Jours de gloire

di settembre17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una birra ***
Capitolo 2: *** La luce del mattino ***
Capitolo 3: *** Una questione ***
Capitolo 4: *** Una follia ***
Capitolo 5: *** A Saint-Denis ***
Capitolo 6: *** Parole ***
Capitolo 7: *** Rivoluzione ***
Capitolo 8: *** Tra il 5 e il 6 luglio ***
Capitolo 9: *** Lungo la Senna ***
Capitolo 10: *** Le conseguenze dell'amore ***
Capitolo 11: *** Il soffio della paura ***
Capitolo 12: *** 12 luglio 1789 ***
Capitolo 13: *** 13 luglio 1789 ***
Capitolo 14: *** 14 luglio 1789 ***



Capitolo 1
*** Una birra ***


Si parte dalla liberazione dei soldati, poi si torna un po’ indietro e poi si va avanti. Fino a che punto? Si vedrà. L’avvertimento è uno solo: tutto quello che troverete forzato è spudoratamente e volutamente forzato!
La storia e i personaggi sono di Madame Ikeda e della sua meravigliosa fantasia.
Buona lettura e sempre grazie a chi vorrà dedicare il suo tempo a questo nuovo esperimento.


 

Jours de gloire

 
“E sento di essere un uomo. Penso che un uomo sia una cosa molto importante, forse più importante di una stella. Questa non è teologia. Non mi sento portato agli dèi. Ma provo un nuovo amore per quello scintillante strumento che è l’anima umana. È una cosa bella e unica nell’universo”.
(J. Steinbeck, La Valle dell’Eden)
 

 

Una birra


30 giugno 1789
“Qui sta succedendo qualcosa di grosso…” disse uno dei dodici soldati della Guardia.
“Alain!” chiamò un altro che cercava di arrampicarsi fino alla bocca di lupo per vedere fuori attraverso le sbarre.
“Che c’è? Lasciami in pace”, Alain fingeva di sonnecchiare seduto in un angolo, le gambe allungate e intrecciate sul pavimento sudicio della cella.
“Ma non sentite anche voi, ragazzi?”
“Sì, si sente gente che urla… tu capisci che cosa dicono Marcel?”
“No, non si sente… accidenti, queste mura sono troppo spesse…”, Marcel schiacciò con frustrazione il palmo delle mani sulle pietre come se potesse spostarle solo con la sua volontà. Poi stese le braccia e, ormai rassegnato al suo destino, lasciò ciondolare in mezzo la testa, con le onde bionde dei capelli che gli coprivano gli occhi.
“Alain…?”, chiese un soldato dallo sguardo smarrito.
“Che vuoi? Ti ho detto di lasciarmi in pace! Anzi state tutti zitti! tutti zitti ho detto!”
Il silenzio calò nella cella in cui i dodici soldati erano rinchiusi: erano accusati di alto tradimento perché avevano osato disobbedire agli ordini di un generale. Non erano nemmeno stati convocati di fronte alla corte marziale: la sentenza era stata emessa senza alcun processo. Sarebbero morti tutti. Tutti. Mancavano poche ore ormai.
Ad Alain l’idea di morire non piaceva per niente; l’idea poi di morire così, senza nemmeno un processo in cui far valere le sue ragioni, era una cosa che lo mandava su tutte le furie. Ma non c’era solo quello a renderlo insofferente e intrattabile: due altri pensieri lo angustiavano ancor più di quello di finire i suoi giorni fucilato nel cortile sudicio di quel carcere.
Il primo era che insieme a lui sarebbero morti anche i suoi compagni. L’avevano seguito in quella follia di disobbedire al generale Bouillé e lui se ne sentiva responsabile: se ci ripensa gli torna in mente il rumore della pioggia sul selciato, le gocce d’acqua che scendono a rivoli dalla visiera del cappello e davanti a lui, sorretto dai sottili garretti di un cavallo che evidentemente chiedeva pietà, quel gigantesco generale che aveva parlato quasi senza muovere i baffi e aveva intimato a loro, a loro!, di prendere le armi per sgombrare la sala dove erano ancora riuniti i rappresentanti del popolo. Ah! Ma che si credeva quello lì? Alain sentiva ribollire ancora il sangue quando ripensava al tono della voce di quel generale. Ed era stato proprio allora, proprio in quel momento, che lui aveva iniziato la sua personale rivoluzione: era rimasto fermo, aveva richiamato i suoi compagni che, spaventati dalla mole e dall’autorità di quel tizio che alla fine era un solo un uomo, un uomo che come tutti la faceva in un pitale per intenderci, stavano correndo pronti ad obbedirgli e allora lui, Alain, aveva alzato la voce, li aveva fermati, “che cosa state facendo?”, e poi aveva guardato in faccia quel generale, anzi, quell’uomo, e gli aveva detto, un’insubordinazione bella e buona, altroché!, che loro prendevano ordini solo da una persona. E che quella persona non era il generale Bouillé.
E questo lo portava dritto al secondo pensiero, cioè a quella persona, al comandante Oscar. E si pentiva Alain di aver detto davanti a quel bue in alta uniforme e mantello “Noi obbediamo solo al comandante Oscar François de Jarjayes”, se ne pentiva perché con quella frase aveva messo di sicuro nei guai lei. Da subito si era chiesto quali conseguenze il comandante avrebbe subito per la diserzione dei suoi soldati e aveva immaginato tragici scenari, una notte si era persino sognato il padre di lei che la uccideva per lavare l’onta recata al nobile casato dei Jarjayes! “Sono capaci anche di queste follie i nobili…” si era detto svegliandosi di soprassalto appena prima che, nel suo sogno, il generale sparasse a sua figlia. In ogni caso, la certezza che la loro disobbedienza aveva sicuramente aggravato la posizione del comandante Oscar lo tormentava. Magari le avevano tolto i gradi… magari l’avevano esiliata da qualche parte… nelle Indie? Non sapeva nemmeno dove fossero le Indie, lui. Una volta Marcel gli aveva parlato di un posto con un nome... che diavolo di nome era? Martinica? Sì, Martinica… Il comandante Oscar esiliata in Martinica… Che assurdità si vanno a pensare quando si sta per morire!
Ma il comandante rischiava davvero la corte marziale, e di nuovo Alain si incupiva, lei rischiava la carriera e la vita… Si grattò con il pollice in mezzo alla fronte e poi rovesciò il collo all’indietro, appoggiando la testa sulla parete della cella.
E allora con sollievo pensò che con lei c’era André e questo lo rassicurò: André l’avrebbe protetta, l’avrebbe protetta persino da suo padre, André l’avrebbe seguita. Anche nelle Indie, anche in Martinica!, se così doveva essere.
All’improvviso Alain piegò le gambe e si accucciò vicino alla porta, avvicinando l’orecchio alla porta.
“Che succede, Alain?”
“Sssht!”
“Ehi, ma questi sono passi… sì è la guardia, sento sbatacchiare le chiavi che si porta appese alla cintura…”
“Allora è arrivato il momento…”, a Marcel prese un tremore violento e il suo volto divenne terreo. Quante volte aveva detto che non gli importava di morire? Una scossa lungo la schiena gli disse che non era vero per niente.
Sentirono gli stivali fermarsi al di là della loro porta. La guardia girò la chiave e la porta si aprì, come se avesse una forza propria. Poi nel silenzio di quelle quattro mura, quella guardia, che aveva su di sé gli occhi di dodici condannati a morte, disse le parole che, per tutta la sua vita, ricordò come le più belle parole che avesse mai pronunciato.
E disse:
“Siete liberi.”
 
Nel tramonto estivo di quel 30 giugno, dodici soldati malconci ma fieri e commossi uscirono dalla prigione dell’Abbazia in mezzo a una folla di gente che li applaudiva, li salutava, li acclamava.
Undici di loro, increduli, ricambiavano quei saluti stringendo mani e voltandosi di continuo indietro per vedere allontanarsi quella maledetta porta. E proprio mentre con gli occhi vagava da un volto all’altro, con le mani toccava altre mani protese verso di lui, mentre, ormai fuori controllo per l’euforia, lanciava baci ad ogni volto di ragazza, fu allora che Marcel Laroche, spostandosi il ciuffo biondo dalla fronte sudata intravide in mezzo a tutte quelle persone il volto incavato e segnato di un uomo di mezz’età che lo guardava con gli occhi lucidi e timidamente gli sorrideva. Marcel ricambiò quello sguardo solo per un istante, giusto il tempo di trasformare il suo sorriso in una smorfia di disprezzo. Poi, senza nemmeno alzare la mano in segno di saluto, diede le spalle a suo padre.
Uno di quei dodici soldati, invece, era sgusciato via in fretta dagli abbracci della folla e camminava a passi lunghi e decisi verso la fine del viale d’accesso alla fortezza, dove aveva visto da subito, appena varcata la soglia del carcere, le sagome delle due persone a cui voleva più bene. Un uomo e una donna a cavallo. André e Oscar.
Alain sentì che tutto andava a posto e sentì nascere il sorriso sul suo volto e qualcosa di umido tra le ciglia.
Allungò la mano verso di lei e lei la strinse: le dita di una donna nella stretta decisa di un uomo.
E lei, come al solito, non volle alcun merito e disse:
“Non devi ringraziare me, devi ringraziare il popolo”.
Ma lui lo sapeva che senza quella donna meravigliosa il popolo non si sarebbe riunito intorno a quella prigione per chiedere che fossero liberati.
 
Quando anche gli altri soldati raggiunsero il comandante Oscar erano ormai inebriati dalle violente emozioni di quella giornata e siccome in quella euforia il pensiero di separarsi era impensabile, perché si sentivano un corpo solo reduce dal rischio più grande che un corpo può correre, Marcel, con la camicia tutta aperta sul petto giovane e glabro su cui dondolavano le maniche della giacca che si era annodato al collo, urlò:
“Ragazzi, qui ci vuole una birra! Conosco il posto giusto! Comandante! Non dite di no! E anche tu André!”, aveva un sorriso così bello, gli incisivi superiori grandi e un poco più lunghi di quelli laterali, e uno sguardo così acceso, che non gli si poteva resistere.
André guardandolo sorrise.
“Non dite di no, comandante Oscar!”
Lei si accorse di quel sorriso.
“Una birra comandante! Un brindisi alla vostra salute!”
Una birra, solo una birra.
“Offriamo noi comandante, eh!”
Lei non poté far altro che acconsentire e così si avviarono tutti alla taverna più vicina. Invasero la stanza angusta e ancora vuota di clienti con la loro chiassosa allegria e poi presero posto, alcuni ai tavoli, alcuni al banco.
Cantavano, si davano manate sulle spalle, ridevano, brindavano con tale energia che nel giro di poco i boccali già traboccavano e la schiuma raggiungeva le pietre del pavimento.
Marcel, al bancone, con lo sguardo un po’ spiritato e il gomito appoggiato alla spalla del compagno seduto sullo sgabello vicino, gesticolava mimando nell’aria gli eventi delle ultime ore. L’altro accennava con metà faccia nascosta nel boccale, mentre la voce forse troppo stridula di Marcel si impennava in descrizioni entusiastiche delle ragazze che era riuscito ad abbracciare.
 
Solo al tavolo del comandante la conversazione languiva: Oscar si fingeva interessata all’esuberante vivacità dei suoi soldati e li osservava con eccessivo interesse, notò Alain. Gli sembrò che stesse fissando gli altri perché faticava ad osservare… André. Ma non era arrabbiata con lui, no… ad Alain sembrò piuttosto che lei fosse… a disagio? Anche quel gesto che faceva di sistemarsi in continuazione il polsino… non gliel’aveva mai visto fare quel gesto…  Decise di rompere il ghiaccio:
“Allora, André, che cosa hai combinato in questi giorni? Te la sei cavata anche senza di me?”
André si sforzò di sorridere, pensò alla sera in cui era stato così vicino alla morte da sentirla soffiare sul suo collo, alla sera in cui senza vergogna e senza timore aveva confessato al generale quanto amava Oscar, alla sera in cui lei era riuscita solo a dire “André, io…” e poi pensò ai giorni successivi, sempre in servizio, alle rare volte in cui era riuscito a parlare con lei e quasi solo a proposito di Bernard e del suo piano, a quell’unico brevissimo momento da soli lungo la Senna a Saint-Denis, e rispose:
“Certo che me la sono cavata. Ti ho preparato la branda e pulito il fucile, tanto sapevo che saresti tornato…”
Lei fece un piccolo sorriso.
Alain si grattò il mento con aria perplessa: “Ti credevo in licenza in questi giorni. Non sei tornato… da tua nonna?”
Lei si irrigidì e si sistemò il polsino, da tua nonna
“No, sai com’è, eravamo in pochi in caserma senza di voi e così ho rimandato il congedo. Vedrò la nonna un’altra volta.”
Lei abbassò lo sguardo.
Calò di nuovo il silenzio a quel tavolo, mentre intorno sembrava scatenarsi una giostra di felicità. Ormai tutti cantavano senza intonazione e senza ritegno mentre le ragazze si facevano scegliere senza pudore.
 
Alain pensò che un tempo lì in mezzo ci sarebbe stato anche lui. Invece ora stava bene lì. La birra era anche incredibilmente buona in quel posto, non sapeva di piscio allungato come nelle taverne che frequentava lui. Il sapore della birra, la compagnia degli amici, la libertà: che cos’altro può volere un uomo?
Così osservò sé stesso e gli altri, stupendosi di quanto gli piacesse ultimamente, per la precisione da quando aveva buttato l’ultima zolla di terra sulle tombe di sua madre e di sua sorella Diane, di quanto gli piacesse parlare poco e raccogliere dettagli e particolari della vita che gli si muoveva intorno.
André, per esempio, beveva a sorsi lunghi e lenti, teneva il boccale con la mano destra, lo abbracciava con le dita ignorando il manico e poi portava il bicchiere alle labbra socchiudendo l’unico occhio, senza strizzarlo, però, come faceva altre volte. Il Comandante poi non aveva bevuto neanche metà boccale, se lo rigirava tra le mani da tanto di quel tempo che di sicuro quella birra era diventata imbevibile… gli occhi erano stanchi e forse era un po’ pallida, ma si vedeva che era soddisfatta, che la tensione la stava abbandonando per lasciare posto alla spossatezza di chi ha finalmente il cuore in pace. Gli altri soldati, invece, ormai senza freni, tuffavano la faccia nel boccale e i loro volti risalivano gocciolanti di schiuma e di birra; il tragitto era sempre lo stesso: un volo dall’alto al basso, le labbra che precipitano sul boccale inclinato quanto basta, i gomiti larghi sul tavolo.
Lui e André no, pensò Alain, loro preferivano un percorso diverso e il boccale veniva sollevato su, fino alle labbra, dove si fermava per qualche istante. E poi di nuovo giù, lentamente, sul piano del tavolo.
Per un momento si sentì invecchiato, Alain.
Se avesse conosciuto André dieci anni prima avrebbero bevuto come Dio comanda: con la testa rovesciata all’indietro, e poi un sonoro tonfo sul tavolo, magari facendo a gara a chi finiva per primo, magari giocandosi a testa o croce il bicchiere successivo, magari adocchiando qualche ragazza allegra e generosa…
Alain scosse la testa con un sorriso amaro: non c’era più tempo per quella leggerezza. Il sorriso spensierato di Diane lo colpì a tradimento e lo costrinse a una smorfia involontaria che André colse in silenzio.
“Si è fatto tardi. Torno a casa”, disse lei sforzandosi di usare il suo tono risoluto.
Alain si alzò e le tese ancora una volta la mano: sapeva che in quel gesto lei avrebbe saputo leggere tutta la sua gratitudine e la promessa di una fedeltà che mai sarebbe venuta meno. Lei gli strinse la mano con un mezzo sorriso, guardò Alain brevemente negli occhi e poi lasciò scivolare lo sguardo giù, verso le loro mani, che erano unite proprio all’altezza del volto assorto di André. Non riuscì a impedirsi di ruotare leggermente il collo perché i suoi occhi potessero abbracciarlo per un istante solo e quando si accorse che lui non la stava guardando ma che fissava il fondo del suo boccale, si risolse ad andare. Si strappò via dall’unico occhio di André che per una volta non guardava lei, si strappò via dalla riconoscenza di Alain, dai saluti scomposti ma pieni di affetto degli altri soldati, si strappò via da quella taverna e lanciò il suo cavallo nel vento.
 
“Un altro giro?” chiese André con la voce bassa.
“Come vuoi, amico.” Alain voltò la sedia e si sedette a cavalcioni.
La cameriera arrivò con due boccali schiumanti e li appoggiò sul tavolo in modo frettoloso, poi si girò con una teatrale piroetta ed ancheggiando raggiunse a metà scala Marcel Laroche, che la stava aspettando con lo sguardo di chi ha deciso di finire il gioco iniziato anche se quel gioco ormai lo disgusta.
 
Alain fece durare a lungo la sua birra nella speranza che André si decidesse a parlare, ma quello continuava a tacere. Allora si sforzò di ascoltare il silenzio di André; e in quel silenzio lui sentì davvero, e sentì che per la prima volta nella sua vita poteva dire di avere un amico.
E quell’amico gli stava dicendo: Stai qui con me, Alain. Beviamoci una birra senza dire niente. Non c’è niente da dire. Del tuo dolore, del mio… non c’è niente da dire. Ma avere un amico rende tutto più sopportabile, vero? Non ti chiederò che cosa hai provato in quella prigione, non ti chiederò se hai pensato a Diane quando credevi che saresti morto anche tu. Eppure queste sono le uniche domande che contano. Ma adesso beviamoci solo questa birra, Alain. Una birra insieme. Non ti chiederò se hai paura di quello che accadrà in questo paese perché, Dio!, è una domanda così stupida! Certo che abbiamo paura… Ma adesso beviamoci solo una birra, amico mio. È più di quanto sperassimo di poter fare fino a ieri.
Alain sorrise tra sé e facendo roteare il fondo del boccale sul tavolo in un silenzio commosso gli rispose: Sì, è così. Beviamoci questa birra, amico mio. Fino a qualche ora fa credevo che avrei visto il plotone d’esecuzione; invece, ho visto la tua donna che stendeva una mano verso di me… un angelo salvatore, la tua donna. E tu sei così triste, amico mio… è successo qualcosa, in questi ultimi giorni, vero? No, non te lo chiederò. Credi che non abbia notato il vostro silenzio? Ho imparato a riconoscere i vostri silenzi: alcuni sono belli, ve li invidio. Quello di stasera, invece, era così… pesante, amico. Che cosa vi sta succedendo? No, non te lo chiederò. Ma lo vedo che ogni volta che socchiudi l’occhio per bere la tua pupilla si sposta verso la porta… tu speri che lei torni? O vuoi fissare nella memoria l’immagine di lei che se ne va? No, non te lo chiederò. Ma una cosa, una sola, stasera te la voglio dire, amico mio.
 
“Lei ti ama, André”, disse Alain appoggiando il boccale sul tavolo.
Gettò lì la frase senza aspettarsi una risposta.
Ma André rispose. E disse:
“Certo che mi ama”.
Alain non l’aveva mai visto così serio, così sicuro, così rassegnato.
Poi André gettò qualche moneta sul tavolo e uscì.

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Capitolo 2
*** La luce del mattino ***


La luce del mattino

 
1° luglio 1789
 
Marcel Laroche aprì gli occhi infastidito da una mosca che ronzava insistente intorno al suo orecchio. Agitò la mano in aria con un movimento indolente cercando di recuperare da qualche parte le forze necessarie a capire dove fosse e che ore fossero.
Non si stupì di non conoscere il letto in cui si trovava e, quando ruotò la testa alla sua destra, oltre la spalla, non si stupì nemmeno di vedere una schiena nuda e riccioli neri sparsi su un cuscino dalla federa ingiallita. Quello che un po’ lo stupì, nel sollevare il busto puntando i gomiti sul materasso sfondato, fu constatare che al di là di quella tizia sdraiata, in effetti, ce n’era un’altra, di tizia.
Si grattò la testa pensieroso e aggrottò le sopracciglia. No, proprio non ricordava.
Erano tutti e tre nudi, constatò ancora intorpidito dal sonno.
“Devo essermi divertito”, pensò sbadigliando.
Poi si alzò e si diresse alla piccola specchiera basculante appoggiata sul comò cercando di non inciampare nei vestiti seminati sul pavimento e soffocando a stento un’imprecazione quando il suo piede nudo calpestò la forcina più appuntita di Francia.
Il sole intanto non era ancora entrato in quel vicolo e quindi la stanza era avvolta nella penombra: Marcel ruotò lo specchio in modo che la poca luce proveniente dalla finestra gli restituisse la sua immagine.
Quello che vide lo impressionò: era molto dimagrito in quella settimana di carcere, la fame e la paura avevano allontanato dal suo volto la bellezza della gioventù e, lui non ne era ancora consapevole, gli avevano dato il fascino dell’età matura, che, come diceva sua madre, tanto dona agli uomini e che raramente si posa con grazia sulle donne.
Si passò una mano sulle guance sfiorando il punto in cui un tempo una piccola fossetta faceva capolino insieme al suo sorriso e poi fece scorrere le dita fino ad accarezzare le basette e la barba bionda che, dopo una settimana senza rasatura, rendevano il suo aspetto vagamente selvatico.
Aveva anche le occhiaie, gli occhi gonfi per il troppo bere, e cerchiati di rosso per il troppo sesso.
Si grattò distrattamente una natica e poi iniziò a raccogliere i suoi vestiti e a vestirsi.
Mentre la camicia scivolava sul suo torace, il tessuto leggero copriva un tatuaggio nascosto a lato del cuore, poco al di sotto dell’ascella. Aveva una storia quel disegno.
 
Gli avevano detto che c’era un tizio che faceva tatuaggi sul retro di un bordello vicino ai giardini del Luxembourg. E allora quel dannato giorno, circa un anno prima, Marcel gli si era parato davanti con lo sguardo più disperato che un essere umano possa dipingersi sul volto, con gli occhi pieni di una furente follia. Aveva fatto cadere sul tavolaccio un sacchetto di monete e poi rivolto a quel tizio, con una durezza che la sua voce mai aveva avuto prima, aveva trascinato fuori dai denti quattro parole:
“Dove fa più male?”
“Sulle costole” aveva buttato lì con assoluta indifferenza l’altro.
Marcel si era lasciato cadere su una sedia impagliata e si era alzato la camicia, poi, fissando il vuoto davanti a sé aveva detto:
“Due cuori. Vicini ma non uniti. Legati con una catena. Una goccia di sangue sotto ogni cuore.”
 
Un frusciare di lenzuola lo mise in allarme: Marcel accelerò la vestizione per poter sgattaiolare via più in fretta possibile senza essere costretto a smancerie o, peggio ancora, a nuovi incontri ravvicinati. Ne aveva avuto a sufficienza e ora doveva tornare in caserma.
Mentre quelle due annunciavano il prossimo risveglio con mugolii e stiracchiamenti davvero poco eleganti, Marcel infilò la porta e se la richiuse velocemente alle spalle. Pagò la notte, “Tutto compreso, eh” disse all’oste, e poi uscì con la camicia aperta e la giacca in mano. Doveva correre se voleva arrivare in tempo in caserma, pensò.
Svoltò l’angolo e si fermò nel vicolo stretto sul retro della taverna a svuotare la vescica contro il muro. E mentre era lì, assorto a godersi quel prosaico piacere, riconobbe in quel muro tutti i muri della sua infanzia e quelli della sua giovinezza, in quelle crepe lo sfondo di una gioventù passata in mezzo a quelle strade di Saint-Germain. Sentì il dolore afferrarlo alla gola e gli venne da vomitare. Allora decise di correre, di correre via.
E Marcel corse, attraversando strade che conosceva fin da bambino, perché lui in quel quartiere c’era cresciuto e ora, sì, correva perché era in ritardo, ma correva perché non voleva camminare in quelle strade, non voleva fermarsi in quei vicoli, non voleva guardare il bucato steso alle finestre, non voleva incontrare persone conosciute a cui rendere conto di troppe cose, non voleva incontrare nessuno, nessuno e specialmente, all’improvviso l’immagine di un uomo vecchio e stanco con un braccio alzato in mezzo alla folla lo assalì, sì, specialmente era quel vecchio che lui non voleva incontrare. E correre, ancora, correre via perché laggiù a destra, c’era lo scorcio di una strada, sbarrata e chiusa in fondo al pozzo nero che era diventato il suo cuore, una strada in cui non doveva passare perché lì faceva troppo male. Faceva ancora, faceva sempre troppo male pensare a Joséphine.
E così Marcel correva, correva senza pensare a baci e promesse, a lacrime e sorrisi, “Joss…”, correva e la sua gioventù sosteneva la sua corsa, le gambe lunghe scavalcavano pozzanghere e rifiuti lasciati a marcire in mezzo alle strade, “Joss…” il sudore imperlava la sua fronte che il vento liberava dal ciuffo biondo dei capelli, gli occhi luccicavano al sole e le guance si coloravano nello sforzo di non perdere il passo, di non rallentare, “Joss…”, finché non si fosse parato davanti a lui il cancello spalancato della caserma dei soldati della Guardia Metropolitana.
 
“Laroche!”
Marcel sentì quella voce alle spalle e si irrigidì, poi in fretta e furia chiuse la camicia, infilò la giacca e si voltò verso il suo comandante.
“Comandante!” fece il saluto militare meglio che poteva, ma il sudore che gli appiccicava i capelli sulle tempie e sul collo e il fiatone che ancora gli faceva sobbalzare il petto non contribuivano a fare di lui il perfetto soldato che il comandante di sicuro si aspettava.
Il comandante però lo sorprese e gli sorrise:
“Vai a sistemarti nella tua camerata, Laroche, la rivista sarà tra mezz’ora”.
“Agli ordini, Comandante!”, si voltò dopo aver battuto i tacchi e aver fatto nuovamente il saluto, ma lei lo fermò:
“Laroche…”
“Comandante...?”
“Nei giorni scorsi ho avuto modo di conoscere tuo padre. È stato qui ogni giorno, era molto spaventato per la tua sorte. Immagino la gioia che hai provato nel rivederlo…”
“Mio padre…”, fece un sorriso ironico, “…e ditemi, comandante, vi ha portato del denaro mio padre?”, il bel volto di Marcel si contrasse in una smorfia di disgusto.
Lei fece un’espressione sorpresa. In effetti…
“Oh, comandante, non stupitevi. Mio padre è così. Sistema tutto col denaro, lui”, e nel dire quelle parole Marcel divenne pietra. Poi aggiunse:
“In ogni caso no, non l’ho rivisto, comandante. E ora scusatemi, vado a prepararmi per la rivista”.
Oscar lo vide volare via, come il vento quando è arrabbiato e i suoi soffi portano solo cattivi pensieri.
 
Mentre ancora lo guardava sentì risuonare sul selciato un rumore conosciuto. Chiuse gli occhi e accompagnò con la mente, uno dopo l’altro, i passi alle sue spalle, la cadenza di quell’incedere che era il suono che da poco aveva scoperto di amare da tutta una vita. Poi sentì anche la sua voce:
“Comandante…”, e si gustò quel timbro di voce sempre ad occhi chiusi, giusto un istante.
Poi, con il solito piglio, si girò e dall’alto del suo cavallo lo guardò e rispose al suo saluto:
“Soldato Grandier…”
Lui proseguì oltre, verso la fucileria.
“André…” disse lei allora.
Lui si fermò e si guardò attorno: controllava che non ci fosse nessuno, che nessuno avesse sentito. Visto che erano soli, allora fece qualche passo verso di lei:
“Che cosa c’è, Oscar?”
“Fa caldissimo, vero?”
André vorrei dirti… vorrei portarti… c’è un posto, André, un posto che ti vorrei mostrare…
 
“Siamo in luglio… e queste divise proprio non aiutano…”
Stai bene? Mi sembri così pallida in questi giorni… Ti prendi cura di te?
 
“Già… pare che stia arrivando un altro temporale…” disse lei osservando intenta il cielo per non dover abbassare gli occhi sul volto di lui.
Resta qui ancora un po’, André, anche se non so che cosa dirti… resta qui con me
 
Lui la guardava, in attesa. Di certo non l’aveva fermato per parlare del tempo.
Che cosa vuoi che faccia, Oscar? Non ti capisco… parlami o congedami, ti prego…
 
“André… tu che cosa sai di Marcel Laroche?”
È meglio concentrarsi su altro, vedi? Possiamo stare vicini, possiamo parlare, sei qui davanti a me, e sei bellissimo, André, e possiamo parlare di Marcel, possiamo trovare un terreno su cui muoverci insieme senza essere costretti a interrogarci sul nostro essere insieme, sì, parliamo di Marcel, André, parliamone finché il dovere non ci chiamerà, stai qui con me, stai qui a parlare con me…
 
“… un tipo in gamba, forse un po’ inquieto… perché?”
Vuoi parlare di Marcel? Davvero? E va bene, parliamo di Marcel…
 
“Sai perché si è arruolato?”
Certo che lo sapeva, ma non aveva proprio voglia di discuterne con lei. Non con lei, non in quel momento.
“No, Oscar, non so nulla. Perché?”
“Ho conosciuto suo padre nei giorni scorsi… è venuto spesso per avere notizie… Tu sai che lavoro fa?”
“Fa il pellaio, a Saint-Germain, la Villier frères è sua”
“La Villier frères…?”
Un concitato battere d’ali di un gruppo di colombi li interruppe ed entrambi guardarono verso il punto da cui quel rumore era partito, seguirono l’alzarsi in volo dei colombi e poi i loro sguardi scesero di nuovo e si incontrarono lì, a metà strada tra il cielo e il muso mansueto di César.
 
Se io non fossi a cavallo, André, non resisterei e ti prenderei la mano
Se tu non fossi a cavallo, Oscar, non resisterei e allungherei la mia mano verso la tua guancia
 
Poi entrambi videro entrare nella piazza d’armi il colonnello d’Agoult a cavallo.
 


23 giugno 1789 notte, 24 giugno mattina
 
Quando il messo della regina se ne andò, André vide il generale rivolto verso sua figlia e verso di lui, vicini alla balaustra dello scalone. E siccome lei ancora taceva, André fece un respiro e si staccò da lei, da lei che non si muoveva e continuava a tenere lo sguardo fisso al pavimento dell’atrio, anche se ormai lì non c’era più nessuno da vedere o da ascoltare.
Poi, come mossa da una forza esterna, lei ruotò leggermente la testa fino a incrociare l’unico occhio di André, ma gli occhi le si riempivano di pianto e si sentì incapace di dire qualunque cosa, così abbassò subito lo sguardo, come se stesse rinunciando ad affrontare le conseguenze di tutto quello che aveva appena vissuto.
Lui la guardava con tenerezza e con comprensione non aspettandosi nulla più di quel silenzio. Poi, sapendo che lei in quel momento non sarebbe stata in grado di trovarsi sola di fronte a lui e così per liberarla dalla sua presenza davvero troppo ingombrante, si avvicinò a sua nonna, che ancora era accucciata a terra, fuori dallo studio in cui tutto si era consumato, e la fece alzare delicatamente abbracciandola e sostenendola finché fu in piedi. Ma la nonna lo sorprese perché, una volta dritta sulle sue gambe, non lasciò la presa e tenne le sue dita arpionate al braccio di André e poi con le labbra strette sussurrò:
“Portami nella mia stanza, André”.
“Andiamo, nonna”.
Passarono alle spalle di Oscar, ancora appoggiata alla balaustra, e la nonna nel passarle vicino tirò un po’ su con il naso: avrebbe voluto stringerle una mano, darle una carezza sulla testa, come quando era una bambina che mangiava i biscotti al tavolo della cucina con i piedi che penzolavano dalla sedia senza arrivare al pavimento, ma non era il caso, no, davvero, non era il caso.
Invece la superò e scese le scale senza mai lasciare André che la sosteneva.
Superò il generale senza guardarlo, solo stringendo un po’ più forte il braccio di André, e poi, una volta in cucina, gli disse: “Accompagnami in camera mia, André, ho bisogno di una mano stasera”.
 
La nonna chiuse la porta alle sue spalle, poi indicò ad André la poltrona vicino al letto:
“Per favore, André, siediti”.
“Nonna, domani devo svegliarmi presto, mi aspettano in caserma. E anche tu hai bisogno di riposare…”
“No. Adesso stai qui perché mi devi ascoltare.”
“Non c’è niente da dire, nonna.”
“Eccome se ci sono cose da dire. Ce ne sono moltissime, André.”
“Nonna, le parole non cambiano le cose.”
“Ascoltami, André, non ti voglio parlare di sentimenti, né di Oscar, né di te. Credi che io non sappia? Che io non veda? Vivo in questa casa da quando il generale era più giovane di te, ne ho viste molte di cose… ma… ma quello che ho visto e che ho sentito stasera…”
“Ma il pericolo è passato ora. Tutto è finito bene. Siamo ancora tutti qui”, cercò di tagliare corto lui.
“No! Niente è finito. Almeno per me”.
Sentì il tono di voce indurito, l’inflessione tipica di chi sta comunicando una decisione definitiva.
“Ti ascolto”.
Allora lei si parò di fronte a lui, i pugni stretti lungo i fianchi.
“Io non credo che potrò mai perdonarlo. Quello che voleva fare stasera a Oscar è al di là della mia comprensione e del mio perdono. L’avrebbe trafitta con la sua spada, l’avrebbe uccisa! E avrebbe ucciso anche te. Come posso restare a servizio di un uomo che potrebbe avervi entrambi sulla coscienza? Come posso prendere ordini da un uomo così?”
“Nonna, il generale è un uomo che ragiona secondo le regole del suo tempo e del suo rango, non fingere di non conoscere quello che noi sappiamo da sempre. I nobili lavano così l’onta del tradimento”.
“Non nel 1789, André, non adesso, non più. Non lo posso più sopportare”.
“Nonna…”
“Senti, non è necessario essere giovani per capire quello che non si può più accettare, non è necessario essere giovani per desiderare un mondo più giusto”. Il mento le tremava. Aveva iniziato la sua rivoluzione.
Le strinse la mano.
“Non voglio parlare di quello che provi per Oscar, e nemmeno di quello che lei prova per te. Sono fatti vostri e siete due persone talmente riservate che mi sembrerebbe di invadere la vostra intimità parlando di questo. Ma non posso perdonare, non posso accettare quella spada levata sulla testa di Oscar o sulla tua”.
“Quindi, che cosa vuoi fare, nonna?”
“Ascoltami: finché Oscar vivrà in questa casa, io starò qui e veglierò su di lei. Tu sei quasi sempre in caserma e credo che quando tu non ci sei a lei faccia bene la mia presenza. Anche se mi limito a fare i biscotti e a borbottare rimproveri perché si trascura troppo.”
“Sì, è così…”
“Lei sta cambiando, l’hai notato?”
“… sì, in alcune cose sì, sta cambiando”.
“Lo sai che non vuole più essere servita? La mattina la trovo già vestita e talvolta quando entro in camera sua il letto è rifatto. Se il generale non c’è, viene a mangiare qualcosa in cucina e si serve da sola. Tra un po’ vorrà anche lavarsi i piatti se va avanti così…”
Lui sorrise di tenerezza e la immaginò con le mani nell’acquaio, vicino a una finestra e a un vaso di margherite.
“Ora ascoltami bene. Se un giorno lei decidesse di non riuscire più a vivere qui, di andarsene, io lascerei questa casa. Non è così anche per te?”
“Lo sai che è così. Ma lei non se ne andrà mai.”
“Io non credo. Dorme sempre più spesso in caserma e quando è a palazzo pare che non veda l’ora di tornare a Parigi… tra qualche tempo qui non tornerà più”, e mentre lo diceva iniziò a rovistare sul fondo dell’armadio e ne trasse una busta ingiallita e un sacchetto di iuta gonfio.
“Tieni”
Lui li aprì: denaro e lettere di credito.
“Nonna, sono tantissimi soldi… Sono i risparmi di tutta una vita, vero?” la accarezzò e le fece un sorriso.
“Compra un appartamento a Parigi, André. Usa questi soldi per comprare un appartamento, un posto in città, vicino a mercati e botteghe. Vicino a una bella chiesa dove io possa andare a pregare tutte le mattine. Una casa per me, ma abbastanza grande perché ci sia spazio e indipendenza anche per… per un giovanotto come te”.
“Nonna, metti via questi soldi e non preoccuparti”, la abbracciò forte, chiudendola contro il suo petto senza farle male perché sentiva la fragilità di quella vecchietta piena di risorse e di carattere.
“No, voglio che tu faccia quello che ti ho detto”.
A lui venne da sorridere al pensiero di quello che stava per dirle.
“Nonna, ho già comprato un appartamento a Parigi”.
Lei rimase sbigottita le mani strette al seno.
“L’ho comprato l’anno scorso quando Oscar era… quando è andata in Normandia. L’ho dato in affitto a due studenti della Sorbona… Ma ora hanno terminato gli studi e torneranno in Borgogna…”
“André…”
Lui le parlò piano, con la voce venata di malinconia:
“… ma un pomeriggio ti porterò a vederlo. È molto bello, sai? C’è tanta, tantissima luce e dà su una piazza magnifica, di fianco a una delle chiese più belle di Parigi. A piano terra abita un anziano avvocato con la figlia nubile ed è lui che si occupa dei miei inquilini e dell’appartamento quando io non posso essere presente, due bravissime persone, nonna, davvero. E sulla strada, proprio vicino al portone c’è un fioraio, nonna, che anche ora che gli affari vanno male, ha sempre un banchino colorato che mette allegria e a volte si vedono ragazzi che vengono a comprare un mazzo di margherite alle loro ragazze che li aspettano su piccoli calessi e…” scosse la testa mentre il sogno che da sempre accarezzava tornava a far sentire la sua disperata dolcezza e trattenne un singhiozzo in un respiro profondo.
La nonna allora gli strinse forte una mano: “Sei un uomo come ce ne sono pochi, André”.
Poi si diedero la buonanotte e le luci a palazzo Jarjayes si spensero.
 
André si alzò la mattina dopo al primo cinguettare degli uccelli: il cielo era ancora buio e le ultime stelle della notte brillavano nel cielo che ormai aveva perso la sua oscurità. Indossò l’uniforme e poi si diresse alla scuderia dopo essersi affacciato alla porta della nonna che ancora dormiva profondamente.
Si avviò nei corridoi silenziosi del palazzo, intravedendo negli specchi e nelle vetrate la sua sagoma in movimento, il riflesso familiare di una vita spesa tra quelle mura. Per un momento si stupì che quel riflesso non fosse preceduto da una nuvola bionda, magari in un’uniforme rossa. Dio, come avrebbe voluto tornare ad avere dieci anni di meno! Non sentire quella precarietà, quel senso di fine incombere su di loro, su di lei…
Stai ancora dormendo, Oscar?
Gli stivali schiacciavano la ghiaia scricchiolando nel silenzio perfetto del mattino: lui solo si preparava ad iniziare la giornata, lui solo sotto quel cielo francese. Lui. Solo.
Prima di prendere il suo cavallo accarezzò quello di lei sul muso e sussurrò piano al suo orecchio: “Ci vediamo più tardi, bello… portala da me, portala da me presto, César”. Poi le dita scesero sulla criniera e piano si staccarono dal cavallo nel saluto consueto tra loro.
E mentre conduceva a mano il suo cavallo fuori dalla porta e poi sul viale fino al cancello per non far rumore e per non svegliare nessuno, la prima luce del giorno, gentile, lo avvolgeva rendendo la sua figura sottile alla vista, quasi un’ombra che si dissolve nel chiarore. Se si fosse voltato, se avesse guardato un po’ in su verso le finestre che più aveva amato guardare nella sua vita, allora André avrebbe saputo che due occhi azzurri e innamorati lo stavano accompagnando.

 
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Ci tengo a ringraziare Manucom69 che, con un lavoro davvero ammirevole e molto ben documentato, ha steso una fantastica cronologia dell’anime che, in parte ma non sempre, seguirò in questa storia.
Manucom69 l’ha resa disponibile su diverse fonti web, io l’ho trovata qui:
https://ladyoscar.forumfree.it/?t=77832319
 

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Capitolo 3
*** Una questione ***


Portate pazienza perché ancora per qualche capitolo si procede su due piani temporali: il primo va dal 23 giugno (data dell’accusa di tradimento) al 30 giugno (la liberazione dei soldati), il secondo dal 30 giugno in avanti.
Un grazie di cuore a tutti voi che leggete!
Sett.
 

Una questione

 
24 giugno 1789
 
Quella mattina, dopo aver salutato Bernard, sentiva finalmente un po’ di pace e una speranza per la sorte di suoi soldati. Era sempre stata così, lei: doveva dare concretezza ai suoi pensieri per sentirsi a posto. Non le bastava pensare, lei doveva agire. Era fatta così. Benché solo la sera prima avesse rischiato di morire per mano di suo padre, benché la sera prima fosse stata a un soffio da rivelare il segreto del suo cuore davanti a tutti, più forte in lei era stato il senso del dovere, la responsabilità che avvertiva per la sorte dei suoi soldati.
Così, accantonando tutto, si era concentrata su una strategia che li potesse salvare. Poi, una volta presa la decisione di chiedere aiuto a Bernard, aveva contato i minuti che la separavano da quell’incontro.
Certo, aveva lasciato in sospeso la questione che più sentiva premere nel suo cuore, ma non perché fosse secondaria, piuttosto perché in un qualche modo confuso sentiva che quella questione meritava tutte le sue forze, tutta la sua concentrazione, tutta sé stessa senza distrazioni.
 
Così quando finalmente, vestita in borghese per non dare nell’occhio e con un cappello a larghe falde calcato sul capo, si era seduta in una taverna deserta di fronte a Bernard, aveva visto il suo piano prendere forma e consistenza: si trattava di radunare una folla intorno alla prigione dell’Abbazia, di far capire allo Stato maggiore dell’esercito e ai sovrani che, se i dodici soldati non fossero stati liberati, quella folla avrebbe potuto essere pericolosa. Molto pericolosa. Lei avrebbe garantito l’ordine, Bernard avrebbe coinvolto il popolo.
Lei e Bernard si erano stretti la mano, poi lui aveva buttato là:
“Mi piacerebbe molto che una testa come la tua lavorasse per noi”.
Lei aveva fatto uno di quei sorrisi enigmatici da Monna Lisa e aveva così nascosto un istintivo disagio per quell’uscita. Noi chi?, si era chiesta per un istante. E poi: perché quando vedeva Bernard, nonostante lui le dimostrasse un’aperta amicizia, arrivava sempre un momento in cui avvertiva in sé stessa, in lontananza, un’ombra di diffidenza, quasi di muto rancore? Forse perché trasferiva su Bernard la diffidenza che nutriva verso Robespierre che di Bernard era il mentore e il riferimento politico? O perché non riusciva mai del tutto a passare oltre, a superare il fatto che da lui dipendeva la cecità di André?
 
In ogni caso ora si trattava solo di aspettare. Bernard aveva detto che avrebbe organizzato tutto in modo da passare all’azione entro qualche giorno: ci voleva tempo per informare Robespierre e gli altri, per parlare al popolo e per convincere una sufficiente quantità di persone a radunarsi intorno alla prigione per chiedere a gran voce la liberazione dei dodici soldati. Ripassò mentalmente il piano: lei avrebbe garantito l’ordine, ma sarebbe stata veloce a comunicare allo stato maggiore quando quell’ordine sarebbe stato minacciato. A quel punto, così lei confidava, piuttosto che rischiare una sommossa e dare un ulteriore pretesto alla furia popolare, i soldati sarebbero stati rilasciati.
Un azzardo?
Si passò la mano sulla fronte: ancora quello strano sudore freddo… ebbe un brivido che attribuì agli eventi delle ultime ore.
Per cacciare i brutti pensieri si mise a camminare senza una meta, infilando vicoli rumorosi e sporchi, allontanandosi dalle strade principali, perdendosi volutamente nei meandri della città, come se fosse possibile, per qualche momento, non essere lei.
 
Ora che il destino dei suoi soldati non era più nelle sue mani, mentre i rumori della strada si attutivano e venivano relegati nella sua coscienza a un brusio indistinto di sottofondo, quella questione gigantesca, quella che la sera prima era quasi esplosa nello studio di suo padre, la assediava da ogni parte. E più lei la soffocava e fingeva di ignorarla,
lo sto facendo da mesi, o forse addirittura… da anni…
subordinandola sempre a qualcos’altro, al suo dovere, alle incombenze, alla politica, alla Francia, più quella questione era sempre lì: immobile e paziente aspettava, ben acquattata intorno alle pareti del suo cuore. Bastava un momento di incoscienza, di stanchezza, di debolezza, che quella invadeva tutti i suoi sensi con una prepotenza ogni volta maggiore.
Quella questione, da mesi lo ammetteva senza finzioni, aveva il nome di André Grandier, il nome che da sempre era l’eco di qualunque azione lei compisse, di qualunque emozione lei provasse.
 
Svoltò in una stradina in salita e, una volta arrivata in cima, si fermò a guardare indietro la Senna che scorreva placida sotto di lei. Aveva il fiato un po’ corto, in effetti: del resto erano giorni che non si riposava decentemente. E poi il sole che impietoso batteva sulle strade ancora allagate dal temporale della notte prima non faceva che rendere l’aria soffocante, il respiro corto. Pareva di respirare gocce d’acqua insieme all’aria; avvertì per un istante il desiderio di respirare con la bocca, come un pesce che boccheggia.
Tornò con il pensiero a lui.
Sapeva di dover affrontare quella questione, anzi, voleva affrontarla, e l’avrebbe fatto, certo che l’avrebbe fatto. Quando i suoi soldati sarebbero stati al sicuro... In fondo si trattava solo di qualche giorno…
Calciò un ciottolo verso il lato del vicolo e si riparò all’ombra di un grande lenzuolo steso sopra di lei e immobile nell’aria ferma.
Assaporò con languore l’assenza di André: quando lui era lontano era dolce desiderarlo vicino, l’aveva provato tante volte negli ultimi tempi.
 
Quella questione, rifletté cercando di tornare alla razionalità, era decisamente… grande. Grande. Troppo grande.
Era una cosa da affrontare senza altre distrazioni, era una cosa che avrebbe risucchiato e annullato tutto il resto. E lei proprio non poteva, in quel momento, permettersi di annullare tutto il resto. Lei aveva delle responsabilità, responsabilità verso altre persone. Non è che non affrontava quella questione per paura, no! Paura di che cosa, poi? No, no. Lei voleva, voleva da mesi affrontarla, ma farlo avrebbe voluto dire mettere sé stessa davanti a tutto e a tutti, mettere quello che voleva al primo posto, voleva dire spostare il suo dovere in secondo piano. E lei non era così, non era mai stata così.
Anche la sera prima…, dio! Aveva dovuto aggrapparsi al tavolo e conficcare le unghie nel legno per non correre ad abbracciarlo, a sollevarlo da terra, a urlare davanti a suo padre quanto lo amava! E se non fosse arrivato quel messo l’avrebbe fatto, perché suo padre stava per uccidere André. Stava per compiere l’unico gesto che mai, mai, lei gli avrebbe perdonato.
 
Sentì un brivido sulla schiena sudata. Si bagnò le labbra e le morsicò per far affluire un po’ di sangue, di sicuro dovevano essere bianche.
Poi si incamminò di nuovo scendendo in direzione del Louvre, ma lasciandosi inghiottire da strade mai viste prima, seguendo solo il filo dei suoi pensieri e i battiti del suo cuore.
L’unica certezza che la confortava era che, in tutto quel contorto ammasso di rovi che era la sua vita, André era ancora capace di scorgere una rosa.
Ma come fai, André? Come ci riesci?
Sentì che la commozione stava per avere il sopravvento e il suo cuore si colmò di una muta gratitudine. Anche se non si erano detti una parola, la sera prima, André aveva capito il suo silenzio. Ne era certa. Non doveva spiegare ad André perché aveva taciuto, perché non aveva risposto alla sua dichiarazione con un’altra dichiarazione. No, André sapeva. André sapeva e capiva. Sì, era così.
“Ancora qualche giorno, una volta liberi i soldati”, mormorò.
Si lasciò andare al pensiero di essere baciata da André. Le capitava spesso ultimamente.
 
Ma poi un colpo di tosse improvviso la riportò alla realtà e lei sentì ogni sogno sfasciarsi.
Non c’è nessun futuro per noi, André!
L’amore tra una nobile e un uomo del popolo! Come avrebbero potuto gestire il loro amore nel mondo, nel tempo, nella società in cui vivevano? Impossibile! Che cosa aveva detto suo padre? “Un nobile per sposarsi deve chiedere il permesso al re!”: un’assurdità, certo, ma quella era anche la verità. Un dato di fatto. Ma che cosa stava vagheggiando lei? Che cosa si immaginava?
Non c’è via d’uscita, André…
 
E poi…, un groppo nella gola si mischiava al sapore ferroso della sua saliva, … e poi lei stava male. E André non doveva saperlo, non doveva.
Sarebbe andata da Lassonne. Sì, aveva bisogno di un responso, di un verdetto, di una sentenza. Aveva bisogno di sentire la parola formata da quelle quattro lettere che ogni sera le danzavano beffarde e orribili davanti agli occhi, quelle lettere che le facevano terrore e che falciavano ogni sogno, ogni futuro.
 
t-i-s-i
 
Fu allora, quando ancora stava elencando per la millesima volta i sintomi che la portavano dritta a quel pensiero, fu allora che alzò lo sguardo nella piazza in cui sbucava il vicolo in cui si era fermata.
Qualche tempo dopo si sarebbe chiesta se quel suo vagare senza meta fosse in realtà un modo astuto della sorte di portarla proprio lì. Un segno del destino.
Si ritrovò infatti in una piazza che non vedeva da anni, di fronte a una chiesa maestosa che lei e André avevano visitato da bambini: la chiesa di Saint-Eustache.
 
La prima volta che André ha visto Parigi…
Il generale aveva portato entrambi in quella chiesa imponente a visitare, oltre alla celebre tomba di Colbert, il sacro luogo dove un piccolo Luigi XIV aveva ricevuto la sua prima comunione, e ancora il sepolcro di ammiragli e generali che avevano fatto la storia della Francia: “Ricordi, Oscar?, qui è stato pronunciato il discorso funebre per il Grand Turenne!”, aveva esclamato il generale gonfiando il petto.
La prima volta di André a Parigi…
Erano passati poco meno di trent’anni da quel giorno e la sua memoria, nello sbucare in quella piazza assolata, risvegliatasi come da un sonno profondo, riusciva a disegnare solo immagini slegate e dai contorni sbiaditi: vie, piazze, giardini, chiese, ponti che si susseguono alla rinfusa nel sobbalzare allegro della carrozza scoperta e, nitidissimo, il ricordo del volto di André, la bocca socchiusa per lo stupore e gli occhi sgranati e attenti che paiono attratti da persone indaffarate, bambini che giocano; voci, suoni, odori che tutti insieme gli dipingono sul volto espressioni buffe e stupite.
André, a Parigi.
 
Nemmeno se ne accorge, ora, che sta sorridendo e arrossendo, lì nella piazza, e che quel rossore e quel sorriso la rivelano al vecchio fioraio come una donna:
Mademoiselle, prego! Un bel mazzo di fiordalisi? Paiono del colore dei vostri occhi!”, mostra pochi denti e tante gengive in un sorriso cortese e allegro.
“Che cosa? io… oh, no, no, grazie… davvero… no”, è così imbarazzata, all’improvviso.
“Come volete, mademoiselle”, le fa un inchino traballante e indietreggia fino al banchino di fiori.
Lei resta allora a guardare lo spettacolo di quella piazza, quella chiesa e la sua facciata, le vetrate colorate che catturano i raggi del sole e lo restituiscono al selciato che pare colore dell’oro, e ricorda ancora una cosa, piccola davvero: un André bambino con il naso all’insù che mormora estasiato: “Mi pare di essere nel posto più luminoso del mondo!”
 
“Scusate, monsieur, scusate…”, venne bruscamente riportata al presente dalla voce di un giovane.
Si spostò contro il muro di un caseggiato sulla destra della facciata della chiesa per lasciar passare due ragazzi intenti a trasportare una pesante scrivania su un carro parcheggiato lì vicino.
Dopo averla faticosamente issata tornarono verso l’androne dell’edificio a lato della chiesa, un caseggiato signorile con i tetti spioventi in ardesia che ricordavano quelli di place des Vosges, di quel blu grigiastro che sotto il sole battente pare quasi azzurro; l’ombra li inghiottì solo per qualche istante, poi ne uscirono reggendo casse di legno:
“Mi viene il magone se penso che ce ne torniamo a casa…” disse uno che portava al collo un vivace fazzoletto giallo.
“Già, ma vivere qui a Parigi sta diventando pericoloso, Luc. È meglio tornare a Issy-l’Évêque, dammi retta”.
“A Issy di sicuro non succede niente!” disse Luc con aria delusa.
“Può darsi, ma almeno si beve bene!”
I due scoppiarono in una risata e si avviarono di nuovo verso l’androne dove li aspettava un uomo anziano, magro e un po’ curvo, vestito con cura e di tutto punto nonostante il caldo. Non portava la parrucca e teneva quel che restava dei suoi capelli pettinati all’indietro, dalla fronte verso la nuca, il naso era pronunciato ma dal profilo dritto e nella sua postura leggermente protesa in avanti, nel suo sguardo che seguiva l’andirivieni concitato dei due ragazzi, Oscar lesse la bontà dei vecchi, la bontà che un po’ si vergogna di sé stessa e si nasconde dietro gesti bruschi.
Senza pensare a quello che stava facendo, si staccò dal muro della casa sull’altro lato della via e avanzò verso quel gruppo di persone, attirata dai volti sorridenti, così diversi dai volti tirati e rabbiosi che ormai ogni giorno era costretta a vedere, e da una strana forza che non capiva bene. Non era da lei quel farsi avanti con sconosciuti, non era da lei, eppure…
Si fermò a pochi passi da loro e finse di osservare attentamente il muro esterno del caseggiato.
“… fate buon viaggio, e state attenti, mi raccomando.”
“Ma certo, Monsieur Dunant, e appena saremo arrivati vi scriveremo, promesso!”
“Avete già dei nuovi inquilini per l’appartamento?”
“Oh, chi volete che prenda in affitto una casa in centro a Parigi di questi tempi? Bisognerà aspettare l’autunno… se arriveremo all’autunno”, aggiunse abbassando la voce.
“Su, monsieur, siate fiducioso! E state sicuro che un appartamento bello come questo non c’è in tutta Parigi, appena i tempi saranno tranquilli avrete la fila di gente qui fuori!”
“Addio, ragazzi miei, fate buon viaggio”.
“Addio, monsieur! Salutate da parte nostra Lucille!”
“Dite a vostra figlia che ci mancheranno le serate a suonare il piano e a cantare insieme! Addio, addio, e grazie di tutto!”
Oscar vide il carro che si allontanava attraversando la piazza, mentre Monsieur Dunant restava a sventolare il fazzoletto con la commozione negli occhi.
E si commosse anche lei, anche se quella gente nemmeno la conosceva, anche se non era da lei commuoversi, anche se stava perdendo tempo perché doveva andare al più presto in caserma.
Diede un’ultima occhiata a quella facciata e a quelle finestre che sembravano chiamarla misteriosamente e poi si avviò verso il suo dovere.
 
Arrivò in caserma quasi a mezzogiorno, indossò l’uniforme lasciando la giacca un poco aperta e si avviò spedita nel suo ufficio.
Con sollievo gustò la frescura che quelle mura spesse riuscivano a conservare fino al primo pomeriggio, quando il sole invece iniziava a battere impietosamente sulle vetrate.
Sentì che aveva il battito accelerato per il caldo appena patito ma che le dita erano fredde.
“Non sto bene…”, pensò, “dovrei andare da Lassonne… No, oggi non posso. Siamo di pattuglia sull’Île de la Cité oggi pomeriggio. Non posso, non posso andare da Lassonne… quando i miei soldati saranno liberi, quando saranno liberi penserò a Lassonne, sì.”
Poi prese una busta sigillata posta al di sopra di tutta la sua corrispondenza, riconobbe il sigillo e subito si impensierì: era una lettera dell’alto comando dell’esercito. Una lettera che proveniva dal generale Bouillé.
La aprì e la scorse velocemente, poi l’appallottolò con furia e la gettò a terra stizzita:
“Ma ti rendi conto?”
In quella stanza, però, non c’era nessuno, o meglio, c’era lei, da sola. E quella domanda, che d’istinto le era scappata fuori dalla bocca, era rivolta all’unica persona che sempre aveva avuto al suo fianco, alla quale non aveva mai dovuto raccontare nulla perché tutto avveniva mentre erano insieme.
Così, con la giacca semislacciata e il passo spedito, uscì dal suo ufficio e si diresse alla camerata di André, si affacciò e gli fece un cenno che lui immediatamente capì.
Quando furono fuori, in corridoio, lui le chiese:
“Stai bene? Dove sei stata stamattina?”, era preoccupato.
“Da Bernard, poi ti spiego. Senti, piuttosto: Bouillé ha scritto. Ha affidato a un altro reggimento il pattugliamento di oggi all’Île de la Cité. Noi dobbiamo stare qui, a disposizione in attesa di ordini!” Aveva gli occhi furenti, i pugni chiusi davanti al petto di André e la voce che faticava a mantenersi bassa nel silenzio del mezzogiorno.
“Me lo aspettavo. Al momento siamo un reggimento poco affidabile, Oscar.” André sapeva che non bastava il perdono della regina per reintegrare pienamente Oscar agli occhi del generale: i giorni successivi sarebbero stati cruciali.
André aveva ragione, pensò lei.
E poi si ritrovò a pensare che forse anche Bouillé aveva ragione: era affidabile, lei?
 
Tra il 2 e il 3 luglio 1789
 
Marcel detestava oziare e non aver nulla da fare. Gli bastava anche una buona partita a carte, con avversari degni naturalmente, perché la sua mente potesse sentirsi occupata e assorbita del tutto, perché la vita fosse sopportabile.
Lui quelli come Grandier, che stava a volte ore intere a fissare il fondo del materasso della branda sopra la sua, un po’ li invidiava: rimanere solo con i suoi pensieri era per Marcel un’abitudine perduta, un lusso che mai più si sarebbe potuto permettere, un dolore da schivare con qualsiasi espediente.
Quando si accorse che la partita a carte lo stava annoiando, si rivolse ad Alain:
“Sono stati già comunicati i turni di guardia?”
“Sì, tu puoi dormire stanotte. Io no invece, mi tocca la ronda”.
“Con Grandier?”
“Credo di sì, non so”.
“Se vuoi ci vado io al posto tuo. Non ho per niente sonno e non dormirei comunque”.
“E invece faresti bene a dormire. Hai una faccia che non si può vedere. E l’altro giorno quasi te la facevi sotto in quella cella! Va’ a dormire, Marcel, da bravo”.
Marcel cacciò l’insofferenza sotto un’alzata di spalle e si buttò sulla branda.
 
“Ehi, amico, sono qui” disse Alain ad André che stava sistemando il fucile sulle spalle.
“Oh, ciao Alain. Sei pronto?”
“Pronto, andiamo”.
Percorsero più volte avanti e indietro lo stretto camminamento scavato nelle mura massicce della caserma, fermandosi di tanto in tanto e scambiandosi cenni di intesa in seguito ai quali stavano in ascolto, puntando gli occhi nell’oscurità e trattenendo il fiato per sentire ogni minimo rumore.
Dopo un po’ decisero che tutto era tranquillo anche quella notte e la tensione del turno di guardia lasciò il posto al loro consueto scambio di monosillabi:
“Qui?” disse André indicando il muro vicino alla torretta di sud-est.
“Sì…”, Alain appoggiò il fucile al muro.
“Vuoi?” disse Alain tirando fuori uno stecco di legno dalla tasca.
“No”, André rise: quante volte aveva rifiutato gli stecchini di Alain?
“Dai…”, Alain batté due volte sul muro vicino a lui per dire ad André di mettersi in quel punto.
“Dio…” disse sottovoce André appoggiando le spalle al muro e facendo uscire con un soffio tutta la stanchezza che si sentiva addosso.
 
“Potevi chiedere a Marcel di sostituirti, sei a pezzi”, constatò Alain.
“Non che Marcel fosse in gran forma, eh…”
“Ma lui è un ragazzino… un ragazzino idiota”.
“E dai, Alain. Non è facile per lui”.
“Sì, ma deve smetterla di ubriacarsi e di dormire con chiunque, deve smetterla. Un giorno o l’altro finirà accoltellato da qualche parte o morirà di chissà quale malattia schifosa…”
“Sì, forse se non si fosse arruolato sarebbe finito così. Ma ha fatto bene ad arruolarsi, la disciplina militare lo aiuta… Non devi preoccuparti, Alain, ne uscirà. Se la caverà”.
“Non sono preoccupato per Marcel. Non mi preoccupo più di nessuno, io. Vuole crepare? Che crepi. Ad ognuno la sua libertà. Vuoi soffrire? Vuoi morire? Fatti tuoi”.
Calò di nuovo il silenzio mentre André lasciava appositamente risuonare quelle ultime parole di Alain, come se il buio le potesse amplificare e farne sentire tutta l’assurdità. Ma Alain, da quando aveva perso la sua famiglia, pareva sempre impegnato nello sforzo di non affezionarsi a nessuno, di ammantare di indifferenza o di cinismo ogni gesto o pensiero gentile che, a dispetto di tutto, il suo cuore ancora gli dettava.
Alain ascoltò il buio e riascoltò così le sue ultime parole che ancora aleggiavano nell’aria. Scosse la testa infastidito e si allontanò verso la balaustra esterna, come se un rumore insolito avesse improvvisamente catturato la sua attenzione.
 
Dopo poco tornò e si sedette vicino ad André che in quella luce fioca pareva molto pallido.
“Così lei ti ama, eh?”, Alain andava sempre dritto al punto, non era capace di girarci intorno.
André non rispose, ma sentì che ora alla stanchezza si univa anche la sofferenza del cuore e dubitò di riuscire a reggere entrambe.
“Alain…”
“Siete due idioti”.
“Lo sai che non è così. Non è possibile… per lei”.
“Beh, dovrebbe esserlo, invece”.
André meditò se lasciar cadere nel vuoto anche quella frase di Alain, ma le forze lo stavano abbandonando e con loro anche quella resistenza, quel pudore che lo tratteneva sempre dal parlare di lei. O forse aveva solo voglia di sentire risuonare le sue parole nel silenzio della notte, per cacciare via, lontano, anche solo l’illusione di un sogno.
“Alain, lei è una contessa, anzi, a dire il vero, è un conte. Tutto quello che ha ottenuto nella sua vita, quello che la rende Oscar, quello che le permette di essere il nostro comandante, deriva dal fatto che è nobile. E che agli occhi di tutti deve essere un uomo. Certo, se non fosse nobile e se non fosse stata cresciuta come un uomo sarebbe comunque…”, esitò immaginandola vestita da donna e pronta per un ballo, gli occhi che si schermano dietro un ventaglio, le spalle nude e la vita sottile, così facile da cingere in un abbraccio leggero, “… ma non sarebbe Oscar”, gettò indietro la testa e chiuse gli occhi con forza. Poi proseguì parlando piano:
“In ogni caso convivere con una condizione così mi sembra un fardello non da poco. Lasciare spazio ai sentimenti per lei vorrebbe dire rinunciare a troppo, a tutto… Non ne vale la pena, non credi? E io non sono davvero nessuno”.
“Tu non credi davvero alle stronzate che stai dicendo”.
“E poi c’è suo padre. Non sottovalutare quanto per Oscar conti suo padre”.
“Il generale Jarjayes…” Alain mimò una voce minacciosa e profonda con tono canzonatorio. Poi sputò a terra lo stecchino e, con il volto ridente di Diane che stava lì, a mezz’aria tra la luna e qualche manciata di stelle, gli chiese:
“E dimmi… tu l’hai mai vista ridere? Ma ridere di cuore, ridere con la bocca aperta, ridere da tenersi la pancia, capisci? Ridere non come ridono i nobili, i maschi, i militari o chi ti pare: hai presente? Ridere e basta.”
“Sì… l’ho vista…” i ricordi si impossessarono di lui e lo travolsero.
Alain si passò l’indice su una palpebra, poi disse:
“Ah, allora ride ogni tanto! e dimmi… con chi era quando l’hai vista ridere così?”
André non rispose: c’era sempre lui quando lei rideva così, solo lui. Ma questo non gli dava conforto, anzi, aumentava la sua tristezza.
 
Ripresero a camminare in silenzio, un’altra ora a perlustrare il buio. André sentì che qualcosa non andava in lui, ma nascose la preoccupazione al suo compagno.
Lo spicchio di luna era alto sulle mura della caserma dei soldati della Guardia e dopo qualche altro giro di ronda Alain decise che avevano camminato abbastanza. Si fermò, appoggiò il fucile al muro e si sedette di peso:
“Dio, che stanchezza…”
André lo seguì in silenzio, il passo malfermo e un conosciuto sudore freddo che gli ghiacciava le mani.
“Fa caldissimo, anche se è notte… Non ne posso più di questa giacca…!” Alain si sfilò la giacca e si aprì la camicia sul petto cercando un refolo d’aria che lo ristorasse. Ma poi si accorse che da minuti André non aveva detto una parola, così, nella penombra, cercò con gli occhi il suo volto.
Era pallidissimo, sembrava che tremasse. E si teneva la testa come se le sue mani potessero fermare un dolore che lui non voleva rivelare.
“Ehi, amico, che hai?” Alain si avvicinò e lo prese per le spalle allarmato.
Ma André non parlava e le sue tempie erano bagnate di sudore così come la sua fronte che lui reggeva con la mano aperta a coprire tutto l’occhio sano.
Allora Alain capì:
“Non ci vedi, vero?”
André scosse la testa con disperazione, poi si accasciò lungo il muro e con i respiri mozzati cercò di riprendere possesso di sé.
“Vedo tutto sempre più scuro, Alain… mi sembra che mi stia scoppiando la testa…”
“Lo sai che cosa dobbiamo fare, vero?”
“Non azzardarti a dire una parola a Oscar, mi hai capito?” il vigore con cui aveva pronunciato quella frase troncò ogni possibile discussione e Alain rinunciò ancora una volta a imporsi.
“Senti, amico, questa tua condizione… io ci ho pensato sai mentre ero in prig… ehi! Chi è là? Hai sentito anche tu quel rumore?”
“Sì… sì… l’ho sentito. Qualcuno si sta avvicinando, Alain… alla tua destra, attento!”
Alain si voltò in tempo per sferrare un pugno poderoso verso una sagoma indistinta che si era avvicinata al suo fianco e che ora giaceva a terra dolorante:
“Sei pazzo Alain??? Sono io!”
“Marcel??”
“Sì, Marcel… o quello che resta del giovane parigino un giorno chiamato Marcel Laroche… Quasi mi ammazzi con quel pugno, ahia…” Marcel si alzò in piedi a fatica mentre Alain si massaggiava la mano:
“Che ci fai qui, idiota, dovresti essere in branda a quest’ora!”
“Non riesco a dormire. Se uno di voi vuole un cambio…”, disse lui facendo spallucce e poi grattandosi oziosamente l’angolo della bocca.
André si alzò e passò vicino a entrambi:
“Allora io ne approfitto e me ne vado a dormire”, disse con aria noncurante, “la settimana scorsa ho fatto gli straordinari per colpa vostra!”, forzò una specie di risata e poi si avviò verso la porta tastando sempre il muro con il dorso della mano sinistra.
Alain non disse niente e lo guardò sparire, inghiottito nel buio dei suoi pensieri, nel buio della caserma, nel buio della notte, nel buio futuro che attendeva tutti e che mai era parso così precario sotto quel cielo parigino.
 
“Che ha Grandier?”
Alain fece spallucce.
“Si vede che sei preoccupato, capo”, la voce di Marcel si fece più bassa. Quando parlava così, con quel timbro così caldo e dolente, Alain sentiva di fidarsi ciecamente di quel ragazzo cresciuto troppo in fretta.
“Temo che André… non ci veda più tanto bene… Marcel, se lo dici a qualcuno, giuro che ti strappo le…”, concluse con il solito tono spiccio per smorzare la gravità di quello che era uscito dalle sue labbra.
“Guarda che io so mantenere i segreti, capo. Lo so che tutti mi prendono per uno allegro, ma credo che tu sappia… quanto mi sforzi di essere allegro per non…”, scosse la testa pensando a Joss che d’inverno, dietro a una finestra dai contorni appannati dal vapore, si spiaccicava il naso sul vetro e faceva una boccaccia a lui che passava per strada con la solita carriola delle consegne. Lo aspettava sempre a quella finestra…
“Lo so, Marcel. Hai più avuto notizie di… di lei?”
“Di Joss… no. No”, non si poteva illudere, non poteva proprio.
“Mi dispiace, amico”.
Marcel tirò un po’ su col naso e poi alzò lo sguardo limpido su Alain:
“Senti, a proposito di Grandier… una volta conoscevo un tizio con un occhio solo, sai?”
“Ah sì?”
“Pare che sia difficilissimo abituarsi ad avere un occhio solo… tu lo sai da quanto tempo è in quello stato?”
“No… non lo so… sicuramente da più di un anno, quando è arrivato qui già era così…”
“Io gli ho guardato la cicatrice una notte, mentre dormiva…”, Marcel aveva assunto un’aria saputa, come se avesse in serbo una buona carta da giocare.
“Scusa, ma tu te ne vai in giro di notte a guardare gli altri che dormono?”
“Lo sai che per me dormire è un problema, capo… comunque, la cicatrice di Grandier è abbastanza recente secondo me… direi… un anno e mezzo? Mi sa che gli fa ancora male… In ogni caso io non mi preoccuperei troppo, scommetti che domani prima di sera sarà lì a scribacchiare su quel suo minuscolo quaderno nero? Se ha davvero dei problemi di vista, mi spieghi come fa a scrivere tutti i giorni quasi al buio appoggiato al cuscino della sua branda?”, le parole di Marcel furono accompagnate da un’occhiata furbescamente eloquente.
Ma Alain alzò le spalle con indifferenza per chiudere in fretta il discorso. Non voleva dare spazio a sciocche speranze, perché la cecità di André l’aveva ormai accettata e non avrebbe avuto la forza di illudersi per poi crollare di nuovo nella certezza che il suo amico avrebbe perso per sempre la luce.
Eppure le parole di Marcel, Alain non l’avrebbe mai detto ad alta voce, gli avevano dato da pensare.

 

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Capitolo 4
*** Una follia ***


Come dice la mia carissima Dorabella, in questo capitolo c’è tanta “ciccia”. Avevo pensato di dividere il capitolo in due, ma alla fine ho preferito lasciare il doppio filone cronologico. In ogni caso a metà c’è tutto il tempo per una pausa caffè (freddo). Un caro saluto a tutti e sempre grazie del vostro tempo.
 

Una follia

 
25 giugno 1789
 
Il silenzio: nei corridoi, nelle camerate, sulla piazza d’armi, nel suo ufficio.
La preoccupazione assillante per i suoi soldati e l’immobilità forzata.
Faceva bene a fidarsi di Bernard? E se Robespierre non fosse stato d’accordo?
“Comandante, un uomo chiede di parlare con voi”.
Oscar leggeva scartoffie e intanto si sentiva prigioniera in una gabbia.
“Chi è? Mandatelo dal colonnello d’Agoult”.
“Comandante… è Monsieur Laroche, il padre del soldato Laroche Marcel. Dice che parlerà solo con voi. Credetemi, è un uomo disperato, è capace di stare davanti ai cancelli finché non lo riceverete”.
“Va bene, fallo passare”.
Dopo pochi minuti, Monsieur Laroche si parò davanti alla scrivania con il respiro trattenuto, segno che evidentemente faticava a non parlare per primo.
“Ditemi, Monsieur Laroche, di che cosa avete bisogno?”
Lui smise di torturare il risvolto liso del piccolo tricorno che teneva tra le mani da quando era entrato e prese fiato perché le lacrime premevano sui suoi occhi ma lui non voleva certo piangere:
“Comandante, sono qui… per mio figlio… naturalmente. Ecco, ecco... io volevo chiedervi se c’è qualcosa che si può fare, no, scusate, che io, io posso fare per liberare mio figlio dalla prigione dell’Abbazia…”
Monsieur Laroche, ci stiamo occupando di Marcel e degli altri soldati, stiamo facendo il possibile perché…” Lei era seduta e non lo guardava: teneva la testa bassa sui fogli che aveva di fronte.
“Ma comandante, scusate se vi interrompo, io, vedete, ho un’attività, ho denaro e…” e con le mani tremanti e nervose tirò fuori un sacchetto di pelle dalla marsina che appoggiò vicino al margine dei fogli che lei fingeva di leggere, “ecco, disponetene voi, comandante… e se non dovessero bastare… posso portarne altri, capite?” fece un passo indietro e con la mano si sistemò qualche capello biondo slavato che nella foga dell’ingresso e del discorso era uscito dalla parrucca ingrigita.
Oscar alzò finalmente lo sguardo sul volto di quell’uomo: rimase colpita dagli occhi piccoli di lui che parevano quasi senza ciglia, dal gonfiore delle occhiaie, dalle rughe intorno alla bocca, così evidenti, così scavate…
“Riprendete il vostro denaro, monsieur”, cercò di dirlo nel modo più cortese e delicato, ma lui iniziò a scuotere la testa in un no deciso e mise in avanti i palmi delle mani, che parevano di cuoio, come a dire che non avrebbe più toccato quei soldi. Poi abbozzò un sorriso incerto, nel quale lei intravide spuntare i denti grandi e bianchi di Marcel, e disse:
“Comandante, sono un padre che ha sempre deluso suo figlio. Credevo di fare il suo bene ma… ora, vedete, è colpa mia se lui…”
“Marcel ha disobbedito agli ordini di un superiore, monsieur, credetemi, voi non potete in alcun modo sentirvi respon…”
“Voi non capite!”, urlò, ma poi abbassò il tono, “scusate, vi prego, scusatemi. Io volevo dire che voi non potete capire, comandante… Sono questioni, fatti che… non importa, non importa. Ma vedete io so solo che non potrei immaginare un dolore più grande di non vedere più mio figlio… di sopravvivere a mio figlio…”, lei si alzò bruscamente spostando indietro la sedia, “… è contro la natura, sapete? Che un padre sopravviva a suo figlio, intendo…”
Lei non riusciva più a stargli di fronte, il pensiero che lei in quel momento stava vivendo un giorno che avrebbe potuto non vivere se suo padre l’avesse…, così si voltò verso la grande finestra alla sua sinistra, le mani chiuse in un pugno dietro la schiena. Aveva iniziato a piovere forte e in obliquo e i vetri, goccia dopo goccia, si bagnavano mentre il cielo si incupiva. Come quella sera.
“Me ne sto occupando personalmente, Monsieur Laroche, sto facendo il possibile, ve lo ripeto. Ma non posso ancora promettervi niente, purtroppo. E non posso ricevere nemmeno il vostro denaro, lo capite, vero?”
Lui tentò una piccola resistenza ma poi annuì col capo sfregandosi la punta del naso e tenendo gli occhi strizzati.
“Allora”, proseguì lei cercando di mostrare gentilezza, “riprendete i vostri soldi; di sicuro troverete il modo di farne buon uso”.
Nel dirlo accennò un sorriso che d’un tratto lo riempì di consolazione e di speranza e poi lo accompagnò gentilmente verso la porta:
“Farò tutto quello che posso, questo ve lo prometto. E non appena avrò qualche notizia vi informerò attraverso uno dei miei soldati”.
“Sì… sì… grazie, grazie, comandante”, lacrime non più trattenute rigavano il volto di Monsieur Laroche e gli facevano tremare il mento. Pareva un bambino vecchissimo.
Poi Monsieur Laroche uscì nel fragore di un temporale estivo che aveva oscurato il cielo.
All’improvviso un lampo squarciò l’ufficio di Oscar e a lei, per un istante, parve di veder lottare, contro la vetrata della grande finestra, le sagome dei due uomini che più amava e le parve di udire “No, non fatelo! Non fatelo signor generale!”. Un brivido le scosse le spalle al pensiero del suo ruolo in quella serata di follia: la protagonista che si trasforma in comparsa, la donna d’azione passivamente spettatrice dei piani della sorte, la donna innamorata che sa solo balbettare frasi incompiute. Si sistemò il polsino per riprendere contatto con la realtà.
Scosse la testa e andò a chiudere la porta lasciata socchiusa da papà Laroche.
Intravide in corridoio André: era appena passato davanti al suo ufficio e ora si avviava verso l’uscita con le spalle curve…
Perché tieni le spalle così curve, André? Lo senti anche tu il peso di questa nostra vita? Sempre insieme e mai davvero insieme…
 
Riprese il lavoro alla scrivania avvertendone tutta l’inutilità.
Dopo poco il colonnello d’Agoult bussò alla porta, i soliti due colpi regolari.
“Entrate, colonnello”.
Lui si mise sull’attenti, in attesa che lei gli desse la parola.
“Che succede, colonnello?”
“Comandante, non succede… niente. Come ieri siamo in attesa di ordini”.
Lei incassò il colpo senza battere ciglio: un altro giorno costretti in caserma, un altro giorno lontano dall’assemblea, dalle piazze, dalle strade che da un anno pattugliavano e conoscevano come i loro stessi nomi.
“Com’è la situazione in città?”, si informò.
“Sembra che al momento la situazione sia tranquilla, comandante. Nessun reggimento ha registrato attività sospette né assembramenti… ma…”
“Ma?” lei si voltò è lo guardò intensamente negli occhi.
“Ma è una calma apparente. Pare la calma che viene prima delle tempeste. Ecco…, comandante…”
“Sì…?”
“Scusate se mi permetto, ma sembrate così stanca. Avete molto a cui pensare e capisco le vostre preoccupazioni: andate a riposare nelle vostre stanze. Sarà mia cura svegliarvi subito, se dovesse succedere qualcosa”.
Sentì che aveva bisogno di sentirsi dire quelle parole, di qualcuno che la sollevasse per un momento dal suo dovere, sentì che aveva bisogno di appoggiare sulle spalle di qualcun altro, anche solo per un paio d’ore, il fardello delle sue preoccupazioni. Per un istante brevissimo vide negli occhi gentili del colonnello quelli di André, vide un André più anziano che le stava dicendo: “Vai a dormire, Oscar. Per un po’ ci penso io”.
E con il pensiero che ancora vagava tra la premura del colonnello e l’amore di André, riscaldata da due forme così diverse ma così sincere di affetto, ascoltando il picchiettare della pioggia contro i vetri, dopo qualche colpo di tosse sprofondò nel sonno.
 
Un vestibolo buio, mantelli appesi a una parete sulla sinistra, una specchiera alla vicina parete di destra, una porta a vetri aperta sull’interno che le consente di guardare il portoncino chiuso di fronte a sé.
All’improvviso, nel buio, un rumore noto, usuale.
Poi la sagoma di un uomo che entra e occupa tutto lo spazio angusto del vestibolo.
È alto.
Si muove con una naturale eleganza in quello spazio che evidentemente gli è familiare: appende la marsina vicino ai mantelli e poi si passa una mano tra i capelli.
Mentre ancora è lì, la sua voce, la sua voce, la voce di André:
“Oscar! Sei in casa?”
E poi in risposta, da una stanza imprecisata, una voce, la sua voce, la voce squillante di una sé stessa fresca e felice:
“Sono qui!”
 
Si svegliò di soprassalto, pervasa da un calore che non la lasciava, da un languore che la commuoveva, da un sogno più concreto della realtà.
Il temporale era passato e il cielo era azzurro, i contorni delle cose parevano disegnati da una matita nell’aria tersa e leggera.
Nel giro di pochi minuti era in sella al suo cavallo, nemmeno ricordava più gli ordini che aveva lasciato a d’Agoult, e obbedendo un istinto che non intendeva soffocare galoppava verso il centro della città, le immagini di quel brevissimo sogno conficcate nella memoria, l’impressione quasi tattile di aver appena vissuto e non sognato, la necessità imperiosa di andare in quella piazza, a Saint-Eustache.
Quando arrivò, la luce del pomeriggio disegnava sullo slargo antistante alla chiesa riquadri più scuri di ombra che si allungavano sulla parte in pieno sole creando un’atmosfera sospesa, come se la luce attendesse che l’oscurità gentilmente la coprisse tutta. Sentì il battere delle ali dei colombi che cercavano riparo per la sera e ne seguì il volo per calmare il cuore che impazzito aveva galoppato con lei fino a lì.
Poi si avviò decisa verso il piano terreno del caseggiato sulla destra della facciata della chiesa e lesse la targa che cercava:
H. Dunant
Avvocato
Le aprì la porta una signora di mezza età, i capelli già molto ingrigiti chiusi sulla nuca in una crocchia perfetta; era vestita di nero ma non ispirava tristezza, dignità, piuttosto. Guardò Oscar con aria interrogativa, forse colpita dall’aspetto femminile avvolto in un abbigliamento chiaramente maschile, o forse semplicemente sorpresa da una visita inattesa.
“Desiderate, monsieur?”
“Perdonate, cercavo Monsieur Dunant…”
“É mio padre, mi chiamo Lucille Dunant. Entrate, ve lo chiamo”.
“Oh, no, grazie. Non voglio disturbare. Devo solo…” non trovava le parole per dire quello che era intenzionata a fare. Ma la donna comprese quell’imbarazzo strano e le venne subito incontro:
“Non preoccupatevi. Arriverà subito” e le sorrise.
Monsieur Dunant arrivò con il passo più veloce che la sua età gli consentiva: la guardò con aria stupita cercando nella memoria dove avesse visto di recente quella donna, perché di sicuro era una donna, vestita da ufficiale dell’esercito.
“Sono Henry Dunant. Desiderate?” occhi liquidi e un po’ appannati dall’età, sopracciglia foltissime che lanciavano in su verso la fronte rugosa fili bianchi e spessi.
Monsieur, ho saputo che state cercando qualcuno a cui lasciare in affitto un appartamento in questo caseggiato”.
Lui improvvisamente ricordò la figura longilinea di lei che il giorno prima osservava la facciata della casa, allora fece per dire qualcosa ma lei lo anticipò:
“Ebbene, monsieur, vi prego di accettare una piccola caparra come impegno a saldare l’affitto per tutto il mese di luglio”,
… sì luglio…
“… e per i mesi successivi” aggiunse con un sorriso fiducioso che non sapeva nemmeno lei da dove era nato.
Monsieur, forse vi dovrei spiegare che in realtà l’appartamento…”
“No, davvero, non c’è bisogno di spiegare nulla al momento. Tornerò con più calma nei prossimi giorni, per ora…”
Le luccicavano gli occhi, notò lui, come luccicano ai bambini quando preparano una sorpresa o quando scartano un regalo tanto desiderato.
“Vi chiedo solo, Monsieur Dunant, ecco vorrei…”
“Vorrete di certo salire a vedere le stanze, no?”, chiese Lucille dirigendosi verso il mobiletto portachiavi alla parete dietro di lei.
“Oh, no, no, madame. Tornerò in un altro momento, ve l’ho detto. Sono molto di fretta e vorrei… ecco se poteste solo mostrarmi dalla strada le finestre…”
“Beh, non ci era mai capitato di affittare a scatola chiusa, ma di questi tempi va bene tutto, direi! Vero papà?”, Lucille sembrava misteriosamente capire l’urgenza di quella donna soldato e sentiva che la voleva aiutare e che non avrebbe voluto un altro inquilino al piano di sopra.
Monsieur Dunant appoggiò il denaro che Oscar gli aveva dato su un tavolino contro il muro e poi uscì sulla strada.
Si volse verso la facciata con una piccola e stentata piroetta e poi, con il dito ossuto, indicò le finestre. Oscar lo seguì e guardò in su, verso il primo piano:
“Quella è la finestra dello studio, o della camera degli ospiti se preferite, poi ci sono due portefinestre collegate all’esterno da uno stretto balcone con la ringhiera azzurra, vedete?, quello è il salotto; subito dopo, le due finestre ai due angoli della facciata, una qui verso la strada, l’altra verso la chiesa, sono quelle della camera da letto principale, che è dotata di un angolo riservato alla vasca da bagno. Sul cortile interno della casa poi ci sono la cucina, una sala da pranzo, una dispensa, uno sgabuzzino e una piccola stanza ricavata di recente come… ehm…, stanza… dei servizi, diciamo così.”
“É già arredata, vero?”
“Direi che l’essenziale c’è. Molto essenziale”.
“Bene” disse lei soddisfatta.
Monsieur, ci sono però ancora dei dettagli che dobbiamo discutere e io…, perdonatemi, ma io non conosco nemmeno il vostro nome”, Dunant si teneva una mano nell’altra con fare impacciato.
Monsieur Dunant, verrò uno dei prossimi giorni e avremo tempo di discutere di tutto. Ve lo prometto”.
Si allontanò di corsa e, dopo un cenno di ringraziamento e di saluto allo smilzo Monsieur Dunant che esterrefatto ancora la guardava da lontano, salì a cavallo con il cuore in tumulto.
 
Che cosa aveva fatto? Una follia! Una follia! Non si era mai sentita così avventata ed eccitata.
E in un vertiginoso rovesciamento logico risaliva a tutto quello che l’affitto di quell’appartamento comportava: una casa per sé che non fosse palazzo Jarjayes! vivere a Parigi! essere indipendente! Non aveva pensato a queste cose quando era partita al galoppo dalla caserma, eppure adesso le sembrava che tutte fossero la necessaria premessa di quel sacchetto di denaro lasciato sul tavolo di noce di Monsieur Dunant.
Ricordò quell’altra volta che era stata avventata, quando era andata da sola a cercare il Cavaliere nero al Palais Royal: quante volte con il pensiero era tornata indietro da quel momento dandosi della stupida! Una decisione precipitosa che aveva portato solo dolore. Tanto dolore. A lui, a lei.
Ma ora… sentiva una tale forza nella sua decisione, una forza che non era in grado di giustificare razionalmente ma che percepiva in ogni sua fibra, al punto che non poteva trattenersi dal sorridere. E poi… c’era un altro pezzo di follia in quella follia ed era la follia di portare lì André. Di fargli vedere quel posto che da bambino lo aveva incantato e poi prenderlo per mano, sì!, prenderlo per mano e condurlo fino a quel portone incorniciato di pietra chiara e poi… e poi attirare su il suo sguardo a quelle finestre e… Dio! E se… e se quella follia avesse portato davvero lei e lui alla completa…?
Si portò una mano alla bocca per trattenere l’emozione fortissima che stava immaginando di vivere, quando un colpo di tosse le spezzò il respiro. Il suo volto ridente si tramutò in una maschera di terrore. Chiuse forte gli occhi e incitò il cavallo, per non vedere, per non pensare, mentre il castello di carte dei suoi sogni veniva spazzato via.
 
 
3 luglio 1789
 
L’esercitazione era finita per tutti, anzi, per quasi tutti.
“Soldato Laroche! In fucileria, subito!”
“Ma… comandante…”
“Laroche, oggi il tuo rendimento al tiro è stato il peggiore della caserma. Vai a prendere altra polvere da sparo. Farai un’esercitazione supplementare”.
Il suo insopportabile perfezionismo…, si trovò a pensare il giovane Marcel.
“Sissignore”, scattò sull’attenti e strinse i pugni per la stizza.
“Il soldato Grandier si occuperà di disporre i bersagli tra un colpo e l’altro, in modo che io possa valutare la tua velocità e la tua precisione”.
“Voi, comandante?”, si stupì perché pensava di dover restare solo con André. O con Alain. Invece no, voleva esserci anche lei, a quanto pareva.
“Non ti sta bene, Laroche?”
“Agli ordini, comandante!”, certo che non gli stava bene: aveva altri piani per la serata, lui.
 
Non sopportava quella donna, in certi momenti si accorgeva di non sopportarla davvero. Avrebbe voluto essere in qualunque altro posto ma non lì. Eppure lo sapeva che era il migliore comandante che poteva capitare a lui e ai suoi compagni, lo sapeva che era una persona tutta d’un pezzo. E l’aveva anche dimostrato, più volte, dall’apertura degli Stati generali in poi, soprattutto. E non bisognava dimenticare che aveva realizzato l’impossibile, cioè farsi accettare come comandante da tutti loro. E, come se non bastasse, con assoluta naturalezza, con la sola forza della sua integrità, era riuscita a farsi benvolere tanto dai soldati quanto dal colonnello d’Agoult. E ancora: aveva aiutato Lasalle quando si era fatto beccare senza fucile, “solo a quell’idiota di Lasalle poteva succedere!”, aveva aiutato Alain a tornare in servizio dopo la morte di Diane… Li aveva salvati dal plotone di esecuzione, perdio!
Eppure, mentre la sua testa la ammirava, la sua pancia la detestava.
Ma che cosa aveva quella donna che lui non riusciva a sopportare? Che cosa? Qual era la nota stonata di quell’essere che agli occhi di tutti pareva immune da difetti?
Perché lui spesso doveva sforzarsi così tanto nel sollevare gli occhi nei suoi per farle il saluto? Perché quella donna lo irritava tanto? Non ne veniva a capo nemmeno lui.
Guardò André che, con le spalle leggermente curve come se stessero portando un peso che non si doveva vedere, ascoltava le istruzioni che lei gli stava impartendo con il solito tono gelido e secco da comandante tutta d’un pezzo.
Si ritrovò a pensare che per lui volere bene ad André era facile come detestare lei.
 
“Voglio vederti sparare due colpi al minuto, Laroche. Muoviti!”
Marcel si mise in posizione ed estrasse dalla cartuccera la prima cartuccia.
Strappò con i denti la carta e poi iniziò ad armeggiare sulla parte destra del fucile per inserire la polvere da sparo.
“Sei lento, Laroche!”
Sudava e la odiava. Rimosse l’astina da sotto il fucile e la inserì nella canna per spingere il proiettile.
“Più veloce!”
Prese la mira e sparò scheggiando il bersaglio davanti a lui. Rimase a guardare la destinazione del colpo, ma lei, immobile alle sue spalle, gridò:
“Un altro colpo! Che cosa stai aspettando? Che il nemico ti restituisca il favore? Muoviti!”
La stessa scena due volte, tre, quattro.
La odiava. Guardò André in cerca di un volto amico in quel supplemento di addestramento che lo stava facendo impazzire.
André era come sempre, calmo e posato. I suoi movimenti efficienti e perfettamente a tempo non toglievano nulla alla sua pacatezza. Si muoveva come se avesse sempre compiuto quei gesti, come se il suo corpo ne avesse una tale memoria che non era necessario coinvolgere anche il pensiero.
Lei, rifletté d’un tratto Marcel, non si lamentava mai di come lui portava a termine i suoi compiti. Non aveva mai niente da ridire, da puntualizzare, da precisare, da correggere, quando a svolgere qualche mansione era André.
 
Fu allora che Marcel spostò l’attenzione da sé stesso a quelle due strane persone che si muovevano intorno a lui. Mise a fuoco i dettagli, - la familiarità evidente in quei gesti di lui che anticipavano di frazioni di secondo gli ordini di lei, i passi morbidamente distesi con cui lui raggiungeva la sua postazione, come se non subisse la pressione di avere un simile comandante, e lei… lo vide! lo vide lo sguardo di lei, assottigliato e ingentilito quando si rivolgeva verso la sagoma lontana e di spalle di lui, e vide anche lo sforzo, reso evidente in quella piccola esitazione quando si rivolgeva a lui, di chiamarlo per cognome -, e intanto le sue mani, con movimenti di cui lui nemmeno si rendeva conto, caricavano il fucile. Percepì la tensione tra loro che aleggiava nell’aria mentre il silenzio restava in attesa di essere infranto dallo sparo. Raccolse le idee insieme alla soddisfazione per il bersaglio colpito. Verificò la validità di quello che pensava nello sguardo d’intesa fugace ma eloquente tra il comandante e il soldato Grandier. Vide il volto severo di lei rilassarsi per un istante, vide con quale amarezza lui non aveva risposto a quel sorriso, forse per non farsi sorprendere, forse per non illudersi che quel sorriso fosse davvero per lui. Ricordò quel tavolo alla taverna solo un paio di sere prima: lei stanca, con le occhiaie profonde, che si sistema il polsino in continuazione, lui che non parla, loro due che non si guardano. Sentì che su quella piazza c’era una persona di troppo e sentì di essere lui.
Comprese, comprese tutto.
 
Ed esattamente per questo motivo, perché comprese tutto, la furia si impossessò di lui, una furia incontrollata e violenta, una furia che non sapeva governare in nessun modo.
Così non le lasciò nemmeno finire la frase:
“Ottimo, Laroche, ancora una v…” e si avventò su di lei:
“No. Adesso basta”.
La sfidava con gli occhi mentre André, lontano e in disparte, convinto che Marcel volesse contestare l’autorità di Oscar, si preparava ad assistere a un altro trionfo di lei su uno dei suoi soldati.
“Laroche, decido io quando basta. Torna a caricare il fucile”, disse lei senza mostrarsi sorpresa.
“Sapete invece che cosa faccio, madamigella?” era evidente che la stava canzonando chiamandola così, ma con un astio che lei sentiva di non meritare per niente. Lei istintivamente indietreggiò nel vederselo arrivare ancora più vicino. André, sistemando i bersagli, osservava da lontano.
“Ora io vi lascio qui. Da sola con Grandier. Vi piace l’idea?”, sorrise di sfida.
“Non capisco di che cosa stai parlando, Laroche. Ti consiglio di obbedire agli ordini se non vuoi subire una punizione esemplare”, lei aveva la fierezza e la fermezza che sfoderava di fronte a chi osava mettere in discussione i suoi ordini.
André, anche se a quella distanza non riusciva a cogliere il loro dialogo, conosceva bene quella postura, quel tono di voce. Marcel no, ma non si fece impressionare.
“Credete che mi importi qualcosa delle vostre punizioni? Non dovreste sprecare il vostro tempo con me, madamigella”.
“Sono il tuo comandante ed esigo che tu ti rivolga a me con il mio titolo. L’ho conquistato, mi pare”.
“Sapete che cosa vedo qui, ora, comandante?”, accentuò la parola comandante come se fosse una gentile concessione più che un riconoscimento del titolo. Stava attento a parlare a voce bassa, perché solo lei sentisse, ma i suoi occhi saettavano furiosi e incontrollati.
Lei si irrigidì.
“Vedo due persone che potrebbero avere tutto quello che io non avrò mai più. E che lo buttano via! Due persone che pretendono di governare il destino credendo di avere tempo, credendo che qualunque cosa venga prima dell’unica cosa che conta!”, tremava e allo stesso tempo aveva la fermezza dei disperati.
“E tutto per colpa vostra, comandante!”, pareva preda della follia.
Il vento gli sollevò una ciocca di capelli che iniziò a danzare scomposta sul suo volto, sugli occhi grandi e fiammeggianti.
“Laroche, non permetterti…”, anche lei aveva abbassato la voce perché aveva capito perfettamente e sentiva il cuore che voleva uscirle dal petto.
“E perché non dovrei permettermi? Che cosa volete che me ne importi delle vostre punizioni quando è il mio cuore che mi punisce ogni giorno?”
Lei avvicinò il volto a quello di Marcel e lo guardò negli occhi:
“Laroche, se vai avanti così finirai in cella di rigore”.
“E voi se andate avanti così non saprete mai che cosa vuol dire amare ed essere amati. Tutto sommato ci perdete di più v…”
Non poté finire la frase perché la sua guancia era stata raggiunta da uno schiaffo poderoso. Lei aveva gli occhi privi di colore e le guance grigie come la pietra:
“Sei in consegna per la prossima settimana, Laroche”.
 
Il silenzio calò senza che nessuno di loro tre si muovesse.
“Sì, me lo merito, comandante… Vi chiedo scusa”, Marcel si massaggiava la guancia, i suoi occhi erano tornati mansueti e la voce era più bassa e morbida. Pareva un folle che ha ritrovato la ragione.
Rimasero in silenzio entrambi, entrambi colpevoli, entrambi innocenti.
Non c’era nulla da dire.
André li guardava in attesa di cogliere il momento più opportuno per avvicinarsi.
“Puoi andare ora, Laroche”.
“Comandante, un’ultima cosa…” disse Marcel avviandosi verso le camerate, “perché mi avete costretto a questa esercitazione supplementare? Perché solo io?”
“Perché sei l’unico mancino, Laroche”.
André, che aveva seguito tutto a distanza, con la testa abbassata sulle guance conserte, sorrise tra sé. Anche Marcel Laroche doveva arrendersi di fronte alla sua Oscar.
 
Ma poi si riscosse e impercettibilmente trasalì non appena sollevò lo sguardo e la vide, - Dio, come vedeva bene quel pomeriggio! -, che si avvicinava a lui con un passo che mai le aveva visto: un incedere deciso ma allo stesso tempo consapevolmente seducente, come se… André si stupì ma non poté non pensare che in quella camminata, ad ogni passo sempre meno marziale, c’era una donna. Una donna che voleva essere guardata. Una donna che voleva essere l’unica cosa che lui desiderasse guardare.
 
Quando gli fu vicino, lei sentì che quella spavalderia l’abbandonava perché restare sola con André era la cosa che più voleva. Si spaventò di quanto lo volesse anche lì, nel cortile di quella caserma.
Quando gli fu vicino, lui sentì lo scricchiolio di una crepa nel muro che li divideva.
“André…”
Ti amo, André
“Dimmi, Oscar…”
Lo so, ti amo anche io
“Raccontami di Laroche”
Voglio sentire la tua voce, André
“Che cosa vuoi sapere?”
Dovrò pagare da bere a Marcel che ormai è la scusa ufficiale con cui passi del tempo con me?
“André, so che sai più di quello che dici di sapere. L’altro giorno ha fatto il vago, ma ora voglio che tu mi dica tutto. Perché Laroche si è arruolato?”
Credi che io non ti conosca, misterioso Monsieur Grandier? A Versailles non c’era segreto, non c’era mormorio che non giungesse alle tue orecchie e ora dovrei credere che non sai perché quel ragazzo si è arruolato?
André sospirò e poi, mentre armeggiava per sistemare i bersagli, i fucili, le cartucce che ancora occupavano lo spiazzo, raccontò:
“Marcel si è arruolato circa un anno fa. Prima lavorava alla Villier frères con suo padre. Era innamorato… di una ragazza di nome Joséphine. Poi lei è partita per la Martinica…”
C’è sempre di mezzo l’amore, Oscar, quando si soffre così, lo sai?
“Per la Martinica…”
“Sì. Lei e suo padre erano molto poveri e laggiù potevano trovare lavoro nelle piantagioni… un’opportunità…”
Lei guardava il cielo: com’era il cielo in Martinica? Era lo stesso cielo che copriva lei e André?
“Non la rivedrà mai più, quindi…”, un’ovvietà che in quel momento la straziò.
“Lui l’ha saputo quando la nave era già salpata…”, André abbassò lo sguardo; sentiva il dolore che Marcel doveva aver provato quel giorno attraversargli la pelle e arrivare dritto al cuore. Ricorda ancora che quando Marcel gli aveva raccontato la sua storia, arrivato a quel punto, a quella nave ormai lontana sull’orizzonte liquido di acqua e di lacrime, a quella nave che lui aveva potuto solamente immaginare, schiacciato contro il muro di un vicolo sudicio di Saint-Germain, André aveva dovuto alzarsi e dargli le spalle perché per un istante aveva immaginato sé stesso su una banchina e una chioma bionda volteggiare al largo, nel vento, perduta per sempre.
“C’entra il padre di Marcel, vero?”, lei continuava a fissare il cielo.
“Sì… lui… non vedeva di buon occhio la loro unione perché lei…”, lo sguardo che si perdeva a terra in un punto lontano.
Lei rivide il sacchetto di denaro dell’affranto papà Laroche, risentì quelle parole… Comandante, sono un padre che ha sempre deluso suo figlio. Credevo di fare il suo bene ma…
“Perché lei non era abbastanza per lui?”
André tacque. Di che cosa stavano parlando? Di chi stavano parlando?
Il vento caldo turbinava sul selciato della piazza d’armi, sollevava i loro capelli, scorreva tra le loro dita.
“Grazie, André. Ora devo sbrigare una cosa. Finisci tu qui e avvisa il colonnello d’Agoult. Ricordagli che domani devo andare a Versailles”.
E nel brevissimo istante in cui ruotò il busto per dargli le spalle, lei si accorse che un’emozione mai provata riempiva e colmava ogni suo desiderio, perché sentì all’improvviso che la mano di André si avvolgeva gentilmente sulla sua, abbandonata lungo il fianco, e la accarezzava piano e poi la tratteneva e la stringeva un poco, tutto in un istante brevissimo, e infine, un dito dopo l’altro, lei avvertì che quella presa l’abbandonava e vide che lui le aveva già dato le spalle per tornare in caserma.
 
Voleva andare solo in un posto, solo in un posto.
Via dalle regole che le erano imposte dalla vita militare.
Via da Bouillé e dalla sua diffidenza.
Via da suo padre e dal suo mondo asfissiante.
Via dalla storia di Marcel e dal dolore di un amore impossibile.
Via dalla paura della rivoluzione.
Via dalle parole di Lassonne.
Via da una carezza rubata che non sapeva come trasformare in realtà.
 
Arrivò di fronte alla porta di Monsieur Dunant che quasi era ora di cena. Si scusò con lui e con Lucille per essersi presentata ancora una volta senza preavviso, poi, con un tremito nella voce e con il cuore che galoppava al punto da spezzarle il respiro, chiese di poter vedere l’appartamento.
Non sapeva nemmeno lei che cosa sperasse di trovare in quelle stanze.
“Venite”, disse Lucille con gentilezza dopo aver lasciato suo padre alla scrivania del piano di sotto.
Il portoncino di legno di ciliegio si aprì su un vestibolo buio ai lati del quale lei vide un appendiabiti e uno specchio. Ebbe un brivido nel riconoscere lo spazio che aveva sognato solo qualche giorno prima.
Superata la porta a vetri che chiudeva il vestibolo, Lucille le fece strada all’interno dell’appartamento.
“Ecco, monsieur, queste sono le stanze. C’è una cosa, però, che ancora non sapete e che vi devo dire: vedete, io e mio padre… insomma l’appartamento non è nostro, ce ne occupiamo per conto del proprietario che non può seguire queste trattative dal momento che è spesso impegnato”.
“Oh…”, un’espressione di sorpresa e una strana emozione la colsero, “e ditemi, come si chiama il proprietario?”
Monsieur Vertère… lo conoscete?”
Lei fece segno di no, un po’ delusa. Ma che cosa si aspettava?
“Oh, scusate, devo scendere ora, rischio di bruciare la cena! In ogni caso non è necessario che voi lo conosciate, io e mio padre ci occuperemo di tutto quello di cui avrete bisogno! Scusatemi ma devo proprio scendere! Tornerò appena mio padre avrà cenato”.
Monsieur Vertère…
Si mise a girellare senza guardare niente di particolare ma assaporando l’atmosfera di quelle stanze.
Monsieur Vertère…
Le pareva di aver sempre respirato l’odore di quel legno, di essersi sempre affacciata a quelle finestre, di aver avuto sempre davanti agli occhi quel camino…
Monsieur Vertère…
Ad un tratto, quando entrò nel salotto, fu attratta da un angolo tra la libreria e il carrello dei liquori. C’era una sola bottiglia: il suo cognac preferito.
Monsieur Vertère…
Al muro un bozzetto a matita: le pareva familiare… un paesaggio di campagna… cespugli di rose… Arras? Avrebbe giurato di averlo fatto lei quel disegno un milione di anni prima.
Monsieur Vertère…
Un libro piccolo piccolo, sperduto su una mensola vuota: un titolo in tedesco, la data, 1774, una bruciatura sull’angolo della quarta di copertina…
“Leggi sempre troppo vicino alla candela, André!”
Allora rise, rise fino alle lacrime e sentì che il suo cuore scoppiava d’amore.
Monsieur Vertère!
 
Scese di corsa le scale e raggiunse Lucille che stava sparecchiando:
“Potete dire a Monsieur Vertère che Mademoiselle Lotte ha preso in affitto il suo appartamento”, ancora rideva quando lo disse.
“E se non è di disturbo, penso che stasera dormirò qui, Lucille”.
Salì le scale e dormì come mai prima aveva dormito.
Senza sognare, senza tossire.

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Capitolo 5
*** A Saint-Denis ***


Tutto il capitolo racconta una sola giornata di giugno. Pare che succeda poco, ma in realtà qui André fa (per la seconda volta, pare) una cosa molto, molto importante.
Buona lettura e sempre grazie!                         
Sett.
 

A Saint-Denis

 
28 giugno 1789
 
Pioveva fortissimo quel mattino: il rumore della pioggia copriva persino il rantolo del suo compagno di camerata che da ore russava a pancia in su e con la bocca aperta.
André si alzò e andò alla finestra, tanto dormire era impossibile. Il selciato era allagato e la pioggia ci picchiava sopra, rimbalzava e si incanalava in piccoli ma rapidi torrenti che confluivano verso i canali di scolo a ridosso della muraglia della caserma. Il cielo pareva un’immensa nube grigia, una nube spessa che non lasciava passare la luce del mattino. Entro pochi minuti sarebbero stati chiamati a un’altra giornata di servizio e André si chiese se ancora l’avrebbero trascorsa tra esercitazioni, inventario dell’artiglieria e delle munizioni, pulizia dei fucili…
Avrebbe voluto andare in città, lui, vedere Bernard, verificare di persona se il piano di Oscar procedeva, se Alain e gli altri avevano davvero la possibilità di farcela. Avrebbe voluto sentire l’atmosfera di Parigi, capire come si stavano mettendo le cose, scoprire se c’erano voci di battaglia o voci di conciliazione tra il popolo e la casa reale. Avrebbe voluto avere tra le mani un giornale, sentire che cosa si dicesse nella cerchia di Robespierre, essere aggiornato sui progetti di Necker…
Che cosa faceva lì?
Un tuono squarciò il cielo: certo uscire con quella pioggia era da folli, ma a lui non importava; forse avrebbe potuto chiedere un permesso… Gli sarebbero bastate un paio d’ore…
“Soldati! Preparatevi con l’assetto da pioggia, vi voglio vedere in sella tra venti minuti!” lei era comparsa sulla porta della camerata con un’aria tesa e impaziente.
“Che succede, comandante?” chiese un soldato che si era alzato di scatto dalla branda appena l’aveva vista comparire sulla soglia.
“Abbiamo l’incarico di perlustrare i dintorni di Saint-Denis. Il comando generale riferisce di movimenti sospetti nella campagna intorno al villaggio. Ora muovetevi!”
 
Si misero in marcia mentre la pioggia non accennava a placarsi; in città dovettero procedere al passo con prudenza, solo quando uscirono dalla porta nord e intorno a loro iniziò a stendersi la campagna verso Saint-Denis riuscirono ad accennare un piccolo trotto.
André sentiva il cuore farsi più pesante ad ogni sobbalzo del suo cavallo: era una mattina di fine giugno e quei campi erano deserti, intere coltivazioni abbandonate sotto la pioggia che ormai da giorni, a intervalli spietati, si rovesciava sulle spighe che avrebbero dovuto biondeggiare ed essere quasi pronte per la mietitura. Invece non c’era nessuno nei campi e le spighe si piegavano verso il basso; alcune, specialmente quelle più vicine alla strada, erano schiacciate a terra e avevano un colore che si mescolava con quello del fango, la pioggia implacabile le rendeva una poltiglia dall’odore nauseante che saturava le narici e rendeva difficile respirare. E non c’era nemmeno da invocare il sole, che ormai non era più il sole della primavera ma quello rovente dell’estate, che avrebbe bruciato le poche spighe rimaste sane e stroncato quelle languenti a metà strada tra il cielo e la terra. Per non parlare dei contadini, che si sarebbero dovuti far largo in quegli acquitrini per salvare almeno qualcosa che consentisse alle loro famiglie di sopravvivere. No, non ci sarebbero stati i canti allegri che accompagnavano la mietitura, le voci eccitate che si chiamavano da un campo all’altro, le ragazze con mazzetti di spighe nella scollatura o tra i capelli, i ragazzi con le braccia abbronzate e i larghi cappelli di paglia, i bambini di corsa tra i filari, i buoi, docili e mansueti, attaccati ai carri pronti per il carico quotidiano. No, pensò André, tutto era troppo grigio, troppo angosciante e opprimente. L’unica cosa che non sarebbe cambiata, pensò André, erano le tasse che la famiglia reale avrebbe chiesto a quella povera gente. Strinse le redini e ripensò al passato: alle feste di Versailles, alla regina e al suo guardaroba, alla gestione politica dello Stato affidata al cortigiano più spregiudicato o alla favorita del momento, al re che era più a suo agio in una fucina fumosa che sul trono… Dio! Ma questa povera gente che cosa avrebbe detto di fronte alla vita di corte? Questa gente che cosa avrebbe fatto se avesse visto il villaggio rurale che la regina si era fatta costruire nei giardini di Versailles per provare l’esotica emozione di essere una contadina che raccoglie le uova?
Avrebbe voluto avere vicino Alain, in quel momento. Invece Alain era prigioniero e in quel mattino senza luce André ebbe la paura vera, quella che si sente sulla pelle e che chiude lo stomaco in una morsa, di non vedere più né lui né gli altri. Anche se per lui era naturale fidarsi di Oscar, anche se il piano che lei gli aveva confidato e che coinvolgeva Bernard e la folla parigina era davvero geniale, tuttavia sembrava che quel mattino spezzasse ogni fiducia, abbattesse ogni sogno. Di fronte a quei campi morti, André sentì morire anche la speranza.
Il colonnello d’Agoult gli fece cenno di avvicinarsi.
“Soldato, stiamo per avvicinarci al centro abitato di Saint-Denis, riferisci ai tuoi compagni che si preparino per un pattugliamento della zona. Una volta superato il canale di Saint-Denis ci fermeremo e ci suddivideremo in due gruppi”.
“Agli ordini, colonnello!”
 
André non poté fare a meno di chiedersi quale pericolo si annidasse nelle campagne silenziose di Saint-Denis: il clero lì era il più potente di Francia, ma non era certo il clero amico del terzo stato! Il suo legame con la casa reale era molto forte, dal momento che la basilica era il sacrario dei re di Francia da secoli, la cappella dei Borbone attendeva i corpi dei sovrani con lo stesso sfarzo con cui Versailles ne aveva racchiuso le vite. Che cosa poteva mai succedere a Saint-Denis? André si trovò a pensare che quella spedizione fosse un modo del generale Bouillé per tenere occupati Oscar e il suo reggimento lontano da Parigi, via da qualunque posto che potesse rappresentare un focolaio di ribellione. Mandandoli a Saint-Denis, Bouillé si metteva al riparo dall’accusa di mantenere un reggimento inattivo a Parigi e allo stesso tempo allontanava Oscar da eventuali disordini. La pioggia che cadeva e rendeva quella inutile missione un supplizio doveva essere la ciliegina sulla torta per il generale, probabilmente! Era un modo astuto per insegnare a quella femmina arrogante che l’aver conservato il suo posto dopo un tale tradimento grazie al perdono di Sua Maestà non faceva di lei un ufficiale con libertà d’azione. Anche a lei toccava obbedire agli ordini, che si ricordasse bene: i militari non discutono, obbediscono!
 
André sollevò il suo sguardo stanco e affaticato su di lei, sulla sua schiena che intravedeva poco più avanti. Sentì il cuore che si stringeva di apprensione e di preoccupazione: come poteva quel fisico già così provato reggere l’ennesimo giorno sotto la pioggia battente? Ritornò con la mente al 23 giugno, al giorno del tradimento, quando l’unico momento di requie che lei aveva avuto, a palazzo Jarjayes, con lui, davanti a un fuoco che aveva appena iniziato a scaldare le ossa dopo quella folle giornata, era stato interrotto dal generale che aveva trasformato quel misero tepore nel gelo della morte.
Non era passata nemmeno una settimana… André sentì che il suo corpo gli stava restituendo, nei muscoli che involontariamente si erano contratti e nel sangue che pulsava più forte dentro di lui, le violente emozioni di quella sera.
Tornò con lo sguardo a lei e cancellò dalla coscienza tutto il resto: il paesaggio, gli altri soldati, la pioggia. Restavano lui e lei, una vita insieme, gli unici ad avere accesso a ricordi di due vite intrecciate talmente forte da far male.
Si sentiva così inutile, ora! Da attendente poteva prendersi cura di lei, poteva sollevarla da mille piccole incombenze e lasciarla riposare… ma ora? Ripensò alle parole che la nonna gli aveva detto quella sera:
Lo sai che non vuole più essere servita?
Certo, ora lui poteva proteggerla in una missione pericolosa o nella mischia di una battaglia, poteva sorvegliare le mosse dei suoi commilitoni più violenti, poteva disarmare il braccio di un padre che ha perduto il senno… ma quello che gli mancava davvero, quello di cui lei più aveva bisogno, era la cura quotidiana, quei gesti che solo lui conosceva e che la mettevano al riparo dal deperimento, dal rischio di ammalarsi, dal trascurare sé stessa. Non che lei non fosse capace di fare da sola! assolutamente no, ma lei era troppo generosa, troppo concentrata sugli altri per permettersi di pensare a quello che le serviva per stare bene e ora la vedeva, lì, poco avanti a lui, intabarrata in un mantello molto più grande di quanto le servisse, zuppo al punto che non era difficile immaginare quanto stesse pesando su quelle spalle; e poi sotto c’era quell’uniforme, pesante e umida pure quella, allacciata di tutto punto naturalmente, che di sicuro impediva al suo corpo di respirare; e i capelli, che erano intrappolati tra il mantello  e l’uniforme, di certo riuscivano a gocciolarle tra il collo e la schiena; e le cosce a contatto con il mantello fradicio di César… e poi gli stivali, senza dubbio già bagnati anche all’interno…
Ma perché una donna doveva sottoporsi a quegli sforzi? Perché lei doveva chiedere tanto al suo corpo?
Se fossero stati da soli come un tempo…
Se fossero stati da soli come un tempo, dopo una giornata sotto l’acqua, lui avrebbe buttato là una frase del tipo: “Ah, non vedo l’ora di farmi un bel bagno caldo per togliermi di dosso questa umidità…”, sicuro che lei avrebbe colto il suggerimento e avrebbe fatto altrettanto, le avrebbe fatto trovare la sua stanza calda e asciutta, avrebbe detto alle cameriere di stendere i vestiti puliti vicino al camino acceso, avrebbe detto alla nonna di prepararle un brodo caldo e poi si sarebbe fermato con lei, con una certa noncuranza e con la scusa di commentare i fatti della giornata, finché lei non avesse finito di cenare e poi le avrebbe raccontato qualcosa di leggero e spiritoso per condurre i suoi pensieri verso un sonno ristoratore… e…
Chi si prende cura di te, Oscar? Se sei sola tu chiedi troppo a te stessa, al tuo corpo… e lo vedo che le tue spalle ogni tanto tremano per i brividi…
André all’improvviso sentì strisciare sotto la pelle e intorno alle tempie l’inizio di una sensazione che ben conosceva…
No! Non adesso! Non adesso!
Strizzò gli occhi e cacciò via l’idea che più volte si era affacciata alla sua mente, l’idea di perdere la vista per sempre, mentre un alone scuro circondava tutto quello che vedeva.
Devo vedere un medico…
 
Andare da Lassonne appena quella missione a Saint-Denis fosse conclusa, sì, doveva andare da Lassonne quel giorno stesso, pensò lei.
Mentre cavalcava aveva sentito la sua testa assediata da una tale quantità di pensieri che la attaccavano da fronti diversi della sua vita che aveva temuto di non poterne reggere l’urto: da un lato Bernard e il suo piano, quei dodici soldati ancora prigionieri, dall’altro Bouillé e il suo rancore mal sopito, e poi ancora: i rappresentanti del popolo estromessi da quella sala e la loro tenacia nel mantenere saldo il proposito di cambiare la Francia, e suo padre, la sua lealtà alla corona e quello che si aspettava da lei in quanto suo erede, e il suo essere aristocratica che sempre più la soffocava, e il corpo che non le obbediva più come una volta e poi… e poi.
Sentì che le mancava il respiro e si curvò un poco in avanti per attenuare una fitta che le trapassava il petto.
Ruotò di poco lo sguardo alle sue spalle per vedere nella pioggia dietro di sé la figura di André: era curvo, la testa incassata nelle spalle, il mantello ben chiuso fino a coprire la bocca… si sistemò anche lei il mantello come lui, nascondendo il colletto e la bocca sotto lo spesso tessuto verde.
Ripensò per l’ennesima volta alla follia di qualche giorno prima, a quell’appartamento in cui non era neppure entrata e che aveva immaginato potesse essere… strinse più forte le briglie e si diede della stupida. Sarebbe tornata da Monsieur Dunant e avrebbe disdetto l’affitto. Si sarebbe scusata e avrebbe naturalmente lasciato la caparra a lui; sì, quella era la cosa giusta da fare. Che cosa le era saltato in testa? Da quando si abbandonava ai sogni così? Non c’era tempo di sognare, di ascoltare i sentimenti! Lei era un militare!
Ma guardati intorno, Oscar… tutto sta morendo, tutto si disfa sotto l’acqua, tutto si brucia sotto il sole. Tu devi fare il tuo dovere, Oscar. Pensa ai tuoi dodici soldati! Porta a termine questa missione a Saint-Denis! Rendi orgoglioso tuo padre! Soffoca la tosse e raddrizza la schiena, non un cedimento devono vedere i tuoi soldati! Sei tu il loro esempio, la loro guida, la loro forza.
E lui…
Lascia che lui sia la tua ombra, tienilo vicino a te e non chiedere di più.
Non chiedere di più.
 
Superarono il canale e i soldati si schierarono di fronte a lei e al colonnello. Li divise in due gruppi e si mise al comando di quello in cui c’era André; lui non se ne stupì e prese posto, come se tutto fosse casuale, nella prima fila dietro il comandante.
“Soldati, seguitemi! Pattuglieremo la zona ovest di Saint-Denis, dal villaggio fino alla Senna. Se notate movimenti sospetti informate immediatamente me e non prendete alcuna iniziativa!”
Passarono nelle vie del paese perlustrando a fondo vicoli, passaggi stretti, androni di grandi case in stato di abbandono: non si vedeva in giro nessuno, ma si accorsero tutti che al loro passaggio le imposte delle case venivano bruscamente chiuse, oppure che ombre silenziose occupavano la fessura di luce tra un’anta e l’altra per osservarli. Quando arrivarono alla piazza, fecero in tempo a intravedere le sottane di alcune donne, sicuramente erano andate al pozzo, che sparivano dietro a pesanti porte di legno. Le campane suonarono qualche rintocco che si perse nel rumore della pioggia.
Proseguirono lasciandosi alle spalle il centro abitato, mentre la pioggia cadeva ancora, anche se con minore intensità e il grigio del cielo diventava più lattiginoso.
Le fattorie parevano deserte, anche polli e galline erano al riparo; solo qualche cane al loro passaggio abbaiava tirando la catena nel tentativo di raggiungerli.
Ovunque si respirava la miseria, nei fienili vuoti si misurava la disperazione, e i forconi accatastati ai muri parevano la minacciosa promessa che prima o poi qualcuno si sarebbe fatto giustizia.
 
Ad un tratto nella foschia videro una figura che si muoveva di corsa in aperta campagna, seguita da tre donne che portavano ceste tra le mani.
“Laggiù! Hai visto?” disse lei rivolgendosi ad André.
“Sì”, mentì lui.
“Soldati, andiamo a vedere di che cosa si tratta!”
Raggiunsero quel gruppetto di persone nei pressi di un grande edificio disposto a ferro di cavallo intorno a un’aia in stato di abbandono. Tutte le porte erano chiuse.
La figura che avevano visto da lontano era un giovane prete con i capelli ricci e scuri che scendevano gocciolanti sugli occhi inquieti e indagatori. Allargò le braccia per tenere dietro di sé le tre donne che lo seguivano, come se volesse far loro da scudo con il suo corpo.
“Che volete? Non stiamo facendo niente di male” disse a denti stretti guardando in su verso l’ufficiale biondo.
“Che cosa c’è qui dentro?”
“Niente, niente che vi possa interessare”.
“Questo lo deciderò io” disse lei scendendo da cavallo. I soldati la imitarono. André si mise alle sue spalle, un solo passo dietro di lei. La tensione del momento aveva messo in secondo piano il dolore alla testa e strizzando l’occhio gli pareva di riuscire a vedere decentemente.
“Avete intenzione di usare la forza contro un prete che non ha nient’altro che la sua tonaca e contro tre contadine con i vestiti rappezzati?” rise quello con cattiveria.
“Io non ho nessuna intenzione di usare la forza, voglio solo vedere cosa c’è qui dentro. Ora lasciatemi passare. Grandier, seguimi” stese il braccio davanti al prete per farlo spostare e farsi strada e andò a passo spedito verso la porta che aveva intravisto nascosta dietro a un carretto carico di botti e casse di legno.
“Non aprite quella porta!!” urlo il prete spostandosi al centro dell’aia e portando la mano avanti a sé come se volesse pronunciare una maledizione.
Lei proseguì ma ad André venne un brivido e, esattamente nel momento in cui lei, fatto scorrere il chiavistello, stava per entrare, la trattenne per il polso gridando “No! Osc… Comandante, no!”
Lei si ritrovò, trascinata da quella stretta con il polso trattenuto alto sul viso, vicinissima all’unico occhio di lui. Lo guardò interrogativa. Allora lui sussurrò:
“Ti ricordi a Valenton?”
Lei sbarrò gli occhi.
“Ascolta” disse lui.
Allora lei ascoltò: dietro quella porta si udivano un brusio sommesso, singhiozzi spezzati, pianti che sembravano cantilene di sofferenza, grida soffocate e poi…
Come a Valenton
Colpi di tosse
Come a Valenton
Il rumore della tosse che squassa il torace
Come a Valenton
Rantoli di chi cerca l’aria tra un colpo e l’altro
Come a Valenton
“Ma questo è…”
Il prete l’aveva raggiunta e ora, vicino a lei, la sfidava con lo sguardo acceso:
“Sì, questo è una specie di lazzaretto, comandante”.
Spinse un poco la porta e lei sentì che la sua mano, abbandonata lungo il fianco, veniva riempita da un fazzoletto. Guardò André che le fece un cenno col capo dicendole:
“Non entrate, comandante, state qui sulla porta”.
Sono le stesse parole che mi hai detto quel giorno, André, quel giorno a Valenton
Lei, come allora, si portò il fazzoletto di André sulla bocca e sul naso e, stando al di qua della soglia, guardò dentro: davanti a loro uomini addossati ai muri e deformati dalla malattia, piaghe, macchie su corpi macilenti, ossa del cranio in rilievo, volti gialli, grigi, occhi infossati e cerchiati di viola. Tutti stavano su giacigli di paglia coperti da brandelli di stoffa. Più avanti, dietro un lenzuolo appeso al soffitto che fungeva da séparé, si intravedevano abiti di donne, cuffie calate su profili scheletrici. E dappertutto sospiri. E pianti silenziosi. Qualche grido soffocato.
Come a Valenton
 
“Facciamo quel che possiamo, comandante. Portiamo il nostro aiuto, quel poco di soccorso materiale che riusciamo a raccogliere e tutto quello spirituale di cui la mia voce e la mia anima sono capaci” la voce dura del prete la fece trasalire.
“Che malattie hanno…?” tremava.
“É importante saperlo? Io non lo so, non sono un medico. So solo che sono persone che stanno male, alcune molto male. E che le loro famiglie non possono permettersi di curarle, di star loro vicino perché altrimenti non potrebbero uscire a lavorare, oppure perché rischierebbero di ammalarsi anche quelli che riescono ancora a portare a casa qualcosa da mangiare…”
Come a Valenton
“E voi non temete di…” disse lei a bassa voce.
“Certo che temiamo di ammalarci. Un giorno saremo anche noi tra questi poveretti probabilmente. Ma, vi assicuro, sto molto peggio nella mia canonica, sapendo che loro hanno bisogno di me” ora la sua voce pareva quasi addolcita.
“Ma perché non lo avete detto subito che questo era un lazzaretto?”
“Perché, vedete, le autorità ecclesiastiche di Saint-Denis non ne sono al corrente e io… ho agito di mia iniziativa… per sottrarre alla malattia i sani del villaggio e per provare ad alleviare le pene di questi malati. Qui si muore anche per quella che per i nobili come voi è una banale infreddatura, sapete?”, scosse il capo per la frustrazione, “eppure, qualcuno è guarito ed è tornato a casa…”, fece una specie di sorriso con le labbra strette, “… ma è difficile avere udienza con le alte sfere del clero, specialmente per un prete di campagna come me, specialmente quando si parla dei bisogni della povera gente e allora… visto che non c’era tempo da perdere… io…” una luce strana brillava nei suoi occhi e movimenti furtivi di alcuni malati che allungavano mani scarnificate sulla paglia la fecero trasalire.
Oscar si trovò a pensare che, se quel prete stava peccando, il suo peccato non era certo la falsa testimonianza ma l’omissione. In quel racconto mancava qualcosa di importante, era chiaro.
Guardò André che le fece un cenno d’intesa indicando il carretto vicino alla porta.
Ma lei passò oltre e disse solamente “Va bene”, poi tornò indietro verso gli altri soldati, si rimise in sella e diede l’ordine di ripartire.
Mentre si allontanava, guardò alle sue spalle il prete che la fissava torcendosi le mani.
Un sorriso piegò le labbra di André prima che sparissero sotto il colletto del mantello: ancora una volta lei lo sorprendeva, ancora una volta lei sceglieva il popolo.
 
Non pioveva più e i soldati della guardia si erano accampati per un pranzo veloce lungo l’ansa della Senna che lambiva la parte occidentale del borgo di Saint-Denis.
André, appoggiato a una staccionata che costeggiava il fiume, dava le spalle al trambusto dei suoi commilitoni: rinfrancati dal cibo e dai primi raggi di sole che finalmente bucavano le nubi, tutti gustavano la sosta e il riposo. Lui invece si teneva la testa e continuava ad aprire e a chiudere l’occhio, strizzandolo per cercare di diminuire l’alone scuro che circondava tutto quello che guardava. Sentiva che la sua testa stava per scoppiare, la reggeva con entrambe le mani, i gomiti larghi appoggiati al legno giovane della staccionata, il collo piegato in avanti. Quegli episodi avevano ormai una frequenza preoccupante, l’assillo di perdere la vista era tale che la notte spesso non riusciva a dormire, a meno che la stanchezza fisica avesse il sopravvento e gli concedesse qualche ora di riposo.
 
Si accorse all’improvviso che lei si era fermata pochi passi dietro di lui: seppe che era lei perché non parlava e perché lui conosceva il ritmo del suo respiro. Ma non poteva ancora sapere con quale sforzo lei stesse a quella distanza da lui, contro quale esercito di emozioni lei stesse combattendo per non cingergli la vita e per non appoggiare la guancia sulla sua schiena e chiudere gli occhi abbandonando tutto il suo corpo al corpo di André. No, quello André non lo sapeva.
 
“Che cosa mi nascondi?”, disse lei.
“Niente” le rispose senza voltarsi.
 
Alcuni soldati cominciarono a intonare una canzonetta allegra con voce bassa e grave:
Il pleut, il pleut bergère
Rentre tes blancs moutons
Allons sous ma chaumière
Bergère, vite allons
J'entends sous le feuillage
L'eau qui tombe à grand bruit…

 
“Se non fosse stato per te sarei entrata… Come a Valenton, ricordi?”
La prima volta che ho sentito quella tosse… Ricordi come mi hai preso per un braccio e mi hai tirato a te per evitare che entrassi?
“Sì, ricordo…” si era voltato piano, mentre le rispondeva e ora cercava di guardarla senza insospettirla.
Eri a pronta a entrare in quella stanza, in mezzo a quei malati…
“Quando è stato? marzo?”
La prima volta che ho capito davvero che cosa sia la tisi… che cosa voglia dire morire di tisi… tu lo sai che ho paura di avere la tisi, André?
 
I soldati cantavano ancora:

Entends-tu le tonnerre?
Il roule en approchant.
Prends un abri bergère,
À ma droite en marchant.
Je vois notre cabane.
Et tiens voici venir…



“Sì, marzo”
Ti ricordi quelle facce, Oscar? Quell’aria satura di malattia, di morte? Ci siamo pietrificati di fronte a quella sofferenza. E tu volevi entrare! Dio, che follia! Un tempo bastava che la nonna starnutisse un paio di volte perché ti intimasse di starle lontana! E tu volevi entrare lì dentro!
Lei volse lo sguardo al fiume e alle sue correnti fangose, al suo colore denso che pareva spalmato su quella superficie acquosa come stucco marrone pronto a solidificarsi.
“Se allora fossi entrata…” bisbigliò
… mi sarei di sicuro ammalata…
Allora lui si allontanò dalla staccionata e fece un passo verso di lei

Soignons bien, oh ma mère,
Son tant joli troupeau
Donnez plus de litière
À son petit agneau




“Che cosa c’è?” lo disse cercando di darsi il contegno e la serietà del comandante
Non avvicinarti così, André, non avvicinarti così
“Oscar, ti prego, prenditi cura di te”, glielo disse sussurrando, quando le passò vicino per superarla, e raggiungere gli altri, e porre fine a quella conversazione privata e inappropriata tra un comandante e un soldato

Mais tu ne manges pas?
Tu te sens de l'orage,
Il a lassé tes pas.



“Sì, lo farò…” disse a voce così bassa che ormai lui non la poteva sentire.

Laisse moi sur ta bouche
Prendre un baiser d'amour
Ne rougis pas bergère,
Ma mère et moi demain,
Nous irons chez ton père
Lui demander ta main.

 
“Grandier!”
Ancora un istante, ancora un istante!
Lui si fermò senza voltarsi.
“Quella fattoria piena di malati era proprio come quella di Valenton, vero?”
Lo hai visto, vero? A Valenton c’erano solo malati, qui invece… hai notato che cosa nascondeva quel prete? Quelle tre donne nei loro cestini? Hai sentito anche tu l’odore di polvere da sparo vicino a quelle botti sul carretto, hai visto le canne dei fucili che sbucavano sotto la paglia dei giacigli…
“Certo, con le dovute modifiche potreste riutilizzare il rapporto che avete scritto allora, comandante…” disse lui alzando la voce
Quel lazzaretto è un piccolo arsenale, un nascondiglio perfetto per le armi del popolo… e tu hai finto di non vedere, Oscar…
“Sì, farò così. È una buona idea” concluse lei.
 
***
 
Era molto tardi quando lei bussò alla porta del dottor Lassonne.
Lui la fece entrare e poi la visitò con calma, il silenzio rotto solo da brevi indicazioni – sollevate la camicia, provate a tossire, datemi il polso, aprite la bocca… - e dal respiro un poco rumoroso di Lassonne.
Mentre si allacciava la giacca dell’uniforme, senza guardarlo, lei disse:
“Ditemi tutto, dottore. Sono pronta”.
“Le vostre condizioni generali non sono affatto buone”.
“Lo so”.
“La vostra tosse non mi piace. Il sapore ferroso che sentite in bocca quando tossite potrebbe essere causato da altro, ma…”
“Dottore, potete essere chiaro. Ho la tisi, non è forse così?”
Lassonne si alzò e allargò le mani sulla scrivania. In quel momento decise di infischiarsene del rango, della differenza sociale che lo separava da lei, del fatto di avere di fronte il comandante Oscar François de Jarjayes. Se ne infischiò e le parlò come tanto tempo prima parlava a una bambina testarda che doveva essere convinta a inghiottire sciroppi e a non uscire di casa con il raffreddore:
“Non posso affermarlo e non posso escluderlo. Il vostro stile di vita, prima ancora della tisi, vi sta consumando; ditemi: mangiate regolarmente? Dormite un numero di ore sufficiente? Evitate di esporvi in modo prolungato alla pioggia o al sole battente? Avete preso le medicine per le affezioni respiratorie di cui avete spesso sofferto che avete a palazzo e che ho lasciato appositamente per voi a Marie Grandier?”
Lei tacque e pensò al pane sbocconcellato in piedi e di fretta prima di uscire; agli avanzi lasciati nel piatto a palazzo Jarjayes perché non reggeva la desolazione di quell’apparecchiatura singola su quel tavolo del suo salottino che sempre lei aveva voluto che fosse preparato per due; al caldo soffocante che aveva patito la mattina che era stata da Bernard; alla pioggia di quel giorno, che ancora si sentiva addosso; al vino e al cognac che ormai avevano sostituito qualsiasi medicina e che erano per lei la porta per raggiungere qualche ora di sonno simile all’incoscienza.
Alzò lo sguardo verso Lassonne ma il senso di colpa glielo fece riabbassare. Strinse i pugni sulle cosce e dominò il desiderio di abbandonarsi al pianto.
“Ora vi dirò quello che dovete fare, se volete avere una possibilità di guarire: voi dovete lasciare la vita militare, ritirarvi in un posto tranquillo dove potrete prendervi cura di voi. Tenete, per ora, bevete ogni sera un infuso con questa polvere di carrube. Dovrete venire da me ogni settimana perché io possa valutare le vostre condizioni e capire se la malattia regredisce o se…”
Lei si alzò bruscamente spostando indietro la sedia con uno stridore sordo.
“Capisco. Ma al momento non posso fare tutto quello che mi chiedete”.
Lui chiuse gli occhi e scosse impercettibilmente la testa.
“Ma verrò da voi tra una settimana” aggiunse convinta.
Fece per uscire ma lui aveva ancora una cosa da dirle. Restò fermo al di là della scrivania, gli occhi chiusi e la testa bassa:
“Se la febbre dovesse salire ulteriormente o se doveste tossire sangue, mandatemi a chiamare”.
Lei accennò col capo e uscì.

 
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Per il dialogo tra Lassonne e Oscar ringrazio Epices che ha tanta pazienza con una profana di medicina come me, e anche un’amica senza nickname alla quale voglio molto bene e che forse capiterà da queste parti.
 
La canzone Il pleut, il pleut, bergère è tratta dall’opera comica del 1780 Laure et Petrarque di Fabre d’Églantine, drammaturgo e rivoluzionario che finì sulla ghigliottina nel 1794 insieme a Danton. Nell’intento satirico la bergère sarebbe Maria Antonietta e il temporale in arrivo la Rivoluzione. Pare che avviandosi alla ghigliottina Fabre d’Églantine mormorasse l’aria di questa canzone.
Se a qualcuno interessa, riporto sotto il testo completo e una mia traduzione. Ringrazio di cuore Dorabella27 che ne ha controllato la correttezza dedicandomi un poco del suo prezioso tempo.
 
Il pleut, il pleut bergère
Rentre tes blancs moutons
Allons sous ma chaumière
Bergère, vite allons
J'entends sous le feuillage
L'eau qui tombe à grand bruit.
Voici, venir l'orage,
Voici l'éclair qui luit.

Entends-tu le tonnerre ?
Il roule en approchant.
Prends un abri bergère,
À ma droite en marchant.
Je vois notre cabane.
Et tiens voici venir
Ma mère et ma sœur Anne
Qui vont l'étable ouvrir.

Bonsoir, bonsoir ma mère
Ma sœur Anne bonsoir
J'amène ma bergère
Près de nous pour ce soir
Va te sécher, ma mie
Auprès de nos tisons
Sœur, fais lui compagnie
Entrez petits moutons.

Soignons bien, oh ma mère,
Son tant joli troupeau
Donnez plus de litière
À son petit agneau
C'est fait allons près d'elle
Eh bien donc te voilà
En corset qu'elle est belle
Ma mère voyez la.

Soupons, prends cette chaise
Tu seras près de moi
Ce flambeau de mélèze
Brûlera devant toi
Goûte de ce laitage

Mais tu ne manges pas ?
Tu te sens de l'orage,
Il a lassé tes pas.

Eh bien voilà ta couche,
Dors-y bien jusqu'au jour,
Laisse moi sur ta bouche
Prendre un baiser d'amour
Ne rougis pas bergère,
Ma mère et moi demain,
Nous irons chez ton père
Lui demander ta main.
Piove, piove pastorella,
fai entrare le tue bianche pecorelle,
Andiamo sotto la mia capanna
Pastorella, presto, andiamo.
Sento sotto il fogliame
L'acqua che cade con grande rumore,
ecco arrivare il temporale
ecco il lampo che brilla
 
Senti il tuono?
Rotola mentre si avvicina.
Cerca un rifugio, pastorella
Alla mia destra mentre cammino.
Vedo la nostra capanna.,
Ed ecco che arrivano
Mia madre e mia sorella Anna
Che stanno aprendo la stalla.


Buonasera, buonasera madre mia
Sorella Anna, buonasera
Porto la mia pastorella
A casa nostra stasera
Vai ad asciugarti, amica mia
Vicino alle braci
Sorella, falle compagnia
Entrate pecorelle
 
Prendiamoci cura bene, o madre mia,
del suo gregge tanto grazioso
date più strame
al suo agnellino
una volta fatto andiamo da lei
ebbene dunque eccola,
come è bella in corsetto,
madre mia guardatela
 
Mangiamo, prendi questa sedia
Ti siederai vicino a me
Questa fiaccola di larice
Brucerà davanti a te
Gusta questo formaggio
Ma tu non mangi?
sei stanca per la tempesta?
Ormai ha lasciato i tuoi passi

Bene, ecco il tuo giaciglio
Dormi bene fino al giorno
Lascia che io sulla tua bocca
Prenda un bacio d'amore.
Non arrossire, pastorella,
Io e mia madre domani
andremo da tuo padre
per chiedergli la tua mano.
 
 

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Capitolo 6
*** Parole ***


Mentre le mie vacanze volgono al termine, ecco il nuovo capitolo. È l’ultimo bipartito, portate pazienza. Poi si andrà avanti, verso il 14 luglio.
Un saluto a tutti quelli che passano di qui e, come sempre, grazie del tempo che dedicate a questa storia.
 

Parole

 
29 giugno 1789
 
Era notte nella cella dove erano rinchiusi i dodici soldati. La luna, spuntata da poco, non mostrava ancora il suo volto attraverso le sbarre della bocca di lupo e il sonno faticava ad arrivare dopo un’altra giornata trascorsa nell’immobilità forzata e nelle preoccupazioni che tacitamente assillavano tutti.
“Ehi, non c’è nessuno che sa una storia?” bofonchiò uno poco convinto.
“Che storia?”
“Una qualunque. Per passare il tempo…”
“Io so quella dei due soldati guasconi…”
“Idiota, la sanno tutti quella. Intendo una storia vera… una storia per portare i pensieri fuori da questo posto”.
“Laroche è bravo a raccontare storie”, disse Alain guardando Marcel che stava da ore in un angolo con il cappello calcato sulla faccia.
“Laroche!, raccontaci una storia!”, un altro compagno gli diede di gomito e Marcel raddrizzò la schiena e si tolse il cappello. Alzò gli occhi al cielo rivolgendosi ad Alain, che in risposta gli strizzò l’occhio con un sorriso beffardo.
“… grazie tante, eh…” mormorò Marcel rivolto ad Alain, poi a voce alta disse “e va bene, se volete una storia, vi racconterò una storia. Ma badate, se non vi piacerà non date la colpa a me, così me l’hanno raccontata e così la riporto a voi”.
Mentre nella cella calava il silenzio carico di attesa che sempre precede l’inizio di un racconto, Alain pensò a quante volte, durante i turni di notte le storie di Marcel avevano riempito il buio. Storie su puttane e taverne, sui bassifondi di Saint-Germain, storie che iniziavano quasi sempre con “Sentite che mi è successo…” e poi non capivi più se quello che stavi ascoltando fosse vero o frutto di una fantasia strabiliante. Ma in effetti non ti importava nemmeno saperlo per quanto ridevi e pendevi dalle sue labbra. Era davvero uno scrigno di tesori, quel ragazzo biondo e impetuoso; eccolo lì che gonfiava il petto per prendere il fiato, eccolo lì: si sarebbe messo a raccontare usando parole semplici e adatte a quei soldatacci così come sarebbe stato in grado di mettere insieme parole ed espressioni degne di gente raffinata come il comandante Oscar. La sua voce avrebbe riempito la cella senza stridule impennate, senza borbottii incomprensibili. Era un piacere starlo a sentire, un piacere semplice e allo stesso tempo grande, pensò Alain.
 
“Nel profondo e oscuro cuore di Saint-Germain-de-Prés viveva un tempo un uomo che aveva fatto del lavoro lo scopo della sua vita. Poiché era di umili origini, fin da ragazzo aveva compreso chiaramente che la sua fortuna doveva costruirsela da solo, così si era subito cercato un lavoro e aveva iniziato come apprendista nella bottega di un pellaio. Anno dopo anno, lavorava le pelli senza far caso alla fatica che gli piegava le ginocchia dopo giornate intere passate a calcare i cuoiami, che gli indolenziva il corpo dopo ore al cavalletto a ripulire a forza di braccia le pelli su cui ancora erano attaccati pezzi di carne, ignorando dietro un’espressione seria e concentrata gli odori nauseanti delle sostanze che servivano per pulire e far essiccare le pelli delle bestie che ogni giorno arrivavano su carretti coperti da nuvole di mosche e di insetti di ogni tipo…”
“Una volta anche io ho fatto quel lavoro, consegna di pelli! Prima di arruolarmi! Porcaccia la miseria, non dimenticherò mai quell’odore!” intercalò uno a bassa voce.
“Insomma, il nostro Roger, lo chiameremo così,” Alain alzò un sopracciglio e guardò Marcel che, facendo spallucce, proseguì, “allora questo Roger lavorava come un matto. Ben presto divenne indispensabile al pellaio, che gli diede incarichi sempre più importanti, addirittura lo spostò dal laboratorio alla bottega, perché Roger aveva una bella parlantina e ci sapeva fare con i clienti. Infine, il pellaio gli insegnò a gestire anche i registri dei pagamenti. Roger non si tirava certo indietro, e siccome, pur essendo nato pezzente, aveva imparato a leggere e scrivere e aveva bei modi di fare e soprattutto aveva grandi progetti per il suo futuro, svolgeva ogni cosa con precisione e intelligenza. Lavorava di giorno nella bottega e di notte si sedeva alla scrivania a fare conti e a capire i meccanismi della gestione degli affari. Anche di domenica, quando stava a casa insieme alla sua famiglia…”
“Ah! aveva una famiglia!”
“Certo… Aveva una moglie bellissima, come una fata, mi hanno detto, e gentile, e paziente. Amava stare seduta su una sedia impagliata vicino alla finestra e, raccontando fiabe e storie di grandi avventure, passare le lunghe dita tra i ricci di un bambino di cinque anni che era il loro unico figlio…”, Marcel fece una pausa, e Alain vide che il suo pomo d’Adamo scendeva e poi risaliva, come se stesse deglutendo un sasso.
“E come si chiamava il bambino?”
“Si chiamava Mar… tin, Martin” Marcel si zittì e si concentrò a togliersi il nero da sotto un’unghia.
“Ehi, perché non vai avanti? Vogliamo sapere come va avanti la storia!”
“Va bene, va bene. Un brutto giorno la moglie morì: grande fu la tristezza di Roger, ma ancora più grande fu la disperazione di Martin. Dopo che la cassa fu calata e fu ricoperta di terra, quando ormai tutti se ne erano andati, Roger disse a suo figlio: - Domani ti porto al lavoro -.
Così a sei anni Martin iniziò a lavorare nella bottega del pellaio: la mattina faceva piccole consegne in giro per il quartiere, oppure sbrigava qualche commissione, il pomeriggio invece doveva studiare. Roger aveva trovato un ragazzotto buono che se ne era fuggito dal seminario contro la volontà dei suoi genitori e che, presa in affitto una stanza nei bassifondi, si pagava da vivere di giorno insegnando a leggere e a scrivere e di notte suonando una spinetta sgangherata in una certa maison in rue Mouffetard…”
“Ehi, ma ho capito chi è quel tizio!”, esclamò Didier illuminandosi.
“Ah, sì, eh! e come mai? “, tutti scoppiarono in una fragorosa risata.
 
“Passarono gli anni e il proprietario della pelleria morì: non avendo eredi in grado di proseguire il lavoro, nel testamento aveva lasciato la sua attività al fido Roger.
Finalmente Roger poteva gestire gli affari a suo piacimento e mettere in atto una strategia che non solo gli avrebbe permesso di proseguire l’attività, ma che lo avrebbe fatto entrare nell’olimpo dei grandi artigiani parigini. Tutta la sua vita era sempre stata tesa solo a quello, del resto. Non c’era sorriso di suo figlio che lo rendesse felice più del riconoscere il marchio della sua fabbrica nel pellame che rivestiva qualche ricca carrozza parcheggiata ai giardini delle Tuileries, o del tintinnare delle monete nella sua saccoccia sotto la marsina”, a Marcel una smorfia di disgusto piegò le labbra in un sorriso a metà.
“Ma di che epoca parli? Chi ha mai visto girare parigini con le tasche piene, eh?”
“Ma tu dove vivi, Didier? Solo in caserma e in rue Mouffetard? Ci sono un sacco di ricconi ben nascosti a Parigi, fidati” saltò su un altro.
“Io credevo che solo i nobili fossero ricchi” mugugnò uno grattandosi la testa.
“Ma sei scemo? Ci sono nobili che non hanno nemmeno i soldi per pagarsi un caffè, te lo dico io! Ci sono nobili che vanno a caccia di doti dalle borgh…”
Alain si era alzato in piedi di scatto e il suo volto, trasformato in una maschera di dolore e di rabbia, costrinse tutti a trattenere il fiato. Sapevano tutti di Diane, di come il nobile a cui era promessa l’avesse lasciata alla vigilia delle nozze per una borghese piena di soldi e di come questo l’avesse portata alla disperazione e a togliersi la vita.
“Scusa, Alain” biascicarono mortificati uno dopo l’altro.
Allora Marcel mise una mano sulla spalla ad Alain e strinse un po’ le dita, poi disse:
“Sentite, se avete sonno vi racconto il resto un’altra volta… in effetti non è una gran storia…”
“E se domani ci fanno fuori? O ci dividono?”
“No, no, racconta, Laroche!”
“Va bene, va bene… Allora: i progetti di espansione di Roger erano ben chiari. Innanzi tutto, quando iniziò a girare la voce che Fargeon rischiava la bancarotta…”
“Chi?”, fece Didier.
“Porcaccia la miseria”, intervenne uno con stizza, “ma tu non sai proprio niente! Fargeon, il profumiere dell’austriaca! Aveva clienti con lo stemma nobiliare e la residenza a Versailles ma con le tasche vuote, poveraccio. Ma se non altro a lui è andata meglio che a quel gioielliere dell’affare della collana…”
“Ecco, appunto. Dopo la faccenda di Fargeon, i grandi artigiani di Parigi si accorsero che avere come clienti gli aristocratici poteva essere pericoloso, capite tutto quel comprare a credito…, ma Roger, ve l’ho detto, era un furbone, uno col fiuto per gli affari. Lui aveva già capito l’aria che tirava da qualche anno e così aveva aumentato il traffico via mare delle sue merci che ormai non attraversavano solo la Manica ma persino l’oceano e arrivavano alle mogli dei governatori delle colonie francesi e anche nelle grandi città delle Americhe, persino durante la guerra. Si diceva che nelle soirée a teatro le dame della Nuova Inghilterra, bisbigliando dietro i ventagli, si vantassero dei loro scarpini di pelle che venivano “direttamente da Parigi” e facessero a gara per sfoggiarne di colori diversi ogni sera.
A questo punto, però, se pensate che Roger fosse finalmente soddisfatto, sbagliate di grosso!”
“Scusa, ma intanto il piccolo Martin?”
“Ah, già, certo, sì, sì, il piccolo Martin… Beh, il piccolo Martin non era più tanto piccolo perché andava per i sedici anni. Ormai aveva imparato dal suo precettore tutto quello che quel precettore sapeva e, come era desiderio del padre, lavorava a tempo pieno nella bottega. Ma la sua vita in quel momento era stata sconvolta da ben altro, perché Martin aveva conosciuto una ragazza che gli aveva rubato il cuore. Il suo nome era Jo…”, Marcel fece un colpo di tosse e si alzò in piedi come se volesse stiracchiarsi le gambe e Alain lo guardò da sotto in su con apprensione, ma Marcel si morsicò il lato del labbro inferiore tendendolo per un istante con i denti e proseguì, “dicevo, il suo nome era Jolie”.
“Ed era bella, vero? Era bionda come il comandante Oscar?” chiese Gérard.
“Se vuoi che sia bionda, sarà bionda come il comandante”, rispose Marcel.
“Per me questa Jolie ha gli occhi color delle castagne, come la mia Berthe” disse Pierre commosso.
“Sì, se ti fa piacere, sì.
Allora, Jolie abitava poco lontano dalla bottega, in una stanza dove la donna che si occupava di lei si guadagnava da vivere facendo la stiratrice. Da quei vetri appannati, che Jolie strofinava con l’avambraccio dopo aver chiuso il polsino della manica nel pugno, un giorno Jolie vide Martin e Martin vide Jolie per la prima volta.
All’arrivo della primavera, lei aprì la finestra e i sorrisi divennero saluti impacciati, poi parole, tante e velocissime, da frenare in tempo per tornare presto ognuno al suo lavoro.
Arrivata l’estate, erano ormai riusciti a dedicarsi qualche momento al tramonto quasi ogni giorno”.
“Parlare con una donna è bellissimo. A volte io e Berthe passiamo la notte a parlare, nel buio…” sospirò Pierre con struggimento.
Marcel aggrottò la fronte e proseguì:
“I primi tempi parlavano del loro passato, per conoscersi, per entrare uno nella vita dell’altra. Il fatto che entrambi avessero perso la mamma era all’inizio l’argomento principale: come spiegare la dolcezza e il conforto che si trova in chi ha vissuto il tuo stesso dolore, in chi con quel dolore va avanti ogni giorno?”
“Come è vero…” bisbigliò Gérard.
“Ma poi i loro discorsi, come spinti da un sentimento che non sapevano esprimere se non stringendosi le mani e guardandosi negli occhi da vicino, iniziarono a volgersi verso il futuro e così fu chiaro ad entrambi che quel futuro aveva senso solo se si immaginavano insieme. E così arrivò l’autunno dei progetti, dei sogni, dei baci…”
“E intanto il vecchio? Lo sapeva?” si intromise uno che fino a quel momento aveva taciuto.
“Il vecchio non si accorgeva di nulla, figurati! Roger, in quel periodo aveva infatti architettato e portato a compimento il suo più grande successo. Dovete sapere che una delle spese più ingenti per un pellaio è l’acquisto di cuoio: ebbene, Roger, stanco di pagare i fratelli che avevano una cuoieria lungo la Senna, non molto lontano da dove siamo noi ora, dopo aver tirato sul prezzo ed essere arrivato ampiamente sotto la somma che avrebbe pagato, si comprò la cuoieria, la unì alla pelleria e creò un’unica società con un’unica sede che mantenne il nome dei due fratelli e che tutt’ora è fiorentissima in città”.
“Ma parli della Villiers frères?” chiese uno.
Alain intervenne dal fondo della cella da cui ascoltava senza perdersi una parola vegliando su Marcel:
“Idiota, sta inventando, è una storia!“
Marcel lo ringraziò con gli occhi e proseguì:
“Comunque, quando Roger ebbe concluso quella faccenda e avviato la nuova attività, ormai suo figlio era innamorato perso di Jolie, innamorato dell’amore che si legge nelle fiabe, dell’amore che non conosce confini”.
Prese un minuscolo sasso dal pavimento e lo lanciò distrattamente contro il muro di fronte:
“In ogni caso la maggior parte della gente è convinta che quel tipo di amore non esista davvero e così credeva anche il nostro Roger. Mentre Martin e Jolie progettavano il loro futuro, con l’ingenuità degli innamorati, dei giovani, degli stupidi… insomma, intanto il destino stava preparando altro per loro”.
Il silenzio intorno gli fece capire che doveva proseguire.
“Il padre di Jolie era un povero disgraziato, uno che viveva di espedienti e che spesso trovava un pezzo di pane e un po’ di brodo a tavola solo perché sua figlia aveva imparato a stirare e a rammendare. Era un campagnolo, un contadino, uno che aveva passato la gioventù tra i campi e che poi, quando la miseria gli aveva stretto la gola fin quasi a strozzarlo e a lasciarlo senza vita insieme a sua moglie e a sua figlia, era arrivato a Parigi, sperando di trovare un sistema per sopravvivere. Ma non l’aveva trovato. C’era qualcosa che gli impediva di lavorare al chiuso, nelle fucine, nelle botteghe, nei magazzini. Era un uomo nato per asciugarsi il sudore della fronte alzando gli occhi verso il cielo, era un uomo che lontano dagli alberi, dalla terra, dai rumori della natura si sentiva morire. Anni prima aveva chiesto lavoro anche a Roger, ma il tanfo della pelleria l’aveva disgustato, ne aveva un rigetto fisico, una repulsione che non aveva mai provato quando, nei tempi felici, raccoglieva lo sterco della sua unica mucca per farne concime o quando ripuliva delle interiora i polli del signor conte guadagnando un solo pollo per sé dopo aver passato tre giorni a ucciderne e pulirne mille.
Quando Roger si accorse del tempo che suo figlio passava con la figlia di questo poveraccio dovette impensierirsi non poco: non ci si sposa con un bel visetto, ragazzi, ricordatevelo! Ci si sposa con un gruzzolo, bisogna guardare più in là del sentimento, bisogna guardare la sostanza, anzi, le sostanze!” Marcel si era improvvisamente alzato in piedi, dritto, con una mano sul fianco e l’altra levata in alto con l’indice puntato a indicare il soffitto muschioso da cui gocciolava l’umidità.
Molti ridevano a quell’interpretazione che Marcel aveva condito con tanto di tono di voce severo e imperioso. Ma Alain non rideva e lo guardava, in attesa di capire fino a che punto quel ragazzo si sarebbe spinto.
 
“E quindi? Che cosa è successo dopo?”, incalzò Gérard.
Marcel iniziò a sentire che una stanchezza infinita lo stava avvolgendo, che quel teatrino che aveva allestito non lo divertiva più, che voleva solo stare in silenzio, per i fatti suoi.
“Se ne andarono”
“Chi? Martin e Jolie?”
“No… Jolie e suo padre. Si imbarcarono per la Martinica, un’isola al di là dell’oceano. In tasca suo padre aveva una lettera di presentazione di Roger a un suo facoltoso cliente che li avrebbe fatti lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Partirono per Brest una mattina piovosa di fine aprile e non tornarono mai più”.
Marcel si buttò nel suo angolo e iniziò a sistemare un po’ di paglia come giaciglio. Gli altri lo guardavano delusi:
“E Martin? Finisce così la tua storia, Laroche?”
“Se finisce così è una storia di merda”, fece quello di prima dal fondo della cella.
“Marcel, e dai, dicci di Martin!”
Marcel sbuffò, poi aggiunse con voce atona:
“Quando Jolie se ne andò con suo padre, Martin era lontano da Parigi, doveva consegnare un carico a Reims. Al suo ritorno, Jolie era già partita da tre giorni”.
“E non la seguì? Non si imbarcò anche lui per la Martica?”
“Martinica, non Martica, bestia!” corresse Pierre d’istinto, ma tutto proteso a capire il senso di quel finale raffazzonato in fretta e furia.
“No. Non la seguì. Tutto era finito. Per sempre”, i soldati tacevano come in attesa e allora Marcel si affrettò a chiudere:
“Comunque, siete voi che vi siete fissati con Martin, io volevo raccontarvi la storia di Roger. E lui, Roger, in effetti, visse felice e contento con la sua impresa, con un sacco di soldi, rispettato dai più ricchi parigini, con le sue merci che solcavano i sette mari e il marchio della sua pelleria che era conosciuto nei quattro continenti. Sipario e applausi. Ora dormo perché sono stanco. Non rompetemi”.
 
La luna era là, tra le sbarre.
Marcel, sdraiato sul fianco, con il volto rivolto verso il muro, teneva le mani unite sotto alla sua guancia e allargava un po’ i gomiti, allontanandoli uno dall’altro come se quello spazio vuoto racchiudesse in realtà il corpo della ragazza che lui amava, come se vicino alla punta del suo naso potesse sentire pizzicare i capelli di lei. E mentre il sonno scendeva sulle sue palpebre, Marcel ripensò a quell’unica volta, quell’unica volta, la sera prima di partire per Reims, in cui l’aveva stretta così, quella sera in cui i baci erano diventati un unico bacio, quando, senza che nemmeno se ne accorgessero, le mani avevano scavalcato i vestiti per raggiungere la pelle più nascosta, quando aveva sentito le ginocchia di lei strisciare ai lati dei suoi fianchi e superarli, quando se l’era sentita addosso e l’aveva stretta di più e allora a nessuno dei due era venuto in mente che fosse il caso di fermarsi perché proprio pareva un’assurdità fermarsi lì, così, in quel momento, e allora lui, con una facilità che ancora lo stupiva, era scivolato in lei ed in quel momento si erano guardati, forse realizzando per un istante quello che stava succedendo, e lui, prima di iniziare a muoversi, sopraffatto dall’amore del corpo e dall’amore dell’anima, le aveva detto: “Io ti amo e ti amerò per sempre, Joséphine”.
Ebbe un brivido e una lacrima rotolò fuori dalle ciglia strette, le mani sotto la sua guancia si chiusero in due pugni dalle nocche bianche e gli parve per un attimo nel buio della notte di sentire un sussurro portato dal vento: “Sei l’amore della mia vita, Marcel”.
 
4 luglio 1789
 
Era arrivata alla reggia nel tardo pomeriggio, all’ora in cui, quando era a capo dei soldati della Guardia reale, di solito se ne andava. Aveva provato senza successo a immaginarsi ancora lì, indaffarata e concentrata, compresa nel suo ruolo, il profilo alto a fendere l’aria mentre il capo di soldati e ufficiali si abbassava, deferente, al suo passaggio.
Aveva percorso quei corridoi osservandoli con una crescente sensazione di estraneità, convincendosi con un certo sforzo passo dopo passo che quegli specchi, quelle fioriere e quei marmi lei in realtà li conosceva bene.
Aveva sentito risuonare il suo grado, il suo titolo, il suo nome per esteso, Dio, quanto tempo ci vuole a dire chi sono!, dal servitore che aveva annunciato il suo arrivo.
Aveva salutato la regina con le parole di sempre, quelle del protocollo, che mai le erano sembrate pronunciate da una voce più estranea.
Aveva però ringraziato con parole semplici e sincere perché per intercessione di quella donna era stata perdonata del suo tradimento, perché grazie a lei i suoi soldati erano stati liberati. La sua gratitudine, la sua riconoscenza, il suo affetto erano veri. Ma aveva avuto la sensazione tremenda e innegabile che le stava parlando come se loro due fossero ai lati opposti di una barricata.
Tenne a bada l’onda dei ricordi, decisa a terminare in fretta quello che doveva fare. Ormai non c’era più motivo di trattenersi, dovevano solo salutarsi: quante volte l’avevano fatto in passato? Ignorò volutamente il pensiero che quel giorno prendere congedo da lei sarebbe stato diverso.
 
D’un tratto, però, la regina le si avvicinò, il suo profumo di rosa a occupare l’aria intorno al suo volto, la fece alzare da quella posizione di riverenza e la guardò negli occhi.
Quanto a lungo si può sostenere lo sguardo di una regina?
Poi le disse:
“Mi sembrate tanto pallida, amica mia… State bene?”
E lei, così vicina a quella regina, a quell’amica, non trovò uno spazio o un tempo sufficienti per mentire e rispose:
“Non siete la prima che me lo fa notare… dovrei prendermi cura di me, sì… Ma lo farò”, la promessa fatta ad André a Saint-Denis ripetuta davanti a lei, la fame di vita che prepotente si faceva largo in lei da quando si era svegliata al suono delle campane di Saint-Eustache.
Maria Antonietta le diede le spalle abbozzando un sorriso malinconico:
“Sì, immagino chi ve l’avrà fatto notare…”
Davvero si stava riferendo a…?
Sì, si stava riferendo a lui. Forse stava anche considerando la stranezza che lui non fosse come sempre dietro di lei.
Oscar ebbe un tremito e si chiese se fosse possibile che l’amore si rivelasse prima agli altri che a chi ama e ricordò, così, all’improvviso, che lei forse si era accorta per prima del sentimento che legava Fersen e la regina. Anche la regina si era accorta del suo legame con André prima di lei?
 
E poi, come se la semplice allusione al suo stato di salute avesse resuscitato d’improvviso tutti i sintomi a lei ben noti, Oscar sentì che il colletto dell’uniforme la opprimeva, che il tessuto della divisa era una barriera invincibile tra la sua pelle e l’aria e un danzare improvviso di luci e ombre davanti agli occhi la spaventò al punto che si aggrappò senza grazia al divanetto damascato dal quale la regina si era alzata.
Maria Antonietta non se ne accorse e, avanzando verso la porta a vetri, la invitò con un gesto gentile:
“Mi sento soffocare, qui. Venite, Oscar, usciamo all’aria aperta. Una semplice carrozza è sempre pronta per portarmi al Villaggio. Andiamo là, amica mia, regaliamoci ancora un po’ di tempo insieme, volete?”
Voleva? Non voleva? Non lo sapeva nemmeno lei. Si sentiva trasportata in un sogno, priva di volontà.
 
Si sedettero su poltroncine bianche di vimini, tra cuscini morbidi che sicuramente contenevano nell’imbottitura sacchetti di lavanda.
Oscar non aveva ancora detto una parola, ma sulla carrozza aveva un poco sorriso. Alla regina, alla brezza, alla sua gioventù che le scorreva davanti agli occhi, al frusciare discreto del ricordo di André, che si muoveva tra quelle piante, in mezzo a quelle architetture regali, a quelle fontane, a quei giardini con il suo passo sciolto e giovane.
 
La regina taceva da un po’, tenendo il profilo rivolto verso l’alto, come a gustare il vento che libero danzava tra le fronde.
Il frinire delle cicale che si allargava nel silenzio di quella finta campagna spostava tutto in una dimensione senza tempo, in un altrove in cui Maria Antonietta sentiva possibile riversare il cuore e la mente fuori da sé, come se il suo interlocutore non fosse che una figura appannata vicino a lei, un muto testimone di pensieri che esistono, che esistono forti e prepotenti, ma che non possono essere espressi ad alta voce; solo con madamigella Oscar poteva permettersi quell’abbandono, quella dimenticanza di sé.
In quell’altrove, però, la regina non poteva saperlo, Oscar era a disagio: in quel luogo la cruda realtà parigina in cui lei ormai era completamente immersa si spostava in lontananza; in quel luogo la stanza in cui si era svegliata quella mattina, con la sua concreta bellezza, con quella bellezza che fa venir voglia di futuro, sembrava appartenere a un mondo remoto; lì, tra tetti di paglia perfettamente disposti su assi di legno pregiato, tra galline sempre grasse e pecorelle di un biancore irreale, pareva persino interessante e degno della massima concentrazione, Oscar rifletté su questo con spavento tempo dopo, seguire il cammino di una coccinella su una foglia e perdersi così per minuti, estranei a tutto, come se si vivesse in un presente senza storia, senza variazioni e senza fine.
 
La regina socchiuse gli occhi verso il sole e allentò la presa delle dita sui braccioli della sedia.
“Vi capita mai, madamigella Oscar, di non riuscire a decidere chi volete essere?”
Oscar sussultò pensando a quante volte se l’era chiesto, ma subito si accorse che in realtà quella domanda introduceva una confessione e che non era previsto che lei rispondesse davvero.
“Dicono che sono sempre stata viziata, abituata ad avere tutto quello che volevo. È vero, sapete?, è così: ho avuto tutto. Ma non è questo che il mio spirito davvero voleva. E ora che ho più tempo per stare da sola, per pensare al passato…  ho scoperto che sono viziata nel peggiore dei modi, madamigella”.
Le mani si spostarono sul grembo e iniziarono ad accarezzare le piume del ventaglio che giaceva lì, di traverso, un po’ abbandonato.
“Perché io non voglio avere tutto. Io voglio, ho sempre voluto, essere tutto”.
 
Allargò le dita fino a far emergere i tendini sul dorso delle mani e poi le portò vicino alla bocca, dove si rilassarono e tornarono le bianche e morbide mani che chiunque avrebbe riconosciuto come le mani di Sua Maestà.
“Dicono che a Parigi mi chiamino “l’Autrichienne” … un’austriaca che vuole essere francese, una francese che non rinuncia ad essere austriaca… Appropriato, direi…
Austriaca o francese? Che cosa dovrei rispondere? Ebbene io sono austriaca e francese.
Mi capite, Oscar?
Voi non sentite mai agitarsi dentro di voi le mille possibilità che siete?
Possibile che vi appaghi essere unicamente un militare?”
Oscar non parlava, capiva che quelle non erano vere domande, che la regina non aspettava alcuna risposta, anche se quelle in verità erano le uniche domande che lei da mesi poneva a sé stessa, le stesse domande. Chiuse gli occhi e prolungò il suono della voce che, dentro di lei, aveva appena finito di gridare:
No! Non mi appaga più essere un militare!
 
“Io, madamigella, sento una tempesta, un fuoco dentro di me a volte… una smania di essere ogni parte di me, di essere tutto quello che sento di poter essere…
Questo è essere viziati, madamigella: non volere limiti al proprio essere. E io sono sempre stata insofferente di tutto quello che mi limita, Oscar. Anche se lo sto comprendendo solo adesso”.
La spietatezza con cui stava parlando di sé stessa la rendeva una donna affascinante, pensò Oscar, così lontana dalla ragazzina che batteva le mani di entusiasmo davanti a un gattino o a un nuovo cappellino.
Quanti strati di noi abitano il nostro corpo? Si trovò a pensare.
 
Maria Antonietta si tolse uno spillone dall’acconciatura e iniziò a rigirarselo tra le mani guardandolo un po’ straniata, come se si stesse chiedendo quale ruolo avesse quell’oggetto, certamente bellissimo e prezioso, nella vita del suo spirito.
“Un tempo… ho desiderato ardentemente essere una ragazza qualsiasi, una ragazza che conosce un ragazzo, una ragazza che si fa rapire dall’amore e che vive di amore. L’avrei voluto, e Dio sa quante lacrime ho pianto per quel sogno. E lui… l’ho voluto solo per me, tutto per me, capite? Non si è mai sposato perché voglio sentire che è sposato con me. Certo non gliel’ho mai detto in questi termini, ma… Non è somma vanità questa?
Se lo amassi, non dovrei lasciarlo andare?
Invece non lo lascio mai andare e tutte le volte che lui se ne va, io so che tornerà. E non posso impedirmi di gioire di ogni suo ritorno. Anche se questo lo paralizza in una vita senza futuro”.
Se lo amassi, non dovrei lasciarlo andare? Oscar curvò le spalle e comprese l’irraggiungibile nobiltà di quel gesto, l’impossibile impresa di lasciare andare l’uomo che ami. Mai aveva compreso di più la sua regina.
 
“Ma sono anche la moglie del re di Francia, e mentirei se dicessi che questo non conta per me, che sarei capace di gettare tutto quello che sono in nome dell’amore. Invece non ci ho mai pensato, non concretamente, mi capite? Ho lasciato che quel sogno di normalità danzasse dentro di me di tanto in tanto, quando il languore della passione diventava insostenibile, quando mi assaliva la malinconia, quando le cose intorno a me mi schiacciavano… Ma mentirei se vi dicessi che avrei fatto qualunque cosa per quell’amore: voi lo vedete bene, ho fatto molte cose per quell’amore, ma non qualunque cosa.
Lui invece sì. Lo so. Credete che non mi accorga della mia meschinità? Del mio amore così piccolo di fronte al suo? A lui che tace e sopporta, che riesce a stare in un angolo in attesa di un mio sguardo, di una mia parola, mentre io…”
Oscar fece ruotare tra due dita un soffione, piano, come se provasse, al contrario di quello che si divertiva a fare da bambina con lui, a non far staccare nemmeno una piuma. Lui, in un angolo, in attesa… mentre io mi permetto tutto…
Non si stupì nemmeno del fatto che per lei dietro a quel “lui” ci fosse solo André e non Fersen. L’aveva mai voluto davvero, Fersen?
 
Si accorse da un fruscio che la regina si era alzata e che ora stava in piedi, al lato della sedia, dando le spalle al sole, perché doveva prendere fiato e riuscire a dire quello che ora doveva dire senza che la voce tremasse. Si alzò anche lei.
“E sono madre, madamigella, e so che cosa significa essere una madre mutilata, Oscar. Vorrei essere ancora la madre di Joseph. Questo vorrei. A volte credo che potrei diventare pazza se mi lasciassi andare.
Ma, vedete, io devo… io voglio essere la madre degli altri figli che Dio mi ha dato”.
Sorrise con tristezza e per un istante Oscar intravide il dolore che si celava dietro a quella donna bellissima ed elegantissima. Ne ebbe pudore e chinò il capo in silenzio.
Maria Antonietta tornò alla sedia e si lasciò cadere con un abbandono che non aveva nulla della grazia molle e voluttuosa di un tempo, ma che tradiva la stanchezza e le ferite che il tempo le aveva inflitto.
Poi, all’improvviso, lei riprese il dominio di sé, quasi stizzita con sé stessa per quella debolezza, si stirò il tessuto sulle ginocchia con le mani aperte, fissando gli “anelli del cielo” che portava alle dita, ognuno dei quali, su una superficie blu portava incastonati diamanti di cui il più grande, quello centrale, celebrava la nascita del Delfino di Francia.
“Voglio essere tutto, madamigella. Ecco la verità. L’ho sempre voluto. Non saprei rinunciare a niente, a niente. Questa è la mia vanità, questo il mio sogno di grandezza: essere tutto”, lo sguardo se ne andava lontano verso l’orizzonte come se fosse stato possibile, solo strizzando un po’ gli occhi, guardare al di là di giardini, di campagne, di monti, al di là dei confini della Francia e del mare.
 
“Ma oggi, oggi, io sono la regina di Francia, Oscar: mai ho sentito così forte in me la presenza di mia madre, mai mi sono sentita così profondamente… prescelta.” Si girò improvvisamente versò di lei e la guardò con intensità negli occhi, sfidando gli occhi di lei a non muoversi dai suoi.
“Capite? Tra tutte le donne del mondo, io, io sola sono nata per essere regina di Francia, Dio mi ha dato questo destino. E io non posso tollerare che quello che io sono, quello che Sua Maestà il re è, venga messo in discussione.
Le forze del popolo che tramano contro i sovrani vanno schiacciate, è talmente chiaro: per questo truppe armate si stanno dirigendo a Parigi, per questo ho chiesto aiuti anche militari ai sovrani stranieri nostri alleati”, parlava veloce, per non essere interrotta, perché lei non potesse insinuare alcuna ipotesi diversa, “io non avrò paura di usare la forza per riportare l’ordine in Francia, non arretrerò di fronte all’ordine di sparare sulla folla, se sarà necessario. E sapete, Oscar, mi dicono che voi abbiate difeso il terzo stato e i suoi diritti all’Assemblea Nazionale e che abbiate minacciato i militari che eseguivano gli ordini del re: vedete, io capisco il perché delle vostre azioni… Voi pensate che sia ancora possibile convincere il popolo a desistere dalle sue richieste e dai suoi propositi con il dibattito, con la discussione. Ma, mia cara amica, non sarà così: se vogliamo vincere, dovremo usare le armi, il terzo stato non si piegherà con i ragionamenti ma solamente con la forza, ormai”.
Aveva stretto i pugni intorno alle stecche del ventaglio e la bocca si era piegata in una smorfia di disgusto che mai lei aveva visto sul volto della sua regina. Poi, dopo una pausa in cui anche Maria Antonietta sembrava pesare la gravità di quello che stava per chiedere perché sapeva che quella domanda probabilmente aveva una risposta che avrebbe mandato in frantumi la sua amicizia con quella donna soldato che nonostante tutto continuava ad amare, con voce incolore disse:
“E quando arriverà il momento, Oscar, potrò contare sulla vostra lealtà? Difenderete ancora la vostra regina?”
 
Lei non riuscì quasi a rispondere, ma sentì tutta la distanza che la separava da quella regina indurita e altera, così lontana dalla ragazza e dalla donna che aveva protetto e difeso per anni. E si accorse che non c’era più tempo, non c’era tempo per consigliare, per ricucire strappi, per riconsiderare le posizioni e le ragioni. C’era solo il tempo per schierarsi, per prepararsi alla lotta al di qua o al di là della barricata. E allora un’ondata di dolore e di tristezza l’assalì e si accorse di avere le guance bagnate di lacrime e un tremito sulle labbra. Le stava dicendo addio e stava dicendo addio a Oscar François de Jarjayes.
 
Quando uscì dai cancelli della reggia, si voltò un’ultima volta e nel tramonto che si schiantava sulle finestre, nel vento della sera che sollevava turbini di polvere che parevano coprire tutto, nei muri degli edifici che rivelavano qua e là scrostature che lei mai aveva notato, si portò una mano al petto e con un movimento delicato ma deciso staccò dall’uniforme la sua spilla nobiliare.
Non l’avrebbe indossata mai più.

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Capitolo 7
*** Rivoluzione ***


Breve riassunto cronologico visto che i tempi di pubblicazione si sono allungati con il rientro al lavoro e visto che le vicende qui raccontate presuppongono dettagli presenti nei capitoli precedenti. Come scrivevo, da questo capitolo termina la scansione temporale che divideva i giorni di giugno da quelli di luglio. Sempre grazie a chi passa da queste parti.
 
23 giugno: è la sera dell’accusa di tradimento. Si scopre che André ha un appartamento a Parigi.
24 giugno: Oscar vagando per Parigi vede un appartamento che la colpisce in un posto che per lei e André racchiude ricordi d’infanzia. I sintomi di un male a cui tenta di dare un nome, intanto, la spaventano. Nel frattempo Bouillé tiene inattivi i soldati di Oscar, non fidandosi della loro lealtà.
25 giugno: Oscar conosce papà Laroche. Oscar sogna la casa di Saint-Eustache. Si reca là e, senza nemmeno vederne l’interno, la prende in affitto. Una follia?
28 giugno: durante una missione a Saint-Denis, Oscar sente che la causa del popolo è la sua causa. Per la seconda volta in pochi mesi, André la trattiene dall’entrare in un lazzaretto di malati, tra cui ci sono anche malati di tisi. Oscar si reca da Lassonne che constata la sua debilitazione fisica ma ancora non azzarda una diagnosi. La invita a cambiare radicalmente il suo stile di vita.
29 giugno: nella cella della prigione, Marcel racconta indirettamente la sua storia.
30 giugno: liberazione dei soldati. André rivela ad Alain di sapere che Oscar lo ama.
1° luglio: Marcel si risveglia dopo una notte brava. Torna in caserma e Oscar gli chiede di suo padre. Per André è Oscar è sempre più difficile tenere a bada i sentimenti.
2/3 luglio notte: durante una ronda notturna il problema di André alla vista inquieta e preoccupa Marcel e Alain.
3 luglio pomeriggio: Marcel è costretto a un’esercitazione supplementare che si conclude con un aspro confronto con il comandante Oscar. Oscar esce dalla caserma dicendo ad André che deve sbrigare “una cosa importante”; tra i due c’è un momento di tenerezza. Oscar va alla casa di Saint-Eustache e, grazie ad alcuni inequivocabili indizi, scopre che quell’appartamento è di André. Sorridente, chiede a Lucille Dunant di far recapitare un messaggio al proprietario dell’appartamento e si addormenta.
4 luglio tardo pomeriggio: Oscar ascolta le parole della regina Maria Antonietta. Una volta uscita dalla reggia, decide di togliersi la sua spilla nobiliare e di non indossarla più.
 

6. Rivoluzione

 
5 luglio 1789
 
André e gli altri soldati ascoltavano, sull’attenti nella piazza d’armi, gli ordini di servizio per quella giornata. Una brezza atlantica asciugava l’aria provocando sollievo e una strana forma di euforia in tutti.
Persino il colonnello d’Agoult, che leggeva ad alta voce seduto dritto come un palo sulla sella del suo cavallo, pareva godere di quella frescura e non faceva nulla per sottrarsi alle folate che in modo un po’ scomposto gli sollevavano il codino sulla nuca.
Ancora una volta, però, l’immobilismo avrebbe regnato tra le mura della caserma: dal comando generale giungeva un generico “stare allerta” che, nei fatti, si risolveva in ore da far trascorrere in una muta tensione senza nemmeno la distrazione di un pattugliamento, di una qualsiasi uscita dai cancelli.
Forse è per questo che Oscar stamattina non si è fatta vedere, pensò André cercando di trovare così conforto a un lieve stato di inquietudine che tentava di tenere a bada dal giorno precedente.
 
L’aveva infatti intravista dalla finestra della sua camerata, al mattino, mentre con un passo veloce, come se fosse di fretta, percorreva il corridoio e poi si infilava nel suo ufficio. E subito, d’istinto, André aveva registrato quella specie di corsa solitaria come una stranezza: gli era sembrato di vedere in lei una determinazione nel movimento, nella falcata, che contrastavano con la pensosità e con le esitazioni che di recente caratterizzavano i movimenti di lei quando era lontana dagli occhi della truppa. Si era chiesto se fosse successo qualcosa di nuovo di cui lui non era al corrente, ma non era riuscito a incrociare il suo sguardo quel giorno, perché dopo nemmeno mezz’ora l’aveva vista in sella a César mentre veloce si allontanava fuori dai cancelli.
Era rimasto a fissare l’ingresso della caserma anche dopo che lei ormai era sparita quando Alain, comparso alle sue spalle, gli aveva chiesto se il comandante stesse andando a Versailles a ringraziare la regina per la loro liberazione. André aveva risposto che non lo sapeva, anche se ricordava benissimo che lei aveva parlato di un’udienza privata nel tardo pomeriggio e non a metà mattina.
Dove stai andando, Oscar?, si era chiesto pensieroso.
Da allora non l’aveva più vista.
 
Sarà a palazzo, non c’è niente di cui preoccuparsi, pensò cercando di convincersi che tutto rientrasse nella normalità.
Improvvisamente André si riscosse sentendo pronunciare il suo nome dal colonnello:
“… Grandier, Laroche, Michelet e anche tu, de Soissons, siete in licenza fino alla mattina del giorno 7 luglio”.
“E perché? Io non ho chiesto nessuna licenza”, chiese Alain ingrugnato.
“Sono ordini del comandante, soldato, non c’è altro da aggiungere. Rompete le righe”.
“Ordini del comandante… mmh… tu ne sai qualcosa, amico?” Alain si grattò il mento rivolgendosi ad André.
“No… non ne avevo idea…”, un’altra stranezza, un altro segno da interpretare.
André, sicuro che quella licenza non fosse un gentile dono del comandante ma che nascondesse un qualche piano di Oscar, si sentiva un viandante smarrito in cerca della strada sulla quale distinguere i passi di lei.
 
“Andiamo a divertirci?” André e Alain si trovarono all’improvviso separati dal corpo sottile ma forte di Marcel che si era infilato in mezzo a loro e aveva passato un braccio intorno al collo di ciascuno e flettendo i gomiti tirava a sé le loro teste facendoli barcollare e muovendo il capo ora verso l’uno ora verso l’altro “conosco un posto, ragazzi…”
“Laroche, allontana immediatamente la tua brutta faccia dalla mia altrimenti ti ritrovi a sorridere con due denti in meno”, Alain provò a essere brusco ma non fu abbastanza convincente e Marcel proseguì con voce da cospirazione:
“No, davvero, conosco un tizio, giù alla Senna, che mi ha promesso un giro sul fiume su una barca che, non so se mi capite”, Marcel strizzò l’occhio, “ha un’attrezzatura al suo interno… certi tappeti, tende di seta, cabine ben separate… basta portare la compagnia adatta e per pochi spicci il timoniere ti porta in giro finché ne hai voglia… capito?”
André e Alain si erano fermati a guardarlo manifestando un interesse ostentato, come se stessero davvero soppesando l’eventualità di salpare su una barcarola ammuffita nel fango della Senna, tutti e tre in compagnia di tizie raccattate chissà dove per rotolarsi con quelle tra le assi marce e umide, portati alla deriva da un magico timoniere sdentato e compiacente.
Ma all’improvviso quelle facce serie non riuscirono più a trattenere l’ilarità e, soffiando fuori l’aria contenuta a stento, André e Alain si misero a ridere in modo così plateale che il povero Marcel, fingendo di essere profondamente offeso ma in realtà con gli occhi ridenti, alzò le spalle:
“Siete due vecchi, ecco cosa siete. Va bene, andrò da solo, allora. E non vi dirò quanto mi sono divertito, ah!”
Si stava allontanando da loro quando si bloccò, improvvisamente serio, e aggiunse:
“Ehi, Alain, per quella cosa… Visto che siamo in licenza potremmo fare domani all’ora di pranzo…”
“Sì”, esitò un istante Alain, “sì, organizzo per domani allora. Ci vediamo là”.
“Che cosa devi organizzare?” domandò André mentre Marcel spariva in fondo alla piazza d’armi.
“Andiamo a preparare le nostre cose alle camerate, poi ti dico”, Alain si aggiustò la visiera del cappello e si avviò verso la porta.
 
Mentre riempivano le sacche di vestiti e di pensieri, Alain e André organizzavano nella mente quell’inatteso tempo libero:
Vado a casa. Apro le finestre. Dormo nel letto di Diane. Piango quanto mi pare. Dormo. Non vedo l’ora di essere solo.
 
Passo da Bernard e cerco di capire che aria tira in città. Poi vado a palazzo, abbraccio la nonna. E spero che Oscar sia lì. Sì, sarà di sicuro a palazzo Jarjayes.
 
“Ehi, Grandier!”, un soldatino pieno di lentiggini si era affacciato alla porta, “due lettere per te”. Il soldatino buttò due buste sulla branda di André e se ne andò fischiettando per il corridoio.
Alain osservò pensieroso il movimento veloce con cui André si era infilato una delle due buste in tasca e l’urgenza con cui aveva aperto e scorso l’altra. Chiudendo la sua sacca, con fare noncurante disse:
“Cattive notizie?”
“No, ma… devo andare subito a palazzo Jarjayes…” rispose André con voce incolore.
“L’altra lettera non la leggi?”
“No… no. Non è importante, sarà per i nuovi inquilini dell’appartamento di Saint-Eustache. Devo andare, Alain, scusami”.
“André. Domani pranziamo insieme a Saint-Germain. Ti aspetto all’una al solito posto sul Pont Neuf”, il tono di Alain non ammetteva repliche.
“Va bene, come vuoi, domani mi spiegherai tutto”, André si caricò la borsa sulle spalle e uscì a passo svelto.
 
Nelle scuderie trovò Marcel che stava allacciando le cinghie del suo cavallo:
“Vai verso Versailles, André?”
“Sì”.
“Facciamo un pezzo di strada insieme, vado a Saint-Germain”.
“Andiamo”.
Procedettero per un po’ in silenzio, costretti al passo da carri, carretti e carrozze sgangherate che faticavano a tenere la strada, da passanti distratti che con movimenti imprevedibili attraversavano senza guardare, da ubriachi che barcollavano sull’orlo della carreggiata; pareva tutto come sempre: accattoni ad ogni angolo, botteghe aperte e assediate accanto ad altre sprangate e con le vetrine fatte a pezzi, ragazzini lerci appoggiati ai muri a sniffare il tabacco raccattato per strada, passanti dagli abiti curati e puliti che camminavano a passo spedito rasente ai muri, vecchie affacciate alle finestre che si parlavano da un lato all’altro dei vicoli mentre ritiravano i panni stesi, gatti scheletrici allungati sulle pietre in ombra del selciato.
André sollevò lo sguardo verso un gruppo di colombi che si era appena alzato in volo da una ringhiera:
“Che cosa dobbiamo fare domani all’ora di pranzo?” chiese con tono distratto.
“Dobbiamo vedere una persona…”, Marcel sembrò indeciso se proseguire o meno, poi, scuotendo la testa come per mandare al diavolo le remore, con tono risoluto aggiunse: “André, senti, Alain è preoccupato per te. E anche io lo sono. Siamo preoccupati per la tua vist…”
“Non ho nessun problema alla vista”, la risposta fu frettolosa e tagliò le parole in bocca a Marcel, che, con un movimento secco delle mani, tirò le briglie e fermò il cavallo mettendolo di traverso di fronte a quello di André.
Erano appena entrati in place Louis le Grand, alle loro spalle stava impettito sul suo cavallo Luigi XIV, al centro della spianata, circondato da quel mirabile ottagono di edifici. Sul suo regale capo, alcuni piccioni avevano trovato comode cavità tra i boccoli della parrucca e da quell’altezza parevano spettatori interessati al dialogo tra quei due soldati laggiù, lontani sulle pietre grigie.
Marcel rivide in André l’atteggiamento difensivo del comandante Oscar quando un paio di giorni prima, durante l’esercitazione supplementare, lui l’aveva messa alle strette. Ci aveva guadagnato una settimana di consegna, ma poi lei, chissà perché, l’aveva convertita in una sola notte in cella di rigore e ora, addirittura!, si ritrovava ad avere anche due giorni di licenza. Forse prenderla di petto in quel modo non era stata un’idiozia completa.
E ora davanti a lui c’era André, anche lui contrariato, anche lui sulla difensiva, anche lui pronto a negare.
Ma guarda: la stessa espressione, lo stesso segreto, la stessa stupidità, pensò Marcel.
Mentre però, nel momento in cui là sulla piazza d’armi aveva capito che il comandante soffocava l’amore per André una rabbia furiosa si era impossessata di lui, ora il pensiero che André stesse da tempo soffocando il suo amore per lei lo riempì di una tristezza insopportabile.
“Dimmi: che cosa farai quando sarà vicina a te ma non la vedrai più?”, la voce grave da uomo, il volto di un ragazzo.
“Non succederà niente del genere, Marcel. Smettila”, André fece per scartarlo con il suo cavallo, ma Marcel glielo impedì spostandosi davanti a lui.
“Ora ti dico che cosa succede a me”, nonostante avesse abbassato la voce, le sue parole riuscivano a scavalcare ogni altro suono, “da più di un anno non vedo Joss e io… mi sforzo ogni notte, ogni notte André, di ricostruire il suo volto, le sue mani, le espressioni degli occhi, gli orli della bocca, la linea del naso, la curva delle orecchie… ma… André… lei sta scappando via da me. Mi sembra a volte di guardare in un pozzo che inghiotte ogni luce, ogni ricordo del volto di Joss”
“Marcel…”
“Tra qualche tempo la memoria del corpo di lei mi abbandonerà e a me resterà solo un cuore spezzato. E sai che c’è? A volte, nella notte, mi chiedo: sarà ancora come io la ricordo? Gli anni la cambieranno, la renderanno diversa da come era qui a Parigi… ma io non la vedrò più, mai più. E io mi dispero per te, André, perché Joss è dall’altra parte del mondo, ma il comandante…”
André strinse i denti e si irrigidì, ma Marcel proseguì:
“… il comandante è qui”.
Marcel si fermò, temeva di essersi spinto oltre, ma André non diceva niente.
“Non vorresti provare a vedere se il tuo problema all’occhio si può risolvere?”, chiese ancora quasi supplicando.
“Sono già stato da un medico, Marcel”.
“Ti chiedo solo un altro tentativo, André. Vieni con Alain, domani”.
“Si può sapere perché è così importante per te?”
“Perché fa tutto schifo: la mia vita, Parigi, la Francia, quel cazzo di Martinica. Fa tutto schifo: andare con donne che nemmeno conosci per non pensare all’unica che hai voluto davvero e che hai avuto una volta sola. È tutto un gioco, un gioco disperato. Ma tu, André, tu non fai schifo e nemmeno il comandante”.
In alto, Luigi XIV sul suo cavallo dalla criniera fluente teneva un braccio sollevato e col dito indicava un punto lontano alla sua destra.
“Ci vediamo domani, Marcel, devo proprio andare adesso”, André abbassò infine le difese, poi voltò il cavallo e lo incitò al galoppo nella piazza deserta.
 
Non era né dispiaciuto né sorpreso che Marcel avesse capito il suo segreto, si accorse.
In ogni caso, smise presto di pensare a Marcel, non appena le case iniziarono a diradarsi e gli zoccoli del cavallo a battere strade sterrate: allora ogni pensiero tornò ad essere rivolto solo a lei. Continuava a ripetersi nella testa quella manciata di parole che la nonna gli aveva scritto; ogni curva, ogni filare di piante, ogni canale venivano anticipati nella mente come se in questo modo potessero essere percorsi e superati più in fretta.
Dove sei, Oscar? Che cosa hai in mente? Dimmi che sei a palazzo con una tazza di cioccolata tra le mani!
Immaginò la nonna che scriveva veloce per consegnare in tempo il messaggio a Sébastien, l’unico servitore di palazzo che, dopo il servizio della cena, aveva il permesso di tornare a Parigi per passare la notte con la madre inferma.
Ripeté di nuovo quelle due frasi come se potessero improvvisamente rivelare chissà cosa:
 
4 luglio, dieci di sera
È stata qui. Ho bisogno di parlarti.
Nonna
 
Quando entrò nelle scuderie di palazzo Jarjayes e vide che il posto di César era vuoto sentì male al cuore. Non sapeva nemmeno lui che cosa fosse quell’inquietudine, quel presentimento che stesse per succedere qualcosa: in fondo l’aveva vista la mattina prima, no? Non era più il suo attendente, non erano più due ragazzi: lei era libera di andare dove voleva. Eppure… qualcosa stonava, sentiva chiaramente che il comportamento di Oscar era strano, inusuale. Provò di nuovo a pensare alla Oscar di qualche sera prima, alla taverna, dopo la liberazione dei soldati: il suo essere taciturna, il suo sistemarsi in continuazione il polsino, quei sorrisi abbozzati, il disagio che entrambi, ne era certo, ormai sentivano quando stavano così vicini, come se il corpo dell’altro fosse fatto di fuoco vivo, la sua fuga dalla taverna, il suo strapparsi via da quel tavolo, avrebbe giurato che fuori dalla porta aveva pianto… Poi ripensò al trascinarsi delle ultime giornate in caserma, senza incarichi, senza pattugliamenti; lei, un leone in gabbia, dritta alla finestra del suo ufficio, le mani dietro la schiena, gli occhi che paiono cercare lui, se ne era accorto più di una volta, nella piazza brulicante di soldati indaffarati… E infine tornò alla fonte della sua preoccupazione: quell’apparizione la mattina prima; lei, rapida, veloce, intenta in qualcosa di urgente, la falcata decisa con cui aveva scavalcato entrambi i gradini dell’ingresso, il passo spedito verso il suo ufficio e poi quel correre via in groppa a César senza nemmeno dare uno sguardo alla piazza d’armi…
Che cosa hai in mente Oscar? Che cosa ti è successo? Dove sei?
Legò il cavallo in fretta e corse verso la porta sul retro, sicuro di trovare la nonna in cucina.
“Nonna…”
Lei si girò non appena sentì la sua voce e lo vide, con una mano sullo stipite della porta, l’altra abbandonata sul fianco di modo che la sacca che reggeva toccava terra e si piegava su sé stessa; occupava tutta la luce della porta e i capelli ancora arruffati dal vento e sporcati qua e là da schizzi di fango sollevati dagli zoccoli del cavallo, la giacca slacciata, il respiro affrettato fecero commuovere la nonna.
Marie diede istruzioni alla cuoca e poi, asciugandosi le mani nel grembiule, fece cenno ad André di seguirla nella sua stanza.
 
“Che succede, nonna? Hai visto Oscar?”, André chiuse la porta.
“André, mi dispiace averti allarmato, forse sono io che esagero, sto diventando vecchia e ansiosa”, disse dandogli le spalle e guardando pensosa fuori dalla finestra, “non avrei dovuto mandarti quel biglietto ieri. Sapevo che ti saresti precipitato qui…”
“Ho avuto una licenza inaspettata. Ora dimmi di Oscar, nonna, l’ultima volta che l’ho vista è stato ieri mattina e… mi ha impensierito. Era di fretta, come se fosse arrivata in caserma per sbrigare un’incombenza improvvisa, e poi nessuno l’ha più vista per tutto il giorno e nemmeno oggi si è presentata alla rivista…”
La nonna lo guardò sgranando gli occhi per lo stupore:
“Ma…, André…, non capisco… non era già in caserma? Sono due notti che non dorme qui a palazzo…”
“Cosa?”, André si aggrappò allo schienale della poltrona che aveva vicino. Quindi Oscar non aveva dormito nemmeno a palazzo Jarjayes…
Un’altra volta lui e sua nonna si erano chiesti dove Oscar fosse finita quando per due notti non era tornata a palazzo: la notte in cui lei, testarda e imprudente, aveva seguito il Cavaliere nero e poi era finita prigioniera al Palais Royal. André sentì una fitta alle tempie e un dolore diffuso intorno alla testa, le palpebre si fecero pesanti e dovette chiudere gli occhi per non perdere l’equilibrio. Poi strizzò l’occhio per mettere a fuoco il volto della nonna che, davanti a lui, teneva le mani giunte al petto con preoccupazione.
“Ascolta: l’aspettavo l’altro ieri sera a cena ma non si è presentata. Non mi sono data pensiero perché capita che lei si fermi a Parigi; certo, solitamente manda qualcuno ad avvisare con un messaggio o con un biglietto, ma capisco che in questi giorni abbia molti pensieri e non se ne sia ricordata… però, insomma, sta di fatto che la aspettavo, perché ieri aveva udienza con la regina e mi aveva fatto preparare l’uniforme che solitamente lascia qui per le occasioni ufficiali.”
André annuì, cercando di ricostruire il pomeriggio e poi la sera del 3 luglio: rivide l’addestramento di Marcel, il confronto acceso fra lui e Oscar, ma che cosa si erano detti?, poi risentì le parole di lei, affrettate, urgenti: Ora devo sbrigare una cosa. Finisci tu qui e avvisa il colonnello d’Agoult. Ricordagli che domani devo andare a Versailles.
Che “cosa” doveva sbrigare? Dove era andata quella sera, quella notte?
Qual è la “cosa” di cui ti devi occupare, Oscar?
Ma poi, un’improvvisa dolcezza a rinfrancarlo, recuperò nella memoria anche la conferma di un sentimento taciuto ma ricambiato e la rivide, dopo che Marcel se ne era andato, quando ormai erano rimasti soli sulla piazza, ondeggiare nel sole verso di lui, risentì nella sua mano la mano di lei, quella carezza rubata, le dita di lei che un poco esitano tra le sue e che piano lui lascia sfuggire, una dopo l’altra alla sua presa.
Qual è la “cosa” di cui ti devi occupare, Oscar?
“E allora quando è stata qui?” chiese André riprendendo il filo con l’intento di riempire i vuoti di una storia che continuava a sfuggirgli.
“Ieri pomeriggio. È venuta a cambiarsi per l’incontro con la regina: era di fretta, perciò non ho potuto parlarle, ma mi è parsa molto pensierosa, quasi preoccupata…, non so. Magari era solo concentrata su qualcos’altro, immagino che si debba occupare di molte cose. Però l’ho sentita bisbigliare: Non ho molto tempo… e non si stava riferendo all’appuntamento, ne sono certa. Tu sai a che cosa poteva riferirsi?”
 
Non ho molto tempo
 
“No…”, André sentì le viscere contorcersi per un’ignota paura.
“Beh… in ogni caso, quando è tornata dopo il colloquio a corte… ecco… non ci crederai ma…”
“Ma…?”
“È salita subito a cambiarsi e quando è scesa… sorrideva! Mi ha abbracciato e… non prendermi in giro ora, André, forse sono diventata davvero una vecchietta fragile e sentimentale, però… mentre mi abbracciava ha chiuso gli occhi e ho sentito il suo corpo cedere un po’ contro il mio…, come se si stesse abbandonando a quell’abbraccio, mi capisci? Da quando siete diventati grandi non mi ha mai, mai abbracciato così…”, la nonna si asciugò gli occhi e André rimase sospeso ad aspettare il resto.
“Comunque”, la nonna tirò su col naso e proseguì, “è quello che è successo dopo che mi ha impensierito, senti. Ha voluto che la accompagnassi nella sua stanza e l’ho dovuta aiutare a preparare due borse da viaggio con alcuni suoi vestiti che usa qui a casa e i suoi effetti personali. Le ho chiesto:
- Hai intenzione di fermarti a lungo in caserma?
Lei non mi ha risposto, ma aveva sempre quel piccolo sorriso…, allora io le dico:
- Non verrai nemmeno a trovare questa povera vecchia?
E lei, senti che cosa ha detto, mi ha detto:
- Magari verrai tu a trovare me, ma prima devo sbrigare una cosa molto importante.
Ebbene, certo, io, tempo qualche giorno, sarei venuta in caserma a prendere la tua roba da lavare, se tu non fossi arrivato oggi, e così in effetti ci saremmo forse viste, ma… non so, aveva un tono così strano…”
André ascoltava sgranando l’occhio e cercando invano di ricostruire le intenzioni di Oscar. Ma non gli era mai successo di sentirsi così estraneo, così ignaro delle sue mosse:
Qual è la “cosa” molto importante di cui ti devi occupare?
 
“E poi”, la nonna proseguì abbassando la voce come se stesse parlando tra sé, “è entrata nello studio del generale, credo abbia lasciato un biglietto, ed è scesa in cucina e, non ci crederai!, mi ha detto:
- Nonna, ho bisogno di mangiare, preparami qualcosa.
Allora io, che aspettavo in grazia quella frase da mesi, forse da prima che partisse per la Normandia, o forse ancora prima, forse, ora che ci penso, da dopo quella disgraziata volta che ha voluto vestirsi per quel ballo… beh, insomma, allora io ho iniziato a spadellare e a imbandire il suo solito posto al tavolo della cucina e…”, si asciugò una lacrima, “e mentre la guardavo mangiare ho visto che tra un boccone e l’altro alzava lo sguardo verso il posto dove di solito… dove una volta…”, strizzò il grembiule tra le dita, “dove stavi seduto tu… A un certo punto, mi pareva che le venisse quasi da piangere, e non sapevo se stare lì o se lasciarla sola, ma lei si è pulita la bocca, mi ha abbracciato di nuovo, in fretta però, ringraziandomi e poi è volata via a cavallo verso Parigi…”
“Ma non è venuta in caserma…” sussurrò André.
Aveva ascoltato tutto senza trovare il filo logico di quei comportamenti, mentre il buio avvolgeva a poco a poco quello che vedeva e quello che si sforzava di pensare per interpretare le mosse di lei:
Che cosa stai facendo Oscar? Dove sei? Che cosa hai in mente?
Qual è la “cosa” di cui ti devi occupare?
“Che cosa pensi di fare, André?”
“Ora mi do una rinfrescata e mi cambio…”, disse in modo automatico e con tono incolore, “devo capire dove può essere finita Oscar…” si avviò nella sua stanza ripetendo mentalmente il racconto della nonna e cercando di farlo combaciare con le poche informazioni che aveva.
 
Mentre l’acqua tiepida lambiva il suo corpo immerso nella tinozza, André teneva la testa rovesciata indietro, i capelli bagnati davano ristoro alla testa che aveva sentito appesantita dalla mattina quando si era svegliato, gli occhi chiusi riposavano e non consumavano inutilmente le energie che André usava per mettere insieme i pezzi mancanti di quei due giorni così strani, così lontani dalla sua capacità di immaginare che cosa stesse succedendo nella vita di Oscar.
Nella mano destra, che penzolava fuori dalla tinozza, reggeva la lettera di Dunant che quella mattina si era infilato frettolosamente in tasca e che poco prima aveva ritrovato nello spogliarsi dell’uniforme. Dopo un po’ si decise ad aprire la prima busta indirizzata ad André Grandier ed estrasse la busta al suo interno; lesse:
Monsieur A. Vertère,
sue proprie mani
Aprì anche quella busta.
Ne sfilò la lettera e, mentre reggeva il foglio, immaginò la placida Lucille china sulla scrivania paterna, sul naso gli occhiali, tra le mani la sua preziosa penna d’oca, e abbozzò un sorriso.
 
3 luglio
Monsieur,
vi informo che l’appartamento è stato preso in affitto per il mese di luglio e probabilmente anche per i prossimi mesi da un nuovo inquilino.
Quando vorrete potete passare a riscuotere quanto vi è dovuto, visto che il mese è già stato saldato.
Infine, Monsieur, mi pare giusto dirvi che il nuovo inquilino è un ufficiale dell’esercito, un ufficiale un po’ particolare, se posso permettermi. Non fraintendete, pare proprio una persona degna di assoluta fiducia e dai modi impeccabili.
Ho pensato che forse voi conosciate questa persona, perché stasera, dopo che ha visto l’appartamento, l’ufficiale è sceso da me e mi ha pregato di recapitarvi questo messaggio in codice che riporto negli esatti termini con cui mi è stato riferito e che sicuramente voi saprete interpretare:
 
“Potete dire a Monsieur Vertère che Mademoiselle Lotte ha preso in affitto il suo appartamento”
 
Nell’attesa di vedervi presto, vi porgo i saluti colmi di riconoscente affetto di mio padre e anche io vi auguro ogni bene,
Lucille Dunant
 
P.S.: nessuna uniforme può nascondere il sorriso di una donna.
 
André lesse.
 
Poi rilesse.
 
Lesse un’altra volta.
 
La sua mente, che vagava per strade indipendenti dalla sua volontà e notava da sola cose del tutto secondarie, lo informò, dalla diversa inclinazione e dal diverso spessore delle lettere, che Lucille aveva aggiunto il post-scriptum appena prima di sigillare la busta, di sicuro utilizzando la penna di corvo che teneva sulla dispensa per fare le lista della spesa;
(“Potete dire a Monsieur Vertère che Mademoiselle Lotte ha preso in affitto il suo appartamento”)
le sue gambe fecero tutto da sole e in un istante si ritrovarono fuori dalla tinozza;
(“Potete dire a Monsieur Vertère che Mademoiselle Lotte ha preso in affitto il suo appartamento”)
le sue mani si ricordarono da sole quali movimenti fare perché la lettera non finisse nell’acqua e per conservarla nella tasca della marsina appesa nell’armadio, - il suo cuore disse sussultando conservala per sempre -;
(“Potete dire a Monsieur Vertère che Mademoiselle Lotte ha preso in affitto il suo appartamento”)
ogni parte del suo corpo collaborò all’asciugatura e alla vestizione più veloce della storia, mentre la voce non riusciva a farsi largo nella gola, il cuore sembrava aver deciso di non battere più finché non fosse arrivato nella piazza di Saint-Eustache, la sua proverbiale mente analitica e razionale veniva presa a calci e dentro allo strato di pelle che ricopriva il suo intero corpo, un formicolio continuo sussurrava solo
Mademoiselle Lotte
Mademoiselle Lotte
Mademoiselle Lotte

Mademoiselle Lotte, arrivo da te, arrivo da te
 
“Dove stai andando?” la nonna gridò affacciandosi sulla porta della cucina.
“È tutto a posto, nonna, non preoccuparti! Ho capito dov’è Oscar!” rispose correndo verso la porta e in un attimo sentì la ghiaia sotto i piedi, l’odore del fieno della scuderia, il pelo lucido del suo cavallo sotto il palmo della mano, il rumore sordo e secco del tacco sul fianco dell’animale.
La nonna vide solo una nuvola di polvere che inghiottiva la figura lontana di André.
 
*** *** ***
 
Arrivò a Parigi e di fronte alla maestosa facciata di Saint-Eustache, che nell’aria tersa del tardo pomeriggio restituiva luce e colori a una piazza semideserta, si fermò, catturato e sopraffatto dalla bellezza. Pensò che non avrebbe dimenticato mai più l’istante che stava vivendo e lasciò che si imprimesse in lui.
Poi fece tutti i movimenti necessari, ma in effetti irrilevanti, per entrare nella corte interna del palazzo, per legare il cavallo, per salutare Lucille che si sporgeva dalla finestra del piano terra a raccogliere le spezie dal vaso di terracotta che lui le aveva regalato mesi prima, e infine per trovarsi all’ombra dell’androne.
 
Salì le scale e il fremito che sentiva dentro da quando era partito al galoppo da palazzo tutto a un tratto davanti a quella porta si placò. Sentì che una calma improvvisa prendeva spazio dentro di lui e che ora, davanti a lui, c’era il tempo.
Tutto il tempo che sarebbe stato necessario per qualsiasi cosa lei avesse voluto.
Così aprì con mano ferma la porta usando la sua chiave e poi la chiuse alle sue spalle senza farla sbattere. Appese la marsina nel vestibolo e si fece avvolgere dalla penombra e dal silenzio.
Avanzò nella stanza d’ingresso e dal salotto sentì provenire la voce di lei, grave, seria, ma con una sfumatura pacata e gentile che solo lui sapeva riconoscere:
“Sono qui, André”
Allora avanzò verso il salotto e la vide.
 
Era di fronte a lui, nella sua uniforme blu, la spada allacciata alla cintura, la schiena dritta e le mani abbandonate lungo i fianchi. André si meravigliò della sua bellezza come se la stesse guardando per la prima volta.
E siccome lei non parlava, lui continuò a guardarla e si accorse, così, all’improvviso, che qualcosa mancava, su quell’uniforme. Qualcosa di prezioso.
“Dov’è la spilla, Oscar?”, glielo chiese piano, con una voce bassa che risuonò fino al soffitto e riempì tutta la stanza.
“L’ho buttata”, lo disse e poi prese fiato perché non aveva ancora finito, “non voglio essere nobile. Non voglio il mio titolo”.
Lui rimase immobile perché c’era dell’altro e lui poteva aspettare, poteva aspettare ancora.
“Non voglio nemmeno i miei gradi. Non voglio questa uniforme, non voglio più obbedire a nessuno se non a me stessa”.
“Va bene”.
Erano ancora immobili nella penombra, due passi a separarli, ma parevano funamboli in bilico su un abisso. Era tutto sospeso, in attesa che i gesti e le parole prendessero forma e trasformassero in movimento quella fissità.
 
Poi lei disse:
“Spogliami, André”
 
Lui aveva capito e si avvicinò in silenzio. Si pose di fronte a lei e non incrociò il suo sguardo. Lei vedeva aprirsi davanti ai suoi occhi la bocca, il mento, il collo di André, ma non si lasciò distrarre, nemmeno dal profumo che ora la avvolgeva, quel profumo che aveva respirato in lontananza tante volte e che stava assaporando con le narici che si dilatavano piano nella penombra.
André sganciò la spada con mani sicure, senza sfiorare il corpo di lei: era concentrato solo sull’elsa e sul fodero, che afferrò con una mano e appoggiò sulla poltrona alle sue spalle senza distogliere lo sguardo dagli occhi di lei che guardavano altrove.
Non la stava provocando e non la stava seducendo, voleva solo assicurarsi che lei stesse bene, che non cambiasse idea. Quando vide che lei restava immobile, con lo sguardo velato e concentrato, avvicinò le mani alla cintura che slacciò delicatamente, toccando solo la fibbia e sfilando con attenzione la cinghia di cuoio, pesante e indurita dall’uso. La fece scorrere un poco intorno alla vita di lei fino a raccoglierla tra i palmi delle mani. La fece scivolare a terra.
 
La guardò di nuovo: lei era in attesa, così lui continuò.
Alzò gli avambracci e avvicinò le mani al collo di lei. Le dita scesero a slacciare gli alamari interni della giacca con un movimento leggero. Riusciva a non toccare nient’altro che i ganci e la pesante stoffa dell’uniforme. Quando la giacca fu slacciata, con le mani ferme e decise la aprì all’altezza delle spalle: fece scivolare le spalline giù dalle braccia e poi, spostandosi di lato solo di mezzo passo, raccolse il colletto che scendeva al centro della schiena sfilando piano allo stesso tempo le maniche. La giacca cadde a terra ma André non se ne curò.
Guardò lei per capire se doveva proseguire, se in lei c’era un moto di ripensamento.
 
Ma lei era salda come una roccia:
“Ora gli stivali, per piacere”
 
Lui appoggiò un ginocchio a terra e attese che lei flettesse la gamba, poi tenne fermo lo stivale sul tallone. Lei sfilò il piede e lo fece risalire per tutta l’altezza dello stivale tenendosi in equilibrio sull’altro piede. Ripeterono gli stessi gesti e sfilarono il secondo stivale. Lui li spostò di lato.
Poi risalì, il suo profilo a un soffio dal corpo di lei, e la fissò.
Ora lei era un po’ più bassa, senza i tacchi degli stivali, e di fronte ai suoi occhi stavano il pomo d’Adamo di André, le sue spalle coperte dalla camicia bianca che lasciava nudo davanti a lei un triangolo di pelle dello sterno. Spostò lo sguardo e fissò un punto della parete di fronte, in attesa che André posasse ancora le sue mani su di lei.
 
“Non fermarti, André”
 
Allora non si fermò.
Con delicatezza sciolse il nodo del fazzoletto intorno al collo e lei sentì la stoffa della camicia cedere sulle clavicole. Il fazzoletto raggiunse la cintura e la giacca. Toccando il tessuto bianco, senza sfiorare il corpo di lei, fece uscire la camicia dalle culottes e poi ne prese i lembi sui fianchi. La guardò negli occhi e rimase ad aspettare un solo istante: lei, in risposta, alzò le braccia, alte sopra la testa, ma continuò a tenere gli occhi negli occhi di André, una breve interruzione solo quando tra i loro sguardi passò il cotone leggero. Non c’era più niente, sotto quella camicia.
Ma lui non guardò, continuò a tenere gli occhi nei suoi e attese.
 
“Ancora, André. Devi finire”
 
Allora, con pazienza, lui slacciò i bottoni delle culottes e poi, tirando il tessuto dalla parte esterna, senza mai sfiorare la pelle dei suoi fianchi, le fece scendere finché si ridussero a un mucchietto di stoffa per terra. Lei le scavalcò di lato, ancora in attesa.
Lui proseguì, si inginocchiò e fece scendere le calze fino alla caviglia. Lei sollevò prima un piede e poi l’altro per consentirgli di sfilarle.
Infine André si alzò di fronte a lei, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le calze in una mano che ormai si stava aprendo per farle cadere.
Quando anche le calze raggiunsero gli altri vestiti sparsi per terra come relitti su un mare piatto per la bonaccia, lei rimase nuda davanti a lui.
 
Trovò nello sguardo serio e innamorato di André la certezza che ogni gesto era stato compreso e disse:
“Sono solo Oscar, adesso”
Lui annuì tenendo il suo unico occhio sul viso di lei. Non aveva ancora posato lo sguardo sul suo corpo.
“Sono la donna che ti ama, André. Se tu vuoi sono la tua Oscar”, non era riuscita a non arrossire, ma la voce non aveva tremato.
 
Allora lui con un movimento solo si spogliò della sua camicia e con quella vestì lei.
Solo con quella.
Poi finalmente la guardò e la prese per mano.

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Capitolo 8
*** Tra il 5 e il 6 luglio ***


Tra il 5 e il 6 luglio

 
A Parigi
È luglio.
È il 1789.
C’è aria di rivoluzione, molti ormai dicono quella parola ad alta voce.
C’è un re che al buio trema ma che finge di avere la Francia nelle sue mani come il Re Sole.
C’è un’assemblea indomita che non ha più paura di dire quello che pretende.
C’è una protesta popolare che monta da mesi, da anni, e che nessun accordo politico o diplomatico potrà placare.
Ci sono rappresentanti del popolo che sentono arrivare il momento della giustizia. L’occasione per un cambiamento che spazzerà via il passato.
Ci sono giornalisti che al lume di moccoli di candela scrivono pieni di fervore e stampano con entusiastica furia cercando di rincorrere notizie sempre più incalzanti.
Ci sono reggimenti di soldati che come fiumi pronti a gettarsi in un lago di case, chiese, ponti, piazze e giardini stanno raggiungendo in armi una città di sudditi decisi a diventare cittadini.
Ci sono donne che insegnano ai loro bambini a scandire tutte le sillabe della parola “libertà”.
 
E c’è anche una piazza illuminata da qualche lampione e in quella piazza si affaccia una casa grande, con i tetti di ardesia ormai nera per la notte che li copre, e in quella casa, al primo piano, c’è un appartamento pieno di finestre, con i pavimenti di legno coperti da qualche tappeto e da molti vestiti, tutti vestiti da uomo, e, in quell’appartamento, c’è una stanza d’angolo e in quella stanza d’angolo c’è un letto e in quel letto ci sono un uomo e una donna che si amano.
E siccome si amano per la prima volta, ma desideravano amarsi da tanto, da troppo tempo, per loro fuori da quel letto non c’è niente, niente.
 
Desideri
- Vorrei aver scoperto prima che ti amo
- Non sai quante volte avrei voluto essere nobile. O che tu non lo fossi
- Vorrei avere ancora vent’anni e sapere di amarti
- Un giorno, lo ricordo come se fosse ora, avrei voluto baciarti davanti a tutti, alla fontana di Latona
- Vorrei essere stata sincera con me stessa tanto tempo fa…
- Mille volte avrei voluto portarti sul mio cavallo e sentire il profumo dei tuoi capelli
- … tanto tempo fa, André, una sera in cui eravamo ubriachi, una sera in cui abbiamo fatto a botte in una taverna…
- Avrei voluto cancellare l’America e la Svezia dal tuo cuore e dalla tua mente
- … quella sera in cui tu credevi che io fossi incosciente, quella sera in cui mi hai portato a casa reggendomi con il tuo braccio…
- Avrei voluto appoggiare le mie labbra sulle tue
- … mi reggevi con il tuo braccio e mi hai detto che sono una bella donna…
- Avrei voluto che tu mi sentissi…
- … io ti ho sentito, ma ho finto di non sentirti perché quell’abbraccio era tutto quello che volevo…
- Vorrei crederti, ma allora era tutto diverso, Oscar. I tuoi desideri erano altri
- E allora perché da ieri quel momento continua a tornare al mio cuore? Quello, tra tutti i momenti che abbiamo vissuto insieme… perché proprio quello? Mi pare ancora di vedermi, tra le tue braccia, sotto la luna, mentre camminiamo barcollando, stretti come non dovremmo stare… ho amato quel momento, André. Vorrei avertelo detto, vorrei aver capito allora quello che so adesso
- Vorrei che tu ora la smettessi di incolparti o di pensare al passato
- Sì…
- Vorrei riuscire a farti ridere
- Cos’è quello sguardo?
- Devo dirti una cosa all’orecchio…
- Che cos…
- Vorrei…
 



Come
“Oscar, come…” lei gli mangia le parole in bocca con un bacio e allora lui lascia perdere la domanda, le tiene il volto tra le mani e la spinge un po’ indietro nella foga del bacio.
 
Ma poi torna alla carica:
“Oscar, dimmi come…” lei ride sui suoi denti: “Smettila, André”, lo fa apposta a strusciare la coscia contro la sua? Decide di non chiederselo, la afferra all’altezza del ginocchio e se la tira contro.
 
“Adesso me lo dici come hai trovato questa casa?”
Lei espira soddisfatta, supina su un groviglio di lenzuola. Guardando il soffitto tasta il materasso finché non trova la mano di André. La tiene forte e gli dice:
“Ora ti racconto tutto”
 
Nonostante
“… e rivedere Versailles…?”
“Ero là… e volevo solo essere qui, in questa casa…”
Ripensa a una frase della regina, Se lo amassi non dovrei lasciarlo andare?, e con un movimento istintivo, quasi un brivido, affonda il viso contro la spalla e il collo di André. Respira tra i suoi capelli e poi, appoggiando la guancia sul suo braccio, sussurra:
“Sono stata un’egoista. Non ti ho mai lasciato libero, André. Ti ho tenuto legato a me per anni, senza preoccuparmi di quello che tu volevi. Avresti potuto avere una vita diversa se io…”
“Non ho mai voluto una vita diversa. Tra qualunque vita possibile e la vita con te, avrei scelto ogni giorno sempre e solo la vita con te”.
“Nonostante…”
Nonostante volessi essere un uomo,
nonostante il tuo occhio perduto,
nonostante i miei silenzi,
nonostante Fersen?
“Nonostante”.
 
Monsieur Vertère
Monsieur Vertère, eh?” soffia al suo orecchio.
Lui tiene gli occhi chiusi e curva la bocca in un sorriso silenzioso. Raccoglie la mano di lei nella sua, appoggiata sul cuore. Punta lievemente le spalle sul materasso per sistemarsi, inarcando un po’ la schiena. Ma senza mai lasciare la sua mano.
“Che cosa vuoi sapere di Monsieur Vertère?”, un bacio tra le dita, un modo per dirle che può fargli qualsiasi domanda.
“I Dunant sanno che non è il tuo nome?”
“Lui sì, lo sa. Ma l’ho pregato di non dirlo a Lucille. Non so nemmeno perché l’ho fatto quel giorno… Ho inventato una storia in modo che mandassero la corrispondenza in caserma indirizzata ad un certo André Grandier, soldato e amico di gioventù, spiegando che sto poco a Parigi e che non alloggio mai nello stesso posto. Loro non hanno fatto domande, credo che si siano semplicemente fidati. A volte si incontrano persone con cui certi segreti possono restare segreti…”
“Sì… parlano di te con grande rispetto… pare quasi che ti siano riconoscenti”
“Stavano per lasciare la casa e la città quando li ho conosciuti. Lui è anziano, non lavora praticamente più, non sapevano come fare a mantenere tutto. L’acquisto è stato un affare per loro e per me; poi, quando ho deciso che non sarei venuto a vivere qui, li ho lasciati ad amministrare gli affari con gli inquilini per conto mio. Prendono una percentuale sull’affitto e così riescono ad avere qualche entrata”.
Lei non ha ascoltato l’ultima parte, si è fermata prima e ora è pensierosa:
“E quando hai deciso che non saresti venuto a vivere qui?”
“Quando mi sono arruolato, naturalmente”, lui porta la mano di lei alle labbra, non la bacia, la appoggia solo lì.
“Quando hai comprato questa casa, André?”
“L’anno scorso, a marzo”
Lei capisce e fa per ritrarre la mano, ma André non la lascia.
“Non ero sicuro che palazzo Jarjayes sarebbe stata ancora la mia casa…”
“André, io…” appoggia la fronte sulla sua spalla e chiude gli occhi. Un tremito.
“Parleremo anche di quella sera, Oscar, ma ti prego, non adesso, non stanotte” apre l’occhio e si gira verso di lei.
Un bacio. L’amore, ancora.
 
Al buio
“Dove vai?” lo guarda mentre si sta alzando dal letto.
“Ho fame, tu no?” vorrebbe fare una risata sonora delle sue, ma si ritrova sopraffatto dall’amore: lei è lì, un braccio che penzola fuori dal materasso e le dita della mano che si muovono verso di lui come per trattenerlo, l’altro braccio piegato, la mano a pugno che regge la guancia, lo sguardo imbronciato, ma imbronciato per finta.
“Uff… sì, ho fame” si gira sulla schiena sbuffando e trascinando tra le braccia il cuscino.
“Scendo a cercare qualcosa da Lucille” si infila i pantaloni e la camicia.
“Non ti pare un po’ tardi? Guarda che sono qui da due giorni: Lucille ha lasciato in cucina del cibo per me”
“Santa donna, vado subito”, lo guarda mentre si allontana nel buio. Sente i suoi passi svelti che fanno scricchiolare le assi del pavimento: sorride. Sente i rumori della cucina: lo immagina mentre dispone il cibo su un piatto. Sente scorrere l’acqua: immagina André che riempie la brocca. Poi sente che apre la porta d’ingresso: immagina André che scende a piedi nudi. Che cosa cerca? Lo sente tornare. Ora è di nuovo in cucina. Ecco, sta arrivando: senza accorgersene sorride con la bocca e con gli occhi aspettando che lui compaia sulla porta.
Eccolo.
Quante volte l’ha visto con un vassoio tra le mani?
Ripensa a che cosa hanno fatto quelle mani fino a poco prima e arrossisce, un rimescolamento dentro al suo corpo, mai provato e simile alla nostalgia, suscita in lei il desiderio che quelle mani la tocchino, ancora.
Si può avere nostalgia di una cosa appena successa?
Ora il vassoio è sul letto, tra di loro. Cibo, vino. L’acqua è in un bicchiere che André ha riempito con dei rametti di gelsomino presi dal cortile, dove una pianta si arrampica fino all’arco dell’androne.
 
All’improvviso, un colpo al cuore, il viso scolora, la realtà che si fa largo senza pietà:
Non hai preso il doppiere, André
 
Sonno
Il primo chiarore fa capolino tra le tende. Una luce rosata e tenue combatte contro l’oscurità della notte e contro i tendoni per entrare nella stanza.
Gli occhi sono chiusi, il respiro profondo. Non è facile dormire abbracciati, dopo un po’ gli arti si indolenziscono, e il corpo, da solo, cerca la sua comodità. Sono sdraiati sulla pancia, ai due lati del materasso, con i volti rivolti verso l’esterno, sprofondati in un sonno che induce, chissà come, le loro labbra al sorriso. Ma i capelli, alle loro spalle si mescolano sui cuscini, la mano destra di lei è ancora salda nella mano sinistra di lui, i piedi si toccano sotto un brandello di lenzuolo che scivola sul pavimento.
 
Temistocle
Indugia sul biancore della pelle, sulle scapole, sulle costole del fianco che si potrebbero accarezzare a una a una con la punta delle dita. Lo ama, quel corpo. Ma sente anche una struggente preoccupazione per quello che quel corpo gli sta dicendo. Nel timore che l’acqua fredda le faccia male, aggiunge un po’ di acqua calda nella tinozza in cui lei si sta lavando.
“Che progetti hai per oggi?” dice per sviare i pensieri.
“Come dici?”
“La licenza che ci hai dato… che cosa hai in mente?”
“Vorrei parlare con Alain e gli altri stasera. Tu puoi organizzare?”
“Certo… devo vedere Alain più tardi. Gliel’ho promesso, anche se in questo momento me ne sto pentendo” la guarda così da vicino mentre glielo dice; allora lei si sente pungere dal fastidio per la vita fuori che chiama, che reclama, che sottrae. Ma è per quella vita che lei ha compiuto delle scelte e c’è ancora da fare, bisogna andare fino in fondo. Lei lo sa.
“La mia vita è cambiata per sempre, André. E non solo da stanotte”
“Lo so”
“Stanotte mi hai detto che hai sempre saputo che ti amavo. Ora ti dico che io ti amerò per sempre”, c’è più determinazione che dolcezza nel suo tono, ancora militare.
Ma a lui piace, così la bacia sulle labbra e poi la fissa da vicino:
“Io credo che tu ieri mattina sia corsa in caserma per disporre la nostra licenza. Ho capito perché hai voluto che io fossi in licenza”, si sorridono complici, “ma gli altri che hai scelto… non sono un gruppo casuale, vero?”
“Beh, qualcuno di casuale c’è. Per non dare nell’occhio, naturalmente”
“Più scaltra di Temistocle…” si allontana per prendere il telo.
“Non me lo dicevi da anni”, il ricordo improvviso di momenti in cui prendersi in giro era facile, proprio come ora. Gli anni di silenzio, in mezzo, la fanno rabbuiare, si sente in colpa.
“Se vuoi te lo ripeto ogni cinque minuti per recuperare il tempo perduto, vuoi?” lui smorza tutto e ridono.
“No, ti prego!”
“Dai, esci e copriti subito, non voglio che tu prenda fr…”, non c’è più ilarità mentre lo dice, si sente apprensione in quel tono.
“Perché ti sei fermato” lo dice senza essere sorpresa, come una constatazione.
La avvolge con cura.
“Perché ti ho sentito tossire stanotte”
Lo accarezza sulla guancia e si allontana per vestirsi.
 
Alba
C’è un piccolo balcone, con la ringhiera di ferro battuto. Il sole è appena sorto alle spalle della chiesa e la piazza è ancora avvolta nell’ombra. L’aria è leggera, ma lui ha i pensieri pesanti.
Lei lo affianca, appoggia, come sta facendo lui, i gomiti alla ringhiera.
“Sono stata da Lassonne. Ieri mattina, dopo che sono uscita dalla caserma, sono andata da lui”
Lui aspetta.
“Anche dopo Saint-Denis, sono andata da lui”
Aspetta, ancora.
“Devo tornare la settimana prossima”
Allora lui raddrizza la schiena e le si avvicina, lo sterno che le accarezza una spalla.
“Che cos’hai, Oscar?”
Ora è pronto, è pronto a tutto.
“Non si sa…” lei guarda lontano “il mio corpo è molto debilitato, te ne sei accorto anche tu, no? Ho dei sintomi… ho pensato di avere la tisi”
Non sa se è quella parola o la freddezza con cui lei l’ha pronunciata a farlo rabbrividire.
“Ma Lassonne è perplesso. Il mio dimagrimento, la tosse, i capogiri, l’affanno, il fatto che qualche giorno fa avessi la febbre sono tutti segnali, ma… lui dice che il mio stile di vita lo confonde sulla causa di questi sintomi… Mi sono molto trascurata da quando…”
Lui le abbraccia le spalle e la tira contro di sé. Insieme guardano verso la piazza. Il sole avanza sul sagrato, tra poco arriverà anche da loro.
“Però non ho mai tossito sangue, questo no. Lassonne dice che è un buon segno”
“Oscar, lasciamo tutto, lasciamo i soldati della Guardia. Voglio prendermi cura di te come facevo un tempo, voglio che tu stia bene. Non posso farlo se sono un tuo soldato”
“André, tu ieri sera mi hai spogliato. Io sono solo Oscar, adesso. La tua Oscar. Ricordi?” c’è una serenità nello sguardo di lei che lui non ha mai visto.
“E come farai con il tuo incarico?”
“Stamattina, al colonnello d’Agoult sarà recapitata una lettera di Lassonne insieme a una mia comunicazione ufficiale. Per gravi motivi di salute mi è impossibile proseguire la vita militare. Ho chiesto un periodo di sospensione o il congedo illimitato. A questo punto la decisione spetta a Bouillé. E io credo di sapere che cosa deciderà il generale Bouillé”.
“Più scaltra di Temistocle” bisbiglia lui sulla sua tempia.
 
Fiori
“Perché devi vedere Alain e Marcel più tardi?”
Sono ancora sul balcone, abbracciati. Un cigolio di ruote in fondo alla strada annuncia l’inizio della giornata, un soldato che ha appena finito la ronda notturna si avvia con uno sbadiglio verso la piazza slacciandosi la giacca dell’uniforme.
“Guarda…”, le ruote di un carretto conosciuto si fermano proprio lì sotto.
Lui non vuole sviare il discorso, ma un’idea improvvisa ha superato tutte le altre, la guarda di sottecchi, indeciso se chiedere o tacere. Non è più il suo comandante da qualche ora, è la sua donna da tutta la notte, ma è pur sempre Oscar, creatura imprevedibile e poco avvezza agli omaggi galanti. Poi osserva il vecchietto sdentato che abbassa l’anta laterale e comincia a disporre i fiori in bellavista:
“Scendo a comprarti dei fiori”, le dice risoluto. Aspetta un secondo per vedere che effetto le fa quella frase. Lei si gira, stupita e incredula, e sgrana gli occhi, come se lui le avesse parlato in una lingua sconosciuta. Lui ride, ride di cuore:
“Dovresti vederti!”
“André, non ti sopporto quando fai così”, ma le viene da ridere e poi sente di essere arrossita perché l’idea che lui le comperi dei fiori, inaspettatamente, le piace. Sa che lui si è accorto di quel rossore. Sa che lui ha capito.
“Dimmi che fiori vuoi”
“Basta che siano fiori, va bene tutto” dice lei schermendosi.
“Oh, no. Non va bene tutto”, lui parla quasi a bassa voce, “dimmi che fiori vuoi per quel vaso”
Allora lei, che ha capito di quale vaso sta parlando, dice guardandolo negli occhi:
“Peonie”
E in un volo felice lui è già in strada. Lei resta a guardarlo incantata, come una ragazzina: eccolo lì, di spalle, la camicia che gli esce un po’ dai pantaloni, dietro, le mani che si arrampicano nell’aria e accompagnano la richiesta che lei, da lassù non può sentire. Ma il vecchietto, lei ce l’ha di fronte, abbassa la testa e fa cenno di no, scuote il capo allargando le braccia nel chiaro gesto di chi non può accontentare un cliente. Allora lui ruota un poco la testa indietro e in su verso di lei in una domanda muta. Così lei sillaba senza voce:
“Mar-ghe-ri-te”
Sente gli occhi che si bagnano di felicità.
Ed è un attimo che lui torna, che mettono i fiori nel vaso che lei ha già preparato riempito d’acqua e che ora appoggiano sulla mensola, a far compagnia a quel piccolo libro tedesco e a quel bozzetto di Arras, è un attimo che tirano le tende, tutte, perché è così presto che può essere notte ancora un po’.
 
Fuori
Le campane di mezzogiorno hanno interrotto il loro sonno. Si accorgono che è tardi e si preparano: c’è emozione in quel risveglio insieme, in quella giornata insieme diversa da ogni altra giornata insieme che hanno vissuto.
Scendono le scale di pietra chiara fianco a fianco. Non si tengono per mano, ma non perché si trattengano dal farlo, perché non ce n’è bisogno.
Lo vede anche Lucille, che non ce n’è bisogno. Così si avvia verso di loro con un po’ di imbarazzo, sicura di non capire molto di quello che sta vedendo ma, in effetti, sicura di vedere bene l’unica cosa che conta.
Mademoiselle Dunant” dice lui con un inchino buffo.
Monsieur, vi prego”, dice Lucille mentre scuote l’aria davanti a sé con le mani aperte: la felicità di quei due l’ha già contagiata e le viene da ridere.
“Lucille, credo che dovrò parlare con voi e con vostro padre stasera. Ci sono delle novità di cui dovete essere informati, novità che riguardano me e mademoiselle Lotte”.
Sente che lei si è avvicinata, il dorso della mano appena sfiora quello di lui:
“Buongiorno, Lucille”.
Lucille non può fare a meno di registrare quanta differenza ci sia tra l’ufficiale del giorno prima e la donna che ha di fronte: non è solo l’abbigliamento, non è solo lo sguardo, non è solo il tono della voce, non è solo la morbidezza dei movimenti… cos’altro sta notando? Che cosa, in quella bellezza, la punge con un certo fastidio, quasi con apprensione? Ed ecco che cosa è. Quello che l’uniforme nascondeva. È così magra, mademoiselle Lotte… non se ne era accorta. Lucille distoglie lo sguardo verso André, come se improvvisamente ricordasse di dover dire qualcosa:
Monsieur, perdonatemi, io avrei bisogno… dovrei parlarvi in privato, se potete, … monsieur”.
“André, penso io ai cavalli, tu vai con Lucille” dice allora lei con leggerezza allontanandosi già nel sole del cortile.
All’ombra dell’androne Lucille arrossisce e prende fiato per parlare, ma non sa bene da dove iniziare.
“Lucille, che cosa c’è? Parlate con franchezza, vi prego”
“Ecco, Monsieur…, vi dovrei consegnare… insomma, mademoiselle Lotte ha pagato tre mesi in anticipo…, aspettate, aspettate qui. Arrivo subito”
Lucille scompare nel suo appartamento e André la vede dalla finestra sul cortile mentre in punta di piedi recupera una cassetta su una mensola piena di soprammobili colorati, la sua piccola collezione di campanelli.
Quando esce tiene tra le mani la busta, e vorrebbe liberarsene in fretta, lasciarla tra le mani di quell’uomo innamorato e tornare svelta in casa a sistemare le carte che suo padre ha sparso per lo studio tutta mattina, ma si accorge che André ha lo sguardo altrove, catturato da una donna innamorata che cammina verso di lui reggendo tra le mani le briglie di due cavalli che la seguono pestando gli zoccoli quasi al suo stesso passo.
Allora Lucille fa un piccolo colpo di tosse, così entrambi si rivolgono a lei.
La donna innamorata ride:
“Lucille, tenete quella busta. Posso chiedervi di usarla per le spese necessarie al nostro e vostro vitto? E se avete qualcuno che si occupa delle pulizie di casa… beh, credo che farebbe comodo anche a noi, no?” lo guarda interrogativa.
L’uomo innamorato ha sussultato sentendo quel noi, Lucille ne è certa, e poi ha afferrato le briglie del suo cavallo prendendole direttamente dalla mano di lei che ha coperto in una carezza:
“Come vuoi tu, mademoiselle Lotte”.


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Grazie a Galla, fata dagli occhi turchini, per aver esaudito un desiderio.
Grazie a Octave, per lo scambio di pareri e prospettive.
Grazie a te che silenziosamente leggi.
Grazie a te che scrivi.
Grazie.
Sett.

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Capitolo 9
*** Lungo la Senna ***


Lungo la Senna

 
6 luglio 1789
 
Alain, in attesa sul Pont Neuf, li vide arrivare, affiancati e sorridenti, e gli bastò uno sguardo per capire che il suo amico non era più l’attendente, il soldato o l’innamorato silenzioso di quella donna. Ripensò a quella sera alla taverna, solo una settimana prima, quando André, senza nascondere i suoi sentimenti per lei e ormai rassegnato all’infelicità di entrambi, aveva detto quella frase, - Certo che mi ama -, e sorrise.
Allungò una mano:
“Ciao, Grandier”, non c’era un’ombra di malizia, nessun sottinteso salace da cogliere, nessun cenno di virile intesa. Solo sollievo, commozione, amicizia.
Lei, che si era un po’ defilata alle spalle di André, fu riconoscente e curvò gli angoli della bocca in un sorriso imbarazzato.
“Dove andiamo?”, disse André con un tono che rese evidente che non ci potevano essere segreti, non più e mai più, tra lui e Oscar.
“Alla Villier frères” disse Alain spronando il cavallo.
 
Quando arrivarono nei pressi del fondaco principale, sormontato da un’insegna scolorita di cui si distinguevano solo quattro o cinque lettere giallognole su uno sfondo celeste, videro due uomini in attesa: uno, pareva un vecchio, stava seduto su una cassa di legno con le gambe lunghe distese davanti a sé e la schiena curva, l’altro, un ragazzo biondo e smilzo con le braccia conserte e le spalle appoggiate alla parete di legno del fondaco, era alle sue spalle e teneva un ginocchio piegato e il piede contro il muro.
 
Non appena li vide imboccare la strada, Marcel, staccandosi dalla parete, si avviò verso di loro:
“Ehi, che ci fa qui il comandante? Non doveva essere una cosa tra noi?” soffiò a voce bassa, ficcando gli occhi in quelli di Alain.
“Laroche, mettiti un secondo qui, dietro al mio cavallo, ma ben dietro, che te lo spiego con parole semplici”, Alain cacciò fuori le parole in un sussurro un po’ troppo forzato e lo guardò con aria di minaccia.
Nel vedere che André e il comandante, ai quali evidentemente non era sfuggita una sillaba di quella conversazione, di quegli ammiccamenti, di quei sottintesi, non erano riusciti a trattenersi dal ridere, Marcel, incredulo e ancora perplesso, - il comandante! ride! -, faceva vagare lo sguardo da uno all’altro lisciandosi il mento, finché, riconosciuti i segni dell’amore che aleggiavano leggeri nell’aria, scoprì i denti in un sorriso di trionfo e subito abbassò la testa scuotendola con una soddisfazione un po’ impacciata.
 
Poi, come ricordando d’un tratto il motivo per cui si erano trovati lì, si girò verso l’uomo seduto, il cui volto era nascosto da un cappellaccio di paglia.
“Vi presento Crochet”.
Crochet rimase seduto, ma alzò lentamente la testa verso di loro: sotto quella falda larga e un po’ afflosciata comparve prima un mento aguzzo mal rasato, poi il labbro inferiore, più largo e sporgente di quello superiore, che era invece sottile e quasi dritto, e un naso adunco, con le narici larghe, e infine, - fu questo che fece calare il gelo e dimenticare a tutti la gioia appena condivisa -, e infine un occhio piccolo, senza pupilla, senza iride, di un colore azzurrastro, perduto in mezzo a una cicatrice larga, tesa e bianca.
L’altro occhio, però, guizzava, mostrando di saper vedere ben oltre la realtà che gli si parava di fronte sottoforma di due uomini e una donna vestita da uomo, e quell’occhio si fermò, penetrante e indagatore, sull’unico occhio di André.
André scese da cavallo e, senza preoccuparsi di legarlo, si avvicinò a Crochet tendendogli la mano:
“Mi chiamo André Grandier. Siete qui per me, immagino. Credevo che avrei incontrato un dottore, ma voi non lo siete, vero?”
Crochet in tutta risposta alzò la mano sul volto di André e scostò con un movimento leggero i capelli che gli coprivano l’occhio cieco e la cicatrice. Rimase lì, pensoso, qualche istante e poi gli disse:
“No, non sono un dottore. Siediti qui, ragazzo, Marcel vuole che io parli con te. Vuoi sentire la mia storia? Non ci vorrà molto, ma se la troverai interessante ti porterò a trovare una persona che forse potrà aiutarti più di me”.
Mentre Alain legava i tre cavalli e Marcel camminava avanti e indietro sulla strada a passi lunghi e lenti con la fronte bassa, assorto in chissà quali ricordi, Oscar si appoggiò alla parete del magazzino, lo stesso posto occupato poco prima da Marcel.
Alain la raggiunse e le si mise vicino.
 
“Sei mai stato in una pelleria, ragazzo?”
André fece di no muovendo appena la testa.
“Io ho iniziato a lavorare qui che non avevo nemmeno dieci anni. Ora mi vedi vecchio e malandato, ma c’è stato un tempo in cui molti invidiavano la forza delle mie braccia e l’agilità delle mie gambe. Ma soprattutto”, fece un sospiro, “invidiavano questi, - li indicò in modo vagamente teatrale -, i miei occhi. Ero un mastro coramaio coi fiocchi, io. E scusa se non sono modesto, con l’età ho imparato che si può anche smettere di fare i modesti a tutti i costi”, soffiò un sorriso con le narici.
C’era qualcosa in quel vecchio e nella sua voce, André pensò, in quel suo strano modo di trascinare le vocali, come se non volesse mai far finire le parole, sì, c’era qualcosa di eterno e di grande in quella voce sporcata dal tabacco e da chissà quanti malanni, profonda e allo stesso tempo esile, come fosse sempre sul punto di spezzarsi ma in realtà capace di superare ogni incrinatura con un vigoroso suono gutturale.
Alain si intromise:
“Tu lavoravi il cuoio?”
“Sì… lo lavoravo. Stampe, punzonature, piccoli disegni in posti nascosti che certificavano la provenienza del cuoio dalla nostra pelleria… Mi piaceva. Piaceva anche a Gamin, non è vero? Stava a guardarmi incantato per ore, da bambino”.
“Non mi chiamare con quel nome”, sibilò Marcel.
“Come vuoi”, sorrise Crochet, “ma nemmeno Crochet è il mio nome, no?”
Marcel arrossì e fece per scusarsi, ma quello con noncuranza proseguì:
“Ma a me Crochet piace, è un bel nome. Sicuramente meglio del mio vero nome, non sto nemmeno a dirvelo. E tu, ragazzo con un solo occhio verde, tu: vuoi sapere perché mi chiamano Crochet?”
André fece di sì con la testa, mentre la cicatrice sembrava pulsare sul suo volto e riportarlo indietro all’esatto momento in cui quella notte la lama aveva attraversato le ciglia e il sangue gli aveva velato lo sguardo. Ma non fece in tempo ad avere paura, perché subito, un calore inatteso, sentì che il freddo del ricordo veniva improvvisamente disciolto da una mano amata che si faceva largo sul suo collo e poi scendeva ad appoggiarsi sulla sua spalla, e sentì un corpo, amato da sempre, accostarsi alla sua schiena e fermarsi lì.
“Tu, Gamin, te lo ricordi quel giorno?” proseguì Crochet.
“Sì…”, Marcel rispose senza guardarlo, calciò un sasso contro il muro di fronte a lui e diede le spalle a tutti.
“Vedi, ragazzo con un solo occhio verde, i pavimenti delle officine dei pellai sono sempre bagnati. L’acqua ci serve per tante cose…, del resto, guarda laggiù la Senna, noi lavoriamo vicino ai fiumi… e così, se anche non usassimo le vasche dell’acqua, avremmo comunque pavimenti bagnati dall’umidità, pietre muschiose, aria satura e soffocante… E Gamin, qui, aveva un bel daffare a spargere segatura e paglia per terra, mai avrebbe vinto contro un nemico così strisciante…, anche se lui pensava di poter vincere contro qualsiasi cosa, già da bambino. E anche se forse ancora adesso si ritiene responsabile del mio nuovo nome e di chissà che altro, mai avrebbe potuto evitare quello che successe…”, fece una pausa per prendere il fiato e alzò di poco la voce, “mai, Marcel”.
Marcel appoggiò le mani al muro senza voltarsi e scuotendo le spalle, impotente di fronte all’assalto dei ricordi.
“Eri solo un bambino…”, disse Crochet, la voce così bella, così limpida, che pareva una canzone, “eri solo un bambino, Gamin”.
Guardarono tutti Marcel, ma lui era di spalle, come stanno i bambini quando sono in castigo contro il muro, come stanno gli uomini quando un muro davanti agli occhi è tutto quello che riescono a vedere.
“Nelle pellerie, dopo che le pelli vengono conciate e trattate con le sostanze adatte sciolte in grandi vasche d’acqua, bisogna appenderle ad asciugare… si appendono a dei… ganci*… che stanno sulle pareti, un po’ sporgenti perché il cuoio steso non deve strusciare contro le pareti e così, quando reggi un grande cuoio tra le mani, gocciolante e pronto per la stenditura… insomma, devi fare attenzione a non scivolare perché se scivoli in avanti e le mani sono impegnate a reggere quel cuoio e se il pavimento è scivoloso e se il gancio è lì, davanti a te, proprio davanti ai tuoi occhi…”, aveva proseguito come se niente fosse Crochet mentre tutti erano ancora intenti a guardare Marcel.
A uno a uno, immaginando quello che la voce non aveva detto, si girarono lentamente verso Crochet, che ora stava in piedi e si fissava la punta delle scarpe con aria pensosa. Poi drizzò il capo, sfregò l’occhio morto e con un sorriso sbilenco e un gesto nell’aria a spazzare via quello che aveva appena detto, disse ad alta voce:
“Andiamo a mangiare? Mi hai promesso un pranzo come si deve, se non sbaglio, Gamin!”
 
Crochet si alzò rendendo chiaro a tutti che non avrebbe più parlato finché non avesse avuto i piedi sotto a un tavolo e si avviò lungo la strada, ma gli altri, per ragioni diverse ammutoliti a causa di quel racconto mozzato, esitarono a fare altrettanto.
Fu così che, in modo del tutto inatteso, si trovarono faccia a faccia con un uomo anziano, che teneva ancora la mano sulla porta del fondaco da cui era appena uscito e che li guardò con un sussulto di stupore. Aveva un tricorno liso e messo un po’ sghembo su una parrucca fuori moda, gli occhi piccoli erano sbarrati e rughe profonde circondavano la sua bocca, contratta in un’espressione sorpresa e allo stesso tempo quasi colpevole che lo inchiodava lì, davanti a loro, senza parole.
Crochet, accortosi di quell’apparizione e di quell’improvviso silenzio e conoscendo bene il motivo che l’aveva causato, alzò il suo unico occhio sul volto bello e furioso di Marcel: vide che stava stringendo i denti e i pugni mentre il vento gli sollevava i capelli sulla fronte e vide che il vecchio a pochi passi da lui non aveva intenzione di sottrarsi a quella furia, anzi, che pareva quasi aspettarla con sollievo, come si aspetta la tempesta quando ormai il cielo è tutto nero e il vento fa mulinare le foglie nell’aria.
 
Monsieur Laroche!”, lo riconobbe meravigliata Oscar.
 
Lui allora distolse gli occhi da suo figlio e, dopo aver impiegato qualche istante a riconoscere in quella donna il severo comandante Oscar François de Jarjayes, fu svelto a togliersi il tricorno in segno di deferenza e le restituì il saluto:
“Comandante de Jarjayes…, che onore incontrarvi, ma non state lì, venite…, posso farvi entrare nella mia piccola bottega?”
“A me non pare tanto piccola” sbottò Alain circondando il fondaco e la vicina bottega con lo sguardo.
“Vi prego, chiamatemi solo Oscar, Monsieur Laroche”, Alain la squadrò con aria interrogativa, poi vide che André non faceva una piega e sentì calare un’ombra nei suoi pensieri, “Ci piacerebbe fermarci, ma ora dobbiamo andare. Mi ha fatto piacere rivedervi”, concluse facendo guizzare con intensità gli occhi dal volto di quell’uomo a quello di Marcel.
“Oh, ma… comand…, Oscar, vi prego, fatemi l’onore di venirmi a trovare allora uno dei prossimi giorni, io non ho mai avuto modo di ringraziarvi per come avete salvato il mio…”, deglutì senza riuscire a pronunciare il nome di suo figlio che, più lontano, lo fissava pieno di rabbia.
“Verremo senz’altro, uno dei prossimi giorni, Monsieur Laroche”, si intromise André con gentilezza, “ora scusateci, ma dobbiamo proprio andare”.
Mentre con un cenno di saluto gli davano le spalle, sentirono tutti, distintamente, uscire dalla bocca di quell’uomo il sospiro tremante di chi si sta sforzando di non piangere.
 
Camminarono in silenzio qualche minuto, finché raggiunsero un locale sulla Senna, spartano ma pulito. Fuori dalla locanda, André lasciò che tutti entrassero, ma quando vide che lei stava per oltrepassare la soglia dietro ad Alain, la trattenne per il polso cosicché lei girò, sorpresa, il volto e lo alzò verso di lui in una silenziosa domanda di cui, subito, si accorse di conoscere la risposta. Ondeggiarono contro il muro esterno fino a trovare un riparo dalla porta e dalla finestra sulla strada e senza dire niente si ritrovarono in un bacio.
 
A pranzo la tavolata si divise in due discorsi diversi che lei, seduta al centro, con stizza, cercava di seguire. Da un lato del tavolo, Alain e Marcel confabulavano sulle ultime notizie politiche, sulla caserma, facevano pause dense di sottintesi quando alludevano all’ordine di intervenire che sicuramente prima o poi sarebbe arrivato anche a loro e Oscar intuiva che entrambi, la notte precedente e quella mattina, quella notte e quella mattina che lei aveva trascorso tra le braccia di André, avevano adocchiato nuove guarnigioni di soldati per le vie, insoliti raduni di folla agli angoli delle strade; dall’altro lato del tavolo, a voce bassa, Crochet parlava ad André del periodo successivo al ferimento, della rabbia che aveva provato, dell’impotenza di fronte alla sua menomazione, del terrore di perdere la sua vita come l’aveva sempre vissuta – André aveva avuto un brivido, a quel punto, e lei con la mano era corsa a coprire quella di lui e l’aveva stretta forte, sentendo il cuore che andava in pezzi al pensiero di quanto era stata insensibile -, e poi Crochet aveva raccontato il suo tentativo, fallimentare, di fingere che non fosse successo niente, che poteva continuare come prima, e poco dopo Oscar aveva sentito distintamente: “… pensavo: beh, ho solo perso un occhio. Ma ne ho due, no?” e alla fine Crochet aveva sentenziato, “non esiste una frase più idiota di questa”.
André ascoltava senza interrompere, soppesava somiglianze e differenze tra la sua storia e quella del vecchio e sentiva sempre più gravoso sul cuore il peso di quello che Crochet non diceva. Gli pareva di essere in attesa di parole decisive, di parole che avrebbero spalancato la botola in cui chiudeva il suo segreto da troppo tempo. E così in questa attesa, nella confidenza che sentiva crescere di minuto in minuto con quell’uomo che gli stava vuotando davanti la vita su quel tavolaccio di legno, André, stringendo la mano che mai l’aveva lasciato, con voce ferma disse:
“Hai mai avuto problemi all’altro occhio, Crochet?”
Lei smise di ascoltare Alain e Marcel, che a loro volta lasciarono a metà una frase, e i volti tutti si puntarono su André, immobile e fiero di fronte a Crochet.
“Hai momenti di buio, ragazzo?”
“Sì” fu la risposta che lei non avrebbe mai voluto sentire.
“Oggi pomeriggio ti porterò da Iatroux”, disse Crochet appena prima di svuotare il bicchiere.
 
 
Ritornarono alla Villier frères per prendere i cavalli: Marcel teneva il passo malsicuro di Crochet e gli dava il braccio nei punti della strada più sconnessi, Oscar, André e Alain avevano preso il loro solito passo militare e procedevano verso il fondaco, ciascuno con lo sguardo teso verso la fonte delle proprie preoccupazioni più che verso la strada acciottolata che con una curva morbida scendeva verso il magazzino lungo la Senna e, poco più in là, verso l’ingresso vetrato della bottega. Ad Alain, che l’aveva affiancata e teneva il passo di lei, tornò in mente papà Laroche e non si tenne:
“Cos’è questa storia del chiamatemi Oscar?, non siete più il nostro comandante?”
Lei, emergendo da pensieri cupi sulla vista di André, sul suo aggirarsi, senza doppiere, sicuro come fosse… ad occhi chiusi, quella notte per la casa di Saint-Eustache, assentì con il capo e le parve che Alain le avesse ricordato cose di una vita precedente alla quale si sentiva ora completamente estranea.
“Capisco. Non siete più il nostro comandante, Oscar. E, sentiamo, adesso, di preciso, cosa farete?”, c’era rabbia e anche qualcosa di provocatorio in quella domanda.
“Mi stai per caso chiedendo se sto scappando?” lei si fermò e lo sfidò a reggere il suo sguardo altero.
“Beh, in effetti, sì” le rispose lui guardandola di rimando.
Lei curvò l’angolo della bocca in un sorriso beffardo e scandì a bassa voce:
“Adesso, se non ti spiace, portiamo André da questo Iatroux. Poi faremo tutti e quattro una bella chiacchierata. Ci sono cose di cui tu e Marcel dovete essere informati”, lo trapassò con lo sguardo, “E se vuoi, prima della chiacchierata, ti do anche una lezione con la spada” e girò i tacchi con un movimento felino nel quale Alain intravide la zampata della tigre più che il movimento di una gatta.
 
Intanto Crochet e Marcel si attardavano un po’ più indietro, immersi in una conversazione che in realtà era più un soliloquio del vecchio:
“Non vieni mai da queste parti, Gamin. Ti tieni alla larga dal dolore? E dimmi, ci riesci?”
Marcel non rispose
“In ogni caso, devi tenere molto a quei due se sei arrivato fin qui per parlare con me. Aspetta… dammi il braccio… ecco, così; mi sa che ho bevuto troppo, non sono più abituato. Ci tieni a quei due, sì, si vede. Anche se te ne stai in disparte come se non fosse una storia tua, si vede che li hai a cuore. Sei ancora innamorato, Gamin?”
Marcel non rispose
“Direi di sì. C’è ancora Joss dentro quel cuore che hai tatuato sul fianco? Non è sano, Gamin. Non alla tua età. Dammi retta, cambia cuoio, perché su questo non si può più ricamare niente. Guardami, io, io posso vivere di ricordi. E per me è dolce vivere di ricordi. Ma alla tua età non va per niente bene. Lo capisci?”
Marcel non rispose
“Vieni a dormire a casa mia, stasera, Gamin. C’è la branda vuota vicino al camino. Domani mattina ti farò vedere una cosa. Forse ti aiuterà”.
“Devo tornare in caserma domani mattina”.
“Avrai tutto il tempo di andare in caserma”.
 
 
Iatroux abitava in una stamberga nella zona dell’Arsenal, “un postaccio pieno di gentaglia pericolosa, specie di questi tempi”, aveva detto Crochet, in sella con Marcel, mentre i cavalli andavano al passo lungo il fiume, per questo, aveva puntualizzato, era meglio andarci di giorno. Si era anche sentito in dovere di spiegare che Iatroux era un greco, “uno che ha sempre fatto il medico per mare”: raccattato non si sa come su un’isola dell’Egeo da un brigantino, aveva impiegato poco a mostrarsi più capace del medico di bordo, un lionese con il mal di mare perenne e il vizio delle carte, e così da allora aveva passato la sua vita sulle navi a curare squarci nella pelle, ad amputare arti, a chiudere le palpebre ai morti di tifo e, naturalmente, a bendare occhi morti, “Eh, ne ha vista di gente con un occhio solo, Iatroux!” aveva detto Crochet gonfiando il petto con un certo orgoglio, “ma poi”, aveva proseguito, “dicono per una delusione d’amore, mah, chissà”, Iatroux si era preso il vizio del bere e in poco tempo non era stato più lui, così un bel giorno si era ritrovato scaricato su una banchina della Senna, non gli avevano nemmeno pagato l’ultimo viaggio, “beh, del resto se l’era bevuto tutto” aveva filosoficamente concluso Crochet.
 
Il racconto terminò quando arrivarono di fronte a una porta sgangherata in un vicolo in cui tutte le porte erano sgangherate. Su quella, però, c’era un biglietto:
 
sono sottoterra
I.
 
Gli altri si guardarono interrogativi, ma Crochet fece spallucce e si avviò verso una cantina il cui ingresso era nel seminterrato di una catapecchia poco lontano.
“Vi aspetto qui”, disse Crochet lasciandosi cadere sul primo gradino e appoggiando la schiena contro il muro, “Gamin, fai tu le presentazioni, tanto lo conosci, no?”
Marcel fece un cenno a Crochet e scese seguito dagli altri.
Una volta entrati in quella penombra fetida e fumosa, Marcel si diresse deciso verso l’ultimo sgabello del bancone, lo sgabello quasi nascosto da una colonna massiccia vicino alla parete laterale dello stanzone. L’uomo seduto sullo sgabello aveva riccioli grigi e untuosi che ricadevano sulle spalle, una ciocca sulla fronte come una freccia indicava il naso, che era un prolungamento non interrotto della fronte, e sopracciglia che parevano due accenti circonflessi accostati, e poi ciglia nerissime che circondavano lo sguardo più infastidito che si fosse mai visto.
André si fece avanti e si sedette allo sgabello vicino, chiese del vino all’oste che aveva già preparato bicchieri per tutti con una certa soddisfazione, e con lentezza, facendo ruotare lentamente il bicchiere tra le mani, si rivolse a Iatroux, che ancora taceva con quell’aria disgustata sulla faccia:
“Crochet mi ha suggerito il vostro nome. Dice che potreste aiutarmi”
Silenzio
“Ho perso un occhio un anno e mezzo fa. Ora ho paura di perdere anche l’altro perché la vista mi si oscura sempre più spesso. Avete aiutato Crochet, tempo fa. Forse potreste aiutare anche me”
Silenzio
“Naturalmente mi direte quale compenso vorrete e vi sarà pagato quanto dovuto”
Iatroux fece un sorriso sghembo e, soppesando lungamente le dita di André che giocavano con il bicchiere, chiese:
“Anche un Luigi d’oro?”
“Quello che vorrete”, si intromise la voce di una donna. Iatroux pensò che in quella cantina nessun uomo aveva mai usato un tono di voce più determinato e minaccioso. Più che un’offerta di pagamento quella frase pareva una dichiarazione di guerra.
“Mettete qui il vostro Luigi d’oro” disse allora Iatroux battendo la nocca dell’indice sul banco.
“Non mi avete ancora guardato” disse André, il tono basso di chi è in attesa, dopo che la moneta era comparsa davanti al bicchiere di Iatroux.
Iatroux bevve con una sorsata rumorosa, come se non avesse attorno nessuno.
“Iatroux, ti ricordi di me?”, Marcel, esasperato, si fece avanti e cercò di intercettare con gli occhi lo sguardo di Iatroux.
Silenzio
“Sono stato io a organizzare questa improvvisata e so che tu detesti le improvvisate e so che da quando non vai più per mare non vuoi più essere un dottore, ma ti prego, fai un’eccezione per il mio amico. Anni fa l’hai fatta per Crochet, fanne un’altra per André. È un caso strano, ti dico”
Il sopracciglio di Iatroux si alzò impercettibilmente e Marcel interpretò quel movimento come un segno di incoraggiamento, prese fiato e proseguì con foga:
“Posso spiegarti? A volte André precipita nel buio, è vero, ma a volte ci vede bene. Non ti pare strano? Non dovrebbe essere sempre più cieco, se il suo occhio stesse morendo? E invece a volte lui muore di paura perché pensa che non ci vedrà più, altre…, per esempio, quando si rade la barba, ti giuro Iatroux, non si taglia mai! e una volta mi ha cucito un bottone strappato in un minuto secco, e poi tutti i giorni, te lo giuro, tutti i santi giorni, scrive un sacco di cose su un suo quaderno…”
“Marcel!”, André lo fermò bruscamente, ma non riuscì a fermare gli occhi di lei, che volarono su di lui stupiti.
“Che c’è? Non è un segreto, lo sanno tutti, che ogni giorno scrivi su quelle pagine minuscole…”
“Non lo sapevano ancora tutti, Marcel…” disse André abbozzando un sorriso verso di lei, come se volesse scusarsi di una debolezza svelata.
Ma lei rimase ancora attonita, come se quella rivelazione di Marcel le avesse in realtà portato alla coscienza dettagli, cose, situazioni che, in effetti…
Il filo dei suoi pensieri, ancora confusi e annebbiati, forse anche per l’aria soffocante di quel posto sottoterra e per l’umidità che pareva il respiro dei muri e per la sporcizia che incollava le suole al pavimento, si interruppe bruscamente quando Iatroux, con un movimento sconnesso della mano, come se avesse mancato la presa con quelle dita che in effetti tremavano incontrollate, rovesciò il suo bicchiere sul banco e il vino rosso iniziò a gocciolare sul pavimento e il profilo di Luigi sulla moneta parve affogare nel vino più che navigare nell’oro, e infine, con un movimento maldestro del gomito di Iatroux, il povero Luigi si ritrovò a testa in giù sul pavimento sudicio tra le gambe degli sgabelli.
André si alzò in silenzio, spese qualche secondo a considerare l’improbabile medico evidentemente affetto da delirium tremens che si dava manate sui pantaloni per pulirsi e alla fine, mosso da pietà per la miseria e per lo squallore di tutto, si chinò, raccolse il Luigi e lo mise nella tasca di Iatroux:
“Così non lo perderai; e cerca di non bertelo tutto, amico”, poi gli diede le spalle, afferrò la mano di Oscar e fece per portarla fuori, che si vedeva che aveva bisogno di aria fresca.
 
“E che cosa senti quando ti capita?” biascicò Iatroux al posto di dire “grazie”.
 
André si fermò. Gli dava le spalle e davanti a sé aveva le spalle di Oscar e pensò che descrivere, spiegare, scendere nei dettagli di quel dolore, di quella paura le avrebbe fatto male, l’avrebbe spaventata. Non voleva spaventarla. Quindi rimase fermo, in silenzio, mentre lei piano si girava e, pallida e, sì, spaventata, lo guardava.
“Io l’ho visto tante volte”, Alain si intromise dopo aver visto lo sguardo tra Oscar e André, “sbianca, a volte trema, si tiene la testa, suda sulla fronte”.
Iatroux alzò gli accenti circonflessi che aveva sopra gli occhi.
“E spesso gli capita di sera, o di notte”, proseguì Alain con voce incolore, pareva quasi trattenere rabbia, quella voce. “La prima volta che me ne sono accorto era una sera, su un ponte a Hallencourt. Gli ho lanciato la mia fiaschetta e lui ha teso la mano convinto di prenderla, invece ha sbagliato di brutto le distanze. E pensare che solo qualche ora prima eravamo contro un parapetto sul camminamento di una torre e abbiamo visto lei”, indicò Oscar, “sul bastione vicino, lottare corpo a corpo con un soldato che voleva ucciderla. Erano vicinissimi lei e quel tipo. E lui”, guardò André che stava riguardando quella scena sfilare nella sua testa, “e lui ha imbracciato il fucile, ha preso la mira, e ha sparato. Hai sparato, André”, lo fissò come se gli stesse rivelando l’ovvio, “hai sparato a un soffio da lei, e hai mirato lui”.
“La vedevo benissimo, non l’avrei mai colpita…” sussurrò André a sé stesso.
“Hai visto bene quel pugnale… a palazzo…” disse lei assorta nel tentativo di ricordare le esatte parole di lui, “e non hai visto solo che era un pugnale, hai capito anche quale pugnale era… non era facile, André…”
“Ma a Saint-Denis ho fatto fatica, Oscar, e ho temuto che tu capissi, perché quel giorno sentivo il buio chiudere ogni cosa che cercavo di guardare e ombre e nebbia e avrei voluto tenermi la testa per fermarla ma non potevo rischiare che tu ti accorgessi…”
“Ti tieni la testa, ragazzo?” si intromise Iatroux che aveva ascoltato tutto tenendo gli occhi sul fondo del bicchiere.
“Sì, si tiene la testa!”, Alain quasi aveva urlato e aveva accompagnato le parole con un deciso pugno sul bancone, “si tiene la testa, forte, tra le mani, e poi capisci quello che ha perché diventa pallido e suda e trema!”
Oscar sentì le ginocchia che cedevano e l’aria che non voleva saperne di entrare nei polmoni. Si aggrappò al braccio di André per non cadere e perché anche lui non cadesse nella solitudine del suo dolore.
Allora lui ruotò leggermente il capo verso di lei che era alle sue spalle e così, nel brillare di uno sguardo, lei tornò indietro nel tempo, solo di qualche ora, e, con una strana fiducia, con una specie di sorriso, con la felicità negli occhi stanchi, tornò a quello stesso mattino, tornò al loro risveglio da innamorati, a quei fiori nel vaso, a lui che corre a comprarle fiori, a lui che laggiù, sulla strada, ruota il capo verso di lei e, senza dire parole, solo con il suo occhio verde, le dice Le peonie non ci sono, che cosa vuoi?, e a lei che da lassù, senza nemmeno pensare che per André possa essere un problema vedere il movimento delle sue labbra lassù, sillaba senza voce mar-ghe-ri-te, e poi ancora a lui che le sorride e in un attimo è da lei con le margherite e allora, un istante prima di sbiancare e perdere i sensi ed essere sorretta subito da quelle braccia che la amano, sussurra:
“André, le nostre margherite… tu stamattina non mi hai sentito, mi hai visto…”
“Oscar!”
In un attimo la prese in braccio e la portò fuori, la fece sdraiare in terra e la chiamò piano, vicino all’orecchio finché lei non rialzò stancamente le palpebre, per guardarlo da vicino, e una mano, per accarezzargli la tempia.
“Va tutto bene, André, mi è solo mancata l’aria là sotto”.
“Andiamo a casa” disse lui.
“No, voglio sapere il parere di questo strano tizio. Non so per quale motivo, ma io credo di fidarmi del suo parere… Senti che cosa ha da dirti, André. Dopo andremo a casa”.
André si voltò verso le scale che scendevano sottoterra e vide luccicare, tra le sbarre arrugginite della ringhiera, lo sguardo acquoso di Iatroux:
“Ti consiglio, ragazzo, di non confondere il prima con il dopo”, disse sibillino.
“Che significa?” chiese Alain alle sue spalle con un ringhio, “che significa?”
“Smettila di parlare come gli oracoli, Iatroux, non sei più nella tua terra”, lo ammonì severo Marcel, “di’ quel che devi dire e non ci vedrai più”.
“Tu dici che non ci vedi più e poi senti scoppiare la testa. Prova a fare più attenzione, la prossima volta. Forse potresti accorgerti che prima ti senti scoppiare la testa e poi non ci vedi più. C’è una bella differenza”, Iatroux diede le spalle a tutti e fece per tornare sottoterra, quando all’improvviso si fermò: “ti sei accorto che hai raccolto la moneta da terra? Era sporca, quella moneta, quasi come il pavimento. Di’ un po’, l’hai vista, vero?”
André lasciò la mano di Oscar e si avvicinò a Iatroux:
“L’ho vista, sì. Che cosa devo fare? Dimmelo, ti prego” la voce grave di André raggiunse le spalle di Iatroux.
“Per prima cosa devi cercare di non farti venire il mal di testa, direi. Se ci riesci e l’occhio non ti si oscura più, c’è speranza per te, ragazzo. Vuoi sapere che cosa farei io se fossi in te? Niente vino, niente puttane, niente emozioni forti, dormire come i morti e mangiare come i frati… dio, che angoscia, lasciamo stare che mi vien male per te. Se tu fossi nobile, ti consiglierei la villeggiatura, ma tra un po’ nemmeno i nobili andranno più in villeggiatura, ah!”, e per un momento parve a tutti che Iatroux avesse riso.
 
Quando André tornò a inginocchiarsi vicino a Oscar, seduta sul selciato con la schiena appoggiata al muro, vide luccicare i suoi occhi e si preoccupò. Le baciò la fronte e la sentì calda e sentì che il cuore batteva forte sotto la camicia.
Allora fu veloce a dare ordini:
“Alain, porta Oscar a casa, sai dov’è. Io vado a chiamare il dottor Lassonne e lo porto lì. Marcel, Crochet, vi ringrazio, vi ringrazio per quello che avete fatto per me”, le parole uscivano in fretta, così come i movimenti per slegare i cavalli, prenderla in braccio, farla sedere davanti ad Alain e baciarle la mano veloce.
E quando Alain montò a cavallo sentì, per la prima volta, il corpo del suo comandante perdere i sensi e cedere, e per la prima volta vide in lei una donna fragile.

 
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*in francese, appunto “crochet”, gancio, uncino (da cui “Capitaine Crochet”, quello di Peter Pan). Gamin, invece è il “ragazzo”, anche nel senso di “ragazzo di strada”, “monello”.
 
Forse l’emicrania con aura visiva attribuita ad André è una forzatura. Ma io l’avevo detto che avrei forzato (almeno salviamo quel benedetto occhio destro)!

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Capitolo 10
*** Le conseguenze dell'amore ***


Le conseguenze dell’amore

 
7 luglio 1789
 
Marcel fissava il soffitto della stanza di Crochet da un bel po’ quando il chiarore del giorno cominciò a farsi intravedere tra le assi malconce delle ante. Stava sdraiato a pancia in su, con le mani sotto la nuca e i gomiti larghi sul cuscino e da ore macinava pensieri al ritmo del russare di Crochet, un suono cadenzato e quasi borbottato che usciva tremolando dal suo labbro inferiore.
Ma a Marcel non dava fastidio e, ancora senza saperlo, senza essere assolutamente in grado di riconoscere quel sentimento che pure c’era dentro di lui, assaporava in quell’alba e in quel borbottio rantolato che finiva in un fischio sottile la sensazione calda di essere un figlio, un figlio che veglia il sonno di suo padre.
Era strano per Marcel non svegliarsi in caserma o nel letto di qualche donna.
Era strano passare la notte ancora una volta in quel quartiere.
Dalla sera prima, quando era rimasto solo con Crochet, aveva fatto di tutto per concentrarsi unicamente su quel vecchio senza un occhio: ne aveva colto le espressioni più nascoste della bocca e ogni minima contrattura del viso e delle mani per interpretarne i bisogni e anticiparli con sollecitudine e aveva fatto tutto con quell’ironia scanzonata che sollevava Crochet dall’imbarazzo per un qualunque favore ricevuto, fosse l’essere messo a dormire svestito o il vedere Marcel uscire a svuotare il pitale.
Ma in quella stanza, ora che la luce arrivava a illuminare Saint-Germain e i suoi vicoli, ora che Marcel stava sdraiato a due passi da un vecchio con cui aveva trascorso tanti momenti della sua infanzia e della sua giovinezza, era davvero difficile non pensare al passato.
Non pensare al passato in quel quartiere.
Non pensare a com’era nata, a com’era cresciuta, a che cosa era diventata la sua storia con Joss. A come era finita.
La rivide, con quella cuffia e gli occhi socchiusi nella luce, per un istante la rivide con una chiarezza che da tanto tempo la sua memoria non gli regalava. E così, lì, in quel letto sfondato, al suono del russare di Crochet, lui lo sentì di nuovo, lo schianto.
 
Lo schianto.
 
Lui lo chiamava così il momento in cui nella vita di tutti i giorni realizzava, a strappi della coscienza più che a onde della memoria, che non l’avrebbe vista più.
Non aveva nulla a che fare con il momento in cui aveva saputo che se n’era andata: lì, no, non era stato uno schianto. Lì si era sentito incredulo, frastornato, istupidito.
Ma i giorni successivi, quelli erano stati i giorni dello schianto.
Si aggirava nella sua vita come al solito: parlava, lavorava, sistemava cose, scriveva note e liste. Ma tutto era ovattato e lontano e lui sentiva solo una morsa che gli strizzava il cuore, sempre. Aveva perduto in fretta l’aspetto fiorente del ragazzo in piena salute perché, quando si sedeva a mangiare, dopo un paio di bocconi lo stomaco pareva ingarbugliarsi e rifiutava il cibo e lì, proprio in quel momento, quando succedeva e lui se ne accorgeva, Marcel sentiva lo schianto.
Cercava di distrarsi ma allo stesso tempo odiava tutto quello che richiedeva la sua piena concentrazione, perché gli sottraeva il tempo per ripetersi nella mente le frasi che si erano detti, cercando le esatte parole, rigirandole nella memoria per recuperare anche l’inflessione, il tono.
E quando non ci riusciva, eccolo lì, lo schianto.
Dopo due settimane dalla partenza di lei, ancora il pensiero di Joss non accennava a diminuire, e occupava il cuore e i pensieri come il primo giorno. Provò una sorta di sollievo, - ma quanto l’aveva pagato, poi, quel sollievo! -, solo una volta, quando ci fu l’inventario di uno dei magazzini e fu costretto a stare tutto il giorno gomito a gomito con il responsabile dell’accatastamento delle merci, un tizio pignolo, esigente. Contare, spuntare voci, cambiare i registri a seconda degli articoli da impilare e stipare negli scaffali, richiamare alla memoria carichi spediti, carichi pronti da spedire, ritardi nelle consegne, pagamenti arretrati; suddividere le merci per costo, per volume della confezione, per delicatezza del pellame: insomma il corpo aveva riposato, ma la testa non aveva avuto tregua e si era dedicata solo al lavoro. Ma poi, quando la giornata, la “giornata-senza-Joss”, era finita e lui si era ritrovato sul selciato di fronte al magazzino che ormai aveva la porta chiusa, ecco, in quel momento lo schianto era stato più forte che mai.
E così quella sera, siccome sentiva che il desiderio di lei si era trasformato in un languore che non riusciva a sostenere, che avrebbe dato qualunque cosa per poter allungare una mano e trovare il volto di lei, che il bisogno che il suo corpo stringesse un qualunque corpo di donna era superiore a qualunque altro pensiero cosciente, che morire tra le cosce di qualcuna l’avrebbe forse fatto stare meglio, allora Marcel andò in una maison che conosceva, prese per mano la prima ragazza che gli si parò davanti e la portò sul primo letto che trovò. La amò a lungo e con disperazione, non con rabbia, la amò come se il suo corpo, contro il corpo di quella sconosciuta, potesse cantare un richiamo capace di solcare l’oceano e raggiungere in qualche modo lei e lei potesse in qualche assurdo modo entrare nel corpo di quella ragazza che teneva tra le braccia, quella ragazza che, per inciso, in quel ragazzo aveva trovato l’amante dei sogni perché mai era stata amata così nella sua vita certamente piena di esperienza. Non pianse, Marcel, mentre la stringeva. Pianse dopo, per strada, quando fu solo.
Poi si era arruolato, dando un calcio al patrimonio che lo aspettava, giurando in faccia a suo padre che mai l’avrebbe perdonato, sbattendo tutte le porte e mandando al diavolo la sorte maledetta.
 
“Stai bene, Gamin?”, la faccia di Crochet a un palmo dal suo naso lo fece sobbalzare.
“Sì… sì, certo…”
“Dobbiamo uscire, prendi le tue cose e andiamo”.
Crochet si infilò i pantaloni e le scarpe e aprì l’uscio di quella stanza che era anche la sua casa. Marcel lo seguì nella fioca luce dell’alba.
 
***
 
Il colonnello D’Agoult stirò le gambe sotto il tavolo della scrivania e sentì la porta del suo ufficio che si chiudeva alle spalle di André Grandier.
Era ancora molto presto, la caserma era avvolta nel sonno dell’alba.
 
Il colonnello amava svegliarsi quando era ancora buio, dedicarsi da solo, senza alcun servitore che lo importunasse, alla sua toeletta, sentire, amplificato nel silenzio, lo sciacquio della lama da barba nel catino, indossare con solenne semplicità l’uniforme e poi, dopo aver ben agganciato la spada, avviarsi con il primo chiarore del giorno verso la caserma dei soldati della Guardia.
Ripensò a quante volte negli ultimi mesi aveva condiviso quel momento di pace e di quiete che precedeva il brusio del risveglio e il fracasso delle attività della mattina con quell’uomo con un occhio solo, quel soldato solerte e riservato. Se lo ritrovava lì, nel piazzale, oppure seduto sulle scale che portavano alle torrette, sempre con un libro in mano, a volte un quaderno. Si guardavano un istante in una sorta di riconoscimento reciproco, in quell’ora del giorno così nascosta che li esonerava dai soluti consoni ai loro ruoli, e poi ognuno tornava ai suoi pensieri. L’aveva sempre sentito simile a sé, quel soldato, e non solo per la solerzia e la riservatezza. E nemmeno per quella loro comune eleganza nei modi e nei movimenti che, nel caso di quel soldato, spiccava ancora di più in tutta quella masnada di uomini cresciuti chissà dove e chissà come.
No, era un’altra cosa quella che li rendeva simili. Il colonnello, in effetti e andando al nocciolo della questione, sentiva che lui e André Grandier si assomigliavano perché erano entrambi due uomini con un punto debole nascosto, nascosto proprio al centro del loro cuore.
E lui l’aveva capito subito chi era il punto debole di quel soldato taciturno.
Il colonnello sentì quello che stava per fare e si trattenne. Si arricciò un baffo e batté ritmicamente la punta dello stivale a terra.  
 
Che poi, quando pochi minuti prima l’aveva visto davanti alla porta del suo ufficio, in attesa, non si era nemmeno stupito. Lo stava aspettando, in verità.
Sentì di nuovo quell’impulso e lo sopì. Si trattenne e arricciò l’altro baffo.
 
Gli era piaciuta la fermezza che il soldato Grandier gli aveva appena dimostrato, la sua compostezza nel rivelare quello che da mesi cercava di nascondere.
Ah, ma a lui, al colonnello, non era certo sfuggito! Come non gli sfuggiva, - e qui i pensieri del colonnello deviarono verso altro -, quel soprannome, testa di legno, che gli veniva affibbiato con scherno di solito da soldati che da un bravo maestro di scuola avrebbero meritato solo bacchettate sulle dita, né gli sfuggiva l’inquietudine di quel Laroche e nemmeno gli era sfuggito che, dopo la vicenda della sorella morta, al soldato de Soissons erano cambiati gli occhi. Non sfuggiva niente, a lui. E non gli era sfuggito nemmeno…
Lo sguardo si incupì e il colonnello si mise a riordinare pile ordinatissime di carte sulla sua ordinatissima scrivania mentre lo sguardo vagava sui fogli più in alto, quelli con le ultime disposizioni del Comandante Oscar François de Jarjayes e in calce ai quali si stendeva frettolosa ma elegante la sua firma.
L’aveva visto subito, lui, che lei non stava bene. E lui sapeva che cosa vuol dire vedere la bellezza di una donna che si appanna e che poi, giorno dopo giorno, sfiorisce. L’aveva vista bene e da vicino. Sul viso di sua moglie, l’aveva vista. Non era passato nemmeno un anno dal giorno in cui il colonnello d’Agoult aveva messo sulla fronte di sua moglie morta il velo da sposa, ma il volto che quel velo aveva coperto non aveva più nulla del volto ridente che era al suo fianco all’altare.
Immaginare quella scarnificazione, quelle orbite in lei, nel comandante, era diventato un pensiero intollerabile. E quindi aveva accolto con sollievo, qualche giorno prima, la decisione di lei di congedarsi per motivi di salute. Avrebbe voluto stringerle la mano quando gliel’aveva comunicato, ma naturalmente sarebbe stato un gesto inappropriato, troppo familiare senz’altro, e così aveva solo assentito con il capo. E poi, una volta rimasto solo, si era trovato a chiedersi che cosa avesse fatto prendere quella decisione a una donna così combattiva e così dedita al dovere e così capace di subordinare qualunque sua esigenza, fosse anche il salvarsi da una malattia mortale, agli ordini di servizio.
E allora, - forse un’epifania, forse troppa immedesimazione, chissà -, il colonnello aveva pensato che solo l’amore fa prendere queste decisioni all’improvviso e che, se di amore davvero si trattava, se davvero il comandante stava rinunciando alla carriera per amore, quell’uomo accecato da un occhio e accecato dall’amore ne era il responsabile.
Il colonnello stese il palmo della mano sui fogli e sentì, ancora, quell’impulso. Lo sopì, con una certa fatica, sforzando un colpetto di tosse.
 
In ragione di tutto ciò, quando pochi minuti prima si era visto davanti il soldato Grandier di nulla si era stupito. Nemmeno si era stupito della lucidità e della fierezza con cui quell’uomo parlava dell’inesorabile perdita della sua vista, delle difficoltà a prendere la mira, a sparare, del pericolo che ormai lui costituiva lì dentro, per sé stesso e per i suoi compagni, della necessità di allontanarsi dalla vita militare per cercare un altro modo di vivere. Era tutto vero quello che diceva quell’uomo, ma c’era altro e il colonnello sapeva riempire il non detto. E non si stupiva che quel soldato, quel soldato innamorato, comparso dal nulla l’anno precedente pochi giorni prima che comparisse lei, ora sparisse nel nulla poco dopo che era sparita lei.
Il disco del sole uscì prepotente dal tetto dell’ala di fronte della caserma e inondò di luce lo spoglio ufficio del severo colonnello d’Agoult.
E fu allora che il colonnello, mentre cercava nella memoria una bella citazione filosofica o poetica che testimoniasse con degne parole la potenza dell’amore, infine decise di rinunciare a tutto quel lavorio della mente e si lasciò andare, lasciò che quell’istinto, quell’impulso troppo a lungo e insensatamente contenuto avesse il sopravvento sulla sua consueta impassibilità e, alla fine, il colonnello si lasciò andare a un sorriso.
 
***
 
“Ecco, fermiamoci qui” disse Crochet appoggiandosi in una rientranza del muro laterale della piccola chiesa.
“Perché siamo venuti qui, non voglio stare qui”, Marcel non aveva più intonazione nella voce e, da quel muro scrostato, guardava il piccolo camposanto che poco più in là circondava l’abside, guardava la statua di un angelo sulla quale si arrampicava un po’ di edera, e su quella lapide leggeva con gli occhi della memoria il nome di sua madre.
“Aspetta, aspetta ancora un attimo” disse Crochet ignorando del tutto l’insofferenza di Marcel.
Fu allora che dal cancello del camposanto videro entrare un uomo che a capo chino, senza degnare di uno sguardo nulla che non fosse la sua meta, si avviò verso quella tomba e ai loro occhi si rivelò così la figura traballante e curva di Roger Laroche, che all’alba, come faceva ad ogni alba, portava il saluto del mattino alla moglie morta.
“Che ci fa, lui, qui?”
“Viene qui tutti i giorni”
Marcel sentì qualcosa di ignoto rimescolare dentro di lui un affetto antico, ma costrinse la sua voce alla durezza:
“E perché?”
“Le parla. Cinque minuti, a volte dieci. A volte piange”
Marcel cercò di sovrapporre quell’uomo curvo di fronte all’angelo avvolto di edera al padrone pieno di soldi e di certezze della Villier frères, all’uomo che gli aveva dato la vita e che, con la freddezza di un tagliagole nella notte, gliela aveva pure tolta e ci riuscì:
“Non ha senso parlare con i morti. Sono morti”, disse ostentando sicurezza.
“Ci sono cose senza senso che a volte sono le uniche che hanno davvero senso”, sentenziò Crochet allontanandosi e soffiando una specie di risata con le narici.
E Marcel rimase da solo contro il muro, a fissare il tricorno che suo padre reggeva in una mano e che spazzolava il terreno, impolverandosi di terra, lì, indifeso tra l’erba e l’edera.
 
***
 
Sentì di aver voglia di aprire gli occhi, lo sentì distintamente un attimo prima di farlo. Così li aprì; e con stupore e con una gioia che era una forma di egoismo che non le si addiceva ma che lei si concesse senza esitare, vide addormentato sulla sedia vicina al letto André. Il sole era già alto nel cielo di Parigi.
“Che ci fai qui?” chiese piano.
“Come stai?” disse lui svegliandosi da un sonno leggero e protendendosi in avanti, la mano a raggiungere la fronte di lei, a scostare i capelli, a sentire la temperatura.
“Credo di sentirmi bene. André, dovresti essere in caserma…”
“Non preoccuparti della caserma, ho ottenuto il congedo”, le sorrise gentile.
Lo guardò con gli occhi sbarrati dallo stupore e le labbra cominciarono a muoversi per articolare una domanda, ma lui la fermò:
“Il colonnello d’Agoult dice che la mia vista non mi consente di proseguire la vita militare”, non c’era traccia di tristezza o di rimpianto in quella frase. Forse una certa soddisfazione trattenuta.
Allora lei comprese e costrinse le sue labbra a non sorridere.
“Lo dice il colonnello d’Agoult, eh?” sussurrò una domanda retorica con quel senso dell’ironia che lui aveva sempre amato in lei.
“Sì, lo dice il colonnello”, ribatté lui con quella sicumera sorniona che lei aveva sempre trovato irresistibile. E allora le venne da ridere.
 
Lucille arrivò a sincerarsi delle condizioni di Oscar e con discrezione fece uscire André: le diede una mano a rinfrescarsi, a cambiarsi la camicia, sostituì la federa del cuscino sul quale lei aveva sudato tutta notte e poi se ne andò raccomandandole di riposare.
André rientrò e le baciò la fronte. Rimasero un po’ in silenzio, mentre l’aria del mattino e le voci della strada li raggiungevano, mescolate ai rumori di carri e cavalli che battevano le pietre della piazza. Pareva di essere in mezzo al mondo e allo stesso tempo su un’isola remota gettata in mezzo all’oceano.
“Non sapevo che scrivessi, André”
Lui si era sdraiato vicino a lei ma sopra il lenzuolo e teneva gli occhi chiusi, cercando di farli riposare, memore delle parole di Iatroux.
“Ti meraviglieresti di quanto ho scritto”, disse muovendo solo le labbra. Non c’era intonazione alcuna in quella voce che pareva arrivare da lontano.
“Tieni una specie di diario?” provò a indagare lei con circospezione.
“Non saprei nemmeno io che cos’è…”, lui si fece pensieroso, “… che cos’è diventato in tutto questo tempo”.
Lei aspetta in silenzio.
“Ma il quaderno che hanno visto Alain e Marcel è solo una parte molto piccola e, sì, è un tentativo di tenere memoria degli eventi politici che stiamo vivendo, dalla convocazione degli Stati Generali a oggi… anzi, all’altro ieri”, sorride ma poi torna subito serio, “viviamo in un tempo molto complicato, Oscar. A volte fatico a capire e allora mi pare che scrivere mi aiuti a fare chiarezza”.
“Sei un osservatore così acuto, André. Lo sei sempre stato” ha chiuso gli occhi anche lei, intanto.
“Ma non credo che mi si addica lo stile giornalistico, nemmeno la storiografia”, lui muove la mano nell’aria come se fingesse modestia.
“Negli altri quaderni parli di me, vero?” è facile fargli quella domanda ora che hanno entrambi gli occhi chiusi, ora che sono sdraiati sullo stesso letto.
“Certo che parlo di te. Potevo solo scrivere. Non avevo altro. Non ho avuto altro per anni”, si lascia andare ma senza autocommiserazione, senza risentimento. È un dato di fatto e lei è in grado di sopportare i dati di fatto, lui lo sa.
Mein Lieber Werther…” dice lei in un sospiro prolungato.
“Già…, non credo di avere quella vena malinconica e addolorata, però. O almeno non sempre”, sorride e alza una mano per spostarsi i capelli dalla fronte, “ci sono tante pagine che sono racconti di fantasia, sogni, a volte immagini brevissime di noi… Cose che ho sognato o forse solo immaginato. Cose che scrivi quando hai il cuore ingarbugliato…”
“Ho sempre preso la spada in mano quando avevo il cuore ingarbugliato” dice lei ripensando ai duelli più rabbiosi che ha preteso da lui negli anni.
“Lo so”
“C’eri sempre tu, in quei duelli”
“Ci sei sempre tu, in quelle pagine”
 
***
 
Nel pomeriggio il dottor Lassonne si fece annunciare da Lucille e poi entrò nel salotto dove salutò Oscar, che lo aspettava seduta con le gambe allungate sul divano tenendo tra le mani un libro aperto.
Gli bastò uno sguardo al volto fresco e riposato per curvare leggermente le labbra in un sorriso soddisfatto che però si smorzò subito quando vide l’espressione insofferente di lei: l’espressione tipica del generale Jarjayes quando un qualunque inconveniente deviava il corso degli eventi da lui programmato e deciso.
Così si avvicinò con cautela e si limitò a constatare:
“Mi sembra che vi siate ripresa”
“Sto molto meglio, dottore. Non ho più avuto la febbre. Si è trattato solo di un malessere momentaneo”, il tono di chi vuol essere docile, lo sguardo di un animale rinchiuso.
“Sapete che non potete sottovalutare nemmeno il più piccolo cedimento del vostro corpo, siete ancora debole. Dite, avete per caso…”
Gli tagliò la domanda sui denti: “No! Non ho tossito, non ho mai tossito!”, poi si accorse dell’eccesso di aggressività e si scusò “Perdonatemi, non intendevo alzare la voce. Ma vedete, dottore, ci sono cose molto importanti che io voglio… che io devo fare. Non ho davvero tempo per la convalescenza”.
Il dottor Lassonne abbassò lo sguardo sulla sua borsa e iniziò a tirare fuori gli strumenti per visitarla:
“Non siete ancora in convalescenza, a dire il vero. Mi pare presto per parlare di convalescenza”.
“E quando potrò parlare di convalescenza, allora, secondo voi?”, le mani strinsero i due bordi della copertina del libro, ancora aperto ma ora appoggiato sul grembo.
“Direi non prima di settembre”.
Si sentì il rumore secco del libro che si chiudeva e poi del libro che raggiungeva violentemente il tavolino vicino al divano.
Il dottor Lassonne fece finta di niente, lei controllò la stizza e si fece visitare.
 
“Le vostre condizioni generali sono in miglioramento rispetto a ieri, madamigella Oscar. Certo, siete ancora debole. Continuate a prendere le medicine, mangiate con regolarità e limitate gli sforzi fisici e le emozioni violente. La scelta di vivere qui e di lasciare l’uniforme vi gioveranno, ne sono sicuro”, decise di non addentrarsi in scelte e decisioni che non lo riguardavano ma che nemmeno lo stupivano e si sciacquò le mani in un catino che Lucille aveva appoggiato sul cassettone.
“Grazie, dottore”
“E il vostro André come sta? Non è qui? Ieri sera era davvero molto spaventato quando è venuto a chiamarmi”.
Lei si addolcì nel sentire quel vostro, detto da Lassonne con consapevolezza nuova, ne era certa, e stava già per rispondere quando sentì bussare alla porta e poi vide entrare con la solita discrezione Lucille:
Mademoiselle, c’è una consegna per voi. Una cassa… posso?”
La cassa, portata da un ragazzo che si dileguò non appena Lucille gli allungò due monete nella mano, fu messa sul piccolo tappeto davanti al camino spento, sotto gli sguardi interrogativi e stupiti di tutti e tre, finché fu aperta e mostrò il suo contenuto: due ceste di vimini ricolme di frutta e verdura di ogni tipo, di un’abbondanza e di una varietà strabiliante, non una foglia era gualcita, le bucce parevano lucidate a mano, il tutto disposto con una grazia e un gusto quasi fiammingo. Restarono tutti e tre a bocca aperta:
“Chi mi manda queste cose?”, bisbigliò lei con incredulità.
“Le trovo ottime per la vostra dieta, madamigella”, commentò Lassonne con professionalità.
“In che mercato si comprano queste cose, di questi tempi?” chiese pratica Lucille.
Quando Oscar aprì il biglietto incastrato nel rovescio del coperchio della cassa fu sorpresa di leggere:
 
Vi auguro di rimettervi presto in forze e Vi ringrazio e mai Vi ringrazierò a sufficienza per quello che avete fatto per il mio Marcel,
Roger Laroche
 
***
 
Mentre le ore del pomeriggio trascorrevano e lei, ormai sola, vedeva la luce ammorbidirsi contro le tende del salotto e sentiva l’ennesimo rintocco delle campane che scandivano un’altra ora, un’altra ora senza André, si accorse per la prima volta di quanto la lontananza di lui la rendesse impaziente. Stese le gambe sul divano e rovesciò la testa all’indietro sul cuscino che aveva sistemato sul bracciolo per riposare e si mise a fissare il soffitto: era incredibile come il suo piano di incontrare Bernard quel pomeriggio avesse rischiato di saltare a causa del suo malore ed era incredibile il fatto che André avesse ottenuto il congedo proprio quella mattina e in così poco tempo e che così avesse potuto sostituirla e andare lui da Bernard; pareva che le cose si stessero sistemando da sole. Sorrise a labbra strette. Si costrinse a pensare a Bernard e al popolo francese e alla libertà e ai soprusi dei nobili e alla forza d’animo dei rappresentanti del terzo stato e… si accorse che stava solo cercando di non pensare alle mani di André.
Ritornò alla sera prima, quando Alain l’aveva riportata a casa, e lei, in un momento di lucidità, tenendo gli occhi chiusi contro la sua spalla, gli aveva chiesto: “Come facevi a sapere che dovevi portarmi qui?” e lui non aveva risposto, ma dopo, dopo averla portata in braccio in casa e averla fatta sdraiare nel letto con una pezza bagnata sulla fronte, pensando che lei fosse già addormentata o incosciente, aveva chiacchierato, forse troppo, e aveva detto a bassa voce: “Mia cara Oscar, ora sei il ritratto della donna innamorata, ma c’è stato un tempo non molto remoto in cui hai spezzato il cuore del mio amico, ti ricordi? Pare che tu fossi… dove? Aspetta… una sera lui ha biascicato una cosa… un nome… Normandia, forse? Sì mi pare Normandia, ne sai niente, caro il mio biondo comandante? Allora ti svelo questo segreto, intanto che tu sembri dormire: quando ho conosciuto il tuo innamorato aveva già comprato questa casa e si ubriacava tutte le sere. Tutte le sere, sai? Chissà perché, chissà per chi, dico io! E così mi è capitato di portarlo qui, qualche volta, perché da solo non ci sarebbe mai arrivato, o forse avrebbe trovato nella Senna la scorciatoia a ogni tristezza”.
 
Sentì una lacrima uscire dalle ciglia e la lasciò scorrere giù seguendo la tempia e perdendosi nei capelli.
E poi lo chiamò, senza voce, dentro di sé, si concentrò e lo chiamò, ripetendo il suo nome nella testa finché quel nome perse il suo significato e diventò una sequenza di lettere priva di senso per la mente e riconoscibile solo dal suo cuore.
 
***
 
André rincasò che già faceva buio e quando entrò la trovò trepidante:
“Allora? Che notizie?”
“Bernard è entusiasta della tua decisione. Dice che vuole farci conoscere delle persone e che lui spera ancora in una soluzione diplomatica della questione, spera che il re ceda, che Necker riesca nei suoi intenti, ma in ogni caso sta preparando un arsenale, o qualcosa del genere, e vorrebbe che tu lo guardassi e che potessi istruire alle armi qualcuno perché la città si sta riempiendo di soldati, Oscar, e secondo lui è necessario prepararsi a qualsiasi evenienza, più tardi lo dobbiamo dire anche agli altri, non pensi?, quando li incontreremo qui sotto più tardi dovremo dirglielo”, lo disse tutto d’un fiato, con una preoccupazione che non temeva di mostrarle, proprio come quando da ragazzi non si nascondevano i rischi e i pericoli ai quali le loro vite erano esposte.
E lei fu grata di ogni parola, sentì di amare André perché non la stava proteggendo come si protegge una donna indifesa, ma la stava coinvolgendo come la donna forte che era sempre stata e che ora più che mai sentiva di essere.
Lo baciò con impeto, sentendo che quell’uomo che aveva di fronte era suo e che lei era sua e che non aveva altro modo per farglielo capire se non raggiungendo la sua bocca.
“Non ti ho nemmeno chiesto come stai… ma direi meglio!” rise lui sulle sue labbra.
Lei rise e cercò di far uscire quelle parole, mi sei mancato, che però le parevano ancora così estranee al suo modo di parlare, soprattutto se si trattava di dirle ad alta voce, e rimase a guardarlo come sospesa finché lui la aiutò:
“Oggi pomeriggio, a un certo punto, mi è sembrato addirittura che tu mi stessi chiamando, lo sai? Credo che tu mi sia mancata moltissimo”.
“Anche tu, André”, questo sì, questo riuscì a dirlo.
 
***
 
Alain e Marcel, impegnati nel giro notturno, una volta arrivati nella piazza, alzarono lo sguardo verso l’austera facciata di Saint Eustache e fecero cenno a Gérard Lasalle e a Pierre Foucher di fermarsi lì. Loro due, invece, lasciarono i cavalli e poi si avviarono a piedi verso il portone massiccio del caseggiato sul lato della piazza e sotto l’arco di pietra che lo incorniciava videro due figure, avvolte in mantelli, che li aspettavano.
Marcel seguì Alain con inquietudine, non aveva idea di chi fossero quei due, e istintivamente toccò il coltello che portava infilato nella cintura. Quando però la vicinanza rivelò i volti noti di Oscar e di André, Marcel comprese molte cose.
“Pare che per tutto il mese ci abbiano assegnato il pattugliamento notturno di questa zona, a noi quattro…” scandì con ironica intenzione Alain.
“Davvero? Che fortunata coincidenza” disse lei con aria fintamente distratta.
Marcel accompagnò con lo sguardo un vecchio un po’ curvo che stava attraversando la strada a passo svelto e, senza alcuna coscienza di quello che stava pensando, paragonò la corporatura di quell’uomo di spalle a quella di suo padre, di spalle al cimitero. Non era la prima volta, quel giorno, che gli capitava di sovrapporre figure di perfetti sconosciuti incontrati qua e là con quella di Roger Laroche. E poche ore prima aveva stupito tutti quando, con una solerzia inconsueta, aveva aiutato un vecchio, appena fuori dalla caserma, al quale il vento aveva fatto cadere il tricorno nella polvere.
“… hai capito, Marcel? Ehi, Laroche! Stai ascoltando?” gli occhi di Alain piantati sulla sua faccia, come quelli di Crochet quella mattina al suo risveglio.
“Cosa? No, scusate, stavo osservando…”
“Useremo questo posto per incontrarci ogni sera: fateci sapere che cosa succede in caserma, se ci sono ordini nuovi, se il generale Bouillé vi affida qualche incarico. Noi, intanto, vi terremo aggiornati sulla situazione in città. A breve parleremo con Bernard Châtelet e potremo avere informazioni più sicure anche sulle intenzioni di Robespierre”, proseguì André a bassa voce.
“Alain, Marcel, ho piena fiducia in voi. E so che se vi sarà ordinato di sparare sul popolo non lo farete. Come non lo faremo io e André”, nella voce di lei vibrò una grave solennità, “Ma finché la situazione è ancora incerta dobbiamo essere cauti”.
“Siamo d’accordo, comandante. Vi spiace se continuo a chiamarvi comandante? In ogni caso”, Alain strizzò l’occhio con malizia, “idea astuta quella di dare disposizioni sui pattugliamenti del mese prima di congedarsi!”
“Vedi, Alain, io l’ho sempre detto che Oscar è più scaltra di Temistocle…” disse André guardandola sorridere involontariamente verso di lui a quelle parole.
“E chi sarebbe mai questo Temistocle? Mai sentito. Tu lo sai, Laroche?”
“No, io non so niente. Scusate, torno dagli altri. Ci rivediamo domani. Comandante. André.”
Marcel si strappò via da loro inghiottendo le lacrime dello schianto. Lo schianto di vedere il sorriso di una donna innamorata che sorride a un uomo innamorato. Lo schianto di sapere che un tempo quello l’aveva anche lui. Lo schianto di sapere che non lo avrebbe avuto più.
 
“Che cos’ha?” chiese Oscar alzando un sopracciglio.
“Mah, è tutto il giorno che è strano. È uno di quei giorni in cui ha la testa altrove, non parla neanche. Bisogna lasciarlo stare, domani sarà come nuovo”, Alain alzò le spalle con noncuranza.
“Va bene, allora io rientro in casa. Ci vediamo domani Alain”, con un cenno ad André lei voltò le spalle e sparì nel buio dell’androne.
 
André e Alain rimasero in silenzio a guardare la piazza, per la prima volta da soli.
Alain si mise in bocca uno stecchino.
Hai trovato il tuo posto, ora, amico. Sono felice per te. Mi mancheranno le nostre chiacchierate silenziose
André gli diede una pacca sulla spalla e poi ripeté quel gesto un’altra volta.
L’inizio di un amore non è la fine di un’amicizia. Continueremo a fare le nostre chiacchierate silenziose
 
Guardarono Marcel che montava a cavallo a testa bassa, senza nemmeno guardare gli altri due soldati, e che poi, dando le spalle a tutti, si metteva a fissare su su, in alto nel cielo nero, il rosone della facciata.
“Marcel assomiglia a un ragazzino esuberante e pieno di vita nel quale ogni tanto striscia la disperazione, non trovi?”, la domanda di André aleggiò nel silenzio della notte per qualche istante.
“A me pare un disperato nel quale ogni tanto esplode l’esuberanza del ragazzo, l’esuberanza della natura, hai presente?, quella che vien fuori anche se non vuoi. Ma è un disperato”, concluse infine Alain.

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Capitolo 11
*** Il soffio della paura ***


Il soffio della paura

 
9 luglio 1789
 
André fu svegliato dal rumore battente della pioggia. Era così buio che non riusciva a capire che ore fossero e da fuori non arrivavano i rumori del mattino perché chi mai si sarebbe avventurato nelle strade allagate sotto quelle sferzate di vento che si sentiva ululare in fondo alla strada, morire e poi mulinare ancora nell’aria vicino alla portafinestra della camera da letto?
Chi mai si sarebbe avventurato nelle strade allagate con quel tempo, si chiese distendendo con lentezza il corpo sul materasso.
Chi mai l’avrebbe fatto, si chiese coprendosi gli occhi con l’avambraccio rovesciato, il palmo della mano schiuso verso l’alto.
Chi, si chiese mentre sentiva che la sua pelle un poco si accapponava.
Si voltò sul fianco verso la testa bionda di lei, lei che dormiva sulla pancia, con la testa girata dall’altro lato.
La rivide, mille volte sotto la pioggia, nella pioggia, in qualunque stagione, di giorno, di notte, la rivide indifferente al freddo, all’umidità che di sicuro dagli stivali risaliva in lei fino alla punta delle dita, alla punta del naso. La rivide mentre cavalcava verso Saint-Denis, quanto, dieci giorni prima?, rigagnoli d’acqua che dai capelli scendono sotto l’uniforme, le gambe strette al pelo bagnato del cavallo, il brivido che le aveva scosso improvvisamente le spalle e che non era riuscita a nascondere.
Le guardò, quelle spalle, le scapole che sbucavano appena dal lenzuolo, mentre lui sentiva la pioggia che cadeva obliqua e picchiava sui vetri delle finestre, e d’un tratto la fragilità di quella vita sdraiata lì vicino a lui lo atterrì.
Non riuscì nemmeno a mettere in ordine e in fila tutte le occasioni in cui negli anni aveva rischiato di perderla, gli arrivarono tutte addosso come una valanga si stacca da una montagna in primavera, e a tutti quei rischi corsi e superati aggiunse ora la malattia, quella infida che si annida nel corpo per mesi, magari anni e poi si fa vedere quando ormai è troppo tardi e poi ancora, in un vortice che non controllava più, si chiese se l’aggressione che avevano subito mesi prima a Saint-Antoine e dal quale erano usciti vivi per un soffio non fosse che una prova generale di altre aggressioni di altri pericoli che in quel luglio bussavano sempre più forte alle porte di Parigi e mentre il respiro si spezzava al solo pensiero di lei priva di… - no! non riusciva nemmeno a dirlo -, gli parve di scorgere in un singolo capello, che, separato dalla chioma di lei, si arrotolava sul cuscino, il filo sottilissimo che in tutti quegli anni l’aveva tenuta viva, viva vicino a lui.
Si stupì con orrore di quanto fosse esposto al pericolo di essere spezzato quel capello così fragile.
E poi, mentre in lontananza sentiva un fragore ancora attutito di tuoni, si accorse che lei un po’ si muoveva e che si stava svegliando. Allora chiuse gli occhi di scatto e fece finta di dormire profondamente, perché era talmente sgomento che non sarebbe stato in grado di nasconderglielo e lei avrebbe visto la sua incomprensibile paura. E l’avrebbe compresa.
Così, in quel sonno apparente, denso di quella paura che solo i pericoli scampati e i pericoli immaginati sono in grado di suscitare, André sentì il materasso che si alleggeriva del peso di lei, sentì il frusciare di una camicia che di sicuro lei aveva raccolto da terra, sentì i piedi nudi sulle assi del pavimento, passi che si avvicinavano a lui e poi il calore delle sue gambe davanti al suo volto fintamente addormentato e un silenzio breve che finì in una carezza, leggera, sui suoi capelli.
 
***
 
Quando leggeva, Roger Laroche stava seduto in punta di sedia, tutto sporto in avanti sulla scrivania della sua bottega, con una mano aperta sulla fronte, il pollice su una tempia e tutte le altre dita sull’altra, gli occhi strizzati dietro i piccoli occhiali in bilico sulla punta del naso, l’altra mano appoggiata al fianco, i polpastrelli che un po’ sparivano al di sotto della cintura dei pantaloni, e col gomito in fuori. A guardarlo non si capiva se fosse concentratissimo sulla lettura o se fosse sul punto di alzarsi e andarsene a fare altro.
Crochet non ci faceva nemmeno caso, l’aveva sempre visto leggere a quel modo e a volte lo prendeva in giro:
Monsieur Laroche, un giorno o l’altro vi scapperà la sedia e finirete, con licenza parlando, con il culo per terra!”, l’altro si fingeva indispettito per l’ardire di Crochet che invece si allontanava soffiando la sua solita risatina col naso.
Ma quel giorno Crochet non aveva fatto battute e invece si era avvicinato al tavolo e, abbassando la voce, con una certa serietà aveva chiesto:
“Che si dice su quel giornale, Roger?”
“Niente di buono, Crochet”, aveva sospirato l’altro, “nelle righe di questi imbrattacarte, di questi incoscienti, te lo dico io che cosa si legge! Parlano di tentativi di accordi, di soluzioni diplomatiche come se fossero fiabe per bambini, fantasie per poveri illusi!”, batté un pugno sul tavolo, “Ma a chi gioverà, a chi gioverà, secondo te, questo soffiare sul fuoco, eh? Guarda qui, leggi!”
“Eh, a riuscirci! Lo sapete che ho l’occhio offuscato dei vecchi, no?”
“Sì, sì, certo, era per dire!”, disse Roger dimenticando di scusarsi per la scortesia come si fa con chi si conosce da troppo tempo, “in ogni caso si mette male, si mette male, Crochet. Bande di disperati si aggirano senza controllo per la città. E poi… eserciti! soldati, soldati dappertutto…”, Roger Laroche alzò uno sguardo smarrito su Crochet.
“Siete preoccupato per gli affari, immagino. Vi capisco, ma, Roger, la ditta potrebbe anche fermarsi per un anno intero e voi comunque…”, non finì la frase perché sentì la mano nodosa del vecchio arpionare il suo avambraccio, come se quell’uomo stesse cercando un appoggio per non cadere:
“Tu non capisci, Crochet: soldati, soldati! Finiremo a combattere in queste strade, finiremo a fare la guerra a Parigi, lo capisci? I soldati, Crochet, il mio ragazzo… il mio soldato…”, e Roger Laroche si accasciò sulla sedia mentre le dita della sua mano, sulla fronte, tremavano di paura.
 
Lo trovarono così, ancora tremante e smarrito, Oscar e André quando qualche minuto dopo entrarono nella bottega lungo la Senna.
Nel vederli Roger si riebbe: scattò in piedi per la sorpresa e si precipitò ad accogliere i nuovi arrivati con i gesti più squisiti della cortesia che i suoi nobili clienti gli avevano negli anni insegnato.
Ma Oscar lo fermò con un misto di imbarazzo e di ilarità, “Monsieur Laroche, vi prego…”, e lui, mentre ponderava se fosse il caso o no di fare il gesto di appoggiare un ginocchio a terra di fronte a quella donna comandante, si risolse infine ad abbozzare un semplice inchino vista l’informalità della visita e il tono tutt’altro che militaresco di lei.
Monsieur Laroche, sono io che sono venuta a ringraziare voi. Il dono che mi avete fatto recapitare non era assolutamente necessario, ma voglio che sappiate che l’ho gradito molto”.
“Ma siete venuti apposta?”, Roger Laroche rimirava stupito e commosso quelle due persone che tanto tempo trascorrevano con il suo Marcel e, senza accorgersene, insieme alla simpatia e alla riconoscenza che in modo istintivo nutriva per loro, riversò su Oscar e André tutto l’affetto che avrebbe voluto dimostrare a suo figlio.
“Venite, venite, accomodatevi. Posso farvi strada nel mio piccolo regno?”, chiese speranzoso cercando di non mostrare troppo l’orgoglio per quell’attività che era frutto solo della sua intelligenza e della sua fatica.
 
Così Oscar e André furono accompagnati nei meandri della Villier frères da un entusiasta Roger che indicava qualunque cosa, casse, scaffali, ambienti acquisiti nel tempo e sottratti al marciume dell’aria della Senna dalla sua alacre operosità, carri pronti alla partenza, doni riconoscenti di clienti affezionati, “guardate, questo è un ritratto a carboncino di Madame Pompadour, fatto recapitare direttamente dalla sua prima cameriera! E qui, qui, guardate, una lettera firmata di suo pugno dal duca di Penthièvre, sapete, gli fornivo certi pellami per il castello di Rambouillet…”, poi fu la volta dell’armeria ben fornita nella quale spade, pistole, baionette e fucili stavano ben allineati e pronti all’uso, “bisogna pur proteggere i carichi preziosi, sapete?”, e di seguito, spalancando una porta a due ante, mostrò dalla porta la conceria vera e propria, allargò trionfante le braccia di fronte a quello stanzone – lo stesso preciso gesto che lei, un ricordo fulmineo, aveva visto fare a suo padre, vent’anni prima, davanti alle terre di Arras quando il generale Bouillé era venuto in visita di cortesia - e contò col dito steso e con la voce che un po’ si arrochiva per la soddisfazione, quegli otto lavoranti indaffarati, “perché qui si dà lavoro ai parigini! Qui non li mandiamo a elemosinare, basta aver voglia di fare fatica e la paga arriva, mai saltato un pagamento, io!”, e poi ancora, tornando alla bottega, mostrò – la stessa fierezza del generale Jarjayes quando la portava in armeria e le insegnava a distinguere armi appartenenti da secoli ai Jarjayes- le confezioni ordinate, l’elegante timbro che certificava la provenienza del prodotto da quella mirabile ditta, “un disegno originale del giovane Crochet! Nientemeno!”, si lanciò a dire con entusiasmo Roger - lei abbassò lo sguardo sul disegno e pensò allo stemma della sua famiglia presente ovunque nel palazzo che l’aveva vista crescere -, finché alla fine tutto l’entusiasmo di Monsieur Laroche si afflosciò e quel fiume di parole divenne un borbottio e poi un silenzio doloroso nel momento in cui lo sguardo ritornò sul tavolo e su quel giornale che poco prima stava sfogliando. Si affrettò a spostare i fogli in un cassetto mentre la mascella faceva uno scatto involontario suggerito da un’oscura paura.
 
“Avete davvero dedicato la vita al vostro lavoro, Monsieur”, constatò André.
“Sì, è quello che ho fatto”, sospirò Roger accasciandosi di nuovo sulla sedia, “ma ora…”, proseguì come se parlasse a sé stesso, “ora è tutto molto difficile. Il mio passato, intendo, ha perso il significato che gli ho sempre dato. Vedete, le scelte che ho fatto in tutti questi anni erano guidate da incrollabili certezze che ora si piegano e si spezzano davanti ai miei occhi. E io sono impotente, ora. Ora che Marcel ha preso la sua strada e quella strada non è più la mia”.
Lei dovette sedersi, mentre ripeteva quelle parole e pensava che quelle esatte parole avrebbe potuto dirle anche suo padre: Le scelte che ho fatto in tutti questi anni erano guidate da incrollabili certezze che ora si piegano e si spezzano davanti ai miei occhi. E io sono impotente, ora. Ora che Oscar ha preso la sua strada e quella strada non è più la mia
“Ma, vedete”, le venne in soccorso Roger senza nemmeno saperlo, “io lo sopporterei se Marcel avesse preso una decisione, se Marcel avesse scelto una vita diversa. Lo sopporterei. Ma lui non ha scelto una vita diversa. Ha rifiutato questa perché rifiuta me. Ma, vi assicuro, questa vita una volta gli piaceva”.
“Vi incolpa della partenza di Joséphine…” disse piano André cercando di non ferirlo.
“Ma io nemmeno avevo capito che erano innamorati!”, Roger colpì il piano del tavolo con il palmo della mano aperto e poi si ricompose dandosi una sistemata alla parrucca che, per quanto lui facesse, gli cascava sempre di lato.
“Ma… Marcel è convinto che voi li abbiate voluti dividere perché…” mormorò André stupito.
“Perché lei non era abbastanza?”, chiese con amara ironia Roger, “Ebbene, no, non è andata così. Non sono quel tipo di persona, sapete? Uno che mette sulla bilancia le sostanze della futura moglie di suo figlio, non sono così. E certo che sapevo che lui e Joséphine si piacevano, ma, santo cielo, erano due ragazzini! E poi il padre di lei… un disperato, capite! Veniva a elemosinare la minestra dai miei garzoni di bottega, lo vedevo che allungava il cucchiaio nelle ciotole impilate dopo il pranzo, che si allontanava con i torsoli delle mele! Ma guai a offrirglielo, il pranzo! Si offendeva e non si faceva più vedere per una settimana. Quando gli ho buttato lì l’idea delle piantagioni americane non gli è sembrato vero, e quando mi sono offerto di pagargli il viaggio, non vi dico, quasi mi bacia! In due giorni ha preparato tutto e lui e lei sono partiti. Che cosa potevo sapere io, allora, di quell’amore? Mi è stato sbattuto in faccia, ma dopo. Dopo!”, Roger scosse il capo con disperazione e proseguì:
“È mio figlio, è mio figlio, capite? Lo so che cosa pensate di me, che cosa vi ha detto Marcel. Che io sono un mercante che pensa solo al denaro e al lavoro, un uomo incapace di provare sentimenti. Ma che cosa vi devo dire? Ho sempre amato il mio lavoro. È una colpa? o una cosa di cui essere grati? Ho sempre aperto bottega con entusiasmo, ho sempre guardato alla mia sicurezza economica con orgoglio, perché me la sono guadagnata. Tutta”.
Lei ripensò ai vigneti di Arras e all’armeria di palazzo Jarjayes e comprese la differenza tra chi la fortuna la eredita e chi la fortuna la guadagna. La comprese con violenza e con un senso di colpa insostenibile.
“Vedete André”, proseguì abbassando la voce papà Laroche, “io non sono l’avido mercante che mio figlio crede. Io so che tutte queste cose non me le posso portare nella tomba. Io lo so che cosa è una tomba, non c’è giorno che io non pensi a che cosa significa avere il corpo sottoterra”, si incupì e la sua voce divenne dura, la voce che forse usava per impartire gli ordini, per gestire la parte più difficile dei suoi affari, “Per chi credete che sia tutto questo? È per lui, per mio figlio. I soldi sono importanti nella vita, mai è stato così chiaro come in questi tempi oscuri”.
“I soldi non risolvono…”, provò a dire lei.
“Certo che non risolvono tutto, Oscar!” esclamò Roger, “ma risolvono tanto, non credete? I soldi danno la libertà, madamigella. La libertà di avere la pancia piena, la libertà di istruirsi, la libertà di non chiedere l’elemosina, la libertà di non dipendere dai favori degli altri, la libertà di curarsi!”
Lei sgranò gli occhi e ripensò alle catene della povertà, alle catene che imprigionavano uomini, donne, bambini, le catene che costringevano padri di famiglia a scelte disumane, che portavano bambine a battere i marciapiedi, ragazzini a diventare malviventi, vecchi a morire per strada.
 
Ripensa alle campagne desolate, al grano che si piega e marcisce sotto la pioggia prima di poter essere mietuto, ai lazzaretti nascosti, alla miseria più nera che ormai conosce bene. E poi, nel silenzio calato in quella bottega, ripensa allo sfarzo della reggia, ai banchetti reali, ai vestiti che non bastano mai, ai ventagli che nascondono la frivolezza, e le pare che tutta quella luccicante visione, all’improvviso, si oscuri in un macabro spettacolo e che dietro a quei ventagli si rivelino volti mostruosi, segnati dai vizi delle corti e dai grandi dolori degli uomini che non risparmiano nessuno: dame con parrucche enormi che un po’ cascano e scoprono ciocche rade di capelli divenuti bianchi per il terrore dei debiti contratti con usurai feroci, dame con la cipria che si scolora sul volto mentre piangono figlie bambine date in pasto alla perversione di nobili degenerati, dame con le palpebre gonfie e innaturalmente rosse per il pianto che squassa nel cuore della notte dopo che si è accompagnato alla tomba un figlio ancora bambino, malato di un male senza cura.  
 
Si alzò, turbata e confusa, e cercò lo sguardo di André e si accorse che quello sguardo era già su di lei, da minuti, probabilmente.
Che cosa dobbiamo fare, André? si chiese per la prima volta realizzando la concretezza dei pericoli a cui si stavano avvicinando tutti.
Allora André le venne incontro e con morbida gentilezza, guardando lei ma parlando con Roger, disse:
“Capisco quello che volete dire, Monsieur, sono anche io un uomo del popolo. So mettere su una bilancia le mie fortune e i miei meriti per quello che ho ricevuto nella mia vita. Ma… Monsieur Laroche, Roger…, io credo che da voi Marcel volesse anche qualcos’altro, capite? Scusate la schiettezza”.
“Credete che non lo sappia? Credete che non conosca le mie colpe? Le ho tutte di fronte a me. E lo so che quel ragazzo è un testardo, che non tornerà indietro. Ma io ormai posso solo lasciare questa porta aperta, aperta per lui. Sempre. Magari un giorno tornerà, magari un giorno riuscirà a guardarmi senza quell’espressione sulla faccia. O forse non succederà mai, ma io ora posso solo tenere quella porta aperta”.
E sperare che resti a tutti abbastanza da vivere, pensò con un brivido di paura Roger Laroche.
 
***
 
Appena calò il buio, si avviarono silenziosi verso casa di Bernard. Solo il rumore dei loro passi, della suola degli stivali che nelle pozze schiaffeggiava l’acqua scesa al mattino.
Lei pensava al biglietto che aveva lasciato sulla scrivania di suo padre prima di andarsene per sempre da palazzo Jarjayes, ripeteva tra sé quelle poche parole: Padre, perdonatemi se vi ho dato un dispiacere.
“Stai pensando a tuo padre, vero?”, disse lui guardando dritto davanti a sé.
Qualcuno in lontananza suonava una fisarmonica.
Lei annuì e, come se parlasse a sé stessa, disse: “Potremmo trovarci a combattere uno contro l’altro…”
“Non succederà. La nonna mi ha scritto che l’hanno mandato con il suo reggimento a nord, verso il confine”, l’informazione toglieva concretezza a un’ipotesi che però restava nell’aria, con tutto il suo carico di conseguenze così vere e così difficili da ignorare. E poi il suo pensiero corse a un altro padre e a un altro figlio.
“Dovremo anche parlare con Marcel, non credi?”
“Sì, dovremo tentare, almeno”, lui abbassò il capo e si passò le dita sulla tempia.
“André…” disse lei guardandolo con intensità.
Lui si fermò sulla porta, appena prima di bussare, e la guardò con lo sguardo che lei aveva imparato a conoscere da poco e che, lei lo sapeva e lo aspettava, anticipava di un istante brevissimo il momento in cui avrebbe sentito sulle sue le labbra di André.
Ma in quell’istante si sentirono chiamare dalla finestra del primo piano, “Oscar, André, salite!”, così si separarono di un passo, rivolsero lo sguardo a terra e Rosalie aprì la porta.
 
Entrarono nel salotto di Bernard e lo trovarono seduto che discuteva con un collega giornalista e con un altro uomo, un tizio di mezza età con le guance rubizze e gli occhi piccoli che pareva prendere appunti con una grafia grossolana. C’erano altri tre uomini, in piedi vicino alla finestra, che parlavano concitatamente interrompendosi l’un altro di frequente e gesticolando con enfasi. Alle loro spalle Rosalie intanto era affaccendata a servire una specie di caffè e a controllare che tutto fosse in ordine.
“Oscar, André, è un piacere vedervi, venite, accomodatevi!”
Il brusio di sottofondo la rese spaesata, confusa su quale conversazione seguire, indecisa se sedersi al tavolo o mantenere ancora le distanze finché non avesse avuto chiari i contorni e gli intenti di quella riunione.
André, dietro di lei, appoggiò le spalle alla parete, rendendo evidente che considerava quello il suo posto.
“Grazie, Bernard, stiamo in piedi volentieri, di che cosa state discutendo?”
“Vedi, Oscar, il ministro Necker ha intenzione di portare al re la richiesta di ritirare le truppe da Parigi e poi anche la richiesta della riforma, la riforma costituzionale. Dobbiamo capire come muoverci. Se il re accetterà…”
Nel frattempo erano entrati altri due ragazzi molto giovani, dall’aspetto due studenti; avevano lo sguardo intelligente, pensò lei.
“Il re non darà mai retta a Necker, Bernard, te lo assicuro”, disse uno dei due gettando il cappello su una poltroncina nell’angolo della stanza; sprofondò sul divano e allungò con indolenza una gamba sul tavolino di fronte. L’altro si sedette su una sedia all’angolo del tavolo a gambe larghe con un mezzo sorriso ironico, infine con un cenno verso Rosalie, portando l’indice e il pollice chiusi alla bocca, chiese il caffè.
Come se fossero a casa loro, registrò lei vagamente infastidita.
André li guardava in silenzio.
Covava una strana atmosfera in quella stanza, lei lo percepiva: una tensione trattenuta, una strana forma di euforia collettiva, di esaltazione sotterranea, di spinta all’azione che pareva condurre dritta solo a…
Alla Rivoluzione, pensò rivestendo di realtà quella parola che già aleggiava da mesi e che ora sentiva soffiare forte in quella stanza.
Mentre la discussione riprendeva e lei cercava di capire che ruolo mai potessero avere lei e lui lì dentro, guardò André: dopo i saluti, non aveva ancora aperto bocca.
Lo sai che dovremo davvero combattere, André? Lo sai che ci ritroveremo davvero per queste strade a combattere? A sparare? Che rischieremo la vita, André?
E nel guardarlo, così serio, così attento, tornò, in un istante brevissimo e senza volerlo, a quella sera alla taverna, alla sera in cui i soldati erano stati liberati, alla sera in cui lei non era nemmeno stata capace di alzare lo sguardo su di lui quando l’unica cosa che voleva era che lo sguardo di lui si posasse su di lei. E lei, quella sera, non era rimasta, no, se ne era andata via. In un lampo di consapevolezza si accorse di aver corso il rischio di non essere mai accarezzata, toccata, amata da lui, e, ancora più improvviso, come una sovrapposizione simultanea di pensieri, ripensò a un vicolo a Saint-Antoine, dopo l’aggressione, quando aveva capito quanto quell’uomo contasse per lei, e realizzò così, semplicemente stando in piedi vicino al tavolo di Bernard, quanto fosse concreta la possibilità che in quella Rivoluzione, in quella lotta, lei potesse perdere André.
All’improvviso sentì la voce di Bernard che si alzava e si imponeva sulle altre:
“Robespierre ha detto…”
“Robespierre dice tante cose Bernard, dovresti iniziare a chiederti che cosa vuole davvero Robespierre…” disse l’altro giornalista con aria dubbiosa.
“Non saremmo qui, se non fosse per Robespierre!” puntualizzò Bernard seccato.
André taceva, in piedi contro alla parete, le braccia conserte, l’unico occhio stretto in una fessura.
“Scusate il ritardo, avete già iniziato?”, chiese un uomo robusto dalle braccia muscolose vestito alla buona dalla soglia dell’ingresso. “C’è qui sotto Saint-Just che parla con un ragazzo, li faccio salire?”
Bernard fece un rapido giro con lo sguardo per capire negli occhi degli altri che cosa fosse meglio fare, poi, dopo aver osservato Oscar e André, che in silenzio stavano in piedi a lato del tavolo, rispose:
“No, lascialo stare, avrà altro da fare” e lanciò uno sguardo al suo collega che silenziosamente approvò.
André si raddrizzò e staccò le spalle dalla parete.
La conversazione riprese con toni meno accesi, l’uomo rubizzo, che parlava poco ma che continuava a scrivere, senza alzare gli occhi dai fogli si rivolse ai due studenti: “Che si dice alla Sorbona?”
“I nostri amici sono pronti. Quando voi avrete deciso… basta un segnale”, disse quello sul divano con aria di sfida.
André lo fissò.
“Diamo tempo a Necker…” temporeggiò Bernard cercando l’appoggio del collega seduto vicino a lui. La conversazione tornò al punto di partenza, ognuno aveva la sua opinione sul re, sul ministro delle finanze, sulle ingerenze della regina, sulle intenzioni del duca d’Orléans, sulle esigenze del popolo…
Parole senza una direzione, o forse chiacchiere di chi ha già deciso quale sarà la direzione, pensò lei. 
L’uomo robusto, rappresentante dei macellai a Les Halles, interruppe il chiacchiericcio con fare brusco:
“Quindi? Che cosa facciamo se il re dice di no a Necker?”, pareva spazientito.
“Beh”, disse uno dei ragazzi, “bisogna valutare che cosa ci conviene fare sia che il re acconsenta sia che il re non lo faccia…”
“Ma il popolo non ne può più! Al diavolo anche Necker! Dobbiamo prendere le armi!”, il macellaio strinse i pugni vicino al volto acceso di rabbia.
André fece un passo avanti e appoggiò le mani aperte sul tavolo.
“Il popolo andrà coinvolto solo quando avremo chiari i nostri obiettivi, così ha detto Robespierre”, disse Bernard.
“Tu che ne pensi, Oscar?” chiese il collega di Bernard.
Ma lei non voleva esporsi, era lì solo per osservare, non aveva ancora ben chiaro il suo ruolo lì dentro e sentiva un vago disagio crescere in lei da quando era entrata. Tutto quel parlare le annebbiava la capacità di comprendere: quando aveva gettato la spilla nobiliare aveva scelto il popolo, ma che cosa aveva in mente Bernard? Che cosa aveva in mente Robespierre? E che cosa si aspettavano da lei tutte quelle persone?
Si sentiva così confusa lì in quella stanza, eppure lei aveva ben chiaro il motivo per cui aveva rinunciato al suo titolo, il motivo per cui già da tempo aveva abbracciato la causa del popolo.
Ma di sicuro non aveva smesso di obbedire al generale Bouillé per obbedire a Bernard. O a Robespierre.
“Il popolo non può continuare a vivere in queste condizioni, il cambiamento è necessario”, disse decisa. Era l’unica verità che sentiva di poter pronunciare davanti a quelle persone.
“Così si parla!” disse il macellaio, “dobbiamo armarci, dobbiamo andare a prendere armi! Dillo a Robespierre, Bernard!”
“Sì, ma tu parli di un cambiamento dall’alto o dal basso?” insinuò con aria fintamente gentile uno dei due studenti ignorando completamente l’intervento del macellaio. Pareva una domanda trabocchetto. Lei lo soppesò con lo sguardo: quel ragazzo la irritava.
“Perché vedi, Oscar giusto?, il cambiamento dall’alto piace ai politici, ai nobili… ma alla gente, al popolo, basta poco per prendere in mano la situazione… non so se mi capisci…” e sorrise d’intesa al suo compagno sul divano che gli strizzò l’occhio di rimando.
Lei lo guardò negli occhi e scandì: “Certo che capisco. Quello che non capisco è che cosa ci sia da sorridere quando si discute di scelte tanto drammatiche”.
Lui abbassò lo sguardo, fingendosi colpito dalla provocazione, in realtà intimorito dal piglio bellicoso di lei.  
Aveva stretto i pugni lungo i fianchi, senza accorgersene e avrebbe voluto chiedere a quel ragazzino che ne sapeva lui di duelli, di spade, pistole, fucili e cannoni, di corpi feriti, di persone che muoiono. Della paura che sotto quei colpi muoia la persona che ami e che la felicità voli via per sempre insieme a lui.
Sentì il dorso della mano di André avvicinarsi piano al suo, uno sfiorarsi che le mise i brividi.
Allora lo guardò e nel suo sguardo lei vide la chiave che la aiutava a interpretare tutto, la confusione cessò, si lasciò guidare da quell’unico occhio che le mostrava nello stesso momento i pensieri di André e le svelava i suoi: non aveva detto una parola da quando erano lì, ma aveva registrato tutto, probabilmente conosceva anche i nomi di tutte quelle persone che per lei erano solo facce nuove vicino alla faccia conosciuta di Bernard. Sentì la resistenza che André opponeva a quella gente, una resistenza gentile ma ferma, sentiva che in quella stanza lui ancora la stava proteggendo cercando di guardare più in là, oltre quella sera, oltre quei giorni confusi, per portare lei in salvo, per vegliare come sempre su di lei.
Se sarà necessario, quando arriverà il giorno, combatteremo. Non ci tireremo indietro, rischieremo le nostre vite per un mondo più giusto. Per la libertà. Questo è tutto.
E nella semplicità, nella chiarezza di questo pensiero, si sentì ferma nell’occhio del ciclone della storia, ferma e stretta al suo André, all’amore che aveva da sempre nel cuore e da poco anche nella carne.
E mentre intorno a lei le conversazioni si intrecciavano, si sovrapponevano, le voci si accavallavano e si scontravano e Bernard e gli altri al tavolo gesticolavano indicando gli appunti dell’uomo rubizzo, e i due universitari parlavano a bassa voce come aspiranti cospiratori e quelli alla finestra continuavano i loro discorsi e il macellaio in cucina faceva i complimenti al caffè di Rosalie, lei, in mezzo a quella gente, a quell’incombere della Rivoluzione sempre più vicino, sempre più vicino e vero, cercò di nuovo il contatto del dorso della mano di André, poi sbilanciò un poco il peso sulla gamba più vicina a quella di lui e, appoggiandosi lievemente con l’anca alla sua coscia, bisbigliò:
“Ho voglia di te, André”
Glielo disse pianissimo, solo un soffio. Ma l’urgenza che vibrava in quella richiesta aveva la potenza di un terremoto e lui sentì che le ginocchia gli cedevano in un languore senza fine e dovette allargare i palmi delle mani sul tavolo per reggersi e per non voltarsi a mangiare quelle labbra che avevano appena sussurrato al suo orecchio, quelle labbra che lì, in mezzo a tutti, sfidavano la decenza. La discussione tra gli altri solo un ronzio sordo. Ma lei era inarrestabile e siccome lui ancora non si muoveva ed era di spalle, si era fatta più vicina e ora, senza che nessuno lì dentro potesse nemmeno sospettarlo, premeva contro di lui il busto. Volutamente premeva contro di lui il seno, la pancia, e anche più giù. Per un istante lui la immaginò completamente nuda.
Allora André si staccò da quel contatto e tese la mano verso Bernard:
“Dobbiamo andare, Bernard. Grazie per averci invitato.” Nel dirlo aggirò il tavolo e si avviò verso l’ingresso, lei lo seguì in silenzio salutando con un cenno veloce Bernard.
“André… Oscar, aspettate! Dobbiamo prendere delle decisioni… dobbiamo decidere che cosa fare… Almeno ci vedremo domani per dare un’occhiata al deposito?”
“Sì, certo. A presto, Rosalie, per noi si è fatto davvero tardi”, André lo disse sulla porta, mentre Oscar le aveva appena rivolto un saluto veloce e già si incamminava a passo svelto nella piccola piazza.
 
Quando la porta della casa di Bernard si chiuse, lui la affiancò senza sfiorarla e senza dire una parola: i loro passi erano affrettati, i respiri pesanti, gli sguardi concentrati in avanti, dove la piazza finiva e tre strade si aprivano a ventaglio verso direzioni diverse. Senza guardarsi imboccarono la prima e, infilato un vicolo in leggera salita, si guardarono intorno. Era buio, molto buio. E non c’era in giro nessuno: del resto sapevano benissimo che sarebbe stato così.
Un istante e lui le aveva afferrato il polso per fermarla, un gesto non nuovo tra loro, riuscì a pensare lei.
Ma poi non ci fu più tempo per pensare e mentre con poca gentilezza lei trascinava André contro il suo corpo e mentre si faceva prendere dalla foga cieca di lui, contro un muro, al buio, con la disperazione che saliva ad ogni bacio, con la paura che faceva tremare le dita e che spezzava il respiro, con il bisogno di stringere e di toccare che la scuoteva, con la furia di André addosso e la sua di rimando, una furia che non gli negava niente, lei sentì che non era pensabile, non era possibile, non era giusto che lei o André potessero morire in quella Rivoluzione.
 
 
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Ancora grazie a chi è arrivato fino a qui.
Che l’anno nuovo porti a tutti la bellezza da vedere, i sorrisi da regalare, l’amore da vivere.

 

 

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Capitolo 12
*** 12 luglio 1789 ***


Avrei voluto aggiornare prima, perdonate se arrivo solo ora con il nuovo capitolo.
Vi ringrazio di cuore per la pazienza e per il tempo che dedicate a questa storia.

 

12 luglio 1789
 
Rumori concitati dalla strada la svegliarono: un brusio lontano che nell’avvicinarsi diventò grido scomposto e inafferrabile nel suo senso ma non nella sua violenza e che poi si spense lontano, nello slargo della piazza. Quando aprì gli occhi vide André in piedi vicino alla finestra. Guardava fuori mentre il sole riempiva di luce la stanza. Giù, nella strada, era calato il silenzio.
Si alzò e lo abbracciò da dietro, strofinando il naso sulla sua schiena. Era ancora assonnata.
“Che cos’era?”
Lui seguiva la linea tortuosa ma chiarissima di una preoccupazione crescente che si faceva largo nella sua felicità.
“Ci sono stati scontri ieri, in città. I soldati che sorvegliano le strade hanno i nervi a fior di pelle e la gente si vede braccata nelle sue stesse strade. Parigi è molto pericolosa. E poco fa… erano gruppi di persone che correvano in fondo alla strada, verso il Palais Royal… deve essere successo qualcosa. Hai sentito anche tu?”.
“Sì, ho visto che eri già sveglio… C’è un’atmosfera strana, vero? Hai visto, non è venuto nemmeno oggi il fioraio…”, lei sbirciò dalla spalla di lui verso la strada.
“No, nemmeno oggi. Sarà rimasto al suo villaggio, chi vuoi che si fermi a comperare fiori in questi giorni…”, André le prese le mani e le strinse al suo petto.
“Dobbiamo andare da Bernard, lui avrà notizie”, disse lei appoggiando la guancia alla spalla di André.
“Sì, ma prima devi fare colazione. Vedi?, è già pronta, tutto merito della nonna: è arrivata da un giorno solo e già si è messa a prepararti da mangiare”, le sorrise indicando il tavolino vicino.
Lei allungò la mano su una fetta di pane con la marmellata.
“Buona” decretò a bocca piena.
“Mi sembra di rivederti da ragazza”, lui rise e, in quella istintiva contrazione del volto che gli aveva anche fatto strizzare gli occhi, avvertì qualcosa di umido pungergli le ciglia.
“In effetti, mi sento spesso come una ragazza, ultimamente”, si avvicinò a lui ricambiando il sorriso, “vuoi assaggiare?”
La guardò con struggimento.
“Fammi assaggiare”.
 
Nell’uscire videro in fondo alle scale Monsieur Dunant chino su una cassetta di gerani. Strappava con la mano nodosa che un po’ tremava gli steli rinsecchiti al sole, i fiori anneriti e accartocciati e le foglie ingiallite, raccoglieva tutto nell’altra mano aperta a coppa all’altezza del bavero della marsina nera. Pareva che avesse l’ostinata intenzione di chiudere tutto il mondo in quella cassetta di fiori. Quando li sentì arrivare, alzò gli occhi e abbozzò con la testa un inchino di saluto.
Monsieur Dunant…” disse lei passandogli vicino e accarezzandolo con lo sguardo. Lui si intenerì come talvolta fanno i vecchi quando temono per il futuro dei giovani a cui vogliono bene.
“Madamigella, André, fate attenzione se state uscendo. Tra poco tutta Parigi saprà…”, buttò quello che teneva in mano in un vaso di coccio vuoto vicino e scosse la testa.
“Cosa saprà, monsieur?”, André si fece vicino.
“Che il re ha licenziato il ministro Necker”, Dunant tornò chino sulla cassetta, non aveva altro da dire.
 
***
 
Solo da un giorno Marie Grandier era arrivata con il suo piccolo bagaglio nella casa di Saint-Eustache e già si dava da fare a sistemare, riassettare, cucinare come se quegli spazi, quelle stanze fossero per lei da sempre conosciuti.
“Così voi siete la nonna di Monsieur Vertère…” disse Lucille mentre l’aiutava a sistemare la biancheria nell’armadio del piccolo studio trasformato in camera per gli ospiti.
“Come? Oh, sì, certo, la nonna di André” rispose Marie sovrappensiero, ben ricordando le raccomandazioni di André che l’aveva pregata di non rivelare il suo cognome a Lucille e di non menzionare mai il casato di appartenenza di Oscar.
 
Il giorno prima André era arrivato con un calesse preso a nolo e l’aveva portata via da un palazzo Jarjayes deserto. Marie aveva salutato quel mondo nel quale per tanti anni aveva vissuto con un misto di commozione e di sollievo, aveva abbracciato con lo sguardo, dalla panca del calesse, quell’edificio silenzioso, così diverso dal palazzo pieno di vita di qualche anno prima, quando i suoi ragazzi andavano e venivano a tutte le ore del giorno, quando il generale si palesava nella sua furia o si tuffava nella sua ordinata routine. A lui, al generale, aveva lasciato una lettera piena di riconoscenza e di affetto nascosto tra le pieghe delle parole deferenti che segnavano la loro differenza di rango, nella quale gli spiegava che voleva finire i suoi anni in una piccola casa che l’aspettava, non aveva specificato altro; in un post-scriptum aveva aggiunto che si era permessa di lasciare la casa alle cure di un’altra governante, già in servizio da anni presso i de Jarjayes, che a lui non sarebbe dispiaciuta.
Non avrebbe avuto nostalgia di quel palazzo. Anche André lo aveva guardato distrattamente, nemmeno lo aveva paragonato al calore dell’appartamento dove ora abitava il suo cuore.
Seguendo le istruzioni di Oscar, avevano caricato velocemente tutte le armi che erano riusciti a prendere dall’armeria, “mi raccomando, prendi tutte le pistole” aveva detto lei, le avevano coperte con due bauli di lenzuola e biancheria e con le riserve della dispensa preparate dalla nonna e poi si erano lasciati alle spalle quei cancelli per sempre.
Entrare a Parigi era stato entrare in un altro mondo e per Marie, che da tanto tempo non metteva piede in città, era stato penoso vedere quella desolazione, quell’andirivieni di soldati e di gente con il passo affrettato e gli occhi bassi, e poco dopo, mentre si lasciavano alle spalle i quartieri più degradati della periferia e si infilavano nei viali alberati e nelle strade del passeggio, aveva visto l’incuria, la sporcizia che invadeva il selciato, gli accattoni agli angoli e drappelli di soldati dagli sguardi tesi, e allora con sgomento Marie si era accorta di quello che non c’era: non c’erano banchi di fiori, non c’erano bambini eleganti a passeggio con le loro balie, non c’erano dame ben vestite che chiacchieravano nei giardini, non c’erano nemmeno carrozze, solo calessi o vetture senza stemmi che passavano veloci. Aveva anche visto assembramenti di gente intorno a una pedana improvvisata con qualche cassetta della frutta sulla quale un oratore infervorato agitava in aria il pugno declamando frasi che suscitavano l’entusiastica approvazione di gente che a quell’ora avrebbe dovuto trovarsi al lavoro.
E infine Marie era entrata nell’appartamento di Saint-Eustache e aveva visto un altro mondo ancora, tra quelle mura aveva toccato una tale forma di amore, di familiarità, di felicità semplice e forte che, forse per la prima volta nella sua vita, non aveva avuto nessuna parola da dire e aveva solo sorriso e annuito con le lacrime che le bagnavano i piccoli occhi dietro le lenti un po’ appannate.

“Avete sentito?” chiese d’un tratto Lucille mentre si stava alzando sulle punte per mettere una coperta invernale sul ripiano più alto dell’armadio.
“Cos’era?” si riscosse Marie strizzandosi nelle spalle.
“Spari, vicini. Allontaniamoci dalla finestra. La città è in fermento, lo sapete di Necker, no? Non so se avete fatto bene a venire qui proprio adesso, cara Marie”.
“Nel palazzo dove lavoravo hanno sparato ai vetri del salone già mesi fa. Non credo che esista un posto davvero sicuro di questi tempi. L’importante per me è avere i ragazzi vicini e non essere sola”.
 
***
 
Si lasciarono alle spalle Saint-Eustache e si diressero a cavallo verso Saint-Antoine. Superato l’Hotel de Ville, arrivarono nella piccola piazza dove si trovava la casa di Bernard e Rosalie: da quello slargo si aprivano a ventaglio tre vie che si allungavano verso est, due potevano considerarsi per larghezza più dei vicoli, quella al centro, invece, era la strada principale, che si immetteva nella rue di Saint-Antoine, verso la Bastiglia.
Salutarono Bernard che, mentre li aspettava, era intento a dare istruzioni a un gruppo di persone intorno a lui. Si interruppe e corse verso di loro gridando, acceso di timore ed eccitazione:
“Oscar, André! Il re ha licenziato Necker! Tra poco la notizia avrà raggiunto anche l’angolo più oscuro di Parigi, Robespierre dice…”.
“Abbiamo saputo. Che cosa state facendo qui?”, lo interruppe lei. Lo spirito pratico e la freddezza del comandante che era stata fino a pochi giorni prima non lasciavano spazio alle emozioni scomposte e non lasciavano tempo alle parole della politica. Bernard assorbì su di sé quella serietà e assunse un tono più grave.
“Stiamo organizzando un quartier generale in caso di attacco delle truppe”, spiegò mentre indicava a due ragazzotti in carne dove mettere dei bracieri, “ehi, voi, portate qui quelle spade e quei coltelli! Allora, Oscar, che ne dici, da questa posizione possiamo guadagnare un buon vantaggio sui soldati che potrebbero arrivare da laggiù, no?”
Lei osservò tutto intorno affilando lo sguardo:
“Sì, ma siete troppo esposti, così. Vi faranno fuori con i fucili prima che possiate prendere in mano le armi. Dovete barricarvi in uno dei vicoli, se volete avere qualche possibilità. La città deve riempirsi di barricate, Bernard, hai capito?”.
“Barricarci? E che vuol dire dovete? Tu e André non sarete con noi?”
“Io e André abbiamo i cavalli e ci uniremo ai soldati ribelli. Voi dovete pensare a difendervi e ad attaccare da qui. Barricate il vicolo più a nord”.
“Ma noi non sappiamo nemmeno come si fa una barricata!” gridò un tizio di mezz’età che aveva ascoltato tutto e che, da quando aveva sentito quella espressione vi faranno fuori, teneva gli occhi sbarrati per la paura.
“Nel vicolo c’è una taverna, no? Iniziate a prendere le botti che trovate, mettetele una vicina all’altra per la larghezza del vicolo, riempitele di terra, di sassi, di tutto quello che trovate e legatele ben strette. Poi prendete qualunque cosa dalle abitazioni, tavoli, sedie, armadi, casse, staccate le imposte dai muri, qualunque cosa, capito?, e iniziate a mettere tutto intorno e sopra alle botti, innalzate la barricata più che potete. E fate attenzione, all’esterno non devono esserci appigli, dovete rendere impossibile l’arrampicata al nemico. Nella parte interna, invece, dovete creare una sorta di scala che consenta a qualche vedetta di arrampicarsi per tenere d’occhio la piazza. Sprangate tutte le porte e tutte le finestre delle case che danno sul vicolo, deve sembrare una strada morta, una strada di fantasmi, capito? E poi dovete fare la stessa cosa anche sull’altro lato del vicolo. Una volta finito, voi sarete chiusi dentro e questo vi proteggerà. Ma dovete fare in fretta, non rimane molto tempo ancora. Usate l’interno della taverna come infermeria, se sarà necessario, e allestite un posto all’esterno come armeria per la polvere da sparo e per le munizioni. Vi farò avere altre armi al massimo entro stasera. E anche altri uomini. Fatevi aiutare dalle donne e dai bambini. E servono dottori. Assicuratevi di avere scorte di cibo e acqua. Iniziate a staccare anche le selci da terra, sono armi da getto utili se il nemico dovesse arrivare a ridosso della barricata. Nel caso dovesse mettersi male, trovate una via di fuga, vi suggerisco di usare l’uscita sul retro della taverna: sprangatela dall’interno, così farete meno fatica a fuggire se sarà necessario*”.
Una piccola folla si era riunita intorno a loro mentre lei parlava veloce e imperiosa: la guardavano annuendo, prendendo mentalmente nota di tutto e deglutendo saliva, paura, esaltazione.
“Ma, Oscar, così saremo bloccati qui!” esclamò Bernard.
“E da qui potrete impedire ai soldati l’accesso all’intera piazza, se avete una buona mira e se i tuoi uomini hanno imparato come si spara”, concluse lei.
Montò a cavallo e fece un cenno ad André che la seguì dopo aver stretto la mano a Bernard.
 
Perlustrarono le vie centrali della città osservando il posizionamento delle truppe e cercando di non dare nell’occhio: lei aveva nascosto i capelli in un cappello a tesa larga ed entrambi avevano gli abiti comodi e sobri che da anni indossavano nei loro momenti liberi a palazzo Jarjayes. Si fermarono al Quai du Louvre e legarono i cavalli. Procedettero a piedi, camminando all’ombra dei platani. Lei sembrava stare bene, fisicamente bene, pensò André. Si tranquillizzò. Una piccola porzione di collo che sbucava tra il colletto della camicia e la tesa del cappello lo fece stupire ancora della sua bellezza. Con urgenza, fissando un punto lontano al di là della Senna, le disse piano, mentre camminava al suo fianco, “Sei bellissima”. Lei sorrise senza fermarsi e senza rivolgergli lo sguardo.
“Qui non ci sono drappelli di soldati, hai notato?”
Quante volte ti ho parlato così, André. Lo senti che ora queste parole suonano diverse sulla mia bocca?
“Sì, ce n’è solo uno nella piazza. I soldati faranno solo dei giri di ricognizione, da queste parti”
Se ora potessimo appoggiarci al tronco di questa pianta…
“Sono preoccupata per la tua vista, André”
Non morire, André, non morire in questa rivoluzione
“Non devi, davvero. Sto bene, credo che Iatroux avesse ragione. Se tengo a bada la testa anche l’occhio vede bene”
La nostra felicità è appena iniziata e non finirà, non può finire adesso
“Se dovessi accorgerti… se dovessi avere la sensazione che… promettimi che tornerai a casa, dalla nonna. Che non lascerai calare l’oscurità sul tuo occhio in mezzo alla battaglia”
Lo vedi che non piango? Non ti voglio far vedere quanta paura ho
“Non succederà, davvero”
Non ti lascerò mai da sola a combattere, verrò con te ovunque
Sentirono un battito d’ali che si levava sopra di loro e seguirono con lo sguardo tre colombi che levandosi in volo spezzarono l’azzurro uniforme del cielo.
“Devo andare da papà Laroche, voglio che lui, Crochet e quelli che lavorano lì si mettano al sicuro da Bernard. Stasera manderò Alain e gli altri alla Villier frères a prendere anche tutte le armi e le munizioni, sono più utili alla barricata che in quel magazzino”.
“Va bene. Io intanto farò visita a Iatroux. Chissà che non riesca a schiodarlo da quello sgabello”.
Tornarono ai cavalli a passo svelto, si infilarono tra i due animali e indugiarono a sistemare le selle, come se volessero verificare che fossero ben agganciate, o come se volessero pulirle da qualche foglia e da un po’ di polvere del selciato sollevata dal vento. In realtà stavano solo assaporando i loro corpi vicini. Un armeggiare concentrato delle mani che nascondeva un altro linguaggio segreto.
Poi montarono a cavallo.
 
***
 
Nella camerata della caserma dei soldati della guardia in quel pomeriggio di metà luglio regnava il silenzio dell’attesa. Si aspettavano gli ordini.
Un ordine, in particolare.
L’ordine di intervenire nelle strade di Parigi, di intervenire per sedare la rivolta popolare. Sapevano tutti che il re aveva licenziato Necker. Sapevano tutti che quello era uno schiaffo al popolo.
Alain, sdraiato sulla sua branda con le mani sulla nuca e i gomiti larghi, faceva passare lo stecchino di legno da una parte all’altra della bocca e con la coda dell’occhio osservava Marcel, l’unico altro compagno presente nella stanza. Marcel stava dondolando sulle gambe posteriori della sedia, la giacca sbottonata e il profilo sottile del collo che finiva nello sterno glabro che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro.
“Hai paura, Marcel?”
Lui si riscosse dai suoi pensieri e fermò la sedia sulle quattro gambe.
“Paura di cosa?”
“Di combattere, di morire”.
Marcel si spostò i capelli dalla fronte, gli davano fastidio.
“Ti ricordi quel giorno, quando eravamo prigionieri nell’Abbazia? Fino a prima di quel giorno io credevo di non aver paura della morte, invece lì, in quella cella, ho scoperto che la morte mi fa paura. Però no, non ho paura di combattere, quella non ce l’ho. Noi combatteremo dalla parte giusta, vero, Alain?”
“Certo che combatteremo dalla parte giusta. Ora che il re ha licenziato Necker è evidente che la parte giusta è una sola. Hai sentito anche tu che cosa ha detto ieri sera il comandante Oscar. Quando verrà dato l’ordine marceremo verso Parigi con il reggimento e lì ci ribelleremo. Raggiungeremo lei e André a Saint-Antoine e da lì combatteremo l’esercito”.
“Saremo dei disertori”.
“Sì”.
“Non si può che disertare in questa situazione”, Marcel chiuse gli occhi, “disertare, abbandonare, lasciare…”, le spalle caddero un poco e la testa si chinò verso il basso facendo ciondolare in avanti la ciocca di capelli biondi, “lasciar andare…”
“Marcel…”, Alain esitò ma poi si fece coraggio e, in quel momento sospeso, osò fare la domanda che da mesi voleva fare, “perché non hai cercato di seguire Joss? Non ti ha lasciato una lettera prima di partire, qualcosa che ti aiutasse a trovarla?”.
Marcel aprì gli occhi e ruotò il busto verso di lui, un sorriso amaro si disegnò sul suo bel volto mentre le mani si stringevano a pugno sulle ginocchia:
“Davvero me lo stai chiedendo, Alain? Che cosa pensi che possa, che sappia scrivere una ragazza del popolo cresciuta nella miseria? Joss non sapeva scrivere e nemmeno leggere. Solo le lettere delle iniziali che ogni tanto la sua sarta le faceva ricamare sui fazzoletti. Le avevo promesso che le avrei insegnato, e l’avrei fatto, ma ogni volta che ci vedevamo… c’era sempre altro che preferivamo fare… anche solo parlare, capisci?”
Veloce, nella mente di Marcel, apparve il gradino di casa sua, quello dove lui e lei amavano sedersi nelle sere d’estate, quello su cui Joss, forse un minuto prima di partire, aveva disegnato con un sasso scheggiato due cuori uniti da un nastro. Si toccò il tatuaggio come se sentisse una fitta al costato.
Alain aprì la bocca per scusarsi dell’indelicatezza, ma Marcel alzò il palmo della mano per rassicurarlo e proseguì:
“Non ho nulla che mi porti da lei, è sparita in qualche punto del mondo e si è portata via il mio cuore. Questo è il mio dolore, il mio dolore di tutti i giorni”.
“Ma se si trova in Martinica, se tuo padre ha mandato Joss e suo padre da un cliente, beh, tuo padre sa di sicuro dove si trova! Perché non gli parli, perché non gli chiedi…?”
Marcel si era alzato bruscamente e si era piantato di fronte alla finestra con le mani in tasca. Non voleva far vedere le lacrime che scendevano dai suoi occhi senza che lui le fermasse e senza che la sua voce subisse la minima frattura dovuta alla commozione: la voce ferma e le guance bagnate.
“Non c’è nessuna Martinica. La Martinica me la sono inventata io, sai? Sono bravo a inventare storie. La immagino in Martinica perché mi piace immaginare lei che pronuncia quel nome che inizia come il mio, tutto qui. Mio padre ha solo pagato quel maledetto viaggio in nave verso le colonie, ma lei potrebbe essere ovunque, suo padre potrebbe aver trovato lavoro in una qualsiasi di quelle terre. O potrebbero essere morti. La verità è che io non la rivedrò mai più”.
Alain, in piedi alle sue spalle, sentì lo stecchino che scivolava giù dal suo labbro e non seppe dire niente.
Fu in quel momento interrotto e spezzato che furono raggiunti dal suono della campana dell’adunata. Perché un’adunata a quell’ora del pomeriggio? Era arrivato il momento? Si ricomposero entrambi e, mentre uscivano, Marcel passò davanti ad Alain con un sorriso di gratitudine e una lieve pacca sulla spalla.
 
***
 
André passò davanti alla porta di Iatroux e tirò dritto senza nemmeno guardare se ancora ci fosse attaccato quel biglietto: era certo di trovarlo sottoterra.
Scese in fretta i gradini, entrò lanciando un’occhiata all’oste che in risposta tirò fuori un bicchiere e lo riempì di vino, e finalmente raggiunse Iatroux che se ne stava seduto, indolente e schifato da qualcosa, o forse da tutto, al suo sgabello.
“Buongiorno, Iatroux”, André allungò delle monete sul banco lasciando intendere all’oste che avrebbe pagato lui quel giro e anche tutti i precedenti.
Iatroux fece una smorfia che voleva esprimere indifferenza. Ma indifferenza sarebbe stato non fare nemmeno quella smorfia. Così André si accomodò sullo sgabello vicino, mostrando con un’eleganza sfrontata di aver preso quella smorfia per un invito e quel silenzio per un incitamento a proseguire.
“Ti sei accorto che la città è in fermento? Quanto pensi che ti lasceranno stare qui sotto a bere come se nulla fosse?”
Iatroux piegò in giù le labbra chiuse e, con il gomito appoggiato al banco, fece ruotare nell’aria il bicchiere che teneva in mano in un gesto che voleva dire Capirai, me ne infischio.
“Non dovresti sottovalutare quello che sta succedendo. La città è piena di soldati e già adesso in alcune piazze ci sono scontri, ci sono morti. Iatroux, che cosa vuoi fare? Lo spettatore? O vuoi fare la fine del topo qui sotto?”
Iatroux sollevò uno dei due accenti circonflessi che aveva al posto delle sopracciglia mentre tuffava il naso nel bicchiere.
“Tu potresti fare molto Iatroux. Noi siamo certi…”
Iatroux appoggiò il bicchiere e finalmente conficcò lo sguardo in quello di André.
Noi… noi chi? Io non appartengo a nessuno. A nome di chi vieni a parlarmi? Io non voglio bandiere, io sono un uomo senza bandiera. Mi hai capito? E su cosa vorresti far leva? Sulla mia coscienza? Ti sembro un uomo che si preoccupa della sua coscienza? Per me potete morire tutti, voi e i vostri ideali. Possono morire tutti i nobili e tutti gli straccioni. Le forze che li portano a morire non si sposteranno di un dito perché Iatroux ha dato “il suo contributo”! Lasciami stare e vattene. Tu hai gli occhi che brillano, io ho solo questo vino che brilla nel mio bicchiere”.
“Oscar sta organizzando una resistenza armata a Saint-Antoine. Si stanno innalzando le barricate, ci si sta armando. Ci si difenderà e si attaccherà. Ci saranno morti. E anche feriti. Serviranno dottori”, André lo fissò in attesa di una reazione.
“Oscar… chi è, quella nobile bionda, vero? Oscar… nome ben strano per una donna. Ma non mi interessa sapere per quale strana perversione aristocratica una donna si debba fingere uomo. I nobili… Se ne vedono anche qui di nobili. Vengono a provare l’ebbrezza di sentirsi dei poveracci, si vestono di stracci e non si accorgono che i figli del popolo ci tengono a non sembrare vestiti di stracci, così li riconosci subito. Dopo un po’ allungano le loro belle mani sui bicchieri ed eccolo lì, un bel nobilotto che gioca a rotolarsi nel fango per una sera. Come se avessero la nostalgia del fango** in quei loro palazzi marci”, Iatroux si fermò e bevve con furia dal bicchiere, poi si pulì con il braccio la bocca. André non disse nulla e restò in attesa.
“Quella Oscar, comunque. La tua Oscar, immagino. Beh, quella la nostalgia del fango non ce l’ha. A quella il fango piace davvero, per quel che vale la mia opinione”, sentenziò Iatroux con gli occhi socchiusi e il labbro inferiore che accarezzava l’orlo del bicchiere.
“Forse dovremmo smettere di considerarci fango”, André spostò indietro lo sgabello e si alzò.
“Nessuno si considera fango quando è innamorato come te”, borbottò Iatroux con un tono che voleva essere canzonatorio ma che uscì dalla sua bocca con l’amarezza della disillusione.
“Ti aspettiamo alla barricata di Saint-Antoine, Iatroux”, disse André e poi, rivolto all’oste, “Il prossimo giro lo offro io”.
 
***
 
Da quasi un’ora Oscar e Marcel stavano aspettando che André, Alain e gli altri due soldati di ronda con loro quella sera, Jolly e Lesgle***, tornassero. Si erano trovati come al solito nella piazza di Saint-Eustache e subito Alain li aveva informati che l’ordine che aspettavano era arrivato: il giorno dopo, all’alba, avrebbero dovuto lasciare la caserma e dirigersi in città allo scopo di sedare la rivolta armata. Si organizzarono sulla diserzione studiando il punto esatto in cui, al comando di Alain, i soldati ribelli avrebbero lasciato il gruppo e si sarebbero uniti al popolo. Oscar e André li avrebbero aspettati sul Quai du Louvre. Poi André e gli altri tre erano andati alla Villier frères per prendere il piccolo arsenale di Monsieur Laroche e trasportarlo alla barricata di Bernard. Marcel era stato esonerato da Alain con un laconico “Tu stai qui con il comandante”, cosa di cui gli era stato riconoscente. Il pensiero di suo padre, laggiù in quella bottega mezza buia, lo infastidiva e allo stesso tempo lo attraeva: detestava pensare a lui, ma non riusciva a non farlo. Non voleva vederlo e allo stesso tempo quell’immagine di lui, al cimitero, con il tricorno in mano che spazzava l’erba, non l’aveva lasciato più.
 
Meglio pensare ad altro, meglio pensare ad altre, si disse.
“Ti vedo insofferente”
“Perché non sono ancora tornati? Ma no… è che dobbiamo andare in un posto prima di tornare in caserma…”
“In che posto?”
“Lasciate stare, fate come se non mi aveste sentito”.
“Un bordello?”
Lui rise distogliendo gli occhi.
“Già, un bordello”
“Siete in servizio”
“Già, siamo in servizio…”, Marcel non parve turbato dall’obiezione, “Ma, sapete, è in corso una scommessa…”
“Che scommessa?”
“Non crederete che io venga a raccontare a voi le scommesse di quattro uomini sulla soglia di un bordello!”
“Perché no? Non abbiamo altro da fare. E io ho passato una vita a fingere di non sentire racconti su uomini che se ne vanno per bordelli. Almeno questa volta non dovrò fingere, ti pare?”
“In questo caso…”, Marcel si dipinse uno sguardo malizioso, quasi cameratesco, sul volto. Non sapeva nemmeno lui che cosa lo inducesse a parlare senza freni a quella donna, forse era la mancanza di attrazione tra loro, forse era quell’espressione che lei aveva, quella capacità di ascoltare anche le cose sconvenienti come se stesse dando loro la possibilità di diventare accettabili.
Così si lanciò nel racconto, lui sul selciato di fronte a lei che stava sul marciapiede, con la schiena appoggiata al parapetto del ponte sulla Senna.
“Allora: quando si vanno a trovare le signore del piacere, dovete sapere che il denaro è tutto, e in particolare il denaro è tempo. Più denaro, più tempo, capite?”, le strizzò l’occhio e lei rise, “Ma!” e Marcel alzò l’indice al cielo “ma se voi andate a trovare una signorina del piacere, poniamo, quando siete in servizio, non vi serve molto denaro perché, in effetti, di tempo non ne avete”
“Giusto” convenne lei ilare.
“Del resto, però, si presenta qui un altro…, come dire?, problema. Però non so se voi…”, la scrutò in modo obliquo per verificare se fosse il caso di proseguire, ma lei lo guardava come se avesse già capito quale fosse quel problema e trattenesse una risata. No, non pareva proprio scandalizzata, non le si imporporavano le guance, sembrava che vedesse solo il lato ironico che lui le stava mostrando. Così proseguì: “Insomma, voi capite che per quanto poco sia il tempo, non deve certo essere troppo poco”, lei annuì fingendo una composta serietà, “voglio dire, immaginate quattro uomini che si separano dopo essere entrati in una certa porta: che figura farà quello che, una volta fatto quel che va fatto, si ritroverà per primo solo sul marciapiede? Non bisogna mai essere il primo, capite? Mai!” e Marcel sgranò gli occhi in un modo tale che lei soffocò a stento una risata, “Ma nemmeno l’ultimo, perché, ricordate, questi quattro uomini sono in servizio!, non possono perdere tempo!”
Lei rideva ormai apertamente mentre lui gesticolava concitato.
“Ora, vi dicevo, la scommessa. Premesso che quei due affamati di Jolly e Lesgle di sicuro se ne escono per primi, me la gioco io con Alain, capite? L’ultima volta ha vinto lui, maledetto. Ma solo per tre minuti – perché si contano, i minuti! Stasera avrò la rivincita. Certo, se quei due si sbrigano!”, la voce di Marcel si incupì e l’immagine di un tricorno che spazzola l’erba di un cimitero si affacciò alla sua mente, “Che ci vuole a portare quella roba dal magazzino di mio… della Villier?”, immaginò suo padre, la parrucca un po’ storta e le mani che gesticolano, che indicano, che spostano casse, che aprono porte. Le mani di suo padre. Le mani invecchiate di suo padre, con quelle piccole macchie marroncine e la pelle più grinzosa sul dorso. Con l’anello di sua madre al mignolo.
Calò il silenzio e lei non fece nulla per spezzarlo, per non farlo arrivare addosso a Marcel.
Così restarono muti a soppesare quella pausa muta: lui allora, lasciandosi avvolgere dal vento leggero della notte e dall’oscurità interrotta solo dalle stelle e dalla luna, avvertendo una strana forma di sollievo, comprese che lei avrebbe ascoltato qualsiasi cosa con la stessa naturale accettazione, con la stessa capacità di non giudicare con cui aveva ascoltato la storia del bordello. Così Marcel ruppe il silenzio, si affiancò a lei e, appoggiandosi al parapetto del ponte con gli avambracci e fissando in lontananza la curva del fiume in direzione opposta a quella di lei, disse:
“Spogliarsi dei vestiti è più facile che spogliarsi delle proprie difese”
Lei ripensò a quando si era spogliata dei vestiti, a quando si era fatta spogliare dei vestiti. E quei vestiti, a uno a uno, erano caduti a terra insieme alle sue difese.
“Non lo so, Marcel…”
Lui abbozzò un sorriso continuando a guardare davanti a sé e scosse la testa piano: “A volte dimentico che siete una donna. Ora, ad esempio. Sarà il buio, sarà questa attesa, sarà questa rivoluzione che annulla le distanze… perdonatemi se vi ho parlato come parlerei a un commilitone”
“Non fa niente, Marcel”, l’acqua torbida della Senna, pareva una lavagna sulla quale la luna disegnava cerchi di gesso bianchissimo, “credo che i miei vestiti, la mia uniforme intendo, siano sempre stati la mia difesa, invece”, sussurrò.
Li raggiunse il suono lontano di una fisarmonica.
“Io le donne non le illudo, sapete? Loro sanno che possono avermi, che possono avere il mio desiderio, che possono anche avere la mia allegria, in certi momenti. Ma nessuna avrà mai me”, Marcel indurì la mascella.
 
Si volsero insieme verso il punto da cui sentivano arrivare il rumore di zoccoli sul selciato e videro le sagome di quattro uomini a cavallo.
Alain riferì che avevano portato il grosso dell’armeria di Monsieur Laroche alla barricata e che il giorno dopo all’alba quelli della Villier frères avrebbero raggiunto Saint-Antoine per unirsi alle forze di Bernard. Oscar assentì col capo e gli strinse la mano.
Sentirono tutti che i meccanismi di una macchina più grande di loro erano stati messi in movimento, che la pace di quel momento era l’illusione dello scorrere sempre uguale del tempo che invece non scorre sempre uguale. Sentirono una sorta di ebbrezza e una sorta di sgomento che costringevano i respiri a farsi lenti e controllati, governati dalla volontà perché non scappassero troppo in avanti, nel futuro che incombeva su di loro.
Mentre Alain, Jolly e Lesgle si avviavano con un cenno di saluto, Marcel montò sul suo cavallo e fece per raggiungerli. Ma all’improvviso tirò le briglie al petto e si rivolse a lei che era ancora a terra, poco lontano dal cavallo di André.
“… e cosa avete provato? Che cosa avete provato quando vi siete spogliata delle vostre difese?” le chiese con urgenza e con gli occhi lucidi.
Lei lo guardò, rivide sé stessa nuda davanti ad André, rivide quei vestiti per terra, relitti in mezzo al mare, sentì di nuovo quello che aveva sentito allora, e così, con una semplicità senza ombre, disse:
“Ho sentito la rivoluzione. Le catene che si spezzano. La libertà”.
 
Mentre Marcel si allontanava al galoppo per raggiungere gli altri, lei avvertì la presenza di André al suo fianco. Nel momento in cui si girò verso di lui, il vento le sollevò fili di capelli sul volto, ma André la baciò lo stesso. Le teneva le guance con le mani e intanto le sue dita, leggere, spostavano quei fili dalle loro bocche. Poi la afferrò per la vita e la fece salire a cavallo. Quando lei sentì che anche André era salito dietro di lei e che le sue braccia la circondavano e che il petto di lui sfiorava la sua schiena si lasciò andare un po’ indietro. Ma lui oppose resistenza e, tenendola addosso a sé, curvò la schiena in avanti come se volesse chiuderla in un abbraccio che si protendeva in avanti.
Insieme e stretti verso chissà cosa.
“Andiamo a casa”, disse lui piano al suo orecchio.
 
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*Ringrazio Monsieur Victor Hugo per avermi insegnato sulle barricate molte più cose di quelle che ho scritto
**Nostalgie de la boue (un anacronismo di Iatroux!)
***E anche per i nomi dei soldati, merci, Monsieur Hugo.

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Capitolo 13
*** 13 luglio 1789 ***


13 luglio 1789

 
All’alba, lei, già vestita, era nel vestibolo e si stava agganciando la spada alla cintura. Si vide nella specchiera e approvò con la sguardo quella camicia bianca, senza spille nobiliari, senza galloni, senza spalline dorate, senza gradi. Lei e una camicia bianca.
“Dobbiamo andare, André”, lo chiamò.
“Arrivo”, André ripose il suo quaderno nel cassetto del tavolino vicino al letto, “scriverò più tardi”, si disse.  
 
Dai quaderni di André Grandier
Un’altra nottata da Cavaliere Nero. Ci sto prendendo gusto. Lo so che siamo in missione, lo so che dobbiamo prendere quel ladro, che una di queste sere lui apparirà e lo dovremo catturare. Adesso però non ci voglio pensare. Ora ho in mente solo l’ebbrezza di uscire con lei, la notte, di vederla là sotto, tra le fronde, che mi aspetta dopo che ho svaligiato qualche casa. Lei che mi copre le spalle. Sono io che le copro le spalle, di solito. E quando ho finito e la raggiungo, ci guardiamo. Complici. Quasi inebriati. Stanotte ho dovuto distogliere gli occhi da lei e incitare avanti il cavallo perché avvertivo una tale euforia, e ho visto la stessa euforia in lei, che avrei potuto dire o fare qualcosa di molto sciocco. A volte il fatto che io riesca a non baciarla mi fa sentire eroico.
 

Galopparono verso la vicina barricata di Bernard mentre le ultime stelle del mattino impallidivano. La strada era avvolta in un silenzio che non era quello della notte, era il silenzio di chi è sveglio e aspetta. Le porte sprangate, le finestre chiuse.
La barricata arrivava fino al primo piano, dove un balcone era stato allestito come punto di avvistamento per la vedetta: il lato corto verso l’interno del vicolo costituiva l’accesso e ci si saliva tramite una scala di legno, posizionata vicino al muro, mentre il lato corto esposto sulla piazza era riparato dall’anta di una persiana appoggiata alla ringhiera di ferro battuto.
Non videro alcun movimento. Pareva una strada morta.
Dopo poco sentirono un richiamo sul retro del vicolo e videro Bernard che alzava una mano verso di loro mentre Rosalie si affacciava alla porta alle spalle di suo marito.
“Oscar, André!”
“Bernard!” lo guardarono stupiti.
“La sentinella mi ha avvisato che stavate arrivando”.
Sorrise soddisfatta. Nemmeno lei si era accorta della sentinella.
“Sono arrivati quelli della Villier?”
“Sì, sono qui da ieri”.
“È arrivato anche Iatroux, il medico?”, chiese André.
“No, non c’è nessuno con quel nome. Dobbiamo ancora rinforzare la barricata dall’interno ma siamo a buon punto.”
“Bene. Tenetevi pronti. Torneremo presto insieme agli altri”, lei tirò le briglie e con un cenno di saluto partì verso la piazza.
André la lasciò andare avanti e si fermò a un passo da Bernard:
“Per quella cosa siamo a posto?”, chiese in un soffio.
“Sì, ho tutto. Vuoi che te li dia adesso?”
“No, li prenderò stasera. Ti ringrazio, Bernard”, poi sparì in fondo alla piazza dietro di lei.
 
Dai quaderni di André Grandier
Oggi ho fatto lezione di ballo con Rosalie. Meno male che non c’eri. Ti saresti annoiata di sicuro. Non so quante volte abbiamo ripetuto i passi, il saluto, l’apertura, la chiusura. Lei si impegna, è brava, ma è troppo… esatta. A dispetto di tutte le lacrime che le ho visto piangere, io credo che Rosalie sia una ragazza molto forte e decisa. Nel ballo, ad esempio, fatica a lasciarsi guidare. Anche a cavallo, hai notato?, tiene sempre forte le redini. Sì, io credo che sia una ragazza molto decisa. Il giorno che andrà via da questa casa lei piangerà, ma tu non potrai fare niente per trattenerla, vedrai. L’uomo che un giorno la sposerà avrà solo l’illusione di averle chiesto la mano.
Tu invece sei proprio diversa. Non solo perché non piangi quasi mai (ricorda che io ti ho vista piangere). Anche tu non ti lasci guidare quando balli, tieni sempre forte le redini, sei decisa. Ma tu hai un fuoco dentro, Oscar, e lo sai, e ti fa paura. Tu ti devi governare perché hai paura di che cosa potresti fare se ti lasciassi andare a quel fuoco.
 

Attraversarono la città mentre davanti ai loro occhi determinati e accesi sfilavano scenari di surreale incanto e di struggente orrore, la bellezza di Parigi era sfacciata in quell’alba di luglio: Parigi con i suoi tetti, le sue guglie, le pietre, i marmi, le ringhiere di ferro battuto con i rampicanti, le vetrate dei piani più alti che già ricevevano il sole del mattino, e poi i giardini, gli alberi che nulla sapevano di quel giorno e che alla sera sarebbero stati ancora lì, e il giorno dopo e il giorno dopo ancora. E sulle strade già si schieravano soldati, con i fucili lucidi e puntati in avanti contro nemici ancora immaginari, gruppetti di persone che parevano essersi date appuntamento agli incroci e nelle piazze, nell’attesa di chissà cosa.
 
Smontarono da cavallo al Quai du Louvre e controllarono le pistole agganciate e nascoste sotto alle selle. Poi, fingendo indifferenza, si appoggiarono al parapetto sulla Senna in attesa dei soldati ribelli.
“Voi siete dei soldati?” chiese bisbigliando una voce sottile alle loro spalle.
Nel voltarsi videro una bambina di forse sette anni che reggeva le cocche di un grembiule bianco.
“No, non siamo soldati, piccola”, disse André, “che ci fai in giro a quest’ora? Lo sai che è pericoloso? Torna a casa”, le sorrise.
“Prima devo finire di consegnare queste”, disse lei strizzando l’occhio furbo dandosi aria di importanza. Aprì il grembiule e mostrò loro il suo tesoro: tante piccole coccarde rosse e blu.
“Il mio papà mi ha detto che queste sono nuovissime e vanno indossate da tutti gli amici del popolo. Voi siete amici del popolo? Volete le mie coccarde?”
Sorrisero insieme alla bambina.
“Le prendiamo tutte. Così puoi tornare a casa subito”, André si inginocchiò di fronte a lei e le fece l’occhiolino mostrandole una bisaccia aperta dietro alla sella del suo cavallo.
Lei gli consegnò il suo prezioso carico con l’aria di una signorinella emozionata, poi si voltò e corse via.
Dopo poco sentirono lo scalpiccio di cavalli al galoppo e videro arrivare Alain e gli altri, piegati in avanti mentre la polvere si sollevava dietro di loro. Cinquanta soldati della Guardia che avevano disertato per unirsi al popolo.
“Comandante Oscar! Siamo ai vostri ordini, comandante!”, gridò Marcel da lontano.
“Non ci hanno seguiti, comandante. Tutti gli altri, al comando del colonnello, stanno andando a sedare i disordini nelle campagne di Saint-Denis, ma noi siamo rimasti indietro e a Montmartre li abbiamo lasciati. Credo che dobbiamo ringraziare il colonnello d’Agoult: a quanto pare sospettava già quello che avremmo fatto ma non ci ha fermato”, disse Alain avvicinandosi e passando un fucile ad André che se lo mise subito a tracolla.
Lei assentì col capo.
“Bene, amici! Toglietevi la giacca dell’uniforme, appuntatevi questa coccarda, è il simbolo di chi lotta per la libertà! E ora via, raggiungiamo gli uomini di Bernard!”
Volarono lungo il quai mentre il sole trafiggeva i tetti più alti in quel mattino di luglio.
 
Dai quaderni di André Grandier
Il mio venticinquesimo compleanno
Oggi mi ha chiesto cosa vorrei per il mio compleanno. Stavamo cavalcando verso Versailles e me l’ha chiesto. Per un attimo ho pensato di risponderle sul serio. Di risponderle così:
“Se tu e io ci prendessimo un giorno libero e andassimo in campagna a mangiare l’uva come facevamo da bambini? E poi a pranzare in quella taverna appena prima di entrare a Parigi? Lì, sotto il pergolato, con quel glicine che ti incornicia, io ti direi cose sciocche per farti ridere e, mentre ridi, io ti prenderei una mano e vorrei, - ecco il mio regalo di compleanno -, vorrei che tu quella mano non la spostassi dalla mia”.
Invece le ho detto: “Oscar, è un giorno come un altro. Non vorrei nulla di particolare”.
Lei ha detto: “Come vuoi”.
Però mi ha sorriso. Mi sono preso quel sorriso, era mio.
 

I soldati della Guardia ribelli si schierarono ai lati della piazza per presidiarne gli accessi, mentre Oscar, André, Alain e Marcel entravano nella taverna dalla porta del vicolo non barricato.
Dentro erano tutti indaffarati e silenziosi, si parlavano a bassa voce o per rapidi cenni delle mani, come cospiratori, come se i muri avessero orecchie.
Pareva davvero un quartier generale, constatò Marcel entrando con la testa bassa per non urtare la trave sulla porta: le zone interne della taverna erano suddivise tra la cucina, dove erano stipate le provviste di cibo, la dispensa, che custodiva le armi - tutte riposte per tipologia: spade, fucili, pistole, baionette, le armi da taglio allineate su un tavolaccio – e la sala, riempita di brande e giacigli improvvisati anche sui tavoli; intanto c’era chi approfittava dell’apertura della porta sul retro per andare a svuotare i pitali.
Marcel proseguì e si affacciò all’altra porta d’ingresso, quella che dava sul vicolo barricato: la polvere da sparo era in un barile all’esterno, sulla soglia dell’osteria, riparata da una specie di paravento costituito da un tavolaccio rovesciato. Lì Marcel vide alcuni bambini che imparavano dalle madri a preparare le cartucce. Nel vicolo, ragazzi con i fucili a tracolla parlavano appoggiati al muro lanciando di tanto in tanto occhiate alla sentinella che stava sdraiata sul pavimento del balcone del primo piano, riparata dall’anta della persiana a cui era stata tolta una stecca e che aveva dunque un’apertura a mo’ di spioncino.
Marcel sorrise di quell’astuzia e i suoi occhi vagarono ancora un po’ per memorizzare, controllare, o forse solo per riempirsi di quella calma breve che seguiva di poco la sua diserzione e precedeva di poco la battaglia.
 
Sentire la vita prima di rischiarla. Gli parve di vederla, la vita, persino in quel colore azzurro intenso del cielo, che si faceva spazio tra le foglie di una magnolia ormai del tutto sfiorita, la cui chioma sbucava dal muretto a secco di un cortile.
 
Fu così che accadde. Accadde all’improvviso. Lì, mentre assaporava la vita.
 
Proprio allora, all’estremità di un ramo di quella magnolia, che in fondo non aveva fatto altro se non indicare ai suoi occhi un percorso da seguire, Marcel vide suo padre.
Lo vide in tutta la sua fragilità, solo, mentre si asciugava il sudore dalla fronte dopo aver impilato delle cassette vicino a un portone. E, nel fare quel gesto tanto banale, quel gesto di pulirsi la fronte col fazzoletto, ecco, gli cadde per terra la parrucca che sempre stava un po’ storta sulla sua testa.
 
Così Marcel vide.
 
Dopo anni, Marcel vide la testa calva di suo padre. Lucida e liscia. Ricordò l’azzurrino delle vene sopra l’orecchio. Gli venne in mente che l’unico momento, a casa, la sera, in cui suo padre toglieva la parrucca era dopo che lui era andato a dormire. Come se vedere quella pelle nuda potesse in qualche modo offendere suo figlio. Ma a Marcel era capitato, lo ricordava ancora, di sporgersi dal letto e seguire con lo sguardo già un po’ assonnato suo padre mentre si incamminava giù per le scale e, al terzo, o al quarto gradino, si toglieva lentamente la parrucca con un gesto stanco. Ed eccola lì, quella testa liscia e indifesa, la parte più nascosta del suo papà.
E poi, all’improvviso, lo assalì un altro piccolissimo ma nitidissimo ricordo. Sua madre e suo padre escono dalla sua stanza. Lo credono addormentato. Lui inizia a scendere i gradini e si toglie la parrucca. Si gira verso di lei, due gradini più su. E lei, con la tenerezza tipica di lei, con le mani delicate che rincorrono e fermano quell’uomo stanco, con le dita affusolate sulla sua spalla, lei gli si avvicina e bacia quella pelle lucida, giusto in quel punto, appena sopra l’orecchio.
 
Sua madre amava quell’uomo.
 
Marcel avvertì qualcosa di oscuro e di dolce montare dentro al cuore e diffondersi per tutto il petto, fino quasi a rendergli impossibile respirare, e così, senza accorgersene, fece quattro passi in avanti, quattro passi per arrivare di fronte a suo padre che lo guardava immobile, gli occhi sbarrati e già liquidi, la parrucca che ancora ciondolava in una mano e un po’ spazzava per terra.
Quando Marcel sentì che le braccia di suo padre lo stavano abbracciando, quando si accorse che anche le sue braccia stavano rispondendo a quell’abbraccio con emozione, con convinzione, con disperazione, ecco, in quel momento, Marcel capì il potere di un abbraccio, la forza della fragilità, la vittoria della resa.
 
Non si dissero una parola.
Si salutarono con un cenno imbarazzato, mentre Marcel cercava di dire “Devo andare adesso” e Roger cercava di dire “Stai attento”.
Quando Marcel sparì, Roger sentì una mano cingergli la spalla e la voce roca e dolce di Crochet che diceva:
“Ora non è più un gamin. È un uomo.”
 
Dai quaderni di André Grandier
Se fossi nobile…
Se fossi nobile, potrei fare quello che ha fatto oggi Girodelle.
Ma Girodelle non ha speranza di essere amato da lei.
Però la potrebbe sposare.
Se fossi nobile e lei mi volesse.
Saremmo due nobili che si sposano. Ma prima dovremmo chiedere il permesso al re.
Il permesso al re.
Mi sembra di scrivere idiozie, stasera.
Se lei non fosse nobile…
Se lei non fosse nobile, le porterei dei fiori. Così, senza darci troppo peso. Mi sorriderebbe.
Se lei non fosse nobile e mi volesse.
Ma chi sarebbe, lei, se non fosse nobile? Se non fosse Oscar? No, non riesco a immaginarla.
Stai scrivendo idiozie, André.
 

D’un tratto rumori di spari si udirono in lontananza. In un attimo Oscar e gli altri lasciarono Bernard e Rosalie, che li guardò con gli occhi lucidi di apprensione, volarono sui cavalli e si misero in formazione.
Lei, davanti a tutti, sollevò in alto la spada:
“Amici, andiamo! Teniamo i soldati lontani da questa piazza!”
Poi fu solo una nuvola di povere che si alzava alle spalle di quegli uomini a cavallo, pronti a combattere per un mondo diverso e più giusto.
 
Si infilarono al galoppo nella strada di fronte: lei a testa bassa teneva la direzione, gli altri dietro imbracciarono i fucili e iniziarono a sparare contro divise celesti che si paravano davanti ai loro occhi, contro cecchini che dai tetti tentavano di colpirli mentre sfrecciavano sul selciato.
Qualcuno cadde a terra: molti con la divisa celeste, qualcuno con la coccarda sul petto.
Ma non c’era tempo per pensare, per fermarsi, per capire: un’onda impetuosa e improvvisa che con violenza si infrange su un pontile marcito, un fulmine che squarcia una pianta che non può far altro che essere squarciata, soldati ribelli che travolgono soldati obbedienti.
 
Gli occhi di Alain si strizzavano nell’istante in cui miravano al nemico e poi si allargavano a controllare che André fosse sempre incolume al suo fianco. Gli occhi di Alain si alzavano a stanare i nemici sui tetti e poi si abbassavano a controllare i movimenti di Marcel. Gli occhi di Alain puntavano il fondo della strada per assicurarsi che quella testa bionda fosse sempre davanti a loro con la spada levata.
 
L’attacco a sorpresa aveva funzionato, pensò lei trionfante, erano riusciti a impedire al nemico l’accesso alla strada e poi alla piazza di Bernard, avevano tenuto lontano le truppe dalla barricata. Quei soldati avevano pensato di trovarsi di fronte una folla inerme e male armata, una folla disordinata che si sarebbe immolata di fronte ai fucili spiegati agli ordini del re. E invece avevano trovato loro! Si girò istintivamente per vedere dove fosse André e lo vide chino sul suo cavallo, i capelli che si confondevano con la criniera mossa dal vento. Sorrise tirando le briglie, erano arrivati in fondo alla strada che si apriva su uno slargo. Ora potevano tornare da Bernard e aspettare un altro attacco.
 
Il sole la abbagliò per un istante e quando si coprì gli occhi per difenderli da quella luce, nell’ombra creata dalla manica della camicia, iniziò a distinguere confusamente, di fronte a lei, uomini schierati. Aggrottò le sopracciglia per vedere meglio. Sbarrò gli occhi piena di sgomento. Fece per girare il cavallo e dare l’ordine di ritirata, ma era troppo tardi: i suoi uomini l’avevano seguita ed erano ormai assiepati alle sue spalle, non c’era spazio per tornare indietro. E davanti a loro c’erano solo fucili spiegati. Non avevano più la forza d’urto data dalla velocità, non c’era più l’effetto sorpresa: l’onda si era ritirata, il fulmine era ormai caduto.
 
“Che facciamo, comandante?”, chiedevano tutti a mezza voce.
“Voi siete i soldati ribelli, non è vero?”, gridò l’ufficiale di fonte a loro.
“Non siamo soldati ribelli, siamo cittadini!”, rispose lei con voce alta e ferma.
Poi alzò di nuovo la spada, mentre una goccia di sudore rotolava giù dalla sua tempia.
Durò pochissimo: la spada si abbassa, i cavalli battono il selciato e acquistano velocità, le schiene si piegano, i fucili diventano prolungamenti delle braccia e dalle loro bocche escono polvere e proiettili, di fronte a loro una fila di soldati si piega su un ginocchio e imbraccia il fucile, quella dietro è già pronta a sparare, proiettili e polvere da sparo, cavalli stramazzano a terra trascinando con sé corpi insanguinati di uomini urlanti, da entrambe le parti uomini muoiono senza neanche avere il tempo di urlare, zoccoli di cavalli calpestano corpi in uniforme, una fuga scomposta e disperata di cittadini guidati da una donna comandante finisce lungo il Quai du Louvre, sotto un ponte della Senna.
 
Si contarono. Erano poco più di venti. Restarono nascosti a lungo mentre sopra le loro teste sentivano l’accorrere dei soldati, gli ordini degli ufficiali, le grida di protesta di una folla a stento tenuta a bada dalla minaccia dei fucili di sua maestà.
“Non c’è altro da fare, dobbiamo tornare alla barricata. Da lì potremo attaccare il nemico contando sugli spazi stretti dei vicoli e avremo l’aiuto degli uomini di Bernard. Siamo troppo pochi”, mormorò lei come se parlasse tra sé, seduta con le ginocchia al petto, le mani che in mezzo alle ginocchia si sfioravano. Non osava nemmeno toccarlo, André. Doveva essere lucida. Doveva essere un soldato, non una donna innamorata. Se solo l’avesse sfiorato, il controllo che cercava di mantenere si sarebbe frantumato ai suoi piedi. Si guardò le mani e cacciò via la sensazione delle dita di André intrecciate alle sue tra i sospiri dell’amore.
Non adesso, non adesso.
Alain annuì: “Dobbiamo raggiungere la barricata prima del tramonto, approfittando della folla e della confusione nelle strade. Al calare del buio sarebbe troppo pericoloso: ogni via e ogni piazza saranno deserte e presidiate di soldati”.
“Prima di andare laggiù voglio passare da Saint-Eustache, Oscar. Devo vedere come stanno la nonna e i Dunant”, André si staccò dal muro ma non la guardò mentre le parlava. Lottava anche lui per ignorare l’amore che li legava in quella bufera. Doveva ignorarlo per difenderla. Di sfuggita vide però la sua pelle bianca, quella appena sopra la clavicola. Cacciò via la sensazione di quella pelle sotto le sue labbra.
Non adesso, non adesso.
“Sì, passeremo da Saint-Eustache e poi andremo da Bernard, ma dobbiamo muoverci insieme”, lei lo osservò da sotto in su, come se stesse cercando di vedere i sintomi di un male alla testa che le avevano insegnato a riconoscere. Era sudato, ma chi non lo era? Era pallido, ma tutti loro lo erano. Non c’era di che preoccuparsi, si convinse.
“Potrebbero venire tutti con noi alla barricata invece che stare soli lì”.
“Non credo che i Dunant lascerebbero mai la loro casa, Oscar”.
“Sì, hai ragione”.
 
Dai quaderni di André Grandier
Ho comprato un appartamento a Parigi.
Ho comprato un appartamento perché lei ha detto che non ha più bisogno di me.
Ho comprato un appartamento a Parigi perché questo è il posto che ci ha incantato la prima volta che siamo stati a Parigi insieme, eravamo due bambini.
Ho comprato un appartamento a Parigi perché devo inventarmi un’altra vita.
Ho comprato un appartamento a Parigi in un posto che è pieno del ricordo di lei.
Ho comprato un appartamento a Parigi perché lei è in Normandia.
Ho comprato un appartamento a Parigi perché quando ci sono entrato mi pareva di sentire la sua presenza in ogni stanza.
Ho comprato un appartamento a Parigi perché sono un uomo che anche nella disperazione non smette di coltivare stupidi sogni, fiori parigini sulla sabbia della Normandia.
 

“Io vi raggiungo da Bernard più tardi”, disse Marcel deciso.
“Dove hai intenzione di andare?” ringhiò Alain.
“A Saint-Germain. Voglio andare a vedere se riesco a smuovere Iatroux da quella taverna e… devo fare un’altra cosa. Ho detto che vi raggiungo”, nel suo tono non c’era nulla di accomodante e Alain alzò le mani in segno di resa:
“Fa’ quel che vuoi”.
Marcel si avviò verso la luce uscendo dalla copertura del ponte.
 
Videro Marcel indietreggiare con la mano alzata e poi voltarsi con l’indice dell’altra mano sulla bocca, si trascinò tutti dietro sotto la campata del ponte e bisbigliò:
“C’è un soldato a guardia del ponte”.
“Uno solo?” chiese Alain sbirciando fuori.
“Non lo so, la visuale è coperta”.
“I cavalli! Ci sono ancora o li hanno presi?”, Lasalle tremò più forte.
Lei si sporse sul pelo dell’acqua e guardò avanti:
“Ci sono ancora, vedo le sagome riflesse sull’acqua”.
“Usciamo alla spicciolata dalle due uscite del ponte, uno per uno andiamo a prendere i cavalli e ce ne andiamo”, suggerì Pierre.
“No, troppo pericoloso, rischiamo di farci prendere facilmente. Io dico di uscire tutti insieme, uniti siamo un drappello. Puntiamo l’arma addosso al soldato là sopra e gli facciamo cenno di stare zitto: a quel punto, o sta zitto o lo faremo stare zitto noi, per sempre”.
“Va bene, Alain. Andiamo”, disse lei impaziente.
Uscirono a ranghi compatti, le pistole puntate verso l’alto, gli occhi sulle spalle di quella sentinella.
Poi fu tutto velocissimo: la sentinella non si accorse nemmeno del colpo che la fece cadere a terra senza vita. Non aveva avuto neanche il tempo di puntare la sua arma.
 
Corsero ai cavalli e salirono in sella mentre alle loro spalle accorrevano altri soldati richiamati dallo sparo. Si lanciarono al galoppo, lei sempre davanti a tutti, dietro, a chiudere il gruppo, Alain e André. Si infilarono nella strada più affollata per confondere la loro fuga in mezzo a tutte quelle persone mentre dietro di loro sentivano gli zoccoli dei cavalli del Royal Allemand che battevano il selciato al loro inseguimento.
 
Marcel invece oltrepassò il ponte e si inoltrò nei vicoli di Saint-Germain.
 
Arrivò alla taverna di Iatroux e si lanciò dal cavallo in corsa, si precipitò giù dalle scale e si affacciò alla porta:
“Iatroux!” gridò.
L’oste dava le spalle al bancone, stava sistemando caraffe e bicchieri:
“Non c’è”.
“Dov’è andato?”
“Non lo so. Ha borbottato di una barricata. Dice che gli è venuta nostalgia del fango… mah, vallo a capire”.
Marcel si calmò, sorrise soddisfatto e uscì.
 
Respirò l’aria di quel vicolo abbandonato da tutti e sentì che il suo cuore si placava. Era vivo. Aveva abbracciato suo padre. Fece vagare lo sguardo in quel quartiere in cui era nato e cresciuto, decise dove voleva andare, ci andò, e poi camminò finché non fu stanco. Quando infine il cielo si colorò di rosa e la bellezza spudorata del tramonto illuminò Parigi, spinse la porta della casa di Crochet, si buttò sul letto dove aveva dormito solo qualche sera prima e sprofondò nel sonno. Non si accorse nemmeno della pioggia battente che per tutta notte lavò le strade del sangue versato quel giorno.
 
Dai quaderni di André Grandier
Pensa, Oscar, pensa se ci fermassimo ancora qualche giorno qui in Normandia.
Sei così triste, in questi giorni. Guardi sempre il mare. E sospiri, lo vedo. Li sento anche i tuoi sottilissimi sospiri. E vedo che a volte, al tramonto, oppure la sera, quando siamo fuori in terrazza, li governi, i respiri, e butti fuori l’aria con le labbra chiuse mentre il petto si abbassa piano. Pare che tu stia tirando forte delle briglie immaginarie. Che tu stia nascondendo un dolore troppo grande per essere pronunciato.
Ma, vedi, questo linguaggio, questo linguaggio del respiro, a me è molto familiare, Oscar. Lo conosco bene. Fa male, vero? Vorrei dirti che un giorno non farà più male. Lo vorrei.
Pensa, Oscar, pensa se ci fermassimo fino alla fine dell’estate qui in Normandia.
Vedremo le giornate diventare corte, l’oscurità ci sorprenderà nel tardo pomeriggio quando saremo ancora fuori a cavallo, ci stringeremo nelle spalle alla prima frescura della sera, sentiremo arrivare le giornate lattiginose di pioggia che precedono l’autunno, ci verrà voglia di accendere il camino prima di cena, ci sveglieremo di notte per il vento. Solo io e te e la natura di questo posto.
Cielo, terra e mare. E vento.
Nient’altro. Nient’altro da desiderare, nient’altro da aspettare.
Pensa, Oscar, pensa se ci potessimo fermare qui in Normandia per sempre.
 

Era arrivata a Saint-Eustache da pochi minuti, il tempo di smontare da cavallo, di rassicurare una Marie in lacrime e di sincerarsi che anche i Dunant stessero bene. Erano nel cortile interno e le facevano domande, ma lei rispondeva distrattamente volgendo continuamente lo sguardo all’ingresso: voleva solo sentire arrivare André, sentire la voce di André, sentire il corpo di André vicino al suo.
Le si parò davanti uno dei soldati ribelli - chi? non l’avrebbe saputo nominare -, sudato, stravolto, il volto deformato.
Diceva cose.
Pronunciava parole.
Ma le sue orecchie parevano chiuse a qualunque suono.
Lei sgranò gli occhi e provò a leggere quelle parole sulle sue labbra. Ma non ci riuscì.
Così sbatté le palpebre una volta, come per riprendere coscienza, e seguì ancora il movimento di quelle labbra che dicevano parole.
E alla fine lei decifrò quelle parole. Quelle parole per lei. E sentì la testa girare, lo sbigottimento e insieme l’inverarsi della sua paura più grande.
 
Comandante, André è stato ferito!
È ferito, comandante!
 
Allora alla donna comandante, alla donna lucida e sempre presente a sé stessa, si sostituì la donna innamorata, le parve di non essere nemmeno in grado di fare un ragionamento che fosse sensato, di porre una domanda che desse dei confini a quell’espressione “è ferito” e si lanciò fuori dall’androne di casa.
Travolse Lucille che cercava di fermarla e calmarla.
Uscì sulla strada e, nello svoltare a destra senza guardare null’altro che il fondo della strada dove vedeva avanzare la sagoma di un cavallo montato da quelli che parevano due uomini uno dei quali aveva la testa che ciondolava di lato, si scontrò con un tizio in uniforme – erano dappertutto i soldati che pattugliavano le strade – che la strattonò per vedere chi fosse e dove volesse andare, ma lei se ne liberò spingendolo e spostandolo con le braccia e poi iniziò a correre.
Correva verso Alain, spettinata e sconvolta, con il braccio destro levato in alto, la falcata che pareva sospinta da una forza senza misura, gli occhi puntati solo su quel volto che ciondolava di lato e che, ora lo vedeva bene, era il volto incosciente di André, sulla bocca un grido, un grido che grattava e graffiava la gola, un solo nome:
 
André! André! André!
 
E mentre le persone per strada si voltavano tutte a guardare quella scena - lei, di profilo, il braccio levato, che percorreva metri e il mondo intorno sembrava fermo -, mentre quel dannato cavallo pareva più lento di qualunque attesa, il soldato dell’esercito estrasse la sua pistola.
E mentre lei ancora gridava quel nome e correva, lui sparò.
E a terra rimase il corpo rannicchiato di Oscar.
 

 
Dai quaderni di André Grandier
Da tre giorni non apro questo quaderno. Oggi lo apro, ma non ho niente da scrivere. Mi viene da sorridere. Non ho niente da scrivere. Mi rigiro la penna tra le dita, per questo ora c’è questa macchia. Mi fa allegria anche questa macchia. Non ho niente da scrivere. Che cosa deve scrivere un uomo innamorato che vive la gioia di essere amato?
 
 
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Per la scena finale di Oscar: credo proprio che quella corsa disperata di Anna Magnani abbia agito dentro di me mentre scrivevo.
Sempre il mio grazie a chi ha voglia di leggere questa storia.

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Capitolo 14
*** 14 luglio 1789 ***


Perdonatemi, il capitolo è davvero molto lungo, ma non lo voglio spezzare. Ho messo gli asterischi, così potete tenere il segno e decidere voi se, quando e dove interrompere la lettura. E sì, so che il tricolore il 14 luglio è una forzatura, ma io l’avevo detto che avrei forzato.
E, verso la fine, c’è un bellissimo dono di Galla, generosa, talentuosa e sempre affettuosa amica.
 

14 luglio 1789

 
Strizzò con uno spasmo incontrollato la mano che era nella sua, la mano di André addormentato al suo fianco nel loro letto di Saint-Eustache. Le ore della notte erano spaventose. E quella pioggia battente non aiutava, incupiva i pensieri, faceva aleggiare foschi presentimenti, faceva immaginare dolore e morte. Alzarsi e vedere le stelle, vedere la luna. Forse questo le avrebbe concesso una sorta di conforto. Invece solo scrosci di pioggia. Le venne da tossire ma si trattenne per non svegliare André. L’odore della polvere da sparo e della terra che aveva respirato le grattavano il fondo della gola.
Immobile, supina nel letto. Lui immobile, supino nel letto.
Il pensiero di loro due, supini in due bare vicine.
O, peggio, di uno solo di loro due, supino in una bara.
Le mancò il fiato e si mise la mano libera sul petto, facendo uscire piano l’aria dalle labbra. L’oppressione che sentiva era troppo violenta.
Dormire era impossibile, la testa girava frenetica tra mille pensieri che si sovrapponevano ai ricordi della sera prima.
Quando era caduta a terra e aveva sentito il cuore frantumarsi e aveva creduto di vedersi morire. E invece non era morta e non era nemmeno ferita. E aveva premuto i palmi delle mani a terra per rialzarsi e non aveva visto sangue e non aveva sentito dolore sul corpo. Ma aveva capito perché era caduta: era caduta perché il dolore era nel cuore, quello sparo alle sue spalle, quel proiettile che l’aveva solo sfiorata – solo sfiorata! – aveva abbattuto la sua corsa esattamente quando il volto bianco e privo di sensi di André aveva raggiunto i suoi occhi. E lei non aveva retto, non aveva retto al dolore.
Si sentiva così fragile di fronte alla potenza dei suoi sentimenti. Non era abituata a sentirsi così. Le sofferenze che aveva provato anni prima per il conte svedese e che lei aveva attribuito all’amore non si affacciarono nemmeno all’anticamera della sua coscienza come metro di paragone.
Il pensiero di André che si allontana nel buio della morte.
Sentì che le lacrime rotolavano in silenzio sulle sue guance e bagnavano il lenzuolo. Fissò la piega del cotone bianco sul suo petto e in un attimo fu travolta dal ricordo di quel lenzuolo non piegato ma attorcigliato su di loro, di quel lenzuolo abbandonato sulle loro teste per nascondere i loro baci, perché nessuno li veda, perché nessuno possa invidiarli, quei baci, vede quel lenzuolo dove si sono rotolati ridendo, vede quel lenzuolo sul quale ha imparato, in una notte che è paradiso nel ricordo, che cosa il suo corpo può fare, che cosa il suo corpo può sentire. Ma non c’è niente da fare, non c’è niente da sentire, se con lei non c’è quell’uomo che ora dorme profondamente al suo fianco.
 
Stringe ancora la mano di André e assapora il calore di quella mano viva. Viva per un miracolo, viva per le cure di Iatroux.
Rivede il corpo di André, la camicia ormai rossa di sangue, che viene calato dal cavallo di Alain, vede Alain che corre via in cerca di un dottore alla barricata. Si sforza di non ascoltare di nuovo le grida della nonna, sente di nuovo i tonfi del suo cuore e il respiro sincopato di André che si è riscosso nei movimenti necessari a trasportarlo in casa.
Vorrebbe girarsi a guardare il profilo del suo André che dorme, ma non ci riesce.
E allora torna a quelle parole di Iatroux – è solo la spalla, è solo la spalla – che risuonano in lei come una promessa a cui è meglio non credere, come una speranza elargita da un dio crudele che poi si porterà via tutto, e non si concede di sorridere perché tutto va male, tutto va troppo male. E mentre Iatroux, le mani ferme, senza traccia di delirium tremens, si dà da fare intorno ad André – André che non le parla, André che non la guarda, André che ha un corpo che non si muove – lei si appoggia alla parete con gli occhi sbarrati e il fiato trattenuto.
Ma poi era venuto davanti a lei, quel medico greco che ormai le pare il dio della medicina in persona, che ormai le pare l’angelo salvatore dell’uomo che lei ama, e le aveva detto: Ho estratto la pallottola, medicato la ferita. Domani, se è un uomo come intendo io un uomo, sarà come nuovo. E poi aveva riso, quella faccia che sembrava un libro di geometria, con i suoi spigoli, con i suoi angoli, con quei dannati accenti circonflessi al posto delle sopracciglia.
Si mise sul fianco e si guardò tutto il suo André che era ancora lì con lei. I capelli scuri si allungavano sul cuscino, la ciocca che di solito gli copriva l’occhio era spostata di lato e lei nel buio intuiva la cicatrice. Desiderò baciarla, ma lo fece solo con gli occhi.
Quella cicatrice… i problemi alla vista… le parole di Alain: André si è paralizzato nel mezzo della nostra fuga verso Saint-Eustache, a un certo punto ho visto che il suo cavallo invece che procedere indietreggiava e lui si teneva la testa, bianco come un cencio, tremava e aveva l’occhio sbarrato e appena ho capito sono tornato indietro, comandante, ma non sono riuscito, non sono riuscito, maledizione, a proteggerlo! A fargli abbassare la schiena prima che quel soldato gli sparasse, non ci sono riuscito! E lei l’aveva visto piangere, Alain. Come l’aveva visto piangere per Diane. Ho già perso una sorella, non posso perdere anche un fratello, le aveva detto.
E non l’aveva perso, pensò lei guardando il profilo del naso, il profilo delle labbra di André.
Il suo André che era ancora lì con lei, il suo André che prima di crollare nel sonno profondo che nasce dalla sofferenza e dallo stordimento le aveva sussurrato ti amo, non avere paura, il suo André che aveva trovato la forza per abbracciarla con il braccio non ferito, perché lui lo sapeva quanto lei volesse quell’abbraccio.
E quando la pioggia cessò, finalmente, quando il primo chiarore dell’alba iniziò a invadere la stanza e lei realizzò che erano in una città in guerra, una nuova paura la investì violenta: Cosa succederà oggi? Come sopravviveremo a oggi?
Era sufficiente tenersi per mano per non avere paura?
 
***
 
Marcel dormiva e nel sonno vagava nel suo quartiere, proprio come aveva fatto la sera prima. In quelle immagini sconnesse del sogno, abbassando lo sguardo su di sé vedeva solo il blu della coccarda vicino al collo, la camicia bianca che si apriva sul petto, la cintura dei pantaloni. Poi scorgeva le sue gambe svelte che percorrevano strade e vicoli e i suoi piedi nudi che calpestavano zolle d’erba e infine sentiva l’odore stantio di fiori diversi che avevano tutti lo stesso profumo di cimitero e poi vedeva un angelo su cui si arrampicava dell’edera e poi sentiva la sua voce che diceva Ciao mamma e poi sentiva una specie di calore umido sulle guance e vedeva le sue dita, le unghie sporche di fango e polvere, che si appoggiavano a quella esile spalla d’angelo come per trovare un appiglio e poi lui che diceva Ho paura, Joss. E in effetti non era più di fronte a quell’angelo, ora, ma era su quel gradino dove lui e Joss passavano le sere a chiacchierare e a darsi baci e lui le teneva entrambe le mani, c’erano sempre quelle unghie sporche di fango e di polvere, e lei gli stava parlando in una strana lingua sconosciuta che lui non capiva, allora lui le diceva Amore, amore, io non ti capisco e lei gli sorrideva scoprendo i denti bianchissimi e faceva sgusciare una mano dalla sua e gli apriva la camicia sul petto e con l’indice gli mostrava il tatuaggio, i due cuori uniti da una catena, e sorrideva e in una strana lingua che Marcel non conosceva diceva qualcosa di molto dolce.
 
Marcel aprì gli occhi sul soffitto della casa di Crochet. Un attimo prima i suoi occhi erano sigillati dal sonno, ora erano spalancati. Teneva la testa ferma sul cuscino e il corpo immobile, ma gli occhi erano sbarrati. Il movimento delle palpebre impedito da uno stato di attesa, il respiro trattenuto per una ignota paura. Lentamente e poi sempre più distintamente giunsero alle sue orecchie i suoni della strada.
C’era gente che urlava, là fuori.
Spari.
Porte che venivano sbattute.
Pianti di bambini.
“Ma che succede?”, Marcel in un balzo fu fuori dal letto; si vestì e uscì.
 
***
 
Marie finì di medicare e di fasciare la spalla di André mentre Oscar, gli occhi cerchiati e stanchi ma lo sguardo affilato e attento, squadrava l’espressione del volto dell’uomo che amava. La forza di volontà di André le parve grande come una montagna di cui non si vede la cima: come riusciva a mostrarsi così forte dopo quella ferita? Come riusciva a nascondere la paura? Come era riuscito, appena si era alzato dal letto, ad abbracciarla e a rassicurarla e a confortarla? Non avrebbe dovuto farlo lei?
 
Avevano deciso di andare tutti alla barricata di Bernard, nessuno si sentiva più tranquillo lì. Giravano voci di case depredate, di bande di disperati che, approfittando della situazione nelle strade, entravano a svaligiare appartamenti, a devastare stanze, a rubare qualunque cosa, fosse anche un pezzo di pane.
“Non ci possiamo difendere se non ci siete voi, siamo troppo deboli”, aveva sentenziato con la voce stanca e rassegnata Monsieur Dunant.
“Sì, non abbiamo scelta”, aveva convenuto Lucille stringendosi nervosamente le mani in grembo.
“Ho preparato una borsa con il necessario per tutti”, aveva aggiunto Marie con tono grave.
 
Uscirono in strada e si accorsero subito che quella era la mattina di un giorno diverso da qualunque altro giorno. Gente correva verso ovest – Agli Invalides!, urlavano quelli -, altri verso est – Alla Bastiglia!, urlavano gli altri – e tutti correvano, incuranti di quello che travolgevano nella loro corsa. Lucille faceva il possibile per reggere il passo stentato di suo padre, Oscar aveva il cuore in gola e contava i passi che separavano il loro piccolo gruppo dalla barricata. Vedeva André, pallido pallido, che cercava di fare spazio alla nonna in mezzo alla folla mentre con una mano si reggeva la spalla ferita. Ma lei non riusciva a parlare, riusciva solo a camminare, a contare i passi, a scrutare l’orizzonte pregando che quella barricata comparisse il prima possibile ai suoi occhi.
Quando arrivarono alla piazza davanti al vicolo barricato, si concesse di respirare e di abbozzare un piccolo sorriso che le morì sulle labbra non appena si accorse che, alla sua destra, un gruppo di uomini armati si stava avventando su un drappello di soldati a piedi. Sentì sparare alle sue spalle, ma non avrebbe saputo dire chi avesse sparato, se i soldati o quegli uomini.
Allora gridò:
“Presto! Correte!”
Sentì una gragnola di colpi che si abbatteva dietro di loro.
Con la coda dell’occhio vide la schiena di André che si curvava sulla nonna per proteggere la sua corsa e gli si accostò per aiutarlo. Correvano, loro due, le mani strette convulsamente sulla schiena di Marie, il sudore della paura che bagnava la pelle tra le labbra e il naso.
E quando arrivarono al riparo di uno dei vicoli e si voltarono videro che lo scontro era finito ma che nessuno correva dietro di loro.
Marie si coprì la bocca con le mani tremanti.
Oscar iniziò a scuotere il capo come a dire “no” mentre guardava il corpo a terra di Lucille.
André corse verso quel corpo e vide, appoggiata sulle ginocchia di Monsieur Dunant, la testa di Lucille, i capelli che uscivano dalla crocchia e che le accarezzavano il viso, immobile con gli occhi aperti sul niente.
Monsieur Dunant tremava. Tremava di dolore e di incredulità e riusciva solo a respirare come respira una bestia ferita a morte, con le mani che non arrivavano a sfiorare il viso di sua figlia ma stavano lì, a mezz’aria, e lui non era in grado nemmeno di sbattere le palpebre asciutte e alla fine, quando André lo guardò e gli disse piano “Henry…”, lui fece un respiro profondo che a metà si spezzò, insieme alla sua vita.
E il capo di Monsieur Dunant crollò sul volto bianco di sua figlia.
 
***
 
Sgusciando tra la folla che invadeva la strada e che procedeva come avesse un unico passo verso l’Hôtel des Invalides, Marcel riuscì a capire che stavano tutti andando là per procurarsi armi e che quelle armi non le avrebbero chieste, se le sarebbero prese con la forza. Pareva di camminare in mezzo a degli spiritati, persone che hanno smesso di essere persone e si sono trasformate in un corpo solo, guidato da un unico pensiero, da un unico scopo. Al bordo della strada vide la carcassa di una cagna appena calpestata. In braccio a una donna un bambino di tre o quattro anni, muto e fermo come un bambino di quell’età non dovrebbe essere. Aggrappati a giovani braccia, vecchi che imprecavano per avere anche loro un fucile.
Marcel si fermò contro un muro rientrante nei pressi dell’abbazia per riordinare i pensieri e sottrarsi a quel fiume in piena. Era sbigottito e faticava a prendeva consapevolezza di quello che stava vivendo a tal punto che la memoria lo riportò, così, senza senso, a quando era bambino e quelle strade, nel periodo di Pasqua, si riempivano di gente per la fiera di Saint-Germain. Sua madre lo portava a vedere il teatro dei burattini e lui era felice.
Fece ancora qualche passo per raggiungere una delle strade secondarie che si diramavano poco più avanti.
D’improvviso, però, Marcel ebbe un sussulto: in mezzo al fiume di gente che procedeva verso gli Invalides e dal quale lui si era appena sfilato trovando riparo in un vicolo alla sua sinistra, vide con la coda dell’occhio che una ragazza si stava gettando con il suo corpo su quello di una donna anziana caduta a terra. Quel viluppo di corpi si fece immobile in mezzo alla folla che lo lambiva da ogni lato e che sicuramente l’avrebbe a breve schiacciato. Ma la cosa che, in un istante, il tempo di un battito di ciglia, stupì Marcel era che quel groppo di ossa, carne e stracci non si muoveva: la ragazza copriva il corpo sotto, come in attesa di una percossa ineluttabile, di un colpo mortale che le avrebbe spazzate via entrambe.
Allora Marcel, facendosi largo contro corrente, si precipitò a raccoglierle, fece alzare la ragazza e le indicò il vicolo vicino, si caricò sulle spalle la donna anziana e la seguì.
“Ora tu e tua nonna siete al sicuro”, disse Marcel facendo sedere la donna su un gradino, “ma non è stata una buona idea uscire di casa oggi. Dovete mettervi al riparo, hai capito?”
La ragazza alzò lo sguardo su di lui e con voce assente disse:
“Non è mia nonna. È mia madre. È molto malata, vedi? Non ha più i denti, è tutta pelle e ossa… hai sentito come è leggera? Credo che non abbia ancora quarant’anni. I suoi capelli sono tutti bianchi, hai visto? Ha solo me…”
“Tu… stai parlando di lei come se non fosse qui… come se non ti sentisse…”
La ragazza accarezzò la fronte della donna e poi le tenne la mano tra le sue:
“Ormai non capisce più… non sa nemmeno che io sono sua figlia… il prete dell’estrema unzione dice che sono le febbri del cervello… ma io non so…”, gli piantò gli occhi in faccia, “tu pensi che sia importante che io lo sappia?”
Marcel la guardava e non trovava parole da dirle. La folla alle sue spalle continuava a sciamare e a gridare e a imprecare e a lui all’improvviso importava solo di quelle due sconosciute, di quella ragazza e della sua piccola storia di miseria.
“Ma dove stavate andando?” chiese dandosi dello stupido per quella domanda così pratica e banale.
“Alle panchine de La Charité. Andiamo sempre lì a prendere il fresco la mattina”.
“Ma ti sei accorta di che cosa sta succedendo? È pericoloso! Dovete tornare a casa, subito!”
“Ascoltami bene, ragazzino”, gli soffiò in faccia in tutta risposta quella giovane donna tutta pelle e ossa, “non c’è differenza tra questa vita e la morte, ti pare? A mia madre piace la panchina de La Charité e io, caschi il mondo, la porto su quella panchina. Non possiamo permetterci nient’altro: la nostra casa è una stanza ammuffita sottoterra, abbiamo smesso di usare le parole “colazione” e “cena” tre anni fa, ora usiamo solo la parola “pane”, ogni tanto e se qualcuno è caritatevole con noi. Quindi spostati, io ora porterò mia madre su quella stramaledetta panchina, a costo di arrivarci e poi morire. Ti è chiaro?”
Marcel sentì una specie di furore montargli alla testa e in tutta risposta si caricò la donna sulle spalle e si incamminò verso la strada principale.
“Ehi, che fai?”
“La porto a quella stramaledetta panchina”, gridò lui senza voltarsi, “e faresti bene a seguirmi anche tu, ragazzina”.
Arrivarono alla panchina remando contro corrente e stando allacciati in mezzo alla folla che fendevano protendendo la testa in avanti, Marcel con il suo carico sulle spalle, la ragazza con la mano tesa e sempre appoggiata alla schiena di sua madre, il palmo aperto sulla stoffa ingrigita della veste di quella donna del tutto inconsapevole del mondo intorno a sé. La donna fu fatta sedere con cura da entrambi sulla panchina e poi la figlia le sistemò le rade ciocche di capelli dietro le orecchie rassicurandola, “Siamo arrivate, mamma, vedi?”, mentre Marcel si guardava intorno per decidere se quel posto fosse sufficientemente riparato.
“Ascoltami, dovete trovare un posto dove mettervi al sicuro. La città si è svegliata molto nervosa, te ne accorgi, vero? State rischiando la vita voi due”.
“E tu? dove vai?”
“Devo raggiungere i miei compagni, ci sarà da combattere oggi e io devo fare la mia parte”.
“Non cerchi un posto dove metterti al sicuro? La città si è svegliata molto nervosa, oggi” disse lei facendogli il verso ma senza ironia, con brusca sollecitudine, piuttosto.
Lui le sorrise e le fu riconoscente per quella premura.
“Ragazzina, io farò il mio dovere, tu fai il tuo. Domani mattina vengo ad aiutarti di nuovo a portare qui tua madre”, e le voltò le spalle.
Ma lei lo fermò:
“Aspetta!”
Estrasse dalla tasca una corona di rosario fatta di piccoli grani di legno scuro e la stese tra le mani guardando Marcel. Lui si avvicinò e chinò la testa bionda davanti a lei. Allora la ragazza infilò la corona sulla testa di Marcel e la sistemò al suo collo facendo uscire i capelli che gli coprivano la nuca. La corona scese sul petto di Marcel che appoggiò il palmo aperto della sua mano su quel dono inatteso.
“Grazie”, disse solo.
Lei gli sorrise e poi si sedette vicino a sua madre prendendole la mano:
“Hai visto che bel sole, mamma? Non piove più”.
 
***
 
I corpi di Lucille e di Monsieur Dunant furono portati nella piccola chiesa sulla piazza, dove già erano stati composti i corpi dei caduti del giorno precedente. Sul sagrato alcuni falegnami avevano ammucchiato bare messe insieme con quello che avevano trovato, ante di armadi, mensole, piani di tavoli. Lei fissava quel mucchio senza riuscire a distogliere lo sguardo.
“Vi state chiedendo chi di noi entrerà in quelle casse oggi?” chiese Crochet a bassa voce. Era appena arrivato o era sempre stato lì?
“Mi sto chiedendo per quale sorte né io né André siamo dentro una di quelle bare”, disse piano.
“Capisco. Ma non torturatevi, è un pensiero che non vi porterà a nulla, datemi retta. Finché si è vivi bisogna vivere, non serve chiedersi perché non si è morti. Non sta a noi saperlo”.
“La morte porta via tutto. I sogni, le speranze…”
“Avete ragione, sì”, Crochet si abbassò sui talloni e guardò giù e avanti, come se volesse scrutare qualcosa di incastrato tra un ciottolo e l’altro del sagrato, “Io però non penso più a sogni e speranze. Sono vecchio, il mio orizzonte è limitato. La morte di quelli che amo mi porterebbe via una risata a fine giornata, un bicchiere di vino insieme in quel momento dopo pranzo in cui ti viene sonno, aprire la porta e sapere che come tutte le mattine vedrai un amico indaffarato alla sua scrivania, due mani simili alle tue che insieme alle tue reggono un cuoio gocciolante”, la sua voce era così dolente e così malinconica e graffiava e accarezzava insieme.
“Sì… le piccole cose… Finché si è vivi bisogna vivere, è così?”, mormorò lei sovrappensiero, “Grazie, Crochet”, aggiunse appoggiandogli una mano sulla spalla. Poi con urgenza scappò via, verso la taverna.
Entrò e gettò lo sguardo nella penombra a cercare la sola persona che voleva e lo vide mentre parlava con Bernard e, alle loro spalle, la nonna e Rosalie facevano scaldare del caffè e qualche pezzo di pane secco. Non le importava niente di quello che stavano facendo, di quello che si stavano dicendo. André non fece in tempo a girarsi e a pronunciare il suo nome, lei l’aveva già trascinato in un angolo del sottoscala. E mentre gli altri li guardavano, com’era ovvio visto che tutto era stato così improvviso, lei si arrampicò con le sue labbra su quelle di André e chiuse forte gli occhi, fino quasi a sentire male, schiacciò le labbra su quelle di lui spingendogli indietro la testa e appoggiò le mani sul suo petto. E lui rispose a quel bacio con una spinta opposta e le prese la testa tra le mani e la costrinse ad aprire le labbra sulle sue e la assaporò tutta, davanti a chiunque li stesse guardando, senza frenare il bisogno e il desiderio di vita che li attraversava e li scuoteva in quella mattina del 14 luglio.
 
***
 
Poi.
Poi ci furono delle voci, delle grida concitate.
Poi ci fu una corsa affannosa verso la barricata.
Poi ci fu Alain che si arrampicò con l’agilità di un felino e lo sguardo di un assassino sui mobili accatastati fino alla sommità della barricata.
Poi la sentinella urlò “Marceeel!”
Poi a Iatroux cadde di mano una tazza.
Poi gli spari e il battere velocissimo degli zoccoli dei cavalli.
Poi Oscar si inerpicò sulla barricata vicino ad Alain.
Poi André, indifferente al dolore alla spalla, si arrampicò sulla scala del balcone e raggiunse la postazione della sentinella.
Poi Roger, retto da Crochet, iniziò la sua scalata e, una volta in cima, abbracciato alla gamba di un tavolo rovesciato, vide.
Tutti videro.
 
Videro Marcel che galoppava verso di loro inseguito da un gruppo di soldati a cavallo con i fucili spiegati. E quei soldati spararono, spararono. Ancora e ancora. Allora anche dalla barricata iniziarono a sparare all’impazzata contro gli inseguitori di Marcel. Marcel teneva le briglie arrotolate al polso sinistro per accorciare le redini e manovrare con decisione il suo cavallo e con l’altra mano reggeva il fucile. Ma gli spari nemici trovarono alla fine un bersaglio e, proprio sotto la barricata, il cavallo di Marcel stramazzò al suolo sul fianco facendo cadere Marcel e schiacciandolo sotto il suo peso. E loro dall’alto videro in un istante Marcel, il fucile lontano a terra, che si dimenava per liberarsi dal peso del cavallo, ma quelle briglie arrotolate al suo polso lo stringevano e più lui tirava più stringevano e lui, dannazione, non riusciva a liberarsi e vedeva le sue mani, le sue dita, le sue unghie sporche di fango e di polvere, e sul suo volto congestionato lo videro tutti il terrore. E dietro a Marcel sentivano rumore di spari e di cavalli al galoppo ma non si vedeva niente in mezzo a quel polverone. Allora Alain smise di sparare ed estrasse dallo stivale il suo coltello e lo lanciò sotto a Marcel, “Taglia! taglia quelle redini, Marcel!”, e Marcel con la mano libera l’aveva afferrato quel coltello benedetto e si dava da fare ma non ne veniva a capo, ogni movimento finiva a vuoto, come mosso da una mano insicura. “Concentrati, Marcel! non tremare, non avere paura!” gli gridava Alain, così forte che avrebbe potuto sputare fuori i polmoni insieme alle parole, mentre tutti, dalla barricata e dalla piazza sparavano, ma davvero c’era troppa polvere si vedeva pochissimo e i colpi andavano a vuoto e Roger tratteneva il respiro e sembrava scosso da un tremito senza fine. E Alain aveva avuto l’istinto di precipitarsi in strada da lui, ma una certezza che non voleva ammettere lo inchiodava lì con gli occhi fissi su Marcel, la certezza che se fosse sceso da quella barricata, se fosse corso in strada, se fosse arrivato fino a Marcel, sarebbe stato troppo tardi. Perché tutto si decideva in quella manciata di secondi che non sarebbero bastati a coprire la distanza dalla barricata alla piazza, quei secondi che si esaurivano uno dopo l’altro strisciando su di loro come un veleno che inesorabile dagli arti risale al cuore. “Taglia, Marcel, maledizione!” gridò André nel vedere l’ennesimo tentativo a vuoto di Marcel, e, prima di imbracciare anche lui il fucile per cercare di abbattere i soldati che si confondevano nell’aria polverosa, volse lo sguardo verso di lei che stava dicendo qualcosa e aveva gli occhi sgranati e il colore terreo di chi vede la fine di ogni speranza, e lei stava dicendo qualcosa, anzi continuava a ripetere qualcosa, ma cosa?, e così André lesse sulle sue labbra quello che lei stava dicendo e stava dicendo: “è mancino, è mancino, è mancino”. E non aveva ancora finito di dirlo che uno di quei soldati sbucò da quella nebbia giallastra, si avvicinò a Marcel e - tutti sentirono quel rumore osceno - gli conficcò la baionetta nel cuore.
 
Poi furono solo le grida di dolore di Roger.
Gli spari degli uomini della barricata che alla fine ammazzarono quei soldati, tutti.
I corpi riversi a terra, su quella piazza insanguinata.
E Marcel, con la schiena a terra e le braccia spalancate sul selciato, con la camicia aperta sul suo petto sul quale il sangue si mescolava ai grani di un rosario e a due cuori uniti da una catena, morì guardando il cielo azzurro e muovendo le labbra per riuscire a dire Joséphine, ma riuscì solo a dire Jos.
 
***
 
“I cannoni della Bastiglia!” urlò uno affacciandosi alla porta della taverna.
“Che succede?” saltò su Bernard.
“Sono puntati sulla città! Faranno fuoco sulla città!”
“Dobbiamo andare alla Bastiglia, subito!” disse Bernard.
Lei fece di no con la testa. Era seduta su una cassa nel vicolo e sentiva solo il bisogno di fermarsi, no, il bisogno che tutto si fermasse, che tutto finisse. Invece non c’era mai fine, non c’era mai fine. Tutti i grandi ideali finivano in quel dolore, in quella carneficina, nelle lacrime di Crochet, nello sbigottimento di Iatroux le cui mani tremavano ma non per il delirium tremens, nella bocca senza voce di Roger - che, lui non lo sapeva, non avrebbe parlato mai più fino al giorno in cui la morte lo raggiunse esattamente un anno dopo nel magazzino della sua pelleria -, nel corpo di Marcel bianco e sempre più freddo.
 
“Comandante, dobbiamo andare alla Bastiglia”
“Non ne ho la forza, Alain”
“Sì che avete la forza. Il popolo ha bisogno di noi, siamo soldati e dobbiamo combattere, comandante. Senza di voi non si muoverà nessuno, lo sapete”
“Starò qui con André”
“Anche André verrà alla Bastiglia, comandante. È la battaglia per la libertà. Volete davvero rinunciare, volete davvero che vincano loro, che tutto torni come prima?”
Lei lo guardò negli occhi e vide la sua stanchezza ma anche la sua determinazione. In quel momento André superò Alain e si mise esattamente davanti a lui e di fronte a lei e le disse:
“Tutti quelli che hanno un’arma, un’arma qualunque, stanno andando alla Bastiglia, Oscar. Andiamo, c’è bisogno anche di noi”. Le tese la mano.
 
Dammi la mano e combatti con me, amore mio.
Dammi la mano e non avrò paura.
Dammi la mano e viviamo insieme anche questo.
Dammi la mano e scendiamo all’inferno insieme.
Dammi la mano e insieme usciremo da questo inferno.
Dammi la mano e non sentirò mai la solitudine.
Dammi la mano e combatti con me, amore mio.
Amore mio.
 
***
 
I cannoni del popolo, disposti in modo da formare un ampio semicerchio sui lati della piazza di fronte alla fortezza della Bastiglia, parevano relitti abbandonati da un esercito in fuga, colombi si sistemavano sulle ruote e sulle bocche come spettatori curiosi ai balconi di una piazza in cui sta per andare in scena una giostra di cavalieri.
“Nessuno di noi sa come si usano” disse allargando le braccia un ragazzone che teneva tra le mani una grande bandiera issata su un’asta più alta di lui.
“Ci pensiamo noi” rispose lei, “mi serve quella bandiera”.
 
E a un suo cenno alcuni dei soldati si posizionarono a gruppi di tre dietro i cannoni e li manovrarono con precisione perché le bocche fossero puntate contro la parte alta della fortezza.
Intanto lei dava gli ordini agli altri soldati:
“Che nessuno occupi lo spazio davanti ai cannoni! Deve restare libero! Disponetevi in formazione di tiro lungo il perimetro della piazza e non fate passare nessuno qui in mezzo, mi sono spiegata? Il nemico cercherà di colpirci e questo spiazzo tra poco sarà il posto più pericoloso di Parigi. Tenete lontano il popolo da qui e puntate i fucili sulle feritoie della Bastiglia. I fucilieri faranno fuoco contro di noi da lassù”.
E con un balzo, senza nemmeno aspettare la risposta “agli ordini, comandante!”, si era già messa sull’attenti dietro ai cannoni, al centro dello schieramento, alle spalle di tutti, con la bandiera alta tra le mani.
Alain e André, accucciati alle ruote del cannone più vicino, la fissarono sospesi. Infine, quando lei ebbe controllato che anche gli altri fossero pronti e che la stessero guardando, allora fece un respiro profondo, aprì e chiuse le mani sul legno ruvido sul quale era issata la bandiera che nella sua caduta verticale le accarezzava il volto con i lembi rossi e blu, e, con un movimento secco che tagliò l’aria e l’attesa, si vide quel pezzo di stoffa arrotolata su sé stessa aprirsi in un tricolore che tagliò il cielo con un semicerchio che infine si abbatté sul selciato al centro dei cannoni mentre lei gridava:
 
“Fuoco!”
I giardini di Versailles avvolti nel chiarore del pomeriggio, acque cristalline e fiori sempre in boccio perché nessuno possa vederli sfiorire, arie di violini trasportate dalla brezza primaverile su su, fino alle sommità degli alberi dove uccellini beati sembrano godere di quella musica nata per il diletto di pochi. Campagne allagate e grano marcito, contadini stremati che nel pomeriggio sentono stringersi la gola per l’angoscia di non avere niente da mettere sulla tavola a cena, il muggito lento di mucche scheletriche che raggiunge la tana di una lepre che preferisce nascondersi sotto la terra.
 
Di nuovo la bandiera sul selciato:
“Fuoco!”
Gilbert Sugane che dovrà morire perché non ci sono soldi per portarlo da un medico. Il piccolo Joseph che, circondato di medici, muore lo stesso. Il padre di Gilbert che per salvare suo figlio deve vendere una mucca. Il padre di Joseph che per pagare i funerali di suo figlio deve vendere l’argenteria.
 
Ancora la bandiera sul selciato:
“Fuoco!”
Jeanne Valois che è disposta a tutto pur di vivere i privilegi della nobiltà e poi non ha altra scelta che morire e trascinare nella morte l’uomo che ama. Rosalie che ancora bambina batte un marciapiede. Charlotte che ancora bambina viene promessa a un duca depravato. Diane che si uccide perché è troppo povera per essere amata. Maria Antonietta che a quindici anni deve entrare nel letto di un principe goffo. Oscar François de Jarjayes che è una bambina ma non può essere una bambina.
 
Ancora la bandiera giù, contro la terra e le pietre:
“Fuoco!”
Marcel che le racconta una storia sconcia e la fa ridere. Marcel che la provoca nella piazza d’armi e la fa arrabbiare. Marcel che non saluta suo padre. Marcel che nasconde una ferita nel cuore. Marcel che è mancino. Marcel che li porta da Crochet e da Iatroux. Marcel di spalle, la faccia rivolta al muro. Marcel che ride con i suoi denti grandi e bianchi e i capelli biondi che si sollevano al vento. Marcel che ha un tatuaggio sul costato e una ferita nel petto. Marcel che non riderà più. Marcel morto.
 
Ancora, la bandiera:
“Fuoco!”
L’amore. L’amore di una regina che non ama il suo re. L’amore che non bisogna provare. L’amore che trascina in una guerra al di là dell’oceano. L’amore di due ragazzi divisi dall’oceano. L’amore che ti fa a pezzi. L’amore che rimane. L’amore contro lo spazio e contro il tempo. L’amore che fa perdere la vista. L’amore che fa perdere la ragione. L’amore che silenzioso aspetta. L’amore che nemmeno sapevi di provare. L’amore per un servo, l’amore di un servo. L’amore di un uomo, l’amore di una donna.
 
Basta, non c’era più bisogno di sparare.
 
Il 14 luglio 1789 Oscar e André videro, davanti ai loro occhi, l’impensabile. Un’ora dopo il loro arrivo in quella piazza, il ponte si abbassava. La Bastiglia si arrendeva. Le teste di de Launay e delle guardie della Bastiglia furono staccate dai corpi e infilzate su pali e picche. La gente le portava per la città in una euforia che pareva parente prossima della ferocia.
 
Bandiere a tre colori sventolavano ovunque, grida di trionfo e canti che parlavano di un giorno di gloria si levavano in ogni strada.
Ma quale giorno di gloria? Quale?, pensò lei sgomenta, solo un incosciente può definire questi giorni “giorni di gloria”! che idiozia! Giorni di lotta, di sacrosanta lotta, sì. Ma dove sarebbe la gloria? La gloria non innalza teste sulle picche, la gloria non spara e non distrugge, non fa violenza, non uccide, la gloria non vuole vendetta, la gloria non si accanisce sui vinti, la gloria non pretende altra violenza domani, la gloria non imbratta le strade di sangue, la gloria non strazia il cuore di chi ha visto morire i propri cari, la gloria non sorride sulla bara di Marcel.
La gloria è solo nella purezza, pensò lei.
E all’improvviso, mentre lo pensava, mentre si alzava una folata di vento che le smosse la camicia sul petto e sulle braccia, si vide galoppare su César, in riva al mare, e sentì sulla sua schiena appoggiarsi il petto di André e vide loro due nella purezza del mattino, le mani intrecciate sulle briglie sciolte, le camicie bianche che si confondono nel chiarore, le cosce che, vicine, stringono i fianchi del cavallo, i capelli che si mescolano nel vento, la pelle che si cerca, le labbra di André a un soffio dalle sue.
 
Poi, di fronte ai cadaveri che venivano trasportati a braccia, di fronte alle rovine della città bombardata e sfregiata, quell’immagine venne inghiottita dal buio.
 
***
 
Ritornarono a Saint-Eustache con i passi stanchi, gli occhi pieni di orrore, le orecchie che ronzavano per gli spari e le grida, il cuore spezzato dal dolore.
Nell’arrivare all’androne si sforzarono di non guardare le cassette di gerani di Monsieur Dunant, di non pensare alla mensola con la collezione di campanelli e di non immaginare il sorriso di Lucille dietro i vetri, e imboccarono le scale verso il primo piano.
“Ma…!”, esclamò Marie con dolore fissando i gradini.
“Che succede, nonna?”
“Sono entrati! Sono entrati in casa!” disse lei tra le lacrime e la rabbia indicando per terra le impronte di scarpe sulla pietra dei gradini e avviandosi decisa verso la porta dell’appartamento.
La trovarono spalancata, il segno di un’ascia al centro di uno dei due battenti.
Dentro era la devastazione di ogni cosa amata, lo scempio insensato – perché strappare le tende? perché rovesciare a terra piatti e bicchieri? perché incidere oscenità sul piano del tavolo? -, la presenza non voluta che si svela nelle impronte fangose sul pavimento, nelle impronte grigie delle mani vicino agli stipiti delle porte, nelle impronte concave lasciate sul copriletto.
Lei rabbrividì.
Si accucciò nel salotto vicino al tavolino rovesciato a terra e aprì il cassettino, cercò nel doppiofondo:
“Non c’è più niente, André. Hanno preso tutto”, non riusciva nemmeno a piangere.
Lui sollevò l’asse di legno sulla soglia ed estrasse i risparmi che aveva nascosto lì.
“Abbiamo ancora qualcosa, guarda”.
Poi andò in camera da letto e quando tornò le sorrise:
“Ho trovato i miei quaderni, vedi?”, allungò la mano sul pavimento e sollevò il lembo del tappeto del salotto, “e c’è anche questo”. Le mostrò la loro copia, un po’ gualcita ma ancora intera, de I dolori del giovane Werther, quella con la bruciatura sull’angolo della quarta di copertina.
Le sorrise ancora.
Ma lei stava in equilibrio senza appoggiarsi a nulla, sentendosi estranea in casa sua, cercando di recuperare i suoi spazi, gli spazi suoi e di André. E sentì che non ci riusciva.
“È solo una casa, Oscar”, lui appoggiò il libro e i quaderni per terra, si avvicinò e la cinse con le braccia.
“È la nostra casa, André! Lo sai che cosa significa!”, gli batté i pugni sul petto con furore.
Uscì di corsa coprendosi il volto con le mani. Ma lui la seguì, scese le scale dietro di lei e, sotto l’arco dell’androne, l’afferrò per il polso e la tirò contro di sé:
“Certo che lo so! Ma è solo una casa: mura, mobili, oggetti. Siamo noi due a rendere questa casa o qualunque casa diversa da quella che era, Oscar. Siamo noi due. E noi due siamo ancora vivi, capisci?”, la teneva e le parlava tra i capelli, sull’orecchio, sulla tempia. Con dolore, ma con fermezza.
“Che cosa stai dicendo?”
“Sto dicendo che non me ne farei niente di questa casa senza di te. Che possiamo averne un’altra di casa. Ovunque vogliamo. Che io e te siamo vivi, vivi! Ascoltami: vuoi vivere a Parigi? Vuoi vivere in mezzo a tutto questo?”, la guardò in fondo agli occhi.
“No. Non voglio. Non voglio questa devastazione. Voglio solo noi, André”, le labbra sul collo, il cuore che pare uscire dal petto.
“Alain andrà nel paese dove ha sepolto sua mamma e sua sorella, in Normandia. Potremmo vivere anche noi laggiù, non pensi? E porteremo con noi la nonna. Abbiamo sempre amato la Normandia. Guarda, qualche giorno fa ho chiesto un favore a Bernard. Mi ha procurato questi”, estrasse dalla tasca dei fogli piegati.
“Che cosa sono… documenti? Monsieur André VertèreMademoiselle Françoise Lotte…”
“Me li sono fatti preparare da Monsieur Dunant, Bernard li ha fatti vidimare tramite un suo amico, vedi il bollo? Possiamo andare via, nessuno ci verrà a cercare. Bernard metterà in giro la voce che André Grandier e Oscar François de Jarjayes sono morti oggi combattendo alla Bastiglia da rivoltosi e che i nostri corpi sono stati sepolti per nostro volere nelle fosse comuni o che sono dispersi, deciderà lui. Basta che tu acconsenta. Ma se tu vuoi stare qui, se pensi che…”
“Andiamo via, André. Promettimi che alla prima piccola chiesa di campagna mi sposerai con una semplice cerimonia. Poi io e te vivremo in Normandia. Solo io e te. Cielo, terra e mare. E vento”.

 


 
EPILOGO
 
15 luglio 1789
 
E c’era una reggia – tutta d’oro, marmi, stucchi e specchi – dove i sovrani vivevano l’indomani di un giorno orribile che un giorno avrebbero ricordato come ancora felice.
E c’era una città dove cittadini festeggiavano nelle piazze per la libertà conquistata senza sapere che di lì a poco in quelle stesse piazze avrebbero festeggiato per delle teste mozzate dalla ghigliottina.
 
E c’era una panchina a La Charité dove una ragazza aspettava un ragazzo biondo.
E c’era una pelleria lungo la Senna dove un padre piangeva tenendo una parrucca e un rosario tra le mani.
 
 
Ma c’è un’isola lontana - il suo nome, dicono alcuni, è Martinica -, dove gli innamorati si ritrovano e ridono mentre le loro labbra si baciano.
 
FINE
 
Tu sei stanca,
(Credo)
Dell’eterno puzzle di vivere e agire;
Anch’io.

Vieni con me, allora,
E andiamocene molto lontano —
(Io e te soli, capito!)

Hai giocato,
(Credo)
E hai rotto i tuoi giocattoli più cari,
E ora sei un po’ stanca;
Stanca di cose che si rompono —
Solo stanca.
Anch’io.

Ma vengo con un sogno negli occhi stasera,
E busso con una rosa alla porta del tuo cuore disperato —
Aprimi!
Ti mostrerò luoghi che Nessuno conosce
E, se vuoi,
I posti perfetti per dormire.

Ah, vieni con me!
Soffierò quella bolla meravigliosa, la luna,
Che galleggia sempre e un giorno
Ti canterò la canzone giacinto
Delle stelle probabili;
Mi avventurerò per le tranquille steppe del sogno,
Fino a trovare l’Unico Fiore,
che serba (credo) il tuo piccolo fiore
Quando la luna sorge dal mare.

e.e. cummings
 
 
 
Jours de Gloire finisce qui.
Questo piccolo, anzi, microscopico, spazio è per i saluti e i ringraziamenti a tutti voi che avete voluto bene a questa storia. L’autrice si defila e si nasconde a bere un bicchiere di bollicine all’ora del tramonto, perché quello che conta nella scrittura è sempre e solo la storia. E se questi Jours de gloire sono riusciti a emozionarvi o a parlare al vostro cuore, credetemi, questo è il dono più bello per chi scrive.
Vi abbraccio e vi ringrazio con tutto il cuore per l’affetto che mi avete dato.
Settembre17

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