Show me how good life can be

di ElenoraBumBum
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alieno ***
Capitolo 2: *** Taser dodici volt ***
Capitolo 3: *** Compagno di dildi ***
Capitolo 4: *** Maglione color sperma ***
Capitolo 5: *** Qualifiche di MotoGP ***
Capitolo 6: *** Tisanina ***
Capitolo 7: *** Essere tristi per le trote ***
Capitolo 8: *** Tisanina (pt.2) ***
Capitolo 9: *** Tegolino ***
Capitolo 10: *** Polfer e adolescenti complessati ***
Capitolo 11: *** Tunnel vision e Kernel panic ***
Capitolo 12: *** Clown e Fanboy ***
Capitolo 13: *** Guardare un fiume su una sedia da regista ***
Capitolo 14: *** Piano D ***
Capitolo 15: *** Boomer campagnoli e lampadati iberici ***
Capitolo 16: *** Nuovo amante, vecchio compagno di scuola ***
Capitolo 17: *** Tirare piste come strisce pedonali e mangiarsi le caccole ***
Capitolo 18: *** Voglia di restare (Epilogo) ***



Capitolo 1
*** Alieno ***


1 – Alieno

 
Mi farò bullizzare? Assolutamente sì. Mi farò bullizzare da mamma perché ho preso di nascosto le sue cose? Assolutamente sì. Mi farò bullizzare da Eli perché sono decisamente più bravo di lei a usare tutta questa mercanzia di roba? Assolutamente sì. Si prospetta una giornata fantastica.
Mi guardo soddisfatto le mani, poi alzo lo sguardo e mi ritrovo a osservare il mio riflesso allo specchio. Ok, no, direi decisamente troppo. Prima mi sembrava una buona idea, ora pare di essermi scritto “prendetemi a calci” sulla fronte. Finirei con la faccia nel cesso, mi farei trovare mezzo annegato nel piscio da Elisa, il mio datore di lavoro –nonché suo padre– prenderebbe le difese dei miei aguzzini perché non ero “consono a un ambiente lavorativo” e diventerei –oltre che lo zimbello del paese– un caso mediatico, da una parte per la libertà di espressione e dall’altra per l’estinzione della specie umana, visto che stanno diventando tutti quanti omosessuali. Che vita di merda.
Stando meticolosamente attento a non rovinare lo smalto azzurro sulle dita, prendo un dischetto di cotone, ci verso su un po’ troppo struccante e levo mascara e matita da sotto i miei occhi castani. Oggi farò il modesto e lascerò nascoste le mie doti da make-up artist, mi limiterò a cercare gli orecchini più vistosi che ho nella scatola del ciarpame gay. Per quanto riguarda domani, non posso ancora fare promesse.
Esco dal bagno e mi rifugio subito in camera, nascondendo il beauty case nel cassetto della scrivania. Insomma, cancelleria per la faccia, cancelleria per la carta, è tutto uguale. Prendo la camicia gentilmente e segretamente offerta da Clara e me la metto addosso. Fortuna vuole che le piacciano le robe oversize, altrimenti col cavolo che mi sarebbe stata. Tra le tante maledizioni che Dio mi ha mandato in questa esistenza, anche una sorellona minuta che pesa venti chili bagnata. Io non so. Ravano un po’ tra gli orecchini vagamente maschili, ma, alla fine, scelgo quelli più sobri che Cla ha smesso di usare, con quella pietrina azzurra che fa pendant con lo smalto perché ci tengo a far bella figura. Apro la porta dell’armadio e mi guardo di nuovo allo specchio. Quando mamma Emanuela e papà Michele hanno battezzato un Gianluca, di certo non si sarebbero aspettati che proprio quel Gianluca avrebbe usato più i vestiti della sorella che i suoi. E che avrebbe lasciato scuola calcio dopo metà allenamento. E che si sarebbe categoricamente rifiutato di studiare almeno sei anni ed entrare nello studio odontoiatrico di famiglia per andare a lavorare come venditore di vini nell’enoteca del paese. No, no, no. Invece, si sono beccati questo Gianluca, un po’ stronzetto ingrato che ha buttato vent’anni di educazione fervidamente cattolica proprio lì, nel bidone dell’indifferenziato e si presenterà a colazione con le dita smaltate e vestito essenzialmente da donna. Ma soprattutto, senza il benché minimo rimorso.
Gonfio il petto di orgoglio, esco dalla camera e, con un’incredibile nonchalance, scendo in cucina. «Buongiorno» affermo, raggiante, ricevendo come risposta il più arido dei deserti affettivi. Papà rintanato dietro alla Gazzetta dello Sport, mamma a montare la caffettiera. Dio, tirami fuori da questo spot pubblicitario anni Cinquanta. Sospiro e mi lascio cadere sulla sedia. Tanta fatica per ribellarsi e uno si ritrova i genitori ancora nella fase di negazione. Queste sono le delusioni che un figlio deve aspettarsi quando nasce.
«Oh, mio…!» squittisce Cla, da dietro. «Ma quella è…!» continua. Mi volto serafico verso di lei, sorridendo naturalmente alla figlia prediletta e trovandola livida di furia. Ok, ok, forse avrei dovuto chiedere la camicia in prestito.
«Come mi sta?» domando, sperando che in quei venti chili non ci siano venticinque anni di rabbia repressa. Sibila un sospiro arrabbiato e mi fa un terzo dito, per poi alzarmi un pollice di muta approvazione, un po’ sottobanco, perché mica vuole pubblicamente schierarsi con la rovina della famiglia. Come biasimarla, poverina. Ally appassionata che mi ha accompagnato alla mia prima parata, guidando per due ore e scatenandosi sulle note di Raffaella Carrà, si è poi tramutata in una statua di cera, mi ha accuratamente rimosso ogni singolo glitter dai capelli e mi ha sussurrato un disilluso “avrai una vita di inferno, Gianlu”. Quanta verità in sei parole. 
Le sorrido soddisfatto, poi mi volto verso papà, che abbassa lentamente il giornale e mi guarda, sgranando gli occhi dietro le sue lenti spesse come quelle di un fondo di bottiglia. Sta a vedere che tra qualche anno me lo dovrò beccare io il papà ottantenne ciecato e pure omofobo.
«Tu non puoi uscire di casa conciato così» asserisce, atono, squadrandomi dall’alto in basso.
«E perché no?» ribatto.
«E…? E perché no!?» sibila.
«Eh? Che c’è di male?»
«Gianluca, per Dio…» esala, passandosi una mano nei capelli ormai brizzolati. Papà, ma cosa ti metti a ingravidare tua moglie così tardi? «È… è… è tutto sbagliato…». Perfetto, ottimo, grazie per il supporto morale.
Mamma, attirata dall’usuale battibecco sulle mie personali scelte estetiche, si volta e si poggia in anticipo al bancone di marmo della cucina. Il calo di zuccheri alle otto del mattino non è mai una bella cosa. «Gianlu…» inizia. «…almeno provaci…»
«A fare che?»
«A… sembrare… non dico, eh…»
«Tu non dici mai, ma capisco che intendi…» brontolo.
«Mamma propone…» interviene papà, grattandosi il mento.
«Mamma –insieme a te– propone sempre la solita manfrina.» affermo, deciso. «“Gianlu, vestiti da uomo”, “Gianlu, tagliati i capelli”, “Gianlu, lascia perdere gli orecchini”… Gianlu non vuole fare niente di tutto ciò.»
«Hai pure lo smalto! Guarda come ti conci! E mi vieni a dire di essere più aperto, più collaborativo! Ai miei tempi…!» sbotta, tutto rosso in faccia.
«Ai tuoi tempi, papà, si girava con le bighe, non farmi sto discorso, per favore!» lo interrompo. «Mi avete seppellito? No. Mi avete soccorso dopo che qualche cretino mi ha quasi ammazzato di botte? No. Mi avete spedito dritto dritto da uno psicologo per i traumi da ragazzino gay bullizzato? No. O, meglio, mi ci avete spedito per farmi tornare normale, sia mai il figlio finocchio che porta vergogna sulla famiglia. Ciononostante, tutta questa fantasmagorica avventura prova che anche la signora Teresa che ha visto i dinosauri estinguersi riesce a farsi una ragione che a me piace il cazzo e mettermi le camicie di Clara e che in questo paesello congelato agli anni Sessanta, ci si prova a guardare e a passare oltre le mere apparenze estetiche, ma voi proprio no. Fermi a sta mentalità che la cosa più femminile che l’ometto di casa si debba mettere addosso sia il dorato orologio pataccone della comunione.»
«Ancora con sta mentalità, Gianlu…»
«E allora, che cavolo c’è di così tremendo se mi metto dello smalto sulle unghie? Ma che ti cambia a te?»
«Mi cambia… mi c-cambia…» balbetta.
«Su, papà, di’ le cose come stanno: non ti cambia un bel cazzo di niente. Ma ti piace sfracassarmi i maroni sulle piccolezze, perché sulle cose importanti me li hai già sfracassati abbastanza.»
«Ma che sfracassato è sfracassato!»
«Cos’hai fatto in tutti questi anni? Niente, se non reiterare all’infinito la storia di Adamo ed Eva, di Giuseppe e Maria e di chissà quale pallosa coppia eterosessuale biblica per giustificare la tua insensata omofobia!»
«E che ti aspettavi? Cosa volevi che ti dicessi? Che fai bene a fare quello che fai? Che vai bene così come sei? È già un regalo che tu non sia fuori di qui, da tanti anni!» esclama furente, terminando con un’espressione sbigottita dalle sue stesse parole e un silenzio tombale in questa cucina rustica in legno massello.
«Oh, wow, grazie mille.» mormoro, ridacchiando nervoso. «Vuoi anche un applauso? Una pacca sulla spalla? Una tazza con su scritto “papà migliore del mondo”?» continuo, alzandomi dalla sedia. «No, perché di regali me ne hai fatti così tanti che dovrei ricambiare, no?»
«Gianlu, io…»
«No, Gianlu un cazzo e tu un cazzo.» ringhio, secco. «A posto così, la tua parte di padre comprensivo e amorevole anche oggi l’hai fatta. Ognuno continui con la sua vita di merda, che tanto siamo tutti contenti così.» concludo, afferrando le chiavi di casa e quelle dello scooter e uscendo di casa. 
E manco il tempo di chiudermi la porta dietro le spalle, che mi vibra il telefono. “Sai che non voleva dire così”, scrive mamma. E quando mai vuole dire così, ma tanto lo dice sempre.
Monto sulla sella della mia vecchia vespa e appoggio la fronte sul quadro, chiudendo gli occhi per qualche secondo, poi sospiro, mi infilo il casco e parto. Leviamo le tende, ora, che sono ancora in tempo. Al dare precedenza, mi si mette davanti Enzo, che sembra volersela prendere molto con calma. Infatti, decide di mettersi in mezzo alla corsia, a una velocità ridicola per qualsiasi essere umano automunito.
Scanso una buca e ringhio un’ennesima bestemmia tra i denti. Caro signor Enzo, io capisco bene che la sua Panda dell’anteguerra non riesca a fare più dei trenta chilometri orari, ma almeno si metta a destra, così riesco a superarla. Non posso nemmeno mettermi un attimo nell’altra corsia, visto che è piena di gente che evacua questo ridente paesino per andare a lavorare nella città vicina. Nella nostra carreggiata, invece, ci siamo solo io, lo stronzo che invece di bere vino dalla mattina alla sera, lo vende e il signor Enzo, che non so quali siano i suoi scopi: andare al bar per un caffè e una briscolata, oppure nel campo di Rico a distrarlo dal lavoro e a fare qualche interessantissimo discorso nostalgico dei bei tempi andati. 
Superiamo la prima cascina a sinistra, quella di Ciruzzo e Marinella. Il confine tra un barlume di civiltà profondamente italiana e paesana e il nulla più totale. Mucche e campi. Enzo e un particolarmente scazzato io entriamo in paese, mi dimentico puntualmente del dosso artificiale e poco ci manca che ci rimetta i gioielli di famiglia. Non che sarebbe una cosa negativa, almeno quelle brutte teste di minchia dei miei avrebbero due figlie femmine e non mi sfracasserebbero più i coglioni. Passiamo, poi, davanti al cantiere finito di una villa nuova di zecca, che col suo stile moderno stona un po’. Nonostante la felicità per non vedere più accrocchi di lavori vari e strade deviate, faccio ugualmente una smorfia scocciata. Ecco qualche altro turista che dopo aver passato un pomeriggio in questo bucolico paradiso, ha deciso di comprarsi una casa vacanze qui, salvo rendersi conto a bonifico fatto che questo è un posto desertico e depresso e si accontentano di passarci uno o due giorni all’anno. Dopo aver speso dieci anni di stipendio, ma questi sono cazzi loro.
Appena arriviamo in piazza, dal tavolino del bar sento un “Gianni” urlato a pieni polmoni, mi volto accigliato e trovo Teresa sbracciarsi come una forsennata e attirare l’attenzione di Ernesto e Gigi. Oh, fantastico, ci mancava l’allegra combriccola. Giro a destra –mannaggia a me­ e alla mia gentilezza– e accosto davanti a loro.
«Hey» mormoro, forzando un sorriso. Oggi non ne ho per nessuno. Tra gli attriti coi miei e i dieci chilometri ai trenta all’ora, voglio solo sotterrarmi. Dentro una bara. Con una lapide commemorativa sbrilluccicosa, perché col cavolo che mi faccio seppellire da etero.
«We, Gianni, com’è?» mi chiede Teresa.
«Si tira avanti» rispondo.
«Stai andando a lavorare?»
«Come tutte le mattine, Teresa»
«Eh, bravo, così poi hai i soldi per metter su famiglia!» esclama Gigi, intromettendosi a gamba tesa nella conversione. Ma che cavolo. Ora mi viene spontaneo chiedermi: ma non si vede? Non l’ho già detto abbastanza volte? Mi piace il cazzo. Già le probabilità che io finisca a letto con una donna sono pari a zero, i figli sono assolutamente fuori questione. Proprio che l’idea di fare dei mocciosi che renderebbero la mia vita anche peggio di quella che è ora mi fa rivoltare le budella. La mia massima aspirazione è fare una barca di soldi, andarmene in un posto in cui grindr ha motivo di esistere e farmi sbattere come un uovo da, che ne so, un banchiere, o un personal trainer. 
«Improbabile» concludo, alla veloce. «Buona giornata!» saluto, con un fulmineo gesto della mano, ripartendo con brio. Via di qui, subito. Prima di girare a sinistra, però, do un’occhiata allo specchietto tutto storto e noto Ernesto tirare uno scappellotto a Gigi e fare un cenno della testa verso di me, con tanto di gesto dell’orecchio bello esplicito. Stringo le mani attorno alle manopole della moto per evitare di fare un doppio terzo dito ai vecchietti, che son sicuro imbastirebbero un tribunale dell’inquisizione di tutto punto per un oltraggio del genere. Perché son tutti in prima linea quando c’è da darle al ricchione, ma scandalo se qualcuno prova a dirgli qualcosa. Sospiro, roteo gli occhi al cielo e svolto, lasciandomi alle spalle l’ennesima incazzatura della giornata. E sono solo le otto e mezza. 
Lancio un’occhiata alla lancetta della benzina, poi mi soffermo un millisecondo sulla scritta ET sul quadro e sospiro. Anche il mio motorino viene da un altro pianeta. E forse, pure lui si sente un alieno su questa Terra.

*

 

Buongiorno, 

Sono tornata a riempire i server di efp con i miei deliri.

Due piccole info di servizio:

-) Questa storia sarà più breve e leggera delle altre sul mio profilo.

-) Ho già scritto qualche capitolo, quindi finché ho quelli solo da rivedere, pubblicherò il lunedì e il giovedì. Quando dovrò scriverli, invece, penso solo il lunedì o comunque quando riesco a convincermi che quello che ho partorito non sia solo spazzatura. 🤡

Grazie in anticipo a chiunque darà fiducia a questi scritti un po' dubbi. 🥰

A presto ❤️


 

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Capitolo 2
*** Taser dodici volt ***


2 – Taser dodici volt

In fretta e furia, raggiungo il parcheggio sterrato dell’enoteca “Pastorelli”. Storico punto di ritiro per il territorio, la gente manco ci viene a vedere che abbiamo: chiamano, ordinano le stesse dodici bottiglie di vino che bevono da sei generazioni e passano a ritirare. Il che è un bene, tanto lo stipendio lo prendo lo stesso e così non devo spiegare dettagli, aromi e fragranze di questo e quell’altro vino a gente a cui alla fine, non importa un fico secco. “È alcolico? Benissimo, prendo quello”. 
Spengo il motore, scendo, metto lo scooter sul cavalletto e mi tolgo il casco, abbassandomi immediatamente quel tanto che basta per vedermi nello specchietto. Mi metto a posto i capelli, cercando di dare un senso alla riga centrale, mi pettino le ciocche mosse, che ormai hanno raggiunto i lobi delle orecchie e mi metto bene eretto. Diamo un senso a questo mercoledì mattina.
Apro la porta sul retro e appoggio il casco in cima allo scaffale della nostra roba privata, infilo il grembiule e saltello fino in sala, contento di poter avere contatti umani solo con Elisa per almeno una buona mezz’oretta.
«Ciao, Eli» cinguetto, lieto, inspirando il profumo di sughero.
«Ciao, Gian…» brontola lei, funerea. Il buongiorno si vede dal mattino. «Si è rotta la cassa, non funziona, papà ha detto che la devi mettere a posto tu.»
«E perché io?»
«Perché sei un perito elettrotecnico, Gian»
«Ah… già» esalo. Grazie mamma e papà per aver mandato vostro figlio svolazzante in un ITIS, sono stati cinque anni fantastici. Mi approccio al registratore con fare sospettoso, come se silicio e alluminio potessero mordermi. Dio, non mi ricordo proprio una fava di elettrotecnica, o di quelle altre boiate lì. Vabbè, cerchiamo di non prenderci delle scosse, o di lasciarci delle dita. 
«Comunque, sei conciato in maniera decente oggi»
«Grazie, Eli, ma non ti perdonerò il tradimento della cassa»
«Non è un tradimento, se io tocco quella roba, muoio fulminata…»
«Ah, beh, perché io no»
«Tu teoricamente dovresti avere delle basi…»
«L’unica base che mi ricordo è di quanto avrei voluto chinarmi davanti al professore neolaureato di sistemi automatici»
«Bleah» sbotta, ironica. Vive qui pure lei, deve perlomeno far finta di essere omofoba, è nel contratto. Che poi sia una frociarola di tutto rispetto, è un altro discorso. Provo ad accendere la cassa, sia mai che funzioni. No, ottimo. Sospiro, non saprei nemmeno cosa cercare per metterla a posto. «Comunque, ti devo abbandonare, devo andare a ritirare quei due libri da mettere in vetrina.»
«Assolutamente no. Se muoio, non c’è nessuno che mi soccorre…!» mi affretto ad esclamare. 
«Ma se sei morto, non serve qualcuno che ti soccorra.»
«E poi cosa mettiamo dei libri in vetrina? A che servono?»
«E chiedilo a mio padre, Gian.»
«Si degnasse di venire qualche volta nel suo negozio…» borbotto, dando dei colpetti a lato della cassa. 
La sento sospirare e mi volto, mentre lei si avvia verso la porta del retro. «Ci vediamo dopo! Non morire!» esclama, facendomi “ciao, ciao” con la mano.
«Non prometto niente, brutta stronza!» piagnucolo, totalmente abbandonato. Non so nemmeno usare un cacciavite. Aiuto. Scollego tutti i cavi, tra alimentazione, internet e cose varie, poi la tiro su e mi metto seduto a terra. Ho bisogno di spazio. Non che ne sia veramente a conoscenza, sto facendo tutto a caso. Schiaccio lo zero. Non funziona. Mi alzo, frustrato e la guardo dall’altro. «Ma porca troia» ringhio. Che devo fare? Non ne ho idea. Non so manco come funzioni un registratore di cassa fiscale. Non so manco cosa si sia rotto, come faccio ad aggiustarlo? Cristo santissimo. Mi accovaccio e gli do un pugnetto leggero, sperando in un miracolo. 
«Buongiorno?» sento dire da una voce incerta, da dietro il bancone. Sobbalzo per la sorpresa, facendo sbattere la mia testa bacata contro lo spigolo del piano in legno. Mi porto d’istinto la mano sul capo, stringo gli occhi per il dolore e uggiolo qualcosa di insensato. «Oh, si è fatto male?» domanda la voce. Ma no, guarda. Sicuramente è quello intelligente della cucciolata. E davvero vorrei rispondergli, ma non riesco a pensare a nulla di sensato. «Mi faccia vedere» continua e, in un millisecondo, mi ritrovo davanti un cazzo. Non vedo niente se non dei pantaloni beige e una cintura marrone, ma sento un paio di dita leggere scansare le mie e ravanarmi tra i capelli. Il mio cervello si riprende dal trauma e collego le sinapsi: un tizio sconosciuto mi sta dando del lei e sta ravanando tra i miei capelli, dal lato del bancone, in cui non dovrebbe essere. 
«No, no, tutto a posto» mi affretto a dire e mi metto in piedi istantaneamente. Non la migliore delle idee, visto il pulsare del mio cranio. Finalmente lo vedo in faccia e mi incanto un secondo, sia per la sorpresa del viso sconosciuto, sia perché… beh, wow. Un attimo fa ero completamente solo e ora mi trovo davanti questo ragazzo con la stessa stazza di una montagna, capelli e barba scuri, ben curati, occhi chiari, sorriso gentile ed espressione disponibile. «Sì, buongiorno… ehm, guardi, le dico la verità: c’è la cassa rotta, dovrei aggiustarla, ma non ne sono assolutamente in grado, quindi non posso battere gli scontrini e non posso venderle nulla. Sono mortificato per il disturbo, ma se non le dispiace, può tornare questo pomeriggio, o comunque dopo che ho guardato un tutorial su youtube e sono riuscito a non folgorarmi, ecco. Sa, facciamo orario continuato, quindi potrebbe venire anche durante la pausa pranzo» balbetto, nervoso, catapultandomi nel bel mezzo del negozio sperando di farmi seguire. Invano, dato che questa sottospecie di colosso di Rodi rimane immobile dov’era prima. 
Mi squadra per un secondo, poi ridacchia. Ma sei serio? «La sfido a rimanerci folgorato con una cassa che lavora sulla dodici volt». Sì, ciccio, fai poco il saputello. Ma da dove è uscito sto tipo qui? «Se vuole, posso aggiustarla io. Sono un tecnico informatico»
«No, guardi, non mi sembra una buona idea, la ringrazio molto per la disponibilità, ma non posso farle mettere mano su…»
«Beh, se preferisce, io dico a lei cosa fare e lei lo fa, così non metto mano su niente» mi interrompe, cordiale. Sospiro. Quali sono le altre opzioni? Non fare niente e beccarmi una lavata di capo da Beppe, o chi per lui, oppure fare qualcosa a random e peggiorare la situazione. 
«Peggio di così non può andare» brontolo, tra me e me, poi rialzo lo sguardo fino a incrociare il suo. «Che devo fare?»
«Se non l’attacca alla corrente, è difficile capire se funziona o no»
«Se non l’attacco alla corrente, sono certo che non ci rimango secco»
«La smetta, non ci può rimanere secco, magari non serve nemmeno aprirla». Sbuffo, roteo gli occhi al cielo e mi abbasso per riprenderla e rimetterla sul bancone. Riattacco correttamente tutti i cavi e i cavetti e rimango in attesa. Bene, siamo punto e a capo. «La accenda, magari era solo collegata male». Dubbioso, premo il pulsante di accensione e, magicamente, lo schermetto diventa blu. Dio, se odio questo tizio. E manco lo conosco.
Chiudo gli occhi un secondo, cerco di ripetermi che questo è un cliente e non posso mandarlo al diavolo. «Grazie per l’aiuto» riesco a dire, sforzandomi di fare un sorriso. 
«Ora può vendermi del vino?» domanda. Ora lo prendo e lo sbatto fuori dal non-mio negozio. 
«Certo» mormoro, invece, con tanto di gesto della mano. Mentre gli spiego i dettagli di una bottiglia non esageratamente pregiata, sento il suo sguardo addosso e mi mordo la lingua per non sbottargli uno sgarbato “che ti guardi?” in faccia.
«Mi sono appena trasferito, ho comprato e ristrutturato una casetta qui in paese» asserisce, poi. Ah, è il nuovo proprietario della villa che ho visto prima.
«Pessimo acquisto» ribatto, leggermente acido. 
«La settimana prossima inizio a lavorare in un’azienda di laminati come responsabile IT, potevo trovare un posto in città, ma preferisco la campagna… Fatto sta che… sono nuovo e non conosco nessuno qui.»
«Presto conoscerà tutti, non si disperi.» brontolo. «Saranno gli altri ad assaltare casa sua per conoscere il nuovo compaesano»
«Posso tenere lontano la folla con un taser dodici volt» ammicca, con un sorrisino. Che lo linciassero, guarda. Me la immagino la signora Teresa con la torcia e il forcone.
«C’è un rincaro per il sarcasmo»
«E uno sconto per quello del commesso?»
«Non siamo in periodo di saldi» asserisco, raccogliendo le braccia al petto.
«Peccato…» commenta. «Quindi come rosso, lei consiglia questo?» chiede, indicando l’etichetta bianca del vino che gli stavo spiegando prima. 
«Sì, niente di troppo impegnativo, va bene da bere mentre si mangia. Un passe-partout, insomma»
«Allora prendo sei di queste e sei di… spumante secco, magari brut, se l’avete» conclude, soddisfatto. Annuisco, con un sorriso e vado a preparargli i due cartoni, portandoli alla cassa nuovamente funzionante. Guardo lui, già pronto con la carta in mano, il registratore e le bottiglie e decido di battergliene undici. Mi ha aiutato a mettere a posto tutto quanto, sono uno spirito buono e riconoscente. Non capisco perché non mi sia ancora arrivato l’attestato di santificazione. San Gianluca, il protettore dei commessi. 
«Una la offre la casa. Metà per la cassa e metà come sconto per il sarcasmo del commesso» gli riferisco, spingendo i cartoni verso di lui.
Si apre in un sorriso a trentadue denti e, con l’espressione più riconoscente che mi sia mai stata rivolta, esclama: «Grazie mille!». Mi passa la carta, effettuo la transizione, poi gli restituisco scontrino e tessera. «Allora, alla prossima…!». Questo è un tipo strano. Perché è così entusiasta dalla vita? Boh. Ha comprato del vino, deve annegarci i suoi dispiaceri, mica essere così raggiante. E che cavolo.
«Certo, arrivederci» concludo dubbioso, mentre lui si volta e va via. Sì, proprio strano questo tipo.
~
Appoggio il mento sulla mano. Mi annoio. Sono veramente annoiato. Guardo l’ora sul cellulare, le sei e cinquantacinque. Tra dieci minuti, Beppe farà la sua miracolosa apparizione per prendere quei tre spicci dalla cassa per poi eclissarsi nuovamente nel nulla fino a domani sera, io ed Eli faremo chiusura, pulendo quel minimo indispensabile per rendere questo posto presentabile e, infine, ce ne andremo a casa, benedicendo lo scorrere del tempo per aver fatto passare un’altra giornata. 
«Che fai stasera?» mi chiede Eli, dal suo sgabello.
«Evito la mia famiglia come una pestilenza e, probabilmente, mi sparerò una sega, tu?»
«Raccapricciante, Gian…»
«Tu me l’hai chiesto»
«Comunque, mamma fa la passata, mi sa che l’aiuterò»
«Ci sta. Avete tanti pomodori?»
«Non più dell’anno scorso, mi scoccia, ma almeno non mi fa incazzare quanto guardare un film in streaming…». Già, il wi-fi è una tecnologia non del tutto supportata in questo posto. Credo che metà della gente pensi che l’ADSL sia una malattia. E che la fibra ottica sia un integratore alimentare. «Sabato andiamo dallo storto?»
«Come ogni sabato, Eli, come ogni sabato» piagnucolo. E non ho nemmeno il tempo di disperarmi per i nostri disastrosi piani per il sabato sera, che la porta si apre e appare il ragazzo nuovo. 
«Hey» saluta, con una mano alzata.
«Le ha già scolate tutte le bottiglie?» domando, ironico. 
«No, no» risponde, ridacchiando. «Volevo ricambiare la gentilezza di oggi… e ti dispiace se ti do del tu?». Scuoto la testa, onestamente sono più preoccupato per altro. Tipo tutto il resto. «D’accordo… ehm… volevo chiederti se ti andasse… boh, di farti offrire una birra. Appunto, per ricambiare il vino». La mia mascella cede e quasi sento il fresco delle piastrelle contro il mento. Ma dico, non mi vede? È una clausola obbligatoria essere ciechi per abitare qui? Cioè, ok i gusti sessuali deviati, i capelli leggermente lunghi, gli orecchini e tutta la mercanzia che mi porto appresso, ma sono un uomo. E per quante battute possa farci sopra, mi sento abbastanza a mio agio con i miei testicoli al loro posto. Forse si accorge del mio stupore leggermente eccessivo e prova ad aggiungere: «Cioè, senza impegno, così mi fai anche vedere un po’ di questo posto…».
Quasi tiro un sospiro di sollievo, riaggancio la mascella alla testa ed esalo: «Ah, ok, vuoi che ti faccia da guida turistica.»
«No, no, macché» si affretta a dire. «Voglio solo ricambiare, davvero. Te l’ho detto, non conosco nessuno qui e, per quanto non disprezzi certe qualità dei compaesani più anziani, magari tu sei in una fascia d’età più simile alla mia…»
«C’è Elisa, qui» asserisco, provando a sbolognarlo alla mia fidata compagna di avventure. Lei si gira robotica verso di me, con gli occhi sgranati e iniettati di sangue. 
«Gian, devo aiutare mia madre coi pomodori» sibila in mia direzione.
«Beh, era una cosa senza impegno, se non vuoi, non fa niente.» ripete lui, con una faccia mogia. Mannaggia… no, anzi, vaffanculo. Vaffanculo a me e alla mia cazzo di gentilezza.
«No, va bene, facciamoci una birra.» ribatto, provando a fare un’espressione disponibile. Praticamente, risorge dalla sua depressione, fa un sorrisone e gli si illuminano pure gli occhi. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo. «Alle nove?»
«Certo»
«In piazza va bene? Sai dov’è?» domando. Annuisce, tutto contento e, giuro, se si mette a scodinzolare, lo prendo sotto col motorino. «Allora, alle nove in piazza…»
«D’accordo, a dopo!» esclama e sparisce alla velocità della luce, dandomi l’occasione di salutarlo per un pelo. Ok. Ma-che-cazzo?
«Giuro, non ho capito» provo a dire, non troppo convinto.
«È il tuo ragazzo?» chiede Eli.
«Dico, ma sei matta? Ma perché mai dovrei spingere il mio ragazzo tra le tue braccia, scusami?»
«E allora chi è?»
«È quello nuovo che ha comprato la casa di Nella, stamattina ha comprato delle bottiglie…»
«E perché ti ha chiesto di uscire?»
«Che cavolo ne so, Eli…» esalo, ancora sbigottito.
«Ma non è che ci siamo fatti una canna e stiamo avendo la stessa allucinazione?»
«Sai che non mi viene da scartarla, come opzione?»
«Ah beh, almeno è carino…»
«Ma che me ne faccio di un tipo carino etero?» chiedo, scocciato. Almeno, credo. Beh, sì, quale omosessuale sano di mente verrebbe qui? Dio aveva dei piani particolari per me, ma gli altri gay sparsi per il mondo hanno l’opportunità di non mettere mai un singolo alluce in questo deserto edificato. Poi, carino ok, ma mi sembra un po’… too much per me. Non so, mi lascia perplesso. Poi non lo conosco, eh, magari parlandoci per più di dieci minuti, risulta la persona migliore al mondo. Ma che cazzo, non so nemmeno il suo nome e accetto un invito per uscire. Sono proprio tonto. Con la ‘t’ maiuscola.
«Magari può essere un nuovo amico…»
«Che? Sei diventata mia madre?» brontolo. Non me ne faccio niente di nuovi amici. Già ho quelli vecchi che bastano e avanzano. Tra Fra, Lori, Eli e Auri, non c’è di che lamentarsi. Tre su cinque abitano in città, fortunatamente, così almeno abbiamo una scusa per non rinchiuderci in questo paese degli orrori e andiamo ogni sabato dallo storto a bere birra scadente, o vodka mischiata col listerine. A volte mi basta così, altre vorrei espatriare in una metropoli degna del suo nome. Andare a bere un cosmopolitan e tornare nel mio attico con un taxi, come le signore di città. Poi mi rendo conto che, anche se fosse, farei le stesse cose che già faccio qua: bere birre scadenti, o vodka mischiata col listerine. Forse sarei anche più solo. Già ho fatto una fatica immensa a raccattare sti quattro disadattati, figuriamoci conoscere persone nuove in un enorme posto sconosciuto.
«Vabbè, Gian, escici e se non è un pazzo omicida, invitalo sabato. E indaga sul suo orientamento sessuale, così se fosse lo accoppiamo ad Auri»
«E tu, scusa?»
«Non è il mio tipo»
«Ma se hai detto cinque minuti fa che è carino»
«E che vuol dire? Anche tu sei carino, ma sicuramente non cercherei di accoppiarmi con una checca come te»
«Questo è perché noi due abbiamo lo stesso tipo» preciso, annuendo convinto. Lei scrolla le spalle e mi lancia uno straccio. Sospiro. Puliamo questo posto, così poi potrò uscire col tipo misterioso.

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Capitolo 3
*** Compagno di dildi ***


3 – Compagno di dildi

Entro in casa, quatto quatto, appoggio il casco sul mobiletto all’ingresso e mi levo le scarpe. 
«Ciao, Gianlu» mi dice mamma, alle mie spalle, facendomi venire un infarto. 
«Mamma, cazzo, mi fai morire così» esalo, tenendomi una mano sul petto. 
«Non dire parolacce…»
«Se preferisci, posso tirare un porcone che l’Altissimo scende e mi stringe la mano…»
«Gianlu…» mi ammonisce. Roteo gli occhi al cielo e vado in cucina a bere, che per strada c’era una tempesta di sabbia e ho un deserto in gola. «Ti è arrivato un pacco.»
«Da chi?»
«Da… oh, come si chiama…? Zalando!»
«Boh, sarà qualche vestito, che ne so…»
«Sì, è un paio di pantaloni e una maglietta…»
«E come fai a saperlo?» domando, sospettoso. Fa una faccia colpevole e capisco. «Mamma, porca troia, mi dici di non dire parolacce, ma minchia, tu mi apri i pacchi!» sbotto. 
«Ero curiosa!»
«Ma curiosa de che, tanto domani me la metto addosso quella roba!»
«Ma allora, cosa cambia se ho dato una sbirciatina…»
«Mamma, Crist… Cristina D’Avena, si chiama privacy. Cioè, dimmi, devo ordinare un dildo gigante per farti capire che non-devi-aprire-i-miei-pacchi?»
«Gianlu, dai, non dire ste cose…»
«Ma che devo dire? “Apri pure tutti i miei pacchi”? Intanto è sempre la solita roba, ma’, compro sempre roba da mettermi addosso, cosa te ne frega a te? Ma io non so, veramente…»
«Non farne un dramma…». Ok. Facciamo le persone ragionevoli. Lasciamo correre. Però quella del dildo non è una cattiva idea: me ne compro uno veramente, così impara. Uffa. «E… quella maglietta…». Oh, no. Chiudo gli occhi, in anticipo, tanto so già dove andrà a parare. «È un po’… non saprei… appariscente?»
«Cos’ha di appariscente la maglia?» chiedo, prendendo per camera mia. Così vediamo tutta st’appariscenza della maglia. Entro in stanza e vedo lo scatolotto sulla scrivania, parto spedito per prenderlo, ma all’ultimo mi congelo distratto da qualcos’altro. Una banconota da dieci euro. Sotto un… bigliettino? Un pezzetto di cartoncino strappato, con su scritto “SCUSA, PAPÀ”. Lo volto e vedo scritto bello grande “Mulino Bianco”. Ha strappato un pezzo di cartoncino dalla scatola delle merendine per scriverci due parole in croce e cerca di comprare il mio perdono con dieci euro. «Cos’è sta roba?» domando, voltandomi piano verso mamma e mostrando il cartoncino.
«Per stamattina… papà ha notato che ci… sei rimasto male e…»
«E ha deciso di darmi dieci euro?» incalzo. Annuisce, tentando un sorriso molto dubbioso. «Non so esattamente se ti ricordi, ma mi ha detto che mi avrebbe voluto sbattuto fuori di casa. Da sei anni. Da quando avevo quindici anni…»
«Massì, sai che lui esagera e…»
«E ha deciso di darmi dieci euro.»
«Sapevo che non era una buona idea…» sospira.
«Ma non mi dire…» asserisco, ironico. 
«Cercate di non litigare, stasera»
«Io non voglio mai litigare, ma’, sai cosa mi frega che voi non mi accettiate, o quelle begate lì, tanto ci ho perso le speranze. Mi girano i coglioni quando…», tentenno perché ho solo l’imbarazzo della scelta, «…quando fate ste cose del cazzo!» esclamo, alzando il cartoncino. Manco venirmi a parlare in faccia. Oh, fanculo. E me la prendo anche. «Fai una bella cosa, visto che è uno a cui piace evitare il dialogo, digli questo» dico, secco, strappando a metà il biglietto davanti alla sua faccia e gettandolo nel bidoncino sotto la scrivania. Ignoro completamente i soldi rimasti sulla scrivania, mi tolgo la camicia senza neanche slacciarla, la butto sulla sedia e prendo la maglia nuova, rosa a righe blu, stacco l’etichetta e me la metto addosso. “Appariscente”, come piace a me. Esco dalla camera, tirandomi dietro la porta, scendo le scale e attraverso tutto il corridoio con passo serrato. Mentre mi metto le scarpe, la porta si apre e papà entra in casa.
«Hey» mi saluta. Con la bocca cucita, agguanto il casco e sguscio fuori. Due uscite teatrali in una sola giornata, sto migliorando. Monto in sella al mio catorcio e parto. Non so neanche per dove. Boh, mi farò un giretto per sbollire. 
Girovago per le strade tutte bucherellate della campagna, passo di fianco a campi, vigne, recinti, capannoni. E, appena s’accende la spia della riserva, una bella bestemmia riecheggia tra le pannocchie che mi circondano. E che cazzo. Mai una, oh, mai una che mi vada bene. Faccio inversione e torno indietro, calcolando mentalmente la strada più veloce per il benzinaio più vicino. Io ed ET ci arriviamo per miracolo, col motore che borbotta disperato per un po’ di benza e quando giro la chiave per spegnerlo, sembra quasi fare un sospiro di sollievo.
«Dai, ce l’abbiamo fatta» gli sussurro, battendo piano sulla plastica trasparente del quadro. Scendo, lo metto sul cavalletto, tiro su la sella –trovando il secondo casco scomparso– e svito il tappo del serbatoio. Infilo dieci euro nella bocchetta della cassa, seleziono la pompa e infilo la pistola nel minuscolo foro del serbatoio. 
Mentre rimonto tutto, il mio stomaco brontola dalla fame. Non esiste che torni a casa, non ne ho per niente voglia. Li lascio a fare il loro teatrino della famiglia perfetta. Andrò a prendermi un pezzo di focaccia, non so. Sospiro e riparto, alla volta della panetteria. Ah, no, che cazzo dico, chiude alle sette. Vabbè, andrò da Rosalba a farmi dare una pizza. Incredibile come questo posticino dimenticato da Dio abbia un’economia della Madonna. Bah. Svolto nel viale e compare nella mia visuale la nuova villetta bianca. Devo pure vedermi con sto tipo matto da legare. Il responsabile IT dell’azienda di laminati. Sai che c’è? Rompo a lui. Tanto le cose sono due: o prende sto relitto umano così com’è e se lo fa andar bene, o sto sulle balle pure a lui e tanti saluti. Accosto davanti al suo portoncino e premo sul citofono.
«Chi è?» chiede la sua voce, mezza robotizzata. 
«Sono io, Gia… sì, il tipo del vino.»
«Ah…» esala. Ciccio, muovi il criceto del cervello, ho fame. «Ma… non è un po’ presto?»
«Sì, lo so… ma ho pensato… andiamo a mangiarci una pizza? Così poi potrai portarci la tua fidanzata e non fare una figuraccia…». Momento di silenzio. Non è che ho esagerato? Vabbè, sti cazzi, niente seghe mentali. Se non vuole, amen.
«Ti apro» risponde, solo. Effettivamente, il cancello si apre sul vialetto, al che entro e spengo lo scooter, mi volto e ok, ha vinto il concorso per la casa più bella. E i muri meno fatiscenti. «Ciao» mi dice, comparendo dalla porta d’ingresso.
«Ciao» ripeto io. Tutta questa roba è sbagliata. Non so il suo nome, non so niente di lui e mi presento alla sua porta con almeno un’ora di anticipo e lo invito a cena. Ma che problemi ho? «Senti, è una cosa un po’ campata per aria, io stavo anche andando da solo a prendermi sta pizza, ma passavo davanti a casa tua e mi sei venuto in mente, dato che devo farti da guida turistica…» spiego. Apre la bocca per parlare, ma lo zittisco con un dito alzato. «…non mi interessa, guarda, è ok. E, insomma, tanto vale farti godere questo Eden fino in fondo, no?» propongo.
«Beh, grazie.»
«Non aspettarti un posto gourmet, però, è una pizzeria un po’ scrausa»
«No, va benissimo, tanto l’alternativa era una bistecca ai ferri». Gli sorrido, poi alzo la sella e prendo il casco nero, allungandoglielo. Non lo prende subito, mi guarda confuso, poi sbianca e indica lo scooter. «Andiamo con quello?» chiede, con una voce strozzata.
«Beh, sì, a piedi è lunga»
«Ho la macchina» ribatte. 
«Questo è già pronto. E c’ho le palle un po’ troppo girate per stare fermo nel posto del passeggero»
«O-ok» balbetta dubbioso. 
«Non è che hai qualche specie di trauma? Un incidente, non so?»
«No, no… è che… proprio non ci sono mai salito» mugugna, infilandosi il casco. 
«Basta che fai quello che faccio io» asserisco, accendendo il motore, poi alzo lo sguardo e lo vedo lottare con il gancetto. Sospiro. Mai una volta che mi faccio i cazzi miei. «Dai, faccio io» mormoro, levandogli le mani e allacciandogli il casco. «Mi metto in strada, appena sono dritto, sali, ok?». Annuisce, quindi faccio manovra ed esco dal cancello, raddrizzandomi. Sale, un po’ impacciato, ma non gliene faccio una colpa. A me sì, però. «A posto?»
«A posto». Al suo ok, do gas, parto, ma dietro di me sento un sussulto e, come una piovra, le sue braccia mi circondano i fianchi e mi stringono a lui. Wo. D’accordo. Distanza, grazie.
«Ci sono le maniglie!» esclamo.
«Che?»
«Dietro, ci sono le maniglie, tieniti lì!» continuo, prendendogli una mano e lanciandogliela indietro. Forse recepisce il messaggio, perché molla la presa e mi lascia respirare. Sarà meglio. 
«Scusa!»
«Figurati, ma non ti preoccupare, non riusciamo ad andare troppo veloci!» gli dico, scrollando le spalle. Per il resto del viaggio stiamo in silenzio, credo che sia un po’ traumatizzato dal fatto di essere su sole due ruote. Che esagerazione, ok che è un mezzo leggermente instabile, ma si viaggia bene. Poi è un cinquantino, non va un cazzo. 
Davanti alla pizzeria, riesco a malapena a fermarmi che lui salta giù, un po’ pallido e sicuramente è una scena piuttosto buffa. Infatti, non trattengo una risatina quando si leva il casco e sbuffa di sollievo.
«La tortura è finita»
«Ah-ha, molto divertente» brontola, mettendosi a posto i capelli.
«È uno scooter cinquanta. Pure quattro tempi. Se abbiamo toccato i cinquantacinque all’ora, siamo stati fortunati» spiego, alzando la sella per metterci dentro il suo casco e lasciare a penzoloni il mio. «Ma, poi, dove hai vissuto finora per non aver mai fatto un giretto in moto? Che facevi a quattordici anni?»
«Stavo coi piedi per terra. O su mezzi che stavano in equilibrio da soli». Rido di nuovo. Tutto bello composto e rigido, poi si perde in cinque minuti di giro in moto. 
«Ma… senti, è una domanda un po’ strana… considerando che stiamo per cenare assieme… come ti chiami? Non so manco il tuo nome»
«Oh, hai ragione…» esala. «…Jacopo»
«Hai un nome da bambino dell’asilo» osservo.
«Ma che significa?»
«Che non ho mai visto nessuno sopra i quattro anni chiamarsi Jacopo»
«Scusa, cosa ne fanno dei bambini che si chiamano Jacopo?»
«Boh, cambiano loro il nome…» propongo. «O li uccidono, ne fanno altri e danno loro dei nomi da adulto»
«E tu come ti chiameresti, sentiamo?»
«Gianluca. Sono nato che avevo già trentacinque anni, non ti dico che pena per mia madre»
«Tu non hai trentacinque anni, dai…»
«Ah, no? Quanti me ne dai?»
«Boh, ventidue, giù di lì». Cavoli, ci ha azzeccato. Un applauso.
«Complimenti… ventuno».
Dopo un’espressione vittoriosa, si mette bene in posa. «E io? Quanti anni ho?» mi chiede, indicandosi. Ma che ne so. 
«Non ne ho idea»
«E dai, provaci. Non ci sono risposte sbagliate»
«Dopo la cazzata che hai detto, posso dire settanta che sarebbe meno ridicolo»
«Non ho settant’anni»
«Ma dai…» borbotto. «Ehm… ventiquattro?»
«Mi mantengo bene, allora» asserisce, gongolante. «Ventotto»
«Sì, non fare il figo» ribatto, con le braccia al petto. 
Ridacchia, apre la porta della pizzeria e mi fa segno di entrare con la mano, annunciando: «Prima le signore». Ok. No, aspetta, cosa?
«Giuro, di’ ancora una volta una cosa del genere e al ritorno ti butto giù dal motorino» sibilo, con gli occhi ridotti a una fessura. Mi guarda confuso, poi pensieroso e, infine, sbarra gli occhi.
«No, no! Non volevo essere offensivo, era una battuta, so che sei un uomo, non lo stavo mettendo in dubbio, scusami!» esclama, di botto, poi entra prima lui. «Ecco, entro io!». Devo ammetterlo, questo sclero è stato del tutto innecessario. Sia da parte mia, sia da parte sua. Però è stato adorabile, è persino entrato prima lui. E, onestamente, è stata la prima persona in vita mia che si è scusata dopo aver detto una cosa che mi dà fastidio. 
Sospiro. «Sta’ tranquillo» brontolo ed entro anch’io. Ho una fame. 
«Gianni!» sento esclamare e mi volto per trovarmi Rosalba con un gran sorriso. E in un secondo la mia gamba viene braccata da una mini-Lucia che mi guarda con occhi luccicanti.
«Nanni!» uggiola. Fantastico, un altro soprannome. D’istinto, lancio un’occhiata alla porta della cucina, dove Roberto, il marito di Rosalba, mi osserva con le braccia al petto e un’espressione che potrei definire da assassino pazzo. Dio santo, che ansia. Ecco perché non vengo mai qua. 
«Ciao, siamo in due!» mi affretto a dire, con un sorriso terrorizzato, scollandomi la cucciola di uomo dalla gamba.
«Mettetevi dove volete, due minuti e passo a prendervi le ordinazioni» risponde lei, dandomi due menù in mano. Con tre falcate, mi ritrovo nel punto della sala più lontano dalla cucina, mi siedo e, solo dopo, mi accorgo di aver abbandonato Jacopo nelle mani dello psicopatico. Una vittima collaterale, non c’era tempo. Con una calma invidiabile, attraversa la sala e si siede davanti a me, lanciandomi un’occhiata interrogativa. 
«Cos’è appena successo?» mi chiede, prendendo il suo menù.
«Mi piace stare vivo e, di conseguenza, lontano dall’energumeno in cucina»
«Ah…»
«Ok, sono stato un po’ criptico. Per farla breve, Gianluca è terrorizzato dall’energumeno in cucina. Molto. Ha messo molto bene in chiaro che non mi vuole vicino a lui, a sua figlia, insomma di ronzare via.»
«Ti ha minacciato?» sussurra, sbigottito.
«Diciamo? Boh, non ho mica capito. È passato tanto tempo e siccome è perfettamente in grado di stendermi con un pugno, non ho questa voglia matta di indagare se fosse una cosa vana o meno.»
«Siete tutti un po’ pazzi…» commenta, voltandosi casuale verso di lui. Scrollo le spalle. Certo, un trentenne che prova a seviziare un ragazzino con la metà dei suoi anni è particolarmente pazzo, ma ormai non è più un problema mio. 
Ordiniamo una pizza al prosciutto e una margherita e due birre piccole, io che osservo compulsivamente i movimenti del troglodita, lui che si guarda attorno estasiato come un bambino a Gardaland. Prendo un respiro profondo. Non posso rimanere fossilizzato come uno stoccafisso sperando che a Berto venga un miracoloso malore.
«Quindi… sei laureato?» domando, strappando un pezzettino della tovaglietta di carta e cercando di essere il più rilassato possibile.
«Sì, informatica.» risponde. «Tu studi?»
«No. Finite le superiori non mi andava e mi è andata bene che l’enoteca cercava un commesso. Prendo quello che c’è» 
«Non c’era nulla che ti piaceva?»
«Non in particolare. A scuola ero una sega, le superiori sono state un grande trauma, sia dal punto di vista… di studio in generale, sia quello sociale. Forse mi sono convinto che anche l’università sarebbe stata così, quindi ho lasciato perdere. Forse non ci ho nemmeno mai pensato.»
«Io al liceo mi sono divertito un sacco, tu che hai fatto?»
«Un ITIS. Perito elettrotecnico…»
«E non sapevi mettere a posto la cassa?» mi interrompe, ridendo. Toh, che stronzo. Ma pensa te.
«Senti, non era la scuola che volevo fare, di fili e chip mi interessa meno di zero.» borbotto. «Ed ero in una classe di soli maschi adolescenti e insicuri. Cinque anni a dormire sul banco e a levarmi palline di carta masticata dai capelli»
«Erano così lunghi anche ai tempi?»
«No, erano quasi rasati. Ma poi, adesso mica sono così lunghi»
«Più dei miei»
«A me piacciono così…» ribatto, facendo spallucce e attorcigliandomi una ciocca attorno alle dita. Con l’aria più scazzata al mondo, Roberto appare di fianco al tavolo –facendomi venire un colpo, tra l’altro–, serve decentemente Jacopo e mi lancia davanti il piatto con stizza. 
«Buon appetito» grugnisce, lanciando a me un’occhiataccia e squadrando serio Jacopo da capo a piedi, poi si dilegua di nuovo in cucina. Guardo quelle due foglioline di basilico nuotare tra la mozzarella e non faccio a meno di pensare che molto probabilmente il nostro caro Berto ci ha sputato sopra. Sospiro, facciamo finta di non saperlo. 
«Beh, buon appetito» mormoro.
«Altrettanto» mi dice lui, con un’espressione raggiante. «Comunque, anche a me piacciono così i tuoi capelli» asserisce, osservandomi. Ah. Punti interrogativi. Tanti. «Cioè, ti stanno bene… tipo pettinati in questo modo»
«Grazie…» rispondo, confuso, poi do un morso alla fetta di pizza perché non so cosa dire. Strano. Solitamente ho sempre la battuta pronta, ma ora proprio no. 
Ognuno si perde nella propria cena, io ho una fame che non ci vedo più. A volte, gli lancio delle occhiatine e mi sembra piuttosto sereno. Boh, magari da dove viene lui non esistono i cinquantini ed è normale farsi complimenti tra maschi. Dov’è questo posto magico in cui hanno sconfitto la mascolinità tossica?
«Di dove sei?» gli chiedo, di getto. 
Alza lo sguardo, inghiottisce il boccone e dice: «I miei hanno abitato per un sacco d’anni in Germania, sono nato lì e ho passato tutta l’infanzia tra i… “crucchi”. Poi, quando avevo tredici anni, ci siamo trasferiti a Milano. I miei sono ancora lì»
«Ah, wow…» sospiro. Peccato non sapere il tedesco. «E in che parte della Germania abitavi?»
«Un paese vicino a Kölle… come si dice in italiano…? Ah, sì, Colonia, era un posto carino, ma mi piace abitare pure qui»
«E non ti manca?»
«È un bel ricordo… mi mancano la tranquillità e la pace, Milano troppo grande e caotica, però per il resto… mi piace l’Italia.»
«È per questo che sei venuto a vivere qui?»
«Anche» risponde, con un sorriso pacato. Vabbè, adesso lo ritengo leggermente meno sconsiderato per l’acquisto. Comunque un po’ troppo, ma non mi va di biasimarlo. «E tu? Sei sempre vissuto qui?». Annuisco e lui sorride. «Ci sta»
«Neanche troppo» brontolo. Scrolla le spalle e raccoglie con la forchetta un pezzetto di prosciutto, buttandolo sulla fetta.
Finiamo la pizza in fretta e furia e quando mi ruba l’ultima crosta per sgranocchiarla felice, i punti interrogativi nella mia testa non fanno altro che moltiplicarsi. Nascondo la mia espressione confusa nel boccale e prendo l’ultimo sorso della mia birra.
Gli prometto di andare a prendere un caffè in un posto senza gente che vorrebbe tirarmi la pala della pizza in testa e ridendo, ci alziamo dal tavolo. Alla cassa, litighiamo un po’ su chi debba pagare, ma lui riesce a passare venti euro a Rosalba quando Lucia mi assalta di nuovo la gamba e io salto via come una cavalletta. Senti, Lu, sei una bambina carina, ma se ti tocco, quella bestia di tuo padre mi sotterra vivo. 
«Dai, poverina, voleva solo abbracciarti» mi rimbrotta Jacopo, appena usciamo.
«Ridi’ la frase correttamente: dai, poverino, volevo solo stare vivo» esalo, tirando un sospiro di sollievo. Mi approccio al motorino, alzo la sella e tiro fuori i due caschi. 
«Aspetta…» mi dice. Mi volto e lo trovo impegnato a girarsi una sigaretta. «Fumi?»
«Solitamente no. A volte mi sono fatto qualche cicca in bagno al liceo, o delle cannette a Capodanno con i miei amici, ma non sono assolutamente un fumatore incallito» mormoro. 
«E allora prendi, ci manca solo che mi metta a giudicare i fumatori occasionali.» ridacchia, passandomi la sigaretta, poi prende un’altra cartina e un altro filtro, se ne fa una per sé, ravana un po’ nelle tasche e tira fuori un accendino giallo. «Quindi…» inizia, facendo un primo tiro. «…come ti devo chiamare?» chiede. Eh? «Ti ho visto come “Gianni”, “Nanni” e “Gian”. Quale ti piace ti più?»
«Ah… Gianni assolutamente no, solo i vecchi mi chiamano così, di Nanni non ne parliamo nemmeno, che sembro uno stracchino. A casa mi chiamano “Gianlu”, quindi o quello, o “Gian”, scegli tu»
«Allora, Nanni ha una marcia in più solo per il fatto dello stracchino»
«Che stronzo, veramente» piagnucolo, indignato. «Mi stai dicendo che sono bianco e molliccio?»
«Bianco no, sei tipo… molto mediterraneo, tipo olivastro» commenta. «Molliccio non lo so, aspetta…» continua, poi allunga una mano e mi palpa un braccio. Gesù santo. Questo è fuori come un balcone. «No, non sei nemmeno molliccio»
«Quindi possiamo scartare Nanni, per favore?»
«Va bene» sospira. «Che Gian sia…». Gli faccio una smorfia e spengo il mozzicone nel posacenere di fianco all’entrata. 
«Grazie, Copo, apprezzo l’impegno»
«Scemo». Ridacchio e infilo il casco.
«Vuoi guidare tu?»
«No, col cavolo!» esclama. Rido di nuovo e accendo il motore, salendo. Alla mia sinistra, lo sento sospirare. «Ma chi me lo fa fare…?»
«Io» rispondo, malefico. Mi tira un pugnetto sulla testa, poi mi mette una mano sulla spalla e monta dietro di me. 
«Non andare troppo veloce»
«Non va troppo veloce, Jaco, smettila» brontolo, partendo. 
«Fammi vedere dove abiti!» mi dice, appena svoltiamo nel viale di casa sua. 
«Sei serio?»
«Sì, voglio vedere qual è casa tua!»
«Per stalkerarmi?»
«Ma che stalkerarti!» sbotta. Roteo gli occhi al cielo e tiro dritto, superando la piazza. Al dosso prima di uscire dal paese, si irrigidisce tutto dalla paura. Poverino.
«Senti, facciamo un gioco!» esclamo, poi giro fino in fondo la manopola dell’acceleratore e, quando noto che non va oltre i sessanta, apro le braccia tipo Rose nel Titanic.
«Ma sei matto!?» grida. 
«Dai, apri ste braccia!» continuo, dando un altro colpo di acceleratore. 
«No!»
«Che noioso» borbotto, tiro indietro le mani, prendo le sue e ok, siamo proprio come Jack e Rose. Che scena disagiata. «Dai, guarda che bello!». Mi stringe fortissimo le mani e sento il suo respiro mezzo affannato. «Sono sette anni che guido sto motorino, sta’ tranquillo!»
«Mi sto cagando addosso!» urla, disperato. Porto la mano destra al manubrio per accelerare ancora, ma lui non mi molla e finisce che, mentre sono impegnato a guidare, prendo una buca, lui si prende paura e fa scattare entrambe le braccia a circondarmi la vita. Eh, vabbè, che ci posso fare? Lasciamo stare. Porto anche la sinistra al manubrio, così riprendo un attimo di normalità. 
«Jaco, guarda qua, sto guidando di nuovo!» esclamo, per riportare l’ordine. Non mi molla manco per il cazzo, anzi affossa la testa tra la mia spalla e il mio collo. Ok, ora sono triste per lui. Vorrei fermarmi, ma non posso, sono su una statale, non c’è mezza piazzola e di sicuro non mi fermo nel bel mezzo della strada. «Dai, Jaco…» mormoro, genuinamente preoccupato, accarezzandogli una mano. E se gli venisse un attacco di panico? Non ci voglio nemmeno pensare, se no sale l’ansia pure a me. Entriamo nel minuscolo centro di casupole, tra cui la mia, e accosto davanti al cancello di Nunzia e Luciano. «Hey, siamo fermi, dai…» gli dico, bussandogli sul casco. Si rianima un goccio, tira su la testa e molla la presa. «Scusami, non pensavo fossi così spaventato, non lo faccio più»
«Ok…»
«Seriamente, scusami…»
«Nessun… nessun problema…» mugugna.
«Guarda, quella gialla è casa mia» gli spiego, indicando la mia dimora.
«Carina» commenta. 
«E la finestra tutta a sinistra è quella di camera mia. Poi quella a destra è di mia sorella, dietro c’è quella del bagno e quella dei miei» continuo, dicendo cose che assolutamente non gli interessano, ma spero almeno di distrarlo dal trauma. 
«Il colore mi piace»
«Prima era di un verde ospedale tristissimo, tre o quattro anni fa io e mio padre l’abbiamo verniciata. A me non fregava niente, tanto gialla o verde, rimane un girone infernale ugualmente, ma il mio genitore mi ha obbligato per illudersi di avere ancora un figlio maschio.».
Ridacchia. Oh, missione compiuta. «Quindi vivi coi tuoi?».
Sbuffo. «Già» brontolo. 
«Ci sta»
«Direi di no…»
«E perché?»
«Perché sono delle teste di minchia, maniaci del controllo e decisamente omofobi»
«Ah…»
«A proposito, ti va di scegliere con me un dildo da comprare su internet?» gli chiedo.
«Come, scusami?» ribatte, confuso.
«Sì, mia madre ha il brutto vizio di aprire tutti i pochi pacchi che mi arrivano, quindi adotterò la terapia d’urto per farle fare i cavolacci suoi.»
«D’accordo» ridacchia. Sbuffo una risata, poi faccio inversione e riparto verso il baretto, più lentamente, per far star tranquillo il mio compagno di dildi.

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Capitolo 4
*** Maglione color sperma ***


4 – Maglione color sperma

«Wow, ma come siamo di buon umore stamane!» esclama Eli, sorridente, poi all’improvviso, si fa tutta seria. «Che è successo, Gian?»
«Ma niente, che noia!» rispondo, contrariato.
«Non sei mai di buon umore al mattino, per cinquecento motivi diversi. Anche perché litighi coi tuoi tutti i santi giorni…» 
«Strano, stamattina non l’ho fatto…» borbotto. Strano davvero. Boh. 
«Non è che stai morendo?»
«E porca troia…» esalo, toccandomi le palle. Wow, complimenti, Gian, che gesto da italiano medio.
«E allora perché sei di buon umore?» mi chiede, assottigliando gli occhi. 
«Sai che non lo so?»
«Hai cambiato cuscino?»
«No»
«Materasso?»
«Nemmeno»
«Rete del letto?»
«Non credo abbia a che fare con il letto, Eli».
Mi squadra, seria, in cerca del motivo per cui sono di buon umore, poi a una certa si illumina. «Non ci credo, hai perso la verginità!»
«Ma che cazzo dici!?» sbotto. «Ma dove? Ma quando? Ma con chi
«Non lo so! Provo a fare delle ipotesi!» esclama, gesticolando. «Che hai fatto ieri sera?»
«Sono uscito con Jacopo e boh…» rispondo. Oh, potrebbe essere questo? No, impossibile. Ieri sera mi ha fatto arrabbiare perché mi ha detto che la vagina che l’ha espulso appartiene a una psicanalista. Già l’immaginario comune mi ha sempre fatto pensare a qualsiasi medico che abbia a che fare con la psiche come a quelli dei film horror ambientati dentro ai manicomi, la dottoressa Manfrin non ha di certo aiutato con tutte quelle troiate sull’omosessualità, eccetera. Mi vengono ancora i brividi a pensarci.
«Oh-mio-Dio!» esclama, teatrale. «Chi santissima merda è Jacopo!?»
«Ma come chi è Jacopo…?» inizio, indisposto, poi l’epifania. Lei non sa chi cavolo sia Jacopo. «Oh… tu non sai…»
«Certo che non so, brutta cacca! Non mi aggiorni mai!»
«È il tipo che è comparso l’altro giorno, sai, quello che mi ha chiesto di uscire dal nulla…»
«Ah… Capito…» mormora, pensierosa. «Ci hai fatto qualcosa?»
«Ma va, Eli, ti pare mai? Quello è più etero di non so chi…»
«Non mi dai mai degli scoop gay, Gian, sei inutile…»
«Se vuoi ti dico quando sotto la doccia provo a mettermi un dito in culo»
«Passo, grazie…» asserisce, secca. Ridacchio, è troppo facile mandarla in crisi. «Quindi… Jacopo, eh? Che tipo è?»
«Abbastanza normale, credo… non è un etero omofobo e questo gli fa guadagnare punti.»
«Quindi lo possiamo dare in pasto ad Auri?» chiede. Dal nulla, mi sale una smorfia infastidita. Non so. Non ce lo vedo proprio con Auri. E Auri non ce la vedo proprio con Jaco, se è per questo. Sono persone… diverse. Forse un po’ troppo. Lei è un po’, come dire, svampita per certi versi. Lui è tante cose, ma di sicuro non svampito. Non che le persone svampite debbano stare necessariamente tra di loro. Però comunque Jacopo ce lo vedo più con… o una manager di una multinazionale, o con una tipa di quelle che non si fermano un attimo, quelle un po’ sclerotiche. In ogni caso non credo di essere particolarmente in grado di accoppiare la gente così, un po’ a caso. Poi magari Jaco e Auri sono anime gemelle, si sposeranno e faranno una miriade di bambini perché –come tutte le coppie sposate– si dimenticheranno come si usa un preservativo. Non si può sapere con precisione. Comunque, per ora oserei bocciarli come piccioncini dell’anno.
«Boh… ok…» rispondo, invece. Ecco, sono un coglione. Ma perché non posso dire mai quello che penso? Oh, vabbè, regalerò ai futuri sposi un servizio di piatti.  
«Gli hai chiesto per sabato?»
«Ah… Sì, ma non può. Torna a Milano dai suoi per il weekend, che deve prendere ancora qualche cosa»
«Peccato. Volevo vedere l’amore sbocciare»
«Bah…» brontolo, dubbioso. 
«Non ti vedo entusiasta…»
«Perché per una volta vorrei vedere l’amore sbocciare con me magari. E niente espressioni compassionevoli, Eli, che ne sei campionessa…» mento, perché effettivamente non so perché non sono entusiasta di questa cosa. Auri ha decisamente bisogno di cazzo, almeno la metà di quanto ne ho bisogno io. E da questo punto di vista siamo ben oltre il limite della disperazione.
«Beh, ma è difficile trovarti un ragazzo! Dovevi andare con Jacopo a Milano, scusa!»
«E fare che? Avere tipo… sedici ore per trovarmi un tipo e iniziare un’inutile relazione a distanza?»
«Ma non lo so, Gian…». Sospiro, non è colpa sua. Certo, fossi stato etero, magari qualcuna l’avrei pure trovata. Fossi stato etero, sarei stato una noia mortale, lasciamo perdere questi discorsi.
«Vabbè, non importa» 
«Dai, che verrà anche il tuo momento» continua, mettendomi una mano sulla spalla. Eccolo, lo sguardo compassionevole. A sto punto, non vedo l’ora che sto benedetto momento arrivi perché non ne posso più di fare pena alla gente. 
«Si spera…» mormoro, liberandomi dal contatto. Più per stroncare il discorso che mi ha già abbondantemente rotto, che perché effettivamente voglia un ragazzo. Forse? Non lo so. Sono così abituato a essere solo come un cane che non me la immagino nemmeno una relazione. «Lasciamo stare, sabato prossimo magari faccio venire Jaco con noi.» asserisco. Parliamo di Jacopo, basta con la mia deprimente vita amorosa. 
«Wow, siete già passati al soprannome?» ammicca.
«Quale parte di “gli piace la figa” non comprendi?» chiedo, sarcastico. Chissà che sta facendo. Probabilmente preparerà le cose per il viaggio. Oppure sta smadonnando contro internet cercando di scaricare qualcosa. O si sta scrivendo con la sua tipa. Oddio, momento. «Mettiamo in pausa la missione Auri e Jaco» asserisco.
«E perché?» 
«Non gli ho chiesto della sua vita sentimentale, magari è fidanzato»
«Ah… beh, chiediglielo»
«Sì, certo, sicuramente suonerà come domanda “disinteressata”, come no»
«A me pare che tu stia cercando in tutte le maniere di affossare questa cosa, per un motivo a me sconosciuto»
«Perché dovrei affossare una storia che nemmeno esiste?»
«Allora, bisogna subito mettere in chiaro le cose: se Jacopo piace a te, non lo appioppo ad Auri. Se no scoppia un patatrac come con Lori, Federica e… come si chiamava quel vostro compagno di classe?»
«Cesare…»
«Eh, con Cesare. Nessuno vuole cazzi, Gian, né tu, né tantomeno io»
«L’ho appena conosciuto, Eli, non può piacermi. E poi, mi ripeto, è etero. Appioppalo con chi vuoi, non mi interessa, seriamente» affermo, deciso. Piacermi Jacopo, ma per favore. 
«Bah, non me la conti giusta…»
«Ma perché non dovrei? Quando mai mi sono mai fermato dal dirti qualcosa?»
«Ma non sembri convinto»
«Penso solo che ha poco senso “appioppare” gente a gente. Se si piacciono, faranno da soli. Ok, li metti insieme, ma se lui si rivela un bastardo traditore? Se non vuoi cazzi, il mio miglior consiglio è quello di lasciar perdere e far fare a loro le cose che vogliono»
«Mh-mh»
«Nel senso, ok, va bene presentarlo ad Auri, ma finisce lì il nostro apporto al loro amore.» continuo.
«Mh-mh»
«Comunque, questo è il mio parere, poi fai quello che vuoi, eh»
«Mh-mh» ripete per la terza volta, con uno sguardo strano.
«Che c’è?» chiedo, sospettoso.
«No, no, nulla…» cinguetta.
«No, ora mi dici.»
«Sei al cento per cento sicuro che Jacopo non ti piaccia? Proprio più sicuro della morte, più sicuro dei palazzi antisismici giapponesi»
«Oh, Cristo santissimo» esalo, troncando la conversazione. Tra tante persone che possono piacermi Jacopo sarebbe… ok, questo è un territorio pericoloso. Se inizio a fare liste e non liste, pro, contro, pregi e difetti, finisce come Vincenzo in quinta. Un bello schiaffo e il mio cuoricino infranto in tanti piccoli pezzetti, dopo un tentativo decisamente mal riuscito di baciarlo. Ah, com’è bello essere l’unico omosessuale tra duemila persone. Quindi, niente seghe mentali su Jacopo.
Mordicchio il tappo della penna e fisso i fogli dell’inventario. Che roba noiosa. Il cellulare mi vibra in tasca, per un secondo guardo ancora i fogli sul bancone, poi faccio spallucce e porto la mano ai pantaloni. Ogni scusa è buona per non lavorare. 
Trovo un “Buongiorno” proprio dall’oggetto delle nostre conversazioni precedenti. Ci mancava solo lui. Le stelle come al solito non si sono allineate dalla mia parte.
Hey” rispondo, casuale. 
Ti disturbo?
Se per disturbo intendi ‘provo a non far lavorare Gianluca salvandolo dalla tortura dell’inventario’, allora sì, disturbi
Ti scrivo dopo, allora
Non provare a uscire da whatsapp, dimmi” scrivo, nervoso. 
Ahah va bene, faccio veloce, volevo solo chiederti una cosa visto che hai buongusto: questa”, e mi manda una sua foto con una camicia azzurra. “O questa” e un’altra foto con un raccapricciante maglioncino dolcevita color crema. 
Camicia. Tutta la vita. In qualsiasi occasione posso pensarti in quel maglioncino, fai spavento” gli rispondo, forse un po’ cattivo. Per un secondo mi pento di avergli mandato un messaggio scontroso, ma poi mi passa. Vabbè, senti, vuole consigli da me? Bene, avrà i consigli più onesti dell’esistenza. Non ne so dare in altra maniera. Spero comunque che non si sia offeso. 
Immaginavo ahah grazie, Gian
Figurati, quando vuoi sono disponibile per il cambio armadio
Non vedo l’ora” conclude, con una faccina sorridente. “Ci vediamo domenica”. Ridacchio. No, cosa?
Domenica?
Boh, sì, facciamo qualcosa. Andiamo di nuovo al bar, se ti va”. Sbatto le palpebre molto perplesso. Sarebbe il caso di dirgli di no? Considerando quella minuscola possibilità che potrebbe essere il futuro fidanzato di una delle mie migliori amiche? Forse sì. Poi, ci ripenso. Ma sai cosa? Fanculo, sono un suo amico –circa–, mica ci provo con lui.
Certo, a domenica allora”. Dio mio, sto facendo una cazzata. La sento fino a qui la puzza di decisioni di merda. Ripesco nella chat la sua foto con la camicia, scansando abilmente quella con la maglia color sperma e guardo i pixel del suo viso. No. No, no, no. Non farò il sottone di merda con questo tipo appena incontrato solo perché non è il classico adolescente tossico come tutti quelli che ho conosciuto finora. Assolutamente no, in maniera più totale. 
Blocco il telefono, riprendo in mano la penna e inizio seriamente a lavorare. E mentre mi ripeto di non fare il sottone, un lampo di genio mi ricorda della mia etica e del mio valore dell’amicizia. E all’improvviso, l’idea di fare il cupido e scoccare le mie frecce tra Jacopo e Aurora mi sembra la migliore mai avuta.

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Capitolo 5
*** Qualifiche di MotoGP ***


5 – Qualifiche di MotoGP

«Franci» urlacchia Auri, con quella vocina stridula. Di sottofondo, invece, sento il rombo dei motori delle qualifiche di MotoGP dal video che mi sta facendo vedere Lori. La mia vergogna più grande e l’unica cosa che io e lui abbiamo in comune. Ah, anche l’unica parvenza di valore religioso che ha saputo impartirmi papà. La passione per le moto. 
Mentre un agguerritissimo Quartararo pressa su Martin, sul telefono di Lori arriva una notifica di tag nelle storie di Instagram. Da Elisa, che è seduta di fronte a me. 
«Ma che fai?» le chiede lui, corrucciato, apre l’app e corre subito a guardare la storia incriminata. Io e lui stiamo guardando il suo telefono –io con la testa praticamente sulla sua spalla–, investiti da una cascata di cuoricini volanti. Scoppio a ridere, mentre lui raccoglie con stizza le braccia al petto.
«Che, non me lo dai un bacetto?» domando, chiudendo gli occhi e sporgendomi verso di lui con le labbra a bacio.
«Ti taglio il cazzo, e sai che non scherzo» brontola lui, spingendomi via la faccia con una mano. 
«Stiamo ancora aspettando la telenovela su voi due» asserisce l’autrice di quell’opera d’arte. Rido di nuovo e prendo il telefono, aprendo Instagram. Riposto la storia mettendo un paio di cuori rosa a caso, giusto per dargli ancora più fastidio. 
«Fra, mettiti tu vicino a Gian, altrimenti lo ammazzo!» esclama, notando la mia notifica. 
«No, no, finiamo le qualifiche poi te ne vai!» sbotto, tenendogli il braccio. Sbuffa e prende un sorso di birra, facendo ripartire il video. 
«Che noia con ste qualifiche!» brontola Fra. «Sei un pessimo gay, Gian, sappilo!»
«Che ci vuoi fare? Il testosterone da qualche parte deve pur finire» dico, tenendo lo sguardo fisso sui motociclisti in piega.
«Stai zitto che il testosterone lo vedi col binocolo» borbotta Lori, alla mia sinistra. Che antipatico, mamma mia. 
«Il mio cazzo in tiro quando ti vedo non la pensa allo stesso modo» ribatto, con un sorrisetto. Mi pizzica un braccio e scuote la testa. «Stronzo» piagnucolo dolorante. Lori è decisamente il mio migliore amico maschio. In classe insieme alle medie e alle superiori, ci siamo trovati a questo punto di incontro in cui io a volte faccio finta di ascoltarlo quando mi parla delle sue ragazze e lui si sforza a non fare smorfie disgustate ai miei deliri sui ragazzi. Dire che sia a suo agio con la mia sessualità è un po’ azzardato, ma ammetto piuttosto candidamente che ci convive, tanto meglio di altra gente che ho incontrato. Avrebbe potuto essere una prima cotta, ma il fatto che mi grattugia lo scroto in continuazione con tette, culi e quant’altro mi ha fatto immediatamente tenere i piedi per terra, “accontentandomi” di lunghi giri in scooter e di parlare dal mattino alla sera di robe motoristiche. 
Il mio cellulare, dal tavolo, vibra e lo prendo pigramente. Oh, ma che cavolo, un’altra notifica da Instagram. Basta storie.
«Eli, basta sul serio…» borbotto.
«Ma io non ho fatto niente!» guaisce. Roteo gli occhi al cielo, dubbioso, sblocco lo smartphone e apro l’applicazione. Oh, è Jacopo.
Non mi avevi detto di essere fidanzato” scrive, rispondendo alla storia mia e di Lori. Scoppio nuovamente a ridere e mostro lo schermo a Lorenzo, che diventa livido di frustrazione. 
«No, guarda, non è il mio fidanzato…» inizio, in un vocale, prima che una bestemmia di tutto rispetto risuoni nel locale, più altre illazioni e lamentele varie, del tipo “ma col cazzo che sembro gay”, “come piace la figa a me, a nessuno”, “Auri, sta’ zitta che me ne frega una gran sega di passare per omofobo, il mio cazzo nel culo di Gian non ci finisce”, “peggio ancora il suo cazzo nel mio culo”. «Ma minchia, Lori, sto facendo un audio, chiudi un po’ quella bocca» mugugno, scocciato.
«Ti ficco l’audio dove non ti batte il Sole!» sbraita lui.
«Non scherzarci troppo che potrebbe pure piacermi» ribatto, prima che mi arrivi una chiamata. No, una videochiamata. Sempre da Jaco. Oh, miseria santa. Aspetto due secondi, in crisi sul da farsi, poi mi rassegno. «Hey, ciao» rantolo, rispondendo. 
«Ciao» dice Jaco, un po’ interrogativo. «Non ho capito letteralmente niente dell’audio che mi hai mandato» continua, con un mezzo sorriso. Ha la camicia che gli ho consigliato io, le guance tutte arrossate e gli occhi a mezz’asta, è in qualche posto all’esterno, a fumare e non sembra particolarmente elettrizzato da questo sabato sera. Beh, neanch’io lo sono, ma ho un motivo valido.
«Ah, sì…» rispondo, prima di venire distratto da Lori che inclina la testa ed entra nell’inquadratura. 
«Con chi parli, mo’?» chiede, guardando Jaco con le sopracciglia aggrottate.
«Ma che ti frega!» esclamo, spingendogli via la testa. 
«Gian, te lo giuro, quando fai così non ti sopporto!» sibila, beccandosi un coppino in piena regola. Stia zitto quando deve stare zitto, ma non lo so.
«Aspetta che esco anch’io…» dico a Jaco, lanciando un’occhiataccia agli altri e alzandomi dalla mia sediolina. 
«Gian, le qualifiche, mannaggia a te e a quel porco…!» tuona Lori. Gli faccio un dito medio, ignoro anche l’occhiata sospettosa che mi lancia Elisa ed esco dal bar, sedendomi sul gradino di fianco alla porta d’ingresso. 
«Non dà fastidio al tuo ragazzo che esci da solo col forestiero del paese?» mi chiede, con una mezza smorfia.
«Scusa, sei geloso?» domando, in risposta, assottigliando gli occhi. Oh, sì, la puzza di decisioni di merda si fa sempre più intensa, sempre più acre.
«Io non ne ho motivo»
«Innanzitutto, punto primo proprio, io posso uscire con chi voglio e il mio ragazzo se ne farebbe una ragione senza troppe storie. Punto secondo, quello non è il mio fidanzato. È un amico, stavamo guardando gli highlights delle qualifiche di MotoGP» preciso, roteando gli occhi al cielo.
«Che barba» commenta, apparentemente più sereno.
«Fatti i fatti tuoi, responsabile IT» ribatto, con un sorrisetto. Tra tanti lavori che posso immaginare, fare l’informatico è quello più noioso di tutti.
Sbuffa una risata, poi fa un tiro della sigaretta. «Quindi non sei perdutamente innamorato di “lorerongo”?»
«Direi proprio di no.» rispondo, ridacchiando.
«Menomale, non ti ci vedrei insieme a lui»
«Tranquillo, non succederebbe mai, ha più bisogno di scopare delle povere ragazze innocenti che di respirare»
«Perfetto» sghignazza, appoggiando la testa al muro dietro di lui.
«Jaco gelosone…» commento, senza pensarci. Poi ci penso, che cazzo ho detto? Oh, mio Dio, qualcuno mi fermi dal fare azioni sconsiderate, vi prego, sopprimetemi. 
«Ma che gelosone… sei proprio uno scemo» borbotta, corrucciato. Ridacchio nervoso e rimango in silenzio perché aiuto. «Che fai di bello?» mi domanda, poi. 
«Ho abbandonato la mia birra sul tavolo del bar per venire a parlare con te, sarà colpa tua se qualcuno ci puccia il cazzo dentro»
«Mi spiace…»
«È il loro modo per dirmi che mi vogliono bene» aggiungo, scrollando le spalle. «No, non è vero, ci provino solo a fare una cosa del genere…»
«Come ti vengono certe cose?» chiede, divertito.
«Talento naturale… tu che fai?»
«Sono in un locale…» sbiascica e mi fa vedere l’insegna un po’ vintage. «Anch’io ho abbandonato un drink sul tavolo»
«Spero per te che i tuoi amici non ci puccino il cazzo dentro». Ride ancora e scuote la testa. «Come sta andando? Che si dice in quel di Milano?»
«Per ora bene, dai, ho mangiato un hamburger gigante, mi sto bevendo un negroni e domani mi faccio psicanalizzare»
«Che ansia…» mormoro, con gli occhi sgranati.
«Me la fa passare l’ansia, Gian…»
«Ho i miei dubbi» 
«Quante storie…»
«Comunque, vedo che hai messo la camicia giusta che ti ho consigliato» affermo orgoglioso. «Fammi vedere i pantaloni, vediamo se hai fatto un buon lavoro». Gira la fotocamera e mostra un paio di jeans blu e le sneakers bianche. «Ah, ma allora ce li hai gli occhi per abbinare decentemente le cose»
«Hai visto?» chiede, retorico, spegnendo il mozzicone lì a fianco, per poi girarsene un’altra. «Tu invece sei leggermente esagerato, come al solito»
«Stronzo» asserisco, facendogli una linguaccia. «Posso fare molto di peggio»
«Ne sono certo»
«Domani vengo a casa tua nudo»
«Non so quanto faccia bene alle tue parti basse sfregare sulla pelle della sella». Fa male solo a pensarci. Un brividino mi percorre la spina dorsale e scuoto energicamente la testa per scacciare l’immagine della mia mente.
«Come non detto, vengo vestito»
«Mi pare un’idea migliore…»
«Guarda che non faccio così schifo da nudo, eh» gli dico, ammiccando. Ok, ma che cazzo faccio? Sono proprio un coglione, aiuto. Nella mia disperazione per questo passo falso, lui ci pensa un po’ su, poi scoppia a ridere e io non riesco proprio a fare a meno di fare un’espressione confusa. Niente “che schifo”, niente insulti omofobi. Boh. Davvero strano.
«Non lo stavo mettendo in dubbio» mugola, ravvivandosi i capelli. Nel farlo, però, scuote la sigaretta e un po’ di cenere gli finisce sulla testa, senza che se ne accorga.
«Sì, Cenerella, pulisciti i capelli»
«Mh?» chiede.
«La cenere nei capelli, fenomeno…»
«Ah…!» esclama, poi ridacchia e fa per ripetere lo stesso errore.
«Miseria, Jaco, mettiti sta sigaretta in bocca, altrimenti siamo punto e a capo!» sbotto e lui ride. «Quanti ne hai bevuti di negroni?»
«Ma non tanti… tre… o forse quattro»
«Alla faccia del cazzo» commento. 
«Sì, tra l’altro il negroni mi fa pure cagare, è solo che ti tira la stecca in fretta. Di spritz ne devo bere quindici e lasciarci cinquanta euro per farmi ubriacare»
«Sei una spugna, Jaco»
«Basta che non finisco a pulire il cesso…»
«Una spugnetta scema…» continuo, con un sorriso nel vederlo mezzo andato a scrollarsi la testa.
«Non dovresti stare coi tuoi amici, invece che prendere per il culo me?» chiede, sarcastico.
«E tu no?»
«Io sto fumando» risponde, alzando la sigaretta.
«Io sto prendendo una boccata d’aria» ribatto.
«Comunque… sei esagerato, ma sei vestito bene…» continua, avvicinandosi il cellulare al viso.
«Grazie» mormoro, sbattendo le palpebre.
«Quella maglia è proprio la cosa a cui penserei se dovessi pensare a te…» aggiunge.
Non faccio in tempo a processare l’informazione che una terza voce femminile esclama: «Oh, eccoti, eri sparito!». Jacopo si gira a destra e sorride sghembo. «Che stavi facendo?»
«Parlavo con Gianluca, sai, il ragazzo che ti dicevo…»
«Sì, sì, il tuo nuovo amico…» conferma la voce sconosciuta, con una punta di acidità. Oh, wow, mi faccio dei nemici anche extraurbani. Che bravura. «Senti, Jaco, c’è qualcuno dentro che ti deve parlare»
«Mh?»
«Che significa “mh”, Jaco, che cavolo! Tra un po’ Marti prende e ti lascia qua! E chissà quanto passerà prima che torni qui e ci parli assieme faccia a faccia!»
«Oh… ok…» mormora lui, già meno entusiasta, poi si volta verso di me e accenna a un sorriso. «Sono improvvisamente un goccino impegnato, ci vediamo domani?»
«Certo, certo, a domani» mi affretto a dire, cordiale. Mi fa un “ciao ciao” con la mano e chiude la chiamata nel momento in cui la sua amica(?) gli dà del completo coglione, lasciandomi in parte confuso e in parte abbastanza sereno. Serenità che mi abbandona totalmente quando dalla porta del bar compare Eli, con le braccia sui fianchi e un’espressione indagatoria.
«Ma che hai fatto tutto sto tempo?» mi chiede.
«Ero al telefono»
«Con chi?»
«Tanto lo sai…» brontolo. «Ne hai già parlato con Auri?» 
«No, sto aspettando il tuo “via libera”»
«Te l’ho già dato» ribatto. 
«La tua bocca dice una cosa, ma le tue azioni dimostrano tutt’altro.»
«Senti, Eli, non per rompere il cazzo, ma mi dici “fattelo amico”, poi ci parlo per cinque minuti e già inizi a pressare sulla storia “mi piace” o “non mi piace”. Sti discorsi mica me li facevi con Lori» osservo, scocciato.
«Non avevi ancora fatto coming out ai tempi»
«Beh, lui fino a prova contraria è etero»
«Ma infatti sto parlando di te, mica di lui»
«Massì, Eli, tranquilla. Niente magagne strane. Magari è solo la novità e quando… boh, tipo ci assestiamo un po’, diventa come gli altri disagiati dentro»
«Sono seria, non voglio farti un torto, o simili. Io me ne sto zitta con Auri, così se tu, da adesso alla prima volta che esce con noi, mi dici che ti fa girare il cazzo il fatto che possa uscire con lei, io mi tiro indietro e lascio che la storia faccia il suo corso.»
«Ma che farmi torti, dai. Primo, ci saremo visti due volte e a momenti manco lo conosco, quindi non posso dirti “ah, è il più figo al mondo”, oppure “ah, è una merda schifosa”. Secondo, in caso nascessero sentimenti da parte mia, saranno esclusivamente cazzi miei. Come tutte le altre volte»
«Però…»
«Però niente, Eli, che ci vuoi fare? Apprezzo i tuoi consigli e tutto, ma quasi sicuramente farò di testa mia e il mio cuore scemo si farà delle congetture a sé stanti, don’t worry» sospiro, rassegnato, poi mi alzo e rientro nel locale, senza spiaccicare parola perché tutto quello che avevo da dire l’ho già detto. Speriamo vivamente di non fare stronzate, che in questo periodo ho solo voglia di star tranquillo, senza cazzi per la testa. In tutti i sensi. Qualcuno mi svegli da questo incubo.

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Capitolo 6
*** Tisanina ***


6 – Tisanina

Alla fine, ha accettato di venire con noi, lo stolto maledetto. E non sono riuscito a dire a Eli quanto una pessima idea mi sembri quella di combinare l’incontro tra Jacopo e Aurora. Qualsiasi cosa le dica sembrerà un arrampicarsi sugli specchi, che non farà altro che alimentare le sue assurde teorie del complotto.
«Ripetiamo il piano…» mi dice Eli, al telefono. Per l’ennesima volta, no. 
«Facciamo un giretto, andiamo tipo in piazza. Scateniamo l’animo da ficcanaso di Fra che gli chiederà della sua vita sentimentale. Se è single –e te lo giuro, su questo non transigo–, andiamo allo storto e a una certa, io, te, Lori e Fra spariamo e li lasciamo soli, così si conoscono e possono scopare» brontolo, controllando la sottile linea nera sull’occhio. Non so, è precisa e simmetrica all’altra, ma c’è un qualcosa che non la rende perfetta. E che palle. Vabbè, lascio tutto così. Evito di mettermi l’illuminante, cercando con tutto me stesso di contenermi e di fare la persona sobria, poi guardo il mio viso allo specchio. Perfetto, come dev’essere. A parte l’eyeliner sull’occhio destro, ma faccio finta di non pensarci.
«Perfetto. Questa è la tua ultima occasione…»
«Santo Iddio, se non la smetti mi incazzo!» sbotto, interrompendola. So dove vuole andare a parare e no. In qualche modo, ho trovato la pace dei sensi e domenica è stata una serata quasi alla pari di quelle con Lori. Solo senza moto, ma questo lo posso accettare. Quindi basta con queste domande pressanti, mi mettono ansia e mi buttano punti interrogativi in testa di cui non ho assolutamente bisogno. 
«Hai le tue cose?» mi chiede, acida. Sbuffo e mi metto il deodorante sotto la polo. Poi, appare sullo schermo un’altra chiamata, di Jaco. 
«È Jacopo, non staccare che poi ti dico cosa vuole»
«Ok!».
Rispondo, mettendo anche quella in vivavoce. «Hey»
«Ciao, sono sotto!» esclama, entusiasta. Veramente, l’ottimismo di quest’uomo mi sfianca. Non ha mai giornate no, come cavolo è possibile?
«Scendo» gli dico, criptico, staccando subito la chiamata. «Eli, in cinque minuti devi essere pronta» asserisco, staccando anche la sua chiamata, poi scendo le scale, evitando sapientemente di avvicinarmi troppo agli orchi che abitano casa mia, mi metto le scarpe gridando un “ciao” ed esco fulmineo.
«Che velocità…» commenta Jaco, quando salgo in macchina. «Pensavo dovessi aspettarti due ore»
«Ah-ha, simpatico come pestare una merda» mugugno, mettendomi la cintura. 
«Mai quanto te» controbatte, facendo un sorriso ruffiano. 
«Ricordi i genitori omofobi e maniaci del controllo?» chiedo, retorico. Lui annuisce, io indico la mia faccia. E i miei vestiti. E i capelli e gli orecchini. «Ecco, questo triggera l’omofobia. Sarebbe una cosa che vorrebbero controllare e cambiare secondo i loro canoni di genere. Ovviamente non ci riescono e siamo due trigger su due. Devo uscire in tipo tre secondi senza che mi vedano, altrimenti le due ore di attesa sarebbero impiegate solo da una grossa crisi fatta di “cambiati” e di “no”»
«Wow, che seccatura.»
«No, ma figurati, ma che seccatura? È una cazzo di tortura, Jaco. Ricorda, girone infernale…» borbotto, roteando gli occhi al cielo. «Comunque… sbrigati, che c’è l’altra maniaca del controllo che ci aspetta, almeno ci sei tu che sei una specie di hippie da questo punto di vista»
«Dai, spiegami dove sta la casa della tua amica» mi dice, partendo. Lo osservo guidare, ha le sopracciglia aggrottate, le labbra piegate in un’espressione avvilita, a volte sospira. Non sembra stare benissimo, però non ho le capacità relazionali adatte a capire a fondo il suo stato d’animo. Lo guido fino a sotto casa di Eli, che se ne sta davanti al cancelletto con un sorrisone a trentadue denti. Elisa in modalità accoppiatrice è veramente una cosa insopportabile.
«Buonasera!» esclama, raggiante. Uccidetemi adesso. «Elisa, tanto piacere» si presenta, tendendo la mano verso questo bestione di persona.
«Jacopo, piacere mio» risponde lui, cordiale, con un sorriso appena accennato, poi ingrana la prima e riparte. Evidentemente abbastanza navigato da questa prima settimana di lavoro, ci porta in città in relativamente poco tempo, io ed Eli –battibeccando su quale sia la strada più veloce– lo facciamo arrivare al parcheggino solito e finalmente questo viaggio della speranza trova la sua conclusione.
«Ci siamo dati appuntamento qui, quindi ora si aspetta» afferma lei, secca, prendendo il cellulare dalla borsa. Prima ancora che lo sblocchi, sento il rombo di un quattro cilindri, mi volto d’istinto e vedo una Yamaha R7 venire nella nostra direzione. Con una velocità anche piuttosto sostenuta. «Ma chi è sto fenomeno?» chiede Eli, mentre mi sale tanta ansia guardandola puntare me. E il mio cuore smette di battere per due secondi quando tira un’inchiodata della Madonna a mezzo metro dal mio piede. 
«Gian…» esala Lori, alzando la visiera del casco. Oh, Dio santissimo divino. Che figata. Anche che infarto, ma prima di tutto che figata.
«Ma che cazzo mi stai dicendo?» rantolo, con gli occhi fissi sulla moto. 
«Gian…» ripete lui, spegnendola. «Guarda che mostro.»
«Gesù, ecco che cominciano…» brontola Elisa. La ignoro. Non me ne frega più niente di nulla. Figata assurda.
«Tu non puoi immaginare… niente. Gian, te lo giuro, sembra veramente di volare» continua Lori. «Aspetta che la metto in un posto sensato». La mette in uno dei due posti riservati alle moto, poi si toglie il casco e fissa il blocca disco alla bestia. 
«Tu mi prendi per il culo» sospiro. 
«No, te lo giuro, l’ho comprata sul serio»
«Sei completamente fuori di melone.»
«Peraltro, ho speso così tanto che guarda cosa mi hanno regalato» afferma, orgoglioso, tirandosi leggermente giù i jeans e mostrando dei boxer blu della Yamaha.
«Ok, ridimensionati, questa è una tamarrata»
«Vabbè, poi ne parliamo dopo» mi liquida, sventolando una mano. Mi volto verso il resto del gruppo e noto Eli indisposta, con le braccia al petto e Jaco molto vicino allo svenimento, bianco come un cencio. 
«Poi devi portarci sopra Jaco, che adora le moto» sghignazzo, dandogli una pacca sulla spalla. Mugola, spostando il peso da un piede all’altro. Ok, povero, lo lascio in pace. Anche perché gli altri due mentecatti arrivano e si presentano al nuovo arrivato, che prova a far salire un goccio la pressione sanguigna. Eli si volta verso di me, fa un impercettibile segno di assenso, al che sbuffo, roteando gli occhi. Non è James Bond, non siamo agenti segreti sotto copertura e, anche se fosse, questa è una missione di merda. 
«Facciamo un giretto?» domando, fintamente ingenuo. Dio, se odio il mio ruolo in tutto questo. I “complici” di questa pagliacciata accettano entusiasti, sempre fintamente ingenui e Fra si accolla quasi subito a Jaco, sottostando agli ordini del Generale lì davanti. 
Rimango con Lori e finalmente può sviolinarsela per il suo nuovo acquisto. Mi spiega tutti i dettagli tecnici, il prezzo, il fatto che sia eccitatissimo di questa cosa e devo dire che mi fomenta abbastanza. Forse potrei farmela una patente più potente rispetto a quella per i centoventicinque, che campa da quando avevo sedici anni. E magari comprare una moto per sostituire quel vecchio rottame della mia vespa. Poverina, però, mi dispiace. C’è stata nel bene e nel male, con pioggia, Sole, nebbia, strade di merda, buche, briciolino per terra. Poi mi chiede delle qualifiche e, allora, parte uno di quei discorsoni che fanno venire il mal di testa. Che infognati di merda che siamo. E il fatto che lo sia io è veramente molto strano.
«No, Lori, guarda che stai dicendo una cazzata…» asserisco, secco.
«No, raga» sibila Fra, sottovoce, dietro di noi, facendomi venire un colpo. «Che figura di merda…»
«Perché?» domando, corrucciato. Questo non è parte del piano. 
«Potevi dirmelo, brutto finocchio, che si è mollato sabato» mi sussurra, stizzito. Oh… oh! Ok, espressione avvilita, sospiri malinconici. Ora me lo spiego. Ma porca miseria, adesso mi sento una merda. 
«Io non lo sapevo» ribatto, ancora caduto dal pero, e provo a voltarmi verso Jaco, ma Fra mi prende la faccia e mi fa guardare avanti.
«E non girarti, santo Cielo, ora che si fa?»
«Chiedi a Eli, io non ne ho idea» rispondo, lavandomene completamente le mani e scollandomelo di dosso. Appena Fra si volatilizza verso Elisa, rallento il passo fino a ritrovarmi di fianco a uno Jacopo perso nel nulla, con mezza sigaretta in bocca. «Hey» dico, mandando completamente affanculo il piano. Non che me ne importi effettivamente qualcosa.
Si gira a guardarmi e sospira: «Hey»
«Mi fai fare un tiro?» gli chiedo. Annuisce e mi porge la cicca, facendomi fare un tiretto breve. «Non me l’hai detto»
«Mh?»
«Insomma, della fine della tua relazione»
«Ah… sì, beh… ci credevo poco anch’io, ero un po’… stordito. Poi dovevo iniziare a lavorare, non avevo troppo la testa per pensarci»
«Quanto siete stati insieme…?»
«Due anni» risponde, scrollando le spalle. Oh, cazzo. 
«Wow…» esalo. Lui sospira e abbassa lo sguardo. «E… chi ha lasciato chi?»
«È stata una decisione condivisa…» risponde, poi rimane un secondo immobile. «…beh, oddio, no, è stata una sua decisione, io sono stato mollato alla grande, ma… boh, in realtà niente “ma”, è così e basta. Non voleva più stare con me, l’ho accettato di buon grado, che dovevo fare…?» mormora, retorico. 
«E tu eri innamorato?»
«Io sì… forse dall’altra parte non era troppo corrisposto…». Apro la bocca per chiedergli se è triste, ma la richiudo. Sarebbe una domanda stupida, considerando la sua espressione ancora più mogia di prima. 
«Mi… spiace…» tento. 
«Non devi» ribatte. Forse ha ragione, ma mi dispiace lo stesso. Non sono neanche bravo a fare ste cose, a confortare gli amici nel momento del bisogno, quegli altri geni mica si confidano. E anche se lo facessero, si imbottiglierebbero dentro alla loro mascolinità, non si lascerebbero scappare nemmeno un sospiro vagamente triste. 
«Beh, però lo faccio…» continuo. «Non… so bene cosa…»
«Non ti preoccupare, è ok» mi interrompe, facendo un sorrisino che più falso non si può.
«Jaco…» sussurro. Lui inclina la testa a incrociare il mio sguardo, io mi limito a osservarlo. «È ok se… se sei triste, o… beh, sì, se ci stai male…» mi sorprendo a dire, lui continua a guardarmi, gli occhi gli si fanno lucidi, al che distoglie lo sguardo e rallenta gradualmente fino a smettere di camminare.
«D’accordo…» inizia, roco, poi si schiarisce la voce e si passa la mano sugli occhi. Mi metto davanti a lui, ad aspettare che gli vengano le parole. O comunque che si ricomponga un minimo. «…Sto un po’ di merda. Incazzato e parecchio triste. Non è mai una storia particolarmente stabile, è sempre stato tutto un grande tira e molla, tanti giramenti di coglioni… e sapevo anche che molto probabilmente non sarebbe sopravvissuta a lungo come relazione a distanza, ma non mi aspettavo di sicuro che sarebbe finita dopo una settimana dal mio trasferimento. E invece, è andata proprio così… e stavolta… stavolta so che non è uno dei nostri soliti “ci molliamo e poi torniamo insieme”, è finita e basta, una volta per tutte.». Ok, non so assolutamente cosa dire. Sono sinceramente dispiaciuto che ci stia male, ma ho una specie di aridità in gola che bloccherebbe qualsiasi suono possa voler uscire dalla mia bocca. «Sono pure… lontano da… chiunque mi conosca abbastanza da darmi una mano» aggiunge, incassando la testa tra le spalle. 
«Beh, hai me…» rantolo, piano. Wow, Gian, hai vinto il premio modestia dell’anno. 
«Ho te?» chiede, con un sorriso relativamente sincero.
«Sì, beh, so che non ci conosciamo benissimo e anche che sono abbastanza inutile… diciamo pure totalmente inutile… però… per qualsiasi cosa, puoi chiedere e farei del mio meglio… boh, se vuoi una tisanina…» propongo e lui mi guarda come a dire “sei serio? La tisanina?”. «Ok, forse no… Oppure… non so, se preferisci un abbraccio…» riprovo e a malapena faccio in tempo a finire di parlare, che sento un suo braccio circondarmi le spalle, l’altro sulla vita, affossa la testa tra il mio collo e il suo gomito e mi tira contro di lui. Rimango molto interdetto sul da farsi e penso di essere diventato una specie di statua di sale, però poi ricollego un secondo il cervello e faccio passare le mani attorno al suo torace, appoggiandone una sulla sua spalla e una in mezzo alla schiena. 
Non so nemmeno quanto tempo passa a rimanere perfettamente immobile e palesemente scomodo visto che si è dovuto accartocciare per riuscire a incastrarsi così. Sono leggermente a disagio, non abbraccio così qualcuno da non so quanti anni, ma di sicuro non posso scollarmelo di dosso, o mandarlo a fanculo in questo momento di fragilità. Con la coda dell’occhio lancio uno sguardo alla sua testa rintanata nell’incavo del mio collo e il mio cuore viene travolto da un moto di empatia, allora porto una mano sul suo capo e gli accarezzo i capelli, mentre lui tira su col naso. Ok, spero onestamente che sia solo raffreddato e che non si metta a piangere perché non saprei proprio come reagire. Anche con le migliori intenzioni, non è una scena che il mio cervello è pronto ad affrontare. 
«Ci speravo pure che… insomma, ce la facessimo. Ora mi sento solo un coglione illuso…» mormora, poi. 
«Vorrei dirti che non devi, che non ha senso, o cose del genere, ma la mia esperienza in questo campo è pari a zero, quindi sembrerei solo un ipocrita…» rispondo. «Però ti posso dire che visto dall’esterno non sembri coglione per niente…» aggiungo, sincero. Non sembra un coglione, solo un ragazzone gigante col cuore spezzato. Mugola e aumenta ancora di più la stretta. E per quanto possa soprassedere sull’abbraccio e il contatto fisico e mille altri complessi miei, a volte l’ossigenazione del sangue risulta sottovalutata. Mi sta stritolando. «Dai, dai, che sei un gran figo cosmopolita, te ne trovi mille qua» commento, battendogli piano sulla schiena. 
«Oh… Beh, apprezzo…» esala, prima di staccarsi e sospirare, poi mi guarda, si abbassa e mi stampa un bacio sulla guancia. Ok. What the fuck?
«Li baci tutti i tuoi amici maschi?» biascico, con gli occhi sbarrati. 
«Solo quelli che se lo meritano»
«Ah…» sospiro. Perfetto, ora che devo fare?
«Non credevo che un bacetto ti scombussolasse così tanto» mi provoca, sarcastico. Menomale che c’è lui, da parte mia non ci sarebbe stato altro che un lungo silenzio molto cringe. 
«Li hai visti gli altri due fenomeni con cui esco? Piuttosto che dare un bacio a me, bacerebbero il water di un regionale»
«Io non sono loro…» ribatte. In effetti non ha tutti i torti. «Io non bacerei mai il water di un regionale»
«Non vedo perché dovresti.». Sbuffa una risata e si passa una mano nei capelli, scompigliandoseli tutti. «Che cosa devo fare con te?» sussurro scocciato, alzandomi sulle punte per metterglieli a posto. Fa una faccia stupita, poi aggrotta le sopracciglia e li arruffa a me.
«Così impari»
«Ingrato…» brontolo, cercando di pettinarmi i capelli. Spero per lui che siano tornati decenti. «…con tutto il supporto morale che ti ho dato, mi ripaghi così…»
«Mi hai offerto una tisanina»
«E anche un abbraccio. E comunque la mia offerta della tisanina è ancora valida»
«No, grazie. Adesso voglio solo una birra.» risponde, secco. «Vuoi tornare dagli altri?»
«Solo se te la senti…»
«Non c’è problema» asserisce, allora io prendo il telefono per scrivere a Eli, ma trovo già un suo messaggio. “Quando finite di limonare e volete raggiungerci, noi siamo dallo storto”. Roteo gli occhi al cielo e le mando uno sticker aggressivo, per poi rimettere il cellulare in tasca. 
«Alla riscossa!» esclamo, imitando un supereroe –che non sono– e parto in direzione del bar, subito seguito da questo labrador gigante.
«Dove sono andati?»
«Nello stesso bar da vent’anni a questa parte, ci farai l’abitudine.» borbotto. «Nato come pub irlandese, o simili, ora è diventato solo un bar del cazzo con un arredamento piuttosto dubbio, ma è l’unico in cui c’è gente sotto i sessant’anni, quindi ce lo facciamo andar bene»
«Dai, non sembra male»
«Hai ragione, non sembra male, è merda travestita da cioccolato, esattamente come la birra che vende: piscio messo in un fustino». 
Ridacchia e mi dà una spintarella in avanti, poi si fa serio per un momento. «Grazie, Gian»
«Non ho fatto niente…» rispondo, confuso.
«Non serviva, bastava che fossi qui…» aggiunge, facendo un sorriso. Sbatto le palpebre, non ho ben capito, ma ricambio il sorriso lo stesso, poi mi vibra il telefono in tasca. Io guardo Jaco in cerca di approvazione, non vorrei essere scortese, ma lui mi fa un cenno d’assenso, quindi mi porto la mano sul culo e prendo il cellulare. 
No, ma non mi piace Jacopo, ma figurati, quando mai…” scrive Eli, con tanto di faccina del pagliaccio, direttamente sul gruppo. Wow, che rispetto della mia privacy. Mentre arrivano un paio di faccine che si scompisciano dalle risate, io sbuffo e lancio un’occhiata a Jaco.
Infatti non mi piace Jacopo” rispondo, per poi bloccare il telefono. Jacopo non mi piace. Almeno, credo. Faccio davvero molta fatica a partorire un pensiero critico quando ottanta chili di braccio cingono le mie spalle e mi tirano contro il proprietario. 

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Capitolo 7
*** Essere tristi per le trote ***


7 – Essere tristi per le trote

«Cosa vuoi fare appena arriviamo?» mi chiede Jaco, entrando in tangenziale. Me la aspettavo più piena. Certo, non è vuota, ma si riesce a procedere a una velocità decente.
«Mangiare, visto che mi hai impedito di cenare in autogrill» rispondo, prontamente.
«Perché spendere venti euro a testa quando possiamo mangiare a casa?»
«Perché ho lo stomaco che si sta rigirando su sé stesso.»
«Dai, venti minuti e siamo a casa» mi dice, facendomi “pat, pat” sulla testa. Grugnisco, indisposto e piuttosto affamato. Sono abbastanza incuriosito da questo weekend. Certo, non era propriamente pianificato, è stato più “sto fine settimana vado a Milano”, “uh, che invidia” e “dai, vieni anche tu”. Ho messo due cazzate in uno zaino, mi sono fatto venire a prendere dopo lavoro tre ore fa ed eccoci qua, nella tangenziale non troppo piena di Milano.
«Ci sono pure i tuoi?»
«No, sono usciti. Poi arriveranno, ma non so a che ora»
«Uff, menomale. La psicanalisi come contorno mi appesantisce…». Sbuffa una risata e scuote la testa. Credo abbia finalmente capito che rispetto e non ho assolutamente nulla contro sua madre come persona. Odio semplicemente il suo lavoro in quanto tale. 
Prende l’uscita della tangenziale, che dà sbocco su un viale gigante. Ok, qui è più abitato della tangenziale. C’è un sacco di gente, sui marciapiedi, per strada. Vedo pure un ragazzino dietro a suo padre su uno scooter con un caschetto da bici. Ok, quello credo sia piuttosto illegale. Dopo dieci semafori e cinquanta clacsonate di gente piuttosto impaziente, svoltiamo in una vietta quasi fantasma, solo palazzi e un minimarket. 
«Che palle, com’è possibile che non ci sia mai un solo parcheggio…?»
«Non avete un garage?»
«Per la macchina di mio padre…» brontola, infilandosi in una traversa. Trova un posticino piccino e ci si butta dentro in mezza manovra.
«Sei bravo a parcheggiare»
«Si chiama istinto di sopravvivenza: parcheggiare in fretta e capire quando diventano verdi i semafori, così non fai venire una crisi ai clacsonatori ossessivi»
«Non fa una grinza.» osservo, prendendo il mio zaino dal bagagliaio. Fa lo stesso, chiude la macchina e inizia a incamminarsi verso la via di prima. Lo seguo fin sotto un palazzo grigio e bianco, a fianco al portoncino svetta una targa di uno studio di una psicanalista. «È tua madre?»
«Sì, ha lo studio sotto casa nostra. A volte, se è distratta, esce di casa in pigiama…»
«Dai, carino…»
«Non particolarmente per la mia privacy.»
«Ma per piacere, fai silenzio, va, che mia madre è casalinga, mai saputo cos’è la privacy…» ribatto. Ridacchia, già dentro l’androne e mi fa segno di venire dentro, poi chiama l’ascensore e si mette ad aspettare lì davanti. Saliamo al terzo piano, apre una delle tre porte sul pianerottolo ed entra in casa sua. La prima cosa che vedo è bianco, poi un gatto ciccione tutto nero che si struscia sulle gambe di Jaco. 
«Ciao!» mugola, prendendolo in braccio e dandogli un bacio sulla testa. «Ecco Camilla!» esclama, mostrandomi la gatta. 
«Perché il tuo gatto ha un nome da persona?» domando, allungando una mano verso l’animale. Forse non mi prende bene, perché mi soffia e prova a mordermi. «Benissimo, il tuo gatto mi odia»
«Non ti odia, è solo che non ti conosce ancora» mi dice, continuando a farle dei grattini sotto il mento. «E il nome l’ha deciso mia madre. Non chiedermi chi sia Camilla, non ne ho idea e sto bene così»
«È cicciona»
«Dai, scemo, poi ti chiedi perché ti odia…» mi sgrida, poi abbassa il viso verso la micia. «No, che non sei cicciona, ma che cose brutte ti dice Gian…» uggiola, accarezzandola e strusciando una guancia contro la sua testolina. Ridacchio. Che tenero, sembra proprio un gattaro. 
A una certa, la rimette a terra con delicatezza, la accarezza ancora una volta, poi si scrolla le mani e si sbottona la camicia. Strabuzzo gli occhi. Ok, non me l’aspettavo. 
«Non pensavo fosse una di quelle vacanze» esalo. Mi fa un terzo dito e mi lancia la camicia sulla faccia. Sospiro, inspirando il suo profumo, poi me la tolgo di dosso e vedo Jaco andare verso un disimpegno, la schiena tesa dallo stiracchiamento, le gambe ancora fasciate dai pantaloni. Jacopo non mi piace, ma gli occhi ce li ho pure io. E vedono obbiettivamente un bell’uomo. Alto, muscoloso il giusto, curato. Un bel culo, senza ombra di dubbio. Ok, stop. Ma che mi metto a pensare? Sembro un maniaco. Lasciamo stare, va. 
Lo seguo, cercando di non uccidere la gatta che si è buttata lì in corridoio e lo trovo in quella che penso sia camera sua, girato di spalle, in mutande e vabbè. Io non ci posso fare proprio niente. 
«Ripeto, non pensavo fosse una di quelle vacanze»
«Se vuoi ti scopo sul serio…» asserisce, serissimo, poi in due falcate, è davanti a me, mi prende per un braccio e mi butta prono sul letto, tenendomi fermo con una mano in mezzo alla schiena e salendo a cavalcioni sulla mia vita, rimane due secondi così e, infine, scoppia a ridere. Oh, santo Iddio. Ma che cazzo!? Non sta bene per niente. Gesù Cristo. Non ce la posso proprio fare. Miseria ladra.
«Tu sei proprio un coglione!» sbotto, nel cuscino, ancora il cuore che batte come un forsennato e il sangue che mi ribolle nelle vene. «Mi hai fatto venire un colpo! Pensavo mi stessi per stuprare, brutto… non farmi parlare!»
«Davvero mi pensi uno in grado di violentare una persona?»
«Razionalmente no, ma in questo frangente, ho avuto un mini infarto…!» brontolo, ignorando il fatto che tra il mio culo e il suo cazzo ci siano meno di due centimetri di stoffa. Giuro, se mi viene un’erezione perché sto cretino struscia il suo attrezzo su di me, mi uccido. 
«Che esagerazione» esala, poi si corica per intero su di me e rimane così per una decina di secondi. Quando finalmente decide di alzarsi e di lasciarmi respirare correttamente –ma quanto pesa? Sembra un bisonte– mi metto supino, guardandolo ridacchiare contento. Io giuro, non lo capisco. I miei riferimenti maschili sono sempre stati un disastro, lo ammetto candidamente, ma lui è proprio tutto un altro pianeta. Mai avrei immaginato un ragazzo scherzare così facilmente con me sul sesso tra maschi, o abbracciarmi, o cose così. Forse nei posti in cui ha vissuto è una cosa più sdoganata. Probabile, voglio dire, sono stato qui a Milano per mezz’ora e ho visto il doppio degli abitanti del nostro paese.
Sospiro, poi guardo dove sono e do un’occhiata in giro. «Siccome vedo un solo letto singolo e non vorrei vedermi costretto a mettere un tappo in culo stanotte, dove dormo io?» domando, facendo un sorrisetto ansiogeno. Ride ancora, maledetto, poi scuote la testa e mi lancia un’occhiatina.
«Su quello…» risponde, indicando una poltrona. «Diventa un materasso. Non è male per dormirci una notte» continua, io lo guardo, noto una roba strana e aguzzo la vista per confermare. 
«Cos’è quella roba?» chiedo, ormai abbastanza sicuro di quello a cui sto assistendo.
«Cosa?» risponde, voltandosi confuso verso di me quando scoppio a ridere. 
«Quella roba sulle costole» mugugno, sventolandomi una mano sotto gli occhi.
«Ah, questo dici?» propone, indicando con un dito il “LOST BOY” tatuato con un font da incisione con coltellino su un tronco. Mi metto una mano sulla bocca per fermare una risata e annuisco. «Lasciamo perdere…» brontola. Rido di nuovo, lui mi lancia un’occhiata storta.
«No, avanti, parla» gli intimo.
«Un errore di gioventù»
«Non mi basta»
«Il fratello di un amico doveva allenarsi con la macchinetta, una sera eravamo ubriachi e il me sedicenne ha ritenuto che fosse una buona idea quella di stendersi mezzo nudo sul tavolo di una cucina e fare da foglio di brutta a un losco ventenne che si era appena sparato cinque canne.» spiega, con un’espressione scocciata.
«L’hai scelta tu la scritta?». Annuisce, sconfitto, con le spalle incurvate. «È davvero molto bello» sussurro, sarcastico, prima di ridere ancora.
«Fa schifo. Me ne sono pentito il giorno dopo. Non nominarlo mai con i miei genitori presenti, lo odiano» sibila. Leggermente sotto al capezzolo destro così il braccio a riposo non può coprirlo, ma al contempo è abbastanza a lato da non permettere di nasconderlo nemmeno ai peli del torace, font veramente molto dubbio, scritta… particolare. Bimbo sperduto. Come Peter Pan. È tutto così perfetto. Mi tocca di nuovo bloccare una risata con la mano, mentre lui raccoglie le braccia al petto con stizza. «Non prendermi in giro» rantola.
«Ti senti veramente nella posizione di biasimarmi, Lost Boy?» chiedo, retorico. Lui ci pensa un po’, poi abbassa lo sguardo e scuote la testa, sconsolato. Ridacchio ancora, lui decide finalmente di vestirsi, infilandosi prima una maglietta bianca, poi un paio di pantaloncini blu della tuta. Perdo del tutto interesse alla sua persona e osservo meglio la stanza. Muri di un grigio sobrio, mobili in legno chiaro, la scrivania piena di fogli e scartoffie, una stampa di Keith Harris appesa al muro, le mensole piene di libri. Che camera da quindicenne. Probabilmente è rimasta così da quando si sono trasferiti.
«Su, non volevi mangiare?»
«Uhh, sì…» sospiro, alzandomi in piedi. Mi porta in cucina e mi dà in mano una tovaglia beige, aprendo in contemporanea uno dei cassetti tortora. Metto la tovaglia sul tavolo e lui apparecchia piatti e posate. 
«Cosa vuoi mangiare?» mi chiede, con la testa dentro il frigo.
«Cosa mi offri?»
«Mh… pasta al sugo… delle fettine di carne con l’insalata… del salmone…» mormora. Lo vedo in difficoltà. Tipo un pesce che si dimena fuori dall’acqua.
«Va bene la pasta» dico, secco, per sollevarlo dal suo delirio. «Vuoi una mano?»
«No, no, sei un ospite, stai lì seduto.» risponde, prendendo una bottiglia di salsa e appoggiandola sul bancone. Mentre taglia la cipolla, il gatto gli si struscia tra le gambe, miagolando. «Ma che vuoi…? Mica te la puoi mangiare, la cipolla…» le spiega, come se a Camilla fregasse qualcosa.
«Parli spesso col tuo gatto?» domando, incuriosito. 
«Tutto il tempo»
«Sei strano…» osservo. «E detto da me non è per niente un complimento»
«Beh, tu mica sei strano, scusa…»
«Sono la persona più strana che conosco, Jaco, ma ci vedi?»
«Ma che dici…» brontola, poi si gira verso di me con una faccia scocciata. «In cosa saresti “strano”?»
«Tipo… tutto?»
«Bah. Tu sei tu, e allora? Vorresti essere… che ne so, identico a tuo padre? Che noia. Ce n’è già uno nel mondo. Invece, sei originale e sei… bello così come sei. Non si capisce mai con cosa te ne esci, fai ridere e lasci la gente sulle spine. Allora, meglio così, no? Meglio un unico, strano Gianluca che una prevedibile fotocopia di qualcun altro…». Non dico niente, mi limito a fare un sorrisino spiazzato, ignorando alla grande la mia frequenza cardiaca schizzata alle stelle, mentre butta le cipolle tagliate nella padella con l’olio. È sembrata più una descrizione di sé stesso che di me. Non capisco mai con cosa se ne potrebbe uscire, non so mai come reagire a quello che fa, o a quello che dice. Soprattutto a questa. Nessuno mi aveva mai detto che vado bene così come sono, ogni qual volta che si parla di me, è un lungo elenco di cose che dovrei cambiare per sembrare come gli altri, più normale, più “tutti gli altri aggettivi che dovrebbero essere una mia priorità”. E logicamente, mica posso dare loro la soddisfazione di avere ragione, mica posso mostrare l’enorme disagio che provo a non avere nessuno di vagamente simile a me, a sentirmi… essenzialmente un po’ solo. Faccio finta di non ascoltarli, mi agito un po’, o mostro tutto il mio disappunto con il linguaggio del corpo, ma, poi, ci rimugino su, rifletto sul fatto che ci sia rimasto male e mi incazzo con me stesso, perché me la sono presa e perché forse hanno ragione. E razionalmente so che hanno torto, che posso fare il cazzo che mi pare e che non devo render conto a nessuno, però, sul momento, non è semplicissimo usare il raziocinio. «Che, ti ho mandato in crisi?» mi chiede, con un sorrisetto scemo. Ridacchio e appoggio la guancia sulla mano. Certo che mi manda in crisi. Cosa pensa di fare? Che cavolo.
«Un goccio». Mi lancia un’occhiatina divertita, poi accarezza il gatto e butta la pasta. 
«E non farti mandare…»
«La fa facile, lui!» sbotto, corrucciato, facendolo scoppiare a ridere. «Non decido io cosa mi manda in crisi…»
«E cosa ti manda in crisi, sentiamo?»
«Non lo so con precisione… tante cose… questa è una di quelle…» borbotto, pensieroso. «…i funghi, sicuramente. Odio i funghi…»
«Ma dai…»
«Che schifo. Specie quelli in umido, sono viscidini e mi fanno venire i brividi»
«E scusa, in insalata non li mangi?»
«In insalata li sopporto di più, ma se non ci sono, sono più contento» rispondo, scrollando le spalle. 
«E sulla pizza?»
«Assolutamente no. La pizza mi piace in un modo soltanto: margherita. Come si fa a mangiare… tipo la quattro stagioni? Un accrocchio di roba, prendi un boccone e non sai cosa ti è entrato in bocca…»
«Ecco, su questo sei strano…»
«Oh, sul cibo un sacco…» confermo. «La carne non la mangio e se proprio ne devo mangiare, pochissima e tipo solo… cose talmente processate che non sembrano nemmeno venire da una bestia, non farmi nemmeno iniziare sul pesce, aborro i funghi e l’avocado mi dà da pensare…»
«L’avocado? Sei serio?»
«È strano… la consistenza soprattutto…»
«Non potresti mai abitare a Milano, allora, almeno una volta a settimana ci si fa l’avocado toast…»
«Ecco. Che cazzo fanno gli americani a mettere l’uovo insieme alla frutta…?»
«Beh, l’avocado non è proprio frutta frutta, è tipo salato…»
«Ah, no. Cresce su un albero? Allora è frutta. Anche il pomodoro è un frutto.»
«E infatti ci metti olio e sale…» brontola. Scrollo le spalle, non lo capisco perfettamente neanch’io, ma lascio gli avocado sui loro alberi in Sud America e mi mangio i pomodori. «A me piace tutto… non riesco a pensare a una cosa che proprio non riesco a mangiare…» 
«Ma come…?»
«Eh, ma come, mi piace tutto… forse solo… tipo le budella, gli organi degli animali…»
«Oh, che schifo, Jaco, la base proprio…» sbotto, schifato. «È come dire “non mi piace mangiare la sabbia”…»
«Lo so, ma c’è un sacco di gente che si mangia ste cose… anzi, tu che vivi in campagna dovresti saperlo meglio degli altri»
«Io non approvo molti comportamenti campagnoli, tranquillo.» ribatto. «Fare il bagno nel fiume? No, grazie. È sporco e schifoso… Giocare a carte? Mi annoia. Andare a caccia o a pesca, o allevare animali per la carne? Mi dispiace per loro. Mio padre va a pesca, fino ai dodici anni andavo con lui, poi mi sono messo a piangere per la trota e lui non me l’ha più chiesto» 
«Hai pianto per la trota?»
«Eh, sì. Non so se sei mai andato a pesca, ma appena tiri su il pesce, non gli togli nemmeno l’amo dalla bocca, che gli pianti il coltello nel cervello, così muore subito…»
«Almeno non soffre»
«Però muore lo stesso…»
«È una trota, Gian, è fatta per essere mangiata»
«La trota è fatta per fare la trota, mica per essere mangiata. È fatta per sguazzare nel suo fiumiciattolo, deporre le uova e fare tante piccole trotine, la sua aspirazione della vita mica è essere catturata e uccisa da mio padre» brontolo. Ancora i brividi a pensarci. Almeno papà è relativamente bravo ed evita di lapidare quei poveri pesci come fanno altre persone. Spendono centinaia di euro per l’attrezzatura tra canne, lenze, ami ed esche, poi non vogliono cacciare due spicci per comprarsi un coltellino e ammazzare velocemente la loro preda.
«È per questo che sei mezzo vegetariano?» chiede.
«Fai pure al novanta per cento… comunque, sì. Mio nonno e le sue galline hanno rovinato tanti pranzi natalizi. Fare un qualsiasi altro piatto oltre il pollo arrosto sembrava una fatica insormontabile…» rispondo. Me lo sogno di notte il silenzio tombale scandito solo dai colpi di mannaia sul ceppo di fianco al pollaio.
«Io non ho mai visto un animale venire macellato…»
«Se vuoi continuare a mangiare carne e pesce, non ti conviene. E ti consiglio di stare alla larga anche dalle battute di caccia e di pesca. Che sport del piffero sono? E la maggior parte della gente non è nemmeno capace a praticarle decentemente. Specie la caccia. “Eh, basta sparare”. No. Col cavolo proprio. Se non hai una buona mira, vai al poligono, ti alleni e solo poi vai a cacciare. E se becchi il capriolo nella zampa, poi lo uccidi e te lo mangi, non lo lasci zoppo ad agonizzare dissanguandosi.»
«Su questo sono d’accordo…» mi dice. «Comunque, non credo che ne sarei in grado… appunto, di ammazzare un animale…»
«Mai fatto e mai lo farò.» concludo, secco. Porta sul tavolo i due piatti con la pasta e la bottiglia d’acqua, poi si siede davanti a me con un sorriso. 
«La cena è servita!» esclama, fiero della sua pasta al pomodoro. Alla seconda forchettata, il gatto gli salta sulle gambe, gli dà una zampettata sulla faccia e si siede lì, appollaiata sulle sue cosce, mentre Jaco le dà un bacio sulla testa, poi continua a mangiare. Finora non l’avevo mai visto in un contesto così “domestico”. È entrato in casa, ha salutato il suo micio, si è messo dei vestiti a caso, ha cucinato e ora mangia col gatto in braccio, in comportamenti che trasudano quotidianità da tutti i pori. E appare ai miei occhi meno… extraterrestre arrivato sul pianeta Terra l’altro ieri. Ora è “solo” un ventottenne laureato in informatica, che si mangia qualsiasi schifezza si trovi nel suo piatto, che adora il suo gatto alla follia e che ha una stampa di Keith Richards attaccata al muro della sua stanza a casa dei suoi. Insomma, una persona vera. «Dopo vuoi uscire…?» mi chiede, pulendosi la bocca. Quante seghe mentali inutili, Gianluca. Grazie al cazzo che è una persona vera. 
«Come preferisci…» rispondo.
«Allora, io non ne ho particolarmente voglia, però se vuoi uscire, usciamo. Io pensavo di fare un giro in centro domani pomeriggio e, poi, andare a bere qualcosa la sera… se ti va»
«Certo, certo, va benissimo». Sorride, poi fa scendere il gatto dalle gambe e sparecchia la tavola, dando una pulita abbastanza grossolana alla cucina e impedendomi di aiutarlo. 
«Non rompere, Gian, vai sul divano» borbotta, concentrato a passare uno straccio sul piano cottura. 
«Che testa…» ribatto, andandomene in salotto e sedendomi sul sofà. Questo posto sa di pace mentale. Soprattutto i colori chiari che non stringono l’ambiente. O forse che danno un’atmosfera da oltretomba, chi lo sa. 
«Che testa io, Gian, stai fermo, non toccare nulla, che non devi fare niente…» sbraita, buttandosi di fianco a me e spingendomi sui cuscini.
«Volevo solo aiutare, ingrato che non sei altro…»
«Vai a guidare un’ambulanza se vuoi aiutare la gente…»
«Abuserei della sirena, sarei un pessimo autista» controbatto, con un sorriso ironico, per poi raggelare alla vista di “Uomini e Donne”. L’apoteosi dell’indecenza all’italiana. Cambia canale corrucciato e già mi sento meglio, mentre lui cerca qualcosa di sopportabile da guardare. Poi apre scocciato Prime Video e scorre nella home.
«Hai preferenze?» mi chiede.
«Non roba smielata»
«Vuoi il sangue?» ammicca, ridacchiando. Gli strappo il telecomando di mano, ricevendo in risposta un “hey” oltraggiato e inizio a leggere i titoli della galleria.
«Hai perso i diritti sul telecomando» lo informo, bloccandolo quando cerca di ribellarsi e di riprendersi il telecomando.
«Cattivo» mugugna, offeso. «Guardiamoci il film sulla pesca!» esclama, poi, indicando “Destinazione Pesca”. Non so che roba sia e, nel dubbio, lo lascio lì.
«Antipatico…» brontolo, leggendo la trama di un film su Le Mans.
«No, niente cose su macchine e moto, ti prego…»
«Noioso…»
«No, i film sulle macchine e sulle moto sono noiosi…» ribatte, sospirando e abbracciando un cuscino. «Guardiamoci “I Segreti di Brokeback Mountain”, non l’ho mai visto»
«La mia autobiografia, praticamente…» esalo, facendolo partire. A parte il fatto che mi sposerò con una donna. Però spunta un sacco di caselle: abitare in un posticino sperduto, vivere la propria sessualità in un ambiente relativamente ostile, temere per la propria incolumità. Certo, non ho ancora trovato il mio Jack, o il mio Ennis, per quello i lavori sono ancora in corso. In alto mare, più che altro.
Lui si alza per spegnere la luce, poi si rimette di fianco a me, coprendo le nostre gambe con un plaid stile nonno di Heidi, io stiracchio le gambe e punto gli occhi sullo schermo. Appena si muove per mettersi comodo, gli lancio un’occhiatina e lo noto molto vicino a me, completamente assorto dal film. C’è da dire, però, che da quando è entrato lui nella mia vita, la situazione si è fatta un po’ meno “I Segreti di Brokeback Mountain”. Un po’ più “non ho paura di dirgli che piango per le trote”.

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Capitolo 8
*** Tisanina (pt.2) ***


8 – Tisanina (pt.2)

«Chi è?» chiede la voce robotizzata di Jaco, dal citofono.
«Sono Gian…» brontolo. Appena il cancello si apre, faccio maniacalmente attenzione a non scivolare con lo scooter e lo parcheggio sotto la mini-tettoia del garage, poi lo spengo e mi avvicino alla porta, totalmente incurante della pioggia battente sul casco e sui vestiti. Tanto sono già fradicio, non ha senso scervellarcisi su. 
«Hey, pure le visite a sorpresa!» esclama, con un sorriso raggiante, che scompare appena entro nella sua visuale. Sì, beh, immagino di non essere un bello spettacolo in questo momento. Bagnato dalla testa ai piedi, un’espressione al limite del moribondo e un linguaggio del corpo che esprime tanto altro rispetto alla gioia. 
«Non sapevo dove andare…» mormoro, fermandomi proprio davanti a lui, ancora sotto la pioggia. Faccio un passo avanti, ma mi blocco, osservando i suoi vestiti asciutti e la casa immacolata, lui sbatte le palpebre un paio di volte, poi sgrana leggermente gli occhi, mi prende per un braccio e mi tira dentro casa senza spiccicare parola.
«Hai fatto bene a venire qui» mi dice, accennando a un sorriso e chiudendo la porta dietro di me. Un brivido mi percorre la schiena a sentire il tepore del salotto e deglutisco, immobile, mentre mi viene davanti e mi osserva. «Aspetta… vediamo se ce la faccio» sussurra, concentratissimo, con le mani che si allungano sotto il mio mento. Mi slaccia il casco e me lo toglie, appoggiandolo poi di fianco la porta. «Ecco qua… spogliati, ti prendo della roba pulita…» continua, per poi voltarsi e sparire in camera sua. Io sospiro, prendo i lembi della maglia e me la sfilo, poi mi tolgo le scarpe e mi slaccio i pantaloni, notando Jaco tornare nella mia visuale con dei vestiti asciutti.
«Grazie»
«Figurati» mi risponde con un accenno di sorriso, poi mi passa un asciugamano. Lo prendo distrattamente e cerco di salvare il salvabile, non con particolare successo. Gli restituisco l’asciugamano e sento il suo sguardo addosso mentre mi infilo una felpa verde decisamente troppo grande per me. Indosso anche questi enormi pantaloni della tuta e cerco di guardare il mio look da rapper del Bronx, poi mi levo i calzini zuppi e li lancio vicino alle scarpe. «Siediti, dai…» rantola, spingendomi verso il salotto. «Almeno il casco ti ha tenuto i capelli asciutti…»
«Già…» sospiro, lasciandomi cadere sul divano. 
Rimane in piedi di fronte a me e mi squadra, interrogativo. «Vuoi qualcosa di caldo?» prova a chiedere.
«No, grazie…», poi ridacchio. «Adesso sei tu a propormi la tisanina…». Annuisce ridendo, poi si siede a fianco a me.
«Perché… se non sapevi dove andare, perché non sei andato a casa?»
«Perché casa è il primo posto in cui non volevo stare…» mormoro, scrollando le spalle. «Ero in giro, ha iniziato a piovere come non mai e… sai com’è, acqua e mezzi a due ruote non vanno d’accordissimo…»
«Non so, ma immagino» risponde, stiracchiando le gambe. «E perché non volevi stare in casa?»
«Oh… beh, il classico. Ho litigato coi miei ed è proprio la base, insomma la quotidianità.» inizio. «Poi mi sono incazzato e anche questo succede abbastanza spesso, quindi… sai che sono un po’ drammatico, no?» domando, retorico. Annuisce, ancora dubbioso. «Beh, sì, insomma… nella mia drammaticità, sono andato a farmi un giro, cosa che faccio sempre quando sono incazzato… ed è successa una cosa strana… a parte la pioggia che vabbè, non posso ancora controllarla, è successa una cosa che non mi succede praticamente mai…»
«Ovvero?»
«Mi son sentito in colpa…» mormoro. 
«Per aver litigato coi tuoi…?»
«Oh, no, nel senso… per tutto» continuo, abbassando lo sguardo e giochicchiando con il cordoncino dei pantaloni, prima di sentire il suo braccio cingermi le spalle e tirarmi brutalmente contro il suo petto. Ok, ma che cazzo. Deve smetterla di fare così. Stupido linguaggio dell’amore, o come si chiama.
«Non… qualsiasi sia il “tutto” a cui ti riferisci… non devi» bisbiglia e sento la sua guancia appoggiarsi sulla mia testa. Vabbè, può continuare a essere appiccicoso. E sto provando a convincermi che è solo perché non riuscirei a fermarlo e non perché mi piaccia.
«Non devo cosa?»
«Sentirti in colpa»
«Lo so…». L’indice della sua mano destra, casualmente appoggiata sul mio fianco, inizia a muoversi, facendo delle specie di carezze che non sono in grado di interpretare. Sento solo un enorme peso sul petto che mi mozza il respiro per un momento e mi fa chiudere gli occhi. Oggi è proprio una giornata no. La pioggia è solo la ciliegina su questa gran torta di merda. 
«Hey…» mormora, poi. Alzo leggermente lo sguardo verso di lui, che accenna a un sorriso e stringe un po’ la presa sulla mia spalla. «Ogni volta che litighi coi tuoi… vieni da me, così… non ti ci crogioli sopra troppo». Distolgo lo sguardo e abbandono la testa contro la sua clavicola, poi mi mordicchio la guancia cercando di trovare una risposta sensata alla sua proposta.
«Ok…» riesco a sospirare, non riuscendo a partorire niente di meglio. All’indice si aggiungono anche tutte le altre dita, rendendo quel mezzo movimento spastico una carezza vera e propria. Strizzo ancora di più le palpebre e gli cingo la vita con le braccia, rannicchiandomi su di lui, mentre sento tutti questi anni di silenzi, di emozioni mai esternate, di amari bocconi ingoiati salirmi per la gola. «A volte…» inizio. «A volte sento proprio di non farcela… so che poi ce la faccio, me la cavo, ma ci sono momenti in cui non… in cui sono pietrificato, da tutto. E… non ho mai nessuno che… con cui sfogarmi, che possa ascoltarmi e pensare “oh, sta cosa è successa anche a me”. Io… ovunque vada, ho gente che mi bisbiglia alle spalle, i miei amici si sforzano di comprendermi, ma non ce la fanno proprio, la mia famiglia neanche a dirlo, non ci hanno mai provato e mai lo faranno e ci sono io… sta mezza sega che prova ad andare contro corrente e finisce nella tempesta con un motorino con le ruote minuscole, che basta mezzo millimetro di acqua per terra a farmi finire col culo per aria. E anche tu probabilmente… cioè, già in partenza forse non te ne frega nulla, ma… anche se te ne fregasse, tu… tu sicuramente hai incontrato nel tuo percorso… qualcuno un po’ come te e quindi tutto sto discorso non ti farà né caldo, né freddo. Penserai pure che sia un bambino piagnucolone, che non sa tirare fuori le palle o bla, bla, bla… non so nemmeno perché sto ancora parlando, fai un po’ tu…». Non risponde e penso come al solito di aver esagerato, ma poi mi tira una piccola pacca sulla spalla e ridacchia. 
«Tu ce l’hai proprio con sta storia di “quelli come te”. Gian, non c’è nessuno come te, non ci sarà mai… e non ci sarà mai neanche uno come me. È ovvio che io e te non siamo uguali, non possiamo esserlo. Abbiamo avuto vite totalmente diverse, esperienze diverse, insegnamenti diversi. Ma questo non mi impedisce di ascoltarti e… boh, darti il mio punto di vista. Che cosa credi? Che Lorenzo e Francesco solo perché sono… entrambi eterosessuali abbiano una vita intercambiabile? O che si capiscano sempre e comunque? Se non ti capiscono, il problema non è tuo che non sei come loro. E forse, ti capiscono pure, semplicemente le loro non sono le risposte giuste alle tue domande.» mi dice. «E, poi, lascia decidere a me cosa voglio fare, ok? Non inventarti che non mi interessi, o tutte quelle altre cazzate che hai sparato. Piuttosto, se proprio un giorno ti senti di essere un gatto attaccato ai coglioni, mi chiami e mi chiedi se ho voglia di ascoltarti per un’ora. Non ti immaginare cose che non esistono» mi sgrida, poi mi mette l’indice sotto il mento, mi tira su la testa e mi dà un bacio sulla fronte. 
Probabilmente divento viola in faccia, ritraggo il collo stile tartaruga ed esalo: «Non baciarmi»
«E non piagnucolare sempre»
«Ti odio…» brontolo, lui ridacchia e mi dà una piccola pacca sulla testa.
«Ti voglio bene anch’io»
«Sarà meglio, sono l’unico che ti caga in questa landa dimenticata da Dio»
«Oh, Gian… guarda che ce li ho degli amici, eh. Se passo del tempo con te non è di sicuro perché mi sento solo e abbandonato.»
«Non vedo altri motivi per cui dovresti…»
«Boh, che dici? Forse perché mi stai simpatico? E con te mi diverto e mi piace passare del tempo insieme a te?»
«Allora hai dei gusti molto dubbi»
«Sarà» ribatte, scrollando le spalle. «O magari sei tu che semplicemente sei una bella persona e le belle persone piacciono alla gente»
«Non è che se sono giù mi devi leccare il culo per farmi stare meglio». Scrolla di nuovo le spalle. Forse sta pure dicendo la verità. Insomma, che senso avrebbe dirmi una cazzata? Cosa ci guadagna? Niente, solo che mi accollo ancora di più.
«Li fai crescere ancora i capelli?» chiede, passandoci le dita in mezzo.
«No, mi sa che più diventano lunghi, più diventano incontrollabili. Li lascio così, che stanno abbastanza bene e non richiedono troppo sbatti» rispondo. «Tu li vorresti più lunghi?»
«No, son belli. E anche morbidi»
«Eh, grazie, il balsamo mica si mette da solo…». Ridacchia e continua a pettinarli con le dita. Non dico niente, per una volta il silenzio non pesa come una montagna. Non lo capisco proprio, Jacopo. Ha così poco senso che mi stordisce sempre. Perché è così gentile e disponibile? Nessuno lo è, tutti si fanno sempre i cazzi propri. Lui no, si stava godendo il pomeriggio da solo e sono arrivato io e non ha fatto una piega, non ha fiatato, si è messo qui e ha ascoltato i miei piagnistei.
«Che balsamo usi?» chiede.
«Bah, il più economico del supermercato…»
«Che delusione, pensavo avessi qualche segreto…»
«Non li vengo a dire a te i miei segreti, scusa.» borbotto. 
«Quindi ne hai! Dai, dimmi che balsamo usi…»
«Ma che ti frega…?». Scuote le spalle e ride. Bah. «E tu?»
«Io non lo uso, ma se lo usassi mica me lo terrei per me. Che segreto stupido»
«Uso quello con l’olio di argan, sei contento?» brontolo. 
«Molto, grazie.»
«Rompipalle»
«Vuoi mangiare qualcosa?»
«No, penso che vomiterei qualsiasi cosa, ora come ora…»
«Ok… Griffin o Simpson?»
«Simpson…? Perché?». Non risponde, accende la tv e mette i Simpson, poi striscia un po’ più in basso sul divano trascinandomi con sé e incrocia le gambe.
«E vedi di stare attento alla televisione, che ho finito i modi per distrarti…» mi ammonisce, con qualche pacca sulla testa.
«Allora non te ne fregava niente del mio balsamo…» piagnucolo.
«Se ti ho pure detto che non lo uso…»
«Tua madre non ti ha insegnato qualche trucco da psicanalista?»
«Direi di no, gli psicanalisti ti spingono ad affrontare i problemi, non a nasconderli sotto il tappeto come stiamo facendo noi.»
«Beh, nasconderli è più semplice» osservo. Mi tira una schicchera. L’audacia, proprio.
«Se sapessi affrontarli, te li farei affrontare, altrimenti non si risolvono mai…»
«Sì, vabbè, ora mi chiedi pure settanta euro di seduta?» brontolo.
«Potrei»
«Non hai fatto niente, Jaco, l’unico diritto di richiedere soldi sarebbe se mi mettessi a posto il computer»
«Vuoi che ti metto a posto il computer?» propone, arzillo.
«Sei una sanguisuga» ribatto, poi mi cade l’occhio su Homer. «Alla fine, nessuno dei due sta guardando la tv»
«Beh, fa da sottofondo, dai»
«Tu hai sempre una soluzione a tutto? Non ti lamenti mai?». Scrolla le spalle. «Ma che ti davano da mangiare in Germania?» insisto.
«Un sacco di Halve Hahn» risponde, fiero. Che strano sentirlo parlare in tedesco. 
«Chissà che sbobba sarà…»
«È un panino col formaggio»
«Vabbè, è uguale…» lo liquido. 
«Se vuoi, ci possiamo andare a Colonia e ti faccio mangiare l’Halve Hahn»
«Sia mai che mi faccia venire un po’ di positività» commento. Scoppia a ridere e mi fa tremare la testa, poi smette e si allunga a prendere il telefono. 
«Tu puoi prendere ferie?» chiede, aprendo il browser.
«Sì, ma non è…»
«Eh, dai, quando vuoi andare?» continua, mostrandomi la pagina di RyanAir col calendario. «Se andiamo in primavera costa un pelino meno… ma il tuo compleanno non è tipo ad aprile?»
«Jaco…»
«Non vuoi venire?» mugola. Stupido cane mogio. Ma che ne so ora se voglio o non voglio andare a Colonia con lui. Levarmi da questo cimitero con un municipio? Ovvio che sì. Salire su un autobus con le ali? Decisamente no. 
«Non ho mai preso un aereo. Ma poi ste cose non si devono organizzare meglio? E ti ricordo le mie problematiche con la carne e perdonami, ma i tedeschi non mi sembrano le persone più vegetariane della Terra…»
«Ti giuro, le verdure esistono anche in Germania…» mi risponde. «Poi l’aereo è un mezzo di trasporto infinitamente più sicuro di quel trabiccolo di scooter su cui mi hai portato»
«Guarda, ne dubito fortemente, almeno si sta coi piedi per terra»
«E quindi? Guarda che le moto e le auto causano molti più morti degli aerei…»
«E che portasfiga, Madonna» brontolo. «Ci vengo.» ammetto, sottovoce. Lo sento già scodinzolare e devo smorzare l’entusiasmo prima che mi lecchi la faccia. «Solo se mi dai il tempo di chiedere se ho ferie.» aggiungo, con un dito alzato. Sicuro ne ho, non vado mai da nessuna parte. Ma almeno questo gigante si placa un attimo e ho tempo di pensare alla prossima mossa. «E comunque ci potresti portare l’orda di amici che millanti di avere»
«Voglio portare te, se no manco te lo avrei chiesto»
«Quando saliamo in aereo giurami di tirarmi una botta in testa abbastanza forte da farmi svenire…»
«Non lo farei mai…» mi dice sottovoce, poi mi accarezza il capo. «…Già la tua testolina funziona male così, figurati se infierisco…» continua e sento il suo sorriso nelle parole.
«Tu… veramente… ma guarda!» sbotto. «Basta! Non ti voglio più bene!» esclamo e mi tiro seduto per alzarmi.
«No, no, Gian, dai!» strilla, ridendo. Mi prende per i polsi e mi spinge coricato sul divano, mettendosi sopra di me ed essenzialmente immobilizzandomi. Gli va bene che sono un peso piuma e anche volendo non potrei muovermi di un millimetro. 
«Giuro, la devi smettere» lo minaccio, blandamente. Appoggia la testa sulla mia spalla e sorride.
«Perché mai? È divertente» ribatte. 
«Solo per te»
«Almeno per uno dei due, no?» continua. Gli tiro una pacca sulla testa, ma non vacilla, anzi infila le braccia sotto la mia schiena e mi stringe ancora di più. 
«Prima o poi mi strangoli, Jaco!»
«E non fare storie, su!»
«Le faccio eccome, le storie» rispondo, tirandogli un orecchio. Scuote la testa, ancora ridacchiando, ma non controbatte. Onestamente non so cosa aggiungere, come molte volte in cui sono con lui, quindi me ne sto zitto. Non mi dà nemmeno più fastidio il suo peso addosso, è diventato solamente una coperta gigante. E col dono della parola. Lo usa a sproposito, ma almeno ce l’ha. Chissà quale essere ultraterreno ha deciso di spedirmi questo coso enorme da Milano. Non l’avevo ordinato, non credevo nemmeno fosse disponibile, eppure eccolo qua. E non mi fa neanche schifo. Mi ha pure fatto scordare il mio disastroso litigio coi miei. 
«Vuoi cenare qui?» domanda.
«Non sono neanche le sei, non puoi già pensare alla cena!»
«Ho comprato le lasagne col pesto!»
«E va bene…» sospiro. «Ma prima delle otto non ti muovi da qui, ci siamo intesi?»
«Allora vedi che non ti dà fastidio il contatto fisico!» 
«È esattamente quello che non ho detto, non travisare le mie parole» preciso e, giusto per fargli un dispetto, provo a dimenarmi svogliatamente. 
«Sei cattivo con me!» piagnucola, aumentando la stretta. Mi scappa una risatina e smetto di muovermi, salvo spostare un braccio prima che mi si blocchi completamente la circolazione.
«Brutto testone appiccicoso, ma non ce l’hai una tipa da stressare?» mi lamento.
«No» risponde, secco. «A me le ragazze non piacciono»
«Adesso non mi diventare un redpillato di merda solo perché con una ti è andata male, eh»
«Ma che redpillato… semplicemente non mi piacciono le donne, sono gay» ribatte, serio, guardandomi dritto in faccia. 
D’istinto, faccio un risolino di scherno e roteo gli occhi… non al cielo perché sono orizzontale. «Sì, certo, vabbè, e io sono Rocco Siffredi…» ironizzo. Ma quando mai? Poi non si è mollato con la sua ex tipo due mesi fa? Non che ne abbiamo più parlato. L’avevo pure mezzo stalkerato nei meandri dell’internet, ma non avevo trovato un bel niente. Instagram lo usa solo per i video dei gattini e della gente che prepara da mangiare. Nemmeno mia madre.
«Beh, non ci credi?» mi chiede, continuando a guardarmi. 
«Mostrami un asino che vola e forse potrei crederci». Ride e scuote la testa, poi chiude gli occhi e mugugna un “fa’ come vuoi”. «Certo che faccio come voglio»
«Saprò stupirti»
«Guarda che perdere la verginità anale per prendermi per il culo non mi sembra per niente una buona idea…» brontolo. «Innuendo non voluto!» aggiungo, di botto, mentre lui se la sghignazza come un ragazzino delle medie. «Sei veramente un bambino» commento.
«Vabbè, ma anche tu però…» 
«Manco nei cinepanettoni fanno battute del genere»
«E non sgridarmi sempre…»
«Ti comporti male» lo rimbrotto.
«Gian…»
«Eh…»
«Quindi, quando ci vuoi andare in Germania?» chiede, sfoderando i suoi occhioni azzurri.
«Jacopo, io te lo giuro…!» sbotto. E ignoriamo per bene il suo sguardo prima che il mio cuore si metta a fare il ginnasta e a farmi i salti carpiati nel petto. 

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Capitolo 9
*** Tegolino ***


9 – Tegolino

Non so con precisione perché ho deciso di fare questa cosa. Provo a ripescare nella memoria il filo logico che mi ha portato a questa situazione, ma proprio ho un grande vuoto. 
Dal trasportino sul sedile del passeggero risale un miagolio acuto e sospiro. Pessima idea, veramente terribile. Spero che vada come mi sono immaginato, se no ce l’ho veramente nel culo. Un altro miagolio. Questo coso in casa mia non entra.
Appena arrivo a destinazione, parcheggio e mi ripeto mentalmente il discorso che ho preparato. Scendo dalla macchina e mi avvio verso casa di Jaco, salvo ricordare all’ultimo quello sgorbietto abbandonato e dover tornare indietro alla velocità della luce. Apro il trasportino, ci infilo la mano e appena raccolgo quel batuffolo grigio mi tira una zampettata sul polso. Lo guardo con una faccia scocciata e lui per ripicca si mette a giocare con il laccio del mio braccialetto. Faccio una presa più salda sul suo pancino bianco, prima che mi scappi e finisca sotto una macchina, e finalmente riesco a citofonare a Jaco. Gli sto regalando un gatto, ma che problemi ho?
«Chi è?» chiede. 
«Aprimi e chiudi gli occhi. Sono Gian» rispondo, tenendo per miracolo il gatto che sta tentando una fuga.
«Eh?»
«Avanti…» insisto. Fa scattare il cancelletto, io attraverso il giardino e mi fermo proprio davanti alla porta di ingresso. «Hai gli occhi chiusi?» domando. 
«Sì» conferma.
«E perché non ti credo?»
«Promesso!» esclama, io apro leggermente la porta e lo noto con gli occhi coperti dalle mani, al che mi metto di fronte a lui.
«’Spetta, eh» mormoro, cercando mettere il micio in una posizione decente. «Ok, apri gli occhi».
Si toglie le mani dal viso, apre gli occhi e guarda prima me, poi si accorge del gattino che sto tenendo e fa un’espressione sorpresa. «Oh…!» mugola, già lo vedo innamorato. «E tu chi sei?» chiede, prendendolo in braccio. 
«Non ha ancora un nome…» rispondo. «È per te»
«Come?» domanda, riportando l’attenzione su di me.
«Mi hai detto che ogni volta che te ne vai da casa dei tuoi sei sempre triste che ti manca Camilla… e che volevi prendere un altro gatto… te l’ho preso io…» spiego.
«Grazie!» mi dice, con un sorrisone riconoscente, poi abbassa lo sguardo e fa un grattino sulla pancia del nuovo arrivato. «È troppo carino! Vero che sei troppo carino?» uggiola, ricevendo un “miao” come risposta.
«È un po’ stronzetto» lo avverto.
«Smettila di insultare i gatti, non sono stronzi.» mi rimbrotta, senza nemmeno guardarmi perché ormai ha occhi solo per lui. Ridacchio e mi chiudo la porta alle spalle.
«Il nome puoi sceglierlo tu. Ha tre mesi e mezzo, l’hanno già svezzato, ma gli mancano i vaccini…». Annuisce e lo guarda ancora.
«Scegliamolo insieme il nome» propone.
«Ma va, è il tuo gatto, fai tu…» ribatto.
«Dove l’hai preso?»
«Vorrei tanto dire in un bidone della spazzatura, ma in realtà la gatta del mio vicino ha fatto una cucciolata e li dà via che non può tenere cinquecento gatti…». Continua a giochicchiare con l’esserino, sembra contentissimo. Sorrido, almeno è andata come volevo. Chissà perché gli ho regalato un gatto. 
«Quindi che nome gli diamo? Ma è un maschio o una femmina?»
«Maschio… e ti ho già detto che devi scegliere tu… trova qualcosa che abbia a che fare con Camilla… che ne so, chiamalo Carlo». Alza lo sguardo e mi fa una smorfia schifata.
«Ma sei matto? Team Diana tutta la vita». Ridacchio e scuoto la testa. «Comunque, cosa ci vuoi accostare a Camilla? A parte, ovviamente, Carlo che non esiste proprio»
«Boh… che Camille famose ci sono?» chiedo. Fa spallucce, il gatto gli azzanna un pollice, ma lui si mette a ridere, poi lo guarda per un po’ e ha una specie di illuminazione.
«Tegolino!» esclama.
«Tegolino?» ripeto, confusissimo. Ma che nome è? Da dov’è uscito?
«Sì, sì, le Camille sono delle merendine della Mulino Bianco, come i tegolini… guarda, ci assomiglia pure!» continua, mostrandomi il micio che, effettivamente, è a strisce proprio come i tegolini. Scoppio a ridere, come gli è venuto in mente lo sa solo lui. «Ti piace?»
«Se piace a te…» rispondo, scrollando le spalle. È il suo gatto, scelga lui, a me non interessa proprio. Considerando anche che sta bestiolina mi farà tirare mille bestemmie ogni volta che vengo qui. 
«Chissà se piace a lui… ti piace il tuo nuovo nome? Tu da adesso ti chiami Tegolino…» gli spiega, dandogli poi un bacetto, risposto con una zampettata in faccia. «Non l’avrai mica portato sul motorino, vero?» mi chiede, poi, con un’espressione severa.
«Ma va, ho scroccato la macchina a mia sorella…»
«Bravo, anche lui ha paura delle moto…» conferma. Giuro, è veramente la persona più felice del mondo con questo micetto che continua ad attentare all’integrità delle sue mani. È una scena davvero molto tenera.
«Beh, problematico come il padrone…» aggiungo. 
«Padrone a chi? Adesso lui è il re del mondo, non posso mica andare contro i voleri del gatto» commenta, sedendosi a terra con le gambe larghe e mettendo Tegolino sul pavimento. 
«Puoi mai viziare un gatto?»
«Non lo sgrido mica, scusa, chi potrebbe mai fare arrabbiare questo cosino carino?»
«Oh, tranquillo, a me ha già fatto tirare parecchi porci» 
«Perché sente il tuo astio»
«Il mio astio nasce dalla sua minuscola faccia tosta.»
«Eh, certo, guarda che musino!» uggiola, poi rimane un po’ in silenzio a giocarci.
«In macchina sono pieno di robe per lui… non… insomma, non potevo mica presentarmi con un gatto e tu non avevi manco da dargli da mangiare, no?» propongo, retorico. 
«Grazie, non dovevi»
«È ok… però vedi di non farlo diventare obeso in due settimane»
«Non ti prometto nulla» ribatte, ridacchiando. Sospiro, si troverà con un gatto palla in un batter d’occhio.
«E… beh, non so bene perché te l’ho regalato, ma… cioè, tra quello che adesso ha un reparto di ostetricia per gatti e tu che impazzisci ogni volta che vedi anche solo l’orecchio di un felino… mi era sembrata una buona idea per un momento» continuo, la voce che tradisce una punta di insicurezza, poi mi siedo a terra davanti a lui, che alza lo sguardo e mi fa un sorriso così grande da fargli sparire gli occhi. 
«Grazie mille, Gian, è troppo carino» mi dice, poi si allunga verso di me e mi dà un bacio sulla guancia.
«Figurati» sussurro, con lo stomaco un po’ in subbuglio e il viso che sta andando a fuoco. «Ti avevo già detto di non baciarmi, però» borbotto. Mi lancia un’occhiatina di striscio, accompagnata dalla sua solita espressione un po’ gongolante, io rimango immobile a scrutarlo in silenzio. 
Jacopo per certi versi è davvero complesso, non lo capisco quasi mai e, per quanto non sia emozionalmente stitico come la gran parte delle persone che mi circondano, c’è sempre un leggero velo di mistero che gli copre gli occhi. In pochissime altre cose, è la persona più facile del mondo: gli piacciono i gatti, voleva un gatto, ha avuto un gatto e adesso è felice per il gatto. E basta. Non ci sta pensando su, non si sta facendo delle pare sul perché, per come, per quando ho adottato questa bestiolina. Io sarei già in crisi su cosa abbia fatto io per ricevere una cosa che mi piace. Non sono bene in grado di godermi spontanee dichiarazioni d’affetto come fa lui. Nonostante il rispetto che ho per la loro vita, io e gli animali stiamo bene ognuno per i fatti propri, specie con i gatti e il loro carattere da bestie troppo autoritarie. Però devo ammettere che sono veramente contento di Tegolino. Non tanto per il gatto in sé che, ancora, fa troppo il superiore, più per come ha reagito Jaco. Se ne sta lì a guardarlo esplorare il tappeto –su cui è palese che tra dieci minuti ci lascerà una cacca gigante– col suo sorrisone da bambino compiaciuto. 
Sorrido quando lo vedo agitare le mani davanti agli occhi del micio. Non riesco proprio a capirlo, Jacopo, il novanta per cento delle volte ha dei comportamenti totalmente indecifrabili. Forse sarà che ci conosciamo da poco, oppure che gli vengono naturali certe cose, ma non ho ancora trovato un pattern per le sue azioni. Eppure, passare del tempo con lui mi piace davvero tanto. Mi sta dietro, a volte fa pure finta di interessarsi alle troiate che dico. Mi scappa una risatina, mi sgriderebbe per aver presunto che non gli interesso per niente. E anche se tutto il contatto fisico mi manda parecchio in crisi, anche io ho bisogno di calore umano di tanto in tanto.
«Alla fine l’hai iniziata Dark?» mi chiede, riferendosi alla serie che mi aveva consigliato la settimana scorsa. Annuisco, facendo un sorriso. È una di quelle cose un po’ tetre che piacciono a me, senza fiorellini o arcobaleni. 
«Non è brutta, ma non sto capendo niente per ora… ho solo capito che dei bambini sono scomparsi» commento. 
«Eh, vabbè, ci sta se sei all’inizio…»
«Però comunque non mi dispiace, sembra carina» continuo. «Grazie del consiglio, non sapevo più che guardare. Eli si vede solo telenovelas sudamericane, non ne posso più di sentir parlare di Alfonso, Gerardo e Altagracia…»
«Altagracia?» domanda, ridacchiando.
«Massì, la figlia illegittima di un tipo, violentata dal patrigno e che fa tipo la ballerina, figurati, la banalità, son tutte uguali»
«Sei veramente fantastico…» osserva, continuando a ridere. «…Sei tutto colorato e, poi, ti piacciono le serie cupe e tenebrose…»
«Beh, scusa, dimmi adesso che ti piacciono le telenovelas…»
«No, no, però le cose allegre sì. Che ne so… That ‘70s ShowHow I met Your MotherFriends… I classici» ribatte. «Una delle mie serie preferite è Una mamma per amica, fai te…»
«Ah! Di cose colorate mi è piaciuta Please Like me» gli dico, illuminato.
«Gian, ma è tristissima…»
«Ma che dici…»
«Ti prego, la mamma si suicida, l’ex scopa con un altro, il padre ha un’altra figlia, la sua vecchia tipa abortisce… è una tragedia dopo l’altra»
«Ma la casa è tutta colorata»
«Mangiano Adele…» sibila, riferendosi al gallo. «…cantando “Someone like you”. Sinceramente la lacrimuccia mi è scesa»
«Ma dai… non è mica così triste.» insisto. «E tu che mi prendevi in giro perché piangevo per le trote, loro almeno morivano davvero, mica come il sound effect che hanno messo nel montaggio»
«Non ti prendevo in giro. Ed era una scena triste, lasciami in pace.». Ridacchio, lui fa lo stesso. «Scusa, tu non piangi mai?»
«Non per i film»
«Bah, La Partita mi ha ucciso, tra un po’ piangevo pure il sangue…»
«Che roba è?»
«Oh, a te annoia, un film sugli scacchi». Ah, sì, sarà una palla tremenda. 
Roteo gli occhi al cielo e scuoto la testa. «Ovviamente» commento.
«Una volta dovremmo farla qualche partita»
«Sognatelo, le ho viste tutte le tue belle coppe e medagliette a casa dei tuoi, sono scarso come la merda e molto self-conscious, non intraprendo una battaglia suicida contro un campione…»
«Ma che campione…» brontola.
«Sì, non fare il finto modesto, che non ti viene bene.» ribatto. Appena ho visto in camera sua il suo palmares tutto ordinato, avevo pensato a un grande sportivo che si dedicasse a una disciplina… molto da “duro”, voglio dire: è gigante e ha la forza di un toro, avrebbe potuto essere un lanciatore di peso, o un lottatore, che ne so. Poi, invece, mi ha fatto un sorrisone e mi ha spiegato che in realtà sono tutti premi di tornei di scacchi. Suo padre gli ha insegnato a giocare a sei anni, lui l’ha presa molto sul serio e si è messo a fare tornei su tornei, in Germania, in Italia, alle elementari, medie, liceo e pure università, diventando pure capitano del team universitario. E avrei pure accettato di più se mi avesse detto che lo faceva solo per rendere fiero il padre, invece è solo tanto appassionato. Ci ha pure scritto la tesi magistrale sugli scacchi e i computer, mi ha provato a spiegare in breve, ma io non ho ascoltato un granché, che intanto era come se mi parlasse in cinese. Mi ha confuso un po’, non ha proprio l’aria del nerd fissato su una cosa come gli scacchi, ma poi, in realtà, mi ha fatto solo interessare un po’ di più. Sia a lui, sia agli scacchi, un gioco che non mi ha mai appassionato più di tanto.
«Ti prometto che una te la faccio vincere.»
«Tienitela.» asserisco, secco. «Se perdo pure con mia sorella ci sarà un motivo, non credi?»
«Ma sti cazzi, proviamoci, voglio solo vedere come giochi.»
«Male»
«Non mi basta»
«Che ti importa…?»
«Voglio solo vedere»
«Rompipalle»
«Fino alla fine dei miei giorni» conclude, sorridendo e dando fastidio a Tegolino. 
«Te ne concedo una. In base a quante mosse ti servono per battermi, determinerò quante altre partite possiamo fare.» lo informo, con le braccia al petto. 
«Sai intanto che batterti con una mossa sola è impossibile, vero?»
«Non sopravvalutarmi…» 
«Tu non sopravvalutare me, mi piace giocare e me la cavo, mica sono il campione del mondo.» 
«Ti fanno dei complimenti e manco li accetti…» lo provoco sarcastico.
«Mi piacciono i complimenti onesti.» ribatte.
«Che complessità, mamma mia…»
«Non mi hai nemmeno mai visto giocare e dici che sono un campione, come fai a saperlo? Magari baravo ai tornei e sono una sega…»
«Cuore, sono vent’anni che te la meni a girare per giocare a scacchi, so che non bari, nessuno che va fino a San Benedetto del Tronto solo per un torneo bara.» 
«San Benedetto del Tronto gran bel posto»
«Ma non lo metto in dubbio, però ti ripeto, sei partito da Milano e sei andato fin lì solo ed esclusivamente per giocare, nemmeno per andare al mare». Ride e mi prende per una spalla, trascinandomi verso di lui e spaventando il povero gatto che va a infilarsi sotto il divano. 
«Se vuoi te ne faccio uno io di complimento sincero, così impari e me ne fai uno anche tu.» propone.
«Tu sei un uomo davvero molto strano, lo sai?» commento, guardandolo interrogativo.
«Non intendevo questo…» risponde con un’espressione offesa. Sbuffo e gli tiro una piccola pacca sulla fronte, sentendomi abbastanza a mio agio per abbassarmi e appoggiare la testa sulla sua coscia. «Quindi, questo complimento?» mi chiede.
«Sei una chiavica…»
«Ti devo dire, non sei bravo per niente…»
«Uffa, che noia… non so, i tuoi occhi sono carini, sei contento?» borbotto, guardandolo storto. Lui mi fa un sorrisone e annuisce, passandomi una mano nei capelli.
«Io volevo dirti che sei molto simpatico, ma in realtà oggi sei un po’ un dito in culo con la sabbia…» inizia, grattandosi il mento.
«E tu sei uno stronzo, siamo pari…» brontolo, con le braccia al petto.
«Ecco, sei divertente…!» aggiunge, ridendo.
«Mi stai dando del clown?»
«Beh, un po’ lo sei» 
«Ripeto, stronzo…». Ride ancora, poi si distrae a guardarsi in giro, in un nanosecondo si allunga e agguanta Tegolino, mettendomelo sul petto.
«Ecco il nostro bambino. Che cucciolo…» mugola, accarezzandolo.
«Il nostro bambino?»
«Certo, adesso siamo i suoi genitori, vedi? È piccolo, non sa fare niente…»
«Chi è la mamma?»
«Che omofobo…» commenta, ironico. «Adesso vuoi dirmi che un gatto non può avere due padri? Anche se l’abbiamo adottato, siamo i suoi papà.»
«Secondo me, sei più un padre single…»
«Adesso non dirmi che scappi in Messico e non ti assumi le tue responsabilità…»
«Mh… mi sa che devo andare a prendere le sigarette…» mormoro, nascondendo una risatina.
«Guarda che i figli si fanno in due, eh! Ti spillerò fino all’ultimo centesimo di alimenti!» esclama, drammatico, stringendosi Tegolino al petto. «Non ti preoccupare, piccino, anche se papà Gian non ci vuole più bene e ci ha abbandonati, noi due ce la faremo da soli…» gli sussurra, dandogli un bacetto in mezzo alle orecchie. Scoppio a ridere. Che scemo. 
«Poi sarei io il clown…» mugugno, passandomi una mano sugli occhi. Lui ridacchia e mi rimette il gatto in braccio, continuando ad accarezzarlo, il polso appoggiato sul mio petto. Guardo Tegolino. Forse sono rotto dentro, ma non mi fa molta tenerezza. La manona di Jaco sulla sua minuscola testolina, però, mi scalda il cuore. Tutto Jaco lo fa. Solo Jaco è capace a farlo. 

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Capitolo 10
*** Polfer e adolescenti complessati ***


10 – Polfer e adolescenti complessati

 «Ehilà!» mi saluta Jaco, di spalle, impegnato ad asciugare il lunotto della macchina.
«Ciao, hai lavato la macchina?» rispondo, andandogli di fianco e osservando il lavoro che ha fatto. Direi perfetto, è splendente, riesco pure a contare i peletti sul mento che mi stanno ricrescendo. 
«Sì, faceva abbastanza schifo» conferma, poi butta il panno che stava usando in un secchio e rimane a fissarla per un po’. «Boh, basta, va bene così» asserisce, facendo un gesto con le mani e allontanandosi dalla macchina.
«Più pulita di così…»
«Lo so, ma non mi convince. E allo stesso tempo mi sono rotto le palle di pulirla»
«Basta, Jaco, andiamo a sederci» piagnucolo, tirandolo per una manica della felpa. Ride, ma cede e mi segue fino alle sedie da giardino che ha comprato due settimane fa. Se posso permettermi, ottimo acquisto, sono comodissime, l’altra domenica mi ci sono pure addormentato nell’abbiocco post-pranzo. Mi sono svegliato con la sua giacca messa a mo’ di coperta, lui che guardava il computer sull’amaca presa nel delirio “MondoBrico”.
«Tu che hai fatto oggi?» mi chiede, controllando le foglie della piantina che ha messo sul tavolo. Ha detto che probabilmente sarebbe morta in un mese, ma io non ci credo proprio. È troppo ossessivo per dimenticarsi di qualcosa e per abbandonare un progetto a metà, sicuramente mi diventerà un giardiniere provetto e trasformerà il suo giardino in una giungla. 
«Il nulla assoluto, stamattina ho battibeccato un po’ con mio padre, ma niente che esuli dalla quotidianità» spiego, scrollando le spalle.
«Beh, un buon sabato»
«Finora direi di sì.» 
«Ieri mi è arrivata la mail di conferma per l’hotel…» bofonchia, tirando fuori il tabacco dalla tasca. Ah, giusto. Alla fine, ci andiamo davvero in Germania. Quando l’ha proposto era super entusiasta, ora l’ha detto con una voce strana.
«Oh, ottimo» rispondo. Lo guardo ancora, si sta girando la sigaretta, ma ha una faccia mezza pensierosa, spero sia per Colonia. E mi fa strano vederlo così, vedere l’ottimismo fatto a persona un po’ mogio, un po’ giù. Sospiro, mi guardo la punta dei piedi, poi sento lo scatto dell’accendino. «Sei contento di tornare in terra natia?» gli chiedo di getto, per poi mordicchiarmi la guancia. Non mi ha mai parlato molto di quel determinato periodo della sua vita. Solo un paio di cose, leggermente superficiali e per rispondere alle mie domande. Non ho mai capito per quale motivo. Non me lo sono mai neanche chiesto particolarmente, ho sempre pensato che avesse le sue motivazioni per non parlarne, che non era il mio ruolo quello di forzarlo. 
«Certo che sono contento di tornare. E sono contento anche di portartici…» risponde, con un’espressione un po’ malinconica. «È… praticamente metà della mia vita… mostrarti Colonia è farti vedere metà di me…» spiega, poi aggrotta le sopracciglia e si mette una mano sul torace, a segnare un punto. «…La metà col cuore…»
«Ogni quanto spesso ci torni?» 
«Boh, dipende dal periodo…» dice, scrollando le spalle. «A volte so che se torno, non vado più via, allora non ci vado proprio. Quando sono felice qui in Italia mi so godere Kölle in modo sano…»
«Non dovrebbe essere il tuo safe place
«Appunto, non posso essere triste a Colonia. Se sto male a Milano e prendo un aereo, è una volta per tutte.» spiega. «La mia vita è qui ora e sono felice di quello che sono riuscito a costruire, ma io… non ho mai veramente voluto andarmene da lì»
«Sai che non si direbbe?».
Ridacchia e si passa una mano nei capelli. «E menomale che non si direbbe, almeno so che tre anni di terapia e la bocciatura in terza media hanno funzionato». Per un momento il mio cervello si rifiuta di recepire le sue parole, ma poi chiudo un secondo gli occhi e li riapro per essere sicuro di avere davanti la stessa persona che avevo dieci secondi fa. Lui mi sta guardando con quel ghigno divertito che sprizza “Jacopo” da tutti i pori e un po’ mi convinco che è ancora lui. Mai come ora mi era capitato di non saper reagire a un’informazione.
«Ti ricordi quando mi avevi chiesto cosa mi mandava in crisi?» esalo. Lui annuisce e scoppia a ridere quando soffio: «Eccone un esempio»
«Sul serio?» ribatte quando si calma dalla sua ilarità.
«Beh, mi sembra logico…»
«E perché?» insiste.
«Perché mi viene davvero molto complesso credere che la persona meno problematica che conosca sia stata sia bocciata che in terapia»
«Allora riesco ancora a sorprendere»
«Direi» confermo, ancora con gli occhi sgranati. 
Rimaniamo entrambi in silenzio a guardarci, io adesso aspetto ovviamente una spiegazione perché col cazzo che mi fa vedere il trailer e io non so come va a finire il film, lui fa un paio di tiri e ridacchia di nuovo. Vorrei proprio sapere che minchia ci trova da ridere. «Beh, vuoi tutta la storia?» mi domanda, con un principio di sfida negli occhi.
«Tu che dici?» ribatto, raccogliendo le braccia al petto.
«Guarda che è lunga»
«Non ho niente di meglio da fare.» rispondo, mettendomi più comodo sulla sedia. «E visto che è così lunga, sbrigati» aggiungo.
«Sì… insomma… dal momento in cui sono venuto al mondo fino al quarto anno di Gymnasium è stato tutto perfetto, niente problemi, nessuna tragedia particolare…»
«Un bambino modello…»
«Oh, sì, i miei erano super contenti. Si fidavano ciecamente, già a dodici anni avevano smesso di portarmi in giro, avevo la mia bicicletta e il mio abbonamento dei mezzi, tanto sapevano che sarei tornato in orario, andavo bene a scuola, mi piaceva studiare, voti sempre ottimi…»
«E che è successo a questo idillio?»
«Beh, è successo che a una certa, mio padre arriva a fine contratto, sapeva che non si sarebbe rinnovato, mia madre voleva tornare in Italia, quindi… si è deciso di venire a Milano. Diciamo però che non è stata una gran mossa da parte loro rendere partecipe il loro figlio tredicenne di un trasferimento all’estero, a nove ore e mezza di macchina da Colonia tre settimane prima di partire… E per quanto possa aver capito certe cose crescendo, non è cambiato il fatto che mi hanno strappato all’improvviso da scuola, dagli amici, da casa… insomma, da quella che era sempre stata la mia vita. Io… non l’ho presa per niente bene, mi sono incazzato come una iena e l’idea non mi andava a genio manco per il cazzo. Ho provato in tutti i modi: con le suppliche, la rabbia, la gentilezza, giuro, qualsiasi cosa pur di rimanere. Ho pianto tutti i giorni prima di partire, quando ho detto addio ai miei amici, quando abbiamo lasciato Kölle, quando abbiamo passato il confine italiano, quando ho messo piede nella nuova casa e ho pianto tutte le sere prima di addormentarmi per parecchio tempo. Una volta qui, ho avuto un completo rifiuto per tutto ciò che era italiano… anzi, tutto ciò non era tedesco: non volevo andare a scuola, non volevo approcciare i miei nuovi compagni di classe, né gli insegnanti, non volevo nemmeno parlare l’italiano benché lo capissi e sapessi parlarlo fluentemente. I primi tempi cercavo di stare in casa nuova il meno possibile e, nonostante Milano mi facesse profondamente schifo, stavo in giro tutto il giorno evitando qualsiasi contatto umano con qualche sofisticata parola in tedesco, tanto i milanesi non capivano, erano tutti stupidi. Non andavo nemmeno a scuola, uscivo di casa e non mi presentavo fino all’ora di cena, quindi per arginare i danni, mio padre ha iniziato ad accompagnarmi e a lasciarmi davanti all’entrata, ma quasi non faceva in tempo ad andarsene che non varcavo nemmeno la soglia, giravo i tacchi e andavo a farmi i cazzi miei, allora si è messo ad aspettare che entrassi e io entravo incappucciato e uscivo subito dopo dall’altra parte della scuola. Hanno dovuto mettere una bidella che mi prelevasse all’entrata e mi seguisse fino in classe. Non parlavo con nessuno, non rispondevo a nessuna domanda, ignoravo qualsiasi parola mi venisse rivolta, a voce o scritta. Se chiedi a mia madre, tiene ancora le prime verifiche in cui rispondevo a ogni singola domanda con “Io non parlo italiano” in tedesco. Ogni singola pagina del mio libretto era tappezzata di note del tipo “Jacopo si rifiuta di partecipare alle attività di classe”, “Jacopo ignora completamente le domande del docente”, “Jacopo si alza ed esce dall’aula senza permesso” e così avanti. Tanto non mi importava di niente, io volevo solo tornare a casa mia, nella mia città, alla mia vita. I miei mi avevano assicurato che nelle vacanze, o durante l’estate saremmo andati in Germania ogni volta che volevo, ma ormai la mia fiducia era completamente distrutta e nella mia testa, ogni loro promessa era vana, ogni loro parola era vuota. In più, non me ne fregava proprio niente delle vacanze o dell’estate, io ci volevo andare subito e per sempre
E per loro che avevano sul groppone anche il trasloco, la nuova casa, il nuovo lavoro e mille cose, gestire un’ameba asociale e completamente fuori controllo diventava sempre più frustrante. La scuola li chiamava tutti i giorni, dovevano farmi da scorta per assicurarsi che almeno mi presentassi in aula, dovevano firmare pagine e pagine di note, assenze e ritardi veramente ingiustificabili, di cose importanti da solo non ne potevo fare nemmeno una perché intanto in italiano non volevo spiaccicare nemmeno un “ciao”, passavano giornate intere a non avere notizie di me e mi dovevano sempre recuperare a orari completamente sconsiderati in qualche parte sconosciuta di Milano in cui mi andavo a infilare, ringraziando pure che ero ancora vivo. La sopportazione di mio padre era appesa a un filo, quella di mia madre già andata da tempo, una sera abbiamo litigato, lei mi ha detto una cosa tipo “è inutile che fai così, tanto non ci torniamo più, questa è la nostra vita ora, sbrigati ad accettarlo perché così non si va avanti” e quello per me è stata la rottura completa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo capito che la mia tecnica non aveva funzionato e che loro non sarebbero mai effettivamente tornati a vivere in Germania, quello è stato il punto di non ritorno, allora ho preso la mia decisione: se non mi ci avessero portato loro, ci sarei tornato da solo a Colonia. Il giorno dopo ho fatto il mio zaino, ho lasciato il cellulare a casa, sono andato a fare la mia fallimentare giornata scolastica, poi ho preso la metro e sono andato in stazione centrale, ho fatto un biglietto per Colonia e sono salito in treno…»
«Sei andato da solo in Germania a tredici anni?» chiedo, al limite dello shock.
«Sì, ecco, il mio piano perfetto aveva solo un difetto: quello era il giorno in cui dovevo fare la carta d’identità, quindi mia madre mi stava aspettando fuori da scuola. Appena ha iniziato a tartassarmi di chiamate, mio padre ha trovato il mio telefono abbandonato sulla scrivania e hanno subito capito. Papà si è messo proprio in mezzo alla porta del treno che si stava chiudendo per evitare che partisse. E vorrei ben vedere, il tuo unico figlio, minorenne, è da solo su un treno che lo sta per portare a ottocento chilometri da te, si sarebbe direttamente buttato sotto la locomotiva se necessario… Saremo stati almeno venti minuti a litigare, i miei e il personale del treno che mi strattonavano per farmi scendere, io che sono rimasto fermo immobile perché dovevo partire. Per trascinarmi giù dal vagone è dovuta intervenire la Polfer, perché, in un momento di rabbia cieca, potrei aver leggermente perso il controllo, azzannando mia madre, sputando al capotreno e tirando una testata di Cristo allo sterno di uno dei controllori, un miracolo che nessuno abbia sporto denuncia. Mi hanno dovuto tenere bloccato per evitare che tornassi sul treno e… a una certa, giustamente è partito, aveva già fatto un ritardo clamoroso a causa mia. Anche quel momento l’ho vissuto particolarmente male, quella che vedevo come l’unica e ultima occasione che avevo per tornare a casa era appena partita davanti ai miei occhi e non avevo modo per fermarla. Avevo appena perso l’ultima briciola di speranza che mi rimaneva, mi si è aperta la terra sotto i piedi, mi sono lasciato cadere in ginocchio e ho pianto le lacrime più dolorose di tutta la mia vita.
Mia madre voleva già farmi vedere da qualcuno, ma mio padre non so bene, non era convinto, pensava che bastasse un po’ di tempo per farmi abituare. Tutto quell’episodio gli ha fatto cliccare qualcosa, ha capito che… che non erano solo tipo capricci, che stavo male sul serio, allora si sono messi d’accordo e mi hanno mandato in terapia. E la bocciatura… beh, più che meritata, è da ricondurre a tutte le assenze, alle note e ai voti mai stati diversi da “non classificabile”» conclude e spegne il mozzicone nel posacenere. 
«Wow» riesco solo a esalare.
«Sono ancora la persona meno problematica che conosci?» mi chiede, sarcastico.
«Dovrei pensarci…» mormoro. Certo, sarebbe problematico in tutt’altra maniera rispetto a quello a cui sono abituato io, però devo dire che si è impegnato. Lo guardo negli occhi e faccio davvero molta fatica a immaginarmelo sputare a un capotreno, o rifiutarsi di rispondere alle domande di un insegnante.
«Comunque tranquillo. Questa volta sono abbastanza sicuro che non avrò problemi a salire sul volo di ritorno» mi rassicura.
«Oh, beh, con me non hai di che preoccuparti, i tuoi si sono sforzati tanto, io non riuscirei a spostarti nemmeno di un millimetro e ti lascerei a Colonia senza pensarci troppo.»
«Ora sono un bambino grande, so cavarmela da solo»
«Un bambino grande rimane pur sempre un bambino» preciso, facendolo ridere.
«Sono cambiato» asserisce, drammatico, con una mano sul cuore.
«Ci mancherebbe altro» commento.
«Ai tempi non avevo ancora la barba»
«Boh, io speravo che mi dicessi “ora non aggredisco più le autorità ferroviarie”, però come vuoi tu, eh…». Ridacchia e, allora, anch’io accenno a un sorriso. Ho troppe domande per la testa, ma stringo le labbra per stare zitto perché non vorrei sembrare invadente; rimango a osservarlo, ancora piuttosto in difficoltà nell’associare questo informatico gattaro a un adolescente complessato pronto a scappare di casa e ad attraversarsi metà Europa per tornare alla sua vita. Anche perché nell’unica volta in cui siamo stati a Milano assieme è stato relativamente tranquillo e il rapporto con i suoi genitori mi è sembrato decisamente più pacifico di quello che ho io coi miei. Boh, evidentemente nel suo caso la psicanalisi ha fatto miracoli.
«Ti vedo un po’ sconvolto» mi dice, con un sorrisetto. Mi prenda pure in giro, ma io sconvolto lo sono sul serio.
«Più che altro non capisco come riesci a parlarne così tranquillamente come se mi avessi raccontato cos’hai fatto ieri a lavoro…»
«Ah, quelli sono gli altri otto anni di terapia dopo i tre iniziali»
«Ecco! Ma che cavolo, Jaco, vuoi anche dirmi che sei stato vittima di crimini di guerra!?» esclamo, in totale overload di informazioni.
«Guarda che non c’è nulla di male ad andare in terapia, è come andare da un fisioterapista per il male alla schiena, solo che invece che darti gli antinfiammatori per la sciatica, ti ascolta un’ora alla settimana e ti aggiusta le rotelle del cervello»
«Lo so che non c’è niente di male ad andare in terapia, semplicemente essendo cose delicate, mi aspetto un tono di voce e una… situazione diversi dal “a me piace la pizza al prosciutto”!».
Fa spallucce, poi si gratta il mento e ridacchia. «Non vado mica a dire a tutti che sono in terapia da più di un decennio e che quella col mio analista è la relazione più duratura della mia vita. Lo dico a te perché mi sento a mio agio e tranquillo, se no non ti avrei fatto sto pippone…».
Rimango un secondo spiazzato e sbatto le palpebre un paio di volte. «Beh… questo lo apprezzo…» borbotto, lui mi sorride genuino. Mi dà un minimo di sicurezza e, non prima di essermi morso un labbro e aver distolto lo sguardo, gli chiedo: «E come… insomma… poi ti sei abituato al fatto che non saresti più tornato in Germania?»
«Oh… sì, piano piano mi sono rassegnato. A giugno mi hanno bocciato, la prima estate in Italia non ci siamo andati a Kölle, sotto consiglio del terapista, in quel periodo la situazione era ancora molto delicata, poi è iniziato il nuovo anno scolastico, ho fatto lo sforzo di parlare con qualcuno che non venisse pagato ottanta euro a seduta e… facendomi degli amici e tornando un po’ in carreggiata con la scuola, le cose hanno iniziato a migliorare. Coi miei… lasciamo perdere»
«E loro?»
«Già… già dalla scena del treno sono… sono diventati un po’ più comprensivi, penso anche che quell’episodio li avesse spaventati parecchio, avevano avuto prova di… boh, di quello che avrei potuto fare e avevano capito che chiudermi in casa, ostacolarmi e basta non sarebbe servito a nulla. Quella sera è stata la prima volta in cui mia madre mi ha abbracciato da… da quando era uscita fuori la storia del trasferimento e in cui ho visto mio padre veramente contento di avermi in casa con loro, al sicuro. Anche loro ne hanno passate tante, hanno visto il loro figlio, da un bambino… relativamente ok, diventare… un disastro problematico fuori controllo. L’anno dopo poi si sono pure separati, io sono di nuovo un po’ sprofondato, tra loro non si parlavano, quindi è stata una situazione difficile anche quella…»
«Si sono separati? Davvero?»
«Sì, mentre io facevo la mia seconda terza media… poi in realtà non è che volevano proprio divorziare, era solo il periodo che risucchiava ogni briciolo di energia che avevano e la frustrazione e lo stress li hanno fatti scoppiare. Dopo qualche mese, si sono dovuti mettere al tavolo e parlare e alla fine hanno… “fatto pace”, diciamo.»
«C’eri anche tu?»
«Ma va, non l’avrebbero mai fatto, io ero distrutto tra il trasferimento e la loro separazione, la mia presenza non avrebbe fatto che peggiorare la situazione.» risponde. «Ho passato praticamente tutta la mia adolescenza a sentirmi tanto tradito e… arrabbiato con loro per quello che mi avevano fatto… ma in realtà si sono impegnati tanto entrambi a tenerci uniti e a tenermi in piedi, non li ringrazierò mai abbastanza per quello che hanno fatto per me, anche se non ho mai cercato di rendere la loro vita più facile. Ero una peste.»
«Il tatuaggio fa parte del tuo delirio di ribellione?» continuo, sentendo che nella mia testa qualche puntino inizia a collegarsi.
«Oh, yes, te l’ho detto, me ne sono pentito il giorno dopo e ancora di più quando mio padre l’ha visto e ha usato tutta la sua pazienza per non corcarmi di botte. Nello stesso periodo, tra l’altro, mi avevano pure sgamato che avevo iniziato a fumare, anche lì un altro dramma, in camera mia iniziavano a girare i primi preservativi, quando sono andato a Kölle a casa di un amico non mi hanno sentito mezza volta in una settimana, anche quell’anno non sapevano più dove sbattere la testa». Mi scappa una risata a immaginarmi uno Jaco sbarbato e ribelle. Anche se un po’ mi sento in colpa, lui non me la fa pesare, aggiungendo: «Guarda che non è che vado in crisi post-traumatica a parlarne, eh, so gestire i miei problemi»
«Ah, ecco, sì, forse è questo. Io non so affrontare i miei, quindi nella mia testa, nessuno può farlo»
«Su di te ci sarebbero da scrivere pagine e pagine di trattati di psicologia»
«Ma senti chi parla!» sbotto, mettendo su un’espressione offesa. Ride, io gli tiro un pugnetto sulla coscia e lui si vendica con una pacca sul braccio. «Ti prego, non tirarmi una testata, altrimenti mi ammazzi davvero!» esclamo, ironico. Non troppo, se ben tirata, una sua testata riuscirebbe tranquillamente a sfondarmi qualche osso e a bucare degli organi vitali.
«Oh, no, per carità, nonostante tutto non avrei mai più tirato una testata a nessuno, tra un po’ mi spaccavo la testa. Quel povero cristiano è dovuto andare a sedersi tranquillo e lontano da… dal casino che stavamo facendo perché ha detto che gli avevo tolto l’aria dai polmoni»
«Eri un gigante già ai tempi o ti dovevano ancora scendere le palle?»
«Stava appena iniziando la pubertà…»
«Uh… sì, pessimo momento per trasferirsi…» commento.
«Te l’ho detto» conferma. Si perde a osservare il cielo, io sto ancora cercando di fare mente locale di tutte le cose che mi ha detto. Non riesco bene a immedesimarmi in lui, forse perché mi sono sempre sentito intrappolato, ho sempre vissuto questo posto come una prigione e ogni giorno spero sia quello buono per scappare e non voltarmi indietro, mentre lui fa di tutto per riuscire a non tornare da dove viene e a non farsi mangiare vivo dalla nostalgia di casa; ha un senso di appartenenza così forte che per me, che non ne ho nemmeno un briciolo, risulta davvero complesso empatizzare. 
«I tuoi amici tedeschi li hai più sentiti?» domando.
«Li sento tutti i giorni, siamo rimasti amici» risponde. «Ci sentivamo sempre, facevamo videochiamate, ogni volta che tornavo in Germania ci vedevamo, abbiamo fatto anche vacanze assieme qui in Italia… mi ero trasferito, non ero mica morto…»
«Sì, ma loro erano tutti insieme, tu a ottocento chilometri»
«Non mi ha impedito di farmi sentire ogni volta che potevo» ribatte, scuotendo le spalle.
«Quando andiamo a Colonia li vedrai?»
«Certo che sì, già li vedo poco, ci manca solo che perda le occasioni per farlo»
«Spera per te che parlino in inglese, perché ti ricordo che io di tedesco so solo “eins, zwei, Polizei” e non è una risposta valida al “come ti chiami”»
«Non ti preoccupare, Madonna, quanto sei ansiogeno… anche più di me»
«Non mi pare corretto insultarmi così»
«Theo si sta specializzando in neurochirurgia, magari riesce a metterti a posto qualcosa qui dentro» mi provoca, picchiettandomi sulla fronte. 
«Passare del tempo con te è come camminare in un campo minato della psicanalisi, ogni persona che conosci è un cazzo di strizzacervelli» brontolo. 
«La sua tipa storica è pure una psichiatra…»
«Avvalori soltanto la mia tesi» commento. Non è possibile proprio. Sua madre, il suo amico tedesco, la ragazza dell’amico tedesco, veramente non c’è un minuto di pace. Ridacchia, io scuoto la testa. Il suo umore sembra migliorato rispetto a prima, ma comunque rimane ancora un po’ strano. Mi maledico da solo per aver anche solo pensato alla cosa che sto per fare, mi alzo e mi piazzo proprio davanti alla sua sedia, lui mi guarda un po’ spaesato. Sospiro accettando passivamente il mio destino, gli do la schiena e mi siedo su di lui, sentendo le sue braccia circondarmi la vita. Mi stringe a sé e appoggia il mento sulla mia spalla.
«Da dove esce questo sprint di affetto?» mi chiede. 
«Quando io ero triste tu mi hai consolato…» brontolo. «Mi tocca ricambiare»
«Ma io non sono triste» osserva. E il fatto che lui e la mia coscienza siano d’accordo mi dà estremamente fastidio, ma cerco di zittire tutti quanti: la mia coscienza con un insulto mentale, lui con l’indice alzato proprio davanti al suo viso.
«Accetta e basta» asserisco, secco.
«Se volevi un abbraccio bastava dirlo» ribatte, portando un braccio attorno al mio petto e stringendomi ancora di più. Roteo gli occhi al cielo e odio la sottospecie di orsetto di peluche che sono diventato.
«Non voglio un abbraccio e soprattutto non voglio essere strangolato, pitone maledetto che non sei altro» bofonchio, appoggiando una mano sul suo avambraccio, ma non facendo effettivamente nulla per liberarmene. Lo sento ridacchiare, poi mi scuote un po’ a destra, un po’ a sinistra, io completamente pentito di questo passo falso. Mai dare affetto a Jaco, non mi lascerà andare mai più. «Jaco, per la miseria!» sbotto, provando ad alzarmi quando lui si sposta e la sedia fa un rumore non proprio rassicurante.
«Guarda che sono resistenti» mi dice, tenendomi fermo contro di lui.
«Sì, resistenti alle persone, non agli ippopotami!» continuo, sentendolo ridere contro la mia spalla. Non so bene da dove mi sia uscita l’idea di accarezzargli il braccio, ma ormai ho già iniziato, rimango in silenzio, indeciso se essere triste per tutte le cose che gli sono capitate, o felice che si sia confidato. Mi appoggio contro il suo petto, sibilando un sospiro di pace, sento ancora il suo mento sulla spalla, la sua barba contro il collo. «Grazie per avermelo raccontato» mormoro, continuando a fare su e giù con la mano sul suo avambraccio, i peli che seguono la direzione dei miei gesti.
«Era giusto che tu lo sapessi» mi risponde. Accenno a un sorriso, mentre qualcosa mi si scioglie nello stomaco. Si è aperto. Con me. Il velo sui suoi occhi non mi sembra più così spesso com’era prima.

  

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Capitolo 11
*** Tunnel vision e Kernel panic ***


11 – Tunnel vision e Kernel panic

 
«Troppo figa» ripeto, mettendo la moto di Lori sul cavalletto. 
«Te l’ho detto…» continua lui, tutto elettrizzato, poi appende il casco al manubrio e si siede sul ciglio della strada. Io appoggio il mio sulla sella del motorino e mi vado a mettere di fianco a lui. «Quand’è che cambi sta carretta scassata, tu?»
«Non insultare la mia carretta scassata. Va ancora bene»
«Sì, vabbè, io ho cambiato quattro moto da quando tua sorella ti ha dato sta ciofeca»
«Vogliamo veramente parlare della fine che ha fatto quel povero Fantic? No, perché se ne vuoi parlare, ne parliamo, eh»
«Era colpa della strada»
«E perché, allora, io con la mia ciofeca non sono caduto benché fossi esattamente dietro di te?»
«Sì, non fare il figo che ti sei ribaltato anche tu»
«In un altro punto, ancora più di merda, e in quell’uscita sei volato pure tu. Solo che io mi sono sbucciato il gomito, tu ti sei rotto un piede. E il mio motorino si è fatto un graffietto, il Fantic l’hai preso e l’hai buttato via». Mi fa una smorfia scocciata e non risponde. Tanto non deve farlo, so benissimo che ho ragione.
«Vabbè, comunque, dovresti prendertene una così pure tu.» ripete. «Oppure buttati su un KTM»
«Sì, certo, me li dai tu i quindicimila euro che servono per il Duke»
«Tua mamma, tutti i soldi che avevo li ho spesi per questa» brontola. «Ruba il Kappa di tuo padre»
«Quella è una cazzo di trappola della morte. Un due e cinquanta due tempi, quella roba mi ammazza di sicuro»
«Oh, piccino, non la vuole se non ha le comodità moderne come le valvole…» mugola, sarcastico.
«Io voglio una moto con lo scaldaculo, come la tua» lo provoco. 
«Ma sparati» bofonchia. «Devo ammettere che non è il top per andarci in due, però…»
«Non porti altra gente su una sportiva, dai…»
«Eh, lo so, ci ho provato, ma non è stata una grande idea…»
«E chi ci hai portato, scusa?» chiedo, con un sorrisetto. So con assoluta certezza che mi ha lanciato quella mezza frecciatina per raccontarmi della sua ultima conquista. Lo lascio sfogare, così è contento e non mi rompe.
«Rebecca, ci stiamo sentendo, guarda, ti faccio vedere una foto…» inizia, prendendo il telefono e passandomelo. Mi ritrovo davanti a una ragazza, capelli chiari, faccia tonda, sorriso ampio. La donna angelo stilnovista, miseria. 
«Ma ha tredici anni, Lori…» mormoro, continuando a notare una certa “gioventù” nei suoi lineamenti.
«Ma che cazzo dici, brutta merda, ha vent’anni!» sbotta. 
«Sembra andare in terza media»
«Fa lettere moderne…» brontola, strappandomi il cellulare dalle mani e incrociando le braccia al petto. Ridacchio e allungo le gambe sull’asfalto.
«E hai già concluso?» domando, lanciandogli un’occhiatina.
«No, ha detto che vuole aspettare. Non è… nel senso, ha già fatto sesso con altri, ma mi ha detto che di sicuro dopo un caffè e un giro in moto non me la dà»
«Wow, tu che aspetti più di tre ore… e la vuoi ancora sentire?»
«Massì, è carina, simpatica… ci sta, insomma. Me l’ha presentata il mio compagno di controlli automatici, sono coinquilini»
«E non sei geloso?»
«Ma quando mai, lui è stra-fidanzato con una figa della Madonna. Sarebbe un coglione a tradire la sua tipa.» spiega, guardando distrattamente il cellulare.
«Quindi aspetterai Rebecca…»
«Ci si prova…» 
«Non sembra male. Vi regalerò un pezzo di luna di miele…» concludo, tirandogli un colpetto sul ginocchio.
«Sì, vabbè, ora con calma» ribatte. «Comunque bisogna vedere come si evolve, non lo so…»
«Ho sempre pensato di vedere Gesù ballare la lap dance prima di vedere te innamorato…»
«Oh, innamorato, Gian, che esagerato…!» ulula, con occhi sbarrati. 
«Vabbè, comunque, preso abbastanza bene…» borbotto, sventolando una mano. Rotea gli occhi al cielo e distoglie lo sguardo, strappando un paio di fili d’erba. Sbuffo, che cosa insopportabile. Ma che gli costa dire “hai ragione, Gian, mi piace più delle altre”? Proprio non comprendo. «Se quando le cose si evolveranno vorrai farla uscire con noi, è la benvenuta…» gli dico, perdendo ogni speranza di una mini-confessione da parte sua. Non capiterà mai. 
«Non esiste proprio»
«Ma come?»
«Non la porto con voi quattro problematici…»
«No, dai, deve venire sabato alla sagra!»
«Ma sei impazzito? Che trashata è, scusa?»
«Beh, il debutto in società deve passare anche per la sagra»
«Sì, certo, tu ed Eli che lavorate, Auri che fino alle dieci non si presenterà e io e lei in mano a Fra che le chiederà di contarsi anche i peli delle ascelle»
«Allora tieniti la tua principessa tutta per te…» lo liquido, scuotendo la testa. Sospira e mi dà una botta sul braccio, poi fa traballare nervosamente la gamba. Mi arriva un messaggio, quindi perdo completamente interesse in Lorenzo e prendo il cellulare.
Che tu sappia, ‘da Quinto’ è un bel posto in cui mangiare?”, mi scrive Jaco. Sbatto le palpebre perplesso. Va a mangiare da Quinto?
Sì, certo, un ottimo ristorante. Uno di quelli un po’ fighetti, non andarci vestito da barbone
Uff, menomale che ci sei tu, non avete ancora scoperto tripadvisor
Vai a mangiare da Quinto?” scrivo, di getto, ignorando completamente l’argomento “tripadvisor”. Ormai sono in tunnel vision.
Mi ha invitato una mia collega per sabato, volevo sapere come sarebbe stato”. Esce con una sua collega. E non so per quale motivo, appena collego, faccio una smorfia infastidita. Eh, no. Col cazzo che ora mi metto a fare storie perché esce con qualcuna. È pure single, faccia quello che vuole. Non è un problema mio. Sbuffo. No, mi sta estremamente sulle palle sta cosa. 
Divertiti, buona serata”, gli rispondo, mettendo pure una faccina sorridente che sprizza passivo-aggressività da tutti i pori. Giusto per mascherare per bene i miei sentimenti a riguardo. Continuo a guardare il suo messaggio. Non capisco, ma perché mi dà così fastidio? 
«Ma che hai?» mi chiede Lori, sporgendosi verso di me. «Che? Jacopo ti ha fatto incazzare?» continua. Sospiro e scuoto la testa, poi provo a mettere via il telefono, ma lui me lo strappa di mano, afferrandomi subito il polso per tenermi fermo. «Wo, esce con una tipa… Buon per lui, vecchia volpe…» ammicca, con una risatina. Non rispondo, non so cosa dire. «E perché sei incazzato?»
«Ma non sono incazzato…»
«Sì, certo, vabbè…» brontola, restituendomi il cellulare. «Non sei mica geloso che esce con qualcuna, no, eh?»
«No.» rispondo, secco. Non sono geloso. Al massimo massimo, un pochino invidioso che tutti abbiano con chi scopare e io no. Ecco, mi piace questa versione. Sono invidioso, non geloso. 
«No?»
«No, Jacopo può uscire con chi vuole, non sono geloso di lui. Mi scoccia che tutti trovino potenziali fidanzate e io niente…»
«Non hai avuto la stessa reazione quando io ti ho detto di Rebecca…» osserva, ridendo. Mi ammutolisco, completamente spiazzato. In tutte le occasioni in cui poteva connettere i neuroni, questo cretino ha deciso di farlo proprio in questa. «Guarda che mica m’offendo se mi dici che vorresti prendere il cazzo di Jacopo in culo»
«Che finezza, complimenti…» rantolo. «E comunque, non voglio niente di Jacopo in culo…»
«Prova a crederci alle minchiate che spari…»
«Ma perché dovrebbe essere una minchiata?»
«Perché è un uomo, relativamente giovane, non siamo né io, né Fra e… boh, io non ne ho idea, ma magari tu lo trovi figo»
«Senti. Solo perché è capitato un nuovo ragazzo nella mia cerchia di conoscenti, non vuol dire che me lo vorrei scopare.»
«Mica ci sarebbe qualcosa di male, scusa, eh. Mi farebbe molto più strano se vorresti scopare con me»
«Non ti toccherei manco con un bastone, Lori, stai tranquillo» rispondo. 
«Mica sono da buttare»
«Hai perfettamente ragione, non sei da buttare…» inizio, con calma, mentre lui fa un sorrisone. «Sei direttamente da incenerire»
«Che stronzo…» piagnucola. «Quindi. Jacopo. Te lo vuoi trombare, sì o no?»
«Santa Maria Vergine, no. Non mi voglio trombare Jacopo» asserisco, roteando gli occhi al cielo. Certo, però, che tutte queste emozioni contrastanti non le ho nei confronti di Lori o di Fra. E che se proprio dovessi scegliere di fare sesso con un uomo tra quelli che conosco, sceglierei assolutamente Jacopo, non solo per demerito degli altri, più che altro per merito suo e della genetica. E che il suo pene contro il culo non mi ha fatto completamente schifo. Anzi, ammettiamolo pure, per niente schifo. Io ero totalmente vestito, ma i miei pantaloni erano abbastanza aderenti da farmi notare una certa presenza non del tutto indesiderata. Mi metto una mano sugli occhi. Devo assolutamente fare sesso con qualcuno e placarmi, altrimenti ogni oggetto vagamente cilindrico mi fa schizzare gli ormoni alle stelle. 
«Cosa ti passa in quella tua testa di minchia?»
«Che ho voglia di cazzo…» mormoro. 
«Wow, proprio così, diretto…»
«Ma non mi rompere, con tutte le volte che sopporto i tuoi deliri sulle tette delle ragazze…» brontolo, tirandogli un colpo sul ginocchio.
«E Jacopo non c’entra niente con la tua voglia di cazzo?»
«No.» ripeto, per l’ennesima volta. Non capisco cosa mi voglia tirare fuori. Cioè… no, non capisco che gli freghi. E ok, mi ha sgamato, se proprio volessi essere onesto con lui, ovviamente direi che Jacopo e la mia voglia di cazzo hanno qualcosa a che fare perché prima di lui sì, ne avevo abbastanza, ma adesso sta diventando incontrollabile.
«Bah, se lo dici tu…»
«Sì, che lo dico io… non so cosa abbiate tutti con me e Jacopo…»
«Tutti chi, scusa?»
«Tu… Eli… boh…» borbotto. «…Non saprei nemmeno cosa dirvi… Massì, ok, è un bel ragazzo, e quindi?»
«Non c’è un quindi, Gian, io con Eli non ci ho neanche parlato di questa cosa, penso solo che io ventidue anni di seghe non me li sarei fatti…»
«Neanch’io me li sarei fatti, caro mio, mi trovassi anche solo un bisessuale che vive in questa landa desolata sarei la persona più contenta del mondo, ma non c’è nessuno. Lori, nessuno che mi scoperebbe. Né prima, né ora»
«Beh, ma mica conosci tutti»
«Non ripeto da capo la storia di Vincenzo, ma scusa. Quanti ceffoni devo prendermi? Aspetto di mettere da parte un po’ di soldi, poi andrò da qualche parte di più grande, dove almeno ci sia un altro omosessuale che possa almeno intraprendere una scopamicizia con me…»
«Vabbè, ma di ceffoni me ne son presi pure io…»
«Ma perché tu sei un marpione del cavolo. Io non ho fatto niente, ho tentato un bacetto dopo che quel fenomeno là mi aveva mandato dei segnali piuttosto contrastanti, per poi ritrovarmi bloccato ovunque e totalmente cancellato dalla sua vita.» ribatto, sconsolato. 
«Comunque sti cazzi di Vincenzo, scusa! Ormai è andata, quello lì è etero e pure coglione, trova qualcun altro»
«Non saprei…»
«E perché mai? Hai o non hai voglia di cazzo?»
«Sì, ma che palle! Non mi va di cercare, conoscere e rimorchiare gente, non so nemmeno come si faccia… e non tirarmi di nuovo fuori Vincenzo, Lori, lui è la prova che non sono in grado di rimorchiare». E anche perché adesso di conoscere nuove persone non ne ho proprio voglia. Mi sono fossilizzato, ormai tutte le mie sessioni di autoerotismo gravitano attorno a un unico pensiero. Pornhub non ne può più di vedere solo e soltanto la categoria “Bear”.
«Il cazzo non cade dal cielo» cinguetta, ironico. 
«Peccato» rispondo, acido. 
«E comunque, Vincenzo l’hai tirato fuori tu in primis. Ce l’hai ancora con sta storia, lascia stare, oh! Minchia, son passati due secoli e ancora ci sei piccato…»
«Ma pensa per te» brontolo. 
«Io non ho una frequentazione andata male che mi porto dietro dal liceo.»
«Sì, perché tu sei la frequentazione, Lori. Tu sei quello che si interessa all’inizio e poi scompare.». Ride e si tira in piedi, poi si leva la terra dai pantaloni e si stiracchia. 
«Nessuna è mai venuta a lamentarsi»
«Neanch’io vado a lamentarmi da Vincenzo»
«È diverso, Gian, tu non puoi lamentarti, ti ha bloccato in lungo e in largo»
«Non ci andrei comunque. Quei giorni bui in cui uno come Vincenzo mi sarebbe potuto piacere sono finiti, i miei standard si sono alzati, i diciottenni con i baffi da latte li lascio alle future generazioni.» mugugno.
«E ora quali sarebbero i tuoi altissimi standard?»
«Persone perlomeno adulte». Alé, un’altra balla. I miei altissimi standard prevedono un uomo con la stessa stazza di una montagna, capelli e barba scuri, ben curati, occhi chiari. Forse mi sono fissato. Che palle, ecco.
«Non mi sembrano così alti, mi stai dicendo che non hai un tipo ideale? Non so, biondo, moro, mingherlino, pompato… boh, magari ti piacciono col cazzo piccolo» propone.
«Boh, massì, se proprio devo scegliere, ti dico moro, ma qui c’è della disperazione galoppante e mi accontenterei un po’ di chiunque, basta che ce l’abbia, il cazzo» mento ancora, facendolo ridacchiare. Col cavolo che andrebbe bene chiunque. «Non è che vuoi sverginarmi tu?» chiedo, poi, di getto.
«Sì, ti piacerebbe»
«Perché non mi hai dato del frocio?» domando, ancora, sospettoso. «Solitamente quando dico ste cose parte la tua gay panic defense e dai di matto…»
«È per Rebecca… è un po’… sai, quelle un po’ radicali? Tipo femminista, pro-LGBT, antifascista?»
«Una persona normale?» propongo. Sventola una mano e annuisce.
«Eh… mi sto impegnando, così almeno non pensa che esco dalle caverne…»
«Ma tu sei uscito da una caverna, sei alla pari di una scimmia»
«Eh, vabbè, però bella figura la devo fare lo stesso»
«Wow, ti ha proprio cambiato…»
«Non stavamo parlando di te?» ribatte, accigliato.
«E dai, il mio migliore amico si innamora e non posso nemmeno essere contento per lui?» lo provoco, giusto per il piacere di farlo. Lo vedo irrigidirsi, stringere i pugni e cambiare diverse tonalità di rosso e credo che il suo cervello sia pronto ad andare in kernel panic. Wow, allora mi ricordo qualcosa delle superiori, magico. 
«Ti ho già detto che non sono innamorato!» urla. «E migliore amico lo dici a qualcun altro, brutto animale!»
«Quanti versi che fai…»
«Pensa al cazzo mezzo crucco su cui vorresti impalarti, invece di rompere i coglioni a me!»
«Magari ci fosse…» esalo, scoraggiato. 
«Oh, tranquillo che c’è! Forse potrai pure raccontare a te stesso tutte quelle puttanate che ti girano in testa, ma a me non la fai mica!»
«Ah, beh, menomale che ci sei tu, allora»
«Basta, mi hai rotto il cazzo, io me ne vado» conclude, con un gesto secco della mano, poi, prima di mettere via il cellulare, lo guarda e sospira, accennando a un sorrisetto. Un grave passo falso da parte sua. Qui è dove do il meglio di me.
«Boh, Lori, io te lo ripeto: per me, hai perso la testa, sei cotto come una pera» commento, accendendo il motorino e infilandomi il casco per nascondere il sorrisetto che mi sta spuntando. È decisamente più forte di me, non riesco a trattenerlo.
«Ma stai zitto!» sbotta, tutto rosso. Sto volando, questo è definitivamente il momento migliore di tutta la settimana. Prendo il telefono dalla tasca, trovo Jaco vestito da Dio e roteo gli occhi al cielo, rispondendo con un pollice in su. «E tu smettila di essere geloso che Jacopo esce con la tipa» mi grida Lori, dalla sua belva.
«Schiantati» concludo, facendogli il terzo dito e partendo verso casa mia. Non capisco bene il motivo, ma Lori è stato molto più simpatico e accomodante del solito. Sarà l’amore, che ne so. A un tratto, mi sorpassa alla velocità della luce, facendomi un pelo e lanciandomi addosso tutto il polverone che quella sua ruotona tira su. Come non detto, sempre il solito problematico. Lo odio.

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Capitolo 12
*** Clown e Fanboy ***


12 – Clown e Fanboy

Trattengo uno sbuffo, perché non ne posso più.
«Se mi puoi dare anche una coca cola…» strilla la signora di fronte a me. «Sai, per la bambina…» aggiunge, indicando con gli occhi quella piccola seguace di Satana che si porta appresso.
«Nessun problema» rispondo, battendo sulla cassa e forzando i muscoli facciali a fare l’ennesimo sorriso mentre le passo lo scontrino. Nella prossima vita mi voglio svegliare minatore, nessun rapporto col pubblico.
«Per Renatino!» mi dice Eli, di sfuggita, piazzandomi in mano un piatto col cinghiale in umido. Abbasso lo sguardo, osservo con estrema compassione quel che rimane di quella povera bestia e faccio un flebile sospiro di commiato, prima di sgusciare davanti al bancone e raggiungere Renatino che sta avendo il time of his life stasera. Non si è alzato una volta, si è fatto servire e riverire, ha trangugiato tutto quello che gli veniva messo davanti e ha vinto una di quelle tv piccole da mettere in cucina nella mezza bisca clandestina che ha organizzato al suo tavolo.
«Oh, grazie, Gianni!» esclama non appena mi nota, agguanta il piatto e si avventa su una generosa forchettata appena presa. 
«Figurati» rispondo, il sorriso ormai fossilizzato.
Faccio per voltarmi e tornarmene al sicuro dietro la mia cassa, ma lui interrompe la mia fuga bofonchiando a bocca piena: «Menomale che ci siete voi giovani!». Sbarro gli occhi e obbligo il mio cervello a cancellare la scena del vecchietto panzone che si pulisce il baffo con uno sventurato tovagliolo di carta. «Se non le portate avanti voi le tradizioni…!» continua, tirandomi una bella manata unta sulla spalla. L’unica cosa di cui sono grato per stasera: la maglietta che indosso mi è stata fornita dalla pro loco e verrà incenerita nell’esatto momento in cui questa tortura troverà la sua naturale conclusione.
«Eh, già…» mi limito a soffiare.
«Sai, quando avevo la tua età avevo due passioni: le donne e le sagre. Me le facevo tutte!» esclama, fierissimo, scoppiando a ridere subito dopo. Aiuto, uccidetemi, adesso. «Eh, ma adesso non si fa più come una volta!»
«Direi…» provo a dire.
«Ormai siete tutti… liquidi». Oh, porco cazzo. Ritento una fuga, che fallisce miseramente col suo braccio attorno alle mie spalle e la sua manaccia ancora sulla mia maglia. Per favore, fammi andare via. «Ma fate bene, fate bene…! L’importante è divertirsi, dico bene?» domanda, allegro e probabilmente un po’ brillo. Non mi dà nemmeno il tempo di rispondere, che fa da solo: «Bravo, bravo, Gianni, dai, ti lascio che c’hai da fare!». 
Mi dileguo alla velocità del suono, tirando un sospiro di sollievo e asciugandomi la fronte da quello che spero sia il mio sudore e non quello di qualcun altro. Appena ritorno alla cassa, allungo un braccio verso la cucina e quasi immediatamente mi ritrovo la mano occupata da un bicchiere di vino rosso, a sto punto doveroso. Noto che di fianco al vassoio delle monete ce ne sono già tre vuoti, di bicchieri, ma faccio spallucce. Credo di essermeli meritati, no?
Mi prendo due secondi per sorseggiare il mio nettare degli Dei e faccio scorrere lo sguardo per tutta questa platea di gente. Sono venuti pure mamma e papà, chissà che perverso piacere avranno provato a farsi servire dalla propria prole. Poi assottiglio gli occhi e punto tutta la mia attenzione all’entrata, perché non riesco quasi a crederci. E, invece, eccoli lì. L’unica gioia della serata. La testa riccia di Francesco sta ridendo con Aurora, dietro di loro, con una faccia da omicida che sta premeditando un delitto, Lorenzo si strascina svogliatamente. E al suo fianco passeggia contenta Rebecca con un sorriso talmente bianco da essere accecante. Grazie mille, allineamento astrale, grazie ancora per aver reso possibile questo miracolo. Imbastisco il migliore dei sorrisi sarcastici e faccio “ciao, ciao” con la mano verso le mie persone –momentaneamente– preferite. Prima vengo notato da Fra e Auri, che subito cambiano la loro rotta nella mia direzione, ma solo quando il mio sguardo incrocia quello di Lori il mio sorriso si allarga ulteriormente. Mi scocca un’occhiataccia e rotea gli occhi al cielo e il mio godimento non fa che aumentare.
«Ciao!» esclama Auri, appena mi arrivano di fronte.
«Buonasera…!» rispondo, contento, poi mi rivolgo direttamente alla nuova arrivata. «Noi non ci conosciamo, piacere, Gianluca» mi presento raggiante, tendendo una mano verso di lei. 
Lei mi sorride di rimando e fa per dire qualcosa, ma il suo cavaliere sbuffa e la precede, brontolando: «Non toccarlo, che ti contagia. Bisogna stare lontani dagli animali selvatici»
«Dai, non essere antipatico!» ribatte lei, al che lui incassa ritrae ancora di più il collo. «Rebecca, piacere mio» mi dice, cordiale, stringendomi la mano. 
«Dov’è Eli?» chiede Fra.
«Eh, quest’anno l’hanno piazzata in cucina, se provo a chiamarla mi stacca la testa»
«Ah, vabbè, allora niente»
«Massì, tra un’oretta ci cacciano che la situa si stabilizza e rimangono gli altri, poi vi raggiungiamo» lo rassicuro, con un gesto della mano.
«Noi andiamo a cercare un posto, vuoi venire con noi? Così Lori prende da bere» propone Auri a Rebecca. Lei accetta di buon grado, allontanandosi con gli altri due e lasciando me e Lori soli. Appena mi assicuro che siano abbastanza lontani, scoppio a ridere perché mi sono trattenuto fin troppo.
«Cazzo ridi…» borbotta lui. Provo a smettere, ma è ancora presto, devo sfogarmi un altro po’. «Brutta faccia da culo, piantala. Fra e Auri ci hanno incastrato»
«Oh, Lori, davvero, non potevi farmi regalo più grande…» esalo, sventolandomi le mani sotto gli occhi per asciugarli. 
«Ammazzati»
«Potrei anche farlo, guarda»
«Eh, allora mettiti all’opera, testa di merda» continua, arrabbiato, prima che un colpo di tosse alle sue spalle lo faccia voltare.
«Volevo ordinare…» accenna Enzo, al che mi ricompongo un secondo e recupero un minimo di serietà.
«Certo, certo, dimmi tutto» rispondo, pronto con una nuova comanda. 
«Sì, dammi la grigliata mista… anzi fanne due, con quattro porzioni di patate… e fai pure due litri di rosso che quello scende bene» elenca, guardando il menù. Batto lo scontrino, lui mi allunga un paio di banconote e rifiuta il resto annuendo con la testa, l’espressione di chi si sente magnanimo. Vabbè, almeno due spicci di mancia. Lo ringrazio, infilandomi i soldi in tasca, gli passo lo scontrino e lo saluto.
«Apperò, il vecchio ci dà giù, eh» commenta Lori quando Enzo si volatilizza verso il punto di ritiro. 
«Bah, tutto quel colesterolo gli farà venire un infarto» borbotto, a bassa voce, scrollando le spalle. «Comunque, non sembra male, Rebecca.» gli dico, con un sorriso. Lo prendo spesso per il culo, la maggior parte delle volte se lo merita anche, ma so anche essere in grado di sostenere gli amici. «Se ti piace, tienitela stretta». Sospira e distoglie lo sguardo. Ovviamente, figuriamoci se è in grado di processare una quantità tale di sentimenti. 
«Grazie» sussurra, incassando per bene la testa tra le spalle. Lo lascio in pace, questa sarà una serata difficile per lui, non c’è bisogno di aumentare il carico emotivo. «E tu il tuo principe azzurro dove l’hai mollato?»
«Che principe azzurro?» chiedo, parecchio confuso.
«Ma come, pezzo di cretino? Jacopo, no?» risponde, come se mi avesse rivelato che l’acqua calda è effettivamente calda. Faccio una smorfia. Era da almeno un quarto d’ora che non ci pensavo ed eccolo che torna a occupare tutto il mio cervello, bestione che non è altro. 
«È da Quinto» mugugno. Se la starà spassando a mangiare roba degna di nota e a bere vino di un certo spessore, in attesa che la serata prenda una piega ben più positiva di una buona cena. Bastardo fortunato. E voleva anche che io credessi a quell’assurdità di lui omosessuale. Ma per piacere.
«E conclude secondo te?» continua Lori. Infierisce pure, l’infame. 
«Ovvio che conclude, ma l’hai visto?» ribatto, roteando gli occhi al cielo. Che serata di merda. 
«E che ne so, Gian, non è territorio di mia competenza.» mi risponde, facendo spallucce. «E comunque, se vuoi davvero convincermi che Jacopo non ti piace, fare sta scenata di gelosia da frocio isterico non porta acqua al tuo mulino»
«Non dovevi cambiare per Rebecca?» domando, un po’ offeso. Più dal fatto che ha parzialmente ragione, che dall’insulto. Non dovrebbe importarmene, dovrei al massimo essere felice per lui, che si trovi qualcuna, che occupi il suo tempo, che sia riuscito a sfuggire a questa violazione dei diritti umani. E invece, no. Invece vorrei che fosse qui a stracciarsi i coglioni, a mangiare il capriolo con ancora il proiettile nella carne e a sorbirsi tutte le domande di questa orda di vecchietti impiccioni. Vorrei che fosse qui con me. 
«A volte fa bene rispolverare le vecchie abitudini»
«Ordina da bere e vattene, prima che ti becchi un cazzotto» brontolo. Tutto il supporto che potevo dargli se l’è giocato. Ridacchia, ordina e cerca pure di scroccarmi i quattro bicchieri che sta prendendo. Quando se ne va, scolo quel che rimane del vino di prima. Perché almeno mentre lavoro, vorrei evitare di pensare a Jacopo. 
~
Che serata infernale. Che serata di merda. Voglio andare a casa e far finta che tutto questo non sia mai successo. Ho una fame che non ci vedo più, visto che le cose più vicine a un vegetale che la cucina abbia visto erano le patate fritte direttamente nello strutto, ho una corporatura troppo minuta e lo stomaco troppo vuoto per smaltire correttamente tutto il vino che ho bevuto, sono entrato in contatto con troppa gente e la maggior parte potrebbe benissimo finire nell’iperspazio che sarei solo contento, sono sudato marcio dalla testa ai piedi, la maglietta grondante di sudore, unto e altre schifezze varie –tra cui la cinquina rossa di Renatino– ed è tutta la sera che sto sound system di Cristo sta sparando a tutto volume i classici italiani e le mie orecchie ne hanno avuto abbastanza. In cima a tutta questa bella montagna di sterco fumante, il fatto che abbia passato tutta la cazzo di sera a pensare a quel coglione gigante non ha per niente aiutato. Insomma, sono devastato. Fisicamente, mentalmente, in qualunque modo. Voglio solo andare a dormire e resettare il tutto.
«Ah, che bello che lavorate assieme» dice Rebecca a me ed Eli. Lei sembra una persona normale, stranamente Lori ha avuto un minimo di buon gusto. Non le do l’attenzione che vorrei, troppo impegnato a reggermi una guancia con una mano e a guardare la chat di Jacopo sperando che risponda all’ultimo messaggio che gli ho mandato. Che ridicola ragazzina del cazzo. Ma posso mai fare così? Tra l’altro ho la piena consapevolezza che probabilmente starà scopando con la sua collega e io sarò proprio l’ultimo dei suoi pensieri in questo momento. Anzi, non ci sarò proprio nei suoi pensieri. La cosa mi distrugge, ho lo stomaco talmente inacidito che tra un po’ l’ulcera sarà d’obbligo. Giuro, sono sul punto di richiedere l’eutanasia.
«Gian stasera è in un altro posto…» accenna Lori, ridacchiando. «Nelle mutande della sua cotta». Sospiro, non ci credo. 
«Come, scusa!?» sbotta Fra ad occhi sbarrati.
«Massì, Fra, Jacopo, non lo vedi tutto sbrilluccicoso per lui?» gli risponde Lori, al posto mio. Questa frase non ha senso. Vabbè, faccia tutto lui comunque, io non ce la faccio.
«Ma sei una merda! Lo vai a dire a Lorenzo e non a me!?» mi aggredisce Eli, dandomi anche un pugno sulla spalla. 
«Io non ho detto proprio niente, è quello che si fa i viaggi mentali…» brontolo, massaggiando il punto colpito. 
«Seh, vabbè, Gian, continua a mentire a te stesso» mi liquida Lori, scuotendo la testa. 
«Minchia, lo sapevo. Lo sto dicendo da quando vi siete conosciuti, ti ho beccato subito. Quante ne so…» esala Eli, vittoriosa. «Auri, che ti avevo detto? Questo ci sta sotto peggio di un gatto investito»
«Wow, Gian, pensavo sarebbe passata un’altra era geologica prima di vederti di nuovo interessato a qualcuno…» asserisce Fra, decisamente incredulo.
«Raga, non è niente di serio…» provo a dire, in modo che l’argomento si sposti su qualunque altra che cosa non siano i miei fallimenti sentimentali.
«Ma vaffanculo…» ulula Lori.
«Cazzo di clown» mi dice Auri, guardandomi dritto negli occhi. 
«Solo un clown? Non hai capito, sto stupido è l’intero circo»
«Popi popi» aggiunge Eli. Roteo gli occhi al cielo e riappoggio la guancia sulla mano, sospirando nuovamente.
«E lui?» mi chiede Rebecca, che almeno non è una scimmia urlatrice come gli altri commensali a questo tavolo.
«Vabbè, lui è figo, niente da dire su questo» si intromette Eli, con un pollice in su di apprezzamento, mentre Auri passa il telefono a Rebecca, probabilmente per mostrarle una foto. La guardo scrutare attentamente lo schermo, poi penso che l’approvazione di una ragazza mezza sconosciuta non cambi la situazione tremenda in cui mi sono cacciato. 
«Tanto chi mi si incula» mormoro, scoraggiato. In tutti i sensi, ma evito di dirlo. Prendo un altro sorso di vino, tanto la serata è andata in vacca così. Stanco, depresso e anche un po’ sbronzo. 
«Ma lo sa che ti piace?»
«Ma figurati, manco morto che mi dichiaro, piuttosto mi impicco…» borbotto. «Tanto è etero, mo’ si mette a trombare con la sua collega e io rimango triste e solo come un cane come al solito, che gran novità…» continuo. C’è un momento di silenzio generale. Ci fosse stato Jaco, avrebbe sdrammatizzato con una battuta da asilo, oppure si sarebbe accollato come al solito. Quasi mi viene da piangere. Evito di mostrare le mie vulnerabilità in questo contesto totalmente sbagliato dando fondo al bicchiere e deglutendo il magone mischiato col rosso.
Incredibilmente, dopo un primo stupore, tutti provano a dire qualcosa di confortante. Persino Lori, che solitamente è il primo a buttarla in caciara, riesce a rimanere un minimo serio e questo è il segnale definitivo che ho toccato il fondo. Nonostante questo pantano di emozioni negative, però, tutto il vino in circolo mi fa sorgere un mezzo sorriso. Almeno ci stanno provando e non è che ci stiano proprio riuscendo, ma perlomeno non mi stanno prendendo in giro come fanno di solito. A volte li sottovaluto.
Dopo questo momento di totale depressione, riesco a spostare l’argomento su altro e di nuovo rimango solo coi miei pensieri. Beh, “solo” per modo di dire. Non ci posso credere. Ma veramente sono rimasto così sotto a Jacopo? Abbasso lo sguardo verso lo schermo del cellulare. Niente risposta, l’ultimo accesso due ore fa. Sospiro e mi mordicchio la guancia. E ora che faccio? Escludendo Vincenzo, non mi era mai essenzialmente capitato. E con Vincenzo è stato più semplice: siamo finiti su due galassie differenti, quindi dopo esserci rimasto di merda per i primi tempi, me ne sono fatto una ragione, ci ho messo una pietra sopra e sono andato avanti. Come potrei liberarmi di Jaco? Non sono nemmeno sicuro di esserne in grado. Già lui è una piovra di per sé, io non sono il tipo da fanculizzare le persone e, poi, mi piace. Aldilà del senso romantico della parola, mi piace stare con lui, passarci del tempo, cazzeggiare a casa sua. È una brava persona e privarmene solo perché mi son preso sta mezza sbandata sarebbe piuttosto stupido.
Sono ancora preso dalle mie paturne mentali quando alla mia destra sento un poderoso “gasp” e il gomito di Lori mi si pianta nel fianco, facendomi sobbalzare dalla sorpresa. Mi volto verso di lui di scatto, pronto a staccargli il braccio, ma lo vedo con gli occhi sbarrati farmi un cenno con la testa verso un punto della sala; seguo la direzione del suo sguardo e la mia mascella cede. Sbatto le palpebre un paio di volte per essere sicuro che l’alcol non mi faccia avere delle allucinazioni e chiudo la bocca, giusto perché la faccia da pesce non mi rende giustizia. Camminando verso di noi, Jacopo sorride tranquillo, per una volta mi ha ascoltato e non è andato nel ristorante più bello e costoso della zona vestito di merda, mettendosi una camicia bianca che ha pure infilato nei pantaloni neri, la cintura e le scarpe in pelle sempre nera, una mano è impegnata a tenere una busta di plastica, mentre l’altra rimane in tasca fino a che non mi vede e allora la alza per farmi un cenno veloce. Ma che cavolo ci fa qui?
«Ciao» mi dice, pacato, appena arriva esattamente alle spalle di Eli seduta di fronte a me.
«Hey» rispondo, piuttosto confuso, cercando di ignorare le cinque paia di occhi inquieti che ci stanno fissando. Complimenti per la discrezione, raga, non sforzatevi così tanto. 
«So che sono arrivato tardissimo, ho finito dieci minuti fa… e non ti ho neanche più risposto, mi è morto il telefono, scusami tanto…» spiega, con un’espressione colpevole. «Ti ho portato la cena, però!» esclama, poi, alzando la busta di plastica che teneva in mano.
«Come?» non riesco a fare a meno di chiedere, sbigottito. Sicuro sono svenuto e questo è un sogno alcolico.
«Sì, avevo visto il menù di stasera e so che molto probabilmente non avresti mangiato niente, ti ho preso una cosa» risponde, porgendomi la borsa. La prendo col cuore pronto a collassare, il cervello già morto. Lo sento salutare gli altri, mentre io continuo a fissare le vaschette di cartone brandizzate Quinto senza riuscire a partorire nemmeno un pensiero. «Arrivo subito, vado un secondo a prendere da bere» mi avverte. A queste parole, i miei neuroni –aiutati anche dal calcio allo stinco che mi tira Eli– rilasciano una scarica elettrica che un po’ mi sveglia e cerco di mettermi in piedi quasi ribaltandomi giù dalla panca.
«No, no…» mormoro, facendo il giro del tavolo e quasi cappottandomi quando arrivo di fronte a lui.
«Tutto ok?» chiede, con un’espressione divertita, tenendomi per un braccio. «Sembri ubriaco…»
«Lo sono» confermo. «Te ne prendo io, che vuoi? Vino va bene?»
«Ma figurati, vado io, tu sarai stanchissimo, tra un po’ manco stai in piedi…» ribatte.
«Non c’è problema, sul serio» lo interrompo, ridandogli la borsa. Quando mi incammino verso la cucina lui fa per seguirmi, al che lo guardo interrogativo. «Siediti…»
«Ti accompagno» risponde, appoggiandomi una mano sulla spalla. Stringo le labbra, mi impongo di non farmi domande e riprendo il mio percorso verso la cucina.
«Rosso o bianco?»
«Bianco, se riesci» dice, rimanendo appena fuori dal tendone quando io mi avventuro per prendergli questo bicchiere di vino. E anche una forchetta per me. 
Mi perdo un secondo perché mi suona il telefono, lo prendo, rispondo e sento un’adirata Elisa gridarmi: «Prova a tornare qui e ti ammazzo!»
«Eh?»
«No, vabbè, questo è rincoglionito…» brontola. «Andate fuori, non tornare qui in mezzo a noi, ma sei scemo!? State da soli!»
«Ah… ok…» esalo, non proprio convintissimo. Mi insulta di nuovo e mi sbatte il telefono in faccia, io prendo un respiro profondo, cerco di racimolare qualche punto di QI perso e torno da Jaco che mi aspetta con uno sguardo curioso. «Ti va se prendiamo una boccata d’aria?» provo a domandare, dandogli il bicchiere. Annuisce, con un sorrisone e mi segue mentre mi faccio strada per uscire da qui. 
L’aria fresca della sera mi dà una botta d’ossigeno e mi incammino verso i tavoli da picnic dei giardinetti comunali, mi siedo direttamente sul tavolo e appoggio i piedi sulla panca, perdendomi a osservarlo mentre mi passa il cibo e si accomoda di fianco a me. È vestito proprio bene stasera e sarà l’alcol o non so, ma riesco pure ad apprezzare il tocco tamarro della collanina d’oro che si è messo. E ridacchio ripensando a come sono conciato io. Il ricco e il povero, veramente.
«Lì dentro ci sono la quiche alle zucchine… un cannolo siciliano salato e le verdure al forno con… non ricordo cosa» mi spiega, grattandosi la testa.
«Va benissimo, grazie mille» rispondo, aprendo un cartone a caso. «Dimmi poi quanto ti devo…»
«Nulla, non ti preoccupare» ribatte, con un sorriso, mentre addento un pezzo di quiche. Temporeggio due secondi perché per le mie povere sinapsi queste tre informazioni sono il colpo di grazia finale. Cibo, sorriso e generosità, potrei morire adesso.
«Non mi freghi, so quanto costa la roba da Quinto, hai speso un’esagerazione»
«Gian, lascia stare, te le ho portate io queste cose, non me le hai mica chieste tu…» borbotta. 
«Grazie» sussurro.
«Non c’è problema» dice, poi si passa una mano nei capelli e piega la gamba per prendere la busta di tabacco dalla tasca. So che molto probabilmente la risposta che riceverò non mi piacerà, ma la curiosità è troppa, quindi rivolgo lo sguardo a un punto indefinito e mi faccio coraggio.
«Com’è andata?» 
«Bene, dai, ho preso un risotto veramente ottimo»
«E con la tua collega?»
«Ah, boh, niente, è simpatica, ma non è super sveglia. Possiamo essere amici, ma ovviamente non sono interessato a nient’altro» asserisce, scrollando le spalle e accendendo la sigaretta. Ah. Ok, non me l’aspettavo. Sospiro, con un macigno in meno sullo stomaco. Stupido ritardato geloso che non sono altro. Ormai mi sto rassegnando. L’unica cosa utile che hanno saputo fare quei fenomeni: aprirmi gli occhi.
«Poverina, però, avete avuto un appuntamento in un posto top e tu la smolli la prima volta che uscite»
«Che ci posso fare? Almeno sono stato subito onesto. E ti giuro che sono stato il più carino possibile». Non lo metto in dubbio, non sarebbe in grado di ferire nessuno, è troppo buono. «Poi mi sembrava di averti già detto che le donne non mi interessano e che mi piacciono i ragazzi, come potevi pensare che potesse piacermi…?»
«Tu la devi piantare con sta storia» brontolo. Sono troppo stanco e scombussolato per pensare anche a questa pagliacciata. 
Ridacchia e mi mette una mano sulla testa. «E a te com’è andata la serata?» domanda, dandomi una carezza sui capelli.
«Oh, guarda…» inizio. «Una merda. Sono cotto, sudato, unto, faccio schifo, odio tutti e se non fosse per te e le cose che mi hai portato, starei morendo di fame e, come hai notato, sono anche piuttosto ubriaco dato che ho passato tutta la sera a bere.»
«Un successone, quindi…» mi provoca, con un sorrisetto di scherno, poi mi passa il braccio attorno alle spalle e sfrega la mano sul mio bicipite. 
«Non prendi sul serio le mie parole. Faccio cagare e la maglietta pure peggio, non mi toccherei fossi in te»
«Che esagerato che sei, non fai cagare, dai» mi rimbrotta, stringendomi ancora di più. 
«Hai la camicia più bella del tuo armadio, non rovinarla così»
«Non rompere, Gian, che mi importa della camicia? Voglio solo abbracciarti. Tu piuttosto dovresti ringraziarmi per il supporto morale»
«Non ne ho bisogno» brontolo.
«Hai passato una pessima serata, certo che ne hai bisogno». Sbuffo e continuo ad abbuffarmi, perché, tra tutte le cose su cui potrei concentrarmi, decido di farlo sul cibo che mi sembra l’alternativa più sicura.
Appena ripulisco anche l’ultimo piatto, tiro un sospiro di soddisfazione e mi do una pacca sullo stomaco. 
«Va meglio?» mi chiede, guardandomi comprensivo. Annuisco, contento, mentre sento salire il sonno. 
«Madonna, sono distrutto» mugugno, chiudendo gli occhi per un secondo. 
«Purtroppo non ho un cuscino dietro»
«Peccato…» rispondo. Quasi d’istinto e senza alcun ragionamento logico, inclino la testa e appoggio la guancia sulla sua spalla, sentendo il tessuto liscio della camicia contro il viso, il suo profumo nelle narici e il suo pollice iniziare ad accarezzarmi il braccio. 
«Sono comodo?» mi chiede, poi, ridacchiando.
«Meglio di niente» rantolo. «Se ti do fastidio mi levo, eh»
«Stai, stai…» ribatte, facendo una mezza culata verso di me. Rimango immobile per un po’, rimuginando meglio sul fatto che non è stata la migliore delle idee appiccicarmi a lui visto che mi prenderò una cartellata in faccia di proporzioni epiche, però ormai son qui e più passa il tempo, più sembrerà stupido togliersi.
Una delle cento canzoni di Vasco Rossi che ho sentito stasera giunge al termine e, dopo due secondi di dissolvenza, sento partire “Come mai” di Max Pezzali.
«Uh, bella questa!» esclama Jaco, elettrizzato.
«No, dai, Jaco, non gli 883»
«Non mi toccare Max Pezzali, guai a te» ribatte, mettendosi poi a cantare.
«Non ho parole» commento, scuotendo la testa. In tutta risposta, lui inizia a ciondolare a destra e a sinistra seguendo il ritmo della canzone, senza sbagliare una sola parola del testo. Madonna, che fanboy.
La canta tutta, continuando a dondolarci, mentre io rido tutto il tempo, perché mi fa sbragare. Non ci credo che mi sto innamorando di un cretino del genere. 
«Sei veramente ridicolo» borbotto a una certa. 
Non mi risponde, ma si volta verso di me, mi prende le guance tra le mani e porta il viso a un soffio dal mio, facendomi prendere un colpo, tra l’altro. E guardandomi dritto negli occhi, strilla l’ultimo ritornello: «Dimmi come mai, ma chi sarai per fare questo a me? Notti intere ad aspettarti, ad aspettare te… Dimmi come mai, ma chi sarai per farmi stare qui? Qui seduto in una stanza, pregando per un sì…». Quando durante la parte strumentale mi scuote la testa avanti e indietro, io rido ancora. Chi se lo sarebbe mai aspettato che mi sarei rispecchiato così tanto in una canzone di Max Pezzali.

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Capitolo 13
*** Guardare un fiume su una sedia da regista ***


13 – Guardare un fiume su una sedia da regista

Apro gli occhi svogliato, alzo la testa con molta più fatica di quanta pensassi, ma in un secondo la faccio ricadere sul cuscino. Non ho idea di che ore siano, ma è troppo presto. Per tutto.
Alla fine, ieri sera mi ha portato a casa Jaco, mi sono immediatamente fatto una doccia perché non ne potevo più di avere la puzza di grigliata addosso, poi mi son buttato nel letto sperando di dormire e basta. Ovviamente non è successo, perché figuriamoci. Mi son girato e rigirato tra le lenzuola, tutto il tempo con un unico pallino fisso in testa. Non mi devo ossessionare, se no è la fine. Avevi detto la stessa identica cosa sul non farsi piacere Jacopo, Gianluca, il piano non sembra aver funzionato. Ancora mi sembra incredibile. Esattamente, com’è successo? Ma che ne so, non ho nemmeno la voglia di stare a pensarci. In un punto indefinito di stanotte, però, ho avuto un momento di onestà intellettuale tale da ammettere che era da un po’ troppo che mi crogiolavo in questo pantano di Jacopo senza effettivamente prendere la situazione seriamente e analizzarla con un minimo di spirito critico. Tra la mia scarsa educazione affettiva e la paura di affrontare la realtà dei fatti, ho rimandato questo auto-coming out per troppo tempo. Chiudo gli occhi, provo a liberare la mente, a pensare a qualsiasi cosa che non sia Jaco, ma fallisco miseramente. Sono totalmente in subbuglio tra questa specie di euforia da mezzo innamorato, l’ansia di non riuscire a mascherare i miei sentimenti abbastanza bene –perché l’ha capito Lori e se l’ha fatto lui, lo può fare veramente chiunque– e un miscuglio di disperazione e rassegnazione perché sicuramente quell’armadio non ricambierà mai.
Poi, un piccolo colpo allo stipite. Senza che possa nemmeno avere il tempo di resettare il cervello e pensare alla parola “avanti”, la porta si apre e papà si schiarisce la voce. Il padre di Timmy Turner ha fatto scuola. “Rispetto la tua privacy e per questo busso, ma facendo valere la mia autorità di padre entro lo stesso”.
«Ciao, Gianlu. Mamma e Cla sono andate al mercato, io vado al fiume, ci vediamo dopo, ok?» mi dice. Sospiro, mi rotolo tra le lenzuola e lo guardo, dalla porta sbuca solo la sua testa addobbata ad hoc col suo cappellino da Sampei. Poi penso alla mattina tremenda che mi aspetta e richiudo un attimo gli occhi. Cosa mi tocca fare.
«Vengo con te» grugnisco, tirandomi in piedi e passandomi una mano sulla faccia. Mi incammino verso il bagno, papà che mi guarda allucinato.
«Gianlu, vado a pescare…» prova a spiegare.
«Lo so» asserisco, secco, chiudendomi al cesso. 
«Non vieni mai a pesca…» continua lui da dietro il vetro smerigliato della porta. Sbuffo, manco pisciare in santa pace.
«Oh, lo so bene, odio con tutto il mio cuore qualsiasi cosa abbia anche solo a che fare con la pesca» confermo, tirando l’acqua per poi lavarmi le mani. Mi lavo velocemente anche i denti e la faccia, giusto per levarmi il gusto di mattino dalla bocca e per non sembrare uno zombie appena contagiato e mi do una pettinata veloce. Quando esco dal bagno, mi ritrovo davanti al genitore che continua a osservarmi un po’ stralunato. La smetta di fissarmi, sono in mutande e mi sento leggermente a disagio. Sospiro ancora e torno in camera, recuperando le prime due cose da vestire che mi vengono in mano. Ok, no, non mi metterò dei pantaloni marroni con una maglia nera. Disperato sì, con cattivo gusto ancora no. Raccatto un paio di jeans, mi vesto alla veloce, afferro il telefono e torno da papà che è rimasto in corridoio. «Andiamo?» domando, impaziente.
«Tutto ok?» ribatte lui, guardandomi preoccupato.
«Ovviamente no, guarda come sono finito, sto venendo a pescare con te» rispondo, piccato, voltandomi verso le scale. Due cose che non riesco a sopportare: mio padre e la pesca, ma veramente devo ridurmi così per riuscire a non pensare a Jacopo? Mi infilo le scarpe e prendo le sedie da regista e il cassone, andando a caricare tutto in macchina. Papà incastra il resto nel bagagliaio, chiudendo il portellone, mentre io salgo in auto, chiudo la portiera con un po’ troppa forza e mi metto la cintura, per poi raccogliere le braccia al petto con stizza. 
«Ne vuoi parlare?»
«Non esiste proprio» concludo, fissando in cagnesco il muro del garage davanti a me. Sento il suo sguardo addosso per altri due secondi, poi un flebile sospiro e il motore che si accende. 
Partiamo alla volta del solito punto da vent’anni a questa parte, recuperiamo tutto dal portabagagli e appena arriviamo sulla riva del fiume, mi pento della mia sconsiderata scelta. Certi traumi devono essere lasciati sopiti a marcire nel profondo, non essere riportati a galla dopo praticamente dieci anni.
Seguo papà mentre cerca una zona che gli piaccia abbastanza e quando si accampa quasi coi piedi a bagno, prendo la mia sedia e mi metto abbastanza lontano da non assistere a scene di violenza gratuita. Mi metto a guardare l’acqua relativamente limpida scorrere e caccio un mugolio di sconforto quando mi rendo conto che tutto questo non ha funzionato. Non è possibile, io non ce la faccio. Jaco adorerebbe questo posto, adora qualsiasi luogo che non sia “grande metropoli del nord Italia”. Io gli chiederei se a Colonia ci sia un fiume tipo questo, lui mi risponderebbe che una volta a sei anni ha fatto un’escursione da quattro ore con i suoi genitori per andare sulle rive di un ruscello ameno dai colori super saturati a cinquemila metri d’altezza, poi direbbe sicuramente che mi sarebbe piaciuto. Forse chiederebbe pure a papà di insegnargli perlomeno a lanciare la lenza, per poi ricordarsi di me, appiccicarsi e parlarmi per tutto il giorno. 
Papà, che sta annodando l’amo, tira su la testa e mi fissa, un po’ sconvolto. Siamo letteralmente appena arrivati e io voglio già tornare a casa. Non voglio pescare, non voglio passare del tempo con papà e non voglio pensare a Jaco. E invece sto facendo tutte e tre le cose. 
«Gianlu, sei proprio sicuro di non volerne parlare?»
«Sì…» rantolo, poi striscio sulla sedia e sospiro col naso, le labbra strette in un’espressione scoraggiata. Rimango a osservare l’acqua, tanto non ho niente di meglio da fare. Sì, questo posto lo farebbe impazzire. Sicuramente vorrebbe venire qui a fare un picnic o simili. Magari sarebbe anche così pazzo da farsi il bagno. Forse ce lo potrei portare, sarebbe una cosa carina. Per sabato prossimo glielo chiedo. 
Prendo il cellulare, noto un paio di notifiche di whatsapp, ma le evito come la peste. Non voglio parlare con nessuno. Non posso passare tutto il giorno a guardare un fiume che scorre, però.
~
Dopo aver fatto una mezza passeggiata per sgranchirmi le gambe e liberare un minimo il cervello, torno al campo base e trovo papà tirare fuori le cose da pranzo. Effettivamente ho un po’ fame. Non ho nemmeno fatto colazione.
«Ti stavo per chiamare» mi dice, alzando la borsa con le focacce. «Vuoi mangiare?». Annuisco e torno sulla mia sedia.
«Vieni tu qua, che non ho voglia di vedere i pesci morti» brontolo. 
«Sono solo pesci…» ribatte, prendendo la sua sedia e raggiungendomi.
«Infatti, il problema non sono i pesci, il problema è l’aggettivo “morti”». Scuote la testa e mi passa uno dei due cartocci. Lo scarto e do un primo morso, godendomi l’olio e il sale della focaccia. Restiamo un po’ in silenzio, al solito il dialogo non è la nostra attività preferita. «Papà» lo chiamo, poi.
«Mh…»
«Tu…» inizio, ma mi pento subito. «…no, niente, lascia stare…». Non è una buona idea. Anzi, ora che ci penso, è proprio pessima.
«No, dai, dimmi» mi sprona, mettendosi a posto gli occhiali. Ecco. Ecco l’ennesimo casino in cui mi sono cacciato. Ma non posso mai stare zitto? Non so, tipo cucirmi la bocca, tagliarmi le corde vocali, perdere la parte del cervello responsabile della parola, qualcosa di simile.
Sospiro e arriccio le labbra in una smorfia infastidita dalla mia stessa stupidità. Poi mi rassegno, ormai la bomba l’ho lanciata, non posso che prendermi le mie responsabilità. «…Prima… boh, tipo prima che vi metteste insieme, mamma ti piaceva, no?» chiedo. 
Fa una faccia stranissima e sbatte un paio di volte le palpebre. «Mamma mi piace ancora, come il primo giorno.» risponde, infine. Lo guardo, a disagio e onestamente anche un po’ schifato. Non voglio sapere di adesso, è un grosso tabù nella mia testa. Se si parla dei Michele ed Emanuela di trent’anni fa, posso almeno raccontarmi la balla che non sono le stesse persone.
«Vabbè, comunque…» continuo, sventolando una mano. «…come hai fatto a capire… che lei ricambiava?»
«Beh… non è che proprio l’avessi capito… a una certa mi sono fatto avanti e basta, è andata bene, quindi ho sempre supposto che ricambiasse»
«E se avessi saputo che c’erano… non so, il novanta per cento delle probabilità che tu non le piacessi, ti saresti fatto avanti lo stesso?»
«Forse… o forse no… Non lo so, Gianlu, non mi sono mai posto il problema, sinceramente…» esala, sbuffando una risata, poi mette su un’espressione pensierosa e si gratta il mento. «Perché?» domanda, indagatore. «Ti piace una ragazza?». Eccoci qui.
«Litighiamo tutte le sante mattine sullo stesso identico argomento da non so quanti anni, ti pare mai che possa piacermi una ragazza?». Ok, potevo semplicemente dire di no e troncare l’argomento, invece il subconscio mi ha fatto sputare tutto sto martirio. 
«Ah…» soffia. «Beh… allora… ti piace un ragazzo, forse?». Non rispondo e do un morso alla focaccia. Non voglio dirlo a lui, non ne ho proprio voglia. Già non volevo ammetterlo a me stesso, Lori ed Eli ci sono arrivati da soli, quindi non sono nemmeno riuscito a nasconderlo come si deve, figuriamoci dirlo a mamma e papà. Vorrei completamente tagliarli fuori da questo disastro, che tanto io mi prenderò un grosso rifiuto e loro non farebbero che rompermi i coglioni. Lui, però, continua a scrutarmi curioso, al che sospiro e, distogliendo lo sguardo, faccio un minuscolo cenno di assenso, perché non so più a cosa appigliarmi. Non dice niente, non si muove nemmeno, adesso ho leggermente paura che gli stia per venire un ictus, oppure che stia inventando nuovi sinonimi per “frocio maledetto”. «E chi è?» chiede, invece.
«Non lo vengo di sicuro a dire a te» 
«È Lorenzo?» insiste.
«Ma no che non è Lorenzo, papà, ma figurati, quando mai!» sbotto, con gli occhi sbarrati. Sia mai che pensi che mi piaccia Lori. Anche peggio dell’opzione “ragazza”. Lo vedo aspettare una risposta e roteo gli occhi al cielo. «È inutile che aspetti, non te lo dico. E nemmeno lo conosci, tra l’altro…» borbotto. 
«Guarda che non mi arrabbio…»
«Puoi fare quello che vuoi, non mi interessa, non te lo dico comunque»
«Mamma lo sa?»
«No, che mamma non lo sa. E neanche Cla, se ti interessa saperlo». 
Sbuffa, si toglie il cappello e si mette di nuovo a posto gli occhiali. Io finisco il mio lauto pasto e mi metto più comodo sulla sedia, lanciandogli un’occhiatina. Prende il thermos e le due tazze da campeggio, versa un po’ di caffè in entrambe e me ne passa una. Però l’ha gestita abbastanza bene, questa cosa di Jaco o meglio, questa cosa di me preso da qualcuno, pensavo che sarebbe sclerato. Dopo tutti questi anni mi sta venendo da pensare che forse più che omofobo in senso stretto, lui sia solo un grande ipocrita. Non gli dà fastidio che suo figlio sia gay, gli dà fastidio che si veda. E in un certo senso, è pure comprensibile: sono più di cinquant’anni che vive in questo posto che è la patria del machismo performativo, il luogo perfetto per farsi denigrare se non ti attieni alla lettera ai rigidi schemi e regole che vedono “maschio” e “femmina” come due scatole distinte e indeformabili, ognuna con le proprie caratteristiche imprescindibili. Questo non lo assolve, neanche per sbaglio proprio, e di sicuro non smetterò di fare tutto quello che faccio solo per avere un rapporto pacifico con lui, ma almeno è riuscito a non peggiorare questa giornata già pessima di per sé.
«Gli piace pescare?»
«Non…!» lo avverto, con un dito alzato. «Non pesca e per nessun motivo al mondo capiterà che venga a pescare con te!»
«Sto solo chiedendo» si difende, con le mani alzate. 
«Non chiedere, papà, fatti i fatti tuoi»
«E quanti anni ha?»
«Papà…» bofonchio.
«Beh, questa è una domanda legittima, non voglio che finisci con un vecchio»
«Non è un vecchio, non ti preoccupare…»
«Eh, dimmi una cifra più precisa»
«Il massimo che posso offrirti è un range»
«Di due anni»
«Dieci»
«Non più di tre»
«Senti, tanto vale che te lo dico, no?»
«E allora dimmelo»
«Oh, Madonna, ne ha ventotto, sei contento?»
«Scusa, che ventottenni conosci?»
«Ma insomma!» sbotto. Non reagisce, continua a sorseggiare il caffè e a pensare. 
«Che tipo è?» chiede, ancora. Gesù, ecco perché non dovevo dire niente, mannaggia a me e alla mia testa bacata. Roteo gli occhi al cielo e faccio finta di ignorarlo nascondendo la faccia nella tazza. «Senti, Gianlu, sai bene come la penso e, anche se io le cose continuo a dirle, mi sono rassegnato e ho capito che fai lo stesso come ti pare. Quindi… se proprio devi stare con un ragazzo… a sto punto uomo dati i ventott’anni, mi sento almeno in diritto di sapere che tipo è. Voglio che sia un bravo ragazzo, uno con la testa sulle spalle, una persona che ti rispetti, non voglio che ti tratti male o che sia uno sbandato fannullone, ok?» mi dice, serio, ma allo stesso tempo incredibilmente pacato.
Sbatto le palpebre, completamente sbigottito. Questo non è mio padre, questo è un robot con le sue sembianze, per forza. Lo noto pretendere una risposta in modo piuttosto evidente e visto questo mezzo sclero, sento che se l’è meritata. «Massì che è un bravo ragazzo… lavora, ha una casa, una macchina… insomma, uno normale. E non mi tratta male, anzi, tutto il contrario. E non è che ti devi proprio preoccupare, tanto non ci mettiamo insieme. I sentimenti sono a senso unico.» mugugno, evitando di dare troppi dettagli. Tutti sanno tutto e lui è l’unico cazzo di dentista in questo paese, ci mette due secondi a fare un paio di domande in giro e a risalire a Jaco. E visti l’avanzamento inesorabile della sua età e il suo sistema mentale rimasto probabilmente ai sumeri, ci manca solo che vada da lui a minacciarlo di non prendere il fiore di suo figlio prima del matrimonio. Anzi, di non prenderlo proprio, il fiore di suo figlio, che è peccato.
«Lui è…? A lui…?» balbetta, in difficoltà.
«A lui piacciono le donne» rispondo, con tanto di broncio scocciato. Stupidi eterosessuali. Stupido Jacopo. Stupido me. Anche stupido papà. Basta, ce l’ho col mondo, ho deciso. 
«È per questo che sei venuto con me oggi?» propone.
Annuisco, sospirando. «Volevo distrarmi un po’»
«Ci sei riuscito?» continua, provando a darmi una mezza pacca impedita sul braccio. Sorvolando sul contatto fisico, credo di non vedergli quest’espressione comprensiva in faccia da quando avevo quattordici anni e sono volato dal motorino per la prima volta. Pensa te se dovevo rimanere sotto a quel colosso di Jacopo per far provare a mio padre un po’ di compassione nei miei confronti. Sarà che le pene d’amore sono uguali per tutti.
«Manco per il cazzo» brontolo.
«Provaci, a prendere qualcosa, magari aiuta un po’»
«Certo che aiuterebbe, sforzarsi di non vomitare occupa tanta materia cerebrale, ma non esiste proprio che le mie mani uccidano un altro essere vivente»
«La fai molto più grande di quella che è»
«Sai bene che mi piace esagerare» lo provoco, con una smorfia.
«Lo vuoi un consiglio?» chiede, un po’ titubante.
«Dipende dal consiglio…»
«Se… beh, se ti piace tanto, provaci lo stesso… io con mamma ho fatto così, mi sono… un po’ buttato.»
«Sì, ma capisci che le probabilità di prenderti un palo in faccia erano leggermente diverse dalle mie?»
«Se non provi, non saprai mai se ti prenderai un palo in faccia oppure no…»
«Vorrei tanto evitarlo…»
«A volte capita… Te l’ho raccontata la storia di Marinella?»
«, papà, me l’hai raccontata la storia di Marinella. L’hai raccontata mille volte. L’hai usata anche come esempio quando Cla si era lasciata con Leonardo.» esalo, chiudendo gli occhi.
«E chi si ricorda cosa racconto e cosa no, Gianlu, mica mi segno tutte le conversazioni che abbiamo…» borbotta, indisposto, poi rimane un po’ fermo a guardarmi. «Non me lo vuoi proprio dire chi è, vero?»
«Scordatelo» rispondo, secco. «Guarda, non succede di sicuro, ma se succede che le cose si evolvono tra di noi, sarai il primo tra te, mamma e Clara a saperlo, ti va bene?»
«Se le cose si evolvono, io e mamma saremmo contenti di conoscerlo»
«Sì, vabbè, non ti allargare, ho già detto che te lo dico, accontentati». Annuisce, cerca di abbozzare un sorriso e tenta di nuovo di farmi quella roba spastica sul braccio. «Non ti sforzare, non ti vengono bene queste cose, mi accontento se eviti di gridarmi contro che sono un deviato maniaco» gli dico, allontanandomi dalla sua mano. Proprio il bare minimum
Lui scuote la testa borbottando un “esageri sempre”, io finisco il caffè, prendo il telefono e noto un messaggio di Jaco. Ok, forse l’ho ignorato abbastanza per oggi, non mi sono più fatto sentire. Sono anche leggermente più tranquillo rispetto a due ore fa, quando ero pronto a buttarmi nel fiume con un blocco di cemento ai piedi. Sblocco il cellulare e apro whatsapp.
Non ci credo che stai ancora dormendo
No, no, scusa, è che ero un po’ impegnato” gli rispondo, poi gli mando una foto del fiume. “Sono con mio padre
Sei andato a pesca?
Cause di forza maggiore, non commentiamo”. Mi manda uno sticker di uno che simula di bere candeggina, io ridacchio e guardo di nuovo il fiume. “Sabato prossimo ti va di venire qui con me? Sappi però che non accetto né vermi, né canne o mulinelli.
Uh, sì, facciamo un picnic!”. Roteo gli occhi al cielo, odio il fatto di essere riuscito a prevedere così facilmente quale sarebbe stata la sua reazione, ma mi spunta un sorriso a immaginarlo tutto contento che guarda ovunque, estasiato come se non avesse mai visto un fiume in vita sua. 

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Capitolo 14
*** Piano D ***


14 – Piano D

Il piano A era non farsi piacere Jacopo, il piano B era non ossessionarsi. Ora siamo al piano C: non nutrire troppe speranze. E vista la velocità con cui si evolvono le cose, devo iniziare a studiare il cirillico, o il greco, molto presto avrò bisogno di un nuovo alfabeto.
Al dosso, le due birre che ho infilato nello zaino sbattono e fanno un rumore che non apprezzo tantissimo. Le avevo posizionate bene, ma che cavolo. Tocco la base dello zaino per assicurarmi che non siano esplose e trovandola asciutta faccio un sospiro di sollievo. 
Non faccio in tempo ad accostare davanti a casa di questo stupido che si apre il cancello e dalla porta esce lui con un sorrisone. Voglio morire, per favore, qualcuno ponga fine alle mie sofferenze.
«Ciao, Gian! Ho fatto i panini!» esclama esaltato. Questa è stata una mia idea, non posso nemmeno incolpare lui. Devo definitivamente imparare a farmi i cazzi miei.
«Buongiorno» gli rispondo, facendo un sorriso non proprio convinto e spegnendo il motorino. Lo metto in modo che abbia spazio da uscire con l’auto, poi mi tolgo il casco e appoggio lo zaino a terra, aprendo la zip.
«Che hai messo lì dentro?» mi chiede, sporgendo la testa verso di me.
«Il telo, due birre… l’acqua, poi mia madre ha fatto una torta, ne ho prese due fette, è una roba con la frutta secca… e Uno, sia mai che l’aria fresca riesca a farmi vincere»
«Sei troppo scarso, Gian, le perdi tutte, è inutile che continui a provarci» mi provoca, dandomi il sacchetto coi panini.
«Come li hai fatti?» domando, ignorando gli insulti alle mie tecniche di gioco.
«Pomodoro, mozzarella e insalata.»
«Buoni» commento, richiudendo lo zaino e rimettendomelo sulle spalle. Lo vedo guardare con insistenza lo scooter e mi volto per vedere se c’è qualcosa che non va. «È tutto a posto?»
«No, sì, sì… pensavo… magari possiamo andare con quello…» mormora.
«Eh?»
«Sì… ecco…»
«Devo ricordarti tutti i versi che hai fatto l’ultima volta che ti ci ho portato?»
«Voglio affrontare le mie paure»
«Ne sei proprio sicuro?» chiedo, ancora. Annuisce, ma ha la faccia un po’ pallida. «Non ti vedo convinto»
«E più il tempo passa, meno lo sono, dammi qui…» brontola, prendendo il casco appeso al manubrio.
«Oh, aspetta, giù le zampe, quello è il mio» lo fermo, riappropriandomi delle mie cose. Sbuffo, tiro su la sella e recupero l’altro, per poi darglielo insieme allo zaino. «Questo te lo devi tenere tu, però». Ma guarda tu se proprio oggi gli doveva venire in mente di voler andare al fiume sul mio povero scooter. Infilo la chiave nell’accensione, poi mi giro a guardare Jaco, trovandolo di nuovo in difficoltà con la chiusura del casco. «Tu devi imparare ad allacciarti sto casco, altrimenti te lo tiro in testa» mugugno, tirandogli uno schiaffetto sul dorso della mano e chiudendo il gancetto.
«Guarda che è difficile!»
«Ma che difficile!» ribatto, scuotendo la testa. Ritorno in strada e lui mi segue, svelto, facendo chiudere il cancello alle sue spalle. «Al primo lamento ti lancio per terra» lo minaccio, accendendo il motore.
«Tu non fare cose pazze»
«Ti eri lamentato anche sul dritto»
«Sul dritto non mi lamento, prometto» annuncia, solenne. Roteo gli occhi al cielo, palese alla prima buca che prendo inizia a piagnucolare. Sale dietro di me, almeno stavolta non è tutto impacciato e riesce a non sbilanciarmi tutto. Gli sbilanciamenti sono da tutt’altra parte, visto che la sua mole lo fa stare attaccato a me. Dovevamo andare in macchina. 
Per i primi cinque minuti riesce a star bravo e a lasciarmi in pace, ma appena una Cinquecento ci supera facendoci un pelo, lo sento irrigidirsi, iniziare un mugolio e, poi, bloccarlo quasi subito. Sbuffo. Dovevamo andare in macchina.
«Ma come fa a farti così paura?» domando, sincero. Non capisco se è lui a fare il drammatico esagerato, o sono io a essere abituato e questa carretta a essere una trappola della morte.
«Vai veloce, le curve sono strane e non ho mille chili di ferraglia a proteggermi in caso di incidente!» esclama, sussultando a un pendio totalmente ininfluente e arpionandomi i fianchi. Ok, è lui che fa il melodrammatico. Deglutisco, mi impongo di fare respiri regolari e do un’occhiata alle sue mani che stringono la mia maglietta. Lui ha paura, sta facendo così solo perché ha paura, non ci sono altri motivi. Ricordarsi il piano C. 
Appena ritorniamo sul piano, dritto e senza traffico, lo sento tirare un sospiro di sollievo, poi mi abbraccia da dietro e appoggia il mento sulla mia spalla, mentre dallo stringere nevroticamente i miei fianchi, le sue mani si vanno a incrociare sulla mia pancia. Sbarro per un secondo gli occhi, trattengo il respiro e serro le labbra in una linea sottile, abbassando lo sguardo quel che basta per vedere le sue dita appena sopra il bordo dei miei jeans. Oh, sì, devo imparare anche l’ebraico. 
«Quante volte ti devo ripetere che ci sono le maniglie?» chiedo retorico, sforzandomi di fare lo scocciato. 
«Quando acceleri mi sembra di volare via» ribatte.
«Non puoi volare via, pesi due quintali!»
«Eh beh? Ti dà fastidio?» incalza, sarcastico. Scuoto la testa e non rispondo. Ho finito le cose con cui controbattere. Anche perché devo impegnare tutto il mio cervello a grattarmi il naso quando lui mi tira ancora di più verso di sé. Inutile, non ce la faccio, non riesco fisicamente a concentrarmi su altro che non siano le sue cosce contro le mie e il suo petto incollato alla mia schiena e mi tocca pure ringraziare che le sue mani non siano sul mio torace perché altrimenti sentirebbe il mio cuore pronto ad esplodere. E non aiuta per niente pensare che in questa posizione –ovviamente non sulla vespa– mi ci farei pure scopare. Lo stomaco gorgoglia. E non dalla fame. Dovevamo andare in macchina. 
Al bivio verso il fiume, mi rilasso un attimo. È quasi finita. Faccio gli ultimi cento metri a manetta, rallento solo quando inizia il pezzo di ghiaia, giusto perché non voglio volare per terra. Quando mi fermo definitivamente e lui mi libera dal giogo che è, il mio cuore riprende a battere, spengo il motorino, tiro un sospiro di sollievo e mi metto in piedi.
«Che avventura…» esalo, togliendomi il casco. Già, che avventura.
«Fermo lì» mi intima, avvicinandosi. Mi dà una sistemata ai capelli, delicato, mettendomi una ciocca dietro l’orecchio, per poi sorridere soddisfatto della sua opera. Forse lo sto guardando un po’ troppo attonito, perché ridacchia e mi dice: «Ti dà fastidio quando sono in disordine»
«Grazie» borbotto, distogliendo lo sguardo.
«Non c’è di che»
«Al ritorno rifacciamo la scena di Titanic» lo avverto.
«No, Gian!» esclama, diventando cadaverico. Ridacchio. Se lo meriterebbe. «Non è giusto torturarmi…»
«Sei stato tu a voler venire con il motorino, mica io» preciso, incamminandomi verso il prato. Mi segue, senza ribattere e io mi godo questa minuscola vittoria. È stata una sconfitta su tutti gli altri fronti, ma vabbè. 
In un attimo, mi ritrovo di nuovo sulla sponda di sto maledetto fiumiciattolo, ma almeno, anche se non capisco bene perché, il sabato non è così frequentato come la domenica. Ci dirigiamo verso un posto più appartato, il raziocinio prova a mandarmi un segnale che forse in mezzo alla gente Jaco potrebbe trattenersi dal toccarmi continuamente, ma lo metto subito a tacere. Di stare in mezzo a gente che pesca, bestemmia, beve e rutta tutto il tempo non ne ho voglia. 
Appena troviamo un posto che aggrada a entrambi, posa lo zaino, lo apre e tira fuori il telo azzurro, per poi aprirlo sull’erba. Ci appoggia sopra il resto della roba e ci si siede, prendendo un sorso d’acqua. Ok, ora che vedo la visione d’insieme, è una scena super gay. No. No, basta, Jacopo non è gay, Jacopo non è eterosessuale, è solo un ammasso di cellule asessuato. Non ha pulsioni sessuali, né desideri, né modi per soddisfarli.
Mi siedo anch’io, cercando di mantenere un minimo di calma e lo osservo mettersi a gambe incrociate. Addosso non ha niente di che, una maglietta tinta unita e un paio di jeans, insomma proprio nulla di speciale, non sta facendo altro che stare seduto e guardarsi intorno, eppure il filtro che ho sugli occhi lo rende esageratamente attraente. Giuro, vorrei che per una volta diventasse un cavernicolo e facesse qualcosa di estremamente cafone che mi facesse scendere gli ormoni una volta per tutte, invece è sempre così composto e per certi versi… aggraziato. Anche quando scherza, quando fa il cretino, non è mai troppo scurrile o rozzo o non lo so. Forse sono io che non lo vedo. Ma, davvero, riesce a essere troppo carino anche mentre sbarra gli occhi e si lancia all’indietro quando un’ape gli passa appena vicino al viso. 
«Grande e grosso e ti fai spaventare da un’apina» commento, ridacchiando. Mi fa un terzo dito, ma lo vedo nascondere un mezzo sorrisino. 
«Sono cattive» mugola, aprendo una delle due birre con l’accendino. 
«Lo sai che non è vero, Jaco, non mentire a te stesso» continuo. Mi fa una smorfia e mi lancia il tappo di metallo dritto in faccia. Scoppio a ridere e finisco steso a terra, tenendomi la guancia. Più per prenderlo in giro, perché non mi ha fatto veramente nulla. 
Passano non più di tre secondi prima che, reggendosi sulle braccia, si infili tra le mie gambe e il Sole venga coperto dal suo testone. «Tutto ok?» mi chiede, con un’espressione preoccupata.
«Ti fai fregare troppo facilmente» rispondo. 
«Fammi vedere» insiste, ignorandomi e spostandomi le mani dal viso. Riserva un paio di carezze al punto colpito, mi guarda con degli occhioni giganti e sento una delle sue ginocchia contro l’interno coscia. Sì, mi farei scopare anche in questa posizione. Quasi la posso sentire la sensazione del suo corpo nudo contro il mio. Mi mordicchio la guancia, riesco pure a immaginarmi vividamente lui che flette i muscoli delle braccia per chinarsi e baciarmi. 
«Non mi hai fatto niente, Jaco» bisbiglio, pronto a collassare. 
«Non sta a te deciderlo» ribatte, poi mi fa un sorriso e si tira su, permettendomi nuovamente di respirare. Sì, forse metterci in mezzo alla folla di primati non era una così pessima idea. Ancora steso, lo guardo ritornare al suo posto e prendersi un sorso della birra. Mi rimetto seduto e recupero la mia. «Aspè, te la apro io…» asserisce, allungando una mano. 
«Ho scordato l’apribottiglie…» osservo, passandogli la bottiglia.
«Non c’è problema» risponde, con un sorriso, facendo leva sul tappo in maniera esageratamente naturale.
«Se fosse stato Lorenzo a dover aprire una birra così, sarebbe sceso direttamente il Signore a chiedergli di smettere di bestemmiare …»
«Perché Lorenzo non ha mai vissuto nella patria della birra. Di sicuro i tedeschi non girano con un apribottiglie in tasca, ma bisogna sempre avere un kit d’emergenza…»
«E sarebbe?»
«Un accendino, una cintura, o dei denti funzionanti»
«Coi denti?» chiedo, inorridito.
«In mancanza d’altro…» risponde, scrollando le spalle.
«Lo diceva anche Cesare, barbari…» borbotto, prendendo la bottiglia dalle sue mani.
Ridacchia e si guarda intorno. «Questo posto è bello…» mi dice. «Grazie, per avermici portato»
«Prego» mormoro, con un principio di morte interna quando mi fa un sorriso sincero che mi fa perdere la testa. Prendo un sorso della birra, mi do del coglione da solo e distolgo lo sguardo; lo riporto su di lui solo quando mi accorgo che si distrae e concentra tutta l’attenzione sul prato che ci circonda. «Che stai facendo?» domando incuriosito quando lui si allunga verso l’erba. Non mi risponde e continua a cercare qualcosa, ma poco dopo si volta, tenendo in mano un dente di leone. Se lo rigira tra le dita un paio di volte, mentre fa le due culate che ci separano.
«Stai fermo…» sussurra, allunga la mano e lo sento infilare il fiore tra i miei capelli. «Ecco qui» afferma, soddisfatto. Mi metto a ridere, chiudendo gli occhi e sento lui fare lo stesso; quando sollevo le palpebre, se ne sta davanti a me col cellulare in mano e un sorriso stampato sulle labbra. «Toh, guarda che bello che sei» asserisce, passandomi il telefono. Decido di soprassedere sul complimento –decisamente troppi input– e abbasso lo sguardo, trovandomi davanti a una mia foto in cui sto ridendo e ho questo fiorellino giallo in mezzo ai capelli. Gli posso concedere, però, che gli è venuta bene. Sono pure riuscito a non fare una faccia da culo.
«Dai, è carina, è venuta bene»
«È venuta bene perché è il soggetto a essere carino.» precisa, riprendendosi il cellulare. Ok, di questo passo muoio di sicuro. Piano C, piano C, piano C.
«Così, però, mi fai pensare che effettivamente un po’ gay tu lo sia»
«Certo che lo sono» asserisce, guardandomi negli occhi, mentre appoggio la bottiglia appena fuori dalla tovaglia. «Io non mento mai»
«Ne hai appena sparate due, una di seguito all’altra, complimenti» 
«Pensala come vuoi, più che dirti che mi piacciono i maschi io non so cosa fare, Gian…»
«Eh, ti devo vedere con uno di quei vibratori tutti strani e articolati su per il culo».
Ridacchia e scuote la testa. «Mi spiace, ma non è nei miei programmi, io sono attivo…»
«Oh, sì, complimenti, ottimo modo per convincermi che sei gay: fare la stessa identica cosa che fanno gli uomini etero»
«Beh, non che sia molto esperto nell’essere etero, ma non credo che fare sesso con gli uomini ci rientri particolarmente. Non è l’attività a rendermi gay, è la compagnia» ribatte, alzando le spalle.
«Ah, allora, siccome sei praticamente in una scena di “Call Me by Your Name” a fare un picnic con questo… twink versione contadinello, che –in cima a tutto quanto– ha pure un dente di leone tra i capelli, dovresti essere il re dei finocchi»
«È quello che sto provando a dirti da almeno cinque minuti» conferma, ridendo. Scuoto la testa e roteo gli occhi al cielo. Finché non lo vedo con i miei stessi occhi non ci crederò mai. Ricordarsi il piano C. «Uomo di poca fede» borbotta, prima di darsi lo slancio per crollarmi addosso. Rido di nuovo, finendo tutto schiacciato tra il telo e la sua massa corporea, mentre, con una mano sul mio fianco, lui mi spinge supino e mi pizzica. Mi ribello, anche se con poche aspettative, provo a spingerlo via e incredibilmente non oppone resistenza, facendoci ribaltare all’indietro. Mi ritrovo sopra di lui che sghignazza e tiene un palmo al centro della mia schiena.
«Ma che ti ridi?» chiedo, dandogli una pacca sulla guancia.
«Ti agiti così tanto per sfuggirmi e scappare, però ti dimentichi ogni volta che non ci metto niente a fare questo» risponde, prima di dare un colpo di reni e tornare sopra di me con una facilità imbarazzante. Raccolgo le braccia al petto e arriccio le labbra in una smorfia scocciata, mentre lui mi guarda con una luce vittoriosa negli occhi e un sorrisetto compiaciuto. 
«Non è colpa mia se pesi quanto un pachiderma» brontolo.
«Nah-ah, non c’entra niente col peso» ribatte, poi allarga il sorriso e si abbassa fino ad appoggiare il naso contro il mio. Lo fisso, agghiacciato, molto impanicato e, comunque, imprigionato sotto di lui. Quello che sta rimbombando nella mia testa non è un campanello d’allarme, è direttamente una sirena antiaerea. «È tutta esperienza» mi soffia sulle labbra e, praticamente immediatamente, si tira su in piedi e mi guarda divertito. Espiro lentamente, cercando un appiglio qualunque al mio autocontrollo e, ancora più importante, una risposta intelligente per nascondere il mio terrore. 
«Scusami, ti sei appena vantato delle tue conquiste sessuali?» domando non appena il mio cervello riesce a partorire sta boiata.
«Una volta tanto me lo potresti concedere»
«Sempre più etero…» commento, aggrottando le sopracciglia.
«Oh, guarda, tra i tanti aggettivi che posso pensare per descrivere i cazzi di tutti quelli che mi sono scopato, “femminili” sarebbe proprio l’ultimo in fondo alla lista…». Ok, è appena stato appurato che anche questa sua aria da grande uomo duro che insemina tutto l’inseminabile mi attizza. Perfetto, adesso devo cercare qualcos’altro che possa non piacermi di lui. Mi tocca pure scacciare dalla testa l’immagine di questo Jacopo impegnato a chiavare senza pietà un tipo un po’ troppo simile a me.
«Se devi iniziare a fare come Lorenzo, mi dispiace, ma sappi che non posso sopportarne più di uno… e lui è arrivato decisamente prima di te» lo avverto.
«Ti dirò, se Lorenzo ti racconta di come uno gli abbia letteralmente cagato sul cazzo, spoiler: non è molto etero neanche lui»
«Che schifo…» commento, con le sopracciglia aggrottate.
«Incidenti, son cose che capitano…» risponde, scrollando le spalle. «Almeno è successo qui in Italia e c’è stata l’opzione del bidet.»
«Ecco, un rapporto sessuale vissuto in tedesco proprio non me lo riesco a immaginare»
«Ma come? Con una lingua così romantica…?» chiede, sarcastico. Rido e scuoto piano la testa. «Comunque non è così male come sembra…»
«Lasciami dubitare.»
«Oh, tranquillo, se riesci a comprendere le parole, “vienimi dentro” è romantico in qualsiasi lingua…»
«Sentire una roba del genere uscire dalla tua bocca è molto strano…»
«Che pensi? Che sia come Ken di Barbie?»
«Quasi.»
«Ti confermo che ho un pene funzionante.»
«Non lo metto in dubbio, ma sembri uno che lo usa per fare l’amore al chiaro di luna con le candele profumate»
«Mi preferisci in versione “Orsetto del cuore”?» mi provoca. 
Annuisco, sarcastico. «Cos’hai tirato fuori…» aggiungo. «E quale saresti tu?»
«Beh, ovviamente quello più gay di tutti: quello rosa con l’arcobaleno sulla pancia…» asserisce, scrollando le spalle, poi si mette prono e praticamente perpendicolare a me e appoggia la testa al centro del mio petto. Ridacchio, porto un braccio dietro alla nuca per poterlo vedere meglio e lo trovo sorridere pacifico e guardarmi con gli occhi più belli del mondo, resi ancora più blu dalla quantità di luce che li investe. Sobbalzo quando sento la sua mano sinistra intrufolarsi sotto la maglietta e iniziare ad accarezzarmi il fianco, ma riesco a rilassarmi abbastanza in fretta e, pur non sapendo con quale forza divina, mi godo la sensazione dei suoi polpastrelli sulla pelle, i brividi che mi percorrono la schiena. «Potresti ricambiare ogni tanto…». Ridacchio e roteo gli occhi al cielo. 
«E perché? Ti meriti le coccole?»
«E dai…» piagnucola. Cedo, non credo di riuscire a dirgli di no, porto la mano tra i suoi capelli e ci faccio scorrere le dita, accennando a un sorriso quando fa un’espressione appagata. «Le coccole piacciono pure a me» gorgoglia, contento, chiudendo gli occhi. 
«Sì, vedi di non addormentarti così che tra un po’ mi viene fame e non riesco a spostare ottocento chili» borbotto. Non accenna a muoversi, né a darmi una risposta, allora mi sento in dovere di aggiungere: «Bestione gigante». Tiene ancora gli occhi chiusi, ma tradisce una risata, quindi, abbastanza fiducioso del fatto che rimarrà sveglio, alzo lo sguardo verso il cielo. Mi perdo a osservare le nuvole che ci passano sopra la testa, provo a sforzarmi di ricordarne il nome specifico, senza particolare successo –forse cirri? O cumuli? Boh–, accontentandomi del senso di pace che mi danno insieme al cielo limpido, al fruscio dell’acqua che scorre e all’odore di campagna. Jaco mugola e sfrega la guancia contro la mia t-shirt, io riporto l’attenzione su di lui e sorrido istintivamente, sentendo il cuore scaldarsi. Sono così felice di essere qui con lui, è davvero troppo bello e mi piace così tanto. Lo ringrazio mentalmente per aver deciso di accettare quel posto nell’azienda di laminati, per essersi trasferito qui, a cinque minuti da casa mia e per essere diventato così importante per me, non saprei nemmeno descrivere a parole quanto mi senta fortunato a far parte della sua vita. Sospiro, gli do un’ultima carezza sulla testa per poi spostarmi sulla sua guancia e faccio una fatica immensa a mordermi la lingua per non confessargli qui e ora i sentimenti che provo per lui. Mi sa che devo trovare un piano D. Vorrei davvero tanto che Jacopo ricambiasse. 

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Capitolo 15
*** Boomer campagnoli e lampadati iberici ***


15 – Boomer campagnoli e lampadati iberici

«…E quindi boh, adesso sono pure un elettricista, sei contento?» bofonchia Jaco retorico, giochicchiando con il cucchiaino nella tazza. Ha dovuto mettere a posto tutta la domotica degli uffici di “Lamiere San Giorgio”, non è stato esageratamente felice di aver dovuto abbandonare le sue solite mansioni per fare una cosa per cui non è né pagato, né particolarmente qualificato.
«Beh, un tuttofare» commento, ironico. 
«Guarda, lo schifo… lavoro di merda…»
«Io non ho mai capito perché non sei rimasto a lavorare a Milano…» osservo. 
«Peggio che qua, giuro, il lavoro che avevo prima era una continua inculata. Mai viste pagate tutte le ore di straordinari che facevo, niente bonus, niente benefit, già i giorni liberi erano un miraggio, figuriamoci le ferie…»
«Minchia…»
«Un’inculata continua, ti dico. Poi mi volevo levare dal cazzo, a Milano non ci torno più a vivere, mi ha rotto i coglioni, qui molto meglio»
«Qui non hai la metro»
«A Milano non ci sei tu» ribatte, dandomi un buffetto sul mento. Accenno a un mezzo sorriso, molto confuso, perché ormai non so più cosa pensare. Una sera è andato a fare aperitivo con i suoi colleghi, io per prenderlo in giro gli ho detto di ritentare con la ragazza che l’aveva portato da Quinto, lui mi ha mandato un vocale borbottandomi un super convinto “ancora? Amò, mi piace il cazzo, sono gay” con la ‘y’ fatta durare ben più di quanto necessario. Mi ha fatto sinceramente ridere e se proprio devo essere onesto, un po’ mi sta convincendo. Non avrebbe senso portare così avanti una presa per il culo del genere. La cosa non mi fa stare per niente meglio, anzi, tutto il contrario. Se fosse stato etero, il fatto che non fosse interessato a me sarebbe stato riconducibile semplicemente al suo orientamento sessuale –completamente legittimo–, invece così vuol solo dire che non gli piaccio abbastanza. Ecco, finocchio e pure brutto, la mia già martoriata autostima ringrazia. E , io ci sono ancora parecchio sotto a Jacopo. Almeno ho fatto dei passi avanti, adesso riesco perlomeno a controllarmi senza andare in crisi ogni volta che mi guarda in faccia.
Sento un artiglio bucarmi i jeans e punzecchiarmi il polpaccio, abbasso lo sguardo e trovo Tegolino che prova di nuovo a salirmi sulla gamba, io lo caccio seduta stante e il suo schiavo-padrone mi lancia un’occhiataccia.
«Non trattarlo male» mi sgrida.
«Se non mi venisse addosso, lo tratterei meglio» ribatto, scocciato. Lo vedo rimproverarmi con lo sguardo, poi dare una carezza al gatto.
«Non ti capisco, non mangi la carne e odi gli animali, boh…»
«E quindi? Odio anche i bambini, solo non mi auguro che finiscano in un buffet di comunisti». 
Ride, poi si liscia la barba e sposta la tazza sul tavolo. «Vuoi rimanere a cena?»
«No, sarebbe la terza sera di fila che non mangio a casa, i miei inizierebbero ad assillarmi con qualche assurdità su una nostra relazione» brontolo. «“Ma state insieme?”, “ma è il tuo fidanzato?”, “non dirlo a papà”, gne gne gne» scimmiotto mamma, lui ridacchia divertito.
«E che male ci sarebbe?» chiede.
«Che noi due non stiamo insieme» rispondo, secco. Ahia, questa è stata più dolorosa del previsto. Maschero il mio autolesionismo con una smorfia infastidita e sento di dover dire qualcos’altro. «Se devono scassarmi le balle perché ho un ragazzo, vorrei almeno avercelo, un ragazzo»
«Beh, non hai un ragazzo, ma ti cucino quello che vuoi ogni volta che vuoi»
«Ho un cuoco» osservo, con le sopracciglia aggrottate.
«Vedila così»
«Jaco, non so se hai ben capito: io ho voglia di scopare, mica di un piatto di spaghetti». Scoppia a ridere, sono proprio felice di essere motivo di ilarità. «Ridi, ridi, che la mamma ha fatto gli gnocchi» mugugno, offeso.
Ormai è diventata un’abitudine fissa quella di passare da lui dopo lavoro. Finisce prima di me, viene qui e quando arrivo mi fa trovare la dose di caffeina pre-cena, a volte direttamente qualcosa che bolle in pentola e il tavolo apparecchiato. E vorrei davvero ricambiare almeno una volta, ma vedere mamma e papà osservarlo come una statua in un museo sarebbe un supplizio veramente intollerabile. In più, papà inizia a sospettare qualcosa da quando ci ha scambiato due parole una sera in cui è venuto a prendermi. L’unica fortuna è che il genitore ignora completamente le avanzate tecnologie moderne per stalkerarmi come si deve, quindi o capita che ci passa abbasta tempo per collegare i puntini, o io devo dirgli proprio nome e cognome. Spoiler: non accadrà nessuna delle due cose. Mi sentirei estremamente a disagio a dirgli “è Jacopo quello che mi piace”, o ancor peggio –o meglio, dipende dall’ottica in cui la si guarda– “ecco Jacopo, il mio fidanzato”. A questo punto credo che la prenderebbe pure abbastanza decentemente, non so che gli sia preso, ma si è decisamente calmato dopo la giornata al fiume. In ogni caso, finché non succede qualcosa di particolarmente rilevante, papà può rimanere nella sua inconsapevolezza e io posso aspettare ancora un po’. 
«Beh, non c’è mica nessuno che ti corre dietro.» mi rassicura. 
«Io stesso mi corro dietro, non ne posso più» 
«Per stasera puoi ancora goderti con me la pasta alla pizzaiola»
«Senti, o mi fai la pasta e poi spieghi ai miei come non stiamo insieme, o mi lasci andare a casa»
«Ti prego, non mi abbandonare qui tutto solo soletto» piagnucola, facendomi gli occhioni da cucciolo.
«Hai Tegolino…»
«Tegolino non può mangiare la pasta… per favore, Gian…»
«Senti, stasera vado a casa e ti prometto che nei prossimi giorni forse riesco a organizzare e ti invito a cena da me.» brontolo. Devo solo trovare il modo per cacciare i miei fuori di casa, non esiste che noi cinque ci troviamo seduti tutti allo stesso tavolo.
Mi sorride e annuisce. «Mi piacerebbe vedere casa tua» confessa. Lo guardo, chissà che impressione farebbe a casa. A parte essere il David di Michelangelo per almeno una mezz’oretta. A Cla piacerebbe di sicuro. Se ci fossimo solo noi tre sarebbe veramente il top, niente rompimenti di cazzo. Al massimo posso accettare Salvatore, il nuovo cognato. Non di più.
«Non aspettarti un bel loft di New York, è la solita casa da boomer campagnoli» lo avverto.
«A me piacciono le case di campagna»
«È incredibile, non c’è proprio niente che non ti piaccia…» brontolo. Ridacchia e mi dà una pacca sulla mano. Poi, il citofono suona, lui mi fa un’espressione interrogativa e si alza. «Aspetti qualcuno?» domando, curioso.
«No» mi dice, dalla sala. Lo sento rispondere al citofono, dopo poco torna in cucina, bianco come un cadavere con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, poi si volta e va di nuovo di là, per ricomparirmi davanti un secondo dopo. 
«Tutto ok?» provo a chiedere a questo zombie sconvolto quando il campanello squilla e lui torna all’ingresso. 
«Ciao, Jaco» sento dire a una voce sinceramente sconosciuta. Cosa che non fa che aumentare i miei sospetti.
«Ma che ci fai tu qui?» sibila Jaco, con un tono indecifrabile.
«Io… ti spiace se entro?»
«Marti, vattene»
«È una cosa veloce, te lo giuro». La porta si chiude, in una manciata di secondi varca la soglia della cucina Jaco meno sconvolto, molto più tendente all’arrabbiato, dietro di lui un ragazzo, alto un po’ più di me, ma non quanto questo gigante, capelli scuri e riccissimi, occhi castani e con un’espressione a metà tra la vergogna e una punta di disperazione. Appena i nostri sguardi si incrociano, però, sgrana gli occhi dalla sorpresa e si gira verso Jaco. «Oh, non pensavo che avessi compagnia. È il nuovo ragazzino che ti scopi?» gli chiede.
«Che!? No!» sbotto, attonito. Ma che cazzo. Da zero a cento così, di botto.
«Il limite della mia pazienza con te è già pericolosamente vicino allo zero, non peggiorare la tua situazione» gli ringhia Jaco. Ho ufficialmente smesso di capire. Beh, non avevo ancora capito un bel niente, ma qui siamo proprio nella metafisica.
«Peccato, è pure carino. Non credevo ti piacessero così piccoli, però…» commenta, lanciandomi un’occhiatina di striscio. Cerco di guardarlo meglio senza farmi sgamare. È ufficiale, non l’ho mai visto prima. E non è nemmeno un brutto ragazzo, però l’aria che sta tirando qui dentro non è delle migliori. Insomma, Jaco sembra sul punto di commettere un omicidio, questo la prima cosa che ha detto riferito a me è stata chiedere se sono il suo nuovo toyboy.
«Smettila, Marti, smettila, dimmi che vuoi e vattene»
«Neanche me lo presenti?» domanda, ignorando completamente le parole di Jaco. 
Lui lo guarda male, non credo di avergli mai visto quest’espressione addosso, poi si volta da me e grugnisce qualcosa che non riesco a distinguere. «Lui è Gianluca, un amico» spiega, facendo un gesto nella mia direzione. Razionalmente, comprendo il punto e il senso delle sue parole. A livello emotivo, poteva tranquillamente evitare di spezzarmi il cuore così.
«Piacere» mormoro, dubbioso, provando a tendere una mano.
«Il piacere è tutto mio, io sono Martino…» mi dice lui, stringendomela energico.
«…Il mio ex» aggiunge Jaco. Ok, beh, ecco la conferma che cercavo. Reprimo con tutto me stesso un’espressione di assoluto stupore, evidentemente, però, tradisco qualcosa, perché Martino mi fa una specie di sorrisetto.
«Non lo sapeva?» chiede a Jaco. «Non ti sarai mica spacciato per un povero inesperto alle prime armi per provarci, vero?» continua, poi si rivolge nuovamente a me. «No, perché qualunque cosa ti abbia detto, non credergli, sa bene quello che fa sotto le coperte… ma intanto già lo sai, no?» ammicca, io non so nemmeno più che faccia sto facendo. 
«No, no…» provo a dire, negando pure con le mani. L’ex geloso non sentivo di meritarmelo.
«Ma si può sapere che problemi hai!?» tuona il padrone di casa. «Avevi qualcosa così importante da dirmi che sei venuto fin qui da Milano per metterti a fare una scenata del genere!? Avanti, sbrigati, parla adesso, altrimenti sparisci.»
«Stavo solo facendo conversazione, non essere così scontroso…» ribatte. «Quindi… da quanto tempo vi vedete?» mi domanda. Aiuto, non so veramente cosa dire, tra tutte le crisi in cui mi ha mandato Jacopo, questa è di gran lunga la più strana.
«Seriamente, piantala, Marti, non farmi incazzare. Non stiamo insieme. E anche se fosse non sono fatti tuoi»
«Beh, ma ci sta, noi ci siamo lasciati da… da sei mesi, non ci credo manco morto che sei rimasto a secco per metà anno, Jaco…» lo rimbrotta, con un mezzo sorrisino di sfida. Non gli risponde, si limita a guardarlo storto per poi scuotere la testa, rassegnato. Vorrei sparire, non so nemmeno cosa fare. «…Oppure anche tu sei attivo? In quel caso ci sta pure, però stagli lontano, che questo fa un sacco di storie appena ti avvicini troppo…»
«Scusa, mi stai facendo kink-shaming?» gli chiede Jaco, con le braccia raccolte al petto.
«Ma figurati, chiedo e basta, magari non siete troppo compatibili… è solo che mi dà l’idea di un power bottom della Madonna, mi sembra strano che non te lo sei ancora fatto, sei come un cane in calore, appena vedi qualcuno di appetibile ti si chiude la vena e non capisci più niente»
«Hai una bella faccia tosta a dirmi così quando quello che, mentre stavamo insieme, si è messo a novanta per farsi inculare da uno spagnolo in Erasmus non sono stato io, ma tu»
«È stato un errore, Jaco, ne abbiamo già parlato…»
«Oh, sì, sì, un errore, immagino, per sbaglio lui è inciampato e sempre per sbaglio il suo cazzo è finito nel tuo culo…» commenta, sarcastico, mentre io cerco di rannicchiarmi sulla sedia sempre di più.
«Ero ubriaco»
«E io cornuto, se vuoi fare a gara a chi stava messo peggio.» sibila, acido.
«Perché vuoi rivangare il passato, Jacopo? Me l’avevi pure perdonato…»
«Ecco, sì, bravo, quello è stato un errore. Perdonarti tutte le cazzate che facevi e che mi dicevi, sperando che cambiassi. Ma non sei mai cambiato, vero? Sei ancora un ragazzino che fa casino in giro e poi torna da me a piangere in ginocchio per farsi dare la millesima occasione.» asserisce, velenoso, poi ha una specie di epifania, sgrana gli occhi e lascia cadere le braccia lungo i fianchi. «È per questo che sei qui» afferma, adombrandosi e facendo un passo verso di lui. «Hai fatto due ore di strada per venire a casa mia e chiedermi di tornare assieme…»
«Jaco…» prova a dire Martino, Jaco alza un dito per zittirlo, espirando col naso.
«Cosa ti inventi adesso, eh? Quale stronzata ha partorito quell’unico neurone che ti ritrovi in testa per salvarti la faccia? Mi hai preso in giro per due anni, mi hai mentito, mi hai trattato come una merda, mi hai tradito, mi hai lasciato innumerevoli volte per farti i cazzi tuoi per poi strisciare ai miei piedi, mi hai usato tornando da me solo quando nessun altro ti voleva, hai usato i miei stessi sentimenti che provavo per te contro di me, sei stato…», tentenna un secondo, a sto punto credo gli stia per scoppiargli una vena in testa. «…sei stato insensatamente geloso con il mio migliore amico –etero, per giunta!– nonostante quello che combinavi tu e tutti i… maledetti tipi con cui ci provavi costantemente davanti a me. Infine, non sei riuscito a sopportare l’idea di stare da solo nemmeno per una settimana, mollandomi appena me ne sono andato da Milano. E ora, dopo sei mesi, hai il coraggio, l’audacia di ricomparire qui e presentarti alla mia porta!?» gli ringhia con un’espressione adirata e anche un po’ schifata, Martino stringe le labbra e abbassa lo sguardo, evidentemente abbastanza imbarazzato da non riuscire nemmeno a guardarlo negli occhi. «E guardami! Guardami in faccia mentre perdi anche l’ultimo briciolo di dignità che ti rimane!» esclama, portandogli una mano sotto il mento e alzandogli il viso a forza, a un millimetro dal suo. Oh, cazzo, adesso limonano. Martino muove le labbra, ma non esce alcun suono. «Parla più forte, che non ti sento!»
«Parliamone da soli…» soffia, lanciando una mezza occhiata verso di me. Ok, me ne vado. Veloce, anche.
«Sì, io vado a casa…» bisbiglio, provando ad alzarmi. 
«No!» sbotta Jaco, mai visto così arrabbiato, in un istante me lo ritrovo di fianco, la sua manona finisce sulla mia spalla e mi rispinge seduto sulla sedia. «No, resta…» mi dice. Lo guardo impietrito, piuttosto indeciso sul da farsi. Che paura. «Per favore…» sussurra, ancora, con uno sguardo supplicante. Ok, allora resto. Rilasso leggermente i muscoli, pensando che devo imparare a dirgli di no. «Le cazzate che dici a me, le puoi dire anche a Gianluca…» sibila all’altro, assottigliando gli occhi. Deglutisco, sfregando i palmi sulle cosce, Martino continua a guardarmi, ma non proprio negli occhi, più verso la spalla che la mano di Jaco mi sta ancora stringendo. Se proprio devo pensare a qualcosa in cui non voglio mai più finire in mezzo, ecco, questo
«Io… mi dispiace… so che… so che ho sbagliato tutto con te, mi dispiace da morire, Jaco, non so che dire…» mormora, colpevole. «È solo che mi è capitata quella foto di Mykonos e… ho pensato che nonostante tutto, stavamo bene insieme e…»
«No, queste sono solo stronzate!»
«Ci divertivamo, eravamo sempre insieme… non puoi negarlo, è stata una cosa importante…!» esclama. «Poi se vuoi il voltagabbana e dire che è stata una roba passeggera, fallo, eh!»
«Non nego niente, siamo stati insieme due anni, certo che è stata una relazione importante, ma da qui a dire che stavamo bene insieme è una grossa esagerazione!»
«Io stavo bene con te, mi manchi da morire… ed è vero, ho fatto tanti errori, ma non so stare senza di te, Jaco, io… io ti amo ancora…» piagnucola. Oh, Cristo santo. Sempre più a disagio. Giuro, gliela faccio pagare a Jaco, questa proprio non doveva farmela.
Jaco sussulta e mi stringe ancora di più la spalla. Adesso sta a vedere che mi schiaccia un nervo che non mi deve schiacciare. «Non…!» esclama. «Non metterti in bocca parole che non pensi!»
«Ma è la verità, è quello che provo…»
«No! Non è quello che provi, non lo è mai stato! Non mi hai mai amato, nemmeno per un secondo! Se l’avessi fatto, non avresti… non mi avresti fatto tutto quello che hai fatto!»
«Lo so, mi dispiace, mi dispiace per tutto, giuro che sono cambiato! Non ti tratterei più come ho fatto finora, sono pronto a impegnarmi, te lo prometto, ti amo…»
«Smettila! Piantala, non ci casco più, è la centesima volta che sento la solita tiritera! È finita, Marti, non infierire su una storia morta!»
«So che non è morta, Jaco, riproviamoci… impegniamoci insieme, io sono pronto a farlo…» continua, facendo un mezzo passo verso di noi. 
«Da quando in qua!? No, è fuori discussione!»
«Ti prego, ascoltami almeno… riproviamoci, piano, piano. Siamo ancora giovani, abbiamo tutto il tempo del mondo per fare le cose bene, con calma.»
«Marti, no. Basta “piano, piano”, basta “riproviamoci”…»
«Ma perché?» lo interrompe. «Io mi impegnerò, farò tutto quello che posso, davvero, sono cambiato…»
«Me l’avevi detto anche le altre mille volte… io… io… non ci sto più!»
«Ti prego, ragiona, ripensa a noi, ricordati tutti i bei momenti che abbiamo passato insieme, solo noi due» mugola, provando a prendergli le guance tra le mani. Aiuto, aiuto, aiuto.
Jaco zompetta via, tenendolo a debita distanza. «Quali bei momenti, eh? Quali? Le infinite serate a litigare? O le notti insonni passate a non sapere dove fossi perché sia mai mandare un messaggio al tuo ragazzo!? O quando mi sono svegliato alle quattro del mattino con una foto sul cellulare di te che ti baciavi con Diego? O l’ennesima volta in cui mi dicevi “no, non sono pronto per una relazione seria, finiamola qui”? Basta, Martino, basta, io sono stanco, non ne voglio più sapere!»
«Amore…»
«No! Basta!» lo interrompe, scuotendo la testa. «Non mi interessa più niente, io non sono più disposto a starti dietro, non ti amo più. È finita, per sempre, fattene una ragione.» insiste, voltandogli le spalle. 
«Io voglio lottare per noi, lo sento che non è finita…» gli dice, con una mano sulla spalla.
«E invece, è finita. Tu puoi volere quello che vuoi, ma io non ho… non ho più la forza per riprovarci con te. Capiscilo.» risponde Jaco, liberandosi dal contatto e tornando a guardarlo in faccia. «Il treno è partito mesi fa, prendi atto che tra noi non ci sarà più niente. Io non ti amo più, Martino, sono andato avanti, fallo anche tu»
«Ai miei occhi ci sei solo tu, non posso vivere senza di te…»
Jaco chiude gli occhi per un secondo, prende un respiro profondo e rialza le palpebre lentamente. «Sì, che puoi. C’è tanta gente nel mondo, spero sinceramente che trovi qualcuno che ti renda felice. Ti ho voluto tanto bene e ti auguro il meglio per la tua vita.» continua, apparentemente più tranquillo. «Ma ora devi andare via. Non sei più il benvenuto. Né a casa mia, né nella mia vita. Lasciami vivere in pace.»
«Jaco…»
«Per favore. Se davvero mi ami come dici, vattene, ti prego, torna a casa.» esala, esasperato, indicando la porta. 
Martino fa un’espressione quasi rassegnata, incurva le spalle e sospira. «Non c’è più niente che possa fare, vero?»
«No. È troppo tardi. Per tutto.» asserisce Jaco risoluto.
«Ti prego, Jaco…»
«No, niente “ti prego”. Basta.» conclude. «Vieni, ti accompagno alla porta.». Martino annuisce, sconsolato e si fa seguire di là. La porta si apre, sento Martino ripetere quanto sia stato bene con lui, gli chiede anche un abbraccio, credo che Jaco accetti perché rimangono un po’ in silenzio, poi Martino lo ringrazia ancora, si dicono essenzialmente addio e si augurano buona fortuna a vicenda, io faccio un piccolo sospiro un po’ triste. È successo tutto troppo velocemente per riuscire ad assimilare tutto quanto, ora mi sento solo dispiaciuto. Un po’ anche per Martino, mi è sembrato sincero e, anche se la sua strana idea di amore non combacia per niente con quella di Jaco, non penso sia venuto qui in malafede.
Lui torna in cucina con lo sguardo basso, si lascia cadere sulla sedia di fronte alla mia e infila la testa tra le braccia incrociate sul tavolo. Guardo il suo capo, non riesco a dire niente, non saprei nemmeno cosa inventarmi. Nella testa è partita in loop la scena di quell’abbraccio disperato che mi aveva dato quando si erano lasciati. Ci eravamo appena conosciuti, ai tempi avevo dato per scontato che fosse per una ragazza. Non mi aveva ancora portato a Milano. Colonia era proprio una meta a cui nemmeno pensavo. Litigavo con papà tutte le mattine, come sempre. È davvero cambiato tutto.
Neanche mi accorgo della sua mano che si viene ad appoggiare sulla mia, sobbalzo dalla sorpresa, lui rimane con la testa rintanata nel gomito. «Scusami tanto…» mugugna. 
«Non c’è problema» mormoro, ruoto leggermente la mano in modo da accarezzargli il palmo con l’indice. 
«Non volevo arrabbiarmi… ma con lui… con lui finisce sempre così…» continua, poi un qualcosa che non capisco essere una risata o un singhiozzo gli scuote le spalle. «È sempre riuscito a farmi stare così. Pianti, urla e incazzature. Ecco la mia storia con Martino… Bello, vero?» chiede, retorico. «Vorrei non averlo mai conosciuto» sussurra. Deglutisco, muovo ancora la mano, incastrando le dita tra le sue, mi abbasso e gli do un bacio sulle nocche, appoggiando poi la guancia sul dorso della sua mano. E non è una cosa che di base farei, ma non avrei nemmeno mai abbracciato un uomo di quasi trent’anni conosciuto da due settimane. È Jaco, a questo punto mi sento di dire che per lui attraverserei l’oceano a nuoto. «Grazie, Gian, per essere rimasto…»
«Non dirlo nemmeno…» rispondo, a occhi chiusi.
«Con te è tutto diverso…»
«Se ti trovassi con un ragazzo in cucina non ti chiederei mai se è “il nuovo ragazzino che ti scopi”» commento, rifiutandomi di interpretare quella frase in qualsiasi altro modo. Non mi sembra il momento.
Sento qualcosa di molto simile a una risata che un po’ mi tranquillizza. «Non saresti geloso, power bottom della Madonna
«Su quello c’ha preso»
«Ne spara così tante che ogni tanto qualcosa di giusto gli capita.».
Mi mordicchio l’interno della guancia, un po’ indeciso sul da farsi. «Gli eri capitato tu, di cosa giusta» decido di dire, poi.
«Capirai… talmente giusta che manco gli bastavo, che è dovuto andare dal lampadato di Murcia»
«È lui che non ha capito niente, che non ha saputo apprezzarti. È stato solo un coglione.» ribatto, sincero. Come ha fatto a non vedere tutto quello che Jaco ha da offrire? Perché non ha saputo tenerselo stretto? Aveva trovato un tesoro ed è riuscito comunque a farselo scappare. Non lo so, sarò io di parte, ma per me è inconcepibile. «Non ti cambierei per nessun lampadato iberico.»
«Non ti piace la Paella?»
«Ricade nella categoria “accrocchi di cibo senza senso”»
«A te piacciono la pasta e i dolci»
«Finalmente hai capito» brontolo. «Lui… ti piace ancora?» chiedo, anche se non sono proprio sicuro di voler sentire la risposta.
«No. Ed è pure questo il bello. Non mi piace più, non voglio tornarci insieme, davvero. È la presa per il culo che mi fa incazzare. E ripensare a… tutto quello che è successo mi fa stare ancora una merda. Forse è troppo presto per… tipo, rimanere indifferente. Poi io sono pure rancoroso, quindi proprio un bel mix di teste di cazzo…»
«Tu non sei rancoroso…»
«Io sono il re del rancore, sono ancora arrabbiato col mio compagno di classe per avermi rotto la penna di Doraemon quando avevamo sei anni…» ribatte. «A Martino ho fatto passare tante cose perché davvero volevo che cambiasse, speravo di piacergli abbastanza da farlo smettere di fare l’eterno adolescente, di farlo quietare da… scadente sesso occasionale e serate nelle peggiori discoteche milanesi. Ovviamente ero io il solito illuso e pure un po’ tossico, lui non è mai cambiato di una virgola. Anzi, ogni volta che ci mollavamo andava sempre peggio. Il tradimento non è arrivato subito all’inizio, è arrivato quando la tossicità della nostra relazione aveva già raggiunto dei risultati considerevoli. Me lo dovevo aspettare, eppure mi ha preso in pieno come un treno. Gliel’ho pure perdonato, pensa che coglione»
«Non dire così…». Non risponde, io sospiro, senza aggiungere nient’altro. Mi sa che dovrei pensare a una scusa da dire a mamma. L’idea di alzarmi mi mozza il respiro.
«Gian…» mi chiama dopo un po’. 
«Dimmi…»
«La vuoi la pasta?»
«Mh-hm…» mugolo. «Te la faccio io. Dopo se vuoi ti faccio le coccole…»
«Passiamo direttamente alle coccole, allora»
«Hai bisogno di carburante per mandare avanti tutta sta ciccia che ti ritrovi. Prima mangiamo, poi le coccole» borbotto, tirandomi su. Mi metto in piedi e, dopo avergli dato una carezza sui capelli, mi metto a rovistare in cerca di una pentola. Appena accendo il fornello, le sue braccia mi circondano il torso, affonda la testa nell’incavo del mio collo e mi ritrovo catturato dalla sua mole. Un angolo della bocca mi si piega all’insù. Non l’ho nemmeno sentito alzarsi.
Mi spingo contro di lui e appoggio la testa sul suo avambraccio. In sei mesi è cambiato veramente tutto, ma sentendomelo contro, ancora ripensando a quando si era fidato così tanto di me da mostrarsi a uno dei suoi punti più bassi, l’unica cosa che sento ancora uguale ad allora è la sensazione che ho alla base dello stomaco quando sono con lui. Forse ho solo imparato a interpretarla, a capirla meglio. 
«Grazie. Di nuovo.» bofonchia, stringendomi ancora. Non so come ho fatto a stare senza di lui per tutto questo tempo. Non mi immagino nemmeno un futuro senza essere stritolato da Jacopo. Vorrei che per lui fosse lo stesso. Vorrei restituirgli un po’ di quello che lui dà a me. Non credo di riuscirci benissimo, ma lo spero tanto.

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Capitolo 16
*** Nuovo amante, vecchio compagno di scuola ***


16 – Nuovo amante, vecchio compagno di scuola

Ok, il Napoli ha appena fatto goal, visti i grugniti e le urla che gli oranghi in questo locale stanno lanciando. Ma perché devo vivere in questo mondo?
Comuqnue, menbrea top birra italina” mi scrive Jaco. Faccio un po’ di fatica a decriptare il messaggio, ma appena comprendo, sibilo una risata e scuoto la testa.
A volte devi saper mettere un freno alle cose che ti piacciono
E perchee? È bupna” 
Perché quello che mi stai scrivendo sembra un codice militare nazista
Prli difficike, Gian” risponde, mandandomi subito dopo un cuore che non ho intenzione di interpretare. Jaco è tornato a Milano. Ieri sera è stato coi suoi, per mezzanotte e mezza mi ha scritto dicendomi che erano appena tornati dal cinema e, partendo da un insulto al film brutto, abbiamo continuato a parlare fino alle tre del mattino. Oggi so che ha passato del tempo con la creatura che ama di più al mondo insieme a Tegolino: Camilla. Ci ha tenuto anche ad aggiornarmi sul suo stato di salute, dicendomi che è ulteriormente ingrassata, povera bestia, e che i suoi hanno deciso di metterla a dieta. Però stasera è uscito, ha evidentemente bevuto parecchio e tre quarti d’ora fa mi ha mandato una sua foto con la testa di un amico appoggiata alla spalla. Io da bravo imbecille sono rimasto a fissarlo per troppo tempo manco fosse la Mona Lisa al Louvre, l’ho mezzo sfidato chiedendogli se fosse il suo nuovo tipo, lui mi ha risposto chiaro e tondo che è etero tanto quanto il Sole è alto a mezzogiorno. Mi ha anche detto che allo stesso compleanno a cui sta partecipando, è stato invitato pure Martino. “È incazzato che l’ho rifiutato, sta cercando di attirare l’attenzione”, mi ha spiegato, dopo che gli ho chiesto come fosse la situazione. Un po’ mi brucia, ma l’ho buttata sul ridere. Non ho alcun diritto di essere geloso e anche se fosse, non credo Jaco sia così stupido da… boh, farci qualcosa.
«Quindi… qual è la tua strategia di attacco?» mi chiede Eli. Alzo lo sguardo dal telefono e la osservo smarrito.
«Eh?»
«Vuoi stare a sbavargli dietro per sempre, oppure facciamo qualcosa di utile?» insiste, con un’espressione severa. Ah. Ovviamente. Ormai si parla solo più di questo.
«È inutile, Gian non ha abbastanza palle per fare effettivamente qualcosa» risponde Auri, al posto mio. Prendo un sorso di birra, contrariato, mentre Rebecca fa di tutto per nascondere una risatina. I maschi etero si sono per una volta eclissati nell’iperspazio, Fra a una festa di laurea, Lori al compleanno di nonna Luciana. Evidentemente questo è bastato per fomentare le tre dell’Ave Maria ad assillarmi e a trascinarmi dallo storto, quando in realtà sarei stato volentieri a casa a guardarmi un film deprimente. Senza persone che mi pressano, né bonobi che sbraitano contro una televisione. 
«Che potrei fare mai? Mica è interessato a me» brontolo.
«Effettivamente, se è etero…» prova a proporre Rebecca. Veramente, l’unica che ragiona. Lori ha fatto un colpaccio, ha alzato troppo i suoi standard. Una ragazza carina, intelligente e pure simpatica, mi fa pensare che sia solo un ologramma. Soprattutto per mettersi con Lori che non è di sicuro Dio sceso in Terra.
«La figa piace a tanti, ma il cazzo piace a tutti» cinguetta Eli, sfarfallando le ciglia. Alzo gli occhi al cielo e nonostante non abbia per niente voglia di affrontare l’argomento, sono le mie migliori amiche, so che le loro intenzioni sono buone e voglio essere sincero.
«Sì, a Jaco particolarmente» commento. «Le cose si sono evolute, evidentemente anche lui è gay» aggiungo. C’è un sussulto di gruppo.
«Ma sei serio?» domanda Rebe, mentre Eli sbarra gli occhi, mi arpiona il bicipite, facendomi vedere le stelle con le sue unghie impiantate nella carne e rotea per un secondo la testa all’indietro.
«Ma si può sapere allora quale stracazzo è il tuo problema!?» sbotta. «Cioè, sei single dall’alba dei tempi, tra un po’ nelle mutande hai le ragnatele, trovi un pezzo di gnocco che ti piace, lui è pure gay e tu stai qui a piangerti addosso!? Capisci che hai qualche rotella completamente mancante!? Te lo giuro, faccio fatica a credere che sei così ritardato!»
«Mi fai male» uggiolo, provando a liberare il braccio.
«Te lo meriti e basta!» ribatte, stringendo ancora di più la presa. Piagnucolo qualcosa di insensato, dolorante.
«Veramente, Gian, lanci la bomba così, cosa pretendi?» chiede Auri, retorica. «Ma poi, che cazzo!?»
«Adesso devi assolutamente spillare the tea, sbrigati» mi minaccia Rebe, puntandomi un dito in faccia.
«Giuro, dico tutto, ma lasciami il braccio, ti prego» imploro, disperato. Finalmente libera il mio povero braccio da quella tenaglia che ha al posto della mano, la pelle che chiede pietà. La sfrego, è già arrossata, questa è una cazzo di aggressione. «Non serviva usare la violenza» borbotto, ricevendo in risposta una botta in testa. 
«Avanti, spiega, altrimenti te lo stacco a morsi quel braccio»
«Ma che devo spiegare? Me l’ha dovuto ripetere qualche volta, io non ci credevo, cioè, guardatelo: mica sembra omosessuale, io come facevo a saperlo?»
«La domanda è: che cazzo fai qui con noi e perché non sei a farti sbattere da lui in questo preciso istante?» mi sibila, con gli occhi ridotti a una fessura.
«Eli, non posso mica violentarlo. Se non è interessato, boh, niente, doveva andare così… cioè, sì, che palle, ma non posso fare miracoli, né obbligarlo a starci…»
«Tu cosa ne sai che non è interessato?»
«Eh, appunto, te l’ha detto?» insiste Rebe.
«No… però…»
«E allora sei solo un coglione!» mi interrompe. «Ti ha offerto una cena di Quinto, non sarò di certo io a dirti quanto ha speso per quella roba. Ed è venuto in quell’Inferno solo ed esclusivamente per te e per portarti da mangiare, pronto, ci svegliamo!?»
«Anch’io l’avrei fatto al suo posto…»
«Eh, certo, grazie al cazzo, stai guardando la sua foto da tutta la sera, ci mancherebbe pure che non gliela porteresti!»
«Ma magari è solo gentile… è gentile con tutti…» provo a proporre.
«No, vabbè, non ce la posso fare…» esala Auri con una mano sugli occhi. 
«Solo io non lo vedo?» chiedo, perché davvero non mi sembra possibile. Gridano un “” tutte in coro e, onestamente, iniziano un po’ a farmi paura.
«Senti, Gian, io comprendo che non è che hai tutta st’esperienza da capire le nuances più sottili del corteggiamento, ma nessun uomo spende una vagonata di soldi solo per beneficenza. Quello ti si vuole bombare e tra un po’ si fa prete se non fai evolvere la situazione alla svelta.». Rimango di stucco, non so bene come reagire. 
«Ma… se questa cosa fosse vera… perché non me l’ha detto?» mormoro, dubbioso.
«Ma Gian, che deve fare? Dirti “hey, guarda che ci sto provando”? Svegliati e rispondi ai segnali». Non rispondo, non avevo nemmeno capito fossero segnali. Poi, sono veramente segnali? 
«Figurati, questo non capisce mai una sega!» esclama Eli, tirandomi un’altra botta alla spalla. Basta picchiarmi.
«Calma un secondo, però.» asserisce Auri, con un gesto di una mano. «Precisamente, lui che t’ha detto? Proprio le parole»
«Eh, “sono gay”, non ha lasciato nulla da interpretare…» rispondo.
«E a Milano ha qualcuno?»
«No…» mormoro. «…L’altra settimana ho conosciuto il suo ex…» aggiungo.
«Ma che cazzo dici!?» sbotta Eli.
«E com’è?»
«Dimmi subito il nome che lo cerco!»
«Ma…» provo a dire. 
«Niente ma, sputa il cazzo di rospo!» continua. Faccio un’espressione rassegnata e spiego che so solo il nome e che non l’ho trovato né tra i seguiti, né tra i follower di Jaco. Mi sa che l’ha bloccato o simili, per rispettare la sua privacy io non ho voluto impegnarmi più di tanto. 
In due secondi, però, sono tutte e tre ad analizzare da cima a fondo il profilo di Jaco. Sempre più inquietanti, aiuto.
«Oh, trovato!» esclama Auri, alzando vittoriosa il cellulare. «Oh, cazzo! Ha ancora le foto con Jaco!»
«Porca troia!». Gesù, ma cosa ho fatto?
«Sì, vedete di non mettere like a nulla…» brontolo.
«Gian, guarda qua…» mi dice Eli, tirandomi per la maglietta. «Dovevamo cercare su OnlyFans, altroché…» sghignazza.
«Non voglio vedere foto di limoni…»
«È molto peggio, devi guardare.». Sospiro e porto l’attenzione sul telefono di Auri. Jaco fuma su un balcone, completamente nudo e censurato solo dal pollice di Martino in prospettiva. La descrizione recita “Two full moons 🌝”. Riguardo la foto. Ah, già, c’è pure la luna piena. Beh, almeno è un bravo storyteller.
«Aspè, guarda quella sotto…». No, mi basta quella che ho già visto. Il dito di Auri scorre sullo schermo, l’altra foto è di Martino in mutande, che dà la schiena allo specchio, Jaco gli bacia una spalla guardando nell’obiettivo, una mano infilata nei boxer a stringergli una natica. Ecco, sì, decisamente molto peggio di un limone. “Just you and me”. Nei commenti un certo diego_91 scrive “muy lindo😍”, Martino risponde con un cuoricino. Oltre il danno, anche la beffa, povero Jaco.
«Vabbè, sti cazzi…» borbotto, facendo spallucce. Jaco mi è sembrato molto sicuro sulla totale chiusura della relazione, queste sono foto vecchie, non posso incazzarmi anche per il passato. Già lo sono per il presente.
«Sì, dillo senza piangere.» commenta Eli. 
«E che ti devo dire? Jaco non ci torna insieme…»
«E chi dice il contrario? Sembrano solo molto affiatati. E questo Martino è più fregno di te. Ci sono tutti i presupposti per una bella scappatella a ricordare i vecchi tempi.» 
«Certo che sembrano affiatati, son stati insieme due anni. E comunque, grazie, sei proprio un’ottima amica, un toccasana per l’autostima…» ribatto, raccogliendo le braccia al petto. Porca troia, quanto mi brucia.
«Dai, Gian, se è ex, ci sarà un motivo.» prova a rassicurarmi Rebe.
«A mio parere ce ne sono tanti, tutti riassumibili con “è un po’ una merda”… ma intanto è in vantaggio lo stesso. Io per ora non sono un bel cazzo di niente.»
«Eh, appunto per questo ti devi svegliare e ascoltarci. Inizia a provarci pure tu, se no “un bel cazzo di niente” ci rimani per sempre…»
«Ho capito, ma io sono scemo…»
«E questo si sapeva già. Devi-solo-svegliarti!» esclama Auri, irritata. Sbuffo e distolgo lo sguardo.
«Tra l’altro che strano vederlo con un uomo… mica me lo aspettavo…» commenta Eli, continuando a guardare la seconda foto. Allungo il collo per guardarla. I fianchi, le spalle, le cosce, anche il culo di Martino sono molto maschili, tutto un po’… squadrato. Però non stona con le spalle più alte e larghe di Jaco, il suo braccio gigante coperto di peli scuri, la sagoma della sua manona attraverso la stoffa delle mutande. A me non fa strano, in realtà. L’unica cosa che proprio mi rode è l’idea di non essere io l’oggetto delle sue attenzioni.
Prendo un sorso di birra e scaccio dalla mente l’idea della sua mano sul mio, di culo, poi abbasso lo sguardo verso il mio telefono e mi ritrovo un “vorrei che fossi con me, ci divertiremmo il triplo” tutto sgrammaticato e pieno di refusi che mi fa quasi svenire. Adesso non riesco a non vedere che ci sta provando. 
«Eli, si sta di nuovo imbambolando» brontola Rebe. Eli ringhia qualcosa di sconnesso, mi prende il cellulare dalle mani e mentre lo guarda, io striscio sulla sedia, perché evitare il confronto è una delle mie attività preferite. 
«Guarda, Gianluca, non farmi parlare…!» scoppia. Stringo le labbra in una linea sottile e faccio un’espressione colpevole perché forse hanno ragione. Ma perché allora non ha mai cercato di fare lo step successivo? Beh, magari ha la stessa paura del rifiuto che ho io. Mi sento in colpa per non avergli mai fatto capire niente, ma mi autoassolvo in fretta. Io sono giustificato, la mia vita è sempre gravitata attorno al mio minuscolo paesino con la stessa vitalità di un fossile di dinosauro, lui è questo miscuglio tra la cosa italiana più simile a una grande metropoli e la capitale gay della Germania, ha avuto perlomeno l’occasione di fare esperienza. 
Eli mostra il mio cellulare al resto del tavolo, che per un secondo si zittisce. Poi una pioggia di insulti mi investe e credo di meritarmela. Nonostante stiano inventando nuovi insulti alla mia salute mentale, faccio un sorrisetto. 
«E smettila di fare quel sorrisino da braindead, testa di cazzo! Adesso la strada è solo in salita!»
«Eh?»
«Eh, sì, bello mio, che vuoi fare? Chinarti subito e fargli un pompino la prima volta che lo vedi?»
«Beh… sì» propongo.
«No, scemo di guerra!» sbotta Rebe.
«Scusate eh, se lui ci sta provando e io ricambio, perché quella del pompino non sarebbe una buona idea?»
«Tu non capisci proprio niente…» commenta Auri. «…Cioè, ok starci sotto, ma così ti fai proprio vedere disperato»
«Sì, ma io lo sono» sibilo. 
«E sti cazzi, lui mica lo deve sapere!»
«Allora quale sarebbe una buona idea?» chiedo, scettico, con le braccia al petto. 
«Una buona idea sarebbe… non so, inizi anche tu a fare un po’ l’appiccicoso…»
«…Ma allo stesso tempo gli dici che non c’è nessuno che ti piace» aggiunge Rebe, ottenendo l’approvazione del gruppo.
«Così è solo crudele»
«Non è crudele… anzi, sì, è crudele, ma è così che va il mondo. È una giostra, o ci sali, o rimani a terra»
«Non ho capito»
«Non importa, non sforzarti troppo. Devi fare un po’ il prezioso, no?»
«Ma non è quello che ho fatto fino adesso?»
«Sì, ma solo perché sei stupido. Adesso devi iniziare a farlo volontariamente»
«E non peggioro la situazione?»
«No, perché un po’ glielo devi far capire che lo stai facendo apposta e che in realtà sei interessato…»
«Ma allo stesso tempo, non devi essere troppo palese che ti umili e basta… devi fare un po’ così…» continua Eli, facendo un gesto alla “non lo so”. «…l’indeciso»
«Ma non lo sono» ribatto.
«Sì, ma non devi esserlo, devi solo farlo. Tipo quando hai fame a casa d’altri, ti chiedono se vuoi qualcosa, tu dici “no” per essere gentile, ma poi mangi lo stesso, capisci?»
«Sinceramente no». Tutte e tre fanno un sospiro sconsolato, io prendo un sorso dubbioso di birra.
«Sti cazzi, non devi capire! Devi solo fare come dice Eli: l’indeciso. Gli uomini sono distratti, se non tieni alta l’attenzione, si stancano, perdono il focus e ti ghostano, vuoi farti ghostare da Jacopo?» mi chiede Rebe, retorica.
«No» mormoro.
«E allora infilati un tappo in culo, fai un po’ la primula rossa e impara ad aspettare!»
«Ma non comprendo perché. Se lui facesse così con me, mi romperei e lascerei perdere.»
«Perché da che mondo è mondo, è chi puccia il biscotto che deve rincorrere l’altra parte.»
«Questa è una cosa un po’ sessista.» osservo.
«Bisogna adattarsi a quello che il mondo ha da offrirci. Specie se hai voglia di cazzo». Sospiro. Non so che pensare: secondo me sono tutte stronzate, ma è anche vero che non ci capisco niente. E che di voglia di cazzo ne ho parecchia.
«Gian, fallo penare un po’, perché intanto poi quando lo fate quello che soffre sei tu.» mi consiglia Auri.
«Ma che ne sai…?» chiedo, con le sopracciglia aggrottate.
«Ti prego, adesso dimmi pure che sei tu l’attivo tra voi due e il mondo va direttamente al contrario…» sibila Eli.
«Sai che stai solo alimentando stereotipi di genere e omofobi per cui quello grosso e mascolino lo mette e quello piccolo e delicato lo prende?» la provoco, dando l’ennesimo sorso alla birra. Lo sapevo che stasera dovevo restare a casa.
«Dai, dimmi, raccontami un po’ le tue fantasie con Jaco: glielo metti tu o te lo mette lui, tu guardi il cuscino o gli guardi la nuca? Son curiosa…» ribatte lei, raccogliendo le braccia al petto. Provo a immaginarmi la situazione in cui sono io a stare sopra, ma faccio subito una smorfia. Non è il mio, non ci sono dubbi. Poi mi ha pure detto che lui è attivo, quindi, anche se fosse. Anzi, meglio ancora, così nessuno dei due deve sacrificarsi.
Striscio ancora sulla sedia, incasso la testa nelle spalle e grugnisco: «Ok, va bene, farei io il passivo…»
«Wow, ma chi se lo sarebbe mai aspettato? Che grande novità mi stai dando, Gian…» cantilena, sarcastica, facendo ridere le altre due, prima che sia lei sia Auri sgranino gli occhi e facciano un’espressione sbigottita.
«Oh…! Ciao, Gian!» sento esclamare alle mie spalle. Mi si blocca la schiena. Oh, che palle, la riconosco questa voce. Mi volto lentamente, provando ad accennare un sorriso nervoso. Vincenzo se ne sta lì, sorridente, a braccetto con una tipa mai vista prima. Beh, almeno in questi quasi quattro anni si è messo a posto, non sembra più uno scappato di casa. Si è fatto crescere un po’ di più i capelli, si è pure fatto più grosso, i baffi da latte hanno lasciato spazio a una barbetta appena accennata, ma almeno sembra avere più di quindici anni.
«Hey…» mormoro, un po’ inquietato. 
«Da quanto non ci vediamo!» continua, troppo euforico per i miei gusti. Soprattutto considerando che l’ultima interazione che abbiamo avuto è stata uno schiaffo. 
«Eh…» esalo, indeciso su cosa dire, rimanendo di sasso quando mi dà un mezzo abbraccio. 
«Ci dobbiamo raccontare un sacco di cose!» mi dice, tenendomi le braccia. «Lei è Greta, la mia fidanzata!» spiega, indicando la povera malcapitata al suo seguito. Scappa, non ti conosco, ma scappa. Io e lei ci presentiamo, con la coda dell’occhio vedo Vincenzo salutare Auri ed Eli. Ma porco cazzo, già devo gestire Jacopo, adesso anche Vincenzo no. «Quindi, come va?» mi chiede, allungandosi verso di me.
«Ehm… no, beh, abbastanza bene…» abbozzo, facendo un passetto all’indietro. «E tu?»
«Oh, bene, bene, ora sto a Forlì praticamente sempre, siamo passati qualche giorno prima di partire che andiamo in Croazia…» racconta, facendo un sorriso. Ah, già, che era andato a fare l’università a Forlì. Non ricordo che facoltà. Beh, non che mi interessi. «Dai, vieni un attimo fuori che mi fumo una paglia e mi racconti che fai…». Annuisco, non proprio convinto, ma non so che scusa inventarmi.
«Gian, il telefono…» mi dice Eli, passandomi il cellulare. Ah, ce l’aveva ancora lei. «…Se Jaco ti scrive, vedi di non fare la testa di cazzo e provaci almeno, a usare quei tre neuroni che ti si rincorrono in testa.» sibila, stringendomi nervosamente il polso. Mugolo parecchio intimorito, poi seguo Vincenzo fuori dal bar e mi lascio cadere seduto sul solito scalino di fianco all’entrata. Lui mi si mette vicino, anzi, praticamente attaccato a me e, giuro, lo vorrei uccidere. Ci mezzo prova con me, mi tira un ceffone, svanisce nel nulla e ora ricompare e fa il grande amico. Ma che cazzo, brutto coglione. 
«Davvero, è passato troppo tempo… chissà perché non ci siamo più scritti…». Eh, chissà perché. Ma ci è o ci fa?
«Forse perché mi hai bloccato su WhatsApp…» propongo, sventolando una mano. 
«Ah, davvero? Manco mi ricordavo…» ridacchia, grattandosi la nuca.
Sospiro, roteando gli occhi al cielo e sforzandomi di non dargli del coglione. «Ti trovo bene…» asserisco, provando a essere il più accomodante possibile. 
«Sì, sì, sono proprio contento. L’università va abbastanza bene, poi con Greta stiamo per fare un anno…»
«Ah, buon per voi…» commento. «Andate in Croazia per festeggiare?»
«Eh, sì, diciamo di sì. Tu? Vai da qualche parte o ti spacchi di lavoro come al solito?»
«Quest’anno incredibilmente espatrio. Vado a Colonia la settimana prossima.»
«Oh, alleluja. Anche tu ci vai per festeggiare con qualcuno?» mi chiede, con un sorrisetto.
«Ah… beh… no, al momento niente… non c’è nessuno con cui festeggiare» balbetto. 
«Ma dai…! Non ci credo! Non hai nemmeno più la mezza pelata…!» uggiola, stupito.
«Sì, non credo che il problema fossero i capelli…» commento. Anche perché tra la mezza pelata e la condizione attuale ne sono passate di pettinature, ma comunque di cazzo mai vista nemmeno l’ombra.
«Ed Eli che parlava di Jaco? Anche lui è “al momento niente”?» ammicca. Oh, ma un grosso pacco di cazzi suoi no, eh?
«È solo un amico.» rispondo, atono. Di Jaco, Vincenzo non deve proprio interessarsene. Non sono fatti suoi, non siamo più amici e non può arrogarsi il diritto di sapere delle mie cose. E mischiare insieme Jacopo e Vincenzo mi sembra davvero molto sbagliato. È assurdo da pensare, soprattutto perché Jaco è gigante e ha tutte le possibilità di “difendersi” da solo e Vincenzo non consiste per niente in una minaccia, ma mi dà la sensazione che… boh, lo “avveleni”. Jaco è così diverso, con lui sono sempre felice, l’agitazione arriva solo perché non voglio rovinare niente. Con Vincenzo, anche se le cose sono andate abbastanza bene fino alla fine, ero sempre ansioso. Era anche il periodo, non esattamente il più stabile della mia vita, eh, però lui ci metteva del suo. Con Vincenzo non mi immagino proprio a ballare i Pinguini Tattici Nucleari mentre prepariamo il risotto alle zucchine.
«Mi fido, mi fido…» mi concede, con le mani alzate. «Ah, scusami, non ci ho pensato… ecco, tieni…» borbotta, mettendomi una sigaretta proprio davanti alla bocca. Gli lancio un’occhiata poco impressionata, prendo la cicca con le dita e me la metto in bocca da solo, proprio un momento prima che mi suoni il telefono dalla tasca. Trattengo il respiro quando leggo il nome di Jaco sul display. Ok. Ok, non fare la testa di cazzo e usare i miei tre neuroni, ce la posso fare.
«Ciao» dico, portandomi lo smartphone all’orecchio.
«Ciao, Gian!» esclama lui, euforico. No, non ce la faccio. Non posso fingere di essere indeciso, non riesco a rimanere indifferente. L’idea del pompino non mi è mai parsa così buona. Mi farei fare una laringoscopia da lui, altroché.
«Come va?» gli chiedo, un sorrisetto che spunta da solo.
«Oh, ho preso un’altra birra… forse due, non lo so» biascica, mentre Vincenzo fa scattare l’accendino per accendermi la sigaretta. Un’altra occhiatina di striscio. Sì, Jaco è infinite volte meglio. «Hey, stai fumando!»
«Vuoi farmi la predica?» domando, sarcastico.
«Mi stai tradendo…» piagnucola.
«Ah, ma pensa te, adesso è un tradimento…»
«Guarda che puoi scroccare sigarette solo a me, eh, io sono gelosissimo…». Ridacchio e scuoto la testa, facendo un tiro giusto per dargli fastidio e non sprecare la sigaretta. «Me ne vado via un weekend e tu navighi già verso altri lidi…»
«Mi abbandoni, cosa pretendi?»
«Mh… no… non ti ho abbandonato, Gian…»
«Sì, mi hai abbandonato»
«No, no, dai! Non dire così!» guaisce, io rido di nuovo. «Domani torno da te, non ti preoccupare… mi manchi tanto…»
«Quanto sei ubriaco?» gli chiedo, ignorando lo stomaco che gorgoglia.
«Abbastanza… tu sei ancora… dallo Storto?»
«Sì. Tu? Dove sei?»
«Non lo so, è il terzo bar, non ho ben capito il nome…» biascica, ancora. «Ma tra un po’ me ne vado a casa, son stanco, non ho più l’età…»
«Oh, povero vecchietto…»
«Spero che il tuo nuovo amante sia più giovane e prestante…»
«Il mio… chi?»
«Quello che ti offre le sigarette…»
«Ah! Sì, un mio vecchio compagno di scuola, quindi decisamente più giovane di te». Mugola, indisposto, già immagino la faccia da cucciolo bastonato che sta facendo. Povero. Hey, ma è solo sbronzo, da sobrio non farebbe così. «Dai, sai che ho occhi solo per te» gli concedo, approfittando delle sue condizioni e sperando che domani non si ricordi della conversazione. Sento una mezza risata contenta. Che scemo, veramente.
«Anche io ho occhi solo per te, Gian, tu mi…»
«Jaco! Non da ubriaco al telefono, cazzo merda…!» sento esclamare uno in sottofondo. «Non ti si può lasciare solo un attimo, tu sei proprio tutto fulminato…!»
«Pensa per te, Anto, non sono così ubriaco…» ribatte Jaco. Sì, beh, ho i miei dubbi. «Ahia! Ma non picchiarmi!». Oh, wow, un altro gay maltrattato per l’incapacità a relazionarsi, non sono l’unico.
«Ti requisisco il telefono, fai solo casini! Ora ti porto a casa!»
«Scrivimi, ti chiamo quando arrivi a casa…» mi propone Jaco, mogio. 
«Dai, rimettiti un po’, ci sentiamo dopo.» gli dico, sentendomi un po’ un genitore alla prima sbronza del figlio.
«Sì, dopo…» conclude. Io stacco la chiamata e scuoto la testa, prima di mandargli una foto con la sigaretta che pende dalle labbra, lui mi risponde praticamente subito con una foto con un broncio triste e il labbro inferiore all’infuori. Ridacchio ancora, contento.
«Solo un amico, eh?» mi istiga Vincenzo, ancora di fianco a me.
«Sì, solo un amico.» confermo.
«Non sembrava tanto, però comunque…» commenta, poi mi appoggia una mano sul ginocchio e prova a risalire sulla coscia. No, ecco, questo è decisamente troppo. 
Mi scanso con stizza, fulminandolo con lo sguardo. «Non mi pare proprio il caso.» osservo, seccato. 
«Non ho fatto niente di che.»
«Non credo che la tua ragazza sarebbe d’accordo con te che tocchi le gambe ad altre persone.»
«Beh, tu sei diverso…»
«In che modo?» sibilo, stringendo gli occhi.
«Sei un amico.»
«Non più.» preciso. «L’hai detto tu: non ci sentiamo da troppo tempo. Non siamo più amici.»
«Gian…»
«Cioè, fammi capire…» lo interrompo. «…Stai solo facendo finta, di non ricordarti, o non ti ricordi davvero?». Sospira e distoglie lo sguardo, io roteo gli occhi al cielo. «Ok, stai facendo finta…»
«Non è che sto facendo finta…»
«E allora che stai facendo?»
«Possiamo lasciarcela alle spalle.»
«Ok. E cosa succederebbe…?» chiedo, retorico, ma lui apre la bocca per rispondere. «Te lo dico io: o ci sentiremmo una volta ogni mille anni perché tu te ne stai a Forlì a farti i cazzi tuoi, oppure ricomincerebbe la tua tiritera da gay represso in cui mi fai sti mezzi flirt del cazzo e intanto hai la tua ragazza. Non mi umilio un’altra volta con te, Vi’, non mi faccio più prendere per il culo da te.»
«Non ti ho mai preso per il culo, Gian, io non sono gay…»
«E allora che cazzo fai ad accarezzarmi la gamba, a fare il grande amico, a interessarti delle mie relazioni? Fallo con la tua ragazza, che c’entro io?». Non risponde. Che assoluta presa per i fondelli. Mi vibra il telefono. So già che è Jaco, solo a pensarci mi viene da tirare un sospiro di sollievo. «Ora ho altro per la testa, non ho bisogno di rivangare il passato, o di fare un remake di… qualsiasi cosa sia successa tra noi. Concentrati su Greta, ti darà molte più soddisfazioni di quante te ne possa dare io.» concludo, poi mi alzo e prendo il cellulare per rispondere al colosso.
Dimani ci vediano, vero? Mi manxhi trippo 🥺😭”. Mi scappa una risatina, sarebbe stato molto divertente se fossi stato con lui, avrei decisamente preferito. Gli rispondo un po’ ironico, ma comunque accettando l’invito. Se ci riesco, a fargli quel pompino, giuro che potrei morire di felicità. Mai riposto tanta speranza in qualcosa.

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Capitolo 17
*** Tirare piste come strisce pedonali e mangiarsi le caccole ***


17 – Tirare piste come strisce pedonali e mangiarsi le caccole

Mi siedo su questa panchina nel bel mezzo di un parco che dovrebbe chiamarsi “Volksgarten”. Teoricamente dovrebbe essere il punto di incontro con questi fantomatici Theo e Caroline. C’erano altri tre personaggi che Jaco voleva vedere, ma stasera erano tutti impegnati in qualcosa e hanno deciso di fare qualcosa domani. L’unico che si è riservato la serata –e tutta la settimana, in realtà– da quando Jaco ha prenotato il volo è stato Theo. Da quel che ho capito, il suo gruppetto era fatto di quattro persone, tutte insieme fin dall’asilo; poi, dopo che Jaco si era già trasferito in Italia, si è aggiunto un certo Lukas, compagno di scienze al liceo di Andrea –che ho scoperto troppo tardi essere una ragazza– e, anni dopo, Caroline, la ragazza di Theo dai tempi di quell’università da psicotici che hanno fatto. Jaco mi ha accennato qualcosa su tutti quanti, prima di passare mezz’ora a parlare solo di Theo e concludere con “per me lui è come il tuo Lorenzo, solo molto più tedesco”. Ho come l’impressione che stasera non vedrò un tipo super drammatico andare in escandescenza per un micro-graffio sulla moto e non sentirò centomila bestemmie e vilipendi contro la religione. Non so nemmeno se esistono le bestemmie in tedesco.
«Uff, la passeggiatina mi ha fatto proprio bene» borbotta Jaco. Ridacchio, lui mi si siede a fianco, ancora col sorriso stampato in faccia. È da quando siamo scesi dall’aereo che è al settimo cielo. Io ero ancora traumatizzato dalle turbolenze, ma lui mi ha preso per un braccio e in quattro e quattr’otto mi ha portato in hotel, fatto lasciare il bagaglio e trascinato in centro per pranzare. Poi, vabbè, abbiamo mangiato un paninetto del cazzo tipo di un minimarket, evidentemente qui si mangia pochissimo a pranzo e ci si sfonda a cena, però è stato contentissimo di anche solo mangiare quel tramezzino prosciutto, funghi e maionese dall’odore orrendo semplicemente perché l’etichetta era scritta in tedesco e l’indirizzo sullo scontrino recitava bello grande “Köln”, che ho scoperto essere Colonia nel tedesco ufficiale; “Kölle”, come la chiama lui, è in dialetto. Che si chiama Kölsch, come la birra. “L’unica lingua che si beve”, ha asserito orgoglioso, trangugiandosene una alle tre del pomeriggio. Sono arrivato stamattina e questo tipo di tedeschi già non lo sopporto più.
Dopo pranzo, mi ha portato in un bar e mi ha preso una fetta di torta al cioccolato e la cosa più lontana possibile da un caffè. Era una specie di… beverone caffellatte pieno di panna montata e sciroppo al cioccolato. Alla mia domanda “scusa, eh, non potevamo prendere un caffè e basta?”, mi ha guardato come se avessi appena bestemmiato, poi mi ha detto che questo è il suo posto del cuore, ma il caffè fa comunque cagare, quindi di prendere sempre qualcosa che esulasse il più possibile dall’italica idea dell’espresso. Mi ha fatto cagare pure il beverone, ma non ho avuto cuore di dirglielo, mi sono limitato a sviolinarmela sulla torta che effettivamente era molto buona. 
Poi mi ha fatto fare un giro nel centro, mi ha portato su un ponte coi lucchetti degli innamorati e una bella vista su Colonia, se fossi stato in grado di far evolvere le cose con lui, quello sarebbe stato proprio il posto perfetto per un primo bacio. La mia coscienza a forma di Elisa arrabbiata ha provato a ridirmi per l’ennesima volta di mandargli un segnale qualunque per smuovere le acque, ma ci ho rinunciato in fretta. Dopo la serata tutta al femminile, ho provato seriamente per tipo due volte a fare quello che mi avevano detto di fare, ma il risultato è stato molto fallimentare: Jaco che mi guardava confuso, io che mi sentivo coglione. Ho capito che “io” e “provarci” non siamo fatti per stare nella stessa frase, non sono capace a flirtare, a fare le mosse, o qualsiasi altra danza di corteggiamento. Però ero contento lo stesso: eravamo lì noi due insieme, io lo osservavo, lui se ne stava appoggiato al parapetto con lo sguardo vacuo verso la città, non guardava un punto preciso, però aveva quel sorrisino pacifico che ci ha accompagnato tutto il giorno e gli occhi innamoratissimi. È stato, penso, il momento in cui l’ho visto più felice e sereno da quando ci conosciamo, gli ho pure fatto una foto da quanto era bello con quell’espressione e non gliel’ho fatta vedere finché non siamo scesi dal ponte, perché non volevo disturbarlo dal suo attimo di contemplazione. Siamo andati anche a vedere la chiesa in cui partecipava alla scuola domenicale da piccolo valdese e, per par condicio cattolica, il duomo, in cui mi ha fatto salire una quantità completamente errata di gradini per arrivare in cima a una delle torri. Per poi osare dirmi che in realtà la vista più bella ce l’ha un grattacielo con un ascensore. Il triangolo di Colonia. Poteva dirmelo prima di farmi fare centocinquanta metri verticali di scale. 
A cena ha mangiato l’equivalente di un bue intero, scandito da almeno venti birre, per poi allargare la cintura e slacciarsi un bottone dei jeans di nascosto sotto il tavolo. “Sto scoppiando, Gian, tra un po’ mi esplode lo stomaco”. Io ho preso le tre cose vegetariane che ho trovato sul menù, ovvero una porzione di patatine fritte, questo famoso Halve Hahn, che effettivamente altro non è che una pagnottina di segale imburrata con dentro del formaggio e dei sottaceti, e una specie di purè di patate con una salsa di mele dal nome impronunciabile. Non ero convinto per niente –frutta insieme al purè, roba che si potevano inventare solo i tedeschi…– e mi sono sentito essenzialmente obbligato da tutti i “guarda che è buono” di Jaco, per poi scoprire che sorprendentemente non era male, solo un po’ strano. Ovviamente nulla in confronto a una pizza, o a una pasta, però era tutto perlomeno commestibile.
«Quindi, sei sicuro che i tuoi amici parlino inglese?» chiedo, un goccio preoccupato.
«Gian, io giuro, non so più come dirtelo: , parlano inglese.» esala, esasperato.
«E Theo sa che sei gay? Non rischio di dire qualcosa di sbagliato?»
«Ma ti pare che non dica di essere gay al mio migliore amico che conosco letteralmente da una vita? Sa pure quanti capelli ho in testa.»
«Quanti ne hai?»
«Chiedilo a lui» risponde sarcastico. 
«Guarda, la cifra precisa io non la so, ma ne conto almeno tre…» lo provoco. «Eins, zwei, drei… hai visto? Ho imparato» gli dico, prendendogli tre capelli. 
Ride e ritrae la testa. «Veramente molto bravo. Però non staccarmeli, che già ne ho pochi…»
«Non sei nemmeno stempiato, non ti puoi lamentare. Sembrano pochi perché li tagli troppo corti» lo sgrido, passandogli una mano sulla nuca dove la sfumatura li fa diventare cortissimi.
«Tu come mi vedresti bene?»
«Non riesco a immaginarti in nessun altro modo… per me sei perfetto così»
«Ti piaccio anche con la mezza ciotola in testa?»
«Sì. Così mi piaci, ti stanno proprio bene. Poi se un giorno te li fai crescere va bene lo stesso, eh.»
«Non posso tenere sia i capelli che la barba lunghi, una delle due cose deve rimanere corta»
«E hai scelto i capelli» osservo, ironico.
«Sbarbato sembrerei solo un quattordicenne» commenta, avvicinandosi e circondandomi le spalle con un braccio, il suo ginocchio contro il mio. «Poi, ho il mento a culo, davvero orrendo, la barba lo copre»
«Saresti bello lo stesso» confesso, spostando la mano sulla sua spalla, il pollice a sfiorargli il collo appena vicino al bordo della sua maglietta, la destra fa lo stesso risalendo dal braccio. 
«Nah…» sussurra e abbassa appena lo sguardo, l’altra sua mano si va ad appoggiare sul mio fianco. «…Tu lo sei molto di più». Lui mi stringe di più e si avvicina ancora, poi inclina leggermente la testa e struscia il naso contro il mio, per poi incastrarli tra loro. Sento la schiena irrigidirsi, il cuore che mi sale in gola. Ok, adesso mi bacia. Sicuro mi bacia.
«Jaco!» sento esclamare. Sobbalzo terrorizzato e non do a Jaco neanche il tempo di reagire che mi catapulto dall’altra parte della panchina, gli occhi sbarrati come manco un cervo puntato dai fari di un camion. Verso di noi si stanno avvicinando due figuri, quello alto tiene due cassette da sei di birra, che molla immediatamente in mano alla tipa appena Jaco si alza in piedi. Fa una mini-corsetta, appena si ritrova davanti a Jaco fa una risata contenta e lo abbraccia, venendo subito ricambiato. Cazzo, questo tizio è un fottuto vatusso, è ancora più alto di Jacopo, non credevo fosse possibile. Jaco è più massiccio e questo è più longilineo e la cosa lo fa sembrare ancora più alto. E giuro, se dovessi immaginare un uomo tedesco, immaginerei proprio lui. Capelli biondissimi sotto un berretto con la visiera a becco, occhi grigi dietro a un paio di occhiali di quelli un po’ tondi, con la montatura sottilissima, una maglietta nera di un gruppo che non conosco infilata in un paio di bermuda color sabbia. Mancano solo i sandali coi calzini di spugna. Ah, no, i calzini di spugna ce li ha, i sandali fortunatamente sono stati sostituiti da un paio di scarpe da ginnastica. 
Anche quella che presumo essere Caroline ci raggiunge, appoggia le birre sulla panchina e si gira verso di me, con un sorriso di cortesia. Ok, lei è meno stereotipo tedesco, jeans e una maglietta con il ponte di Brooklyn stampato sopra. Gli occhi verdi e un caschetto castano la fanno sembrare una persona non uscita da una pubblicità razzista anni Ottanta. Fondamentale, la cosa più importante di tutte proprio, ha una statura umana, posso guardarla in faccia senza slogarmi il collo.
«Buonasera. Piacere di conoscerti. Io sono Caroline» asserisce, cordiale, tendendomi la mano. Io mi alzo in piedi e gliela stringo titubante.
«Gianluca…» mi limito a mugolare, ancora in questo stato di shock e imbarazzo mischiati insieme.
«Bel nome. Abbiamo interrotto qualcosa?» chiede curiosa, io scuoto la testa come mai ho fatto prima, pronto a morire seduta stante. «È la prima volta che vieni qui a Colonia
«Sì…»
«Spero ti piaccia, molto diversa dall’Italia, no?» continua, incredibilmente gentile.
«Sì, sì, ma… per ora mi piace…» mormoro. Sorride, fa per dire qualcos’altro, ma un lamento strozzato ci distrae ed entrambi ci voltiamo verso gli altri. Stanno facendo… una specie di lotta? Non ne ho idea, l’unica cosa che vedo è Theo che stringe un braccio attorno al collo di Jaco, rimasto tutto piegato in avanti, un suo gomito puntato tra le costole del più alto. Si stanno dicendo roba a me incomprensibile, ridono come dei matti e girano in tondo per provare a liberarsi uno dall’altro. 
«Oh, ma la volete piantare!? Ma quanti anni avete!? Theo, mollalo!» esclama Caroline, autoritaria, le mani sui fianchi.
«Eddai, Jaco è tornato dopo secoli, lasciamelo salutare bene!» ribatte Theo, prendendo la testa di Jaco tra le mani e strofinandogli una guancia con la propria. Jaco gli dice qualcosa in tedesco, battendogli una mano sul petto e facendo un sorriso gigante, poi Theo gli appoggia i palmi sulle guance e gli scuote un po’ la testa. «Tra l’altro, finalmente ti sei lasciato con quell’altra merda che non ne potevo più di dover seguire le vostre cazzate! Ci siamo lasciati, siamo tornati insieme, giuro, che palle!» gli dice, credo riferendosi a Martino, poi lo abbraccia di nuovo.
«Preparati, saranno tutto il tempo così…» mi brontola Caroline. «È difficile stare così tanto tempo lontano dal proprio fidanzato!» continua, ad alta voce, in modo che sentano anche Jaco e Theo, ancora appiccicati.
Jaco ridacchia e gli dà un bacio sulla guancia, Theo fa una faccia sorniona, poi i nostri sguardi si incrociano e in letteralmente due passi me lo ritrovo davanti, la luce del lampione oscurata. «Ciao! Gianluca, giusto? Jaco ci ha parlato tanto di te! Io sono Theo!» esclama, afferrandomi la mano e scuotendomi il braccio come a volermelo staccare. «Oh, cazzo, non è che abbiamo mica interrotto qualcosa?» chiede, guardando prima me e, poi, Jaco. Di nuovo, scuoto la testa senza riuscire a dire una sola parola. Potevano arrivare un momento prima o uno dopo, hanno scelto quello più sbagliato di tutti. 
«Lascialo in pace, poverino, che lo metti a disagio!» lo sgrida Jaco, io porto lo sguardo su di lui, che mi accenna un sorriso disponibile. Di fianco a lui, Caroline annuisce con le braccia al petto, come se non mi avesse fatto la stessa identica domanda anche lei.
«Oh, ma che disagio! Sei a disagio?» mi chiede, io faccio un minuscolo cenno di diniego. Siamo ben oltre la fase del disagio. «Ecco, vedi? Questo è uno a posto, mica come quegli altri disadattati che ci hai sempre fatto conoscere!»
«Sono sempre stato sfortunato in amore» asserisce Jaco.
«Bah, più che sfortunato, solo molto poco intelligente…» commenta Caroline. Theo scuote la testa e mi lancia un’occhiatina rassegnata, poi, per grazia di Dio, perde interesse nella mia persona e va a prendersi una delle dodici birre che hanno portato. «Quindi, un brindisi non lo facciamo?» propone lei.
«A che vuoi brindare?» chiede Jaco, poi si gira verso di me, che sono rimasto leggermente in disparte, ancora piuttosto imbarazzato da prima. «Beh, che fai lì? Dai, Gian, vieni qua…» mi dice, prendendomi per un polso e tirandomi delicato verso di loro. «Brindiamo a quello a cui vuole brindare Caroline»
«Non darmi tutte le responsabilità, scusa»
«Tu hai proposto, tu brindi, avanti» la liquida, passandomi una bottiglia. 
«Oh, vabbè, senti… allora… bentornato a Jaco e benvenuto a Gianluca!» dichiara, alzando la bottiglia, poi esclamano tutti e tre una parola che immagino essere un “cin-cin”. 
«No, no, ciccio, devi brindare pure tu…» mi avverte Theo. «Si dice “prost”, avanti, così ti facciamo vedere come si vive qui»
«Impossibile, nella patria della puntualità Gian che è sempre in ritardo durerebbe ben poco…» osserva Jaco, ridacchiando.
«Questa è una grave falsità diffamatoria!» sbotto, oltraggiato. Lui scoppia a ridere e prova a bere, ma Theo gli tira subito giù il braccio.
«E aspetta un attimo, brutto alcolista!»
«Poi, comunque, sempre un signore tu, eh! Ce l’hai appena presentato adesso e subito gli dici qualcosa di cattivo!» esclama Caroline, mentre Theo si gira verso di me. 
«Prost. È una parola latina, vuol dire tipo “che giovi”, ma viene usato come “alla salute”. Questo zotico non ti ha insegnato proprio niente, vero?» mi spiega. Mi scappa un sorrisetto e scuoto la testa per negare, Caroline sospira, poi rifacciamo il brindisi, finalmente riuscendo a portarlo a termine. 
Lei si siede sulla panchina, subito seguita dal suo ragazzo, Jaco prende ancora un sorso di birra prima di lasciarsi cadere di fianco a Theo che lo guarda storto e gli tira una botta sulla spalla. 
«Miseria, Jaco, tu e sti modi da pachiderma!»
«Ti ero mancato tanto, vero?» lo provoca, ricevendo come risposta una risata di scherno e un bacetto volante. Io resto in piedi, non c’è più posto, ma Jaco prende le casse e le poggia a terra, alzando lo sguardo verso di me. «Dai, mettiti qui che ci stiamo, intanto mo’ Theo si leva dal cazzo che occupa metà panca…» mi dice, spostandosi sul bordo e facendomi cenno di venire. 
«Che clown che sei, guardati te, il più ciccione di tutti…» ribatte l’altro, mentre io mi metto in mezzo a loro, Jaco mi prende per i fianchi e mi tira giù, lasciando la mano sinistra appoggiata sulla mia vita. «Sì, non fate i piccioncini tutta la sera, però…». Mi attacco alla bottiglia, le guance con la stessa temperatura del Sole. Aiuto, che vergogna.
«Dai, non essere geloso, lo sai che Jaco ama solo te…» lo provoca Caroline, ricevendo un pizzicotto sul braccio.
«Vedi comunque che metti a disagio la gente? Se tratti così tutti quelli che porto, certo che sembrano disadattati» osserva Jaco, scocciato.
«Oh, stai zitto, Jaco, i tuoi ex sono tutti psicopatici, tu proprio hai un sesto senso per i coglioni» commenta Caroline. «L’eterno indeciso lo conosci già, ma ti ha raccontato del tossico?» mi chiede.
«Come hai fatto a star dietro a quel tarato di Martino per due anni, Jaco, davvero, non lo capirò mai» commenta Theo, scuotendo la testa.
«E osi pure dire che non sono disadattati, cioè…»
«Sì, tra l’altro per riuscire a essere geloso di me devi essere particolarmente disadattato…» brontola Theo. 
«Ma davvero?» mi sorprendo a chiedere. Jaco annuisce, mentre Caroline fa un’espressione scocciata.
«L’anno scorso, in ferie in Austria, in una bucolica baita, io e lui ce ne stavamo a coccolarci sul divano, mentre Jaco si stava facendo la doccia.» inizia a raccontare lei. «Martino passeggia per la casa, a una certa viene da noi e dice a lui “so che vi conoscete da tanto, però ora Jaco sta con me, non è che ti fai da parte?”. Cioè, ma puoi? Io ero di fianco a lui, ripeto, ci stavamo coccolando. Noi stiamo insieme da quasi otto anni. Queste due bestie hanno praticamente succhiato la stessa tetta. Mai una sola volta avrei pensato di andare da Jaco a dirgli “tu, uomo gay, non parlare col mio fidanzato etero che conosci da quando sei nato perché non mi piace”…». Ah, ecco la gelosia ingiustificata di Martino nei confronti del “mio migliore amico, etero per giunta”.
«E menomale, se no saresti volata via in trenta secondi come Sonja. Ha avuto giusto il tempo di dire “ma tu con Jacopo…” e via, libera come un’aquila.» commenta Theo. 
«E che hai fatto con Martino?» gli domando.
«Oh, l’ho ignorato e sono direttamente andato da lui.» asserisce, atono, facendo un cenno verso Jaco.
«A gridarmi contro.» aggiunge Jaco.
«Tieni buoni i tuoi partner sessuali e vedi che non ti grido contro.» gli dice Theo, scuotendo la testa.
«Comunque ottima idea andare a parlargli mentre è nudo quando quello pensava che scopaste.» lo sgrida Caroline, dandogli una pacca sulla coscia.
«Lasciami in pace, ero incazzato. Puoi pensare che sia gay, bi, quello che ti pare, non mi urta. Ma mettiamo bene in chiaro l’ordine delle cose» osserva, facendo spallucce.
«Ovvero prima tu e Jaco, poi tutti gli altri» aggiunge lei.
«Esatto.». Jaco sghignazza contro la bottiglia, poi allunga una mano per toccargli il cavallo dei pantaloni, Theo con la velocità di un fulmine gli gira il polso e gli ringhia: «Giuro che te la taglio, sta mano del cazzo». Sì, Theo è decisamente il suo Lorenzo molto più tedesco. 
«Vediamo il lato positivo, ci siamo liberati anche di quest’altro problematico» sibila Caroline, guardandoli male entrambi.
«Sì, basta, con lui è chiusa» afferma secco Jaco, scuotendo la testa. 
«E invece il tossico?» domando, ormai sono curioso.
«Ah, giusto!» esclama Theo, quasi strozzandosi con la birra.
«È imbarazzante» mi avverte Jaco. Come se la storia su Martino non lo fosse.
«Tu zitto. Un po’ di contesto: avevamo tipo ventitré anni, c’era in ballo un’altra vacanza, io e lei saremmo andati sulla riviera ligure, così la portavo per la prima volta in Italia e ci accollavamo pure sto relitto, no?» inizia lui, facendo un cenno con la testa verso Jaco. «Arriviamo, tutto bello, tutti contenti, questo fa “no, beh, magari una notte rimane pure il mio nuovo tipo”…»
«E fin qui tutto ok, penseresti» lo interrompe Caroline, Jaco già che ridacchia.
«Eh, esatto. Due giorni dopo, si presenta sto tizio con un felpone nero ad agosto, noi ci stavamo sciogliendo su quella spiaggia, ma vabbè, dai, è solo particolare. La sera, noi due vogliamo uscire, loro ci tirano pacco e tu pensi “boh, ci sta, vogliono scopare senza di noi tra i piedi”. Tutto fantastico. Torniamo a casa alle tre del mattino, Jaco dorme beato in mutande sul divano, seduto al tavolo della cucina c’è questo… matto, completamente nudo davanti a una raglia di cocaina che sembrava… non lo so, una striscia pedonale. Ci saluta contento, si tira sta pista in una sola botta, si alza, sveglia Jaco e lo trascina in camera. E di sicuro non hai mai sentito uno urlare così forte mentre faceva sesso nella tua vita. Manco nei porno quelli hardcore. Io ho pensato che quello non fosse un rapporto sessuale, che fosse un omicidio cruento.» racconta, con gli occhi sbarrati, Jaco piegato in due dalle risate, io lo guardo a metà tra il divertito e il giudicante.
«Ti facevi di coca?» gli chiedo.
«No, no! Giuro, mai fatto di niente! Era lui l’unico cocainomane della coppia…!» risponde, con la mano sul cuore. «E comunque faceva quei versi solo quando pippava, diventava un animale, mi cavalcava così forte quasi da staccarmelo.»
«Ecco, non importa di quale periodo della sua vita gli chiedi, relazione lunga o corta, seria o occasionale, non è rilevante, Jacopo ti racconterà sempre di un personaggio matto da legare che fa cose che sembrano quasi inventate… e se uno non lo conoscesse, penserebbe che sono davvero inventate, ma è solo Jaco che li attira tutti così» brontola Caroline.
«Non mi annoio mai» commenta il diretto interessato.
«Eh, porco cazzo, inizia a farlo, magari»
«No, sì, mi sono rotto di stare sempre a tribolare, adesso ne sto cercando uno serio e normale, da starci insieme da tranquillo». Distolgo lo sguardo e deglutisco. Che situazione. Non ho manco capito se si riferisca specificatamente a me, a qualcun altro in particolare, o lo stia dicendo in generale. Vabbè, in realtà non capisco mai un cazzo di niente in questa vita.
«Ti è andata pure di culo che l’hai trovato, Gian –ti posso chiamare Gian, no?­­– sembra sveglio. Vedi di non rovinare tutto, Jaco» gli dice Theo. «E tu abbi un po’ di pazienza con lui, è bravo, solo un po’ stupido» suggerisce a me. Annuisco, seriamente sull’orlo di un collasso. Io non ce la posso fare.
«Cioè, fammi capire, ma ce la fai a farti i cazzi tuoi per dieci minuti!?» sibila Jaco, a denti stretti.
«Hai perso i diritti sui cazzi tuoi da quando ho visto mezzo metro di bamba sul tavolo della casa vacanza prenotata a mio nome!» sbraita l’altro. Jaco gli ringhia qualcosa in tedesco, lui controbatte con un’aria scocciata.
«Basta, vado a pisciare!» esclama Jaco, si alza, tracanna quel che rimane della birra e si avvia verso un punto non definito. Theo rimane a guardare in sua direzione fino a che è abbastanza lontano, quindi si gira verso di me con uno sguardo serio. 
«Voi due non state ancora insieme» asserisce. Io rimango di stucco, spero di non fare un’espressione esageratamente spaventata, ma non credo di avere troppo controllo sulle mie emozioni ora come ora.
«Theo, sii gentile…» gli dice Caroline. «Su questo ha ragione Jaco, sei minaccioso»
«Jaco non ha mai ragione su niente.» ribatte. «Senti» continua, di nuovo rivolto a me. «L’ho visto mangiarsi le caccole all’asilo, alle elementari mi rubava sempre i miei biscotti preferiti, al Gymnasium mi nascondeva in continuazione le mutande pulite nello spogliatoio della palestra. Fidati di me, può essere pieno di difetti e avere tanti comportamenti insopportabili, ma quando l’ho visto andarsene via mi sono sentito come se avessi appena perso mio fratello, perché si era sempre comportato come tale. È davvero una brava persona che farebbe qualsiasi cosa per i suoi cari, i suoi genitori, i suoi amici, i suoi… millemila fidanzati problematici. 
Non ti conosco, ma perlomeno mi stai facendo una buona impressione, già cosa miracolosa visti i precedenti personaggi, ormai credo che tu ti sia accorto che generalmente Jaco ha davvero un pessimo gusto in fattore uomini, non se ne sa trovare mezzo buono. Forse ha finalmente capito che ha molto più senso almeno cercare uno calmo piuttosto che un pazzo scatenato. Tra le mille cose che gli sono capitate nella vita, ha sofferto come un cane per troppo tempo. Adesso si merita soltanto qualcuno che lo ami, merita di sentirsi amato una volta tanto, merita perlomeno di sapere che c’è speranza anche per lui. Non so cosa provi per lui, ma se vuoi solo una mezza scopata, che ne so io, lascialo perdere, lasciagli la soddisfazione di trovarsi qualcuno di serio.» mi spiega, guardandomi dritto negli occhi. Annuisco, spiazzato, di fianco a lui mi sento minuscolo e so che non ci può fare niente, ma sembra ancora più minaccioso. Che poi non la voglio nemmeno una mezza scopata, ma miseria, che paura.
«Theo, ma che cavolo, ti avevo detto di essere gentile…» uggiola Caroline.
«No, no, non c’è problema» le mormoro. «Io…» inizio, poi, provando a rispondere a Theo. Ho tipo mezzo secondo per inventarmi qualcosa.
«Non preoccuparti, a me non devi dire niente, non voglio sapere i fatti tuoi, veditela tu con quell’altro…» mi interrompe lui. «Non voglio spaventarti, ma non posso nemmeno seguire quello strampalato e tutta la gente a cui va dietro. Te lo dico ora, così lo sai e non devo poi incazzarmi.». Sospiro e abbasso lo sguardo. Ma cazzo, sono pure volato via quando mi stava per baciare, chissà adesso che pensa. E questo mio imbarazzo finora non ha di certo aiutato. Ci sta provando da un sacco, non ho fatto niente per fargli capire che ci sto, prova a baciarmi, io scappo e mi comporto strano per tutta la sera. 
Poco dopo, Jaco fa ritorno con una sigaretta in bocca e, credo, la vescica vuota, si rimette sulla panchina e, grande classico, porta il braccio attorno alle mie spalle. Faccio un’espressione terrorizzata e quasi mi lancio in braccio a Theo. Adesso ho bisogno un secondo per elaborare senza avere il fiato di Jaco sul collo. Lui mi lancia un’occhiatina confusa e, allo stesso tempo, un po’ delusa, prima di tornare a parlare con gli altri, io abbasso lo sguardo verso la bottiglia e sento una morsa nel petto. Fantastico, ho rovinato tutto. 

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Capitolo 18
*** Voglia di restare (Epilogo) ***


18 – Voglia di restare

Il citofono che sta suonando mi sveglia, grugnisco senza aprire gli occhi e pianto per bene la faccia nel cuscino. Lo spiraglio di luce che viene dalla persiana mi conferma che anche oggi sono vivo. Appena il cervello si avvia e carica tutti i pensieri, mugolo addolorato, dispiacendomi di essere effettivamente ancora in vita. Ieri mi sono svegliato in un bel letto matrimoniale a Colonia, oggi sono di nuovo a casa. E con Jacopo, la sensazione di aver rovinato tutto si è trasformata praticamente in una certezza. La prima sera, dopo il parco, Jaco è tornato in hotel praticamente a gattoni viste le ventordici birre che si è scolato ed è collassato in tipo dieci secondi lasciando la questione totalmente irrisolta, il secondo giorno ha riprovato a starmi un po’ addosso, io completamente impanicato dalle circostanze e dalle parole di Theo mi sono sempre allontanato da ogni suo tentativo di contatto e lui ha perso le speranze già prima di cena, rimanendo distante per tutti i restanti quattro giorni. Che assoluta testa di cazzo che sono. In realtà mi ero pure ripromesso di parlargli, ma non ce l’ho proprio fatta. Già in partenza non sono capace, “sereno” non era la parola che meglio mi descrivesse e Jaco era infinitamente e follemente innamorato di Colonia per sforzarsi con me, io non me la sono sentita di disturbarlo troppo con cose stupide come questa. Sì, gran bel bordello che ho fatto. Le cose erano state quasi decentemente semplici fino adesso, ovviamente ho dovuto incasinare tutto proprio nel momento clue. Mi sono scavato la fossa da solo.
Sento la porta aprirsi e un piccolo sospiro è il primo suono emesso dalla figura misteriosa.
«Ciao, Gianlu…» dice papà. Oh, wow, un deja vu. Ora sono solo molto più depresso dell’altra volta. Non mi giro nemmeno, so che mi sta chiamando per scendere, ma l’ospite che c’è di sotto potrebbe sparire seduta stante per quanto mi riguarda. Non mi interessa di brutte, belle figure, convenevoli, domande scomode, voglio solo morire nel mio letto in santa pace. «C’è… c’è Jacopo di sotto che ti sta aspettando, dice che dovevate vedervi…» mormora. Oh, fantastico, dalla padella alla brace. Ma di che mi stupisco più, non c’è mai limite al peggio. Non mi giro e rimango in silenzio evitando proprio di rispondergli, mi limito a prendere l’orlo del lenzuolo e a tirarmelo fin sopra alla testa. Non ce la posso fare. È un grosso no. «Gianlu, ma che c’è che non va?» mi chiede papà, con un tono da normale genitore preoccupato per il proprio figlio. Carichiamoci ulteriormente di sentimenti contrastanti, la mia sopportazione emotiva non ne ha avuto abbastanza evidentemente. «Non lo vuoi vedere? Perché va bene se non lo vuoi vedere, dimmi soltanto cosa gli devo raccontare…» insiste. Eccone un altro, di sentimento contrastante. Non lo voglio vedere Jacopo, al contempo non voglio lasciarlo solo con mamma. Non lo so, è tutto una merda, voglio solo cancellarmi dall’universo. Mi rannicchio in posizione fetale, esausto. Sono sveglio da due minuti e sono già pronto a tornare a dormire.
Sento altri passi arrivare dal corridoio che si fanno sempre più vicini. Non la riunione in camera mia. 
«Oh… ehm… sì, si è messo così…» commenta papà. «E non sembra di ottimo umore…»
«Provo io» risponde Jaco, calmo, facendomi pentire per l’ennesima volta di essere nato. In un istante, la persiana si apre totalmente, la stanza viene inondata di luce e mi tocca pure strizzare gli occhi per salvaguardare le mie povere retine traumatizzate. «Buongiorno, buongiorno!» esclama solare. «Dai, su, sono già le undici, alzati, Gian, che siamo pieni di roba da fare!» continua, i suoi passi si avvicinano e la coperta viene eradicata di botto dal mio corpo, lasciandomi completamente accecato dalla luce delle undici. Mugolo, infastidito e sotterro il cranio sotto il cuscino a mo’ di struzzo. «No, no! Basta, hai già dormito abbastanza, su, svegliarsi!» insiste, prendendo il cuscino e alzandolo deciso. Sospiro, mi obbligo ad aprire lentamente gli occhi e me lo ritrovo a sorridermi tranquillo, la stessa maglietta verde acqua che aveva la prima sera a Colonia. «Ben svegliato» mi dice, con una luce divina alle sue spalle. Stupido Jacopo, non fosse così… incredibile sarebbe stato molto più facile da lasciar perdere.
«Buongiorno…» mugugno, passandomi una mano sugli occhi. 
«Ti ho portato una brioche, preparati, che io ti aspetto giù, ok?» mi avverte, pacato, poi si volta e se ne va. «A volte servono le maniere forti» aggiunge, probabilmente a papà che non ha più detto niente. Rotolo giù dal letto, neanche mi cambio la maglia vecchia che ho usato per dormire, mi limito semplicemente a mettermi dei pantaloni presentabili e dei calzini. Vado in bagno per la basica decenza umana e poi, trascinandomi, scendo le scale svogliato. Mi affaccio quatto quatto in cucina, Jaco e mamma stanno chiacchierando, ma si girano subito quando paleso la mia presenza.
«Oh…! Alla buonora, eh, ti sta aspettando da un sacco di tempo…» mi rimbrotta mamma, indicando il colosso. Non rispondo, agguanto il sacchetto del bar lasciato sul tavolo e vado alla svelta all’ingresso per mettermi le scarpe.
«Vieni, Jaco!» esclamo, mentre annodo le stringhe. Lo sento salutare sia mamma, sia papà, in due secondi è di fianco a me, che recupero le chiavi di casa e controllo di aver preso il cellulare.
«Ci siete per pranzo!?» mi chiede mamma. No, per carità di Cristo. 
«Non so, poi ti dico, ci vediamo più tardi!» concludo, aprendo la porta e catapultandomi fuori, presto seguito da Jaco. Sospiro, attraverso la strada per andare verso dove ha parcheggiato la macchina, aspettandomi che la apra per poterci salire. 
«Aspetta un attimo, rilassati, mangiati la brioche…» mi dice, prendendomi per le braccia e poggiandomi contro il cofano.
«Non eravamo pieni di roba da fare?» chiedo, aggrottando le sopracciglia.
«No, mi andava solo di vederti, ma non sapevo cosa inventarmi con tuo padre… mi dispiace un po’, non volevo raccontargli una balla»
«No, hai fatto bene, che poi mi rompe» commento, lui rimane davanti a me, la mano appoggiata di fianco alla mia, le nostre gambe più o meno intrecciate. Apro il sacchetto e prendo il mio cornetto, addentandolo all’istante. «Uh, me l’hai preso alla marmellata!» uggiolo, contento.
«Hai visto? Quello al cioccolato mi faceva una gola tremenda, ma so che a te piace con l’albicocca…»
«Grazie…» mormoro, poi lo allungo verso la sua faccia. «Ne vuoi un morso?»
«Nah, ho mangiato come un maiale a Kölle, adesso è il periodo di mettersi a dieta» risponde, dandosi una pacca sullo stomaco. Ridacchio e anch’io gli appoggio una mano sulla pancia.
«Di quanti mesi è?» chiedo, sarcastico, accarezzandogli l’addome.
«Circa sedici settimane, si chiama Gouda»
«Ovviamente…» commento, roteando gli occhi al cielo, poi gli agito il cornetto sotto al naso. «Dai che non sei grasso, prendine un pezzetto, è molto buono…»
«Diavolo tentatore che non sei altro…» brontola, prendendomi la mano e addentando la brioche. «Buono» bofonchia, facendo uno sbuffo di zucchero a velo.
«Te l’ho detto» ribatto, levandogli una briciola dai baffi e abbassando lo sguardo subito dopo. Lui non dice più niente, io faccio lo stesso, rimango a mangiarmi il resto della brioche in questo silenzio imbarazzato. 
«Ciao, Gianni!» esclama Nunzia a una certa, facendomi venire un colpo. Mi giro verso il suo giardino, dove lei se ne sta con due rami secchi in mano, l’altra alzata in un cenno di saluto.
«Buongiorno, Nunzia, come va?» le domando, un po’ imbarazzato. Non era il momento, Nunzia. Non è mai il momento, ma questo in particolare era proprio sbagliato.
«Bene, bene, grazie, si tira avanti…» risponde, poi si volta e indica Jaco. «Tu sei quello della casa di Nella, vero? Com’è che ti chiami già?» domanda.
«Sì, sì, sono io, sono Jacopo»
«Ah, sì, giusto, ce l’aveva detto Rico», ci guarda a intermittenza ancora per un secondo e fa una smorfia schifata. «Vedete di non fare certe porcherie in pubblico, voi due, quelle cose da finocchi fatevele da soli…» ci avverte, puntandoci i rami contro. Appena assimilo l’informazione, mi mordo la lingua per non tirarle un porcaccio dritto in faccia e chiudo gli occhi alla ricerca di una calma interiore già espatriata da tempo.
«Non si preoccupi, che di porcherie noi non ne facciamo» ribatte Jaco. «Guardi Gianluca che carino che è stamattina, le pare che voglia condividere con chiunque le cose da finocchio che faccio con un faccino bello così…?» continua, mettendomi una mano sotto il mento. Lei rimane un secondo spiazzata, io ne approfitto per ignorare tutte queste emozioni complesse e fare un passo a lato perché di mettermi a spingere questo elefante non ne ho voglia.
«Dai, Jaco, lascia stare, vieni con me…» gli dico, prendendolo per un braccio e tirandolo via. Leviamoci dal cazzo, non ho proprio l’intenzione di stare a litigare. Seguo la strada per un paio di decine di metri e, poi, mi infilo nella prima strada sterrata che ci si para davanti, dirigendomi verso uno dei campi di Gigi e facendo un sospiro scocciato. 
«A volte bisogna dire qualcosa alle teste di cazzo, se no non imparano mai» borbotta Jaco. 
«Sono troppo vecchi per imparare qualcosa. Sorridi e annuisci, sperando che crepino tutti il prima possibile» commento. Che palle, ecco. Completamente esasperato da tutto, sospiro: «Prima o poi me ne andrò da qui». Ne sono certo, mi lascerò questa vita assurda alle spalle e troverò qualcosa di meglio. Una casa migliore, un lavoro migliore, magari pure qualcuno con cui condividere la mia nuova vita. Qualcuno che scelga di stare con me, non che venga obbligato. Qualcuno che io possa veramente considerare famiglia.
«E perché?»
«Ma come perché? Dammi un solo buon motivo per restare». E ce l’avrei pure, ce l’ho davanti e occupa tutto il mio campo visivo visto che è gigante quanto il massiccio del Monte Bianco, ma ogni giorno che passa diventa sempre più difficile gestirlo e a volte la spina va staccata. Anche se non sembra, ce l’ho ancora un po’ di amor proprio.
Neanche mi avesse letto nel pensiero, sorride e sussurra: «Dalle altre parti non ci sono io». E vorrei tirargli un pugno, a dirmi sempre ste cose pazzesche e poi non far capire niente delle sue intenzioni. Grugnisco, continuando a camminare spedito perché in qualche modo tutta sta frustrazione dalla vita la devo sfogare. Non avevo torto quando dicevo che volevo morire, oggi. «Vai piano»
«Hai delle gambe chilometriche, usale» brontolo.
«Dobbiamo parlarne, lo sai, vero?» asserisce. Mi fermo di botto e faccio una mezza giravolta verso di lui che se ne sta lì, mani in tasca, a guardarmi.
«Di cosa?» domando, facendo finta di non sapere di cosa voglia parlare. Come se non mi sia ossessionato finora su questa cosa. Come se non abbia passato una settimana a penarmi per il disastro che ho combinato.
«Gian, sabato scorso ti stavo per baciare… che cos’è successo, poi?» mi chiede, facendo un passo verso di me.
Sento l’omino del cervello premere il grande bottone rosso e avviare la modalità d’emergenza: tutte le sinapsi si spengono e so che le cose prenderanno una piega completamente randomica. «Scusa!» sbotto e mi copro il viso con entrambe le mani, il panico a livelli talmente alti da toccare i satelliti in orbita. «Scusami! È che sono arrivati Theo e Caroline e non mi sembrava un buon momento per un primo bacio e poi quando sei andato a pisciare Theo mi ha parlato e mi ha fatto cagare un po’ addosso…»
«Theo? Che ti ha detto?» mi interrompe.
«Massì, un sacco di cose, non mi ricordo bene, qualcosa tipo che non ti sai scegliere gli uomini e di lasciar perdere se non volevo una cosa seria, però mi ha messo paura di essere l’ennesimo caso umano tossico che ti trovi sempre e poi sono andato anche un po’ in panico perché ho pensato che sembrava che ti stessi rifiutando, ma non è vero…!»
«Gian, aspetta un attimo, non sto capendo niente…» prova a dire, prendendomi per i polsi.
«…No, perché io non sono capace a fare ste cose, volevo parlarti, ma non ce la facevo mai e non sapevo nemmeno che dirti, mi sentivo solo uno stupido!» continuo a macchinetta, completamente fuori controllo. «È che veramente non voglio farti star male e… e poi eravamo a Colonia, non volevo disturbarti, volevo che te la godessi senza stare a pensare a me e forse ti ho pure rovinato la vacanza, scusa, scusa…! È solo che non capisco mai un cazzo! Non avevo manco capito che ci stessi provando, me l’ha dovuto dire Elisa, pensa te! E anche quella che mi ha detto un sacco di cose da fare per ricambiare, ma anche lì un buco nell’acqua tremendo! E… poi… non so, ho pensato che ci avessi rinunciato quando ho fatto la testa di cazzo domenica e allora anch’io sto lasciando perdere che intanto io non ci riesco a provarci o a dichiararmi o quello che è…!»
«Gian!» esplode, poi mi tira le mani via dalla faccia.
«…Insomma, non vado bene a far niente, Jaco, lasciami proprio perdere! Scusami tanto…!» provo a concludere.
«Basta!» tuona, facendomi ammutolire, spiazzato. Probabilmente si è fatto sentire pure dalla signora Teresa appollaiata al bar. Lui mi prende le guance tra le mani e porta il viso a un soffio dal mio. Sussulto, rimango completamente impietrito e sgrano gli occhi. «Basta…» ripete, quasi sottovoce.
«Ma…» esalo confuso.
«Sh…» sussurra, mettendomi un dito sulle labbra. «Adesso stai un secondo in silenzio, prendi un respiro profondo e ti calmi un attimo. Poi, quando sei calmo, mi dici cosa provi per me, perché io non ho capito assolutamente niente di quello che hai detto fino adesso» mi dice, tranquillo, guardandomi negli occhi e accarezzandomi gli zigomi coi pollici. 
«E perché lo devo fare io?» chiedo.
«Se vuoi io lo faccio anche subito.» risponde, sorridendo, poi chiude gli occhi e azzera la distanza che ci separa, appoggiando piano le sue labbra sulle mie. La spina dorsale si fa direttamente di cemento, il cervello diventa completamente incapace di mandare un segnale qualunque per… boh, ricambiare, o chiudere gli occhi, o anche solo godermi questo primo bacio. Lui accenna a un sorriso quando si stacca, io lo guardo, credo di fare una faccia un po’ da pesce ancora completamente immobile, con le labbra socchiuse, occhi sbarrati, schiena bloccata, ancora non sono del tutto convinto. «Non stare a pensare a cosa ti ha detto Theo, o Elisa, o chi altri. Soprattutto Theo, quello non capisce niente, elimina proprio in tronco tutte le cazzate che ha sparato»
«In realtà ha detto delle cose molto carine nei tuoi confronti, ero io col cervello un po’ fuso» mormoro, poi sospiro e mi faccio coraggio perché ormai non posso più rimandare. «Mi piaci. Più o meno da quando ci siamo conosciuti, ma l’ho capito molto dopo perché sono un po’ tardo. Sei… non so come spiegare perché mi piaci, nella mia testa ci sono tanti motivi, ma non riesco bene a esporli a voce alta… Non la so gestire molto bene… Sei la seconda persona che conosco dal vivo che abbia mai pensato di baciare e l’altra è stata tipo quattro anni fa, quindi capirai che… beh, non è il campo in cui do il meglio di me. E più che altro non mi aspettavo che ricambiassi, questa è proprio la prima volta che succede. E… so che non sai cos’ha detto Theo, ma comunque non è che voglio solo una mezza scopata, davvero… cioè, in realtà non so manco quali siano le opzioni, non pensavo nemmeno di arrivare a questo punto. Tutte le cose… strane o da stronzo che ho fatto non erano perché… boh, non ti voglio, o ti voglio prendere in giro, è solo che non so davvero come comportarmi, né prima, né onestamente ora. Voglio solo fare la cosa giusta, Jaco.». 
Accenna a un sorriso e fa quel mezzo passetto che ci separa, circondandomi la vita con le braccia. «Per ora te la stai cavando bene…» mi dice. «Lo vuoi solo un consiglio?» chiede, io annuisco un po’ dubbioso. «Tra due secondi io ti bacio di nuovo: magari, se ti va, stavolta prova a ricambiare, perché prima mi sembrava di star baciando un manichino di Zara». 
Sibilo una risatina, sentendo il macigno sullo stomaco diventare più simile a un sassolino. «È colpa tua, mi hai preso alla sprovvista…» ribatto, appoggiando le mani sulle sue spalle.
«Ora è pure colpa mia, ma pensa te…» commenta, roteando gli occhi al cielo, poi si abbassa, ma prima che possa fare qualsiasi cosa, spingo sulle sue spalle per alzarmi sulle punte e lo bacio io, portandogli una mano sulla nuca per tenermelo contro. Quando mi stringe ancora di più, mi spunta un sorrisetto. Non ci credo, ce l’ho fatta. A fare tutto quello che non sono riuscito a fare in tutti questi mesi. E l’ho fatto in tipo due minuti. Sono troppo felice, davvero, mi sta esplodendo il cuore di gioia.
Quando si stacca, gli do anche un bacio sulla guancia. «Così meglio?» domando, sottovoce.
«Molto…» risponde, con un sorrisetto cretino stampato in faccia. 
«Che scemo…» sussurro, prima di dargli un altro bacio e appoggiare la testa contro il suo petto, mentre sento il suo mento posarsi sul capo.
«…Non è vero che non vai bene a far niente… fai bene tutte le cose che fai…» mormora, a una certa. 
«Non mentire…»
«Ti ho già detto che non lo faccio mai» mi dice, pettinandomi con le dita. «…Non ti preoccupare dell’esperienza, del non sapere come comportarti… sii te stesso e fai come ti senti, le cose le scopriremo poco alla volta, andiamo piano, con i tuoi tempi…»
«Ti annoierai…»
«Come potrei…?» chiede, retorico.
«Io… non ho mai fatto niente di queste cose… sono al livello di un quindicenne, e nemmeno uno di quelli svegli…»
«E quindi? Gian, non ti voglio diverso da come sei, ai miei occhi sei perfetto… mi piaci così tanto, mi hai fatto perdere la testa…» bisbiglia, poi mi mette l’indice sotto al mento per tirarmi su il viso e baciarmi. «Guarda, sei pure arrossito… sei troppo carino…» continua, passandomi il pollice sullo zigomo. 
«Dai…» mormoro, abbassando lo sguardo, le guance ancora che vanno a fuoco.
«Troppo carino…» ripete e mi bacia di nuovo. «Sai ancora di albicocca…» soffia, poi.
«Ti stai lamentando?» domando.
«Sai che a me piace la nutella…»
«Vai a prendermi un altro cornetto, allora»
«Nah, tempo sprecato, preferisco stare qui con te» ribatte, strusciando il naso contro il mio collo. 
«Scusa se ti ho fatto penare per tutto questo tempo…» esalo. «…E grazie, per aver insistito»
«Non c’è problema» risponde. «Un po’ l’avevo capito che ti interessavo»
«Ah, sì? E come?»
«Solitamente chiunque non si interessi a me si limita a riempirmi di insulti quando qualche mio ex si mette a fare delle scenate, tu invece sei rimasto con me e mi hai pure fatto le coccole»
«Ne avevi bisogno…»
«…E tu volevi infilarti nelle mie mutande» aggiunge, ridacchiando.
«Non è affatto vero!» esclamo, a occhi sbarrati.
«Guarda che a me non fa che piacere se mi vuoi metà di quanto ti voglio io…» mi dice, con un sorrisino malizioso. «No, perché io non vedo l’ora…» continua contro il mio orecchio, spostando la mano sulla mia schiena appena sopra il bordo dei pantaloni e strusciando i fianchi contro i miei.
«Hey, pistolero matto, non perderò la verginità nel bel mezzo di un campo di grano» lo avverto.
«Ah, no?» chiede, sarcastico, stringendomi ancora.
«Sognatelo» mormoro, a occhi chiusi.
«Vuoi una cosa romantica?»
«Voglio almeno tre appuntamenti…»
«La prima cena a Colonia è stata romantica, un appuntamento me lo puoi abbonare.»
«Romantica? Amò, hai mangiato da solo tanta di quella roba da sfamare un battaglione e ti sei bevuto almeno metà della scorta di birra del ristorante, scusa, ma tre erano e tre rimangono» osservo. Sbuffa una risata e mi bacia di nuovo, prima di guardarmi più seriamente.
«A parte gli scherzi, Gian, davvero, non voglio metterti pressioni, o farti sentire obbligato. So aspettare, stiamo al tuo passo…». Lo guardo, non so bene cosa pensare, classico.
«Ti va se… vediamo come si evolve e basta?» provo a dire, scegliendo la diplomazia. Lui annuisce, io gli sorrido e gli do una carezza sulla guancia. «Però se vuoi portarmi a cena fuori, qualche volta, non è che mi offendo, eh…» aggiungo, facendolo ridere. 
«A proposito di mangiare, pranziamo a casa tua? Ho già una famina…» propone.
«Non ti dovevi mettere a dieta?»
«Ora che ti ho conquistato sarà solo un completo tracollo, in due mesi prendo quaranta chili…»
«Guarda che se non mi rimani fregno come adesso, ti mollo» lo minaccio, ironico. 
«Che superficiale…»
«Veramente vuoi pranzare coi miei?» gli chiedo, un po’ retorico. Non è che ne abbia tutta sta voglia, se lui vuole posso accettarlo, ma non mi dispiacerebbe nemmeno una pizza surgelata a casa sua.
«Perché no? Con me sono gentili»
«Il fascino dell’ignoto…»
«Spero di far colpo in fretta su tua madre perché ho visto che stava facendo una pasta col pesto di pistacchio e i pomodorini e sembrava buonissima»
«Ha scoperto da poco giallozafferano, adesso è presa a sperimentare.» lo informo, ricordando con sommo dispiacere quelle cotolette di ceci che potevo benissimo usare come ciabatte da piscina. «…E comunque tranquillo, ci sei già riuscito a fare colpo, sei molto più figo di tutti i tipi che abbia mai portato mia sorella.»
«Solo che me la faccio col fratellino.»
«Ecco, a proposito, finché non parlo con il parentado… boh, tipo, evitiamo…?» provo a dire, indicando prima me e poi lui.
«Oh, sì, ovviamente. Troppo presto…» conferma, annuendo. «E se vuoi possiamo anche continuare a fare gli amici, in giro, che mi sembrano tutti un po’ pettegoli»
«Non hanno niente di meglio da fare.» brontolo.
«La relazione segreta e clandestina, però, mi mancava, è interessante…» aggiunge, continuando a fare su e giù con la mano sulla mia schiena.
«Mai avuto una relazione segreta?» domando, incredulo. Lui ci pensa un po’ su e poi scuote la testa. «Mai, mai? Nemmeno tipo… boh, al liceo?»
«Mai. Innanzitutto, non è che avessi la fila al liceo, ero sempre per i cazzi miei, poi non ho mai sentito il bisogno di nascondere niente a nessuno.»
«Che strano…». Fa spallucce e si massaggia piano lo stomaco. «Dai, andiamo, che ti vedo che tra un po’ mi mordi un braccio…»
«Ho pure esperienza…»
«Ecco, appunto» borbotto, voltandomi e iniziando a tornare indietro. In due secondi, il suo braccio mi cinge le spalle e, quando mi volto verso di lui, ne approfitta per baciarmi, sorridente. 
Forse non ho tutta sta fretta di andarmene via. Anzi, di andare in un posto in cui non ci sia Jaco non ne ho proprio alcuna intenzione. Niente di ciò che ho conosciuto finora mi aveva mai fatto venire voglia di restare.



 

Note dell'Autrice:

Scusate per l'attesa, agosto è stato un mese un po' particolare ahah

Comunque, lascio i miei soliti ringraziamenti a chi ha avuto la voglia e la pazienza di seguire la mia storia.

Grazie di cuore a tutti quanti. ❤️

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