Save the best for last

di lithium
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Misery loves Company ***
Capitolo 2: *** The world stopped turning ***
Capitolo 3: *** Dream of a lifetime - prima parte ***
Capitolo 4: *** Dream of a lifetime - seconda parte ***



Capitolo 1
*** Misery loves Company ***


 

 

 

MISERY LOVES COMPANY

 

** * **

New York City, aprile 2006

 

J.T. scavalcò un paio di Nike blu abbandonate tra l’ingresso ed il salotto per dirigersi verso la porta d’ingresso. Chi potesse essere a quell’ora indegna di un martedì notte era un mistero. Si passò la destra tra i capelli biondi cortissimi, come se le cuffie che portava ora al collo li avessero scompigliati.

Non attendeva visite e l’ultima volta che aveva controllato il suo conto corrente aveva pagato il mantenimento ad entrambe le sue ex-mogli. D’altro canto, conoscendo Rochelle…

Si chinò un poco ed osservò dallo spioncino. New York City non era esattamente il posto dove aprire la porta a caso nel cuore della notte, nemmeno se eri un uomo in forma sulla trentina. Quello che vide gli fece quasi ingoiare la lingua dalla sorpresa, mentre apriva la porta con una certa foga.

“Ehi, stranger!”

La cascata di capelli rossi sarebbe stata inconfondibile se anche la loro proprietaria non l’avesse, involontariamente, tormentato da quando era un ragazzo.

“Kay?” domandò, ancor più confuso dal fatto che lei fosse alla sua porta traballante su tacchi troppo alti e con l’aria alticcia. Fosse stato in grado d’essere più circospetto si sarebbe dato un pizzicotto per assicurarsi di non essersi addormentato di nuovo sul suo divano, giocando a WoW.

“Posso entrare?” Chiese lei, appoggiata malamente alla sua porta.

“Ehm, sì, certo.” Rispose J.T. indietreggiando per farla passare, mentre Kay barcollava all’interno, poi, chiuse la porta alle sue spalle, tenendola d’occhio con la coda dell’occhio. Non per la prima volta, J.T. dovette trattenersi dall’aiutarla, conoscendola si sarebbe infuriata.

Ancora mezzo paralizzato dalla sorpresa, il ragazzo la guardò circospetto, cercando di ricordare se l’avesse mai vista brilla in vita sua, mentre incapace di trattenersi oltre le allungava una mano per aiutarla a stare in piedi.

“Oh…” mormorò lei, sorridendo stupidamente a quel gesto e mandando in fumo ogni sua previsione. C’era qualcosa di estremamente strano quella sera nell’aria. “Volevo scusarmi per tutte le volte che ti ho dato del porco sciovinista.”

J.T. continuò a sorreggerla mentre camminavano verso il divano marrone, spostò con la mano libera il joystick in traiettoria e l’aiutò a sedersi. Cercò disperatamente una risposta.

“Ehm…” si morse leggermente il labbro, pensando. “Ti ringrazio, Kay. Come mai volevi dirmelo di persona alla 1.50 di …” Ah, pareva fosse già mercoledì.

Kay scacciò lontano le decolleté color ciclamino ed aprì il primo bottone del giacchino.

“Io …” Guardò la stanza per un attimo con sguardo intenso, come se la vedesse per la prima volta e fosse confusa un tantino di essere realmente lì. “Ah, sì … perché il mio capo … anzi no, ex capo, lui sì che è un porco sciovinista.”

L’unica cosa chiara era che J.T. non ci stava capendo un accidente.

“Mmm…” rispose, mentre continuava a fissarla, incerto sul daffarsi. Sedersi accanto a lei? Prepararle un caffè? Portarle la sua coperta e sperare che smaltisse la sbornia dormendo?

Kay interruppe i suoi pensieri. “Siediti, che mi gira la stanza se stai in piedi!”

“Eh?” domandò il fotografo.

“Siediti!” Ordinò Kay.

Persino ubriaca riusciva ad essere prepotente. J.T. si trattenne dallo scuotere la testa e fece quello che lei aveva chiesto.

Non era sempre così, anche quando pensava fosse il contrario?!

“Come sei arrivata qui?”

“Taxi.” mormorò la donna, alzandosi ed andando a spegnere la luce, nel momento stesso in cui lui si sedeva. Lo schermo accesso davanti a loro era più che sufficiente per vederci, ma nel ritornare verso il divano, Kay inciampò nelle Nike e, solo un buffo balletto, la tenne in piedi.

Ridacchiò, un risolino che J.T. le aveva sentito proferire raramente.

“Non volevo mi vedessi così, ma devo aver pensato che domani avrei perso il coraggio. Almeno credo. E mi sono trovata davanti al tuo palazzo.”

“Eh? Coraggio? Perché?” Certo era lei quella ubriaca, ma anche lui non brillava d’eloquenza e perspicacia quella sera.

“Sì, perché a nessuno piace ammettere di aver avuto torto, sai, né di essere stati cattivi e superficiali.”

Con qualche difficoltà Kay lo raggiunse sul divano e slacciò il secondo bottone del giacchino bianco di finta pelliccia che indossava. Si sedette di nuovo e cominciò il, nel suo stato non semplice, esercizio di coordinazione di toglierselo di dosso.

“Kay, tu non sei cattiva” La rassicurò l’amico.

La donna scosse la testa. “Invece, sì” Sospirò. “Pensaci! Quanto ti ho fatto soffrire da che ci conosciamo?”

In un certo qual modo era un colpo basso, ma non era una domanda a cui J.T. era disposto a rispondere sinceramente quella sera, non con lei in quello stato.

“Non l’hai fatto apposta, Kay.” Cercò un diversivo. “Dimmi, quanto hai bevuto esattamente?”

Lei tentò comicamente di alzare tre dita, le fissò perplessa e, poi, aggiunse. “Penso.”

“Tre cosa, tesoro?”

Kay si liberò finalmente dai confini del giubbino di pelliccia. “Non ho più caldo, ora.” Disse tra sé con un certo sollievo.

“Bene” osservò J.T. “Non che mi spiaccia vederti, Kay, ma perché sei qui?”

Kay lo guardò stringendo un po’ gli occhi, come se cercasse di focalizzare lo sguardo su di lui.

“Te l’ho già detto!” Protestò.

J.T. scosse di nuovo la testa, cercando di non pensare a Nick. “Vuoi un po’ di caffè, Kiki?”

“Dici?” domandò lei, stranamente docile.

“Dico.” Rispose l’uomo. Si alzò per andarle a prenderle una tazza e si diresse verso la cucina dell’altro lato della stanza, accendendo i led sotto l’armadietto, mentre cercava di ricostruire il filo di un discorso che non filava affatto. Fece l’unica cosa logica da fare.

“Vuoi provare a spiegarmi di nuovo, Kay?” Chiese, cercando di mettere nella domanda tutta la pazienza che desiderava mostrarle.

Kay fissò i suoi enormi occhi nei suoi. Sospirò.

“Sono stata cattiva con te e sono qui per scusarmi…” Ripeté.

“E lo apprezzo, tesoro, ma non ce n’era bisogno, sul serio.” Rispose, mentre le versava il caffè.

Le porse la tazza.

“Grazie.” Ne prese un lungo sorso mentre il logo del Punitore appariva in bianco col calore sulla superficie nera della mug.

Forse sono i tre bicchieri di prosecco che parlano, ma…”

“Prosecco?!” J.T. si dovette trattenere dal ridere. Avrebbe dovuto saperlo. Il suo scricciolo. Anche se quel possessivo era sempre stato doloroso.

“Mi hanno licenziato.”

La frase e il tono con cui era stata pronunciata, come se fosse la fine del mondo, distolse l’attenzione di J.T. dal momento di autocommiserazione.

“Licenziato?”

“Già!” Kay osservò per un po’ il pavimento come se fosse lì che avrebbe potuto trovare la chiave per risolvere i misteri del mondo.  “Ma io con Alan Davis non volevo andare a letto!”

J.T. si sedette di nuovo lentamente accanto a lei. Provò a mantenere il tono più neutro possibile. Kay era una donna adulta, non era mai stata sua, per quanto avesse desiderato il contrario da troppi anni per contarli.

“Cioè, fammi capire, mi stai dicendo che ti hanno licenziato perché andavi a letto col tuo capo?”

Kay bevve un altro sorso di caffè, lo guardò sdegnata e tossicchiò.

“No, mi ha licenziato perché gli ho detto di no.”

E se J.T. aveva pensato di essere di cattivo umore mezzo minuto prima immaginandola volontariamente con un altro, la sua indignazione raggiunse ora una vetta del tutto diversa.

“Cosa? Ma è … Oltraggioso. Illegale. Ingiusto!” Esclamò, balzando in piedi.

Kay sorrise amara. “Il mondo è ingiusto, Mitchell.” Gli porse la tazza ancora mezza piena.

“Ma devi fare qualcosa! Non puoi dargliela vinta così!”

“Mmm, ci penserò domani.” Disse, stiracchiandosi. “Ora devo fare pipi.”

J.T. si trattenne dal ridere forte a quella confessione, così in contrasto con quella di pochi secondi prima. Appoggiò la tazza di Kay sul bancone della cucina, mentre istruiva “In fondo al corridoio, a destra!”

Alzandosi a fatica, Kay rispose “Lo so.”

Scrutandola mentre si allontanava lungo il corridoio, lui la schernì “So-tutto-io!”

Kay cominciò ad incedere lentamente, poi si girò verso di lui, appoggiandosi al muro per stare più dritta. I suoi capelli una nuvola rossa un po’ scompigliata contro la penombra della parete bianca. Bella e lontana mille miglia, come sempre.

“Lo sai che ti voglio bene, vero?”

Con un pugno che gli stringeva il cuore nelle viscere, J.T. si sforzò di sorriderle.

“Lo so, tesoro.”

Lei gli sorrise sul serio. “E se non avessi avuto tanta paura di quello che avrebbe significato per te, ti avrei già detto di sì.”

Per un lunghissimo minuto J.T. stette fermo in mezzo al proprio salotto cercando di riavvolgere il nastro di quella conversazione nella testa.

“Sì?” chiese. A che cosa esattamente Kay avrebbe voluto dire sì, ora? Lui non le aveva chiesto nulla.

Ma lei riprese a camminare verso la porta del bagno, lasciandolo a scrutarsi nel riflesso della finestra alla luce fioca dei led e dello schermo.

Un uomo estremamente confuso ad un’ora in cui le persone per bene dormono con indosso un pantalone grigio della tuta che gli scendeva troppo sui fianchi, lo guardava di rimando. Cosa le aveva chiesto?

Stette in quella posizione per ancora qualche secondo, prima che una lampadina gli si accendesse nella testa.

Non dice sul serio! L’hai vista, è ubriaca e vulnerabile.

E se, invece, fosse stata seria? Se avesse infine acconsentito a quell’idea che gli frullava nella testa da mesi.

Il suo corpo si mise in moto prima che il suo cervello smettesse di pensare, raggiunse la fine del corridoio.

“Kay?” La chiamò attraverso la porta del bagno.

Sentì l’acqua del rubinetto scorrere e poi spegnersi, prima che lei comparisse di nuovo sulla soglia.

“Ehi…” Gli sorrise. “Mi hai trovata!” Ridacchiò.

J.T. l’osservò per un momento in silenzio, tutte le curve e gli spigoli del suo corpo che sapeva a memoria sembravano prendersi gioco di lui. Quante volte le aveva chiesto di posare per lui negli ultimi mesi? Quante volte aveva rifiutato prima di allora?

“Te l’hanno mai detto che non si prendono decisioni importanti quando si è bevuto?”

Kay annuì, sostenendo in silenzio il suo sguardo indagatore.

“Promesso?” Chiese infine il ragazzo.

Kay sorrise ed annuì. Era chiaro che non era ancora del tutto sobria, ma era un po’ meno brilla di quando era arrivata alla sua porta.

“Lo sai che ti voglio bene, vero?” Domandò J.T. a sua volta. “E non t’infurierai con me domani per aver promesso?”

Kay s’alzò appena sulla punta dei piedi e gli sussurrò nell’orecchio. “Promesso.”

J.T. strinse i pugni lungo i fianchi, le unghie corte che gli bucavano appena i palmi per la forza con cui li serrava per trattenersi dal toccarla. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima.

Kay s’allontanò un passo. “Posso dormire qui?”  Gli chiese, improvvisamente incerta, abbassando lo sguardo sui suoi piedi nudi.

Sarebbe stata una lunga notte insonne, prima di un giorno di lavoro infinito. Annuì. Non sarebbe stata la prima volta.

La donna si avvicinò e l’abbracciò, sollevando lo sguardo su di lui. “Grazie”.

Che lei l’allontanasse o trattasse con freddezza c’aveva fatto il callo negli anni, era quando era così, tutta affettuosa e docile che gli stritolava il cuore. Si staccò da quel piccolo corpo caldo che avrebbe voluto solo stringere, ma Kay lo tenne per mano.

“Mi preparo il divano?”

“No… Ti ho mai cacciato dal tuo letto?” Chiese lei quasi offesa all’idea.

La morsa intorno al suo cuore si fece un po’ più stretta. Some people are suckers for punishment.

“Lascia che vada a spegnere di là.” Le disse, ma Kay lo trattenne ancora un attimo.

“Ce l’hai ancora la mia coperta?” Chiese.

“Certo.”

Il pollice di Kay gli sfiorò teneramente le nocche della mano, prima di lasciarla andare e barcollare verso la sua stanza.

J.T. si trascinò verso il salotto. A volte essere amico della donna che ami fa veramente schifo.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** The world stopped turning ***


CAPITOLO II

THE WORLD STOPPED TURNING

 

Oceanside, sabato 8 luglio 2006

Melissa chiuse la porta d’ingresso del cottage con la punta del piede. Le chiavi di casa che ondeggiavano pericolosamente nell’anello del portachiavi inserito sulla punta del mignolo, quelle dell’auto inserite malamente nella tasca posteriore dei pantaloncini di jeans, il plico della posta sottoascella e la scatola con la colazione in mano, sbuffò appena. Raggiunse il mobile dell’ingresso senza fare disastri, per miracolo. Appoggiò le chiavi e la posta. Sì, aveva esagerato. Specialmente considerato che non le importava un fico secco di mangiare di solito.

“Ehi, scusami, c’era più fila di quanto pensassi e … Sono passata alla tua cassetta postale.” Alzò lo sguardo da quello che stava facendo per fissarlo sul suo interlocutore che la scrutava torvo, appoggiato ad una delle sedie di acciaio che circondavano il tavolo di cristallo del salotto. Nella luce della tarda mattinata estiva, i capelli bagnati, i piedi nudi e la camicia di lino ancora aperta addosso, Nick Malone continuò a guardarla, seccato. “Ciao.”

Melissa si morse il labbro. Non esattamente il risultato in cui aveva sperato, specie dopo aver svaligiato una pasticceria perché qualcuno era goloso.

“Avrei dovuto fare prima, volevo farti una sorpresa...” Continuò.

Nick annuì ed incrociò le braccia, spostando il peso da una gamba all’altra. Se non fosse stato alto quasi due metri avrebbe pensato di avere a che fare con un bambino petulante.

“Non sono arrabbiato…” Sospirò lui. “Solo …” Strano, perché sembrava tutto il contrario.

“Solo?” Melissa lo incoraggiò a continuare, portando la scatola dei dolci verso il salotto. Nick si spostò un po’ troppo in fretta. Ok, l’aveva inconsapevolmente fatta grossa. Appoggiò la scatola sul tavolo e gli toccò il gomito. La guardò e il suo sguardo si fece un tantino meno torvo. “Niente. Odio svegliarmi, non trovarti e non sapere dove sei.”

Le labbra di Melissa formarono una piccola “o” di sorpresa. Come diavolo aveva fatto a non pensarci …

“Scusami …” Si guardò le punte delle scarpe da tennis, cercando di non arrossire. “Dovevo andare e venire. Avrei dovuto lasciare un biglietto.”

Le dita di Nick le alzarono il mento, finché non lo fissò. La prese per la vita e se la tirò vicino. “Ehi … Davvero, non importa.”

“Non è vero …” Rispose Melissa. Le parole le morirono sulle labbra, mentre lo fissava così da vicino. Con la luce alle spalle e quell’espressione di passione velata di tristezza negli occhi blu avrebbe tolto la parola a donne molto più forti di lei.

“E, poi, odio anche i biglietti.” Aggiunse serio, prima di sbuffare all’assurdità della cosa. Il suo sguardo si fece interrogativo “Cosa c’è?” Le chiese.

Melissa cercò di non sorridere. “Niente…”

Lui le gettò un’occhiata scettica. Lei appoggiò la testa sul suo petto e sospirò inalando il suo odore. Avrebbe potuto rimanere così per ore, ma si sarebbe persa la scena seguente.

Con la voce così bassa che non l’avrebbe sentita se non fosse stato letteralmente ad un soffio da lei, rispose. “Te lo dico, se non ridi di me.”

Nick mormorò il suo assenso, senza lasciarla andare. Le sue lunghe dita le disegnavano complessi arabeschi sulla schiena.

Si bagnò appena le labbra e confessò. “Sei sexy da mozzare il fiato, stamattina.”

Nick gettò gli occhi al cielo, ma le sue labbra sorrisero mentre le stampava un bacio tra i capelli “E tu sei un’adorabile bugiarda”. Al solito, incapace di prendere un complimento per quello che era. Le diede una leggera pacca sul sedere.

“Vediamo di fare colazione, prima che ci ripensi e decida di mettere alla prova le tue parole.” Nonostante il caldo non sarebbe poi stato così male.

** * **

Cannella o cioccolato?” Domandò, mentre Nick versava il caffè.

Alzando lo sguardo dalla tazza, lui le lanciò un sogghigno. “Cannella, ma se dovessi lasciarmi un pezzetto di quella al cioccolato non mi lamenterei.”

Incorreggibile. Fortuna che è il figlio di un dentista!

Melissa cercò di non ridere, mentre continuava a sbucciare un’arancia. “Ed io che pensavo di indurti a mangiare un po’ di frutta.”

Nick appoggiò la tazza accanto a lei, inzuppò compiaciuto il rotolino alla cannella nella sua e ne addentò compiaciuto un boccone generoso. Deglutì. Fece un piccolo gemito di approvazione in fondo alla gola. “No, grazie. Non con questo ben di Dio.”

Come aveva fatto a pensare di poter rinunciare a questo? A lui?

Melissa cercò di riprendere il filo dei suoi pensieri, prima che Nick si accorgesse di nuovo che lo stava guardando con occhi da triglia. S’infilò in bocca uno spicchio d’arancia per prendere tempo. Che diavolo le prendeva quella mattina? Ah, già! Si alzò ed andò verso il mobile dell’ingresso a recuperare le buste.

“Quasi dimenticavo! C’erano queste nella tua casella postale.” Spiegò appoggiando una bolletta ed una grossa busta di carta marrone sul tavolo. “Hai idea di perché J.T. ti spedisca qualcosa per posta?” Di solito le comunicazioni tra loro erano elettroniche.

Con le dita ancora appiccicose di zucchero, Nick scostò la bolletta ed osservò l’indirizzo sullaltra busta.

“Non è la sua scrittura, però. J.T. ha certe zampe di gallina, lui stampa le etichette se deve scrivere un indirizzo che io sappia. Avrei giurato che la calligrafia fosse di…” Continuò pensieroso. Melissa gli porse un coltello pulito.

“Qualcuno avrà scritto l’indirizzo per lui.” Osservò la ragazza, sedendosi e riprendendo a fare colazione.

Nick cominciò ad aprire la busta. “Sì, sì. Somiglia un casino alla calligrafia di … Che strano.” Addentò un altro pezzetto di dolcetto, facendo scivolare il contenuto della busta che aveva aperto sul tavolo.

Un biglietto scritto a p.c. oscurava due pass d’ingresso e un catalogo di fotografia.

Incapace di trattenersi, Melissa fece scivolare verso di sé uno degli ingressi.

“È per una mostra… A San Diego. Tra dieci giorni.” Mormorò.

Nick bevve un sorso di caffè, continuando a leggere il biglietto ed annuì. “Sì, dice che verrà di persona ad inaugurarla.”

Melissa si grattò la punta del naso. “Oh, che bella notizia. Sembra una personale, Nick. Non pensavo che J.T. potesse esporre... Le sue foto di solito sono delle riviste che lo assumono.” Alzò lo sguardo dal pass e si accorse che Nick non la stava, esattamente, ascoltando ed aveva smesso di mangiare.

Lo osservò incuriosita. Stava sfogliando il catalogo e pareva molto concentrato.

“Vieni un attimo qui, Mel.”

Melissa s’alzò e lo raggiunse dall’altro capo del tavolo.

“Che ne pensi?”

Melissa osservò le foto del catalogo. Si strinse nelle spalle. Erano foto di J.T. Entrambi sapevano che la sua specialità erano donne poco vestite o nude. Le foto di J.T. erano state utilizzate da Maxim, Sport Illustrated e Penthouse.

Anzi, a dire il vero, stavolta i nudi erano sorprendentemente delicati. Più artistici. In bianco e nero, con tocchi di colore qua e là. I visi delle modelle per lo più nascosti dall’angolo, dalla luce o dallo zoom della fotografia.

“Per l’amor del cielo…” Sussurrò Nick, accanto a lei. Riprese la busta e osservò di nuovo l’indirizzo.

Melissa lo guardò perplessa. “Cosa?”

Nick appoggiò la busta sul tavolo e continuò a sfogliare il catalogo, finché non arrivò ad una foto in particolare. Era un primo piano. La luce alle spalle della modella ed i suoi capelli ne oscuravano pressoché completamente il viso, nell’atto di voltarsi verso il fotografo. Tutto quello che si poteva vedere era la pelle diafana della schiena della modella, i capelli gettati su una spalla, una mano maschile appoggiata sull’altra, come per richiamarne l’attenzione e chiederle di girarsi. Tutto era in bianco e nero, salvo i capelli della donna che erano una cascata di fuoco. Era una delle foto più innocenti che Melissa avesse mai visto scattare a J.T. eppure era meravigliosamente bella, sensuale.

“Wow.” Sospirò Melissa. “Non pensavo… Sono bellissime.”

Nick la fece sedere sulle sue ginocchia e continuò a sfogliare. “Già. Non mi sbagliavo, sai.” Mormorò. Non si sbagliava su cosa? Non le aveva ancora risposto. Melissa continuò ad osservare le foto susseguirsi, finché giunto alla fine del catalogo, Nick tornò alla foto della donna dai capelli rossi.

Nick prese un sorso di caffè, poi, si abbassò verso il suo orecchio e con un certo giubilo nella voce. “Guarda bene, amore. Chi conosciamo con i capelli così rossi?”

Melissa rise. Non poteva essere! Sarebbe stato più plausibile che J.T. avesse fotografato lo yeti.  Doveva aver trovato una modella con i capelli rossi come Kay. Si girò a guardare negli occhi Nick pensando di vedere che la stava prendendo in giro, ma era serio.

“Come...?” Cominciò a chiedere, poi, si ricordò che, per quanto preferisse non pensarci troppo, Nick sapeva esattamente come fosse fatta Kay nuda.

“Ce ne sono almeno altre cinque… Non ho idea di come l’abbia convinta, ma è sicuramente Kay.”

“Sei sicuro?”

Nick annuì. Melissa rubò la sua tazza di caffè e ne bevve un sorso, anziché recuperare la sua dall’altro capo del tavolo. Improvvisamente, non aveva parole.

“Anche l’indirizzo… È la calligrafia di Kay.” Le spiegò Nick, continuando ad osservare la foto, pensieroso. Poi, sorrise a quarantadue denti. “Fottuto figlio di …” Sussurrò giubilante.

“Nick!” Lo interruppe Melissa.

“Non guardare lei. Guarda la mano, Mel.” La donna prese il catalogo tra le mani per guardarlo meglio.

“L’anello!” Mormorò lei, incredula. “Nick! È l’anello di J.T!”

Nick rise di gusto, vedendola arrivare infine alla sua stessa conclusione. “Lo so, tesoro, lo so. Era terribilmente compiaciuto l’ultima volta che l’ho sentito al telefono!”

“Tu pensi che…” Melissa si interruppe, quasi non volesse dirlo per timore di rovinare la cosa.

“Io penso che il mio ex coinquilino ha un modo tutto suo di annunciare le cose!”

“Oh, Nick… Sarebbe così bello se non fosse solo una collaborazione, se ci fosse qualcosa di più.”

Nick annuì vigorosamente e s’allungò sul tavolo per afferrare la brioche al cioccolato. “Anch’io. Quella foto è una dichiarazione d’amore a tutti gli effetti, se ne ho mai vista una. Mi servono altri zuccheri per compensare.” Ne addentò un pezzetto e la porse a Melissa.

“Non ci resta che aspettare un decina di giorni per saperlo!” Mormorò lei, prendendo la mano di Nick nella sua.

** * **

New York, 25 aprile 2006

Kay osservò nuovamente la busta di manila appoggiata sulla sua scrivania. J.T. gliel’aveva consegnata la mattina ed era tutto il giorno che cercava di farsi coraggio ed aprirla. Era stupido. In fondo era stata una sua scelta.

Eppure. Talvolta fare le cose era meno spaventoso di rivederle a mente fredda.

Di cosa aveva paura? Non ne aveva esattamente idea.

Se era riuscita a sopravvivere a spogliarsi in uno studio fotografico… Garantito J.T. aveva buttato fuori quasi tutti, senza troppe buone maniere. Era rimasta solo la ragazza che s’era occupata di truccarla e pettinarla e, dopo un quarto d’ora, Kay s’era dimenticata, quasi, anche di lei. Come avrebbe potuto fare altrimenti? J.T. la guardava come se avesse davanti una delle sette meraviglie del mondo ed era in piena sessione creativa. Incredibile a dirsi, ma avrebbe detto che fosse persino … Affascinante in quel momento.

Cercò di non perdersi troppo nei suoi pensieri.

Prese il bicchiere di vino che si era versata. Coraggio liquido. Calzante, in un certo senso. Anche se, a dirla tutta, non aveva accettato perché aveva bevuto. Aveva accettato perché quell’animale di Alan Davis l’aveva fatta sentire senza un minimo di valore e … Non sapeva perché o non voleva ammetterlo.

Sospirò ed aprì la busta, facendo scivolare fuori le sue trenta fotografie che J.T. aveva stampato perché lei scegliesse quali preferiva per la mostra.

Le allargò sulla scrivania e prese un lungo sospirò. Ingoiò il vuoto. Le gambe le tremarono un po’ e dovette sedersi. Le aveva stampate in bianco e nero, ma ognuna aveva un particolare o due a colori.  Un groppo le si formò in gola. Erano fantastiche. Le sfogliò, cercando di rimanere distaccata. Non era umanamente possibile. Afferrò il cellulare. J.T. rispose al secondo squillo.

“Ehi …Le hai viste? Ti piacciono?” Chiese lui dall’altro capo, ancora prima di sentire la sua voce. Probabilmente attendeva quella telefonata da tutto il giorno. Kay cercò inutilmente di schiarirsi la gola.

“Sì.” Rispose, infine, con voce un po’ strozzata. “Sono stupende. Io … Sembro stupenda.”

Sentì il sorriso nel tono di J.T. mentre le rispondeva.

“Tu sei, sempre, stupenda, Kay!”

Non era vero, ma … In quelle fotografie sembrava lo fosse!

Stettero un attimo in silenzio, ascoltando il respiro l’uno dell’altra nel telefono.

“Allora, me le farai pubblicare?” Domandò lui.

Kay sfilò una foto in particolare. Era l’ultima che J.T. le aveva fatto. Era già voltata per andarsi a vestire e lui le aveva posato una mano sulla spalla e l’aveva scattata mentre si voltava verso di lui. Avrebbe dovuto vedersi il suo viso, ma il gioco delle ombre ed i suoi capelli oscuravano i lineamenti. La mise in cima alle altre. Era l’unica in cui appariva anche J.T.

“Promesso!” Rispose, osservando quell’immagine. J.T. l’aveva detto che avrebbero fatto un capolavoro insieme. Perché non gli aveva creduto?

“Ti voglio bene, Kay. Buonanotte” Lo sentì dire dall’altro capo del telefono. Lo conosceva troppo bene per non rendersi conto che stava facendo di tutto per non dire cose di cui si sarebbe pentito.

“Buonanotte J.T.” Lo salutò, prima di fare anche lei qualcosa di imperdonabile, tipo commuoversi al telefono.

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Capitolo 3
*** Dream of a lifetime - prima parte ***


Nota autore: volevo fare una parte sola, ma sta diventando lungo e fa troppo caldo per finire il resto.

Ah, casomai qualcuno l’avesse notato, i titoli dei capitoli sono un omaggio ai Lillian Axe.

Buona fine ferie

L.

 

CAPITOLO III

** * **

DREAM OF A LIFETIME

PRIMA PARTE

** * **

New York City, 4 giugno 2006

Come fosse finita in quel modo, anni dopo, James Thomas Mitchell non avrebbe saputo spiegarlo. Se glielo avessero domandato avrebbe dovuto dire che persino il dolore è una sensazione più facile da sopportare della speranza. L’uomo è fatto per le certezze. Bianco o nero. Sì o no. Eppure, la vita è fatta, in realtà, di un’infinita serie di grigi e, talora, quelle che pensi certezze granitiche si sciolgono come neve al sole.

Le persone cambiano. Oh, è vero, ciascuno è fatto di alcune immutabili caratteristiche di fondo, un nucleo che nemmeno i colpi più spietati della vita possono cambiare, ma le persone evolvono, lentamente, come la plastilina muta la sua forma per adattarsi alle mani del suo scultore.

L’aveva notato in prima persona: il J.T. che aveva sposato Samantha non era esattamente lo stesso che era uscito da quel matrimonio mesi dopo, ammaccato, ma intatto, e se le sue cicatrici non erano state profonde, era dovuto più ad un accidente della fortuna che ad altro. Purtroppo esse erano comunque state sufficienti a condurlo, più o meno volontariamente, nelle braccia di Rochelle. Nessuno avrebbe potuto dire che il suo secondo matrimonio non fosse un errore madornale. Chi più, chi meno sperimenta prima o poi nella vita il fallimento. Alcuni la prendono con filosofia, si danno una spolverata, si rialzano… Altri la vivono come Nick Malone.

Ma al contrario dell’amico, J.T. non era mai stato un uomo troppo complesso, non era portato alla malinconia. Era troppo superficiale, forse. Di sicuro era eccessivamente predisposto alla joie de vivre per permettere che la tristezza si impadronisse di lui, infliggendogli altro dolore di fronte agli inciampi della vita. Nulla era definitivo se non la morte. Persino Nick e Melissa sembravano esserci arrivati, infine. Nonostante tutto.

Ciò che J.T. non aveva mai considerato, nemmeno dopo essersi trovato a ventinove anni con una figlia che non sapeva d’avere, è che alla vita piace sparigliare le carte. Troppo. E tutto può succedere, anche le cose che hai sempre negato come possibilità perché contemplarle … È semplicemente troppo difficile, continuando a funzionare.

E, invece, improvvisamente, a fine aprile era come se il mondo avesse smesso di ruotare sull’asse ove l’aveva fatto per i trent’anni della sua vita e nulla fosse più impossibile.

J.T. non l’aveva presa con filosofia, stavolta.

No, a dirla tutta, James Thomas Mitchell non se l’era mai fatta tanto sotto dalla paura in vita sua, nemmeno quando si era trascinato in Oregon a conoscere la sua bambina. In un certo senso, era normale.  Sua figlia Marie non era mai stata nemmeno un’idea nella sua vita prima di emergere come una cometa, Kay Kennedy era stata una costante, forse l’unica, da almeno quindici anni, e, ininterrottamente, per tutto quel tempo, Kay era stata la donna che voleva più d’ogni altra e non poteva avere. La sua prima cotta, così devastante che non gli era mai passata. Nemmeno quando lei si era innamorata di Nick, nemmeno quando era stata, brevemente, la sua ragazza, nemmeno due mogli più tardi.

Kay Kennedy era la ragazza che aveva sempre voluto, ma non sarebbe mai stata sua. Punto e basta. Fine della conversazione. E, siccome, non averla del tutto nella sua vita era, buffamente, anche peggio di viverle accanto senza che fosse sua, J.T. s’era rassegnato a starle vicino come lei voleva, come amico.

E, poi, un martedì notte lei aveva bussato alla sua porta, alticcia e vulnerabile, e da lì, non avrebbe saputo dire come, ma “Alice aveva attraversato lo specchio” e ogni certezza s’era sciolta come neve al sole.

Avrebbe dovuto capire che qualcosa era profondamente cambiato nel momento in cui Kay aveva acconsentito a farsi fotografare da lui, ma, persino nel momento in cui aveva scattato quelle foto, J.T. non ne era perfettamente consapevole.

Certo, una volta che la tachicardia gli era passata, le mani avevano smesso di sudare, quando aveva fatto di tutto per comportarsi da professionista che era e fare il migliore servizio fotografico di cui fosse umanamente capace, aveva notato che Kay lo stava fissando pensierosa.

Qualcosa era cambiato ulteriormente dopo che lei aveva visto le foto del servizio fotografico. C’era qualcosa nella sua voce al telefono. Un entusiasmo che non aveva più sentito da prima che annunciasse di essere stata licenziata.

J.T. aveva sempre saputo che fotografare Kay non poteva essere come fotografare le centinaia di modelle che aveva visto negli anni. Qualche parte del suo cervello sapeva benissimo che aveva fissato con il suo obbiettivo donne molto più attraenti dell’amica, ma non c’era paragone per l’importanza emotiva che lui avevano assegnato a quel gesto.

Probabilmente entrambi condividevano tale convincimento.

Con il senno di poi avrebbe dovuto capire che era una sorta di segnale, ma era troppo concentrato nel fare bene, nel mettere Kay a suo agio, nel farla sentire al sicuro, nel cacciare tutti i collaboratori di troppo nella stanza, nel realizzare quello che voleva a tutti i costi fosse il suo capolavoro, per rifletterci.

Se fosse stato un pittore, anziché un fotografo, negli anni a venire avrebbe riempito i suoi quadri del verde acqua della gonna che aveva indossato Kay quella mattina quando si era presentata nello studio fotografico. Era un colore che il ragazzo non aveva mai considerato prima di allora e, improvvisamente, era diventato il suo preferito.

Non è verde acqua, aveva protestato lei quando gliel’aveva confidato, è color Tiffany. Naturalmente. Perché era una insopportabile so-tutto-io. Ma non gliene importava un fico secco. Che era una so-tutto-io. Non del colore. Il colore era importante.

Molte altre cose era divenute le sue preferite in quella fine di aprile 2006. Alcune cose J.T. già sapeva di amarle: quel mezzo sorriso di quando Kay era divertita, ma non voleva darti la soddisfazione di averla fatta ridere, quel gruppetto di lentiggini che, J.T. aveva sempre pensato, disegnavano un cuore tutto sbilenco vicino al suo ombelico, quel suo cercare di sembrare più alta indossando dei tacchi vertiginosi ogni volta che poteva.

Altre erano state una scoperta, ma erano divenute, improvvisamente, ancora più importanti, perché le aveva scoperte dopo quindici anni di amicizia con lei, perché erano quel genere di informazioni che si condivide con un amante.

Come fosse successo esattamente sarebbe stato complicato spiegarlo.

Sapeva che Kay si era presentata nel suo appartamento con la busta di foto che le aveva fatto consegnare. Aveva notato immediatamente che la ragazza appariva particolarmente felice quella sera, inspiegabilmente frizzante, ma l’arcano era stato rapidamente spiegato quando Kay aveva informato J.T. di aver contattato un suo conoscente che, viste le foto, aveva acconsentito a mettere a disposizione la sua galleria per una mostra delle foto di J.T. se lui fosse stato interessato.

“Vuoi dire che non solo mi permetti di pubblicarle, ma ti sei presa la briga di contattare qualcuno perché mi aiuti ad esporre… Una personale?”

Il sorriso di Kay era stato talmente aperto e radioso che per un attimo gli si era asciugata completamente la bocca. “Non mi ero mai resa pienamente conto …” Cominciò lei, per interrompersi. “E’ un delitto che tu non abbia già avuto decine di personali. Lascia che ti aiuti, come tu hai aiutato me con Mr. Davis.”

J.T. aveva messo Kay in contatto con una compagna di law school di sua sorella che si occupava di casi di lavoro a New York la settimana precedente. La donna non aveva ancora preso alcuna decisione in merito a cosa fare in relazione al suo licenziamento, ma gli aveva riferito che aveva molto su cui riflettere dopo aver avuto un colloquio con quell’avvocato.

J.T. aveva riflettuto un momento in silenzio. Era un’ottima opportunità e sapeva bene che la famiglia di Kay aveva un sacco di conoscenze ed agganci, in ambienti più raffinati di quelli che, di solito, frequentava lui. Ad ogni buon conto, J.T. non sarebbe stato in grado di negarle qualcosa che la faceva sorridere così nemmeno se avesse voluto.

Così aveva accettato e l’aveva ringraziata.

Aveva pensato che, poi, avrebbero discusso i dettagli del programma della donna. Kay Kennedy era il tipo di persona da presentarsi alla tua porta con un piano d’azione in raccoglitori colorati ed evidenziati, con post it. Efficienti come il president’s daily brief, ma estremamente più graziosi.

Ciò che non aveva immaginato era che Kay l’abbracciasse, né tantomeno quanto era successo in seguito.

Di per sé non era un avvenimento così inedito: per quanto lui tentasse di non starle troppo vicino di solito – non c’era motivo di torturarsi inutilmente – occasionalmente Kay si lasciava andare a gesti d’affetto nei suoi confronti. Non era certo la prima volta che Kay lo abbracciava o baciava sulle guance. Aveva dormito nel suo letto, più di una volta. Sola o insieme a lui. Qualcuno avrebbe potuto pensare che fosse un atteggiamento crudele, visto ciò che J.T. provava, ma lui non l’aveva mai pensata così. No, aveva sempre pensato fosse il modo che Kay aveva per dimostrargli che, pur non condividendo i suoi sentimenti, ne aveva altri di piena fiducia ed amicizia nei suoi confronti. Un estremo segno di rispetto.

Ciò che non era mai capitato prima di allora, però, era che, anziché scostarsi dopo averlo stretto brevemente, Kay si alzasse sulla punta dei piedi e nascondesse il viso nella curva della sua mascella e sospirasse, stringendolo più forte.

A disagio J.T. lasciò immediatamente andare le sue spalle, irrigidendosi. “Kay?” domandò alla nuvola di capelli rossi sulla sua spalla destra.

“Penserai che sono ridicola…” Mormorò lei nel suo collo.

Francamente nel milione e mezzo di pensieri che ho, che tu sia ridicola non mi ha affatto sfiorato.

“E’ che … Da quando ho visto le foto…” Continuò, senza alzare la testa.

J.T. tentò di concentrarsi sulla conversazione e non sul corpo che aveva drappeggiato addosso. Un conto era un abbraccio di cinque secondi, un conto avere una conversazione con lei, così. Rimase immobile, braccia lungo i fianchi, ascoltandola. Lei sembrava non avere alcuna intenzione di lasciarlo andare.

“É come se avessi improvvisamente capito come mi hai sempre vista tu.” Finì alzando lo sguardo verso di lui.

J.T. la fissò senza dire alcunché cercando disperatamente di divinare dal suo sguardo esattamente cosa Kay intendesse. Non sembrava seccata e aveva appena indicato che voleva aiutarlo ad esporre quelle foto, quindi immaginava fosse una cosa positiva, ma questo?

Parte di lui voleva disperatamente che fosse … Ma non poteva essere, quella che le sue parole sembravano suggerire era un’eventualità che non esisteva. J.T. tentò disperatamente di respirare normalmente e di mantenere un tono di nonchalance.

“E, quindi?” Le domandò, cercando quantomeno di scostare il bacino dal suo, prima di rendersi ridicolo.

Kay lo guardò intensamente prima di sfregare la punta del naso sulla curva della mascella. “Pensavo, saresti stato contento.” Rispose, il tono un po’ più incerto di poco prima.

“Sono contento … Che tu voglia aiutarmi… Ma, tesoro, lo so che ti fidi di me, ma devi smetterla.” J.T. avrebbe preferito che la sua voce fosse scherzosa, ma un po’ severa. Venne fuori come una preghiera mezza strangolata.

“Oh … Sì, certo, ma non intendevo quello. Sei sicuro che vuoi smetta? Io preferirei continuare.” Rispose Kay lasciandogli un piccolissimo bacio sul collo.

J.T. la prese per le spalle e se la scostò di dosso.

“Non è un gioco, Kay.” Sibilò e, stavolta, il tono e lo sguardo erano appropriatamente furiosi.

Kay non abbassò lo sguardo e si leccò le labbra. “Lo so …”

La fissò per un attimo. Era bella da fare male. Non poteva dire sul serio. Non dopo tanto tempo a respingerlo. Eppure … La conosceva da anni, non s’era mai comportata così e non aveva appena finito di rassicurarlo che sapeva che non era un gioco? Non era mai stata crudele, anzi.

J.T. sospirò. L’ultima cosa che desiderava tra loro era un malinteso. Con tutto l’autocontrollo di cui era capace, mormorò. Era troppo importante essere sicuro che ciò che le leggeva negli occhi non fosse un’invenzione del suo subconscio.

“Dovrai essere terribilmente chiara, Kay.” Sentenziò.

Erano ancora decisamente troppo vicini perché J.T. potesse pensare chiaramente e la sensazione di contemplare il fondo di un abisso non era mai stata così grande in vita sua.

Kay abbassò per un attimo lo sguardo sul pavimento, come se potesse trovarvi le parole. Quando lo rialzò era così intenso che, per un momento, a J.T. si mozzò letteralmente il fiato.

“Vorrei … Cioè mi piacerebbe fare l’amore con te… Se vuoi ovviamente.” Sembrava un tantino imbarazzata, ma nemmeno troppo. Non se si valutava quello che aveva appena detto.

Sicuramente era stata chiara come lui aveva chiesto e, certo, erano anni che J.T. voleva. Anzi ad essere sincero, era bastata quella frase per rendere assolutamente palese che era interessato, casomai qualcuno avesse mai avuto il dubbio.

Tuttavia andava detto altro.

Le prese la mano. Meglio togliere di mezzo prima le questioni spinose. “Sì, ovviamente piacerebbe anche a me.”  Non voleva ci fosse alcun equivoco in merito e lei si sentisse respinta. Sapeva esattamente quanto male poteva fare.

“Però, Kay, se dovesse essere un pensiero passeggero, un capriccio del momento… Mi fa piacere, non fraintendermi … Ma non credo di poterlo accettare. Non penso che ce la farei.”

Lei annuì seria, stringendogli di più la mano. “Sì, certo, capisco.” Scostò una ciocca dietro l’orecchio con l’altra. “Stai tremando.” Sussurrò.

J.T. non se n’era accorto, ma aveva ragione.

“Mi spiace.” Rispose abbassando lo sguardo sulle sue decolté troppo alte.

“No, no … Hai ragione io me ne arrivo qui bella come il sole … Però giuro che ci ho pensato su. Parecchio. Credo che abbia sempre avuto ragione tu e io sia stata cieca sino ad ora.”

“Kay …”Il tono era basso, un ammonimento a non continuare se non era sicura di quanto diceva.

“Lo so, non è un gioco…”

“No, è il sogno di una vita e … So che mi sveglierò da un momento all’altro.” Aggiunse amaro.

Lei scosse vigorosamente la testa.

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Capitolo 4
*** Dream of a lifetime - seconda parte ***


Nota autore: Buon anno. Puro smut, la trama non si muove di millimetro.

CAPITOLO IV

** * **

DREAM OF A LIFETIME

SECONDA PARTE

Alzandosi in punta di piedi, Kay prese delicatamente nel palmo la guancia di J.T., gli accarezzò il viso e avvicinò le labbra alle sue, la punta della lingua lambì ripetutamente suo il labbro inferiore, invitandolo ad aprire la bozza. Il ragazzo rispose a quel bacio prima ancora che la sua coscienza si rendesse pienamente conto di quanto stava facendo, come se il puro istinto avesse preso il sopravvento ed il suo corpo si fosse rifiutato di indugiare, nonostante tutti i massicci segnali di pericolo che si materializzavano nella sua mente.

Inclinò meglio la testa, costringendosi a non prendere il sopravvento, a lasciare che fosse Kay, le sue labbra morbide e leggermente paffute, a decidere dove portare quel bacio. Sapeva di caramella al limone e miele: J.T., che negli ultimi ventinove aveva sempre pensato fosse una combinazione da vecchia signora, si trovò improvvisamente a ritenerla il proprio sapore preferito. Le mani di Kay continuarono a risalire gli angoli decisi del suo volto, fino a toccare la curva dei lobi delle sue orecchie, la pelle delicata nel punto nel quale esse incontravano la sua mandibola. Che fosse una zona tanto erogena, nessuno l’aveva mai informato prima d’ora. Il respiro sibilò dal suo naso al contatto. Sentì le labbra della donna sorridere brevemente contro le sue, prima di inclinare leggermente il capo per meglio incastrare il profilo col suo naso. Afferrò con entrambe le mani le spalle minute di Kay, prima di seppellire la sinistra in quel tripudio di ciocche ramate che le arrivava a metà schiena. Aveva sempre adorato giocare con i suoi capelli, così sottili e setosi, così diversi dai suoi, tenuti sempre talmente corti da essere quasi ispidi al tatto.

Non riusciva a concentrarsi sulla singola sensazione. La sua mente era troppo sovraccarica. Aveva l’impressione di essere attraversato come da una piccola corrente elettrica ogni volta che la lingua di Kay incontrava la sua.

Quando, infine, vinta dalla necessità di respirare ed appoggiare i talloni a terra, la ragazza si scostò, J.T. le allacciò un braccio attorno alla vita, quasi ad assicurarsi che non s’allontanasse più dello stretto necessario a consentire loro di riprendere fiato.

Erano vestiti dalla testa ai piedi, eppure J.T. non s’era mai sentito tanto vicino a qualcuno come nel momento in cui le sue iridi grigie videro il sorriso timido negli occhi e sulle labbra di Kay.

Si leccò le labbra. Ormai non c’era alcuna speranza che la donna non s’accorgesse esattamente dell’effetto che quella vicinanza, quel lungo bacio, aveva generato in lui. Erano a contatto dalla punta delle scarpe alla curva della sua spalla dove il capo di Kay stava appoggiato un po’ storto per consentirle di guardalo in faccio.

“Non è un sogno, se non vuoi che lo sia.” Osservò lei.

Come primo vero bacio tra loro non era stato affatto male, ma c’era sempre spazio per migliorarsi. Per esempio, poteva essere lui a cominciare stavolta. Non esitò a dare compimento a quel pensiero: le sue dita scorsero piano sulla curva del volto di Kay, le aggiustò appena il mento e riprese per sé quelle labbra morbide e dolci. Le strappò un sospiro che lo fece sentire improvvisamente invincibile, continuò a baciarla mentre le loro mani esploravano reciprocamente le curve e gli spigoli nascosti dalle rispettive magliette. Quando la punta delle sue dita sfiorò un capezzolo, mentre il palmo strinse il seno che esso decorava, Kay sussultò nel suo abbraccio. Interruppe il bacio per assicurarsi che fosse tutto ok.

“No?” Domandò, consumando in quel monosillabo tutta la calma di cui era capace in quel momento e sperando fino all’ultima infinitesimale particella del suo corpo che Kay non avesse cambiato idea.

La vide annuire con vigore, prima di mormorare “Sì, sì, invece.” Poi la donna appoggiò la mano sopra la sua, invitandolo a continuare a stringere e massaggiare a suo piacimento.

Non era mai stato tanto sollevato in vita sua di non aver capito un tubo.

Riprese da dove s’era interrotto. Il capezzolo che stava stuzzicando si fece ben presto compatto e solido come una pietruzza; J.T. s’assicurò di non lasciare che il compagno si sentisse trascurato. Kay sospirò forte, persino attraverso la stoffa, la sua pelle sembrava bollente. Le dita della ragazza avevano liberato la sua camicia dai jeans e si stavano insinuando sotto il tessuto, là dove la sua cintura segnalava il confine tra la schiena e la curva delle sue natiche. Mani incredibilmente forti per essere così minute e sottili, massaggiarono i muscoli tesi sotto le dita, spinsero il suo corpo più contro quello di Kay. Per un momento fu sul punto di dirle di slacciargli la cintura e aprirgli i pantaloni, tanto la costrizione dei suoi vestiti stava diventando offensiva, ma Kiki era sempre stata una ragazza estremamente brillante e mezzo secondo più tardi le sue dita erano al lavoro senza necessità di alcun comando verbale. Quanto amava fosse intuitiva. Liberato da quella miseria, J.T. si trovò quasi ad aver voglia di piangere dal giubilo quando Kay sollevò la testa verso di lui, lo fissò con quegli occhi verdi, infinitamente grandi, e tracciando il profilo del suo pene attraverso la stoffa di boxer e pantaloni, gli chiese. “James, voglio toccarti. Posso?”

Per un attimo fu così instupidito che tutto quello che il suo cervello sovraccarico comprese, fu che l’aveva chiamato James, cosa che non aveva mai fatto prima d’allora.

“James?” Le chiese, alzando un sopracciglio e spingendo, quasi senza accorgersene, la sua lunghezza contro la curva del palmo che lo stringeva attraverso la stoffa.

Kay si strinse nelle spalle. “Mi sembrava giusto … Stiamo facendo cose nuove e… Non so… J.T. è sempre stato uno dei miei migliori amici, ma … James può essere il nome del mio amante. No? Quando siamo a letto insieme, intendo. Se vuoi, ovviamente.”

L’unica persona che lo chiamava James era sua madre quando da bambino la faceva arrabbiare, ma in quel momento non gliene importava un fico secco, avrebbe potuto chiamarlo Annibale, se avesse gradito. Avrebbe attraversato le alpi con gli elefanti se fosse servito a farle continuasse quello che stava facendo.

“James, va benissimo, Kiki.” Rassicurò, prima di darle un piccolissimo bacio a stampo su quelle labbra così invitanti che cominciavano ad essere rosse di baci. Dei loro baci. Era una prospettiva … Gloriosa.

Kay sorrise. Nessun’altro, almeno per quanto ne sapeva, la chiamava Kiki. Erano pari.

Il suo pene guizzò sotto le dita della ragazza. Dio, quanto era bella con gli occhi che luccicavano intriganti. Anche ora che lo stava fissando, con uno sguardo a metà tra l’esasperato ed il divertito.

Le pizzicò un capezzolo. Non troppo forte. Abbastanza da farla sussultare, gemere e sbuffare nello stesso momento.

“Ehi…Ohhh…”

“Ti è piaciuto?!” Non era esattamente una domanda, la risposta era evidente nel gradevole rossore sulle sue guance e collo. Cazzo, lo sapevo.

L’aveva detto a voce alta? Apparentemente sì, a giudicare dall’espressione arcigna che le rimandò lei.

Nonostante l’apparente imbarazzo, Kay ammise. “Sì… Ma tu non mi hai risposto, invece.”

“Risposto?”

Kay abbassò eloquentemente lo sguardo sul punto dove si trovava la sua destra tra i loro corpi.

“Oh…” Mormorò, come risvegliandosi da un profondo torpore. Sono un idiota completo. “Sì, certo … Anzi no …”

Kay lo guardò perplessa.

“Cioè sì, ma aspetta… Vieni.” Disse, scostandosi da lei e prendendola per mano per accompagnarla verso la sua camera.

Kay fece due passi, prima di fermarsi.

 J.T. si girò a guardarla.

“Cosa c’è?”

Avrebbe voluto essere tranquillo e sicuro di sé, ma era un momento talmente carico di aspettative e tensione che ogni minimo segnale di esitazione, vera o semplicemente percepita che fosse da parte di Kay, gli mozzava il fiato dal terrore e gli faceva sussultare il cuore come dopo miglia di corsa. Altro che ansia da prestazione. Se continuava così sarebbe stato inevitabile rendersi ridicolo. Ma J.T. avrebbe accettato di tutto, anche una performance patetica e subpar, a patto che Kay non cambiasse idea e decidesse che, dopotutto s’era sbagliata, e no, in realtà, non intendeva fare l’amore con lui. Non ora, non in un altro momento.

Kay si bagnò le labbra con la punta della lingua.

“Possiamo stare di qui la prima volta?”

La prima volta … Dio onnipotente! I serafini stavano cantando melodie mai sentite prima, inni di giubilo che nessun orecchio umano avrebbe mai sentito tranne lui. Beatitudine delle beatitudini … Non aveva ancora avuto tempo di rendersi conto che quello non era un sogno, uno strano frutto della sua immaginazione che Kay parlava di prima volta, come se programmasse multipli incontri. Se era un sogno non voleva assolutamente svegliarsi.

“Certo, certo … Dove preferisci, Kiki.” Esitò solo un momento, guardandosi intorno. Le possibilità erano infinite. Il divano. Il tappeto. Il tavolo. Il muro. Tutti gli armadietti della cucina. Il pavimento. Appeso ai lampadari e in ginocchio sui ceci se gliel’avesse domandato. Tuttavia … Se Kay non voleva andare in camera per ora…

“Dammi un momento, però.” Istruì, vedendola appena annuire prima di lanciarsi lungo il corridoio verso la camera. Entrò, aprì il cassetto del comodino e recuperò al volo la scatola dei preservativi. Ci guardò dentro. Quattro. Stava per prenderne uno, quando pensò all’elenco che aveva fatto tra sé e sé prima di infilare il corridoio. Tutto sommato… Kay aveva detto la prima volta… Perché non essere ottimisti. Al più, lei avrebbe pensato che avesse afferrato l’intera scatola per rapidità. Potevano riportarsela in camera in un secondo momento.

Tornò verso la zona giorno, sventolando il suo bottino.

Kay che s’era seduta sul divano, sorrise.

“Brav’uomo.” Sussurrò, alzandosi ed andandogli incontro, gli tolse la scatola di mano per appoggiarla sul tavolino da fumo innanzi al sofà. Lo abbracciò. “Dove eravamo?”.

J.T. le catturò le labbra nel bacio più famelico che le aveva dato sinora, una mano artigliata nella stupenda cascata di fuoco dei suoi capelli, prima di scendere a baciarle la curva del collo, la risalì con labbra roventi fino a sussurrarle nell’orecchio.

“Stavi facendo la gattina per me, Kiki, e dicevi di volermi toccare. Non sai quante volte l’ho desiderato.”

Kay allungò un po’ il collo verso di lui per meglio ricevere le sue attenzioni, insinuò le dita nei suoi jeans, sotto la stoffa dei suoi boxer, accarezzò la pelle dei suoi addominali che si tesero in anticipazione di quanto sarebbe avvenuto.

Il contatto di pelle su pelle lo fece sussultare. Ogni idea di dire qualcosa di seducente e brillante si obliterò nella sua mente di fronte alla realtà che era la mano di Kay che stringeva la colonna dolorante e fiera del suo pene. Si domandò per un attimo quale forza lo stesse tenendo in piedi, mentre lei osservava il suo volto con un’espressione deliziata.

“Era un buon sussulto.” Osservò a voce bassa, muovendo la mano avanti indietro e scostandogli la maglietta dal ventre con l’altra. Lasciò che le unghie gli sfiorassero appena la pelle della pancia nel movimento verticale.

“Decisamente un buon sussulto.” Rispose con voce un po’ strozzata. La sinistra di Kay continuò a sollevargli la maglietta finché, capito quello che voleva, J.T. lasciò andare la curva dei fianchi che aveva stretto convulsamente dal momento in cui le mani della ragazza avevano sfiorato la stoffa dei suoi jeans e si tolse la T-shirt. Immediatamente Kay appoggiò la testa nella curva tra la sua spalla e il suo pettorale e baciò quel punto che non era esattamente petto, né collo in cui lo sternocleidomastoideo si inietta nella clavicola, abbassando la stoffa che gli imprigionava i fianchi fino a farla cadere alle caviglie nel tintinnio della fibbia della cintura sul pavimento. Sinceramente non gliene fregava nulla di come si chiamava quel punto, quella lezione di anatomia pratica era già più di quanto gli si potesse chiedere senza che gli si piegassero le ginocchia o inciampasse nei pantaloni, intrappolati dalle sneakers che indossava.

Completata la manovra per liberarlo dai vestiti, la sinistra di Kay sfiorò le sue anche, indugiò brevemente nei peli, parecchie tonalità più scuri dei suoi capelli del suo basso ventre, ed, infine, strinse delicatamente il tessuto teso dei suoi testicoli. Buon Dio!

“Kay…” Chiamò, con voce improvvisamente più bassa del solito, mentre fissava incantato la punta del suo pene emergere e scomparire nel piccolo pugno che lo stringeva.

“Mmmm…” Rispose lei senza smettere la sua intenta esplorazione.

“Sei interamente troppo vestita e, se vuoi evitare che cada di faccia sul tavolino, sarà meglio che mi tolga le scarpe.”

La donna annuì. Poi, togliendogli anche l’ultimo frammento di autocontrollo che aveva, si piegò a leccare la minuscola gocciolina che emergeva dalla punta del suo pene, prima di lasciarlo andare, non senza dare un bacetto impertinente alla colonna.

J.T. si sedette sul divanò come se stesse crollando dal quinto piano.

“Via maglietta, mutandine e pantaloni. Il reggiseno voglio togliertelo io” Ordinò, slacciandosi le scarpe e scalciando pantaloni, boxer e calzini sul pavimento, il tutto senza distogliere lo sguardo da lei.

Un sopracciglio curato si corrugò divertito, ma Kay cominciò a fare esattamente quanto aveva detto. “Siamo un po’ prepotenti…”

“Oh, non sai quanto, Kiki.” Rispose, senza perdersi un momento della pelle che emergeva dai suoi vestiti.

La maglietta di Kay raggiunse i vestiti di J.T. sul pavimento e sorridendo come un idiota, J.T. osservò le curve pallide del suo seno emergere da un reggiseno verde acqua.

Tiffany blue.” Mormorò con un compiacimento totalmente fuori luogo.

Kay annuì, aprendo la zip dei pantaloncini. “Ti sei ricordato!”

“Faccio del mio meglio.” Rispose prima che il movimento di fianchi della ragazza per liberarsi dai calzoncini lo ipnotizzasse.

Quando anche quell’indumento fu sul pavimento e Kay ebbe infilato la punta dei pollici nell’elastico delle mutandine in coordinato con il reggiseno, J.T. aprì le braccia e la invitò.

“Svelta, Kiki. Lancia le mutandine e vieni a sederti sulle mie ginocchia.”

Kay lanciò l’indumento verso di lui: lo prese per pura fortuna sulla punta delle dita dato che pensava l’avrebbe tirato verso gli altri vestiti ed, in realtà, stava guardando, affascinato come un ragazzino, il sesso di lei, la minuscola strisciolina di peli rossicci che accompagnava lo sguardo verso la sua femminilità. Quando s’accorse che la stoffa che stringeva era più che un bel po’ umida, il sorriso s’allargò sul suo viso abbastanza da fargli male alle guance. Kay Kennedy, la ragazza che aveva sempre e solo potuto sognare, era eccitata all’idea di fare l’amore con lui.

Poi, Kay si sedette su di lui, allacciandogli le braccia dietro il collo e posizionando le sue ginocchia sul divano ai lati dei suoi fianchi, dandogli una visuale che gli mozzò il fiato, insieme ad ogni pensiero razionale.

Le dita di Kay gli accarezzarono la guancia, seguendo le rughe d’espressione del suo sorriso. “Credo di non averti mai visto sorridere così.” Sussurrò. “Fa un effetto strano ad una ragazza… Come se fosse la creatura più bella mai esistita.”

Le afferrò il collo e la baciò con la furia con cui il lupo cattivo doveva aver divorato Cappuccetto Rosso.

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