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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Misery loves Company ***
Capitolo 2: *** The world stopped turning ***
Capitolo 3: *** Dream of a lifetime - prima parte ***
Capitolo 4: *** Dream of a lifetime - seconda parte ***
Capitolo 1 *** Misery loves Company ***
MISERY
LOVES COMPANY
**
*
**
New
York City, aprile 2006
J.T.
scavalcò un paio di Nike blu abbandonate tra
l’ingresso ed il salotto per
dirigersi verso la porta d’ingresso. Chi potesse essere a
quell’ora indegna di
un martedì notte era un mistero. Si passò la
destra tra i capelli biondi cortissimi,
come se le cuffie che portava ora al collo li avessero scompigliati.
Non
attendeva visite e l’ultima volta che aveva controllato il
suo conto corrente
aveva pagato il mantenimento ad entrambe le sue ex-mogli. D’altro
canto,
conoscendo Rochelle…
Si
chinò un poco ed osservò dallo spioncino. New
York City non era esattamente il
posto dove aprire la porta a caso nel cuore della notte, nemmeno se eri
un uomo
in forma sulla trentina. Quello che vide gli fece quasi ingoiare la
lingua
dalla sorpresa, mentre apriva la porta con una certa foga.
“Ehi,
stranger!”
La
cascata di capelli rossi sarebbe stata inconfondibile se anche la loro
proprietaria
non l’avesse, involontariamente, tormentato da quando era un
ragazzo.
“Kay?”
domandò, ancor più confuso dal fatto che lei
fosse alla sua porta traballante
su tacchi troppo alti e con l’aria alticcia. Fosse stato in
grado d’essere più
circospetto si sarebbe dato un pizzicotto per assicurarsi di non
essersi
addormentato di nuovo sul suo divano, giocando a WoW.
“Posso
entrare?” Chiese lei, appoggiata malamente alla sua porta.
“Ehm,
sì, certo.” Rispose J.T. indietreggiando per farla
passare, mentre Kay
barcollava all’interno, poi, chiuse la porta alle sue spalle,
tenendola d’occhio
con la coda dell’occhio. Non per la prima volta, J.T. dovette
trattenersi dall’aiutarla,
conoscendola si sarebbe infuriata.
Ancora
mezzo paralizzato dalla sorpresa, il ragazzo la guardò
circospetto, cercando di
ricordare se l’avesse mai vista brilla in vita sua, mentre
incapace di trattenersi
oltre le allungava una mano per aiutarla a stare in piedi.
“Oh…”
mormorò lei, sorridendo stupidamente a quel gesto e mandando
in fumo ogni sua
previsione. C’era qualcosa di estremamente strano
quella sera nell’aria. “Volevo
scusarmi per tutte le volte che ti ho dato del porco
sciovinista.”
J.T.
continuò a sorreggerla mentre camminavano verso il divano
marrone, spostò con
la mano libera il joystick in traiettoria e
l’aiutò a sedersi. Cercò
disperatamente una risposta.
“Ehm…”
si morse leggermente il labbro, pensando. “Ti ringrazio, Kay.
Come mai volevi
dirmelo di persona alla 1.50 di …” Ah,
pareva fosse già mercoledì.
Kay
scacciò lontano le decolleté color ciclamino ed
aprì il primo bottone del giacchino.
“Io
…”
Guardò la stanza per un attimo con sguardo intenso, come se
la vedesse per la
prima volta e fosse confusa un tantino di essere realmente
lì. “Ah, sì …
perché
il mio capo … anzi no, ex capo, lui
sì che è un porco sciovinista.”
L’unica
cosa chiara era che J.T. non ci stava capendo un accidente.
“Mmm…”
rispose, mentre continuava a fissarla, incerto sul daffarsi. Sedersi
accanto
a lei? Prepararle un caffè? Portarle la sua coperta e
sperare che smaltisse la
sbornia dormendo?
Kay
interruppe i suoi pensieri. “Siediti, che mi gira la stanza
se stai in piedi!”
“Eh?”
domandò il fotografo.
“Siediti!”
Ordinò Kay.
Persino
ubriaca riusciva ad essere prepotente. J.T.
si trattenne dallo
scuotere la testa e fece quello che lei aveva chiesto.
Non
era sempre così, anche quando pensava fosse il contrario?!
“Come
sei arrivata qui?”
“Taxi.”
mormorò la donna, alzandosi ed andando a spegnere la luce,
nel momento stesso
in cui lui si sedeva. Lo schermo accesso davanti a loro era
più che sufficiente
per vederci, ma nel ritornare verso il divano, Kay inciampò
nelle Nike e, solo
un buffo balletto, la tenne in piedi.
Ridacchiò,
un risolino che J.T. le aveva sentito proferire raramente.
“Non
volevo mi vedessi così, ma devo aver pensato che domani
avrei perso il coraggio.
Almeno credo. E mi sono trovata davanti al tuo palazzo.”
“Eh?
Coraggio? Perché?” Certo era lei quella
ubriaca, ma anche lui non brillava d’eloquenza
e perspicacia quella sera.
“Sì,
perché a nessuno piace ammettere di aver avuto torto, sai,
né di essere stati
cattivi e superficiali.”
Con
qualche difficoltà Kay lo raggiunse sul divano e
slacciò il secondo bottone del
giacchino bianco di finta pelliccia che indossava. Si sedette di nuovo
e
cominciò il, nel suo stato non semplice, esercizio di
coordinazione di
toglierselo di dosso.
“Kay,
tu non sei cattiva” La rassicurò l’amico.
La
donna scosse la testa. “Invece, sì”
Sospirò. “Pensaci! Quanto ti ho fatto
soffrire da che ci conosciamo?”
In
un certo qual modo era un colpo basso, ma non era una domanda a cui
J.T. era
disposto a rispondere sinceramente quella sera, non con lei in quello
stato.
“Non
l’hai fatto apposta, Kay.” Cercò un
diversivo. “Dimmi, quanto hai bevuto
esattamente?”
Lei
tentò
comicamente di alzare tre dita, le fissò perplessa e, poi,
aggiunse. “Penso.”
“Tre
cosa, tesoro?”
Kay
si liberò finalmente dai confini del giubbino di pelliccia.
“Non ho più caldo, ora.”
Disse tra sé con un certo sollievo.
“Bene”
osservò J.T. “Non che mi spiaccia vederti, Kay, ma
perché sei qui?”
Kay
lo guardò stringendo un po’ gli occhi, come se
cercasse di focalizzare lo sguardo
su di lui.
“Te
l’ho già detto!” Protestò.
J.T.
scosse di nuovo la testa, cercando di non pensare a Nick.
“Vuoi un po’ di caffè,
Kiki?”
“Dici?”
domandò lei, stranamente docile.
“Dico.”
Rispose l’uomo. Si alzò per andarle a prenderle
una tazza e si diresse verso la
cucina dell’altro lato della stanza, accendendo i led sotto
l’armadietto,
mentre cercava di ricostruire il filo di un discorso che non filava
affatto. Fece
l’unica cosa logica da fare.
“Vuoi
provare a spiegarmi di nuovo, Kay?” Chiese, cercando di
mettere nella domanda
tutta la pazienza che desiderava mostrarle.
Kay
fissò i suoi enormi occhi nei suoi. Sospirò.
“Sono
stata cattiva con te e sono qui per scusarmi…”
Ripeté.
“E
lo apprezzo, tesoro, ma non ce n’era bisogno, sul
serio.” Rispose, mentre le versava
il caffè.
Le
porse la tazza.
“Grazie.”
Ne prese un lungo sorso mentre il logo del Punitore appariva in bianco
col
calore sulla superficie nera della mug.
“Forse
sono i tre bicchieri di prosecco che parlano, ma…”
“Prosecco?!”
J.T. si dovette trattenere dal ridere. Avrebbe dovuto
saperlo. Il suo
scricciolo. Anche se quel possessivo era sempre stato
doloroso.
“Mi
hanno licenziato.”
La
frase e il tono con cui era stata pronunciata, come se fosse la fine
del mondo,
distolse l’attenzione di J.T. dal momento di
autocommiserazione.
“Licenziato?”
“Già!”
Kay osservò per un po’ il pavimento come se fosse
lì che avrebbe potuto trovare
la chiave per risolvere i misteri del mondo. “Ma
io con Alan Davis non volevo andare a
letto!”
J.T.
si sedette di nuovo lentamente accanto a lei. Provò a
mantenere il tono più
neutro possibile. Kay era una donna adulta, non era mai stata sua, per
quanto
avesse desiderato il contrario da troppi anni per contarli.
“Cioè,
fammi capire, mi stai dicendo che ti hanno licenziato perché
andavi a letto col
tuo capo?”
Kay
bevve un altro sorso di caffè, lo guardò sdegnata
e tossicchiò.
“No,
mi ha licenziato perché gli ho detto di no.”
E
se
J.T. aveva pensato di essere di cattivo umore mezzo minuto prima
immaginandola volontariamente
con un altro, la sua indignazione raggiunse ora una vetta del tutto
diversa.
“Cosa?
Ma è … Oltraggioso. Illegale.
Ingiusto!” Esclamò, balzando in piedi.
Kay
sorrise amara. “Il mondo è ingiusto,
Mitchell.” Gli porse la tazza ancora mezza
piena.
“Ma
devi fare qualcosa! Non puoi dargliela vinta così!”
“Mmm,
ci penserò domani.” Disse, stiracchiandosi.
“Ora devo fare pipi.”
J.T.
si trattenne dal ridere forte a quella confessione, così in
contrasto con
quella di pochi secondi prima. Appoggiò la tazza di Kay sul
bancone della cucina,
mentre istruiva “In fondo al corridoio, a destra!”
Alzandosi
a fatica, Kay rispose “Lo so.”
Scrutandola
mentre si allontanava lungo il corridoio, lui la schernì
“So-tutto-io!”
Kay
cominciò ad incedere lentamente, poi si girò
verso di lui, appoggiandosi al
muro per stare più dritta. I suoi capelli una nuvola rossa
un po’ scompigliata
contro la penombra della parete bianca. Bella e lontana mille miglia,
come
sempre.
“Lo
sai che ti voglio bene, vero?”
Con
un pugno che gli stringeva il cuore nelle viscere, J.T. si
sforzò di sorriderle.
“Lo
so, tesoro.”
Lei
gli sorrise sul serio. “E se non avessi avuto tanta paura di
quello che avrebbe
significato per te, ti avrei già detto di
sì.”
Per
un lunghissimo minuto J.T. stette fermo in mezzo al proprio salotto
cercando di
riavvolgere il nastro di quella conversazione nella testa.
“Sì?”
chiese. A che cosa esattamente Kay avrebbe voluto dire
sì, ora? Lui non le
aveva chiesto nulla.
Ma
lei riprese a camminare verso la porta del bagno, lasciandolo a
scrutarsi nel
riflesso della finestra alla luce fioca dei led e dello schermo.
Un
uomo estremamente confuso ad un’ora in cui le persone per
bene dormono con
indosso un pantalone grigio della tuta che gli scendeva troppo sui
fianchi, lo
guardava di rimando. Cosa le aveva chiesto?
Stette
in quella posizione per ancora qualche secondo, prima che una lampadina
gli si
accendesse nella testa.
Non
dice sul serio! L’hai vista, è ubriaca e
vulnerabile.
E
se,
invece, fosse stata seria? Se avesse infine acconsentito a
quell’idea che gli frullava
nella testa da mesi.
Il
suo corpo si mise in moto prima che il suo cervello smettesse di
pensare,
raggiunse la fine del corridoio.
“Kay?”
La chiamò attraverso la porta del bagno.
Sentì
l’acqua del rubinetto scorrere e poi spegnersi, prima che lei
comparisse di
nuovo sulla soglia.
“Ehi…”
Gli sorrise. “Mi hai trovata!” Ridacchiò.
J.T.
l’osservò per un momento in silenzio, tutte le
curve e gli spigoli del suo
corpo che sapeva a memoria sembravano prendersi gioco di lui. Quante
volte le
aveva chiesto di posare per lui negli ultimi mesi? Quante volte aveva
rifiutato
prima di allora?
“Te
l’hanno mai detto che non si prendono decisioni importanti
quando si è bevuto?”
Kay
annuì, sostenendo in silenzio il suo sguardo indagatore.
“Promesso?”
Chiese infine il ragazzo.
Kay
sorrise ed annuì. Era chiaro che non era ancora del tutto
sobria, ma era un
po’ meno brilla di quando era arrivata alla sua porta.
“Lo
sai che ti voglio bene, vero?” Domandò J.T. a sua
volta. “E non t’infurierai
con me domani per aver promesso?”
Kay
s’alzò
appena sulla punta dei piedi e gli sussurrò
nell’orecchio. “Promesso.”
J.T.
strinse i pugni lungo i fianchi, le unghie corte che gli bucavano
appena i
palmi per la forza con cui li serrava per trattenersi dal toccarla. Non
era la
prima volta, non sarebbe stata l’ultima.
Kay
s’allontanò un passo. “Posso dormire
qui?”
Gli chiese, improvvisamente incerta, abbassando lo sguardo
sui suoi piedi
nudi.
Sarebbe
stata una lunga notte insonne, prima di un giorno di lavoro infinito.
Annuì.
Non sarebbe stata la prima volta.
La
donna
si avvicinò e l’abbracciò, sollevando
lo sguardo su di lui. “Grazie”.
Che
lei l’allontanasse o trattasse con freddezza
c’aveva fatto il callo negli anni,
era quando era così, tutta affettuosa e docile che gli
stritolava il cuore. Si
staccò da quel piccolo corpo caldo che avrebbe voluto solo
stringere, ma Kay lo
tenne per mano.
“Mi
preparo il divano?”
“No…
Ti ho mai cacciato dal tuo letto?” Chiese lei quasi offesa
all’idea.
La
morsa intorno al suo cuore si fece un po’ più
stretta. Some people are suckers for punishment.
“Lascia
che vada a spegnere di là.” Le disse, ma Kay lo
trattenne ancora un attimo.
“Ce
l’hai ancora la mia coperta?” Chiese.
“Certo.”
Il
pollice
di Kay gli sfiorò teneramente le nocche della mano, prima di
lasciarla andare e
barcollare verso la sua stanza.
J.T.
si trascinò verso il salotto. A volte essere amico della
donna che ami fa
veramente schifo.
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Capitolo 2 *** The world stopped turning ***
CAPITOLO
II
THE
WORLD STOPPED TURNING
Oceanside,
sabato 8 luglio
2006
Melissa
chiuse la porta d’ingresso del cottage con la punta del
piede. Le chiavi di
casa che ondeggiavano pericolosamente nell’anello del
portachiavi inserito
sulla punta del mignolo, quelle dell’auto inserite malamente
nella tasca
posteriore dei pantaloncini di jeans, il plico della posta sottoascella
e la
scatola con la colazione in mano, sbuffò appena. Raggiunse
il mobile dell’ingresso
senza fare disastri, per miracolo. Appoggiò le chiavi e la
posta. Sì, aveva
esagerato. Specialmente considerato che non le importava un fico secco
di
mangiare di solito.
“Ehi,
scusami, c’era più fila di quanto pensassi e
… Sono passata alla tua cassetta
postale.” Alzò lo sguardo da quello che stava
facendo per fissarlo sul suo
interlocutore che la scrutava torvo, appoggiato ad una delle sedie di
acciaio
che circondavano il tavolo di cristallo del salotto. Nella luce della
tarda
mattinata estiva, i capelli bagnati, i piedi nudi e la camicia di lino
ancora
aperta addosso, Nick Malone continuò a guardarla, seccato.
“Ciao.”
Melissa
si morse il labbro. Non esattamente il risultato in cui aveva sperato,
specie
dopo aver svaligiato una pasticceria perché qualcuno era
goloso.
“Avrei
dovuto fare prima, volevo farti una sorpresa...”
Continuò.
Nick
annuì ed incrociò le braccia, spostando il peso
da una gamba all’altra. Se non
fosse stato alto quasi due metri avrebbe pensato di avere a che fare
con un
bambino petulante.
“Non
sono arrabbiato…” Sospirò lui.
“Solo …” Strano,
perché sembrava tutto il
contrario.
“Solo?”
Melissa lo incoraggiò a continuare, portando la scatola dei
dolci verso il
salotto. Nick si spostò un po’ troppo in fretta. Ok,
l’aveva
inconsapevolmente fatta grossa. Appoggiò la
scatola sul tavolo e gli toccò
il gomito. La guardò e il suo sguardo si fece un tantino
meno torvo. “Niente.
Odio svegliarmi, non trovarti e non sapere dove sei.”
Le
labbra di Melissa formarono una piccola “o” di
sorpresa. Come diavolo aveva
fatto a non pensarci …
“Scusami
…” Si guardò le punte delle scarpe da
tennis, cercando di non arrossire.
“Dovevo andare e venire. Avrei dovuto lasciare un
biglietto.”
Le
dita di Nick le alzarono il mento, finché non lo
fissò. La prese per la vita e
se la tirò vicino. “Ehi … Davvero, non
importa.”
“Non
è vero …” Rispose Melissa. Le parole le
morirono sulle labbra, mentre lo
fissava così da vicino. Con la luce alle spalle e
quell’espressione di passione
velata di tristezza negli occhi blu avrebbe tolto la parola a donne
molto più
forti di lei.
“E,
poi, odio anche i biglietti.” Aggiunse serio, prima di
sbuffare all’assurdità
della cosa. Il suo sguardo si fece interrogativo “Cosa
c’è?” Le chiese.
Melissa
cercò di non sorridere.
“Niente…”
Lui
le gettò un’occhiata scettica. Lei
appoggiò la testa sul suo petto e sospirò
inalando il suo odore. Avrebbe potuto rimanere così per ore,
ma si sarebbe
persa la scena seguente.
Con
la voce così bassa che non l’avrebbe sentita se
non fosse stato letteralmente
ad un soffio da lei, rispose. “Te lo dico, se non ridi di
me.”
Nick
mormorò il suo assenso, senza lasciarla andare. Le sue
lunghe dita le
disegnavano complessi arabeschi sulla schiena.
Si
bagnò appena le labbra e confessò. “Sei
sexy da mozzare il fiato, stamattina.”
Nick
gettò gli occhi al cielo, ma le sue labbra sorrisero mentre
le stampava un
bacio tra i capelli “E tu sei un’adorabile
bugiarda”. Al solito, incapace di
prendere un complimento per quello che era. Le diede una
leggera pacca sul
sedere.
“Vediamo
di fare colazione, prima che ci ripensi e decida di mettere alla prova
le tue
parole.” Nonostante il caldo non sarebbe poi stato
così male.
**
*
**
“Cannella
o cioccolato?” Domandò, mentre Nick versava il
caffè.
Alzando
lo sguardo dalla tazza, lui le lanciò un sogghigno.
“Cannella, ma se dovessi
lasciarmi un pezzetto di quella al cioccolato non mi
lamenterei.”
Incorreggibile.
Fortuna che è il figlio di un dentista!
Melissa
cercò di non ridere, mentre continuava a sbucciare
un’arancia. “Ed io che
pensavo di indurti a mangiare un po’ di frutta.”
Nick
appoggiò la tazza accanto a lei, inzuppò
compiaciuto il rotolino alla cannella
nella sua e ne addentò compiaciuto un boccone generoso.
Deglutì. Fece un
piccolo gemito di approvazione in fondo alla gola. “No,
grazie. Non con questo
ben di Dio.”
Come
aveva fatto a pensare di poter rinunciare a questo? A lui?
Melissa
cercò di riprendere il filo dei suoi pensieri, prima che
Nick si accorgesse di
nuovo che lo stava guardando con occhi da triglia.
S’infilò in bocca uno
spicchio d’arancia per prendere tempo. Che diavolo le
prendeva quella mattina? Ah,
già! Si alzò ed andò verso
il mobile dell’ingresso a recuperare le buste.
“Quasi
dimenticavo! C’erano queste nella tua casella
postale.” Spiegò appoggiando una
bolletta ed una grossa busta di carta marrone sul tavolo.
“Hai idea di perché
J.T. ti spedisca qualcosa per posta?” Di solito le
comunicazioni tra loro erano
elettroniche.
Con
le dita ancora appiccicose di zucchero, Nick scostò la
bolletta ed osservò l’indirizzo
sullaltra busta.
“Non
è la sua scrittura, però. J.T. ha certe zampe di
gallina, lui stampa le
etichette se deve scrivere un indirizzo che io sappia. Avrei giurato
che la calligrafia
fosse di…” Continuò pensieroso. Melissa
gli porse un coltello pulito.
“Qualcuno
avrà scritto l’indirizzo per lui.”
Osservò la ragazza, sedendosi e riprendendo a
fare colazione.
Nick
cominciò ad aprire la busta. “Sì,
sì. Somiglia un casino alla calligrafia di … Che
strano.” Addentò un altro pezzetto di dolcetto,
facendo scivolare il contenuto
della busta che aveva aperto sul tavolo.
Un
biglietto scritto a p.c. oscurava due pass d’ingresso e un
catalogo di
fotografia.
Incapace
di trattenersi, Melissa fece scivolare verso di sé uno degli
ingressi.
“È
per una mostra… A San Diego. Tra dieci giorni.”
Mormorò.
Nick
bevve un sorso di caffè, continuando a leggere il biglietto
ed annuì. “Sì, dice
che verrà di persona ad inaugurarla.”
Melissa
si grattò la punta del naso. “Oh, che bella
notizia. Sembra una personale,
Nick. Non pensavo che J.T. potesse esporre... Le sue foto di solito
sono delle
riviste che lo assumono.” Alzò lo sguardo dal pass
e si accorse che Nick non la
stava, esattamente, ascoltando ed aveva smesso di mangiare.
Lo
osservò
incuriosita. Stava sfogliando il catalogo e pareva molto concentrato.
“Vieni
un attimo qui, Mel.”
Melissa
s’alzò e lo raggiunse dall’altro capo
del tavolo.
“Che
ne pensi?”
Melissa
osservò le foto del catalogo. Si strinse nelle spalle. Erano
foto di J.T.
Entrambi sapevano che la sua specialità erano donne poco
vestite o nude. Le
foto di J.T. erano state utilizzate da Maxim, Sport Illustrated e
Penthouse.
Anzi,
a dire il vero, stavolta i nudi erano sorprendentemente delicati.
Più artistici.
In bianco e nero, con tocchi di colore qua e là. I visi
delle modelle per lo
più nascosti dall’angolo, dalla luce o dallo zoom
della fotografia.
“Per
l’amor del cielo…” Sussurrò
Nick, accanto a lei. Riprese la busta e osservò di
nuovo l’indirizzo.
Melissa
lo guardò perplessa. “Cosa?”
Nick
appoggiò la busta sul tavolo e continuò a
sfogliare il catalogo, finché non
arrivò ad una foto in particolare. Era un primo piano. La
luce alle spalle
della modella ed i suoi capelli ne oscuravano pressoché
completamente il viso,
nell’atto di voltarsi verso il fotografo. Tutto quello che si
poteva vedere era
la pelle diafana della schiena della modella, i capelli gettati su una
spalla,
una mano maschile appoggiata sull’altra, come per richiamarne
l’attenzione e
chiederle di girarsi. Tutto era in bianco e nero, salvo i capelli della
donna
che erano una cascata di fuoco. Era una delle foto più
innocenti che Melissa
avesse mai visto scattare a J.T. eppure era meravigliosamente bella,
sensuale.
“Wow.”
Sospirò Melissa. “Non pensavo… Sono
bellissime.”
Nick
la fece sedere sulle sue ginocchia e continuò a sfogliare.
“Già. Non mi
sbagliavo, sai.” Mormorò. Non si
sbagliava su cosa? Non le aveva ancora
risposto. Melissa continuò ad osservare le foto
susseguirsi, finché giunto
alla fine del catalogo, Nick tornò alla foto della donna dai
capelli rossi.
Nick
prese un sorso di caffè, poi, si abbassò verso il
suo orecchio e con un certo
giubilo nella voce. “Guarda bene, amore. Chi conosciamo con i
capelli così
rossi?”
Melissa
rise. Non poteva essere! Sarebbe stato più
plausibile che J.T. avesse
fotografato lo yeti. Doveva
aver
trovato una modella con i capelli rossi come Kay. Si girò a
guardare negli
occhi Nick pensando di vedere che la stava prendendo in giro, ma era
serio.
“Come...?”
Cominciò a chiedere, poi, si ricordò che, per
quanto preferisse non pensarci
troppo, Nick sapeva esattamente come fosse fatta Kay nuda.
“Ce
ne sono almeno altre cinque… Non ho idea di come
l’abbia convinta, ma è
sicuramente Kay.”
“Sei
sicuro?”
Nick
annuì. Melissa rubò la sua tazza di
caffè e ne bevve un sorso, anziché recuperare
la sua dall’altro capo del tavolo. Improvvisamente, non aveva
parole.
“Anche
l’indirizzo… È la calligrafia di
Kay.” Le spiegò Nick, continuando ad osservare
la foto, pensieroso. Poi, sorrise a quarantadue denti.
“Fottuto figlio di …”
Sussurrò giubilante.
“Nick!”
Lo interruppe Melissa.
“Non
guardare lei. Guarda la mano, Mel.” La donna prese il
catalogo tra le mani per
guardarlo meglio.
“L’anello!”
Mormorò lei, incredula. “Nick! È
l’anello di J.T!”
Nick
rise di gusto, vedendola arrivare infine alla sua stessa conclusione.
“Lo so, tesoro,
lo so. Era terribilmente compiaciuto l’ultima volta che
l’ho sentito al
telefono!”
“Tu
pensi che…” Melissa si interruppe, quasi non
volesse dirlo per timore di
rovinare la cosa.
“Io
penso che il mio ex coinquilino ha un modo tutto
suo di annunciare le
cose!”
“Oh,
Nick… Sarebbe così bello se non fosse solo una
collaborazione, se ci fosse
qualcosa di più.”
Nick
annuì vigorosamente e s’allungò sul
tavolo per afferrare la brioche al
cioccolato. “Anch’io. Quella foto è una
dichiarazione d’amore a tutti gli
effetti, se ne ho mai vista una. Mi servono altri zuccheri per
compensare.” Ne
addentò un pezzetto e la porse a Melissa.
“Non
ci resta che aspettare un decina di giorni per saperlo!”
Mormorò lei, prendendo
la mano di Nick nella sua.
**
*
**
New
York, 25 aprile 2006
Kay
osservò nuovamente la busta di manila appoggiata sulla sua
scrivania. J.T.
gliel’aveva consegnata la mattina ed era tutto il giorno che
cercava di farsi
coraggio ed aprirla. Era stupido. In fondo era stata una sua scelta.
Eppure.
Talvolta fare le cose era meno spaventoso di rivederle a mente fredda.
Di
cosa aveva paura?
Non ne aveva esattamente idea.
Se
era riuscita a sopravvivere a spogliarsi in uno studio
fotografico… Garantito
J.T. aveva buttato fuori quasi tutti, senza troppe buone maniere. Era
rimasta solo
la ragazza che s’era occupata di truccarla e pettinarla e,
dopo un quarto
d’ora, Kay s’era dimenticata, quasi, anche di lei.
Come avrebbe potuto fare
altrimenti? J.T. la guardava come se avesse davanti una delle sette
meraviglie
del mondo ed era in piena sessione creativa. Incredibile a dirsi, ma
avrebbe
detto che fosse persino … Affascinante in quel momento.
Cercò
di non perdersi troppo nei suoi pensieri.
Prese
il bicchiere di vino che si era versata. Coraggio liquido.
Calzante, in un
certo senso. Anche se, a dirla tutta, non aveva accettato
perché aveva bevuto.
Aveva accettato perché quell’animale di Alan Davis
l’aveva fatta sentire senza
un minimo di valore e … Non sapeva perché o non
voleva ammetterlo.
Sospirò
ed aprì la busta, facendo scivolare fuori le sue trenta
fotografie che J.T.
aveva stampato perché lei scegliesse quali preferiva per la
mostra.
Le
allargò sulla scrivania e prese un lungo sospirò.
Ingoiò il vuoto. Le gambe le
tremarono un po’ e dovette sedersi. Le aveva stampate in
bianco e nero, ma
ognuna aveva un particolare o due a colori. Un
groppo le si formò in gola. Erano
fantastiche. Le sfogliò, cercando di rimanere distaccata.
Non era umanamente
possibile. Afferrò il cellulare. J.T. rispose al secondo
squillo.
“Ehi
…Le hai viste? Ti piacciono?” Chiese lui
dall’altro capo, ancora prima di
sentire la sua voce. Probabilmente attendeva quella telefonata da tutto
il
giorno. Kay cercò inutilmente di schiarirsi la gola.
“Sì.”
Rispose, infine, con voce un po’ strozzata. “Sono
stupende. Io … Sembro
stupenda.”
Sentì
il sorriso nel tono di J.T. mentre le rispondeva.
“Tu
sei, sempre, stupenda, Kay!”
Non
era vero, ma … In quelle fotografie sembrava lo fosse!
Stettero
un attimo in silenzio, ascoltando il respiro l’uno
dell’altra nel telefono.
“Allora,
me le farai pubblicare?” Domandò lui.
Kay
sfilò una foto in particolare. Era l’ultima che
J.T. le aveva fatto. Era già
voltata per andarsi a vestire e lui le aveva posato una mano sulla
spalla e
l’aveva scattata mentre si voltava verso di lui. Avrebbe
dovuto vedersi il suo
viso, ma il gioco delle ombre ed i suoi capelli oscuravano i
lineamenti. La
mise in cima alle altre. Era l’unica in cui appariva anche
J.T.
“Promesso!”
Rispose, osservando quell’immagine. J.T.
l’aveva detto che avrebbero fatto
un capolavoro insieme. Perché non gli aveva creduto?
“Ti
voglio bene, Kay. Buonanotte” Lo sentì dire
dall’altro capo del telefono. Lo
conosceva troppo bene per non rendersi conto che stava facendo di tutto
per non
dire cose di cui si sarebbe pentito.
“Buonanotte
J.T.” Lo salutò, prima di fare anche lei qualcosa
di imperdonabile, tipo
commuoversi al telefono.
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Capitolo 3 *** Dream of a lifetime - prima parte ***
Nota
autore: volevo fare una parte sola, ma sta diventando lungo e
fa troppo caldo per finire il resto.
Ah,
casomai qualcuno l’avesse notato, i titoli dei capitoli sono
un omaggio
ai Lillian Axe.
Buona
fine ferie
L.
CAPITOLO III
** * **
DREAM OF A LIFETIME
PRIMA PARTE
**
*
**
New
York City, 4 giugno 2006
Come
fosse finita in quel modo, anni dopo, James Thomas Mitchell non avrebbe
saputo
spiegarlo. Se glielo avessero domandato avrebbe dovuto dire che persino
il
dolore è una sensazione più facile da sopportare
della speranza. L’uomo è fatto
per le certezze. Bianco o nero. Sì o no. Eppure, la vita
è fatta, in realtà, di
un’infinita serie di grigi e, talora, quelle che pensi
certezze granitiche si
sciolgono come neve al sole.
Le
persone cambiano. Oh, è vero, ciascuno è fatto di
alcune immutabili
caratteristiche di fondo, un nucleo che nemmeno i colpi più
spietati della vita
possono cambiare, ma le persone evolvono, lentamente, come la
plastilina muta
la sua forma per adattarsi alle mani del suo scultore.
L’aveva
notato in prima persona: il J.T. che aveva sposato Samantha non era
esattamente
lo stesso che era uscito da quel matrimonio mesi dopo, ammaccato, ma
intatto, e
se le sue cicatrici non erano state profonde, era dovuto più
ad un accidente
della fortuna che ad altro. Purtroppo esse erano comunque state
sufficienti a
condurlo, più o meno volontariamente, nelle braccia di
Rochelle. Nessuno
avrebbe potuto dire che il suo secondo matrimonio non fosse un errore
madornale. Chi più, chi meno sperimenta prima o poi nella
vita il fallimento.
Alcuni la prendono con filosofia, si danno una spolverata, si
rialzano… Altri
la vivono come Nick Malone.
Ma
al contrario dell’amico, J.T. non era mai stato un uomo
troppo complesso, non
era portato alla malinconia. Era troppo superficiale, forse. Di sicuro
era eccessivamente
predisposto alla joie de vivre per permettere che
la tristezza si
impadronisse di lui, infliggendogli altro dolore di fronte agli
inciampi della
vita. Nulla era definitivo se non la morte. Persino Nick e Melissa
sembravano
esserci arrivati, infine. Nonostante tutto.
Ciò
che J.T. non aveva mai considerato, nemmeno dopo essersi trovato a
ventinove
anni con una figlia che non sapeva d’avere, è che
alla vita piace sparigliare
le carte. Troppo. E tutto può succedere, anche le cose che
hai sempre negato
come possibilità perché contemplarle …
È semplicemente troppo difficile,
continuando a funzionare.
E,
invece, improvvisamente, a fine aprile era come se il mondo avesse
smesso di
ruotare sull’asse ove l’aveva fatto per i
trent’anni della sua vita e nulla
fosse più impossibile.
J.T.
non l’aveva presa con filosofia, stavolta.
No,
a dirla tutta, James Thomas Mitchell non se l’era mai fatta
tanto sotto dalla
paura in vita sua, nemmeno quando si era trascinato in Oregon a
conoscere la
sua bambina. In un certo senso, era normale. Sua
figlia Marie non era mai stata nemmeno
un’idea nella sua vita prima di emergere come una cometa, Kay
Kennedy era stata
una costante, forse l’unica, da almeno quindici anni, e,
ininterrottamente, per
tutto quel tempo, Kay era stata la donna che voleva più
d’ogni altra e non
poteva avere. La sua prima cotta, così devastante che non
gli era mai passata.
Nemmeno quando lei si era innamorata di Nick, nemmeno quando era stata,
brevemente, la sua ragazza, nemmeno due mogli più tardi.
Kay
Kennedy era la ragazza che aveva sempre voluto, ma non sarebbe mai
stata sua.
Punto e basta. Fine della conversazione. E, siccome, non averla del
tutto nella
sua vita era, buffamente, anche peggio di viverle accanto senza che
fosse sua,
J.T. s’era rassegnato a starle vicino come lei voleva, come
amico.
E,
poi, un martedì notte lei aveva bussato alla sua porta,
alticcia e vulnerabile,
e da lì, non avrebbe saputo dire come, ma “Alice
aveva attraversato lo specchio”
e ogni certezza s’era sciolta come neve al sole.
Avrebbe
dovuto capire che qualcosa era profondamente cambiato nel momento in
cui Kay
aveva acconsentito a farsi fotografare da lui, ma, persino nel momento
in cui
aveva scattato quelle foto, J.T. non ne era perfettamente consapevole.
Certo,
una volta che la tachicardia gli era passata, le mani avevano smesso di
sudare,
quando aveva fatto di tutto per comportarsi da professionista che era e
fare il
migliore servizio fotografico di cui fosse umanamente capace, aveva
notato che
Kay lo stava fissando pensierosa.
Qualcosa
era cambiato ulteriormente dopo che lei aveva visto le foto del
servizio
fotografico. C’era qualcosa nella sua voce al telefono. Un
entusiasmo che non aveva
più sentito da prima che annunciasse di essere stata
licenziata.
J.T.
aveva sempre saputo che fotografare Kay non poteva essere come
fotografare le
centinaia di modelle che aveva visto negli anni. Qualche parte del suo
cervello
sapeva benissimo che aveva fissato con il suo obbiettivo donne molto
più
attraenti dell’amica, ma non c’era paragone per
l’importanza emotiva che lui
avevano assegnato a quel gesto.
Probabilmente
entrambi condividevano tale convincimento.
Con
il senno di poi avrebbe dovuto capire che era una sorta di segnale, ma
era
troppo concentrato nel fare bene, nel mettere Kay a suo agio, nel farla
sentire
al sicuro, nel cacciare tutti i collaboratori di troppo nella stanza,
nel
realizzare quello che voleva a tutti i costi fosse il suo capolavoro,
per
rifletterci.
Se
fosse stato un pittore, anziché un fotografo, negli anni a
venire avrebbe
riempito i suoi quadri del verde acqua della gonna che aveva indossato
Kay
quella mattina quando si era presentata nello studio fotografico. Era
un colore
che il ragazzo non aveva mai considerato prima di allora e,
improvvisamente,
era diventato il suo preferito.
Non
è verde acqua, aveva protestato lei quando
gliel’aveva confidato, è color
Tiffany. Naturalmente. Perché era una insopportabile
so-tutto-io. Ma non gliene
importava un fico secco. Che era una so-tutto-io. Non del colore. Il
colore era
importante.
Molte
altre cose era divenute le sue preferite in quella fine di aprile 2006.
Alcune
cose J.T. già sapeva di amarle: quel mezzo sorriso di quando
Kay era divertita,
ma non voleva darti la soddisfazione di averla fatta ridere, quel
gruppetto di
lentiggini che, J.T. aveva sempre pensato, disegnavano un cuore tutto
sbilenco
vicino al suo ombelico, quel suo cercare di sembrare più
alta indossando dei
tacchi vertiginosi ogni volta che poteva.
Altre
erano state una scoperta, ma erano divenute, improvvisamente, ancora
più
importanti, perché le aveva scoperte dopo quindici anni di
amicizia con lei,
perché erano quel genere di informazioni che si condivide
con un amante.
Come
fosse successo esattamente sarebbe stato complicato spiegarlo.
Sapeva
che Kay si era presentata nel suo appartamento con la busta di foto che
le
aveva fatto consegnare. Aveva notato immediatamente che la ragazza
appariva particolarmente
felice quella sera, inspiegabilmente frizzante, ma l’arcano
era stato
rapidamente spiegato quando Kay aveva informato J.T. di aver contattato
un suo
conoscente che, viste le foto, aveva acconsentito a mettere a
disposizione la
sua galleria per una mostra delle foto di J.T. se lui fosse stato
interessato.
“Vuoi
dire che non solo mi permetti di pubblicarle, ma ti sei presa la briga
di
contattare qualcuno perché mi aiuti ad esporre…
Una personale?”
Il
sorriso di Kay era stato talmente aperto e radioso che per un attimo
gli si era
asciugata completamente la bocca. “Non mi ero mai resa
pienamente conto …”
Cominciò lei, per interrompersi. “E’ un
delitto che tu non abbia già avuto
decine di personali. Lascia che ti aiuti, come tu hai aiutato me con
Mr.
Davis.”
J.T.
aveva messo Kay in contatto con una compagna di law school
di sua
sorella che si occupava di casi di lavoro a New York la settimana
precedente. La
donna non aveva ancora preso alcuna decisione in merito a cosa fare in
relazione al suo licenziamento, ma gli aveva riferito che aveva molto
su cui
riflettere dopo aver avuto un colloquio con quell’avvocato.
J.T.
aveva riflettuto un momento in silenzio. Era un’ottima
opportunità e sapeva
bene che la famiglia di Kay aveva un sacco di conoscenze ed agganci, in
ambienti più raffinati di quelli che, di solito, frequentava
lui. Ad ogni buon
conto, J.T. non sarebbe stato in grado di negarle qualcosa che la
faceva
sorridere così nemmeno se avesse voluto.
Così
aveva accettato e l’aveva ringraziata.
Aveva
pensato che, poi, avrebbero discusso i dettagli del programma della
donna. Kay
Kennedy era il tipo di persona da presentarsi alla tua porta con un
piano
d’azione in raccoglitori colorati ed evidenziati, con post
it. Efficienti
come il president’s daily brief, ma
estremamente più graziosi.
Ciò
che non aveva immaginato era che Kay l’abbracciasse,
né tantomeno quanto era
successo in seguito.
Di
per sé non era un avvenimento così inedito: per
quanto lui tentasse di non
starle troppo vicino di solito – non c’era motivo
di torturarsi inutilmente –
occasionalmente Kay si lasciava andare a gesti d’affetto nei
suoi confronti.
Non era certo la prima volta che Kay lo abbracciava o baciava sulle
guance.
Aveva dormito nel suo letto, più di una volta. Sola o
insieme a lui. Qualcuno
avrebbe potuto pensare che fosse un atteggiamento crudele, visto
ciò che J.T.
provava, ma lui non l’aveva mai pensata così. No,
aveva sempre pensato fosse il
modo che Kay aveva per dimostrargli che, pur non condividendo i suoi
sentimenti,
ne aveva altri di piena fiducia ed amicizia nei suoi confronti. Un
estremo
segno di rispetto.
Ciò
che non era mai capitato prima di allora, però, era che,
anziché scostarsi dopo
averlo stretto brevemente, Kay si alzasse sulla punta dei piedi e
nascondesse
il viso nella curva della sua mascella e sospirasse, stringendolo
più forte.
A
disagio
J.T. lasciò immediatamente andare le sue spalle,
irrigidendosi. “Kay?” domandò
alla nuvola di capelli rossi sulla sua spalla destra.
“Penserai
che sono ridicola…” Mormorò lei nel suo
collo.
Francamente
nel milione e mezzo di pensieri che ho, che tu sia ridicola non mi ha
affatto
sfiorato.
“E’
che … Da quando ho visto le foto…”
Continuò, senza alzare la testa.
J.T.
tentò di concentrarsi sulla conversazione e non sul corpo
che aveva
drappeggiato addosso. Un conto era un abbraccio di cinque secondi, un
conto
avere una conversazione con lei, così. Rimase immobile,
braccia lungo i fianchi,
ascoltandola. Lei sembrava non avere alcuna intenzione di lasciarlo
andare.
“É
come se avessi improvvisamente capito come mi hai sempre vista
tu.” Finì
alzando lo sguardo verso di lui.
J.T.
la fissò senza dire alcunché cercando
disperatamente di divinare dal suo
sguardo esattamente cosa Kay intendesse. Non sembrava seccata e aveva
appena indicato
che voleva aiutarlo ad esporre quelle foto, quindi immaginava fosse una
cosa
positiva, ma questo?
Parte
di lui voleva disperatamente che fosse … Ma non poteva
essere, quella che le
sue parole sembravano suggerire era un’eventualità
che non esisteva. J.T. tentò
disperatamente di respirare normalmente e di mantenere un tono di nonchalance.
“E,
quindi?” Le domandò, cercando quantomeno di
scostare il bacino dal suo, prima
di rendersi ridicolo.
Kay
lo guardò intensamente prima di sfregare la punta del naso
sulla curva della
mascella. “Pensavo, saresti stato contento.”
Rispose, il tono un po’ più incerto
di poco prima.
“Sono
contento … Che tu voglia aiutarmi… Ma, tesoro, lo
so che ti fidi di me, ma devi
smetterla.” J.T. avrebbe preferito che la sua voce fosse
scherzosa, ma un po’
severa. Venne fuori come una preghiera mezza strangolata.
“Oh
… Sì, certo, ma non intendevo quello. Sei sicuro
che vuoi smetta? Io preferirei
continuare.” Rispose Kay lasciandogli un piccolissimo bacio
sul collo.
J.T.
la prese per le spalle e se la scostò di dosso.
“Non
è un gioco, Kay.” Sibilò e, stavolta,
il tono e lo sguardo erano
appropriatamente furiosi.
Kay
non abbassò lo sguardo e si leccò le labbra.
“Lo so …”
La
fissò per un attimo. Era bella da fare male. Non poteva dire
sul serio. Non
dopo tanto tempo a respingerlo. Eppure … La conosceva da
anni, non s’era mai
comportata così e non aveva appena finito di rassicurarlo
che sapeva che non
era un gioco? Non era mai stata crudele, anzi.
J.T.
sospirò. L’ultima cosa che desiderava tra loro era
un malinteso. Con tutto l’autocontrollo
di cui era capace, mormorò. Era troppo importante essere
sicuro che ciò che le
leggeva negli occhi non fosse un’invenzione del suo
subconscio.
“Dovrai
essere terribilmente chiara, Kay.” Sentenziò.
Erano
ancora decisamente troppo vicini perché J.T. potesse pensare
chiaramente e la
sensazione di contemplare il fondo di un abisso non era mai stata
così grande
in vita sua.
Kay
abbassò per un attimo lo sguardo sul pavimento, come se
potesse trovarvi le
parole. Quando lo rialzò era così intenso che,
per un momento, a J.T. si mozzò
letteralmente il fiato.
“Vorrei
… Cioè mi piacerebbe fare l’amore con
te… Se vuoi ovviamente.” Sembrava un
tantino imbarazzata, ma nemmeno troppo. Non se si valutava quello che
aveva
appena detto.
Sicuramente
era stata chiara come lui aveva chiesto e, certo, erano anni che J.T.
voleva. Anzi
ad essere sincero, era bastata quella frase per rendere assolutamente
palese che
era interessato, casomai qualcuno avesse mai avuto il dubbio.
Tuttavia
andava detto altro.
Le
prese la mano. Meglio togliere di mezzo prima le questioni spinose.
“Sì, ovviamente
piacerebbe anche a me.” Non
voleva ci fosse
alcun equivoco in merito e lei si sentisse respinta. Sapeva esattamente
quanto
male poteva fare.
“Però,
Kay, se dovesse essere un pensiero passeggero, un capriccio del
momento… Mi fa
piacere, non fraintendermi … Ma non credo di poterlo
accettare. Non penso che
ce la farei.”
Lei
annuì
seria, stringendogli di più la mano.
“Sì, certo, capisco.” Scostò
una ciocca
dietro l’orecchio con l’altra. “Stai
tremando.” Sussurrò.
J.T.
non se n’era accorto, ma aveva ragione.
“Mi
spiace.” Rispose abbassando lo sguardo sulle sue
decolté troppo alte.
“No,
no … Hai ragione io me ne arrivo qui bella come il sole
… Però giuro che ci ho
pensato su. Parecchio. Credo che abbia sempre avuto ragione tu e io sia
stata
cieca sino ad ora.”
“Kay
…”Il tono era basso, un ammonimento a non
continuare se non era sicura di
quanto diceva.
“Lo
so, non è un gioco…”
“No,
è il sogno di una vita e … So che mi
sveglierò da un momento all’altro.”
Aggiunse amaro.
Lei
scosse vigorosamente la testa.
|
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Capitolo 4 *** Dream of a lifetime - seconda parte ***
Nota
autore: Buon anno. Puro smut, la trama non si muove di millimetro.
CAPITOLO
IV
**
*
**
DREAM
OF A LIFETIME
SECONDA
PARTE
Alzandosi
in punta di piedi, Kay prese delicatamente nel palmo la guancia di
J.T., gli accarezzò
il viso e avvicinò le labbra alle sue, la punta della lingua
lambì
ripetutamente suo il labbro inferiore, invitandolo ad aprire la bozza.
Il
ragazzo rispose a quel bacio prima ancora che la sua coscienza si
rendesse
pienamente conto di quanto stava facendo, come se il puro istinto
avesse preso
il sopravvento ed il suo corpo si fosse rifiutato di indugiare,
nonostante tutti
i massicci segnali di pericolo che si materializzavano nella sua mente.
Inclinò
meglio la testa, costringendosi a non prendere il sopravvento, a
lasciare che
fosse Kay, le sue labbra morbide e leggermente paffute, a decidere dove
portare
quel bacio. Sapeva di caramella al limone e miele: J.T., che negli
ultimi
ventinove aveva sempre pensato fosse una combinazione da vecchia
signora, si
trovò improvvisamente a ritenerla il proprio sapore
preferito. Le mani di Kay
continuarono a risalire gli angoli decisi del suo volto, fino a toccare
la
curva dei lobi delle sue orecchie, la pelle delicata nel punto nel
quale esse
incontravano la sua mandibola. Che fosse una zona tanto erogena,
nessuno
l’aveva mai informato prima d’ora. Il respiro
sibilò dal suo naso al contatto.
Sentì le labbra della donna sorridere brevemente contro le
sue, prima di
inclinare leggermente il capo per meglio incastrare il profilo col suo
naso. Afferrò
con entrambe le mani le spalle minute di Kay, prima di seppellire la
sinistra in
quel tripudio di ciocche ramate che le arrivava a metà
schiena. Aveva sempre
adorato giocare con i suoi capelli, così sottili e setosi,
così diversi dai
suoi, tenuti sempre talmente corti da essere quasi ispidi al tatto.
Non
riusciva a concentrarsi sulla singola sensazione. La sua mente era
troppo
sovraccarica. Aveva l’impressione di essere attraversato come
da una piccola
corrente elettrica ogni volta che la lingua di Kay incontrava la sua.
Quando,
infine, vinta dalla necessità di respirare ed appoggiare i
talloni a terra, la
ragazza si scostò, J.T. le allacciò un braccio
attorno alla vita, quasi ad
assicurarsi che non s’allontanasse più dello
stretto necessario a consentire
loro di riprendere fiato.
Erano
vestiti dalla testa ai piedi, eppure J.T. non s’era mai
sentito tanto vicino a
qualcuno come nel momento in cui le sue iridi grigie videro il sorriso
timido
negli occhi e sulle labbra di Kay.
Si
leccò le labbra. Ormai non c’era alcuna speranza
che la donna non s’accorgesse
esattamente dell’effetto che quella vicinanza, quel lungo
bacio, aveva generato
in lui. Erano a contatto dalla punta delle scarpe alla curva della sua
spalla
dove il capo di Kay stava appoggiato un po’ storto per
consentirle di guardalo
in faccio.
“Non
è un sogno, se non vuoi che lo sia.”
Osservò lei.
Come
primo vero bacio tra loro non era stato affatto male, ma
c’era sempre spazio
per migliorarsi. Per esempio, poteva essere lui a cominciare stavolta.
Non
esitò a dare compimento a quel pensiero: le sue dita
scorsero piano sulla curva
del volto di Kay, le aggiustò appena il mento e riprese per
sé quelle labbra
morbide e dolci. Le strappò un sospiro che lo fece sentire
improvvisamente
invincibile, continuò a baciarla mentre le loro mani
esploravano reciprocamente
le curve e gli spigoli nascosti dalle rispettive magliette. Quando la
punta
delle sue dita sfiorò un capezzolo, mentre il palmo strinse
il seno che esso
decorava, Kay sussultò nel suo abbraccio. Interruppe il
bacio per assicurarsi
che fosse tutto ok.
“No?”
Domandò, consumando in quel monosillabo tutta la calma di
cui era capace in
quel momento e sperando fino all’ultima infinitesimale
particella del suo corpo
che Kay non avesse cambiato idea.
La
vide annuire con vigore, prima di mormorare “Sì,
sì, invece.” Poi la donna
appoggiò la mano sopra la sua, invitandolo a continuare a
stringere e
massaggiare a suo piacimento.
Non
era mai stato tanto sollevato in vita sua di non aver capito un tubo.
Riprese
da dove s’era interrotto. Il capezzolo che stava stuzzicando
si fece ben presto
compatto e solido come una pietruzza; J.T.
s’assicurò di non lasciare che il
compagno si sentisse trascurato. Kay sospirò forte, persino
attraverso la
stoffa, la sua pelle sembrava bollente. Le dita della ragazza avevano
liberato
la sua camicia dai jeans e si stavano insinuando sotto il tessuto,
là dove la
sua cintura segnalava il confine tra la schiena e la curva delle sue
natiche. Mani
incredibilmente forti per essere così minute e sottili,
massaggiarono i muscoli
tesi sotto le dita, spinsero il suo corpo più contro quello
di Kay. Per un
momento fu sul punto di dirle di slacciargli la cintura e aprirgli i
pantaloni,
tanto la costrizione dei suoi vestiti stava diventando offensiva, ma
Kiki era
sempre stata una ragazza estremamente brillante e mezzo secondo
più tardi le
sue dita erano al lavoro senza necessità di alcun comando
verbale. Quanto
amava fosse intuitiva. Liberato da quella miseria, J.T. si
trovò quasi ad
aver voglia di piangere dal giubilo quando Kay sollevò la
testa verso di lui,
lo fissò con quegli occhi verdi, infinitamente grandi, e
tracciando il profilo
del suo pene attraverso la stoffa di boxer e pantaloni, gli chiese.
“James,
voglio toccarti. Posso?”
Per
un attimo fu così instupidito che tutto quello che il suo
cervello sovraccarico
comprese, fu che l’aveva chiamato James, cosa che non aveva
mai fatto prima
d’allora.
“James?”
Le chiese, alzando un sopracciglio e spingendo, quasi senza
accorgersene, la
sua lunghezza contro la curva del palmo che lo stringeva attraverso la
stoffa.
Kay
si strinse nelle spalle. “Mi sembrava giusto …
Stiamo facendo cose nuove e… Non
so… J.T. è sempre stato uno dei miei migliori
amici, ma … James può essere il
nome del mio amante. No? Quando siamo a letto insieme, intendo. Se
vuoi,
ovviamente.”
L’unica
persona che lo chiamava James era sua madre quando da bambino la faceva
arrabbiare, ma in quel momento non gliene importava un fico secco,
avrebbe
potuto chiamarlo Annibale, se avesse gradito. Avrebbe attraversato le
alpi con
gli elefanti se fosse servito a farle continuasse quello che stava
facendo.
“James,
va benissimo, Kiki.” Rassicurò, prima di darle un
piccolissimo bacio a stampo
su quelle labbra così invitanti che cominciavano ad essere
rosse di baci. Dei
loro baci. Era una prospettiva … Gloriosa.
Kay
sorrise. Nessun’altro, almeno per quanto ne sapeva, la
chiamava Kiki. Erano
pari.
Il
suo pene guizzò sotto le dita della ragazza. Dio,
quanto era bella con gli
occhi che luccicavano intriganti. Anche ora che lo stava
fissando, con uno
sguardo a metà tra l’esasperato ed il divertito.
Le
pizzicò un capezzolo. Non troppo forte. Abbastanza da farla
sussultare, gemere
e sbuffare nello stesso momento.
“Ehi…Ohhh…”
“Ti
è piaciuto?!” Non era esattamente una domanda, la
risposta era evidente nel
gradevole rossore sulle sue guance e collo. Cazzo, lo sapevo.
L’aveva
detto a voce alta? Apparentemente sì, a giudicare
dall’espressione arcigna che
le rimandò lei.
Nonostante
l’apparente imbarazzo, Kay ammise.
“Sì… Ma tu non mi hai risposto,
invece.”
“Risposto?”
Kay
abbassò eloquentemente lo sguardo sul punto dove si trovava
la sua destra tra i
loro corpi.
“Oh…”
Mormorò, come risvegliandosi da un profondo torpore. Sono
un idiota
completo. “Sì, certo … Anzi
no …”
Kay
lo guardò perplessa.
“Cioè
sì, ma aspetta… Vieni.” Disse,
scostandosi da lei e prendendola per mano per
accompagnarla verso la sua camera.
Kay
fece due passi, prima di fermarsi.
J.T. si girò a
guardarla.
“Cosa
c’è?”
Avrebbe
voluto essere tranquillo e sicuro di sé, ma era un momento
talmente carico di
aspettative e tensione che ogni minimo segnale di esitazione, vera o
semplicemente percepita che fosse da parte di Kay, gli mozzava il fiato
dal
terrore e gli faceva sussultare il cuore come dopo miglia di corsa.
Altro che
ansia da prestazione. Se continuava così sarebbe stato
inevitabile rendersi
ridicolo. Ma J.T. avrebbe accettato di tutto, anche una performance
patetica e subpar, a patto che Kay non cambiasse
idea e decidesse che,
dopotutto s’era sbagliata, e no, in realtà, non
intendeva fare l’amore con lui.
Non ora, non in un altro momento.
Kay
si bagnò le labbra con la punta della lingua.
“Possiamo
stare di qui la prima volta?”
La
prima volta … Dio onnipotente! I
serafini stavano cantando
melodie mai sentite prima, inni di giubilo che nessun orecchio umano
avrebbe
mai sentito tranne lui. Beatitudine delle beatitudini … Non
aveva ancora avuto
tempo di rendersi conto che quello non era un sogno, uno strano frutto
della
sua immaginazione che Kay parlava di prima volta, come se programmasse
multipli
incontri. Se era un sogno non voleva assolutamente svegliarsi.
“Certo,
certo … Dove preferisci, Kiki.” Esitò
solo un momento, guardandosi intorno. Le
possibilità erano infinite. Il divano. Il tappeto.
Il tavolo. Il muro. Tutti
gli armadietti della cucina. Il pavimento. Appeso ai lampadari e in
ginocchio
sui ceci se gliel’avesse domandato. Tuttavia
… Se Kay non voleva andare
in camera per ora…
“Dammi
un momento, però.” Istruì, vedendola
appena annuire prima di lanciarsi lungo il
corridoio verso la camera. Entrò, aprì il
cassetto del comodino e recuperò al
volo la scatola dei preservativi. Ci guardò dentro. Quattro.
Stava per
prenderne uno, quando pensò all’elenco che aveva
fatto tra sé e sé prima di
infilare il corridoio. Tutto sommato… Kay aveva
detto la prima volta… Perché
non essere ottimisti. Al più, lei avrebbe pensato che avesse
afferrato l’intera
scatola per rapidità. Potevano
riportarsela in camera in un secondo
momento.
Tornò
verso la zona giorno, sventolando il suo bottino.
Kay
che s’era seduta sul divano, sorrise.
“Brav’uomo.”
Sussurrò, alzandosi ed andandogli incontro, gli tolse la
scatola di mano per
appoggiarla sul tavolino da fumo innanzi al sofà. Lo
abbracciò. “Dove eravamo?”.
J.T.
le catturò le labbra nel bacio più famelico che
le aveva dato sinora, una mano
artigliata nella stupenda cascata di fuoco dei suoi capelli, prima di
scendere
a baciarle la curva del collo, la risalì con labbra roventi
fino a sussurrarle
nell’orecchio.
“Stavi
facendo la gattina per me, Kiki, e dicevi di volermi toccare. Non sai
quante
volte l’ho desiderato.”
Kay
allungò un po’ il collo verso di lui per meglio
ricevere le sue attenzioni,
insinuò le dita nei suoi jeans, sotto la stoffa dei suoi
boxer, accarezzò la
pelle dei suoi addominali che si tesero in anticipazione di quanto
sarebbe
avvenuto.
Il
contatto di pelle su pelle lo fece sussultare. Ogni idea di dire
qualcosa di
seducente e brillante si obliterò nella sua mente di fronte
alla realtà che era
la mano di Kay che stringeva la colonna dolorante e fiera del suo pene.
Si
domandò per un attimo quale forza lo stesse tenendo in
piedi, mentre lei
osservava il suo volto con un’espressione deliziata.
“Era
un buon sussulto.” Osservò a voce bassa, muovendo
la mano avanti indietro e
scostandogli la maglietta dal ventre con l’altra.
Lasciò che le unghie gli
sfiorassero appena la pelle della pancia nel movimento verticale.
“Decisamente
un buon sussulto.” Rispose con voce un po’
strozzata. La sinistra di Kay
continuò a sollevargli la maglietta finché,
capito quello che voleva, J.T. lasciò
andare la curva dei fianchi che aveva stretto convulsamente dal momento
in cui
le mani della ragazza avevano sfiorato la stoffa dei suoi jeans e si
tolse la T-shirt.
Immediatamente Kay appoggiò la testa nella curva tra la sua
spalla e il suo
pettorale e baciò quel punto che non era esattamente petto,
né collo in cui lo
sternocleidomastoideo si inietta nella clavicola, abbassando la stoffa
che gli
imprigionava i fianchi fino a farla cadere alle caviglie nel tintinnio
della
fibbia della cintura sul pavimento. Sinceramente non gliene fregava
nulla di
come si chiamava quel punto, quella lezione di anatomia pratica era
già più di
quanto gli si potesse chiedere senza che gli si piegassero le ginocchia
o
inciampasse nei pantaloni, intrappolati dalle sneakers che indossava.
Completata
la manovra per liberarlo dai vestiti, la sinistra di Kay
sfiorò le sue anche,
indugiò brevemente nei peli, parecchie tonalità
più scuri dei suoi capelli del
suo basso ventre, ed, infine, strinse delicatamente il tessuto teso dei
suoi
testicoli. Buon Dio!
“Kay…”
Chiamò, con voce improvvisamente più bassa del
solito, mentre fissava incantato
la punta del suo pene emergere e scomparire nel piccolo pugno che lo
stringeva.
“Mmmm…”
Rispose lei senza smettere la sua intenta esplorazione.
“Sei
interamente troppo vestita e, se vuoi evitare che cada di faccia sul
tavolino,
sarà meglio che mi tolga le scarpe.”
La
donna annuì. Poi, togliendogli anche l’ultimo
frammento di autocontrollo che
aveva, si piegò a leccare la minuscola gocciolina che
emergeva dalla punta del
suo pene, prima di lasciarlo andare, non senza dare un bacetto
impertinente alla
colonna.
J.T.
si sedette sul divanò come se stesse crollando dal quinto
piano.
“Via
maglietta, mutandine e pantaloni. Il reggiseno voglio togliertelo
io” Ordinò,
slacciandosi le scarpe e scalciando pantaloni, boxer e calzini sul
pavimento, il
tutto senza distogliere lo sguardo da lei.
Un
sopracciglio curato si corrugò divertito, ma Kay
cominciò a fare esattamente
quanto aveva detto. “Siamo un po’
prepotenti…”
“Oh,
non sai quanto, Kiki.” Rispose, senza perdersi un momento
della pelle che
emergeva dai suoi vestiti.
La
maglietta di Kay raggiunse i vestiti di J.T. sul pavimento e sorridendo
come un
idiota, J.T. osservò le curve pallide del suo seno emergere
da un reggiseno
verde acqua.
“Tiffany
blue.” Mormorò con un compiacimento
totalmente fuori luogo.
Kay
annuì, aprendo la zip dei pantaloncini. “Ti sei
ricordato!”
“Faccio
del mio meglio.” Rispose prima che il movimento di fianchi
della ragazza per
liberarsi dai calzoncini lo ipnotizzasse.
Quando
anche quell’indumento fu sul pavimento e Kay ebbe infilato la
punta dei pollici
nell’elastico delle mutandine in coordinato con il reggiseno,
J.T. aprì le
braccia e la invitò.
“Svelta,
Kiki. Lancia le mutandine e vieni a sederti sulle mie
ginocchia.”
Kay
lanciò l’indumento verso di lui: lo prese per pura
fortuna sulla punta delle
dita dato che pensava l’avrebbe tirato verso gli altri
vestiti ed, in realtà,
stava guardando, affascinato come un ragazzino, il sesso di lei, la
minuscola
strisciolina di peli rossicci che accompagnava lo sguardo verso la sua
femminilità. Quando s’accorse che la stoffa che
stringeva era più che un bel
po’ umida, il sorriso s’allargò sul suo
viso abbastanza da fargli male alle
guance. Kay Kennedy, la ragazza che aveva sempre e solo potuto sognare,
era
eccitata all’idea di fare l’amore con lui.
Poi,
Kay si sedette su di lui, allacciandogli le braccia dietro il collo e
posizionando le sue ginocchia sul divano ai lati dei suoi fianchi,
dandogli una
visuale che gli mozzò il fiato, insieme ad ogni pensiero
razionale.
Le
dita di Kay gli accarezzarono la guancia, seguendo le rughe
d’espressione del
suo sorriso. “Credo di non averti mai visto sorridere
così.” Sussurrò. “Fa un
effetto strano ad una ragazza… Come se fosse la creatura
più bella mai
esistita.”
Le
afferrò il collo e la baciò con la furia con cui
il lupo cattivo doveva aver
divorato Cappuccetto Rosso.
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