liscia, era leggermente arruffata come il resto dei capelli, leggermente scarmigliati, “Hai dimenticato la spazzola?” aveva chiesto di getto.

Sentendosi anche piuttosto stupido, “Sì, purtroppo sì” aveva ammesso lei, con una risata quasi allegra.
“Però ti ho portato questa raccapricciante brodaglia che qui chiamano tè con so che altre orride spezie” aveva squittito lei, “Un gentile omaggio dalla signora della casa” aveva aggiunto.

“Uhm … è il drie kruidenthee[1]. Il corrispettivo analcolico dell’ipocrasso, circa” aveva spiegato, tirandosi su, per mettersi nella posizione seduta. Decise di non essere imbarazzato dal fatto che era con la camiciola notturna, con i capelli ancora intrecciati ed il sonno ancora pesante sulle palpebre. Del suo fiato, forse sì, sperava di riuscire a recuperare una caramella al gusto di menta.

“Animali …” aveva scherzato lei, “Non tutti possono godere dei piaceri del Piccolo Palazzo” aveva ammesso Jordan, con un sorriso secco, “Oh, certo; ti svelo un piccolo segreto a proposito del Piccolo Palazzo, abbiamo la frutta fresca ma anche la cucina povera. Una tradizione nata secoli fa di cui neanche la regina drago ha voluto sbarazzarsi” aveva ammesso con una punta di divertimento: “Tutte le barbabietole che riesci ad immaginare e le aringhe, sankti, sono il mio piatto preferito eh, come le fa mia madre sono sublimi, ma farci colazione tutte le mattine, giammai” aveva scherzato.

“Vorrei vederti con la kefta viola” si era lasciato sfuggire, osservando la camicia cotone da uomo che indossava, “Vieni ad Os Alta … ti faccio fare anche un giro nel Giardino della Regina” aveva scherzato Drina.
Per un secondo erano rimasti in silenzio, poi, Jordan aveva raccolto la bevanda, aveva provato a berla ma l’aveva trovata bollente sulla lingua. “Troppo calda …” aveva ammesso pieno di imbarazzo, “Fai fare a me” aveva detto Drina elusiva, posando le dita sulla tazza. Jordan aveva potuto sentire dalla sua pelle, la ceramica diventare fredda, come se fosse stata tenuta sulla neve. “Impressionante” aveva valutato Jordan, “Una bazzecola, cambiare la temperatura agli oggetti è davvero una cosa semplice, con i liquidi ho avuto più difficoltà, sebbene gli ordini siano per lo più un costrutto, si può dire, sono comunque ordinate dalla propria attitudine” aveva spiegato Drina, rilassata. “Quando sono arrivata al Piccolo Palazzo ero solo una durast, ma Leoni mi ha insegnato la scienza degli alkemi” aveva detto con un sorriso divertito.

“Quindi ora sei una materialki completa?” aveva inquisito lui. “No, non sono per nulla una buona fabrikator. Se ti interessasse la verità, per me la divisione dovrebbe essere tra Fabrikator e no, invece che fra Alkemi e Durast” aveva spiegato, muovendo la mano, come volesse scacciare un insetto, “Inoltre ho ancora qualche asso nella manica per stupirti” aveva aggiunto elusiva.

Per Jordie era interessante, non aveva incontrato molti grisha nella sua vita, Jesper ovviamente, che teneva i suoi talenti limitati nelle calde mura domestiche, Therese che lavorava alla Digitale[2] e con le sue mani poteva liberare il peso del cuore di chiunque e, ovviamente, i grisha imbarcati sulla Spettro. Il primo pensiero andava ad Ekaterina, con i capelli biondo fragola che oscillavano al vento, le mani tese ed il vento potente che si chinava al suo volere.

“Quindi non costruisci nulla?” aveva chiesto Jordan, “Ora sì, ora sto imparando, prima costruivo solo piani strampalati ed oggetti minimalisti e … amplificatori, quello sì” aveva ammesso Drina. Jordan aveva bevuto il tè, leggermente più tenue e godibile di prima. “E sai anche sconfinare dal tuo ordine?” aveva chiesto lui, con un certo interesse, non si aspettava che lei rispondesse, immaginava che i grisha dovessero tenere cari i loro segreti. “Sì”, aveva ammesso lei, quasi orgogliosa, “Non mi vedrai gonfiare il vento, ma posso fare qualche trucchetto da corporalki. So far sparire i lividi che è una meraviglia ed anche i brufoli, con quelli faccio proprio un capolavoro” aveva scherzato con allegrezza.

“Sfortunatamente per me, ho passato la pubertà da un pezzo” aveva riso lui, “Oh, posso anche ridarti i foruncoli. Se non mi credi, chiedi a Kos … ha molti racconti da proporti” aveva replicato.
Jordan aveva sorriso, “Il tuo fratellone protettivo” aveva considerato, pensando al giovane Inferno di sangue Fjerdiano, sempre così territoriale.

“Sì” aveva confermato Drina, “Come tutti i ragazzi a Palazzo, era innamorato della principessa” aveva confessato la sua amica. “Immagino che a tutti facesse gola la corona” aveva considerato Jordan. “Come sei venale, Jordan Ghafa. La principessa è un’anima buona, ha fuoco nelle vene, dinamica, eclettica e luminosa, potente sì, anche bellissima …” aveva ammesso piena di dolcezza ed ammirazione, “A nessuno importava che fosse la principessa al Piccolo Palazzo, non quando indossava la kefta blu e mangiava i cavoli bolliti con noi” aveva detto.

Jordan aveva sentito un senso di vertigine, “Sembri anche tu innamorata di lei” aveva considerato, leggermente geloso. Sapeva che Drina e la principessa Lilyiana erano – o erano state – amiche strette; aveva notato quanto feroce fosse stata feroce Drina nel difendere la sorella di Dominik, quando Jordan aveva usato il vezzeggiativo per riferirsi a lei. “Oh, ma lo sono, Jordie. Non essere geloso, lei è la mia pola moje duše[3]” aveva spiegato Drina.
“La tua cosa? Che lingua è?” aveva chiesto, non era Ravkiano, somigliava, ma non abbastanza. “Diciamo che: Altra metà della mela funziona? Siamo amiche da quando avevo nove anni! La lingua invece è l’Antico Ravkiano, quello che si parlava nella Ravka meridionale, nei confini del volo dell’Uccello di fuoco[4]. Lezioni noiosissime, ma può essere sfruttato per darsi un tono” aveva scherzato lei. “Non ancora riesco a credere che a Ravka pensiate che sia esistito un uccello di fuoco che ha stabilito i confini di un regno” aveva ridacchiato lui.
Drina gli aveva tirato un buffetto: “Prima cosa: l’Uccello di fuoco esiste, esiste oggi, lo so, i miei genitori lo hanno visto” aveva confidato. “Forse erano ubriachi di Kvas” aveva proposto Jordan, pensando ai due strani proprietari dell’Orfanotrofio.

Shevich gli piaceva, era dinamico, anche se spesso sembrava inutilmente collerico, con Marina aveva un rapporto più complicato, Jordan la ricordava spesso fissare gli spiragli di luce. Chiudeva le imposte delle cateratte delle finestre nei giorni di sole, ma poi sollevava le balze di legno per avere raggi di luce da osservare nelle camere buie. Jordan era cresciuto a Ketterdam, era cresciuto vedendo la gente fare le cose più strane, avere gli hobby più pittoreschi, conosceva Jesper per Ghezen, eppure anche lui trovava strana Marina Rosen. “Fidati quel volatile esiste”, aveva ribadito Drina. “Fidati l’unico uccello di fuoco che esiste è il Falco Piromane delle Colonie del sud” aveva risposto lui con tranquillità, “I cosa?” aveva chiesto interessata Drina, con gli occhi azzurri guizzanti di curiosità, “Sono alcuni tipi di uccelli rapaci che rubano tizzoni ardenti agli uomini per bruciare frazioni di foreste e mettere in fuga le loro prede” aveva raccontato, “Lo so, sembra una cosa surreale, ma, con mia madre gli abbiamo visti una volta, abbiamo fatto una pausa più lunga a Nieuw-Thole” aveva ricordato[5].

“Sankti, adorerei vederlo!” avevo ammesso Drina, morbosamente curioso.

Oh, quella fame di curiosità, che scintillava nei suoi occhi, la rendeva ancora più adorabile.

C’era stato un momento dolce di silenzio tra loro. “Ti piace viaggiare, vero?” aveva chiesto Jordan, anche se era una domanda retorica, Drina era quasi più girovagava di Inej Ghafa, lei aveva annuito con vigore e Jordan aveva ricordato la prima stentata descrizione che la ragazza aveva dato di Cait. “Cosa è successo alla tua amica?” aveva chiesto poi, Jordan, rompendo forse l’equilibrio piacevole che si era creato tra loro.
Drina si era alzata dal letto, dove era stata seduta fino a quel momento, quasi frettolosa, “Avremmo un sacco di tempo durante il ritorno, non roviniamo la giornata” aveva proposto evasiva.
“Che ore sono?” aveva indagato Jordan, osservando che le imposte delle serrande erano aperte ma la luce del sole non era spuntata, il cielo era di un blu tenue, pronto alla prossima alba. “Non è ancora sorto il sole, ma ci sono le moeche da pescare, qualsiasi cosa siano” aveva ammesso lei, “Sono granchi, granchi senza il guscio perché stanno facendo la muta. Fritti sono buonissimi” aveva spiegato Jordan.
“Bene, sono contenta, perché ho detto alla signora Willhelmine che avresti accompagnato suo nipote Anton che lo accompagnerai” aveva ammesso lui. “Stai cercando di liberarti di me?” aveva chiesto retorico lui, non aveva bisogno di chiederlo davvero. “Non per le ragioni che credi tu; padre Igor mi ha insegnato che le Lamentazioni vanno fatte con cuore sanguinante” aveva spiegato.
Si son consunti per le lacrime i miei occhi, le mie viscere sono sconvolte[6]” l’aveva anticipata Jordan, “Le Lamentazioni di Pytor Lumajin, libro quinto” aveva considerato Drina, “Sei un uomo religioso, Jordan Ghafa?” aveva chiesto.
Jordan aveva annuito, “Non sono uomo da frequentare le funzioni ed ascoltare le parole di un santone, ma mia madre ha molta fede ed io la condivido, in parte. Però credo anche nel dio di mio padre: Ghezen” aveva ammesso. Un sorriso era fiorito sulle labbra di Drina: “Sarei proprio curiosa di andare a pregare nel suo tempio, so che si fanno gli affari migliori.”

Anton, un ragazzo di qualche anno più vecchio di Jordan, era stato piuttosto felice di sparire, quando quella mattina aveva prestato dei vestiti più adatti a Jordan. Suo fratello minore Pyp era stato invece ossessivamente interessato all’arrivo di Drina.

Erano entrambi secchi come giunchi di canna, con visi bianchi come la cera e capelli di un castano dorato, lisci. Pyp, il più piccolo, li portava corti sulla nuca, mentre Anton lunghi fino alle spalle ed intrecciati in una mezza-coda. Somigliavano abbastanza a Cait, la ragazzina nel dipinto – che poteva aver avuto tredici-quattordici anni in quella pittura – che aveva capelli più chiari ed un viso più dolce.
“Di dove sei?” aveva chiesto Anton, mentre abbandonavano l’Emporio di Cait, il suo tono era generico ed il singolare, dava a Jordan l’idea che non volesse inserire in alcuna maniera Drina nella conversazione. Qualsiasi legame ci fosse tra lei e sua sorella, lo rendeva nervoso. “Ketterdam” aveva risposto lui, non aveva senso negarlo, aveva l’accento del nord di Kerch, “Oh” aveva considerato Anton, “E di dove sei veramente?” aveva inquisito oltre.

Jordan ci era abituato, aveva l’aspetto di un suli, era abituato a quel tipo di invasiva curiosità. ‘Oh, parli molto bene il kerchiano’, ‘Oh, non avrei detto fossi di Kerch’, la gente spesso appariva più stupida della dizione di Jordie da quella di Dominik e Ioren. “Di Ketterdam, ma mio padre è di Lijin” aveva risposto senza farsi turbare troppo.
“Oh sì figo, noi siamo di qui, tutti di qui” aveva detto cupo, mentre raggiungevano la spiaggia, “Tranne Naresuan” aveva spiegato Anton, “Chi?” aveva chiesto, “Peschiamo insieme, questa è notte è rimasto di guardia al molo, per assicurarsi che nessuno tentasse di rubare dalle reti. Qui peschiamo granchi, il che non è un granché come forma di guadagna, ma, ora, ci sono le moeche e …” aveva cominciato a spiegare Anton, “E ci sono i predoni in queste acque” aveva valutato Jordan.

Anton lo aveva guardato, sollevando un sopracciglio biondo, “Tua nonna ha un santino per il Capitano Ghafa” aveva ammesso, “Sì, be, a nessuno importa dei ragazzi di Nijejem né di Masterich” aveva ripreso Anton.
E questo che è successo a tua sorella?’ aveva pensato di chiedere, ma non aveva bisogno di farlo, per sapere che era così.

 “Gli schiavisti prendono i ragazzi, cosa vuoi che siano per loro delle moeche” aveva considerato Anton, “Quanto si vendono?” aveva chiesto Jordie. Ricordava di averle mangiate sia a casa dai Van Eck, sia con suo padre. Cibo, che non apprezzava particolarmente sua madre. In nave, l’estate aveva mangiato i granchi, sì, pescati e spaccati. “Anche sette krughe al pezzo” aveva ammesso Anton. Jordan aveva sbattuto gli occhi sorpreso, “Per la cronaca, la tua amica ha spergiurato che non proverai a rubarne neanche uno” aveva aggiunto Anton.
“Ti fidi sempre degli estranei?” aveva chiesto retorico Jordan, “Mi ha detto che posso affogarti” aveva replicato secco. Probabilmente l’amicizia tra Drina e Cait doveva aver avuto il suo valore.

“Ti sei addormentato in barca?” aveva chiesta Anton, quando avevano raggiunto un natante a legno, con una vela alzabile, grande a sufficienza per contenere due o tre persone. “Me l’aspettavo più grande” aveva considerato Jordan, guardando le barche ormeggiate, alcuni posti erano già sgombri, ma quelli ancora occupati sfoggiavano imbarcazioni più grandi. “Sì, be, abbiamo molte meno reti di altri. Siamo le persone più agiati della città, se raccogliessimo più moeche di altri, probabilmente ci ritroveremmo l’Emporio bruciato” aveva ammesso.

Dalla nave, un bozzolo di coperte si era morso, permettendo ad un giovane uomo di emergere da loro. Erano uno shu, dai capelli neri scompigliati di sale marino in una treccia sfatta, lunghi come la moda del suo paese richiedeva. Indossava una camicia di cotone, con sopra un maglione di lana grezza, entrambi umidi. “Volevo essere sicuro che non si avvicinassero alle reti” aveva ammesso quello, sbattendo gli occhi, ancora lucidi di sonno. Il sole aveva fatto capolinea tra le acque placide blu.

“E lui è?” aveva chiesto Naresuan, doveva essere lui, ammiccando alla sua presenza. “Jordan Rietveld” si era presentato, pensando di utilizzare quello strano cognome di cui poteva far gioco, non sapeva da dove i suoi genitori lo avessero tirato fuori. A Jordan piaceva di più Ghafa, doveva ammettere.
“Naresuan” si era presentato, senza utilizzare cognomi o altro. “Jordie ci accompagnerà oggi” aveva detto Anton, salendo sulla barca e protraendo una mano per poterlo aiutare, Jordan aveva accettato l’offerta per non essere scortese, nonostante non avesse ne problemi con l’equilibrio, né con le navi.

“Sei Suli?” aveva indagato subito il ragazzo di Shu, prima che Jordan potesse rispondere quello aveva ripreso a parlare: “Fantastico, è tantissimo tempo che non parlo la lingua suli, possiamo conversare?” aveva chiesto quasi ansioso.

Strano.
“Si” aveva concesso Jordan. “Ti prego non dargli corda” aveva sussurrato Anton, mentre cominciava a prendere i remi, due per lui, due per Naresuan.

“Le posizioni delle reti si stabiliscono tra tutti i pescatori con un tiro di dadi. Noi siamo stato sfortunati quest’anno. La posizione non è buona” aveva spiegato subito Anton.

I salami sono … elevati dai pali” aveva detto in un suli disastroso Naresuan, “Cosa?” aveva chiesto confuso Jordan, Naresuan aveva guardato Anton speranzoso.

“Sta cercando di spiegarti le reti, vero?” aveva chiesto il giovane uomo spazientito, “Parlava di salami” aveva ammesso Jordie, cercando di non sembrare offensivo – certe volte avrebbe voluto essere indifferente come suo padre. A Kaz Brekker non importava di essere sfacciato, neanche ad Inej Ghafa, ma Jordan ricordava le lezioni di buone maniere che Wylan aveva preteso prendesse. “Le reti sono disposte a serpentina, come una barriera, issati su dei pali. Hanno la forma di salami, sì” aveva spiegato Anton, mentre sferzava con forza con i remi.
“Il mio suli è abbastanza patetico, lo riconosco” aveva detto Naresuan, però il suo kerchiano era ottimo, migliore anche di quello di Dominik. “Non si incontrano molti Shu che vogliono parlare suli” aveva ammesso Jordan, non si incontravano molte persone che volessero imparare quella lingua in generale. La più alta concentrazione di suli era a Ravka, dove era conservato ancora un’esistenza girovaga, poi una concentrazione abbastanza nutrita si poteva trovare a Kerch e alle colonie, gente in cerca di fortuna – con uno stile più sedentario, più lontano – e talvolta anche a Novyi Zem. Ma a Shu-han? Non che ne sapesse lui.
Naresuan era arrossito come un peperone rosso, “È-per-una-ragazza” aveva tossicchiato. “Guardalo un ragazzo grande e grosso che diventa tutto molliccio per una ragazza” lo aveva preso in giro Anton. “Oh, lei ha lasciato dei sedani davanti la sua porta?” aveva chiesto Jordan.

“Cosa?” aveva domandato Naresuan perplesso, “Una donna suli annuncia di essere aperta ad un corteggiamento ponendo dei gambi di sedano sull’uscio della sua abitazione, che sia una carovana, una tenda o una casa” aveva spiegato subito Jordan, ricordando quando Adem lo aveva raccontato; era stato perché, qualche mese prima, Jordan aveva accompagnato Juliana a trovare sua madre, nella bella villa campestre dei Van Eck, dove la giovane Soraya, la figlia più giovane di Alys, aveva lasciato dei gambi fuori di sedano fuori dalla sua stanza. ‘Che tredicenne ardita, proprio  la mai sorellina’ aveva scherzato Juliana.

“Oh, non lo sapevo” aveva detto pieno di imbarazzo Naresuan, “Oh, amico, l’etichetta del corteggiamento suli è piuttosto rigida” aveva considerato Jordan, “Specie quando è un giovane uomo non suli” aveva aggiunto.
Jordan aveva sorriso ricordando una cosa che gli aveva detto sua madre, ‘Le donne si legano una guaina vuota alla cintura, se trovano un uomo interessato a loro, egli si dovrà premunire di fornire un coltello per riempirla’ aveva ridacchiato, facendo oscillare Sankt Petyr nella sua mano.

Naresuan aveva schiuso le labbra, “Io, direi che forse è un po’ prematuro per un corteggiamento ufficiale o un matrimonio, ma credo che ti chiederò maggiori informazioni” aveva stabilito.

“Dopo che ci saremmo riportati a casa le moeche, per venderle al mercato. Ora rema, Naresuan, rema” aveva strillato Anton.

 

“Quindi, dopo che una giovane donna posa dei gambi di sedano fuori dal suo uscio, si dimostra disponibile ad iniziare un corteggiamento?” aveva chiesto Naresuan, mentre tiravano sulla barca di Anton le reti, evitando di strapparle. Jordie si era immaginato che sarebbero state piene di granchi, ma le creature erano in netto svantaggio. Le reti avevano raccolto di tutto, oltre i granchi, pesci, d’acqua basse, alghe di vario genere e qualche rottame. “Allora devi considerare che dipende tutto dalla rigidità della famiglia della ragazza – o be, del ragazzo – i miei nonni non sono mai stati molto ferrei” aveva spiegato Jordan, “Il fratello di mio nonno ha sposato una donna ash’laki [7]… insomma una non-suli” aveva detto calmo.

 “Sì, da quel momento si dichiara aperta al corteggiamento, così cominciano le serenate, o letture di poesie. Si fanno in pubblico, con un vasto pubblico – mia madre dice che meno di venti persone era considerata quasi un’offesa – in realtà la serenata, oggi, è considerata desueta. Comunque, le serenate sono molte e differenti, comunque se la ragazza ha gradito la serenata, comincerà ad indossare una guaina vuota. L’uomo dovrà riempirla forgiando o anche solo donando un coltello” aveva cominciato a spiegare Jordan.
“Un coltello?” aveva domandato Anton, anche lui perplesso, “Le donne suli maneggiano coltelli, come le donne kerchiane i ventagli” aveva replicato lui.

“Immagino devi essere bravo per lanciarli su una ruota e non uccidere nessuno, in effetti” aveva aggiunto Vago Anton. Jordie aveva trattenuto il ringhio, mentre Naresuan lo rimproverava, rischiando però di stracciare una rete, un granchietto, grande mezzo-palmo, si era agganciato con la chela ad una cinghia della rete. “Bene, quindi, l’uomo regala il coltello? È meglio se fatto a mano?” aveva chiesto, “Più è pregiato: lama fine, incisioni, elsa decorata, meglio è ovviamente” aveva spiegato Jordan.

“Come era quello che tuo padre ha dato a tua madre?” aveva chiesto Naresuan.

I miei non si sono mai sposati’ avrebbe dovuto rispondere, ‘Mia madre non ha mai messo sedani fuori la sua porta, mio padre non ha mai cantato o recitato, niente e niente’ quella avrebbe dovuto essere la risposta.
Ma Kaz Brekker aveva regalato ad Inej un coltello, “Coltello corto, con lama stretta, simmetrico ma con un solo filo. Bilanciato sul manico anziché sulla lama o equilibrio. Elsa nera e lama in bronzo-e-ferro” aveva risposto alla fine.

Sankt Petyr.

Nonostante la devozione che sua madre aveva messo nelle sue armi, nonostante l’affilatura sempre mantenuta, Sankt Petyr era diventato obsoleto, non veniva più utilizzato, ma sua madre continuava a portarlo fieramente al suo fianco.

“Regale un coltello per eviscerare il pesce” aveva proposto Anton, sporgendosi per rivolgersi al suo amico. Jordan cominciava a sospettare di detestare l’uomo, “A modo suo sono utili” aveva provato Jordan. Non ci credeva molto, Naresuan, poteva lavorare una sgangherata barchetta da pesca e raccoglieva granchi con Anton, ma non era un pescatore. Non lo era nello sguardo, non lo era nelle movenze e non lo era nelle mani. Forse era abbastanza tempo che faceva quel lavoro, abbastanza da sembrare fluido, sicuro nei gesti, ma le sue dita erano incerte, la sua pelle era morbida.

Ed era colto, parlava il suli, ma parlava il kerchiano, perfetto, senza accenti, con una dizione elegante, i suoi denti erano bianchi e dritti ed i suoi vestiti forse usurati e rovinati dalle intemperie erano buoni.

Naresuan non era un pescatore.

 

“Quindi” aveva ripreso il ragazzo Shu, “Io le offro il coltello” aveva considerato, il suo tono era strano, leggermente rigido, “E se lei lo accetta, il rito è concluso, siete fidanzati. Da quel momento è previsto un periodo di tempo limitato che va dalle tre alle sei settimane, in cui le famiglie si organizzano per il matrimonio e i fidanzati possono passare del tempo assieme, anche da soli. L’ultima notte prima delle nozze ufficiale, c’è l’offerta delle mele” aveva spiegato Jordan.

“Una ragazza deve cogliere delle mele, sbucciarle, tagliarle marinarle con quante più spezie riesca ad immaginare” aveva raccontato, “Ed indovino: se lui mangerà la mela, si possono sposare” aveva provato Naresuan. “Più che altro il matrimonio sarà benedetto e basta solo un assaggio, anche perché diventano davvero cose immonde” aveva spiegato Jordan con calma, mentre scioglieva pratico i nodi di una rete, per permettere ai granchi di rovesciarsi in una cassa, ancora vivi e brulicanti.

Cominciando poi a dividere i pesci ancora agitati da mettere altrove, “Questo sembra quasi bello” aveva aggiunto Naresuan, “L’anno scorso sono stato ad un matrimonio suli, ed ho assistito l’offerta delle mele, la ragazza le aveva marinate con curcuma, curry e olio al peperoncino” aveva raccontato.
I suoi nonni avevano fatto amicizia con la comunità suli di Ketterdam – non senza rimproveri a sua madre che negli anni non lo aveva mai fatto – e questo aveva permesso a Jordan di vivere un po’ del suo popolo. Suo nonno diceva che le cose a Kerch erano diverse che a Ravka, immaginava che la sedentarietà influisse molto su un popolo. A Jordan non dispiaceva, ma a suo nonno sì, non che lo dicesse mai, Ravi Ghafa era un uomo tremendamente riservato, rispetto la spumeggiante Sarika.

“Come siete inutilmente eccentrici” aveva ammesso Anton, mentre divideva il ricavato della sua pesca in diversi barilotti che si era portato via, “Qui vai dal padre di lei o chi ne fa le veci e chiedi quanto ti darà per liberarsi di lei” aveva detto con voce spenta.

“Come lo fai sembrare romantico” aveva scherzato forzatamente Jordan, “A Shu-Han come funziona?” aveva chiesto.
Non aveva idea neanche come funzionasse a Ravka, avrebbe dovuto chiederlo a Dominik, ma Jordan sospettava che il suo amico avrebbe fornito tutte le informazioni sbagliate, per proteggerlo da qualche sua paranoia.
Anche se immaginava che a Drina sarebbe andato bene anche un appuntamento al Caffè, o forse un’avventura, forse Jordan doveva proporle quello. Forse stava solo galoppando veloce con la fantasia, le aveva sfiorato la mano in treno solamente.

“Tecnicamente anche da noi, ora, c’è uno scambio in dote, ora, per lo più si fa in denaro, ma in passato era di tutto, ho sentito di una donna che ha offerto il suo peso in bambù, ma la dote viene offerta dalla famiglia che fa la proposta” aveva spiegato Chang, “Se io desidero sposare una certa fanciulla, mio padre stabilirà una dote da offrire, valutando la nostra disposizione economica e poi quella della famiglia” aveva spiegato calmo.
“Visto che vuoi sposare una suli, penso che il coltello basti e avanzi” aveva detto Anton crudele, sì, Jordan cominciava a spazientirsi.

La calma è la virtù dei forti’ aveva sentito echeggiare la voce di suo nonno nella testa.

“Normalmente la proposta viene fatta da chi è membro della famiglia agiata, ma ho visto certe persone accumulare ogni spicciolo per tutta la vita, togliersi il pane dalla bocca, per poter offrire una dote ricca ad uno dei figli” aveva raccontato calmo, con gli occhi distanti, pensando probabilmente a qualcosa e qualcuno che non era così.

I suoi genitori forse.

“Mia madre aveva questo specchio portatile, era d’argento, sul cui retro era stato inciso questo airone di profilo, con una gamba testa sulla punta di una montagna, con un nimbo circolare dietro la testa, da cui sorgevano bande … e aveva questo manico d’avorio, riccamente istoriato che … probabilmente avrebbe sfamato tre famiglie dei quartieri bassi per un anno” in quella descrizione così ricca e vivida, Naresuan aveva lasciato sfuggire tutta la sua natura altolocata. “Tuo padre era quello ricco, vero?” aveva chiesto Jordan, quasi senza riflettere, suo padre lo avrebbe rimproverato, aveva scoperto le sue carte. “Sì”, non aveva mentito Naresuan, “Ma non fraintendere, amico, mia madre avrebbe potuto presentarsi con le mele speziate e mio padre l’avrebbe sposata comunque” aveva ammesso. “Da lei che hai preso questa tua bella faccetta che fa torcere le gonne delle giovinette di Nijejem?” aveva indagato sfacciato Anton.

Naresuan era arrossito sulle guance.

“Presumo che anche la tua innamorata potrebbe apprezzare gli specchi, al posto dei coltelli, il manico potrebbe entrare nella guaina” aveva ipotizzato, pensando all’oggetto, sembrava ricco dalla sua descrizione, come ricco doveva essere Naresuan, forse la donna per cui spasimava non doveva esserlo.

Il ragazzo Shu aveva ricambiato il sorriso.

“Forse” aveva abbozzato pieno di vergogna, “Come è questa ragazza?” aveva indagato Jordan, “Più lavoro meno chiacchiere” Anton si era fatto sentire. Naresuan aveva sorriso con gentilezza, “Temeraria” aveva risposto poi. Quello aveva stupito notevolmente Jordan, forse era una cosa stupida, ma si era aspettato un giudizio estetico, ma era stato sciocco.

Se avessero chiesto a lui di Drina cosa avrebbe detto? Avrebbe parlato del mondo in cui sorrideva? Dei suoi occhi azzurrissimi o della sua curiosità intrigante.

Quando avevano ripreso a remare verso il porto, avevano tre salami, diviso i pesci – un dentice, due storioni, un nasello e tre cheppie – dai granchi – quasi tutti senza guscio, dal numero indicativo di cento-cento dieci esemplari – ed essersi sbarazzati dalle alghe in eccesso, avevano sulla loro barca l’approssimativa cifra di ottocento krughe, forse.

Ottocento krughe in fauna marina, chiusa in tre differenti barili di legno.

Jordan si chiedeva quanto di questo sarebbe stato incassato effettivamente da Anton. Qualcosa sarebbe dovuto andare a Naresuan che aveva aiutato, altro sarebbe stato investito per la manutenzione della barca e probabilmente per le imposte sul numero di reti, sul noleggio della postazione di queste ultime e anche dell’attracco al porto.

 

In biblioteca aveva visto che Nijejem era un paese che viveva di sale e di granchi.
Jordan aveva dato il cambio a Naresuan con i remi, trovando l’attività piuttosto faticosa, per il suo fisico da studente impenitente.

Era abbastanza sicuro che suo padre, con la sua gamba offesa, non avrebbe faticato quanto lui, così, come sua madre. Lo spettro aveva una fila di remi, per le emergenze, quando il vento non assisteva, il mare era in bonaccia e per qualche ragione i grisha non potevano adoperare la loro piccola scienza; sua madre, però, valutava di aggiungere un motore a vapore.

Non ha senso rimanere attaccato al passato. Le innovazioni corrono veloci!’ aveva detto.
Il peso della barca era stato più pesante, rispetto all’andata, la forza e la prontezza di Jordan era decisamente meno notevole di quella di Naresuan – cosa che sembrava ridicolo, visto quanto smilzo sembrava il ragazzo Shu – e il sole picchiante del mezzogiorno, avevano reso molto più lungo il rientro al porto, di quanto era stato l’abbandono.
Quando Anton aveva lanciato il cavo di prua per legarlo alla bitta sulla banchina, Jordan era lurido di sudore.
“Questo è il motivo per cui dico che dovremmo andare di notte, come gli altri” aveva detto subito Naresuan, “Io non sono un pescatore, Naresuan, io sono un negoziante, non navigo di notte” aveva replicato Anton. “Un po’ si vede” aveva considerato Jordan, guardandolo, “Se ormeggi di prua devi farlo a cavi incrociati e ti serve una boa per la parte posteriore” aveva azzardato.

“Un suli come te che ne sa? Non girate in carovane?” aveva chiesto Anton, “Uno dei miei più cari amici lavora ai cantieri dei Dyk” aveva risposto, non era una menzogna.

Una parte di lui voleva quasi strofinare sul viso di Anton che un suli come lui, aveva potuto godere di una bella casa, di una vera istruzione e che frequentava l’Università e che tra i suoi amici poteva vantare i ricchi viziati figli di Kerch e nobili oltre il mare. Perfino il Principe di Ravka!

Ma era una cosa così stupida, una cosa di cui suo padre sarebbe stato disgustato e sua madre delusa. Anton era figlio di un gretto dolore, cresciuto in un mondo dimenticato dai Sankti, che aveva perso una sorella in qualche modo così orribile che ancora echeggiava nella memoria anche di Drina.

Strofinare sul viso della sua vita fortuna a Jordan sembrava meschino, anche se Anton era una persona così fastidiosa.

Avevano ritirato la barca e nonostante il suo atteggiamento inviso, Anton lo aveva ascoltato per l’aggancio alla banchina e poi con calma avevano scaricato le quattro casse. “Oggi non mi sembra sia andato male” aveva valutato Naresuan, “Se ignoriamo il tuo chiacchiericci ridicolo, no” aveva risposto Anton, sbeffeggiando, l’altro lo aveva guardato storto, “Io ho nel cuore la povera Klaske che stravede per te” aveva stabilito poi.
Anton non era riuscito a trattenere un’espressione disgustata a quel commento, “Giammai, che la mia anima vada a fare compagnia a quella di Elyaas Vriess che finire con Klaske Dente-Blu” aveva replicato offeso da quel commento.

“Klaske è una ragazza gentile, stravede per te e la tua prozia[8] la ama” aveva difeso l’onore di Klaske, Naresuan, “Brutta come un rospo” aveva replicato Anton.

Jordan li ascoltava passivamente, ma anche divertito in un certo senso, “Lasciamo le donne belle agli uomini senza fantasia” aveva replicato Naresuan, “Certo, immagino che la tua amata sia della stessa delicata bellezza di uno scorfanaccio” lo aveva punzecchiato Anton.

Jordan non aveva sentito la risposta del ragazzo Shu, immerso nella frase che aveva appena sentito, era una citazione di Vestern Van Dijik, che aveva detto durante le giornate a Ivets, durante un’assemblea di intellettuali organizzata da Dimitriji Polnudist – Jordan era andato lì, con Wylan, Magnus e la di lui madre, Linnea – almeno un anno fa. Non era stato durante uno di quei discorsi, ma durante una cena tenuta dal Signore di quella zona, dove Pryr Rassun – filosofo teorico della corte dell’Illuminato Egmen Grijmor –  leggermente ubriaco, aveva fatto un commento volutamente cattivo sull’aspetto su Fikele  Oamat – una matematica zemeni brillante per l’opinione di Jordan – e Vestern Van Dijik era intervenuto così.

Fikele aveva apprezzato l’intenzione, meno l’intervento ed il commento[9].

Jordan aveva memorizzato la frase perché era avvenuto prima del suo terzo bicchiere di kvas corretto, abbastanza per aver raccolto informazioni. “Che vuol dire?” aveva chiesto Magnus colto dalla sua ingenuità, “Che solo gli uomini stupidi e con la disponibilità emotiva di una tazzina da te, hanno bisogno che una donna sia bella” aveva risposto pigra Linnea Opjer, con i suoi occhi azzurri brillanti ed i capelli dorati. Vedendola nessuno al mondo avrebbe potuto fraintendere che non fosse altro che la nobile sorella del re consorte di Ravka, del Korol Rezni, del Re Senza Corona.

“Una bella frase, dove la hai sentita?” aveva indagato, “Magari la ho inventate, io?” aveva risposto scherzoso Naresuan, finendo il suo baccagliare con Anton, “Non lo sai che gli Shu parlano solo per versi poetici” lo aveva preso in giro Anton. “In realtà non ricordo dove la ho sentita, penso sia un evoluzione di un vecchio detto” aveva scansato la questione Naresuan.

Jordan aveva arricciato le labbra pensando ai movimenti incerti del ragazzo, le sue mani delicati arrossate dal lavoro, la parlata eclettica ed ora quella frase. Naresuan non era sicuramente un pescatore Shu, finito a Kerch seguendo la lingua di terra …

Si chiese se anche lui avesse partecipato alle Giornate di Ivets, due anni prima.

“Lei comunque è bella come la prima mattina di primavera, quando i fiori timidi lasciano sbocciare i loro colori, ma è molte altre cose oltre il suo aspetto, è brillante e spietata come una lama” aveva detto innamorato Naresuan. “Be, sembra la descrizione tipica di moltissime donne suli” aveva scherzato Jordan.
Come avrebbe parlato lui di Drina?

Che aveva occhi così belli, ma così tristi?

“Smettete di parlare di fiche e recuperiamo queste fottute casse” erano stati rimproverati.

Anton li aveva condotti verso la stazione, in uno spazio che nel buio della notte prima, non aveva goduto per bene. Un piccolo quartiere composto di stoffe e tendaggi si era aperto davanti a loro. Jordan non aveva mai visto le comunità erranti suli di Ravka, con le carovane, le tende e le carrozze di cui aveva fatto parte sua madre nella sua giovinezza. Nella testa di Jordan quei luoghi erano idee, ma in quel momento, davanti il quartiere di tappetti di Nijejem, piccolo e modesto, aveva un’idea quasi reale.

“Questo è il mercato” aveva spiegato Naresuan più amichevole, mentre imboccavano le strade tra le bancarelle.
Nonostante a primo acchito, Jordan avesse provato meraviglia, aveva dovuto riconsiderare di molto il suo stupore. Buona parte delle bancarelle erano chiuse, sbarrate con assi di legno, le poche aperte erano spoglie ed avevano commessi dai visi stanchi e logorati. I tappetti che riparavano dal sole erano vecchi ed usurati, ma avevano più fantasie Shuhannite che di altre nazioni. Doveva essere per il corridoio di terra.

“Questo è la Chiesa di Nijejem” aveva precisato Anton con un tono cupo, spiegando perfettamente che luogo era a Jordan, “Molto più pittoresca di quella di Ketterdam, non c’è che dire” aveva commentato lui, osservando i visi stanchi e rovinati degli avventori.

“Il nostro piccolo Anton ci porta qualcosa” aveva canticchiato una voce melliflua, femminile, palesandosi davanti a loro. Era una vecchia signora dal viso cotto dal sole, avrebbe potuto avere cinquanta anni come trenta di più, rughe severe solcavano la pelle come l’aratro faceva nel campo, gli occhi erano scuri e cattivi ed i capelli grigi e chiusi in una crocchia così severa che non solo un ciuffo sfuggiva alla prigione. “E non sto parlando del pesce” aveva concluso la donna.

“Quella è Anita Vriess, non guardarla negli occhi, può rubarti l’anima” aveva sussurrato Naresuan nel suo orecchio, Jordan aveva proceduto nel fissare la vecchia signora proprio in quelli. Aveva lo stesso sguardo inflessibile di suo padre, proprio un’occhiata che poteva rubarti l’anima.

“Qualche parentela con il già citato Elyaas Vriess?” aveva sussurrato poi nell’orecchio del ragazzo Shu, ricordando il cognome che aveva sentito pronunciare ad Anton. “Era suo figlio” aveva risposto quello, “I Vriess hanno sempre posseduto la malavita qui, da quello che ho capito, prima il suocero di Anita, poi il marito e dopo il figlio, ma ora comanda lei” aveva spiegato.

Probabilmente perché era rimasta solo lei.

“Sì, be, avevo bisogno di raccogliere il pesce e i granchi, ne vuoi?” aveva chiesto senza dolcezza Anton, oscillando da un lato e mettendo il suo corpo – secco e magro – tra lo sguardo rapace della vecchia donna e Jordan. “Non ho affatto voglia di togliere manodopera alla tua vecchia zietta, eravamo amiche una volta” aveva considerato la vecchia Anita.

“Immagino che vendere la nipote alla Spaccaossa possa aver cambiato le cose” aveva risposto secco Anton, “Il pesce?” aveva insistito poi, “Sì, prendo una cassa, ma voglio solo i granchi” aveva considerato Anita.
La mente di Jordan era volta al ritratto della giovane Cait che era apparso all’Emporio, con il suo sorriso timido ed un po’ accennato e poi aveva prestato più attenzioni a quello che aveva detto Anton.
La Spaccaossa, la Pazner Kosti, la donna che aveva perseguitato per anni gli incubi di sua madre, in possesso di una nave enorme e veloce che non poteva essere sconfitta e che in qualche maniera continuava a sfuggire –

la nascondono Jordan’ diceva sua madre.

E poi della Mostruosità della Ji-Han – così aveva scoperto si fosse chiamata la città galleggiante della Spaccaossa – erano rimasti solo pezzi in ammollo delle acque salate. Qualcosa di ben peggiore aveva intrecciato il suo percorso.

Sua madre gli aveva riportato qualcosa, i resti di uno scafo non più grandi di un avambraccio, ‘Non erano le spoglie che volevo. Li volevo tutti’ aveva ammesso con un tono di voce pieno di rammarico, ‘Almeno è finita’ aveva detto Jordan, che era solamente un bambino e non capiva il punto. L’importante è che l’incubo di sua madre avesse avuto fine, ma non comprendeva ancora perché negli occhi di sua madre ci fosse tanto dolore.
“Adesso so che vuoi chiedermi di mia sorella” aveva ringhiato Anton, “Non mi permetterei” aveva risposto di getto Jordan, che pensava di aver capito senza bisogno di troppe spiegazioni.
Elyaas doveva essere stato responsabile della sparizione di Cait e sua madre aveva fatto processare l’uomo, non sapeva solo dove dovesse incrociarsi Drina. “Tua … tua zia ha il quadro di Inej Ghafa” aveva considerato poi, più rispettoso.

Anton gli aveva dato le spalle e si era ritirato in una zona più appartata con la vecchia Anita. Jordan era rimasto in piedi, sostenendo il peso del barile, accanto a Naresuan. “Sua sorella Cait aveva venduto il suo contratto ad Elyaas, pensava di finire in qualche casa di piacere a Ketterdam” aveva raccontato. Jordan aveva avuto un brivido pensando al dipinto della ragazzina, forse quattordicenne … suo padre non l’avrebbe mai presa al Digitale. “Non …” aveva fatto una pausa. Non poteva andare direttamente a Ketterdam? Voleva chiedere, mettersi all’asta di Ghezen da sola? Ma non lo aveva chiesto, perché il mondo era strano ed era crudele.
La famiglia di Anton era la più ricca in quel momento, ma non sempre doveva essere stato così …
“Così immagino avrebbe potuto mandare i soldi a casa” aveva sussurrato, pensando che spesso era così che finiva, “Già, ma Elyaas Vriess ha pensato convenisse di più darla alla Panzer Kosti” aveva ammesso Naresuan con una voce terribilmente lugubre.

Jordan aveva sospirato, pensando ad una ragazza costretta a tutto quel dolore e Drina.
Aveva una qualche idea di quel che era successo alla ragazza, ed ora temeva che una qualche idea non fosse abbastanza. “Non dire ad Anton che te lo ho detto. Ad Anton non piace parlarne, perché ha accompagnato lui sua sorella da Elyaas” aveva ammesso Naresuan, “Tu eri lì?” aveva chiesto Jordan, “No, no. Me lo hanno raccontato la signora Wilhelmine e Pyp, sono venuto a vivere qui dopo” aveva ammesso.

Anton aveva tenuto per sé due cheppie ed aveva dato dei soldi che aveva guadagnato, non solo da Anita ma anche da altri commercianti, – quasi ottocento krughe – un buon quarto a Naresuan e poi dieci monete di carta anche lui. “Come mai?” aveva chiesto Jordan, “Nessuna buona azione resta impunita. Ghezen crede nello scambio. Lavoro per soldi” aveva soffiato Anton stanco.

“Non ne ho bisogno” aveva ammesso alla fine Jordan.

Anton aveva sbuffato, “L’ho capito, eh, che non sei un suli morto di fame e non vivi in un caravan, dividendo il letto con tre cugini, probabilmente sei perfino un ragazzino ricco” aveva soffiato Anton, “E scommetto che non ti sei mai guadagnato qualcosa con le tue sole mani” aveva considerato.

Per la prima volta Jordan non aveva voluto colpirlo sulla faccia, di tutte le supponenti affermazioni che Anton aveva fatto quel pomeriggio per tormentarlo, quella era l’unica tristemente vero.

Sì, suo padre lo aveva spronato a fare qualcosa per se stesso, come avergli affidato la proprietà la loro proprietà natia, ma Jordan era nato fortunato, quello lo doveva ammettere. “Hai ragione” aveva ammesso calmo, recuperando le monete dal sacchetto che Anton gli aveva allungato.

“Magari spendili per comprare un pugnale alla tua ragazza” aveva proposto Anton, “Oh, no, lei è di Ravka, non ho idea di cosa sia d’uopo regalare ad una ragazza di Ravka” aveva ammesso Jordan, ridacchiando.

Da un lato poteva immaginarsi nel comprare dei gioielli – ma vedeva lo sguardo di biasimo di suo padre nell’utilizzo di quel verbo – però non vedeva affatto quel tipo di chincaglierie addosso a Drina.

Indossava gli orecchini sì, aveva anche un bracciale, ma erano tutte piccolezze sobrie e poco evidenti.
Però sapeva che avrebbe apprezzato altro, un cane di latta, un piccolo treno giocattolo o altro, un automa forse, era dannatamente certo che Drina avrebbe apprezzato di più.

“L’idea del pugnale non è male, però direi più una pistola, le donne ravkiane combattono come uomini” aveva detto Naresuan con una bella risata, “E quando un uomo con il pugnale incontra un uomo con la pistola, l’uomo con il pugnale è un uomo morto”.

“Resti a cena con noi Naresuan? Mangiamo le cheppie” aveva proposto Anton con un tono di voce più sereno, “Oh, be, ti ricordo che occupo una stanza all’Emporio, l’idea di non dover succhiare le croste di pane mi piace molto” aveva scherzato Naresuan. “Spero che la tua amica abbia finito di fare Le Lamentazioni” aveva considerato Anton, con un sospiro.

“Non so, non ho idea di quanto durino, i riti funebri suli sono diversi” aveva mormorato Jordan, che non conosceva bene quel lato della sua cultura, perché ancora una volta, era stato un ragazzo fortunato. Naresuan aveva aperto la bocca, ma prima di poter parlare, era stato zittito da Anton, “Non provateci, l’ultima cosa che voglio è sentirvi parlare ancora di usanze strane. Il mondo è bello perché avariato, lo so, lo so” aveva ruggito Anton. “È bello perché è vario” lo aveva corretto bonariamente Jordan, “Ho detto quello che ho detto” aveva risposto Anton.

 

La vecchia prozia di Anton gli aveva accolti arcigna da dietro il suo bancone, quasi sepolta tra le cianfrusaglie.
“La tua amica sta ancora facendo Le Lamentazioni” aveva stabilito la donna, guardandola, prima ancora di ascoltare le notizie che Anton stava riportando. “Sempre squisita” aveva sentito Naresuan commentare a mezza-bocca. Jordan aveva trattenuto il sorriso storto ed aveva deciso di ascoltare le indicazioni della vecchia signora su per le scale.

L’Emporio di Drina aveva più camere di quanto non si potesse ipotizzare dall’esterno. Pyp l’aveva condotto nella stanza dove era la sua amica, “A Ravka fanno proprio strane cose” aveva detto, prima di lasciarlo sulla porta, ma con gli occhi ancora incollati all’uscio e non si era neanche allontanato troppo quando Jordan aveva aperto la porta.

Drina era sulle ginocchia sul pavimento di legna, con i capelli scuri velati con un fazzolo viola intenso. Dei fiori secchi incorniciavano un dipinto di Caitlyn. Jordan era abituato alle Lamentazioni, ma mentre si avvicinava si era accorto che Drina non stava recitando le abituali litanie, ma qualcosa che Jordan non conosceva.
Era Ravkiano, qualcosa che nel suo orecchio suonava ancora estraneo, sua madre era nata Ravka e suo padre conosceva quella lingua, ma Jordan era cresciuto a Kerch, aveva imparato il suli come seconda lingua, il ravkiano era qualcosa che conosceva colloquialmente, ma non così veloce, ma non così basso.
Drina si era voltata verso di lui, anche se Jordan non aveva fatto rumore – Jesper diceva sempre che aveva lo stesso passo felpato di Inej – come se lo avesse sentito.

Probabilmente non aveva sentito con le orecchie e non i suoi passi, ma qualcosa che aveva indosso, il cappello, la fibbia delle scarpe, i bottoni del panciotto.

“Come è andata la pesca?” aveva chiesto lei con un sorriso innocente, “Ho guadagnato dieci krughe” aveva risposto lui divertito, “Quelle non era lamentazioni classiche” aveva considerato lui, avvicinandosi, Drina era ancora in ginocchio.

“No, erano canzonette” aveva dichiarato Drina.

Jordan si era inginocchiato al suo fianco, “Io non ho idea se Cait fosse o meno religiosa, non ne abbiamo mai parlato, ma le piaceva cantare, le piacevano le mie canzonette e la storia di Nina Zenik” aveva spiegato calma. Jordan aveva aggrottato le sopracciglia, “Nina Zenik?” aveva chiesto chiedendosi come il vero nome della Regina di Fjerda riguardasse questa storia, “Era una grisha rapita dai druskelle, che si innamorò di una di loro, la prima grisha nota ad essere sopravvissuta alla parem e un’eroina per noi” aveva raccontato. Jordan aveva annuito. Una grisha rapita, sopravvissuta all’inferno-in-terra e che era riuscita, anche se forse Drina non conosceva la portata di quanto la sua vita fosse cambiata. “Cait aveva bisogno di speranza e canzonette” aveva ammesso Drina.

Jordan si era morso un labbro pensando a Drina e Cait vittima della tratta – come era stata sua madre – che si consolavano cantando canzonette. “Sentiti libera di non rispondere” aveva cominciato lui, “Ma tu e Drina vi siete conosciute su … una nave schiavista?” aveva chiesto con coraggio, anche se temeva di sapere già la risposta.
Drina lo aveva guardato gli occhi blu velati di dolore e tristezza, “No” aveva risposto abbozzando un sorriso poco convinto, Jordan non sapeva come prendere quella risposta, “La Ji-Han non era una nave schiavista, era … peggio” aveva ammesso calma. Lacrime pesanti erano rotolate dagli occhi lungo le guance tonde.
Jordan aveva sentito l’aria strizzarsi nel suo petto a quell’ammissione.

“Eri sulla Ji-Han?” aveva chiesto strozzato.

“Non lo sapevi, davvero? Tua madre non te lo ha detto?” aveva chiesto Drina, c’era una certa perplessità nella voce, “Mia madre non mi ha mai detto nulla, lo ho solo dedotto da una conversazione tra lei e tua madre l’ultima volta che la ho accompagnata a Keramzin, dopo le Giornate di Ivets” aveva raccontato. Era andato lì dopo perché sapeva di trovarci sua madre e sperava di vedere anche Drina, congedandosi da Linnea, Magnus e Dominik.

Non aveva trovato Drina.

Lei aveva sorriso, ancora stanca, “Non è stato così male, sono stata chiusa in una cella poco più grande di un armadio, senza vedere la luce del sole, con le dita spezzate e drogata tutto il tempo, ma almeno non erano ammanettata a catene arrugginite, con l’acqua alle caviglie ed in balia degli schiavisti. Avevo cibo sano e vestiti puliti” aveva sospirato.

“Non riesco ad immaginare una cosa del genere” aveva ammesso Jordan, “Mia madre … lei non ne parla mai o quasi” aveva sussurrato. Eppure, tutta la sua vita era stata modellata su quello.

“Con me ne ha parlato, sai? Mio padre voleva che ne parlassi con qualcuno che poteva capire, almeno un po’” aveva spiegato.

Jordan aveva annuito, aveva senso. Aveva anche senso sul perché Inej fosse così protettiva nei confronti di Drina.
“Non ho mai desiderato tanto uccidere qualcuno come ora” aveva ringhiato Jordan alla fine, sentendo crescere su di lui, una furia quasi cieca, che vibrava nel suo sangue, aveva ricordato i racconti che aveva sentito su suo padre. Aveva sempre provato orrore per quelle storie, ma pensava di cominciare a capire.
“Non ne vale la pena, Jordan Ghafa, la Ji-Han riposa tra i ghiacciai del settentrione, i suoi uomini riposano tra i Sildroher e lo schiavista che ha preso me marcisce in una cella senza vedere il sole a Ravka da anni e quello che ha preso Cait è affogato tempo fa. Sono già tutti i morti, non sprecare le tue angustie per chi è stato già punito” aveva detto con dolcezza Drina, prendendo poi la sua mano.

Jordan l’aveva stretta, con un certo tremore. “Resti con me per l’ultima canzone?” aveva chiesto lei.

La voce di Drina non era bella e soave come quella di un’allodola, ma era una bella voce, era calda e profonda e quando parlava il ravkiano il suo tono diventava dolce come il miele con il pane tostato.
Jordan non era certo di essere stato innamorato prima, ma ne era stato sicuro con la fine di quella canzone; ed era una cosa così profondamente sciocca. “Tu e Cait eravate molto legate” Jordan non sapeva se la sua fosse una domanda o un’affermazione, mentre Drina chiudeva la porta, Pyp si era spostato al fondo del corridoio, proprio sul principio delle scale.

“Non lo so, è una cosa complicata da … considerare. Poco tempo, ma intenso” aveva raccontato lei, “Non so quale fosse il suo colore preferito o che cosa volesse fare da grande” aveva confessato.

“Verde e voleva lavorare in una serra per stare sempre al caldo” si era introdotto Pyp, “La nonna mi ha mandato a chiedere se volevate cenare con noi, ha fatto le cheppie fritte e i fiori di zucca” aveva comunicato. “Oh, certo” aveva risposto Drina, prendendo di nuovo la mano di Jordan, “Voglio gustarmi un po’ del duro lavoro di Jordie” lo aveva preso in giro con un certo divertimento e per un secondo anche l’azzurro dei suoi occhi era scintillato di gioia.

 

Pyp gli aveva condotti di nuovo nell’androne pieno di cianfrusaglie dove Jordan aveva riconosciuto Naresuan che aveva dismesso gli abiti da pesca e sopra la camicia pesante indossava un grembiule nero – quanto tempo era durata l’ultima canzone? – che girava il cartello per segnare la chiusura.

“La stanza del pasto è la seconda porta lì” aveva indicato il ragazzino, attirando la sua attenzione, Jordan neanche l’aveva notata dietro tutte quelle cianfrusaglie, suo padre sarebbe stato molto deluso dalla sua mancanza. “Anton e Naresuan hanno già apparecchiato” aveva comunicato, ammiccando anche al ragazzo Shu.
Naresuan si era voltato verso di loro per sorridere a lui e Drina, Jordan aveva ricambiato ed anche Drina, ma come il sorriso della ragazza cresceva quello del ragazzo shu diminuiva.

Per un solido momento, Jordan ebbe l’impressione di essere stato gabbato dalla ragazza che gli piaceva.

“Bello vederti” aveva detto Drina allusiva guardando Naresuan.

L’impressione divenne certezza.



[1] Tè alle Tre Spezie, in olandese

[2] Leigh Bardougo ci fa sapere che la Digitale è la pianta preferita di Kaz (per me è assurdo che Kaz abbia una pianta/fiore preferito). Dopo che ha acquisito i locali di Pekka, gli ha rinominato. Il Digitale è l’ex-negozio dei dolci. Sarà ancora un bordello? Forse, forse no :^

[3] Metà dell’anima mia, in Bosniaco. All’inizio avevo pensato di usare l’ucraino ma non mi piaceva molto il suono.

[4] Ho scelto la Ravka Meridionale, perché è di dove sono Alina e Mal – e nei libri Mal è l’unico che sappiamo lo usi, parleremo anche di quella cosa super meme della lama – e dove aveva il nido l’Uccello di Fuoco.

[5] Giurò, non scherzo, esiste questo fenomeno, interessa tre specie di rapaci, vengono chiamati FireHawks e si trovano in Australia (erano presenti nella mitologia aborigena, ma uno studio ha dimostrato la loro esistenza). E bho, io lo ho scoperto mentre mangiavo PanCake con mio cugino e raccontavo di questa storia. Vi lascio un link: https://panetologia.com/2019/03/21/firehawksi-falchi-di-fuoco/

[6] Lam 2, 11

[7] Sperando di non offendere nessuno ho scelto il termine Ash’laki da Ashkali del Kosovo, sono un gruppo “gitano” balcano-egizio (?) che non si identifica in questa maniera e si distacca dalle altre popolazioni Rom o locali. Per via di questa loro caratteristica ho pensato di utilizzare il termine al posto del “Gagè”, come i rom si rivolgono ai non-rom. Forse questa nota è troppo prolissa.

[8] Whillelmine è la prozia di Anton, Cat e Pyp, sebbene nel capitolo di Drina, Pyp si rivolge alla donna con l’appellativo di “Nonna”. Ho semplicemente immaginato per il ragazzino più giovane fosse più normale utilizzare questo appellativo.

[9] La frase in realtà è di Prust.

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Capitolo 15
*** Drina I (28 dalla D.F.) ***


Mi sono resa conto di non aver postato il capitolo di Drina a suo tempo su efp, tecnicamente andrebbe letto prima di quello di Jordan, help.
Vi lascio il link di A3O dove è presente una illustrazione: https://archiveofourown.org/works/43797621/chapters/119863912


DRINA
(28 anni dalla dissoluzione della Faglia)

Dominik non somigliava a sua sorella.
Drina avrebbe voluto che quel pensiero non fosse la prima cosa che attraversasse la sua mente ogni volta che guardava il giovane principe, ma era così.
Non era solo l’aspetto, dove la principessa era ferace, dura, brillante, ma svelta come una frusta, di una bellezza eterea, quasi divina a modo suo mortale, Dominik era terribilmente umano, con gli occhi pieni d’amore, il sorriso steso un po’ tremolante e dietro tutto il fascino che ostentava guance tonde che balzavano a rosso veloci come vele.
Dominik aveva qualcosa di dolce, come la piccola Alina, che sembrava essere tutto suo, nessuna eredità dai suoi genitori. L’Inflessibile regina Zoya e il carismatico Korol Rezni.
Sua madre diceva che Dominik aveva ereditato la dolcezza di sua madre, ma Drina ne dubitava parecchio – non credeva di poter trovare un lato dolce nella Regina –  ed anche se la sua vita era stata giovane, aveva impastato il suo bel numero di esperienze per dirsi capace di giudicare.
“Ho qualcosa in faccia?” aveva chiesto il principe aggrottando le sopracciglia bionde.
“Solo la tua faccia” aveva replicato schietta lei.
“Una volta eri più gentile” aveva dichiarato offeso il principe. “Una volta avevo il terrore che i miei genitori scoprissero che non ero educata” aveva risposto lei, forzando un sorriso.
Da bambina le veniva semplice sorridere, le veniva spontaneo, era una ragazzina allegra, poi si era rotta.
Dominik aveva ridacchiato, a guardarlo in quel momento con la redingote raffinata azzurro ravka ed i calzoni a quadri sottili bianchi sul marrone, sembrava tutt’altro che un principe esotico, quando … un ragazzo normale, solo ben lavato, di Ketterdam.
“Sei solo arrabbiata perché sto rovinando il tuo appuntamento” l’aveva presa in giro, “Non verrai con me, vero?” aveva risposto Drina, senza lasciar percepire la verità.
Un po’ lo era.
Non voleva avere davvero un appuntamento con Jordan Ghafa, ma era anche vero che trovava piacevole la compagnia del ragazzo. “Scusami ma Jordie è il mio migliore amico, non sembra ma un cuore tenero” aveva ammesso Dominik con un sorriso divertito.
Drina aveva inclinato il capo, “Lo sai vero che la storia delle druse che mangiano i cuori per rimanere giovani per sempre non è vero?” aveva chiesto retorica, “Averlo saputo prima, mia sorella mi ha minacciato per anni che lo avrebbe fatto” aveva risposto prontamente Dominik.
Drina aveva riso, “In quel caso non mi sento di escludere che potesse non essere una minaccia a vuoto” aveva detto. Il principe aveva riso, “Sai che stai parlando della futura Regina di Ravka?” aveva chiesto retorico ma con divertimento Dominik.
Lei aveva delineato con le labbra un sorriso furbo, “Ho firmato un documento dove mi è permesso commettere atto di Lesa Maestà” aveva ammesso. Dominik aveva sollevato un sopracciglio, “Avevo dieci anni, lo abbiamo scritto e siglato su un tovagliolo in sala da pranzo io e tua sorella; poi lo abbiamo consegnato a… la signorina Velenski” aveva dichiarato, riportando quel curioso fatto con la stessa serietà con cui esponeva i progressi a Nikolai.
Dominik aveva mantenuto un’espressione comicamente seria, “Inoppugnabile” aveva aggiunto.
Drina aveva annuito, cullandosi in quel ricordo, ancora giovane, ingenua.
Era passata più di una decade da quel giorno. Ricordava ancora la serietà del viso della sua amica mentre vergava sul tovagliolo di stoffa finemente ricavato quel testo.
Io Liliyana Zoyaevna Nazialesky, principessa ereditaria di Ravka, Duchessa di Carieva, figlia del Drago do il permesso a Ana Aleksandra Rosen di potermi prendere in giro in ogni modo a lei compiacente” aveva scritto seriosa.
Drina non sapeva neanche cosa volesse dire compiacente, ma lei era stata educata dai suoi genitori a Keramzin e non da una schiera di istitutori al Gran Palazzo … in vero, ricordava anche che la principessa avesse sbagliato a scrivere la parola.
Aveva anche ferma nella sua mente come un disegno, il viso confuso della signorina Velensky quando le avevano affidato il tovagliolo.
Lo volevano dare alla maestra Ekaterina, ma avevano trovato solo la sua buona amica, l’amplificatrice umana che era venuta a prendere Drina dalla sua casa, l’unica amplificatrice non-grisha da … Mal Oretsev.
Aveva sorriso ed aveva detto che ne avrebbe avuto cura.
A Drina era piaciuta molto la signorina Velenski, sorrideva a modo, aveva gli occhi scintillanti di gioia e tanta aspettativa. Era morta a ventitré anni, se Drina fosse sopravvissuta ancora un po’, sarebbe stata più vecchia di quanto era mai stata la signorina Velenski.
Era un pensiero strano, molto strano, ma differentemente dai suoi genitori, non aveva mai dovuto confrontarsi con la morte, era nata nella pace, lontana della guerra, prima della signorina Velenski. Era stato il primo vero lutto della sua vita, la prima volta che aveva provato quel senso di rottura, di vuoto. “Comunque, vedi Kos qui?” aveva chiesto il principe, “No” aveva risposto Drina, “Allora puoi stare tranquilla, non mi è permesso neanche andare in bagno senza il vigile sguardo del buon Kostantyn” aveva esplicitato.
Drina aveva sorriso, “Sei molto fortunato, se dovessi avere qualcuno a guardarmi le spalle sarei felice fosse lui” aveva ammesso lei. “Sì, lui mi ha detto che siete come fratelli” aveva considerato.
Il sorriso di Drina si era congelato sulle sue labbra, per un solo secondo, ripensando a quello che aveva appena sentito, “Sì. Era uno degli orfani al Castello e siamo stati portati insieme al Piccolo Palazzo” aveva ammesso poi.
Ricordava ancora il viso sorridente della signora Velenski quel giorno, le lacrime di sua madre che le aveva detto che poteva rimanere se lo desiderava – e Drina riconosceva la ferita sul suo petto perché non era riuscita a parlare prima dei suoi poteri – e che aveva tenuto la mano di Kos per tutto il viaggio sull’Alcione.
E sopra ogni cosa, ricordava lo sguardo di suo padre.
“Per tutta la vita si è sentito in dovere di dovermi proteggere – e spaventare tutti i ragazzini troppo audaci con me” aveva raccontato, poi, con una punta di divertimento. Dominik le aveva sorriso sornione, “Oh, deve aver avuto il suo bel da fare” aveva squittito divertito, “Ovviamente” aveva risposto Drina con una risata onesta, “Anche se tre quarti dei ragazzini che mi corteggiavano lo facevano solo per arrivare a tua sorella” aveva dichiarato.
L’espressione di Dominik si era assopita per un secondo, “Sempre trovata squisitamente intrigante la voglia di morire di certi gentiluomini” aveva replicato, “Mia sorella da ragazzina non era proprio una fanciulla gentile” aveva ricordato.
“Ma non è vero, sapeva essere perfettamente raffinate e fingere magistralmente, non le interessava. Non voleva per nulla un fidanzatino” aveva ricordato Drina, mentre lei smaniava di crescere anche in quel lato. “Inoltre, insomma, ha sempre avuto Dimitrij” aveva scherzato Dominik, “Non so se quel pazzo sia più innamorato di mia sorella o della corona di mia madre” aveva ammesso, “Alla fine prenderà Lilyiana per sfinimento” aveva aggiunto.
“Immagino che la futura contessa di Ivets, possa non essere così smaniosa di farsi mettere da parte” aveva replicato lei, godendosi l’espressione sconvolta che si era dipinta lentamente sul viso del principe quando lei aveva parlato. “Cosa? Futura contessa?” aveva esclamato.
“Dimitrij Poldunist si è sposato tre mesi fa ad Os Kervo, mi sembra strano che tu non lo abbia saputo” aveva ammesso Drina, aveva lasciato la città, per tornare a casa tra le montagne, che gli sposi avevano appena tagliato la torta – e freddamente si era congedata dalla principessa; però pensava che la notizia avesse in qualche modo raggiunto l’ambasceria. Però era sconvolto che la rete di spie che il principe dovesse avere non avessero trasmesso quel messaggio, forse il tempo a Kerch lo aveva distratto parecchio.
“Oh Sakto Juris il Coraggioso! Dimitrij si è sposato? Ma lui … lui ha sempre detto che non avrebbe mai avuto nessuno oltre Lilyiana!” aveva replicato quasi offeso.
“Immagino che un nutrito numero di porte sul naso, possano far desistere l’amore decantato a gran voce a dodici anni” aveva risposto lei. Dominik sembrava ancora sconvolto, “E mia sorella come la ha presa? So che ha sempre detto che non voleva Dimitrij, ma ho sempre dato per scontato …” si era fermato, incerto. “Che un giorno avrebbe ceduto e l’avrebbe sposato? Io no, ma anche tua sorella sembrava pensarlo. Non amava Dimitrij, se non come si ama un amico, ma credo che sotto-sotto pensasse di poterlo usare come salvagente” aveva dichiarato.
Era un’illazione forse troppo audace, che lei non avrebbe dovuto fare, ma ricordava le lacrime che le avevano sconvolto gli occhi e la frustrazione. “So che mia sorella è innamorata di un uomo che non è Dimitrij, ne ha parlato con mia madre, che le ha detto di pensarci bene, che non le avrebbe impedito nulla, ma di chiedersi se era giusto per Ravka” aveva considerato incerto Dominik, con un peso sulle sue stesse costole, “Non dovresti dirmi queste cose” lo aveva rimproverato bonariamente Drina. “Sei la migliore amica di mia sorella” aveva risposto Dominik come se fosse ovvio.
Ero, sembrava in vero più corretto, ma Drina si era beata nella sua illusione.
“Comunque, questo è il motivo per cui ti ho detto quella cosa, l’altro giorno. Ci hai pensato?” aveva chiesto Drina più perentoria, vogliosa di spostare un pettegolezzo così ghiotto da orecchie indiscrete.
 Il principe aveva preso per un secondo un’espressione crucciata che aveva dissimulato presto in una più scanzonata, per fingere di ricordare esattamente quello di cui Drina stava pensando; un’ottima imitazione dell’originale Nikolai, ma ancora necessaria di parecchie affinature. Non che la ragazza le augurasse, amava l’innocente onestà di Dominic, così diverso da sua sorella.
Aveva amato la principessa, come una sorella, come un’amica, a volte anche come qualcosa di più, come l’altra metà del suo cuore, ma il tempo … il tempo era arrivato per entrambe, ciò che aveva reso Drina triste – di una tristezza a volte così soffocante da riuscire ad annegarla, da teneral giorni stesa su un letto, incapace anche solo di concepire la forza di aprire gli occhi, figurarsi il levarsi – aveva reso la principessa dura, con un cuore come la pietra.
La gente la paragonava alla Regina Zoya; sua madre stessa le aveva detto che anche da giovane, complice di tutte le brutture che le erano capitate, la regina aveva mostrato un atteggiamento ostico – tal volta anche cattivo (e sua madre non lo diceva mai di nessuno) – per nascondere le sue fragilità, ma Drina questo la sapeva, così come era consapevole che ciò che aveva avvolto la Regina era stato ferro, una corazza per proteggersi dal suo dolore, ma la principessa … la principessa si era avvolta nella pietra, dura.
“L’incoronazione di Dalai Kir-Taban? Giusto?” aveva chiesto Dominic, nel farlo si era guardato con circospezione, per non farsi udire. Erano nei pressi della stazione centrale di Ketterdam, pieni di gente che andava e veniva.
Vecchi senza speranze e giovani con troppe.
“Giusto” aveva ripetuto Drina.
Non conosceva la principessa azzurra, sapeva che era Shu di madre, una delle sorelle più giovani delle principessa Makhi e Ehri, e Kaelish di padre; sarebbe stata la prima Regina di Shu-Han con sangue misto, in modo che con la sua incoronazione non solo si riparasse quella frattura inconciliabile che era sorta con la guerra sociale, ma che fosse anche un annuncio chiaro al mondo che Shu Han era pronto a riaprirsi al mondo a tornare a giocare.
Il che … aveva del potenziale.
L’ingegneria bellica di Fjerda era stata la migliore – nel suo peggio e nel suo meglio – ed aveva funzionato bene con l’ingegnosità di Ravka.
Nikolai Lantsov non sarebbe mai stato Nikolai il Costruttore; ma la medicina Shu era ancora all’avanguardia. Non potevano esserci Healer, sempre e continuamente e Drina sapeva cosa si provava quando si aveva disperatamente bisogno di un guaritore.
“Deve andarci, Lilyiana può gestire tutto. Adora da morire tutte le facezie di natura politica e diplomatica, praticamente si addestra a parlare con i politicanti da una vita. L’ultima volta che è stata qui ha incanto tutta la Gilda dei Mercanti, e loro ci odiano” aveva risposto Dominic, “Tua sorella odia Shu Han. In una maniera viscerale, è una pentola a vapore pronta ad esplodere” aveva risposto Drina.
Non voleva dire che la principessa avrebbe mandato a monte il Concordato e qualsiasi nuovo avvallamento politico per interesse personale, ma temeva concretamente questa possibilità, “Ed in questo preciso momento della sua vita è terribilmente umorale”.
La Regina Zoya da giovane era stata testarda e poco diplomatica alla stessa maniera, ma aveva dovuto ingoiare il rospo per il suo ruolo – sebbene per anni avesse lasciato le incombenze politiche di quel genere e le moine al marito – ma la principessa non era così.
La principessa era stata educata ad essere diplomatica, ma non in quel caso. Non in quello stato.
Prima che il principe Dominic avesse potuto rispondere, erano stati interrotti, nella cacofonia di suoni della stazione, una voce li aveva chiamati.
Drina si era voltata riconoscendo il profilo alto ed allampanato di Jordan Ghafa, per la prima volta vestito da qualcosa di diverso di un becchino.
Indossava dei pantaloni grigi scuro di velcro, gonfi e lunghi fino al ginocchio, delle scarpe marroni, senza lucentezza, sotto delle calze bianche di cotone, una camicia spessa di una stoffa neutra, per proteggersi dall’umidità kerchiana, con indosso una giacca spezzata alla vita grigio tortora, anche i capelli non erano pettinati ed ordinati all’indietro, ma ricadevano sul viso, in una maniera spontanea. L’unica punta di colore era data dalla cintura giallo paglierino e dal fazzoletto alla gola rosa cipria, due accessori tipici della moda di Ketterdam.
Voleva sembrare un ragazzo tranquillo, di campagna, forse – ed una creatura ben distinta da Kaz Brekker, di cui si sforzava di imitare sempre lo stile, in una qualche disperato tentativo di richiesta d’attenzione.
In realtà era una cosa che Drina poteva capire. I suoi genitori l’amavano, non aveva dubbi, ma amavano tutti i loro bambini, in egual misura, non c’era niente di speciale in Drina figlia del loro stesso sangue, rispetto gli altri orfani.
Avevano tutti due genitori amorevoli e tutti erano orfani, Drina inclusa.
Per questo le era piaciuto il piccolo palazzo, perché non si era sentita affamata di affetto.
Jordan non era da solo, era seguito dal giovane fjerdiano che aveva presentato a Drina qualche sera prima al Silver Six. Era giovane, con il viso ossuto, leggermente adombrato da una macchia bionda sulle guancie ed occhi di vetro. Nella luce del sole del mattino tutti i suoi tratti erano terribilmente più chiari, aveva qualcosa di famigliare, che Drina non era sicuro.
“Chi è?” aveva chiesto lei, “Il nome lo so. Intendo chi è veramente” aveva specificato. Dominic non gli aveva risposto subito, con gli occhi blu zaffiro era rimasto fermo ad osservare i due, poi aveva recuperato la sua maschera di perfezione, “Uhm … Ioren è un compagno di università. Vive all’Ambasciata Fjerdiana, suo fratello è il Margravio di Wanderfall, dovrebbe essere un pezzettino di terra piccolo-piccolo nell’Avfalle, lui è il quarto o il quinto in linea di successione, non ho capito come si considera sua sorella” aveva commentato con voce divertita il principe.
“Conte di Wanderfall? Il fratello minore di Styborn, immagino. Non gli somiglia molto” aveva considerato poi. Ioren era più magro, leggermente più basso e la sua espressione sembrava terribilmente inquieta, anche in un ambiente così neutrale come la stazione di Ketterdam. Del Margravio di Wanderfall ricordava invece una presenza quasi angosciante, rapace.
“Dici?” aveva chiesto Dominic, “Sì, ma è molto più carino” aveva commentato con un certo divertimento, le gote che si erano tinte come mele mature appese all’albero. “Oh!” aveva esclamato divertita Drina, “Ed io che pensavo avessi una cotta per quella principessa della jurta” aveva aggiunto.
“Merissa è una persona molto piacevole, con una lingua degna di una frustra e una capacità di dizione ravkiana che mi fa apparire un povero analfabeta” aveva replicato lui, con incertezza.
“Hai portato un amico” aveva considerato Drina guardando il ragazzo alto con lui, cercando di soprappore alla sua memoria quella di Styborn con quella del nuovo venuto, “Il ragazzo dell’altra sera” aveva aggiunto, mostrandoli che l’aveva riconosciuto.
“Drina, giusto?” aveva provato quello, Ioren, sì, lei aveva annuito. “Drina mi stava giusto dicendo che conosce tuo fratello” aveva raccontato Dominic con scioltezza.
Sul viso del fjerdiano si era dipinta un’espressione leggermente confusa ed anche un po’ preoccupata, Jordie aveva chinato il capo non lasciando però trasparire nulla.
“Ah? Davvero? Quale?” aveva chiesto Ioren con leggero nervosismo, “Ho tre fratelli” aveva aggiunto poi, “Styborn, il druskelle” aveva ammesso Drina senza vergogna. Una smorfia, della durata di un battito di ciglia era apparsa sul viso di Ioren – non dovevano avere un buon rapporto.
Onestamente Drina non aveva la minima idea se il ragazzo avrebbe scritto a suo fratello di lei, forse non a Stybord direttamente, forse a Sigtryggr, il margravio[1], immaginava che la sua presenza fosse nota ormai a chi di dovere a Kerch, non si era neanche impegnata troppo per non dare nell’occhio. Comunque, non sapeva niente di questo Ioren, non se n’era preoccupata neanche fino a quel momento, doveva ricordarsi di avvertire Kos.
“Spero che sia stato degno del nome che porta” aveva detto Ioren pieno di disagio, cercando di gestire qualsiasi sentimento il nome di suo fratello manifestasse in lui. “Sì, circa. Mi ha caricato in spalla come un sacco di patate e si è fatto prendere a schiaffi da mia zia. Il che è notevole perché usualmente non è così gentile” aveva scherzato Drina, ricordando quella scena, con una punta di divertimento.
Jordie non era riuscito a mantenere la sua faccia ieratica, quasi divertito, l’espressione di Dominic era stata molto più esplicita. “Non sapevo avessi una zia” aveva sputato fuori, senza vergogna.
“Diciamo che zia è una definizione impropria” aveva raccontato con una punta di divertimento Drina, alzando anche una mano come se avesse dovuto scacciare un pensiero. “Quindi vogliamo partire per questa ridente missione segreta?” aveva proposto immediatamente Dominic, inghiottendo qualsiasi dubbio fosse fiorito dal commento di Drina.
Lei aveva annuito, “No” aveva detto Jordie, infilando una mano nella tasca della sua giacca ed allungando due foglie verso Dominic.
Un’espressione intrigata era fiorita sul viso del principe, che aveva raccolto quell’offerta – curioso come un gatto. “Oh” aveva esclamato Dominic quando era riuscito a leggere i caratteri sul foglio, Drina si era sporta, elaborando il suo kerchiano – era più fluente nel parlato che nello scritto – prima di riuscire ad interpretare. “Un’esposizione sulle ancore Kaelishane?” aveva chiesto perplessa.
“La tua cara zia te ne aveva parlato, no? Farà un’esposizione” aveva risposto pratico Jordan con espressione calma e stoica, “Non era oggi, era tra dieci giorni” aveva risposto Dominic con sicurezza.
Ioren aveva ridacchiato, ma aveva cercato di nascondere il gesto con una mano, “Immagino che con tutte le scadenze universitarie anche un principe possa confondersi” aveva cinguettato con faccia di bronzo Jordie.
Sankti, Jordan! Hai fatto anticipare un evento di dieci giorni solo per uscire di nascosto con Drina” aveva esclamato Dominic, ma nella sua voce c’era una palese ammirazione.
“Mio buon prinsdreki, io sono solo un ragazzino di ketterdam. Non ho mica questo potere” aveva risposto divertito Jordan, “Inoltre, non è di nascosto: lo sto facendo qui, davanti a te” aveva aggiunto.
“Drina se il buon Ghafa si è bruciato un favore di notevole, solo per averti tutta per te, io lo terrei molto in considerazione” aveva chiosato con divertimento Dominic, arrendendosi.
“Lo faccio, grazie” aveva risposto con una punta di divertimento Drina. Ioren aveva parlato, rivolgendosi al principe, “Andiamo. Non vedo l’ora di sorbirmi te e Magnus che parlate per ore di quale ancora sia la migliore” aveva replicato il fjerdiano, “Ovviamente quella Ravkiana” aveva esplicitato Drina.
Dominic aveva comunque raccolto l’invito dell’uomo, decidendo di lasciare Jordie e la giovane per conto loro.
Drina li aveva osservati andare via, molleggiando, mentre chiacchieravano, ogni tanto Dominic si era voltato per osservarla, ma erano presto spariti tra le teste della stazione centrale. “Oh, guarda, il buon Kos” aveva commentato Jordan, riconoscendo l’Inferno, senza la sua kefta blu cobalto, coma nascosto in un cappotto marrone fango. Non da lui, ma abbastanza per passare inosservato al principe, con i capelli biondissimi, nascosti sotto un cappello a falda larga. “Cosa ne pensi di quel Fjerdiano?” aveva chiesto Drina, ammiccando a Ioren, “Un sacco di cose e non tutte piacevoli – per te” aveva risposto lui con calma, lanciandole uno sguardo piuttosto divertito. Lei aveva aggrottato le sopracciglia scure, “Pensavo fosse tuo amico” aveva considerato.
Jordan aveva annuito, “Sì, lo è. Probabilmente è uno dei miei migliori amici, ma come ho detto: io sono solo un ragazzo kerchiano, non sono il principe di Ravka” aveva replicato.
“Mi toccherà scrivere al Re per questo” aveva valutato Drina. Onestamente non era di alcun suo interessamento con chi uscisse o meno Dominik, era un ragazzo fatto e finito, un principe che aveva deciso di sua sponte di abbandonare le sicure stanze del palazzo, per attraversare il Vero Mare e stanziarsi in una città infernale come era Ketterdam, aveva tutto il diritto di farlo. Ma era comunque il fratello della sua più cara amica ed il figlio della Regina di Ravka e soprattutto di Nikolai.
“Non è cattivo. Posso rassicurarti di questo” aveva considerato con voce onesta e calma Jordan, “Immagino. Dominik può avere una vena drammatica, ma non si accompagnerebbe a nessuno che non sia una brava persona. Da questo punto di vista somiglia molto a suo padre” aveva detto con estrema calma.
“Interessante” aveva considerato Jordan, grattandosi sotto il mento; Drina era pronta a sentire il ragazzo tirare fuori dal suo taschino il ricordo delle avventure in redingote del re consorte di Ravka come corsaro, anche se era un segreto di stato seppellito perfettamente, ma Jordy Ghafa l’aveva stupita. “Quindi devo dedurre che la malen’kiy non si accompagni con brave persone” aveva detto.
Due sensazioni diverse e ben distinte avevano animato la mente di Drina, la prima era stata la sua leggerezza, così sciocca per uno zero, per essersi lasciata sfuggire una cosa così intima, come soldato, era dovere di Drina sempre e comunque difendere il suo paese, mentre l’altra era solo feroce. “Non chiamarla così” aveva detto solamente, infastidita. Il Piccolo Spettro. “Lei è la naslednik di Ravka. È una delle più potenti grisha del paese ed il futuro” aveva detto protettiva, forse lei e la principessa non condividevano più un guanciale quando dormivano e non erano più il riflesso dell’altra, ma era ancora sua amica.
Sarebbe stata per sempre sua amica per Drina, anche se la principessa l’avesse chiusa per sempre fuori dalla sua vita.
“Mi dispiace. Ho parlato a sproposito, mio padre dice che ho questo brutto vizio” aveva considerato con voce spento Jordan, “Non lo avrei mai detto” aveva considerato lei, ricordando come il ragazzo le fosse apparso sempre controllato, perfettamente a suo agio, in ogni situazione. “Sono contento, troverei insopportabile se non riuscissi più a stupire nessuno” aveva considerato con un accenno di divertimento. Drina aveva ridacchiato, “Sicuramente con l’anticipo delle date del convegno, hai fatto un ottimo lavoro. Non sono sicura di volerti chiedere cosa hai fatto” aveva ammesso lei.
“Quasi nulla. Non ho davvero dovuto chiedere nulla a nessuno, solo suggerire qualcosa a destra e sinistra” aveva ammesso calmo. “Chi sa perché immagino che anche tuo padre parli così” aveva considerato Drina, mentre osservava il ragazzo tirare fuori da una tasca interna del cappotto – una nuova – dei biglietti del treno, due. “Certamente no, mio padre gode nel raccontare le sue malefatte, una volta che ha avuto successo, così fa sentire la gente stupida. Inoltre, non utilizza quasi mai un artificio due volte, differentemente da me, ho pochi trucchi nella mia manica” aveva replicato calmo Jordie, “Sicuramente un sacco di tasche” aveva ridacchiato Drina. “Le tasche sono i migliori amici dei ragazzi dei barili” aveva stabilito, Jordan, mentre audacemente le infilava un braccio sotto il gomito, per guidarla verso i suoi binari.
“Sai di non esse davvero un ragazzo del barile, vero?” aveva chiesto retorica Drina, come lei d’altronde non era una vera contadinotta di Keramzin. Jordan aveva annuito, senza cattiveria, “Lo so. Sono nato alla Geldstraat. Ho frequentato le scuole buone ed il mio padrino è Wylan Van Eck” aveva sospirato, “Non ho mai provato, neanche per un giorno, della mia vita la fame. Ciò non toglie che una brutta reputazione aiuta sempre. Inoltre, non serve essere un ragazzo del barile per essere un ragazzo del barile. Ho fatto il mozzo sullo Spettro, sono stato gettato nello Stave almeno una mezza dozzina di volte ed una volta mi hanno anche rapito” aveva raccontato con un certo divertimento.
“Volevano ricattare tua madre, tuo padre o il tuo padrino?” aveva chiesto con un certo interesse Drina, osservando i cartelli, per le destinazioni.
I treni erano enormi mostruosità fumanti di bellezza notevole, chi sa se su quei marchingegni ci dovesse essere qualche grisha. “Gran parte della gente che frequento non ha idea di chi sia mio padre, e penso che se quegli uomini ne avessero avuto un vago pensiero, dubito che avrebbero osato rapirmi” aveva considerato Jordan calmo, “Comunque: Dominik! Era una trappola per Dominik” aveva esclamato, fermandosi ad una banchina.
“Ovviamente” aveva valutato Drina, “Un principe, fuori di casa fa gola. La Tzarina può essere anche la Drakon Koroleva, ma resta sempre una madre” aveva considerato Drina.
L’espressione sul viso di Jordan si era fatta tesa come la corda di una spada, un pensiero malevolo aveva mangiato la sua mente, ma non lo aveva voluto esplicitare. “Se stai pensando che la regina possa amare meno Dominik e Alina per qualche ragione astrusa come il loro essere Otkazat'sya. Ti ficco uno stivale in gola” aveva replicato subito Drina, mentre osservava la banchina dove si erano fermati, “Mia madre … anzi mio padre ha un’opinione troppo alta della Drakon Koroleva perché io potessi anche solo pensarlo” aveva ammesso candido Jordan, senza una sola traccia di incertezza, “Ritengo solo che sia stupido pensare di trattare la regina di ravka come fosse una semplice madre – nulla da togliere ad una madre, la mia farebbe il culo a chiunque – o come una donna normale. Controlla tre elementi e diventa un drago, la sua sola presenza può placare una guerra” aveva detto con estrema calma Jordan. Drina aveva annuito, “Pioverebbe fuoco su chiunque abbia mai osato toccare i suoi cuccioli” aveva ammessa Drina, ricordando cose che erano successe.
Certe storie non avevano mai passato la ristretta cerchia, ma erano eventi comunque avvenuti, Drina era quasi sconvolta non fossero finite scritte nel Libro delle Storie Mai Avvenute.
“E poi come è finita la questione del rapimento?” aveva chiesto lei con un certo interesse, “Oh semplice, mi sono liberato, ne ho messi fuori combattimento due, poi ha fatto irruzioni Kos e quasi tutto è andato in fiamme, letteralmente” aveva ridacchiato Jordan. “Erano in cinque, quattro di loro sono finiti nell’Anticamera dell’Inferno un po’ bruciacchiati e malconci, uno e scappato” aveva raccontato, “Dove è arrivato?” aveva chiesto Drina, sicura che non avesse dovuta fare molta strada, “Davanti al comune, gli mancavano sei dita, non chiedermi perché sei” aveva risposto sollevando le spalle.
Oh, forse perché il Sei è un riconducibile a tuo padre tanto quanto i corvi’ aveva pensato Drina, ma non lo aveva detto ad alta voce.
Forse Dominik poteva essere stato il bersaglio originale, ma i rapitori avevano preso il figlio di Manisporche. Ai ladri si tagliavano le mani, Kaz Brekker era stato più originale.
“La città che cercavi, comunque, si chiama Nijejem. Per raggiungerla dovremo tagliare per dritto l’intera isola e cambiare due treni. Ci impiegheremo circa sette ore, se saremo precisi al dettaglio” aveva spiegato Jordie con calma, “Il primo lo prendiamo qui, direzione Istfeell.”
Lei aveva annuito, “Il mio passato di cartografa si sta rivoltando nella tomba” aveva ridacchiato con estremo divertimento, ricordando i tempi che aveva passato le dita sporche di grafite per le mappe e la stadia sulle spalle per prendere le quote. Non era mai stata capace di segnare delle line isogonie che fossero venute bene. Sua madre era la cartografa e suo padre era l’esploratore, lei aveva altre doti.
La piccola scienza.
“Eppure, sei venuta qui per delle carte” aveva considerato Jordan, sollevando un sopracciglio, Drina aveva sorriso accomodante verso di lui, “Non devi scoprire presto tutte le tue carte, lo hai detto prima” lo aveva rimproverato con una punta di divertimento. “Sei riuscita a convincere il Bastardo del Barile a darti quello che volevi?” aveva chiesto poi, Drina aveva scosso il capo, facendo oscillare i capelli scuri. “Non ho niente da offrire che ne valga la pena” aveva risposto onesta la ragazza, aveva chiesto al Capitano Inej Ghafa di intercedere per lei, su quell’argomento. Il Re le aveva detto che se esisteva un punto debole nel Bastardo del Barile quello era la Spezza Catena.
“Prendi il cuore del suo unico bambino e poi lo usi come merce di scambio?” aveva chiesto retorico Jordie con estrema calma, “Pensi che basterebbe?” aveva scherzato Drina, posando il polpastrello dell’indice all’altezza dello sterno del ragazzo, appena sopra un bottone di corozo. “Ghezen, direi proprio di no!” aveva replicato subito Jordie, ma le sue gote erano diventate di un rosa pallido, per quel tocco. Non troppo intimo ma abbastanza, “Credo dovrai trovare qualcosa di egual valore per il bastardo” aveva spiegato.
Ovviamente, il problema era trovare il giusto prezzo, Drina era abbastanza sicura che al Bastardo del Barile quelle carte, retaggio di un vecchio lavoro, non fossero nulla di più di cartastraccia abbandonata in un ripostiglio, tenuta più per una dimenticanza, che per altro, senza alcun valore, almeno fino a che non era giunta lei, che era stata stupida.
Dopo aver trascinato il Capitano Ghafa nella faccenda, Drina aveva reso decisamente chiaro quanto volesse quelle carte, per tutta la vita le avevano detto che era sempre troppo diretta e non c’era menzogna in quello, era stata stupida.
Kaz Brekker poteva avere un cuore – senza tirare fuori morbidezza o altro – per Inej Ghafa, per suo figlio, forse anche per qualcun altro, ma sicuramente avrebbe lucrato su tutto ciò che poteva, non si diventava il Bastardo del Barile, il Re senza Corona, senza osservare bene tutte le possibilità. Si poteva concedere un favore ai reali di Ravka, per richiederlo in seguito, ma Drina non portava il sigillo di Ravka con se. La macchina roborante di fumo e fischi era arrivata sulla banchina, svegliando Drina dai suoi pensieri. Era stato sublime! I treni non erano così frequenti a Ravka, cominciavano a costruirle in quegli anni, preferendo le eleganti velesabbia e areonavi. “Che mostruosità” aveva esclamato ammirata Drina, Jordie al suo fianco aveva annuito.
Il panorama sfrecciava veloce, dietro il finestrino, Drina aveva sollevato la tenda per poter osservare lo scorrere, macchie indistinte di azzurro e verde; quasi non sembrava Kerch, avrebbe potuto essere qualsiasi luogo. Aveva osservato, con la coda dell’occhio, Jordan che aveva tolto il cappello, per posarlo sulle gambe, e la stava guardando.
“Che c’è?” aveva chiesto lei, curiosa. “I tuoi occhi …” aveva risposto il ragazzo, distogliendo lo sguardo, “I miei occhi?” aveva domandato lei, di riflesso.
“Niente, scusa” aveva considerato lui con un’espressione piuttosto strana sul viso, le gote leggermente arrossate, “Indovino, i miei occhi sembravano vivi” aveva scherzato con una certa insofferenza, perché era sempre quello. La gente lo diceva sempre, se non lo avesse espresso, lo avrebbe pensato comunque, che c’era qualcosa di storto in lei, che i suoi occhi avevano perso quella dolce allegrezza che l’aveva caratterizzata da bambina. Come se fosse possibile, per lei, recuperare quell’innocenza.
“Mi dispiace, ho realizzato che mentre lo dicevo che fosse una cosa ignorante” aveva replicato Jordan con espressione calma, “Posso dirti che sono bellissimi, però” aveva aggiunto.
Drina aveva ridacchiato, “E che sono blu come il mare del nord?” aveva chiesto retorica lei, “Come il rame arrugginito?” aveva proposto Jordie, “Tu hai l’animo di un poeta, Jordan Ghafa” aveva squittito Drina, allungando una mano sul tavolino lucido che gli divideva, aveva ticchettato le dita sul legno, incerta su quello che volesse fare.
Raggiungere la mano di Jordie?
“Lo diceva anche il mio professore di letteratura, ma credo non fosse onesto. Ho dovuto rifare l’esame due volte e sono sicuro di aver passato l’esame dopo una generosa donazione di Yuliana” aveva dichiarato in maniera scherzosa, aveva allungato una mano ed aveva sfiorato le dita di Drina.
“Ti piace il treno? Sei una materialki, dovresti adorare questo arnese” aveva considerato poi, cambiando brutalmente discorso, senza mai muovere la mano per allontanarsi. “Lo adoro” aveva confessato Drina con gentilezza, aveva spostato la mano libera, che portava mollemente sulla coscia, per raggiungere una parete, ricoperta da carta floreale, del treno e l’aveva posata, mille emozioni, come una tempesta, l’avevano invasa. Un sentimento brutale e bellissimo, “Sento ogni singolo bullone, ingranaggio e vite” aveva ammesso con voce dolce, quasi innamorata.
Perché era vero.
In un'altra occasione aveva potuto percepire una bestia simile, solo che quella aveva ingegneria grisha – e ne aveva potuto godersi così le sensazioni – ma questa era tutta opera degli abbandonati.
Tutta opera della grande scienza.
“1056 unità ed io le posso sentire, tutte, posso sentire ogni vibrazione che emettono, ogni passo che viene pestato su di esso, ogni cosa. Mi sento piena ed incredibilmente soddisfatta” aveva ammesso calma, innamorata quasi, spostando il busto, fino a raggiungere con la guancia, con l’orecchio, per posarlo sulla parete, sentendosi ancora più immersa.
“Questa bestia è pura gioia, vorrei poterla smontare pezzo per pezzo e portarla alla Palude” aveva dichiarato, con un sorriso ristorato sulle labbra. “Penso che potremmo farci un pensiero. Non ho ancora il potere di smontare un treno e farlo imbarcare per Ravka, ma magari un giorno avrò quel potere” aveva raccontato con un certo divertimento, facendo scivolare l’anulare della sua mano, sul mignolo di Drina, un brivido diverso da quello che le dava il treno l’aveva attraversata. “Vuoi diventare come tuo padre o come Wylan Van Eck?” aveva chiesto interessata: un signore della notte, con mani luride, o del pieno giorno, ben vestito, “Jasper Fahey” aveva risposto lui stupendola.
Drina aveva aggrottato le sopracciglia, “Devo ammettere che non credo di conoscerlo” aveva ammesso. Il nome era come un campanello, ma non riusciva davvero a dargli un volto, cosa che la rendeva infastidita, non possedeva l’arguzia di tante persone, ma trovava frustrante essere colta così di sprovvista. “Uhm … ci sono tante definizioni per Jasper, una è sicuramente: un mantenuto, l’altra è l’uomo che sconfitto la Parem” aveva dichiarato con voce divertita. “David Kostyk e Nabha hanno trovato l’antidoto” aveva difeso con il cuore la sua Ravka. David era stato un triunviro ed il più capace materialki dai tempi di Ilya Morozova – Drina avrebbe mentito se non avesse detto che aspirava anche a lei a raggiungere quella fama – ed era stato il marito di Genya Safin che dopo tutti quegli anni ancora lo piangeva. Ed anche Nabha, che al di là della sua piccola scienza si era dimostrato abile nella Grande. Drina avrebbe difeso i loro onori e gli onori di Ravka. Jordie le aveva sorriso, in maniera accondiscende, cosa che l’aveva vagamente irritata, “Sì, nessuno privi Ravka della sua gloria, ma Jasper Fahey, un ragazzo di campagna, ha spiegato l’uso anabolizzante del gambo di jurda” aveva spiegato con calma.
Drina aveva sentito un conato di vomito, immediatamente, sollevarsi immediatamente, la bile le era risalita lungo la gola e si era alzata subito, svelta, “Scusa devo andare in bagno” aveva detto immediatamente, manchevole in viso. Jordan aveva arricciato le dita, “Certo, sì” aveva sospirato, alzandosi, “Ti accompagno” aveva detto incerto.
Drina voleva rifiutare, ma non riusciva a trovare la forza di farlo, così si era fatta scortare nei gabinetti del treno. Era riuscita ad aprire un separé appena, prima di abbracciare un vaso e vomitarci dentro. Jordan aveva fatto un basso in dietro, colto alla sprovvista. Lei era rimasta muta, sentendo ancora il suo stomaco in subbuglio ed il disgusto sulla sua lingua, “Soffri il mal di movimento?” aveva chiesto Jordie con dolcezza, “Io soffrivo di mal di mare, ma un paio di mesi all’anno sullo Spettro mi hanno forzatamente curato. Il treno può rovesciare uno stomaco” aveva spiegato subito quello, posandole una mano sulla schiena.
No, non era quello, ma non poteva dire cosa fosse.
“Forse ho ascoltato troppo, ogni tanto succede” aveva dichiarato lei, con voce pastosa, “Ho bisogno di acqua” aveva detto poi.
Sentiva il sapore del gambo sulla lingua.

 

Avevano parlato di altro, avevano anche dormito. C’era stato un cambio in una cittadella un po’ più ridente di Kerch, con una stazione a tre binari. Si erano dovuti riparare sotto una banchina per nascondersi dalla pioggia. “In questo paese il clima fa schifo e sono di Ravka, fa un freddo da vampiro” aveva commentato Drina, guardando l’acqua che fluiva nella canaletta e scendeva come una cascata verso le rotaie. “Sono stato a Ravka un paio di volte, ma mia madre non mi faceva mai allontanare troppo dalla nave, solo una volta mi ha portato all’interno di un palazzo principesco ad Os Kervo, ho conosciuto Dominik quella volta” aveva raccontato, “E ovviamente quella volta a Keramzin” aveva ricordato.
“Un posto piccolo, ma accogliente” aveva risposto tetra lei, aveva preferito di gran lungo il suo tempo al Piccolo Palazzo, ma prima di raggiungere Kerch, era tornata a casa per un po’, per avere del conforto, per farsi viziare.
Sua madre era stata così felice della sua presenza, che per giorni aveva fatto preparare tutti i suoi piatti preferiti, le aveva spazzolato i capelli e si era stesa con lei sui divani ascoltandola parlare e raccontandole storie. Drina ne aveva amato ogni momento, sapeva di essersi rinchiusa nell’orfanotrofio per fuggire dalla principessa e dai Nolnick, ma era stato bello.
Meno, con suo padre.
Drina amava suo padre, a volte supponeva anche più di quanto facesse con suo padre; era corsa da lui quando per la prima volta aveva piegato innaturalmente un ramoscello spezzato che aveva raccolto dal Parco Errante e ricordava lo sguardo che si era manifestato nei suoi occhi, non era rabbia, non era disgusto, era dolore. Suo padre aveva inghiottito il suo dolore e l’aveva poi stretta in un abbraccio rassicurandola che sarebbe andato tutto bene, sapeva che lui avrebbe voluto che mancasse la chiamata della Signorina Velensky, ma lei non aveva potuto. “Inoltre, il Piccolo Palazzo può avere la cucina più buona di tutto il continente, ma posso rassicurarti che le aringhe sotto-sale di mia madre sono leggendarie” aveva raccontato con una certa dolcezza. “Niente è come la cucina di casa propria. Quando torniamo a Kerch ti porto allo Zhenjia, è vicino al Silver Six, a mangiare, mia nonna gestisce la cucina” aveva spiegato subito.
“Tuo padre ha una madre?” aveva chiesto sconvolta, “Ghezen, no. Mio padre è un bastardello strisciato fuori dai vicoli bui del barile, Ketterdam è sua madre. La mia baka[2] è la madre di mia madre” aveva spiegato, “Dopo aver raggiunto Kerch, hanno deciso di rimanere; mia madre è una girovaga ma trova sempre la sua strada” aveva spiegato con calma, “Sono informazioni fin troppo confidenziali, Jordie” lo aveva rimproverato bonariamente lei.
Se sua nonna lavorava vicino al Silver Six era probabilmente in una botta di ferro, protetta da niente di meno che Kaz Brekker, ma era ancora la madre dello Spettro della Vendetta e la quasi-cognata del Signore del Barile, una persona che poteva essere sfruttata ed usata.
“Comunque, verrei volentieri a pranzo dalla tua … baka” aveva ammesso, ricordando la parola che aveva utilizzato, era suli, al Piccolo Palazzo ne aveva sentito un po’ di quella lingua, la stessa principessa aveva voluto impararla, per le sue origini, che per tutta la vita la regina Zoya aveva rimpianto di non aver abbracciato in pieno. Jordan le aveva sorriso, “La vera mission a quel punto sarà tenere Dominic lontano da noi” aveva considerato, “Credo sia molto protettivo nei tuoi confronti.”
“Tranquilla, Dominik non apprezza la cucina speziata, ha la lingua di un gattino”  aveva risposto Jordan senza battere ciglio, “Ti prego non dirlo più così, metà della servitù dell’ambasciata è convinta che voi dividiate il guanciale la notte” aveva raccontato divertita, ricordando le cameriere che ne avevano squittito un sacco, la mattina stessa in cui il giovane principe si era presentato a colazione con il giovane Jordan, prima del suo incontro a casa Van Eck con la Principessa della Jurda.
Jordan aveva sollevato le sopracciglia scura, con gli occhi luccicanti, “Potrebbe essere successo una volta o due” aveva risposto serafico.
Drina aveva schiuso le labbra, “Non è vero” aveva esclamato, “Non puoi saperlo” aveva replicato subito Jordie, con un sorriso ironico sul viso.
Per Nijejem avevano preso un altro treno, c’era voluta un’ora in più di quanto era stato preventivato da Jordan, forse era stata colpa della pioggia. Il treno che avevano preso era stato molto meno imponente del precedente e molto più malandato, probabilmente utilizzato per le corse secondarie. Non aveva carta da parati al suo interno, i tavolini erano dozzinali e la pelle dei sedili era sbucciata, però avevano servito loro del tè verde, era rimasta piacevolmente sorpresa quando aveva tirato su un coperchio di ceramica da una zuccheriera e dentro aveva trovato davvero la sostanza invece che della jurda. Drina ne era contenta, trovava lo zucchero decisamente più piacevole, era dolce, non era un eccitante, ma lo zucchero la tirava volentieri su.
“Ti va di parlarmi di questa amica che andrai a trovare?” aveva chiesto Jordie, mentre sollevava il filtro di ferro pieno di foglie ormai zuppe, per aver raggiunto il punto di infusione che desiderava.
Drina aveva saputo che sarebbe arrivata quella domanda, era stupita che non fosse arrivata tempo prima, all’inizio del viaggio.
Si morde un labbro, “Cosa vuoi sapere?” aveva chiesto.
“Come è che sei amica di una kerchiana di un paesino come Nijejem? Un paesino quasi dimenticato da Ghezen che sopravvive con la pesca di granchi?” aveva chiesto retorico.
Drina doveva aspettarsi quella domanda, alla fine dei conti, l’aveva aspettata dall’inizio di quel lungo viaggiare. “Ah, quindi, così è la cittadina? La mia amica aveva sempre detto fosse piccola” aveva considerato.
Piccola, morente e senza alcun futuro” aveva detto lei.
Jordie non aveva distolto lo sguardo, non convinto della sua manovra, “Diciamo che il tempo chiusa nelle pareti del Piccolo Palazzo mi hanno reso gustosa al girovagare, come ricorderai” aveva mentito, almeno in una piccola parte.
Aveva conosciuto Jordie, quando aveva pagato un passaggio sulla Nave di sua madre, aveva scelto proprio lei, dalle vele quadrate, su cui spiccava maestosa la catena spezzata dello Spettro, suo padre aveva sempre parlato bene della donna.
Jordie era lì, sul ponte che puliva il legno con un mocio come l’ultimo dei mozzi anziché il figlio del suo capitano.
Inej Ghafa aveva conosciuto suo padre, Drina poteva immaginare quando, prima ancora che cominciassero a lavorare insieme per l’accoglienza dei bambini schiavi. Non aveva neanche avuto bisogno che lei si presentasse quando l’aveva scorsa sulla banchina, che aspettava davanti al ponte, aveva tirato giù il cappuccio per mostrare il viso. “Sei la figlia di Schevic, vero?” aveva chiesto la leggendaria Capitana.
“E come me, anche lei era un po’ giramondo. Una ragazzina di un paese senza futuro” aveva dichiarato, “Vi siete conosciute a Ketterdam?” aveva chiesto Jordan, Drina aveva annuito, perché era una storia plausibile. “No, mi stai mentendo” aveva considerato il giovane Ghafa, passandosi il polpastrello del pollice sul mento appuntito. Drina aveva chiuso le dita sui braccioli, colta in fallo, “Può darsi” aveva ammesso alla fine.
Jordie aveva chinato il capo, poi aveva sorriso, non c’era troppo calore, più mestizia, “Se non vuoi dirmi la verità va bene” le aveva detto il ragazzo, stupendola, prima di continuare: “Voglio solo sapere se rischierai di farci sparare addosso.”
Drina aveva mosso il capo, in un segno di accettazione, “Spero di gran lunga di no, non dovrebbe essere così, ma con me non si può mai sapere. Una volta sono uscita per comprare dei pandolci e mi hanno sparato con un fucile” aveva spiegato, con una risata fresca, voleva essere una battuta, ma era anche la verità.
“E sei sopravvissuta” aveva considerato Jordan, ammirato, “I proiettili non sono riusciti a toccarmi” aveva replicato lei, facendo muovere le dita della mano destra come se stessero mimando un’onda, l’attimo dopo un bottone di corozo del polsino della camicia di Jordie finisse sul tavolino. “So che esistono alcuni materialki particolarmente capaci in materia. Conosco un durast che può controllare i proiettili” aveva raccontato, “Notevole, devo riconoscere” aveva considerato Drina, riflettendoci. I proiettili erano piccoli, erano veloci ed erano sfuggenti, riuscire ad agganciarne uno richiedeva grandissima concentrazione, “Io non sono così capace, diciamo che fermarli prima che ti colpiscano è più facile. La paura fa tutto, ma anche lì, bisogna essere più che ecclettici” aveva ridacchiato lei, “I pallini sono rapidi, riuscire a trovarli nel marasma di cose che compongono il mondo non è facile. Concentrarmi sul tuo bottone, che è lì, davanti a me, è molto, molto, più facile” aveva spiegato Drina, facendo ticchettare le unghie sul tavolino, il bottone si era tirato su, rimanendo in equilibrio prima di cominciare a roteare, spinto da lei stessa, prima di cadere di nuovo sul legno.
“Mi sarebbe piaciuto essere un materialki, sai? Mi piace smontare le cose” aveva confessato lui. Drina aveva sorriso divertita, ricordandolo quando da ragazzino lo aveva sempre visto trafficare in plancia sulla nave di suo padre, “A che età hai smontato la tua prima cassaforte?” aveva chiesto Drina, “Nove anni” aveva risposto divertito Jordie, “Mio padre aveva nascosto lì il mio regalo” aveva raccontato con estremo divertimento, “Se te lo stessi chiedendo era la proprietà di un appezzamento di terrà nel sud di Kerch, a Venfall; barbabietole da zucchero – vanno sempre” aveva spiegato con una punta di divertimento,  “Un regalo piuttosto pittoresco” aveva considerato Drina, “A mio padre è sempre piaciuto fare cose imprevedibili” aveva rivelato piuttosto soddisfatto.
“Avete un buon rapporto?” aveva chiesto Drina, pensando a suo padre, al suo amorevole padre abbandonato, con il fucile sempre in spalla e lo sguardo rivolto all’orizzonte perso, di un uomo che sempre, per qualche ragione considerava se stesso incompleto. “Probabilmente migliore di molti altri” aveva ammesso Jordan, dopo un lungo secondo di riflessione, Drina sospettava pensasse a Wylan Van Eck che leggenda voleva avesse fatto chiudere suo padre nella cella più lurida dell’Anticamera dell’Inferno. “Non ha mai voluto che avessi il suo cognome” aveva commentato Jordie, il suo tono sembrava distratto: “Sono stato Jordan Van Eck, Jordan Rietvald, Jordan Vattela-a-pesca, prima di essere Jordan Ghafa, ma mio padre non ha voluto mai che prendessi il suo cognome” aveva detto Jordan con una punta di tristezza.
“Credo volesse proteggerti, no?” aveva chiesto retorica Drina, “Avrebbe senso, se non avessi il cognome di mia madre. Ed una donna che ha mandato in rovina commerci e famigli per tutto il Mare Vero, difficilmente ha meno nemici di mio padre” aveva ricordato con una punta di acidità[3].
“Glielo hai chiesto?” aveva chiesto Drina con una punta di innocenza, lei lo aveva chiesto a suo padre, capiva le ragioni di sua madre, ma dell’uomo molto meno.
Quello aveva scosso il capo ed aveva detto che volevano un ‘nuovo inizio’ e Drina ne era parte. Le piaceva essere Drina Rosen, più di quanto le era piaciuto essere qualsiasi altra persona.
Drina Orezstev, Drina Starkov, Drina Moronzova.
‘Puoi farti chiamare come più di aggrada, ma questo non cambierà mai cosa sei’ le era stato detto una volta.
Jordie aveva sollevato le spalle, “A Kaz Brekker piace spiegare le cose solo quando ne può trarre un piacere o un profitto” aveva ammesso il ragazzo, “Non fraintendermi, Drina. Io non sono arrabbiato: io amo mio padre; solo che non è facile avere a che fare con un uomo così, un uomo che parla la violenza più della gentilezza e che … a molta più difficoltà di me nel farlo” aveva cercato di spiegarle.
Lei aveva annuito, “Comprendo a pieno” aveva ammesso alla fine: “Mia madre è la donna con più empatia del mondo, mentre mio padre, be, spesso si comporta come se nessuno lo capisse mai e che sulle sue spalle ci fosse stato il peso del mondo” aveva raccontato; la cosa era piuttosto ironica se ci pensava.
E non mi ha mai perdonato l’essere grisha, ma non lo aveva detto.
Jordie le aveva sorriso, quasi rincuorato.
“A Ravka di mestiere interrogavi le persone, sei brava a scucire informazioni” le aveva detto poi il ragazzo, “No, per nulla. Lo fanno due miei amici, loro fidati sono davvero, davvero bravi” aveva detto serafica, “Quando ero un soldato scelto della principessa, mi limitavo a proteggerla” aveva spiegato poi, ma non solo, era una confidente ed un’amica.
Aveva sospirato, decidendo di non dire a Jordan che era una nolnik per quanto fosse abbastanza sicura del fatto che il kerchiano sapeva perfettamente tutto di lei ed il suo lavoro. Circa, Drina non era ufficialmente in missione.
La stazione di Nijejem era composta da un capannone di dimensione modestissime, dove erano sistemate panche su cui gli avventori potevano aspettare, per il resto c’erano due binari e neanche una pensilina. Un posto piuttosto suggestivo, ma odorava di acqua e sale, un miasma per il naso di Drina.
“Come dicevo questo paese sopravvive di pesca di granchi ed estrazione di sale dal mare” aveva ripreso a parlare Jordie, mentre osservava il sole sparire verso l’entro-terra. “So che l’estate ha un po’ più di vita balneare, ma ora è autunno” aveva considerato.
Si sentiva, a parlare di Drina, l’autunno di Ravka era freddo in tsiberia, più temperato a Keramzin, ma lì, in quel buco dimenticato da dio, anche l’autunno era bagnato.
“Forse ci conviene andare dalla tua amica ora, se può ospitarci, o trovare una pensione, se ne esiste una in questo posto dimenticato da Ghezen” aveva sospirato Jordan, “Direi che Ghezen non dimentica mai nulla, qui” aveva ghignato Drina, infilando una mano nella sua tracolla, per cercare il vecchio quaderno degli appunti, dai fogli ormai gialli, “Sei fortunato comunque, Jordie” lo aveva richiamato, “Perché i due posti coincidono” aveva rivelato, trovando l’appunto che aveva sognato con inchiostro – un po’ sbavato – all’angolo di una pagina.
“Mi piacciono i caratteri Ravkiani, hanno qualcosa di intrigante” aveva rivelato Jordie, “Io trovo pittoresco che da Kerch al Sol Calante, scriviate tutti con lo stesso sistema, nonostante le diverse lingue” aveva scherzato Drina.
Shu-Han, Ravka e Fjerda appartenevano allo stesso continente, ma avevano tre grafemi terribilmente diversi.
Avevano preso l’ultima fortunata corsa di una corriera a due cavalli. Non c’era molta gente in autunno che arrivava lì, perciò non c’erano poi molti viaggi, che riunivano la stazione alla cittadina, la distanza era breve, forse un’ora e qualcosa di camminata lungo il sentiero, ma con il calar la sera per due estranei era meglio di no. Nonostante lei e Jordan sapessero difendersi era meglio non attirare troppo l’attenzione.
L’Emporio di Cait è un bel posto. L’unico posto che non è una catapecchia qui” stava urlando il valletto da sopra il due-cavalli; Drina aveva sentito un tremore nel sentire quel nome. “Dovevate vedere come era bello questo posto quando ero giovane, pieno di vita, potevamo far gola anche a Ketterdam” si era pavoneggiato l’uomo. Era vecchio e canuto, con la pelle calante e morbida come la pasta frolla, gli occhi liquidi e iridi grandi come biglie. Drina aveva dei dubbi che potesse essere così, Ketterdam era una bestia che esisteva da almeno due secoli, che divorava qualsiasi cosa, ben prima che Nijejem fosse qualsiasi altra cosa.
Il due-cavalli aveva fermato davanti L’Emporio di Cait e Jordan aveva pagato, tre kruge, non aveva lasciato a Drina nessuna possibilità. “Pagherai la stanza” si era giustificato, con un sorriso bello storto e divertito sul viso, che era piaciuta un sacco a Drina.
Poi erano entrati ne L’Emporio, accolti da una grande stanza piena di cianfrusaglie, di ogni tipo, tra cui barattoli di sale ed altro cibo sotto-sale, olio e aceto. C’era anche una scala, a sinistra di un vecchio bancone. Il loro ingresso era stato accolto dal suono di un campanello sulla porta. Una donna dall’aspetto pasciuto, con i capelli grigi-lanosi, semi nascosti da un fazzolo, si era ridestata.
“Nonna!” lo aveva chiamato un ragazzo, era giovane, dell’età di Jordan e Dominik forse. Un ragazzino dal viso bianco, quasi tendente al grigio, con occhiaie viola, dietro occhi blu spento, aveva capelli biondi e sottili. E Drina aveva avuto un mancamento nel guardarlo. Doveva essere il piccolo Pyp.
Ho conosciuto i suoi fratelli, il più piccolo si chiama Pyp. Il maggiore Anton ha pianto tutto il tempo.
“Noi … vogliamo una stanza” aveva parlato alla fine Drina, recuperando il fiato, certa che il tono della sua voce doveva essere pregno di patetismo, guadagnando un’occhiata sospettosa dalla signora, una coppia, composta da un ragazzo suli e una donna ravkiana, in un paesello morto fuori stagione a Kerch.
“Quella è … il Capitano Ghafa” aveva detto Jordan, mettendo un’espressione di bronzo, davanti ad un disegno piuttosto ben fatto di sua madre, era incorniciato ed appeso ad una parete, da cui erano state sgomberate chincaglierie, una fiamma di lanterna sotto ad illuminarlo perché si vedesse anche nel buio.
“L’unica Santa che si prega qui” aveva risposto chiara l’anziana.
A nessuno importava dei pescatori di granchi di Nijejem, solo ad Inej Ghafa.
Jordie aveva sorriso accomodante, ristorato da quel commento, mentre Drina aveva avanzato a passi incerti, all’ora aveva visto sul bancone il quadretto con il viso di una ragazzina.
Lo aveva preso, “Ei che fai!” aveva abbaiato la donna, quasi rabbiosa, prova a sottrarlo dalle sue mani, ma Drina veloce era scivolata via dalla presa, “Cait” aveva detto solamente, con lo stesso tono impegnato di una promessa, di una preghiera, “Sono qui per rendere i miei omaggi a Cait.”
 
 
 
 
 


[1] Sebbene, come detto, Fjerda è la Finlandia e non la Scandinavia, ho scelto per i signori di Wanderfall nomi “vichinghi” per nessun particolare motivo se non che mi piacciono (e perché sono a nord). Tecnicamente anche la dama di compagnia di Nina/Mila ha un nome danese: Stiorra.

[2] Nonna in Bosniaco

[3] Probabilmente un giorno Kaz gli spiegherà che gli aveva dato davvero il suo cognome.

Notes:

Forse sono un po’ in giusta con Kaz, ma non lo vedo un personaggio super tranquillo ad esprimere i suoi sentimenti, per ulteriori approfondimenti c’è la mia ff JORDAN che parla di questo (probabilmente ne uscirà in futuro fuori una con Mal e Drina, probabilmente).

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Capitolo 16
*** Mattias II (40 D.F.) ***


Non ho finito di scrivere il capitolo che mi ero ripromessa, comunque, visto che ho finito le mie non-vacanze e domani ricomincio a lavorare ho pensato di aggiornare.
Detto questo: mi sono divertita a scrivere questo capitolo da un punto di vista di ambientazione, meno da un punto di vista di dialoghi e relazioni tra personaggi.
Comunque, un po’ di informazioni random sulle questioni del 40.

 

MATTHIAS

(40 anni dalla Distruzione della Faglia)

“Sei sicuro, amore mio?” aveva chiesto con dolcezza sua madre, accomodata su un bello sgabello, con un cuscino di velluto rosso. Aveva una mano una spazzola con l’impugnatura d’avorio con cui passava sui bellissimi capelli biondo-argento, lisci e sciolti fino alla vita.
Matthias era seduto sul bordo del suo letto, con espressione affranta, gli occhi sulla punta dei suoi stivali ben lucidati ed ogni tanto alzava con coraggio gli occhi alla terza persona nella stanza: Genya Safin.
La terribile rovina di Ravka. Alta, flessuosa, ancora giovane nonostante i cinquanta ed oltre d’età, con i capelli rossi come fuoco vivo e la kefta della medesima sfumatura, ben allacciata e con decori blu, il triunviro e la più dotata Taylor del mondo, probabilmente… forse, dopo suo padre[1]. Era così impressionante e gloriosa che a malapena Matthias aveva notato le cicatrici la prima volta che l’aveva vista, quando era sceso giù dalla carrozza nell’ingresso trionfale del Gran Palazzo. Dopo averla vista da vicino, era rimasta sconcertato da quei rovinosi segni, che avevano distrutto la pelle, scavato la carne, fino alle ossa e si era chiesto quanto potere, quanta resistenza fosse necessaria ad una persona per sopravvivere a quello ed essere ancora così incredibilmente gloriosi.
“Sì” aveva ammesso Matthias dopo un lungo sospiro, avendo coraggio di guardare sua madre, c’era una nota di tristezza sul viso di sua madre.
“A casa non potrò mai permettermi di farlo” le aveva detto, “Puoi e saresti anche molto più sicuro” aveva parlato sua madre, alzandosi dalla seduta, “Senza offesa Genya” aveva detto. “Mai potrei, Ni-Mila” aveva risposto con confidenza il triunviro, “Ho deciso” aveva rinforzato Matthias, anche se fosse stato per un solo momento, “Voglio vedere la mia faccia”.
Si era toccato uno zigomo.
Sua madre aveva annuito, mordendosi un labbro, ma facendosi da parte, Genya elegante e spigliata aveva superato a gran falcate la distanza che li divideva e si era accomodata con lui sul letto, posando non lontano la sua cassetta-delle-meraviglie. Una scatola di legno, smaltato in nero, con decori rosso fiammante, che aveva aperto. Diversa da quella di suo padre, semplice, poco appariscente.
Così vicina, Matthias poteva vedere i segni del suo martirio e la bellezza feroce che si nascondeva dietro il suo tormento.
“Mi hai detto che hai trovato un tailor di fiducia, vero?” aveva chiesto Genya, rivolgendosi a sua madre. Quando erano solo non la chiamava mai con epiteti reali, così come non lo faceva mai con la Regina Zoya, la sua stessa regina.
Sua madre aveva annuito. Matthias non brillava di intelligenza, ma era abbastanza sveglio da aver capito che la verità che sua madre aveva raccontato era ancora intessuta di parecchie omissioni, aveva una storia con Ravka, una storia profonda, immaginava che Genya Safin per prima le avesse cucito quel suo bel viso da signora delle nevi, ma Matthias realizzava che sua madre le teneva dei segreti.
Nessun misterioso Tailor di fiducia, solo suo padre: il re di Fjerda, un grisha[2].

Genya aveva messo le mani sulle sue guance, era la prima volta che una donna che non fosse della sua famiglia o Stiorra, era così in confidenza con lui, era avvampato di imbarazzo, ma Genya non si era fatta distrarre. “Oh, Mila, vedo un po’ più di cuciture di quanto dovrei” aveva considerato la Sarta, mordendosi un labbro.
Sua madre aveva ridacchiato, con voce fin troppo in falsetto, “Lo sai Genya ho geni forti” si era giustificata. La Sarta pensava che le modificazioni che Matthias avesse subito dovessero essere per sostituire quelle parti di sua madre che erano troppo vere.
Si era chiesto come dovesse essere veramente la sua genitrice: era sempre bionda? Sempre così aguzza? Con gli occhi così azzurri da sembrare uno specchio?
Ma in Matthias c’era di più. Ed aveva vissuto così tanti anni sulla terra, ignorando di aver indossato il viso di qualcun altro.
Un tocco sulla porta aveva fermato Genya.
“Sua altezza, la Tret'ya
tsarevich, Alina Zoyaevna Nazialensky” aveva enunciato l’uomo dall’altra parte della porta, era fjerdiano, ma aveva utilizzato la titolatura ravkiana.
La porta si era aperta ed impertinente e feroce il Frutto dell’Autunno era entrato nella stanza, con la redingote azzurro ravka ed i capelli castani stretti in una coda cavallina. Chiunque avesse detto che la Regina Drago fosse la donna più bella del mondo, non aveva mentito, e i suoi figli erano le sue tre gemme. Alina non possedeva la letale e magnifica presenza di sua madre, ma era lucente ugualmente.
Matthias non era riuscito a sovrapporre l’immagine di una giovane ragazza, con occhi blu vibrante e la fierezza nel portamento, con quello della ragazzina bisbetica che rideva di lui quando erano bambini sul lago ghiacciato.

“Oh, Genya!” aveva detto Alina, vedendo la triunviro con le mani sul suo viso, “Alina dovresti imparare a chiedere appuntamento” l’aveva rimproverata, “lo so che non sei abituata, ma la regina Mila ed il principe Matthias sono tuoi eguali” le aveva specificato.
Lui non era affatto d’accordo, con quell’affermazione, gli stessi pensieri che aveva avuto sulla nave volante aveva ripreso controllo della sua mente per vederla.
“Perdonatemi!” aveva detto piena di imbarazzo Alina, con le guance rosse come mele, prima chinandosi rispettosa a Mila e poi anche a lui, che si era tirato subito in piedi ed aveva fatto anche lui un inchino piuttosto rigido.
“Era mio interesse invitare il principe ad un esercitazione di Tiro-al-piattello, sulle sponde del lago, dietro il Piccolo Palazzo” aveva detto rigida Alina, lanciando poi uno sguardo a Genya, in cerca di sostegno. Le labbra rosse del triunviro si erano aperte in un sorriso soddisfatto. Matthias si era chiesto quanta pressione avessero fatto sulla principessa per sedurlo, sua madre non aveva detto nulla in questione, ma immaginava fosse sottointeso, sua madre adorava la regina di Ravka, suo padre, prima di partire, gli aveva messo le mani sulle spalle e non aveva detto niente su quello.
Con che diritto potrei chiederti qualcosa?’ aveva detto solamente alla fine.

Alina era un’ottima partita: era la principessa di Ravka, sua madre era Senje Zoya, aveva legami con i grisha ma non lo era – perciò anche lo zoccolo duro dell’aristocrazia conservativa l’avrebbe vista meglio – e aveva sangue fjerdiano, tramite suo padre aveva il sangue degli Opjer, che poteva non essere particolarmente nobile ma era ricco, ma anche il sangue dei Grimjor, da sua nonna Tatiana, la regina esiliata e parete della famiglia reale di Fjerda.
Probabilmente Alina aveva più diritti di lui al trono di Fjerda.
“Sarei onorato, moya tsarevich” aveva detto Matthias, incerto con quella titolatura, Alina aveva sorriso, “Perfetto andiamo” aveva dichiarato, con più innocenza ed infantilismo.
“Moya Tsarevich” aveva parlato sua madre, avvicinandosi ad Alina, era più bassa della giovane principessa, ma con la Corona di Ghiaccio, con le punte dritte come spade, alte, sembrava tremendamente più ingombrante. “Mi è noto come Ravka sia più … affrancata per talune questioni, ma Fjerda ha delle regole di comportamento” aveva cinguettato. Alina aveva avuto un momento di panico, visibile sul viso, prima di riprendersi, “Oh, giusto, disdicevole per un ragazzo ed una ragazza essere da soli, sì!” aveva ricordato, prima di allontanarsi veloce dalla stanza, non dando a sua madre il tempo di proporre Stiorra – che così avrebbe potuto essere il suo fido sguardo. “Ragazzina vivace” aveva valutato sua madre, ammiccando a Genya, “Assolutamente. La figlia di Nikolai” aveva giustificato la cosa la signora dei grisha, “La figlia di Zoya vorrai dire” aveva scherzato la regina di Fjerda strizzando l’occhio alla sua amica.
Sua madre si era rivolta, poi, verso di lui, “Matthias, vorrei che tu indossassi la corona principesca. Qui” aveva detto seria, ricordando la conversazione che avevano avuto in viaggio.
Alina non aveva indossato il copricapo regale, ma era il suo regno quello in cui erano, e lei non era la figlia di una pescivendola elevata al grado di Regina. Matthias aveva annuito, raccogliendo la corona dal pettinatoio di sua madre, lei stessa l’aveva tirata fuori quella mattina. Era un anello di ferro, come quella di sua madre ma senza le spade puntute, aveva però dei ghirigori runici che si intarsiavano nell’anello.
Wanden olstrum end kendesorum. Isen ne bejstrum; l'acqua ascolta e comprende. Il ghiaccio non perdona.
Al centro, la testa di profilo di un lupo dominava la corona.

Alina era riapparsa nuovamente nella stanza, teneva per mano una giovane donna, leggermente più matura di lei in volto, forse coetanea di Matthias, ma ben più minuta in stazza. “Oh, ‘Lissa! Dovevo aspettarmelo!” aveva detto Genya senza stupirsi. La tale Lissa era avvampata di imbarazzo, prima di offrirsi in una generosa riverenza a sua madre a Matthias; lui l’aveva guardata, era una ragazza carina, con un viso tondeggiante, con le guance rosa, gli occhi nocciola, aveva capelli biondo ramato, raccolti in due trecce parallele alla testa, più fjerdiane che ravkiane.
Era carina.
Molto carina.
Era stato il primo atavico pensiero di Matthias. “Vasilissa sarà la nostra guardia, così che non ci siano rischi che io insedi il giovane principe ereditario di Fjerda” aveva scherzato Alina, guadagnandosi un pizzicotto da Genya Safin.
“Comportati bene” l’aveva rimproverata con gentilezza, facendo arrossire di imbarazzo la sua principessa.

Vasilissa li aveva seguiti, restando diversi passi indietro, Matthias l’aveva spiata un paio di volte, notando che sfoggiava una camicia di cotone grezzo e con una lunga gonna dalla coda alta, di un bianco panna, con alcuni decori dorati. Ci aveva messo un po’ a notare che non era l’unica persona ad indossare quel colore così fulgente, “Lei è la tua cameriera?” aveva chiesto alla fine ad Alina.
“Di nome sì, ma solo per poco tempo ancora, presto Lissa sarà la mia Dama di compagnia. Non che importi, siam cresciute insieme, non c’erano molti bambini della mia età a palazzo o, meglio, sì, c’erano i bambini grisha a cui non piacevo e i figli dei nobili che non piacevano a me” aveva risposto senza vergogna la principessa. Era strano, perché Matthias la ricordava come una bambina dalla risata fragorosa ed avventuriera ed onestamente non capiva come non potesse essere cercata da una schiera di bambini adorabili, comprendeva perché non piacesse a lui: troppo diretta, troppo schietta ed avventurosa.
“Condivido” aveva ammesso Matthias, “Pare che io abbia ereditato la stessa attitudine della solitudine a mio padre dell’infanzia.”
L’ennesima menzogna della sua vita. Suo padre non era mai stata un’anima indolente, ma il defunto – e poco compianto – Rasmos Grimjor era costretto spesso alla solitudine, nella sua infanzia, per la sua costituzione debole, Matthias non aveva la più pallida idea se ne fosse felice o meno, non aveva mai parlato con i suoi genitori del principe dopo la scoperta dei suoi genitori, mentre in precedenza, suo padre aveva mentito dicendo che quando aveva cominciato a stare meglio, aveva cominciato ad apprezzare la vita conviviale. A Matthias non piaceva stare in mezzo alla gente, da prima della scoperta, e poi era stato solo peggio.
Negli ultimi tempi, Stiorra era stata la sua unica compagnia.
Alina aveva sorriso, ben gentile, “Il bellissimo principe di Fjerda non è sempre in compagnia di una schiera di fanciulle innamorate?” aveva replicato Alina.
“Quello sì, ma Stiorra – la dama della Camera di mia madre – tiene tutti lontano, con i suoi ferri da maglia” aveva scherzato lui, con le gote leggermente arrosate al pensiero di essere stato definito così. Non aveva fatto un commento di sorta.
“Adesso attraverseremo il parco ed andremo nel Piccolo Palazzo, probabilmente avrai gli occhi di tutti i grisha addosso” lo aveva avvertito la principessa.
“Mi capita spesso” l’aveva rincuorata, “Anche alla Corte di Ghiaccio, ora abbiamo una sezione per i grisha. Proprio vicino ai druskelle” aveva raccontato. Camere ed ambienti che erano a lui preclusi, nonostante il suo sangue. Aveva sempre avuto il timore, il terrore, se qualcuno lo avesse scoperto, ben prima di sapere tutto il resto.
Sua madre le aveva baciato le dita, quando aveva nove anni e gli aveva detto che era meglio così, per quanto ingiusto, che Fjerda si stava schiudendo al domani, ma non era ancora pronto ad un principe come lui.
A volte, di nascosto, cercava di raggiungere quel potere, quando lo usava, anche se poco, si sentiva meglio, non faceva niente di eccezionale, niente di troppo rischioso, per lo più ascoltava i battiti dei cuori, rallentava le palpitazioni di Stiorra quando si agitava.
In quel momento aveva chiuso, sentendo il cuore calmo di Alina battere ed anche quello di Lissa molto più agitato, preoccupata di qualcosa.
“Nemici mortali costretti a dividere i bagni, sembra interessante” aveva cinguettato la principessa, “Sì, una volta, Maestro Gustav ha fatto esplodere le fogne della sua ala solo per infastidire Dirkan. Giorno magistrale, mio padre è andato di persona a rimproverarli” aveva raccontato, ricordando la vergogna che si era manifestata sulle guance dei due grossi uomini, ripresi come ragazzini.

Alina lo aveva condotta attraverso il parco, ma a metà della sua camminata si era fermata, “Mio buon-fratello” aveva detto chiamando qualcuno, che veniva nella direzione opposta alla sua.
Matthias ci aveva messo un secondo di troppo nel riconoscerlo, occhi ambra, dal taglio allungato e capelli neri come piume di corvo, portati corti, come voleva la moda ravkiana. Un uomo giovane, sulla trentina, dall’aspetto gradevole; era il principe consorte dell’Erede. Si era presentato, Matthias lo ricordava, quando era giunto al trionfale ingresso del Gran Palazzo, ma il nome gli era sfuggito, nella cacofonia di nomi sorti in quell’occasione.
Non era solo, era in compagnia di un altro uomo, anche lui shu, più anziano, con gli occhi stretti, i capelli neri, con una coda alta, lunghi, attraversati da fili di grigio e di bianco, il viso però era ancora liscio senza alcuna imperfezione, come della porcellana. Indossava una lunga cappa pesante, come una pelliccia grigia di zibellino, allacciata, da cui due fori sui lati permettevano alle braccia di emergere e muoversi liberamente, “Mio onesto Reyem” aveva detto poi la principessa.
Reyem, l’uomo più maturo si era chinato in una riverenza rispettosa, invece, il principe aveva appena abbassato il capo, “Mia buona sorella” aveva accompagnato, aveva raccolto una mano di Alina e ne aveva baciato con delicatezza le nocche. “Dove hai lasciato i miei nipotini?” aveva chiesto subitissimo Alina.
Matthias ricordava i bambini, Juris il maggiore, con i riccioli scuri e gli occhi d’oro, e Nikolai il Piccolo, che era grande come un cuccioletto e stava ancora nelle braccia di sua madre. Piccoli fiori del futuro, bambini un po’ shu, un po’ suli, un po’ ravkiani ed un po’ fjerdiani.
Se crescendo il Juris Liliyanaevna Nazialensky avesse fatto di una zemeni la sua regina, sarebbe stato ancora più amalgamato il mondo.
A riprova, che nonostante le chiacchiere di cui si faceva voce Kerch, Ravka era il paese-mondo, d’altronde per secoli aveva raccolto grisha di ogni dove.
“Al nonno. Oggi, sono tutti di Nikolai” aveva risposto pratico l’uomo, con un sorriso rilassato, “La regina e tua sorella si stanno organizzando per l’arrivo di Dalai questa sera. Mia moglie diventa sempre nervosa quando deve incontrarla.” aveva ammesso, “Della regina Dalai” aveva corretto Alina con un certo nervosismo.
“Nonostante le chiacchiere che si dicano, la regina Dalai non aveva interesse in me, non quanto il suo kebban ne avesse in tua sorella” aveva replicato con scioltezza l’uomo; Alina era arrossita colta in fallo, aveva scosso il capo, facendo muovere i capelli scurissimi. “Tu fai da guida al principe di Fjerda” il cognato di Alina aveva dato cenno di averlo veduto, chinando il capo, in rispetto, “Io ed il principe Matthias andiamo a sparare al lago, ci aspetta Tatiana” aveva spiegato subito lei.
Un campanello era suonato nella testa di Matthias, ricordando la donna con i boccoli biondi ed il naso da carlino che gli aveva accolti al fiume, i suoi occhi non avevano mai lasciato il suo istitutore. Inoltre, Stiorra spergiurava di averla vista gironzola intorno ai loro ambienti.
“Non creare incidenti diplomatici” l’aveva invitata bonariamente il cognato, “Temo sia più una raccomandazione da fare a me” si era introdotto Matthias con coraggio nel discorso, “Il principe Matthias sottovaluta la mia vena distruttrice” aveva ridacchiato Alina, “Per favore, mia moglie è già irritata ed è una donna che controlla gli elementi” aveva scherzato il principe, sollevando le braccia.
L’uomo più maturo, Reyem, aveva rivolto lo sguardo verso di lui.
Aveva arricciato il naso, ma non aveva detto molto, ma aveva sorriso, poco rassicurante.
“Non conosci il nostro Reyem, giusto” aveva detto subito Alina, notando la direzione dei loro sguardi, “Principe Matthias
Egmond Grimjor, ho l’onore di presentarle Reyem Yul-Kaat, Maggiordomo del Piccolo Palazzo” aveva detto con allegrezza, l’uomo aveva chinato il capo, onorato della loro conoscenza.
“Vi lasciamo andare alla vostra esercitazione. Io continuo l’organizzazione gli interventi per la Sala di Letture” aveva detto il principe consorte.
Gli occhi di Alina si erano spalancanti, alle sue spalle Matthias aveva sentito un sospiro drammatico di Lissa. “Non devo eseguire un brano con il balalaika, vero?” aveva indagato subito la principessa, il suo buon fratello si era morso il labbro, “Non dopo che hai deciso di deliziarci con Canteremo gloria a te Senza Stelle, forse, però una poesia in endecasillabi” aveva proposto quello; Matthias aveva sentito la risatina soffocata di Lissa, “Ci penserò!” aveva cinguettato Alina sfacciata.
“Lo hai fatto davvero?” aveva chiesto Matthias sconvolto, quando si era allontanati dal principe e Reyem, dimenticando completamente l’etichetta, “Il principe ereditario di Fjerda non fa mai niente per infastidire la sua regale famiglia?” aveva chiesto Alina senza vergogna.
Matthias era arrossito come un peperone, realizzando di no, che era sempre il figlio perfetto e diligente di cui sua madre e suo padre potessero essere fieri, perché non poteva permettersi di essere meno di Bjorn. “Una volta ho rubato tutte le scarpe sinistre di Joran” aveva ricordato. “Joran?” aveva chiesto Alina, “Guardia giurata di mio padre, capo delle guardie di palazzo, ma più semplicemente la Genya di mio padre” aveva detto. Ricordando il rigido druskelle che cercava per le sue stanze gli stivali d’ordinanza, finché non era stato costretto a presentarsi nelle camere di Mila in pantofole. Alina si era voltato verso Vasilissa, “Perché non abbiamo mai rubato tutte le scarpe sinistre di Genya?” aveva chiesto sfacciata, “Perché ci piacciono le nostre facce” aveva risposto l’altra ragazza, “Sua altezza” aveva aggiunto in fretta, piena di vergogna quando aveva sentito gli occhi di Matthias addosso.

 

Il lago era splendido, di un azzurro chiarissimo, dritto come uno specchio – nonostante Alina avesse precisato che fosse meno grande di quello alla Palude da cui era possibile far emergere uno squalo – e con la luce del sole riflessa sembrava quasi che dei sunsummoner stessero esercitando la loro piccola scienza. C’erano parecchi grisha in giro, interessati evidentemente a loro, con kefte di ogni colore.
Sapeva che le kefte erano il simbolo dei grisha, anche oltre i confini di Ravka. L’uniforme dei grisha fjerdiani erano diverse, ma i colori erano gli stessi.
Matthias indossava il rosso corporalki per quello, non che qualcuno ne fosse consapevole. “Ecco Tatiana!” aveva chiamato Alina in direzione della donna bionda, con il naso a carlino, che l’aspettava su una sponda del lago, vicino una macchina per il lancio dei piattini. Indossava dei cuscinetti sulle orecchie e li aspettava con un’espressione tronfia, indossava abiti da donna nobile, a rimarcare il suo sangue.
“Principessa, principe” aveva detto con un tono di miele la donna, chinando il capo in una riverenza più generosa della scollatura del suo vestito.
Tatiana aveva dato loro due diversi fucile, “Acciarino a Testa d’Uccello kerchiano. Interessantissimo” aveva valutato Matthias soppesando l’arnese con le sue mani. “Esperto di armi?” aveva chiesto Alina incuriosita, “Come ogni buon uomo di fjerda ovviamente” aveva risposto lui, con un sorriso sciolto, “Ritengo che la manifattura migliore sia quella zemeni, seguita da quella fjediana, ma questo non è male affatto” aveva considerato. Era più leggero di un acciarino normale, anche il materiale era leggermente diverso, “Opera grisha” aveva considerato.
Alina aveva annuito, “Sì, manifattura da fabrikator. Mi hanno regalato questi due fucili per il mio diciassettesimo compleanno, il capitano della Rusalye[3]” aveva detto senza vergogna. Matthias aveva schiuso le labbra con espressione sconvolta, “Jordan” aveva detto.
La principessa aveva sollevato un sopracciglio scuro, “Si. Immagino lo conoscessi anche tu, la Rusalye veleggia su tutti i mari” aveva considerato.
Non era solo quello, il Capitano Ghafa, la madre di Jordan, era una buona amica di sua madre, veramente amica, in una maniera intima, profonda e complice, che Matthias aveva visto solamente con suo padre. Si tenevano le dita e ridevano, parlavano sempre di qualcosa che era andato e che mai sarebbe più tornato. Era evidente che anche suo padre non ne fosse del tutto consapevole, ma sembrava che la cosa non la tangesse molto, ‘Tua madre ha avuto una vita prima di me, una vita terribilmente interessante da ascoltare’ aveva detto solamente.
Una volta sua madre le aveva raccontato di essersi vestita da cavalla kaelish per imbucarsi ad una festa della Corte di Ghiaccio ed Inej era con lei, aveva fatto roteare gli occhi a quel discorso; Matthias si era chiesto come fosse possibile, quando sua madre era così evidentemente fjerdiana. Ovviamente in quel frangente non era stato ancora a conoscenza della verità. “No, è che Jordan è proprio un mio amico! Quando avevo dodici anni mi ha terrorizzato con racconti di mostri di ogni genere sul Bosco di Sankt Feliks” aveva riso.
Matthias pensava con triste melanconia all’ultima volta che aveva veduto il suo amico, erano passati diversi mesi, e per quanto tenesse al suo amico, non poteva ignorare che l’ultima volta che aveva parlato con Jordan, questi aveva mostrato un sempre più interesse alle idee antimonarchiche. Non c’era da stupirsene, il capitano della Rusayle era nato e vissuto a Ketterdam, una repubblica a suo modo, figlio di una ragazza che era stata schiava.
Alina sembrava intrigata. “Ci sei mai stato?” aveva chiesto quasi vibrante la principessa, “No, in realtà no … loro ammettono a malapena i grisha che non sono materialki, lasciamo perdere i non-grisha” aveva confessato con timore, anche se lui lo era, grisha, non aveva mai osato neanche chiederlo. “E come ha fatto Jordan Ghafa?” aveva chiesto intrigata, “Non esiste serratura che possa resistere alla Frusta di Mare” aveva scherzato, perché era vero. “Una volta si è introdotto nella prigione di Matvej[4] di Os Alta, che non sarà la Corte di Ghiaccio ma ha la sua dignità. Non dirlo in giro è un po’ un segreto di stato” aveva sussurrato Alina nel suo orecchio. Sembrava una cosa tremendamente da Jordan, “Manterrò il tuo segreto” aveva scherzato lui, scivolando nella personale seconda persona.

“Tatiana, quando vuoi!” aveva esclamato la principessa Alina, rivolgendosi verso la ragazza, che aveva fatto sparare il primo colpo, Matthias per la legge della galanteria aveva lasciato alla ragazza il primo colpo, anche se era lui l’ospite.
Avevano sparato per almeno un paio di ore quel pomeriggio, con gente che si era affacciata circa ad osservarli. Avevano avuto venti piattini a testa, Matthias che aveva imparato a sparare a dodici anni, sotto la supervisione di suo padre e di Joran, aveva colpito diciassette piattini, la principessa di Ravka ne aveva presi quindici. “Penso tu abbia vinto, mio principe” aveva ammesso con un sorriso poco deciso sul vivo, piuttosto insofferente alla cosa, mentre riassemblava le munizioni. “Sai cosa si dice dei Kerchiani, no? Che imparano a contare le kruge prima di parlare, così è a Fjerda, ho imparato a sparare prima di camminare” aveva riso lui con calma.
Alina aveva sbuffato, “Con le pistole me la cavo molto meglio. Lilyiana può sventrare una città con la sola imposizione delle mani e Dominik ha un’arte oratoria invidiabile, io sparo” aveva ridacchiato.
“Sei entrata nell’esercito?” aveva chiesto Matthias, lui avrebbe voluto, si era allenato con i druskelle per un po’, per la forma fisica, anche se ne odiava ogni momento, preferendo il caldo di casa e la lettura; nonostante fosse cresciuto alto e forte, Matthias non riusciva a sposarsi con l’ideale di uomo fjerdiano. Però sapeva che per anni la famiglia reale di Ravka era stata intrecciata con l’esercito. L’Erede era un membro rispettabile dell’esercito, un maggiore se non sbagliava – anche se non sapeva di quale reggimento, sospettava di uno grisha – ma se non ricordava male, neanche l’arciduca aveva mai militato.
“Volevo, terribilmente, ma mia madre non sopporta che io stia lontano dai suoi artigli” aveva risposto la principessa, voleva essere una battuta ma non lo sembrava in fin dei conti.
Forse, Alina cercava di sedurlo per poter andare via.
“Quando avevo quattordici anni, sono scappata fino al campo di arruolamento più vicino ed ho tentato, ma con la pace, l’esercito ha un regime di arruolamento più alto – se non sei grisha” aveva spiegato Alina, ripassando il fucile a Tatiana, “A diciotto anni ho intenzione di farlo, che venga pure un drago a riprendermi” aveva scherzato Alina.
“Se non ricordo male, tuo fratello non era più giovane di te, quando è andato a Kerch?” aveva chiesto Matthias, anche lui non poteva allontanarsi troppo, da bambino non capiva esattamente perché, d’adulto immaginava fosse colpa della sua faccia, che andava sempre rifinita, perché fosse in pari con la sua crescita. “Quindici anni di pura eccentricità, mio cugino l’ambasciatore era esasperato” aveva detto senza vergogna Tatiana, recuperando i fucili. Questo era stato inaspettato. Alina aveva ridacchiato: “Lo so, Dominik può farsi mezzo oceano, ubriacarsi quasi a morte e mia sorella può quasi mandare a monte gli Accordi di un continente, ma io non posso uscire dalla proprietà del castello; solo perché sono il Frutto dell’Autunno!” aveva replicato lei.

Aveva seguito Alina, senza chiedersi dove stessero andando, ma avevano riattraversato il Piccolo Palazzo. La principessa si era fermata solamente quando avevano attraversato un atrio, davanti una lunga scalinata a chioccia in marmo lucido. C’era un giovane uomo che stava leggendo un libro, sui gradini. Non indossava una kefta, ma una semplice camicia crema, con pantaloni scuri.
“Il Piccolo Palazzo è aperto a tutti?” aveva chiesto Matthias, “Per lo più no. Questo è il regno dei grisha ed il piccolo dominio di mia sorella, ma essere la tret’ya tsarevich ha i suoi vantaggi” aveva cinguettato Alina, voltandosi verso Lissa – era rimasta così in silenzio che Matthias si era quasi dimenticato fosse lì. La serva aveva ridacchiato, probabilmente stavano ricordando qualcosa.
L’uomo che leggeva aveva sollevato gli occhi verso di loro, erano ardesia.
Poi, allora, Matthias aveva visto la ragazza che scendeva le scale. Una kefta rosso vermiglia, con decori grigio, era la stessa soldatessa che gli aveva accolti, si chiamava Mesha o Misha Effomic, con gli occhi caldi ed id i capelli arricciati, portava l’orecchino di osso ed argento grisha, appeso al suo lobo. Matthias poteva sentire vibrante il potere di un amplificatore.
“Sua altezza principessa Alina, sua altezza reale principe Matthias Grimjor” aveva detto la giovane posata, chinando il capo in una riverenza.
Matthias colto dall’impatto aveva fatto un inchino rigido, di rimando la principessa aveva boccheggiato appena, “Meesha, sei tornata!” aveva squittito poi, sbattendo gli occhi, c’era una frizzante allegria nella voce della principessa che si rifletteva nello scintillio degli occhi zaffiro. La soldatessa aveva annuito, non prima di aver lanciato uno sguardo a Lissa.
Alina non ci aveva badato ma Matthias sì, c’era una vena di colpevolezza sul viso dolce.
Forse Lissa lo aveva saputo prima.
“Sono rientrata per i festeggiamenti, sua altezza” aveva detto con allegrezza, avvicinandosi, “Sono, però, ancora di stanza nell’ovest” aveva aggiunto con una punta di incertezza e tristezza. Mattias aveva intravisto Lissa pizzicare il fianco della principessa.
Alina aveva sussultato ma non aveva perso la verve, “Mio principe, puoi scusarmi un momento, devo conversare con Mesh- il Luogotenente Effimov” aveva esclamato Alina, prendendo la mano della donna e trascinandola altrove, lontana dalle loro orecchie.
Dovevano conoscersi bene.
Matthias aveva guardato la giovane Vasilissa, interessato, notando che la giovane cameriera sembrava rigida e si stava mordendo un labbro, quasi a sangue, decisamente quella situazione doveva avere una situazione più che spinosa.
“Interessante, un principe abbandonato?” aveva sentito una voce maschile, suadente, si era voltato immediatamente riconoscendo che l’uomo sulle scale si era alzato verso di loro, era giovane, sembrava più giovane di Matthias. Lissa aveva sgranato gli occhi, “Io non credo sia … regolare” aveva provato incerta.
“Io credo di poter sostenere una conversazione con qualcuno” aveva spiegato subito Matthias, immaginando che la ragazza dovesse agitarsi. “Credo che il problema di questa gentile fanciulla, sia che io non posso parlare con te” aveva detto l’uomo con un sorriso, “So, che tecnicamente ci sono delle regole di etichetta” aveva mormorato Matthias, durante le occasioni di festa, gli incontri ufficiosi, nessuno, con poche selezionate opinioni, poteva parlare a lui se prima non parlava lui. Era una cosa strana che lo faceva sempre uscire matto, tecnicamente neanche Stiorra poteva, o Bjorn, così si assicurava sempre di salutarli appena entrava in qualsiasi stanza.
In privato la dama di compagnia di sua madre non si faceva troppe remore, ma in pubblico cercava di essere una rispettabile donna fjerdiana e seguiva tutta l’etichetta. Una volta, un anno prima, avevano avuto un banchetto per la celebrazione dell’onomastico di un signore, dove Matthias era stato soffocato dalla verità, saputa poco tempo prima, ed aveva passato il giorno intero gomito a gomito con la giovane Stiorra.
La ragazza lo aveva guardato più volte frustrata, come se avesse voluto dirgli qualcosa ma non lo aveva fatto, e Matthias aveva visto la rabbia cominciare a salire negli occhi scuri, fino a che, giunti al dolce, il corpo di Stiorra era diventato troppo rumoroso per la sua scienza corporalki, da non poter più essere ignorato.
Stiorra, devi dirmi qualcosa?” le aveva chiesto, a bassa voce, preoccupato. Prima la rabbia era divampata come l’incendio alla chiesa dei Sankti a nord di Avenfall e poi si era assopito, “Volevo chiedervi se stavate bene, vostra altezza reale” aveva detto alla fine, rispettosa, “Sembravate afflitto.
Matthias era arrossito come un pomodoro quando aveva realizzato che fino a che lui non le avesse rivolto quella domanda, lei non aveva potuto parlare[5].

L’uomo aveva riso, piano, aveva una risata meschina, gutturale, ma prima che potesse dire altro, un gruppo di risatine gli aveva distratti.
C’erano un gruppo di bambine grisha, con kefte rosse, blu e viola, che si erano avvicinate ridacchianti. “Oh, ha delle ammiratrici sua altezza reale” aveva detto l’uomo con una punta di divertimento. La più grande non avrebbe potuto avere più di dodici anni e la più piccola meno di dieci. Una era spuntata tra di loro come una faccia famigliare, aveva salutato con la mano e Matthias aveva replicato il gesto ingenuamente, notando che non era stato l’unico anche l’uomo aveva fatto la stessa cosa ed anche Lissa.
Matthias non aveva potuto più indugiare in quella situazione, poiché la principessa Alina era tornata, congedata dal Luogotenente. La grisha era rimasta ferma ad osservare la principessa allontanarsi. “Purtroppo né io né Lissa siam di casa qui, dovrai chiedere a mia sorella di farti da guida qui” aveva scherzato Alina, con estremamente forzata, “Ma posso portarti nel luogo più bello di tutta Ravka dopo l’Agroverde” aveva detto la principessa genuina, che sembrava desiderosa di andare via da quel luogo. Matthias aveva annuito, osservando solo parzialmente l’uomo con la camicia, che con l’arrivo della principessa aveva deciso di occupare nuovamente la posizione sulle scale.
La ragazzina con un aspetto famigliare era andate a parlare con lui.
Matthias aveva notato nuovamente che non indossasse kefte o altro, ma aveva sui pantaloni larghi, terminavano con foglie a tre punte rosso d’acero, ricamate. Un simbolo dell’Ordine di San Feliks!
Alina si era voltata verso Vasilissa, “Lo sai che Juris non fa che parlare di lei dopo il bisticcio che hanno avuto al laboratorio?” aveva chiesto retorica.
Sembrava una cosa tenera.

Alina lo aveva portato al Giardino, al famoso Giardino della Regina, che si diceva fosse stato progettato da suo marito, come dono di nozze. Un luogo che Matthias aveva sperato di vedere e non si era dichiarato per nulla deluso.
Il giardino pareva essere uscito da una fiaba. Un labirinto di piante, fiori, di ogni colore, di ogni tipo, che sopravvivevano alle intemperie, al clima, come se esistessero in una realtà sospesa nel tempo.
“Ogni pianta è il simbolo di un caro perso da mia madre, almeno così era cominciata” aveva considerato Alina, fermandosi a respirare dei fiori, Matthias non sapeva che fiori fossero, erano di una sfumatura violacea, puntinati di bianco accesso, che ricordavano una rappresentazione di un cielo stellato e l’aveva invitato a fare lo stesso, l’odore era decisamente più forte di qualsiasi fiore avesse mai annusato, anche lì, doveva esserci scienza grisha. “In seguito, ha cominciato anche a piantare fiori per le nascite. Quelle sassigrafe lì, tra le rocce sono mio fratello” aveva scherzato, “Mia madre aveva una pianta di qui per tua madre, non chiedermi perché, ma pare che la abbia spedita a Grisha per il suo matrimonio.”
Matthias aveva annuito, “È felce, resiste anche alle peggiori nevicate” aveva riso lui, “Mio padre dice che è perfetta per rappresentare mia madre: indistruttibile.”
Alina aveva continuato per il sentiero erboso, “Ecco, quella pianta di melo sottile, sono io. C’è più di una ragione per cui mi chiamano il Frutto dell’Autunno e quel piccolo cespuglio di potentilla viola lì è la nostra Lissa” aveva detto, girandosi verso la serva.
Matthias aveva guardato il viso tondo coperto di rosso davanti da quell’appunto, però negli occhi castani della ragazza era brillata una certa gioia davanti quella concessione. Immaginava che dietro i loro ruoli sociali, Lissa ed Alina dovessero essere quasi amiche. “È una cosa molto carina” aveva valutato Matthias, rivolgendosi alla cameriera, lei non lo aveva guardato negli occhi, direttamente, aveva iridi scure come il guscio di una castagna, “Lo devo alla principessa” aveva miagolato. “Mia sorella ha cominciato a piantare dei fiori anche lei, così volevo qualcosa anche io” aveva risposto con vigore la principessa, con un sorriso allegro sulle labbra.
La principessa Alina aveva continuato la sua lunga camminata, “Quel brutto arbusto di Belledinotte sono per Sankta Alina, lei e mia madre hanno militato insieme durante la Guerra Civile. Una storia divertente: bisticciavano parecchio per gli uomini.”
“Ah davvero?” aveva chiesto Matthias confuso, “Sì, quando Genya si fa un o due bicchierini di sherry racconta sempre un sacco di cose divertenti” aveva risposto Alina.
Matthias aveva aggrottato le sopracciglia, cercando di immaginare l’altolocata ed elegante regina-drago bisticciare come una ragazzina con la stoica e ieratica figura delle litografie. Ricordava da qualche lezione del suo istitutore che la Sankta della Faglia prima di sacrificarsi per rischiarare la sua patria era stata spesso vista con l’allora Principe. Forse erano entrambe state innamorate di Re Nikolai.
Con questi pensieri aveva perso un po’ del filo del discorso della principessa. Quella imperterrita aveva ripreso a spiegare le piante ed i nomi, che Matthias aveva seguito con una certa fatica, alcuni nomi gli erano noti, come quello del portentoso David Kostyk l’Inventore, che era stato ucciso dai bombardieri fjerdiani, quasi quarant’anni prima, altri le erano completamente estranei. “…mentre quelle splendide orchidea blu che vedi lì è mia sorella Lilyiana, le ha piantate mio padre il giorno stesso che è nata” aveva detto con una punta di acidità la principessa Alina, “Il giorno più felice di Ravka. Mia madre a letto e tutta Ravka in festa” aveva squittito, “Le orchidee sono delicatissime di solito, ma quelle sono praticamente resistenti a qualsiasi cosa” aveva aggiunto. “Deve essere bello avere dei fratelli” aveva considerato Matthias, non lo voleva dire ad alta voce, ma era stato fuori dal suo controllo, lui non aveva fratelli, aveva solo un cugino di quasi dieci anni più grande di lui, con cui avrebbe voluto avere un rapporto migliore, ma per tutta la vita la gente lì aveva sempre antagonizzati.
Prima della sua nascita, Bjorn era stato l’erede di Fjerda, anche sopra al suo stesso padre Hartfag; Matthias non si illudeva, non più almeno,  sul fatto che suo cugino avesse ricevuto l’improvvisa chiamata per servire Djel, proprio in concomitanza con i suoi primi anni di vita. Bjorn non era solo fjerdiano dalla punta dei capelli biondissimi ai piedi forti, era figlio di un principe, uno legittimo, e di una nobildonna, non che la gente, il popolo, sapesse la realtà, ma Matthias sapeva la verità.
La principessa Alina si era morsa un labbro, aveva una bocca piccola con delle labbra rosa, “Sì è bello, ma, ecco, solo Dominik ha dieci anni più di me” aveva raccontato, “Se ne è andato che avevo sei anni per l’università ed è tornato, permanentemente che ne avevo quindici praticamente” aveva raccontato.
Non aveva parlato della principessa ereditaria, ma Matthias si reputava abbastanza intuitivo da immaginare perché: era una grisha, doveva aver frequentato il Piccolo Palazzo.
Oltre che avere quasi quindici anni in più di sua sorella, Matthias conosceva ragazze Fjerdiane dell’età della Principessa Lyana che avevano figlie dell’età della Principessa Alina.
“Capisco, ho un cugino, Bjorn, che ha seguito il seminario come prete per tutta la mia infanzia” aveva detto casualmente.
L’ultima volta che aveva visto Bjorn era stato dopo la morte di suo zio, Matthias non aveva detto nulla, perché non sapeva cosa fosse il caso di dire o meno. ‘Scusa credo che i miei genitori abbiano organizzato la morte di tuo padre, come probabilmente hanno fatto con quello del tuo vero zio più di trent’anni fa’ non suonava bene.
Aveva osservato suo padre posare le mani sulle spalle di Bjorn con paterno affetto e sua madre stringerlo come se fosse ancora un bambino e suo cugino si era fatto cullare da quella menzogna affamato di conforto.

Alina aveva guidato per il percorso erboso fino ad uno spiazzale, lì c’era un tavolo di ferro perfettamente rifinito, dalla forma ovale con diverse sedie attorno. Un posto gradevole dove potersi rifugiare, calmo, lontano dalle frenesie del palazzo. C’erano diverse leccornie, che andavano da dolcetti al burro, fino a formaggio salato e prosciutti, sul tavolo, così come bricchi di vetro piene di succhi e quant’altro. C’era anche un samovar – se Matthias ricordava il nome correttamente – dalla forma a cratere, con una teiera posata avanti.
Non erano soli nella radura, c’erano ben tre persone. Una era Dominik, il drekiprins, come lo chiamavano a Fjerda, l’arciduca di Uguvone, con gli occhi blu scintillanti. Era bello, i quadri che lo avevano dipinto, non rendevano affatto giustizia, nonostante Matthias avesse sentito – da quando si erano allungate le sue gambe – che fosse il ragazzo più bello del mondo era difficile tenere giustizia a qualcuno che era nato per davvero con quella faccia. Però a guastare l’aspetto innocente dato dai riccioli biondi, Dominik possedeva un’espressione quasi sinistra. Di solito aveva uno sorriso da volpe, era famoso il sorriso da volpe dell’arciduca – un’eredità degli Opjer – ma in quell’occasione sul suo volto esisteva soltanto una nota di asperità.
Come sua sorella, i suoi splendidi riccioli biondi erano sprovvisti di una corona.
Improvvisamente Matthias aveva sentito il peso del suo anello di ferro sulla testa e la consapevolezza di sembrare assolutamente ridicolo.
Al suo fianco c’era una splendida donna, dalla pelle scura come una mandorla ed i ricci gonfi e neri, elegante e con gli occhi scintillanti di divertimento.
“Oh!” aveva esclamato Alina, “Non ti aspettavo qui, Dominik” aveva aggiunto, rivolgendosi al fratello, “Io e Meri volevamo infastidire mamma violando il suo tempio di pace ma, lei ci ha sorpreso, andando a cavalcare con la Buona Regina Mila” aveva risposto suo fratello. “Non ho visto il cielo oscurarsi” aveva valutato Alina.
“E vedo che non è stata l’unica” aveva canticchiato la giovane donna, che doveva essere Meri, con un forte accento zemeni, occhieggiandolo. Matthias si era sentito in fiamme davanti lo sguardo così sfacciato.
“Vi lasciamo spettegolare tra di voi in pace” aveva considerato Alina, mettendosi tra lui e Meri, come uno scudo; Lissa l’aveva imitata. Era stato quasi tenero.
“Ma, no, no, potete rimanere” aveva detto Dominik, “Dai a Vasilissa un po’ di pace, probabilmente aveva di meglio da fare che reggere un candelabro tutto il giorno” aveva raccontato il principe, alzandosi in piedi, “Come provare il vestito per il suo debutto in società”. Matthias si era sentito così pieno di disagio davanti quell’affermazione. Lui e la principessa Alina che sparavano ai piattelli in riva al lago poteva essere considerato come un corteggiamento?
“Lei mi onora, moy tsarevic” aveva soffiato Lissa piena di imbarazzo deviando lo sguardo del principe con una vergogna abissale.
“Ti conosco da quando eri bambina” aveva detto accomodante Dominik, deviando poi lo sguardo sulla sua sorellina, avevano lo stesso discreto naso all’insù e gli occhi grandi, del medesimo colore degli zaffiri. “Inoltre, ho un certo interesse per sua altezza reale il principe di Djerholm” aveva detto Dominik, voleva essere divertente ma c’era stata una morsa di insofferenza nella sua voce. “In quest’epoca di donne, è interessante conoscere un altro principe” aveva ridacchiato, ma non esisteva alcuna gioia.

 

“Come è andata la tua cavalcata?” aveva chiesto Matthias, togliendosi la corona dalla sua testa, per posarla sul letto di sua madre, sentiva la testa molto più leggera, come se fosse su una nuvola. Sua madre aveva cominciato a sciogliere le trecce con cui aveva stretto il crine, facendo ondeggiare i capelli sulla schiena, leggermente mossi per la costrizione. Il biondo slavato era un po’ più cupo, come se si fosse modificata un po’, forse lo aveva fatto, forse aveva cavalcato come Nina Zenik, il terrore dei Druskelle, anziché Mila Jerdesten, la buona regina consorte di Fjerda. “Volare è un’esperienza magnifica” aveva risosto sua madre, estasiata. “Pensavo fossi andata a cavalcare” aveva guaito Matthias, “Lo ero, ma non un cavallo. Dovrei chiedere a Zoya di portarti una volta” aveva risposto sua madre con estremo divertimento.
“No!” aveva risposto Matthias, immaginando di dover cavalcare sulla schiena della regina drago, quando era nella sua forma mostruosa da oscurare il cielo, “Non mi sembra adatto” aveva provato.
Sua madre aveva sorriso, “Come è andato, invece, la tua giornata? Questa sera ci sarà un ricevimento nella Sala delle Letture, per dare il benvenuto alla corte Shu, la regina Dalai è arrivata con molti più cortigiani di noi; dopo dodici anni di regno mi aspettavo un gioco meno da bambina” aveva soffiato, “Siamo passate a volo al loro fianco” aveva considerato. Quella era una prova di forza, Fjerda e Ravka come fronte unito.
I kaelish erano arrivati poco dopo di loro, gli zemeni erano previsti a breve, gli unici che non erano ancora arrivati – e che avrebbero impiegato un po’ per giungere – erano i kerchiani, ma qualche esponente delle colonie del sud si era già palesato. Se Matthias aveva capito qualcosa era che i mercanti sarebbero arrivati per ultimi, perché adoravano farsi attendere, il principe non aveva dubbi che il Re delle Cicatrici Nikolai avesse organizzato la festa di inaugurazione dei Dieci Giorni di Ravka prima del loro arrivo di proposito.
Kerch aveva parteggiato per Fjerda durante il conflitto Ravkafjerdiano e di rimando Ravka aveva sostenuto Zemeni nella guerra commerciale contro Kerch.
Sua madre stava smaniando per avere gli ambasciatori di quel posto dimenticato da Djel, scommetteva per la presenza dei Van Eck, Matthias aveva un piacevole ricordo di loro quando aveva cenato nella loro casa alla Gerlstrat, quando erano stati in viaggio a Ketterdam, un posto decisamente più allegro dell’ambasciata. Wylan con il sorriso calmo e gli occhi limpidi, Jesper Fahey che era scoppiettante come un fuoco, un po’assistente, un po’ amante scandaloso e po’ marito di Wylan ed in ultimo Juliana Van Eck, con i capelli d’oro ed il sorriso da lupo, il suo marito ancora più intrigante e loro belle bambine: Alysanne e Colmine. “Credo ci siano contrasti tra lei e la principessa Lilyiana” aveva considerato Matthias, “Contrasti non è di sicuro il termine giusto, comunque, non deviare la mia domanda, come è andata oggi?” aveva chiesto sua madre.

“La mia giornata è andata bene, la principessa è stata molto carina, meno il principe. Credo che volesse sapere qualcosa da me, mi ha fatto un sacco di domande sulla mia istruzione. Forse voleva solo vedere se fossi intellettualmente dotato, valutare se fossi all’altezza della sua sorellina” aveva raccontato Matthias sedendosi sul letto. La principessa Alina aveva cercato di rimproverare in ogni modo le domande incalzanti del principe, ma Matthias si era ritrovato più volte strozzato in gola.
Per anni aveva sentito parlare del fascino e della lingua argentina del drekiprins, ma Matthias non aveva visto né fascino né sofismo, ma puro fuoco indagatore; era rimasto scottato da quel martellante interrogatorio, “Probabilmente sì” aveva detto sua madre, ma c’era una certa incertezza nella sua voce, “Ovviamente Alina è una gemma preziosa, ma tu sei il principe ereditario di Fjerda e sei all’altezza di qualsiasi donna sposerai” aveva stabilito sua madre con calma, leccandosi poi il pollice ed usandolo per aggiustare un sopracciglio di Matthias.
“Sappiamo entrambi, mamma, che le cose sono più complicate” aveva sussurrato lui. Le domande del principe lo avevano fatto sentire nudo, anche con la corona, come se dietro i suoi occhi blu il principe avesse saputo la precisa verità. “Indagherò, Zoya ha un debole per me, sono sempre stata la sua preferita” aveva ridacchiato leziosa sua madre, sedendosi accanto a lui sul letto e intrecciando le loro dita assieme. “Mio padre potrebbe non essere così felice di questa vostra confidenza” aveva scherzato Matthias.
“Della principessa Alina cosa ne pensi, invece?” aveva chiesto poi sua madre, senza nascondere l’interessamento che era sorto in lei, davanti quella prospettiva, “Una giovane carina” aveva detto incerto, “Chiacchiera molto” aveva aggiunto. C’era stato un momento, prima del tiro al piattello, in cui aveva sentito un momento simpatico tra loro, ma non era sicuro che Alina catturasse il suo interesse. “Mi ha raccontato anche che Jordan una volta si è introdotto nella prigione di stato” aveva valutato, non aveva voluto indagare oltre, ma se avesse avuto l’occasione di parlare con il capitano della Rusalys avrebbe indagato meglio. “Degno figlio di suo padre, il nostro Jordie. Sapevo di questa storia, comunque, me la ha raccontato Inej, comunque è molto positivo che tu abbia trovato sintonia con la principessa” aveva considerato sua madre, con un sorriso troppo sbarazzino.
 “Così, effettivamente, qualcuno parlerà alla corte” aveva detto per lei Matthias, “Tesoro mio, puoi avere qualsiasi sposa tu voglia. Alina è una splendida ragazza, e solo i senje sanno quanto comodo farebbe una sposa ravkiana; ma puoi sposare chiunque tu voglia, sarebbe ipocrita per me e tuo padre negartelo. Se vuoi Stiorra, perché ti senti a tuo aggio con lei va bene. Se vuoi Kraka Iseult con il suo sorriso affascinante, va bene uguale. Sarai un re ed è giusto che tu voglia una regina di cui poterti fidare. E Djel anche se tu volessi un bel giovanotto, renderei giuste le nozze omosessuali alla faccia di tutti quei vecchi caproni a Djerholm” aveva detto sua madre, accarezzandoli il viso con gentilezza, “Nessun re dovrebbe governare da solo, se tuo padre e Zoya hanno reso grandi i loro paesi era perché avevano me e Nikolai, solide spalle a cui potersi appoggiare.”
Lui le aveva sorriso, spostando il viso e baciando il palmo della mano di sua madre, “Probabilmente la principessa penserà che mi faccio ritoccare il viso” aveva dichiarato con estrema calma, ricordando che quella mattina Alina era entrata con Genya che teneva le mani sul suo viso. Matthias sapeva di essere bello, era una cosa che avevano sempre detto tutti, il bel principe di Fjerda, ma era stato giovane – e non stupido – quando aveva capito che erano le mani di suo padre a farlo così.
Quando aveva dieci anni aveva pensato che fosse dovuto al fatto che la bellezza ed un buon aspetto rassicuravano, non immaginava affatto che fosse solo un di più per nascondere una macchia nera e putrida.
Sua madre aveva ridacchiato, “In effetti sei troppo bello” aveva detto sua madre, tirandoli una guancia, come faceva quando era bambino, “Anche se ti sono sparite le guanciotte, con quelle eri irresistibile ...”
La vera domanda era se fosse o meno così, se davvero quel naso fosse il suo naso, quel mento il suo mento e quegli occhi i suoi occhi. Matthias ricordava da tutta la vita le mani di suo padre sul suo volto, le dita sotto gli occhi, sul naso, perfino i capelli. Quanto somigliava veramente al ragazzo che vedeva ogni giorno nel suo riflesso?
Voglio vedere il viso che avrei dovuto avere, il nome che mi sarebbe spettato e la vita che non vivrò mai, aveva pensato.
“Voglio vedere la mia faccia, mor, la mia vera faccia” aveva comunicato alla fine Matthias.
“Capisco, fetla[6].”

 




[1] Tecnicamente Hanne è un healer, a detta di Nina, ma direi che è molto più probabilmente un tailor.

[2] Ne approfitto ora perché non lo avevo mai fatto: non è mai stato esplicitato per bene con che genere Hanne si identificasse ed il fandom tende a rivolgersi alla sua persona con They/Them. Ora, probabilmente loro sono non-binary, non so (personalmente a me era parso fosse transmasc(?)). Comunque, per comodità la gente si rivolgerà a loro con pronomi maschili, perché Hanne/Rasmus (con il nome di Egmond, il Santo Costruttore) si pone come un maschio. Ai Fjerdiani, ai ravkiani, probabilmente anche allo stesso Matthias. Il segreto del partner è qualcosa che Nina non ha detto neanche a Ravka, perché Nina ama Ravka, ma è ora da Signora di Fjerda ed è diciamo una notizia troppo succulenta perché esca fuori.
Comunque, non dirò qui, quanto è ampia la portata delle notizie che Matt sa dei suoi genitori. Trollolo.

[3] Era il nome della Frusta di Mare uccisa da Alina

[4] All’epoca della Dualogia non sembra esserci una vera prigione – o almeno non una dove potessero mettere Sascha (d’altronde sospetto non volessero mettere Sascha dove potesse essere riconoscibile) – così ne ho inventata una, anche se lascio a voi decidere se sia storica o nuova. Il nome lo ho ispirata al nome proprio di Kazakov che era stato l’architetto della Butryka una prigione famosa in epoca zaarista e sovietica ed ancora oggi utilizzata. Comunque, Jordan non è solo figlio di Inej e figlio putativo di Wylan, è anche il figlio di Jesper e Kaz.

[5] Non so se questa regola funzionava in tutte le monarchie, ma di sicuro in Francia sì. Rimane celeberrima nella storia lo scontro tra Maria Antonietta e la Du Barry sulla questione.

[6] Parola fjerdiana (secondo la wiki) che vuol dire uccello, che era come Matthias Helvar chiamava Nina.

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Capitolo 17
*** Malcom I (22 D.F.) ***


E come sempre non ho idea di quando tornerò …
Avrei potuto chiedere a LarcheeX una canzone russa, ma: 

https://www.youtube.com/watch?v=aOtqox2uB3Y

 

TW: Schiavismo, prigionia, sperimentazione umana, uso non consensuale di droghe, deumanizzazione, razzismo, menzione di morte e torture (tipo bruciare vivo qualcuno) e morte.
Un capitolo allegro sì.

MALCOM

Malcom non conosceva Caitlyn.
Non sapeva niente di lei, neanche la più banale delle nozioni.
La prima volta che l’aveva vista era stato due mesi e mezzo prima.
Malcom era stato costretto a cedere ad un sonno indotto, da una polvere che lo avevano costretto a respirare di forza. Si era sentito prima stordito, con la testa che girava più di una vita, prima di sentire le gambe farsi molli come il budello e cadere per terra come un sasso, con la mente che si arenava in pensieri scomposti … e il buio.
Quando aveva riaperto gli occhi, era stato steso supino, con le mani ed i piedi arpionati ad una piattaforma di metallo.
Eccolo! Il giorno che mi vivisezioneranno!
Aveva pensato, quando per tutta la vita – per tutta la sua dannata – vita avevano cercato di farlo a pezzi.
Suo padre, suo fratello, suo zio, i suoi vicini.
Un piccolo pezzo di Malcom per avere la sua fortuna. Quale fortuna si chiedeva Malcom, mentre vedeva pezzi di sé scomparire. Si sarebbe arreso prima se non avesse avuto una piccola fiammella nel suo cuore, un sogno nella mente: Ravka o Novyi Zem. Peccato che ogni giorno che trascorreva si era fatto sempre più lontane.
E … poi erano arrivati quei folli.
Malcom pensava che la sua vita dovesse essere una presa in giro da parte dei Santi. Quando aveva deciso di abbandonare finalmente le Isole Erranti alle spalle e cercare di raggiungere Ravka, lungo la Rotta delle Ossa; un nome un presagio. Era un giorno d’estate e sotto il sole luminoso che rendeva le acque blu argentee, Malcom aveva ingenuamente pensato che quella sarebbe stata una buona giornata.
E del tutto ignorante di essersi imbarcato con gli schiavisti stessi.
Esisteva una persona più stupida di Malcom al mondo? Lui lo dubitava.

E dopo gli schiavisti, che avevano valutato quanto poco avrebbero potuto fare con lui – ‘Rimane un inferno?’, ‘Lo hai visto? Quale kerchiano lo vorrà?’, ‘Allora o alle coltivazioni a Sud o alla Spaccaossa?’ – lo avevano venduto alla puttana Shu dallo sguardo cattivo.
Che dalla prima volta a quella volta – inchiodata al tavolo – lo aveva guardato così: predatoria, cattiva e, a attenta. Mal aveva cercato di muovere le dita, aveva cercato il fuoco, ma senza pietra focaia, senza cerino o un fiammifero non era niente, era assolutamente inutile.
La donna lo aveva studiato, bramosa, prima di voltarsi verso il fantasma.
Caitlyn era lì, indossava una tunica chiara, fino al ginocchio, come quella che sfoggiava lui. I capelli biondi corti poche dita sulla testa tonda e lo sguardo acquoso e distante.
“Vorrei che tu provassi con il suo naso” aveva detto la dottoressa Shu. Catilyn aveva fatto pochi passi verso di lui, “Se riuscirai a far ricrescere la punta, avrai una dose, se non lo farai, non ne avrai per venti giorni” le aveva detto ferma la donna, mentre la osservava.
Il viso di Caitlyn si era fatto pallido e bianco, pieno di terrore a quella possibilità, con le mani tremolante, come scossa dal vento del nord, aveva portato la mano sul suo viso, lo aveva sfiorato con i polpastrelli.
Malcom aveva sentito la pelle andare a fuoco, come se cento spilli si fossero conficcati sulla sua faccia, aveva urlato, come se qualcosa lo avesse mangiato vivo.
“Non … non posso far ricrescere la … carne” era quasi soffocata Caitlyn. “Puoi” aveva asserito la dottoressa Shu senza battere ciglio, “Esisti anche per questo” le aveva detto serafica.
Caitlyn ci aveva provato, con più intensità, finché le sue membra erano state colpite da tremori di ogni tipo ed il viso di Malcom era caduto in un’agonia senza fine.
“Basta! Basta!” aveva pianto nella sua lingua, incapace di trattenersi, mentre lacrime amarissime scivolavano sul suo viso.
Malcom non aveva mai saputo quale sensazione fosse il fuoco sulla pelle, ma doveva essere quello, il dolore era così atroce e virulento che tutto quello che desiderava era che finisse, non il dolore, la sua vita stessa.

Poi, improvvisamente, Caitlyn si era tirata via, come ustionata, con così tanta fretta da aver perso l’equilibrio ed essere caduta con un urlo agghiacciante ed il dolore sul viso di Malcom era diventato più gestibile, come se mille formiche camminassero sulla sua pelle. Fastidioso ma non più aghi infuocati.
“Vedi” aveva detto la dottoressa Shu fredda come le prime nevi dell’inverno, “Adesso ha di nuovo una punta sul suo bel nasino” aveva aggiunto.
“Soggetto cinquantanove sei stata brava” le aveva detto, accarezzandole la testa, come se fosse stato un cane, “Avrai la tua dose di Jurda Parem questa sera” aveva aggiunto, poi aveva rivolto lo sguardo a lui,  “Soggetto settantadue” aveva detto guardandolo, “Tu presto sarai di nuovo tutto intero” aveva considerato, prima di puntare un dito sul dorso della sua mano, “Penso che prima sarà il caso di farti amputare un altro dito, riattaccare un dito è una cosa semplice per una grisha sotto parem, ma cinquantanove ha bisogno di pratica” aveva dichiarato spenta, “Se non riusciamo a far ricrescere la carne delle tue dita avrai bisogno di alcune nuove” aveva considerato la dottoressa, “Tranquillo, ho molte dita da darti … di carne e di acciaio” aveva aggiunto.
Malcom aveva sentito il bisogno di vomitare.

 

Quella era stata la prima volta che aveva visto Caitlyn, la seconda volta era stata quella sera stessa quando la ragazza gli aveva portato un bicchiere di acqua e zucchero, prima che lo riportassero nella sua cella, per assicurarsi che il lavoro della corporalki non fosse solo un’ottima sartoria che poteva essere lavata velocemente. Aveva provato a parlarle in kaelish, non aveva potuto incontrare nessun altro prigioniero da quanto era salito sul mostro marino, la ragazza era arrossita sulla pelle pallida, per quanto fosse possibile, visto quanto fosse fiacca e distrutta.
“No parlo” aveva detto in kerchiano, per quanto Malcom capisse quella lingua; “Liberami” aveva detto Malcom con disperazione.
Lei si era morsa le labbra torturate da ferite e screpolature, “Non so come” aveva ammesso, piena di vergogna, “Ho provato … a comandarli, ma … ma la … parem” si era giustificata.
Malcom l’aveva odiata, aveva odiato lei, la sua dipendenza e la potenza di poteri che l’avrebbero resa una dea – aveva ricreato la sua carne dove non esisteva nulla – eppure si comportava come una schiava.

Ma in quel momento non la odiava affatto; nonostante non la conoscesse bene era disturbato per lei.
Caitlyn sarebbe morta, nonostante tutte le premure dei tre ragazzi ravkiani.
La riscaldavano, nutrivano e si curavano di lei, le raccontavano di Nina Zenik che era sopravvissuta alla parem, alla dipendenza e alla disintossicazione.
Ma Caitlyn non sarebbe sopravvissuta ugualmente, ogni giorno era sempre più pallida, stanca ed incapace. Riusciva a sospirare, a chiedere solo la parem, unico pensiero, non camminava se non tenuta sulle spalle di Hati e di Anchel.
Anche Malcom avrebbe voluto portarla, ma era magro, stanco ed arrabbiato. Voleva dare fuoco allo shu, voleva vederlo bruciare come una fiaccola, voleva che Cait lo vedesse e raggiungesse i Santi con la consapevolezza che la sua morte non fosse rimasta impunita.
La materialki ravkiana lo aveva tenuto buono però, ripetendo che fosse un giusto ostaggio, per Anchel era meglio tenerlo in vita per mangiarlo se non avessero trovato cibo.
Questo non cambiava che Caitlyn sarebbe morta.
Elen le teneva, in maniera gentile, mentre chiedeva al suo amico Anchel di gestire il suo corpo con calma, per riuscire a gestire il battito della ragazza ed cercare di limitare il dolore.
La materialki aveva fabbricato una pomata da metterle sulle gengive con la jurda che avevano rubato, forse era un alkemi.
“Santi, schiavisti del cazzo, non esisteranno mai troppe Inej Ghafa al mondo” aveva detto la materialki, tirando un calcio ad un legno abbandonato per terra. Malcom lo sapeva bene. Lo avevano chiuso in una gabbia come un topo, fatto a pezzi e ricomposto come una bambola qualsiasi.
Cait aveva tossicchiato, “Non … rapita” aveva sussurrato lei alla fine, cercando di stringere la mano di Elen, per darsi conforto. “Ti prego, no” aveva sussurrato la ragazza suli con espressione piena di dolore, come se sapesse già ciò che stesse per avvenire, “Venduta?” aveva chiesto Anchel, che le teneva una mano sullo sterno, delicato. Cait aveva annuito, gli occhi grigi, senza colore, macchiati di lucide lacrime.

Malcom aveva avuto una vertigine a quel pensiero. Venduta. Venduta.
Cait si era voluta sistemare in piedi, “Parem?” aveva provato a chiedere, Hati aveva guardato nuovamente Drina, aspettando quasi che le potesse strappare quel poco di parem che aveva in corpo, ma cominciava ad avere un’espressione languida, bisognosa, presto sarebbe stato male come lei.
Malcom era così arrabbiato che avrebbe voluto dar fuoco al mondo.
E avrebbe cominciato da quello stupido mangia-riso, si era lanciato verso di lui, ma un movimento di Anchel lo aveva fermato, un dolore sordo al ginocchio, “Non ha senso, smettila” lo aveva rimproverato la materialki, avvicinandosi e mettendo una mano sulla spalla, infilandosi poi una mano nella bisaccia che si era fabbricata, “Mangia della carne secca” le aveva detto.
“Non ho fame e non voglio la tua stupida carne” aveva ringhiato Malcom, quando il ginocchio aveva smesso di dolore, aveva tirato anche uno spintone a Drina, che aveva perso l’equilibrio candendo per terra ed urtando il coccige sul terreno duro. “Non ti accartoccio le ossa come una girella solo perché sei sconvolto” aveva detto lei, tirandosi indietro, per raggiungere gli altri.
Malcom si era alzato frustrato, aveva colpito qualcos’altro, tutto quello che aveva trovato, lanciando sguardi di morte al ragazzo Shu, che se ne stava in disparte rispetto loro, con le braccia ancora legate dietro la schiena, con le manette d’osso.

“Tesoro, riesce a mangiare qualcosa?” aveva sentito Elen chiedere dolcemente, si era voltato ed aveva spiato il fatto che Cait era seduta, con la schiena curvata, sostenuta unicamente da Hati, che le accarezzava i capelli come se fosse stato un cagnolino.
“No, io … voglio solo la parem” aveva pianto, anche se non aveva più lacrime.
Hati aveva rivolto lo sguardo verso Deina, quasi supplichevole, “Prendi altra pasta, ti prego” aveva detto quest’ultima, recuperando il suo piccolo contenitore di jurda amalgamata.
Cait era riuscita ad aprire la bocca, poco, scoprendo i denti, solamente l’altra era riuscita a passarle la crema sulle gengive. La healer si era passata la lingua sulle gengive, con movimenti lenti e stanchi, gli occhi erano lucidissimi, ma tenuti aperti fino a mezza-palpebra.
“Voglio la parem … e voglio andare a casa” aveva sussurrato Cait, con voce spezzata, facendo ondulare la testa; Elen si era morsa un labbro ed aveva passato – salvifica – il polpastrello del pollice sulla mano della ragazza kerchiana per placarla, darle conforto, materna.
“Perché vuoi tornare in quel posto di merda, per dio!” aveva ringhiato con rabbia feroce Malcom, pensando che era stata venduta, non rapita da una spiaggia, non presa di forza. Era stata venduta, qualcuno aveva deciso di sbarazzarsi di lei.
“Malcom smettila!” aveva strillato Elen, verso di lui, raspante, vorace e arrabbiata, “Siamo tutti disperati, non aiuti” lo aveva rimproverato.
“La farebbe stare bene se uccidessi quel mostro” le aveva detto.
“No” aveva pianto Cait, “Solo la parem” le aveva detto, dopo si era forzata di sorridere, “E sugo di granchio.”
Era sceso un silenzio denso, prima che una risata fiorisse sulle labbra di Hati, “Sul serio?” aveva chiesto quello divertito, quasi. Cait aveva emesso un verso, sembrava una risata, ma era troppo squittente e disperata per esserlo davvero, come se fosse stato l’ultimo lamento di un animale ferito. “Vengo da Nijejem, abbiamo solo sale e granchi” aveva ammesso.
C’era un po’ di dolcezza nella sua voce, nel fondo, tra il dolore e la disperazione. “Io vengo da Krokin-jin. Viene chiamata la Città di Stoffa, perché è composta per lo più da baracche e case di fortuna” aveva provato Hati, accarezzando ancora i capelli di Cait, con la dolcezza di un fratello maggiore.
“Io sono nato a NovyRest, è una città industriale, c’è l’acciaieria più grande di Novy Zem, ma io ero un grisha e volevo essere addestrato” aveva ammesso Anchel, complice, rivolgendo lo sguardo verso Elen, fraterno.
La ragazza aveva sorriso, senza lasciare la mano di Cait, “Io sono nata ad Os Alto” aveva detto piena di incertezza, “Non ho davvero niente di cui lamentarmi” aveva detto, piena di vergogna Elen.
“Io vengo da Keramzin, un posto piccolo come una lenticchia. A sud di Ravka, vicino a Dva Stolbe, sai, da dove viene Sankta Alina” aveva parlato la materialki, cercando di essere divertente, ma il suo tono era rigido come quello di una lastra di ghiaccia. Loro tre e le loro infanzie dolci, nei palazzi di Ravka con pandolci e latte di yak, o qualsiasi altra sciocchezza la ricchezza aveva da offrire loro. Malcom l’aveva guardata, “Io vengo dalle Scogliere Nere[1], non è un posto piccolo, non è un posto morto, ma è sicuramente un luogo orribile dove vivere” aveva cominciato a raccontare lui, “Con strade di ciottoli, case di mattoni crudi ed un vento che ti schiaffeggia in faccia. La prima volta che ho dato fuoco a qualcosa, mio padre ha cominciato a vendere pezzi di me, sulla via delle spezie” aveva detto, arrabbiato, bruciato.
Pensando al dolore.
Non preoccuparti bambino, solo un po’ di dolore. Solo un po’ e poi stare meglio’ ed era andata avanti così per tempo immemore, così tanto che alla fine, esausto aveva pensato di prendere il mare e si era infilato dagli schiavisti. “Io sono di Chang’han, nella regione dello Ji-Han” Malcom aveva quasi perso la frase del ragazzo Shu, alla deriva nei suoi ricordi. Gli occhi gialli rivolti a loro, aveva sentito la rabbia montargli, il volere di dare fuoco al ragazzo ancora di più, perché lui non c’entrava nulla, sarebbe dovuto morire ma Elen lo aveva voluto salvare.
“Ci hanno preso sulla spiaggia, gli schiavisti. Ad Os Kervo, ho convinto Anchel e Drina a scappare dalla gita” aveva ammesso Elen con voce rotta, guardando i suoi amici. “Non è colpa tua, lo sai, vero. Ti avremmo seguito in qualsiasi caso” aveva detto Anchel, con un sorriso dolce sulle labbra.
Malcom poteva vederli, tre ragazzini allegri, pieni di vita, cresciuti tra i lussi e le gioie, che impattavano contro la crudeltà della vita. Malcom li guardava, Elen era magra ed emaciata, con i capelli arricciati, corti sulla nuca, chi sa come doveva essere vestita con una kefta di qualche materiale sofisticato ed i capelli lunghi, bella in salute e piena di vita, doveva essere uno spettacolo. “Leoni ha sempre detto che nessuno poteva farmi mai fare nulla che non volessi” aveva affermato Drina, stanca, passandosi una mano sulla calotta quasi rasata della testa, aveva ancora le punta delle dita nere dalle troppe fratture.
Cait aveva annuito, “Io … mi sono … venduta” aveva detto dopo un lungo sospiro, “Una grisha … healer … sapevo … valore” aveva provato a dire, ma sembrava che ogni parola le tagliasse la lingua e la gola.
Un paesino di granchi e sale senza futuro.
“Non sforzarti, cara” le aveva detto Elen materna, “No” aveva risposto Cait con una sicurezza così forte, che mal si sposava con un viso esangue, “Voglio!” aveva aggiunto, stringendo le nocche, ma la presa non era ferrea, mai abbastanza.

L’avevano guardata tutti quanti, “Orfana” aveva ripreso Cait, “Con zia Jin, prozia Jin e fratelli, Anton e Pyp. Pyp ha sette anni” aveva pianto la ragazza di Kerch.
Forse pensava al bambino che sapeva non avrebbe mai più rivisto. “A Nijejem … nessun futuro. Ho-o chiesto a … Anton di venire con me. Ci sono … sempre … loro a Nijejem, non rapiscono bimbi, ma li comprano. So di essere … carina. E non potevo, n-non pot-evo … arrivare a Ketter-dam” aveva fatto una pausa, ogni parola sembrava causarle dolore, ma non voleva smettere di parlare, “Grisha e carina … ho fatto dare ad-d Anton cento … krughe. Sono tantissime, cento krughe. Pensavo … sarei finita in qualche casa di piacere, con … u-un contratto, anche se … altissimo” aveva sospirato. “Avrei potuto ancora mandare soldi a casa” aveva sospirato, con lacrime brucianti che tagliavano le guance maniche.
Non era andata così, non era finita una schifosa casa di piacere, ma lì, nel bel mezzo del nulla, al freddo, dopo essere stata torturata per esperimenti.
“Lo-lo ho fatto … a me” aveva pianto Cait.
Lo-ho-fatto-a-me.
“No, vaffanculo!” aveva strillato Malcom, “La fame e la disperazione lo hanno fatto, quella puttana sadica Shu lo ha fatto” aveva gridato, senza controllo.
Anche lui aveva preso la Via delle Ossa, certo di poter morire, di poter essere preso dagli schiavisti, con l’unica idea di una possibilità, di un giorno.

Drina aveva ripreso la marcia, tenendo Cait per una spalla, mentre Anchel la sosteneva per l’altra, ma la loro camminata non era durata molto, la ragazza aveva supplicato, quasi miagolato di fermarsi ancora, con il freddo della notte era stata costretta.
Avevano trovato riposo sotto un albero, Malcom aveva impiegato più tempo di quanto avesse voluto per accendere un piccolo fuoco controllato; senza pietra focaia o altro di utile, era completamente inutile.
Ma visi stanchi e smussati di tutti lo avevano spinto a continuare, a lavorare, fino a che non aveva sentito anche la sua pelle strapparsi.
Drina lo aveva aiutato: ‘So che lo fai di getto, che lo hai sempre fatto di getto, ma esistono altri modi’ aveva detto la ragazza prendendoli le mani.
Dita storte e fredde, come la neve, ‘So che con la pietra focaia è più facile o con una fiamma naturale, ma ricordati che è solo questione di materia. Gli inferni sono i più sensibili e non hanno bisogno di altro, devi richiamare a te tutte quelle piccole parti che ti permettono di accendere alla scintilla. Devi concentrarle e sentirle, dall’aria, dalla terra, dalla pietra, se non riesci ad estrarle ti aiuterò io” aveva ammesso lei calma e misurata.
Stava prendendo da sé stesso, non era piccola scienza, era la maledizione.

L’acqua non era difficile da procurare, con la neve, ma la carne secca che avevano preso non sarebbe durata ancora e con la rigidità della notte anche i loro vestiti avevano cominciato a farsi più leggeri. “Ci servono delle pellicce” aveva detto Elen, mentre continuava a far passare una mano sulle braccia, lungo le maniche di cotone, “Potremmo provare ad affrontare un orso, siamo grisha” aveva detto Anchel, avvolgendo le braccia attorno a Cait, per riscaldarla, era bianca come un lenzuolo, come la polvere e la morte, con le guance incavate e gli occhi liquidi ma senza più lacrime.
Ma se Elen non avesse tirato via l’aria direttamente dal corpo di quella donna, Malcom avrebbe voluto bruciare quella puttana personalmente, aveva dato fuoco a quell’ammasso di ferro, usando tutto il loro gas, tutto il fuoco nei camini per il motore a vapore, ma saperlo spezzato e distrutto nel fondo del mare vero non era abbastanza. Malcom voleva che tutto il mondo bruciasse.

“Puoi … cantare una… canzone?” la voce di Cait era sottile, come del vetro raschiato, gli occhi blu obnubilati, non riusciva neanche più a sollevare le palpebre, ma la stanchezza e la disperazione avevano vinto anche sulla fame di parem.
“Mi piac-ce” aveva sussurrato ancora, quasi disperata.
Elen si era seduta al fianco di Cait, le aveva preso una mano con ambedue le sue, aveva soffiato, probabilmente area scottante, anche Malcom avrebbe dovuto presentarsi, prenderle la mano e darle il calore di cui aveva bisogno, avrebbe anche dovuto cantare ma aveva una voce aspra e fastidiosa come una campana stonata. Drina si era avvicinata a lei, mettendolo le mani sulle guance, “Ho una voce … non … c’è una canzone stupida” nel farlo aveva guardato Anchel.
“Stu-pida, be-ne” aveva concesso Cait.

Nella steppa sconfinata,

A quaranta sottozero,

Se ne infischiano del gelo

I soldati dello Tsar.

Aveva cominciato a cantare Drina con una voce dolce, non molto intonata, ma a modo suo delicata, mentre con gli occhi raggiungeva i suoi amici. Anchel si era unito subito dopo, con una certa perentoria, più dura e severa di Drina.  Malcom non capiva le parole, era Ravkiano, qualcosa riusciva ad apparire nella sua mente, aveva sentito la lingua del sol levante diverse volte, non abbastanza da conoscerla ovviamente, ma era in grado di recepire alcune parole.
Dal tono sembrava proprio una canzonetta stupida.

“Col colbacco e gli stivali,

Camminando tutti in fila,

Con la neve a mezza gamba,

Vanno verso il fiume”

Avevano cantato entrambi, Cait aveva quasi riso. Hati si era aggiunto, non cantava, ma seguiva il ritorno con un fischiettare, piuttosto armonico, gli occhi del ragazzo erano pieni di dolore, poiché vedeva con orrore il futuro.


Ma il nobile Demidov

Sbuffa, sbuffa, e dopo un po'

Gli si affonda lo stivale

Nella neve e resta lì.

Ma il nobile Demidov

Del ravkiano che cos'ha?

Ha il colbacco e gli stivali,

Ma non possono bastar.

La la la la, la la la la

La la la la, la la la...

La la la la, la la la la

La la la la, la la la...


 

Elen aveva ceduto e si era unita alla canzone, ma i suoi occhi, erano cupi, vuoti e lacrime amare le bagnavano le guance, ma aveva cantato quella stupida canzonetta.
Malcom si era avvicinato, non conosceva le parole ma aveva seguito Hati ed aveva imitato il ritornello, veloce, senza fischi, con solo la voce.


I ravkiani lunghi e fieri,

Con i baffi volti in su,

Nella neve vanno alteri,

Ma Demidov non c'è più.

È rimasto senza fiato,

Sulla pancia accovacciato,

Che ravkiano sfortunato

Questo povero Demidov.

Ma Demidov

Non si arrende e dopo un po'

Scivolando sulla pancia

Fila verso il fiume.

Hei Demidov,

Così proprio non si può,

Non cammina in questo modo

Un soldato dello Tsar.

La la la la, la la la la

La la la la, la la la...

La la la la, la la la la

La la la la, la la la...


Cait aveva provato a cantare, ma la sua voce era così vuota e sorda, come se le fosse mancata l’aria dai polmoni, non conosceva le parole ma ci aveva provato ugualmente, con dolcezza, era una bella canzone, una stupidissima canzonetta, che Malcom immaginava vedere i piccoli bambini profumati e puliti del Piccolo Palazzo, che canticchiavano allegri, probabilmente privi delle raccapriccianti paure con cui Malcom e Cait avevano dovuto imparare a convivere.
Bambini felici che cantavano canzoni felici.

I ravkiani sono stanchi,

Non si vede il fiume,

Con i baffi congelati

Più non vogliono marciar.

E Malcom vedeva la stanchezza albergare sul viso di Cait, ma aveva comunque sorriso, come se fosse stata rincuorata, come se fosse stata quasi felice.
Ma cantavano tutti, tutti. Per un momento, un solo momento Cait non stava morendo, Hati non avrebbe sofferto malevolmente i dolori dell’assuefazione che lo avrebbero ridotto alla follia. Loro non soffriranno il male, il dolore, la fame ed il freddo che li aspetta.
Non erano ragazzini catturati, svenduti e torturati.
E che sarebbero morti, tutti.
L’unico che non aveva cantato era stato il pazzo Shu, che era rimasto in disparte, con i polsi legati sulla schiena, con lo sguardo insofferente, aveva detto che non avrebbe chiesto scusa, eppure c’era quasi vergogna sul suo viso.
Non era abbastanza, Malcom desiderava bruciarlo, sciogliere la sua faccia, far esplodere i suoi occhi e carbonizzare le sue ossa, il desiderio ribolliva in lui come fuoco, ma non aveva fatto altro che guardarlo, perché la canzone stupida e stucchevole di Drina riempiva l’aria.


Nella steppa sconfinata

A quaranta sottozero

Sono fermi in mezzo al gelo

I soldati dello Tsar.

Ma Demidov

Così tondo che farà?

Rotolando nella neve

Fino al fiume arriverà.

Ma Demidov

Così tondo che farà?

Rotolando nella neve

Fino al fiume arriverà.


Un sorriso era sorto sulle labbra di Drina sull’ultimo là allegro, era come se avesse dimenticato per un momento in che situazione fossero infilati. Malcom aveva decifrato il testo: un gruppo di uomini adulti grandi e grossi che rimaneva bloccato nella fredda tundra e il più improbabile di loro ritrovava la strada di casa. Cattivo gusto.
“Chi è Demidov?” aveva chiesto Cait, era una domanda strana, una domanda stupida.
“Un pretendente al trono di Ravka, con più amore per il kvas che per la politica” aveva risposto Elen, Cait aveva sorriso, “E … sta … bene?” aveva chiesto, con gli occhi blu schiusi verso il mondo.
Malcom voleva urlare per quelle domande così stupide.
“Sì, sì, sta bene” aveva detto Drina con dolcezza, parlava il kerchiano come una persona con il fango nella bocca, ma dove non aiutava l’accento, aiutava la grammatica.
“Nina Zenik … invece?” aveva chiesto poi Cait, Malcom ricordava che Drina lo aveva raccontato i primi giorni, della grisha sopravvissuta alla jurda. Era stata Elen a parlare, “Ha trovato un brav’uomo, fjerdiano, si è sposata e credo sia felice” aveva raccontato, “L’altro anno ha avuto un bambino”.
Forse era una menzogna, forse no.
A Malcom sembrava una menzogna.
Ma sembrava anche bello.

Quando era sorta l’alba, con raggi rosati avevano passato le fronde degli alberi, Cait non c’era più.
Malcom aveva avuto la nausea, aveva vomitato ed Anchel lo aveva aiutato, prendendo il controllo del suo corpo per riuscire a gestire meglio la sua nausea e la sua insofferenza, ma Malcom aveva trovato quella sensazione formicolante, invasiva, come era stata la mano di Cait sul suo viso. Aveva tirato una gomitata ad Anchel per allontanarlo e si era toccato la punta del naso.
Era rimasto, con la morte della giovane Cait il suo naso era rimasto, comunque, la sua carne era ricresciuta, dove non esisteva nulla, dove era stato tagliato da suo cugino, per essere venduto come reliquia, in quel momento era di nuovo completo.
Qualcosa di lei era sopravvissuto a lei stessa.
Aveva arrancato verso la ragazzina, verso il suo corpo, un viso bianco, pallido e morto, con un sorriso quasi timido sulle labbra e le palpebre serrate, più addormentata, ma finalmente in pace.
Go ndéana na naoimh go léir tú a chosaint, ná déan dearmad ar d'anam bás a fháil[2]” aveva sussurrato nel suo orecchio, prendendole le mani, ancora morbide, ancora calde.
Nessuno gli aveva detto niente, erano rimasti lì, immobili, accerchiati come statue di sale davanti ad una salma.
Elen si era chinata davanti a lui, con un’espressione triste, facendo scivolare il pollice sulla guancia tonda di Cait, “Hai qualche santo per lei?” aveva domandato. Elen si era morsa un labbro, ma era stato Anchel a farsi avanti, raccogliendo con le mani a coppa le guance di Cait, “Raccomando la sua anima a Sankta Marghareta dei bambini persi” aveva sussurrato con gentilezza il corporalki, Malcom trovava adeguato, Cait sembrava assolutamente una bambina persa, “Era una santa kerchiana” aveva aggiunto Elen.
Allora, se mi senti, Sankta Marghareta prenditi cura della sua anima, aveva pensato lui, con le lacrime bruciati sulle guance, o verrò a dare fuoco al tuo culo, Sankta o meno.
Non la conosceva, non la conosceva neanche.
Ma avrebbe vissuto per lei, fintanto che fosse stato vivo, anche una parte di Cait lo sarebbe stata.
“Dovremmo … dovremmo bruciarla” aveva sussurrato Elen, allungando una mano gentile per disgregare i nodi nei capelli biondi e fragili, in qualche modo materna, aveva rivolto lo sguardo verso Malcom, lui aveva annuito, nervoso.
Avrebbe preso da se quello che serviva se l’aria non avesse collaborato. “Sì … è così che si fa a Kerch” aveva considerato Hati, la sua voce era stanca.
Non era ancora riuscito ad evocare le scintille, ma avrebbe potuto farlo meglio. Avrebbe potuto essere più capace. Perché doveva trovare un modo, lo avrebbe fatto per Cait, per quel suo naso e per quella suo disperato saluto, perché si era venduta ed era morta lì, nel bel mezzo delle lande fjerdane.
“No” aveva sentito una voce, aveva voltato lo sguardo, rapace, verso il dannatissimo Shu, che non aveva il coraggio di guardarlo, “A Kerch, bruciano i corpi sulle chiatte, nessuno può essere seppellito nei confini della città. Solo i ricchi a Ketterdam, che possedevano un loculo all’isola del Velo Nero, o appena fuori le mura delle città” aveva raccontato; “Ma a Kerch, i poveri vengono buttati su una chiatta e scaricati in un inceneritore.”
“Cosa c’entra?” aveva abbaiato Malcom.
Cosa voleva?
“Sta dicendo di seppellirla, come accadrebbe ai ricchi mercanti” aveva considerato Elen, con ancora le mani intrecciate tra i capelli biondi senza colore.



[1] Giacchè la terra dei Kaelish è chiamato Isola Errante, ho deciso di continuare con il tenere i nomi “italiani”

[2] Che tutti i santi ti proteggano, che la tua anima immortale non venga dimenticata

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Capitolo 18
*** IOREN II (28 D.F.) ***


So che sono tornata relativamente presto ma ho due annunci importanti da fare uno sopra ed uno sotto. L’annuncio sopra potete anche non leggerlo, ma spiega perché sparirò, a livello personale, quello di sotto fa lo stesso ma a livello narrativo.

Bene: Ho finito le mie finte ferie e sto ricominciando a lavorare, quindi, il mio tempo si sta drasticamente riducendo, inoltre, vorrei provare a “cambiare” lavoro, circa. E potrei avere ancora meno tempo. Perciò, ecco, non ho avuto modo di mettermi davanti con i consueti capitoli che ho di solito e non ho molto tempo per scrivere, perciò si, ecco, ci vediamo tra un bel po’.

 

Un grazie di cuore ad Amnesia_the_crazy_cat!

 

IOREN

 

(28 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

Ioren aveva guardato con fame e preoccupazione la lettera che aveva ricevuto quella mattina.

L’ambasciatore gliela aveva consegnata già aperta, tutto ciò che passava per l’Ambasciata passava sotto il suo sguardo, non importava che il sigillo fosse quello dei Grimjer, erano così le regole.
La cera lacca blu – e non rossa, significava non appartenente direttamente al Re o alla Regina, i quali prediligevano il colore del sangue – era stata spezzata, ma Ioren, strizzando gli occhi, riusciva ancora a distinguere il sigillo che c’era sopra: la testa di un isenulf con la bocca chiusa, affiancata all’albero di Djel … era una missiva del principe Bjorn.

Il principe aveva creato un sigillo personale, l’albero di Djel di suo zio Re Egmond e l’isenulf del principino. Bjorn puntava sempre a scottare, anche se era meschino nel farlo. Aveva reclamato per se, assieme, i due simboli del re e del suo erede e Ioren ricordava si fosse giustificato appellando alla sua devozione per Djel e il rispetto per i nobili lupi di Fjerda.

Ioren sentiva le vertigini per quella lettera, che aveva nascosto dentro i suoi appunti, tra le pagine del suo taccuino sulle lezioni di etica filosofica.

Non era riuscito a rimanere all’ambasciata, così aveva preferito sfogare le sue insoddisfazioni al Caffè, nel quartiere universitario, dove usualmente sentiva la tranquillità pervaderlo, ma non era il giorno giusto. Nonostante la lettera fosse al sicuro, bruciava incandescente sul suo petto.

Aveva girato il suo caffè lungo con il cucchino, con espressione affranta, ponderando di chiedere che fosse corretto con qualcosa, mentre osservava con la coda dell’occhio il bancone. Magnus Dyk era lì, alto e biondo come voleva Fjerda, scambiare chiacchiere dolci con una cameriera che rideva ad ogni sua parola con eccessivo divertimento. Avrebbero dovuto essere amici, ovviamente, era il cugino di Dominik, era il fratello di Ilsebelle Lingua Lunga e passava molto tempo con Jordie, ma non era così. Bridget aveva una vistosa infatuazione per lui, al punto da divenire rossa come una mela ogni volta che lo vedeva passeggiare per i corridoi della cittadella. In realtà se Ioren era diventato amico di Jordan e Dominik, lo doveva principalmente all’infatuazione di Bridget per Magnus, visto che la giovane l’aveva costretto a socializzare con loro, animata dal suo fervore. Ioren ricordava quel giorno con una certa dolcezza.

Però, lui e Magnus non riuscivano a ritmare allo stesso modo, si salutavano cortesemente quando si incontravano e quando i loro amici si riunivano i due riuscivano ad avere anche piacevoli e fredde conversazioni, se si escludeva quella volte alla terza notte Roennigsdjel al quartiere Fjerdiano. Era stato interessante vedere un Magnus nostalgico di una terra che a malapena conosceva, era un ragazzo di Kerch, come Jordan, ma si sentiva così legato ad una patria da cui la sua famiglia era stata esiliata. In qualche modo si era sentito vicino a lui. Però Ioren sapeva, con tranquillità, che Magnus, se lo avesse visto, lo avrebbe solamente salutato e poi avrebbe occupato un altro posto, per bere il suo caffè – macchiato con la crema– in pace ed in solitaria.

Questo scenario però aveva non aveva tenuto conto dell’espansiva presenza di Dominik, che era entrato nel locale, con una scampanellata allegra della porta, vestiva come un mercante, con tanto di cappello dalla forma di fedora, di un nero lucido che lo faceva apparire distinto, l’illusione era rotta solamente da una redingote rosso sangue, su cui erano ricamati lunghi draghi a motivi a spirale sui polsini e sul bavero.

 

Ioren non lo vedeva dalla notte prima, dopo la lunga conferenza sulle Ancore Kaelishane, nel quartiere del Mercato, dopo essere stati incastrati da Jordie – che di rimando si era concesso un viaggio appassionato con Drina.
Dominik era stato di malumore per la trappola del giovane Ghafa e Ioren anche più nervoso. Non ne capiva niente di navi, di barche, di ancore; era stato straziante passare la giornata incastrato tra Magnus e Dominik infervorati da quel discorso, quasi appassionati.

L’unica punta di interesse della giornata era stata nel manifestarsi della giovane Juliana Van Eck con una camicia giallo paglierino e le bretelle rosse che la tagliavano, così vistosa e ruggente. Ioren aveva avuto il terrore che sarebbe venuta assieme alla bellissima Merissa Nassau, la principessa della Jurda, perché non avrebbe potuto sopportare di vedere Dominik guardarsi languido con una ragazzina tutta ricci e sorrisini.
Juliana però era in compagnia della letale Ilsebelle, ben vestita come una signora per bene, che avevano salutato i giovani, prima di prendere posto in tutt’altro lato della sala. Erano una strana combo loro due, Juliana era minuta con i ricci capelli biondi, con indosso sempre le braghe larghe, le giacche a quadri con le tinte improbabili come viola e verde, mentre Ilsebelle alta ed affusolata, con i lisci cappelli nera, era sempre elegante, con le gonne a sbuffo e le scollature a barca. Uno strano duo.

“Chi è il rosso con loro?” aveva chiesto Magnus all’orecchio di Dominik, ammiccando nella direzione di sua sorella e dell’altra ragazza, anche Ioren aveva seguito la linea dello sguardo.

Ilsebelle faceva oscillare un ventaglio con delicatezza verso il viso, interessata davvero agli interventi degli oratori, ma Juliana con i capelli oro-ardente, sussurrava qualcosa nell’orecchio di un giovane uomo alto e con il crine rosso e una bella faccia lentigginosa da kaelish. “Non so, dovrò cominciare a parlare … anche con lei” aveva considerato Dominik.

“Non puoi essere geloso di tutte le donne della sua vita” aveva ammesso con calma, quasi con freddezza Ioren, “Non sono geloso” aveva risposto Dominik netto, “Juliana può cavarsela con chiunque, temo più il suo sventurato compagno.”

“E con Drina?” aveva chiesto Ioren, pensando all’espressione tradita che aveva avuto il suo amico, quando l’aveva vista sparire nella banchina della stazione con Jordan, “Fraintendi. Mi preoccupo per Jordan” aveva detto, “Drina è la migliore amica di mia sorella, sono fatte della stessa pasta” lasciando quella frase aleggiante, “Freddi mostri con artigli affilati?” aveva proposto Magnus, come una battuta. Dominik lo aveva ignorato: “E Jordie piange fingere di essere l’uomo di ghiaccio, ma ha un cuore grande e privo di autoconservazione”.

 

Dominik si era rivolto verso di lui, quando lo aveva visto seduto al tavolo. “Ieri sera sei fuggito velocemente” aveva considerato il principe, raggiungendolo, dopo la conferenza si erano fermati nel quartieri del Barile, un po’ per giocare, per parsimonia e per bere in pace, dopo due cicchetti di rum, Ioren aveva abbandonato la festa per rincasare all’ambasciata. Con l’immagine di Dominik che ondeggiava divertito vicino al tavolo del Birch assieme alla sua bella principessa della Jurda – che gli aveva raggiunti al locale.
Una principessa per un principe. Una principessa donna, con la vita di vespa, la pelle di tek, il viso bello e capelli lucidi e pieni¸ vestita di fronzoli e colori, che avevano fatto sentire Ioren così pallido ed insulso.
“Ero stanco e dovevo studiare. Non so te, prins dreki, ma io ho una laurea da prendere” aveva commentato.
“Come potrei dimenticarlo? Sei l’unica persona che va nella Biblioteca della facoltà di filosofia a studiare” aveva replicato Dominik, spostando una sedia ed accomodandosi accanto a lui. Ioren non aveva potuto evitare di trattenere un sorriso, pensando a quel particolare luogo e al nome che, nel corso degli anni, si era procurato. “Sicuramente ci provo” aveva commentato, ricordando che l’ultima volta che aveva occupato un posto in quelle aule studio, era finito schiacciato contro la sezione di saggistica ad esplorare la bocca di Dominik con la sua lingua e altro.

Dominik aveva sorriso, un sorriso bello, con le guance ambrate piene di rosso e di vita e gli occhi languidi, perché forse aveva ricordato la medesima memoria. “Hai avuto notizie da Jordie?” aveva chiesto, per cambiare argomento, svelto.
Dominik era stato risvegliato bruscamente da quella notizia, “No. A quanto pare Drina ha detto a Kos che il posto dove dovevano andare è tipo nel nulla, non credo abbiano trovato un telegrafo” aveva ammesso, “Non penso che lo abbiano cercato” aveva aggiunto più cupo.

“Ho l’impressione che quella ragazza non divorerà il cuore di Jordie” aveva cercato di rassicurarlo Ioren, non capiva personalmente le preoccupazioni di Dominik. Concordava nel dire che il loro amico fosse più fumo che arrosto con il suo atteggiamento algido, ma non era del tutto sprovveduto. “Inoltre, da che ho conosciuto Jordan, questa è la prima volta che lo vedo colpito da qualcuno” aveva considerato. Jordie era rimasto stoico ed immutabile anche davanti il fascino naturale e magnetico di Dominik, che aveva completamente annichilito Ioren. “Sono preoccupato lo stesso, forse a Jordie farà bene … lasciarsi andare un po’, ma Drina, ecco, è Drina …” aveva provato il principe lasciando sfumare la frase per un momento, “A Ravka aveva un mezzo fidanzato, anzi forse più di uno … non lo so, vorrei dirti che i grisha del Piccolo Palazzo sono un mondo a se, ma in realtà mia sorella e la sua compagnia sono proprio una realtà diversa, una molto esclusiva” aveva ammesso leggermente turbato. “Dominik è normale, i fratelli maggiori adorano non avere i fratellini minori girare attorno a loro e i loro amici, posso assicurartelo o tre fratelli maggiori ed una sorella” aveva ricordato Ioren, pensando alla sua aligida famiglia.

Dominik aveva annuito, con lo sguardo peso e poi senza vergogna aveva allungato la mano per rubare l’avanzo del suo caffè nero.

“Ti piacerebbe venire a pranzare con me?” aveva chiesto il principe cambiando bruscamente argomento ed ignorando il suo sguardo indignato per quel furto ingiustificato. Ioren sapeva di dover dire di no, sarebbe stato quanto mai meglio, per lui, per il principe. “Basta che non sia a Piccola Ravka, un uomo può sopportare una certa dose di Bosch nella sua vita” aveva ceduto, perché non poteva nulla contro gli occhi di Dominik, “Oh, Ioren, così mi spezzi il cuore e lo spezzi anche alla signora Pavlina” aveva detto melodrammatico, “Però hai ragione, molto meglio le uova di pesce ed il baccalà” lo aveva presto spietatamente in giro.
“Dominik, l’amore che provo per te è nullo rispetto quello per il baccalà fritto” aveva risposto di getto Ioren, giocoso, prima di realizzare la portata delle parole che aveva usato.

Anche Dominik aveva impiegato un momento di troppo nel realizzare le sue parole, la sua risata fresca si era ammorbidita a metà ed un’espressione ambigua era sorta sul viso, prima che gli occhi azzurri si riempissero di contentezza, le labbra curvate in un sorriso e le gote rosse sul viso. Felice.

Ioren era stato certo che le sue gote fossero più rosse di un paio di melette mature.

Magnus si era avvicinato a loro, tenendo tra le mani una tazza di cioccolata calda fumante – stranamente non il solito caffè macchiato, “Come va, ragazzi?” aveva chiesto con un certo divertimento, “Va piuttosto male” aveva replicato Ioren, “Hai letto il Krant?” aveva domandato retorico, “Oh, sì. Certo, uno schifo” aveva ammesso con una voce piuttosto annoiata, “Ammetto che potrei aver un po’ trascurato i miei doveri universitarie di questi tempi. Cosa è successo?” aveva invece chiesto Dominik con un certo interesse, prima che la conversazione scivolasse in temi comuni, temi più affrontabili.

 

“Stiamo andando al Silver Six?” aveva chiesto perplesso Ioren, riconoscendo con una certa famigliarità le vie aguzze della città. Aveva ricordato con un certo tepore il tempo che avevano speso in una delle stanze inferiori neanche qualche notte prima.

“Sì e no, il silver six è vicino a un ristorante di cucina suli. Hai mai provato la cucina suli?” aveva chiesto Dominik con un certo divertimento. “No!” aveva ammesso Ioren, “Non ci sono Suli a Fjerda” aveva detto, probabilmente c’erano, ma non così tanto. Dominik aveva sorriso, a volte Ioren dimenticava fosse mezzo-suli o un quarto-suli, immaginava non fosse così importante. “A Ravka un po’ di più. La prima volta che ho mangiato un piatto lo ha preparato Najima è un oprichnik di mia sorella, non chiedermi perché” aveva raccontato con innocenza Dominik, “Fa ridere una soldatessa che prende possesso della cucina di palazzo per cucinare” aveva scherzato, “Ma anche mia madre lo ha voluto provare, in realtà è più suli di nome che di fatto, lo parla anche piuttosto male[1]” aveva raccontato Dominik a ruota libera.

“Dovresti provare la cucina Hedjut. Penso la ameresti” aveva ammesso Ioren con assoluta calma. “Probabilmente sì, è molto speziata? Non amo particolarmente la cucina speziata” aveva considerato Dominik, “Jordan dice che la cucina suli è speziata” aveva considerato Ioren. Era stata una delle prime cose che Jordan aveva detto a Ioren, quando avevano pranzato assieme la prima volta ed il suo amico aveva presentato il suo pranzo, ‘Vuoi provarlo? Sappi che è come mangiare carbone ardente’.

“Sì, ma nel posto dove andremo esiste una variante dedicata a me, più sobria. Vantaggi di essere un principe” aveva cinguettato. Quella sciocca ammissione era crollata su Ioren come una valanga.

 

Dietro il Silver Six, c’era un locale di cucina Suli, il nome era scritto sia in alfabeto kerchiano sia in quello ravkiano, entrambi riportavano la stessa parola, anche se a lui risultava sconosciuta: Zhenji.

“Cosa vuol dire?” aveva chiesto Ioren, sotto l’insegna dipinta a mano, accanto alla scritta, piccola, non molto lontano, si vedeva un corvo con un calice nella zampa, il segno che il locale era sotto una banda e non una qualsiasi. Da un lato lanciava un messaggio chiaro come il sole: non fare il furbo, contemporaneamente lo rendeva un bersaglio per chi voleva abbattere il re; ma Ioren poteva ammette che forse il Silver Six con l’argento lucente e le sue perle potesse far decisamente più gola e se preso d’assalto probabilmente avrebbe scaturito più furore. “Figlia” aveva risposto Dominik, “Pensavo si dicesse Meja” aveva considerato Ioren, non aveva studiato benissimo quella lingua, non l’aveva studiata per nulla in vero, aveva solo ascoltato i dialoghi tra Jordan e la pericolosa Juliana Van Eck. “Regola fondamentale del Suli: è una lingua frammentaria, diverse comunità, diverse sfumature ed accezioni. Anche se questo non è il caso: Meja è figlia mia, come i genitori si rivolgono alle proprie figlie, di tanto in tanto anche alle nipoti, mentre Zhenji è figlia più in generale, come dire che Lilyiana è la zhenji della Regina, a volte i Suli lo usano per i bambini orfani, i figli della comunità. Però è anche un modo con cui ci si riferisce ad una ragazza giovane, come quando, qui, ti chiamano: ragazzo o ragazza” aveva spiegato con voce didascalica e professionale Dominik, “A Ravka lo abbiamo solo per le donne: Milaya! Dolce ragazza, mia madre ci chiama così sempre mia sorella e le sue amiche.”

“Penso che sia una cosa molto carina” aveva considerato Ioren, “Ho sempre apprezzato questo senso di comunità dei suli” aveva ammesso, nonché ne sapesse molto, la prima persona che aveva incontrato che aveva il sangue dei viandanti era stata Jordie e sembrava in tutto e per tutto un mercante della ricca Ketterdam. Ed aveva deliberatamente ignorato l’aggiunta su Ravka, i costumi dei suoi vicini lo confondevano più di quelli kerchiani.
“Mia madre chiama così tutte le bambine, mia sorella e compagnia a parte, ovviamente, al Piccolo Palazzo e Zhenj tutti i bambini” aveva replicato con un tono gentile, mentre passavano la porta facendo suonare il campanello che annunciava la loro venuta.

Il locale era piccolo, ma sembrava caloroso ed accogliente, fatto con un pavimento di legno e pareti di mattone, nell’aria senza si poteva sentire un odore speziato e forte.

Una donna era venuta ad accoglierli, era una suli con la pelle marrone come lo zucchero cotto, co capelli grigi, con fili bianco argento, lunghi, raccolti in una treccia bassa. Era minuta di statura, con fianchi larghi e mani dure. Indossava un vestito con le maniche a sbuffo, con il bustino sulla vita. L’abito era allacciato fino al collo ed era di un colore verde bottiglia. Non era molto suli ed aveva un taglio del passato. La donna però aveva un’espressione dolce sul viso. E quando sorrideva somigliava, in maniera quasi invadente, a Jordan.

“Oh! Benve-Principe Dominik che onore averla qui” aveva esclamato con un tono pieno di gioia, “Un piacere vederti Sarika” aveva risposto con la stessa cortesia, prima di presentare anche Ioren con un sonoro, “Il mio amico non ha mai mangiato la cucina Suli” aveva esplicitato, “Mi pare ovvio, è così magro” aveva risposto prontamente la donna, ordinando ad un ragazzino di guidarli verso un tavolo per due. Era ancora presto, per gli standard di Ketterdam, e il ristorante era ancora vuoto.

Ovviamente Kos, l’inferno era comparso alla porta abbastanza velocemente, “Mangi anche tu qui, caro?” aveva chiesto subito la donna, probabilmente abituata a vedere l’Inferno seguire pedissequamente il principe. “Se potessi avere un po’ del tuo pane fritto, non mi lamenterei, mia signora” aveva ammesso quasi con divertimento il grisha.

Ioren apprezzava sicuramente Kos come guardia del corpo, perché nonostante la sua stazza – probabilmente era grosso quanto Stygorn, il suo secondo fratello, alto, grosso e drsukelle – riusciva a rendersi praticamente invisibile. Un ottimo guardiano. Ioren aveva saputo che mentre la giovane erede, la Maleni aveva un gruppo scelto di soldati al Principe di Scorta era stato dato solo Kos, ma era incredibilmente bravo nel suo lavoro. Era silenzioso e discreto, di tanto in tanto Ioren si dimenticava che fosse lì per la maggior parte del tempo. “Immagino lei sia la nonna di Jordan, quella che gli preparava tutti quei pranzi super gustosi” aveva considerato Ioren, mentre prendeva posto, “Sì! Sarika! È una forza della natura, suo marito è il cuoco ed è eccezionale” aveva soffiato il principe piuttosto divertito.

 

 

“Bene, di questo piatto sono innamorato” aveva squittito Ioren, riferendosi alla pasta fritta ripiena di verdure saltate e pollo, davvero certo delle sue parole. C’erano diverse spezie, non riusciva neanche ad identificarle, la sua lingua era in un’estasi di sapori. “Quelli sono i Momos” aveva spiegato Dominik, lui aveva preso una ciotola piena di riso, cipolla ed altre spezie; “I suli sono girovaghi, lo sai, ma questo piatto è tipico delle zone meridionali, a confine con Shu-Han – è un piatto mezzo-shu” aveva spiegato subito Dominik. Il suo sorriso pieno di vista si era un momento cristallizzato.

Ioren aveva tagliato un altro pezzo del suo momos, “Stai pensando a quello che ti ha detto Drina?” aveva domandato, non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto assolutamente chiederlo, dopo che Dominik nell’assoluta innocenza ed ignaro gli aveva detto di come la ravkiana avesse più volte insistito nella sua partecipazione all’insediamento del Trono Celeste, Ioren non avrebbe dovuto fare più domande. “Sì, non ho molta voglia di andare a Shu-Han. Hanno un clima troppo caldo” aveva dismesso la questione Dominik.
Ioren aveva riso, “Mi piacerebbe andarci” aveva confessato lui, poi senza vergogna, “Mi piacerebbe anche andare a Cofton una volta, alle Isole Erranti, pure nelle Colonnie. Djel, mi piacerebbe andare anche a Ravka” aveva ammesso, viaggiare e viaggiare fino a dimenticare la partenza.

“Sankti, mi chiedo proprio come tu possa arrivare a Ravka” aveva scherzato.

Il locale aveva cominciato a riempirsi, era piccolo, ma riusciva a fare una ventina di coperti, che aveva reso il locale decisamente più vivido e meno silenzioso. Per lo più, notava Ioren, erano Suli stessi, vestiti con abiti da lavoro, forse in pausa pranzo dai lavori, in cerca di casa, qualche Ravkiano, vestito da turista e forse un kerchiano, più intenzionato a leggere il giornale che a mangiare il proprio pane fritto.
Ioren provava un vigoroso senso di pace nel non capire tre quarti di quello che udiva, lo aveva riportato ai primi tempi in cui era venuto a vivere a Ketterdam, aveva studiato kerch, per venire all’università, sapeva decisamente meglio il ravkiano, ma era difficile tenere dietro i discorsi che sentiva ronzare nelle sue orecchie.
Sarika aveva offerto loro anche del tè alle rose, più Ravkiano che suli, fatta alla loro maniera: un infuso densissimo che veniva aggiunto ad acqua calda, per diluirlo[2]. Una tazza anche per il silenzioso Kos.
Ioren pensava fosse tutto molto bello: il cibo era gustoso, il te era buono, il locale caloroso e, Djel, Dominik poteva sostituire la luce del sole con il suo sorriso. Ioren aveva, quasi, sentito l’impulso si spingersi in avanti e baciarlo sulle labbra, chiedendosi se anche le sue labbra sapessero di tè alle rose … e poi la tranquillità di quel giorno era stato rotto.

Un uomo della Standtwatch era entrato, vestito e ripulito con un’espressione acre, che non aveva minimamente mascherato, anche quando la padrona Suli si era avvicinata per dargli il benvenuto. Non era da solo ma in compagnia di un gruppo di soldati, tra di loro c’era anche un soldato con la kefta azzurro di rappresentanza del primo esercito di Ravka. “Dobbiamo controllare i clienti ravkiani” aveva spiegato subito l’uomo della guardia.
Sarika aveva incrociato le braccia, ma Ioren poteva osservare che ci fosse un’espressione pregna di preoccupazione sul suo viso, non si scherzava con la polizia, neanche con un corvo appollaiato sulla spalla, non si poteva mai sapere chi riempiva le tasche dell’uomo.

Kos si era sollevato, “Che succede?” aveva chiesto, affiancandosi a Sarika, con la sua stazza, poi si era rivolto al ravkiano, capelli scuri e viso pallido, così anonimo da scomparire, aveva posto delle domande in Ravkiano, mostrando qualcosa che aveva recuperato dalla manica interna ed amplia della sua kefta, probabilmente il sigillo reale a testimoniare i suoi diretti superiori.

L’uomo dall’uniforme azzurra aveva un momento di manchevolezza, ma dopo essersi ripreso detto qualcosa, con un tono basso, confidenziale e lontano dalle loro orecchie, prima di passare un foglio a Kos.
Kos lo aveva guardato la sua espressione era rimasta ieratica, però si era voltato verso di loro, aveva fatto un cenno e l’uomo aveva sussultato quando gli aveva scorti, poi si era chinato rispettoso.
La Standtwatch aveva controllato tutti gli avventori ravkiani, anche i suli che spergiuravano di non esserlo, uno dei soldati aveva tastato le guance delle donne, forse in cerca di sartoria. Avevano evitato Dominik. Poi era andati via, rudi, davanti lo sguardo indignato di Sarika. “Queste cose sono indecenti” aveva detto brusca la donna, “Ho tutta l’intenzione di parlarne con il mio mjho” aveva esclamato con un tono aspro, mentre si preoccupava di dare ai suoi clienti dei dolcetti fritti per l’imbarazzo. Quelle parole, ed orecchie consapevoli, avrebbero messo Kerch sull’attenti, perché Ioran scommetteva che Inej Ghafa non avesse nessun fratello misterioso.
“Mi chiedo chi stessero cercando” aveva considerato l’unico uomo Kerchiano del locale, mettendo via il quotidiano, “Il giornale non ha detto di nessuna rapina, attentato o altro” aveva ammesso.
Dominik stava guardando Kos però.

“Andiamo” aveva stabilito guardando Ioren, prima di lasciare una manciata di kruge, più di quanto venisse il prezzo del loro pasto a Sarika. La donna gli aveva guardati, “Fate attenzione” li aveva congedati lei preoccupata.

Kos li aveva anticipati fuori, “Quanto è grave?” aveva chiesto Dominik, guardando la sua guardia, “Non so, dipende” aveva risposto l’inferno, prima di mordersi un labbro, “Possiamo andare al … Club dei Corvi, moy tsarevich?” aveva chiesto.

Kos non poteva lasciare Dominik e proseguire i suoi affari, per tal ragione, Ioren stabiliva la cosa lo preoccupasse molto. “Sì, ho casualmente dietro il medaglione di mia nonna Tatiana da giocarmi” aveva scherzato forzatamente Dominik, prendendo la mano di Ioren.

L’Inferno non aveva particolarmente apprezzato la battuta, “Uhm … ti va di spiegare, comunque? Così per i principi ignoranti?” aveva chiesto retorico, “Penso che questa notte saremmo dovuti rincasare all’ambasciata” aveva spiegato con estrema calma.

“Va bene, continuiamo con il mistero, rende la vita piena di brio” aveva ridacchiato Dominik, anche se la sua vena di battute sembrava molto meno piena.

Nonostante fosse primo pomeriggio, il locale nei pressi di Quinto Porto era brulicanti di turisti, disperati e grassi piccioni. “Kos?” aveva chiesto Dominik quando aveva visto la sua guardia del corpo guardarsi con espressione piena di preoccupazione per la tavola.

“Oh, ma guarda chi è!” una voce sguainata e ravkiana aveva catturato la loro attenzione, Ioren non aveva idea di chi fosse, ma aveva potuto riconoscere un uomo dai riccioli serpentine ed uniforme crema, non era sicura di sapere che ordine fosse. “Gavrillo!” aveva detto solamente Dominik, che doveva conoscere l’uomo abbastanza bene, dandoli una pacca sulle spalle, “Kos ti permette di prendere le vie della perdizione, male-male” aveva scherzato con estremo divertimento l’uomo, mettendo un braccio attorno alle spalle del principe, come se fosse stato il suo migliore amico. Aveva le guance rosate ed un’espressione piena di divertimento. “Gavi, la maes-Ekaterina è qui?” aveva domandato Kos.
“Ekaterina? Ekaterina Rurik? Molto attraente e molto pazza?” aveva chiesto retorico, “Sì, alta una pertica, con capelli lunghi ed il senso-di-colpa fatta persona” aveva risposto Kos con un tono perentorio. “Come sempre quando è a Ketterdam, la puoi trovare al bancone che affoga le sue disperazioni in whisky al miele” aveva risposto annoiato l’uomo, prima di strizzare gli occhi, “Che sta succedendo Kostantyn?” aveva chiesto poi.
Kos aveva sorriso scavalcandolo per raggiungere la donna al bancone, Dominik e Ioren lo avevano seguiti assolutamente incerti e terribilmente incuriositi.

 

L’Inferno aveva raggiunto una donna, in pantaloni di pelle rigida ed una camicia bianca di cotone, capelli biondo fragola ondeggiati che scendevano lunghi sulla schiena ed un bel viso arrosato, aveva una lama legata alla coscia con una cintura e non sembrava turbata dalla cosa.

Aveva un bicchierino di wisky tra le dita bianche. Se Ioren avesse dovuto tirare ad indovinare, senza sapere il nome o la sua compagnia, avrebbe scommesso fosse una ravkiana, aveva il viso tondo e la pelle rosa bruciata dal sole. Kos le aveva messo una mano sulla spalla, lei aveva sollevato lo sguardo, con occhi blu-turchese si erano illuminati appena lo aveva conosciuto, tirandosi in piedi per abbracciarlo. Ekaterina era alta, e magra, ma sfigurava davanti l’Inferno. “Kos che sta succedendo?” aveva chiesto Dominik, con poca pazienza sul viso. Era strano per Ioren vederlo preoccupato, vederlo agitato, il principe di Ravka era sempre così calmo e preparato.
“Si … è …” Kos era sembrato titubante nel pronunciare le sue parole, come se ci fosse del fuoco anche sulle sue labbra oltre che sulle sue dita. Dominik aveva aggrottato le sopracciglia bionde, ma Ioren aveva capito, “Io penso … non possano dirtelo” aveva mormorato nell’orecchio del suo amico, “E’ya Tsarevich dva Ravka” aveva detto perentorio Dominik, una combinazione di parole così precisa che Ioren non aveva mai sentito quella parole in un anno, io sono il principe di Ravka.

O meglio, le aveva sentite, ma non utilizzate con quel tono così perentorio.

Io sono il principe di Ravka, realtà ineluttabile, che perforava il cuore di Ioren come una lama, che metteva tra loro una distanza inarrestabile.


“Sembri proprio sua maestà” aveva detto Ekaterina con un tono divertito, quasi ignorante delle parole che erano state pronunciate, con le gote ancora rosse dal wisky con il miele. Kos aveva sospirato, quasi stanco, “Moy Tsarevich, temo che dirlo potrebbe essere tradimento… per me” aveva confessato, “Ma in cuor mio io … devo agire per le vie che ritengo giuste, come professa sempre il nostro Gavrillo” aveva confessato mettendo una mano sul cuore.

“Sankti, cosa stai combinando Kostantyn?” aveva chiesto Ekaterina, tutto il rossore dell’alchool sembrava essersi asciugato dalle sue guance. “Allora rimangio ciò che ho detto: Na tsarevich dva ravka” aveva asserito, come se quella realtà si potesse davvero cancellare con una negazione, “Sono il ragazzo sciocco che studia Filosofia e lettere[3]” aveva sputato fuori.

Kos aveva annuito, negli occhi blu c’era della gratitudine. E Ioren si era sentito male, aveva sentito la bile risalire in gola, non voleva essere partecipe di quello, non voleva assistere, se così fosse stato all’ora, si sarebbe sentito in obbligo di scriverlo a Bjorn.

“Riguarda Drina” aveva detto Kos ed anche Ioren aveva sentito le spalle drizzarsi, pensando alla bella Ravkiana che aveva catturato il loro Jordie nella sua tela. Ekaterina era diventata esangue, “Cosa … cosa è successo a Drina?” c’era terrore nella sua voce.

Kostantyn Benznako!” una voce li aveva chiamati, più e più volte, distraendoli nuovamente, Ioren ricordava di aver sentito una volta da Dominik che quella parola voleva dire: causa persa, era il modo offensivo con cui ci si riferiva agli orfani.

Kostantyn si era fatto rigido come una spada, mentre osservava tra le teste che dominavano il club un uomo avvicinarsi. Ioren era rimasto turbato dalla sua vista, “Che i Sankti ti abbiano in gloria buon Kostantyn” aveva detto l’uomo avvolgendo le mani intorno alle guance di Kostantyn come se fosse stato il suo più vecchio amico, “Ero lì a cincischiare quando ho riconosciuto il mio buon fratello di scienza”. Un altro etherealki o, forse, un altro Inferno.
Ioren, però, conosceva quella morsa, non c’era gentilezza o familiarità, ma una muta pretesa, così come non c’era gioiosità nello sguardo di Kos. “Mal” aveva detto cupo Kos, forzando un sorriso che poco si prestava alle sue labbra.

Parlava ravkiano ma il suo accento trascinava un’altra origine, forse kerchiana, forse kaelish.

L’uomo aveva i capelli rosso-castani, con qualche onda morbida, una pelle bianca come il latte, quasi bluastra, cosparsa di lentiggini, non mancavano efelidi fastidiose a chiazzarle. Vestiva in nero, di cuoio e di pelle, una figura alta e longilinea. Quello che stregava e spaventava Ioren era che il viso, le mani, anche le orecchie non erano esenti da cicatrici brutali. In alcune parti, mancava anche qualcosa. Sembrava essere passato sotto le mani di un macellaio.

Ekaterina aveva aggrottato le sopracciglia. “Il prode Malcom Gwyndip, qui a Kerch” aveva attirato l’attenzione Dominik, che doveva conoscere anche l’uomo, quello si era allontanando subito da Kos per cercare la voce, “Oh! Sua altezza moy tsarevich” aveva detto con un tono di finta cortesia, esibendosi in una riverenza fin troppo esagerata, quasi parodistica. “Mal …” lo aveva chiamato ancora Kos, “Dovevo immaginare che Kos non avrebbe mai abbandonato il tuo fianco, siete qui per divertirvi, Moy Tsarevich?” aveva chiesto con finta cortesia Malcom.

“Ci hai scoperto Mal” aveva detto Dominik, calcando molto sul nomignolo dell’uomo, “Vengo a spendere i soldi del tesoro di Ravka nelle tavole da gioco” aveva risposto con un sorriso pieno di illusioni. “Immagino non sia niente di sconveniente, ho piena fiducia nelle abilità di controllo del nostro buon Kos” aveva considerato.
Ioren non conosceva le dinamiche tra loro ma scommetteva che qualsiasi cosa stesse avvenendo doveva avere strati su strati di conflitto. “E tu, Mal, ti stai godendo del meritato riposo?” aveva domandato Kos, inghiottendo un rospo. Ioren aveva voltato lo sguardo verso Ekaterina, il rosso dell’alcool sul suo viso si era fatto meno evidente e stava cominciando a realizzare quello che stava succedendo. “Primo: sai che non mi riposo mai, secondo: sai esattamente perché sono qui” aveva risposto Mal con un sorriso sornione sul viso. “No, non lo sappiamo, non torno all’ambasciata ormai da tre giorni, credo” aveva borbottato Dominik, “In effetti sono anche un po’ offeso che il Conte non abbia spedito nessuno a cercarmi” si era intromesso il principe.
Il sorriso di Mal era rimasto intonso, ma gli occhi si erano fatti pieni di acredine, non provava stima per Dominik, nessuna, in alcuna maniera, era evidente. “Bene, sua altezza, sono qui per conto di sua altezza reale la tsarevich” aveva enunciato l’uomo. “Oh, Sankti, Liliyana ti ha incaricato di prendermi per spedirmi a fare il concubino della futura regina Dalai?” aveva scherzato Dominik. La strana risposta del principe aveva per un secondo confuso il soldato, “No” aveva detto con le sopracciglia rame arricciate, “Sono qui per arrestare Dr… Ana Aleksandra Rosen” aveva sputato fuori.

“Drina?” si era lasciato sfuggire Dominik, sconvolto davanti quella prospettiva, “Drina è in arresto?” aveva chiesto, Ioren aveva guardato Kos, la sua espressione era cinerea. Aveva capito, il guardiano Inferno del principe aveva voluto avvertire la sua amica, in qualche maniera.

“No, cosa, perché?” era stata la prima cosa che aveva detto Ekaterina da quando era arrivato Mal, che improvvisamente sembrava aver registrato la presenza della donna e di Ioren. “Conosce la signorina Rosen mi sembra evidente” aveva considerato Mal, “Sì!” aveva detto Ekaterina, “Era con noi quando ci hanno valutati” si era intromesso Kos, “Insegnavo al Piccolo Palazzo …” aveva ammesso la donna, con un tono colmo di dolore nella voce.

“Che ha combinato Drina?” aveva domandato Dominik, riacquistando l’attenzione su sé stesso, “Anzi no, cosa quella pazza di mia sorella pensa abbia fatto?” aveva domandato. Una furia cieca rossa che era balzata negli occhi scuri, ma non aveva fatto nulla, non avrebbe potuto fargli nulla, perché Dominik era il principe. “Presumo che abbia tirato troppo la corda, la signorina Rosen ten-” le parole di Malcom era state interrotte da Kos, “Drina! Smettila di chiamarla signorina Rosen, siete amici da anni” lo aveva rimproverato. Le gote rosse del ragazzo Kaelish avevano trovato un’improvvisa nuova colorazione, aveva boccheggiato un secondo, come un pesce, ma poi aveva ripreso quel sorriso irto, “Questo non cambia che la tsarevich la ha segnata come persona di interesse e che debba essere scorata con urugenza a Ravka” aveva detto secco, “Ma pare che… Drina abbia lasciato l’ambasciata ed ho pensato che il suo buon Kostantyn sapesse dove fosse” aveva detto.
“Mi dispiace, non posso aiutarti” aveva commentato Kos, Malcom non era sembrato convinto, “Anche il tuo amico Cignaz diceva così, eppure ora sono qui” aveva aggiunto. Un’espressione angosciante si era palesata sul viso di Kos, “Chei hai fatto a Cignaz?” aveva chiesto con brutale urgenza, ma Malcom non lo aveva degnato di risposta, specie quando il principe aveva parlato.

“Non mente, Drina se ne è andata tre giorni fa, anche Ioren, qui, può confermarlo, l’abbiamo accompagnata alla stazione dei treni. Forse voleva farsi il giro della costa o delle città dell’entro terra, che ne so” aveva borbottato Dominik, introducendosi nel discorso.

Mal non era sembrato felice, ma Ioren si rendeva conto che non avrebbe potuto contraddire il principe, quello che dicevano i reali era di norma legge. “Nessuna idea? Che sfortunata” aveva detto Mal, “Se doveste scoprire qualcosa non esitate a dirlo a me o anche alla pittoresca guardia cittadina di questo luogo” aveva buttato fuori l’uomo, “Non mancheremo Mal” aveva detto il principe. “Anche perché non consegnare la posizione della signorina Rosen vorrebbe dire agire direttamente contro gli interessi di Ravka” aveva aggiunto malevolo l’uomo, “Non mancheremo mai. Adesso, perdonaci ma la splendida signora qui presente si è offerta di soffiare sui miei dati” aveva detto Dominik, ammiccando ad Ekaterina.

“Pensavo lei stesse frequentando una donna zemeni” aveva considerato Malcom, non senza indugio sul viso di Ekaterina, era difficile stabilire quanti anni avesse, ma era sicuramente più vecchia di loro, però era ancora piacevole. Aveva un viso dolce, anche animato dalla preoccupazione. “Ed io pensavo che una guardia di palazzo non potesse inquisire con chi si accompagna o non si accompagna il principe di Ravka” aveva risposto secco Dominik.

L’umiliazione era avvampata sulle guance di Malcom, “Non mi permetterei mai, moy tsarevich.”

 

“Quindi Malcom?” aveva chiesto Ioren, “È uno psicopatico, credo sia anche normale, mia sorella mi ha detto che ha avuto una vita di merda. I suoi genitori lo hanno usato come una reliquia umana, poi ha tentato la grande fuga sulla via delle ossa per essere preso dagli schiavisti e venduto alla Panzer Konsti dove chi sa che esperimenti mostruosi gli han fatto … Ma fidati l’ultima volta che sono stato a Ravka alla festa di Sankt Ilya, lui e Drina erano in ottimi rapporti” aveva esclamato Dominik, sembrava frustrato e nervoso.
Si erano allontanati da Ekaterina e Kos, preferendo dare alla sua guarda del corpo un momento personale. Il Club del Corvo era un posto meno elegante del Silver Six, odorava di bettola e bassi fondi, ma era diventato caratteristico di Ketterdam, quasi turistico, dava alla gente quel brivido di poter ritornare a casa e dire di essere stati nella parte cattiva di Kerch.

E non aveva delle stanze private da poter affittare, perciò era stato difficile trovare un luogo dove rifugiarsi, ma Dominik non mancava di questo talento.

Ed aveva trovato un sottoscala.

E a Ioren non dispiaceva stare con lui, in uno spazio così angusto, se avesse potuto scegliere avrebbe preferito averlo sempre così.

“Una volta ha cercato di bruciarmi via la faccia, non lo posso dimostrare ma è così. È, tipo, il cane da guardia di mia sorella” aveva spiegato. “Perché tua sorella vorrebbe che ti venisse bruciata la faccia?” aveva chiesto retorico Dominik, “Non direttamente lei, credo che mi voglia anche bene, i suoi sostenitori d’altronde” aveva ammesso il principe con un tono basso. Ioren non era riuscito a trattenere l’arricciamento della sua fronte, la sua confusione, “Cosa intendi?” aveva chiesto retorico Ioren.

“Niente tribolazioni alla Corte di Ghiaccio?” aveva chiesto retorico Dominik, anche un po’ sdegnato, “Non ne ho idea” aveva mentito Ioren, “Sono il quinto figlio di un conte minore” aveva aggiunto.

Però aveva seguito il seminario con Bjorn Rasmos, che prima di essere un devoto servo di Djel era un principe ed anche con il saio indosso era il secondo in linea di successioni al trono di Fjerda dopo il principe Matthias, figlio del Re in carica. Il padre di Bjorn era stato estromesso, dopo aver tentato di usurpare il trono di Re Egemond.
E differentemente dal giovanissimo Matthias, la madre di Bjorn non era un’ambigua figura. Improvvisamente la lettera nella sua tracolla aveva ripreso a prendere fuoco, pesante come un macigno.


Dominik aveva sbuffato, “Be, a Ravka le cose sono complicate. Tutti amano mia madre: perchè è un drago, un drago probabilmente immortale. La hanno avvelenata due volte e non è morta” aveva spiegato il principe, “Si ho sentito che i grisha potenti sono praticamente immortali” aveva ammesso Ioren. Dominik aveva annuito, “A casa facciamo finta di non pensare a questo. Sai deprime molto mio padre ed anche mia madre” aveva fatto una pausa, “Comunque, molta gente lo ignora e guarda il momento in cui mia madre deporrà la corona, per pensare al suo successore” aveva ripreso a parlare, “Diciamo che, ecco, io ho più sostenitori di mia sorella da questo punto di vita, non che mi importi, fare il principe di scorta è il sogno, ancora più sogno sarebbe essere il Frutto dell’Autunno” aveva ammesso.

Questo, aveva pensato Ioren, era dannatamente interessante e si sentiva così in colpa all’idea di dover riportare tutte queste informazioni, “Perché?” aveva chiesto, “Oh, perché? Non è evidente? Sono meraviglioso, bellissimo e pieno di fascino” aveva replicato come una battuta Dominik. E a detta di Ioren nessuna di quelle era una menzogna, mentre alla principessa di Ravka la gente si appellava come la meleni, lo spettro. “Stupido” lo aveva rimproverato bonariamente Ioren.

“Vorrei dirti che è per il mio carisma o perché Lilyiana è una viziosa, ma non è vero. Lei è brava, buona e quando si impegna è anche una politicante brava quanto mio padre” aveva raccontato Dominik, prima di fare una pausa, accompagnata da un sospiro, “È perché sono un otkazat’sya, sono maschio e sono bianco, circa, abbastanza bianco” aveva buttato fuori.

Ioren aveva schiuso le labbra, “Non ha senso, insomma … tua madre” aveva dichiarato il Fjerdiano, “Intendi con il fatto che è grisha, donna e suli?” aveva chiesto retorico il principe Dominik, lui aveva annuito con calma, confuso, “Mia madre è un drago, Ioren. È un drago immortale, quando passa in volo su Os Alta, può oscurare il Gran Palazzo, che è sempre un gran merito; chi potrebbe contestare la Regina Drago? La Sankta Vivente?” aveva chiesto, ma non aveva dato a Ioren il tempo di rispondere, “Ma Liliyana è una semplice, per modo di dire si intende, grisha etherealki. Sicuramente è intelligente come persona, brillante come politica e capace come grisha, posso dirti che è una delle poche in grado di mutare in un animale in una forma completa – anzi lo sa fare anche solo a pezzi – ma non è la regina drago.”

Ioren era rimasto muto a quello sfogo, davvero, “Sei qui per questo?” aveva chiesto Ioren, “Anche, tra le cose. Per primo volevo prendere il volo dal Gran Palazzo” aveva ammesso.

Lui aveva annuito alla fine, cercando di metabolizzare tutte quelle informazioni, “Pensi che la faccenda di Drina riguardi questo? Forse ha scelto di parteggiare per te?” aveva domandato retorico.
Dominik aveva riso, “Sankti no! Drina si mangerebbe le sue mani prima di fare una cosa del genere. Lei e Liliyana sono sorelle di giuramento, sono pola duše, o qualche cazzata simile” aveva ammesso calmo. Ioren trovava quella situazione davvero caotica, incredibilmente caotica, “È per Shu-Han” aveva dichiarato Dominik.
Oh.
Oh.
L’Ascesa al Trono Celeste.

“Drina vuole far saltare i negoziati di pace con Shu-Han?” aveva chiesto Ioren preoccupato, l’espressione di Dominik si era fatta granitica, “No! Come ti viene in mente, no!” aveva risposto repentino, “Lei vuole che io vada a Shu-Han, affinché smetta di gozzovigliare qui a Ketterdam e faccia il mio dovere per Ravka e, forse, mia sorella potrebbe aver interpretare le cose a modo suo” aveva ammesso, calmo, quasi serafico. “Quindi avevo ragione, non del tutto, forse Drina non ha cambiato partito ma la principessa pensa che lo abbia fatto” aveva detto Ioren, “E le ha mandato contro il suo cane da caccia sputa fuoco? Può darsi … Sai tutti danno per scontato che lei sia la figlia di mia madre ed io di mio padre, ma sankti, Lilyiana sa essere molto più fredda e logica di me, spesso e volentieri” aveva fatto una lunga pausa, “Ma sfortunatamente lei ha anche ereditato il carattere iroso di nonna Tatiana” aveva considerato il principe.

Ioren aveva cercato di sdrammatizzare la situazione: “Di buono c’è che abbiamo più carte di loro da giocarci” aveva considerato, “Quali?” aveva chiesto Dominik che non sembrava per nulla coinvolto nel gioco, “Che al momento Drina è con il figlio dell’Eroina del Mare Vero” aveva detto.

Non si sarebbero mai azzardati a far sfigurare il figlio di Inej Ghafa … e di Kaz Brekker.

 

 

NOTA FINALE: Bene signori e signore, abbiamo concluso la prima parte di questa storia, abbiamo presentato i personaggi e presentato l’inizio delle loro vicende ed è dunque un bel momento per dirvi che i prossimi capitoli saranno dedicati unicamente ad una linea sola temporale (salvo dovessi cambiare idea) per una saga specifica, che chiaramente poi sarà lasciata indietro in favore delle altre due (o per un po’ tratterò una linea per volta).
Comunque, non ho intenzioni di diversi quale linea temporale sarà, così vi lascio sulle spine.

Abbiamo lasciato il 22 con la morte di Cait e questi giovani sventurati nel bel mezzo del nulla; il 28 con Drina che sta effettivamente pianificando qualcosa e Llilyiana pure, senza dimenticare l’ascesa al trono di Dalai (SOON) e il 40 con l’inizio dei festeggiamenti del secondo ventennale, con Matthias che prende atto della verità e Lissa che organizza un matrimonio segreto.

Mi sembra che siano tre cliffangher carini per la trama.



[1] Bellissimo che Zoya si identifichi in Suli alla fine della saga, ma credo abbia passato oltre vent’anni a fare finta di non esserlo. Non è stata cresciuta come Suli e per questo immagino abbia molte lacune e che le abbia passate ai suoi figli che a modo loro hanno cercato di metterci pezza (almeno Dominik).

[2] Foto autorevole: LarcheeX.

[3] Nell’ottocento non esisteva economia, sad story sad, così ho scelto Lettere e Filosofia, se ve lo stesse chiedendo: Dominik studia filosofia (ma è più simile a filosofia economica e matematica o qualcosa del genere … uhm uhm). Già che ci sono: Ioren frequenta anche Lettere e Filosofia, ma è un indirizzo più legato alla letteratura e la grammatica, Jordie studia Legge (ma aspirà ad essere più un notaio che un avvocato. Ne riparleremo) e Magnus Scienze fisiche e naturali – e Ingegneria, per lo più. Le cose sono abbastanza caotiche, comunque, in un modo o nell’altro si sono scontrati tutti.

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Capitolo 19
*** Alina I (40 D.F.) ***


Indovinate chi non ha ancora cambiato lavoro? IO SI’. E chi sta piangendo perché è indietro nella stesura del lavoro? SEMPRE IO.
Però ho deciso di aggiornare. Come sempre il prossimo aggiornamento è difficile da stabilire, sicuramente più di venti giorni.
Nuova parte: nuovo narratore.

Un bacio
RLandH

 

ALINA

(40 anni dalla Dissoluzione della Faglia)

 

I capelli caramello di Alina si erano alzati in un turbinio di vento, non così forte da darle fastidio, anzi in un modo quasi gentile e delicato. “Oh ma che bravo!” aveva detto, battendo le mani davanti al suo piccolo nipote.

Juris le aveva sorriso tutto denti. Quando aveva pronunciato quelle parole Alina aveva realizzato di averle pronunciate senza rancore o invidia, era stato diverso da quando vedeva sua madre o Lilyiana, usare la Piccola Scienza. In quelle occasioni sempre un pensiero orribile fioriva nella sua testa: ‘Perché io, no?’, ma non provava quelle emozioni, né nulla di simile, quando vedeva il suo nipotino manifestare il suo vento.

Voleva bene a Juris, ricordava ancora la prima volta che Liliyana le aveva concesso di prenderlo in braccio. Ricordava di aver provato un terrore folle che potesse cadere e la mano amichevole sulla sua spalla, ‘Stai andando bene’ aveva aggiunto confidente.

“Sto diventando bravo” aveva detto il bambino con un tono di voce pieno di gioia, con una pronuncia perfetta, senza sbavature, come un piccolo uomo in miniatura che un bambino. “Ieri la Regina Dalai ha detto che ho recitato perfettamente la Danza dei Petali Rosa” aveva comunicato con allegrezza, “Oh sei stato molto incisivo, sei l’unico oratore per cui non ho dormito” aveva ammesso Alina, mentre passava le dita tra i capelli per cercare di risistemarli dopo la folata del suo piccolo nipote.

La serata nella Sala delle Letture per accogliere i reali di Shu-Han era stata uno degli eventi più noiosi a cui Alina avesse partecipato; fino a qualche anno prima sarebbe riuscita a sfuggire a quegli incarichi, ma dà che aveva compiuto quattordici anni sua madre l’aveva costretta a presenziare ad ogni evento della corte. Tranne le dimostrazioni e le feste alla Palude d’Oro, quelle le erano rimaste precluse, fino a quel momento. Suo padre, suo cognato ed il conte Kirigin avevano organizzato una festa e a lei, per la prima volta, era stato accordato di poter partecipare. Era felice, dannatamente felice.

Questo non toglieva che si era quasi addormentata sulla sedia durante la serata di poesie, suo nipote uno dei primi oratori aveva goduto della sua attenzione, gli altri erano stati un caotico scambio di parole, fino all’intellettuale Fjerdiano che aveva recitato questo componimento così deprimente che Alina aveva quasi pianto. Merissa Nassau lo aveva fatto senza vergogna, come se fosse stata personalmente lei l’oggetto di quello struggimento, forse lo era; Alina quasi si pentiva di non aver indagato oltre. Sua sorella, di rimando, si era adirata parecchio, per qualche ragione – non che a Lilyiana servisse una ragione per essere adirata.

Forse era un vecchio amante, Alina non sapeva niente in questione, sua sorella era sempre stata riservata in materia, ben attenta a non permettere a nessun pettegolezzo di sfuggire alle porte della sua camera, tranne il Conte di Ivets, che era il soggetto preferito dei libelli erotici che riguardavano sua sorella, dopo Dominik. Alina vibrava ancora per quel maldicenza così sfacciata e disgustosa.

“Certo, è stato così bravo che per poco quella sfacciata di Dalai lo prometteva in sposa alla sua orrida bambina” aveva sentito la voce di sua sorella, che era seduta lì vicino, mentre faceva tremolare le ginocchia su cui c’era il Piccolo Nikolai. Era strano vederla così morbida e gentile. La maternità aveva rovesciato Lilyana da capo a piedi, suo padre diceva che era capitato anche alla loro madre.
“Chabi è carina” aveva squittito Juris, “Molto più bella di Caitlyn!” aveva aggiunto.

Per non trovare simpatia per la ragazzina materialki, suo nipote l’aveva ben segnata a ferro e fuoco nella sua mente, aveva considerato Alina.

 “Indubbiamente, probabilmente le Taban buttano dalla finestra le principesse brutte” aveva replicato sua sorella secca, decidendo di sorvolare sul commento sulla piccola Caitlyn, “Ma la bellezza non è tutto, Juris’kho. Un serpente può partorire solo un serpente” aveva ammesso. “Tecnicamente secondo le leggende un serpente può partorire un basilisco o una coccatrice” aveva detto Alina.
“Vorrei dire che la vita vera è un’altra cosa, ma nostra madre è mezza-rettile ed ha partorito noi” aveva risposto Liliyana, accompagnando con la frase un movimento del polso che doveva fingere il mondo. “Mi stai dicendo che Dominik non aveva la coda quando è nato?” aveva chiesto Alina con una punta di divertimento, “Oh, no, lui aveva le zampe di pollo, tu avevi la coda” aveva risposto Lilyiana pungente.

Alina sapeva di non essere sempre piaciuta a sua sorella, all’inizio, era nata, anzi era stata concepita, in un momento incredibilmente strano della vita di Lilyiana ma negli ultimi anni si erano avvicinate, almeno da quando sua sorella si era decisa a volere che lei avesse un ruolo più politico. Forse si era accorta che probabilmente Alina un giorno avrebbe dovuto sposare un pari che si sarebbe aspettato una principessa e non quel pasticcio che era lei.

Nonostante tutte le buone premesse di sua sorella, Alina le disattendeva spesso; almeno era riuscita a liberarsi dello sguardo vigile di sua madre.

La Regina Zoya era stata un’avventuriera, aveva permesso ai suoi figli di esserlo, ma non alla sua piccola figliola, al suo prezioso Frutto dell’Autunno. “E Caitlyn è un serpente?” aveva chiesto Juris, con una discreta faccia di bronzo, “Più una pica-pica” aveva considerato Liliyana, che doveva aver perso tempo a parlare con la bambina. “Dominik mi ha detto che le piche-piche sono le guide per il villaggio stregato di Zikevo, ai confini del mondo, lo stesso luogo da cui viene la nonna-Regina[1]” aveva considerato il bambino.

Oh, Dominik!

Un’espressione strana era balenata sul viso di sua sorella, che lei aveva poi rigettato dietro una maschera di tranquillità controllata.

“Può darsi, ma scommetto che l’Uccello di Fuoco sarebbe altrettanto capace” aveva riso Lilyana.


“Come è stato l’appuntamento di ieri con il principe Matthias? Con l’arrivo di Dalai non sono riuscita a chiederti nulla” aveva inquisito sua sorella, quando Juris si era stufato di pretendere la loro attenzione ed aveva preferito stendersi sul pavimento a disegnare con dei pastelli a cera. Un po’ sui fogli, un po’ sul marmo travertino. Alina aveva potuto spiare che il suo piccolo nipotino si era dedicato alla rappresentazione di un volatine – forse una pica-pica?

Alina era avvampata quando aveva realizzato la domanda di Liliyana, “Oh, be. Credo sia il ragazzo più noioso di sempre” aveva raccontato, anche se non era del tutto vero, “Inoltre, Dominik lo ha traumatizzato e credo si plasmi il viso per essere così carino, perciò, presumo sia piuttosto bruttino” aveva buttato fuori e si era dimenticato di lui per inseguire Meesha, al Piccolo Palazzo. Oh, la sua bella Meesha. “Ho appena detto che la bellezza non conta molto” aveva replicato sua sorella, sterile.
“Sì, infatti, non dimentichiamo il non trascurabile dettaglio che sarà il futuro Re di Fjerda, complotti di cugini permettendo” aveva ricordato Alina con assoluta calma, aggiustandosi sulla sedia. Indossava un abito, di quelli tagliati sotto il seno, di un colore indaco, che la faceva sentire a disagio. Sua madre era perfetta nella kefta, nella seta ed anche nel sarafan, così come Lilyiana sembrava naturalmente fatta per indossare il lusso e il velluto, Alina, invece, non aveva nulla della loro sicurezza e in un bel vestito si sentiva sempre intrappolata.

“Comunque, visto che sarà il re di Fjerda, quando abbiamo tirato al piattello lo ho lasciato vincere” aveva ammesso, guardando di sottecchi sua sorella. Stessi occhi caldi di loro padre, caldi, ma attenti.
Matthias Grimjor non era un cattivo tiratore, anzi uno dei migliori, Alina non si era dovuta sforzare più di troppo per sbagliare, solo un tiro, praticamente. “Oh!” aveva detto sua sorella, “Parleremo dopo di Dominik, prima: ricordati che non devi mai sminuirti per nessuno” le aveva intimato assertiva Liliyana.
“Perché sono la principessa di Ravka?” aveva chiesto retorica la più giovane.
“Sì, perché sei la principessa di Ravka, la figlia della Regina Drago, mia sorella … e soprattutto Alina Zoyaenva Nazyalensky, una ragazza testarda” le aveva risposto più materna. “Poi zia Alina tu potresti sparare tra le antenne di un ape se volessi” aveva detto Juris, unendosi a sua madre nelle sue lodi. Alina aveva sorriso, con il cuore riscaldato.

“Allora, cosa ha combinato Dominik?” aveva inquisito Liliyana, sospirando leggermente frustrata. “Sai, nulla di diverso dalle sue solite maniere, Dominik non è in grado di nascondere la sua incompatibilità con Fjerda. Sai come papà odia Kerch, tu Shu Han, lui Fjerda e mamma tutti, penso che dovrei trovare un posto da odiare anche io. Le Isole Erranti come ti sembrano?” aveva chiesto Alina quasi divertita, “Il Marshal mi sembra un uomo gentile, ma a odiare Novyi Zem non mi ci vedo proprio”.
Certo da un paio d’anni a questa parte suo fratello aveva reso piuttosto palese la sua intolleranza per il loro antico nemico, nonostante fossero anni che erano in pace con Fjerda, che parte del loro sangue fosse Fjerdiano, ma l’interrogatorio che suo fratello aveva riservato al noioso principe Matthias era stato tremendamente sfacciato. “Juris e il Piccolo Nicolai potrebbero prendere Novyi Zem e le Colonie” aveva cinguettato continuando quel gioco stupido, ma la sua dolcezza si era esaurita nel momento in cui aveva incontrato gli occhi gialli, come uno specchio di prosecco, di suo nipote.
Juris aveva le palpebre spalancate e continuava a far saettare lo sguardo dalla zia alla madre, “Eej[2]?” aveva domandato il piccolo Juris a sua madre, mentre Liliyana faceva scorrere le dita tra i capelli scuri del suo figlioletto ancora in fasce. Suo nipote aveva usato la parola Shu per madre, o almeno di una regione del regno. “Tua zia fraintende le mie emozioni, moy sesh” aveva detto chiara Lilyana, miscelando shu e ravkiano, “Come potrei mai odiare il luogo che mi ha dato dei figli così dolci?” aveva chiesto baciando la fronte del piccolo Nikolai e sollevando un braccio per accogliere Juris nel suo abbraccio. Il bambino si era subito fiondato nell’offerta di sua madre.

Alina si era morsa le labbra, piena di vergogna.

Indipendentemente da qualsiasi sentimento sua sorella potesse nutrire per il regno oltre le montagne o per la sua altezzosa regina, aveva, comunque, sposato un uomo Shu ed aveva avuto da lui figli con occhi allungati, “Sì, Juris … tua zia parla senza riflettere” aveva accordato Alina. Sua sorella le aveva lanciato uno sguardo piuttosto infastidito, cosa che aveva fatto arrossire di imbarazzo lei. Aveva stretto le dita fino a far diventare bianche le nocche.

 

“Fate una riunione di famiglia senza di me? Dovrei sentirmi offeso!” aveva esclamato Dominik sputando fuori dalla stanza dei bambini – quella del Gran Palazzo – vestito con la stessa camicia di seta, con il collo a sbuffo e i bottoni d’avorio della sera prima. “Eravamo sorprese di non trovarti qui, prima di noi” aveva risposto Alina. Juris si era staccato da lei per correre da Dominik, che lo aveva preso a volo ed issato su. Aveva delle occhiaie violacee sotto gli occhi, così come i suoi capelli biondi erano ancora un intreccio di nodi. Erano di un bel dorato sfumato, come il grano tostato. Alina ricordava che, quando era più giovane suo fratello aveva preso l’abitudine di schiarirli, forse per somigliare più a Nikolai, ma ormai aveva smesso. “Le mie guardie ti hanno lasciato passare?” aveva inquisito invece Lilyiana con un fare quasi divertito, “Lo sai il buon  Mal non può resistere al mio fascino” aveva sghignazzato, accomodandosi sul divano basso, con i cuscini acqua-marina, proprio accanto alla loro sorella maggiore, tenendo il nipotino tra le braccia, “La parte peggiore è che potresti avere ragione” aveva scherzato Alina forzatamente, con un sorriso mesto, consapevole che i protettori di sua sorella non avessero sempre molta stima in suo fratello. Particolarmente Malcom.

 

Così erano difronte a lei, Dominik e Lilyana seduti vicini, con Juris ed il Piccolo Nikolai tra le braccia.
“Vogliamo parlare del perché hai deciso di compromettere la fragile relazione con Fjerda?” aveva domandato Lilyana poi, mentre osservava Dominik strapazzare Juris, con un divertimento.
“Volevo essere sicuro che la mia sorellina fosse sistemata con un uomo degno” aveva replicato Dominik, accomodandosi accanto a Liliyana e costringendola a farsi da parte, “Non sei d’accordo Juris?” aveva chiesto voi. “Posso sposare io la zia” aveva risposto il bambino con assoluta certezza. Alina aveva ridacchiato, “Accetterei volentieri” aveva risposto poi con un sorriso innocente.
“Il principe di Fjerda potrebbe essere un ottimo partito, è un principe, sarà un re e sua madre è praticamente l’altra metà della mela di nostra madre” aveva detto Lilyana, “Allora è un’alleanza inutile” aveva dichiarato Alina, che lo pensava per davvero, “La buona regina Mila non vivrà per sempre” aveva replicato Lilyana, differentemente dalla loro madre … Le alleanze andavano murate.
“Il ragazzo è più noioso della terra, ho seguito lezioni di filosofia morale più interessanti” aveva replicato suo fratello, “Cosa è la filosofia morale?” aveva chiesto ingenuamente Juris, “Il corrispettivo dei broccoli quando studi” aveva risposto subito Dominik, facendo ridere il nipote. “Pensate che la mamma mi permetterà di unirmi all’esercito?” aveva chiesto Alina.

“Non se sposi il principe di Fjerda” le aveva risposto Dominik, mentre Liliyana era stata di meno parole, “No” Aveva detto.

Alina aveva sbuffato, “Questo è colpa vostra” aveva detto con voce acida.

Vero” le aveva concesso Dominik, “Scusami se mi è successa una cosa orribile” aveva replicato Liliyana, chiudendo le mani sulle orecchie di Juris.

Alina aveva osservato il viso di sua sorella tingersi di un’espressione pregna di sofferenza.
Non parlavano mai di quello con Lilyana, a meno che non fosse lei a tirare fuori l’argomento.
“Be, questo silenzio è diventato orribilmente noioso; sono venuto qui solo per assicurarmi che Alina sia vestita magnificamente questa sera” aveva scherzato forzatamente Dominik, “Per quello puoi essere tranquillo. Ho un vestito nuovo … e non pervinca” aveva scherzato la ragazza.
“Posso venire anche io?” aveva chiesto Juris, seduto sulle ginocchia di suo zio, “Lo portiamo alla palude?” aveva chiesto Dominik, “No, quando sarai più grande” aveva detto gentile Lilyana, tutta la sua compostezza, ferocia e rigidezza si scioglievano davanti al suo bambino dalle guance rubiconde.
Alina poteva osservare come non solo l’espressione di sua sorella fosse dolce, ma anche quella di suo fratello non era da meno. Terribilmente addolcito davanti a quella allegra famigliola.
Alina sapeva che c’era stato un tempo in cui suo fratello era stato innamorato ed uno in cui era stato fidanzato con Merissa, l’ambasciatrice di Novyi Zem, ma erano passati quasi dieci anni da quel momento. Quando era nato il Piccolo Nikolai, Dominik aveva annunciato che non aveva alcun desiderio di prendere moglie o sposarsi, Ravka aveva già i suoi piccoli eredi.

Però Alina vedeva quella fame nei suoi occhi.

“Ti sei almeno pettinato i capelli?” aveva chiesto Liliyana allungando una mano, per tirare un ciuffetto di capelli del fratello, “I pettini di sua maestà Dalai hanno denti troppo sottili” aveva risposto divertito suo fratello, “Sai i capelli Shu sono molto diversi” aveva scherzato, arruffato i capelli scuri del nipotino.
“Oh sankti!” aveva risposto Alina, davanti quella ammissione così sfacciata, “Tu come …” aveva cominciato Lilyiana. “Stai dicendo che il mio fascino non potrebbe fare breccia nel cuore della gelida Signora del Cielo Azzurro?” aveva chiesto retorico, “In nessun modo” aveva dichiarato la loro sorella maggiore. “Come? Sono forse dieci anni o anche più che cerchi di convincermi a … stenderla sulla schiena” aveva risposto pratico Dominik, senza perdere il suo sorriso affabile, ricorrendo ad un eufemismo per proteggere le orecchie di Juris.

Lilyiana aveva sollevato un sopracciglio scuro: “Questo era prima; ora conosco Dalai, conosco i gusti di Dalai.” Anche Alina gli aveva notati, la bella giovane regina di Shu Han si era presentata alla corte con una zia – non la precedente reggente Erhi rimasta a fare la castellana – alcune delle sue terribile guerriere protettrici, la figlia maggiore – e la minore di due anni appena rimasta in capitale con la principessa Erhi – il fratello gemello Huidi, consigliere dalla lingua lunga e velenosa, e due sue concubini. Ambedue erano alti, pallidi, con capelli neri e lisci come seta ed inequivocabilmente shu. Forse voleva essere certa di lavare via il suo sangue misto – Alina aveva distintamente sentito la madre del conte di Semyon dirlo la sera prima, con una rude cattiveria, ‘Peccato che la nostra tsarevich non fosse dello stesso parere’ aveva risposto suo figlio Viktor. Se Alina mal tollerava qualcuno era sicuramente Viktor Semyon, provava una pena infinita per la povera Anya Karkoff.

“Non tutti vogliono trombarsi il tuo maritino … chiaramente non parlo di me, avrei un paio di idee che rovinerebbero la tua vita sessuale per sempre” aveva dichiarato Dominik, chiudendo le orecchie del nipote alla parola volgare, Juris non aveva apprezzato molto e si era divincolato veloce, “Sono un bambino grande!” si era subito lamentato.

Forse, non tutti agognavano di dormire con il principe consorte, ma alla regina Dalai non dispiaceva affatto l’uomo, lo aveva notato anche Alina – e a detta di Tatiana, Alina era ottusa in materia, doveva anche concordare, la sua avventura di baci con Meesha durante la Festa del Burro rasentava il miracolo.
Proprio tra Sankt Ilya delle Catene e Sankt Gerasim l’Incompreso stava lei la Sankta Principessa dei Baci Miracolati. “Ho gli artigli, Dominik, non costringere a mostrarteli” aveva replicato Lilyiana senza perdere il sorriso. Non era una metafora.

“Hai ragione, comunque. Non ho il fascino per la Regina Celeste, cosa che ancora oggi fa sanguinare il mio ego” aveva ripreso a parlare Dominik, risvegliando Alina dai suoi vagabondaggi mentali, “Ero con una delle sue donne di ferro, sai quelle super letali armate con spade affilate; per la precisione: Min-Han Kir-Zu, una novellina, un tipino … estroverso” aveva cominciato a raccontare Dominik, misurando le sue parole in presenza del piccolo Juris.

Lilyiana si era morsa un labbro, “È quella con alcune dita in acciaio grisha?” aveva chiesto. Alina non aveva neanche notato che ne esistesse una così.

Ricordava le Tavghard come un gruppo indistinto di esseri che si muovevano al fianco della loro regina, con i visi bianchi come la polvere e le labbra tinte di rosse. Un unico organismo diviso in più corpi. Alina si era anche guardate le dita trovandole nodose e magra e pensando se riuscisse a ricordare chi tra le donne avesse le dita scintillanti di acciaio; non riusciva davvero a ricordarne una specifica. Era turbata però dall’ingegneria grisha, dalla capacità di impiantare quel materiale nel corpo delle persone, qualcosa che neanche la scienza di Ravka era mai riuscita a fare, e ricordava con un certo stordimento il corpo modificato di Reyem e dei suoi simili.

“Sì, che occhio sorella. Comunque, la dolce Min, dopo avermi fatto vedere davvero il regno celeste, mi ha velatamente fatto comprendere che il principe Huidi Yul-Taban[3] sarebbe interessato a corteggiare Meri” aveva considerato. “Penso sia ammirevole come tu voglia trovare un fidanzato alla tua fidanzata” aveva sputato fuori Alina, senza accorgersene.

Merissa Nassau non era la promessa sposa di suo fratello, ma erano rimasti buoni amici, la giovane era stata accolta a palazzo come ambasciatrice da Novyi Zem e spesso Alina aveva visto i due in compagnia legittima, ridere e scherzare. Aveva spesso chiesto a Lissa, secondo lei, perché non si fossero maritati. Merissa era ricca e importante, anche se non aveva sangue nobile – d’altronde neanche la loro madre ne aveva – ed era una persona capace di far sorridere Dominik.
“Questo è una notizia interessante, per diverse ragioni” aveva considerato Lilyana, “Una Tavgharad non lascerebbe sfuggirsi un’informazione così succulenta sul fratello-gemello della regina, senza l’ordine diretto della sua regina, neanche per la tua bellezza” aveva sussurrato, tastando con delicatezza il naso tondo del suo piccolo bambino. “Non dubitare della mia straordinaria bellezza” aveva replicato Dominik, “Noi Nazialensky siamo bellissimi per natura” aveva aggiunto, strizzando una guancia a Juris in cerca di complicità.

Lilyiana lo aveva deliberatamente ignorato, proseguendo con vigore: “Sogna, piccolo Dominik … le ipotesi sono due: o Dalai ci sta chiedendo delle facilitazioni o Dalai vuole farci pensare che le interessa Novyi Zem.”

“Si stanno sposando gli equilibri evidentemente, cara sorella …” aveva considerato Dominik, il tuo tono era carico di una allusività pericolosa.

Le labbra di Lilyiana si erano fatte per un secco strette come se avesse inghiottito un limone, “Vedo” aveva considerato nervosa, poi aveva fatto silenzio ed aveva osservato con discreta cupezza Dominik. Alina vedeva gli occhi dei suoi fratelli fissarsi, come se nessuno nella stanza oltre loro fosse presente. Stavano parlando, senza pronunciare neanche una parola, mentre Alina si sentiva tagliata fuori da quella conversazione muta. Non era mai stata particolarmente brillante, in quel lato non così splendente somigliava a sua madre, Alina lo sapeva. La grande e potente Zoya era risoluta, era potente e brillante, a suo modo, ma non possedeva quella sottigliezza letale di suo marito Nikolai. Dominik e Liliyana erano i figli di Nikolai Lantsov.

Suo nipote Juris si guardava intorno, osservando madre e zia, prima di voltarsi verso Alina, con gli occhi champagne piene di confusione – perfetto! La sua consapevolezza di quanto stava succedendo era la stessa di suo nipote di cinque anni. “Perché tutto quello che sento è: ci serve Fjerda?” aveva domandato retorica, poi, Alina, più per inserirsi nella conversazione che altro.
Noi siamo Ravka, dolce sorella, a noi non serve niente, neanche Fjerda” aveva replicato sua sorella, con un sorriso nervoso ed uno strano accento su quel pronome.

Noi.
Il sorriso di sua sorella era rimasto lì, fermo, mentre quello di Dominik era molto meno cristallizzato, ma terribilmente più pesante, quasi soddisfatto. “A proposito di Fjerda, il principino mi è sembrato anonimo, aspetto a parte” aveva soffiato suo fratello, come un gatto sornione, “Spara bene, però” aveva provato Alina, “Guardati dagli uomini tranquilli, sorellina, è l’acqua cheta che rovina i ponti” aveva aggiunto.

“Cheta che vuol dire?” aveva chiesto Juris con innocenza.

 

 

“Cosa è stato lo scambio di sguardi così sinistro tra te e Lilyiana?” aveva inquisito Alina, mentre abbandonavano le camere di Lilyana che aveva un appuntamento con il suo buon-padre, arrivato con la delegazione shu-hannita. Ogni volta che sua sorella doveva incontrare il padre di suo marito rimaneva sempre piuttosto nervosa, come se non fosse la principessa della corona di Ravka, la figlia del drago e alle domande di Alina, rispondeva spesso con un evasivo ‘Dalai era invaghita di suo figlio’.
Forse Alina non era la più fine degli strateghi ma immaginava che la mano della futura regina regnante di Ravka, ufficiale, fosse meglio che starsene sulle lenzuola nehulite della regina di Shu-Han con altri due uomini. Erano pochi gli uomini dell’harem che riuscivano a raggiungere un grado elevato, di solito spettava solo al padre dell’erede designato – e solo dopo che la principessa in questione fosse ascesa al seggio reale.

“Quale sinistro scambio di sguardi?” aveva domandato con finta innocenza Dominik, “Non trattarmi da scema” aveva replicato lei, “Oh, be, anche alle sorelle capita di essere indisposte quando dici che vorresti dormire con il loro marito” aveva scherzato Dominik.

“Non riesco a capire neanche se sei serio o meno” aveva ammesso Alina, “Più serio che mai, il nostro buon-fratello è decisamente un bella creatura” l’aveva beffata. “Non sono stupida affatto, è tutta la mia dannata vita che vi vedo fare questa danza strana” aveva replicata Alina.

Danza strana?” aveva indagato Dominik, le sopracciglia bionde crucciate ed un’espressione di genuina confusione. “Come se voleste mettervi una lama alla gola o non sapeste come dirvi che vi volete bene” aveva ammesso, “Sorella, così la fai sembrare una qualche fantasia incestuosa” aveva replicato Dominik.

“Primo: non lo intendevo assolutamente così, secondo: mezzo-regno lo pensa, ho letto libelli raccapriccianti” aveva ammesso Alina.

“Oh, è tu hai perso il periodo in cui scrivevano storielle sconce su nostra madre, nostro padre e Genya” era diventato evasivo lui. “Smettila” aveva dichiarato Alina indispettita. “Non preoccupati, Alina, io e Lilyiana siamo sempre stati così” aveva considerato Dominik. “Certo, perché lei si è trasferita al Piccolo Palazzo quando avevi sette anni, ma indovina un po’, io ne avevo cinque quando me te ne sei andato” aveva replicato pratica lei, “Per non parlare del mio rapporto con Lilyiana è tutte le complicazioni che ne sono derivate” aveva aggiunto circostanziale, “Ma voi non vi comportate così con me” aveva aggiunto.

Suo fratello l’aveva guardata con un principio di stupore, prima che il viso si addolcisse appena, con un sorriso delicato, “Perché sei la nostra sobachka e ti amiamo” aveva squittito.

“Sai come si chiama questa, Dominik? Accondiscendenza” aveva spiegato Alina con un tono di voce duro, riconoscendo la dolcezza fin troppo melensa nel tono di suo fratello maggiore. “Oh ‘Lina, non mi permetterei mai di trattarti così” aveva risposto svelto Dominik, con quel suo sorriso incantatore. “Ti odio” aveva replicato Alina, arricciando le labbra, con più melodramma nella voce di quando volesse, prima di abbandonare il fratello in mezzo al corridoio – accompagnata dalle risate non molto gentili di Dominik. Doveva raggiungere Vasilissa e doveva parlare con la sua amica.

 

Era strano per Alina dover cercare Vasilissa, di solito era sempre Lissa a gironzolare nei suoi intorni, ma sapeva che mentre lei doveva occuparsi delle lezioni di dizione, etichetta e geografia – Sankti, Alina non aveva idea del perché sua madre volesse che sapesse così tante nozioni su quella materia –  la sua amica aveva un lavoro da svolgere e di quei giorni sostituiva la povera Maria, allettata dopo un parto difficile, e stava organizzando le nozze del suo amico Yusuf, con qualcuno con cui non avrebbe dovuto sposarsi. Per Alina era così strano pensare al fatto che Lissa era una sua amica e la sua cameriera; da bambina, oltre Lissa ovviamente, che sembrava non disturbare mai sua madre come compagnia, aveva avuto una sfilata di dame da compagnia che neanche Lilyiana aveva potuto vantare. Ovviamente, la principessa della corona era un grisha e la sua corte l’aveva trovata nel Piccolo Palazzo. Ad Alina era toccata l’incombenza di avere un corteo più politico. Il problema di Alina era che nessuna delle sue compagne era mai durata troppo a lungo, tranne Lissa. Alina riconosceva che alcune delle sue dame si fossero allontanate dalla sua personalità irruenta – anche a quell’età, Alina non era molto principesca – ma altre, non sapeva neanche come fossero scomparse. Si rendeva conto, in quel momento, da adulta, o quasi, che dovevano essere esistiti giochi politici che non vedeva. Ogni dama che l’aveva accompagnata era stata frutto di un’attenta analisi politica, che era sorta e scomparsa con un cambio di alleanze.

Passavano tutte, comunque, tranne Lissa.

 

Aveva imboccato il corridoio per l’ala regale, un piano sotto il corridoio principesco, trovando la porta delle stanze di sua madre, sorvegliata da una guardia, che aveva desistito dal farla entrare.
“Non è qui” aveva risposto secco l’uomo, riferendosi a Lissa, ma si era rivolto a lui con un tono piuttosto perentorio, come se avesse parlato ad una ragazzina sciocca e non il frutto dell’autunno, la Principessa.
“Lissa non salta mai il suo dovere” aveva replicato, lanciandosi contro la porta ma l’uomo l’aveva bloccata, facendole lanciare uno strillo.

“Volchik!” una voce aveva rimproverato l’uomo, Alina aveva sollevato lo sguardo osservando il viso adirato di suo padre, sbucare dalla stanza di sua madre. “Sua maestà mi perdoni, io non …” aveva detto quello, “Non avevi riconosciuto la principessa, mia figlia?” lo aveva interrogato con un tono severo suo padre, “Mi perdoni” aveva miagolato Volchik, lasciandola finalmente.

Alina si era allontanata dal soldato per raggiungere suo padre, che l’aveva accolta subito in un abbraccio rassicurante, accarezzandole anche gentilmente i capelli. “Che succede, moya lapushka?” aveva chiesto con dolcezza suo padre.

Oh, c’erano tante risposte a quella domanda. “Cercavo Lissa …” aveva balbettato, mentre suo padre l’allontanava leggermente dalla porta della camera della regina. Volchik si era rimesso sull’attenti. “Oh, sì, certo, la giovane Vasilissa, non è qui … Con l’arrivo della corte Shu-Hannita ieri e con quella Errante questa mattina ho-abbiamo convenuto fosse il caso di ridistribuire i domestici” aveva detto evasivo suo padre. “Aspetta, quindi, nessun simposio speciale per il Marshal?” aveva chiesto Alina.
“Avremo la festa di questa sera, con la presenza di tutte le corti del Mare Vero” aveva considerato suo padre, rassicurante, “Meno i kerchiani” aveva valutato Alina, “Tecnicamente ci sono degli esponenti dalle Colonie del Sud, che sono ancora alle dipendenze di Kerch quindi non potranno accusarci di non averli aspettati …” aveva considerato suo padre con un tono giocoso, “In realtà mi dispiacerà di non godere della compagnia di Jesper Fahey è un animale da festa, ma è un biglietto unico con la Testa del Concilio dei Mercanti di Kerch.”

Alina si era morsa il labbro, “Problemi con il sovrapprezzo dello zucchero?” aveva chiesto Alina, “Oh, la mia laphuskha molto attenta” lo aveva lodata suo padre, Alina aveva roteato gli occhi, “Come ho detto anche a tua madre: useremo il miele” aveva scherzato.

Moy Tsar” si era avvicinato un servitore, Petyr se non sbagliata, vestito di bianco, con ricami d’oro, era l’attendente di suo padre, “Il duca di Keramzin è qui” aveva detto l’uomo rispetto. “Gloria ai Sankti, una buona notizia” aveva sussultato suo padre.

“Perché è successo qualcosa?” aveva bisbigliato Alina, “Aspetta qui, moya lapushka” aveva considerato Nikolai, lasciandola alla mercè di Petyr, sparendo dietro la porta della camera di sua madre. Era contenta che i suoi genitori si fossero riuniti, almeno.

Alina aveva riconosciuto un certo vociare, da un lato era suo padre, dall’altro era Genya. Alina riusciva a percepire volessero urlarsi l’uno addosso all’altro, ma erano volenterosi di voler tenere i loro toni cupi e bassi.

Bene, dopo le conversazioni mute dei suoi fratelli, aveva proprio bisogno di quella stranezza. Si era voltata verso Petyr in cerca di risposte, “È arrivata anche la duchessa?” aveva chiesto, “No sua altezza, la duchessa è rimasta a Keramzin, mi è stato detto” aveva ammesso l’uomo pratico.

Ad Alina dispiaceva, provava genuino affetto per la duchessa, nonostante il titolo nobiliare che aveva ricevuto, era una donna così diversa dalle grandi signore del palazzo, indossava il sarafan come una popolana, aveva capelli candidi come la neve, con coroncine di fiori che intrecciava a mano e sorrideva sempre a tutti.

Il bisticcio nella stanza si era interrotto con l’uscita di Genya dalla camera, vestita di scarlatto corporalki, ma senza kefta, con la mantua monocolore, pizzo nero sul collo ed una longa lunga con la coda. La benda di seta, di un nero fulgido, su cui spiccava il sole di Sankta Alina. “Allora!” aveva esordito il triunviro, “Alina oggi è un giorno molto speciale, sarai la rappresentanza di tua madre con i nobili” aveva considerato Genya prendendola sottobraccio, “Genya, cosa succede?” aveva chiesto.
“Tua madre è indisposta, la regina Dalai la ha sfidata ad una gara di bevute, tua madre è un drago per tantissime cose, ma non regge bene né il vino né il kvas” aveva replicato Genya, mentre un molto perplesso Petyr faceva loro strada, “Nikolai ha deciso di rimanere con lei, sai, questioni da coniugi, per quanto io ritenga che una guaritrice del mio livello sia più utile, ma cosa vuoi che sia” aveva blaterato Genya, “Oggi, farai un po’ di pratica cortese … Un giorno potresti dover fare questo lavoro più spesso” aveva dichiarato.

“Pensavo che a Fjerda le donne non dovessero fare molto” aveva considerato Alina, “Non mi pare che la buona regina Mila sia d’accordo” aveva risposto di getto Genya, prima di sollevare un sopracciglio rosso fuoco, “Oh … ma guarda come è ambiziosa la mia bambina che già si vede regina della neve” l’aveva presa in giro.

Petyr aveva condotto Genya ed Alina in una stanza riservata, per accoglienze più riservate e modeste, non che esistesse nel Gran Palazzo qualcosa di veramente modesto.

 

La guarda alla porta le aveva annunciate a gran voce, “Sua altezza Alina Zoyaenva Nazialensky, tsarevich della Grande e Potente Ravka, contessa di Polvost e sua eccellenza Genya Safin, triumviro dei grisha, soverenyi dell’esercito reale e Signora del Piccolo Palazzo” aveva decantato.

Nella stanza soggiornava l’Ammiraglio Vladislaw Effimov, signore di Kyoska e padre di Meesha. Con la kefta rossa colporalki, con i decori arricciati del suo stato di healer ed appuntato sul petto i suoi gradi da marinaio. Somigliava in maniera quasi inquietante a sua figlia, stessa carnagione olisse, con ricci serpentini del colore del mogano scuro e gli occhi grandi come piattini da te, del colore delle castagne tostate, ma ciò che ad Alina spiccava sempre alla vista erano le loro differenze, Vladislaw aveva un naso, distinto, dove Meesha poteva sfoggiare un gobbetta, all’attaccatura degli occhi, che le dava un aspetto più peculiare, aveva un visetto dolce, dalla forma di all’insù di cuore e i polsi stretti e delicati. L’ammiraglio era stato il primo ad inchinarsi, seguito dagli altri due uomini nella stanza – che con molto imbarazzo Alina aveva notato poi.

Il più giovane era un uomo fatto e finito, con capelli castani, leggermente allungati, che si piegavano in ondine morbide, indossava una giacca elegante di velluto bianco sporco. L’altro uomo era più vecchio, doveva avere un’età simile a suo padre, la pelle rosata dal sole, che rovinava altrimenti un aspetto dignitario, ma non per questo lo imbruttiva. Anche alla sua età il Duca di Keramzin era un uomo piacente, con un viso elegante, occhi blu splendenti, accompagnati da un viso segnato dalle rughe, ma non rovinato, con capelli sale-e-pepe tenuti corti come un soldato, alto e imponente, che non conosceva la curva della vecchiaia, con indosso una giacca di seta con una trama nehluita, con motivi che ricordavano piccoli soli da raggi ondulati con punte aguzze, con fili d’argento come decorazione[4]. Altolocato, ma non così altolocato, come al Duca di Keramzin piaceva apparire dopo aver ereditato il ducato dal suo vecchio parente. Non era nato di sangue nobile, era una notizia ormai vecchia e superato, le sue maniere erano troppo rigide e guerresche per essere quelle di un ragazzino lascivo dell’alta corte. Qualcuno diceva che fosse sì, davvero parente del vecchio Kerasmov, il precedente duca, ma il suo sangue fosse annacquato con la gente comune, qualcuno aveva ipotizzato fosse il figlio spurio dell’uomo e qualcuno che fosse uno degli orfani che era cresciuto nel vecchio palazzo prima che l’Oscuro lo radesse al suolo.

D’altronde Schievich Rosen aveva ricostruito il nuovo palazzo, aveva aiutato i bambini, aveva aiutato gli abitanti locali e quando il vecchio Kersmov era morto a lui aveva lasciato le sue terre e pure il suo titolo – non avrebbe potuto, ma sua madre Zoya ne era stata felice[5].

Alina ricordava bene la cerimonia di investitura, aveva tredici anni, sua madre l’aveva portata a Keramzin – aveva insistito per avere la compagnia di Lissa, che aveva cominciato a lavorare al palazzo con sua madre, dopo che l’anno prima a Fjerda non era potuta venire ed Alina aveva reso il viaggio fastidioso per tutti, per primo il principe Matthias – assieme a sua sorella Lilyiana. Il primo momento, in tutta la sua vita, in cui sua madre l’aveva obbligata a passare del tempo con sua sorella maggiore.
Liliyana aveva bisogno di tranquillità, visto che il piccolo Juris aveva ufficialmente compiuto un anno. Alina si era divertita a Keramzin. I duchi avevano una casa piena di colore e vita, un grande parco e perfino un lago, si era rallegrata tantissimo, aveva giocato con i bambini da pari e pari, ed anche se per poco lei e Lissa erano tornate compagne, senza che i loro ruoli pesassero sulle spalle …e ricordava ancora quando la duchessa, fresca di investitura, aveva schiaffeggiato suo padre, il Re.
Da quel che aveva capito: non era stata la prima volta!

Ed un'altra cosa che Alina sapeva di Schievich Rosen era che fosse stato un tempo l’amante di sua madre – e lo aveva scoperto origliando una conversazione troppo sfacciata tra sua sorella e le sue amiche.
Le sembrava sempre strano, perché non aveva mai visto sua madre accompagnarsi con nessuno che non fosse suo padre. Il Duca era sicuramente un uomo bellissimo, che anche nella sua vecchia otkazat’sya non mitigata dai poteri grisha si conservava splendidamente, ma suo padre era il sole[6].
Genya aveva sciolto la presa dal braccio di Alina per andare ad accogliere i due ospiti, ‘Mischa’ e ‘Schievich’ li aveva chiamati con famigliarità, baciandoli sulle guance, con Alina i due erano stati molto meno confidenti, l’uomo più anziano le aveva concesso un altro inchino rispettoso, mentre il più giovane le aveva baciato le nocche nude, facendola arrossire.

Genya aveva passato una mano sulla spalla di Schievich amichevole, “Cos’è quel braccialetto?” aveva chiesto ammiccando al polso sinistro del duca, prendendolo anche. “Sul serio?” aveva domandato con una certa perplessità, “La moda è la mia prima scienza” aveva risposto.
Schievich aveva fatto oscillare il suo braccio dove Alina aveva potuto osservare un bracciale di ferro lucidissimo, quasi brillanti, sottile come un filo di piombo, “Sì, non adatto ad un duca; tecnicamente è osmio, lo indosso come regalo, mia moglie ne ha uno gemello” aveva spiegato Schievich pratico.
 “Bene, ora che la hai nominata mi pare di notare che tua moglie non sia qui?” aveva chiesto. “Al-Marina ha ritenuto d’uopo rimanere al castello a supervisionare le cose, ultimamente abbiamo avuto qualche ragazzino turbolento” aveva detto a disagio il duca. “Sai, vero, che non sei credibile? Non sei mai stato bravo a mentire, Schievich” aveva sibilato Genya, “Dobbiamo farci una bella passeggiata, sì, i giardini sono splendidi in questo periodo” aveva aggiunto a voce più alta, “La principessa ha preparato un brillante discorso sulla architettura riformista” aveva ammesso.
“Mia signora, io avrei alcuni affari con il signor Mikhail” aveva considerato, allusivo, l’ammiraglio Effimov, “Oh, sì, sì, credo di ricordare” gli aveva concesso Genya con un tono elusivo, mentre prendeva sottobraccio Schievich al suo lato sinistro e Alina nel suo destro.

“Lo sai che tecnicamente lui era in lizza per essere il tuo padrino?” aveva chiesto Genya, guardando Alina, ammiccando a Schievich. “Troppo di basso lignaggio in quel momento” aveva risposto di rimando il duca, mentre Genya li conduceva fuori dalla stanza.

Alina era stata oliata dall’Apparat Vladim, nella Cattedrale Bianca – non aveva davvero idea perché i suoi genitori avessero scelto un luogo così angusto – davanti agli occhi di metà della sua famiglia, di alcuni nobili e di Kalem Kerko, il capo-in-carica di Novyi Zem, come suo padrino.
Lilyana aveva goduto della benedizione dell’allora, ancora, principe Rasmos Grimjor – prima che ascendesse al trono come Egemond I del suo nome – di Fjerda, come un passo avanti per mettere pace a quel conflitto che ancora esisteva nei confini. Se fosse esistita una regina o una potenziale regina, Dominik avrebbe avuto la regina di Shu come madrina – come per la piccola Chabi Kir-Taban, erede di Dalai, aveva avuto Lilyana come madrina – ed era spettato a Genya ricoprire quel ruolo. Cosa che Alina invidiava molto.

“…questo è la scuola Tsybeiana, prende molte ispirazione dall’arte Fjerdiana, possiamo riconoscerlo dall’utilizzo di una decorazione astratta composta da linee continue, orientate in motivi ad intreccio, si differenzia però da quella, per l’utilizzo, quasi, spasmodico dei colori, tipico delle maestranze ravkiane…” stava ripetendo Alina, con tranquillità, aveva sempre trovato una passione difficile da spiegare per l’arte. Non qualcosa che voleva conoscere visceralmente o amava in maniera totalitaria, ma era un piacevole passatempo, per quanto poco coltivato.

Schievich e Genya la stavano guardando con un bizzarro disinteresse. “Molto bella” aveva ammesso il duca per nulla colpito, “Dalle mie parti si preferisce la maestranza di Shu Han, un sacco di volatili, particolarmente gli aironi” aveva replicato, evidentemente poco avvezzo alle arti.
Alina non sapeva cos’altro dire, mentre ancora stava indicando la decorazione fin troppo elaborata di una parete con dei decori finissimi ed elegantissimi. “Anche gli aironi sono belli” aveva provato Alina, “Sono il simbolo della famiglia del mio buon-fratello, il principe consorte” aveva ricordato. “Sì, bellissimi, non come questo obbrobrio che il Conte Poldunist di Ivets ci ha rifilato per la nascita del Piccolo Nikolai” aveva detto Genya. “Secondo me Dimitrij ha avuto buon gusto” aveva considerato sterile Alina.

“Ci? Sei consapevole di non essere un membro della famiglia reale, si?” Schievich aveva preso in giro Genya, “Ti prego non fraintendere l’amore che provo per tua moglie, con quello che provo per te. Per me sei ancora il soldato di cui gettavo le lettere d’amore” aveva replicato piccata, ma il suo occhio aveva ancora gioco.

Alina aveva inclinato il capo, scossa da quella informazione: Genya aveva avuto un altro uomo prima del marito di cui ancora portava il lutto?

E come uomo aveva avuto l’amante di sua madre? O forse, il duca era stato prima invaghito di Genya, che all’ora era una cortigiana, e poi di sua madre quando era soldatessa?

Alina agognava di sapere quei pettegolezzi, come il fuoco nelle notti d’inverno nel permafrost[7].

“Tutti Sankti, non mi sei mancata affatto” aveva detto il Duca, con un sorriso quasi dolce sulle sue labbra. “Sì, anche tu mi sei mancato molto, particolarmente la tua adorabile mogliettina che ci aspettavamo di vedere per la desta del secondo ventennale” aveva inquisito Genya. “Non si era detto che mia moglie non dovesse frequentare assiduamente il palazzo” aveva risposto il duca, leggermente rosso in viso. Genya aveva aggrottato un sopracciglio rosso, “Sono passati quarant’anni. Penso che possa tornare a frequentare assiduamente il palazzo” aveva detto burbera. Schievich si era morso un labbro, “Genya io … ho davvero cercato di convincere Ali-Marina a venire, al posto di Mischa, ma si è imputata di voler rimanere al castello, per supervisionare i bambini” aveva risposto.
“Oh, per il cuore di Sankt Feliks, dimmi che non è ancora arrabbiata con Nikolai” aveva considerato Genya, quasi indignata, leggendo, evidentemente nelle parole del Duca la verità. Alina era oltremodo confusa.
Schievich si era morso un labbro, “Dimmi che non è così” aveva ripetuto Genya.

“No”, aveva provato l’uomo con scarso successo, “Mi rifiuto di credere che Alina sia ancora arrabbiata con Nikolai!” aveva sibilato Genya, con i denti stretti.

Alina pensava di aver avuto le trabecole, perché era certa di aver udito il suo nome tra i denti di Genya. “Marina è una donna con sentimenti tumultuosi” aveva provato il duca.
“No, Marina…” – e pronunciato così il nome da Genya, sembrava impietoso – “…è buona e cara, capace di un cuore così grande da perdonare perfino il Darkling e piangerlo amaramente” aveva ricordato; “Quello con sentimenti tumultuosi…” e nel dirlo Genya aveva sollevato le braccia – sciogliendosi dalla presa – per fare le virgolette alla parola, “… sei tu, mio caro!”
Alina avrebbe potuto essere lì o a Ketterdam, che per i due non sarebbe cambiato nulla. “Dimmi che non stai fagocitando la rabbia di tua moglie per una tua qualche meschinità” aveva abbozzato Genya, “No, come ti viene in mente … io non … potrei mai” aveva detto lui, cotto di imbarazzo.
Lei di rimando iniziava a rendersi conto che le cose che le sfuggivano potevano essere molto di più, doveva assolutamente parlare con Lissa. Per un secondo piuttosto vivido aveva pensato che il duca di Keramzin fosse risentito verso suo padre per aver sposato la sua amante. Alina sapeva che non tutti i matrimoni nascevano per amore, particolarmente quelli dei nobili, dei reali. Sua madre aveva il potere ma aveva avuto bisogno di una buona mano per la politica, per gli appoggi, per i nobili. Nikolai era stato il politico tra di loro, anche in quei giorni, dopo più di trent’anni di governo era il politico tra i due.

Forse Schievich Rosen era stato l’uomo che avrebbe sposato se fosse rimasta Zoya Nazialensky la terribile signora del triunvirato e non la Tsarina. Forse …

“Mal ho davvero bisogno che scriva a tua moglie per dirle di venire, Zoya ha bisogno di lei, io ho bisogno di lei” aveva sussurrato Genya, ma non così bassa perché Alina non potesse sentirlo. “Non lascerà mai i bambini alla sola presenza degli istitutori” aveva valutato Schievich, “Oh, per i sankti, Mal, tua cugina potrà fare una guardia fatta decisamente meglio” aveva replicato piccata Genya.
Mal?
Decisa ad indagare meglio, Alina aveva aperto la bocca, ma la sua voce era stata inghiottita da quella di un’altra donna.

“Oh moya tsarevich!” aveva sentito Tatiana Dubriv chiamarla, ondeggiando una mano ed i riccioli biondi da nubile, e con quegli occhi vispi, mentre costringeva al suo fianco un uomo fjerdiano piuttosto a disagio. “Oh moya sorveigein” si era rivolta poi a Genya quando l’aveva notata ed aveva occhieggiato anche il duca.
“Non credo di avere l’onore, ma sicuramente un uomo di grande levatura” aveva ammesso estasiata e procace.

Tatiana aveva sei anni più di Alina e tutta la sfacciataggine che poteva aver ereditato dai suoi anni di formazione a Ketterdam e una spasmodica passione per Alina. Era stata una sua compagna per il tè e le aveva insegnato a suonare il balalaika – con scarsi risultati – e le raccontava sempre vicende piccanti, senza vergogna, del suo periodo alla Corte d’Oltre Mare. I capelli erano un biondo frizzante, tenuti sempre in ricci perfetti, indossava abiti colorati con scolli eccessivi, gonne pompose, con fronzoli, che aveva rubato dalla moda kerchiana.

Tatiana non era esattamente sua amica, ma si avvicinava al concetto ed era anche così diretta da sembrare una spada, nel bene e nel male.

“Il nobile Schievich Rosen,  dodicesimo duca di Keramzin” si era presentato senza indugio l’uomo, “Oh, il salvatore di bambini” aveva considerato. “Lei è Tatiana Dubrovin, cugina dell’ambasciatore a Kerch” aveva spiegato Genya.

Tatiana aveva sbattuto le ciglia nei suoi occhi porcini piena di interesse, forse curiosa perché il Duca degli Orfani fosse a braccetto con la Rovina.

Alina aveva scavalcato la generosa scollatura a barca della sua amica, ed era stato davvero difficile, perché oltre la scollatura, Tatiana offriva un seno davvero florido, per guardare il suo accompagnatore. Era fjerdiano, sì, era certa di quello, poiché lo ricordava assieme alla delegazione di Fjerda e se non fosse stato per quello, non ne avrebbe avuto comunque dubbio. L’uomo era attraente, bianco come la carta soffiata, con i capelli biondo-argento come il nevischio, la giacca era grigio-perla ed invece di cedere nello stile direttorio ravkiano, era molto più elaborata, con le maniche gonfie sulle spalle e strette sulle braccia. La lunghezza della giacca superava le ginocchia, ma era aperta sulle gambe, fasciate di nero. Pantaloni, giacca e stivali erano tutti finemente decorati con motivi intrecciati fittissimi[8]. Era il fjerdiano che la notte prima aveva fatto singhiozzare mezza Sala delle Letture, con la sua voce era carica di passione e dolore. Probabilmente il suo poema e la sua interpretazione dovevano aver fatto breccia nel cuore caldo di Tatiana. “Da qualche parte ho anche una pro-pro-pro-zia che era anche una principessa Lantsov” aveva detto con una punta di eccitazione la Tatiana.

Il fjerdiano aveva cercato di non presentarsi, nascondendosi dietro la personalità ingombrante di Tatiana.
“Ed il tuo amico?” aveva chiesto Genya, rivolgendo l’occhio ambra verso lo sconosciuto, riconoscendo chiara la manovra evasiva. La grisha aveva le labbra piene e dipinte di rosso distese in un sorriso accomodante, che non raggiungeva l’occhio sano, rimasto indagatore.
Il fjerdiano sembrava un cappone a cui dovessero tirare il collo, nervoso come un orologio … Meesha gli aveva detto, una volta, che il nervosismo era rumoroso come una campana, per i corporalki.

 



[1] Nella mitologia slava le piche-piche sono le uniche creature a conoscere l’ubicazione del villaggio di Zmeikovo, da cui deriverebbero tutti i mostri della mitologia slava. Dall’autorevole fonte di wikipedia. E se per caso non lo sapeste: la Pica-pica è il nome linneuseiano della Gazza Ladra.

[2] Parola mongola

[3] Mi rendo conto che non avendo avuto in canone un principe Shu non ho idea se per loro valga il discorso del cognome Taban o meno. Penso di sì, penso che poi con loro prosegua alla maniera standard. Quindi i figli di Huidi saranno Kir/Yul-Huidi, a meno che lui non sposi una sua cugina Taban. In caso delle altre principesse Taban che non sono il ramo principale penso lo stesso. In realtà Huidi e Dalai dovevano avere il “nome” del loro padre … ma di questo ne parleremo nel 28!

[4] La trama nehluita è quello che nella mia testa è una trama damascata (essendo la tessitura damascata originaria dall’oriente e poi dopo essere giunta a Damasco). Inoltre, aggiungo, il decoro damascato si utilizzava poco per gli abiti e più spesso per la tappezzeria e gli arredi. Nehlu è una città canonica di Shu-Han, quella da dove arrivano Reyem e Mayu.

[5] Nell’epilogo di R&R viene riportato che le persone pensano che Mal sia parente del Duca, inoltre viene descritto come affascinante, impossibile arrabbiarsi con lui e che era abbastanza fine – ma fin troppo evidente fosse un soldato. Riguardo al Duca, non saprei, Alina dice pochissimo di lui quando lo incontra nel secondo libro, però sappiamo: un nobile, ex-soldato, ha trasformato la sua tenuta estiva in un orfanotrofio e non aveva moglie. Tanto basta per me per decidere che non aveva moglie, non ne voleva e visto che ha permesso a Mal ed Alina di ricostruire un nuovo palazzo da dedicare interamente ai bambini, ho deciso che avrebbe lasciato tutto a loro – forse ci scriverò una storia sopra. Comunque, Zoya e Nikolai hanno aiutato.

[6] Lo so che nell’immaginario comune Nikolai è il più bello di tutti, ma è fortemente implicito che Mal sia effettivamente l’uomo più bello di Ravka, anche più di Sasha. Credo che sia l’unica cosa su cui concordano tutti i personaggi (meno Sasha), probabilmente anche Nikolai (la serie tv con Malkolai ha esagerato, ma io vedevo le hint dai libri ahaha). Ma questo non conta per la Principessa Alina, perché Nikolai è suo padre e sarebbe l’uomo più bello del mondo a prescindere, fosse anche un ‘roito’.

[7] Questa nota è inutile, ma mi faceva troppo ridere immaginare Alina che ha le sue peggio teorie per cose super banali.

[8] In base alle descrizioni di Nina dei vestiti suoi e di Hanne alla corte di Fjerda e quelli di Alina alla corte di Ravka, ho valutato che la moda fjerdiana sia molto più eccentrica. Immagino sia dovuto al fatto che Fjerda fosse economicamente più stabile, non essendo fratturata internamente dalla faglia e mangiucchiata ai lati da nord e sud. Probabilmente in quarant’anni le cose sono cambiate (sì, tipo Mal ha un bellissimo cappotto damascato, ma probabilmente quello è dovuto all’ingerenza di Shu Han sul confine). Comunque, visto che Fjerda era molto militaristica, immagino che lo stile degli uomini fosse molto più semplice – ma quello è cambiato. Inoltre, per lo stile Fjerdiano mi sono “ispirata” a quello norvegese (e non quello finlandese, che dovrebbe essere Fjerda, perché fin troppo simile a quello russo, visto che la Finlandia e la Russia hanno fatto una bella querelle … ehm ehm guerra di inverno).

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Capitolo 20
*** Matthias III (40 D.F.) ***


Eccoci.
Avete presente l’ultima stagione di How I Met Your Mother? Che tutta la serie copriva solo ‘tre giorni’, la situazione è questa.
Non odiatemi!
Buona Lettura RLandH

PS- Ho riletto questo capitolo un po’ di volte ma probabilmente è pieno di errori …

 

Matthias

(40 anni dopo il Dissoluzione della Faglia)

 

“Stiorra, io sono un grisha” aveva sbottato Matthias, raschiando un coraggio che non sapeva neanche di non sapere.

“Oh …Questo è tanto da elaborare” aveva esclamato Stiorra, con una voce tremendamente in falsetto, sedendosi sul divanetto basso, con una mano sul petto esacerbando la pantomima. Il suo viso era fin troppo teatrale per essere preso sul serio.

“Stiorra” l’aveva rimproverata lui, ponendo i pugni sui fianchi, in una posa forse troppo pomposa. La giovane donna, allora, lo aveva guardato con gli occhi languidi, “Va bene, scusatemi vostra altezza reale” aveva ripreso più composta, mettendosi dritta con la schiena, “Non so fingere reazioni appropriate… è il motivo per cui mio nonno ha ritardato il più possibile il mio ingresso alla corte, e non ho ancora avuto il mio cuore-di-legno, dice che sono più trasparente dell’acqua” aveva soffiato la giovane donna.

Matthias le aveva sorriso, togliendo i pugni dai fianchi per sedersi al suo fianco. “Quindi … lo sapevi già?” aveva chiesto titubante. Stiorra era sicuramente una ragazza sveglia, ma Matthias aveva paura di essere stato imprudente.

Una imprudenza era pericolosa, specie se avesse aperto la possibilità ad una valanga contendente tutte le sue verità. Avrebbe reso nuda la sua macchia nera. La vita di Matthias sembrava un gruppo di bambole cave, quando pensavi di aver raggiunto la più piccola, ecco una fessura per un’altra bugia.
Però aveva deciso di voler dire la verità – una parte della verità, almeno – a Stiorra, perché era l’unica amica che avesse mai avuto. Forse era stato ispirato dal sincronismo della principessa Alina e della bella Vasilissa, o forse perché, dopo aver visto il suo vero volto, aveva sentito un altro pezzo di se prendere fuoco e la macchia espandersi e scurirsi come un vortice nero ed aveva cercato un appiglio per non finirci impantanato, un appiglio che non fosse la sua madre bugiarda, almeno. Matthias provava una rabbia così sorda nel suo petto.

“Be, le politiche piuttosto … perentorie contro i grisha sono cambiate dopo il matrimonio dei vostri genitori, inoltre, vostro padre, il re, da giovane si diceva fosse piuttosto cagionevole, ha subito un progressivo e miracoloso miglioramento dopo aver incontrato la regina Mila al Cuore di Legno. Inoltre, ogni volta che sono nervosa, tesa o mi sento rigida, in vostra presenza, vostra altezza, il mio cuore di calma sempre” aveva spiegato pratica Stiorra, “Dunque o siete il balsamo della mia anima o siete un corporalki” aveva aggiunto accondiscendente. “Non ti infastidisce?” aveva chiesto Matthias, quasi timoroso. “Vostra altezza reale, mia madre è del Knust, a nessuno di quella zona importava di questo … non come ai Fjerdiani” aveva cominciato Stiorra, “Inoltre, voi siete il principe e io una dama della camera” aveva sospirato.

Matthias si era sporto senza vergogna per stringerla in un fraterno abbraccio, bisognoso. “Uhm” aveva sentito il singulto di Stiorra, prima che le braccia sottili ricambiassero la stretta.
Di solito era vergognoso ed indecoroso che un uomo ed una donna condividessero l’intimità di una camera da soli, figurarsi in un comportamento così sconveniente, ma da quando erano giunti a Ravka, sua madre si era fatta molto meno cauta con la rigida etichetta della corte Fjerdiana. Matthias non poteva ancora girare per i giardini con la sola compagnia della principessa Alina, ma poteva almeno dividere un salottino con Stiorra.

“Potrei essere il balsamo della tua anima” aveva cercato di sdrammatizzare Matthias, anche se non era mai stato molto bravo, Stiorra aveva ridacchiato quando si era staccata dalla loro stretta, “Ovviamente … e se volesse potrebbe anche farmi sparire come polvere sotto un tappetto” aveva aggiunto.
“Primo a Djelhorm non esiste polvere sotto i tappeti, la cugina Sonza li fa sbattere tre volte al giorno … secondo, Stiorra la tua personalità è ingombrante” aveva aggiunto, “Non esiste modo che io possa farti sparire” aveva aggiunto.

“Immagino che il mio bisticcio con Ava Kelvar si sia fatto notare sì” aveva considerato Stiorra, “Ma sai pensavo più qualcosa come un tragico incidente, qualcosa come: tragica caduta da cavallo e testa aperta come un melone … che ovviamente non si vedrà, dalla mia bara di vetro, dove sarò vestita con quell’abito rosso che ricorda le fiamme che mi ha regalato tua madre, e tra i capelli: i gioielli della corona – poi potrete riaverli quando sarò tumulato – una cerimonia in cui tutti piangeranno poi, diranno cose carine e Ioren leggerà un elogio che farà vergognare tutti lì per la loro mediocrità … e fiorì di lillà come se piovesse” aveva considerato.

“Ho paura di chiedertelo Stiorra, ma da quanto tempo hai organizzato il tuo funerale?” aveva indagato perplesso Matthias, “Vostra altezza, per chi mi avete preso? Sono la dama da camera della Regina di Fjerda, organizzazione è il mio secondo nome. Ho progettato il mio cuore di legno, il matrimonio, i battesimi dei tre figli che avrò, a proposito due maschi e una femmina, la loro festa dei quindici anni, il cuore di legno della femmina, ed il matrimonio di due di loro, al secondo maschio temo toccherà la carriera ecclesiastica e, ovviamente, il mio funerale” aveva replicato.

“Grandioso, quando sposerò Alina potrai organizzare anche le mie nozze, perché Djel sa quanta poca voglia ho di farlo” aveva scherzato forzatamente Matthias, prima di rendersi conto di non aver usato il Se. Non credeva di avere comunque molta scelta, certo a Dalai non mancavano cugine – ed anche una figlia di sette anni – e tutte le grandi famiglie per il mare vero avevano compagne, due o tre dignitarie Zemeni, la sorellastra del Marashal, le due figlie del Presidente, da Kerch non mancavano le proposte … sua madre aveva giusto commentato qualche mese prima che anche la nipote di Wylan Van Eck stava crescendo, perfino Ravka stessa aveva ben altre candidate notevoli da presentarli, Matthias non poteva certo negare di aver avuto un brivido durante la serata delle poesie quando l’Ammiraglio Effimov aveva casualmente reso noto che sua figlia Meesha fosse ancora senza cavaliere … ma Alina sembrava l’unica, per stato e per eleganza.

Era un pensiero strano.

Per un momento il sorriso bello di Stiorra si era un po’ sghembato, “Ho già ovviamente organizzato nella mia testa anche il vostro matrimonio, con tutto quello che la tradizione prevede” aveva scherzato poi Stiorra, tornata su a molla. “Forse, dovrai riorganizzarlo, bisognerà fare una crasi con la tradizione ravkiana, so che di solito non si fa, ma la mia probabile futura suocera è un drago” aveva aggiunto. E non era figurativo.

Stiorra aveva riso fresca, “Sono molto onorata che vostra maestà si fidi così tanto di me per organizzare le vostre nozze per il suo segreto” aveva ammesso poi la dama di sua moglie.
Matthias le aveva sorriso gentile, non sapendo come esprimere il suo senso di colpa: voleva disperatamente qualcuno a cui dire qualcosa di onesto, anche se piccolo, anche se tanti altri erano i segreti.
“In effetti, ci sarebbe qualcos’altro di cui volerti mettere al corrente” aveva aggiunto, mentre cominciava a dar voce a quell’idea malsana che era sorta la notte stessa dopo essersi guardato allo specchio la prima volta. “Questo mi spaventa un po’” aveva ammesso Stiorra, “In effetti, potrebbe” aveva ammesso Matthias, “Sarò onorata di aiutarvi, vostra altezza, anche se ho paura” aveva ammesso Stiorra, il principe non aveva potuto dire altro perché un tocco sulla porta li aveva  distratti. Una delle guardie da palazzo lo aveva avvertito di una visita e dal fatto che non avesse chiesto a Matthias il permesso doveva significare che non poteva rifiutarsi. Matthias aveva concesso la porta ed aveva osservato il giovane druskelle che era stato messo di guardia alla sua porta – con le guance imporporate di disagio quando aveva scorto lui e Stiorra fin troppo vicini – “Vostra altezza reale, la principessa di Ravka ha richiesto la vostra presenza per una passeggiata” aveva sospirato. Alina doveva aver imparato l’etichetta. “Accetto, ovviamente” aveva risposto chiaro come il sole Matthias.

Il giovane druskelle lo aveva guardato con espressione leggermente incerta, “Ora, vostra altezza, la principessa …sta aspettando qui fuori” aveva aggiunto la guardia piena di incertezze. “Oh!” aveva esclamato Stiorra, “Sì, subito, subito” aveva accettato lui, alzandosi e staccandosi di fretta da Stiorra, “Vestito così?” aveva indagato la sua amica, trattenendolo dal fiondarsi fuori dalla porta.
Matthias aveva guardato quello che indossava, dei calzoni semplici grigi e una blusa bianca, un abbigliamento piuttosto domestico, che non si sposava bene con l’idea del principe perfetto di Fjerda, ma aveva titubato a vestirsi fino alla sera, quando avrebbero dovuto partecipare alla serata al lago, patrocinata dal Conte Kirigen che avrebbe aperto i Dieci Giorni di Festa per il secondo ventennale. “Uhm … puoi dire alla principessa che il principe sarà fuori in un momento!” aveva esclamato Stiorra, pizzicandoli la camicia all’altezza della spalla.

“La giacca rossa!” Matthia aveva detto recuperando lucidità, ammiccando a Stiorra, mentre recuperava gli stivali lucidi di cuoio, da cui scendevano le mostrine. Stiorra gli aveva lanciato l’indumento senza preoccuparsi di spiegazzarlo. La giacca era di un rosso vermiglio, con delle figure floreali stilizzati di colore grigio scuro, due file di bottoni d’oro ed avorio per il doppio petto e le spalline rigide, con i pennacchi. Non era il suo solito abbigliamento, ma somigliava di più alla moda ravkiana.
Mentre infilava i bottoni nell’asola di fretta, Stiorra aveva recuperato la sua corona, “Per amore di Djel, metti la camicia nei pantaloni!” lo aveva rimproverato perentoria, Matthias aveva riso imbarazzato, mentre lei appianava i capelli aggrovigliati con le dita, prima di sistemare l’anello di ferro sulla sommità del capo. Ogni volta che indossava la corona, la sentiva sul capo pesante come un macigno.

“Come sto?” aveva chiesto Matthias, guardando la sua amica, “Sei sempre l’uomo più bello del mondo” aveva considerato Stiorra, con un sorriso leggermente accondiscendente.

Matthias sperava che Alina non fosse turbata dal suo aspetto non esattamente impeccabile, d’altronde, la stessa principessa preferiva indossare stivali da cavallerizza e la finanziera da uomo. “Vostra altezza non facciamo aspettare la principessa. Creare l’attesa è compito di noi donne” aveva ridacchiato Stiorra, aggiustando la spilla con la forma dell’albero di Djel sul suo petto.
Quando aveva aperto la porta il druskelle di guardia lo aveva annunciato nella stessa maniera piuttosto ingombrante dei Ravkiani, solo che i titoli di Matthias sembravano esigui a confronto, lui era solo il principe di Djelhorm.

“Buongiorno Alina!” aveva esordito con allegrezza, dal giorno del tiro al piattello Matthias non poteva dire che si fossero avvicinati emotivamente, ma avevano preso la decisione piuttosto strana di non appellarsi con tutte le loro formalità – come quando erano ragazzini ed erano stati portati a pattinare sul ghiaccio. “Oh! Buongiorno a lei, sua altezza reale, ma temo abbiate sbagliato sorella” aveva chiocciato una voce, quasi divertita.

Non era la selvaggia Alina che lo aspettava fuori dalla sua porta, ma era la spettrale ed austera principessa ereditaria di Ravka: Liliyana.

“Oh! Sua altezza, io pensavo che lei …” aveva balbettato, “Fossi mia sorella, comprensibile. Lei è al momento bloccata in un’esposizione artistica a sorpresa, se vuole posso condurla da mia sorella, ma prima avrei piacere nel passare del tempo con lei” aveva spiegato con un tono calmo e misurato.
Matthias non doveva dichiararsi poi molto stupito: immaginava che dopo l’interrogatorio serrato del principe Dominik, avrebbe dovuto aspettarsi anche quello dell’erede.

“Io ne sarei molto compiaciuto” aveva rivelato, gettando uno sguardo a Stiorra alle sue spalle, che aveva spalancato gli occhi davanti la principessa. “So che l’etichetta Fjerdiana non prevede che un uomo ed una donna passino del tempo da soli senza un accompagnatore” aveva aggiunto la principessa, inclinando lo sguardo verso Stiorra, riconoscendo la fraudolenza della loro vicinanza, non era un bene per Matthias, “Malcom, la mia guardia può accompagnarci a qualche passo di distanza, se desidera anche questo giovane druskelle, Niemi giusto? O la nobile Virtanen” aveva aggiunto calma. “Oh! Sa i nostri nomi!” aveva sentito bisbigliare Stiorra al suo orecchio – Matthias immaginava che Lililyana dovesse conoscere il nome di tutti i presenti nel palazzo, “Sì, vostra altezza” aveva risposto il druskelle.

Un approccio completamente diverso da quello della giovane Alina. “Io ho piena fiducia nella sua guardia” aveva bisbigliato Matthias, inclinando il capo per guardare oltre Liliyana per vedere la sua guardia alle spalle, un ragazzo kaelish dall’espressione fiera ed il viso rovinato da cicatrici che lo deturpavano. L’immagine lo lasciò per un secondo stravolto, quella era la corte della regina Zoya, dove viveva la fantastica Genya Saffin, plasmaforme più dotata del creato, che avrebbe potuto cancellare quelle cicatrici. “Però apprezzerei anche la presenza di Stiorra, può seguirci qualche passo indietro, come di consuetudine” aveva considerato Matthias, “Voi siete una donna sposata e non vi è rischio che io …” aveva interrotto la sua frase realizzando l’impaccio di ciò che avrebbe dovuto voi. “Sì, temo che non ci sia molto da proteggere, la mia virtù è andata persa anni fa, era un Fjerdiano, ma non è una storia particolarmente interessante né bella” aveva detto sfacciata la principessa, allungando il gomito verso di lui. Non sapeva se fosse stato per la tensione tra le parti o per il gelo che si poteva respirare.

Matthias aveva passato più di una notte nelle lande del permafrost, nell’ultimo anno, come rito di iniziazione per diventare uomo, con i giovani druskelle, Joran e alcuni giovani grisha, ma non aveva mai sentito così freddo.

La formazione era composta da lui e Liliyana a braccetto, seguiti a pochi passi da una Stiorra incuriosita e la guardia spaventosa.

La principessa era silenziosa, anche nei suoi passi, non stupiva pensarci, era un etherealki squaller, una signora dei venti e così sembravano i suoi passi. Indossava sempre il blu, in ogni occasione pubblica o meno che Matthias l’avesse vista e somigliava molto sia a sua madre sia a sua sorella. Aveva un viso più chiaro della Regina Drago e capelli più folti e neri di quelli di Alina. Aveva la bellezza elegante delle donne della sua famiglia, ma mancava della lucentezza allegra della sorella minore né di quello splendore quasi divino che era irradiato dalla loro madre. Era sicuramente una bellezza, fredda, come le notti di inverno coperte di neve. Alta e snella, con la pelle chiara come lo zucchero di canna, folti capelli scuri corti fino alle clavicole – qualcosa che Matthias aveva notato unicamente nelle donne Ravkiane e sospettava fosse una moda dovuta ai gusti della principessa – con zigomi alti ed eleganti, occhi nocciola e ciglia lunghe e nere.

“Perdoni la mia improvvisata, ma mi sembrava d’uopo che noi eredi di grandi dinastie del continente parlassimo un po’, noi siamo il futuro, avrei invitato anche la figlia di Dalai, ma la principessa Chabi ha solo sette anni” aveva scherzato la principessa e la sua voce aveva preso una sfumatura più gentile, che aveva fatto sorridere Matthias, “Inoltre, voglio rassicurarla che le animosità di mio fratello sono solo sue” aveva considerato lei.

“Mi è parso solo un fratello molto protettivo” aveva ammesso Matthias, “Lo è, come io sono una sorella molto protettiva” aveva specificato Liliyana, “Ma sono anche la principessa di Ravka e lei è il principe di Fjerda” aveva ricordato. Matthias aveva annuito, “Non credo che avremmo lo stesso rapporto dei nostri genitori, ci sono anni di rapporti intessuti, di storie inesplicabili … ma potremmo essere buoni conoscenti” aveva considerato con gentilezza Liliyana.

Lui si era morso un labbro, “Potremmo anche essere buoni amici” aveva ponderato, voleva dire famiglia ma era sembrato fin troppo esagerato, suo padre gli aveva dato il benestare di fare ciò che voleva e da quando aveva visto il suo viso si era rifiutato di parlare con sua madre, che era però sempre sembrata molto positiva ad un matrimonio con Alina. “Provo molta simpatica per vostra sorella” aveva ammesso poi, imponendosi di non volgere lo sguardo verso Stiorra. Non voleva che la principessa di Ravka si facesse un’idea bislacca, specie dopo averli trovati in una stanza da soli. “Sono molto felice di sentire questa notizia, mia sorella è un’anima estrosa, l’ammiro molto da questo punto di vista” aveva confessato la principessa, con un sorriso mesto. Qualcosa aveva turbato Matthias, nel sentire quelle parole. La Principessa Liliyana gli era parsa molto malinconica in quel momento, ma non riusciva a ricordare una sola persona nel corso degli anni, che l’avesse descritta con quei termini.

Della principessa erede di Ravka si era detto qualsiasi cosa: che fosse una fornace esplosiva, la degna figlia di un drago; che fosse anche spietata; una bestia politica e, djel, carismatica come suo padre …ma in quel momento, a Matthias, era sembrata umanissima.

Per un momento Matthias si chiese se fosse più simile a lei, se potesse divenire più vicino a Liliyana, che sua sorella. “Mia sorella è un’appassionata d’arte anche se non lo sa, pensa che sia un argomento insulso e che non dovrebbe impegnarla, ma in realtà sa molte cose ed è incredibilmente colta da questo punto di vista” aveva confessato Liliyana. “Perché pensa sia un argomento insulso?” aveva chiesto Matthias, confuso da quella confidenza. La principessa aveva sorriso mesta: “Mio padre è un ingegnere ed un inventore, prima di essere un re, un soldato o un marinaio, non disprezza la cultura ma il suo cuore riposa altrove, riguardo a mia madre, non è mai stata dedita alle arti umane. Io e Dominik le abbiamo imparate a modo nostro. Io dalla madre di una mia amica, Dominik – be, lasciamo perdere – ma Alina, le ha imparate da Genya, ma nessuno dei miei genitori si è mai molto speso per permetterle di coltivare queste passioni” aveva considerato.

“Il che è un male … il mio istitutore dice che l’arte in tutte le sue forme è una delle cose che ci rende umani” aveva considerato. Una risata mal-travestita da uno sbuffo, come se Matthias avesse detto qualcosa di incredibilmente divertente, prima di ricomporsi. “Fjerda è una corte che mi ha sempre affascinato per questo. Quando pensiamo a … voi Fjerdiani, pensiamo alle armi, alla tecnologia e pensiamo al futuro e quando pensiamo agli Shu, pensiamo all’arte, la bellezza ed il passato” aveva confidato, “Ma lo ho sempre trovato molto riduttivo” aveva aggiunto spenta.

‘Noi quando pensiamo a Ravka pensiamo al potere e al presente’ avrebbe voluto rispondere Matthias.
“Quattrocento anni di divisione hanno reso il mio paese arretrato nelle scienze, nella tecnologia e anche nelle arti. Anche nell’umano” aveva considerato la principessa.

“Sembra che vi siate messi ampiamenti in pari” aveva detto circostanziale Matthias, non sapendo come doverlo dire, “Stiamo correndo sì … certamente per rendere il Gran Palazzo degno della Corte di Ghiaccio e del Palazzo Celeste, però abbiamo ancora molta strada da fare” aveva aggiunto la principessa.
Matthias l’aveva guardata, “Puoi ammettere che il Gran Palazzo sia brutto, è una delle cose più note al mondo. Fosse per me, lo avrei buttato giù e rimesso su almeno quindici anni fa, ma va preservata l’Istanza storica a detta di qualcuno” aveva scherzato. “Genya Safin?” aveva chiesto retorico lui, “Potrebbe sembrare difficile da credere, ma contro Genya avrei potuto vincere la discussione. No, mio padre” aveva raccontato lei. Non sapeva perché, ma la cosa aveva sconvolto Matthias: aveva dato per scontato che il Re Consorte pendesse dalle labbra delle sue due figlie, particolarmente della maggiore.
“Posso riconoscere che il palazzo sia bruttino, sì. Spero con queste parole di non dare inizio ad un incidente diplomatico” aveva ammesso il principe, poi, non sapendo cosa dire. Il Gran Palazzo era un pezzo d’architettura di rara bruttezza, “No, a meno che non ci siano piani per radere al suolo questo posto, allora sì” aveva replicato la principessa, “Potremmo negoziare come sarebbe d’uopo raderlo al suolo. Possibilmente evitando la città.”

Matthias aveva visto un piccolo sorriso delinearsi sul viso della principessa ereditaria, era un sorriso timido ma sembrava bello e profondamente sincero, che aveva fatto sciogliere anche lui
Liliyana doveva avere sulla trentina d’anni, Matthias non era proprio sicuro, ma sembrava più giovane grazie al suo sangue grisha, quasi una sua coetanea.

“Siete mai stati alla Corte di Ghiaccio, quindi?” aveva chiesto, mentre osservava il panorama attorno a loro. Lilyana lo aveva condotto in uno dei cortili interni del palazzo, ricordava di esserci passato per le messe, erano nella direzione della capella palaziale, l’unica parte che Matthias aveva trovato oggettivamente bella del Gran Palazzo di Ravka. Matthias ricordava delle visite della principessa Lilyana a Fjerda, in una di quelle ricordava di aver pattinato con Alina sul ghiaccio, mentre a suo cugino Bjorn era dato il compito di intrattenere l’erede, ma ricordava anche fossero tutte state fuori dalla capitale – era buffo, non sapeva perché. Forse c’era un accordo tra suo padre e la regina Zoya, di incontrarsi sempre sul confino? Però non ricordava di una visita della principessa ereditaria alla capitale.

“Sì, molti molti anni fa” aveva risposto Liliyana, i suoi occhi stani si erano fatti distanti, “Lei aveva un anno” aveva risposto.

Matthias aveva spalancato gli occhi alla notizia, “Oh!” aveva ammesso. “Sì, era il bambino più bello che avessi mai visto, con le guance paffutissime” aveva spiegato, “Non ero mai stata molto amante dei piccoli umani prima – sfido ad esserlo con Dominik come fratello – ma ho pensato: oh, sankti, se somigliano a lui potrei avere anche io” aveva detto con estrema calma. Matthias era arrossito a quel pensiero, “Mi hanno permesso di prenderla in braccio, di solito non è d’uopo permettere a un dignitario straniero di farlo, ma avevano già deciso che mia madre sarebbe stata la sua madrina” aveva spiegato calma.

Anche quella era una cosa che confondeva, pensare che la terribile regina drago fosse la sua madrina, che la figlio prediletta di Djel avesse unto la sua fronte mentre lo teneva tra le braccia. L’aveva sempre chiamata Vostra Mestà, ma avrebbe dovuto chiamarla: Madrina? Per un secondo si era perso in quel pensiero.
“Il druskelle-guardia di tuo padre mi ha guardato tutto il tempo come se avesse paura volessi lanciarti giù dalla finestra” aveva scherzato. Dominik aveva sentito un dolore acuto sullo sterno, come un pugno da togliere il fiato, “Joran … Joran è protettivo” aveva ammesso. Liliyana aveva sorriso, “Sì, Malcom si comporta nella stessa maniera quando qualcuno che non è me o il padre tiene in braccio il piccolo Nikolai e con Juris non ne parliamo” aveva scherzato, volgendo lo sguardo verso la sua guardia, che li seguiva a passo marziale. ‘No’ avrebbe voluto dirle, ‘non è la stessa cosa.’

Joran … Joran … quando aveva scoperto la verità – la parziale verità – prima di partire aveva chiesto ai suoi genitori se la loro guardia giurata sapesse qualcosa del loro inganno. ‘Non avremmo potuto riuscire in niente senza Joran, fetla’ aveva detto suo padre.’

 

Tutte le vetrate della cappella erano state lasciate aperte, rispetto i suggestivi orari della messa, in modo che la luce fluisse preponderante dalle vetrate colorate, creando giochi di luci intriganti che ricordavano a Matthias la visione di un caleidoscopio.

La chiesa era stranamente animata ed un gruppo di persone stava affiggendo delle decorazioni e sistemando sedie, al posto delle panche, e candele. “È prevista una celebrazione speciale, qui?” aveva chiesto Matthias, pensava che tutte le feste ed anche le celebrazioni si sarebbero rivolte alla palude d’oro, “Una specie. Ma è un segreto” aveva scherzato Liliyana, “Mentre quasi tutti i nobili saranno ai bagordi alla Palude d’Oro, il personale ha le sue festività da onorare” aveva spiegato pacato. Matthias aveva pensato stupidamente, che a Fjerda nessuno avrebbe pensato di occupare la cappella palaziale, “In questo caso una molto segreta, ma non succede niente qui dentro senza che io non ne abbia un vago sospetto.”

 “Moya Tsarevich!” aveva chiamato una voce femminile, Matthias aveva riconosciuto subito la voce alta del Luogotenente Effimov, “Oh, la piccola Meesha” aveva replicato la principessa, “O dovrei dire la Furiosa Signora del Mare” aveva scherzato, “Devo alla Frusta di Mare qualche pinta per quel soprannome” aveva scherzato, facendo una generosa riverenza ed appellando anche lui. Matthias era trasalito alla menzione del soprannome di Jordan[1].

I capelli di Meesha, corti fino alle scapole – come quelli della Principessa Liliyana – erano di un riccio vorticoso, tra gli occhi portava un gioiello bindi di un rosso furioso, così come l’abito elegante che Matthias non aveva mai visto indosso a nessuna donna, con una lunga stola come gonna, che saliva sul busto ripiegata su una spalla e il ventre scoperto, che mostrava una pancia olisse piatta. “Vestita già per la festa?” aveva indagato la principessa, “Oh, sankti no” aveva spiegato subito la donna, “Non parteciperò alla festa come la nipote di mio nonno, ma come luogotenente, in alta uniforme. Ma oggi iniziano le Dieci Giornate e quando il sole sarà zenitale ho intenzione di partecipare all’Adorazione” aveva spiegato calma, “Ero qui per convincere Padre Igor a celebrarla” aveva aggiunto, ammiccando all’uomo di chiesa.

Un figuro vestito in blu etherealki con decorazioni d’oro come raggi del sole lungo le pieghe. Doveva essere un Sun Summoner, come l’Apparat di Ravka, uno dei pochi tipi di grisha che non esistevano a Fjerda, né in nessun altro luogo. Non erano mancati i tentativi di sua madre di invitarne alla corte. “Moya Tsarevich, moy prins” aveva detto l’uomo con un inchino gentile ma contenuto, “Se cercavate l’Apparat, il venerabile Vladim è già al palazzo di Kirigin” aveva spiegato pragmatico, “Sì. Mio marito è andato con lui” aveva risposto Liliyana, “Sono qui per mostrare al principe Matthias lo splendido mosaico sotto l’arco” aveva spiegato pratica. Meesha non era sembrata particolarmente turbata e lesta s’era fatta da parte. Una cosa che sicuramente Matthias ammirava della corte Ravkiana era che l’etichetta pareva molto più libera, non doveva stupirsi d’altronde, prima di essere Re consorte o addirittura Re Regnante, Nikolai Lanstov era stato un soldato e un marinaio, così come la sua terribile moglie era stata la figlia di due illustri sconosciuti. Era normale che la corte fosse così semplice, visto che uomini senza passato aveva raggiunto la vetta del mondo.

“Potremmo anche partecipare all’Adorazione, è qualcosa che sono sicura a Fjerda non abbiate” aveva spiegato, “Anche solo perché si fa per inizio della Celebrazione della Riunificazione”. In effetti, non esisteva una tale festa a Ravka.

Matthias si era seduto sulla panca, lanciando uno sguardo a Stiorra, ma lei sembrava più interessata ad osservare il Sun Summoner, con una certa morbosità. “Una volta l’arco centrale aveva Sankt’Ilya, ma è stato spostato per favorire il ritratto di Sankta Alina, lo hanno messo al posto di quello di Sankta Elizaveta. Una sankta che mia madre non ama particolarmente lungi da me sapere perché” aveva spiegato.
“La senja preferita della mia è la vostra” aveva ammesso Matthias non sapeva perché, mentre osservava il viso di Senja Alina della Faglia nella lunetta nel centro dell’arco trionfale dell’abside.
Aveva visto molte Senja Alina, tutte diverse e tutte uguali, tutte avevano i capelli della neve, il vestito blu ornato di sole ed il nimbo d’oro. Quello che cambiavano erano i visi, la riccanza. Aveva visto Aline simboliche, staccate dalla realtà, altre realistiche, alcune sfacciate con il finto viso di sua madre. Alcune abbigliate come regine ed altre come senje semplici senza monili o altro. Ma tutte bellissime. Quella Alina, invece, aveva un viso semplice. Un naso piccolo ma ben armonico in un viso leggermente piatto, labbra pronunciate a cuore ed occhi grandi e castani, con una punta aguzza all’estremità, come era tipica dei Ravkiani delle zone meridionali. Un viso grazioso, ma ben lontano dal ricco viso di una Senja, però era famigliare.

“Io … credo di conoscere la modella” aveva ammesso con un parziale nervosismo, “Davvero?” aveva chiesto stupita la principessa. “La signora Ana Aleksandra R-” aveva cominciato lui, “Temo quella sia l’artista” aveva detto placido il prete, “Sì” aveva concordato Liliyana, “Questo mosaico lo ha fatto Drina, la materialki più capace capitata al Piccolo Palazzo negli ultimi trenta anni. Il viso è di sua madre, Marina Rosen” aveva spiegato. “Pensavo non avesse gli occhi blu, perché l’iconografia di Senja Alina ha sempre gli occhi scuri” aveva considerato, pensando all’ineffabile occhi azzurro di Ana Aleksandra.

Il sorriso sul viso della principessa si era congelato, mentre tagliente guardava poi l’uomo che aveva parlato a sproposito. Meesha si era avvicinata al prete, per poterlo allontanare.

“Perché siamo qui? Veramente qui? Mosaici a parte, si intende. Vostra altezza reale” aveva chiesto Matthias quando era rimasti da soli. “Questa è una chiesa, questo luogo è protetto da una sacra legge” aveva considerato lei, enfatica. “Niente di ciò che diremo uscirà di qui, sì” aveva realizzato Matthias.

Liliyana aveva annuito ed il principe di Fjerda aveva realizzato anche un’altra cosa, la principessa di Ravka lo stava trattando come suo pari, qualcuno stava riconoscendo a Matthias il suo ruolo. Degli intrighi, degli affari, degli accordi, era sempre stata sua madre e per estensione suo padre a farne da padrone. Nessuno aveva mai preso sul serio Matthias, anche durante l’ultimo incontro con il principe Dominik, Liliyana aveva detto il vero: non era stato trattato come un membro fondamentale della corte, ma come un ragazzetto. A malapena aveva parlato con i dignitari zemeni e kaelish e l’unico scambio d’opinioni con la regina Shu era virato verso argomenti sterili e future fidanzate. In quel momento la principessa Liliyana non stava conversando con Matthias, ma con il principe di Fjerda … in cerca di un alleato? Di tastare le sue idee, forse?

“Non so se vorrà mai sposare mia sorella, se così fosse, dovrà prepararsi a molte descrizioni di opere d’arte e letture scabrose, sua altezza reale” aveva scherzato Lilyana , “E pistole” aveva soppesato lui, “Vostra sorella ha una mira mirabile” aveva ricordato. “Questo sicuramente è qualcosa che i miei genitori hanno incoraggiato” aveva considerato Liliyana, riprendendo il vecchio discorso. ‘Ma non le avevano permesso di entrare nell’esercito’ aveva pensato Matthias, ma non aveva detto nulla.
“Io spero lei vorrà sposare Alina, ogni sorella spera il meglio per la propria … specie se ci sarà concesso essere amici, principe Matthias” aveva spiegato Liliyana, “Come le nostre madri prima di noi.”
Lui si era irrigidito, “Siamo le ultime vestigie di un mondo che sta finendo, di un antico regime, io, lei e la piccola principessa Chabi … al di là del Mare Vero non esistono più re e principi” aveva ammesso. Matthias lo sapeva il Marshal di Kaelish era formalmente una carica ereditaria, ma era una figura sempre più simbolica che altro, al suo fianco vi era un gruppo di persone che equamente prendeva le decisioni. Novy Zem dopo la fine del loro periodo tumultuoso avevano un signore che eleggevano dal popolo, le Colonnie del Sud erano qualcosa di ancora incerto ed embrionale, ma dipendevano dal seno della Ricca Kerch che aveva avuto l’ultimo signore più di trecento anni prima ed anche lui non era comunque chiamato Re.

E nessuno di noi è mai stato più in pericolo” aveva considerato Matthias lugubre.

Forse Liliyana non sapeva dell’estensione dei misfatti dei suoi genitori, ma non era un segreto che la corona di Fjerda avesse avuto le sue tribolazioni, quando Rasmos Grijmor era salito al trono, con una politica così pacifista, ed una moglie incerta e l’ostacolo dato dal suo stesso fratello minore. Fjerda era unita, ma il cambiamento portato dai suoi genitori aveva attecchito bene su una parte della popolazione e meno bene su un'altra.

Shu-Han aveva goduto di dodici anni di pace posticcia, che non potevano mascherare e sopperire ai venticinque precedenti, dove il regno era stato spaccato in due da una guerra sociale. La Regina Dalai era sembrata il compromesso tra le due reggenti, una giovane nipote, equamente vicina ed equamente lontana da entrambe, con sangue misto aperto al mondo fuori il Palazzo Celeste, ma il paese era rimasto spezzato per un quarto di secolo, nelle loro ideologie.

Ravka era invece un disastro, mezzo-secolo di unificazione, non sopperivano a due mondi completamente diversi come Ravka est e Ravka ovest, inoltre, ciò che teneva in equilibrio il paese era l’amore, quasi adorazione, dato alla Regina Drago. Eppure, Matthias ricordava di aver sentito il suo istutore commentare che per qualcuno, il trono occupato dalla regina fosse usurpato e che la dinastia fosse quella che veniva chiamata militare – a Fjerda era accaduto due secoli prima, il passaggio dalla dinastia Levenko a quella dei Grimjor, aveva goduto di vent’anni di Reggenza Armata – e quello preoccupava probabilmente di più la principessa Liliyana.

Se quei pensieri di solito non lo avrebbero neanche sfiorato, non era stato più così da quando sua madre e suo padre avevano raccontato a Matthias della grossa e putrida macchia nera. Aveva sollevato la mano per toccare l’anello di ferro che era la sua corona trovandolo pesante e rovente sul capo.

Una menzogna. Un usurpatore.

“Inoltre, c’è anche l’altra cosa” aveva ripreso a parlare la principessa, Matthias aveva sollevato un sopracciglio biondo, “Le nostre madri sono amiche come due sorelle ed io non pronuncerò le parole che dovrei pronunciare e tu non offenderai la mia intelligenza negandole” aveva spiegato pratica. Sapeva, realizzava, qualcosa della vita famigliare di Matthias, ma non tutto sperava, forse avrebbe dovuto parlarne con sua madre. Liliyana aveva spostato la mano e senza vergogna aveva pizzicato il bordo della giacca rossa di Matthias.

Ah. Era questo a cui la principessa stava alludendo. “Questo altro terrore neanche Dalai può comprenderlo” aveva considerato la principessa.

“No” aveva ammesso vergognoso Matthias. “Come lo avete capito?” aveva chiesto con una leggera preoccupazione, chiedendosi se fosse stato fin troppo sciocco, che la principessa avesse orecchie posate al muro, mentre Matthias rivelava con i suoi segreti alla dolce Stiorra. Liliyana aveva sorriso con complicità, “Mi crederebbe se io dicessi: dal simile al simile?” aveva chiesto retorica, “Probabilmente sì” aveva ammesso Matthias, anche se era possibile che la giovane donna stesse mentendo. Un sorriso amichevole era sorto sul viso della principessa, “Esistono persone in questo palazzo che possono rilevare i grisha” aveva considerato. Matthias aveva annuito, “Come gli amplificatori umani” aveva considerato il principe, ricordando alcune persone con quel talento, guardandosi il polso, chiedendosi chi delle mille mani che aveva stretto potesse averlo sconvolto, “Non solo loro … e non tutti hanno bisogno di toccarti. Fai attenzione, anche Shu Han li ha” aveva spiegato calma, quasi materna.

“Ci si abitua mai alla sensazione di essere predati?” aveva chiesto Matthias, grattandosi il retro del collo, con un certo nervosismo.

La principessa non aveva risposto direttamente, preferendo dire: “Questo purtroppo è qualcosa che anche i miei fratelli non sanno e mai sapranno. Loro pensano che trent’anni di regno di mia madre abbiano assolto i grisha dal terribile crimine della loro esistenza, per la gente. Sono otkazat’sya, non si sono mai dovuti guardare indietro, non dovranno mai farlo. Non per questo almeno” aveva confidato e nel farlo aveva fatto roteare il suo polso in due circonferenze. Era un manierismo che Matthias aveva visto fare ad alcune persone, o almeno cose molto simili, anche sua madre ne aveva diversi. Ebbe la sgradevole sensazione che la principessa invece sapesse che dietro le mura dorate della capitale il mondo non era ancora così gentile con quelli come loro.
Sua madre avrebbe detto che la principessa gli aveva appena esposto la gola, ma suo padre avrebbe detto che era la mano che aveva esposto, per essere presa. “E non mi fraintenda io ho il cuore felice nel sapere che nessuno mai cercherà di catturarli, legarli, braccarli. Per anni entrambi mi hanno invidiato, perché vedevano la gloria del vento ma non il prezzo che ho dovuto pagare, il fatto che io non lo abbia chiesto, che io ho dovuto pagare lo scotto per essere chi sono” aveva confidato.
“Neanche io” aveva ammesso Matthias, “E da ragazzino sono spesso stato male perché … perché non potevo esprimermi e non sapevo come farlo” aveva detto.

All’inizio quando Matthias aveva scoperto del suo potere aveva avuto paura, una paura così strisciante da non aver avuto il coraggio di dirla a nessuno, neanche i suoi genitori. Poi lo aveva detto a Joran, quando lo aveva trovato in lacrime che continuava a cullare il corpo morto del suo piccolo coniglio – ‘Io forse ho fatto qualcosa. Io forse sono un mostro’ aveva pianto. L’uomo era stato comprensivo, era stato famigliare ed un porto sicuro e lo aveva spinto a confessarsi ai suoi genitori, che lo avrebbero compreso.
Sua madre suo padre erano stati così disponibili, così magici.

Mentre suo padre gli insegnava come usare il potere e gli raccontava di come sua madre lo aveva insegnato a lui. Matthias si era sentito meglio, per un po’ aveva pensato che il malore di cui aveva sofferto suo padre nell’infanzia spazzato via dalla salvifica presenza della Buona Regina Mila, dovesse essere imputato all’afflizione che avvolgeva i grisha che non esercitavano.
Matthias non era stato un bambino malaticcio, anzi a detta di tutti aveva avuto polmoni forti per piangere e gambe tese per correre, ma si era sentito quasi sfrigolante quando aveva cominciato ad esercitarsi. In segreto.

La prima delle sue tante menzogne.

 

Aveva guardato il bel profilo di Liliyiana e si era chiesto quanti segreti custodisse lei. “Penso mi piacerebbe più sposare voi che vostra sorella” si era lasciato sfuggire. “Oh, sua maestà. Si fidi di me: no. Mio marito dice che sono la regina delle bisbetiche” aveva scherzato la principessa.
“Sarei onorato di sposare la principessa Alina e di essere vostro amico, come le nostre madri” aveva confidato. Liliyana aveva annuito, “Verbalmente la proposta dovrebbe essere fatta da tua madre a mia madre, ma vorrei che prima tu lo chiedessi a ‘Lina” aveva raccontato con gentilezza.
“Adesso facciamo qualcosa che a Fjerda non si fa. L’Adorazione” aveva scherzato, indicando il sacerdote che stava richiamando tutti, per condurli fuori dalla cappella palaziale.
Matthias aveva seguito il corteo al fianco della principessa della corona, seguito a ruota di Stiorra che si stava intrattenendo in una conversazione vivace con il luogotenente Effimov.
Il prete aveva condotto il suo seguito lungo il corridoio, fino poi ad un delicato chiostro rettangolare interno al palazzo, dove quattro bracci di archi ogivali sorrette da colone semplici, con capitelli tondi ed eleganti sorreggevano i portici. Il centro scoperto al cielo chiaro era composto di un manto erboso delicato, sul cui centro, Matthias si sarebbe aspettato un pozzo a dominare la scena, era occupato dalla raffigurazione morbida e delicata di tre ancelle danzanti.

Erano tre giovani donne dal viso liscio senza denotati, come se all’ultimo l’autore avesse deciso che preferiva la scultura incompleta. Erano realizzate in pietra bianca luccicante ed indossavano kefte bianche con ghirigori incisi. Tutte e tre avevano una mano sollevata verso il cielo e le punte delle loro dita si incontravano, mentre l’altra sollevavano un frammento della vestizione, che scopriva così le caviglie nude, con i piedi in assetto di danza.

Le uniche differenze delle dame, erano le altezze e i fisici, una era di statura media, con la vita stretta e fianchi tondi, lunghi capelli sciolti in onde morbide, così ben fatti da sembrare morbidi, anziché marmo lucido. Una era alta ed imperiosa, con riccioli serpentini, che scendevano scossi dal vento. La terza era di una magrezza poco gentile con lisci capelli, che sembrano scorre come il latte.
Anche senza i visi, Matthias era certo che le tre statue fosse: la regina Zoya, la nobile Genya e Sankta Alina.
“Come funziona?” aveva chiesto curioso.

“È un momento di raccoglimento che si fa sempre nell’Anniversario della Dissoluzione della Faglia. Prima di mangiare, di solito. Non ci sono sempre dieci giorni di festa, ma ci sono dieci giorni di festività” aveva scherzato con estrema calma, “Soprattutto è uno dei momenti, dopo la festa del Burro, in cui servi, nobili e popolani si tengono per mano al di là del loro sangue” aveva spiegato.
Il prete aveva occupato una posizione e diverse persone si erano accodate in cerchio al suo fianco, tra cui Meesha, anche la principessa lo aveva imitato, seguito da Matthias e Stiorra che si era affiancata.
Malcom sembrava piuttosto scontento di fare la cosa, ma lo aveva fatto, almeno fino a che non era giunto un altro soldato, indossava anche lui l’uniforme come quella di Malcom, leggermente diversa da quella dei soldati di palazzo, non era da solo, era in compagnia di una guardia vestita con abiti più tradizionali.
“Quelli sono problemi” aveva sospirato la principessa, ma prima che Malcom con il viso livido si avvicinasse, era stato un giovane uomo dal sorriso più che soddisfatto ad avvicinarsi. Aveva un viso pallido, con capelli scuri, le orecchie leggermente grandi, ma che riuscivano a stare bene sul viso. La pelle d’avorio era macchiata da alcuni evidenti, uno sulla guancia, uno sulla fronte ed uno sulle labbra piene.
“Oh, sankti, Dimitrji” aveva sospirato Liliyana, “Porto le stesse notizie della tua guardia ma con qualcosa in più” aveva scherzato, “Moya Tsarevich” aveva aggiunto, prima di occhieggiarlo. “Oh, moy prins!” aveva aggiunto, chinandosi rispettoso verso di lui, con ancora il sorriso storto.
Matthias lo ricordava come uno degli uomini che aveva incontrato il giorno che era giunto a palazzo, che l’aspettava nel cortile di ingresso.

“Dimitrji Pulnudist, conte di Ivets, un piacere rivederla” aveva sospirato con un tono di voce piatto, sperando di aver ricordato bene il nome. Ivets non era una regione particolarmente vasta, ma era ricca di metano e questo lo rendeva uno degli uomini più importanti di Ravka ed abbastanza ricco da raccogliere le informazioni di interesse della principessa prima della principessa.

Liliyana si era allontana con discrezione per parlare con il Conte.

“Si ricorda se è sposato?” aveva chiesto Stiorra al suo fianco, “Sì, ha una moglie” aveva ricordato lui, ma non credeva di ricordare il suo nome. Una signora suli sempre vestita di raso e seta. “Peccato” aveva sospirato la sua amica.

Il viso della principessa aveva assunto un’espressione seccata, aveva fatto roteare poi gli occhi scuri e brusca si era allontanata. “Mi perdoni, sua altezza reale, ma sono costretta a lasciarvi, posso offrirle la compagnia della rispettabile luogotenente Effimov” aveva detto pragmatica, afferrando Meesha quasi a sorpresa. “Spero vada tutto bene” aveva miagolato Matthias, imponendosi di non guardare Meesha, con troppa aspettativa. “Bene-male è tutto relativo, specie quando si hanno amici come i miei. Un consiglio spassionato: siate più accorti di me” aveva sospirato, stanca.
Meesha aveva ridacchiato, “Lontano dalle canaglie”.

Liliyana si era congedata con quella strana raccomandazione e la fretta addosso, seguita da un Malcom che sembrava avesse inghiottito un limone ed un divertito conte di Ivets.
“Chi sa cosa è successo” aveva chiesto perplessa Stiorra. Meesha li aveva guardati con il classico sorriso di chi-la-sapeva-lunga, “O qualcosa di molto divertente che ci verrà raccontato sta sera con un bicchiere di brandy o qualcosa di ancora più divertente che temo non scopriremo mai” aveva aggiunto con una certa leziosità. Davanti quel sorriso svelto, Matthias aveva trovato il suo coraggio: “Ci sono molte cose che non dovrebbero scoprirsi mai che un principe ha la facoltà di scoprire.” Il vero ammirato di Stiorra non avrebbe potuto essere più sfacciato.

“Raccogliamoci in cerchio!” aveva chiamato il prete, con la voce spigolosa quanto il suo viso.
“I principi fanno delle ottime spie. Genya lo dice sempre” aveva sogghignato Meesha. “È stata una tua insegnate?” aveva indagato. Si era accorta troppo tardi di averle dato del tu. Tecnicamente era di un rango nobiliare più alto, ma sembrava comunque strano …

Meesha aveva scosso il capo riccio, mentre si raccoglievano in cerchio, “La signora Genya insegna a tutti i bambini grisha, tutti. Poi prende per un po’ a carico i corporalki, ma non per molto. Rimane un triunviro con molto da fare, così ci dividono” aveva spiegato pratica, “Io ahimè, sono una terribile tailor, molto più portata per l’heartreander. Ho comunque avuto una maestra rimirabile” si era presentata, “Tamar Kir-Baatar.”

“Una degli Uomini del Re” aveva ricordato lui. Sua madre aveva nominato i gemelli Baatar, ne aveva tessuto le lodi come combattenti letali, sia come grisha sia con i pungi crudi e la passione per Toyla Kir-Baatar di recitare poesie religiose, ma non sapeva molto altro.

“Mi ha insegnato come fermare mezzo-corpo umano di proposito” si era vantava Meesha.
Matthias aveva visto e sentito molte donne presentarsi bene a lui, da che aveva compiuto quattordici anni e le sue gambe si erano fatto lunghe e le sue spalle larghe, e dietro tutti quei vezzi aveva sentito i loro cuori che si presentassero loro o fosse ad opera di un parente. Piccoli tamburi impazziti, di solito, ma il battito di Meesha era calmo e misurato come una melodia ritmica.

Meesha Effimov non era minimamente interessata a lui.

Era la prima ragazza in tutta la sua vita che non fosse affascinata o intrigata in qualche maniera. Dove non arrivava il suo viso, di solito arrivava il suo titolo e di tanto in tanto pure la sua personalità … o qualcos’altro.
Anche Liliyana Nazialensky che non era stata interessata a lui per nessun’altra cosa che un’alleanza in qualche maniera non si era potuta mantenere perfetta come un metronomo, ma Meesha Effimov sì. Matthias era intrigato da questo. “Sono legittimamente ammirato” aveva ammesso.

 

“Nel primo giorno del martirio di Sankta Alina della Faglia, nostra signora del sole nascente, noi uomini mortali ci riuniamo sotto il suo vigile sguardo, nel sole luminoso. Ci presentiamo a lei nudi nell’animo ed uguali nel capo, tenendoci tutti per mano” aveva soffiato con voce imperiosa il prete, tenendo prima le mani verso il cielo, poi verso i suoi fianchi e che tutti avevano imitato.
Matthias si era ritrovato ad avere le dita intrecciate con Stiorra e con Meesha, solo all’ora aveva notato che il gruppo di persone che si erano riuniti intorno alle tre statue era composto dal più disparato gruppo sociale. C’erano nobili ben vestiti, come Meesha che indossava gioielli ed abiti raffinati suli, lui che era un principe, ma anche giovani e vecchi che abitavano le stanze del palazzo come servitù o d’ufficio.

“Nudi?” aveva chiesto Matthias, “Metaforicamente” aveva spiegato Meesha.
Si erano presi per mano, con capo chino avevano ondeggiato due passi a sinistra ed uno a destra, mentre il prete ripeteva invocazione in antico Ravkiano.

Matthias lo conosceva poco e quel poco era scritto, parlato per lui era un mistero di cui aveva riconosciuto sole poche parole: Proteggi. Amore. Sole.

Ed ovviamente Sakta Alina.

Avevano girato tre volte in senso antiorario e due in orario, intervallando le invettive dell’uomo con una parola, che Matthias non aveva capito né nel significato ne nella pronuncia, finendo per riprodurla probabilmente impunemente. Poi si erano arrestati. Padre Igor si era fatto avanti, aveva slacciato i primi bottoni della kefta blu e poi il resto, facendola scivolare sulle spalle ampie.
“Avevi detto metaforicamente!” aveva guaito Matthias, “Ci si spoglia solo dei simboli, non dei vestiti e li recuperi dopo” aveva mormorato la giovane donna, sciogliendo la mano da lui ed avvicinandosi all’uomo, aveva tolto il fermaglio che le pendeva sulla fronte e la manta rossa istoriata, si era toccata l’orecchino d’osso ma non lo aveva tolto – Matthias sospettava fosse un amplificatore.
Aveva posato i suoi averi ai piedi della statua di Sankta Alina così come Padre Igor. Altri avevano eseguito, nobili avevano tolto le giacche pregiate, i gioielli ed anche i camerieri e i domestici si erano privati delle più svariate cose, dalle scarpe, i grembiuli, i fermagli.

Tutto si era accumulato ai piedi di Sankta Alina, ma anche della Regina Zoya e di Genya.
Stiorra si era fatta avanti e con coraggio si era sfilata le scarpe blu pavone – che stonavano con il suo vestimento hedjust – su cui erano ricamate perle bianchissime e tonde, con un tacco a rocchetto ai piedi di Genya, poi era tornata al suo fianco scalza.

Matthias aveva fatto i passi incerti, sentendo le gambe d’argilla, pensando di sfilare la giacca che aveva messo alla rinfusa o qualche altro principesco monile che aveva addosso … e poi aveva sfilato il principesco monile.

La sua corona di ferro temperato era finita accanto alle scarpe di Stiorra. “Direi che questo è essere proprio nudi” aveva sussurrato Meesha complice quando lui aveva ripreso il suo posto, “Mi sento nudo” aveva ammesso lui, anche se non era vero. Davanti il viso senza volto della Sankta del Sole,

Matthias aveva desiderato davvero essere nudo dei suoi simboli: la sua faccia.

Poi erano rimasti in un macchinoso silenzio per un tempo che Matthias aveva percepito eterno. Non sapeva bene come avrebbe dovuto sentirsi, non era mai stato un uomo molto spirituale, né religioso. Era stato educato alla catechesi di Djel, Bjorn era stato un maestro molto prolifero, e poi dei Figli di Djel, perché la religione era importante nel suo regno, aveva imparato l’animismo dell’albero e Joran lo aveva istruito al culto dei Sankti, ma non era mai stato un vero credente. Percepiva la tensione e la solennità attorno a lui, nelle palpebre serrate, nei respiri profondi e nel silenzio rumoroso dei suoi vicini, tutti concentrati nell’adorazione del sole, ma lui si sentiva un estraneo, un guardone nell’intimità.

Perfino Stiorra sembrava essersi amalgamata bene.

Poteva sentire che tutti i cuori del cerchio si erano accodati alla stessa frequenza e battevano all’unisono come un unico tamburo e lui … lui era un tono stonato.

“Va tutto bene, sua altezza reale” aveva sussurrato Meesha nel suo orecchio, come se avesse potuto leggere nella sua mente. Matthias era avvampato, avrebbe voluto chiedere come, ma poi aveva ricordato il sangue heartrender della ragazza, doveva essere stato rumoroso nel corpo. “Non sono un uomo molto spirituale” aveva bisbigliato pieno di vergogna, “Neanche io” aveva ammesso Meesha con un tono basso come un sussurro di vento, “Mi piace solo ascoltare i corpi delle persone in raccolta” aveva confidato.

Per un bruciante momento Matthias aveva pensato che Meesha sapesse, come Liliyana, “Vorrei poterlo condividere meglio, ma è difficile da spiegare se non lo si può sentire” aveva aggiunto lei.
Matthias si era obbligato a non sospirare per rassicurazione, “Io … vorrei potere” aveva mentito, tenendo il suo sangue caldo, come suo padre gli aveva insegnato. Però sapeva quanto fosse bello.

Il prete aveva ammonito Meesha di fare silenzio come se fosse stata una bambina, ma non si era permesso di rimproverare lui.

“Adesso” aveva rotto il silenzio Padre Igor, parlando nuovamente nel ravkiano moderno, “Ognuno di noi, avrà la sua misericordia” aveva espresso e l’attimo dopo aveva rotto di nuovo i ranghi ed aveva recuperato la sua kefta, senza indossarla. “O sankta Sol Koroleva che sei morta per noi, mi auguro di non perdere mai i raggi del sole dai miei occhi, che gentile ed onesto guidi il mio cammino” aveva mormorato, aveva alzato le mani, “Guidaci oggi, come ci hai guidato ieri e come ci guiderai domani, verso l’avvenire” aveva aggiunto, “E proteggici dalle malizie del Senza Stelle e delle avversità della vita così che un giorno, come era ieri, potremo riunirci con chi abbiamo amato ed ora illumina l’avvenire, nel tuo caldo abbraccio” aveva mormorato.

Scintille si erano illuminate dalle sue dita e poi piccoli soli luccicanti si erano alzati dalle sue mani disperso tra loro, caldi come lampadine, di un giallo chiaro, difficile da guardare ma rischiarante.
L’evocazione della luce, sarebbe rimasta per Matthias una meraviglia. Le sfere avevano pulsato ad intensità diverse e secondo un ritmo preciso … era una canzone silenziosa.
“Shioban Velenski” aveva mormorato il prete, allontanandosi dal centro, mentre i soli continuavano a pulsare.
Un uomo si era fatto avanti ed aveva detto un altro nome.

E così un altro ed un altro.

“Che nomi sono?” aveva chiesto Matthias temendo il suo momento, Meesha lo aveva guardato, sotto la luce dei piccoli soli la sua pelle non era più olisse, sembrava terra argillosa, vivace e bellissima. Meesha aveva le labbra chiuse in una linea dritta, distratta, “Uhm … chi abbiamo perso e raccomandiamo non si perda mai nella luce, ora che affrontano l’eternità” aveva spiegato didascalica, prima di allontanarsi, “Con cui speriamo di ricongiungerci alla luce”.

Aveva raccolto il suo scialle ed il suo gioiello, “Shioban Effimov” aveva scandito poi, guardando il prete. La mano era andata all’orecchino d’osso.


“Pensi …?” aveva provato Matthias, rivolgendosi a Stiorra, ma la sua amica aveva già raggiunto la statua di Genya e sollevando le gonne ed esponendo le caviglie velate aveva indossato di nuovo le scarpe, “Samila” aveva mormorato.

Era il nome di sua madre, defunta quando Stiorra era solo una bambina.
Alla fine, Matthias era rimasto l’unico uomo del cerchio a non essersi fatto avanti e la sua corona era rimasto l’unico oggetto a adornare il palco delle tre Sankte. Pieno di imbarazzo e con la vergogna di un ladro si era fatto avanti raccogliendo l’anello di ferro. Era imbarazzato dal fatto che la sua vita fosse stata fino a quel momento così protetta da non avere morti di cui raccomandare l’anima.
Poteva lamentarsi dell’orribile macchia nera che si estendeva sulla sua schiena, che filtrava nella sua pelle e marciva le sue ossa e i suoi organi, ma non aveva mai sanguinato di dolore.
“Hartfang Grimjor” aveva piagnucolato, perché il suo finto zio era l’unico uomo che avrebbe potuto piangere. I genitori di Mila Zenik non esistevano, quelli della buona regina Mila erano invenzioni morte, i genitori di Hanne Brum vivevano al confine ed erano nomi e foto ingrigite e la famiglia di Rasmos Grimjer era composta da fantasmi, tutti, convenientemente, già scivolati via quando Matthias aveva emesso il primo vagito. Suo zio Hartfang era stato l’unico che avesse conosciuto … non lo aveva amato e la sua tristezza era stata guidata dal sanguinare e dolore di Bjorn che da vero rammarico.
Poi era tornato al suo posto.

“E che per un anno ancora il sole splenda ogni giorno su di noi e che Sankta Alina possa vincere ancora contro il Senza Stelle, nella loro lotta eterna” aveva mormorato padre Igor.

E poi i soli si erano illuminati tutti insieme, caldi, brillanti e quasi ipnotici.

“Ed ora mangiamo!” aveva gridato qualcuno con ilarità, “Prima il brandy[2]!”

 

 

 

“Stiorra sembrava molto colpita dall’adorazione del sole” aveva sussurrato sua madre.
Era accomodata sullo sgabello di fronte il pettinatoio. I capelli biondi lisci erano acconciati in una elegante crocchia alta, dove neanche un filo scivolava via alla severità. Nelle ciocche erano state intrecciate perle bianche e gemme blu, che accompagnavano ferri dalla forma di fiocchi di neve.
Dalle orecchie pendevano vetri dalla medesima forma, che luccicavano dal blu al verde, quando la luce la rifrangevano. Bellissima e vestita di bianco come una regina delle nevi, con le spalle nude chiare, a favore delle temperature più miti di Ravka.

“Sì, è stato suggestivo” aveva borbottato Matthias, mentre indossava la giacca blu-grigio – non era il suo colore e stonava con la sua pelle.

Matthias indossava sempre il rosso cremisi. Il rosso corporalki. Si sentiva ancora più estraneo con quell’abito addosso.

Era ancora nudo dalla vita in giù, incerto.

“Sei ancora arrabbiato con me?” aveva chiesto sua madre, arricciando le labbra.

“Rabbia non esprime il mio sentimento, madre” aveva ammesso. La rabbia aveva senso, la rabbia era plausibile, quello che sentiva Matthias era un sentimento molto più intimo e devastante, era un vortice nero che succhiava via ogni cosa possibile. “Sapevo che non eri pronto alla tua faccia” aveva mormorato sua madre, “Ero pronto a vedere la faccia del figlio di Nina Zenik” l’aveva aggredita.
Ma non era Nina Zenik che aveva visto – la dolce sconosciuta che suo padre aveva disfatto davanti ai suoi occhi, nelle sicure stanze della Corte di Ghiaccio. Una donna morbida dove la regina Mila era stata ruvida.
Ma non è Nina Zenik che ho visto” aveva ringhiato. Si era aspettato di vedere un estraneo sul viso, un eco del volto che sua madre aveva indossato una volta, di un uomo giovane, dai capelli scuri e le fossette forse …

Quando aveva sentito la storia di sua madre e di suo padre non aveva riflettuto bene su tutte le implicazioni …

“Fetla” aveva provato sua madre. “Quanti segreti ancora non mi hai detto, madre?” aveva replicato lui.
Sua madre si era morso un labbro, “Vorrei dirti che sai tutto” aveva ammesso, “Ma … quasi tutto quello che non sai ancora, non è importante” aveva sussurrato, alzandosi.
L’abito che indossava era stretto sotto il seno e scendeva morbido sulla vita ampia e lungo le gambe, fino ad arricciarsi ben oltre i piedi, creando uno strascico degno di una sposa … di una regina.

“Non è importante?” aveva chiesto. “Riguarda la mia vita, prima …” aveva sussurrato sua madre, cercando di apparire comprensiva. “La tua vita prima, la vita di papa prima, la vita di Rasmus …” aveva ringhiato lui. “E la mia vita?” aveva chiesto arrabbiato.

“Ascoltatami, tu sei Matthias Grimjor della Casa del Lupo, sei l’erede della corona della Grande Fjerda ed un giorno siederai sul trono di ghiaccio” aveva stabilito sicura ed irruenta sua madre.
“Io sono una putrida macchia nera” aveva risposto Matthias, “Ho rubato il diritto di Bjorn. Di Zio Hartfang” aveva stabilito. “Hartfang era un uomo vile e crudele” aveva detto sua madre, “E non era più legittimo di altri” aveva stabilito con voce sicura, “Di che parli?” aveva chiesto.
“Rasmos Grimjor era una creaturina malata, venuta al mondo grazie ad una guaritrice grisha … e suo fratello, invece, era un bel fjerdiano baldanzoso?” aveva chiesto retorica.
“Era … un bastardo?” aveva chiesto lui, come me? Aveva pensato.

“Sì. Era strano. Inizialmente pensavo che la regina avesse avuto una relazione per avere un figlio sano, ma tutte le sue attenzioni erano unicamente per Rasmos … succede, ma era strano. A malapena guardava il figlio” aveva considerato Mila, “Così abbiamo scoperto che Hartfang era tecnicamente un cugino che è stato adottato, quando si era cominciato a pensare che Rasmos fosse troppo debole per portare avanti la linea di sangue … ed in realtà era figlio illegittimo di quella vecchia cariatide di Dietrich Grimjor, tuo … nonno” aveva spiegato.

“Comunque, più legittimo di me” aveva provato Matthias. “Cosa lo renderebbe legittimo al trono? Il fatto di essere nato dalle gonadi di un re? Pensi che una linea di sangue, neanche particolarmente buona, sia l’unica caratteristica necessaria a fare un buon re?” aveva chiesto retorica, “Io e tuo padre abbiamo fatto di Fjerda un’utopia e non avevano una goccia di quel sangue. Rasmos era un ragazzino crudele che sfogava la sua rabbia su chi non poteva rispondere. Ravka è stata spezzata per quattrocento anni sotto i re Lanstov ed ora risorge sotto la sua regina venuta dal nulla” aveva rimarcato.
“A proposito di regina venuta dal nulla, voglio sposare Alina Nazialensky” aveva commentato. Sua madre aveva assunto un’espressione leggermente turbato, “Oh, be, è una ragazza deliziosa” aveva considerato, “Sono contenta che ti piaccia. Però vorrei che valutassi attentamente le cose” aveva aggiunto sua madre. “Cose come Alysanne Rollins? Quanti anni ha ora? Dieci-unidici?” aveva domandato retorico lui, “Dodici” lo aveva corretto la regina, “Non mi dispiacerebbe in effetti, tra lei e la principessa Alina sono molto dissociata, anche Stiorra sarebbe apprezzata … però, ecco, il Marshal ha una sorella e tre nipoti nubili, per non parlare delle Taban – hanno più donne da sposare loro che tutta Fjerda” aveva ammesso lei.

Matthias aveva sospirato, “Alina mi piace molto” aveva insistito – anche se era una menzogna … differentemente da suo padre, sua madre non poteva riconoscere le sue bugie solamente ascoltando il suo cuore, ma era comunque tremendamente brava. Sapeva riconoscere ogni sfumatura del suo viso – Matthias si chiedeva se sarebbe stata altrettanto capace anche con il suo vero volto – quindi avrebbe dovuto essere convincente. Non era abituato a mentire.

Non voleva sposare Alina, non più di quanto volesse sposare chiunque altro, ma voleva l’amicizia di Liliyana e le spalle coperte dalle scaglie di un drago. “Per convenienza sua nonna è anche una Grimjor” aveva aggiunto sua madre, facendole l’occhiolino, “Ha anche un nonno-nemico-numero-uno” aveva risposto stringato Matthias, riferendosi al famoso Magnus Opjer.
“Dovremmo parlarne con tuo padre, ovviamente, la proposta deve essere fatta da lui a Zoya” aveva spiegato calma sua madre, allontanandosi da lui, “Ora metti le culottes … Sempre se non vuoi conquistare la corte di Ravka con le sue cosce” aveva ridacchiato lei. “Posso vestire in rosso?” aveva provato lui, “No. Apprezzo che tu voglia onorare tu-sai-cosa e adoro il rosso, djel quanto mi manca, ma ogni tanto bisogna indossare anche qualcosa … fuori dalla zona di conforto” aveva soffiato sua madre. Matthias aveva fatto una smorfia poco convinta, “Il grigio-blu non mi dona, se posso dirlo” aveva ammesso lui, ammiccando alla giacca. “Hai ragione, saresti perfetto in un bellissimo abito bianco-ghiaccio, ma a Ravka i servi indossano il bianco” aveva spiegato didascalica e poco felice sua madre.
“Inoltre, qualsiasi vestito indosserai, sarai comunque il giovane più bello della cena” aveva soffiato sua madre, spostando una delle ciocche bionde dietro l’orecchio di Matthias con estrema gentilezza.
Matthias era ancora arrabbiato con lei, anzi era furioso, un sentimento così vibrante che scuoteva la sua anima e permetteva alla macchia nera di espandersi ogni minuti di un piccolo pezzo, che prendeva il suo cuore e corrodeva ogni cosa – ma era sempre la sua mamma.

“Ho … ho detto a Stiorra il tu-sai-cosa” aveva confessato.

“Oh.”

 

Il nonno di Stiorra, il vecchio Karl, gli aveva presi da parte per parlare. Lui, Stiorra, sua madre ed l’istitutore.
Nonostante la vecchiaia avesse ingrigito la pelle, raggrinzito la carne, curvato la schiena possente ed ingrigito i lunghi capelli, che si erano fatti radi sulla cima, e la barba, che si era fatta crespa e striata di bianco, conservava ancora l’eleganza e la possenza dei Druskelle. Gli occhi blu, da vero Fjerdiano, rimanevano due ruggenti schegge di sicurezza e fortezza tipica dei lupi. A Matthias non piacevano tutti i druskelle, ma sicuramente apprezzava il nonno di Stiorra.

“In questi giorni ho potuto conversare con Senje Adrik ed altri legati delle corti per stabili le norme dell’etichetta per queste serate” aveva cominciato a spiegare l’uomo.

“Ravka tende ad essere molto più libertina di noi” aveva squittito sua madre, quasi elettrizzata alla notizia. Se Matthias non avesse visto qualche ora prima la mansuetudine della sua rabbia, avrebbe creduto alla sua farsa, “E gli Shu-Han hanno regole ancora più intimidatorie” aveva considerato l’istitutore.
“Sì. Siamo arrivati al compromesso che nessuno che abbia un grado più basso del vostro titolo o del corrispettivo possa invitarvi a danzare” aveva ripreso il vecchio Karl, “A Ravka uomini possono invitare donne e viceversa, ma mi è stato assicurato che nessuno dello stesso genere inviterà i fjerdiani, ma se voleste non vi sarebbe opposizione. Nessun uomo Shu-Han inviterà una donna a ballare, di qualsiasi etnia ella sia – ciò non toglie che accetteranno l’invito di tutti” aveva cominciato a spiegare quello, “Vostra maestà, è convenuto che voi possiate essere invitata a ballare solo dai nobili reali vostri pari e il presidente della Repubblica di Novyi Zem … che ci porta ad un problema tutto loro. I Coloni e Novyi Zem non possiedono titoli e tutti i loro legati e ambasciatori sono cittadini comuni, si è concesso di dare loro un’eccezione e cercherò di suggerirvi io se qualcuno è o non è al vostro livello – giuridico, si intende, nessuno è al livello delle vostre grazie” aveva aggiunto diplomatico, ammiccando anche a Matthias.

“Grazie per il tuo duro lavoro” aveva ammesso sua madre, con un sorriso che prometteva già di infrangere tutte le etichette precisate.

Anche gli altri avventori, oltre Matthias, sembravano poco coinvolti nel discorso e solo lui aveva cercato di prestare attenzioni alle strane regole che l’uomo aveva ricordato.
Si china solo il capo davanti alla regina Zoya, si inclina anche la schiena davanti a Dalai, una riverenza davanti al Marshal ed una vigorosa stretta di mano al Presidente.

“Adesso andiamo, stanno chiamando le carrozze per andare al lago” lo aveva interrotto energica sua madre, mentre li conduceva fuori dal loro piccolo spazio, per affacciarsi al piazzale principale, davanti l’ingresso del Gran Palazzo, dove la fontana con le due Senje spiccava.
Sicuramente i reali di Ravka avevano reso noto quanto il culto di Senja Alina fosse importante per loro, sempre accostata alla Regina Drago. Si chiese se sua madre l’avesse conosciuta la Signora del Sole.
L’adunanza stava venendo chiamato da un giovane uomo vestito di bianco e broccato d’oro, un servitore, che era affiancato allo splendido signore della regina: Nikolai Lanstov, vestito di tutto punto con la redingote viola prugna, lunga fino alle ginocchia, le culottes bianche e gli stivali neri e lucidi, con i pennacchi d’oro. I capelli biondo-grigio, accuratamente pettinati da un lato.
Il re consorte di Ravka era tra Genya, con i riccioli rossi e la kefta sangue raffinata e un uomo suo coetaneo vestito di velluto, di un viola-blu, aveva occhi chiari – famigliari – agghindanti in uno sguardo truce. “Chi è quell’uomo?” aveva indagato Stiorra, “Schievich Rosen, il duca di Keramzin” aveva chiosato il suo istitutore, “Oh! Il padre di Ana Alexandra” aveva considerato sua madre, ammiccando alla grisha materialki che aveva occupato del tempo alla loro corte.
Buffo, proprio quella mattina, la principessa Liliyana aveva parlato di lei. “Si somigliano, sì” aveva valutato Matthias, pensando al quadro della madre di Ana Alexandra. La ragazza doveva assomigliare più alla sua genitrice, ma aveva inequivocabilmente qualcosa del padre. Gli stessi occhi freddi.
L’uomo vestito di bianco – Petyr – aveva cominciato a spiegare come si sarebbe svolto il viaggio, soldati, carrozze e quant’altro.

Stiorra li aveva tirato una gomitata gentile, “Vostra altezza reale, ho già sistemato quella cosa sulla carrozza che ci hanno assegnato” aveva sussurrato. Per un secondo Matthias era stato colto del tutto in fallo, non avendo idea cosa la sua amica si stesse riferendo. Stiorra doveva averlo percepito, “Parlo di quello che è successo prima che arrivasse la principessa di Ravka” aveva provato. Matthias aveva realizzato, “Grazie, Stiorra … ma come sapevi quale sarebbe stata?” aveva chiesto. “Come ho detto: sono una dama della camera, organizzazione è il mio secondo nome” aveva scherzato senza vergogna l’altra, “Inoltre, i cocchieri di Ravka sono molto … amichevoli, così si può dire[3]” aveva ammesso lei con un sorriso fin troppo tronfio. “Potrei anche preoccuparmi se qualcuno volesse ucciderci” aveva considerato Matthias, “Vi proteggerò io, farò scudo con il mio corpo e soffocherò l’avventore con tutti i lillà che ho cucito addosso al vestito” aveva riso la sua amica.

Matthias non lo trovava molto divertente.

“Apprezzo l’audacia dei vestiti della Regina Dalai” aveva sentito sua madre, mentre raggiungevano la carrozza che i soldati fjerdiani avevano già allestito. Matthias non aveva fatto in tempo a vederla, se non una lunga coda di stoffa verde-lime sparire su una carrozza quadratica.
“Io volevo vedere i tre gioielli della corona di Ravka” aveva sospirato Stiorra, mentre si sistemava sul cuscino imbottito alla sua sinistra.

Sua madre e Karl di fronte e loro tre stretti in due cuscini. “Questo è l’inizio dei Dieci Giorni di Ravka … sono sicura che Zoya abbia in mente un ingresso trionfale” aveva considerato con divertimento sua madre, passandosi le mani guantate sul mento, “Come per i quarant’anni di tuo padre che ho liberato cento colombe dai balconi” aveva valutato sua madre, “Non molti ospiti furono particolarmente felici” aveva considerato il suo istitutore. Anche lui era stato costretto ad un vestito più sfarzoso e pregiato, rispetto il direttorio che sembrava prediligere usualmente – scuola che Matthias preferiva e seguiva pedissequamente. Sua madre aveva ridacchiato, prima di parlare: “Ci tengo particolarmente che questa serata vada bene. Che queste feste vadano bene” aveva considerato, senza aggiungere altro.

Matthias però leggeva tra le righe; primo: avrebbe dovuto lasciare un’impronta piacevole ai coniugi reali se sperava di rubare il Frutto dell’Autunno dal loro giardino; secondo: per una volta non era sua madre ad indossare in pubblico il vessillo di Fjerda e manifestare il re, ma lui. Era Matthias l’ambasciatore di suo padre, avrebbero guardato lui per valutarlo e marcarlo. Una piccola prova generale del suo futuro pubblico.

 

La ruota della carrozza aveva preso un sasso che aveva fatto scuotere tutto l’abitacolo, proprio sull’inizio di conversazione di Stiorra che era stato inghiottito in un guaito, “Cosa hai detto, bambina?” aveva chiesto suo nonno con gentilezza, “Che quindi non posso invitare il Principe di Ravka a danzare con me?” aveva chiesto lei, carezzandoli il gomito con gentilezza. “Per l’amore di Djel, assolutamente no. Tu non puoi invitare nessuno a ballare, proprio” aveva replicato l’uomo con voce secca ed aspra, “Perché vuoi invitare il principe di Ravka?” aveva chiesto Matthias con curiosità, “Però ho gli occhi” aveva risposto la ragazza ovvia. “Dobbiamo rifare tutto il discorso da capo?” aveva chiesto il druskelle.

“Come funziona con il principe Consorte di Ravka?” aveva chiesto l’istruttore, le prime parole che aveva pronunciato in tutta la serata, era sembrato così turbato in quei giorni, “Come?” aveva chiesto Karl abbastanza perplesso, “Ovviamente tu non puoi invitarlo … Non hai il suo stesso grado nobiliare, inoltre sarebbe sconveniente per un Fjerdiano, per un uomo fjerdiano invitare un altro maschio a ballare. La tua famiglia non sarebbe contenta di questo” aveva valutato. Il suo interlocutore lo aveva ignorato a pie pari, “No, intendevo. Con lui si applica la regola degli uomini shu-han o Ravkiani?” aveva chiesto. “Argomentazione interessante in effetti” aveva considerato Karl, “Non mi sono informata a dovere … avrei dovuto, Djel, avrei dovuto” aveva considerato l’uomo con un briciolo di panico. “Per favore mio buon Karl, apprezzo il tuo duro lavoro e la tua precisione” aveva ripreso a parlare sua madre, “Ma è una festa, cercheremo di essere quanto più accomodanti” aveva concesso sua madre. “Ballermo con chiunque ci inviti a ballare, che sia del rango appropriato, uomo o donna che sia” aveva considerato sua madre perentoria, “Alla fine ieri è andata così bene nella Sala delle Letture” aveva considerato, guardando il suo istitutore, “Non hai lasciato un occhio asciutto.” Quello aveva sorriso rosso di imbarazzo, “Dovremmo anche tendere le orecchie” aveva considerato dopo aver recuperato una carnagione meno peperone, “Lazlayon apparterà anche al conte Kirigin, ma è la casa dei giochi del Re Consorte” aveva considerato il suo istitutore. “E del Principe Consorte” aveva aggiunto Karl. “Oh, sì, una parte di me spera che potremmo vedere una qualche spaventosa invenzione che ricordi a tutti come Ravka sia diventata una geniale potenza” aveva detto lui calmo. Sua madre aveva sospirato, “Una serata tranquilla, divertente e probabilmente piena di bollicine, ma per cortesia non provocate un incidente diplomatico” aveva considerato sua madre, “Lazlayon ha corridoi di terra, che rivelano segreti, ma solo tentare di sbirciarne uno potrebbe creare disgrazie che non siamo pronti ad affrontare” aveva mormorato sua madre. Il suo tono era stato dolce e misurato, ma Matthias leggeva l’atmosfera che sua madre aveva rilasciato nella carrozza.
Il silenzio si era sedimentato per un momento nell’abitacolo, ma poi le chiacchiere erano riconosciute a ruota con più vigore, ma leggerezza. ‘Il vestito di Dalai sembra splendido. Nikolai era stupendo. Il Conte Rosen è impressionante, perfino più bello del re’ ed altro.

 

Lazlayon non era troppo distante dal Gran Palazzo e della città di Os Alta – sua madre una volta le aveva detto che c’erano corridoi sotterranei che univano le due proprietà, perciò il viaggio era durato meno di quanto si era aspettato.

Quando la carrozza si era arrestata, un giovane uomo dell’esercito Fjerdiano aveva aperto l’importa ed aiutato a scavalcare sua madre l’uscita ed anche Stiorra, aveva offerto anche una mano al vecchio Karl, ma testardo come un mulo l’uomo l’aveva ignorato.

Baldi e giovane, Matthias e l’altro giovane erano scesi da soli, incontrando il messo che la corte ravkiana aveva mandato per il loro ingresso. A loro era spettata il luogotenente Effimov, con i ricci raccolti in una crocchia alta, con la kefta rossa, con le spalline dritte con le frange, e un disegno intricato di linee grigio-nero. Indossava però ancora il gioiello d’argento sulla fronte – come quella mattina – e il suo orecchino d’osso.

“Sua maestà siete una luce” aveva detto Meesha, rispettosa, facendo una riverenza alla regina, sua madre aveva sogghignato come una ragazzina. Matthias si era lasciato dominare invece dal panorama che si apriva davanti lui. Il sole non era ancora del tutto tramontato, sebbene non fosse rimasta quasi traccia di sole nel cielo, la luna a metà era già sorta, ma il cielo era tinto di un viola intenso, che si rifletteva sulle acque cristalline, di un lago così vasto da sembrare quasi il mare. Uno spettacolo assolutamente suggestivo.
Sentieri luminosi realizzati con candele e fiaccole si aprivano davanti loro, conducendo ad intriganti giardini che creavano un labirinto verde di fiori e foglie – ‘Succedono parecchie trasgressioni lì, sotto le stelle’ avevano raccontato una volta a Matthias, nella gelida sicurezza della Corte di Ghiaccio.

Il principe Consorte dominava la scena con un suo completo a tre pezzi, con un frac nero-opaco con decori in filo d’argento e due code lunghe a pinguino, con il taglio dritto direttorio, sopra un gilet avorio e culottes polvere e stivali lucidi sotto a ginocchio, più ravkiano che shu-hannita, come il capello corto. Aveva accolto lui la folla arrivante, baciando sulle guance suo cognato che era venuto da lui, con decenza. Il Principe era tra il Conte Kirigin ed il Pretendente, due omuncoli ben vestiti dai visi divertiti che sparivano nella magnificenza del futuro re. “Non vedo la Regina” aveva notato Stiorra, “Guarda Genya” aveva detto sua madre, ammiccando alla signora del Piccolo Palazzo.
Genya era rimasta con il duca di Keramzin, ma entrambi non guardavano gli avventori, le fiaccole, il lago o altro, guardavano il cielo viola, non incuriositi, non estasiati ma precisi.

“Non … è possibile” aveva mormorato Matthias, sentendo brividi cavalcanti sulla schiena, percependo quale dovesse essere l’idea. “Credici, sì” aveva mormorato sua madre, posandole una mano sulla spalla e mentre il cielo da viola torceva in un blu pavone e piccole scintillanti stelle apparivano come diademi nel cielo, un roborante tuono aveva scosso il cielo.
Ma non era un tuono. Era un ruggito.

Una macchia nera, ampia ed enorme, aveva scurito il cielo, fino ad abbassarsi, sfiorare la superficie dell’acqua, aprendola in due chiare onde e accucciandosi poi sull’ansa del lago, davanti ai loro occhi.
Un drago, una bestia splendente, enorme e spaventosa.

La bestia era enorme, aveva quattro possenti zampe con un’unghia nere d’onice. Il drago aveva ali grandi di pelle, con nodose escoriazioni, corna scure sulla nuca, così come dentelli che crescevano dal campo e seguivano tutto il corpo fino alla coda acuminata. Era rivestito di scaglie nere cons sfumature viola che sembravano ametiste pure. Aveva occhi vibranti blu come i fulmini.
Sulla sommità del suo dorso erano tre figure vestute di vigoroso azzurro ravka: i figli del drago.
Non indossavano abiti contemporanei, ma tutti e tre indossavano indumenti tradizionali. Le due donne indossavano sarafan pregiati azzurri, con decori oro, con pietre e denari cuciti, in elaborati decori, che creavano una composizione di colore e luci splendide. Entrambe sui capelli indossavano i loro cappelli tradizionali – i kokošnik, se non sbagliava – quello di Alina era di una forma semicircolare d’oro, con fili bianchi, su cui era riprodotto un sole bianco dai raggi aranciati. Quello di Liliyana aveva una forma cilindrica, sempre d’oro, con diademi blu, che ricordava di più una corona, da cui scendeva un velo opalescente zucchero-cotto. Alina indossava anche una splendida corona d’oro dalla forma di drago. Così preso dalle due donne aveva a malapena notato Dominik – ma un commento audace di Stiorra lo aveva richiamato.

Tutto l’oro che aveva sul capo erano i suoi capelli, più chiari e scintillati. Dominik indossava un cappotto azzurro dalle spalle gonfie con le maniche morbide, che si stringevano sugli avambracci, con decori argentei. La giacca aveva l’allacciatura a doppio petto, ma i bottoni erano collegati tra loro da clavi ocra, cinque sul busto. Alla vita aveva una cintura dai pennacchi morbidi, dai colori chiari. Sotto il cappotto azzurro, spuntavano stivali in pelle marrone lucidissimi.

Liliyana aveva attirato nuovamente il centro dell’attenzione, sollevando le braccia, verso il cielo, spiegando le dita, spalancando i palmi, da cui erano sfrigolati fulmini azzurri. Lampi spaventosi si erano alzati dalle sue mani come fulmini pirotecnici.

“Gli etherealki possono farlo?” aveva sospirato sconvolta Stiorra, “A quanto pare, lei può” aveva detto ammirata sua madre. I tre figli del drago erano scesi dal dorso della bestia e quella era mutata in scricchioli ed ossa spezzate, che si era ridotta in una figura umana. La regina di Ravka aveva un vestito fatto di scaglie d’ametista viola scure, stretto sul busto con uno scollo a barca, che scendeva lungo i fianchi, come una cascata di seta nera. Nei capelli scuri, sciolti, arricciati in boccoli, spiccava una corona d’oro nero dalla forma di un drago ad ali spiegate.
Magnifica e spaventosa.

 

Matthias aveva sentito un leggero bisbiglio, in lingua Shu, da cui aveva distinto solo il termine Ravka, si era distratto dalla visione terribile della signora di Ravka, per deviare lo sguardo verso la corte del regno meridionale. La regina Dalai aveva bisbigliato qualcosa al suo fratello gemello, ma quando Matthias l’aveva guardata, lei aveva già arrestato le sue chiacchiere, mentre con gli occhi di miele avevano già trovato lui.

Il pesante trucco bianco nascondeva bene le fattezze, ma non il sorriso complice che aveva dato a Matthias.
“Che i festeggiamenti per i Dieci Giorni del secondo ventennale per la Riunificazione della Grande e Potente Ravka, degli Onori alla Sankta Alina dva Stolba e del disfacimento della piaga della Faglia possano cominciare …” aveva esordito la voce ponderosa della regina, “… e che sia con il Brandy.”




[1] Jordan è il Capitano Ghafa, ma capite c’è ovviamente un problema di doppio. Inej ha tipo dodici mila soprannomi (La spezza catena, Lo spettro del Mare, etc …), Jordan solo uno: La Frusta di Mare, è un riferimento alla sua nave (come detto in Matthias II)

[2] La buona LarcheeX mi ha raccontato era che in Russia bevevano del Brandy come pre-cena, mi era sembrata una cosa carina ed ho pensato di aggiungerlo. Forse ho esagerato – vedrete poi.

[3] Nota inutile: ma è un riferimento allo Stalliere nella prima stagione di SaB. A Ravka hanno un problema di sicurezza, sì.

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Capitolo 21
*** Min-Han I (40 D.F.) ***


Avete presente quando ho detto che volevo cambiare lavoro?
Non dovevo farlo.
Il capitolo non è stato riletto molte volte e probabilmente conterrà un sacco di strafalcioni!
Godetevi questo delirio …
NUOVO NARRATORE, NUOVA CORSA.
Anche se …

 

TW (in un capitolo del 40??): riferimenti al sesso, ad amputazioni, a disumanizzazione – in un certo senso, modifiche corporee, modifiche corporee non consensuali e protesi.
Anche isterectomia.
Tecnicamente anche del razzismo e del classismo.
Sì, questo capitolo è stato ‘divertente’.

 

MIN-HAN

(40 anni dalla dissoluzione della Faglia)

‘No, ti prego, mamma, non lasciare che lo facciano. Mamma ti prego, mamma sarò buona. Mamma sarò brava. Ti prego … mamma … ti prego … ti prego … Non lasciateglielo fare, ti prego, mamma!’
Sua madre aveva permesso lo facessero comunque. Non era stata colpa sua, non davvero, la poverina non aveva avuto scelta, ma la piccola Min non lo aveva capito per molti anni, ma perché, quando era bambina non aveva capito molte cose.

Prima fra tutte: cosa era. O meglio: cosa non era.

Aveva guardato la sua mano sinistra come il mero riflesso meccanico che era. Una pelle bianca e diafana, rovinata dal lucido grigio dell’acciaio grisha. Come manierismo che non poteva controllare aveva arricciato le tre dita. Funzionava ancora tutto, nonostante la mutilazione, era ancora connessa al divino, nonostante non avesse tre connettori.
La nonna diceva che la via della mano sinistra era la più complicata … che era la mano del cuore. E che le dita rappresentavano gli affetti. Sembravano elucubrazioni troppo complicate per Min. Troppe per una cosa.
Funzionava ancora tutto, nonostante la mutilazione, era ancora connessa al divino, nonostante non avesse tre connettori. Non poteva più percepire il calore, il dolore, la consistenza, ma poteva ancora usare la scienza e la sostituzione permetteva una presa ferrea. Una perdita ragionevole – era stata definita – Min era d’accordo, ma non aveva alcuna importanza, né cosa pensasse Min o se avesse bisogno di un’opinione.
Così era: mero strumento.

“Ti sembrerei morboso se ti dicessi che sono comunque la parte che mi stuzzica di più, Min-Han?” aveva ridacchiato il principe. Min lo aveva guardato: il prince era uomo di inconfutabile bellezza, con la pelle d’ambra, i riccioli biondi e gli occhi blu – ‘come due zaffiri’ aveva detto Mayu. Se Min fosse stata una persona sarebbe stata sicura che una bellezza così oggettiva l’avrebbe fatta vibrare senza indugio. Il principe era stato un ragazzino carino, dodici anni prima, lo aveva detto anche la regina Dalai che non era appassionata di uomini di quella risma, ma quello che Min aveva visto era un uomo fatto e finito, con un discreto fascino magnetico. Min è consapevole perché Mayu e Borte hanno chiesto a lei – con discrezione – di avvicinarsi al principe, un’altra di loro, anche della mia intransigente delle Tavgharad avrebbe potuto vacillare davanti un sorriso così accattivante.
Nessuno comunque aveva veramente ordinato a Min di cadere tra le lenzuola del principe, era stato più un vago accenno, ma essa lo aveva colto. Nessuno avrebbe mai potuto chiedere ad una Tavgharad di umiliarsi come una prostituta, infondo. Min lo aveva fatto comunque; essere svelti a cogliere le situazioni, era un buon modo per non fallire.
Comunque, anche se non le spettava, Min aveva pensato, almeno, che c’era sacrifici peggiori della patria che permettere ad un uomo che sapeva cosa fare di starle tra le gambe.
“Mi sento un po’ offesa” aveva mormorato sforzando di aggiungere quella vena umana che la regina Dalai le aveva ordinato di sforzarsi ad avere. Min non ne vedeva il motivo, ma non era richiesto a Min che avesse voce in capitolo. “Ma poi penso di non essere troppo stupita dal figlio di Nikolai Lantsov” aveva aggiunto forzando un divertimento che doveva sposarsi bene con il loro gioco. Il principe aveva guardato tra le sue cosce, per un secondo, ma poi i suoi occhi erano rimasti più interessati alle sue dita d’argento.
Min aveva sentito per molto tempo la fama di conoscenza del Re Consorte.
“Vuoi chiedermi come le ho perse vero? Vogliono sempre tutti chiedermelo” aveva considerato Min, che non era una menzogna. Spesso in pubblico indossava i guanti per nascondere quel dettaglio, ma era stato ordinato di non farlo. Probabilmente, acuta come era la regina Dalai, doveva sapere che la sua stranezza avrebbe attirato lo sguardo di un uomo avido di sapere come il principe.
“Non particolarmente, non sono privo di tatto, nonostante quel che si possa dire di me. Ho imparato presto perché non è il caso di chiedere perché la gente ha certe cicatrici, lo hai detto tu, sono il figlio di Nikolai Lantsov” aveva risposto il principe, mentre faceva scivolare una mano tra le cosce di Min.
Il Korol Rezni, il re delle cicatrici, che indossava sempre guanti bianchi per nascondere le sue dita di demone e le sue vene nere, così si diceva. Chiamavano, di tanto in tanto, anche la principessa così: la koroleva Rezni, ma la sua pelle era sempre esposta e gli arabeschi bianchi cicatriziali in bella vita.
Min sapeva che storia ci fosse dietro le cicatrici del Re: un mostro oscuro che aveva cercato di prendere il potere, ma non quelle della principessa. Aveva schiuso le gambe maggiormente, per permettere alle dita del principe di raggiungere la sua intimità.
“Inoltre, il taglio delle dita è di solito una punizione che viene riservata agli arcieri, ma in quel caso mancherebbe l’indice al posto del mignolo, o ai ladri, ma perché in quel caso solo tre su cinque?” aveva valutato l’uomo con una risata roca.
Min non aveva potuto evitare uno squittio, quando il principe aveva sfiorato la sua entrata. Era brava a distaccarsi, aveva avuto trentaquattro anni per esercitarsi, ma l’intimità rendeva sempre le cose difficili. Pasticciate. Erano i momenti in cui Min perdeva la sua lucidità, anche sul suo potere. “Non devi rispondere, in realtà, mi interessa più come l’acciaio grisha si è intessuto con il tessuto connettivo. E una cosa che a Ravka non siamo mai riusciti a mischiare – per lo più solo rutelio a sostegno delle ossa” aveva commentato l’uomo, quasi incantato. Min aveva chiuso gli occhi, due distinte emozioni – male! – erano bruciate in lei, l’eccitazione, per i movimenti concentrici del principe, ed il ricordo rovente del dolore sui nervi.
“Non chiedere a me, non ne ho idea, posso dirti solo che saldarle ha fatto più male di perderle” aveva ammesso, con una sincerità che non le apparteneva.
La recisione delle sue dita della mano sinistra era stata breve: non aveva quasi fatto male, il dolore era arrivato dopo bruciante e insopportabile, ma non era stato nulla rispetto all’affissione delle protesi: un’agonia infinita, bruciate ma che non si leniva mai. Un eterno tormento, che di tanto in tanto dopo oltre vent’anni si faceva ancora udire.
“L’ingegneria shu da questo punto di vista è fenomenale” aveva mormorato Dominik quasi ipnotizzato. Min aveva ricordato di una bambina che piangeva distrutta, tenendosi le mani, le lacrime sulle guance ed una donna che baciava la sua fronte dicendole che le dispiaceva. E quanti altri c’erano stati.
Anche la regina Dalai una volta aveva detto che la medicina shu-han era eccezionale e la principessa Ehri le aveva ricordato che era solo valso dolore e cadaveri.
“E solamente valso dolore e sperimentazione umana per decenni” aveva detto Min, ipotizzando fosse un gioco appropriato. “Sono notizie confidenziali, che non dovresti riportare così a cuore leggero” l’aveva rimproverato bonariamente l’uomo. Min aveva disteso le labbra in un sorriso: “Ho visto passeggiare Reyem Yul-Kat proprio ieri per i giardini.”
L’uomo era nascosto da un mantello pesante, da copriva il suo mostruoso corpo e lasciava scoperto solo il viso; non aveva avuto bisogno che nessuno lo presentasse perché Min lo riconoscesse; somigliava a Mayu, ma il suo volto sembrava più rilassato e spensierato, privo della rude angoscia che albergava nella sua gemella.
Dominik aveva riso, sporgendosi per baciarla sulle labbra, mentre lasciava scivolare le dita dentro di lei, più intrusivo, facendola vibrare.
“Ti hanno mai detto che sei un demone tentatore?” aveva sussurrato Min, ricordando le chiacchiere sporche della regina Dalai con il suo concubino Zhao.
“Oh, qui a Ravka ne abbiamo uno molto speciale; il suo nome è è: Zloy Dukh[1]” aveva detto allusivo, mentre premeva ancora le dita dentro di lei, raggiungendo quel punto che faceva sentire Min quasi una persona. “Il suo vero aspetto è quello di un grosso uccello con la testa di cane, ma che può assumere qualsiasi aspetto, ma tutti bellissimi[2]” aveva spiegato lui didascalico.
“E cosa fa questo Zloy Dukh, oltre a cambiare forma?” aveva chiesto Min, mentre guidava le sue mani attorno al collo ed il viso del principe per stringerlo verso di se. La presa della mano sinistra era decisa ma fredda.
Il medio, l’anulare e il mignolo erano puro ferro che non potevano permetterle di percepire nulla – solo gelido metallo.
Le dita raffiguravano ai propri affetti: il pollice per i genitori, l’indice per i fratelli,  il medio se stessi, l’anulare il proprio compagno ed il mignolo i propri figli[3].
Le avevano lasciato solo il pollice e l’indice – ed il resto era venuto da se.
Aveva senso: la regina Dalai era sua madre e la Tavgharad le sue sorelle, gli altri affetti non contavano – la punizione non era nata così, ma si era incasellata dove era giusto.
Dominik aveva avuto ragione a modo suo, era stata una ladra e le sue dita le avevano ricordato il suo posto.
Mero strumento, infondo: nessun amore, nessun bambino e neanche se stessa.
Però le restava sempre quello, quel calore osceno, quella vibrante emozione che poteva percepire con ogni cosa, che gli dei celesti le avevano donato.
Prenderemo tutto Min, ma ti lasceremo qualcosa che ai molti è ignoto.
Il battito così forte del principe, il sangue, la sua pelle.
Dominik poteva pensare di sentirla, ma Min lo sentiva in tutta la sua magnificenza di corpo vivo.
“Zloy Dukh si nutre di sesso. Il suo potere è nei fianchi e una sola notte con lui può trasformare la più acuta delle menti in poltiglia” aveva raccontato il principe, “Quindi, ora, mi mostrerai come questo è possibile?” lo aveva invitato lei, sentendo quel cosa – quella cosa sbagliata – nel centro del suo stomaco, nel suo petto. “Ne ho proprio l’intenzione!” le aveva promesso il principe, mentre continuava a giocare con lei e si chinava per divorarle le labbra.
Min aveva sentito di nuovo quella sensazione … quella terribile sensazione che la faceva sentire umana, ma Min non era umana, era una cosa, uno strumento e gli strumenti non provavano calore disarmante.

 

Aveva lasciato le stanze del principe prima che il sole sorgesse, il cielo era di un tetro blu notte, con le stelle oscurate da nuvole rade.
Era passata dal balcone, approfittando del favore del buio, per raggiungere un’altra camera, anziché imboccare il corridoio. Non si vergognava di incontrare le guardie, l’avevano vista rientrare con il principe dopo la cena, allegri e divertiti, perciò, immaginava che nessuno si sarebbe stupito di vederla uscire da lì. Min scommetteva che la famiglia reale di Ravka fosse stata già informata della loro piccola avventura. Però, preferiva di gran lunga passare per l’esterno, era stata drenata da quello scambio. Una parte della cosa che era stata appagata, come lo Zloy Dukh appagata dal sesso, che aveva sfamato il suo potere, l’altra parte della cosa che era, era rimasta drenata dallo sforzo che era stato necessario per sembrare umana – e per ricordarsi di non esserlo.
Con il buio della notte aveva passato il balcone, arrampicandosi poi sulla balaustra, fino a raggiungere il balcone successivo, per rotolarsi, lì. Differentemente dal balcone del principe Nikolai, che era pieno di fiori di iris, che nascondevano l’odore del narghilè, a cui il principe ricorreva – visto gli oggetti che erano sparsi per l’appartamento del principe – questo era vuoto, semi sterile. Era il balcone degli appartamenti della principessa ereditaria, in quello che era noto come il Corridoio Principesco ed era risaputo, anche a Min, che la donna e la sua famiglia alloggiassero nel piccolo regno dei grisha.
Min si era sollevata dalla posizione cucciata e si era avvicinata all’imposta della porta-finestra, che aveva trovato aperta.
“Sankti, così silenziosa da sembrare uno spettro. Inej Ghafa ti ha dato ripetizioni?” aveva chiesto in un sussurro una voce divertita.
La stanza era stata illuminata da una lampada di vetro a cilindro e lumya luminosa. La figura era un’ombra nera, acciambellata su una sedia con cuscini rossi e piedi di leone. “No…” aveva risposto Min senza indugio, guardandolo.
Min riconosceva un proprio simile, un’altra cosa quando lo vedeva.
“Sono stata invitata” aveva bisbigliato, facendo due passi verso di lui, con i palmi sollevati per mostrarsi disarmata. “Lo so” aveva concesso l’uomo alzandosi dalla sedia. Indossava una lunga kefta scura, che tramite la luce della lampa-a-lumia prendeva sfumature blu-violacee, con ghirigori aranciati. Pelle gialla, devastata da un reticolo di cicatrice infami. “Malcom Gwyndip, presumo” aveva detto, “Ti prego dimmi che hanno un incartamento su di me a Shu Han” aveva considerato l’uomo con una punta quasi acre di divertimento, “Sì” aveva ammesso Min. “Posso chiederti cosa c’è scritto?” aveva chiesto lui, avvicinandosi, erano ad un palmo di distanza, “Si può comodamente riassumere in pazzo furioso” aveva ammesso lei ed era vero.
“Sono contento che siate entrati così in confidenza da fare salotto, ma si dà il caso che il piccolo Nik abbia le coliche e questo lo rende molto poco propenso a dormire” una voce gli aveva sgridati, per quanto il tono fosse calmo, accompagnato dall’apertura del secondo spazio delle camere.
Min non sapeva la precisa locazione, ma immaginava dovessero esserci ambienti per il giorno ed ambienti per la notte.
Lei si era voltata, mentre Malcom si era sporto per osservare il nuovo venuto: il principe consorte di Ravka.
“Moy prins[4]” aveva detto la guardia ravkiana, “Ye Guìzú[5]” aveva recitato lei, chinando il capo rispettosa.
“Quindi c’è un motivo per cui un pugno-di-pietra ci viene a trovare nel cuore della notte?” aveva chiesto Malcom, riprendendo posto sul divano, accavallando le gambe con un audacia e una sfacciataggine che altrove – da dove veniva Min – gli sarebbe costato un paio di scudisciate. Nel guadare il viso martoriato, Min valutò che forse le sferzate non erano bastate.
“Primo abbassa la voce, finalmente Nik dorme, mia moglie dorme e, che uno sheyao[6] mi divori il cuore, Juris dorme, dopo tutti i dolcetti che ha mangiato” aveva sbuffato il principe, “Secondo: Min è una vecchia amica di famiglia ed è normale che venga a trovarmi” aveva detto cristallino, con un sorriso così freddo da sembrare l’inverno stesso.
“Una guardia giurata della Regina Celeste è una tua vecchia amica?” aveva commentato Malcom colpito, “Min, desideri un tè? Qui a Ravka lo fanno in maniera imbevibile, ti avverto” il principe aveva ignorato apertamente il commento del guardiano.
Min era quasi stregata dal comportamento di Malcom Gwyndip che non doveva aver mai compreso la dura realtà di non essere umano. “No, grazie, ye Guìzú” aveva risposto pratica lei. “Meglio, è una brodaglia annacquata ed imbevibile” aveva considerato.
“Non ignorarmi” l’aveva rimproverato Malcom, facendo drizzare la schiena a Min, pensando come quella audacia fosse … innaturale. Borte non aveva torto quando aveva riassunto tutte le informazioni che aveva udito sull’uomo con: pazzo furioso. Il principe aveva sbuffato, “Devi sapere, Mal, che la guerra sociale di Shu-Han ha spezzato un paese, ha spezzato famiglie ed ha reso l’inattaccabile e irreprensibile corpo di guardia per eccellenza di Shu Han leggermente meno irreprensibile. Per venticinque anni il corpo stesso, come il paese è stato diviso in lealtà per due principesse” aveva detto pratico.
“Sei davvero riuscito ad infiltrare un tuo agente nelle Tavaghard” aveva detto stupito, “Vorrei prendermene il merito ma è stato mio padre” aveva ammesso il principe, “Ben prima che io venissi qui. L’incoronazione di Dalai ha aperto molte opportunità a facce nuove, quando la reginetta celeste ha cominciato a slegarsi dagli agenti delle sue ziee” aveva raccontato senza vergogna.
Min era rimasta in silenzio – ignorando ogni voce, ogni pensiero intrusivo che poteva galoppare nella sua testa.
Malcom aveva lo sguardo rivolto verso di lei, “E tu non senti nessun conflitto di interesse nel servire due padroni?” aveva chiesto Malcom, “Non è richiesto che io senta nulla” aveva risposto lei pragmatica.
Era vero, non sentiva alcun tipo di conflitto.
Eseguiva gli ordini della regina Dalai e di Borte, i consigli di Mayu come era d’uopo per una Tavgharad, ma rispondeva al suo signore – il padre del principe consorte – che Min sapeva fosse devoto a Shu-Han. Qualsiasi conflitto sentisse in quel momento o avrebbe dovuto sentire in quel momento, apparteneva a una persona e Min non lo era.
 “Sankti, perché ho l’impressione che tu stia messa peggio di me di testa?” aveva ghignato Malcom. Il principe aveva emesso un singulto, “Temo tu abbia ragione, Mal” aveva concesso il principe con un tono di voce lugubre – quasi colpevole, sprofondando a sedere su un canapè dai cuscini color vinaccia con un ricamo bianco, “Dunque, mia cara Min-Han” aveva parlato con un tono quasi dolce, in Shu,cosa che aveva indispettito Malcom che aveva aggrottato le sopracciglia castane, “Come stava il mio buon-fratello?” aveva chiesto il principe consorte.

 

Borte e Mayu aspettavano Min nel giardino della regina, davanti un arbusto di Kentia, che non avrebbe mai potuto resistere ai climi poco gentili di Ravka nord, eppure viveva.
“Sono qui” si era presentata con una voce incolore. Borte aveva volto lo sguardo verso di lei, era più giovane di qualche anno, sebbene le fosse superiore, nonostante fosse nota al mondo come Borte Kir-Yuan aveva sangue Taban sia di madre sia di padre e spesso la regina Dalai la chiamava ‘Cara cugina’. Era una donna minuta, con gli occhi neri, allungati dal kajal, ed accentuati dalla pelle di rame cotta dal sole, i capelli scuri, che portava sempre raccolti in una treccia intransigente. Aveva spalle ampie e muscoli tesi, preferiva indossare il cuoio che rasi e sete, ma questo non la rendeva meno attraente agli occhi degli uomini. Mayu era più vecchia di loro, quasi una madre, l’ultima della vecchia guardia, veniva definita, era la provava vivente che la principessa Ehri non aveva ancora rinunciato al suo ruolo, nonostante Min avesse sentito spesso le altre riferirsi a lei come le vestigia di un nemico sconfitto che la regina esibiva.
A Min la principessa Ehri non sembrava particolarmente sconfitta, non più della principessa Makhi prima che la febbre fredda la portasse via – ma nessuno aveva mai chiesto il suo parere.
Mayu portava il viso tinto di bianco ed i capelli scuri, striati di grigio, raccolti in due trecce fermate come ciambelle ai lati sulla testa. Gli occhi d’oro velati di tristezza.
“Hai fatto il tuo lavoro?” l’aveva interrogata Borte, “Si, ho recapitato il messaggio per il giovane principe” aveva replicato incolore Min, l’altra aveva annuito. Era stata mandata a posta per sussurrare quel messaggio alle orecchie del principe, una parte di lei era quasi tentata di interrogata sul gioco politico che ci fosse dietro, ma non la riguardava affatto. “Bene, ben fatto” aveva considerato l’altra, con un tono quasi gentile, “Comunque, Min, sei una fortunata bastarda … sarebbe stupendo se tutti i lavori di spionaggio prevedessero rotolarsi nelle lenzuola con un principe attraente” aveva scherzato, facendole l’occhiolino, cercando una complicità, una sorellanza, con Min, “Sono stata fortunata” aveva confermato, scoprendo di non aver mentito, “È bravo come dicono” aveva aggiunto con audacia – più umana, più umana. Una risata roca si era rotta dalle labbra di Borte.
“Lui è Isaak” aveva detto proprio Mayu, senza guardarla e senza volarsi verso di lei, riferendosi alla kentia dalle sottili foglie verdi, “Oh” aveva detto Min, incerta quale emozione avrebbe dovuto formulare. “Quello che la mia cara sorella intende dire” aveva parlato Borte, con la sua voce acre, come il ferro, dovuta al fumo della pipa, “Che tutte le piante nel giardino della regina ha un nome di persona, un morto, un vivo, non so” aveva scherzato Borte.
Mayu aveva ignorato il tono rude: “Lui è Isaak, è stato chiamato così in onore di Isaak Andreyev, era un graduato del primo esercito di Ravka e alfiere di Palazzo[7]. Fedelissimo al suo, all’ora, Re Nikolai. Come noi sarebbe morto per lui e così è stato” aveva spiegato calma, “Aveva solo venticinque anni quando è stato ucciso da una spia straniera, con il tradimento negli occhi” aveva sussurrato con voce leggermente lugubre. “Lo conoscevi?” aveva chiesto Min, intuendo dall’aria che fosse il caso di porre quella domanda.
“A volte penso di sì, a volte penso di no. Sono passati trentacinque anni da quel giorno” aveva dichiarato, “Lo ho ucciso io” aveva ammesso poi, quasi piena di vergogna “E poi ho fallito nel suicidarmi.”
“Tragico” aveva considerato Borte cinica, “Credo che quella della nostra sorella maggiore sia una lunga analessi che possa essere riassunta con: non innamorarti dell’uomo che ti scopi, se è un dignitario straniero” aveva riassunto crudele.
Mayu l’aveva guardata con stizza, sembrava, quasi, una bambina in quel momento, Min era rimasta ieratica: “Non succederà” aveva risposto lapidaria. “Io lo so, ma Mayu è una mamma, lo sai” aveva considerato leggermente divertita, “Il mio unico consiglio è non rimanere incinta; una Tavgharad non può avere figli, quindi a meno che tu non pensassi di vivere qui in esilio con il bastardo del principe, non rimanere incinta … inoltre, sbarazzarsi di una gravidanza è una gran seccatura” l’aveva avvertita.
“Non può succedere” aveva ammesso Min, “Mamma Mayu quante volte la hai sentita come frase?” aveva chiesto Borte con un tono stridulo da bambina che mal si sposava con il suo aspetto rude, “Fin troppe” aveva risposto l’altra, “Ho fatto prendere un po’ di erba del tuono alle più giovani, non ho ritenuto necessario costringere una donna adulta come te, ma non farmi pentire della fiducia che ti ho accordata” le aveva avvertita.
Min le aveva guardate, “Come ho detto: non può succedere. Anatomicamente non può succedere” aveva rettificato Min, con la stessa calma con cui avrebbe parlato del tempo. Era una cosa che aveva accettato, assieme al mignolo che le avevano amputato.
Per Min quello era il momento in cui era davvero diventata sterile, quell’amputazione lì, l’isterectomia le era sembrata più una conseguenza naturale, quasi. Borte l’aveva guardata con i suoi occhi neri pieni di preoccupazione, mentre Mayu aveva schiuso le labbra quasi, deducendo quel che voleva. Min non aveva spiegato oltre e loro non avevano chiesto. Per Min non era un problema spiegare, era qualcosa che le era successo e che non avrebbe mai potuto essere altra cosa, ma avrebbe portato più domande ed anche se per lei non avevano valore, era suo dovere tenere il suo signore in buona luce, d’altronde lui non aveva colpe – se poteva considerarsi una colpa.
“Andiamo dalla regina, conoscendo mia cugina, starà strippando sulla cucina indigesta di questo posto di merda ed il clima” aveva ordinato Borte.

 

Il resto della giornata era stato piuttosto tranquillo. Min era stata comandata affinché facesse guardia alla principessa Chabi.
Era una bambina di sette anni dal viso dolce e le guance paffute, somigliava più a suo padre – il giovane Ling-Pan Yul-Dao, il secondo favorito della regina, che era rimasto ad Amarat Ja  – che a sua madre, con i capelli neri, lunghi e fluenti, che le piaceva portare sciolti quando era nell’intimità delle sue stanze.
Chabi era intelligente e diligente, leggeva poesie troppo adulte per la sua età e le piaceva giocare con gli abachi e le costruzioni.
Quel pomeriggio, la principessa si era dilettata nella costruzioni di torri, con tetti a spioventi, con regoli ed altra chincaglieria, aiutata nel suo broncio, da Min, dalla giovane cameriera Noona e da Kublai, uno dei concubini della regina, padre della principessa Tomris – anche lei rimasta in patria.
Per il suo padrone, la scelta della regina Dalai era stata accorta ma anche contorta, una figlia lasciata al padre della rivale come equo scambio e muta minaccia. Min si era accorta però che il giovane Ling-Pan fosse un uomo allegro e fin troppo disinteressato al futuro, più interessato a comportarsi come un vizioso gatto che un arrampicatore. Di rimando Kublai era molto più ambizioso, ma di natali ben meno nobili e mancava dei giusti appoggi per perorare la sua causa e quella della piccola Tomris Kir-Taban. Entrambi però erano succubi di Zhao Yul-Chu, il vero signore del Palazzo Proibito, dove risiedevano i concubini della regina e la prole pubescente – luogo distinto ma collegato al palazzo Celeste – e primo favorito della regina. L’ultimo Re degli Han era stato Zhejiang Yul-Yue ma era stato re solo degli Shu, durante il periodo dei Regni Combattenti, prima che la Regina Taban scendesse dalle sue montagne del settentrione, con i suoi shu, ma Zhao ci somigliava, nessun uomo aveva mai avuto tanto potere sulla corte, nessun ministro, Zhao superava in importanza anche il principe kebban della regina. Nessun uomo aveva avuto così tanto potere su una regina, forse secondo solo a Jiao Yul-Kaatar, solo che differentemente da quest’ultimo Zhao non aveva dato alla sua regina neanche un figlio maschio[8].
“Siete molto brava, principessa” aveva considerato Noona, quando la principessa Chabi aveva arrestato la sua vena creativa, dopo aver invaso un largo tappetto ravkiano con la sua piccola città immaginaria. “Quando sarai regina potrai ricostruire la capitale a tuo piacere” aveva detto con uno sforzo inumano di decenza Kublai. “Voglio costruire un castello nel cielo” aveva stabilito la bambina senza alcuna vergogna, “Potrebbe essere un po’ difficile” aveva considerato Kublai, “No, avrà cento streghe al mio seguito che lo terrano sospeso” aveva stabilito con la stessa sicurezza che solo i bambini potevano avere. Kublai aveva roteato gli occhi poco avvezzo ai bambini, anche con la sua stessa figlia di tanto in tanto. “Forse ne serviranno più di cento” aveva considerato Noona, “Allora mille, millemilamilioni tutte quelle che servono” aveva stabilito ferrea la bambina, “E Juris mi aiuterà” aveva dichiarato.
“Dubito che al principe ereditario di Ravka vada di costruire castelli nel cielo” aveva scherzato forzatamente Kublai. Min aveva avuto una cattiveria a ruggire sulel labbra, ma non aveva osato parlare, perché non le competeva.
“Considerando chi è suo nonno non sarei sorpreso che lo farebbe solo per il gusto di poter dimostrare di poterlo fare” aveva stabilito la voce secca di Zhao, sporgendosi alla porta.
Kublai e Zhao si somigliavano, non abbastanza simili per passare come fratelli, ma cugini, forse. Stessi visi lunghi, affilati, con zigomi alti e capelli neri come inchiostro. Kublai portava il capello corto, alla maniera mondana del continente, e preferiva indossare abiti semplici e poco elaborati, che rappresentavano il suo brutale pragmatismo, ma con stoffe pregiate che volevano ostentare la sua appartenenza ad un buon ceto. Kublai era di famiglia agiata, figlio di mercanti, ma non nobile. Zhao, invece, portava i capelli lunghi, quasi quanto una donna, raccolti in una mezza coda, alto e slanciato indossava sempre sete lucide, di colori mai troppo vistosi ma che donava lui un aspetto distinto, che permetteva che fosse riconosciuto come il degno secondo figlio di un ministro – e che forse ne avrebbe ereditato il mestiere. Anche Ling-Pan somigliava come aspetto a loro, più effemminato e grazioso di Kublai e più esteta e morbido di Zhao, terzo figlio di una famiglia nobiliare, indossava solo puro lino, bisso e  sottovello di cervo rosso, con tinture così stravaganti da sembrare un corvo colorato[9]. Ma per quanto tutti e tre fossero uomini di ineluttabile bellezza, non eguagliavano per carisma, classe e posatezza il principe consorte di Ravka, l’uomo che la regina Dalai avrebbe sposato se non fosse ascesa al trono celeste.

Chabi si era tirata subito per raggiungere l’uomo che l’aveva issata su sulle sue braccia come se fosse stata carne della sua carne. “Come è stata la giornata?” aveva chiesto Kublai, offeso per essere stato lasciato con la bambina, “Per te, rozza creatura, sarebbe stata noiosa, ma per un amante delle arti, molto bella, la principessa Alina ci ha allietato tutto il pomeriggio con spiegazioni sull’arte figurativa tsibeyana e quella direttoria ravkiana, con le influenze eccentriche morbide shu. Ho scoperto cose della mia cultura che non immaginavo” aveva ammesso con un fulgido divertimento. “Min sei congedata; Dalai ti aspetta nelle sue stanze, vuole che questa sera indossiate l’abito tradizionale del Pugno di Pietra” aveva rivelato l’uomo.
Min si era allontanata con una riverenza asciutta, prima di dirigersi nell’ala delle sue sorelle. Con l’abito tradizionale si faceva riferimento al vestimento che le guerriere Tavgharad avevano indossato per la prima volta durante la Cerimonia del Te dei Fogli di Pesco, quando avevano dichiarato la fine dell’occupazione del Khem Aba e si erano unificati sotto un unico vessillo, quello di Taban, tre dei cinque regni combattenti: Shu, Wei e il Wu[10]. Era stata la prima volta che si era parlato in maniera esplicita di pace e da quel momento, durante le cerimonio pubbliche ed importanti le Tavgharad avevano indossato quei vestiti, come forma di lustro e rispetto.

Avevano impomiciato il viso con trucco bianco, per rendere il viso pallido e levigato come una statua con la cipria, avendo coperto anche labbra e sopracciglia – era un retaggio delle vecchie tradizioni delle montagne – ed avevano passato le sopracciglia di rosso vivo, come sangue, e dello stesso colore un punto, grande come la circonferenza di un dito sano sotto gli occhi, ed i denti tinti di nero, che spiccavano nel viso pallido quando si sorrideva.
I capelli nella sommità della testa e nella parte alta delle tempie venivano tirarti e raccolti in una crocchia dalla forma leggermente triangolare, mentre quelli posteriori e rimanenti delle tempie venivano lasciati sciolti e liberi. Avevano indossato il qipao a due colori bianco-rosso, con l’allacciatura trasversale, senza maniche, lungo fino alle cosce, da cui spuntava una vestaglia grigio chiaro, lunga fino sopra le ginocchia, che anticipava pantaloni larghi con orlo stretto, gonfi, nero opaco. Con calze bianche e scarpe dalla punta tonda senza tacco marroni.
Anche la regina si era vestita come loro, di solito prediligeva abiti sfarzosi, con ninnoli di ogni genere, acconciature elaborate e copricapi virtuosi, che aveva ereditato dalla sua discendenza we-han a cui apparteneva suo nonno, concubito della precedente regina delle Taban. La regina Dalai, però, aveva deciso di indossare, al posto del rosso e bianco, il verde limone acerbo ed il giallo paglierino, mentre il blu aveva decorato le sopracciglia e le guance.
Non sarebbe spiccata tra di loro né per bellezza, che quel trucco nascondeva, né per unicità, nonostante i colori sgargianti, ma per quei capelli così poco shu, biondo ramato che doveva essere sempre allisciato, che tradiva evidente quel sangue kaelish di suo padre, più dell’altezza, degli occhi tondi e chiari.
“Facciamo questa atrocità … così potremmo andare tutti a dormire” aveva emesso la regina con un tono di voce già stanco, mentre sistemava uno spillone nella crocchia, “Qualcuno ha visto il mio gemello?” aveva chiesto poi voltandosi in giro a destra e manca, “Probabilmente sarà ancora chiuso in biblioteca” aveva scherzato Borte, “Tutti i santi … Ji-oh puoi …” aveva cominciato la regina, prima di osservare la più giovane di loro, una diciasettenne vivace, che non aveva ancora capito il suo impegno come Tavgharad che si stava ancora dipingendo un sopracciglio. Dalai aveva fatto roteare gli occhi chiari e tondeggianti, “Min …” le aveva detto.

Il principe Huion era effettivamente dove la cugina Borte lo aveva indicato, nella biblioteca del Gran palazzo.
Min lo aveva trovato con il naso schiacciato in un vecchio manoscritto polveroso. “Figlio del cielo” lo aveva appellato con la riverenza che era d’uopo ad un titolato. Huion teneva agli orpelli molto più della sua gemella, forse perché la regina Dalai indossava la corona e sedeva sul trono celeste, mentre suo fratello poteva solo fregiarsi della luce riflessa della donna. Il sole e la luna di Shu-Han erano stati appellati più volte dal popolo, ma aveva notato che quel nomignolo non aveva valicato le montagne rocciose. Aveva senso, il sole a Ravka era interpretato dalla loro santa martire per eccellenza, che sembrava essere cara così tanto alla regina da aver sistemato una sua litografia in ogni corridoio del Gran Palazzo.
“Ah, salve Sura” l’aveva salutata distrattamente il principe, Min non aveva corretto il suo nome, abituata. Il principe non ricordava mai correttamente i loro nomi e le appellava sempre nella maniera sbagliata, confondendole fra loro. A volte la confusione aveva senso, la giovane Ji-oh spesso era scambiata per la poco più matura Zhouli, e le due avevano lo stesso fisico asciutto, le curve snelle ed il naso all’insù – raro per il sangue Shu – ma altre volte lo scambio era pura incuria. Dove Min era secca e bassa, Sura era stata voluttuosa, con occhi da cerva e labbra grandi. Non si somigliavano né per aspetto né per attitudine. Inoltre, Sura non era più con loro dà … un po’. L’altra donna era stata una Tavgharad che aveva servito ossequiosamente la regina per otto anni, prima che un male fagocitante la mangiasse dall’interno, Min aveva prestato le sue scarse competenze con la piccola scienza per aiutarla, ma non aveva avuto molta fortuna … d’altronde, era un dono del cielo, ma non un miracolo. Sura onorevole come una Tavgharad era morta alle sue condizioni. Min non era dedita ai sentimentalismi, sarebbe stato inutile, ma un po’ Sura le mancava, una sensazione simile al suo arto fantasma. “La regina richiama la sua presenza per la festa dei Dieci Giorni” aveva riportato pragmatica, “Ho più voglia di spararmi ad un ginocchio e poi correre per il sentiero dei rovi, che partecipare a questa cena” aveva ammesso il principe, “I Ravkiani pensano che avvolgere tutto nella verza renderà il loro cibo accettabile e la vodka la loro compagnia piacevole” aveva ammesso, alzandosi dalla sedia e chiudendo il vecchio libro che stava leggendo.
Min aveva imparato il Ravkiano, come si aspettava da una Tavgharad, ma non era così tanto svelta sulla lettura, “Perfino il loro tè fa schifo, sono animali” aveva ammesso frustrato, avvicinandosi a lei, “Tutta la serata sarà una brutta partita a mahjong, in cui noi, Sura, saremo mere pendine e oggetto di ludibrio” aveva sospirato, “Inoltre, quella va… mia sorella ha deciso che debba ammogliarmi, dopo aver evitato a tutti i costi quella gogna” aveva replicato con un tono offeso e irritante.
I kebba’n, come avevano insegnato a Min, erano una sola anima in due corpi, Huion e Dalai dovevano appartenere ad uno spirito piuttosto confuso, poiché mai due creature, che dividevano lo stesso sangue, erano apparse più diverse. “E per di più, Daley” – Min si era irrigidita a quella storpiatura che Huion utilizzava per chiamare la regina – “vuole farmi sposare una contadina della jurda” si era lamentato. Merissa Nassau più che una contadina della Jurda era l’erede di venticinque ettari di Yam e cinquantadue di Jurda, senza essere affigliata ad un consorzio.
Aveva ascoltato lo sproloquiare del principe con pigro disinteresse, mentre lo riconduceva negli aloggi che erano stati dati alla loro corte, osservando con più attenzione le vivaci scene che si stavano manifestando intorno a loro. Mentre i nobili si preparavano per i bagordi i solo servitori sembravano divisi tra sistemare ogni cosa per i loro signori, quanto occuparsi di altro.
Parecchi bisbigli, risatine e nervosismo. Si chiese cos’avessero in mente.
“Mi volesse combinare un matrimonio con Alina, devo dire che è decisamente infantile e puzza ancora di latte, ma almeno è una principessa” aveva sproloquiato l’uomo.
Aveva detto quella frase, proprio in concomitanza dell’ingresso negli alloggi che avevano dato a loro, aveva parlato in Shu-Han ma qualcosa doveva aver comunque attirato alcune delle guardie che gli erano state gentilmente offerte e che la regina Dalay aveva accettato con un sorriso un po’ troppo aperto, probabilmente erano addestrati a capire lo Shu.
“Non solo scompari per tutto il giorno, ma ti comporti anche da mentecatto” era stato rimproverato dalla regina, “E tu potrai indossare tutte le maschere che vuoi o le chincaglierie, ma non sarai mai raffinata ne educata” aveva replicato il fratello stizzito.
Uno spirito guerresco – specie con se stesso – doveva essersi diviso tra i gemelli.
“Lo sai, Éimhìn: a me la corona e la responsabilità e a te il buongusto” lo aveva rimproverato quella., “Qualcosa doveva pur rimanermi” aveva replicato offeso, “I tuoi leziosi signorini, Daley?” aveva indagato poi il principe, guardandosi intorno. Le Tavgharad venute con la regina erano tutte sistemate perfettamente, ma né di Zhao ne di Kublai c’era alcuna traccia, “Sta sera faremo a meno di loro. Sarai l’unico uomo della mia vita, caro fratello” aveva soffiato, allungando un gomito, sotto il qipao la sua vestaglia non era grigio chiaro come la loro, ma era fatta in trama nelhuita di color crema, che alternava il dritto con decori di uccelli dal piumaggio ampio: corvi colorati, fenici e quant’altro, “Come è stato sempre d’altronde” aveva quasi cinguettato.
Huion aveva preso il gomito con fare altezzoso, con un’espressione leggermente tronfio sul viso – ben felice di essere la scintilla.
“Puoi lisciarmi come vuoi, sorella, ma non ho intenzione di sposare la tua fattrice Zemeni” aveva stabilito, “Se potessi sposarmi, la sposerei io … chi non vorrebbe divenire una personalità ingombrante sul Mare Vero, d’altronde. A parte te, fratello” aveva stabilito con voce rude la regina. “Potresti essere la prima regina Taban a farlo, cugina, d’altronde non ci sono rischi che preferiresti eredi di lei” aveva detto Borte con quel suo tono insofferente.
“Non hai messo nessun gioiello?” aveva indagato lui, cambiando tema improvvisamente, “Quando hanno scelto di raggiungere i loro uomini durante la battaglia delle Primavera di Zhou, avevano già da tempo venduto gli ori ai rafkiani[11] per i loro ferri e fuso il bronzo per dare armi a chi era partito. Non avevano monili” aveva insistito e per questo nell’abito tradizione non si indossavano, tranne la regina che aveva due spilloni per fermare il cignone.
Le terribili donne delle montagne guidate dalla Regina Taban non erano che armate di sassi e speranza, così veniva insegnato ai bambini. ‘Disperazione’ aveva sentito una voce acuta nella sua mente, una voce che non sentiva ormai da diciotto anni dal vivo, ma che sempre ruggiva nella sua mente, “La disperazione è un’arma potente.”

Erano stati accolti dal Re Consorte all’esterno che aveva fatto prediligere per loro delle carrozze per essere guidati fino alla Festa in un posto che a Min veniva difficile da pronunciare, ma che veniva chiamato dal personale, con affetto: La palude d’Oro.
Nella carrozza che era stata loro predisposta erano saliti solamente la regina, il principe e due Tavgharad: Borte e la giovane Ji-Oh. L’ultima era stata scelta con l’equo metodo della pagliuzza più corta.
Min era salita in groppa ad una cavalla ravkiana, dal manto pelle di daino ed il crine scuro come una quercia bruciata, dall’andatura ferma e dal carattere leggermente irritato, che faticava difficilmente a farsi domare.
“Problemi con la tua amica?” l’aveva interrogata Mayu, “È una combattente” aveva risposto Min, ritenendo che quel genere di risposte soddisfacessero sempre le sue sorelle, prima di passare con delicatezza la mano intera sul collo dell’animale, toccando la pelle e calmando il bollore del sangue, per avere poi una creatura quieta e mansueta.
Mayu le aveva sorriso quasi complice, “Non sorprenderti le cavalle Ravkiane sono rudi e dure come le loro donne” aveva replicato, “Nulla che noi Tavgharad possiamo invidiare” aveva stabilito con voce piatta. Mayu aveva alzato le spalle, “Su questo hai ragione” aveva risposto l’altra con scioltezza.
Era stata distratta dal corteo fjerdiano che aveva fatto il suo ingresso, con la sua regina delle nevi, con i capelli biondi quasi bianchi, la pelle chiara come la cera e l’abito azzurro ghiaccio così chiaro da sembrare bianco alla luce tenue del tramonto.
L’unica punta di colore era l’alta corona di ferro con le spade aguzze. Alle sue spalle, curvo e timoroso il principe ereditario la seguiva.
Era quasi interessante vedere il contrasto tra il giovane principe di Fjerda e i tre principi di Ravka, loro sempre così fulgidi e splendenti come petardi. Il principe di Fjerda, Matthias Grimjer, nonostante fosse alto e ben fatto, camminava sempre ricurvo su sé stesso, come se fosse stato un armadillo. La sera prima quando sua madre lo aveva costretto a recitare una qualche poesia fjerdiana sui campi illuminati dal sole, Min aveva davvero pensato di vederlo richiudersi in se stesso come una bestiola corazzata.
“Merissa Nassau sta guardando in questa direzione” aveva commentato con voce quasi divertita Mayu, costringendola a cambiare punto di osservazione.
Merissa Nassau in un viola ostentatissimo, sepolta sotto balde di pizzo in tombolo e pieghe morbide e gonfie, ben lontane dalle linee dritti e pulite del Continente, i ricci castrati sotto un turbante di seta dai colori variopinti, quasi scompariva accanto alla colorata delegazione di Novy Zem. “Ha ricevuto il messaggio” aveva considerato Min, chiedendosi che gioco di potere ci fosse dietro. Min non si era mai dovuto occupare di pensare, quindi non aveva alcuna idea di come tali nozze potessero giovare Dalai. Forse era una scusa come un’altra per liberarsi della metà scomoda e petulante del suo spirito.

Una volta domata l’andatura della cavalla era stata sobria e ben contenuta e non aveva dato a Min nessuna fatica, ma bastava che allontanasse poco la mano dalla pelle calda e morbida dell’animale perché sentisse il fuoco nel suo sangue ardere selvaggio. Min provava – anche se non avrebbe dovuto – compatimento per quella bestia, così attacca alla sua natura più libera da non sapere quanto dolore avrebbe patito per essere ammaestrata – “almeno non perderai le dita” aveva pensato.
Ad accoglierli c’era stato il principe consorte e i due proprietari della tenuta, ma Min aveva a malapena potuto guardarli per aiutare Dalai a smontare dalla carrozza, frapponendosi tra lei ed un troppo zelante valletto ravkiano, dopo che Borte era scesa per prima, con una mano sospettosamente vicina alla cintura dove aveva nascosto uno dei suoi pugnali probabilmente. “Per gli spiriti, Min, non indosso neanche le zeppe o i tacchi” aveva detto la regina, rifiutando la sua mano e smontando dal fiacre con un movimento felpato, “Però aiuta, mio fratello” le aveva impartito e Min aveva seguito l’ordine.
Il ruggito di una bestia feroce aveva interrotto ogni loro pensiero, inghiottito dalla trionfale visione della terribile: una bestia feroce, una creatura oscura, ingombrante e temibile, con zanne affilate, corna ricurve, ali nere come la notte, che nella luce blu della prima sera appariva come una macchia di scintillante nero e viola così opprimente da togliere il fiato.
Sul suo dorso spinato tre creature umane quasi sparivano tra le spire: i tre principi.
La principessa Liliyana aveva sollevato le mani al cielo ed aveva evocato fulmini di un azzurro così intenso, che per un secondo Min si era aspettata di udire il tuono e una tormenta abbattersi su di loro. Poi erano scivolati via, con la stessa scaltrezza di gatti e la bestia draconica, aveva cominciato a corrompersi, rompersi e contorcersi, come sotto le mani audaci e violente di un corporalki – perché così era – e dalla bestia era apparsa una donna vestita di squame nere e viola ed una corona fatti di ossa e spine: la regina.
“Per i folletti, Ravka ha proprio deciso di mettere la verga sul tavolo” aveva sentito bisbigliare e ridere la regina Dalai, con uno scintillio quasi bramoso negli occhi. “Come sei volgare, Daley!” l’aveva rimproverata il gemello.
“Oh anche il piccolo fiocco di neve di Fjerda deve averlo notato” aveva bisbigliato Dalai, ammiccando al principe Matthias che ora non guardava, ne ascoltava il discorso della regina Zoya, preferendo guardare loro. La regina Dalai aveva sorriso piena di boria e sollevato una mano in segno di saluto, troppo sprezzante e poco rispettosa. Il principe era arrossito come colto in un reato ed aveva ricambiato il saluto con una riverenza abbozzata e poco chiara.
“Pensavo non ti appassionassero i biondi e slavati, cugina” aveva mormorato Borte quasi divertita, “Se per questo non mi interessano neanche i bambini” aveva risposto pigra la regina, “Ma Fjerda è Fjerda” aveva detto elusiva, “Ma perché in questo posto bevono solo?” si era lamentato il principe prima che una fila di camerieri in bianco e oro si affacciassero con bicchierini di cristallo carichi di Brandy, quando era stato annunciato dalla regina. “Potremmo lamentarci del fatto che non bevono bene, ma l’alcool potrebbe essere l’unica cosa buona di questo paese del cazzo” aveva ridacchiato Dalai, “Io stavo pensando … che dopo i dieci giorni Ravkiani potremmo provare a fare il cammino dei Pellegrini” aveva valutato Borte, “Sì, certo, abbandoniamo il paese alla zia Ehri e al resto dei ministri … cosa andrà mai storto” si era lamentato il principe. “Tranquilla Borte so che è prevista una gita all’Agroverde per il quinto e sesto giorno della festa. Al tempio Principale di Sankta Alina e del Senza Stelle” aveva spiegato pratica Dalai, mandando giù il suo bicchierino d’un fiato.
Min aveva rifiutato la bevanda come Mayu, mentre Borte l’aveva mandata giù con meno scioltezza della cugina, “Direi che questa cosa è … forte” aveva stabilito la Tavgharad, “Dovreste provare il wisky kaelish, vi manderebbe a gambe all’aria” aveva ammesso la regina.

Non lontano dall’ansa del lago, su cui erano state disposte candele di ogni genere – alcune sulla terra fangose ed altre a pelo dell’acqua – per creare punti di luci e giochi, erano state sistemate due immense tavolate che si affrontavano opposte, con sedie da un solo lato, così che tutti si potessero sedere guardandosi in viso.
I due tavoli parallele tra loro erano però perpendicolare ad un tavolo più piccolo e modesto, per quanto abbellito da una splendida composizione floreale, su cui erano sistemati, da un lato solo, cinque imponenti sedie, che quasi potevano passare per troni.
“Uh … uh … alla delegazione delle Colonie non è stato concesso la seduta reale” aveva considerato Ji-Oh, “Non mi sorprende. Al momento sono ancora le colonie, riconoscere un rappresentato ufficiale vorrebbe dire pisciare in testa a Kerch” aveva considerato Mayu, “Siete così volgari voi due” aveva detto il principe ancora schifato riferendosi alla cugina e alla regina che sorrideva mesta, “Io mi chiedo se a Wylan Van Eck avrebbero dato una sedia” aveva soffiato, prima di prendere la strada verso il suo posto, seguita da Mayu, che per la serata sarebbe stata alle sue spalle. A Min era toccata la posizione dietro al principe, mentre le altre Tavaghard erano state assegnate ad altre posizione di controllo dei reali e dei ministri a cui era stata aperta la serata, come i valorosi druskelle fjerdiani, i colorati signori di Novy Zem, i dallak kaelish e i soldati ravkiani.
Min aveva osservata la regina Dalai, ben soddisfatta, come una gatta sorniona sul suo trono alla destra della regina di Ravka, il centro della tavolata, affiancata dall’altro lato dal Marshal Kaelish, un uomo tutto d’un pezzo con una barba folta raccolta in una piccola treccia e fluenti capelli – ben lontana dal Presidente di Novy Zem al lato opposto della barricata al fianco della regina Mila, vicaria del marito – che sembrava ben felice della posizione. Da che Dalai era ascesa al trono e Min aveva cominciato a servirla, aveva potuto osservare come la regina avesse fatto ogni cosa che era in suo potere per reprimere il sangue kaelish di suo padre alla corte, portando spesso i capelli rame tinti di scuro, dismettendo il cognome che aveva ereditato da suo padre, preferendo il gentilizio del loro popolo e adoperando maggiormente il nome shu che aveva ricevuto alla nascita, rispetto quello Kaelish – con cui solo il principe era autorizzato a chiamarla – ma Min sapeva che Dalai non disprezzava affatto se stessa.
Nell’intimità delle sue stanze, indossava la stoffa ruvida di tartan, parlava la lingua di suo padre – che sempre le era stato più caro rispetto la sua venerabile madre – ed era dedita alle letture e i piaceri di quel popolo che le era estraneo, così lontano dall’altro capo del Mare Vero.
“Non ci credo che debba stare così lontano dal tavolo dei reali, è un ingiustizia” si era lamentato il principe senza vergogna, “Comprendo il tuo tormento, giovane principe. Ma la scelta di Ravka è stata oculata, ponendo i regnanti tutti allo stesso livello” aveva detto pratico il ministro dell’agricoltura, sorridendo accomodante – somigliava molto a suo figlio, il principe consorte di Ravka – con quel suo tono sempre così posato ed elegante, che sapeva sempre mettere a suo agio tutti. “Anche Nikolai e mio figlio siedono su questi tavoli. Anche il principe Matthias” aveva detto, ammiccando proprio ai tre imputati.
Min aveva seguito ogni indicazione, chiedendosi se ci fosse un significato nascosto che doveva cogliere. “Invece …” aveva cominciato circospetto il principe, “Chi è la donna vicino a tua nuora?” aveva chiesto il principe. Min si era aspettata quasi di vedere la principessa Alina occupare il posto accanto a sua sorella, ma quella era gomito a gomito con il principe di Fjerda – una scelta che Ravka doveva aver fatto con un certo interesse personale – per trovare la principessa Liliyana in tutto il suo azzurro splendore tra due donne. Una era una signora dall’incarnato olivastro, i capelli neri, che indossava più gioielli di quanto mai Min avesse visto su qualcuno: sul collo, sulle braccia, le dita, le orecchie, un decoro tra i capelli che scendeva sulla fronte tonda, vestita di rosso e pizzo nero di tombolo, che fasciava un corpo ben nutrito e soddisfatto. L’abito che indossava non era ravkiano, ma Min non sapeva esattamente di che origine fosse.
L’altra era alta, con lunghi capelli castani, pettinati in modo, che una grande parte di essi fosse sistemata a coprire una porzione del viso, e indossava una lunga veste viola con foglie a tre punte rosse a decorare le maniche amplissime, che ricordava il taglio di vestito della moda oyirad – che Ravka sud e Shu-Han nord condividevano in parte. L’unico gioiello che indossava era una lunga collana di perle del Paar, color avorio dalle sfumature rosa antiche, arrotolata in almeno tre file. A Min aveva ricordato la collana delle Cento Perle, che apparteneva al corredo reale e che la prima regina Taban aveva ricevuto, sul letto di morte, dalla principessa pavone Tz'e-Hsi, concubina dell’ultimo Imperatore Blu dello Ji. Un tesoro che riportava la resa definitiva e l’unione dello Shu-Han come un solo regno, un solo popolo, un solo cuore.

 “Quale? Una è la contessa di Ivets e l’altra è la futura duchessa di Keramzin” aveva spiegato subito il ministro pratico, “Non importa. Entrambe sono fuori dalla tua portata” aveva detto secco, forse troppo audace, “Fuori dalla portata del principe di Shu-Han? L’altra metà del cuore della regina celeste?” aveva indagato quasi offeso, “Sono entrambe sposate e con prole a seguito” aveva chiarito il ministro. “Meglio, no? Non vorranno l’incomodo di un altro moccioso e io non dovrei preoccuparmi di lasciare una rendita a qualche infante” aveva soffiato, “Sono sposate” aveva ripetuto il ministro, “Spiriti, la gente diventa vedova per la tale e per la quale, guarda mia madre, un giorno era sposata e un giorno mio padre è caduto dalle scale. E lei si è ritrovata vedova in terra straniera. E Guardate anche te, Sunan, un giorno avevi una moglie e un giorno non più” aveva detto senza tatto.
Min aveva sentito uno stretto al petto a quella menzione, ma non aveva potuto lasciare che i suoi sentimenti la domassero – che le ricordassero le sgradevoli sensazioni di non essere un oggetto per interno. SI era concentrata su qualsiasi altra cosa, sui commensali, sulle moltitudini di teste e chiacchiericci, sulla musica bassa e delicata di una piccola orchestra ben allestita. Su Malcom che, come un mastino, vigilava sulla sua principessa e le due nobil donne attento, sul principe Dominik che gettava qualche sorriso qua e la mieloso per rassicurare tutti, ma che cadeva sempre più spesso in gelidi sguardi, verso qualcosa nel loro tavolo. Che tutti o quasi camerieri ed inservienti non fossero quelli che aveva incontrato al Gran Palazzo, ma fossero tutti o quasi sconosciuti. Probabilmente personale addestrato appositamente per questi eventi, che conosceva la palude e sapeva come non farsi corrompere.

 La cena, composta di più portate di quanto uno stomaco potesse sopportare – ed anche Min aveva avuto l’onore di poter mangiare qualcosa che i camerieri avevano portato loro a posta – era stata interrotta al sesto piatto dalla regina di Ravka in persona. Si era alzata in piedi, con ancora indosso l’abito di squame color ametista ed il sorriso da belva, “Scusate se interrompo questa cena deliziosa, che il conte Kirigin si è così prodigato per presentarci, ma ho bisogno dell’attenzione delle vostre eccellenze!” aveva annunciato la regina con voce profonda e sicura, “Oggi, festeggiamo l’inizio delle Dieci Giornate e ricordiamo il momento in cui Sankta Alina – che non era solo una sankta, era una persona vera ed era mia amica – si è sacrificata per noi, per ricucire letteralmente la ferita oscura che dilaniava questo paese. Se oggi Ravka prospera e merito suo, se oggi siamo qui a festeggiare questo, è merito suo, di una ragazza nata dai mulini, senza cognome, senza famiglia, senza nulla, che dal nulla è sorta e ci ha salvati” aveva detto portentosa ed ogni calice ravkiano si era alazato.
“Sol Sho Sol Koroleva!” avevano cantato.
“Sol Sho Sol Koroleva!” aveva gridato la regina Zoya.
“Anche io come sapete sono venuta dal nulla, un paesino senza nome, che l’ampliamento della città di Zurstk ha completamente mangiato. Oggi non esiste il luogo in cui sono nata, la mia casa certo, la mia casa è Ravka, è Os Alto e quel piccolo Palazzo ed anche quello grande, quando dimentico quanto sia brutto. La mia casa è mio marito, i miei figli, il mio popolo” aveva aggiunto.
“Sol Sho Draki Koroleva!” qualcuno aveva urlato e poi qualcun altro.
“Così oggi festeggiamo la fine di un’era terribile e l’inizio della pace, la mia grande nazione, ricordiamo Alina che era una sankta ma anche una persona” aveva parlato di cuore e con dolcezza la regina Zoya, “E ne approfitto per festeggiare anche un'altra giovane donna che ho visto nascere e sbocciare come il fiore più prezioso” aveva fatto una pausa.
Min si era aspettata chiamasse una delle sue belle figlie, ma la regina l’aveva stupita, “Lissa, tesoro, alzati” aveva invitato la regina, dal fondo di una delle tavolate, quella affrontata alla loro, una giovane donna si era alzata. Indossava un abito tutto d’oro che le stava un po’ troppo morbido sul petto e sul ventre, come se le misure non fossero esatta, ma raffinato e pregiato. La ragazza però giovane come una puledra, aveva il viso rosso d’imbarazzo, “Oggi festeggiamo anche Vasilissa Pavlov, baronetta di Taraskaya” aveva annunciato.
La principessa Alina senza pudore si era alzata per fischiare.
“Dove è la Taraskaya?” aveva chiesto Huion, stranamente incuriosito. Il ministro aveva sbuffato, “È un piccolo lago ad est di Skurks, tra le montagne Sikurzoi” aveva spiegato pratico Sunan, “Negli ultimi anni è stato un territorio più volte shu-hannita che ravkiano. Probabilmente c’è un podere, ma sospetto che il titolo della nobile Vasilissa Pavlov sia solo titolare, forse la sarà data una rendita, ma credo tu possa auspicare a qualcosa di più sostanzioso” aveva considerato. “Come la fattrice di Novy Zem?” aveva risposto con discreta irritazione, “Non ho intenzione di sposare alcuna donna che non abbia un titolo … non tutti possono essere come te, Sunan” aveva replicato.
Min aveva sentito un mancamento nel suo fiato ed aveva visto il ministro stringere con troppa forza la forchetta, fino a rendere bianche le nocche nel ricordo della sua moglie defunta. Non aveva detto nulla al principe, perché anche se il ministro Sunan era abbastanza schietto con il principe Huion, non si sarebbe mai esposto in quel momento a dire la verità nuda e cruda, “Mia moglie era una donna speciale, a prescindere dai suoi natali” aveva stabilito cheto alla fine, “Un po’ come la Regina Zoya” aveva concluso con tono di ferro e rude.
Vasilissa era ancora in piedi a raccogliere gli applausi, aveva provato a boccheggiare qualche parola, ma alla fine aveva miagolato solo un sentito grazie. Gli occhi erano umidi di lacrime e le labbra tremavano per la gioia. La principessa Alina si era alzata a sua volta, ma con lo sguardo aveva cercato la giovane Vasilissa, prima di voltarsi verso la regina madre. “Per questa occasione, moya tsarina, considerando la mia lunga amicizia con Vasilisssa, io e Tatiana avremmo preparato un pezzo con il balalaika” aveva annunciato, ammiccando ad un’altra ragazza della tavolata – ma Min non poteva vederla chiaramente perché era seduta dal loro lato.
La regina Zoya doveva esserne rimasta colpita perché per un secondo, non così lungo, ma abbastanza, solo i rumori dei violini si erano sentiti, “Ne sono …compiaciuta, figlia” le aveva concesso poi con un sorriso timido ma non circostanziale, “Tra un paio di portare, per prendere fiato. Forse accompagnato da qualche passo. Una serata troppo bella per non ballare” aveva aggiunto e la sala aveva alzato ancora i calici, almeno i ravkiani, seguiti a ruota dai zemeni, i kaelish e più titubanti di fjerdiani.
“Sol Sho Dreki Koroleva! Sol Sho
tret'ya tsarevich” avevano cantato.

 

La principessa Alina non era una suonatrice di Balalaika particolarmente brava, ma la sua accompagnatrice – di cui Min non aveva afferrato il nome – era molto più capace. Avevano suonato una melodia piuttosto vivace, che aveva costretto diversi membri della corte ravkiana a scendere in un largo cerchio realizzato con fiaccolo e candele a ballare.
Poi era stata la volta che le altre corti di seguire l’esempio. Min aveva osservato la regina Dalai, ballare con il principe Nikolai, con il cognato di quest’ultimo, con un vecchio anziano della corte druskelle, con il presidente Zemeni, con due kaelish di cui non aveva afferrato il nome, con la principessa Liliyana ed anche il principe Matthias – per il ragazzo era stato il terzo ballo della serata, il primo era stato con sua madre, poi con la principessa Alina quando aveva smesso di suonare.
Il prince Huion aveva danzato con una giovane ragazzina della corte fjerdiana, con la sorellastra del marshal, con il figlio dell’ambasciatore delle colonie, con ambedue le amiche della principessa Liliyana, con il marito di una di esse anche – ma non con l’ambasciatrice zemeni di Ravka, Merissa Nassau che aveva ballato quasi tutta la sera con lo stesso uomo, un fjerdiano. Min sapeva fosse un istitutore della corte di Fjerda, Min lo aveva conosciuto per la prima volta dodici anni prima, quando ancora era uno studente e prima che divenisse precettore del principe. La notte prima durante la festa alla Sala delle Poesie aveva dato spettacolo con un brano così struggente da aver turbato anche l’emotività dei due signore di Shu Han.
Per un momento anche Min si era sentita umana.
Poi si era persa nel giro di stoffe danzati, rotanti e negli strani balli così movimentati della corte ravkiana. Il ministro Sunan, nella confusione delle danze, si muoveva sinuoso ed elegante, aveva ballato con la regina Mila, che non sembrava condividere la sua grazia e con la dura Tamar Kir-Baatar ed anche la moglie di lei.
L’unica che si era astenuta da gran parte dalle danze era stata Genya Safin, che aveva ballato una volta con un bell’uomo ravkiano che Min non conosceva e una volta con il Marshall e poi aveva cortesemente rifiutato ogni ballo. Il principe Dominik aveva ballato con la festeggiata Vasilissa, con una delle amiche di sua sorella, con le due regine della festa e con altrettanti uomini, sempre elegante e posato. Aveva anche ballato con il principe Huion che si era sentito piuttosto impacciato da quella sfacciataggine, visto che il principe Dominik lo aveva costretto a seguire le riverenze nella posizione della donna.
I balli erano durati ancora a lungo e poi si era tornati a mangiare e a ballare … fino a che le candele si erano consumate e l’Apparat aveva accesso il giorno nella notte e Min era rimasta esposta in solitaria al freddo della notte ravkiana.

“Borte e la sua maestà la signora del cielo ti aspettano nei pressi della cantina!” le aveva detto Zho-li avvicinandosi, con un’espressione piuttosto annoiata sul viso, lasciandole qualcosa in mano, che Min aveva preso senza battere ciglio.
Era un terzo di vlancka, una moneta che non esisteva, da un lato c’era il valore monetario e dall’altro c’era una pica. “Cos’è?” aveva domandata confusa, Zho-li aveva sollevato le spalle, “Me lo ha dato il mostro di Ravka, credo sia il loro wen ye” aveva proposto. “Mostro è molto vago” aveva considerato Min, osservando la moneta, “Quello con il viso tutto rovinato, che non sorride neanche se lo accarezzi con una piuma” aveva specificato.
Malcom.
Lo aveva cercato con lo sguardo.
E lo aveva trovato rigido, da un lato, che la stava guardando – non sapeva perché ma aveva sentito un disagio strano nel suo petto. “Allora vado …” aveva detto cupa. “Borte e la regina si sono già allontanate con la principessa Liliyana ed un’altra dama …” aveva considerato Zho-li, “Io approfitterò di questa sorprendente libertà per fare conoscenze …” aveva aggiunto allusiva.
Min aveva ripensato alle parole di Mayu quella mattina: “Prendi l’erba del tuono” le aveva detto. Zho-li aveva ridacchiato, “Mamma Mayu mi ha fatto già la discorso” le aveva detto facendole l’occhiolino.
Si era incamminata verso Malcom.
“Una Tavgharad può ballare?” aveva chiesto sfacciato Malcom Gwenip, quando lo aveva raggiunti. Era vestito di un blu scuro che alla luce soffusa delle candele sembrava nero, così come il fuoco delle sue vesti, sembrava sangue.
Il suo aspetto non fingeva neanche di essere tranquillo, ma il suo viso rovinato, come il suo corpo era teso come quello di una lama. Qualcuna può, ma non questa” aveva rettificato, ammiccando a Zho-li e Mikkai che stavano danzando tra loro, sciocche, con solo la musica resiliente di un violino. 
“Un peccato, scommetto saresti una ballerina aggraziatissima” l’aveva provocata il soldato, “So, come essere leggiadra sì” aveva scherzato forzatamente Min, “Tu?” aveva chiesto invece. “Nessun assoluto senso del ritmo, mi manca un mignolo del piede e questo mi ha reso le mie mosse un po’ goffe” aveva riposto Malcom senza vergogna. “Sono cose che non si dovrebbero dire ad un soldato straniero” aveva dichiarato lei, “Speravo che Shu Han fosse già ben informata su tutte le mie amputazioni” aveva detto con uno sguardo critico, mentre con gli occhi cercava qualcosa sulla pista da bello. Min ebbe la sensazione di sapere cosa fosse. “Provi rabbia?” aveva chiesto, “Nel vedere i dignitari kaelish ballare felici, ben accolti e pasciuti qui a Ravka, mentre si prendono pezzi di voi nel loro paese?” aveva indagato – aveva esagerato.
Non avrebbe dovuto fare quella domanda, ne era stata certa. Era stata una imprudenza, era stata una cosa stupida, era stata una cosa tragicamente umana.
Il soldato ravkiano l’aveva guardata con un odio quasi folle, con gli occhi che erano scintillati come fiamme e se Min non avesse saputo prima della sua natura Inferno ne sarebbe stata certa in quel momento. Lo aveva sentito nell’aria stessa, l’odore del gas, della fuligine, ma poi era scemato, “E tu Shu-Han?” aveva chiesto, “Le tue dita sono molto, molto, belle” aveva detto lapidario.
Il simile chiama il simile.
Min-Han Kir-Zu non aveva mai sentito prima qualcosa di così simile a se stessa.
“Non posso ballare ma vorrei farlo” aveva ammesso con un tono di malinconico, che non si addiceva a lei, a una cosa, a se stessa. Malcom aveva quasi sorriso, se così poteva chiamarsi. “Andiamo, c’è un bicchiere di vino che ci aspetta” l’aveva invitata lui.
“Perché questo incontro segreto?” aveva chiesto lei, “Come? Tu stessa hai mandato il messaggio e giusto che tu ascolti la risposta” aveva detto Malcom, incrociando le mani al petto.
Aveva evitato di parlare del loro incontro nelle stanze della principessa di quella prima mattina, in maniera esplicita, almeno, probabilmente perché potevano esserci orecchie indiscrete. “Il messaggio è stato molto più piacevole da dare” aveva considerato Min con un tono quasi divertito – e con suo sommo orrore realizzava fosse spontanea – “Ho decisamente molta meno esperienza del principe in materia” aveva giocato con lei Malcom, mentre attraversavano un giardino composto di siepi ben tagliate, che alla luce del giorno o della lumya dovevano comporre figure intriganti, verso quello che doveva apparire come una foresteria risistemata come una piccola magione.
“Non ho mai sentito di un uomo che non pensasse di essere il migliore, in materia” aveva scherzato sfacciatamente – quasi senza controllo – “Be, mia signora Min-Han non esiste nessun uomo come me” aveva sospirato, sorridendo verso di lei, sfacciato e cattivo.
Dalle spie di Shu Han, su Malcom Gynip si sapevano poche, ma chiare, cose: era di origine Kaelish, era devoto e fedele alla sua principessa, era un inferno ed era completamente pazzo. Aveva creato così tanti disagi a Ketterdam, una volta, che a detta di Borte era riuscito a fare qualcosa che non accadeva da molto tempo: mettere d’accordo il Bastardo del Barile – il Re senza Corona di Ketterdam – ed il capo del Consiglio dei Mercanti – il re con l’imperio – sul fatto che non fosse più autorizzato a tornare.

Avevano raggiunto una guardia, con una kefta d’oro con decori bianco acido, su cui erano ricamati alcuni soli, “Nox Shol, Alexiei” lo aveva salutato Malcom, con un sorriso tutto denti, da belva, “Nox shol, pazzo figlio di puttana” aveva ricambiato il tale Alexiei, “So che puoi passare ma conosci la regola” aveva aggiunto. Malcom aveva rovesciato il palmo verso di lei, come se volesse presentarla, “Questo pungo-di-pietra qui … lo farà per me” aveva stabilito.
Min aveva fatto vedere la moneta con la pica-pica ed il valore numerico. “Oh … Prego. Sai la strada, Mal” aveva detto Alexiei, facendosi da parte e permettendo a loro di accedere alla casa.
“Questo piccolo anfratto non è la casa del Conte, che vive qui vicino, ma è la piccola alcova d’amore sua e del con Vadik Demidov, non assieme o forse sì … ma è anche sopra la cantina speciale di Kirigin, quella di solo Castello Magenta” aveva cominciato Malcom, “Vorrei spiegarti l’aroma, l’odore e la particolarità dell’uva, ma non ne capisco un cazzo” aveva sbottato onesto, “So che dopo un bicchiere, però, il mondo sembra quasi piacevole” aveva ammesso.
Min aveva cercato di memorizzare quanti più dettagli possibili dell’interno della casa: sembrava piccola ed accogliente, ma Malcom non le aveva dato tempo, trascinandola verso un piccolo corridoio stretto.
 “Perché la moneta?” aveva chiesto Min, “La gazza è uno spirito guida per un paese di mostri” aveva risposto lui, come se fosse stato inoppugnabile, “No, perché la hai data a me?” aveva chiesto, “Perché alla tua signora sono state date due e una è stata destinata a te” aveva risposto secco lui, come se fosse stato ovvio, arrestandosi poi davanti ad una porta. “Non potevi tenerla, tu, intendo questo” aveva specificato, avendo trovato quel teatrino tedioso. A Min non erano richieste opinioni ma ogni tanto trovava faticoso non pensare. “Non guardare me, donna di pietra, sono come te, un mero esecutore” aveva risposto Mal.
Una mera cosa.
Poi aveva aperto la porta …
Era stata accolta da una scala a chiocciola in legno, con il manico decorato da fiori intagliati, aveva seguito i gradini, seguita da Malcom con un’andatura pesante. Dopo due giravolte era stata accolta da una piccola stanza accogliente, arredata con divani con un solo manico, con pareti piene di strutture di legno, a cui erano appoggiate, per orizzontali, un mezzo-centinaio di bottiglie di vino rosso. Il castello Magenta.

Borte e la regina Dalai erano già lì, i visi bianchi erano leggermente colati, per il sudore e un po’ della pelle si riusciva ad intravedere, anche il nero dei denti era colato sulle labbra e i capelli si erano leggermente arruffati, alla regina mancava anche uno spillone, ma sembrava aver guadagnato una colonna di perle bianche da più giri sul collo magro.
Borte era dritta come una spada, mentre la regina era sistemata su un divano dai cuscini morbidi, ben soddisfatta.
Non erano sole nella stanza, con loro c’erano altre tre persone.
La principessa Liliyana che aveva tolto il suo sarafan e indossava una lunga veste blu pavone, con le maniche lunghe strette e lo scollo a barca squadrato. C’era qualcosa di più rilassato in lei, con i capelli sciolti senza quell’assurdo copricapo ed il velo.
La principessa Liliyana, Borte e la regina Dalai avevano bicchieri di vino tra le mani. C’era anche l’amica di Liliyana, ma non aveva più indosso la collana di perle, che doveva regalato alla regina.
“Odio questi tacchi del cazzo” si era lamentata la principessa Liliyana scalciando le scarpe che indossava, “Una regina non può non indossare i tacchi, come una principessa” le aveva dato manforte Dalai, accavallando le gambe ed esponendo le zeppe in legno, “Le donne delle Montagne non le indossavano” aveva considerato, “Eppure io non posso mai scendere sotto il metro e settanta” aveva ammesso.
“Che sta succedendo?” aveva domandato con una certa ingenuità e confusione Min, “Penso sia arrivato il tuo terzo uomo, Dalai, o, be, terza donna” aveva considerato Liliyana rivolgendosi alla regina con una certa confidenza.
Min sapeva non fossero legate da alcuna amicizia, ma solo brutale affarismo – quella situazione sembrava tesa. “Certo lei è Min-Han, serve come mio pugno-di-pietra da quando sono ascesa al trono. È intelligente, veloce ed assolutamente fidata” aveva conferito la principessa, “E sorprendente brava a capire quando qualcuno mente, meglio di me e di Borte, almeno” aveva stabilito.
Malcom aveva sorriso con una punta di cattiveria a quell’ultimo commento. “Benvenuta Min-Han puoi prendere un bicchiere di vino se lo desideri. Non serve neanche che io te lo dica Malcom” aveva detto la principessa Liliyana, “No, non lo desidera” aveva scelto per lei la regina Dalai, sorseggiando un po’ del vino. Liliyana l’aveva imitata.
Tre-e-tre notava Min.
“Vorrei, sua altezza ma l’ultima volta che ho bevuto il Castello ho cercato attivamente di far bollire la palude” aveva soffiato onesto Malcom. “Uno spettacolo divertente” aveva scherzato l’amica della principessa, “Hai dato via la tua collana, vedo?” aveva chiesto Malcom sfacciato, aveva perso il tono rispettoso con cui si era rivolto alla principessa per prendere qualcosa di molto meno formale, “Un dono di benvenuto” aveva risposto cupa l’altra, spostando con una mano qualche ciuffo di capelli – di quelli che coprivano il viso – per metterli dietro l’orecchio. Per un secondo, nel movimento, Min aveva spiato un occhio bianco e lattiginoso … e morto.
Min aveva acutizzato i suoi sensi e l’aveva percepita chiarissima: il misto di carne necrotica e la viva pulsante.
“Non litigate bambini, stiamo facendo una pessima figura davanti sua maestà la regina Dalai” gli aveva richiamati all’ordine Liliyana.
“Non preoccuparti per me, so bene che a porte chiuse … spesso le cose non siano così nette” aveva scherzato la regina, “So che fama hanno le donne Shu della famiglia Taban, sua altezza, ma io mi sono sempre fregiata di essere più onesta di mia zia makhi e più diretta di mia zia Ehri” aveva stabilito. “Io di rimando mi sono sempre promessa di essere meno pragmatica di mia madre e meno ingannevole di mio padre” aveva detto brutalmente onesta Liliyana, posano il bicchiere vuoto su un tavolino basso negli intorni. “Avrei – posso darti del tu? – voluto portarti in ambienti più riservati, ma … i corridoi sotterranei, sono stati … sono inaccessibili” aveva aggiunto la principessa.
“Un peccato” aveva considerato Dalai, “Ammetto che avrei voluto dare uno sguardo alla vostra ingegneria bellica” aveva ammesso senza vergogna, “Qualche prototipo sono sicura mio padre lo tirerà fuori presto. Sta aspettando Kerch per farsi bello.”
Dalai aveva riso, “Comprensibile” aveva emesso, “Per me anche questo posto va bene, non ho grandi segreti da tenermi cucita sulle labbra. Io” aveva soffiato.
“Intendi che io sì?” aveva chiesto Liliyana accavallando le gambe, tutta la grazia e la gloria si erano assopite come un fuoco spento, lasciando solo scintille di serietà e irritazione.
Dalai le aveva sorriso schietta: “In realtà parlavo di mia zia Makhi, quella gran stronza è morta da più di un lustro; eppure, continuo ad ingollare le sue polpette avvelenate.”
La principessa Liliyana aveva emesso un verso simile ad una risata, nascosta da uno sbuffo, “Oh! Sanktissimo Grigori” aveva detto esageratamente melodrammatica, “Nessuna regina Taban è mai stata punita dalle sue colpe da quando La prima Tempesta che Rimane[12] ha bruciato tutto quello che c’era tra Koza a Bhen Zu” aveva replicato schietta.
Quando si parlava dell’unificazione della regina Taban, dopo il periodo dello Stato Combattenti, si parlava sempre della Prima Tempesta come di una salvatrice e un’eroina, si parlava della Primavera e loro indossavano ancora i suoi colori, ma non tutte le azioni compiute erano state onorevoli. La guerra lo era raramente.
E Shu Han era stata unita dal sangue che aveva innaffiato i campi.
Dalai aveva sbuffato, “Sì, lo so cosa pensi … hai anche ragione. Nessuna regina Taban è stata punita per le sue colpe, ma per quelle di un’altra?” aveva chiesto?” aveva domandato retorica.
“Cosa sta succedendo, Dalai?” aveva chiesto Liliyana, abbandonando tutti i formalismi, “Non parlerò per enigmi, ne ci girerò in tondo. Non mi dispiacerebbe avere alleata Novy Zem, ma la situazione è più complicata” aveva ammesso.
Liliyana aveva tirato via tutta la sua allegrezza: “Ti ascolto” aveva stabilito.
“Ci siamo bruciate a causa delle azioni di chi è venuto prima di noi” aveva ammesso Dalai, guardando Borte in cerca di sostegno. “Dopo la deposizione di zia Makhi, quella buon anima della mia bisnonna si è guardata bene di far sparire tutti gli scienziati e dottori che avessero preso parte al programma Khervurg” aveva confessato cupa, “Quelli che non erano già scappati a Ravka – a proposito mi piacerebbe parlare con Beregin Tuoninem – si intende … ovviamente Makhi è stata brava a nascondere molte tracce e qualcuno è sfuggito allo sguardo attento della bisnonna e … retrocessa a reggente la zia Makhi non aveva più il potere assoluto ma aveva ancora potere” aveva spiegato.
“vaffanculo” la voce di Malcom aveva interrotto Dalai, lei lo aveva guardata quasi scandalizzata, ma aveva presto capito che l’improprio del guerriero inferno non era verso di lei, ma verso qualcos’altro. “Malcom” l’aveva rimproverato la principessa Liliyana. “Sappiamo tutti dove sta per naufragare il discorso vero” aveva esposto rabbioso. E anche Min lo sapeva, probabilmente meglio di loro … o non era così.
L’amica della principessa aveva sospirato, prima di versarsi un copioso bicchiere di vino di un rosso così denso da sembrare sangue marcio, la sua deglutizione era stata densa e rumorosa, poi quando aveva finito, con il fiato che sapeva di vino ed il cuore che batteva come un tamburo roborante, Min non aveva mai sentito nessuno così rumoroso pur rimanendo calmo, lei aveva parlato: “Sì, Mal ha ragione. È un lungo discorso ma finisce con due parole: Pazner Kosti.”

 



[1] “Malvagio spirito” secondo google traduttore. Onestamente pur amando la mitologia slava non mi sono impegnata troppo a trovare un corrispettivo reale ed ho semplicemente deciso di inventarlo ex-novo.

[2] Questa descrizione è presa da quella Simargl, dio della sessualità slava.

[3] Autorevole fonte: wikipedia.

[4] Dopo lunga riflessione ho deciso che il titolo del Principe Consorte è proprio Principe, avrà quello di Tsar quando Lilyiana sarà Tsarina.

[5] “Tua nobilità”, Ye: tu viene dai libri, mentre Guìzú dal cinese tradizionale secondo google.

[6] Ghoul Serpente secondo la wiki del Grishaverse.

[7] Nel libro Isaak è “soldato” e “Guardia di Palazzo”; ora ho scelto i gradi/titoli a caso, letteralmente googlando: “gradi dell’esercito zaarista” e quello di graduato appartiene al corpo dei Bolscevichi e quello di alfiere a quello dei sottoufficiali dell’artiglieria, scelti super a caso per i nomi. Ora, un po’ mi rode che la Bardougo abbia scritto una trama che ha 5 libri su 7 con il coinvolgimento dell’esercito e non ci ha mai dato una vera e propria gerarchia. Probabilmente per questa storia dovrei farla, forse lo farò – posso tenere Isaak vago perché Mayu fa riferimento a fatti di oltre “30 anni prima” e le cose possono essere state riorganizzate. Questa nota, serviva? Forse no.

[8] La storia, nata solo per creare un po’ di lore a Shu-Han, viene raccontata da Dominik e Drina nel 22, la riporto qui solo perché ho sprecato una nota ahaha. Jiao Yuò-Kaatar era il concubino di Hua Kir-Taban che aveva esercitato così tanto fascino sulla donna, da aver scacciato tutti gli altri uomini dall’harem, e diventare l’unico padre dei suoi figli. Sfortunatamente Jiao e Hua hanno avuto solo figli maschi ed il trono è passato a Siam Kir-Taban, nipote di Hua (figlia di suo fratello gemello) che ebbe moltissimi amanti – almeno trenta – però, leggenda vuole, dormisse ogni notte con suo cugino Toyla Yul-Taban, figlio di Jiao e Hua. Che evidentemente non era stato famoso come suo padre Jiao. Il Buon Zhao di rimando non ha avuto figli con Dalai.

[9] Non sapevo come rendere le Paradisee e rendere ufficiale l’esistenza del paradiso. Però, ho scoperto che le paradisee (uccelli del paradiso) sono corvidi – quindi, lol: Corvi colorati per tutti.

[10] Essendo Shu-Han un luogo immaginario fortemente ispirato all’oriente o preso a pie pari dalla storia della cina. Il periodo degli stati combattenti è uno (453 a.C. al 221 a.C.) ed è composto di ben 7 regni, non 5 (ma non volevo fare 7 numero magico). Shu, Wei e Wu invece sono i nomi dei tre regni durante il periodo dei tre regni (ben posteriore a quello degli stati combattenti). A titolo informativo Han è stata la dinastia più importati della storia cinese ed è quella che ha dato poi il nome al popolo (ovvero quello degli Han) ed è posteriore agli stati combattenti – dopo la dinastia Qin – mentre l’altro stato che non si è unito alla coalizione dei tre è il Ji (il nome è vagamente ispirato alla dinastia Jin, posteriore ai regni combattenti ed un periodo di molto caos). Non so se fare più post storici, probabilmente questa parte è futile e sarà ripetuta nel 28, per ovvie ragioni, ma non apprezzavo molto l’idea che Taban fosse scesa dalle montagne e conquistato tutto un regno, subito.

[11] Ho deciso così de botto che RAFKA è la Ravka antica, già che hanno una lingua leggermente diversa ho deciso che quello che la lingua ha subito è stata un’alterazione linguistica che non ha senso probabilmente nella linguistica (sarebbe stato d’uopo più un betacismo o l’inverso forse) ma che succede spesso ai dislessici. Quindi sì.

[12] Le originali Regine Taban erano chiamate: Taban yenok-yun, ovvero la Tempesta che Rimane

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Capitolo 22
*** Vasilissa IV (40 df) ***


NOTA: Questo capitolo è un po’ caotico, mi dispiace. Non dovevo postarlo ora, ma ho deciso di farlo ora o non lo avrei fatto per molto tempo. Per i prossimi ci vorrà più tempo: il lavoro mi sta uccidendo, ho provato a licenziarmi ma non ho avuto fortuna (devo essere eccezionale se non mi vogliono perdere lol – o sono solo disperati).
Il prossimo capitolo non so quando uscirà perché non ho ancora cominciato a scriverlo ed è un pov difficile, inoltre, il lavoro programma di uccidermi (no sul serio sto progettando quando sarebbe d’uopo avere un esaurimento nervoso) però il capitolo subito dopo è l’ultimo del quaranta.
Perciò meno due capitoli al cambio di linea temporale.


Vasilissa
(40 anni dalla dissoluzione della faglia)

Vasilissa aveva fatto l’ennesimo calcio richiesto dalla danza, tenendo le gonne pesanti sollevate con le mani. Genya Safin la stava guardando con un certo biasimo materno, che aveva fatto scoppiare Lissa in una risata incontrollata. Aveva bevuto decisamente troppo brandy, wisky e vino frizzante e … mischiare non era decisamente nel suo genere … ne era stata una scelta oculata.
Si era allontanata dal suo ballerino, un talentuoso e molto passionale zemeni, con la pelle scura e gli occhi intriganti di un castano così dolce da sembrare cioccolato, e si era allontanata dallo spiazzale con una seconda giravolta ed aveva quasi urtato una fiaccola.
“ Questo non è l’abito che la contessa Ivets ti ha fatto fare appositamente questa sera” l’aveva rimproverata bonariamente Genya Safin, con la benda di raso rosso, su cui scintillava il sole d’oro, vestita di vinaccia, con la pelle chiara in mostra a non nascondere né le tracce del tempo – più che pietoso, quasi graziante – e le cicatrici della sua battaglia. “Era bellissimo quel vestito, il più bello” aveva ammesso Vasilissa piena di vergogna e troppo alticcia per essere onesta. Avrebbe dovuto bere meno. La signora Najima Polnudist ci aveva tenuto moltissimo ad aiutare Lissa ad avere un abito che fosse degno, d’altronde lei stessa capiva le sue emozioni, era passata da figlia di braccianti stagionali a soldatessa a moglie di un conte.
“Ed ho intenzione di metterlo ma …” aveva aggiunto, pizzicando la stoffa d’oro del suo abito, ricavato dagli abiti della principessa Liliana, che era stato prima modificato dalle abili mani della grisha prodigio Catelyn e poi da qualcun altro che aveva provveduto ad allungarlo perché calzasse ad Anya, “La sposa non poteva metterlo” aveva sussurrato, perché Genya sapeva sempre tutto e se non ne era a conoscenza, aveva l’abilità di capirlo.
Genya le aveva sorriso con accondiscendenza … anzi no, con comprensione. “Sanktissimi, questo spiega perché quella povera anima indossava una palandrana così immonda” aveva ammesso poi la donna con una punta di cattiveria. Vasilissa aveva riso solo di più. “Quando è il momento in cui dovrete fuggire?” aveva sussurrato Genya, “Quando Anya mi farà cenno di farlo” aveva ammesso, cercando con lo sguardo la giovane Karkoff.
La figlia del signore della seta non era lontana da loro. Indossava un abito di tutto rispetto per finitura, ma che sopra ogni cosa era grande, pesante e composto di balze e fiocchi, orrido che la faceva apparire come una gigantesca torta meringata e non valorizzava molto il suo aspetto – almeno in base allo sguardo fastidioso che Viktor Semyon le aveva lanciato per tutta la sera – ma nascondeva la curva morbida del ventre.
Anya la stava guardando ma era ancora dritta accanto a suo padre che discuteva animatamente con Viktor.
Lissa aveva ballato anche con lui quella sera.
Aveva ballato anche con il principe Dominik – per fortuna ancora sobria – con la regina Zoya, e per quanto guidata con fermezza Lissa aveva pensato ancora al loro strano incontro nelle camere della regina, con il Marshal e con uomini e donne che fino a quel momento non l’avevano neanche notata, mentre sprimacciava i loro cuscini. E aveva ballato con Viktor, che le aveva messo una mano troppo audace sul fondo della schiena e stretto molto il fianco, “Anche con questo titolo non potrei comunque sposarti” le aveva sussurrato e Lissa si era sentita stordita da quella confessione, inaspettata e non richiesta.
Si era allontanata da Viktor come scottata, continuando a vivere nella sua memoria la prima volta che lo aveva baciato sulle labbra e l’aveva presa.
E si era sentita quasi male.
Ma poi aveva ballato con il bell’uomo zemeni di cui non aveva afferrato il nome, ma che l’aveva fatta ridere. E da un ballo erano diventati tre.

Alina si era avvicinata a loro, i capelli castano biondo erano sciolti ed aveva perso il copricapo vistoso in stoffa d’oro con i draghi da qualche parte, anche le scarpe, perché sollevate le gonne, si intravedevano le calze bianche. “Sei stata bravissima!” le aveva detto Lissa, quando la principessa le aveva gettato le braccia al collo, “Per favore, ho sbagliato più accordi io che tutta i musicisti di Ravka negli ultimi cinquant’anni. Tatiana è stata bravissima a nascondere tutto. Andiamo a ballare” aveva ruggito, trascinandola nuovamente nello spazio erboso.
“Siamo alla Palude, siamo oltre l’ora delle streghe, stiamo bevendo e tu sei una signora e io sono una signora” aveva riso Alina, dandole un bacio sonoro sulla guancia, umido e pieno d’affetto. Vasilissa aveva nascosto il viso nell’incavo del collo della sua amica ed aveva riso piena di luce. “Sei un po’ ubriaca” aveva ridacchiato, “Sono la principessa di Ravka, come mi ha detto Lilyiana: posso fare il cazzo che mi pare” aveva sbottato con allegrezza. “La principessa ha detto questo?” aveva chiesto sconvolta, “Non con queste parole, ma il tono era quello” aveva risposto Alina ridendo, “Ed ora balliamo!” aveva ridacchiato piena di gioia, intrecciando le dita l’una all’altra e portandola al centro a ballare, investendo senza vergogna chiunque nel mezzo.
“Siete allegre!” aveva constato Dominik che era comparso al loro fianco, mentre teneva delicatamente una giovane donna kaelish, dal seno prospero e l’espressione intensa. “Siamo giovani!” aveva riso Alina, “Tu forse anche un po’ troppo” aveva ridacchiato Dominik, scompigliando i capelli della sorella.
Alina ne era stata compiaciuta, ma di fretta si era allontanata dal fratello, costringendo anche Lissa ad una piroetta un po’ scoordinata, “Sei solo invidioso perché sei vecchio!” aveva gridato.

“Ho fatto una cosa che non dovevo fare” le aveva detto Alina, sussurrando al suo orecchio. “Dove è la novità, moy tsarevich?” l’aveva presa in giro Vasilissa, mentre roteavano ancora, “Questa è stata proprio stupida anche per i miei limiti, se qualcuno la scoprisse scommetterei che finalmente avrei un libello tutto mio” aveva ghignato.
“Addirittura?” l’aveva presa spietatamente in giro Vasilissa, “Ebbene sì … ad oggi posso dire che ho ufficialmente baciato due persone … due persone diverse” aveva esclamato.
“Non era Meesha?” aveva indagato Vasilissa guardandosi intorno a destra e manca, cercando la soldatessa, trovandola poco lontano che discuteva di qualcosa con un giovane uomo kaelish – conoscendola probabilmente stava parlando di pistole. “Non era Meesha, no, ma non baciava bene quanto lei, ovviamente” aveva detto Alina.
“Ho paura di chiedere chi” aveva ammesso Vasilissa, dandosi aria con una mano e chiedendosi perché non avesse portato un ventaglio, “Oh, non ci crederai mai” aveva riso l’altra. “Spero non sia tuo fratello o tuo cognato” aveva ammesso Vasilissa, “Sankti! No, ma come ti viene in mente?” aveva strepitato, “Che so, leggi sempre i libelli sugli incesti!” si era difesa l’altra, “Sì, ma su Dominik e Liliyiana perché fanno ridere un sacco” aveva ammesso lei senza vergogna.
Poi Anya Karkoff era apparsa nel suo campo visivo tutta trafelata.
“Uhm … Vasilissa … io mi sento poco bene” aveva annunciato, “Certo, la tua faccia è più verde dell’erba” aveva risposto sfacciata la principessa.
Anya – che forse era un po’ verde – aveva assunto una sfumatura paonazza piena di imbarazzo, “Sì, credo di aver esagerato con gli assaggi di vodka” aveva borbottato, “Lissa torneresti con me in Città? I miei genitori si stanno così tanto divertente e dilungando, particolarmente mia madre con la contessa Semyon” aveva ammesso Anya, con un tono secco e poco pratico, guardandosi intorno con perplessità. “E lo chiedi a Lissa? Da quanto tempo vi conoscete, voi?” aveva chiesto perplessa Alina, schiudendo le labbra. “Da un po’, moy tsarevich” aveva considerato con gentilezza Vasilissa, posando una mano sulla spalla della principessa, “Posso lasciarla?” aveva chiesto, cercando di recuperare lucidità e usare il lei, “Forse sono un po’ frastornata anche io” aveva detto e non mentiva del tutto. Il nervosismo per le nozze segrete aveva presto lasciato spazio alla gioia frastornate e la consapevolezza che non era più Vasilissa Pavlov ma era la Baronetta Vasilissa Pavlov – ed anche se non sapeva quanto sarebbe cambiata la sua vita, sapeva che era cambiata. E tutto il brandy del mondo non avrebbe mai annebbiato quella sensazione.
 “Noiosa” l’aveva rimproverata Alina, biascicante ed un po’ ubriaca, “Prima di andare però dobbiamo trovare mio padre!” aveva esclamato, prendendola per mano. Vasilissa aveva sentito appena il sospiro frustrato di Anya che le aveva inseguite, tenendosi l’abito-meringa.

Il re Nikolai stava mangiando uno shashlik[1] in piedi, come un contadino, senza preoccuparsi di macchiare la bella livrea azzurra – come tutti i membri della famiglia reale, tranne la regina, aveva optato per quel colore – mentre teneva banco ad una corte molto interessata.
Erano tutti ad una rispettosa distanza, con l’eccezione di un uomo che doveva essere suo coevo, che esibiva una splendida veste lunga di colore oro-rosso con trama nehulita che rappresentava soli ruggenti sul bordo inferiore, sulle maniche amplissime e lungo una linea verticale del corpo, fermata da una cinta di cuoio e pelo, indossava il copricapo quadrato e peloso all’interno, sui capelli scuri – eredità Oyirad Sikurzoi[2]. Vasilissa lo conosceva poco, sapeva chi era: il duca di Keramzin e come notava dalla mano sulla schiena del re consorte, le chiacchiere del loro duraturo legame non dovevano essere esagerate.
“Padre!!” aveva strillato Alina.
“O sankti!” aveva esclamato il re, vedendo sua figlia avvicinarsi scalmanata, con i capelli scinti e tutta disordinata, “Padre, Schievich, signor Boris, altri gentili ospiti” aveva detto sfacciata. “Oh, sankto Gregory, moy tsar credo che la principessa sia leggermente … alticcia” aveva strillato una donna, anche lei con le guance rosse e rubiconde, probabilmente fin troppo allegra anche lei. “Non voglio disturbare le vostre chiacchiere … ma Lissa … volevo dire Madonna Vasilissa Pavlov, prima baronetta di Tsaraskaya, vuole ritirarsi” aveva annunciato Alina, ignorando a pie pari quella conversazione.
“Di già?” aveva chiesto un uomo, guardandola con una certa audacia. “Davvero, Lissa?” aveva chiesto il re Nikolai gentile, “La notte è ancora giovane” le aveva detto.
“Sono molto frastornata, moy tsar … è stato qualcosa di importante” aveva dichiarato Vasilissa, abbassando lo sguardo rispettosa, chiedendosi perché Alina l’avesse portata lì. “Comprendo i tuoi sentimenti” aveva parlato il duca di Keramzin con un tono quasi dolce, “Anche io sono nato sconosciuto” le aveva confidato amichevole.
Aveva un sorriso accattivante ed anche con la vecchiaia addosso – non mitigata dal potere grisha – sembrava ancora bello e piacente.
“Mi dispiace perderai i giochi pirotecnici, ma alla fine questa è solo uno di dieci giorni” aveva concesso il re Nikolai, prima di sbottonarsi i bottoni della livrea, per recuperare qualcosa da una tasca interna, aveva frugato un attimo prima di tirare fuori una chiave d’oro. “Baronetta Pavlov” le aveva detto pomposo, allungandola verso di lei, Lissa aveva allungato la mano quasi tremante, raccogliendo la chiave nella mano. Era fredda ed era di ferro, sentendo il peso, ma era stata rivestita con foglia d’oro.
“Questa è la chiave della tua nuova stanza, ai piani superiori, in quanto membro del dvorjanstvo[3] ti è dovuta” le aveva detto cerimonioso, “Domani, dopo molto tè all’origano ed acciuge-e-cetrioli, che ci permetterà di tornare lucidi, sarai istruita correttamente sulla tua rendita e tuo nuovo ruolo” aveva aggiunto con gentilezza ed educazione il re, posandole una mano sulla spalla paterne.
Rendita? Aveva pensato Lissa, ma aveva detto: “Nuovo ruolo?”.
Re Nikolai aveva sorriso e le aveva risposto: “Per essere dama di Alina, dovrai essere insignita del titolo di Damigella di Corte ed entrare nell’ordine di Sankta Vasilka” aveva spiegato.
Vasilissa aveva sentito le vertigini, mentre stringeva la chiave di ferro d’oro al petto, “C-certo” aveva balbettato.

“Non ti preoccupare …” le aveva detto Anya, mentre si avvicinavano alle carrozze, “Per il titolo di Damigella non so come dovrai fare, roba da nobili, io non ho un titolo, ne mi interessa averlo” aveva considerato toccandosi la pancia, “Ma sia Tatiana Dubriv che Najima Poldunist lo hanno ottenuto. Però per l’Ordine e per averlo servono opere caritatevoli o filantropiche oppure per esimi meriti artistici o altro” aveva spiegato calma. “Lo hai ottenuto?” aveva chiesto Vasilissa, affiancandola, mentre con lo sguardo cercava il loro mezzo.
Doveva avere l’Ordine o non sarebbe mai stata selezionata per essere una compagna di giochi della principessa. “Mia madre lei lo aveva; cantante d’opera, opere caritatevole a iosa … sperava lo ottenessi anche io, ma sono sempre stata poco interessata” aveva ammesso Anya.
Lei aveva annuito, chiedendosi quale opera artistiche avrebbe potuto esporre o sapere, era abbastanza certa che Alina si sarebbe offerta di aiutarla.
“Ecco! Anatov!” aveva esclamato Vasilissa, riconoscendo l’uomo in questione.
“Chi?” aveva domandato, “Anatov Musabaev … lavora nelle stalle del palazzo ed ha una fidanzata che si chiama anche Anya” aveva raccontato, ricordando il primo ilare scambio di persone con Yusuf. “Oh, sì, lei la conosco … ha i capelli biondi, vero? Molto dolce e molto carina” aveva detto piena di incertezza Anya, giocando con una punta dei capelli scuri.
Anya Karkoff non era bellissima, aveva un viso piuttosto anonimo, che spiccava più per i pochi, ma evidenti, nei sul volto bianco e per il fisico asciutto e tonico – quando non era coperto da strati di tulle. “Va tutto bene?” aveva chiesto Vasilissa con preoccupazione, l’altra aveva fatto una smorfia, “Uhm … sono incinta e sto per sposarmi di nascosto, dopo questo sarò rinnegata dalla mia famiglia per sempre e probabilmente il mio pazzo fidanzato che mi odia ma che non sopporta essere privato delle cose – anche quelle che non vuole – spenderà ogni secondo della sua vita per tormentarci. Perché non dovrebbe andare tutto bene?” aveva chiesto retorica.
Vasilissa si era lanciata su di lei e l’aveva abbracciata. Non erano amiche, non si erano mai parlate, quasi, fino a quella sera e mai da pari-a-pari. Vasilissa era stata una domestica e Anya una ricca borghese la cui famiglia aspirava alla nobilità – che avevano regalato a lei.
Ma Anya non si era spostata affatto, al contrario, si era stretta a lei, come una bambina in cerca di conforto.
“Avete finito?” aveva sentito una voce maschile chiamarle. Anatav era un uomo alto e spesso, con le spalle larghe, le braccia forte, i capelli folti e neri e la barba sul viso che lo facevano apparire più vecchio, rozzo e stanco di quanto non fosse nella realtà.
Dove vi eravate perse?” aveva esclamato Anatov vedendole, “Il nostro cocchio è quello” aveva stabilito, pragmatico, indicando una delle carrozze, alle cui briglie c’era un destriero dell’Obol, con il manto cioccolato, sul corpo nervoso e muscolo, tranne la macchia a stessa sulla fronte, e la chioma bionda. “Non è mica facile scappare da una festa del genere” si era lamentata Vasilissa, mentre guidava Anya, che le aveva improvvisamente preso la mano.
“Sai, adesso, potresti pretendere il rispetto” aveva bisbigliato Anya, “Da Anatov? Un ragazzo con cui ho fatto a palle di neve da quando avevo nove anni? Fatto il cammino dei Pellegrini nell’Agroverde? E bevuto in ogni festa del burro da quando abbiamo potuto sgraffignare il kvass?” aveva chiesto retorica Vasilissa, non voleva essere ne aggressiva ne cattiva e sperava che la dolcezza dell’alcool, inquinasse ancora la sua voce, pastosa, “Forse ora avrò un titolo nuovo di conio, ma loro sono i miei amici.”
“Sankti” aveva sospirato Anya, “Mi rendo conto che non so niente di te, di Yusuf e dei vostri amici” aveva ammesso cheta e cupa, “Abbiamo vissuto il nostro amore clandestino come Duli e Baya” aveva ammesso. Lissa aveva sospirato, “Se non te la senti possiamo pensare ad altro … ora, su due piedi ed alticcia non ho soluzioni, che non siano davvero troppo creative, ma forse domani dopo un piatto di acciughe e cetrioli davvero potremmo averla” aveva considerato, “Perché io adoro Yusuf! Sul serio, probabilmente è il terzo nome nella lista degli uomini con cui mi unirei in giuste nozze ma se non sei pronta alla vita che Yusuf può darti – e lo so che anche al massimo delle sue capacità probabilmente non potrà darti sete e bisso, nonostante vorrà – e a rinunciare alla tua famiglia e i soldi dei Semyon, devi deciderlo ora” aveva parlato rude e cattiva, cosa che non le stava bene e la faceva sentire male.
Immaginava il dolore di Yusuf nel non vedere la sua bella Ania’ka non presentarsi alla cappella.
“Pensi che mi freghi un cazzo delle sete e del bisso? Io mi vestirei di liuta nel permafrost, io amo Yusuf ed amo il bambino che avremo” aveva ammesso Anya, “Quando sto con lui mi sento viva e mi piace la persona che sono quando sono con lui … e sia mia madre che mio padre mi hanno insegnato che nessuno dovrebbe aspettare di essere riempita di seta, se non vuole sudare per averla” aveva seccato.
“Va bene, andiamo” aveva ammesso Vasilissa cercando di sorridere accomodante.
Anatov aveva fatto roteare gli occhi, mentre si avvicinava al cocchio.
Era saltato al posto del valletto, senza preoccuparsi di aprire l’imposta per le due dame, “Screanzato!” l’aveva rimproverata bonaria Vasilissa, poi aveva aperto lo scure ed aveva aiutato la giovane donna gravida a salire sulla piccola carrozza.
Aveva messo il primo piede sul gradino, quando un grido l’aveva chiamata. Non lei, Vasilissa Pavlov nel loro specifico, ma il loro gruppo.
Erano un duo fjerdiano – almeno uno dei due.
“Aspettate, aspettate!” aveva chiamato una donna, urlando in un ravkiano bruttino. “Che succede?” aveva chiesto Vasilissa, “Tornate in città, vero? Vorremo venire anche noi” aveva dichiarato la ragazza. Aveva l’incarnato ambrato, i riccioli scuri, gli occhi grandi, troppo grandi ed un naso piccino, non credeva di riconoscerla dalla festa, ma era stata così frastornata dalla vodka, dal matrimonio, dalla nomina e quant’altro. La donna indossava un abito liscio direttorio, imboccato male, come di qualcuno che si era vestito di fretta – o rivestito – un po’ trafelata nel respiro. Il ragazzo accanto a lei non era messo meglio, indossava un informe rosso bruno, come quella che aveva visto ai druskelle giunti con la Buona Regina Mila, con i capelli così bionda da sembrare bianchi e gli occhi blu. Era carino, niente di eccezionale, tra tutti i giovani baldanzosi ravkiani doveva essere passato completamente inosservato.
 Respirava nervoso anche lui.
“Be salite, andiamo!” aveva sbuffato Anatov.
“Spero davvero non siate due ladri che cercano di infiltrarsi a Palazzo” aveva ammesso Vasilissa, salendo e permettendo ai due di seguirla, realizzando il pericolo.
“Djel noo” aveva scherzato la ragazza, con le guance arrossate, per la corsa, per l’imbarazzo o per il brandy, “Ci accontentiamo anche solo di andare in città” aveva scherzato il ragazzo guardandola, aveva un sorriso delicato e le fossette, “Approfittiamo che … i nobili si scatenino per darci ai bagordi … o qualcosa di simile” aveva ammesso lui poi. La sua voce era bassa e calda, il suo accento era solo vagamente roccioso, ma era buono.
“Non è tipo diserzione?” aveva chiesto Anya – che faccia tosta. La ragazza aveva riso, “Djel … io non sono nell’esercito, sono una donna libera!” aveva fischiato, portandosi anche le dita alla bocca per eseguire il verso, “Credo sia diserzione solo se mi scoprono” aveva scherzato lui, guardando la sua amante complice. Lei aveva riso e poi aveva mormorato qualcosa in Fjerdiano – Lissa non l’aveva studiata come lingua, come per il ravkiano antico e la lingua dei suli, la principessa Alina non aveva usato Lissa per esercitarsi, masticava un po’ di Kerchiano. Però, Lissa non aveva bisogno di sapere la lingua per capire quello che aveva detto la donna,  suonava molto ‘In che guai ci cacceremo, eh?’ o qualcosa di simile.
“Be, noi stiamo andando a un matrimonio” aveva squittito.
“Vasilissa!” aveva strepitato Anya con rimprovero. “Un’altra festa?” aveva chiesto la ragazza, “Scappate da una pomposa cena per un’altra?” aveva chiesto quasi sconvolta. Lissa aveva riso, Anya aveva sbuffato, “Fjerdiani” aveva ammesso un po’ rude, “Un matrimonio ravkiano … questo matrimonio Ravkiano è decisamente meglio. Inoltre, è il mio” aveva ceduto.
“Skoll! Skoll!” aveva gridato la donna, doveva essere un augurio.
“Be, sì, skoll a me!” aveva riso voltandosi verso Vasilissa prima di urlare ad Anatov, “Fermo! Devo vomitare!” aveva esclamato la ragazza. “Troppo Brandy?” aveva scherzato la giovane sconosciuta.
“Troppo di tutto” aveva risposto Vasilissa, mentre la carrozza arrestava la sua corsa e lei apriva l’imposta della finestra per vomitare direttamente fuori.
“Un buon modo per cominciare un matrimonio” aveva parlato il ragazzo, aveva una voce bella, le fossette e delle piccole lentiggini sulle guance.  “Come diceva Ivan il Dorato, è d’uopo bere prima, dopo e durante i matrimoni[4]” aveva provato lei.
“Diceva questo?” aveva chiesto il ragazzo.
“Il miglior Re che Ravka abbia avuto fino a sua maestà la regina Zoya, però aveva il vizio della bottiglia” aveva raccontato pratica.
Quasi tutto quello che sapeva di storia era un’eredità del suo tempo con Alina, dai fatti più didascalici agli aneddoti più bizzarri, era stata ben istruita per essere una cameriera, ma per essere una titolata?
“Comunque penso sia normale un po’ di nervosismo pre-nuziale. Mio cugino il giorno prima delle sue nozze aveva ponderato di fuggire a cavallo. Lo abbiamo ripreso nelle stalle … ed ora sono dieci anni che è sposato, cinque bambini ed un matrimonio molto felice” aveva raccontato lei.
“Tutti sankti, come ha affrontato la moglie cinque gravidanze” aveva boccheggiato Anya sistemandosi meglio le balze ricamate del vestito rosa, mentre si sistemava di nuovo composta sul seggio. “Anatov, riparti!” aveva strillato Vasilissa, “In realtà erano tre gravidanze, ha avuto due parti gemellari … una cosa assai fortunata” aveva considerato.
Il viso di Anya non sembrava tradurre lo stesso pensiero.
“Lei è la donna che è stata nominata baronetta, vero?” aveva chiesto il ragazzo guardandola, Vasilissa aveva sentito un leggero rossore sulle guance, “Sì” aveva ammesso, “Di un posto che non so neanche dov’è” aveva ammesso. “Nel meridione, sotto la catena montuosa” aveva spiegato lui, “è un lago … dove si allevano le ostriche d’acqua dolce, per le perle” aveva spiegato lui pratico. “Hanno un oriente molto bello, ma valgono meno di quelle salate, vero?” aveva chiesto retorica la sua campagna.
“Sì” aveva ammesso Anya, “Quelle della taraskaya sono comunque molto pregiate, perché se ne producono poche” si era inserita nel discorso.
“Oh, sono diventata la signora delle perle” aveva riso, toccandosi il collo nudo ed immaginando come avrebbe dovuto essere possedere una fila di tonde perle bianchissime. “Le perle più belle sono quelle di Paar” aveva rivelato Anya, “Sono splendide, piccole di color avorio sfumate di rosa. Una sola vale più di questa carrozza” aveva raccontato, “La regina di Shu Han ha una colla con mille di quelle perle. Pensavo l’avrebbe indossata questa sera.”
“No, mi hanno spiegato che questa sera lei e le sua guerriere erano vestite come le donne Shu delle Montagne, durante le celebrazioni della Mezza-Unificazione” aveva spiegato chiara la ragazza. Vasilissa lo aveva trovato solo molto strano, si era abituata a vedere alcuni nobili mediorientali – che spergiuravano di vantare discendenza oyirad e altri che lo erano – che indossavano i vestimenti colorati, così diversi da quelli che le donne di Shu avevano esibito. Immaginava che, ripresa dallo stato ebro, Alina domani avrebbe frugato ogni suo dubbio.
“E perché mai mezza, questa è la festa della Riunificazione” aveva scherzato, sentendosi stupida il momento successivo, “Concordo” le aveva detto il ragazzo sorridendo, però deviando lo sguardo, anche lui leggermente arrossato sulle gote lentigginose.

La carrozza si era arrestata – dopo un altro bisogno di rigetto di Anya – fino a che non erano entrati nel parco secondario del Palazzo, fino alle stalle. “Di solito, ci fanno scendere prima” aveva considerato la ragazza, spiando il panorama. “Sì, sai, nozze segrete” aveva scherzato Anya assolutamente incolore, mentre lo sportello si apriva e lei era stata la prima a scivolare fuori, presa al volo da Anatov.
L’uomo aveva aperto l’altra imposta ed era sceso, allungando una mano verso di loro. “La stai porgendo a me o a lei?” lo aveva spietatamente preso in giro la sua amante, “Ah, chi la vuole?” aveva risposto lui imbarazzato e Vasilissa aveva preso quella mano e si era fatta aiutare per toccare il pavimento coperto di paglia.
“Eccovi, finalmente!” aveva squittito una voce, apparendo al loro fianco, era l’altra Anya, vestita con un sarafan porpora con disegni d’oro. Aveva i capelli raccolti in una treccia stretta in una crocchia.
“Ohh, il tuo vestito ha molti pizzi!” aveva esclamato poi, osservando Anya. “Sì, aiutate a togliermi questa cosa immonda” aveva pianto la ragazza.
Cignaz aveva fatto la sua comparsa, “Sei in ritardo!” aveva rimproverato Vasilissa come se fosse stata colpa sua, “Non potevo fuggire a caso” si era lamentata mentre cominciava ad armeggiare con l’abito d’oro per farlo scivolare via e rivelare che sotto aveva indossato il vestito argento-viola che Genya aveva fatto commissionare per lei, dal taglio liscio e pulito, che metteva in mostra tutte le piccole pieghe del suo corpo.
“Oh!” aveva esclamato il giovane Fjerdiano, quando si era accorto che Anya invece non indossava null’altro sotto se non una vestaglia intima di raso, con le spalle sottili, lunga fino alle cosce. Che lasciava scoperte la pelle nuda delle braccia e delle gambe – che dovevano davvero turbato il giovane Fjerdiano – e esponendo il ventre leggermente fiorente.
Lissa le aveva lanciato l’abito in foglia d’oro, “Non ci ho rovesciato nulla sopra” le aveva detto, “Un miracolo, dopo quel borsch assassino” aveva risposto Anya, mentre si impegnava ad infilare l’abito da sopra.
“Qui ho le corone di fiori” aveva detto Cignez, “Rose e calle per la sposa e peonie e che-cazzo-ne-so- per voi” aveva detto, dando una coroncina a Vasilissa e una alla Piccola Anya. “Ne hai una anche per me?” aveva chiesto la donna fjerdiana.
“Saresti?” aveva chiesto Cignez confuso, “Samila!” aveva risposto schietta l’altra, “Be, sì Samila, quella povera anima di Natasha ha passato ogni momento che non lavava pavimenti ad intrecciare fiori, quindi sì” aveva risposto dandola una piccola coroncina.
“Dove gli avete trovati questi due?” aveva indagato l’uomo, assottigliando lo sguardo, “Cosa vuoi che ti dica?” aveva chiesto retorica, “Sì sono infilati nella carrozza e abbiamo decisi di portarli con noi” aveva risposto.
Anya si era infilata l’abito d’oro che le avevano fatto fare. Le lasciava le spalle scoperte, con le maniche leggermente bombate nella parte alta e lisce, strette e dritti fino ai polsi. Lo scollo era a barca e prominente, fermato sotto il seno da una fila di perle, da cui poi scendeva un abito liscio e lungo, tutto d’oro, decorato con ricambi floreali in oro bianco. Il vestito non accentuava, ne nascondeva la morbidezza del seno, ma si stendeva bene su di lei, restituendo l’immagine di una splendida donna piena di vita. Su di lei, l’effetto era completamente opposto a quello che aveva fatto su Vasilissa.
“Bellissima” si era rivelata la Piccola Anya e Samila era stata concorde.
“Dove lo hai trovato?” aveva chiesto Cignaz colpito, “Viene dall’armadio di sua altezza la principessa Alina e poi ci ha messo mano una ragazzina grisha materialki, Caitlyn se non sbaglio” aveva considerato.
Cignaz aveva sospirato: “Buon sangue non mente” aveva scherzato anche se Lissa non era sicura di sapere a cosa stesse facendo riferimento.
“Qualcuno può acconciarmi i capelli?” aveva chiesto.
Prima che la Piccola Anya e Vasilissa si porgessero, Samila si era già lanciata per intrecciarle i capelli alla maniera delle donne Fjerdiane, con due trecce spesse che si erano poi intrecciate in due file sulle teste, dando un aspetto ordinato e semplice. “Ecco la tua corona” aveva dichiarato Cignez mettendola sul capo.
“Adesso andiamo, prima che padre Igor si spazientisca” si era imposto Anatov, ottenendo una gomitata piuttosto perentoria dalla sua fidanzata, che era piccola e secca, ma ben audace.
Anya Karkoff era bellissima, ma il panico era visibile nei suoi occhi scuri, “Yusuf?” aveva chiesto poi, “Dove pensi che sia, sta già in cappella” aveva risposto Anatov, passandosi una mano sul braccio dove era stato colpito. “Qualcuno dovrà accompagnarmi fino all’altare” aveva piagnucolato Anya, “Mio padre non potrà” aveva detto melanconica.
“Oh, ci penso io” le aveva detto Vasilissa, prendendola sottobraccio, “Ricordati quello che mi hai detto” le aveva detto con gentilezza, cercando di apparire quanto più rassicurante.

Avevano lasciato le scuderie in gruppo, fino a raggiungere la cappella palaziale, evitando i corridoi principale. “Djel, che divertente” aveva sentito Samila ghignare verso il suo amico-amante, “E tu che eri contraria” aveva risposto lui, “Penso ancora sia una mezza follia” aveva replicato l’altra.
Quando lei e Anya avevano passato l’ingresso della cappella, seguiti dal loro codazzo improvvisato, erano stati accolti da un coro scarno di fiati e dalla luce di tre piccole sfere, che gettavano le vetrate colorate e le pareti musive in tinte così sinistre, da risultare quasi intriganti.
Vasilissa si era persa nei dettagli di luci ed ombre quasi perdendo di vista gli avventori della celebrazione – c’erano ambedue i genitori di Lissa, Marija e gli altri servi, anche qualche sconosciuto – rapita da quell’atmosfera.
“Guardalo, come è bello” aveva sussurrato Anya al suo fianco, Lissa aveva voltato lo sguardo e, di fianco ad Igor, vestito di un blu profondo, decorato in oro, appariva un giovane Yusuf come mai Lissa lo aveva visto. Era fiero e bellissimo, con i capelli scuri tirati all’indietro con la brillantina, la giacca a due code, sopra la redingote, i calzoni bianchi infilati negli stivali lucidi e gli occhi più luminosi ed il sorriso più affascinante del mondo. “Conosco Yusuf da quando eravamo abbastanza grandi per gattonare e, i sankti lo sanno, non lo ho mai visto così splendido” le aveva confermato.
“Ogni paura, ogni angoscia che avevo fino ad ora, muore qui, su quel sorriso” aveva ammesso Anya e Lissa aveva sentito chiaramente la differenza, non era più un appiglio, un sostentamento, ma un mero cimelio. Era lì perché serviva un accompagnatore, ma non per accompagnare.
Avevano fatto le ultime falcate della piccola cappella accompagnati dai fiati e dagli applausi.
Perfino lo ieratico padre Igor stava sorridendo – o una smorfia che vi somigliava.
“Sei bellissima” aveva sussurrato Yusuf quando Lissa aveva preso posto al suo fianco, dopo essersi sciolto dalla presa di Vasilissa, “Tu di più” aveva risposto lei.
Lissa si era allontanata ma Anya l’aveva richiamata indietro per essere da testimone, affrontata a Boris, un ragazzo delle cucine dal sorriso svelto che conoscevano da anni.
“Lissa se vuoi un cavaliere di questo rango … per l’ultima volta” le aveva sussurrato lui. “Bo, oggi, domani e il giorno dopo ancora” aveva risposto lei, strizzando un occhio.
Padre Igor l’aveva guardata e lei aveva ricambiato uno sguardo con un sorriso furbetto. L’uomo aveva sospirato sconfitto – si era dovuto arrendere che Vasilissa non era evidentemente la sposa.
“Oggi siamo qui riuniti per unire questo uomo e questa donna nella più sacra delle unioni” aveva parlato padre Igor, mettendo a tacere il brusio delle chiacchiere e i fiati stonati e quando le sue parole avevano lasciato che i piccoli soli brillassero ancora di più, quasi fosse sorto il sole nella stanza.

 

“Mangeremo ancora, dopo tutte quelle portate?” aveva chiesto l’uomo fjerdiano, “Loro non hanno mangiato ed un matrimonio senza cibo porta male” aveva risposto Vasilissa, “Inoltre, lo ho detto: bere prima, dopo e durante” le aveva terminato.
Dopo la funzione che era stata corta e coincisa – padre Igor aveva fatto pronunciare loro praticamente solo i fantomatici sì, fatto un reprimendo molto breve ed asettico, fatto scambiare un bacio e messo due firme, saltando eventuali interferenze, promesse e parabole d’amore – si erano spostati tutti nel cortile interno della basilichetta, davanti la statua delle Tre Donne Senza Volto[5].
Cignaz aveva fatto imbandire un banchetto pieno di cibarie e bevande, erano leccornie molto meno preziose e pregiate di quelle della palude d’oro, sia per finezza di cibo, che bontà che numero, dopo tutta quell’opulenza – di cui Lissa aveva potuto saggiare – sembrava molto povero, ma lei sapeva quanto fosse in realtà.
“Io voglio sapere perché questa ossessione per acciughe, aringhe e alici” aveva scherzato il Fjerdiano, “Perché sono buone?” aveva riso Vasilissa, mentre si riempiva un bel bicchiere di Kvass, “Latte d’asina?” aveva chiesto. Il ragazzo aveva sorriso, “Non lo ho mai bevuto, quindi, perché no?” aveva chiesto retorico. “Fa molto bene, ha molti nutrienti e sembra creare meno problemi. Inoltre, aiuta con le rughe … pensa che: Anastaja Smirnova la moglie morganatica di Yevgeni I, usava viaggiare con un corteo di asine ovunque andasse, perché potesse avere latte fresco in cui fare il bagno[6]” aveva raccontato di getto, gettando giù un po’ di kvas nella gola, rispetto al brady e la vodka, era più morbida, dolce e quasi refrigerante. “Sai un sacco di buffi fatti storici” aveva considerato il fjerdiano, mentre saggiava con le labbra piene il latte d’asina, “La principessa Alina ama molto la storia, l’arte e la cultura, io ho appreso per … conseguenza” aveva scherzato Vasilissa, “Ma solo le cose stupide” aveva ammesso.
“Gli aneddoti danno molto colore alle conversazioni, a me mancano sempre quando ne avrei bisogno” aveva raccontato il ragazzo. “Posso darle tutti gli aneddoti che vuole” aveva scherzato con estremo divertimento, mentre si costringeva a non cedere davanti una pastarella.
“Va bene, dimmi qualsiasi cosa …” aveva dichiarato l’uomo, guardandola con divertimento. Vasilissa si era morsa un labbro, pensandoci, “Dammi un secondo …” aveva considerato, “Lo ho!” aveva ammesso. “Bene, quando Stanislao Petrovich divenne l’Apparat Iob II la sua elezione fu molto osteggiata dal suo principale rivale, quel che sarebbe divenuto successivamente l’Apparat Ivan IV, egli, ancora sacerdote, si nascondeva nell’intercapedini del muro della Cappella Bianca e sussurrava la note, nelle orecchie di Iob II di essere un ape mandata da Sankta Elizaveta per raccontargli che ciò che lo attendeva non era una vita di sfarzi, ma che era destinato alla grandezza dei Sankti[7]” aveva detto alla fine, “Qualcosa come trecento-dieci anni fa.”
Il ragazzo aveva schiuso le labbra, insozzate di latte, “Oh” aveva ammesso, “E ci è riuscito?” aveva chiesto. “Direi di sì, visto che l’Apparat Iob ha smesso le vesti sacre, ha indossato il saio ed ha deciso di vivere in un eremo nelle montagne del nord e Gregory Tolostoij è diventato Ivan IV” aveva risposto lei. “Affascinante” aveva riconosciuto il ragazzo, “Ora che ci penso, quale è il nome dell’attuale Apparat?” aveva chiesto. “Oh, tecnicamente lui è Vladim XI e il suo vero nome è davvero Vladim, Vladim Ozwal” aveva spiegato Lissa, “Non lo ha cambiato perché, a suo dire – lo so da prima fonte, diciamo – aveva già un nome molto religioso e quello era il nome con cui aveva giurato a Sankta Alina e quello è il nome con cui morirà e sarà noto” aveva risposto.
Era rimasta per un momento in silenzio, continuava a sembrarle ancora assurdo immaginare che Apparat Vladim, un uomo vero fatto di carne e sangue, aveva conosciuto dal vero una sankta. Tecnicamente anche Vasilissa lo aveva fatto, aveva incontrato Adrik l’Asimetrico e Leoni delle Acque, e soprattutto conosceva una Sankta kto zhivet[8], una santa vivente, che era anche un drago, ma Alina Starkov sembrava leggendaria, anche più di Zoya … una donna capace di far sorgere il sole nel buio oscuro, una creatura che aveva ridefinito i confini e la vita di Ravka. “Mi chiedo come dovesse essere lei … Sankta Alina” aveva parlato il ragazzo, recuperando un po’ di insalata di cetrioli, “Una parte di me vuole risponderti: bellissima, ovviamente, ma l’altra: potente” aveva ammesso.
“Chissà chi l’avrebbe spuntata tra Sankta Alina e Senje Zoya” aveva sospirato l’uomo, grattandosi dietro l’orecchio.
“La tsarina, ovviamente” aveva risposto Vasilissa, per lei non c’era dubbio. Alina Starkov sembrava un’idea e la regina Zoya una creatura molto, molto, più consistente.
Lui aveva ridacchiato, “Ovviamente” aveva ammesso. Poi era sceso un silenzio semi-placido, “Uhm … ti andrebbe di ballare? Mi sembrano passi decisamente diversi da quelli dell’altra festa e io non so ballare, ma vorrei provarci” aveva ammesso leggermente nervoso lui.
Vasilissa aveva battuto gli occhi, “Io?” aveva chiesto, il ragazzo si era guardato intorno spaesato, non c’erano altre persone, “Uhm … Dimenticalo” aveva scongiurato. “No, no, balliamo, mi piacerebbe … solo che è un ballo molto più frenetico di quel che sembra” aveva tentato di giustificarsi, “Inoltre la tua dama potrebbe risentirsi?” aveva provato. “La mia dama?” aveva chiesto quello stupito, “Samila” aveva ammiccato lei, “Quella che sta facendo saltelli e tirando ginocchiate al vento, mentre gira, a braccetto con un perfetto sconosciuto?” aveva proposto lui, ammiccando alla ragazza.
Samila con i ricciolini sciolti stava ballando e cantando con Mikhail che lavorava in cucina, con la madre di Vasilissa. “Immagino che no, non se ne risentirà” aveva considerato.
“Per la cronaca, Samila … non è la mia dama. Lo era per la festa, sì, ma non lo è in generale” aveva cercato di spiegare goffamente.  “Ah, pensavo che i fjerdiani non potessero neanche guardarla una donna, non di famiglia troppo a lungo …” aveva scherzato lei, “Potrei dirti che sono inutili stereotipi, ma è tragicamente vero, Samila è di famiglia, comunque” aveva aggiunto, “E mia madre è Ravkiana” aveva rivelato.
Lissa aveva riso, “Inaspettato” aveva considerato, “Niente smuove i sentimenti come una guerra di confine” aveva scherzato lui, ma era rosso in viso per tutta quell’audacia.

Vasilissa lo aveva guidato verso il centro del chiostro, dove alcune persone avevano smesso di saltellare e sgambettare per raccogliersi in cerchio davanti le Tre Donne. Aveva cercato con gli occhi i suoi genitori ma se li conosceva bene, si erano già ritirati, il suo vecchio padre era un po’ misantropo e non apprezzava molto le feste e sua madre preferiva coricarsi presto, per essere attiva al meglio nel mattino.
“Stiamo per praticare lo Yokhor” aveva spiegato Vasilissa, rivolgendosi al Fjerdiano e prendendo per mano; nonostante il suo sangue ravikiano, la sua origine fjerdiana aveva tradito la sua sicurezza, con un rossore adorabile sulle guance.
“Ci si tiene tutti per mano, in cerchio. È possibile muoversi solo a sinistra e destra, come il sole. Sì, è una danza dedicata al sole, ti direi come tutto in questi giorni, ma in effetti esiste da prima di Sankt Alina. Probabilmente era una richiesta al sole di salvarli dalla Faglia. E poi non puoi neanche fare un passo indietro, perché solo i malakhi lo fanno[9]” aveva cominciato a spiegare pragmatica.
“Va bene” aveva considerato lui, ma c’era confusione sul suo viso, “Non ci si tiene sempre per mano, adesso vedrai perché” aveva spiegato Vasilissa, “Uno di noi canterà, probabilmente Cignaz ha una bella voce e noi dovremmo ballare, fare il cavallo con le gambe e con le mani gli uccelli” aveva spiegato divertita, “E come si farebbe?” aveva chiesto lui con la preoccupazione dipinta in viso. “Citerò le sagge parole di Tatiana Dubrinov: je mot met de stroom megan[10]” aveva ripetuto, era kerchiano ma non era sicura di aver imitato bene l’accento che usava sempre quella. Lo masticava un po’ ma non era una lingua argentina. “Je mut met de stroom mehan” aveva considerato il fjerdiano, il suo accento era rimasto quello delle ruvide terre del nord, ma la pronuncia sembrava somigliare di più a quella di Tatiana. “Segui il flusso” aveva spiegato Vasilissa, “Segui il flusso” aveva ripetuto lui. Quasi estasiato.

 

“Sono un ballerino davvero mediocre” aveva riso il ragazzo, collassando sul pavimento di marmo del chiostro, con le guance arrossate dalla fatica e i capelli biondo paglierino sconvolti e arruffati. “Mediocre? Ti stai sopravvalutando, ragazzo, sei pessimo” aveva riso Cignaz, scivolando al suo fianco. Aveva tolto la giacca bianca con i finimenti d’oro, rimanendo in camicia, con le ascelle pezzate dal sudore. “Ei!” si era difeso il ragazzo senza vergogne. Vasilissa aveva allungato verso entrambi due bicchieri colmi di ippocrasso. “Non so se posso ancora bere” aveva scherzato lui, “Penso ci sia più miele che vino” aveva scherzato lei.
Il ragazzo si era sporto per prendere il bicchiere, con un sorriso un po’ malandrino e le guance leggermente arrossate, “Sono confuso da questo paese. Sembra che bere sia la soluzione a tutti i problemi” aveva ridacchiato, “Oh, no, ragazzo, non sembra … lo è” aveva riso Cignaz, assaporando il suo vino alle erbe. “Mi chiedo come facciate a non bere a Fjerda, con il clima che avete” aveva ammesso invece lei, che voleva sedersi al suo fianco, “Io avrei sempre le palle gelate.” Il ragazzo fatto una smorfia, prima di prendere un sorso, “Non so spiegarlo, è un freddo diverso” aveva detto, “Ti punge il fiato e ti brucia i polmoni, ma è anche rinvigorente?” aveva chiesto.
“Decisamente troppo poco ubriaco” aveva sottolineato Cignaz, facendo ridere Vasilissa.
“Decisamente” aveva concesso l’interpellato, portandosi il bicchiere ancora alla bocca. “Vuoi un non-aneddoto carino?” aveva chiesto lui, revocando quella conversazione ormai sepolta da ore, “Certo” aveva risposto lei. “Quando ci si sposa a Fjerda, la sposa non può toccare il pavimento dal ‘Vi dichiaro marito e moglie’ fino al primo ballo[11]” aveva scherzato. “Non lo sapevo, no” aveva considerato Vasilissa, “Il povero sposo se la deve portare in braccio?” aveva chiesto Cignaz divertito, “Sì … e Gustav Kempt, quinto conte di Utla, trecento ottantotto anni fa, si è fatto il matrimonio tenendo la sua sposa come un sacco di patate. Probabilmente non è stato il primo, né l’ultimo, ma alla Corte di Ghiaccio, c’è un quadro grande come una parete di quella scena. Inspiegabilmente la regina Henrikke lo trovava sublime.”
Lei aveva riso, “E se la sposa pesa più dello sposo?” aveva chiesto intrigata, “Metà delle donne Fjerdiane sono cavalle, quindi, succede abbastanza spesso … in quel caso, be, ho sentito di un carretto speciale” aveva detto senza vergogna ne grazia. “Che popolo di babik” aveva esclamato Cignaz.
“Però è sempre bello dai” aveva provato Lissa, “Ovviamente, adoro i matrimoni. Stavo per sposarmi anche io, due volte … anche se una avevo tredici anni, non credo conti” aveva cominciato a raccontare, il Fjerdiano era sembrato interessato, “Sì, con la stessa ragazza per giunta. Ma, ahimè, io ora bevo qui in un chiostro di una chiesa triste e solo e lei ha sposato un altro uomo” aveva ridacchiato, nonostante il tono melodrammatico, non sembrava poi troppo amareggiato, “E la parte divertente? Non è quello per cui mi ha lasciato!”
“Ah no?” aveva chiesto il ragazzo, “La prima volta eravamo troppo giovani e la seconda troppo cambiati” aveva detto nostalgico e melanconico Cignaz.
Lissa non era intervenuta, poiché aveva sentito qualcuno prenderle una mano, si era voltata per incontrare lo sguardo di Yusuf, “Ecco lo sposo!” aveva riso.
L’altro si era sbilanciato e l’aveva abbracciata stretto e viscerale, “Grazie di tutto, Vasil’ka” aveva sussurrato lui nel suo orecchio, “Lo sai che nessuno mi chiama più così” aveva ridacchiato lei, ricordando quel vecchio soprannome infantile. “Io ti chiamo come voglio, amica mia, specie sta sera” aveva aggiunto sciogliendo la presa. C’era melanconia nella sua voce, “Ma che cosa hai questa sera? È festa!” lo aveva preso in giro. “Lo so, è il mio matrimonio” aveva concordato, “Però Anya’ka non potrà rimanere qui a subire l’ira dei suoi genitori e la vendetta dei Semyon. Ho un cugino a sud che mi ha offerto un lavoro. Onestamente non so cosa possa fare un tuttofare da palazzo e la figlia di un mercante che non sa mercanteggiare, non so che potremmo combinare ma … sarà un’avventura” aveva ammesso.
“Lei è incinta” aveva considerato Vasilissa, tirandole un buffetto sulla spalla, “Sì e non può restare qui” aveva considerato lui.
Vasilissa aveva sentito le labbra e la bocca secca, “Sankti, Yusuf … tu stai andando via” aveva soffiato, sconvolta, portando poi una mano alla bocca. “Sì, amica mia. Non sarà per sempre, ma forse molto a lungo. Però non è un addio, che lo sappiano tutti i Sankti, Baronetta Vasil’ka” aveva detto, abbracciandola ancora. E Lissa aveva ricambiato la stretta cercando di fossilizzare ogni dettaglio, quale era l’odore del suo amico, la forma del suo corpo, la consistenza dei capelli brillantati, che graffiavano la sua guancia. Aveva chiuso le labbra e sentito quel tremore incontrollato, che sapeva precedere un pianto folle, ma si era ordinata di non cedere, perché era un giorno di festa.
Yusuf si era sciolto, “Per me nessuno strampalato addio? Sono il primo uomo ad averti fatto bere una birra” aveva detto Cignaz, sollevandosi, per essere accolto da un abbraccio amichevole e fraterno.
Lissa stava per scivolare per terra, ma il Fjerdiano si era alzato per prenderla, “Facciamo due passi?” aveva chiesto con gentilezza.

Lissa lo aveva portato nel Giardino della Regina perché, quando i nobili erano altrove, era un posto piuttosto tranquillo; la servitù e le guardie fuori servizio ci andavano di rado, ma per Lissa era bellissimo e comprendeva perché la principessa ci avesse portato il principe di Fjerda per una gita.
“Vuoi parlarne?” aveva chiesto il ragazzo.
“Yusuf è … non lo so! Siamo cresciuti assieme, due fiori nello stesso vaso” aveva detto, “E oggi si è sposato, sarà padre e domani non sarà più qui. Non mangeremo più di nascosto i dolci rubati da Mikahil e mia madre, non lo sentirò più intonare Il Povero Deimiov, mentre spazza i pavimenti e non passeremo più il tempo nascosti in lavanderia per evitare le incombenze” aveva raccolto ogni pensiero, ma altri mille erano fioriti. La principessa Alina era la sua migliore amica, ma Yusuf era stata una parte importante di tutta la sua vita.
“Vorrei dirti che so cosa provi, ma non è così” aveva ammesso onesto il ragazzo, “Però pensa positivo: non è morto, potrai rivederlo, lo vedrai con uno o due bambini e probabilmente ricorderete con gioia quando facevate i lavativi bevendo un tè e vi racconterete altre mille storie nuove” aveva provato lui.
“Come quella in cui ho fatto una passeggiata al chiaro di Luna nel Giardino della Regina con un audace giovane Fjerdiano, conosciuto ad una festa?” aveva proposto lei.
“Sicuramente è una storia che io racconterò” aveva ammesso lui, “Anche tu hai conosciuto un audace giovane Fjerdiano?” aveva preso in giro Lissa. Lui era rimasto di sale per un secondo, prima di scoppiare a ridere nella maniera più bella e genuina che Lissa avesse mai sentito. “Mi hai scoperto, sì. Era assai più bello e affascinante di me” aveva ridacchiato lui, “Ma scommetto non aveva queste fossette” aveva detto lei pigiando un dito sulla guancia di lui, proprio dove si formavano le adorabili fossette quando sorrideva. “Non aveva neanche degli occhi luminosi come i tuoi” aveva detto quello, pieno di imbarazzo.
“Ho gli occhi marroni” aveva ammesso lei, quasi divertita, “Eppure sono luminosi” aveva insistito lui, “Posso essere onesto: sono stato educato alla poesia, ma apparate i salmi di Djel faccio abbastanza pena” aveva riso, “Bene, perché io non sono una poetessa e ne la capisco” aveva soffiato.
Il ragazzo era più alto di lei e Lissa sapeva sarebbe stato d’uopo sollevarsi sulle punte, ma aveva spostato la mano dalla guancia per posizionarla dietro la nuca e tirarlo giù, perché le loro labbra si trovassero alla sua altezza. E lui l’aveva seguita.
Ed era stato bello.
Anche se era stato incerto, veloce, innocente … e non aveva fame, né brutalità. Erano due esistenze che collidevano in un solo punto in un solo bacio.
“Troppo audace?” aveva chiesto, allontanandosi poi, “Sei la seconda persona che bacio nella mia vita e la prima mi ha riso in faccia” aveva ammesso imbarazzato lui, “Anche tu” aveva ammesso Vasilissa, “E lui era uno stronzo” aveva buttato fuori senza vergogna, ne remore, pensando a Viktor Semyon e alla faccia che avrebbe avuto l’indomani quando avrebbe saputo di non avere più fidanzata ne amante.
Il Fjerdiano si era chinato di nuovo per baciarla ancora, con più energia e passione, non fame animale, ma delicato e rispettoso, era stata Lissa ad aggiungere la voracità che improvvisamente sentiva cavalcarli nello stomaco. Il ragazzo le aveva messo una mano sulla vita, una era scivolata sulla schiena, poi era tornata indietro, poi avevano allontanato i suoi fianchi, poi sfiorato ancora. “Cosa fai?” aveva chiesto lei, sciogliendo la loro unione, “A Fjerda non baci nessuno che non sia tua moglie e solo dopo il ‘Sì lo voglio’” aveva ammesso pieno di imbarazzo lui.
“A Ravka sì, ti spiego bene io … sei, comunque, sulla buona strada” aveva soffiato lei, sorridendo, facendolo ridere. “Ho appena realizzato che non so il tuo nome” aveva ammesso poi.
Lui era diventato rosso di imbarazzo, come un peperone, “Oh … che cosa strana. Mi-mi chiamo … Joran” aveva detto.
“Joran … Joran … suona bene. Molto melodico” aveva concesso lei. “Mai quanto Vasilissa …” aveva detto lui, perfino nel suo rude accento del settentrione, il nome di Lissa sembrava una poesia.
Joran e Vasilissa … suonava decisamente meglio del troppo allitterativo Viktor e Vasilissa.
“Vu-vuoi farmi vedere il tuo fiore preferito?” aveva chiesto poi Joran, allontanandosi. Vasilissa aveva ridacchiato, quasi divertita, “Di notte?” aveva chiesto, “Non credo si veda molto.”
Joran aveva fatto una smorfia, “Non so perché immaginavo che il Giardino della Regina non tenesse conto del giorno e della notte” aveva ammesso. “Questo è il Palazzo di una Sankta, ma non è la corte dei Miracoli … ma forse c’è qualcosa” aveva considerato lei.

“Questa è una Regina della Notte” aveva dichiarato Vasilissa indicando il fiore con i petali bianchi davanti a lei, aveva un odore forte e intenso, quasi stordente, “Sembra un nome da postribolo” aveva ammesso Joran con divertimento, “Un po’ sì” aveva ammesso Vasilissa, ispirando bene. “Non chiedermi che tipo di fiore è, né chi rappresenta – non so se lo sai: ogni fiore rappresenta qualcuno, di vivo o di morto” aveva spiegato, non pensava fosse un segreto. “Neanche io so niente di fiori, ma questi hanno davvero un buon odore. Potrei ubriacarmici” aveva ammesso, “Perché non lo sei già?” aveva chiesto. “Te lo ho detto ho sangue ravkiano” aveva scherzato lui, strappando un fiore dalla pianta, “Non ho appena commesso furto alla corona, vero?” aveva chiesto poi.
“Sì, esatto; praticamente è come se avessi rubato lo smeraldo dei Lanstov” aveva replicato Vasilissa, ma Joran non si era fermato ed aveva infilato il fiore dietro il suo orecchio. “Sei un bravo seduttore, Joran” aveva ammesso lei poi.
“Sì, Joran è un bravo seduttore” aveva ripetuto lui, sembrava così strano come lo avesse pronunciato.
Vasilissa aveva intercettato la sua mano ed aveva stretto le dita di lui, aveva un palmo morbido, senza calli, lui aveva ricambiato la stretta ed aveva portato le dita alla bocca per un bacio delicato. “Non riesco a pensare alla ragazza che ti ha riso in faccia” aveva ammesso lei, “Come ti ho detto: sangue Ravkiano sì, ma sono un Fjerdiano a parte mia madre e Samila non ho parlato con molte donne, figuriamoci amoreggiarci” aveva ammesso pieno di imbarazzo.
Vasilissa era deliziata da quello, dal rossore così ingenuo sulle sue guance che cozzava con quei suoi modi così raffinati. “Immagino tu non abbia neanche fatto l’amore al chiaro di luna, sull’erba bagnata” aveva considerato lei. Joran era diventato così rosso da sembrare pronto per la spremitura, “Non ho neanche fatto l’amore, in generale” aveva detto lui. “So che voi fjerdiani pensate che noi Ravkiani siamo un po’ libertine, lo siamo, ma non sono particolarmente esperta neanche io” aveva ammesso Vasilissa con leggero imbarazzo, “Praticamente solo due volte e con la stessa persona … e una delle volte non è stata neanche particolarmente bella” aveva ammesso, dandosi della stupida.
Joran le teneva ancora una mano, “Potremmo stenderci sull’erba e guardare le stelle” aveva proposto Joran, “E raccontarci cose strane, come: quale è la tua figura retorica preferita” aveva proposto lui. “Hai una figura retorica preferita?” aveva chiesto Vasilissa alzando un soprannome. “Non so perché ma il mio ist-insegnante mi aveva convinto che tutti ne avessero una” aveva ridacchiato lui.
“Va bene, quale è la tua figura retorica preferita?” lo aveva provocato lei. “La sineddoche …una parte per il tutto” aveva detto lui, “Voglio stringere la tua carne, per dire che voglio stringere te” aveva ammesso lui. “Suona proprio male, dovresti dedicarti ai salmi” lo aveva spietatamente preso in giro lei.
“Ho detto di non essere un poeta” si era difeso Joran, con una risata bella, “Tocca a te” le aveva detto-Vasilissa ci aveva pensato un lungo momento, non aveva mai dovuto pensare a qualcosa di così specifico, “Non so i nomi, quella dei contrari … sai: dolce ardore?” aveva proposto.
Erano scivolati nell’erba e lissa aveva sentito la stoffa bagnarsi d’umidità. “Mi sento chiamato in causa” aveva ridacchiato lui, allungando una mano per accarezzarle il viso. “Forse un po’” l’aveva preso in gira lei, “Va bene, ora tocca a te una confessione strana” aveva bisbigliato lui, con una mezza risata.
Vasilissa aveva sospirato piena e felice, “Un cibo del tuo paese che ti farebbe guadagnare l’esilio se ammettessi di odiarlo” aveva proposto poi, “Per esempio: odio gli zefir, quando li mangio ho l’impressione di masticare un’ostrica. Odio anche le ostriche, per la cronaca” aveva ammesso.
“Visto che ora sei la baronetta delle ostriche, penso che questo potrebbe essere un problema” aveva ridacchiato Joran, “Puoi mangiarle tu per me” aveva buttato fuori. “Lo farei volentieri” aveva ammesso lui, “Per me il Kalakukko, dentro c’è di tutto e alla fine non ti godi niente” aveva risposto lui, mentre distoglieva lo sguardo da lei per rivolgerlo alla volta celeste.
“Mi piace il cielo qui, ma dovresti vedere come è bella l’aurora da Knust” aveva ammesso calmo, chiudendo le mani sul suo petto. “Il colore del cielo diventa splendido e … sembra davvero che che si apra una strada nel firmamento, la manifestazione vivente dei rami dell’albero di Djel a nudo occhio … e puoi sentire questi sussurri, che sembrano davvero i senje che ti parlano” aveva confessato.
Sembrava meraviglioso.
 “Io … la cosa più bella che ho visto è stato l’alba dall’Arcolaio – l’anno scorso sono stata lì con la principessa Alina. Mi ha tolto il fiato, più la salita sui cento gradini, ma anche la vista” aveva ammesso. “Pensavo che l’Arcolaio fosse stato distrutto durante la guerra civile” aveva considerato lui, “Lo è stato sì” aveva ammesso lei, “Ma le rovine sono notevoli da guardare tanto quanto l’opera originale, credo” aveva ammesso Vasilissa, “O così aveva detto Alina” aveva ammesso.
Erano andate lei, due guardie, il principe Dominik, la principessa Alina, Sankta Leoni e Meesha Effimov. “Tu e la principessa Alina siete molto legate, vero? Non prenderla male, ma come …?” aveva provato lui. Vasilissa aveva sorriso, “Hai mai sentito parlare della figura del ragazzo delle frustrate?” aveva indagato lei. “Sì, lo avevano nel Dresden. Un ragazzino che si prendeva le scudisciate al posto dell’erede che non poteva essere educato da nessuno che non fosse il re[12]” aveva risposto lui celere.
“Sì. L’ultimo ragazzino delle frustrate è stato Vodyak Torts, il figlio di un allevatore di maiali che è poi finito come maggiordomo di corte qualcosa come duecento anni fa? Questo fino a Dominik Vertov[13] … che era il compagno di studi e ragazzo delle frustate del Re Nikolai” aveva ammesso. Tecnicamente anche la principessa Lilyiana aveva avuto la sua ragazza delle frustrate, la contessa Najima, ma era stata portata lì perché la principessa imparasse la cultura suli, inoltre la principessa Lilyiana aveva i grisha del Piccolo Palazzo che erano di nobile e di umile nascita, ravkiani e stranieri.
“Il Re doveva averlo proprio caro se ci ha chiamato il suo unico figlio maschio” aveva considerato Joran, “Doveva, credo, perché ha sempre spinto perché io e la principessa fossimo legate. Comunque, nessuno mi ha mai frustrato o picchiato al posto di lei, però di punizioni insieme ne abbiamo scontante tante, quelle sì” aveva raccontato.
Alina era troppo irruenta per delle vere amiche, faceva sempre di testa sua e non si tirava indietro davanti a nulla. Arguta e brillante. E spesso le sue compagne di giochi erano state figlie, sorelle e cugini di importanti uomini e donne politiche che si erano alternate come si alternavano le potenze nella corte. Solo Lissa rimaneva, all’inizio perché non aveva potuto dire di no – quale figlia di una cuoca avrebbe potuto dirlo al Frutto dell’Autunno? – e poi perché non aveva più voluto.
“Ci siamo sempre arrangiate bene, assieme” aveva ammesso, perché non aveva davvero una risposta a quella domanda.
Come era successo? Non importava, era successo. “Il … principe Matthias è una creatura così solitaria” aveva ammesso lugubre, “Non ha molti amici?” aveva chiesto stupita Vasilissa, “Mi sembra un uomo così a modo” aveva pensato.
Sempre gentile, sempre cortese e mai troppo ingombrante. Vasilissa aveva conosciuto uomini di grado molto più basso di lui atteggiarsi a gran signori e lui che avrebbe ereditato un regno così ingombrante sembrava sempre così posato.
Alina aveva detto lo avesse visto farsi aggiustare il viso dalla sartoria, aveva senso, il principe Matthias sembrava sempre così bello e posato, come un gioiello. “Ha solo la nobile Stiorra, per il resto è un uomo freddo dal cuore freddo” aveva sputato fuori, sentenzioso.
“Non è molto corretto parlare così del tuo principe” lo aveva rimproverato Vasilissa, aveva cercato il gioco nella sua voce ma non c’era riuscita, stimava troppo la principessa Alina, per pensare che qualcuno potesse rivolgersi a lei con lo stesso sprezzo che Joran aveva per il suo principe. “Morirei per lui e per la corona di Fjerda, questo non vuol dire che debba piacermi” si era difeso Joran, incolore.
“Immagino tu abbia ragione” aveva ammesso Vasilissa, sentendo leggero disagio, adorava Alina, e provava grande rispetto per la principessa Lilyiana e il principe Dominik.
“Mi piacerebbe andare nell’Agroverde, anche quello deve essere un lugo ameno da vedere” aveva considerato lui, cambiando argomento, “Lo è. Sul serio” aveva ammesso quello.
“Tu e la principessa avete fatto anche quello?” aveva indagato lui, “No. Sono andata con Yusuf e Anatov. Avevamo quindici anni. La principessa non mi ha rivolto la parola per le successive due settimane” aveva ridacchiato. Alina non aveva avuto il permesso, ci aveva provato su quello non pioveva, ma Toyla l’aveva recuperata non lontana da Os Alta.
“Potresti farmi da guida …” aveva proposto Joran.
Vasilissa aveva sospirato, “Interessante, passi da un bacio delicato ad una proposta di pellegrinaggio assieme … non si può dire che i Fjerdiani non siano intraprendenti” aveva ammesso. “Mettici davanti la religione e posso assicurarti che nulla ci fermerà mai” aveva riso Joran.
Lissa aveva sospirato e poi riso allegra, “Lo sai, no? Questo giardino è bellissimo, questo cielo e stupende e non so se è il kvas o la vodka a parlare ma tu sei la cosa più bella che c’è qui” aveva ammesso subito. Lissa era arrossita appena, “Primo: non sono una cosa; secondo: è sicuramente la vodka e terzo: non hai visto te, chiaramente” aveva detto. Lissa aveva allungato una mano ed aveva messo la mano sullo zigomo alto del ragazzo, prima di porgersi per un bacio lungo, calmo e delicato con l’uomo.
“Ti piaccio, davvero?” aveva chiesto, sembrava così fragile, così confuso.
“Perché non dovresti?” aveva miagolato lei, “Sei sicuramente bellissimo, se vuoi parlare della profondità della tua anima, forse quello dovrebbe essere rimandato al sorgere del sole e la sobrietà” aveva soffiato Vasilissa, prima di sporgersi e baciarlo ancora.
C’era qualcosa di dolce e delicato in lui, che cozzava con le esperienze nefaste di Vasilissa. C’era quell’ardore della fame, ma anche riverenza e timore.
E non sapeva perché, quel controllo, quella sensazione la infiammava più di ogni altro.
“Se fossimo a Fjerda, adesso dovremmo ritrovare quel prete e sposarci” aveva ridacchiato Joran, tra un bacio e l’altro, prima di prenderla per i fianchi, delicato, senza irruenza e issandola sul suo bacino.
“Che ne è stato dello stare stesi a guardare le stelle?” aveva chiesto sfacciata Vasilissa, che si era lasciata guidare dal movimento con un movimento lesto e feroce, “Non sei mai stata un uomo fjerdiano” aveva ridacchiato lui, sporgendosi in avanti per coglierla in un bacio, “E poi ripeto: sei più bella delle stelle” aveva aggiunto.
Vasilissa aveva assaggiato ancora quelle labbra, le aveva sentite schiudersi ed era andata oltre, in una stretta vorace e affamata, famelica e ferace. Per la prima volta, anche l’ardore contenuto del giovane Joran si era svegliato. Si era tirato sulla schiena, tenendo ancora Vasilissa sul suo grembo, mentre stringeva una mano sul fianco ed una vagava rude sulla schiena. Lei lo aveva arpionato al collo con le unghie e l’altra sulla guancia, nel tentativo di tenerlo stretto a lei.
Poi Vasilissa attenta, senza smettere di baciarlo, aveva fatto scivolare la mano dalla guancia, fino a scendere sulla spalla, sul petto, le dita sulla giacca rossa, pigiando, perché potesse sentire la pelle, prima di raggiungere il bottone più alto e farlo passare all’asola.
Aveva sentito il pomo dell’uomo muoversi, forse dal nervosismo, ma aveva stretto con vigore il suo fianco. “Non so se con tutto quello che ho bevuto … posso farcela” aveva ammesso imbarazzato lui, con fatica, le gote lentigginose rosse, quando Lissa si era allontanata dalle sue labbra – rosse e lucide – per far scivolare un altro bottone dall’asola. “Non dobbiamo fare niente” l’aveva rassicurata lei.
“Non hai idea di quanto io …” aveva replicato incerto, baciandola ancora, aveva fatto scivolare la mano dalla schiena di Vasilissa, fino al fianco e quella che era rimasta lì, era scesa fino alla coscia.
Lei aveva sbottonato tutti i bottoni ed aveva aiutato a sfilare la giacca rossa, lasciando scoperto con la camicia crema, che si tendeva svergognata, su un fisico asciutto.
Joran aveva infilato una mano sotto la gonna di Lissa, toccando le sue calze, sulle gambe, per risalire fino alle cosce. Le mani di Joran erano calde e roventi ed avevano fatto sentire Lissa piena di vita; però le sue dita tremavano, così come il suo respiro corto.
“Penso dovresti dirmi ora cosa devo fare?” aveva ammesso lui, pieno di vergogna.
Lissa aveva riso, “Prima di tutto respira” aveva detto.

 

“Oh, sankti, si sono addormentati qui all’aria aperta!”
Lissa aveva sentito quella voce come un eco lontano, appannata dal sonno e dal calore del corpo di Joran, quando era collassata, stremata dalla stanchezza e la vertigine, suo petto.
“Addormentati non è il termine che userei” aveva replicato una voce, era più pesante e grezza e tradiva un accento che non conosceva bene. “Non possiamo lasciarli qui, questa notte non scenderà la neve certo, ma è fredda e i loro vestimenti sono leggeri” aveva soffiato. “E sui loro freschi pensieri[14]” aveva risposto l’altro sarcastico, “Come scusa?” aveva chiesto la prima voce, “Lascia perdere. Non hanno vestimenti leggeri, li han persi quasi tutti …”
Una mano l’aveva scossa delicatamente sulla spalla, “Tesoro … Vasilissa, vero?” aveva chiesto gentile la prima voce. La voce non le era del tutto sconosciuta, ma neanche nota.
Vasilissa aveva schiuso le ciglia, ancora cotta dal sonno, riconoscendo a stento un’ombra. E fili d’argento.
“Sankta Alina?” aveva bisbigliato, riconoscendo il candore del crine, “Oh, sankti!” aveva risposto la voce, “Ragazzo sveglia anche tu” aveva detto gentile lei, “No, no, altri cinque minuti, mamma” aveva miagolato il ragazzo, scacciando senza vergogna la mano tesa.
“Lasciali lì” aveva replicato la seconda voce, era una voce maschile riconosceva Lissa, ma non vedeva la figura, lontana dal campo visivo e scura come la notte. “Non posso, non possiamo” aveva detto Sankta Alina.
“Vasilissa, cara, dovrete tornare nelle vostre stanze o andare al chiuso, il freddo potrebbe farvi ammalare” aveva spiegato con gentilezza la sankta.
“L’alcool percepire il fa percepire il freddo” aveva rimproverato ancora l’uomo, “Non so dove è la mia stanza” aveva piagnucolato Alina, aveva ricevuto la chiave dal re ma non le era stata detta la stanza. Sembrava così stupido.
Poteva tornare a dormire nei piani interrati, nel suo vecchio bugigattolo, accanto a quello di Marjia. “Puoi dormire nella mia tranquilla” aveva detto la donna, “E noi dove dormiremo?” aveva chiesto la voce maschile, “Oh, per favore! Ho delle stanze belle grandi, un pertugio dove dormire lo troveremo per tutti” aveva dichiarato la donna, “Adesso aiutami a sollevare il bel dormiglione” aveva dichiarato la donna. “Sei proprio una sankta!” aveva esclamato Lissa.
“Oh, bambina, riesci a stare in piedi, tu, sì?” aveva chiesto con gentilezza e Lissa aveva annuito, ma quando aveva provato a stare sulle sue gambe, aveva sentito le ginocchia di burro e quasi era caduta.
“Devo davvero aiutarti? Sono vecchio e scianco” si era lamentato l’uomo.
“Dai, dai, aiutami” lo aveva supplicato la donna, “Una buona azione per i sankti” aveva provato, “Divertente” era stata accolta da una risposta sarcastica.
Lissa, con le gambe ancora molli, aveva aiutato a sollevare Joran. “Sankta Alina?” aveva biascicato il fjerdiano, quando aveva aperto gli occhi blu, ancora intontito dal sonno e imperlato di sudore nonostante il freddo della notte del giardino.
“Sì” aveva ammesso la donna, “Per guidarti verso un letto.”
Lissa stava cominciano a mettere a fuoco meglio la donna. Era adulta, ma doveva essere grisha, perché la sua età era un mistero, aveva occhi scuri e capelli bianchi come la neve, non il candore della vecchiaia, ma qualcosa di diverso.
Sembrava davvero Sankta Alina.
La donna si era messa un braccio di Jordan sulle spalle, sorreggendolo bene e l’altro uomo aveva preso l’altro, “Meno male che la tua paranoia ci ha fatto passare di qui” aveva scherzato la donna, “Proprio la mia serata fortunata” si era lamentato l’uomo.
Lissa li aveva seguiti, incerta e un po’ sciocca.

Quando la lucidità era tornata, aveva riconosciuto il calore pieno di una coperta pesante che si affiancava alla sua sottoveste, con le cosce nude, fino alle calze al ginocchio. Indossava ancora i vestimenti intimi. Non aveva sentito nessuna umidità tra le sue gambe, né alcun dolore …Però aveva sentito la nausea della bile nella gola, dovuto all’avvelenamento da alcool.
Si era tirata su per sedersi, sentendo sotto di sé il materasso morbido, rivestito dalle lenzuola. Era stata adagiata sopra e poi coperta con una coperta di lana pesante.
E Joren era al suo fianco.
“Oh” aveva sussurrato, guardando il bel profilo dell’uomo, illuminato dalla luce delle imposte schiuse che permetteva ai raggi del sole di rischiarare la stanza.
Oltre al bellissimo uomo nel letto matrimoniale con lei, Lissa si era accorta come la camera fosse parecchio sontuosa, con la carta da parati con i decori floreali, così come gli angoli, broccati d’oro. Nella stanza erano presenti due divanetti, uno scrittoio, con vasi colmi d’acqua pieni di fiori. La camera era parte di ambienti più grandi – Lissa riconosceva l’unica porta presente, dalla doppia apertura e laccata di bianco, come una di quelle interne degli appuntamenti – ed era presente  anche una finestra a doppia facciata, che si affacciava su un balconcino, da cui si poteva spiare il Giardino della Regina.
Vasilissa si era alzata, un piccolo brivido di freddo l’aveva colta quando i palmi dei piedi nudi avevano toccato il marmo ghiacciato ed era saltellata fino al grosso tappeto decorato nel centro della stanza. Raffigurava un disco solare con raggi tesi e dritti, giallo-e-arancione su fondo blu.
“Buongiorno” aveva biascicato Joren, con la sua voce bassa e cavernosa, ancora toccato dalla sonnolenza. “Buongiorno”, aveva mormorato lei, mentre lo osservava sollevarsi. Indossava la camicia di lino crema, a cui mancavano un paio di bottoni, i suoi stivali erano ai piedi del letto. “Queste sono le tue stanze, signora delle ostriche?” aveva indagato divertito, mentre si guardava intorno.
Lissa aveva messo una mano sul suo petto, prima di infilare una mano nella scollatura per estrarre la sua chiave rivestita d’oro, “Direi di no” aveva detto. Non aveva idea di dove fossero, “Forse ho una nuova bella camera, ma di sicuro non questa” aveva ammesso.
Joran aveva ridacchiato, mentre si toglieva la coperta di dosso, rivelando i calzoni grigio chiaro sporchi d’erba e terra, “Mi gira la testa come una trottola” aveva ammesso poi vergognoso, mentre si stendeva sulle sue gambe. “Il Kvas non perdona neanche chi ha sangue ravkiano” aveva detto lei, camminando verso di lui.
Joran era più alto e più bello, anche con i capelli arricciati, sconvolti in ogni direzione e le occhiale violacee sotto gli occhi lucidi e stanchi. “Sì, mi sono accorto” aveva ammesso lui pieno di imbarazzo, “Ieri sera è stato molto bello” aveva ammesso lei.
“Non … ci sono riuscito” aveva rivelato impacciato. “Ci sono stati un considerevole numero di baci che sono sicuramente riusciti” aveva ammesso Lissa, “Ti bacerei anche ora, ma ho un fiato nefasto” aveva ammesso. “Io probabilmente potrei rischiare di rimettere sulle mie scarpe e sulle tue” aveva ammesso lui pieno di imbarazzo. “Oh, ma io non so dove sono le mie. Credo dovrò sfilare fino alle mie nuove stanze scalza” aveva riso. Joran aveva ridacchiato con lei.
Alla luce del vero sole le sue fossette erano più belle e la sua lentiggini rosa risaltavano con delizia sulla pelle pallida.
C’era stato un silenzio gentile che si era manifestato tra loro, che aveva fatto sentire Vasilissa bene, quasi appagata. “Questo è il momento in cui fuggi per evitare di essere accusato di diserzione” aveva proposto lei. “Tecnicamente non sono un membro dell’esercito, sono un membro della corte. Ho i miei doveri, quelli di un cortigiano si intende, ma sono comunque già in ritardo” aveva provato lui pieno di imbarazzo. “Oh, io dovrò scoprire quali sono i miei” aveva provato lei, passando le dita tra i capelli, la disavventura sull’erba gli aveva resi leggermente crespi e un po’ intrecciati, avevano perso la coroncina di corolle e anche il fiore che Joran aveva messo tra i suoi capelli. “Imparare a mangiare delle ostriche” aveva ridacchiato lui.
“Oh, sankti, no” aveva scherzato lei, incerta. Sentiva il silenzio pieno, morbido tra di loro, ma anche attanagliata dalla complicata sensazione che quando avessero lasciato quella piccola alcova, sarebbero stati perduti per sempre.
“Voglio rivederti” aveva ammesso alla fine, raschiando un coraggio che doveva essere ancora impuntato all’alcool nel suo corpo. Le labbra di Joran si erano schiuse in un’espressione stupita, prima che un rosso meno adorabile ma più frustrato e imbarazzo si manifestasse sulle gote lentigginose, “Io vorrei” aveva ammesso, ma quelle due uniche parole più che una promessa per il futuro sembravano presagire il contrario. Per un secondo Vasilissa aveva provato la sgradevole sensazione che Viktor le dava di ‘non abbastanza’ ma poi aveva letto meglio l’aria e non era quello, era altro.
“Sei promesso, vero?” aveva chiesto, senza accusa, i nobili si promettevano in nozze senza neanche essersi mai visti in faccia una volta, come era stato per Anya Karkoff e Viktor Semyon, “No. Non ancora, almeno” aveva ammesso, ma lo sarebbe stato. “Un bravo Fjerdiano e un bravo figlio, che rispetterà il volere dei suoi genitori e sposerà la sua virtuosa futura promessa” aveva considerato, avrebbe voluto che più cattiveria filtrasse dalle sue zanne, ma non era stato così. Era stata calma e anche comprensiva, poteva essere Vasilissa la baronetta delle perle ma era ancora Lissa. “Non ho mai desiderato essere di meno un bravo figlio e un bravo fjerdiano” aveva confessato, “E se mi fai questo dopo una notte, non oso immaginare cosa potresti farmi tra due notti o vent’anni” aveva scherzato.
Vasilissa aveva annuito, sentiva gli occhi liquidi, ma non avrebbe pianto, “Un ultimo bacio con cui tenerti caldo la notte?” aveva scherzato lei, “Non so se posso” aveva ammesso Joran.
Lissa si era sollevata sulle punte dei piedi e lo aveva baciato senza irruenza o fame, ma casta e delicata.
“Lasciami prendere qualcosa, Joran” lo aveva rimproverato bonariamente.

“Stucchevole e imbarazzante” gli aveva rimproverati rancoroso una voce.
I due si erano ritratti scottati, notando all’ora che qualcuno quatto e felpato aveva aperto la porta interna. “Oh, sankti!” aveva ammesso lei, nascondendosi dietro Joran, visto lo stato pietoso dei suoi vestimenti.
“Non c’è niente che non abbia già visto” aveva detto l’uomo.
Era alto e secco, come un giunco, vestito di nero corvino, così come i capelli scuri e gli occhi neri e cattivi. L’unica macchia di colore era la pelle, ma solo perché ne era esente: lo stesso bianco pallore della morte. Era arcigno e ben consapevole di quanto la sua inquietudine potesse raggiungere ogni angolo.  Era poggiato allo stipite della porta. “Immagino che voi siete l’uomo che ci ha soccorso ieri notte, ve ne siamo immensamente grati” aveva parlato Joran con calma e gentilezza.
L’uomo non aveva perso la sua espressione cattiva, “Fosse stato per me, vi avrei lasciato al parco, ma la duchessa di Keramzin ha un cuore decisamente più gentile del mio” aveva risposto l’uomo secco, “Doveva essere la donna …” aveva considerato Lissa, pensando ai capelli bianchi come il nevischio. Aveva davvero pensato che Sankta Alina li avesse soccorsi.
“Sì e vi ha fatto dormire sul letto principale, mentre noi abbiamo dormito sui divani” si era lamentato, “Vorremo ringraziare la duchessa” aveva detto Joran con calma, “Per il suo buon cuore” aveva aggiunto Lissa, abbassando lo sguardo con un’espressione rispettosa. “La duchessa è in un riunione con la regina in persona e non credo tornerà prima di mezzogiorno … non vi ho fatto preparare una lauta colazione perché sono abbastanza sicura che una baronetta possa trovarla da se” aveva stabilito l’uomo secco. Vasilissa aveva sussultato davanti quel commento, pensando come il suo nuovo titolo dovesse essersi spanso a macchia d’olio. “In effetti sì” aveva miagolato timorosa, sarebbe probabilmente dovuta andare nelle cucine, da sua madre.
“Bene, allora via di qui, tu” aveva detto senza riguardi l’uomo, prima di rivolgere lo sguardo freddo a Joran, “Riguardo a te …” aveva detto e il suo tono aveva preso una nota leggermente più dolce, “Anche io so dove trovare la colazione” aveva boccheggiato. “Immagino sì, ma andrei prima da tua madre” aveva stabilito.
Lissa aveva visto le mani di Joran chiudersi a pugno, stretti così tanto da aver sbiancato le nocche, “Come scusa?” aveva chiesto il giovane Fjerdiano, “Tua madre” aveva scandito l’uomo, “Mia madre?” aveva chiesto quello, il suo tono era incerto e i suoi occhi sembravano quelli di un cerbiatto.
L’uomo non aveva risposto perché il rumore roboante dell’apertura delle stanze della duchessa, “Eccoti qui!” aveva strillato con una voce d’aquila Genya Safin. Sembrava che la notte prima non avesse neanche sfiorato il viso del triunviro.
Genya aveva i capelli raccolti in una coda alta, rosso fumoso, indossava la kefta rossa dei corporalki, con i decori del suo ordine, la benda di seta nera con cucito sopra il sole di Sankta Alina. “Oh! Mia Signora!” aveva detto piena di imbarazzo Lissa, pensando si stesse rivolgendo a lei, ma Genya si era fiondata predatoria sul giovane Fjerdiano. “Vostra nob-” aveva provato a parlare lui, ma Genya lo aveva trascinato via come se lei fosse stata un gigante e lui una piuma.
Joran si era voltato verso di lei, con un’espressione colpevole, ma Lissa gli aveva sorriso complice, decidendo che non avrebbe vissuto né di rancori né di rimproveri.
“Prendi un consiglio da un vecchio uomo, hai appena evitato un proiettile” aveva sentenziato l’uomo, “Inizio a sospettarlo”  aveva ridacchiato lei, “Ha visto le mie scarpe?” aveva chiesto guardandosi intorno, “No, le avevi già perse. Marina ti ha lasciato delle pianelle da indossare” aveva stabilito.
Erano scarpe scomode, dal tacco dritto in sughero, che coprivano tutta la pianta del piede.  “Grazie per la gentilezza dimostrata, nuovamente” aveva provato Vasilissa di nuovo, voltandosi verso l’uomo. Quello aveva sospirato, “Ora via dai piedi, non sono un nobil uomo che ha tempo di gozzovigliare” aveva detto quello, “Ho cose da fare e persone da vedere.”
“Dovrei chiederle chi è?” aveva chiesto Vasilissa, non era sicuramente il duca di Keramzin, era arrivato quella mattina sul presto, bello come il sole, con indosso la stoffa nehulita ed aveva fatto compagnia tutta la notte al Re Consorte. L’uomo era forse l’amante della duchessa? Forse il maggiordomo? L’inserviente?
Non lo sembrava, la camicia che indossava era di taffettà, la sua giacca nera era lucida e pregiata, con bottoni in avorio, i calzoni erano ben stirati e le scarpe di pelle non rovinate. Non abbastanza agghindato e decorato per essere un nobile o forse eccessivamente ricco, ma abbastanza ben vestito per essere benestante. Forse un mercante. “Potresti ma non ti risponderei” aveva risposto secco lui e Lissa aveva letto la situazione come era d’uopo per lei.

Aveva messo le pianelle d’oro della duchessa, il tacco era in sughero, ma laccato di rosso intenso, alto tre dita, la stoffa delle scarpe era morbida e foderata al suo interno di pelliccia, per tenere il piede caldo. Lissa che aveva sempre camminato con i talloni a terra aveva sentito un leggero sbilanciamento per quanto esiguo fosse il tacco. Aveva lasciato gli appartamenti della duchessa e l’uomo misterioso, realizzando ben subito in che area del castello fosse.
Più vicina al corridoio principesco che alle cucine ed egoista aveva imboccato la strada per il primo luogo che per il secondo. Sapeva di dover andare da sua madre, ma non sapeva bene come approcciarsi a lei e a tutte quelle persone con cui era cresciuta. Era stupido, un titolo non avrebbe cambiato ninete, sarebbe rimasta sempre Lissa, la figlia della cuoca e la ragazza che rammendava i letti e raccoglieva la biancheria in giro. Eppure, non riusciva a trovare il coraggio.
“Sol Sho Malachi, sol sho Lukyan!” aveva detto riconoscendo le abituali due guardie di palazzo che osteggiavano la porta della principessa Alina, “Buon giorno a te, Lissa” aveva risposto Malachi suadente, “No, compagno. È ‘buon giorno baronetta Pavlov’” lo aveva corretto Lukyan.
“Cosa? Quando?” aveva chiesto, “Ieri sera, giusto?” aveva risposto l’altro soldato, voltandosi verso di lei, in cerca di conforma. Vasilissa aveva annuito imbarazzata, “Quasi” aveva ammesso, “Però non è cambiato molto” aveva aggiunto.
“Adesso, con tristezza, Baronetta Pavlov sei oltre la nostra umile portata” aveva ammesso melodrammatico Malachi, facendola ridacchiare. “Mi è concesso incontrare la Principessa?” aveva investigato Vasilissa, “Tecnicamente se tu fossi ancora una cameriera ti potremmo far entrare senza problemi, ma ora credo tu abbia bisogno di una vera e propria presentazione o un invito” aveva considerato Lukyan, mentre lei portava le braccia alla vita con una certa boria, “Scherziamo” aveva detto Malachi, “Penso che alla principessa faccia bene, le guardie notturne hanno detto che pareva una nuvola nera” aveva aggiunto.
Strano.
L’ultimo ricordo di Alina era lei ebbra di vino e allegra che le cercava di sussurrare un segreto.
Lukyan aveva aperto la porta delle stanze private e lei era scivolata dentro, “Principessa!” aveva chiamato, senza ottenere risposta.
La stanza era ancora chiusa, senza che un solo raggio di sole passasse le serrande. “Principessa?” aveva chiesto più titubante, prendendo la direzione per la camera personale di Alina.
Quando aprì la porta, trovò la stanza meno buia delle altre, con la finestra chiusa, ma gli scuri ben aperti per permettere alla luce di entrare nella stanza.
Alina era nel suo letto grande, abbozzolata nelle coperte.
Vasilissa si era dovuta quasi dichiarare stupita nel vedere la principessa dormire ancora, anche se baciata dalla luce del giorno e dall’assenza del piccolo principe Juris, che adorava disturbare la sua zia preferita.
Lissa aveva sorriso comunque dolce, prima di dirigersi verso il letto di Alina, nel farlo aveva urtato però con il piede qualcosa: una bottiglia in vetro vuota. Sembrava vino. “Forse non sono stata l’unica ad esagerare ieri sera” aveva considerato, quasi, bonaria. Ricordava che la principessa Alina fosse stata piuttosto allegra.
Aveva fatto un altro paio di passi, riscontrando un’altra bottiglia vuota, l’aveva sentita rotolare sul pavimento ma aveva continuato fino al letto senza fermarsi.
Alina dormiva, non imbozzolata su un fianco come al solito, come le era parso, ma stesa supina, con i capelli biondo-castano a raggera sul cuscino. Eppure, non sembrava un sonno ristoratore, gli occhi erano serrati, il corpo tremolava.
Il respiro era rauco ed arrancato e l’odore del fiato era nefasto. Vasilissa si era quasi lanciata su di lei e quando aveva toccato la pelle nuda del collo, aveva sentito la carne fredda. Aveva scosso le coperte per vedere Alina stesa con l’abito della festa, accanto ad una pozza di vomito.
Aveva gettato un urlo ed aveva scosso con più vigore la principessa, quando senza controllo nella mente le erano serpeggiate le immagini di qualche giorno prima quando aveva trovato la regina Zoya in stato confusionale dopo un’attenta.
“Vasilissa, che succede?” aveva chiesto Lukyan palesandosi trafelato, “La principessa non si sveglia, respira male, è fredda e …” aveva cominciato a parlare agitata, mentre si teneva Alina al petto.
“Serve un dottore o un corporalki!” aveva strillato poi, Lukyan aveva annuito, prima di correre fuori.
La regina aveva chiesto di Alina, quando era stata attaccata, ma il re l’aveva invitata a non parlarne, per non turbare la sua amica. Vasilissa aveva pensato che le parole della regina fossero state quelle di una madre che chiamava la figlia – Alina era il suo frutto dell’autunno, la più coccolata e la più amata – e non un monito.
La stanza si era fatta di nuovo viva.
Vasilissa aveva sollevato lo sguardo, “Che succede, dimmi!” aveva detto il principe consorte, con ancora gli indumenti intimi della notte, senza le scarpe e i capelli neri arricciati dal cuscino e l’espressione tormentata. “Moy prins” aveva sussurrato lei, prima di provar a spiegare al meglio, mentre il principe si avvicinava, per osservare la principessa.
Si era seduto sul letto, scacciando quasi Vasilissa senza grazia, ma lei non si era spsotata. Il principe aveva rinunciato e delicato aveva sollevato le palpebre di Alina, per osservare i suoi occhi.
“Alina! Vasilissa!” aveva strillato il principe Domink entrando nella stanza, già vestito, ma alla rinfusa, come se avesse pescato i primi vestiti attirati a tiro.
“Dominik” lo aveva richiamato al silenzio il principe consorte, “Non urlare o anche Juris verrà qui” lo aveva rimproverato il cognato. L’espressione sul viso del principe si era fatto furente, ma poi aveva ingoiato il suo pensiero, realizzando ben presto che non fosse il caso che anche il piccolo principino di cinque anni venisse. “Che sta succedendo?” aveva chiesto più lacrimoso.
Il principe aveva toccato il polso di Alina, aperto la sua bocca e tastato il corpo, con movimenti precisi e analitici, “Un’intossicazione alcolica, direi” aveva sentenziato.
“Oh, grazie ai sankti” aveva detto Dominik, mettendosi una mano sul petto, “Pensavo fosse qualcosa di serio” aveva ammesso. “Non sembra una sbronza” aveva osato parlare Vasilissa.
Il principe l’aveva guardata, aveva occhi predatori e precisi, di chi sapeva non solo leggere dentro, ma scavarci una fossa. “Non è una sbronza. È una cosa grave. Alina ha assunto più alcool di quanto il suo corpo possa smaltire, c’è il rischio che se lo stato di dolenzia continui, potrebbe arrecare problemi gravi al corpo” aveva detto secco.
Dominik aveva deglutito, sentendo la severità di quelle parole. “Cosa dobbiamo fare?” aveva chiesto timido, “Prima di tutto avvolgerla in cose più pesanti, il rischio peggiore è che vada in ipotermia” aveva risposto il principe, rimettendole addosso la coperta che Vasilissa le aveva tolto. Lei di rimando era sgusciata via dal letto consapevole di essere l’unica probabilmente di loro a sapere dove fossero le vettovaglie nella stanza, dirigendosi presto una cassapanca, per raccogliere altre coperte, in cui seppellire la principessa. “Poi, Dominik metti su il tè … ha bisogno di liquidi caldi, io le tengo libere le viee respiratorie e mandatemi a chiamare un corporalki e un materialki, meglio se healer e alkemi, meglio ancora se sono Genya e Leoni” aveva impartito il Principe consorte.
Vasilissa dopo aver sistemato le coperte, si era diretta verso le due guardie rimaste alla porta. Lukyan non era lì, ma Malachi, invece, sì. “Ci servono Genya e Leoni. La signora Safin è nell’area dei fjerdiani … oppure un healer e un alkemi” aveva provato. “Mi spiace, Lissa, ma non posso abbandonare le stanze” aveva detto imbarazzato Malachi. “Invece, ti do l’ordine io!” aveva strillato il principe Dominik dalla stanza, facendo scattare il giovane subito.
Vasilissa era rientrata con espressione ancora afflitta sul viso, “Perché non eri con lei?” aveva chiesto subito Dominik quando l’aveva vista riapparire, mentre trafficava con il samovar, “Sankti, fratello, Vasilissa è una persona propria e Alina è solo una diciasettenne cresciuta in una campana di vetro che è finita ad ubriacarsi ad una festa senza supervisione” aveva detto il principe consorte, costringendo la bocca della principessa Alina a rimanere aperta per costringerla a respirare forse. Vasilissa aveva tremolato, poi aveva deciso di parlare, agitata da quei pensieri che aveva voluto soffocare in vista della sua nomina e del matrimonio segreto: “ Tre giorni fa qualcuno ha cercato di ferire la Tsarina” aveva parlato.
I due principi si erano rivolti subito rapaci verso di lei con lo sguardo, “E lei chiedeva della principessa … quindi, ecco … non è che qualcuno può averle dato una dose più elevata di liquido alcolico apposta?” aveva proposto spaventata.
Più alcol di quanto potesse sopportare il corpo, un avvelenamento senza veleno, che per quanto tragico, per quanto orribile, per quanto struggente, avrebbe trovato un colpevole nell’avventatezza di una ragazzina fin troppo famosa per la sua testardaggine.
Domink aveva boccheggiato qualcosa, “Hanno cercato di ferire la mamma?” aveva chiesto perdendo tutta la sua compostezza di principe, apparendo quasi un bambino spaurito, “Non avrebbe senso ferire ‘Lina” aveva provato poi, cercando di recuperare la sua compostezza. Ovviamente, non avrebbe avuto senso, in un’ottica più grande: Alina era la più giovane dei tre principi, non era l’erede ed era la meno coinvolta nelle politiche di corte. “Certo che avrebbe senso, il mondo intero sa che è la figlia prediletta di tua madre e la futura prossima signora di Fjerda” aveva detto stoico il principe consorte.
La conversazione era stata mutata dall’ingresso piuttosto caotico e preoccupato di Genya Saffin, seguita a ruota da re Nikolai, dietro di loro erano spuntate anche la principessa Lilyiana e la sua amica Ana Aleksandra.
“Perfetto, speravo in Leoni, ma anche tu andrai bene Drina” aveva considerato il principe, guardando la figlia dei duchi di Keramzin. “Che cosa è successo?” aveva chiesto strozzato il re, guardando verso di lei e Dominik, un silenzio un po’ duro si era formato, interrotto solo dal fischio dell’acqua che bolliva. Poi il principe aveva parlato: “Alina ha avuto un’intossicazione alcolica” aveva stabilito prima di voltarsi verso Vasilissa, i suoi occhi erano supplichevoli e gridavano una sola cosa: dì questo e non quello.
“Bene, fuori tutti!” aveva gridato Genya, “Noi tre possiamo gestire la cosa” aveva aggiunto con fermezza ammiccando a sé stessa, Drina e il principe consorte. “Sperò di non finire in coma” aveva bisbigliato Drina, sedendosi vicino alla principessa, prima di imporre le mani sulla coperta, “Non dovresti toccare lei?” aveva chiesto retorico il principe, “Prima scaldo le coperte” si era difesa, mentre Genya li spintonava gli altri fuori.
“È mia figlia” aveva supplicato Nikolai, “Sì e ti dirò la stessa cosa che ti ho detto ad ogni parto: fuori di qui e fai il re, Nikolai” aveva ordinato e poi si erano ritrovati tutti sbattuti in corridoio, come fossero stati tre inservienti e non tre delle cinque persone più importanti del loro regno. E Lissa con loro.
“Lei è forte. È in buone mani. Starà bene” aveva bisbigliato la principessa Lilyiana, le prima parole che aveva pronunciato da che era arrivata.



[1] Spiedini di carne di agnello o montone marinata e cotta sulla brace.

[2] Qualche tempo fa parlando con LarcheeX era saltato fuori che Alina e Mal potevano essere il corrispettivo “fantasy” dei Calmucchi come origine. Ora, Alina e Mal nei libri non sono strettamente Shu-Hanniti – e così nella mia storia – ma sono comunque originari della Ravka Meridionale, ai confini con il Bordo (almeno DVA STOLBA). Ora, ho fatto riferimento spesso che la Prima Ravka (Insomma la Rus di Kiev di questo mondo; quella che ho denominato RAFKA) sia comunque nel meridione, dove sono stati tracciati i primi Confini dall’Uccello di fuoco – e dove effettivamente noi vediamo l’uccello di fuoco.  Ora Alina e Mal nella mia storia sono ‘ravkiani’ nudi e crudi nell’aspetto, ma per cultura sono ‘Oyirad’. Il termine Oyirad era quello utilizzato dai mongoli per riferirsi ai Calmucchi (che era un termine più occidentale) – ho deciso che potevo farlo visto che la Bardougo ha chiamato lo stato “simile” alla cina Shu Han, che era uno stato reale, appartenente al periodo dei Tre Regni (e a chiamato un popolo Suli ed esisteva una città con questo nome). Dunque, in realtà tutta questa parte, e il rapporto tra la Prima Ravka e gli Oyirad Skarzuski, mi piacerebbe inserirla nella narrazione, non so se ci riuscirò però. Questa nota esiste solo per dire che l’uomo (Mal) è vestito come un calmucco – ma pur cercando a destra e manca non ho trovato i nomi tecnici dei loro vestiti e non potevo scrivere “è vestito come un calmucco.”

[3] Nobilità in russo. Fun Fact il titolo di Lissa è quello di Baronetto, che non esisteva nella Russia Zaarista ed io stavo per definirla come Pari di Ravka – cielo, l’Inghilterra mi è entrata proprio sottopelle. Inoltre, sebbene il titolo di Lissa è legato ad un territorio, in realtà è Titolato Senza Terra. Cercherò di parlarne bene più avanti.

[4] La frase è un rifacimento ad una di Churchill. Come ho detto: ho un problema con l’inghilterra.

[5] Avrei voluto davvero scrivere il matrimonio meglio e mostrare i riti ravkiani, ma ho pensato che questo non era il capitolo giusto, ne il matrimonio giusto.

[6] Questo era un aneddoto su Cleopatra.

[7] Questo è un riferimento ad un aneddoto che circolava su Bonifacio VIII e Celestino V. Dove si diceva che il primo si nascondesse nelle intercapedini dei muri e sussurrasse al secondo di essere l’Arcangelo Michele e gli suggeriva di ritirarsi dalla carica pontificia.

[8] Tecnicamente “kto zhivet” è “Che vive” secondo google traduzione

[9] La danza circolare della Buriazia, chiamata “Yokhor” (Ёхор, in russo) viene ballata durante le feste. Gli interpreti si tengono per mano in cerchio, muovendosi da sinistra a destra, proprio come si muove il sole. È proibito muoversi all'indietro, poiché si crede che solo gli spiriti maligni si muovano in direzione opposta al sole. Lo yokhor viene eseguito intorno a un fuoco, a un albero o a una montagna. Nel cerchio, un partecipante canta una canzone e i compagni e le compagne lo accompagnano con diversi movimenti: saltano (imitando un cavallo), agitano le mani (imitando un uccello). Negli ultimi anni, in Buriazia sono stati organizzati dei flash mob durante i quali è stata ballata questa danza, per far conoscere lo yokhor in tutto il mondo – da : https://it.rbth.com/lifestyle/86530-dieci-danze-antiche-dei-popoli

[10] je moet met de stroom meegaan – Tu devi seguire il flusso; in Olandese. Fonte Google Translate …

[11] Anche questa cosa era un riferimento storico, ma giuro che non ricordo di che popolo e di che periodo (immagino che il retaggio sia presente nelle spose che vengono prese in braccio e scortare fuori lol).

[12] Indovinate di che popolo è questa tradizione? Come? Inglesi? Sono proprio pessima.

[13] Siccome nel canone libresco Dominik non ha un cognome, ho preso quello del telefilm

[14] È una poesia di D’Annunzio (Pioggia nel Pineto), nella mia testa queste risposte sono concatenate come “In bilico” e “Tra Santi e Falsi Dei”. Potremmo immaginare che sia una sorta di poesia o frammento di una poesia all’interno del mondo.

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Capitolo 23
*** Dimitriji I (40 D.F.) ***


Scrivere questo capitolo è stato un PARTO.
Prima di tutto il lavoro mi ha distrutto emotivamente, fisicamente e psicologicamente e … infatti lo ho lasciato! Oltre questo, ho dovuto riscrivere da capo mezzo capitolo perché mi ero accorta di aver sbagliato punto di vista, inoltre il narratore (più unico che raro) è stato davvero complicato, perché non avevo ancora deciso bene che carattere dargli prima di quel momento.
Comunque, spero possiate apprezzarlo, questo è il penultimo capitolo ambientato nel 40 D.F. per un bel po’ di tempo ed il penultimo ambientato in questa benedetta festa.
Detto ciò:
BUON ANNO!

 

 Dimitriji I
(40 D.F.)

“E con questo … abbiamo finito” aveva stabilito con un tono piuttosto frizzante sua moglie, ammiccando alle altre due donne presenti nella stanza.
Una era una cameriera piuttosto avanti con l’età – Natasha, una bisbetica donna che aveva servito la famiglia Polnudist per anni e che Dimitriji giurava di non aver mai visto sorridere – che indossava sempre con austera rigidezza la sua uniforme bianco latte con i ghirigori d’oro e l’altra, invece, era a malapena una donna, ancora giovane in viso e con l’espressione vispa.
Anche la più giovane era una cameriera, con l’abito chiaro con i decori oro, con il grembiule crema ancora infilato, ma avrebbe cessato definitamente quel lavoro giusto con l’avvenire della notte.
Vasilissa Pavlov con il suo piccolo visetto da gatta, i capelli castano-ramato, sempre ordinati e raccolti, e i grandi occhi castani da cerbiatta. Graziosa, senza essere bellissima, carina senza essere fulgida.
Najima, però, l’aveva obbligata a dismettere grembiule e sarafan, per indossare seta lillà e raso viola, abbinato con modeste – seppur preziosi – decorazioni di pizzo bianco a tombolo.
Un abito che Dimitriji stimava fosse costato almeno seicento vlachki; un dono enormemente generoso. Dimitriji non era stupito, Najima e Vasilissa Pavlov non erano mai state ne amiche ne vicini, perciò ad occhio esterno quel regalo sarebbe parso fin troppo eccessive, ma la sua audace moglie non aveva mai dimenticato le sue origini di figlia di braccianti stagionali. Dimitriji, per tal motivo, non era stupito per nulla che vedesse sé stessa in Vasilissa Pavlov. Nonostante le due donne non potessero essere più diverse …
La sua Najima era una donna dalla personalità esplosiva, una guerriera, che aveva scalato la sua posizione dai banchi di studio, fino all’esercito, con tenacia e irruenza.
Presa per essere una compagna di studi e anche un’insegnante, per quella cultura trascurata Suli, per la principessa Lilyiana, Najima aveva conquistato con ardore il cuore della principessa e poi anche quello di Dimitriji.
Una volta lui aveva spergiurato che non avrebbe mai amato nessuno oltre la principessa, ma si era dovuto ricredere. Najima lo aveva conquistato, un pezzo alla volta, con lo stesso bruciante ardore di un incendio. Vasilissa Pavlov aveva seguito un percorso simile, di un’altra principessa era stata custode, ma sembrava una creatura così fragile, come vetro soffiato, rispetto sua moglie.
“Io le sono grata, mia signora” aveva risposto tutta stucchevole Vasilissa Pavlov, chinando il capo rispettosa, esibendosi in una riverenza così sfacciata che Dimitriji si era quasi aspettata toccasse suolo con la fronte. “ È stato per un immenso piacere, Lissa” aveva risposto con voce divertita sua moglie, prima di congedare la donna, “Mi aspetto tu sta notte sia più scintillante delle tselai.

Dimitriji aveva osservato tutta la scena dalla porta socchiusa del suo studiolo, aveva lasciato di proposito l’uscio semichiuso in modo da poter spiare, discretamente, il salottino dei loro appartamenti, senza dover ficcanasare platealmente. Forse era piuttosto vecchio stile, ma a Dimitriji piaceva sapere tutto quello che accadeva sotto il suo tetto anche le cose più futili.
Najima era entrata poi nella stanza, con un sonoro schiocco della porta e un sospiro stanco, “Sono troppo vecchia per queste cose” si era lamentata.
Indossava una lunga veste di velluto rosso, che le scendeva morbida sul corpo come una cascata d’acqua, che metteva in evidenza ogni curva prorompente del corpo. Najma aveva preso l’abitudine di lamentarsi del grasso che aveva preso spazio sul ventre, sulle cosce, sul culo, quando per molto tempo era stata ferrea e tonica come era richiesto ad un oprichnik – ma a Dimitriji non dispiaceva per nulla.
“Era un vestito molto carino” le aveva detto, “Non bello come quello che avevi per il tuo debutto però” aveva ricordato.
Ricordava ancora Najima quel giorno e quel vestito: giallo zafferano, agghindato in un intreccio di stoffe che coniugasse la sua eredità suli con la sua cultura ravkana. E sopra ogni cosa che l’avevano resa così bella che Dimitriji era riuscito solo a boccheggiare come un pesce; senza mai lasciare il suo fianco.
“Come sei gentile” aveva detto divertita lei, schioccando un bacetto verso di lui, prima di scivolare molle sul divanetto dello studiolo, “Devo andare a correggere i compiti di matematica di nostro figlio” si era lamentata Najima, con voce assonnata.
“Tu hai scelto matematica, vuoi fare cambio? Prendi tu la letteratura?” aveva chiesto Dimitriji con una punta di divertimento, mentre riportava gli occhi sui rendiconti dell’estrazione del metan yez di quel mese.
Il contado di Ivets non era stato un luogo particolarmente ricco, anche nei tempi d’oro, quando il territorio era stato parte del Grande Sulinato – prima della frammentazione – la terra non aveva mai restituito nulla. Non aveva oro, ne argento, ne dolci frutti o frumenti. Era una terra infame, quasi una maledizione, usava dire il nonno di suo nonno e questo era stato tramandato da Polnudist e Polnudist, fino a che il defunto Alexiej, padre di Dimitriji, non vi aveva trovato il metan yez.
Dalla scoperta del giacimento sotterraneo di metano e da quando il mondo ne aveva capitata l’effettiva utilità, la fortuna dei Polnudist aveva preso una piega molto più abbondante.
Il metan yez era fondamentale per Ravka, ma anche per tutto il resto del mondo e pochi lo possedevano, in così grandi quantità.

 Najima aveva sbuffato, “No, no, per i Sankti, preferisco tenermi le materie scientifiche” aveva sospirato lei, prima di lasciarsi sfuggire in una risata mesta che aveva riscaldato lo stomaco di Dimitriji.
Gli dispiaceva davvero che non fossero riusciti a generare un altro bambino, a Dimitriji sarebbe piaciuto avere un altro figlio – o anche una femmina – e ad Andrej sarebbe piaciuto avere un fratello e probabilmente gli avrebbe fatto bene, lui da bambino aveva odiato la sua condizione di figlio unico, ma i sankti non li avevano accontentati. Non sapeva perché ci avesse pensato in quel momento.
“Non comprenderò mai la tua avversione alle materie umanistiche” aveva considerato Dimitriji, voltandosi verso di lei con un sorriso morbido. “Mi perdo in tutti quei vagamenti filosofici” aveva ammesso Najima, “Lo so che i suli hanno la reputazione di essere gente molto spirituale, ma non la mia famiglia e sicuramente non io” aveva replicato, guardandosi le dita. Le donne avevano cominciato a portare le unghie lunghe ben dipinti con smalti colorati, ma quelle di Najima erano squadrate, corte e naturali. “Direi che la regina Zoya fece un pessimo affare a portarmi a palazzo” aveva scherzato poi.
Forse la regina aveva cercato una giovane bambina suli con cui Lilyiana potesse istruirsi ed appassionarsi a quella cultura che era parte del suo patrimonio ma che non conosceva, ma le aveva dato ben di più.

Un tocco sulla porta aveva distratto i loro discorsi, la vecchia Natasha aveva fatto entrare – senza permesso – un giovane uomo in livrea bianca con decorazioni oro e arancio ben cucite. “Moy Blagorodnyy” soffiò l’uomo rispettoso, mentre teneva tra le mani un frammento di pergamena, “Un telegramma” aveva considerato l’uomo, ma l’occhio azzurro continuava a sfuggire verso la signora della casa.
“Per me?” aveva chiesto con un suono allegro e divertito, alzandosi dalla poltrona, quasi baldanzosa, “Nessuno mi manda mai telegrammi” aveva aggiunto sognante.
L’uomo le aveva allungato con fare incerto la pergamena, lanciando uno sguardo al signore della casa, “Se hai un amante non è stato molto intelligente” aveva scherzato Dimitriji, prima di congedare il giovane uomo. “I miei amanti non mandano telegrammi, ne scrivono biglietti, li scelgo belli ma ignoranti” lo aveva preso in giro sua moglie, mentre proiettava gli occhi neri sul foglio con interesse. “Viene dalla Matej” aveva considerato come prima cosa.
La prigione di stato ai margini orientali della Capitale. “Forse un tuo amante è finito in prigione” aveva scherzato Dimitriji.
Facevano spesso battute di quel genere tra loro, nella loro fantasia Dimitriji aveva come amanti volitive giovani signore con fili di perle e unghia smaltate e Najima aveva aitanti signori dai muscoli tonici, era il loro gioco; ma entrambi sapevano fossero solo giochi.
Najima e Dimitriji si erano promessi la fedeltà e la trasparenza aldilà di ogni cosa, sopra ogni cosa, anche l’amore.
Era uno dei motivi per cui aveva rinunciato alla sua spietata corte alla principessa Lilyiana, non si poteva contenere il vento, né si poteva imbrigliare. Dimitriji non avrebbe potuto sopportare di essere tradito, era troppo orgoglioso. Era un verso orso di Ravka.
Il Principe Consorte, d’altronde, era ben altra bestia.
Dimitriji amava Lilyiana, come un’amica, come una sorella, come una principessa, e a volte anche come una donna. Lilyiana era brutale, forte, sagace, ma era anche un’anima buona … ed uno spirito fragile.
E questo lo lasciava titubante se schierarsi senza indugio al suo fianco, nessuno che avesse indossato la tiara del drago avrebbe potuto o dovuto essere fragile.

Il bel di sorriso di Najima era appassito come i fiori nel primo freddo dell’autunno, “Peggio” si era lamentata sua moglie, “Nessun amante, ma un amico” si era giustificata, allungando verso di lui il foglietto, in cerca d’aiuto, “Un amico molto stupido e molto avventato.”
Dimitriji aveva raccolto il messaggio e poi lo aveva letto, interessato e un po’ confuso da quella descrizione. Aveva sospirato stanco, dopo aver recepito le informazioni e le aveva detto: “Fai quello che devi fare oggi, lo avevi promesso ad Andrej. Questa posso gestirla io.”
“Ho abbastanza soldi per corrompere una guardia” aveva fatto notare Najima con un sorriso svelto, “E questo è il motivo per cui non lo farai tu” aveva replicato Dimitriji, “Ti ho già detto che corrompere è terribilmente volgare.”
“Non sia mai che il nome dei Polnudist sia associato a qualcosa di volgare” aveva risposto Najima spietatamente divertente. “Esattamente sankti, a meno che tu non voglia lo spirito di mia madre aleggiare su di noi. Inoltre, se conosco bene il nostro amico, la situazione sarà più spinosa” aveva considerato, “Sicuramente non è uomo che non può evadere di prigione da solo” aveva considerato sua moglie, incrociando le braccia sotto il petto petto, “Fai quello che devi, probabilmente sbrigherò questa incombenza in tempo per prenderci un tè prima della cena” l’aveva rassicurata Dimitriji.
“Sì, anche perché abbiamo un appuntamento con quel Fjerdiano” le aveva ricordato sua moglie, “Il fratello del conte di Ag… Aje… hai capito” aveva detto leggermente spazientita.
“Il Margravio del
Wanderfall e … no, non lo ho dimenticato” aveva ricordato Dimitriji.

 

“Forse hai bisogno di dormire un po’ Mal, o almeno un caffè” aveva buttato fuori Dimitriji, quando erano entrati nella carrozza della servitù. Malcom, come era suo solito, lo aveva guardato con quel suo sguardo incendiario che prometteva solo dolore.
Una bastia rara era, come un cane da guardia ben bastonato, fedele al suo padrone e disposto a un quieto vivere solo per lui, ma se Lilyiana avesse lasciato appena il guinzaglio, un mostro di fuoco e fiamme sarebbe caduto su di loro. “Sto bene” aveva detto lapidario Malcom, con l’espressione di ferro sotto la carne, duro come il granito, con un viso contrito, dritto come una spada, avvolto nella kefta blu – così scura da sembrare nera – dell’ordine degli etherealki. I capelli castano scuro, con i riflessi rame, tirati all’indietro con la brillantina, che lo facevano apparire ancora più aguzzo e freddo.
Dimitriji lo adorava in realtà, ma il sentimento sembrava spesso a senso unico.
“Non litigate bambini” li aveva rimproverati bonariamente la principessa, issandosi sulla carrozza. Aveva sostituito gli abiti pregiati con cui si era intrattenuta con il principe di Fjerda, per indossare un lungo cappotto cammello, che aveva allacciato alla vita, che scendeva fino alle caviglie, mostrando solo i lucidi stivali neri con il tacco a rocchetto.
I capelli corti ben nascosto sotto un berretto rivestito di pelliccia di zibellino alto e metà del viso oscuro da leti nere tondeggianti. “Sto bene” aveva ripetuto Malcom con fermezza, “Finita questa incombenza … Malcom tu andrai a dormire” aveva ripreso a parlare la principessa, “Ho necessità che questa sera tu sia fresco. Sarà una lunga notte” aveva ammesso cupa, spostando con due dita il tendaggio. “La festa” aveva scherzato Dimitriji, “Dalai” aveva risposto Lilyiana con un tono piuttosto inferocito.
La regina Dalai con i suoi occhi grandi e verdi e quel sorriso ben mellifluo. “Vuoi elaborare per me?” aveva domandato divertito Dimitriji sporgendosi verso di lei, non lasciando scemare il suo sorriso. Lilyiana aveva continuato a guardare il panorama fuori dall’imposta della carrozza, “Assolutamente no” aveva risposto stanca la principessa, poi.
La carrozza non era né grande né sontuosa, era semplice e modesta, utilizzata per la maggior parte dalla servitù quando era costretta a lasciare il palazzo. Era uno spazio stretto ed angustio che li costringeva a sistemarsi in posizioni scomode. Lilyiana e Malcom era così stretti che le loro spalle erano premute tra loro, inoltre Dimitriji era più comodo con un ginocchio di Malcom e uno delle principesse tra le sue gambe, che tenerle chiuse. “Noiosa” l’aveva rimproverata bonariamente Dimitriji, “Vorrei dire che ho un lavoro anche per te” aveva ripreso la principessa spostando le lenti nere, per sfoggiare i suoi occhi giallo-marroni.
“Sono tutto orecchie” aveva squittito Dimitriji, portandosi anche una mano all’orecchio con un fare divertito per enfatizzare, “Ti sei già messo avanti” aveva scherzato senza divertimento la principessa. “Mi hai scoperto …Ti terrò aggiornata sull’incontro di oggi, amica mia” la rassicurò. Non aveva senso svicolare o mentire, Dimitriji poteva avere le sue idee, ma Najima aveva le sue: Lilyiana sempre e comunque.
“Tu che sai sempre tutto, invece, hai saputo qualcosa di Drina?” aveva chiesto, invece, Lilyiana, sistemando nuovamente le lenti nere sugli occhi, “Questa mattina mi è sembrato di intravedere suo padre in giro” aveva considerato lui, muovendo le spalle.
L’ultima notizia che aveva ricevuto dalla cara Drina risaliva ad un paio di settimane fa, l’amica aveva scritto a lui e Najima che avrebbe presenziato alla festa dei Dieci Giorni come da tradizione, ma non era certa di quanto avrebbe potuto giungere. Sospettava si sarebbe palesata a giorni. Invece, aveva incrociato giusto quella mattina il duca di Keramzin in compagnia del suo vispo attendente, proprio per i corridoi del palazzo.
“No, ho parlato, con il signor Rosen. Non ha parlato con Drina” aveva considerato Lilyiana, “Non sa quando arriverà.”
“Sai come è teatrale Drina” aveva scherzato Dimitriji, “Farò il suo ingresso, in un momento in cui nessuno di noi l’aspetterà” aveva provato con un genuino divertimento, “Probabilmente con la sua indole potremmo ritrovarcela stasera alla festa che ci saluta con boria” aveva aggiunto.
“Sarebbe da Drina sì” aveva ammesso Lilyiana, lugubre.
Nessun commento e nessun fiato era stato emanato dal terribile Malcom. I suoi occhi erano persi e vacui altrove, in un punto lontano del tempo. Probabilmente anche lui pensava a Drina, pensava all’ultima volta che si erano parlati.
E pensava al fuoco.
“Perché non hai portato Najima?” aveva chiesto poi Lilyiana, sorprendendola, “Uhm … lei aveva un impegno pregresso con Andrej” aveva detto imbarazzato. Era tradizione Ravkiana che fossero le madri a prendersi cura dei figli finchè questi non avessero avuto l’età per debuttare in società, a Dimitriji non era dispiaciuto quel sistema, aveva avuto una madre amorevole, nonostante tutti i suoi difetti, e neanche Najima era sembrata restia: era materna per natura; ma riconosceva che quel sistema mal si sposava con il carattere abrasivo di Lilyiana. Infondo, era stata cresciuta dal Re Consorte e sotto l’ombra ingombrante della regina Drago.
“Ovviamente, dovrei passare più tempo anche io con i bambini” aveva ammesso la principessa con un sospiro stanco, “A proposito di bambini, come è andato con il principe di Fjerda?” aveva chiesto, invece lui, non volendola infastidire facendole riflettere sulle sue presunte mancanze.
Matthias Grimjor appariva esattamente come lo avevano descritto le fonti di Dimitriji: bello, ma algido, intoccabile; un ragazzo triste e solo, che sembrava sparire dietro la risata fresca e il fascino della sua scenica madre.
Una donna non passava da un pescivendolo a un re, senza essere particolarmente intrigante. “Esattamente come lo immagini: un bravo bambino” aveva ammesso con generosità la principessa.

La carrozza aveva arrestato la sua corsa lenta e ciondolante per le vie ciottolate di Os Alta fino ai confini ovest della città, nei pressi dell’austero ingresso della prigione di Matvej.
Dove la strada aveva smesso di essere composta da lucide pietre di basalto, per fare spazio a una strada chiara di breccia e sassi, che avevano reso la marcia già tremolante, molto più crepitante. Il viaggio era stato lungo, anche se Dimitriji non aveva potuto misurarlo con certezza, avendo dimenticato il vecchio orologio di suo padre sullo scrittoio quella mattina. I cavalli di Lilyiana avevano fatto un buon lavoro, due splendidi purosangue dalla statura di due buoi, che avevano tenuto il trotto per tutto il viaggio.
La compagnia era dovuta scendere prima dell’arco trionfale dell’ingresso della prigione, vicino le vecchie stalle, in uno spiazzale di terra battuta e brecciolino.
Lilyiana era smontata per prima con un movimento felpato, da pantera, senza aspettare che il minimo servitore della prigione si prodigasse per aiutarla.
Malcom era stato frustrato dall’atteggiamento privo di controllo della principessa e si era fiondato dopo, senza battere colpo, quasi investendo un galoppino che si era fatto avanti coraggioso poi.
Un uomo con l’uniforme della Matvej li aveva raggiunti ed era stato quasi colpito dalla mole di Malcom. Dimitriji era smontato dalla portantina con calma e senza particolare grazia.

Era un soldato giovane, dal viso sbarbato, i capelli zenzero e la kefta verde bottiglia, dell’ordine delle guardie, con un fucile legato con una banda di cuoio, indossata a tracolla. “Non potete sost …” aveva cominciato quello, prima di osservare attentamente la principessa Lilyiana ed inghiottire la sua lamentazione con un singulto rumoroso, “Buongiorno Moy Tsarevich” aveva buttato, prima di darsi in una riverenza super rispettoso, “Buongiorno” aveva replicato la principessa, togliendo le lenti nere, per osservare attenta il giovane.
Quello era diventato rosso in viso e cotto dal disagio.
Un altro uomo era giunto con loro, sul dorso di un palafreno dal manto grigio maculato; era meno giovane e meno sbarazzino dell’altro, esibiva anche un paio di folti baffi scuri sopra il labbro, che lo invecchiavano di molti anni. “Buongiorno, sua altezza reale” aveva affermato calmo e rispettoso, mentre arrestava la cavalcatura davanti loto, “Siamo onorati averla qui, in questo umile luogo non degno del suo sguardo” aveva detto, smontando poi dal suo destriero.
L’uomo aveva preso rispettoso la mano di Lilyiana e depositato un bacio rispettoso sulle dita, Lilyiana aveva mantenuto un espressione elegante sul viso, ma Dimitriji riusciva a leggere il suo disagio dietro il sorriso di circostanza.
“Sono onorata di essere qui” aveva risposto tranquilla la principessa, aggiustando il colletto del cappotto di cammello con un movimento quasi nervoso, “Scusi la nostra povera accoglienza, ma non l’aspettavamo in questi giorni” aveva detto il più anziano con un tono frettoloso e imponente. “Sì, siete perdonati. Non era mia intenzione venire prima di un mese, ma le vie dei Sankti sono inconoscibili per gli uomini, anche per le principesse” aveva risposto affabile, “Devo parlare con Corrin.”

Corrin Petrici era il direttore della prigione di Matvej.
Li aspettava infondo al sentiero ghiaioso sotto l’arco immenso che augurava il cortile interno della struttura – per chi non era avvezzo sarebbe sembrato che l’uomo avesse dovuto sapere in qualche modo che la principessa voleva incontrarlo, ma per Dimitriji che aveva accompagnato Lilyiana diverse volte, poteva affermare che Corrin Petrici accoglieva sempre la principessa.
Sopra la testa dell’uomo, sull’arco, capeggiava in ferro battuto il nome dell’istituto correttivo e restrittivo, in un carattere raffinato: Matvej.
Il direttore era un uomo imponente, dal tronco tonico e forte, con una croce di spalle ampie come quelle di un armadio. Alto ed impostato, aveva un viso duro temprato dagli anni e della vita. Una figura imperiosa, che però pareva fatto di carne molle quando aveva incrociato gli occhi con la principessa Lilyiana.
La principessa non era una donna minuta, ma non aveva ereditato né le lunghe gambe della regina Zoya neppure la statura longilinea di Re Nikolai – come invece era capitato alla principessa Alina e al principe Dominik – per tale ragione non risultava ne particolarmente statuaria ne imponente, ma il suo sguardo fiero e il portamento retto, rendevano semplice far sentire piccoli gli uomini. Dimitriji si era imbevuto in quell’umiltà da quando era bambino a undici anni suo padre l’aveva formalmente presentato a corte e agli occhi della preziosa principessa ereditaria.
Nel corso degli anni, quello sguardo era peggiorato.
Gli occhi di Lilyiana erano i predatori occhi di una belva famelica, non un grande, ma comunque un predatore.

“Solo Sho, Corrin” aveva chiosato Lilyiana, andandoli in contro e posandoli due delicati baci sulle guance affilate, come se salutasse un vecchio amico e non un subordinato, “Sol sho, moy tsarevich” aveva risposto lui, crollando sulle ginocchia e baciandole le dita nude, molto più teatralmente e appassionatamente dell’altro uomo.
Lilyiana non indossava mai gioielli, non solo quando era in incognito, ma anche alle grandi feste e alla corte, mai nessun monile, ‘L’unico gioiello di cui ho bisogno è il mio sorriso’ aveva scherzato una volta, forzatamente.
“Non ci servono tutte queste svenevolezze, Corrin. Ci conosciamo da anni” aveva detto fintamente amichevole la principessa, facendolo sollevare dalla posizione genuflessa, con un tono così raffinatamente squisito che pareva miele. L’uomo si era tirato su, era più alto della principessa di una testa e di Dimitriji di una e mezza, solo Malcom riusciva a tallonarlo, ma anche lui era più minuto. “Non l’aspettavamo fino al diciassette del prossimo mese” aveva considerato Corrin.
Lilyiana non aveva perso il sorriso, “Non mi piace essere prevedibile” aveva scherzato, senza vergogna, mentre l’uomo li conduceva attraverso il cortile esterno, fino all’interno della struttura.

“Ovviamente, spero che sua altezza reale comprenda che non abbiamo attrezzato la solita stanza dei ricevimenti … e sarà perciò necessario del tempo” aveva ammesso l’uomo con un tono pregno di vergogna, curvato su sé stesso, mentre teneva il braccio della principessa con fare impacciato, “Inoltre, oggi potremmo aver avuto una situazione particolare” aveva aggiunto incerto e nervoso. “Immagino, Corrin, tu faccia riferimento all’uomo morto” aveva ammesso la principessa cogliendo il direttore e anche Dimitriji di sorpresa. Malcom non si era scomposto. “Non dovrei essere più turbato, immagino” aveva ammesso il direttore, probabilmente preparato e abituato a quei giochi di mano senza vergogna della principessa, “Lo sa cosa si dice di me? Che il vento mi parla” aveva scherzato.
A Dimitriji piaceva pensare di avere un buon numero di spie, ma la principessa doveva avere ancora il suo bel numero di carte nella manica, che Dimitriji poteva solo immaginare, “Comunque, non sono qui per il solito prigioniero” aveva ammesso la principessa, voltando appena la nuca per incrociare gli occhi con quelli di Dimitriji, che aveva annuito. Un’espressione sorpresa aveva attraversato il viso del direttore davanti quella inaspettata confessione.
La principessa aveva fatto un cenno d’assenso e Dimitriji aveva parlato: “Siamo qui per prigioniero sette-nove-uno-cinque-sei- schsch-enne-sei” aveva riportato. Corrin Petrici aveva annuito, “Un brigantello, di certo non la bestia peggiore dell’ovile, ma dà che è arrivato è rimasto coinvolto in due risse” aveva spiegato pratico. “Ricorda tutti i prigionieri che ci sono qui?” aveva chiesto sfacciato Dimitriji, “No, mio signore, solo i peggiori e i … grisha” aveva aggiunto e l’ultima cosa l’aveva detta con una vergogna piuttosto perentoria.
“Nessun imbarazzo Corrin” aveva parlato Lilyiana, “Anche i grisha possono essere criminali” aveva aggiunto. “Però …” aveva ripreso a parlare la principessa, “Voglio vedere prima il morto” aveva stabilito.
Dimitriji aveva voltato lo sguardo verso Malcom, quando Lilyiana si era dedicata nuovamente a Corrin. “Sai-qualcosa?”  aveva boccheggiato, “Ti pare?” aveva mosso le labbra Malcom, davanti l’alto del suo disinteresse. Dimitriji quasi invidiava la natura ferace del soldato: nessuna preoccupazione, nessuna idea, solo cieca obbedienza.
“Ne è certa?” aveva chiesto il direttore con un tono di voce pregno di preoccupazione, di chi proprio non gradiva l’idea che un’alta carica della corte venisse a interessarsi di quelle vicende. In una prigione capitavano sempre cose oscure. “La mia famiglia sovvenziona questa struttura perché non sia uno zoo” aveva replicato schietta e dura la principessa, “Ne sono consapevole, moy tsarevich, ma certe bestie che sono qui dentro sono solo travestiti da uomini” si era giustificato il direttore.
La Matvej ospitava alcuni dei prigioni di Ravka, non di tutta ovviamente, sarebbe stato impossibile, almeno delle aree limitrofe della capitale e la struttura era organizzata per contenere quattro diversi tipi di prigioniero: i dissidenti politici, i criminali peggiori di Ravka – assassini, stupratori, schiavisti –, quelli locali che avevano bisogno di due notti in cella e una bacchettata sulle mani e i grisha. Nessun’altra prigione, oltre alcune celle nel Piccolo Palazzo, erano in grado di tenere agli arrestati i creatori della Piccola Scienza.
Non era facile contenere i grisha, ma era meglio una prigione del linciaggio.

 

 

Dimitri riconosceva il famigliare profilo dei mattoni di pietra che occupavano l’angusto corridoio che stavano percorrendo. Aveva battuto quella strada diverse volte con Lilyiana e con Najima nel corso di quasi vent’anni.
La prigione lo intrigava come struttura: i piani superiori erano nuovi e ben tenuti, il piano a terra e il primo in elevato appartenevano ad una struttura preesistente, posteriore alla Faglia, ma erano stati restaurati e sistemati. La struttura però non si limitava a sollevarsi in elevato ma affondava nella nuda terra. Le fondamenta, nascoste sotto il piano di calpestio, erano i resti di un palazzo scomparso da tempo, appartenente a un era precedente alla Faglia, precedente all’unificazione di Ravka, a quando quel territorio apparteneva all’Atila[1] e a meridione a malapena si parlava di rafkiani. Due dei quattro torrioni risalivano al regno di Yevgeny I, che aveva fatto edificare sulle rovine delle lussureggianti ville atiliane la sua prima roccaforte in quella zona, prima che la capitale si spostasse da Os – ai loro tempi ormai ruderi dimenticati a sud, per qualcuno addirittura Dva Stolba – all’appena fondata Os Alta.
Camminavano in quel momento, sul primo embrionale palazzo reale, che sarebbe stato poi sposato più ad est, per ragioni che a Dimitriji sfuggivano.
Le altre due torri erano state una costruzione in tempi posteriori, ma smantellate e ricostruite recentemente; una era stata ultimata appena una cinquantina d’anni prima sotto il penultimo re Lantsov e l’ultima era ancora in fase di restauro, circondata da impalcature di ferro e legno.
Dimitriji aveva ascoltato la storia della prigione dal re in persona, che ci aveva speso molto tempo ed energia, specie nel riprogettare il padiglione nord-est della struttura e si occupava di ampliare la cinta muraria a sud. “Non sarebbe più facile esiliare i criminali nell’Isola di Coib? La mia gente è stata esiliata lì per secoli” aveva commentato sua moglie una volta, mentre con le dita indicava quella piccola isola, così minuscola da vedersi a malapena sulle mappe, nel Mare Vero, poco ad ovest di Ravka[2]. “Spenderemo troppi soldi” aveva risposto lui pratico, “Acqua, vettovaglie e tutto il resto[3]” aveva detto pratico, mentre osservava i progetti.

Il gruppo era stato costretto ad interrompere il loro abituale percorso, per imboccare una via nuova, fino a raggiungere quella che pareva l’area destinata al Sanatorio della prigione.
“Lenzuola lavate, ambiente ben areato e dispositivi medici puliti” aveva affermato tronfio il direttore Petrici, permettendo di osservare l’ambiente in cui erano giunti.
I letti erano una decina, di cui solo tre erano occupati, ma oltre i tre malati nella stanza brulicavano come apine laboriose i membri del personale d’ospitale, almeno due in camicie, una kefta rossa e due assistenti dai visi giovani. Tutti si erano fermati ed avevano fatto le riverenze necessarie alla principessa.
Dimitriji poteva indovinare che i prigionieri fossero più di dieci, ma Lilyiana non aveva detto una parola.

Corrin aveva deciso di condurli oltre, nella stanza adiacente quella del sanatorio, in un ambiente piccolo ed angusto, freddo come una notte d’inverno sotto il cielo nudo.
Dimitriji aveva sentito un freddo pungente accoglierlo ed aveva detestato non aver indossato una giacca più pesante. Aveva intravisto un giovane figuro, appollaiato in un angolo come una bestiola, con indosso un lungo cappotto blu con decorazioni d’argento dalle forme spirali – un etherealki squoller e probabile ragione di quel freddo notevole.
Non era l’unico nella stanza ma era stato di sicuro il più sinistro. “Direttore Petrici” erano stati accolti da un'altra presenza della stanza. Un uomo di mezza età, con la calotta rasa e i pochi capelli grigio sale intorno alle tempie. Aveva un viso anonimo, bianco come la pasta, con rughe rigide a segnarne il tempo. L’uomo era nascosto e riparato dal freddo da una pesante kepta rossa scarlatta, dal cui colletto svettava della pelliccia, per riscaldarsi. Si era accorto secondariamente di loro, particolarmente di Lilyiana, che doveva essere stata ben felice di non essersi privata del cappello di zibellino. “Oh … questa splendida signora?” aveva chiesto.
“Dottor Zevron, ho l’immenso onore di presentarle sua altezza reale la tsarevich Lilyiana Zoyaevna Nazialensky” aveva detto trionfale Corrin petrici. “Principessa, quest’uomo è il dottor Feydor Zevron, medico, patologo e corporalki della prigione” aveva detto con meno fierezza, “Il ragazzo inquietante all’angolo è Revian, si occupa di mantenere questa stanza alla temperatura giusta.”
Revian non era sembrato di aver dato segno di aver riconosciuto il suo nome, era rimasto nell’angolo, appollaiato come una bestia, con gli occhi grandi e vuoti che fissavano un punto lontano. Era presente nella stanza con loro, ma era distante eoni da loro.
“Sì, credo di averla vista una o due volte al Piccolo Palazzo” aveva stabilito la principessa cortese, ignorando Revian e prestando attenzione al dottore.
 Il dottor Zevron aveva sorriso senza cattiveria, quasi ammirato, “Può darsi, anche se l’ultima volta che vi ho veduta era una bambina” aveva ammesso il dottore. C’era stata grazia nello smascherare la menzogna della principessa, “Sbagliate. Avevo diciassette anni” aveva assicurato lei, “E lei è venuto ad incontrare Sankta Leoni” l’aveva corretto. Un’espressione sorpresa aveva colpito il dottore, che aveva spalancato gli occhi a quella confessione, “Io … non mi ricordavo, spero possiate perdonarmi, moy tsarevich” aveva ammesso colto dalla vergogna. “Ho detto di averla visto, mio rispettabile dottore, non che lei abbia visto me” aveva ammesso allusiva la principessa, con un sorriso quasi divertita.
C’era sempre vergogna nel viso dell’uomo.
Lilyiana non si era mostrata ne soddisfatta ne allietata da quella piccola vittoria, ma si era rivelata come sempre un muro di fredda cortesia, mentre spostata di forza l’attenzione da lei a ciò che occupava la stanza.
Oltre Revian, in quella camera fredda riposavano solo morti.
“Quindi siete medico e patologo?” aveva chiesto Dimitriji sfacciato ma interessato, avvicinandosi. “Per essere uno bisogna essere anche l’altro ma non viceversa” aveva risposto quasi con allegrezza Zevron, “Patologo ci sono voluto diventare, ma healer ci sono nato” si era giustificato.
“Affascinante” aveva ammesso la principessa, “Trovo molto bello che si integri la Piccola Scienza con la Grande” aveva aggiunto saggiamente, con quel tono gentile e rispettoso che sapeva prendere all’occorrenza. Dimitriji era certo che fossero tutti suoi dopo quello, tutti ai suoi piedi.
“Sono qui per l’uomo morto. L’ultimo. Quello assassinato” aveva ripreso la principessa Lilyiana, ammiccando nella direzione dei letti di ferro, dove corpi riposavano sotto spessi lenzuoli di bianco cotone.
“Ah, sì, il mio nuovo amico” aveva affermato con un certo rammarico il dottore, aggiustandosi un bottone di legno della kefta rossa, allungandosi verso uno dei corpi. Aveva afferrato l’orlo del lenzuolo per scoprire un viso morto.
Sotto il bianco, c’era stato nascosto un uomo relativamente giovane, sulla trentina, loro coetaneo. Un viso comune, pallido ma non bianco, con capelli lunghi fino alle spalle di un colore marrone come il manto di un topo. Il suo viso era banale, senza niente che lo rendesse interessante o riconoscibile, un viso morbido, un mento piccolo e un naso moderato. Un uomo come mille altri al mondo. Così banale che anche descriverlo sembrava difficile.
La cosa che più spiccava all’occhio era il collo magro, segnato da una ferita frastagliata che lo segava da un lato all’altro, che aveva scavato la carne così brutalmente fino all’osso.
“Dietrich Rigel, un kerchiano” aveva detto piatto il dottore, “Si era unito alla nostra combriccola neanche due settimane fa. Parlava a malapena il ravkiano e pure è riuscito a farsi odiare molto” aveva aggiunto con un tono meno rassegnato.
“Come è morto?” aveva chiesto Lilyiana impassibile, “Un filo di ferro, facile da nascondere, letale” aveva ammesso il dottore Zevron, “Lo hanno preso di spalle e lo hanno ucciso. Il filamento ha tagliato la carotide ed il nostro Dietrich è morto dissanguato nelle docce.”
Dimitriji era quasi ammirato dal fatto che la prigione concedesse queste libertà ai prigionieri, era ancora fermo in lui l’idea tragico-romantica delle galere sporche, piene di topi dove il sole era un mero miraggio. Non doveva stupirsi che il re Nikolai non avrebbe permesso il perpetrare di una tale nefandezza.
Tutti gli uomini meritavano di essere trattati da umani, o quasi tutti.
Una volta Lilyiana e Drina gli avevano raccontato che, quando era ancora il re regnante, Nikolai Lantsov aveva chiuso l’Oscuro in una gabbia dello zoo dismesso. Onestamente, Dimitriji non sapeva quando fosse potuto succedere, visto che non aveva mai letto durante la guerra di una prigionia dell’oscuro, ma aveva accettato da molti anni che non tutte le cose erano sempre come gli erano state dette. Una cosa che lo aveva sempre divertito era cercare di scoprire come fossero davvero andate, dopo oltre quindici anni era ancora intrigato dalla storia dello zoo.

“Testimoni?” aveva chiesto la principessa, il dottore aveva guardato il direttore, “Per ora fin troppi e nessuno utile. Questo posto è una polveriera o un pollaio, dipende dai giorni, moy tsarevich” aveva ammesso cupo e frustrato Corrin. Non doveva apprezzare di trovarsi tra capo e collo prigionieri morti senza ragione. “Le guardie?” aveva chiesto, “Erano state distratte da una rissa, una cosa piuttosto comune. La rissa, abbiamo scoperto, non era stata organizzata per essere un diversivo ma è stata abbastanza … spontanea” aveva ammesso con vergogna il direttore.
“Chiusi in un piccolo spazio gli uomini sono come murene” aveva decantato il dottore, “Cercheranno sempre di uccidersi.”
Lilyiana aveva annuito, consapevole, “Quindi o qualcuno ha fatto in modo che scoppiasse una rissa spontanea, cosa non difficile in un posto così agitato o qualcuno è dotato di incredibile prontezza” aveva soppesato.
Entrambe le ipotesi erano plausibili e forse erano vere, assieme. Lilyiana si era voltata poi verso di loro, “Scommetto che so chi ha scatenato la rissa?” aveva chiesto guardando dritto verso di lui in suli – Dimitriji non aveva mai imparato a parlalo fluentemente, qualcosa che sua cognata gli recriminava ancora, ma era diventato molto bravo a comprenderlo, aveva ridacchiato al commento, immaginando di saperlo anche lui. Malcom aveva emesso un suono che somigliava ad una risata, ma che sarebbe stato troppo audace definire come tale, probabilmente avendo compreso anche lui.

“Quindi chi era l’uomo?” aveva indagato poi, con più disinteresse la principessa, riprendendo a parlare. Non intendeva chiaramente solo il nome.
“Un giovane uomo di Ketterdam, è stato fermato per diversi atti riprovevoli compiuti sotto il sole in luoghi pubblici” aveva considerato il direttore, “Diversi?” aveva insistito Dimitriji.
“Diversi: urinare in luoghi pubblici, spogliarsi nudo, onanismo in piazza …per una settimana lo abbiamo preso e rimesso fuori, fino a che non lo abbiamo beccato mentre cercava di rubare in un negozio di monili a via Barbat” aveva ammesso pigro il direttore.
La via citata era uno dei quartieri alti e ricchi di Os Alta.
“Interessante” aveva considerato solamente Dimitriji, rivolgendo la sua attenzione a Lilyiana, la principessa aveva ricambiato.
Lei sembrava leggermente frustrata da quella scoperta.
C’erano diverse ipotesi da tenere in mente davanti un comportamento così spaesante: il morto poteva essere una persona affetta di qualche mancanza o una persona che voleva disperatamente finire in galera.
Sembrava sciocco, ma era plausibile. Se fosse stata vera l’ultima ipotesi si sarebbero aperti diversi scenari che dovevano rispondere ad un unico quesito: perché?
“Bene” aveva tagliato corto Lilyiana, portando le mani alla vita, lanciando un ultimo desolato sguardo all’uomo morto. “Mene yaram, yekadema mehim[4]” aveva bisbigliato Lilyiana, era un vecchio modo di dire suli, professato in prossimità dei morti.
Non preoccuparti, non sarai dimenticato.

“Le tue teorie sul perché un uomo desidera così tanto finire in prigione?” aveva chiesto Dimitriji, affiancando Malcom, “Vuoi davvero il mio parere?” aveva chiesto sorpreso Malcom, “Sì, voglio ridere di te” aveva risposto sagace l’altro. Ma non era vero, affatto. Era oggettivamente curioso; c’erano cose che Dimitriji riconosceva di non poter oggettivamente comprendere.
“Un uomo che sa cosa è la fame e la miseria” aveva risposto il guardiano secco, senza doverci pensare a lungo, Dimitriji aveva visto la sua mano muoversi in uno spasmo incontrollabile, toccandosi con le dita la punta del naso. Un manierismo che Dimitriji lo aveva sempre visto fare quando ripensava alla sua prigionia. Erano passati diciotto anni e certe cose si erano sedimentate così dentro che non potevano essere eliminate.
“Plausibile sì” aveva concesso il conte, che non aveva mai provato né il freddo nella fame, cresciuto tra i corridoi dei palazzi ed accoccolato davanti ai focolari negli inverni.
Malcom aveva patito il freddo e la fame e la disperazione in maniera così viscerale da averlo spinto sulla Strada delle Ossa, alla schiavitù e qualsiasi cosa perversa fosse successa al nord.
“Non ne sei convinto” aveva valutato Malcom, osservandolo di sottecchi. Aveva occhi marrone chiaro, con piccole puntine di verde, differentemente dalla principessa non aveva lo sguardo di una bestia feroce, ma di qualcosa di peggio. Qualcosa di incontrollabile.
 La principessa si era voltata verso di loro, si stavano dirigendo tutti e tre nella stanza dei ricevimenti – non sarebbe stato auspicabile portare una persona così importante come Lilyiana tra le bestie, nonostante la principessa potesse difendersi abilmente da sola.
“Ci sono alcune cose che non tornano” aveva bisbigliato lei, dando loro nuovamente la schiena. Il suo unico commento.
Dimitriji aveva sentito Malcom vibrare al suo fianco, frustrato da qualcosa. “Credo che volesse disperatamente finire in prigione, ma credo l’interessasse particolarmente questa” aveva bisbigliato poi Malcom, se fosse stato così, sarebbe stato necessario chiedersi perché. “Hanno tre pasti al giorno, i letti puliti, l’ora d’aria e possono lavarsi. Ci sono prigioni a sud, dove si sta in dieci in una segreta e ci si combatte i tozzi di pane con i topi” aveva ammesso Malcom senza vergogna. Descritta così la Matevj sembrava un posto da villeggiatura e non un istituto di contenimento.
“Ma lui è morto” aveva ponderato Dimitriji, “Anzi è stato ucciso. Non lo hanno picchiato a morte, preda di uno sfogo violento, lo hanno strozzato con una garrota in un bagno …” aveva ricordato.
“Allora voleva nascondersi. La Matevj non sarà la Corte di Ghiaccio, ma dal restauro dello tsar, solo Jordan Ghafa la ha violata” aveva ricordato Malcom ed aveva avuto un brivido nel pronunciare il nome esteso della Frusta di Mare.
Quella era una buona idea: la Matevj era difficile da penetrare e differentemente da molte altre prigioni non sembrava così infernale abitarci. Evidentemente non era sopra la corruzione. Da chiunque l’uomo volesse scappare, non vi era riuscito. Dimitriji lo compativa.
“Avrebbe dovuto scegliere la Corte di Ghiaccio, allora” aveva detto a mezza bocca.


Una guardia aveva interrotto la loro avanzata, rivolgendosi rispettoso alla principessa e il direttore: “Il prigioniero è già in una cella dei ricevimenti con qualcuno” aveva detto vergognoso, “Ovviamente quel qualcuno dovrà attendere” aveva ribattuto imperituro Corrin, Lilyiana con più grazia aveva invece chiesto Chi, senza scomporsi o mostrarsi turbata.
“Uhm …l’erede del duca di Keramzin” aveva risposto la guardia con una certa incertezza.
Malcom si era bloccato come colto da una folata di vento e Dimitriji non aveva potuto lasciarsi andare in una risata sguainata, “Perfetto, nessuno dovrà attendere nessuno. La signora è una mia buon’amica” aveva ammesso tranquilla la principessa, senza scomporsi, per quanto fosse rimasta turbata dalla notizia.

Malcom era scivolato per primo nella stanza dei ricevimenti, per quanto quel nome risultasse piuttosto pretenzioso per un luogo austero e angusto come quello. Una piccola stanzetta con mattoni di malta, umidi, attrezzata con un tavolo lungo, due sedie ed un samovar a distanza di sicurezza, sorvegliato da una guardia che era sempre di stanza lì.
Una sola finestra con sbarre lucide da cui filtrava un sole a righe.
Seguito a ruota dagli altri.
Come Dimitriji aveva preventivato neanche qualche ora prima: Drina era spuntata fuori a sorpresa.
La donna sedeva su una delle due sedie della stanza, vestita con un lungo, fino alle caviglie, cappotto, da colletto alto, che riparava il collo nudo e la parte bassa del viso, di porpora viola, sul cui orlo inferiore, erano cucite le foglie di acero rosso. I capelli scuri erano sciolti e leggermente ammorbiditi da residui di ricci e dava loro il profilo del lato buono.
Le dita leggermente storte – che non erano mai guarite bene – tamburellavano sul tavolo di legno.
“Come avevo detto, Drina a sorpresa” aveva infatti strillato senza vergogna Dimitriji, attirando lo sguardo su di loro. Drina si era voltata a malapena, prima che la ribalta fosse rubata dall’altra figura seduta.
“Oh! Che bello! Gran riunione” aveva strillato una voce maschile.
Ammanettato mani e piedi in ferro, il prigioniero aveva parlato.
Drina li guardava, aveva fatto oscillare i capelli scuri, mostrando l’ottima sartoria che aveva sistemato il viso, rimasto intonso e rivelando il lattiginoso occhio bianco e cieco.
“Buongiorno” aveva detto calma e misurata.
“Grazie per non aver ignorato il telegramma Dimitriji, ma mi aspettavo Naji” aveva chiocciato il prigioniero attirando nuovamente l’attenzione su di lui. Sedeva al lato opposto del tavolo di Drina, indossava l’uniforme pesante della prigione, un indumentaria di cotone grigia senza bottoni e pantaloni morbidi, come scarpe basse foderate. Nessun bottone, nessun laccio.
I vestiti erano tesi sotto un fisico asciutto, ma ampio. E i capelli portati più lunghi di quanto la moda da bene richiedesse ad un uomo, degni dello stile selvaggio del prigioniero, una faccia più che nota, addirittura amica. “Lei non poteva, hai avuto noi” aveva replicato Dimitriji.
La principessa era rimasta in un silenzio quasi religioso, mentre con gli occhi posava l’attenzione su Drina, come se improvvisamente solo loro fossero state nella stanza.
Nessuno era cieco alla situazione che si era intessuta in quella stanza. Uno dei motivi per cui Dimitriji aveva rinunciato alla mano di Lilyiana era che non potesse sopportare di essere amato di meno di quanto volesse – era un accumulatore e un egoista – e non ci sarebbe mai stato spazio per qualcuno nel cuore di Lilyiana, finché Drina fosse vissuta.
Anche nell’odio, nel dolore e nel rammarico.
E forse anche oltre la vita.
“Un giorno capirò come fai sempre ad essere un passo avanti” aveva sospirato Lilyiana, ignorando tutti e tuto e raggiungendo Drina, l’altra si era sollevata e si era lasciata baciare sulle guance, “Sono più brava a raccogliere informazioni, i talenti di uno zero” aveva ammesso, lasciando la sua sedia alla principessa. “Ehi … io sono qui” si era lamentato il prigioniero, attirando l’attenzione.
Lilyiana si era seduta e gli aveva rivolto uno sguardo ghiacciato: “Cosa cazzo hai combinato?” aveva detto volgare e imperiosa.
L’uomo aveva riso con una punta di divertimento estremo, “Molto divertente, in realtà” aveva cominciato a dire, “Ero arrivato in città per la Festa dei Dieci Giorni. Insomma, volevo passare del tempo con le mie persone preferite” aveva ammesso pedissequo. Lilyiana aveva fatto roteare gli occhi. L’uomo aveva ricominciato: “Però ho pensato di andare a trovare il vecchio Van’ka, insomma l’uomo era uno stronzo, ma mi ha insegnato un mestiere e come stare al mondo, dopo essermi stufato di quella gabbia dorata del Piccolo Palazzo.
Però mentre ero all’emporio ad aiutare il vecchio Van’ka a sistemare i cataplasmi e i suoi intrugli, ho reincontrato la bella Ewangelina” aveva mimato, per quanto possibile con le mani ferrate, delle protuberanze sul petto.
“Ma cosa stai dicendo?” aveva farfugliato la principessa.
“Ewangelina, per favore, ero innamoratissimo di lei, dieci anni fa” aveva spiegato, “Come puoi non ricordarti di Ewa? Aveva delle tette che sembravano budini e quello spazietto tra gli incisivi tra i denti molto interessante” aveva raccontato agitato.
Una vaga immagine si era palesata nella mente di Dimitriji, richiamato a quella pittoresca descrizione, ma niente che avesse contorni definiti. La principessa aveva arricciato le labbra come unica risposta, l’altro aveva proceduto come un treno non turbato: “Comunque, io e la buona Ewa ci facciamo due chiacchiere, ci prendiamo dei biscotti al burro e ci sorseggiamo un bel tè in questo localino nuovo-nuovo che non sapevo neanche esistesse. Così tra una chiacchiera e l’altra decidiamo di rievocare un po’ i vecchi tempi, quelli che non prevedevano solo tè e biscottini, se capite. Solo che non sapevo che mentre io vivo avventure da romanzo d’avventura, Ewangelina avesse avuto la brillante idea di accasarsi con un brutto uomo tre volte più grosso di me” aveva aggiunto, “Così il buon marito torna a casa e mi trova a culo-nudo con i graffi di sua moglie sulle chiappe.”
La stanza era scesa in un silenzio piuttosto imbarazzato, “Sankti” si era lasciato sfuggire giudicante Malcom. “Niente lui impazzisce, cerca di colpirmi, io colpisco lui, con un pugno, e badate bene che potevo farlo esplodere. E, invece, cerco la via della pace e scappo dalla finestra, senza rimettermi le braghe nè le mutande e mi metto a corre. Quello non pago mi insegue” aveva raccontato, prima di terminare la vicenda con il suo arresto mezzo nudo, inseguito da un uomo che millantava fosse un lestofante.
“Perché siamo ancora tuoi amici?” aveva chiesto senza dignità la principessa, “Do colore alle vostre altrimenti grigie vite …” aveva risposto l’altro.
“Pago la cauzione e ti tiro fuori di qui” aveva sospirato Drina, chiudendosi indice e pollice sull’attaccatura del naso, “No, non la pagare; faremo convertire i suoi crimini a lavori utili. I bambini del Piccolo Palazzo si divertiranno un mondo” aveva stabilito la principessa.
“Non hai paura che influenzi male quelle giovani menti?” aveva detto il prigioniero senza reale crudeltà; “No. Dopo dieci minuti con una ventina di bambini magici mi pregherai di rispedirti qui con una condanna di dieci anni” aveva detto Lilyiana, sollevandosi dalla sedia con un certo sarcasmo, “Oh, ci sarebbe anche il buon Anton in prigione, da far uscire” aveva provato quello.
“Ecco, ora si spiega il kerchiano morto.”

 

Dimitriji non aveva idea di come Anton Boer fosse rimasto intrecciato con i suoi amici, ma era evidentemente l’unico di loro a non avere idea di chi fosse l’uomo di kerch davanti a lui, questo non gli aveva impedito di fingere di essere consapevole di ogni cosa.
Lilyiana aveva preteso, ormai usciti fuori dalla città che si fermassero a mangiare del biliny in un locale. Era una tradizione che sapeva di vecchio e di nostalgico e dà che avevano cominciato a maritarsi, fare figli, organizzare guerra private e darsi alla politica non avevano potuto più fare con la stessa scioltezza di prima.
“Quindi l’uomo morto?” aveva indagato Malcom, guardando i due ragazzi. Aveva puntellato il gomito sul tavolo ed aveva posato il viso graffiato sulla mano, inclinato il capo. “Era uno stronzo” aveva comunicato Anton Boer, con un tono asciutto e misurato, di chi era abituato a non farsi trascinare da nulla. Era kerchiano dalla testa grando ardente alle scarpe squadrate di pelle rovinate, aveva anche un accento così forte e brutale che le lettere, di tanto in tanto, finivano inghiottite. Aveva parlato poco da quando si era seduti a consumare il pranzo dolce, ma Dimitriji lo poteva capire, il suo ravkiano era a malapena difendibile. “Elabora” lo aveva invitato la principessa con un tono perentorio. “Era uno stronzo che ha fatto incazzare Kaz Brekker” aveva spiegato al suo posto il loro amico, prima di versarsi ancora dell’ippocrasso.
“Ed il Vecchio Corvo vi ha appaltato il lavoro” aveva sentenziato Lilyiana, prima di passare la lingua sulle labbra per raccogliere della ricotta che le era rimasta sulle labbra gonfie. “Gli ha appaltato il lavoro, io dovevo solo farlo uscire dalla prigione” si era difeso il loro amico, sollevando le mani come a volersi scacciare di dosso ogni responsabilità.
“E scommetto che hai provocato tu la rissa spontanea” aveva sghignazzato Dimitriji, “Come mi conosci bene” aveva risposto l’altro, ingollando dell’ippocrasso come se fosse stata acqua liscia, “È stato facile. Quel posto è un pollaio, dici al tizio grosso che quello più grosso vuole fare di lui la sua puttana ...” aveva cominciato a spiegare, ma era stato interrotto dal kerchiano. “E tutta la storia di Ewa dalle curve prorompenti?” aveva chiesto Dimitriji, “Tutta vera, solo che potrei aver aggiustato le cose perché il mio arresto sembrasse molto spontaneo … e ci ho rimediato una gran scopata. Ho avuto difficoltà a sedermi per un giorno con tutti quei graffi, ma ne valeva la pena” aveva risposto quello trionfale. “Sankti, tu mi farai uscire pazza” aveva stabilito Lilyiana, roteando gli occhi, ma l’espressione dura e implacabile aveva subito una ferita, che si era manifestata in un sorriso timido, ma colmo di divertimento.
“Drina, tu non mangi?” aveva chiesto Anton, rivolgendosi alla ragazza che era seduta alla sinistra di Lilyiana, leggermente in disparte e silenziosa senza loro. Non aveva parlato quasi per nulla.
Dimitriji scommetteva non apprezzasse molto il tempo speso lì, avrebbe probabilmente voluto essere al Piccolo Palazzo con sua figlia.  “Scommetto che questa sera ci sarà il banchetto più copioso a cui posso pensare” aveva spiegato chiara Drina, tirando i capelli dietro un orecchio. Aveva dita lunghe e nodose, e mai del tutto dritte.
“Probabilmente sì, ma ai bliny non si può dire di no” aveva squittito Lilyiana senza vergogna, agitandole una forchetta davanti il viso. Amichevole.
Drina aveva morso la posata, recuperando il boccone di cibo.
Era stata una scena ingenua, piena di dolcezza che aveva riportato Dimitriji quasi all’infanzia.
“Ah, mi eravate mancati tanto” aveva detto il loro amico pieno di amore e dolcezza. Negli occhi nocciola balenava onesta sincerità ed affetto. “Ketterdam fa schifo, ha un clima di merda, persone di merda e cibo di merda …” aveva stabilito poi quello, senza perdere il sorriso. Anton li aveva tirato un buffetto con il gomito senza vergogna, “Ma non eri kerchiano, tu?” aveva chiesto retorico Malcom, “Non dire mai che Krokin-jin è Kerch” l’aveva bacchettato in risposta.
“Io vado a fumarmi una sigaretta” aveva stabilito Anton, poi, sollevandosi, il suo bliny era stato mangiato solo per metà, ma aveva scolato due bicchieri di birra scura, “Vi lascio alle vostre chiacchiere segrete e ricordi di vecchie” aveva ammesso Anton, prima di fare una riverenza super imbarazzata alla principessa, che aveva rimesso le lenti nere per l’occasione, “E ora lo vedremo sparire” aveva soppesato il loro amico.
“Come sono rincuorata all’idea che un assassino al soldo di Kaz Brekker giri indisturbato per la mia città” aveva sospirato Lilyiana, “È il fratello di Cait” aveva provato Drina senza vergogna, con quelle parole era sceso il silenzio sul loro tavolo.
La compianta e ancora pianta Cait – una creatura senza volto nella mente di Dimitriji, ma che aveva così modellato l’esistenza di tutti i suoi amici. “Come va il lavoro per Kaz Brekker?” aveva chiesto invece Malcom, “Sankti, mi piace un sacco, quell’uomo mette uno spavento bruciante. Possono far esplodere la gente; eppure, lui mi mette un terrore infernale con uno sguardo” aveva ridacchiato il loro amico, nonostante le sue parole, ma il tono era sembrato incredibilmente divertito. “Ora che non c’è l’uomo di Brekker, vuoi essere più esplicativo?” aveva chiesto Lilyiana.
“Sul povero uomo morto? Niente di più niente di meno” aveva ammesso stanco l’amico, “La gente si fa intenerire dal fatto che il Bastardo del Barile ogni tanto faccia atti di carità agli orfanotrofi e pensa che sia una persona debole” aveva spiegato, “Ma …” aveva lasciato cadere la frase.
“Voi due avete inseguito un uomo da Ketterdam ad Os Alta per dimostrare che non lo è” aveva sentenziato Malcom, “Lo avremmo ammazzato anche prima, ma quel figlio di puttana sapeva come non farsi trovare, la prigione è stata una genialata. Probabilmente sarebbe stato molto più difficile se ne avesse scelta un’altra” aveva considerato quello quasi divertito.
“Tipo la Corte di Ghiaccio” aveva scherzato Dimitriji, “Per entra e uscire da quella bastano un materialki, un acrobata e un bombarolo” aveva risposto l’amico, “Dimentichi la guida” aveva scherzato Lilyiana. Ah, i vecchi racconti di Inej Ghafa!
“Io, Jordie e Drina saremo dentro e fuori in una giornata” aveva detto poi quello, strizzando l’occhio verso Drina, che aveva ridacchiato, “E la guida?” aveva scherzato Dimitriji, “Be, quella la raccattiamo nel mentre” aveva risposto l’altro senza vergogna.
Gli altri avevano riso davanti tale spensieratezza e semplicità.
“Comunque, buon per me che ha scelto la Matevj , sapevo come uscire e siamo riusciti a fare quello che dovevamo fare in tempo” aveva detto con lo stesso tono tronfio che avrebbe avuto un’oca. “In tempo?” aveva inquisito Drina, volgendo lo sguardo verso l’amico, gli occhi blu pieni di perplessità, “Ah non lo sai?” aveva risposto divertito l’uomo, “Il signore di Ketterdam sta venendo qui. Evidentemente non è stato contento che l’invito sia arrivato solo agli Oligarchi legali.”
Un modo buffo di rivolgersi al Consiglio dei Mercanti di Kerch, l’organo di governo dello stato, d’altronde chiunque ricoprisse un ruolo di un certo rilievo nel panorama politico mondiale prima o poi era inciampato nel nome di Kaz Brekker. L’uomo non era solo un criminale, era il criminale e tal volta – Dimitriji lo aveva sentito dalla bocca dell’onorevolissima Genya Safin – veniva considerato il quattordicesimo oligarca di Kerch.
“Sankti, questo anniversario rischia di diventare un vero bagno di sangue” aveva soffiato la principessa, “E tra un paio d’anni avremmo il giubileo” aveva smorzato l’atmosfera Drina, ma la sua allegrezza sapeva fin troppo bene di menzogna.
“A proposito di bagni di sangue …” aveva detto vago il lor amico, allungando una mano e prendendo quella di Malcom, in maniera intima e privata, “Devi fare attenzione.”
La voce era carica di angoscia e l’atmosfera sul tavolo si era fatta fredda come una nevicata di inverno.

 

“Ha fatto cosa?” aveva esclamato Najima dopo il suo vivido racconto, non impegnandosi affatto nel trattenere neanche una sghignazzata. Dimitriji adorava il suono della risata di sua moglie, era vibrante, pieno di vita e di amore. Ricordava ancora la prima volta che l’aveva udito, aveva tredici anni e sua madre si era impegnato perché lui fosse un gentiluomo preciso e rispettoso e li aveva dato una chiara idea di come anche le donne dovessero essere. Lilyiana e Drina non soddisfacevano l’idea, ma era accettabile, erano grisha ed erano selvagge e diverse, ma Najima no, ma era sguainata e sfacciata ed aveva messo a disagio Dimitriji come poche cose.
È una suli volgare e Nikolai non dovrebbe permetterle di passare così tanto tempo con la principessa, già uno scandalo che abbia come amica quella contadinotta di Keramzin’ aveva detto suo padre seccata, ma Dimitriji non aveva fatto altro che pensare che Naijima avesse una risata bellissima.
Forse, era stato quel momento, il principio, si era detto.
“Una delle sue” aveva risposto Dimitriji, ripensando a quella vicenda di quella giornata; ripensandoci si chiedeva quanto il suo amico dovesse aver organizzato tutto ad arte per essere messo in prigione.
Qualche rissa, qualche diversivo ed il lavoro era fatto: dentro-e-fuori e morto l’uomo.
Dimitriji poteva pensare di essere bravo ma il suo amico sapeva essere dannatamente creativo.
“Perché riesco chiaramente a vederlo correre nudo per le vie di Os Alta ad uccello al vento? E, poi, ancora Ewangeline, pensavo che quel ponte fosse crollato da un po’” aveva chiesto retorica Najima, “Non so, è amico tuo non mio” si era difeso lui senza vergogna, mentre la silenziosa Natasha sistemava il tè per il pomeriggio nell’ambiente di rappresentanza.
Per quell’occasione aveva rinunciato al samovar ma avevano deciso di preparare un tè alla maniera fjerdiana, con l’acqua aspra bollita e le foglie infuse dopo essere state fatte seccare. Un modo di consumare la bevanda che non solo gli era estraneo ma anche abbastanza inviso.
“Sai anche tu che non è vero” aveva risposto piccata sua moglie, con una risata senza cattiveria, pigiandoli un dito sul naso, “E amico mio, quanto tuo.”
“Tristemente vero” aveva ammesso Dimitriji. Non aveva mai avuto molti amici, era bravo nel socializzare con le persone, i suoi genitori lo avevano educato a menadito nell’arte della diplomazia e nelle forme di carineria di corte, ma Dimitriji non era mai stato bravo ad essere sincero. Tutti i suoi amici e conoscenze erano state le appendici che la principessa si portava dietro … e poi Najima.
Però lui li considerava suoi amici, anche se forse non era ricambiato. Dopo tutti quegli anni erano le persone che gli erano più care, dopo Najima e Andrej; erano le persone di cui sentiva il bisogno di volersi prendere più cura, perfino di Malcom con il suo feroce malumore e quella serpe del Principe Consorte.

Il pensiero dell’inferno kaelish lo aveva spinto poi a parlare ancora: “Sono preoccupato per Mal, comunque” aveva detto.
Continuava a ricordare la mano nervosa del loro amico raggiungere quella di Malcom con una stretta quasi disperata. “Sì, penso che la presenza di Drina alla corte lo renderà di un umore peggiore del solito. Quanto vorrei potessero fare la pace” aveva sospirato Najima con quel suo tono buono e pregno d’amore. “Hanno raggiunto un’intesa” aveva considerato Dimitriji perché su carta risultava così, avevano inghiottito i loro dissapori, ma il legame che aveva uniti i loro animi era arrugginito, come un vecchio ponte ancora in piedi sulle acque, ma ogni passo posato scricchiolava stridente e i bulloni rossi erano pronti a venir via. Prossimo alla distruzione. “Non credo che Drina sia il problema” aveva elargito Dimitriji.
Najima aveva spalancato gli occhi, stupita.
“Ti viene in mente una qualche ragione per cui Kaz Brekker possa nutrire rancori contro Malcom?” aveva chiesto Dimitriji; impegnando la mente lui non aveva davvero la minima idea perché un sinistro figuro di Ketterdam dovesse avere qualche animosità contro il dispotico Malcom. Molta gente aveva molte ragioni, e tal volta piuttosto giustificate, ma non immaginava nessuna per Kaz Brekker. D’altronde Dimitriji non conosceva l’uomo di Kerch e sapeva che Malcom fosse stato nell’isola della perdizione una volta in vita sua – e, sì, forse non aveva compiuto pochi danni.
“No”, aveva risposto genuina Najima, ma poi aveva aggiunto con una voce neutra e incolore: “Jordan Ghafa … d’altronde.”
Certo, Jordan Ghafa. Il figlio.
Come non pensare a Jordan Ghafa. Era sicuramente il figlio di Sankta Inej delle Catene Spezzate, lo spettro della vendetta, un titolo che nel profondo non ispirava poi così tanta bontà, se non si considerava che Jordan dovesse aver ereditato oltre la tenace di sua madre anche un po’ dell’anima nera di suo padre.
Jordan Ghafa che aveva giurato un giorno di ripagare Malcom con gli interessi.
“Signori, il nobile Ioren Birstorr, fratello del quinto margravio di Wanderfall, Sigtryggr
Birstorr, è qui” aveva sentenziato l’attendente, interrompendo il suo girovagare di pensieri sulla faida di Jordan Ghafa e Malcom, ormai vecchia di un decennio.
Non aveva mai trovato compimento la maledizione della Frustra di Mare, ma sospettava che Jordan Ghafa dovesse essere un uomo paziente.
“Bene, sei pronta per questa danza?” aveva chiesto Dimitriji, poi scacciando quei pensieri, “No, per i sankti. Sono un soldato non una stratega. Tu pianifichi, io eseguo. Funzioniamo benissimo così” aveva affermato sua moglie, prima di rivolgere un sorriso carico di genuina complicità, “Tu ti sottovaluti” aveva detto Dimitriji, prima di sporgersi per baciarla sulla guancia, appiccicoso.
“Ora riceviamo il nostro ospite” aveva squittito Najima.

Il loro soggiorno era stato predisposto per ospitare un incontro colloquiale e informale. Non avevano apparecchiato l’angolo dei divani ma avevano preferito sistemarsi intorno il tavolo ovoidale. Avevano sistemato la teiera colma di tè alla maniera dei babnik, da cui si alzava una torretta leggera di fumo bianco all’aroma di zenzero e rosa e alcuni dolciumi misti che potevano soddisfare i gusti del continente intero, dalle gelide lande del Kenust fino alle terre sempre verdi dello Ji. Attorno al tavolo erano state sistemate solo tre sedie imbottite, decorate con ricami di fiori blu su un fondo bianco – in una bizzarra fantasia che ricordava il decoro delle maioliche.
Lui e sua moglie si erano alzati rispettosi come voleva l’etichetta, mentre l’attendente e Natasha facevano scivolare l’uomo nei loro ambienti.
Eccolo! Aveva pensato Dimitriji vedendolo chiaro per la prima volta.
La spia Fjerdiana che aveva dato parecchi grattacapi alla principessa Lilyiana e inaridito qualche cuore, altrimenti morbido. Non era la prima volta che si incrociavano, ma sarebbe stata comunque la prima volta che si sarebbero conosciuti.
Dimitriji era grato almeno che non fosse brutto, era un pensiero stupido lo sapeva, ma non avrebbe potuto sopportare che l’aculeo che aveva incrinato il rapporto tra Dominik e Lilyiana fosse nato a causa di un ragazzino scialbo. Non poteva neanche sopportare che fosse anche mediocre – quello doveva ancora essere stabilito.
Ioren Birstorr era un vero fjerdiano, alto, con le spalle larghe e il corpo impostato, non sembrava a suo agio né con il suo aspetto né con il suo portamento. Aveva la pelle di luna, i capelli biondo-chiaro come la pasta prima della doratura, gli occhi blu-grigi e l’aspetto ferreo ed ordinato di un fjerdiano. Se avesse avuto i lunghi capelli e la barba sarebbe apparso un druskelle perfetto, ma quello era il destino toccato ad un suo fratello maggiore. Dimitriji aveva fatto i compiti: Ioren Birstorr era il quarto maschio di una famiglia nobiliare, il primo era diventato Margravio, il secondo druskelle e il terzo sarebbe dovuto essere un ambasciatore – Dimitriji lo aveva conosciuto lui, a Ahmrat Jen; Theon Birstorr che non era né alto, ne imponente ne biondissimo e a guardarli così non erano sembrati neanche fratelli – e a Ioren sarebbe dovuto toccare il cammino di Djel, ma la vita, come volevano i Sankti, aveva preso una piega inaspettata.
“È un piacere rivederla, signor Birstorr” aveva vagliato Dimitriji, “Mi dispiace che non abbiamo avuto modo di parlare questi giorni.”
“Anche per me lo è, sono onorato di questo incontro” aveva ammesso con lieto imbarazzo il fjerdiano. La sua voce aveva un tono melodico, come se stesse leggendo una poesia, anche in una conversazione qualsiasi. “Convengo che la corte di Ravka si stia dimostrando stimolante per un erudito della sua fama” aveva considerato sua moglie con innocente interesse, “Ieri ha svergognato tutti alle letture” aveva ricordato.
Dimitriji era un estimatore della letteratura e delle arti umane, aveva trovato il componimento poetico di Ioren stilisticamente perfetto, con tutte le rime, le lunghezze e le figure al posto giusto, neanche una sillaba fuori posto e foneticamente intrigante, inoltre se si considerava che l’uomo non aveva scritto nella sua lingua madre lo sforzo diventava davvero encomiabile, ma lo aveva trovato nel contenuto un ammasso di patetismo imbarazzante e forzatamente stucchevole.
Però aveva raggiunto il suo scopo; nessun occhio era rimasto asciutto e i principi maggiori di Ravka erano rimasti giustamente turbati. Dimitriji ricordava l’umidità inespressa negli occhi di Dominik e l’adirata espressione sul viso di Lilyiana.
“Sì, vostra gentilezza” aveva ammesso Dimitriji, “Questa mattina la principessa ci ha intrattenuto in una deliziosa discussione sull’evoluzione dello stile artistico ravkiano e le sue influenze estere. Molto interessante. La principessa è un’oratrice davvero capace” aveva ammesso Ioren calmo, con un una nota sottile di ammirazione.
Ioren Birstorr doveva essere un grande estimatore delle arti umane.
“Sì, la principessa Alina è molto erudita nella storia dell’arte e nelle forme” aveva considerato circostanziale Dimitriji, poteva aver accennato alla nobile Genya di non permettere che tale amore morisse in un interesse passeggero. Nonostante la loro educazione a tutto tondo, ne Lilyiana, ne Dominik erano risultati giardini particolarmente coltivabili in quell’ambito. Non che ve ne fosse una colpa, Dominik era brillante e Lilyiana era vorace di conoscenze.
“Prego, comunque, si accomodi” Najima aveva invitato con gentilezza Ioren a sedersi, ammiccando alle sedie disposte intorno al tavolo.

“Quindi eri un adepto di Djel?” aveva chiesto interessata sua moglie, con un sorriso allegro e sincero. Dimitriji ammirava l’abilità di Najima di essere spontanea e di trovare davvero curiosità per ogni stranezza e nobilità, a lui del passato religioso del loro ospite interessava il giusto, il giusto utile ai suoi scopi.
“Sì, ma non ho mai giurato all’Albero Sacro” aveva spiegato Ioren con un tono calmo, misurato, perfetto e forse fin troppo controllato. Aveva bevuto il tè caldo a piccoli sorsi e non aveva osato pizzicare neanche un pasticcino. “Un po’ me ne dispiaccio, mi piaceva l’ambiente del monastero … ma alla fine pare che io sia più bravo nella letteratura che non nel recitare i salmi” aveva ammesso cheto.
Oltre che essere un po’ troppo peccaminoso per i rigidi dogmi di Djel aveva pensato Dimitriji cupo.
“La regina Mila dice sempre che sarei stato sprecato chiuso a trascrivere manoscritti” aveva considerato. Avrebbe dovuto inorgoglirsi nel pronunciare quella frase, la regina Mila non mancava della fama di un’amante delle arti e di aver creato un circolo letterario nella sua corte; Ioren ci era finito in mezzo e con l’attitudine da bravo erudito, era divenuto poi istitutore del principe. Avrebbe dovuto esserci orgoglio nel suo viso, ma Dimitriji aveva visto la fiacchezza di una condanna.
Forse il buon Ioren avrebbe preferito rasarsi il capo, indossare il saio e con le ginocchia affossate nella neve, dove potersi fustigare la schiena per placare il suo giudicante dio, cose che Dimitriji non poteva comprendere. Suo padre lo aveva educato al culto dei sankti e lo aveva costretto ogni giorno religioso ad attendere alle funzioni, ma ben presto Dimitriji non vi aveva trovato interesse, non quando aveva potuto vedere una sankta in carne ed ossa camminare davanti gli occhi e comprendere la realtà inequivocabile del mondo: i sankti non erano esseri di moralità superiore, erano creature dotate di qualcosa in più che agli altri uomini era proibito e di solito era la Piccola Scienza – Inej Ghafa, esclusa, anche il mondo aveva bisogno delle sue eccezioni. “Meglio così” aveva considerato Dimitriji, “Ne ha sicuramente giovato il principe ereditario” aveva aggiunto, rimarcando il ruolo di Ioren come istitutore della corona di Fjerda.
“Il principe Matthias è un giovane uomo molto eclettico. Ha un animo nobile” aveva soppesato Ioren e c’era stata dall’autentica dolcezza nella sua voce.
Dimitriji aveva ripensato alle parole secche di Lilyiana di quella mattina: un bravo bambino.
Vediamo quanto è davvero bravo’ aveva pensato, osservando con occhi attenti l’istitutore.

 

“Perché sei vestita come un oyirad?” aveva chiesto Dimitriji, osservando Drina al suo fianco, “Sei l’unico uomo che conosco che fa caso sempre a come sono vestite le persone … particolarmente le donne” aveva replicato l’altra, posando le mani sui fianchi snelli. I sankti avevano donato a Drina un paio di occhi azzurri come le acque agitate del mare del nord, ma non erano mai stati generosi né con forme morbide né con un fascino intrigante. Aveva ereditato gli occhi vispi e belli di suo padre, così come le labbra piene e il naso dritto, ma per il resto somigliava a sua madre – una creatura piuttosto anonima. Anche acconciata, lucidata e stirata come in quella serata, Drina non spiccava particolarmente, se non per gli eccentrici abiti delle culture del sud e delle montagne – cosa che lui mai o quasi le aveva visto indossare – e la collana di perle delicate bianche con i riflessi azzurri … perle del Paar.
Da bambino orribilmente Dimitriji aveva pensato fosse una crudeltà inaudita per Lilyinana girare sempre con lei, come se fosse stata un’ombra opaca che dovesse mettere ancora più in risalto la portentosa bellezza della prigioniera. Era stato un bambino sciocco.
Drina sembrava molto più rilassata rispetto la mezza-mattina; aveva impomatato il viso con la cosmesi e dipinto le palpebre di un azzurro tenue che metteva in risalto i suoi occhi blu, per il resto invece del sarafan tradizionale o un abito alla moda, aveva preferito indossare la lunga tunica oyirad, con le maniche larghe, la gonna morbida ma stretta sulla vita, con decori di ogni genere dal petto, lungo tutto il busto. “Osservare mi ha sempre reso felice” aveva ribadito lui, mentre spostava una sedia per far accomodare Drina – suo marito non era ancora tornato da ovunque fosse finito. “Mi rifiuto di credere che anche tuo marito non faccia così” aveva considerato lui di rimando.
Drina aveva sorriso timida, con le gote appena arrossate, in una immagine terribilmente tenera, “Sì, ma in realtà è diverso. Tu sembri proprio appassionato di moda” aveva replicato. “Forse mi piacciono solo le belle donne in bei vestiti, non ci hai mai pensato?” l’aveva presa in giro.
Drina aveva ridacchiato e la sua risata era stata adorabile da ascoltare.
“Invece, tuo figlio ha scalpitato perché tu lo portassi qui?” aveva invece indagato la sua amica, mentre scivolava sulla sedia, alla sua sinistra avrebbe avuto un rispettabile dignitario di Novy Zem e alla destra la principessa ereditaria. Lilyiana aveva preteso il posto tra Drina e Najima, come ai vecchi tempi, Dimitriji avrebbe soggiornato accanto alla sua dolce metà.
Riguardo al Principe Consorte, a cui usualmente sarebbe stato riservato il posto alla sinistra della sua principessa, Dimitriji non ne aveva idea di dove fosse stato locato, aveva cercato velocemente il nome sui segnaposti, ma non aveva scorto il nome lungo la loro tavolata.
Il Principe Consorte doveva essere stato mandato in esilio all’altro tavolo, quello del principe Dominik.
“Sì, voleva venire a tutti i costi. Ha dieci anni, ha deciso di essere pronto al suo debutto in società” aveva scherzato Dimitriji ripensando ai caprici che suo figlio aveva fatto quella sera.  A lui sarebbe in realtà quasi piaciuto portarlo, era certo che Andrej sarebbe stato un perfetto uomo di corte anche nei suoi dieci anni e più erudito di metà dei nobili seduti a quei tavoli. Probabilmente però il suo perfettissimo bambino si sarebbe presto annoiato di una festa che aveva la sua massima aspirazione nell’ubriacarsi. “Inoltre, ieri è stato così soddisfatto del suo intervento alla serata delle Letture” aveva aggiunto.
Suo figlio era stato perfetto ed aveva fatto anche un intervento spigliato e divertente – giurava di aver sentito anche la piccola principessina di Shu-Han sospirare colpita.
“Ricordi come eravamo noi a quell’età?” lo aveva preso in giro Drina, mentre osservava con un certo disinteressa la cristalleria con cui era stata apparecchiata la tavola, “Ricordo che tu, Anchel e Cignaz vi siete infilati a una festa degenerata, qui, prima di compiere tredici anni” aveva rammentato lui, “Questo perché a te mancava il coraggio” aveva riso Drina con un sorriso un po’ storto. “Perché Lilyiana non era con voi? Non lo ricordo” aveva chiesto poi Dimitriji, cercando di ricordare meglio, ricordava di aver avuto paura e di aver detto che non lo avrebbe fatto, quando avevano raggiunto ormai le stalle. Come un dipinto nella sua mente, riusciva ancora a richiamare l’immagine di Drina e Cignaz, dividere la stessa sella a cavallo del garrese di un castrato orlov[5] grigio-argentato, con il muso nero e la criniera bianca come il sale e Anchel dietro di loro su un puledro scalciante dal manto caramello. “Si era presa la febbre perché aveva fatto il bagno nel lago del Piccolo Palazzo, erano i primi giorni d’autunno. In realtà se la memoria non mi inganna lo avevamo fatto tutte e tre, io, lei e Najima” aveva rammentato Drina, quasi dolce, “Voleva venire anche lei, ma Genya l’aveva ammanettata al letto e ricoperta di coperte. Najima, invece, aveva ricevuto la visita di una cugina – Amina, te la ricordi?” aveva frugato i suoi dubbi Drina, “Ricordarmela? Non sai le regole? Quando sposi un suli, non sposi solo la persona, sposi tutta la famiglia … e intendo tutto l’albero genealogico” aveva risposto retorico lui, pensando proprio alla noiosa cugina Amina, che era spesso diventata una presenza fissa e molesta nei primi anni di matrimonio. “Continua a dire che il coltello che ho forgiato per Najima fosse scadente” aveva ricordato, “Ho sempre pensato fosse cretina, è un lavoro meraviglioso, da materialki!” aveva risposto ruggente Drina, che era stata parte decisamente attiva della cosa.
Una lama all’acciaio al crogiolo[6] frapposto ad oro, con manico in giadeite verde chiara[7]. Un tipo di lavorazione la cui formula era perduta e che Drina era riuscita a riprodurre assieme ad alcuni suoi compagni di scienza – l’arte della spada era divenuta obsoleta ma le lame forgiate ad acciaio di crogiolo erano considerate ancora una bellezza.
“Mi manca quella spensieratezza … a volte” aveva ammesso lei. Dimitriji non era sicuro di sapere a quale spensieratezza si stesse riferendo, se prima degli schiavisti o gli anni successivi, quando le cose avevano cominciato a sistemarsi di nuovo, quando le cose avevano cominciato a funzionare ancora, fino a che non lo avevano fatto più. Anche a Dimitriji, ovviamente, mancava quella spensieratezza e mancava quella Drina; un giorno era partita per una gita con i grisha del Piccolo Palazzo a Os Kervo – mentre lui era stato costretto da suoi genitori a rimanere al Gran Palazzo, ‘Per favore, laphuska tu non sei come loro’ – e quando era tornata non era più stata la stessa. “Anche a me” aveva detto. A volte gli mancava anche l’ingenuità che avevano cercato di riformarsi dopo … però meno.
Perché ti sei voltata?
Quel pensiero traditore ancora una volta aveva infranto la sua mente.
 “Inoltre, qui ci si diverte molto di più, non parlo degli intrighi. Anche i laboratori, che i sankti mi perdonino, il bosco di Sankt Feliks sarà il centro del progresso, ma gli studi dei nolniki qui e i banchi materialki del Piccolo Palazzo sono luoghi molto più allegri …” aveva parlato Drina.
Era stato un po’ imbarazzante, ma Dimitriji non aveva ascoltato tutto il suo discorso, contro quanto gli era stato insegnato, la sua mente era andata alla deriva. Aveva continuato a vedere nella sua testa la stessa immagine, come una sequenza di fogli disegnati che venivano sfogliati velocemente.
Non era la prima volta che gli capitava, ma era stata la prima volta in molto tempo ed anche una delle più frastornati da ... sempre.
Drina, ragazzina, con la kefta viola prugna, non allacciata bene, da cui spuntava il sarafan semplice da contadina, e i capelli scuri ondeggianti al movimento, che battevano sulla schiena, che percorreva a saltelli allegra il ponte per la nave-volante, ormeggiata sul lago dietro il Piccolo Palazzo. E prima di sparire nel boccaporto, si voltava, un’ultima, volta verso di lui, che era dritto e infastidito, incastrato tra una Najima arrabbiata e un triste Cignaz. E poi ricordava Kos, con i suoi capelli biondi e la mole da orso, spuntare a richiamare Drina.
Rincordava Najima mentre percorrevano il tratto di strada obliquo, della piazza che divideva i due palazzi, si era lamentata tutto il tempo. Dimitriji l’aveva ignorata perso nei suoi pensieri, pensando amareggiato che anche a lui sarebbe piaciuto andare a Os Kervo, con la regina, vedere il Mare Vero e rotolarsi sulla sabbia bianca, anche se non era molto nobile e rispettabile:
“Ho deciso: chiederò a Drina di sposarmi!” aveva interrotto entrambi i loro vagheggi il ragazzo mezzo-shu.
“Oh fantastico! Adoro i matrimoni” si era rimessa subito Najima, perdendo il cattivo umore.
Non c’era stato nessun matrimonio, non per molto tempo. E Dimitriji non sapeva perché fosse ossessionato da quella specifica visione, perché Drina e non Lilyiana, o Anchel o …
Era sempre Drina, forse perché si era voltata.

“Mia figlia, invece, non ne aveva il minimo interesse. Si è solo arrabbiata che non passassi la notte con lei” aveva ammesso con un leggero senso di colpa Drina, richiamando la sua attenzione, “Le bambine possono essere creature molto cattive” aveva ricordato lui.
“Lo ricordo. Ho amato ogni momento qui, eppure a volte avrei voluto che mio padre insistesse di più con mia madre per farmi rimanere a Keramzin” aveva ammesso.
Dimitriji aveva annuito, poi aveva immaginato una versione di Drina che non fosse la ragazza che sedeva ad una sedia di distanza da lui, con gli abiti oyirad e la collana con mille perle di Paar. La immaginava una grezza contadinotta con un sarafan grigio topo e i capelli scuri nascosti dal fazzolo – e un viso bello senza dolori e occhi vivi e pieni di gioia.
Ti sei voltata Drina, quella volta, perché volevi che ti fermassimo? Che ti fermassi?’ era stato il suo punto di chiederle, quasi senza controllo, un impulso naturale vorace, come ogni volta che rimanevano soli. Quali gioie avremmo avuto se lo avessi fatto?
“Comunque, mi chiedevo, oggi hai avuto modo di conversare con Mal?” aveva chiesto poi, invece. Aveva lasciato il locale insieme al loro amico, adducendo la responsabilità di recuperare il criminoso Anton Boer, cosa che non aveva fatto visto che l’uomo kerchiano era scomparso ben presto, ed era tornato poi a Palazzo con una carrozza da trasporto e un amico chiacchierone al seguito. Non aveva voluto dire a Najima che aveva cercato di creare un’occasione per far parlare i due vecchi amici, anche con la compagnia della principessa. Malcom non avrebbe mai lasciato il fianco di Lilyiana e probabilmente neanche Drina.
“Ho conversato con Malcom di cose relative a oggi” aveva ammesso Drina frustrata; “So che non è facile fare pace” aveva provato, ma era stato interrotto, “Noi abbiamo fatto pace e che … il nostro rapporto è come l’entropia, Dimitriji … se fai cadere una goccia di inchiostro in un bicchiere d’acqua; avrai ancora l’acqua e l’inchiostro, ma anche dell’acqua sporca” aveva rammentato.
Soprattutto qualcosa di irrecuperabile – aveva pensato Dimitriji, “Non per un materialki. Un alkemi può ridividerli se lo volesse” l’aveva scongiurata. Drina lo aveva guardato, poi un piccolo sorriso era sorto sul suo viso, “Non per un materialki” aveva concesso lei.
Lilyiana era caduta tra di loro, portandosi dietro Najima, “Sono qui da neanche cinque minuti e già vorrei essere altrove” aveva sentenziato la principessa, aggiustando il cappello dalla forma cilindrica che indossava, il velo bianco si era spostato e l’evocazione dei fulmini avevano reso elettrici e gonfi i capelli. “Ci aspetta una lunga notte, ci divertiremo” aveva promesso Najima, strizzandole l’occhio.

Non gli piaceva ballare, era l’unica cosa da nobile signore in cui non era mai stato eccelso, sfortunatamente per lui, Najima lo aveva sempre amato.
Dimitriji l’aveva vista ballare con ogni uomo e donna di almeno ogni corte, l’unico che gli aveva dato un brivido di fastidio era stato l’audace principe kebben di Shu-Han, che aveva stretto troppo Najima a sé. In seguito, sua moglie, tra un bicchiere di brandy e l’altro, aveva confermato che il principe era stato molto sfacciato sia con lei, sia con Drina.
Decisamente audace. E Dimitriji si era imposto che i suoi genitori sarebbero stati molto delusi da lui, se si fosse abbassato a creare un incidente diplomatico per una gelosia immotivata. Najima era sua come lui era di lei.
“Non balli?” aveva chiesto sua maestà la tsarina sedendosi al suo fianco, ben lontana dal tavolo d’onore che aveva fatto imbandire per i suoi ospiti più alti. Indossava ancora l’abito fatto di squame e scaglie viola-nere, che le copriva il busto come un corpetto – ma era naturale, era la sua pelle vera, che si era riformata in quella forma, spettacolare e spaventosa – da cui poi scendeva una gonna di tulle nera che fioriva in viola. Non indossava più la corona d’oro nero dalla forma di drago, con gli occhi blu fatti di zaffiro. Forse Drina aveva ragione, aveva un interesse, quasi, morbosi per i vestiti, forse in un’altra vita era un modista. “Non ho mai imparato, moy tsarina” aveva ammesso alla fine, “Di solito sto in disparte con Malcom” aveva aggiunto, ammiccando proprio al guardiano.
Il soldato era all’angolo della pista con sguardo truce, i suoi occhi erano per lo più un serpeggiare tra Lilyiana e Drina, mentre le osservava destreggiarsi sulla pista da ballo e di tanto in tanto, quasi come se non lo avesse voluto, l’occhio si posava sulle terribili donne delle Montagne Shu. Su una di loro, quella dalle tre dita d’argento. Forse a Dimitriji mancava qualche informazione, ma la curiosità era meno impertinente della contentezza. Trovava quasi ristorante che Malcom sapesse ancora provare genuini sentimenti come l’interesse.
“Neanche a me piace molto ballare, combattere sì, ballare no, ho dovuto imparare a farlo praticamente su ordine di Nicolai: una regina deve saper ballare” aveva soffiato la regina Zoya con una mezza risata: “Deve anche imparare a saltare a comando ed essere gentile. La gentilezza è il male.”
Dimitriji aveva ridacchiato.
“Io vi ho sempre trovata molto gentile” aveva ponderato Dimitriji e non era una menzogna, “Baghra mi ha detto una volta che i malenchki rubano le lingue ai bugiardi” aveva risposto con una punta di divertimento la regina. C’era dolcezza e sagacia nella voce e se Dimitriji non avesse ascoltato i resoconti di Lilyiana avrebbe pensato che Zoya fosse più acuta che mai. “Anche mia madre lo diceva sempre. Evidentemente se ho ancora la lingua e perché non lo sono” aveva risposto con una risata gentile. La regina aveva sorriso. Aveva degli occhi blu così intensi da sembrare due zaffiri, li aveva donati a Dominik e Alina, ma nei loro volti, per qualche ragione, non sembravano così incisivi. I due principi minori erano incantevoli, come sarebbe potuto d’altronde non essere così con una madre e un padre come i loro, ma non sembravano brillare dello stesso fulgido fascino di Zoya e Lilyiana. Dimitriji doveva imputarlo alla Piccola Scienza, una volta Drina gli aveva spiegato che era come l’allenamento, quando si esercitava il corpo per la salute il corpo si scolpiva tonico e sano, così era la Piccola Scienza, quando esercitava rinvigoriva il corpo, ma anche lo spirito. Doveva essere quello, quel potere misterioso che scorreva nel loro sangue, a donare quell’aspetto così totalizzante.
Così assorbito in quei pensieri non aveva notato la quatta figura del Principe Consorte quando questi si era avvicinato a loro due.
“Moya tsarina” aveva considerato il giovane principe raggiungendoli. L’ultima volta che Dimitriji lo aveva visto era stato sullo spiazzo da ballo, prima far volteggiare l’audace signora di Shu-Han, un’altra donna della delegazione del sud, la regina Mila, un dignitario zemeni e per ultima una giovane donna delle Colonie, con una chioma gonfia e leonina, che lo aveva stretto in un abbraccio un po’ troppo audace. “Nobile Polnudist” aveva aggiunto rispettoso, facendo un inchino rispettoso ad ambedue, anche se era di grado molto più elevato di grado rispetto lui. “Moya tsarina, dici? Sei praticamente mio figlio! Il padre dei miei nipoti” aveva stabilito la regina con un tono leggermente secco. Il composto principe era arrossito sulle guance bianche-avorio, poi un piccolo sorriso sincero era serpeggiato sul viso bello, colto di sorpresa da quella confessione fortemente inaspettata.
“Non volevo disturbare, però, ecco, mi chiedevo se potessi rubare il nobile Dimitriji” aveva provato il principe, ammiccando verso di lui. Aveva lanciato uno sguardo verso di lui poi con aspettativa, “Se sua maestà mi consente di congedarmi” aveva risposto lui.
La regina Zoya aveva annuito, “Chi sono io per oppormi?” aveva chiesto retorica, “Tecnicamente la regina” aveva risposto Dimitriji con un tono divertito, facendola ridere. La risata di Zoya era diversa da quella di Lilyiana, la risata della principessa era fragorosa e imponente, rideva poco, ma quando lo faceva avrebbe potuto sciogliere la neve del permafrost, quella della regina sembrava più briosa e acuta. “Fate bene voi giovani a godervi un po’ di libertà. Io credo cercherò Genya per bere un altro po’ di brandy. Forse riuscirà a convincermi a tingermi bionda di nuovo” aveva commentato la regina.

“Tabacco Shu-hannita, della terra dell’estate perenne” aveva sentenziato il principe mentre estraeva con orgoglio una scatolina in ferro argentato, “Mi hai portato ai margini della piazza per fami vedere del tabacco?” aveva chiesto retorico, “Per consumarne un po’” aveva stabilito il Principe Consorte, “Uno così non lo hai mai provato.”
Si erano allontanati dai tavoli imbanditi, dalla musica e dai balli, per avvicinarsi al piccolo bosco di pioppi che circondava l’ansa orientale del lago. Non erano poi così lontani e l’eco della musica raggiungeva ancora le loro orecchie.
“Un regalo del buon ministro Sunan?” aveva chiesto Dimitriji, ammiccando proprio al genitore del Principe Consorte.
“No, mio padre è fortemente contrario a qualsiasi vizio non sia un buon libro. Questa è una gentile concessione di Dalai” aveva risposto l’altro.
Dalai. Il Principe Consorte non appellava mai con i titoli ufficiali la regina di Shu-han quando parlava di lei e con lei. Era sempre fraterno e informale, ignorante di ogni etichetta e consuetudine d’uopo, che non dimenticava mai con gli altri, incluso il presidente e la delegazione zemeni dove nessuno aveva un titolo nobiliari ma solo lavorativi. “La tua precedente promessa cerca di riconquistarti?” aveva chiesto retorico Dimitriji, mentre il principe gli passava la custodia, “Non ho la pipa” aveva specificato. “Meglio. Questo è tabacco da masticare” aveva stabilito il principe con una risata non molto allegra, “Comunque, Dalai non è mai stata la mia promessa sposa a dispetto quello che tutti possano credere” aveva ammesso, “Mio padre voleva che mi sposassi con una principessa Taban e avessi una figlia che potesse potenzialmente diventare una regina. Dalai era solo la principessina con cui andavo più d’accordo” aveva risposto con un’onesta disarmante il principe, mentre raccoglieva dal contenitore foglie secche arrotolate e compresse di tabacco, da portarsi alla bocca. “Come non potevo d’altronde? Le altre principesse erano noiose, come gran parte delle ragazze con cui parlavo. Dalai era allegra, divertente, parlava più lingue e veniva da una terra straniera. L’Isole Erranti sembravano un concetto così esotico e lontano. Smaniavo per vedere ogni piccola parte del mondo, ne avevo visto molto ma non abbastanza” aveva soffiato, cominciando a masticare il tabacco. Con l’ultimo commento la sua voce aveva assunto una sfumatura leggermente cupa e malinconica.
Si era chiesto se non rimpiangesse i ricchi e opulenti corridoi del Gran Palazzo, che lo imprigionavano lontano da ogni piccola parte del mondo.
Dimitriji aveva preso un tocchetto di tabacco anche lui e lo aveva portato alla lingua, il sapore era forte e stordente, molto peggio di quando lo fumava nella pipa, ma era sicuramente di una qualità migliore di quello che coltivavano nelle serre del Gran Palazzo. “Solo che poi hanno scelto Dalai come futura regina e mio padre mi ha promesso alla giovane Zetian. Marito di una principessa sì, concubino di una regina no. Non ho idea precisa del perché, c’erano certamente più probabilità che sua nipote potesse diventare regina così. Inoltre, non per peccare di modestia, ma sono abbastanza certo che avrei potuto scacciare via gli altri abitanti del Palazzo Proibito” aveva ammesso il Principe Consorte con un sorriso malizioso, pieno di colore e audacia, “Riguardo a Zetian … Come dire; io avevo … uhm … ventidue anni, sì, e lei dodici, forse non ancora compiuti. Non era sicuramente il mio matrimonio ideale” aveva ammesso, spingendo poi il pacchetto di foglie tra le gengive, “Inoltre avevo altre mire.”
Lui aveva ridacchiato, la mia principessa, aveva pensato volgare e ingiusto Dimitriji. “Lilyiana” aveva detto elusivo poi, “Alina era troppo giovane e re Nikolai fastidiosamente difficile da eliminare; quindi” aveva scherzato il Principe Consorte. “E ora come è cresciuta Zetian Kir-Taban?” aveva chiesto poi, gustandosi il sapore del tabacco sulla lingua, “Vuoi la verità? Dicono sia la donna più bella di Shu-Han” aveva riso il principe, “Mio padre mi ha mandato giusto una litografia: capelli nerissimi come la pece e occhi castani come la polvere di cannella, con un incarnato come la madre perla e altre amenità simili” aveva scherzato con una risata fresca, “Sa suonare il kathur a diciotto-corde e recitare a menadito il Cantico dei Cervi in tutte le sue seicento-ventisette strofe” aveva ridacchiato. “Ti è andata proprio male” lo aveva stuzzicato senza vergogna Dimitriji,
Non ricordava la principessa in questione tra quelle che aveva visto durante la cerimonia di incoronazione dodici anni prima e nel corso degli ultimi anni alcune principesse e principi reali si erano palesati alla corte di Shu-Han, oltre la regina Dalai, ma mai la principessa Zetian. “No. Mia moglie è la donna più svelta mondo, anche se non sa ripetere a pappagallo artificiosi poemi epici o suonare strumenti difficili, in realtà pensandoci credo sappia fare anche quello; però può sicuramente folgorati con uno solo sguardo: metaforicamente e letteralmente” aveva risposto il Principe Consorte con un tono di voce gentile e carico di consapevolezza. Raramente i principi e le principesse si sposavano guidati da amori onesti e sinceri e se il matrimonio tra Lilyiana e suo marito era forse nato dalla necessità, era sicuramente fiorito in affetto.
Prima di suo marito, Dimitriji avrebbe detto che Lilyiana avesse amato – o potesse amare – solo Drina.
“Non si può negare” aveva concesso il conte, prima di essere interrotto da un brusio fastidioso; si erano voltati entrambi vedendo una figura scura farsi spazio tra gli alberi. “Chi è la?” aveva chiesto Dimitriji realizzando non avere ne armi ne strumenti per difendersi, mentre il Principe Consorte aveva messo una mano sotto l’ascella della giacca elegante, dove doveva aver nascosto un pugnale o una pistola. Ma nessun oscuro e minaccioso individuo era spuntato dalla foresta di pioppi sottili, solo l’algido principe di Fjerda, senza compagnia, ne guardie.
“Sua altezza reale” aveva detto sfacciato il Principe Consorte, quando lo aveva riconosciuto.
Il principe Matthias Grimjor era rosso in viso come una mela matura, ma la sua espressione non era carica né di imbarazzo innocente né del calore del alcol, era un rosso focoso, quasi rabbioso; sembrava qualcuno che avesse inghiottito un limone – dopo che gli fosse stato spergiurato fosse il più fine dei pasti – e un’espressione così viva che Dimitriji a malapena riusciva ad affiancarlo all’algida figura grigia che aveva visto nei giorni dall’arrivo della delegazione Fjerdiana. “Vostra altezza” aveva risposto rigido il principe, “Vostra nobilità” aveva appellato anche Dimitriji, che aveva fatto un inchino pratico e rispettoso, cosa che invece il Principe Consorte non aveva fatto preferendo una deferenza molto meno marcata. “Stiamo masticando un po’ di tabacco del Wei. Ne vuoLe? Viene dalla terra dell’Estate Perenne, non si trova niente di così sfizioso in tutto il continente” lo aveva invitato audace, “Particolarmente su al Nord” aveva proposto il Principe Consorte.
“Io vi ringrazio per la gentile offerta, forse in un’altra occasione, ne sarei profondamente onorato … temo però ora di dovermi ricongiungere alla delegazione, prego possiate perdonare la mia scortesia” il principe Matthias sembrava aver inghiottito quel fastidio che aveva impomatato di rosse le sue guance, per tornare l’automa a cui si erano abituati, quando aveva ripetuto quelle frasi in una calma rispettosa e quasi innaturale. “Nessuna offesa” aveva rassicurato il Principe Consorte, con un ghigno mellifluo sul viso bello. Il principe Matthias aveva sollevato appena gli angoli delle labbra in un contenuto sorriso, che non sembrava troppo convinto e poi si era allontanato di fretta e marziale. Dimitriji si chiese cosa ci facesse da solo nei boschi, forse era andato a darsi sollievo; quei boschi avevano visto ben di peggio. “Sembrava avesse inghiottito un rospo” aveva scherzato, invece, Dimitriji; “Sì, può darsi, un rospo di nome Alina” aveva replicato il principe, “Lo ho visto allontanarsi qualche tempo fa con lei, ma la mia sorellina è già tornata sulla pista da ballo” aveva replicato, ammiccando lontano, ma non invisibili, da loro, proprio la terza principessa di Ravka che sembrava scherzare divertita con una soldatessa in rosso scarlatto. “Audace per un fjerdiano” aveva ponderato, “Rimane il figlio della Buona Regina Mila, una passata da sventrare pesci a istituzioni nel solo arco di una vita” aveva replicato il Principe Consorte. Quello era vero, che l’algida aurea in cui il principe Matthias si fosse schermato addosso, non fosse che una buona messa in scena e in realtà nascondesse lo stesso spirito affamato e verace di sua madre?
Forse all’ora il desiderio di Lilyiana di vederlo maritato alla piccola Alina poteva tradursi in propositi meno allegri. “Lilyiana dice che è un bravo bambino” aveva ricordato, “Lo pensa dalla prima volta che glielo hanno lasciato in braccio. Sono ancora convinto che se mi abbia permesso di impalmarla è solo perché sperava che i nostri figli fossero cheti e belli come lui” aveva ammesso il Principe Consorte.
Dimitriji sapeva quando Lilyiana aveva potuto tenere infante in braccio il principe di Fjerda, ma riusciva a trovare l’immagine ugualmente difficile, ricordava quando per la prima volta Re Nikolai le aveva dato in braccio la sua sorellina.
Lilyiana aveva tenuto Alina tra le mani tremanti e la sua espressione era velata di un sentimento che Dimitriji riusciva ancora a fatica a nominare: rancore.
“Lo trova così bello che è disposto a dargli anche Lilyiana e solo i sankti sanno quanto mia moglie vorrebbe chiudere le persone che ama sotto-chiave e non doverle dividere con nessuno” aveva detto spento il Principe Consorte. Ancora una volta, Dimitriji aveva avuto il pensiero che il Corridoio Principesco in cui l’uomo fosse rinchiuso dovesse sembrare meno una grazia di quanto non fosse.
“Il povero principe Matthias non sa cosa lo aspetta con Alina!” aveva scherzato, comunque, Dimitriji, per allontanare l’area di freddezza che quello scambio aveva generato. Era anche vero.
Lilyiana e Alina potevano non somigliarsi all’apparenza, la principessa maggiore appariva altolocata e composta, mentre la minore sembrava mostrarsi sempre audace e frizzantina, ma erano ambedue figlie di un drago, botti piene di nitroglicerina. “Io una mezza idea la ho, invece. Sai ho un po’ la mia esperienza con il sangue di drago” aveva scherzato il Principe Consorte.
“Oh, fidati sua altezza!” lo aveva preso in giro, “Tu sei fortunato che Lilyiana non ti abbia mai fatto volare dritto nel lago, al povero Kos è capitato due volte. Una anche a me” aveva scherzato Dimitriji, toccandosi il gomito, ricordando il dolore dello schianto sull’acqua come se fosse stato il giorno prima e non vent’anni quasi. Il principe aveva ridacchiato, “Fidati, mio buon Dimitriji, anche a me è stato destinato un bagno gelido una volta” aveva raccontato, sorrideva con le labbra ma non con i suoi occhi.

“Adesso, sperando che nessun altro principe venga a importunarci, raccontami un po’ che mi sono perso oggi stando in questa palude dimenticata dai sankti ad organizzare questo pasticcio” aveva soffiato il principe.
Dimitriji aveva sorriso svelto, “Lo sapevo che non volevi appartarti solo per parlare male della gente e masticare tabacco” aveva scherzato. “In realtà la tua compagnia è la mia preferità” aveva ghignato il principe.
Lui aveva riso, prima di ponderare bene su cosa fosse d’uopo raccontare, in particolare se cedere sul suo pomeriggio con l’infido Ioren Birstorr o aspettare che fosse Lilyiana a scegliere quali informazioni voleva condivedere con la sua dolce metà. Dimitriji non aveva dubbi che il legame che univa i principi di Ravka fosse stretto, ma era un affare loro e lui voleva bene al Principe Consorte, ma la sua fedeltà imperitura era per Lilyiana. Così aveva scelto un terreno più neutro: le vicissitudini relative alla prigione e al pranzo dolciario che era seguito. “Per tutti gli spiriti del cielo azzurro” aveva sentenziato il principe con voce quasi scocciata, “Ci si aspetta che superata la soglia dei trent’anni la gente smetta di comportarsi come dei dissennati. E invece no” aveva aggiunto, ma la sua voce aveva perso gran parte del fervore crudele.
“E Kaz Brekker sta venendo qui” aveva sospirato poi Dimitriji. Non sapeva se avesse dovuto parlare anche delle preoccupazioni relative a Jordan Ghafa e le poche – ma comunque notabili – informazioni che era riuscito a scucire dalla bocca di Ioren Birstorr. “Questo è molto interessante” aveva considerato il principe, sputando del tabacco sul terreno.
“La teoria più accreditata e che venga perché offeso di non essere stato invitato” aveva ammesso Dimitriji, “Potrebbe essere … certo” aveva scherzato il Principe Consorte, “Potrebbe essere. Come uomo è un mistero” aveva sentenziato quello, “Ci ho pensato un sacco alle motivazioni che lo spingono” aveva aggiunto.
Dimitriji non era sorpreso, Kaz Brekker era una figura intrigante, un oscuro signore del crimine Kerchiano, la cui fama aveva scavalcato i vicoli e i bassi fondi della sua città. Non era un semplice signore dei ratti, era un nome così malvagio da aver raggiunto anche la corte per bene di Ravka. Non per questo era noto come il quattordicesimo oligarca.
“Prendi la questione di Jan Van Eck” aveva ammesso calmo il principe, “Kaz Brekker avrebbe potuto sparare a Jan Van Eck in qualsiasi momento e mettere suo figlio come suo fantoccio e continuare. Così che fanno a Ketterdam, sai? Ti fanno fuori” aveva ammesso quasi divertito, “Jan Van Eck poteva avere tutte le guardie che desiderava, ma una corruttibile poteva essere trovata sicuramente. Nessuno, in quel buco infernale, è esente dalla voglia di qualcosa. Potresti pensare che Jan Van Eck paghi le sue guardie abbastanza perché un bastardello del Barile di diciassette anni non possa effettivamente corromperle, forse così era, ma come noi ben sappiamo, i soldi sono una merce come un’altra” aveva fatto una pausa. Chiunque poteva essere corruttibile.
Dimitriji era intervenuto, “A Kerch un uomo può diventare pari a un re, ma non esiste fedeltà verso nessun re” aveva considerato, una sola fedeltà ed era alla moneta. Era qualcosa che Dimitriji non poteva comprendere per davvero, Ravka era la sua monarchia, la loro fedeltà era alla regina. Ravka era unita sotto lo stesso scudo.
Ma non era solo il denaro, forse una delle guardie che aveva avuto Jan Van Eck aveva avuto un figlio, adorabile come il suo Andrej che poteva essere torturato, che lo rendeva ricattabile. Non solo oro.
“Qualcosa di interessante … Per noi sudditi e difficili da comprendere” aveva considerato il Principe Consorte con una mezza risata, “Ovviamente non è vera, la storia degli uomini pari” aveva stabilito, “Ketterdam ha i suoi Grandi Signori. Non avranno alcuna titolatura, ma sono nobili a tutti gli effetti. E sono solo tredici. Il Consiglio dei Mercanti” aveva scherzato, “Nessuna Vasilissa Pavlov potrà mai entrare nel Consiglio dei Mercanti” aveva aggiunto allusivo.
Dimitriji aveva sentito quel commento di un pesante orribile sul suo petto.
 “Quindi, torniamo a Kaz Brekker e Jan Van Eck. Kaz Brekker è un criminale senza arte ne parte e Jan Van Eck è un barone di Kerch, diciamo. E Kaz Brekker poteva semplicemente sparare a Jan Van Eck, mettere Wylan VanEck a capo della società del padre e tirargli i fili come un burattino. Fidati, la storia di Kerch è basata su questo! Quattordici famiglie hanno governato l’isola dalla Decapitazione dell’Ultimo Re per trecento anni e … tutte le innumerevoli losche figure che per secoli si sono mosse dietro quelle spalle” aveva soffittato, “Ma Kaz Brekker ha fatto arrestare Van Eck, ha rivoltato il sistema contro l’uomo più potente, ha fatto di Wylan Van Eck il suo socio e non il suo strumento – immagino non avesse pensato che la cosa potesse morderlo poi –  e non si è limitato a sparire nelle fogne, come un uomo occulto, ma è diventato Kaz Brekker e non viene chiamato a cuor leggero il quattordicesimo oligarca” aveva raccontato con una punta di divertimento il Principe Consorte e sfacciata ammirazione.
“E ora io e te, il signore del metan yez e il futuro re di Ravka stiamo parlando di lui” aveva considerato Dimitriji, “Quindi sì, forse sarà furioso che sua maestà la Tsarina non lo abbia invitato al Secondo Ventennale e viene qui per fare un punto” aveva valutato, “Che lui è e sarà sempre pari a Wylan Van Eck.”
Certamente la regina Zoya non poteva lasciarlo fuori al cancello se egli si fosse presentato lì, “O forse viene ai Dieci Giorni per altri motivi. Sono una ricorrenza religiosa molto importante, la più importante” aveva detto allusivo il principe, prima di sputare senza vergogna del tabacco per terra. “Sì, sospetto che incontrare suo figlio possa annoverarsi tra gli altri motivi” aveva considerato.
“Il piccolo Jordie?” aveva chiesto sfacciato il Principe Consorte, “Devi aiutarmi a comprendere come evitare che Jordan Ghafa uccida Malcom o viceversa” aveva annunciato poi.
Non voleva che il suo amico morisse, ne che diventasse un assassino – o assassinasse il figlio di uno degli uomini con la reputazione più oscura del Mare Vero e di un’eroina popolare – e aveva bisogno di una soluzione. “Possiamo chiedere a Drina di mettere da pacere” aveva soffiato il Principe Consorte, “Raccomandi il gregge al lupo” aveva considerato Dimitriji, pensando alla stupida metafora dell’inchiostro e dell’acqua sporca. “Il problema è che solo lei, può” aveva replicato stanco il Principe Consorte, “Ma puoi contare su tutto il mio aiuto. Sembra che il rapporto tra me e Malcom sia spinoso, ma io provo per lui una stima inimaginabile” aveva aggiunto, il suo tono però non era carico ne di affetto ne di dolcezza. Dimitriji si riteneva abbastanza istruito da leggere chiara la verità: Malcom sarebbe morto per Lilyiana e sarebbe morto per i figli di lei e a prescindere da ciò che Malcom pensava del principe e viceversa, ambedue erano soddisfatti di questo arrangiamento.
La loro conversazione si era dovuta mutare quando un’altra figura, un po’ barcollante, si era palesata nella loro area: Il principe Dominik. Egli aveva perso la giacca azzurra da boiardo ed inossava solo la camicia di raso lucido con i bottini in madre perla, sopra i pantaloni di velluto. Le gote olisse erano tinte di una tonalità di rosso piene di imbarazzo, alcuni granuli di sudore scivolavano dalla fronte e dai capelli umidi e in mano una bottiglia sgraffignata di kvass. Probabilmente il suo aspetto sfatto era da imputare alla notte brava che aveva avuto. “Per essere un angolo buio ed appartato e parecchio frequentato da princpi” aveva ridacchiato Dimitriji.
“Oh, sankti che fate qui da soli?” aveva indagato il principe Dominik, con gli occhi azzurri luccicanti, “Se hai deciso di dedicarti ai piaceri degli invertiti, fratello, e non hai scelto me sarei molto offeso” aveva ridacchiato il principe Dominik, l’altro aveva roteato gli occhi: “Fratello saresti il primo a cui mi rivolgerei. Eravamo qui solo per fuggire dal clangore della festa” aveva risposto calmo.
“Sì, anche il mio piano era quello. Ubriacarmi da solo e lontano dalle premure soffocanti di quella serpe traditrice di Meri, ma ahimè mi hanno dato una missione” aveva ammesso senza grazia: “Dunque, avete visto per caso mia sorella? Alina, intendo?” con le labbra un po’ impastante dall’alcol.
“No!” aveva risposto Dimitriji, “Mio padre la sta cercando, non so cosa è successo, credo abbiano litigato” aveva raccontato senza vergogna il principe Dominik, “E Genya ovviamente mi ha chiesto di dare il mio contributo.”
“Vuoi sederti con noi, fratello?” aveva chiesto il Principe Consorte a sorpresa, Dimitriji aveva sollevato un sopracciglio, ma gli occhi gialli del principe erano già rivolti al cognato. Il principe Dominik aveva annuito, “Sì, dubito che la troverò nello stato in cui sono” aveva ammesso mentre li raggiungeva per scivolare al loro fianco. Aveva un rossore delizioso, probabilmente obbligato dagli eccessi della serata. Dimitriji conosceva Dominik da quando era bambino, l’aveva visto in molti momenti della crescita, e degli smaniosi vizi che esistevano nei ragazzini; una volta ricordava di averlo infilato di forza sotto un getto d’acqua gelida per farlo riprendere da una sbornia.
Ma Dimitriji non lo vedeva così alticcio da quasi un decennio. “Avevo proprio bisogno di sedermi, dopo Alina. Non so cosa abbia combinato, ma mi secca che Lilyiana avesse ragione a dire fosse troppo presto per lei qui” si era lamentato subito il principe. Dominik non era ubriaco, era solo molto alterato. Sospettava, Dimitriji, di sapere le ragioni di un comportamento così poco attento, “Ho insistito così tanto perché potesse venire.”
“Devo darti la sgradevole notizia, caro fratello, che mia moglie tende ad avere spesso ragione” aveva considerato irriverente il Principe Consorte, “Vuoi del tabacco da masticare?” aveva chiesto poi con un sorriso allegro e divertito, allungandosi verso Dimitriji per raccogliere la scatola d’argento dalle sue mani e offrirla al cognato.  “No, ho una certa intolleranza verso quel genere di materia” aveva risposto subito Dominik, “Rende il tuo fiato mellifluo e ti fa i denti gialli” aveva cominciato a spiegare pratico Dominik, “Ed hai un sorriso troppo bello per essere giallo, fratello” lo aveva preso spudoratamente in giro.
L’altro aveva ridacchiato divertito, ma il sorriso non aveva raggiunto gli occhi e i complimenti non avevano colorato il viso, lasciandolo in una bronzea neutralità. “Ho un bel sorriso, dunque?” aveva chiesto spudorato il Principe Consorte.
“Quindi, sua altezza, cosa è successo con la piccola Alina?” aveva indagato Dimitriji, con un principio di disagio addosso.
Era abbastanza noto alla corte che il principe Dominik fosse abbastanza sfacciato con le sue attenzioni nei confronti del Principe Consorte e, a parere di tutti, erano spesso guidate dal fine primario di infastidire Lilyiana, creatura di per sé territoriale, che da un vero interesse, ma quella sera, ai margini del bosco, non c’era nessuna sorella maggiore da tormentare.
“Ah, non ho alcuna idea. Mio padre non mi ha spiegato molto – infondo io non sono Lilyiana; so solamente che hanno bisticciato e lei, come la principessa melodrammatica che è, ha pensato bene di andarsene. Spero non si perda per i boschi o per le campagne” aveva ammesso cupo.
“Una volta è successo a me e Kos; non eravamo qui, eravamo fuori Ivets, per non ricordo quale fiera, ricordo solo che eravamo alticci e senza quasi rendercene conto abbiamo continuato a camminare fino a che non abbiamo raggiunto Lukjanec, che aveva già albeggiato” aveva raccontato lui. Il posto era un villaggio, non degno di essere chiamato città, ed una signora dal sorriso largo gli aveva sfamati con latte appena munto e biscotti secchi, quando lui e Kos avevano ripreso cognizioni di chi fossero.
Dominik aveva ridacchiato, “Il mio Kos? Il mio severissimo Kos?” aveva chiesto poi con una punta di esasperazione, “L’orso severissimo che mia madre mi aveva cucito ai calcagni?” aveva aggiunto poi, con una risata sguainata, pregna di divertimento.
“Oh, mio giovane principe, non ne hai la minima idea. Kostantyn ha avuto un passato molto … agitato” aveva riso Dimitriji, “Non chiedermi perché ma i bambini di Keramzin sono agitati per natura, credo che Marina li nutra jurda.”
Quando aveva conosciuto il grisha, Kos era più grande di lui di due anni, non era solo più vecchio, ma era anche di stazza più ingombrante. Kos era stato il dodicenne più grande che avesse visto, un inferno mezzo-orso con sangue Fjerdiano che veniva dal meridione, era stato Lilyiana a presentarlo, ‘Viene da Keramzin, non parla molto ma è sempre attaccato ad Ana Aleksandra’ aveva detto leggermente frustrata.
A Dimitriji era toccato l’ingrato compito di allontanare Kos da Drina, all’inizio. Non avevano molto di cui parlare, ma poi avevano trovato il loro terreno comune – Dimitriji, sebbene non lo avesse mai ammesso ad anima viva, neanche sua moglie, era rimasto ferito quando l’inferno si era trovato dei nuovi amici al Piccolo Palazzo. E poi l’aveva abbandonato per Ketterdam.
Dominik aveva riso audace, “Giuro, dopo tutti gli anni a seguirmi pedissequamente e giudicarmi con gli occhi, avrei dovuto saperlo prima. Almeno avrei potuto difendermi dalle sue accuse” aveva riso, dandoli una sonora pacca sulla spalla amichevole. “Non ti manca neanche un po’?” aveva indagato il Principe Consorte, “In realtà sì. Almeno quando c’era Kos non ero mai da solo, mai veramente … anche se non parlava molto – mia cugina dice che non lo fa neanche adesso, ma credo che Ilse possa parlare per tutti e due. Era comunque una presenza rassicurante da avere giro” aveva ammesso il principe Dominik. La sua guardia del corpo infiammabile aveva dismesso il servizio di membro dell’esercito e guardiano del principe prima di convogliare a nozze con Ilsebelle Dyk – cugina di Dominik da parte di madre.
“Certo che voi vi siete divertiti sempre parecchio” aveva scherzato il Principe Consorte con una mezza risata, “Io passavo i pomeriggi a casa a studiare sotto obbligo dei miei genitori con l’unica compagnia della figlia della mia domestica” aveva raccontato.
“Era simpatica?” aveva chiesto Dimitriji, “Era bella?” era stata la domanda di Dominik, “Più una cosa che l’altra” aveva risposto onesto il principe, ma la sua voce si era fatta distante, come i suoi occhi, aveva guardato qualcosa altrove, di lontano. Probabilmente lontano nel tempo. “Potremmo aver ecceduto, di tanto in tanto, a sperimentazioni” aveva ammesso poi il Principe Consorte, voleva esserci gioco, ma il suo tono era risultato un po’ distante, “Mia madre non ne era molto contenta.”
“Ovviamente, non era una principessa” aveva soffiato Dimitriji, cercando di tenere la sua acredine a posto; il Principe Consorte aveva riso senza vergogna, accompagnato dal cognato. “Potrei aver anche io ecceduto in zelanti sperimentazioni, da giovane, tutto per la scienza, si intende” aveva scherzato Dominik, “Niente di meno dal figlio di Nikolai Lanstov” era stato brutalmente giocato dal Principe Consorte, poi entrambi avevano chinato lo sguardo verso Dimitriji. “Niente per me, io ero devoto alla principessa Lilyiana” aveva risposto, sollevando le mani in segno di resa.
“Lo sai che dalle mie parti a chi mente cresce il naso!” aveva ridacchiato il Principe Consorte: “Presto ne avrai uno bello lungo, come il becco di un tucano” aveva aggiunto con un piccolo divertimento, “Qui i mostriciattoli di mangiano la lingua.” Dimitriji aveva concesso loro quella presa in giro, “Allora domani vedrete se ho un naso più lungo e una lingua di meno.”
Dominik aveva ridacchiato con divertimento, prima di drizzare lo sguardo verso qualcosa: “Eccola la mia pessima serpe in seno, Meri! Meri!” aveva gridato, alzandosi in piedi, per richiamare l’attenzione di qualcuno.
Dimitriji aveva osservato la donna arrivare, con un passo svelto da puntino, a macchia, fino a figura intera, lei era arrivata. Merissa Nassau con il suo vestito composto di drappi di kente di seta viola prugna con rombi irregolari giallo paglierino, verde lime e nero pece, e la chioma piena e deliziosa, usualmente sciolta, era raccolta e coperta da un turbante viola porpora, con piccoli ninnoli luccicanti, gli unici gioielli che aveva scelto, da cui scioglievano alcuni ricciolini. Una bellezza più colorata delle più audaci primavere calde. “Finalmente ti ho trovato! Non eri andato a cercare tua sorella?” aveva domandato subito apprensiva, con i pugni serrati alla vita stretta, quasi materna – nella versione meno morbida ma molto severa di una madre.
Il principe aveva emesso uno sbuffo, “Certo. Mi stavi proprio cercando tra le braccia di Ioren! Forse posso trovare anche Alina lì” aveva risposto. Merissa aveva scosso il capo dispiaciuta. Ah, il dolore. “Ti prego, Dominik, non fare il bambino. Andiamo” aveva quasi supplicato, allungando una mano per raccogliere il suo amico.
Dominik aveva ceduto senza particolare sforzo, lasciandosi condurre via dalla sua amica, che si era congedata con poche parole vergognose e a malapena una riverenza. Usualmente Merissa era molto gradevole e rispettosa dell’etichette, ma la serata dover aver provato anche lei.
Ioren Birstorr aveva provato anche lei.
“Ovviamente, non avevo dubbi che la sempre protettiva Merissa non ci avrebbe lasciato il principe in quelle condizioni ancora a lungo” aveva soffiato il Principe Consorte con un tono quasi divertito. “Sarebbe stato presuntuoso sperarlo, ma non ti ho visto fare troppe domande” aveva considerato Dimitriji, “Era una cottura a fuoco molto lento” aveva risposto il principe.
“Peccato, ora che facciamo?” aveva chiesto allora lui,
“Bene, ora due persone mature dovrebbero ritrovare le loro signore, ritirarsi nelle proprie stanze, guardare i figli e dormire” aveva ponderato il Principe Consorte, mettendo da parte il tabacco, sollevandosi dalla posizione seduta e sgranchendo le gambe, “Dovremmo” aveva considerato Dimitriji, imitandolo e osservando con sdegno i pantaloni grigi che erano finiti irrimediabilmente macchiati di terra e erba umida, “O potremmo terminare questa serata degenerata con una bottiglia di Castello Rosso. Della cantina personale di Kirigin” aveva proposto il Principe Consorte.
“Soffri ancora il tuo passato castigato nella tua fortezza sotto il ministro Sunan?” lo aveva spietatamente preso in giro Dimitriji, “Fino a ché respirerò, temo” aveva scherzato il principe. Dimitriji aveva sospirato, aveva pensato alla volta che storditi dall’alcool e dalla follia del papavero masticato, lui e Kos avevano camminato per iugeri fino a che il sole non era sorto.
Il Principe Consorte era arrivato alla corte di Ravka non solo dopo il disastro di Os Kervo, dove era morta la loro innocenza, ma anche dopo le nozze di Dimitriji, quando si era già aperta la piccola frattura e si erano assopiti i tempi voraci e ruggenti.
Lilyiana aveva discusso con Drina e la schermaglia aveva aperto una voragine tra la seconda e Malcom, Lilyiana si era arrabbiata con lui perché l’aveva accusata di aver preso Najima solo per ferirla. E altro ancora.
E il Principe Consorte non aveva mai incontrato la Drina, la Lilyiana e la Najima che erano esistite prima, le donne prime dei titoli, le donne prima della posizione, della maternità. Le giovani, le audaci e le selvagge, come anche Dimitriji era stato così. E Kos. E Cignaz. E Anchel … Hati … e tutti gli altri, perfino il Dominik allegro che si attaccava speranzoso alle sottane della sorella e si lamentava di essere sempre lasciato addietro.
E una notte di bagordi e il giro alla testa del mattino dopo, quando si sarebbe svegliato e sarebbe stato ancora Dimitriji Polnudist conte di Ivets, cortigiano, affarista, marito e padre, sembrava accettabile. Per una volta.
“Prendiamo una bottiglia di Castello e capiamo come affidare le pecore al lupo” aveva proposto e il principe aveva annuito.

Era mentre attraversavano il piccolo sentieri brecciato nel bosco, con la sola compagnia di una lampada a lumya, alta come il medio di una mano adulta e sottile quanto due dita, che avevano ambedue realizzato che sarebbe stato meglio tornare al calduccio nei letti dalle loro mogli – caso mai fossero le donne già rincasate – e a sogni placidi o disturbati dal troppo cibo della nottata.
Malcom li aveva accolti a tre quarti della strada, non lontani dalla magione che Kirigin e Deimdov avevano fatto erigere presso quell’ansa del lago, la loro alcova d’amore – e Dimitriji si era sempre chiesto se fosse una proprietà comune che si dividevano o che consumavano assieme – e dalla cantina di Castello Rosso.
Malcom era un ombra livida in viso, con il blu della kefta che pareva nera nella notte, con rivoli rossi bruni come sangue. I capelli ordinati erano sconvolti e gli occhi scuri erano freddi e nervosi.
Non era da solo, ma tra le braccia assopita – o morta – era una figura rossa carminio, che nell’ombra della notte era parsa nera e cupa.
Solo la luce della lampada di lumya, sempre chiara e mai ardente, aveva rivelato una kefta rossa e mani olivigne spellate e bollose da scottatura.
“Sankti, perché giri con il corpo senza vista del luogo tenente Effimov?” aveva strepitato il Principe Consorte, riconoscendo la figura abbozzolata.
Ora che era stata nominata, anche Dimitriji riconosceva il naso a becco, con la piccola gobba, e il viso appuntito, la figlia di Vladyslaw Effimov, generale e politico e uomo fin troppo rilevante, “Non è morta!” si era giustificato Malcom, con le braccia tremolanti e lo sguardo quasi disperato, “Ma non so che fare” aveva languito verso di loro come una bestia ferita.
“Prima leviamoci dall’unico sentiero battuto per il prossimo rifugio” aveva ripreso colore Dimitriji leggendo la situazione.
“Ho bisogno di … tempo” aveva borbottato Malcom, mentre abbandonavano il brecciato. Il Principe Consorte aveva guardato il suo amico con un’espressione piuttosto cruda prima di sospirare, “Ho un’idea” aveva stabilito, “Nikolai non sarà felice, ma va bene” aveva aggiunto.
“Stiamo per entrare nei cunicoli della fortezza segreta?” aveva chiesto Dimitriji non riuscendo a trattenere un guizzo di morbosa curiosità, non aveva mai avuto il permesso di entrare, “Sì” aveva stabilito secco e infastidito il principe.
“Quindi, perché hai la figlia del signore di Kyoska svenuta tra le braccia?” aveva chiesto Dimitri, osservando l’espressione quasi dolce di Meesha Effimov, respirava e non sembrava mal messa. Almeno alla luce fioca della lampada a lumya. Un filo di sangue scivolava dal labbro inferiore ed aveva una guancia leggermente arrossata, ma non sembravano ferite gravi. L’unica lesione un po’ più seria pareva quella sulle mani, carne rossa e spellata, come se acqua bollente le fosse stata versata addosso o la poverina avesse stretto un ferro rovente, supponeva che quello fosse colpa di Malcom.
“Sai no … di questa sera” aveva cominciato a parlare il grisha, come se la sua lingua fosse sui tizzoni ardenti, “Diciamo che Meesha era dove non doveva essere a origliare una conversazione che non doveva origliare ed E… la principessa mi ha detto di occuparmene” aveva ammesso cupo.
“Occupartene?” aveva chiesto il Principe Consorte, camminava davanti a loro di qualche passo mentre li guidava nel buio della foresta, ma era stato con le orecchie ben aperte.
“E ora hai un membro dell’esercito e figlia di uno degli uomini più importanti del dvorjanstvo di Ravka Ovest tramortita sul groppone” aveva considerato Dimitriji con un tono leggermente accusatorio, “Non volevo stenderla. Dovevo farci solo delle chiacchiere, ma lei … ha provato a fermarmi il cuore” aveva ammesso Malcom.
“Cosa?” aveva esclamato Dimitriji, stupito. “Credo davvero che fosse andata nel panico, così ha cercato di aggredirmi. Le ho bruciato le mani di impulso” aveva ammesso Malcom pieno di vergogna, “Brutto vizio di cui non riesci a liberarti, vero?” lo aveva sfacciatamente preso in giro il Principe Consorte. Malcom lo aveva ignorato per lo più, “Per mia fortuna, il luogotenente è una di quei grisha che non sanno applicare la Piccola Scienza senza gesticolare. Quando le ho afferrato le mani per fermarla le ho bruciate” aveva ammesso.
“Poi come è svenuta?” aveva inquisito Dimitrijì, “Sì e messa ad urlare per il dolore e io l’ho colpita per farla stare zitta e … poi è caduta” aveva ammesso.
“Sankti, speriamo non abbia un trauma cranico” aveva ammesso il Principe Consorte, “Almeno non le hai bruciato la faccia. Sarebbe stato difficile da spiegare” aveva cercato di sdrammatizzare Dimitriji, anche se non c’era molto da ridere.
“Che cosa starà combinando Lilyiana?” aveva chiesto a mezza-bocca, senza aspettarsi che nessuno dei due uomini rispondesse.

Il principe si era fermato in un punto, non sembrava esserci nulla di particolare, ma poi si era chinato per terra, restando in bilico sui talloni ed aveva cominciato a far passare le dita nel manto erboso, fino a che non aveva toccato qualcosa, lo aveva pigiato tre volte, con un tempo diverso, prima che un raschio metallico segnalasse loro che era accaduto qualcosa.
L’uomo aveva fatto altro – al buio Dimitriji non riusciva a vedere bene – e dopo aveva sollevato una leva ed una botola tonda, ricoperta da un lato di muschio e erba fresca. Nonostante la situazione drammatica, non poteva fare a meno di essere quanto meno emozionante perché avrebbe potuto spiare i laboratori segreti del Nolnik del Re Nikolai. Aveva sempre voluto, ma non aveva mai ricevuto il permesso di poterlo fare, era grato che il Principe Consorte non lo avesse invitato a farsi da parte e di occuparsene da solo, forse il vino e brandy avevano inficiato anche su di lui, nonostante tutto.
“Sfortunatamente l’ingresso più vicino da questo lato, è solo questo” si era lamentato, “È un uscita di emergenza se dovesse esserci un crollo nelle gallerie o l’acqua dovesse filtrare e allagare, sfortunatamente è verticale, quindi potremmo dover faticare per potere giù il luogotenente” aveva ammesso pigro e stanco. “Hai memorizzato dove sono tutte le uscite di emergenza?” aveva indagato Dimitriji, “Come in ogni luogo in cui entro” aveva risposto pigro il principe, prima di sparire nel buco della terra.
Malcom si era calato per secondo, tenendo Meesha appesa alle spalle come un sacco di patate; non era un uomo particolarmente imponente o robusto, solo molto altro e non sembrava a suo agio in quella posta, “Tranquillo sono solo qualche metro” aveva sentito il principe urlare dal fondo, ma la sua voce sembrava distante.
Dimitriji era entrato per terzo, agganciandosi ad una scaletta composta di piccole sbarre sottili, che si dipanavano verticale dentro un tubo rivestito di un materiale che non sembrava malta, “Chiuditi la caditoia sulla testa” aveva sentito il principe urlare. Dimitri aveva gettato uno sguardo al cielo sopra di lui, nero, con piccole stelle visibili, tramite i rami folti e pieni della foresta, prima di chiudersi il ferro sul capo. Era pronto al buio pesto che lo accoglieva, ma una luce soffusa sotto di lui lo aveva accolto.
Il principe aveva acceso l’illuminazione dei corridoi o forse non era mai stata spenta.

“Questo posto pullula sempre di gente” aveva spiegato il principe leggendo il suo viso, “Lazalyon era nato come basa operativa segreta di Nikolai, sai la struttura delle gallerie, la nebbia, l’aria salmastre paludese e per giustificare i rumori e le stranezze è diventata l’oggetto delle feste e delle depravazioni di Kirigen, non ne facevano veramente però, almeno fino alla festa organizzata per cercare una sposa a Re Nikolai, con il tempo il pettegolezzo è divenuto realtà e il segreto si è solo intensificato” aveva spiegato calmo.
“Quindi mentre sopra nobili di ogni corte del mare verso si ubriacavano, qui sotto si progettava l’artiglieria bellica nuova” aveva considerato Malcom stanco, aveva sistemato di nuovo la giovane donna come principessa tra le sue braccia. “Sì, è come ogni volta, chi sa quante spie avranno cercato di accedervi. Credo Nikolai si ecciti con questa idea” aveva considerato il Principe Consorte “E così sa quali informazioni può divulgare e quali no.”

 

Avevano incontrato diverse persone quando avevano attraversato i corridoi, grisha in kefte vivaci e otkazat'sya alla stessa maniera, nessuno aveva donato loro più di uno sguardo ed un rispettoso inchino al Principe Consorte, che aveva ricambiato alla stessa maniera.
Lui li aveva condotti in una stanza, sembrava a tutti gli effetti una piccola cella. C’era un letto in cui Malcom aveva adagiato la giovane donna.
“Fatemi controllare che stia bene, Malcom puoi andare – ascoltami bene – il primo corridoio da qui a destra, poi il secondo a sinistra, fino alla porta arancione e chiedere di Sarif? Ho bisogno che venga qui” aveva stabilito secco.
Malcom aveva annuito, prima di defilarsi.
“Non morirà vero?” aveva chiesto Dimitriji, “Non ha sangue sulla testa, ma potrebbe star sanguinando dentro” aveva considerato il principe, “Il polso sembra buono ed anche il respiro” aveva aggiunto. “Devo pulirle le mani e bendarle, dannato Malcom, solo i signori del cielo sanno che la sua impulsività è la sua rovina” aveva aggiunto acre.
“Jordan Ghafa vuole ucciderlo per questo” aveva considerato, “E adesso Vladyslaw Effimov vorrà pure la sua testa e l’ultima cosa che ci serve, ora, è Ravka Ovest sul piede di guerra” aveva ringhiato.
Malcom si era affacciato di nuovo, era con un giovane uomo vestito di rosso corporalki con piccoli decori grigio-neri, la sua carne era olivastra, il naso era piatto, aveva labbra grandi e carnose e capelli nerissimi. “Ho bisogno del tuo aiuto Sarif” aveva detto, ammiccando alla ragazza sul letto, “Che le è capitato?” aveva chiesto pronto quello.
“Questo lo dovrei chiedere io a voi?” Nadia Zhabin aveva abbaiato alle loro spalle. Gli occhiali da protezione tirati suoi capelli biondi e l’espressione accigliata, non era molto alta, ma era il fuoco negli occhi verdi la rendeva spaventosa. Doveva aver seguito Malcom e Sarif.
 “Che avete combinato?” aveva chiesto quasi aggressiva, Malcom l’aveva guardata, con lo stesso sguardo colpevole di un bambino davanti una madre, poi, contro ogni aspettativa di Dimitriji era scoppiato a piangere, “Un disastro, Nadia, un disastro” aveva soffiato e davanti quella confessione inaspettata, Nadia aveva aperto le braccia ed aveva accolto il ragazzo in una morsa gentile, come una madre.
Dimitriji si era sentito di troppo ed aveva voltato lo sguardo verso Sarif e il Principe Consorte che giravano come squali attorno alla povera ragazza svenuta.
“Non sta sanguinando internamente. No. Domani avrà la faccia viola e blu però. Si sta già riprendendo. Mi occupo delle mani” aveva stabilito il grisha, “Non sarà necessario bendarla, posso sistemare le mani anche con la piccola scienza” aveva aggiunto. “Sì, meglio. Fallo subito” aveva stabilito il principe, “Sistemali anche gli ematomi sulla faccia. Sarebbe carino si svegliasse senza dolori” aveva stabilito, allontanato, “Poi chiudete la porta come vi ho insegnato” aveva stabilito, buttando uno sguardo a Dimitriji, che sostava proprio sull’intercapedine.
“Ehm … per quanto tempo?” aveva chiesto Sarif incerto, Dimitriji guardava invece l’uscio cercando delle stranezze, “Per quanto sarà necessario. Il luogotenente Meesha Effimov è soggetta a fermo immediato per ordine della principessa Lilyiana Zoyaevna Nazialensky” aveva ordinato.

Malcom li aveva abbandonati per stare con Nadia e il principe lo aveva dispendiato dal dover rispondere domande, “Meno ne sappiamo, meglio è per noi” aveva stabilito, ma Dimitriji aveva compreso l’antifona. “Cosa aveva di speciale la porta?” aveva chiesto, mentre il principe lo conduceva verso i corridoi.
Erano illuminati da una luce blu elettrica che scendeva da lampade appese, ma non vedeva ne fili, ne sentiva rumori. Non sembrava lumya. “Quando si chiude crea un ambiente che impedisce ai grisha di manifestare la Piccola Scienza. È un prototipo” aveva spiegato candido il Principe Consorte, “Cos …” aveva cominciato lui. “Tutte le celle che tengono i grisha a Matevj o nel Piccolo Palazzo, sono specificatamente pensate o per contenere il tipo di scienza o con un sistema d’areazione che filtra una soluzione in gambo. Nessuna delle due è molto efficiente” aveva considerato il Principe Consorte, “Alcuni grisha sono più sensibili di altri. Genya può riconoscere uno specifico battito cardiaco a iugeri di distanza, alcuni non hanno bisogno di usare le mani per imporre la piccola scienza come Malcom e altri sono resistenti a qualsiasi dose di inibitore, come Drina” aveva spiegato pratico.
“Quindi hai progettato una cella in cui i poteri non si possono manifestare” aveva esclamato confuso, “È un prototipo” aveva risposto lui, “Il massimo di tempo che qualcuno c’è stato dentro è stato di due giorni, Nabha per la cronaca, è dice di non essere riuscito a manifestare alcun potere” aveva detto, “Però è un circuito, ogni volta che si apre e chiude la porta si spezza, anche per introdurre cibo o altro. Come vedi le celle nono sono pensate per una lunga tenuta, non c’è un bagno, non c’è acqua …” aveva spiegato.
Dimitriji si era morso il labbro, non nascondeva di immaginare perché fosse stato necessario progettarlo, i grisha non erano nemici pubblici a Ravka, ma non tutti i grisha erano buoni come non tutti gli uomini. “Lo hai fatto tu?” aveva chiesto alla fine, “Sono stato parte delle cosa, ma anche altri hanno partecipato” aveva risposto il principe.
“Pensi che anche altri siano in grado di farle?” aveva chiesto Dimitrij, affiancandolo, “Vuoi chiedermi se Shu-Han ha progettato delle gabbie per grisha? Può darsi, sono trecento anni e passa che si esercita nel contenimento dei grisha. Se abbia questo mezzo specifico? Non credo” aveva risposto il Principe Consorte, “Però posso assicurarti che il popolo dei miei genitori sono sempre stati molto creativi in maniera” aveva aggiunto.
“Sarei curioso di sapere come lo hai pensato, ma non sono sicura di volerlo sapere” aveva considerato Dimitriji, il Principe Consorte si era voltato verso di lui, aveva un sorriso ben poco gentile sul viso, “Oh, mi sono ispirato alla vicenda di Alina Starkov” aveva spiegato elusivo.
“Sankt’Alina?” aveva chiesto Dimitriji, chiedendosi come una giovane ragazza morta quarant’anni prima nella faglia avesse potuto ispirare una cella per grisha.
Il principe aveva ridacchiato di lui, “Notevole, sai … Najima ti tiene ancora dei segreti” aveva considerato, “Penso sia ovvio. Io e Najma non teniamo segreti che riguardino l’un l’altro o che influiscano con la nostra vita” aveva ammesso, “Se lei tiene i segreti di Lilyiana e questi non siano fondamentali per me da sapere, ben venga. Amo mia moglie e mi fido di lei” aveva stabilito.
“Ti ammiro Dimitrini; forse un altro giorno ti spiegherò tutto meglio. Adesso sono stanco, voglio solo vedere il mio bambino e andare a dormire” aveva ammesso il principe.
“Niente vino della staffa?” aveva chiesto Dimitriji, ma condivideva profondamente il sentimento.
“No, meglio di no” aveva ammesso il principe, “Questa notte è stata fin troppo lunga.” Dimitriji fu costretto ad annuire.
 “Possiamo scegliere se tornare in superficie alla festa o a palazzo con uno dei mezzi sotterranei, l’abbiamo inaugurato cinque anni fa. C’è solo una carrozza e due binari, ma permette di fare in poco tempo il percorso di due tre ore a piedi[8]” aveva raccontato.
“Sarei tentato di prendere un treno che passi sottoterra, ma per oggi …Penso di voler tornare alla festa, probabilmente Najima mi sta aspettando” aveva ammesso.



[1] Il nome è preso da Atil/Itil che era la capitale della Cazaria/Khanato di Khazaria o Impero di Khazaria, che si trovava nelle steppe del sud-est russo (La città era vicino al Volga). Ora non è importante tutta questa parte, volevo solo un nome che richiamasse qualcosa pre-impero Zaarista che non fosse la Rus ahaha.

[2] Non ci sono isole a Ravka, solo Fjerda e le Isole erranti hanno isole, ma ehi … questa è una fanfiction!

[3] Questo era il problema di Alcatraz!

[4] Mene Yaram: non preoccuparti, viene dalla dualogia dei corvi (nella trilogia di Alina si usava Na Brinte; immagino che diversi suli abbiano diversi modi di dire e frasi), anche kadema mehim viene utilizzato nella dualogia dei corvi ed è il famoso: Tu sarai dimenticato, che è la maledizione suli che Inej dice ad Adem. Ho aggiunto il prefisso YE come forma negativa, ispirata da queste due frasi: mati en sheva yelu (questa azione non avrà eco) dalla dualogia dei Corvi e Yej menina enu jebra zheji, yepa Korol Rezni (queste parole sono per la figlia e non per te Korol Rezni) dalla dualogia di Nikolai. Entrambe le volte lo YE viene utilizzato come NON.

[5] E’ una razza di cavallo (ora ho problemi con le razze di cavallo, perché i nomi sono sempre legati a qualcosa, un luogo un posto, una persona; questo in particolare ad un nome proprio. Allora in questo mondo è esistito un uomo di nome Orlov che ha “creato” questa razza, come nel nostro mondo.

[6] Note anche come Acciaio Wootz, che è un delle due tecniche siderurgiche con cui ora si riferisce all’Acciaio Damasco – il modo di riprodurlo ad oggi è scomparso (Qualcuno ha detto acciaio di Valyria?).

[7] Con il minerale giada ci si può riferire alla giadeite e nefrite. Se non sbaglio la prima è quella “verde standard”.

[8] Avevo dei dubbi se mettere o meno linee sotterranee, ma poi ho pensato: hanno le navi che volano e i sommergibili strani, va bene anche la metro. Però è un unicum è fa davvero “poco” letteralmente un paio di chilometri. Se non ricordo male da palazzo alla Palude era una distanza praticamente percorribile a piedi.

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Capitolo 24
*** Alina II (40 D.F.) ***


Edit: il capitolo è decisamente troppo pieno di refusi; presto sarà modificato

UN PAIO DI NOTE:
Questo capitolo doveva essere l’ultimo del 40 DF per un po’, ma il capitolo stava diventando mastodontico e probabilmente tra correzione e quant’altro lo avrei postato tra cinque mesi, quindi ho deciso di spezzarlo. Onestamente non sono sicura che la divisione sia a metà, perché in realtà manca praticamente solo una “scena” ma è una scena molto importante. Quindi avremmo Alina II e “prossimamente” Alina III.
Oltre questo: il capitolo è un delirio, il problema principale è che il POV di Alina è stato alterato per tutto il tempo e voglio che sia una cosa che teniate a mente, Alina è alterata per tutta la durata del capitolo.

Se il capitolo avesse un titolo sarebbe: La brutta serata di Alina

TW: Vomito, alterazione della percezione, ubriacatura, bere alcool, minorenni che bevono alcool, voyeurismo non consensuale. Intossicazione alcolica. Adolescenti che pensano al sesso.
MAL/NIKOLAI E RIFERIMENTI AD ALTRI INTRIGHI AMOROSI.
Con questo intendo che Alina non conosce bene l’estensione di certi avvenimenti e relazioni, questo perché i genitori hanno pensato bene che tenerla all’oscuro fosse una cosa “sana”.

 

 

Alina II

(40 anni dalla D.F.)

 

Alina non era stata affatto sorpresa di aver trovato il segnaposto con il suo nome affiancato a quello di Matthias Grimjor.

L’avevano sistemata tra il principe di Fjerda e Genya – così che la donna probabilmente potesse tenerla d’occhio perché non avesse un comportamento sconsiderato. Era allo stesso tavolo di sua sorella Lilyiana ma ben lontana da lei e al tavolo opposto quello di Dominik e Vasilissa e odiava che fosse lontana dalla sua amica.

Era la serata più importante della vita di Lissa e chiunque si fosse occupato della disposizione dei posti aveva avuto l’audacia di mettere la sua amica che non conosceva nessuno o quasi in un tavolo diverso.
Alina non poteva fare a meno di cercarla con lo sguardo, mentre la vedeva parlottare di tanto in tanto con qualcuno dei suoi vicini, indossava l’abito d’oro che la giovane Caitlyn aveva recuperato da uno dei suoi vecchi. L’unica cosa che la distraeva da Vasilissa – che sembrava cavarsela meglio di lei sullo scegliere con qualche forchetta fosse d’uopo mangiare cose – era la presenza rigida di Matthias al suo fianco e la presenza quasi ingombrante di Meesha alle sue spalle. Di tutti i maledetti posti in cui la soldatessa doveva essere schierata nella sua bella kefta rosso sangue, era capitata alle sue spalle.

Alina provava un sentimento inesprimibile, da un lato calore all’idea che gli occhi di Meesha dovessero finire volenti o nolenti su di lei e disagio nel saperla così vicina, così distante, mischiata al nervosismo che le dava il principe di Fjerda.

Matthias era una persona noiosa, ma almeno in tutte le altre occasioni in cui avevano speso tempo insieme il principe si era sforzato di essere di compagnia, di tanto in tanto era stato anche piacevole, divertente, ma quella sera aveva continuato a fissare il suo piatto e sorseggiare coppe di kvas che non sembravano svuotarsi mai.

Alina lo aveva imitato, mischiando anche brandy e vino, ignorando lo sguardo acuto e rapace di Genya su di lei.

Il brandy con il suo sapore forte da spirito le aveva guastato la lingua ed ogni pietanza sembrava essersi fatta amara, ma le aveva dato un bacio morbido ai nervi.

Era già alla terza coppa quando finalmente Matthias si era deciso a rompere il suo silenzio mortale, “L’Ingresso è stato di un certo effetto” aveva detto placido. “Sì” aveva concesso lei, era stato d’un certo effetto.

Erano arrivata cavalcando sul garrese della loro madre plasmata in forma di drago, maestosa e spaventosa, un’enormità oscura stagliata davanti al sole morente e poi Alina aveva fatto friggere le sue mani in fulmini blu, solo per spiegare di chi era il vero potere nel Mare Vero, Alina si era sentita molto simile a un orpello.

Avrebbe potuto essere sul dorso di sua madre, come in camera sua rintanata nel letto a dormire e non avrebbe fatto differenza e se la questione normalmente le sarebbe scivolata addosso come l’acqua, quella sera la indisponeva, forse perché per tutta la giornata aveva goduto di attenzione. Prima erano stati Genya ed il duca di Keramzin, poi si erano aggiunti Tatiana e l’aitante Fjerdiano poeta – che le aveva fatto non poche domande e sembrava così ammirato – e poi si era aggiunto Kuume Fa il ministro dei trasporti di Novy Zem con la sua adorabile e super curiosa moglie ed altri due suoi attendenti, poi era stata la volta di Laghoire Farrel, sorellastra del Marshal, accompagnata dal suo scudo giurato e due ambasciatori delle colonie del su e per ultimi la regina Dalai, il suo concubino favorito e almeno due donne guerriere. Anche alcuni servi avevano interrotto le loro faccende, in maniera discreta e ben attenti a non essere osservati troppo, per ascoltarla

E tutti loro erano penduti dalle sue labbra mentre Alina con orgoglio spiegava gli orrori artici e storici del Gran Palazzo, come un piccolo esercito l’avevano seguita lungo i corridoi e le stanze e avevano fatto domande, l’avevano interrogata e l’avevano ascoltata. E Alina ne aveva amato ogni minuto.

“Sì, è stata un ingresso abbastanza trionfale. Mia madre non è mai stata per la discrezione” aveva aggiunto, decidendo di accogliere l’intervento di Matthias e non permettere al suo nervosismo di vincere.
“Oggi ho sentito che hai tenuto una lezione di storia dell’arte, mi è dispiaciuto averla persa. Ioren dice che sei stata sublime” aveva riprovato lui, non la stava guardando in faccia ed aveva le dita serrate sul gambo del calice, “L’arte è una mia passione” aveva ammesso.

“Così ho sentito” aveva constato lui, artificioso. “Tu?” aveva chiesto lei, avevano deciso di darsi del tu ed anche se sembrava innaturale sulle loro lingue avevano continuato, “A me l’arte non dispiace” aveva considerato, “Hai passioni?” aveva inquisito Alina. “Mi piace sparare e leggere” aveva risposto pigro lui.

“Sei bravo, te lo concedo” aveva scherzato, prima di recuperare la coppa che le era stata riempita di nuovo, “Voglio la rivincita” aveva aggiunto. Non era una menzogna, aveva perso di proposito ma non aveva dovuto faticare per farlo, i Fjerdiani probabilmente imparavano a cavalcare e sparare prima ancora di camminare e parlare.  

 

Sua madre dalla tavola dei Cinque Re, come era stata soprannominata, nonostante nessun re vi fosse seduto, si era alzata per fare un brindisi. Ne aveva fatto uno a Sankta Alina, ma anche a Vasilissa. La sua amica si era alzata con il suo abito d’oro e le gote in fiamme. Alina si era tirata su quasi subito dopo la sua amica, guardandola. Vasilissa aveva aggrottato le sopracciglia zenzero, poi lei aveva guardato sua madre: “Per questa occasione, moya Tsarina, considerando la mia lunga amicizia con Vasilisssa, io e Tatiana avremmo preparato un pezzo con il balalaika” e si era rivolta a Tatiana.
La donna non aveva fatto una piega sorridendo accomodante, sempre pronta la sua Tatiana.

“Ah davvero?” aveva chiesto Genya in un sussurro in quell’orecchio, proprio quella mattina aveva detto che non avrebbe suonato e non aveva intenzione di farlo, ma si era sentita in colpa, era una gran sera per Lissa e lei non si era preoccupata per nulla di organizzare qualcosa di bello.

Non si era preoccupata per nulla di Lissa in generale, aveva avuto l’impressione che negli ultimi giorni non l’avesse vista abbastanza, complici gli impegni dell’altra – lavoro, preparazione alla nuova titolatura e matrimoni segreti – ma che tutto sommato neanche l’altra si fosse impegnata poi molto. Alina sapeva di essere egoista, ma non le importava.

“Oh, suoni il balalaika? Mi hanno detto che è uno strumento molto difficile” aveva considerato il principe Matthias, “Ebbene sì” aveva risposto sfacciata, anche se non era né portata né particolarmente brava né lo strumento era particolarmente più difficile di altri, Alina sapeva che la principessa Zetian sapesse suonare il kathur a diciotto-corde come una professionista. “Io ho imparato un po’ a suonicchiare la domra, potremmo suonare assieme” aveva proposto il principe, la proposta sarebbe sembrata in bocca a qualcun altro quasi piacevole e disinteressata, ma il principe Matthias faceva sembrare tutto sempre formale.

“Certo” aveva ammesso Alina e immaginava che probabilmente il bellissimo principe di Fjerda sapesse suonare la domra come se ci fosse nato con lo strumento in mano e non fosse una sgraziata creatura.
Aveva bevuto una coppa di vino intera – sotto lo sguardo giudicante di Genya.

 

 

“Scusami per averti messo in questo pasticcio” aveva detto Alina, prima di ingollare l’ultimo bicchiere di vino che era riuscita a sgraffignare – Genya era stata troppo presa da tutte le vicende nobiliari che stavano avvenendo pubblicamente e meno, per contare effettivamente quante coppe stesse consumando Alina. Tatiana aveva ridacchiato, aveva raccolto i riccioli in una crocchia morbida ed era vestita con un abito azzurro su cui erano appuntate pietre luccicanti ed un colletto di pelliccia di callorino; Alina sapeva che Tatiana voleva apparire come una regina delle nevi, ma l’effetto era tragicamente lontano. I sankti l’avevano dotata di molti talenti e doni, ma non l’aspetto elegante e algido che desiderava possedere. “Non si deve preoccupare, moya tsarevich” aveva risposto la nobil donna, agitando una mano piena di gioielli e preziosi, “Avrei preferito avere il mio strumento, questo pesa di più e non è neanche accordato bene” aveva aggiunto Tatiana, facendo ruotare i bulloni sulla sommità, per tendere le corde.

I balalaika, che avevano dato loro, erano enormi e triangolari, in un legno chiaro su cui aveva tinto del bianco, con dei plessi arancio e oro. “Scusa” aveva ripreso colpevole Alina. Tatiana aveva ridacchiato con un certo divertimento, “Che ne dici di suonare Valenki? So che la sai suonare ed è facile” aveva proposto, “Valenki non è facile” aveva risposto Alina, “Preferisce la Danza dei Goblin[1]?” aveva chiesto di rimando l’altra. Alina si era morsa il labbro, “Avrei bisogno di altre due mani per quella. Valenki andrà bene … ma …” aveva provato, “Moya Tsarevich, non suoneremo niente che non sia degno di questa nobile platea” aveva considerato Tatiana che aveva perso il suo sorriso dolce per un’espressione più assertiva.

Tatiana godeva degli scherzi, dei giochi e quant’altro ma non quando si esibiva. A dodici anni aveva suonato per la prima volta al Teatro di Ketterdam davanti a tutti i membri del Consiglio dei Mercanti, delle Maree e tutti i ricchi signori e banchieri dell’isola e di qualsiasi altro membro delle corti del Mare Vero fosse lì; da quel momento la sua capacità era solo accresciuta.

Alina sapeva che per il decimo giorno delle Dieci Giornate si sarebbe esibita assieme all’Orchestra Reale di Ravka.

“Valenki sia” aveva ammesso Alina, forzando la sua calma, mentre prendeva posto accanto a Tatiana. “Chi era il fjerdiano di oggi?” aveva chiesto poi, sebbene sapesse esattamente chi fosse – l’istitutore del principe consorte; quello che non sapeva e quanto illustre dovesse essere la sua stirpe per essere invitato alla cena. “Non lo sa davvero?” aveva inquisito Tatiana, aveva perso la serietà e la sua espressione era più lucente divertimento.

“Dovrei?” aveva chiesto Alina, “Non so. Era all’ambasciata di Fjerda a Kerch negli stessi anni che c’ero io. Possiamo dire che era un assiduo frequentatore della Corte-Oltre-Mare” aveva recitato sibillina.
La Corte-Oltre-Mare era un soprannome stupido e insulso che aveva acquisto l’Ambasciata nei quartieri della Piccola Ravka a Ketterdam durante gli anni di studio di suo fratello nell’isola della perdizione. Era una storia ormai obsoleta e vecchia più di dieci anni – Alina era solo una bambina a quei tempi.
Tatiana le aveva passato la balalaika che aveva appena finito di accordare, prima di procedere con la successiva. Alina l’aveva raccolta con delicatezza, come se fosse stata di cristallo, “Forse ho bevuto troppo” aveva scherzato o non abbastanza, si era detta. Decisamente non abbastanza per aver il coraggio di suonare in pubblico, davanti a tutte le grige eminenze delle corti del Mare Vero senza essersi esercitata neanche un po’ il giorno prima. “Il nobile signor Birstorr è anche l’istitutore del Principe Matthias” aveva chiacchierato slavata Tatiana, mentre con dita sagge ed attenti sistemava le corde.
Alina aveva sentito quel nome pioverle addosso come soda caustica, nonostante lo avesse saputo, ma la menzione del principe l’aveva alterata, senza vergogna lo aveva cercato tra la folla di curiosi che guardava l’orchestra prendere posto sul prato. Matthias la stava guardando, avrebbe voluto dire con l’intensità di soli ardenti, ma i suoi occhi grigio-blu sembravano più lame di ghiaccio e vetro. Era rigido e duro, come se fosse stato scomodo nella sua stessa pelle, e stava lì di fianco a Meesha, che era tutto un roborante fuoco, in un caldo satin rosso. Sembrava che i sankti stessi avessero voluto punire Alina per le sue sciocchezze, affiancandoli. “Il principe è proprio un uomo attraente” aveva considerato Tatiana con quei suoi occhi leziosi, Alina aveva annuito, “Il più bello.”

Il principe non era un uomo, non come lo era Dominik almeno, aveva ancora l’aspetto sbarbato ed innocente di un ragazzo, e non era attraente, perché il concetto stesso avrebbe sminuito la verità: il principe era bellissimo.

Di una bellezza così totalizzante da fare male, stargli vicino era fisicamente fastidioso e lei era certa che tutta quella magnificenza così perfetta, così brutale, fosse opera di una sartoria finissima.
Nessuno al mondo era così bello, neanche i genitori di Alina e … nessun uomo poteva essere così bello, non secondo i gusti di Alina, che apprezzava di più i seni pieni, i fianchi tondi e le morbidezze gentili delle donne. “Se lo sposerà, avrete sicuramente figli bellissimi” aveva aggiunto quasi con casualità Tatiana. “Se non mi sfinirà a noia” aveva borbottato.

Tatiana non era sua amica, aveva sei anni buoni più di lei, ma era stata una delle poche dame di compagnia che le erano state affibbiate a non essere finita in un dimenticatoio in base al vento politico che soffiava, forse perché prima di essere una dama di compagnia era stata un’insegnante e nessuno, in tutta Ravka, era più bravo e capace di lei con la balalaika. “Da lui mi farei sfinire in ogni modo, anche di noia” aveva risposto la donna selvaggia.

“Suoniamo, dai” aveva implorato con le gote un po’ rosse Alina, non permettendo alla lingua velenosa di Tatiana di aggiungere altro. “Va bene” aveva concesso l’altra, pizzicando una nota e valutando se questa avesse l’intonazione che cercava; Alina si era accomodata sulla sedia, alle loro spalle l’orchestra minore del palazzo e davanti a loro in semicerchio nello spiazzale dedicato alle danze tutti che le guardavano attenti ed affamati. Alina aveva sperato potessero ballare, ma sembravano tutti più curiosi di vederla esibirsi e lei si era sentita profondamente sciocca per essersi proposta.
Lilyiana la stava guardando con uno sguardo leggermente preoccupato ed al suo fianco Dominik sembrava fin troppo divertito con quel suo sorriso sornione. Alina aveva deciso di evitare completamente i suoi genitori – sankti sperava di non mettere in imbarazzo sua madre davanti a quattro corti straniere – o quello di Meesha o del principe Matthias ed aveva, invece, cercato lo sguardo di Lissa.

Vasilissa, dritta come una pertica, incerta, incastrata tra la contessa Najima Polnudist e Genya, la sua amica era traboccante di nervosismo e verde in viso, ma nonostante tutto con gli occhi rivolti lei, e lei sola, e la sua espressione vibrava di un solo sentimento: fiducia.

Alina era stata, ovviamente, un’esecutrice pietosa, ma la buona mano di Tatiana aveva nascosto le note stonate e quelle sbagliate. Alina era stata lenta nel pizzicare e nelle pressioni, inoltre, non che volesse giustificare la sua impreparazione, ma era abituata a suonare con il plettro ed usare un balalaika accordato a mi-mi-la invece di un la-la-re che aveva anche una conformazione più grande nelle dimensioni e le era risultato più ostico destreggiarsi[2]. Ovviamente nessuna delle due cose aveva reso difficile per Tatiana strimpellare le note.

Ma alla fine erano riuscite a creare una rispettosa imitazione della Valenki[3] – per merito di Tatiana Dubrivin e dell’orchestra che li aveva accompagnati solerte, come se si fossero preparati per settimane prima a suonare quel brano e non fosse stato completamente fuori scaletta.

Tutti gli ospiti erano eruttati in un ovazione – una così grande che Alina aveva pensato presto si sarebbero ritrovate imbrattate di uova – e anche se non era giusto perché la gran parte del lavoro era stata fatta da Tatiana, si era sentita il cuore gonfio di orgoglio.

Aveva cercato i suoi genitori, mentre Tatiana la trascinava in un generoso inchino, come si era tirata su aveva intercettato lo sguardo pieno di divertimento e riconoscenza di suo padre, che aveva capito i suoi errori, ma ne aveva apprezzato comunque la riuscita. Era così soddisfatta da non sentire neanche il dolore dei tagli sui polpastrelli di una delle mani dovute alle rigide corde.

“Credo che con della preparazione più adeguata potremmo fare meglio, prossimamente” aveva sussurrato Tatiana, “Abbiamo nove giorni credi che riuscirò ad imparare qualcos’altro?” aveva scherzato Alina, “La Barinya due volte[4]” aveva riso Tatiana, con un’espressione sorniona.
“Dovrò farmi solo crescere dieci dita in più” aveva riso Alina.

 

Alina aveva preso una coppa di qualcos’altro, era un vino frizzante dello stesso colore d’oro dei capelli di suo fratello e dei gioielli che indossava lei. “È stata brava, moya tsarevich” aveva sussurrato una voce lei aveva quasi mandato di traverso l’ultimo sorso di vino frizzante che stava trangugiando, “Meesha … ehm, volevo dire luogotenente Effimov” aveva sospirato stanca e leggermente acuta.
Meesha aveva raccolto i suoi capelli riccioluti in una piccola crocchia stretta, e l’unico orpello decorativo che indossava era un gioello rosso che le pendeva tra gli occhi, legato con una catenina d’oro rosa, per il resto non aveva né un filo di trucco né alcun monile, tranne che il piccolo orecchino da cui pendeva la falangetta che usava come amplificatore, mischiato all’argento grisha. Era un ossicino umano e Alina era una delle poche persone a saperlo. Ad Alina dava un po’ la vertigine pensare appartenesse ad un amplificatore umano, perché possederne uno non lasciava molto spazio a diverse possibilità su come poteva essere ottenuto, Meesha però non era voluta entrare di più nel dettaglio e Alina aveva preferito baciare vorace quelle labbra che chiedere.
Meesha era ben stritolata nella kefta rossa con i riccioli grigio-nero, che evocavano le figure di cuori segmentati sul bordo delle maniche, l’orlo della lunga gonna e sulle spalle e il petto, fino al colletto, di taffetà. Segno che era in servizio, come membro dell’esercito e non come figlia di un membro della dvorjanstvo.
Meesha aveva sorriso, con i denti bianchi come perle, piccoli e graziosi, che avevano fatto batte il cuore di Alina, “Grazie, comunque” aveva biascicato, finendo il suo vino. “Però ho visto che ti sei graffiata i polpastrelli” aveva considerato, lei aveva alzato la mano libera notante le piccole linee rosse e le bolle rosse di sangue, “Forse ho bevuto così tanto da non sentire neanche il fastidio” aveva mentito colma di imbarazzo. Meesha aveva quasi riso, “L’alcool anestetizza i nervi, anche quelli del dolore, sì” aveva considerato la corporalki, “Posso?” aveva chiesto poi allungando una mano verso di lui.

Alina aveva avuto un brivido quando aveva steso la sua mano su quella di Meesha, e dal brivido era passata a scintille di fuoco quando le loro carni erano state a contato. Aveva ricordato i loro furiosi baci durante l’ultima Festa del Burro, prima che Meesha fosse rilocata di servizio da tutt’altra parte. Il loro sbaciucchiamento non era fiorito dal nulla, non per Alina, le basi e i sospiri erano fioriti da che aveva cominciato a pensare a sé stessa in relazione con altre persone.

Quando l’aveva vista al Piccolo Palazzo era stata così felice che aveva abbandonato il Principe di Fjerda in mezzo ad una conversazione e lo aveva lasciato in balia dello strano uomo del Bosco di Sankt Feliks da cui suo padre si era sempre raccomandata che stesse lontana.

Alina aveva osservato la mano libera di Meesha muoversi, aveva chiuso anulare, mignolo e pollice in un pugno, lasciando stesi solo medio e indice, che aveva fatto vibrare sotto e sopra alternati, da quel piccolo movimento Alina aveva sentito la sua pelle formicolare, un bruciore appena, prima che le linee rosse di carne tagliata si riunissero in pelle intera. “Sei diventata una healer” aveva considerato Alina, sapendo bene che Meesha era una heartreander e l’altra specializzazione fosse quella di suo padre. “Come dico sempre a Lissa: la materia è la stessa” le aveva detto tranquilla, sciogliendo la loro presa, questo le ricordava che non aveva ancora parlato con la sua amica, “Volevi dire la baronetta Pavlov” l’aveva presa in giro.

“Non vedo l’ora di doverla istruire a tutte le stupide facezie di corte” aveva ridacchiato Meesha, “Adoro da impazzire l’esercito: un cucchiaio e una forchetta, se sei fortunata un coltello per tagliare la carne, ma solo il martedì” aveva aggiunto. Alina aveva riso, “Ti va un po’ di brandy?” aveva domandato poi, “Vorrei, giuro, ma sono qui come membro dell’esercito della grande e potente Ravka, non vorrei creare vergogna alla mia regina” aveva spiegato. Comprensibile.

“E ora penso di doverla lasciare, ero venuta solo per congratularmi e per le dita” si era congedata con quelle parole ed un inchino amichevole. Alina odiava quando usava quel tono così formale, quando usava il lei.

 

 

“Quanti bicchieri hai bevuto?” aveva chiesto Lilyiana quando le aveva visto riempirsi un calice, “Sento ancora dolore ai piedi; quindi, non abbastanza” aveva risposto Alina con un sorriso sarcastico, “Ti prego” le aveva detto sua sorella maggiore, “Solleva le dita” le aveva risposto la minore. Lilyiana aveva sollevato tutte le dita meno in pollice, tenuto premuto contro il palmo, “Quattro dita! Vedi sono ancora sobria” aveva risposto, ma per qualche ragione l’espressione seria di sua sorella le creava un senso di ilarità difficile da spiegare. “Non posso lamentarmi, la prima sbronza io la ho presa che di anni ne avevo meno di te” aveva soppesato sua sorella. “Me lo ricordo bene” aveva scherzato Drina che l’aveva affiancata, Alina era rimasta molto stupita dalla sua inaspettata comparsa al banchetto, pensava si stesse congelando da qualche parte a Fjerda.

“Ti ho dovuto tenere la testa mentre vomitavi” aveva aggiunto spietata Drina, l’attimo prima che Alina si sporgesse per abbracciarla, “Ben tornata!” le aveva detto, “Eh, che accoglienza” aveva ridacchiato la giovane donna, ricambiando la stretta. “Oggi ho passato la giornata con tuo padre, a spiegare l’arte tysibeiana; sembrava interessato” aveva rivelato, “Mio padre? Il mio rozzissimo padre che pensa che l’azzurro, il ciano e l’indaco siano lo stesso colore?” aveva riso Drina con una punta di divertimento, “La gente può cambiare e ampliare i propri orizzonti” aveva ammesso sua sorella, versandosi un po’ di brandy nel suo calice. “Non mio padre, ya slomayus', no ne sognus' è il suo motto” aveva risposto Drina, mi spezzerò ma non mi piegherò, in antico ravkiano; “Dopo e’ya sta rezku” aveva ricordato Lilyiana.

Io sono una lama, anche quello in ravkiano antico.

Alina era inciampata nei due diversi motti duranti i suoi studi di storia. Il primo Mi spezzerò ma non mi piegherò, apparteneva al periodo subito posteriore alla Rafka unificata, contro gli assalti sempre più invadenti degli Atili, che avevano poi fatto nascere il bisogno di conquista dello stato: da difesa ad attacco. Il secondo apparteneva ad un ordine di monaci guerrieri che seguivano le vie di un Dio dimenticato e della spada, che avevano combattuto sia contro gli oyriandi, sia contro gli eserciti del Grande Sulinato e di Rafka stessa che si univa sotto un credo che non era il loro. Due moniti ormai persi e dimenticati che sopravvivevano nei fieri uomini del sud[5].

“Comunque non vedo l’ora di raccontarlo a mia madre, così potrà subissarlo di informazioni relative all’arte” aveva ridacchiato Drina, sollevando una mano per soffocare una risata con le dita. Al polso aveva un piccolo bracciale di ferro argentato, come quello di suo padre – Alina lo ricordava perché Genya lo aveva commentato – e non si era potuta trattenere dal chiedere.

Drina aveva guardato il bracciale, come se si fosse stupita di averlo al polso o lo avesse dimenticato, “Oh, sì. Gli ho fatti quando sono rimasta incinta, al loro interno hanno l’iridio … non è solo uno dei materiali più rari in natura ma anche uno dei più difficili da corrodere. Lavorarlo è stato davvero una faticaccia, ma ho avuto nove mesi di letto per farlo” aveva spiegato poi tronfia, “L’ho realizzato per tutti i membri della mia famiglia, così posso sempre trovarli sai, se per caso qualcuno finisse rapito dagli schiavisti. La rarità lo rende facilmente rilevabile, la resistenza lo rende difficilmente distruttibile e, grazie alle mie doti scarse da fabrikator, la bruttezza lo rende improbabilmente rubabile” aveva scherzato Drina.

“Non hai pessime dote da fabrikator, sei semplicemente più artistica” si era introdotta Lilyiana, ed era vero. Nonostante Alina non conoscesse così bene Drina, aveva visto nel corso degli anni l’amica di sua sorella piegare la materia in forme ambigue, divertenti e suggestivi, senza mai concedersi all’arte dell’invenzione, nonostante fosse stata – per un periodo – un membro degli zero di suo padre.
‘Drina ha una percezione che veramente pochi grisha hanno’ ricordava di aver sentito sua madre commentare una volta, mentre si passava tra le mani una rosa d’ottone con petali così arcuati e imperfetti da sembrare che qualcuno avesse colorato un fiore vero del colore metallico. Era quello il suo talento superbo, poteva trovare il proverbiale ago nel pagliaio, anche se il pagliaio era composto di chiodi di ferro e l’ago del medesimo materiale.

Alina ricordava di averla vista spuntare tra gli alberi soldati, con la coda alta, la benda di seta con il sole – come Genya – e la kefta porpora che raccoglieva i ragazzini scalmanati fuggiaschi dall’orfanotrofio con la stessa maestria di una cacciatrice di tartufi. Quando erano scesi a sud per la nomina al rango di ducale della famiglia Rosen.

“Ovviamente questo non ha reso le cose semplici al Bosco” si era lamentata Drina.

“Oh, sì come va nella ridente Fjerdia?” aveva chiesto Alina sfacciata, dopo aver udito la menzione del luogo dove Drina alloggiava. Era un po’ di parte sulla questione Fjerda, non aveva mai provato particolare attenzione o interesse per il luogo, se non per l’algida architettura, massiccia, imponente ma anche stranamente alta, avendolo sempre relegato ad un posto freddo e buio. Alina sognava con più interesse le terre dell’estate perenne e i frutti dolci del sud.

“Fjerda? Orribile come poche cose al mondo, il Bosco di Sankt Feliks? Peggio. Un posto dove ci sono poche ore di luce, il sole è una leggenda e un freddo così infame da gelarti l’aria nei polmoni. Inoltre, gli altri studiosi sono una noio colossale, per conquistarli ci vuole una fatica infame e non ne vale la pena” aveva risposto annoiata Drina, “E la corte?” aveva chiesto invece lei, facendo sollevare un sopracciglio scuro a Lilyiana, “Rispetto al Gran Palazzo è uno spettacolo, ma anche una cascina in campagna lo sarebbe. Però, sì, la Corte di Ghiaccio è un vero miracolo dell’ingegneria e dell’architettura, è davvero splendida ed ha il dono di farti sentire minuscolo, degno del titolo di una delle Cinque Meraviglie del Mondo. E nonostante fuori possa esserci neve e ghiaccio, dentro non fa mai freddo! Peccato esserci stata molto poco … e peccato che con l’eccezione della Regina Mila sia un posto incredibilmente austero dove stare” aveva risposto, “Perfino Re Egmond parla poco, il principe Bjorn d’altronde è molto chiacchierone”.

Il famoso cugino di Matthias, “Peccato che sua maestà la regina Mila ha fatto tutto ciò che era in suo potere per tenermelo lontano. Infondo, sono l’erede di un podere e la nota amica dell’erede di Ravka. Non che mi interessasse parlare con lui nello specifico, ma almeno aveva una personalità frizzantina” si era giustificata.

“In realtà credo ti abbia fatto davvero bene” si era intromessa Lilyiana, Drina aveva aggrottato le sopracciglia, aveva pettinato i capelli affinché l’occhio cieco fosse nascosto – Alina non aveva idea di cosa fosse successo e una parte di lei smaniava per chiederlo, anche in quel preciso momento – “Cosa intendi?” aveva chiesto la materialki, “Che non sei mai stata così chiacchierona” aveva buttato fuori Alina.

Sua sorella le aveva tirato una gomitata senza grazia. In realtà Alina sapeva che era esistita una Drina chiacchierona, con gli occhi azzurri vispi e la gioia di vivere tatuata in viso, ogni tanto Cignaz – l’amico di Lissa che lavorava alla lavanderia – ne parlava e anche Genya, che le passava sempre le mani tra i capelli, materna e gentile. Alina però non l’aveva mai vista.

Non le sarebbe dovuto importare, ma una parte di lei si sentiva defraudata di un’Alina solare ed allegra e di una Lilyiana che, come la sua amica, era morta prima che lei emettesse il primo vagito.

Dopo diciassette anni, Alina si sentiva ancora defraudata.

“Ah, sì, certo. Al Bosco chiacchierano così poco che perfino io ho fatto un accumulo di tutte le parole che non ho potuto dire” aveva scherzato con un sorriso allegro. “E tuo marito?” aveva inquisito Alina, “Sì, ecco …un’altra cosa che mi manca è il sesso, vero. Giuro, mi è sempre piaciuto fare sesso, ma dopo aver sgravato i miei ormoni si erano acquietati un attimo, ma invece no, dopo un paio d’anni, fuoco tra le cosce” aveva risposto Drina, sorprendendola, Alina voleva più sapere dove fosse, “Al Bosco non si copula, non che potrei farlo, mio marito non è lì” aveva risposto quella con una risata.
“Non credevo avrei vissuto fino al giorno in cui ti avrei visto fedele” aveva detto sua sorella, con un tono stuzzicante, “Mi offendi! Io sono sempre stata fedele, se non nel corpo, almeno nello spirito” aveva stabilito, guardando sua sorella con l’unico occhio sano con un’intensità tale che Alina aveva sentito freddo per Lilyiana.

“Sì, è stata una cosa profondamente ingiusta da dire, da parte mia” aveva sussurrato Lilyiana ed il suo tono era stato lacrimoso, per Alina era già sconvolgente che sua sorella si stesse scusando, ma che avesse preso quella vena smielata sembrava surreale. Drina aveva allungato una mano e l’aveva afferrata per la vita prima di spingersela addosso e strizzarla in un abbraccio da orsa. Lilyiana era arrossita e l’aveva ricambiata, morbida, prima di schioccarle un bacio sulla guancia.
“Oh, per fortuna che il mio maritino non è qui, potrebbe diventare geloso” aveva scherzato Drina, “Il mio è qui, ma conoscendolo probabilmente si starà facendo corteggiare da mio fratello” aveva ridacchiato Lilyiana.

Alina era un po’ gelosa. Malcom, Najima, Dimitriji e suo marito riuscivano ad addolcire sua sorella, ma Drina – e il Juris, anche, ovviamente – riusciva a renderla una creatura morbida e ruffiana come una gatta, in una maniera morbida e bellissima che rendeva sempre Alina invidiosa. Non era gelosa del loro rapporto, Alina aveva Lissa, era gelosa che qualcuno potesse rendere sua sorella così e che quel qualcuno non fosse lei, ne avesse mai condiviso i segreti con lei. Alina avrebbe voluto avere un po’ della Lilyiana di cui Drina poteva disporre. “Per spezzare una lancia a suo favore, tuo fratello è un uomo molto attraente e con un discreto talento in camera da letto” aveva scherzato la donna. “Sankti! Drina!” lo aveva rimproverato Lilyiana quasi scandalizzata, “Non mi dire che ci sei giaciuta!” aveva invece esclamato Alina sboccata, “Chi io? No, no, per me non importa quanto bello e affascinante diventi Dominik, per me rimane lo stesso rospetto che ho conosciuto quando avevo nove anni. Nonostante mia madre ci sperasse moltissimo” aveva replicato Drina, “Ma ho gli occhi, oh, be, ho almeno un occhio che ci vede!” aveva risposto Drina, strizzando verso di loro l’unico occhio che si vedeva sul viso, mentre quello cieco, ben nascosto dalla pettinatura, “O delle orecchie per sentire. Ed ho sentito un mucchio di cose, alcune così depravate da aver messo in imbarazzo anche me.”

Alina era abbastanza sicura di averle sentite anche lei o, meglio, lette, i libelli erotici erano spudorati quando si trattava di Dominik e suo fratello sembrava quasi gioire nel voler nutrire le dissolute fantasie degli scrittori più sfacciati. “Voglio che sia noto, anche alle pietre, che per quel che mi riguarda Dominik e Alina per me sono pari a creature asessuate” aveva stabilito Lilyiana, piazzandole una mano protettiva sulla spalla. Alina era saltata dalla sorpresa ma poi aveva sentito il cuore scaldarle il petto. Aveva ricordato Dominik definirla la loro lapushka.

Era più facile amare suo fratello, di quanto non fosse sua sorella. Dominik era sempre così aperto, onesto e sentimentale, mentre Lilyiana sembrava una tigre delle nevi rimasta prigioniera in una trappola per orsi che cercava di graffiare anche l’avventore che tentava di aiutarla – almeno con loro, in pubblico sapeva mostrarsi la più raffinata ed educata delle signore. “Comunque dove è il mio bracciale?” aveva inquisito Lilyiana, cogliendole di sorpresa, toccando il piccolo capolavoro di Drina. “Tu non indossi monili” l’aveva rimproverata bonariamente Drina, passandosi una mano su uno degli orecchini pendenti. Era una cosa strana ed anche abbastanza risaputa, sua sorella non vestiva gioielli, neanche la fede – e nella corte si scommetteva se quando sarebbe ascesa al trono avesse o meno indossato la corona – di nessun genere. Per anni, cortigiani, mercanti e quant’altro avevano cercato di guadagnare i favori di sua sorella donandole pietre preziose, che puntualmente finivano o restituite, o date in beneficenza o ad Alina. La stessa collana che indossava in quel momento, una collana di una lega d’oro ed argento, che raffigurava un drago a quattro zampe di profilo, con ali spiegate e la coda che si arrotolava sul collo sottile, con pietre d’ametista come occhi, era un regalo che Lilyiana aveva ricevuto dal precedente Presidente del Consiglio di Kerch – prima che avesse uno sfortunato incidente con una scala da tre gradini – e che non poteva essere restituito. Era oggettivamente una collana ingombrante e piuttosto brutta, ma ad Alina piaceva, sembrava proprio urlare: sono la figlia del drago.

“Una spilletta?” aveva proposto Lilyiana, Drina aveva ridacchiato, “Ho fatto dei gemelli sia per Juris sia per il Piccolo Nikolai quando crescerà” le aveva detto, prima di allungare la mano ed accarezzarle i capelli quasi materna.

 

“Oh! Il principe di Fjerda!” aveva squittito Lilyiana attirando la loro attenzione, ammiccando a Matthias che incedeva a passo lento – molto lento – verso di loro, evitando i bagordi della festa e delle danze. Avevano ballato insieme almeno due volte erano stati rigidi e pieni di fatica.
“Il bellissimo principe di Fjerda” aveva bisbigliato Alina, “Ti ho già detto che penso la sua faccia sia opera di sartoria?” aveva chiesto, era un commento rivolto più a sua sorella, che alla giovane futura duchessa, guardando il fondo del suo bicchiere. “Decisamente sì” aveva accordato Drina, con una mezza risata, “Ti prego” l’aveva rimproverata Lilyiana, dandole un buffetto.

“Vostra altezza reale, vostra altezza e vostra grazia” aveva detto il principe Matthias quando era stato alla portata delle loro orecchie, facendo un inchino con gentilezza alla loro presenza.
Vostra grazia” lo aveva scimmiottato un po’ Drina, “Due mesi fa ero Drina!” aveva aggiunto ridente. Era balenato un rosso vivo sul viso di Matthias, “Non volevo essere sfacciato” aveva miagolato. “Gli uomini di Fjerda possono esserlo?” aveva chiesto Alina, prima di guadagnarsi un pizzico sulla spalla da sua sorella. Matthias aveva sgranato gli occhi azzurrissimi, “Oh, sì possono esserlo!” aveva ghignato Drina, “Non sai quanto possano esserlo i druskelle” aveva sospirato sua sorella, ma non c’era gioco o gentilezza nella sua voce. “Sua altezza reale, perdona mia sorella, la principessa Alina è piuttosto agitata questa sera” aveva provato con un tono più sicuro Lilyiana, “Più allegra, direi” si era intromessa lei stessa.

Matthias l’aveva guardata, aveva deglutito pesantemente e poi aveva detto: “Nessun bisogno di scusare nulla e nessuno” poi aveva fatto una lunga pausa, con gli occhi blu spaesati come un cervo cacciato, “Era mio interesse passeggiare con t-voi, principessa Alina” aveva aggiunto.
“Oh, certo!” aveva risposto Alina, anticipando Lilyiana, prima di buttare giù l’ultimo sorso del bicchiere. “Non dovrebbe esserci uno stuolo di accompagnatori?” aveva inquisito Drina, mentre Alina si divincolava dalle due, per raggiungere Matthias e prenderlo a braccetto. Il principe era sembrato in leggera difficoltà, “Dovrebbe” aveva considerato. “Fortunatamente siamo in territorio Ravkiano e se una fanciulla e un fanciullo vengono trovati da soli, in atteggiamenti non ostili, si ipotizza stiano solo parlando o, forse anche amoreggiando, ma non è un problema” aveva ponderato Lilyiana, dandole un buffetto incoraggiante sulla schiena.

 

“Grazie per avermi salvato da quelle due” aveva ridacchiato Alina, aggrappandosi a lui, “Mia madre dice sempre che quando sono insieme Lilyiana e Drina perdono tutta la loro compostezza e diventando due cinciallegre” aveva rivelato, “Mio padre dice che è ereditario, perché mia madre e Marina Rosen sono uguali” aveva scherzato. “Due contadinotte, passate per l’esercito, fino ad un ruolo nobiliare che mal si confaceva” aveva detto sguainata – una vita completamente diversa da quella in cui Alina era stata costretta, tra etichette e lezioni di matematica, letterature e buone maniere.
Ed era stata patetica nell’ultimo.

Matthias si era morso un labbro, “Devo dire che i miei genitori non hanno conservato molte amicizie della giovinezza. Mia madre era la vedova di un pescatore e mio padre era un ragazzino malato; si sono avvicinati uniti dal cordoglio di Hanne Brum; hanno nutrito una bella corte poi” aveva considerato, “Ma hanno pochi amici” l’ultima sentenza l’aveva detta con un tono basso e tinto di tristezza.
“Tua madre mi pare la donna più allegra e socievole del mondo, riesce a tenersi in competizione con mio padre” aveva ridacchiato, Alina non aveva chiesto nulla su di lui, era abbastanza nota che il principe Matthias non fosse particolarmente loquace e socievole, le sue compagnie più note erano stati il cugino Bjorn e la giovane nobile hetsjut con loro, oltre la Frusta di Mare – a detta di quello che lui stesso aveva detto.

“In base a questo …” aveva cominciato Matthias, mentre lo trascinava in luoghi più appartati, verso i boschi di pioppi circostanti la palude, che divideva lo spiazzale della festa – con il ballo, l’orchestra e i tavoli imbanditi – e la villa e l’alcova di Kirigin e Demidov. “Sta sera è stato molto bello quello che hai fatto per la baronetta” aveva considerato gentile, “Se mi fossi preparata meglio, sarebbe stato più bello” aveva sospirato Alina, “Penso sia stato un gesto così gentile che non importi” aveva considerato e il suo tono era stato mesto, onesto, e stucchevole, che Alina si era sentita quasi in colpa per qualcosa. “Grazie” aveva pigolato. “C’è qualche parte dove vuoi andare?” aveva inquisito Alina, poi recuperando la sua compostezza, per quanto l’alcol lo permettesse, “In un posto … solitario” aveva risposto Matthias, “Devo chiederti di una cosa seria.”

 

“Uh … siamo in un posto parecchio isolato” aveva considerato Alina, posandosi al tronco nodoso di un albero, senza preoccuparsi che la resina rovinasse l’albero. Matthias era ad una distanza ragionevole da lei, che per un Fjerdiano sarebbe probabilmente costata una scudisciata sulla schiena per atti osceni. Doveva essere un posto molto triste Fjerda, freddo, cupo e repressivo, nonostante la regina Mila avesse fatto più miracoli di una sankta per renderlo un lugo fresco ed aperto. Alina non era abituata alle scorribande dei suoi fratelli, ma perché l’avevano sempre tenuta prigioniera in una campana di vetro ed ogni sua fuga era stata abortita prima di poter avere vita, e forse nell’intimità era stata piuttosto carente – e ancora ricordava i baci feroci di Meesha e le sue carezze avide – ma aveva letto libelli di ogni genere, e libri e poesie, così come quadri e litografie; aveva tormentato Genya in ogni modo. Una volta aveva anche cercato di infilarsi in un postribolo per guardare.

Sapeva che, se avesse avuto la libertà non sarebbe stata dissimile dal resto della sua famiglia.
“Se tu volessi uccidermi, questo potrebbe esser un luogo adatto. Potrei urlare fino a squarciarmi la gola e nessuno mi sentirebbe” aveva scherzato. Non sarebbe stato utile solo per quello, pensandoci attentamente.
“Non voglio ucciderti!” si era difeso il principe.

Matthias la guardava come se fosse stata l’incarnazione del Vampiro e dalle sue mani avessero potuto zampillare fiocchi di oscurità, la nuova venuta dell’Oscuro. “Meno male, perché devo dirti che Tamar Yul-Baatar mi ha insegnato l’autodifesa e so atterrare una persona due volte me” aveva stabilito.
Il principe di Fjerda non era due volte lei, anzi era anche piuttosto magro in confronto ai fisici statuari dei druskelle che aveva visto, e più secco di suo fratello Dominik, però aveva le spalle ampie ed era più alto di Alina di almeno mezza testa. Matthias aveva sollevato le mani, in una posizione di resa, pieno di disagio in viso.

“Appurato che tu non voglia uccidermi e che io non debba romperti qualche osso …Cosa volevi chiedermi?” aveva chiesto poi, leggermente spazientita, lontano, come echi distanti sentiva la musica dell’orchestra ancora vivace.

“La tua mano” aveva risposto Matthias freddo. Alina aveva sollevato la mano sinistra, contraendola dalla posizione molle in cui aveva costretto il braccio, “Eccola” aveva scherzato, allungandola verso di lui. Matthias aveva fatto zampettare l’azzurro dei suoi occhi dalla sua mano al suo viso, con un’espressione che tradiva la sua stoica apatia in qualcosa di molto più umano: incredulità e sorpresa. “Non in quel senso” aveva detto leggermente a disagio. Onestamente non capiva a pieno il perché, lui aveva chiesto, lei aveva dato. “Non mi hai appena chiesto la mano?” aveva chiesto Alina con ovvietà facendo roteare il polso. “Non in quel senso” aveva insistito il principe, portandosi una mano sul viso, sconfortato.

“E in quale sens-oh!” aveva provato, prima di capire, “In matrimonio! Tu stai chiedendo la mia mano in matrimonio!” aveva esclamato Alina. Stupita!

“Sì, so che non è molto ortodosso. Di norma dovrebbero parlarne mio padre e tua madre e noi dovremmo a malapena saperlo. Mio padre si era raccomandato di scegliere bene e mia madre parteggia molto per te, però ho pensato fosse d’uopo parlarne con te prima di dar via alla chiassosa burocrazia necessaria” aveva spiegato pratico.

“Come?” aveva chiesto. “Mio padre ha sposato una pescivendola, ma io non avrò la stessa grazia di poter sposare qualcuno che amo, ai tuoi genitori è capitata la stessa fortuna che non sarà estesa a te. Questo perché siamo principi e principesse e ci si aspetta che stendiamo alleanze” aveva cominciato a recitare con un tono insicuro, “I nostri genitori hanno potuto sfruttare situazioni eccezionali che a noi probabilmente non saranno concesse” aveva considerato.

Come era stato per Lilyiana, almeno pensava Alina, che un giorno aveva annunciato che avrebbe sposato il figlio di un ministro di Shu-Han di cui lei non sapeva nulla – forse non era proprio come immaginava la storia Alina, ma immaginava che sua sorella avesse semplicemente scelto il partito più appetibile per i suoi giochi cortesi.

“Però, ecco, pensavo prima di incastrarti in questa cosa di chiedere se ti andasse bene” aveva buttato fuori Dominik. Alina aveva sbattuto gli occhi realizzando la portata di quella dichiarazione.
“Vuoi sposarmi?” aveva chiesto con una certa perplessità, “Ci conosciamo a malapena!” aveva aggiunto. Matthias aveva battuto gli occhi blu come se lei fosse stata un elefante con ali piumate di colore arcobaleno. “Sì, di sicuro non è perché sei l’amore della mia vita, ma …” aveva borbottato il ragazzo con una goffa incertezza. “Hai bisogno di una principessa, sì” aveva ponderato Alina, “Dalai ha un sacco di cugine.” “Ho bis-Ma preferirei te” aveva detto Matthias, deviando lo sguardo, puntando gli occhi azzurri sulle sue scarpe leggermente infangate. Alina non riusciva a spiegarsi perché questa improvvisa dichiarazione la lasciasse leggermente scossa – non provava niente per il principe, ma …

“Io credo vada bene” aveva borbottato alla fine. Sua madre ne sarebbe stata felice, adorava la regina Mila, la Corte di Ghiaccio non distava troppo da Os Alto e … Alina non avrebbe avuto poi molta scelta.

“Credi?” aveva chiesto Matthias, “Sì credo, comunque non ci sposeremo domani, no? Ci saranno organizzazione, incontri. Sono sicura che Fjerda ha una rigida etichetta per il corteggiamento” aveva borbottato. Matthias aveva ridacchiato, la sua voce era sembrata più leggera, “In effetti sì. È una procedura lunga e piuttosto nevrotica” aveva ammesso, grattandosi il capo biondo, “Però credo sarebbe d’uopo fare una cerimonia mista. Il vecchio Karl impazzirà per organizzarla” aveva considerato.
Si sarebbe sposata, era un pensiero che le dava una leggera nausea; le era venuto in mente il matrimonio di sua sorella qualche anno fa e l’espressione affranta di Anya quando aveva le aveva comunicato che si sarebbe unita in giuste nozze a Viktor Semyon. In effetti anche Alina avrebbe indossato il colore del lutto se avesse dovuto sposare il promesso sposo di Anya. Però a lei non sarebbe toccato l’insofferente Viktor Semyon, a lei spettava l’algido principe di Fjerda. Per un solido secondo aveva pensato che si sarebbe piegata in due in quel momento e che avrebbe vomitato tutto quello che aveva bevuto e mangiato fino a quel momento. Ma aveva ricacciato a fatica la bile nello stomaco, per voltare lo sguardo verso il principe.

C’era qualcosa in lui di titubante, quasi tremolante – Oh Sankti! Alina lo avrebbe sposato, questo noioso ragazzo perfetto, perfettamente ben educato, con una faccia finta e che scommetteva dentro dovesse avere qualcosa di marcio.

“Parlo il fjerdiano come una bambina, sappilo” aveva considerato, cercando di alleggerire la situazione, quando si sentiva tutt’altro che leggera, Matthias aveva annuito: “Probabilmente la lingua sarà l’ultimo dei problemi” aveva valutato lui. Alina si era allontanata dal tronco di pioppo, per avvicinarsi, “Immagino” aveva detto enigmatica, lui si era fatto leggermente rosso in viso, “Potrebbe anche essere la tua faccia” aveva berciato lei. Il rossore dolce aveva lasciato spazio ad un bianco cadaverico sconvolto, toccandosi le guance con un movimento meccanico, “La mia faccia?” aveva balbettato.

Alina aveva toccato la guancia che Matthias non stava toccando, aveva sentito la pelle del principe infiammata sotto i suoi polpastrelli, “Questa non è la tua vera faccia, vero?” aveva biascicato, l’espressione sul viso di Matthias era impagabile, sconvolta “Nel senso ti aggiusti, no?” aveva considerato divertita.

Matthias le aveva allontanato la mano dalla sua faccia con un tocco delicato, ma imperioso, come se non avesse voluto farle male ma non tollerasse di essere ancora toccato, “Cosa … intendi?” aveva chiesto. “Nessuno è così bello. Nessun uomo almeno” aveva ridacchiato.

Matthias aveva battuto le ciglia colto di sorpresa, “No?” aveva proposto, “Ti ho letteralmente trovato con le mani di Genya sulla faccia!” aveva replicato Alina.

“Questa è la mia faccia!” aveva replicato Matthias ed era sembrato profondamente offeso dalle illazioni di Alina, che quasi aveva sentito un leggero manifestarsi di un senso di colpa.
Però, il viso irritato di Matthias era quasi delizioso, “Va bene, tieni i tuoi segreti. Ma se ci dovessimo mai sposare, mi dispiacerebbe svegliarmi la mattina con uno sconosciuto” aveva buttato fuori.
“Non succederà” l’aveva rassicurata Matthias ma il suo tono era leggermente aspro di panico, “Va bene, va bene” aveva ammesso Alina ridacchiando, non sapeva perché ma era decisamente compiaciuta dalla difficoltà di Matthias, fino a quel momento era sempre sembrato una creatura così posata, anche sotto l’incalzante interrogatorio di Dominik.

Sempre perfetto, sempre cheto, il principe d’oro e di ghiaccio, che Alina era sicura sua madre avrebbe voluto al posto della sua irruenza fastidiosa, dei modi vezzosi di Dominik e dell’atteggiamento bisbetico di Lilyiana. Eppure, eccolo, umano e con le gote paonazze di vergogna e vino.

“Potresti quasi piacermi, ora” aveva detto.

“Perché non ti piaccio?” aveva chiesto Matthias, ma non aveva avuto indignazione nella voce, ma quasi genuina curiosità. Alina aveva ridacchiato, “Oh, … ehm … come dire, sei noioso?” aveva buttato fuori, “Guardati: bellissimo, perfetto, bravo in tutto, non mi sono neanche dovuta sforzare per perdere la competizione di tiro al piattello, sei così calmo, stoico, non sembri vero, non hai alzato neanche una volta la voce con Dominik che è stato orribile per tutto il tè che abbiamo preso assieme, suoni la domra, reciti bene le poesie, sankti, ieri hai recitato un sonetto che hai scritto tu nella mia lingua, forse non era perfetto, ma hai rispettato la metrica e hai usato rime sagaci tipo radicchio e crocchio … come hai pensato di metterle in rima?” aveva buttato fuori. “Non mi sembrano cose … cose brutte” aveva provato il principe. “Praticamente se aggiornassimo La Giusta Immagine di un Principe, dovremmo scriverci: Matthias Grimojor” aveva buttato fuori. Matthias sembrava confuso.
Non mi piaci perché mi fai sentire inferiore e inadatta e io sono la dannata principessa di Ravka! Avrebbe voluto urlare ma non era stato il buon senso a fermare la sua lingua, quanto la vergogna, anche alterata e sciatta, Alina non lo avrebbe mai ammesso.
Non avrebbe mai permesso di vincere a quella piccola vocina che sussurrava nelle sue orecchie che non era abbastanza.

“E soprattutto sei bello, bello da far schifo, cioè sul serio, guardarti soltanto mi fa drizzare i capezzoli!” aveva buttato fuori, invece, e non era neanche una menzogna. Arrabbiato, confuso ed impacciato il principe Matthias sembrava davvero accettabile. Il fjerdiano era diventato rosso come un pomodoro, “Questo è molto audace” aveva buttato fuori, “Per un fjerdiano sicuramente … scommetto che essere qui al buio a parlare con me sia la cosa più spericolata che tu abbia mai fatto” aveva sogghignato.

“Perché tu?” aveva risposto schietto il principe, con un tono leggermente irritato ma le guance ancora rosse, “Io? Io sono scappata di casa tre volte, ho fatto il Sentiero dei Pellegrini” – non era vero, non del tutto, dopo che Vasilissa era partita per l’Agroverde, Alina aveva scongiurato di poter andare, ma non aveva ricevuto l’assenzo, dopo tempo ancora le bruciava, “Ho scalato le rovine dell’Arcolaio e ho camminato tra gli Alberi Soldato con i bambini di Keramzin e ho visto l’Uccello di Fuoco” aveva quasi urlato, quello, quello era vero.

In particolare, l’ultima; Alina lo ricordava come una memoria febbrile. Ricordava di averlo raccontato a Drina e Lilyiana dopo certissima e ricordava lo sguardo leggermente accondiscendente di sua sorella, nessuno dei bambini che era fuggito allo sguardo attento di Marina quando avevano fatto l’escursione dei boschi lo aveva visto, quindi nessuno le aveva creduto.
A parte la duchessa: ‘forse è stato per il nome nome’, aveva ipotizzato gentile.

‘Ma lei mi crede, vero?’ aveva chiesto impaziente, ‘Certo. Anche a me è capitato di vederlo’ aveva risposto lei con gentilezza.

“Io ho attraversato il fossato di ghiaccio per l’Isola Bianca come un druskelle ed ho ascoltato la voce di Djel” aveva buttato fuori. “Noioso” lo aveva preso in giro Alina, “Quante belle principesse o campagnole hai baciato?” aveva chiesto, “Sei mai stato così vicino a qualcuno?” aveva chiesto audace, posandoli una mano sul petto, dove c’era il cuore. Avrebbe voluto essere una corporalki in quel momento per leggere quel nervoso ragazzo come un libro.

Matthias l’aveva colta di sorpresa, imprigionando le sue mani guance come una morsa ed aveva schiacciato i loro nasi insieme, anche le loro labbra e i denti, ma Alina aveva notato di più l’appendice sul viso. Si era ritratta con fatica, con una mano a massaggiarsi la punta del naso.

“Cosa doveva essere quello?” aveva chiesto sconvolta e fin troppo divertita, “Un bacio” aveva provato il principe di Fjerda bianco in faccia, mortificato. La risata proruppe dalle labbra di Alina senza il suo controllo, prepotente dal suo ventre, fino alla luce. “Oh, sankti, cosa era questo?” aveva chiesto tenendo malamente l’ilarità. “Un bacio” aveva risposto scandalizzato il principe.

“Oh, Sankto Juris del Drago, se questo era un bacio, siamo messi proprio male” lo aveva preso in giro spietatamente, “Mi sa che il parlare sarà davvero l’ultimo dei nostri problemi.”
Si era aspettata che Matthias rispondesse per le rime, ma il principe di Fjerda era rosso di frustrazione e la sua espressione era così contrita che aveva quasi fatto appassire la risata sulle labbra di Alina,

“Possiamo riprovare se ti va” aveva proposto.

Matthias sembrava spinoso e nervoso, si era sporto leggermente di nuovo meno irruente, questa volta senza toccarla con le mani, come se Alina fosse fatta di fuoco.

Non era stato comunque un bel bacio, era stato un cozzare di denti, scoordinato e la lingua di Matthias nella sua bocca sembrava lo strisciare di una lumaca. Alina non aveva potuto imbrigliare in alcun modo la sua mente che davanti tutta quella scomodità aveva ricordato un altro bacio, un’altra ebrezza, un’altra festa.

Meesha è le sue labbra morbide, quella lingua esperta, che le aveva fatto sentire le scintille, i brividi lungo la schiena e quelle mani svelte, che l’avevano resa nervosa e umida.

E, sankti, Matthias era completamente negato. Si era staccata di fretta con ancora un filo di saliva ad unirli, “Almeno ho trovato qualcosa in cui non sei bravo” aveva scherzato con ancora la risata sulle labbra.
L’espressione del principe era stato molto meno divertita, “Neanche tu sei particolarmente capace” aveva stabilito, “Come se avessi un metro di paragone” aveva risposto Alina, cogliendo la sua inesperienza. Il principe era sembrato inviperito, “Forse è il caso che ci fermiamo questa sera” aveva proposto il principe gonfiando le guance. “Vogliamo tornare indietro?” aveva proposto lei, “Forse resto qui per un po’, devo … riflettere” aveva detto. “Va bene” aveva concesso Alina, incerta di quello che fosse appena successo, “Forse …” aveva borbottato qualcosa lui, senza che lei lo comprendesse.

“Cosa?” aveva chiesto Alina, ma Matthias l’aveva ignorata, si era poggiato al tronco di un pioppo con un braccio, ed aveva posato la fronte sul suo avambraccio, per nascondere il viso, come se avesse dovuto nascondere qualcosa. Alina aveva deciso di lasciarlo alle sue contemplazioni, la notte d’altronde era giovane, mentre seguiva la strada che si era lasciata alle spalle, la risata era tornata sulle sue labbra.

Era una cosa stupida, ma provava un piacere difficile da spiegare nel sapere che il perfettissimo principe Matthias fosse negato in qualcosa, anche se era una cosa sciocca.

 

Aveva sentito di nuovo la musica inondarle le orecchie ed aveva osservato il caos che si palesava davanti a lei, aveva cercato sua sorella con lo sguardo, ma non la riusciva a distinguere, c’era sua madre però, che dominava la sala con il suo abito di scaglie viola-nera e tulle, come la regina che era, mentre duettava con il Marshal delle Isole Erranti.

Mentre osservava le giravolte di sua madre, aveva riconosciuto anche la sua migliore amica.
Il vestito d’oro di Alina, non era bello come l’abito lillà che Najima le aveva fatto confezionare, quindi, Alina non aveva chiaro perché avesse indossato quel vestito, considerato che Genya lo aveva fatto modificare a posta per la sposa segreta.  Però Vasilissa era bellissima lo stesso, lo era perché indossava il suo sorriso più bello e sembrava felice, con le gote arrossate dalla fatica e l’uomo con cui stava ballando – il vice-segretario di Novy Zem – la stava rendendo felice.

Aveva attraversato il campo visivo di Anya Karkoff, vestita come una colata di melassa, che aveva l’espressione verde di qualcuno che aveva mangiato qualcosa di indigesto, e Viktor Semyon che aveva lo sguardo truce dei soldati, verso la sala. Si era diretta verso uno dei tavoli, aveva raccolto un’altra coppa di vino con cui soffocare le risate al pensiero di quel bacio così impicciato e dopo aver tracannato un po’ di quel vino, si era diretta verso la pista, abbandonando le scarpe che cominciavano a dolerle. Ci aveva decisamente camminato troppo e se avesse voluto ballare sarebbero state più un problema che altro.

Quando Lissa l’aveva vista, si era sciolta dalla presa dell’uomo con una giravolta felpata e le era andata incontro. Alina le aveva gettato le braccia al collo, “Sei stata bravissima!” le aveva sussurrato la sua amica piena di riconoscenza e gioia. “Per favore, ho sbaglio più accordi io che tutti i musicisti di Ravka negli ultimi cinquant’anni. Tatiana è stata bravissima … a nascondere tutto! Andiamo a ballare!” le aveva urlato trascinandola ancora al centro della sala.
Aveva cercato di raccontarle tra una giravolta ed una risata quanto era accaduto, ma la presenza molesta di Dominik in compagnia di Saroise, l’altra sorellastra del Marshal, le aveva impedito di essere esplicita. Non voleva dire a Dominik di Matthias, non quando suo fratello era stato così antagonista da quel famoso tè nel Giardino Segreto di sua madre.

E poi era arrivata anche Anya Karkoff ancora più verde in viso, come se avesse voluto vomitare tutta la sua cena sulle scarpe di Alina. Era stata anche egoista ma aveva trovato anche terribilmente fastidioso che la giovane principessa della Seta avesse bisogno della sua amica.

Da quando erano amiche?

Alina era terribilmente invidiosa, Anya era stata una sua compagna di giochi da bambina ed anche se da piccole si erano trovate accettabili, da adulte non era rimasto così. Anya era tutto quello che Alina non aveva potuto essere: libera. Anya Karkoff poteva rotolarsi sull’erba, fare a gare con gli uomini per sputare i noccioli dei ciliegi, ballare sui tavoli e scappare dalla campana dei suoi genitori.
E voleva anche Lissa?

Aveva accompagnato la sua amica da suo padre che le aveva concesso le chiavi delle sue nuove stanze – Alina non sapeva dove fossero, ma immaginava dovessero essere più vicine al Corridoio Principesco e lontane dalla cucina – ma pensava che avrebbero dovuto battezzarle insieme. Forse Alina l’avrebbe raggiunta, dopo gli spettacoli pirotecnici; per onore avrebbe dovuto accompagnare Lissa, ma non voleva perdere la sua prima festa alla Palude, voleva godersela per intero, dall’inizio alla fine.

Aveva perso l’ultimo scambio tra suo padre e la sua amica, tornando consapevole nella realtà solo quando aveva sentito il suo nome in bocca al suo vecchio.

“Per essere dama di Alina, dovrai essere insignita del titolo di Damigella di Corte ed entrare nell’ordine di Sankta Vasilka” stava spiegando suo padre. Lissa non sembrava molto convinta delle sue parole, la sua faccia era bianca come un lenzuolo e si stringeva la chiave di ferro dorato al petto come se fosse stato un galleggiante, “C-Certo” aveva balbettato. Alina aveva strizzato l’occhio verso di lei, per darle fiducia, sicura che qualsiasi manfrina fosse richiesta, Genya l’avrebbe sistemata a dovere.

Mentre Lissa e Anya in gran carriera si allontanavano dalla festa per raggiungere le zone delle carrozze, Alina era rimasta a vegetare nell’arco di suo padre.

Lui però non sembrava molto interessato a lei – cosa che non l’aveva stupita molto, Alina non era ne Lilyiana ne Dominik – preferendo tornare a parlare con i suoi commensali.

Il duca di Keramzin le aveva rivolto uno sguardo, “Sarà un po’ frastornante per la tua amica” le aveva detto, “La nobilità. Sembra una cosa da niente così, ma cambia” aveva detto l’uomo con voce calma, “Immagino” aveva provato lei.

Non credeva che la vita di Lissa sarebbe cambiata così tanto, alla fine la sua amica era cresciuta a Palazzo e fino a qualche anno prima non aveva svolto nessuna incombenza domestica. Sarebbe tornato tutto a come quando erano bambine; avrebbero passeggiato per i giardini, avrebbero spettegolato insieme e forse avrebbero potuto fare il Cammino dei Pellegrini insieme e avrebbero viaggiato, per vedere la Tsaraskaya e qualsiasi altra terra, perché Alina entro un anno avrebbe avuto diciotto anni e non sarebbe più stata una bambina. Già immaginava quello che avrebbero veduto, dalle terre calde di Shu, alle peccaminose strade di Kerch, le città di Stoffa delle Colonie, le stranezze delle Isole Erranti, i campi d’oro di Novy Zem, solcato le acque blu del Mare Vero e le innevate distese di Fjerda … dove Alina avrebbe vissuto.

Quel pensiero la colpì con la stessa intensità di una pioggia estiva improvvisa.

Se avesse sposato Matthias avrebbe vissuto nell’algida bellezza della Corte di Ghiaccio, tra le nevi e gli uomini tristi.

“Sta bene, moya tsarevich?” aveva chiesto preoccupato il duca di Keramzin, che veniva da una terra a sud, florida, con gli alberi di melo e pesco nel giardino e la casa piena di risate. Era un pensiero stupido ma si chiese se anche sua madre si fosse sentita così, quando aveva deciso di sposare suo padre, sapendo che avrebbe rinunciato al mondo intero per una corona, per un palazzo da cui non sarebbe mai potuta uscire. Certo, sua madre non era stata la principessa di Ravka, ma la figlia di un contadino, ma era un Drago, suo era il cielo e Alina non riusciva ad immaginare, o ricordare, una sensazione più inebriante del volo. Però sua madre rimaneva confinata lì, sulla terra. “Sì. Penso tornerò a ballare” aveva risposto Alina, allontanandosi di fretta.

 

Aveva ballato con Genya, che si era dichiarato troppo stana e troppo vecchia, con il ministro Sonan, con il principe Huoion, due volte, con Lagohire e con Samir A-Far, che era il segretario di Novy Zem ed aveva fatto non poche domande su Vasilissa e a cui meschinamente Alina aveva mentito di tutto punto. Non voleva che tra lei e Lissa ci fosse il Mare Vero in mezzo.

E ogni ballo era stato intervallato da un sorso di brandy o altro, anche dell’acqua. Aveva cercato Matthias con lo sguardo ma il principe era scomparso come la neve alle prime avvisaglie di primavera.

Ed un ballo anche con sua madre.

“Finalmente riesco a vedere uno di voi” aveva scherzato sua madre, “Tua sorella e tuo fratello si sono fatti incredibilmente sfuggenti questa sera” aveva considerato quella, mentre la conduceva, con una morsa ferrea e precisa. “Sono sicura di aver visto Dominik singhiozzare verso il bosco” aveva commentato, “Da che sono arrivate le delegazioni sembra aver perso il suo fascino ed è un fascio di nervi e piagnistei” aveva detto senza vergogna, “Quello che hai detto non è carino, Lina” l’aveva rimproverata sua madre, dandole un buffetto sulla spalla, prima di osservare il suo viso, “Hai bevuto? Non mentirmi ho sensi più sviluppati” aveva risposto, “Senti il mio battito del cuore?” aveva chiesto lei, “No, sento il tuo fiato” aveva risposto piccata sua madre. Alina aveva riso, “Solo un po’! Sono del tutto consapevole” aveva ridacchiato, prima di fare una giravolta, sua madre aveva scosso il capo, “Ciò non toglie che domani io sarò sobria e Dominik ancora arrabbiato” aveva considerato.

“Oh, lapushka, tuo fratello ha il cuore spezzato” aveva soffiato lei, mentre le faceva fare una giravolta con gentilezza, “Dominik?” aveva chiesto, “Ha un cuore da essere spezzato?” aveva chiesto.

Nella sua testa, suo fratello era meraviglioso, ma era anche uno spirito libero, una farfalla, non credeva avesse qualcuno da amare e da cui farsi spezzare il cuore. Onestamente, sapeva fosse giaciuto con la bella Min-Han ma non credeva di averlo mai visto innamorato. “Non gli piace parlarne, ma una madre queste cose le sa” aveva sospirato sua madre, per la prima volta era sembrata stanca, “Non riesco ad immaginare ne Dominik ne Lilyiana con il cuore spezzato. Loro sono sempre così eterei” aveva borbottato.
“Nessun cuore è immune ad una frattura, bambina mia” aveva sussurrato sua madre, “È quello che hai provato quando il signor Rosen ha sposato Marina?” aveva chiesto senza vergogna, aveva avuto quell’idea in testa per molto tempo.

Suo padre era principe, il secondo genito, e corteggiava la Sankta del Sole, sua madre era un soldato e probabilmente neanche pensava a suo padre e … i coniugi Rosen si erano sposati mentre suo padre era ancora Re e sua madre era soldatessa, due ragazzini, più giovani dell’età che Alina stessa aveva in quel momento.

Sua madre aveva riso in una maniera grave e gutturale, “Ma come ti è venuto in mente?” aveva chiesto, “Sankti che idee bislacche che hai bambina” le aveva detto. “Schievich mi piaceva molto, mi piaceva più di altri; aveva delle capacità notevoli, per certi versi molto più creativo di tuo padre, ma tra noi non vi era intessuto amore” le aveva confidato, allungando una mano per accarezzarle il viso, “Penso che sentimentalmente sia molto più legata a Marina” aveva confessato.

Alina per tempo si era chiesta se Lilyiana e Drina fossero un’ombra di Zoya e Schievich, ma forse erano delle loro madri.

“Nessuno ti ha mai spezzato il cuore, mamma?” aveva chiesto confusa, perché non credeva che suo padre avesse mai voluto, per un po’ di tempo il loro rapporto si era raffreddato, ma Alina aveva sempre visto che, anche se arrabbiati o frustrati, non avevano mai smesso di cercarsi.

“Sì certo. L’Oscuro” le aveva detto e in diciassette anni di vita, Alina non aveva mai sentito il nome dell’oscuro generale del secondo esercito pronunciato dalle labbra di sua madre. La regina aveva sempre usato perifrasi e pseudonimi per rivolgerli a quell’oscura figura, come se anche solo pronunciare il suo nome lo avrebbe evocato dalla morte.

“Avevate una relazione?” aveva chiesto sconvolta, Alina aveva sentito parecchie storie sulla gioventù dissoluta di sua madre, lei non era mai stata molto discreta e alla servitù del Piccolo e del Gran Palazzo piaceva parlare e se nessuno di loro tre principi si erano ritrovati cuciti addosso l’ingiuria di bastardi era perché era lei ad essere la regina ed era la sua dinastia che contava[6] – inoltre, Dominik e Alina somigliavano molto al Re Consorte – ma non aveva mai sentito una voce su sua madre e l’Oscuro Generale. “No, no …” aveva detto sua madre, “Ma ero innamorata di lui, lo eravamo tutte … e lui ha spezzato il paese e il mio cuore[7]” aveva ammesso sincera come Alina non l’aveva mai sentita, forse anche sua madre aveva ecceduto con il vino. “Posso dire che è stato proprio una testa di cazzo” aveva detto sobria Alina, “Signorina, credo di averti disciplinato meglio!” l’aveva rimproverata bonariamente sua madre, “Non dovevi lasciarmi con Genya, all’ora” aveva risposto per le rime Alina, mentre una risata allegra si era aperta tra le due.

Nonostante la piccola prigione d’oro in cui sua madre sembrava così ansiosa di tenerlo, Alina adorava quella loro complicità, quel loro legame.

Era il Frutto dell’Autunno infondo, la principessa avuta dopo, avuta tardi, per quanto sembrasse stupida come definizione, sua madre era ancora bella e forte come nel fiore dei suoi anni. Certe volte perfino Lilyiana, che aveva la stessa stregante bellezza grisha che confondeva, sembrava più vecchia di lei.
“Comunque per frugare ogni dubbio che tu possa avere, ero innamorata dell’Oscuro come lo sono le giovani, in maniera connaturata e deludente, più di un’idea che un uomo” aveva sospirato, “Il mio cuore, quando ho deciso di amare, è sempre stato per tuo padre …” aveva confessato gentile.
“E Dominik?” aveva chiesto Alina, “Quando si è giovani si crede che l’amore che provi durerà per sempre … a volte succede, a volte no. Dominik non somiglia a me in questo, molto più a Nik, ama in maniera totalizzante[8]” aveva considerato con un tono un po’ più spento.

Aveva ballato ancora e bevuto, aveva cercato sfacciatamente Matthias, finendo per trovare solo la bella regina Mila e l’istitutore del principe, l’uomo che scriveva poesie e che quella mattina Alina aveva intrattenuto con nozioni d’arte – Joran o Ioren, non ricordava bene il nome. “Il principe Matthias ha deciso di ritirarsi dalla festa” aveva risposto con un tono calmo e pratico il giovane. I capelli biondo chiaro erano aggrovigliati per i saltelli ed aveva allentato il nodo del fazzolo sul collo – Alina ricordava di averlo visto ballare parecchio quella notte, per lo più con la sfavillante Merissa Nassau.

“Immagino che questo tipo di intrattenimento possa turbare un morigerato uomo fjerdiano” aveva considerato Alina, continuava ad avere nella sua mente l’immagine cotta di imbarazzo e frustrazione di Matthias, che quella sera non riusciva ad imbrigliare in alcuna maniera la sua lingua, l’altro aveva riso, “Potrebbe” aveva concesso, “Ma non per lei” aveva considerato, “Ho frequentato l’università a Ketterdam, penso sia rimasto poco che possa sconvolgermi” aveva valutato.

Joran-Ioren sembrava più grande di Tatiana, più vicina all’età dei suoi fratelli maggiori, un uomo alto e allampanato, non molto muscoloso, e un po’ ingobbito, come se la sua altezza fosse per lui uno svantaggio, con i capelli biondo cenere e gli occhi blu-verde. “Per caso ha conosciuto anche mio fratello? Studiava anche lui a Ketterdam” aveva considerato, probabilmente sì, immaginava che un giovane uomo dovesse essere entrato in contatto con la cugina dodicenne di un ambasciatore frequentando le varie ambasciate, forse una volta Joran-Ioren era stata a quella di Ravka e qualche volta suo fratello era andata a quella di Fjerda. Inoltre, Tatiana lo aveva definito un frequentatore della Corte-Oltre-il-Mare.

L’uomo aveva roteato il viso verso di lei, svolto, come colto da una spina, “Sì … vostra altezza” aveva detto piano, “Io e il principe Dominik ci siamo conosciuti durante i nostri anni di studi.

Avevamo conoscenze in comune” aveva considerato.

Merissa Nassau, supponeva Alina.

“Non mi inviti a ballare?” aveva chiesto poi, era stato un pensiero stupido ma con l’eccezione di Matthias non aveva ballato con nessun membro della delegazione Fjerdiana, “Sfortunatamente mia signora non posso invitarla, sono il fratello di un margravio minore e non ho il permesso di invitarla” aveva risposto Joran-Ioren. Oh. La raccapricciante cultura fjerdiana.

“Non hai il permesso di ballare con me o di chiedermi di ballare?” aveva inquisito lei, “La seconda, vostra altezza” aveva risposto l’uomo, “Quindi io posso effettivamente chiedere di ballarti” aveva soppesato, Joran-Ioren aveva annuito, “Va bene, balliamo” aveva stabilito perentoria, porgendo la mano verso la faccia dell’uomo, “E mentre ci siamo potreste raccontarmi qualcosa sul principe Matthias” aveva considerato.

“Uhm” aveva ponderato l’uomo, “Non so quanto mi è concesso dire” aveva squittito divertito l’uomo, “Ci si aspetta da un cortigiano la fedeltà assoluta” aveva stabilito, facendo ridacchiare Alina.

Joran-Ioren era stato il ballerino migliore con cui avesse danzato quella sera, era stato aggraziato, elegante e a, modo suo, indomito, non permettendo mai ad Alina di prendere il controllo – un Fjerdiano fatto e finito, dietro le sue parole raffinate e le rime eleganti. Alina era rimasta quasi stupita da quell’autorità e non aveva potuto fare a meno di metterlo a confronto con l’insicurezza divorante di Matthias.

E non le aveva detto niente sul principe, era stata Alina che aveva permesso alla sua lingua sciolta di parlare, di sua sorella, di sua madre e di suo fratello. “A fatto questo?” aveva chiesto con una punta di divertimento l’uomo, gli occhi chiari erano luccicati di autentica gioia, “Mia madre era sconvolta, ma non quanto l’Apparat Vladim, la sua faccia era meravigliosa” aveva raccontato con una risata allegra, ricordando la scena, “Anche durante gli anni dell’università, Dom-Il principe Dominik era in grado di fare questo genere” di cose, la sua voce aveva preso una sfumatura incredibilmente dolce, “La duchessa Katjia ha ammesso che mio fratello ha rischiarato la sua triste vita da quando era rimasta vedova quart’anni fa” aveva aggiunto.

C’era qualcosa di bello in Joran-Ioren in quel momento, come se quelle storie avessero riempito il cuore.
“Il principe Matthias mi piace molto, comunque” aveva considerato Alina, quando si erano sciolte le loro mani e si erano allontanati, “Ne sono contento è un giovano uomo adorabile” aveva detto Joran-Ioren, dandole un bacio audace sulle dita, “Spero di aver modo di parlare ancora con voi, moya tsarevich, c’è molto di cui le vorrei parlare” le aveva sussurrato, Alina avrebbe voluto che il tono dell’uomo fosse pregno di malizia, ma c’era solo fredda e placida cortesia.

“Con piacere … mio nobile signore” aveva ammesso, realizzando di non sapere neanche il nome dell’uomo, “Mi aspetto che lei racconti qualcosa” aveva aggiunto. Joran-Ioren si era allontanato, lanciandole un altro lungo sguardo e un sorriso lezioso. Alina aveva guardato la mano che era stata baciata dolcemente ed aveva aperto e chiuso le dita delle mani con un movimento nervoso, pensando alle labbra soffice dell’uomo e alle dita incandescenti di Meesha.

 

Dopo altri due bicchieri in presenza di Najima – che senza pietà aveva chiesto cosa si fosse detta con il fjerdiano e ad Alina era sembrata stranamente ansiosa – e un rimprovero di Genya, Alina aveva deciso di essere pronta a ritirarsi, aveva cominciato a sentire la testa girare come una trottola, così si era appropinquata per avvertire suo padre. Avrebbe volentieri avvertito sua madre, ma l’aveva vista ridere divertita a braccetto della scandalosa regina Mila, che davanti quella dolcezza, aveva solo sentito il bisogno di rientrate a Palazzo e potersi stendere sulle lenzuola con Lissa e raccontarle quanto era stato della giornata.

Toyla non era stato capace di indicarli dove fosse finito suo padre, ma qualcun altro sì, anche se Alina non aveva compreso bene chi si.

Era stata indirizzata verso il lato ovest del parco, sull’ansa limosa della laguna, per camminare aveva finito per immergere le scarpe fino alle caviglie nel fango, ma aveva seguito le istruzioni, aspettando che il primo sparo previsto sull’acqua apparisse davanti a lei. Era lontana dal posto in cui avrebbe potuto vedere i fiori nel cielo shu-hanniti come erano previsti, ma avrebbe potuto vederli comunque.
I fuochi d’artificio Ravkiani erano belli, ma Alina sapeva che la regina Dalai aveva promesso i suoi: e Shu Han poteva dipingere nel cielo come un pittore sulla tela.

“Merda, sono diventato troppo vecchio per queste cose!” aveva sentito la voce pesante di suo padre, colma di divertimento e allegrezza, “Non sei diventato troppo vecchio, ma solo troppo ricco e borioso” aveva replicato una voce, era il duca di Keramzin.

“Dove è finto il mio pirata da strapazzo?” aveva chiesto il Duca ed Alina era riuscita finalmente a vederli, con il viso arrossato dal vino. Erano immersi nella laguna fino alle cosce, indossavano ancora i calzoni eleganti ma si erano svestiti delle giacche raffinate rimanendo solamente in camiciola.
Il suo vecchio padre aveva deciso di mettersi a fare una nuotata notturna in un lago con un vecchio amico?
Pericoloso.
Alina aveva fatto un passo, non ancora notata, per rimproverarlo – perché a lei mai era stata concessa niente di così divertente come un bagno notturno al lago. “Corsaro. Sono passati quarant’anni e ancora non te lo metti in zucca” aveva ridacchiato suo padre, indicando con l’indice la tempia del Duca. “Corsaro, soldato, principe e re. Non ti sei mai fatto mancare niente” aveva scherzato l’uomo, schioccando l’indice verso suo padre per vendetta, “E guardami ora a fare il marito trofeo” aveva ammesso suo padre con un tono nostalgico. “Vorresti abbandonare tutto, Zoya, Ravka e figli per andartene per mare come ai vecchi tempi?” aveva chiesto il Duca, “Ogni tanto sì” aveva ammesso, “Ogni tanto penso al mare e penso a quanto adoravo stare lì. Lo sai che a nessuno dei miei figli piace? Neanche un giro di regata sono riuscito a convincerli a fare” aveva detto lugubre suo padre.
Alina lo avrebbe amato – ma non era mai stata invitata a fare un giro in regata.

“A te manca?” aveva chiesto, “L’esercito?” aveva risposto il Duca, “Non mi mancano né le lunghe marce, né la Faglia, né la Chiesa. Mi manca cacciare, mi manca cacciare come facevo prima, quello sì” aveva risposto l’uomo, “Sulle barche, la Rusalye, tra le grotte” aveva detto suo padre, la sua voce era stata enigmatica, evocativa.

“Ti inviterei a farti le vacanze giù al sud da me, con la tua ragazzina chiacchierona” aveva detto il Duca, Alina si era sentita chiamata in causa ed avrebbe voluto correre da loro ed urlare la sua approvazione; aveva fatto solo un passo però, nel silenzio. “Potremmo organizzare una caccia ai Moschi selvatici” aveva ponderato, “Una di quelle che durano giorni, seguendo le tracce, accampati nei boschi” aveva proposto l’uomo. Suo padre aveva riso, “Oh, Mal, ti prego. Non tentarmi, è la proposta più bella che ho ricevuto da dieci anni a questa parte. Ma ho la vaga sensazione che, se entrassi nella sua proprietà potrei ritrovarmi io cacciato al posto di un mosco” aveva commentato, la sua voce nel finale si era velata di una certa tristezza. “Posso darti il mio benestare, ma non posso fare promesse per Alina” aveva risposto il duca di Kermazin, e Alina si era sentita confusa.

“Non molte donne mi hanno schiaffeggiato, ma due moglie lo ha fatto due volte e ricordo bene le sue sberle” aveva detto suo padre leggermente melodrammatica.
Anche Alina lo ricordava, erano giunti con mezza corte al Castello di Kermazin e quello era stata la calda accoglienza che la duchessa, prossima all’investitura, aveva riservato al suo Re, per poco non era successo un putiferio tra baionette e movimenti grisha. Ma sua padre aveva riso e detto che lo meritava.

“Avrei voluto davvero che venisse, Zoya ci teneva moltissimo” aveva aggiunto, il suo tono era triste e colpevole. “Togliti quell’espressione cupa dal viso, moy tsar. Alina sta arrivando” aveva risposto Schievich, “Probabilmente sarà qui domani o dopo domani” aveva spiegato con estrema calma, “Davvero?” aveva chiesto confuso suo padre. “Sì, saremmo dovuti arrivare insieme tutti appassionatamente, ma il tuo telegramma sembrava abbastanza perentorio e così qualcuno è dovuto partire” aveva risposto il Duca, suo padre doveva essere stato sul punto di dire qualcosa, ma il suo interlocutore lo aveva anticipato: “ma non poteva Alina.”

“Quindi mi hai fatto pensare tutto il giorno che Alina fosse ancora arrabbiata con me e non volesse vedere Zoya” aveva detto con un tono offeso suo padre, ma era un’esagerazione.

“Alina vorrà sempre vedere Zoya, ma è ancora arrabbiata con te, ma non è capace di provare rancore. Voglio dire: nostra figlia si chiama Aleksandra” aveva ricordato, c’era della rabbia nelle sue parole e aveva allungato una mano per toccare quelle di suo padre. Solo in quel momento che Alina aveva notato che il suo vecchio aveva tolto i guanti.

Fuori dalla famiglia stretta, e Genya, Alina non aveva mai visto suo padre senza i guanti. In realtà, anche davanti a loro, suo padre non indugiava mai troppo con le mani nude. Non erano dita umane: erano nere, curve, spigolose, con unghia d’onice affilate. Ma in quel momento non c’era titubanza ne vergogna.

“E tu sì?” aveva chiesto suo padre, il suo tono era pieno di colpevolezza, “Oh, io sì. Sono orribile. Mi nutro della rabbia di Alina e l’alimento a mio piacere – Ulla me lo dice sempre” aveva replicato il Duca. Alina ancora frastornata dall’utilizzo del suo nome era riuscita a comprendere che non stavano parlando di lei, e lo ricollegava al discorso che aveva sentito fare a Genya quella mattina; però la moglie di Schievich, la duchessa, si chiamava Marina! Che avesse sentito male per tutto il tempo?
“La tua Moronzova è la ragione per cui non mi addentrerei mai più al sud” aveva replicato, “Parli tu che hai l’Oscuro nascosto nel Piccolo Palazzo? Ulla è decisamente meglio. Anche se ogni tanto ha questi momenti d’assenza in cui dice che le manca il mondo sotto l’acqua” aveva raccontato con una punta di divertimento.

L’Oscuro era al Piccolo Palazzo? Ma l’Oscuro non era morto quarant’anni fa?

Nella faglia? Con … Alina.

Le avevano mentito, aveva realizzato, non solo a lei, a tutta la nazione! A tutto il mondo!

“Per favore non ricordarmelo. Sto ancora cercando di comprendere cosa spinga Zoya a non averlo chiuso in una cella grande quanto una scatola per trucchi” aveva risposto suo padre, la sua voce era stata allegra, ma nel momento in cui aveva pronunciato l’ultima sillaba la sua espressione si era fatta immediatamente colpevole, come se avesse realizzato di aver detto … qualcosa di sbagliato.
Doveva essere stato così perché tutto il tono morbido del corpo del Duca era stato risucchiato via in favore di una posa dura e risentita.

Suo padre aveva sospirato, la sua espressione era come quella di un cucciolo colpevole, “Mi dispiace, sul serio, ancora, per quello che è successo a Drina” aveva ammesso suo padre pieno di rammarico, “Quale delle volte, Nikolai?” aveva risposto crudele Schievich, la sua voce era dura come la roccia su roccia. “Quando hai permesso che la rapissero gli schiavisti? Che la spezzassero sulla Ji-han? O quando hai pensato che la Matej fosse un posto adatto per passare la degenza?” aveva chiesto con un filo di rabbia, nervoso, “Non ho scusanti” aveva sospirato, “Mi hai affidato Drina ed io ho … fatto degli errori” aveva ammesso suo padre, con totale abnegazione. “Tu li chiami errori?” aveva chiesto con una rabbia malcelata il Duca di Keramzin, “Errore lo fatto io quando non ti ho a pugni in faccia quando dovevo! Io ti ho dato mia figlia, con la promessa che tu l’avresti trattata come fosse tua” aveva dichiarato, “Ed ho mancato quella promessa, sì. E me ne vergogno ogni giorno, come un verme” aveva ammesso suo padre solenne. C’era una sincerità spaventosa nella sua voce.
Il duca aveva sospirato, “Drina mi ha chiesto di non portare rancore, anche se non riesco proprio a concepire come. Questo non lo ha chiaramente ereditato dal mio lato della famiglia” aveva concesso, “Ulla cova rancori vecchi di secoli” aveva aggiunto.

“Potrò mai farmi perdonare?” aveva chiesto Nikolai invece, “Pensavo che il ducato fosse la tua lettera di scusa” aveva considerato quello, “Quello è stato tutta opera della buona volontà tua e di Alina e l’affetto che il duca ha sviluppato per voi. Zoya ha solo dovuto ratificare una richiesta” aveva ammesso suo padre, “Bene, all’ora, succhiami il cazzo” aveva risposto.

“Ti prego Mal, ho passato i sessanta, le mie ginocchia sono diventata deboli” aveva ponderato suo padre con una mezza risata, “Inoltre in acqua” aveva ponderato, “Nuotare, sì?” lo aveva preso in giro il duca, “Ogni tanto qualche bella follia è meglio farla. Inoltre, se mi prendessi un colpo di febbre potrei avere pace da questa caotica fiera” aveva ammesso, “Pensavo fossi un animale politico” aveva ponderato l’uomo, “Lo sono ancora, ma inizio ad essere stanco. Diciamo che finalmente capisco perché il mio patrigno fosse un uomo così amareggiato. Inoltre, mi divertirei molto a vedere tutti quei figuranti camminare sui gusci delle uova cercando di non irritare il drago” aveva ridacchiato, “Zoya ha una personalità esplosiva, ma Juris e il drago non scherzano neanche” aveva borbottato, “Ho sempre pensato che la mia camera da letto fosse affollata con la presenza-assenza dell’Oscuro, ma credo tu mi batta” aveva ponderato il Duca, “Sicuramente sì, tre figli, un drago, un sankto quattro-volte-centenario e un demone d’ombra, direi che sì” aveva ammesso suo padre, doveva essere una battuta, ma la sua voce aveva assunto un tono leggermente più cupo.

“Oh, giusto e te e Alina” aveva ponderato, “E Genya mai?” aveva chiesto Mal, “No, Genya è un problema tutto tuo e di Alina, per me sarebbe strano” aveva risposto suo padre con un tono leggermente nervoso.

“Io posso intuire” aveva detto il Duca, “Mi sei mancato, mi siete mancati, in questi anni” aveva detto suo padre con un tono più languido.

Alina iniziava ad essere terribilmente confusa da tutto quel discorso, si sarebbe allontanata, scompaginata e stanca, lasciando i due vecchi ciarlare per conto suo, si era già quasi voltata ed aveva smesso di ascoltare, quando con la coda dell’occhio aveva osservato un movimento.
Si era girata di nuovo e le labbra di suo padre erano premute contro quelle del Duca.

Era rimasta scioccata per un secondo, un intero, lunghissimo, interminabile secondo. Ma era bastato, perché doveva aver perso il controllo di qualcosa, della sua voce, perché i due uomini si erano voltati verso di lei, confusi, spaventati.

“Alina!” aveva esclamato suo padre, riconoscendola, facendo un passo nell’acqua verso la battigia, ma Alina era già voltata ed aveva cominciato a correre verso il bosco, inciampando nel limo e macchiando il sarafan azzurro ravka.

 

Era sicura che suo padre l’avesse inseguita, ma lei era andata alla cieca nel bosco, piena di … tutto.
Confusione e poi rabbia che aveva cominciato a montare nel suo petto, pensando a quel bacio che non aveva il minimo senso.

Il mio cuore è sempre stato per tuo padre …

Così aveva detto sua madre, neanche qualche ora prima.

Alina aveva sentito per tutta la vita storie su Re Nikolai, che era uscita dalla porta principale del palazzo come bastardo di una regina decaduta e di un funzionario straniero, lasciando titoli, ninnoli e ed educazione reale alle spalle, per farvi ritorno passando dalla finestra della camera da letto della regina che lui stesso aveva incoronato. Alina aveva sentito per tutta la vita, vili insinuazioni che sua madre, una strega potente, capace di ogni dove, rimaneva un soldato ed una poveraccia affamata d’amore e facile alle lusinghe di un uomo ben più affamato di potere di lei.
Suo padre che aveva fatto esiliare il Re che lo precedeva, usando pretesti al limite del plausibile, aveva sempre esibito un comportamento atto a screditare l’erede e che aveva quasi portato all’altare la luce di Ravka, la Sankta del Sole e poi aveva sposato il drago – potente quanto inetta davanti alle politiche.

Alina aveva accantonato quei discorsi, riducendoli a nulla di più che i libelli pieni di insinuazioni nauseanti sui suoi fratelli, giochi stupidi e chiacchiere stupidi di chi non conosceva la verità.
Ma, in quel momento, era Alina a pensare che era lei a non conoscere niente.
Si era fermata, quando si era addentrata nel bosco di pioppi, non riconoscendo più dove fosse, arrabbiata, nervosa e nauseata.

Il mio cuore è sempre stato per tuo padre …

Aveva continuato a correre con un dolore bruciante alle gambe e sentendo la rabbia gonfiarsi addosso.
Poi si era arrestata arrabbiata e nauseata, letteralmente, si era fermata ed aveva vomitato tra le radici di un pioppo, prima di collassare sulle ginocchia per piangere.

Non aveva neanche badato se avesse o meno colpito il suo stesso vomito, prima di cominciare a sentire le lacrime strisciare via dai suoi occhi e qualcosa di diverso dalla bile salire sulla sua gola, così, aveva sentito il primo singhiozzo emergere dalle sue labbra e i singulti sconvolgerla.
Provava una rabbia folle e un dolore quasi sordo, mentre sentiva di non riuscire a trattenere i singhiozzi.
Non sapeva neanche perché le fosse venuta tutta quella voglia di piangere, quando il fastidio allo stomaco si era fatto più intenso ed aveva rimesso ancora, sentendo ora la bile acida sulla lingua.
Si era tirata su con fatica, tremolante ma animata di rabbia, nauseata tra il giramento alla testa e il sapore in bocca del vomito e delle lacrime, quando si era accorta di qualcosa di storto.
Era buio e i suoi occhi vedevano male, ma era certa che ci fosse qualcosa di sbagliato nell’erba sotto i suoi piedi. Sembrava secca e arida. L’aveva calpestata con i piedi sentendo sotto di se lo stesso trillare della paglia arida.

Aveva sentito un fruscio e la voce di suo padre, chiamarla, questo le aveva dato la scossa per tirarsi dritta e correre via, facendo la gincana tra gli alberi.

Non sapeva fino quando le forze l’avessero guidata, ma poi qualcuno l’aveva presa.

 

“Alina!” la voce di Meesha l’aveva risvegliata. Le teneva i polsi con una morsa ferrea e dura come un soldato. La sua espressione era piena di febrile preoccupazione e gli occhi scuri dilatati, “Meesha! Come?” aveva chiesto pregna di confusione, “Ho seguito il battito del tuo cuore” le aveva risposto subito. “Da quando?” aveva chiesto poi con nervosismo lei, pensando che avesse potuto seguirla fino all’ansa del lago, che avesse potuto vedere quello che aveva visto lei.

Ed un panico che non riusciva a spiegare l’aveva accolta.

“Da … poco. Io, mi ero allontanata per … prendere aria dalla festa e ti ho sentita” aveva detto calma Meesha, lasciando il suo polso, “Ho sentito il tuo battito così veloce e spaventato” aveva ammesso, sfiorandole la clavicola con la mano, “Non è mai così il tuo. Quasi credevo di essermi sbagliata.”
“Sai riconoscere il mio battito?” aveva chiesto Alina, nervosa, quasi dimenticando ogni cosa, davanti quell’unica informazione, “La prima lezione di Genya è imparare a riconoscere i battiti famigliari, riconoscerei il tuo in una folla di centinaia di persone” le disse. Non aveva usato formalismi, si era rivolta a lei come una sua pari, non erano la principessa Alina o il luogotenente Effimov in quell’occasione.
Era arrossita davanti quell’informazione, che aveva riempito la sua testa ed il suo petto dimenticando ogni resto, si era lanciata ed aveva baciato Meesha quasi selvaggia, urtando le loro fronti, i loro nasi e i loro denti.

Un bacio schifoso non dissimile da quello che si era scambiata con Matthias.

Meesha l’aveva allontanata con fermezza ed Alina aveva sentito la vergogna galoppare nel suo stomaco per quel rifiuto, si era ritratta come una bestia ferita ed aveva sentito ancora quell’angoscia rabbiosa sorgere il lei, l’altra doveva aver compreso qualcosa perché aveva aggiunto: “Vomito!”
Alina si era fatta dritta, “Come?” aveva chiesto, “Hai vomitato?” aveva chiesto Meesha.
Oh, questo aveva senso.

Alina ricordava che i baci di Meesha erano stati pieni di fame e scintille. “Potrei” aveva ammesso piena di vergogna, “Per questo eri sconvolta?” aveva chiesto.

No, perché tutto si è fatto stupido, avrebbe voluto rispondere, ma alla fine aveva semplicemente annuito, “Forse, ho bevuto troppo” aveva ammesso piena di vergogna, che non era neanche una menzogna. “Potremmo tornare alla festa?” aveva proposto la soldatessa, ma Alina aveva scosso il capo decisa, non voleva tornare alla festa, fino a poco tempo fa aveva voluto tornare a casa, ma ora non voleva neanche quello, voleva solamente stare da qualche parte e non essere sola.
Avrebbe voluto Lissa, ma anche Meesha sarebbe potuta andare bene, “Forse vorrei solo … del silenzio e forse acqua” aveva ammesso tremolante.

“Possiamo andare a prendere dell’acqua alle cantine di Kirigen, non credo abbiano solo vino” aveva spiegato Meesha con calma, accarezzandole un braccio in maniera calmante e caritatevole, Alina aveva sollevato una mano ed aveva stretto quella di Meesha posata sulla sua spalla, in cerca di qualcosa, di sostegno. L’altra le aveva sorriso con gentilezza, prima di guidarla nella direzione delle cantine, quando aveva sentito lo scricchiolio della paglia secca sotto i suoi piedi, aveva abbassato lo sguardo ed aveva notato che l’erba della foresta, anche al buio, sembrava diversa.
Meesha si era chinata, “Secca. Strano, in questa stagione” aveva ponderato, toccandola con le dita, “Ma solo in questa zona” aveva aggiunto, tastando un po’ più in là, dove l’era sembrava soffice ed umidiccia come sarebbe stato auspicabile nella tarda primavera del centro ravkiano.
“Strano” aveva sospirato Alina muovendosi, affondando le scarpe sporche di fango limoso, sulla terra umida, più piacevole, nel buio del bosco, lo strato d’erba era ugualmente nero e lugubre, ma in qualche modo quella macchia morta sembrava estremamente visibile.

“Cosa pensi che sia?” aveva chiesto preoccupata, Mesha aveva giocato con un filo d’erba che si era disintegrato tra le sue dita come polvere, “Non ne ho idea, ma non è di sicuro una cosa buona” aveva ponderato, “Dovremmo parlarne con la tsarina” aveva considerato, “Domani quando non sarò ubriaca e la cosa non mi sembrerà meno … importante?” aveva proposto Alina.

Meesha aveva annuito, ma aveva frugato nelle sue tasche prima di tirare fuori un boccetta, spessa come un dito ed alta come un mignolo, di vetro, con un tappo in sughero, “Perché hai un’ampolla con te?” aveva chiesto, “Uhm …” aveva boccheggiato Meesha, “Io, non lo so? Di solito raccolgo campioni di acque …” aveva ammesso, le gote anche nel buio si erano manifestate in un rosso incantevole, “La cosa bella dell’essere un marinaio è scoprire che non tutta l’acqua è uguale” aveva rivelato, con un sorriso allegro.

Meesha aveva raccolto del campione di terra ed erba secca, c’era qualcosa di incredibilmente preoccupate, “Solo una macchia” aveva considerato, passando la suola dello stivale sull’erba.
Proprio dove ero io, aveva pensato Alina ma non l’aveva detto ad alta voce. “Tutto bene? Sei bianchissima” aveva considerato Meesha, guardandola preoccupata, “Sto per vomitare di nuovo” aveva risposto onesta, prima di piegarsi e vomitare, l’altra le aveva afferrato i capelli per cercare di toglierli dal viso, mentre Alina tossicchiava, “Posso fare una cosa?” aveva chiesto con gentilezza, “Non sono una healer ma posso aiutare un corpo intossicato” aveva ammesso, “Posso farti stare un po’ meglio.”

Meesha era riuscita, in effetti, a farla stare leggermente più in salute, non sembrava avere più il desiderio di rimettere tutto quello che aveva bevuto, ma aveva ancora la bocca nauseata. Una parte di lei voleva quasi bere ancora, per cercare di togliere dalla sua mente quello stupido bacio, quella stupida idea.

Succhiami il cazzo.’

Però sentiva ancora la Piccola Scienza di Meesha agire su di lei, come mille formiche che vagavano sulla sua pelle, qualcosa di mostruosamente simile ad un intorpidimento. Però era piacevole, era come sentire il calore dell’abbraccio di Meesha contro il suo corpo; le ricordava quanto erano state strette alla festa del burro e si era chiesta se anche all’ora, senza dirglielo, la grisha avesse usato la sua Piccola Scienza.

 

“Quindi la festa alla Palude è stata come la immaginavi?” aveva chiesto Meesha, “Sì” aveva mentito Alina, avrebbe voluto che fosse stato leggermente diverso, che non avesse mai deciso di camminare per prendere aria, avrebbe voluto ballare, sbaciucchiarsi con il principe Matthias – trovarlo piacevole – e poi ritirarsi con Lissa e passare la notte a mangiare dolci, nonostante la lunga cena, su un letto di piume e spettegolare di ogni evento. “Ti avevo detto che non era così eclatante, ma i giovani hanno sempre voglia di correre” l’aveva recriminata con divertimento la donna, riconoscendo la sua menzogna. “Parli come se avessi l’età di mia madre, quando sei giusto un po’ più vecchia di me” aveva soffiato Alina, con una punta di divertimento.

Meesha aveva riso, la sua risata era così bella, così piena di gioia e vita, “Però avevo ragione” aveva replicato la soldatessa, “Diciamo che è il regno di perdizione che mi aspettavo, sì” aveva considerato, provando ancora quel brivido e quel fastidio, ricordando suo padre e il duca.

Si chiese se Drina e Lilyiana ne avessero anche solo una vaga idea.

Dovevano averne, se Alina di cui avevano parlato il duca e suo padre tutto il tempo era Marina, questo faceva di Drina la figlia di Alina … di Alina Starkov.

Che era viva e come l’Oscuro – di cui sua madre le aveva detto di essere stata innamorata – e viveva al Piccolo Palazzo.

Forse Alina stessa doveva averlo incontrato qualche volta. Improvvisamente le era tornata addosso quella rabbia e quel dolore, così oscuri e travolgenti, ma si era impegnata a ricacciarli dietro, quando aveva sentito la mano gentile di Meesha raggiungere la sua.

“Avevi detto che volevi trasferirti dal mare all’aria” aveva detto alla fine Alina, decidendo di soffocare la sua angoscia. Meesha lo aveva detto mesi prima. Suo nonno era stato un ammiraglio della marina, mentre suo padre era stato un colonnello dell’aviazione ravkiana, anche se aveva la sua giusta conoscenza del mare e delle navi – Ravka Ovest era un luogo di marinai e l’aviazione ravkiana somigliava molto alla sua marina. “Ho fatto la richiesta, ma è stata cestinata, mi è stato detto di poter imparare a timonare navi volanti” aveva ammesso Meesha, “Continuano ad essere preferite agli aerei” aveva detto.

I velivoli erano più piccoli e veloci, potevano volare più in alto ed erano più difficili da vedere, ma anche più facili da abbattere. Le navi volanti potevano atterrare e ammarare ed anche un buco sullo scavo poteva permettere alla nave di rimanere su, se c’era un bravo etherealki a manovrare i venti. Nonostante i progressi fatti negli altri continenti, Ravka restava sulla vetta del mondo nell’utilizzo della Piccola Scienza ad aiutare la Grande.

 

“Che strano c’è una guardia” aveva ammesso Meesha, notando l’uomo vestito in livrea blu, sopra la kafka azzurra rinforzata, che stanziava ritto come una pertica davanti l’ingresso della cantina. “Sono vini preziosi” aveva scherzato con un punto di divertimento Alina, “Forse” aveva ponderato Meesha, “Ma di solito pattugliano, non stanno dritti come baionette” aveva rivelato. “Qualcosa di segreto sta avvenendo all’ora” aveva considerato Alina, “Io voglio disperatamente dell’acqua e …” non aveva aggiunto altro, ma voleva pensare a qualsiasi altra cosa, “Mia madre era alla festa e mio padre era … altrove” aveva detto, “Probabilmente è qualche piccolo scandalo di Lilyiana o Dominik” aveva considerato.
Forse, Dominik con il suo cuore spezzato, forse si era unito di nuovo all’enigmatica Min-Han, forse Alina avrebbe dovuto dare le spalle e decidere di non voler scoprire qualsiasi altra cosa della sua famiglia, ma non riusciva a reprimere quel bisogno.

Era stata cieca, pensava, fino a quel momento, e si chiedeva quanto ancora non avesse davvero visto.
Non voleva più essere cieca, né stupida.

“Puoi fare quella cosa … sai, quella cosa …” aveva provato, “In cui rilasso il corpo di una persona così tanto da metterlo a dormire?” aveva chiesto retorica Meesha, con un’espressione preoccupata, lei aveva annuito. “Alina …” aveva provato l’altra, prima di mordersi il labbro, “Principessa Alina” si era corretta – ecco! Quello non le piaceva per nulla – “Forse per lei è un gioco, ma per me potrebbe essere alto tradimento” aveva ammesso, “Sei con me, prenderò io tutta la responsabilità” aveva replicato Alina, non credeva fosse necessario.

Meesha non era solo uno luogotenente e suo padre non era solo un membro di alto profilo dell’esercito, ma era uno dei pari del regno, uno degli uomini più importanti della corte di suo padre, un uomo dei miracoli a detta di tutti e lei era la sua unica erede.

“Spero questo non ci crei problemi” aveva sospirato la corporalki.

 

 




 



[1] https://www.youtube.com/watch?v=ECRdSBfQLOI

[2] Spoiler: non ho idea di come funzioni la balailaka o qualsiasi strumento a corda da ‘pizzicata’ insomma chitarre, etc … ma anche i violini. Cioè so solo come funziona il piano e i fiati lol.

[3] https://www.youtube.com/watch?v=UAfuMol1e-0 La Valenki eseguita con il Balailaka

[4] https://www.youtube.com/watch?v=t1a2_Idawo0

[5] Scusate non potevo lasciare la questione della Lama così, forse sono troppo esagerata ma mi sembrava fin troppo ridicola nei libri buttata così. Cioè, nel caso specifico di Mal ha senso ma: a) lui lo fa prima di scoprire chi sia, b) la cosa continuava a sembrarmi terribilmente vaga buttata così.

[6] Diciamo che da aggiungere a questa cosa, per evitare una situazione alla Rhaenyra Targaryen dove non importava se i figli fossero bastardi o meno perché “suoi”, lei era la Targaryen e lei era l’erede, ma si poteva creare attrito perché sposata con un uomo nobile con famiglia annessa, Nikolai aveva più o meno lo stesso valore strategico di un gatto raccolto dalla strada, circa. Letteralmente: sua madre era in esilio, suo “padre” lo aveva ripudiato e il suo padre naturale era un uomo di una corte straniera, ricercato dal suo stesso paese. Cioè. Zoya poteva pure avere tre figli da tre uomini diversi e sarebbe andata bene uguale a tutti – anche perché ricordiamo che Zoya è il Drago, cioè come ti appelli contro un drago?

[7] Se non sbaglio lo dice Genya stessa che erano tutte innamorate del Darkling. Nella serie tv è fortemente implicato che Zoya dormisse anche con Aleksander prima dell’arrivo di Alina, mentre nei libri no, nei libri lui era il suo maestro e lei la sua protetta … e Zoya era comunque gelosa di Alina (probabilmente del ruolo di pupilla e non di amante) ma mi piaceva l’idea che ne fosse innamorata. Inoltre, Zoya dice di non aver mai provato amore per nessuno dei suoi amanti, quindi era una situazione strana.

[8] Scusate ma Nikolai che chiede alle donne di sposarlo prima di limonarle per me è sinonimo di una persona che ama senza mezze misure, tipo: prima assicurami che ci ameremo per la vita, poi possiamo limonare. La Bardougo può dirmi che era un seduttore ma non ci crederò mai, è proprio l’uomo dalle proposte romantiche a caso, tipo Ted Mosby.

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