We all want love

di Nao Yoshikawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Ventitré ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Capitolo uno

 "Questa è la mia famiglia. L'ho trovata per conto mio. È piccola e disastrata. Ma è bella. Sì, molto bella"
- Lilo & Stitch
 
Se c’era una cosa a cui Shinji non si era ancora abituato dopo tre anni, era svegliarsi presto. Aveva sempre odiato alzarsi presto, soprattutto perché amava fare le ore piccole. La maggior parte delle volte non era nemmeno colpa sua: in quanto manager di una band importante e famosa come i Vizard, spesso si ritrovava ad andare a dormire che era oramai notte fonda.
Ma quando il dovere chiamava, non c’era molto che potesse fare. Così quella mattina si era svegliato alle sette e, ancora intontito, stava cercando di non cadere. La sua casa, la loro casa che non era né troppo piccola né troppo grande, né troppo sfarzosa né troppo minimale, solo e soltanto perfetta, era ancora silenziosa. E un po’ in disordine, ma lì la colpa era sua e a poco servivano gli aspri rimproveri di Sosuke, che invece voleva sempre tutto al proprio posto.
Arrivò davanti due porte, a destra quella di Miyo – un grazioso cartellino recitava il suo nome, l’altra quella di Hayato.
«Miyo e Hayato, sveglia! Sono le otto!» mentì, battendo i pugni su entrambe le porte. L’ingrato compito di svegliare i pargoli quella mattina era toccato a lui. Sua figlia aprì la porta e Shinji si ritrovò con il pugno sospeso a mezz’aria. Miyo indossava già la sua uniforme, aveva i capelli (lunghissimi, proprio come lui li aveva portati un tempo) in ordine e lo guardava con un sopracciglio inarcato.
«Bugiardo, e comunque sono sveglia da mezz’ora. Sono sempre la prima a svegliarmi, qui.»
«Brava la mia ragazza» disse lui dandogli un buffetto su una guancia. «Vediamo Hayato quanto mi farà penare. Hayato, svegliati subito!»
Il suo figliastro non somigliava a Sosuke, assolutamente no. Sosuke era puntuale, preciso, pignolo e ordinato. Hayato – forse anche per via dell’età – era pigro, lento, e sembrava che gli scocciasse sempre far tutto. In questo forse somigliava più a lui. E poi, in generale, Hayato non lo ascoltava mai.
«Farà meglio a sbrigarsi, altrimenti non lo aspetto!» esclamò sua figlia, correndo in cucina. Shinji imprecò, cercando di aprire la porta chiusa a chiave.
«Hayato! Non costringermi a venire lì. Guarda che il modo di forzare la serratura, lo trovo! Sosuke! Ti dispiace venire a darmi una mano?!»
Odiava chiedere sempre il suo aiuto, ma almeno Hayato ascoltava il suo padre biologico, non spesso, ma la maggior parte delle volte. Hayato comparve poco dopo all’improvviso e per poco non si beccò un colpo in viso. Aveva come al solito gli auricolari alle orecchie, le mani nelle tasche e un ciuffetto ribelle che gli ricadeva sul viso. La versione in miniatura e più irritante di Sosuke.
«L’ho capito, non c’è bisogno di scaldarsi tanto. Dovresti dormire di più, Shinji»
Shinji non rispose. Hayato era insolente, ma lui era l’adulto dei due e doveva cercare di non farsi provocare. Almeno adesso i due erano svegli.
Tredici anni, un’età orribile. Per fortuna Miyo era sempre dolce, tenera e tranquilla, in realtà in quei tre anni non era cambiata molto. Anzi, non era cambiata affatto. Hayato invece prometteva già essere il classico adolescente un po’ difficile, ma era presto per dirlo. Nonostante le diversità, i due avevano legato molto. Come se fossero davvero fratelli. Miyo preparò lo zaino, come al solito prese qualche libro e poi afferrò Hayato per un braccio.
«Spicciati, dobbiamo andare. Ciao pa’, ci vediamo dopo!»
«Come? E non mangiate? Guardate che la colazione è il pasto più… vabbé, se ne sono già andati» borbottò parlando tra sé e sé. Si sedette a bere un tè mentre dal cellulare cercava di sbrigare alcune faccende. Negli ultimi tre anni la band aveva raggiunto una certa popolarità, tant’è che si erano esibiti anche al di fuori di Tokyo. Una volta persino a Seoul, ed era stato incredibile. In realtà, da quando si era sposato, aveva viaggiato in diversi posti interessanti.
Quanto meno, oramai si erano zittite le voci dei giornali secondo i quali il manager di una band avesse sposato l’avvocato Sosuke Aizen solo per i suoi soldi.
Come se lui fosse mai stato interessato a questo, poi!
Sosuke lo raggiunse, si era appena vestito e si stava sistemando la cravatta.
«Per caso mi avevi chiamato?»
«Mezz’ora fa. Lo sai, ho l’impressione che tuo figlio si diverta a provocarmi. Mi odia» si lamentò.
«No, non ti odia affatto. Ha tredici anni, un’età difficile. Tu sei estremamente amabile, mio caro Shinji» gli disse con un sorrisetto compiaciuto. Shinji lasciò perdere il cellulare e lo guardò e pensò che avesse avuto una vera fortuna a sposare un uomo che era come il vino. Alias, più Aizen invecchiava più diventava affascinante. E lui si sentiva un vero imbecille a formulare questi pensieri.
«Sono amabile? Bene. Allora, visto che mi hai ignorato poco fa, quando avevo bisogno di te, c’è una cosa che mi devi» dicendo ciò si avvicinò, gli donò una leggera carezza su una guancia.
«Arriverò in ritardo» disse Sosuke, anche se in realtà era poco convinto di quanto diceva.
«Tu sei il capo, chi se ne importa? Su, andiamo. Lo sai che non amo aspettare» dichiarò infine, guardandolo in un certo modo divertito e malizioso.
 
 
La sveglia era suonata, ma Renji non si era ancora alzato. A lui piaceva prendersi qualche momento la mattina. Per stringersi a Byakuya. In realtà era sempre molto difficile quando dovevano separarsi per andare al lavoro – lui in officina e il suo compagno in ufficio. Erano abituati a stare sempre insieme, dopotutto.
«Renji… per quanto tutto questo mi piaccia, mi farai far tardi» sussurrò Byakuya ad occhi chiusi. Il suo compagno che lo stringeva da dietro, aveva il viso affondato sui suoi capelli scuri.
«Ah, oggi non si lavora, ho deciso così. Prova a ribellarti se ci riesci.»
In effetti riuscire a ribellarsi a Renji era difficile, anche perché sapeva essere molto persuasivo. E poiché lo amava tanto, davvero tanto, si sarebbe lasciato strapazzare. Se qualcuno lo avesse visto lì, stretto tra le sue braccia a farsi coccolare, non ci avrebbe creduto. Ma anche la persona più rigida e seria aveva i suoi lati deboli. Il lato debole di Byakuya, oltre Renji, era Zabimaru.
Ovvero il loro cocker nero e dalle orecchie pendenti e morbide che era appena saltato sul letto, pretendendo attenzioni.
«Zabimaru, come hai fatto ad entrare? La porta era chiusa!» esclamò Renji mettendosi seduto. Byakuya si scostò le coperte di dosso, guardando il cane con aria seria. Zabimaru gli saltò addosso, accoccolandosi. E ciò aveva dell’incredibile, visto che l’idea di prendere un cane era stata proprio di Renji, mentre Byakuya non si era mostrato troppo entusiasta. Ora invece quella traditrice non aveva occhi che per il più serioso dei suoi padroni.
«Va bene» disse Byakuya tenendo il cane in braccio. «Ti do da mangiare.»
«Ma… ehi! Questo non è giusto!» si lamentò Renji, a braccia conserte. «Zabimaru, cane egocentrico, questa me la paghi!»
Byakuya trovava a dir poco esilarante il fatto che il suo compagno fosse geloso del loro cane. Questo lo faceva ridere, anche se solo internamente.
Quindi si alzò e diede da mangiare a Zabimaru. Poi Renji lo seguì, sbadigliando.
«Stasera andiamo da Rukia e Ichigo? Da quando tua sorella ha iniziato a lavorare, vedersi è diventato difficile.»
«Sì, ma certo. E no, Zabimaru non può venire con noi» dichiarò, mentre si preparava il tè.
«Ma perché no?! Ai bambini lui piace. E poi neanche tu vuoi lasciarla da sola. Guarda che lo so che ti sentirai in colpa, anche se non lo dici!» disse, puntandogli il dito contro.
Renji lo conosceva piuttosto bene. Sospirò, chiudendo gli occhi.
«Va bene. Ma adesso lo porti tu a passeggio, io vado a fare una doccia.»
Accidenti, pensò Renji, una doccia mattutina con Byakuya non gli sarebbe dispiaciuta, ma Zabimaru doveva essere portata a fare la sua passeggiata. E d’accordo, se calcolava bene i tempi poteva farcela. Corse a prendere il guinzaglio e poi prese il cane in braccio. Cosa non si faceva per amore e per del sano sesso pre-lavoro.
 
 
Ai si era svegliata un po’ prima quella mattina. Aveva un compito importante a scuola e aveva studiato tanto. La genetica era davvero affascinante, anche se complicata. Per sua grande fortuna poteva contare su un grande aiuto.
«Da cosa è operata la sintesi del DNA a partire dall’RNA?» domandò Mayuri, ancora assonnato. Ai camminava avanti e indietro mentre mangiava un dorayaki.
«La so, la so! Trascrittosi inversa! È giusto?»
«Sì, è giusto» rispose lui. «Fammi pensare ad altro.»
Ai era sempre stato un piccolo genio precoce. Mayuri era contento che lei avesse sviluppato la sua stessa passione per la scienza. Avrebbe fatto grandi cose, ne era sicuro.
«Quante cellule somatiche sono presenti nelle cellule umane?»
Ai si bloccò un attimo, pensandoci attentamente.
«Emh… quarantotto?»
Lui scosse la testa.
«Quarantasei in realtà, ma c’eri quasi. Non mi guardare così, andrai bene. Non voglio che ti venga un esaurimento nervoso. E poi se sbagli, puoi sempre rimediare.»
Ai lo fissò a braccia conserte.
«Lo so, è che mi piace quando faccio tutto giusto!»
Ah, come poteva capirla. Allora condividevano anche l’ambizione, ottimo. Nemu entrò in cucina. E li trovò così e li osservò confusa.
«Ma sono le sette, a che ora vi siete alzati?» domandò. Mayuri fece spallucce.
«Non guardare me, mi ha buttato giù dal letto alle cinque e mezza. Nostra figlia è un genio, ma è spaventosa.»
Ai rise e divorò il suo dorayaki.
«Mamma, sbrigati. Dovete accompagnarmi a scuola. Vado a lavarmi i denti e poi devo sistemare i miei appunti, a tra poco!»
Nemu cercò di dire qualcosa, ma non ci riuscì. Ai alle volte sembrava proprio iperattiva, una ragazzina ad alta funzionalità.
«È nervosa per l’esame di scienza?» domandò voltandosi suo marito.
«In questo decisamente ha preso da te, anche tu facevi così. Ad ogni. Dannato. Esame. Universitario. Aiutavo anche te» ricordò Mayuri. Nemu nascose una risatina dietro una mano e poi, ricordandosi che non gli aveva ancora nemmeno detto buongiorno, lo baciò.
 
 
Le scuole medie si stavano dimostrando essere un luogo interessante, con i suoi lati positivi e negativi. Tra i negativi c’era sicuramente il fatto di essere tutti in sezioni diverse, ma almeno Naoko aveva avuto la fortuna di finire con Kiyoko e Yami.  Il passatempo preferito delle tre ragazze (più di Naoko e Yami a dire il vero) era osservare i ragazzi di seconda e terza media. Così quella mattina se ne stavano così, nei corridoi ad osservare i loro compagni più grandi.
«Oh, quanto mi piacciono» disse Naoko mordicchiandosi le unghie, coperte di uno smalto verde molto rovinato. «Io con quelli dell’ultimo anno vorrei proprio uscirci. E baciarli anche. E non solo.»
Kiyoko arrossì, fissandosi le scarpe. Naoko e Yami non avevano problemi a esternare i loro pensieri, anche i loro desideri. Lei era sempre stata più timida, anche se a certe cose era interessata.
«Altro che bacio» disse Yami. «Io, se avessi un ragazzo, penso che passeremmo tutto il tempo a toccarci.»
Kiyoko si lasciò andare ad un oh di disperazione. Yami non era solo bellissima, col fisico da ballerina classica e lo sguardo simile a quello di una gatta, era anche l’unica con più esperienza. Aveva dato qualche bacio, baci di quelli veri, come quelli dei film. Forse c’era stato davvero dell’altro, tipo qualche toccatina fugace, ma non gliel’avrebbe mai chiesta.
«Ehi, ehi, Kiyoko! Tu hai la macchina fotografica, c’è uno della 3-A che mi piace, vai lì e fagli una foto. Così me l’appendo in camera!» esclamò Naoko, dandole una pacca sulla spalla. Oh, Kiyoko non poteva mettere l’arte e la passione al servizio delle manie della sua migliore amica. A essere sinceri, in quel momento attendeva solo che Kaien arrivasse. Insieme a Masato, Yuichi e Kohei erano finiti nella stessa classe e camminavano sempre insieme: Kohei dietro, alto e imponente nonostante l’età, Yuichi e Masato sempre vicini a parlare tranquilli, e infine Kaien che camminava davanti a tutti, le mani infilate nelle tasche. E sul viso l’espressione tipica di un delinquente in cerca di guai. Ma la verità non era questa. Kaien era tranquillo, non disturbava nessuno. Erano gli altri che lo prendevano in giro (di solito era per il colore dei suoi capelli) e cercavano sempre una scusa per dare inizio ad un litigio.
Ed eccoli che ora stavano arrivando.
«Ciao, Kaien!» salutò subito Kiyoko. Lui ricambiò con un cenno del capo, senza però perdersi in chiacchiere. Era cambiato parecchio di recente. Era diventato più chiuso. Un po’ scorbutico. Formava una coppia perfetta con il suo migliore amico Hayato.
«Oh» sospirò. «Ma non è giusto, perché Kaien non mi guarda nemmeno?»
«Non ci fare caso, mio fratello è un po’ cambiato da quando abbiamo iniziato le medie. È un po’ scorbutico» la tranquillizzò Masato. Lui invece non era cambiato molto, nemmeno Yuichi. Uniti erano stati e uniti continuavano ad essere.
Masato e Yuichi le salutarono per avviarsi verso la loro classe. Poi arrivò Ai, che frequentava la stessa classe di Hikaru, Rin e Satoshi.
«Ciao, ciao, ciao a tutti, devo andare a fare un compito importante, a più tardi!» gridò mentre cercava di non far cadere tutti gli appunti che teneva in mano. Yami si portò una mano sul fianco, scuotendo il campo.
«Certi nostri amici dovrebbero rivedere le loro priorità.»
 
Era una bellissima giornata al St. Luke. Anzi, era sempre una bella giornata quando non si era un novellino preso di mira. Dopo tre anni, anche Hanataro Yamada aveva trovato il suo posto e la sua serenità. E non aveva perso nemmeno la sua goffaggine. Il rischio di inciampare e cadere, soprattutto quando era di fretta, c’era sempre.
Una combo terribile, specie quando si avevano dei caffè bollenti in mano.
«Oh, Hanataro. Te l’avevo detto che potevo andarci io»
Ichigo scosse la testa, cercando di aiutare il suo amico e collega ad alzarsi. Per fortuna il caffè bollente era finito sul pavimento e non su di lui.
«C-chiedo scusa!» esclamò il ragazzo. «È che sono agitato al pensiero che arriveranno dei nuovi tirocinanti. Insomma, conteranno anche su di me, no?»
Ishida sorrise in modo nervoso. Gli sembrava ieri che Yamada combinava guai e lui e Ichigo cercavano di provi rimedio, anche se questo in realtà non era cambiato poi molto. Ma adesso anche per il loro protetto era arrivato il momento di crescere.
«Ma certo. Sta tranquillo, devi solo mostrarti sicuro di te» lo rassicurò Ishida, col suo solito modo di fare serio e tranquillo. Hanataro annuì, dicendosi che ce la poteva fare. Poi però si aggrappò a Ishida, disperato.
«E se non vengo preso sul serio? Non lo potrei sopportare!»
«Oh, accidenti» sospirò Ichigo. «Avanti, non serve a niente piangere sul caffè versato.»
Ishida corrugò la fronte.
«Kurosaki, guarda che non è divert-»
«KUROSAKI, ISHIDA E YAMADA!»
Hanataro sussultò, nascondendosi dietro i suoi due ben più alti colleghi. Kurotsuchi li aveva beccati a perdere tempo in chiacchiere e ora li stava guardando in un certo modo minaccioso.
«Cosa state…? Anzi, no. Non lo voglio nemmeno sapere. Dopo tutto questo tempo non avete ancora capito che non mi piacciono i perditempo?» domandò, severo. «E tu, Yamada. Smettila di nasconderti e preparati perché mi servono le tue capacità in sala operatoria a breve.»
Quelle per Hanataro furono le parole magiche che spazzarono via tutta la paura. Era bello quando gli venivano riconosciuti meriti, il che accadeva più spesso di quanto potesse sembrare.
«S-sì, dottor Kurotsuchi, sarà fatto!» esclamò, facendo il saluto militare.
«Tsk, ma guarda tu quel ragazzino. Noi ci abbiamo impiegato una vita a farci apprezzare» disse Ichigo, mentre Ishida gli rispondeva subito che vuoi farci, i tempi cambiamo per tutti.
Una cosa che era più o meno rimasta uguale erano le schermaglie tra Urahara e Kurotsuchi. Il primario, infatti, arrivava come sempre tranquillo e allegro, salutando e chiacchierando con tutti. E poi lo stuzzicava.
«Oh, Kurotsuchi. Sempre a tormentare quei poveri ragazzi!»
«E tu sempre a perdere tempo» fu la risposta gelida di Mayuri. Urahara sorrise e poi si fece più vicino.
«Allora, a che ora venite stasera?» domandò tutto entusiasta. Che razza di idiota a fare tutta quella scena, oramai da tempo che avevano preso a frequentarsi anche fuori dal lavoro. Ovviamente per volere di lui, di Yoruichi e di Nemu, lui ne avrebbe fatto volentieri a meno.
«Non lo so, ma se devi cucinare tu, almeno non ci avvelenare» gli rispose, rassegnato. Oramai se ne doveva fare una ragione, lui e Urahara andavano d’accordo. Pure troppo.
Ichigo cercò di non ridere nel vedere quei due discutere. Kurotsuchi se ne accorse e lo fulminò con lo sguardo.
«Kurosaki, se hai tempo per ridere, hai tempo per lavorare.»
 
La giornata era stata faticosa, ma soddisfacente, come lo era sempre del resto. Erano le sei del pomeriggio quando Ishida rientrò, e la prima cosa che aveva sentito era il suono del violino. Yuichi doveva starsi esercitando, dall’anno precedente si era dedicato allo studio di quello strumento ed era già diventato piuttosto bravo. Quasi inciampò su dei giocattoli lasciati in giro per il pavimento. Troppo silenzio, eccezion fatta per la musica del violino. Non un buon segno.
«Emh, sono a casa» si annunciò. Poi udì dei passi e Yoshiko, la sua secondogenita dalle treccine nere, gli saltò addosso.
«Papà è tornato!» gridò. Ishida la prese in braccio e, come faceva sempre, la coccolò come se non la vedesse da una settimana.
«Ciao, piccola. E mamma dov’è?»
Yoshiko assunse un’espressione dispettosa. Non solo aveva la lingua lunga e parlava molto per la sua età, ma era anche dispettosa quanto irresistibile. Tatsuki sbucò dal bagno, ansimante,
«Yoshiko! Ma guarda tu che disastro, ti avevo chiesto di rimettere in ordine!» esclamò schiaffandosi una mano sul viso, alla vista del disastro che c’era sul pavimento.
«Ma è inutile, tanto poi ci gioco di nuovo, li lascio lì!» esclamò la bambina gesticolando e dandosi tante arie come se fosse un’adulta. Ishida la fissò, con un’espressione che sua moglie avrebbe definito da pesce lesso.
«Amore mio» disse rivolgendosi alla bambina. Tatsuki sgranò gli occhi. Che Uryu avesse un debole particolare per Yoshiko era stato chiaro sin dal principio. Se non l’avesse viziata tanto, magari!
«Amore mio un bel niente!» esclamò sua moglie. La bambina, ruffiana, abbracciò il padre. Orihime le diceva sempre non te la prendere, spesso le figlie sono affezionate in modo particolare al proprio padre. Beh, aveva ragione. Ma se la prendeva comunque.
«Avanti, ora però fa come ha detto la mamma» disse Ishida cercando di essere severo. Comunque Yoshiko ubbidì senza fiatare e andò a sistemare i suoi giocattoli.
«Nostra figlia vuole più bene a te che a me» borbottò Tatsuki a braccia conserte. «A me fa impazzire e poi ha una lingua lunga! Ma di chi avrà preso?»
Già, chissà. Ishida le strinse un braccio intorno alle sue spalle e con l’altra mano le afferrò il mento.
«Non ci siamo ancora salutati, noi due» sussurrò. Tatsuki arrossì, come una ragazzina.
«Hai ragione. Bentornato»
Poi si baciarono e non si resero conto di Yoshiko che li fissava truce, con la sua bambola in mano.
«Papaaaa. In braccio, di nuovo.»
Tatsuki si staccò dal bacio, guardò esasperata Uryu, mentre lui invece sembrava divertito. Di sicuro Yoshiko sapeva ottenere sempre quello che voleva.
 
Orihime sperimentava. In tre anni aveva dovuto assumere altri aiutanti per la sua pasticceria e adesso aveva in progetto di espandersi magari in altre parti della città. Sarebbe stato magnifico. E intanto a casa sua sperimentava. Di solito le sue cavie erano i suoi figli, i quali talvolta ne erano felici, talvolta un po’ meno. Orihime si era messa in testa di sperimentare anche combinazioni più particolari.
«Satoshi e Kiyoko! Coraggio, provate questi biscotti e ditemi in tutta onestà cosa ne pensate»
I due non se la sarebbero mai sentiti di darle un dispiacere, anche se temevano comunque di venire avvelenati da uno dei suoi strani esperimenti.
«Satoshi, prima tu» disse Kiyoko.
«Prima le signore» ribatté Satoshi.
«Ma tu sei più grande.»
«Di solo un mese. Insisto»
Orihime gonfiò le guance.
«Ragazzi, andiamo!»
Sospirarono e poi presero ognuno un biscotto dalla teglia. E morsero. Avvertirono prima il sapore di cannella (tanta cannella) e poi qualcosa di più familiare, fagioli Azuki rossi. Satoshi starnutì e a Kiyoko lacrimarono gli occhi.
«Beh…» disse sua figlia. «È un sapore tosto.»
«Per gente tosta» disse Sastoshi, tossendo ancora una volta. Come poterle dire che biscotti del genere rischiavano di far piangere qualcuno a vita? In questo caso l’arrivo di Ulquiorra fu provvidenziale: avrebbero lasciato a lui l’ingrato compito.
«Papà, vieni ad assaggiare questi biscotti che mamma ha preparato!» esclamò Kiyoko. Padre e figlia si scrutarono a lungo. Ma accidenti, era solo venuto a prendere da bere.
«Veramente io stav-»
«Vieni, Satoshi, ti mostro delle foto che ho scattato oggi!» Kiyoko lo prese sottobraccio e se lo trascinò via dalla cucina. Orihime sospirò, togliendosi il grembiule.
«Quei due sono inseparabili, vero? Spero tanto che Satoshi sia davvero felice all’idea di rimanere qui per sempre» disse avvicinandosi a lui. Oramai lo avevano preso in affido da tre anni. La situazione del ragazzino era, come spesso accadeva in certi casi, tragica. Prima di loro, Satoshi era già stato in altre due famiglie affidatarie, anche se per un breve periodo. Adesso invece erano passati tre anni e Ulquiorra e Orihime avevano quasi concluso le pratiche per adottarlo ufficialmente.
«Ma certo che sarà felice. Insomma, lo vedi?» domandò. Orihime adorava quel ragazzino e anche lui l’adorava. E lo adorava anche Kiyoko. E anche lui, probabilmente perché avevano due caratteri simili, molto timidi. Ma facile non lo era stato, soprattutto all’inizio. Satoshi era stato a lungo diffidente, ma come potergli dare torto? Kiyoko era colei a cui si era legato di più e più in fretta. Da Orihime adesso si lasciava abbracciare, coccolare. Con lui, beh… parlavano, anche molto.
«Oh, lo vedo, è adorabile. E lui e Kiyoko insieme sono due pesti. Assaggia» disse porgendogli un biscotto. E Ulquiorra, che l’amava davvero tanto, diede un morso. Tossì.
«Cannella… troppa…» ansimò, cercando di farle capire che voleva un bicchiere d’acqua e anche alla svelta.
 
Kaien giocava alla playstation. Masato, seduto sul letto, parlava al cellullare. Da quando i suoi gliene aveva regalato uno lo scorso Natale, poteva sentire i suoi amici quando voleva. Poteva sentire Yuichi quando voleva. Mentre parlava con lui, Kon se ne stava col muso poggiato al suo grembo. Kon era il labrador che avevano adottato un anno e mezzo prima, con grande difficoltà, perché Ichigo aveva sempre detto in questa casa non entreranno animali. Ma poiché Rukia aveva insistito tanto e i suoi figli le avevano dato man forte, alla fine si era dovuto arrendere.
Da Masato ore 19,08
Yuichiii. Hai finito di suonare? Allora, qualche volta devi farmi sentire, non ti puoi vergognare di me.
Da Yuichi, ore 19,10
Non mi vergogno, ma non sono ancora molto bravo.
Da Masato, ore 19,12
Ma va, sono sicuro che non è vero. Oh, guarda Kon.
Scattò una foto e gliela inviò. Poi Yuichi rispose.
Da Yuichi, ore 19, 15
Fortunato lui che può stare accoccolato a te, noi possiamo vederci solo a scuola.
Masato lasciò cadere il telefono e arrossì. Era dall’età di otto anni che lui e Yuichi erano teoricamente fidanzati. Ma adesso di anni ne avevano dodici, non erano più bambini, le cose cambiavano. Tanto per cominciare, ora si baciavano molto di più e si tenevano per mano spesso. Però alle volte Masato sentiva che baciarlo non gli bastava più. Si sentiva strano, teso, accaldato. Nel ripensarci si lasciò andare ad un piagnucolio.
«Se devi pensare a Yuichicchi tuo, puoi non esternare in questo modo?» domandò Kaien, che gli dava le spalle.
«Non è colpa mia!» si lamentò. A suo fratello avrebbe anche voluto chiedere consiglio, ma a Kaien i maschi nemmeno piacevano. Chissà se avrebbe potuto consigliarlo comunque?
Ad un tratto Kon si sollevò e abbaiando scese dal letto: aveva sentito Rukia rientrare.
Rukia aveva iniziato qualche mese prima il suo lavoro d’assistente sociale. Dopo aver conseguito la laurea con il massimo dei voti, ora poteva finalmente seguire la sua vocazione. Oltre che occuparsi della sua folle famiglia.
Ichigo le finì addosso per salutarla prima che Kon lo precedesse, tra quei due c’era una strana rivalità.
«E-hi, ragazzi!» esclamò, stretta nell’abbraccio di suo marito e dal cane che cercava di farle le feste. «Fatemi togliere il cappotto, almeno.»
«Ehi, Kon, guarda che c’ero prima io» si lamentò Ichigo. «Non guardarmi così, tu questo non lo puoi fare.»
E dicendo ciò donò un appassionato bacio a sua moglie mentre il cane, sconsolato, si sedette. Rukia si staccò a fatica, dandogli un colpetto sulla spalla.
«Scemo, così non respiro! I ragazzi?»
«Kaien gioca, Masato parla… con Yuichi, credo. Rukia, te lo dico, secondo me quei due sono innamorati seriamente» disse Ichigo, mentre osservava sua moglie sfilarsi il cappotto.
«E anche se fosse? Tu e Ishida sareste davvero felici.»
Ichigo arrossì. Era davvero così prevedibile?
«Già. Ah, prima che me ne dimentichi, ho ricevuto una chiamata da parte dei miei cugini. Kukaku e Ganju mi hanno detto che torneranno presto a Tokyo. Questo mi ha sorpreso, si sono trasferiti tanti anni fa. Spero non si mettano in testa di invadere casa nostra, perché io e Ganju finiremmo con l’ammazzarci. Rukia, mi ascolti?»
Rukia aveva smesso di ascoltarlo dopo la prima frase. I cugini di Ichigo sarebbero tornati a Tokyo e questo non avrebbe dovuto crearle problemi. Ma non appena metabolizzò ciò, si sentì come se per anni avesse cercato di ignorare qualcosa che ora le era stato deliberatamene messo davanti. E ora lo vedeva. E faceva male, tanto male.
«Rukia…?»
Ciò che è passato deve rimanere nel passato.
Non pensarci.
Non pensarci e andrà tutto bene.
E sorrise.
«Sì, ho capito. Penso sia una splendida notizia.»
Respira.
 
 
Ma fa troppo male.
 

Nota dell'autrice
Ma buon ritorno di Bleach a tutti! Quale giorno migliore per far uscire il sequel di EWL? Non vedevo l'ora sinceramente, ci sono tante cose che voglio raccontare e tante tematiche da affrontare. Qui mi sono concentrata su alcuni personaggi, nel prossimo arrivano gli altri. Vedete come sono tutti felici e contenti? Tranne Rukia, Rukia stavolta ha un problema molto grosso, ma penso possiate immaginare quale sia. Ma non temete, ci saranno problemi per tutti, io non lascio da parte nessuno. Come vedete ci sono grandi novità, i bambini non sono più tanto bambini, alcune coppie si vivono la loro vita serena e Mayuri e Kisuke sono diventati BFF, anche se non si può dire ad alta voce. Questa storia sarà la storia dei ritorni per molti personaggi, non sempre positivi a dire il vero. Spero vi sia piaciuto e BUON VIAGGIO A TUTTI.
Nao

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Capitolo due
 
Quando Grimmjow gli chiedeva di vedersi, non era mai un buon segno. Soprattutto quando Nnoitra non poteva contare sul sostegno morale di Ulquirra (quel maledetto trovava sempre una scusa) e allora si ritrovava a fare da solo ciò in cui più era negato: dare consigli d’amore. Non solo, il suo migliore amico era in ritardo dopo essere stato lui stesso a dargli appuntamento da Starbucks. Oh beh, si era detto, almeno posso portarmi avanti con il lavoro. Tre anni prima aveva pubblicato il suo primo manga action, il quale aveva riscontrato un notevole successo. Ciò lo aveva portato a lavorare di più e al non poter procrastinare quando si trattava di rispettare le scadenze.
E poi eccolo lì: Grimmjow che arrivava tutto concitato e imbronciato, con i suoi comodi.
«Finalmente. Ma si può sapere perché ci hai impiegato tanto?» domandò Nnoitra, il pennino in una mano, dei fogli sparsi sul tavolo, accanto mezzo cappuccino.
«Traffico» mentì Grimmjow, sedendosi davanti a lui. «Sono tanto disperato.»
«E dove sarebbe la novità? Non c’è nemmeno bisogno che tu dica niente: hai litigato con Harribel, vero?»
Tia Harribel era la fidanzata di Grimmjow da due anni e mezzo. I due erano stati travolti subito dalla passione e non era passato molto prima che andassero a vivere insieme. Entrambi però avevano dei caratteri forti e spesso si scontravano e litigavano. E uno come Grimmjow, che non era certo un tipo romantico, si ritrovava ora a penare d’amore per quella donna che gli aveva preso il cuore.
«Dice che sono immaturo. Secondo te sono immaturo?»
«Chi, tu? Come ti viene in mente?» domandò sarcastico.
Grimmjow strinse un pugno.
«Guarda che sono serio! Tu devi saperne qualcosa d’amore, sei sposato da anni!»
Nnoitra stava per rispondergli che – se non lo avesse ancora capito – a dare consigli d’amore faceva schifo, a prescindere dal fatto che fosse sposato. Ma due ragazzini adolescenti si avvicinarono, un po’ spaventati ma con gli occhi carichi di ammirazione.
«Amh, scusi! Lei è Nnoitra Gilga, vero? L’autore di Shiro?»
I due ragazzini tremarono quando lui li guardò. Gli era già capitato che qualche suo fan (soprattutto giovani e giovanissimi) lo fermasse per scambiare con lui due parole, addirittura chiedergli un autografo. E lui, che generalmente non amava stare al centro dell’attenzione in quel senso, all’inizio non aveva saputo come approcciarsi. I molti erano spaventati dalla sua stazza e dalla sua espressione, salvo poi rendersi conto che Nnoitra era davvero gentile (e se ne sorprendeva pure lui).
«Sono io» rispose. Vide che i due ragazzini tenevano in mano dei volumi di Shiro.
«Ci può fare un autografo? Noi siamo fan di Shiro da quando è uscito! Dall’inizio!»
«E poi le scene di combattimento sono epiche!» esclamò l’altro ragazzino, rosso in viso.
«Okay, non andate in iperventilazione. Certo che vi faccio l’autografo. E… grazie» disse poi, un po’ in imbarazzo. Firmari gi autografi, i due adolescenti se ne andarono via tutti contenti. Alla fine era piacevole essere giusto un po’ famosi.
«Dicevamo?» domandò Nnoitra rivolgendosi a Grimmjow, come se nulla fosse.
«Accidenti, Harribel mi lascerà» disse Grimmjow accasciandosi sul tavolo. «Ma io la amo, lei è la donna della mia vita, la madre dei miei figli.»
«Oh, per l’amor di… non voglio immaginare voi che cercate di procreare. Sentì, i litigi capitano, il dialogo è importante. Se c’è qualche problema basta parlarne.»
Nnoitra si stupì di sé stesso. Mai si sarebbe immaginato a fare consigli d’amore a Grimmjow, ma un po’ di esperienza in quegli anni l’aveva fatta. Dopo aver detto ciò si alzò, facendo un po’ d’ordine.
«Adesso devo andare, Nel mi aspetta. Fai il bravo ragazzo, Grimmjow» gli disse, divertito. L’amico poggiò il viso su una mano, alzando stancamente l’altra per salutarlo. Certo, ora a Ulquiorra e Nnotira riusciva a capirli bene: l’amore sapeva renderti folle.
Nnoitra se ne tornò a casa e, quando arrivò, trovò il solito caos. Aries che, disteso sul tappeto, aveva rischiato di farlo cadere, disordine un po’ ovunque e poi Naoko che aveva ben pensato di colorare da sola una parete della sua camera da letto.
«Ma che cosa…? Naoko! Ti avevo detto che ci avrei pensato io!» si lamentò Nnoitra. Sulla parete c’era un turbinio di colori da far girare la testa. Sua figlia aveva la salopette sporca e anche una guancia.
«Ma io sono più brava di te, quindi mi sono portata avanti» disse immergendo il pennello nella boccetta di colore rosso.
Quella ragazzina era un’esplosione, tale e quale a sua madre. Nnoitra sbuffò, poi cercò di mettere un attimo in ordine.
«Come vuoi, ma quanto meno vuoi sistemare questo casino? Non sono mica il tuo schiavo, io!» e dicendo ciò afferrò degli indumenti, tra cui un reggiseno. «Ma che…?»
«Ehi! Guarda che quello è mio, eh» borbottò arrossendo. Nnoitra lo lasciò cadere, lasciandosi andare ad un’espressione sofferente e disgustata. Era già un trauma sapere che Naoko stava crescendo, ritrovarsi davanti anche la sua roba da adolescente anche no.
«Non tocco più niente, giuro» disse sconfitto. Nel frattempo Neliel lo aveva raggiunto, aveva stretto il suo braccio e si era sollevata sulle punte per stampargli un bacio su una guancia.
«Scusa, non ti ho sentito arrivare. Scommetto che Grimmjow voleva consigli d’amore da te.»
«Puoi ben dirlo. La prossima volta ci vai tu, io non sono così sentimentale» dicendo ciò la cinse dai fianchi, attirandola a sé. Naoko s’indispettì e imbarazzò e si avvicinò a Nnoitra, schizzandogli addosso un po’ di colore.
«Ops, ma tu guarda! Papà, il rosso ti dona.»
Femmine, pensò Nnotira. C’era stato un tempo in cui aveva avuto scarsa considerazione di loro, mentre adesso amava due donne più della sua vita. Un piacevole colpo di scena.
Nnoitra si avvicinò a Naoko, minaccioso.
«E scommetto che invece a te dona molto il blu!»
Neliel rise, con una mano poggiata ad una guancia, mentre osservava quei due che si rincorrevano, giocavano e si facevano i dispetti. Erano a dir poco adorabili.
 
 
Se c’era una cosa che Rin poteva affermare con certezza, era quella di essere abbastanza sicura del proprio aspetto, qualcosa che a quanto pareva non era molto comune fra le ragazze della sua età. Non era nemmeno vanitosa, semplicemente sapeva riconoscere i propri pregi e difetti. E poi, almeno secondo lei, era sempre stata graziosa. Adesso, mentre si guardava allo specchio, si rendeva contro che andava ad assomigliare sempre più a sua madre, anche se in viso aveva i tratti di suo padre. Aveva iniziato a truccarsi leggermente, a pettinare con attenzione la sua chioma lunga e che si rifiutava di tagliare. In questo modo Rangiku aveva un po’ realizzato il suo sogno, ovvero quello di portare sua figlia a fare shopping e di comprarle tanti bei vestiti e non solo. Rin adorava sua madre, adorava passare il tempo con lei. Ma a volte la metteva un pochino in imbarazzo. E lo stesso aveva fatto quel pomeriggio, quando era rientrata con delle buste in mano mentre lei, seduta in salotto, si metteva lo smalto alle unghie delle mani.
«Oggi ti ho comprato alcune cosine molto interessanti» disse Rangiku contenta. «In particolare ti ho comprato della nuova biancheria intima.»
A Rin cadde il pennellino di mano.
«Ma come? Io non c’ero, come fai a sapere le mie misure?» domandò, le guance arrossate. Rangiku si portò le mani sui fianchi.
«Tu sei mia figlia, ti conosco. E così ti ho comprato dei reggiseni adorabili. Niente di troppo vistoso ovviamente. Ma tu hai preso da me e il seno ti si sta già ingrossando parecchio. È importante avere il giusto sopporto in questi casi.»
Rin sollevò un dito e cercò di dire qualcosa, ma senza riuscirci. Oh, sua madre era inarrestabile. Non solo, le aveva già fatto il famoso discorso sul sesso.
Se un giorno dovrai fare sesso, le aveva detto, che non ti venga in mente di farlo senza protezione. Piuttosto, quando sarà è meglio se me lo dici, così saprò come aiutarti.
Era stato illuminante quanto imbarazzante, quel discorso. Ma almeno sua madre aveva una mente aperta. Adesso le aveva lanciato un reggiseno nero con un fiocco al centro.
«Su, provalo.»
«… Posso avere un po’ di privacy?»
Rangiku però le aveva detto di non preoccuparsi, perché vergognarsi di lei che era sua madre e che la conosceva meglio di chiunque altro? Rin sospirò e si arrese, indossando il nuovo capo. E notò con piacere che le stava molto bene. Tutto il suo corpo stava cambiando. Lei che da piccola era sempre stata magra come un fuscello, adesso si era arrotondata in alcuni punti in particolare, tipo sui fianchi. Per lei era piuttosto strano.
«Ooh, ti sta un incanto! Sai, dovrei prenderne uno uguale per me, così saremo abbinate» commentò Rangiku. Rin arrossì, scuotendo la testa. Non voleva nemmeno pensarci.
Al contrario di Rangiku, Gin sembrava non essersi accorto dei cambiamenti di Rin. O magari se n’era accorto e faceva finta di niente. Forse per non metterla in imbarazzo. O più probabilmente perché non aveva ancora metabolizzato. Perché a mettere in imbarazzo ci riusciva comunque e con una naturalezza disarmante.
«… Ma che fate?» domandò infatti quando entrò in soggiorno e le vide. Rin arrossì, coprendosi subito.
«Papà, esci. Non mi guardare.»
«Ah, stava solo provando un nuovo reggiseno che le ho comprato.»
«Mamma. Non mettere il dito nella piaga» borbottò infilandosi di nuovo la maglietta. In quel momento ringraziò che non ci fosse Toshiro in giro perché sua madre sarebbe stata capace di metterla in imbarazzo anche davanti a lui. Gin si portò una mano sotto al mento.
«Ah, capisco. Comunque tesoro, perché ti vergogni di me? Chi credi ti abbia cambiato i pannolini?»
Quello era davvero troppo per Rin. Si lasciò andare ad un respiro talmente profondo che ebbe quasi la sensazione di sciogliersi.
«Se mi volete bene, adesso mi lasciate andare in camera mia.»
Rangiku decise che sua figlia aveva sofferto abbastanza. Gin si sentì in colpa perché un pochino si divertiva a stuzzicarla.
«Stiamo diventando di quei genitori che mettono sempre in imbarazzo i figli. Soprattutto tu, Rangiku.»
La donna si lisciò i capelli, lo guardò maliziosa e lo baciò.
«Mi dispiace, è che mi esalto troppo. Rin è bellissima e sa di esserlo.»
«Ha preso da te, infatti» Gin le prese con dolcezza il viso tra le mani e la baciò, con passione. Erano passati quattrodici anni da quando si erano sposati, eppure erano ancora come quando si erano conosciuti. Appassionati, innamorati. E non volevano che che ciò finisse, mai.
 
Un’altra giornata era giunta al termine o almeno era giunta al termine la sua giornata lavorativa. Yoruichi quell’anno aveva preso in carica una classe di primo liceo davvero terribile e scalmanata, ma i suoi alunni si erano ben presto resi conto che non quella donna c’era poco da scherzare. Molto spesso si sentiva ancora con Soi Fon, la sua ex studentessa che ora frequentava la facoltà di lettere. Soi Fon coltivava da sempre il sogno di diventare una scrittrice e una volta diplomata aveva iniziato a scrivere il suo prima e vero romanzo. Yoruichi si offriva di aiutarla, di correggere e dare un giudizio spassionato ai suoi scritti. Sapeva che il mondo dell’editoria sapeva essere terribile e tanto valeva essere spietata quando era giusto esserlo. Kisuke era rientrato da un po’ e, dopo essersi fatto una doccia, l’aveva raggiunta. Si era piegato su di lei (Yoruichi se ne stava seduta alla scrivania) e poi l’aveva abbracciata.
«Professoressa Shiohin, lei lavora troppo, a mio avviso.»
Kisuke le aveva sussurrato quella frase all’orecchio e l’aveva distratta.
«Da che pulpito, dottor Urahara. Lei ha ritmi ancora più insostenibili dei miei» rispose, stando al gioco. Non c’erano più stati problemi da quando Yoruichi aveva preso coscienza della propria sessualità. Anzi, le cose andavano talmente bene che spesso volentieri non erano in grado di non saltarsi addosso. Proprio come quando erano solo fidanzati, ciò era piacevole.
«Che vuoi che ti dica? Salvare vite è impegnativo» sempre con il suo tono divertito, ora un po’ languido, Kisuke infilò una mano nella sua scollatura. Yoruichi trasalì e poi si lasciò andare ad un sospiro.
«K-Kisuke, ti ricordo che i nostri figli sono in casa. E tra poco abbiamo ospiti. Stasera, d’accordo?»
Sua moglie aveva ragione. Anche se a malincuore, Kisuke scostò la mano dal suo seno morbido.
«È il racconto di Soi Fon? Posso leggerlo? Ti prego!» esclamò congiungendo le mani come se stesse pregando.
«Neanche per sogno, ho promesso che lo avrei letto solo io. E poi tu non hai le competenze» disse voltandosi e riprendendo la penna in mano.
«Così mi offendi, mia cara» scherzò lui. E poi il suono della sua voce fu sovrastata dalle grida di Yami. Niente di cui preoccuparsi, Yami si scaldava facilmente, era come sua madre (anche se questo Kisuke si premurava di non dirlo).
«Dov’è il mio rossetto? Chi ha spostato le mie cose? Hikaru, sei stato tu?!»
«Io non mi trucco, che me ne faccio? Incolpi sempre me, anche quando non faccio nulla!» rispose il gemello. Yoruichi si tolse gli occhiali da lettura e suo marito, nel vederla, capì che sarebbe scoppiata una breve schermaglia, poiché madre e figlia tendevano a scontrarsi spesso, ultimamente.
«Yami Urahara, non provare a prendere i miei rossetti di nascosto. Sei troppo giovane per truccarti in questo modo!»
Yami non amava quando qualcuno le diceva cosa potesse e non potesse fare. Arrivò nello studio della madre con i riccioli nei capelli (aveva appena imparato ad usare il ferro), un body sopra il cui indossava di solito il tutù, durante le lezioni di danza, e degli scaldamuscoli. Senza dubbio sembrava più grande della sua età.
«Ma mi serve! E poi tu non lo usi mai, è sprecato!»
«Non transigo. Quando sarai più grande, farai come vuoi. Ma sei ancora troppo piccola!»
Kisuke si guardò intorno, facendo finta di niente. Lui non amava trovarsi in mezzo a quelle schermaglie, finiva sempre male per lui.
«Papà, dille tu qualcosa!» lo pregò la figlia, infatti.
«Kisuke, non osare» disse invece la moglie. Era assurdo, era come avere due versioni diverse della stessa persona. Da quella situazione non se ne usciva facilmente.
«… Tesoro, tua madre sa quello che dice» affermò, un po’ in ansia. Preferiva mettersi contro Yami, almeno a lei sarebbe passata. Sua figlia borbottò.
«Siete ingiusti, tutti e due!» piagnucolò, andandosene.
«E cambiati!» le gridò dietro Yoruichi. «Cosa sei, la protagonista di Flashdance?»
Kisuke rise. Poi si avvicinò a lei, posandole un bacio sulla testa.
«Non essere così dura. Yami è come te, solo che è più giovane.»
«Questa ti è uscita male, Kisuke. Uno dei due dovrà pur essere severo, tu gliele daresti tutte vinte» dicendo ciò riposò fogli e penne, oramai era tardi. «Comunque vai a vestirti in modo consono. E giuro che se stasera tu e Mayuri vi chiudete nello studio a parlare dei fatti vostri, io e Nemu usciamo e vi molliamo qui.»
Ad un tratto Kisuke parve concitato.
«Ma mia cara, noi abbiamo un progetto. Noi creeremo il dipartimento di ricerca e sviluppo. O DRS, fa più figo, non è vero?»
Oh, suo marito alle volte si eccitava come un ragazzino il giorno di Natale. Però quel suo modo di fare la faceva ridere.
 
Toshiro e Momo viaggiavano spesso. Soprattutto adesso che Toshiro aveva concluso i suoi studi universitari, si dilettavano molto. Anche a distanza Toshiro poteva seguire diversi lavori dell’azienda da cui era stato assunto, Momo invece si dedicava alla musica. Chissà, diceva sempre, magari diventerò una pianista famosa. Non è mai troppo tardi per i sogni.
Quella volta la loro meta era stata Londra e dopo due settimane, sarebbero tornati l’indomani. Da quando stava con Toshiro, Momo sembrava ringiovanita di dieci anni. E poi, si rendeva conto, loro formavano una bella coppia. Diversi, ma non troppo.
«Shiro, hai preparato le valigie? Ogni volta va a finire che mi dimentico qualcosa.»
«Sì, tu, appunto. Non io!» disse lui impegnato a controllare qualcosa sul suo portatile. «Piuttosto, non dimenticarti di chiamare Hayato adesso. Sai, no, il fuso orario. E poi se non lo fai, penserà che sia colpa mia.»
Momo, da che era inginocchiata, si sollevò, tutta indispettita.
«Non dire così!» borbottò, rossa in viso. Toshiro la trovò adorabile, ma d’altro canto non poteva fare a meno di dire certe cose. Non che Hayato l’odiasse. Avevano un rapporto civile, niente di più. In realtà quel ragazzino faceva il difficile con tutti, questo forse avrebbe dovuto consolarlo. Onde evitare di dimenticarsi davvero di chiamarlo all’orario giusto, Momo prese il suo telefono .
 
«Miyo, tua madre vuole parlare con te.»
Miyo chinò indietro la testa per togliersi i capelli che le erano finiti sugli occhi e prese il cellulare che Shinji le aveva dato.
«Mammina! Come stai? Allora ci vediamo questo week-end?»
Fino a qualche anno prima Shinji non avrebbe mai creduto possibile che lui e Hiyori potessero andare d’accordo. Invece adesso parlavano senza insultarsi o darsi addosso di continuo. Anzi, andavano più d’accordo adesso di quanto avessero fatto in otto anni. Miyo se ne andò a parlare in camera sua con la madre e Shinji si sedette accanto a Sosuke.
«Miyo mi fa preoccupare.»
Sosuke si tolse gli occhiali. Poteva non sembrare, ma Shinji talvolta sapeva essere paranoico.
«Miyo è una brava bambina.»
«Bambina? Ha tredici anni, non rimarrà una bambina ancora per molto. L’adolescenza è tremenda, io ero un ragazzino terribile. Attaccavo briga con tutti e andavo sempre a disturbare le ragazze a scuola» ammise.
«Ma Miyo non è te.»
«Infatti, lei è troppo buona e innocente. Tu te ne stai lì tranquillo e pensi che sono pazzo, ma se succede una cosa e io non so che fare? O peggio» abbassò la voce, come se dovesse confessargli un segreto impronunciabile. «Se ha un fidanzato? Questo non potrei sopportarlo. No, Hiyori è più brava di me.»
Povero Shinji, si creava problemi quando ancora non esistevano. Di sicuro il punto di vista di una madre contava sempre, ma perché Miyo avrebbe dovuto fare a meno del suo punto di vista.
«Oh, su, non ti demoralizzare. Sei un bravo padre, avere paura è normale. E poi ci sono io con te.»
Shinji si guardò intorno, stringendo un pugno.
«Vuol dire che se qualche malintenzionato prova a farla soffrire, andiamo a spaccargli la faccia insieme?»
Sosuke alzò gli occhi al cielo.
«Non intendevo proprio questo, ma possiamo affrontarla insieme.»
Dannazione a Sosuke e alla sua mania di affrontare tutto con ponderata calma. 
Miyo uscì dalla sua camera e porse il telefono a Shinji. 
«Mamma vuole parlare con te.»
Shinji l'esaminò un attimo. Come poteva il suo piccolo esserino avere già tredici anni? Eppure sembrava più piccola della sua età, era bassa e magra come un fuscello. In questo aveva preso da Hiyori. 
«Si?» rispose con un sospiro.
Poi c’era Hayato. Hayato era appena apparso in cucina, parlava al telefono con Momo. O per meglio dire, Momo parlava, lui si limitava ad ascoltare, a raccontare qualcosa. Non era mai stato un tipo di molte parole, ora meno che mai.
«Comunque domani torniamo a casa, anche se l’orario è un po’ scomodo. Così, se vuoi, puoi stare da me» gli aveva detto Momo. Hayato non aveva una fissa di mora, a volte viveva con suo padre, a volte con sua madre. In entrambi i casi, non andava troppo d’accordo né con Shinji né con Toshiro. Non che non li avesse accettati, in realtà li trattava un po’ come trattava tutti, anche se qualche differenza sussisteva, Entrambi cercavano di avvicinarsi a lui, ma lui li respingeva. Pensava bastasse un rapporto civile. Un padre ce l’aveva già, che se ne faceva di altri due? Soprattutto di uno che sembrava così giovane da poter essere suo fratello. Ma tutto questo Hayato non lo diceva.
«Vedrò al momento. Qui mi diverto abbastanza, con Miyo.»
Miyo era l’unica che trattasse con un po’ meno freddezza. Anche se non le diceva mai che le voleva bene, lo pensava.
«D’accordo, come preferisci. Vuoi che ti passi Toshiro? Shiro, vuoi parlare con Hayato?»
Il ragazzino lo sentì dire qualcosa e poi si sbrigò ad aggiungere.
«Vabbè, ti passò papà. A domani.»
Aizen aveva mantenuto con la sua ex moglie a sua volta un rapporto civile. Oramai ognuno aveva la propria vita e discutevano assai di rado. Aizen non era uno che litigava e Momo altrettanto. Parlavano soprattutto di Hayato.
«Sosuke, nostro figlio sta bene?» domandò Momo apprensiva. Hayato oramai non era più un bambino, si stava approcciando all’adolescenza e ciò la impensieriva un po’.
«Sta bene. Ha un po’ un caratteraccio, ma posso gestirlo. Io, Shinji non lo so, a dire il vero.»
Mentre diceva ciò osservò suo figlio che si rimetteva gli auricolari alle orecchie e spariva in camera sua, dove non poteva entrare nessuno. I bambini erano una cosa, gli adolescenti un’altra.
«Sì, capisco. Mi raccomando, vedi se ha bisogno di qualcosa» disse Momo.
«Quello non è un problema. Adesso è Hayato che non vuole parlare con nessuno. Che periodo infernale» ammise, passandosi una mano tra i capelli. Ma non era preoccupato, c’era ben poco al mondo che potesse preoccuparlo e così sarebbe continuato ad essere.
 
Se c’era una cosa che aveva sempre accumunato Chad e Karin, quello era l’amore per lo sport, anche se in ambii diversi. Se Chad era un istruttore di lotta libera, Karin aveva sempre avuto la passione per il calcio. C’era stato un tempo in cui avrebbe desiderato allenare una squadra di giovani, bambini o adolescenti. Ma con la nascita di Kohei e la diagnosi dell’Asperger, aveva messo da parte quel sogno. Questo fino a tre anni prima. Una volta che aveva compreso che poteva essere una buona madre per suo figlio senza dover rinunciare alle sue passioni, si era data da fare. Così aveva trovato una squadra, composta tutti da ragazzini dai dodici ai quattrodici anni ed era diventata una delle allenatrici più inflessibile, ma anche protettive, della prefettura.
«Allora, com’è andata oggi? Hai torturato quei poveri ragazzi?» domandò Chad quella sera, mentre cucinava insieme a lei. Anzi, lui cucinava, lei rubava ogni tanto qualcosa dal tagliere e la portava alle labbra per mangiarla.
«Io non torturo, pretendo il massimo. E infatti funziona, sono più le vincite che le sconfitte. Sai quanto sono competitiva. La mia squadra è forte.»
«Mamma è spaventosa, certe volte» dichiarò Kohei. Pixie stava sulla sua spalla, come al solito. Il ragazzino, che era cresciuto di parecchi centimetri e oramai superava di gran lunga Karin, se ne stava a leggere. Oramai possedeva una collezione niente male di libri che parlavano di aquile e non solo. Studiava da quelle pagine senza alcuno sforzo.
«Hai ragione. Lei è piccola, ma spaventosa» ammise Yasutora.
«Ma sentitevi, vi siete coalizzati contro di me? Comunque, potrebbe esserci la possibilità di una trasferta. Ma questa è ancora tutta da vedere, prima dobbiamo vincere la prossima partita. Spero di non dover litigare con l’allenatore dell’altra squadra come l’ultima volta» e nel dire ciò, arrossì. Di certo Karin sapeva come farsi rispettare. Nel mondo del calcio, in molti tendevano a non prenderla sul serio, nel vederla così piccola ed esile, ma più di una volta aveva dato del filo da torcere-. Questa volta non sarebbe andata diversamente.
«Ma tu non dici sempre che non si litiga?» domandò Kohei, attento. Karin s’imbronciò. Suo figlio spesso era più saggio di lei.
«Sì, è vero, ma… Yasutora, guarda che lo vedo che ridi. Non prendermi in giro.»
«Non lo farei mai» disse lui, mettendo qualcosa su un piatto. «Mentre non c’eri comunque ha chiamato Ichigo. Ha detto che i vostri cugini verranno a trovarvi. Parla degli Shiba, giusto?»
«E chi sennò? Ah» sussurrò sedendosi. «Si prospetta una bella riunione di famiglia, temo.»
«O molto brutta» disse Kohei e le sue parole suonarono come un’inquietante premonizione.
Poi, però, cambiò subito discorso.
 

Nota dell'autrice
E con questo ho finito di ripresentare i personaggi, che di passi in avanti ne hanno fatti. Nnoitra è diventat u mangaka abbastanza famoso da essere fermato per degli autografi e Grimmjow pena per amore. Yoruichi litiga con sua figlia e Rangiku invece è una di quelle madri super affettuose che mettono la figlia in imbarazzo (ce la vedo proprio bene). Invece Toshiro e Momo fanno la coppietta felice in giro per il mondo, anche se alla fine fanno parte di una famiglia allargata dove ci sono rapporti piuttosto particolari. E infine, Karin e Chad felici e contenti, niente a che vedere con i problemi della scorsa storia. Ma quella di Kohei sarà mica davvero una previsione? Lo scoprirete presto.
Nao

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Quando Yumichika lo aveva invitato a casa sua, Renji non aveva potuto dire di no. Insieme ai suoi amici si divertiva sempre, era Byakuya quello che spesso poteva risultare fuori posto, ma oramai c’era abituato. Di solito sopportava senza troppi problemi le chiacchiere di Yumichika sui vestiti e l’armocromia, così come sopportava le discussioni sciocche tra Ikkaku e Renji. Di solito, appunto. Ora era reso tutto più difficile dalla famiglia Zaraki. Kenpachi era una testa calda e Byakuya più di una volta era stato sul punto di rispondergli in malo modo, malgrado la sua indole tranquilla. Poi c’era Yachiru, la sua sorellina minore che puntualmente gli si attaccava come una cozza chiamandolo Byakky e toccandolo. La dottoressa Retsu Unohana era la compagna di Zaraki, una donna dolce ma dalla grande tempra. E poi c’era il loro figlio Tenshi di due anni, che sarebbe stato molto più tranquillo se fosse stato il figlio del diavolo in persona.
Tenshi lo guardava e Byakuya guardava lui. Di solito i bambini gli piacevano, ma il figlio di Zaraki voleva tenerselo lontano il più possibile.
«Byakky, sorridi un po’. Con quella faccia fai scappare tutti» disse Yachiru, con i suoi capelli rosa e i modi di fare allegri. Gli si era seduta accanto, iniziando a stuzzicarlo e a tirargli i capelli.
«Magari» ripeté. «Zaraki, puoi dire a tuo figlio di non guardarmi in quel modo? Francamente mi terrorizza»
Kenpachi ghignò, prendendo in braccio quell’adorabile bambino paffuto e imbronciato.
«Hai paura di un bambino, Byakuya? Molto bravo Tenshi, non sai ancora parlare e già terrorizzi.»
Retsu posò la tazza di tè da cui aveva appena bevuto, rivolgendo al suo compagno un sorriso spaventoso.
«Caro, ti prego. Non insegnare certe cose al bambino.»
Zaraki borbottò qualcosa, in imbarazzo. Quindi a comandare nella coppia era Unohana, pensò Byakuya. Chissà perché, ma la cosa non lo sorprendeva poi tanto. A Renji era forse andata meglio, anche se si stava ritrovando ad ascoltare le chiacchiere di Yumichika, che ad un certo punto però aveva pensato di spostare l’argomento proprio su Renji.
«Tu vorresti sposarlo?» gli domandò sottovoce. Ikkaku era semi addormentato accanto a lui, Byakuya era troppo impegnato a cercare di reggere Yachiru, quindi nessun altro avrebbe potuto sentire la domanda. A Renji per poco non cadde la tazzina di mano (è fine porcellana, stai attento! Gli aveva detto Yumichika).
Quella domanda non se l’era aspettata, però la risposta almeno per lui era ovvia. Certo, oramai da qualche tempo aveva iniziato a pensare al matrimonio, ma non era sicuro di poter compiere un passo del genere. Prima di tutto non sapeva come Byakuya avrebbe potuto prenderla (era già stato sposato una volta), secondo, temeva di complicare tutto. Loro stavano benissimo anche così.
«Io… ammetto che ci ho pensato, ma perché me lo chiedi?» domandò, nervoso.
«Era soltanto per chiedere» Yumichika assunse un’espressione maliziosa. «Davo per scontato che fosse nelle vostre intenzioni. Ho sbagliato?»
Non si era sbagliato affatto. Nelle intenzioni di Renji c’era anche. Chissà Byakuya cosa pensava, se sarebbe o meno stato d’accordo.
«No, non hai sbagliato. A me piacerebbe. Vorrei parlargliene…» prima o poi, si limitò a pensare, mentre osservava Byakuya con la coda dell’occhio. Renji ci aveva sempre fantasticato, sullo sposarsi e avere una famiglia sua. Non che non fossero già una famiglia, ma desiderava compiere il passo successivo.
«Allora dovresti farlo» sospirò Yumichika. «Per quanto riguarda me, io voglio un figlio. Oramai sono pronto… E poi adoro i bambini. TENHSI, NON TIRARE LE TENDE!»
Renji rischiò di nuovo di far cadere la tazzina sul pavimento e capì che fosse meglio posarla. Il bambino stava combinando chissà cosa vicino la finestra.
«… Davvero?» domandò, sorpreso.
«Perché me lo chiedi così? Sarei un bravo genitore» dopodiché Yumichika diede un colpo sulla testa a Ikkaku. «E tu la vuoi piantare di dormire? Sei impossibile!»
Ikkaku, ancora addormentato, si lamentò.
«E che diamine, delicato come un elefante in un negozio di cristalleria.»
Quella rappresentò un’offesa terribile per Yumichika, che si rifiutò di parlare ancora con suo marito. Renji pensò sono due pazzi e con un figlio sarebbero ancora peggio. Però sono due brave persone, se lo meritano.
Anche perché le cose cambiavano. Per lui e Byakuya erano cambiate tanto. Magari sarebbe accaduto ancora.
 
 
Oramai erano lontani i tempi in cui Masato e Yuichi si scambiavano qualche timido bacio sulle labbra, nascondendosi da tutto e tutti. Che ci fosse una simpatia e un affetto particolare tra i due oramai lo sapevano tutti. E d’altronde avevano oramai dodici anni e avevano approfondito la questione bacio: quelli che ora si scambiavano erano molto più lunghi, molto più profondi. Ed erano strani, in senso buono. A Yuichi e Masato capitava di accendersi quand’erano molto vicini. Si sentivano tesi e   desiderosi di abbracciarsi, stringersi, accarezzarsi, ma non osavano mai andare oltre il bacio, poiché tutte quelle sensazioni erano così straordinarie da non sapere come gestirle.
Yuichi adesso aveva i vetri degli occhiali appannati per i baci di Masato. Se ne stavano seduti sul letto e avrebbe tanto voluto chiedergli se anche lui stesse accadendo una certa cosa.
«Masato» piagnucolò con tono più acuto del solito.
«C-che ho fatto?» domandò, già in panico all’idea di far qualcosa di sbagliato. Yuichi però scosse la testa. Come si poteva dire ad alta voce qualcosa di così imbarazzante?
«Mi sento tanto strano» disse stringendo le gambe. «Tu dici che è normale?»
Masato arrossì.
«Non so, penso di sì. Se succede a me e a te, magari succede anche agli altri. Mi sento così… duro!» ammise e non avrebbe potuto trovare altro termine per descrivere ciò che stava sentendo. Yuichi avrebbe parlato volentieri ancora di quell’argomento, una volta che iniziava si rendeva conto che non era poi così imbarazzante. Ma ciò non era possibile se c’era Kaien in giro. Kaien infatti era appena entrato in camera, teneva in mano, vittorioso, il portatile di Ichigo.
«Se papà scopre che hai preso il suo portatile…» iniziò a dire Masato, ma Kaien lo interruppe.
«Non lo saprà. Venite qui, c’è una cosa che voglio vedere, me l’ha detta Hayato.»
Qualsiasi cosa Hayato avesse suggerito a Kaien, c’era poco da star tranquilli. Quei due insieme davano tanto l’aria di essere due teppisti, anche se non poi vero. Masato e Yuichi raggiunsero Kaien sul pavimento. Lo videro digitare qualcosa sulla tastiera.
«Che stai cercando?» chiese il gemello.
«Un porno» rispose lui. Yuichi arrossì così tanto che per un attimo temette che gli venisse la febbre. Sapeva cos’era un porno, ma non lo aveva mai visto.
«M-ma Kaien! Noi non possiamo vedere queste cose, siamo troppo… giovani» Masato tentò di dissuadere il gemello da fare una cosa del genere. In verità era solo molto imbarazzato, Kaien era sempre stato più aperto e tranquillo riguardo quegli argomenti.
«Ma che giovane! Lo fanno tutti e poi io voglio vedere com’è fatta una donna.»
Yuichi si voltò dall’altra parte. Non voleva essere complice di quel qualcosa che sembrava così proibito. Però era curioso allo stesso modo. Kaien si ritrovò sullo schermo una serie di video, e non sapendo bene da dove partire cliccò su un video a caso. Masato si portò le mani davanti al viso per l’imbarazzo: in quel video c’erano un uomo e una donna che facevano… non avrebbe nemmeno saputo dare un nome a quanto stava accadendo. Per non parlare poi dei gemiti.
«…Kaien, ti prego, toglilo» lo pregò. Parole al vento. Kaien sembrava molto interessato a osservare il corpo della donna bionda che veniva piegata in una perfetta posizione a novanta gradi.
«No, io voglio guardare. Quindi una ragazza nuda è così.»
«… Io in realtà sto più guardando l’uomo» ammise Yuichi.
«Ti ci metti anche tu, ora?!» esclamò Masato. Anche lui come funzionava il sesso, suo padre gliel’aveva spiegato. Era stato più evasivo su tutto il resto, masturbazione, porno e via dicendo. Anche perché lui non aveva mai fatto domande esplicite.
E in effetti fu Ichigo a salvarlo dall’imbarazzo. Proprio mentre stava per entrare per avvisare i figli che stava per andare al lavoro, Kaien chiuse immediatamente il portatile, nella speranza che suo padre non avesse sentito i gemiti.
«Kaien Kurosaki, chi ti ha dato il permesso di prendere il mio portatile? Guarda che non è per giocarci!» si lamentò. Suo figlio alzò le braccia in segno di resa.
«M-mi dispiace, non ho fatto niente di male!»
Ichigo non era molto convinto, in realtà. Ma ora non aveva tempo.
«Vado a lavoro. Ah, e ricordatevi che tra qualche giorno avremo ospiti, c’è da fare un po’ di ordine. Pulite questo casino.»
«Perché? Mica vengono a stare in camera nostra» fece notare Kaien. Ma Ichigo non volle sentire ragioni. Ci sarebbe passato su, ma Rukia gli aveva chiesto collaborazione. Sua moglie sembrava nervosa all’idea di ricevere Kukaku e Ganju, ed era anche vero che era passata una vita dall’ultima volta in cui si erano visti. Temeva tensioni e non sapeva nemmeno il perché.
 
A lavoro, di solito, parlare con Ishida lo rilassava. Oramai le loro conversazioni erano incentrare molto su Masato e Yuichi. Erano consapevoli del fatto che i due ragazzini fossero molto affezionati e non solo come amici. Inoltre passavano molto tempo insieme ed erano in un’età particolare.
«Hai parlato di sesso a tuo figlio?» domandò Ichigo addentando una mela. Quel giorno c’era una strana quiete al St. Luke. A Ishida andò di traverso l’aria.
«Emh… no, veramente no.»
«Io l’ho fatto. Ho spiegato loro come funziona. Però in effetti ho fatto l’esempio tra uomo e donna, avrei dovuto fare anche quello tra uomo e uomo. Il fatto è che io nel pratico non so come funziona. Mio figlio e tuo figlio si piacciono, lo sai come funziona a quell’età. Si iniziano ad avvertire i primi desideri. Potrebbero iniziare a toccarsi e tutto il resto. Sì, dovrei decisamente parlargli di nuovo…»
Non si era accorto dell’atteggiamento nervoso di Ishida. Non avrebbe avuto motivo di pensare che il suo amico fosse nervoso, Ishida non aveva mai avuto problemi a parlare di sesso.
«Beato tu che la vivi così. Io penso di essere apprensivo. Questa è un’età pericolosa. Può accadere di tutto.»
Ichigo avrebbe voluto chiedergli cosa fosse questo tutto a cui si riferiva, ma non lo fece perché intanto era arrivato Hanataro. Non era cambiato molto rispetto al ragazzino spaurito di primi tempi del tirocinio. Anche se ora mostrava più sicurezza, rimaneva timido e goffo.
«Buongiorno Kurosaki e Ishida! Di cosa parlate?»
«Di sesso» rispose tranquillamente Ichigo. «O per meglio dire, come spiegare il sesso agli adolescenti. Tu cosa ne pensi?»
Hanataro a quel punto divenne la degna compagnia di Ishida. Non tanto per il nervosismo, ma per l’imbarazzo. Lui della sua vita sessuale non parlava perché era inesistente. Aveva quasi ventotto anni ed era vergine e il solo pensiero di rivelarlo lo faceva morire di vergogna.
«Io… io veramente non saprei» ammise Hanataro.
La conversazione non andò avanti a lungo. Era appena arrivato uno dei nuovi tirocinanti e Hanataro era eccitato all’idea di diventare il senpai di qualcuno, anche se temeva comunque di non essere preso sul serio o di non essere abbastanza bravo. Kurotsuchi presentò loro un ragazzo dal taglio di capelli strano, con una linea diagonale in mezzo ai capelli. E poi, chissà per quale strano motivo, portava le sopracciglia rasate.
«Kurosaki, Ishida e Yamada, lui è Akon Higarashi. Oggi comincia il suo tirocinio. Akon, quando non sono io al comando, lascio tutto in mano loro, perché mi fido. Andate d’accordo e non fate i bambini, intesi?»
Kurotsuchi era stato come al solito diretto e non aveva perso tempo. Non era stato quello a stupire Hanataro, quanto più… si era rivolto al nuovo arrivato chiamandolo direttamente per nome e con un tono più confidenziale del solito. Come se si conoscessero già. Scosse dalla testa quel pensiero e fece un inchino.
«S-sono Yamada Hanataro, piacere di conoscerti!»
Ichigo rise.
«Guarda che non sei tu il tirocinante, stai calmo. Benvenuto nel team, Akon. Quanti anni hai, se posso chiedere?»
«Grazie per l’accoglienza. E ne ho ventiquattro» rispose il nuovo arrivato, l’espressione seria e quasi impassibile. Hanataro sgranò gli occhi. Ovviamente era più giovane di lui, eppure era lui stesso a sembrare il più giovane del gruppo.
«B-beh, impegniamoci tutti insieme, allora!» esclamò Hanataro, ora concitato, ora nervoso. Aveva una brutta sensazione al riguardo, ma l’avrebbe tenuta per sé perché non sarebbe stato il peso di nessuno.
 
Miyo si sentiva depressa quando ascoltava le sue amiche parlare, anche se dipendeva molto dall’argomento. Di solito Rin, Yami e Naoko parlavano moltissimo di ragazzi.
Naoko aveva una cotta per Satoshi, e questo non era un segreto tranne che per il diretto interessato. Rin non voleva ammettere di avere una cotta per Hayato, lo stesso che un tempo gli avevano imposto, ma che ora non era più un bambino, ma un tredicenne silenzioso, un po’ bello e dannato. Yami aveva molti spasimanti. Ai e Kiyoko, più timide, di solito non parlavano di ciò, ma anche loro avevano qualcuno nel loro cuore. Lei non aveva nessuno perché in realtà non le interessavano i ragazzi, ma nemmeno le ragazze. E d’altronde dubitava che qualcuno l’avrebbe guardata, perché era piccola e magra come un fuscello, senza uno straccio di forma. Non portava nemmeno un reggiseno. Ed era la più grande.
In camera di Kiyoko c’era una gran confusione. Naoko e Yami guardavano video di make-up, Rin si guardava allo specchio.
«Secondo voi sto ingrassando?» domandò. Ai inarcò un sopracciglio.
«Affatto, stai benissimo.»
Rin però non sembrava convinta.
«Ma prima ero più magra. Adesso… sembra che io stia lievitando. Dappertutto.»
Ai non capiva se stessero vedendo la stessa immagine riflessa nello specchio. Però la capiva. Lei ad esempio, guardandosi, non capiva se fosse bella o meno. Negli ultimi tre anni non c’erano stati cambiamenti importanti nel suo viso, che di fatto rimane sempre lo stesso, ma un po’ meno da bambina, un po’ più da ragazza. Eppure non era né l’uno nell’altro.
«Io non capisco se sono carina, invece» ammise, scostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «E di certo voi non potete essere oggettive.»
Naoko fece loro segno di tacere.
«Siete tutte bellissime. Comunque venite qui un attimo, devo farvi vedere una cosa.»
Kiyoko s’impanicò. Il suo tono non le piaceva. E poi erano in camera sua, non voleva finire nei guai.
«Nao…» la chiamò in ansia. La sua migliore amica aveva assunto un’espressione divertita e poi abbassò lo sguardo.
«Avete mai visto un porno? Venite, guardate» bisbigliò. A quel punto pure Miyo s’incuriosì. Lei non ne aveva mai visti, ma era certa che Hayato li vedesse eccome. Lui non gliel’aveva detto, ma era una sua impressione. E nessuno delle sue amiche si era mai approcciata, eccetto Yami e Naoko
«Nao, ti prego. Pensa se entrasse mia madre!» Kiyoko congiunse le mani.
«Glielo spiegherò io, in caso. Adesso abbassa la voce e guarda.»
Yami spiegò che esistevano diverse categorie di porno, ma poiché nessuno aveva voglia di incappare in video troppo particolari, optarono per qualcosa di più classico. Kiyoko si era imposta di non guardare, ma alla fine la curiosità aveva vinto. Ora si ritrovavano tutte attorno al portatile, le espressioni confuse e stupite. A parte Ai, lei guardava tutto con un certo occhio scientifico e analitico.
«Ah, quindi è così che è il pene di un uomo»
Rin le diede una gomitata.
«Non dire così, è imbarazzante!»
Kiyoko si portò le mani davanti al viso, pareva quasi terrorizzata.
«Ma è così grosso! Come fa ad entrare? Farà malissimo.»
Miyo abbassò lo sguardo e per un attimo ebbe il sacro terrore che non sarebbe mai cresciuta. Che sarebbe successo se fosse rimasta così piccola? Come avrebbe potuto avere un rapporto sessuale? Si sarebbe spezzata in due.
«Ma che dici!» disse Naoko. «Mia madre mi ha detto che non fa malissimo, poi dipende, ogni persona è diversa. E poi sono sicura che i nostri coetanei non l’hanno così. Però non saprei, non ne ho mai visto uno vero.»
«Io sì» disse Yami e lo disse con una naturalezza tale che scioccò le sue amiche.
«Tu sì?» chiese Miyo. Lei fece spallucce.
«Sì, uno del terzo anno. Una volta ci stavamo baciando e voleva che glielo toccassi, così l’ho fatto. Ma non è un granché, sembrava di stringere una salsiccia.»
Naoko rise, ma Miyo e nemmeno Kiyoko ci trovarono niente da ridere.
«Ma quelli del terzo anno sono grandi per noi. Il prossimo anno vanno al liceo!» si agitò Kiyoko. Yami però non si creava alcun problema, era sempre piaciuta ai ragazzi più grandi e a lei piacevano loro. Ma nessun fidanzato, non aveva voglia.
Orihime entrò giusto per dare una controllata, le ragazze schiamazzavano troppo.
«Ragazze, tutto bene?»
Naoko richiuse subito il portatile, sorridendo.
«C-certo, zia Hime. Va tutto meravigliosamente bene. Noi guardavamo video sul make-up, infatti ora trucco Kiyoko.»
«Io?!» esclamò. Ma perché veniva sempre messa in mezzo?
Orihime sorrise, intenerita.
«Kiyoko, se vuoi imparare a truccarti puoi chiedere a tuo padre, lui è bravo.»
«B-bella idea, zia Hime. Vallo a chiamare» s’intromise Naoko. In realtà voleva solo che uscisse, perché era arrivata in un momento imbarazzante.
Orihime, per fortuna, non aveva capito nulla. Non immaginava che sua figlia e le sue amiche si stessero approcciando al porno. Con un sospiro raggiunse suo marito. Ulquiorra si stava prendendo una pausa dopo una mattina a dipingere: una nuova mostra era all’orizzonte.
«Ulqui, è arrivato il momento. Devi insegnare a Kiyoko e alle sue amiche a truccarsi, tu sei bravissimo, hai insegnato pure a me.»
Ulquiorra assunse un’espressione sofferente.
«Devo proprio? Gli adolescenti un po’ mi spaventano.»
«Hai ragione, ma entrambi i nostri figli lo sono, non credo che abbiamo molta scelta.»
Ulquiorra divenne pensieroso. Di solito non parlava, se aveva qualche pensiero che lo tormentava cercava di razionalizzarlo, se aveva una paura attendeva che passasse. Tutta un’altra storia era quando paure e ansie riguardavano la sua famiglia.
«A proposito di adolescenti. Pensavo… secondo te dovrei passare più tempo con Satoshi?»
Gliel’aveva domandato sperando di non impensierirla. Ma Orihime lo comprese senza che lui dicesse nulla. Per Ulquiorra avvicinarsi a Satoshi non era facile come aveva creduto. Condividevano entrambi un animo timido e sensibile, ma proprio per questo non riuscivano ad approfondire il loro legame. Era inevitabile che le cose fossero diverse rispetto a com’erano state con Kiyoko.
Kiyoko la conosceva sin da bambina, l’aveva vista cambiare, evolversi, sviluppare una certa personalità. Satoshi era arrivato con già una storia travagliata alle spalle che lo aveva reso diffidente.
«Oh. Io penso che tu sia fantastico con lui» disse Orihime, sincera. Suo marito fece spallucce.
«Tu sei quella fantastica. Ti adora, ti ha adorato sin dal primo istante. Magari io non gli piaccio. Magari lo terrorizzo. Ha senso se penso a quello che ha passato»
E poi si fermò. La violenza scavava ferite profonde che spesso non si rimarginavano nemmeno cresciute. Lui lo sapeva bene, anche se il contesto era diverso rispetto a quello di Satoshi. Orihime gli strinse una mano e gli sorrise.
«Se vuoi gli parlo io. Non avere dubbi. Dovete solo trovarvi, costruire i rapporti è complicato.»
Ma erano passati tre anni, si ritrovò a pensare Ulquiorra. Tra non molto lo avrebbero adatto ufficialmente. E lui gli aveva voluto bene sin da subito, con naturalezza. Per Satoshi era lo stesso?
Si alzò all’improvviso.
«Beh, vado dalle ragazze. Se non torno entro mezz’ora, vienimi a cercare» disse in un tono così lugubre che Orihime rise. Vero, Ulquiorra poteva sembrare spaventoso quando ci si approcciava la prima volta, ma era solo apparenza.
 
Hikaru invidiava Yami perché passava molto tempo con Ai.
Anche lui e Ai passavano molto tempo insieme, ma da quando avevano iniziato le scuole medie, le cose erano cambiate. Ciò lo rendeva triste, era tutto diverso rispetto a quando andavano all’elementari. A volte temeva che lui e Ai si sarebbero persi man mano che crescevano, questo non avrebbe potuto accettarlo, perché ne era innamorato dall’età di otto anni (e forse anche da prima) e le cose erano peggiorate.
Ai era cambiata. Era diventata un pochino più alta, su un lato della testa, alcune ciocche di capelli erano intrecciate e fissate con delle forcine, era come se portasse una corona a metà. Lui ci faceva caso a certi dettagli. E poi il suo petto si era gonfiato, anche a questo aveva fatto caso e, quando capitava che a volte lei lo abbracciasse, avvertiva tutto. Da bambina gli aveva detto che lo avrebbe sposato. Avrebbe voluto sapere se lo pensasse ancora, se gli piacesse ancora o se le sue fossero state solo fantasie di bambina. E lui, d’altronde, timido com’era, sempre con la testa sui fumetti o a fare il nerd come diceva Yami, non sapeva come uscirne fuori.
Una cosa però era certa: per lui non esisteva nient’altro. Desiderava abbracciarla, magari anche dargli qualche bacio, ma non osava formulare certi pensieri ad alta voce. Li reprimeva, gli scorrevano nel sangue fino in mezzo alle gambe, facendolo sentire teso. E allora avvertiva la sensazione assurda di toccarsi con una mano, di donarsi lievi carezze. Aveva cominciato timidamente, man mano prendendo più confidenza con il proprio corpo. Alle volte chiudeva gli occhi e si lasciava andare del tutto.
«Hikaru! Non hai sentito che è pronto in tavola?»
Kisuke Urahara nella maniera più assoluta non era discreto. E sebbene uno come lui non si scioccasse mai per nulla, quando vide suo figlio con una mano infilata nei pantaloni, rimase qualche attimo fermo, immobile come uno stupido.
Hikaru scostò subito la mano. Aveva sempre avuto il terrore di venire beccato e proprio per una volta che abbassava la guardia, ecco che suo padre entrava!
«ESCI!» esclamò Hikaru, rosso di vergogna. Kisuke per poco non pestò la goda del gatto, che gli soffiò contro.
«S-scusa, mi dispiace. Forse dovrei iniziare a bussare. Ma tranquillo, figliolo. La masturbazione è naturale, non c’è niente di cui vergognarsi!»
Kisuke si ostinava ancora a stare lì, mentre Hikaru voleva solo che non lo guardasse e non parlasse come se stesse conversando del tempo.
«Lo so che è naturale! Ma non volevo che m vedessi. Ti prego, non dirlo a mamma. Anzi, non dirlo a nessuno e basta!»
«Figurati» Kisuke si stupì di essere in imbarazzo. In imbarazzo lui, che era la persona con la mente più aperta al mondo, che a livello sessuale aveva sperimentato eccome. Ma con suo figlio di mezzo la questione cambiava. «È meglio se ti chiudi a chiave, la prossima volta. Se entrassero tua sorella o tua madre...»
«Non dirlo nemmeno per scherzo. Adesso vengo» sospirò, alzandosi.
Hikaru e Yami più crescevano e più divenivano diversi l’uno dall’altro. Davano entrambi molto da pensare, sia a lui che a Yoruichi.
«Hikaru, lo sai che per qualsiasi cosa, puoi parlare con me, vero?»
Suo figlio gli sorrise, anche se ancora in imbarazzo. Timido per com’era, dubitava che sarebbe riuscito a parlare con qualcuno, anche con suo padre.
«Ma certo, lo so» gli rispose, concludendo il discorso.
 
Quando erano seduti tutti a tavola, parlavano soprattutto Yoruichi e Kisuke.
Hikaru se ne stava silenzioso a pensare ai fatti propri, rispondeva solo se gli veniva posta qualche domanda. Anche Yami sembrava distratta, teneva il cellulare sotto il tavolo. E a Yoruichi tale atteggiamento non piaceva affatto.
«Yami, almeno quando mangi potresti mettere da parte il cellulare. E poi hai visto le tue amiche oggi pomeriggio, quanto parlate?»
Yoruichi si rendeva conto di essere dura. Lei stessa era stata una ragazzina ribelle alla sua età, praticamente indomita. Era terrorizzata all’idea che Yami fosse come lei e non sapeva come approcciarsi nel modo giusto. Sua figlia assottigliò lo sguardo.
«Sai, io ho anche amici che non conosci. E non solo» la provocò. Hikaru si agitò sulla sedia. Kisuke smise di mangiare, era pronto a scattare nel caso in cui scoppiasse la bomba. Yoruichi poggiò i gomiti sul tavolo guardando la figlia.
«Intendi che frequenti anche dei ragazzi, vuoi dire questo? Yami, tu sei ancora troppo giovane.»
«Pff, ma se ho già dato il mio primo bacio» rispose lei strafottente. Yami era così, parlava senza filtri. Kisuek si affogò con l’aria stessa.
«Questo è… questo… Il primo bacio?» domandò, confuso. Forse avrebbe preferito non sapere. Ma doveva farsene una ragione: Yoruichi e Yami erano uguali, impossibili fa fermare e questo lo terrorizzava. Yoruichi divenne rigida. Ebbene, cosa avrebbe dovuto dirle, adesso? Rimproverarla sarebbe stato inutile, non è che lei alla sua età fosse diversa. Incoraggiarla sarebbe stato troppo. E dire che aveva a che fare con gli adolescenti ogni giorno. Ma Yami aveva dodici anni, anche se sembrava grande, era ancora così piccola. Ai suoi occhi soprattutto.
Qualcuno bussò alla porta e ciò rappresentò una sorta di salvezza.
«Chi è a quest’ora?» domandò Kisuke. Yoruichi si lasciò andare ad un sospiro.
«Vado io» disse, alzandosi alla svelta. Qualsiasi cosa fosse, sperava che la distraesse. E in effetti la sua speranza fu esaudita. Sulla sua porta c’era Soi Fon: valigia alla mano, il viso imbronciato e un po’ in imbarazzo.
«Ciao, Yoruichi. Scusa l’improvvisata. Non è che posso entrare un momento?»
Era almeno due mesi che Yoruichi non vedeva Soi Fon, quest’ultima era impegnata spesso con l’università e lo studio. Per questo ritrovarsela ora nel suo salotto le sembrava strano (anche perché era la prima volta che Soi Fon veniva a casa sua).
Hikaru la fissava un po’ intimidito, Yami la studiava. Kisuke invece era amichevole come al solito. Nonostante i trascorsi, gli stava simpatica quella ragazza seria e che si agitava facilmente.
«È tutto a posto?» domandò Yoruichi. Il fatto che avesse una valigia, le dava da pensare. Soi Fon arrossì e prese a torturarsi le dita.
«Beh… non proprio. Ho lasciato l’università e ho litigato con i miei e ora non ho un posto dove stare.»
Yami si mise a ridere.
«Fortissimo!» esclamò, la l’occhiataccia di sua madre la zittì subito. Che storia era mai quella? Soi Fon era forza impazzita?
«Non capisco, spiegati meglio» disse Yoruichi.
«È che non è come pensavo» disse subito Soi Fon, come se si fosse tenuta quelle parole dentro per troppo tempo. «Non mi sento molto stimolata. Non so, è come se non fosse la strada giusta per me. Quello che vorrei in questo momento è scrivere un romanzo, concentrarmi su quello. E sì, lo so che vivere di questo lavoro è difficile, ma se non faccio un primo tentativo, temo che rimarrò bloccata in questo limbo insoddisfacente!»
Yoruichi l’aveva ascoltata senza interromperla. Era sicura che Soi Fon dovesse averci pensato parecchio, eppure a lei non aveva mai detto nulla. Strano, visto che oramai potevano considerarsi amiche. Kisuke parlò prima che potesse farlo lei.
«Direi che il coraggio di questa ragazza è ammirevole. In pochi mollerebbero tutto per dedicarsi alla propria passione. Io sono d’accordo, molto brava, Soi Fon!»
«Kisuke!» esclamò sua moglie, guardando poi la ragazza. «E questa storia che hai litigato con i tuoi genitori?»
Soi Fon era arrossita sia per la reazione di Kisuke che per la sua domanda.
«Loro non sono d’accordo. Non mi sostengono, così abbiamo litigato pesantemente e io di certo a casa non ci torno. Mi dispiace, è che non sapevo dove andare.»
A quel punto era piuttosto chiaro dove il discorso sarebbe andato a parare.
«Quindi mi chiedevo… posso rimanere qui per un po’?»

Nota dell'autrice
In questo capitolo ho voluto raccontare un po' dei personaggi secondari, come Ikkaku e Yumichika e Unohana e Zaraki (che sono finiti insieme con tanto di prole nel frattempo). Invece i ragazzi, maschi e femmine, si approcciano al porno e hanno tutti reazioni diverse e a cosa porta loro anche a diverse domande. Per chi se lo stesse chiedendo, per me è Ulquiorra quello della coppia che se ne intende di make-up :D Al st. Luke le cose rimangono sempre uguali, Hanataro sempre più sclerato e la cosa può solo peggiorare. E infine arriva una bomba a casa Urahara, Soi Fon chiede ospitalità per un po'. Visti i precedenti, potrebbe nascere qualche situazione strana. O forse no. Occhio al povero Hikaru perché avrà da penare e non mi riferisco solo a Kisuke che lo betta a trastullarsi, mi riferisco proprio ai problemi d'amore.
Al prossimo capitolo :*

Nao

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Capitolo quattro
 
«Non capisco perché tutte queste storie.»
Kaien aveva provato in tutti i modi a sistemare la sua chioma ribelle, ma senza successo. Ora i capelli arancioni risultavano disordinati, come se avesse preso la scossa.
«Non lo chiedere a me, tua madre vuole che siamo in ordine e così deve essere. Siate educati con Kukaku e Ganju» raccomandò Ichigo ai suoi figli, ma a Kaien in particolare. Le sue sarebbero state parole sprecate, ne era sicuro, e non tanto perché erano i gemelli a preoccuparlo. Non mancavano Karin e Chad, un sofferente e annoiato Kohei, Yuzu e Isshin. Rukia sembrava svanita nel nulla all’improvviso. Yuzu era stata la prima ad accorgersene e a cercarla. Non poteva saperlo (e d’altronde nessuno poteva saperlo), ma si era chiusa in bagno nel tentativo di non farsi venire un attacco di panico. Aveva avuto giorni per prepararsi mentalmente a quell’incontro, si diceva che nulla di male poteva accadere. Ed era così, Rukia lo sapeva. Non era quello che temeva. Temeva il dolore del ricordo. Temeva che il vaso di Pandora venisse scoperchiato e allora cosa ne sarebbe stato di lei, del dolore che per quasi vent’anni era riuscita a ignorare, conservandolo in un angolo remoto del suo cuore?
Si sciacquò il viso e guardò il suo riflesso allo specchio: si poteva dire di essere completamente andata avanti, sebbene non avesse mai affrontato certe cose?
Ma certo, lei era andata avanti. Adesso era solo impanicata.
Sentì una certa confusione e capì che i suoi ospiti dovevano essere arrivati. Così sospirò profondamente e si guardò un’altra volta. Il passato non aveva influenza sul suo presente. Quella fu solo l’ennesima bugia, che si ripeteva come un mantra.
Kukaku e Ganju non sarebbero potuti essere più diversi nonostante fossero fratelli. Kukaku era bella, sexy e forte. Una di quelle che sapeva farsi rispettare a priori. Ganju era basso, sgraziato, massiccio. Lui non aveva il carisma della sorella e, soprattutto, litigava spesso con Ichigo. In continuazione, si stuzzicavano per qualsiasi cosa. Anche ora che erano passati anni dall’ultima volta in cui si erano visti, Ichigo gli sorrise.
«Ganju, quanto tempo. Hai un aspetto orribile.»
«CHE COSA? Ma ti sembrano cose da dire dopo tutto questo tempo?! Non cambi mai, Ichigo. Nemmeno tu sei un gran-»
Kukaku lo colpì sulla testa.
«Non cominciare, siamo appena arrivati.»
Dopodiché salutò tutti, zio Isshin fu molto felice di vederli, Yuzu cominciò subito a chiacchierare com’è andato il viaggio, sarete stanchi, avete fame?
Kohei sbadigliò, Masato e Kaien se ne stavano in piedi aspettando che qualcuno si degnasse loro di dare attenzioni. Fu Kukaku stessa a osservarli, uno ad uno. In particolare si soffermò sui gemelli.
«Non ci posso credere. Siete proprio voi? Ma quanto siete cresciuti?»
«Troppo a dire il vero» disse Ichigo. «Lui è Kohei e loro sono Masato e Kaien» poggiò le mani sulle teste dei suoi figli come per distinguerli, anche se in realtà non c’era alcun bisogno. Masato e Kaien avevano lo stesso viso, ma occhi e capelli di colore diverso, perciò era abbastanza facile capire chi fosse chi. Kukaku sorrise e sembrò studiarli, rimirarli.
«Masato… e Kaien» sussurrò, concentrandosi in particolar modo su quest’ultimo. «Tu sei Kaien,»
Il diretto interessato arrossì. Non capì il perché di quel suo tono all’improvviso così serio, né perché tutte quelle attenzioni su di lui.
«Emh, sì. Sono io.»
Ganju chiamò sua sorella, come a volerla risvegliare da quella sorta di trance in cui era caduta. La serietà e l’apparente malinconia di Kukaku durò solo un attimo.
«Sì, beh. Piuttosto dove si nasconde Rukia?»
Rukia era appena uscita dal bagno. Fissava i suoi ospiti un po’ intimidita, sembrava quasi una bambina.
«Sono qui» mormorò. Tutti la guardarono e ciò portò Rukia ad arrossire. Kukaku la fissò per qualche istante, poi si avvicinò a grandi falcate. Le prese il viso tra le mani come fosse una bambina.
«Sei rimasta sempre la stessa» disse affettuosamente. Poi la soffocò in un abbraccio tale che Rukia si ritrovò col viso schiacciato sul suo seno. Già, nemmeno Kukaku cambiava mai.
E, come primo impatto, non era poi andato così male come pensava. Kukaku e Ganju avevano portato ai tre ragazzini dei regali molto apprezzati, dopodiché Kukaku iniziò a chiacchierare molto con Karin e soprattutto con Yuzu. Sebbene fossero diverse caratterialmente, condividevano la passione per i viaggi e gli uomini. Ganju invece parlava con Ichigo.
«Quindi sei diventato una persona importante?» gli domandò, giusto per provocarlo. E ci riuscì piuttosto bene.
«Io sono una persona importante a priori! E tu invece? Ti diverti ancora a fare il delinquente da quattro soldi? Sei grande oramai per questo.»
«Come osi infangare il nobile nome degli Shiba dandomi del delinquente da quattro soldi?»
«Non infangavo il nome degli Shiba, ma solo il tuo.»
C’era un gran chiasso, ma Rukai appariva silenziosa. Era gentile, si mostrava allegra quando qualcuno le diceva qualcosa, ma poi la sua espressione mutava. Sperava che nessuno se ne accorgesse, che Ichigo non se ne accorgesse, perché in caso non avrebbe saputo come spiegare o come mentire. Invece, Kukaku se n’era accorta, anzi, si era accorta che qualcosa non andava nel momento in cui era arrivata.
Verso fine serata, dopo essersi fumata una sigaretta mentre parlava con zio Isshin, decise di aiutare Rukia. Quest’ultima se ne stava in cucina a rimettere a posto i piatti puliti e già più di una volta aveva rischiato di farne cadere qualcuno.
«Aspetta, ti aiuto» le disse Kukaku. Rukia si ritrovò un po’ colta alla sprovvista.
«Non è necessario, tu sei un’ospite…»
«Figurati, non è da me starmene senza far nulla» Kukaku prese una pila di piatti e l’aiutò a sistemare. E poiché era calato uno spiacevole silenzio, decise di dire qualcosa. «Kaien e Masato sono due ragazzini fantastici. Anche se si vede che sono molto diversi. Masato somiglia più a te. Kaien è una testa calda come Ichigo, vero?»
Rukia sospirò, felice che l’argomento riguardasse i figli.
«Proprio così. Kaien a volte mi da un po’ da pensare. Ma è un bravo bambino.»
Kukaku annuì.
«Mi è sempre piaciuto il fatto che tu abbia deciso di chiamarlo così.»
Rukia si bloccò di colpo con un bicchiere in mano. Stava dando le spalle a Kukaku e non aveva il coraggio di guardarla. Lei le aveva sempre dato l’impressione di non sapere, ma di percepire quello che era un segreto solo suo. E questo la terrorizzava.
«A me e a Ichigo piaceva come nome» sussurrò. Non vedeva come Kukaku la guardava, come se avesse voluto trapassarla, vedere cosa aveva dentro. Ma non voleva esagerare. Dopotutto era appena arrivata.
«Già. Comunque non ti preoccupare, non staremo qui per molto. Dobbiamo solo fare qualche lavoro di restauro alla nostra casa, intanto però possiamo andare in un hotel, i soldi non sono un problema…»
«Ma no, non mi sembra giusto…» fece per dire Rukia. Kukaku però le batté una mano su una spalla, sorridente come sempre.
«Figurati, nessun problema. E poi chi ce la fa a sopportare Ganju e Ichigo che litigano ogni istante?»
Rukia si rasserenò. Perché fu certa che Kukaku non voleva togliersi alcun dubbio (almeno per il momento), che non le avrebbe posto domande scomode, costringendola ad affrontare il passato. Ma era solo questione di tempo prima che ciò accadesse.
 
Poco contasse che la sera prima Ichigo si fosse intrattenuto assieme ai suoi familiari a bere e a parlare più del dovuto, il suo turno quella mattina era iniziato piuttosto presto. Ciò che aveva trovato una volta varcate le soglie del St. Luke erano stati in ordine: Unohana che passava a salutare tutti, Urahara che lo salutava allegramente, Ishida imbronciato (nemmeno lui sembrava aver riposato troppo bene) e infine Akon che seguiva Hanataro com’era giusto che un kohai facesse con il proprio senpai. La cosa strana era che Hanataro non sembrava troppo felice, lui che era stato impaziente all’idea di diventare la guida di qualcuno. Poiché tutto era abbastanza tranquillo, si avvicinò a Ishida e lo salutò, ascoltando la conversazione tra il primario e la ginecologa.
«… E così io e Yoruichi ospitiamo una sua ex alunna. Non potevamo certo cacciarla via, non ha un posto dove stare. Però è solo una cosa temporanea. Certo, è tutto un po’strano considerando i nostri trascorsi, ma dopotutto è il passato. E lei, dottoressa Unohana? Come va con la convivenza e il bambino?»
«Molto bene, grazie. Io e Kenpachi andiamo molto d’accordo. Tenshi è un bravo bambino, ma è un po’ una testa calda. E ha solo due anni. Temo abbia preso questo atteggiamento da suo padre.»
A Ichigo venne da ridere e si rivolse a Ishida.
«Solo Unohana può avere pazienza con Zaraki e la sua fotocopia in miniatura. Ma tu come stai?» domandò, accorgendosi che Ishida era un po’ assente. Lui scosse la testa.
«Non ho dormito granché stanotte» ammise.
«Ah. Non mi dire che Yoshiko ha avuto di nuovo la febbre?»
«Lei sta bene. Sarò solo stressato» disse tagliando corto. A Ichigo parve un po’ strano, perché Ishida non si stressava mai, però un periodo no poteva capitare a tutti.
Kurotsuchi, quando arrivò, li squadrò uno ad uno.
«Sempre a fare gossip, voi» disse sprezzante. Unohana lo irritava spesso e volentieri con quei suoi modi gentili a tutti i costi.
«Buongiorno anche a lei, dottore. Sua moglie non c’è? Mi sarebbe piaciuto salutarla.»
«Il suo turno inizia fra un’ora. Yamada e Higarashi, voi due subito qui, tra poco mi servite» alzò la voce, rivolgendosi ad Hanataro e Akon, un po’ più lontani. Lui voleva lavorare, non stare lì a sentire le chiacchiere di Unohana e Urahara, che erano diventati peggio di due comari.
«Sapete che al St. Luke è stata trasferita una nuova neurologa? A quanto pare è anche abbastanza famosa. Credo sia arrivata stamattina» disse Unohana.
Ichigo s’interessò all’improvviso. La maggior parte delle donne lì andavano tutte a ginecologia o in pediatria. Anche in chirurgia non c’erano molte, quindi per lui su sorprendente.
«Davvero? E come si chiama?»
Unohana ci pensò un attimo.
«Mi pare si chiami… sì. Senjumaru Shutara. A quanto pare è conosciuta soprattutto all’estero, ha lavorato molto in Sud Corea, anche se è originaria di qui.»
Urahara fece per aggiungere qualcosa, ma le sue attenzioni furono tutte catturate dall’espressione di Mayuri. Un misto di sorpresa, disagio e disperazione.
«Unohana, spero per te che tu mi stia prendendo in giro.»
La donna non capì a cosa si stesse riferendo.
«No, a dire il vero no. Ma perché? Vi conoscete, voi?»
Mayuri non aveva intenzione di parlarne. E in realtà non l’avrebbe fatto mai, ma aveva capito che il suo destino era oramai segnato nel momento in cui aveva sentito il suo nome. Senjumaru Shutara non ci impiegò molto a trovarlo. E anzi, quando arrivò nel suo reparto, monopolizzò l’attenzione di tutti. Elegante, alta, perfettamente truccata, avanzava a passo sicuro.
«Che qualcuno mi pianti un coltello nel cuore adesso» sibilò Mayuri. Urahara s’interessò molto alla faccenda.
«Mayuri Kurotsuchi» disse Senjumaru, seria. «Ma tu pensa, saranno vent’anni quasi che non ci vediamo. Devo dire che sei invecchiato nel frattempo.»
Ichigo e Ishida non poterono credere alle loro orecchie. Chi era mai quella donna che osava rivolgersi a lui in quel modo così confidenziale?
«Senjumaru» lui la chiamò a denti stretti. «Devo dire che nemmeno con te il tempo è stato clemente. Sei la stessa megera di vent’anni fa.»
Forse il più sorpreso era proprio Urahara. L’atmosfera era diventata strana e lui non sapeva se essere divertito o spaventato. Quindi era lei la famosa neurologa. Una donna bellissima, affascinante e di sicuro coraggiosa. Senjumaru sorrise, ma solo con le labbra.
«So che sei il Capo chirurgo, ma che bravo» lo lodò, come se fosse un bambino. «E i tuoi colleghi lo sanno che chirurgia era solo la tua seconda scelta?» dicendo ciò si rivolse a Ichigo direttamente, come se lo conoscesse. «Mirava a tutt’altro. A diventare una sorta di ricercatore, delizioso, non trovi?»
Ichigo distolse lo sguardo, a disagio. Mayuri si sentì in difficoltà, ma non mollò.
«Sei pregata di non molestare i miei sottoposti. Ad ogni modo io adesso avrei da fare, perché al contrario tuo sono molto occupato a salvare vite, la maggior parte delle volte.»
Senjumaru sollevò il sopracciglio. Poi incrociò le braccia sotto al seno.
«Capisco. Mi hanno detto che ti sei sposato e che tua moglie fa l’infermiera qui. Sai, non vedo proprio l’ora di conoscerla.»
Mayuri non rispose. Rimase a fissarla, aspettò che si decidesse ad andarsene. Quando lo fece, fu come assistere alla fine di un brevissimo film molto intenso.
«Che cosa è appena successo?» domandò Urahara. Ishida batté le palpebre.
«Quindi quella è Shutara?» guardò poi Mayuri. «Vi conoscete davvero.»
Quella donna era la rappresentazione del male. Ora lo aveva messo nelle condizioni di non poterlo più nascondere.
«È solo la mia ex» disse, come se stesse parlando di una cosa qualsiasi. E poi ci fu un coro di voci che esclamò la tua ex?!
Ci mancava solo il loro tono sorpreso per concludere l’opera.
«Tsk, non è importante e non è il luogo adatto per parlare. Yamada e Higarashi, venite subito o passerete dei guai molto seri!»
Urahara, palesemente a disagio, decise di tornare anche lui a lavoro. Ichigo e Ishida furono ben attenti a non dire nulla che potesse far innervosire Kurotsuchi, perché con le ex non c’era mai da scherzare.
L’unica divertita sembrava proprio Unohana.
 
 
Naoko amava l’ora di ginnastica. Satoshi amava senza ombra di dubbio guardarla, anche se in modo discreto perché immaginava che non fosse piacevole essere fissati. Naoko comunque non era mai a disagio, anzi. Se si accorgeva di essere guardata da lui, lo salutava tutta contenta. Era Satoshi ad arrossire e a distogliere lo sguardo.
«Come faccio a dire ad una ragazza che mi piace?» sussurrò. Naoko era la migliore amica di sua sorella. Capitava spesso che passassero del tempo insieme e Nao era tanto dolce e affettuosa con lui, come lo era però con chiunque. Lui mirava ad essere un po’ più di un semplice amico. Hikaru, che odiava l’ora di ginnastica, alzò lo sguardo dal suo fumetto per guardare davanti a sé. Naoko stava facendo stretching mentre parlava con Rin e Ai.
«Non chiederlo a me.»
«Oh, ma per te è più facile. Tu e Ai vi conoscete da anni. Non mi hai detto che una volta ha detto di volerti sposare?» insistette Satoshi. Quello per Hikaru era come mettere il dito nella piaga. Erano bambini ai tempi. Adesso erano un po’ più grandi e le cose cambiavano. Lui e Ai eran sempre grandi amici, ma non era più certo che lui le piacesse. Perché lei invece gli piaceva molto.
«È stato tanto tempo fa» tagliò corto. «Perché non chiedi a Kiyoko di aiutarti?»
«… Perché mi imbarazza, ecco perché. Non lo so, a me non piaceva nessuno, prima di incontrare lei. Ma lei è tanto bella. Mi sento un cretino!» esclamò schiaffandosi una mano sul viso. Hikaru avrebbe voluto dirgli che anche lui si sentiva un cretino, ma fu piuttosto catturato da Yami. Sua sorella attirava l’attenzione e amava attirarla. Anche lui guardava le ragazze, chiaro. Ma quella era sua sorella, era imbarazzante.
«Yami. Smettila, mi metti in imbarazzo!» esclamò infatti. L’accusava sempre di essere un po’ un’oca starnazzante, lei che salutava tutti e faceva la carina con tutti. Yami puntualmente gli dava un pugno per zittirlo.
Naoko intanto aveva tirato Kyoko per un braccio.
«Vieni, facciamo una corsa intorno al campo» la incitò, ma Kiyoko non ci pensava nemmeno. Era piuttosto fastidioso correre quando il proprio seno non stava fermo al suo posto. E non voleva essere guardata. Anche se da Kaien si sarebbe fatta guardare volentieri, ma come al solito lui era sparito.
Rin sembrava dimostrare un disagio simile.
«Questa tuta è troppo stretta. Insomma, guarda questi pantaloncini. Mi stringono le cosce e mi fanno sembrare un cotechino.»
Ai la osservò, portandosi una mano sotto al mento.
«Ma va. Secondo me stai bene. Sei carina, siete tutte carine.»
Rin avrebbe voluto crederle, ma quel giorno si sentiva a disagio. Era stata una bambina sicura di sé. Ma a otto anni non aveva problemi col suo aspetto fisico. Adesso aveva l’impressione che qualcuno la osservasse. E che commentasse. Qualcuno in effetti c’era, erano soprattutto i suoi compagni del secondo e terzo anno. I primini erano sempre presi di mira, più rispetto agli altri.
«Ichimaru, spostati, sei tozza e larga, mi sei d’intralcio!»
Il commento le arrivò da una sua compagna del secondo anno. Non sapeva nemmeno il nome, ma ovviamente lei conosceva il suo. Rin arrossì, ma non ebbe una vera reazione. Al contrario di Naoko, che sentendola andò su tutte le furie.
«Chi è stato? Chi ha parlato? Sei stata tu? Corri? Vieni qui, che ti stacco quelle ciglia finte!» gridò, prendendo a correre dietro la ragazza più grande.
«Nao, guarda che non è necessario!» esclamò Rin. Rin era bravissima a fare finta di niente quando qualcosa la feriva. Anzi, a dire il vero il dolore spesso non lo riconosceva.
«Ah, non l’ascoltare» le disse Ai. «La gente apre la bocca solo per farle prendere aria.»
«Figurati. Sai che me ne importa» rispose lisciandosi i capelli. A Rin non piaceva mostrarsi insicura. Essere insicuri era essere esposti, era essere fragili. Per lei non c’era un motivo logico per esserlo. Però lo era e non riusciva a sopportarlo, questo non avere controllo.
Yuichi e Masato avevano rinunciato alla loro corsa e si erano fermati un attimo per riposare. E per parlare, in particolare dell’idea geniale di Kaien di vedere un porno.
«Era la prima volta anche per te?» domandò Masato, bevendo dalla sua borraccia. Yuichi si guardò intorno, timido.
«E già. Un’esperienza interessante, ma niente di che. Non capisco perché a Kaien piaccia tanto.»
«Piace a molti. Non sono sicuro che nel… beh, nel sesso funzioni in quel modo. Mio padr,e quando me l’ha spiegato, è stato chiaro ma anche conciso. Tipo una lezione di scienza. È stato così anche per te?»
Yuichi si tolse un attimo gli occhiali. Di quest’argomento con suo padre non ne aveva mai parlato, non perché a lui non interessasse, ma perché Uryu vi si approcciava con un certo disagio.
«Lui non me ne ha parlato. So quello che so perché ascolto voi e faccio ricerche per i fatti miei. Però con me non ne ha mai parlato» fece spallucce. «Forse si vergogna. Mia madre non si vergognerebbe, ma a quel punto sarei io quello in imbarazzo.»
Masato rise.
«Però sembra bello… il sesso…»
«Penso di sì. Non ci penso mai, molto» disse guardandolo negli occhi. Ed era vero, anche se solo in parte. A sfiorare Masato ci pensava eccome. Aveva capito un po’ come funzionava tra ragazza e ragazzo. E tra due maschi, allora?
Kohei li raggiunse finalmente, stanco e un po’ agitato.
«Ma dov’eri finito? Kaien dov’è?»
«Lui… una rissa…» disse agitandosi. «Non è colpa mia, lo giuro!»
Masato oramai sapeva per certo che Kaien e Hayato agivano sempre insieme. Non capiva perché, non voleva credere che suo fratello iniziasse una rissa così, per il semplice gusto di farlo. Eppure accadeva spesso, anche se la maggior parte delle volte era bravo a non farsi beccare. Lui, Yuichi e Kohei si allontanarono dal campo. Vicino la palestra interna, eccoli lì: Kaien e Hayato erano alti per la loro età, non si facevano problemi a sfidare anche gente del terzo anno.
«Kaien! Smettila subito!» gridò Masato, correndogli incontro e stringendolo da dietro. Kaien si fermò con il pugno sospeso a mezz’aria. Con l’altra mano stringeva il colletto del malcapitato. Hayato stava pensando all’altro.
«Masato, che ci fai qui? Vattene.»
«No, ho detto fermati. Ma cosa combini? Guarda che ti metti nei guai»
Kaien fece spallucce e lasciò andare il suo compagno, che ora imprecava contro di lui, ora si portava una mano sul naso sanguinante. Questa volta né Kaien né Hayato se la sarebbero cavati con poco.
«Che esagerazione, non li abbiamo mica ammazzati» disse Hayato, infilandosi le mani nelle tasche. Yuichi si guardò attorno.
«Ma perché? Che è successo?» domandò, confuso. Kaien borbottò che non era successo niente, che era pronto ad affrontare le conseguenze del suo gesto. Per quanto gli riguardava, non era lui ad essere nel torto.
 
 
Nnoitra stava controllando le mail svogliatamente. Molte erano da parte degli editori. Poi in un’altra mail riceveva lettere da fans, a cui rispondeva ogni tanto. Alcuni erano simpatici, altri erano degli haters da quattro soldi.
«Ah! Come osano criticare me? Te lo dico io, invidiosi da strapazzo. Oh, come vorrei strozzarli!»
Neliel non riuscì a non ridere mentre piegava i vestiti.
«Però hai anche tanti fan. Questo perché Shiro piace. Il mio mangaka» sussurrò, languida. Nnoitra se ne accorse e si voltò con la sedia girevole.
«Se me lo dici così sarò costretto a prenderti qui, ora e subito.»
Neliel lasciò perdere i vestiti e, dall’espressione che aveva sul volto, era evidente che l’idea non le dispiacesse. Quello però era l’orario in cui Naoko tornava a casa. E Naoko rientrò, ignorando Aries che le faceva le feste e gettando lo zaino sul pavimento, nervosa.
«Ehi, mi pare tu sia un po’ troppo grande per lanciare gli oggetti» la rimproverò Nnoitra. Sua figlia allargò le braccia, esasperata.
«Non è colpa mia se la gente è stupida. Ci vogliono le maniere forti per farsi rispettare!»
Naoko non era mai cambiata da quel punto di vista. Nnoitra ne era fiero, ma stava attento a non dirlo ad alta voce, non voleva che Nao diventasse un pericolo pubblico.
«E va bene, regina del drama. Ora però vai a cambiari e rimetti a posto tutto» disse Neliel. Nnoitra tornò a controllare le mail. Ne aprì una per caso o, come si sarebbe reso conto più avanti, per destino. Lesse il contenuto e poi si alzò dalla sedia tanto violentemente che quasi cadde. Aries sussultò e lo stesso fece Neliel.
«Che succede?» domandò, in allerta.
«No, no, no. Questo è uno scherzo, voglio sperare. Non voglio avere a che fare con nessuno dei due. Come osano scrivermi dopo tutto questo tempo? Mi prendono per il culo?»
Nnoitra aveva preso a camminare avanti e indietro, ad agitarsi come un pazzo.
«Nnoitra, mi vuoi spiegare?» domandò Neliel con le mani poggiate sui fianchi. Suo marito era a dir poco sconvolto. Lui le indicò il portatile.
«Leggi che c’è scritto lì.»
Neliel alzò gli occhi al cielo e si avvicinò. Lesse una mail, che poi sembrava una vera e propria lettera. Ne lesse alcuni pezzi, disordinatamente. E poi lesse il mittente.
Byun Gin-a. Nonché la madre di Nnoitra, che dopo anni di silenzio se ne usciva così, con una mail in cui diceva di voler riprendere i contatti col figlio. Ora capiva perché di tanta agitazione.
«Nnoitra…»
«No, so bene a cosa pensi. Io non voglio parlare né con lei né tanto meno con mio padre. Ah, di sicuro mi ha mandato quella mail di nascosto da lui. Sono nove anni che non ci vediamo né sentiamo e io sono stato benissimo. Quindi no, non accetterò di vederli.»
Neliel si avvicinò e poggiò le mani sulle sue guance, come per riportarlo alla realtà con quel contatto. E in parte funzionò.
«Respira, va bene? Con calma. Non dico che devi accettare di vederli. Ma almeno rispondi alla mail, cerca di capire cosa vogliono. Lì c’è scritto che vorrebbero rivedere te, me e Naoko. Aveva tre anni l’ultima volta che ci siamo visti.»
«E chi se ne importa? Avrebbero potuto farlo prima. Che c’è? Credi che si siano tolti dalla testa l’idea di avere un figlio che è un fallimento totale? Perché dovrei dare loro la possibilità di ferirmi ancora?»
Neliel non poteva dargli torto. Lei non poteva capirlo, la sua famiglia era sempre stata unita, aveva due genitori splendidi e due fratelli che le volevano bene.
«Amore mio…» sussurrò. Nnoitra soffriva quando si tirava fuori quell’argomento.
«Che c’è? È tutto a posto» disse scorbutico. Neliel lo abbracciò e lui sospirò lasciandosi stringere. La sua famiglia era quella, erano loro tre, con Aries, Grimmjow e tutti i loro amici. Ma la questione di certo non finiva qui.
 
Rin aveva avuto l’accortezza di stamparsi un sorriso sul viso prima di rientrare a casa. Non voleva far preoccupare la sua dolce mamma o suo padre, sempre attento nei suoi riguardi. Poi il sorriso era diventato più sincero quando aveva trovato Kira e Hisagi a casa sua.
«Ciao Izuru, ciao Shuhei» li salutò chiamandoli per nome. «Cenate qui? C’è qualche evento in particolare?»
«Emmmh, non che io sappia» disse Kira, guardando Gin. Quest’ultimo fece spallucce.
«Niente in particolare.»
Rangiku, bellissima nel suo abito beige, l’abbracciò e la baciò. Oh, pensò Rin, lei è così bella. Io diventerò come lei? Dal mio viso uscirà un viso come il suo? Anche se in verità in viso non le somigliava molto, era più simile a Gin, ma dubitava di averne ereditato il fascino.
«Com’è andata a scuola?»
«Bene, è andata piuttosto bene. Ora però vorrei cambiarmi» disse indietreggiando. Si sentiva piuttosto goffa nella sua divisa scolastica, voleva indossare qualcosa di più carino, magari acconciarsi i capelli.
Una sorpresa in verità quella sera c’era. Toshiro era tornato senza che lei ne sapesse nulla e si era nascosto. Poi era comparso dietro di lei con il suo solito cipiglio.
«Io ti trovo molto carina anche così.»
Rin si lasciò andare ad un gridolino e poi gli saltò addosso. Ora che era cresciuta, Toshiro faticava a prenderla in braccio (anche perché lui era piuttosto basso), ma lo fece comunque.
«Sei tornato prima e non mi hai detto niente. Anzi, non me l’ha detto nessuno di voi traditori!» esclamò giocosa.
«Avevamo promesso di non dirlo» disse Gin. Rin si accorse subito che Momo non c’era. Meglio così, disse. Non aveva nulla contro di lei, ma era gelosa dei suoi momenti con Toshiro. Quest’ultimo la mise giù e poi la osservò.
«Cavolo, Rin. Oramai cambi di giorno in giorno. Stai diventando grande.»
Rin arrossì. Ricordava bene di quando diceva di volerlo sposare. In parte lo avrebbe sposato ancora. Inevitabilmente aveva una cotta, così come lo aveva per Kira e Hisagi, malgrado quest’ultimi fossero una coppia. Ma se nessuno della sua età la guardava, figurarsi un ragazzo più grande
«Tu invece sei il solito Toshi nano e imbronciato.»
Toshiro arrossì. La perfetta combinazione di Rangiku e Gin sotto tutti i punti di vista.
«Come osi?»
Rangiku li invitò a prendere posto a tavola. Era bellissimo avere tutta la famiglia lì riunita.
 

Nota dell'autrice
Gli Shiba sono tornati in città, quindi ora saranno grossi problemi per Rukia e il suo segreto (dopotutto Kaien mica si chiama Kaien a caso). Al St. Luke intanto le cose si fanno complicate. Ebbene sì, Senjumaru Shutara è la ex di Mayuri, chi meglio di lei? È un personaggio di cui non ho mai scritto/letto e di cui in generale si sa poco, quindi ho dato anche un'interpretazione mia del personaggio e di come potrebbe essere in un'AU. Povero Mayuri, ex che tornano non sono MAI una buona cosa, specie perché ora ha la ex e la moglie nello stesso luogo di lavoro, bll.
Come si sarà capito, Nnoitra dovrà di nuovo affrontare qualcosina del suo passato, più che di traumi parliamo di rabbia e rancore dovuto al fatto che ha i genitori stro, come si può capire dalla sua reazione. Questi ragazzi invece ne combinano di ogni, con Yuichi e Masato che scoprono le prime voglia, Hayato e Kaien che giocano a fare i Tokyo Revengers della situazione e Rin che subisce questo bullismo orribile. Forse si è capito dove voglio andare a parare con lei.
Alla prossima (:

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


 
Capitolo cinque
 
Da quando Aizen aveva divorziato da sua moglie, oramai più di tre anni prima, aveva imparato cosa volesse dire collaborare per il bene di Hayato.
Suo figlio aveva sempre dato qualche problema anche quando andava alle scuole elementari, ma ai tempi si era trattato solo di scaramucce tra bambini. In realtà non se n’era mai interessato, quella era una rogna che aveva sempre lasciato a Momo volentieri. E aveva fatto male a sottovalutare. Perché ora Hayato aveva tredici anni e tutte le carte in regola per diventare uno di quegli adolescenti che risolvevano tutto con la violenza. Lui invece era uno più bravo a parlare.
Ichigo invece non si sorprendeva di Kaien. A suo tempo, anche lui aveva dato qualche problema. Non era un bullo, era solo bravo a difendersi da coloro che cercavano di attaccare briga. E non si tirava mai indietro quando qualcuno si trovava nei guai. Avrebbe preferito che suo figlio fosse più tranquillo.
Ma Kurosaki e Aizen si erano uniti e questo era sia tragico che comico.
«Non pensavo che saresti venuto tu» Ichigo accolse così Sosuke Aizen. Il preside Genryuusai Yamamoto li aveva convocati entrambi con la massima urgenza e Aizen era stato costretto a lasciare il lavoro.
«Momo non poteva, è arrivata ieri sera. Così i nostri figli ne hanno combinata un’altra delle loro, eh?»
«Non dirlo con quell’espressione divertita, non c’è niente da ridere» borbottò passandogli accanto. In realtà Ichigo immaginava che fosse una finta. Aizen era uno molto rigoroso, forse il matrimonio con Shinji poteva averlo addolcito, ma non così tanto.
Genryuusai Yamamamoto era anziano, difficile stabilire quanti anni avesse. In effetti metteva un po’ in soggezione, anche se Hayato e Kaien erano piuttosto tranquilli, quasi annoiati.
«Il signor Kurosaki e il signor Aizen, suppongo. Entrate pure» li invitò Yamamoto. Ichigo lanciò uno sguardo al figlio che voleva chiaramente dire a casa faremo i conti.
«B-buongiorno, cosa… possiamo sapere con precisione cosa è successo?» domandò Ichigo. Erano tutti tranquilli, solo lui percepiva la tensione nell’aria?
Yamamoto li guardò, unendo le mani dalle lunghe dita ossute.
«I vostri figli hanno dato inizio ad una rissa durante l’ora di ginnastica. Uno dei ragazzi del secondo anno non si è rotto il naso per miracolo.»
«Peccato, avrei dovuto colpire più forte» commentò Kaien, alzandosi all’improvviso. «E non è giusto. Non siamo stati noi ad iniziare, sono le altre persone che cominciano per primi.»
«Kaien! Siediti e fa silenzio» disse Ichigo. Kaien era furioso, ma non capiva da dove venisse quella rabbia. Aizen si rivolse al figlio, più calmo ma comunque visibilmente infastidito.
«Spiegami cos’è successo e perché» disse con un tono che permetteva replica. Hayato guardò Kaien e per qualche istante parve che tra loro ci fosse una conversazione. silenziosa, fatta solo di sguardi.
Ci infastidiscono» si limitò a rispondere Hayato. «A volte le parola non bastano.»
Aizen fu certo che suo figlio gli stesse nascondendo qualcosa. C’era sempre un disagio dietro quei suoi comportamenti aggressivi. Oramai aveva imparato a capirlo almeno un po’.
«Voi scherzate troppo, ragazzi!» tuonò Yamamoto. «Non è la prima volta che venite ripresi perché vi azzuffate come una mandria di delinquenti. Lo sapete cosa mi costringete a fare la prossima volta? Ad espellervi. Questi comportamenti sono intollerabili.»
Kaien fece per dire qualcosa, ma capì che sarebbe stato meglio non peggiorare la situazione. Ichigo non sapeva che dire. Aizen, invece, con la sua stramaledetta parlantina, sapeva bene cosa dire.
«Preside Yamamoto, le mie più sentite scuse. Sono sicuro che Hayato e Kaien sono davvero dispiaciuti. Vero che siete dispiaciuti?» domandò guardando intensamente il figlio. Non dispiaceva a nessuno dei due, ma alle volte bisognava dire le bugie.
«Sì, lo siamo» borbottò anche a nome di Kaien, che si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che dire una cosa del genere.
«Appunto. E posso assicurarle che non riaccadrà mai più. Mio figlio sa qual è il modo di comportarsi, è che a quanto pare lo dimentica.»
«Già, anche mio figlio» aggiunse Ichigo. Avrebbe davvero voluto afferralo per l’orecchio e chiedergli cosa diamine gli passasse per la testa, ma si astenne. Alla fine nessuno dei due fu sospeso, ma quello era l’ultimo avviso. Al prossimo passo sbagliato, Yamamoto li avrebbe fatti espellere. Soprattutto, ora teneva gli occhi incollati su di loro.
 
«Tua madre non sarà felice di questo» disse Aizen ad Hayato, prima di lasciarlo. Il ragazzino fece spallucce. Non amava molto dare dispiacere a sua madre.
«Mi dispiace. Ma te lo giuro che non abbiamo iniziato noi. Io ti sembro uno che va a cercarsi la rissa?» domandò indicandosi.
E in effetti, Hayato trovava noiosa qualsiasi cosa per prendersi la sbriga di iniziare un litigio. Ma se voleva imparare a difendersi, doveva imparare a farlo con le parole.
«Kaien, ora vai in classe e vedi di comportarti bene! Vedrai cosa succederà appena lo saprà tua madre!» Ichigo aveva urlato a suo figlio in modo che gli rimanessero in testa le sue parole. Poi guardò Aizen e borbottò qualcosa. Erano un po’ agli antipodi, Sosuke con quell’aria tranquilla e lui pronto a scattare.
«D’accordo, adesso comunque devo andare, ho dovuto lasciare il lavoro. Stai attento, Hayato» gli raccomandò. Suo figlio annuì e poi se ne tornò in classe. Aizen sorrise e guardò Ichigo.
«Adolescenti. Adorabili, non trovi?»
«Un vero incanto» borbottò, alzando la mano in segno di saluto.
 
E così era passata la sua mattinata libera. Bene, ma non benissimo. A casa non voleva tornare di certo: Kukaku era uscita, ma a breve sarebbe tornata nella sua vecchia casa in ristrutturazione. Ganju era rimasto e poco ma sicuro ma avrebbero finito con il litigare. Allora, mentre era in auto, chiamò Rukia: chissà se era già andata in pausa? Quando la moglie rispose alla chiamata, fu costretto ad allontanare il telefono dall’orecchio.
«Ahi, Rukia! Ma perché stai urlando? E dove sei?»
«A lavoro. Senti, voglio sapere che è successo a Kaien, ma meglio se ne parliamo di presenza. Ti aspetto.»
«Ma-»
Rukia aveva già chiuso la chiamata. Sua moglie lavorava in una casa-famiglia, i bambini e gli adolescenti che vivevano lì l’adoravano e Rukia d’altro canto vegliava su di loro e si assicurava che tutti loro stessero bene. Ichigo non era mai andato a trovarla e quando arrivò si sentì strano. Faceva un po’ impressione vedere tutti quei bambini sfuggiti a chissà quali orribili situazioni. Aveva intravisto Rukia in giardino con due bambini che si aggrappavano a lei. Quello non era un compito che gli spettava, eppure – al contrario di molti suoi colleghi – Rukia non riusciva a non affezionarsi a quei bambini, alle loro storie.
«Ehi, di qua!» esclamò. Ichigo si avvicinò, scorgendo tutti quei visetti curiosi che lo scrutavano.
«Emh, ciao. Stai bene» disse, in imbarazzo. Rukia era così materna, così dolce. Non smetteva mai di piacergli.
«Oh, Ichigo. Non farmi arrossire davanti ai bambini. Lui è mio marito, il dottor Kurosaki. Oh, aspetta un attimo, c’era una persona che voleva conoscerti. Natsumi!»
Ichigo sollevò lo sguardo. Da dietro un albero sbucò una ragazza di circa vent’anni, i lunghi capelli tinti di blu elettrico, qualche tatuaggio sulle braccia e il piercing al naso. Questa s’illuminò nel vederlo e gli and incontro, abbracciandolo.
«Eh?» esclamò. «Cosa…?»
«Dottor Kurosaki, sono davvero felice di conoscerti. Rukia mi ha parlato tanto di te, ero curiosa di incontrarti!» esclamò la ragazza, allegra. «Io mi chiamo Natsumi, sono un’amica di tua moglie. So tutto della vostra famiglia.»
Ichigo indietreggiò, colto alla sprovvista da tanta energia, guardando Rukia, la quale appariva molto divertita.
«Lei è Natsumi, è la figlia di Ukitake, il mio ex professore. Te lo ricordi?»
«Sì, mi ricordo. P-piacere di conoscerti» si presentò, ancora colto alla sprovvista. Natsumi prese per mano uno dei bambini e poi sollevò la mano in segno di saluto. Ichigo ricambiò, ancora un po’ stupito da tanta energia.
«Ragazza simpatica, vero? Oramai siamo amiche per la pelle, è adorata da tutti i bambini» disse Rukia, divenendo poi più seria. «Che è successo a Kaien?»
Ichigo sospirò.
«È successo che nostro figlio si comporta come un bullo da quattro soldi. E non capisco come sia possibile, Kaien non è tipo da picchiare la gente per divertimento. Mi chiedo cosa ci sia dietro. Comunque il preside ha messo in chiaro che la prossima volta non sarà così gentile. Verrà espulso.»
Gli occhi di Rukia sembravano più grandi del solito. Era piuttosto preoccupata per suo figlio, tra le altre cose.
«Dovremo parlare con lui.»
«Allora provaci tu, perché con me lui non parla» e dicendo ciò le poggiò una mano su una spalla, donandole una carezza. «Spero tu non sia troppo stressata per la presenza di quei pazzi dei miei cugini.»
«Oh, no. Figurati. E poi lo sai quanto vado d’accordo con Kukaku.»
E questo era vero. Rukia non era stressata, era semplicemente intristita, malinconica, tutti sentimenti che cercava comunque di ignorare. Perché non aveva altra scelta. «Dopo lavoro, comunque, mi vedo con Renji. Solo con lui, intendo. Secondo me sta tramando qualcosa e vuole trascinarmi dentro.»
«E tu ti farai trascinare dentro» Ichigo alzò gli occhi al cielo e poi la baciò. «Su, torna da quei bambini. Sei la migliore assistente sociale del mondo. E anche la più sexy.»
Rukia lo zittì giocosamente, dicendogli potrebbero sentirti. Poi si scambiarono un altro bacio e Rukia tornò dai bambini, mentre Natsumi gridava.
«Ehi, dottor Kurosaki, qualche volta vengo a trovarti! Mi sono sempre piaciuti i dottori!»
Chissà se quella era una minaccia o una promessa?
 
Erano oramai finiti i tempi in cui i Vizard erano costretti a esibirsi in un casolare abbandonato. Adesso potevano contare su un confortevole rifugio. Per forza, visto che oramai le cose andavano bene, si esibivano più volte a settimana e finalmente il loro valore stava iniziando ad essere riconosciuto.
«Il fatto è questo, il prossimo mese abbiamo un’esibizione a Maebashi. E d’accordo, non è poi così lontano, ma non è nemmeno così vicino. E ancora siamo a zero, non abbiamo organizzato niente.»
«Che vuol dire abbiamo? Sei tu il manager!»
A discutere erano Shinji e Hiyori. Anche se di vere discussioni non si poteva parlare. Avevano imparato a conversare in maniera civile, anche se talvolta venivano fuori le vecchie abitudini date dai loro caratteri dirompenti.
«Infatti ci sto pensando, è che ho avuto da fare» si lamentò Shinji, giocando nervosamente con una penna. «Non so se Miyo dovrebbe venire con noi, è nel mezzo della settimana. Non può saltare giorni di scuola.»
«Come sei responsabile» borbottò Hiyori, seduta davanti a lui in modo scomposto. «Noi alla sua età la scuola la saltavamo sempre. Se proprio non vuoi lasciarla, allora lasciala a Sosuke, tanto si adorano a vicenda.»
Shinji fece una smorfia. Lui era sempre stato strafottente, leggero, uno che non pensava a niente. O almeno, così era stato una volta, ora era più maturo ed era preoccupato per Miyo. Non perché sua figlia gli desse preoccupazioni (era sempre stata una ragazzina più matura della sua età), però c’era qualcosa che gli suggeriva di stare in allarme.
«Sosuke sia con Hayato che con Miyo? Miyo si ritroverebbe costretta a badare ad entrambi. Beh, può dormire da Ichimaru. A Rangiku farà piacere.»
«Se lo dici tu» disse annoiata. Poi sollevò lo sguardo verso la porta di vetro e vide Aizen che le faceva segno di aprirle.
«Guarda che tuo marito è venuto a trovarti.»
Per Hiyori non era strana quella situazione. Lei e Shinji erano stati insieme una vita fa e lui era adesso sposato. Certo, un tempo aveva odiato Aizen, ma ora che lo conosceva un po’ di più ammetteva che non era poi così male.
Shinji andò ad aprirgli.
«Che ci fai tu qui?» domandò, non nascondendo una nota di panico.
«Anche io sono felice di vederti, mio caro Shinji» Sosuke gli poggiò una mano sulla testa. «Comunque niente, visto che sono stato costretto ad allontanarmi da lavoro per andare alla scuola di Hayato ho pensato: perché non passare a trovarti? Ciao, Hiyori, ciao a tutti» si rivolse a lei e agli altri, che stavano chi suonando, chi accordando gli strumenti.
Shinji se lo vide passare davanti e fece una smorfia.
«Perché? Che è successo?»
«Hayato e il figlio di Kurosaki a quanto pare sono due terroristi. Non mi piace molto il fatto che usi la forza» ammise. Era sempre meglio usare l’intelletto e la forza delle parole. Ma Hayato era giovane, più incline all’impulsività.  «Perché non ci parli tu?»
«Io?» domandò Shinji indicandosi. «Ma se Hayato neanche mi sopporta, se provo a dirgli qualcosa mi manderà a quel paese.»
Sosuke lo guardò sorpreso.
«Shinji, non essere paranoico. Oramai sono passati tre anni.»
Avrebbe voluto dirgli che non era paranoico. Hayato lo aveva accettato come nuovo marito di suo padre, ma dubitava lo avesse riconosciuto come un’altra figura paterna. E d’altronde nemmeno lo pretendeva, ma alle volte quel ragazzino gli si rivolgeva più come se fosse un suo coetaneo, sembrava volerlo sfidare. Chissà se con Toshiro era anche così? Avrebbe dovuto scambiare qualche parola con lui.
«Comunque ora mi tocca dirlo a Momo, lei non ne sarà felice. Passa a prendere Hayato stasera.
«Che bello» borbottò Shinji. Lui e Momo avevano raggiunto a loro volta un rapporto civile. Si scambiavano due parole quando s’incontravano (anche perché l’amicizia con Toshiro non gli consentiva di ignorarla totalmente). Però era bizzarro quando si ritrovavano tutti e tre o tutti e quattro insieme. Sosuke parve divertito da quella reazione.
«Pensavo che avessimo superato la fase della gelosia»
«Ma che geloso, oramai sei sposato con me. Qui se c’è qualcuno che dovrebbe essere geloso, quello sei tu. Lo sai quanti fan ho? Sono tutti conquistati dal mio fascino. Diglielo, Hiyori!»
«Lasciatemi fuori dai vostri discorsi da coppia sposata, grazie!» disse lei, alzandosi e andando alla batteria. Maledetta traditrice. Aizen si avvicinò e afferrò il suo mento con le dita.
«Io non ho mai detto di non essere geloso. Fai il bravo ragazzo mentre non ci sono» e dicendo ciò lo baciò sulle labbra. Grandi passi in avanti, considerando che un tempo non si sarebbe mai sognato di essere così espansivo in pubblico. Shinji arrossì e lo guardò indispettito.
«Anche tu fa il bravo mentre non ci sono.»
 
 
Un tempo Ai non amava parlare molto, per il timore di essere zittita o mal giudicata. Ora, a dodici anni, non aveva smesso di essere timida, ma era diventata decisamente più loquace.
«A scuola mi dicono che sono una secchiona, ma non è colpa mia se mi piace lo studio, se amo la scienza, la matematica e tutta quella roba affascinante. Certi miei coetanei sono proprio stupidi. Io diventerò una ricercatrice di quelle importanti. Scoprirò tutto quello che l’essere umano ancora non sa, ci potete contare. E poi vediamo chi ride, mh!»
Ai sembrava molto concitata nel suo discorso e le bacchette, piuttosto che usarle per mangiarle, le batteva sul tavolo ad ogni parola, come a darsi arie.
«Dici cose giuste, Ai. Cosa vuoi farci, non è certo colpa tua se la conoscenza sovrasta l’ignoranza» rispose Mayuri. Nemu era scioccata.
«Ma guardatevi, sembra che con voi abbiano fatto copia e incolla. Ai, adesso però mangia e non battere le bacchette sul tavolo.»
Ai si mise più composta e poi sorrise.
«E a voi com’è andata a llavoro?»
Mayuri lasciò che fosse Nemu a rispondere, perché lui di parlarne ne avrebbe anche fatto a meno.
«È andata bene» disse, facendosi seria ad un tratto. «È arrivata una nuova neurologa molto importante nel nostro ospedale. Vero, Mayuri?»
Quest’ultimo alzò lo sguardo. Di Nemu si poteva dire tutto, tranne che fosse minacciosa. In quel momento il suo tono riuscì a esserlo tanto da inquietarlo.
«Già, è così.»
Ai sembrava davvero interessata.
«Davvero? Che forte. Voi la conoscete?»
Nemu accavallò le gambe. Non sembrava ostile, ma fin troppo seria e non smetteva di guardare suo marito.
«Io no, ma tuo padre la conosce bene.»
Mayuri posò le bacchette e la fissò. Ex, brutto argomento, perfino uno come lui che ne capiva poco in fatto di sentimenti sapeva quanto quei discorsi fossero sconveniente.
«E come fai a conoscerla?»
Lui fece spallucce.
«È solo la mia ex fidanzata.»
Nemu serrò le labbra. Ai spalancò gli occhi e si alzò, facendo quasi cadere la sedia.
«Come la tua ex fidanzata? Tu non puoi avere un’ex, lo capisci o no?»
Mayuri corrugò la fronte. Ma perché doveva essere costretto a parlare di quegli argomenti insulsi e inutili?
«Come siete seccanti, perché avete tutti quell’espressione sorpresa quando lo dico?»
«Mi dispiace! Ma io pensavo tu fossi stato sempre con mamma. E ora invece scopro che c’è stata un’altra donna. Mamma, ma tu non sei gelosia? Io al posto tuo lo sarei.»
Mayuri le lanciò uno sguardo di fuoco, volendole intimare di tacere, ma senza alcun successo.
«Non preoccuparti, tesoro. Non ho motivo di essere gelosa, è passato tanto tempo. E poi oramai siamo sposati, noi due. E tuo padre non ci pensa più. No?» domandò.
«Ma certo che non ci penso più, non ci pensavo più nemmeno dopo che ci siamo lasciati! E poi quella donna è più simile ad una strega che ad un’umana, che mi stia lontana senza scocciarmi.»
Ai stava ancora metabolizzando il tutto. L’istinto le disse che doveva tenere d’occhio quella donna che non conosceva. Lei era razionale, certo. Ma gli ex erano pericolosi ed era sempre meglio prevenire che curare.
 
Yoshiko, per quanto adorabile, spesso metteva a dura prova suo fratello maggiore. Quando possibile, Yuichi si esercitava col violino, strumento di cui si era scoperto appassionato e anche piuttosto abile. Ma la sorellina la pensava in modo diverso.
«Dai, gioca con me, gioca con me!» gridò la bambina aggrappandosi a lui. Yuichi l’adorava, ma adorava anche riservarsi qualche ora per lui soltanto.
«Ora no, Yoshiko. Voglio suonare il violino, giochiamo dopo» disse paziente.
«Ma tra poco devo fare la ninna! Non è giusto! GIOCA CON ME!» gridò.
Tatsuki, con le mani poggiate sui fianchi, lanciò ai figli uno sguardo minaccioso ed esaustivo.
«Yoshiko, non si grida! E lascia un attimo di tregua a tuo fratello. Su, fa la brava.»
Imbronciata e borbottante, Yoshiko andò a sedersi sul tappeto a guardare i cartoni animati, mentre Yuichi sgusciava in camera sua e ci si chiudeva. Con un sospiro Tatsuki tornò in cucina, ci aveva pensato Uryu a lavare i piatti.
«Dopo devi aiutarmi a mettere quella piccola terrorista a letto. Non fa mai quello che dico, la mia autorevolezza non funziona» disse poggiandosi al tavolo e guardandolo. Uryu sistemò l’ultimo bicchiere, poi si volse a guardarla e cambiò discorso, come se fino a poco prima non l’avesse udita.
«Sono preoccupato per Yuichi.»
Tatsuki inarcò le sopracciglia, allarmandosi.
«Che è successo a Yuichi?»
Suo marito le fece segno di abbassare la voce, mentre si asciugava le mani.
«Non è successo niente, sono preoccupato in generale. Ora sta entrando in un’età… particolare. E sono in pensiero per quando si approccerà al sesso» sempre che non avesse già iniziato. In caso non sapeva come l’avrebbe presa. Per Tatsuki fu strano sentirsi dire ciò: Non si poteva certo dire che Uryu fosse uno all’antica, il suo essere un dottore poi lo portava a parlare di qualsiasi argomento in modo professionale. Forse era diverso quando c’erano di mezzo i figli.
«Tu gliene hai parlato? Arriva un momento in cui bisogna farlo.»
A Ishida veniva un forte senso di inquietudine anche solo a pensarci. La mente lo portava ai più catastrofici scenari, che non aveva però il coraggio di esprimere a voce.
«Non ho il coraggio. Non pensi sia troppo giovane? Non sarebbe meglio se si tenesse più lontano possibile da questo, almeno per il momento?»
A Tatsuki qualcosa non quadrava. L’apprensione era una cosa, ma quell’atteggiamento la rendeva sospettoso. Uryu aveva solo quattro anni più di Yuichi quando si era approcciato al sesso la prima volta, che ora le venisse a fare quei discorso – lui di solito così ragionevole – le dava da pensare.
«Impedire ad un adolescente di sperimentare mi sembra assurdo. Non sarebbe meglio spiegargli come farlo in modo sicuro? È di questo che hai paura?» Tatsuki si era avvicinata per guardarlo negli occhi, ma si era accorta di come Uryu al suo sguardo sfuggisse.
«Ho solo paura che possa incappare in situazioni strane o pericolose.»
Tatsuki non capì. Quali erano le situazioni strane o pericolose?
«Ma Uryu… Yuichi è molto legato a Masato, lo sai. Cosa vuoi che succeda?»
Sua moglie aveva ragione. Lui stesso non aveva idea da dove venisse quella sua inquietudine profonda, che gli si aggrappava addosso facendogli mancare l’aria e portandolo a stare sempre sull’attenti.
«Hai ragione, che vuoi che succeda? Vado a mettere a letto la piccola» disse dandole un bacio sulla fronte. Forse Uryu pensava che Tatsuki non ci avrebbe fatto caso. Lei invece ci aveva fatto caso eccome.  La questione le sembrava riguardare più suo marito che suo figlio. Ma non avrebbe fatto domande, avrebbe osservato, avrebbe teso le orecchie. E poi avrebbe agito.
 
Quando Soi Fon aveva chiesto a Yoruichi ospitalità per un lasso di tempo indefinito, lei e Kisuke ne avevano discusso a lungo e paradossalmente era stato Kisuke quello più favorevole.
«Se è solo per un po’, non vedo il problema. Mica possiamo sbatterla in mezzo alla strada, ti pare?»
Yoruichi era rimasta sorpresa, doveva ammetterlo. Kisuke aiutava sempre tutti, ma sembrava essersi dimenticato che un tempo lei e Soi Fon erano state coinvolte sentimentalmente l’uno verso l’altra. A quanto sembrava, suo marito non aveva alcun rancore.
«Oh, e va bene!» aveva detto lei. «Abbiamo una stanza in più, può stare lì. Ma vedete di comportarvi bene, sia tu che i ragazzi, chiaro?!»
In realtà Soi Fon era molto discreta, alle volte era quasi come se non ci fosse. Yoruichi tuttavia, in quanto sua ex insegnante e amica, voleva scavare più a fondo in quella situazione.
Quando stava in casa, Soi Fon se ne stava nella sua camera improvvista, che in teoria era appartenuta ai gemelli prima che decidessero di avere ognuno i loro spazi. Yoruichi bussò e la trovò seduta alla scrivania a lavorare al suo romanzo (o futuro tale).
«Posso parlarti un momento?» domandò. Soi Fon lasciò perdere il portatile e si rivolse a lei. Yoruichi le stava sorridendo in un modo quasi materno.
«Allora. Direi che hai preso una decisione drastica quanto avventata» disse sedendosi su letto di fronte a lei. Soi Fon era arrossita.
«Ti prego, non dirmi così. Lo so che sembra un capriccio, ma non lo è. Ho litigato così tanto con i miei genitori. Loro non capiscono che voglio davvero diventare una scrittrice, anche se dovrò fare dei sacrifici.»
A Soi Fon la determinazione non era mai mancata. E di certo Yoruichi non poteva rimproverarla di aver seguito il suo sogno.
«Sì, lo capisco bene. Voglio solo sapere se sei sicura di questa cosa. Sei giovane, alla tua età si può cambiare idea tante volte e va comunque bene.»
Ma le sue sarebbero state solo chiacchiere. Glielo leggeva negli occhi, Soi Fon voleva perseguire quella strada a qualunque costo.
«Lo so, però sono molto convinta. Mi spiace pesare su di voi, ma me ne andrò presto. Ho già cercato per trovarmi un lavoro…»
Yoruichi le diede un colpetto sulla fronte per zittirla. Se Yami l’avesse vista, le avrebbe detto di non fare l’adulta noiosa e rompiscatole. Ma lei non era una rompiscatole!
«Non è un problema. Kisuke è molto entusiasta di averti qui. E sicuramente farai amicizia con mia figlia, a lei sarebbe sempre piaciuto avere una sorella. Così almeno non avrà tempo di litigare con me.»
Soi Fon si massaggiò la fronte, indispettita.
«Grazie. Yoruichi.»
La donna si alzò, sorridendole.
«Figurati. E mi raccomando, fammi leggere ciò che hai scritto di nuovo.»
 
 
Kaien si era beccato una brutta strigliata anche da sua madre, proprio com’era prevedibile. In parte avevano ragione, ma lui aveva poco che farci, non era colpa sua se il mondo era pieno di idioti da cui difendersi (e  da cui difendere gli altri) con le unghie e con i denti. Con una mano accarezzava Kon addormentato accanto a lui sul pavimento, con l’altra si scambiava una serie di messaggi con Kiyoko.
 
Da Kiyoko:
Oh, no. Ti sei messo nei guai, è tanto grave? Kaien, non voglio che tu venga espulso.
 
Kiyoko era sempre molto dolce con lui. Sempre pronta a preoccuparsi, ma non se lo meritava. Lui si sentiva tanto un idiota alle volte, e non era nemmeno capace di farle capire quanto gli piacesse. Era una frana totale.
 
Da Kaien:
Non succederà, la prossima volta starò attenzione… che non mi becchino.
 
Da Kiyoko:
Dai Kaien, fai il serio! Sarebbe orribile. Sei così strano ultimamente. Sembri sempre distante da tutti, anche da me. Ho fatto qualcosa di male?
 
Kaien arrossì e pensò molto a cosa dovesse scrivere. Contrariamente a Masato, non era bravo a esprimere i suoi sentimenti. Suo fratello e Yuichi si volevano bene e si piacevano e non lo nascondevano. Già, non lo nascondevano a nessuno. Lui invece si era così abituato a fare il duro che si vergognava da morire anche solo al pensiero di prendere Kiyoko per mano.
«Ma perché deve essere tutto così difficile?!» si lamentò ad alta voce. Kon sollevò la testa, disturbato. Masato aprì la porta scorrevole e lo fissò per qualche attimo lo guardò. Era venuto a sapere di quello che era successo, sarebbe stato impossibile.
«Kaien.»
«Ti prego, non farmi la ramanzina anche tu. Papà e mamma ci hanno già pensato. E ora ci si mette anche Kiyoko!»
Masato sorrise e gli si sedette accanto.
«Kiyoko fa così perché ti vuole molto bene, come gliene vuoi tu. Glielo dovresti dire, sai?»
Kaien borbottò qualcosa. Non era bravo in quello. Un imbranato, ecco come si sentiva. Suo fratello si era ad un tratto fatto serio.
«Kaien, sei sicuro che vada tutto bene? Se qualcuno ti dà fastidio…»
Kaien gli impedì di parlare.
«Non ci pensare. Non mi disturba nessuno e comunque me la cavo. Tra l’altro, i fratelli maggior esistono per proteggere i fratelli minori.»
Masato avrebbe voluto dirgli che lui era più grande solo di qualche minuto, ma non sarebbe servito a niente.
«Ma io sto bene! Non c’è niente che non va.»
«Allora sto facendo un buon lavoro» borbottò facendo spallucce. Poi, prima che suo fratello potesse aggiungere altro, gli diede una cuscinata in viso. «E comunque non è così facile dire a una ragazza che ti piace.»
«Ahi! E va bene, allora non dirglielo. Agisci e basta. In questo ti faccio scuola, fratello.»
Kaien borbottò un stai zitto, ma stava ridendo. Masato stava bene, lo avrebbe protetto da tutto il male del mondo.
 

Nota dell'autrice
Qualche parola su Uryu innanzitutto: non è impazzito, per lui ho pensato ad una cosa un po' particolare, ma molto pesante, forse già qualcosa si potrebbe intuire. In questi capitoli ho disseminato quali saranno i problemi che i personaggi - sia grandi che piccini - dovranno affrontare. Aizen e Ichigo si ritrovano sempre ad avere a che fare l'uno con l'altro, visto l'amicizia dei loro figli e le marachelle che combinano, ma come Kaien ha fatto capire, non si tratta di dare inizio a risse per divertimento. In tutto ciò devo dire che amo scrivere di Aizen e Shinji in versione sposata, sono proprio tenerelli. Infine, devo accennare a Natsumi, mia OC che comparirà ancora e farà morire dal ridere, oltre a diventare l'interesse amoroso di uno dei personaggi.
Alla prossima :*
Nao

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


Capitolo sei
 
Momo Hinamori poteva oramai affermare di aver trovato la sua stabilità per quanto riguardava le relazioni romantiche. Toshiro era quello giusto, e nonostante a volte doveva scontrarsi con i pregiudizi (lui è troppo giovane per te. Avevi un bel matrimonio e hai mollato tutto), non le importava. Ad affrontare i pregiudizi erano in quattro, lei per quei motivi, Toshiro e Shinji per essere dei rovina famiglie e Sosuke per aver a sua volta mandato a monte una vita perfetta. Ma chi diceva ciò spesso nemmeno li conosceva fino in fondo. Momo era tranquilla, guardava dritto davanti a sé. Le cose erano un po’ diverse quando si parlava di Hayato. Suo figlio le dava l’idea di star diventando un adolescente chiuso in sé stesso e scorbutico. Era sempre stata convinta che, quando avesse iniziato a crescere, da lui sarebbe venuto fuori Sosuke in tutto e per tutto. Fisicamente era così, caratterialmente non somigliava a nessuno dei due. Hayato aveva accettato la presenza di Toshiro come compagno di sua madre che aveva nove anni, ma adesso che ne aveva tredici e capiva molto di più, lo teneva a distanza, con quei suoi modi di fare né gentili né maleducati. Solo vagamente sprezzanti. Toshiro dal canto suo non faceva molto per tentare di dare inizio ad un’amicizia: si sentiva in imbarazzo e teso. Così Momo spesso si ritrovava a fare un po’ da collante tra i due, nella speranza che andassero un po’ più d’accordo.
Quella sera però aveva altro per la testa.
«Hayato, tuo padre mi ha raccontato tutto» disse quella sera a cena. Hayato aveva preso a mordicchiare la punta delle bacchette senza nemmeno guardarla. Toshiro stava accanto a Momo senza dire una parola, l’ultima cosa che voleva era immischiarsi.
«Non farne una tragedia. Ho capito l’antifona, la prossima volta non mi farò beccare.»
Toshiro doveva ammettere che a volte Hayato aveva delle uscite che lo divertivano, anche se si guardava bene dal dirlo. Con un adolescente perennemente nervoso non sapeva come approcciarsi.
«Ma non è questo il punto! Pensi che la violenza sia la risposta a tutto?»
Suo figlio fece spallucce.
«La gente dice cose che non dovrebbe dire. Comunque ho capito. Ora la potete smettere di starmi addosso?» borbottò.
Toshiro non sopportava l’impertinenza, specie nei confronti di Momo. In quei momenti diventava difficile seguire il proposito del non immischiarsi.
«Tua madre non ti sta addosso, si preoccupa soltanto» disse sottovoce, a malapena muovendo le labbra. Se lo ricordava bene il periodo dell’adolescenza. Lui non era stato molto diverso da Hayato, scorbutico e nervoso. Ma non era mai stato violento né tantomeno un bullo.
Hayato corrugò la fronte. Lo infastidiva quando erano i suoi genitori a rimproverarlo, figurarsi gli altri. E gli altri molto spesso erano Shinji e Toshiro.
«Beh, non preoccupatevi. E comunque sia, Toshiro» Hayato disse il suo nome lentamente. «Sai, la convivenza con me può essere molto facile o molto difficile, a te la scelta.»
«Hayato!»
In quei momenti Sosuke veniva fuori da Hayato. Nel modo in cui si pronunciava, negli sguardi che lanciava. Non avrebbe voluto pensare al suo ex marito così tanto, ma con un figlio così identico a lui era difficile non fare paragoni. Toshiro però non fu toccato da quella minaccia. Alle volte si dimenticava di essere lui l’adulto e prendeva a rispondergli per le rime.
«La stessa cosa vale per te. Vuoi una convivenza facile o difficile?»
«Shiro, ti prego» sospirò Momo, già rassegnata. Hayato e Toshiro si sfidavano con lo sguardo. Il ragazzino mise subito le cose in chiaro. Lo indicò con un dito.
«Solo perché ti ho accettato come suo compagno, non ti riconosco certo come una specie di figura paterna.»
«Figurarsi. Se tu fossi mio figlio non saresti così insopportabile.»
Momo guardò Toshiro e lo pregò – con uno sguardo che non permetteva repliche - di darci un taglio. Non era molto maturo da parte sua, ma alla fine Momo sapeva che avrebbe dovuto aspettarselo: per la maggior parte della sua vita Hayato era stato viziato e accontentato come un principino. Anche se era molto cambiato, non si poteva pretendere che fosse diventato un’altra persona a soli tredici anni. Hayato si alzò.
«Ho finito di mangiare» borbottò e si alzò con un movimento brusco. Momo e Toshirio sentirono la porta sbattere dopo qualche istante.
«Shiro, non puoi fare così. Lo so, con Hayato è difficile e spesso fa perdere la pazienza anche a me. Ma sei tu l’adulto dei due.»
«Lo so bene, è che mi fa così incazzare. Sono certo che con suo padre non si comporta in maniera così irrispettosa. Ne sono sicuro! Ma con te sì e questo non mi va bene. Piccolo insolente. Non ci sono stati poi chissà quali progressi in questi anni!»
«Hai ragione. E credo che la pubertà sia peggiorando tutto» Momo si avvicinò dopo essersi alzata, gli accarezzò i capelli. «Prima o poi imparerete ad andare d’accordo. Non dico che vi amerete, ma magari potreste essere amici. O quasi.»
Toshiro, rimasto seduto, strinse i suoi fianchi. Per amore di Momo poteva sopportare tutto ciò, certo. Aveva sempre saputo sin dall’inizio che non sarebbe stato facile. Hayato se ne doveva fare una ragione: lui e Momo si amavano. E poi vivevano insieme la maggior parte del tempo, c’era bisogno di compromessi. E doveva avere pazienza. Lui, che paziente a volte non sapeva proprio esserlo.
«Farò il bravo. Ma non me ne starò a guardare se ti manca di rispetto. Io detesto gli adolescenti» si lamentò, risalendo con la mano ad accarezzarle la schiena. Momo sorrise e poi lo strinse contro il proprio seno, come fosse stato un bambino.
 
Kohei era cresciuto molto negli ultimi tre anni e oramai era più alto perfino di Karin (non che ci volesse molto, comunque). Nell’aspetto e nello spirito sarebbe diventato tale e quale a suo padre: un gigante buono, sensibile e, nel suo caso, con la grande passione per i volatili. Ma per Karin sarebbe sempre rimasto il suo bambino paffutello e imbronciato. Oramai aveva imparato a lasciargli i suoi spazi e, in quanto allenatrice di una squadra, non aveva altra scelta. L’idea di lasciare il figlio era più traumatica per lei che per lui.
«Yasutora, tu sei proprio sicuro che ce la puoi fare a gestirlo del tutto?» domandò la sera prima della partenza Karin a suo marito. Non era sfiducia la sua, ma una grande apprensione e un gran bisogno di mantenere il controllo. Controllo che non poteva comunque mantenere su tutto e tutti.
«Certo che posso farcela. Vedrai che io e Kohei ce la caveremo benissimo» la rassicurò Chad, portandole una mano su una spalla. Karin, che stava infilando qualcosa nella valigia, si fermò. Era incredibile come le cose andassero meglio ora (che erano entrambi impegnati lavorativamente), rispetto a qualche anno prima.
«Oh. È solo che io non l’ho mai lasciato più di un giorno da solo» ammise Karin. Forse era più lei ad avere bisogno di Kohei che il contrario. Chad questo lo sapeva, sapeva quanto quel rapporto madre-figlio fosse viscerale.
«Lo so. Ma devi andare, la tua squadra ha bisogno di te. Cosa diranno se vedranno la loro allenatrice col morale a pezzi?»
Karin si asciugò gli occhi. Aveva ragione, al diavolo quei pensieri tragici, Kohei oramai era grande. Suo figlio, con Pixie appollaiato sulla sua testa, arrivò ad un tratto e si fermò a guardarli.
«Allora te ne vai?»
«Tesoro» disse Karin amorevole. «È solo per un po’. Ti mancherò?»
«No» rispose Kohei con la sua solita schiettezza.
«Come sarebbe no?!» domandò offesa. Kohei fece spallucce.
«L’hai detto tu che è per poco. Io, papà e Pixie staremo bene. E poi se qualcosa non va possiamo sempre chiedere a zia Rukia e zio Ichigo.»
Chad arrossì, portandosi una mano tra i capelli in disordine.
«Grazie per la fiducia, figlio» sospirò. Karin allora si avvicinò a Kohei.
«Va bene, ma allora permettimi di strapazzarti un po’ prima. Non mi importa che ora tu sia un gigante, rimani sempre piccolo, per me.»
Dopodiché lo attirò a sé in un abbraccio. Kohei, come sempre imbronciato, arrossì. Ma ricambiò, con lentezza, perché in fondo alcuni abbracci non erano mai così male.
 
Gin ci rimase quasi male quando, una volta tornato a casa da lavoro, non trovò Rin ad accoglierlo. La sua bambina lo accoglieva sempre con abbracci e mille chiacchiere e invece adesso nulla, zero assoluto. Rangiku in compenso lo aveva come sempre stretto in un abbraccio passionale e gli aveva dato un bacio da perdere la testa.
«Mia cara Rangiku» le disse, accarezzandole il viso. «Dov’è la nostra Rin?»
«Oh, è con Miyo» lo rassicurò subito. «Com’è andata oggi? Comunque volevo dirti che ho assunto una nuova domestica.»
«È andata bene, ma… una nuova domestica? E quella che avevamo prima che fine ha fatto?» domandò Gin mentre si allentava la cravatta e posava la ventiquattrore. Di solito era Rangiku che si occupava di tutto ciò che riguardava la gestione della casa. Anche se di solito gliene parlava, prima. Stavolta aveva agito da sé.
«Si è sposata e si è trasferita in Europa. Comunque non è un problema. La nuova ragazza è giovane, ci siamo fatte una bella chiacchierata. Loly, vieni qui!»
La ragazza che si presentò a Gin era bassa e minuta, sembrava quasi un adolescente con quei capelli neri legati in due code laterali. Indossava già la divisa e, da come Rangiku ne parlava, sembravano già essere diventate amiche.
«Lui è mio marito, Gin Ichimaru. Gin, lei è Loly Aivirrne. È giovane, ma ha già lavorato per altre famiglie. Ho pensato proprio a tutto!»
Loly aveva uno sguardo intrigante, un sorriso che più che gentile pareva divertito.
«Signor Ichimaru» disse facendo un inchino. «Ovviamente la conoscevo già di nomina. Lei lavora con l’avvocato Sosuke Aizen, vero?»
«Eh già, proprio così. Spero di troverai bene qui da noi, Loly» rispose tranquillo. Rangiku congedò poi la ragazza e si avvicinò poi a suo marito, cingendogli le spalle con le braccia.
«Sei stanco?»
«Un po’. Aizen ha dovuto lasciare prima il lavoro perché Hayato ha combinato non so cosa a scuola. E ha lasciato a me tutto.»
«Oh, il mio povero tesoro. Per fortuna adesso sei qui e ci penso io a te» sussurrò, strusciando poi le labbra sulle sue, con un gesto voluttuoso. Gin amava di Rangiku anche il fatto che, anche con il passare degli anni, non avesse perso la sua passione. E lui neppure, d’altronde.
 
Rin aveva pensieri ben meno piacevoli per la testa. Da un’oramai non faceva che guardarsi allo specchio, a provare vestiti su vestiti che le stessero bene. Miyo se ne stava seduta sul letto, stranamente silenziosa. Aveva anche lei un sacco di pensieri e non riusciva a venirne a capo.
«Non mi sta più niente» borbottò Rin, l’espressione affranta di fronte la sua immagine riflessa nello specchio. «Forse sono davvero troppo grassa. E non è giusto! Ero così magra fino a qualche anno fa, praticamente uno scricciolo. E ora sto lievitando, ma perché? Sono brutta.»
Miyo voltò la testa nella sua direzione. Rin brutta? Come le veniva in mente? Aveva un viso delicato e affilato, una chioma lunga e splendente. E non era affatto grassa, le si erano soltanto allargati i fianchi e le era cresciuto il seno. Al contrario suo.
«Rin, ma questo è ridicolo. Tu non sei grassa, non ascoltare quello che la gente stupida dice. A me piacerebbe essere come sei tu. E invece guardami» Miyo si era alzata, sospirando di fronte il suo riflesso. «Lo sai che mi danno meno anni di quelli che ho? E poi sono una tavola da surf, sono piatta, magra, bassa. Tutta occhi e capelli. Sono orribile.»
Rin arrossì. Forse era stata troppo indelicata a lamentarsi di sé stessa in quel modo?
«Ma Miyo… io penso che tu sia adorabile.»
«Io non voglio essere adorabile, voglio essere bella» ammise. «È che… io non… non ho ancora avuto le mestruazioni. Anche se sono la più grande.»
Era la prima volta che ne parlava in modo così esplicito. Non ne aveva mai fatto parola con nessuno, nemmeno con sua madre. Sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Ma perché ancora non succedeva? Si sentiva così piccola anche se era la più grande. Rin rimase per qualche attimo in silenzio. Lei aveva avuto la sua prima mestruazione a dieci anni e mezzo, negli ultimi due anni in realtà sembrava scoppiata un’epidemia perché tutte loro erano fiorite. Non Miyo.
«Beh… penso che per ognuno è diverso. Non ti devi preoccupare, magari crescerai in una volta sola. E poi, se proprio la dobbiamo dire tutta, avere le mestruazioni non è tutto questo granché. A me fa un male atroce e detesto gli assorbenti. E poi… Forse preferirei essere come te. Tu sei aggraziata e delicata. Io ho troppo seno, troppa pelle, troppo… troppo tutto! Possiamo fare a cambio?»
Invidiavano l’una il corpo dell’altra. A Miyo sarebbe piaciuto che qualcuno le dicesse che era bella e non solo carina o adorabile. Rin avrebbe voluto non provare disagio ogni qualvolta che si muoveva.
«Non è possibile, temo. Accidenti, comunque mi è venuta fame. Possiamo farci portare qualcosa? Ci sono, ordiniamo una pizza gigante e guardiamo un anime spokon. Ami i bei ragazzi con gli addominali scolpiti» propose per tirarla su. Rin fece un debole sorrise.
«Non ho molta fame, ordinala solo per te. Io mangerò un’insalata.»
«E va bene» rispose Miyo. Non era intenzionata a deprimersi e a far deprimere Rin.
 
 
Naoko non aveva mai amato passare le ore sui libri, fare i compiti per lei era una tragedia. Kiyoko e Satoshi erano molto più diligenti di lei. Quei due potevano non avere lo stesso sangue, ma erano praticamente identici e questo le consentiva un doppio divertimento. Naoko lasciò cadere la penna sul tavolo e afferrò Satoshi per un polso.
«Kiyokooo! Perché non usi la macchina fotografica per scattare una foto a noi? Dai, guarda quanto siamo fotogenici. Non lo pensi anche tu, Satoshi?»
«Eh?!» sussultò il ragazzino. «Veramente non saprei.»
Satoshi a volte aveva l’impressione che Naoko sapesse di piacergli. E che lo stuzzicasse di proposito. Non poteva dire che gli dispiacesse, ma se solo fosse stato in grado di fare qualcosa di concreto…
«Ma così mi finiscono i rullini! E poi preferisco le foto spontanee» disse Kiyoko, che da mezz’ora cercava di risolvere un’equazione. Naoko, che non aveva intenzione di studiare, la fissò a braccia conserte.
«Vai a prendere qualcosa da mangiare?»
«Scusa, ma non è casa tua?»
«Kiyoko, ti prego!» borbottò, gli occhi ridotte a due fessure. La sua amica si arrese e sbuffando si allontanò, lasciando i due da soli. Che era poi ciò a cui Naoko puntava, solo che Kiyoko non poteva saperlo, perché non gliel’aveva mai detto.
Non le aveva mai detto che Satoshi le piaceva. Le era piaciuto sin da subito, quando lo aveva conosciuto qualche anno prima. Ma come amico, adesso invece gli piaceva del tutto. A Naoko piaceva anche scherzare con tutti, mettere in imbarazzo i maschi che spesso erano timidi alla sua età. Anche Satoshi era timido. Ed era carino, anzi, lo trovava proprio bello. Satoshi, sentendo il suo sguardo addosso, sollevò il viso. Naoko lo fissava con un sorrisetto sulle labbra.
«Lo sai, Satoshi. Penso che noi dovremmo baciarci.»
Satoshi per poco non cadde dalla sedia. Lei era sempre così diretta e lui sempre così imbranato.
«Eeeeh? Ma… ma… noi due?» domandò abbassando la voce. Certo, Naoko gli piaceva. Ma era così timido che non osava nemmeno immaginare di baciarla.
«Ma certo! Io non ho mai dato un bacio e nemmeno tu. Visto che ci vogliamo bene si può fare. E poi lo so che ti piaccio.»
Colpito e affondato. Satoshi non la stava più guardando, trovava molto più interessante la parete di fronte a lui.
«Io questo non l’ho mai detto.»
«Quindi non ti piaccio?» lo stuzzicò Naoko, cercando il suo sguardo. Quel povero ragazzo era arrossito, respirava a fatica. Non aveva idea di come approcciarsi a quei sentimenti nuovi (e alle sensazioni annesse).
«Non ho… detto… nemmeno questo» ammise, soffiando quelle parole. Naoko gli lasciò spazio per respirare, decise che aveva infierito anche troppo.
«E va bene. Comunque, quando vorrai baciarmi, non ti resta che dirlo. Lo farei io, ma devo essere sicura che tu voglia! Altrimenti non sarebbe bello.»
Satoshi riprese a respirare. Allora lui forse piaceva davvero a Naoko o quello era tutto un gioco? Sperava di no, ma d’altronde non aveva il coraggio di chiederglielo.
 
 
Mentre i figli svolgevano (all’incirca) i loro compiti, i genitori affrontavano discorsi di ben altra portata. Nnoitra era ancora fermo sulla sua decisione di non voler rivedere i genitori neanche morto. A poco erano valse le parole di Neliel, che aveva cercato di farlo ragionare. Ulquiorra e Grimmjow, che lo conoscevano da una vita, stavano cercando di fare altrettanto, ma non ci mettevano molta convinzione. E non avrebbero potuto, proprio perché lo conoscevano così bene.
«Avanti, Nnoitra. Lo so che la tua situazione familiare non era un granché felice, ma non è detto che andrà male» disse Grimmjow, seduto accanto alla sua fidanzata Tia.
Nnoitra, a braccia conserte e imbronciato, aveva eretto un muro invalicabile.
«Fossi matto. Sono passati nove anni in cui non ci siamo né sentiti né visti. E io sono stato benissimo, quindi ora che cosa vogliano?»
Ulquiorra fece spallucce.
«Magari vogliono cercare di rimediare, in qualche modo…»
«Certo, come no. Ho trentotto anni, ne hanno avuto di tempo per fare le cose in modo decente. Oramai è troppo tardi.»
Tia ascoltava i loro discorsi con attenzione. Era entrata a far parte del gruppo da soli tre anni, non conosceva tutti i retroscena del caso.
«I tuoi sono davvero così terribili?» domandò allora rivolta proprio a Nnoitra. Lui sorrise con amarezza.
«Vediamo, mio padre è uno stronzo patentato, non ha mai nascosto la sua poca stima nei suoi confronti e mi ha sempre reputato un fallito. E mia madre è colpevole di essere sempre stata indifferente. Io e mio padre non ci parliamo più da anni, ogni volta che siamo insieme finiamo col litigare. E io non ho voglia, quindi il caso è chiuso» concluse dando un pugno sul bracciolo del divano. Neliel strinse la sua mano. Capiva Nnoitra, lo conosceva da quando avevano vent’anni. E non sarebbe stata di certo lì a dirgli di perdonare (non era proprio da lui), ma quanto meno di dare una possibilità, provare a capire se le cose potevano cambiare.
«Non saresti triste se Naoko un giorno decidesse di non volerti più vedere né sentire?» domandò allora. E sapeva che così lo avrebbe colpito nel profondo. Lo sguardo di Nnotira infatti cambiò.
«Certo che sarei triste. Ma non è la stessa cosa, io non sono così terribile.»
«E va bene, è vero. Ma se non vuoi farlo per te, almeno fallo per Naoko. Ha il diritto di conoscere i suoi nonni, no? La bambina non c’entra con queste discussioni.»
Dannazione a lei quando diceva cose così giuste. Non che a lui quella situazione piacesse, ma aveva paura di incappare in altre discussioni, altri litigi, altre seccature. Però in parte era curioso: cosa avevano da dirgli i suoi genitori dopo anni di silenzio?
«Tsk, ma che rottura. Senti, Nel: sei avvisata. Alla prima parola sbagliata, alla prima cosa storta che vedo, giuro che li caccio. E soprattutto terrò d’occhio come tratteranno Naoko.»
«Non la tratteranno male. Non ricordi? Tua madre l’adorava e di sicuro l’adora anche adesso. Devi stare tranquillo. Lo sai che ti guardo sempre le spalle» disse Neliel accarezzandogli un braccio amorevolmente.
«Che carini! Nel ha ragione!» esclamò Orihime, stranamente concitata. «Dopotutto è nella buona e nella cattiva sorta.»
«Altro che cattiva sorte, questa è una tragedia» borbottò Nnoitra, un po’ più rassicurato da sua moglie. Lui non era un che scappava dal passato, non più almeno.
Naoko entrò in soggiorno e si guardò intorno. Da qualche giorno in casa sua non si parlava d’altro e nonostante i suoi genitori non avessero parlato con lei direttamente, qualcosa aveva capito. Così si avvicinò a Nnoitra, abbracciandolo.
«Non avere paura. Tu sei tanto bravo, buono e bello, questo lo capiranno anche i tuoi genitori. E se non lo capiscono glielo dico, ci pensa Naoko!»
Quella ragazzina era davvero deliziosa e speciale. Nnoitra chiuse gli occhi e la strinse a sé. Stessa determinazione di sua madre senza ombra di dubbio.
«Grazie, mia piccola Nao. Sei forte.»
 
Che Naoko fosse forte, ma anche bella, intelligente, simpatica e buona, lo pensava anche Satoshi. Durante il viaggio di ritorno verso casa fu silenzioso, al contrario di Kiyoko che invece parlava tanto. Ulquiorra in lui ci si rivedeva tanto. Poco importava che non avessero legami biologici, gli somigliava comunque e questo aveva dell’incredibile. Orihime gli aveva consigliato di provare ad avvicinarsi pian piano, in modo naturale. Ulquiorra però non sapeva da dove partire, né perché fosse così difficile: a lei, Satoshi si era legato subito in modo indissolubile. Con lui era andato subito d’accordo, sì, ma mancava ancora quel qualcosa in più. Complicità, forse. Ma aveva paura perché quel ragazzino non aveva avuto una vita facile prima di essere accolto nella loro famiglia. Temeva di sbagliare. Temeva di ferirlo.
Quando tornarono a casa, Satoshi cercò di finire i suoi compiti, ma senza molti risultati. Era pensieroso, pensava a Naoko, con quella sua proposta di baciarla… e lui lo voleva così tanto. Ulquiorra stava lavorando ad un dipinto, ma nemmeno lui riusciva a concentrarsi. Satoshi non era un grande amante dell’arte in particolare, preferiva di gran lunga cose come la matematica, la geometria (materie in cui a scuola era molto bravo), tutto ciò che era sicuro e calcolabile. In questo, doveva ammetterlo, erano diversi.
«Non riesco ad ottenere la sfumatura che voglio» disse fissando la tela. Satoshi però non dava segno di averlo sentito. Gli dava le spalla e sospirava come un’anima in pena.
«Stai male?» domandò infatti, a voce più alta. Satoshi arrossì e si voltò a guardarlo. Era così evidente che ci fosse qualcosa che non andava?
«Sì… no. Non lo so! Non è niente, è una cosa stupida, mi passerà.»
Ulquiorra posò il pennello e lo osservò. Lui era piuttosto bravo a capire le persone, a guardare dentro di loro.
«Sei innamorato» disse. Non era una domanda. Satoshi iniziò ad agitarsi.
«C-chi te l’ha detto?»
«Nessuno, l’ho capito guardandoti. Penso anche di sapere di chi sei innamorato.»
A Ulquiorra non sfuggiva proprio niente. Fin ora nessuno aveva capito, ma a lui era bastato guardarlo un attimo.
«Accidenti» borbottò. «Naoko è tanto bella. Ha detto che dovremmo baciarci. Ma io ho paura, non so come fare. Tu a quanti anni hai dato il tuo primo bacio?»
Quella domanda gli era venuta spontanea e Ulquiorra ne fu contento. Era la prima volta che parlavano di argomenti tanto intimi.
«Quindici.»
«Lei era carina?»
«In realtà era un ragazzo. A me piacciono sia gli uomini che le donne» Ulquiorra lo guardò attentamente, studiando la sua reazione. «Pensi sia… strano?»
Satoshi si grattò la testa, pensieroso. In realtà non gli sembrava affatto strano. Però si rendeva conto che quella persona con cui viveva da tre anni non la conosceva ancora sotto certi punti di vista.
«No, non credo sia strano. Maschio o femmina non ha importanza. Però voglio sapere se è stato bello.»
«Sì, lo è stato. Allora anche tu piaci a Naoko. Non c’è niente di male se vi piacete»
Ulquiorra aveva un modo di parlare lento e rassicurante. Quasi rivedeva il sé stesso adolescente, timido e silenzioso, sempre circondato dai suoi amici fuori di testa.
«Lo so, però… mi gira la testa solo a pensare di fare questa cosa! Ti prego, nno dirlo a Nnoitra. Mi uccide se sa che voglio baciare Naoko. E non dirlo nemmeno a Kiyoko. Anzi, non dirlo proprio a nessuno, è un segreto. Va bene?»
Satoshi aveva parlato con una certa solennità. Ulquiorra era piacevolmente colpito dal modo in cui il ragazzino si era aperto. Ed era sorpreso dalla facilità con cui lui stesso aveva riposto, lo aveva consigliato e rassicurato.
«Prometto di non dirlo a nessuno» rispose altrettanto serio. Magari quel segreto poteva sancire l’inizio di quel qualcosa in più.
 
La quotidianità da coppia aveva in sé qualcosa di magico. Renji e Byakuya vivevano una vita piuttosto semplice, niente di chissà quanto eclatante, eppure riusciva a risultare tutto speciale in ogni caso.
«Renji, il tuo cane si è mangiato di nuovo la tenda.»
Byakuya lo fissava truce, tenendo in mano la tenda sbrindellata da Zabimaru, ora accucciata ai piedi di Renji con sguardo colpevole.
«Perché quando combina qualche danno è il mio cane? Comunque non ce la faccio a rimproverarla, fallo tu» borbottò. Visto e considerato l’andazzo, di sicuro se fossero stati genitori, Renji sarebbe stato il più permissivo, Byakuya il più severo. Era un pensiero che aveva fatto tante volte, quello e oramai anche il matrimonio, anche se non ne aveva ancora parlato col diretto interessato. Byakuya parve rinunciare in fretta a rimproverare Zabimaru, che subito aveva iniziato a fare la ruffiana e a saltargli addosso.
«E va bene, tanto qualsiasi cosa che dirò sarà inutile» disse prendendo il cane in braccio. «Ma le tende le ricompri tu.»
«Ah, sì signore» sospirò Renji, che fingeva di guardare qualcosa alla televisione. In realtà voleva prendere il discorso in modo naturale.
«Sai che Yumichika mi ha detto che lui e Ikkaku vorrebbero un figlio?»
«Davvero? Buon per loro, immagino che per un bambino sarebbe uno spasso crescere con loro» rispose Byakuya, mentre dava da mangiare a Zabimaru.
«Eeeeh, già. Byakuya, emh… tu hai mai pensato di risposarti?»
Da quando si erano messi insieme, la parola matrimonio non era mai stata pronunciata. Renji inizialmente non ci aveva pensato, non aveva mai ritenuto il matrimonio qualcosa di indispensabile. Ma adesso iniziava a maturare in lui l’idea che gli sarebbe piaciuto essere legato a Byakuya in tutti i sensi, anche dal punto di vista legale. Non si era certo dimenticato però che lui era già stato sposato una volta.
«In realtà non ci ho pensato. Mi vuoi sposare?» chiese guardandolo. Renji sorrise, cercando di sdrammatizzare.
«Mi stai facendo la proposta?»
Byakuya gli lanciò uno dei suoi soliti sguardi seri e imperscrutabili.
«Sciocco. Comunque io e te stiamo bene così.»
«Certo che stiamo bene, chiaro! Ah, lascia perdere. Se non mi vuoi sposare va bene uguale» minimizzò. Anche se in realtà non andava bene per niente.
«Ma non ho detto questo.»
«Allora vuoi.»
«Renji, questo è un discorso serio e complicato.»
Renji arrossì ed evitò di guardarlo.
«È che voglio farmi una famiglia con te»
Byakuya lo capiva. Anche lui un tempo aveva desiderato una famiglia. In realtà lo desiderava anche adesso.
«Non siamo già una famiglia?»
«Certo che lo siamo! Perché devi dire cose ovvie?» domandò esasperato. Byakuya allora si avvicinò. Poggiò una mano sulla sua e allora Renji fu costretto a guardarlo.
«Mi spiace.»
«E ora perché ti scusi? Dai, non fare quella faccia.»
«Ho solo questa, temo.»
Lo faceva ridere, anche se non ne aveva l’intenzione. Certo, lui, Byakuya erano una famiglia. Certo, così stavano bene. Ma era così sbagliato desiderare anche altro?

Nota dell'autrice
Ahi ahi, discorso matrimonio, come andrà a finire? Renji inizia a maturare l'idea, Byakuya invece è sorpreso perché non se lo aspettava. Invece appare una nuova domestica a casa di Gin e Rangiku, ovvero quella stronza di Loly. Visto il personaggio, uno può aspettarsi già il peggio. Nnoitra invece decide che FORSE può accettare di rivedere i suoi genitori e vedere che succede. Le cose non sono tanto più tranquille per i piccini, non più tanto piccini. Hayato si comporta da bad boy e Toshiro non ha tanta pazienza, mentre Satoshi e Naoko sono due piccoli boccioli. Infine, Rin e Miyo rivelano le loro insicurezze sul loro fisico (diciamo che Miyo me la immagino molto simile a Hiyori da questo punto di vista, quindi ci sta che si veda piccola, bassa e minuta).
Spero vi sia piaciuto, alla prossima :*
Nao

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Capitolo sette
 
«Ben fatto, Higarashi. Sarai appena arrivato, ma mantieni un sangue freddo ammirevole.»
Hanataro Yamada in genere era calmo. Era molto calmo, e soprattutto non era propenso allo scontro, tutt’altro. Ma da quando Akon era entrato a far parte del loro team, la sua pazienza veniva messa a dura prova ogni giorno. Quel tizio, più giovane di lui e senza esperienza, stava velocemente conquistando l’ammirazione di Kurotsuchi, che in genere non dispendeva mai complimenti con facilità. Lui, per esempio, ci aveva impiegato anni ad ottenere la sua stima. Sì, forse era un po’ geloso, ma si guardava bene dal dirlo. Kurosaki e Ishida invece erano tranquilli e avevano accolto bene Akon, come se nulla fosse. La situazione disturbava soltanto lui, accidenti.
«La ringrazio, dottore» aveva detto Akon, sempre con quella sua espressione seria e imperscrutabile. L’operazione di quel giorno era stata complicata, un novellino avrebbe trovato difficoltà, ma non lui: lui era rimasto tranquillo e professionale come se lo facesse da una vita. Hanataro si diceva fai buoni pensieri. Ma era così difficile.
«Higarashi è bravo, non è vero? Molto più di me alla sua età» ammise Ichigo durante la paura.
«Sì, dai, è bravo. Mi dà l’idea di uno che tra qualche anno potrebbe diventare primario di chirurgia. Tu che pensi, Yamada?» domandò Ishida al suo kohai.
Hanataro stava succhiando dalla cannuccia il suo succo di frutta con nervosismo. Oh, c’erano tante cose che pensava, tutte poco piacevoli!
«I-insomma, è appena arrivato. Non è niente di che!» borbottò nervosamente. E arrossì subito dopo, perché sbottare in quel modo non era da lui e infatti Ichigo se ne accorse.
«D’accordo. Siamo nervosi oggi, eh?»
«C-chiedo scusa. Non è niente» sussurrò, mortificato. Non voleva comportarsi da immaturo. Tra l’altro Akon era il suo kohai adesso, doveva essere professionale. Ma avrebbe tanto voluto che Ishida non lo invitasse durante il loro momento di pausa, cosa che invece fece.
«Oggi sei stato bravo, Higarashi. Non startene sempre in disparte, un bon rapporto tra colleghi aiuta in sala operatoria» gli disse Ichigo, amichevole. Akon annuì. Aveva sempre la stessa espressione, seria e attenta.
«Grazie, signor Kurosaki.»
«Eh? Ma che signor Kurosaki, mi fai sentire vecchio. Va bene solo Kurosaki. Sei giovane, ma sei troppo ingessato, puoi rilassarti. Tra l’altro, Kurotsuchi ti ha preso subito in simpatia, penso sia la prima volta.»
Hanataro fece un’espressione offesa. E nonostante non fosse da lui terrorizzare i nuovi arrivati, decise comunque di metterlo in guardia.
«Già, comunque ti consiglio di non abbassare la guardia. Il nostro lavoro è difficile e un errore può costare la vita a qualcuno.»
Forse aveva un pochino esagerato. Ricordava bene il suo tirocinio e il terrore di sbagliare, ma adesso era accecato dall’invidia. Akon annuì.
«Ne sono cosciente, signor Yamada.»
«Avanti, signor Yamada lui? Ma se sembra un ragazzino!» esclamò Ichigo pizzicandogli una guancia e facendolo gemere di dolore.
 
Per Mayuri il lavoro era diventato giusto un filo meno piacevole dopo il suo incontro con Senjumaru. Non avrebbe dovuto preoccuparsi visto che lavoravano in due reparti diversi, eppure non riusciva a non stare in guardia. Questo lo rendeva più nervoso e scorbutico del solito. E Urahara, che ci aveva visto lungo, non perse occasione per farglielo notare.
«Oh, Kurotsuchi. Sei nervoso. Ti capisco, le ex sanno fare paura.»
«Ma quale paura, non dire idiozie! Non ho paura di niente, tanto meno di quella megera. Ora però sarei in pausa, vuoi lasciarmi riposare o no?»
Avere un amico come lui(anche se lui nemmeno una volta lo aveva definito tale), portava a varie rotture di scatole, tra cui le sue chiacchiere infinite.
«Lo sai, anche io ho una ex. Benihime, sexy quanto terribile. Già, ci siamo divertiti insieme, soprattutto per quanto riguarda il sesso. Ma non dire mai a Yoruichi che l’ho detto, mi caccerebbe fuori di casa.»
Magari lo avrebbe fatto veramente. Avrebbe detto a Yoruichi che suo marito decantava le lodi della sua ex e delle sue abilità a letto, così magari Kisuke Urahara avrebbe finito di stordirlo di chiacchiere.
«Questo non lo volevo sapere, maledizione a te!»
«Ops, scusa!» rise Kisuke, passandosi una mano tra i capelli in disordine. «Sai, alla fine Soi Fon è venuta a vivere con noi, per il momento.»
Mayuri sospirò, chiudendo gli occhi. Era inutile, Kisuke non lo avrebbe lasciato in pace.
«Tu sei pazzo ad aver accettato una cosa del genere. Io non avrei mai ospitato qualcuno che fino a qualche anno prima andava dietro mia moglie. Piuttosto lo avrei fatto a pezzi con un bisturi e lo avrei usato per qualche esperimento.»
Urahara sgranò gli occhi e poi sorrise.
«Non avevo idea fossi così geloso. Interessante!»
Mayuri si voltò di scatto, quasi per colpirlo. Ma non lo fece: Nemu era appena arrivata e si era portata dietro Ai, che ora lo salutava tutta entusiasta.
«Ciao, papà!» esclamò contenta. Ai adorava gli ospedali, avrebbe tanto voluto assistere ad un intervento chirurgico dal vivo, ma Nemu non era molto d’accordo (suo marito invece era d’accordo).
«Ciao, Ai» disse accarezzandole i capelli. «Hai salvato questo cretino qui da una nottata in terapia intensiva.»
«Sei così crudele!» disse Urahara, teatrale.
Ai sorrise.
«Vado a salutare gli altri, torno subito!» esclamò.  Ai lasciò postò a Nemu, che si avvicinò, discreta e un po’ timida.
«Ciao, tesoro.»
«…Ciao» borbottò Mayuri, in imbarazzo. «Sto sprecando la mia pausa ascoltando le sue chiacchiere.»
«Ripeto, sei crudele. Io volevo solo aiutarti.»
«Per cosa?» domandò Nemu.
Maledetto Urahara, avrebbe dovuto cucirgli la bocca. Tra l’altro non solo non voleva parlare di quell’argomento, non voleva nemmeno che Nemu e Senjumaru si incontrassero, non poteva gestire anche questo.
«Niente! Urahara, perché non te ne vai a fare le cose che fanno i primari di medicina?» borbottò. Ma Kisuke rispose che era in pausa e d’altronde né lui né nessun altro poteva impedire a Senjumaru Shutara di andare dove voleva. La donna, infatti, per la seconda volta era andata nel loro reparto e come sempre aveva calamitato l’attenzione su di sé: di sicuro doveva aver attirato sia uomini che donne, anche se per motivi diversi.
«Dannazione» sibilò Mayuri. Nemu si era stretta a lui, lo aveva fatto istintivamente. Conosceva quella donna, l’aveva vista in fotografia, ma era la prima volta che la vedeva di presenza. Era bella, ed ebbe anche la spiacevole sensazione che le somigliasse. Anzi, che lei somigliasse alla ex di suo marito, che era anche peggio.
«Si può sapere che ci fai tu qui?» chiese Mayuri, scocciato.
«Vedo che sei sempre il solito» disse Senjumaru senza scomparsi e rivolgendosi poi a Nemu. «Ero curiosa di conoscere tua moglie. Finalmente ci incontriamo, Nemu.»
Nemu assottigliò lo sguardo.
«Il piacere è mio, signorina Shutara» disse, gentile ma gelida. Sia Mauri che Kisuke percepirono qualcosa di strano, una tensione palpabile. Kisuke di certo non lo invidiava.
«Puoi anche fare a meno di molestare mia moglie» disse infatti. Ma Senjumaru lo ignorò.
«Mayuri è sempre stato esagerato, vedo che in vent’anni non è cambiato molto. Devi essere una santa per sopportarlo.»
Nemu si sentì un po’ messa in soggezione. Quella donna era almeno una decina d’anni più vecchia di lei, eppure sembrava così giovane, bella, sicura di sé.
«Abbiamo i nostri momenti no, come tutti. Visto che lavoriamo entrambe qui, immagino ci vedremo spesso.»
Mayuri non parlò, ma dentro di sé stava maledicendo tutto il mondo. Che aveva fatto di male? Lui quelle situazioni le odiava, perché non gli lasciavano fare il suo lavoro in santa pace?
Ai sbucò all’improvviso, mettendosi tra sua madre e quell’altra, come la chiamava.
«Oh, e chi è questa bambina adorabile?» domandò Senjumaru, senza però accennare ad un sorriso.
«Sono Ai, la figlia di Mayuri. Che è sposato con mia madre. Sono sposati da quattordici anni e stanno insieme da quasi diciotto.»
«Ma pensa» disse Senjumaru. «Quindi vi siete messi insieme quasi due anni dopo che ci eravamo lasciati?»
Ai strinsi i pugni, nervosa. Condivideva lo stesso stato d’animo dei suoi genitori.
«Sì, d’accordo, ma questo è un ospedale, non siamo ad una festa. Ai, per favore, vai a molestare Hanataro. Nemu, ci penso io.»
Non molto entusiasta, Nemu sospirò, lanciò uno sguardo a quella donna e poi si allontanò.
«Non so cosa tu abbia in mente, Senjumaru, ma tienimi fuori dai tuoi seccanti giochetti» disse Mayuri lisciandosi il camice. La donna si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Io non ho in mente niente, Mayuri. Sono passati anni, sono andata avanti.»
Mayuri avrebbe avuto tanto da dire, ma decise di non farlo. Senjumaru salutò poi il primario Urahara con grande entusiasmo e infine se ne tornò al suo reparto.
«Accidenti, quella donna mi mette i brividi» commentò Kisuke.
 
Ai si era ben presto dimenticata di quella donna, tutta impegnata a parlare con il dottor Kurosaki e il dottor Ishida. E soprattutto Hanataro, con cui era oramai amica per la pelle.
«Che intervento avete fatto oggi?» domandò Ai con un tono stranamente professionale. «Avete mai aperto una scatola cranica?»
Ad Hanataro venne una fitta allo stomaco. Non sapeva se trovava quella ragazzina geniale o inquietante. O magari entrambe.
«Eh, no. Non ancora» rispose il ragazzo in imbarazzo. Gli piaceva che Ai gli girasse intorno, che gli facesse domande, che si interessasse. Non ci pensava più ad Akon che si era allontanato e ora era tornato. Ai l’adocchiò subito.
«Tu sei nuovo, vero?»
Hanataro s’indispettì.
«Sì, lui è Akon Higarashi, è il mio kohai. Io sono il suo mentore» disse tutto ringalluzzito.
«Sono io. Tu devi essere Ai. Il dottor Kurotsuchi mi parla sempre di te, dice che sei geniale e io non lo metto in dubbio» disse Akon gentile, facendo un inchino verso di lei. Ai sorrise e avvertì una certa vertigine, come se fosse in procinto di perdere l’equilibrio. Non solo, sentiva anche il cuore batterle forte e le mani sudate. Che bizzarra razione del suo corpo.
«Oh… grazie. Io ammiro tanto il vostro lavoro» sussurrò, dondolandosi. «Anche se io voglio fare la ricercatrice.»
«Affascinante» commentò Akon, colpito da quella ragazzina così giovane e con le idee chiare. Buon sangue non mente, a quanto sembrava.
Hanataro da quel momento fu ignorato totalmente e mogio se ne tornò accanto a Ishida e Ichigo.
«Ah, non te la prendere. Sei ancora tu il suo preferito» disse Ichigo, senza alcun successo. Poi si guardò l’orologio. «Mi sa che il nostro turno è finito. Forza sarebbe meglio tornare a lav-»
Non riuscì a terminare la fra,se perché a quanto sembrava quello era il giorno delle visite. Ichigo, infatti, riconobbe subito la coloratissima chioma di Natsumi. Ma cosa ci faceva quella ragazza lì?
«Dottor Kurosakiiiii!» gridò correndogli incontro e abbracciandolo. Era già la seconda volta che lo prendeva alla sprovvista. Ishida si aggiustò gli occhiali, confuso.
«Natsumi? Ma che cosa ci fai tu qui?»
«Te l’avevo detto che sarei venuta a trovarti. Fortissimo quest’ospedale» Natsumi, con la sua gonna di tulle rosa e il trucco vistoso sembrava una bambina al luna park. E poi si rivolse a Ishida.
«Io lo so tu chi sei. Sei Uryu Ishida. Sei il migliore amico di Kurosaki. State sempre insieme e condividete tutto!»
Ishida arrossì, guardando un altrettanto confuso Ichigo.
«Beh, sì, ma non la metterei per forza in questi termini.»
Ma l’attenzione dell’entusiasta Natsumi fu attirata dai due pezzi grossi, Urahara e Kurostuchi. Si avvicinò, tutta emozionata e concitata.
«Oh, mio Dio! Siete proprio voi! Il dottor Kurotsuchi e il primario Urahara!»
Kisuke sorrise, prendendola subito in simpatia. Per Mayuri fu un po’ diverso.
«Sì, certo, siamo noi. E tu chi sei?» domandò annoiato.
«Mi chiamo Natsumi e scrivo per passione! Vi posso scattare una foto? Magari insieme, so che siete molto amici!»
«Amici noi?!» Mayuri alzò la voce. «Chi osa mettere in giro certe dicerie?»
«Oh, avanti, Kurotsuchi. Non fare il timido. Certo che siamo amici, giovanissima ragazza dai capelli colorati. Ci adoriamo!» disse afferrandolo per un braccio e avvicinandolo a sé.
«Urahara, vedrai se non ti uso come base per un esperimento mortale. Qualcuno si è perso una ragazza pazza?»
Natsumi rise in modo sguaiato e poi si voltò verso Hanataro, che se n’era rimasto lì, abbagliato dalla sua luce. La ragazza lo salutò con una mano.
«Ciao, adorabile e giovane dottore. Io mi chiamo Natsumi. Se non sei fidanzato, la prossima volta posso venire anche solo per te.»
Hanataro a quel punto sembrò essersi gettato nel fuoco. Si stava sciogliendo, era la prima volta che una ragazza gli faceva una corte così spietata.
«Accidenti, Hanataro ha fatto colpo» commentò Ichigo. E sarebbe stato ancora più bello se Hanataro non avesse perso l’uso della parola.
 
 
Rukia non aveva saputo dire di no a Kukakau, quando quest’ultima se l’era trascinata dietro per dello shopping compulsivo e non solo. Kukaku infatti mancava dalla sua città natale da anni ed era un po’ come imparare a riconoscere da capo quel luogo in cui era cresciuta e che aveva abbandonato. Rukia quindi aveva deciso (non che avesse poi chissà quale scelta) di dedicare a lei la sua mattina libera. Anche se forse a lavoro si sarebbe stancata meno, visto che starle dietro e tenere il suo passo era difficile. Kukaku era allegra e in sua compagnia Rukia aveva un po’ messo da parte la malinconia che le stringeva il petto da un po’ di giorni.
«Quest’anno la fioritura dei ciliegi è spettacolare. Dovremmo proprio fare un picnic un giorno di questi» disse Kukaku mentre fotografava un albero in fiore. Rukia sorrise, sentendo di nuovo la malinconia riaffiorare. Nella loro lingua esisteva una bellissima parola, aware, ovvero la sensazione dolceamare legata alla bellezza della natura e della vita umana. Bella quanto fragile, come quei fiori di ciliegio che in autunno sarebbero caduti per poi rinascere.
«Sì, lo penso anche io…» sussurrò. Un fiore e una vita umana cos’avevano in comune? Forse il fatto che erano entrambi così fragili. Kukaku abbassò il cellulare e divenne seria. Era da un po’ che stava cercando di prendere il discorso con delicatezza senza riaprire vecchie ferite, ma sapeva quanto fosse difficile.
«Lo sai, i tuoi gemelli sono davvero magnifici. Molto svegli tutti e due. Masato è sensibile, Kaien fa il duro, ma è buono. Proprio come Ichigo.»
Rukia si rasserenò quando sentì parlare dei suoi figli.
«È vero…»
«Sai, mi ha sempre fatto piacere che tu abbia chiamato uno dei due come mio fratello.»
Rukia sentì il cuore perdere un battito. Era inevitabile che si parlasse anche del passato, dimenticare e cercare di ignorare (come lei invece aveva sempre fatto), non era giusto.
«A me e a Ichigo è sempre piaciuto come nome» sussurrò. E ciò era vero, ma non era tutta la verità.
«Tu e mio fratello eravate molto amici» disse Kukaku con una certa tristezza. «Ed era così protettivo verso di te. Certo, avevate dieci anni di differenza, ma lui ti adorava. Alle volte ho perfino pensato che aveste una storia.»
Kukaku aveva scelto accuratamente le parole dia usare, fissava Rukia, voleva cercare nel suo sguardo una conferma o una smentita. Rukia però non la guardava, sorrideva con tristezza, come a voler ricacciare via il dolore.
«Eh, lo pensavano tutti» sussurrò, portandosi una mano sul cuore. Quello era il suo segreto, il suo dolore. Non era il caso che gli altri sapessero, non era il caso rimuginare. Ma con Kukaku lì era inevitabile pensare, guardare dietro di sé, la quindicenne che era stata, ciò che aveva amato.
«Comunque, tu e Ganju siete tornati a Tokyo definitivamente?» domandò Rukia, nel tentativo di cambiare discorso, ma nemmeno tanto. Sapeva che se Kukaku e Ganju se n’erano andati era anche per cercare di allontanarsi dal dolore, seppur invano.
«Ci ho pensato a lungo, ma sì. Stiamo rimettendo a posto la nostra proprietà, è stata chiusa per anni. Ma di bei momenti lì ne abbiamo passati.»
Rukia se lo ricordava bene. Sembrava passata una vita e invece era poco più di vent’anni prima. Ricordava bene la sua primavera e l’estate alla tenuta degli Shiba. Soprattutto ricordava Kaien.
«È vero» sussurrò. Prese ad armeggiare col cellulare, disse che doveva scrivere a Ichigo, ma in realtà fu solo una scusa. Anche se di suo marito ne aveva bisogno eccome in quel momento.
 
Rukia rientrò a casa nel pomeriggio. Kon le venne incontro facendole le feste. Gettò un’occhiata alla camera dei figli: non erano ancora rientrati. Ichigo invece era tornato poco prima, se ne stava nel suo studio a cazzeggiare, come diceva lui.
«Non puoi capire cosa è successo oggi. A parte l’ex di Kurostuchi che gli dà il tormento, è venuta a trovarmi Natsumi. È simpatica, credo che le piaccia Hanataro.»
«Hanataro? Beh, avrà un bel po’ da fare, Natsumi è molto passionale quando si innamora. Ukitake mi ha chiesto di incontrarci qualche volta, visto che ho preso sua figlia sotto la mia ala protettiva.»
«E va bene, non vedo il problema» Ichigo si mise seduto in modo più composto, osservò sua moglie, come sistemava il cappotto, come si toglieva gli orecchini.
«Rukia, che c’è che non va?»
Ichigo aveva imparato ad avere uno sguardo sempre attento. Aveva capito subito che qualcosa era cambiato con l’arrivo di Kukaku e Ganju. In realtà era quasi ovvio. Pensandoci, nemmeno le circostanze del suo primo incontro con Rukia erano state delle più felici, niente di romantico o trascendentale, solo triste e malinconico. Quindi forse quel ritorno aveva scatenato in sua moglie dei ricordi tristi, come d’altronde era successo a lui. Ichigo cercava di capire, ma non avrebbe potuto farlo fino in fondo perché Rukia non glielo permetteva.
«Non è nulla» sussurrò Rukia con un sorriso dolce. Poi si avvicinò perché Ichigo le aveva fatto segno di avvicinarsi e si sedette sulle sue gambe come quando erano una coppia di fidanzati.
«Non mentire. Ripensi a quel giorno, vero? Insomma, io lo capisco. Un funerale non è una circostanza felice in cui conoscersi. E poi so che tu e Kaien eravate amici.»
Rukia strinse le sue spalle, lo guardò negli occhi. Oh, erano stati molto più che amici. Ichigo somigliava a Kaien. Erano quasi identici. Era proprio per questo che non poteva dire nulla, sui suoi reali sentimenti passati e presenti. Perché riportare a galla qualcosa che avrebbe fatto male a tutti e due?
«Sì, in effetti ci penso. Hai ragione, non è stata una circostanza molto felice e romantica.»
«E d’altronde noi non siamo mai stati romantici, non in modo tradizionale almeno. Vieni qui.»
A Ichigo venne in mente che un suo abbraccio potesse allontanare i cattivi pensieri di Rukia. In parte ebbe ragione: lei se lo teneva lì, col viso contro il proprio seno, la mano ad accarezzargli i capelli. Ichigo era lì, era reale. Era l’amore della sua vita. Non il suo primo amore, certo. Ma non era colpa sua se le cose cambiavano.
Non è colpa mia.
«Ma… Kaien e Masato dove sono?» domandò ad un tratto Rukia, ricordandosi dei suoi figli.
«Studiano in gruppo a casa di Ichimaru. Ma non sono sicuro che studino.»
 
Ichigo non aveva tutti i torti ad avere dubbi. Rangiku aveva messo a disposizione casa sua, in primis perché era la più grande e secondo perché gli amici di Rin erano sempre i benvenuti. Peccato che i ragazzi fossero più propensi ai divertimenti che allo studio. Perfino la studiosa Ai aveva messo da parte i suoi compiti per parlare con Yami, sognante. Ignorando Hikaru. Miyo frequentava la seconda media, ma amava comunque aiutare i suoi amici in letteratura giapponese. Hayato invece era lì solo per fare presenza e per far compagnia al suo migliore amico Kaien.
«Ahi! Ma si può sapere che fai?» aveva sbottato ad un tratto Kaien. Hayato lo aveva pizzicato.
«Vedo come guardi Kiyoko. Va da lei. Oppure ci provo io.»
Ovviamente era una provocazione. Hayato non ci provava con nessuno. Ma quelle parole ebbero comunque un certo effetto su di lui.
«Pff. Va bene, d’accordo. È così imbarazzante» borbottò. Kiyoko se ne stava seduta alla scrivania da sola, quindi avrebbe potuto parlarle senza problemi. Intanto Rin si era gettata su Hayato chiedendogli se poteva baciarlo. Hayato era arrossito e si era allontanato dalla sua presa.
«Kiyoko» Kaien la chiamò, timido e teso come se non la conoscesse da sempre. Kiyoko sorrise, arrossendo a sua volta.
«Kaien. Hai finito i compiti?»
«No, veramente no» doveva dire qualcosa di interessante. Qualcosa che la colpisse. Non voleva risultare burbero come al solito, non era sua intenzione, era solo molto timido. «Mi chiedevo…»
«Sì?» domandò Kiyoko. Forse Kaien le avrebbe chiesto di mettersi insieme a lei?
Le sarebbe piaciuto, non aveva il coraggio di domandarglielo.
«… Mi fai una foto?» domandò Kaien, cogliendo di sorpresa sia lei che sé stesso. Ma che razza di domanda era mi fai una foto? Va bene che Kiyoko aveva la passione per la fotografia, ma così era senza senso.
«Davvero posso?» domandò Kiyoko contenta. «Ho sempre voluto scattartene una. In nome dell’arte, ovvio» si corresse subito. «E poi mi piace il colore dei tuoi capelli, penso che verrà bene in foto!»
Quasi nessuno gli faceva mai complimenti per il colore dei suoi capelli, anzi. Si sforzò di sorridere mentre Kiyoko gli scattava una foto con la sua macchina fotografica. Parve soddisfatta del risultato.
«Mi piace, tu sei così fig-fotogenico!» balbettò Kiyoko. «Io… potrei tenerla?»
Sperò che Kaien non pensasse che fosse pazza, ma tutto ciò che riuscì a pensare fu vuole tenersi una mia fotografia!
«Beh… emh… sì, perché no? E poi non sono fotogenico, sei tu che sei brava!» gettò lì, facendole un complimento. E Kiyoko, che di fotografia era una grande appassionata, fu felicissima che il suo talento fosse riconosciuto da lui in particolare.
«Scusate, ma qualcuno ha visto Masato e Yuichi?» domandò ad un tratto.
 
Yuichi e Masato avevano finito col perdersi e forse questo era un po’ intenzionale era stato. La casa di Rin era enorme, aveva perfino una biblioteca, una vera forza.
«Quanti libri, alcuni sembrano antichi» disse Yuichi osservando interessato alcuno grossi tomi. «C’è sempre qualcosa di magico in posti come questi, vero?»
Masato annuì, si rendeva conto di avere l’espressione da stoccafisso, perché per lui era Yuichi ad avere qualcosa di magico.
«Hai ragione.»
Yuichi si voltò a guardarlo, sorridendo.
«Perché mi guardi così?»
«Beh. Perché… tu sei bello. Molto»
Masato si era fatto avanti e Yuichi gli aveva sorriso in modo timido, ma aveva una luce maliziosa negli occhi. Quando erano soli non avevano problemi a lasciarsi andare, anzi. Masato lo abbracciò e poi lo baciò. Amavano molto baciarsi e a volte si donavano uno di quei baci profondi, tanto emozionanti da lasciarli sconvolti. Anche ora non era diverso. Stavano imparando a conoscersi pian piano e a recepire i propri bisogni e quello dell’altro. A volte Masato avvertiva il bisogno di stringerlo più forte, di strusciarsi su di lui. A volte Yuichi avrebbe tanto voluto che lui lo toccasse. Non lo dicevano apertamente, ma bastava leggere i loro sospiri, i loro sguardi.  Di recente avevano imparato a toccarsi da sopra i vestiti, anche se non osavano andare oltre. Se era bello così, figurarsi cosa doveva esserci dopo.
«Yuichi, mi sento tanto strano» ansimò Masato con gli occhi lucidi.
«Anche io. Così non possiamo continuare. Sai, penso che  dovremmo fare qualcosa di più.»
Masato si guardò attorno.
«Ora?»
«Oh. No, ora no. Pensa se qualcuno entra. Però un modo dovremmo trovarlo. Sempre se vuoi, eh…!»
Yuichi sapeva essere proprio dolce, anche per questo Masato lo adorava. Gli si avvicinò, baciandolo su una guancia.
«Lo sai che con te voglio tutto.»
E ne era sicuro. Era nervoso ed emozionato all’idea di fare certe cose. Si sentiva tutto un fuoco lì, all’altezza del cuore.
 
Shinji era stato impegnatissimo con la band, ma quando tornava a casa era molto bravo a separare il lavoro dalla vita personale. Miyo e Hayato erano. Mentre Miyo era andata a salutarlo tutto contenta, Hayato si era chiuso in camera sua con la musica a palla, non degnando di uno sguardo nemmeno Sosuke.
«Aaaah, ma che cos’è questo casino immane?!» Shinji si era portato le mani tra i capelli. Anche lui era disordinato, ma da quando era sposato con Sosuke si era un po’ migliorato. Hayato invece, come arrivava, buttava tutto sul pavimento.
«Papà, faccio io se vuoi» aveva detto Miyo, che voleva evitare conflitti e faceva del suo meglio.
«Non ci pensare nemmeno, non siamo schiavi. Ehi, Hayato! Ci può essere un solo disordinato per famiglia, e quel posto è mio! Mi hai sentito?»
Si piegò, sollevando lo zaino al contrario e facendo cadere ciò che stava all’interno sul pavimento. Tra i vari libro e quaderni, Shinji riconobbe qualcosa che conosceva bene. Sembravano sigarette e invece erano due canne rollate con attenzione.
Si bloccò un attimo.
«Cosa sono… quelle?»
«Niente!» gridò Miyo. «Non sono sue, sono… di un amico!»
Ma a mentire non era mai stata brava e Shinji questo lo sapeva bene.
«Eh no. In questa casa non entreranno tossici, Hayato!» gridò.  Miyo si schiaffò una mano sul viso, seguendolo. Ora il conflitto assicurato.
Shinji infatti entrò in camera di Hayato all’improvviso e quest’ultimo non si premurò nemmeno di alzarsi dal letto su cui era steso.
«Hayato Aizen.»
«Che c’è, Shinji? Sono occupato.»
Piccolo ragazzino ingrato.
«Ah, sei occupato? Cosa sono queste?» domandò tenendo in mano la refurtiva. Hayato sgranò gli occhi e poi fece spallucce.
«Sai benissimo cosa sono.»
«Già, appunto! Mi preoccupa che sia tu a saperlo. Non puoi fumare questa robaccia alla tua età, sei troppo giovane!»
Certo, lui alla sua età non era stato tanto meglio, ma non era quello il punto.
«Quante storie, le fumo solo ogni tanto» disse strafottente.
Shinji fece per dire qualcosa, ma poi si bloccò. Era inutile, lui la parte del genitore severo non lo sapeva fare. Poi guardò Miyo.
«Lo sapevi?»
«Beh… un po’. Avevo giurato di non dirlo se avesse smesso» e dicendo ciò lanciò un’occhiata di rimprovero ad Hayato.
Certo, pensò Shinji, loro fanno i fratelli uniti e fanno uscire me fuori di senno. Certo, potrei passarci sopra e non dire niente a Sosuke, ma quello era il vecchio me, ora sono responsabile.
«Tu» disse indicando Hayato. «Tu non farai più una cosa del genere. Non vuoi ascoltare me? Bene, vediamo tuo padre come la pensa.»
A quel punto Hayato parve seccato e anche impanicato.
«Sei palloso, mi stai rovinando l’esistenza.»
Shinji si morse la lingua per evitare di rispondergli in malo modo. Lui con quel ragazzino non sapeva proprio approcciarsi.
«Un giorno mi dirai grazie!» esclamò- Lui non aveva mai avuto intenzione d diventare uno di quegli adulti noiosi, con Miyo problemi non ne aveva mai avuti, ma con Hayato poteva dimenticarsi di fare la parte dell’amico.
«Scusa» disse Miyo. Hayato fece spallucce.
«Scusa tu. Non volevo metterti nei guai.»
«Lo so. Ma smettila davvero di fumare quella roba, a te ci tengo» disse Miyo, col suo cipiglio serio e da persona molto più matura della sua età.
 
«Sosuke!»
Quando Shinji lo chiamava per nome e con quel tono, non era mai un buon segno. Sosuke lasciò da pare carte e lavoro, aprì la porta del suo studio. Shinji gli stava porgendo della roba strana.
«Dove l’hai presa?»
«Chiedilo a tuo figlio. L’ho beccato e ha anche l’ardire di dirmi che gli sto rovinando la vita. A quello ci pensa già da solo. Visto che non mi ascolta, ascolterà di sicuro te.»
Sosuke si massaggiò la testa, stanco. Da quando Hayato era entrato nella pubertà era tutto più difficile, per lui e per Momo in egual misura.
«Ci parlerò io, ma quella roba deve sparire. Devi cercare di non litigare con lui.»
Poiché gli dava le spalle, non poteva vedere l’espressione sconvolta di Shinji. Ah, era lui a non doverci litigare?
«Guarda che è lui che non mi rispetta nemmeno un po’. Io faccio del mio meglio. Io faccio del mio meglio.»
Aizen si sedette alla scrivania, pensieroso.
«Lo so. Forse dovreste passare del tempo insieme. Intendo da soli.»
Shinji si schiaffò una mano sul viso, esasperato. Perché Miyo e Sosuke andavano d’amore e d’accordo e lui e il suo figliastro invece dovevano essere come cane e gatto?
«Mi trova noioso. Te lo ripeto, parlaci tu! Perché non ho intenzione né di fare la guerra, ma nemmeno di farmi mancare di rispetto da un adolescente ribelle.»
«Va bene, Shinji. D’accordo» disse Sosuke cercando di rabbonirlo. Con Hayato avrebbe dovuto parlare, di un bel po’ di cose. Inoltre, sperava di non ritrovarsi nella situazione di doversi schierare dalla parte di uno dei due. Shinji se ne andò sbattendo la porta. Era davvero furioso.

Nota dell'autrice
Forse un po' too much quello che combina Hayato, ma nemmeno tanto, oramai i dodicenni ne combinano di ogni. Povero Shinji, noioso lui, sta facendo del suo meglio, ma gli adolescenti sanno essere difficili. Però è anche un'età in cui si sperimenta, come ci mostrano Yuichi e Masato, e non solo loro. Comunque tra ex megere e ragazzine che si prendono crush per uomini più grandi (Ai ha preso dalla mamma in questo), Rukia sta affrontando il suo passato. Lei e Kaien stavano insieme, ma nessuno lo sapeva, anche se qualcuno lo sospettava. Le aspetta un periodo mooolto duro. Ah, e che dire di Natsumi? LA AMO e sì, volevo un interesse amoroso per Hanataro, chi meglio di una ragazza super colorata, un po' fangirl e tanto esuberante?
Alla prossima :*
Nao

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Capitolo otto
 
Il gruppo delle ragazze adorava i pettegolezzi e, soprattutto, adorava parlare d’amore. Yami era la più esperta, aveva molti ragazzi che le facevano la corte. Rin era irrimediabilmente cotta di Hayato, ma faceva finta di niente (non molto bene tra l’altro). Naoko non nascondeva la sua speciale simpatia per Satoshi, Kiyoko non avrebbe avuto bisogno di dire nulla, perché tutti sapevano che fosse cotta di Kaien.
In genere, chi non prendeva parte a quelle discussioni erano Miyo (lei infatti non si era ancora interessata ai ragazzi, ma nemmeno alle ragazze) e Ai. Quest’ultima era timida e non aveva mai avvertito niente di troppo eclatante da doverlo dire, ma le cose erano cambiate da quando aveva incontrato Akon Higarashi. Lui era un futuro chirurgo brillante e gentile, le era piaciuto molto e non faceva altro che pensarci e sospirare. Per questo, quando aveva sussurrato alle sue amiche c’è qualcuno che mi piace, le sue amiche le erano saltate addosso.
«Come sarebbe a dire? Io pensavo che avresti sposato mio fratello!» disse Yami poggiando le mani sui fianchi. Per poco Ai non ingoiò la cannuccia che stava mordicchiando. Certo, Hikaru era il suo migliore amico e le piaceva. Ma aveva detto di volerlo sposare tanto tempo prima, erano più piccoli. Magari le piacevano entrambi, ma per il momento era tutta presa da quella nuova cotta.
«Lo so, lo so. Hikaru mi piace, ma Akon… lui mi piace anche! È così intelligente, sa un sacco di cose e parla con me come se fossi un’adulta. Ha iniziato il tirocinio da chirurgo da poco…»
Naoko si portò una mano sotto il mento.
«Aspetta, ma questo significa che è vecchio!»
«Non è vecchio! Ha ventiquattro anni» specificò Ai.
«Sì, ma tu ne hai dodici, è comunque troppo vecchio per te» disse Miyo.
Ai arrossì, incrociando le braccia al petto.
«Vero, ma quando io avrò diciotto anni lui ne avrà trenta. Che è la stessa età che avevano i miei quando si sono conosciuti, quindi si può fare!»
«Ah. Ad Ai piacciono maturi, ma che discola che sei!» Yami si avvicinò, pizzicandole una guancia. Era ora di pranzo e le ragazze stavano mangiando i loro bei cestini di bento, tutte tranne Rin, che si era limitata ad uno snack e nulla più.
«Mia mamma come al solito ha esagerato» disse Naoko. «Qualcuno vuole un onigiri al tonno?»
Rin scosse la testa, quasi disgustata. Miyo assottigliò lo sguardo.
«Sei sicura che quello snack ti basti? Uscirai da scuola affamata»
«È che ho mangiato molto a colazione» disse Rin facendo spallucce. «Sto bene, non preoccuparti.»
Miyo non aveva certo intenzione di fare da madre alla sua migliore amica, ma era sempre stata protettiva e attenta verso le persone da lei amate. Rin era strana, non aveva la sua solita luce negli occhi e questo non le piaceva.
Yami sbadigliò e Naoko le diede una gomitata.
«C’è uno della 3-B che non fa che guardarti.»
I ragazzi dell’ultimo anno avevano quattrodici-quindici anni e in genere non degnavano di molti sguardi le ragazze del primo. Yami però attirava l’attenzione e questo le piaceva, si sentiva una donna.
«Davvero? Oh, mi piace. Sapete cosa? Ora vado lì e mi faccio dare il numero.»
«Ma sei sicura?» domandò Kiyoko, a disagio. «Mi fanno paura.»
«Ma che paura! Intraprendenza, state a guardare!» Yami si lisciò la chioma chiarissima, che creava una contrapposizione piacevole con la sua pelle ambrata. Le sue amiche la guardavano con stupore e anche con un certo timore. Oh, pensò Ai, se solo fossi così coraggiosa. Ma un uomo non guarda una bambina, anche perché è illegale. Ma quand’è che crescerò?
Prima che se ne accorgesse, si ritrovò Hikaru seduto accanto a lei. Il suo amico era imbronciato, guardava sua sorella scuotendo la testa.
«Vorrei che Yami la smettesse di fare così.»
«Così come?»
«Così. Da un po’ di tempo ha un brutto carattere. E poi dà confidenza a brutti elementi, la maggior parte dei ragazzi che le gira attorno ha la faccia da delinquente. E se solo provo a parlare, mi risponde male.»
Ai sorrise e gli accarezzò una spalla. Hikaru arrossì e si schiarì la voce.
«Comunque, perché non usciamo uno di questi giorni? È da tanto che non lo facciamo.»
C’era stato un tempo in cui lui, lei e Yami si ritrovavano spesso per giocare insieme. Adesso si ritrovavano ancora vista l’amicizia tra le loro famiglie, ma Hikaru bramava un po’ di tempo da solo con lei. Ai fece finta di pensarci.
«Ma certo che sì, Hikaru. Magari sabato. Oh, magari possiamo mangiare della yakisoba. E andare al neko café. Oppure al luna park. Però non so se è aperto, in effetti.»
Chiederle di uscire non era stato difficile, perché Ai era amichevole. E lui voleva andare oltre l’amicizia. Come avrebbe potuto fare? Dirglielo era fuori discussione. Ci voleva un gesto, ma era impedito. Non aveva mai baciato nessuno e voleva che la prima fosse lei. Se solo avesse saputo da dove iniziare…
Yami tornò, sollevando vittoriosa il telefono.
«Visto? Mi ha dato il suo numero. Vedete, è facile!»
 
Era un po’ di giorni che Ishida non riusciva a riposare in modo decente. Le sue notti erano costellate da incubi, incubi di cui al risveglio non riusciva a ricordare nulla, se non una spiacevole sensazione di angoscia che gi si aggrappava addosso, come una presenza oscura e informe. Credeva di essere bravo a fare finta di niente ed era sicuro che non se ne sarebbe accorto di nessuno. In questo però si era sbagliato in modo clamoroso, perché sia Ichigo che Tatsuki avevano notato qualcosa di strano. Perfino la piccola Yoshiko si era resa conto che qualcosa non andava.
«Papà, sei stanco? Devi dormire, se sei stanco!» esclamò la bimba, tenendo in mano uno dei suoi pastelli a cera. Uryu le stava seduto davanti, leggeva qualcosa, poi mangiava distrattamente.
«Sì, sono un po’ stanco, Yoshiko. Non preoccuparti.»
Tatsuki però non se ne sarebbe stata lì ad accontentarsi dei non preoccuparti.
Così si era piantata davanti a suo marito con le mani davanti ai fianchi.
«Uryu, mi stai facendo preoccupare. Sei sicuro che non sia il caso di fare qualche esame?»
Lui fece un gesto con la mano, come a voler dire di non esagerare.
«Fisicamente non ho nessun problema. Sono solo… incubi»
«Vuoi il mio orsacchiotto Yoshi?» domandò sua figlia. Era proprio tenera nel suo tentativo di far stare il papà meglio, ma purtroppo c’era ben poco che poteva fare. Quando Uryu si accorse che Tatsuki aveva mandato via Yoshiko, aveva capito che sua moglie voleva parlargli e li in alcun modo sarebbe potuto sfuggire a ciò.
«Su, Uryu. Non dirmi che non c’è niente, ti conosco da troppo tempo.»
Ishida sospirò. Come poter spiegare qualcosa che a stento comprendeva lui?
«Io non so cosa sia, so solo che ho iniziato a non dormire la notte e ad avere incubi. E no, non è successo niente. Non che io ricordi, almeno.»
«Lo vedo come sei apprensivo con Yuichi. Non è che per caso c’è qualcosa che dovrei sapere?» Tatsuki non sapeva come misurare le parole, si stava addentrando in un territorio sconosciuto.
«No, non c’è niente. Io mi preoccupo perché l’adolescenza è un periodo complicato.»
«Per te alla sua età è stato complicato?»
Ishida si bloccò un attimo. Cercò di ricordare sé stesso a dodici anni e non riuscì a trarne fuori niente, né un’immagine, né un evento. A dodici anni doveva aver frequentato la prima media. E poi, poi che altro?
«Sinceramente non mi ricordo niente di quel periodo.»
«Come non ricordi niente? Proprio niente?»
«Non saprei dire. Ricordo molto di quando avevo dieci, undici e tredici anni, ma di quel periodo… non mi viene in mente niente. Evidentemente non c’è stato niente di importante.»
Tatsuki fu stupita dalla sua risposta ed evitò di fare domande. Certo, era impossibile ricordarsi tutto, erano passati più di vent’anni, ma da come Uryu ne aveva parlato pareva quasi che ci fosse un periodo della sua vita che risultava come cancellato. Come se non fosse mai esistito. Non continuò il discorso, piuttosto pensò che poteva chiedere a Ichigo, se non ricordava male loro si erano conosciuti l’ultimo anno delle scuole medie.
E poiché Ichigo non era solito a ricevere chiamate da Tatsuki, si allarmò un po’ quando accadde.
«Sì? Ishida sta bene, vero?»
«Emh… ciao, Ichigo. È vivo, se è questo che intendi. Scusa questa chiamata improvvisa, ma devo chiederti una cosa. Tu conosci Uryu da tanto tempo, vero?»
«Eh? Sì, ci siamo conosciuti in terza media e poi siamo andati allo stesso liceo. Ma perché?»
«Ti ha mai raccontato niente? Della sua infanzia… dei primi anni della sua adolescenza? In particolare, dei suoi dodici anni?»
Ichigo passò il telefono all’altro orecchio.
«Io… non mi ha raccontato niente di particolare. Ma perché, che succede?»
A Ichigo poteva dirlo. Si fidava di lui.
«Uryu è strano. Non dorme la notte, ha gli incubi, non è più in sé. So che non è successo niente adesso, ma abbiamo parlato e non lo so…è come se non si ricordasse di un periodo della sua vita.»
Ichigo non seppe cosa dire. Non aveva mai indagato a fondo perché Ishida non aveva mai fatto cenno a nulla del genere e si sentì molto stupido.
«Io… non saprei. Non me ne ha mai parlato, però… forse dovresti parlare con i suoi.  Loro sapranno qualcosa.»
Tatsuki aveva voluto evitare di coinvolgere i suoi suoceri, onde evitare di farli preoccupare. Ma era preoccupata, aveva la brutta sensazione che suo marito stesse poco bene e che il motivo fosse più antico e profondo di quanto pensasse.
«Va bene. Allora vedrò di parlare con loro in questi giorni.»
«D’accordo. Ehi, fammi sapere. Adesso scusa, vado a rompere il culo a quell’idiota di mio cugino Ginjo»
Dicendo ciò, Ichigo chiuse la chiamata. Quando aveva detto rompere il culo, Ichigo non intendeva letteralmente, ma ai videogiochi. Suo cugino gli girava sempre intorno e lo aveva sfidato ad una partita. E poiché entrambi avevano avuto sin da bambini la mania di sfidarsi, Ichigo non aveva potuto resistere.
«Hai finito di parlare?» borbottò Ganju.
«E non rompere, sono qui. Vedrai come ti sconfiggerò.»
Kaien fissava quei due – che in teoria avrebbero dovuto essere gli adulti – e borbottò.
«E io quando gioco?»
«ASPETTA IL TUO TURNO!» sbottò Ichigo.
Rukia aveva chiuso la porta, onde evitare che le urla di Ichigo e Ganju li disturbassero. Suo fratello era venuto a trovarla, anche se Renji non c’era perché impegnato all’officina.
«Scusa, Ichigo è un po’ su di giri quando Ginju è qui.»
«Non ti preoccupare, sono abituato ai suoi scleri» disse Byakuya sorseggiando il suo tè. «Comunque, se ti dico una cosa, mi prometti di mantenere la calma?»
Rukia gli si sedette davanti, gli occhi sgranati e l’espressione attenta.
«Sì?» domandò. Byakuya arrossì e si schiarì la voce.
«Renji e io abbiamo parlato di matrimonio.»
Non appena ebbe sentito la parola matrimonio, Rukia batté una mano sul tavolo, quasi facendosi male.
«TI HA FATTO LA PROPOSTA?»
«N-no, non mi ha fatto la proposta, ne abbiamo solo parlato.»
Rukia si ricordò che quello era un argomento ostico per suo fratello, così si rimise composta e più calma.
«Beh. E a che conclusione sei arrivata? Tu non vorresti risposarti?»
Byakuya ci pensò qualche attimo. Per lui era già straordinario il fatto di avere un compagno che amava, con cui conviveva, una vita soddisfacente. Al matrimonio non aveva mai pensato.
«È che io non ci ho mai pensato. Noi così stiamo così bene.»
Rukia strinse il polso di suo fratello.
«Oh, Byakuya. Certo che state bene, ma forse Renji vuole compiere un passo in più. Se gli dici ciò che senti, sono sicura che capirà.»
E questo era vero, Renji era molto comprensivo. Però aveva paura di farlo soffrire, quanto gliene aveva fatte passare prima di mettersi insieme? Non voleva dare inizio ad un’altra tiritera.
«Va bene, gliene parlerò. Comunque, sappi che mi sono accorto della tua tristezza.»
Rukia oramai era un libro aperto, forse non ne era nemmeno consapevole. Oh, se solo Byakuya avesse saputo che in fondo erano più uguali di quanto pensava, chissà cosa le avrebbe detto.
«Ve ne state accorgendo tutti, eh?» domandò, sorridendo in modo triste.
«È per quell’uomo, Kaien Shiba, vero? Mi ricordo che eravate molto amici. Io in realtà pensavo ci fosse dell’altro. Però in effetti era troppo vecchio per te.»
«Oh, non era così vecchio» disse Rukia. Prima Kukaku, ora anche Byakuya? Era così palese che Kaien Shiba per lei non fosse stato solo un semplice amico? Solo Ichigo non si era mai posto il problema, perché aveva sempre dato per vere le sue parole. E d’altronde Rukia iniziava a sentire quella sensazione di senso di colpa per aver celato tutto il suo dolore e parte della sua vita. Certo, Byakua avrebbe capito. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto. Ma si portava dietro quel blocco da più di vent’anni ed era talmente abituata ad agire in quel modo, che non poteva nemmeno contemplare una scelta diversa.
Byakuya però aveva intuito qualcosa. Il suo dolore passato lo aveva reso attento e negli occhi di sua sorella aveva percepito qualcosa di familiare. Possibile che lui e sua sorella avessero condiviso un dolore simile e che lui, per tanto tempo, fosse stato cieco di fronte a tale evenienza?
 
Oramai Gin, da ben quattro anni a quella parte, aveva imparato a godere della sua famiglia, del loro tempo insieme. Ne conseguiva che era più rilassato, anche perché il suo rapporto con Aizen era diventato normale e si era persa quell’aria da padrone e servitore. Capitava molto raramente che, tornando a casa, non trovasse né Rangiku né Rin. Quella era una di quelle rare sere. La sua bella casa era in perfetto ordine (la nuova domestica aveva fatto proprio un ottimo lavoro), ma era silenziosa.
«Rangiku? Rin? Ma c’è qualcuno?»
Non ricevette nessuna risposta, l’unica anima viva era Sir Biss che sibilava nella sua teca. E poi Loly, la domestica che era venuto ad accoglierlo, a prendere la sua giacca e la sua ventiquattro ore.
«Bentornato, signor Ichimaru.»
«Ah, salve Loly. Che fine hanno fatto le mie ragazze?»
«La signora Rangiku è uscita col suo amico Yumichika, mentre la signorina Rin è a casa della sua amica Miyo.»
«Oh. Capisco, sono fuggite senza nemmeno avvisare» disse Gin, melodrammatico. «Comunque si è fatto tardi, se hai finito puoi andare, sarai esausta.»
Gin era notoriamente gentile con tutti (anche se spesso ancora capitava che non facesse buona impressione alla gente, ma bastava conoscerlo un po’ per cambiare opinione). A Loly, però, non aveva fatto una cattiva impressione, anzi.
«Oh, non deve preoccuparsi per me. Con l’auto è facile andare e venire. Piuttosto, posso fare qualcosa per lei? Deve essere stanco dopo una giornata di lavoro così stancante. Le preparo qualcosa, si sieda.»
«Questo non è necessario, non rientra nelle tue mansioni» le ricordò Gin.
«Insisto. Sono molto brava a preparare gli alcolici o almeno così dicono» disse Loly. In genere le persone, soprattutto la gente estranea, si rivolgeva a Gin con un certo timore, forse si sentivano in soggezione. Non Loly, lei dava l’impressione di sentirsi del tutto a suo agio, a giudicare da come lo guardava negli occhi. Gin non volle essere scortese, così decise di accettare. E si sedette, in effetti era un po’ stanco. Sentì Loly armeggiare con qualcosa e dopo qualche minuto la ragazza gli porse un bicchiere ricolmo di un liquido ambrato.
«La signora Rangiku mi ha detto che ama i sapori forti.»
«Ha detto giusto. Di solito non bevo da solo, ma posso fare un’eccezione.»
Gin mando giù in un paio di sorsi l’alcolico e sentì la gola a bruciargli, talmente tanto che fu portato a tossire.
«Accidenti, mi sa che mi sto rammollendo.»
Intanto Loly si era seduta di fronte a lui con un sospiro, assumendo un’espressione sofferente, come se all’improvviso le fosse calata addosso tutta la stanchezza.
«Sicura di non essere stanca?»
«Sto bene. E volevo dirle che mi trovo anche a mio agio. Non tutte le famiglie in cui sono stata erano così gentili.»
Loly accavallò le gambe e a Gin cadette l’occhio lì. Erano sempre state così corte le divise per le domestiche?
«Sì, lo so, ci sono persone molto sgradevoli. Noi abbiamo sempre trattato tutti bene. Come vedi mia moglie è molto amichevole. E poi tu sei così giovane, potresti essere mia figlia.»
«Oh, non lo dica, lei è giovane e io non sono così piccola come sembro.»
Gin notò un certo tono dispettoso, ma fece finta di niente.
«Comunque credo proprio che ci troveremo benissimo insieme. Io ho grandi qualità.»
«Lo vedo, hai fatto un buon lavoro. Adesso dovresti proprio andare, non vorrei farti fare troppo tardi.»
Loly non insistette oltre, anche perché era davvero ora di tornare a casa. E per fortuna, pensò Gin. Forse la stanchezza gli giocava brutti scherzi, ma aveva avuto la sensazione che Loly stesse flirtando con lui. Ma di sicuro si era sbagliato.
 
 
«Che tipi sono i genitori di papà?»
Naoko stava facendo di tutto per non studiare. Non amava applicarsi ai compiti, preferiva la sua colorata pittura, ma Neliel su quello era intransigente: prima il dovere e poi il piacere. Ma sua figlia aveva anche il diritto di porre domande e preferiva farle a lei direttamente che a Nnoitra. Quest’ultimo, infatti, sull’argomento era abbastanza chiuso.
«Sono… normali» disse Neliel, pulendo l’ultimo piatto. Cercava di essere neutrale, Naoko li aveva già incontrati quando aveva tre anni, ma non ricordava niente; quindi, sarebbe stata una prima volta per lei.
«E come si chiamano?»
«Sun Ah e Shirai.»
Naoko si grattò la testa.
«Non capisco perché devo avere un padre per metà coreano e non sapere una parola di coreano. Non è giusto. Kiyoko parla inglese e spagnolo perché zio Ulquiorra è un misto. Tu mi hai insegnato il russo. Papà, ma perché non parli mai il coreano?»
Nnoitra si era buttato sul lavoro, o almeno fingeva. Sollevò lo sguardo su sua figlia. Naoko aveva un certo caratterino e pretendeva cose giuste.
«Non mi piace molto e poi uso più il giapponese.»
«Ma sono le tue origini e pure le mie. Va bene, se non vuoi chiederò a nonna di insegnarmi.»
Neliel guardò Nnoitra e lui sbuffò. Se sua figlia voleva avere un rapporto con loro, non poteva certo impedirglielo.
«Se proprio lo vuoi.»
Naoko si avvicinò, le mani poggiate sui fianchi.
«Papà, ma perché non vi siete visti né sentiti per tutti questi anni? Io non riuscirei mai a fare una cosa del genere con te e la mamma, penso che cadrei in una profonda depressione.»
Nnoitra posò il pennino e la guardò. Com’era saggia e pura la sua Naoko, quelle qualità non le aveva perse nemmeno ora che si affacciava all’adolescenza.
«Perché mio padre ha sbagliato tanto nei miei confronti e mia madre se n’è stata a guardare. Ma questo non ha niente a che vedere con te, loro ti vogliono bene anche se ti conoscono poco.»
Naoko si fece pensierosa.
«Lo spero davvero, ma comunque prima o poi dovrete raccontarmi tutto. Piuttosto, loro quando arrivano?»
«Fra qualche giorno» disse Neliel. «Ma ora, puoi riprendere a fare i compiti? Avanti Nao, un po’ di sforzo.»
Naoko si lamentò, dicendo che la scuola era inutile e che se fosse stato per lei avrebbe passato tutto il tempo a dipingere, a vivere del suo lavoro. La ragazzina aveva le idee chiare. Nnoitra si passò una mano sul viso, provato.
«Non ti preoccupare, tesoro. Lo so che è una situazione stressante, ma l’affronteremo insieme» lo rassicurò Neliel.
«Sono solo preoccupato di perdere la testa. Vorrei evitare di farlo davanti a Naoko. Dannazione! E io che pensavo che i drammi tra i genitori e figli finissero con l’età adulta, ma mi sono sbagliato.»
Neliel sorrise e gli baciò la fronte.
«Lo so. Ma non è mai troppo tardi per affrontare le cose. O per risolverle.»
Neliel era sempre così predisposta al perdono. Nnotira no, lui era capace di portare rancore per anni.
 
Il ragazzo che le aveva dato il numero si chiamava Ren Kazutora, aveva quattordici anni ed era molto carino. Yami aveva passato buona parte del pomeriggio e della sera a parlare con lui, a scambiarsi messaggi. In genere Yami era una che si stancava subito, era difficile che qualcuno catalizzasse il suo interesse. Ma quel ragazzo le piaceva, forse perché non era partito subito cercando di baciarla (anche se probabilmente mirava a quello, ma per Yami non era un problema. Non voleva certo un fidanzato!). Ora era sera e se ne stava a letto, Kisuchi era acciambellato ai suoi piedi e lei continuava a parlare con quel ragazzo.
 
Da Ren, ore 20,30
Quindi hai detto che pratichi danza?
 
Da Yami, ore 20,32
Danza classica. Sì, con tanto di tutù.
 
Da Ren, ore 20, 34
Carina. Poi devi assolutamente mandarmi una foto.
 
Yami sorrise, divertita e un po’ ringalluzzita, le capitava sempre con tutti i ragazzi. Si scattò una foto e la inviò al ragazzo.
Da Ren, ore 20, 40
Accidenti, come sei bella. Indossi il pigiama, vedo.
 
Da Yami, ore 20, 41
Ma va? Che dovrei indossare?
 
Da Ren, ore 20, 43
Posso vedere quello che c’è sotto?
 
Yami arrossì. Non era nuova a certe cose, le era capitato che durante i baci si finisse con il toccarsi, però non aveva mai inviato una foto a nessuno.
 
Da Yami, ore 20, 44
Ma ci siamo conosciuti oggi
 
Da Ren, ore 20, 45
Tu puoi fidare, dico davvero. Ma se hai paura non preoccuparti, sei anche più piccola di me.
 
Yami colse la sua provocazione. E funzionò. Lei poteva anche essere piccola, ma non aveva paura di niente, figurarsi di quel genere di cose. Anzi, era piuttosto esperta per la sua età. E poi era solo una foto. S’indispettì e si tirò su la maglietta del pigiama, togliendolo. Poi si sistemò i capelli e scattò una foto e si riscoprì più goffa di quanto avesse voluto, per fortuna nessuno poteva vederla. E poi inviò la foto e attese.
 
Ren, ore 20,50
Wow. Sei bellissima. Sembri molto più grande della tua età.
Yami ne fu lusingata.
 
Yami, ore 20, 52
Ti ringrazio. Non farla vedere a nessuno, eh.
 
Hikaru entrò senza annunciarsi. Di conseguenza, Yami cacci fuori un urlo talmente forte da far scappare il gatto.
«Hikaru! Ma perché non bussi, si può sapere?» esclamò lei, coprendosi con la maglietta. Suo fratello però non si era accorta di niente.
«Scusa! Volevo solo sapere se avevi visto i miei auricolari, non li trovo più. E poi perché ti agiti così? Ti ricordo che noi dormivamo sempre insieme da bambini!»
«Figurati se ora voglio dormire con uno che si tocca le parti intime tutto il tempo, è disgustoso» disse Yami, giusto per farlo impazzire. Hikaru arrossì, affranto.
«Io non mi tocco tutto il tempo!»
«Invece sì, lo fate tutti, non togliete le mani di lì un attimo.»
«B-beh, pensa per te. Stupida!» gridò Hikaru, colpito nel vivo, richiudendo la porta. Dannazione, doppia dannazione. Sua sorella si era messa in testa di farlo impazzire? Perché era molto vicino all’esaurimento!
 
«Ehi, ragazzi? È tutto a posto lassù? Non fatemi venire lì, altrimenti… altrimenti vi farò dare una lezione da vostra madre!»
Kisuke ci provava sempre a essere severo. Alle volte ci riusciva, alle volte no. E poiché i suoi figli erano rimasti in silenzio, o si erano uccisi a vicenda oppure avevano dato fine al litigio. Yoruichi stava facendo tardi quella sera, a volte capitava che si trattenesse a scuola per riunioni varie e lui era lì ad occuparsi di tutto. Soi Fon uscì dalla sua stanzetta mentre fissava il cellulare. Stava cercando annunci di lavoro convenienti e tanto era concentrata da non accorgersi di Kisuke, tutto intento a cucinare qualcosa di commestibile per la sua adorata moglie.
«Oh, buonasera, Soi Fon! Hai fame? Se non sbaglio non hai cenato questa sera!»
La ragazza sollevò lo sguardo. Davvero divertente vedere il primario Urahara con indosso un grembiule.
«Salve… signor Urahara. Sì, in effetti non ho mangiato.»
«Ma cos’è tutta questa formalità? Chiamami Kisuke! Yoruichi non è ancora tornata, quindi qui penso a tutto io.»
Soi Fon si avvicinò, pensando quanto è strana la vita! Un tempo lei e quell’uomo erano stati praticamente rivali in amore e ora vivevano sotto lo stesso tetto.
«Yoruichi è una brava insegnante. Devo dire che mi manca, non sono in molti ad avere il suo approccio. Lei tratta gli adolescenti come suoi pari, non li tratta da stupidi» ammise Soi Fon.
«Lo so, non è meravigliosa?» gongolò Kisuke. «Certo sa anche essere severa. E meno male, perché io non riesco.»
«Non ci credo. Sei un primario di medicina, sarai severo qualche volta.»
Sì, qualche volta, appunto. Ma Kisuke non era quel tipo di uomo che amava incutere timore, anzi, adorava far sentire le persone a loro agio. Forse fin troppo.
«Emh, un pochino. Ma sai, io sono più per le atmosfere rilassate, in amicizia e…»
Soi Fon si avvicinò.
«Stai bruciando la carne» gli fece notare.
Accidenti. Kisuke in cucina combinava sempre disastri.
«Aaaah. Oh, no! Questo è un bel guaio» disse ridendo, spegnendo il gas. Quell’uomo rideva sempre. Era un concentrato di positività, Soi Fon divenne pensierosa.
«Visto che hai carbonizzato la carne e abbiamo poco tempo… Facciamo degli onigiri, sono facili. Costituiscono una buona percentuale della mia dieta.»
Aveva detto facciamo e in effetti insieme li fecero, ma Soi Fon lo pregò di seguire lei per evitare altri disastri (anche se non bisognava usare i fornelli in quel caso). Quella fu la loro prima occasione di stringere amicizia. Kisuke in effetti era simpatico e la faceva ridere contro la sua volontà. E poi poteva raccontarle aneddoti divertenti su Yoruichi, e questo non era certo poco.
Proprio Yoruichi era ignara di tutto ciò e, quando finalmente rientrò in casa, affamata e stanca, si sorprese di ritrovarsi la tavola imbandita e quei due a fare combriccola.
«Che cosa avete combinato voi due?» domandò divertita.
«Cos’abbiamo creato, vuoi dire!» esclamò. «Vedi, io ho bruciato la cena e Soi Fon aveva un piano di riserva. Siamo stati bravi, eh?» domandò circondando le spalle della ragazza con un braccio. Soi Fon arrossì.
«Oh, non ho fatto niente di che, davvero.»
«Ma guarda, siete diventati amici per la pelle. Kisuke, fai il bravo con Soi Fon» lo rimproverò scherzosamente Yoruichi. «Comunque sono affamata, unitevi a me. Visto che avete fatto almeno venti onigiri.»
A Soi Fon venne da ridere, ma riuscì a trattenersi. Una piacevole serata. Sarebbe stato bello se fosse stato così più spesso.
 

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Capitolo nove
 
Ai si era legata i capelli. Poi se li era sciolti. Aveva fatto una smorfia davanti allo specchio, controllava come le stava addosso il vestito blu. Aveva un debole per gli abiti sullo stile un po’ vintage. Non la turbava il fatto di dimostrare esattamente la sua età. Dopotutto aveva dalla sua il genio e l’intelligenza. Certo, avere qualche anno in più l’avrebbe sicuramente aiutata.
«Ai, che stai facendo?» domandò Mayuri. Ai non era tipo che si preoccupava dell’aspetto fisico, invece quel pomeriggio pareva particolarmente concentrata a rendersi carina. Per via dell’uscita con Hikaru? Ma allora facevano sul serio quei due!
«N-niente, mi sistemo!» esclamò, poi sospirò. «E sto cercando di capire se sono carina.»
Mayuri non era di certo uno che dispendeva consigli facilmente. Ma non era forse ovvia la bellezza di Ai?
«Sì che lo sei.»
«Grazie, ma tu sei mio padre, non puoi essere oggettivo.»
«Tsk, ti assicuro che non esiste al mondo persona più oggettiva di me, quindi il mio parere vale eccome. E poi tutti dicono che somigli a me, quindi mi pare ovvia la tua bellezza.»
Ai sollevò le braccia, esasperata.
«Ecco lo vedi? Non sei oggettivo. Mamma, dì qualcosa!»
Nemu era appena entrata e aveva trovato piuttosto buffa quella scena.
«Ai, penso che ad Hikaru piacerai comunque.»
Sua figlia arrossì. Ma stranamente quella cotta per un ragazzo più grande la faceva sentire più coraggiosa e meno timido.
«Oh, ma non è per Hikaru che faccio così. Certo, lui mi piace sempre, però c’è un altro uomo nel mio cuore.»
Mayuri in genere non si immischiava mai in quel genere di cose. Non aveva tempo da perdere con le sciocche cotte adolescenziali. Ma se si parlava di Ai, certo, le cose cambiavano.
«Un uomo?» domandò.
«Sì! Mi piace molto Akon Higarashi. Lui è tanto affascinante e sa un sacco di cose, se solo ci penso divento tutta rossa» esclamò assumendo un’aria sognante. Nemu pensò subito che fosse una cosa tenera e che sua figlia avesse preso da lei, visto che anche a lei piacevano più grandi. Mayuri non era dello stesso avviso.
«Ma Akon il mio sottoposto?» domandò, quasi non avesse capito.
«Sì. Comunque adesso vado. Torno presto, prestissimo! Ciao, ciao!»
Nemu sorrise intenerita. Ah, i bambini crescevano così in fretta e le prime cotte arrivavano altrettanto in fretta Mayuri si sedette, concentrato.
«L’hai sentita? Come può piacerle quel tipo? Avranno dodici anni di differenza, è troppo vecchio per lei.»
«Che poi è la nostra stessa differenza di età.»
«Tsk, è diverso! E poi tu eri maggiorenne quando ci siamo conosciuti. Ai è ancora piccola e innocente. Perché le opzioni sono o il figlio di Urahara o il mio sottoposto?»
Nemu si sforzò davvero tanto per non ridere. Ma era difficile.
«Oh, Mayuri. Stai diventando uno di quei padri apprensivi.»
«Io non sono apprensivo, io analizzo tutte le possibilità. L’adolescenza è un’età diabolica.»
Nemu strinse la sua mano.
«È solo una cotta innocente, non preoccuparti. La nostra Ai è sveglia.»
«Certo che lo è, l’abbiamo fatta noi, non qualche coppia di idioti. Io… ah…» si lamentò, avvertendo una fitta di dolore alla testa. «Il lavoro mi sta stressando. Quella dannata donna si è messa in testa di farmi impazzire. Fammi un favore, sta lontana da lei.»
Nemu tornò seria. Lontana da Senjumaru ci sarebbe stata volentieri, non era certa che quella donna le piacesse. Sembrava la sua versione più bella, realizzata e sicura di sé.
«Non pensavo vi detestate così tanto»
«Io non perdo tempo a odiare le altre persone, è uno spreco di energia. Ma c’è ben più di un motivo se è una mia ex ed è lì che dovrebbe rimanere, nel passato»
Nemu retrasse la mano. Lei non era mai stata gelosa, non ne aveva mai avuto motivo. Non si poteva però dire che fosse una donna dalla sicurezza ferrea, anzi. E quella situazione così strana l’agitava non poco.
«A me ha dato l’impressione che fosse interessata ancora a te.»
Mayuri di amore non ci capiva molto. Soprattutto, non sapeva leggere tra le righe, per lui le dimostrazioni o erano dirette o non esistevano, oramai.
«Sì, è interessata a rendermi la via un inferno, come sempre del resto.»
Nemu abbassò la testa, rossa in viso. Oh, come si vergognava.
«Non mi piace, mi dà fastidio…»
Mayuri la guardò confuso.
«Non mi dire che sei gelosa.»
Che strano, questo lo aveva intuito immediatamente.
«F-forse…»
Accidenti. Uno come lui non meritava il dramma d’amore, non erano le sue situazioni comfort.
«Non puoi essere gelosa di lei. Siamo stati insieme vent’anni fa. E poi c’è un motivo se lei è un ex e con te sono sposato.»
Ovviamente Mayuri analizzava tutto con grande razionalità. Nemu non era preoccupata di essere tradita, ma comunque quella situazione non le piaceva.
«Va bene, hai ragione. Però ti prego… non farla avvicinare troppo.»
«Ti prego, ci avevo già pensato. Non mi lascerei sedurre. Non che ci abbia provato ovviamente. Anche se fosse, sono interessato ad una sola donna.»
Nemu arrossì, ma questa volta stava sorridendo. Si sentiva un po’ una sciocca a provare quella gelosia, ma quanto le piacevano quelle parole?
«Sei così carino.»
«Proprio carino, con tutto quello che potevi dirmi? Mi provochi.»
Nemu si avvicinò, lo baciò con dolcezza e desiderio.
«Lo so. Fammi vedere quanto ti interesso» gli sussurrò. Mayuri non se lo fece ripetere due volte.
 
Momo suonava il pianoforte tutti i giorni, anche più volte al giorno e a Toshiro piaceva ascoltarla. La loro vita era piuttosto tranquilla e soddisfacente, ma ovviamente c’era una piccola questione: erano in tre in quella relazione. Lui, Momo e Hayato, il figlio adolescente di cui faticava a conquistarsi la simpatia (non che facesse molto per conquistarlo, anche se aveva promesso a Momo che si sarebbe sforzato).
«Quando arriva quel simpaticone di tuo figlio?» domandò Toshiro, con gli occhi chiusi.
«Oh, Shiro, ti prego. Comunque, dovrebbe arrivare a breve. Mi raccomando, fai il bravo.»
«Ma perché mi parli come se fossi io il problema? Comincia sempre lui» borbottò incrociando le braccia al petto. Alle volte aveva paura che Momo lo vedesse più come un secondo figlio che come un compagno, ma questo non glielo aveva mai detto, non voleva risultare stupido. La differenza di età non era mai stata un problema, ma entrambi avevano le loro paure legate ad essa. Momo temeva che un giorno Toshiro si rendesse conto che lei era troppo vecchia per lui e si sarebbe innamorato di una ragazza più giovane e carina. Non era, insomma, totalmente sicura di sé, anche se aveva sviluppato oramai un’autostima migliore rispetto a qualche anno prima.
«Scusa, Shiro. Non intendevo questo. Solo… prova ad essere accomodante.»
«Ah, io lo accomodo fuori, se si comporta di nuovo male» borbottò. Non amava che Hayato mancasse di rispetto a lui né che fosse scortese nei confronti di Momo. Hayato arrivò un’ora dopo assieme a Rin e Miyo. I tre, infatti, stavano sempre insieme e Momo accettava ben volentieri le due ragazzine, anche Miyo.
«Ciao, Toshiiii! Mi sei mancato! Come stai? Quando vieni a casa mia?» Rin aveva subito abbracciato il suo amico. Lei sì che era affettuosa, mentre Hayato invece si limitava ad osservarli con fare diffidente.
«Mi sei mancata anche tu, Rin. Verrò presto, non preoccuparti» poi si rivolse ad Hayato. «Trattamela bene.»
Il più giovane borbottò qualcosa, arrossendo.
Miyo si guardò attorno. Momo era andata per salutare Hayato, lui era rimasto rigido nel suo abbraccio. A lei sua madre mancava tanto, anche se si vedevano nei week-end, adesso che aveva un fidanzato era diverso.
«Mamma, non mi fai respirare. Adesso noi andiamo in camera.»
«Con la porta aperta» disse Toshiro, che era preoccupato per Rin. Sapeva quanto lei avesse una cotta per lui (era evidente), ma di Hayato non si fidava.
«Fatti gli affari tuoi, pff!» borbottò Hayato trascinandosi dietro Miyo e Rin. Momo guardò Toshiro con fare severo.
«Che c’è? Quando Rangiku e Gin non ci sono, lei è sotto la mia protezione e comunque non mi fido di Hayato.»
«Va’ da lui e proponigli di passare del tempo insieme» disse Momo senza nemmeno ascoltarlo.
«E cosa dovremmo fare insieme?!»
 
I tre ragazzi erano andati in camera di Hayato, con la porta aperta. Rin effettivamente tentava qualche approccio con lui, ma senza successo. Anche perché Hayato sembrava piuttosto sofferente.
«Io quello non lo sopporto. Già devo sopportare quel megalomane di Shinji, anche quel tappo di Toshiro.»
Ricevette due pizzicotti in contemporanea, uno da ognuno.
«Mio padre non è un megalomane.»
«Toshiro non è un tappo! Sei tu troppo alto per la tua età. Davvero, Hayato. Devi imparare ad andarci d’accordo. Guarda che Toshi è il mio migliore amico. E se so che lo tratti male…»
«Va bene, ho capito» si lamentò, massaggiandosi il braccio offeso. «Ma non è colpa mia, un padre ce l’ho già, non ne voglio tre.»
«E chi ha mai detto che devi averne tre?» borbottò Miyo. Voleva bene al suo fratellastro e spesso era sua complice, ma c’erano delle volte in cui proprio non riusciva a sopportarlo. Poi in quel momento Miyo ricevette una chiamata da sua madre e si allontanò per parlare con lei. Hayato e Rin rimasero da soli.
«Hayato, perché certe volte fai il difficile? Qui ti vogliono bene tutti e tu tratti male chi cerca di avvicinarti» disse Rin, severa.
«Non allontano nessuno. È che sto bene così» borbottò.
«Certo, come no» Rin si avvicinò, più languida. «Io ti piaccio?»
Al contrario di quello che si poteva pensare, Hayato era un imbranato totale se si parlava d’amore o cotte. Arrossì e distolse la testa.
«Sarebbe stupido metterci insieme. Dovevamo sposarci e l’accordo è stato annullato.»
«Ti ho chiesto un’altra cosa» insistette Rin. «Mi trovi carina?»
Hayato la guardò. Non era solito a fare complimenti a nessuno.
«Abbastanza» rispose, scorbutico e goffo.
Rin sorrise. Le piaceva anche se non era poi così magra e nemmeno così cariao? Lei avrebbe tanto voluto piacersi, ma non era così facile.
Toshiro entrò spedito e si bloccò un attimo a fissare i due. Hayato sollevò le mani come per voler dire non ho fatto niente di male, ma d’altronde lui non era lì per quello.
 
Miyo, intanto, si era allontanata per parlare con sua madre al telefono. Avrebbe voluto raccontarle del suo dramma, forse avrebbe potuto capirla. Ma Miyo non era abituata a lamentarsi. Se solo non si fosse sentita così inadatta a tutto e tutti.
«Tu stai bene, Miyo? Tuo padre fa il bravo?»
«Sì, fa il bravo, è solo un po’ sclerato. Come al solito» Miyo si fermò all’improvviso. «Anche se in effetti c’è una cosa a cui non riesco a smettere di pensare e che mi sta facendo impazzire.»
Hiyori, dall’altro capo del telefono, si fece attenta. Miyo si era innamorata? Per caso voleva consigli d’amore? E lei sarebbe stata capace di darglieli? Ma non era quello ciò che premeva Miyo.
«Mi sento davvero esclusa perché… ecco…» Miyo abbassò la voce, arrossendo. «Sono l’unica a cui non sono ancora venute le mestruazioni, per cui…»
Hiyori sospirò. Non pensava che sua figlia si facessi certi pensieri.
«Sì, lo capisco bene. Diamine, a me sono venute a quattordici anni. E se proprio lo vuoi sapere, non è che sia tutto questo gran divertimento. Accadrà anche a te, non preoccuparti. Ognuno è fatto a modo proprio.»
Miyo questo lo sapeva già.
«È che io sembro più piccola della mia età. Sono bassa, uno stecchino e non ho nemmeno una forma. Non ho seno. Sembro una tavola da surf.»
«Temo che la genetica non sia stata troppo generosa, hai preso da me. Cioè, non è detto, eh… però… oh!» Hiyori si schiaffò una mano sul viso, ma perché non sapeva consigliare in modo giusto? Anche lei era stata un’adolescente, anche se molto diversa da Miyo.
Sua figlia assunse un’espressione disperata.
«Andrò a sotterrarmi da qualche parti e ci rimarrò fino ai vent’anni» concluse.
 
A Toshiro non piaceva come Hayato lo guardava. Ma comportati d’adulto si era detto. E quindi niente provocazioni strane.
«Ecco, tua madre pensa che dovremmo passare del tempo insieme» borbottò a disagio.
«E come dovremmo fare? Non abbiamo molto in comune» disse Hayato. E in effetti, almeno su questo erano d’accordo. Toshiro si passò una mano tra i capelli.
«Senti, a te cosa piace fare?»
«Guardare le ragazze.»
«Questo non posso farlo con te. Intendevo dire quali passioni hai.»
Hayato ci pensò un po’ su.
«I videogiochi?»
Oh, finalmente qualcosa su cui potevano venirsi incontro.
«Va bene, e sia allora. Senti, lo so che non ti sto simpatico, ma almeno cerchiamo di rendere felice tua madre. Passiamo del tempo insieme e lei sarà felice.»
Hayato lo squadrò e poi fece spallucce. Non era niente che non poteva sopportare.
«E va bene. Facciamo questa cosa.»
Non ci fu alcuna stretta di mano, tuttavia il patto era fatto, oramai.
 
 
Orihime era molto affettuosa e fisica con i membri della sua famiglia. Da Ulquiorra a Kyoko a Satoshi. Quest’ultimo in particolare provava un certo disagio se si parlava di contatto fisico, ma con Orihime aveva imparato a lasciarsi andare e quindi si faceva stritolare nei suoi abbracci e le concedeva di farsi baciare sulle guance. Per Ulquiorra la faccenda era un po’ diversa. Lui avrebbe anche voluto essere più fisico con Satoshi, ma temeva di ferirlo in qualsiasi modo. E quindi si limitava a dimostrargli il suo affetto in altro modo.
Satoshi era stato molto piccolo, eppure le ricordava bene le percosse da quell’uomo che l’aveva messo al mondo. Aveva avuto anche una madre, troppo fragile per occuparsi di lui come avrebbe dovuto. A sette anni lo avevano strappato via da quella famiglia e poco più di un anno dopo l’avevano dato in affido. A Orihime, che era dolce e forte. E a Ulquiorra, che era così tranquillo, pacato, non alzava mai la voce. Satoshi sentiva di volere bene ad entrambi e voleva bene soprattutto a Kiyoko. Ancora non riusciva a credere che lo avrebbero adottato ufficialmente. Questo voleva dire che sua madre aveva rinunciato a lui? Questo non sapeva come lo faceva sentire, forse rassegnato. Orihime bussò alla porta della sua camera ed entrò qualche istante dopo. Aveva un vassoio con una cioccolata e dei biscotti personalmente da lei preparati.
«Il mio caro Satoshi vuole fare merenda?»
Satoshi arrossì. A lui quella dolcezza piaceva, anche se ancora non si poteva dire del tutto abituato.
«Oh, grazie, ne avevo proprio bisogno.»
Orihime posò il vassoio e poi si sedette di fronte a lui. Parlavano molto, avevano una grande alchimia. Dopotutto era suo figlio. Per lei lo era stato dal primo istante.
«Ehi… va tutto bene a scuola?»
«Eh? Ah, sì, bene, bene» disse immergendo un biscotto nella cioccolata. Meglio non parlare della sua cotta stratosferica per Naoko.
«Ho visto che tu e Ulquiorra avete preso a parlare spesso. D’accordo, non mi intrometterò nei vostri segreti. È che siete così carini!» disse tutta contenta.
Satoshi arrossì.
«Secondo te gli piaccio?» domandò. Certo, Satoshi voleva piacere a tutti e due. Orihime inarcò le sopracciglia.
«Ma tesoro, certo che gli piaci, nemmeno immagini quanto. Perché non dovrebbe?»
Satoshi fece spallucce.
«Ai miei genitori biologici non piacevo poi molto.»
Orihime chinò la testa. Era sempre così difficile affrontare quell’argomento, anche se sin dall’inizio aveva saputo della storia difficile di quel ragazzino.  Dare risposte o spiegare certe cose però era complicato.
«Satoshi…»
«Scusa, non volevo intristirti. Io sono molto contento di vivere qui, sapere che sarò adottato. Però non capisco. Se mia madre ha ufficialmente rinunciato alla mia custodia, allora potreste stancarvi anche voi un giorno!»
Orihime allora si avvicinò e prese il suo viso tra le mani, guardandolo dritto negli occhi scuri.
«Non è così. Se tua madre ha fatto questo è perché sa che non è in grado di prendersi cura di te. E noi vogliamo fare del nostro meglio per renderti felici. E no, credimi, non può accedere che noi ci stancheremo.»
«Mi volete bene come se fossi vostro?»
Orihime sorrise intenerita.
«Ma tu sei nostro. Lo sei stato dal primo istante, credimi. Ti vogliamo tutti bene e non ti capiterà niente di male, perché nessuno vuole farti male.»
Satoshi rilassò appena le spalle. Anche lui sentiva Orihime come una madre, anche se in realtà mamma non l’aveva mai chiamata e lei non pensava nemmeno l’avrebbe mai fatto. Dopotutto si erano conosciuti che lui era già abbastanza grande. Non era un problema, anche se non le sarebbe dispiaciuto.
«Sono contento di questo» aveva detto allora Satoshi.
Orihime se lo rimirò e abbracciò, poi lo lasciò finire i compiti. Andò da Ulquiorra, il quale stava rimettendo a posto le sue tempere.
«Satoshi mi ha chiesto se lui ti piace.»
Per poco Ulquiorra non fece cadere tutto sul pavimento.
«Sì che mi piace. Faccio così schifo a dimostrarlo?» domandò, serio. Orihime, intenerita, si avvicinò e accarezzò le sue ciocche nere.
«No che non fai schifo. Ognuno dimostra affetto a modo proprio. E lui vuole bene anche a te, anche se dici sempre il contrario.»
Ulquiorra fece spallucce.
«Beh, le cose vanno meglio ora, Satoshi mi ha chiesto consigli.»
«Ah» disse lei soddisfatta. «Su cosa? È innamorato?»
«Cose tra me e lui» disse Ulquiorra. Di certo non poteva tradire il suo segreto.
«E va bene, non dirmelo. E io non ti dirò quello di cui Kiyoko parla con me.»
Ulqiorra divenne ancora più imbronciato.
«E va bene. È una cosa che posso sopportare.»
Adolescenza…  e probabilmente entrambi i figli innamorati. Si chiese quando fossero cresciuti così in fretta.
 
Da quando Karin era partita, le cose proseguivano abbastanza bene. Certo, c’era il problema che almeno i primi giorni era stata impegnatissima e lei e Chad avevano avuta poca possibilità di sentirsi. Inoltre quella era la prima volta che rimanevano superati così a lungo, ed era un’esperienza decisamente particolare.
Kohei non ne stava risentendo più di tanto e le sue abitudini non erano cambiate più di tanto.
«Kohei, tua madre vuole parlare con te. E non fare quell’espressione, è solo per poco.»
Kohei non amava parlare al telefono, non aveva in simpatia tutto ciò che era tecnologico in realtà. Prese il telefono e rispose.
«Mamma.»
«Ciao, mio tesoro. Stai bene? Come vanno le cose lì?» domandò Karin. Il distacco da Kohei non era stato piacevole. Se pensava alla sé stessa di qualche anno prima, si rendeva conto che non sarebbe mai stata capace di compere un passo simile.
«Sì, va tutto bene. Ho letto altri due nuovi libri, ma me ne servono degli altri. Devo andare in biblioteca la prossima settimana. Comunque non ti devi preoccupare, papà ha tutto sotto controllo. Da uno a dieci direi otto e mezzo.»
«Oh, grazie Kohei. Otto e mezzo non è il massimo, ma è un buon voto» disse Chad. Karin rise.
«Ne sono contenta. Comportatevi bene.»
«Tu porta la squadra alla vittoria. Ti passo papà, ciao ciao» disse, restituendo con un gesto meccanico il cellulare a Chad. Quest’ultimo tornò a parlare con sua moglie.
«Tu stai bene? Ti sento un po’ stanca.»
«Un pochino, non è facile avere a che fare con tutti questi adolescenti scalmanati» Karin si passò una mano tra i capelli. «E poi mi manchi.»
Chad abbassò la voce.
«Mi manchi anche tu.»
Kohei fece una smorfia.
«Se dovete dire cose sconce, non fatelo davanti a me, grazie.»
Chad arrossì, come se fosse stato colto sul fatto.
«V-va bene, allora ci sentiamo domani mattina, così puoi riposare.»
«A domani, tigrotto» lo stuzzicò Karin, era così divertente imbarazzare suo marito.
Una volta conclusa la chiamata, Chad si rivolse al figlio.
«Non hai fame?»
«Mh, no. Ho troppo mal d’amore per pensare al cibo.»
Chad lo fissò come se avesse avuto davanti un fantasma. Non era una cosa che si aspettava da Kohei, anche se in realtà avrebbe dovuto perché quella era l’età dei primi amori.
«Tu, hai… davvero?»
«In realtà non so se è mal d’amore, ma so che Naoko mi piace tanto. Non so se gli piaccio io, però. Lei è molto bella e simpatica ed è buona.»
A Chad venne da sorridere. E così suo figlio si era preso una cotta per la graziosa Nao. Avrebbe dovuto immaginarlo.
«Lo sai che le aquile per accoppiarsi fanno una cosa che si chiama volo di corteggiamento della ruota di carro? Però non penso che per gli umani sia così facile.»
Erano già arrivati al punto dell’accoppiamento? Lui e Kohei non ne avevano mai parlato, di sesso!
«A-aspetta, Kohei. Una cosa per volta e poi… tu cosa sai di… beh, del sesso?»
Kohei non era affatto in imbarazzo.
«Ti ricordo che io sto sempre con Kaien, mi ha spiegato tutto lui. E mi ha anche fatto vedere un porno, però non mi piace tanto. Adesso un po’ di fame mi è venuta, facciamo del ramen?»
Ma a Chad continuavano a rimbombare in testa le parole Kaien, spiegato e porno. Fu leggermente colto dal panico.
 
Masato e Yuichi si stavano baciando tanto da quasi consumarsi le labbra. Baciarsi era piacevole e bellissimo. E non era l’unica cosa piacevole e bellissima. Chiusi in camera di Yuichi, dopo che erano stati interrotti mille volte dalla vivace Yoshiko, sempre in cerca di attenzioni, avevano iniziato ad esplorarsi, a conoscersi in un modo che non avevano mai osato.
«Allora… tu tocchi me e io tocco te» aveva detto Masato, Yuichi aveva annuito, rosso in viso, Era capitato che si fossero toccati per i fatti propri, anche se non spessissimo. Ora erano curiosi di andare oltre.
«Va bene. Allora comincia tu.»
«Avevamo detto che lo avremmo fatto insieme. Se ti vergogni, non guardarmi in faccia.»
«E-e-e va bene, accidenti. Non ti guardo.»
Erano entrambi visibilmente eccitati e accaldati. Si avvicinarono. Masato infilò la mano nei suoi pantaloni, Yuichi fece lo stesso con Masato e fu anche il primo a ridere.
«S-scusa, mi fai il solletico.»
«Eh? Ah, s-scusa tu» sussurrò Masato. Lo strinse tra le gambe, curioso. «Come sei duro» commentò.
«Io? Anche tu lo sei. Come devo muovermi? Così?» domandò muovendo le dita su e giù.
«Eh, non lo so. Fai come faresti su te stesso. Mi piace, la tua mano è così calda» ammise. Yuichi divenne rigido come un bastone quando le carezze di Masato si fecero più insistenti. Toccarsi in quel modo era bello, speciale in qualche modo. Ciò che sentivano era piacevole e più andava avanti, più quella sensazione piacevole cresceva.
«Yuichi, mi sento… strano.»
«A-anche io. Però mi piace, non voglio che ti fermi.»
Masato sarebbe andato avanti tutto il giorno. Aveva dimenticato il resto, aveva dimenticato tutto il mondo, che comunque andava avanti.
Ishida bussò alla porta.
«Masato, guarda che i tuoi genitori sono passati a prenderti.»
Masato si lasciò andare ad un gridolino. Giusto, aveva dimenticato la cena a cui doveva andare quella sera-
«A-arrivo. Scusa, Yuichi. Continuiamo la prossima volta» dicendo ciò gli stampò un bacio sulla guancia. Ishida aprì la porta, sospettoso.
«Ciao, Ciao!» salutò Masato allegro. Yuichi cercò di ricomporsi, mentre Uryu tornava a guardarlo.
«Te ne prego, la porta deve rimanere aperta.»
«Ma… ma non stavamo facendo niente di male» disse Yuichi. «È perché Yoshiko viene a disturbarci… sempre!»
Ishida lo fissò per qualche istante, ma non disse nulla. L’ultima cosa che voleva era diventare uno di quei padri apprensivi e rompiscatole, anche se forse in questo aveva già fallito. Ma non era colpa sua. Era terrorizzato.
 
 
Rukia non aveva raccomandato altro a Ichigo e ai suoi figli. Siate educati e non fatevi riconoscere come al vostro solito. Kaien era imbronciato e guardava il cellulare, parlando un po’ con Kiyoko e un po’ con Hayato. Masato invece aveva la testa fra le nuvole, ripensava a ciò che aveva fatto con Yuichi.
«Non capisco perché dobbiamo venire anche noi» borbottò Kaien.
«Perché siete i miei figli. E poi piacerete a Natsumi. Anzi, vi adorerà» disse Rukia accostando l’auto. Bene, constatò Ichigo, sua moglie sembrava di buon umore.
«Natsumi… conoscendo lei e conoscendo il padre, immagino che avrà preso dalla madre.»
«Dalla madre?» chiese Rukia.
«Beh sì. Ukitake ce l’avrà una moglie o una compagna?»
Rukia rise, spegnendo il motore.
«Oh, io questo non l’ho mai detto.»
E infatti Rukia non l’aveva mai detto. Ichigo conobbe subito dopo non la moglie, bensì il marito di Jushiro Ukitare: Shunsui Kyoraku. Ergo, Natsumi aveva due padri e non era difficile capire da chi avesse preso il suo carattere esuberante. Se Kyoraku aveva abbracciato lui, Natsumi invece aveva strizzato i due gemelli, facendo loro mille moine.
«Fate piano» sussurrò Ukitake, che invece era tranquillo e pacato. «Scusateli, sono molto espansivi con chiunque.»
«E perché non dovremmo esserlo? Non c’è niente di meglio di una bevuta in compagnia» disse Shunsui. «Avanti, venite dentro, ordino da bere per tutti.»
«Evvvivaaa!» esultò Natsumi.
«No, tu no» disse Ukitake, calmo ma autoritario. «Posso badare solo ad una persona brilla alla volta.»
Natsumi borbottò qualcosa e ciò fece ridere Masato e Kaien. In verità si presero tutti e tre in simpatia, tant’è che al tavolo si erano perfino seduti vicini. E Natsumi aveva preso subito a parlare.
«Siete così carini, adoro i gemelli. Deve essere bello avere un fratello. Non che io mi lamenti. I miei papà mi hanno adottato quando avevo due anni e sono sempre stata felicissima, ho un sacco di amici. Ma nessun fidanzato. O fidanzata. A me piacciono tutti i generi. Voi avete un fidanzato o fidanzata?»
Kaien non intendeva parlare della sua situazione.
«Masato ha un fidanzato»
Natsumi sgranò gli occhi e afferrò il ragazzino per le spalle.
«Davvero? È una cosa adorabile, due boccioli innamorati pronti a sbocciare. Lo sai? Io amo la scrittura, è la mia passione» poi abbassò la voce. «Scrivo soprattutto racconti erotici… tra maschio e maschio, capisci cosa intendo?»
Masato arrossì. Natsumi era così diretta e lui era così timido. Però quella sua passione lo aveva incuriosito.
«Davvero? Non è che… per caso potrei leggerli?» domandò sottovoce, ma suo fratello lo sentì.
«Ma Masato!»
«Cosa? Tu guardi i porno, è la stessa cosa!» si sforzò di non urlare. Insomma, Natsumi aveva trovato proprio due nuovi amici divertenti.
«Natsumi, ricordati che hanno solo dodici anni» disse ad un tratto Ukitake, che conosceva le passioni di sua figlia.
«Aaaah, Jushiro, non fare così. È giusto che esplorino, beata gioventù» Shunsui era già brillo e molto propenso alle chiacchiere. Si rivolse soprattutto a Ichigo. «Mia figlia mi ha parlato di te e Jushiro mi parla sempre di Rukia. A proposito, Rukia è così adorabile e carina. Sono contento che Natsumi abbia due amici come vuoi, è un po’ esuberante. Però non capisco da chi abbia preso!»
A Ichigo venne da ridere.
«Già, chissà…» sussurrò. Rukia parlava con Ukitake, più serena. In effetti era tranquilla davvero, aveva scacciato i cattivi pensieri.
«Natsumi mi ha detto che nella struttura in cui lavori, i bambini ti adorano.»
«Io adoro loro» disse Rukia arrossendo. «Mi piace stare con loro, anche se è difficile non affezionarsi.»
Shunsui rise, poggiandosi a peso morto su suo marito.
«Sei davvero una brava ragazza dal cuore buono. Queste cose i bambini le capiscono subito. Tienitela stretta, Ichigo. Quando sarò più sobrio mi dovrai raccontare come l’hai conquistata. E io ti racconterò come ho conquistato lui.»
«Su, su. Sta buono, passerà» disse Jushiro, dandogli un amorevole buffetto sulla testa. Rukia intanto era arrossita. Magari buona lo era davvero, ma col cuore puro… insomma, lei non si sentiva molto pura, ora meno che mai. Le vennero alla mente le parole di Byakuya e Kukaku, loro dovevano aver intuito e di sicuro anche per Ichigo doveva essere anche così. Oddio, si disse, forse era inevitabile che glielo dicesse?
Ma non ora, non in quel momento.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


 
 
Capitolo dieci

 
Una cosa per Shinji non era cambiata di certo, ed era il suo essere irrimediabilmente pigro. Certo, il lavoro andava alla grande. Certo, oramai non era più quello che si poteva definire un manager da strapazzo di una band fallita. Quindi perché non prendersela comoda ogni tanto?
Quella mattina si era svegliato stranamente prima di Sosuke. Si era soffermato a guardarlo mentre dormiva, l’espressione rilassata. Shinji allungò una mano e gli accarezzò il viso. C’era stato un tempo in cui aveva tanto sognato di dormire e svegliarsi con lui ogni giorno. Ora erano addirittura sposati, ancora non ci credeva. Sosuke aprì gli occhi nell’avvertire quel contatto della sua mano.
«Siamo mattinieri, oggi.»
«Visto come sono bravo? Faccio passi in avanti.»
Shinji certe volte sapeva essere proprio languido e non lo faceva nemmeno di proposito. Si avvicinò a lui e gli baciò il collo, facendolo ansimare.
«Stanotte non ti è bastato, vedo» disse Sosuke.
«E perché dovrebbe bastarmi? Vieni qui.»
Sosuke avvertì lo spostamento del suo corpo, ora sopra il proprio. Questa volta era diverso rispetto al suo primo matrimonio. La passione e l’amore non si erano spenti perché entrambi si stavano impegnando per farla funzionare. Ebbene sì, esisteva una persona in tutto il mondo che era stata capace di conquistare per davvero Sosuke Aizen. Si baciarono con trasporto e poi la porta della loro camera da letto si spalancò.
«Papà, hai visto il mio lib-» Miyo entrò e si bloccò solo per un secondo, prima di fare dietro front. Del sesso sapeva tutto, ma vedere loro, che trauma.
«MIYO! Come io rispetto la tua privacy, tu rispetta la mia!» gridò Shinji, coprendosi con il lenzuolo. E tanti cari saluti alla mattinata di sesso.
«Sosuke, lo trovi divertente?» borbottò Shinji.
«Un pochino» ammise a lui. «Ma poteva andare peggio, poteva essere Hayato.»
Shinji fece una smorfia. Già, meglio che Hayato non li beccasse mai nemmeno per sbaglio, odiava già abbastanza l’idea di saperli insieme, o almeno così credeva.
Visto che oramai era andata, Shinji si vestì e, ancora tutto spettinato, assonnato e imbarazzato, andò in cucina, dove Miyo aveva preparato la colazione per tutti. Povera piccola in mezzo a due uomini e un adolescente scostante.
«A che ora ti sei svegliata?» domandò Shinji.
«Presto, non avevo sonno» rispose lei, sfilandosi il grembiule.
«Già, anche io. Emh… quello che hai visto…»
«Le persone fanno sesso, questo lo so bene. Io leggo molti libri. E poi è un po’ difficile non sentirvi, a volte» Miyo scosse la testa, non ci voleva neanche pensare.
«Povero me» sussurrò Shinji, chiudendo gli occhi e poi aprendoli. «Emh… non che siano fatti miei, ma se dovessi approcciarti a questo genere di cos-»
«Non mi approccio, perché tanto non ho un ragazzo. E nemmeno una ragazza se è per questo, perché nessuno mi guarda» disse Miyo, più scontrosa di quanto avesse voluto. E questo sorprese entrambi, Miyo era sempre molto dolce e mite.
«D’accordo, non c’è bisogno di arrabbiarsi. C’è per caso qualcosa che non va?»
Miyo prese delle bacchette in mano, giocandoci nervosamente.
«Non so se è il caso.»
«Con me puoi parlare di tutto.»
Miyo posò le bacchette sul tavolo.
«Perché non ho nemmeno un filo di seno?»
«… Eh?»
«Sì. E poi perché non ho ancora le mestruazioni? Inizio a essere preoccupata. Cosa succede se mi si è bloccata la crescita? Ho la stessa altezza da quattro anni, io non voglio avere sempre quest’aspetto, mentre invece le altre sbocciano. L’unica cosa che ho – e di cui farei volentieri a meno – è che mi stanno spuntando peli ovunque!»
«VA BENE, HO CAPITO!» esclamò Shinji. Non era uno che si imbarazzava se si parlava di certi argomenti, ma con sua figlia era una questione a parte. Forse Hiyori sarebbe stata più brava di lui. Però al diavolo, non era solo compito della madre occuparsi di quelle faccende. Ma imbarazzante rimaneva comunque.
«Emh… beh, Miyo. La crescita è diversa per ognuno. Non ti si bloccherà di certo. E poi… hai solo tredici anni.» Sei ancora una bambina, avrebbe voluto dire, ma evitò.
«A me non piace, mi sento così esclusa. E poi nessuno mi guarda. Non avrò mai qualcuno a cui piaccio. Sono insulsa.»
«Mia figlia insulsa? Ma per favore, chi dice simili scemenze?!» esclamò Shinji infervorato. Hayato entrò tutto assonnato.
«Lo sapete? Si sentono i vostri discorsi fino in camera mia, è disgustoso.»
«Tu stai attento a come parli, queste sono cose naturali. Studia un po’ di biologia, piuttosto» lo rimproverò Shinji.
Hayato fece per rispondergli in malo modo, ma Sosuke era appena entrato, anche lui particolarmente assonnato.
«Non litigate.»
Miyo scosse la testa.
«Non litighiamo. Oggi devo passare in libreria, mi accompagni?» disse rivolgendosi a Sosuke. Lui le disse sì, le diceva sempre sì, perché per lei aveva un po’ un debole come se fosse stata la sua figlia biologica. Dopodiché Sosuke guardò Shinji, come a volergli dire fa qualcosa con Hayato!
E che diamine. Se proprio doveva.
«Emh… Hayato…»
«Io devo vedermi con Toshiro. Mamma ci tiene, per cui» borbottò, facendo spallucce.
Giusto. Non doveva dimenticare che lui e Toshiro erano nella stessa situazione.  Chissà se avrebbe potuto chiedergli qualche consiglio.
 
 
Del discorso matrimonio, Byakuya e Renji non ne avevano più parlato, anche perché non avrebbero saputo che dire. Ma Byakuya aveva imparato a suo tempo che tenersi tutto per sé non andava bene affatto. Renji, dal canto suo, cercava di non creare attriti. In cuor suo, temeva ancora di perderlo da un momento all’altro. Dopo tutto quello che aveva fatto e affrontato per stare con lui, sarebbe stato un duro colpo da sopportare.
«Senti, Byakuya. Tua sorella secondo te può aiutarci? Lei è un’assistente sociale, magari ha della conoscenza!»
Quando Yumichika si era rivolto a lui direttamente, Byakuya si era ricordato a essere a pranzo fuori. Lu, Renji, Ikkaku e Yumichika facevano sempre uscite di coppia.
Quattro figure particolari, senza dubbio.
«Aiuto per…?» domandò, un po’ distratto.
«Vogliamo un figlio, perché non adottarlo?» chiese Yumichika, mentre in sottofondo Ikkaku si lamentava con il cameriere del troppo sale nella sua zuppa di miso.
«Sì, infatti. Dopotutto hai già fatto pratica con Ikkaku, che vuoi che sia?» lo stuzzicò Renji.
«Ah?! Guarda che ti ho sentito» esclamò lui. «Pensa per te! Piuttosto, allora quand’è che vi sposate?»
Yumichika gli pestò un piede sotto il tavolo. Byakuya si guardò attorno, confuso.
«Sposarci…?»
«AHI!» si lamentò Ikkaku. «Che ho detto?!»
Renji sentì improvvisamente caldo. Era sicuro che il suo viso fosse dello stesso colore dei capelli, adesso.
«Noi non… ci sposeremo» sussurrò, a disagio.
«Sì, scusalo, Renji. Io dico una cosa e Ikkaku capisce sempre altro!» disse Yumichika guardando suo marito, furioso.
«E che palle, ho sbagliato, d’accordo. Ma Byakuya, perché non te lo sposi?»
A quel punto Yumichika lo afferrò per un orecchio.
«Ora basta. Renji ha ragione, sei un bambino. Scusate un attimo, io e il mio consorte dobbiamo scambiare quattro chiacchiere in privato!»
Renji avrebbe riso se solo non fosse stato tutto così tragico. Posò le bacchette, gli era passata la fame.
«Mi sono perso qualcosa?» domandò Byakuya.
«N-no, figurati. È che io e Yumichika ci siamo messi a parlare del futuro e sai… si dicono certe cose.»
Renji era nervoso e Byakuya lo capì. Allora sospirò, socchiudendo gli occhi.
«Senti, non è che non ti voglio sposare. Solo che non ci avevamo mai pensato prima di adesso. Tu saresti proprio sicuro a voler sposare…me?»
Renji sbuffò.
«E perché no? Con te ci vivo già, conosco il tuo brutto carattere e tu conosci il mio.  Ma se proprio non vuoi…»
«Non ho detto che non voglio. A me piacerebbe.»
Ed era sincero. Era spaventato per tutta una serie di motivi, questo non voleva dire che non volesse.
«Davvero?»
«Sì. Ma il matrimonio è un passo importante. Ed è per sempre» gli ricordò.
«Non è vero, esiste il divorzio. E comunque io ti sposo per rimanere, non per andarmene!» ci tenne a chiarire. Quindi cosa, stavano seriamente prendendo in considerazione l’idea di farlo? Certo, forse Renji era diventato un po’ troppo romantico, perché si era aspettato la proposta in modo un po’ diverso. Anche se quella non era una vera e propria proposta. Yumichika e Ikkaku tornarono in quel momento, abbracciati come due piccioncini, dovevano già aver fatto pace.
«Allora, che ci siamo persi?» domandò Ikkaku.
 
«Senpai Yamada, oggi abbiamo un carico di lavoro non da poco.»
Hanataro se ne stava tutto imbronciato mentre asseriva ad Akon Higarashi. Oramai non lo tollerava più, il nuovo arrivato era senza dubbio più bravo di quanto lo fosse stato lui qualche anno prima. E tutti lo adoravano. Ebbene sì, il puro Hanataro Yamada aveva un attacco di invidia acuta, di invidia acuta.
«S-sì, lo so» sussurrò, a disagio. Non riusciva a essere crudele, anche perché Akon non gli aveva fatto niente di male. Anzi, lo trattava fin troppo bene.
Ichigo arrivò, dando una pacca sulla spalla al collega. Poi vide Kurotsuchi entrare in reparto.
«Salve, dottore.»
Kurotsuchi si fermò e li squadrò. In particolare guardò Akon. E sua figlia si era presa una cotta per quello? Ma Ai era ancora una bambina, di certo non doveva preoccuparsi. Però era sempre meglio tenere gli occhi aperti.
«Salve, Higarashi» disse, ignorando gli altri due. Akon avvertì un certo disagio e Hanataro arrossì. Che diamine, era avvero il colmo! Si era già conquistato le simpatie di Kurostuchi, non era affatto giusto. Ichigo aveva intuito i suoi sentimenti e la cosa lo fece ridere.
«Non fare così, Hanataro. Tu sei un bravo chirurgo.»
«D-davvero?» piagnucolò il ragazzo, aggrappandosi a lui. «Oh, Ichigo, meno male che ci sei tu! Io mi sento così insicuro!»
E poi iniziò a piagnucolare lì sul suo petto. Ichigo cercò di consolarlo, un po’ a disagio. Ishida era arrivato con qualche minuto di ritardo, stanco e irritabile com’era oramai da un po’.
«Oh, ciao Ishida. Hanataro è un po’ giù di corda, tu sei più bravo a consolare la gente. Ma perché mi guardi così?»
Il suo collega, nonché migliore amico, lo guardava storto. Come se ce lo avesse con lui.
«Perché devi farmi un favore, Kurosaki. Insegna a tuo figlio Masato a tenere le mani al proprio posto.»
Ichigo rimase un po’ stupito da quelle parole.
«Che ha fatto Masato?»
Ishida si sistemò gli occhiali, nervoso.
«Lui e mio figlio fanno cose poco adatte alla loro età.»
Conosceva Ishida dall’adolescenza, era la prima volta che lo sentiva parlare così. Gli parve molto strano e si ricordò delle parole di Tatsuki.
«Le cose si fanno in due. E comunque loro si piacciono, non c’è niente di male se… fanno le loro cose.»
Hanataro singhiozzò.
«Perfino due dodicenni hanno più esperienza di me! Però ha ragione Ichigo, è normale fare quelle cose. Anche se io non le ho mai fatte!» e dicendo ciò ricominciò a piagnucolare.
«Sono ancora piccoli, Kurosaki. Può essere pericoloso.»
«Pericoloso? Masato non farebbe mai del male a Yuichi, e lo so perché io e Rukia gli abbiamo insegnato a rispettare le persone. Cazzo, ma che hai? Non è da te fare questi discorsi e sembra tu ti sia dimenticato di cosa voglia dire avere la loro età!»
Senza saperlo, Ichigo aveva indovinato ciò che Ishida non sapeva. Il suo vissuto che aveva inconsciamente rimosso per proteggersi e sopravvivere a un dolore che sarebbe stato troppo.
Era la prima volta che Hanataro li vedeva litigare.
«R-ragazzi, dai. Non litigate.»
Ishida e Ichigo si guardarono e poi Ishida borbottò qualcosa che somigliava vagamente a delle scuse. Era davvero tutto molto strano. Ma screzi a parte, la giornata doveva andare avanti e fu abbastanza impegnativa: due interventi molto lunghi già solo in mattinata. Hanataro ne era uscito distrutto.
«Sto per avere un calo di zuccheri.»
«Ti serve una mano?» domandò Akon, che come al solito era efficiente e pronto. Hanataro si tirò su, tutto fiero.
«No, sto bene. A proposito, che cosa c’è tra te e il dottor Kurotsuchi?»
Akon fece spallucce.
«Umh, niente..»
«Mmh. Avete un rapporto molto stretto, vedo!» s’indispettì Hanataro e si sentì anche un cretino. Non riusciva ad essere cattivo o scostante, non era da lui. Ichigo intanto voleva cercare di capire cosa stesse succedendo a Ishida. Era come se qualcosa l’opprimesse.
«Ishida, dobbiamo parlare.»
«Non c’è niente da dire. Sono solo un po’ stressato» tagliò corto Ishuda. Ichigo aprì la bocca e fece per dire qualcosa, ma al posto della sua voce, si udì lo strepitio di un bambino. Non se l’era immaginato, in effetti c’era davvero un bambino che sgambettava per il reparto, seguito da un’adolescente dai capelli rosa. Che a sua volta era inseguita da un tizio alto e dai capelli da pazzo, che corrispondeva al nome di Kenpachi Zaraki.
«Tenshi, aspetta, dove vai?! Sei piccolo, ma veloce!» gridò Yachiru, più divertita che altro. Alle sue spalle, Zaraki imprecava.
«Te l’ho lasciato per cinque minuti! Retsu mi uccide se succede qualcosa al bambino!»
Kurotsuchi non amava il caos. Si era fermato solo un attimo a parlare con Urahara del loro progetto, ed ecco che si era ritrovato un bambino che gli girava attorno, una ragazza che faceva casino e poi beh… Zaraki era tutto un programma.
«Chi si è perso un marmocchio?» sbottò. «Zaraki e sorella di Zaraki, cosa diavolo fate qui?»
«Eh rilassati, dottore!» gridò Zaraki. «Retsu è occupata, non posso tenere fermo un bambino di due anni!»
«Ciao, Mayurin! Ciao Kisuke!» gridò Yachiru tutta allegra. Tanto sarebbe bastato per fargli venire un esaurimento nervoso. Non come a Urahara, lui stava facendo festa al bambino.
Anche Natsumi aveva pensato di fare un salto al St. Luke, per salutare il so amico Ichigo in primis e poi per tutto il resto.
«Buongiorno a tutti!» gridò la ragazza. «Ciao, ichigo!»
«Emh, ciao. Che fai qui?» domandò lui, stordito da tutta quella confusione.
«Sono solo venuta a trovarti, a trovare tutti voi!» gridò. «Oh, dottor Kurotschi e dottor Urahara, siete una gioia per gli occhi. Che carino questo bambino, sembrate proprio una coppia!»
Yachiru rise, prendendo subito in simpatia quella ragazza dai capelli blu. E rise anche Zaraki, chiunque facesse sclerare Kurotsuchi aveva la sua simpatia.
«C-cosa hai osato dire, maledetta ragazzina?» chiese Mayuri, sull’orlo di una crisi di nervi.
«Oh, dai. Non prendertela. Saremmo una bella coppia!» disse Kisuke, ricevendo in cambio uno sguardo che voleva dire adesso prendo un bisturi e ti faccio a pezzi.
Poi però le attenzioni d Natsumi furono catalizzate da Hanataro.
«TU!» gridò la ragazza. «Mi piaci troppo, dammi il tuo numero, dottore!»
E Hanataro per poco non svenne davvero. Era la prima volta che una ragazza era così diretta con lui.
Quindi, ricapitolando, era scoppiato il caos e quella ragazzina osava prendersi gioco di lui? E anche Kisuke Urahara? Li avrebbe fatti a pezzi, tutti quanti.
«Ora basta, state esagerando, questo è un ospedale, non un manicomio!» gridò.
Non si era accorto della dolcissima e soprattutto gradita presenza di Senjumaru.
«Mayuri?»
«Ah, perfetto. Mancavi tu, ora il mio incubo è completo!»
Senjumaru sorrise compiaciuta.
«Non farti venire un esaurimento. Devo parlarti, questioni di lavoro.»
Mayuri si ricompose un attimo. In genere non le avrebbe creduto, ma Senjumaru era professionale quanto lui in campo lavorativo.
«Spero sia importante» disse. «Parliamo nel mio ufficio e stammi a debita distanza.»
Senjumaru sorrise di nuovo e lo seguì, mentre Urahara li osservava. In quanto migliore amico di Mayuri, doveva tenerlo d’occhio. Anzi, doveva tenere d’occhio lei.
 
 
Il tanto temuto giorno per Nnoitra era arrivato. Adesso iniziava già a pentirsi, ma non si poteva tornare indietro, per cui aveva poco di cui lamentarsi. Naoko se ne stava tutta annoiata accanto a lui, a braccia conserte.
«Siate educati, tutti e tre» disse Neliel rivolgendosi a marito, figlia e cane.
«No, non lo siate» borbottò Nnoitra. I suoi genitori vivevano fuori Tokyo, sarebbero dovuti arrivare lì a momenti.
«Chissà se a loro piaceranno i miei dipinti» disse Naoko, che era emozionata all’idea di conoscere i suoi nonni, non li ricordava affatto. Nnoitra fu quasi sul punto di dirle figurati, ti diranno che stai solo perdendo tempo. Ma non voleva influenzare sua figlia in nessun modo.
«Ne sono certa. Nnoitra, tesoro, sicuro che non vuoi qualcosa da bere?» domandò Nel, che ben conosceva il suo nervosismo. Lui però fece spallucce.
«No, preferisco essere sobrio e vigile» borbottò, anche se con qualcosa da bere Neliel intendeva una camomilla.
Qualche minuto dopo, qualcuno bussò alla loro porta. E dopo nove anni, Nnoitra rivide i suoi genitori. Era convinto di avere un particolare scompenso emotivo, invece era rimasto piuttosto tranquilla. Sua madre, Sun Ah, era una donna bassa e minuta, i capelli neri tenuti in uno chignon. Aveva un’espressione dolce, un’aura remissiva, forse anche troppo. Suo padre Shirai invece sembrava la sua versione più invecchiata, ma con i capelli molto più corti e ingrigiti. E sicuramente con l’espressione più da vecchio bastardo.
«Neliel, che bello rivederti. Sei davvero incantevole» disse Sun Ah. A lei sua nuora era sempre piaciuta.
«Grazie, è un piacere anche per me. Ma vi prego, venite dentro»
Aries immediatamente prese a far festa ai due nuovi arrivati e Nnoitra sorrise soddisfatto quando lo vide abbaiare contro suo padre.
Proprio un bravo cane.
«Come si spegne questo coso?» domandò Shirai, scorbutico.
Naoko afferrò Aries per la collottola.
«Aries, sta fermo. Mamma ha detto che dobbiamo essere educati!»
Fu a quel punto che Naoko catalizzò su di sé tutte le attenzioni della nonna. Sun Ah la osservò, prendendo il suo viso tra le mani.
«Naoko, sei proprio tu. Come ti sei fatta grande, oramai sei una signorina.»
«Signorina, io? Ah beh sì. Lo sono» ridacchiò. Non era mai stata timida e anche se non ricordava di quella donna, le stava simpatica. Poi guardò suo nonno, che invece non stava dando confidenza nessuno. Lui e suo padre erano davvero identici. Si avvicinò a lui, sorridente.
«Piacere di rivederti, nonno. Io sono Naoko. So che è passato tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo visti» disse educata e sicura di sé.
A Nnoitra non dispiaceva troppo il fatto che i suoi genitori non gli avessero ancora rivolto alcuna attenzione. Probabilmente nessuno dei tre sapeva come approcciarsi alla cosa.
«Piacere di rivederti, Naoko» rispose Shirai. E poi guardò suo figlio. Seguirono alcuni istanti di tensione, in cui Nel pregò che non accadesse qualcosa di terribile tipo un litigio o peggio.
«È bello rivederti, Nnoitra» sussurrò Sun Ah, avvicinandosi a suo figlio e abbracciandolo. Nnoitra sgranò gli occhi, non si era aspettato quel gesto, ma non si mosse. Era di sicuro andata meglio di quanto pensasse, ma il difficile doveva ancora arrivare.
Per sua grande fortuna, i suoi genitori (sua madre più che altro), erano troppo concentrati su Nel e Naoko. Quest’ultima aveva sempre amato mettersi al centro in mostra, Quindi aveva preso a raccontare della scuola, dei suoi amici, della sua passione per la pittura e del fatto che le sarebbe piaciuto far diventare quella passione un lavoro, un giorno.
«Mio papà fa il mangaka e io voglio fare la pittrice. Lui ha un sacco di fan, avete mai letto il suo manga? Io sì ovviamente. Lui ha del talento!» si sentì in dovere di dire. Nnoitra parlava poco, quindi ci avrebbe pensato lei a elencare tutte le sue qualità. E lui l’avrebbe anche ringraziata. Ma era inutile che si sforzasse tanto, per i suoi genitori lui era sempre stato un buono a nulla.
«Vedo che tua figlia ha le tue stesse idee. Ti somiglia anche in altro?» domandò Shirai. Nnoitra si irrigidì. Doveva mantenere la calma.
«Lei somiglia più a Neliel. Qualcosa però ha preso anche da me.»
«Eccome. Noi siamo praticamente inseparabili. Diglielo, pa’. Lui è così geloso di me. Ha paura che mi trovi un fidanzato, ma non è colpa mia se sono bellissima» Naoko gli era andata vicina e lo aveva abbracciato solo come una brava ruffiana sapeva fare.
«Ehi» si lamentò Nnotira. «Stai diventando presuntuosa. E io NON sono geloso, mi preoccupo e basta. Piccola ruffiana impertinente» borbottò, facendosi più affettuoso. Neliel era sempre tutta ringalluzzita e intenerita dalle loro interazioni. Nnoitra non aveva mai avuto tutto questo affetto da bambino, lo sapeva bene. A Naoko quindi non faceva mancare niente.
Sun Ah era del tutto conquistata da Naoko. E così le diede il suo regalo, un set di colori e tempere con tanto di pennelli.
«NON.CI.CREDO. È per me tutto questo?!» esclamò Naoko, gli occhi che le brillavano come due fari.
«Tua madre ci aveva anticipato della tua passione, per cui…» disse la donna.
«È bellissimo, grazie! Quando Kiyoko lo vedrà… cavolo!» esclamò ad un tratto battendosi una mano sulla fronte. «Ma oggi pomeriggio dovevamo vederci, io e i miei amici. Mamma, papà, posso andare?»
«Sì, puoi andare» borbottò Nnoitra. «Tanto i tuoi nonni non vanno da nessuna parte.»
E non riuscì proprio a nascondere un tono scocciato. Prima di uscire, Naoko disse a Sun Ah che voleva assolutamente conoscere tutto della cultura coreana e anche imparare qualche parola. E quando fu uscita, l’atmosfera divenne un po’ più pesante.
«A Naoko non hai insegnato a parlare coreano?» domandò la madre al figlio.
Lui fece spallucce.
«No.»
«Non c’è stata occasione» Nel cercava sempre di mettere la buona. «Naoko è già bilingue, ma adesso vorrebbe imparare anche il coreano. Dopotutto fa parte delle sue origini.»
Nnoitra notava il tentativo di sua moglie di non far precipitare le cose. Ma la situazione era spinosa e questo lo sapeva perfino lei.
«Allora, inutile girarci attorno. Se siete venuti qui con la speranza che tutto si risolva in un battito di ciglia, vi sbagliate» esordì Nnoitra. Sun Ah arrossì. Shirai, che pareva quasi assopito, lo guardò.
«Noi non abbiamo niente da chiarire. O c’è forse qualcosa che hai da dire?»
«Forse il fatto che come genitori non siete stati un granché, tu che dici?»
Neliel gli strinse una mano. Per ricordargli di rimanere ancorato alla realtà, per ricordargli che poteva contare su di lei.
«Forse sarebbe meglio affrontare un passo alla svolta. È passato tanto tempo e poi Naoko è felice di avervi qui. Direi di provare ad andare d’accordo per lei. E non discutere in sua presenza.»
Shirai si rilassò appena.
«Tua moglie è saggia, mi chiedo come abbia sposato uno come te.»
«Io invece mi chiedo com’è che condivido il DNA con uno come te.»
Nnoitra aveva sperato che sua madre intervenisse, ma ovviamente non accadde. Sospirò. Sarebbe stato un periodo molto lungo. La presenza di Neliel rendeva, come al solito, tutto meno amaro.
 
Nei weekend capitava spesso che s’incontrassero tutti insieme da qualche parte E poiché era difficile accontentare i gusti di tutti (avevano delle personalità e passatempi diversi) era sempre meglio optare per qualcosa di più neutrale possibile.
«Eccomiiii!» gridò Naoko entrando in un locale dove vendevano bubble tea e dolci (e dove c’era anche un’area videogiochi, per la gioia di alcuni di loro).
«Ciaoo!» gridò Kiyoko alzandosi. C’erano proprio tutti, ma le sue attenzioni erano andate su Satoshi. Che per quel giorno non poteva contare sul suo amico Hikaru, visto che era impegnato con Ai.
«Ciao, Kiyoko. E ciao a te, Satoshi!»
Naoko gli si avvicinò e lo abbracciò, stampandogli un inaspettato bacio sulla guancia. Satoshi arrossì e iniziò a iper ventilare.
«Io… io…ciao!» gridò ad alta voce. Naoko si accomodò tra i due fratelli.
«Ma come, nessuno ha pensato di prendermi da bere? Eppure lo sapete tutti che io amo-»
«Il bubble tea alla pesca con le palline alla fragole e le torte al cioccolato.»
Kohei era arrivato vicino al tavolo, un gigante buono che teneva tra le mani proprio ciò che Naoko desiderava. Alla ragazzina brillarono gli occhi.
«Oh, Kohei. Sei un vero tesoro!» esclamò, abbracciandolo. Kohei non amava gli abbracci, ma da Naoko si sarebbe fatto abbracciare tutte le volte che voleva. Satoshi gonfiò le guance, scocciato. Era evidente che a Kohei piacesse Naoko. Ma a lei piaceva lui, no? In realtà non era molto chiaro, Naoko era affettuosa con tutti.
«Satoshi, stai bene? Sembri un bollitore che sta per esplodere!»
Satoshi annuì, imbronciato. Avrebbe tanto voluto parlare con qualcuno. Con Ulquiorra, magari. O con Hikaru.
Oh, ma dov’era finito quel traditore?
 
Molto semplicemente, Hikaru stava insegnando ad Ai a giocare ad un videogame piuttosto complicato. Lui era bravo, il più appassionato assieme a Kaien, occupato però con un gioco in un altro cabinato. Ai più che prendere parte in modo pratico, osservava in modo teorico. Stare con Hikaru le piaceva sempre. Non poteva dire che gli fosse indifferente. Era più corretto dire che fosse tra due fuochi: da un lato, il suo primo amore, rassicurante. Dall’altro lato, una cotta stratosferica per un uomo molto più grande di lei che, ovviamente, non avrebbe mai potuta vederla in altro modo se non come un’adorabile bambina.
«Accidenti, ho perso» borbottò Hikaru, lanciando poi un’occhiata di sottecchi ad Ai. Lei era così bella, gli sarebbe piaciuto tanto baciarla mentre le accarezzava i capelli. Ma con che coraggio avrebbe mai potuto farlo?
«Adesso lascia provare me» disse Ai, sfiorando per sbaglio la sua mano. I due si guardarono, rossi in viso. Poi si sorrisero e Hikaru, tutto imbronciato, distolse lo sguardo.
«Allora… ti piace davvero quel tipo vecchio?»
Ai arrossì. Yami doveva aver parlato.
«Non è vecchio. Comunque sì, mi piace un po’.»
«Ma pensavo di piacerti io» si lasciò scappare. Ai avvertì un profondo disagio. Come poter spiegare quello che sentiva? Non lo sapeva nemmeno lei. L’amore era una faccenda complicata.
«Ma tu mi piaci, infatti…»
Avrebbe tanto voluto che ci fosse Yami, in quel momento. Ma lei era al telefono con quel tizio più grande, Ren, di cui non faceva altro che parlare.
Miyo arrivò da loro tutta agitata.
«Avete visto Rin, per caso?»
«Emh, non era andata al bagno?» domandò Ai. Guardando Miyo, sembrava volerle dire rimani, ti prego.
Ma Miyo era troppo in pensiero per Rin, così andò a cercarla nei bagni, vuoti. Si guardò intorno e poi chiamò Rin?
Sentì dei rumori non meglio identificati e poi qualcosa di strano, come dei gemiti. Sembrava che qualcuno stesse vomitando. Pallida, si avvicinò ad una delle porte, da cui proveniva il rumore e spinse leggermente la porta.
Rin era accovacciata vicino al water, stava rimettendo quello che aveva mangiato prima.
«Rin! Oh, Rin. Che hai? Vuoi che chiami qualcuno? Un’ambulanza? O magari i tuoi genitori!» Miyo le si avvicinò, prendendo il suo viso tra le mani. Rin era più pallida del solito. Ma le stava sorridendo in modo furbo.
«Figurati, ho solo avuto un’indigestione.»
Miyo però non era convinta. La vedeva, mangiava poco o nulla, era strana, silenziosa e insicura. Questo non era da lei. Sapeva che c’era qualcosa che non andava, ma non sapeva cosa dire. Temeva di peggiorare la situazione.
«Rin, ma cosa ti succede?» domandò. Rin per un attimo cambiò espressione. Sembrava essere sul punto di rivelarle il suo grande dilemma e poi sorrise. Le poggiò una mano tra i capelli.
«Miyo, tu sei così carina. Hai questi capelli biondi e sei piccola e leggera. Ti adoreranno tutto.»
Miyo non era d’accordo. Per lei era bella Rin, con la sua lunga chioma argentea, il suo corpo.  La strinse a sé e l’aiutò ad alzarsi. Doveva parlarne con qualcuno.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


 
 
Capitolo undici
 
Rin sospirò profondamente. Non aveva intenzione di far preoccupare nessuno e sperava che Miyo non pensasse troppo a lei. Non c’era niente che gli altri potessero fare per aiutarla. Di fatto, Rin non si piaceva più. Si guardava allo specchio e provava un grande disagio. Era formosa, ma non in modo piacevole come le sue amiche. No, lei si sentiva ingombrante, grassa e goffa. Stava cercando di mangiare meno, ma alle volte le venivano degli attacchi di fame terribili e allora mandava giù tutto quello che le capitava. E poi, le capitava di vomitare tutto. Questo era terribile, ma non aveva controllo su niente. Così si rivestì, dopo aver osservato la sua figura allo specchio. Meglio sorridere e fare finta di niente. Sua madre e suo padre si sarebbero preoccupati a morte se avessero saputo. La nuova domestica si rivolgeva a lei in modo educato, ma a Rin non piaceva. Forse era prevenuta, ma non le piaceva l’idea di avere una ragazza così giovane in giro per casa. Sua madre invece di problemi non se n’era fatti. Ma lei lo vedeva bene, quella ragazza guardava suo padre in un modo che detestava. Ecco perché ora la osservava con una certa diffidenza. Le sembrava che avesse delle attenzioni particolari verso suo padre.
«Rin, ti ho fatto preparare il tonkatsu, visto che è uno dei tuoi piatti preferiti» le disse Rangiku tutta contenta. Rin si sedette al tavolo. Non poteva dire che non aveva fame, sarebbe stato troppo sospetto. Avrebbe mangiato molto lentamente e poi ad una certa si sarebbe alzata, era l’unica soluzione. Così si sedette e iniziò a giocherellare col cibo e decise di spostare il discorso su ben altro argomento.
«Mamma, quella nuova domestica non mi piace» ammise.
«Loly? E perché mai? Ha fatto qualcosa che non doveva?» domandò Rangiku. Guardò suo padre.
«Non mi piace, si comporta da gatta morta.»
Fu allora che Gin si degnò di guardarla. Lui stesso aveva notato degli atteggiamenti particolari da parte di Loly, ma non ne aveva fatto una tragedia. Nemmeno lui voleva far preoccupare nessuno.
«Tesoro, sei gelosa? Non devi, lo sai che io non ho occhi che per tua madre.»
«Guarda che non è divertente, sono seria. Non mi piace, si atteggia da puttana
«Rin Ichimaru, cosa è questo linguaggio? Non è una cosa carina da dire» Rangiku la rimproverò, tuttavia non era così ingenua da lasciar perdere le parole di sua figlia. Rin non era certo una bugiarda o una che insultava qualcuno a caso.
«Posso andare a mangiare di là?» domandò, un po’ giù di corda. Gin e Rangiku se n’erano accorti, loro figlia sembrava triste e pensierosa. Avrebbero dovuto parlarne.
«Va bene Rin. Vai» le disse Gin. Una volta che si fu alzata, Rangiku fissò suo marito fino a quando lui non la guardò.
«Sì?»
«Quello che ha detto Rin mi impensierisce. Dovrei forse accorgermi di qualcosa?»
Rangiku non era mai stata gelosa e non avrebbe iniziato ad esserlo adesso. Ma doveva prestare attenzione.
«Mia cara, non è successo niente per cui tu debba preoccuparti. Loly è giovane, figurati se si mette a provarci con me. Suvvia, chi lo farebbe?»
Gin cercò di buttarla sul ridere, ma senza successo.
«Senza contare che io non sono interessato. E poi non è successo niente. Rin mi adora, teme che qualcuno possa allontanarmi.»
Rangiku alzò gli occhi al cielo. Poi si alzò e andò a sedersi sulle sue gambe, quasi fossero una coppietta di fidanzati.
«Nostra figlia mi preoccupa. L’adolescenza sa essere un periodo tremendo.»
«Già, lo so. Dovremmo parlarle.»
Rangiku fece scorrere le dita sul suo collo, poi risalì sul suo viso appuntito e lo strinse, conficcandogli le unghie con fare giocoso.
«Dobbiamo, sì. Ad ogni modo, sono sicura che Rin deve aver frainteso Loly, lei è solo educata ed è giovane. Non posso certo accusare qualcuno senza prove, ti pare, Gin? Anche perché so che in caso non mi nasconderesti niente.»
«Mia cara Rangiku, non c’è niente da nascondere» la rassicurò. Poi si avvicinò per rubarle un bacio. Lei si scostò, dispettosa e poi gli concesse il bacio. Gin non l’avrebbe mai tradita né si sarebbe lasciato sedurre. Del resto, non voleva neanche far preoccupare sua moglie e sua figlia solo perché gli era sembrato che Loly ci provasse con lui. Doveva aver capito male. Ma come Rangiku gli insegnava, sempre meglio tenere gli occhi aperti.
 
 
Mayuri e Kisuke non erano due ricercatori, ma studiavano da tutta la vita e insieme avevano deciso di unire la medicina e la chirurgia per il bene dell’umanità. Trovare nuovi metodi di intervenire su un paziente per abbassare i rischi, studiare nuove tecniche, nuovi modi. Due cervelli geniali in de,  potevano riuscirci, anche se si trattava solo di un progetto in stato embrionale. E che richiedeva un lavoro non indifferente.
«Sta per scoppiarmi la testa» sussurrò Kisuke. Sembrava un pazzo con i capelli in disordine. C’erano libri e appunti ovunque, l’ordine non era mai stata una sua prerogativa. Al contrario di Mayuri, che però quel giorno sembrava troppo distratto anche per badare a lui.
«Secondo te ci daranno i fondi per le nostre ricerche?»
«E perché no? Non siamo due idioti qualunque» Mayuri mise da parte ciò che stava leggendo. La testa doleva anche a lui. Kisuke gli si sedette davanti, fissandolo.
«Beh? Che c’è?»
«Che cosa vi siete detti tu e quella donna?»
Mayuri arrossì e non poté impedirselo. Ma come osava lui intromettersi nei suoi affari?
«Non sono fatti tuoi.»
«Invece sì! Noi siamo amici, io tengo al tuo matrimonio. Ti ha sedotto?»
«Urahara, sei forse deficiente? Secondo te mi faccio sedurre facilmente? Ma per favore. No, si tratta di una questione lavorativa. E se proprio vuoi saperlo, riguarda anche te.»
Kisuke, più tranquillo, annuì.
«E quindi?»
«Quindi Senjumaru vuole prendere parte alle nostre ricerche, ecco cosa.»
Mayuri sembrava combattuto. Avrebbe preferito qualsiasi cosa piuttosto che lavorare vicino alla sua ex, ma purtroppo erano innegabili l’intelligenza e le capacità di Senjumaru. Lei sarebbe stata utile a loro.
 
 
«Allora, che cosa vuoi?»
Vedere la sua ex che si aggirava nel suo ufficio era davvero fastidioso. Senza contare che Senjumaru era sempre stata bravissima a dargli contro, dopotutto c’era un motivo se era finita.
«Non c’è bisogno di essere così nervoso, Mayuri. Non sono qui per indurti al tradimento. Dopotutto sei troppo innamorato di tua moglie per farlo.»
«Bene, e ora che hai appurato questo, ti dispiacerebbe parlare?»
Senjumaru si avvicinò, poggiando le mani sulla scrivania.
«Sono venuta a sapere del progetto del Dipartimento di ricerca e sviluppo tuo e di Urahara. Voglio farne parte.»
Mayuri la fissò e poi fece una smorfia.
«Te lo puoi scordare.»
«Oh, andiamo. Non è da te farsi frenare dai motivi personali. Tu sei il primario di chirurgia, Urahara il primario di medicina. Io sono una rinomata neurologa, dovresti mirare ad avere più gente competente a tua disposizione. Dopotutto, non puoi non riconoscermi le mie abilità.»
Tutto quello che Senjumaru diceva era vero. Mayuri preferiva sempre mettere da parte i motivi personali se si trattava di lavoro. E per quanto gli scocciasse ammetterlo, lei era davvero abile e intelligente, una vera esperta nel suo campo.
Ma lavorare con la sua ex… era certo che Nemu non l’avrebbe presa bene, questo non era difficile da capire.
«Ci devo pensare e devo parlarne con Urahara. Ahimè, è il mio socio. Ma chiariamo una cosa: se dovessi accettare, non sarebbe per qualche mio interesse nei tuoi confronti.»
«Figurati, lo so. Sono passati più di vent’anni. Oramai è acqua passata, vero? Beh, non scordarti di farmi sapere.»
Mayuri non disse altro, la osservò uscire e poi si portò una mano sul viso. Era sempre circondato da donne. Alcune gentili, amorevoli, come Nemu e la piccola Ai. Altre perfide, come la sua ex. Perché proprio a lui?
 
«Quindi tocca a me decidere? Sono il tuo socio!» esclamò Kisuke contento.
«Non c’è niente da ridere. Odio ammetterlo, ma in effetti lei ci aiuterebbe. Ma non hai idea di cosa voglia dire conviverci, è un inferno.»
Kisuke unì le mani e lo fissò.
«Sai, qualche volta dovreste parlarmene. So così poco del tuo passato.»
Mayuri si alzò. Stava facendo tardi e doveva tornare da Nemu.
«Figurati se mi metto a parlare di questi argomenti come un ragazzino idiota. Ora me ne devo andare. E piuttosto che preoccuparti del mio matrimonio, io mi preoccuperei della tua relazione pseudo-poliamorosa.»
Kisuke si mise a ridere.
«Oh, sei sempre il solito spiritoso!»
 
In effetti si era venuto a creare un bell’equilibrio tra Kisuke, Yoruichi e Soi Fon. Quest’ultima, infatti, anche se aveva sempre il buon proposito di andarsene il prima possibile, oramai si sentiva più parte della famiglia che una semplice ospite. Anzi, le due si erano concesse un bicchiere di sakè mentre parlavano. Anzi, era Yoruichi che parlava seduta sul divano ed era Soi Fon che ascoltava, seduta ai suoi piedi.
«Con Yami non so proprio come approcciarmi. Con gli adolescenti sono sempre stata brava, ma è diverso quando sono i tuoi figli. Ha tirato fuori un caratteraccio. È una ribelle e…. ah, in questo ha preso da me, immagino.»
In effetti Yami sembrava una mini-Yoruichi.
«Se vuoi, potrei parlarle io. Abbiamo solo sette anni di differenza, potrei darle un consiglio da sorella maggiore.»
«Mi piacerebbe. È che sai, mi preoccupo. Yami è molto libertina e non sopporta che qualcuno le dica cosa fare. Ma è ancora piccola e il mondo è crudele.»
«Già, lo capisco bene. Anche io sono sempre stata un po’ ribelle» disse, bevendo un po’ di sakè.
«Tu? Pensa, non l’avrei mai detto!»
Poi si misero a ridere. Kisuke intanto stava accompagnando Mayuri e si mise a ridere.
«Ciao, dottore!» esclamò Yoruichi. «Vuoi venire anche tu?»
«No, grazie. Devo andare» poi guardò Kisuke. «Goditi il tuo harem.»
La cosa davvero divertente era che Mayuri non stava scherzando affatto.
Lui e Yoruichi erano solo amici di Soi Fon, niente di ambiguo poteva succedere, si passavano anche un bel po’ di anni di differenza, per cui.
«E-ehiii! Ma bevete senza di me?» dopo che Mayuri se ne fu andato, Kisuke pensò che sarebbe stato un peccato non unirsi alla festa.
«Tu eri occupato e noi stavamo parlando amabilmente» disse Yoruichi. Suo marito le si avvicinò e le posò un bacio su una guancia. Soi Fon arrossì. C’era stato un tempo in cui avrebbe provato invidia e gelosia. Adesso invece li trovava davvero carini. Anzi, erano più che carini.
«Fai il bravo e bevi senza fiatare» disse Yoruichi, in imbarazzo, ma sorridente grazie all’alcol. «Non voglio che Soi Fon si senta a disagio.»
«Ma io non sono a disagio, davvero» la rassicurò lei. Kisuke mandò giù al sakè e ,poiché nemmeno lui era tanto bravo a reggere l’alcol, finì subito col fare una domanda inopportuna.
«Infatti, perché preoccuparsi? Soi Fon sa cosa fanno le persone quando si desiderano. Giusto?»
Yoruichi gli diede una gomitata sul costato. E adesso che intenzioni aveva? Mettersi a parlare di sesso? Loro erano sempre stati aperti, ma magari non era il caso.
«Ne so… un po’, non tantissimo» ammise Soi Fon, arrossendo.
«Devi perdonarlo, Soi Fon. Kisuke a volte è inopportuno. È sempre stato molto aperto sull’argomento sesso.»
Kisuke poggiò il viso sulla sua spalla, languido.
«Perché ne parli come se tu fossi diversa? Abbiamo sempre sperimentato. A parte un threesome, anche se ci sarebbe sempre piaciuto.»
Yoruichi gli strinse i capelli come per tirarli. Adesso stava davvero perdendo ogni inibizione. Soi Fon invece aveva preso a tossire, sentiva la gola bruciare.
«Threesome?»
«Eh, già. Che sia uomo o donna a me non cambia niente. Ma non posso chiederlo ad uno dei nostri amici, sarebbe troppo strano! Una volta però abbiamo praticato lo scambismo. Eh, ne abbiamo combinate tante quando eravamo più giovani.»
Soi Fon si alzò. Era tutto così imbarazzante, eppure in qualche modo quelle parole stuzzicavano la sua fantasia. Ma cosa andava a pensare?! Tra loro c’era solo un rapporto di amicizia.
«S-scusate, devo andare un attimo al bagno.»
«Hai bevuto un po’ troppo, eh?» rise Kisuke e poi guardò Yoruichi. Che lo fissava. «Perché mi guardi così?»
«Perché sei inopportuno. Così la spaventi! Non tutti hanno la nostra stessa mentalità aperta.»
Kisuke sopirò, semi accasciato sul divano.
«Va bene, le chiederò scusa, fammi solo riprendere un attimo.»
 
Soi Fon, chiusa in bagno, doveva fare i conti con il fatto di non essere a disagio. Era ben altra la sensazione che provava: curiosità mista ad una vaga eccitazione.  Non voleva di nuovo cadere nel vertice dell’innamoramento per Yoruichi, quella era acqua passata. Ma immaginare sé stessa, con entrambi, questo era un altro discorso.
Aveva decisamente bevuto troppo.
Poi un rumore la fece sussultare.
«E-ehi, Soi Fon. Interrompo qualcosa?»
Lei sussultò e aprì la porta. Kisuke stava di fronte a lei, imponente e in imbarazzo.
«Ah, eccoti qui. Emmh. Scusa per primo, mi basta un po’ di alcol per perdere la testa. Devo esserti sembrato un pervertito.»
Soi Fon scosse la testa.
«N-no! Non ho pensato questo. Penso sia… bello avere un’apertura mentale del genere. Provare tante cose.»
«Davvero? Sono contento che lo pensi!»
E poi calò un silenzio strano e imbarazzante. Soi Fon sentiva il suo cuore battere e sentiva la tensione. Stava provando qualcosa che non aveva mai provato per nessun uomo o ragazzo, ma che le era capitato di sentire per le donne. Un’attrazione improvvisa e potente, in grado di annullare tutto il resto.
«Sì, ecco… adesso esco…» sussurrò Soi Fon. Kisuke si spostò per farla passare. Era arrossito anche lui. Troppo alcol. Forse avrebbe dovuto evitare.
Goditi il tuo harem, gli aveva detto Mayuri. Che ci avesse visto giusto?
 
Tatsuki sapeva che non aveva bisogno di avvisare per andare a casa dei suoi suoceri, dopotutto era come una figlia per loro. Così era andata, portandosi dietro la piccolo Yoshiko. Amata, coccolata e viziata come una principessa.
«Nonno, gioca con me, gioca con me, gioca con meeeee!» gridò Yoshiko, tutta concitata. Subito appena arrivata, Kanae l’aveva riempita di biscotti (il cibo non era mai abbastanza per dei bambini in crescita) e adesso la piccola era iperattiva.
«Va bene, ma fa piano» sussurrò Ruyken. Uomo tutto d’un pezzo che con Yoshiko diventava debole e le concedeva la qualsiasi. E andava bene così.
«Yoshiko è un vero tesorino, la adoro» disse Kanae, guardandola. Si era seduta in cucina con Tatsuki, anche a lei aveva offerto tè, biscotti e mochi.  «E dov’è Yuichi?»
«Oh, lui è a casa. È davvero molto preso dalle sue lezioni di violino. Magari diventerà un musicista, un giorno» sospirò Tatsuki.
«Un musicista? Sarebbe meraviglioso! Ma ora dimmi, cara Tatsuki. Non sei venuta qui solo per una visita di cortesia, vero?» domandò Kanae bevendo il suo tè.
Dopotutto era stata lei la prima a rendersi conto che erano tornati insieme, la prima a capire che Tatsuki fosse incinta, tre anni prima. Era chiaro che ora aveva intuito dell’altro.
«In effetti qualcosa c’è» ammise lei. «Si tratta di Uryu.»
«Mio figlio sta bene?» chiese subito lei.
E pensare che lei era venuta lì proprio per porle la stessa domanda. Non voleva allarmare nessuno.
«Sì. Ecco, non lo so» Tatsuki si passò una mano tra i capelli. «Lui è molto strano ultimamente. È sempre nervoso, ha gli incubi… e poi se la prende sempre con Yuichi. È diventato super apprensivo, è come se fosse terrorizzato all’idea che nostro figlio stia crescendo e che si approcci al sesso. E questo non è da lui. Ma non è questa la cosa più strana. Il fatto è che a quanto pare Uryu non ricorda niente di quando aveva dodici anni. È come se ci fosse un vuoto. Non so se è normale. Ho provato a parlarne con Ichigo, ma nemmeno lui sa molto, l’ha conosciuto dopo. Speravo che potessi dirmi qualcosa. Se hai mai notato qualcosa.»
A Kanae adesso tremavano le mani.
«Così ci risiamo, eh?» domandò con un sospiro. Tatsuki si fece attenta. Lo sapeva. Allora c’era qualcosa.
«Che cosa vuoi dire? Che gli è successo?»
«Tatsuki… mi dispiace, non avrei voluto dirtelo così. È una situazione molto più complicata di quanto pensi. È vero, Uryu non ricorda quella parte della sua vita, ma c’è un motivo. È legato ad un trauma.»
Adesso Tatsuki iniziava ad agitarsi. Aveva avuto il sospetto sin dall’inizio, ma sentirselo dire era tutta un’altra cosa. Aspettò che Kanae continuasse a parlare. La donna si accertò che Yoshiko non potesse sentirli.
«Quando Uryu aveva dodici anni, ha… ha subito delle molestie sessuali.»
Quelle parole ebbero lo stesso effetto di una doccia gelata. A suo marito era successo questo quando era un bambino? Non ne aveva mai saputo nulla.
«Cosa…? Come…? Cioè… chi?» sussurrò Tatsuki con le lacrime agli occhi. In verità anche Kanae era molto provata, ma non ci stava facendo caso.
«A scuola. Uno dei suoi insegnanti sembrava averlo preso a cuore. Invece… si è poi scoperto che adescava a molestava i suoi alunni. Tra quelli c’era anche mio figlio. Quando… quando abbiamo saputo… c’è  crollato il mondo addosso.»
Tatsuki si alzò. Si sentiva come se le stesse per venire un attacco di panico.
«Ma non è possibile, come può non ricordarlo?»
«Non è possibile, dici? Alle volte, quando si ha un trauma profondo, il nostro cervello tende a farcelo dimenticare. Anche se ovviamente è un’illusione, quei traumi e quei fantasmi sono sempre lì» Kanae le andò dietro, cercando di spiegarsi. «Quel periodo è stato terribile. Uryu aveva smesso di mangiare, quasi di parlare. Aveva incubi su incubi, abbiamo provato con la psicoterapia, ma mio figlio era come bloccato. È stato infernale, doloroso…Poi un giorno, Uryu si è svegliato. E non ricordava più nulla. Come se il suo cervello rifiutasse quello che era successo. Dopo ci siamo trasferiti. Lui sa che ci siamo trasferiti per lavoro, ma il motivo è un altro.»
Tatsuki aveva bisogno di un bicchiere d’acqua. Uryu aveva quel trauma nascosto dentro di sé dopo tutti quegli anni? E nemmeno ne sapeva nulla?
«Ma come avete potuto non dirglielo? Lui ha il diritto di sapere. Riguarda lui!»
«Tatsuki, ci abbiamo provato, tante volte. Ma come potevamo dirglielo con il rischio che crollasse di nuovo? Lui era così fragile e quando finalmente ha iniziato a riprendersi, noi abbiamo pensato che… che potesse andare avanti. E infatti abbiamo avuto ragione. Lui è cresciuto, ha avuto degli amici, ha incontrato te!»
Kanae si avvicinò come per darle una carezza, ma Tatsuki si scostò. Era tutto assurdo, per lei. L’idea che a Uryu potesse essere accaduto questo, l’idea che i suoi gliel’avessero nascosto. Anche se adesso aveva senso. Uryu non ricordava, ma inconsciamente stava cercando di proteggere Yuichi da quel possibile dolore. Le venne da vomitare.
«Io me ne… me ne devo andare… Yoshiko, Yoshiko, andiamocene subito!»
Yoshiko la raggiunse, i pugnetti chiusi.
«Ma perché? Non è giusto? Cattiva!»
«Ho detto che dobbiamo andare, non insistere!» Tatsuki afferrò la sua mano e guardò Kanae. Avrebbe voluto dirle tante cose. Perché non hai protetto tuo figlio? Perché non hai cercato di aiutarlo, anziché fare finta di niente?
Ma il groppo alla gola le impedì di parlare. Aveva paura. Era una situazione pericolosa.
 
 
Toshiro non sapeva cosa inventarsi per passare del tempo con Hayato. Lui stesso ricordava bene cosa volesse dire essere un adolescente. Ma lui da adolescente era sempre stato tranquillo, Hayato invece attaccava briga con chiunque. Se n’erano andati al cinema e almeno in questo si erano trovati d’accordo. Poi erano usciti, Hayato aveva fame, quindi erano andati a mangiare fuori qualcosa. Chiacchierarci era difficile, Hayato era uno di poche parole. Quindi Toshiro si era messo in testa di dire qualcosa di interessante o intelligente. Cosa interessava agli adolescenti, eccetto amore e sesso? (entrambe cose di cui non desiderava parlare).
«Umh… come va la scuola?» domandò Toshiro, serio e in imbarazzo. Proprio un bell’argomento, non c’era che dire. Hayato fece spallucce, guardando distrattamente il cellulare.
«Meh. La scuola non mi piace tanto. È piena di idioti.»
Già, in questo erano uguali.
«Problemi?» domandò. Dopotutto non era un segreto che Hayato finisse sempre coinvolto in qualche rissa assieme a Kaien Kurosaki.
«Se vuoi sapere se ho picchiato qualcuno, non l’ho fatto. E comunque quello non è un passatempo. Io e Kaien lo facciamo per proteggere Masato.»
«Suo fratello? Che vuol dire?» domandò Toshiro, stupito da quel colpo di scena, Hayato assunse l’espressione di uno che si era lasciato scappare qualcosa d’importante. Ma oramai era fatta.
«Tu lo sai che Masato e Yuichi stanno insieme? Si sono sempre voluti. Nella nostra scuola ci sono un sacco di cretini che li prendono in giro. Dicono delle cose orribili, questo a Kaien non va bene. Dice che deve proteggere suo fratello. Io sono il suo migliore amico, quindi sono dalla sua parte. E poi… non è giusto quello che fanno. Anche mio padre sta con un uomo, mi sento chiamato in causa.»
Quello era un discorso davvero intelligente da parte sua. Allora Hayato non agiva così solo per il gusto di fare il prepotente. C’era un motivo dietro e anche se da un lato avrebbe voluto dirgli ben fatto, doveva ricordarsi di essere lui l’adulto.
«Io… capisco. Le intenzioni sono nobili, ma non è con la violenza che risolverai la situazione.»
«Lo so, ma nessuno ci ascolta. La gente non capisce. Ecco perché non sopporto nessuno.»
«Ah, quindi non è solo con me che non sopporti» disse indicandosi. Hayato arrossì.
«Non è niente di personale. Cerco di non lasciarmi andare con nessuno. Con te, con Shinji, con mamma e Rin. Anche con Miyo, ma con lei è difficile. Lei sa vederti dentro.»
Stava scoprendo molto del suo carattere più in quei momenti che in tre anni di semi-convivenza. Hayato aveva un cuore, questo era ovvio. Ma preferiva sempre mantenere un certo controllo. Gli ricordava un po’ Aizen.
«Tra l’altro, voglio dirti un’altra cosa.»
Toshiro si chinò in avanti. Quale segreto voleva mai confidargli?
«È da quando siamo usciti dal cinema che Shinji ci segue. Sta diventando inquietante.»
E con un gesto del capo, Hayato gli indicò Shinji, che se ne stava seduto qualche tavolo addietro, con un cappello, gli occhiali da sole a leggere il menù. E in tutto ciò, Toshiro non si era accorto di niente, ma chissà perché non era sorpreso.
«Oh, santo cielo. Aspetta un attimo qui.»
Si alzò e andò verso Shinji, che intanto cercava di fare finta di niente. Poggiò le mani sul tavolo.
«Davvero un travestimento poco sospetto, Shinji. Hayato si è accorto di te da un pezzo.»
Lui si tolse gli occhiali da sole.
«E non poteva dirlo prima? Sembro un cretino!»
Già, perché il problema era il travestimento.
«Che succede? Perché ci stalkeri?»
«Non volevo stalkerarvi. Volevo solo capire come farmi prendere in simpatia da lui. Credo che mi veda come un rompiscatole e nulla più. Rompiscatole io! Ma se sono un padre giovane e figo.»
Povero Shinji. Si stava impegnando davvero, poteva ben capirlo.
«Sai, qualcosa ho capito di lui, stasera. Non credo proprio l’abbia con te personalmente. È così con tutti. Però tu sei venuto qui a comportarti da idiota solo per cercare di capire, quindi devi tenerci.»
Shinji arrossì e strinse un pugno sotto il tavolo. Era terribile quando qualcuno scopriva così facilmente le sue intenzioni. Perché non avrebbe dovuto tenere ad Hayato? Non era il suo figlio biologico, però era il figlio dell’uomo che amava.
«E d’altronde ci tieni anche tu. Anche se siete come cane e gatto» disse Shinji. «Direi che siamo nella stessa barca. Ma puoi farmi un favore? Supplicalo di non dire niente a suo padre di questa mia incursione. Sarebbe troppo umiliante» si immaginava già Sosuke sfotterlo, anche se avrebbe apprezzato i suoi sforzi.
Toshiro si mise a ridere e lo rassicurò.
 
 
Mentre Ichigo si trovava fuori per la consueta passeggiata con Kon, Rukia cercava di fare un po’ di ordine. I suoi gemelli crescendo divenivano più disordinati che altro, perfino Masato che era sempre stato attento. Inoltre, non poteva entrare in camera loro quando voleva, Kaien voleva la sua privacy. E lei la rispettava, per quanto possibile.
Ora, i due fratelli litigavano per chi dovesse prima fare il bagno.
«Kaien, non posso andare prima io? Tu ci impieghi sempre una vita!»
«Sei tu che ci impieghi una vita!»
Rukia sospirò.
«Fatelo insieme e basta.»
«Neanche per sogno, oramai non abbiamo più quattro anni, sarebbe imbarazzante!» esclamò Kaien a braccia conserte. Masato fece spallucce.
«Se proprio devo vedere un ragazzo nudo, preferirei qualcun altro.»
«Beh?! Hai forse qualcosa da recriminare al mio fisico prestante?!»
Rukia decise di non intromettersi ulteriormente di quei discorsi tra fratelli.
Prese una cesta di vestiti ed entrò in camera sua. Ma per poco non inciampò a causa di qualcosa che si trovava fuori posto. Di sicuro Kon – gigante per com’era – doveva aver fatto cadere qualcosa. E infatti uno scatolo se ne stava sul pavimento, alcuni oggetti erano caduti per terra.
«Oh, no! Ma cosa ci fa questa roba fuori?»
Si inginocchiò. In quello scatolo aveva conservato alcune cose importanti. Ad esempio, i braccialetti di Kaien e Masato appena nati. Ad esempio, alcune fotografie. Una del suo matrimonio. Una che ritraeva lei e Ichigo con i bambini in braccio, la prima volta che li avevano portati a casa. Alcune erano fotografie più vecchie: una scattata quando lei e Ichigo erano ancora fidanzati, una con Tatsuki e Orihime, ancora spensierate. Una con suo fratello Byakuya. E poi c’era quella con Kaien, fotografia di cui aveva rimosso con forza il ricordo. In quella foto, lui la cingeva a sé e lei aveva l’espressione timida ma felice. Gli occhi che brillavano, gli occhi di un’adolescente che vive una storia d’amore degna di un film. Lei aveva quindici anni e lui venticinque, una differenza d’età importante in quel punto della loro vita. Eppure lui non l’aveva mai trattata da bambina. Aveva un carattere particolare, Kaien. Per niente timido, diceva sempre tutto quello che pensava. Quando voleva, sapeva essere severo, ma riconosceva sempre i meriti di qualcuno. E sapeva anche essere dolce, a volte romantico. Rukia lo aveva amato davvero, aveva creduto che fosse l’amore della sua vita, colui che avrebbe sposato. Il destino però per lei aveva altro in mente. E così, poi aveva conosciuto Ichigo. Erano cresciuti insieme riscoprendosi innamorati, anche se quella cicatrice non si era mai più rimarginata. Ora i ricordi venivano fuori e lei non poteva più afferrarli e rimetterli dentro. Si ritrovò a piangere. C’era una parte di lei che era rimasta ancorata al passato. E allora si sentì simile a Byakuya.
Lei gli era stata così accanto, lo aveva spronato a ricominciare e lui lo aveva fatto. Lei lo aveva fatto a sua volta, ma allora perché non ne aveva mai parlato con Ichigo?
Si diceva che oramai fosse troppo tardi. Che Ichigo avrebbe potuto arrabbiarsi. Avrebbe potuto farsi un’idea sbagliata. Sentirsi un sostituto. Già, Ichigo e Kaien erano molto simili nell’aspetto. Erano le versioni più cresciute dei suoi figli. Era incredibile come nella sua vita ci fossero tanti uomini così importanti.
«Rukia, stai bene?»
Non aveva sentito Ichigo rientrare. Solo ora che sollevava il viso e lo guardava, ritornava alla realtà. Ai suoi figli che discutevano ancora. A Ichigo che la guardava, poi guardava la fotografia che stringeva tra le mani.
Non si poteva nascondere il dolore per sempre.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


 
 
 
Capitolo dodici
 
Kohei aveva messo momentaneamente da parte i libri sulle aquile. Camera sua era piena di modellini, libri e riviste. Era, insomma, il suo ambiente comfort, ma proprio quel giorno non riusciva a concentrarsi. Piuttosto si guardava allo specchio, studiando la sua espressione. Di solito era sempre serio, rideva assai di rado. Ma Naoko gli faceva venire voglia di ridere e sorridere. E non solo, in realtà. C’erano tante cose che lei gli scatenava e che non avrebbe saputo spiegare. L’unico con cui poteva confidarsi era il fedele Pixie, sempre appollaiato sulla sua spalla.
«Naoko è bella, buona e brava. E ha un buon odore e sono belli i fiocchi che porta tra i capelli. Io sono enorme e non so se le piaccio. Però forse lei piace a Satoshi. Ne sono sicuro perché la guarda come la guardo io. Le aquile sono animali molto fedeli, lo sapevi? Rimangono fedeli per tutta la vita, una volta che scelgono il loro compagno. Anche io sarei sempre fedele.»
Chad non era solito a origliare i monologhi di suo figlio e in realtà anche quella volta fu tutto molto casuale. Era al telefono con Karin, la quale gli aveva chiesto di passarle il figlio per un saluto. Ma quando l’aveva sentito parlare in quel modo, ci aveva prestato più attenzione.
«Karin, posso richiamarti tra un attimo?»
«Uffa. E va bene. Ma cosa sta succedendo a nostro figlio? Ti prego di non tagliarmi fuori, non lo sopporterei» Karin si sentiva già abbastanza in colpa per essere così lontana (anche se per lavoro).
«È innamorato. A dopo, allora.»
«Ehi-asp… come innamorato?!»
Karin se n’era rimasta così, col cellulare in mano e molte domande. Kohei innamorato? Non riusciva nemmeno a immaginarlo, ma dopotutto quella era l’età dei primi amori. E Chad era abbastanza sensibile per occuparsi di una questione del genere.
«Kohei, stai bene?» Chad entrò in camera di suo figlio. Kohei era un vero asso nel non lasciar trapelare le emozioni, in quei casi però falliva miseramente.
«Non sto bene. Va tutto così male che mi scoppia la testa. Non capisco perché quando penso a Naoko devo sentirmi così strano. Mi batte forte il cuore, mi gira la testa e poi… succede qualcosa di strano al mio pene.»
A Chad quasi non venne un colpo. Non si era aspettato che la conversazione finisse così in fretta a quel punto. Kohei sapeva cosa fosse il sesso, anche se non aveva mai approfondito. Più che altro non gli interessava, ovviamente era un esperto anche sull’accoppiamento delle aquile, ma per quanto riguardava l’accoppiamento tra umani, non era così esperto.
«È… è una cosa normale, questa. Succede quando pensiamo a qualcosa che ci piace molto» cercò di spiegare.
«Tipo come quando penso ai pulcini di aquile?»
«Amh… no, non in quel senso. Mi riferisco… quando pensiamo a qualcuno che ci piace. A te piace molto Naoko, è normale che tu reagisca così.»
Kohei iniziò a camminare, le dita di una mano che torturavano le dita dell’altra.
«A te capita con la mamma?»
Come sempre, suo figlio poneva domande molto dirette.
«…Sì, mi capita…»
«Allora posso dirlo? A Naoko, intendo.»
Qui urgeva un po’ di veloce e necessaria educazione sessuale. Anzi, educazione al consenso, forte.
«Ora ascoltami bene, Kohei. È importante quello che sto per dirti. Parlare di queste cose va bene, ma arriverà un momento in cui sentirai il bisogno… di farle. E va bene anche questo, ma non è detto che l’altra persona sia d’accordo. Bisogna essere sicuri che sia così, altrimenti si ferisce l’altro e questo non va bene. Capisci cosa voglio dire?»
Kohei lo fissò. Poi smise di guardarlo, concentrandosi su un punto indefinito.
«Quindi se mi viene voglia di baciare Naoko, non posso farlo?»
«Puoi farlo, se lei vuole. Lei può farlo, se tu vuoi» Chad stava cercando di semplificare un argomento molto complesso. Sapeva però che Kohei avrebbe capito. Lo sentì sospirare.
«Ma non credo che lei voglia baciarmi. Lei preferisce Satoshi, ma questo non mi piace. Mi dà fastidio, mi viene da vomitare.»
Chad sorrise e teneramente gli scompigliò i capelli. Non aveva importanza l’età, l’amore rimaneva sempre una questione complicata. Così come la gelosia. Avrebbe vegliato su di lui, in questo particolare momento della sua vita. E sempre.
 
 
«Oh, merda, merdaccia! Byakuya mi uccide. Altro che matrimonio, mi mollerà e la colpa sarà tutta tua, stupido cane!»
In ginocchio, Renji stava osservando disperatamente i cuscini del divano. Distrutti, rovinati. E la colpa era tutta di Zabimaru, che con quel suo musetto tenero gli rendeva difficile anche arrabbiarsi. Byakuya ci teneva molto sia all’ordine che alla pulizia. Aveva accettato Zabimaru in casa, al patto che non combinasse disastri. In caso, le conseguenze le avrebbe pagate Renji.
«E ora come faccio? Non si possono aggiustare. Devo andare a comprarne degli altri. Byakuya è nel suo studio, forse non se ne accorge.»
Si rialzò lentamente e poi, nel silenzio, sentì uno stridio. Era Ichigo, arrivato a sorpresa e con un’espressione talmente funerea da farlo preoccupare.
«Ma tu guarda chi si vede! Ma stai bene? Quella tua espressione mi fa preoccupare. E Zabimaru, sta buona! Non abbaiare!»
Il cane infatti aveva iniziato a fare una grande festa a Ichigo, il quale l’aveva accarezzata.
«Non è successo nulla, ma avrei bisogno di parlare con Byakuya. È abbastanza importante» confessò. Byakuya poteva dargli una mano, dissipare i suoi dubbi, o almeno lo sperava.
«Ah, certo. È nel suo studio. Zabimaru, ferma…!» Renji cercò di acchiappare il suo cane, che piccolo e veloce fuggiva facilmente alla sua presa.
 
Ichigo andò nello studio di Byakuya e lo trovò seduto alla scrivania con espressione concentrata.
«Ichigo, non mi aspettavo una tua visita» ammise togliendosi gli occhiali da lettura. Aveva percepito subito nel cognato qualcosa do strano, un certo malessere. Ichigo fece una smorfia, passandosi una mano tra i capelli.
«Sì, beh. Non era previsto. In realtà sono venuto qui per parlarti di una cosa.»
Byakuya capì subito quale potesse essere l’argomento in questione. In realtà se non fosse stato lui, prima o poi avrebbe preso da sé il discorso. Lo invitò a sedersi e a parlare.
«E va bene» sospirò Ichigo. «Io non so cosa sia di preciso, ma da quando i miei cugini sono tornati qui a Tokyo, Rukia è strana. È malinconica, sempre con la testa fra le nuvole. Sembra sempre triste. Ma non solo, ieri l’ho trovata con in mano una fotografia che ritraeva lei e Kaien. La cosa mi ha turbato. So che loro erano amici, però… non lo so, è tutto molto strano. Non è che c’è qualcosa che non so?»
Byakuya aveva i suoi stessi dubbi da un po’ di tempo. Aveva l’impressione che Kaien Shiba fosse stato più che un semplice amico per Rukia, che insieme avessero condiviso molto. E che adesso tutto il dolore che abilmente aveva nascosto, stesse cercando di scappare a lei.
«Rukia mi ha sempre detto che erano molto amici. Io avevo l’impressione che lei se ne fosse invaghita. Ma dopotutto aveva quindici anni, non sarebbe stato strano. Io avevo sempre un occhio di riguardo per lei e lei ha sempre negato tutto. Poi Kaien è stato coinvolto in quell’incidente e ricordo che Rukia ha sofferto molto… vi siete conosciuti al suo funerale, vero?»
In genere le coppie ricordavano con felicità il loro primo incontro, ma quello di Ichigo e Rukia non era avvenuto in modo consueto o allegro.
«È così. Me la ricordo, lei era così… piccola e piangeva così tanto» ricordò Ichigo. «Quando mi vide la prima volta, rimase sconvolta per qualche secondo. È per via della mia somiglianza con Kaien, sai. Comunque lei si è presentata come una sua amica. Non ho mai dubitato che ci fosse stato altro, ma adesso… tu credi che sia possibile? Che me lo abbia nascosto per più di quindici anni?»
Questa volta fu Byakuya a sospirare.
«Io questo non lo so. So solo che mia sorella quattro anni fa mi ha aiutato ad andare avanti. Credo che su di me abbia visto tanto di sé stessa. Certo, lei è andata avanti in ogni caso, ma è evidente che c’è qualche conto in sospeso. Tra l’altro… Kaien deve essere stato importante in modo speciale, se avete addirittura dato a vostro figlio il suo nome.»
A Ichigo ai tempi era sembrato un bell’omaggio. Avevano scelto un nome ciascuno, piaceva a entrambi come suonava Kaien e Masato.
Ma non era mai andato oltre a chiedersi il perché.
Perché avrebbe dovuto? Rukia non aveva segreti per lui. O almeno così aveva creduto.
«Non so come prendere il discorso. Ho l’impressione che lei cerchi di fuggire.»
«È così, parlo per esperienza» disse Byakuya, ricordando il sé stesso di qualche anno prima. «Dovresti cercare di essere sensibile. E di aprirle il tuo cuore.»
Ichigo non si sarebbe definito proprio sensibile. In realtà si sentiva anche piuttosto arrabbiato e nervoso, ma l’ultima cosa che voleva era peggiorare tutto.
«Io… vedrò come fare. Non le dirò che ho parlato con te, non voglio metterti nei guai»
«Figurati, nessun problema. Ora, scusami un secondo»
Byakuya si alzò con eleganza e aprì la porta di scatto. Renji cadde in avanti e, colto in fragrante, sorrise al suo compagno.
«… Mi sentivo escluso. Non vi preoccupate, i vostri segreti sono al sicuro con me!»
Byakua sospirò, rassegnato.
«Scusalo, sai com’è fatto.»
«Ah, figurati» Ichigo li guardò entrambi. «E voi due invece non avete niente da raccontare?»
Renji fece spallucce.
«Forse ci sposiamo» disse e dopo aver lanciato la bomba se ne andò per portare Zabimaru a fare la sua passeggiata. Gli occhi di Ichigo furono su Byakuya, il quale avrebbe avuto due o tre cosa da dire al suo (forse) futuro marito, quando fosse tornato.
 
Ai quel giorno aveva deciso di dedicarsi al progetto di chimica per la settimana successiva. Quando era più piccola le era capitato di giocare al piccolo chimico, ma adesso era un po’ diverso. Teneva in mano alcune ampolline che a scuola le avevano gentilmente offerto, conoscendola. E adesso, con tanto di guanti e occhiai protettivi, aveva trasformato camera sua in un laboratorio.
«Non lo farei se fossi in te» disse Mayuri. Se ne stava a debita distanza ad osservarla. Temeva che sua figlia facesse esplodere la casa.
«So quello che faccio, papà. E poi tu sei solo un chirurgo, non un chimico.»
Piccola impertinente, ma come osava?
«… Adorabile» sibilò, scocciato. Ai ad un tratto si fece tutta allegra e un po’ civettuola.
«Uno di questi giorni ti vengo a trovare in ospedale. Così vengo anche a trovare... gli altri!»
Gli altri, come no. Cosa si diceva in quei casi? Gli adolescenti erano diversi dai bambini, le cotte adolescenziali diverse dall’amore adulto. Lui non era uno che arrivava alle questioni in modo indiretto.
«Ai, penso che tu dovresti interessarti a quelli della tua età. Piuttosto, stai con Hikaru, ti è sempre piaciuto.»
Ai si mise a ridere.
«Ma tu hai detto sempre che non vuoi rischiare di imparentarti col signor Urahara.»
«Infatti è così, ma è la scelta meno terribile. Più o meno.»
Ai si mise a ridere e tornò a dedicarsi ai suoi esperimenti.
Maledetti bambini. Perché dovevano crescere? Ben presto Mayuri ebbe altro di cui preoccuparsi: Nemu era entrata in camera della figlia, l’espressione seria, forse addirittura arrabbiata.
«Mamma, sei tornata! Guarda, sto cercando ci creare un arcobaleno in bottiglia.»
Nemu le sorrise e la lodò e poi guardò suo marito. Mayuri si guardò intorno.
«Beh? Che c’è?» domandò. Nemu lo fissò, a braccia conserte. Anche quando si arrabbiava rimaneva molto tranquilla e questo le dava un’aria inquietante.
«È vero che la tua ex entrerà a far parte del tuo progetto con Urahara?»
Una domanda diretta richiedeva una risposta diretta. Si era già saputo in giro? Certo, Senjumaru doveva averlo detto a tutti. Ma andava bene, Mayuri ovviamente era preparato a questo.
«Sì, è vero. Ma non farti strane idee, semplicemente lei ci serve. Anche se è una donna odiosa, malvagia e insopportabile, non posso negare le sue abilità e intelligenza.»
Gli occhi di Nemu si ridussero a due fessure.
«Proprio lei fra tutti? Gliel’hai chiesto tu o è stata lei?»
Si avvicinò di un passo. Ai la osservò e si rese conto che sua madre, di solito tranquilla e pacata, sembrava minacciosa. Mayuri non si scompose.
«Lei. Prima che tu ti faccia strane idee, è solo lavoro.»
Nemu lo fissò.
«Lei vuole portarti a letto.»
Ad Ai quasi cadde un’ampolla di mano. Non voleva sentire quei discorsi, erano in imbarazzanti. Mayuri stesso fu colto alla sprovvista e si ritrovò ad arrossire.
«Queste sono idiozie, siamo stati insieme più di vent’anni fa. E inoltre mi pare di aver chiarito che non sono interessato. Lo sai che non sono uno che tradisce.»
Nemu si fece rigida. Non dubitava della fedeltà di suo marito, ma di quella donna non si fidava. E odiava il fatto che tutte le sue insicurezze fossero venute fuori! Senjumaru era molto più bella, capace. Aveva fatto carriera, aveva un carisma particolare. Lei si sentiva insulsa. E se anche Mayuri se ne fosse reso conto?
Ai si schiarì la voce.
«Sinceramente quella donna non piace nemmeno a me.»
Ma cos’era? Perché moglie e figlia si erano coalizzate contro di lui? Non aveva gli strumenti per affrontare una crisi di gelosia doppia.
«Voi dovete davvero respirare e mantenere la calma se pensate che basti così poco per far cedere me. Nemu! Mettitelo in testa: non c’è più niente tra noi due e poi io… io amo te, d’accordo?» domandò, in imbarazzo. «Quindi non devi preoccuparti, ti dico.»
Nemu si addolcì a quelle parole. Certo era sciocco da parte sua lasciarsi andare a delle scenate di gelosia e lo sapeva bene. Ma da quando la ex di suo marito era tornata, era come se si trovasse costantemente all’erta.
«Mayuri…»
«Oh, dai. Non c’è motivo di fare quella faccia. Stai… stai serena»
Non era ancora troppo bravo a comportarsi da persona dolce e affettuosa, ma di sicuro era molto migliorato. Le accarezzò i capelli in modo un po’ goffo e Nemu fu contenta di quel gesto. Ai gridò in quel momento.
«Oh, no! Sta per scoppiare tutto!»
«AI! Io te l’avevo detto di non fare le cose a caso!» le urlò contro Mayuri, non riuscendo comunque impedire alla parete di colorarsi di verde, blu e giallo in seguito ad una mini-esplosione.
 
Orihime era davvero entusiasta. Oramai per l’adozione ufficiale di Satoshi mancava poco e proprio non riusciva a starsene ferma, ecco perché sfornava biscotti su biscotti senza riuscire a fermarsi.
«Forse dovremo fare tipo una festa. A Satoshi piacerebbe, non è vero?» domandò. Ulquiorra si trovava in una posizione opposta a lei, mentre puliva i pennelli.
«Penso di sì…»
Orihime infornò l’ultima teglia di biscotti e poi si avvicinò a suo marito, abbracciandolo a tradimento da dietro.
«Vedo che le cose vanno sempre meglio fra te e Satoshi. Lo so, cose tra padre e figlio, non intendo intromettermi. Ma tu sei tanto bravo, non che avessi mai avuto dubbi.»
Ulquiorra socchiuse gli occhi, poggiando la mano sulla sua.
«Sono terrorizzato di sbagliare, a dire il vero. Sono terrorizzato anche nei confronti di Kiyoko. Ma Satoshi ha una storia difficile alle spalle e ho solo paura di peggiorare le cose.»
«Non succederà, perché tu non sei violento. Sei affettuoso e gentile. E timido. Alla fine siete uguali, viene facile amarvi entrambi.»
Lo fece voltare. Ulquiorra avrebbe voluto essere come Hime, a lei veniva tutto naturale. Ma anche lei, come lui, aveva dubbi. Come ogni genitore, come ogni persona al mondo.
Ulquiorra la baciò e l’odore di tempere si mischiò a quello dei biscotti.
Kiyoko non avrebbe, in nessun altro caso, trovato un tempismo altrettanto pessimo. Ignorò i suoi genitori e andò a prendere un bel po’ di biscotti da una delle teglie, mangiandoli nervosamente.
«Emh… tutto bene, mia cara Kiyoko?» domandò Orihime, ancora stretta a Ulquiorra.
«Non va tutto bene. È colpa di Satoshi e Naoko, quei due mi escludono. Non è giusto! Naoko è la mia migliore amica e Satoshi e mio fratello, non mi possono escludere.»
Ulquiorra distolse lo sguardo, un po’ colpevole. Fra quei due c’era del tenero, era normale che volessero del tempo da soli. Ma gli dispiaceva per Kiyoko.
«Tesoro, sono sicura che c’è una spiegazione a tutto questo. Perché non chiedi a Kaien di uscire? So che ti piace tanto» suggerì Orihime.
Le guance pallide di Kiyoko si colorarono di rosso.
«Mh. E va bene, non è una cattiva idea. Io…sono una ragazza indipendente, quindi posso chiedergli di uscire»
E dicendo ciò prese altre biscotti e se ne andò. Ulquiorra scosse la testa.
«Fanno paura a questa età.»
 
Kiyoko aveva tutte le buone ragioni di arrabbiarsi, perché in effetti Satoshi e Naoko si trovavano insieme a casa di lei. Ma Nao si era messa in testa di dargli il suo primo bacio, davanti a Kiyoko sarebbe stato imbarazzante. Adesso se ne stavano seduti l’uno di fronte all’altro, in camera di Naoko. Satoshi era teso e nervoso, Nao entusiasta e impaziente.
«Allora, sai come si fa?» domandò.
«Eh? Veramente… in teoria. Credo.»
Naoko si era fatta più vicina. Aveva un bel profumo, ricordava vagamente quello che c’era in casa propria, forse per via delle tempere.
«Chiudi gli occhi e lo farò anche io» sussurrò Naoko. Satoshi obbedì subito, temeva che il cuore potesse uscirgli fuori dal petto. Naoko allora si fece ancora più vicina e poggiò le labbra sulle sue, senza ripensamenti. Rimase così, ferma, e Satoshi poté sentirne la morbidezza e poté sentire il suo respiro. Naoko si staccò poco dopo, sorridendo.
«È stato… è stato molto bello, vero?» domandò. «Ah! Devo dire che mi piaci tanti, Satoshi. Un giorno mi piacerebbe sposarti.»
Satoshi avrebbe voluto dire tante cose. È vero, è stato bellissimo. Possiamo rifarlo? Per me possiamo sposarci anche domani,
E invece farfugliò qualcosa di incomprensibile. Aveva appena ricevuto il suo primo bacio dalla ragazza che gli piaceva, proprio lui! Non era facile da metabolizzare.
Nnoitra, dal canto suo, aveva fatto una smorfia quando Neliel gli aveva detto che Naoko era in camera con Satoshi. I due si conoscevano da qualche anno, ma non si fidava a lasciare due adolescenti chiusi in una stanza. Non se di mezzo c’era la sua bambina, soprattutto.
«Che cosa state facendo voi due? Naoko, la porta deve rimanere aperta, te l’ho detto mille volte!» esclamò Nnoitra scorbutico. Sua figlia alzò gli occhi al cielo.
«Scusalo, Satoshi. Mio padre è nervoso da quando sono arrivati i nonni.»
«Non è divertente, Naoko» disse, guardando lei e poi Satoshi. «Fate i bravi ragazzi. Soprattutto tu, Satoshi. Non voglio dover andare ad ammazzare uno dei miei migliori amici.»
Satoshi avrebbe voluto dire che in realtà era Naoko che agiva e prendeva l’iniziativa, ma non ci pensò proprio: Nnoitra lo terrorizzava.
«Papà, non mi mettere in imbarazzo e va fuori!»
Che onta, cacciato via da sua figlia. Naoko comunque non aveva torto, era un po’ nervoso da quando i suoi genitori erano tornati. E cosa poteva farci, del resto? Non si sentiva a suo agio, i suoi genitori erano degli estranei per lui. Però Naoko non aveva nulla a che vedere con quello, non era giusto che ci finisse in mezzo. E sì, era anche giusto che conoscesse parte della sua cultura, ma era così difficile. Se ne andò in cucina, dove Neliel parlava al telefono con sua suocera. Nnoitra si sedette e lei gli accarezzò i capelli quasi con fare materno.
«Ma certo, venite pure stasera. Abbiamo molto tempo da recuperare.»
Nnoitra assottigliò lo sguardo e iniziò a scuotere la testa. Non voleva stare a stretto contatto con i suoi genitori.
«Nnoitra? Lui è molto felice di avervi qui, non preoccupatevi. Sono sicura che andrà tutto bene» disse lei, guardando suo marito negli occhi. Nnoitra non era proprio il ritratto della felicità, ma cosa poteva fare, a parte richiudersi nel suo mutismo?
Neliel chiuse la chiamata e poi lo guardò.
«Lo so che non ti va, però è importante.»
«Fate come volete, mi limiterò a non parlare con nessuno» disse facendo spallucce. Neliel non era intenzionata a immischiarsi in situazioni che non la riguardavano direttamente. Ma conosceva Nnoitra abbastanza bene da poter dire la sua.
«Io credo che tua madre voglia parlare con te. Almeno ascolta quello che ha da dire.»
«So quello che ha da dire» Nnoitra si alzò. «Nnoitra, lasciamoci il passato alle spalle, è trascorso troppo tempo. Cerca di venire incontro a tuo padre. Io devo venirgli incontro? Certo, con una motosega! Io sto benissimo così.»
Dicendo ciò le diede le spalle. Non voleva che Neliel lo guardasse negli occhi, altrimenti avrebbe scorto la verità. Che lui benissimo così non stava proprio, che anche se era un uomo adulto e padre a sua volta, c’erano delle cose che lo facevano soffrire. Neliel lo abbracciò da dietro, poggiando il viso alla sua schiena.
«Da bambini non abbiamo controllo. Non scegliamo la nostra famiglia e spesso non possiamo reagire alle situazioni terribili che viviamo. Ma adesso sei adulto, hai un certo controllo. Io ti direi di ascoltare quello che tua madre ha da dirti. Poi potrai agire di conseguenza.»
Oh, Neliel. Era sempre così saggia, così giusta. Era una fortuna che ci fosse lei a non fargli perdere la rotta. Nnoitra sospirò e si rilassò appena.
«Lo faccio solo per te. Ah, e comunque Naoko si è chiusa in camera con Satoshi. Devo fare un discorso a Ulquiorra sul tenere a bada suo figlio?»
Neliel sorrise e gli baciò la schiena.
«Non è necessario.»
 
«Perché hai fatto venire anche me? Io non voglio fare il palo.»
Masato non capiva. Se Kaien doveva vedere Kyoko, lui cosa c’entrava? Se avesse saputo, almeno avrebbe fatto venire anche Yuichi in modo da stare in compagnia, ma così era fregato.
Kiyoko aveva dato a Kaien appuntamento al parco vicino scuola, alla fontana. Aveva indossato un vestito verde come i suoi occhi e aveva un cerchietto sulla testa. Kaien la trovò splendente e arrossì al solo formulare questo pensiero.
«Ciao a tutti e due» disse venendo loro incontro. Portava sempre la sua fidata macchina fotografica attorno al collo.
«Come mai mi hai chiesto di uscire all’improvviso?» domandò Kaien infilandosi le mani in tasca, fingendo indifferenza. In realtà non riusciva a smettere di guardarla.
«Perché Naoko e Satoshi sono in combutta contro di me.»
«Ah-ah! Quindi sono una ruota di scorta!» Kaien gli puntò il dito contro nella speranza di farla arrossire (era una cosa che gli piaceva molto). E infatti ci riuscì.
«M-ma che dici, certo che no!» esclamò Kiyoko. «Guarda che io… io volevo chiederti di uscire da un sacco di tempo!»
Questa volta fu Kaien ad arrossire. Erano entrambi molto timidi alla fine. Masato sospirò.
«Vado a prendere delle granite» disse, una scusa perfetta per allontanarsi e per lasciare a quei due del tempo da soli. Lui sapeva leggere bene tra le righe. Kaien e Kiyoko presero a passeggiare in silenzio, Kaien con la sua aria da finto duro, Kiyoko con la sua aria timida.
«Hai mai pensato che forse quei due si piacciono?» domandò lui all’improvviso. Kiyoko si fermò.
«Non è possibile una cosa del genere, dai! E poi me lo avrebbero detto di sicuro.»
Kaien fece spallucce, non intendeva intromettersi troppo.
«Se lo dici tu…»
Kiyoko respirò profondamente. Certo sarebbe stato strano se quei due si fossero piaciuti. Però poteva anche immaginare che due che si piacevano, volessero rimanere da soli. A lei Kaien piaceva da sempre. E anche lei gli piaceva, almeno un pochino. Cosa stava aspettando? I ragazzi alla sua età tendevano a essere timidi, anche quelli che si fingevano spavaldi come lui e Hayato.
«Kaien…» disse afferrandolo per un braccio.
«Eh?»
Kiyoko, di solito pallida, era tutta rossa in viso. Era ora o mai più.
«Io penso che noi due dovremmo metterci insieme. C-come coppia, ovviamente!»
Kaien si guardò intorno. All’iniziò pensò si trattasse di uno scherzo, ma gli bastò guardarla negli occhi per capire che Kiyoko diceva sul serio. Lui? Con una ragazza così carina? Era incredibile solo a pensarci, ma non si lasciò andare a smancerie, non sarebbe stato da lui. Fece spallucce e disse soltanto.
«Per me va bene.»
Masato era rimasto a debita distanza a mangiare la sua granita da solo. Forse quei due si erano decisi, finalmente…
 
 
Rukia aveva invitato Kukaku a casa sua perché aveva bisogno di parlare con qualcuno e nessuno poteva essere migliore di lei, in quel caso.
Si rendeva conto di stare cedendo e non c’era modo per nasconderlo. Vent’ anni di silenzio gravavano sulle sue spalle. Ma Byakuya aveva percepito qualcosa. E anche Kukaku.
Kukaku che adesso beveva il suo tè in silenzio e la osservava, attendendo che Rukia parlasse.
Ma Rukia stringeva con forza la tazza in ceramica, quasi scottandosi.
«Kukaku…» la chiamò ad un tratto. «Io… non so come dirlo a Ichigo.»
Suo marito aveva chiesto e lei non aveva fatto altro che rimanersene in silenzio. Gli aveva nascosto per anni una parte importante della sua vita credendo che andasse bene così. Adesso però sapeva di non poterlo pi nascondere, ma quello che si chiedeva era come reagirà? E se si arrabbiasse tanto da non riuscire a perdonarmi? Non lo potrei sopportare.
Ma era un’opzione che doveva tenere di conto. Era stata debole e codarda per troppo tempo. Kukaku non fece altre domande, dopotutto aveva già capito ciò che doveva capire.
«Non preoccuparti. Dì quello che senti senza pensarci. È molto probabile che si arrabbierà, ma non ti lascerà certo per questo.»
Rukia tremò appena.
«È solo che non voglio fargli male.»
Kukaku si lasciò andare ad un sospiro.
«Alle volte finiamo col far soffrire le persone che amiamo senza volerlo. Una cosa però è certa. Più la nasconderai e peggio sarà. E poi oramai non puoi fare più niente per nasconderlo.»
Kukaku aveva ragione da vendere. Ormai non si poteva più fare finta di niente. Poco dopo erano arrivati i gemelli, Ichigo era passato a prenderli al parco prima di tornare a casa. Fu sorpreso (ma in realtà nemmeno tanto) di trovare lì Kukaku.
«Ciao. Che fai qui? C’è anche Ganju?» domandò guardandosi intorno.
Sua cugina si alzò, passandogli accanto.
«No, ero venuta per parlare con Rukia. Ma adesso che sei qui non ha più bisogno di me, quindi me ne vado. Fai il bravo» disse dandogli un colpetto su una spalla. Ichigo fece una smorfia, guardando poi sua moglie che se ne stava seduta a bere il suo tè. Ora o mai più, si disse. Si sedette davanti a lei, cercando di essere gentile malgrado fosse molto teso. Non c’era un modo facile per chiederglielo, quindi lo avrebbe fatto e basta.
«Emh… Rukia… c’è qualcosa che devi dirmi, lo so. Per favore, ho bisogno di sapere. Cosa c’è stato fra te e Kaien?»
Rukia lo guardò negli occhi. Sapeva che di lì a poco ci avrebbe visto la tristezza, magari anche la rabbia e la delusione. Ma davanti ad una domanda così diretta non poteva mentire ancora.
Così sorrise, un sorriso carico di tristezza.
«Oh, Ichigo. L’ho amato così tanto da credere che avrei amato solo lui per tutta la vita.»

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


 
 
Capitolo tredici
 
Shinji era dolcemente soffocato dai baci di Sosuke. Sentiva il suo corpo sul proprio e la sua bocca ovunque. In genere Shinji era sempre bravo a precederlo, quando aveva voglia di sesso glielo faceva capire senza troppi giri di parole. Quella volta invece era stato lui a prendere l’iniziativa per primo.
«Sosuke, vedo che siamo particolarmente appassionati, stamattina. Non ti preoccupare, io non vado da nessuna parte» ansimò Shinji, passandosi una mano tra i capelli e chiudendo gli occhi. Gli andava benissimo quel suo essere appassionato.
«Mi pare che io sia sempre così. E poi non puoi darmi torto, domani dovrò partire per lavoro.»
Shinji spalancò gli occhi. Se n’era quasi dimenticato, di Sosuke e Gin che avrebbero trascorso qualche giorno fuori Tokyo per lavoro. La cosa, che generalmente lo avrebbe lasciato tranquillo, lo mandò in panico.
«Ma devi andare per forza? Non siamo abituati a stare lontani.»
«Shinji, ma tu sei stato fuori casa tante volte per le band» gli ricordò Sosuske sollevando lo sguardo. Shinji s’indispettì e distolse lo sguardo.
«Non è la stessa cosa. Mi mette ansia l’idea di rimanere qui da solo con Miyo e Hayato.»
In realtà il problema era il rimanere da solo con Hayato, ma preferì non specificarlo. Era assurdo essere terrorizzato da un tredicenne, specie dal suo figliastro. Aizen assunse un’espressione divertita.
«L’idea di badare a mio figlio di terrorizza, vero?»
Shiji gli passò una mano tra i capelli, come a volergli posare una carezza. E invece li tirò.
«Non sono terrorizzato. Ma spesso non so come prenderlo. A me non dà retta, a te sì.»
«Non preoccuparti, Shinji. Te la caverai. E in ogni caso, puoi sempre chiedere aiuto a Momo.»
Shinji non ci pensava nemmeno a chiedere aiuto all’ex di suo marito. Sarebbe stato troppo umiliante, doveva essere all’altezza della situazione. Di tutte le situazioni.
«Ora non esagerare, non sono così disperato. Cosa può fare Hayato, in fondo? È ancora un bambino…»
E io non sono ancora bravo a gestirlo, avrebbe voluto aggiungere. Invece non disse niente.
«Bravo il mio ragazzo» sussurrò, come se si stesse rivolgendo ad un bambino. Shinji assottigliò lo sguardo, indispettito. Poi guardò la sveglia.
«Pensi di riuscire a combinare qualcosa in dieci minuti?»
«Shinji, mio caro, mi sottovaluti. In dieci minuti si può fare di tutto» sussurrò, prima di lasciargli un bacio lascivo.
 
«Ragazze, sono preoccupata per Rin» aveva esordito quella mattina Miyo a scuola. Il problema era che le sue compagne sembravano essere da tutt’atra parte. Per forza, erano tutte impegnate a pensare all’amore: Kiyoko con la sua appena nata relazione, Naoko e il suo primo bacio, Ai e il suo amore impossibile e infine Yami e la sua cotta per un compagno di scuola.
«Perché sei preoccupata per lei?» domandò Kiyoko, guardando con la coda dell’occhio Kaien che faceva un po’ di stretching prima dell’ora di ginnastica.
«Perché si comporta in modo strano. È sempre sfuggente, con la testa tra le nuvole… l’altra volta l’ho beccata in bagno che vomitava. Ho paura che la sua salute non sia completamente a posto. Ma mi ascoltate o no? Guardate che sono seria!» esclamò Miyo agitando le braccia per farsi notare. Non si sentiva ascoltata per nulla.
Yami sospirò, posando il cellulare.
«Miyo, non pensi che se ci fosse qualcosa di grave, Rin ce ne avrebbe parlato? Soprattutto a te. Sei la sua migliore amica»
«Questo è vero, però…» sussurrò, stringendo in pugno. Non tutto era facile da raccontare. Anche lei aveva delle cose che non aveva detto a nessuna delle sue amiche, nemmeno a Rin. Chissà dove si trovava adesso? Lei di sicuro aveva bisogno di man forte. Chiedere ad un adulto, parlare direttamente con uno dei suoi genitori sarebbe stata la cosa più saggia, ma aveva paura di metterla nei guai in qualche modo. Doveva prima capire la portata della situazione.
«Hayatooo!» gridò ad un tratto, correndo verso il fratellastro e afferrandolo. «Mi servi!»
«Per fare cosa?!» domandò.
«Per Rin. So per certo che c’è qualcosa che non va e so per certo che non riesce a parlarmene. Magari a te ne parlerà. Perché tu le piaci tanto.»
Hayato arrossì.
«Che cosa?! Ma che dici? E poi cosa ti fa credere che vorrà parlarne con me?»
«Hayato, ti prego. Altrimenti giuro che non ti coprirò mai più con i nostri padri se combini qualcosa che non devi!»
Miyo sembrava quasi una bambina, così piccola e con gli occhi pieni di lacrime. Hayato sospirò, posandole una mano sulla testa. I gesti teneri li riservava solo a pochissima gente.
«E va bene, ci parlo.»
«Grazie… ma devi farlo adesso, subito, Hayato!»
«Va bene, adesso!» borbottò. In realtà Hayato dubitava di avere una tale sensibilità da poter ascoltare Rin, ma Miyo gliel’aveva chiesto e a dire il vero anche lui iniziava ad essere preoccupato. Perché Rin gli piaceva. Gli piacevano pochissime persone. Rin un po’ più di tutti.
 
«Come sarebbe a dire che ti sei messa con Kaien? E non mi hai detto niente?!»
Naoko aveva reagito in modo molto acceso alla rivelazione di Kiyoko, che adesso era arrossita e cercava di convincerla ad abbassare la voce.
«Piano, non lo sa nessuno. Sì, ci siamo messi insieme. E poi adesso siamo pari. Tu mi hai scaricato per vederti con Satoshi. Da soli. Cosa c’è fra voi due?» domandò, con uno sguardo così serio da ricordare Ulquiorra. Naoko arrossì, distogliendo lo sguardo.
«Ma niente, ci siamo solo baciati.»
«CHE COSA?! E questo sarebbe niente? Lo sapevo! Come avete osato non dirmi niente?»
Ai cercò di calmare le acque.
«Ragazze, dai… non litigate.»
«Mi dispiace, Kiyoko. Solo che non volevamo metterti in imbarazzo. Magari sarebbe stato strano per te immaginare la tua migliore amica con tuo fratello. Non l’ho detto solo per questo, pensi sia stato facile?»
Kiyoko si sentì davvero ferita. Come aveva potuto Naoko nasconderle una cosa così importante? E anche Satoshi! Ce l’aveva con tutti e due.
«Naoko, tu sei… sei… una vera traditrice! Adesso sì che mi fa strano. Giuro che non ti confiderò mai più niente!»
«Che cosa? Beh, in realtà l‘hai già fatto!»
Ai si portò una mano sul viso. Come fermare quelle due? Yami non la stava aiutando per niente.
«Yami, come faccio?»
«Lascia stare, smetteranno in fretta. Comunque tra poco devo vedermi col mio… amico.»
Ai si dimenticò presto delle scaramucce tra Naoko e Kiyoko. Ammirava Yami perché si comportava in modo più adulto rispetto alla sua età, era la più esperta del gruppo malgrado fossero tutte coetanee.
«Tu e Ren vi siete fidanzati?»
«No, ma che fidanzati! Non voglio un fidanzato, noi ci divertiamo e basta» poi si guardò intorno, abbassando la voce. «Posso confidarti un segreto?»
Ai si fece vicina, curiosa. Da un lato avrebbe voluto essere come lei. Invece era più timida, meno esperta su tutto.
«Gli ho mandato delle foto. Foto sexy, capisci? Tu lo hai mai fatto?»
Ai scosse subito la testa, arrossendo al solo pensiero. Tanto per cominciare non si vedeva sexy. E poi aveva paura.
«No, sono terrorizzata all’idea. Ho paura, metti caso che le mie foto le vedessero tutti? Penso mi ucciderei. Sei sicura che ti puoi fidare? Tu lo conosci appena e…»
Yami si alzò, lisciandosi i lunghi capelli chiari.
«Per favore, non parlare come mia madre. Come pensi che gli altri ti tratteranno da adulta, se ti comporti da bambina?»
Ai arrossì, se la prese un po’ per quello Yami le disse. La sua migliore amica era diversa e non era sicura che ciò le piacesse.
«Ma Yami, io ho solo dodici anni. Non sono più una bambina, ma non sono nemmeno un’adulta. E lo stesso vale per te» rispose con una calma invidiabile, ma comunque ferita. Yami alzò gli occhi al cielo e tornò a dedicare tutte le attenzioni al cellulare e a suo spasimante che però aveva smesso di risponderle ai messaggi.
 
Hikaru per poco non ricevette una pallonata in faccia. Lui odiava gli sport e l’attività fisica in generale, con l’asma che aveva non si sarebbe nemmeno dovuto trovare lì, ma i suoi amici lo aveva convinto a fare qualche tiro. Anzi, a prendere qualche pallonata in faccia. Ai però passò attraverso il campo e lo afferrò per un braccio.
«Ma… ehi, che c’è?» domandò arrossendo.
«Detesto Yami» proclamò Ai. «No, in realtà non la detesto. Ma si comporta in modo davvero terribile, si può sapere che le prende?»
«Perché lo chiedi a me? Sono suo fratello, lei con me non parla.»
Ai si fermò un attimo, a braccia conserte. Avrebbe dovuto dire a Hikaru quello che sua sorella le aveva confidato? Forse non era una buona idea, fosse stata al posto suo non avrebbe voluto che nessuno sapesse dei suoi segreti.
«Comunque se non la pianta, non potremo andare d’accordo» dichiarò.
«Mi dispiace, Yami è un po’… strana. Voi ragazze fate paura a questa età» si ritrovò ad ammettere. Ai lo terrorizzava più di tutti perché gli piaceva tanto.
«Voi ragazzi non siete tanto meglio. Beh, non importa. Più tardi passo dal st. Luke.»
Hikaru arrossì e strinse i pugni. Ai allora aveva intenzioni serie con quello lì!
«Ma Ai, quello ha il doppio dei tuoi anni, nemmeno ti guarda. Non è nemmeno legale!» esclamò, non riuscendo a trattenere una scenata di gelosia. Ai corrugò la fronte. Stava sviluppando un carattere mite, allo stesso tempo però era capace di zittire chiunque con lo sguardo.
«Tu e tua sorella oggi avete proprio decido di farmi arrabbiare.»
 
Hayato, nel frattempo, era corso a cercare Rin. Miyo contava su di lui. Toshiro lo aveva pregato di non farla soffrire. Ma non era certo per lui che lo faceva! È che lui teneva a Rin.
Rin si trovava in classe, seduta sopra il banco. Più pallida del solito, aveva un’espressione malinconica e nemmeno si accorse di lui.
«Salti l’ora di ginnastica?» domandò Hayato, l’espressione forzatamente disinteressata. Rin non avrebbe potuto dirgli che si sentiva senza forze.
«Oggi sì» rispose con un sussurro.
«E va bene. Miyo è preoccupata per te. E un po’ anche io. Che succede?» domandò col tono di chi non permetteva repliche. Rin non se la sentiva di parlare del suo dilemma con nessuno, era sicura che nessuno l’avrebbe compresa. Tutti non facevano altro che dirle che lei andava bene così. Ma non si sentiva del tutto a posto nel suo corpo, era a disagio proprio lei che era sempre stata sicura di sé. Così decise di mentire. Anzi, in realtà non era una bugia, era solo un’atra preoccupazione.
«Sono preoccupata per i miei genitori. Cioè, per mio padre. Ho paura che lui e mia madre potrebbero lasciarsi.»
«Ma va! Impossibile, li conosco i tuoi, sembrano due fidanzatini» disse Hayato con una smorfia.
«Lo so! Il problema è che la nuova domestica sembra provarci spudoratamente con mio padre. E mia madre non si accorge di niente, Non è da lei. Il problema è che non l’ho vista fare nulla di compromettente, non si accusano le persone senza prove. E poi non so se verrei creduta.»
Hayato si sedette vicino a lei.
«Parli con la persona giusta, conosci bene la mia situazione familiare. Comunque, anche se fosse come dici tu, tuo padre non tradirebbe mai tua madre. Non ho mai visto una persona così innamorata di un’altra. Beh, a parte mio padre e Shinji. E mia madre e Toshiro» disse facendo un’altra smorfia. A Rin venne da sorridere.
«Com’è andata l’uscita con Toshiro?»
Hayato mosse nervosamente le gambe.
«Bene, direi. Non è così male, è abbastanza simpatico. Sia lui che Shinji si stanno dando da fare per conquistare il mio affetto. Ma tanto io non sono un tipo affettuoso.»
«Che bugiardo! Io ti conosco, non è affatto vero. Fai solo il duro, come Kaien Kurosaki.»
«E cosa c’entra lui, adesso?» domandò geloso. Rin lo guardò negli occhi e arrossì. Avrebbe tanto voluto che lui la baciasse. Ma non si sentiva abbastanza bella per questo.
«Hayato… secondo te sono carina?»
Molto più che carina. Io ti trovo bellissima, avrebbe voluto dire. Ma Hayato entrava in crisi quando si trattava di far venire fuori i suoi sentimenti.
«Abbastanza» fu la sua patetica risposta. Rin si tirò indietro. Abbastanza non era abbastanza. Aveva la terribile sensazione che il suo primo bacio sarebbe sempre rimasto lì sulle sue labbra.
 
Le cose erano molto strane per Soi Fon. Con Yoruichi e Kisuke non si trovava bene, si trovava benissimo. E per quanto fosse cosciente di non poter vivere lì con loro a tempo indeterminato, si rendeva conto di star temporeggiando. Quei due erano davvero una bella coppia, per quanto diversi tra loro. E soprattutto erano molto innamorati. Sembrava quasi surreale che qualche anno prima Soi Fon li avesse involontariamente messi in crisi. Adesso però era diverso. Adesso era lei che si sentiva parte di qualcosa di più grande, qualcosa di bello e accogliente. Aveva anche fatto amicizia con i loro figli. Hikaru era timido, Yami invece se ne andava in giro con quell’aria da adolescente ribelle.
«Mia madre non mi fa mai fare nulla» si lamentò quel pomeriggio. «Sta sempre lì a dirmi cosa devo e cosa non devo fare. Non vuole che viva.»
«Tua madre è stata la mia insegnante alle scuole superiori. Di certo è tosta. Ma ricordati, è così severa perché ti vuole bene» disse Soi Fon, cercando di dispensare buoni consigli. Yami però era maliziosa.
«Tu dici così solo perché ti piaceva. Io lo avevo capito, sai, che c’era qualcosa di strano.»
Soi Fon arrossì, abbassando lo sguardo.
«È stato tanto tempo fa…»
«Ceeerto, come no. Beh, fatti vostri, l’importante è che i miei non si lascino. Tutto qua» raccomandò. Ma su quello Yami poteva stare tranquilla, Soi Fon non aveva intenzione di farli lasciare.
«Yamiii. Tesoro mio bello, farai tardi alla tua lezione di danza» disse Kisuke, sbucando dalla cucina con addosso un grembiule. «Non starai molestando Soi Fon?»
«N-no! Nessuna molestia, davvero!» disse subito lei. Yami li osservò, facendo una smorfia, e poi corse in camera a cambiarsi. Yoruichi invece era appena uscita dal suo studio, dopo un paio d’ore a correggere compiti. Si stava stiracchiando come una gatta.
«Ma che bravo, Kisuke. Pensi già alla cena?»
«Eheh, ma certo. Le mie ragazze devono pur mangiare, no?»
Soi Fon arrossì così tanto da temere di andare a fuoco. Le sue ragazze erano forse lei e Yoruichi? Ma no, doveva aver capito male. O almeno sperava. Il colmo fu quando Yoruichi si avvicinò a suo marito per baciarlo. Quei due erano sempre stati molto fisici, anche in pubblico. E se Soi Fon di solito avrebbe distolto lo sguardo, quella volta invece non riuscì a far altro che ammirali. Le piacevano proprio. E non avrebbe dovuto pensare questo!
«Oh, scusa Soi Fon, non volevamo metterti a disagio» disse Yoruichi, vedendola arrossire. Lei però scosse la testa.
«Non mi sento a disagio. Per me potete anche continuare» sussurrò, rendendosi conto troppo tardi di cosa aveva detto. Si alzò in piedi, agitata. «No, cioè… volevo dire… accidenti.»
«Amh, tranquilla!» esclamò Kisuke. «Non ci imbarazziamo per così poco… credo.»
Era calato il silenzio. E la tensione, la tensione sessuale era tanta e assurda tra tutti e tre. Kisuke e Yoruichi, più grandi e con più esperienza, se ne resero conto immediatamente. Soi Fon un po’ meno.
«V-vado un attimo al bagno» usò quell’ennesima scusa. Andò a chiudersi lì dentro e si lavò la faccia. Quella era una situazione assurda. Aveva sempre trovato Yoruichi una bella donna, non aveva smesso di esserne attratta fisicamente. Il problema è che ora si sentiva anche attratta da Kisuke, da entrambi.
Come se ne usciva da una situazione del genere?
 
Ai aveva incontrato in ascensore una ragazza allegra e dai capelli tinti d’azzurro. Natsumi l’aveva subito presa in simpatia quando Ai si era presentata e subito avevano preso a chiacchierare.
«Vai a trovare papà e mamma a lavoro?» domandò Natsumi. Ai arrossì.
«Beh. Anche.»
Natsumi si era subito interessata.
«Oooh. Ho capito. C’è qualcuno che ti piace lì. Ma che coincidenza, anche per me è così! Lo sai, quel chirurgo, Hanataro Yamada, mi piace davvero tanto. Sono qui per lui. Ho sempre avuto un debole per le persone timide. E a te invece che tipo di persone piacciono?»
Ai ci pensò su un attimo. Le piacevano le persone intelligenti, tranquille, un po’ timide. Introspettive, avrebbe osato dire.
«Penso… penso che la penso come te.»
«Grandioso! Comunque eccoci, siamo arrivate»
Le due entrarono in reparto. Ai scorse sua madre che parlava con alcuni pazienti e si avvicinò.
«Mammaaa!»
«Ai?» la chiamò lei. «Ma come sei arrivata fino a qui?»
«Con l’autobus» rispose lei. «Emh… mi mancavate, quindi eccomi qui. Papà è qui in giro?»
«No, in questo momento è occupato, a dire il vero.»
«Molto bene, allora!» esclamò lei. Molto meglio non avere gli occhi di suo padre addosso, sapeva bene come la pensasse.
 
Hanataro era stanco. Si sentiva davvero stressato. E dire che lui era così positivo. Avevano dovuto già affrontare tre interventi, ovviamente capitanati da Akon che era eccezionale malgrado fosse il nuovo arrivato. Perché la cosa infastidiva solo lui? Forse perché la sua autostima era così fragile? Forse perché lui la stima dei suoi colleghi aveva dovuto guadagnarsela con sudore e fatica? Oh, era così arrabbiato. Si tratteneva così tanto…
«Yamada, preferisci un caffè in lattina o qualcosa alla frutta?» gli domandò Akon. Hanataro corrugò la fronte. Ed esplose.
«Stammi… stammi a sentire, va bene? Non è affatto giusto quello che sta accadendo. Ci ho impiegato anni e fatica per guadagnarmi la stima di Kurotsuchi. Poi arrivi tu e con la tua calma snervante e le tue abilità mi fai sentire come se fossi io l’ultimo arrivato. E questo… questo è ingiusto! Accidenti, credo proprio di essere invidioso, ma perché?»
Stava piagnucolando. Non gli piaceva litigare, era una cosa che evitava sempre. Ma quella volta era proprio strana Akon lo guardò, confuso.
«Ma io… non credo di aver fatto niente di sbagliato.»
«Per l’appunto! Tu non fai mai niente di sbagliato. Sei praticamente perfetto sotto ogni punto di vista.»
«Veramente ti stai sbagliando, io non-»
Ai finalmente li trovò. Oh, come le batteva forte il cuore.
«Ciao Hana, ciao Akon» li salutò, allegra. Si era fatta carina e si era vestita bene. Le parole di Yami non l’avevano lasciata indifferente.
Hanataro tirò su col naso.
«Ciao, piccola Ai. Sei venuta a trovare me? Che pensiero dolce, almeno qualcuno ci pensa a me!»
Ai sorrise nervosa. Meglio non dirgli che era venuta lì per Akone e che a lui ci avrebbe pensato Natsumi. Rivolse tutte le attenzioni al giovane chirurgo, ancora confuso.
«Eemmmh. Allora, qualche intervento interessante, oggi?»
«Ben tre. Ma non vorrei impressionarti, sei ancora piccola» rispose Akon.
Ai s’indispettì. Si mise dritta e fiera.
«Io non sono una bambina, ho già dodici anni. Sono… sono una giovanissima ragazza indipendente. Più o meno. E diventerò anche la scienziata più famosa al mondo. Questa è una promessa che ho fatto a me stessa.»
Sperava di aver fatto una buona impressione. Akon in effetti parve colpito.
«Hai le idee chiari. Questo mi piace, Ai.»
Una sola frase – piuttosto innocente in realtà, bastò per far venire ad Ai le cosiddette farfalle allo stomaco. Hanataro si grattò la testa, confuso.
«Ehi, ma cos’hanno quei due?» domandò fra sé e sé. Poi percepì un’aura alle sue spalle. Si trattava di Natsumi, quella ragazza allegra e dai capelli colorati che lo aveva puntato.
«Ciao, dottor Hanataro» lo salutò avvicinandosi a lui eccessivamente e con le mani dietro la schiena. «Allora, se adesso mi dai il tuo numero, possiamo organizzarci per uscire insieme. A me non interessano i posti eleganti, basta che ci divertiamo e conosciamo meglio. Allora, vuoi?»
Era la prima volta in assoluto che qualcuno gli chiedeva di uscire. Mai si sarebbe aspettato che a farlo fosse una ragazza così carina. Stava per venirgli un leggero attacco di panico.
«I-io…i-io…i-io…» si fermò un attimo, incapace di respirare. E poi si disse che forse un’occasione del genere non gli sarebbe mai più capitata. Strinse i pugni.
«MI PIACEREBBE MOLTO!» gridò, senza rendersene conto. Natsumi sgranò gli occhi e poi sorrise.
«Che entusiasmo! Mi piacciono gli uomini passionali!»
C’era un vero caos nel reparto, non che Nemu non ci fosse abituata. Almeno si respirava un po’ di allegria. Anche se ad un tratto aveva iniziato ad avvertire anche un altro tipo di odore. Profumo di donna e guai.
Senjumaru Shutara era appena entrata, guardandosi attorno. Nemu si bloccò un attimo a fissarla, ma poi cercò di far finta di niente. L’ex di suo marito la metteva in soggezione. E poi era bella e geniale, contro lei che era insicura e nella norma. Sperò solo che non venisse a parlare con lei, ma poiché Mayuri non era nei paraggi, era piuttosto ovvio che sarebbe stata lei la sua vittima.
«Infermiera Kurotsuchi.»
«Dottoressa Shutara» rispose lei. Nemu sembrava sempre imperscrutabile, come se niente potesse turbarla, ma la realtà era ben diversa.
«Immagino che Mayuri ti abbia detto che d’ora in poi lavoreremo insieme.»
«Mi ha accennato qualcosa, sì» sussurrò. Le veniva difficile anche guardarla negli occhi. Non poteva fare a meno di pensare che erano stati insieme.
«Sarà un gran progetto. Ad ogni modo volevo rassicurarti che il nostro è solo un rapporto lavorativo, niente di più» Senjumaru si guardò le unghie, annoiata. Sembrava sincera, ma a Nemu sembrò anche che volesse stuzzicarla.
«Ovviamente. Non dubito de suo amore nei miei confronti. E poi ti ha lasciato vent’anni fa.»
«Vuoi dire che io l’ho lasciato vent’anni fa» Senjumaru fece spallucce. «Ma eravamo giovani, ora le cose sono diverse.»
Nemu sperò che la sua espressione non la tradisse. La storia che conosceva lei era un po’ diversa. Lei e Mayuri non parlavano spesso delle loro relazioni passate. Le sue perché erano inesistenti, quella di suo marito perché era insensato, almeno secondo lui.
«Certo che sì» disse, apparentemente indifferente. Ma in realtà a sua mente era affollata di domande. Se era stata lei a lasciarlo, forse Mayuri ci aveva sofferto? Forse provava ancora qualcosa? Ma no, era assurdo. Era passata una vita e poi lui non era così sentimentale. Le due donne sollevarono lo sguardo in contemporanea quando Mayuri uscì dal suo studio, visibilmente stanco e stressato. Si soffermò a guardare Akon e Ai – e in generale quei quattro giovinastri che facevano casino nel suo reparto.
«Ciao papà!» salutò Ai, allegra e un po’ intimorita. Lui sollevò una mano in segno di saluto e poi fissò Akon.
«Higarashi, non star qui a perdere tempo. E poi tu, maledetta ragazza pazza, questo è un ospedale, non un ritrovo per coppiette!» esclamò. Natsumi se ne stava appiccicata ad Hanataro, con il rischio di causargli uno svenimento.
«Oh, andiamo dottore, non faccia così. Lei vince facile, ha sua moglie e il suo migliore amico sempre a disposizione!»
Aveva giurato che la prossima volta che qualcuno avrebbe definito Kisuke Urahara il suo migliore amico, lo avrebbe ammazzato.
«Vieni qui, vedrai se non ti faccio a pezzi!»
 

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


Capitolo quattordici
 
Rin osservava malinconica e pensierosa sua madre, mentre si vestiva. Rangiku era sempre molto elegante e amava indossare bei vestiti. Aveva quarant’anni, ma era molto più affascinante e avvenente di tante ragazze più giovani. E Rin la guardava, ammirata ma anche con una certa tristezza addosso. Con l’arrivo della pubertà erano venute fuori anche tutte le sue insicurezze. Ricordava che da bambina era molto sicura di sé, ruffiana come solo una bambinetta adorabile poteva essere. Adesso invece si guardava allo specchio, per poi distogliere o sguardo. Era troppo. Odiava la sua pelle in accesso, si sentiva grassa e sgradevole. Ingombrante. E aveva l’impressione che perfino la sua faccia si stesse gonfiando, malgrado mangiasse pochissimo. Perché non riusciva ad essere magra ma formosa?
«Mamma, ti sei mai sentita brutta?»
Rin adesso si era alzata. Aveva afferrato uno dei capi di Rangiku e se l’era poggiato addosso, cercando di capire come le sarebbe stato. No, sicuramente avrebbe solo fatto ridere qualcuno. Rangiku si fermò a guardarla.
«Non che io mi ricordi. Aspetta… qualcuno ti ha detto qualcosa?!» si allarmò. Rin arrossì. Era meglio che sua madre non sapesse nulla dei suoi complessi e tormenti.
«M-ma no, è solo per sapere» poi tornò a guardarsi allo specchio. «Io non mi vedo molto carina. Lo ero da piccola, ma adesso sembro un mutante… ma perché?»
Rangiku le accarezzò i capelli lunghi e chiari.
«È l’età. La pubertà sa essere terribile. Si cambia tanto, fisicamente e psicologicamente. È un po’ infernale. Ma Rin, se ci fosse qualcosa che non va, me ne parleresti, vero? So che a volte sono esagerata e ti metto in imbarazzo, ma voglio solo il tuo bene.»
Rangiku strinse le spalle della figlia e per la prima volta si rese conto di quanto apparisse esile. Ma cosa c’era che non andava? Forse avrebbe dovuto scavare più a fondo?
«Ma certo, lo so. Non c’è niente che non va» Rin sorrise e poi spostò l’attenzione su un altro argomento. «Però mamma, davvero. Puoi licenziare Loly? Non mi piace, non voglio che tu e papà vi lasciate per colpa sua!»
«Oh, Rin» Rangiku la fece voltare. «Non posso licenziare qualcuno solo perché ho dei sospetti. Terrò gli occhi aperti, e se dovessi vedere qualcosa di strano, agirò di conseguenza. Io e tuo padre comunque non ci lasceremmo per così poco.»
Rin si rasserenò, ma solo un pochino. Era ora di cena e aveva un’angoscia terribile al pensiero di mettersi lì a mangiare. Aveva anche una fame atroce, quella oramai non l’abbandonava più. Ma preferiva soffrire la fame piuttosto che sentirsi ancora orribile. E poi aveva da poco imparato a mangiare di nascosto, per poi vomitare tutto. Quello non gli piaceva molto, ma non riusciva a farne a meno.
E poi a tavola era diventata taciturna. I suoi parlavano molto e cercavano di includerla nei discorsi.
«Rinuccia, non hai fame? Se vuoi ti imbocco io» gli suggerì Gin scherzosamente.
«Non mi sembra una grande idea» ammise lei, muovendo i piedi sotto il tavolo.
«Tesoro, per adesso mangi così poco. Sicura che stai bene? Forse è qualche intolleranza?»
«… Forse è innamorata» disse Gin, serio. «Sei innamorata?»
Rin arrossì e si portò una mano sul viso.
«…No.»
«Non mi sembri convinta.»
«Papà, per favore. Non è quello il punto.»
«Chiedevo solo, è mio dovere chiedere… Come si chiama?» domandò poi.
«Gin, non essere molesto adesso» lo rimproverò Rangiku.
Rin sospirò. Si sforzò di mandare giù qualche boccone, poi andò a chiudersi in camera sua, ma sua madre non gli aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno un attimo.
Più tardi, mentre si toglieva il trucco dal viso, Rangiku decise di parlare con Gin delle sue preoccupazioni.
«Rin mi fa preoccupare» disse, osservandosi allo specchio.
«Sai di chi è innamorata?» domandò Gin, sfilandosi la cravatta.
«Gin! Non in quel senso. Intendo dire che qualcosa non va in lei. Mangia poco, parla poco. Non lo so, sembra malaticcia. Forse c’è qualcosa che non sappiamo? E se frequenta cattive compagnie? O peggio, se qualcuno le dà fastidio? Vittima di bullismo? Lo sai che questa età è terribile.»
Gin si avvicinò e la strinse da dietro, avvertendo il suo corpo teso.
«Su, Rangiku. Respira. Sono sicuro che non è niente di tutto questo.»
«E allora cosa? Il non sapere mi fa impazzire»
«Anche a me. Dobbiamo solo prestare attenzione» le sussurrò ad un orecchio, per poi baciarle il collo. Rangiku ansimò e poi si staccò.
«Ti aspetto nell’idromassaggio»
«Arrivo» rispose lui subito. Prese il cellulare poggiato sul lavandino e vide che aveva appena ricevuto un messaggio da un numero che non conosceva.
Signor Ichimaru, sono Loly. Penso di aver dimenticato lì il mio braccialetto, al bagno di sopra. Potrebbe tenerlo al sicuro per me?
Gin si guardò intorno e poi rispose.
Nessun problema, Loly. Tuttavia avresti potuto anche dirlo a mia moglie.
Doveva tenere distante quella ragazza. Ma era giovanissima, avrebbe potuto gestirla.
Le chiedo scusa, non volevo disturbare la signora. Allora… ci vediamo domani.
D’accordo, a domani.
C’era sempre qualcosa di languido nei modi di fare e nelle parole di Loly. Gin si chiese se avesse quel modo di fare con chiunque o se fosse solo un trattamento a lui riservato. Sperò vivamente di no.
 
 
Non era facile badare alla casa adesso che Chad era momentaneamente solo. Per fortuna Kohei era un amante seriale dell’ordine e gli dava una grande mano. La sua Karin gli mancava da matti, non vedeva l’ora di rivederla e per fortuna mancava solo qualche giorno al suo ritorno. Per il momento, doveva accontentarsi di sentirla al telefono.
«Se vinciamo anche questa partita, l’anno prossimo siamo ai nazionali. Ti rendi conto? Sono proprio fiera dei miei ragazzi.»
Chad l’ascoltava, mentre con una mano cercava di ripiegare in modo ordinato i vestiti puliti.
«Sono fortunati ad avere un’allenatrice tosta come te.»
«Ma io sono tosta solo davanti a loro! Mi mancano i miei ragazzi preferiti. Come state tu e Kohei?»
«Io sto bene. Kohei è un po’ strano» Chad guardò da lontano suo figlio che sistemava i libri sullo scaffale con meticolosa attenzione. Anche se aveva solo dodici anni, era un gigante buono dal grande cuore, sempre accompagnato all’immancabile Pixie. Certo, gli faceva strano pensare che suo figlio si stesse approcciando all’amore.
«Lo sai? Non sono certa che mi vadano bene tutti questi segreti. Io sono sua madre.»
Chad sospirò. In realtà lui non sapeva bene come gestire la situazione. E almeno in teoria avrebbe dovuto, suo figlio era come lui alla sua età.
«Credo che sia preso una cotta. Per Naoko, credo. Ha sempre avuto un debole per lei.»
«Oh. Naoko è una ragazzina deliziosa. Ma credi sia il caso di…amh… fare quel genere di discorsi a nostro figlio?»
Chad avrebbe evitato di dirle che Kohei aveva iniziato a fare domande di quel tipo. Però sì, in effetti era importante spiegare certe cose, l’adolescenza era il periodo in cui si sperimentava di più.
«…Non devo farlo io, vero?»
«Beh, Yasutora. Tu sei suo padre.»
«E tu sua madre.»
«Ma con me potrebbe sentirsi a disagio. E poi siete simili, saprai spiegarglielo.»
Chad lo sperava davvero.
« Comunque non vedo l’ora che tu torni a casa.»
Karin sorrise.
«Non vedo l’ora anche io. Resisti solo qualche giorno e poi recupereremo tutto il tempo perso.»
Chad si irrigidì quando sentì il tono languido della moglie. Non vedeva davvero l’ora di riaverla con sé.
«Sì, ma certo. Adesso vado. Riguardati.»
Dopodiché andò a controllare cosa stesse facendo Kohei. Lo scorse che si guardava allo specchio, quasi studiandosi.
«Kohei, tutto bene?»
«Eh? Ah, sì. Mi stavo solo guardando. Voglio capire perché Naoko guarda più Satoshi che me.»
E così suo figlio aveva un rivale in amore? Brutta storia davvero, soprattutto perché i due erano molto amici. Ora doveva anche spiegargli che l’amore poteva anche non essere ricambiato?
«Kohei, a te Naoko piace molto, vero?»
«Ovviamente sì. Vorrei tenerla per mano.»
Sorrise di tenerezza nel sentirlo parlare così.
«È molto dolce da parte tua. Ma sai? A volte capita che proviamo qualcosa per una persona e che quella persona… non provi lo stesso.»
Kohei si voltò a guardarlo, imbronciato. Per lui la situazione era molto più semplice: Naoko gli piaceva e di sicuro anche lui doveva piacergli. Perché era molto più carina e gentile con lui di quanto lo fossero tutti gli altri.
«Hai ragione, infatti Satoshi rimarrà deluso. Se ne farà una ragione.»
«Cosa? Ma Kohei…»
Kohei era totalmente fuori strada. Ma spezzare il suo cuore non era nelle sue intenzioni.
«Scusa, pa’. Però adesso ho bisogno di privacy. Ci sono delle cose che non posso fare davanti a te, perché è sconveniente.»
«Me ne vado» disse subito Chad, che non voleva prendere parte a niente di sconveniente. Avrebbe dovuto tirare fuori lui stesso il discorso. Kohei, come la maggior parte dei suoi coetanei, sperimentava l’attrazione e l’eccitazione sessuale. In un altro momento però, si disse. E non era affatto una scusa perché si sentiva più sicuro con Karin al suo fianco. Non aveva niente a che vedere con questo.
 
 
Toshiro aveva fatto un notevole passo avanti con Hayato e questo lo rendeva più di buon umore e affettuoso anche nei confronti di Momo. Quei due, anche dopo tre anni, erano ancora una coppietta innamorata. Toshiro si divertiva a stuzzicarla mentre lei suonava al pianoforte per rilassarsi. Ad esempio, stringendola da dietro e infilandole con delicatezza una mano nella scollatura.
«Shiro, ti ricordo che c’è Hayato in casa» sussurrò Momo, divertita.
«Ma io e Hayato adesso siamo amici, più o meno» e dicendo ciò le baciò la fronte. Momo sospirò, poggiando la mano sul suo polso.
«Spero che con te sia riuscito ad aprirsi. Sta diventando un bambino molto chiuso.»
Per la prima volta Toshiro si ritrovò nella spiacevole situazione di dover nascondere qualcosa a alla sua compagna. Ma se Hayato gli aveva fatto delle confidenze, non poteva rivelargliele.
«Non devi preoccuparti. Hayato avrà un carattere difficile, ma è un bravo ragazzo» gli confidò, ripensando a come Hayato e Kaien insieme cercassero di proteggere Masato e Yuichi dalla cattiveria della gente.
«Davvero? Sono contento che sia così» Momo si fece più languida e gli diede un bacio passionale sulle labbra. Suo figlio passò accanto a loro senza nemmeno guardarli.
«Sto uscendo con Shinji. Incredibile che più sei asociale e più la gente vuole passare del tempo con te. Ciao»
Toshiro arrossì, con le braccia ancora strette alla vita di Momo. Quanto meno Hayato non lo aveva guardato male, il che era già un grande inizio.
 
Hayato salì in auto, l’aria annoiata e scocciata come al solito.
«Eeeehi, Hayato. Come va? Allora, dove vuoi andare?» domandò Shinji. Stava cercando di risultare simpatico in tutti i modi. Insomma, se c’era riuscito Toshiro, perché non avrebbe dovuto riuscirci lui? Hayato si voltò a guardarlo.
«Mi fai guidare?»
Shinji si mise a ridere.
«Non penso proprio. È più sicuro se guido io.»
«Più sicuro? Non credo proprio» borbottò poggiando la schiena sul sedile. «Comunque voglio andare in sala giochi e a mangiare schifezze. Mia madre non me lo fa mai fare.»
«Ma tua madre non è qui, quindi possiamo» disse Shinji. Poi pensò subito ad un argomento per una possibile conversazione durante il viaggio. Come poteva risultare simpatico e interessante ad un dodicenne? Quando lui era adolescente pensava solo ad una cosa…
«Allora, emh… c’è qualcuno che ti piace?» domandò, in modo più diretto di quanto avrebbe voluto. Hayato inarcò un sopracciglio, in un modo che gli ricordò spaventosamente Sosuke.
«Ti informo che a me piace pochissima gente. Tipo Kaien. E Miyo. E… Rin…»
Tombola. Quindi c’era qualcuno che aveva conquistato il cuore, ed era niente meno che la piccola Rin Ichimaru.
«Ma che cosa tenera, ti piace Rin?»
«I-io non ho detto che mi piace in senso strano!» Hayato arrossì, iniziando ad agitarsi.
«Va bene, tranquillo. Non c’è niente di male. Sinceramente sono sollevato. Temevo avessi una cotta per mia figlia.»
«Per Miyo? Il fratellastro che s’innamora della sorellastra? È un cliché troppo stupido, non ci casco» dicendo ciò guardò oltre il finestrino. «Miyo è come una sorella. Rin è… beh… non è proprio come una sorella però… ma perché dobbiamo parlare di me?»
«Vuoi davvero che ti parli di quello che faccio con tuo padre?» lo tentò. Hayato fece una smorfia, a braccia conserte.
«Meglio di no.»
Alla fin fine Hayato era un adolescente come tutti gli altri, giocava solo a fare il duro. Arrivarono alla sala giochi e poiché Shinji era un tipo molto competitivo e che si lasciava trascinare dal momento, spese un numero considerevole di monete. Alla fine si accontentarono di un paraggio. Poi andarono a mangiare qualcosa e a quel punto sembrava che la giornata non potesse avere alcun picco, né in positivo né in negativo. Hayato era tranquillo e parlava con lui, ma non si apriva troppo. L’unica informazione che era riuscito a carpire, era che avesse una cotta per Rin, tutto qui. Questo era un po’ snervante. Shinji conosceva l’Hayato bambino, ma di quel nuovo Hayato conosceva ancora così poco.
«Sosuke, ti sto dicendo che è andata bene, io e Hayato non ci siamo ammazzati. Ma sì, è andato un attimo al bagno, lo sto aspettando qua fuori» Shinji parlava ad alta voce, non facendo caso alla gente che gli passava accanto. «Lo sai? Tuo figlio è più criptico di te, avrà successo con le donne e anche con gli uomini. Comunque ora ti saluto, ci vediamo a casa.»
Hayato uscì dal locale poco dopo, l’espressione assonnata.
«Sono stanco morto.»
Shinji lo squadrò e poi si avvicinò. Aveva addosso un odoraccio che conosceva fin troppo bene.
«Hayato, cos’hai fatto?»
Il ragazzino fece spallucce.
«Niente.»
«Vallo a raccontare a qualcun altro. Hai fumato? Erba, tra l’altro?!»
Adesso era finita la parte dello Shinji divertente e affabile. Hayato non poteva fare certe cose alla sua età, era inopportuno e pericoloso.
«Solo un poco» si lamentò. «E poi non la fare tragica, tu non eri meglio di me alla mia età, ne sono sicuro.»
Hayato non aveva torto, ma il punto non era quello.
«Non parliamo di me, stiamo parlando di te. Quando sarai adulto potrai fare quello che vuoi. Malla tua età, metterti a fumare certa roba, ti fa solo male. E poi vorrei proprio capire dove la trovi! Così non va bene, lo capisci o no che non va bene?»
A Shinji non piaceva fare la parte de genitore severo. Miyo non gli aveva mai dato motivo di farlo. Ma Hayato non era Miyo.
«Cambia tono. Tu non sei mio padre.»
Shinji trattenne il fiato e lo afferrò per una spalla.
«No, ma il tuo vero padre non sarà molto felice quando saprà quello che hai fatto. Ora entra in macchina e falla finita. Stava andando tutto troppo bene, eh? Bene, continua pure a detestare me e tutto il mondo senza un motivo preciso!»
Hayato si lasciò trascinare in auto e smise effettivamente di parlare. Che la piantassero tutti. Lui non era un bambino. Era libero di fare quello che voleva, ed era anche indipendente. Allora perché sentiva spesso le lacrime pungergli gli occhi e un nodo insopportabile alla gola?
 
 
«Ciao, Ichigo. Scusa se ti ho fatto venire all’improvviso, ma ho bisogno di parlare con te.»
Quando Tatsuki gli aveva detto di volergli parlare, per Ichigo era stato facile capire quale potesse essere l’argomento: Ishida, sicuramente. Aveva accettato subito, anche perché voleva evitare di pensare il più possibile ai suoi problemi. Poteva farsi carico di altro o almeno di questo pensava. Yoshiko si era avvicinata a lui, tenendo in mano un orsacchiotto.
«Ciao, zio Ichiii»
«Ehi, ciao Yoshiko» lo salutò lui, accarezzandole la testa. Tatsuki sospirò.
«Yoshiko, puoi andare un attimo in camera tua? Devo parlare con lo zio Ichigo.»
Yoshiko si imbronciò e la guardò male. Ma obbedì comunque e, stringendo il suo orsacchiotto, corse nella cameretta.
«A volte ho l’impressione che quella bambina mi detesti. Adora solo suo padre» ammise Tatsuki.
«Ma no figurati, ho sentito dire che le bambine spesso sono molto legate al padre. E a proposito di Ishida… qual è il problema? Perché non mi sono certo scordato della tua chiamata dell’altro giorno.»
Tatsuki si sedette di fronte a lui e si morse il labbro. Non era facile affrontare l’argomento e non c’era nemmeno un modo facile per dirlo.
«Ichigo, tu che sei un dottore, è possibile che una persona subisca un trauma e se ne dimentichi per anni?»
Ichigo aggrottò la fronte, rigido. Lui era un chirurgo in realtà e non se ne intendeva, però sì, sapeva che una cosa del genere era possibile e non era nemmeno tanto raro.
«Tatsuki, cosa è successo?» domandò. Era sempre in allerta se si trattava del suo migliore amico. Tatsuki fece un respiro profondo e gli parlò di quello che aveva scoperto, assistendo al cambiamento d’espressione di Ichigo man mano che il racconto andava avanti. Non solo non aveva mai capito sua moglie, ma non aveva mai capito il suo amico più caro. Non si accorgeva di niente, mai.
«Io non so cosa fare. Come ci si comporta in questi casi? Dovrei parlargli io? Forse dovrebbe vedere uno psicoterapeuta? Ho paura di causargli sofferenza. Io non posso pensare a quello che gli è successo.»
Nel sentirla, Ichigo lasciò da parte per il momento i suoi pensieri.
«Credo che vedere Yuichi approcciarsi al sesso abbia risvegliato inconsciamente i suoi traumi. E credo che la cosa vada affrontata per gradi, altrimenti sarebbe solo un altro trauma. Però io voglio fare qualcosa. Lui c’è stato per la mia depressone post-parto. C’è stato sempre e io…»
E io mi sento impotente, avrebbe voluto aggiungere. Non aveva il potere di risolvere le cose con uno schiocco di dita, come nessuno del resto. Ichigo sospirò, passandosi una mano sul viso.
«Lo so. Anche io vorrei aiutarlo. Se solo sapessi come…»
Entrambi udirono la porta di casa aprirsi e poi richiudersi. Uryu era appena tornato e non poté nascondere un’espressione sorpresa quando li vide insieme.
«Kurosaki, che fai qui? È successo qualcosa?»
Ichigo si alzò di scatto, lanciando un’occhiata a Tatsuki.
«Sì. No. No, è che ho litigato con Rukia e mi serviva un parere. Ma adesso si è fatto tardi e me ne vado. Stammi bene» disse frettoloso, passandogli accanto senza nemmeno guardarlo negli occhi. Uryu alzò gli occhi al cielo e, per quanto lo avesse trovato strano, aveva altro a cui pensare. Guardò sua moglie, la quale gli sorrise. Era difficile fare finta di niente.
«Tutto bene, Uryu?»
Lui scosse la testa.
«Non proprio. Mi rendo conto che sono stato terribile di recente. Non è da me, non so che mi succede. Sono stato terribile soprattutto con Yuichi, spero che non mi odi.»
Per quanto Tatsuki fosse poco affettuosa dal punto di vista fisico, si avvicinò a lui per abbracciarlo. Gli sembrava così fragile.
«Ma no che non ti odia. Forse dovresti solo parlare con lui. Sai quanto nostro figlio è sensibile e comprensivo.»
Uryu socchiuse gli occhi e le sfiorò la fronte con le labbra. Certo che lo sapeva. Gli ricordava lui alla sua età. O almeno credeva.
 
 
Yuichi di solito a quell’ora si esercitava col violino, ma non quella sera. Era rimasto al telefono con Masato fino a qualche minuto prima. Ed era preoccupato, proprio non riusciva a stare fermo, così aveva preso a sistemare compulsivamente i suoi libri e oggetti di scuola. La porta era socchiusa e Uryu si fermò un attimo prima di entrare. Guardava suo figlio e gli sembrava fragile. Come se qualcuno fosse lì pronto a fargli male. Tossì e poi entrò.
«Yuichi, ti disturbo?»
Al ragazzino cadde un libro a terra.
«Oh, no papà. Stavo solo facendo un po’ d’ordine. È successo qualcosa?» si voltò a guardarlo. Sperò solo che suo padre non notasse la sua preoccupazione, perché sarebbe stato difficile da spiegare.
«No, non è successo niente. Sono venuto solo qui per dirti che… beh… Mi dispiace se ultimamente sono stato severo in modo eccessivo. In effetti sono diventato un rompiscatole.»
Yuichi si rilassò appena, sorpreso.
«Beh… un pochino. Più che altro, io non faccio niente di male e nemmeno Masato.»
«Lo so. Mi spiace. Sono diventato apprensivo dall’oggi al domani e nemmeno so perché. È che… mi terrorizza il fatto che qualcuno possa farti male.»
Yuichi arrossì e si sforzò di non tradirsi.
«Nessuno mi ha fatto male. Io e Masato ci proteggiamo a vicenda. Lui mi vuole bene. E anche io gliene voglio. Quindi non ti devi preoccupare per questo.»
Era sempre stato un pessimo bugiardo, lo sapeva bene. Ma l’ultima cosa che voleva era far preoccupare suo padre. Era comunque felice che lui gli avesse parlato a cuore aperto.
«Lo so che vi volete bene. È sempre stato così. Sei un bravo bambino, Yuichi. Anzi… oramai non sei più tanto un bambino» si ritrovò ad ammettere, per quanto gli costasse. Yuichi sorrise.
«Beh, dai, ho solo dodici anni. Devo ancora crescere molto. Piuttosto, papà. Tu stai bene, vero?»
Quella era la domanda che Uryu non si era aspettato. E forse avrebbe dovuto, proprio in nome della sensibilità di suo figlio.
«Sì, certo che sto bene. Nessun problema» lo rassicurò. E così, padre e figlio avevano messo da parte le rispettive preoccupazioni per far stare meglio l’altro. Una volta rimasto solo, Yuichi si fiondò a prendere il suo cellulare e scrisse un messaggio a Masato.
Mio padre ha voluto parlarmi. Giuro, ho avuto paura che volesse farmi qualche discorso strano su di te.
 
 
Da Masato, ore 21, 00
 
Beh, meno male dai… I miei invece...non lo so, sono strani per adesso. Non ci capisco niente.
 
Masato, disteso nel suo letto, sospirò. Suo padre era uscito e non era ancora tornato e sua madre se ne andava in giro con quell’aria triste. Ma che stava succedendo?
 
Ichigo aveva fatto una passeggiata prima di tornare a casa. Era consapevole di non poter scappare per sempre, che prima o poi avrebbe dovuto affrontare il discorso con Rukia, per quanto male potesse fargli. Era ancora incredulo se solo ripensava alle parole di sua moglie.
 
 
«Cosa vuoi dire che lo hai amato?»
Tra Rukia e Kaien c’era stata una storia d’amore? Quando? Lui aveva sempre saputo che fossero sempre stati solo amici. Certo, trovava un po’ strano che due persone con una differenza di età del genere fossero così amici, ma non si era mai interrogato. Si era sempre fidato ciecamente delle parole di Rukia. La stessa donna che ora lo guardava colpevole, la stessa donna che forse non conosceva bene come pensava.
«Sì, Ichigo. Io avevo quindici anni e lui venticinque. Ci siamo innamorati e… ci siamo messi insieme, ma non lo sapeva quasi nessuno. Credevo sarebbe stato l’amore della mia vita.»
E magari sarebbe stato così, se solo Kaien fosse vissuto. Ichigo si sedette, ad un tratto tutta la stanza aveva preso a girare. Rukia gliel’aveva nascosto per tutto questo tempo? E perché mai?
«Perché? Perché me lo stai dicendo adesso?» domandò stringendo un pugno e tenendo lo sguardo basso. Rukia tremava, si sentiva terrorizzata.
«Perché ciò che ho ignorato per più di vent’anni, ora è tornato in superficie. Mi dispiace. Volevo evitarmi ulteriore sofferenza. E anche a te.»
 
Tante domande affollavano la mente di Ichigo. Rukia non gli aveva detto nulla perché era ancora innamorata di Kaien? Aveva sposato lui per sostituirlo? Dopotutto lui e Kaien si erano sempre somigliati molto, erano stati praticamente identici. Scosse la testa, allontanando quei pensieri ossessivi e allora si decise a tornare a casa.
Proprio a casa, Rukia lo attendeva. Aveva parlato con Kukaku, le aveva detto tutto, le aveva detto che aveva confidato a Ichigo il suo più grande segreto e che ora sarebbe stata pronta ad affrontare le conseguenze, anche se questo voleva dire perderlo. Amava Ichigo con tutta sé stessa. Aveva amato Kaien e per troppo tempo aveva rinnegato quell’amore facendo finta che non fosse mai esistito, facendosi solo più male. Era stata anche una bell’ipocrita, a suo tempo, a dispensare consigli a Byakuya come fosse un’esperta. Lei in realtà non sapeva niente. Mentre se ne stava seduta al tavolo, sentì Kon agitarsi e correre verso Ichigo che era appena entrato. Accarezzò il cane, rivolgendo poi uno sguardo a sua moglie. O a un’estranea.
«Dove sono i ragazzi?» domandò.
«Stanno già dormendo» Rukia respirò profondamente. «Ichigo… vuoi lasciarmi?»
Non lo avrebbe biasimato in caos, non gli aveva nascosto una cosa da nulla.
«Non sono tipo da far finire un matrimonio così facilmente. Ma non so se posso fidarmi di te. Chissà quante cose mi hai nascosto.»
«Solo questa, Ichigo. Anche se mi rendo conto che fa per cento. Dubita di tutto, ma non dell’amore che provo per te.»
Poteva pensare che fosse una cattiva persona, una bugiarda o traditrice. Ma  no che non lo amasse.
«Dimmi una cosa. Ti sei messa con me per sostituirmi?» domandò Ichigo di getto. Si prendeva in giro, lo sapeva. Dopotutto non riusciva più a fidarsi di Rukia. Quest’ultima scosse la testa.
«Non ho mai pensato a te come un sostituto.»
E Ichigo avrebbe tanto voluto crederle. Ma come poteva?
«Capisco. Beh, adesso vorrei andare a dormire, è stata una giornata faticosa.»
Rukia non disse nulla. Una volta sola si massaggiò il viso. Forse le cose sarebbero andate diversamente se solo avesse detto tutto a Ichigo sin dal principio. Ma ora era inutile pensare al passato. Ora c’era il difficile presente, adesso doveva fare qualcosa se non voleva perdere Ichigo.
 
Masato si avvicinò a Kaien. Non riusciva a dormire, Kaien invece dormiva già da un pezzo. Picchiettò sulla sua spalla.
«Kaien… Kaien?»
«Mh… eh?» borbottò, aprendo gli occhi. «Che c’è?»
Masato rimase in silenzio qualche attimo. Non voleva pesare su suo fratello. Kaien si metteva già troppo nei guai per lui. Anche se non lo diceva, era chiaro che finisse sempre nei guai per cercare di proteggerlo.
«Posso dormire con te?» domandò a bassa voce.  Era da anni che non gli chiedeva di dormire insieme. A Kaien parve strano, ma non fece domani. Non gli dispiaceva avere qualcuno accanto in quelle notti che sembravano così fredde.
«Accomodati» disse scostando la coperta. Masato si accomodò e chiuse gli occhi. Ora si sentiva più al sicuro.
 

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


 
 Capitolo quindici
 
Nnoitra fece quello che faceva sempre nei momenti di stress. Ovvero, si buttava sul lavoro, sul disegnare, abbozzare, idealr. Preferiva le chiamate di quei rompiscatole degli editori piuttosto che avere a che fare con i suoi genitori. Neliel se n’era accorta, lo vedeva. Si rendeva conto di non avere molto potere, lei poteva solo dare buoni consigli, cercare di portare la pace, ma per il resto doveva essere Nnotira a decidere.
«Ehi… non vuoi accesa la luce? Se lavori al buio, rischi di rovinarti la vista» Neliel avanzò nel suo studio quasi buio. Nnoitra, che ne stava incurvato sulle tavole, alzò lo sguardo.
«Sono già guercio, peggio di così non può andare.»
Poi sospirò. Sentiva addosso tutta la stanchezza, soprattutto mentale. Neliel si sedette sulla sua scrivania, guardandolo.
«C’è qualcosa che vorresti dirmi?»
«Tsk, lo sai cosa voglio dire. Il fatto che i miei genitori stiano qui mi disturba. Se vogliono avere un rapporto con Naoko, d’accordo. Ma con me è troppo tardi.»
Neliel allungò una mano e strinse la sua.
«Non dire così. Lo so che questa cosa fa male anche a te.»
«Certo che mi fa male. Ma posso sopravvivere, io oramai ho la mia famiglia. Almeno qui nessuno mi fa sentire un fallito o un peso.»
Nnoitra trovava che fosse quasi un miracolo il suo essere un marito e un padre quanto meno decente. Non aveva mai creduto a quelli che scaricavano i propri traumi e frustrazioni sugli altri.
«Tesoro, tu non sei un peso» disse accarezzandogli i capelli. «E non dico certo che su certe cose devi passarci su. Ma almeno prova a parlare con tuo padre. Sono sicura che lui ha tanto da dirti, ma non sa come fare.»
«L’ultima volta è finita piuttosto male, non trovi? È inutile, ci sono persone che non dovrebbero avere figli. Ma io oramai ci sono.»
«E io sono felice che tu esista. Nemmeno immagini quanto.»
Nnoitra le accarezzò una gamba e risalì lentamente. Neliel era stata la luce, Naoko aveva reso, e ancora si chiedeva come fosse possibile, la luce ancora più luminosa. Chissà dove sarebbe finito, altrimenti. Si alzò e accarezzò Neliel sul viso, poi sulle labbra.
«Lo sai che se faccio il bravo ragazzo è solo per te, vero?»
Neliel si mise a ridere.
«Oh, Nnoitra. Ma tu sei un bravo ragazzo. Sei il mio bravo ragazzo.»
Neliel lo tirò verso di sé baciandolo passionalmente. E allora Nnoitra decise che poteva anche lasciar da parte il lavoro su cui si era così disperatamente buttato, poiché aveva trovato un modo ben più piacevole di risollevarsi.
 
 
Naoko invece era uscita con i nonni, con sui si trovava piuttosto bene. Con suo nonno un po’ meno, sembrava la versione più inasprita e invecchiata di suo padre. Ma sua nonna invece era una donna davvero dolce e gentile e si trovava bene a parlare con lei dei problemi che l’affliggevano.
«Così io e Kiyoko abbiamo litigato. In realtà è stata lei a litigare con me. Sì, okay, non le ho detto niente su me e Satoshi. Ma è perché io e Satoshi non sappiamo cosa siamo. Ci siamo baciati una volta. Forse sono troppo giovane per avere un fidanzato. Però Kiyoko si è messa con Kaien,e nemmeno lei mi ha detto questo, per cui è meglio se non parla troppo!»
Sun Ah sorrise nel rendersi conto che sua nipote aveva preso il carattere combattivo di Nnotira. E anche di Neliel.
«Questo ragazzo deve piacerti molto se ti dà così pensiero.»
Naoko sollevò la testa dal tavolo. C’era un buon odore di kimchi, una specialità coreana piuttosto piccante e che le piaceva.
«Sì, mi piace molto. Solo che io mi innamoro facilmente, ecco perché forse è meglio se non mi fidanzo con nessuno» poi cambiò discorso. «Ma il nonno quando torna?»
«Sarà in giardino a coltivare i fiori. Ha sempre avuto questa passione, lo fa soprattutto quando è di cattivo umore» disse Sun Ah dandogli le spalle.
Naoko sospirò, pensierosa.
«Nonna, perché il nonno e papà si odiano?»
Sun Ah lasciò cadere il cucchiaio. Quando se ne accorse, si chinò subito per raccoglierlo.
«No tesoro, non si odiano.»
«Però sembra di sì. Cosa è successo? E per favore, non dirmi che sono troppo piccola. So che mio padre ha avuto... degli anni un po’ difficili. Questo c’entra qualcosa?»
Sun Ah guardò la nipote, che adesso aveva assunto un’espressione seria. In effetti Naoko non era più una bambina piccola, ma abbastanza matura da poter capire certe cose.
«Vedi, cara. Tuo padre e tuo nonno sono molto simili caratterialmente, ecco perché tendono a scontrarsi. Nnoitra… ha sempre avuto un carattere difficile, ma io che sono sua madre so che non è mai stato cattivo, fingeva solo di esserlo. Da bambino era solo vivace, da adolescente ha… iniziato a frequentare cattive compagnie.»
«Sì, lo so. Beh, se il nonno era preoccupato non avrebbe dovuto allontanarlo» Naoko mosse le gambe sotto il tavolo.
«È vero. Tuo nonno è molto all’antica, tuo padre ha sempre fatto quello che voleva. Tuo nonno non ha mai visto di buon occhio il suo desiderio di vivere disegnando manga, diceva che non era un vero lavoro. E poi… quando è successa quella cosa a tuo padre, lì… gli ha detto delle cose terribili e così non si sono più parlati. E la mia colpa è stata la passività.»
Naoko era sconvolto. Non si parlavano da allora?
«Tutti questi anni senza parlarsi?»
«Oh, no. Loro hanno provato a parlarsi, qualche anno fa. Tu eri molto piccola, forse non te lo ricordi. Ma non è andata bene. E così per tanti anni sono stata una madre senza un figlio. Ma la colpa è solo mia.»
Sun Ah si sedette davanti a Naoko. Sembrava davvero triste, piena di rimpianti per non aver agito quando doveva. Naoko allora le sfiorò una mano.
«Nonna, voi dovete assolutamente far pace. Io conosco mio padre, sono sicura che ci sta male. E anche il nonno. Ma non basta chiedere scusa?»
«Oh, cara Naoko. Purtroppo a volte chiedere scusa non basta. Le parole sanno ferire tanto. Ricorda sempre che con le parole hai il potere di poter ferire qualcuno. Bisogna fare attenzioni.»
Naoko si zittì e si mise a rimuginare su quelle parole. Si chiese se magari anche lei, senza volerlo, avesse ferito. Anche qualcuno che amava.
 
L’atmosfera continuava ad essere tesa fra Shinji e Hayato. Shinji vedeva Hayato come un ragazzino insolente che si metteva nei guai di proposito, Hayato vedeva Shinji come un impiastro che voleva imporsi. A farne le spese era Miyo che, sempre gentile e dolce, si ritrovava in mezzo a quei due.
«Mamma dovrebbe tornare qui domani. Spero non ci siano altri impedimenti, è un pezzo che non la vedo» sospirò Miyo, leggendo distrattamente un libro. Oramai era passata a romanzi diversi rispetto ai racconti che leggeva da bambina. Si era anche approcciata ai classici, sia stranieri che nipponici.
«Per adesso è stato un casino con la band, ma non ti preoccupare. Avrete tempo di stare insieme. Ma dove ho messo la mia cravatta viola?» Shinji si spostava da un punto all’altro della casa cercando di rimettere ordine, cosa in cui era ancora abbastanza negato.
«Papà, sei troppo disordinato» sospirò la figlia.
«… Chiedo scusa» borbottò. «Ma di solito nel mio caos riesco a trovare tutto!»
Mentre padre e figlia parlavano, Hayato passò tra loro, gli auricolari alle orecchie, alla ricerca di una confezione di noodles istantanei da mangiare, visto che come Shinji aveva detto Il signorino Hayato stasera ha deciso di non mangiare con noi.
«Oh, Hayato! Non quelli, quelli sono i noodles piccantissimi che mi piacciono un sacco!» saltò subito su Miyo. Hayato fece una smorfia quando la sorellastra le diede le spalle.
«Miyo, hai i pantaloni macchiati di qualcosa di scuro.»
Miyo si bloccò. Lentamente abbassò lo sguardo, cercando di voltarsi. E poi si toccò tra le gambe. Shinji era rimasto immobile. Ma perché stava accadendo in quel momento? Lui non era pronto.
«Emh… Miyo? Stai bene? Sei un po’ pallida» disse cauto, mentre sua figlia doveva star realizzando. Le erano arrivate le prime mestruazioni.
 
Miyo era in lacrime, accovacciata. Quella reazione stava sorprendendo anche lei stessa. Dopotutto sapeva bene cos’erano le mestruazioni e come funzionava lo sviluppo di una ragazza. Ed era stata lei a bramare quel momento a lungo. Eppure adesso si sentiva disperata e non riusciva a smettere di piangere. Forse era per il dolore alla pancia o forse era per tutto il resto.
«Miyo, tranquilla, è una cosa normale» Shinji non sapeva come approcciarsi alla situazione, aveva sempre creduto che ci sarebbe stata Hiyori, ma adesso la sua ex non c’era. Le si era avvicinato e le aveva fatto poggiare il viso sulla sua spalla.
«Ma io lo so che è normale! Ho aspettato tanto questo momento e adesso invece… non lo sopporto! Sono un’idiota, perché volevo tanto che arrivasse?»
Miyo sembrava irriconoscibile, era nervosa e provata.
«Prima o poi doveva succedere, non è una cosa negativa» cercò di consolarla. Hayato guardava Miyo con una smorfia sul viso. Quella cosa lo terrorizzava, per fortuna a lui non sarebbe successo. Sosuke uscì dal suo studio dopo aver sentito tutto quel caos infernale.
«Ma che succede?»
«Niente, a Miyo sono venute le sue cose» borbottò Hayato.
«Ehi, chiama le cose con il loro nome» lo rimproverò Shinji. «Sosuke, mi serve una mano. Anzi, mi servirebbero degli… assorbenti. Vai a comprarli?»
Miyo arrossì. Perché una cosa così normale ora le appariva imbarazzante?
«Per favore, non parlatene! Vado a chiudermi in camera mia!»
Shinji era a dir poco sconvolto. Miyo, sempre tranquilla e delicata, era preda di una crisi di nervi che non sapeva gestire. Forse Hiyori sarebbe stata più brava? Dopotutto lui non poteva capirla fino in fondo.
«Sai cosa?» domandò Sosuke. «Chiamo Momo. Lei può esserci utile.»
Shinji s’irrigidì. Oh, ma insomma. Non voleva certo essere di meno in una situazione che riguardava sua figlia e gli dava fastidio che Sosuke avesse proposto una tale soluzione. D’altro canto, però, si sentiva più impaurito di Miyo stessa.
«Pff, fa un po’ come vuoi.»
 
Ai ci aveva pensato a lungo a quella cosa e forse adesso stava prendendo una posizione. Il fatto che Yami l’avesse accusata di essere una bambina ancora inesperta le dava davvero fastidio, specie adesso che stava cercando di apparire più adulta. Vero, non aveva mai baciato un ragazzo, ebbene?
Dall’altro lato, da quando aveva incontrato Natsumi in ospedale, le due avevano stretto amicizia malgrado gli otto anni di differenza. Si erano scambiati i numeri e Natsumi era stata ben felice di raccontarle le sue esperienze sessuali (sia con uomini che con donne) e con grande entusiasmo. Le aveva consigliato anche di dare un’occhiata a certi siti internet. Ma Ai, che si approcciava per la prima volta a quel vasto mondo, provava una grande confusione e inquietudine. Sul sesso sapeva qualcosa perché lo aveva letto nei libri. Anatomia, biologia. Quella però era tutta teoria. Aveva bisogno di qualcuno che gliene parlasse in maniera realistica ma senza spaventarla. Così si alzò dal suo letto e andò alla ricerca di qualche adulto responsabile che potesse aiutarla.
 
«Mamma non c’è?» domandò entrando in cucina. Mayuri come al solito era oberato di lavoro e beveva tè nel frattempo.
«Tornerà stanotte, ti serve qualcosa?» domandò distratto. Ai sospirò. Beh, dopotutto suo padre era un medico, chi meglio di lui?
«Parlami del sesso.»
A Mayuri quasi cadde la tazzina e si bruciò una mano. Ma non ci badò più di tanto, Ai gli aveva chiesto qualcosa che non si aspettava.
«Eh? Io? Non è meglio che ne parli con tua madre? Dannazione…» sibilò, andando a mettere la mano sotto il getto d’acqua fredda del rubinetto. Ai gli andò dietro.
«Va bene, se non sei capace lo posso chiedere alla mamma domani mattina» gli disse, sapendo di colpire nel suo punto debole. Mayuri rizzò le spalle.
«Non in grado? Ma per favore, che assurdità. Lo dicevo solo per non crearti disagio, ma visto che insisti… Che cosa vuoi sapere?»
Ai si sedette sulla sedia. Stranamente non provava vergogna, era soltanto curiosa.
«Beh… qualcosa me l’ha spiegata Natsumi e-»
Mayuri la fermò con un gesto della mano.
«Cioè tu hai parlato di queste cose con quella ragazza pazza? NON LO VOGLIO NEMMENO SAPERE COSA TI HA DETTO. No, non lo voglio sapere. Su, parla.»
Ai si sforzò di non ridere a quella reazione. Per Mayuri era un po’ strano parlare di sesso con sua figlia dodicenne, ma uno come lui non si vergognava di nulla, in particolar modo per argomenti come il sesso. Bastava solo analizzare tutto dal punto di vista scientifico.
«Allora» Ai puntò i gomiti sul tavolo. «Posto che ogni uomo ha una dimensione del pene diversa, sono terrorizzata dall’idea di essere troppo stretta. Insomma, io sono piccola, quanto fa male? Sembra tremendo. È possibile che s’incastri? Qual è il tempo massimo entro cui si può avere un orgasmo? E poi…» lo indicò. «Tu sei un uomo, cosa attrae gli uomini?»
In quel momento Mayuri si pentì di aver dato la sua disponibilità. Scosse la testa, pensando non ce la posso fare. Con chiunque sì, ma questo è troppo anche per me.
Non voleva immaginare nemmeno lontanamente sua figlia in certi contesti. Era ancora una bambina.
 «Tsk… sto per sentirmi male» disse alzando gli occhi al cielo.
«Sentitici dopo, devi rispondere alle mie domande!»
 
 
Nemu tornò che erano le tre passate passate. Un turno di lavoro stancante e la testa piena di pensieri. La casa era avvolta nel silenzio, Ai dormiva già da un po’, era crollata. Entrò in soggiorno senza accendere la luce e quasi non le venne un colpo quando vide una figura seduta sul divano.
«Mayuri, mi hai spaventata! Che fai sveglio?» domandò posando borsa e soprabito.
«Per colpa di tua figlia avrò gli incubi. La prossima volta che vuole parlare dell’argomento sesso, ci penserai tu, ho i miei limiti anche io.»
Nemu sorrise lievemente e poi si sedette accanto a lui.
«Deve essere stata una conversazione illuminante. Cosa ti ha chiesto?»
«Metti il dito nella piaga? Domande inerenti a … penetrazione, orgasmi e via dicendo. Ah, e poi la domanda cosa piace a voi uomini? Ha chiesto all’uomo sbagliato, a me non piace nulla o quasi. Tu sei stata l’eccezione.»
Nemu sorrise di nuovo. Poi però tornò seria.
«Tu e la tua ex avete già iniziato a lavorare insieme?»
Il fatto che Nemu si riferisse a Senjumaru appellandola come la sua ex e basta, non faceva ben sperare. Sua moglie non era mai stata una donna gelosa e lui di certo non sapeva gestire questo sentimento, specie se erano gli altri a provarla.
«No, cominciamo domani. Fra lei e Urahara non so chi sia più irritante.»
«… Per non sopportarvi, tu e Kisuke siete molto amici.»
«Noi non siamo amici, lavoriamo solo insieme. E non metterti ad insinuare cose strane, ti ho detto che non mi interessano le intenzioni di Senjumaru.»
Nemu avvertì la stanchezza tutta insieme. Temeva di rivelargli i suoi timori, non era certa che lui potesse capirlo. Non per menefreghismo, ma Mayuri e lei avevano avuto una vita molto diversa.
«Ma… ma c’è di meglio, di me» sussurrò. Mayuri fece una smorfia e la guardò nel buio.
«C’è sempre qualcuno migliore di noi. Ma chi se ne importa? A me non di certo. Tu vuoi farmi dire qualcosa di smielato, non è vero?»
Nemu accennò un sorriso.
«Forse.»
«Tsk, tipico. E va bene, allora. Non mi interessa nessun’altra persona se non te. Il mio algido cuore è tuo, Nemu Kurostuchi» Mayuri ringraziò che fosse buio, nel dire quelle parole era arrossito. Ma aveva anche sortito l’effetto desiderato.
«E il mio è tuo» sussurrò lei. Poi si lasciò andare con la testa sulla sua spalla. Era esausta, lo erano entrambi. Si addormentarono così com’erano.
 
Momo era rimasta molto sorpresa quando il suo ex marito l’aveva chiamata e le aveva detto potresti andare a casa mia a dare una mano a Shinji? Senza però aggiungere altro. Non capiva cosa potesse esserci di così grave da chiamare addirittura lei.
Shinji, intanto, era un po’ in panico, Hiyori al telefono gli aveva intimato di non fare lo stupido e di non lasciarsi prendere dal panico, quelle erano cose del tutto naturali. Allora l’aveva fatta parlare con Miyo, ma per quanto Hiyori cercasse di tranquillizzarla, non serviva a nulla.
«Aiuto. Sono terrorizzato oltre i limiti della ragione!» disse camminando avanti e indietro. Poi bussò di nuovo. «Miyo?»
«TI PREGO, LASCIAMI STARE!» gridò sua figlia.
Hayato alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. La sua sorellastra era in crisi e il suo patrigno anche. E suo padre era uscito e non era ancora tornato.
«Ci sai fare con gli adolescenti, vedo» commentò sarcastico. Shinji si voltò, fulmineo. Era ad un passo dall’insultare quel ragazzino, ma l’arrivo di Momo fu tempestivo e fu anche la goccia che fece traboccare il vaso per Shinji.
«Momo?» domandò Shinji quando l’accolse in casa sua. «Sei venuta veramenre?»
Momo si fece avanti, rossa in viso.
«Ciao, Shinji. Scusa l’orario, ma Sosuke mi ha chiamato dicendo che a tua figlia serve un conforto femminile, visto che Hiyori non c’è. Ma non ha specificato.»
Shinji si irrigidì. Accidenti, si sentiva un vero idiota. Stupido Sosuke. Cosa, lo credeva forse uno sciocco incapace di gestire le situazioni? Il pensiero lo fece arrabbiare e dopo ne avrebbero parlato, per il momento c’era una cosa più importante a cui pensare.
«Ha avuto il suo primo ciclo» le spiegò Momo arrossì maggiormente, che sciocca a non averci pensato.
«Oh. Sì, capisco. Allora… posso parlare con lei?»
«Buona fortuna» gli augurò. A Shinji e ad Hayato non restò che aspettare mentre in camera di Miyo lei e Momo parlavano di chissà cosa
«Gli adolescenti mi terrorizzano» disse ad alta voce, poggiato al muro. «Ero terribile a quell’età e anche Hiyori. Non voglio che Miyo diventi come noi.»
Hayato sbuffò, guardando lo schermo. Sembrava interessato solo al suo cellulare, ma in realtà lo stava ascoltando.
«Miyo non ti somiglia per niente, non caratterialmente almeno.»
Quello suonava come un velato insulto. Shinji si limitò a fare una smorfia, la testa gli doleva così tanto.
«Ascolta. Io non potrò esserci sempre per proteggerla. Ma tu lo farai quando ti sarà possibile, vero?»
Il suo panico partiva tutto da lì. Il mondo poteva essere terribile per una donna – donna? Che donna? Miyo era ancora una bambina – come lei, così dolce e sensibile. Hayato si fece serio. Avrebbe voluto dirgli che dei due era Miyo quello che proteggeva lui e raramente il contrario.
«Ovviamente, Miyo è mia sorella. Però non ha poi così bisogno di me, dovresti avere più fiducia in lei» lo rimproverò. Ma Shinji non si arrabbiò, Hayato non aveva torto.
Dopo venti minuti, Momo e Miyo uscirono dalla stanza, la più giovane era tornata in sé anche se aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Tutto a posto, avevamo solo bisogno di una chiacchierata»
Shinji si avvicinò, cauto.
«Emh… stai bene?»
Miyo annuì.
«Scusa… scusate se sono impazzita» e dicendo ciò abbracciò suo padre, come se fosse crollata per la troppa stanchezza. Shinji la strinse a sé, sollevato.
«Non fa niente, non devi chiedere scusa. Andrà bene» la rassicurò e rassicurò soprattutto sé stesso. Poi guardò Momo. Avrebbe dovuto ringraziarla e questo lo infastidiva. Lei aveva risolto la situazione e lui invece no.
«Beh, grazie per l’aiuto» disse a malincuore. Momo annuì e poi si portò nervosa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Da quando era arrivata sembrava a disagio, era strana e sembrava temere che qualcuno se ne accorgesse.
«È stato un piacere. Riguardati, Miyo. Adesso io devo andare quindi… ciao, Hayato» disse guardando il figlio. «Salutami Sosuke, Shinji.»
Di solito Momo era più allegra e se fosse stata normale avrebbe abbracciato il figlio, che si sarebbe ribellato.
«Momo è strana» disse ad alta voce, con Miyo ancora incollata a lui e Hayato che faceva spallucce. Di sicuro doveva aver litigato con Toshiro, a volte capitava.
«Litigi d’amore, capita.»
Già, forse era davvero questo. E a proposito di litigi d’amore, non si era certo dimenticato del discorso che avrebbe fatto a Sosuke.
Orihime stava scegliendo accuratamente che abito avrebbe potuto indossare di lì a qualche settimana. Trattandosi dell’adozione ufficiale di Satoshi, era un evento importante. Non voleva essere però troppo appariscente, così aveva chiesto consiglio ad Ulquiorra. Dopotutto era bravo nell’accostamento dei colori.
«Allora… meglio il blu o il verde?» domandò Orihime allacciandosi una camicetta. Si era già cambiata quattro volte. Ulquiorra la guardò, piegando la testa di lato.
«Il blu. Non c’è bisogno di essere così nervosi» cercò di tranquillizzarla, ma in realtà era nervoso anche lui.
«È solo che voglio essere al meglio, quel giorno. Lo sai? Non posso credere che adotteremo ufficialmente Satoshi. Quel bambino mi ha conquistato dalla prima volta che ci siamo incontrati» si piegò per sistemare i vestiti sparsi sul letto. Poi però si morse il labbro, segno che qualcosa la turbava. «Tu non pensi che Kiyoko stia in qualche modo soffrendo, vero? Mi dedico molto a Satoshi e cerco di non far mancare nulla a entrambi. Ma visti i precedenti, sai com’è…»
Orihime aveva già sbagliato una volta, non ci teneva a rifare lo stesso errore. Ulquiorra si avvicinò e le diede un bacio su una tempia.
«No, Kiyoko sta bene. E poi lei e Satoshi vanno d’amore e d’accordo.»
«Devi lasciarmi stare, non devi entrare in camera mia1!»
La voce di Kiyoko si era sovrapposta alla sua. Lui e Orihime si guardarono, sorpresi. Non capitava mai che Kiyoko alzasse la voce.
 
Ma oltre ad avere alzato la voce, Kiyoko era anche ostile. In genere non litigava mai con nessuno, tanto meno con Satoshi che era piuttosto docile.
«Avanti, Kiyoko! Ti ho detto che mi dispiace!»
«Tu e Naoko siete due traditori. E proprio con la mia migliore amica dovevi fidanzarti?» Kiyoko era offesa per essere stata tagliata fuori da quel rapporto esclusivo. Satoshi si portò le mani tra i capelli.
«Ma noi non siamo neanche fidanzati! Non credo, almeno!»
«Io comunque non mi fido più di nessuno dei due. Scemo!» borbottò, rossa in viso. Ulquiorra si intromise tra i due, con la sua solita calma serafica.
«Ehi, calma. Perché litigate?»
«Perché Satoshi e Naoko si sono fidanzati e me lo hanno tenuto nascosto.»
Orihime, dietro Ulquiorra, sgranò gli occhi.
«Satoshi sta con Naoko?»
Il ragazzino si sentì fin troppo al centro dell’attenzione e ciò lo imbarazzò tanto da portarlo a puntare il dito contro Kiyoko.
«E Kiyoko si è fidanzata con Kaien!»
Lei arrossì, stringendo i pugni.
«Stupido.»
«Io non sono stupito, sei tu ad essere esagerata!»
Kiyoko allora fece ciò che Naoko le aveva insegnato: buttarla sul dramma, andando a chiudersi in camera sua a chiave. Orihime si avvicinò, battendo sulla porta.
«Kiyoko, tesoro. Apri la porta, non è necessario arrivare a tanto.»
«Io non parlo con nessuno, buonanotte!» gridò per poi zittirsi. Affranta, Orihime si voltò verso Satoshi, sorridendogli.
«Le passerà, lo sai che ti vuole bene. E poi non c’è niente di male se… emh… vi piace qualcuno.»
Satoshi avrebbe voluto sparire. Era tutto troppo per lui.
«Possiamo non parlarne?»
Ulquiorra scosse la testa, guardando un punto fisso davanti a sé. Quel piccolo Kurosaki! Lo aveva sempre saputo, aveva un debole per la sua Kiyoko.
 
Era stata una giornata veramente stancante per Renji. Però andava bene così, quando si metteva in testa di fare qualcosa, quella doveva essere. Zabimaru lo guardava con occhi imploranti, pretendeva attenzioni e coccole. Renji però non riusciva a fare a meno di rigirarsi tra le mani quello scatolino, aprirlo e richiuderlo. L’anello che c’era dentro gli era costato sudore e fatica e la colpa (o il merito) era tutto di Yumichika.
Non può essere un anello qualunque, deve essere speciale. Ma niente di pacchiano, Byakuya è un tipo raffinato. Lascia fare a me!
E così si era lasciato guidare da lui per tutto il pomeriggio. Alla fine però aveva trovato quello giusto: sottile e di prezioso oro bianco, a Byakuya sarebbe stato benissimo.
«Ci tengo a fargli una proposta vera e propria» disse parlando a Zabimaru. «Anche se non so essere molto romantico, per fortuna Yumichika mi dà una mano. Anche se forse lui è un po’ troppo esagerato.»
Zabimaru guaì e poi arrabbiò. Byakuya era rientrato proprio in quel momento e Renji aveva fatto appena in tempo a nascondere lo scatolino. Chissà se Byakuya si aspettava una proposta di matrimonio vera e propria?
«Ma che succede?» domandò guardando il suo compagno che aveva assunto un’aria colpevole.
«Niente, non succede proprio niente! Hai fatto un po’ tardi. Ma almeno te li pagano quegli straordinari, eh?» Renji cambiò abilmente discorso e poi gli passò accanto. «Ascolta, visto che è tardi, possiamo ordinare da asporto?»
«E va bene, ma niente roba piccante, lo sai che non la sopporto.»
Zabimaru rimase lì, ancora in attesa che qualcuno la coccolasse. Rimasto solo, Byakuya si avvicinò al cane e le concesse una carezza. Poi infilò una mano nella tasca e tirò fuori uno scatolino in velluto.
«Dopotutto sono sicuro che questo rimarrà tra me e te» bisbigliò. Aprì lo scatolino, rivelando un anello in oro rosso. Ikkaku gli aveva detto che sarebbe stato perfetto per Renji, che gli si addiceva troppo. Byakuya voleva farsi perdonare per essersi mostrato così reticente. In realtà anche lui voleva sposarlo. E per quanto non fosse proprio esperto in romanticismo, voleva fare qualcosa di speciale.

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici ***


Capitolo sedici

Miyo era arrivata quel giorno a scuola di umore pessimo, lo zaino stretto in spalla e il viso un po’ pallido. Suo padre e anche sua madre l’avevano rassicurata dicendole che se non se la sentiva poteva benissimo non andare a scuola, ma lei aveva insistito. Una delle prime cose che aveva fatto una volta arrivata era stato dirlo alle sue amiche, con un sussurro e lo sguardo basso.
«Davvero, Miyo?» domandò Rin stringendole le spalle. «Ma è magnifico! Non sei contenta?»
Miyo scrollò le spalle.
«Non lo so. Volevo che arrivasse questo momento, ma ora che è arrivato… già non mi piace. Avere le mestruazioni è terribile, mi sento malissimo. Mi viene da piangere.»
Ai arrivò a darle man forte, poggiandole una mano su una spalla.
«Non preoccuparti, è normale, sono gli ormoni. Potrebbe aiutarti della cioccolata. O un abbraccio. Sai no, per la serotonina.»
Naoko e Kiyoko stavano ascoltando la conversazione senza però parlarsi l’un l’altra. Certo, sapevano entrambe che fosse sciocco non parlarsi per un motivo del genere. Il problema di Kiyoko era la gelosia. Naoko era la sua migliore amica e ora in qualche modo di sentiva messa da parte. E in verità era anche gelosa di Satoshi. Stava, insomma, vivendo un vero dilemma.
Yami arrivò per ultima, bellissima come sempre e con lo sguardo affilato e serio. Le sue amiche avevano notato certi sguardi divertiti e di scherno da parte di un gruppetto di ragazzi più grandi. E Ai, in particolare, era stata assalita da una sensazione orribile.
«Ehi, Yami. Ma quelli non sono gli amici del tuo ragazzo?» domandò Naoko. Yami li guardò e poi fece un’espressione sdegnosa.
«Io non ho più un ragazzo. Io e Ren non stiamo più insieme. Meglio così, perché non mi piaceva più tanto.»
Ai sentì qualcosa. Quella sensazione orribile non accennava a diminuire, così prese Yami per mano (dimenticandosi della rabbia nei suoi confronti) e la tirò con sé in un angolo.
«Che è successo tra te e quello lì?»
«Niente. Semplicemente ci siamo stancati e quindi ognuno per la sua strada» rispose strafottente.
«Questo lo so, intendo… c’è stato qualcosa di più?»
Yami arrossì e distolse lo sguardo, il che non era da lei.
«Qualche bacio, qualche toccatina… gli ho mandato delle foto.»
Ai strabuzzò gli occhi.
«F-foto? Che foto? Oh, no. Non me lo dire, ti prego. Questo è terribile. E se le avesse mostrate a qualcuno?» la sola idea la terrorizzava, ma la sua amica sembrava tranquilla.
«Finché le vedono solo quei deficienti dei suoi amici non mi cambia molto.»
«Ma Yami…!»
Possibile che fosse l’unica a preoccuparsi tanto? Ci vedeva qualcosa di marcio in tutto ciò e non sapeva che fare. Yami sbuffò, spazientita.
«Ma insomma. Ti dico che non c’è motivo di preoccuparsi, d’accordo? Tu stai tranquilla, passerà loro la voglia di darmi fastidio.»
E con quella frase, mise la parola fine alla conversazione. Quando tornarono, Kiyoko era andata a salutare Kaien, Rin si era allontanata per andare chissà dove e Miyo se ne stava seduta a leggere prima di andare in classe. Ai sospirò. Era sempre molto razionale, ma aveva l’orribile sensazione che quella sarebbe stata la calma prima della tempesta.
 
Una delle attività preferita di Rukia era senza dubbio andare a trovare i bambini alla casa-famiglia. Soprattutto se poteva godere della compagnia di Natsumi, sempre così allegra e sempre disposta ad ascoltarla. Perché Rukia aveva sentito il bisogno impellente di parlare di quel suo problema e Natsumi era capitata a fagiolo.
«Accidenti, è una cosa bella tosta» commentò la ragazza, lanciando un’occhiata ai bambini che giocavano. «Ma non ti devi preoccupare, sono certa che tu e il dottor Ichigo non vi lascerete. Io lo vedo, lui ti ama troppo.»
«Non capisci, Natsumi. Non è per me che sono preoccupata, ma per lui. Come ho potuto non rivelargli una parte così importante della mia vita? Mi sono sempre detta che era per proteggere lui, in realtà era per proteggere me. Alla fine però non è servito niente.»
Natsumi si tolse un ciuffo di capelli dal viso.
«D’accordo, d’accordo. Non dico che sarà facile, però penso che devi proprio dirgli quello che senti. Parlare dei propri sentimenti è importante, senza girarci attorno.»
Rukia trovava incredibile che una ragazzina appena ventenne fosse così saggia.
Una bambina molto graziosa si avvicinò alle due, porgendo loro un mazzo di fiori.
«Signora Rukia, signorina Natsumi, guardate che bel mazzo!»
«Oh, Mirai. È adorabile e grazioso come te» disse la ragazza chinandosi e pizzicandole la guancia con energia. Era sempre così estremamente affettuosa. Natsumi si sollevò all’improvviso e alzò una mano.
«Ehiii, ciaooo!»
Rukia si accorse che Shunsui Kyoraku e Jushiro Ukitake erano appena entrati in giardino, anche loro venivano spesso alla casa famiglie.
«Natsumi, hai scordato il pranzo, lo sai che se poi non mangi ti vengono i cali di pressione» disse Ukitake, guardando poi la sua ex allieva. «Oh, Rukia, ciao.»
«Professor Ukitake, signor Kyoraku» disse lei facendo un inchino.
«Quante volte dovrà ripetertelo, signorina? Niente formalismi, mi fai sentire vecchio» disse Kyoraku scherzoso.
«Beh, tu sei vecchio, in realtà lo siete entrambi» s’intromise la loro figlia.
«Che razza di sfacciata, non ricordavo di averti cresciuto così» disse Shunsui, fingendosi offeso. Erano sempre un piacere per gli occhi, una famiglia unita e amorevole, pensò Rukia.
 
«I-Ichigo, sei sicuro che sia il caso che venga anche io?»
Hanataro era nervosissimo e non riusciva a scendere dall’auto, temeva di cadere.
«Beh, io devo parlare con Rukia e Rukia si trova con Natsumi in questo momento. A te lei piace, no?»
Hanataro arrossì. Oh, era assolutamente rapito da quella ragazza, ma lui era così imbranato.
«… Mi piace tanto.»
«Bene, allora zitto e seguimi» borbottò Ichigo. Scesero dall’auto ed entrarono dentro l’immenso giardino che fungeva anche da ingresso. Al diavolo, era inutile starsene lì a rimuginare, aveva pensato Ichigo, Tanto valeva parlarne subito. Entrambi udirono lo schiamazzare allegro dei bambini. Natsumi fu la prima a notarli e i suoi occhi si illuminarono alla vista del giovane dottore per cui aveva una cotta.
«Dottor Ichigooo, mi hai portato il mio Hanataro! Sei un angelooo!»
Ichigo salutò tutti e solo dopo posò lo sguardo su Rukia. Lei sorrise, in imbarazzo. Era strano, le sembrava che fossero un po’ due estranei e la cosa non le piaceva.
«Ehi. Non mi aspettavo che venissi qui»
«Sì, beh… il mio turno inizia tra poco e… dovremmo parlare. Mi sembrava inutile aspettare, pertanto… eccomi qua.»
Rukia annuì e così marito e moglie presero a camminare nel viale di ciliegi rigogliosi. Lei aspettava che lui le porgesse qualche domanda, era sicura che Ichigo avesse tanto da domandare, e in effetti non si era sbagliata. Ma non sapeva da dove iniziare.
«Come hai potuto nascondermi una cosa del genere?» domandò non riuscendo a trattenere una certa rabbia. Lui e Rukia si conoscevano da più di vent’anni e gli sembrava assurdo che gli avesse nascosto qualcosa di così importante, che riguardava poi  anche un membro della sua famiglia.
«Questa è una domanda difficile, ma cercherò di rispondere. Avevo paura, non tanto della tua reazione. Avevo paura di affrontare il dolore. In realtà ho ancora paura di affrontare il dolore.»
Ichigo annuì. Sapeva che ogni sua parola sarebbe stata come un’accoltellata.
«Qualcuno lo sapeva?» chiese poi.
Rukia scosse la testa.
«No. Kukaku e Byakuya dovevano aver intuito qualcosa, ma non l’ho mai detto a nessuno.»
Quella fu una magra consolazione per Ichigo, il quale però doveva ancora porre la domanda che più gli premeva. E questa fece male in modo particolare.
«Hai voluto me per sostituire lui?» domandò stringendo i pugni. Aveva gli occhi lucidi, ma s’impose di non piangere. Non era uno che si lasciava andare alle lacrime, ma in quel caso era difficile. Rukia temeva di far nascere in lui quel timore, perché Kaien e Ichigo erano identici dal punto di vista fisico. E per certi aspetti anche nel carattere.
«No, almeno in questo devi credermi» Rukia strinse la sua piccola mano sul suo braccio. «È vero, quando ti ho conosciuto ero sconvolta da quanto gli somigliassi. Ma mi sono innamorata di te perché sei tu.»
«Vorrei tanto crederti, ma ho capito che ci sono tante cose che di te non conosco e questo… cazzo, è doloroso» Ichigo si portò una mano tra i capelli. «Ho perso la fiducia nei tuoi confronti.»
Rukia si morse il labbro e anche lei come lui s’impose di non piangere. Era giusto che Ichigo non si fidasse più di lei, lei lo aveva deluso in fin dei conti. Ma era terrorizzata all’idea di perderlo.
«Vuoi divorziare?» domandò. Se era nelle sue intenzioni, preferiva saperlo subito.
«Ma sei scema?! Non voglio arrivare a tanto. Però… questa situazione è difficile anche per me.»
Rukia sospirò, sollevata. Ma sapeva comunque di non potersi poggiare sugli allori. Aveva tradito la sua fiducia.
«Meno male. Senti, possiamo non far capire nulla a Kaien e Masato?»
«Sì, sono d’accordo. Questa cosa riguarda noi due, dopotutto. Ora… scusa, ti lascio al tuo lavoro e io mi riprendo Hanataro.»
Rukia annuì e insieme tornarono da Hanataro, che era stato preso d’assalto da Natsumi.
«È un tuo amico?» domando Ukitake.
«Non proprio, il dottor Hanataro Yamada diventerà il mio fidanzato. Hanataruccio, loro sono i miei genitori?»
«I tuoi… eh?! P-p-piacere di conoscervi!» esclamò il ragazzo facendo un inchino. Kyoraku lo osservò, divertito.
«Non c’è bisogno di essere così formali, chiunque renda felice mia figlia merita il mio rispetto!»
Ma erano già arrivati a quel punto? Ad Hanataro iniziava già a girare la testa, ma per fortuna Ichigo arrivò in suo soccorso.
«Su, andiamo Hanataro. Vogliate scusarci, andiamo al lavoro.»
Natsumi mandò un bacio volante al ragazzo.
«Ciao, ciao! Ah beh, è pazzo di me, che posso dirvi?»
 
Kohei, spalle dritte e imponente, si lasciò dietro Hayato e Kaien che parlavano per dirigersi verso Satoshi e Hikaru che, durante l’ora di pranzi, si erano appartati in mensa per parlare delle loro pene d’amore. Hikaru era depresso, Satoshi era nervoso perché non era nelle condizioni di gestire sia Kiyoko che Naoko.
«Kiyoko è arrabbiata con me e Naoko invece mi fa impazzire. Mi ha baciato, non posso credere che l’abbia fatto.»
«Io invece non posso credere che Ai mi abbia mollato per uno più grande. Anche se teoricamente non mi ha mollato, non stavamo nemmeno insieme!»
«Non preoccuparti, andrà bene. Per me invece non lo so» Satoshi si vide comparire davanti Kohei e i due rimasero a fissarsi per qualche istante. Fu Kohei stesso a puntargli il dito contro.
«Io non ti lascerò Naoko.»
«Eh?!» esclamò lui. «In che senso?»
«Nel senso che mi piace. Molto. In natura vice il più forte, per cui…ti ho avvisato. Adesso vado a prendermi un succo di frutta, ciao ciao.»
Non gli lasciò tempo di dire nulla. Satoshi rimase lì a bocca spalancata e con un dito sollevato.
«Ma hai sentito che mi ha detto?»
«Accidenti, adesso siamo in due ad avere un rivale in amore» commentò Hikaru, che sembrava piuttosto sollevato di non essere più da solo.
 
Kohei tornò a sedersi accanto a Kaien e Hayato. All’appello mancavano Yuichi e Masato, che erano andati chissà dove.
«Sei andato a marcare il territorio?» domandò Kaien.
«Sì. Naoko diventerà la mia fidanzata. Qui siamo tutti fidanzati, tranne Hayato. Ma è perché con Rin è troppo timido.»
«Ehi, fatti gli affari tuoi» borbottò lui, arrossendo. «Piuttosto, tuo fratello e Yuichi si sono imboscati di nuovo? Devono essere proprio infoiati.»
«Ah, ti prego, non dire queste cose. Masato è il mio fratellino» disse Kaien protettivo, ma ovviamente era consapevole che Masato come lui avesse i suoi bisogni. E in effetti il fratello e Yuichi si erano chiusi in un’aula all’ultimo piano in realtà inagibile. Inizialmente avevano avuto paura perché si diceva che quell’aula fosse infestata, ma poi la voglia di stare insieme aveva superato di gran lunga tutto.
Così avevano preso a scambiarsi dei teneri baci, poi sempre più intimi, si erano accarezzati a lunghi e avevano finito per toccarsi a vicenda e a gemere nella bocca dell’altro. Era pazzesco da perdere la testa. Ai due non importava nemmeno di essere scoperti, anzi, l’idea rendeva tutto più entusiasmante.
«Masato, tu mi piaci. Mi piaci tanto. Così tanto che non mi fermerei mai» sussurrò Yuichi, gli occhiali appannati e tutto tremante. Masato gli sorrise e tornò a baciarlo, avido. Per lui era lo stesso.
Kaien aveva cercato suo fratello a lungo e solo dopo un pezzo – terribili minuti d’ansia – era arrivato all’aula inagibile, che aveva aperto con un calcio.
«Ah, eccovi qui!» gridò. Yuichi e Masato sussultarono. Oh, era solo Kaien.
«Ma come sapevi che eravamo qui?» domandò il fratello.
«Infatti non lo sapevo» Kaien entrò, scorbutico. «Dovete stare attenti a quello che fate, se la gente vi vede, vi creerà dei problemi.»
Yuichi si tolse gli occhiali per pulirli.
«Noi non facciamo niente di male, è la gente ad essere stupida.»
«Questo lo so bene, ma voi non siete in grado di difendervi!»
«Che cosa vuoi dire?» domandò Masato, crucciato. Kaien avrebbe voluto dirgli tutto, ovvero che lui – assieme alla complicità di Hayato – stava facendo qualsiasi cosa per proteggerlo dalle malelingue e dei malintenzionati, anche se questo voleva dire cacciarsi nei guai lui stesso. Ma non disse niente, mandando giù quel boccone amaro.
«Niente, non è niente. Piuttosto usciamo di qui, prima che il tetto ci cada in testa.»
 
Miyo andò di fretta e furia in bagno. Era davvero fastidioso doversi cambiare così spesso, per fortuna al momento non avvertiva crampi all’addome o altri disturbi. Entrò nel bagno delle ragazze e vide Rin vicino al lavandino che si sciacquava il viso e la bocca. Si spaventò nel vederla così: Rin le parve sfibrata e stanca.
«Oh, Miyo. Tutto bene?» domandò lei, sorridendo. Miyo si avvicinò. Si sentiva particolarmente emotiva, ma aveva un discorso serio da fare. Si avvicinò le toccò le spalle.
«Rin, tu mi stai spaventando, va bene? Guarda che ti vedo. Mangi poco o nulla e vomiti. Forse hai un disturbo alimentare, lo sai che può essere pericoloso. I tuoi non lo sanno, vero?»
Rin si staccò da lei con un certo sdegno.
«Non lo sanno e comunque non sono stupida. So qual è il mio limite. È solo che non mi piace il mio corpo. Tu parli bene, sei così magra.»
«E allora?» Miyo si innervosì. «Non c’è niente che non vada in te. Ti prego, Rin. Se continui così lo dirò ai tuoi!»
Quella alle orecchie di Rin suonò come una minaccia, ma Miyo era solo molto spaventata.
«Fa un po’ come ti pare» disse infine, lisciandosi i lunghi capelli chiari.
 
Lavorare con la sua ex non si stava rivelando essere poi così terribile. Senjumaru era silenziosa e attenta nel lavoro, ma questo Mayuri lo sapeva già. C’era anche da dire che la presenza di Urahara migliorava tutto, anche se gli scocciava ammetterlo. Lo studio era un vero disastro tra appunti, libri di medica, strumenti da analizzare. Senjumaru, infatti, si guardava attorno scuotendo la testa: due menti geniali riunite in così poco spazio portavano al caos.
«Siamo d’accordo che alla parte pratica ci penso io, no? Lo sai che mi piace sperimentare» aveva detto Mayuri.
«Ah, ah! Tranquillo, puoi giocare a fare lo scienziato pazzo quanto vuoi. Però adesso io devo lasciarvi» Kisuke si alzò, facendo volare qualche foglio.
«Che cosa? Urahara, pensi di potermi lasciare qui da solo? È ancora presto!»
E soprattutto, non poteva pensare di lasciarlo da solo con Senjumaru. Non che gli interessasse, ma era davvero scocciante. Kisuke non avrebbe voluto metterlo in difficoltà, ma era impaziente di tornare da Yoruichi. E da Soi Fon. Si sentiva su di giri e aveva l’impressione che sarebbe stata una bella serata.
«Scusa, ma ho promesso a Yoruichi che sarei rincasato prima. Dovresti essere contento, lo sai che quando io non ci sono comandi tu. Adesso vado, ciao, ciao! Arrivederci signorina Shutara!»
Mayuri avrebbe voluto maledirlo in molte lingue. Ma non doveva preoccuparsi, poteva gestire quella donna insopportabile. Senjumaru sospirò, rimettendo a posto i fogli caduti sul pavimento.
«Tu e Kisuke Urahara siete adorabili, siete come due bambini che giocano a fare gli scienziati.»
«Ah, silenzio, per favore» si lamentò lui. «Kisuke Urahara è un uomo davvero sgradevole, ma sarei stupido a non riconoscere il suo talento.»
Senjumaru mise a posto i fogli e poi si sedette al posto di Kisuke, davanti a Mayuri.
«Pensa se ci fossimo sposati. A quest’ora lavoreremmo insieme a questo.»
«Già, per fortuna non ci siamo sposati» rispose lui. Non aveva intenzione di rimanere lì ad ascoltarla, anche perché non capiva cosa volesse.
«Tua figlia, Ai. È adorabile, ti somiglia ma ha la dolcezza di sua madre. Pensavo non volessi figli.»
«Come sei irritante. Le persone cambiano. Tu invece non sei cambiata. Sei sempre stata più improntata sulla carriera.»
La donna accavallò le gambe, guardandolo. Era sempre stata molto sensuale, ma a lui non lo incantava di certo.
«Mayuri, quasi non ti riconosco, ti ricordo che eravamo uguali. Per questo stavamo bene insieme.»
«Bene insieme? Ma se mi hai tradito. Non che me ne dispiaccia ovviamente. È stata una liberazione.»
Lui non aveva mai sentito il bisogno di una relazione, con Senjumaru ai tempi c’era stata una grande attrazione intellettuale e poi fisica. Ma avevano due caratteri troppo simili per andare d’accordo.
«Avrò sbagliato a tradirti, ma non mi pare tu fossi perfetto.»
«Tu sapevi com’ero io, lo hai sempre saputo. Che ti lamenti a fare, ora, dopo tutto questo tempo?»
Era per questo che non voleva rimanere da solo con lei, non voleva rivangare quel passato così lontano. Senjumaru sospirò e rilassò appena le spalle.
«Tu sei cambiato.»
«Io sono sempre lo stesso, mi sono solo un po’ ammorbidito. Capita con l’amore, ma non mi aspetto tu capisca. Nemmeno tu mi hai mai amato, donna crudele e meschina.»
Senjumaru chinò la testa di lato e poi sorrise.
«La cosa più divertente è che nessuno ti crederebbe, se lo dicessi. Penserebbero che sia stato tu a far soffrire me.»
«Soffrire io, figurarsi» Mayuri mise fine a quel discorso. Al diavolo.
 
Stare in quella famiglia equivaleva a provare calore, di quelli dolci e che ti avvolgono come un abbraccio. Soi Fon aveva preso in simpatia i gemelli e poi Kisuke e Yoruichi erano una coppia davvero splendida e che faceva di tutto per farla sentire la benvenuta. Sapere di doversene andare per conto proprio le faceva provare un senso di malinconia. Era piacevole condividere i pasti, passare del tempo insieme, avere a che fare con la simpatia di Kisuke e con Yoruichi che ogni tanto doveva rimbeccarlo come se fosse un bambino.
Dopo cena Yami e Hikaru se n’erano andati nelle loro camere, i tre erano rimasti attorno al tavolo e Yoruichi aveva pensato che fosse una buona idea tirare fuori una bottiglia di vino pregiato.
«Ehi, perché hai aspettato tanto per tirarlo fuori?» si lamentò Kisuke.
«In primis, perché non reggi l’alcol. Secondo, lo tenevo da parte per un’occasione speciale.»
Soi Fon arrossì. Non pensava di essere niente di speciale, ma da un po’ grazie a loro ci si sentiva. Yoruichi versò loro il vino e poi prese un calice per sé. Soi Fon ne mandò giù solo un sorso, sembrava pensierosa.
«Qualcosa non va?» chiese Kisuke.
La ragazza scosse la testa.
«No, al contrario. Quest’ultimo periodo è stato uno dei più felici da… da nemmeno mi ricordo quando! Con la mia famiglia non ho grandi rapporti e invece qui ci sto così bene. Volevo ringraziarvi, ecco.»
«Oh, Soi Fon. Che formalità, non mi pare il caso, per noi è un piacere, sei una brava ragazza.»
«Una bravissima ragazza!» disse Kisuke, rosso in viso. «Nessuno di direbbe che un tempo siamo stati quasi rivali in amore, eh?»
Soi Fon tossì e Yoruichi guardò male suo marito come a volergli dire dovevi proprio tirare fuori il discorso?
«Quello è il passato, non voglio mettermi in mezzo a nessuno. E poi beh, non ho tempo per l’amore, non mi piace nessuno!» disse Soi Fon a braccia conserte. Tutto ciò non era proprio vero. Yoruichi le diede una carezza sulla testa, carezza che voleva essere materna, ma che evidentemente risultò ambigua. Kisuke guardò sua moglie accarezzare Soi Fon, attento.
«Mia cara, quando l’amore arriva, arriva.»
Soi Fon ingoiò a vuoto. La mano di Yoruchi era calda su di sé. Di lei pensava sempre e comunque che fosse una bella donna. Vide con la coda dell’occhio Kisuke guardarle.
«Io… lo so. Ecco… forse do fastidio?» balbettò, non sapendo bene cosa dire.
«Perché dici questo, mia cara? A me piace quello che vedo»
Kisuke aveva il viso arrossato. Era proprio vero che non reggeva l’alcol, ma qui la colpa era tutta di quelle donne.
«Kisuke, brutto pervertito. Vuoi vederci baciare, per caso? Tu hai sempre scherzato su questa fantasia. Non badare a mio marito, Soi Fon.»
La ragazza scosse la testa.
«Non penso male di lui. Voi siete una bella coppia, siete bellissimi anche singolarmente e… e…»
Una volta aveva rubato un bacio a Yoruichi. Adesso lei sembrava desiderasse divorarla.
«Su, avanti. Yoruichi, baciala» ordinò Kisuke, assumendo un tono autoritario. Soi Fon sentì il cuore batterle forte. Era agitata e non perché non volesse. Era perché lo volva troppo, perché quella tensione sessuale  stava finalmente scoppiando.
«Oh, mi è sempre piaciuto farmi dare ordini da me. Ma solo se lei mi permette.»
«I-Io permetto!» esclamò. Se ne sarebbero pentiti tutti e tre, lo sapeva, ma si viveva una volta sola. Yoruichi la guardò con quegli occhi da gatta e la baciò. Fu molto più bello della prima volta. Kisuke le osservò con interesse. Poi si alzò e si avvicinò a loro, chinandosi.
«Mi permette di unirmi a voi?» domandò, cortese. Yoruichi si mise a ridere e lo tirò a loro. Quel bacio a tre sembrò una cosa incredibilmente giusta. Nessuno dei tre sarebbe tornato indietro quella notte.
 
 
«Ciao, Momo! Ma che sorpresa, e Toshiro non c’è?»
Era piuttosto strano che Momo si fosse presentata a casa sua a quell’ora, perdipiù senza Toshiro. L’amica sembrava molto preoccupata e Rangiku aveva già teorizzato le peggiori catastrofi.
«No, sono venuta qui da sola. Ecco, volevo parlare con te in privato» Momo si sedette sul morbido divano, accavallando le gambe. Era rimasta comunque una donna elegante.
«Va bene. Vuoi qualcosa da bere? Ho roba forte» bisbigliò Rangiku. Momo arrossì e poi sorrise.
«Ecco… in realtà io non posso bere.»
Rangiku rimase a fissarla per qualche attimo. Ma certo, che sciocca che era stata! Lo sguardo diverso, la pelle luminosa, quell’aria raggiante. Non potevano esserci dubbi.
«Oh, mio Dio. No, non è possibile. Tu sei incinta? Aaaaw, POTREI PIANGERE!»
L’abbracciò e Momo si mise a ridere.
«Toshiro non lo sa ancora, vero?» domandò. Ora voleva sapere tutti i dettagli. «Quando lo hai scoperto?»
«La settimana scorsa. Non era previsto in realtà, spero che Toshiro la prenda bene» ammise Momo, anche se in realtà non era lui a preoccuparla, quanto suo figlio Hayato: le cose erano già abbastanza complicate.
«Ma figurati, sarà felicissimo. Il mio piccolo Toshi diventa padre, mi sento vecchia. Ho bisogno di un drink.»
Dicendo ciò si alzò, prendendo una bottiglia dall’armadietto degli alcolici.
«Non è tanto per Toshiro che sono preoccupata, quanto per Hayato. Ho paura che la prenderà male.»
Rangiku si versò da bere e poi tornò a guardarla.
«La gelosia tra fratelli è normale, inoltre Hayato ha tredici anni, un’età difficile. Ma lui capirà, è un ragazzo intelligente. Piuttosto, voglio assolutamente organizzare un baby-shower per te! Quando aspettavo Rin l’ho fatto, ma non preoccuparti, niente di sfarzoso, una cinquantina di invitati basteranno.»
Momo rise all’entusiasmo dell’amica. Sperava che avesse ragione, che Hayato avrebbe capito, l’ultima cosa che voleva era dargli un dispiacere con quella bella notizia.
 
Gin se ne stava invece nel suo studio quella sera, aveva del lavoro arretrato da completare. Loly bussò alla sua porta e quando gridò avanti, la ragazza entrò con in mano un vassoio.
«Il suo tè, signor Ichimaru.»
«Ah, grazie. Mi servirà, temo che sarà una notte lunga per me.»
Loly posò il vassoio e poi rimase lì a fissarlo. Sguardo che Gin avvertì.
«Amh… puoi andare adesso, si sta facendo tardi.»
Loly però non si mosse. Aveva lo sguardo affilato e malizioso e non sembrava intenzionata ad andarsene molto presto.
«Lei mi piace, signor Ichimaru. Gin»
Gin rimase immobile, era abbastanza bravo da non mostrarsi sorpreso, anche se in realtà sorpreso lo era eccome. Non si aspettava che quella ragazzina arrivasse a dichiararsi in modo così diretto.
«Oh, eh… Loly, ti prego, questo rende la situazione imbarazzante.»
Non gli era mai capitato di trovarsi in una situazione così imbarazzante e strana. Ed era anche delicata, perché quella ragazza lavorava per lui, per la sua famiglia. Loly però non si fece intimidire e con su un’espressione da donna molto più adulta della sua età, si avvicinò.
«Ma signore, io non le ho mica detto che dobbiamo essere una coppia e sposarci. Anche se sarebbe bello, no?»
La sua mano si mosse e Gin la fermò prontamente. Avrebbe troncato sul nascere quella cosa, qualsiasi cosa fosse.
«Loly, basta così. Non intendo stare a questo gioco, io sono sposato e anche se fosse non mi metterei a flirtare con una ragazza che lavora per me» disse, all’improvviso più serio e autoritario. Quel modo di fare però non fece altro che stuzzicare ulteriormente Loly, la quale si fece avanti.
«Non faccia il difficile»
Sfiorò le labbra con le sue e Gin sgranò gli occhi, per poi allontanarla da sé, non troppo forte per evitare di farle male.
«Forse non mi sono spiegato. Tu non puoi fare questo, e io non voglio. Dovresti trovarti qualcuno della tua età, signorina. E che non sia impegnato.»
Gin aveva sempre un sorriso sornione e divertito, ma non questa volta. Questa volta era serio e le sue iridi azzurro ghiaccio ben visibili. Loly perse ben presto la voglia di scherzare e si sentì arrossire di vergogna: nessuno l’aveva mai rifiutata, nemmeno ragazzi impegnati che aveva sedotto abilmente. Ma lui sì e questo la fece sentire umiliata nel profondo.
«Ah, è così? Bene, vedrai quello che ti succederà adesso. Me ne vado» dichiarò, dandogli le spalle. Gin si risedette, sospirando. Come avrebbe potuto spiegare a sua moglie che avevano perso la domestica perché quest’ultima aveva provato a baciarla?
Sentì delle porte sbattere e poi sentì dei passi. Rangiku si affacciò al suo ufficio.
«Gin, tesoro, ma cos’è successo?»

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette ***


Rin era stata svegliata e sentiva i suoi genitori parlare. Era ancora mezza addormentata e all’inizio non capì.
«Non posso crederci, allora nostra figlia aveva ragione. Ho fatto attenzione più che ho potuto, ma non sono riuscita a beccarla, accidenti!»
Si fece più attenta. Era successo qualcosa con Loly?
«Non è un problema, l’ho mandata via. Ci ho provato a mantenere le cose non inopportune, ma non dipende tutto da me» Gin era avvilito, mentre guardava sua moglie che camminava avanti e indietro, mordendosi un’unghia smaltata. «Sicura che fosse referenziata?»
«Ma certo che lo è!» sbottò Rangiku. «Piuttosto, sono preoccupata per quello che ti ha detto. Credi che vorrà vendicarsi? E se andasse a dire in giro che l’hai molestata? Sarebbe orribile, anche perché è lei che ha molestato te. Come vorrei denunciarla!»
Gin sorrise, con ammarezza e rassegnazione.
«Tesoro, ma chi mai mi prenderebbe sul serio?»
Rin si poggiò alla porta, socchiusa e non chiusa e assunse un’espressione colpevole.
«Scusaci, ti abbiamo svegliata?» domandò Rangiku. Lei scosse la testa.
«Avevo solo sete. Però ho sentito quello che avete detto.»
Vide i suoi genitori guardarsi. Di sicuro non volevano darle altre preoccupazioni e di sicuro avrebbero alleggerito la cosa dicendo che non doveva pensarci.
«Stai tranquilla, Rin. La risolveremo, purtroppo sono cose che capitano. E tu stai bene?»
Ma davvero le si leggeva in faccia il suo malessere? No, non stava bene. Aveva fame e stava davvero iniziando a odiare il suo corpo e la sua faccia. Com’era passata dall’apprezzarsi a quello?
«Non c’è niente che non vada» mentì.
Rangiku allora si avvicinò, prendendole il viso tra le mani.
«Cara, qualsiasi cosa sia sai che puoi parlarne. Per caso sei innamorata? Non mi sorprenderebbe se tu avessi tanti spasimanti.»
Quella che voleva essere una battuta bonaria da parte di Rangiku, fu per Rin motivo di offesa. Non era bella, sua madre lo era e lei non le sarebbe mai somigliata.
«Smettila di dire che sono bella, perché non lo sono.»
Quella reazione stupì entrambi.
«Ma Rin… che c’è?» domandò Gin. Sua figlia era strana, era quasi come se non fosse sé stessa.
«Niente, dico solo che non sono bella, né… niente di tutto ciò. E il vostro parere non conta nemmeno, perché non siete oggettivi. Adesso me ne vado a dormire.»
Da come parlava, sembrava che Rin ce l’avesse con loro, con sua madre in particolare. Rangiku non avrebbe mai potuto immaginare il dramma che sua figlia stava vivendo, perché semplicemente nemmeno lei riusciva a capirlo.
«Gin…» sussurrò.
«Rin non ci dirà mai cosa c’è che non va. Forse Miyo saprà qualcosa. O Hayato.»
«I suoi amici non direbbero mai nulla. A meno che non sia qualcosa di grave» sussurrò, stringendosi le braccia attorno al busto, come in una sorta di abbraccio. Era stanca, stavano succedendo troppe cose e tutte insieme e doveva pensare.
«Va bene, va bene» disse poi. «Penseremo a Rin innanzitutto. Ma non intendo sottovalutare il tuo di problema.»
Gin allora si alzò e l’abbracciò, rassicurandola.
«Ma no, tranquilla amore mio. Non c’è niente da sottovalutare.»
 
 
Era arrivata l’ora di andare a scuola e Yuchi stava cercando di mettere a posto la sua stanza. Cosa che sarebbe stata molto più facile se solo la sua sorellina non avesse messo tutto in disordine: Yoshiko stravedeva per il fratello e gli stava sempre attorno.
«Yuichi, giochiamo. Posso usare il tuo violino?»
«Oh, no. Il violino non si usa per giocare. Senti, giochiamo quando torno a casa, va bene?» cercò di tenerla buona, mentre preparava lo zaino.
Yoshiko gonfiò le guance.
«E va bene. Viene anche Masato? Lui è bello e bravo. Voi siete fidanzati? Vi ho visto che vi baciavate, ma non lo dico a nessuno.»
Yuichi arrossì e si voltò a guardare la sorellina. Con lei avrebbe anche potuto parlare, i bambini così piccoli non avevano alcun pregiudizio.
«Sì, siamo fidanzati. Lui mi piace tanto e gli voglio bene. Anzi, sono innamorato di lui da quando ero bambino.»
Yoshiko arrossì e poi sorrise.
«Ma allora vi sposerete. Posso venire anche io al matrimonio?»
Chissà. Sarebbe stato romantico. Uniti sin da quando erano bambini, innamorati e poi un giorno sposati. Si sciolse al solo pensiero.
«Ma certo, puoi anche farci a damigella.»
Yoshiko si esaltò e uscì fuori dalla stanza.
«Sono una damigellaaa!»
Uryu la vide uscire e poi guardò suo figlio.
«Tutto bene?»
«Amh, sì, stavamo solo chiacchierando. Io comunque adesso devo andare a scuola, quindi finisco di prepararmi» disse Yuichi. Uryu si aggiustò gli occhiali ma non riuscì a smettere di fissarlo. Era come se bramasse di dirgli qualcosa, qualcosa di complesso e doloroso. Eppure se ne stava lì, senza capire cosa stava provando.
«Emh… papà» suo figlio lo sorprese, parlando per primo. «Senti, è un po’ che volevo chiedertelo, ma… perché Masato non ti piace? Io pensavo fossi contento di… noi due. E poi tu e Ichigo non siete tipo migliori amici?»
Yuichi era fuori strada, ma era normale che fosse arrivato a pensare una cosa del genere.
«Io non ho niente contro Masato. Non è quello il problema.»
«E allora quale? Sei strano per ora. Ti comporti come se io fossi sempre in pericolo.»
«Io… te l’ho già spiegato» disse, cercando di rimanere calmo. Perché si stava sentendo a disagio? Non erano forse lecite le domande di suo figlio? Yuichi invece non si sentiva a disagio. Tanto valeva lasciare da parte l’imbarazzo e dire le cose come stavano.
«Io e Masato ci vogliamo bene e sì, a volte facciamo anche… delle cose. Ci tocchiamo, ad esempio. Non dici sempre che sono cose normali? Tu sembra quasi che non voglia, ma perché? Decido io per me.»
Sì, tu hai ragione, Yuichi. Avrebbe voluto dirgli. Ma l’unica cosa che Uryu sentiva era il battito accelerato del suo cuore. E il suo mantenersi forzatamente tranquillo e composto non stava facendo altro che peggiorare le cose.
«Yuichi, tu sei troppo giovane per pensare di sapere tutto. Il mondo può essere pericoloso.»
«Questo lo so! Ma solo perché è successo qualcosa di brutto a te, non vuol dire che debba accadere a me! È per questo, non è vero? Ti è successo qualcosa di male. Dimmelo, è questo?»
Tatsuki arrivò proprio in quel momento con in braccio Yoshiko: era strano che Yuichi alzasse la voce, quindi si era preoccupata.
«Ma che succede?» domandò. Suo marito però la ignorò. Aveva gli occhi fissi su Yuichi e un’espressione che nessuno di loro gli aveva mai visto addosso.
«Yuichi, fa silenzio. Sei troppo giovane per capire» disse Uryu, severo, a denti stretti. Il ragazzino strinse i pugni e impedì alle lacrime di uscire. Era davvero arrabbiato e in più veniva trattato come se non fosse capace di capire. Allora afferrò lo zaino.
«Tu sei un adulto e non capisci niente comunque» borbottò, permettendosi di rispondere in malo modo.
«Yuichi!» lo chiamò Uryu, ma suo figlio lo ignorò. Fu Tatsuki allora ad intervenire.
«Ehi! Basta così. Uryu, calmati ora» disse accarezzando la bambina che sembrava stravolta. Certo, si rese conto, doveva averla spaventata, lei non era abituata a vederla così.
«Papà è rabbiato?»
Si tolse gli occhiali e scosse la testa.
«No, piccola. Sto bene. Va tutto bene» mentì, pur consapevole che non sarebbe stato capace di ingannare nemmeno una bambina di tre anni.
«Tesoro, aspettami in camera tua, okay?» Tatsuki raccomandò alla figlia, la quale li guardò ancora una volta entrambi, prima di sgattaiolare in camera. Tatsuki raggiunse suo marito, che si era appena seduto e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Uryu, per favore. Non voglio più sentirmi dire che va tutto bene, perché so che non è così.»
Non poteva dirgli che in realtà sapeva benissimo cosa ci fosse che non andava, non poteva rivelarglielo così. Si sarebbe arrabbiato? Si sarebbe sentito tradito?
«Forse sono malato, Tatsuki. Forse devo tornare in terapia, quand’ero adolescente l’ho fatto per un periodo.»
Tatsuki sii irrigidì. Era molto meglio che ricordasse lui con naturalezza, rivelargli tutto sarebbe stato troppo traumatico.
«Davvero? Non me ne avevi mai parlato.»
«È stato prima che ci conoscessimo. Il fatto è che è strano. Quando provo a ripensare a quel periodo, ho come un vuoto. Ricordo che io e la mia famiglia ci siamo trasferiti ad un certo punto, ma non ricordo cosa è successo prima. Ultimamente non faccio che pensarci. E sto diventando, oltre un amico orribile, anche un padre terribile.»
Tatsuki poggiò il viso sulla sua spalla, abbracciandolo. Mai come prima d’ora aveva sentito così tanto il bisogno di proteggerlo.
«Non sei un padre orribile. Yuichi ti vuole bene, ecco perché vorrebbe capire cosa c’è che non va e…»
«Io ho paura che Yuichi venga molestato. Non da Masato, intendo in generale. Ho paura che potrebbe succedergli qualcosa di terribile e che io non possa fare niente per impedirlo. Ma perché? Mi è venuta questa paura, così all’improvviso…» sussurrò, passandosi una mano sul viso
Tatsuki capì che era davvero arrivato il momento di rivolgersi ad uno specialista, a quel punto era l’unico che poteva aiutare suo marito. Lei non si sentiva abbastanza forte, era una questione troppo delicata. Un abuso poteva segnare a vita. Lo abbracciò più forte. Voleva stargli vicino, come lui era sempre stato vicino a lei.
«Tranquillo, Uryu. Sono paure che abbiamo tutti» sussurrò.
Prometto che ci sarò quando ricorderai e quando il dolore sarà così tanto da essere insopportabile.
 
Quando Kisuke quella mattina aprì gli occhi, si ritrovò al centro. Yoruichi stava distesa su un lato, Soi Fon dall’altro, tutte e due avevano le teste poggiate sul suo petto. Dovette metterle a fuoco e poi dovette ricordarsi cos’era successo: avevano finito col fare sesso, ed era stato intenso, passionale e fortemente voluto da tutte e tre. Ma adesso che era giunta la mattina, come avrebbero affrontato la cosa?
Soi Fon fu la seconda a svegliarsi e la sua reazione fu molto meno pacata.
«Oh… oh, accidenti. Ma allora non è stato un sogno! Wuaaah!» si mise seduta, senza nemmeno disturbarsi di tirare su la coperta. Yoruichi borbottò.
«Ma che avete?»
Kisuke si massaggiò la testa.
«Oh, ragazze… mi sa che ci siamo andati giù pesante. Ho fatto sesso a tre.»
«Mh, ho fatto sesso a tre» sussurrò Yoruichi.
«Ho fatto sesso a tre!» gridò Soi Fon, rossa in viso, Quella era una situazione davvero imbarazzante, già una volta si era messa in mezzo, non voleva rovinare tutto. «I-Io sono davvero mortificata, n-non so cosa…»
Kisuke le posò una mano sulla testa. Aveva un modo di fare così paterno che la eccitava e se ne vergognò tanto.
«Non siamo certo stati costretti. Solo che è stato improvviso… E adesso?»
Yoruichi si svegliò del tutto, strofinandosi un occhio. Già, e adesso? Soi Fon non era certo un’estranea e tra l’altro adesso vivevano insieme. Fare finta di niente però sarebbe stato difficile.
«Potete scusarmi un attimo? Devo controllare che i ragazzi non facciano tardi» e dicendo ciò si alzò e afferrò la sua vestaglia, davanti gli sguardi intontiti di Soi Fon e Kisuke.
«E io devo… devo andare al lavoro» disse lui, alzandosi. Soi Fon si coprì fino alla testa: quei due erano sexy e non si facevano problemi a mostrarsi ai suoi occhi così, come se nulla fosse.
«Ma io non devo fare niente!» si rese conto. Come avrebbe fatto a distrarsi?
Yoruchi fu sorpresa di trovare i suoi figli già pronti per andare a scuola. Hikaru aveva la sua solita aria timida, Yami era come ogni giorno nervosa.
«Avete preso tutto? Sicuri che non volete un passaggio?»
«No, stai tranquilla» disse Hikaru dondolandosi. Yami sbuffò e poi passò oltre, facendo sospirare sua madre.
«Non capisco cos’abbia contro di me quella ragazzina.»
«Non ha niente, per adesso è un po’ strana. Non capisco, è arrabbiata anche con me» disse Hikaru, affranto. Yoruichi lo abbracciò e gli raccomandò di comportarsi bene. Poi iniziò a prepararsi per il lavoro. Questo però non le avrebbe fatto dimenticare di cosa fosse successo e visto che non era una ragazzina da un po’, sapeva che avrebbero dovuto parlarne, tutti e tre.
 
Ai aspettò nervosa che Yami arrivasse. Malgrado l’amica la stesse trattando male ultimamente, non aveva certo smesso di volerle bene. E quella foto che girava tra gli amici del suo ex ragazzo la metteva in ansia. Ad un tratto eccola lì, in cortile accompagnata da Hikaru. Oh, Hikaru! Era diventato diffidente nei suoi confronti e la colpa era tutta sua, avrebbe dovuto parlare anche con lui. Si avvicinò ai due gemelli, prendendo Yami per un braccio.
«Andiamo in classe insieme» disse, cercando di trascinarla con sé.
«Ai, ma che c’è? Sei troppo agitata per i miei gusti» borbottò. Ai sperò di non incrociare sul suo cammino il gruppetto di ragazzi che aveva preso di mira la sua amica, ma la sua esperienza fu vana. Vide Ren, bello, alto, con l’espressione furba, che si girava verso di loro, puntando Yami.
«Ciao, Yami. Non vuoi mandarmi un’altra foto?» domandò, facendo ridere anche i suoi amici. Ai arrossì come se si fosse rivolta a lei. Cercò di camminare, ma Yami si piantò al suolo.
«Di che foto parla?» domandò Hikaru. Sua sorella però lo ignorò.
«Vuoi lasciarmi in pace o no? Vatti a cercare qualche altra ragazza» disse Yami. Ai pensò che fosse proprio forte, tuttavia non era molto convinta. Poté giurare di aver sentito la sua voce tremare.
«E perché dovrei cercarmi un’altra ragazza quando ci sei tu che sei così facile? Oramai la tua foto l’abbiamo vista tutti e poi lo sappiamo che te la fai con ogni ragazzo di questa scuola. Che c’è, Urahara?» si rivolse a Hikaru. «Non sapevi quello che combina la tua sorellina?»
Hikaru arrossì. Non era uno che cercava il conflitto o che ricorreva alla violenza, ma si stava sentendo in difficoltà.
«Mia… mia sorella non fa queste cose.»
«Oh, sta zitto Hikaru! Non ho bisogno che mi difendi. E tu. Tu sei un vero… coglione!» gli gridò in faccia. Si sentiva umiliata. Non le era mai importato del parere altrui, ma davvero c’era quella idea di lei? Di una ragazza facile?
Si staccò dal braccio di Ai. Voleva rimanere sola. Lei non piangeva mai, piagnucolare serviva a poco.
Hikaru guardò Ai come se fosse alla ricerca di una risposta. Perché lui di quell’argomento non sapeva nulla?
«Ai, cos’ha fatto Yami?»
«Ecco… lei ha… ha mandato delle foto un po’ sconce a quel tipo e… l’ha mostrata anche ai suoi amici» sussurrò, indietreggiando. Non lo aveva mai visto arrabbiato, Hikaru non si arrabbiava mai.
«Che cosa? E tu non me lo hai detto? Avresti dovuto, questa è una cosa terribile.»
«Ma lei è la mia migliore amica!» si giustificò.
«Ed è mia sorella, maledizione! Sei forse stupida, Ai?» domandò, riversandole addosso tutta la frustrazione che aveva accumulato in quelle settimane. Ai sgranò gli occhi e poi corrugò la fronte.
«Hikaru, vai al diavolo!»
Il mondo sembrava star cadendo a pezzi, adesso che anche lei e Hikaru avevano finito con il litigare.
 
Yuichi aveva raccontato a Masato della discussione avuta con suo padre. Era davvero giù di corda, si sentiva anche in colpa, ma non intendeva tornare indietro sui suoi passi. Masato gli aveva circondato le spalle con un braccio e cercava di consolarlo.
«Non ti preoccupare, tuo padre ti vuole bene. Sono sicuro che c’è un motivo dietro a tutto questo.»
«Già, un motivo che però non conosco. Gli adulti sanno essere davvero complicati, l’ho sempre pensato. Tra di noi è tutto così semplice. Vero?»
Yuichi era tenero in quel suo tentativo di cercare rassicurazione. Masato gli aggiustò gli occhiali.
«Ma certo che lo è!»
E dopodiché gli posò un bacio sulle labbra. A lui, a nessuno dei due in realtà, era mai importato molto dei possibili giudizi dei loro compagni. Nessuno in realtà aveva mai provato a dar loro fastidio. Fino a quel giorno.
«Ooh, Kurosaki e Ishida si baciano, che spettacolo pietoso! Nessuno vuole vedervi scambiare effusioni!»
I due ragazzini si staccarono: era il solito gruppo di seconda media che in genere dava fastidio a Kaien e Hayato.
«Allora puoi benissimo non guardare» disse Yuichi, pur sapendo che non era una buona idea metterseli contro in quel modo. A fare a botte non erano bravi.
«Non vi conviene proprio fare i grandiosi. Kurosaki, questa volta non c’è il fratellino a proteggerti.»
Masato indietreggiò. Quando mai Kaien lo aveva protetto da un’aggressione? Che lui sapesse, non ce n’erano mai state, fino a quel momento.
«Non capisco di cosa parli» sussurrò Masato. Strinse la mano di Yuichi. E va bene, si disse, se doveva essere colpito solo perché amava un ragazzo, si sarebbe fatto colpire.
Un lampo arancione per un attimo oscurò il sole: Kaien era arrivato dal nulla e con la stessa facilità aveva colpito in viso il bullo. Masato quasi si spaventò per tanta violenza.
«Kaien!»
Suo fratello sembrava un teppista, come quelli che si vedevano alla televisione. Gli bastò una sola occhiata per farsi valere. E una frase.
«Sparite qui. Posso farvi molto male anche senza Hayato, a voi tutti!»
Era la prima volta che lo vedeva così. Certo, sapeva che suo fratello spesso si cacciava nei guai, ma non immaginava che fosse così temuto. Messi in fuga i bulli, Masato guardò il gemello.
«Kaien, ma cosa…?»
Suo fratello fulminò con lo sguardo sia lui che Yuichi.
«Allora voi proprio non volete ascoltarmi, vero? Perché non capite che mi causate solo un sacco di problemi?»
«Cosa? Che abbiamo fatto?» domandò Yuchi.
«Questo! Voi vi comportate come una coppietta felice, e poi devo essere io zittire le voci! Perché pensate che nessuno vi abbia mai dato fastidio fino ad ora? Perché ogni volta che qualcuno ha provato a farvi del male, io e Hayato li abbiamo messi al loro posto. Ma io non posso stare dietro a tutti, maledizione!»
Il suo sfogo era stato forte. Non gli era mai pesato proteggere Masato e d’altronde nessuno gliel’aveva chiesto. Ma si sentiva in dovere, suo fratello era così sensibile e fragile. Masato scosse la testa.
«Ma… ma cosa dici?»
In realtà gli ci era voluto poco per capire: tutti i guai che Kaien aveva passato con i bulli erano stati causati da lui, dalla voglia del fratello di proteggerlo. Se nessuno gli aveva fatto del male, era stato grazie a Kaien.
 
«Mi spiace che questa situazione abbia portato te e Kiyoko a litigare. Mia sorella non si arrabbia mai, ma quando lo fa, è spaventosa.»
Finalmente Satoshi e Naoko avevano trovato un po’ di tempo per parlare in tranquillità. Non frequentando la stessa classe, spesso era difficile trovare qualche minuto libero, a scuola, ma Naoko aveva sentito proprio il bisogno di parlare con lui.
«Spero che le passi. Non è mica colpa mia se ci piacciamo a vicenda, ecco!» borbottò a braccia conserte. Satoshi si ringalluzziva sempre molto nel sentirsi dire certe cose, anche se rimaneva timido.
«Eheh, vero. È bello avere una fidanzata.»
«Oh, sei così carino.»
Naoko si guardò attorno. Se qualche insegnante li avesse visti, avrebbe fatto loro una lavata di capo. Ma che male poteva fare un bacio rubato? Così afferrò Satoshi per il colletto e lo baciò dritto sulle labbra.
Kohei li aveva adocchiati da lontano e aveva avvertito un modo di rabbia impossibile da trattenere. Avvertiva un nodo allo stomaco. Sua madre gli diceva sempre di respirare quando si sentiva agitato. Alle volte si ripeteva a mente i nomi delle varie specie d’aquila, ma non stava funzionando. Si sentiva così furioso che avrebbe tanto voluto dare un pugno a Satoshi. Lui sapeva quanto gli piacesse, eppure a stava baciando senza problemi. E lui allora? Si avvicinò ai due e con una certa violenza spinse Satoshi. Il quale, molto più piccolo ed esile, cadde.
«Satoshi!» gridò Naoko. «Kohei, ma cosa fai?»
«La colpa è tua, non mia. Tu non sei più amico.»
«Ahi. Ma cosa ti viene in mente?» Satoshi si alzò, lamentandosi.
«Naoko mi piace, perché l’hai baciata?»
Naoko arrossì. Non aveva mai preso troppo sul serio la cotta di Kohei, pensava fosse qualcosa di passeggero. Adesso si rendeva conto di essersi sbagliata e iniziava ad avere paura che l’amico perdesse il controllo. Satoshi fece spallucce.
«Io… noi ci siamo baciati. Perché lei mi piace e a lei piaccio io.»
Kohei iniziò a scuotere la testa.
«No. No. Non è vero. Bugiardo, brutto bugiardo. Non sei più mio amico.»
E dicendo ciò lo spinse di nuovo. E Naoko gridò.
 
«Kaien! Ma ti vuoi fermare?»
Masato si era ritrovato a correre dietro al fratello. C’erano delle cose che dovevano chiarire, ma Kaien non ne voleva sapere nulla.
«Lasciami in pace. Perché non fai mai quello che ti dico? La gente sa essere crudele, e se fin ora hai avuto la vita facile, è stato per me!» gridò, voltandosi all’improvviso. Masato s’indispettì. Non aveva fatto niente di male e non era colpa sua se il mondo era crudele.
«Mi dispiace, d’accordo? Ma io non ti ho chiesto niente. E non dovresti prendertela con me solo perché mi piace un maschio. O forse pensi anche tu che sia una cosa di cui vergognarsi?»
«Che cosa? Ma scherzi?!» Kaien si avvicinò al fratello e fece per dirgliene quattro. Il grido di Naoko però fece sussultare entrambi.
«Kohei, per favore, lascialo!»
Kohei aveva perso il controllo e si era buttato su Satoshi, il quale stava cercando di difendersi al meglio. I gemelli si guardarono, allarmati. Kaien fu il primo a fiondarsi sul cugino per cercare di fermarlo. Una rissa era proprio l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
 
«Cara Neliel, pensavo fossi a lavoro.»
«Non oggi, è il mio giorno libero.»
Neliel aveva accolto sua suocera con gentilezza come faceva sempre. Non aveva nulla contro quella donna, la trovava molto fragile, ma non riusciva a odiarla, anche se aveva contribuito passivamente all’infelicità di suo figlio.
«Non sono qui da sola. Mio marito è andato a cercare Nnoitra. Non è stato facile convincerlo a venire qui, ma ne sono contenta.»
Neliel mise sul fuoco la teiera con un gesto brusco.
«Vorrei che fosse chiara una cosa, Sun Ah. Ovviamente farò di tutto per mettere la pace fra voi a Nnoitra. Ma io sono molto protettiva con mio marito e se dovessi percepire che questa situazione lo fa in qualche modo soffrire, non me ne starò a guardare.»
Lo disse senza scomporsi, guardandola negli occhi. Sun Ah capì perché suo figlio si fosse innamorato di quella donna: Neliel era forte, lei invece non lo era mai stato.
«Non avevo dubbi.»
 
«Aries, stupido cane. Sta un po’ fermo. Ma perché Nel ci mette tanto?!»
Nel gli aveva detto inizia tu a fare il bagno ad Aries, vengo a darti una mano.
Ma ci stava mettendo troppo e intanto Aries scappava impaurito dall’acqua che usciva dal tubo. Nnoitra sospirò, legandosi i capelli. Non si era accorto che suo padre lo guardava, diritto e serio come al solito.
«Nnoitra.»
«Eh? Ah, sei solo tu. Che cosa vuoi?» borbottò. Ci mancava solo quest’altra seccatura.
«Dovresti chiederlo a tua madre, lo sai che la sua speranza sia almeno vederci a parlare. E dovresti ringraziare anche Naoko, a quanto pare lei l’ha convinta a non demordere. Tua figlia è una brava bambina.»
«Certo che lo è» disse stizzito. Lui e Neliel si erano impegnati per crescere Naoko al meglio. Suo padre sospirò.
«Credi che questo atteggiamento risolva qualcosa?»
Adesso ne aveva davvero abbastanza. Loro erano venuti fin lì, loro avrebbero dovuto far qualcosa per farsi perdonare per tutti gli anni di solitudine che gli avevano causato, non lui.
«Sai cosa c’è? Mi hai proprio stancato, con voi o senza di voi è praticamente la stessa cosa, dopotutto sono sempre stato solo.»
«Ora non ricominciare a fare la vittima. Non sei mai stato facile.»
Nnoitra dovette trattenersi. Gli avrebbe tirato un pugno, ma sarebbe stato soddisfacente solo in parte.
«Merda… cazzo! Lo sai, tu non hai mai creduto in me. Da bambino non mi hai mai dimostrato affetto, hai sempre svilito la mia passione e quando sono finito nei guai con la legge, mi avresti quasi diseredato. Sai perché Naoko è una brava bambina? Perché io e Nel facciamo del nostro meglio. Perché quando è nata ho deciso che non sarei mai stato come te. Lei è stata voluta e amata, io invece per quale diavolo di motivo sono nato, eh?»
Nnoitra si avvicinò a suo padre. Pensava di essersene fatto una ragione, di aver superato certi rancori, ma aveva appena scoperto di essere sbagliato.
Suo padre non rispose. Sentì dei passi e vide poi Neliel venirgli incontro con un’espressione preoccupata.
«Nnoitra, ho ricevuto una chiamata dalla scuola di Naoko.»
 
Karin era corso incontro a Chad come una bambina. E in effetti si era sentita un po’ tale, quando quest’ultimo l’aveva presa in braccio con una facilità disarmante, sollevandola. Sua moglie era tornata a casa e lui era andato a prenderla alla stazione. Gli era mancato stringere quel piccolo corpo, la sua voce e gli era mancato il fatto che Karin sapesse sempre cosa fare.
«Oh, ma che accoglienza. Mi sei mancato tanto.»
Per quanto Karin fosse poco propensa alle effusioni in pubblico, decise di infischiarsene e di donare a suo marito un lungo bacio.
«Mi sei mancata anche tu. E sei mancata anche a Kohei, sarà felice di vederti» Chad si prese in spalla il suo borsone e la condusse verso l’auto.
«Cos’ha combinato quel ragazzino mentre non c’ero?»
Chad sbuffò. Badare a Kohei era senza dubbio interessante, ma dubitava di essere ancora pronto ad avere a che fare con gli adolescenti.
«Kohei si sta già approcciando all’amore e…al sesso. Non so se sono la persona adatta però.»
«Ma come? Sei suo padre, chi meglio di te?» domandò Karin inarcando un sopracciglio. Lei avrebbe anche potuto pensarci e parlare a suo figlio, ma dubitava che Kohei sarebbe stato disposto a fargli certe confidenze.
«È che non so se i miei consigli sono adatti…» ammise. Suo figlio lo prendeva alla lettera, prendeva alla lettera la maggior parte delle cose, ecco perché era terrorizzato.
«Sta tranquillo, sei sempre stato bravo a dare consigli.»
Karin si sedette in auto. Nemmeno il tempo di sistemarsi che il suo cellulare squillò. Non riconobbe il numero, ma rispose comunque.
«Sì? Oh, sì. Sono la madre di Kohei Sado. Che cosa? Ma…sì, certo, possiamo venire subito. Arrivederci.»
Chad si irrigidì. Il tono di sua moglie non prometteva bene.
«Umh… cosa succede?»
Karin assottigliò lo sguardo. Cosa diamine era successo mentre non c’era?
«È successo che nostro figlio ha dato inizio ad una rissa. Io… no, anzi, mi spiegherai dopo. Adesso andiamo, piuttosto. Sono davvero preoccupata!»
Entrambi sapevano come Kohei potesse essere ingestibile nei momenti di crisi. Quell’età era terribile. Un momento prima era tutto a posto, quello dopo accadevano cose come quelle.

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto ***


Capitolo diciotto


Orihime era arrivata con il cuore in gola nell’ufficio del preside Genryuusai Yamamoto. Era la prima volta che veniva chiamata dalla scuola, i suoi figli non le avevano mai dato preoccupazioni di quel tipo. Si era preoccupata a morte quando le era stato detto che il suo Satoshi era rimasto coinvolto in una rissa. Ulquiorra le diede una carezza sulla schiena e poi erano entrati. Lì ad attenderli, c’erano Ichigo e Rukia, Chad e Karin e anche Nnoitra e Naoko.
I quattro ragazzini se ne stavano seduti. Naoko avrebbe desiderato sparire, perché si sentiva colpevole. Come aveva potuto essere così superficiale? Satoshi si massaggiava una guancia e Kaien se ne stava a braccia conserte, anche se ad una certa Ichigo lo fulminò con lo sguardo e si rimise dritto. Kohei si dondolava sulla sedia e Karin cercava di tranquillizzarlo.
«Emh, salve» disse Orihime. «Ma che succede?» domandò rivolta più che altro ai suoi amici.
«Bene, signori Schiffer, adesso che siamo tutti qui, posso finalmente parlare» disse il vecchio Yamamoto. «I vostri figli sono stati coinvolti in una rissa.»
Nnoitra guardò sua figlia, sorpreso.
«Ti batti anche con i maschi? Questa è la mia ragazz-AHI!»
Neliel gli aveva dato una gomitata per zittirlo, non era il caso di fare battute di spirito.
«Tecnicamente io mi sono solo messa in mezzo per separarli» sussurrò Naoko, mortificata.
«Già, anche io» borbottò Kaien. «Perché devo finire nei guai anche io? Ho solo cercato di evitare che Kohei ammazzasse Satoshi. Se non ci penso io a certe cose, non ci pensa nessuno.»
«Kaien Kurosaki, farai meglio a stare zitto» disse duramente Ichigo. In realtà si sentiva un po’ colpevole, perché mai suo figlio doveva prendersi tali responsabilità?
«Io pretendo ordine» disse severamente Yamamoto. «Quindi la rissa è avvenuta tra Sado e Schiffer, dico bene?»
«Sì, però ha cominciato lui» disse Satoshi. Era stufo, era anche stato preso inutilmente a pugni.
«Io non sono cattivo, io sono buono. Matu sei cattivo, siete cattivi tutti!» singhiozzò Kohei. C’era voluto tanto per farlo calmare e rischiava di scoppiare di nuovo da un momento all’altro. A Naoko tremò il labbro.
«È colpa mia. Loro hanno litigato per me!»
«… Avete seriamente litigato per questo?» Kaien si sollevò, ma ci pensò Yamamoto a farlo sedere di nuovo.
«SILENZIO. Il motivo non è importante, ma questa è una scuola, non un circo. Solo gli animali non controllano i propri istinti, voi siete forse animali? Non mi pare proprio. Visto e considerato tutto, ve la caverete con una nota di demerito. È la prima volta per voi e mi auguro non ce ne sia una seconda. Ma tu, Kurosaki, mi pare sia stato già fin troppo coinvolto.»
Kaien deglutì a vuoto. Non voleva essere sospeso. Era stanco, lui cercava sempre e solo di proteggere tutti.
«Senta, non sia troppo duro con lui» Ichigo intervenne. «Questa volta ha solo cercato di non peggiorare le cose.»
Non si era accorto di come suo figlio tremasse. Era nervoso e gli veniva anche da piangere, ma lui non avrebbe pianto davanti a nessuno, era la sua filosofia.
«Questo è quello che faccio sempre, a dire il vero» iniziò a dire a bassa voce. «Ho cercato di proteggere Kohei e Satoshi, ma non ci sono riuscito. E ho sempre cercato di proteggere mio fratello e Yuichi. Lo so che è sbagliato ricorrere alla violenza, ma non sopporto quando qualcuno parla male di mio fratello. Dicono delle cose orribili. Se io non li avessi spaventati, quelli avrebbero potuto fargli male. Se non ci penso io a questo, chi lo farà?»
Rukia si portò una mano davanti le labbra. In Kaien in quel momento ci rivedeva Ichigo in tutto e per tutto, perché anche suo marito era così.
«Non è quello che hai detto le ultime volte, Kurosaki. Avresti dovuto dirlo subito, lo sai che la violenza genera solo altra violenza.»
«Lo so, ma a cosa sarebbe servito? Voi adulti non ci ascoltate mai» borbottò strofinandosi una mano sul viso per evitarsi di piangere. Ichigo sentì la rabbia abbandonarlo. Suo figlio aveva usato i modi sbagliati, ma per una giusta causa. Kaien era come lui.
Naoko si mise a singhiozzare.
«Non pianga, signorina Gilga. Non ho intenzione di espellere il signor Kurosaki. Adesso che è finalmente stato chiaro, non avrà più motivo di essere violento, mi auguro.»
Kaien gonfiò le guance.
«Se mi assicura che nessuno farà male a mio fratello, allora va bene» decise.
 
 
Era stato davvero stancante. Nnoitra si massaggiò la testa, esausto.
«Adolescenti… quindi cos’è questa storia? Tu e Satoshi siete tipo fidanzati? Ma non siete troppo giovani?»
Naoko era altrettanto esausta e ancora un po’ piagnucolante.
«Per favore, sono distrutta. Mammina» piagnucolò poi, abbracciando Nel. Quest’ultima ricambiò l’abbraccio.
«Avremmo tempo per parlare di questo, dopo.»
Intanto, Karin si stava inchinando ripetutamente davanti a Orihime e Ulquiorra.
«Sono veramente dispiaciuta. Kohei non è ancora del tutto bravo a gestirsi. Satoshi si è fatto molto male?»
«No, ha solo un graffio» la rassicurò Orihime. In realtà era stato più Satoshi a far male a Kohei, piccolo e agile com’era, lo aveva colpito dritto sullo stomaco.
«Voglio andare a casa» borbottò Kohei. Karin prese la sua mano e poi guardò Chad.
«Sì, andiamo a casa. Anche perché ci sono un po’ di cose che gradirei sapere.»
Chad provò un moto di terrore. Sua moglie era appena tornata e le cose andavano già male.
 
«Non siete arrabbiati con me… giusto?»
Kaien era terrorizzato all’idea che i suoi genitori ce l’avessero con lui. Si sentiva esausto. Essere un protettore era davvero stancante.
«No, Kaien. Però tu sei un bambino e non è responsabilità tua pensare a certe cose» spiegò dolcemente Rukia. «Però non sono sorpresa… somigli a tuo padre.»
Ichigo arrossì. Era strano, era come se lui e sua moglie avessero perso la loro intimità, questo non gli piaceva. Portò una mano tra i capelli di Kaiene e poi gli baciò la testa.
«Adesso però lascia fare a noi adulti. Tu avrai tempo per questo.»
Kaien annuì, le lacrime in bilico tra le ciglia. Iniziava già a sentirsi più leggero.
 
Per Miyo era stato necessario andare a cercare Rin. Di solito non si allontanava mai durante la lezione, ma aveva il terribile presentimento che la sua amica non stesse bene. Rin non stava bene da un po’ in realtà e la cosa stava diventando pericolosa, a suo dire. Andò nel bagno delle ragazze e lo trovò vuoto, almeno ad una prima occhiata.
«Rin, per caso sei qui dentro?» domandò, facendosi avanti. Udì dei sospiri. Rin aprì la porta, se ne stava vicina al WC, il viso sudato e i capelli in disordine.
«Non ti si può nascondere proprio nulla, eh?»
A Miyo parve fragile come mai prima di allora e si avvicinò per sostenerla.
«Rin. Rin, accidenti. Perché fai questo? Mi stai spaventando, giuro» singhiozzò senza riuscire a impedirselo.
Cara, dolce Miyo. Le stava causando un sacco di preoccupazioni.
«Mi dispiace, è che non mi piace il mio corpo…» ammise sottovoce, aggrappata a lei.
«Ma questo non è il modo giusto, così ti fai del mal» la strinse più forte e decise dentro di sé, senza dirlo ad alta voce, che avrebbe parlato con i suoi genitori. Forse Rin se la sarebbe presa con lei, ma temeva che le accadesse qualcosa di ben peggiore.
 
 
Ichigo si era beccato una strigliata da Kurostuchi (il quale non era stato troppo severo. Anche se la mia Ai non mi ha mai causato questi problemi, ci aveva tenuto a precisare). Quando era arrivato, aveva salutato distrattamente Ishida, a sua volta silenzioso e poco reattivo. Chissà se con Ichigo avrebbe potuto parlare? Dopotutto era il suo migliore amico e aveva bisogno di liberarsi del casino che aveva in testa. Hanataro invece era in parte di buon umore (lui e Natsumi si messaggiavano un sacco e avevano deciso di uscire insieme). In parte era nervoso perché il perfetto nuovo arrivato Akon Higarashi lo innervosiva con quel suo essere così efficiente. E quindi aveva preso a essere scorbutico. Lui.
«Se non ti servo alloro puoi benissimo cavartela da sola, Higarashi» gli aveva detto.
«Ma cosa… ma che ho fatto?» aveva domandato lui. «Ehi, guarda che sto chiedendo a te.»
Kurotsuchi però li aveva fulminati con lo sguardo.
«Siete forse bambini? No, quindi non litigate e preparate la sala operatoria, piuttosto.»
Come se non bastasse, Urahara gli girava attorno da una buona mezz’ora. Aveva la brutta sensazione che dovesse confidargli qualcosa.
«Urahara, mi stai innervosendo? Che cosa vuoi?» domandò. Dopo anni si era oramai rassegnato ad ascoltare i suoi problemi. Kisuke, dal canto suo, non sapeva come raccontargli ciò che era accaduto senza risultare un pervertito. Meglio non essere troppo diretti.
«Senti, Kurotsuchi. Cosa ne pensi del sesso a tre?»
Mayuri si bloccò, guardandosi attorno. Ma come osava fare certe proposte indecenti? A lui poi, sul posto di lavoro?
«Sono favorevole, ma mi sembra un po’ troppo chiedermi di unirmi a te a Yoruichi.»
«E-eh? No, veramente parlavo di me, Yoruichi e Soi Fon.»
I due si guardarono per qualche silenzioso attimo.
«Ovviamente» disse Mayuri. «Aspetta, tu e l’ex quasi amante di tua moglie? Ti piace complicarti la vita, ma avevo intuito che sarebbe finita così.»
Kisuke rise, in imbarazzo.
«Sei bravo con i sentimenti.»
«No, è che eravate così arrapati che non ho potuto fare a meno di notarlo. Un po’ di contegno, suvvia. Cosa ti tormenta?» domandò e intanto sperò di non pentirsene.
«Ecco… non so, è successo tutto così in fretta. Insomma, che piega prenderà la cosa? Capiterà ancora? Soi Fon potrebbe essere mia figlia. Ah, non posso credere che sia successo.»
«E io non posso credere che tu faccia la bella vita, mentre io qui devo sopportare anche quell’arpia della mia ex. Mi sta facendo diventare pazzo, ma non cederò ai suoi trucchi psicologi, non sono così stupido» Mayuri spostò senza accorgersene l’argomento su di sé. Ma non poteva farci nulla, era più forte di lui.
«Davvero? E che cosa può mai farti? Avanti, dimmi perché non la tolleri. Di me puoi fidarti, io…»
L’unico modo per zittire Kisuke Urahara era accontentarlo, purtroppo.
«Mi ha tradito, d’accordo? E prima che tu me lo chieda, non ho alcun trauma da superare. Semplicemente mi è sgradita, non capisco cosa le passi per la testa e io odio non sapere.»
Kisuke fece per dire qualcosa, ma capì presto che non era il luogo adatto per parlarne. Questo però non se lo aspettava. Ma dopotutto, quante cose ancora non conosceva di quello che definiva il suo amico più importante?
 
«Ah-ah! Non ci posso credere. Stupido Shinji, sei geloso!»
Hiyori era come al solito una persona estremamente pacata e comprensiva. E che soprattutto non inferiva.
«Ma che geloso, che geloso! Io e Sosuke siamo sposati, non sono geloso. Ma mi sento inutile» Shinji abbassò la voce. Non aveva intenzione di farsi sentire dagli altri membri della band. Non era mai stato un tipo che si definiva inutile, ma ultimamente un po’ ci si sentiva.
«Oh, non farmi essere sdolcinata adesso. Non sei inutile, fai un sacco di cose. Per la questione di Miyo, penso non sarei stata preparata nemmeno io. Anche se comunque c’è da dire che non sarei andata in panico» ammise Hiyori. Shinji alzò gli occhi al cielo.
«Il fatto è che Momo Hinamori sembra sempre circondata da quell’aura di perfezione intoccabilità. Alle volte ho paura che Sosuke si accorga di aver fatto un err-AHI!»
Hiyori lo aveva calciato sotto il tavolo. Sempre a lamentarsi quell’idiota del suo ex.
«E dacci un taglio, quello non guarda nessuno se non te, non è ora di farsi venire i complessi, da quando sei così?»
«… Da quando un tredicenne ha ferito la mia autostima» ammise, annoiato. E già, ancora non riusciva a farsi amico il suo figliastro. Ci aveva impiegato una vita per diventare il marito di Sosuske, sperava che con Hayato il processo fosse accelerato.
Miyo entrò nella sala prove, gettando lo zaino da una parte.
«Mamma, papà, dobbiamo parlare» disse seria.
E Shinji pensò questa è la parte in cui non devo farmi prendere dal panico. Perché l’adulto sono io.
 
 
Momo era tesissima all’idea di rivelare a Toshiro (e ad Hayato soprattutto) della sua gravidanza. Anche se non era stato programmato, si sentiva molto felice, anche un po’ spaventata all’idea di ricominciare dopo tredici anni. La situazione era molto tranquilla, Hayato mangiava in silenzio, Toshiro invece parlava con lei, ma Momo era molto distratta.
Va bene, si era detta, o ora o mai più, devo dirglielo adesso.
Drizzò la schiena, bevendo un sorso d’acqua.
«Ecco… scusate. Dovrei dirvi una cosa.»
Hayato sollevò lo sguardo su sua madre, Toshiro si fece serio.
«Che è successo?» domandò facendo una smorfia.
«Non è niente di male, state tranquilli. Ecco…» le sue guance si colorarono di un delicato rosso. «Dovevate essere voi i primi a sapere che io…»
Si sfiorò il ventre con una mano. Hayato la osservò con attenzione. Aveva già capito ancora prima di Toshiro.
«Che sono incinta» disse sottovoce. Seguì un silenzio profondo, nessuno dei due reagì. Toshiro ad un certo punto tornò in sé.
«Tu… eh? Davvero? D-da quanto? Non mi sono accorto di niente. Tu stai bene?»
C’era preoccupazione nella sua voce. Tenerezza e anche un tremolio. Forse emozione… felicità?
«Dovrei essere di cinque settimane, ma devo ancora fare un controllo. Piuttosto, tu sei sicuro di stare bene?»
Toshiro annuì e prese le sue mani. Avrebbe avuto un figlio, lui! A dire il vero era una cosa su cui aveva fantasticato spesso in passato. Ma negli ultimi tre anni si erano dedicati ad altri aspetti delle rispettive vite.
«Sto bene. Sono solo molto sorpreso e felice. Oh, Momo…»
Abbracciò la sua compagna e le baciò la fronte. Hayato invece era rimasto lì, senza dire una parola. Ci mancava anche questa. Non era pronto a quel cambiamento, poco importava che avesse molti mesi davanti.
«Hayato, tesoro. Tu non dici niente?» domandò timorosa. Hayato avrebbe voluto dire che l’idea non lo entusiasmava granché. Non perché fosse geloso, assolutamente no! Però gli faceva comunque strano l’idea.
«Penso che sia fantastico, davvero. Congratulazioni ad entrambi» disse, educato ma fin troppo distaccato.
Momo si alzò e andò ad abbracciare anche lui.
«Sono sicuro che sarai un bravo fratello maggiore» le disse.
Hayato ebbe fin da subito dei dubbi, ma preferì non dirlo. Dava già abbastanza dispiaceri a sua madre con il suo atteggiamento scorbutico. Ma intanto si chiedeva e che bisogno c’è di me adesso?
Poi guardò Toshiro.
Proprio adesso che stavamo iniziando a costruire un rapporto più stretto, non avrà più motivo di voler continuare.
Hayato dopo cena disse di dover tornare a casa di suo padre. Aveva accampato la scusa di avere dimenticato i libri e gli appunti dei compiti da fare per l’indomani lì e che quindi sarebbe dovuto tornare. Non aveva nemmeno accettato un passaggio, sarebbe andato a piedi. Si sentiva arrabbiato, malgrado non volesse affatto sentirsi così.
Tornò nell’altra casa ed entrò di scatto, entrando a passi pesanti.
Shinji era lì che si agitava e pensava. Miyo gli aveva confessato quello che stava accadendo a Rin e la cosa lo aveva un po’ turbato. Un po’ tanto. Fosse successo a sua figlia, avrebbe voluto saperlo. Ora gli toccava parlare con Gin. Doveva dirlo a Sosuke? No, si disse. Poteva anche cavarsela da solo, poteva anche dirglielo in un secondo momento. Non poté non udire i passi pesanti di Hayato, il quale era entrato buttando in un angolo il suo zaino.
«Ehi!» sbottò Shinji, che poco gradiva quelle brutte maniere. Gli bastò guardarlo qualche istante per capire che Hayato stava trattenendo a stento le lacrime.
«Emh… che succede?» domandò, preoccupato. Hayato scosse la testa.
«Non succede niente.»
«Oh, ti prego! E me lo dici con quella faccia?»
Hayato si asciugò le lacrime. Gli veniva da vomitare o forse erano solo le parole che bramavano di venire fuori.
«Mia madre è incinta» sussurrò, asciugandosi veloce una lacrima che gli solcava una guancia. Shinji spalancò gli occhi, sorpreso ma non troppo. In effetti aveva visto Momo strana di recente.
«Non mi sembri contento» disse, attento a non ferirlo in nessun modo. Non lo avrebbe giudicato per la sua evidente gelosia, Hayato si atteggiava a grande, ma non lo era.
«Non sento niente, infatti» mentì. Poi drizzò le spalle, tutto fiero, e gli passò accanto. Per quella sera non voleva parlare con nessun altro. Shinji sospirò e si poggiò al muro: adesso ad avere bisogno di aiuto erano in due. Sosuke uscì dal suo studio, aveva sentito le loro voci senza però capire il discorso.
«Ma che è successo?» domandò a Shinji.
«Beh» rispose lui stancamente. «A quanto pare Momo è incinta e tuo figlio non l’ha presa bene.»
Sosuke sospirò, massaggiandosi stancamente una tempia. Non sembrava sorpreso.
«Gli parlerò.»
Shinji allora si mise a pensare. Non c’era bisogno che ci parlasse Sosuke, poteva risolvere lui quel problema. Avrebbe aiutato sia Miyo che Hayato, avrebbe dimostrato che lui era capace di aiutare i suoi figli, che poteva riuscirci. Sosuke lo avrebbe ammirato, Hayato si sarebbe fidato e Miyo sarebbe tornata ad essere tranquilla. Sì, era una cosa in cui doveva riuscire a tutti i costi.
 
Quella sera era tutto molto silenzioso, forse anche troppo per Kiyoko. Satoshi si era procurato un brutto graffio a causa della rissa e se ne stava lì a cercare di fare i compiti. Anche Ulquiorra era silenzioso e se ne stava lì che cercava di dipingere. Kiyoko guardò sua madre come per dire come si rompe questo silenzio?
Orihime ricambiò lo sguardo e decise di fare qualcosa. Era stata una giornata piena di tensioni, meglio non peggiorare le cose.
«Emmh, volete vedere un film?» suggerì, allegra. Satoshi la guardò e poi sospirò.
«Scusa, non mi va tanto.»
Allora Kiyoko si alzò. Non si sentiva più tanto arrabbiata con Satoshi (in realtà nemmeno con Naoko, ma non aveva avuto tempo di chiarire con lei.)
«Satoshi, dai. Vieni, ti faccio vedere le foto che ho scattato oggi.»
Suo fratello sospirò. Sembrava infastidito.
«Non mi va.»
Kiyoko si impuntò. E va bene, lei era stata la prima a maltrattarlo, ma adesso stava cercando di rimediare, voleva tirarlo su.
«Avanti, per favore! Non sono più arrabbiata con te.»
«Però io non voglio parlare con nessuno.»
«Ma perché no?»
«Ma si può sapere che cavolo vuoi?! Lasciami in pace!»
Era la prima volta che Satoshi aveva uno scatto di rabbia tanto potente. Era sempre stato tranquillo e mite. Ma anche i più tranquilli a volte si arrabbiavano. Proprio non capivano l’umiliazione che sentiva addosso per colpa di quella rissa? A lui la violenza non piaceva, aveva caratterizzato i primi anni della sua infanzia, eppure si era ritrovato sia a riceverla che a darla. Ulquiorra posò il pennello, assumendo ad un tratto un’aria severa.
«Satoshi, questo non è il modo di parlare a tua sorella.»
«… Non è mia sorella» sussurrò con un filo di voce, ma si pentì subito di averlo detto. Orihime si portò una mano davanti la bocca, affranta e sconvolta. Ma mai quanto Kiyoko.
«Che cosa hai detto?» domandò Ulquiorra, avvicinandosi a lui. «Prova a ripeterlo. Le parole hanno delle conseguenze. Tu non puoi pensare di dire qualcosa e credere che la gente non rimanga ferita.»
Orihime si avvicinò a suo marito, stringendogli un braccio.
«Non essere troppo duro» sussurrò.
«Non sono duro, io gli sto dando un insegnamento» anche se si rendeva conto di essere più nervoso del solito. Stava facendo il possibile per Satoshi. Ma forse lui non si sentiva parte di quella famiglia. Nulla di più sbagliato in realtà, ma nemmeno Satoshi avrebbe saputo spiegare il suo caos emotivo. Il ragazzino, nel momento in cui lo aveva visto nervoso venirgli incontro, si era avvicinato a Kiyoko, stringendole il braccio. Per lui aveva sempre funzionato così: se qualcuno è arrabbiato, se fai un errore, allora vieni picchiato. Poi si portò una mano davanti al viso, tremando appena.
«Satoshi?» domandò Kiyoko, che aveva già intuito. Orihime si mise in mezzo, chinandosi su di lui.
«Ehi, è tutto a posto. Nessuno ti farà del male» sussurrò abbracciandolo. Ulquiorra tornò a respirare, cosa che aveva smesso di fare senza nemmeno rendersene conto. Satoshi aveva pensato che volesse picchiarlo? Non lo avrebbe mai fatto. Ma solo per quel momento, aveva dimenticato del suo passato fatto di violenza. Ma era stato comunque un grande errore da parte sua. Provò a dire qualcosa, ma alla fine decise di non dire niente. Era meglio che ci pensasse Orihime, lei era sempre stata più brava. Li lasciò da soli, ma Kiyoko gli corse subito dietro e lo afferrò per mano. Lui la guardò.
«Tu non hai paura di me?» le domandò. Kiyoko scosse la testa.
«Non potrei mai. Ma Satoshi non ha avuto un papà come l’ho io. Per lui certe cose devono essere difficili da dimenticare. Anzi, forse non li dimenticherà mai. Io almeno non ci riuscirei.»
Kiyoko come al solito parlava come una ragazzina molto più grande e matura della sua età. Come al solito, da lei avrebbe avuto da imparare. Le accarezzò la testa.
 
 
Masato non aveva il coraggio di parlare con Kaien e Kaien non aveva il coraggio di parlare col gemello. Così tra loro regnava il silenzio più totale. Masato giocava con Kon, Kaien giocava ai suoi videogiochi, ma nessuno dei due riusciva ad essere davvero coinvolto da quello stavano facendo. Dalla loro cameretta non si udiva il solito chiacchiericcio, se n’erano accorti anche Rukia e Ichigo.
«Che giornata» sospirò Ichigo massaggiandosi la testa. «Ero così arrabbiato con Kaien. E sono stato così duro, quando lui alla fine è tale e quale a me.»
Rukia, seduta di fronte a lui, si sentì piccola.
«Kaien è un bravo bambino, cerca solo di proteggere chi gli sta intorno. Dovremo parlare con entrambi.»
«Sì, dovremo.»
Poi calò il silenzio. Era strano non avere nulla da dire. In realtà di cose da dire ce n’erano anche troppe, ma nessuno dei due aveva voglia di discutere.
«Tu sei proprio sicuro di non volermi lasciare?» domandò Rukia. Si sentiva una bambina a porre quelle domande, ma aveva così bisogno di certezze. E Ichigo avrebbe tanto voluto non essere arrabbiato, passarci su. Ma era difficile, faceva male. Si sentiva deluso.
«No, te l’ho detto. Ma ti sarei grato se non mi nascondessi più nulla.»
«Non c’è altro. Sono davvero… dispiaciuta per quello che ho fatto. Ma tu non sei mai stato un sostituto.»
Ichigo si fece rigido, senza però rispondere. Non faceva altro che ossessionarsi con quel pensiero, con l’essere solo un sostituto di Kaien, quello che gli somigliava come una goccia d’acqua ma che era arrivato dopo.
«Quanto siete stati insieme?» domandò invece. Non aveva idea di cosa servisse saperlo, però voleva saperlo.
«Sei mesi» sussurrò Rukia, torturandosi le dita.
«E perché quando ci siamo conosciuti, mi hai detto che eravate soltanto amici?»
Proprio non riusciva a sopportare l’idea che gli avesse mentito sin dall’inizio.
«Perché… della nostra storia non sapeva niente nessuno. Dovevo proteggere la sua memoria e anche il nostro segreto.»
Ichigo rise, ma d’amarezza. Si sentiva tagliato fuori, poco importava che fosse successo più di vent’anni prima. Per anni aveva vissuto nella convinzione di essere stato il suo primo amore, adesso si ritrovava ad apprendere una verità diversa.
«Lui ti ha toccata? Ci facevi sesso, con lui?»
«Ichigo, ti prego…» sussurrò.
«È una domanda lecita, mi pare» disse, duramente. Rukia sospirò, affranta.
«Sì…»
Ichigo strinse i pugni sotto il tavolo.
«Capisco. E immagino che tu gli abbia detto che lo amavi, che volevi sposarlo e farci una famiglia.»
«Ero innamorata e avevo solo quindici anni, certo che gliel’ho detto!» tentò di giustificarsi.
«Ma quelle cose le hai dette anche a me! Quanto vere erano? Come faccio a sapere che amassi me e non il fatto che ti ricordavo lui?»
Rukia poté giurare di aver visto i suoi occhi diventare lucidi. Era stata una sciocca. Se avesse condiviso il suo dolore con Ichigo, ai tempi, lui non l’avrebbe giudicata. E invece aveva nascosto tutto, soffrendo da sola. E adesso stava causando dolore anche all’uomo che amava.
«Io ho amato Kaien, ma ho amato anche te e ti amo tutt’ora» sussurrò. Ichigo credeva al suo amore presente. Era del prima che dubitava. Allora su cosa si basava la loro relazione? Sui non detti e le bugie?
«Devi darmi tempo, Rukia» disse Ichigo solamente. Rukia annuì e trattenne le lacrime perché non voleva piangere davanti a lui. Con la scusa di andare al kombini per prendere del latte, si infilò invece nella sua auto. Voleva parlare con qualcuno, ma Kukaku doveva essere a lavoro, ed era tardi per far visite ad una delle sue amiche. Ma con suo fratello forse poteva permettersi un’improvvisata.
 
Renji e Byakuya stavano, senza saperlo, preparando entrambi una perfetta proposta di matrimonio. Byakuya era uno più discreto ed elegante, non gli piacevano i fronzoli. Ma sapeva che Renji era un tipo un po’ più stravagante, quindi voleva fare qualcosa che gli piacesse. Idem Renji, non voleva fare nulla di troppo strano, doveva ricordarsi della modestia e della sobrietà.
«Io non ne capisco niente di proposte di matrimonio» sussurrò, parlando a Zabimaru. «Non posso certo chiederglielo qui e ora. Vediamo… in riva al mare? Però fa troppo freddo. Un pic nic? Ah, soffrirei troppo d’allergia. Forse dovrei optare per una classica cena a lume di candela? Non so che fare» borbottò. Yumichika gli aveva dato un sacco di consigli, ma il suo amico era sempre troppo esagerato. Byakuya uscì in quel momento dal bagno, indossava i pantaloni della tuta e aveva i capelli umidi.
«Perché ti sento borbottare da mezz’ora?»
«Eh? No, niente…»
Byakuya si sedette accanto a lui.
«Ascolta, pensavo… perché non facciamo una vacanza?» domandò, sperando di non risultare troppo strano, non era da lui proporre vacanze. Renji in effetti fu stupito.
«In vacanza, davvero? Ma non devi lavorare?»
«Sì, ma posso prendere delle ferie. Pensavo alla Thailandia»
Sarebbe stato perfetto, un posto esotico in cui fare una dichiarazione.
«Thailandia? Mi piace, non ci sono mai stato. A volte hai delle idee interessanti, amore mio.»
Byakuya assottigliò lo sguardo.
«Ho sempre delle idee interessanti.»
Dopodiché afferrò Renji per la nuca e lo baciò, insinuando la lingua tra le sue labbra. Renji lo strinse a sé e sarebbero stati entrambi ben felici di fare l’amore, peccato che i piani saltarono ben presto.
«Mmh, ma… ma a chi è a quest’ora?» domandò.
«Non lo so, vado a vedere» Byakuya si alzò, scocciato, indossando una maglietta.
Tra tutti non si aspettava di vedere sua sorella, gli occhi arrossati dal pianto e che sembrava così piccola.
«Rukia?» domandò. Lei non disse niente. Si fece avanti e lo abbracciò, malgrado suo fratello non fosse mai stato amante di certe effusioni. Ma a lei non avrebbe mai detto no, così la strinse a sé.
 
 
 

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove ***


Byakuya era sempre stato bravo ad ascoltare, ecco perché aveva lasciato Rukia parlare senza mai interromperla. Molte delle cose che gli confidò quella sera, in realtà le conosceva già. Ma non Renji, lui era piuttosto stupito.
«Accidenti» commentò alla fine. «È un bel po’ di roba da digerire.»
Rukia tirò su col naso. Adesso il suo pianto si era calmato, faceva sempre bene sfogarsi con qualcuno. Poi si strofinò gli occhi. Byakuya non si era mai sentito così vicino a sua sorella come in quel momento. Sapeva bene cosa volesse dire perdere la persona che si amava. Con la differenza che la sua non era stata una relazione nascosta e Rukia si era portata addosso quel peso da sola. Se gliene avesse parlato, lui le sarebbe stato accanto senza giudicarla. Ma non era il momento di parlare di questo.
«Sì, io capisco. Se Ichigo ha detto di non volerti lasciare, sono certo che non lo farà. Avrà bisogno di tempo.»
«Non si fiderà mai più di me» sussurrò Rukia.
«La fiducia è una cosa preziosa, ma fragile. Così facile da perdere e così difficile da riconquistare. Ma tu puoi riuscirci. Dovete parlarvi, tutti e due. Passata la rabbia, lui capirà» disse Byakuya, pratico come sempre. Renji invece era la parte emotiva.
«Non immaginavo avessi vissuto una cosa del genere. Pesante per entrambi, io sarei impazzito a mantenere un segreto del genere per oltre vent’anni.»
Rukia abbassò lo sguardo e compì un profondo respiro. Adesso stava un po’ meglio, anche se sapeva che ora sarebbe stato tutto in salita.
«Ho fatto finta che non fosse mai successo. Ma questo non basta a evitare il dolore, adesso sto male il doppio. E, Byakuya, pensavo ti saresti arrabbiato.»
«Io?» domandò suo fratello. Ma non era sorpreso, in effetti. Lui era sempre stato uno molto ligio, uno che rispettava le regole e il buon senso. Forse, vent’anni prima avrebbe trovato fuori luogo la relazione di Rukia con un uomo più grande. Ma adesso vedeva le cose sotto un’altra prospettiva.
«Non sono arrabbiato» la tranquillizzò. «Posso solo consigliarti, sei una donna adulta.»
Anche se per lui sarebbe rimasta sempre la sua sorellina. Rukia sorrise, sollevata. E Renji si gongolò.
«Però, saremmo due bravi genitori, vero? Io quello simpatico ed emotivo e tu quello bravo a parlare e noioso.»
«Noioso?» domandò Byakuya, già offeso. Rukia rise di nuovo, ma questa volta un po’ più forte.
 
 
Quella mattina Kohei stava facendo colazione, ma non era affatto facile. Amava far colazione con zuppa di miso e pesce, ma odiava togliere le spine. Ed era un’operazione meticolosa, che andava fatta con la massima cautela e attenzione, perché già una volta gli era capitato di ingoiarne una. Mentre lui mangiava, Karin e Chad discutevano. In realtà parlavano a bassa voce nell’altra stanza, non volevano che loro figlio sentisse.
«Mi dispiace, io ho soltanto detto a Kohei che deve lottare per quello che vuole. Con lottare non intendevo dire che doveva picchiare Satoshi.»
Chad era affranto. Lui detestava la violenza, per lui si doveva arrivare alle mani solo nel caso in cui fosse necessario proteggere qualcuno in caso di pericolo. Era ciò che stava cercando di insegnare a suo figlio, ma non ci stava riuscendo. In realtà dubitava di star riuscendo in qualcosa.
«Nostro figlio prende tutto molto alla lettera. Ah, e quella brutta crisi… non capitava da tanto» Karin si portò una mano sul viso. L’adolescenza era difficile per tutti, per Kohei un po’ di più.
«Gli sei mancata» disse ad un tratto Chad. «Tu sei molto più brava di me a dare consigli. La verità è che sono terrorizzato dagli adolescenti. Io ero mite e tranquillo alla sua età. Kohei ha una personalità che non so come prendere.»
Alle volte non sapeva come rapportarsi con quel figlio che gli somigliava nel fisico, ma non nel carattere. Questo secondo lui, perché Karin invece le somiglianze le vedeva eccome.
Si avvicinò. Per carattere e per deformazione professionale, alle volte tendeva a essere un po’ severa. Ma non a casa sua, a casa sua voleva essere Karin e basta.
«Io invece dico che vi somigliate molto, siete entrambi sensibili, taciturni, grandi e grossi ma dal cuore tenero. E vi piacciono gli animali. Lo sai, tutti i genitori arrivati a questo punto non sanno mai bene cosa fare. Anzi, penso che non lo sappiamo mai. Non lo sapevamo quando è nato, né quando è arrivata la diagnosi dell’Asperger. In questo siamo tutti uguali.»
Karin gli si era seduta in braccio e Chad l’aveva stretta a sé. A volte si sentiva come se fosse più lui bisognoso di lei, rispetto a Kohei.
«L’uomo che Kohei diventerà un giorno dipenderà anche da come lo stiamo crescendo. È una responsabilità grossa.»
«Se sarà un uomo come te, allora, avremo fatto un ottimo lavoro.»
E poi lo baciò. Non si erano ancora dedicati a quello.
Kohei aveva appena finito di mangiare. Fece per andare da loro, ma quando li vide così vicini si voltò dall’altro lato. Le persone che si volevano bene si baciavano. Era una cosa che a lui disgustava un po’, Naoko era la sua eccezione. Ma Naoko non l’avrebbe baciato mai. E forse nessuno.
 
Gin Ichimaru era generalmente la persona meno tesa che potesse esistere. Non quella mattina. Era arrivato in studio prima di Aizen e quest’ultimo, lavorandoci insieme da anni, aveva notato subito il suo nervosismo: non riusciva a star fermo, gli cadeva tutto di mano.
«Abbiamo preso troppo tè stamattina? Sembri con la testa tra le nuvole, Gin» gli disse.
«Te e sei accorto, eh? E io che pensavo di poterlo nascondere» gli sorrise in modo ironico, ma poi divenne serio. «No, è che… sono preoccupato. Sono preoccupato perché Rin è strana, temo le stia succedendo qualcosa. E sono preoccupato perché la mia domestica ha provato a baciarmi e io l’ho rifiutata, quindi adesso temo che voglia vendicarsi.»
Aizen lo guardò con un’espressione leggermente sorpresa. Non immaginava che avesse tanto da dire.
«D’accordo, con calma. Per quanto riguarda tua figlia, posso capirti benissimo, età infernale questa. Per il secondo punto… questa non me l’aspettavo di certo.
Gin sospirò. Non era da lui preoccuparsi in questo modo.
«Non so se sto diventando paranoico, però…queste cose possono succedere, e per la gente di un certo calibro come noi è ancora peggio. Non voglio finire sulla bocca di tutti, ricordi quando è successo anche a te?»
«Parli del mio tradimento? Grazie per avermelo ricordato» disse Aizen. «Comunque direi di non pensarci troppo, è solo una ragazzina, le passerà.»
Di sicuro Aizen aveva ragione, niente di male poteva accadere, lui aveva la coscienza pulita. Quasi sussultò quando gli squillò il cellulare: era Rangiku e ciò bastò ad aumentare la sua preoccupazione, visto che in genere sua moglie non lo chiamava mai a lavoro.
«Sì, mia cara?» rispose, cercando di apparire tranquillo.
«Gin! Oh, Gin! Io giuro che l’ammazzo quella poco di buono!»
«… Eh? Ma che è successo?» domandò Gin, temendo già la risposta.
Rangiku, nell’enorme soggiorno di casa sua, camminava nervosa bevendo champagne. Ma nemmeno un po’ d’alcol l’avrebbe aiutata!
«È successo che quella stronza scrive sui suoi social delle cose terribili sul tuo conto! Questa è diffamazione, qui se c’è qualcuno che denuncia, quelli siamo noi! Gin, voi siete avvocati, parla con Aizen, parla con chi vuoi, MA FA QUALCOSA!»
Gin dovette allontanare il cellulare dall’orecchio.
«Rangiku, calmati, ti prego.»
«Io non mi calmo. Non permetterò a quella di rovinarti la vita. Sei tu quello che è stato molestato. E anche diffamato. Dobbiamo fare qualcosa!»
Bevve un altro sorso di champagne. Quello non ci voleva, lo pensarono entrambi. Gin non si faceva mai prendere dal panico, anche quando di panico ne provava eccome.
«Va bene, stai… cerca di calmarti, d’accordo? Risolveremo questa cosa prima che diventi un fuoco impossibile da gestire e…»
«Puoi scommetterci che sarà così. Anzi, adesso vengo subito da te!»
Chiuse la chiamata. Aizen era rimasto immobile.
«Ebbene?»
«Ebbene, mi sa che avevo già sottovalutato senza rendermene conto.»
 
Rangiku posò la flûte e afferrò la borsa. Nessuno avrebbe rovinato la sua famiglia, suo marito. Era davvero furiosa e si sentiva anche in colpa, dopotutto era stata lei ad assumere Loly. Afferrò la borsa e aprì la porta. Quasi non si scontrò con Shinji.
«Oh! Shinji!»
«Rangiku. Per caso stavi uscendo?»
«Sì, è un’emergenza. Devi dirmi qualcosa? Ci impiegherai molto?» domandò impaziente. Shinji si irrigidì, fiero.
«Sì, perché riguarda tua figlia. Se vuoi ti do un passaggio, ma devi ascoltarmi attentamente.»
Rangiku all’improvviso si dimenticò di quel problema. Anzi, è più corretto dire che lo mise da parte. Mentre Shinji l’accompagnava da Gin, rimase rigida al suo posto ad ascoltare.
«È successo qualcosa?» domandò. Il solo pensiero lo era insopportabile.
«Miyo mi ha detto che è preoccupata perché Rin ultimamente digiuna e… mi ha anche detto che l’ha vista provocarsi il vomito» le disse senza girarsi attorno, sarebbe stato inutile.
«Ma cosa… ma cosa stai dicendo?» domandò. In realtà, non appena le fu detta quella cosa, ricollegò tutto: l’inappetenza di Rin, il suo essere strana e sfuggente, la sua insicurezza che era venuta fuori pian piano. «Vuoi dire che mia figlia forse è bulimica? O anoressica?»
«Io questo non lo so, so quello che mi ha detto Miyo. E visto che oramai sono un adulto responsabile, dovevo parlare con te. Se fosse successo a mia figlia, avrei voluto saperlo.»
Rangiku congiunse le mani, le strinse forte l’una sull’altra. Ecco cos’era che faceva star male la sua Rin. E adesso? Perché i problemi arrivavano sempre insieme?
«Io… ecco… grazie per avermelo detto.»
«Non mi ringraziare, ringrazia Miyo, altrimenti non ne avrei saputo niente. Vuoi che ci fermiamo a prendere dell’acqua?» poteva solo immaginare il suo shock. Rangiku scosse la testa. Niente panico, si disse. Avrebbe trovato un modo per aiutare sia Gin che Rin. Prima doveva parlarne con suo marito, però.
«Sto bene, io… siamo arrivati. Tu non scendi?»
«Saluta tuo marito e il mio per me. E… Rangiku. Tua figlia è sicuramente molto sensibile e questo mondo fa davvero schifo alle volte. Non che io voglia dare consigli, sto ancora imparando, però… mi incazzo parecchio quando prendono di mira le anime più sensibili.»
Rangiku gli sorrise. Anche Shinji gli parve un’anima sensibile in quel momento, ma non disse nulla. Condividevano la stessa determinazione, malgrado la paura.
 
Tutti al St. Luke non facevano altro che parlare di Senjumaru Shutara. Nemu se n’era fatta una ragione, ma la cosa era piuttosto deprimente. Non che la invidiasse (anche se si sentiva parecchio brutta e anonima da quando era arrivata), ma tutti i suoi complessi da ragazzina insicura erano tornati. Perché Mayuri era passato da una come Senjumaru ad una come lei? Forse solo perché fisicamente le somigliava un pochino? Era terribile. E quella donna infernale la salutava sorridendo compiaciuta, fermandosi a parlare con lei. Sapere che poi lavorassero insieme stava mettendo a dura prova i suoi nervi. Sì, sarebbe scoppiata di lì a breve. Mayuri non l’avrebbe tradita, il problema non era lui, erano le sue insicurezze. Della loro storia poi non sapeva niente: come si erano conosciuti? Si erano amati? E perché si erano lasciati? Mayuri sembrava avere molto rancore nei suoi confronti. Eppure, nel vederli parlare, non poteva fare a meno di provare una sensazione spiacevole, di nausea.
«Mamma! Ma ci sei?»
Ai era appena arrivata, con ancora addosso la sua divisa.
«Tesoro… scusa, stavo solo pensando»
Ai gonfiò le guance.
«Sei gelosa, lo so bene! Non mi piace quella donna, ma papà sa il fatto suo. Noi Kurotsuchi siamo troppo intelligenti per farci fregare» disse Ai con un orgoglio che fece sorridere Nemu.
«Ah sì? E tu invece vieni qui un po’ troppo spesso.»
Ai arrossì.
«Lo faccio… in nome della scienza, è…per un progetto. C-ci vediamo dopo!» mentì, sapendo di non essere credibile.
 
«Lo sai, il fatto che tu venga a parlarmi ogni volta che mia moglie ci guarda, mi fa pensare che sia un modo infantile per farla ingelosire.»
Senjumaru si avvicinava sempre troppo a lui, non capendo che il suo fascino non sortiva alcun effetto. Dubitava fosse lì per portarselo a letto, allora cosa? Voleva solo fargli male ancora?
«Mi credi davvero così infantile? O forse… oh» Senjumaru sorrise compiaciuta. «Forse è tua moglie ad essersi effettivamente ingelosita. Che tenerezza…»
«Mi stai annoiando, tu brutta…»
Mayuri si astenne dal dire qualche brutta parola proprio mentre era a lavoro. Nemu, stufa di starsene lì a sentirsi di troppo, malgrado quello fosse suo marito e il suo posto di lavoro, si avvicinò ai due.
«Mayuri, caro. Io stacco prima stasera, ovviamente ti aspetterò.»
Nemu si era stretta al suo braccio con fare possessivo, il che non era da lei, di solto era piuttosto mite.
«Ah. Sì, certo, non preoccuparti» disse Mayuri avvertendo per la prima volta del disagio. Tra sua moglie e Senjumaru non correva buon sangue, e grazie tante.
«Ma che adorabile coppia, siete molto uniti, vedo» commentò.
«Sì, è così. Noi ci amiamo come il primo giorno. E se te lo chiedi, facciamo anche molto sesso.»
Mayuri sgranò gli occhi e guardò sua moglie. Era forse impazzita?
«Ma davvero? Ma pensa, anche noi ne facevamo molto. In effetti era l’unica cosa in cui funzionavamo.»
«Oh, che seccatura, dovete per forza parlare delle mie abilità sessuali? Senjumaru, di queste scene ne faccio volentieri a meno» disse, severo ma anche più nervoso di quanto avesse voluto. Senjumaru però lo ignorò.
«Scommetto che non ti ha detto perché ce l’ha tanto con me. E dire che siete sposati da anni.»
Nemu spalancò gli occhi. Di sicuro Senjumaru non stava mentendo, non gli stava dando quell’impressione. Guardò suo marito, il quale era arrossito.
«Come al solito non hai rispetto per niente e nessuno.»
La stretta della sua mano sulla spalla di Nemu si era fatta più forte. Perché doveva essere costretto ad affrontare un passato oramai così lontano? Nemu invece aveva perso l’uso della parola. In confronto a quella donna, si sentiva sempre in svantaggio.
 
Ai diventava davvero una gran chiacchierona in compagnia di Akon, le piaceva usare grandi paroloni per mostrarsi grande. In realtà Akon la stava ascoltando distrattamente, visto che era alla ricerca del senapi Yamada e ora lo stava cercando ovunque.
«Emh… tu ce l’hai la fidanzata?» si azzardò a chiedere, dal momento che erano abbastanza in confidenza.
«No… A dire il vero no. Ma dove sarà il senpai Yamada?»
Ai arrossì. Bene, al diavolo la timidezza, ce la poteva fare.
«Oh, capisco. Allora… allora perché non ci fidanziamo noi due?»
Questo servì ad attirare finalmente tutte le attenzioni di Akon. Il medico pensava che scherzasse, ma la sua espressione era fin troppo seria.
«… Come, prego?»
«Oh, ovviamente non intendo adesso. È illegale, e poi mio padre ti staccherebbe la testa. Posso aspettare qualche anno.»
La dichiarazione da parte di una dodicenne non se l’aspettava di certo. Ai risultava anche tenera, il problema era la sua serietà.
«Non pensi che sono un po’ troppo vecchio per te?»
«Dodici anni è la stessa differenza che c’è tra i miei genitori. Quando io avrò vent’anni, tu ne avrai trentadue, così potremmo stare insieme senza problemi, no?»
Come poterle spiegare che una cosa del genere era altamente improbabile? E Yamada senpai intanto continuava a non trovarsi, ma che fine aveva fatto? Aprii una porta, lì si trovava più che altro uno dei magazzini: al suo interno c’erano Hanataro Yamada e Natsumi avvinghiati che si baciavano come se non ci fosse un domani. Oh! Hanataro, così timido e all’apparenza innocente, era stato beccato a palpeggiare una ragazza che, bisognava ammetterlo, aveva sognato quel momento per tanto.
«A-Akon… Ai?!» esclamò il giovane chirurgo, rosso in viso. Ai fece per dire qualcosa, ma non riuscì a dire niente. Natsumi fece spallucce.
«Che volete che vi dica, quando la passione arriva, non c’è niente da fare. Ora scusate, eravamo impegni, non dite a nessuno che siamo qui. Ciao, ciao.»
Con molta nonchalance, Natsumi richiuse la porta, lasciando i due lì a bocca aperta.
«Interessante» commentò Ai.
«Ti prego, non dirlo. Comunque… io credo davvero che dovresti frequentare qualcuno della tua età. Ci deve essere qualcuno che ti piace.»
Ai arrossì e immediatamente le venne in mente Hikaru. Loro si erano sempre piaciuti e non aveva certo smesso di essere così. Ma doveva ammettere che lo aveva messo da parte parecchio.
«Sì, c’è un ragazzo che mi piace. Però mi piaci anche tu. Pensi sia possibile?»
Akon sospirò. Le portò una mano sopra la testa.
«L’amore è una cosa molto complicata, tu stai iniziando a scoprirlo adesso. Ascolta questo consiglio come se fossi… una specie di tuo fratello maggiore, diciamo. Se quel ragazzo ti piace, dovresti farti avanti. Sei una ragazzina intelligente, brillante e molto matura per la tua età.»
Ai arrossì. Certo, era fastidiosa l’idea di essere rifiutata, ma era una possibilità che aveva tenuto di conto.
«Vuol dire che se avessimo avuto la stessa età, ci saremmo messi assieme?»
«… Non lo escludo. Comunque adesso sarà meglio tornare indietro. Altrimenti Kurotsuchi potrebbe davvero tagliarmi la testa.»
 
 
Ishida quel giorno non riusciva a lavorare. Non sapeva cosa stesse succedendo, ma il suo malessere era aumentato. Aveva un mal di testa lancinante e, inoltre, vedeva cose. Non che avesse le allucinazioni, ma all’improvviso arrivavano dei flashbacks. O almeno credeva si trattasse di questo. Si trattava di scene frammentarie, senza un ordine preciso. E, soprattutto, di sensazioni. Senso di colpa. Vergogna. Qualcuno che lo toccava, ma non era una bella sensazione. Si trattava di un adulto di cui avrebbe dovuto fidarsi. Sarà il nostro piccolo segreto. Non devi dirlo a nessuno, questa cosa rimane fra te e me, vero Uryu?
Non voleva che chiamasse il suo nome. Si sciacquò la faccia a osservò il suo riflesso allo specchio. Improvvisamente era come vedersi di nuovo dodicenne, timido, spaurito, indifeso. Il sé stesso di tanti anni prima stava gridando, stava riemergendo per far sentire la sua voce. Ma cos’erano quei ricordi? Erano successi davvero o li aveva solo sognati?
Si portò una mano tremante sul viso. Improvvisamente era come avere un nodo in gola, come non poter più respirare. Si accasciò. Avrebbe tanto voluto sentirsi protetto in quel momento.
 
Ichigo era andato alla ricerca del suo collega. Non parlavano in modo decente da un pezzo, non gli aveva nemmeno parlato di ciò che era successo a Kaien a scuola. Però non gli importava, era preoccupato per il suo migliore amico, soprattutto dopo aver parlato con Tatsuki.
«Ishida, oh! Ma dove sei? Non è da te sparire!»
I bagni fu il primo posto dove lo cercò, in realtà senza che se ne rendesse conto era il suo istinto a guidarlo. Ishida in effetti era lì, se ne stava accasciato pallido e visibilmente sconvolto.
«Ehi… ehi, che c’è? Ti senti male?» Ichigo si chinò subito di lui. Ishida lo guardò e poi gli si aggrappò addosso.
«Adesso capisco… adesso ricordo. Io con Yuichi ho sbagliato tutto.»
Yuichi? Cosa c’entrava adesso?
«Piano, respira. Di cosa stai parlando?»
Ishida continuava a scuotere la testa. Non sembrava lucido, era tremendo vederlo così, col fiato corto e fuori controllo, lui che invece il controllo lo aveva sempre avuto.
«Io dico sempre di essere preoccupato che a Yuichi possa accadere qualcosa. Ma forse non è questo… forse… forse quel qualcosa è successo a me. Forse sto diventando pazzo, perché ho iniziato a ricordare delle cose e io…»
Ichigò spalancò gli occhi. Capì subito cosa stava accadendo e come primo istinto lo abbracciò.
«Va tutto bene, ci sono io. Adesso nessuno può farti male. Devo chiamare Tatsuki.»
Ishida stava piangendo. Ed era dilaniante vederlo così. Ma perché lui, che era il suo migliore amico da tanti anni, non si era mai accorto di nulla?
 
Di quanto successo, So Fon, Yoruichi e Kisuke non ne avevano ancora parlato. Ma avrebbero dovuto e sapevano tutti e tre che da questo non si scampava di certo. Yoruichi stava correggendo una pila di compiti nel suo ufficio, ma era distratta. Soi Fon era appena tornata, aveva avuto ben due colloqui di lavoro e c’era una buona possibilità che uno dei due andasse in porto.
«Yoruichi, io… posso dare una mano in qualche modo? Preparo la cena?» si offrì Soi Fon.
«Non preoccuparti per quello, è ancora preso. Piuttosto noi dovremmo parlare» Yoruichi si tolse gli occhiali da lettura e la osservò. C’era stato un tempo in cui si erano sentite molto attratte l’uno dall’altro, ma quella era stata solo un’attrazione, Soi Fon molto più immatura. Adesso però le cose erano diverse e ad essere coinvolti erano in tre. Kisuke entrò in soggiorno ed ebbe l’istinto di tornare indietro, ma non lo fece.
«Eeeehi. Come siete serie, ragazze mie» disse con un sorriso. Yoruichi lo guardò male e lui tornò subito a essere serio.
«Sì, lo so. Dobbiamo parlare. È solo che è una situazione un po’ strana. Spero che non ti sia sentita forzata, Soi Fon. Perché non so se potrei perdonarmelo.»
Soi Fon arrossì, anche un po’ piccata.
«Sono abbastanza matura da pensare con la mia testa ed è stato questo il caso.»
Kisuke arrossì. Di certo non era sua intenzione farla passare per una bambina, anzi.
«È stata una cosa consenziente e voluta da tutti e tre. Anche se mi rendo conto che, visti i retroscena e la differenza di età, risulti un po’ strano» ammise Yoruichi. Era sempre meglio essere chiari in quelle situazioni, peccato che di chiaro ci fosse ben poco.
«Oh, beh… l’età non è un problema. Solo… vorrei sapere adesso cosa siamo» disse Soi Fon. Era quello che avrebbero voluto sapere anche i due coniugi. Quello che c’era stato era stato bello. Inoltre andavano d’accordo e si trovavano bene insieme anche nella convivenza, anche nella vita di tutti i giorni. Ma questo quindi che voleva dire^
«Oh» Kisuke si portò una mano tra i capelli. «Non ho mai avuto una relazione a tre.»
«M-ma Kisuke!» esclamò Yoruichi. «Nessuno ha parlato di questo…»
Era assurdo. O almeno credeva. Non era come se già avessero una relazione a tre? Già vivevano insieme, avevano anche fatto sesso. Ma c’erano troppe cose di cui tenere conto, i suoi figli ad esempio e anche il fatto che, essendo Soi Fon molto giovane, avrebbe anche potuto cambiare idea.
«Va bene, ma mi sembra sgradevole definirci amanti. A me Soi Fon piace, mi è simpatica, è matura, è intelligente e poi… beh, è anche molto dominante a letto, ho apprezzato.»
Tipico di Kisuke Urahara affermare certe cose con estrema facilità. Soi Fon arrossì e si nascose il viso dietro le mani. Era tutto troppo per lei.
«Vi prego, non siete costretti a…»
«Va bene, calma» Yoruichi prese in mano la situazione. «Siamo andati a letto insieme una volta e mi rendo conto che potrebbe riaccadere, considerando che c’è una forte attrazione tra tutti e tre. Ma iniziare una relazione è una cosa seria, dobbiamo capire se può funzionare, soprattutto, se Soi Fon sarebbe disposta.»
La guardarono entrambi e Soi Fon divampò. Perché tutte le attenzioni erano su di lei? Riguardava anche loro!
«E…e voi allora?»
«Noi? Noi siamo sempre stati molto aperti» disse Kisuke. «Però, ecco… tu sei una ragazza così giovane e piena di sogni, magari non hai voglia di impegnarti con due vecchi come noi.»
Yoruichi gli lanciò una gomitata.
«Vecchia a chi?»
Soi Fon si mise a ridere. D’accordo, si era detta. La fiamma per Yoruichi si era riaccesa e ne era nata una nuova per Kisuke Urahara. E lei piaceva a loro. Non aveva mai nemmeno avuto una relazione tradizionale, non osava nemmeno pensare come fosse averne una a tre. Però in quel posto si sentiva a casa, forse voleva pur dire qualcosa.
«Io… vorrei continuare a vivere così e… a vedere cosa succede» disse soltanto. Era rischioso, certo. Ma oramai era successo, per cui era inutile farsi troppo problemi.
«D’accordo, allora vediamo che succede» disse Yoruichi. «Possiamo fare tutto con calma e…»
«Se vuoi puoi dormire con noi, il letto è grande… AHI!» gridò Kisuke.
Sua moglie lo aveva appena colpito di nuovo.
«Mi sembrava di aver appena detto che ci saremmo andati piano!»
 
Yami ascoltava distrattamente le chiacchiere dei suoi genitori e di Soi Fon, anche se non era molto interessata alla conversazione. Se ne stava contro il muro, seduta, Kisuchi il gatto sulle sue gambe. La sua vita non stava andando a rotoli, no affatto. Poteva gestirlo, che le importava se l’avevano violata in quel modo? Comunque non poteva parlarne con nessuno, sua madre le avrebbe detto che era colpa sua. Le veniva da piangere perché lei non aveva fatto niente di male, eppure sentiva gli occhi giudicanti di quei maledetti che osservavano un suo scatto fatto in un momento intimo.
Hikaru la vide e le si sedette accanto.
«Yami. Senti, di questa cosa…»
«No, non ne parleremo con nessuno. Preso se ne dimenticheranno»
Hikaru però era preoccupato.
«Yami, io mi preoccupo per te, e anche Ai. Guarda che lo so che stai male, lo sento. Sento sempre tutto ciò che senti tu, è il super potere dei gemelli.»
Yami non disse niente. Non voleva prendere quel discorso.
«Hikaru. Tu mi vuoi bene anche se sono così?» domandò. Hikaru si sorprese. Così come? Per lui sua sorella era una persona, ma anche la metà di sé stesso. L’abbracciò.
«Sempre.»
 
 
Tatsuki era arrivata in ospedale col cuore in gola. Lo sapeva, era sicura che sarebbe successa una cosa del genere mentre non c’era, accidenti.
«Mamma, dov’è papà? Posso andare da lui?» domandò Yoshiko in braccio a lei, un po’ imbronciata.
«Adesso arriva. Stai tranquilla.»
Yuichi non c’era, anche se era stato avvisato di quanto accaduto. Kanae e Ryuken invece, i genitori di Uryu, c’erano eccome.
«Come sta mio figlio? Posso vederlo?» domandò Kanae e Ichigo.
«Non preoccupatevi, Uryu sta bene. Cioè… fisicamente sta bene, psicologicamente non molto» sussurrò. Ryuken sospirò, serio.
«Non potrebbe stare bene, ovviamente. E io che credevo che la sua sindrome post traumatica da stress fosse passata.»
Ichigo si irrigidì a sua volta.
«Sì, Tatsuki mi ha accennato, ma trovo comunque assurdo che abbiate lasciato correre. Insomma, ha perso la memoria, non mi sembra che una persona del genere possa definirsi guarita!»
«Non parlare di cose che non sai, ragazzino. È molto più complicato di quanto pensi. Tu non c’eri» Ryuken gli arrivò vicino, guardandolo con sfida.
«Beh, ci sono adesso» ribatté lui.
«Vi prego» disse Kanae. «Adesso non è il momento.»
Quella donna aveva ragione. Era inutile starsene lì a discutere.
«Comunque potete andare da lui.»
Anche Ichigo era sconvolto. Non aveva mai visto Ishida ridotto così male. Adesso tutto iniziava ad avere senso ed era spaventoso.
 
Tatsuki fu la prima ad entrare, con in braccio la piccola che era impaziente.
«Pa-pà!»
Uryu adesso si era ripreso, ma aveva comunque un’espressione stravolta. A Tatsuki parve per la prima volta sfibrato, stanco. Ma nonostante ciò sorrise.
«Ciao piccola. Tatsuki.»
Sua moglie si avvicinò e lo abbracciò, baciandogli la fronte.
«Uryu… va tutto bene, okay? Scusa… lo sapevo e non ti ho detto niente.»
Lui ricambiò la stretta, debolmente.
«Non è colpa tua. Alcuni ricordi sono pericolosi proprio perché non fanno rumore. Ma ora capisco. Ora capisco tutto.»
Si era detto, ho la PSDT. Inconsciamente, doveva averlo sempre saputo. Il solo pensiero di ciò che gli veniva in mente, lo nauseava. Si sentiva sconfitto, ma se era arrivato a quel punto nella sua vita, allora forse non era poi così sconfitto.

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Capitolo 20
*** Capitolo venti ***


Capitolo venti

Renji quella sera era nervosissimo. Più di una volta si era detto non ce la faccio. Ma al  diavolo, voleva e doveva farcela, voleva chiedere a Byakuya di sposarlo in modo speciale. E poi non aveva scelta, Yumichika lo avrebbe ammazzato, dopo tutto quello sforzo. Aveva detto a Byakuya, quella sera, perché non usciamo?
Byakuya era rimasto sorpreso: in genere la sera erano entrambi stanchi e preferivano rimanere a casa, però gli era sembrata una buona idea. Stava aspettando il momento giusto per fare la sua proposta e di sicuro Renji non si sarebbe aspettato che lo facesse in quel momento. Avevano chiesto a Yumichika e Ikkaku se potessero tenere Zabimaru per quella sera e i due avevano accettato, meglio lasciarli soli.
«Non preoccupatevi, tratteremo Zabimaru come se fosse nostra. Adesso voi divertitevi e non tornate troppo presto» disse Yumichika.
«Perché ho l’impressione che ci stiate cacciando via?» domandò Byakuya confuso. Erano tutti e due molto eleganti quella seria (anche se in realtà Byakuya era elegante sempre).
«Ma che cacciarvi via!» borbottò Ikkaku. «Su andate, non fate tardi. Cioè, fate pure tardi. Insomma, fuori!»
Alla fine sì, li avevano cacciati fuori, ma per una buona causa.
Yumichika si mise a ridere.
«Ah, beh. Byakuya rimarrà molto stupito quando Renji gli farà la sua proposta.»
«Aspetta, cosa? Quale proposta?» domandò Ikkaku.
«Sciocco, la proposta di matrimonio, mi pare ovvio!»
Ikkaku si guardò attorno, stralunato.
«… Ma Byakuya intende fare la proposta a Renji questa sera. Ha perfino chiesto aiuto a me. A me.»
Yumichika lo fissò. Questo non lo aveva previsto.
«Ah. Beh, allora sarà una doppia proposta di matrimonio e una doppia sorpresa. Com’è romantico!»
 
 
Per quella sera Renji e Byakuya si erano concessi una romantica cena in un ristorante stellato. Non facevano mai nulla del genere, ma quella serata era speciale, anche se nessuno dei due ancora immaginava quanto. Renji si era versato del vino, ma la mano tremava.
«Renji, perché sei così nervoso?» domandò Byakuya, anche lui teso, ma molto più capace a nasconderlo.
«Nervoso io? Non so di cosa parli» mentì Renji. Poteva sentire Yumichika dirgli non mandare tutto all’aria.
«Capisco» Byakuya socchiuse gli occhi. «Dopo mi piacerebbe andare al Meguro Sky Garden.»
«Sì, mi piace come idea» disse Renji. Il Meguro Sky Garden, era perfetto, una vista mozzafiato al tramonto. «Allora… vogliamo ordinare?»
In realtà aveva lo stomaco chiuso, tant’è che non ordinò nulla di impegnativo. Accidenti, perché l’ansia non lo lasciava in pace? Si sforzò di conversare con Byakuya, il quale sembrava a suo agio. In realtà lui stesso si stava sforzando. Molti anni prima, con Hisana avevano concordato entrambi di sposarsi, non c’era stata una vera e propria proposta. Quindi anche lui, nonostante tutto, era impreparato.
Dopo mangiato salirono in moto (Byakuya continuava a disprezzare quel mezzo di trasporto a detta sua inelegante, ma era il modo più veloce per muoversi) e si diressero verso Meguro Sky Garden. A quell’ora non si trovava molta gente, eccezion fatta per alcune coppiette venute lì per stare da sole. In lontananza era possibile scorgere perfino il monte Fuji, un panorama perfetto insomma.
«Qui è davvero tranquillo» sussurrò Renji, quasi non volesse rovinare il silenzio di quel luogo magico. Byakuya stava osservando il sole tramontare e Renji lo trovò bellissimo e si sentì immensamente fortunato ad averlo. Erano il classico esempio degli opposti che si attraevano e non intendeva passare la vita con qualcuno che non fosse lui. Byakyuya lo scoprì a guardarlo e arrossì, rimanendo serio come sempre.
«Renji, dobbiamo parlare.»
Forse non era stata una buona premessa, Renji infatti fece una smorfia. Ma niente, panico, si disse.
«In realtà anche io devo parlarti, Byakuya. Ti prego, fa parlare prima me, prima che il coraggio mi abbandoni» e dicendo ciò si avvicinò, afferrando la sua mano. «Noi stiamo insieme da quattro anni e sono stati quattro anni stupendi. Byakuya, sei la persona più scostante, seriosa e ligia che io abbia mai incontrato. E giuro che ti amo da impazzire.»
Byakuya arrossì. Tipico di Renji dirgli queste cose.
«Tu sei rumoroso, disordinato e caotico. E ti amo anche io, tanto» disse, serio, ma con gli occhi che lo tradivano. Renji sorrise. Bene, ora o mai più.
«Byakuya. Ne abbiamo parlato tante volte. Lo so, nessuno dei due era tropo convinto all’inizio e non è avvenuto tutto nel più romantico dei modi, quindi sto cercando di rimediare.»
Gli si inginocchiò di fronte. E Byakuya sgranò gli occhi. Oh, non era possibile.
«Byakuya, mi vuoi sposare?» domandò tirando fuori lo scatolino contenente l’anello. Byakuya si guardò attorno e poi sospirò.
Oh, no. Non proprio la reazione che si aspettava,
«Oh, Renji. Come al solito parli troppo e mi hai preceduto. Beh, oramai…»
Renji non capì e non capì nemmeno quando lo vide inginocchiarsi a sua volta.
«Byakuya?»
«Hai ragione» gli disse. «Non abbiamo affrontato l’argomento nel più tradizionale dei modi, ma ora non ho dubbi che voglio sposare te. Ti chiedo di perdonarmi, tendo sempre a rimuginare troppo. Quindi adesso sono io che chiedo a te se vuoi sposarmi» e dicendo ciò gli porse l’anello. Non potevano crederci, senza saperlo si erano proposti a vicenda di sposarsi. Si erano sforzati tanto solo per rendere speciale quel momento. E adesso era senza dubbio speciale.
Renji si mise a ridere, commosso.
«Non ci posso credere, è una cosa proprio da noi, Byakuya, ti sposo.»
«E io sposo te, Renji Abarai. Dopo tutto questo tempo, mi sorprendi ancora.»
Un anello stava al dito di Renji e un anello stava al dito di Byakuya.
«Voglio sorprenderti per tutta la vita. Byakuya…» Renji si avvicinò e lo bacio sulle labbra. Non lo potevano immaginare, ma i loro aiutanti Yumichika e Ikkaku, troppo curiosi (in realtà più Yumichika che Ikkaku), li avevano seguiti per tutto il tempo, portandosi dietro perfino il cane.
«Evviva! Evviva gli sposi!» esclamò Yumichika. «Lo sapevo, una proposta con i fiocchi, mi sono commosso.»
«E sta zitto» borbottò Ikkaku. «Hai rovinato l’atmosfera.»
Byakuya scosse la testa, rialzandosi.
«Da quanto tempo eravate lì?»
«Dall’inizio. Ben fatto Renji! Era un fuori programma, ma bravi tutti e due!»
Byakuya tossì. Senza dire niente, comunicò loro chiaramente sparite di qui entro due secondi. Ikkaku fu molto bravo a capirlo e afferrò suo marito.
«S-sì, scusa. Ce ne andiamo, eh.»
Sarebbe stata una serata che non avrebbero più dimenticato.
 
 
Nemu si conosceva e sapeva cosa poteva accadere trattenendosi: finiva inevitabilmente con lo scoppiare. Si sentiva infantile a provare quella gelosia. Ma misurarsi con quella donna, mettersi a paragone, stava facendo del male alla sua autostima già fragile. Il suo turno si era concluso prima di quello di Mayuri, ed era nervosa: l’idea che Senjumaru tentasse di avvicinarsi a lui, che la sfidasse, le era insopportabile. Si tagliò mentre affettava dei pomodori e sibilò per il dolore. Sibilò Portò il dito vicino le labbra per succhiarlo. Perché si sentiva improvvisamente una ragazzina?
«Sono tornato. Oggi è stata una giornata stressante, Ishida mi ha fatto prendere un col-cos’hai fatto?»
Nemu non aveva sentito Mayuri rientrare. Arrossì e strinse il dito.
«Solo un taglio.»
«Solo un taglio, stai perdendo un sacco di sangue. Vuoi tranciarti un dito? Fammi vedere!»
Mayuri aveva sempre quel modo un po’ severo che celava, nemmeno troppo bene, la preoccupazione.
«Ahi… piano. Ero solo distratta… è tutta colpa di quella donna.»
Lui la guardò un attimo negli occhi e poi abbassò lo sguardo.
«Non farci caso, è solo fastidiosa.»
«Io ci faccio caso perché ti sta sempre addosso. Forse tu le piaci ancora.»
«Sciocchezze, io non le sono mai piaciuto davvero. Vuole solo infastidirmi.»
Nemu era disposta ad andare fino in fondo. Sembrava che suo marito le stesse nascondendo qualcosa, ma non riusciva a capire cosa.
«Perché vi siete lasciati?»
Mayuri non gliel’aveva mai spiegato. Non le aveva mai parlato di lei e questo la insospettiva.
«Che importanza ha? Sono passati anni.»
«Non è da te rispondere in modo così evasivo. Dimmi perché.»
«Oh, maledizione» sbottò lui. «Perché mi ha tradito, d’accordo?»
Nemu rimase stupita. Un tradimento non lo avrebbe mai immaginato. Più che altro, non immaginava che Mayuri fosse tipo da starci così male, anche dopo tutto quel tempo.
«Io… mi dispiace, ma… allora tu la ami ancora? Se fa ancora male, dopo tutto questo tempo...»
«No! Ma che amare! Mi riporta solo alla mente un periodo odioso della mia vita. Fa male al mio orgoglio. Perché credi che non te ne abbia mai parlato?»
In effetti aveva senso, ma Nemu si sentiva comunque ferita. Non avrebbe saputo spiegare il perché. Era stata davvero così importante, lei, da portare Mayuri a quel punto?
«È una domanda legittima, la mia. Dopotutto lei sarebbe più adatta a te di me» disse piccata, in realtà solo ferita. Non si sentiva all’altezza, lei era solo un’umile infermiera che aveva sempre camminato a suo fianco, era solo una donna timida, forse che passava inosservata. Mayuri non aveva la pazienza di affrontare quei discorsi.
«La facoltà di decidere cosa è meglio per me è ancora mia, e io ho deciso che amo te. Non ti avrei sposata. Mi capisci o no?» Mayuri l’afferrò per le spalle, stringendola leggermente. Lei gemette.
«Sì, lo capisco» sospirò. «Ma avresti dovuto dirmelo. Tu di me sai tutto. Anche il fatto che non so da dove vengo, che la mia famiglia non mi ha voluta. Quindi, anche se tu un giorno non dovessi più volermi, lo capirei.»
Per un attimo, Mayuri non seppe che dire. Era la prima volta in tanti anni che sua moglie diceva certe cose.
«Non mettere a paragone le due cose. Io sono io. Non sono ancora bravo in certe romanticherie e sentimentalismi, ma se proprio non capisci che per me ci sei solo tu passerò il resto dei miei giorni a ricordartelo. Dannazione, Nmeu. Guarda cosa mi porti a dire!»
Era anche arrossito. Nemu lo trovò adorabile. Chissà perché, ma le veniva da piangere.
«Non state litigando, vero?» Ai era apparsa davanti a loro, studiandoli.
«No, non stiamo litigando» disse Mayuri, un po’ provato. «E tu non dovresti origliare.»
«Non origliavo, io… è che l’amore mi confonde. Noi Kurotsuchi siamo troppo razionali e non siamo bravi con queste cose. Ho bisogno di una mano!»
Quanto aveva ragione sua figlia. Il DNA era quello, c’era poco da fare.
«Le ho spiegato la parte del sesso, lascio a te la parte sentimentale» disse Mayuri a Nemu. Non se la sentiva di fare anche questo.
 
«Tirati un po’ su, Rukia. Vedrai che tu e Ichigo farete pace.»
Kukaku aveva deciso di portare fuori Rukia, e aveva invitato anche Orihime e Nel, Tatsuki invece, per qualche motivo, non era disponibile. Un’uscita le avrebbe fatto bene, ma in verità Rukia era molto depressa e non era nemmeno ubriaca, visto che non aveva toccato il suo drink.
«Non capisci, Kukaku. Sto malissimo, ho sbagliato tanto. Io al suo posto penso che sarei impazzita. Il mio povero Ichigo» singhiozzò. Era pentita, pentitissima.
«Senti, se vuoi piangere va bene, ma non fare la rammollita. Dipende da te!»
«Kukaku ha ragione. Al tuo posto mi farei un grosso pianto liberatorio e poi agirei» disse Neliel. «Però non so cosa farei, a dire il vero.»
«Di sicuro Ichigo ha bisogno di tempo, dovresti riavvicinarti a lui pian piano, fargli capire che è stata dura anche per te e che disposta a lottare per riconquistare la sua fiducia» suggerì Orihime.
Rukia singhiozzò.
«Voi avete ragione! Io devo reagire. Ho un marito praticamente perfetto e devo sempre rovinare tutto, sono una cretina!»
«Siamo tutti un po’ idioti quando abbiamo a che fare con l’amore, ecco perché preferisco rimanere single» ammise Kukaku, lasciandosi andare ad una buona bevuta. «Quindi non fate sesso, eh?»
Rukia arrossì. Lei e Ichigo avevano sempre avuto una vita sessuale molto attiva, ma era ovvio che non potessero avere quel tipo di approccio, adesso.
«Ovvio che no! Perché mai dovrebbe volermi? Kukaku, così infierisci solamente!»
«Mi dispiace, è che a volte il sesso può aiutare ad aggiustare le cose, almeno in parte!  Non è tipo una cosa che unisce le coppie?»
«…Lasciamo perdere» sospirò Rukia. «Sono anche preoccupata per i miei figli.»
«Già, anche io» sospirò Neliel. «Hime, è incredibile che mia figlia stia con tuo figlio. Non sarebbe adorabile se un giorno si sposassero?»
Orihime sospirò. Sì, sarebbe stato bello, ma al momento non si sentiva dell’umore per dei felici film mentali. Satoshi si era chiuso in sé stesso, sembrava un po’ tornato lo stesso bambino che aveva preso in affido anni prima. Era normale, aveva una personalità sensibile che cercava di proteggersi.
«Sì, sarebbe magnifico» sospirò.
«Dai, non fare quella faccia. Nemmeno io me la passo bene, è guerra aperta tra Nnoitra e suo padre. Fare il genitore è difficile, ma credo che nemmeno fare il figlio sia sempre facile.»
Kukaku mandò giù un altro sorso di birra, affermando che lei di certe cose non ne capiva niente perché non aveva marmocchi e di ciò era molto felice. Rukia intanto aveva appena mandato dei messaggi a Ichigo.
 
 
Da Rukia, ore 9,00 pm
 
“Ecco perché Tatsuki non è venuta. Ishida sta bene? Vuoi che torni a casa?”
 
Da Ichigo, ore 9,03 pm
 
“Non è necessario, posso badare io ai gemelli. Ishida sta bene, ma aspetto notizie da Tatsuki. Non tornare tardi, fai attenzione”.
 
Dopotutto, essere arrabbiato con lei non significava certo che avesse smesso di amarla. Anzi, proprio perché l’amava soffriva così tanto.
 
Kaien e Masato erano mansueti e questo non lo tranquillizzava molto. Si sentiva la testa scoppiare, tra quello che stava accadendo al suo migliore amico e quello che stava accadendo con sua moglie. Poi c’era Byakuya, che dopo una serata perfetta, aveva deciso di passare da casa di Ichigo.
Voglio parlare da solo con lui, aveva detto a Renji, aspettami a casa, farò subito. Se non si fosse trattato di Rukia, avrebbe anche temporeggiato, ma proprio non poteva farlo se si trattava di sua sorella. Ichigo fu molto sorpreso di vederlo arrivare a casa sua, così all’improvviso.
«Oh, Byakuya. Ciao, non ti aspettavo. Rukia non c’è.»
«Infatti sono venuto qui per parlare con te» disse facendosi avanti. Kon gli venne incontro, annusandolo e scodinzolando. Ichigo sospirò, sentiva la testa dolorante.
«Vuoi uccidermi?»
«Potrei anche farlo, ma non farei felice Rukia. Inoltre stai soffrendo anche tu, è una cosa che posso capire.»
Ichigo lo invitò a sedersi, adesso tutte le sue attenzioni erano su Byakuya.
«Davvero?»
«In voi rivedo me e Renji. Non è proprio la stessa cosa, ma sia io e mia sorella abbiamo amato qualcuno che poi abbiamo perso.»
«Lo sai che il mio problema non è questo. Ma nascondermelo... Mi fa stare veramente una schifezza, mi sento come se fossi una specie di…»
«Di sostituto, lo so» lo interruppe Byakuya. Dopotutto Renji ci aveva impiegato un pezzo a capire di non essere un sostituto di Hisana, per Ichigo ci sarebbe voluto altrettanto tempo. «Mia sorella ha sbagliato, questo mi pare evidente. E sarà dura, non intendo raccontarti bugie. Mi auguro solo che il vostro matrimonio non finisca. Lei ci sta male e ci stai male tu. Puoi promettermi che proverete a venirvi incontro?»
Suo cognato era stranamente sentimentale quella sera. E poi, perché tutti pensavano che lui l’avrebbe lasciata? Non era mai stata sua intenzione.
«Sì, te lo prometto. Sono arrabbiato con lei, ma non voglio certo farla soffrire. Tu piuttosto mi sembri fin troppo tenero stasera.»
Byakuya arrossì, mantenendo comunque un’impeccabile compostezza.
«Forse è perché mi sono fidanzato.»
Ichigo sgranò gli occhi e rimase qualche attimo in silenzio.
«… Tu cosa?»
 
 
Masato aveva sempre odiato litigare con Kaien. I loro litigi infatti non duravano mai troppo, o almeno da bambini era stato così. Adesso le cose erano un po’ cambiate. Si sentiva colpevole ma anche arrabbiato. Lui non voleva essere un peso e non aveva chiesto a nessuno di proteggerlo. Perché lo trattavano tutti come se fosse stupido?
Kaien era appena entrato nella loro cameretta e senza nemmeno guardarlo si era steso a letto. Nemmeno lui amava quei silenzi snervanti. E poiché Masato era stufo, calciò via le coperte e si mise in piedi.
«Senti, mi dispiace se sei finito nei guai, però io non ti ho mai chiesto di fare questo per me!»
Kaien gli lanciò un’occhiata annoiata (che in realtà era imbarazzata).
«Se non io… chi?»
«Beh, forse io! Mi trattate tutti come se fossi scemo. Sono buono e gentile, non idiota! Stessa cosa per Yuichi. Noi ci vogliamo bene, stiamo insieme, il problema non siamo noi. Sono le persone e tu questo lo sai!»
Kaien lo sapeva bene. Ma non poteva certo affrontare tutte le persone del mondo che avrebbero potuto fargli male. Fosse per lui lo avrebbe anche fatto, ma non ne aveva la possibilità.
«Sì, lo so. Ma la gente è cattiva, soprattutto se qualcuno è un po’ diverso dal normale.
Masato si irrigidì.
«Lo so, ma pazienza, gli idioti ci saranno sempre, tu invece non potrai esserci sempre. Anzi, scommetto che un giorno di questi sarò io a proteggere te.»
Kaien gli lanciò un cuscino.
«Ma se non fai paura per niente. Anche se hai la mia faccia, l’espressione è diversa. Però… mi spiace di aver detto quelle cose. A me piace proteggere tutti, ma non posso farlo.»
In parte, Masato lo capiva. Anche lui voleva proteggere coloro che amava, ma a volte certe cose erano più grandi di lui.
«Senti, Kaien… mi daresti un passaggio in bici?»
«Eh? Ma è buio, papà non ci farà mai uscire.»
«Lo so, ma voglio andare da Yuichi e e io con la bici sono negato. Ti prego, fallo e giuro che ti troverò il modo per avere un appuntamento con Kiyoko voi due da soli.»
Oh, suo fratello sapeva proprio dove colpirlo.
«B-beh, e va bene! Non mi dispiacerebbe. E va bene, facciamolo.»
 
Yuichi quella sera non riusciva ad esercitarsi col violino. Era troppo nervoso e triste, non avrebbe prodotto nulla di buono. A fianco a lui, la sua sorellina faceva un po’ di capricci.
«Mamma, non ho fame. Voglio papà.»
«Yoshiko, adesso sta riposando, è molto stanco» cercò di calmarla Tatsuki.
Stava cercando di rassicurare entrambi, sia Yoshiko che era irrequieta, sia il suo figlio più grande che invece era silenzioso e si sentiva anche in colpa per tutto quello che stava succedendo.
«Io non c’entro, vero?» domandò a sua madre. «Se papà sta così, intendo.»
Aveva anche discusso con lui, aveva detto delle cose terribili, quando in verità c’era tanto che non sapeva. Tatsuki prese il suo viso tra le mani e gli baciò la fronte.
Oh, il suo bambino così sensibile.
«Non dire queste cose neanche per scherzo. Questo non ha niente a che vedere con te e non devi preoccuparti. Tuo padre ha solo subito un brutto colpo, ma si riprenderà.»
Doveva riprendersi. Certo, Tatsuki era forte, lo era sempre stata, ma non poteva vivere vedendolo così fragile
Uryu, dal canto suo, era caduto in un sonno profondo che ad una certa si era interrotto. Aveva sentito le di sua moglie e dei suoi figli e aveva avvertito il bisogno impellente di andare da loro. Ma sarebbe riuscito a non mostrarsi fragile? Si sentiva così stanco nel fisico, con la testa appesantita da quei ricordi, quel pezzo della sua vita che era tornato a posto. Si mise gli occhiali e decise comunque di andare da lui.
Quando Yoshiko lo vide, saltò dalla sedia, andandogli incontro.
«Paa-paaa! In braccio!» gridò.
Alla sua piccola non avrebbe mai detto di no. La prese in braccio, baciandole la fronte.
«Uryu, stai bene? Hai fame?» domandò Tatsuki.
«Sì, un po’, grazie.»
Yuichi lo guardò. Avrebbe desiderato dirgli qualcosa. Che gli dispiaceva di aver detto delle cose che potevano averlo ferito. Che gli dispiaceva di non aver capito, di non capire tutt’ora fino in fondo. Ma avvertiva un blocco che somigliava tanto alla sensazione di nodo alla gola, come quando si trattenevano le lacrime. Poi udì uno strano frastuono dalla veranda, gli parve di sentire Masato e Kaien che litigavano.
«Aspetti visite, Yuichi?» domandò Tatsuki.
«Non lo so!» esclamò tirandosi su. Era felicissimo all’idea di vedere Masato. E in effetti lui era arrivato a sorpresa, insieme a Kaien.
«Ciao» lo salutò quest’ultimo. «Faccio solo da accompagnatore, adesso vi lascio soli. Però non perdete troppo tempo, non dovremmo essere fuori a quest’ora.»
Yuichi fece un cenno col capo e richiuse la porta alle sue spalle.
«Allora… come sta tuo padre? So che eri preoccupato» disse Masato.
«Lo sono infatti. Secondo te sono un bravo figlio?» domandò e un leggero tremore arrivò all’ultima parola. Masato sorrise e gli circondò le spalle con un braccio.
«Ma Yuichi… certo che lo sei! Io non conosco nessuno che sia più bravo, gentile e buono di te»
«Tu dici? Perché non mi sento più tanto buono. E poi ho paura che la mia famiglia sia infelice. Papà sembra così spento, mia mamma cerca di essere forte e perfino Yoshiko sente che qualcosa non va. Io non so che fare, non mi è mai successo.»
Masato sospirò e lo attirò a sé per stringerlo.
«Ti capisco bene perché io ho la stessa paura.»
Masato si accorgeva di come i suoi genitori si evitassero o si parlassero a stento. Ma non domandava, era terrorizzato dal chiedere. Yuichi lo strinse più forte e non riuscì più a trattenere il pianto. Era spaventato e il non sapere tutto quanto non faceva che peggiorare il tutto. Ma la carezza di Masato sulla sua testa servì a lenire un po’ del suo dolore. E mentre Kaien li guardava, si ritrovò a pensare che erano davvero una bella coppia e che non era poi così strano il suo desiderio di proteggerli entrambi.
 
 
Le cose erano cambiate fin troppo velocemente. Quello era un periodo tremendo per Gin e Rangiku e i due stavano cercando di non perdere la calma.
«Non ci posso credere, l’ha fatto! Una denuncia a tuo carico, questo è inammissibile. Ma le faremo vedere che non si può rovinare la vita delle persone in questo modo!»
Rangiku camminava avanti e indietro, era infuriata. Era una persona allegra e buona, ma quando in mezzo c’era il benessere delle persone che amava, tutto cambiava. Loly aveva denunciato Gin per molestie, mossa falsa e alquanto stupida, il capriccio di una ragazzina, in pratica. Era terrorizzata dall’idea che quella notizia si diffondesse a macchia d’olio, avrebbe significato essere marchiati a vita, non solo loro, ma anche Rin,
Già, Rin! Non si era certo scordata di cosa le aveva raccontato Shinji.
«A quanto pare anche le sue referenze erano tutte una montatura. C’è poco da fare, Rangiku. Siamo stati fregati» sospirò Gin.
«Non riesco proprio a sopportarla, quella… quella puttana!» imprecò, lei che in genere non imprecava mai. «Non avrai la vita rovinata per colpa delle denunce false di una ragazzina. È ingiusto, ci sono un sacco di persone che denunciano molestie e non vengono credute, e lei crede di poter fare quello che vuole? Mi viene da piangere» Rangiku si sedette e Gin strinse la sua mano.
«Stai tranquilla, amore mio. Ne verremo fuori.»
Gin sapeva sempre cosa fare, cosa dire. Malgrado ci fosse lui coinvolto, la rassicurava. Rangiku sospirò profondamente.
«E di Rin che mi dici?  Dobbiamo intervenire immediatamente. Ho paura, Gin.»
«Anche io, Rangiku. Questo non lo avevamo preventivato.»
Lì Gin le parve sconfortato. La loro preziosa bambina stava davvero così male?
Rin era chiusa nel bagno della sua camera. Nonostante avesse lo stomaco vuoto, continuava a vomitare. Non le piaceva, però non capiva. Mangiava pochissimo, cercava di muoversi il più possibile, eppure si vedeva sempre sgraziata, con troppo tutto. Ansimò, si sentiva svuotata e senza forze. E si vergognò da morire di sé stessa, perché si era sempre vantata di essere sicura di sé, aveva sempre saputo di essere bella e poi tutto era cambiato da un giorno all’altro. Si sentì così debole che, da inginocchiata come si trovava, finì poi distesa.
Rangiku salì in camera sua dopo un po’, aveva deciso che le avrebbe parlato, senza giudicarla, né farla sentire sbagliata. Ma non era pronta a ritrovarsela svenuta sul pavimento. Rin se ne stava lì, piccola e riserva, sembrava essere diventata un fuscello all’improvviso. Rangiku si gettò su di lei, gli occhi sgranati e il respiro corto.
«Tesoro mio… GIN! Gin, vieni, presto!» gridò. Gin doveva aver avvertito la paura primordiale già nel suo tono di voce, perché già quando era arrivato, aveva un’espressione stravolta, terribilmente non da lui.
«Rin» mormorò il suo nome. Ed ebbe paura, una paura che aveva poco a che fare con il resto: il terrore che si provava quando vedevi la tua bambina, che avevi cresciuto, amato e protetto quasi con gelosia, era inerme davanti a te.
 
 
Orihime conosceva così tanto bene suo marito, da capire il suo umore attraverso i suoi dipinti. O attraverso i suoi non dipinti. Ulquiorra non dipingeva quand’era di cattivo umore, se lo faceva, i colori predominanti erano il nero e il grigio. Un’azione che svolgeva in modo inconscio tutte le volte. Orihime sapeva bene qual era il problema, il senso di colpa verso Satoshi. La sola idea di averlo spaventato doveva averlo ferito in modo profondo. Perché Ulquiorra, malgrado l’aspetto apatico, era dotato di grande sensibilità.
«Amore mio, forse dovresti parlargli» gli disse quella sera, mentre suo marito gli dava le spalle. «Voi  due siete simili, sono sicuro che Satoshi in fondo sa che non avevi intenzione di fargli male.»
Ulquiorra lasciò cadere il pennello e si volse a guardarla. Forse Orihime aveva ragione, forse lui e quel ragazzino erano davvero simili, forse per questo entrambi erano legati a lei. Ma faceva comunque male sapere di non essere apprezzato allo stesso modo.
«No, Orihime. Non lo capisci? Lui non si fida di me. Vuole bene a te, è sempre stato così. E io non sarò mai alla tua altezza, questo mi sembra evidente.»
Ulquiorra lo disse senza alzare la voce, ma Orihime percepì tutto il suo dolore. Voleva solo fargli da padre, ma quando mai essere genitore era una cosa facile? Orihime sentì gli occhi divenirle lucidi.
«Non dire così, mi fai sentire in colpa…»
«Non hai niente per cui sentirti in colpa. Tu sei dolce, buona, sei affettuosa, e…»
Orihime era arrivata, poggiandogli un dito sulle labbra.
«E lo sei anche tu, tutte queste cose. Non faresti mai del male a nessuno, non è colpa tua se il nostri Satoshi ha avuto una vita difficile. Ma adesso puoi fare tanto per lui. Ha bisogno di essere amato.»
«Io gli voglio bene infatti» disse Ulquiorra. In genere ci girava sempre attorno. Orihime sorrise, accarezzandogli il petto.
«Allora, perché non glielo dici? Alle volte essere diretti è la soluzione migliore.»
Ulquiorra chiuse gli occhi, la strinse a sé in un abbraccio. Si sentì colpevole per la lieve invidia che provava nei confronti di sua moglie, ma fu anche immensamente grado per appartenere a lei in quel modo così profondo. Dipendeva da lui e non voleva perdere quel figlio che avevano cercato e voluto tanto a lungo.

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Capitolo 21
*** Ventuno ***


Capitolo ventuno
 
«Hayato, non fare quella faccia. Non c’è motivo di essere gelosi.»
Sosuke Aizen di cambiamenti ne aveva fatti in quegli anni, aveva imparato a dare meno per scontato e a parlare un po’ di più con suo figlio. Non sempre però era facile vedere le cose dal suo punto di vista.
«Io non sono affatto geloso e non voglio che lo ripeti. Se mia madre ha voluto un altro figlio, beh, buon per lei! Dammi tregua, ne dobbiamo parlare per forza?»
Hayato si sentiva messo alle strette. Non voleva ammettere di essere davvero geloso, di avere paura di sentirsi messo da parte. Sosuke sospirò e fu a quel punto che Shinji intervenne, poiché si era messo in testa che avrebbe risolto quanti più problemi possibili intorno a sé.
«Sosuke, posso parlare un attimo con Hayato?»
Suo marito sospirò.
«Certo, fai pure.»
Hayato alzò gli occhi al cielo. Cosa non era chiaro nella frase non voglio parlare con nessuno?
Shinji richiuse la porta e lo guardò.
«E va bene, sputa il rospo. Non sono bravo a psicanalizzare le persone e nemmeno mi interessa. Senti, se sei arrabbiato va bene. Va bene anche se sei geloso. Dopotutto sei ancora un bambino.»
Hayato si indispettì. Shinji giocava tanto a fare l’adulto, e quando ci riusciva lo prendeva sempre alla sprovvista.
«Non lo sono.»
«Sotto certi aspetti sì, è normale. E poi non si smette mai di avere bisogno dell’affetto dei propri genitori. Ma tua madre non smetterà certo di amarti. Sai, si può amare anche più di un figlio» si spazientì un po’, perché ciò che era ovvio per lui non lo era per Hayato. Quest’ultimo infatti strinse i pugni.
«Scusa, ma tu che ne sai? Hai soltanto Miyo.»
«A dire il vero ci sei anche tu» rispose tranquillo. Ancora una volta, Shinji lo prese alla sprovvista. Arrossì e si sentì come se lui fosse nella sua testa: questo non gli piacque.
«Anche se fosse non mi vuoi bene quanto ne vuoi a lei.»
«Ma sentitelo! Fino a prova contraria, non mi risulta che tu sia nella mia testa, quindi non dire cose che non sai.»
Hayato scosse la testa.
«No, smettila. Non dirmi così. Tu e Toshiro vi impegnate tanto per avere il mio affetto, ma a cosa vi serve? Tu hai Miyo, lui avrà un figlio suo. E mia madre sarà molto più felice adesso rispetto a quando ha avuto me. Quindi alla fine, a che cosa serve? Mi sento come… se non facesse differenza la mia presenza qui.»
Hayato non tratteneva più il dolore, dopotutto non era mai stata sua attenzione. Era solo un po’ orgoglioso. Shinji borbottò qualcosa. Oh, anche lui aveva sperato di essere più paziente! Lo afferrò, guardandolo negli occhi.
«Sei testardo più di tuo padre! Ma come devo fartelo caprie che tu sei mio quanto lo è Miyo? Chi se ne frega se non abbiamo lo stesso sangue o se non ci somigliamo? Nemmeno tu e Miyo avete un legame biologico, ma lei ti considera un fratello. Qui nessuno ti sostituisce e smettila di atteggiarti con quell’aria da duro. Hai solo tredici anni, avrai tempo per essere un adulto indipendente, ma ora, se hai bisogno di farti abbracciare, fatti abbracciare e zitto.»
Hayato rimase a bocca spalancata. Terza volta nell’arco di qualche minuto che lo sorprendeva. Shinji continuava ad essere nella sua testa e proprio non gli piaceva. Avrebbe voluto dire qualcosa. Ma non riuscì a dire niente. Invece al suo posto parlò Miyo, che era entrata senza bussare. Era una cosa che Hayato non sopportava, ma non avrebbe potuto dirle niente: la sua espressione lo terrorizzò.
«Rin!» ansimò soltanto Miyo. «Dobbiamo andare da lei.»
 
 
Rangiku non era mai stata abbastanza razionale da trattenere le lacrime. Ma in fondo chi poteva trattenere le lacrime di fronte la propria figlia che stava male? Rin non era in pericolo di vita, questo non voleva dire che la situazione non fosse seria.
«Non me la fanno vedere, perché non me la fanno vedere? Sono sua madre!» singhiozzò. Gin l’abbracciò.
«Non preoccuparti, la vedremo a breve. Lei è viva, l’importante è questo.»
«Ma non sta bene, Gin!» poggiò una mano sul suo petto. «Quando l’ho vista svenuta sul pavimento, ho temuto il peggio. Avevo percepito che qualcosa non andava, avevo notato che mangiava poco, ma non avrei mai pensato che… che…»
Chissà quanto doveva star soffrendo, chissà quanto doveva star soffrendo ancora. Quella era già un’età difficile, più fragile rispetto all’età adulta. Gin le baciò la fronte.
«Allora non ce ne siamo accorti in due, ma non servirà a niente starsene qui a farsi divorare dai sensi di colpa.»
Rangiku si asciugò una lacrima. Aveva ragione, ma il senso di colpa c’era eccome. Le cose andarono un po’ meglio quando arrivarono Shinji e Aizen con i figli. Aveva dovuto avvertire Miyo, era la migliore amica di sua figlia.
«Ehi, che succede? La situazione è degenerata così tanto?» domandò Shinji, che alla fine si era reso conto di non aver risolto proprio niente. Sapeva bene cosa stavano passando sia Rangiku che Gin. C’era passato anche lui, con Miyo.
«Come sta?» domandò Aizen.
«Adesso è sveglia, ma è comunque indebolita e ancora non ci hanno fatto entrare» spiegò Gin. «I dottori ci hanno detto che non ci saranno effetti permanenti sul suo fisico, ma dagli esami risulta che ha molte carenze a causa del digiuno e… è una specie di disturbo alimentare, non lo so. Non sono esperto in questo.»
«Possiamo vederla anche noi?» domandò Miyo impaziente.
«Già. Io non ci capisco niente, ma la voglio vedere subito!» in Hayato era subito nato un grande istinto di protezione verso la sua amica d’infanzia, che gli piaceva così tanto, anche se non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo.
«State buoni voi due, Rin è indebolita in questo momento. L’importante è che sia fuori pericolo» Aizen era quello che come al solito tendeva a mantenere la calma. Gin dal canto suo si era premurato di avvertire anche Toshiro e Izuru, i quali si erano presentati con i rispettivi compagna e compagno.
«Dov’è lei?» esclamò Toshiro. Momo cercò di calmarlo.
«Shiro, piano. Siamo in ospedale.»
«Chi ha ridotto la piccola Rin in questo stato? Se lo prendo…» Shuhei imprecò e Izuru prese la sua mano.
«Piano. Non è questo il punto adesso.»
Rangiku e Gin diedero loro tutte le informazioni necessarie. Hayato era preoccupato per Rin, ma adesso avvertiva anche un certo nodo allo stomaco perché sua madre era lì, perché Toshiro era lì, perché la conversazione con Shinji lo aveva scosso e perché avrebbe avuto tante cose da dire. Ma non avrebbe saputo come dirlo. Andò a sedersi e Miyo la raggiunse.
«Tranquillo, Rin starà bene.»
«Certo che starà bene, non dubitarne nemmeno un secondo!» disse alzando la voce. «Cioè… scusa. Sono nervoso.»
«E io mi sento in colpa perché avrei dovuto parlarne prima. Stupida, sono stupida, non servo a niente.»
Miyo non piangeva spesso, ma ultimamente stavano accadendo così tante cose…si sentiva impazzita. Gli ormoni, o una cosa del genere. Shinji l’abbracciò.
«Ehi, piccina, non dirlo. Hai fatto molto più di quello che dovevi» poi guardò Hayato. Con lo sguardo lo invitò ad avvicinarsi, ma Hayato sospirò.
«Vado fuori a prendere una boccata d’aria, torno subito.»
 
Naoko aveva alcuni punti da chiarire. Li aveva con Satoshi, con Kiyoko, con Kohei. E poi con suo padre. Adesso voleva sapere per filo e per segno cosa fosse successo anni prima. Sua nonna era stata vaga e comunque era compito suo parlarle. E al diavolo, avrebbe insistito. Nnoitra, dopo cena, si era messo a lavorare ad una nuova tavola, la prossima scadenza era in vista. Naoko entrò nel suo studio, sospirando.
«Papà, possiamo parlare?»
Lui la guardò.
«Dimmi che nessun altro ha di nuovo fatto a botte per te.»
Naoko arrossì.
«Per favore, non infierire. No, non è questo. Senti, puoi spiegarmi perché non vuoi avere a che fare con il nonno e la nonna? Ogni volta ricevo solo risposte vaghe.»
Nnoitra lasciò cadere il pennino e si massaggiò una tempia con la mano.
«Naoko… non è una discussione che riguarda te.»
«È come la cosa di Tesla?»
Nnotira ricordava quanto era stata dura tirar fuori quella parte della sua vita, ma anche di quanto fosse stato dolce e malinconico parlarne alla sua bambina.
«No, non è come quella cosa.»
«Beh, allora parlamene! Riguarda anche me! Io voglio sapere perché in questi nove anni non li ho mai visti, perché non sono mai venuti ai miei compleanni, perché non mi hanno mai telefonato. Voglio sapere perché tu non ci parli, perché io… io non ce la farei mai a non parlare per tutti questi anni con te e con mamma.»
Si commosse da sola alle sue stesse parole. Nnoitra si stupiva ogni giorno di quanto Naoko fosse coraggiosa e tanto simile a Neliel. L’abbracciò, rassicurandola.
«No, ti prego, non voglio farti piangere. Hai ragione, la cosa riguarda anche te. Va bene, te lo racconterò.»
Dopotutto sua figlia era la migliore ascoltatrice. Dopo Neliel, ovvio.
 
«Nao! Vieni, presto! Dove ti nascondi, piccolina?»
Neliel aveva scovato sua figlia sotto un albero, il vestito buono sporco di terra. Pazienza, si era detta, dopotutto era la festa di compleanno per i suoi tre anni. La prese in braccio e la riportò dagli invitati.
«Sun Ah, hai visto Nnoitra, per caso?» domandò Neliel a sua suocera.
«In realtà anche io marito è scomparso, spero non stiano discutendo»
«Ti prego, non il giorno del compleanno di Naoko» sospirò. Il rapporto tra Nnoitra e i suoi genitori era sempre stato teso, sin da quando riusciva a ricordare. Suo padre non gli perdonava il fatto di essere finito nei guai con la legge e non apprezzava il fatto che si fosse dedicato alla carriera da mangaka, che ancora non fruttava denaro. Ma non era un problema, vivevano comunque bene con il lavoro di Neliel.
«Mamma, papà lì!» esclamò la piccola Nao, dimenandosi. Nnoitra se ne stava più distante, Neliel lo aveva visto arrivare seguito da suo padre. E a giudicare dalla sua espressione e dal modo nervoso in cui si muoveva, non c’era niente di buono da premunire.
«Nnoitra, dove scappi? Penso tu abbia raggiunto l’età per affrontare gli argomenti come-»
«Io non intendo parlare con te un minuto di più. Cosa devi dirmi? Che ho gettato vergogna sul tuo nome e sulla nostra famiglia? Bene, mi dispiace, d’accordo? Per quanto ancora vuoi rinfacciarmelo? O forse vuoi dirmi che sono un fallito perché non riesco a mantenere la mia famiglia? Mi fai solo incazzare.»
Neliel si avvicinò, con in braccio la bambina. Oh, no, pensò.
«Sei sempre stato un ragazzo impossibile. Non mi hai mai ascoltato quando ti dicevo di non frequentare brutte compagnie. E non mi ascolti adesso.»
«Non ti ascolto perché è la mia cazzo di vita. Quanto devi farmi pesare i miei errori? Non ricordo l’ultima volta in cui mi hai detto qualcosa di gentile. Ed è andata a finire che io non ti sopporto più. Forse non ci hai riflettuto, ma magari se sono così LA COLPA è TUA!»
Nnoitra lo schiaffo non lo vide arrivare. Fece male, malissimo Gli era capitato di riceverne da bambino, ma mai in faccia. Neliel gridò un “no”! e Naoko si mise a piangere. Nnotira si toccò il viso e poi guardò sua madre.
«Ancora una volta non dirai niente, vero?» poi tornò a guardare suo padre. «Andatevene e non fatevi mai più vedere finché vivrete. Non avete più un figlio da questo momento.»
 
Naoko ascoltò tutto il racconto. Era terribile quanto successo. Non gli piaceva tutto ciò, perché la gente non poteva volersi bene e basta?
«Ti ho turbata?» domandò Nnoitra.
«Un pochino, ma non fa niente. Papà, forse loro vogliono davvero chiederti scusa. Magari anche il nonno, solo che non sa come fare. Io l’ho visto, lui mi ricorda molto te.
«Me…?» domandò, sorpreso. Lui la somiglianza non ce la vedeva.
«Sì, secondo me si sente in colpa. Se non vuoi perdonarlo subito va bene, sono sicura che hai sofferto troppo per poterlo fare, però… almeno puoi fare un passo. Io almeno farei così.»
Naoko era davvero un miracolo. Una ragazzina davvero tanto matura per la sua età, eppure per certi versi innocente. Nnotira si sentì fiero di lei come mai in quel momento e l’abbracciò, baciandole la fronte.
«Ancora sto qui a chiedermi cosa io abbia fatto di buono per meritare te. Somigli a tua madre.»
«Mi dicono che in qualcosa somiglio anche a te, sarà vero!» rispose arrossendo a godendosi quell’abbraccio. Neliel, dal canto suo, si era fermata un po’ di tempo prima fuori dalla porta dello studio e non aveva osato entrare per interrompere quel momento. Sua figlia aveva saputo dire le cose giuste al momento giusto. E si sentì fiera anche lei.
 
 
«Kohei, per favore.»
Karin sospirò avvilita. Da quando era avvenuta la rissa con Satoshi, suo figlio le creava molti problemi per andare a scuola. Anche ora, si rifiutava di fare il bagno e andare a dormire. C’era già passata tanti anni prima, quando Kohei era solo un bambino, ma adesso si ritrovava davanti un ragazzino più alto di lei, solido e determinato. Difficile da smuovere. Se ne stava seduto sul pavimento a sfogliare il suo libro e non voleva sentire ragioni.
«Io non voglio andare, perché se vado, prenderò a pugni di nuovo Satoshi.»
«Cosa diciamo sempre? Che prima di agire, bisogna respirare e contare fino a dieci. O in alternativa, ripetere ad alta voce tutte le razze di aquile che conosci.»
Karin cercava sempre di essere paziente, non era arrabbiandosi che avrebbe ottenuto dei risultati, però era difficile. Era umana anche lei. Kohei si agitò, alzandosi e iniziando a muoversi.
«Non funziona. Non voglio andare, ho paura. Fammi stare qui.»
«Ma Kohei. Io sono qui per aiutarti.»
«Non è vero, perché quando è successa questa cosa tu non c’eri!»
Karin rimase lì per lì senza una risposta pronta. In effetti lei non c’era, come avrebbe potuto? Ma perché la cosa doveva pesargli tanto? Da qualche anno oramai aveva ripreso in mano la sua vita, aveva imparato a sentirsi anzitutto un essere umano, una donna, e poi una moglie e una madre. Decise che allora un po’ di severità non sarebbe guastata.
«Kohei» lo chiamò duramente. «Hai ragione, non potevo esserci, né io né tuo padre possiamo prevedere tutto quello che succederà. Ma non puoi smettere di andare a scuola, una soluzione va trovata.»
Non intendeva viziarlo, non era così avrebbe fatto il suo bene. Kohei però vide in quella sua severità un dispetto e si arrabbiò parecchio.
«Non ti voglio ascoltare! Non ti voglio più, sei cattiva!»
Poi, in uno scatto di rabbia, la spinse. E Karin, che era sempre stata piccola e minuta, anche adesso che era una donna fatta e finita, cadde. Fu più il rumore della botta che il dolore, perché era sempre stata anche molto resistente. Ma ciò bastò ad attirare le attenzioni di Chad, il quale, una volta entrato, intuì immediatamente cosa doveva essere successo. La cosa lo lasciò senza parole.
 «Chad, è tutto a posto» lo rassicurò Karin. In realtà sentiva dolore, non a livello fisico ma emotivo. Era la prima volta che suo figlio si poneva nei suoi confronti in questo modo. Kohei si rese subito conto di cosa aveva fatto. Indietreggiò, guardandosi le mani.
«Io sono buono, non l’ho fatto di proposito.»
Chad si avvicinò a sua moglie aiutandola ad alzarsi.
«Stai bene?»
«Sto bene» chiarì. «Non preoccuparti.»
A essere preoccupante per lei era la reazione che Chad avrebbe potuto avere. Era già rimasto turbato per ciò che Kohei aveva fatto con Satoshi, dubitava sarebbe passato sopra a questo.
«Kohei, questa cosa è sbagliata» gli disse soltanto. Ma nei suoi occhi c’era tanta delusione, più verso sé stesso. Aveva sbagliato tutto, evidentemente. Kohei pianse, quasi fosse un bambino molto più piccolo della sua età. Karin si avvicinò e lo abbracciò.
«Va tutto bene, è tutto a posto» sussurrò, mentendo. In realtà non era affatto tutto a posto. Forse aveva – avevano – davvero sbagliato qualcosa? Erano stati troppo permissivi, non abbastanza attenti? Quella era un’altra prova che lei e Chad si stavano ritrovando ad affrontare. Dopotutto era sempre stata una sfida, giorno dopo giorno.
 
«Oh, Rukia. Non puoi capire, sono felicissima. Io e Hanataro andiamo così d’accordo, anche se siamo molto diversi. E lui piace anche ai miei genitori, dicono che è un bravo ragazzo. Io amo i bravi ragazzi timidi.»
Natsumi era molto entusiasta al telefono, mentre parlava della sua nuova fiamma. Anzi, del suo nuovo ragazzo. Rukia era felice per lei, ricordava come si era sentita lei quando si era da poco messa con Ichigo, stesso entusiasmo.
«Siete davvero una bella coppia, voi due» sospirò, giocando nervosamente con una penna.
«Emh… scusa, forse non dovrei mettere il dito nella piaga, visto che le cose tra te e Ichigo sono un po’ strane» disse Natsumi, improvvisamente in imbarazzo.
«Non preoccuparti per questo. Hai tutto il diritto di essere felice»
Ichigo rientrò proprio in quel momento e Rukia sussurrò un veloce adesso devo andare, a più tardi.
Ichigo rimase a fissarla per qualche attimo.
«Tutto bene?» le domandò.
«Eh? Ah, sì. Era Natsumi. A quanto pare lei e Hanataro stanno ufficialmente insieme.»
«Ma davvero? In effetti Akon aveva detto di averli visti baciarsi, per cui… non sono sorpreso» Ichigo distolse lo sguardo. Gli veniva così difficile fissare quei suoi grandi occhi così espressivi. «Ah, comunque… di sicuro Byakuya ha in mente di dirtelo, ma non mi sentirei a posto con me stesso se te lo nascondessi, per cui… sappi che si sono fidanzati.»
Rukia sgranò gli occhi. Suo fratello e Renji fidanzati? Era ora, santo cielo!
«Ma è una notizia fantastica! Aspetta, perché tu lo sai e io no?»
«… Me lo ha detto lui. In realtà era venuto per parlarmi di te, ma una cosa tira l’altra e siamo finiti al discorso.»
Ichigo abbassò di nuovo lo sguardo. Se c’era una cosa che odiava, era sentirsi così insicuro e bisognoso di rassicurazioni. Come un bambino.
«Rukia, tu mi ami?» domandò e si sentì molto stupido nel farlo. Rukia si sorprese a sua volta perché non era da suo marito domandare certe cose in modo così diretto.
«Ti amo, sì» sussurrò. «Ti ho sempre amato e non ho dubitato di questo nemmeno un secondo. Mi sono innamorata del tuo carattere impossibile, scontroso ma anche così protettivo. Del tuo modo di pensare, del tuo modo di dimostrare amore. Avrei voluto essere più forte per rivelarti quello che sentivo e il dolore che provavo. Ma posso farlo adesso.»
E dicendo ciò strinse la sua mano. Entrambi avvertirono un brivido come se fosse la prima volta in cui si sfioravano. Ichigo sentì un nodo alla gola. Non era da lui piangere, a meno che non fosse molto provato. E in quel caso lo era e non riuscì a trattenere un singhiozzo.
«Mi fa male.»
Rukia non resistette più. Se voleva, Ichigo poteva anche rifiutarla, ma lei avvertiva il bisogno di abbracciarlo, e così fece. Ichigo però non la rifiutò. Anzi, chiuse gli occhi e poggiò il viso sul suo seno. Si sentì regredire quasi fosse un bambino, ma non fu una brutta sensazione. E si ricordò di quando aveva conosciuto Rukia. Che per quanto strana e triste come occasione, aveva comunque segnato la sua vita in modo positivo.
 
 
«Tu eri sua amica?»
Quel ragazzo era arrivato all’improvviso e per un attimo aveva avuto paura, come s si fosse ritrovata davanti ad un fantasma: il ragazzo che le aveva parlato era identico a Kaien, eccezion fatta per i capelli, di un buffo colore arancione. Rukia si asciugò una lacrima e ritornò in sé, dopo essersi resa conto che quella era in effetti un’altra persona. Oh, lei e Kaien erano stati molto più che amici. Un amore segreto. Erano stati un fare progetti. Lui le aveva detto che l’avrebbe sposata non appena fosse diventata maggiorenne e lei sapeva che lo avrebbe fatto, perché Kaien non diceva mai le cose tanto per dirle. Ma poi quel maledetto incidente in un giorno di pioggia gliel’aveva portato via.
«Sì, eravamo amici» sussurrò. «Tu eri il suo…?»
«Cugino» rispose il ragazzo. «Mi chiamo Ichigo Kurosaki.»
A Rukia venne da sorridere. Era strano ma piacevole. Era rassicurante parlare con qualcuno che aveva la stessa faccia di Kaien, eppure Ichigo Kurosaki appariva anche molto diverso.
«Senti, io avrei un po’ fame. Non ho mangiato molto in questi ultimi due giorni e tu hai l’espressione di una che ha bisogno di qualcosa di caldo.»
Rukia rimase stupita da quel suo modo di preoccuparsi per qualcuno che nemmeno conosceva. Intuì subito che quell’Ichigo doveva essere una persona buona. Il pensiero la fece sorridere, la commosse.
«In effetti non mangio da un po’» ammise Rukia. A Ichigo non avrebbe detto de lsuo segreto, perché quella era una cosa solo sua e di Kaien, un qualcosa che sentiva di dover proteggere. Questo lo aveva deciso quando ancora non immaginava che quel ragazzo sarebbe diventato l’amore della sua vita.
 
 
Kisuke e Yoruichi stavano ancora pensando a come confessare ai loro figli della relazione con Soi Fon. Una relazione poligama non si vedeva tutti i giorni e sarebbe potuta risultare strana per loro. Quindi avevano concordato di non dire nulla per il momento, aspettare di vedere come andava. E le cose stavano andando molto bene. Yoruichi e Kisuke non avevano mai perso la passione, ma Soi Fon aveva riportato un po’ quell’aria che c’era sempre quando un amore era appena nato. Soprattutto, il sesso andava benissimo. Ah, era una sorpresa continua, spesso non riuscivano a staccarsi gli uni dagli altri. Questo però non voleva dire che non avessero dei pensieri per la testa. Tutti e tre temevano i pregiudizi altrui, malgrado la grande apertura mentale. Anzitutto avevano una differenza di età molto importante, solo Soi Fon e Kisuke si passavano ben ventisette anni. Soi Fon temeva invece di essere giudicata una rovina famiglia o una poco di buono. Non che la cosa l’avrebbe influenzata più di tanto, ma non era comunque piacevole. A tutto ciò non pensavano di certo, nessuno dei tre, durante il sesso.
«Oh, ragazze. Sono troppo vecchio per questo ritmo» ansimò Kisuke. Da un lato aveva Yoruichi e dall’altro Soi Fon, che ora si stringevano a lui con fare languido.
«Ma smettila, sei più in forma tu di certi giovani» disse sua moglie. «Allora, Soi Fon. Nel sesso orale, chi è più bravo?»
Yoruichi si divertiva spesso a metterla in difficoltà con quelle domande. Soi Fon arrossì. Come decidere? Erano entrambi perfetti.
«I-io non posso scegliere. Siete entrambi bravi.»
«Oh, cara Soi Fon, anche tu sei molto brava» Kisuke le accarezzò i capelli. Era del tutto preso da quella nuova relazione poligama, ma si sentiva un po’ in colpa perché si stava dedicando al lavoro e al suo progetto con Mayuri. Quest’ultimo lo avrebbe ammazzato, anche se forse al momento era troppo impegnato con i suoi problemi di coppia. Yoruichi sospirò, lisciandosi i capelli.
«Nessuno ci crederebbe, vedendoci.»
Soi Fon arrossì, lasciandosi coccolare da Kisuke.
«Ma come dovreste presentarmi ai vostri amici? Dicendo che sono… la vostra amante? La vostra… ragazza?»
Kisuke si mise a pensare. Amante suonava un po’ male.
«Effettivamente tu sei la nostra ragazza. Ma sei sicura vuoi che si sappia in giro? Verremmo molto giudicati, una relazione come la nostra non è ben vista.»
Soi Fon arrossì.
«Purtroppo lo so…»
«Non vi deprimete» disse Yoruichi. «Sono mal viste tante cose, almeno noi non facciamo del male a nessuno.»
«Per l’appunto!» Kisuke le diede man forte. «Stai tranquilla piccola Soi Fon, ti proteggiamo noi!»
Soi Fon arrossì e si imbronciò. Non era certo una bambina bisognosa di protezione, eppure non le dispiacquero le sue parole. Era un idillio, tutto troppo bello per essere vero.
 
 
 
Hayato tornò dentro. Gin e Rangiku non c’erano, quindi dovevano essere entrati per vedere come stava Rin. Toshiro si alzò, guardandolo.
«Puoi stare tranquillo, Rin è sveglia.»
Hayato sospirò, sollevato. Lui a Rin voleva bene. Anzi, gli voleva un bene proprio speciale, anche se era completamente incapace di dirlo.
«Meno male… Dov’è mia madre?» domandò guardandosi intorno.
«Sta parlando con tuo padre. Ma tu piuttosto come stai? Mi sei sembrato molto turbato.»
In realtà Hayato sembrava turbato da un pezzo, era diventato troppo silenzioso e taciturno, in realtà pensava di aver intuito il perché. Hayato fece spallucce, affranto.
«Ma perché ti importa di me?»
«… Cosa? Non capisco» Toshiro batté le palpebre. Hayato si sentiva in difficoltà, come se non sapesse esprimersi.
«Ah, non lo so nemmeno io! Perché hai fatto un altro figlio? Adesso cosa ti importa di creare un rapporto con me? Proprio adesso che stavi iniziando a starmi simpatico, tu fai un figlio che sarà veramente tuo. Non lo riesco proprio a sopportare!»
Anche se in modo molto confuso, Hayato aveva rivelato il suo cruccio e Toshiro aveva capito. Hayato era semplicemente un po’ geloso e impaurito di essere messo da parte. E poi era abituato a stare sempre al centro dell’attenzione.
«Hayato, ma… A parte che l’avere un figlio non era previsto e poi… ma questo non cambia certo le cose tra me e te!» Toshiro era sorpreso, non pensava che Hayato gli si fosse così affezionato.
«Certo che le cambia. Tra te e me, tra me e mia madre. Voi avrete la vostra famiglia. Io che di famiglie ne ho due, spesso mi sento bloccato in mezzo» disse strofinandosi un occhio. Non capiva perché dovesse dargli così fastidio. Suo padre adorava Miyo e la cosa gli era sempre andata bene, ma Miyo era una sua pari. Un bambino non ancora nato avrebbe catalizzato su di sé attenzioni e amore.
«Ti assicuro che non è così» ma come fargli capire che di lui poteva fidarsi?
Hayato distolse lo sguardo.
«È una cosa sciocca, lascia stare» borbottò,
«Hayato.»
«Toshiro, davvero, ora non è questo l’importante» disse, tornado ad un tratto serio. Hayato era in pensiero per Rin, ma di certo il discorso non finiva lì.
 
Quando Rangiku aveva visto sua figlia, l’aveva abbracciata e stretta e riempita di baci cercando di non piangere.
«Amore mio, mi dispiace tanto. Ma perché, perché non ci hai detto niente?»
Rin si lasciò cullare in quell’abbraccio.
«Non volevo far preoccupare nessuno, ma alla fine ho fallito comunque.»
«Rin, siamo i tuoi genitori, è compito nostro preoccuparci per te» Gin era sollevato di vederla muoversi, di sentirla parlare. Si era preso un bello spavemto.
«Sì, però…»
«Niente però. Sei tu la nostra priorità» decise Rangiku. Il resto sarebbe venuto dopo, per quanto importante o seccante. Non era il caso che Rin sapesse tutto nel dettaglio, per il momento. Ora dovevano pensare entrambi a curarla. «Andrà tutto bene, starai meglio.»
Rin chiuse gli occhi. Lei dubitava che sarebbe più stata meglio. Non fisicamente, ma psicologicamente.

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Capitolo 22
*** Capitolo ventidue ***


La notizia sul malessere di Rin aveva gettato i suoi amici e amiche in grande agitazione. Naoko non riusciva proprio a darsi pace. Si diceva, com’è che io che sto sempre attenta a tutto, non mi sono accorta di niente? Forse non conosco Rin poi così bene. Miyo stava ancora peggio ed era caduta in una sorta di mutismo. Si diceva che forse avrebbe dovuto agire prima, che se avesse agito prima, Rin non sarebbe stata così male. Era tutto troppo per lei e si sentiva inutile. Hayato era caduto nel suo stesso mutismo: tra la preoccupazione per Rin e il disagio che sentiva dentro, sarebbe stato capace di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Ma non lo avrebbe fatto.
«Non vi preoccupate, Rin sarà seguita e tornerà a stare bene, ne sono sicura» disse ad un tratto Ai, come sempre pragmatica e razionale. Nessuno di loro si sentiva in vena di seguire alcuna lezione.
«Ha ragione lei» le diede man forte Hikaru, ricevendo in cambio un sorriso che lo fece arrossire. Yami si alzò. Non che non fosse preoccupata per Rin, anzi, ma per il momento aveva solo un pensiero che le occupava la mente e che non le lasciava spazio per respirare. Ai decise di andarle dietro e anche Hikaru, aveva la sensazione che dovesse proteggerla, anche se di solito era sempre stata lei a proteggere lui.
«Dai, non fare quella faccia, Miyo» la tranquillizzò Naoko. «Alla fine cosa potevi fare? Noi non abbiamo mica gli strumenti.»
«… Per questo fa così male» ammise lei.
Hayato sospirò e Kaien, accorgendosi del malumore del suo migliore amico, gli si sedette accanto.
«Lo sai? Non sono abituato a vederti preoccupato. Ti capisco, vuoi bene a Rin.»
Hayato però lo guardò con tutta la serietà del mondo.
«Io a Rin non voglio solo bene, a me lei piace» dichiarò. Era la prima volta che trovava il coraggio di dirlo ad alta voce, anche se a prescindere da questo, chiunque lo aveva capito. Kaien sorrise.
«Ah, finalmente lo hai detto. E ti capisco ancora di più, perché anche io ho una ragazza che mi piace» e dicendo ciò guardò Kiyoko, la quale se ne stava timida e impettita a guardare Naoko. Forse era ora che quelle due chiarissero.
«Kaien, com’è avere un fratello?» domandò all’improvviso Hayato, cambiando discorso.
«Eh…? Beh, dipende, credo. Io e Masato spesso litighiamo, però lui mi capisce. Alle volte sembra quasi mi legga nel pensiero. È spaventoso, ma penso sia normale, perché siamo sempre stati insieme anche prima di nascere.»
Ma Hayato non avrebbe avuto un gemello, bensì un fratello molto più piccolo di lui, un bambino nato da un amore vero e sano. Lui non sapeva nemmeno se fosse stato voluto per amore o per semplice dovere, questo lo faceva star male.
«Io avrò un fratello più piccolo, ma non sono sicuro che la cosa mi piaccia. Perché lui deve avere un’infanzia felice e invece io per tanti anni sono stato male?»
Kaien arrossì, grattandosi la testa. A quel quesito non aveva una risposta.
«Io non lo so, però adesso le cose vanno bene, no? E poi i fratelli maggiori dovrebbero proteggere quelli più piccoli, non trovi?» domandò tutto impettito. Hayato sbuffò. Kaien era troppo giusto e retto e aveva un debole per Masato, che avrebbe protetto a costo della vita. Peccato che loro si conoscessero da una vita e che invece lui, questo bambino o bambina che sarebbe arrivato, non lo conosceva nemmeno.
 
«Nao… possiamo parlare solo un attimo?»
Naoko aveva assunto l’espressione di chi non vedeva l’ora che quel momento arrivasse, quando aveva sentito la voce di Kiyoko. Oh, come l’era mancata la sua dolce Kiyoko, migliore amica indiscussa dalla nascita. Aveva pensato in quei giorni a come avvicinarsi.
«Certo che sì! Ti prego, dimmi che sei venuta per dirmi che vuoi far pace e non per insultarmi.»
Kiyoko arrossì.
«Non è da me insultare. Direi che siamo state senza parlare anche troppo e io ho bisogno della mia migliore amica. E poi lo sai che la mia camera è tappezzata dalle nostre foto insieme.»
A Naoko brillarono gli occhi.
«Oh, Kiyoko!»
«… Però mi fa male quando mi tieni all’oscuro di qualcosa di importante. Noi ci conosciamo così bene. E poi Satoshi è mio fratello, per cui…»
Naoko annuì e prese la sua mano.
«Penso che alla fine, mi piace tanto scherzare, ma se si tratta di una vera relazione, vado in panico perfino io! Comunque non so se il problema si porrà più, magari Satoshi non vuole nemmeno più parlarmi.»
Kiyoko chiuse gli occhi e sospirò.
«Per questo ci sta fissando da dieci minuti?»
Satoshi arrossì quando si rese conto di essere stato beccato. Era molto in imbarazzo per via della sua ultima rissa, non era certo felice di essere stato visto da Naoko in quelle condizioni.
«Satoshi!» gridò Naoko.
Kiyoko fece spallucce.
«Vi lascio da soli.»
Non sapeva se Satoshi e Naoko un giorno sarebbero stati una vera coppia, ma in caso le sarebbe andato bene. Erano due tra le persone a cui teneva di più.
Naoko respirò profondamente e poi sorrise.
«Stai bene.»
«Eh? Ah, sì. Anche tu e… mi spiace per quello che è successo.»
«Perché ti scusi? Tu e Kohei avete fatto a botte per me. Forse ha frainteso le mie intenzioni, prende tutto molto alla lettera. Sono proprio una sciocchina.»
Lo aveva detto ridendo, ma Satoshi intuì che le veniva da piangere.
«Non sei sciocca. Però sai… forse… ecco, magari siamo troppo giovani per essere una coppia vera e proprio. M-ma questo non vuol dire che non mi piaci. Mi piaci molto e mi piace anche baciarci. Però, alla fine, abbiamo solo dodici anni… si può far piano, vero?»
Satoshi aveva parlato tutta ad un fiato, sperando di non averla ferita. Lui, Naoko, tutti loro, avevano tanto da scoprire, stavano appena iniziando a sperimentare l’amore. Lei si avvicinò, lo guardò negli occhi e gli posò un bacio sulle labbra.
«Hai ragione, è che a volte corro troppo. Però a volte so aspettare.»
Si poggiò su di lui e Satoshi l’abbracciò, teneramente. Gli abbracci gli erano sempre piaciuti, anche se non era capace di darne poi così tanti.
 
«Yamiii, aspetta un momento! Ma dove corri?» Ai era andata dietro la sua migliore amica seguita da Hikaru. Entrambi avevano l’impressione che stesse per scoppiare una bomba. Erano appena entrati nella classe di lei e Yami stessa si era accorta di come tutti i suoi compagni e compagne la guardassero. In realtà la gente non aveva fatto altro sin da quando era arrivata.
Hikaru si guardò attorno, arrossendo per la rabbia.
«Ma si può sapere che volete?!»
Non era da lui arrabbiarsi, ma quella situazione lo stava innervosendo. Ai gli poggi una mano sulla spalla, perché aveva capito ciò che era successo. Le foto di Yami erano state diffuse, doveva essere questo. Lo aveva visto una volta in un film e sapeva che certe cose potevano rovinare la vita di una persona sotto tanti punti di vista. Anche Yami aveva capito, aveva capito sin dal principio ed era rimasta bloccata perché voleva essere adulta e grande e affrontare quella cosa da sola. Ma lei non era un’adulta e non sapeva come affrontarla. Fingeva di non sentire nulla per non piangere.
«Yami» sussurrò Ai, invece molto provata. Yami la sentiva quell’aura di vergogna e giudizio su di lei, mista al disagio di sapere che tutti guardavano nei propri cellulari un suo momento intimo, che aveva scelto di condividere ricevendo in cambio quel tradimento.
«Lasciatemi in pace» sussurrò, rivolta a tutti e a nessuno in particolare.
 
 
«Così abbiamo una relazione tutti e tre! Ma non dirlo a nessuno, al momento.»
Kisuke Urahara a volte era davvero un uomo insopportabile. Mayuri voleva solo lavorare, ma questo non era possibile. Certo, mentre lui se ne stava lì a stressarsi, Kisuke Urahara faceva sesso con ben due donne ed era appagato. Non che lui sentisse il bisogno di una relazione a tre, ma al momento non si sentiva molto appagato in niente.
«Non è mia intenzione dirlo a nessuno. E non starò nemmeno a farti la morale, non mi interessa. In quanto adulto e vaccinato, puoi fare quello che vuoi.»
«Ooh, ma grazie! Sei un vero amico. E come va con la tua ex?»
Mayuri corrugò la fronte.
«Come pensi che vada? Ha messo in crisi Nemu rendendola gelosa. Il che non ha senso, visto che io non ho occhi che per lei.»
«Tenero! Non sapevo fossi così romantico!»
Un altro commento del genere e Mayuri gli avrebbe dato un pugno. La conversazione dei due fu però interrotta dallo squillo del cellulare di Urahara.
«Qui parla il dottore e primario di medicina Kisuke Urahara, chi è?» domandò gongolandosi, adorava presentarsi in quel modo. Il sorriso però gli sparì subito dalle labbra.
«Sì. Sì, capisco. Certo, io e mia moglie arriviamo subito.»
Mayuri lo osservò. Riconobbe in lui la stessa ansia che lui stesso si era ritrovato a provare, l’ansia del tipo mia figlia è in pericolo.
«… È tutto a posto?» domandò, apparentemente distaccato. Kisuke riposò il cellulare.
«Sono stato chiamato da scuola. Si tratta di Yami. Ti spiegherò, dopo.»
«D’accordo, vai ora, non star qui a perdere tempo con me» lo rimbrottò.
Mayuri continuava a pensare che i sentimenti, di qualsiasi tipo, fossero una cosa potenzialmente pericolosa e incontrollabile.
«Tutto bene, dottor Kurotsuchi?» domandò Akon, che poi era l’unico ad avere concentrazione sul lavoro. Yamada era preso dalla sua nuova relazione, Ishida non c’era e Kurosaki era concentrato su altro.
«No, non va tutto bene» rispose scorbutico.
 
A Yoruichi e Kisuke venne spiegato tutto, ma il preside Yamamoto aveva deciso di parlare con loro senza la presenza di Yami, con la quale aveva già conversato prima.  Nessuno dei due si sentì tanto sconvolto come in quel momento. Yoruichi lavorava con gli adolescenti ogni giorno e sapeva che certe realtà erano dure da affrontare, ma non avrebbe mai immaginato che potesse succedere a sua figlia. Kisuke era sconvolto per ben altri motivi, ovvero pensare che la sua bambina fosse stata violata in quel modo, fosse stata umiliata. La cosa lo fece incazzare parecchio, richiamando quel suo lato oscuro che solo raramente veniva fuori.
«Non vi serve che vi dica che la situazione è seria. Sappiamo chi è stato a diffondere quella foto e poiché in questa scuola non sono accettati simili comportamenti, lo studente in questione e i suoi complici saranno espulsi. Ma qui la cosa più importante è vostra figlia, è lei che si trova al centro del ciclone, al momento.»
Yoruichi ringraziò di essere seduta, altrimenti sarebbe svenuta di certo. Non riusciva a credere che stesse accadendo a lei, a loro.
«Quelle foto sono state cancellate?»
«Sono state cancellate, ma non si può mai dire fin dove si può arrivare con questi strumenti al giorno d’oggi. Oh, ma non preoccupatevi. Non intendo punire vostra figlia, è solo una bambina, che è stata circuita da uno studente più grande.»
Yoruichi si irrigidì. Yami sapeva bene cosa stava facendo, non era così ingenua. Come le era venuto in mente di fare una cosa del genere?
Kisuke era inquieto. Non sapeva come comportarsi in quel caso? Sapeva tante cose, ma quella no.
 
Soi Fon aveva saputo cos’era successo e, nonostante non fosse un genitore di Yami, era comunque stata un adolescente da poco, quindi ricordava bene cosa si provasse. Si era seduta accanto a Yami, la quale ancora si ostinava a non piangere.
«Lo sai? Questa è un’età terribile, me lo ricordo troppo bene. E tu sei molto più matura di quanto lo fossi io, quindi pensa un po’…»
«Scusa, ma le tue parole non mi aiutano. Ora tutti mi guardano come se fossi una poco di buono. Mi sento… non lo so. Come se il mio corpo non fosse più mio, come se io non fossi più mia.»
Soi Fon fu attraversata da un brivido. Le venne l’istinto di circondarle le spalle con un braccio e lo avrebbe fatto, ma Yoruichi e Kisuke uscirono in quel momento dall’ufficio di Yamamoto.
Yami si mise in piedi, dritta.
«Mamma, io-»
Yoruichi la zittì con un gesto della mano. Era tanto tentata di schiaffeggiarla in viso, cosa che non aveva mai fatto con nessuno dei suoi figli, ma evitò.
«Non voglio sentire nemmeno una parola da te. Quello che hai fatto è stato da stupide e da incoscienti. E non è così che ti ho cresciuta.»
Kisuke intervenne in favore della figlia.
«Ma Yoruichi, non credo che la colpevole di questo sia Yami.»
«E io sono d’accordo!» esclamò Soi Fon. Yoruichi si stava comportando in modo ingiusto e non ne capiva la motivazione, le era sempre sembrato che stesse molto dalla parte dei ragazzi.
Yami si era nascosta proprio dietro i suoi protettori.
«Non voglio sentire discussioni, ne riparleremo a casa» disse lanciando un’ultima occhiataccia alla figlia Yami avvertì un forte senso di nausea ed ebbe la sensazione che tutto avesse preso a girare. Ancora non riusciva a piangere.
 
Uryu sapeva che la sua riabilitazione psicologica sarebbe stata lunga, che tra farmici, sedute, pianti e sofferenza, sarebbe stato anche difficile. Ma era un medico e sapeva lui stesso quanto fosse importante intervenire al più presto su certi mali. Lui non ce l’aveva con i suoi genitori per avergli nascosto una cosa del genere. In realtà ce l’aveva con loro solo in parte, ma dall’altra parte si chiedeva come si sarebbe comportato lui. Forse avrebbe fatto lo stesso, o forse no. Non poteva vederlo. Al momento comunque non si sentiva molto in vena di reagire, né di parlare. Era più corretto dire che si trovasse in uno stato di apatia, gravissimo per uno orgoglioso come lui. Ichigo quel giorno era andato a trovarlo. Per quanto gli facesse impressione vedere il suo migliore amico, doveva e voleva esserci.
«Grazie per essere venuto» gli aveva detto Tatsuki. «Uryu ha bisogno di te.»
«Ha bisogno anche di te, se è per questo.»
Tatsuki allora si era morsa il labbro e aveva trattenuto le lacrime e la voglia di dire mi sento piuttosto inutile.
Ichigo aveva trovato Ishida seduto, l’espressione stanca. Era sempre lui, in versione più stanca, sfibrata e fragile.
«Kurosaki.»
«Eh già, in persona. Che razza di amico sarei altrimenti? Hanataro ti porta i suoi saluti, voleva venire a trovarti ma aveva paura di disturbare. Perfino Kurotsuchi è preoccupato per te, ma questo ovviamente non l’ha detto, ci sono arrivato da solo.»
Uryu sorrise debolmente.
«Sto un vero schifo.»
«Lo so. Ma tu sei forte, supererai anche questa» gli disse, sedendoglisi accanto. Uryu non piangeva mai, non era nel suo carattere, piuttosto tendeva ad arrabbiarsi, ora invece non ne aveva neanche la forza.
«Tu pensi? Perché io so solo che devo fare i conti con una parte della mia vita che avevo addirittura dimenticato. Mi sento come se fosse successo a qualcun altro e non a me. Ma perché è dovuto succedere a me? Perché deve succedere e basta?»
Ichigo non aveva risposte per quelle domande.
«Perché a volte il mondo è terribile. Vorrei prendere a pugni la persona che ti ha fatto questo.»
«Non è necessario. Mia madre mi ha detto che è stato arrestati dieci anni fa. Indovina  per cosa? Molestie sessuali su minori, ma a me questa cosa non fa stare bene. Perché mi è rimasto un dolore latente che ora è esploso, e chissà quanti come me. Forse ero un bambino troppo debole.»
«E sta zitto, Uryu.»
Malgrado fossero amici da una vita, si erano sempre chiamati per cognome. Ma non ora.
«… Come?»
«Non dire certe cose. Eri solo un bambino, non è stata colpa tua, non sarebbe stata colpa tua a priori. Cazzo, lo sai come sono fatto io. Voglio sempre proteggere le persone a cui tengo, e non ho potuto proteggere te.»
Ishida lo guardò e si aggiustò gli occhiali, in imbarazzo.
«Nemmeno ci conoscevamo.»
«E chi se ne frega? Mi fa incazzare lo stesso. Ora fa tutto schifo e hai ragione, ma col cavol  che ti mollo. Io ci sono e c’è Tatsuki, ci siamo tutti. Quindi non preoccuparti, aggrappati pure a noi, se avrai bisogno.»
Uryu si schiarì la voce. Non era da Kurosaki essere così sentimentale. Beh, in realtà non lo era nemmeno da parte sua. Però questo era ciò di cui aveva bisogno.
«Ne ho bisogno, Ichigo.»
Aveva paura di non riuscire ad essere più lo stesso. Più un bravo padre, o marito, o amico, o chirurgo o uomo. Però loro di certo erano sempre gli stessi. Ichigo sorrise e in quel momento entrò Tatsuki. Anche lei aveva paura di non poter essere brava, di non potergli essere di nessun aiuto.
«Uryu» sussurrò. Lui le porse la mano e quando lei gli diede la sua, lui la baciò.  Non sapeva ancora come avrebbe fatto, ma almeno non era solo questo non lo avrebbe dato per scontato.
 
«Per favore, prenditi cura di Hayato mentre è da te. Toshiro mi ha confessato ciò che gli ha detto, non credo abbia preso molto bene la notizia della mia gravidanza. Era una cosa che immaginavo.»
Momo sospirò, stanca. Si stancava molto facilmente a causa del suo stato e stava cercando di non stressarsi, ma era difficile non pensare ad Hayato. Sosuke si era reso conto oramai da qualche anno di quanto suo figlio fosse sensibile, tratto che di sicuro aveva preso dalla madre.
«Farò del mio meglio, anche se Shinji è più bravo di me in questo» ammise.
Momo sorrise.
«Spero che a lui non dia fastidio. La mia presenza qui, intendo»
Sapeva che a volte situazioni del genere potevano essere imbarazzanti.
«Infastidito, lui? Ma non preoccuparti assolutamente. Comunque lascia fare, con Hayato le cose si sistemeranno.»
 
«Miyo, piano. Non c’è bisogno di disperarti in quel modo.»
Che Miyo fosse divenuta molto più emotiva dalla comparsa delle prime mestruazioni era evidente e normale. Ma era comunque strano per Shinji, abituato ad una bambina mite e tranquilla.
«Non capisci, io mi sento inutile» singhiozzò. «Lo sapevo e non ho detto niente per troppo tempo!»
«Nemmeno un adulto avrebbe saputo come agire. Calma, respira.»
Le prese il viso tra le mani. Alla fine sua figlia gli somigliava parecchio, anche lei aveva il desiderio di essere utile per le persone che amava, dimenticandosi che non tutto era sotto il loro controllo.
Aizen rientrò dopo la sua chiacchierata con Momo e ricevette quasi subito uno sguardo truce da parte di Shinji.
«Sì?»
«Devo forse preoccuparmi del fatto che tu e tua moglie sembriate più complici ora rispetto a quando eravate sposati?»
Non era da Shinji fare scenate di gelosia e in effetti non era nemmeno la gelosia il problema. Però un po’ si sentiva in competizione. Sosuke alzò gli occhi al cielo.
«Parlavamo di Hayato, veramente. Tu sei l’unico che può fare qualcosa.»
«E-eh? Io?» Shinji si era ritrovato Miyo appiccicata a lui, era in un quel suo momento no dove aveva bisogno d’affetto. «Pensavo che lei fosse infallibile, come madre.»
Aizen non aveva mai nascosto il fatto che Momo fosse brava come madre e che sapesse sempre risolvere i problemi. Shinji si sentiva molto più sprovveduto.
«… Io non l’ho mai detto.»
«Sì, ma cosa dovrei fare? Ho parlato con lui, ma non posso mica forzarlo.»
«Papààà, io sono ancora qui» piagnucolò Miyo.
«Scusa, dolcezza! Senti, lui non mi considera nemmeno una figura genitoriale, parlaci tu» si arrese Shinji. Non poteva certo costringere qualcuno a volergli bene in un determinato modo. Sosuke lo ascoltò e percepì il suo tono vagamente dispiaciuto. Decise che sì, poteva parlare con suo figlio.
Hayato se ne stava in camera sua, la musica alle orecchie. Se c’era una cosa che detestava era deprimersi, ma che scelta aveva dopotutto? Perché non riusciva a fidarsi della gente che gli diceva di volergli bene?
Sentì un toc toc. Shinji o suo padre? Non sapeva cosa sarebbe stato peggio.
«Avanti.»
Sosuke entrò, guardandosi attorno.
«Possiamo parlare?»
Hayato si mise seduto.
«Accomodati. So che hai parlato con mamma. E prima che me lo dica anche tu: io non sono geloso. Cioè, non tanto.»
«A dire il vero non avevo ancora formulato la frase da dire, ma visto che hai preso il discorso… non fartene un cruccio, la gelosia è normale.»
Hayato corrugò la fronte.
«C’è una cosa che voglio sapere. Io sono stato voluto? Sono nato perché mi volevate o… è successo e basta perché andava fatto?»
Sosuke si ritrovo sorpreso. Molto più che sorpreso. Una domanda del genere era inaspettata quanto difficile. Il suo matrimonio con Momo non era mai stato un idillio, non sempre almeno. All’inizio erano stati una coppia nella norma. Lei di figli ne aveva sempre voluti, lui non ci aveva mai pensato. Dava per scontato che sarebbe capitato, ma aveva deciso di non volerne più di uno, in caso.
«Difficile a dirsi, sei arrivato quasi subito. In realtà non abbiamo neanche avuto il tempo di pensare.»
Non era sicuro che come risposta gli piacesse.
«Ma almeno tu amavi mia madre? L’hai mai amata?»
Altre domande difficili.
«Hayato, questo cosa ha a che fare con ciò che sta accadendo?»
«Ha a che fare, perché ha influenzato tutta la mia vita. Io non ho avuto anni facili. Ma lui li avrà perché ha dei genitori che si amano.»
Finalmente Sosuke capì. Ma era un qualcosa che non poteva risolvere. Il passato era passato, poteva solo lavorare sul presente.
«Hayato, ci sono tante persone che ti amano. Io compreso. E tua madre, Toshiro, Miyo… Shinji. A proposito, penso che a lui farebbe piacere avere un rapporto piùblue stretto con te. Mi parla sempre di te.»
«…. Ah sì? Ha provato ad abbracciarmi» ammise.
«Per l’appunto, lui non abbraccia chiunque. E nemmeno io» si avvicinò ad Hayato e lo strinse con un braccio, baciandogli i capelli. Suo figlio si irrigidì in un primo momento e poi si lasciò andare. Ecco, era quello, proprio quello ciò che stava cercando.
 
 
Momo raggiunse Toshiro, il quale le aveva detto torna a casa, non c’è motivo che si stanchi inutilmente. Ma di certo non lo avrebbe lasciato da solo ad annegare nelle proprie preoccupazioni. Toshiro infatti si trovava ancora in ospedale, a breve avrebbe potuto vedere Rin.
«Momo, ma che fai qui? Dovresti stare a casa.»
«Ho mangiato e fatto una doccia. Sto bene, sono incinta, non malata» disse sedendosi accanto a lui. «Sei tu quello che desta più preoccupazioni.»
Toshiro sospirò, incurvandosi appena.
«Diventerei pazzo se a Rin accadesse qualcosa.»
«Ma non è successo niente di irreversibile, come vedi» Momo gli accarezzò la schiena. E l’addolcì il pensiero che Toshiro sarebbe stato proprio un bravo padre.
«Lo sai, Momo? Tuo figlio somiglia ad Aizen, ma in alcune cose somiglia a te. È piuttosto sensibile»
«A me? È la prima volta che qualcuno me lo dice. Oh, Shiro. Sono preoccupata per mio figlio. E sono preoccupata anche per questo bambino in arrivo» disse stringendosi il ventre. «Di errori ne ho fatti.»
«E ne faremo» sospirò Toshiro poggiando la mano sulla sua. «Stai tranquilla. Credo che tuo figlio abbia bisogno di essere stretto in un abbraccio. Posso provare, ma magari mi prenderà a pugni.»
Momo si mise a ridere. Voleva davvero essere una brava madre, per Hayato e per quell’inaspettato piccolino in arrivo
Gin uscì dalla stanza di Rin e fece loro un cenno.
«Se volete, potete entrare.»
«Bene!» Toshiro si tirò su. «Tu stai bene?»
Gin gli sorrise, ma era evidente che bene non stava affatto.
«Mi passerà. Su, Rin è molto impaziente di vederti.»
Quando rimase solo, si lasciò andare ad un profondo sospirò. Non ci voleva, due eventi terribili e tutti insieme. Una denuncia a suo carico, una ragazza che per vendetta voleva farlo passare per un molestatore.
«Amore mio, a cosa pensi?»
Gin non si era aspettato che Rangiku lo stesse osservando. Sua moglie era sempre bellissima ed elegante, nonostante l’espressione stanca e provata.
«Pensavo che non ho voglia di mettere in mezzo legali. Sarebbe troppo lungo. Intendo parlare con Loly.»
«Gin! Ma che ti salta in mente? E cosa avresti in mente? Chiedergli di ritirare la denuncia? Non lo farà mai, si è sentita rifiutata e ora è arrabbiata.»
«Voglio solo parlare con lei, Rangiku. Non voglio mettere di mezzo avvocati e seccature varie.»
Suo marito era forse impazzito? Parlare con lei? E a che pro? Loly era una ragazzina viziata, forse anche psicopatica a giudicare da come si comportava.
«Io vengo con te.»
«Rangiku, non-»
«A situazioni inverse, mi avresti lasciata andare da sola?» domandò con gli occhi lucidi. Non aveva torto, ma Gin non voleva vederla piangere. Si avvicinò a lei e la strinse a sé.
«Va bene, hai ragione. Su, non fare così. Non dobbiamo fare preoccupare ulteriormente Rin. Anzi, direi che al momento lei è la priorità, il resto può aspettare.»
Rangiku annuì, poggiando la fronte sulla sua spalla e respirando profondamente. Lo avrebbero superato, insieme.
 
 
A casa Urahara la serata non si prospettava tranquilla. Yoruichi aveva preso a discutere animatamente con Yami, era a dir poco furiosa e sua figlia non era da meno.
«Come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere? Sei ancora una bambina, non dovresti fare certe cose!»
«Io non sono più una bambina» protestò Yami. «E poi la colpa non è mia, è di quel cretino.»
Kisuke sospirò. Aveva male alla testa. Soi Fon se ne stava rigida, non sapendo che dire. Aveva paura di risultare invadente, ma starsene in silenzio non era certo facile.
«Yoruichi, mia cara, la nostra Yami…»
«Tu la difendi sempre, Kisuke, non sai essere severo» lo rimproverò sua moglie. «Scordati il cellulare per un mese, almeno.»
Yami sgranò gli occhi e poi strinse i pugni.
«Io ho subito il torto e io vengo punita! Mamma, sei veramente crudele, e ingiusta anche.»
Soi Fon decise di provare a dire la sua, non trovava giusto quello che stava accadendo.
«Yoruichi, Yami non ha fatto niente di male. È vero, è giovane, ma nessuno ha il diritto di fare certe cose e…»
Yoruichi sollevò un dito per zittirla.
«Io non sto dicendo che qualcuno abbia il diritto di fare certe cose, sto dicendo che se Yami si fosse comportata come una ragazzina della sua età, non sarebbe successo. E se non ti dispiace, Soi Fon, lei è mia figlia.»
Soi Fon arrossì, affranta. Lei non era la madre di Yami, né la sorella, ma se doveva entrar a far parte di quella famiglia, voleva che il suo parere contasse qualcosa.
«È anche figlia mia» disse Kisuke, duramente. Yami, rigida sulla sedia, fu attraversata da un brivido.
«Posso andare in camera mia?»
«Ah… sì, vai, tranquilla» la rassicurò Kisuke. Soi Fon percepì immediatamente la tensione tra i due, non sapeva se rimanere o restare.
«Yoruichi… per favore, non essere troppo severa con lei. Ha già subito una violenza terribile.»
«Kisuke, lo so! Ma io chiedo… perché? È solo una bambina, lei non dovrebbe trovarsi in queste situazioni!»
Soi Fon avrebbe voluto dire che Yami stava crescendo, che quella era l’et in cui ci si voleva sentire grandi, in cui si sperimentavano anche tante cose, che Yami non andava certo rimproverata, in quanto vittima. Per quanto giovane e sconsiderata potesse essere, lei non aveva colpa. Ma non disse niente perché non cu teneva a essere di nuovo zittia.
«Vi lascio parlare da soli» mormorò. Non era proprio un buon punto di partenza, quello.

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Capitolo 23
*** Ventitré ***


Capitolo ventitré

Karin era solita ad avvertire quando andava a trovare Ichigo, ma quel giorno doveva esserle passato di mente. Ichigo aveva intuito qualcosa nel momento in cui la sorella gli si era presentata davanti: Karin sembrava infatti star sforzando i sorrisi e sembrava anche essere venuta lì per togliersi un peso di dosso. Ichigo aveva in effetti indovinato.
«Ultimamente è dura con Kohei. Non vuole andare a scuola e non so come prenderlo.»
Ichigo ammirava la sorella, al posto suo non avrebbe saputo come comportarsi. Le offrì una tazza di tè e poi gli si sedette davanti.
«Deve essere piuttosto sconvolto da quanto successo.»
Karin abbassò lo sguardo. Oh, era molto più che sconvolta. Addirittura era arrivato a spingerla in un momento di rabbia. Questo le aveva fatto male, più a livello mentale che fisico. Quelli erano i momenti in cui sentiva di non star facendo abbastanza per suo figlio, di non starlo aiutando come meritava.
«Più cresce e più è difficile. E io mi sento tanto egoista, perché alle volte vorrei solo respirare. A volte ho perfino pensato che sarebbe bello se fosse come tutti gli altri. Lo so, è orribile da parte mia.»
L’ultima cosa che Ichigo voleva era vedere sua sorella piangere. Karin poi non piangeva mai, ma la situazione era provante, per lei.
«Ehi, non fare così» Ichigo si alzò per abbracciarla. «Non sei egoista. Sei umana. Sai quante volte i gemelli mi hanno fatto pensare chi me l’ha fatto fare? Penso sia normale avere questi attimi, ma tu vuoi bene a tuo figlio. Sei una leonessa che difende il proprio cucciolo!»
Lei si strinse al fratello, trattenendo a stento le lacrime.
«Il problema è che sta diventando così arduo. Mi dispiace, non è da me starmene a piagnucolare» Karin si asciugò il viso con una manica. «Spero che almeno le cose tra te e Rukia vadano meglio.»
Ovviamente si era venuto a sapere quanto successo tra lui e Rukia, anche se per fortuna nessuno si era immischiato.
«Diciamo che… abbiamo bisogno del nostro tempo. E io devo rimparare a fidarmi di lei» ammise.
Il pensiero andò a sua moglie. Era così doloroso essere così distanti, essere bloccato dal dolore. Voleva che tutto tornasse com’era, ma allo stesso tempo non aveva il controllo.
 
 
Rukia aveva deciso di dedicarsi, quel giorno, al lieto evento che aveva saputo (non dai diretti interessati). Suo fratello si sarebbe sposato e lei non poteva farsi i fatti propri.
«Allora, allora. Dove volete sposarvi?» domandò Rukia concitata. Aveva nel piattino un sacco di mochi che stava divorando e una tazza di tè verde che si era riempita per ben due volte. Byakuya e Renji si guardarono. Ovviamente Rukia si stava gettando sulla preparazione del matrimonio per non pensare alle sue sofferenze.
«Ecco… io vorrei una cerimonia originale, magari un po’ punk, un po’ rock, qualcosa di giovanile» iniziò a dire Renji. A essere presenti erano anche Ikkaku e Yumichika, per dar supporto ai due.
«Mi piace questa cosa» commentò Ikkaku.
«Assolutamente no» disse Byakuya, serio. «Sarà una cerimonia elegante e modesta, niente di pacchiano.»
«E io sono assolutamente d’accordo!» disse Yumichika. I due futuri sposi avevano dei gusti molto diversi. «Tra l’altro, in quanto stilista, ci penserò io ai vostri abiti! Lo so, non serve che mi ringraziate.»
Renji sollevò un dito.
«Posso avere qualcosa di comodo?»
Yumichika lo guardò male.
«A un matrimonio non si sta comodi, a un matrimonio si soffre!»
Rukia mangiò l’ennesimo mochi ai fagioli rossi.
«E dovranno esserci dei fiori. Volete sposarvi in inverno, vero? Ci vuole qualcosa di resistente al freddo.»
«Allora usiamo i fiori finti» suggerì Renji. Ma anche quella sua idea venne bocciata.
«Questo è terribilmente inelegante» disse infatti il suo promesso sposo. Oh, erano proprio divertenti a vedersi, almeno questo pensò Rukia. A lei i matrimoni erano sempre piaciuti. Si entusiasmava. E si ricordava il suo. Anche lei e Ichigo avevano idee molto diverse, però era stato proprio un bel matrimonio, non tutto era andato alla perfezione, ma nonostante ciò era stato stupendo. Le venne la malinconia a ripensarci.
«Vado a fare dell’altro tè» disse, alzandosi.
«Aspetta, non vorrai lasciarmi qui da solo, eh?» chiese Renji. Rukia stava per diventare ufficialmente sua cognata, non poteva lasciarlo da solo ad affrontare Byakuya e soprattutto Yumichika, che si era improvvisato wedding planner.
«Dicevamo… che ne dite di un complesso per la marcia nuziale?»
«Scusa, ma non volevi qualcosa di elegante e modesto?» protestò suo marito. Renji alzò gli occhi al cielo e poi sorrise in direzione di Byakuya.
«Sto accarezzando l’idea di sposarci in segreto, che ne pensi?»
Byakuya sorrise lievemente, ma i suoi occhi non riuscirono a nascondere la malinconia.
«Penso che sarebbe una buona idea.»
Era inevitabile per lui ripensare al giorno del suo primo matrimonio. Non voleva ricacciare il pensiero fingendo che non fosse mai esistito, ma gli portava comunque una sensazione dolce amara. Lui e Hisana si erano sposati con un rito shintoista, avevano indossato abiti tradizionali. Poi c’era anche stato il rito civile e ricordava i pochissimi invitati, Renji come suo testimone che ai tempi (seppur non potesse saperlo) lo guardava e pensava a quanto avrebbe voluto essere al posto di Hisana. Doveva avere ancora delle foto da qualche parte, chissà dove.
«Vado a vedere cosa mia sorella combina» disse all’improvviso. Renji avrebbe voluto dirgli no, rimani, ti prego! Ma invece non disse nulla.
 
Raggiunse la sorella in cucina: Rukia stava facendo bollire l’acqua e sembrava piuttosto pensierosa.
«Dal tuo entusiasmo, sembra quasi che il matrimonio sia il tuo e non il mio.»
Rukia si voltò e gli sorrise.
«Sì, beh. L’ultima volta che ti sei sposato non mi hai lasciato modo di aiutarti. Tu e Hisana eravate molto riservati, penso che se aveste potuto, vi sareste sposati in segreto.»
Era vero ciò che diceva Rukia, lui e Hisana avevano condiviso l’indole tranquilla e timida, si erano sempre trovati bene. Ora invece un uragano rosso aveva stravolto la sua vita, facendolo innamorare così tanto da portarlo di nuovo a compiere a quel passo, contro ogni sua aspettativa.
«Comunque sono molto felice che tu e Renji abbiate deciso di sposavi. Ve lo meritate proprio» Rukia trattenne a stento un singhiozzo. Era felice per loro, ma inevitabilmente pensava anche al suo di matrimonio, così messo in crisi. Byakua lo capì.
«Ti prego, non piangere. Spero che per allora, tu e Ichigo siate tornati ad andare d’amore e d’accordo. Siete i miei testimoni, dopotutto.»
Rukia sorrise e si asciugò una lacrima solitaria sulla guancia.
«Ah, certo. E tu invece non fare impazzire troppo il povero Renji.»
Byakuya assunse un’espressione offesa. Fare impazzire Renji? Era più facile il contrario.
 
 
«Sta tranquillo, amore mio? Qual è la cosa più terribile che potrebbe accadere?»
Nnoitra alzò lo sguardo verso Neliel, la quale teneva dolcemente il suo viso tra le mani.
«È proprio necessario psicanalizzarmi?» borbottò. Nnoitra inarcò un sopracciglio, indispettito.
«È un esercizio che funziona però, dico bene? Allora, dimmi» insistette Nel. Nnoitra sbuffò.
«Immagino sia… il tornare a non parlarci più. E il sentirmi dire cose che possono far male. Il dolore fa schifo.»
«Oh, puoi ben dirlo.»
Neliel non aveva mai abbandonato l’istinto di volerlo proteggere. Anzi, si proteggevano a vicenda, guardandosi le spalle da sempre. Neliel aveva chiesto ai suoi suoceri di venire a casa loro quel giorno, era ora che Nnoitra chiarisse con tutti e due. Il diretto interessato si era anche costruito un discorso ben preciso, ma sapeva che sarebbe andato molto più di sentimento che di ragione. Lui era fatto così. Nel pomeriggio i suoi genitori arrivarono, Sun-a provava sempre a cercare un contatto fisico, magari un abbraccio, che Nnoitra puntualmente rifiutava. Suo padre invece si limitava ad un cenno del capo.
«Non c’è Naoko?» domandò Sun Ah. Nnoitra si sedette di fronte a loro.
«Siamo solo noi adulti. Credo che sia arrivato il momento di mettere in chiar alcune cose. Nnoitra ha qualcosa da dire a tutti e due.»
Dopodiché guardò suo marito. Il Nnoitra di un tempo si sarebbe lasciato andare alla trabbia, il Nnoitra consapevole avrebbe fatto appello al suo dolore, per quanto la cosa ancora lo ferisse nell’orgoglio. Nnoitra li guardò entrambi, guardò sua moglie, perché era sempre lei a dargli coraggio.
«E va bene, facciamo questa cosa. Se non è stato mai chiaro ciò che provo, lo sarà adesso. Sapete cosa? Voi mi avete spezzato il cuore, ben più di una volta! Sono sempre stato un bambino e un ragazzo dal carattere difficile, questo non è cambiato. Da un lato ho sempre avuto un padre troppo severo e da un lato una madre che…» guardò Sun Ah. «Preferiva far finta di niente davanti a certe cose. Sono sempre stato giudicato duramente, per il mio brutto carattere e per le mie ambizioni non comuni. E tu» poi guardò suo padre. «Per non parlare poi dei miei problemi con la legge. È stata dura, dopo che Tesla è stato ucciso. Sono guarito solo da qualche anno perché per tanto tempo sono stato convinto che meritavo di essere ucciso al posto suo.»
Neliel si commosse nel sentirlo parlare così. Lei sapeva cosa avevano passato. Sun Ah tirò su col naso.
«Nnoitra.»
«Non ho finito» disse duramente. «Me l’avete fatta pesare parecchio. Tu, papà, con le tue parole, e tu mamma, col silenzio. Papà, mi dicevi sempre che nella vita non sarei diventato nessuno di importante, che non avrei combinato niente. Ti sbagliavi. Dico, tu vedi Naoko? Io ho – noi due abbiamo – fatto con lei un cazzo di lavoro perfetto. Mia figlia è coraggiosa e buona come sua madre, e mi piace pensare che qualcosa abbia preso anche da me. Ho un lavoro che mi piace, la gente mi ferma per strada perché mi riconosce. Riconosce il mio lavoro. Ho degli amici, amici veri. Ho superato il mio dolore» Nnoitra aveva iniziato ad agitarsi. Non voleva certo piangere davanti a loro, ma stava diventando difficile. «E queste cose io le ho fatte da solo, senza di voi, anche se era compito vostro stammi vicino! E quindi sì cazzo, io sono incazzato e sono anche ferito. Detto ciò, con o senza di voi andrò avanti lo stesso.»
Neliel non riuscì a resistere all’impeto di abbracciarlo. Avvertiva il suo dolore, le sue emozioni. Nnoitra ritornò in sé con quell’abbraccio e si accorse solo in quel momento di una lacrima che gli era sfuggita. Si asciugò una guancia. Sun Ah stava piangendo, ma in modo sommesso.
«Nnoitra, non so cosa dire se non che hai ragione. Sono sempre stata in silenzio» dicendo ciò guardò suo marito, il quale sembrava addirittura in imbarazzo.
«Ho capito quello che vuoi dire. Ma quello che ho sempre detto e fatto era per il tuo bene» affermò Shirai.
«Non sapevi nemmeno qual era il mio bene» disse Nnoitra, riprendendo il controllo di sé. «A volte mi sono chiesto se mi voleste bene.»
«Certo che te ne vogliamo!» disse Sun Ah. Ma capisco il perché tu lo abbia pensato. Come genitori abbiamo fallito entrambi.»
Neliel accarezzò la schiena di suo marito.
«Non direi, del tutto. Avete messo al mondo e cresciuto la persona che amo, quindi per questo dovrei esservi grata.»
Nnoitra arrossì, ma non disse niente. Si era liberato di un bel peso, aveva detto ciò che doveva dire. Ora toccava ai suoi genitori. Con sua madre sarebbe stato forse più facile, con suo padre chissà. Ma con o senza di loro avrebbe continuato ad andare avanti.
 
 
Ulquiorra accartocciò l’ennesimo foglio. Aveva in mente un nuovo dipinto, il problema era che l’idea rimaneva lì, nella sua testa e non riusciva a trasporlo. Di solito, non riusciva a dipingere quando aveva qualche pensiero in testa. Lui lo sapeva e lo sapeva anche Orihime, la quale gli aveva portato del tè e dei biscotti da lei preparati.
«Ulqui, perché non fai una pausa?»
Ulquiorra gli lanciò un’occhiata stanca e si concesse un sorso di tè e un biscotto. Niente sapori strani, semplici gocce di cioccolato.
«Temo che mi ci vorrà un po’. Mi sta venendo il blocco.»
«È per Satoshi, non è vero?» domandò Orihime senza girarci attorno, sarebbe stato inutile. A Ulquiorra andò di traverso un sorso di tè.
«… Mi sento come se mi fossi bruciato le mie possibilità di stringere un legame con lui. Non volevo spaventarlo, ma è da quando è arrivato in questa casa che sto cercando di costruire qualcosa… Forse non dovrei forzare le cose.»
Orihime gli afferrò la mano.
«Ma tu non hai forzato niente! Satoshi non ce l’ha con te. Per lui è solo difficile lasciarsi andare del tutto, è diffidente, lo sai.»
Ulquiorra avvertì una sensazione che ben conosceva. Si trattava dell’invidia e della gelosia e il fatto che dovesse provarla nei confronti della donna che più amava al mondo, lo faceva sentire una persona orribile.
«Hime, io… mi dispiace, sono un marito terribile» disse con un sussurro. «Perché ti invidio. Ho sempre ammirato la tua capacità di farti volere bene da tutti senza alcuno sforzo. Ma con Satoshi è diverso. Lui ti si è legato subito. Quello che mi chiedo è… perché con te sì e con me no?»
Smise di parlare perché non voleva apparire più patetico di quanto già non fosse. Orihime lo ascolto, sorpresa. Non si aspettava che suo marito pensasse una cosa del genere e forse avrebbe dovuto. In effetti lei era sempre stata quella più facilmente amabile della coppia, almeno nell’immediato. Per conoscere i pregi e la vera persona di Ulquiorra ci voleva tempo, ma non immaginava che in qualche modo potesse soffrirne.
«Io… io ti ho messo in ombra, non è vero?» domandò, affranta.
Lui scosse la testa.
«Tu sei un raggio di sole, io sono più un’ombra. È sempre stato così, e non mi è mai pesato. Lo so, non è colpa di nessuno, però…voglio bene a Satoshi. Forse lui non me ne vuole. Forse non si fiderà mai. Ha creduto che volessi picchiarlo. Io non picchierei mai nessuno. Lo sai, vero?»
Orihime si portò una mano davanti al viso e poi si sporse in avanti per abbracciarlo.
«Certo che lo so. Ti conosco, so chi sei. Il marito e il padre migliore del mondo. Anche io sono tanto imperfetta. Lo sai quello che abbiamo passato qualche anno fa.»
Ulquiorra la strinse a sé. Come dimenticarlo? Quel periodo delle loro vite li aveva messi a dura prova. Orihime decise che, se davvero Satoshi si sentiva così legato a lei, allora poteva e doveva far qualcosa. Poteva essere l’anello di congiunzione che avrebbe fatto avvicinare Ulquiorra e Satoshi.
 
Nemu ultimamente non riusciva a prendere sonno. In realtà era piuttosto nervosa e inquieta da quando quella donna era comparsa nella sua vita, nella loro vita, sua e di suo marito. Nemu non era mai stata gelosa perché non ne aveva mai avuto motivo. Non aveva motivo nemmeno adesso, ma sarebbe stato più facile se solo fosse stata in pace con sé stesso. Lei, che era stata una bambina e poi una ragazza sola, che era timida e silenziosa, che era una semplice infermiera, una donna e una madre. Ed ecco che dal nulla tornava la bellissima e brillante Senjumaru Shutara. Nemu non faceva che paragonarsi a lei e più lo faceva più si sentiva così insulsa. Era tutto nella sua testa.
«Nemu, sei scappata da lavoro» le disse Mayuri, appena rientrato a casa. Vero, alla fine del turno era scappata. Non si sentiva molto presente a sé stessa.
«Eh? Oh, sì…» disse distrattamente. Tagliò l’ultima carota sul tagliere e si lavò le mani voltandosi a guardarlo. «Tra poco si mangia.»
Mayuri la guardò, anzi, la osservò.
«Ah-ah. Senti, lo sai che non puoi nascondermi nulla. È sempre quella questione?»
Mayuri fu attraversato da un brivido quando vide sua moglie afferrare un coltello. Ma in realtà lo stava solo rimettendo a posto.
«Senti, Mayuri. Dovete proprio lavorare insieme? Non mi rende molto tranquilla, sapendo soprattutto che spesso rimanete da soli.»
Mayuri sospirò.
«Non che mi faccia piacere, ma le sue abilità ci servono.»
Certo, ovvio. Suo marito era bravo a separare lavoro dai sentimenti, al contrario suo.
«Dimmi la verità, Mayuri. Lei ci ha provato… a sedurti, intendo?»
Lui si irrigidì. Ogni volta finivano sempre su quel discorso, accidenti. E a lui mentire non piaceva, non lo trovava utile.
«Devo ammetterlo, ha mirato anche a quello. Ma lo fa solo per darmi fastidio, io comunque non sono interessato.»
Nemu sentì una familiare stretta allo stomaco. Le dava così fastidio pensare a quella donna avvinghiata a suo marito.
«Forse dovrei parlarci io, visto che tu preferisci non far niente» rispose piccata.
«Ti prego, niente scenate! E poi cosa dovrei fare?» domandò duramente. In realtà non sapeva come gestire una situazione del genere. Lui, che in genere aveva una soluzione a tutto. Nemu sentì gli occhi divenirle lucidi.
«A situazioni inverse, nemmeno tu saresti felice.»
«No, è vero. Ma sarebbe un problema solo se tu non fossi indifferente.»
«Ma nemmeno tu sei indifferente! Dici di disprezzarla tanto perché ti ha ferito… ma se lo avessi superato, non avresti tutto questo rancore. Non so, forse lei ti piace ancora. Forse lei sarebbe stata più adatta a te.»
«Ancora con questa storia?  È stato più di vent’anni fa!»
Quella situazione stava riaprendo vecchie ferite, per entrambi. Nemu si strinse nelle spalle.
«Volevi dedicarti alla carriera. Se lei non ti avesse lasciato, a quest’ora stareste insieme… di questo ne sono sicura. Perché una mente brillante ha bisogno di qualcuno alla sua altezza al suo fianco. Io sono solo io. Lei è più bella di me, anche se io sono più giovane. È ammirata e stimata e attira l’attenzione su di sé quando entra da qualche parte. È amata e ha fatto cose importanti. Io cosa ho fatto? Sto sempre al tuo fianco, ma non brillo mai.»
Nemu era particolarmente loquace. Mayuri non avrebbe mai pensato che potesse provare tutto ciò, non gliene aveva mai parlato. Lui non la pensava così. Per lui, era lei a brillare.
«Allora perché credi che io sia qui?» domandò. Nemu non lo sapeva, ma era terrorizzata. Che lui si accorgesse di aver sposato la donna sbagliata.
 
 
Shinji aveva decisamente bisogno di una pausa. Dal lavoro, dai problemi familiari, da tutto. Come vittima aveva scelto Ichigo, il quale avrebbe staccato da lavoro di lì a breve.
«Perché sei qui? Ti senti male? Hai bisogno di una visita?» gli aveva domandato Ichigo nel vederlo.
«Uno non può semplicemente andare a trovare un amico? Anche io ho bisogno di staccare la spina!» esclamò. Ma se era andato lì per non pensare, aveva scelto il momento sbagliato visto che né Ichigo né Uryu erano dell’umore giusto. Anzi, erano incredibilmente depressi e gli bastò una sola occhiata per capirlo. Hantaro invece era di ottimo umore, questo perché Natsunmi era venuto a trovarlo e se e stava appiccicata al suo braccio.
«Signor Hirako, è un piacere rivederla!» esclamò.
«Ma come ti permetti a darmi del lei?» borbottò Shinji. «E tu devi essere la sua fidanzatina. Ma che teneri.»
Natsumi lo guardò, sorridendo.
«Io e Hanataro facciamo sesso nel ripostiglio.»
Shinji sgranò gli occhi, sorpreso. Però, quel ragazzino si dava da fare, anche se rimaneva ancora molto timido: alla frase di Natsumi era arrossito e quasi svenuto.
«Sì, beh… ero venuto qui a trovare Ichigo e Ishida, ma mi sembrano un po’ depressi.»
«Sono tutti un po’ di cattivo umore, sai? Anche Kurotsuchi e Urahara» ammise Hanataro. Fu lì che Natsumi ebbe il colpo di genio.
«Oh, mi è venuta un’idea!»
 
Hanataro avrebbe dovuto chiedere prima di cedere il suo appartamento per l’dea di Natsumi. Quest’ultima aveva detto “perché non passare una serata insieme?”. Convincere Urahara era stato facile, per Kurostuchi invece avevano inventato una scusa su un’importante riunione da fare, Kisuke era stato convincente.
«Non è vero, ditemi che non mi ritrovo davvero qui con voi» disse Mayuri, seduto, oramai in trappola. In verità era anche sollevato, in parte. A casa la situazione era tesa e questo non valeva solo per lui. Natsumi sembrava decisamente la più entusiasta.
«Oh, oh! Guardate, guardate!» esclamò porgendo a Uryu e Ichigo una pila di fogli stampati. «Vi ricordate, no? Vi ho detto che faccio la scrittrice. Ecco, ho preso ispirazione da voi quattro.»
Kisuke si indicò.
«Da noi quattro? Beh, è un onore, Natsumi!»
Mayuri non disse niente. Per lui era non era un onore, anzi. Ichigo prese uno dei fogli, curioso, iniziando a leggere.
«A-aspetta un momento. Più che ispirato, direi che hai usato proprio noi come personaggi. Ci sono anche i nostri nomi, non sono sicuro sia legale.»
«Ehi, io scrivo racconti erotici tra uomini, non è colpa mia se siete due ship fatte e finite.»
Ichigo fece una smorfia e poi si mise a ridere.
«No, non ci posso credere. Ehi, dottor Kurotsuchi, questa è su di te Urahara.»
Mayuri gli lanciò un’occhiata fredda e spaventosa.
«Fossi in te non riderei» e dicendo ciò prese un altro foglio, porgendoglielo. «Questo è su te e Ishida.»
Ichigo prese il foglio in mano, allarmato e lo lesse velocemente.
«OH, MA ANDIAMO! Siamo solo amici.»
«Solo amici? Pensavo che fossimo quanto meno migliori amici» protestò lui.
«Ehi, ehi! Passatemelo, voglio leggere» disse Urahara curioso. Hanataro congiunse le mani.
«Vi prego, potete evitare di fare troppa confusione? I vicini si arrabbieranno.»
Shinji si guardò attorno, pensieroso. Sei disadattati, più una ragazza esuberante. E lui aveva in tasca l’erba che aveva sequestrato ad Hayato. In verità non sapeva perché l’avesse conservata, si era sempre detto che l’avrebbe buttata alla prima occasione, ma poi non lo aveva mai fatto. La verità era che gli sembrava uno spreco, quella roba costava. Inoltre, da un po’ accarezzava l’idea di provarla. Erano anni che non lo faceva ed era un adulto. Tutti loro lo erano. Più o meno.
«Ehi ragazzi. Vi siete mai fatti?»
Ishida si allarmò.
«N-non ci pensare nemmeno, non possiamo fare queste cose. Non ci risolverà i problemi.»
«Io non ho mica detto che voglio risolvere i problemi così, ma avevo in mente di farlo. Se non volete, andrò avanti da da solo.»
«Io ti faccio compagnia!» gridò Natsumi. «Non l’ho mai fatto!»
«Nooo!» esclamò Hanataro. Natsumi aveva vent’anni, certo era adulta, ma lui era più grande, doveva proteggerla in qualche modo. «A-ascoltate bene! Nessuno si farà d’erba in questa casa. Io compreso. Quindi n-non provate a convincermi, perché non cederò, sono di sani principi!»
 
Mezz’ora dopo, Hanataro se ne stava accasciato sullo schienale, in presa ad una tranquillità senza eguali. Ichigo, Ishida e Shinji se ne stavano seduti sul divano, Mayuri era seduto a terra, Kisuke invece si era direttamente disteso. Alla fine, forse influenzati dal loro pessimo umore e dalla loro voglia di non pensare, tutti loro avevano deciso di lasciar vincere l’erba. Erano tutti molto rilassati.
«Che bella sensazione. Mi sento molto rilassato… aaah, ho le gambe gelatina» sussurrò Hanataro.
«Mmh, Tatsuki mi ammazzerà» Uryu si tolse gli occhiali, sfregandosi un occhio.
«Suuu, che vuoi che sia!» Shinji rise. «Peròòò, dottor Kurotsuchi. Non mi aspettavo che cedessi.»
«Con chi pensi di parlare? Ho provato questa roba che tu non eri ancora nato. Quando studiavo medicina.»
«Ah, quindi un secolo fa.»
«Portami rispetto, ragazzino. Sono il più vecchio, qui dentro.»
Kisuke si mise a ridere.
«Mi piace questa cosa. Si è proprio rivelata una serata interessante. Avevo bisogno di staccare la spina.»
«Sì, anche io…» ammise Ichigo, semi addormentato. Quella situazione a Natsumi non piaceva. Insomma, perché lei doveva essere l’unica lucida mentre loro se ne stavano lì a ridere come degli idioti?
«Ehi, non è giusto» disse portandosi le mani sui fianchi. «L’idea di questa serata è stata mia.»
«Sì. Ma io l’ho migliorata» disse Shinji. «Eh, sequestrare l’erba al mio figliastro è stata una buona idea.»
«Hayato fa addirittura questo? Accidenti, dal figlio di Aizen non me lo aspettavo» ammise Ichigo.
«Beh… la mia povera Yami è vittima del revenge porn… credo si chiami così.»
Mayuri sospirò.
«La mia va appresso ad un uomo adulto. È tutto così illegale che siamo quasi sul tragico.»
«E mio figlio, invece, credo mi detesti oramai» sospirò Uryu. Hanataro si guardò attorno.
«Io invece non ho figli» disse facendo spallucce. L’umore tornò presto a non essere dei più allegri. Escluso Hanataro, nessuno di loro stava attraversando un buon periodo e di sicuro non ne sarebbero usciti così facilmente. Kisuke sospirò. Forse doveva tornare a casa. Le cose con Yoruichi erano tese e aveva lasciato Soi Fon ad affrontare la cosa da sola. Per non parlare del fatto che avrebbe dovuto parlare anche con sua figlia. In quel momento non si sentiva molto d’accordo con sua moglie circa il modo di approcciarsi alla cosa. Mayuri non sapeva come far capire a sua moglie che per la sua ex oramai non provava più niente, ma che quel tradimento e quella relazione tossica avevano lasciato in lui una cicatrice che aveva difficoltà a mostrare. Uryu sapeva che la strada sarebbe stata in salita. Che l’umiliazione sarebbe rimasta. E Ichigo sapeva che la sua situazione con Rukia era molto delicata, ma che l’amava e che voleva continuare. E Shinji che non poteva essere perfetto, perché nessuno lo era.
«Forse dovremmo tornare alle nostre case» disse Kisuke sottovoce. Ichigo asserì. Poi Natsumi tornò, era in compagnia di qualcuno.
«Ichigo.»
Si trattava di Rukia. Hanataro sussultò: ma che ci faceva in casa sua? Quando era arrivata?
«R-Rukia!» gemette.
«L’ho chiamata io. Non era più divertente» protestò Natsumi, cambiando poi espressione. «Ti prego, non dire niente ai miei, altrimenti penseranno che sono una drogata. Cosa che, per la cronaca, non sono.»
Rukia sospirò.
«Non dirò loro niente. Su, Ichigo. Andiamo. E anche voi altri dovreste tornare.»
Rimproverati come dei bambinetti dell’asilo, che onta. Ichigo si alzò e le andò dietro. Certo che si era ridotto proprio male.

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiquattro ***


«Sei nervoso?»
Forse era il tremore delle sue mani ad aver lasciato intendere una cosa del genere. Uryu posò la tazza di tè. A sua madre, come al solito, non sfuggiva mai nulla.
«Un po’. So che la psicoterapia è importante, però ho paura di affrontare il dolore. A quanto pare non sono mai stato bravo ad affrontarlo.»
Era così che Uryu si sentiva, un debole. Chissà, magari se fosse stato più forte, avrebbe agito in modo diverso e ora non si sarebbe ritrovato alla sua età con quei traumi ancora addosso. E invece eccolo lì.
«Non dire così. Al gioco delle colpe, io e tuo padre vinciamo di sicuro. Non siamo stati bravi in questo» sospirò Kanae. Non erano stati bravi a evitare al loro figlio quel dolore, né erano stati bravi a farglielo superare.
«Non mi sento arrabbiato con voi. Se fossi stato al posto vostro, non avrei saputo che fare. Forse Tatsuki sì, lei sa sempre cosa fare» gli venne da sorridere quando nominò sua moglie. Era corretto dire che Tatsuki fosse la sua forza, soprattutto in quel momento della sua vita.
«Lei è la donna perfetta per te, questo l’ho capito già anni fa» ammise Kanae.
Sentirono poco dopo dei passi lungo le scale. Era Yuichi, con lo zaino in spalla.
«Allora, io esco. Ci… emh… vediamo dopo. Ciao papà, ciao nonna»
Uryu aveva notato che c’era un certo imbarazzo tra lui e suo figlio, da quando i suoi problemi erano venuti fuori. Yuichi gli stava alla larga e lui non sapeva come approcciarsi a lui. Cosa dire o cosa fare.
«Yuichi mi evita» disse ad un tratto. «Forse è ancora arrabbiato con me, forse pensa che sia un padre terribile.»
Kanae strinse il suo polso.
«Io invece credo che Yuichi sia solo in imbarazzo. Forse lui non sa come parlarti o cosa dire. È la prima volta che ti vede cedere. Tu e lui siete uguali, entrambi sensibili, entrambi riflessivi.»
Non era la prima volta che Uryu si sentiva dire una cosa del genere. Tu e tuo figlio siete identici nel carattere.
Non sapeva se esserne fiero o preoccupato.
«Sì, però… ah…» sospirò e si aggiustò gli occhiali. «Ho come l’impressione che tutto stia andando a pezzi.»
«Perché sta andando in pezzi, figlio mio. Ma non preoccuparti, le cose a pezzi molto spesso si possono rimettere al proprio posto.»
Uryu si sentì in parte consolato. Le ferite dell’animo e della mente erano più difficili da rimarginare, non erano come un taglio o qualcosa di rotto. Una domanda lo tormentava: sono abbastanza forte per superare una cosa del genere?
 
 
Era la prima volta che Soi Fon provava una così profonda sensazione di disagio da quando si trovava a casa di Yoruichi e Kisuke. Quanto successo con Yami aveva fatto nascere delle tensioni tra i due coniugi, ma anche tra lei e Yoruichi, il che era incredibile. In verità Soi Fon si sentiva ferita. Certo, lei non era la madre di Yami, né la sorella. Ma considerato che aveva dato inizio ad una relazione con i suoi genitori, aveva pure il diritto di dire la sua? Vivevano o no tutti insieme? O forse era lei che si era costruita fin troppi castelli in aria? Dopotutto nessuno ancora sapeva della loro relazione. Soi Fon aveva chiarito che la cosa le andava bene, ma ora non ne era più molto sicura. Come se bramasse un riconoscimento, un qualcosa. Lo capiva, una relazione come la loro non era molto comune… ma cosa c’era di male?
«Kisuke, tua figlia si è barricata in camera e non vuole uscire» annunciò Yoruichi. Soi Fon, che stava mangiando, improvvisamente sentì lo stomaco chiudersi.
«Yoruichi, mia cara. Penso che le cose migliorerebbero con un approccio un po’ più gentile.»
«Approccio più gentile? Cosa dovrei fare?»
«Non lo so, ma lei è la vittima in tutto questo. Da una donna emancipata e femminista come te non mi aspetto un ragionamento del genere» questa volta Kisuke risultò più piccato. Soi Fon, anche se in silenzio, si sentì d’accordo con lui. Si accorse di come Yoruichi era arrossita.
«Questo non c’entra niente.»
«C’entra eccome! Pensa se fosse successo a una delle tue studentesse. Saresti stata comprensiva, non è vero? Perché con nostra figlia no? Quello che io vedo, è che da un po’ di tempo tu e Yami avete iniziato una battaglia. Lei è in un’età particolare e siete davvero troppo simili. Ma questo non migliorerà le cose.»
Kisuke Urahara non era cambiato negli anni. Anche quando si arrabbiava, era capace di mantenere un certo contegno, controllo, il che lo rendeva paradossalmente più minaccioso. Yoruichi, che invece era più emotiva, in quei casi non sapeva mai come rispondere.
«Vuoi dire che la colpa è mia?»
«Voglio dire che lei ha bisogno di sua madre, non di qualcuno che la giudica. Per favore, non causiamole altra sofferenza.»
Soi Fon sospirò e Yoruichi se ne accorse.
«Qualcosa non va, Soi Fon?» chiese Kisuke. La ragazza si alzò.
«No, ma mi rendo conto che queste cose non mi riguardano. Dopotutto è la vostra famiglia, non la mia. Quindi ora… me ne vado, ecco…»
Kisuke non le aveva mai detto che non faceva parte della loro famiglia, doveva essersela presa per quello che le aveva detto Yoruichi.
«Quindi è così? Pensate tutti che io sia la cattiva?» domandò lei provata. Suo marito le prese il viso tra le mani.
«Tesoro mio, io ti conosco da tanto tempo e so come sei. Sei molto emotiva e non ti piace mostrarti debole. Odi piangere e preferisci, al massimo, arrabbiarti. E so che sei preoccupata per nostra figlia. E so anche che tu sei consapevole che la colpa non è sua. Me lo dici sempre anche tu, alla sua età eri tale e quale a lei. Se fosse capitato a te, non avresti voluto un po’ di comprensione?
Yoruichi avvertì qualcosa alla gola. Un nodo, quelli che precedevano un pianto. Si sentiva davvero incapace come madre. Con Yami. Eppure era vero, loro si somigliavano così tanto.
«Kisuke…»
«Scusa, vado a vedere come sta Soi Fon. Mi è sembrata sconvolta.»
 
 
Soi Fon era, in effetti, piuttosto sconvolta. Non solo, stava anche entrando nel temuto blocco dello scrittore. La sua storia era ad un punto morto. Eppure l’amore avrebbe dovuto aiutare l’ispirazione. Sì, perché Soi Fon era sicura di starsi innamorando di tutti e due, un sentimento molto diverso rispetto a quello covato per Yoruichi anni prima. Ma questo rendeva tutto più complicato, lo aveva saputo sin dall’inizio. Non temeva sé stessa, temeva loro.
«Accidenti, ma dove sono i miei appunti?» sbuffò, cercando sotto la  ua scrivania. Lui, Soi Fon e Yoruichi non dormivano insieme durante la notte, i loro figli avrebbero posto delle domande. Ecco, ma non sarebbe stato meglio dirlo loro?
Kisuke la vide tutta agitata e poté intuire il motivo della sua agitazione.
«Ehi. Devi perdonare Yoruichi, è molto agitata con questa storia di Yami.»
E lo sono anche io, anche se come al solito fingo positività.
«Lo so, non è per questo che sono arrabbiata» borbottò.
«E allora cosa?»
Soi Fon lo guardò. Oh, adorava Kisuke, ma alle volte non capiva se fingeva di essere perspicace.
«Io cosa sono per voi? La vostra giovane amante o la vostra compagna? Perché non credo di essere tipo da sesso senza impegno.»
«Ehi, Soi Fon. Non ci sogneremmo mai di usare una ragazza per nostro divertimento, specie se così giovane.»
«Smettila di ripetere che sono giovane. È vero, tra noi c’è una differenza di età importante, ma perché io so quello che voglio e voi invece no? Insomma, avete intenzione di costruire una relazione seria con me? Perché questo vorrebbe dire condividere tutto, dire a tutti di noi. E immagino non vogliate problemi.»
Soi Fon tremava per il nervoso. L’ultima cosa che voleva era farla piangere. Lei e Soi Fon erano così diverse, eppure entrambe emotive. Voleva abbracciarla.
«In realtà io l’ho detto a Mayuri, è il mio migliore amico, non potevo non dirglielo.»
Soi Fon sospirò, sorpresa. Forse era un po’ pregiudicante. Kisuke si avvicinò, poggiandole le mani sulle spalle.
«Mi dispiace se hai pensato tutto questo. Hai ragione, una relazione come la nostra è più… particolare. Ma sappi che per me non sei certo una cosa da nascondere… e neanche per Yoruichi. Questa cosa di Yami l’ha sconvolta.»
«E ha sconvolto pure te» disse subito lei. Com’era brava a capirlo, a capirli. Ma dopotutto, con un’anima come la sua, che amava scrivere e inventare storie, non poteva essere diversamente. Le accarezzò i capelli e Soi Fon chiuse gli occhi.
«Ma non dirlo a nessuno.»
 
 
Rin avvertiva un senso di nausea e un nodo lì, tra lo stomaco e la gola. L’avevano dimessa qualche giorno prima, Miyo le aveva regalato un libro con un bigliettino, Naoko le aveva mandato un dipinto fatto da lei. I suoi amici, in generale l’avevano cercata, tempestata di messaggi e chiamate (ma non troppo, per non disturbarla). Tutti tranne Hayato. Da parte di Hayato c’era stato il silenzio e questo l’aveva ferita. Chissà cosa pensava adesso, di lei?
Aveva addosso un’ansia tremenda, per questo e per il piano alimentare che doveva seguire. I dottori le avevano detto di introdurre gradualmente cibo nel corpo, ma il solo pensiero di mandare giù un solo boccone le faceva mancare l’aria. In genere avrebbe saltato i pasti, oppure avrebbe mangiato tanto di nascosto, per poi vomitare in preda ai sensi di colpa. Ora che i suoi genitori sapevano, la seguivano molto.
«Ti ho fatto preparare del tè verde. Lì c’è del riso. Puoi provare a mangiarne un po’» le disse Rangiku. Cercò di mostrarsi positiva e incoraggiante, anche se dentro di sé era una sofferenza vedere sua figlia in questo stato. Rin si sedette, le labbra serrate e mille pensieri in testa.
E se ingrasserò? Se diventerò brutta? E se gli altri se ne accorgono? E se mi vomito quello che mangio? Non voglio.
«Non ho fame» sussurrò.
«Lo so, Rin. Solo un piccolo sforzo. Un passo alla volta, d’accordo?» disse Gin, allo stesso modo interessante. Nel non sapere di essere sola, questa volta, Rin si sentì meglio. Prese le bacchette e poi prese del riso. Le tremava il braccio, in realtà tremava tutto.
Un solo boccone non può farmi male. Se non mangio a sufficienza, non posso sopravvivere. E poi, non voglio più fare preoccupare nessuno in questo modo.
Lo avvicinò alle labbra e poi mangiò, mentre le lacrime le solcavano il viso. Una cosa naturale come nutrirsi, per lei era diventato così difficile, così faticoso dal punto di vista fisico e mentale. Masticò lentamente e poi ingoiò. Sentire qualcosa nello stomaco non era poi così male.
«Sei bravissima, Rin» disse Rangiku, fiera di lei. Ci voleva molta forza, specie alla sua età, per affrontare un problema come quello. Eppure eccola lì, la sua Rin.
«Pensi di poter mandare giù un altro boccone?» chiese Gin.
«Non lo so, forse…» Rin giocherellò con il riso. «Ho paura di diventare brutta e grassa e che nessuno mi vorrà mai.»
Rangiku capì cosa voleva dire. Anche se ora era una donna molto sicura di sé, alla sua età era stata insicura allo stesso modo.
«Mangiando in modo equilibrato non diventerai né grassa né brutta. E nell’eventualità che dovesse succedere, non sarà questo a impedire alla gente di amarti comunque.»
Erano parole che Rin avrebbe compreso meglio crescendo. Lo sapeva, quell’età poteva essere difficile e a sua figlia toccava un difficile periodo di riabilitazione. Ma lei e Gin erano lì per quello. Rin si asciugò una lacrima e riuscì a mandare giù un altro boccone. Quella mattina stava andando discretamente, magari il giorno dopo non sarebbe andata così bene, poi sarebbe migliorata di nuovo. Chi poteva dirlo?
«Ti accompagno io a scuola» propose Rangiku. «Gin… io e te ci vediamo dopo.»
E dicendo ciò guardò suo marito in modo piuttosto eloquente. Gin si era messo in contatto con Loly, mossa rischiosa, ma oramai la situazione era già brutta di sua. Si erano messi d’accordo per vedersi in un luogo non affollato. Gin sapeva quanto fosse rischioso, ma non era andato lì senza sapere che fare. In verità aveva un piano.
Si videro a un cafè bar molto lussuoso che Gin frequentava di solito. Vide Loly seduta, le gambe accavallate e gli occhiali da sole.
«Signor Ichimaru, non pensavo che l’avrei rivista così presto.»
Gin sorrise, uno di quei sorrisi gelidi che mostrava in situazioni di tensione.
«Nemmeno io in realtà. Ma immagino che sia inutile e sconveniente per entrambi mettere in mezzo avvocati e stampa, no? Anche se la mia reputazione è già abbastanza macchiata. Accuse molto gravi quelle che mi fai. Ne sei consapevole, vero?»
Loly si tolse gli occhiali per guardarlo negli occhi. Aveva abbandonato la compostezza dei primi tempi, la maschera da domestica. Adesso era annoiata e sospirava come una bambina annoiata.
«Certo che ne sono consapevole. È che sei il primo che mi rifiuta. Di genere gli uomini non mi dicono mai di no.»
«Ma io non sono uno di quegli uomini. Amo Rangiku e non la tradirei mai. Quindi, non possiamo venirci incontro. Ti sarei molto grato se ritirassi le accuse pubbliche nei miei confronti.»
Loly sorrise.
«Se mi darai quello che voglio, sì.»
Eccolo lì, il momento che aspettava. Gin si infilò una mano in tasca.
«Ovvero?»
«Fa di me la tua amante. Voglio sesso e voglio i tuoi soldi. Non ho mai avuto un amante ricco come te, mi farebbe comodo. In verità avevo in mente di mirare a Sosuke Aizen, ma arrivare a lui sarebbe stato difficile.»
«E hai ripiegato su di me» concluse Gin. «Quindi è così, avevi pianificato tutto. E mi stai ricattando per avere sesso e soldi. Sai che passeresti dei guai seri, vero?»
«Come ti dissi una volta, chi vuoi che ti crederebbe? A chi crederebbero tra me, una ragazza dal viso d’angelo e giovane, e tra te, un uomo più grande e più potente? Suvvia, è ovvio. Allora, che mi dici? La cosa conviene anche a te, scommetto che una donna più giovane ti farebbe comodo. Alla vostra età siete tutti uguali, in fondo.»
Gin dovette ricorrere a tutta la sua forza per non aggredirla verbalmente, ma non voleva mandare a momento il suo piano. Suo e di Aizen in realtà. Quindi fece buon viso a cattivo gioco.
«Dal momento che non mi lasci altra scelta, eseguirò le tue richieste. Ma ti prego, ritira le voci che hai messo in giro» disse Gin, supplichevole. Era sempre stato bravo a recitare. Gli occhi di Loly si illuminarono.
«Ma naturalmente, i patti sono patti. Allora dovremo proprio decidere quando incontrarci. E ricordati, se scopro che mi prendi in giro, troverò il modo di farti arrestare.»
Gin ingoiò quel boccone amaro. Era una situazione surreale e fastidiosa, ma avrebbe tenuto duro. Aveva una preziosa prova dalla sua parte, dopotutto.
 
«Kaieeen! Posso dire che mi sei mancato tantissimo?»
Kaien arrossì nel sentire Kiyoko parlare. Ultimamente erano stati distanti, per colpa sua principalmente. Ma adesso voleva provare ad essere un amico migliore… e sì, anche un fidanzato migliore!
«Anche tu. Hai scattato qualche nuova foto, di recente?» domandò. Kiyoko arrossì e i suoi occhi si illuminarono. Il fatto che si interessasse tanto alla sua passione, era a dir poco stupendo. Anche Rin era tornata a scuola, anche se i suoi genitori avrebbero preferito tenerla a casa ancora qualche giorno, lei aveva insistito. Stava bene e voleva andare. Quando arrivò, Miyo fu la prima ad andarle incontro e sorriderle.
«Rin.»
«Miyo. Scusa per tutto quello che ti ho fatto passare.»
Miyo si morse il labbro.
«Scusa tu per non aver potuto fare niente.»
Rin scosse la testa.
«Tu hai fatto tanto e nemmeno te ne rendi conto.»
E poi Miyo l’abbracciò. Avrebbe tanto voluto sapere dove fosse il uso fratellastro, di sicuro e lui avrebbe fatto piacere vedere Rin. Invece sembrava sparito. Ben presto anche le altre si avvicinarono a lei per abbracciarla e poco dopo i ragazzi la raggiunsero. Rin era circondata e questo la fece sentire non sola e accolta. Rimaneva sempre una bella sensazione. E poiché quello era il giorno dei grandi ritorni, anche Kohei era arrivato a scuola. Con l’aria timida e sperduta come se fosse il primo giorno.
«Kohei?» lo chiamò Kaien. «Finalmente! Non sapevo saresti rientrato oggi.»
«L’ho deciso l’ultimo» ammise Kohei. Quando Naoko lo vide, tentò di incrociare il suo sguardo, cosa che Kohei evitò. Avrebbe voluto parlargli, un po’ per lo temeva. Kohei aveva un modo diverso di approcciarsi alle cose, una sensibilità diversa. E lei, per la prima volta, non sapeva come comportarsi. Non lo sapeva lei e tato meno Satoshi, che allo stesso modo non trovava il modo di parlare a Kohei.
 
«Mi stai dicendo che mio padre e tuo padre hanno… fumato l’erba insieme?»
Yuichi era sconvolto. Da uno come su padre, non se lo aspettava di certo. Masato annuì.
«Mia mamma era un po’ arrabbiata, ma non molto. Strano, di solito gli avrebbe urlato contro. Il fatto è che lei sembra sempre in colpa. Mi chiedo se mi direbbe qualcosa. Io voglio sapere cosa succede in casa mia! Altrimenti chiederò a mio padre, e se lui non sa chiederò… a zia Kukaku o a zia Byakuya, sono sicuro che loro sanno qualcosa.»
«Beh, di sicuro qualcuno te lo dirò. Io invece vorrei tanto sapere cosa succede a mio padre. Cioè… in realtà l’ho capito, ma non perché qualcuno me l’abbia spiegato. A quanto pare lui, quando aveva la nostra età… è stato toccato contro la sua volontà, capisci? Da un suo insegnante.»
Masato sgranò gli occhi. Ad una cosa del genere non aveva mai pensato.
«Questa è una cosa orribile!»
«Lo è davvero. Forse ora capisco perché è stato così strano ultimamente. Aveva paura che potesse succedere a me. Con te non mi accadrà di certo. Però so che queste cose succedono, ed è strano. Pensavo che il sesso potesse essere solo bello.»
«Immagino che sia bello quando vogliono entrambi. Se uno dei due non vuole, allora… a me non piacerebbe essere toccato contro la mia volontà, specie poi da un adulto, è disgustoso! E mi fa anche paura. Anche lui deve avere avuto paura.
Yuichi annuì. Si era scontrato tante volte con suo padre in quell’ultimo periodo e l’unica cosa che voleva era cercare di riavvicinarsi, ma non sapeva come fare. Era tutto troppo per lui.
«Noi non ci faremo mai male in questo modo, non è vero?» domandò poi Yuichi. Di Masato voleva fidarsi. Voleva fare tante cose con lui, voleva crescere con lui e scoprire. Erano stati legati sin da piccoli.
«Ma certo che non ci faremo mai del male. Però se magari qualche volta ti ferirò, per qualche motivo. Allora tu perdonami, perché non sarebbe fatto di proposito.»
Yuichi sorrise. Poi, senza nemmeno guardarsi intorno, lo baciò sulle labbra.
 
Era la prima volta che Yami camminava tenendo lo sguardo basso. Non era da lei, ma quella vicenda le aveva tolto la sicurezza e l’autostima. Il fatto che in tanti avessero visto il suo corpo contro la sua volontà, il fatto che sua madre le avesse dato la colpa… era tutto troppo da sopportare. Ai camminava a braccetto con lei, Hikaru camminava alla sua sinistra. Quei due non la lasciavano mai.
«Non ho bisogno delle guardie del corpo» borbottò Yami.
«Sono tuo fratello, ho il dovere di difenderti.»
Ren e i suoi complici che avevano diffuso la foto erano stati espulsi, ma gli altri studenti non avevano certo dimenticato. I maschi continuavano ancora a insultarla alle sue spalle (e nemmeno troppo). E molte ragazze la guardavano come una poco di buono. Mentre si dirigevano verso la classe, il trio fu fermato da una ragazza del terzo anno, più alta di Yami.
«Sei tu» le sibilò. Aveva i capelli tinti di un biondo molto chiaro e le unghie laccate di smalto rosa rovinato.
«Sì, io sono io» disse Yami annoiata. «E tu chi sei?»
«Ah, non sai chi sono? Sono Akane Irie, la ragazza di Ren.»
«Ah, sì? Beh, tanti auguri» disse cercando di passarle accanto. Ma la sua mano premeva proprio lì, sotto lo stomaco, quasi facendole mancare l’aria.
«Ti rendi conto che l’hanno espulso per colpa tua? Insomma, tu hai mandato quella foto, avresti dovuto pensarci prima.»
Ai aggrottò la fronte e si fece avanti.
«La colpa non è affatto sua. Lo sai che questa cosa è anche illegale?»
Akane Irie però la ignorò, continuando a rivolgersi a Yami.
«Insomma, la poco di buono sei tu. È ovvio che se mandi certe cose in giro, tutti se ne approfitteranno.»
E Yami, che aveva sempre risposto con freddezza e un certo sarcasmo, non riuscì proprio a resistere. La schiaffeggiò, sollevando uno sguardo carico di rabbia.
«Sta zitta. Tu non sai niente. Voglio solo essere lasciata in pace!»
E dicendo ciò riuscì a scostarsi dalla presa di Ai e a scappare, probabilmente, verso i bagni.
«Yami!» gridò Hikaru. «Dannazione. Ma perché non imparate a farvi i fatti vostri?» domandò rivolto ad Akane. Dopodiché cercò di seguire sua sorella.
 
 
Kohei era andato a scuola. O per meglio dire, lei e Chad erano riusciti a convincerlo ad andare. Sperava che sarebbe andata meglio nei prossimi giorni, ma in verità Karin era molto negativa su tutto. Suo figlio… il suo bambino tenero e sensibile stava crescendo e su questo non c’erano dubbi. Erano sempre stati molto uniti, ma da quando Kohei l’aveva spintonata, era come se fosse stato eretto un muro. Da parte di Kohei.
«Oggi ho gli allenamenti della mia squadra, ma sono così fuori forma… non posso farmi vedere così» sospirò Karin, seduta sul divano e con ancora i capelli in disordine. Anche Chad doveva sbrigarsi a raggiungere la palestra in cui lavorava, ma allo stesso tempo non voleva separarsi da sua moglie.
«Anche io mi sento fuori forma» ammise. Karin allungò una mano, accarezzò il suo braccio muscoloso.
«Dopo la nostra crisi di quattro anni fa, speravo che il difficile fosse passato. Ma quanto mi sbagliavo, non avevo fatto i conti con la terribile adolescenza. Sono tornata a sentirmi una madre… non dico orribile, ma un po’ incapace. Kohei l’ho sempre compreso, adesso non riesco.»
Chad sospirò e si lasciò accarezzare.
«Temo che in molti non capiscano i loro figli. Kohei crescerà, ma ti vorrà sempre bene. Lo sai, ha sempre preferito te a me.»
Karin si morse il labbro, colpevole. In effetti Kohei era sempre stato visceralmente attaccato a lei, sin da neonato.
«Ma questo non vuol dire che non voglia bene anche a te. Sei un bravo padre e lui ti somiglia. È piuttosto forzuto.»
Chad la strinse a sé, protettivo.
«Non preoccuparti, non riaccadrà. Credo che nostro figlio si senta in colpa.»
Karin sospirò. Si accoccolò a lui in modo languido e Chad lo percepì.
«Per un attimo non voglio sentirmi in colpa, né nulla. Ti prego.»
Chad riconobbe anche tutto quello che implicava quel ti prego. La baciò dolcemente e poi la portò sotto di sé su quel divano. Avrebbero tardato a lavoro, tutti e due, ma era per una buona causa
 
 
«Rukia, Rukiaaa! Ah, sei qui! Meno male, abbiamo perso Mirai. Cioè, non l’abbiamo persa, però non si trova più. Come faccio?!»
Natsumi era, come sempre, in preda alla disperazione. Capitava che i bambini dell’istituto si nascondessero o sparissero per delle ore. Mirai poi aveva l’abitudine di arrampicarsi ovunque e costruirsi fortini nei posti più improbabili.
«Su, Natsumi, respira! Lo sai com’è Mirai, è dispettosa! Su, respira e rilassati.»
Natsumi nascondeva un’indole molto ansiosa, Rukia lo sapeva bene. Anche se nessuno lo avrebbe mai detto.
«Hai ragione, per fortuna che ci sei tu a calmarmi. Non vedo l’ora di uscire con Hanataruccio mio. Anche se sono ancora arrabbiata con lui per ceduto a quella stupida idea dell’erba. Mi avessero fatto provare almeno!»
Rukia sospirò.
«Sono tutti troppo responsabili per permetterti una cosa del genere.»
«Oh, uffa! Non hai ucciso Ichigo, vero?»
Rukia ci pensò su. Non l’aveva ucciso e non gli aveva nemmeno fatto una ramanzina. Però ricordava esattamente quando si era stretto a lei, mentre tentava di metterlo a letto quasi fosse ubriaco.
«Rukia, sto così soffrendo, ma ti amo sempre così tanto. Non tenermi ancora all’oscuro. Non farlo.»
Le aveva detto questo, in preda ad uno sbalzo di coraggio. O di incoscienza, o qualsiasi cosa fosse.
«No, non l’ho ucciso. Anzi. Pensa un po’ a che punto l’ho portato.»
«Nah, tranquilla, questa è solo responsabilità sua. Sai cosa penso, Rukia?» Natsumi si sedette accanto a lei. «Penso che dovreste fare sesso.»
Tipico di Natsumi parlare di certe cose come strema facilità. Rukia era anche più grande e con più esperienza, ma era più timida.
«S-sesso?» balbettò.
«Naturalmente. So che non risolve tutti i problemi, ma può molto aiutare una coppia. Tipo, tra me e il mio Hanataro…» Natsumi si morse il labbro, forse non era il caso di parlare delle sue acrobazia sessuali con Hanataro. «Quello che voglio dire è: da quanto tu e Ichigo non vi concedete del tempo per voi in quel senso?»
Effettivamente sembrava passata una vita. Non è che avessero avuto modo di recente, lei avrebbe anche voluto, ma forse era Ichigo a non desiderarla più. Doveva essere fin troppo arrabbiato con lei per volerla.
«P-però io non so se vorrebbe.»
«Allora tu chiediglielo. Non siete forse sposati da anni? Non dovreste vergognarvi.»
Incredibile, adesso si faceva persino consigliare da una vent’enne. Però Natsumi non aveva torto. Rukia bramava quel contatto con Ichigo. Ma sapeva che prima di arrivare ad un contatto così intimo, c’era bisogno di parlare.
Ad un tratto le due sentirono un bu! Alle loro spalle. Ecco che Mirai era comparsa.
«Mirai! Ecco dov’eri, mi hai fatto spaventare!» gridò Natsumi.
«Fifona!»
«Piccola peste ingrata!»
Rukia scosse la testa e poi sospirò, sorridendo. Per fortuna c’era il suo lavoro a distrarla.
 
Anche Ichigo si stava ritrovando a sostenere una conversazione simili, anche se l’altra persona era niente meno che Kukaku. Chi meglio di sua cugina? Ichigo, tra l’altro, aveva iniziato a porre domande. Rukia doveva aver frequentato casa sua, lei doveva aver visto. Su Ganju non poteva contare più di tanto, ma lei…
«Ma insomma! Te l’ho detto, Ichigo. Io non so niente.»
«Stai per caso nascondendo qualcosa?» domandò. «So che tu e Rukia avete parlato.»
«Oh! Si, abbiamo parlato, ma non so niente che tu già non sappia. Tutto quello che posso dirti è che loro si frequentavano spesso. Ed è vero, ci vedevo qualcosa di strano, ma è una cosa che ho realizzato col senno di poi. Kaien era bravo a non far notare le cose, ma il suo sguardo non mentiva. Io non capisco perché sei così ossessionato.»
«Non capisci, dici? Forse perché parliamo di mia moglie. Che stava col mio cugino ora defunto. La cosa mi disturba. Io e Kaien abbiamo quasi la stessa faccia, io sembro più suo fratello di Ganju stesso. Sai cosa? Deve essere per questo che Rukia si è innamorata di me.»
Kukaku si alzò all’improvviso e gli mollò un colpo dietro la testa.
«AHI! Ma si può sapere che ti prende?»
«Mi prende che dici un sacco di cavolate. Tu e Kaien uguali? Nell’aspetto, forse. Ma nel carattere siete completamente diversi, tu sei un bamboccio in confronto a lui.»
«Che cosa?! Ti diverti a tormentarmi?»
«No, cretino. Ti sto dicendo che se Rukai si è innamorata di te, non è perché vede in te un sostituto. Sì, di sicuro il fatto che tu somiglia a Kaien l’ha influenzata, ma se si è innamorato di te, è per come sei. Pensi che si sarebbe spinta fino a questo punto? Non ti facevo così complessato.»
Ichigo si massaggiò la testa, imbronciato. Non è che non volesse credere a Kukaku, ma non ci riusciva. E sì, anche lui come tutti aveva insicurezze. Ricevette poco dopo un messaggio da parte di Rukia.
Sono a casa. Quando torni? Devo parlarti.
Strinse il cellulare.
«Questo complessato ora deve andare a casa.»
«Bravo! E spero che la musica cambi.»
Chissà. Ichigo se lo augurava.

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Capitolo 25
*** Capitolo venticinque ***


Rukia era tornata a casa e si era molto sorpresa di trovarla silenziosa. Niente Kon che veniva a farle le feste, niente gemelli che chiacchieravano o litigavano. C’era soltanto Ichigo, che nervoso e rigido l’aveva accolta in soggiorno. Le luci erano soffuse e c’era un’atmosfera molto intima. Non era stato intenzionale da parte di Ichigo. O almeno così credeva.
«Dove sono tutti?» domandò Rukia posando la borsa.
«Ho mandato bambini e cane da tuo fratello e da Renji.»
Rukia spalancò gli occhi, sorpresa.
«Li hai mandati tutti lì? Come hai convinto Byakuya ad accettare?»
«Beh… gli ho detto che mi serviva del tempo da solo con te. Per parlare. E quindi eccomi qui.»
Le sorrise, in modo timido e Rukia in quel sorriso sentì che avrebbe potuto perdersi. Le mancava suo marito, le mancava la loro complicità, i suoi baci e carezze, tutto. Ma era stata lei ad allontanarla del tutto.
«Ichigo… mi spiace se ho rovinato tutto. Era proprio quello che ho cercato di evitare, per anni. Ma se te ne avessi parlato prima, mi sarei risparmiata tante sofferenze. A te, anche.»
Ichigo arrossì e si passò una mano tra i capelli.
«Non è un problema che tu sia stata con lui prima di me. È l’avermelo nascosto. C’è ancora una vocina che si ostina a dirmi che l’unico motivo per cui tu stai con me è per la mia somiglianza con Kaien.»
Rukia allora prese il suo viso tra le mani.
«Lo so, lo capisco perfettamente, ma non è così. È vero, all’inizio la tua somiglianza con lui mi ha colpita, volevo parlare con te perché parlandoti era come avere ancora Kaien vicino. Ma le cose sono cambiate in fretta.»
Ichigo dovette metabolizzare l’idea che in effetti era stato quello il motivo per cui Rukia si era avvicinata a lui, all’inizio.
«Quand’è che sono cambiate?»
«Quando ho iniziato a conoscerti. Quando ho capito che tu da lui eri diverso, che eri un’altra persona e che mi stavi lentamente conquistando. Anche se battibeccavamo spesso. Cosa che facciamo tutt’ora. Io mi sono innamorata del tuo carattere irruento, testardo. Del tuo essere così protettivo e affettuoso. Mi dicevo che non mi sarei più innamorata dopo Kaien. E poi, nel giorno più triste della mia vita, ecco che sei arrivato tu, un raggio di sole dai capelli di un improbabile colore arancione. Penso che tu mi abbia salvata.»
Sorrise di malinconia. Anche se guardava Ichigo, in realtà davanti agli occhi le scorreva davanti la loro storia. La sua impacciata e scorbutica dichiarazione, i primi periodi insieme come coppia. Poi il matrimonio, la gravidanza e l’arrivo dei gemelli. Tutti i giorni che avevano passato insieme rimanendo sempre loro, pur cambiando e crescendo.
Ichigo si schiarì la voce, sembrò commosso. Rukia non stava mentendo.
«Io… non sono un salvatore.»
«Lo sei per me. E meritavi di conoscere questa parte della mia vita. Se lo vorrai, te ne parlerà.»
«Rukia, non sei costretta a farlo adesso, se…» si bloccò perché sua moglie gli si era avvicinata, con un cero sguardo languido. Entrambi si desideravano tanto e quella lontananza non aveva fatto altro che aumentare il desiderio.
«Non mi fai mai sentire costretta» sussurrò, toccandogli il braccio con delicatezza, come se avesse paura. Ichigo incrociò il suo sguardo e decise di cedere. Non voleva più perdere tempo a evitarla, voleva solo lenire il dolore, capirci qualcosa, metabolizzare. La baciò come non faceva da settimane e affondò le dita tra i suoi capelli, per poi prenderla in braccio. Rukia gemette in quel bacio, riscoprendo una nuova passione.
«Facciamolo in cucina.»
Ichigo la guardò sorpresa. Ma effettivamente, fintanto che figli e cane non erano nelle vicinanze, tanto valeva approfittarne.
«Tutto quello che vuoi, Rukia.»
 
 
Nel mentre, Byakuya e Renji si prendevano cura dei gemelli, o quanto meno ci provavano. Zabimaru e Kon si scoprirono andare d’accordo, tant’è che erano accucciati l’uno accanto all’altro. Masato invece era entusiasta per quel matrimonio che si sarebbe festeggiato entro qualche mese e non poteva trattenersi dal dare consigli.
«A un matrimonio non possono mancare fiori. Io prenderei delle orchidee, ma mi piacciono molto anche i tulipani. Di che colore ti vestirai, zio Renji? Penso che dovresti optare per il nero. Tu hai i capelli rossi, il blu ti starebbe davvero male.»
Non poteva crederci. Tra suo nipote e Yumichika, aveva senza volerlo due mancati wedding planner pronti a guidarlo.
«P-prenderò in considerazione il tuo consiglio, grazie. Non sapevo fossi così esperto in matrimoni» Renji gli passò una tazza di tè, su cui Masato soffiò.
«Beh, un giorno anche io vorrei sposarmi. Possibilmente con Yucihi Non dire mai a nessuno che l’ho detto, ma ho pensato tutto nei minimi dettagli» Masato era entusiasta e i suoi occhi brillavano. «Ogni dettaglio della cerimonia, della nostra futura casa… ah, e poi ho deciso, se avremo un figlio lo chiameremo Yuto. È l’unione dei nostri nomi. Voi volete dei figli?»
Era adorabile l’ingenuità e la spontaneità con cui Masato parlava di certe cose. Era sicuro che sarebbe diventato un uomo molto sensibile e profondo, un giorno.
«Sì, ci piacerebbe» pensò, per poi sospirare. Si rese conto che lui e suo nipote dodicenne alla fine volevano le stesse cose, avevano le idee molto chiare.
 
Byakuya invece stava tenendo compagnia a Kaien. Anzi, era più corretto dire che Kaien girasse attorno a suo zio per chiedere informazioni circa la strana tensione dei suoi genitori.
«E dai zio Byakuya, sii buono. Zia Kukaku non mi dice niente. Sii più simpatico di lei, perché giuro che sto impazzendo!»
Non che Byakuya non volesse dirgli nulla, ma non era più una cosa che avrebbero dovuto affrontare Rukia e Ichigo?
«Stai tranquillo, i tuoi genitori non si lasceranno di certo.»
«Ma questo non è abbastanza. Senti, è per qualcosa che mia madre ha fatto, vero? Io lo vedo, papà è strano, è triste. E non è da lui!»
Byakuya sospirò. C’era ben poco da fare, Kaien non si tirava indietro quando in mezzo c’era la sua famiglia. Tutto suo padre, dopotutto.
Lasciò perdere la lista invitati che stava controllando e guardò suo nipote.
«E va bene, Kaien. Ti ho sempre ritenuto maturo per la tua età, quindi qualcosa posso dirtela, ma non dire che sono stato io» non poteva credere di starlo facendo davvero. «Devi sapere che quando tua madre era poco più grande di te, era innamorata di un ragazzo. Il suo nome era Kaien Shiba.»
Kaien strabuzzò gli occhi, indicandosi.
«Ma Kaien Shiba era il cugino di papà. Io mi chiamo come lui. Io… cavolo, mi chiamo lui!» realizzò in quel momento. Ecco spiegato il perché, tutto aveva all’improvviso più senso.
«Vedo che hai capito. Comunque tua madre ha nascosto questa cosa a tuo padre per molto tempo perché… per il dolore, immagino. Perché quando perdi la persona che ami, con cui hai creduto di costruirti una vita, il mondo ti crolla addosso» sussurrò, divenendo malinconico. Lui c’era passato con Hisana. Il dolore non sarebbe mai sfumato e suo nipote intuì anche questo.
«Come te e la zia Hisana, vero?»
Byakuya non si aspettò quella domanda e, dopo aver spalancato gli occhi, allungò un braccio e gli accarezzò i capelli.
«Proprio così. Abbiamo sofferto molto, ma poi lei si è innamorata di tuo padre, come io mi sono innamorato di Renji. Ma le cose non sono facili, dopo che Ichigo l’ha scoperto, se l’è presa. Riesci a capire?»
Kaien ci pensò su e provò a immaginare. Decise che sì, che aveva senso, ma anche che i suoi genitori non si sarebbero lasciati per così poco.
«Sì, penso di sì. Adesso capisco e… zio Byakuya?»
«Sì, Kaien?»
«Sei felice di star per sposare zio Renji?»
Come sempre alle domande dirette dei suoi nipoti non poteva sfuggire. Aveva avuto tanti dubbi su tutto, ma adesso gli sembrava tutto sempre più chiaro, sempre più giusto. Distese le labbra in un sorriso.
«Non hai idea di quanto io sia felice.»
 
 
 
L’ultima cosa che Shinji voleva era chiedere consigli d’amore alla sua ex. Non sarebbe stata la prima volta, ma ultimamente non si sentiva a suo agio. Hiyori lo conosceva bene, anche se non stavano più insieme da anni, poteva dire di conoscerlo piuttosto bene.
«Senti, non possiamo provare se hai quella faccia da funerale. Tu ti fai troppi problemi, da quando in qua sei così pieno di complessi. E poi, voglio dire… erba, davvero Shinji?»
Shinji arrossì. Doveva proprio dirlo davanti agli altri membri della band.
«… Ero depresso, avevo bisogno di non pensare. Se Sosuke lo sapesse, mi sfotterebbe a vita. Ti rendi conto di quanto sono stupido? In preda a un delirio di onnipotenza ho creduto di poter risolvere tutti i problemi. Ma non ho salvato Rin e non ho cambiato la vita ad Hayato.»
Hiyori alzò gli occhi al cielo. Prese le bacchette della batteria e lo colpì su un braccio.
«Ahi! Ma che fai?»
«Sei noioso. Non ti rendi nemmeno conto di quello che fai. Certo che hai salvato Rin, pensa se non avessi detto niente a sua madre. E Hayato, sono sicura che le tue parole lo hanno colpito. Ma quello lì è orgoglioso quanto suo padre. Insomma, sei forse cieco?»
In effetti non aveva visto le cose da quel punto di vista. Lui era felicissimo di aver dato una mano a Rin, e con Hayato si era tolto un bel peso dalla coscienza. Quello a cui non riusciva a smettere di pensare era “Se fosse stato sposato a Momo, le cose sarebbero cambiate?”.
«N-non sono cieco. Oh, e va bene, che odio quanto qualcuno prova a guardarmi dentro. Forse ho iniziato ad avere un po’ di panico da quando nostra figlia è… diventata una donna. Ma è normale, io non so cosa fare per lei. Ti ricordo cosa è successo quando le è arrivato il primo ciclo.»
«Oh, Shinji, suvvia! Io nemmeno c’ero, pensa un po’! Ma sei stato affettuoso e comprensivo, ti posso assicurare che in quei momenti c’è un grande bisogno di queste due cose. L’ho capito benissimo, ti senti ancora in competizione con la sua ex moglie.  Ma questo è un tuo blocco mentale. Quel cretino di Aizen è cotto di te. Non dirmi che pensi ancora di non essere abbastanza.»
Shinji arrossì e incrociò le braccia al petto. Di certo non era piacevole quando qualcuno scopriva i tuoi punti deboli. Nel suo caso, Hiyori li aveva scoperti tutti.
«A volte il pensiero c’è, lo ammetto.»
Hiyori gli diede un colpo alla testa.
«Che razza di imbecille. Guardati un po’ intorno. Tu dirigi questa band e contano tutti su di te, hai un marito che ti guarda come se fosse la prima volta che ti vede… e sei anche il preferito di Miyo. Quindi dovresti proprio piantarla di concentrarti sulle cose negative!»
Shinji capì che Hiyori stava cercando di essere gentile, anche se nel suo solito modo un po’ goffo.
«Davvero sono il preferito di Miyo?» la stuzzicò. Hiyori sbuffò.
«Sin da quando è nata, quindi smettila o giuro che ti do un pugno. Rilassati, d’accordo? E piuttosto, ora pensiamo a suonare, tutta questa psicoanalisi nei tuoi confronti mi innervosisce.»
Le parole di Hiyori sortirono un certo effetto. Shinji non era mai stato insicuro, adesso che erano sorte delle insicurezze non sapeva come affrontarle. Ma non era una tragedia. E poi, da quando voleva avere il controllo? Oh no, lui non voleva controllare niente, voleva solo lasciare andare.
«E va bene. Forza e coraggio, salite sul palco e non battete la fiacca… AHI!»
Hiyori gli aveva dato l’ennesimo colpo in testa.
«Però non darmi ordini, chiaro?»
 
Miyo stava bussando contro la porta di Hayato già da qualche minuto.
«Hayato! E dai però, non puoi ignorarmi. Non vuoi vedere Rin? Non è giusto come ti comporti, la farai stare male. Non comportarti da insensibile o giuro che non ti difenderò mai più. Ma mi senti?»
Stanco di sentirla urlare, Hayato aprì la porta, imbronciato come al solito.
«Oh, finalmente. Avanti Hayato, vieni a trovare Rin. Lei ha bisogno di te.»
Suo fratello stava male, ultimamente. Avrebbe voluto aiutarlo, ma oramai stava iniziando a capire che non poteva avere controllo su tutto. Dal canto suo Hayato avrebbe voluto dire qualcosa a Rin, qualsiasi cosa che potesse farla star meglio.
«Io voglio, però… se non so cosa dire?» domandò sottovoce. Rin aveva bisogno di sensibilità. Miyo sorrise, porgendogli una mano. Poteva dire di conoscere suo fratello almeno un pochino e in fondo era bravo, solo un po’ imbranato.
«Non preoccuparti. Tu intanto vieni con me.»
Hayatoe sitò qualche istante, ma poi strinse la mano alla sua. Di Miyo poteva fidarsi, niente di male poteva succedere.
 
Toshiro aveva preso a frequentare spesso casa di Rangiku e Gin, preoccupato per Rin per com’era non riusciva a farne a meno. Ma non era solo quello, il motivo. Forse un po’ egoisticamente, ma Toshiro aveva bisogno di una faccia amica. Aveva tanti pensieri per la testa. Primo fra tutti, avrebbe avuto un figlio. Si chiedeva se sarebbe stato capace, con Hayato le cose non andavano benissimo. Crescere un bambino sin dalla nascita era forse diverso dall’approcciarsi a qualcuno che aveva già le due idee. E per quanto Hayato lo avesse accettati, ancora non riusciva ad abbattere quel muro.
«Sei sicuro che non vuoi andare a casa? Momo sarà preoccupata» disse Rangiku sfiorandogli la mano. Sapeva cosa voleva dire, specie durante la gravidanza si aveva un costante bisogno della persona amata.
«Non voglio metterle addosso le mie ansie. Anzi, di sicuro lei la vivrà meglio. È già una brava madre. Io, per quello che ho visto, temo di non essere poi un granché.»
Rangiku si indispettì, dandogli uno scappellotto sulla testa.
«Ahi! E questo per cos’era?»
«Tanto per cominciare, non dare per scontato le sue ansie. Seconda cosa… vuoi scherzare? Certo che sarai bravo.»
«Hayato non la pensa così» sbuffò.
«Hayato è solo orgoglioso» disse alzando gli occhi al cielo. «Non te lo nascondo, essere genitore è difficile. Sbaglierai, si sbaglia sempre, è importante fare del proprio meglio.»
Toshiro capì che più che a lui, quelle parole erano riferite a Rangiku stesa. Prese la sua mano e la strinse.
«Non hai sbagliato in questo caso.»
«Ho peccato di poca attenzione. Come sempre, del resto.»
Toshiro strinse più forte la sua mano, ma senza farle male.
«Ma Rin è qui e sta bene. Lo sai? Lei ti somiglia. Credo sia per questo che le voglio così bene.»
Non era da lui lasciarsi andare a simili smancerie con la sua migliore amica, ma aveva bisogno di dirglielo e Rangiku di sentirselo dire.
«Oh, Toshi. Vedi quanto sei tenero? Ti stai già addolcendo!» e dicendo ciò lo strinse in uno dei suoi soliti abbracci soffocanti. Toshiro protestò debolmente, ma non si retrasse. Gin li trovò così e a stento trattenne un sorriso.
«Abbiamo ospiti, ci sono Miyo e Hayato.»
Toshiro si drizzò su. Finalmente Hayato si era deciso.
 
Rin aveva sorriso quando aveva visto sia Miyo che Hayato entrare in camera sua. Alla sua migliore amica aveva riservato un caloroso abbraccio, si era limitata a salutare Hayato. Fra i due c’era molto imbarazzo, e Miyo, che adorava essere il cupido della situazione, decise di lasciarli da soli.
«Torno tra un momento, vado a prendere… emh… qualcosa. Torno subito.»
Rin alzò gli occhi al cielo. Avrebbe dovuto immaginarselo.
«Ti trovo bene» disse Hayato, goffo, con le guance colorate di rosso. Oh, Rin era bellissima, in realtà l’aveva sempre trovata bella, anche se non gliel’aveva mai detto. Lei arrossì a sua volta.
«Grazie… sono contenta che tu sia qui. Pensavo non volessi più parlarmi perché… in realtà non so nemmeno io perché lo pensavo.»
Hayato rimase in silenzio. Quanta gente stava facendo soffrire a causa di quella sua incapacità di dire ciò che sentiva? Non voleva far soffrire anche lei.
«Mi dispiace, è colpa mia. È che non sapevo che dire. In realtà non lo so tutt’ora. So solo che sono molto felice di vedere che stai bene. Tu sei… una delle mie persone preferite» il suo tono di voce era bassissimo. Rin si avvicinò. Le veniva da piangere, ma in senso buono. Afferrò la sua mano e lui non si spostò.
«Io sono felice di vederti, Hayato. Lo sai? Tu mi piaci quando mostri il tuo lato più tenero, è una delle cose che più mi piace di te. E lo fai anche con Miyo, dovresti farlo anche con gli altri, sono sicuro che loro apprezzerebbero.»
Hayato avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma in verità era incantato da quegli occhi sottili e azzurrissimi al limite dell’inverosimile.
«Davvero? Tu credi?»
«Ne sono sicura, perché a me piace. Sono proprio felice.»
Rin lo abbracciò, poggiò la testa sulla sua spalla e chiuse gli occhi. Sembrava proprio una di quelle scene fa film. Hayato apprezzò tanto quel gesto e poggiò una mano tra i suoi capelli lunghi. Gli abbracci erano davvero stupendi. Non era da lui darne. Forse avrebbe potuto iniziare a darne qualcuno.
«Aaaw, che carini!» sussurrò Rangiku, ben attenta a non farsi vedere. «Credo che alla fin fine tu e Aizen finirete con l’imparentarvi.»
«Tu dici?» domandò Gin. «Saremmo una famiglia allargata.»
Toshiro li guardò in malo mado.
«Volete piantarla di spiarli? Impiccioni, io non sarò mai così, ci puoi contare.»
Almeno su una cosa aveva le idee chiare. Adesso però arrivato il momento di tornare da Momo.
 
 
«E quindi io e Tia abbiamo litigato di nuovo, questo è quanto. Le donne sono davvero impossibili.»
Neliel diede un colpo alla gamba di Grimmjow, sotto il tavolo. Ecco una cosa che a Nnoitra non era mancata troppo, ovvero ascoltare i problemi d’amore di Grimmjow. Quantomeno a Nel piaceva dare consigli utili.
«Forse se fossi un pochino più delicato, non finirebbe così ogni volta» sospirò Nel. «Insomma, sempre lì a fare il duro. Ti capita mai di prenderla tra le braccia e dirle che l’ami?»
«Tsk, io la stringo in modo molto possente, e ti assicuro che le piace.»
Un altro colpo, più forte. Grimmjow ne aveva di cose da imparare, pensò Nnoitra.
«Non intendo durante il sesso, intendevo in altri contesti, con dolcezza! Sono seria Grimmjow. Tia vuole costruire qualcosa di serio con te. Hai mai pensato al vostro futuro in questo senso?»
Grimmjow si imbronciò, non era ancora abbastanza addolcito da mettersi a parlare dei suoi sogni e progetti, ma se Neliel glielo chiedeva in questo modo, dire di no diventava difficile.
«Un giorno vorrei sposarla e avere tre gemelli» confessò, guardando da tutt’altra parte. Nnoitra si sorprese, poiché Grimmjow era paterno quanto lui era paziente, ma in effetti lui era stato molto simile a lui, una volta. E poi, tre gemelli. Aveva le idee chiare. Neliel sorrise, un po’ commossa.
«Oh, hai visto? Allora dovresti dirglielo, e non fare sempre il duro, caro il mio Grimmjow» fece dandogli un colpetto su una spalla.
Nnoitra alzò gli occhi al cielo.
«Certo che sei incredibile, Neliel. Non che non lo sapessi già, ma mi stupisci sempre di più.»
Neliel arrossì a quel complimento spontaneo e si avvicinò a suo marito per baciarlo. Grimmjow fece una smorfia e bevve il suo caffè. Anche lui voleva baciare Tia, questa volta si sarebbe fatto perdonare.
«E che cavolo, andatevene in un albergo.»
Come se qualcuno avesse percepito il disagio di Grimmjow, Nnoitra fu costretto a staccarsi quando sentì il cellulare squillare. Imprecò, sicuro che si trattasse del suo editore. Invece era un numero che non conosceva,
«Pronto? Con chi parlo?»
«Nnoitra, sono io.»
Era la voce di Shirai, suo padre. Nnoitra si scostò da Neliel, guardandosi attorno. Era un po’ spaesato, non si era aspettato una sua chiamata dopo la sfuriata dell’ultima volta.
«Ah, sì. Che cosa c’è?» borbottò.
«Dovrei parlarti. Possiamo incontrarci?»
Non aveva idea di cosa suo padre volesse. Chiedergli scusa? Difficile, ma non impossibile. Per quanto riguardava lui, si sentiva estremamente esposto.
«Oh, e va bene, se proprio insisti» disse, cercando di mantenere un tono freddo e distaccato. Poi chiuse la chiamata e guardò Neliel e Grimmjow.
«Vuole vedermi. Che nervi, questa cosa non avrà mai fine.»
«Se vuoi io parlo con tuo padre e tu parli con Tia» propose Grimmjow, ma venne immediatamente zittito da un’occhiataccia di Neliel. Quest’ultima don una carezza a suo marito.
«Ti accompagno.»
 
Nnoitra non poté negare di essere un po’ teso all’idea di rincontrare suo padre. Non aveva molte speranze, ma in piccola parte in realtà la speranza ce l’aveva eccome. Shirai aveva dato loro appuntamento sotto la Tokyo Tower.
«Fa un caldo atroce, ma perché non ha scelto un posto con l’aria condizionata?» domandò Nnoitra, sventolandosi con una mano.
«Non ne ho idea. Oh, ecco tuo padre» Neliel lo indicò. Shirai se ne stava seduto su una panchina a guardare la Tokyo Tower. Sembrava piuttosto malconcio e aveva un’espressione orribile.
«Sono qui» si annunciò Nnoitra. «Ma si può sapere che ti è successo? Hai un aspetto orribile.»
Shirai lo guardò negli occhi.
«Tua madre mi ha buttato fuori di casa.»
Quella notizia fu un fulmine a ciel sereno per entrambi. Assurdo pensare che la dolce e fin troppo mansueta Sun Ah avesse cacciato di casa suo marito.
«Eh? In che senso?» domandò Nnoitra confuso. Suo padre si alzò. Sembrava meno imponente del solito.
«Dopo la nostra ultima discussione, abbiamo litigato. E mi ha detto che finché non chiariamo, non vuole avermi intorno. Vuole che ti chieda scusa e che avrebbe dovuto agire in questo modo molto tempo prima.»
Neliel inarcò le sopracciglia. Però, le parole di Nnoitra dovevano aver sortito un effetto niente male se Sun Ah era arrivata a fare una cosa del genere. Lo stesso Shirai sembrava molto provato. E Nnoitra invece non poteva credere alle sue orecchie e ai suoi occhi. Era la prima volta che sua madre prendeva posizione in questo modo.
«Ti ha davvero buttato fuori di casa per questo? Certo, immagino avessi bisogno di un incentivo.»
«In realtà sto pensando alle parole giuste da dire dal giorno in cui abbiamo discusso. Mi hai lasciato senza parole, sai anche tu quanto è difficile.»
E in effetti Shirai non aveva tutti i torti. Nnoitra guardò sua moglie e poi suo padre, un po’ in difficoltà.
«Ebbene? Hai trovato le parole giuste?» domandò e si odiò quando percepì la speranza nella sua voce. Come se fosse ancora un bambino che cercava l’approvazione dei genitori. Shirai tossì, a disagio. Non era mai stato bravo con i gesti affettuosi, con le parole gentili. Nnoitra a sua volta era stato così per molto tempo.
«Io… io non penso tu sia un fallito»
«Ben, non si direbbe» fu il suo botta e risposta.
«Sì, lo so. Sei diverso da come mi immaginavo saresti stato. Nella mia testa immaginavo che saresti stato come me. Ma tu non sei come me. A questo punto direi che è una fortuna. Hai avuto il tuo momento di crisi e poi sei risalito. Fai il lavoro che ti piace, hai sposato una brava donna e hai una figlia che è a dir poco straordinaria.»
Era la prima volta che lo sentiva parlare in questo modo. Neliel gli posò una mano sul braccio per farle capire che lei c’era.
«Se davvero lo pensi, perché non me lo hai mai detto? Perché essere tanto duro con me?»
«Perché sono un vecchio orgoglioso, Nnoitra. Ecco per te. Sei il mio unico figlio e ho sempre agito pensando di doverti preparare al mondo, ma temo di aver commesso degli errori. Probabilmente non la penseremo mai allo stesso modo su molti argomenti. Ed è normale, tu sei un’altra persona, con una tua testa e un tuo cuore. Cuore che… ho ferito. Non mi aspetto certo il tuo perdono, né che tu voglia continuare a frequentarmi. Però meritavi di sapere quello che penso, ecco tutto.»
Nnoitra non lo avrebbe perdonato. Almeno non subito. Dopo una vita passata a sentirsi sbagliato e criticato, non bastavano le scuse a cancellare tutto. Eppure avvertì un po’ di calore lì, all’altezza del petto. Non frequentare più i suoi genitori, come aveva fatto per anni, a quel punto non sarebbe servito a niente. Ma anche lui era orgoglioso.
«Amh… sì, capisco. Apprezzabile, certo. Comunque a Naoko farebbe molto piacere vedervi ogni tanto. Lei apprezza la cultura coreana e vorrebbe saperne di più. Penso che mamma ne sarebbe felice…»
Pronunciare quelle parole non fu nemmeno così difficile come aveva temuto. Fu anzi estremamente facile e subito dopo si sentì più leggero, mentre Neliel si sentiva orgogliosa di lui.
«Sei sicuro?» domandò Shirai. Si era aspettato molta più resistenza da parte del figlio, non sapendo che Nnoitra era stanco dei litigi, stanco dei non detti e di tutti.
«Come hai detto tu stesso, non pensare che ti perdonerò dall’oggi al domani. Ma non sono una persona orribile, non negherei a mia figlia la vostra presenza.»
Quello era rimasto l’unico pezzo della sua vita da rimettere a posto e il primo passo era stato compiuto.
«Spero che verrete a trovarci, in questi giorni» aggiunse ad un tratto Neliel, allegra. Shirai annuì. Non ci sarebbero stati baci e abbracci tra lui e suo figlio, non era da loro. Ma quei silenzi valevano più di qualsiasi cosa e parola.
 
 
Ulquiorra aveva notato un miglioramento nell’umore di Satoshi e questo voleva dire di sicuro che le cose con Naoko andavano meglio. Ma adesso toccava a lui fare la prima mossa, cercare un punto d’incontro con Satoshi. Ulquiorra lo osservò, la porta della sua cameretta era socchiusa: Satoshi stava cercando di risolvere un problema di aritmetica, subito dopo alzava gli occhi al cielo e sbuffava. Ulquiorra a quel punto sbuffò.
«È permesso?»
Satoshi si drizzò.
«Sì»
C’era un leggero imbarazzo tra i due, se ne rendevano entrambi conto. Ulquiorra si avvicinò e si sedette di fronte a lui.
«Credo che dovremmo parlare di quanto successo, non credi?» domandò, fermo ma gentile. Non voleva che suo figlio avesse paura di lui.
«Io…» iniziò Satoshi. «Mi spiace. Non so perché ho reagito in quel modo. No, anzi, in realtà lo so benissimo.»
Parlare era difficile, ma per sua fortuna non ne ebbe bisogno, perché Ulquiorra conosceva gi la sua storia ed era bravo a intuire i suoi sentimenti pur non avendo vissuto la sua situazione.
«Satoshi. So che in passato ci sono state delle persone che ti hanno fatto del male. Persone che avrebbero dovuto proteggerti. Io… io non posso cambiare il passato e so di non essere ancora riuscito a conquistare la tua fiducia, però voglio che tu sappia che non ti farei mai del male. Non sono uno di quelli che pensa che la violenza serve a qualcosa. L’unica cosa che voglio è…» e nel dire ciò abbassò la voce, come se si vergognasse. «È il tuo affetto, tutto qui.»
Satoshi si strofinò un occhio, un po’ gli venne da piangere.
«Ma tu hai il mio affetto, lo giuro. È che non sono bravo a dimostralo. E lo so, so che non mi faresti mai del male. Solo che a volte reagisco d’istinto. A volte penso che se non faccio abbastanza, non mi terrete con voi» e dicendo ciò espresse la sua più grande paura. Fu allora che Ulquiorra prese il suo viso tra le mani, senza nessuna esitazione.
«Questo non può succedere, non qui, non in questa famiglia. Ti chiedo solo di darmi fiducia su questo, sul resto possiamo lavorare. Erano occhi negli occhi, castano nel verde. Satoshi sentì il viso andare a fuoco perché sapeva che Ulquiorra non stava mentendo, glielo stava dicendo il suo sguardo.
«Io… io… va bene. Volevo chiederti… posso abbracciarti? Ne ho bisogno» confessò. Era la prima volta, in tre anni. Ulquiorra sorrise e lo strinse a sé. Satoshi, come tutti i bambini e come tutte le persone, voleva essere solo amato. Li, loro, erano lì per questo.

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Capitolo 26
*** Capitolo ventisei ***


Capitolo ventisei
 
Nanao Ise era stata caldamente consigliata a Tatsuki da Neliel. Aveva tanto aiutato Nnoitra nel suo percorso ed era sicura che a Uryu sarebbe stata molto utile. Non aveva torto, quella donna era molto professionale e aveva la giusta sensibilità. Ma questo non voleva dire che per Uryu fosse facile affrontare quella situazione, quei suoi ricordi. Come se non bastasse, si sentiva una persona malata a causa dei farmaci che era costretto a prendere. Per aiutarlo a dormire e per aiutarlo a stare tranquillo, più che altro. Ma non lo sopportava comunque, questo suo essere dipendente da qualcosa.
«Come vanno i tuoi ricordi? È ancora tutto vago?» domandò Nanao. Quello era un caso delicato, ci sarebbe voluto tempo e delicatezza. Uryu era ancora molto rigido, nonostante avesse già fatto diverse sedute.
«In realtà, i ricordi di quel periodo della mia vita diventano sempre più vividi, ma non so se è un bene. Ricordo che andavo molto bene a scuola, ma che un giorno ho smesso di essere bravo, perché non riuscivo a concentrarmi nello studio. Avevo iniziato ad avere paura perché… quella persona poteva farmi male e io mi sentivo così insicuro e indifeso.»
Era arrabbiato, più che triste. Ai tempi era stato solo un bambino, non aveva saputo come difendersi. Non era colpa sua, lo sapeva bene, ma l’amarezza rimaneva.
«Non devi trattenerti. Sentiti pure libero di parlare a ruota libera» lo incoraggiò Nanao. Uryu si aggiustò gli occhiali, nervoso.
«Sono arrabbiato anche con me stesso. Come ho potuto dimenticare? Sono davvero co debole da non poter affrontare certe cose? E soprattutto, in mezzo c’è andato mio figlio. Ho riversato su di lui le mie paure, anche se in modo inconscio. Adesso ho paura che mi odi, che pensi che sia un debole, che… non lo so nemmeno io.»
«Allora dimmi. Se fossi al posto suo, cosa penseresti?»
Uryu fece spallucce.
«Mi dispiacerebbe e non saprei come approcciarmi» disse con naturalezza. Si rese conto di essersi risposto da solo.
«Forse Yuichi vorrebbe avvicinarsi a te, ma non sa come fare. È molto delicata come faccenda. Da come me ne hai parlato, tuo figlio è molto intelligente per la sua età.»
«Lo è. E sono molto orgoglioso di lui. Non voglio che soffra come ho sofferto io.»
«Non è scritto da nessuna parte che Yuichi dovrà passare quello che hai passato tu. Ma di cos’è che hai realmente paura?»
A Uryu non piaceva guardarsi dentro, scavare. Era certo che non piacesse a tutto. Dovette pensarci per qualche minuto, la risposta non era così scontata.
«Di non sapere come affrontarlo, nel caso accadesse» disse poi in un sussurro. Si sentiva smarrito per quanto riguardava sé stesso, figurarsi nei confronti dei suoi figli. In Yuichi rivedeva sé stesso. Ma Yuichi non era lui, non dovevano condividere necessariamente lo stesso dolore.
Nanao sorrise.
«Vedi? Sei sveglio anche tu. Yuichi deve aver preso da te.»
Uryu si sentì fiero. Voleva che suo figlio prendesse da lui solo il meglio.
 
Tatsuki lo aspettava fuori, seduta con Yoshiko semiaddormentata in braccio. Era andata a prenderla all’asilo e aveva cercato di lasciarla ai nonni, ma sua figlia si era impuntata. Voleva venire anche lei, voleva stare sempre attorno al papà, forse percependo la sua sofferenza. Era una brava bambina, entrambi i suoi figli lo erano.
Quando Uryu uscì, un’ora e mezza dopo, Tatsuki si alzò.
«Ehi.»
«Tatsuki. E ci sei anche tu, Yoshiko?» domandò accarezzando i capelli della bimba.
«Io aiuto mamma» rispose lei strofinandosi un occhio. Tatsuki le baciò la testa e poi guardò suo marito.
«C’è una persona qui fuori che ti aspetta. Non è entrata, ma credo voglia parlare con te» gli disse con un sorriso. E Uryu capì subito che si trattava di Ichigo, il quale lo attendeva con le mani infilate nelle tasche. Uryu era stato costretto a prendersi un congedo da lavoro temporaneo, il che lo faceva soffrire moltissimo, ma sapeva che era necessario.
«Ti trovo in forma» gli disse Ichigo nel vederlo.
«Già, anche io. Al… lavoro come va?»
«Hanataro ha momentaneamente preso il tuo posto. All’inizio è andato in crisi, ma sai quanto è capace. Urahara è strano per ciò che è successo a sua figlia, mentre Kurotsuchi è più nervoso del solito. Insomma, normale amministrazione.»
Uryu sorrise e poi rimasero in silenzio. Voleva chiedere scusa a Ichigo per essere stato così insopportabile, per aver pensato male di Masato solo perché aveva paura.
«Ichigo» sussurrò il suo nome, anche se era solito a chiamarlo per cognome.
«No, Uryu. Non pensare di chiedermi scusa.»
«E tu non pensare ci trattarmi con pietà. Certo che ti chiedo scusa. Per essere stato insopportabile, per aver pensato male di tuo figlio. Lui è un bravo ragazzino, diventerà un brav’uomo. E vuole bene a Yuichi, questo non avrei dovuto metterlo in dubbio mai.»
Ichigo si passò una mano tra i capelli, in imbarazzo.
«Senti, non sono arrabbiato con te. Va bene, stai tranquillo. Quello che hai passato è… tosto, difficile. Io al posto tuo sarei impazzito.»
Uryu sorrise e poi si concentrò sul luccichio negli occhi del suo migliore amico.
«Però penso che non se venuto qui solo per sapere come sto. Qualcosa mi dice che le cose con Rukia sono migliorate. Avanti, dimmi tutto.»
Ichigo arrossì. Quindi la sua felicità era evidente.
 
Con Ishida assente, Hanataro aveva molte cose a cui pensare. Si sentiva lusingato che Kurotsuchi lo avesse ritenuto in grado di prendere il suo posto, allo stesso tempo però era tutto molto stressante. Anche perché le cose erano strane nel reparto. Ichigo non era ancora arrivato, quindi lui si ritrovava a lavorare a stretto contatto con Akon e Kurotsuchi. Quest’ultimo sembrava sempre avere una preferenza per Higarashi, o almeno di questo Hanataro si era convinto, perché in realtà non era vero. Ma anche adesso che si stava ritrovando a superare i suoi limiti, mai una volta Hanataro si era sentito gratificato in modo palese. La cosa iniziava a pesargli, al punto ch non riusciva ad essere concentrato nemmeno in salata operatoria. Hanataro era assente, al punto che gli risultava difficile eseguire anche una semplice operazione.
«Higarashi, abbiamo quasi finito. Ottimo lavoro» gli disse Kurotsuchi, intendo a mettere dei punti di sutura. «Sia Kurosaki che Ishida sono assenti, per cui mi serve tutto l’aiuto possibile.»
Hanataro sospirò e Mayuri se ne accorse.
«Yamada, non mi sembra il caso di starsene lì a sospirare durante un intervento.»
Quello era fin troppo. Non ne poteva più di trattenersi.
«Mi scusi, dottor Kurotsuchi. È che proprio non capisco. Sono qui da qualche anno, mi sono sempre impegnato e ho dovuto faticare per ottenere riconoscimenti e rispetto, anche da lei. Perché adesso invece, il primo che arriva si prende tutti i meriti? È per caso diventato il suo preferito?»
Mayuri si guardò attorno. Perché mai tutti si contendevano le sue attenzioni? Lui voleva solo essere lasciato in pace.
«Yamada, non è il luogo né il momento adatto per-»
«Mi scusi!» ripeté, tremante. «Ma glielo dico lo stesso. È davvero frustrante, oltre che ingiusto. Mi sono trattenuto fino ad ora, ma io ho bisogno di rassicurazione.»
Hanataro aveva assunto un certo tono drammatico, mentre Akon lo guardava con aria interrogativa perché, insomma, era lui il primo che capitava?
Mayuri scosse la testa.
«Ne parliamo dopo. Prima concludiamo quest’intervento, se non ti dispiace. Dopo potrai fare sfoggio del tuo coraggio.»
Hanataro deglutì a vuoto. Oh, ma perché aveva ascoltato i suggerimenti di Natsumi  sull’essere coraggioso? Era già pentito, e se lo avesse licenziato? L’unica cosa che riuscì a fare fu rimanere in silenzio, mogio e depresso.
 
Senjumaru aveva ideato un progetto, una nuova tecnologia che avrebbe migliorato le prestazioni durante un intervento chirurgico, e doveva parlare con Mayuri. Nemu l’aveva vista arrivare e aveva fatto finta di niente. Aveva fatto fin troppo scenate, non ne avrebbe fatte anche sul luogo di lavoro, ma aveva comunque gli occhi aperti. Suo marito uscì dalla sala operatoria seguito da Akon e Hanataro. Mayuri non poté che irrigidirsi nel vedere Senjumaru lì, oramai era prevenuto.
«Che c’è?» domandò, scorbutico.
«Che succede, Mayuri? Un intervento difficile? Ad ogni modo, ho studiato un’idea in questi giorni, vorrei parlarne con te.»
«Con me e Urahara, visto che siamo soci.» calcò su quella parola. Anche se non amava l’idea di essere suo pari, in quel caso era conveniente ricordarlo.
«Certo, ma sai che con te ho una certa confidenza. Urahara è brillante, ma quando parlo con te riesco ad essere me stessa.» Ed eccolo di nuovo quel tono languido e ambiguo. Fu quando gli poggiò una mano sul petto che Mayuri gli afferrò il suo polso. Sbagliava a sentirsi molestato? Il viso gli bruciava di vergogna e rabbia, un no era un no.
«Non mi piace quello che fai e quello che dici. Non pensare di rovinare il mio matrimonio. Se adesso hai qualcosa da dire, dovevi pensarci prima di…»
Senjumaru si avvicinò, chinando la testa di lato.
«Oh, Mayuri. Non dirmi che ce l’hai ancora con me per quel piccolo tradimento di vent’anni fa. Non pensavo fossi così sensibile.»
Fece di nuovo per accarezzarlo e lui si scostò. Il primo suo istinto fu quella di colpirla sul viso, ma non l’avrebbe fatto. Non era sensibile, si sentiva soltanto umiliato. Umiliato, lui!
«Maledetta strega, io ti-»
«Amh, scusate.»
Nemu si era avvicinata in modo discreto per non attirare ulteriormente l’attenzione. Mayuri l’aveva sempre protetta, anche lei poteva proteggere lui. O difenderlo, in qualche modo. Senjumaru la guardò. Quella donna così timida e remissiva cosa aveva intenzione di fare. E Mayuri invece si preoccupò, non voleva assistere ad una lite violenta.
«Sì?» chiese Senjmaru. Nemu sospirò e all’improvviso il suo sguardo cambiò.
«Puoi smetterla di molestare mio marito? Lui è sposato e non è interessato a te. Quindi quello che fai… non è bello, e non è neanche giusto. Un no e un no. Inoltre, hai un grande coraggio a provarci davanti a me» si sfiorò la fede che portava al dito, come a farsi forza. «Lui mi ha detto cosa è successo, ma è stato tanto tempo fa. E non voglio che tu gli faccia male. Anche se sono sempre silenziosa al suo fianco come un’ombra, anche io ho qualcosa da dire.»
Mayuri si sorprese, ma non troppo. Lui conosceva la vera forza di Nemu, ma non si aspettava che la tirasse fuori così all’improvviso. Senjumaru stessa arrossì, spiazzata.
«Non so di che cosa parli, noi siamo solo colleghi.»
«Ti prego di non offendere la mia intelligenza. Non te lo ripeterò un’altra volta. Sta lontana da lui. Non conosci il detto? Non c’è niente di peggio di un buono che diventa cattivo.»
In quel momento Nemu sembrava davvero minacciosa. Urahara, che stava guardando curioso la scena, sembrò molto divertito. Senjumaru sembrava divenuta piccola.
«Umh. Non era certo mia intenzione» sussurrò. Nemu fece un cenno con la testa. Per lei il caso era chiuso, ed era riuscita a mantenere una certa dignità. Guardò Mayuri e quest’ultimo la ringraziò silenziosamente. A casa, poi, avrebbe avuto modo di ringraziarla a dovere.
 
Dopo quell’evento così stressante Mayuri si prese una pausa. Nemu lo aveva difeso alla grande, ma si sentiva turbato. Aveva sempre avuto la presunzione di poter controllare e gestire tutto, invece si era sbagliato. Avvertiva un certo peso lì sullo stomaco. La sua pausa di mezz’ora si concluse troppo in fretta e quando entrò in ascensore, sospirò quando si trovò dentro sia Urahara e Natsumi, che di sicuro doveva stare andando a trovare Hanataro. La ragazza lo salutò con entusiasmo e lui rispose scorbutico come al solito.
«Ehi» gli disse Kisuke. «Tua moglie è stata incredibile.»
«Ovviamente lo so» rispose Mayuri. «Quella maledetta donna mi ha messo così a disagio. Mi sento uno stupido per non essere riuscito a difendermi da solo.»
Kisuke si permise di dargli una pacca sulla spalla.
«Oh, andiamo. In una coppia ci si protegge a vicenda, è così che funziona.»
«Vero, lo penso anche io!» esclamò Natsumi contenta. Mayuri si massaggiò la spalla e distolse lo sguardo. Doveva dare ragione a Kisuke, per quanto gli scocciasse.
«Non mi piace risultare così debole e non mi piace stare a rimuginare sul passato.»
Kisuke lo guardò di sottecchi. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma sapeva che Mayuri non gliel’avrebbe permesso.
«Il suo tradimento, ai tempi, ti ha fatto così male?»
Mayuri socchiuse gli occhi. In realtà si era ripreso abbastanza in fretta, era stato attratto dall’intelletto di Senjumaru piuttosto che da lei come persona. Erano stati la classica coppia brillante, che pare avere tutto, ma era stata tutta una facciata.
«Più che farmi male, non ne capisco il senso. Io non tradirei mai, è una perdita di tempo. E non sono un bastardo fino a questo punto.»
Natsumi sorrise.
«Lei è davvero tenero.»
«Tu vedi di non parlare» la rimproverò Mayuri. Poi, accadde qualcosa di inaspettato: ci fu un blackout e l’ascensore, dopo uno scossone, si bloccò.
«Oh, accidenti. Ci mancava solo questa» disse Kisuke, con un tono in realtà non poi così preoccupato. Mayri sbuffò.
«Che rottura.»
Natsumi invece era diventata pallida e se ne stava ora con la schiena poggiata al muro e le mani poggiate sul petto.
«No… non voglio, ho paura.»
«Non dire sciocchezze, non c’è niente di cui avere paura» borbottò Mayuri.
«No, io… soffro di claustrofobia. Non riesco a respirare, odio gli spazi angusti. L’idea di non poter uscire non mi piace. Sto avendo un attacco di panico. Voglio i miei papà, ora» piagnucolò la ragazza, quasi fosse stata una bambina. Mayuri alzò gli occhi al cielo, Kisuke invece, affettuoso, la prese per mano.
«Respira, Natsumi. Ci siamo noi, siamo un medico e un chirurgo, sappiamo quello che facciamo. Su, respira e inspira molto lentamente.» Mayuri borbottò qualcosa, porgendo poi la mano a Natsumi. Lui non era affatto tenero o gentile, era solo professionale, non poteva starsene a guardare una ragazza in preda ad un attacco di panico.
«Puoi stringerla. Tanto non mi faccio niente.»
 
 
Mentre Kisuke affrontava l’attacco di panico di Natsumi, Yoruichi era in casa, nel suo studio, a correggere dei compiti. In verità era distratta, le cose si erano fatte pesanti in casa sua. Yami si aggirava per casa come uno spettro, lei non sapeva come affrontare la situazione e Kisuke e Soi Fon sembravano essersi coalizzati contro di lei. Beh, torno non ne avevano, era stata severa con Yami. Inoltre, gestire una relazione in cui erano in tre era difficile. Specie perché Soi Fon aveva un carattere forte e dirompente tanto quanto il suo. E fu sempre Soi Fon a decidere di bussare alla porta del suo studio per parlare con lei.
«Yoruichi, disturbo?»
La donna si tolse gli occhiali, stanca.
«No, Soi Fon. Comunque non riesco a correggerli, per cui.»
Soi Fon si fece avanti, le mani dietro la schiena. A volte tornava l’antica soggezione, quella che aveva provato quando erano state semplicemente una studentessa e un’insegnante. Ora era diverso, ora erano due donne ed erano impegnate in una seria relazione a tre.
«Io credo che dovremmo parlare.»
«Di Yami?» chiese subito Yoruichi.
«… Beh, anche. Ma non solo. Parlare di noi, intendo. Sai, sentirmi dire che non faccio parte della famiglia mi ha ferito molto.»
Yoruichi sospirò. Diceva delle cose orribili quando si arrabbiava, per poi pentirsene.
«Non era quello che volevo dire.»
«Però è la verità. Voglio dire, siete tu e Kisuke ad essere sposati. I figli sono i vostri, li avete fatti insieme. Io sono arrivata dopo, solo un’aggiunta alla vostra vita. Se ora me ne andassi, andreste avanti lo stesso, no?»
Soi Fon aveva bisogno di capire fino a che punto contava, fino a che punto erano disposti. Perché lei aveva la sensazione di starsi innamorando di entrambi e non voleva rimanere ferita. Yoruichi sospirò.
«Non sarebbe lo stesso.»
«Quinti non importa se non sono legata a voi legalmente?» domandò, rigida e con i pugni chiusi. L’idea del matrimonio non le provocava chissà quale desiderio, ma le bruciava un po’ l’essere esclusa.
«Soi Fon, il matrimonio è un contratto, due persone che non si sposano non necessariamente si amano di meno. Non ho mai messo in dubbio questo. Io volevo solo dire che l’educazione dei miei figli riguarda strettamente me e Kisuke. Tu sei giovane.»
La più giovane si fece avanti, poggiando una mano sulla scrivania.
«È vero, Hikaru e Yami non possono essere i miei figli, però possono essere come dei fratelli, per me. E quello che hai detto a Yami è stato orribile.»
«Lo so.»
«Tu sei sua madre. Un suo punto di riferimento.»
«Lo so.»
«Se le vai contro, come potrà avere fiducia nel mondo?»
«Lo so!» Yoruichi aveva alzato la voce e il suo tono si era spezzato. Gli occhi le erano diventati lucidi e a fatica stava trattenendo le lacrime. «Tutto quello che mi dici io lo so. Non riesco a capire mia figlia, non riesco a parlare con lei. Parlo ogni giorno con decine di adolescenti, con lei invece no. E mi sento una madre orribile per questo. Guarda cosa le è capitato e io non sono stata in grado di fare niente.»
Soi Fon avrebbe voluto abbracciarla. Ma forse le parole sarebbero state più forti di un abbraccio.
«Non avresti potuto fare niente, temo. Però puoi fare qualcosa adesso. Puoi parlare con lei. Lo sai, Yami se ne va in giro atteggiandosi come una donna. Però è ancora piccola. Dodici anni sono pochi. E sono un’età infernale. Io me lo ricordo.»
Yoruichi si asciugò le lacrime, cercando di ricomporsi. Quanto era maturata Soi Fon in quegli anni? Era molto diversa dalla ragazzina che le veniva dietro qualche anno prima. Diceva cose giuste e ragionava come una donna molto più adulta della sua età. Soi Fon non era una cosa da nascondere. Il fatto che piacesse sia a lei che a Kisuke non era una cosa da nascondere.
 
A Yami veniva da vomitare, per via di tutte le cose orribili che dicevano sui social di lei. Non bastava essere tormentata a scuola, adesso anche quello? Oh avrebbe voluto non sentire né vedere più nulla, magari addormentarsi per un po’ e svegliarsi quando sarebbe finito tutto. In quei giorni le era venuta voglia di farsi male. Alle volte aveva visto in delle serie tv, le protagoniste che si auto lesionavano in preda ad un dolore insopportabile e soffocante, spesso uccidendosi. Lei non voleva arrivare a tanto, ma sentiva l’esigenza di punirsi e, allo stesso tempo, non pensare. Si era chiusa in bagno, e a lungo aveva cercato qualcosa che le potesse essere utile. Aveva trovato delle lamette, le aveva accarezzate, poi rimesse a posto, poi le aveva riprese di nuovo. Sarebbe potuto essere pericoloso, lo sapeva e tuttavia non era del tutto lucida. Se si fosse punita, se avesse pagato, tutto sarebbe tornato a posto? A scuola avrebbero smesso di parlare male di lei, di guardarla come una poco di buono? E sua madre avrebbe smesso di odiarla? Tutta la disperazione confluì in un’unica direzione. Solo un pochino non sarebbe successo niente di irreparabile. Si guardò il polso e poi, con il cuore che batteva forte nel petto, pass la lametta con forza. Avvertì una sensazione un po’ bruciane e un po’ tagliente e poi qualcosa di caldo. Le venne da gridare, ma riuscì solo a versare quelle lacrime che aveva fino a quel momento trattenuto.
Chiuse gli occhi. Era arrabbiata per tutto: per quel traditore di Ren, che l’aveva violata, rendendo pubblico un momento intimo (o almeno che aveva creduto tale). Ce l’aveva con il mondo che automaticamente ce l’aveva con lei e non con colui che l’aveva violata. E ce l’aveva con sua madre, che anziché sostenerla, le andava contro. Infine, ce l’aveva con sé stessa, perché si era sempre creduta forte, quando invece era estremamente fragile. E Yami odiava essere fragile. Avvertì dei passi e aprì gli occhi. Il braccio era coperto di sangue, addirittura Pulsava. Forse avrebbe fatto meglio a fermarsi se non voleva morire dissanguata. Yoruichi, dall’altro lato, si era decisa finalmente a parlare con sua figlia, sostenuta da Soi Fon. L’aveva cercata e poi aveva bussato contro la porta del bagno.
«Yami, sei qui dentro?»
A Yami girava la testa, non capiva se per la perdita di sangue o se perché quest’ultimo gli facesse impressione. La lametta cadde e lei si aggrappò al lavandino.
«Io sto entrando» annunciò Yoruichi. Era sempre stata una donna forte, lei. Sempre con una soluzione a tutto, ma diversamente era quando si trattava dei suoi figli. In quel caso perdere il controllo diventava fin troppo facile. Lo sguardo le cadde subito sulla lametta a terra, sporca di sangue. Poi sul braccio di sua figlia e poi sulla sua espressione debole.
Ti prego, si disse, fa che non sia quello che penso.
«Oh, no. Yami!» gridò Soi Fon, più reattiva. Ma fu Yoruichi a muoversi, a prenderla tra le braccia quasi fosse stata una bambina molto piccola. Le parlò a bassa voce, con tono dolce e tremante.
«Tesoro, andrà tutto bene, non preoccuparti. Soi Fon, chiama Kisuke, io cerco di fermare il sangue»
Aveva detto che sarebbe andato tutto bene. A Yami e, soprattutto, a sé stessa.
 
Kisuke e Mayuri, collaborando, erano riusciti a calmare l’attacco di panico di Natsumi. Tutti e tre avevano finito con il sedersi sul pavimento dell’ascensore e la ragazza si era addormentata con il viso sulla spalla di Mayuri. Oh, come si era ridotto!
«Non pensavo tu fossi così popolare. Addirittura la tua ex che ti contende» Kisuke aveva ripreso il discorso, visto che erano ancora bloccati in ascensore. Mayuri fece spallucce.
«Non sono popolare, a Senjumaru piace darmi fastidio. Odio il fatto che un qualcosa che ha fatto vent’anni fa mi abbia influenzato. Che mi influenzi ancora.»
Kisuke lo fissò, come se volesse studiarlo.
«Hai mai affrontato questo dolore? Quello del tradimento, intendo.»
Mayuri si irrigidì, ma fu attento a non svegliare Natsumi. Come alla maggior parte degli umani, quel tipo di dolore lo terrorizzava. Con il dolore fisico non aveva problemi, era resistente, ma con quello emotivo non poteva farcela.
«Non ho mai pensato ci fosse motivo.»
«Immaginavo, ma io credo che dovresti provarci. Se non lo affronti, come fai a superarlo? Sei molo più sensibile di quanto vuoi far credere.»
«Ehi, ora stai osando troppo» borbottò Mayuri. «Voglio solo che Nemu stia bene. Che non si senta insicura, non ha motivo. Io la amo. Tutto quello che conosco di lei, io lo amo, perfino i suoi difetti. Che sono davvero molto pochi.»
Forse Mayuri si era rammollito davvero in quegli ultimi anni. Stava dichiarando il suo amore per la moglie a Kisuke, il quale ora stava sorridendo.
«Allora dovrai ripeterglielo finché non si convincerà.»
In quel momento sembravano davvero una coppia di migliori amici. Kisuke lo definiva sempre così, Mayuri no. Ma in effetti era la cosa più vicino ad esso.
All’improvviso le porte dell’ascensore si aprirono.
«Oh, finalmente» borbottò Mayuri, aiutando Natsumi ad alzarsi. «Ehi, ragazza, guarda che siamo liberi. E staccati, maledizione.»
Era difficile non avere un certo senso di protezione paterna verso di lei. Kisuke rise r uscì dall’ascensore. In quel momento il cellulare nella sua tasca squillò.
«Yoruichi cara?»
«Sono Soi Fon! Kisuke, è successa una cosa terribile!»
Mayuri vide Kisuke impallidire, la sua espressione cambiare. Espressione che conosceva benissimo: quella ce anche lui assumeva quando Ai era nei guai.
«Ehi, che succede?» gli domandò, in apparenza scorbutico, ma preoccupato. Kisuke annuì, disse qualcosa a Soi Fon e poi guardò Mayuri, sorridendo.
«Devo andare a casa, la mia famiglia ha bisogno di me.»
«Questo l’ho capito. Ma che è successo?» ripeté. Kisuke Urahara però non gli rispose. Non lo aveva mai visto così.
 
 
Gin si sistemò la cravatta. Mentre si guardava allo specchio, vide Rangiku arrivargli alle spalle e abbracciarlo da dietro. Sembrava preoccupata.
«Rangiku, amore mio…»
«Gin» sussurrò. «Dobbiamo per forza fare questa cosa?»
«No, non per forza. Ma oramai ci siamo. Mi sembra di essere dentro un film»
E invece era la vita reale ed era successo proprio a lui.
«Quella ragazza, non la tollero» gemette, poggiando la fronte sulla sua schiena. «Guarda in che situazione ci ha cacciati. Immaginarti con lei… non lo sopporto!»
Era quello il vero turbamento di Rangiku. Si fidava di suo marito al cento per cento, ma aveva anche capito che Loly non si fermava davanti a niente e il pensiero le fece venire la nausea. Gin le afferrò il mento con delicatezza e la costrinse a guardarlo.
«Non preoccuparti, è difficile mettermi i piedi in testa. Certo, è un po’ rischioso, ma ce la posso fare. Tu dai un bacio a Rin da parte mia quando la vedi.»
Rangiku si rilassò appena e chiuse gli occhi. Non era il caso di stressare ulteriormente Rin con quelle questioni da adulti.
«E va bene. Gin, ti amo.»
Lui la tirò a sé e l’abbracciò.
«Lo so, ti amo anche io.»
 
Dopodiché Gin uscì di casa – sotto lo sguardo amorevole di sua moglie che l’osservava dalla finestra – e si diresse all’abitazione di Loly, un appartamento in centro spazioso e un po’ troppo lussuoso per una ragazza così giovane e senza un lavoro fisso. Loly ovviamente si era abbellita, indossando un abito sexy e succinto, preparando degli alcolici e la camera da letto come si deve. Quando Gin era arrivato, non aveva avuto nessuna reazione particolare. In cuor suo sapeva che Loly non sarebbe arrivato a toccarlo, la sola idea gli dava la nausea. Anche se qui dipendeva anche da Aizen e dal suo tempismo. Ma si fidava di lui.
«Finalmente soli, Gin» Loly si sedette sulla poltrona, accavallando le gambe. «Sono felice che siamo finalmente arrivati ad un accordo.»
«Non che avessi scelta, comunque» rispose, freddo.
«Oh, sono certa che ben presto ti toglierò quel ghigno dalla faccia. Non è poi un sacrificio così grande far sesso con una ragazza giovane e bella. Voi uomini pensate solo a questo, no?»
Gin sorriso, uno di quei sorrisi gelidi.
«Non so che genere di uomini tu abbia frequentato, ma penso anche a molto altro.»
Loly allora si avvicinò a lui, sorridendo e gli si sedette in braccio. Gin dovette ricorrere a tutta la sua concentrazione per non respingerla.
«Davvero? Ma allora potresti innamorarti di me.»
Non accadrà mai, nemmeno tra un milione di anni. Ma piuttosto che dire ciò, Gin sorrise di nuovo.
«Una concezione un po’ strana dell’amore, devi ammetterlo. Credi che sia così che funzioni?»
«Non lo so come funziona e non mi interessa. Se posso ottenere quello che voglio facilmente, non mi interessa altro.»
Gin scostò il viso, perché Loly si era chinata per posargli un bacio.
Non si sarebbe umiliato più di così.
Poi qualcuno bussò con violenza alla porta e Gin poté tornare a respirare. Inizialmente Loly fece finta di non sentire, ma poiché i colpi si erano fatti insistenti, fu costretta ad alzarsi.
«Che seccatura» borbottò aggiustando la spallina del vestito e andando ad aprire. Di fronte a lei c’era l’avvocato Aizen in persona, seguito da due agenti di polizia.
«Oh, salve signorina. Scusi il disturbo, le dispiacerebbe seguire questi gentili signori in caserma?» domandò Aizen, mellifuo.
«E perché mai dovrei?» domandò scocciata. Aizen si chinò, sussurrando qualcosa al suo orecchio.
«Diciamo che potrei avere la prova di quello che hai combinato.»
Loly rabbrividì e poi indietreggiò.
«Balle!»
Gin si alzò, aggiustandosi la cravatta.
«Non direi, dal momento che ti ho registrato io stesso mentre affermavi certe cose. Ma non è questo il luogo adatto per parlarne. Vi seguo.»
Loly assunse un’espressione spaventosa. Nessun uomo da lei ricattato aveva mai osato andarle contro, era sempre stata lei ad avere il controllo. Aveva creduto che con Gin Ichimaru sarebbe stato lo stesso e invece lui lo aveva incastrato con l’aiuto di quel maledetto avvocato.
«Ehi, no. LASCIATEMI!» gridò rivolta ai due agenti che l’afferrarono. Aizen si avvicinò a Gin.
«Sono arrivato in tempo, vero? Niente di compromettente?»
«Non gliel’avrei comunque permesso. Non so come, perché non sono un tipo violento. Ad ogni modo, grazie.»
Aizen gli diede una pacca su una spalla.
«Aspetta a ringraziarmi. Vediamo prima come va.»

 

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Capitolo 27
*** Capitolo ventisette ***


Ichigo e Rukia non avevano trovato il modo di parlare quanto successo. Eppure, nonostante ciò, sembravano tornati più innamorati di prima. Questo era evidente dagli sguardi che si lanciavano, dal modo in cui sorridevano che non sfuggiva nemmeno ai loro figli. Kaien, più timido e scorbutico, finiva sempre con l’arrossire e dire loro di non fare certe cose davanti a lui. Masato, più romantico, invece li guardava con gli occhi che brillavano. Non avevano detto ancora a nessuno del modo in cui si erano riappacificati, trovandola una cosa molto intima e da svelare, in caso, con cura. Poi, una sera, si erano ritrovati da soli: con Kaien da Hayato e Masato con Yuchi, Kon addormentato nella sua cesta, si erano ritrovati da soli. Rukia finì di pulire l’ultimo bicchiere e poi sentì un paio d’occhi osservarla. In effetti Ichigo se ne stava lì, a qualche metro da lei, a osservarla come se non lo avesse mai fatto prima di allora. Osservò il suo collo, la curva dei suoi fianchi e si ritrovò ad arrossire. La passione non si era mai spenta, ma adesso era scoppiata come non succedeva da anni. Rukia si voltò e lo guardo, sorridendo.
«Ehi» gli disse.
«Ehi» ripeté lui. Si guardarono per qualche istante in silenzio. E poi Ichigo azzerò le distanze, prendendo il suo viso tra le mani e baciandola. La prese lì, sul tavolo della loro cucina, in un moto di passione che doveva essere consumato a tutti i costi.
Diversi minuti Rukia si trovò ansante sul tavolo, i vestiti malamente sparsi a terra e il viso sudato. Era come se non potessero più fare a meno di stare appiccicati. Ed era piacevolissimo.
«Oh, Ichigo. È stato stupendo, non penso che potrò più farne a meno.»
Ichigo le diede una mano, aiutandola a mettersi seduta.
«Non vedo perché dovremmo. Stare lontano da te è una tortura. Anche se immagino che… dovremmo comunque riparlarne.»
Rukia gli accarezzò il viso, pensierosa.
«Possiamo parlarne adesso.»
«Davvero vuoi parlarne dopo aver fatto l’amore?»
Rukia annuì.
«Non vedo quale momento migliore.»
Gli accarezzò il viso e poi iniziò a pensare. Forse era inutile stare lì a pensare ad un discorso, tanto valeva seguire il cuore.
«Io e Kaien ci siamo conosciuti per un incidente. Beh, un quasi incidente. Lui mi ha quasi messo sotto con l’auto mentre andavo in bici a scuola» raccontò, arrossendo al ricordo. Ricordava di non essere stata molto gentile con lui, lo aveva insultato. Poi però Kaien si era mostrato così gentile e affascinante che non era stata capace di dire altro.
Ichigo annuì, invitandola a proseguire.
«Lui insistette per portarmi al pronto soccorso, malgrado non avessi un graffio. E per la cronaca, è lì che ha conosciuto Byakuya. A mio fratello non piaceva, all’inizio.»
Per Ichigo non fu difficile da credere. Byakuya Kuchiki non prendere in simpatia nessuno, almeno all’inizio.
«Qualcosa in lui mi catturò. Non so, forse era il suo modo di fare, il fatto che si rivolgesse a me come se fossi una sua pari, nonostante i dieci anni di differenza. Iniziammo a sentirci, ogni tanto. Ci sentivamo spesso, ma eravamo entrambi molto distaccati, forse per evitare di incappare in situazioni strane. Un giorno lo rincontrai e casualmente c’era anche Kukaku, che era di poco più grande di me. Facemmo amicizia e mi invitò nella loro casa. E prima che me ne accorgessi, diventai una presenza costante. Io e Kaien ci innamorammo in maniera discreta. Io ero innamorata come tutte le quindicenni: sognavo in grande. Sognavo che un giorno mi avrebbe sposato, sognavo di condividere tutto con lui. Kaien sognava lo stesso, ma era più accorto. Non mi ha mai sfiorato, solo baci. Credo che volesse ma si sentisse frenato per via dell’età. Ero pur sempre una minorenne. Ma mi dicevo che l’avrei aspettato. Intanto continuavamo a vederci di nascosto, ad amarci a nostro modo. E poi, sai com’è andata.»
Rukia riprese fiato, quasi avesse corso. Era stata una fatica raccontare tutto, ma era anche stato liberatorio. Sperò di non aver detto niente che potesse infastidire Ichigo.
«E poi sono arrivato io» continuò lui. Rukia sorrise.
«E poi sei arrivato tu. Certo, fisicamente somigliavi e somigli a lui, questo mi aveva spinto ad avvicinarmi a te. Ma non è durata molto, perché man mano che ti conoscevo, mi rendevo conto di quanto fossi diverso da Kaien. E mi piacevi. Sei stato il primo e unico uomo a cui io mi sia mai donata del tutto e sono felice che sia andata così. Kaien…» si portò una mano sul cuore. «Di certo sarà sempre nel mio cuore. Ho voluto chiamare nostro figlio come lui per onorarlo. Ma immagino che sarebbe meglio se lui, almeno, sapesse.»
Era intimo quel suo modo di parlargli così, ancora col corpo appiccicato al suo. Ichigo chiuse gli occhi e si accorse che non faceva male come aveva pensato.
«Dovremmo raccontarglielo, un giorno. Tutto questo… ti è costato tanto, dirmelo?»
«Solo un po’ di sforzo. Perdonami se ci ho messo tanto, Ichigo.»
Strinse forte le sue spalle come a non volerlo più fare allontanare. Ma Ichigo non aveva intenzione di andare da nessuna parte.
«Ha fatto male, ma ora basta. Ho sempre odiato litigare con te. Lo so che non sono un tipo propriamente romantico, ma sappi che ti amo. È sempre stato così e sarà così fino alla fine dei miei giorni.»
Rukia tirò su col naso e, commossa, poggiò il viso sul suo petto.
«Ehi, dai. Non puoi piangere per una volta che dico qualcosa di romantico!»
«Sono solo commossa, sciocco!» borbottò lei.
La bella e calda atmosfera venne interrotta dal vibrare del cellulare di Ichigo.
Lo cercò e notò con sorpresa che si trattava di Ishida.
«Ehi, tutto a posto?»
«Non c’è bisogno di avere quel tono preoccupato, Kurosaki. È per Urahara. Hai saputo cos’è successo a Yami?»
Ichigo sgranò gli occhi. Per ogni buona notizia, chissà perché, ce n’era sempre una cattiva.
 
Adesso Hikaru comprendeva come dovesse essersi sentita Yami quella volta in cui aveva avuto un forte attacco d’asma. Il legame tra gemelli poteva essere molto forte, quai viscerale. Lui aveva sentito le ansie e le angosce di sua sorella crescere giorno dopo giorno, aveva sofferto con lei e aveva sofferto nel sentirsi così impotente. Ai era accanto a lui, Ai c’era sempre. Stringeva la sua mano, rassicurandolo.
«Non ti preoccupare, Hikaru. Mio papà ha detto che Yami sta bene, non è in pericolo di vita.»
Hikaru però si fece rigido. Perché si era dovuti arrivare a tanto? Perché sua sorella aveva dovuto soffrire così tanto? Avrebbe voluto spaccare il mondo, ma era solo un bambino dopotutto.
«Non me ne importa, sono arrabbiato. Non meritava questo. Perché la gente deve essere così crudele?»
Ai fece spallucce. Di solito aveva le risposte a tutto, ma non a questo.
«Non lo so. Yami è la mia migliore amica. Sapevo che nelle sue risposte sgradevoli in realtà c’era tanta rabbia. Ma non pensavo arrivasse a tanto.»
Ai singhiozzò: aveva un animo sensibile e Hikaru era come lei. Le circondò le spalle con un braccio.
«Per favore, non piangere» la supplicò, non voleva vederla così atterrita, era già tutto terribile. Yami di fatto stava bene, i suoi tagli non erano troppo profondi e adesso stava dormendo. Yoruichi, malgrado la carnagione scura, risultava pallida. Accanto a lei c’erano Soi Fon e Nemu, la quale cercava di rassicurarla sia in veste di infermiera che in veste di amica.  Anche Ichigo e Rukia avevano raggiunto Yoruichi per un sostegno morale e stessa cosa aveva fatto Uryu. Hanataro se ne stava lì intorno con aria spaurita e preoccupata, non sapendo cosa dire per migliorare la situazione.
«Mio Dio, mi ucciderei. Mia figlia ha… ha tentato il suicidio» gemette Yoruichi, gli occhi lucidi per il pianto. Si sentiva una madre orribile, era stata una madre orribile a non capire la sofferenza di sua figlia e ad andarle contro.
«Piano, Yoruichi. Non saltare a conclusioni affrettate. Quando Yami si sarà ripresa, ti consiglio di parlare con lei a cuore aperto» le consigliò Nemu. «Ha bisogno di aiuto.»
Yoruichi si sedette, la testa le doleva. Era tutto assurdo, non avrebbe mai dimenticato Yami con i polsi bagnati di sangue. Se solo ci pensava le veniva la nausea.
Mayuri si unì presto al numeroso gruppo, anche se le sue attenzioni erano su l’unica persona che non c’era e che avrebbe dovuto esserci.
«Si può sapere dov’è Urahara in un momento come questo?» domandò.
«Kisuke è già stato qui» spiegò Soi Fon. «Dopo essersi assicurato che Yami stesse bene, se n’è andato.»
«È crollato» sussurrò Yoruichi. «Non l’ha detto a parole, ma lo conosco bene e so cosa sta pensando: di non essere degno come padre, marito e uomo, che dovrebbe mollare ogni cosa, ogni progetto. Perché se non è riuscito a proteggere Yami, allora non può essere capace di fare altro. Ho paura che gli venga qualche idea folle come lasciare il suo posto da primario.»
Mayuri si irrigidì. Ah, questo era tutto da vedere. Non sapeva nemmeno perché gli bruciasse così tanto, ma non se ne sarebbe stato lì con le mani in mano.
«Torno subito, vado da lui.»
«Ma Mayuri, che vuoi fare?» domandò Nemu sorpresa.
«Tramortirlo e portarlo qui con la forza se serve. Torno subito» ripeté. Non vedeva e sentiva altro, oramai aveva solo una missione.
 
Kisuke si era in effetti chiuso a casa sua e in effetti aveva avuto il suo crollo. Yami aveva rischiato di morire dissanguata e lui non aveva potuto evitarlo. Era abituato alla gente che contava su di lui a lavoro, era abituato a esserci. Eppure con Yami era stato un incapace. In quei momenti, mentre se ne stava accasciato contro la porta di casa, si mortificava dicendosi quanto fosse inutile e, alla fin fine, incapace. O indegno di fare chissà che. Alla fine era solo un uomo che fingeva di essere forte, ma che quando crollava era capace di rialzarsi. Anche ora, piuttosto che stare in ospedale vicino alla sua famiglia, era lì ad autocommiserarsi.
«Urahara! Maledetto bastardo, so che sei lì. Apri la porta!»
Mayuri aveva preso a battere contro quest’ultima. Kisuke sospirò.
«Non mi aspettavo che venissi addirittura fino a qui.»
«E io non mi aspettavo che tu fossi così codardo. Esci o devo sfondarla? Guarda che non sto scherzando. La tua famiglia ha bisogno di te, e tu te ne stai lì a deprimerti? Mi fai venire la nausea!»
Kisuke sorrise.
«Non c’è niente che io possa fare. Ho fallito.»
Mayuri alzò gli occhi al cielo. Perché doveva costringerlo a dire certe cose, ad essere sentimentale?
«Hai fallito? Sì, lo hai fatto. Sei umano anche tu, come me e tutti. Ma tua figlia sta bene, non pensi sia questo l’importante? Yoruichi me l’ha detto quello che passa per quella tua testa bacata. E non pensarci nemmeno, chiaro? Tu il tuo posto da primario non lo molli, e non pensare di mollare il nostro progetto. Che, ti ricordo, è stata una tua idea.»
«Affiderai comunque tutto a te, sarebbe in buone mani» disse stancamente.
Sì, doveva proprio costringerlo a dire certe cose.
«Io non voglio farlo da solo, voglio farlo con te perché… perché tu, Kisuke, sei il medico migliore che conosco. Sei… geniale, abile e intelligente. Oltre che creativo. Hai detto che sono il tuo migliore amico, non fai altro che dirlo a tutti. Bene, allora mi avvalgo di questo ruolo per trascinarti via da qui!»
Mayuri era arrossito. Quale umiliazione per lui dover dire certe cose a Urahara. Anzi, a Kisuke. Pensava davvero ogni singola parola, ma dirlo era un’altra faccenda. Passò qualche istante in silenzio. Poi la porta si aprì e uno stravolto Kisuke fece capolino.
«Davvero pensi che io sia geniale, intelligente e creativo?»
Ovvio, quei complimenti non gli erano sfuggiti. Gliel’avrebbe pagata per averlo fatto umiliare in questo modo.
«Sì, lo penso. Quindi non comportarti da idiota proprio adesso e vieni con me. E non dire a nessuno di questa mia scenata. Oppure giuro che ti uccido!» sibilò minaccioso, anche se non molto credibile. In fin dei conti, dopo tutti quegli anni, Mayuri Kurotsuchi doveva farsene una ragione: Kisuke Urahara era davvero un amico per lui, se non il migliore.
 
 
Se Kohei non riusciva a concentrarsi nemmeno sui suoi amati libri riguardanti aquile e pennuti, la situazione era davvero grave. E ingestibile. Voleva togliersi quel peso di dosso, ma spesso non sapeva come dire le cose nel modo giusto. Avrebbe voluto dire a sua madre che gli dispiaceva per averla spintonata, che ci era rimasto malissimo quando aveva visto la confusione e la delusione nei suoi occhi. Avrebbe voluto dire a suo padre che lo ammirava e che sarebbe voluto diventare come lui, un giorno: tranquillo, pacato e buono, nonostante la stazza che in un primo momento poteva suggerire tutt’altro. Aveva sempre pensato certe cose, alcune sin da bambino.
Richiuse il libro e diede una carezza alla testolina del suo pappagallo. Iniziò a strofinare i palmi delle mani uno contro l’altra e a dondolarsi avanti e indietro, cosa che tendeva a fare spesso, quando si concentrava per compiere una grande impresa. Si alzò. Sua madre non c’era, doveva essere ad uno dei tanti allenamenti della sua squadra. Ma Chad era invece presente, stava cucinando qualcosa. Sbirciando, Kohei si rese conto che non erano presenti cibi con colori che sgradiva, tipo il verde scuro e il giallo accesso. Chad non si era accorto di lui e Kohei lo fissava con i pugni chiusi. Sospirò profondamente.
«MI DISPIACE!» gridò. Chad sussultò e troppo sale cadde nel suo condimento.
«Eh? Kohei…? Ma di cosa?» domandò, lanciando un’occhiata al suo capolavoro culinario oramai sprecato. Suo figlio aveva strizzato gli occhi.
«Non volevo spingere la mamma e non volevo farle male. E non voglio fare male nemmeno a te. Io lo so di essere impossibile, certe volte non mi sopporto nemmeno io. Certe volte mi chiedo cosa si provi ad essere normale!»
Kohei stava continuando a tenere gli occhi chiusi e parlava ad alta voce, quasi urlando. Così era più facile. Chad si avvicinò, poggiandogli le mani sulle spalle.
«Ehi, va tutto bene. Riprendi pure a respirare. Non so cosa tu intenda per normale, ma posso assicurarti che  non sei più impossibile di altri adolescenti.»
Kohei finalmente aprì gli occhi.
«Ma voi siete sempre tristi per colpa mia.»
Chad sospirò e gli scompigliò i capelli.
«A volte capita anche a noi di essere tristi, ma non è certo colpa tua. Tu sei un animo buono e sensibile Kohei, sei simile a me. E tua madre… e anche io, lo ammetto, ancora fatichiamo a renderci conto che stai crescendo e che dovrai affrontare tante sfide, come tutti.»
Kohei annuì con energia.
«Non volevo picchiare Satoshi, lui è mio amico. Però non piaccio a Naoko. Ma perché non possiamo piacere alla gente che ci piace?»
Una domanda spontanea e da cui trarre molti spunti di riflessione, come la maggior parte delle domande poste da Kohei.
«Non è così che funziona. So che probabilmente quello che ti sto per dire non ti piacerà, ma nel corso della nostra vita ci capita spesso di innamorarci e di non essere ricambiati. Ma un giorno anche tu troverai la tua persona, di questo ne sono sicuro.»
Kohei si strofinò un occhio. Malgrado tutto, capiva che forse non era ancora pronto a tutte quelle cose che riguardavano l’amore, compresi i baci e gli abbracci, anche se un giorno avrebbe voluto provare di sicuro.
«Sì, io capisco. A me piacerebbe avere qualcuno che abbia un po’ il carattere della mamma. Lei a me piace perché è piccola ma forte.»
Chad si ritrovò a pensare che suo figlio avesse proprio ragione. Lo spinse a sé con delicatezza e lo abbracciò. In un primo mento Kohei rimase rigido, ma poi si lasciò andare. Gli abbracci, se dati dalle persone giuste, potevano risultare molto piacevoli. E per Chad era una gioia poter dimostrare un po’ d’affetto fisico a suo figlio.
«La cena è andata?» domandò ad un tratto Kohei.
«Temo proprio di sì. Allora ordiniamo qualcosa e facciamo una sorpresa alla mamma.»
Kohei sollevò un dito.
«Io vorrei una pizza. Lì non ci sono né il verde scuro né il giallo.»
E Chad acconsentì volentieri.
 
 
«Masato, sono felice che tu passi spesso il tuo tempo con me, ma sei certo che non sia un disturbo?»
Masato era l’ombra di Yuichi, nonché il suo sostengo numero uno. Se ne stavano distesi sul suo letto, a parlare. Masato sapeva che Yuichi aveva bisogno di conversare tanto. Lui, almeno, al suo posto avrebbe desiderato questo, ed essendo sensibili allo stesso modo, poteva supporre che fossero uguali, in questo.
«Certo che no! A me piace tanto parlare con te. Prima o poi le cose si aggiusteranno, io ne sono sicuro.»
Yuichi guardò i suoi occhi castani. Chissà se era proprio quello l’amore. Di sicuro a dodici anni non si amava come ad otto e trent’anni, ma nel suo immaginario, lui e Masato sarebbero destinati a stare insieme per sempre. Forse era sciocco e infantile da parte sua, ma quello che provava era vero.
«Masato, io ti amo» disse all’improvviso. Per lui l’amore doveva essere quello. E gliel’avrebbe detto, anche se un giorno malauguratamente sarebbero finiti per separarsi (anche se Yuichi era sicuro che non sarebbe accaduto). Masato arrossì. I ti amo non erano, in fondo, solo roba da grandi.
«Anche io, Yuichi!» rispose, agitato. «Ti voglio dare un bacio.»
«Anche io.»
Si avvicinarono e il loro bacio fu un dolce sfiorarsi, che come al solito bastava per divampare il fuoco. Si staccarono e i guardarono negli occhi. La porta era aperta e Uryu li vide. Distolse lo sguardo, poiché gli sembrava di essersi intromesso in un momento fin troppo intimo e privato. Tossii per attirare l’attenzione.
«Masato, tua madre è giù che ti aspetta.»
Masato si alzò, un po’ imbarazzo.
«Va bene, allora vado. Ciao Yuichi, ciao signor Ishida!»
Uryu fece una smorfia e poi, quando se ne fu andato, guardò suo figlio.
«Conosco Masato da quand’è nato, da quando mi chiama così? Mi fa sentire vecchio.»
Yuichi fece spallucce.
«È che lui pensa che ce l’hai con lui, quindi… quindi è così.»
Uryu sospirò. Non poteva dare torto a quel ragazzino, lo aveva guardato con diffidenza e aveva pensato male solo a causa dei suoi traumi. Suo figlio lo guardava con due occhi pieni di interrogativi. Ma lui sarebbe stato capace di rispondere senza crollare?
«Ad ogni modo» disse ad un tratto Yuichi. «Io ho capito quello che è successo. Mamma me lo ha spiegato e… va bene se sei triste. Al posto tuo, penso che mi sarei rinchiuso in casa per non uscire più. Anche davanti a me, non fare finta che vada tutto bene. Lo rende più difficile.»
Tatsuki si fermò sulla porta, con in braccio Yoshiko. Era arrivata proprio nel momento cruciale, ma né suo marito né suo figlio si erano accorti di lei. Uryu si sentì in difficoltà e guardò da un’altra parte.
«Coinvolgere te non sarebbe giusto.»
«Non ho detto che devi coinvolgermi. Però se ti venisse da piangere, puoi farlo. Io se fossi al posto tuo vorrei sentirmi libero di piangere quando ne ho voglia. Penso che se inizia a buttare tutto fuori, con il tempo farà meno male.»
A quel punto Uryu sentì le gambe cedere. Cadde in ginocchio, quasi avesse avuto un crollo. In effetti si era sbagliato alla grande: mai sottovalutare i bambini, specie suo figlio, sensibile e attento. Si portò una mano sul viso e le lacrime gli bagnarono le lenti degli occhiali.
«Grazie, Yuichi.»
A quel punto Tatsuki entrò, con Yoshiko che si sbracciava per scendere. Una volta che ne ebbe la possibilità, si avvicinò al papà per abbracciarlo. Non gli disse non piangere. Non disse proprio nulla. Ben presto Yuichi imitò la sorella e andò ad abbracciarlo. Uryu li strinse a sé. A volte si dimenticava di ciò che lui e Tatsuki erano stati capaci di fare insieme, a quanto i momenti felici e l’amore dei suoi familiari superasse di gran lunga il dolore. Anche Tatsuki si avvicinò e si inginocchiò, baciandogli i capelli.
«Io voglio bene a papà. Tanto così» disse ad un tratto Yoshiko, allargando le braccia.
«Anche io!» disse Yuichi.
«Ehi, io ci sono da più tempo» scherzò Tatsuki. «Vedi, Uryu? Temo che dovrai dividerti in modo equo tra tutti e tre.»
Uryu si tolse gli occhiali e rise, asciugandosi una lacrima.
«Lo farò. Lo farò, statene certi.»
Il dolore era ancora lì. Antico di anni. Ma Yuichi aveva avuto ragione: piangendo e buttandone fuori solo un pezzetto, stava già un po’ meglio.
 
Quel giorno Hayato si trovava a casa di sua madre. Aveva perso la voglia di fare lo scontroso, per la verità non si sentiva arrabbiato. Era solo turbato. Momo era molto presa dall’arrivo del nuovo bambino e lo aveva già detto a tutti, amici e conoscenti. Quando provava a chiedere qualcosa ad Hayato stesso, lui rispondeva in modo vago. Non sapeva cosa pensare. In più, non riusciva nemmeno più a parlare con Toshiro. Non se ne faceva niente di un figliastro dal carattere difficile quando avrebbe avuto un figlio suo e che lo avrebbe amato a prescindere. Lui era già troppo grande. Forse fin troppo per essere geloso, si vergognava da morire ad ammetterlo. Quel pomeriggio, Momo stava parlando al cellulare mentre accarezzava i tasti del pianoforte. Il suo tono era raggiante, sembrava aver ritrovato una nuova felicità e Hayato poteva giurare di non averla mai vista così. Avvertiva un senso di nausea lì, proprio nello stomaco. Avrebbe tanto voluto parlare con Miyo. O con Rin o con Kaien, o con qualsiasi persona. Scosse la testa ed uscì dalla sua stanza. Già una volta aveva avuto la brillante idea di scappare di casa. Adesso non lo avrebbe, avrebbe semplicemente aperto la porta e sarebbe uscito, era abbastanza grande per questo. E così fece e non rispose quando Momo chiese  a gran voce Hayato, ma dove stai andando?
La giornata era stranamente piovosa e Hayato aveva preso a camminare con le mani infilate nelle tasche e il cappuccio tirato sulla testa. Forse in quel momento poteva anche lasciarsi andare alle lacrime, nessuno se ne sarebbe accorto proprio grazie alla pioggia. Gli uscì un singhiozzo. Non era un grande amante delle lacrime, si sentiva sempre troppo esposto e fragile. Fece per attraversare, gli occhi appannati, e il suono di un clacson lo fece sussultare: ci mancava poco che non lo investisse.
«Ehi!» singhiozzò. «Ma vuoi stare attento?!»
Si accorse solo in seguito che quell’auto gli era familiare: Shinji ne uscì, cercando di ripararsi con un braccio.
«Accidenti Hayato, ma che fai fuori con questo tempaccio? E poi, per poco non t’investivo.»
Hayato si morse il labbro.
«Non sapevo cosa fare o con chi parlare.»
Shinji sospirò. Pazienza, oramai la pioggia lo aveva bagnato del tutto.
«Beh, puoi pur sempre parlare con me.»
Quello fu il momento in cui Hayato decise di arrendersi. Perché farsi ancora male? Sfogarsi non poteva essere peggio di così. Si avvicinò a lui e lo abbracciò all’improvviso. Shinji rimase interdetto, era risaputo che Hayato non fosse un tipo molto fisico, ma non ci pensò due volte prima di abbracciarlo. Stringendolo a sé, poteva sentire il suo corpo scosso dai fremiti: Hayato doveva starsi sforzando di piangere silenziosamente.
«Va tutto bene, tutto bene. Ci sono io adesso» gli disse. E poi sorrise. Poteva davvero fare qualcosa per lui, e non solo perché voleva sentirsi utile, ma perché voleva che stesse bene.
Si rimisero in auto e si accostarono una zona tranquilla. Hayato si calmò un po’ prima di prendere a parlare e, una volta che ebbe iniziato, non riuscì più a fermarsi.
«Io non voglio essere preso in giro, so che sono troppo grande per queste cose, però… mi fa male l’idea che mia madre abbia un altro figlio. Non posso fare a meno di pensare che ne abbia sentito il bisogno perché io le faccio mancare qualcosa. Non sono molto affettuoso, lo sai. Con nessuno. Vorrei esserlo, ma non ci riesco. Io sono così, ma non vorrei far stare male nessuno.»
Hayato aveva un mondo dentro di sé. Shinji lo ascoltò senza interromperlo.
«Sì, capisco cosa vuoi dire. Ognuno ha il suo carattere, non c’è niente di male ad essere poco inclini alle dimostrazioni d’affetto fisiche. Ci sono altri modi per dimostrare di volere bene a qualcuno. Per quanto riguarda la questione della gelosia… sono figlio unico e ho una sola figlia, quindi non so cosa si prova o come dovrebbe essere gestita la cosa. Ma tua madre ti adora quanto tuo padre, credimi! D’accordo, la loro non è stata una relazione felice, ma perché mai la colpa dovrebbe essere tua? Sei qui, se sei qui evidentemente ti hanno voluto entrambi, il loro matrimonio e divorzio non ha niente a che fare con te. Io penso che rua madre conti su di te. Voglio dire, un neonato è impegnativo, ci sono tante cose da insegnargli. E chi meglio del suo fratello maggiore?»
Shinji non aveva pensato a cosa dire, lo aveva detto e basta. D’istinto. Hayato arrossì.
«Ma io non ho niente da insegnare.»
«Ah, suvvia. Non è affatto vero, certo che hai tante cose da insegnare. A giocare ai videogames, a difendersi dai bulli… insomma, tutte queste cose in cui sei piuttosto bravo. E per quanto riguarda Toshiro, sono sicuro che lui la pensi come me, ovvero che ti considera suo. Tu vuoi bene a Miyo anche se non avete lo stesso sangue, no?»
Hayato annuì. Aveva sempre voluto bene a Miyo a prescindere da tutto.
«Per l’appunto, è la stessa cosa. So che parlare dei propri sentimenti è difficile, non siamo abituati. Ma puoi iniziare adesso e… umh… posso venire con te, se vuoi.»
Hayato si irrigidì, per poi rilassarsi subito dopo. Ora che si era lasciato andare a Shinji, si rendeva conto che non era niente di così tragico e terribile. Fece spallucce, per poi rilassarsi sul cuscino.
«Sì. Vorrei che mi accompagnassi» decise. Shinji ne fu felice. Si sentiva sulla stessa scia d’onda di Hayato.
 
Kisuke e Mayuri tornarono in ospedale. Yoruichi l’aveva atteso in sala d’aspetto, mentre Soi Fon era entrata per vedere come Yami stesse, insieme a Hikaru. Lei non aveva il coraggio di andare da sola e affrontare sua figlia, di chiederle perdono. Aveva bisogno di suo marito accanto.
«Sei tornato» disse alzandosi in piedi. Kisuke chinò il capo.
«Devi perdonarmi, Yoruichi. Ho avuto un momento di crollo, ma qualcuno mi ha aiutato a rinsavire.»
Yoruichi chiuse gli occhi. Era tutta colpa sua, Kisuke e Soi Fon avevano cercato di risolvere la cosa nel modo giusto, ma lei come al solito aveva reagito in modo troppo irruente.
«Non sono arrabbiata con te, ma ho bisogno che tu ora mi stia accanto. Ho paura che Yami mi odi.»
Kisuke le accarezzò una spalla.
«Sono sicuro che non ti odi. Nostra figlia somiglia a te, quindi posso vantare di conoscerla almeno un pochino. In ogni caso, sono con te. E c’è anche Soi Fon. Lei è stata molto più brava di me. Ha sangue freddo, la ragazza.»
«È stata meravigliosa» sussurrò asciugandosi una lacrima. Poi afferrò la mano che suo marito gli aveva dato. Era l’ora di parlare con Yami.

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Capitolo 28
*** Capitolo ventotto ***


Capitolo ventotto
 
Soi Fon era piacevolmente colpita da come Yami si fosse aperta: aveva iniziato a parlare a ruota libera di tutto: della sofferenza che aveva patito, di essersi pentita di essersi fatta così male, del suo desiderio di spaccare la faccia a Ren, alla sua ex e a tutti i coloro che l’avevano etichettata come poco di buono. Yami parlava piangendo, aveva il bisogno spasmodico di buttare fuori tutto il dolore che aveva tenuto dentro.
«Spesso non riesco a esprimere ciò che mi fa male. Se lo facessi, starei sempre in lacrime e io odio i piagnistei. Ma ora non posso farne a meno. Forse io a mia madre non piaccio.»
Nonostante le lacrime, Yami manteneva una certa dignità, se ne stava seduta dritta, i polsi coperti. Le sarebbe rimasta una cicatrice, ma per il resto stava bene.
«Non è affatto vero che a tua madre non piaci. È molto pentita delle cose orribili che ha detto.»
«Ma allora perché le ha dette?» domandò giustamente Yami. Soi Fon fece spallucce.
«Non ho una risposta a questo. Immagino che sia perché, per quanto possiamo impegnarci, a volte finiamo per ferire chi amiamo. Tua madre non è una donna dal carattere facile. Per certi versi, nemmeno tuo padre. Ma loro a me piacciono» ammise, non senza arrossire. Tra alti e bassi, loro erano ancora lì. E Soi Fon non poteva più immaginare una vita senza di loro. Yami la osservò. Lei, come Hikaru, aveva ben capito cosa legava i suoi genitori a quella ragazza.
«Lo sai? Ho capito bene che tu e i miei genitori avete un rapporto particolare. Di certo non siete amici, anzi. Sono sicura che vi amiate. Non avevo mai visto una relazione a tre.»
«A-ah, sì?» balbettò Soi Fon, timida di fronte all’idea di essere stata colta in fragrante.
«E già. Però va bene, si tratta di quello strano in senso positivo. Tu mi piaci, quindi mi farebbe piacere se facessi parte della nostra famiglia.»
Yami aveva trovato in Soi Fon una figura simile ad una sorella maggiore. Una confidente di cui non voleva fare a meno. Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime di commozione.
«Farebbe piacere anche a me»
Finalmente Kisuke e Yoruchi entrarono. Kisuke, sempre molto affettuoso e fisico, andò ad abbracciare la figlia. Scappare non era stato certo onorevole da parte sua, ma adesso non sarebbe andato da nessuna parte.
«Piccola mia. Ti voglio bene» le sussurrò.
«Anche io, papà» singhiozzò Yami. Yoruichi li guardò, Hikaru l’aveva raggiunta e le aveva dato un colpetto sul braccio. Yoruichi si schiarì la voce.
«Y-Yami, c’è una cosa che voglio dirti.»
Kisuke allora si staccò dall’abbraccio e Yami guardò la madre con aria interrogativa. Cosa le avrebbe detto? L’avrebbe rimproverata, affermando che il suo gesto fosse stato stupido e immaturo? L’avrebbe guardata con disprezzo. Yoruichi però non fece niente di tutto ciò. Si avvicinò alla figlia, prendendo le sue mani e quasi inginocchiandosi.
«Yami, io… oh. Io devo chiederti scusa. Sono stata orribile e ingiustificabile. Ti ho detto delle cose… tremendi, e invece che starti accanto, ti ho remato contro, non pensando al dolore che stavi passando. Mi sono sempre lamentata del fatto che tu non fossi una ragazzina facile. Beh, io non sono una donna facile. Ci dicono che ci somigliamo, e forse è vero. Ma nonostante ciò, non sono in grado di capirti.»
Yami la fissava con le lacrime sulle guance.
«A me sarebbe bastato che mi abbracciassi» confessò. Ed era vero. Spesso desiderava un abbraccio senza riuscire a chiederlo. Quasi fosse un gesto di debolezza. Ma csa le importava oramai? Yoruichi singhiozzò e la strinse a sé. Niente di più semplice – e al contempo così efficace – come un abbraccio. Yami era ferita, di sicuro le ci sarebbe voluto del tempo per guarire. Ma Yoruichi aveva fiducia nella forza di sua figlia e questo gliel’avrebbe ripetuto ogni giorno. Kisuke li guardò, tutto fiero, stringendo una spalla di Soi Fon. Hikaru scrollò le spalle, sollevato. Dopodiché uscì e vide Ai che se ne stava poggiata al muro, guardandosi le scarpe.
«Ehi! Tutto bene?» gli domandò.
«Adesso che mia madre e mia sorella hanno fatto pace, direi di sì. Tu non sei arrabbiata con Yami per come ti ha trattata?»
«Un pochino. Ma la mia preoccupazione è più grande della rabbia nei suoi confronti.»
Ai arrossì. Avrebbe voluto chiedergli e tu invece non sei arrabbiato con me per come ti ha trattato? Sapere di avere un rivale in amore non doveva essere piacevole, a lei almeno avrebbe dato tanto fastidio. Ma non ce ne fu bisogno, dopotutto Hikaru era nella tala del nemico. Akon Higarashi aveva fatto un cenno ad Ai, come ad accertarsi che fosse tutto a posto. Hikaru allora si avvicinò a lui, prendendo in mano tutto il suo coraggio.
«Così tu sei Akon, vero?»
Il giovane chirurgo lo guardò stupito.
«Sì, e tu devi essere Hikaru. Ai mi ha molto parlato di te.»
Hikaru arrossì, non si aspettava una risposta del genere.
«A-Ah sì? Beh, sappi che io sono innamorato di Ai da molto tempo. E siccome c’ero prima io, di certo non intendo certo lasciarla a te!»
Si sentì un imbecille totale. Ma al diavolo, quella era la verità. Ai si portò entrambe le mani davanti al viso, era arrossita per l’imbarazzo. Hikaru l’amava davvero. E dopotutto lo amava anche lei.
«Come ho detto ad Ai, sono troppo vecchio per lei. Ci vuole qualcuno della sua età, per cui… mi fa molto piacere sapere che avrai cura di lei» disse Akon, molto diplomatico. Hikaru arrossì, ma se ne rimase dritto e fiero.
«Lo farò sicuramente!»
Alla fine quel tipo non era poi così male. Akon fece un cenno ad entrambi e poi se ne andò. Hikaru non ebbe nemmeno il tempo di riprendere fiato, che ecco Ai afferrarlo per un braccio.
«Questa è la cosa più romantica che qualcuno abbia mai fatto per me.»
«Tu dici? Io ho solo detto la verità e-»
«Oh, sta zitto Hikaru» ridendo Ai si avvicinò e lo baciò sulle labbra.
 
Natsumi si lasciò andare ad un sospiro. Dopo essersi ripresa dal suo attacco di panico, aveva raggiunto il suo ragazzo. E ora guardava sognante quei due piccoli innamorati mentre teneva mano nella mano il suo ragazzo.
«Come sono teneri. Un triangolo incredibile che alla fine si è risolto. E a proposito di questioni da risolvere…» disse dandogli una gomitata. «Kurotsuchi sta per tornarsene a casa, va a parlare con lui.»
«Uffa, e va bene!» Hanataro era in realtà grato che ci fosse Natsumi a dargli uno scossone quando serviva. Si massaggiò un braccio e osservò Kurotsuchi che
 usciva dal suo studio. Che si fermava a guardare Hanataro in un modo che quasi lo terrorizzò. E sentì Natsumi che si allontanava con una banalissima scusa.
«Ah, sei qui Yamada. Aspetta, sbaglio o quella è mia figlia che sta baciando il figlio di Urahara?» domandò. Sembrava ad un passo dall’uccidere qualcuno, non proprio un bel momento per una chiacchierata, ma oramai Hanataro c’era dentro.
«Ecco, io… voleva parlarmi?» domandò, cercando di riportare l’attenzione su di sé. Cosa che funzionò. Mayuri infatti si ricompose un attimo.
«Ah, sì. Senti, io non sono certo conosciuto per i miei modi teneri e affabili, questo oramai lo sai. Ma se sono sempre stato severo con te, o con Ishida o con Kurosaki, è perché… vedo in voi del potenziale. Non c’è proprio bisogno di essere gelosi.»
«I-io non sono geloso! Cioè… un pochino» si ritrovò ad ammettere. Mayuri sospirò, stanco. Era come avere a che fare con un altro figlio.
«Se proprio ci tieni a saperlo, Yamada, nella nostra equipe sei quello più preciso, oltre che quello più veloce. Perché credi che abbia affidato a te Higarashi? E poi pensavo che un approccio meno severo con i nuovi arrivati sarebbe stato più producente. Anche se non mi dispiacerebbe tornare ai vecchi metodi.»
Hanataro sgranò gli occhi. Per carità! Era stato anche lui un tirocinante, sapeva cosa voleva dire. E poi si sentì davvero felice di aver ricevuto quei complimenti. Per lui contavano tantissimo.
«Oh, non è necessario! Io… ecco… non pensavo di essere così bravo, ecco»
«Ma lo sei, pensi che altrimenti avrei perso il mio tempo con te? Ora scusami, Yamada. Vado a strappare Ai dalle grinfie di quel ragazzino, così poi me ne torno a casa.»
Hanataro annuì, facendolo passare. Mayuri Kurtsuchi aveva fiducia in lui. Adesso lo vedeva, adesso lo sapeva! Sospirò, rilassato. Forse i suoi giorni da insicuro erano davvero finiti.
 
Era anche a causa della gravidanza se Momo era diventata così emotiva. Se ci si mettevano anche i problemi con suo figlio, la cosa diventava ingestibile. Toshiro stava cercando di consolarla come meglio poteva.
«Hayato mi fa sentire una madre terribile. Lo sono davvero?» singhiozzò, stretta tra le sue braccia.
«Ma no che non lo sei! Tu fai del tuo meglio, ma non può dipendere tutto e solo da te. O da noi» sospirò, baciandole la fronte. La cosa stava diventando ingestibile. A quel punto chi poteva essere in grado di risolvere la situazione?
Shinji non si sentiva certo un eroe, sebbene l’immaginarsi come tale lo faceva sentire orgoglioso. Per Momo però rappresentò proprio questo, quando gli riportò Hayato a casa. Hayato che aveva gli occhi lucidi dal pianto e che non aveva protestato quando Momo lo aveva abbracciato.
«Hayato, tesoro… ma perché te ne sei andato?» domandò.
Già, Hayato non voleva più essere codardo e scappare. Voleva imparare a comportarsi almeno un pochino come un adulto.
«Non vi preoccupate, è solo un po’ bagnato di pioggia» li rassicurò Shinji, che teneva salda una mano sulla sua spalla. «Dopo una chiacchierata, si è sentito pronto a parlare. E a parlare anche con voi.»
Toshiro, che se n’era rimasto in disparte, rimase sorpreso. Shinji era riuscito ad aprire il cuore di Hayato. Quest’ultimo era in evidente disagio, ma voleva comunque essere coraggioso.
«Mi dispiace di essermene andato. Ma detesto piangere davanti a tutti. Mamma» disse poi guardando Momo. «Lo so che sono troppo grande per queste cose, ma sono geloso. Tu avrai un altro bambino. Lui l’hai voluto davvero, perché voi due vi amate. E io invece… no» ammise, non troppo convinto in realtà. Momo lo ascoltò, stupendosi ancora una volta di quanta sensibilità Hayato avesse. Forse in questo aveva preso da lei.
«Piccolo» disse posandogli le mani sulle guance. «Tu sei mio figlio. Ti ho voluto dal primo istante. Lo so che il rapporto tra me e tuo padre non è mai stato facile è che la cosa ti ha fatto soffrire. Ma questo non cambia l’amore che noi proviamo nei tuoi confronti. Lo so che avrò un altro figlio, e lo amerò come amo te. Quando ho saputo di essere rimasta incinta ero felice perché sapevo che questo bambino avrebbe avuto il migliore fratello maggiore su cui contare. Perché io ho fiducia in te.»
Hayato sentì gli occhi pizzicare, ma stavolta erano lacrime di commozione e non di dolore. Toshiro si avvicinò.
«Lo stesso vale per me. Non importa se non sei biologicamente mio figlio, ti voglio bene lo stesso» sussurrò, un po’ rosso in viso. Era la prima volta che gli dichiarava così apertamente il suo affetto. Ma di Hayato questo non aveva mai dubitato.
«Ti voglio bene anche io…» sussurrò, senza guardarlo negli occhi. Allora Toshiro, in quel momento, prese il coraggio per fare ciò che in quegli anni non aveva mai fatto: lo abbracciò, certo che non lo avrebbe rifiutato. E infatti non avvenne. Momo guardò Shinji, commossa.
«Ti ringrazio.»
«Ma va, di che? Tu hai aiutato mia figlia durante una crisi. E poi anche io sono il padre di Hayato, no? Il più figo, aggiungerei» disse, sinceramente felice. Adesso voleva tornare a casa, strizzare un po’ per Miyo e abbracciare Sosuke.
 
Satoshi Schiffer. Ufficialmente quello era il suo nome. Ufficialmente, era il figlio di Ulquiorra e Orihime e il fratello di Kiyoko. Solo da un punto di vista legale, perché per loro lo era stato sin dall’istante in cui si erano conosciuti. Kiyoko stava strizzando un po’ suo fratello, entusiasta per l’ufficializzazione avvenuta.
«Evviva, è proprio un bel giorno. Dobbiamo festeggiare in qualche modo, facciamo qualcosa. Andiamo al luna park, o al mare. O magari ad una mostra d’arte?»
Ulquiorra sospirò, allentandosi la cravatta che sentiva un po’ stretta e guardando poi Orihime. Era stata una giornata di tensione, sebbene l’adozione fosse oramai certa avevano comunque avuto paura che qualcosa potesse andare male. Ma non era così e Satoshi era loro, non sarebbe stato più costretto a passare da una famiglia all’altra, da una casa all’altra. Orihime e Ulquiorra si tennero per mano, sorridendosi Amavano i loro figli tantissimo.
«Magari possiamo fare un giro, ma lo sapete che vostro zio Sora stasera viene a trovarci.»
A Satoshi brillarono gli occhi. Gli piaceva suo zio Sora, somigliava molto ad Orihime.
«Mi piace questa cosa. Prima però c’è una cosa che vorrei dire» disse, sentendo improvvisamente il colletto divenire stretto. Timido per com’era non amava parlare in pubblico, nemmeno se si trattava della sua famiglia, ma ci teneva comunque a dire qualcosa.
«Amh… questi ultimi anni per me sono stati i più belli di tutta la mia vita. Non avevo mai incontrato nessuno che mi volesse bene da subito… e che mi facesse sentire subito a casa. Ho imparato solo da poco cosa vuol dire sentirsi davvero voluti e ho scoperto che mi piace. Ci ho guadagnato una sorella che è una migliore amica, una madre che è una pasticcera incredibile e un padre che è un artista.»
Kiyoko si indispettì.
«… Ah, ovviamente non mi dimentico del tuo talento nella fotografia» aggiunse Satoshi. «Quello che voglio dire è che mi spiace ci siano stati momenti difficili. Immagino succeda nelle famiglie, no? Inoltre io mi chiedevo se… insomma…» e dicendo ciò si fece ad un tratto più intimo. «I figli di solito non chiamano i genitori per nome, no?»
Orihime non gli diede il  tempo di aggiungere altro: lo abbracciò, soffocandolo quasi sul suo seno.
«Oh, Satoshi, bambino mio! Se volessi chiamarmi mamma, ne sarei felicissima!»
Ulquiorra le posò una mano su una spalla.
«Così lo soffochi, tesoro.»
Anche se in realtà Satoshi stava benissimo, ed era anche felice. Oramai si fidava del tutto di loro. Ed era questo il presupposto per essere una famiglia.
«D’accordo» Orihime si asciugò una lacrima. «Adesso porterò i miei tre bambini a prendere un gelato.»
Ulquiorra si indicò, chiaramente il terzo bambino era lui. Mentre scendevano una lunga scalinata, Kiyoko vide che più l’aspettava una persona: il suo Kaien che se ne stava lì imbronciato.
«Ehi, ciao» esclamò, saltando l’ultimo gradino e facendo svolazzare il vestito verde come i suoi occhi. «Come sapevi che ero qui?»
«Non lo sapevo, me l’ha detto Naoko. Congratulazioni… per l’adozione? Si dice così in questi casi?»
Kiyoko si mise a ridere. Aveva l’impressione che fossero cambiati. Kaien era un po’ più alto, sempre imbronciato ma con lo sguardo più felice. Lei invece si sentiva bene in quel vestito, con i capelli più lunghi e il mascara alle ciglia. Erano un po’ meno bambini e un po’ più due adulti.
«Immagino di sì. Ma sei venuto qui appositamente per me?»
«Umh. No… cioè, sì… Cioè… una via di mezzo. Mi mancavi, però volevo andare anche da quel cretino di Hayato, ultimamente mi ha un po’ messo in disparte.»
Kiyoko sgranò gli occhi e poi si voltò a guardare sua madre. Oh, che situazione imbarazzante. Orihime si mise a ridere.
«Non preoccuparti tesoro, va pure.»
«Sì, va pure» disse Satoshi, al quale non dispiaceva l’idea di passare un po’ di tempo solo loro tre. Ulquioora sospirò lentamente.
«Riportamela a casa non troppo tardi» disse minaccioso.
«Riportarla a casa? Ma io non guido la macch-»
«Va bene, dai Kaien. Possiamo andare no?» Kiyoko lo prese per mano, era meglio allontanarsi prima che ai suoi genitori venisse in mente qualcosa di imbarazzante.
 
 
Quella giornata era sembrata infinita a Mayuri, non era mai stato così felice di essere a casa. Sua figlia se n’era andata in camera sua con gli occhi sognanti, felice e contenta. L’amore sapeva essere tremendo, anche (e soprattutto) per le menti geniali e razionali.
«Ai con Hikaru» sospirò, sedendosi. «Era destino, ovviamente. Ma ti avverto, non voglio sentir parlare di matrimonio minimo per altri dieci anni.» Nemu si mise a ridere, suo marito sembrava essersi dimenticato che la loro Ai aveva solo dodici anni. Gli si sedette accanto e portò una mano sul suo petto.
«Sei stato magnifico, oggi. Con Urahara, intendo. Hai fatto quello che un vero amico avrebbe fatto.»
Mayuri fece una smorfia.
«È proprio necessario dirlo?»
«Sì. Perché, anche se non vuoi che si sappia troppo in giro, hai un cuore tenero. Non con tutti, certo. Ma quando ti decidi ad aprirti con qualcuno, lo fai completamente. E io mi sento molto fortunata ad averti, per questo.»
Si sentiva fiera e orgogliosa, non c’era più spazio per gli attacchi di gelosia. E poi si era presa una bella soddisfazione affrontando Senjumaru.
«Sono io ad essere fortunato. E poi non tuti sarebbero stati altrettanto coraggiosi da affrontare Senjumaru in quel modo. Hai protetto tu me. E… grazie.»
Nemu si avvicinò e lo baciò. Se c’erani alcuni casi in cui l’amore andava diminuendo negli anni, non era certo il loro, di caso.
«Anche il chirurgo più bravo ha bisogno di protezione, ogni tanto?»
«Ripetimi ancora che sono il più bravo» le disse e poi la baciò a sua volta.
 
 
Miyo stava tenendo compagnia a Rin, la quale non aveva voglia di rimanere da sola mentre i suoi genitori affrontavano ben altra questione.
«Certo che sembra di stare all’interno di un film o di un libro» rifletté Miyo ad alta voce. «Mi chiedo perché le persone arrivino a fare certe cose. Un po’ come quello che è successo a Yami.»
Rin beveva lentamente un succo di frutta. Stava cercando di mangiare poco ma spesso, in questo modo manteneva vivo anche il suo appetito, che si stava finalmente normalizzando.
«Non lo so. Non si pensa mai abbastanza a quello che si dice. Non finché qualcuno non si fa male.»
A lei era bastata una semplice frase detta con malignità e superficialità per gettarla nel baratro. Non pensava potesse essere così sensibile, in parte era una cosa che non sopportava. Miyo l’abbracciò.
«Sono perfettamente d’accordo con te. Sappi che ti voglio bene. E anche Hayato e tutti i nostri amici. E sei bellissima, io ho sempre mirato ad essere come te.»
Rin la guardò, sorpresa.
«Ma tu sei bella» disse, ed era sincera. Le piacevano i suoi capelli biondi, gli occhi espressivi, il fatto che fosse piccola e leggera.
«Anche tu. Sarebbe bello potessi vederti come ti vedo io. E non solo io.»
Rin arrossì e si imbronciò. Sua madre una volta le aveva detto che spesso a quell’età ci si sentiva brutte e orribili e che spesso questa sensazione non andava via neanche crescendo. Però, lei e Miyo erano ancora i boccioli delle donne che un giorno sarebbero diventate.
 
Mentre Miyo e Rin si facevano compagnia, Rangiku camminava nervosa. Detestava le centrali di polizia, le mettevano ansia. Più che preoccupata, si sentiva nervosa. Avrebbe davvero voluto cantargliene quattro a quella ragazzina. No, non voleva essere superiore o passarci sopra, non se la persona che amava veniva messa in mezzo. Gin la raggiunse poco, insieme ad Aizen. I due parlavano tranquilli e Rangiku andò loro incontro.
«Beh? Com’è andata? L’avere arrestata?»
Sosuke sorrise.
«Tema che la galera non sia prevista per questo tipo di reati, ma quella ragazza sarà comunque costretta a pagare delle multe molto salate. Credo che dovrò dire addio al suo bell’appartamento in centro. Sono riuscito ad eliminare tutte quelle dicerie online su Gin, comunque, e questo è l’importante.»
Rangiku sospirò. Si sentiva molto più tranquilla, tuttavia non del tutto a posto con sé stessa. Guardò suo marito.
«Vorrei parlare con lei.»
Gin fece una smorfia, tuttavia capiva il desiderio di sua moglie, era lo stesso che aveva anche lui.
«Io vengo con te. Ho qualcosa da dirle.»
«Beh, allora io vi lascio» disse Aizen. «Torno a casa.»
Gin accarezzò la mano di sua moglie e strinse le dita alle sue. Loly aspettava di essere scortata a casa da un agente, aveva il viso rosso di vergogna e rabbia. Quando vide i due coniugi venirle incontro, ebbe il desiderio di scappare, tuttavia non c’era alcun posto dove potessero andare.
Rangiku la fissò. Quella ragazza era giovanissima, avrebbe quasi potuto essere sua figlia, con qualche anno in meno. E aveva fatto un’idiozia, rovinandosi e quasi rovinando la sua famiglia, solo per dei capricci.
«Dimmi una cosa. Ne è valsa la pena?» esordì, sorprendendo sia Loly che Gin. La ragazza sgranò gli occhi. Si sentiva già così umiliata e adesso ci si metteva anche lei con quelle domande. E visto che non rispondeva, Rangiku continuò.
«Quello che hai fatto è una cosa terribile. Accusare qualcuno di averti molestato sessualmente… è una cosa grave. Rovinare la vita a qualcuno solo per un proprio capriccio è egoistico e cattivo. Ti auguro di non essere mai violentata o molestata, perché succede a tante persone e non è un dolore da cui si guarisce.»
Rangiku non aveva mai subito una vera violenza fisica, ma le molestie, quelle c’erano state spesso. Come se il fatto di essere una bella donna con un bel corpo autorizzasse chiunque a trattarla come un oggetto. Ecco perché la cosa le stava così a cuore. Non voleva fare la morale a nessuno, ma sperava di portare Loly a riflettere.
Poi fu Gin a parlare, in un tono stranamente più conciliante, nonostante fosse lui la vera vittima.
«Sei giovane, rovinarsi e rovinare delle vite non ne vale la pena. Studia, lavora, innamorati, divertiti. Sono queste le cose che una persona, specie alla tua età, dovrebbe fare.»
Il fatto che Gin le stesse sorridendo senza alcun rancore era ciò che fece più male a Loly, ciò che la fece vergognare completamente di ciò che aveva fatto. Rangiku lo capì e per questo non infierì. Strinse la mano di suo marito e poi lo guardò. Voleva tornare a casa loro, dalla loro Rin e dedicarsi completamente a lei, ora che quella brutta faccenda era conclusa. Loly li osservò allontanarsi. Dubitava che li avrebbe rivisti, ma di certo non si sarebbe dimenticata facilmente di quella coppia così unita.
 
 
Aizen se ne tornò a casa soddisfatto. Era sempre bello quando un caso andava a buon fine, specie se c’era un amico in mezzo. In casa sembrava non esserci nessuno. Shini però c’era e gli si avvicinò di soppiatto, facendolo sussultare.
«Shinji, mi hai spaventato. Ma perché è tutto buio?»
«Sono appena rientrato. Hayato è rimasto da Momo. Sai, credo che le cose andranno meglio» gli rispose. La luce della luna illuminava la sua figura e Sosuke si ritrovò attratto.
«Perché dici questo?» domandò avvicinandosi. Shinji sorrise.
«Diciam oche abbiamo avuto una chiacchierata profonda e che adesso Hayato si fida di me.»
Sosuke portò una mano sul suo viso, accarezzandolo.
«Sono molto fiero di te, Shinji.»
Quest’ultimo chiuse gli occhi, per poi riaprirli.
«Devo chiederti scusa. Per tutto questo tempo ho cercato di rendermi utile perché volevo fare bella figura ai tuoi occhi. Beh, non solo per questo, ma all’inizio era perché… credo fossi invidioso di Momo. Lo so che è stupido, ma non sono così sicuro di me come voglio far credere.»
Ah, Shinji. Era sempre il solito. Esagerato, emotivo, melodrammatico. Lo amava da impazzire.  
«Non avresti avuto motivo di voler fare bella figura davanti a me. Tutto quello che fai per me è perfetto. Sei perfetto con me, con Miyo… e ora anche con Hayato.»
«Ah, già. Lui» disse arrossendo. «Amo quel ragazzino insolente, perché è tuo figlio e io amo te. E poi perché è molto più sensibile di quanto voglia far credere.»
«Lo so. I nostri figli sono fortunati ad avere te» sussurrò sulle sue labbra, per poi baciarlo. Era vero, quelli erano proprio i loro figli e quella era la loro famiglia. Shinji lo baciò con passione e poi si staccò all’improvviso.
«Hai risolto la questione di Gin?»
«Ovviamente. Non c’è una sola cosa che io non possa risolvere. Merito un premio, non trovi?»
Shinji si mise a ridere e lo abbracciò. Era felice, perché finalmente sembrava aver raggiunto quell’equilibrio che aveva bramato per tre anni.

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Capitolo 29
*** Capitolo ventinove ***


Capitolo ventinove
 
Byakuya si svegliò dopo aver sognato. Come molti sogni, gran parte era sfumato nel momento in cui aveva aperto gli occhi, ma le sensazioni che provava gli avevano fatto capire di aver sognato Hisana. Non gli succedeva da un po’, ed era curioso che stesse accadendo adesso che si ritrovava ad organizzare il suo secondo matrimonio. Questa era una delle cose che mai si sarebbe immaginato di dover fare. O di voler fare. Era stato già difficile iniziare una nuova relazione e aveva tanto penato prima di riuscire a dire sì, voglio sposarmi.
Renji accanto a lui non c’era. Dai rumori che sentiva provenire dalla cucina, il suo compagno doveva essersi svegliato prima di lui e stava preparando la colazione. Incredibile a dirsi, considerando che era Byakuya quello mattiniero dei due. Decise di alzarsi anche lui: nella loro cucina c’era un buon odore e il bollitore era sul fuoco. Vedeva Renji di spalle, con i capelli sciolti e i suoi tatuaggi sulle braccia. Ancora dopo tre anni ne era affascinato e attratto come il primo giorno.
«Ti sei svegliato presto» disse Byakuya. Renji sussultò e si voltò a guardarlo, sorridendo colpevole.
«Beh, sì. Volevo preparare qualcosa per te, ma mi sa che l’effetto sorpresa è svanito.»
«No, direi di no invece» disse guardandosi attorno. Zabimaru dormiva beata nella sua cuccia, la casa era ancora avvolta nel silenzio del mattino. Un mattino che era cominciato in modo malinconico. E Renji se ne accorse.
«Hai fatto un brutto sogno?» domandò. Byakuya si sedette.
«Non direi che è un brutto sogno, è solo… dolceamaro.»
«Hai sognato lei?» domandò cauto. Renji aveva messo da parte i suoi timori e il suo senso di rivalità verso la defunta moglie del suo compagno. Ma questo non voleva dire che ogni tanto non provasse paura o timore che Byakuya cambiasse idea all’ultimo. Perché aveva amato Hisana e perché aveva già sposato lei. Lui era stato un po’ l’imprevisto della sua vita. Byakuya annuì.
«Sì, a volte mi capita. Ma non devi preoccupartene.»
«Ti è capitato spesso di ripensare a lei in questo periodo, non è vero?» chiese ancora Renji.
Renji che era nella sua testa, e non era sicuro che a Byakuya piacesse. In quei momenti non c’erano più confini tra loro due. Certo, era inevitabile che avesse pensato spesso a lei. Ricordava ancora bene i preparativi del loro semplice matrimonio tradizionale, i loro abiti shintoisti e pochi intimi. C’era poi stata una cerimonia all’occidentale, in modo da invitare tutti gli amici e parenti, dove Renji gli aveva fatto da testimone. Non ricordava più dove fosse, ma da qualche parte doveva esserci una foto che li ritraeva tutti e tre insieme. Lui, Hisana e Renji. Con il senno di poi, si rendeva conto che il sorriso di Renji in quella foto non arrivava agli occhi.
«A volte, sì. Ma non fraintendere. Penso sia inevitabile.»
Renji si sedette davanti a lui. Ora era talmente serio da essere arrabbiato.
«Arrivare alla decisione di sposarci è stato… turbolento, direi. Pensavo fossi così indeciso perché avevi sposato lei e quindi non avresti sposato nessun altro.»
Byakuya fece una smorfia.
«Mi sembra un po’ troppo persino per me. Ma no, non è questo. Da quando abbiamo parlato di matrimonio mi è venuta una certa ansia. Lo sai, dopo che Hisana è morta pensavo che non sarei stato più con nessuno. E invece sei arrivato tu. Ma non pensavo che ci saremmo mai sposati. E ancora una volta sei arrivato tu. Tu mi sorprendi sempre. Sei completamente diverso.»
Renji arrossì e allo stesso tempo corrugò la fronte.
«C’è una cosa che mi sono chiesto in questi tre anni d relazione. Hisana era molto simile a te, come carattere. Io sono il tuo totale opposto. Cosa ci hai trovato in me? Non hai mai pensato che per te ci volesse una persona più simile a te?»
O a lei?
Ma questo non lo disse. Se dovevano sposarsi, voleva chiarire tutti i suoi dubbi. Byakuya ci pensò un po’ su.
«È vero, tu sei diverso da me. Per questo mi piaci così tanto. Io ho bisogno di qualcuno che sia capace di sorprendermi ogni giorno, e direi che in questo riesci perfettamente. Sono consapevole di essere un tipo difficile, spesso malinconico e un tantino deprimente. Ma voglio davvero sposarti e non voglio pensare a nulla di deprimente il giorno del nostro matrimonio. Questo vorrei che fosse chiaro.»
Renji arrossì e si fece rigido.
«M-ma certo, è ovvio! Ti amo, ma ti prenderei a pugni se rovinassi qualcosa. Con tutta la fatica che ci sta costando… Facciamo un viaggio di nozze più lungo.»
«Ma Renji, e il lavoro?»
«Dettagli, una pausa non fa male a nessuno.»
Renji prese le sue mani tra le proprie e guardò Byakuya negli occhi.
«Non vedo l’ora di sposarti.»
Stavolta fu Byakuya quello ad arrossire. In quei momenti non c’erano più dubbi o tristezze. Solo il suo amore immenso.
«Nemmeno io.»
 
 
Rin si strinse lo zaino sulle spalle. Miyo e Hayato erano accanto a lei. Hayato era silenzioso, ma era stranamente non imbronciato o supponente di prima mattina. Come sempre, Kaien raggiunse il suo migliore amico dandogli una pacca su una spalla. Le ragazze invece accolsero Rin e Miyo.
«Ciao Rin-uccia» disse Naoko, abbracciandola. «Come stai adesso?»
Rin arrossì.
«Sto bene ora. Ho ripreso a mangiare e mi sento più in forza.»
Kiyoko annuì.
«Quando anche Yami tornerà, dobbiamo organizzare qualcosa. Tipo una festa.»
Rin annuì. Le piacevano le feste e le piacevano i bei vestiti. Chissà se sarebbe riuscita a vedersi di nuovo carina come prima.  Ad un tratto Rin sentì una mano stringersi attorno al suo polso: si trattava di Hayato.
«Scusa, ma devo parlarti un attimo.»
La ragazzina annuì, sotto gli occhi curiosi e increduli dei loro amici.
«Accidenti» commentò Kaien. «Ma che ha Hayato stamattina? Ha qualcosa di diverso nello sguardo.»
Miyo sorrise, tutta contenta. Sapeva che c’era stata una conversazione importante tra suo padre e Hayato e che questa lo aveva molto aiutato.
«Credo che conoscerai presto una versione molto più dolce di Hayato. Kaien fece spallucce e poi guardò Kiyoko, sorridendo e facendola arrossire. Avevano passato insieme un bel pomeriggio il giorno prima e di sicuro ce ne sarebbero stati tanti altri.
Naoko invece era tornata a chiacchierare amabilmente con Satoshi. O per megio dire, lei parlava e Satoshi ascoltava. Era entusiasta perché stava imparando a parlare coreano e poi si era innamorata degli abiti tradizionali.
«Sai, forse mio padre e mio nonno impareranno ad andare d’accordo. Io lo spero, perché sai… mi piace più così, quando andiamo tutti d’accordo. Comunque sappi che adesso, anche se siamo fidanzati, perché ovviamente siamo fidanzati, Kiyoko rimane la mia migliore amica, non la metterò da parte!»
Satoshi annuì, rapito dalla sua parlantina.
«Non è mia intenzione. E poi possiamo uscire tutti e quattro, insieme a Kiyoko e Kaien.»
Naoko stava già fantasticando su un’eventuale uscita a quattro quando al suo sguardo non sfuggì Kaien, il quale si era avvicinato al cugino. E poiché non voleva essere codarda, decise che era arrivato il momento di parlargli e rinsaldare un’amicizia.
«Satoshi, vieni con me» Naoko lo prese per mano. Lui capì subito le sue intenzioni e arrossì. Non sapeva cosa dire o fare. Arrivati davanti a Kohei, Kaien li guardò, pronto a bloccare un eventuale attacco d’ira del cugino. Naoko sospirò.
«Kohei. Mi dispiace per quello che è successo. La colpa è anche mia, ti ho fatto fraintendere. Voglio che tu sappia che tu mi piaci e ti voglio bene, ma come amico. Queste cose, ecco… non si scelgono. Ma non mi piace quando litighiamo. Vorrei che potessimo tornare tutti amici, se possibile.»
Aveva parlato senza riprendere fiato un attimo. Kohei la guardò e poi guardò Satoshi, che sembrava dispiaciuto.
«Piacerebbe anche a me, ecco. Ti considero uno dei miei migliori amici.»
Kohei si sentì accaldato. Sentirsi chiamare migliore amico era bello e piacevole. Non sapeva cosa gli stesse accadendo, ma non si sentiva più così arrabbiato. Sentiva solo il bisogno di fare il bene. Dei suoi amici e della sua famiglia.
«Va bene» disse soltanto.
«Uh? Tutto qui?» chiese Naoko.
«… Mi dispiace se ti ho picchiato» aggiunse poi. «Per me va bene tornare a essere amici. Litigare è difficile e stressante.»
Naoko singhiozzò, stringendo il braccio di Kohei e quello di Satoshi.
«Sono così feliceeee!»
«Va bene dai, non c’è bisogno di piangere!» tentò di calmarla Satoshi. Poi guardò Kohei e capì che la loro amicizia non si era mai spezzata-
 
Rin non capiva perché Hayato volesse parlarle in privato, considerato che stava per lo più zitto. Ed era arrossito, forse aveva caldo?
«Va tutto bene, Hayato?» domandò. Hayato era imbronciato, sembrava in procinto di dire qualcosa. Stava pian piano imparando a lasciarsi andare. Dire ciò che sentiva era molto più piacevole che tenerle per sé. Strinse i pugni.
«Rin, tu…»
Lei chinò la testa di lato, aspettando. Era così bella! Ed era assolutamente perfetta così, non aveva bisogno di essere più magra, alta o chissà cosa.
«Che cavolo, quanto è difficile dire qualcosa di carino!» borbottò puntandole il dito contro. «Rin, tu sei… tu sei bella, ecco. E mi piaci. E so che anche io ti piaccio, quindi… non voglio solo essere tuo amico.»
Rin divenne a sua volta rossissima e gli occhi presero a bruciarle. Mai si sarebbe aspettata una dichiarazione del genere d Hayato Aizen. Forse non lo conosceva così bene. E si mise a ridere.
«Che hai da ridere?!»
Oh, no. Si era forse reso ridicolo?
«Nulla, stavo solo pensando che è buffo. Perché qualche anno fa i nostri padri hanno deciso che ci saremmo sposati. E a noi la cosa non piaceva, anche perché io avevo una lunga lista di gente da voler sposare. E invece guardaci adesso.»
«Guarda che non ho detto che ti sposerò» borbottò Hayato, oramai troppo, troppo imbarazzato. «Però possiamo uscire insieme, vederci anche fuori la scuola… non lo so, queste cose qui!»
«E possiamo anche… baciarci?» domandò, avvicinandosi di colpo. Hayato indietreggiò, non perché non volesse un bacio, ma perché non se l’era aspettato.
«Penso di sì!» esclamò. Rin rise e per un attimo sembrò aver ritrovato la sua malizia. E lo baciò.
Hayato, grazie per avermi detto che sono bella. Magari passerà questo periodo e tornerò anche io a sentirmi carina. Ma non smettere comunque di dirmelo.
 
Masato si era allontanato dai suoi amici perché attendeva che Yuichi arrivasse. Di recente non era successo che qualcuno li infastidisse, ma era consapevole che sarebbe potuto succede. Talvolta, alcuni loro compagni di scuola e perfino insegnanti, li guardavano male quando erano troppo vicini o quando si sfioravano le mani. Ma Masato non aveva paura. Kaien lo aveva protetto per tanto tempo e di questo gli sarebbe sempre stato grato, ma adesso si sentiva abbastanza grande da difendersi da solo. Yuichi arrivò accompagnato da sua madre in auto, sollevando una mano per salutarlo.
«Scusa il ritardo, non ho sentito la sveglia»
Masato lo trovò carino con i capelli in disordine e gli occhiali storti.
«Oh, non fa niente. Senti, le cose a casa tua vanno meglio?»
Masato si preoccupava per lui e la cosa più bella era che non lo costringeva  a parlar se non lo sentiva. Ma quella mattina, Yuichi aveva voglia eccome di parlare.
«Mio papà si è lasciato andare. Io non l’avevo mai visto piangere, ma anche se è stato doloroso, penso ne avesse bisogno. Lui un po’ mi ricorda Kaien: ci vogliono proteggere a tutti i costi, ma alla fine, quelli che hanno il potere di fare qualcosa, siamo noi.»
Masato annuì entusiasta, mentre attraversavano il cortile.
«Sei saggio, Yuichi! Ecco perché mi piaci.»
Yuichi arrossì, sistemandosi lo zaino in spalla.
«E ti va bene stare con me anche se qualcuno potrebbe darci fastidio? Anche se con una ragazza sarebbe più facile?»
Spesso Yuichi aveva pensato che se fosse stato una ragazza, nessuno li avrebbe mal guardati. Sarebbe stato facile come lo era, ad esempio, per Kaien e Kiyoko. Ma Masato di dubbi non ne aveva.
«Assolutamente no. A me le ragazze non piacciono. Cioè, non nel modo in cui mi piaci tu. Non fa niente se ci guarderanno mae o ci creeranno problemi. Lo possiamo affrontare insieme.»
Gli porse a mano e Yuichi abbassò lo sguardo. Non si era mai sentito così fortunato come in quel momento. Strinse quella stessa mano sotto gli occhi di tutti, compagni che passavano e si chiedevano perché due ragazzi maschi avessero atteggiamenti così intimi. Per fortuna non tutti la pensavano così.
«Sì, credo che insieme possiamo affrontare tutto» soffiò Yuichi. Masato sorrise e veloce come il vento gli rubò un bacio. E confermò una cosa che in realtà già sapeva: un semplice bacio rubato a Yuichi rendeva più sopportabile il resto.
 
 
Neliel si era presa una mattina libera, giusto per incontrarsi con Orihime e Tia. La prima aveva raccontato entusiasta d Satoshi, del fatto che fosse ufficialmente suo figlio. Tia, invece, continuava a lanciare sguardi languidi al suo compagno. Grimmjow era intento a parlare con Ulquiorra e Nnoitra. A giudicare dal rossore delle guance e dagli occhi che brillavano, dovevano aver fatto pace, constatò Neliel.
«Oh, Nel. Sono così felice che a Satoshi piaccia Naoko. Sono così carini. Ma ci pensi come sarebbe bello se un giorno si sposassero? Sarebbe troppo divertente.»
Neliel pensò che in effetti sarebbe stato bello e piuttosto esilarante avere come consuocera la sua migliore amica.
«Beh, sarebbe bello sì. Certo, sono ancora bambini, ma non mi dispiacerebbe avere un genero come Satoshi. È un ragazzino così gentile e sensibile. In questo ha preso da voi due.»
Orihime arrossì, orgogliosa. Forse Satoshi non poteva somigliare a lei e ad Ulquiorra nel fisico, ma aveva ereditato da entrambi dei valori. Tia sospirò.
«Sapete? Tutti questi discorsi mi fanno venire voglia di avere un figlio.»
Neliel nascose un risolino. Chissà cosa Grimmjow ne pensava?
 
Grimmjow, mentre le ragazze bevevano tè verde e chiacchieravano, stava ascoltando i discorsi di Ulquiorra e Nnoitra, che si stavano rivelando essere due padri piuttosto apprensivi.
«Io ti avviso, Ulquiorra» Nnoitra gli puntò il dito contro. «Se tuo figlio fa soffrire la mia… ti prendo a pugni.»
«E va bene» rispose calmo, ma serio. «Se a soffrire però è mio figlio, io uccido te. Altro?»
«Ovviamente, ci devono essere delle regole» borbottò. «Sono ancora piccoli per… beh, lo sai! Ma se un giorno dovesse succedere, che sia lontano dai miei occhi. Quindi che lo facciano a casa tua.»
«Perché deve essere casa mia?»
«Forse perché una casa è più sicura di un love motel da quattro soldi? E soprattutto» Nnoitra strinse un pugno. «Se tuo figlio mette incinta mia figlia, io uccido te e anche lui.»
Ulquiorra sospirò. Ma che aveva fatto di male? Se non fosse stato il diretto interessato, avrebbe trovato Nnoitra perfino divertente.
«Parlerò a Satoshi di come fare del sesso protetto. Ora, cortesemente, vuoi calmarti? Non ci hai neanche detto com’è andata con i tuoi genitori.»
Nnoitra ad un tratto cambiò espressione. Gli sembrava ancora surreale sapere du avere di nuovo un rapporto con i suoi, con suo padre in particolare.
«Beh… stiamo provando ad andare d’accordo. Sul serio, però. Mia madre ha buttato mio padre fuori di casa e di sicuro non lo avrebbe riaccolto se non avesse smesso di comportarsi da stronzo.»
Grimmjow si mise a rispondere.
«Ah, ecco da chi hai preso il tuo caratterino.»
Nnoitra arrossì.
«Già. Comunque, il merito non è mio, non fosse stato per Neliel non sarei mai andato avanti. È lei quella compassionevole, quella incline al perdono. E lei il sole della coppia» disse quest’ultima frase lanciando uno sguardo a sua mogie, la quale se ne accorse e arrossì, sorridendogli. Grimmjow si alzò: gli era venuta un’improvvisa voglia di stare con Tia, forse era tutto quell’amore nell’aria?
«Ehi, Tia. Andiamo?»
«Sì, direi di sì» rispose subito lei, alzandosi. «Ci vediamo, eh…»
Orihime e Ulquiorra si intrattennero per un po’ prima di andarsene. Quando furono rimasti soli, Neiel si sedette sulle gambe di suo marito, come fosse stata una ragazzina.
«Allora… io sarei il sole della coppia?»
«Oh, andiamo» borbottò lui arrossendo. «Lo sai che l’ho sempre pensato. Più invecchio e più divento sentimentale. Ma a parte gli scherzi… grazie. Per essermi stata accanto. Sin da quando ti conosco.»
Neliel sfiorò con dolcezza il suo viso e lo guardò con occhi innamorati. Per lei era una cosa quasi ovvia, stare vicino alla persona che amava. Anche se capiva bene che ovvio non lo era per niente.
«Grazie a te» gli sussurrò, per poi baciarlo. Nnoitra avrebbe voluto chiederle per cosa lo stesse ringraziando, ma poi decise di non farlo. Aveva imparato a riconoscersi ìi meriti, quand’era giusto. Mentre i due si baciavano, Aries prese a scodinzolare e ad abbaiare.
«Eh? Ma c’è qualcuno?» domandò Nnoitra vedendo come il su cane fissava la porta. Neiel si alzò e andò ad aprire. Davanti a lei comparve poco dopo la sorridente figura di Sun Ah, la quale era andata dritta ad abbracciare il figlio.
«Ma…» arrossì Nnoitra, sorpreso. Neliel ridacchiò.
«Non vi aspettavamo» disse la donna,
«In realtà non era nei piani venirvi a trovare» disse la donna, la quale sembrava aver ritrovato un po’ di vitalità. «Shirai, entra.»
Nnoitra vide suo padre entrare con un’espressione confusa e imbarazzata.
«Ci sono dei ragazzini appostati davanti casa tua che mi hanno chiesto di farsi fare un autografo da te. Non immaginavo che avessi dei fan che ti adorano fino a questo punto» disse l’uomo, sinceramente stupito.
«Che cosa?! Oh, questa è tutta colpa di Grimmjow, si vanta sempre di essere mio amico con chiunque! Comunque, che cosa stai tramando?» Nnoitra si rivolse a sua madre.
«Nulla di pericoloso. Stavo pensando che sarebbe divertente fare una foto di famiglia dove indossiamo gli abiti tradizionali coreani.»
A Neliel brillarono gli occhi.
«Parli degli hanbok? Li ho visti cercandoli su internet, sono davvero stupendi e sono sicura che Naoko apprezzerà l’idea.»
Nnoitra si guardò attorno in imbarazzo. Nonostante tutto, ancora non era un gran fan dele fotografie.
«Non mi dirai che hai conservato ancora il mio?!» esclamò, guardando prima sua madre e poi suo padre. Shirai fece spallucce.
«Non guardare me, non ho avuto voce in capitolo.»
Nnoitra si rassegnò ben presto, anche perché Neiel era entusiasta e lo sarebbe stata anche Naoko, di sicuro. In fondo, avere i suoi genitori che gi giravano attorno non era male. Non lo era per niente,
 
 
Yoruichi si era presa qualche giorno di ferie, aveva bisogno di rimettere a posto le idee. Yami non era ancora tornata a scuola, aveva bisogno di un po’ di tempo per riprendersi e di sicuro avrebbe fatto qualche seduta con uno psicoterapeuta. La donna aveva però dei buoni propositi da seguire, tipo quello di essere più affettuosa e comprensiva, cercare di curare il suo rapporto con sua figlia. E magari cercare anche di farsi perdonare da Kisuke e Soi Fon, che aveva trattato malissimo. Era stata ore ai fornelli per preparare la colazione, e ora riso, sgombro, frutta e zuppa di miso erano in bella vista sul tavolo. Kisuke sorrise quando vide sua moglie con indosso un adorabile grembiule e si avvicinò per abbracciarla da dietro.
«Buongiorno, mia cara Yoruichi. Ti sei data da fare, eh?»
«Umh, è solo un piccolo pensiero» disse arrossendo. «Ma mi dispiace davvero per il modo orribile in cui mi sono comportata con tutti voi.»
Kisuke le baciò la tempia.
«Lo so, lo so. Ma l’importante è che la nostra Yami stia bene. E anche voi. Sei sempre la mia Yoruichi, vero?» domandò al suo orecchio. Lei chiuse gi occhi.
«Sempre.»
Kisuke la baciò sul collo e poi la fece voltare per baciarla sulle labbra. Soi Fon entrò proprio in quel momento, schiarendosi la voce.
«Buongiorno.»
«Ciao, Soi Fon» disse Yoruichi, ancora rossa in viso.
«Umh, ecco… volevo solo dirvi che ho finito la prima stesura del mio… libro»
Tra una cosa e l’altra aveva trovato il tempo di concluderlo. Anzi, poteva dire che fosse stata addirittura ispirata.
«Eh?! Davvero?!» gridò Kisuke. «Voglio leggerlo, mi avete tenuto all’oscuro, voi due.»
«In realtà ho apportato alcune modifiche» ammise Soi Fon. «Pensavo ad una storia d’amore, vero. Ma questa storia… in un certo senso… parla di noi e del nostro… tipo di amore.»
Era arrossita, guardando da un’altra parte. Aveva sentito i bisogno e la vogia di raccontarsi, di raccontare quel tipo di amore meno comune, ma che era reale. E poi quella era stata la sua dichiarazione indiretta, la sua presa di coscienza. Yoruichi sgranò gi occhi, indicandosi.
«Tu ami noi?» sussurrò. Soi Fon, con un grande sforzo, li guardò.
«S-sì. Ma chiariamo, non intendo fare l’amante, né voglio che vi vergognate di me. Quindi se non siete con-»
Si ritrovò all’improvviso sollevata in aria: Kisuke, in preda alla gioia, l’aveva presa in braccio.
«Hai usato noi come ispirazione per il tuo libro! Non sono uno scrittore, ma se lo fossi e volessi dichiarare il mio amore, farei proprio così. Oh, forse sono pazzo. Ma sento di amare voi e noi.»
Kisuke come al solito era tanto spontaneo quasi da sembrare un bambino. Yoruichi sentì gli occhi divenirle lucidi. Magari era una follia e non c’era certezza che avrebbe funzionato, come in tante cose. Ma sarebbe stato ancora più folle spezzare a sua famiglia, perché sì, Soi Fon faceva parte della sua famiglia.
«Tu… non sarai quella di cui ci vergogneremo. Fai parte della famiglia e non ti sarò mai abbastanza grata per essermi stata vicina.»
Kisuke rimise Soi Fon giù e lei andò a stringere le mani di Soi Fon.
«Allora è vero? Volete provarci? Anche se sono troppo giovane e verremo giudicati malamente?»
«Ah, il mondo è pieno di idioti» Kisuke si avvicinò, stringendo le loro spalle. «E poi sarai troppo giovane, ma sai essere più matura di noi due messe insieme. Non riesco a immaginare la mia vita senza le mie due donne.»
A Soi Fon parve un sogno. Era già pronta ad un rifiuto, sapeva a cosa andava incontro. Invece lei, Yoruichi e Kisuke erano sulla stessa lunghezza d’onda. Avevano fatto un giro lunghissimo, durato anni, prima di comprenderlo. Ma ora eccoli ì tutti abbracciati. Soi Fon li guardò e baciò prima Yoruichi e poi Kisuke. Si sentiva un po’ uno dei personaggi del suo libro. Ma a differenza del finale di quella storia, che aveva immaginato più dolceamaro, il loro sembrava un vero lieto inizio.
 
 
Karin tornò a casa particolarmente stanca, quel giorno. Posò il borsone a terra e si stiracchiò. Yasutora doveva essere tornato da poco, a giudicare dai rumori che sentiva dalla cucina. Con suo marito le cose andavano bene. Anzi, benissimo. Era dispiaciuta del fatto che le cose non andassero altrettanto bene con Kohei: suo figlio era diventato sfuggente e silenzioso. Ei era sempre stata abituata a sentirlo leggere ad alta voce, a fare ragionamento a volte astrusi, ma sempre molto interessanti e profondi. Forse era l’adolescenza ed era inevitabile. Inevitabile che si creasse un distacco tra lei e suo figlio, che non era più un bambino, che un giorno sarebbe diventato un uomo. Questa era una cosa che aveva sempre saputo, ma ora quella consapevolezza pulsava e faceva male in modo atroce. Entrò in cucina, dove riconobbe subito le spalle larghe e sicuro di suo marito. E sorrise. Notò, subito dopo, che Yasutora però non era solo. Kohei se ne stava accanto a lui, tutto concentrato stava decorando quella che sembrava essere una torta. Il che era stupefacente, perché Kohei odiava sporcarsi.
«Che cosa state combinando voi due?» domandò. Kohei si voltò a guardarla, nascondendo il sac a poche dietro la schiena.
«Umh, niente. Sei tornata prima, dovevi tornare tra venti minuti, almeno» borbottò Kohei, meticoloso come al solito. Anche perché, in questo modo, poteva dire addio all’effetto sorpresa.
«Sì, è vero. Ma che succede?» chiese Karin guardando Chad con aria interrogativa. Quest’ultimo allora pensò da dove posso cominciare? Ah, sì. Kohei è venuto da me dicendogli che dispiaceva averti trattato così mae e che voleva farsi perdonare. Così ha deciso di preparare il tuo dolce preferito, anche se le fragole non gli piacciono e odia sporcarsi. Questo però non lo disse, lasciò che fosse Kohei a esprimersi. Suo figlio stava diventando ogni giorno più bravo e trovare nuovi modi per esprimere ciò che sentiva.
«È un dolce per te. L’ho preparato io. Papà mi ha aiutato. Un pochino. Il fatto è che… beh! Io non sono mica una persona violenta. Papà mi dice sempre che bisogna usare la forza per difendere chi amiamo, non per fare male. Questo è il punto. Oggi ho chiesto scusa a Naoko, quindi chiedo scusa anche a te. Non volevo essere aggressivo. Quindi ho fatto questa torta. Ho misurato tutto alla perfezione.»
Chad alzò gli occhi al cielo, ma sorrise. Kohei era davvero meticoloso in tutto, però era stato divertente. Gli sarebbe piaciuto fare tante altre cose con lui. Karin li guardò e poi sentì gli occhi divenire lucidi. Aveva tragicamente pensato che suo figlio l’avrebbe amata sempre di meno fino ad allontanarsi del tutto, un processo inevitabile che a quell’età avveniva fino a proseguire nell’adolescenza. Ma ecco che suo figlio la sorprendeva con semplicità. In questo non era mai cambiato.
«Avete fatto questo per me?» gemette. Kohei annuì.
«Però non piangere. Non vorrei fare piangere più nessuno, va bene?» domandò, rosso in viso. Kohei era un animo buono e sensibile, che stava cercando di dimostrare affetto attraverso piccoli gesti significativi. Karin lo abbracciò e Kohei fu davvero felice di ricambiare: aveva temuto che sua madre non gli volesse più bene, che magari preferisse un figlio normale, o migliore.
«Piango perché sono felice. A vote capita» Karin sorrideva e lacrimava.
Chad li abbracciò entrambi e guardò suo figlio. Spesso aveva pensato che non gli somigliasse moto, ma ora era costretto a ricredersi: Kohei gli somigliava tanto.

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Capitolo 30
*** Capitolo trenta ***


«Buongiorno, amore mio. Come ti senti stamattina?»
Tatsuki non era conosciuta per essere un tipo dolce o affettuoso, ma facevano eccezione i suoi figli e suo marito. Grazie ad alcuni farmaci, Uryu stava ricominciando a dormire la notte, anche se la mattina era sempre faticoso svegliarsi. Ma Tatsuki allora si avvicinava e lo accarezzava con dolcezza.
«Ho solo un leggero ma di testa» biascicò Uryu, godendosi le sue carezze. Dire che stava bene sarebbe stata una bugia, ma pian piano stava avanzando verso la via dea guarigione. Alcuni giorni erano terribile e aveva l’impressione di cadere e di non far nessun progresso. Alcuni giorni andava molto meglio. Da quando lui e Yuichi si erano chiariti le cose erano migliorate ancora. Tatsuki sorrise, accarezzandogli la testa. C’era stato un momento in cui aveva visto suo marito così fragile che aveva temuto non si rialzasse più. Invece Uryu, pian piano e a volte arrancando, continuava ad avanzare sostenuto dalla gente che lo amava.
«Capisco» rispose Tatsuki, fermandosi con la mano sul suo viso. Alle volte, se si soffermava a pensare al dolore de suo amato, le veniva voglia di spaccare il mondo, e magari anche la faccia del maledetto che lo aveva fatto soffrire. Altre volte invece le veniva da piangere e basta, ma poi puntualmente si diceva che voleva essere un sostegno per lui, non un ulteriore peso. Uryu lo sapeva: conosceva da una vita sua moglie, ne conosceva il carattere forte e le fragilità. Strinse la mano poggiata sulla sua guancia e la guardò negli occhi.
«Dimmi, Tatsuki. Hai mai provato compassione per me?» domandò Uryu. Orgoglioso per com’era, sarebbe stato per lui un grave affronto, tuttavia sentiva il bisogno di conoscere la verità. Tatsuki corrugò a fronte.
«No! Ma cosa ti viene in mente? Non proverei mai compassione per te. Solo che… mi dispiace» abbassò la testa e lo sguardo.
«E perché ti scusi? Non sei stata tu a farmi del male.»
«Mi scuso perché non posso fare niente per guarirti» ammise. Soffrire era terribile, ma esisteva un altro tipo di dolore: vedere a persona che amavi in preda alla disperazione. Uryu allora l’abbracciò. Lui la capiva. Le era stato accanto durante il periodo di depressione post-parto quando avevano avuto Yuichi. L’aveva quasi persa e poi si erano ritrovati. Avevano avuto una bellissima bambina e ancora, dopo moti anni, continuavano ad amarsi. Nessuno meglio di lui poteva capirla.
«Tu mi guarisci già ogni giorno» le confessò. Tatsuki spalancò gli occhi e avvertì un certo vigore nel suo abbraccio. Ma non solo. Sentì la voglia e il bisogno che Uryu aveva di stringerla. Lo stesso bisogno che aveva lei. Era da un po’ che non facevano l’amore, non c’era stato il modo, né il tempo. Ma ora, avvolti ne silenzio della loro casa appena dopo il risveglio, lo volevano entrambi.
«Uryu» gemette il suo nome e poggiò la fronte sulla sua. E poi si baciarono. Forse avrebbero fatto entrambi tardi al lavoro, ma andava bene così. Non esisteva modo migliore di guarirsi e consolarsi che quello.
 
Yuichi si era svegliato presto. Quasi intuendo la sacralità del momento tra i suoi genitori, non aveva fatto domande né li aveva cercati. Piuttosto si era occupato di Yoshiko, svegliandola e preparandole da mangiare.
«Pecché mamma e papà non mangiano con noi?» domandò Yoshiko.
«Credo stiano riposando. Non ti piace mangiare con me?» chiese Yuichi.
«Siii. Yuichi, allora tu sei fidanzato con Masato? Quando vi sposate?»
Yuichi arrossì davanti a quelle domande così dirette e innocenti. Yoshiko adorava Masato, gli girava sempre attorno quando veniva a trovarlo.
«Non lo so, siamo ancora giovani. A te piacerebbe se ci sposassimo?»
Yoshiko annuì, gonfiando le guance mentre mangiava.
«Sì. E anche a mamma e papà. Loro sono contenti, io lo so, perché io li ho sentiti pallare. Anche io mi voglio fidanzare.»
Yuichi sorrise e accarezzò la testa di sua sorella.
«Un giorno anche tu troverai una persona che ti ami.»
Yoshiko arrossì e sorrise. Yuichi tornò a prepararsi per la sua mattinata a scuola, quando ricevette un’inaspettata visita dai suoi nonni. Sia Ryuken che Kanae erano rimasti accanto al figlio con discrezione, senza soffocarlo e con anche la paura che Uryu ce l’avesse a morte con loro per non aver saputo gestire la cosa nel modo migliore. Anche se ancora si chiedevano quale avrebbe potuto essere il modo migliore per evitargli dolore.
«Nonnooo, nonnnaa! Ma siete qui presto, non c’è una festa oggi» gridò Yoshiko correndo incontro ai due. Kanae la prese in braccio e a spupazzò per bene.
«Yuichi, tesoro. I tuoi non sono già usciti, vero?»
«A dire il vero sono ancora chiusi in camera» si limitò a rispondere mentre finiva di pulire l‘ultimo piatto. Dovette passare qualche minuto prima che Uryu e Tatsuki uscissero dalla loro camera da letto, con il viso un po’ arrossato e gli occhi lucidi e brillanti, come quelli di tutte e persone che si amano.
«Mamma, papà» disse Uryu guardandoli. «Non vi aspettavo.»
Ryuken dissimulò l’imbarazzo tossendo e intuendo di essere arrivato in un momento un po’ particolare.
«Scusate l’improvvisata. Volevamo sapere come stavi.»
Uryu, da che sorrideva stretto a sua moglie, divenne un po’ più serio.
«Oggi è uno di quei giorni buoni.»
Calò il silenzio, mentre Yuichi prendeva Yoshiko per mano e la portava con sé nella sua cameretta per aiutarla a vestirsi. Kanae si avvicinò a suo figlio, al bambino che non aveva protetto e che era oramai diventato uomo.
«Uryu. Tu pensi che riuscirai mai a perdonarci?»
Uryu aveva provato tante emozioni in quegli ultimi mesi. La rabbia per ciò che gli era capitato e per esserne stato tenuto all’oscuro per tutti quegli anni. Il dolore quando poi aveva iniziato a ricordare. Il senso di sconfitta. Poi si era posto tante domande: come avrebbe reagito lui al posto dei suoi genitori? Esisteva davvero il modo giusto e il modo sbagliato per approcciarsi a certe situazioni? E quindi, anche se in parte ce l’aveva con loro, non riusciva comunque a odiarli.
«Avrei preferito rendermi conto prima di ciò che mi stava accadendo. Ma non ce l’ho troppo con voi. Anche se la mia fiducia non è più totale come prima, per ovvi motivi.»
Si sistemò gli occhiali sul naso e per un attimo sembrò tornato l’Uryu di sempre, quello sempre razionale e che affrontava tutto senza mai scomparsi. Ryuken annuì, socchiudendo gli occhi.
«Mi sembra il minimo.»
Kanae singhiozzò. Non era triste, era solo fiera. Perché in fondo, quel bambino tanto traumatizzato era riuscito a diventare un uomo di cui essere fieri. Il dolore a volte non si superava, lasciava cicatrici indelebili. Ma non per questo era impossibile andare avanti.
«Mamma, non piangere. Non miravo certo a questo» sospirò. Lei si asciugò una lacrima.
«Mi dispiace. Pensavo solo che… insomma, eccoti qua. Sei diventato un uomo estremamente forte.»
Uryu avrebbe voluto dire che lui forte non ci si sentiva per niente. Che anzi si sentiva molto fragile, in un modo che non aveva creduto possibile. Che la sua forza la trovava nella gente di cui si circondava tutti i giorni. Tatsuki strinse il suo braccio e poggiò la testa sulla sua spalla.
«Non conosco nessuno più forte di te» gli sussurrò. Forse lei al suo posto sarebbe crollata senza mai rialzarsi, chissà. Lui invece era lì, che arrancava ma non molava. Uryu chiuse gli occhi e si lasciò stringere. Era proprio quella la forza di cui aveva bisogno.
 
Al St. Luke era una giornata piuttosto tranquilla. Questo se si escludeva la squillante voce di Natsumi, che aveva poggiato le mani sulla schiena de suo fidanzato.
«Avanti, Hanataro. Non fare il codardo e va a parlare con lui. Cosa vuoi che succeda?»
Hanataro Yamada non aveva certo smesso di essere timido. Di solito era bravo a scusarsi per tutti, anche quando non aveva colpa. Ma ora si sentiva proprio un cretino per avercela avuto con Akon per tutto quel tempo e senza motivo.
«V-va bene, ho capito, ora vado! Sei davvero terribile, a volte»
«Modestamente lo so. Avanti, su» fece dandogli una spintarella. Hanataro deglutì pesantemente e si avvicinò al collega, intento a parlare con Ichigo.
«E-ehi» salutò.
«Ciao, Yamada senpai. Come sei rigido, stai bene?»
Hanataro annuì e guardò Akon. Non sembrava avercela con lui, in realtà Akon gi sembrava incapace di portare rancore a chicchessia. Questo però non faceva che peggiorare la situazione. Hanataro si inchinò.
«Perdonami, Higarashi! Non avrei mai dovuto farti quella scenata solo perché ero invidioso e insicuro! È vero, tu sei talentuoso pur essere più giovane, la realtà dei fatti è questa. Sono desolato.»
Ichigo si portò una mano tra i capelli, un po’ in imbarazzo. Un discorso davvero pieno di passione. Ma imbarazzante, soprattutto per Natsumi che faceva il tifo da lontano. L’unico a non essersi scomposto era proprio Akon.
«Per favore, senpai. Non c’è bisogno di inchinarsi in questo modo. Io non ce l’ho con te. Però avevo il presentimento che non mi sopportassi, quindi cercavo di non infastidirti.»
Hanataro gli afferrò e mani.
«È vero, non ti sopportavo a causa della tua bravura. Ma ora ho capito che possiamo essere bravi entrambi. Magari potremmo essere amici. Sono così contento che tu non mi serba rancore» e poi prese a piagnucolare com’era solito a fare.
Una scenetta davvero deliziosa, che divertì Ichigo. E fu anche uno dei pochi a farci caso. Il dottor Kurotsuchi stava parlando in modo fitto con sua moglie. Quei due sembravano due fidanzatini a giudicare dal modo in cui si parlavano. Qualsiasi momento di crisi avessero attraversato, era stato superato. Senjumaru Shutara non si mostrava da un po’ (da quando Nemu l’aveva affrontata), ma quel giorno si era presentata in reparto lasciando da parte e cattive intenzioni. Questo ovviamente non potevano saperlo né Mayuri né Nemu, i quali la guardarono con una certa diffidenza quando la videro entrare.
«Che sguardo omicida, vengo in pace.»
«Certo, come no. Cosa sei venuta a fare qui?» domandò Mayuri, al quale bruciava ancora un pochino nell’orgoglio il fatto di non essersi difeso da solo. Senjumaru aveva però uno sguardo diverso, non c’era malizia né voglia di creare conflitti. Sembrava davvero intenzionata solo a parlare e Nemu non si sentiva minacciata.
«Beh, devo dire che sono rimasta sorpresa da te, Nemu. In pochi trovano il coraggio di affrontarmi, dicono sempre che li metto in soggezione, e come dar loro torto?» mi passai una mano tra i capelli. «Devo ammetterlo, quando mi hanno trasferita in quest’ospedale, ho pensato che sarebbe stato interessante rincontrarci, Mayuri.»
Quest’ultimo alzò gli occhi al cielo.
«Ti prego. Mi hai tradito anni fa. Non mi dire che dopo tutto questo tempo hai cambiato idea.»
«Oh, no. Non ho cambiato idea. Ma mi sono chiesta come sarebbero andate le cose in circostanze diverse. Ovviamente sapevo che eri sposato, ma non contavo sul fatto che fossi così innamorato.»
Mayuri arrossì, colto ne vivo. Non era un segreto che amasse sua moglie, ma che la sua ex lo dicesse così ad alta voce…
«Quindi in pratica eri venuta qui per diventare la mia amante? E da quando ti abbassi a tanto?» domandò Mayuri. Nemu invece non parlava, si limitava ad ascoltare. Nemu che aveva capito molto bene quella donna: Senjumaru amava conquistare e sentirsi invincibile. Riconquistare un uomo come Mayuri, diffidente e poco incline ai sentimentalismi, sarebbe stata una vittoria.
«Amante? Ho sempre pensato che noi due fossimo molto simili. Ed è vero. Siamo geniali, intraprendenti, non ci fermiamo davanti a niente. Però…» e dicendo ciò guardò Nemu negli occhi. «Forse una persona come noi ha bisogno di qualcuno di diverso accanto che ci equilibri.»
Nemu arrossì e strinse la mano di suo marito.
«Io e Mayuri stiamo insieme perché ci amiamo, a prescindere dal nostro carattere e ambizioni.»
E Senjumaru dovette constatare che sì, quei due si amavano eccome. Anche le persone più geniale e che si diceva incline ai sentimenti, poteva innamorarsi. Mayuri si schiarì la voce, in imbarazzo.
«Già, per l’appunto, ma ora che abbiamo chiarito questo, che succede?»
Senjumaru fece spallucce.
«Nulla, ero venuta solo per chiarire che non ho più intenzione di arrecare disturbo. Come ho detto, Mayuri è fin troppo innamorato di te. È proprio vero che per uno come lui ci vuole proprio una donna come te.»
Quello di Senjumaru sembrava voler essere un complimento, ma Nemu non fece domande. All’improvviso quella donna non le sembrava più minacciosa o irraggiungibile. Era un essere umano come tutti. Mayuri tossì ancora per dissimulare l’imbarazzo.
«D’accordo, ma questo vuol dire che non lavorerai più con noi? Il tuo cervello ci è utile.»
Senjumaru sorrise e poi diede loro le spalle.
«Ma certo che lavorerò con voi. Non sarei professionale se vi mollassi così, non credi?»
«Sono sicura che sarete un’ottima squadra» commentò Nemu, tranquilla e soddisfatta. Non aveva più niente da temere. In realtà non aveva mai avut niente da temere.
Guardò suo marito e gli sorrise. E anche lui le concesse uno di quei suoi rari sorrisi.
 
«Yoruichi, ma sei proprio sicura che vuoi che venga anche io?»
«Eh? Ma dai, hai fatto tante storie e adesso hai paura? Kisuke si è dimenticato il pranzo e lo sai che se non mangia poi non riesce a connettere. Dobbiamo solo portarglielo insieme.»
Yoruichi trovava Soi Fon davvero carina quando era impaurita. Piccoli passi erano i più importanti in una reazione, specie in una come la loro. La gente avrebbe posto domande? Avrebbe chiesto chi era quella ragazza che si accompagnava ai due coniugi? E Yoruichi e Kisuke l’avrebbero davvero presentata come loro compagnia? Quasi non le sembrava possibile, ma Yoruichi a stava spingendo verso l’ascensore. Quando e porte di quest’ultimo si aprirono, Yoruichi salutò tutti e Soi Fon si accodò timidamente a lei. Kisuke sorrise con gli occhi luminosi quando vide le sue due donne.
«Oh, mi avete portato il pranzo. Non era necessario.»
«E saperti mangiare schifezze? No grazie, hai bisogno di energie. E poi lo abbiamo preparato io e Soi Fon insieme.»
Dicendo ciò diete una gomitata alla ragazza.
«Eh? Ah, sì.»
«Oh, giuro che vi riempirei di baci, ma siamo in un luogo poco consono!» rise Kisuke. E poi fece segno a Mayuri e Nemu di avvicinarsi. «Ehi, voi due! Venite qui un momento.»
Soi Fon si irrigidì. Conosceva quei due, erano i migliori amici di Yoruichi e Kisuke. Sarebbero stati anche suoi amici?
«Oh, ciao» salutò Nemu. Mayuri guardò Soi Fon, che aveva già visto, ma con cui non aveva ancora mai parlato.
«La vostra convivenza è diventata permanente?» domandò Nemu, che invece non immaginava cosa ci fosse dietro.
«A dire il vero, Soi Fon è la nostra compagna. Volevamo foste i primi a saperlo.»
Soi Fon arrossì dalla testa ai piedi. Oh, era proprio successo, aveva ufficializzato la loro relazione. Nemu sgranò gli occhi.
«Cioè… tutti e tre insieme? Una relazione poliamorosa.»
«Eh già» disse Yoruichi. «Vi sembra strano?»
«Tsk, esistono cose ben più strane di queste» Mayuri guardò Soi Fon. «Buona fortuna, non sono due tipi facili. Kisuke soprattutto.»
Quest’ultimo si mise a ridere.
Era stata una bella sensazione, quella di uscire allo scoperto. Poco importasse che la loro non fosse una relazione convenzionale. Si amavano e avrebbero provato a costruire qualcosa di bello insieme.
 
 
«E così adesso tu e il ragazzino andate d’accordo? D’accordo completamente?»
Hiyori stava pulendo la sua batteria, mentre Shinji la guardava e sorrideva.
«D’accordo completamente. È come se fosse cresciuto. E sono cresciuto anche io. Adoro quel ragazzino. E adoro la nostra Miyo. Diventerà una ragazza e poi una donna meravigliosa» sussurrò, cercando di non commuoversi.
Hiyori fece una smorfia.
«Oh, non piagnucolare. Che dici? Pensi che abbia già un fidanzato? O una fidanzata?»
«Non che io sappia. Ma non corriamo troppo, ti prego» disse esasperato. Non era ancora pronto a questo, ma sapeva che prima o poi sarebbe successo. Miyo era bella, intelligente e sensibile, praticamente impossibile non amare. Sentì dei rumori fuori a porta e pensò si trattasse di Sosuke che era venuto a prenderlo. Invece si sorprese quando vide Toshiro fare capolino insieme a Momo.
«Voi due?» chiese Shinji. «È tutto a posto? Hayato non è scappato di nuovo, vero?»
«Cosa? No, non è scappato. In verità eravamo venuti qui per ringraziarti. Cioè…Momo lo ha già fatto, ma io volevo ringraziare te, ecco» borbottò arrossendo. «Se non fosse stato per te, io e Hayato non ci saremmo mai trovati.»
Momo annuì.
«Sei una brava persona, Shinji. Capisco perché Sosuke si sia innamorato di te.»
Shinji arrossì, distogliendo lo sguardo. Troppi complimenti tutti in una volta.
«A-Andiamo, ora non esagerare. Hayato aveva solo bisogno di lasciarsi andare. È pur sempre figlio di suo padre, sono abituato» disse alzando gli occhi al cielo. Momo si mise a ridere.
«Dovremmo uscire, qualche volta. Sì, so che è strano perché sei sposato con il mio ex marito… ma la nostra situazione normale non lo è mai stata e visto che condividiamo dei figli, allora…»
Certo, sarebbe stato interessante e divertente un’ipotetica uscita a quattro. Ma oramai Shinji credeva non ci fosse più niente di impossibile.
«Sì, si può anche fare.»
«Oh» disse ad un tratto Hiyori. «Shinji è cresciuto veramente. All’alba dei suoi trentatré anni, ma ce l’ha fatta.»
«Oh, sta zitta tu» borbottò lui. Toshiro sorrise a strinsi le spalle di Momo, abbassando lo sguardo sul suo ventre. Non vedeva l’ora di conoscere il bambino che di lì a qualche mese sarebbe arrivato. Di sicuro in una famiglia come la loro non ci si annoiava mai.
 
Byakuya era andato a trovare sua sorella al lavoro. Non era una cosa che faceva spesso, però era bello e malinconico vedere quei bambini adorabili, che si erano dimostrati un po’ intimoriti dalla sua presenza. Quando Yumichika l’aveva saputo era voluto venire anche lui, perché non aveva certo abbandonato l’idea di adottare un bambino. E Natsumi era stata ben felice di presentargli tutti i piccoli che vivevano in quella casa-famiglia. Nel mentre, Byakuya stava parlando con sua sorella.
«Così tra te e Ichigo…» disse, senza continuare a frase. Era ovvio che le cose andassero moto meglio. Rukia arrossì, sembrava una ragazzina.
«Abbiamo fatto pace, sì. Non so, mi sento come se ci fossimo ritrovati. Questo è bello… meraviglioso. E giuro, non voglio più sprecare tempo ad avere paura o a nascondere. Ho capito che perfino il dolore deve essere vissuto fino in fondo e che può essere meno doloroso quando hai accanto qualcuno che ami.»
Byakuya si ritrovò d’accordo. Lui e Rukia avevano avuto la fortuna di trovare le loro anime gemelle. Erano molto più simil di quanto potesse sembrare.
«Ne sono davvero felice. Io e siamo diversi Rukia. Almeno ad un primo sguardo. Perché poi, in realtà, risultiamo molto simili.»
Rukia sorrise e poi fece qualcosa che aveva sempre fatto raramente. Abbracciò suo fratello. Sorpreso, Byakuya arrossì, ma si lasciò abbracciare e ricambiò la stretta. Poi sentì qualcosa aggrapparsi alla sua gamba. Abbassò lo sguardo e si accorse che si trattava di una bambina, doveva avere quattro o cinque anni.
«Oh, Mirai» sospirò Rukia. «Ecco dove ti eri cacciata.»
La bimba però era del tutto rapita da Byakuya.
«Chi sei tu?» domandò indicandolo con il dito.
Byakuya si schiarì la voce.
«Sono Byakuya… il fratello di Rukia» disse, sorprendendosi di scoprirsi timido. Sua sorella era bravissima con i bambini, non era un caso che facesse quel lavoro. A lui piacevano anche, ma era molto più impacciato.
«Oh, Mirai è una delle bambine più vivaci, qui dentro. Ed è un vero tesorino» disse dolcemente Rukia. Mirai arrossì e arricciò il naso.
«Io non sono un tesorino, io sono tostissima. Non ho paura di niente io, nemmeno del buio. E l’altro giorno sono caduta dal muretto e mi sono fatta male al ginocchio. Ma non ho pianto nemmeno un po’. Solo un pochino, ma di nascosto!»
Byakuya sgranò gi occhi e poi si ritrovò a sorridere.
«Devi avere un certo caratterino… Mirai. È un bellissimo nome.»
La bimba sorrise.
«Grazie, anche il tuo è piuttosto carino.»
Rukia rimase in silenzio e sentì in cuor suo di stare assistendo a qualcosa di straordinario. Byakuya guardò ancora una volta la bambina e poi si sforzò di tornare alla realtà.
«Adesso farò meglio a tornare da Renji. E magari mi porto dietro anche Yumichika, altrimenti potrebbe rapire qualche bambino.»
Rukia rise e, prima che potesse parlare, Mirai si fece avanti.
«Mi verrai a trovare di nuovo, Byakuya?»
Lui poggiò la mano sulla sua testa.
«Sì, Mirai. Credo proprio di sì.»
Anzi, stava già progettando di tornare presto. E magari anche in compagnia.
 
Dopo aver trascinato via Yumichika da lì (il suo amico era entrato in brodo di giuggiole davanti a quegli adorabili bambini), Byakuya era passato dall’officina da Renji e, senza troppe cerimonie, gli aveva detto stasera ceniamo fuori.
Renji non aveva fatto domande, era anzi stato felicissimo di prendersi una pausa dai preparativi per il matrimonio. Così, dopo una doccia, si era legato i lunghi capelli, si era ben vestito e poi era uscito con il suo futuro marito. Alle dita di entrambi luccicavano le fedi che si erano regalati l’un l’altro. Renji trovava che il suo fidanzato fosse strano quella sera. Una certa luce era nei suoi occhi, come se avesse acquisito una consapevolezza nuova.  Il fatto era che le parole di Rukia avevano sortito un certo effetto. Non voler perdere tempo ad avere paura e nascondere. Certo, lui aveva perso Hisana. Questo non voleva dire che era destinato a perdere anche Renji. E poiché era tutto un’incognita nella vita, tanto valeva essere del tutto onesti. Fu mentre Renji parlava, seduto davanti a lui davanti ad un piatto di tartare, che Byakuya prese la sua mano all’improvviso.
«Renji.»
«E-eh?» mormorò lui, un po’ in imbarazzo. Byakuya sospirò.
«Mi dispiace se come al solito ti ho reso tutto più difficile. Ho un carattere tutt’altro che facile.»
«Dai, ma cosa sono questi discorsi? È vero, non hai un carattere facile, ma questo lo sapevo già. Posso assicurarti che ogni sforzo ne vale la pena.»
«Sono felice che lo pensi. E grazie per aver accettato di sposarmi. E per avermi amato ancora prima che io fossi capace di amare te.»
Le loro dita si strinsero le une alle altre e all’improvviso sembrò che tutta la gente attorno a loro fosse sparita. Esistevano solo loro due e nulla più.
«Amarti è stato facile. Però, stasera sei loquace. È successo qualcosa di diverso, oggi?»
Byakuya alzò gli occhi al cielo e pensò alla piccola Mirai.
«Direi di sì. C’è una persona di cui vorrei parlarti.»
 
 
 
Rukia e Ichigo tornarono a casa insieme quella sera. Era nata una nuova complicità ed erano tornati un po’ i ragazzini di vent’anni prima. Innamorati. Non che avessero mai smesso, ma ora avevano una consapevolezza diversa. Forse non si finiva mai di conoscere una persona, ma Rukia in quel momenti si sentiva totalmente esposta e non ne aveva paura. I loro figli avevano notato quel cambiamento in positivo, e ne erano felici. Quei giorni di tensione erano stati duri, sia per Masato che per Yuichi. Il primo adesso ridacchiava davanti agli sguardi innamorati dei suoi genitori, Kaien invece distoglieva lo sguardo in imbarazzo. Ichigo e Rukia avevano preso una decisione importante: pensavano che loro figlio meritasse di conoscere il vero motivo che si celava dietro al nome. Rukia aveva tenuto tutto nascosto per così tanto tempo, che ora sentiva di volersi liberare di tutto. Ichigo si era ritrovato d’accordo e stava oramai venendo a patti col fatto che Rukia aveva amato un altro uomo, una volta. Ma anche che la loro fiducia poteva essere ricostruita, bastava partire dalla base.
«Kaien, sai perché ti abbiamo dato il tuo nome?» domandò Rukia quella sera a cena. Ichigo guardò sua moglie, conosceva lo sforzo che le portava quel gesto.
«Un cugino di papà si chiamava Kaien, no? È morto giovane» rispose il ragazzino. Masato ascoltò interessato.
«Vero» confermò Ichigo. «Quello che non sai, è che Kaien e tua madre sono stati insieme, tanti anni fa, prima che noi due ci conoscessimo»
Aveva deciso di dirlo ad alta voce perché quando si diceva qualcosa ad alta voce, faceva un po’ meno paura. E meno male. Fu vero anche in quel caso. Kaien inarcò le sopracciglia. Era sorpreso ma neanche tanto. Anzi, ora che sapeva ciò, tutto iniziava ad avere più senso.
«Sei stata assieme al cugino di papà? E mi hai chiamato come lui? Allora… lo amavi molto?»
Porse quella domanda con discrezione e timore. Sembrava di fare un torto a suo padre, ma Ichigo era sereno.
«È vero, l’ho molto amato. Ho sempre detto che mi sarebbe piaciuto dare il suo nome al mio eventuale figlio. Così ti ho chiamato come una persona a cui tenevo, in suo onore.»
Masato gonfiò le guance.
«Il mio nome non ha una storia così incredibile, dietro.»
«Ehi, ma se l’ho scelto io» borbottò Ichigo offeso. Kaien sembrò molto interessato. Chissà com’era questa persona da cui aveva preso il nome?
«Lui com’era? Cioè, spero fosse un tipo forte, ecco»
Rukia sorrise.
«Lo era molto. E anche di buon cuore e coraggioso.»
La sensazione che provava era dolce e amara. Lo erano i suoi ricordi, ma era anche bello poter parlare liberamente. Ichigo strinse la sua mano. E pensò che alla fine lui e suo cugino erano stati simili anche in un’altra cosa: si erano innamorati di una donna magnifica.

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Capitolo 31
*** Capitolo trentuno ***


Anche se passavano i mesi, una cosa rimaneva sempre uguale: Shinji faticava a carburare la mattina. Forse stava iniziando ad invecchiare, ma ogni volta ricacciava il pensiero. Alcune cose però erano cambiate eccome e lo intuì soprattutto quando arrivò in cucina. Hayato se ne stava seduto al tavolo, imbronciato ma con un’espressione severa. Miyo invece si era svegliata presto e aveva preparato la colazione per tutti.
«Finalmente, pa’! Fatichi sempre a svegliarti la mattina.»
Lui arrossì, strofinandosi un occhio.
«Non è colpa mia, il mio è un lavoro che mi fa stare sveglio la notte. Voi piuttosto, perché siete già svegli?»
Hayato fece spallucce.
«Lei voleva preparare la colazione, io ho aiutato.»
«Sì, aiutato come? Hai solo mangiucchiato un po’!» protestò Miyo, puntandogli contro un mestolo. Miyo e Hayato avevano oramai quattordici anni. Lui era alto per la sua età, somigliava sempre di più a Sosuke. Ma stava imparando ad avere il sorriso dolce di sua madre. Miyo era rimasta sì minuta e bassa, ma era sbocciata, anche s lentamente. Portava i capelli un po’ più corti e il suo sorriso risultava attraente. Shinji quasi si sentiva un vecchio stupido malinconico a guardarli: era inevitabile che crescessero. Sosuke entrò in cucina, già ben vestito e pettinato come al solito.
«Ma che buon profumo e che ottimo risveglio» disse andando subito a posare un bacio sulla testa di Shinji. Quest’ultimo fece una smorfia rassegnata.
«I nostri figli crescono.»
Hayato alzò gli occhi al cielo.
«Ti prego, non ricominciare. E poi io sono sempre lo stesso, al massimo è Miyo ad essere cambiata. A scuola ha una fila di corteggiatori.»
Hayato sapeva che dirlo avrebbe mandato in crisi Shinji e questo era uno spettacolo che lo divertiva abbastanza. Miyo arrossì e drizzò le spalle. Vero, molti ragazzi le si erano dichiarati e ciò le aveva fatto immenso piacere. Ma almeno al momento non aveva ancora trovato la sua persona giusta. E le andava bene così, aveva i suoi amati libri e i suoi amici.
«Oh, Hayato. Dovevi proprio dirlo?»
Shinji si guardò attorno e poi sorrise nervoso.
«Corteggiatori? E chi sono? Quanti anni hanno? E tu… c’è qualcuno che ti piace?»
Miyo arrossì.
«Non c’è nessuno! E poi, calma. Sono una persona giudiziosa, non vado mica con il primo che mi capita. Ho degli standard… piuttosto alti» disse facendo inconsapevolmente uno di quei sorrisi attraenti che tanto conquistavano. Beh, era normale che Miyo piacesse, pensò Shinji con un certo orgoglio. Però si sentiva sempre più vecchio.
Hayato scosse la testa.
«Allora, vogliamo mangiare?»
La famiglia si sedette a tavola, ma mentre mangiavano Hayato sentì il suo telefono squillare. Subito era saltato su per prenderlo e rispondere. Era stato in allerta in quei giorni perché il suo fratellino sarebbe dovuto nascere in quei giorni. E quando Toshiro gli disse che il momento era arrivato, Hayato quasi cadde dalla sedia.
«Sta nascendo! Dobbiamo andare in ospedale.»
«Siii! Questo sì che è eccitante» disse Miyo. Shinji guardò Sosuke.
«Aspetta, anche noi?»
«Di certo non possono andarci da soli, caro il mio Shinji» rispose suo marito.
 
 
Era una delle cose più belle che avesse mai visto. Toshiro stringeva tra le braccia suo figlio, un neonato di tre chili che dormiva tra le sue braccia. Ed era assolutamente perfetto. Momo era stata straordinaria e aveva messo al mondo un bambino sano e  forte a cui era stato dato il nome di Kaito. Mi piace come suona accanto ad Hayato, aveva detto Momo, e Toshiro si era ritrovato d’accordo. Fu quindi con grande orgoglio che presentò il bambino al fratello.
«Hayato, ti presento Kaito» gli disse, non riuscendo a nascondere l’emozione. Il ragazzo era rimasto stupito di fronte quel neonato che aveva temuto e in parte anche detestato, all’inizio. Doveva ammettere che era la cosa più carina che avesse mai visto, senza nemmeno un capello in testa e quelle mani paffute. Ed era suo fratello.
«È carinissimo» disse Miyo stringendo il braccio di Hayato. «Non è vero?»
Hayato guardò a lungo il suo fratellino. E non si sentì affatto geloso o messo da parte. Anzi, si sentì intenerito. Lui!
«Sì, è molto carino. Mia madre come sta?»
«Sta bene, è stata molto brava. Se vuoi puoi tenerlo in braccio.»
Miyo andò fuori di testa all’idea di vedere Hayato con un neonato in braccio e lo stesso ragazzo non si oppose, anche se era in imbarazzo. Kaito era morbido e fragile, e lui impacciato. Ma nel momento in cui lo tenne in braccio capì che avrebbe voluto esserci per lui.
«Sono davvero fiero di lui» disse Sosuke a Shinji. I due guardavano la scena un po’ in disparte, giusto per lasciare ad Hayato un po’ d’intimità.
«Anche io» ammise Shinji. «Non mi ha sempre reso le cose facili. Ma l’ho amato fin da subito. Anche perché è tuo figlio, quindi in automatico è anche mio.»
Sosuke sorrise.
«Vedo che sei diventato più saggio e tenero.»
«Pff. Io sono sempre stato saggio. E tenero. Un pochino.  Ecco perché sono il padre preferito di Hayato. Me l’ha detto lui.»
Non gliel’aveva propriamente detto, ma Shinji aveva ben ragione di pensare una cosa del genere visto che Hayato oramai lo stimava e apprezzava totalmente. Sosuke si mise a ridere.
«Non posso dargli torto, sei anche il mio preferito»
Circondò le sue spalle con un braccio e si avvicinò per baciarlo. Ma vennero ben presto travolti da quell’uragano che era Rangiku.
«Permesso, permesso! Fatemi passare! Aaaah! Il bambino, com’è carino! Oh, Toshiro, non posso credere che tu abbia fatto un figlio. Sei cresciuto!»
«EH?!» esclamò lui, arrossendo. «Guarda che sono cresciuto da un pezzo, io.»
«Ti prego di scusarla» disse Gin. «È la più euforica di tutti per questa nascita.»
Da dietro di lui sbucò Rin. Hayato arrossì quando la vide, perché più il tempo passava e più Rin diventava bella. Anche lei era sbocciata come un fiore e si era lasciata alle spalle i suoi disturbi alimentari. Anche se spesso temeva ancora di ricadere in quel baratro fatto di incertezza e senso di nausea. Però andava avanti, scoprendo ogni giorno qualcosa per cui essere felice.
«Ciao, Hayato. Sei adorabile con un bambino in braccio.»
Hayato arrossì. Adorabile non era proprio il termine che avrebbe usato per riferirsi a sé stesso, ma se era Rin a dirlo, allora andava bene.
«G-Grazie.»
Rangiku tirò fuori la sua macchina fotografica.
«Vi prego, possiamo fare una foto?»
«Che? Ti sei portata dietro quell’affare di proposito?» chiese Toshiro sorpreso.
«Ovviamente, scusa!»
«Mamma, sssh» sussurrò Rin. «Così ti sentono tutti.»
Shinji si schiarì la voce.
«Beh, allora noi ci spostiamo.»
«Non ci pensare neanche! Dopotutto la nostra è una famiglia allargata. E noi saremo parenti probabilmente visto che un giorno mia figlia sposerà il tuo.»
Un tempo l’idea l’avrebbe preoccupata. Ma ora che Rin e Hayato si piacevano davvero, poteva permettersi di sognare. Aizen sospirò.
«Beh, se proprio dobbiamo.»
Hayato si ritrovò, suo malgrado, stretto tra Rin e Miyo, mentre stringeva tra le braccia goffamente Kaito. Avrebbe voluto dire al suo fratellino: questa è la nostra famiglia. Un po’ atipica e incasinata, ma a me piace. Piacerà anche a te.
Ma era come se il nuovo arrivato lo avesse già capito.
 
 
 
Prepararsi per un matrimonio portava sempre ad una confusione. Ma non era Neliel a causarla, lei era già pronta da un pezzo. Piuttosto era suo marito a perder tempo e la presenza di Shirai e Sun Ah rendeva solo tutto più divertente.
«Nnoitra, ascolta il consiglio di tua madre, quella cravatta scura ti sta molto meglio. Non è vero, Shirai?»
«… Per me è uguale, davvero.»
«Oh, ma insomma» borbottò Nnoitra in imbarazzo. «Alla mia età sono capace di vestirmi da solo. E Neliel, non ridere, sento che lo stai facendo!»
In effetti era difficile non ridere, suo marito sembrava un bambinetto adorabile.
«Mi dispiace, ma siete così buffi.»
«Buffi» borbottò Nnoitra sistemandosi il colletto. «Piuttosto, dov’è Naoko? Faremo tardi.»
«Ma Naoko non è in camera sua con Satoshi? Quel ragazzino è un vero tesoro» disse ingenuamente Sun Ah. A Nnoitra per poco non venne un colpo. Quando era arrivato Satoshi? E perché lui e sua figlia erano chiusi da soli in camera?
Neliel sospirò.
«Nnoitra, non cominciare, eh.»
Ma Nnoitra era già partito per la tangente.
Non che Naoko e Satoshi stessero facendo qualcosa di male. Semplicemente lui l’aveva trovata bellissima nel suo abito turchese. Lei allora si era avvicinata a lui per baciarlo. E così il bacio era divenuto profondo e intimo ed era stato inevitabile per loro finire avvinghiati a toccarsi e scoprirsi, cosa che negli ultimi mesi avevano preso spesso a fare. Satoshi stava mettendo da parte la sua timidezza… niente poteva fermarlo. Niente eccetto Nnoitra. Quest’ultimo aprì la porta ed ebbe un vero colpo al cuore quando li vide avvinghiati. Naoko s’indispettì.
«Papà, esci! O quanto meno bussa, un po’ di privacy!»
Satoshi si staccò da Neliel, spaventato dall’espressione di Nnoitra. Sapeva che lui lo teneva d’occhio.
«Non sono stato io!» gli venne da dire in modo istintivo. E si sentì molto stupido, perché ovviamente era stato lui.
Nnoitra si avvicinò a lui.
«Io giuro che ti uccido.»
 
Orihime trovò delizioso il giardino scelto da Byakuya e Renji per il matrimonio. Un posto tranquillo dall’atmosfera quasi bucolica avrebbe osato dire. Dei due sposi nemmeno l’ombra, chissà dove si erano cacciati. Mentre li cercavano, s’imbatterono in Uryu e Tatsuki. Il primo aveva fatto grossi miglioramenti negli ultimi mesi e sembrava molto più tranquillo e in salute. Yoshiko stava in braccio a lui, con addosso un adorabile vestitino rosa.
«Tatsuki, Uryu! Oh, ciao piccola Yoshiko. Dov’è Yuichi?» domandò Orihime.
«Credo sia da qualche parte con Masato. A entrambi piacciono molto i matrimoni.»
«Già, non mi sorprenderebbe se un giorno si sposassero loro. Sarebbe esilarante per noi due» ad aver parlato era stato Ichigo, che gli aveva appena poggiato una mano sulla spalla.
«Averti come consuocero? A questo punto mi chiedo perché no» ammise Uryu. Masato era un bravo ragazzo che di sicuro sarebbe stato un brav’uomo. E anche Yuichi. Gli piaceva pensare che in parte fosse merito anche loro. Yuichi era forte come Tatsuki, ma sensibile come lui. Era l’unione perfetta di loro due. All’allegro gruppo si unirono ben presto anche Nnoitra e Neliel e Grimmjow e Tia. Quest’ultima era incinta e poiché Grimmjow aveva preso molto sul serio il suo volere un figlio, aveva finito per donarle ben tre gemelli. Con gran stupore di Tia, che saputa la notizia gli aveva dato un pugno per poi spupazzarselo.
«Oh, Tia. Sei raggiante» disse Orihime.
«Sono enorme» sospirò lei. «Tre gemelli…tre! Com’è possibile?»
«Non avevi fatto i conti con super Grimmjow» si vantò il so compagno, ricevendo subito dopo un colpo sulla testa. Nnoitra tutto imbronciato guardò Ulquiorra. Neliel gli aveva impedito di uccidere Satoshi e lui non poteva dirsi soddisfatto.
«Ho quasi ucciso tuo figlio. L’ho trovato mentre…. No, non ci voglio pensare.»
«Temo dovrai fartene una ragione. Come sto facendo io. Beh, più o meno» ammise Ulquiorra. Mi chiedo piuttosto dove sia Kiyoko.»
 
Kiyoko si trovava in dolce compagnia di Kaien. In realtà i due, assieme a Masato e Yuichi, si erano allontanati per osservare gli alberi di ciliegio, ma poi avevano finito con il separarsi.
«Tu pensi che un giorno ti sposerai?» domandò Kiyoko guardando verso l’alto.
 «Mah, non lo so. Forse» borbottò Kaien. Guardò Kiyoko e trovò bellissimo il modo in cui la luce illuminava i suoi occhi, rendendoli ancora più verdi. Kiyoko allora lo guardò, rivolgendogli un dolce sorriso.
«Lo sai, Kaien? Fortunata chi ti sposa. Perché tu proteggi sempre le persone che ami. Anche io, per esempio, adesso mi seno protetta.»
Kaien arrossì. Prese la sua mano. E la guardò negli occhi. Per lui, avrebbe anche potuto sposarla subito. Forse era un pensiero sentimentale, ma era vero. Si sentiva innamorato e gli piaceva sentircisi.
«Kiyoko…»
Sentì delle risatine. Immediatamente Kaien saltò su un cespuglio, atterrando sia Masato che Yuichi.
«Cretini! Pensavo stesse facendo le vostre cose sconce da qualche parte.»
«Ahi!» si lamentò il fratello. «Ora non esagerate, non è che stiamo sempre a fare certe cose.»
Yuichi cacciò fuori la testa.
«Non che voi siate tanto meglio, comunque» borbottò. A Kaien venne un leggero tic all’occhio per il nervoso. Come osavano quei due metterlo in imbarazzo?
«Farete bene a correre, vi uccido tutti e due!»
 
«Vorrei tanto sapere perché siamo dovuti venire qui tutti insieme» sospirò Mayuri.
Non bastava il fatto che lui e Kisuke lavorassero insieme? O il fatto che i loro figli facessero oramai coppia fissa? No, ma certo che no!
«Oh, dai Mayuri. Non fare lo scorbutico, ti ricordo che fra qualche settimana partiremo. Non sei emozionato? Il nostro primo viaggio insieme.»
Il loro progetto sul dipartimento di ricerca e sviluppo si era allargato, coinvolgendo anche altri medici, perfino qualche scienziato. Ecco perché avrebbero partecipato ad un importante convegno. Il fatto che Senjumaru facesse parte di quel progetto non disturbava più tanto Mayuri, anche perché la sua ex aveva del tutto smesso di recargli disturbo. E, anzi, si era dimostrata una grande fonte per loro, a livello lavorativo.
«Non sono emozionato per niente. E staccati dal mio braccio. Nemu, non star lì a guardare, dammi una mano!»
Nemu però non poteva fare a meno di ridere, accanto a Yoruichi e Soi Fon.
«Ma siete così buffi»
«A volte mi sembrano due bambini» Yoruichi alzò gli occhi al cielo.
«A me piacciono. Si vede che si vogliono bene» commentò Soi Fon. Da qualche giorno il suo libro era stato pubblicano ed era ora con grande orgoglio oche la ragazza si definiva “una scrittrice impegnata, con una relazione impegnativa quanto soddisfacente”. In un modo o nell’altro, lei, Kisuke e Yoruichi stavano riuscendo a farla funzionare. Era strano, era come se fossero sempre stati destinati a stare insieme. Avevano solo dovuto fare un giro un po’ più lungo.
«… I nostri genitori alle volte mi mettono in imbarazzo» disse Yami sottovoce. Somigliava sempre più a Yoruichi ed era piuttosto fiero di ciò.
«Un pochino, ma li adoro anche per questo» disse Ai, sottobraccio al suo cavaliere Hikaru, tutto rosso in viso e ringalluzzito. Fu lo stesso ragazzo a fare un cenno con il capo.
«Guardate, c’è Natsumi con Hanataro.»
La ragazza, coloratissima come sempre con i suoi capelli azzurri e il vestito rosa shocking, si trascinò dietro il fidanzato e andò a spupazzarsi quei piccolini, che piccolini oramai non erano più.
«Però ragazze, siete uno schianto. E pure tu, Hikaru. Se avessi la tua età e fossi single ci proverei senza problemi!»
«E-eh?» balbettò Hanataro. «Oh, ma dai…»
Natsumi ad un tratto si guardò intorno.
«Ma piuttosto… che fine hanno fatto i due sposi?»
 
 
Questa era una cosa che si chiedevano un po’ tutti. Beh, quasi. A dire il vero, Yumichika era preso da ben altro. Tutto orgoglioso stava mostrando a Kenpachi a Retsu la foto di un bambino di un anno circa.
«Tra qualche giorno andremo a prenderlo. Si chiama Yuuki. Non è un nome estremamente grazioso? Anche lui è un tesorino adorabile. Non vedo l’ora di averlo con noi. Mi hai sentito, Ikkaku? Vedi di essere un buon esempio per nostro figlio!»
«Io sono un buon esempio» borbottò suo marito. «E sono pure il più simpatico.»
«Vorresti forse dire che sono antipatico? Ma come osi…»
Kenpachi alzò gli occhi al cielo. Lui non voleva nemmeno stare lì a sentirli litigare, ma non aveva scelta. Perché Byakuya e Renji non si sbrigavano? La cerimonia sarebbe iniziata di lì a poco!
Kenpachi trovò la sua salvezza in Rukia Kuchiki. In quanto sorella,era suo compito prendere Byakuya per un orecchio e incoraggiarlo.
«Lasciate fare, ci penso io.»
«Ecco, brava Rukia! Io non ho mai avuto crisi prima del mio matrimonio» mentì spudoratamente Yumichika e d’altronde lo sapevano tutti.
 
Byakuya però non era in crisi. E non era scappato. Aveva avuto solo bisogno di un po’ di tempo da solo con sé stesso per realizzare che sì, si stava davvero risposando. La prima volta una tragedia aveva portato via la sua felicità, ma adesso era fiducioso che le cose erano diverse, perché semplicemente lui era diverso. Questo non voleva dire che non avesse le classiche paure che tutti gli sposi hanno. Rukia lo trovò così, ad osservare il laghetto che si trovava nella tenuta scelta per la cerimonia Sorrise teneramente e si avvicinò a lui.
«Sai? Anche io ero nervosissima il giorno del mio matrimonio.»
«Rukia… lo so, me lo ricordo. Il fatto è che io non ero nervoso la prima volta. Ma adesso sì. Quasi non mi riconosco. Mi sembra ci sia voluta una vita per arrivare a questo punto» ammise Byakuya. Rukia sorrise.
«Lo sai che sono tanto fiera di te? Sei cambiato tanto in questi anni e finalmente hai tutto quello che meriti. Hisana sarebbe molto fiera dell’uomo che sei diventata.»
Byakuya, che non era uno dalla lacrima facile, dovette trattenere le lacrime.
«Mi sembra un po’ troppo tentare di farmi piangere prima che la cerimonia abbia inizio. Ti… ringrazio davvero. Anche io sono fiero di te, per la donna che sei diventata.»
Lui e sua sorella erano uguali. Avevano vissuto un dolore simile e si erano stati accanto nei momenti più bui. Ed ora eccoli lì. In piedi, più forti e più consapevoli. Rukia strinse la sua mano. Cosa sarebbe stato di loro, l’uno senza l’altro?
«Ti ringrazio. Sai, tutti pensano che te la sia data a gambe.»
«Ah, sì? Tieni conto che io non so che fine abbia fatto Renji…»
Ma nemmeno il suo futuro marito era scappato. Tutt’altro, aveva appena raggiunto Byakuya e Rukia tenendo per mano una bambina.
«Scusate! Ditemi che non mi sono perso il mio matrimonio. Ma stavamo giocando e abbiamo perso la cognizione del tempo.»
Byakuya sentì il cuore sciogliersi dinnanzi a Renji e alla loro figlia. La bambina che avevano adottato e che sarebbe stata la damigella al loro matrimonio.
«È stato super super divertente!» esclamò la bimba.  Byakuya sorrise e le accarezzò la testa.
«Ne sono contento, Mirai. Adesso però è davvero meglio andare, stiamo facendo tardi. Siete pronti?»
«Prontissimo, Byakuya.»
Mirai esultò, felice.
 
Rukia andò ben preso a sedersi accanto a Ichigo. Lì vicino, Karin teneva in mano una macchina fotografica, non vedeva l’ora di scattare più foto possibili ai due sposi. Davanti a loro, invece, Kukaku rimproverava il fratello Ganju perché aveva il papillon storto.
«Ehi, va tutto bene? Sei riuscita a trovare tuo fratello?» domandò Ichigo a sua moglie. Rukia era bellissima, più del solito s’intendeva.
«Oh, sì. Abbiamo solo fatto quattro chiacchiere» si sedette. Emozionatissima afferrò la sua mano. Mirai era appena entrata e tutta contenta e allegra stava attraversando la navata. Era una damigella davvero adorabile.
Ed erano tutti lì per festeggiare quel momento importante.
«Capisco. Sai, Rukia? Mi sento fortunato ad averti come moglie. E un po’ li invidio, a Byakuya e Renji. Perché ti risposerei di nuovo.»
Rukia lo guardò con gli occhi spalancati di meraviglia e lucida. Era lei a sentirsi immensamente fortunata, per aver trovato la felicità topo un’immensa sofferenza.
«Allora facciamolo. Rinnoviamo i nostri voti» gli sussurrò. Ma un altro giorno. Quello era il giorno di Byakuya e Renji. E Rukia poté giurare, mentre li guardava in piedi all’altare, di non aver mai visto due sposi così felici. Oltre a lei e a Ichigo, ovviamente.
 
 
Fine

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