Wastelands

di Herondale66
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 02/04 ***
Capitolo 2: *** 03/04 ***
Capitolo 3: *** 04/04 ***
Capitolo 4: *** 05/04 ***
Capitolo 5: *** 06/04 ***
Capitolo 6: *** 07/04 ***
Capitolo 7: *** 08/04 ***
Capitolo 8: *** 11/04 ***
Capitolo 9: *** 25/04 ***



Capitolo 1
*** 02/04 ***


Cammino tra la cenere e le rovine di questo posto abbandonato. I miei anfibi pestano la terra bruciata e provocano uno scricchiolio fastidioso a ogni passo. Mi guardo intorno. Non c’è niente. Solo macerie. Solo un ricordo di una vita passata, forse, ma forse di niente.
Non potrò mai sapere se quelle che sto calpestando sono rovine di una casa, di un ufficio, di una scuola. È tutto nero e grigio e cenere. Perfino il cielo e la pioggia che mi cade addosso prendono quella tonalità di grigio smorto che sembra ricoprire tutto. Ma come ci sono finitə qui? Fino a ieri andava tutto bene, i colori ancora c’erano. Oggi è tutto distrutto, tutto in rovina, tutto un casino. Ma come posso andare avanti così adesso? Eppure continuo a camminare. Non mi fermo. Lo scricchiolio dei miei passi mi accompagna per la strada deserta, inondando quelle che un tempo erano statali e incroci trafficati. Ma ora ricordo che un tempo ci sono passatə per queste strade. Erano affollate, stracolme di gente sudata di fretta che parlava a gran voce e chiamava e viveva. Adesso niente. Neanche un corvo che sorvola l’orizzonte, come nei film. Non è rimasto niente. Sono rimastə io. Arrivo di fronte al vecchio cinema. Si riconosce ancora la scritta al neon semidistrutta, di un rosso impolverato che ricorda la malinconia della fine dell’estate. Provo ad entrare ma la porta è chiusa. Mi sembra assurdo che in questa desolazione una porta sia rimasta in piedi. La forzo ed entro comunque. L’atrio è distrutto, una voragine occupa quasi tutto il pavimento. Mi faccio spazio tra il vuoto e riesco a raggiungere una sala. Brandelli di stoffa e gommapiuma ricoprono tutto, in una stravagante fantasia che sembra uscita dalla mente di un bambino. Potrei addormentarmici, in mezzo a tutto quel gommapiuma, sprofondarci dentro e non uscirne più. Ma vado avanti fino a trovare un seggiolino integro. Mi ci siedo. E aspetto. Vorrei proprio vedere un bel film. Chiudo gli occhi. Stralci di colore mi invadono il cervello, facendomi catapultare in una realtà che non mi appartiene.

Un ‘plim’ che segna l’arrivo di un messaggio. Il mio maglione nero. Una birra a stomaco vuoto. L’inchiostro di un tatuaggio a metà. Un joystick abbandonato sul letto. Il cibo da asporto del solito ristorante cinese. Una conversazione sottovoce, che non voglio sentire. Un adesivo colorato.

All’improvviso ritorno nel cinema, apro gli occhi e sono di nuovo in mezzo alla desolazione. Perché sono venutə qui? Non ci voglio stare. Non è la serata giusta per un film. Io li tengo sempre i biglietti di tutti i film che vado a vedere. Ma questo non lo voglio, grazie. Il mio respiro si fa pesante ed io esco per strada, correndo. Ha smesso di piovere ma l’aria è pesante, il calore risale dalla strada e sembra soffocarti. Inizio a correre sempre più veloce, oltrepassando le macerie di case e negozi e parchi con alberi divelti dal terreno. Voglio solo uscire da questa città ma la strada non finisce più. La cenere sotto ai miei piedi si fa pesante e non riesco più a camminare. Allora mi fermo, e guardo indietro. Un sole tremolante fa capolino all’orizzonte, ma non mi scalda la pelle. È solo un tramonto per fare scena, nient’altro. La stessa desolazione mi circonda dappertutto. Mi lascio sprofondare nella cenere. Mi distendo sul caldo asfalto, e mi sento trascinare giù, sempre più giù verso un caldo abbraccio letale. Alla fine mi sento come quando mi abbracciavi tu. La cenere inizia a ricoprirmi il volto, entra nelle narici, nelle orecchie, nella bocca. Finché tutto scompare. Ed è buio.
 

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Capitolo 2
*** 03/04 ***


In questo posto dimenticato da tutti non c’è mai tempo per fermarsi. Non appena i debolissimi raggi del sole sferzano la fresca aria mattutina, è già ora di muoversi. Raccolgo i miei scarsi averi nello zaino malconcio e mi metto in marcia. Ogni giorno è una corsa contro il tempo per raccogliere cibo e per mettere più chilometri possibili tra oggi e ieri. Non è possibile voltarsi indietro, quindi l’unica scelta è andare avanti, sperando di trovare il necessario per sopravvivere. Ogni giorno bisogna sperare di trovare una fonte d’acqua e del cibo, un riparo dove passare la notte e poco altro. Tutto quello che sembrava importante prima adesso non ha più un senso. Non riesco nemmeno a immaginarmelo.

Apri gli occhi, alzati, controlla di avere ancora tutte le tue cose, mangia quel poco che è avanzato da ieri e via, mettiti a camminare.

Allora io cammino e cammino, a volte capita che passino ore prima di trovare quello che sto cercando. Non è mai la stessa cosa. Mi capita di sprecare una quantità immensa di energia per un misero pasto, che non mi lascia minimamente saziə. I pasti sono i miei punti fissi della giornata, quello che mi permette di non impazzire. Non devono essere sempre allo stesso orario, anche perché sarebbe impossibile capire che ore sono in mezzo a tutta questa nebbia, ma l’importante è farli nell’arco della giornata. Come con la breve doccia non appena trovo dell’acqua. È una sorta di rituale che non posso mancare. Qualche volta mi capita di imbattermi in un vecchio rivolo d’acqua, pieno d’alghe e di melma, e in quelle occasioni mi permetto di essere felice. Per qualche tempo abbandono lo zaino e i laceri vestiti a riva e mi immergo nell’acqua stagnante, sperando di purificarmi. Spesso il livello dell’acqua è talmente basso che non mi arriva nemmeno alle ginocchia, allora mi accovaccio e mi lascio sommergere. Se l’acqua in qualche modo lava via lo sporco dalla mia pelle, non riesce a penetrare abbastanza a fondo per strapparmi dalle ossa quel senso di vuoto e di schifo che mi accompagna tutto il giorno. Non succede mai. Una cosa che mi manca molto di prima è sicuramente l’acqua corrente. Se lə mə stessə di prima vedesse dove mi faccio il bagno probabilmente avrebbe un mancamento. Ma qui è così. Un po’ d’acqua puzzolente è un lusso che rare volte è disponibile, ed è meglio approfittarsene. Anche adesso ucciderei per immergermi in un po’ d’acqua. Ma non ci sono boschi in vista, sono ancora troppo vicino al lordume della città. Mentre cammino sul ciglio della vecchia strada piena di crepe mi perdo nei miei pensieri. Se riuscissi a raggiungere un checkpoint entro stasera potrei barattare un coltello nuovo con quei vecchi fili e componenti elettroniche che ho trovato qualche giorno fa. Anche se mi viene la nausea all’idea di aiutare quei bastardi preferisco avere la possibilità di trovare da mangiare piuttosto che morire di fame con un pugno di fili in mano. E poi non saprei proprio che farmene. Comunque sono ancora lontanə dal checkpoint, e devo camminare tanto. Quindi metto a tacere questi stupidi pensieri e fisso lo sguardo sull’orizzonte ricoperto di nebbia verdastra, ascoltando il rumore ritmico dei miei passi sull’asfalto. E vado avanti, senza voltarmi indietro.

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Capitolo 3
*** 04/04 ***


Sono al checkpoint e non posso fare a meno di sentirmi sopraffatta. Un ammasso di corpi puzzolenti mi circonda e mi manca l’aria. Solitamente non ci rimango molto in questi posti, ma ho degli affari da sbrigare. Mi dirigo verso il mercato. Un nugolo di bambini scheletrici e urlanti mi supera correndo, spintonando tra la gente. A volte mi dimentico che esistono ancora i bambini in mezzo a questo disastro. Mi chiedo che futuro mai avranno, se a malapena noi riusciamo a sopravvivere alla giornata. Ma loro continuano a giocare a piedi nudi, incuranti della puzza e delle facce scure che li circondano. Il resto della gente ha il volto coperto, come faccio io. Molti hanno paura delle malattie, ma è diventata un’abitudine comune quella di non farsi vedere agli altri. Mi stringo nel mio passamontagna nero, cercando di non incontrare lo sguardo di nessuno. Superando il quartiere delle baracche raggiungo finalmente il mercato. Poche bancarelle mettono in mostra le merci più disparate: da armi a vestiti, delle verdure mezze marce, in alcune scorgo perfino occhiali e sigarette. Ormai sono dei beni di lusso, quelli. Individuo quello che mi sembra il rigattiere più malleabile, propongo il mio scambio.

“Un coltello per questi?” lo apostrofo, mostrandogli il gomitolo di fili. Lui li prende e li osserva, tastando l’integrità del fragile rame alle estremità.

“Mh”

“Sono ancora integri, ci puoi sicuramente costruire qualche circuito. So che qui ne avete sempre bisogno, quindi non fare tante storie”

L’uomo mi volta le spalle, rovistando tra i polverosi cassoni che tiene gelosamente custoditi dietro al banco. Una donna seduta lì vicina mi osserva. Non saprei dire se è anziana. Questo mondo ha fatto invecchiare tutti di colpo, è difficile capire se gli altri hanno vissuto la maggior parte della propria vita prima o dopo. Ha tutti i capelli scompigliati e sporchi, striati di grigio spento. Mi rivolge un sorriso sdentato, e i suoi lineamenti si tirano sul volto, mettendo in evidenza la sua natura scheletrica. Io mi limito a fissarla. Probabilmente sarà un’instabile.

“Allora?” tento di richiamare l’attenzione dell’uomo, che sembra metterci troppo a trovare quel coltello.

Lui si volta e mi porge un vecchio coltello a serramanico leggermente arrugginito. Lo soppeso tra le mani. È leggero, potrebbe spezzarsi a breve, ma credo di dovermi accontentare.
Gli rivolgo un cenno e faccio per voltarmi, quando sento una mano ossuta chiudersi attorno al mio polso. Istintivamente rivolgo il coltello ancora aperto verso l’assalitore. È la donna. Ha uno sguardo perso, ma mi tiene saldamente. L’uomo sembra indifferente allo scambio.

“Lasciami”

La donna continua a guardarmi. Poi mi fa cenno di aspettare e inizia a cercare affannosamente qualcosa all’interno delle sue tasche. Io la guardo con sospetto. Alla fine estrae una vecchia collanina, con piccole perline nere un tempo lucide e delle medagliette che credo fossero dorate. Me la porge, con quel sorriso sdentato.

“Non la voglio”

Lei insiste, porgendomi il gioiello con insistenza. Non è niente di valore. Gli oggetti di bellezza non hanno alcun senso in questo posto. Non servono a niente, la gente ha smesso di preoccuparsi di queste cose molto tempo fa. A pensarci non so nemmeno come abbia fatto quella donna a tenere per così tanto tempo quell’oggetto inutile con sé. Sarebbe stato più utile utilizzare la plastica per qualche altro scopo.

“Smettila. Non ho niente con cui scambiarla”

L’uomo finalmente sembra accorgersi dello scambio e sbuffa.

“Vattene, puoi tenerti la stupida collana. Se questa pazza te la vuole dare tienitela pure. Non saprei che farmene”

Li guardo, stupitə da questo inaspettato atto di gentilezza. Era da molto tempo che non mi capitava. Le mie interazioni con altre persone sono ridotte quasi a zero, oltre che questi scambi commerciali di sopravvivenza. Prendo la collana, rivolgo ad entrambi un cenno e mi rituffo nel calore dei corpi sudati che si affannano su e giù per le passerelle pericolanti. Tutto questo odore di esseri umani e di vita mi dà alla nausea. Alle volte, quando sono là fuori, mi sembra di essere rimasta da solə in queste terre. Ma il venire in posti come questo mi fa ricordare la realtà schifosa delle cose. Non voglio avere niente a che fare con i fantasmi che abitano questo tugurio. Voglio scappare. Mi affretto per le scale verso l’uscita e l’aria pulita. I profumi di una zuppa appena preparata investono le mie narici e mi fanno brontolare lo stomaco. Per un attimo risento tutti gli odori della cucina di casa, i pasti caldi e invitanti preparati con tanto amore dalla mamma e la nonna, il calore di una stufa scoppiettante. Poi una goccia di liquame gelato mi cade sulla fronte, e ritorno al presente. Devo andare avanti. Non potrei nemmeno pagarla una zuppa adesso. Potrei sempre tentare di scambiare la collanina. Però non so perché ma mi sembrerebbe scorretto. Un qualcosa che sembra morale mi ribolle nello stomaco assieme alla fame. In questo posto la morale non esiste più. Ma non posso fare a meno di farmi avvolgere da questo vecchio sentimento, lacero e scucito, talmente labile da poter essere strappato con un dito. Se voglio continuare a sopravvivere là fuori devo aggrapparmi a questo velo. Non voglio di certo impazzire come la donna. Però lei mi ha offerto la collanina.

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Capitolo 4
*** 05/04 ***


Le orecchie mi fischiano e la testa mi scoppia. Sento le guance che mi vanno a fuoco. Il mio respiro irregolare fatica ad uscire dai polmoni.

1, inspira. 2, trattieni. 3, espira. 4, trattieni.

Perché tutto intorno a me è così rumoroso e fastidioso? Perché mi fa male a respirare? Sento un peso sul petto o sullo stomaco non so bene che mi opprime e non ce la faccio più.

1, inspira. 2, trattieni. 3, espira. 4, trattieni.

L’aria è effettivamente più cattiva qui. Non mi stupisco che sia così difficile eseguire quel movimento così meccanico che è respirare normalmente.

1, inspira. 2, trattieni. 3, espira. 4, trattieni.

È tutto ricoperto di catrame viscido e unto, tutto sembra rallentato, persino i miei pensieri. Cerco di riordinarli, di metterli in fila ma quelli mi scappano dalle mani come anguille. Che strano modo di dire, io manco l’ho mai vista un’anguilla. Non penso esistano più. Pensieri come questo mi fanno capire che sta passando e sto tornando alla realtà.

Piano piano mi riprendo, e inizio a tornare a vedere quello che mi circonda. Un cielo grigio scuro, con qualche sprazzo di luce più chiara mi sovrasta. Sento la terra calda e riarsa sotto i miei palmi. Mi spingo con le braccia e mi metto a sedere. Un lontano ronzio permea l’aria. Che stranezza. Nessuno mi ha vistə. Nessuno mi vede mai d’altronde. Però questa volta non so perché ma mi aspettavo che al mio ritorno ci fosse qualcuno. Forse ho ancora in mente la confusione di ieri. Ho cercato di mettere quanto più spazio possibile tra me e quello spazio putrido e sovraffollato, ma mi sento ancora addosso la puzza di gente. Cerco di scrollarmi di dosso la stranezza di quello che è appena successo. Finisco per rabbrividire. Mi battono i denti ma cerco di ignorarli. Mi faccio forza e mi alzo in piedi. Mi ero messə a riposare sotto i rami spogli di un vecchio larice, ma le sue poche foglie secche non hanno potuto niente contro il caldo della giornata. Mi sento malfermə sulle mie gambe. Probabilmente non dovrei camminare. Non fa niente, mi avvio lo stesso. Non ho tempo da perdere, devo trovare qualcosa da mangiare prima che venga buio, e al momento c’è solo terra secca in vista. Potrei sperare di imbattermi in qualche vecchio rudere con ancora qualche provvista, ma mi sembra più fattibile cercare il fiume più vicino e pescare qualcosa con il mio nuovo coltello.

Domani devo affrontare un viaggio più lungo, e tornare verso le terre più vive. Ormai questa regione è completamente secca, e il cibo scarseggia. Forse dirigendomi verso le foreste a est posso sperare di cacciare qualcosa e rivenderla al mercato del checkpoint. Mi servono davvero dei vestiti nuovi, questi che ho addosso ormai sono laceri e rigidi. Poi con il coltello posso scuoiare qualche coniglio e sperare di farmi delle nuove scarpette per affrontare la calura di questo terreno secco senza bruciarmi i piedi.

Pensare a questi obiettivi pratici mi fa sempre sentire meglio. Fermarsi a pensare è sempre un errore. Devo andare avanti e concentrarmi solo sul cibo, sull’acqua e sui vestiti. Non mi serve nient’altro. Nient’altro.
 

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Capitolo 5
*** 06/04 ***


Dopo una lunga giornata di marcia finalmente mi fermo a prendere fiato. Non mi sono mai fermatə oggi, i miei passi si sono susseguiti l’un l’altro inesorabilmente ad un ritmo costante. Paf, paf, paf, paf. Ho avuto modo di pensare molto. Quando affronto queste lunghe marce e non devo occuparmi di incombenze quotidiane i miei pensieri si mettono a rincorrere i miei passi, e non posso fare a meno di dissociarmi dalla realtà. Non ho più di fronte prati abbrustoliti dal sole o città abbandonate, ma una serie infinita di filamenti colorati che si dipanano dal mio cervello per correre nel cielo sopra di me. Cerco di afferrarli, di stringerli tra le mani ma spesso mi sfuggono. Oppure appena riesco a seguirne uno, subito un altro più lucente mi si affianca, e non posso fare a meno di seguirlo. Penso tanto a com’erano le cose prima, ma soprattutto a come saranno dopo. Oggi è già dopo, ma voglio sperare che ci sia qualcos’altro dopo del dopo. Ha senso? Non mi interessa. Continuo a seguire queste lente meditazioni, che in realtà so non mi porteranno a niente. Un po’ ha a che fare con il posto in cui mi sto dirigendo. Sto tornando verso quel brandello di terra che un tempo chiamavo casa, ma che ora non ha più alcun significato. L’unica cosa che ha un significato ora è il cibo che ci posso trovare. È un posticino vicino alle montagne, in cui un tempo i fiumi scorrevano limpidi e allegri, e gli animali si aggiravano vicini alle case nonostante il viavai degli uomini. Mi immagino che adesso, senza più gente a disturbarlo, il bosco sia rinato. Per quanto possa essere possibile in questo scenario. Sicuramente meglio di questa pianura afosa. È difficile orientarsi a piedi, ma ci sono quasi. Non ci sono più tornatə. Dentro di me non posso fare a meno di avere delle aspettative, condizionate dal ricordo di prima, ma so che probabilmente saranno deluse. È cambiato tutto. Sono cambiatə anche io. Magari ci troverò qualcuno. Non mi stupirei se la gente di quel posto avesse trovato un modo di sopravvivere come il mio. Eravamo gente dura anche prima. Ora siamo quasi impossibili da scalfire.

Finalmente intravedo il vecchio cartello che segna che sto entrando nei confini del vecchio paesino. Tutte le case sono abbandonate e logore, sporche e mezze crollate. Mi soffermo per un attimo a guardare la casa dove sono cresciutə. Le serrande che chiudevano i garages al livello della strada sono completamente divelte e lasciate ad arrugginire in un angolo. I tre grandi varchi nel muro sembrano bocche mezze vive e mezze morte, che cercano disperatamente di esalare l’ultimo respiro. Non ci avevo pensato, al fatto che mi sarei ritrovatə qui. Ora che sono davanti alla porta di ingresso sono spintə da uno strano desiderio masochistico di entrare. So già che ci rimarrò male. Eppure, eccomi qui. Faccio un respiro e varco la soglia. Salgo le scale ormai pericolanti, trovo l’ingresso di casa. Aspetto. Non sento niente smuovermi da dentro. Nessun ricordo particolare mi assale. Sono completamente in balia delle mie gambe che mi spingono ad andare avanti. La porta è aperta. Ovviamente qualcuno sarà entrato a rovistare alla ricerca di cibo. All’inizio tutto sembra lo stesso. Nella sala da pranzo il tavolo è spaccato a metà da una grande porzione del soffitto crollato. I divani sono svuotati del gommapiuma, i cuscini lacerati. Tutti i cassetti dei mobili sono aperti, carte ovunque. I vecchi vasi con i fiori di mamma sono ormai solo pieni di terra secca e putrida. La cucina è quella messa peggio. Nei mesi peggiori, quelli subito dopo il disastro tutti sono impazziti, invadendo le case alla ricerca di provviste. Se oggi trovi qualcosa in qualche dispensa sei fortunato. E anche se ormai è tutto ampiamente scaduto lo mangi lo stesso. La mia vecchia cucina ha ovviamente subito lo stesso trattamento. Guardo dappertutto ma non è rimasto niente. Poco male, dovrò accontentarmi di quello che ho trovato oggi durante la camminata. Vado verso la mia vecchia stanza. Mi sembra surreale. Tutte le mie vecchie cose sono ancora lì: i libi, i giocattoli. Anche gli armadi sono aperti e svuotati di tutti i vestiti. Quelli sono stati razziati dopo, soprattutto dalle squadre di ricognizione organizzate dai checkpoint. Il mio letto c’è ancora, un po’ muffito e con qualche molla fuori posto. Decido di fermarmi qui per la notte. Non avrebbe senso avventurarmi nel bosco, e comunque la casa sembra sicura. Non so se riuscirò a non farmi assalire dai ricordi ancora per molto, ma voglio concedermi per una notte il lusso di avere un tetto familiare sopra la testa. Chiudo gli occhi e scivolo nel sonno.

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Capitolo 6
*** 07/04 ***


Ovviamente non ho dormito bene. I pensieri correvano troppo veloci per inseguirli, quindi sono rimastə in un dormiveglia agitato per molte ore, almeno finché il corpo non ha ceduto alla stanchezza e alla comodità del materasso sgangherato. Decido di fare un’ultima perlustrazione profonda in tutti i piani della casa, alla ricerca di qualcosa di utile. Trovo delle cose che mi possono servire o che posso tentare di scambiare, come dei piccoli contenitori di plastica, dei vecchi lacci da scarpe, dei farmaci e dei guanti da lavoro bucati. Lancio un ultimo sguardo alla mia camera e sono tentatə di prendere un libro con me. Alla fine, decido di viaggiare leggerə ed eventualmente ritornare un altro giorno. Per il momento ho intenzione di rimanere un po’. Durante la notte mi è balenata in mente l’idea di andare a controllare le condizioni del vecchio rudere nel bosco che un tempo ci faceva da luogo di fuga dal caos domenicale. Si trova a meno di un’ora di camminata da qui. È in una buona posizione, in un bosco che conosco bene, e potrei anche pensare di renderlo la mia base per un po’. So dove trovare l’acqua e so che posso cacciare facilmente. C’era perfino un piccolo orticello, una volta. Mi domando se ci sia più cresciuto qualcosa. Prima di andarmene controllo un’ultima cosa. Le armi. Avevamo una cassaforte con dei fucili da caccia. Non credo ci siano più, ma vale la pena di tentare. Mi reco in soffitta, con una certa difficoltà a districarmi tra le vecchie scale di legno ormai marce. La cassaforte c’è ancora, intatta nel suo angolino. Mi avvicino, ma mi rendo conto che è stata anch’essa scassinata, ed è vuota. Peccato. Comunque non avrei potuto usare un fucile a cuor leggero, gli spari avrebbero attirato troppo l’attenzione. Mi domando se… rovisto tra il ciarpame alla ricerca di una cosa che avevo dimenticato, ma potrebbe realmente semplificare le mie giornate. Alla fine, lo trovo. Una busta nera lunga e sottile, impolverata ma integra, sepolta sotto a del rivestimento caduto dal tetto. Apro la busta con una calma glaciale e mi ritrovo davanti il mio vecchio arco, ancora in perfette condizioni. In un’altra vita, prima, avevo deciso di prendere lezioni di tiro con l’arco per assomigliare ai protagonisti delle storie fantasy che tanto mi piacevano. Alla fine i miei mi avevano comprato l’arco. Una cosa semplice, ma efficace. Un tempo miravo a dei bersagli di plastica, ma oggi potrebbe procurarmi la cena. Tutte le componenti sono ancora al loro posto. Il legno è sicuramente irrigidito e rovinato dall’umidità, ma ancora integro. Decido di montarlo, per verificare se funzioni ancora. Mi fa sentire stupidə e allo stesso tempo potente. Stupidə perché prima lo vedevo come un gioco. Potente perché mi fa stranamente sentire al sicuro. Tento di scoccare una freccia, e quella sibila silenziosa, conficcandosi con forza in un sacco della spazzatura pochi metri più avanti.

“Devi tenere la schiena più dritta. Così, avanti, fai un bel respiro. Butta fuori l’aria e mentre trattieni scocca”. Una goccia di sudore mi scivola lungo la fronte, non so se per il caldo o per la concentrazione. Inspiro. Tendo l’arco, con un grande sforzo. È da ore che ci esercitiamo sotto il sole cocente, e ormai sono stancə. Le mie braccia iniziano a tremare. “Ci stai mettendo troppo”. Scocciatə, tento di ritrovare la concentrazione e scocco la freccia. Quella compie un tragitto tremolante per poi conficcarsi al bordo del bersaglio. “Devi rimanere lì con la testa! Non puoi farti distrarre dal caldo o dalla fatica”. Io mi piego su me stessə, delusə dei miei errori. “Su, avanti. Raddrizza quelle spalle e riprovaci”.

Una lama di luce fa capolino tra le tegole del soffitto, mostrando un nugolo di particelle di polvere galleggiare nell’aria. Mi incanto a fissare quella danza leggiadra, immobile, con la bocca semiaperta. Chiudo gli occhi e respiro, cercando di inalare un po’ di quella leggerezza. Non so per quanto rimango così, ma ad un certo punto sento un rumore. Degli scricchiolii, un rovistare di zampine nel legno. Non oso muovermi. Ho ancora l’arco e le frecce in mano. Un musetto rosa spunta tra le assi abbandonate in un angolo. Curioso, un grasso topo inizia ad esplorare il territorio. Non sembra particolarmente turbato dalla mia presenza. Fa un giretto in tondo, per poi mettersi comodamente a rosicchiare dei brandelli di carta da una pila di riviste. Non penso. Silenziosamente, carico la freccia e prendo la mira. Inspiro. Espiro lentamente, e quando i miei polmoni sono completamente vuoti scocco, decisə. Il topo non emette neanche un lamento. Sorrido, pensando alla carne succosa che mi aspetta nei prossimi tempi grazie a questo arco. Alla fine, la casa mi ha accoltə con un regalo. Posso rimettermi in marcia.

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Capitolo 7
*** 08/04 ***


Una fitta lancinante mi percorre la tempia, seguendo un percorso arzigogolato fino giù all’occhio destro. Fatico persino a tenerlo aperto. Sono seduta a terra, sul pavimento freddo del rudere nel bosco. Sono arrivatə ieri nel tardo pomeriggio e con mia grande sorpresa ho trovato tutto come lo avevamo lasciato. Nessuno ha fatto irruzione e i lucchetti che chiudevano le vecchie porte in legno erano ancora intatti. Arrugginiti ma saldi al loro posto. Ho trovato le vecchie chiavi nel posto dove mio padre le lasciava sempre, ho forzato i lucchetti e sono entratə. A parte gli evidenti segni dell’umidità e dell’incuria, qualche ragnatela qua e là, tutto è come lo ricordavo. Il focolare scuro ma saldo, pronto a riscaldare l’ambiente, il vecchio tavolaccio in legno rosicchiato un angolo da qualche animaletto, la credenza con una collezione di bicchierini da liquore. Il vecchio lavabo in pietra, con il rubinetto mangiato dalla ruggine. Perfino il fornello a gas c’è ancora, alimentato da una bombola blu scuro che mi desta qualche preoccupazione. Mi sono messə subito a dormire, strematə dalle due giornate di cammino. Ora, svegliatə dai rumori del bosco, mi metto subito all’opera. Al piano superiore del rudere c’è ancora tutta la legna accatastata e pronta per essere bruciata, gli attrezzi e materiali da lavoro. Immagino che il vecchio soffitto sia diventata la casa di diversi ghiri, dovrei ispezionarlo per cercare del cibo. Una volta trovavamo spesso anche dei grossi serpenti, innocui, che ci guardavano con i loro occhioni lucidi e andavano a nascondersi sotto le tegole al caldo. Mi chiedo come sia la carne di serpente. Tutti gli alberi da frutto sono secchi, per cui non posso sperare di ricavarci molto. Ci sono molti castagni, ma è ancora troppo presto per pensare a queste prelibatezze. Il vecchio orto recintato è completamente incolto e pieno di erbacce. Se decido di rimanere è decisamente da sistemare. Inizio pulendo la casa, strofinando via strati di polvere, sporco e memorie dolceamare. Ricordo tutti i momenti passati in questo posto, era la nostra seconda casa. Ci sono cresciutə in questo bosco, ed è così bello e doloroso tornarci. Un dolore martellante alla testa accompagna il mio lavoro per tutta la mattinata. Lo ignoro, ma mi sento man mano sempre più debole. Ad un certo punto mi fermo a mangiare, gustandomi i fiori di tarassaco che ho raccolto nel campo. La stanchezza emotiva di tornare in questi luoghi si fa sentire. Non sento più le forze di alzarmi e continuare a lavorare. Mi sento completamente estraniatə dal luogo in cui mi trovo, la mia mente esce da me e si fa strada nello stretto e annerito camino, per poi spuntare nel cielo, fuori dal bosco e su su su sempre più su, inghiottita dal grigiore delle nuvole. Mi immagino là e mi vengono in mente scene di normalità. Quella che una volta era normalità. Una famiglia, una casa, un pasto caldo ogni giorno. Ricordo che anche allora non ero felice. Però ora tutto è diverso. Il richiamo gutturale del cuculo mi riporta alla realtà. Rabbrividisco. Decido di tentare di accendere un focolare, per riscaldarmi. Recupero de bastoncini sottili e del fogliame nel prato, assieme alla legna da ardere più spessa. Mi tornano alla mente tutti i consigli di mio padre sul come si accende un buon fuoco. Costruisco una traballante capanna di bastoncini, adagiandoci accuratamente al centro le foglie. Prendo il vecchio acciarino, ringraziando l’amore per la tradizione che abbiamo sempre avuto in questo posto. La scintilla attecchisce, soffio leggermente per ravvivare la fiammella, e nel giro di poco un piccolo fuocherello illumina tutta la stanza. È molto umido, quindi devo fare attenzione. Una volta che la fiamma si è stabilizzata, procedo ad alimentarla con il resto della legna. Mi perdo ad osservare i giochi di luce creati dalle fiamme, gustandomi per la prima volta in tanto tempo questa sensazione di calore sulla pelle. Devo stare attenta a non lasciare crescere troppo il fuoco, così che il fumo non si noti troppo. Non vorrei ricevere visite inaspettate. Mi tasto la fronte e la sento scottare. Il mal di testa sembra peggiorare, per cui decido di concludere la giornata di lavoro e rintanarmi davanti al fuoco a pensare. Metto a bollire un po’ d’acqua nel mio vecchio pentolino e con il resto dei fiori raccolti faccio un infuso. Non mi sento abbastanza bene per mangiare, per cui sorseggio lentamente la bevanda amara, preparandomi ad affrontare la malattia che sono certə mi raggiungerà fra poco. Resto a guardare il fuoco fino a notte fonda, finché non rimangono solo tizzoni ardenti e sono avvolta dai rumori densi della notte. 

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Capitolo 8
*** 11/04 ***


Le mie palpebre si schiudono lentamente. Per la prima volta in due giorni riesco a tenerle aperte per più di qualche minuto. Osservo un ragno passeggiare nel soffitto sopra di me. Fa avanti e indietro in modo frenetico, intento a tessere la sua tela con perizia. La testa mi fa ancora molto male. Evidentemente ho camminato troppo negli ultimi giorni. E mangiato troppo poco. Sopporto a fatica l'odore acre del mio corpo malato, ma non ho le forze di lavarmi ora. Prima delle priorità. Sento il bisogno di mangiare qualcosa di solido e succoso. Potrei cercare qualche ghiro. So che dietro ai mobili potrebbero nascondersi delle cavallette. Mentre pondero le mie opzioni, rabbrividisco. La malattia non è ancora passata, ho sicuramente la febbre. Ma devo reagire, altrimenti il corpo potrebbe finire a non rispondere più. Già ora stando distesə non mi sento più le gambe e le braccia. Stando immobile posso perfino dimenticare per un attimo dove sono.
Faccio prima una lista mentale di tutte le cose che devo fare, con un calcolo energetico di ciascuna.

Alzarmi e accendere il fuoco.
Andare a prendere dell'acqua.
Trovare qualcosa da ammazzare e mangiare.
Togliermi di dosso questa puzza di putrefazione.

Prendo un respiro e procedo a svolgere tutti questi compiti. I polmoni bruciano, le gambe tremano e il naso continua a sgocciolare. Uso le foglie per po' pulirmi dal moccio ma finisco solo per irritarmi il viso.
Quando termino tutti i compiti che mi ero prefissatə di fare sono sfinitə. Sono riuscitə a trovare e prendere delle rane nel piccolo stagno poco lontano. Ne ho approfittato anche per lavarmi un po'. Mi sento meglio e peggio allo stesso tempo. Ho una forte nausea addosso, quindi devo riposarmi un po' prima di mettermi a cucinare le rane. Le pulisco appena, per poi infilzarle con del fil di ferro e arrostirle. Iniziano subito a sfrigolare e a sprigionare un profumo per tutta la stanza. La nausea aumenta, e capisco che è fame. Il mio stomaco si torce in modo disgustoso. Quando addento la prima coscia, la mia lingua prima viene invasa da un'esplosione di sapori, poi si sovraccarica e non sento più niente. Mangio lentamente, masticando bene i pochi bocconi. Penso a come un tempo tutto questo mi avrebbe fatto schifo. A come le rane le avevo solo assaggiate per curiosità, per poi decretare che non le avrei più toccate. Una vita fa. Adesso mi sembra di stare a un banchetto. Mentre mastico con piacere gli ossicini scricchiolanti, una ciocca di capelli mi scende lungo il viso, ricordandomi che dovrei tagliarli. È più semplice tenerli corti, soprattutto con questo caldo. Durante la stagione più fredda è un buon modo per tenere le orecchie al caldo, ma ora che non servono più li posso tagliare. Forse sono abbastanza lunghi perché li possa intrecciare e usare come lacci.
Sento la stanchezza assalirmi, decido di lasciare una rana per la colazione di domani, e torno a stendermi sul mio giaciglio.

“Shhh fai piano oppure le spaventi”, una grossa mano mi prende per la spalla, sicura. Siamo entrambi accovacciati sul bordo dello stagno, aspettando il momento giusto per acchiappare qualche rana. Io mi sporgo a guardare la superficie increspata dell’acqua e rido. Una grossa ranocchia mi guarda con i suoi occhietti inespressivi. “Crak”. Quella continua a fissarmi. Tento di infilare le mie manine dentro e afferro il corpicino viscido. Mi fa troppa impressione, quindi mollo la presa. “Dai che ce l’avevi! Che stupida…” La mano lascia la mia spalla, dandomi una leggera spinta. Io barcollo e mi sbilancio in avanti, appoggio le mani nell’acqua fangosa per non cadere di faccia. Sento dei passi allontanarsi, attutiti dalla morbidezza dell’erba nuova di primavera. La mia faccia inizia a contorcersi, e una lacrima solitaria mi solca la guancia. La lascio cadere nell’acqua, rimanendo a fissare i cerchi allargarsi attorno al punto in cui è caduta.

Tra il sonno e la veglia mi ritrovo di nuovo a fissare il soffitto, immaginando riflessi d’acqua pulita e conversazioni mai fatte.

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Capitolo 9
*** 25/04 ***


C’era una folla immensa di persone che respiravano all’unisono, che si muovevano secondo un ritmo arcano a me sconosciuto. Potevi sentire la vita vibrare tra i corpi, potevi annusare il puzzo del loro sudore e sentire sulla tua pelle il calore del loro sangue che gli ribolliva nelle vene a ritmo di musica. Potevi guardarti intorno e sentirti a casa, in un ammasso informe di energia pulsante. Ma io no. Io mi guardavo intorno e vedevo solo qualcosa che non era mio. Qualcosa che non avrei mai raggiunto, che non mi aspettavo di poter vedere e non osavo toccare con mano. Mi aggiravo tra quelle anime colorate e sempre di più mi sentivo fuori dal mondo, dallo spazio e dal tempo. A tratti non sentivo più il mio, di corpo, e vedevo la mia immagine distaccarsi e fluttuare lassù, sopra il cielo in un posto più tranquillo. Lassù vedevo tutto l’ammasso e il disordine della vita che si indaffarava a viversi. Vedevo tutto e tutti, ognuno con il proprio posto e il proprio scopo, ognuno con le proprie connessioni e relazioni. E poi vedevo il mio stesso corpo, abbandonato in un angolo, misero e inutile, involucro vuoto di pensieri ingarbugliati. Che schifo. Intanto fluttuavo sempre più in alto…

Mi sveglio di soprassalto e mi ritrovo a fissare il buio denso della notte. Cerco di scacciare la cattiva sensazione lasciata dal sogno ma è difficile, mi si è appiccicata addosso come il buio vischioso che sto respirando ora. Cerco di regolarizzare il mio respiro, ma il cuore mi batte forte. La notte è persa, già lo so. Adesso non riuscirò più ad addormentarmi, e non avendo una luce non posso svolgere nessun’altra attività. Devo rassegnarmi a rimanere qui con i miei pensieri. Chissà che voleva dire, questo sogno. Tendo a non chiedermelo più, non voglio nemmeno starci a pensare. Inizio a contare le cose che ho fatto durante il giorno, e a pianificare quelle che devo fare domani. So che questo mi tranquillizzerà un po’.

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