La regola dei cinque minuti

di time_wings
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto primo ***
Capitolo 2: *** Atto secondo ***
Capitolo 3: *** Atto terzo ***
Capitolo 4: *** Atto quarto ***
Capitolo 5: *** Atto quinto ***
Capitolo 6: *** Atto sesto ***



Capitolo 1
*** Atto primo ***


La regola dei cinque minuti

 


 

Atto primo_

Un soffio si disegnò curvando nel cielo punteggiato di stelle. Forse veniva dall’ovest, il risultato sfortunato di un desiderio di compleanno che non si sarebbe mai avverato. Avrebbe voluto seguirlo fin sulle coste del Vietnam, dove l’acqua aveva un colore inspiegabile e il cielo era profondo come se avesse dovuto fare spazio a qualcosa: un dio, oppure un fulmine.
I lampioni gettavano luci gialle con tinte vicine a volte al salmone. Lasciavano zone buie tra un pezzo e l’altro della strada. Sentiva le molle del divano sfondato riarrangiarsi a ogni movimento infinitesimo del suo culo. La luce del lampione alla sua destra arrivava solo a bagnargli la punta del gomito e un lato dei capelli.
Sarebbe stato uno sballo alzarsi e mettersi a cantare come nei musical americani, nel silenzio sospeso della notte e nel gioco di luci e ombre di quella strada. Invece si mise più comodo e le molle scricchiolarono, soffiò via del fumo dalle labbra e guardò la nuvola bianco sporco che ne seguì fondersi nell’oscurità.
La notte gli piaceva perché era più silenziosa. Non c’era il frinire acuto e martellante delle cicale o il gracchiare dei corvi, solo il frusciare del vento tra le risaie non lontano da lì. Quel divano era un trono insensato nel bel mezzo di una strada persa da qualche parte a metà tra città e campagna e le sue nuvole di fumo si allargavano contro il cielo nero come scie di navi sul pelo dell’acqua.
Voltò la testa di scatto quando un rumore cadenzato si unì a quel paesaggio quasi per nulla visivo. Bokuto si avvicinava un po’ correndo, un po’ camminando a passo svelto verso il suo divano. I lampioni lo illuminavano a intervalli, come istantanee scattate di seguito, peccato che potesse vederlo più o meno bene anche quando passava nell’ombra. Così era di gran lunga meno epico.
“Che ti prende?” gli chiese Atsumu, sollevando la mano che reggeva la sigaretta.
Bokuto scoppiò a ridere e si lasciò cadere accanto a lui. La campagna accolse quel suono e lo amplificò fino a regalargli un retrogusto metallico. “Ha vinto.”
Atsumu strinse le labbra e lanciò la cicca ai piedi del lampione più vicino, poi si portò una mano alla bocca. “Non è possibile,” valutò, mangiucchiando un’unghia. Bokuto stava scherzando, sicuro. In fondo aveva riso.
“In realtà era ovvio,” Bokuto allargò le braccia sullo schienale del divano. La risata di poco prima gli scivolò via dal volto, lasciando il posto a una tenue stanchezza. Un allarme prese a suonare nella testa di Atsumu. Quando diceva che era impossibile che avessero perso, lo diceva per un motivo, ma Bokuto non sembrò curarsi del suo sconcerto. “Dovevi vedere la macchina, era… sdum.”
Era sdum.
Atsumu si era messo in moto e se n’era andato prima che la gara iniziasse. ‘Spero che ti arrestino,’ aveva detto a suo fratello, quando l’aveva incrociato sulla strada sterrata che portava alla pista clandestina. Lui non gli aveva detto di andare a farsi fottere, non aveva sorriso, non gli aveva neanche sputato addosso. In verità, Osamu non aveva fatto proprio niente. Aveva continuato a camminare allo stesso ritmo con cui era arrivato, se non per un passo appena più esitante, più simile a un ricordo che gli fosse appena soffiato accanto che una persona in carne e ossa che gli parlava. Atsumu era rimasto qualche secondo imbambolato a guardare suo fratello dargli le spalle, poi si era riscosso, si era infilato il casco e se n’era andato.
A quanto pareva non l’avevano arrestato.
Atsumu sorrise, il retrogusto di sigaretta gli invase amaro la bocca. “Quanto sdum? Osamu ci sa fare ma non può averti battuto.”
“Vuoi proprio farmelo dire, eh?” Bokuto sbuffò via un suono alto, in una risata strozzata, poi sollevò un braccio dallo schienale e lo portò in grembo.
“In che senso?” Atsumu lo guardò.
Bokuto sospirò e alzò gli occhi al cielo. “Mi ha stracciato, Tsum Tsum!” disse piagnucolando e aggrappandosi al braccio di Atsumu.
“Non ha senso. Ma tu hai spinto?”
“Certo che ho spinto, ho fatto tutto quello che mi hai detto. Io te l’ho detto che era sdum, non c’era proprio niente da fare.” Bokuto lo lasciò andare e si sedette sull’orlo del divano, gesticolando animatamente. “Anche Akaashi era furioso. Cioè, non l’ho visto furioso, ma io lo conosco. Ha detto che di questo passo le perdiamo tutte e penso che ce l’abbia con te perché non eri lì a valutare la macchina di Osamu.”
“Io sono più bravo di Osamu, non mi serve valutarlo per sapere cosa sa fare.”
“Lo so, ma Shouyou ha detto che Kenma gli ha detto che ha parlato con Kuroo e… lo sai come fa lui, io gli voglio bene, ma non è proprio fedele quando si tratta di puntare… però il punto è che ha parlato con Kuroo e lui gli ha detto che il gruppo di Osamu ha un nuovo meccanico.”
Nessuna cicala frinì, nessun corvo gracchiò e nessun vento osò infilare le dita nelle risaie. Poi Atsumu ruppe il silenzio facendo schioccare la lingua. “Che cosa?” domandò, il tono basso, alla stregua di una minaccia.
“Non è stato Osamu a modificare questa macchina.”
Bokuto e Atsumu si guardarono, la lampadina di un lampione ronzò. “Io sono il migliore in quello che faccio.”
“Ora non più. Kenma ha suggerito che visto che ci capisci qualcosa dovresti sacrificare l’arroganza e infiltrarti nel loro garage, Shouyou ha detto che visto che sei scappato un po’ te lo meriti, Akaashi ha detto che devi farlo per forza e io ho raccolto un’ape che non doveva essere riuscita a tornare in tempo all’alveare e l’ho messa al sicuro, così domani volerà e tornerà a casa.”
Atsumu batté le palpebre e aprì e chiuse la bocca confuso un paio di volte. “Aspetta, che c’entra l’ape?”
“Eravamo in quattro a parlare, non volevo che pensassi che io intanto non stessi facendo nulla.”
Atsumu sollevò una gamba sul divano e si grattò il polpaccio. Era una cosa molto frustrante, perché era impossibile grattarsi da sopra i vestiti e uscirne soddisfatti. “Ma tu non hai fatto nulla.”
Sembrò offeso. “Io ho almeno ascoltato.”
“Va bene, dici ad Akaashi che non lo faccio.” Atsumu si alzò e recuperò il casco accanto alla sua moto.
“Akaashi aveva previsto questa tua resistenza e ha detto che se non lo fai sei fuori.”
Il rombo della moto di Atsumu prese il posto che di giorno avrebbero occupato i corvi e le cicale. I fari ruppero la rigidità geometrica delle regole dei lampioni. “Senza di me siete fottuti.”
Bokuto si spaparanzò meglio sul divano, visto che a quel punto era tutto suo. “Io non sarò brillante, ma a quanto pare adesso anche con te siamo fottuti.”
Atsumu fermò quello che stava facendo e si concesse un solo sospiro alla luna. “Non posso infiltrarmi nel garage di mio fratello. Io non mi spaccio per lui e questo non è ‘genitori in trappola’.”
“No, non è un problema. Non si sono mai visti, questo meccanico è uno strano e non appartiene strettamente al gruppo di Osamu, ha un posto tutto suo. Pare che non faccia entrare nessuno nella sua officina.”
“E come ci entro io?”
Bokuto sollevò le mani in segno di resa, chiuse gli occhi come se avesse anche intenzione di dormirci, su quel divano nel bel mezzo del nulla. “Questo Akaashi non me l’ha detto, però ti ha mandato l’indirizzo.”
A ben pensarci, Bokuto avrebbe potuto tranquillamente avere intenzione di dormire lì. Atsumu suppose che non fosse più un suo problema. Salì in sella al motorino e partì. Insieme al vento, gli arrivò distinto un ‘Ciaooooooo’ in allontanamento di Bokuto.
 
• • •
 
Il freddo era pungente, si infilava negli spifferi dei vestiti come sanguisughe. Un’insegna pendeva notevolmente da un lato, i chiodi spessi e arrugginiti avevano macchiato l’area tutt’attorno alla loro testa. La scritta era sbiadita, la pittura rossa, bianca e nera crepata dal vento. Una lampadina arrivava a illuminarne metà, ma c’era ancora troppa luce per accertarsi della sua efficacia.
Come a volte succedeva con i bambini, per cui tre anni di differenza significavano amici, scuole e giocattoli diversi, il tramonto aveva questo suo modo urgente di ghigliottinare i minuti, differenziarli in gradazioni di blu: un minuto si poteva giocare a calcio al parco, quello dopo si accendevano i fanali.
Atsumu puntò i piedi e si fermò. Il motore sbuffò un’ultima volta, poi tacque. Spostò il peso in avanti e azionò il cavalletto. Nessuna cicala frinì, nessun corvo gracchiò. Solo, da qualche parte, una rondine volò in circolo fuori stagione.
Alzò gli occhi sull’insegna sbucciata e i chiodi arrugginiti, poi, con un sospiro, smontò dalla motocicletta e si rigirò il casco che si era tolto tra le mani. Pezzi insignificanti di auto rottamate e macchie iridescenti punteggiavano l’entrata del garage come rovine di un impero. Atsumu inspirò quell’odore pungente di gomme e motori e bussò con le nocche contro la porta spessa di latta.
Un uomo basso e baffuto spostò un’anta con un cigolio, quel tanto che bastava per permettergli di identificare il nuovo arrivato. “Stiamo chiudendo,” brontolò e Atsumu si passò una mano fra i capelli e sorrise affabile e per questo più pericoloso.
“La mia moto ha davvero bisogno che le venga data un’occhiata.”
Gli occhi dell’uomo scattarono in basso, sulle mani di Atsumu che reggevano il casco. Aprì la porta un po’ in più, a cercare pigramente con lo sguardo la motocicletta del ragazzo. Quando non la vide, si limitò a scrollare le spalle. “Stiamo chiudendo,” ripeté.
Atsumu poggiò distrattamente una mano sulla porta di latta. “È proprio urgente.”
“Ma…”
Aprì la porta e si invitò da solo a entrare. L’uomo lo seguì con lo sguardo mentre lui si guardava attorno, come in cerca di qualcosa.
“Forse ti conviene almeno portarla dentro, ragazzo” disse, torcendosi le mani. La pelle era ruvida, ogni anno di lavoro stampato nei residui permanenti di grasso.
L’officina era un’officina normalissima e uguale a tutte le altre. E infatti era un casino, soprattutto a fine giornata. Auto smontate, carrelli e attrezzi erano sparsi ovunque. Il tavolo da lavoro, addossato al muro in un angolo, aveva rotto la sua simmetria di chiavi disposte in ordine decrescente e alcuni oggetti erano semplicemente abbandonati sul tavolo o nel posto sbagliato. Atsumu, che comunque era un tipo abbastanza spensierato e disinvolto, secondo il suo affidabilissimo parere, provò un istinto irrefrenabile di rimettere tutto in ordine. Per quanto irrefrenabile, lo frenò comunque, perché coi freni era un professionista. “Sì, è che cercavo… ispirazione, sa. Vorrei rendere la mia moto unica.”
Un’ombra passò sugli occhi dell’uomo, le tracce di grasso e olio di colpo lo resero più saggio, un capitano su una nave che non voleva saperne di affondare. Atsumu pensò che se fossero stati in uno di quei musical americani, fulmini e tuoni si sarebbero aggiunti a quello scenario apocalittico e qualcuno avrebbe detto qualcosa di fuori luogo circa l’ira di Zeus. “Unica, dici?” alzò gli occhi al cielo, forse per incrociare quelli del grande Giove, protettore, questo lo sapevano tutti, di auto fenomenali. “Oh, no, sei uno di quelli?”
Atsumu sospettò che quelli fossero gli amici di suo fratello. Scosse la testa e gli sorrise innocente e per questo più disonesto. “Non proprio. Sono un apprendista. Ma questo…” si guardò attorno, poi notò che alla stanza, che per logica sarebbe dovuta essere rettangolare, mancava un angolo, a darle cinque lati invece che quattro. Uno spicchio di orgoglio gli sporcò per un attimo quel sorriso innocente. “Non è un garage che fa quel genere di cose o sbaglio?”
L’uomo seguì il suo sguardo e sospirò. “Lui non fa entrare nessuno nella sua officina, ma io non mi immischio in queste faccende. Resto sul mio lato.”
Atsumu annuì e indicò con un dito l’anomalia nella geometria dell’officina, poi scosse la testa in una domanda muta. Il meccanico annuì. “Grazie!”
“Vuoi davvero che dia anche un’occhiata alla tua moto?”
Si voltò, sembrava indeciso, ma non lo era affatto. “Non ci pensi neanche, grazie,” poi spostò uno sgabello e aprì il falso armadio di latta che faceva da porta segreta.
 

“Nessuno entra nella tua officina perché ti piace fare il misterioso?”
Un ragazzo che era tutto un’ombra alzò la testa dalla sua posizione accartocciata su un motore. Quando si voltò, l’unica parte della faccia non coperta erano gli occhi scuri. Doveva avere più o meno la sua età. “No,” parlò attraverso una mascherina nera. “È perché non mi piacciono le persone.”

 
• • •
 
Il lato nascosto dell’officina era un’officina normalissima e uguale a tutte le altre, ma solo per un occhio inesperto. In pochi secondi di ispezione, l’officina divenne un’officina bizzarra. Era più ordinata della sua controparte, dall’altro lato del muro, ma era più sommessamente pericolosa, qualcosa di simile all’Altra Casa di Coraline. Un paraurti blu elettrico era accasciato in un angolo. Atsumu era certo, sicuro, pronto a scommettere che se avessero spento tutte le luci avrebbe brillato di un bagliore azzurro chiaro.
“Per piacere, esci dalla mia officina.” Atsumu avrebbe trovato quel tizio particolarmente cordiale se, mentre esibiva quella cordialità, ogni cellula di ogni sua corda vocale non fosse stata intrisa di un fastidio tale da rasentare la sofferenza.
Qualunque persona dotata di un minimo di buonsenso o comunque di empatia avrebbe preso quella richiesta come un ordine, ma Atsumu non era dotato di buonsenso né di empatia e quindi iniziò a pensare che il compito di Akaashi non fosse poi così male. Questo finché non ricordò il motivo preciso per cui era lì: Atsumu non era più il migliore.
Una pillola difficile da mandare giù per tutti, anche se indorata, ma soprattutto per uno come Atsumu, il cui secondo nome – solo secondo lui – era ‘il migliore di tutti’. Questa arroganza avrebbe avuto vita breve se il mondo l’avesse smentito, ma, fino a quel momento, era stata completamente giustificata: era davvero il migliore.
“Mi chiamo Atsumu,” disse, come se il tizio che era un’ombra non avesse mai parlato.
“Atsumu e basta?”
Atsumu Miya, il tuner migliore dei suoi tempi, che faceva vincere gare su gare clandestine a un gruppo che grazie a lui e al suo pilota, Bokuto, era rimasto per anni imbattuto. Atsumu Miya, impegnato in una guerra leggendaria contro suo fratello e per metà avvolta nel mistero, uno scontro tra titani che accendeva le scommesse e infiammava gli animi.
I tuner non si conoscevano tra loro, ma si riconoscevano tramite le personalissime modifiche e le firme che queste portavano. Era già un miracolo che questo tizio fosse pazzo abbastanza da lavorare per suo fratello senza averci neanche mai avuto a che fare direttamente, non sarebbe stato furbo sfidare la fortuna rivelando il suo cognome.
“Atsumu e basta.”
Il ragazzo alzò gli occhi dal suo motore e li puntò su di lui. Era una cosa simile a una perquisizione a distanza.
“E tu sei…”
Quello scosse la testa. “Stanco di parlare con te” e tornò a prestare attenzione al banco da lavoro.
Atsumu si succhiò il labbro inferiore. “Ho assistito a una gara qualche giorno fa e ho fatto alcune ricerche. So che sei il tuner migliore del momento.”
Lui fece spallucce. “Lo sono in generale, non in questo momento.”
Un respiro profondo, magari due. Atsumu avrebbe potuto attraversare mentendo un campo di rovi, ma quella messinscena era un dannato insulto al suo orgoglio… oppure una ferita. “Be’, io voglio imparare…” una pausa, giusto per prepararsi mentalmente al dolore di quello che stava per dire, “dal migliore.”
“Ma io non voglio insegnarti.”
“Bella questa vernice,” disse Atsumu, ignorandolo ancora e avvicinandosi al paraurti blu elettrico. “Proprio un colore acceso. Me ne presti un po’?”
“No.”
Atsumu sospirò abbattuto e sfiorò il paraurti con un dito.
“Non toccare.” Il ragazzo non si era neanche voltato. Davvero, davvero, interessante.
“Guarda che ci guadagni più tu a insegnarmi.”
“No?”
Atsumu si mise all’altro capo del banco da lavoro. Da lì, più che un’ombra, il tuner era diventato una macchia. Una lampada gli disegnava il profilo chinato sul motore con un tratto spesso di luce gialla. I capelli si arrestavano a un passo da quell’intruglio di ferro e gas e sembravano arricciarsi unicamente nel tentativo di non toccarlo. Una bolla in una fiala di inchiostro.
“Ti assicuro di sì, sono simpatico. In cambio posso farti da spalla con le ragazze.”
“Non mi interessa.”
“Con i ragazzi? Guarda che sono progressista.”
Il ragazzo sbatté una chiave inglese contro il tavolo, alzando finalmente gli occhi su di lui, esasperato. Atsumu sostenne il suo sguardo per qualche attimo, poi si guardò attorno come se la sua reazione fosse stata una cosa inappropriata e un po’ imbarazzante, una battuta a un funerale.
Quando tornò a guardarlo, fece ondeggiare un dito sui componenti superficiali del motore. “Questo cos’è?”
“Non toccare.”
“Va bene, allora questo?” Afferrò una bottiglia lì vicino e se la rigirò fra le dita.
“Lubrificante.”
Atsumu sbuffò una risata dal naso. “Allora non è vero che nessuno entra nel tuo antro.”
“Dico sul serio, devi uscire.” Non vedeva molto della sua faccia, ma vedeva la vena sulla fronte. Per essere così scontroso, era davvero facile provocarlo. La sfida di Akaashi divenne all’improvviso più abbordabile, se non addirittura spassosa.
“Ma non mi hai detto come ti chiami.”
Il ragazzo abbandonò arnesi e motore e giunse le mani guantate davanti a sé, per prestare attenzione ad Atsumu. “Io te lo dico e tu te ne vai.”
Lui alzò le mani in segno di resa.
“Sakusa.”
“Sakusa e basta?”
Il meccanico batté le palpebre, una più in fretta dell’altra. Un tic? “Sakusa Kiyoomi. Ora te ne vai.”
“Va bene, come vuoi.” Atsumu si diresse a passo baldanzoso dall’altro lato dell’officina. All’improvviso inchiodò e fece marcia indietro, fino a trovarsi accanto a una parete tempestata di attrezzi. Afferrò una chiave 6 e se la rigirò fra le mani come un prestigiatore.
“Ehi!”
“Vado e vengo da Narnia,” disse poi, intascando la chiave e aprendo l’anta dell’armadio che faceva da porta. Sentì la sedia di Sakusa stridere a terra mentre si alzava, quindi accelerò l’operazione. “Ci vediamo domani, Omi.”
“Non chiamarmi co… Non ci pensare proprio, ridammela.”
L’ultima parola fu attutita dall’anta di latta che li separò.
Atsumu corse alla moto col bottino.
 
 






 

 


NotEl: quando arriva l'inverno scrivo Sakuatsu, apparentemente.
Buoooooongiorno (è sera) questa ff era nei miei buoni propositi di scrittura del 2022... che quindi ho stilato nel 2021. L'importante è arrivarci, i guess. Comunque finalmente vedo la luce in fondo al tunnel del blocco maledetto, speriamo che questa sia la volta buona. Mi sento di comunicare, anche se penso si capisca dal testo, che "tuner" è un modo per definire i meccanici che sanno fare le modifiche.
Spero che questo capitolo-prologo sia risultato un minimo intrigante, come tutte le cose a cui metto mano nell'ultimo periodo è un po' un esperimento per me sotto cinquantamila aspetti diversi, quindi CI SI PROVA.
Graaaazie per aver letto fin qui e boh, questa storia conterà qualcosa come 4/5/6 capitoli (secondo me 5), all'inizio doveva essere una one shot ma superate le 20k parole ho detto "vvvvvabé la spezzo" quindi l'ho anche quasi finita di scrivere, la propabilità di abbandono è del 10%, così, stima a caso.
Tutto questo per dire che ci vediamo presto!!
Grazie di nuovo <3 <3

El

 


 

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Capitolo 2
*** Atto secondo ***


Atto secondo_

L’officina nell’armadio si trovava vicino a un parco dominato da un lago artificiale. Nelle mattine serene come quella, se si aguzzavano le orecchie si poteva quasi sentire il fantasma di un gorgoglio – Atsumu non capiva come il tempo meteorologico influenzasse la trasmissione dei suoni, ma forse un cielo terso significava aria più sgombra.
Gli piaceva quel contrasto così come gli piaceva quel divano abbandonato in una strada di campagna. Il rullo dei motori modificati diventava immanente, i prati incontaminati si tingevano delle luci artificiali dei fari e degli inserti estetici delle auto, in una cacofonia multisensoriale da sballo. Forse gli piaceva così tanto perché gli pareva che giustificasse i suoi, di contrasti, che il tormento del suo dualismo si quietasse.
Bussò un paio di volte con le nocche contro le grandi porte già aperte dell’officina regolare. L’uomo baffuto che l’aveva accolto la sera prima scivolò da sotto il ventre di un’auto e osservò Atsumu dal basso.
“Buongiorno!” lo salutò lui, sventolando un anpan e poggiando una mano contro la carrozzeria della macchina a cui stava dando un’occhiata.
L’uomo gli sembrò smarrito per qualche attimo.
“Le ho portato la colazione. Nel caso in cui l’abbia già fatta allora è uno spuntino.” Lasciò il sacchetto sul cofano. Il meccanico fece per alzarsi a sedere, ma Atsumu sventolò una mano. “Non si disturbi, io vado nell’armadio.”
E così fece.
In tutta onestà, tutto quell’essere gentile e portare il cibo per ingraziarsi i meccanici gli faceva venire la nausea. Non gliene poteva fregar di meno. Atsumu era il migliore in quello che faceva ed era fuori discussione che quel misantropo irritante sapesse come funzionava un’auto da corsa meglio di lui. Akaashi era corso ai ripari un po’ troppo in fretta, secondo il suo non modesto parere. Sakusa poteva aver tirato e vinto un gioco troppo ambizioso per le sue reali capacità. La famosa fortuna del principiante. Magari si era trovato per le mani un pezzo già praticamente modificato e aveva mosso un po’ a caso il resto, finendo per partorire qualunque innovazione sconcertante avesse poi consentito a suo fratello di stracciare Bokuto quella notte. Un po’ come un cubo di Rubik risolto per caso.
Tutto questo sogno fantastico di officine nascoste in armadi e giardini con sorgenti scroscianti era pittoresco, ma davvero irrealistico. L’officina di Sakusa portava sì i segni di operazioni fuori dall’ordinario, ma non di operazioni straordinarie. Atsumu era abituato a gente che entrava e usciva dal garage del suo gruppo, piloti che provavano i motori in un angolo dello stanzone sotterraneo, colori sgargianti, capi che mettevano a punto nuove strategie, finanziatori fedeli che si guardavano attorno sedotti prima da una promessa, poi dalla sua avversaria più promettente. E in mezzo a quel caos c’era lui, circondato da progetti vincenti e olio per motori, tra le mani arnesi, grasso e la certezza gustata che, dall’altra parte della città, doveva esserci Osamu con le mani nei capelli e un passo indietro a lui. Quelle erano operazioni straordinarie.
Atsumu era naturalmente competitivo perché era nato per vincere e perché sapeva come fare, perché era antipatico e lo sapevano tutti e questo lo giustificava a fare quello che gli pareva, a essere sicuro di sé al punto da sfociare nell’arroganza, a essere egoista, a dire quello che gli passava per la testa. Ed era esattamente per questo che era la persona più fragile del mondo: perché non c’è posto in classifica più snervante del primo, quando la gara non è ancora finita.
Quindi Kiyoomi Sakusa poteva aver creato l’auto più potente nella storia delle corse clandestine, ma non poteva essere migliore di lui.
Era una fregatura e Atsumu l’avrebbe provato.
Entrò nel garage nascosto come se avesse avuto in mente anche di raderlo al suolo, i pensieri che ancora gli vorticavano in testa in spirali febbrili vicine all’ossessione. Sakusa alzò lo sguardo e in un primo momento parve confuso, poi disgustato.
“Ah,” disse solo, “sei tornato.”
Atsumu sorrise e fece ondeggiare le sopracciglia con fare seducente. “Ti sono mancato?”
“La chiave 6.”
Si fissarono. Sakusa non abbassò lo sguardo e sollevò una mano, il palmo rivolto verso l’alto in attesa. Alla fine Atsumu fece schioccare la lingua e affondò una mano nella tasca dei pantaloni, lasciando poi la chiave accanto al sacchetto di carta che aveva portato con sé.
Gli occhi di Sakusa scattarono su quest’ultimo, le sopracciglia che si piegavano fino a corrugare la fronte. Atsumu lo lasciò alle sue inspiegabili contemplazioni e adocchiò una poltrona che il giorno prima non aveva visto. Questo perché era ricoperta di oggetti che spaziavano da riviste a tute da lavoro, passando per bulloni per ruote e pezzi in più di motori. A dire il vero Sakusa aveva anche un divano, in un altro angolo dell’officina, ma quello sembrava persino più occupato della poltrona. Senza farsi troppi problemi, Atsumu raccolse lo stretto necessario per mettersi comodo e lo depositò ai piedi del suo nuovo trono, poi vi si lasciò cadere sgraziato e una nuvola di polvere e tanfo di stantio si levò dalla seduta.
Sakusa lo aveva ignorato e aveva ripreso a giocare con qualche marchingegno irriconoscibile, a quella distanza. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo e lo divideva diffidente tra Atsumu e il suo sacchetto di carta.
“Guarda che non è veleno,” lo avvertì Atsumu alla fine, raccogliendo le gambe sulla poltrona e continuando a osservarlo muoversi come se in qualche modo lo stesse valutando. “Hai fatto colazione?”
Sakusa gli concesse un’occhiata velocissima, un soffio di vento. “Me ne sono dimenticato.”
“Fortuna che ti ho portato dell’anpan.”
Il ragazzo annuì. “Dove l’hai preso?”
“Una pasticceria qui vicino.”
“Quindi non è confezionato?”
Atsumu a questo punto affondò nella poltrona, perché per farvi entrare sopra le gambe e inclinare il viso verso la spalla per guardare confuso Sakusa si finiva a fare inaspettate manovre. Pensò, ma è serio? e poi pensò che forse Akaashi stava perdendo colpi a vista d’occhio, forse il piano era trapelato di sussurro in sussurro ed era arrivato fino a suo fratello, che aveva deciso di mettere su un’enorme messinscena con Sakusa come protagonista per esasperare Atsumu e portarlo alla disperazione. “No,” fu l’unica risposta che la sua perplessità gli concesse e, per uno che aveva sempre la risposta pronta, quello era un altro colpo incassato. “Non va bene?”
“No.”
Ah. Be’. “Ho dei mochi, però,” disse Atsumu, ripescando dalla tasca della sua giacca a vento un paio di dolci confezionati che si era portato da casa con l’intento preciso di gustarli a pranzo, tra un furto di un’altra chiave 6 e un altro tentativo di ottenere una routine con quello scoppiato.
“Non sono i tuoi?”
Atsumu lo guardò. Quel ragazzo era un mistero perché non sembrava dispiaciuto o intimidito all’idea di appropriarsi dei suoi mochi, pareva quasi che stesse prendendo la sua offerta come un gesto molto stupido, come se Atsumu avesse raccolto mille yen da terra e fosse così ingenuo da regalarglieli senza neanche contrattare. Scosse il capo. “No, guarda, a me non frega un cazzo, mi posso pure mangiare l’anpan.”
Per qualche ragione, si aspettava che Sakusa sussultasse al sentire la parolaccia, invece lo guardò soltanto per qualche attimo, poi annuì.
Atsumu si tirò su e si avvicinò al tavolo da lavoro coi mochi. Non ottenne alcun grazie. Sakusa lo guardò. Un po’, un attimo, i suoi occhi due gocce di inchiostro pronte a rivelarsi acquerello se sposate a dell’acqua, poi con un gesto perfetto si sganciò la mascherina da un orecchio e Atsumu realizzò che non l’aveva mai visto in faccia.
Era molto meno macchia e molto più coetaneo, il labbro inferiore era rosso e sporgente, come se fosse stato abituato a morderlo mentre lavorava. Tremò appena assieme al mento quando disse, la voce un filo: “questo è un silenziatore.”
Atsumu sapeva benissimo cosa fosse un silenziatore, ma detto da lui sembrava una parola diversa, un concetto astratto. Realizzò che gli stava guardando ancora le labbra, quindi alzò in fretta lo sguardo nel suo. “Mi stai insegnando?” domandò incredulo.
“Ti sto ringraziando. Non voglio debiti.” Indicò un grosso cilindro di latta. “È un silenziatore. I motori tradizionali espellono vari gas di scarico dopo la combustione, ma nel farlo fanno rumore. I silenziatori risolvono il problema del rumore, ma riducono il potere del veicolo. È il motivo per cui le macchine da corsa sono molto rumorose. La modifica illegale più semplice per un tuner è sottrarre il silenziatore a un motore.”
Atsumu si sporse sul tavolo per dare un’occhiata. Quando lo fece, Sakusa arretrò di un passo. Atsumu lo guardò, sembrava un gioco di intuizione e confini tra un umano e una volpe selvatica. Indietreggiò e Sakusa prese un solo, impercettibile, respiro più profondo. Atsumu pensò che dove aveva visto solo seccatura forse c’era anche disagio, che erano le due facce di una sola patina che ci si doveva allenare a interpretare. Per qualche ragione, lo investì un’ondata di euforia. C’era qualcosa che stava a metà tra lo sbarramento nei suoi occhi e l’esitazione sulle sue labbra che gli fece venir voglia di testare i suoi limiti, sapere quanto poteva avvicinarsi senza costringerlo a scappare e quanto questi confini erano trattabili.
Sakusa deglutì e Atsumu seguì il percorso del suo pomo d’Adamo.
“Hai capito?”
“Gas di scarico. Rumore. Silenziatore. Auto meno potente.”
“Sì. Impari in fretta.”
Atsumu sorrise. “Io. Sono. Velocità.”
Lui alzò gli occhi al cielo. “C’è un problema. Non si può rimuovere il silenziatore e basta. Stressando la macchina, cosa che avviene quando si compete, il rilascio di questi gas senza silenziatore provoca una fiammata. Hai detto che impari in fretta, no?”
Queste erano le scuole elementari per motori. Ovviamente Atsumu imparava in fretta. Annuì.
“Non posso starti dietro, devo modificare un’altra auto in tempi stretti e la tua ignoranza sarebbe una zavorra. Non posso spiegarti tutto quello che faccio passo per passo.”
“Delicato.”
“È la verità.” Atsumu era il paladino della verità. Era bravissimo a dirla quando questa era un insulto, era bravissimo a ometterla tutto il resto del tempo. La verità di Sakusa era una stronzata. “Visto che impari così in fretta, trova un modo in questi cinque giorni prima della gara per rimuovere il silenziatore a questo motore senza ripercussioni sulle prestazioni. Se ci riesci ti insegno, altrimenti non ti fai più vedere.”
Jackpot. Ad Atsumu scappò un sorriso. “È una sfida, Omi?”
“Io inizierei subito, se fossi in te.”
Atsumu scrollò le spalle e afferrò il suo motore tra le braccia. Arpionò con un piede un carrello lì vicino, lo avvicinò a sé e scaricò il peso sulla sua superficie, poi si scostò i capelli dalla fronte e accennò con la testa al pacchetto di mochi fermo ancora sul tavolo da lavoro di Sakusa. “Ricorda la colazione.”
 
ᆞᆞᆞ
 
La vita si incagliò di colpo su una nuova routine.
I giorni assunsero una cadenza che era scivolata troppo facilmente in abitudine. Atsumu si svegliava, passava per il garage della sua squadra solo se aveva qualche modifica urgente da fare, istigava Bokuto a fare cose stupide per un po’ e rideva dei rimproveri che riceveva in cambio quando travolgeva qualcuno nell’impresa, poi faceva un salto al conbini per raccattare dolci rigorosamente confezionati e infine guidava fino al garage di Sakusa.
Ogni volta aveva la sensazione di raggiungere i confini di un mondo diverso. Non necessariamente migliore, nella sua così invitante ma sgranata presentazione bucolica, semplicemente diverso. Ogni volta aveva anche la sensazione di poterli solo sfiorare, questi confini, con in mano un biglietto per un paese nuovo che gli era concesso di ammirare solo in bilico sulla frontiera.
Atsumu era così abituato a pensare di non avere limiti che ormai era confinato in un contorno, una sagoma, come una coccinella messa davanti a una linea di penna rossa.
Il lato positivo era che adesso i suoi rapporti col meccanico baffuto erano… amichevoli. Comunque più amichevoli di quelli che aveva con Sakusa, il che la diceva lunga su tutti e tre.
L’uomo tollerava la sua presenza e anzi la accoglieva a ogni prelibatezza regalata un po’ di più, tanto che Atsumu iniziava a convincersi che dovesse esistere un limite di dolci oltre il quale gli avrebbe direttamente dato in sposa la figlia. Figlia che, per inciso, aveva perché per l’appunto Atsumu ormai ci stava facendo amicizia e sapeva che si chiamava Yoko e lavorava in un’azienda che produceva acetone.
“Mochi al mango,” esordì Atsumu, entrando nell’officina nell’armadio e sventolando la busta con i dolci.
Omi alzò la testa e si tolse la mascherina. I suoi capelli seguirono quel movimento con una gentilezza tale che pareva rispondessero alle regole gravitazionali della luna. “Ma ogni giorno cambi gusto?”
Un’altra cosa che Atsumu stava imparando in quel tempo era il linguaggio ermetico del suo target fuori di testa. Esisteva a volte un sottile strato di divertimento simile a condensa, in quella distesa di seccatura che propinava a chiunque gli rivolgesse la parola. Più gli portava i mochi, più riconoscerla diventava facile. Atsumu sorrise, perché in qualche modo aveva la sensazione di batterlo ed era come sbattergli in faccia un premio appena impugnato. “Il conbini ne ha un sacco, ho deciso che li devi provare tutti.”
Sakusa tornò al lavoro e scrollò le spalle. “Come vuoi.”
“Perché, sei allergico a qualcosa?” Atsumu camminò disinvolto verso di lui, come se finirgli accanto fosse un inciarmo del destino.
“A te sicuro,” disse Sakusa, scostandosi man mano che Atsumu si avvicinava.
Lui non si lasciò intimidire. Gli si mise proprio alle spalle, allungò un braccio per poggiare la busta al lato del pezzo su cui Omi stava lavorando con disinvoltura, ma pareva quasi un abbraccio. Inclinò il viso su un lato ed evitò apposta il suo sguardo, focalizzandosi invece sulla modifica del giorno. D’altronde era multitasking: poteva flirtare e indagare allo stesso tempo. Sentì gli occhi di Sakusa su di sé, quindi ricambiò. Contro ogni aspettativa, non era arrossito, non stava timidamente esaminando la natura di quella tensione, non si stava agitando imbarazzato sulla sua sedia, ma lo studiava.
Ops, pensò Atsumu. Forse si era mostrato un po’ troppo interessato ai fatti di Sakusa.
“Che stai facendo?”
Atsumu gli guardò le labbra un attimo di troppo. “Recapitavo i mochi.”
Sakusa scosse il capo e accennò con un dito al cimitero di ferraglia sul suo tavolo. Non ruppe mai il contatto visivo. “Non quello.”
Sarebbe stato carino sentire Sakusa parlare per un numero di sillabe superiore a quello di un haiku, ma evidentemente era chiedere troppo e comunque aveva il brutto vizio di capirlo lo stesso. Atsumu scrollò le spalle. “Prendo ispirazione.”
Gli occhi di Sakusa vagarono per qualche altro secondo sul suo viso, sospettosi. Se Atsumu fosse stato una persona normale avrebbe iniziato a sudare a profusione, ma lui non era un persona normale. Quando si passava tutta la vita a mentire, omettere e mentire sul fatto che omettere non fosse mentire si finiva a volte per perdersi, essere così abituati a spararle grosse guardando gli altri in faccia che faceva poca differenza se la faccia che si guardava era quella di un poliziotto o quella riflessa nello specchio. I migliori bugiardi non mentivano neanche più, perché bisognava possederla, una verità, per poterla stravolgere. Quindi Atsumu non sudò a profusione, si rese appena più illeggibile e, per il momento, Omi sembrò gettare la spugna. “È un sollievo sapere che prendi ispirazione da questo, visto che non è neanche un motore. Tra due giorni smetterò finalmente di vederti ogni mattina.”
Ah, giusto. Quando Sua Altezza gli concedeva più di un haiku di solito era un insulto. “Non sperarci, sono a buon punto.” Atsumu gli rubò una chiave inglese con una facilità che lo fece quasi impietosire, poi si avviò alla sua postazione di fortuna e al suo motore sacrificale. “E poi so che sto iniziando a piacerti.”
Sakusa non disse niente.
“Chi tace acconsente.”
Ma Sakusa proseguì nel suo silenzio e ad Atsumu non restò altro da fare che mettersi al lavoro.
Tra i vari incarichi che gli erano stati affidati nel tempo, quello era decisamente il più impegnativo. Per quanto andasse in giro a dire di essere il migliore esemplare di essere umano mai messo al mondo – e di solito lo provava prendendo Osamu come esempio – erano veramente poche le cose che sapeva fare. Una di queste però era il tuning. Chiedergli di metterci cinque giorni a rimuovere un silenziatore era come chiedere a un pesce di annegare, a un usignolo di stonare: era difficile oltre che noioso. Al limite dell’insostenibile.
“Omi, se volessi testare il motore e la questione della fiammata…” iniziò, dopo un’oretta di falso lavoro matto e disperatissimo.
Sakusa si piegò per recuperare un cacciavite dalla base del suo sgabello. Buttando un occhio su ciò che aveva sul tavolo, Atsumu si domandò cosa avesse intenzione di smontare. Si appuntò mentalmente di seguire il percorso di quei componenti per studiarne le modifiche. “Ci sono delle macchine su cui testo le modifiche.”
Grazie al cazzo, genio. Atsumu annuì, dubitando ancora una volta del talento di Sakusa. “Dove?”
Omi tornò dai meandri del suo sgabello e lo considerò con diffidenza. Abbandonò il cacciavite sul tavolo da lavoro e, con calma, si risistemò la mascherina sul viso. Atsumu non aveva ancora capito il criterio con cui la metteva e la toglieva. “Sono il tuner migliore in circolazione.” Ancora con i primati. Detestò l’obiettività con cui lo disse. “Come credi che escano le auto che modifico da qui? Dall’armadio?”
Quel sarcasmo se lo poteva ficcare su per il culo, onestamente. Atsumu ci aveva pensato, al fatto che la sua magica officina segreta non aveva sbocchi esterni, ma aveva immaginato che trasportasse i componenti ultimati in quella del vecchio baffuto e li assemblasse alla fine. Sakusa comunque non aspettò una sua risposta.
“C’è un garage sotto questa officina, collegato a una strada che dà sul parco qui vicino, non so se l’hai notato.”
Allora la visione bucolica era inquinata! Atsumu provò un inspiegabile moto d’orgoglio che non poté esternare, sia per la sua natura insensata che per il fatto che per qualche ragione pareva un’ammissione del suo doppiogioco. “Possiamo andarci? Così vedi anche se sto andando bene.”
“Ti ho detto che non ti aiuto.” Veramente non l’aveva mai detto. Sakusa si alzò e si diresse all’angolo sinistro dell’officina. “Io non tifo per te.”
“È un piacere avere il tuo supporto.”
“Non ce l’hai,” disse lui, spostando una serie di carrelli da vicino la parete e rivelando la doppia porta di un ascensore pittato di bianco.
“Lo so, Omi, si chiama ironia.”
L’ascensore era grande almeno il doppio di un ordinario ascensore di condominio e aveva una porta di ferro a rombi sul lato opposto a quello da cui erano entrati. C’era spazio a sufficienza per trasportare una persona e uno dei tanti carrelli che Sakusa usava come tavoli da lavoro, pieni di budella di auto di vario genere. La pavimentazione ruvida lo confermava con fantasmi di strisce lasciati dalle ruote e gocce di olio asciutte. Il viaggio si interruppe bruscamente dopo qualche secondo. Sakusa fece scorrere la porta, che sferragliò rumorosamente sui binari, poi mosse un passo nel buio denso del garage sotterraneo. Si arrestò di colpo e si voltò. “Non devi toccare niente.”
“Me lo dici almeno sei volte al minuto, Omi.”
“Dico davvero.”
Atsumu sospirò. “Me lo dici sempre davvero.”
“E tu non mi ascolti mai.”
“Allora dacci un taglio e basta.”
Sakusa sospirò e poi scivolò nel buio, lasciandosi un ‘seguimi’ attutito alle spalle.
Atsumu restò perplesso per qualche secondo, avvolto dal ronzio della lampadina dell’ascensore sopra la sua testa. Questo mi ammazza, pensò. Forse suo fratello e la sua banda erano in agguato dietro qualche macchina, armati di mazze da baseball e pali arrugginiti di ferro. Sinceramente, non sapeva se ne sarebbe stato capace.
“Che stai facendo?” Sakusa si girò. I suoi capelli si confondevano nell’oscurità, ma il tono seccato era lo stesso di sempre. In qualche modo ormai gli era diventato familiare.
Atsumu cominciò ad avvicinarsi a lui. “Che sto facendo?” la sua voce prese profondità ed eco, un vento freddo soffiava da qualche parte alla sua sinistra. “Questo posto è inquietantissimo, non ce l’hai una luce?”
Sakusa sbuffò. Se non fossero stati al buio e non avesse indossato una mascherina, Atsumu sarebbe stato certo che quella fosse una risata, invece gli rimase il dubbio. “Ovviamente.” Sakusa abbassò una leva su un pilastro che Atsumu aveva notato il giusto per non sbatterci contro, poi il garage si illuminò in successione. I led cominciarono a vibrare e ronzare.
“Wow,” riuscì solo a sussurrare Atsumu.
Quello non era un garage, era una miniera d’oro. La stanza era composta da quattro pilastri dipinti alla base di rosso, ma il centro era sgombro se non per alcuni gruppi di auto nei due angoli più vicini a loro. La varietà e l’assortimento erano da far girare la testa. Catorci che non potevano avere più di due milioni di anni erano parcheggiati di fianco ad auto da corsa dalla carrozzeria sgargiante. Gomme nuove di zecca sostavano in bilico accanto a ruote senza copertoni. Attraverso i finestrini non oscurati delle auto più nuove, Atsumu riusciva a distinguere volanti in pelle dai colori più disparati e solo il pensiero di poterne sentire l’odore gli fece venire le ginocchia molli. Registrò distrattamente lo sguardo di Sakusa su di sé.
“Ancora inquietante?” domandò lui. Atsumu lo odiava, ma in quel momento apprezzò il tempo che gli aveva lasciato per ammirare quello spettacolo.
“Sto per avere un orgasmo, Omi.”
Lui sospirò, se aveva avuto l’occasione di instaurare un legame con Sakusa l’aveva persa in quel momento. Gli mise due dita tra le scapole e lo accompagnò accanto a una delle auto-catorcio. Il 60% della carrozzeria era arrugginito, il resto era di un rosso ingiallito dal tempo e l’usura. “Puoi provare il tuo motore su questa.”
“Che mi dici di quella laggiù?” Atsumu indicò un gioiellino verniciato di un arancione metallico favoloso. Se ci avesse messo sopra le mani l’entusiasmo avrebbe fatto saltare la sua copertura senza ombra di dubbio e non gli sarebbe dispiaciuto neanche un po’, ma Sakusa era Sakusa.
“Non ci pensare neanche. Non so dove hai sentito che sono il tuner migliore della mia generazione, ma immagino tu abbia un’idea di cosa fanno queste auto.”
“Stai lavorando su quella, adesso?”
Sakusa annuì distrattamente, sistemandosi la mascherina.
“Quello per cui lavori si arrabbia se qualcuno tocca la sua auto?” Atsumu era molto sicuro di sé, ma con Sakusa iniziava sempre più ad avere la sensazione di star cadendo in qualche trappola. Tanto valeva controllare che le informazioni di Akaashi fossero corrette, giusto per scrupolo. Osamu era pur sempre suo fratello gemello: se Sakusa l’aveva visto era arrivato il momento di scappare.
“Io non lavoro per lui, gli faccio solo un piacere.”
“Perché? Siete amici?”
Sakusa scosse la testa. “Non lo conosco, non viene lui a prendere le auto per le gare, ma qualcuno del suo gruppo. Lo faccio perché è uno dei piloti migliori e voglio che le mie modifiche vengano testate al massimo delle loro potenzialità.”
Ambizione. Almeno questo lo rispettava. “Frequenti l’ambiente?”
“No, mi piacciono solo le auto, non le corse.”
Atsumu sorrise. “Troppa gente?”
Sakusa si strinse nelle spalle.
“Come sai che è il migliore, allora?”
“Tu come sai che io sono il migliore?”
Il neon sopra le loro teste gracchiò. Atsumu sorrise, come se avesse dovuto vendergli qualcosa che non gli serviva affatto, ma di cui poteva convincerlo senza sforzo. Sollevò una mano davanti alla sua faccia e solo allora si rese conto di quanto fossero vicini. “Ognuno ha i suoi segreti,” disse, poi pizzicò la mascherina all’altezza del naso e gliela tirò giù.
Sakusa indietreggiò di scatto e se la rimise a posto.
“Quindi,” Atsumu appoggiò con disinvoltura una mano sul cofano dell’auto sgangherata che Sakusa gli aveva offerto, “chi è il tuo capo?”
Non sembrava infastidito. Se l’aveva letto bene, a Omi non fregava nulla della lealtà, avrebbe implicato un senso di appartenenza che ci teneva a negare. “Osamu Miya. Prima si modificava le auto da solo, ho dei…”
Sakusa affondò le mani in un’auto mezza aperta non lontana da lui e ne cavò fuori dei pezzi su cui Atsumu poteva distinguere alcune incisioni.
“componenti che ha firmato lui, ai tuner piace lasciare firme, che siano specifici materiali o intagli. Però altri…”
Immerse ancora le mani nella stessa auto. Atsumu non ebbe bisogno di esaminare il nuovo pezzo per più di un secondo.
“Mi hanno detto che sono del fratello. Non so chi sia, però il suo stile mi piace di più, anche se è sempre a un passo dal creare componenti geniali. Il fatto è che si ferma prima.”
Atsumu sollevò un sopracciglio. “Hai modificato i suoi pezzi?”
“Sì, ho aggiunto quello che mancava.”
Al diavolo la presunzione, Atsumu provò un istinto irrefrenabile di strappargli quel pezzo dalle mani e vedere che ci aveva fatto, qual era la parte geniale che non aveva visto. “Osamu Miya corre coi pezzi del fratello che hai modificato tu?”
Sakusa sembrò pensarci su. Si guardò attorno come a prendere ispirazione per le sue prossime parole. La conversazione lo stava stancando, Atsumu non sapeva come lo sapeva, ma lo sapeva. “Diciamo che riciclo quello che posso. Nelle auto con cui vince ci sono pezzi miei, suoi e del fratello.”
Quella questione alla Frankenstein gli mise i brividi. Atsumu non avrebbe mai voluto che alcun pezzo di sé fosse chiuso assieme a suo fratello e Sakusa, ma tant’era, queste erano le conseguenze del loro litigio. Indicò una strada appena inclinata in salita che dal garage si perdeva di nuovo nel buio. “Quella porta all’uscita nel bosco?”
“Mh-mmh” Sakusa si torse le mani e si toccò la mascherina, come se avesse quasi desiderato non averla solo per rimetterla. “La macchina è quella. Spostala, prima di accenderla, altrimenti mi bruci le altre. Io torno sopra,” disse avviandosi all’ascensore, improvvisamente sbrigativo.
Atsumu gli corse dietro, raggiungendolo facilmente. Rispose allo sguardo interrogativo di Sakusa con una scrollata di spalle. “Devo prima prendere il motore.”
“Giusto,” osservò Sakusa, guardando Atsumu chiudere la porta di ferro.
Davvero, non capiva perché di colpo fosse così a disagio.
 
ᆞᆞᆞ
 
Due giorni dopo, Atsumu rubò un mochi dal pacchetto di Sakusa mentre era distratto e lanciò un’occhiata diffidente al motore che aveva quasi finito di modificare. Contrariamente alla sicurezza che ostentava, sapeva essere un tipo paranoico. Forse perché pensava troppo, forse proprio perché essere i migliori comportava una serie di attenzioni collaterali in più.
“Vado di sotto a testare il motore un’ultima volta,” avvertì Atsumu, già trascinando il suo tavolino da lavoro verso l’ascensore.
Sakusa giocherellò con la punta piatta di un cacciavite a taglio e si morse il labbro inferiore, poi alzò gli occhi su di lui. “È l’ultimo controllo, poi devi andartene, la gara è stasera.” Se avesse mostrato anche un accenno di piacere nell’essere antipatico, Atsumu l’avrebbe apprezzato di più, l’avrebbe capito, ci si sarebbe rivisto, addirittura. Invece parlava come se camminasse a un metro da terra, pratico nella monotonia di un tono che non ammetteva repliche.
“E quando lo valuti?”
“Torna domani, se ti fa piacere essere cacciato.”
Atsumu rise e spinse il carrello con il suo motore nell’ascensore. “Oh, Omi, puoi dirlo, che speri di vedermi anche domani.” Quando le porte dell’ascensore si richiusero e questo cominciò a scendere con uno scossone, il sorriso sornione di poco prima gli scivolò dalla faccia come una maschera. Fece scorrere la porta di ferro che portava al garage e si diresse marciando verso la colonna con l’interruttore, come aveva fatto nonstop il giorno prima e quella mattina. “Brutto bastardo,” mormorò tra sé, tirando in basso la leva e ammirando ormai distrattamente quel cimitero di auto quiescenti. Si avviò al suo catorcio in automatico, inserendo il motore che aveva modificato per l’ennesima volta e trascinando a mano la macchina al centro del garage. Si piegò nell’abitacolo e l’accese. Fiamme.
Il fatto era questo: Kiyoomi Sakusa era uno stronzo, un incubo con troppe mascherine.
Atsumu aveva quasi finito di completare il suo lavoro mediocre la sera in cui aveva visto il garage sotterraneo di Sakusa e aveva messo in conto di concludere la mattina successiva e consegnare il lavoro in anticipo come un bravo studente volenteroso, se non fosse stato per l’imprevisto che l’aveva investito il giorno prima, proprio quando aveva iniziato a ultimare quell’opera scarsa.
Il motore era truccato.
Un problema che un professionista come lui sarebbe stato in grado di aggirare in cinque nanosecondi, ma che un novellino non sarebbe stato capace di riconoscere neanche se gli fosse stato fatto notare con tanto di cerchi colorati e diapositive.
Era una dannata tragedia. Se avesse messo a posto comunque il motore, il suo lavoro avrebbe smesso all’istante di essere considerabile mediocre e sarebbe passato direttamente per brillante. Se invece si fosse limitato a consegnare l’opera così com’era, la rimozione del silenziatore avrebbe portato a una fiammata inevitabile e Atsumu non avrebbe superato il test. Aveva passato l’ultimo giorno e mezzo a cercare una soluzione che fosse un compromesso tra competenze straordinarie e fortuna del principiante, ma non c’era verso.
La parte peggiore era che non riusciva a capire se Sakusa l’avesse fatto per levarselo dai piedi o se invece sapesse tutto e avesse intenzione di smascherarlo. Procurarsi un nuovo motore non era un’opzione: Omi sapeva che c’era un trucco.
“Davvero un bastardo,” mormorò.
Alla fine Sakusa era un genio.
 
ᆞᆞᆞ
 
“I pezzi principali sono miei, non di ‘Samu.”
Akaashi aveva la faccia di uno che aveva troppi grilli per la testa, ma Atsumu pensava che se ne meritasse uno in più, un po’ perché ce l’aveva ancora con lui per averlo punito per non aver assistito alla fatidica gara che avevano perso, un po’ perché Atsumu comunque amava peggiorare i danni altrui, quando possibile. “Sei stato lì quasi una settimana e questo è tutto ciò che hai scoperto?” Akaashi tenne gli occhi fissi sulla pista in preparazione.
Da qualche parte si sentivano chiaramente le urla eccitate di Bokuto, il che era notevole visto che era molto più lontano di quanto la sua voce lasciasse intendere.
“Guarda che non è scontato. Comunque è un tipo strano. E intendo davvero strano.”
“Da che pulpito,” disse una voce. L’anima di Atsumu per poco non schizzò nella stratosfera dallo spavento. Kenma aveva questo orribile vizio di apparire alle spalle degli altri. Sospettava che un po’ si divertisse a far così.
“Da che pulpito arriva il ‘da che pulpito’.”
“Atsumu.” La voce di Akaashi era calma e controllata, le braccia conserte e gli occhi sempre fissi sulla pista, se non per un leggero fremito di irritazione nelle sopracciglia. “Una settimana e tutto ciò che sai è che questo meccanico riutilizza pezzi tuoi e che è un tipo strano?”
Un ragazzo di cui non ricordava il nome lo salutò con un’alzata di sopracciglia, gli lasciò una pacca su una spalla e andò via. Atsumu diede adito a quella abitudinaria sequenza di gesti ma nel frattempo mormorò nell’orecchio di Akaashi: “Ti ricordo che non fa entrare nessuno nella sua officina, ho dovuto sostenere un test per guadagnare la sua fiducia e domani verrò a sapere se l’ho superato.”
Akaashi e Kenma si scambiarono un’occhiata. “Ma tu non fai il meccanico?” domandò Kenma.
“Non è così semplice, mi ha messo i bastoni fra le ruote.”
I ragazzi si scambiarono un’altra occhiata, sembravano essere giunti alla conclusione che la sua sanità mentale fosse irrimediabilmente compromessa, il che non era poi troppo distante dalla realtà.
“Però stasera sono riuscito a dare un’occhiata alla sua ultima modifica, mentre lavorava,” Atsumu sorrise, proprio mentre Osamu e Bokuto entravano negli abitacoli delle rispettive auto, guardandosi in cagnesco. Un bagliore rosso lasciò il posto alla luce verde che segnava l’inizio della corsa. “Questa volta perdiamo.”
Akaashi lo guardò di sottecchi, attese che il rombo delle auto in partenza si affievolisse. La gara cominciò. “Dobbiamo perdere per forza?”
Per lunghi minuti, nessuno parlò.
Alla fine Atsumu si strinse nelle spalle. “Con quello che ha Osamu nel cofano può vincere anche un bambino. Questo non è uno scontro tra piloti.”
La macchina arancione di Osamu gli sfrecciò davanti, alzando un vento freddo. Urla di festa esplosero nel gruppo che lo aspettava all’arrivo.
“È uno scontro tra tuner.”
Suo fratello uscì dalla macchina travolto da scuderia e spettatori, ma trovò il tempo di voltarsi verso Atsumu. Sollevò due dita e un angolo della bocca. Due vittorie.
Atsumu si chiese se avesse scelto la modifica giusta, per il motore. Quasi riusciva a immaginare Sakusa avvolto nella luce soffusa della sua lampada da scrivania, lontano da tutto quel mondo di velocità e scommesse. Osamu pensava che stesse prestando attenzione a lui, ma la verità era che non riusciva a smettere di guardare la macchina. Forse Omi stava dando un’occhiata al risultato del suo test, forse lo stava valutando in quel preciso istante. Atsumu di solito le persone le amava o le odiava, per quanto gli venisse facile averci a che fare. Quando erano stimolanti, però, la curiosità superava amore e odio e quasi lo divorava. “Quanto cazzo è strano, quel tipo.”
“Tsum Tsummm.” Bokuto gli saltò addosso dal nulla e si appese al braccio, avvilito. “Io ho spinto come mi hai detto.”
“Lo so, Bokkun,” Atsumu diede due pacche alla mano con cui Bokuto si era aggrappato. “Lo so. Questa è l’ultima volta che ti faccio perdere.”
A quanto pareva Kiyoomi Sakusa aveva iniziato ad accendere la sua curiosità.
 
 




 
NotEl: salveee, arieccoci. Qui per dire che questa storia nasce come una cosa unica, una mega one-shot, per intenderci, quindi la lunghezza dei capitoli ne risente e ne risentirà (questo conta tipo una cosa come duemila parole in più allo scorso). In realtà è già un miracolo che ci siano vari punti tattici per spezzare, in modo da ottenere capitoli accettabili. Mi dispiace anche che sembri metterci un po' a carburare (;)) ma OH, io l'avevo detto che era un esperimento E POI c'è bisogno c'è bisogno, si deve.
Graaazie per aver letto fin qui, ci si vede presto addio addio!

 

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Capitolo 3
*** Atto terzo ***


Atto terzo_


Gli alberi del parco alle spalle dell’officina frusciavano al ritmo del vento. Se si chiudevano gli occhi si poteva immaginare di essere su una spiaggia o rintanati sotto le coperte in una stanza dalle finestre che davano su una strada, dove le auto sfrecciavano sibilando gentili sull’asfalto.
Atsumu appoggiò una bustina sul tavolo da lavoro di Sakusa.
Lui non alzò gli occhi, spostò solo il collo della lampada da scrivania in modo da illuminare meglio i componenti che reggeva in una mano. “Che gusto?”
“Lampone.”
“Mh.”
Atsumu incrociò le braccia al petto e sbuffò, impaziente.
Finalmente Sakusa alzò gli occhi e strinse le labbra. “Sei passato. Ti insegno. Il patto era questo.”
La lampada gettava ombre sui volti di entrambi. Sakusa lo guardò, gli occhi fissi nei suoi. Atsumu serrò la mascella. Non aveva paura di lui, ma era una cosa intensa, come guardare troppo a lungo uno squarcio di notte e percepire la visione oscurarsi ai bordi. “Bene, da dove iniziamo?”
“Vieni, ti faccio vedere una modifica un po’ più difficile.”
Atsumu annuì e lo seguì verso la poltrona. Era di nuovo ricoperta di oggetti, ma questa volta la seduta era occupata da un pistone collegato a mille cavi.
“Lo sai che avresti dovuto fallire, sì?”
Atsumu annuì ancora, come se Sakusa gli avesse solo suggerito qualcosa a proposito di quel pistone e lui stesse prendendo appunti mentalmente.
Omi annuì a sua volta, si portò la mascherina sulle labbra e cominciò a spiegare.
Atsumu sapeva di aver fatto la scelta giusta, quando aveva deciso di puntare tutto sulla mancata lealtà di Sakusa. Sperava solo che non fosse una trappola di suo fratello. Si voltò a guardare Omi che gli diceva qualcosa sulla pressione e, per qualche ragione, all’improvviso gli parve cento volte più interessante della macchia d’inchiostro per cui l’aveva scambiato la prima volta che aveva messo piede in quell’officina.
La sua presunzione fece un primo passo verso il rispetto.
 

Sakusa saliva lentamente di livello, nei suoi insegnamenti, ma in modo del tutto innaturale. A volte saltava i concetti base, alludeva a principi di funzionamento che non gli aveva mai spiegato e lo invogliava a provare cose a cui non aveva mai accennato prima. Ogni volta che succedeva, Omi lo guardava un po’ più intensamente. Se quella fosse stata la prima volta che Atsumu entrava nella sua officina, l’avrebbe solo trovato strano e inquietante, ma, più passava il tempo, più riusciva a distinguere il suo stato d’animo tra i contorni rigidi della mascherina. Quando il grado di difficoltà dei suoi insegnamenti si alzava di colpo, quello sguardo intenso era sfida.
Atsumu scrollava le spalle e, come se fosse stata la cosa più facile del mondo, confermava sistematicamente i suoi sospetti: ne sapeva troppo. Sakusa passava la vita a calcolare i più insignificanti centimetri di mascherine, quindi credere di modificare un motore impossibile per un principiante e poi poter tornare a fingersi completamente incompetente era la mossa peggiore: di solito i calcolatori detestavano essere presi in giro. Atsumu, che era un bugiardo capace ed esperto, credeva che in quel caso fosse meglio adottare un diverso tipo di bugia. Se Sakusa aveva deciso di non pressarlo sulle sue reali competenze, lui avrebbe colto la palla al balzo e ne avrebbe fatto sfoggio solo quando preferiva, mischiando la verità alla bugia in un cocktail di confusione mille volte più efficiente di una farsa già smascherata e tenuta in piedi con stupida ostinazione.
“Allora?” gli aveva domandato una volta Atsumu, durante una delle pause che Sakusa gli concedeva. Pausa, per Omi, significava cinque minuti in cui lui se ne stava per conto suo e tracciava linee, grafici e parole su una lavagnetta a gesso in un angolo della stanza. Ad Atsumu in quel tempo era vietato rivolgergli la parola, il che significava che non faceva altro che parlargli e Sakusa lo ignorava, cercando di mostrare nei gesti tutta l’irritazione che taceva. A volte Atsumu gli rubava anche i mochi. “Perché nessuno può entrare nella tua officina?”
Una sveglia aveva squillato dall’altra parte della stanza. Sakusa aveva lasciato cadere il gesso a terra volontariamente ed era andato a spegnerla, un astronauta tornato sulla Terra che ancora ignorava la gravità. Atsumu aveva sospirato e aveva recuperato il gesso. “Sei fortunato, la pausa è finita.”
“Omi, questa cosa dei cinque minuti non ha senso.”
“Ti ho già risposto la prima volta che sei stato qui,” aveva detto lui, come se mettere in dubbio il senso di qualcuna delle cose che faceva non meritasse neanche una risposta. “Nessuno entra nella mia officina perché non mi piacciono le persone.”
“Io sono entrato nella tua officina.”
Sakusa lo aveva guardato come se il motivo fosse stato ovvio.
Atsumu aveva inspirato di scatto, colto da un’improvvisa ondata di ispirazione, poi aveva sorriso sornione. “È perché ti piaccio?”
“È perché non sei classificabile come persona.” Poi Sakusa si era voltato ed era tornato al tavolo da lavoro.
“Sicuro è perché ti piaccio,” aveva mormorato Atsumu, mentre lo seguiva. “Comunque devo andare un attimo in bagno.”
“Hai avuto cinque minuti per farlo,” aveva ribattuto Sakusa, algido. Per inciso, Sakusa non aveva toni algidi, caldi, gentili, arrabbiati, era Atsumu che se li inventava.
Atsumu gli aveva messo le mani sulle spalle e lo aveva guardato dritto negli occhi, ma Omi se lo era scrollato di dosso alla velocità della luce. “Guarda, Omi,” aveva giunto le mani davanti a sé come in preghiera. “Della tua pausa non me ne frega un cazzo,” poi era andato al bagno nell’officina del meccanico baffuto. Non aveva chiuso la porta dell’armadio e aveva quasi potuto vedere la vena sulla fronte di Sakusa iniziare a pulsare.
 
ᆞᆞᆞ
 
“Queste erano le basi,” disse Sakusa un paio di giorni dopo, guardando il cimitero di pezzi smontati davanti a loro. Atsumu gli studiò le dita sporche di grasso e la visione gli parve così contraddittoria e allo stesso tempo così ovvia da impedirgli di staccare gli occhi da lì. Lui non sembrò curarsene. “Il tuning però è la versione creativa di tutto quello che ti ho insegnato. Devi trovare il tuo stile da solo, è per questo che i meccanici si riconoscono dalla firma. Ogni creazione porta il loro nome, in qualche modo.”
Sakusa poteva anche essere un genio, ma alla fine di quel corso lampo Atsumu poteva affermare con certezza che come insegnante facesse schifo. “Puoi mostrarmi qualcosa di tuo nei prossimi giorni?”
Atsumu alzò gli occhi nei suoi, Omi lo stava già guardando. Lottò contro ogni suo istinto di abbassare di nuovo lo sguardo sulle sue mani. “Okay,” disse alla fine e questa volta Atsumu non riuscì a leggerlo.
Bingo.
La clessidra accelerò, le lancette mulinarono. Il suo tempo lì iniziò a finire.
ᆞᆞᆞ
 
Il lavoro di spia di Atsumu diede i suoi primi frutti.
Di giorno stava con Sakusa, di notte cercava di riprodurre senza successo quello che vedeva nella sua officina e al contempo di inventare un modo per rendere suo quello che apprendeva.
Bokuto si sedette sullo sgabello girevole da cui Atsumu si era appena alzato come una furia. Ancora ruotava su se stesso. “Quindi come sta andando?”
Il ragazzo scaricò una quantità di componenti imbarazzante sul suo tavolo da lavoro e si soffiò un ciuffo via dagli occhi. “Non lo vedi, Bokkun?”
Lui alzò le mani di scatto come un pentito. “Scusa.”
“È fuori di testa,” mormorò tra sé, riferendosi a Omi. Le sue mani volarono in quell’ammasso di ferraglia e si misero automaticamente a costruire e intrecciare pezzi. Gli capitava ogni tanto, quando era così ossessionato da un obiettivo complesso, che la maggior parte dei suoi pensieri si disconnettesse dalle mani. Quella volta, però, gli sembrava quasi di fare da spettatore.
“Voi meccanici lo siete tutti,” commentò Bokuto, affondando la mano nel suo pacchetto di patatine e seminando briciole ovunque sulla strada per la sua bocca. Atsumu era così disperato che non lo rimproverò neanche: forse il segreto per superare Sakusa era in una spruzzata di briciole di patatine nel cofano. “Certo però che con lui ti sei un po’ fissato,” continuò, osservando assorto una patatina in controluce.
“Che vuoi dire?” Atsumu alzò lo sguardo nel suo, Bokuto fece lo stesso, ma aveva l’espressione smarrita, come se non avesse detto nulla e si stesse chiedendo perché fosse stato interpellato. “È che è bravo davvero, ma è super rigido. La maggior parte delle modifiche più brillanti le fa a partire da altre modifiche, a volte anche dalle mie. Una volta ha detto che il fratello di Osamu è creativo, ma è sempre a un passo da una modifica geniale.”
“Aspetta, il fratello di Osamu? Ce n’è un altro?”
Atsumu rimise le mani tra freni smontati e pezzi di assali che non avrebbero dovuto essere lì e aggrottò la fronte. “No, Bokkun,” replicò pazientemente. “Io sono il fratello di Osamu. È una fottuta maledizione, non ci sto con la testa al pensiero che ogni cosa che faccio è a un passo da una scoperta.”
Per qualche secondo, nell’officina di Atsumu si sentì solo lo sgranocchiare di Bokuto.
“Senza contare che non ha senso che sia così bravo. È capace di far volare la macchina di ‘Samu senza pesare sul motore e senza superare le temperature critiche dei componenti, ma a volte dimentica di stringere gli pneumatici. Li lascia così, tutti lenti. Gli pneumatici, Bokkun. Chi è che dimentica di stringere le ruote?”
Altro sgranocchiare. Poi Bokuto deglutì rumorosamente. “Guarda, io non ci capisco niente,” e si leccò un dito, “ma ti sei davvero fissato con lui.”
 
ᆞᆞᆞ
 
Ogni volta che, come promesso, Sakusa gli mostrava qualcosa di suo, Atsumu aveva la sensazione che gli mostrasse invece qualcosa di loro. L’auto arancione di Osamu portava anche la sua firma, i suoi pezzi e quelli di suo fratello. Gli sembrava che gli mettesse le mani nelle budella, le rigirasse a suo piacimento e gli promettesse che ne sarebbe venuto fuori qualcosa di fenomenale, che lui puntualmente non prevedeva.
Ancor più che non essere il migliore, Atsumu odiava sentirsi stupido.
“Il motore non avrebbe bisogno di essere un po’ rinnovato?” gli chiese. Ovunque guardasse vedeva almeno un pezzo che avrebbe migliorato le prestazioni dell’auto, se fosse stato sostituito. Il silenzio rendeva ogni gesto un po’ più segreto, la violazione di un luogo proibito.
“Non posso,” Sakusa gli passò alle spalle e diede solo una breve occhiata con lui, prima di tornare sul lato anteriore dell’auto.
Atsumu rise. “Perché, Osamu Miya ci è affezionato?”
Omi cercò i suoi occhi, come se ci stesse pensando, ma era difficile capire la sfumatura della sua espressione con la mascherina tirata su. E poi ormai era sera inoltrata, era già una fortuna che Atsumu non vedesse due Sakusa per la stanchezza. Non sapeva dove avrebbe trovato la forza di tornare alla sua officina, più tardi, e continuare a scervellarsi. “Credo di sì. È un peccato, falsa i risultati dei miei test.”
“Aspetta, credi di sì nel senso che ci è affezionato?”
“Sì, penso di sì. Non cambiare certi componenti del motore è l’unica regola che ho.” Sakusa lo disse come se quella fosse stata la seccatura più grande registrata sul pianeta, anche se il primato perdeva di importanza visto che per lui qualunque cosa era una seccatura.
“Cioè, ci tiene davvero?”
“Ma sei stupido?”
Atsumu rimase lì a fissare il motore con i pezzi vecchi, gli stessi che, quando lui e Osamu erano piccoli, avevano messo a punto insieme nel garage del nonno per creare due micidiali motori gemelli, come loro.
“Perché non te ne freghi e basta e li cambi?” gli domandò Atsumu dopo un po’, gli occhi ancora persi tra i componenti del motore. Glieli avrebbe distrutti lui. Glieli avrebbe distrutti e poi avrebbe visto l’auto di suo fratello sfracellarsi sotto il suo culo alla gara successiva. Lo avrebbe fatto, se una vocina nella sua testa molto simile a quella di Akaashi non avesse già iniziato a rimproverarlo.
“Se ne accorgerebbe.
Osamu Miya è un meccanico.
Sì, ma fa schifo, lo corresse mentalmente Atsumu.
Sakusa chiuse il cofano e sfregò le mani tra loro, poi prese a ispezionarle come se le tracce di grasso fossero invisibili a occhio nudo. Non ne aveva, in ogni caso, Atsumu non capiva come facesse a non sporcarsi più del necessario, gli sembrava di essere finito in Ratatouille: ecco un vero chef; grembiule sporco, maniche pulite. Al diavolo.
“Bene, vattene, è tardi.”
“Sei sempre un signore, Omi.”
Lui scrollò le spalle e aspettò a braccia conserte che Atsumu entrasse nell’ascensore. L’ultima immagine che ebbe di lui fu la sua mano, che finalmente scopriva il viso.
Dall’altra parte dell’armadio pareva che regnasse il silenzio, se non per un suono ritmico che sembrava… “Cazzo!” esclamò Atsumu, correndo attraverso la porta dell’armadio e poi fuori nella tempesta, verso la sua moto. Aveva passato ore nel garage sotterraneo di Omi e nessuno dei due aveva sentito la pioggia. Il suono scrosciante delle gocce che si dividevano fra asfalto, tetti e bosco colorava quel panorama musicale di strumenti che insieme non sembravano andare d’accordo. Salì in sella di fretta e inserì la chiave nella toppa, ruotandola in attesa del rombo fenomenale del motore.
Il rombo arrivò, ma era un tuono.
Atsumu ritentò, mentre sentiva già i capelli appiccicarsi sulla fronte e l’acqua fare breccia nei vestiti in quel suo modo disomogeneo e irritante. La moto prese vita per cinque secondi, poi i fari lampeggiarono e si spensero nuovamente.
Fantastico.
Ultimamente lo faceva spesso. Non era un problema, riparare le motociclette non era mai stato un problema. Di solito aveva solo bisogno di metterci un po’ le mani dentro o aspettare qualche ora e tornava come nuova. Diventava un problema quando non poteva mettersi a sventrare la sua moto sotto la pioggia, quando non poteva neanche portarla dentro, perché questo comportava il rischio che che Sakusa la vedesse. E l’aveva detto lui, in fondo: ogni modifica di un tuner porta la sua firma.
 
“Ehilà, Omi.”
Era umiliante. I capelli erano umilianti.
“Cambio di programma.”






 
NotEl: oh no! Piove e non si può tornare a casa. Accipicchia che disdetta, chissà cosa accadrà!
(Lo so che il capitolo è corto, LO SO, e infatti non mi farò attendere, visto che brava? (non è vero, sto mentendo, mi manca solo una scena e poi ho finito la stroria quindi faccio la spaccona perché so che ora posso permettermi di aggiornare prima...... but still, il risultato è positivo quindi che ci frega))

 

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Capitolo 4
*** Atto quarto ***


Atto quarto_



“Non puoi restare qui.”
“Ascolta, per quanto mi piaccia da morire darti fastidio, vorrei anch’io che la mia moto partisse.”
“Non puoi comunque.”
“Mi presti una macchina?”
Sakusa si strinse nelle spalle e si morse l’interno della guancia. “Do un’occhiata alla tua moto.”
“No, no, non è necessario!”
Sakusa alzò gli occhi al cielo e mise già un piede nell’ascensore, ma Atsumu gli afferrò un braccio e voltò appena il viso per guardarlo.
“Ho detto che non è necessario.”
Omi si liberò dalla sua stretta e aggrottò la fronte. “Ci metto cinque minuti.”
“Non ci pensare neanche. L’ho portata nell’officina dall’altro lato dell’armadio per evitare che si bagnasse ulteriormente. Domani mattina sicuro riparte. La conosco.”
Si guardarono. Atsumu immaginò che qualcosa, nel suo sguardo, fosse appena cambiata, perché Sakusa aggrottò le sopracciglia – più un fremito che un’espressione – poi parlò cauto: “Come ti pare.” Riprese la via per l’ascensore e Atsumu lo seguì in silenzio, limitandosi a osservarlo chiudere la porta e pigiare il pulsante per salire. “Puoi dormire qui,” continuò poi, una volta che furono tornati nell’officina.
“Qui dove?”
Sakusa accartocciò la faccia come se Atsumu puzzasse, cosa probabile visto il grasso, il sudore e la pioggia delle ultime ore. “Come pensi che dorma quando resto qui la notte?”
“In piedi come i cavalli, Omi.”
“Sei un idiota,” commentò lui, dirigendosi verso il divano nell’angolo meno frequentato dell’officina e cominciando a liberarlo dagli aggeggi abbandonati sulla seduta.
“Pensavo che lo usassi come inventario.”
“No, lo riempio di cose ogni mattina per evitare che ti ci sieda sopra.” Questo era il genere di frasi di Sakusa che Atsumu non sapeva se interpretare letteralmente o sarcasticamente. Propese per la prima opzione, però, perché poi iniziò a sbucciare alcuni strati di plastica e tessuti, rivelando delle lenzuola e un cuscino, nella versione più simile a un letto a cui un divano potesse mai sperare di ambire.
“Che lusso!”
“Non farci l’abitudine.”
Atsumu ignorò l’ultimo avvertimento e si lasciò cadere sul divano con un grugnito, accoccolandosi contro il cuscino per massimizzare il fastidio provocato al suo nuovo compagno di stanza. “Dormi con me? C’è posto per entrambi.”
Sakusa fece la cosa più simile a una risata che Atsumu gli avesse mai sentito fare. Era un suono secco e sprezzante, come se stesse avendo a che fare con una creatura dall’intelligenza incerta… o come se un gatto avesse iniziato a strozzarsi lentamente con una palla di pelo. “Scordatelo, resto qui a lavorare, la prossima gara non è tra molto.”
Atsumu sbadigliò. La verità era che non dormiva con l’intenzione di riposarsi davvero da giorni. Dormire era una gentilezza che concedeva al suo corpo, ma si addormentava pensando a bulloni e carburante e si svegliava riacchiappando il filo dell’ultimo pensiero ossessivo con cui era scivolato nel sonno. “La prossima gara è tra una settimana, Omi.”
“Appunto.”
Atsumu avrebbe voluto rispondergli, dirgli che erano uno scoppiato lui, la sua lavagnetta, le sue mascherine, i suoi cibi confezionati e ora il suo divano, ma, prima ancora di decidere da che parte iniziare, si addormentò.
 

Si svegliò qualche ora dopo, con la pioggia che batteva incessante sul tetto dell’officina e Sakusa che a sua volta martellava qualcosa in un angolo. C’era qualcosa di confortante, in quella serie di silenzi ritmici. Atsumu ne rimase colpito. Era nell’officina di un matto che conosceva giusto da qualche settimana, era rimasto per via di un temporale, quel meccanico era il suo nemico giurato. Nulla, lì, avrebbe dovuto consentirgli di dormire sonni sereni, eppure erano settimane che non dormiva così bene.
Guardò Sakusa, concentrato sulla progettazione della prossima assurdità che avrebbe fatto disperare Atsumu nel futuro vicino, eppure non lo lasciò frustrato.
Aveva abbandonato la mascherina in un angolo e di tanto in tanto si passava la lingua sulle labbra e poi le mordeva, unendo le sopracciglia e poi rilassandole. Quando ridirezionò la luce, modificando l’angolo della lampada da scrivania, le ciglia gettarono ombre nuove sulle sue guance, a stento intravedeva l’inchiostro che rendeva pupille e iridi indistinguibili. Era bello nel modo ruvido con cui lo erano le cose difficili, simile all’aria gelida che scendeva nella gola quando correva sulla sua moto. C’era questo divieto costante, quasi naturale, nel modo in cui esisteva. Nessuno poteva entrare nel suo garage. Nessuno poteva parlargli. Nessuno poteva toccarlo. Nessuno poteva dargli da mangiare. Nessuno poteva aiutarlo. Forse nessuno poteva capirlo. Quella solitudine era molto triste o molto affascinante, gli piegava leggermente in basso gli angoli della bocca, gli lasciava le labbra screpolate. Atsumu aveva molti difetti, lo sapeva con la stessa certezza che mostrava quando lo negava, e uno di questi era che quando vedeva un divieto doveva violarlo.
Gli pareva che lo stesse facendo proprio in quel momento, mentre lo spiava in segreto, unicamente perché Sakusa non lo sapeva, non ne era cosciente, e quindi stava sfuggendo al suo controllo.
Atsumu stava iniziando a comprendere la natura dei cinque minuti di pausa che gli imponeva durante i suoi insegnamenti, qualcosa che forse aveva a che fare con lui e la presunta seccatura che costituiva molto meno di quanto pensasse. Qualcosa che aveva a che fare con una soglia di sopportazione di contatto umano che più che essere caratteristica di Sakusa in realtà lo imprigionava.
Alla fine, Atsumu sbadigliò platealmente, le braccia che lottavano contro i cuscini del divano per stiracchiarsi a dovere.
Sakusa alzò gli occhi dal suo tavolo da lavoro e strinse le labbra come se fosse stato molto dispiaciuto, molto deluso oppure sulla soglia di un sorriso. Impossibile dirlo, era un’espressione interrotta a metà. Tastò con le dita da qualche parte alla sua destra, senza guardare.
“È ancora notte,” disse solo, e Atsumu annuì. Poi, con un colpo di reni, si alzò a sedere sul divano e sbadigliò ancora. Omi sollevò la mascherina che aveva recuperato e se la legò solo a un orecchio.
Atsumu si guardò attorno per qualche secondo, come se cambiare punto di vista necessitasse di una ricalibrazione di sguardi. Poi si alzò e raggiunse Sakusa. Lui si tirò su la mascherina con un gesto stizzito. “Che ore sono?” domandò Atsumu, la voce meno oliata di quanto si aspettasse.
“Le quattro.”
Annuì, gli appoggiò le mani sulle spalle e percepì sia il sussulto di Sakusa, sia il modo in cui lo soffocò e lo contenne. “Le quattro,” gli fece eco. “Vai a letto tu.”
“Non ho sonno.”
Atsumu squadrò il suo tavolo da lavoro e fece schioccare la lingua. “Ti do il cambio, Omi, faccio io la guardia ai tuoi tesori.”
“Ci vorrebbe qualcuno che facesse da guardia alla tua guar…” Atsumu strinse un po’ la presa sulle sue spalle, come a incalzarlo ad alzarsi. “Toglimi le mani di dosso.”
Atsumu ridacchiò, mentre Sakusa tentava di scacciare le sue mani. “Mi fa paura che mi fissi mentre dormo.”
“Non ti stavo proprio dando retta,” ribatté distrattamente Sakusa, ancora perlopiù impegnato a divincolarsi dalla presa di Atsumu. Si alzò in piedi e girò su se stesso per sfuggirgli. Quando tornò a fronteggiarlo, scoprì che erano più vicini di quanto avesse previsto.
Atsumu pensò che se non avesse indossato la mascherina avrebbe sentito il soffio del suo respiro. Spostò lo sguardo sull’elastico che si tendeva fino alle orecchie, quello di Sakusa lo seguiva attento e sensibile a ogni più sottile spostamento, come un sensore particolarmente avanzato. Atsumu arricciò le labbra e sospirò, poi sollevò un dito e lo infilò nell’elastico, sganciandolo.
La mascherina cadde di lato, un sipario distrutto. D’un tratto Sakusa era molto meno macchia e molto più coetaneo. Atsumu si sporse in avanti, poi deviò di lato e gli sussurrò all’orecchio: “vai a letto.”
Omi deglutì, Atsumu seguì il percorso del suo pomo d’Adamo con la coda dell’occhio. Prese un respiro profondo e si allontanò. Profumava di qualcosa di profondo che si scontrava con qualcosa di più dolce prima che si riuscisse a investigare a dovere. Sakusa annuì e lo superò a testa bassa, raggiungendo il divano ad ampie falcate e sprofondandoci dentro un attimo dopo. Non aveva fatto commenti sulla sua eventuale sporcizia, si era solo infilato sotto al lenzuolo e gli aveva dato le spalle.
“Vieni qua.”
Atsumu aveva lasciato scorrere lo sguardo sul principio di genio abbandonato sul tavolo da lavoro, gli occhi che si riabituavano alla luce, ma si voltò di scatto nella direzione del divano, a quelle parole. Qualcosa nel suo collo schioccò. “Eh?”
Sakusa si girò appena. A suggerirgli quel movimento, nel buio, fu più il fruscio che quello che Atsumu vide. “Hai un aspetto orribile.”
“Ah, be’, grazie.”
“Si vede che non dormi da giorni,” continuò lui, ignorandolo. “Vieni.”
“Non ci credo, si preoccupa per me. Sapevo di averti conquistato, Omi.”
“Cinque, quattro…”
Atsumu si fiondò ridendo verso il divano. “Omi, sei sicuro? Perché non credo di riuscire a non toccarti se adesso mi metto qui…”
“Tre. Due.”
Atsumu si ritrovò in tempo record disteso accanto a Sakusa, un braccio piegato dietro la testa, a fissare un soffitto che sfumava gradualmente nel buio. Sporse l’altro braccio oltre il fianco del suo nuovo compagno di stanza, che gli dava le spalle, e tentò di recuperare l’elastico della mascherina che gli aveva slacciato.
“Che stai…”
Atsumu lo riacciuffò e gli cercò l’orecchio a tentoni, inciampando con le dita in un occhio.
“Scusa ma…” Sakusa si agitò, il che rese la ricerca più difficile.
“Ti sto rimettendo la mascherina, così ti senti più… stai fermo, Omi.”
Sakusa combatté contro la sua mano. Atsumu si oppose.
Alla fine Omi si mise a sedere e liberò anche l’altro orecchio dall’elastico della mascherina, mettendola da parte su un carrello lì vicino inondato da vecchi attrezzi. “Ma che ti prende?”
Atsumu incrociò anche l’altro braccio dietro la testa e si godé quel poco che riusciva a distinguere al buio della fronte aggrottata dall’irritazione del meccanico che era lì per spiare e distruggere. “Non lo so,” ridacchiò, forse aveva immaginato l’ombra della vena pulsante sulla fronte di Sakusa, “credevo fossi più a tuo agio.”
“Tu sei completamente pazzo,” commentò lui, tornando a sdraiarsi, questa volta anche lui a pancia in su.
“Disse quello che non fa entrare nessuno nella sua officina e mangia solo mochi confezionati.”
Per qualche minuto stettero in silenzio a fissare il soffitto.
“Atsumu.” Un fruscio. Sakusa non l’aveva mai chiamato per nome, non ne aveva mai avuto bisogno, non si era proprio mai rivolto a lui, ma era sempre solo inciampato nella sua presenza. Gli piaceva, per qualche ragione. Il suo nome, nella sua bocca, era ruvido come i sospiri che Atsumu ormai riusciva a riconoscere come una farsa, era granuloso come se si fosse appena svegliato con la gola secca e avesse bisogno di un minuto per riprendere a usare normalmente la voce. Fissò il soffitto. Sapeva che se si fosse voltato anche lui sarebbe successo qualcosa di devastante. Un’autentica catastrofe sarebbe esplosa a metà tra i loro respiri e l’onda d’urto avrebbe baciato le coste del Vietnam, dove l’acqua aveva un colore inspiegabile e il cielo era profondo come se avesse dovuto fare spazio a qualcosa: un dio, oppure un bacio. Avrebbe spazzato via suo fratello, Akaashi, la missione, la lealtà, le fazioni. Rimase con gli occhi spalancati contro il buio, chiedendosi quanti segreti svelati ci fossero in tutto quello che non stava guardando. Non voltarti. Quello di Orfeo era un gioco da ragazzi, a confronto. Non girarti.
“Sì?” Atsumu riscoprì la sua voce altrettanto ruvida.
“Lo sai perché voglio che non parli nei cinque minuti di pausa?”
Ormai credeva di saperlo. “Perché nessuno può entrare nella tua officina.” Perché le persone ti mettono a disagio e a volte non le reggi più. Perché più che essere schizzinoso sei terrorizzato.
Sakusa mormorò un assenso. Più Atsumu passava del tempo con lui, più imparava a capirlo. Eppure, per qualche assurda conformazione circolare del fenomeno, più imparava a capirlo, meno lo comprendeva. Per questa ragione, non aveva la più pallida idea del perché avesse deciso di dirglielo adesso, di quale geniale struttura ingegneristica gli fosse saltata in testa per giungere alla conclusione che quello fosse il momento delle confessioni. Perché era questa la differenza tra capire e comprendere qualcuno. Atsumu capiva che quello che succedeva era il risultato di un calcolo, ma non comprendeva quale. 
Aveva passato settimane a studiare dai suoi appunti, però, sapeva stare al gioco.
(Voleva.)
“Ho un fratello,” iniziò Atsumu. Si sentì un matto completo, un criminale svitato che tira fuori un telecomando con sopra un enorme bottone rosso in una piazza trafficata. Adesso lo premo. Allontanatevi tutti o lo premo e vi faccio saltare in aria. Si voltò verso Sakusa. Era tornato a fissare il buio, l’espressione vuota. Se avesse voluto che stesse zitto gliel’avrebbe detto, però. Con Omi bisognava interpretare i silenzi più che le parole. Poi Sakusa voltò appena il capo verso di lui, quel poco che bastava per un contatto visivo. Una scossa gli risalì rapida la spina dorsale e si poggiò sulla nuca. “Da piccoli eravamo inseparabili, anche se facevamo sempre a botte. In squadra insieme, però, eravamo imbattibili. Credevo che lo saremmo stati per sempre. Mi capisci, no? Quando un’auto è una scheggia non ha senso modificarla.”
“Non se scopri che si può fare di meglio.” Sakusa lo disse come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
“Ci ha traditi, però. Me e il mio gruppo. Ha iniziato ad avere questo sogno, questa aspirazione strana, e non l’ha detto a nessuno. A cose fatte se n’è andato e basta.”
Sakusa sospirò e sistemò meglio il braccio che aveva sotto la testa. “Tu non l’hai presa bene e hai peggiorato la situazione,” finì per lui.
Atsumu non l’avrebbe messa in questi termini, ma era più o meno quello che era successo. Osamu avrebbe potuto benissimo ammettere di preferire la guida al tuning, invece un giorno si era presentato in officina e aveva detto a tutti che aveva conosciuto delle persone e che avrebbe gareggiato con un altro gruppo, per non doversela vedere con Bokuto. Quando erano tornati a casa, soli, Atsumu si era lasciato un po’ prendere dal momento e gli aveva giurato che lo avrebbe distrutto. Il silenzio aveva cementificato il risentimento e la faccenda aveva spianato la strada alla leggendaria guerra tra fratelli che ne sarebbe conseguita.
Il business di scommesse e passaparola del mondo delle gare clandestine metteva le radici in un litigio tra fratelli che aveva macerato ed era germogliato in un’ostilità ogni ora più marcia.
“Atsumu.”
Lui trattenne il fiato. Di nuovo, non si voltò, un’altra catastrofe era dietro l’angolo ed era proprio sul confine tra la pupilla e le ciglia di Sakusa.
“Sì, Omi?”
“Chi sei?”
La pioggia ticchettava sul tetto dell’officina. Un tuono esplose in lontananza, borbottando la sua irritazione nel cielo che lo circondava. Atsumu inspirò, attento a non fare troppo rumore. Non gli tremò il respiro, ma con queste cose era meglio non rischiare: ci sono interi segreti svelati in ritmi di questo tipo. Era una delle prime regole dei bugiardi. “La verità?”
Sakusa non rispose.
Ora glielo dico.
Ma il fatto era che non poteva dirglielo. E non per la missione e le scommesse e il gruppo e i soldi (‘fanculo tutto), ma perché c’erano delle volte in cui la verità gli si incastrava in gola e diventava fisicamente impossibile tossirla via.
“Il tuo peggior incubo, Omi,” ridacchiò.
Lui scosse la testa. E allora Atsumu lo guardò, le lancette si incepparono, il mondo trattenne il fiato. Non gli serviva neanche sporgersi, sarebbe bastato un impercettibile movimento del collo e l’avrebbe baciato.
Ma successe una cosa inaspettata.
Sakusa si mise a sedere, scavalcò le sue gambe e si alzò in piedi. “Vieni, ti faccio vedere una cosa.” La cosa inaspettata non era che si fosse alzato, era che gli avesse porto una mano.
“Dove…”
“Stai zitto, non fare domande e muoviti.”
Atsumu sgranò gli occhi, poi accettò la mano. Lo schiocco parve un sigillo. Rise e si alzò. “Sissignore.”
Per la prima volta dall’inizio della sua missione, si sentì un traditore.
“Prendi quella.” Sakusa indicò una torcia lì vicino, poi si diresse senza esitazione verso l’ascensore.
Era una di quelle torce a LED ad alta potenza che assomigliavano a una cassetta degli attrezzi. Atsumu se la rigirò confuso tra le mani. “Mi stai per uccidere in un posto losco? Possiamo farlo qui? Preferirei non bagnarmi di nuovo i capelli. Morire con stile rientra nelle mie priorità.”
Non aveva bisogno di vederli, per sapere che gli occhi di Omi si erano esibiti in un salto mortale. “Sono a tanto così dal cambiare idea.”
Lo raggiunse all’ascensore. “Sei anche una palla, Omi.”
 

Nelle settimane precedenti, Atsumu aveva immaginato quel momento. Lo aveva pianificato e aveva continuato a pianificarlo ogni volta che aveva fallito. Era diventato una priorità al punto che l’aveva addirittura sognato, in formato idillio e in formato incubo, a giorni alterni. Aveva parlato di quel momento con Akaashi, con Bokuto, con Kenma, col suo riflesso.
Ma ora che Sakusa aveva aperto il cofano dell’auto arancione delle meraviglie e quell’intreccio di ingranaggi gli si era mostrato in tutto il genio a cui aspirava con frustrazione, Atsumu non provava più niente, se non una distante e sorda delusione. Un’occhiata in quel cofano, in fondo, era un po’ come aprire sconfitti il quaderno di matematica del proprio rivale accademico.
Era così che si sentivano alcuni alpinisti, quando arrivavano sulla cima?
“Lì,” iniziò a indicare Sakusa, spiegandogli come un pezzo migliorasse le prestazioni quasi a costo zero, come un altro si adattasse perfettamente a una funzione che normalmente non avrebbe dovuto ricoprire. Atsumu non ne aveva bisogno. Nel momento stesso in cui Omi aveva aperto il cofano aveva capito tutto.
Per quanto odiasse ammetterlo, Sakusa aveva ragione su di lui: era sempre a un passo dalla svolta, per questo gli era bastato uno sguardo. Era come chiedere una lettera decisiva al gioco dell’impiccato e vedere la risposta corretta srotolarsi davanti agli occhi per banale conseguenza. Era la pagina di soluzioni sul retro del libro. “Quello cos’è?” domandò comunque, indicando un altro componente. Alle quattro e mezzo del mattino la maschera e la realtà si erano fuse al punto che Atsumu non sapeva quanta della sua farsa fosse ancora in piedi, ma forse era anche ora di giocare un po’ in difesa.
Sakusa rispose a ogni sua domanda, forse con una traccia appena rilevabile di irritazione, come se avesse saputo che era inutile, che lui sapeva, che non solo era competente, ma addirittura un fuoriclasse. Magari non era vero, però, magari Atsumu stava impazzendo e leggeva nei toni spenti del meccanico note che non esistevano.
“Perché me l’hai fatto vedere?”
Sakusa si strinse nelle spalle e si portò una mano al viso, poi sembrò ricordarsi che non aveva la mascherina e lasciò cadere di nuovo il braccio lungo i fianchi. La famosa sindrome della mascherina fantasma. “Qualcosa mi dice che questa è la nostra ultima lezione.”
Atsumu lo guardò, consapevole delle catastrofi e della dinamite. Le lasciò scoppiare.
Senza rompere il contatto visivo, Sakusa gli lanciò le chiavi della macchina.
“A fine corso regali auto a tutti i tuoi alunni o solo ai tuoi preferiti?”
Lui non rispose, si infilò nell’abitacolo e richiuse la portiera. Era entrato dal lato del passeggero.
“Questo è pazzo,” mormorò Atsumu, poi entrò in macchina.

 
Ma certo. Tornava tutto.
Non sapeva come avesse fatto a essere così ingenuo.
Il meccanico di suo fratello, che giurava di non aver mai visto il suo capo in faccia, aveva un garage segreto in cui non faceva entrare nessuno. Che fortuna! In qualche modo lui, Atsumu, il nemico giurato di Osamu, aveva tratto Sakusa in inganno e lo aveva costretto a insegnargli la sottile arte del tuning. Poi, con il buio come incentivo, gli aveva confessato l’intera storia della sua vita – tanto valeva dirgli anche il suo cognome. Il meccanico pazzo gli aveva detto che quella sarebbe stata la loro ultima lezione e aveva poi proceduto a rivelargli i segreti delle sue modifiche. Alla fine, Atsumu era salito volontariamente su un’auto e aveva guidato dritto nel boschetto isolato dietro l’officina. Andiamo, c’era davvero da sorprendersi se adesso aveva un’ascia da spacco piantata in petto? Il sangue che scorreva copioso a imbrattare la maglietta, il freddo che si faceva largo nelle ossa come se il dio dei ghiacci in persona gli stesse soffiando nelle viscere? Sakusa avrebbe potuto direttamente mostrargli il suo necrologio: ne danno il triste annuncio
“Che ti prende?”
Atsumu si riscosse e inchiodò silenzio del bosco sostituì il motore. “Fantasticavo su te che adesso prendi un’ascia e mi uccidi.”
Omi lo guardò per un momento, poi scosse la testa. “Non lo farei mai così. Ti avvelenerei.”
“Oh!” Atsumu tamburellò con le dita sul volante. “Questo sì che è rincuorante. Grazie.”
“Già, uhm…” Sakusa inspirò di scatto, poi sbuffò appena. “Perché dovrei ucciderti?”
Perché ti sto tradendo e perché mi dispiace. Atsumu ridacchiò. “È davvero una bella auto, lo sai?”
“Sì.”
“Dovresti venire almeno a una gara.”
“Non mi pia…”
“Anche solo per vedere come vince.” Il senso di colpa che non avrebbe neanche dovuto provare serpeggiò tra quelle parole come muschio nelle fughe. I suoi errori sarebbero stati dimezzati se Sakusa avesse scoperto chi era grazie a un suo assist, un suo invito? Se non in quantità, almeno in valore.
Sakusa rimase in silenzio.
“Andiaaaamo, è divertente!” Atsumu fece una cosa pazza. Si sporse di lato e gli diede una spallata amichevole. Scandalo! Contatto fisico non concesso. Errore. Errore!
Omi però non si irrigidì nemmeno, voltò solo il viso di lato – verso di lui – e sospirò, come se le vette di stupidità a cui era stato sottoposto avessero iniziato a risultargli troppo alte.
“Dai, Omi, ti assicuro che invece ti piacerà più di quanto…”
“Atsumu e basta?”
“Eh?” Atsumu alzò gli occhi nei suoi, era ancora accasciato su di lui e aveva approfittato della sua benevolenza per mettersi comodo con la testa sulla sua spalla. Comodo. Come se il freno a mano non gli stesse lentamente perforando il fegato.
“Atsumu e basta? Nessun cognome?”
Chiaro, aveva sentito anche la prima volta.
Continuò a guardarlo, le luci una serie di riflessi scartati dagli alberi, che partivano dai fari e rimbalzavano fino a raggiungerli in traiettorie irrintracciabili. Inclinò il viso su un lato, come se gli fosse arrivato per posta un pensiero, fece scattare lo sguardo in basso, sulle sue labbra.
Il bosco era tranquillo, contrariamente alle aspettative che uno si finiva per fare a furia di vedere tutti quei film americani. Non c’era nessuna musica di sottofondo dall’influenza più incalzante di quanto ci si rendesse conto, non c’erano sibili nascosti, occhi sbarrati tra i cespugli, battute sospese e grida acute.
Un ruscello correva da qualche parte lì vicino, seguendo una strada che conoscevano solo le lucciole e gli spiriti.
Non pioveva più.
Atsumu percepiva il respiro di Sakusa con più di un senso su cinque.
Con uno sforzo che non avrebbe affatto dovuto sperimentare, tornò di nuovo a guardarlo negli occhi. Inchiostro e notte non avevano lo stesso colore.
Per quanto odiasse lo sporco, l’ironia della sorte aveva fatto dell’esistenza di Omi un ossimoro. Sin dall’inizio era stato una macchia. Prima una macchia sul curriculum di Atsumu – il miglior tuner. Poi una macchia nella sua stessa officina, poi nella vita di Atsumu, che aveva smesso progressivamente di dormire. Ora era una macchia nella sua disillusione. Gli avrebbe infilato le dita negli occhi, se le sarebbe sporcate di olio per motori e inchiostro e ci avrebbe scritto giusto giusto una lettera di dimissioni – dalla vita, dalle colpe, dalle missioni che aveva così evidentemente fallito.
Sakusa non si muoveva, lo guardava come in attesa. Se implorasse, Atsumu non lo sapeva e, fosse stato anche il caso, non avrebbe saputo dire in che direzione. Non lo capiva, era frustrante almeno quanto era affascinante, era repellente almeno quanto era magnete.
Anche se in qualche modo pareva sempre fare la mossa giusta, con lui, salire un gradino alla volta la scala di una fiducia che non era mai stato lì per conquistare, Atsumu non aveva la più pallida idea di come facesse. Tirava un dado e a stento si preoccupava del risultato.Entrare nell’officina dai limiti invalicabili, conquistare le lezioni private, portare mochi, parole e seccature, guardare gli ingranaggi e gli attrezzi, abbassare mascherine fino a dimenticarle su un tavolo degli attrezzi e dormire sul divano… era un caso, mosse su una scacchiera che guardava al contrario.
Che me ne fotte, pensò Atsumu. Si sporse un po’ più in alto e lo baciò.
Ogni cosa faceva silenzio, come la terra prima di un’esplosione; più veloce del tempo che il suono ci impiega a rendersi conto della catastrofe. Sollevò una mano a cercare la sua. Quando la trovò, si rimise dritto – il fegato ringraziò – e intrecciò le loro dita. Di colpo gli sembrò che tutte le volte che si era soffermato a guardarlo armeggiare con pezzi di auto, cacciaviti e grasso avesse desiderato di fare questo.
Omi si spinse più verso di lui, il freno a mano divenne un suo problema. La sua mano restò immobile in quella di Atsumu, come eternamente diviso tra qualcosa che voleva e qualcosa che lo congelava. Qualunque tipo di riscatto stesse inseguendo, Atsumu glielo lasciò prendere. Non aveva nulla da perdere, in ogni caso. O meglio, aveva tutto da perdere, ma sarebbe successo lo stesso ormai. Era una cosa molto pericolosa da dare in mano ad Atsumu, questo genere di libertà. Era creativo abbastanza da organizzare un’esplosione, metodico il giusto per realizzarla. E adesso aveva un campo minato a sua completa disposizione. L’avrebbe sfruttato.
Gli spostò i capelli via dalla fronte per guardarlo. “Omi, Omi,” sussurrò. Non si era accorto di avere il fiato corto. Lui tentò di ignorarlo, ma Atsumu non glielo concesse. “Ti devo dire una cosa.”
I bugiardi avevano un codice d’onore: si giocava sporco solo finché si giocava ancora.
La verità. Non ricordava neanche se da bambino ci fosse riuscito, a essere la famosa bocca della verità. Premeva sulla lingua, ma si traduceva in nulla di più che un’esitazione o un verso mozzo.
“Non la voglio sapere.” Sakusa gli lasciò un bacio su una guancia. Atsumu chiuse gli occhi.
“No, veramente, devo…”
Omi lo baciò all’angolo della bocca, poi gli sussurrò sulle labbra: “Cinque minuti di pausa. Non puoi parlare.”
Atsumu rispettò la regola per la prima volta in vita sua.
Fuori, l’alba iniziò ad attaccare le chiome degli alberi con lance di luce.







 

 


NotEl: buoooon pomeriggio, le mie ultime parole famose sono state tipo: "il capitolo è corto, ma aggiorno prestissimo" e poi ci ho messo 20 giorni a scrivere un finale e duecento a postare questo capitolo.
Secondo me comunque la colpa non è mia, ma vostra perché vi siete fidati. Sicuro è così.
Comuuuunque grazie per aver atteso e poi per aver letto anche wow, almeno spero di essermi fatta perdonare. Ci vediamo presto (vedete voi come intenderla, questa)
El.

 


 

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Capitolo 5
*** Atto quinto ***


Atto quinto_


Atsumu si lasciò alle spalle l’armadio e recuperò la sua moto proprio mentre il meccanico baffuto apriva l’officina.
“Oh, di buon mattino!” alzò il cappello in un desueto cenno di saluto. “Niente dolci oggi?”
“Oggi no,” ribatté Atsumu. Con un unico gesto fluido si infilò il giubbino e girò la chiave nella toppa del motorino. “Mi saluti la ragazza, Yoko,” disse, una volta che fu salito in sella.
Il meccanico scrollò le spalle. “Sei un po’ troppo insolente, altrimenti vi farei conoscere.”
Atsumu rise, senza neanche provarci forse dimostrò quell’insolenza, poi sollevò una mano in segno di saluto, mise in moto e partì.
Più che essere lui meteoropatico, sembrava che fosse il tempo a essere Atsumuropatico. Il freddo frizzante del mattino si era unito a un cielo grigio e carico che sembrava riuscire a trattenersi a stento dallo spaccarsi e piovere. L’umidità si appiccicava ai vestiti e il vento la solidificava, dandogli l’impressione costante che si stesse bagnando.
La moto, che sembrava essersi ripresa brillantemente dagli acciacchi del giorno prima, lo tradì ancora una volta quando non riuscì a evitare una buca. Saltò, poi scivolò. Atsumu riuscì a stento a tenerla dritta, almeno quel poco che bastò per accostare e dare un’occhiata.
Sbuffò condensa, poi smontò e si levò il casco con appena più aggressività del necessario. Lo abbandonò sulla sella e si accovacciò.
Un nuovo tipo di freddo gli serpeggiò fra le giunture delle ossa, appena individuò il problema. Si alzò di scatto e mise mano al portaoggetti, cavandone fuori una chiave inglese. Non era l’attrezzo giusto, ma non aveva di meglio. La incastrò a uno dei bulloni della pinza anteriore della ruota e strinse. Fece lo stesso anche con l’altro e poi con la ruota posteriore, il solco tra le sopracciglia sempre più marcato.
Lanciò la chiave inglese nel casco sulla sella e si sedette a terra, le gambe piegate davanti a sé e i gomiti sulle ginocchia, osservando il lavoro più facile e al contempo misterioso che avesse mai fatto alla sua motocicletta.
Perché diamine aveva le ruote allentate?
Possibile che…
“Incredibile,” disse di colpo una voce uguale alla sua, ma più liscia. “Il meccanico che resta a piedi. Ti direi che sei nel mio territorio, ma la verità è che mi fai un po’ pena.”
Ma certo, era a pochi passi dal garage della sua squadra.
Atsumu si voltò di scatto, la guardia già alta. Fece leva con una mano per alzarsi.
“Stai facendo una caduta imbarazzante, ‘Tsumu.”
“Per lo meno io non getto la spugna quando le cose si mettono male, ‘Samu.” Si ripulì le mani sui pantaloni, poi sospirò. “Cerco di rimettere a posto le cose. Questo perché so quello che faccio.”
Suo fratello si strinse nelle spalle e infilò le mani nelle tasche del giubbino. Reggeva una bustina di una panetteria non lontana da lì. Era una visione così quotidiana che gli diede sui nervi.
Più che schernirlo, Osamu sembrava perplesso. Era l’unica cosa che, fin da piccoli, aveva dato ad Atsumu la sensazione che per quante battute irriverenti riuscisse a sputare all’impronta, suo fratello fosse sempre in vantaggio. Se non li distinguevano per tutti quei piccoli segni particolari che per loro erano così evidenti, lo facevano perché Atsumu attaccava ridendo e scherzando, Osamu guardandoti come se fossi stupido. Questo li rendeva una squadra fenomenale e i loro rispettivi peggiori nemici.
“Intanto è la seconda gara di fila che perdete.” Suo fratello calciò una pietra. Rimbalzò contro un palo della luce e colpì la marmitta della moto. Un suono alto e metallico si allargò come onde sulla superficie di un lago.
“Disse quello che non ha fatto altro che perdere finora.”
“Non importa cos’è successo prima, importa che adesso non mi riesci a battere.”
Atsumu pensò al cuore dell’auto con cui Osamu correva, a Sakusa che ci lavorava sopra a orari improbabili, tra pause di cinque minuti e mascherine abbassate. Pensò alle sue dita che volavano tra i componenti e poi che si stringevano attorno alle sue nell’abitacolo della macchina con cui suo fratello vinceva.
Pensò all’unica regola che Osamu aveva imposto a Omi: non smontare completamente il motore, il fulcro dell’auto, il loro primo motore. Era assurdo che quell’ordine nostalgico venisse dallo stesso ragazzo che ora lo osservava con sufficienza, negli occhi la disinvoltura dei vincitori.
Atsumu sorrise, un pezzo di vetro scheggiato. “Io non canterei vittoria, ‘Samu. A volte si è fortunati.”
“Due volte?”
Gli diede le spalle e posò la chiave inglese nel portaoggetti. Nella loro lingua abbassare la guardia era la forma più alta di offesa, significava non avere paura. “Esatto. Solo due.” Si rimise il casco, il motore prese vita.
Osamu fece spallucce, di nuovo. “Con me non attacca, ‘Tsumu. Io lo so che sotto quest’aria da spaccone che hai non c’è niente.”
Atsumu non si sentiva molto in colpa all’idea di rubare i segreti dell’auto di suo fratello. Se Osamu poteva correre con un motore che aveva costruito Atsumu per metà, lui poteva familiarizzare col suo meccanico. D’altronde i gemelli condividevano tutto, no? Era Osamu che ci aveva tenuto tanto a rompere la tradizione solo finché gli faceva comodo. “Pensala come vuoi.” Con uno scatto, tirò giù la visiera del casco. “Ci vediamo in pista.”
Lasciò suo fratello nel riflesso dello specchietto retrovisore.
 
ᆞᆞᆞ
 
Il suo lato del garage era cristallizzato in un tempo ancora non illuminato. Ogni cosa era dove l’aveva lasciata. Paraurti verniciati per metà erano sparpagliati per terra, il tavolo era un’accozzaglia di progetti, matite e bulloni in bilico, in attesa solo di avere una scusa per cominciare a rotolare e catapultarsi oltre l’orlo del piano da lavoro.
Atsumu Miya era il tuner migliore in circolazione, nessuno toccava la sua roba in quel garage, nonostante le scommesse, gli intrallazzi, le facce brutte che passavano di lì. Era una dimensione sotterranea in cui ognuno aveva un compito, un lavoro da sbrigare. Piloti e organizzatori si trascinavano dietro brutte storie e affari da conquistare giorno e notte, tranne al mattino.
Nel garage del gruppo con lo storico di vittorie più lungo della storia delle corse clandestine, con l’alba sopraggiungeva il silenzio.
Ogni cosa era sospesa, come se Atsumu fosse stato via un minuto o una vita intera. Non c’era stato nessun temporale, lì, né divani adibiti a letti o ascensori cigolanti o boschi magici.
Si lasciò cadere sullo sgabello su cui aveva sudato e sputato sangue, quello che nelle ultime settimane era diventato troppo simile al trespolo della vergogna nell’angolo di una classe di ragazzini indisciplinati. Si accasciò con le braccia sul tavolo e vi appoggiò sopra la testa.
Tempo un secondo e si addormentò.
 

Atsumu non tornò più nell’officina di Sakusa.
La routine che gli era tanto mancata quando Akaashi lo aveva punito con quella missione adesso gli sembrava ogni giorno più incompleta, lacunosa. Tanto per cominciare, non aveva mai notato che lavorava giorno e notte alle sue auto senza neanche una finestra nei paraggi.
“Tsum Tsum!!” Bokuto non arrivò al suo tavolo da lavoro, ma atterrò. “Akaashi mi ha detto che hai finito.”
“Finito?” Atsumu si ripulì le mani sporche di grasso sui pantaloni della tuta e gli sorrise. “La gara è domani e io ho ancora una montagna di cose da finire.”
Bokuto si sedette su un disegno scartato. Era una fortuna che fosse un disegno scartato, altrimenti l’avrebbe ucciso. Era anche probabile che non si fosse reso conto di essersi seduto su qualcosa. “No, intendevo la missione da spia.”
Atsumu rovistò in un cassetto che traboccava di viti. “Ah, quello,” mormorò, tirandone fuori una ed esaminandola a caccia di iscrizioni. Dopo un attimo la lanciò di nuovo nella mischia e riprese a cercare. “Sì, ci ho messo un po’ a conquistare la sua fiducia, ma alla fine ha dovuto cedere anche lui al mio fascino.”
In risposta, lo investì una risata sguaiata. “Sei un grande!”
Atsumu si diresse all’auto giallo metallico a qualche metro da lui, armato del bullone giusto.
Lo era davvero, un grande, lo sapevano tutti e lo sapeva anche lui. Il fatto era che adesso era semplicemente inarrestabile. Ogni minima potenzialità inespressa del suo talento gli sembrava facilmente scoperchiabile, bastava solo essere creativi e pensare alle auto come a un gioco di squadra.
D’altro canto, le persone non erano mica un’accozzaglia di fegati, polmoni e pelle legati insieme, era insito nell’unificazione che la parola stessa – persona – suggeriva. Allo stesso modo un’auto non era un insieme di motori, filtri e batterie. Lo sapeva, l’aveva sempre saputo, non si diventava i migliori alle modifiche pensando a un radiatore come a un componente a sé stante, ma c’era qualcosa nel modo in cui Sakusa riciclava dove poteva e buttava via quando non serviva che era molto più sottile della semplice visione di un’auto come un insieme.
Qualcosa di armonico.
Ed era da lì che si accendevano le idee, i passi in più che Atsumu non muoveva.
“Bokkun,” disse quando ebbe finito. Si allontanò dalla macchina e lo raggiunse solo per appoggiargli un braccio sulle spalle. Non distolse neanche un attimo lo sguardo dalla sua creazione. “Sei pronto a far mangiare polvere a Osamu, domani?”
“Oh,” Bokuto rise, una tinta di competizione ne venò il rollio. Ricambiò la pacca sulla spalla con molta più forza di quanta ne avesse usata Atsumu, costringendo entrambi a ondeggiare. “Sono settimane che non aspetto altro.”
 
ᆞᆞᆞ
 
Le gare clandestine erano un casino.
Ci si sarebbe aspettato che il titolo si addicesse all’atmosfera, che fossero, appunto, clandestine. Silenziose, nascoste nelle tenebre, appena una sgommata nel silenzio che le celava. E invece no. Erano un via vai di gente e luci, risate irrintracciabili, buttafuori, auto che andavano e venivano. A dire il vero, ad Atsumu erano sempre sembrate il fratello cattivo di un festival per bambini.
“Hai finito, giusto? Niente scherzi stavolta.” Akaashi gli si era avvicinato affaccendatissimo. Era un atteggiamento che aveva sempre: sembrava un CEO intransigente e un papà che non dormiva da mesi nello stesso momento. 
“Niente scherzi. Hai un gioiellino.” Atsumu era sicuro che gestisse almeno venti cose al minuto e che avesse tutte le ragioni del mondo per essere così indaffarato, ma questo non gli toglieva il gusto di prenderlo un po’ in giro. In fondo non gli importava un bel niente di tutta quella roba. Non si interessava del giro di soldi e promesse che spiraleggiava attorno a quelle gare. Gli importava solo di modificare le auto.
Akaashi lo soppesò con lo sguardo. Forse valutava se fargliela pagare per la traccia ironica con cui gli aveva risposto. Evidentemente decise di lasciar stare, perché annuì e proseguì oltre.
Kenma lo seguiva, guardandosi attorno come se stesse prendendo a occhio le misure per le bare di ognuno, poi fissò lo sguardo su di lui. Atsumu gli fece un cenno di saluto con la testa, ma Kenma scrollò le spalle e passò avanti.
Ecco, lui Atsumu non lo capiva proprio.
Bokuto arrivò proprio in quel momento, sistemandosi il berretto in testa e poi tirando su di fretta la chiusura lampo come un vero atleta. Si fiondò su di lui con tutto il suo peso. Era possibile che, carico com’era, fosse anche pronto a tenere testa all’auto di Osamu facendosela di corsa. In quell’ambiente uno come Bokuto poteva risultare un po’ fuori luogo: si faceva vedere al garage del loro gruppo solo per testare auto e chiacchierare, camminando per quei campi minati come se fossero stati campi di fiori. Era quello che mentre gli altri discutevano di strategie si fermava a salvare le api. Atsumu credeva che invece quell’ambiente fosse nato esattamente per quelli come lui e che si fosse poi inquinato centesimo dopo centesimo, fino a diventare la vasca di squali che era ora.
Bokuto correva per il gusto di correre. Le gare erano uno stile di vita, il rombo del motore un genere musicale, l’adrenalina una pillola quotidiana. Anche se sembrava (e in fondo era così) che Akaashi gestisse l’intera combriccola, anche lui era lì solo perché irretito dalla passione dirompente di Bokuto, qualcosa che lui non aveva e che l’aveva quindi portato a scommettere sul suo pilota, pronto a tutto pur di realizzare i suoi sogni. Se Bokuto voleva correre, lui avrebbe racimolato i fondi per farlo anche vincere.
Per quanto strano, Bokuto era il motivo per cui tutti loro erano ancora lì, la colla del gruppo.
“‘Tsumu, non fa niente se oggi la macchina di Osamu è più forte. Io ti farò onore,” gli confidò, guardando l’orizzonte e risistemandosi il berretto già sistemato. Se fossero stati in un musical americano, a quel punto avrebbe sollevato una mano, spazzando da un’estremità all’altra dell’inquadratura, poi si sarebbe messo a cantare.
Atsumu rise. “Non c’è bisogno, Bokkun,” passò un dito sull’auto, gli sembrò che brillasse al suo tocco, anche se era solo il riflesso. “L’auto di Osamu è stata forte solo per un paio di settimane, tutto qui.”
“Ha-ha,” Bokuto sorrise, regalandogli un’occhiata complice. “Così ti voglio.”
“Tu spingi come al solito.”
“Puoi scommetterci.”
Prima che Atsumu potesse aizzarlo ancora un po’, l’aria si caricò di elettricità. Il gruppo di Osamu si riversò nel parcheggio come una scolaresca lasciata libera per una mezz’ora di esplorazione. Suo fratello lo cercò con lo sguardo, in mezzo ad auto che arrivavano sgommando e meccanici che si mettevano comodi. Quando lo trovò, gli sorrise.
Sei riuscito a tornare a casa con la tua moto tutto intero. Impressionante, gli avrebbe detto assieme a quel sorriso, ma avrebbe fatto il gioco di Atsumu, condannandosi anche a perdere. No, lui non giocava così, lui era tutto scherno e nessuna parola. Atsumu era tutte parole e falsa genuinità. Arricciò il naso, accennando con la testa nella sua direzione, poi sollevò il dito medio.
Osamu fece una piccola riverenza, come a dirgli che era stato molto elegante.
Atsumu distolse lo sguardo e sbuffò, poi incontrò gli occhi perplessi di Bokuto, che aveva seguito quello scambio muto. “Che c’è?”
“Ma che è successo?”
Lui sventolò una mano, come a scacciare una mosca. “Niente. Ci siamo capiti.”
 

L’aria si aguzzò. I fari rossi delle auto in partenza illuminavano una folla di volti anonimi, ombre notturne che di giorno scivolavano in identità imprevedibili. Per quanto polizia, droghe e sparatorie sentenziassero più o meno nettamente la scorrettezza di quello che facevano, Atsumu trovava che nelle gare clandestine ci fosse qualcosa di impareggiabile: tutti avevano una possibilità. Se ci si dimostrava abbastanza talentuosi, furbi o coraggiosi si poteva conquistare la notte.
Espirò, guardando Bokuto calarsi al volante dell’auto su cui gli sembrava di aver lavorato per tutta la vita. La notizia che quella gara sarebbe stata decisiva si era sparsa serpeggiando di voce in voce e la tensione si era ispessita di conseguenza. Quando ebbe la sensazione che la pressione fosse sul punto di bucare quella patina una volta per tutte, un colpo di pistola risuonò nel buio e le auto sfrecciarono in avanti, lasciandosi dietro i segni delle ruote sull’asfalto.
Il rombo si perse tra le risaie vicino alla strada, lasciando la gente raccolta a bordo pista in un religioso attimo di sospensione, poi le scuderie esplosero in discussioni su statistiche e chilometri orari.
Atsumu se ne stava a braccia conserte, fissando la strada davanti a sé e ascoltando senza partecipare.
“Osamu l’ha superato, ma Bokuto gli tiene testa,” li aggiornò Akaashi, un dito che premeva su un auricolare e gli occhi fissi sull’iPad di Kenma, armato di geolocalizzazione.
“Ha preso meglio lui la curva!” fece notare Hinata, entusiasta. “Sorpasso!”
Ma, di colpo, i commenti attorno ad Atsumu si interruppero.
O forse no.
Forse si spensero, si azzerarono.
Perché incontrò lo sguardo di Omi.
Se fossero stati in un musical americano, tutte quelle comparse si sarebbero immobilizzate in pose arzigogolate, scatti minimi e piedi che si riassestavano appena, come un flash mob più che un fermoimmagine, per dare quell’impressione più sospesa e teatrale. A quel punto Atsumu si sarebbe fatto largo nella folla, due riflettori puntati su di loro. Il suo incedere lento ma determinato avrebbe fatto da base di batteria a una canzone.
Ma non erano in un musical. Erano nella vita vera, una a caso, per nulla privilegiata. Una sacrificabile, che non stava in piedi da sola solo perché la preferita di qualche dio, una che come tutte le altre aveva l’irritante difetto di non accendere riflettori, non fermare le folle e, soprattutto, non aspettare nessuno.
Due lampi di luce gli passarono sotto gli occhi, il muso dell’auto di Bokuto sfondò con qualche secondo di vantaggio la linea immaginaria del via.
Atsumu deglutì a vuoto, poi fu travolto dal suo gruppo, che iniziò a spingerlo dove Bokuto aveva accostato. Il mondo alzò di nuovo il volume.
“EHI EHI EHI” tuonò Bokuto, uscendo dall’auto e piegando braccia e gambe come se stesse cercando propulsione per spararsi in aria. Travolsero anche lui, un’iniezione di adrenalina infuocò il sangue di Atsumu, precedendo appena di un attimo la  realizzazione che aveva battuto suo fratello. Quando lo investì, questa lo fece rinsavire. “Tsum Tsum!”
Atsumu imprecò e lo abbracciò.
Bokuto gli premette un braccio in testa e gli scompigliò i capelli, mentre urlava a un pubblico fatto di urla informi: “SIGNORE E SIGNORI, IL TUNER. MIGLIORE. DEL. MONDO.”
Atsumu riuscì a liberarsi dalla presa di ferro di Bokuto appena in tempo per cogliere la faccia nera di Osamu Miya che usciva dall’auto. Atsumu alzò gli occhi al cielo e fece spallucce, fingendo modestia, poi gli mandò un bacino.
Osamu si slacciò il casco con tocco di veemenza in più, ma non fece scenate. Si voltò e tornò dal suo gruppo.
Il suo gruppo.
Sakusa gli disse qualcosa, Atsumu non poté leggergli le labbra per via della mascherina, ma suo fratello annuì e gli strinse una mano. Poi si inchinò. Avrebbe aspettato che Omi lo guardasse di nuovo, ma Bokuto lo trascinò via verso il parcheggio. Qualcuno si era occupato anche di sgomberare la pista dalle loro macchine per la gara successiva.
 

La situazione si calmò un po’, riducendosi a sussurri concitati sulla leggenda che si scriveva da sola e fruscii di soldi invisibili. Atsumu era irrequieto, un pezzo del puzzle così insulso da non avergli dato pena per più di dieci secondi finalmente aveva trovato un posto.
Le gomme allentate. 
Appena si fu liberato dall’entusiasmo di Bokuto, dai discorsi di Akaashi e le insensatezze di Hinata, gettò un’occhiata al lato del parcheggio di Osamu.
Una macchia più buia della notte attirò la sua attenzione. Era un miracolo che non si fosse defilato, ma era anche impossibile uscire di lì in tutto quel via vai. Ora che il caos sembrava starsi attenuando non doveva lasciarselo scappare.
Si diresse rapido dall’altra parte del parcheggio, Sakusa fece il suo primo passo verso la libertà che – ne era certo – stava bramando disperatamente. Sulla strada verso di lui, un ragazzo che Atsumu ricordava vagamente gli iniziò a parlare. Lo ignorò.
“Hai messo le mani nella mia moto,” disse semplicemente, quando riuscì ad afferrargli una spalla e voltarlo.
Sakusa indossava ancora la sua mascherina nera, gli occhi appena spalancati per la sorpresa. Durò un secondo, l’emozione svanì via dal suo viso e si rese illegibile. Sembrava il primo giorno.
“La ruota era allentata, mi sono dovuto fermare per stringerla. Sei l’unico meccanico al mondo che lascia le ruote allentate. Hai messo le mani nella mia moto mentre dormivo.” Alle sue spalle, Atsumu sentì il gruppo di suo fratello agitarsi. La sabbia nella clessidra prese velocità.
Sakusa aggrottò la fronte, come se avesse avuto davanti un pezzo a cui non aveva ancora trovato la collocazione giusta. “Sono io quello scorretto, Miya?”
Atsumu prese fiato per ribattere, poi si arrestò. “Sì!” Sakusa sollevò un sopracciglio. “Guarda che ti ho invitato a venire qui, era praticamente una confessione. E poi non ti ho mai proprio mentito. Ti ho detto che imparo in fretta.”
“Ti sei fatto insegnare le basi del tuning per settimane.” Omi era calmo, non sembrava minimamente ferito o offeso. Atsumu aveva la sensazione di star gridando per farsi sentire in una folla di gente muta.
Si adeguò al tono più tranquillo di quella conversazione. “Sì, be’, e il tuo silenziatore era truccato, un principiante non avrebbe mai potuto modificarlo.”
“Sì, perché non ti volevo tra i piedi. Sono sicuro di avertelo detto.”
Una parte di Atsumu forse era offesa all’idea che gli avesse parlato del fratello e lo avesse baciato mentre Sakusa sapeva tutto. C’era qualcosa di imbarazzante e che lo faceva sentire stupido nell’essere rimasto all’oscuro. Non aveva avuto più un vantaggio, non aveva avuto la situazione in pugno e soprattutto non l’aveva capito.
Nella moto c’erano le sue modifiche, le sue firme, le sue confessioni, quelle che aveva passato una notte intera a cercare di comunicare. E adesso gli sembrava che Sakusa avesse lasciato le ruote allentate apposta, quasi a prenderlo in giro.
Atsumu sospirò, stavolta si calmò davvero. In fondo aveva giocato quello stesso scherzo a Omi per due lunghe settimane.
Con la mente meno annebbiata, si fece strada un nuovo dubbio. Inclinò il viso su un lato e guardò l’unico altro meccanico che avesse mai sopportato come se, alla sua officina, questo gli avesse fatto una domanda particolarmente difficile, un enigma che stavolta proprio non sapeva sbrogliare. Se aveva scoperto che era Atsumu Miya, il tuner più famoso e competente del giro  mentre lui dormiva, perché si era aperto con lui dopo? Non che con Sakusa fosse chiaro individuare un’apertura, ma accettare di dormire vicini, mostrargli la sua macchina, spiegargli ogni più minuziosa modifica e lasciargliela poi guidare… lasciarsi toccare, lasciarsi baciare non erano proprio in cima alla lista di cose che qualcuno che si sentiva tradito e preso in giro avrebbe pensato di fare.
“Omi, perché…”
La mano di Osamu gli premette sul petto e lo costrinse ad allontanarsi da Sakusa. Suo fratello si piazzò fra di loro e Atsumu sperò vivamente che non si assomigliassero troppo, perché era proprio brutto. “Qualcosa da dire al mio meccanico?”
Atsumu alzò le mani in segno di resa. Sarebbe potuto risultare pacifico se non avesse anche sorriso con scherno. “Parlavamo di fatti nostri, ‘Samu, ti sorprenderà sapere che non sei al centro del mondo.”
“Al centro del tuo sì. Vi conoscete?” si avvicinò, il mento in alto. “Che c’è, hai avuto così paura di perdere ancora che hai avuto bisogno di corromperlo?”
Strinse le dita e quasi tremò nel tentativo di non prenderlo a pugni. Sapeva che Osamu conosceva le sue debolezze, sapeva che le stava usando contro di lui. L’altra faccia dell’orgoglio. “Ti assicuro, stavamo parlando giusto così, tra tuner. Ma in fondo che ne puoi sapere tu? Ormai sei un pilota fatto e finito.”
Osamu non era uno che si lasciava trascinare dalle provocazioni, ma se queste provenivano da suo fratello era un
altra cosa. Lo guardò per qualche secondo, Atsumu riusciva a leggere ogni emozione e tentazione dibattersi nelle sue pupille, poi ogni segnale scomparve, Osamu strinse la mascella e si voltò verso Sakusa. Lo sguardo gli cadde a terra, le sopracciglia aggrottate, una mano ancora immobile sul petto di Atsumu, in riflessione.
Quando tornò a guardare suo fratello era calmo. Atsumu lo conosceva abbastanza da sapere che, se non aveva capito tutto, aveva capito abbastanza.
“Lo sai che è abbastanza per chiedere di rifare la gara e ordinare un controllo dell’auto…”
Atsumu gli afferrò il braccio e lo tirò giù, un attimo dopo strinse la mano libera sul colletto del giubbotto di Osamu e lo tirò su. “Non credere di essere l’unico ad avere dei segreti,” sussurrò in un sibilo. Con la coda dell’occhio, registrò distrattamente un gruppo di gente venuta a sentire.
“Le minacce non funzionano, ‘Tsumu. E io vedo attraverso ogni tuo bluff. Devi imparare a perdere, lo dico per te,” ribatté Osamu, calmo.
Atsumu abbassò lo sguardo sulla sua mano, le nocche bianche e i palmi che iniziavano a sudare. Il giubbino di un pilota…
Un moto di disgusto gli risalì la gola e lasciò andare suo fratello con uno spintone.
“Nessuna minaccia. Pensi che non sappia che ordini al tuo meccanico di non toccare il motore?” lo guardò negli occhi, scosse appena il capo. “Il nostro motore?”
Osamu sostenne il suo sguardo per qualche attimo, poi espirò piano dalla bocca e sembrò sconfitto. Atsumu non se ne compiacque.
In lontananza, un suono cadenzato si diffuse nella notte.
Non avrebbe mai pensato di non essere lui quello impulsivo, per una volta, ma il respiro di Osamu accelerò, un attimo prima che lo colpisse in faccia.
Attorno a loro si scatenò il caos.
Okay, non se lo aspettava per niente. Il sangue prese a pulsare forte contro la guancia, nella zona dell’impatto. Per un attimo gli parve di tornare a quando erano piccoli, fuori al garage in cui tutto era iniziato, quando Osamu faceva una battuta cretina ai danni di suo fratello e lui gli si scagliava contro, finché non finivano per rotolarsi e tirarsi calci, nell’eterna sfida per decretare il più forte.
Il suono in lontananza si acuì. In tutta quella confusione, Atsumu riuscì a registrarlo per la prima volta solo in quel momento.
Sirene.
“Merda…” sussurrò a se stesso, tenendosi metà faccia con una mano.
“Polizia!” gridò qualcuno. C’era sempre, quello che gridava ‘polizia’, per la stessa formula per cui c’era sempre qualcuno che su una nave nell’Atlantico all’improvviso gridava ‘America’.
La gente che li circondava si disperse come una folla di ratti. Atsumu spostò lo sguardo appena dietro la testa di suo fratello, in tempo per vedere Sakusa stringersi nelle spalle e poi sparire nella notte.
“TSUM TSUUUUM” la voce di Bokuto lo riscosse. Atsumu si voltò e vide Bokuto, Akaashi e un numero incerto di altre persone buie entrare nella macchina in cui avevano vinto. Un attimo dopo, riuscì a individuare solo la mano di Bokuto che sventolava dal finestrino, prima che filasse via a tutta velocità.
Il parcheggio si colorò di luci intermittenti rosse. Senza pensarci due volte, Atsumu corse alla sua moto.
“Cazzo,” mormorò, perché quando si andava di fretta era impossibile inserire le chiavi nella toppa al primo colpo. Sbuffò, poi mise in moto e si guardò attorno, in una rapida valutazione di quanto spazio avesse per la manovra e quanto tempo prima che quella fuga si trasformasse in un inseguimento.
Girò in una curva a U e, lungo il tratto rettilineo finale, si arrestò davanti a Osamu. Lui aggrottò la fronte, confuso.
“Se uno dei gemelli Miya viene arrestato non ci sarà nessuna rivalità su cui lucrare,” si giustificò Atsumu, in risposta.
Osamu si guardò attorno esitante, come se davvero ci fosse stato da valutare la via di fuga migliore quando ce n’era solo una. Voci indistinguibili si unirono al suono assordante delle sirene, alcune luci si spensero, sostituite dai fanali delle auto della polizia.
“Ti restano tre, due…”
Con un grugnito, Osamu si issò sulla moto dietro di lui. Atsumu partì prima di accertarsi che suo fratello si stesse reggendo.
Dopo qualche minuto, la pista divenne solo un puntino di luce in mezzo alla campagna ai margini di Tokyo.
 

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Capitolo 6
*** Atto sesto ***


Atto sesto_


“Perché hai ancora i nostri pezzi nel motore con cui corri?”
Atsumu inchiodò, la strada era solo una striscia d’asfalto dritta e inflessibile che si allungava per chilometri in entrambe le direzioni. I lati erano occupati da campi che non avrebbe saputo catalogare con precisione con quel buio. Non c’era il frinire acuto e martellante delle cicale o il gracchiare dei corvi, solo il frusciare del vento nella vegetazione lì vicino.
Sapeva che fare la stessa domanda con cui si era procurato un pugno aveva alte probabilità di portare allo stesso risultato, ma voleva davvero saperlo. E poi, forse, una parte di lui voleva fare a botte. Sarebbe stato meglio, l’avrebbe convinto del fatto che Osamu se n’era andato dal gruppo perché ce l’aveva con lui, perché provava una rabbia sconfinata nei confronti di suo fratello e non aveva resistito un secondo di più. Voleva che fosse questo, il problema. E invece c’era la possibilità che fossero semplicemente cresciuti con tempi diversi, che Osamu avesse trovato una dimensione, qualcosa che voleva tutta per sé e che non contemplava la sua presenza.
Era inaccettabile. Non quando erano stati l’uno l’unica famiglia dell’altro, con solo un motore, un garage e una passione condivisa che ora non condividevano più a tenerli a galla.
Osamu scese dalla moto e Atsumu sentì i suoi occhi su di sé. Si voltò a fronteggiarlo consapevole, a quel punto, che sperava in una rissa.
“Non serve essere sentimentali, adesso che non hai più un pubblico,” ribatté invece lui, le mani nelle tasche, le spalle curve.
“La mia è solo una domanda, ‘Samu, se per te è sentimentale è perché lo è la risposta.”
Suo fratello sbuffò, poi calciò una pietruzza che rovinava la perfezione di quell’asfalto. Non rimbalzò sulla marmitta della moto di Atsumu. “Vuoi sentirti dire che quel motore è importante per me?”
“È la verità?” Atsumu lasciò il manubrio e spostò il peso del corpo all’indietro. 
“Un bugiardo che vuole la verità,” Osamu sbuffò una mezza risata amara. “Che te ne fai della verità, la metti in una macchina?”
Atsumu fece una mossa alla Osamu e non rispose.
Lui lo guardò, il sorriso gli scivolò via dalle labbra, per qualche attimo non successe nulla. Poi Osamu inspirò di scatto e annuì piano, stringendosi nelle spalle. “È iniziato tutto con quel motore,” disse infine, come un dato di fatto, come se semplicemente non ci fosse stata altra scelta. “Voglio vincere con una macchina che porti i chilometri del mio intero percorso, non solo del traguardo.”
Un groppo di rabbia risalì la gola di Atsumu. Osamu aveva scelto un’altra strada, un altro gruppo, un’altra vita e adesso gli propinava la versione meccanica ma non meno sentimentale delle radici. Non c’erano radici senza lealtà. Scosse la testa. “Questo è il tuo omaggio? Due pezzi modificati male e qualche promessa? Andiamo…”
“Che avrei dovuto fare?”
Atsumu smontò dalla moto, con uno scatto fu davanti a suo fratello. Lui non mosse un muscolo. “Restare nel gruppo, ‘Samu, è decisamente più utile che metterti a posto la coscienza con un motore mediocre.”
“Non ho nessuna coscienza da mettere a posto.” Osamu alzò lo sguardo nel suo, la fronte aggrottata. “Io voglio fare il pilota, è sempre stato solo questo il punto, tu l’hai presa sul personale.”
“Non me ne frega nulla che vuoi fare il pilota, sono un tuner migliore di te!” Atsumu lo spinse indietro, prendendolo per la spalla, i piedi di Osamu superarono la linea di mezzeria. “Tu non hai neanche provato a cercare un compromesso, te ne sei andato senza dire nulla, hai messo su un intero altro gruppo in segreto. Sei scappato! Tu volevi andartene. ”
“Sì, volevo!” Osamu allargò le braccia. “Non capisco cosa ci sia di male in questo. Quel gruppo era il tuo sogno, la tua dimensione. Io volevo correre, ‘Tsumu, ho sempre voluto correre. Il tuning per me era un mezzo per correre più veloce, per te era lì la corsa.”
“Potevi…”
“Dirtelo? Fai sul serio?” Osamu voltò la testa di lato e rise, come a ingraziarsi un pubblico che non c’era, come a ingraziarsi la linea bianca che correva sull’asfalto e il loro confine. “Te l’ho detto e guarda cosa hai fatto. È un litigio che non ha senso, va avanti solo perché hai paura di guardarti allo specchio e scoprirti solo.”
La rabbia che aveva spinto Atsumu giù dalla moto evaporò in un’onda di confusione. “Eh?”
Osamu superò la linea e gli si mise davanti, gli occhi nei suoi, alla stessa altezza, qualche gradazione più scura, un taglio delle sopracciglia più netto, qualcosa che passava da familiare a estraneo a ogni battito di ciglia. “Che cosa avresti fatto se te l’avessi detto prima? Avremmo creato un nuovo gruppo, solo noi due? Il pilota e il tuner più forti, gli imbattibili del sottosuolo?” fece schioccare la lingua e scosse la testa. “Litighiamo perché hai paura che se smettiamo non ci legherà più nulla, perché hai bisogno che io confermi il tuo valore ogni volta che mi batti. A me non serve questa maledizione, è ingiusta, non posso farmi carico della tua insicurezza.”
Atsumu aggrottò la fronte. “Io non sono insicuro. Sono il tuner miglio…”
“Sei tu che sei ossessionato dai primati, a Kiyoomi Sakusa non servono, fa solo il suo lavoro. Ti piace davvero o ti piace batterlo? Io penso che ti rassicuri, fermarti prima che le cose si facciano serie, ti lascia credere che ci sia sempre del potenziale inespresso in te, che avresti potuto fare di meglio, perché non ti piace scontrarti col rischio che tu possa raggiungere un limite, un massimo che potrebbe essere insoddisfacente.”
Il vento trattenne il fiato. La sensazione che certi segreti fossero nascosti nelle sue auto più che nei suoi gesti gli fece pensare a Sakusa e a tutto quello che aveva letto mentre Atsumu non indossava neanche una mascherina.
“Sei tu che hai paura di essere mediocre.”
Il vento espirò, la luce dei fari della moto mai parcheggiata alle sue spalle tremolò. Atsumu inspirò, attento a non fare troppo rumore. Non gli tremò il respiro, perché con queste cose era meglio non rischiare: ci sono interi segreti svelati in ritmi di questo tipo. “Non si litiga da soli, ‘Samu. Se è colpa mia perché ce l’hai con me?”
Osamu si strinse nelle spalle, poi parlò attraverso un sospiro: “perchè mi fai così incazzare...”
Atsumu scoppiò a ridere. Non mancava ancora di affilatezza, ma lo prometteva.
Suo fratello non rise a sua volta. Gli poggiò una mano su una spalla e lo scosse. Atsumu si sciolse abbastanza perché il colpo lo facesse ondeggiare e non indietreggiare.
“Andiamo.”
Salirono di nuovo sulla moto, la strada riprese a respirare, la linea di mezzeria tornò a correre alla loro sinistra mentre sfrecciavano nella notte.
Il garage del gruppo di Osamu era buio, le luci dei negozi spente. Solo qualche finestra colorata di giallo distoglieva il quartiere dal blu notte da cui sembrava attratto.
“Trova pace, ‘Tsumu,” gli disse suo fratello, prima di fondersi nell’oscurità.
Atsumu sospirò, poi ripartì.
 
ᆞᆞᆞ
 
L’uomo baffuto stava martellando qualcosa che Atsumu non riusciva a vedere. Metallo contro metallo, a ogni battito dava via a un concerto di suoni riflessi. La porta dell’officina era quasi spalancata, il sole del pomeriggio entrava con angoli affilati e prepotenti, imponendo l’inizio di una primavera scalza che lui non aveva notato farsi largo nelle ore che rubava ogni giorno più insolente. Atsumu sporcò quel raggio con la sua ombra.
Il meccanico alzò la testa e si portò una mano agli occhi per schermare la luce. “Oh, chi non muore si rivede!” disse, schiudendo le labbra in un sorriso.
Erano passate due settimane dall’ultima volta, anche le stagioni se lo ricordavano. “Le ho portato dell’anpan,” annunciò Atsumu, sollevando la bustina che reggeva in una mano.
L’uomo abbassò la mano e si alzò con un sospiro. Lasciò il martello sul piano da lavoro e lo raggiunse per ricevere il regalo. “Mia figlia comunque non te la faccio conoscere,” disse diffidente, accettando il suo anpan.
“E io che credevo di avercela quasi fatta,” ridacchiò Atsumu. Poi si fece serio, indicò l’armadio in fondo all’officina, abbandonato contro la parete in più che rompeva la geometria rettangolare della stanza.
Lui colse la domanda muta e annuì. Atsumu si inchinò brevemente, il movimento quasi ironico, anche se uno guardandolo non avrebbe saputo dire cosa lo tradisse.
 

“Ho sentito che non si può entrare nell’officina nell’armadio,” esordì Atsumu, facendosi largo nella stanza e sfiorando con un dito ogni oggetto che si trovava per le mani.
“Non toccare.”
Atsumu lo ignorò, continuando il suo slalom tra pezzi incompleti e parabrezza laccati che avrebbe toccato. Quando gli fu davanti, solo il tavolo da lavoro di Sakusa a separarli, spazzò via con un braccio gli aggeggi sparpagliati sul ripiano e appoggiò un pacchetto di mochi assortiti proprio al centro di quella zona forzatamente vuota. Lo guardò come se fosse stato un trofeo. Sakusa, invece, lo guardò come se fosse stato solo inappropriato, una bambola di pezza al compleanno del capo.
Poi, però, si abbassò la mascherina e Atsumu prese un respiro nuovo perché per un attimo aveva temuto di aver fatto male i suoi calcoli (e anche perché prima o poi avrebbe comunque dovuto respirare, eh). Con Sakusa era complicato parlare di calcoli, era più una partita a scacchi: una mossa giusta e non una partita terminata. Cercò il suo sguardo e per un po’ non disse nulla. Una bolla in una fiala di inchiostro, una decolorazione del mondo per nulla deludente. Anzi, gli parve che ci fosse qualcosa di molto semplice, in quel trionfo di contrasti che erano il viso di Omi, qualcosa che avrebbe potuto capire anche lui, che non s’intendeva di bellezza se questa non si poggiava su quattro ruote. “Atsumu Miya,” disse alla fine in un sussurro, abbassò gli occhi sulle sue labbra per un solo secondo, l’unico colore per chilometri. Si chiese se mordendole fossero destinate ad arrossarsi anche di più. “Mi chiamo Atsumu Miya.”
Sakusa sollevò un sopracciglio. “Ci hai messo un po’.”
“Che posso dire,” Atsumu si strinse nelle spalle, “i migliori arrivano sempre in ritardo.”
“Sì,” Omi cominciò a riprendere possesso di tutti gli aggeggi che la mano di Atsumu aveva spazzato via. “Questo lo dice…”
“I fatti,” ribatté Atsumu, poi gli spostò nuovamente il lavoro, si sporse e lo baciò.
Se fosse stato in uno di quei musical americani, di sottofondo sarebbe partito un duetto che avevano cantato insieme in qualche scena precedente. La telecamera avrebbe preso a ruotare attorno a loro mentre il mondo si restringeva al punto di contatto delle loro labbra.
Ma non erano in un musical americano, erano nell’autofficina off-limits di Kiyoomi Sakusa, dove ogni oggetto era sacro e pulito perché secondo il loro proprietario il grasso non era sporcizia. Avevano un tavolo da lavoro tra i piedi e la mano destra di Atsumu aveva schiacciato i mochi. Presto gli sarebbe sicuro anche venuto un crampo.
La verità sulla faccenda è che Atsumu non sapeva se fosse conveniente baciarlo o se fosse anche solo consentito. E questo perché la parte più affascinante di Sakusa, secondo lui, era che manteneva sempre un angolo segreto anche nel più prevedibile dei suoi gesti e questo significava che anche se lo capiva a volte non lo comprendeva, a volte era completamente fuori di testa. Però l’aveva baciato lo stesso perché in quelle settimane si era ricordato che c’era qualcosa di allettante nei rischi, qualcosa per cui valesse la pena sporgersi.
“Dovresti comunque uscire. Nessuno entra nella mia officina,” disse Sakusa, in un soffio sulle labbra di Atsumu e una mano indecisa sul suo petto.
Atsumu sorrise, quella cosa storta e derisoria che faceva venire voglia alla gente di tirargli un pugno. “Certo, Omi.”
“Dopo quella scenata tra te e Osamu non si parla d’altro.”
Si allontanò con un sospiro e circumnavigò il tavolo da lavoro. Sakusa lo osservò lungo tutto il tragitto come a prendergli le misure per la bara. Atsumu lo ignorò. “Mi sorprende che tu sappia di cosa si parla al di fuori di questa officina.”
Omi si strinse nelle spalle. “Mi sono informato.”
“Certo.”
Si guardarono. Per qualche attimo, non successe nulla, poi Sakusa si portò un dito al naso, sembrava quasi che volesse tirarsi su una mascherina che non c’era. Distolse lo sguardo. “Se la macchina riflette il suo pilota, e questa conserva pezzi vecchi nel suo motore, forse, sai…”
Atsumu sollevò lo sguardo su di lui. “Non mi importa niente di Osamu.” Mentiva. Era evidente. Così evidente che se ne accorse anche uno come Omi, infatti lo guardò e inarcò un sopracciglio.
“Certo.”
Sospirando, Atsumu interruppe quella tensione che assumeva troppo i contorni di un’intimità a cui forse non era ancora pronto. Andava bene così, avrebbe imparato. “Quindi adesso che si fa?”
Sakusa recuperò per la terza volta i componenti che Atsumu gli aveva sottratto. Questa volta non venne disturbato. “In che senso?”
“Lavoriamo insieme?”
“Perché dovremmo? Credo ancora che tuo fratello sia il pilota migliore nel giro. E poi non pensi che la vostra vittoria, all’ultima gara, fosse ai limiti dello scorretto?”
Atsumu alzò gli occhi al cielo, fece per sfiorare uno dei componenti di Sakusa ma lui gli scostò la mano con la sua prima che potesse riuscirci. “Sono corse clandestine, Omi, non esiste la correttezza.”
“Non è un po’ come ammettere che sono meglio io, però?”
“Che cosa? Guarda che… Non è minim…” Atsumu inciampò sulle sue stesse parole. Era un’onta, uno smacco, una vergogna. “Mi stai sfidando?”
Lui si strinse nelle spalle, le dita che già volavano tra i componenti miracolosi che più tardi, nel garage della sua squadra, Atsumu avrebbe dovuto superare. “Sono corse clandestine, Miya, tutto è una sfida.”
Rise, davvero e senza inganno. Era una cosa semplice di cui si era inavvertitamente privato. Gli cinse i fianchi e appoggiò la testa sulla sua spalla.
“Non mi toccare.”
Lo ignorò, gli occhi che vagavano assenti tra pezzi in cui chiunque altro non avrebbe saputo leggere alcun progetto. “Che succede se Osamu lo scopre?”
“Cosa?”
Atsumu gli baciò il collo, velocissimo. “Questo.”
“E tu stai attento.”
“Uuh, perverso, mi piace.”
“Idiota.” Un altro bacio, più insistente.
Sakusa si voltò a guardarlo, come ad ammonirlo. Ma Atsumu si voltò a guardare il divano e Omi intercettò tutta la catena di pensieri che gli attraversò la testa.
“No.”
Atsumu gli afferrò una mano e prese a camminare al contrario, mentre lo trascinava sul divano. “Vuoi davvero gareggiare contro di me?”
Omi scrollò le spalle, poi spostò lo sguardo sul divano, per assicurarsi che Atsumu non ci andasse a sbattere contro. “Ti ho già battuto due volte e tu mi hai battuto barando.”
“Sta’ a vedere.”
“Per stare a vedere devi andartene dalla mia officina.”
Per tutta risposta, Atsumu si lasciò cadere sul divano, trascinandosi Omi addosso. “Cinque minuti di pausa.”
Lo baciò, piano, finché Sakusa non chiuse gli occhi. Il sospiro che gli strappò lo lasciò come un idiota a chiedersi perché avesse aspettato due settimane per tornare lì. “Guarda che…”
“È la regola dei cinque minuti, Omi.”









 
NotEl: SALVE e grazie per essere arrivati alla fine!
Questa storia è stata una scommessa per tanti motivi: non conoscevo bene la ship, era una AU, era oltre un anno che scrivevo poco e male (sono poco più di 20mila parole ma ci ho messo cinque mesi a scriverle!) e INOLTRE ho pensato di mettermi in difficoltà provando cose nuove. Quindi quando l'ho cominciata ho pensato di mollare un po' la presa sull'aspirazione alla perfezione, ho visto cose per cui avrei passato ore a struggermi e ho pensato "nah, non fa niente" e non so davvero se a questo punto risulti arronzata o rifletta una rilassatezza conquistata.
Mi dispiace se è strana e se non ha il drama che forse tutti si aspettavano o i pochi riferimenti crudi e criminali che poteva promettere con queste premesse (e con quello che scrivo di solito), ma io e quei trope sulle bugie che poi escono fuori e si passano CAPITOLI a farsi perdonare non andiamo d'accordo e il risultato è che il motivo della risoluzione è implicito e questa è un'altra grande scommessa. Spero si riesca a scovare senza troppa difficoltà, spero non richieda di entrarmi in testa (avrei fallito). Ho ammesso subito che questa storia sarebbe stata un esperimento, ma ora che l'esperimento è finito CHE STRIZZAAAAAAA
Finire una storia dopo così tanto tempo e così fuori dalla mia comfort zone è grandioso, quindi grazieeeee per aver seguito quest'avventura <3
Ci si vedeeeeee

El

 

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