Ⱦhunders&Łightnings

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ȼapitolo Ʉno “Sfigatella” ***
Capitolo 2: *** Ȼapitolo Ɗue "ȾhunderWhite" ***
Capitolo 3: *** Ȼapitolo Ⱦre “Տtefanito” ***
Capitolo 4: *** Ȼapitolo Ǫuattro “Ⱥ Ȼappella” ***
Capitolo 5: *** Ȼapitolo Ȼinque “Տospesi” ***
Capitolo 6: *** Ȼapitolo Տei “Տcommettiamo?!” ***
Capitolo 7: *** Ȼapitolo Տette “Ғarsi Ɓelli” ***
Capitolo 8: *** Ȼapitolo Ơtto “Տtorm&Ⱦhunder” ***
Capitolo 9: *** Ȼapitolo Ɲove “In viaɡɡio” ***
Capitolo 10: *** Ȼapitolo Ðieci “Տorrento” ***
Capitolo 11: *** Ȼapitolo Ʋndici “Ҏrofessore bei capelli” ***
Capitolo 12: *** Ȼapitolo Ðodici “Ϻare Ϻare Ϻare” ***



Capitolo 1
*** Ȼapitolo Ʉno “Sfigatella” ***


Ciao a tutt*!
Ritorno con una long nella mia comfort zone che più comfort non si può! 
Ritorno con una storia ambientata nei primi anni 2000, quindi niente social e niente whatsapp, dove i protagonisti assoluti sono gli adolescenti e gli amori...
L'idea ce l'avevo in testa da un po', ma non trovavo mai il tempo (o il coraggio) di metterla nero su bianco, fin quando non ho deciso di iscrivermi a questa challenge indetta da Severa Crouch, la quale prevede proprio di sviluppare una long e di aggiornarla ogni 15 del mese.
Ringrazio in anticipo chiunque la leggerà/seguirà e recensirà,
Nina^^

P.S. Torino farà da sfondo a questa vicenda, ma non sono della città, quindi farò affidamento a Google per ogni eventuale dubbio, mi scuso in anticipo con chi magari vive lì o la conosce bene.
 
 

Ⱦhunders&Łightnings


 
Ȼapitolo Ʉno
Sfigatella
 
 

 

 
“Wild boys never lose it
 Wild boys never chose this way
 Wild boys never close your eyes
 Wild boys always shine”

 

 
Anita Lentini tamburellava le dita sulla superficie verdina del banco di scuola, dove per generazioni gli studenti lo avevano marchiato con le proprie firme, i propri sogni, le passioni calcistiche, guardando fuori dalla finestra le macchine che passavano in strada. Si chiedeva dove fossero dirette tutte quelle persone, cosa avessero da sbrigare di così urgente da essere sempre incazzate, esagitate nel parlare al cellulare, a volte gesticolando simili a mimi francesi. Il riflesso nel vetro ritraeva un viso tondo, al naturale, dai lineamenti morbidi e l’espressione malinconica. Gli occhi verdi osservavano attraverso occhiali da vista dalla forma esagonale e la montatura dorata, che ben si sposava con il biondo cenere dei capelli, tagliati a caschetto al livello della mascella, lisci e con la riga laterale, così che un ciuffo le ricadesse sempre a nascondere una parte di volto. Il mento era adagiato su entrambe le mani e i gomiti sul tavolo duro, completamente presa da ciò che accadeva in strada – nulla di particolare in realtà, solita routine cittadina –, quando i suoi pensieri vennero interrotti in maniera così brusca che per poco non urlò dallo spavento.
«Ehi, sfigatella! Che hai oggi da mangiare?» Fabio Morini le strappò le auricolari dalle orecchie, poi afferrò il suo zaino, capovolgendolo e scuotendolo.
Tutto ciò che conteneva la borsa si rovesciò sul pavimento: libri di testo, quaderni, fogli strappati e arrotolati, vecchi fazzoletti, una borraccia, alcune penne, un pacchetto di cracker al rosmarino (la sua merenda) e due assorbenti.
Anita scattò in piedi e gli strappò lo zaino con foga, chinandosi sulle ginocchia per rimettere tutto a posto. La rabbia le aveva colorato le guance di rosso acceso e gli occhi pizzicavano di lacrime.
«Salatini?!» Sbuffò Fabio, calpestandoli con la pianta delle sue Jordan rosse e nere, sbriciolandoli. «Lo sai che non mi piacciono!» Aggiunse, dando un calcio alla borraccia che rotolò verso la cattedra.
Nell’aula era calato il silenzio, come accadeva in quei momenti. Coloro che non prendevano parte a quella sceneggiata, che oramai si ripeteva dall’inizio dell’anno, abbassavano lo sguardo o si voltavano dall’altra parte; qualcuno usciva addirittura nei corridoi, preferendo prendersi una strigliata dal bidello, invece di intervenire per difendere la compagna, temendo di essere preso di mira a sua volta.
Anita odiava questi ultimi più di quel gruppetto di bulletti prepotenti che ce l’avevano con lei, che si divertivano a umiliarla forse solo perché era diversa dalle altre. Non si conformava alle sue coetanea, non aveva i loro stessi interessi, né le importava fare qualcosa per cambiare la situazione. Oramai era fuori dal gruppo, qualsiasi gruppo, un’anima solitaria che preferiva andare per la sua strada che mettersi contro la propria natura.
Quando finì di raccogliere le sue cose, si rialzò con la testa china, evitando di incrociare lo sguardo di Fabio o dei suoi compari, sperando che si stancassero e se ne tornassero ai propri posti.
«Ehi, la sfigatella ha le “sue cose”!» Esclamò invece gioioso Morini, sollevando un assorbente per mostrarlo agli altri a mo’ di trofeo. Qualcuno rispose che il solo pensiero gli faceva venire la nausea; qualcun altro fece il verso della scimmia; un altro ancora si meravigliò che anche lei avesse le “sue cose” come una ragazza normale. Aveva usato proprio questo aggettivo: normale. Quasi che lei non fosse come le altre, non fosse una ragazza vera e propria. Non fosse normale. Il problema era l’abbigliamento. Anita lo sapeva, glielo diceva sempre anche sua sorella minore: ma come cazzo ti vesti? Sembri una sfigata!
Ecco, appunto!
Con le lacrime pronte a uscire, le guance in fiamme e una sensazione di vergogna assoluta, si riaccomodò nuovamente al suo posto, tenendo sulle gambe il proprio zaino, temendo che Fabio potesse svuotarlo di nuovo. O lanciarlo fuori dall’aula come aveva già fatto una volta. Si crede di potersi abituare a certe situazioni, ma è una bugia, non ci si abitua mai ad essere trattati da schifo, si spera sempre che gli altri comprendano il male che stanno commettendo e si redimano, invano.
«Sentiamo che musica ascolta la nostra Ani» la schernì un altro dell’allegro gruppetto, forse il peggiore, poiché Anita lo riteneva mediamente più intelligente e furbo degli altri, i quali erano solo dei sbruffoni convinti di essere simpatici e che volevano mettersi in mostra. Per chi poi, Anita non lo aveva ancora capito.
Stefano Parisi si portò una delle auricolari all’orecchio destro e rimase qualche secondo in ascolto, poi glielo lanciò in faccia con aria di superiorità:
«Canzoni della prima era glaciale!»
«Sono i Duran Duran» ribatté lei. Non avrebbe permesso a nessuno di prendere in giro i Duran Duran, né tantomeno quella canzone in particolare, dal momento che era la preferita del suo migliore amico e, di conseguenza, anche la sua.
Stefano la fissò dall’alto del suo metro e ottantacinque circa:
«Ani… anche il tuo nome fa schifo! Richiama i buchi del culo di tutto il mondo!»
Gli altri risero forte, troppo forte. Fabio gli diede un paio di pacche sulle spalle, sollevandosi sulle punte dei piedi tanto era alto l’altro e basso lui.
Anita strinse i pugni, senza distogliere lo sguardo. A dispetto degli altri, Stefano la feriva solo con le parole ed era bravo, doveva ammetterlo. Pungente e offensivo. Per questo lo riteneva più intelligente, più colto, non solo per i voti a scuola, ma perché ci vuole una certa attitudine e capacità anche nell’oltraggiare sapendo usare i vocaboli. Inoltre, quello era un campo in cui la ragazza sapeva difendersi, poiché anche lei era brava con le parole, a differenza dei gesti aggressivi.
«Buffo che a dirlo sia una persona che si chiama Stefano e ha nel nome la parola -ano.»
Fabio colpì il banco con un palmo spalancato, facendola sobbalzare sulla sedia. No, gli atti violenti la terrorizzavano, non riusciva a controbattere, la intimorivano come una bambina che viene sgridata da un padre autoritario.
«Come ti permetti, sfigatella
Stefano Parisi tirò indietro il compagno, fissando Anita con un mezzo sorriso compiaciuto. Si divertiva. Stefano sorrideva di soddisfazione quando la punzecchiava e lei rispondeva a tono, Anita poteva leggerglielo nel guizzò che gli attraversava lo sguardo. Questa era un’altra differenza sostanziale che lo differenziava da Fabio Morini e dagli altri bulletti della comitiva, i quali sembravano sempre annoiati, anche di farle i dispetti, anche di ridere di lei. E più di una volta, la ragazza aveva avuto la sensazione che Stefano fosse il mandante e che intervenisse solo in un secondo momento, per denigrarla a frasi.
«Comunque i Duran Duran fanno cagare. Meglio i Dire Straits.» Le disse, mentre la professoressa di italiano, Giovanna Dell’Arco, entrava in classe, con la consueta aria annoiata, urlando agli alunni di sedersi:
«Oggi non è giornata, quindi vediamo di fare poco casino che sono stanca morta!» Si accomodò sulla sedia, dietro la scrivania e inforcò gli occhiali, sfiorando con la punta dei piedi la borraccia di Anita che rotolò verso la porta. «E quella? Di chi è?»
La classe si voltò verso la ragazza, ma fu Stefano ad alzarsi e riprenderla, scusandosi per l’inconveniente. La professoressa lo fissò da sopra gli occhiali, dondolando la gamba accavallata, senza aggiungere nulla.
 
Quando alle 13:15 la campanella trillò in tutto l’istituto, gli studenti si riversarono nei corridoi e nell’atrio simili a una mandria di bufali impazziti.
Anita Lentini provò un forte senso di sollievo, per fortuna anche quella giornata era giunta al termine, presto sarebbe stata al sicuro nella sua stanza, davanti al pc a chiacchierare con il suo amico…
«Ehi, sfigatella!» La voce stridente di Fabio si elevò fra tutte le altre, penetrandole la mente come mille aghi. Erano ormai nel cortile antistante l’ingresso, Anita avrebbe tanto voluto svignarsela, poiché sapeva che loro facevano una strada diversa dalla sua – ringraziando il cielo! Invece qualcuno l’afferrò per lo zaino e la trattenne, mentre Fabio Morini versava l’acqua della sua stessa borraccia all’interno della cartella, inzuppando tutto ciò che vi era contenuto.
«No, no, no!» Fece lei, provando a divincolarsi senza ottenere risultati.
«Ciao ciao, Ani!» Fabio lasciò la bottiglia nella borsa, che ormai colava acqua e le stava bagnando anche i jeans, allontanandosi con Stefano, il quale gli passò un braccio intorno al collo e se lo portò via, mentre dall’altra parte teneva il compare che aveva trattenuto la ragazza, impedendole di scappare. Quest’ultima li vide allontanarsi, trotterellando come una famiglia felice, fissando con odio Stefano che ricambiò con un ultimo sguardo allegro e mimando il gesto di lanciarle un bacetto con le dita, sparendo poi oltre i cancelli della scuola.
Anita si sistemò lo zaino meglio che poteva, di asciugarlo ora non se ne parlava, meglio tornare a casa, quella giornata si stava rivelando più schifosa del previsto. Per fortuna le auricolari e il lettore mp3 erano sani e salvi nella tasca del giubbotto. Infilò le auricolari nelle orecchie e premette play, sforzandosi di non piangere sotto l’effetto della voce di Simon Le Bon.
 
Dall’ultimo piano del liceo scientifico Ferraris di Torino, la professoressa di materie umanistiche Giovanna Dell’Arco stava bevendo il suo caffè affacciata alla finestra che dava sul cortile antistante, assistendo all’intera scena. Seguì con lo sguardo la sua alunna, Anita Lentini, una delle più brave e brillanti che avesse mai avuto negli anni di insegnamento, e s’intristì.
«Questi ragazzi sono senza regole» disse ai presenti nella sala professori. Nessuno le diede retta, eccetto Elia Morales, insegnante di lingua spagnola che era entrato nell’organico quell’anno stesso, a settembre, ed era stato eletto sex symbol dell’istituto da tutte le studentesse.
«Sono solo giovani» rispose quest’ultimo, con il suo marcato accento ispanico.
Giovanna scosse la testa. No, non era solo quello. Le generazioni cambiano, si evolvono, si scontrano tra loro e crescono. Ne aveva visti tanti di adolescenti scapestrati che con gli anni avevano messo la testa a posto e si erano costruiti una vita dignitosa, trovando un lavoro e mettendo su famiglia. Ma questa generazione era diversa dalle precedenti, si annoiava e tendeva a prendere di mira i più deboli e questo comportamento lei non poteva tollerarlo. Non era ciò che insegnava durante le sue lezioni.
«Non capisco come riesci a bere quel coso» continuò Elia, avvicinandosi a sua volta alla finestra e alla professoressa.
«Lungo e amaro. Come la vita» rispose lei, finendo di bere il caffè prima di indossare il trench chiaro e riordinare libri e registri.
«Sei preoccupata per i ragazzi? Ne vuoi parlare? Magari questa se-»
«No, grazie» Giovanna si sistemò la borsa a tracolla, salutò tutti e uscì di gran carriera.
«Lasciala perdere quella lì», intervenne il professore di matematica, seduto al lungo tavolo di ciliegio con aria insoddisfatta, rivolgendosi ovviamente a Elia Morales. «È una zitella nata» concluse.
 
Anita Lentini appese alle corde del suo balconcino i quaderni e i libri pieni zeppi d’acqua, sperando che il tiepido solo di aprile potesse asciugarli e riparare almeno in parte ai danni. Il problema non erano tanto i quaderni, poteva sempre comprarne di nuovi e ricopiarne gli appunti, quanto i libri di scuola che costavano un occhio della testa e alcuni valevano per più anni.
Stava ancora valutando ciò che poteva essere salvato e ciò che, invece, sarebbe finito inevitabilmente nella spazzatura, quando le giunse forte e chiaro il trillo di Messenger: era arrivato!
La ragazza si precipitò all’interno della stanza, il cuore colmo di gioia quando vide lampeggiare sul desktop del pc la finestra con la chat di ȾhunderWhite.
Era arrivato, finalmente!


 
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Capitolo 2
*** Ȼapitolo Ɗue "ȾhunderWhite" ***


In questo capitolo (e nei prossimi) ci saranno abbreviazioni tipiche del linguaggio sms o chat, proprio per ricreare un maggiore coinvolgimento.
 




Ȼapitolo Ɗue

ȾhunderWhite



 
 
 
“Ciao Storm!”
“Ciao Ⱦhunder!”
“Ke fai?”
“Scrivo il nuovo capitolo della mia storia”
“Ho letto quello ke hai pubblicato ieri sera: bellissimo!”


Ad Anita brillarono gli occhi, mentre un sorriso spontaneo le nasceva sulle labbra. Ⱦhunder era l’unico a farle provare quelle sensazioni positive. Chattavano ormai da mesi, si erano conosciuti su un forum per giovani scrittori emergenti – ambulanti si definiva lui – e la cosa buffa, che aveva subito attirato entrambi, erano stati i loro nickname, perfettamente combacianti. Congruenti, avrebbe detto il suo professore di matematica. ȾhunderWhite e StormWhite: Fulmine Bianco e Tempesta Bianca, incredibile. Eppure, all’inizio non era stato tutto rose e fiori, ma l’esatto contrario. Si erano scontrati, e non poco, su idee divergenti riguardo i film di Harry Potter e Il Signore degli Anelli. Anita era una fan accanita del mago più famoso del mondo, lo sosteneva a spada tratta e nulla sarebbe stato in grado di farle cambiare idea. Ⱦhunder, invece, adorava Frodo e compagnia bella. I continui battibecchi erano diventati così pedanti, che perfino gli amministratori del forum avevano chiesto la cortesia di proseguire i loro diverbi in separata sede. E così avevano fatto. Ⱦhunder le aveva scritto in privato, ma poiché i messaggi non erano un “botta e risposta” istantaneo, alla fine si erano scambiati il contatto Messenger e il disguido su quale dei due colossi – cinematografici e della letteratura fantasy – fosse il migliore era andato avanti, senza trovare un punto d’incontro. O forse non avevano voluto trovarlo. Una volta, lui le aveva confessato che era troppo divertente farla arrabbiare, le sue risposte stizzite lo facevano ridere. Era uno spasso.
Così le chiacchierate erano diventate quotidiane, un appuntamento fisso, come due comare che si siedono al tavolo della cucina e bevono un caffè fatto in casa, spettegolando su tutto il vicinato.
L’abitudine di pubblicare ciò che aveva scritto era arrivata qualche settimana dopo. Ⱦhunder lo faceva già, e sebbene Anita conoscesse il sito e vi bazzicasse da tempo, leggendo racconti sparsi qua e là, non aveva mai avuto il coraggio di caricare una sua storia. Era stato il suo amico di tastiera, appunto, a darle l’input di farlo dopo che lei gli aveva inviato un paragrafo buttato giù di getto. L’aveva convinta, insomma, infondendole quell’autostima che troppo spesso le mancava in ogni ambito della sua vita, dalla scuola alle amicizie, alla sicurezza che ciò che scriveva non fosse da buttare via.

“Impara a condividere” le aveva detto in chat. “Lascia che siano gli altri a giudicare e se non ti piace ciò che dicono, mandali a cagare!”
“La fai facile tu…”
“No, la fai difficile tu!”.


Anita si era innamorata di lui, ma non nel senso letterale del verbo. Quanto avrebbe voluto avere un amico simile anche fra i banchi di scuola. Una specie di grillo parlante che le sussurrasse le parole giuste nel momento del bisogno. E invece non gli aveva mai confidato di come la trattassero i suoi compagni – compagni... magari! – se ne vergognava.
Più di una volta, aveva fantasticato su come sarebbero state le sue giornate se lo avesse tenuto al fianco, fisicamente.
Il trillo di Messenger la riportò con i piedi per terra. Si era lasciata trascinare dai pensieri della mente, solito! Rilesse velocemente l’ultimo messaggio di Ⱦhunder, in cui le diceva che aveva letto l’ultimo capitolo che aveva messo online e gli era piaciuto molto. “Bellissimo”, era stato l’aggettivo usato. Poi, aveva aggiunto che le aveva anche lasciato una recensione.

“Dopo passo a leggerla ;) Tu stai scrivendo il tuo?”
“Sì, ma non penso di finirlo entro stasera. Voglio rileggerlo per bene, è un passaggio importante”
“Ho capito”
“Vedi ke l’invito è sempre valido…”


Lo stomaco di Anita fece un nuovo tonfo, ma non di felicità, come quello precedente, bensì di paura. Ⱦhunder, da una decina di giorni oramai, si era messo in testa che voleva incontrarla di persona ma lei si vergognava da morire. Una cosa era parlargli attraverso uno schermo, un’altra faccia a faccia. Aveva il timore che, se l’avesse vista, la loro amicizia sarebbe terminata, che lui ci sarebbe rimasto malissimo. Non era bella, né attraente, e dal vivo, quando era agitata, le capitava di balbettare.
Se avesse perso l’unico amico che aveva cosa le sarebbe rimasto?

“Nn è il momento adatto” gli scrisse, sperando di farlo demordere.
“Lo so, me lo hai detto”
“Già…”
“Cmq dobbiamo vederci! Nn è possibile abitare nella stessa città e non incontrarci! Voglio spiegarti per bene xké Il Signore degli Anelli è migliore di quel romanzetto rosa ahahaha”


Anita sorrise, sapeva che lo diceva di proposito e rispose con una risata, poi sua madre la chiamò, informandola che “la cena è servita”, come amava affermare lei poiché era l’unica ad occuparsene.
«Sono la rumena di casa» si lamentava con sarcasmo.

“Devo andare a cenare. Dopo ci 6?” Gli chiese battendo velocemente le nocche sulla tastiera.
“Nn lo so. Forse esco cn degli amici”
“Ok”
“Vuoi venire? Ci sono anke delle ragazze…”


Quell’ultima informazione le provocò una punta di gelosia e preoccupazione. Era da stupidi, lo sapeva, essere gelosi di una persona che neanche conosceva. Per quel che ne sapeva, Ⱦhunder avrebbe potuto avere anche trent’anni e fingere di essere suo coetaneo. In Internet si trovava di tutto…

“No, grazie lo stesso :)”
“Ok, cm vuoi. Ciao Storm!”
“Ciao Ⱦhunder!”


Anita chiuse la conversazione e rimase qualche minuto a fissare il desktop con lo sfondo di Harry Potter, in compagnia di Hermione Granger e Ron Weasley. Quanto sarebbe stato bello se anche lei avesse degli amici come Harry e Ron lo erano stati per Hermione. Quanto si rivedeva in quella maghetta presa in giro da Draco e i suoi compari…
La voce della madre la richiamò, questa volta più forte. Anita rispose che arrivava, un attimo, quindi uscì dalla propria stanza e attraversò il lungo corridoio, fino a sbucare sull’uscio della cucina. Suo padre e sua sorella erano già accomodati al tavolo, ognuno seduto al proprio posto. La madre le posò un piatto davanti e si sedettero quasi all’unisono.
«Che stavi facendo?»
«Niente» rispose Anita, addentando una cucchiaiata di piselli e bocconcini di carne.
«Stava parlando con il fidanzato» ridacchiò sua sorella.
«Il fidanzato! Wow!» La prese in giro il padre.
«Non è vero!» Il volto di Anita si fece paonazzo, lanciando un’occhiataccia alla sorella minore che le sedeva di fianco. Quest’ultima ricambiò con una smorfia, mentre la mamma riprendeva entrambe, dolce e divertita.
«Guarda che non c’è nulla di male ad avere un fidanzatino alla tua età.»
«Lo so, ma non è così.» Anita guardò nel suo piatto, intristendosi.
«Non lo conosce neanche!» Continuò la sorella, masticando a bocca aperta.
«Alessia, mangia bene.» La rimproverò sua mamma.
Anita osservò di sottecchi la sorella: Alessia.
Alessia era l’esatto opposto di lei: vivace, allegra, espansiva, estroversa ed estrosa. Portava i capelli lunghi e lisci fino a metà schiena, con la riga al centro. Il viso era più magro del suo e baciato da alcune lentiggini sul naso e sugli zigomi; gli occhi verdi si muovevano veloci da un soggetto all’altro, contornati da folte ciglia che le donavano uno sguardo da principessa delle fiabe. Aveva appena due anni in meno e frequentava la prima liceo nel suo medesimo istituto. Un incubo per Anita, che si era così trovata a doversi sobbarcare il fardello di tenerla d’occhio i primi giorni e a sentirsi dire: è tua sorella? Siete così diverse!
“Già, completamente!” avrebbe voluto rispondere, invece calava il capo, metteva le cuffie e attraversava mezza scuola per raggiungere la propria classe.
Alessia era la classica bella ragazza che si faceva guardare e amava essere guardata. Indossava vestiti alla moda, scarpe alla moda, borse di tendenza e orecchini colorati. Sapeva truccarsi e si prendeva tutto il tempo che le occorreva per farlo bene. Più di una volta, si era proposta di sistemarla – questo era stato il verbo usato – poiché, sosteneva, tutte le ragazze sono belle. Devono solo sapersi acconciare. Ma Anita si era sempre rifiutata.
«Ma come cazzo ti vesti?» Le diceva una mattina sì e l’altra pure. «Sembri una sfigata!»
In effetti, Anita pareva scegliere al buio e ubriaca i panni da mettere. Un anonimo jeans, una felpa informe e monocolore d’inverno, oppure un pantacollant scuro e una T-Shirt d’estate. Le lenti tonde, dalla montatura verde, non si abbinavano mai al suo abbigliamento; i capelli sembravano una parrucca messa a posticcio. Alessia soffriva molto di questa sciattezza, avrebbe voluto davvero aiutare la sorella maggiore, perché sapeva che sotto quelle maglie di una taglia più grande, o quei jeans che non si portavano più, c’era un corpo asciutto e tonico, giovane, che chiedeva solo pietà. Regalo della genetica, probabilmente, dal momento che i loro genitori si mantenevano in forma, nonostante superassero entrambi i cinquant’anni e non praticassero sport. Inoltre, Alessia sembrava più alta, più slanciata, giacché sua sorella maggiore preferiva indossare abiti sformati che la ingrassavano e, soprattutto, non calzava mai tacchi, solo rigorosamente scarpette da ginnastica basse e senza marca.
Alessia aveva anche avuto il nome più bello tra le due, scelto con amore da mamma e papà, mentre il suo, Anita, era il nome della nonna paterna. Crescendo l’avrebbe apprezzato, forse, ma a 16 anni le creava un disagio non indifferente.
Dopo aver aiutato la mamma a sparecchiare, Anita tornò nella sua stanza.
Per prima cosa, controllò che non ci fossero nuovi messaggi al pc – e, in effetti, non ce ne erano, ȾhunderWhite era davvero uscito come le aveva annunciato – perciò uscì sul balconcino per recuperare i quaderni e i libri che aveva steso al sole quel pomeriggio. Per fortuna nulla di irrimediabile. Le pagine sarebbero risultate un tantino rigide, sbiadite forse, ma nulla di grave. Si sedette alla scrivania e sospirò, fissando per qualche secondo il monitor del computer, chiedendosi dove fosse il suo amico e con chi fosse, poi si obbligò a finire i compiti per il giorno seguente – sebbene la maggior parte li avesse già fatti – e a buttare giù qualche riga del racconto che stava scrivendo. Lo fece senza voglia, sforzandosi ogni poco di riportare la mente al presente, a ciò che stava facendo, evitando che si perdesse in voli pindarici senza ritorno.
Pippe mentali” le avrebbe definite Alessia, e a ragion veduta.


 
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Capitolo 3
*** Ȼapitolo Ⱦre “Տtefanito” ***



Ȼapitolo Ⱦre
“Տtefanito”
 
 
Stefano Parisi si guardò allo specchio per l’ennesima volta, acconciandosi il giubbotto di ecopelle sulle spalle e tirando su il colletto. Si passò le dita fra i capelli, rimettendo a posto un eventuale ricciolo ribelle che non ne voleva sapere si starsene al suo posto. Osservò la propria figura per intero e, finalmente soddisfatto, uscì dalla stanza, attraversando il breve corridoio fino alle scale che scese due a due, quasi saltellando.
«Io esco!» Annunciò, afferrando al volo le chiavi del motorino sul mobile all’ingresso, quindi aprì la porta e si fermò di colpo udendo la voce della governante che lo chiamava.
La donna, una peruviana che ormai lavorava presso la famiglia Parisi da prima che nascesse Stefano, si asciugò le mani sul grembiule e gli chiese dove stesse andando, la cena era quasi pronta e i suoi genitori sarebbero tornati a momenti, magari ai signori avrebbe fatto piacere stare un po’ in sua compagnia.
Stefano tornò indietro per lasciarle un leggero bacio sui capelli scuri, raccolti in una crocchia – il ragazzo però sapeva che erano lunghissimi, sfioravano il fondoschiena e, considerando che la donna non superava il metro e cinquanta, dovevano essere quasi la metà della sua intera altezza.
«Carmensita, tanto lo sai che tra un po’ uno dei due chiamerà per dire che ha avuto un contrattempo in ospedale.»
«I signori salvano vite» quasi volle giustificarli la peruviana, ma quando il telefono di casa squillò alzò gli occhietti marroni e dolcissimi su Stefano, il quale sollevò le spalle come a dire: visto, che ti avevo detto?!
Carmen “Carmensita” Viñales rispose alacremente al secondo squillo, bisbigliando pochi monosillabi prima di riattaccare. Si voltò verso Stefano, ancora fermo sullo zerbino, il portachiavi che roteava intorno all’indice e un sorriso sornione dipinto sul viso:
«La dottoressa o il dottor Parisi stasera? Chi ha avuto un’urgenza?»
«La señora» sospirò la governante, provando comunque a trattenere il giovane affinché aspettasse suo padre per cenare insieme o quantomeno mangiasse qualcosa prima di uscire.
Ma Stefano era già a cavallo del suo scooter – uno ZX - Dio grigio metallizzato che i genitori gli avevano regalato per i suoi 16 anni – intento a chiudere il casco mentre aspettava che il cancello automatico si aprisse quel tanto che bastava per lasciarlo passare. Carmensita rimase sulla soglia della bellissima villa dei dottori Parisi – cardiochirurgo lui, medicina pediatrica lei –, posta su una leggera collinetta dalla quale si poteva ammirare sia la Mole svettare sull’intera città, sia il Parco del Valentino che si estendeva proprio ai suoi piedi.
Carmensita scosse il capo con disappunto e tornò all’interno della casa, prendendo a sbrigare le sue mansioni. I pensieri però si alternavano tra ciò che aveva ancora da fare prima che rientrasse il padrone – a meno che non avesse chiamato anche lui per annunciare che si tratteneva in ospedale – e il piccolo Stefano, che tanto piccolo non era più.
Era un bravo ragazzo, il suo Stefanito, sempre rispettoso e affettuoso, a scuola aveva ottimi voti, eppure… eppure la donna lo vedeva spento. Sembrava condurre una vita a sé stante, completamente distaccata dai genitori.
E come dargli torto?
Era cresciuto praticamente da solo, certo, c’era sempre stata lei a fargli da balia, a imboccarlo, a metterlo a dormire, ad accudirlo quando aveva l’influenza; a portarlo all’asilo prima, poi alla scuola elementare, fino a quando non era cresciuto abbastanza da poterlo fare da solo. Non gli mancava nulla, economicamente parlando, veniva accontentato su ogni cosa.
Eppure gli mancava tutto.
Non aveva mai avuto dei veri genitori. Né un papà che lo portasse sulle giostre nei weekend, né una mamma che gli preparasse un brodino caldo quando ne aveva bisogno. Due genitori assenti, se non con il denaro.
Ma Carmensita Viñales sapeva che con i soldi non ci puoi comprare proprio tutto tutto nella vita. I sentimenti, ad esempio, quelli non si possono barattare, soprattutto se si tratta dell’amore di una mamma e un papà.
 

 
*
 
Stefano discese la collinetta a bordo del motorino e si immerse nella calma serale del capoluogo piemontese. Torino gli piaceva perché non era caotica, pur essendo una grande città. In pochi minuti raggiunse i suoi amici in piazza San Carlo, spense il motore e si tolse il casco, ravvivandosi i capelli con un gesto spontaneo. Il primo a raggiungerlo fu Fabio Morini, il quale sembrava avere per Stefano una specie di deferenza religiosa.
«Quanto sei bello!» Gli disse, dandogli un bacetto sulla guancia e passandogli un braccio intorno alla spalla, sebbene l’altro fosse molto più alto di lui.
Stefano sorrise e mentre insieme si avviavano al Mood – un luonge bar molto in voga tra i giovani – dove li attendevano il resto della comitiva, ne approfittò per chiedergli:
«Ce l’hai?»
«Ovviamente!»
«Dammelo!» Stefano stese un palmo.
«Eh?! Adesso?»
«Adesso.»
Fabio Morini arrossì, sembrava emozionato, mentre cercava qualcosa nelle tasche del giubbotto prima e dei jeans dopo. Quando finalmente trovò il foglietto di carta ripiegato a quattro lo passò all’amico. Quest’ultimo lo aprì, sghignazzò e lo richiuse.
«Hai in mente qualcosa di losco, lo so! Te lo leggo in faccia!» Fece ancora Fabio, su di giri pur non conoscendo il piano dell’altro.
«Diciamo che domani a scuola ci divertiremo un po’.» Concluse Stefano, facendo sparire il foglio nella tasca destra del giubbino di pelle scura, quindi salutò il resto della compagnia con strette di mano e baci sulle guance.
 
Barbara Scala era detta da tutti Barbie, perché era bella, aveva un fisico da fotomodella e morbidi boccoli biondissimi che le incorniciavano un viso di porcellana. Ma non era molto scaltra. Né intelligente. A scuola faticava a raggiungere la sufficienza e il suo unico pensiero pareva fosse l’estetica. D’altro canto, però, non aveva malizia. Non era una persona cattiva, aiutava quando poteva e si faceva abbindolare facilmente dal prossimo. Le piaceva essere guardata, stare al centro dell’attenzione, credere di essere tra le ragazze più popolari dell’istituto. E aveva un tallone d’Achille che praticamente conoscevano tutti, ma lei non sapeva che gli altri sapevano. Non era molto sveglia, appunto!
Barbara si allontanò dall’allegro gruppetto per accendersi una Merit e rimase qualche secondo a osservare l’incantevole piazza illuminata dalla luce soffusa dei lampioni. Sebbene fosse aprile inoltrato, la sera si alzava una leggera brezza che soffiava dalle Alpi e sembrava ripulire la città da tutti i fumi tossici che di giorno venivano rilasciati dalle fabbriche, rendendo l’aria decisamente più accettabile.
Stefano la raggiunse, chiedendole se avesse da accendere: aveva dimenticato l’accendino a casa. Barbie gli prestò il suo, arrossendo lievemente.
«Ti capisco, nascondere di fumare non aiuta. Per questo ho imparato a tenere l’accendino nel borsello dei trucchi che porto sempre dietro» spiegò lei, ignara del fatto che quella di Stefano era solo una scusa per parlarle.
«Io però non ho borselli per il trucco» scherzò lui e insieme risero, poi il ragazzo le porse l’accendino rosa shocking e inspirò la prima boccata di tabacco, sotto lo sguardo di lei, i cui occhi di un azzurro intensissimo brillavano.
Ma quanto era bello Stefano? Quei riccioli scuri e morbidi che gli ricadevano spettinati su tutta la testa, il viso dai lineamenti dolci, gli occhi con quel taglio appena allungato di un castano tendente al verde. E il fisico… spalle larghe, cosce piazzate, addome senza un filo di grasso. Ed era super intelligente, lo dicevano tutti. Anche i professori.
Stefano la guardò di sbieco e Barbara arrossì violentemente, muovendo con uno scatto secco il collo per volgere l’attenzione altrove. L’altro increspò le labbra in un ghigno che lei non notò: era il momento di affondare il colpo, ce l’aveva in pugno. Ovviamente!
«Stasera si sta proprio bene» cominciò, vago.
«S-sì» balbettò Barbara Scala. Da quanto tempo era innamorata di Parisi? Almeno tre anni, da quando avevano iniziato insieme il primo superiore.
«Senti Barbie, avrei un piacere da chiederti.»
La ragazza bionda si girò a guardarlo, stupita. Stefano non era tipo da chiedere favori agli altri, men che meno a lei, di solito accadeva il contrario.
«Si?»
«Tu in classe stai seduta dietro alla Lentini, giusto?»
«Si…»
Stefano sorrise con finto imbarazzo.
«Mi ricordo bene allora.»
Barbara sentì lo stomaco fare un doppio salto mortale: Parisi si ricordava dose fosse seduta in classe? Ma ciò significava che la guardava, la osservava mentre erano a scuola, a fare lezione, che lui… forse, chissà che…
«Barbie?»
«Eh?!» Lei sbatté le palpebre, tornando con la mente al presente. «Si?»
Stefano la scrutò, pensando che fosse un’oca senza cervello. Era stupida! La riteneva una delle persone più insulse che avesse mai conosciuto. Era bella, questo sì, una bellezza oggettiva avrebbe detto la sua professoressa di italiano, la Dell’Arco, ma insignificante. Sembrava un contenitore vuoto, decorato all’esterno ma senza niente dentro. Un soprammobile e basta.
«Domani, alla prima ora, dovresti mettere una cosa nello zaino della Lentini. Meglio ancora se nel libro di religione. Ci riesci?»
«Mettere cosa?» Per un momento il volto di Barbara si rabbuiò. Sapeva benissimo come la trattavano Stefano e i suoi accoliti alla povera Anita. Aveva sempre provato pena per lei, ma non aveva mai osato mettersi contro Stefano, il quale adesso le stava chiedendo una cosa che probabilmente l’avrebbe resa complice dei loro pessimi comportamenti.
«Ma niente! È solo uno scherzo per ridere un po’!»
«Non lo so Ste’, Anita mi sembra così indifesa.»
Stefano assottigliò lo sguardo. Accidenti, non credeva che quell’inetta avesse fatto obiezioni o messo in discussione il suo piano. Doveva affondare ancora meglio il colpo. Si lasciò cadere la sigaretta tra le dita e imprecò:
«Mannaggia! Era l’ultima!»
«Vuoi una delle mie?» Subito si fece avanti Barbara, che ancora teneva la sua a metà.
«No, dopo passo a comprarle. Grazie lo stesso.» Stefano si prese una pausa, prima di aggiungere. «Mi lasci solo fare due tiri dalla tua?»
Barbara “Barbie” Scala guardò prima la cicca fumante che teneva tra indice e medio, poi negli occhi di Stefano – Dio, era bellissimo! – quindi di nuovo la sigaretta, interdetta. Alla fine il ragazzo allungò la propria mano e le tolse la Merit tra le dita, con un gesto lentissimo e sensualissimo. Barbara sentì le nocche sfiorate da quelle di lui, un tocco ruvido e dolce, quindi lo osservò portarsi il filtro sporco di rossetto – il suo rossetto – alle labbra e inspirare a fondo. Un tiro più lungo del solito. Lo vide socchiudere gli occhi e bearsi quasi del sapore acre della nicotina. O forse stava assaporando il suo di…?
Barbara si fissò i piedi, il cuore le martellava nel petto e nelle tempie, la mente sembrava svuotata da ogni pensiero logico e insieme colma di tutti i pensieri del mondo. Aveva sentito dire che quando uno fuma dalla tua stessa sigaretta, oppure beve dalla tua stessa bottiglia, o ancora mangia dalla tua stessa forchetta, è come se ci si baciasse. Le labbra dell’uno si posano dove prima si sono posate quelle dell’altra e...  
«Grazie, Barbie» la voce profonda di Stefano Parisi la destarono dal turbinio di pensieri. Barbara si riprese la propria sigaretta, fissandola come il Santo Graal. Adesso, però, sarebbe accaduto l’inverso. Ossia sarebbe stata lei ad adagiare la bocca dove prima c’era stata quella di Stefano. Non ci riusciva, sentiva gli occhi di lui fissi su di lei e non riusciva a farlo. Era come spogliarsi nudi con qualcuno che ti osserva. Per questo motivo gliel’allungò di nuovo.
«Finiscila tu» disse senza guardarlo in faccia.
«Sei sicura?»
«Sì, sicurissima.»
«Grazie» ripeté Stefano, tornando a fumare. «Comunque, per quanto riguarda quello che ti ho chiesto prima, non fa niente, non ti preoccupare.» Il ragazzo attese che lei si proponesse, e quando si rese conto che non lo avrebbe fatto, poiché si era appena scusata, tentò il piano C. Altri non ne aveva. «Dopo chiedo a Giulia.»
Barbara spalancò gli occhioni azzurri. Giulia? Giulia Mazza? No! Giulia no! Era la sua compagna di banco solo perché i professori avevano deciso così. Non andavano molto d’accordo, e conoscendola di sicuro avrebbe accettato di aiutare Stefano solo per farle un dispetto. Inoltre, Giulia non si faceva scrupoli, si sarebbe venduta per una sigaretta o un caffè pagato. Una volta, alle scuole medie, aveva sentito che era stata sospesa per una settimana per aver picchiato un’altra ragazza che ci provava con il tipo che piaceva alla sua migliore amica.
Giulia Mazza avrebbe detto sì a Stefano e se poi tra i due fosse nata una bella amicizia che sarebbe sfociata in amore? Non poteva rischiare. In fondo, Stefano Parisi le aveva solamente chiesto di lasciare un foglietto nello zaino di Anita – nel libro di religione, precisamente – cosa diamine poteva contenere questo foglio di tanto pericoloso? Al massimo, ci sarebbe stato scritto un insulto alla quale la poverina era già abituata.
Alzò lo sguardo su Stefano che intanto stava spegnendo la sigaretta con la suola delle scarpe e quando fece per tornare indietro, diretto al Mood, Barbara lo fermò, annunciando che lo avrebbe fatto lei.
«Davvero?» Il volto di Stefano si illuminò in un sorriso di vittoria.
«Sicuro non sia nulla di pericoloso?»
«Non è una bomba carta, giuro!» Stefano le cinse le spalle con un braccio e insieme tornarono dai loro amici.
Barbara, detta Barbie, arrossì felice e con il cuore in tumulto.
Sì, Stefano Parisi era il suo punto debole. Lo sapevano tutti. Stefano compreso.  
 

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Capitolo 4
*** Ȼapitolo Ǫuattro “Ⱥ Ȼappella” ***


 
 
Ȼapitolo Ǫuattro
Ⱥ Ȼappella
 

 
Anita attese di sentire la porta d’ingresso chiudersi, segno che suo padre era uscito per andare al lavoro, e la casa tornò nel silenzio immobile del mattino. Prima che sua madre si alzasse sarebbe trascorsa mezz’ora almeno, perciò doveva sbrigarsi. Si levò dal letto e accese il computer, muovendo la gamba destra su e giù in un moto di nervosismo, mentre nella penombra della sua camera bisbigliava:
«Muoviti. Muoviti. Muoviti.» Simile a un mantra. Quel pc era sempre più lento nell’accensione, ormai aveva qualche annetto e lei lo aveva usato e rimpinzato di file come un tacchino il giorno del ringraziamento.
Voleva solo controllare se ȾhunderWhite le avesse lasciato un messaggio o aggiornato la sua storia. A volte lo faceva, si trovava messaggi che le aveva inviato di notte, mentre lei dormiva, e li leggeva solo di pomeriggio. Ma iniziare la giornata con un pensiero che Ⱦhunder aveva avuto per lei era ciò che di meglio poteva augurarsi. Considerando le lunghissime ore che l’attendevano in quella giungla di scuola.
Tuttavia, non c’era niente. Né un messaggio su Messenger, né un nuovo capitolo, ovviamente. La sera precedente le aveva detto che sarebbe uscito con gli amici (e delle amiche), perché mai avrebbe dovuto pensare a lei?!
Spense il computer, prima che sua madre la beccasse lì davanti: era contraria alla tecnologia, sosteneva che bruciasse il cervello e facesse diventare stupidi. Anita era riuscita a convincerla di comprargliene uno solo perché l’aveva persuasa che era ormai indispensabile per la scuola e lo studio. Che non era una bugia vera e propria. L’utilizzo interpersonale, con i forum e le chat, era arrivato dopo.
Sentì sua madre muoversi in cucina, riconobbe il rumore di acciaio della macchinetta del caffè e del pentolino per scaldare il latte, poi la voce del meteorologo che annunciava sole su tutta la penisola. Anita sospirò, fissando lo schermo scuro del monitor: un’altra giornata – di merda! – era appena cominciata!

 
*
 
Quella mattina Alessia aveva indossato dei pantaloni attillati strappati in più punti, mentre la parte superiore del corpo era coperta da un top fucsia che lasciava scoperta la pancia piatta e una giacchetta di jeans corta in vita. I capelli schiariti dal sole primaverile erano lisci e setosi, sembravano muoversi a ritmo con la camminata sinuosa della padrona. Anita, al suo fianco, pareva letteralmente surclassata dallo charme naturale della sorella minore. Aveva indossato la stessa felpa del giorno precedente e un jeans informe e troppo largo sulle gambe. Come al solito, ascoltava musica dalle cuffie per evitare di sentire le chiacchiere puerili di Alessia, ma notando il capannello di ragazzi proprio davanti ai cancelli della scuola si tolse le auricolari e spense il lettore mp3, riponendolo al sicuro nella tasca anteriore della maglia. D’istinto le spalle s’ingobbirono e il passò accelerò, sperando vivamente che Fabio Morini e Stefano Parisi non cominciassero già a infastidirla. E, in un certo senso, non lo fecero, semplicemente tacquero al suo passaggio, ma non a quello della bella Alessia. Fabio fischiò di apprezzamento squadrando quest’ultima da capo a piedi:
«Ehi, Lentini, non mi presenti questo angelo caduto dal cielo?!»
Alcune risatine si levarono dall’allegro gruppetto di compagni. Alessia rallentò, voltandosi indietro e sorridendo:
«Attento! Non sono un angelo» lo provocò.
«Ah, no? Allora sei un diavoletto?» Continuò Fabio.
«Chissà…» fece ancora Alessia, quando si sentì afferrare per un braccio e strattonare in avanti in maniera non proprio delicata.
«Ma sei scema?!» Anita le parlò all’orecchio con toni bassi e perentori, trascinandola con sé all’interno dell’istituto Ferraris.
«Ma che vuoi?!» Alessia si liberò dalla presa, infastidita. «Sei pesante! Non erano amici tuoi quelli?»
«Non ho amici io!»
«E ci credo!» Esclamò ancora la più piccola delle due, poi la campanella trillò, invitando gli studenti a raggiungere la propria sezione.
Anita sospirò, dividendosi dalla sorella e osservando la rampa di scale che la separavano dalla sua classe. Gli altri alunni scemavano intorno a lei, in risate chiassose e saluti gridati. Avrebbe voluto trovarsi ovunque, tranne che lì. Aveva una brutta sensazione, come se qualcosa stesse per succedere, ma non le diede peso: in fondo cose sgradevoli le capitavano tutti i giorni da quando era diventata la preda preferita di quel gruppo di iene. Perciò inforcò le auricolari e prese a salire i gradini lentamente, rasentando il muro, la testa china.
La prima anomalia che registrò entrando in classe, fu vedere Stefano Parisi che chiacchierava con Barbara Scala amichevolmente. Troppo amichevolmente. E Barbara era completamente in estasi. Le stava passando in sordina un foglietto bianco, ripiegato, attento a non farsi notare dagli altri, poi lo vide chinarsi in avanti per sussurrarle qualcosa all’orecchio, senza tuttavia lasciare la presa sul pezzo di carta. Lo fece solo quando lei annuì più volte a qualcosa che lui le stava chiedendo. Era arrossita la splendida Barbara, dall’attaccatura dei riccioli biondi alla scollatura della t-shirt che indossava.
Che le stesse dando il suo numero di cellulare? O era un invito galante?
Anita intercettò lo sguardo di Giulia Mazza seduta al banco con Barbie, ma non riuscì a decifrarlo, soprattutto perché non erano in confidenza (d’altronde non lo era con nessuno). Poi il professore di religione entrò, ordinando a tutti di prendere posto. Solo allora Stefano si voltò per tornare al proprio banco e, nel farlo, la guardò – Anita era ancora ferma sulla soglia della porta – strizzandole l’occhio come faceva spesso, in un gesto di sfottò, e lei intuì che aveva architettato qualcosa.
«Signorina Lentini, vuole rimanere sull’uscio quest’oggi?»
Anita si scusò con il docente e si accomodò al proprio posto, con tutti i sensi in allerta. Pensò di svuotare la borraccia dell’acqua in bagno prima che lo facessero gli altri nella sua borsa; soppesò anche l’idea di mangiare i suoi cracker per evitare che Fabio li sgretolasse con un piede. Stava pensando a questo, e a tante altre cose, quando il professore si sistemò alla cattedra e, dopo aver fatto l’appello e recitato un Padre Nostro – il docente era anche un sagrestano della parrocchia della Santissima Addolorata –, disse loro di aprire il libro a pagina 56.
Anita pescò il libro di religione senza voltarsi indietro, ma torcendo il braccio e infilando la mano nello zaino. Lo riconobbe a tentoni, essendo il più sottile di tutti, così lo tirò fuori e un foglio volò ai piedi della scrivania dell’uomo di chiesa.
Un silenzio tombale calò nella classe, mentre il professore si alzava in piedi e si accostava al pezzo di carta caduto dalle pagine del libro. Anita scattò dalla sedia e si affacciò oltre il banco, sbiancando. Il resto della classe la imitò, troppo incuriositi da ciò che ritraeva l’immagine sul foglio.
«No!» Disse solo la ragazza, provando ad arrivare al foglietto prima del docente, però, nel tentativo goffo dettato dalla fretta, fece per inciampare, riuscendo a sorreggersi allo schienale della sedia un attimo prima di ruzzolare sul pavimento. Intanto, le risate e gli sfottò non si contavano più. Era scoppiato il finimondo!
Gli occhi verdastri e spauriti di Anita incontrarono quelli irridenti di Stefano Parisi, che sghignazzava sotto i baffi, con la sua solita aria soddisfatta, mentre Fabio era rosso in viso a causa delle risa trattenute e poi esplose. Solo Stefano non rideva, ma lui non lo faceva mai. Sghignazzava, sorrideva sornione, sembrava sfidarla con lo sguardo, ma non rideva mai di gusto agli scherzi idioti che progettava.
Allora Anita capì: il foglietto che Parisi aveva passato a Barbara non era il suo numero di telefono o un invito formale a uscire con lui. Era qualcosa che le doveva mettere nello zaino. Voltò l’attenzione sulla ragazza bionda, che ora pareva dispiaciuta e desolata. La vide formulare un “mi dispiace” con le labbra imbrattate di rossetto rosa e Anita la detestò.
«Signorina Lentini!» Tuonò il professore. «Che cosa ha in testa?» Il sagrestano appallottolò il foglio, rosso in viso, urlando a tutti di fare silenzio! Di stare zitti!
«Professore, non so come quel foglio sia finito nel mio libro» cercò di discolparsi Anita, tornando a sedersi.
Che vergogna, intanto pensava. Che vergogna! E se il professore non l’avesse creduta e avesse telefonato ai suoi genitori? Che vergogna!
«Io non lo so se è davvero suo o di qualcun altro! Ma il libro, certo, è il suo!»
«Professore, forse la Lentini voleva solo approfondire lo studio della cappella» intervenne Stefano, sollevando un’altra ondata di ilarità fra i compagni e di nuovo il professore fu costretto ad alzare la voce.
Anita strinse i pugni sotto al banco, con la testa bassa, piena di imbarazzo e di timore che sarebbero stati avvertiti i suoi. Le avrebbero creduto? Suo padre sicuramente, ma sua madre? E se le avesse tolto il computer credendo che avesse preso quella foto volgare dalla rete? Come avrebbe fatto poi a chattare con Ⱦhunder? A scrivere e pubblicare la sua storia? Doveva difendersi, non poteva permettere a Stefano di influenzare anche la sua vita privata, oltre a quella scolastica. Non gli avrebbe permesso di mettere a rischio la sua amicizia con Ⱦhunder, seppur involontariamente.
«Forse l’approfondimento della cappella interessa più a te, visto che il foglio è il tuo» bisbigliò lei, stringendo i pugni così forte da far sbiancare tutte le dita.
«Come?» Stefano sollevò una mano per zittire le risate sguaiate di Fabio e degli altri, cosa che neanche il docente era riuscito a fare.
«Ho-ho detto che forse l’approfondimento della cappella interessa te, visto che il foglio è tuo e non mio» ripeté Anita e poiché non sentì alcun insulto arrivare dal gruppetto di bulli, si azzardò a sbirciare nella loro direzione, incrociando lo sguardo divertito di Stefano che le indirizzò subito un bacetto con le labbra, accompagnato da un occhiolino.
«Signorina Lentini, sono costretto a metterle una nota e far presente la situazione al preside. Sarà lui a decidere se avvertire i suoi genitori» aggiunse il docente, tornando a sedersi alla scrivania.
«No, professore, per piacere! Quella cosa non è mia, non sono stata io a…»
«Lentini!» L’uomo di chiesa batté un palmo sulla superficie della cattedra e la guardò fissa negli occhi. «Cosa ci insegna Gesù?» Anita chinò il capo e non rispose, sull’orlo delle lacrime. Perché finiva sempre così? Perché doveva passare lei per la cattiva?
«Cosa ci insegna Gesù?» Questa volta il professore di religione si rivolse al resto della classe.
«A porgere l’altra guancia» rispose Stefano, prendendosi un bravo dal docente e una pacca sulla schiena da Fabio.
Barbara Scala si sentiva tremendamente in colpa, dunque si sporse in avanti e allungò una mano per sfiorare la spalla di Anita, la quale si scostò con rabbia, mentre l’altra le chiedeva scusa.


 
*
 
Quando Giovanna Dell’Arco entrò nella sala professori, vide che alcuni di loro erano chini su un angolo del lungo tavolo a parlottare, ridacchiare e fare battutine inappropriate. Perfino il preside, un uomo sulla sessantina, era tra questi. Incuriosita, lasciò le sue cose su una sedia e si avvicinò, sbirciando al di sopra della spalla del professore di matematica e di quello di religione, l’unico seduto alla scrivania. Solo allora notò un pezzo di giornale strappato, evidentemente preso da uno di quei giornaletti hot da quattro soldi, che ritraeva una donna di spalle nell’atto di praticare del sesso orale a un uomo accomodato su di un divano, di cui non si vedeva la faccia poiché la foto si concentrava dall’addome (scolpito e oliato) in giù.
«Ma che cos’è?» Chiese, afferrando il foglio e osservando nel dettaglio la scena.
«Te lo dobbiamo spiegare?» Scherzò il professore di matematica, beccandosi un’occhiataccia dalla docente di italiano. Nessuno rise.
«L’ho sequestrato alla Lentini. Ci crederesti mai?» Fece il sagrestano, chiedendo poi al preside se fosse il caso di avvertire la famiglia.
«No» intervenne prontamente la Dell’Arco. «Signor preside, la studentessa in questione è un’alunna modello, ma sta attraversando un periodo difficile. Alcuni compagni l’hanno presa di mira e molto probabilmente questo foglio non è veramente suo. Sarà stato un altro stupido scherzo dei ragazzi della classe.»
«La Lentini deve imparare a difendersi da sola. Se vogliamo aiutare tutti gli studenti in difficoltà, andiamo al manicomio» fece il professore di matematica, con superficialità.
Giovanna Dell’Arco non diede peso alle sue parole, sapeva di non potersi aspettare nulla da lui: un uomo poco empatico che si era ritrovato a fare l’insegnante per una serie di ragioni che non aveva scelto.
«Quindi, professoressa, lei cosa propone?»
«Ho carta bianca, signor preside?»
«I ragazzi di oggi non hanno regole! Vanno indottrinati!» Esclamò il docente di religione.  Ma di nuovo Giovanna non badò alle parole di un collega, tenendo gli occhi fissi sul preside e il foglietto stretto nelle mani.
«Faccia che vuole, ma non mi crei problemi!» furono le ultime famose parole del massimo dirigente dell’istituto Ferraris.
 
La professoressa di italiano Giovanna Dell’Arco si recò a grandi falcate nella classe di Anita Lentini, bussò con le nocche sulla porta per annunciarsi ed entrò. Elia Morales, l’insegnante di spagnolo, era adagiato con il bacino al bordo della cattedra e stava leggendo un testo con i suoi alunni. La guardò con aria perplessa e ammirata. Giovanna aveva un’aura solenne che le donava una compostezza di rara bellezza. Indossava una corazza impenetrabile, forse per proteggersi dagli altri o dai colleghi che alle sue spalle tendevano a prenderla in giro.  
«Giovanna» Elia Morales tornò in posizione eretta. «È successo qualcosa?»
«Sì» disse la donna, acconciandosi un ricciolo color rame che era sfuggito alle forcine, quindi si mosse in direzione della lavagna e con una puntina attaccò il pezzo di giornale alla cornice di legno, in modo che fosse ben visibile a tutti. Elia si allarmò, arrossendo come un ragazzino:
«Giova… professoressa Dell’Arco, ma che cosa-»
Giovanna lo fermò mostrandogli un palmo, poi si rivolse alla classe.
«Lo riconoscete?»
Calò il silenzio. Anita Lentini, da sola al primo banco, chinò il capo. Barbara, alle sue spalle, tentò di nascondervisi dietro, mentre Giulia Mazza sbadigliava. Anche Stefano Parisi provò a scomparire, lasciandosi scivolare sulla sedia. Fabio, seduto accanto a lui, divenne improvvisamente serio, imprecando in un sibilo.
Giovanna Dell’Arco non era l’inetto di religione, né il professore di matematica che teneva la sua lezione e arrivederci e grazie. Né tantomeno il docente di spagnolo, fin troppo amichevole con i suoi alunni. Giovanna Dell’Arco era una professoressa vecchio stampo, tutta d’un pezzo, che li ammorbava da anni con i valori morali degli autori che spiegava, dei diritti dell’essere umano che non andavano mai violati, delle guerre tutte ingiuste e dei tanti uomini e donne che erano morti per un ideale. Li avrebbe sfiniti con domande stile interrogatorio fino a carpire come quel foglio fosse finito in quella classe e nello zaino della Lentini. Inoltre, Barbara Scala avrebbe confessato in lacrime, Stefano ne era sicuro.
«Allora?» Li incalzò l’insegnante, battendo la punta di una penna sull’immagine. Ancora silenzio assoluto e imbarazzato. «Niente? Nessuno sa dirmi come si chiama questo atto?» I presenti non ebbero il coraggio di alzare lo sguardo o rispondere. «Bene, allora per domani mi farete una ricerca sull’argomento» concluse la docente, pronta a riprendersi il foglio, quando Giulia Mazza sbottò:
«Io ‘ste schifezze non le faccio!»
Giovanna si voltò a guardarla:
«Prego?»
«Diglielo, Barbie! Di’ la verità!»
Barbara Scala avvampò, fissando male la sua compagna di banco e scuotendo il capo con veemenza.
«È stata lei, professorè!» Continuò Giulia, indicando la bella ragazza bionda alla sua destra. «È stata lei a mettere il foglio nel libro della Lentini, costretta da Parisi!»
«Ehi!» Stefano batté un palmo sul banco.
«Ma che stai dicendo! Stai zitta, scema!» Fabio Morini balzò in piedi, facendo cadere la sedia sul pavimento e urlando in direzione di Giulia Mazza, con un braccio proteso in avanti.
«Forse non vi è chiaro» fece la professoressa di italiano, il tono calmo e austero. «Io non vi ho chiesto di chi è questo foglio o chi l’ha messo nel libro di chi. Io vi ho chiesto di fare una ricerca inerente al gesto ritratto qui» così dicendo sventolò il foglietto. «Sarete stupiti di scoprire la storia che può esserci dietro a un atto tanto antico.» S’incamminò verso la porta, poi si fermò e aggiunse: «Ah, ricordatevi che questo compito farà media coi voti.»
Dalla classe si levò un no contrariato, sbuffato.
«Professoressa, posso parlarle un momento» Elia Morales abbandonò il libro di letteratura spagnola sulla scrivania e si mosse nella direzione della donna, la quale tuttavia scosse la testa.
«No, mi dispiace, per oggi ho finito e ho degli impegni. Buona lezione!» Uscì, lasciando il giovane professore di stucco e con l’ingrato compito di placare gli animi degli alunni.


 
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Capitolo 5
*** Ȼapitolo Ȼinque “Տospesi” ***


 
 

Ȼapitolo Ȼinque
“Տospesi”


 
Il primo genitore a presentarsi a scuola la mattina seguente fu la signora Mazza, mamma di Giulia Mazza, pronta e agguerrita a dare battaglia alla professoressa di italiano per il compito che aveva assegnato per casa.
Al quinto genitore che si presentò infervorato dinnanzi al preside, e dopo un numero imprecisato di telefonate che avevano minacciato di denunciare l’istituto e la docente in questione, l’uomo richiamò Giovanna Dell’Arco urlandole e imprecandole contro.
La professoressa ascoltò in silenzio il rimprovero, provando a spiegare le motivazioni che l’avevano spinta a un tale atteggiamento, ma il direttore non volle sentire ragioni, semplicemente si atteneva ai fatti e i fatti dicevano che lei aveva assegnato una ricerca inaccettabile per dei ragazzi minorenni in un istituto di prestigio come quello.
«Il mio intento era far capire che un determinato comportamento può avere delle ripercussioni sull’intera società.»
«Lasci queste spiegazioni comuniste al di fuori del suo lavoro!»
«Signor preside, non credo che questo modo di fare possa aiutare i ragazzi a comprendere il male che stanno compiendo alle spalle di una sola alunna. E i genitori dovrebbero sapere che, molto probabilmente, ciò che hanno insegnato ai propri figli è sbagliato. Se io avessi un figlio e sapessi che tormenta una compagna, io lo-»
«Ma non ce l’ha!» Sbottò il preside, scusandosi un momento dopo per ciò che aveva appena detto. Sapeva che l’aveva ferita e non era sua intenzione farlo.
«Non deve scusarsi» disse Giovanna, irrigidendosi. «È un dato di fatto.»
«Sono costretto a sospenderla per una settimana» concluse l’uomo, togliendosi gli occhiali da vista e strofinandosi la fronte. Erano le undici del mattino ed era già stanchissimo.
«Posso andare?» Domandò la professoressa, senza alcuna inclinazione nella voce.
«Sì, sì può andare» il preside la guardò, realmente rammaricato. «Mi dispiace, Giovanna, so che l’ha fatto in buona fede, ma non possiamo salvare il mondo. Siamo dei semplici insegnanti.»
«Le auguro buona giornata, signore» così dicendo la professoressa lasciò la presidenza e si diresse nell’aula professori. Aveva voglia di piangere, di chiudersi da qualche parte e urlare. Ma per adesso doveva mantenere un atteggiamento dignitoso, a casa si sarebbe potuta anche ubriacare e fumare tutte le sigarette che voleva. Tanto tutti i suoi impegni erano stati cancellati in un colpo solo. Le venne in mente l’immagine di un’onda che travolge un castello di sabbia e la voglia di piangere le pizzicò la gola.
Per fortuna, la sala comune era vuota. A quell’ora i suoi colleghi o erano a fare lezione o imbottigliati nel traffico cittadino. Stava raccattando le sue cose, quando entrò Elia Morales.
«Com’è andata?» Le chiese, consapevole che l’inflessibile e professionalissima Giovanna Dell’Arco era stata convocata in presidenza con la massima urgenza. Lo sapeva tutto l’istituto a dire il vero.
«Sospesa» rispose lei, evitando di guardarlo in faccia.
«Mi dispiace.»
«Sì, stamattina sembrate tutti dispiaciuti per me» la docente di italiano mise un paio di registri nella sua borsa e il resto dei libri li tenne in braccio, pronta a lasciare la stanza.
«Giovanna, io voglio veramente aiutarti con i ragazzi» aggiunse Elia, provando a sfiorarle un polso per fermarla.
«Allora inventati qualcosa!» Così dicendo uscì.
 
*
 
“Ciao Storm!”
“Ciao Ⱦhunder!”
“Finalmente riusciamo a parlare! Sn stato impegnato cn la scuola. E tu? Tt ok il lavoro?”
“Tt ok, adesso sn più libera”
“Nn mi hai ancora detto in ke giorni sei libera ;-)”

 
Anita provò vergogna. Gli aveva mentito fin dal primo momento, da quando avevano iniziato a parlare. D’istinto, senza un motivo reale, gli aveva scritto che lei lavorava e che aveva vent’anni.
In realtà, il motivo per cui lo aveva fatto le era chiarissimo: aveva avuto paura. Quando Ⱦhunder le aveva scritto che frequentava la terza liceo, Anita aveva temuto che se gli avesse riferito che aveva la sua stessa età, lui avrebbe cominciato a indagare per capire quale scuola frequentasse e magari l’avrebbe anche individuata, presentandosi di punto in bianco davanti ai cancelli. E, semmai fosse accaduta una cosa del genere, con Stefano Parisi e Fabio Morini nei paraggi, non riusciva neanche a immaginare quello che sarebbe potuto succedere. Perciò, aveva preferito dirgli che era più grande e che già lavorava, ma non sempre, solo nei weekend. Il problema era che Ⱦhunder non si era arreso, aveva cominciato a chiederle dove lavorasse, sarebbe potuto passare a salutarla, avrebbero potuto prendere un caffè insieme, conoscersi di persona.
 
“Io nn bevo caffè” era stata la risposta di Anita.
“Un tè?”

 
Anita aveva riso, prima di scrivere:
 
“E sn più grande di te”
“E allora? Mica ci dobbiamo sposare! È solo per vederci e parlare dal vivo! Mandami una foto, almeno”
“Nn ne ho sul pc”


E, almeno questa, era la verità. Anita non aveva foto sue né sul computer né in generale. Per una persona che non si piace, come lei, figuriamoci se amava le fotografie. E foto di lui non gliene aveva mai chieste. Non le interessava sapere come fosse fisicamente, le bastava andare d’accordo, aver trovato un amico sincero con cui chiacchierare e condividere passioni.
Mentre chattava con ȾhunderWhite, l’occhio le cadde sulla ricerca che aveva svolto il pomeriggio precedente inerente alla storia del sesso orale. La professoressa d’italiano aveva detto che la voleva per quella mattina, e lei, da brava studentessa qual era, aveva eseguito il compito, provando una vergogna infinita mentre scriveva determinati termini, pregando che sua madre non entrasse nella camera in quel momento – né sua sorella, se è per questo – intanto che parlava con il suo amico. Anche in quel caso, le sarebbe piaciuto da morire confidarsi con lui su ciò che stava facendo, sicuramente avrebbero riso come due matti (conoscendolo, avrebbe scritto tante di quelle battute a doppio senso che l’imbarazzo per l’argomento sarebbe scomparso). Invece, era obbligata a rimanere in silenzio assoluto, questo perché non era stata sincera fin da subito con lui sulla sua età e su ciò che faceva nella vita.
E per quale motivo?
Aveva paura che Ⱦhunder vedendola sarebbe fuggito a gambe levate, e allora avrebbe significato che era un ragazzo superficiale. Eppure lei lo conosceva (giusto?), e non lo considerava un tipo frivolo, come lo erano i suoi compagni di classe, tanto per fare un esempio.
A tal proposito, pensò a Stefano Parisi. L’unico, oltre a lei, ad aver fatto la ricerca e ad averla anche sventolata con grande orgoglio davanti a tutta la classe. Quando quella mattina la Dell’Arco si era seduta alla cattedra, chiedendo che le consegnassero il compito assegnato loro per casa, gli alunni presenti erano rimasti ammutoliti. Solo Stefano si era alzato in piedi, con tanto di foglio protocollo e un sorriso a trentadue denti, affermando che aveva davvero imparato tanto da quella ricerca. Aveva poi lasciato il compito sulla cattedra e aggiunto che la scuola avrebbe dovuto soppesare l’idea di introdurre un paio d’ore a settimana di educazione sessuale. La professoressa lo aveva rimproverato con lo sguardo, ma non c’era stata rabbia nei suoi occhi, quindi lo aveva invitato a tornare al suo posto e di smetterla di fare il simpatico.
«Allora? Nessuno più?» Aveva chiesto poi. Anita stava per alzarsi, ma la porta della classe si era aperta e la docente era stata invitata dalla collega di storia dell’arte a raggiungere il preside. Per quella giornata l’avrebbe sostituita lei.
Barbara Barbie Scala l’aveva guardata tutto il giorno con l’aria afflitta, sembrava sempre sul punto di volerle dire qualcosa, per poi cambiare idea all’ultimo momento. Chissà, forse voleva solo scusarsi. L’odio che aveva provato nei suoi confronti il giorno prima era già scemato. In un certo senso credeva di capirla: era innamorata pazza di Stefano dal primo anno delle superiori, lo sapevano tutti, perfino lei che non aveva confidenza con nessuno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto e, difatti, così era stato. Anita si era sempre chiesta perché quei due non stessero insieme. Lei era la classica bella ragazza, mezzo istituto le andava dietro. Lui… certo, tutto poteva dirsi di Stefano tranne che fosse brutto. Stronzo, manipolatore, ma brutto no. E neanche stupido. Forse gli piacevano le ragazze meno frivole, più diligenti, e Barbara sembrava uscita da un cartone animato!
Il trillo di Messenger la riportò con la testa a ciò che stava facendo, ossia parlare con Ⱦhunder.
 
“Storm, vado a cenare”
“Ok”
“Dopo ci sei?”

 
Ad Anita brillarono gli occhi e si sbrigò a scrivere di sì, c’era.
 
“Allora ci bekkiamo più tardi. Ho una scommessa da fare cn te”
“Una che? Io nn faccio scommesse con nessuno”
“La farai cn me, baby ;-)”

 
Furono le ultime parole scritte da Ⱦhunder, prima che mettesse il suo stato “in attesa”.
Anita arrossì lievemente e provò una morsa alla bocca dello stomaco: quando la chiamava baby avrebbe tanto voluto che lo facesse di persona, mentre erano seduti su una panchina, al cinema, o a passeggiare mano nella mano lungo il Po.
 

 
*
 
Giovanna Dell’Arco ingollò l’ennesimo sorso di liquore scadente comprato al discount sotto casa e aspirò profondamente dalla Winston Blue che stava fumando. Non le piaceva sentirsi così, lo detestava. Fragile e vulnerabile, come quella volta che aveva scoperto di essere stata tradita dal suo fidanzato. Quel pezzo di merda con cui aveva condiviso tredici anni della sua vita, che si era inginocchiato davanti alla Torre Eiffel chiedendole di sposarla e poi, una settimana dopo, l’aveva trovato a scoparsi un’altra. Nel loro letto. Nel loro appartamento. Il quale, ovviamente, non era lo stesso in cui abitava adesso.
Giovanna scrollò la sigaretta nel posacenere sul tavolino, accavallando le gambe snelle e fissando lo sguardo sulla città che si dipanava dinnanzi ai suoi occhi. Si era coperta le spalle con un vecchio scialle appartenuto a sua nonna. La sua adorata nonnina di cui portava il nome. Ormai non le faceva più caldo perché era consunto dal tempo e dai tanti lavaggi, ma le scaldava il cuore e lo spirito, come amava credere. Lì, sul piccolo terrazzino al sesto piano di uno stabile degli anni ’80, un tempo abitato soprattutto da operai e metalmeccanici proveniente dal sud del Paese, soffiava una leggera brezza proveniente dalle montagne a nord. Era piacevole, schiariva la mente, ma sarebbe dovuta rientrare se non voleva svegliarsi il mattino seguente con la gola in fiamme e il torcicollo. Non aveva più l’età per… sospirò, per tante cose.
Schiacciò la cicca nella ceneriera e si alzò, solo allora notò un giovane che sul marciapiede di fronte si guardava intorno con aria spaesata. Somigliava maledettamente al professore di spagnolo, ma perché Elia Morales sarebbe dovuto essere lì, con il fare di chi non sa neanche dove si trova e cosa stia facendo?
Giovanna si affacciò al balconcino, tenendosi alla ringhiera, chiamandolo più volte, fin quando lui non alzò il capo e sorrise sollevato.
«Giovanna, apri! Devo dirti una cosa.»
Il cuore della docente ebbe un sussulto: farlo entrare in casa sua? A quell’ora? Se lo avessero visti i vicini avrebbero parlato per anni del suo comportamento inappropriato. Già, inappropriato. Era curioso come il giorno prima avesse detto ai suoi alunni di fare una ricerca sui… (“chiamiamoli per ciò che sono”, pensò) pompini e adesso si preoccupava dei pregiudizi del vicinato.
«Non credo sia il caso, Elia.»
«Ma ho avuto un’idea per aiutare la Lentini» la verve del giovane insegnante parve sgonfiarsi all’improvviso quando vide la collega rientrare in casa e chiudere le ante del balcone, per poi riaccendersi d’un colpo sentendo il classico click metallico di un portone che viene aperto.
 

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Capitolo 6
*** Ȼapitolo Տei “Տcommettiamo?!” ***




Ȼapitolo Տei
 “Տcommettiamo?!”


 
 
 
«PAAALLAAA!!!»
Urlò qualcuno un attimo prima che il pallone la colpisse in pieno volto.
«Che sfigata!» Ridacchiò Fabio, piegato sulle ginocchia per prendere fiato.
Anita si ritrovò con il sedere sul pavimento di PVC scuro della palestra della scuola, stordita e confusa. Vedeva doppio poiché gli occhiali le si erano spostati a causa del colpo ricevuto.
«Stai bene?» Barbara “Barbie” Scala l’aiutò a rialzarsi aggiustandole le lenti sul naso.
«Ehi, quattrocchi, hai il culo sporco!» Questa volta alla battuta di Fabio risero anche altri liceali, tra cui Stefano Parisi.
«Smettila Fabio!» Barbie lo guardò male, realmente dispiaciuta per la compagna che intanto tornava al suo posto spolverandosi distrattamente le chiappe. «Potevi romperle gli occhiali e farle male!»
Fabio Morini sollevò le spalle, lasciando intendere che la cosa non lo interessava. Giulia Mazza, in squadra con lui, si aggrappò alla rete di pallavolo e accennò un ghigno malizioso verso la biondissima Barbie, sua vicina di banco:
«Guarda che ce n’è anche per te» disse.
Barbara le fece una smorfia e trottò al suo posto, lanciando un sorriso mesto ad Anita che, tuttavia, non ricambiò. Da quando era accaduto il fattaccio del foglio hot, l’atteggiamento di Barbara nei suoi confronti era mutato. Molto probabilmente si sentiva in colpa, sia perché si era resa partecipe di un episodio di bullismo, sia perché aveva avuto delle ripercussioni a livello più ampio, ossia la sospensione della professoressa Dell’Arco.
Intanto, Elia Morales batteva le mani per richiamare all’ordine i suoi alunni e annunciare che la pausa era finita, poi guardò di sottecchi la collega di italiano, la quale a sua volta lo fissava a braccia conserte e l’aria desolata: il loro piano non stava funzionando.
Anita Lentini si scostò il ciuffo di capelli dietro l’orecchio, mettendosi in posizione. Non era arrabbiata con Fabio – sebbene da quando fosse iniziata la partita non aveva fatto altro che prenderla a pallonate – o con il resto della classe. Quei risolini li conosceva bene, giorno dopo giorno ci stava facendo il callo (la cosa peggiore era proprio il fatto che si stava abituando a quella routine, quando invece avrebbe dovuto ribellarsi). Se non riusciva a respingere i colpi di Fabio era anche colpa sua, poiché erano sì schiacciate volte a metterla in difficoltà, ma non precise o imprendibili per una che se la cavava bene in quella disciplina, avendo frequentato per anni il corso di pallavolo. Poi, crescendo, non era più riuscita a conciliare gli allenamenti con lo studio e fra i due aveva sacrificato i primi.
Fabio, invece, era una vera schiappa in quello sport – così come Barbara, per dirne una! –, lo si capiva dalla posizione di braccia e gambe, dai movimenti scoordinati. Dunque, se non riusciva a controbattere tutti i palloni che Morini le indirizzava, e comunque parecchi di quelli era riuscita a trasformali in ottime occasioni di punto, la colpa era solo sua. Era distratta da un pensiero che dalla sera prima non la lasciava in pace, ma tornava a riaffacciarsi nella mente nei momenti meno opportuni: Ⱦhunder le aveva fatto scommettere che se fosse stato promosso a pieni voti lo avrebbe incontrato. Non era stata una richiesta schietta e diretta come le precedenti, dalle quali era sempre riuscita a sgusciare via, simile a un girino. No, questa volta era una specie di sfida, un azzardo divertente. Anita aveva comunque tentato di evitarlo, scrivendo all’altro che un giorno si sarebbero conosciuti di persona, ma addirittura scommettere le sembrava un’esagerazione. Ⱦhunder, però, sapeva essere convincente e l’aveva fatta sembrare una cosa lontana, quasi irrealizzabile, giacché la sua promozione era in bilico.
 
“Così avrò un motivo in più per impegnarmi a scuola”
“Mi stai dicendo ke sono responsabile di una tua eventuale bocciatura?”
“Sì” 
 
   
 
Così, alla fine, Anita aveva dovuto accettare e adesso non riusciva a pensare ad altro. Come se non bastasse, il professore di spagnolo quel giorno aveva avuto la brillante idea di inscenare una partita di pallavolo senza un motivo apparente. La vera sorpresa, tuttavia, era stata la presenza della professoressa Dell’Arco, sospesa per una settimana a causa di quella ricerca sul sesso orale.
Elia Morales aveva presentato la partita come un’opportunità di crescita collettiva e aggregazione, così lui e Giovanna avevano diviso gli alunni in due squadre, i cui membri evidentemente non erano stati decisi a caso. Separare Stefano Parisi da Fabio Morini, ad esempio, era stata una scelta ponderata. Eppure, a nessuno dei ragazzi venne in mente che tutto quello era stato organizzato per la questione bullismo nei confronti di una compagna di classe, anche perché stavano continuando a prenderla di mira. Non a caso, per l’ennesima volta, Giulia alzò la palla e Fabio la schiacciò con forza colpendo Anita al seno sinistro, distogliendola ancora una volta dal fantasticare sull’incontro con il suo amico virtuale.
«Ma sei scemo?!» proruppe Barbara, vederla sbottare era un evento più unico che raro.
«Tanto non c’ha nulla lì: è piatta! Povera sfigatella
Risolini generali.  
«Così però non si può giocare!» Si lamentò qualcuno.
«Possiamo tornare in classe?» Chiese qualcun’altra.
Elia Morales batté i palmi un paio di volte e annunciò cinque minuti di pausa, poi si accostò a Giovanna – che intanto era andata a sincerarsi delle condizioni di Anita – e, prendendola per un gomito, si allontanarono di qualche metro.
«Così non va» sospirò lui.
«Me ne sono accorta. Cosa possiamo fare?» Giovanna Dell’Arco lo osservò speranzosa, mentre lui rifletteva con una mano sotto il mento e gli occhi scuri che scrutavano gli alunni in cerca di risposte, contornati da lunghe e folte ciglia nerissime.
Solo due notti prima si era presentato a casa di Giovanna, sostenendo di avere un’idea sensazionale per aiutare la Lentini.
In realtà, il suo obiettivo era meno nobile: voleva far colpo sulla collega di letteratura italiana. Giovanna Dell’Arco non era una persona particolarmente estroversa, ma molto riservata e professionale. E proprio quella sua professionalità l’aveva portata a non restare indifferente di fronte a ciò che stava accadendo in quella classe. Forse perché lei conosceva quei ragazzi fin dal primo giorno di liceo, li aveva visti crescere, trasformarsi da ragazzini a veri adolescenti, più vicini all’età adulta che agli anni dell’infanzia. Elia non conosceva altri modi per avvicinarsi a quella donna che non riusciva a togliersi dalla testa, sebbene avesse provato più volte ad invitarla per prendere un caffè insieme, nonostante avesse sentito commenti poco garbati su di lei da parte dei colleghi. Ovviamente, era anche consapevole della differenza di età che li separava e che per qualcuno sarebbe potuto essere un ostacolo, ma non per lui, al quale non era mai interessato se la sua partner – anche occasionale – fosse più anziana. Anzi, le aveva sempre preferite alle ragazze più giovani o della sua stessa età, forse perché le trovava più mature mentalmente, meno superficiali. Per questo motivo, comunque, quando la mattina della sospensione aveva incontrato Giovanna nell’aula professori e lei gli aveva detto che se voleva davvero aiutarla avrebbe dovuto farsi venire un’idea per la questione bullismo, Elia l’aveva fatto. Era tornato a casa, un monolocale fuori città, e aveva telefonato a un suo caro amico di Madrid, laureato in sociologia, parlandogli dell’intera questione Anita Lentini (omettendo di proposito l’infatuazione per la collega). Alla fine, era venuto alla conclusione che il miglior mezzo di aggregazione sociale era lo sport di squadra: lottare per il raggiungimento di un obiettivo comune unisce, si rema dalla stessa parte. Inoltre, giocare una partita sarebbe stato divertente per i ragazzi.
Ecco quello che mancava! Accidenti a lui, come aveva fatto a dimenticarsi quel passaggio? L’obiettivo! Quei giovani stavano sì facendo una partita di pallavolo divisi in due squadre, ma non avevano obiettivi da raggiungere! Non c’era alcun premio per cui valesse la pena unire le forze e stare dalla stessa parte.
«Ci sono!» Esclamò all’improvviso e il volto di Giovanna si illuminò di sollievo, mentre lo seguiva a ruota, diretto al gruppetto che intanto stava battendo la fiacca.
«Si torna in campo» disse, fra i dissensi generali.
«Prof, possiamo almeno mischiare le squadre?» Chiese Fabio, tenendo un braccio intorno alle spalle dell’amico e compare Stefano.
«No, ma questa volta in palio ci sarà un premio» A quelle parole la curiosità degli alunni si ravvivò. «La squadra che vincerà il set sarà esente da sostenere il prossimo e ultimo compito in classe di spagnolo.»
«E come determinerà i voti?» Domandò Stefano.
«Da una base di sette» rispose il professore, consapevole che pochi in quella classe arrivavano alla sufficienza e il brillante Stefano Parisi non era tra questi. Non gli avrebbe fatto uscire un’insufficienza in pagella poiché era un ragazzo che si impegnava e gli avrebbe rovinato la media, ma le lingue straniere non erano il suo forte.
«Ma sei impazzito?» Giovanna si voltò a guardare il giovane collega con gli occhi sgranati. Era contro le regole della scuola, del Ministero dell’Istruzione addirittura, se lo avesse saputo il preside ci sarebbe stato il licenziamento immediato, se non peggio. Forse non avrebbe mai più potuto insegnare in Italia.
«E chi perde?» Continuò Giulia Mazza, un’altra che arrancava nella sua materia.
«Dovrà fare il compito in classe» sorrise Morales.
«Ma non è giusto!» Si lagnò qualcuno.
«Allora impegnatevi per vincere. Pronti?» Lo spagnolo si porto il fischietto alle labbra, quando Anita gli rivolse l’unica domanda inerente alla gara:
«Professore, il set da quanti punti è?»
«Quindici»
«Un tie break, allora» Anita sembrò più che altro parlare fra sé e sé, muovendosi a testa china per prendere la sua posizione di libero. Non era un ruolo fondamentale, ma perfetto per lei, dal momento che non richiedeva una particolare attenzione alla gara. Inconsciamente si tastò il seno che ancora le doleva per il colpo precedente, non era un dolore forte, ma c’era ed era continuo. Forse le sarebbe uscito un livido.
Quando passò alle spalle di Stefano, questo la chiamò, sbalordendo tutti:
«Ehi, Lentini» non c’era inganno nella sua voce, né derisione. Lei alzò la testa per guardarlo in faccia: che voleva adesso? «Mettiti qui» con un cenno della testa indicò la sua destra, era il posto dell’alzatore, uno dei giocatori più importanti di tutta la squadra. Se non quello principale…
«E io?» Fece il compagno di Stefano, anzi, uno dei suoi compari, che diversi giorni prima aveva trattenuto Anita per lo zaino mentre Fabio vi rovesciava all’interno la borraccia con l’acqua.
«Ti sposti indietro» Stefano non lo stava neanche guardando, teneva gli occhi fissi davanti a sé. «Questa partita la voglio vincere e Sfigatella qui sa il fatto suo.»
«Ti stai bruciando il cervello tu e lo studio» continuò l’altro, toccandosi la tempia con un indice, poi accennò al gesto di voler aggradire Anita, la quale d’istinto si coprì la testa con entrambe le mani, poi prese posto al fianco di Stefano, aveva il cuore che andava a mille. Chiuse gli occhi e lo pregò di calmarsi.
«Ehi, non addormentarti! Voglio vincerla!» Le bisbigliò lui, in modo che nessuno potesse sentirli. Dietro di loro Barbara li guardava con mestizia: non aveva mai pensato che tra quei due potesse nascere qualcosa perché ovviamente erano diversi come l’acqua e il fuoco, perché sembravano detestarsi, ma se invece proprio la loro diversità li avrebbe portati a completarsi?
Gli opposti si attraggono, le diceva sempre sua mamma.
Chi disprezza vuol comprare, era invece solito recitare suo padre.
Anita Lentini riaprì gli occhi, Fabio li osservava con attenzione mentre Giulia gli parlava direttamente all’orecchio. Cosa stavano architettando ora?
«Stai messo così male in spagnolo?» Disse poi.
Stefano Parisi la scrutò dall’alto, provando l’istinto irrefrenabile di risponderle a tono e di dire a Fabio di riempirla di pallonate in faccia. Quel suo modo che aveva di rivolgerglisi con sarcasmo lo irritava, forse perché era dannatamente simile a lui quando i suoi genitori gli facevano qualche domanda. Era una forma di protezione, ma lui era troppo giovane e ignorante in materia per comprenderlo. Inoltre, era l’unico a cui parlava più o meno normalmente, rispetto agli altri del suo gruppetto che la ragazza sembrava temere molto.
«Pronti?» La voce del professore Morales mise tutti sull’attenti.
«Facciamo una scommessa» disse Stefano e ad Anita quasi venne un infarto. Alzò gli occhietti vispi e schermati dalle lenti su di lui, le dava almeno quindici centimetri, se non di più.
«Che-che hai detto?» Balbettò incredula. Per un attimo era come se Ⱦhunder avesse avuto voce e non fosse stato solo delle frasi scritte tramite chat.
«Che faccia, sfigatella!» rise Parisi, prima di aggiungere: «Nessuna proposta indecente, tranquilla. Semplicemente: se vinciamo la smettiamo di prenderti in giro.»
«E se perdiamo?»
«Continueremo a prenderti in giro» La canzonò con un sorriso sghembo e Anita scosse il capo, ancora incredula per la coincidenza.
«Ci stai?»
«Ho scelta?»
«Sei troppo divertente, sfigatella
Elia Morales fischiò e fin dall’inizio tutti compresero che la musica era cambiata.
Fabio Morini non riusciva più a raggiungere Anita con le sue pallonate, sia perché il ruolo di lei era cambiato e quindi non si trovava più in campo aperto ma sotto la rete, sia perché lo stesso Stefano aveva cominciato a giocare come sapeva. E, se qualche volta capitava che Fabio riuscisse a indirizzare una schiacciata violenta verso Anita, allora ci pensava Stefano a intercettare il pallone e piazzarlo in modo che la compagna di squadra potesse trasformarlo in una battuta per l’altro schiacciatore. A ogni punto segnato da Stefano Parisi, il quale si era eretto a leader indiscusso e capitano della squadra, rivolgeva ad Anita un cinque che lei non tardava a battere. Seppur, la prima volta, era rimasta interdetta a fissare quel palmo spalancato e Stefano aveva dovuto richiamarla per smuoverla.
 
Giovanna Dell’Arco osservava la partita seduta sui gradoni della palestra, ogni tanto Elia si voltava indietro per sorriderle e lei si sentiva bene. Se la sua sospensione sarebbe servita a far tornare il buon umore in quella classe, a farli unire e a donare sollievo a una ragazzina di 16 anni, allora se ne sarebbe beccata anche altre cento. Elia Morales era stata una vera sorpresa, sia perché aveva avuto la brillante idea di organizzare quella gara di pallavolo, sia perché si era messo in gioco rischiando personalmente il suo posto di lavoro. Semmai fosse successo qualcosa, Giovanna si sarebbe sacrificata pur di salvare la carriera del giovane iberico. Seduta su quelle scale, con in sottofondo le grida dei suoi cari alunni e l’odore tipico del pavimento in PVC delle palestre, osservò meglio Elia, il quale adesso le dava le spalle. Cominciò proprio da quelle: aveva spalle larghe; le braccia non erano muscolose come chi fa palestra abitualmente, ma si vedeva che erano forti e toniche; così come le gambe ben piazzate. I capelli corvini erano un ammasso indefinito di riccioli morbidi. Di tanto in tanto, andava avanti e indietro seguendo la traiettoria della palla, facendo cenni di assenso o diniego con la testa.
L’aveva invitata più volte a prendere un caffè, ma lei aveva sempre rifiutato, convinta che volesse attaccare bottone. Eppure, guardandolo adesso, vedendolo davvero, si diede della stupida: come aveva potuto credere che un bel ragazzo come lui, di soli ventotto anni, potesse provare interesse per una donna di quarantadue anni come lei? Forse, il suo intento era stato solo quello di scambiare quattro chiacchiere con una collega o imparare meglio una lingua che non era la sua, l’italiano appunto, essendo lui di Madrid.
Invece, lo aveva tenuto alla larga, spesso rispondendogli in modi sgarbati che poi erano tipici della sua indole bisbetica. Avevano ragione i suoi colleghi quando le davano della zitella incallita o la definivano frigida. Forse, lo stava diventando sul serio…
Elia sollevò un pollice nella sua direzione per farle sapere che stava andando tutto per il verso giusto e lei lo imitò di rimando, pregando in cuor suo che la scelta avventata di Morales non gli si sarebbe rivoltata contro.
 
Il punto della vittoria della squadra di Anita e Stefano giunse relativamente presto. Non c’era mai stata partita in realtà e quindi nessun colpo di scena.
Il giovane professore richiamò ancora una volta all’attenzione i suoi alunni, mentre Giovanna lo raggiungeva restando pochi metri più indietro, felice come non lo era da tempo. Emozionata, anzi.
«Oggi avete capito cosa significa fare gioco di squadra, remare tutti dalla stessa parte, essere uniti. Se un compagno è in difficoltà va aiutato.»
«”Non si lascia indietro un commilitone ferito”» recitò Fabio con voce grossa, prendendo spunto da un vecchio film di guerra che aveva visto di recente. Elia Morales lo indicò soddisfatto:
«Esatto! Questo è lo spirito che da oggi in poi vogliamo vedere in questa classe, ok?»
«Occhei!» Risposero in coro gli altri, mentre Anita chinava il capo, comprendendo solo allora il motivo di quella partita: l’avevano fatto per lei. Ma, appena il professore disse di tornare in classe, si formarono i soliti gruppetti e lei rimase comunque da sola.
Giovanna Dell’Arco stava cercando delle cose nella sua grande borsa di cuoio, quando Barbara Scala le si avvicinò, chiedendole di poterle parlare un momento.
«Dimmi cara» fece l’insegnante.
«Volevo scusarmi con voi» cominciò la ragazza. «È colpa mia se siete stata espulsa, io non pensavo che…»
«Fai tesoro di questa lezione» Giovanna la interruppe quando si rese conto che l’alunna era in evidente imbarazzo. Non c’era bisogno che si umiliasse tanto. «Io so perfettamente come sono andate le cose. So che non l’hai fatto con cattiveria e neanche i tuoi compagni di classe» guardò per un momento Stefano ridere e scherzare con Fabio. «Ma Anita è più sensibile, ed è sola. Un’amica le farebbe comodo» Così dicendo chiuse il discorso e si allontanò, chiamando poi a sé Stefano Parisi e Anita Lentini. Questi ultimi, che stavano tornando in classe con tutti gli altri, si fermarono e attesero che la professoressa li raggiungesse, quindi allungò a entrambi una classica busta da lettera, con il proprio nome riportato alla voce “destinatario”:
«Vi ricordate quel concorso nazionale di racconti al quale vi chiesi di partecipare?» Cominciò Giovanna. «Ebbene, le vostre opere sono state selezionate fra le prime dieci. Complimenti!»
I due alunni la guardarono sbalorditi: incredibile!
«Questi sono gli inviti ufficiali della serata di premiazione che si terrà agli inizi di settembre a Sorrento, in provincia di Napoli» Giovanna Dell’Arco ampliò il sorriso e gonfiò il petto. «Io sarò la vostra accompagnatrice ufficiale, ma poiché siete in due penso che chiederò a un collega di venire con noi. Domande?»
Anita cominciò a leggere la lettera che era indirizzata a lei, definendola “gentile signorina Lentini”. Wow! Un suo racconto era stato selezionato a livello nazionale fra quanti? Mille? Diecimila? Era incredibile, comunque.
Ah, se solo avesse potuto dirlo a Ⱦhunder!
«Non ho capito bene se abbiamo vinto» fece Stefano.
«Non ancora, nel senso che le vostre opere sono arrivate fra le prime dieci. Poi, a Sorrento, verranno decretati i vincitori, che credo saranno tre. Ma è già un enorme risultato, eh?! Inoltre, è la prima volta che due partecipanti provengono dalla stessa classe. Sono così orgogliosa di voi!» La professoressa strinse ad entrambi una spalla con le dita, poi disse che dovevano andare in aula.
Ovviamente, lei non poteva passare per l’entrata principale della scuola, perciò sarebbe uscita da quella di servizio della palestra. Ma, prima di andare via, raggiunse Elia Morales per chiedergli se per caso avesse finito.
«Sì, questa era l’ultima ora di lezione per oggi» confermò il giovane.
«Prendiamo un caffè insieme?» Giovanna gli sorrise con sincerità.
«Sì, sì certo.»
«Ti aspetto ai cancelli allora» continuò la professoressa, prima di aggiungere: «Ah, Elia, sei impegnato i primi di settembre?»
L’insegnante di spagnolo corrugò la fronte, non capiva il senso di quella domanda e Giovanna ridacchiò divertita, aggiungendo che gli avrebbe spiegato tutto dopo.
 
Finalmente in classe, mancava solo un’ora alla fine della giornata scolastica. Anita Lentini stava rileggendo l’invito ricevuto per la terza volta. Non riusciva ancora a crederci. Osservò di sottecchi Stefano, impegnato come al solito a giocherellare con i suoi amici, non curante del prestigioso invito.
Fabio Morini circondò il collo dell’amico, parlandogli a una spanna dalla guancia e obbligandolo quasi a guardare Anita, quest’ultima con il naso piantano nella lettera.
«Ma che c’è scritto su quella cosa che avete ricevuto?» Chiese.
«Ma niente, è un invito per una specie di serata letteraria.»
«E ci andrete insieme tu e la sfigatella… eh?! Eh?!» Fabio lo scuoteva mentre parlava, entrambi sorridevano.
«Smettila, idiota!» Aggiunse poi Stefano, scrollandoselo di dosso.
«Le facciamo qualche scherzetto quando usciamo da scuola, che dici?» Morini indicò Anita con un cenno del capo e Stefano si voltò appena a guardarla, incrociando l’occhiata furtiva di lei che subito distolse lo sguardo.
«Non oggi» rispose.
«Come? E dai!»
«Oggi no, ho detto.»
«E perché?» Si lagnò Fabio.
«Perché una scommessa è una scommessa».   



 
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Capitolo 7
*** Ȼapitolo Տette “Ғarsi Ɓelli” ***




Ȼapitolo Տette

“Ғarsi Ɓelli”
 


 
Fabio Morini si sporcò il palmo della mano con una noce di gel che con accuratezza chirurgica si distribuì sulla punta dei capelli, più lunghi sulla testa e rasati ai lati. Si osservò allo specchio, mentre lavava le mani appiccicose, poi, soddisfatto del risultato, schioccò le labbra.
Quella sera era la sua sera! Avrebbe trovato l’anima gemella, se lo sentiva. O, quanto meno, ci sarebbe scappato un bacetto.
Si augurava…
I capelli apparivano ancora più aranciati sotto la luce gialla. Anche le lentiggini erano messe in risalto dall’abbigliamento scuro che indossava. Inconsciamente, si sfiorò uno zigomo e il sorriso spavaldo scemò. Quanto li odiava quei puntini rossi! Se solo fosse esistito un modo per cancellarli dal volto, non ci avrebbe pensato due volte a farlo. Invece, sembrava non esistesse nessuna cura (quasi si trattasse di una malattia). Una volta, aveva chiesto alla mamma di Stefano, la quale era una stimata dottoressa, se per caso conoscesse un metodo per togliere le lentiggini, ma la donna gli aveva risposto che non c’era nulla al mondo che fosse in grado di esaudire il suo desiderio. Con l’età sarebbero sbiadite un po’, forse…
Fabio, per anni, era stato preso in giro dai suoi coetanei, prima all’asilo, poi alle scuole elementari, sia per il colore sgargiante dei suoi capelli, sia per le decine di efelidi che gli riempivano la faccia. Aveva subito quelle vessazioni per mesi e mesi, fin quando un bel giorno, durante la quinta elementare, non aveva minacciato un compagno di classe con la punta di una matita temperata a dovere per l’occasione. Era stato punito dalla maestra, com’è ovvio che fosse, ma da quel giorno nessuno aveva più osato prenderlo in giro. Anzi, era diventato lui il carnefice e gli altri le vittime…
«Esci da lì dentro o ti sei buttato nel cesso, finalmente?» La voce di suo fratello che tuonava dall’altra parte della stanza lo riportò con la mente al presente.
«Esco! Idiota!» Fabio spalancò la porta e si ritrovò il fratello maggiore che lo guardava con un mezzo sorriso sghembo.
«Ti sei fatta bella, principessina?» Lo schernì. Fabio neanche rispose, incassando il colpo come faceva sempre con lui. Ecco una situazione che non era riuscito a capovolgere a proprio vantaggio: suo fratello era l’opposto di lui e se ne prendeva gioco da quando erano piccoli. Il maggiore dei due era alto, ben piazzato, capelli chiari e occhi verdi, andava bene a scuola e sapeva perfettamente cosa avrebbe fatto nella vita (il pompiere). Fabio, al contrario, era molto magro, senza una parvenza di muscolo manco a pagarlo, non troppo alto, con i capelli e il viso che sembravano un cartone animato degli anni ’80. E, ovviamente, era una frana a scuola e non aveva la benché minima idea di quello che avrebbe fatto da grande.
«Ti vogliono al telefono, principessina»
«A me? Chi è?»
«La tua amichetta del cuore»
Fabio comprese subito che stesse parlando di Stefano, perciò corse per il corridoio fino in cucina, dove sua madre stava già preparando il pranzo per il giorno dopo.
«Pronto?!»
«Fabio, sono Stefano.»
«Ohi, Ste’, dimmi!» Il cuore di Fabio prese a battere un po’ più velocemente. Se lo chiamava a quell’ora, quando mancavano appena 40 minuti all’appuntamento, qualcosa era accaduto.
«Non vengo più alla festa.»
«Non vieni più?! Ma come non vieni?! E a me chi mi passa a prendere?!» La voce del rosso era diventata petulante.
«Mi dispiace, ma i miei sono entrambi a casa stasera e hanno organizzato una cena in famiglia. Te lo immagini che palle!»
«Ma tu gliel’hai detto che si tratta della festa di fine anno?»
«Sì, ma non hanno voluto sentire scuse.» Stefano si prese qualche secondo, in modo che l’amico potesse metabolizzare la notizia. «Li conosci, sai come sono…»
«Sì, sì… Non riesci a passare neanche sul tardi?»
«No, non credo…» Più che altro, Stefano se lo augurava. Se la serata fosse andata come sperava lui, non avrebbe avuto né tempo né voglia di andare a quella stupida festa scolastica che ogni anno le classi quinte organizzavano per salutare i docenti e l’istituto. Una vecchia tradizione, insomma…
I due amici si salutarono, con umori completamente differenti.
Fabio riagganciò e con un’espressione torva chiese alla madre a che ora sarebbe rientrato suo padre dal lavoro.
«Oggi ha il doppio turno in fabbrica, è venerdì» rispose la donna, adesso seduta al tavolo della cucina a sfogliare una rivista settimanale. «Se hai bisogno di un passaggio puoi chiedere a tuo fratello.»
«Chiedere a me? Cosa?» Proprio in quell’istante il primogenito entrò nella stanza.
«Fabio avrebbe bisogno di un passaggio.» La donna voltò pagina, apparentemente presa da ciò che stava leggendo.
«L’amica del cuore ti ha dato buca?»
«Lascia stare, prendo il bus» fece Fabio, addentrandosi nel corridoio, più incazzato che mai.
 
Stefano riagganciò la telefonata e rimase qualche minuto con la mano stretta intorno alla cornetta. Aveva fatto uno sgarbo al suo migliore amico, lo sapeva benissimo, ma non poteva fare altrimenti. Fabio Morini non era al corrente di nulla, sebbene fossero amici da tempo e si dicevano ogni cosa. O meglio, il rosso tendeva a confidarsi con lui, a Stefano non piaceva spifferare in giro i fatti personali, preferiva tenerli per sé.
«Che elegencia!» La dolce voce di Carmen distolse Stefano dai suoi sensi di colpa. Si girò a sorriderle e mostrarle l’abbigliamento.
«Sto bene per un appuntamento?»
«Un appuntamento?!» Ripeté la donna, prendendo le mani del ragazzo nelle sue e spalancandogli le braccia per osservarlo meglio. «Sei bellissimo, Stefanito» quindi gli accarezzò una guancia e proseguì dritta in camera da pranzo, dove stava apparecchiando per la cena. Lui la seguì a ruota, osservando il suo lavoro lento e meticoloso.
«Stasera si degneranno di cenare insieme?»
«I signori sono molto impegnati» rispose la donna, canticchiando un motivetto del suo paese.
«No, i signori sono molto separati, ma fingono che tutto vada bene.»
Carmen “Carmensita” Viñales smise di fare ciò che stava facendo per alzare lo sguardo e osservare Stefano. Provava sempre una gran pena per quel ragazzo, anche ora che aveva quasi 17 anni e si era messo in tiro per un appuntamento romantico. Adagiò sul tavolo il vassoio che teneva in mano e gli si avvicinò, fingendo di aggiustargli il colletto della camicia a mezze maniche e che, invece, era perfettamente piegato, poi gli diede un paio di colpi al centro del petto. Stefano la guardò dall’alto in basso, li separavano almeno venti centimetri e diversi anni d’età.
«Lo so cosa stai per dirmi, Carmensita» sospirò lui. «Che sono brave persone, che salvano vite, che stanno insieme per me.»
Carmen Viñales annuì con lenti cenni del capo a ognuna di quelle bugie ripetute da lei stessa negli anni.
«Beh, sai una cosa? Loro non mi conoscono affatto, non sanno niente di me. Hanno sprecato una vita ad aiutare degli estranei, ma non sono mai stati in grado di aiutare se stessi. O me, quando ne ho avuto bisogno.»
«Non sprecato, non dire così…» La donna gli prese il viso con entrambe le mani, i polpastrelli erano ruvidi al tatto, ma il tocco dolce e gentile. L’unico che Stefano conoscesse, a dire la verità. «E tu sei troppo giovane e bello per capirlo adesso. Vai al tuo appuntamento e divertiti, StefanitoCarmensita tornò sui suoi passi.
«E cosa dirai ai miei genitori sul fatto che sono uscito?»
«Quello che ho detto a te: sei troppo giovane e bello per restare a casa in una serata di giugno.»
Stefano Parisi sorrise, adorava quella piccola donna che sembrava uscita da una soap opera sudamericana che le piacevano tanto. Afferrò al volo le chiavi dello scooter appese all’ingresso e se le fece sobbalzare al centro del palmo un paio di volte, riafferrandole al volo.
Si sentiva bene, in pace con sé. La scuola era finita da una quindicina di giorni, la pagella era stata migliore del previsto e lui stava andando a un appuntamento plasmato nei minimi dettagli, così come lo desiderava. Aveva mentito? Preso in giro? Forse un po’, ma a fin di bene in fondo...
Salì cavalcioni sul sellino del veicolo, mise in moto e sfrecciò lungo la discesa della sua abitazione, oltre il cancello automatico. L’aria dolce di giugno gli solleticava il viso, il cielo cominciava appena a imbrunire e le stelle a brillare nel rossore del crepuscolo.
Stefano Parisi sorrideva senza neanche rendersene conto, fiducioso dell’immediato futuro…
 
Anita si guardò allo specchio per l’ennesima volta e si trovò ridicola.
Cosa ci faceva con addosso un abitino giallo e i fiori blu? E quel mascara intorno alle ciglia? Cielo, somigliava a un panda più che alla fotomodella sulla confezione della trousse che aveva comprato in profumeria qualche giorno fa. Chi pensava di far innamorare così conciata? Avrebbe riso di lei, sicuro! Sarebbe diventata lo zimbello del paese!
«Basta, non ci vado!» Si disse per l’ennesima volta e di nuovo pensò che non poteva fargli quel torto. Già sarebbe stato difficile giustificarsi per avergli mentito in tutti quei mesi (gli aveva detto che aveva vent’anni e lavorava in un bar nel fine settimana).
E se non si fosse presentato all’appuntamento? Se fosse stato lui a darle buca? Cosa avrebbe fatto? Come avrebbe reagito?
Come sempre, in fondo era abituata a sentirsi rifiutata…
Udì la voce della mamma che chiedeva a sua sorella se fosse pronta, il papà sarebbe stato lì tra venti minuti circa. Alessia rispose che aveva quasi fatto. Lei sarebbe andata alla festa della scuola, ovviamente. Adorava quegli eventi ed erano gli unici ai quali i genitori le permettevano di partecipare, poiché sapevano che ci sarebbe stata la supervisione dei docenti.
Anita si guardò ancora una volta allo specchio. No, così combinata non si sarebbe palesata neanche a una festa di carnevale. Prese il coraggio a due mani e uscì dalla stanza per raggiungere sua sorella in quella accanto.
«Ale» la chiamò con un filo di voce. Mentre l’altra si pettinava i lunghi capelli biondi, osservò la sua immagine riflessa allo specchio. Era così bella che a volte ne restava incantata lei stessa, chiedendosi come fosse possibile che condividessero i medesimi geni. Gli occhi erano di un azzurro trasparente, le ciglia parevano disegnate e gli zigomi messi in risalto dal fard color pesca. Aveva indossato un abito corto, di finta pelle scura, mentre ai piedi calzava anfibi dello stesso colore.
I loro sguardi si incrociarono attraverso il riflesso dello specchio e Alessia a stento trattenne una risata (lo fece solo perché percepì l’angoscia della sorella maggiore):
«Cazzo, Ani! Ma che ti sei messa?»  
«Puoi aiutarmi almeno con il trucco?»
Alessia lasciò perdere i propri capelli e le si avvicinò, chiudendo la porta alle sue spalle, per evitare che la madre le sentisse.
«Avevo capito che non saresti venuta alla festa di fine anno» disse.
«Ho un appuntamento con Ⱦhunder» ammise Anita, mentre Alessia cominciava a pulirle il viso con un fazzoletto imbevuto di struccante.
«Con chi?»
«Ⱦhunder, il mio amico di chat!»
«Ah sì, il tuo fidanzatino immaginario» la prese in giro la più piccola di casa.
«Non è immaginario! Esiste! E stasera lo incontrerò. Forse…»
Alessia cominciò a stenderle del fondotinta con le mani.
«Non dirlo a mamma e papà» la pregò Anita.
«Non lo so, Ani. E se fosse un maniaco?»
«Impossibile» l’espressione di Anita si addolcì. No, Ⱦhunder non poteva essere un maniaco, lei lo conosceva bene ed era una persona a modo. Anzi, probabilmente sarebbe stato lui a rimanere deluso dalla sua compagna di chat…
«Dov’è il luogo dell’appuntamento?» Alessia ora era passata alla matita per gli occhi. Aveva una mano leggera e un tocco delicato. Il make-up era da sempre la sua passione, per questo motivo desiderava tanto studiare in una scuola di trucco, ma per adesso avrebbe dovuto finire le superiori, poi, se dopo il diploma sarebbe stato ancora il suo sogno, i genitori avevano promesso che le avrebbero pagato un corso per estetista.
«Al parco del Valentino.»
«Ai lampioni innamorati, immagino…» Alessia abbozzò un sorrisetto. «Che fantasia!»
«Non sapevamo do-»
«Zitta, non parlare e tieni le labbra morbide» le ordinò la più giovane, mentre illuminava la bocca della sorella con un lucidalabbra trasparente. Tornò quindi in posizione eretta per guardare il suo operato e ne fu molto soddisfatta, ma quando Anita fece per alzarsi le intimò di non muoversi: adesso avrebbero dovuto acconciare quei cazzo di capelli! Mise a riscaldare l’arricciacapelli e nel frattempo cercò nell’armadio qualcosa da farle indossare. Le mostrò un paio di abitini corti, scuri e aderenti che ovviamente la maggiore rifiutò categoricamente di mettere.
«Con quel prendisole da bambina deficiente non ci andrai di sicuro.» Con le dita sfiorò l’arricciacapelli e lo staccò dalla corrente: si era riscaldato a sufficienza. Le si accostò di nuovo, arrotolando una ciocca di capelli intorno al ferro rovente. «Metti un jeans largo, se strappato meglio ancora, con un cinturone bianco…»
«Non ce l’ho il cinturone. Ehi, non è che mi bruci i capelli con quest’affare?»
«No, stai tranquilla…» Alessia rilasciò il ciuffo che ricadde in un morbido boccolo fin oltre la mascella, a sfiorare la clavicola. Continuò così per il resto della testa. «Allora te lo presto io. E ti presto anche quella maglia azzurra che mi comprai l’anno scorso in Puglia.»
«Quella ad incrocio? Ma è scollata!»
«Sei piatta, che vuoi che si veda?!»
Anita la guardò male, mentre Alessia sorrideva divertita e felice: era come se un suo piccolo sogno si fosse avverato, ossia trasformare la sorella da brutto anatroccolo in un bellissimo cigno. L’aiutò a vestirsi – temendo più che altro che Anita non seguisse i suoi consigli di moda – e quasi si commosse.
«Ⱦhunder uscirà pazzo vedendoti!»
«Dici?!» Anita si studiò meglio allo specchio e quasi non si riconobbe.
 
Giovanna Dell’Arco alzò lo sguardo sulle lucine colorate che pendevano davanti all’ingresso posteriore della palestra dell’istituto Ferraris. Quell’anno gli organizzatori avevano fatto le cose in grande e se ne compiacque. Provava sempre una profonda tenerezza per gli studenti che si sarebbero diplomati. Nonostante l’età, infatti, se scavava nel profondo, poteva ancora sentire l’ebbrezza dell’essere una diciottenne con il futuro nelle proprie mani.
Entrò e subito una sua alunna le corse incontro con un vassoio in mano e al centro tre calici infrangibili pieni a metà. Giovanna ne prese uno, ricordandole che l’alcool era vietato. La ragazza le rispose che poteva stare tranquilla, si trattava di un aperitivo analcolico. La docente la ringraziò e raggiunse il gruppetto di colleghe pochi metri più in là, guardandosi intorno curiosa. La palestra quasi non si riconosceva senza la rete di pallavolo e i vari attrezzi per allenarsi. Un lungo tavolo era imbandito di rustici e pizzette da un lato, bibite varie dall’altro. In fondo, la pista da ballo era illuminata da palle giganti che emanavano lucine colorate e vorticavano su loro stesse, creando giochi di luce alternata. Una band, composta da tre studenti del quarto anno, stava suonando un brano rock. Uno di loro, il batterista precisamente, la vide e alzò la bacchetta per salutarla e solo allora Giovanna si rese conto che si trattava di Elia Morales, l’insegnante di spagnolo. Lei rispose al saluto, sorridendo divertita: quel giovane uomo era pieno di risorse. E sorprese.
Dopo la prima partita di pallavolo ce ne erano state altre e l’esperimento sembrava aver alleggerito la convivenza in quella classe. Gli scherzi di cattivo gusto nei confronti di Anita Lentini erano proseguiti, ma di rado e meno offensivi. Capitava che Fabio Morini la prendesse in giro se inciampava nei piedi di un banco – sì, era una ragazza abbastanza goffa – o quando veniva interrogata alla cattedra e le faceva smorfie per distrarla. Adesso, però, la Lentini aveva trovato una specie di amica, Barbara Scala, la quale pareva aver capito la lezione della foto hard e stava facendo di tutto per rimediare all’errore.
Un giorno, Barbie prese le difese della compagna come ormai faceva spesso quando la vedeva in particolare difficoltà, e Fabio le aveva proposto un accordo:
«Se ti metti con me, giuro che la lascio in pace».
Proprio in quel momento era entrata la professoressa Dell’Arco che aveva assistito alla scena e mollato un buffetto sulla testa dell’alunno.
«Mi sa che dobbiamo fare un corso accelerato di galanteria, eh Morini?»
L’intera classe aveva riso, eccetto Barbara che di sottecchi aveva guardato Stefano. “Ah, l’amour”, si ritrovò a pensare Giovanna in quel frangente, sentendosi improvvisamente fuori luogo e vecchia per quelle sciocchezze.…    
«Ehi!» la voce di Elia la distolse dai ricordi.
«Ciao! Allestimento spettacolare, vero?! Quest’anno hanno fatto le cose per bene» disse Giovanna.
«Non lo so, gli altri anni non c’ero. Però sì, è bello» confermò l’altro. Si osservarono per qualche secondo negli occhi, senza dire nulla.
«Professori…» la voce di Fabio Morini risvegliò entrambi da quella specie di torpore.
«C-ciao» balbettò lei, seguendo con lo sguardo l’alunno dai capelli rossi, completamente vestito di nero.
«Ehilà, Morini! E Stefano dove l’hai lasciato?» Gli chiese Elia, meravigliato che non fossero insieme come di routine.
«Non viene, ha avuto un contrattempo» spiegò velocemente Fabio, sembrava scontroso, nervoso.
Elia e Giovanna si guardarono perplessi e lei alzò le spalle: ne sapeva quanto lui.
Proprio in quel momento li oltrepassò un gruppetto di giovanissime studentesse, sicuramente di primo superiore. Avevano l’aria di essere così piccole e indifese. Ingenue, se paragonate alle classi più grandi. Tra queste giovani, la professoressa di letteratura italiana notò Alessia Lentini, la sorella minore di Anita, e la chiamò. La ragazza trotterellò fino a lei, era di una bellezza disarmante, sembrava uscita da uno spot pubblicitario.
«Tua sorella non c’è?»
«No» cinguettò Alessia, sporgendosi in avanti e coprendosi la bocca mentre le parlava direttamente all’orecchio. «Aveva un appuntamento galante» ridacchiò.
«Ah, però! Incrociamo le dita per lei, allora» Giovanna mise il dito medio sull’indice e Alessia la imitò, congedandosi con un leggero inchino e un sorriso al professore di spagnolo. La docente non poté non notare come lo aveva guardato. «È innamorata di te» bevve un piccolo sorso dal bicchiere che ancora teneva in mano.
«Hanno fondato un fan club, non lo sapevi?»
«Davvero?»
«Sì, il Morale’s Fan Club Official» lui allargò il sorriso.
«Mi stai prendendo in giro?!»
«Ti sto prendendo in giro!» Ammise lo spagnolo e risero insieme, muovendosi poi verso il tavolo degli stuzzichini, dal quale egli addentò una pizzetta. «Non ti sembra strano?»
«Cosa?» Chiese Giovanna, mangiando a sua volta una tartina al tonno.
«Stefano Parisi manca e anche Anita Lentini, la quale ha un appuntamento galante…»
«Dici che…?» La professoressa spalancò gli occhi, incredula. «No, quelli come Parisi non escono con le “Anita Lentini”.»
«Ah, no? E con chi escono quelli come Parisi?»
«Con le “Barbara Scala”» così dicendo Giovanna gli indicò la ragazza che ballava al centro della pista, accerchiata da amiche e altrettanti ragazzi che la seguivano rapiti. «Tu sei uno “Stefano Parisi”, ad esempio» continuò l’insegnante di italiano.
«Io sarei uno “Stefano”? Sei incredibile! E sentiamo, perché mai io sarei uno “Stefano”?» Elia abbozzò un sorrisetto indolente.
«Sei giovane, attraente, intelligente e single. Stai aspettando la tua “Barbara”, è evidente!»
Il professore di spagnolo aprì la bocca per controbattere, ma tutto ciò che gli passava per la mente in quell’istante avrebbe compromesso inevitabilmente il rapporto che li legava, fatto di amicizia e rispetto, e non intendeva rovinarlo per una battuta sulla punta della lingua. Ingoiò il rospo e semplicemente la vide allontanarsi quando la chiamarono per la foto annuale con una delle quinte. Lui non era docente di quella classe, quindi rimase dov’era, con in mano il calice di plastica trasparente che Giovanna gli aveva chiesto di tenerle e quella risposta ancora a fior di labbra: “Io, la mia “Barbara” l’ho trovata. E tu?”
 
La panchina dei lampioni innamorati era quasi sempre occupata da qualche turista che si accomodava per scattare una foto ricordo. Per questo motivo, quando Anita Lentini giunse sul luogo dell’appuntamento, preferì mettersi dall’altro lato della famosa panchina e affacciarsi oltre la ringhiera per guardare il Po che scorreva sotto di essa. Il sole era ormai diventato una sfera aranciata che sfumava il cielo e i tetti delle case, così come l’acqua cheta del fiume. Nonostante ci fossero diversi gruppi di persone che passeggiavano per il parco, e numerose coppiette in fila per farsi fare una foto vicino ai lampioni, quasi non si udiva nulla. Anita adorava quel luogo, da bambina era la tappa fissa della domenica pomeriggio con i suoi genitori. Fin quando i turni del padre alla ferrovia non erano aumentati e loro due – Alessia e Anita – non si erano fatte abbastanza grandi da provare quel senso di vergogna a uscire con mamma e papà.
Consultò l’orologio al polso, mancavano ancora dieci minuti al fatidico orario, ossia le venti. Prima di uscire da casa, aveva mandato un messaggio nella chat di Ⱦhunder per dirgli com’era vestita, non era certa che l’avesse letto, benché il suo stato fosse impostato su Online, ma aveva preferito scendere in strada e fare una passeggiata per distendere i nervi e provare a rilassarsi. Soprattutto, temeva che avesse cambiato idea e rinviato l’appuntamento se fosse rimasta qualche minuto di troppo nella propria stanza. Anche se, doveva ammettere che sua sorella aveva fatto una specie di miracolo nell’acconciarla in quel modo. Almeno un pensiero se l’era tolto. Pensò fugacemente alla festa della scuola. Chissà come stava andando, se qualcuno aveva notato la sua assenza… di sicuro no.
Adesso era lì che aspettava da un quarto d’ora almeno, convinta sempre più che lui non si fosse presentato. E se l’avesse vista da lontano e fosse scappato? Forse aveva sbagliato a dirgli che lei sarebbe stata quella con la maglia azzurra e il cinturone bianco. Forse, sarebbe stato meglio non rendersi così riconoscibile. Ora, se a Ⱦhunder non fosse piaciuta, avrebbe fatto dietro front e lei non l’avrebbe mai saputo.
Non ne combinava una giusta, accidenti! Non avrebbe mai dovuto accettare di incontrarlo, ma lui era diventato così insistente nell’ultimo periodo! Avevano fatto anche una scommessa, e Ⱦhunder non era tipo da rimangiarsi la parola, no?
Guardò l’ora: cinque minuti alle otto.
Adesso ne era certa, non si sarebbe presentato, le avrebbe dato buca e lei avrebbe pianto tutte le lacrime che aveva in corpo. Si sarebbero scritti ancora oppure Ⱦhunder avrebbe bloccato il suo contatto in modo che non potesse più inviargli messaggi? E se, invece, lui era già…
«Storm?!»
Ad Anita mancò un battito, forse anche due. La sua voce, era la sua vera voce quella! Lentamente si staccò dal corrimano di ferro battuto per voltarsi indietro. Aveva caricato quel momento di così tanta aspettativa che adesso le pareva una cosa normale guardare Ⱦhunder negli occhi, parlargli, stringerli la mano per presentarsi…
«Ciao, Ⱦhund-» e le parole le si strozzarono in gola. «Ste-Stefano?»
C’era un errore, per forza.
 
 
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Capitolo 8
*** Ȼapitolo Ơtto “Տtorm&Ⱦhunder” ***


 
 
Ȼapitolo Ơtto
Տtorm&Ⱦhunder


 
Stefano Parisi lasciò il motorino davanti ai cancelli del parco, assicurandolo con la catena negli appositi parcheggi. Diede un ultimo veloce sguardo ai capelli nello specchietto retrovisore, ravviando il ciuffo che gli era caduto sulla fronte, quindi si incamminò verso il punto d’incontro con Storm.
Inutile negare che finora aveva fantasticato sul suo aspetto fisico: la immaginava come una ragazza semplice, con i capelli castani raccolti in una coda di cavallo – nella sua testa portava sempre i capelli legati – e gli occhi color nocciola incorniciati da ciglia nere infoltite dal mascara. L’abbigliamento casual, fresco e informale, a nascondere un fisico magro e asciutto; non troppo alta, magari le sarebbe arrivata alle spalle grazie ai sandali con le zeppe. In fondo, aveva una ventina d’anni, faceva la barista in un locale del centro, quindi nulla di eccentrico.
Mentre attraversava i sentieri del parco, senza far caso alle persone che gli scivolavano di fianco, o alle coetanee che lo osservavano sghignazzando per il suo essere un bel tipo, si chiese se lei avesse piercing o tatuaggi in vista. Non era un fan di questa moda di incidersi o dipingersi la pelle, ma non gli piaceva neanche giudicare le scelte altrui. Sorrise, immaginando la faccia dei suoi genitori se un giorno avesse presentato una ragazza stile punk in qualità di propria fidanzata. Se li sarebbe portati sulla coscienza, probabilmente.
Ah, quanto adorava farli arrabbiare!
Completamente rapito dai suoi voli pindarici, non si rese conto che era giunto sul luogo esatto dell’appuntamento: i lampioni innamorati. Si fermò qualche metro prima, osservando con attenzione la gente e cercando di individuare Storm fra i presenti. Ammesso che fosse già arrivata, ovvio. La panchina era occupata per lo più da turisti; un gruppo di giapponesi ascoltava ammaliato la spiegazione della guida; poi notò una ragazza che sembrava essere da sola, aggrappata al parapetto, intentata a scrutare il Po e il tramonto che iniziava a calare oltre i tetti delle case a ovest. Non era come se l’era immaginata, niente code di cavallo, ma l’abbigliamento si avvicinava molto alla sua idea di casual. Fece un respiro profondo, il cuore – che fino a quel momento se ne era stato buono e tranquillo – prese a battergli forte nel petto.
Ok, andiamo!” si disse e la chiamò con il suo nickname (l’unico che conoscesse, fra l’altro).
«Storm?!»
Lei si voltò, piano e sorridente, emozionata. La voce le tremò:
«Ciao, Ⱦhund-» e le parole le si strozzarono in gola. «Ste-Stefano?!»
Stefano fece un passo indietro, muovendo la testa prima a destra poi a sinistra, formando un no con le labbra.
No, no, no!”
«Tu-tu, cioè tu…» balbettò. «Non è possibile!» disse, sembrava frastornato. «Non ci credo!» Gli girava il mondo intorno. Com’era possibile? Per tutto quel tempo, tutti quei mesi, aveva parlato con quella lì? Era uno scherzo, per forza!
Anita sembrava stupita quanto lui, senza sapere cosa dire, l’imbarazzo era evidente e pesante. Stefano girò sui tacchi e iniziò a percorrere la strada a ritroso. La rabbia era troppa, i pensieri completamente scomparsi dalla sua mente che improvvisamente si era come svuotata. Doveva allontanarsi, si vergognava come un ladro colto in flagrante. Anita però lo seguì, chiamandolo più volte, dicendogli di fermarsi un momento. Aveva il fiatone, lui aveva gambe lunghe e allenate, lei era bassina e i battiti accelerati – per la meraviglia e il disagio – non l’aiutavano di certo a tenere il passo.
Percorsero all’incirca duecento metri così: lui che camminava a grandi falcate con la testa bassa e i pugni chiusi, simile a un toro che sta caricando; e lei che gli saltellava dietro e lo pregava di aspettarla, il fiato corto e il volto accaldato per l’imbarazzo e lo sforzo fisico. Erano nei pressi dei cancelli d’entrata, Stefano virò leggermente a destra, calpestando le aiuole – cosa vietata – e finalmente arrestò la sua corsa sotto un sempreverde. L’aspettò con le braccia conserte e gli occhi calati sull’erba curata.
Anita si piegò in avanti, premendosi una mano sul cuore che sembrava volerle uscire dal petto. Ora che ce l’aveva di fronte, però, non sapeva cosa dire.
«Mi hai preso in giro, tu lo sapevi!» Cominciò lui.
«N-no, ti giuro! Come facevo a sapere che eri tu?»
«Bugiarda! Mi fai schifo! Sei una manipolatrice!»
Anita Lentini spalancò gli occhi, quelle parole la ferirono come se a pronunciarle fosse stato un suo caro amico e non Stefano Parisi. Ma in verità, lui era anche il suo migliore amico, no? Lui era Ⱦhunder, maledizione!
Ma era più Ⱦhunder o più Stefano?
La ragazza mosse le labbra per controbattere, eppure uscì un flebile verso che non significava niente, perché si accorse di non sapere cosa dire.
«Che nullità! Una barista di vent’anni, come no?!» Concluse lui, ficcandosi i pugni nelle tasche del pantalone e oltrepassandola per andare via.
«L’ho fatto perché se ti avessi detto che avevamo la stessa età, mi avresti chiesto che scuola frequentavo e non volevo che-»
Sentendo la parola scuola a Stefano si accese una lampadina nel cervello. Accidenti, non aveva pensato a quell’altra faccia della medaglia. E se quella sfigatella fosse andata in giro a dire che lui amava scrivere e tutte quelle stronzate lì?
«Non ti permettere di mettere in mezzo questa farsa con quelli della classe, hai capito?» La sovrastò con il suo metro e ottanta. Anita parve farsi più piccina di ciò che era. «O, giuro, ti renderò la vita impossibile!»
«Come se non fosse già così…» biascicò lei fra sé e sé.
«Che hai detto?» Stefano si affacciò in avanti, in un gesto minaccioso più che altro.
«Niente.»
«Ecco, brava.» Il ragazzo proseguì per la sua strada. «Sfigatella del cazzo!» Concluse, in tono abbastanza alto in modo che potesse sentirlo. Raggiunto il motorino vi salì a bordo e mise in moto, soffermandosi pochi secondi per notare Anita, con le spalle contro l’albero sotto il quale si era riparato pocanzi, piangere stringendosi forte le braccia intorno all’addome, stropicciandosi la maglia con le dita. Per un attimo, un solo istante, si vide scendere dal veicolo e tornare indietro, semplicemente per dirle che gli dispiaceva di averla trattata in quel modo barbaro, ma era deluso e si sentiva tradito. Si era fidato di Storm, si era affezionato a quella ragazza spigliata e simpatica con la quale chiacchierava ormai da mesi, tanto che i loro incontri in chat erano diventati un appuntamento quotidiano. Avrebbe potuto circondarle le spalle con un braccio e dirle che non era successo niente, non era morto nessuno – a quella battuta si sarebbero sorrisi entrambi, lo sapeva – e poi, quando si fosse calmata, ognuno sarebbe tornato a casa propria. Invece, ingranò la prima e si immise nella strada, con un obiettivo bene a mente: la festa della scuola.
 
Anita si asciugò le lacrime, alzando il capo quando due innamorati sulla trentina le chiesero se fosse tutto ok. Lei annuì, ringraziò e si costrinse ad andare via, o chiunque passasse le avrebbe chiesto se avesse bisogno di aiuto. No, non aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno di tornare indietro nel tempo.
Stefano Parisi era Ⱦhunder, dannazione!
La rivelazione era scioccante, certo, nonostante ciò quello che le faceva più male, quello che la faceva soffrire senza riuscire ad arrestare le lacrime, era il fatto che aveva perso il suo migliore amico. Non avrebbero conversato mai più, non ci sarebbe stato più nessuno ad aspettarla dopo cena per una chiacchierata frivola, per farla sentire come una persona normale e non una sfigata che a scuola prendevano in giro. Da settembre, quale sarebbe stata la sua forza? Dove avrebbe trovato la volontà di sopportare gli insulti e gli scherzi dei quali era vittima? Chi avrebbe letto le sue storie? A che serviva scrivere se nessuno leggeva?
E se Stefano avesse deciso di stampare i suoi racconti e distribuirli nell’istituto facendola passare per una psicopatica che inventa cose perché non ha una vita sociale? Non voleva neanche pensare a quell’eventualità… il solo pensiero le contorceva le viscere. Fabio Morini si sarebbe potuto riconoscere nel cattivo della sua storia, e Barbara Scala nella bella ma stupida ragazza che voleva per forza diventare la reginetta della scuola.
Eppure, tutti quei pensieri nulla potevano contro la certezza che da quel momento era sola, non aveva neanche più un amico con cui sfogarsi. Sebbene, doveva ammetterlo, con Ⱦhunder il rapporto non era propriamente basato sulla verità reciproca, parlavano di tante cose, ma mai di quello che le succedeva davvero nella routine giornaliera. Lui, invece, era stato un po’ più sincero con lei, questo doveva concederglielo. Ma con quale coraggio avrebbe dovuto scrivergli: “sai, oggi a scuola mi hanno rovesciato la bottiglia dell’acqua in testa?”.
Anita tornò a casa in punta di piedi e tirò un sospiro di sollievo scoprendo che l’appartamento era vuoto. Per qualche ora, almeno, avrebbe potuto piangere e disperarsi come meglio credeva, ma prima c’era una cosa che doveva fare se voleva evitare il peggio: cancellare dal sito su cui pubblicava tutte le storie che aveva caricato fino a quel momento. A malincuore, certo, ma era per un bene superiore.
 
Stefano Parisi raggiunse la palestra della scuola una ventina di minuti dopo. Il ciuffo di capelli scuri gli era ricaduto sulla fronte, ma questa volta non se ne preoccupò. Era livido in viso per la rabbia. Si sentiva preso in giro come non mai, da quella sfigatella tra l’altro. Continuava a essere convinto che lei sapesse chi fosse, chi si nascondesse dietro il nickname Ⱦhunder, altrimenti non c’era motivo per cui avrebbe dovuto mentirgli sull’età e sul lavoro. Adesso, però, doveva smettere di rimuginarci sopra, la vendetta era un piatto che andava consumato freddo e poteva stare tranquilla che non sarebbe finita lì. In qualche modo gliel’avrebbe fatta pagare. Ma, per ora, era a una festa e le feste erano fatte per divertirsi, no?
Salutò con un cenno della mano i professori all’ingresso e alcuni ragazzi più grandi che conosceva di vista. All’interno la musica era altissima, addirittura c’era un gruppo formato da quattro elementi che suonava, tra cui il batterista che aveva l’aria di uno sull’urlo di una crisi epilettica tanto si dibatteva. Stefano si fermò a prendere una bibita, chiedendo al ragazzo oltre il tavolo imbandito se ci fosse qualcosa di alcolico. Quello scosse il capo con aria dispiaciuta, Stefano lo ringraziò comunque, più dispiaciuto di lui, e si voltò verso la pista, in cerca dei suoi amici. Per fortuna, Fabio aveva i capelli di un colore così eccentrico che lo avrebbe individuato anche in una miniera priva di luce. Ballava con una ragazza – incredibile, alla fine era riuscito nell’intento di trovare una compagna per quella serata – e quando Stefano lo raggiunse, l’amico mandò un urlò e letteralmente gli saltò addosso. Era felicissimo – e anche un tantino brillo – che fosse riuscito a passare. Stefano Parisi se lo scrollò di dosso con garbo.
«Che cos’hai lì dentro?» Gli chiese, indicando il bicchiere che Fabio teneva in mano.
«Roba buona, amico. Roba buona» fece l’occhiolino e gli disse di chiedere al ragazzo con le braccia incrociate e la cresta variopinta alle spalle della band. Stefano annuì.
«Vedo che sei in compagnia…» aggiunse poi, indicando la ragazzina al fianco di Fabio, che fino a quel momento si era limitata a osservare la scena divertita. Era molto, molto carina, notò Stefano.
«Dici lei?» Fabio le circondò le spalle con un braccio, lasciandole un bacio sui capelli chiari. «Amico caro, ti presento Alessia. Alessia, ti presento il mio migliore amico!»
«Sono Stefano» sorrise questo, allungando la mano per presentarsi.
«Alessia» rispose la ragazza, stringendo le proprie dita a quelle del ragazzo. Entrambi avevano una bella presa.
Fabio si sporse poi verso Stefano, sussurrandogli all’orecchio:
«E la sorella della sfigatella» sghignazzò, facendogli un secondo occhiolino.
A Stefano venne il voltastomaco, aveva bisogno di bere e di fumare. Soprattutto di prendere una boccata d’aria fresca.
 
Alle spalle della palestra si apriva uno spiazzo dove talvolta parcheggiavano le automobili i professori, ammesso che vi trovassero posto poiché non era così ampio. Lungo la recinsione c’erano due bidoni dell’immondizia, uno verde e l’altro giallo, già traboccanti di piatti e bicchieri di plastica. Lontani da occhi indiscreti, c’erano anche diverse coppiette che si erano appartate per avere un po’ di intimità. Ma non solo. Stefano Parisi riconobbe alcuni studenti che si passavano uno spinello e bevevano a turno da una bottiglia di superalcolici. Sapeva che se si fosse avvicinato, un tiro o un sorso non glielo avrebbero negato, erano sempre contenti di accogliere nuovi adepti, eppure si costrinse a desistere. Quella storia con sfigatella non meritava né un tiro di spinello né una sbornia, quindi si accese una Winston rossa e ne assaporò il fumo, formando piccoli cerchi concentrici davanti al proprio volto. Li osservò dissiparsi nell’aria tiepida di giugno.
Ancora non lo sapeva, ma l’estate del 2003 si sarebbe rivelata fra le più calde degli ultimi secoli, registrando un vero record.
La sua mente saltava da un pensiero all’altro, simile a una rana nello stagno, e nessuno coerente fra loro. Andava dall’immagine che si era fatto di Storm a colei che si era rivelata essere; a Fabio, che aveva adescato la sorellina di Anita Lentini; a quest’ultima che piangeva disperata con la schiena contro un tronco. Forse aveva esagerato un pochino con quelle minacce… e se non fosse riuscita a tornare a casa perché era troppo sconvolta?
«Allora sei venuto?»
«Eh?!» Stefano si voltò nella direzione da cui era provenuta la voce, cadendo letteralmente dalle nuvole. Barbara Scala lo guardava con occhietti vispi e forse velati dall’alcol, controluce la fronte era lucida di sudore e lungo il collo scivolava qualche gocciolina. La ragazza si fece vento con le mani:
«Per stare solo a giugno fa molto caldo.»
Stefano annuì con un verso, chiedendosi perché loro due non stavano ancora insieme. Che Barbie fosse innamorata di lui era ormai cosa notissima, allora cosa aspettava? Era una bella ragazza, aveva un bel fisico, vestiva bene, era anche simpatica. Non sarà stata una cima, ma non si può avere tutto dalla vita, no? E allora perché diamine non ci aveva ancora provato con lei? La risposta era palese e la conosceva fin troppo bene: perché si era preso una cotta per una persona che non esisteva, o meglio, che aveva idealizzato nella sua testa e che si era rivelata essere tutt’altro.
Quindi non c’erano più ostacoli affinché la relazione con Barbara Scala cominciasse, giusto? L’estate era ormai iniziata, una compagnia con cui trascorrere le lunghe e vuote giornate estive non poteva fargli che comodo…
«Fabio mi aveva detto che non stavi bene» stava continuando lei. «Mi fa piacere però vederti…»
Stefano tirò un’ultima boccata di fumo dalla sigaretta, poi gettò la cicca quanto più lontano possibile, dandole le spalle e valutando ancora una volta, velocemente, i pro e i contro di ciò che stava per fare.
Storm non esiste più” si disse a occhi chiusi. “Storm è Sfigatella…”
«Vabbè, io torno dentro...»
La voce amareggiata di Barbara lo ricondusse sulla terra ferma.
Ora o mai più” pensò, e con uno scatto si voltò indietro, afferrando il volto della ragazza bionda con entrambe le mani e baciandola con voracità. Lei non si fece supplicare e gli si aggrappò alla nuca, così contenta che sarebbe anche potuta morire in quell’istante.
 
Poco più in là, il professore di spagnolo e l’insegnante di letteratura italiana stavano abbandonando la festa. Giovanna Dell’Arco notò i due alunni presi l’uno dall’altro e tirò il collega per la manica della camicia, indicandoglieli.
«Vedi» cominciò, con il tono di chi sa di avere sempre ragione, alla fine. «Come ti dicevo pocanzi, gli Stefano Parisi non si mettono con le Anita Lentini, bensì con le Barbara Scala di turno.»
Elia Morales sorrise, scuotendo il capo, forse deluso dalla mancata eccezione che avrebbe confermato la regola.
«Avevi ragione tu, ho perso. Quindi mi offro di pagarti da bere!»
«Alcol vero?! Oddio sì, grazie!» Esclamò Giovanna. «Non ce la facevo più a bere succhi di frutta multivitaminici!».



 
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Capitolo 9
*** Ȼapitolo Ɲove “In viaɡɡio” ***


 
Buongiorno a tutti! Chiedo scusa se sono sparita per due mesi, non ho scuse plausibili... da oggi mi impegnerò a pubblicare regolarmente ogni 15 del mese. 
Grazie ai quanti continuano a seguire questa long,
Nina^^




Ȼapitolo Ɲove

In viaɡɡio


 
 
Anita Lentini trascorse l’estate del 2003 in casa. Ogni tanto andava al Po con la madre e un’amica di questa, supplicata dalla donna che pareva sempre più preoccupata per la solitudine della figlia, ma accompagnata da una paura profonda di incontrare qualche compagno di classe. Per fortuna, non accadde mai, soprattutto perché loro andavano la mattina presto e tornavano prima di pranzo.
Sua sorella Alessia, al contrario, usciva praticamente sempre. Di giorno andava al fiume o all’acquapark con le amiche e di sera in giro per la città, nonostante le lamentele dei genitori. Una volta sua madre le disse di chiedere ad Anita se volesse andare con lei e la minore delle due le rispose che ci aveva già provato, ma quella le aveva risposto in modo sgarbato di farsi i fatti suoi, sbattendole la porta della stanza in faccia.
In effetti, Alessia quell’estate era particolarmente allegra, più del solito. Già di base aveva un’indole solare e socievole, l’esatto contrario della sorella maggiore insomma, ma in quei giorni lo era ancora di più. Tutto era cominciato la sera della festa della scuola. Tornando a casa, si era diretta nella stanza di Anita, dove l’aveva trovata sepolta sotto le coperte nonostante l’aria tiepida.
«Ani, ehi?!» Le si era inginocchiata accanto. «Com’è andata la serata con Ⱦhunder?»
«Lasciami stare!» era stata la risposta stizzita della sorella più grande.
«Non si è presentato?» Silenzio. «La festa invece è stata super! Indovina chi si sono messi insieme?» Ancora silenzio. «Quei tuoi compagni di scuola: Barbara e Stefano. Sono una coppia bellissima! Sembrano usciti da un telefilm! Fabio mi ha detto che era solo questione di tempo, che anzi si era sempre chiesto perché Stefano ci avesse messo tanto a dichiararsi. Tu lo sapevi che si piacevano?» Silenzio. «Eh, Ani? Lo sapevi?»
«Ti ho detto di lasciarmi stare!»
«Ok, ok! Me ne vado…» Alessia allora era sgusciata fuori dalla stanza senza aggiungere altro.
Se Anita non fosse stata troppo triste per la rivelazione della vera identità del suo amico Ⱦhunder e ancor di più per la notizia che dopo averla incontrata era corso fra le braccia di Barbie, avrebbe notato un passaggio nel racconto di Alessia che non tornava. Ossia, il fatto che Fabio gli avesse detto delle cose. Non ciò che le aveva riferito – cose che pensava anche lei – ma piuttosto che ne avesse parlato con la sua sorellina.
Perché Fabio Morini e sua sorella Alessia avevano chiacchierato alla festa? Cos’era accaduto tra di loro?
Inoltre, Alessia usciva tutte le sere proprio con gli amici di scuola di Anita. Fu lei stessa a dirglielo, quando la invitò più di una volta a uscire insieme. Anche quello sarebbe dovuto essere un campanello d’allarme, ma Anita era troppo distratta e depressa per coglierlo e tutti quei particolari passarono in sordina.
Tuttavia, il tempo trascorse – a dispetto di ciò che l’essere umano desidera – e settembre giunse inesorabile come una ghigliottina, a dividere l’estate dall’inizio del nuovo anno scolastico.
Prima dell’inizio della scuola, c’era un altro evento che spaventava a morte Anita e che se avesse potuto avrebbe evitato volentieri: il weekend a Sorrento, per la premiazione del concorso letterario al quale aveva partecipato con un racconto. Sia lei, sia Stefano Parisi erano stati invitati alla cerimonia, tutto pagato dall’associazione no profit che aveva indetto la gara. Ad accompagnare i due studenti sarebbero stati i professori di letteratura italiana Giovanna Dell’Arco e l’insegnante di spagnolo Elia Morales, al quale era stato chiesto proprio dalla collega di andare con lei, poiché i vincitori erano due alunni, servivano due accompagnatori. Certo, non si sapeva se fossero sul podio e se quindi avessero davvero vinto i premi in palio, ma erano stati selezionati fra i primi dieci partecipanti ed era qualcosa di cui andarne più che fieri. L’appuntamento era alle sei al binario uno della stazione Porta Susa. Anita tentò più volte di convincere i suoi a non lasciarla partire. Con quale faccia avrebbe affrontato un viaggio di otto ore e due giorni interi con Stefano Parisi?! Anche quella mattina, alle cinque e un quarto, con davanti un tazzone di latte e cereali, chiese alla madre di trovare una scusa plausibile da raccontare alla professoressa.
«Basta, Anita! È una cosa bella! Hai sedici anni, se non ti godi adesso la vita, quando?»
«Ancora con questa lagna!» Alessia entrò in cucina, sbadigliando vistosamente e con i capelli spettinati. Anche così, pensò Anita, era bellissima. «Se non vuoi andare tu, ci vado io!»
«Davvero?» Anita la guardò quasi speranzosa.
«Smettetela, tutte e due! Anita andrà a questa cosa perché è lei che ha vinto il concorso!» Intervenne la madre.
«Non ho ancora vinto niente.»
«Sei arrivata fra i primi dieci però, è già un grande risultato» aggiunse la donna, provando a infondere un po’ di autostima in quella figlia fin troppo introversa.
«Magari i partecipanti erano solo dieci» sghignazzò Alessia, beccandosi un’occhiataccia da parte della mamma, la quale invitò lei a tornare a letto e Anita a finire presto la colazione.
A quell’ora la stazione era semideserta, considerando anche il fatto che era il primo weekend di settembre e quindi le persone non erano rientrate ancora tutte dalle vacanze estive. Giovanna Dell’Arco si accese la prima sigaretta della giornata, lanciando l’ennesimo sguardo all’orologio della ferrovia. Mancavano dieci minuti alle sei e il loro treno era già arrivato. Stefano Parisi ed Elia Morales erano saliti a bordo, sedendosi ai posti loro assegnati, nel frattempo lei aveva preferito attendere Anita Lentini sui binari. La vide arrivare mogia mogia, con la testa china mentre trainava il trolley rosso e blu, preceduta dalla madre che al contrario era tutta vispa e trafelata.
«Professoressa Dell’Arco, scusate il ritardo» disse, quasi spingendo in avanti la figlia che a malapena balbettò un buongiorno.
«Siete in perfetto orario, signora. Ciao Anita!» Giovanna schiacciò la cicca nel posacenere alla sua destra senza smettere di sorridere per educazione. Una strana sensazione di disagio l’accompagnava ormai da qualche giorno pensando a quel viaggetto in Campania e non riusciva a spiegarsene il motivo. Adesso, però, vedendo la sua alunna credette di aver dato una risposta a quell’emozione negativa. Sbagliandosi.
«Vogliamo salire? Stefano e il professor Morales sono già su.»
A quella notizia Anita sbiancò. Aveva sperato fino alla fine che Stefano Parisi avesse dato forfeit, che come lei avesse pensato che sarebbe stato meglio evitare quella pagliacciata. E invece lui era già lì. Il bacio che la mamma le lasciò sulla testa la ridestarono da quei pensieri, alzò il capo per guardarla negli occhi e quasi scoppiò a piangere supplicandola di riportarla a casa. Invece, seguì la professoressa fin sul treno, mentre sua madre la salutava ancora con la mano sperando in cuor suo di aver fatto la scelta giusta a costringerla quasi ad andare.
Anita lo vide da lontano, intanto che seguiva Giovanna lungo il corridoio del vagone e tirava dietro di sé la valigia. Gli altri posti erano perlopiù vacanti, fatta eccezione per pochi casi. Elia Morales alzò un braccio per farsi notare, era sorridente e allegro come di consueto; accanto a lui sedeva Stefano Parisi, gli occhi chiusi e la testa adagiata contro il vetro, con le braccia conserte sul petto, sembrava dormisse. Elia salutò Anita, chiedendole come stesse e come fosse andata quell’estate.
«Niente sole?» Scherzò, riferendosi evidentemente alla carnagione pallida della ragazza, la quale scosse il capo. Gli altri tre erano tutti abbronzati, chi più chi meno. L’aiutò a sistemare il trolley nell’apposito scompartimento in alto e si riaccomodò al proprio posto. Di fronte, si sedettero Anita e la professoressa, quest’ultima invitò con un cenno della mano la giovane ad accomodarsi vicino al finestrino, il posto più ambito da ogni viaggiatore; al centro, fra i quattro, c’era un tavolino dove poter appoggiare eventuali oggetti. Stefano, che in verità non stava dormendo affatto, sbirciò da un occhio la compagna di classe che gli si era seduta di fronte. Anita accennò un sorriso imbarazzato, ma lui riabbassò le palpebre e dopo un po’ si addormentò per davvero.
Giovanna Dell’Arco, sempre molto attenta a ogni minino particolare, non poté non notare la freddezza fra quei due, né l’aria avvilita di Anita Lentini. Eppure, li aveva lasciati alla fine della scuola che andavano abbastanza d’accordo, non erano grandi amici, questo no, ma ricordava ancora perfettamente la complicità nata durante le partite di pallavolo. Inoltre, i dispetti nei confronti di lei si erano placati parecchio. Perché adesso non si salutavano neanche? Fra quei due era successo qualcosa, per forza! Lanciò uno sguardo d’intesa al collega, ma quest’ultimo, in quanto uomo appunto, non sembrava aver recepito l’imbarazzo che correva fra i suoi giovani alunni. E come avrebbe potuto, fra l’altro? Era giovane a sua volta…
“Perfetto” pensò divertita, “trascorrerò il weekend a fare da babysitter”.
 
A Firenze il capotreno annunciò ai gentili passeggeri che la sosta sarebbe stata più lunga a causa del leggero anticipo con cui il mezzo viaggiava.
«Da non crederci! Evento più unico che raro!» Scherzò Giovanna, alzandosi in piedi e stiracchiando braccia e schiena.
Intanto, Stefano si era svegliato già diverse città prima, rimanendo con la testa contro il finestrino e lo sguardo fisso sul paesaggio che gli scorreva davanti, anche quando avevano attraversato le lunghe gallerie liguri. Anita, invece, aveva messo le cuffie e cercato di rilassarsi con le sue canzoni preferite. Molte delle quali, tra l’altro, le erano state consigliate ai tempi da Ⱦhunder. Incredibile, davvero! Ⱦhunder era seduto proprio di fronte a lei, ma non si erano neanche rivolti la parola.
«Va a fumare, prof?» Stefano finalmente si staccò dal vetro e guardò Giovanna, la quale annuì. «Posso venire con lei?»
L’insegnante lo guardò con un’espressione indecisa, il pacchetto di Winston Blue già nelle mani.
«E dai, prof!» Intervenne Elia, in favore del ragazzo. «Non siamo a scuola! Facciamoglieli godere spensierati questi due giorni. Rilassiamoci anche noi!»
«Va bene! Dai, vieni!» Poi si voltò verso Anita. «Lentini, vuoi prendere una boccata d’aria anche tu?»
«N-no, no. Grazie!»
«Vuoi qualcosa da bere? Da mangiare?» Continuò la professoressa.
«No, no. Grazie!»
Giovanna Dell’Arco la fissò per qualche secondo, prima di rivolgersi al collega, il quale le disse di stare tranquilla, le avrebbe tenuto compagnia lui. Solo, se gentilmente, gli portava un caffè.
 
L’insegnante di letteratura italiana si accese la sigaretta e poi passò l’accendino a Stefano, il quale ringraziò e glielo tornò indietro. Per i primi secondi nessuno dei due parlò, si limitarono ad assaporare il gusto acre del fumo. La stazione di Santa Maria Novella era piena di turisti, treni che partivano e altri che ne giungevano. L’aria era satura di odori e la temperatura decisamente più calda di quella di quando si erano messi in viaggio.
In realtà, la professoressa stava solo soppesando le parole adatte per introdurre l’argomento Anita Lentini. Quei due si evitavano volutamente, in particolare Stefano non l’aveva degnata neanche di uno sguardo che fosse di sfuggita.
«Penso abbiate entrambi, tu e la Lentini, ottime probabilità di arrivare fra i primi tre, sai?» Cominciò.
«Ha letto anche gli altri racconti in gara?» Fece Stefano.
«No, però i vostri sono buoni e credo abbiano centrato il tema del concorso, ovvero l’importanza della comunicazione ai giorni nostri e il ruolo fondamentale che svolge la tecnologia in questo campo.»
Stefano Parisi inspirò l’ultima boccata di fumo e spense la sigaretta premendone la punta nel posacenere. Una domanda continuava a martellarlo da quando la professoressa aveva dato sia a lui sia a Sfigatella l’invito a quella cerimonia. Di cosa parlava il suo racconto? Se avesse potuto leggerlo, non avrebbe esitato a farlo. All’inizio perché era curioso di leggere qualcosa scritto da quella ragazza che lui aveva sempre reputato insulsa, noiosa; poi, avendo scoperto che si trattava di Storm – e conoscendo la sua abilità nella scrittura – conoscere la trama della sua storia.
«Sarei curioso di leggere il racconto della Lentini» disse tutto d’un fiato, attendendo la risposta della professoressa, la quale sembrò prendersi del tempo tirando una boccata di fumo.
«Chiediglielo. Potreste scambiarvi i racconti, confrontarvi…»
“Già fatto” pensò Stefano, ricordando i numerosi pomeriggi passati in chat a darsi consigli a vicenda. Lei era molto brava nell’introspezione, lui nelle descrizioni.
«Se sei curioso, comunque, posso dirti che il racconto di Anita ruota intorno alla disabilità di una ragazza che grazie alla tecnologia riesce a comunicare con gli altri, a farsi degli amici, veri, sinceri, che le si affezionano per ciò che ha dentro, senza giudicarla solo da un punto di vista estetico. Creano una specie di gruppo di chat dove si ritrovano ogni giorno e, alla fine, la protagonista trova il coraggio che le mancava per affrontare la vita, nonostante i suoi limiti.»
Stefano ascoltò senza batter ciglia. C’era qualcosa di tremendamente familiare in quella storia da ammutolirlo, ed era facile riconoscere nella disabilità della protagonista la metafora del bullismo di cui era vittima Anita.
«Simile, ma dai contenuti differenti, il tuo racconto. Più leggero, se vogliamo, per i temi trattati, ma comunque significativi. Un ragazzo e una ragazza che si conoscono su internet per puro caso, cominciano a parlare e capiscono che possono essere quelli che sono davvero, senza dover fingere di essere forti e invincibili, perfetti, come troppo spesso accade nella vita reale. Dietro a uno schermo le difese possono abbassarsi e perciò essere se stessi per davvero. Ne nasce una bella amicizia che, alla fine della storia, si trasforma in qualcosa di più.» Giovanna Dell’Arco sorrise. «Romantico.» Aggiunse, spegnendo a sua volta la sigaretta. «Credo che ognuno di voi abbia cercato di riportare un po’ di sé in questi due racconti. Tu con il tabù del ragazzo perfetto, e Anita con il sentirsi sola ed esclusa.»
«È sola perché è una bugiarda e una manipolatrice!» Buttò fuori Stefano, mettendo in bella mostra tutto il rancore che provava nei confronti di Storm. Era adirato con lei come se gli avesse fatto un torto personale, eppure lei non sembrava arrabbiata con lui. L’insegnante stava per controbattere, quando il fischio del capotreno li esortò a tornare a bordo, il viaggio verso Napoli sarebbe ripreso da lì a pochi minuti.

 
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Capitolo 10
*** Ȼapitolo Ðieci “Տorrento” ***


 

Ȼapitolo Ðieci

 “Տorrento
 


Il primo sorriso sul volto di Anita Lentini si manifestò di fronte alla bellezza del mare. Una distesa sconfinata di celeste che all’orizzonte si fondeva con il cielo e mandava riverberi di sole. Era come se in quella parte di Italia la bella stagione non fosse ancora finita, come se non dovesse finire mai in realtà. Illimitata.
Anita si era voltata verso la portafinestra che dava sul terrazzo dell’hotel, rapita dal verso dei gabbiani e dalla brezza che le aveva smosso i capelli. Era stato in quel momento che gli occhi le si erano riempiti di azzurro e le narici di odore di mare. Si era mossa, senza neanche rendersene conto, mentre gli altri erano intenti a registrarsi alla reception, respirando a pieni polmoni l’aria buona di Sorrento. Il terrazzo cadeva a picco sul mare, dove alcuni bagnanti erano in costume a prendere il sole; piccole imbarcazioni stanziavano a mollo e viste da lassù in alto sembravano minuscole, da poter quasi tenere in un palmo di mano. E aveva sorriso Anita, chiudendo gli occhi e inarcando leggermente la testa all’indietro. Finalmente, dopo mesi e mesi, sentiva il cuore più leggero, la vita sembrava fare meno schifo. Una volta, aveva letto da qualche parte che è facile essere felici di fronte al mare, o qualcosa di simile. Beh, chiunque l’avesse detto/scritto aveva avuto ragione.
«Lentini, ehi?!» Stefano la chiamò affacciandosi oltre le ante della finestra. Lei parve svegliarsi da un sogno a occhi aperti, un velo di apatia le ricadde sul viso. «La Dell’Arco ha detto che dobbiamo salire in camera.»
Anita fissò ancora per qualche secondo il panorama che si espandeva dinnanzi a lei: una costa verdeggiante che scosciava direttamente nel blu profondo del mare. Una cartolina. Quindi oltrepassò Stefano per tornare all’interno dell’albergo, solo allora notò che sulla schiena della t-shirt che lui indossava c’era il simbolo de “Il Signore degli Anelli”. Che lo avesse fatto di proposito? In fondo, il loro rapporto virtuale era cominciato per un disguido su quale saga fosse la più bella tra il capolavoro di Tolkien – appunto – e quello della Rowling.
«Non hai mai visto il mare, Sfigatella?» Le sussurrò quando gli passò proprio davanti, attenta a non sfiorarlo neanche per errore.
«La tua maglia fa cagare!»
Stefano Parisi accennò un sorriso criminale.
 
La camera che era stata loro assegnata si rivelò essere una suite a due ambienti e un bagno; inoltre, a dividere le camere da letto c’era solo una tenda di velluto rosso, broccato pesante, e nulla più. Né una porta, né altro. La professoressa di italiano storse il muso, era abituata da anni a vivere da sola e ad avere una privacy completa, invece adesso avrebbe dovuto condividere uno spazio ristretto con altre tre persone, tra cui due maschi. Per fortuna si sarebbe trattato solo di una notte. Mise subito in chiaro che la toilette sarebbe stata usata innanzitutto dalle donne, poi sarebbe toccato a loro.
«E se fosse urgente?» Scherzò Elia Morales.
«Te la tieni!» Fu la risposta secca di lei.
Poiché la cerimonia sarebbe cominciata alle diciotto e mancavano diverse ore, senza contare che dovevano pranzare, decisero di fare una passeggiata per la città. Sorrento si rivelò un paesino bomboniera, con vicoletti caratteristici e alberi di limoni in ogni angolo. Il mare spiccava fra le case e Anita non perdeva mai occasione per lanciare un’occhiata nella sua direzione: balsamo per gli occhi e l’anima. Si fermarono a condividere una pizza, a prendere un gelato, a fare shopping per comprare qualche souvenir. Anita Lentini ne prese quattro: per lei, sua mamma, suo padre e anche per Alessia. Ne uscì con una busta enorme, sperando di riuscire a farla entrare in valigia.
«E tu Stefano? Non vuoi comprare niente?» Chiese Giovanna, mentre lui fumava con la sigaretta fra le labbra e gli occhi stretti. Si era cambiato, adesso indossava una camicia colorata oversize a mezze maniche.
«No» rispose, dopo aver finto di averci riflettuto.
«Niente niente? Neanche per Barbara Scala?» Sghignazzò la professoressa.
Anita rivolse l’attenzione sulla conversazione dai toni irrisori.
«La faresti super felice… guarda che carine queste saponette al limone a forma di cuore» continuò la Dell’arco, divertendosi come una bambina nel mettere in difficoltà il suo alunno.
Stefano tirò ancora dalla Marlboro, lanciando uno sguardo di sottecchi ad Anita Lentini che lo fissava quasi a bocca aperta, in attesa. Sua sorella Alessia le aveva detto che Stefano e Barbie si erano fidanzati la sera della festa della scuola. Quando, in pratica, Storm e Ⱦhunder si erano incontrati ai lampioni innamorati. Provava in quel momento una sensazione stranissima, un misto fra tristezza e rabbia e non riusciva a spiegarsene la ragione o cosa significasse. Sapeva solo che se avesse potuto avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andata via, per non sapere, per non vedere. Invece rimase lì, immobile, mentre Stefano con finta disinvoltura spegneva il mozzicone con la suola della scarpa ed entrava in negozio per comprare una di quelle saponette a forma di cuore da regalare alla sua fidanzata. Ad Anita venne da piangere.
 
Intorno alle diciassette e poco più, Giovanna Dell’Arco impose ai due maschi di vestirsi e lasciare la stanza, poiché a loro donne serviva spazio e privacy per prepararsi. Elia e Stefano tentarono di recriminare, ma non ci fu verso di far cambiare idea alla professoressa di lettere che li accompagnò personalmente alla porta. In testa aveva due bigodini per il ciuffo e senza neanche un velo di trucco sembrava decisamente più giovane. Anita sedeva sulla sponda del letto, testa bassa e muso lungo, quando sentì il rumore della porta che si apriva alzò gli occhi, e attraverso la piccola fessura fra le tende, scorse lo sguardo di Stefano. Lo sguardo di ȾhunderWhite. Ⱦhunder, che aveva comprato una saponetta a forma di cuore per la sua ragazza; Ⱦhunder, che aveva cominciato a prenderla in giro chiamandola Sfigatella, come facevano i bulli a scuola; Ⱦhunder, che era diventato uno di loro. No, in realtà lo era sempre stato, solo che lei non lo sapeva. D’improvviso, si chiese cosa ci facesse lì, lontana chilometri e chilometri dalla sua famiglia, con due professori e un compagno che la detestava. Si alzò in piedi quando la porta della stanza si chiuse e si avvicinò al balcone. Il sole cominciava a calare sul mare, il cielo era striato di rosa e l’azzurro acceso si era trasformato in un colore più chiaro, quasi bianco. Si asciugò una lacrima, se quella mattina il panorama le aveva dato una spinta vitale importante, adesso sembrava prosciugarla di quel poco di buonumore che aveva trovato, trasmettendole un senso di malinconia.
«Finalmente quei due si sono tolti dalle scatole» esordì la professoressa tornando nella stanza e accendendosi una sigaretta uscì sul balcone. «Tutto bene, Lentini?»
«Mi manca casa» ed era vero, in parte. Poi disse che sarebbe andata in bagno e lasciò l’insegnate a rimuginare sulla situazione.
Giovanna Dell’Arco si puntellò con i gomiti al passamano di ferro battuto. Il panorama era davvero mozzafiato. Ne aveva visti a centinaia splendidi come quelli con il suo fidanzato, eppure ogni volta li preferiva quando li guardava da sola, magari una sigaretta fra le labbra. Temeva di comprendere il comportamento della sua alunna. Che si fosse presa una cotta per Stefano Parisi? Le sarebbe dispiaciuto molto se così fosse stato, poiché quelli come lui neanche le consideravano le ragazze come lei. Non ora almeno, non a sedici anni. A trenta, forse, ma non di certo a sedici.
 
La cerimonia si tenne nella sala meeting del Grand Hotel Sorrento. Gli organizzatori fecero le dovute presentazioni, chiamando in ordine alfabetico i dieci finalisti che tra cento erano stati scelti per “la bravura stilistica, i temi affrontati e la profondità delle storie”. Peccato che solo tre sarebbero saliti sul cosiddetto podio e vinto i premi in denaro previsti.
«Tuttavia», proseguì il presidente dell’associazione, «poiché le storie sono state davvero molto interessanti quest’anno, abbiamo deciso di pubblicare un’antologia con i dieci racconti finalisti!» Ne scaturì un applauso scrosciante, qualche professore gridò un “bravo”.
Il nome di Stefano Parisi venne chiamato al numero otto. Il ragazzo fece un passo in avanti, gli fu donata una targa commemorativa, qualche plauso di circostanza, poi tornò in platea a sedere al fianco del professore di spagnolo che si congratulò con lui, dandogli una pacca sulla spalla. Anche Giovanna Dell’Arco gli fece i complimenti stringendogli un ginocchio, lui ringraziò con un occhiolino. Un po’ gli rodeva, doveva essere sincero. Per uno puntiglioso, che si impegnava per essere il migliore, arrivare all’ottava posizione su dieci – mentre quella Sfigatella era ancora lì – non gli andava tanto a genio. Che Storm fosse più brava di lui a scrivere lo sapeva, ma doveva smetterla di pensare a lei come all’amica di lunghe chiacchierate pomeridiane. Storm non esisteva più. C’era solo quella mezza cartuccia di Anita Lentini e nulla più.
«Oddio, Anita è tra i primi tre!»
Fu la voce della professoressa Dell’Arco a riportarlo con la mente al presente. Immerso nei sui pensieri, non si era reso conto che sul palco erano rimasti in tre, gli ultimi tre, tra cui anche la sua compagna di classe. Era vero, quella sfigata era ancora lì, in mezzo ad altri due concorrenti – un ragazzo e una ragazza.
La studiò a lungo, seduto al suo posto. Quella inetta non aveva messo gli occhiali per l’occasione, quindi ci vedeva anche senza? Allora perché li indossava a scuola? E si era pure truccata – “anche la sera che vi siete incontrati ai lampioni innamorati si era truccata” gli suggerì la mente, ma lui allontanò quel ricordo – e indossava un abito femminile – sicuramente della sorella, ipotizzò – con le spalline sottili e un cinturino in vita che la faceva sembrare più magra di quello che era, forse anche grazie ai tacchi che la slanciavano. Perché lei non era mai stata magra, giusto? Cioè, non è che fosse grassa, ma quel fisichetto asciutto quando se l’era fatto? In estate? Ce lo aveva dapprima e non c’aveva mai fatto caso? E i capelli? Erano diversi o sbagliava? Più lunghi, sicuramente più lisci, più chiari…
«Il vincitore del concorso letterario è…» la voce del presidente dell’associazione lo riportò a fatica al presente. «Anita Lentini!»
«Oddio!» Giovanna Dell’Arco lanciò i pugni al cielo e nell’euforia generale abbracciò di slancio Elia Morales che sedeva alla sua sinistra, poi si alzò in piedi e prese ad applaudire seguita dal resto dei presenti.
Anita sembrava non sapere neanche dove si trovasse, mentre il presidente si congratulava con lei tenendo una mano nella sua e parlava parlava parlava. Lei ringraziava commossa, non poteva crederci. Aveva vinto, la sua storia era arrivata prima – prima! – fra cento. Incredibile! E aveva anche vinto dei soldi – 300 euro – per una cosa che aveva scritto. Da non credere. Cercò con lo sguardo le persone che l’accompagnavano: la professoressa Dell’Arco che sembrava emozionata come può esserlo un genitore fiero; il professore di spagnolo che incrociando lo sguardo con il suo ampliò il sorriso sincero e le lanciò un bacio con la mano; Stefano Parisi, che la fissava tenendo stampata in volto un’espressione indecifrabile.


 
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Capitolo 11
*** Ȼapitolo Ʋndici “Ҏrofessore bei capelli” ***


Ciao a tutti, lettrici e lettori!
Dopo un'attenta analisi (?) ho deciso di pubblicare ogni 15 giorni (sperando di riuscire a mantenere il ritmo costante). Di solito aggiornerò ogni fine settimana, tra il venerdì e il sabato. Pensavo che la storia si sarebbe risolta in più breve tempo, invece sta andando per le lunghe e pubblicare una volta al mese significherebbe farla durare anni! No, non fa per me. 
Perciò, segnatevi questo doppio appuntamento mensile ;)
Grazie ovviamente a chi sta seguendo questo racconto, vi voglio bene!
Con affetto,
Nina^^


Ȼapitolo Ʋndici

 “Ҏrofessore bei capelli

 
 
Dopo la cerimonia, gli invitati si spostarono sul terrazzo dell’ultimo piano del Grand Hotel, dove ad attenderli c’era un ricco buffet, una piscina con i faretti colorati e una band dal vivo che suonava musica leggera.
Giovanna Dell’Arco teneva accanto a sé la sua prediletta, la sua pupilla, presentandola come una futura scrittrice di professione, prendendosi quasi dei meriti per la sua innata capacità di mettere le parole una dietro l’altra.
«Di sicuro è anche grazie alla bellezza di chi ha creduto in lei» a parlare era stato un professore di filosofia di Napoli, un uomo di mezza età, con tanti capelli brizzolati acconciati all’indietro, senza barba, che indossava un jeans sotto una giacca a scacchi e scarpe da ginnastica. In mano teneva due calici pieni di spumante, uno lo porse a Giovanna, la quale ringraziò con un cenno del capo. «Ai nostri ragazzi, allora, ma anche al nostro bello, ma duro lavoro!» Sollevò appena il bicchiere verso l’insegnante torinese, abbozzando un sorriso senza smettere mai il contatto visivo. Aveva occhi chiari come ghiaccio. Bevvero all’unisono.
Anita Lentini cominciava ad annoiarsi, ogni persona che le si avvicinava per complimentarsi con lei rispondeva sempre alla stessa maniera garbata. Ma adesso che l’euforia del momento era passata, che aveva anche telefonato ai suoi per riferire la splendida notizia della vittoria, e aveva mangiucchiato qualcosa, avrebbe tanto voluto salire sul primo treno diretto a Torino e tornare a casa. Con discrezione si defilò dal capannello di professori e raggiunse la balconata che dava sul mare. Nonostante la musica e il chiacchiericcio di sottofondo chiuse gli occhi, sforzandosi di sentire il rumore delle onde, ma da lì sopra era davvero difficile. Il venticello, con l’odore di salsedine, quello poteva respirarlo senza problemi.
«Anita, giusto?»
La giovane aprì gli occhi di scatto, colta alla sprovvista si voltò verso il ragazzo che le stava parlando: era uno dei concorrenti che aveva partecipato al concorso. Le stava porgendo la mano:
«Piacere, io sono il numero dieci» sorrise e Anita non poté non ridacchiare alla battuta, stringendogli la mano. Aveva un forte accento toscano, ed era anche molto, molto caruccio, con i capelli chiari ricciuti e un viso dai tratti delicati, da angioletto. «Mi chiamo Mattia.»
«Piacere-»
«Numero uno» la precedette Mattia, strappandole un nuovo sorriso. «Gli altri sono scesi sulla spiaggia, ti va di venire?»
«Possiamo?» Ad Anita brillarono gli occhi, sarebbe stato bellissimo vedere il mare da vicino e ascoltare la sua melodia, bagnarsi i piedi magari...
«Non siamo mica a scuola» Mattia le cinse le spalle con un braccio, incamminandosi insieme verso l’ascensore che li avrebbe condotti otto piani più giù.
 
Elia Morales afferrò al volo l’ennesimo bicchiere di spumante dal tavolo delle bibite e raggiunse Stefano Parisi, quest’ultimo seduto in disparte su una sdraio a bordo piscina, teneva la testa bassa e si stava accendendo un’altra sigaretta. Il posacenere ai suoi piedi diceva che ne aveva fumate fin troppe da quando erano saliti lassù. L’insegnante spagnolo si accomodò al suo fianco trascinando una sedia di plastica bianca e accomodandovisi sopra fece un sospiro profondo e rumoroso. Per un po’ si guardò attorno senza dire nulla, poi cominciò a parlare e Stefano capì subito che non era propriamente in sé.
«Avrei dovuto accettare di tornare in Spagna.»
«E invece?»
«E invece resterò qui per un altro anno ancora.»
Stefano lo osservò di sottecchi. Mezza scuola femminile ci sbavava dietro e in un certo senso era facile comprenderne il motivo: era giovane, straniero, dai colori latini, l’accento come quello di Enrique Iglesias – che in quel periodo andava fortissimo fra le teenager – e, soprattutto, aveva dei modi garbati e gentili. Una buona parola con chiunque, per chiunque, verso chiunque. Adesso teneva lo sguardo mesto, da cane bastonato, fisso sul capannello di persone che si era formato a sinistra della piscina. Stefano seguì il suo sguardo e tra quella gente notò la presenza della professoressa Dell’Arco. Cominciò a fare da spola tra lei e lui, un’occhiata a lei e una a Elia che gli sedeva vicino. Più lei rideva con quel bell’imbusto dai capelli brizzolati, più il viso dello spagnolo si rabbuiava e ingollava spumante.
Stefano tirò una boccata dalla sigaretta, la punta si accese e poi tornò grigia. Non poteva crederci: che il giovane professore di spagnolo si fosse preso una cotta per la professoressa per eccellenza dell’istituto Ferraris di Torino? Ma avevano quanti anni di differenza? Quindici? Venti? Non sapeva quantificarli, ma di sicuro più di dieci. Da non crederci! Non aveva mai pensato alla Dell’Arco in quel senso, non l’aveva mai guardata con occhi diversi da quelli di uno studente che ha di fronte una professoressa di italiano, quasi che questa non abbia un volto, un’anima, una vita privata, un genere.
Elia Morales agitava nervosamente la gamba destra, su e giù, su e giù, e intanto continuava a ingurgitare le bollicine bionde con sorsi brevi e ravvicinati. Poco più lontano, Giovanna e il tipo con i capelli perfetti avevano ormai intrapreso una conversazione privata isolandosi, quasi che gli altri insegnanti non esistessero. Lei teneva ancora il calice in mano, ma era mezzo pieno, segno che non aveva bevuto; quello di lui al contrario era vuoto. Doveva essere un tipo divertente, poiché la professoressa di italiano sorrideva spesso, portandosi il dorso della mano che teneva il bicchiere davanti alla bocca. Anche l’altro sorrideva di rimando e così scoprirono che, oltre ad avere un buon parrucchiere, aveva anche un ottimo dentista.
La coscia di Elia si muoveva sempre più velocemente, su e giù, su e giù. Stefano continuava a fumare, divertito dalla scena alla quale stava assistendo. Quando sarebbe tornato a Torino e raccontata a Fabio avrebbero riso per l’eternità. Anita Lentini era ancora al fianco della professoressa, fingeva di seguire i discorsi degli altri, per educazione annuiva e fingeva di interessarsi a ciò che dicevano. Poi Stefano la vide defilarsi con circospezione: era sempre stata brava a non farsi notare, a non far pesare la sua assenza, né la presenza. Anche a scuola ci aveva provato, ma a volte più si tende a nascondere qualcosa più questa spicca e da nell’occhio. La seguì con lo sguardo mentre si avvicinava alla ringhiera del terrazzo e vi si aggrappava con entrambe le mani.
«Non si è neanche accorta che la Lentini si è allontanata» disse Elia Morales, sbagliandosi. Giovanna Dell’Arco si accorse subito dei movimenti della sua alunna e perciò la seguì con lo sguardo, senza tuttavia smettere di fare cenni di assenso a ciò che le stava propinando il professore di Napoli. La vide soffermarsi sul finire del terrazzo e si tranquillizzò, anche perché notò Elia e Stefano pochi metri più in là. Poi il professore di filosofia, dai bei capelli e splendidi denti, le indicò un angolo più appartato del terrazzino, affermando che da lì poteva ammirare contemporaneamente il Golfo di Sorrento e quello di Amalfi. Era uno spettacolo unico, certo, di giorno si vedeva meglio, ma le luci aiutavano molto. Lo seguì, pensando che un po’ di tempo per lei non avrebbe che potuto giovarle.
Appena Elia Morales comprese cosa stesse per succedere, ossia che la sua collega si appartava con quel bell’imbusto, scattò in piedi come una molla, cominciando a imprecare nella sua lingua madre e Stefano ci capì davvero poco. L’unica cosa che riuscì a estrapolare da tutte quelle parole biascicate fu di stare attento alla Lentini, di non perderla di vista neanche un attimo o ne avrebbe risposto lui con una nota disciplinare il primo giorno di scuola.
«Ma non si può fare!» Protestò Stefano.
«Dici?!»
I due si scambiarono un’occhiata che valeva più di mille parole, poi lo spagnolo virò l’angolo dove pocanzi era sparita anche la professoressa Dell’Arco. Il ragazzo sbuffò, infastidito, ma quando tornò con l’attenzione sulla compagna di classe e la beccò in compagnia di un altro ragazzo sentì un moto di stizza crescergli dentro. Era diventato la babysitter di quella sfigata e adesso gli toccava badare a lei!
Bella vacanza di merda!
Si accese un’altra sigaretta, l’ennesima. In realtà non se le fumava per davvero, nel senso che gli bastava tenerle fra le dita o fra le labbra per calmarsi – e darsi un’aria da duro. Scrutò i movimenti di quei due da lontano: si stavano presentando stringendosi le mani, lei sorrideva – tutti simpatici i maschi a quella festa?
Ogni tanto lanciava un’occhiata all’angolo che aveva inghiottito i professori, sperando di vederne sbucare almeno uno, ma per ora nulla. La gamba destra aveva cominciato a muoversi concitatamente, come era capitato a quella di Elia, e si costrinse a tenerla ferma. Chiuse gli occhi, facendo più di un respiro profondo. Li riaprì e si accorse che nulla era cambiato: Anita era ancora lì – si stava proprio divertendo – e dei suoi accompagnatori nemmeno l’ombra. La gamba in compenso sembrava essersi rilassata. Tirò una boccata dalla sigaretta e all’improvviso gli parve di udire la voce della professoressa Giovanna, infatti la vide sbucare dall’angolo, sembrava arrabbiata. Alle sue spalle c’era Elia che, più infuriato di lei, l’afferrò per un polso e fermò la cavalcata. Per un attimo Stefano aveva tirato un sospiro di sollievo, credendo che stessero tornando, invece si arrestarono a parlare qualche minuto ancora. Ma proprio in quella manciata di secondi che aveva speso per osservarli, si perse Anita. La balaustra che costeggiava il terrazzo, dove fino a qualche minuto prima c’erano stati la sua compagna di classe e il ragazzo dai capelli biondicci, adesso era vuota. Scattò sull’attenti, spegnendo la sigaretta nel bicchiere di vetro che gli aveva passato distrattamente Elia Morales, cercò la ragazza con lo sguardo.
Se l’era persa, accidenti a lui!
Accidenti a lei!
Poi un colpo di fortuna: li beccò che entravano in ascensore. Corse verso di esso, cercando di evitare le persone muovendosi a zigzag, spingendole di lato quando necessario, ma le porte automatiche si chiusero un attimo prima che riuscisse a raggiungerle. Vi batté un colpo contro, poi notò che l’ascensore era trasparente e attese di capire a che piano si fosse fermato. Non lo avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, ma quando capì che Anita e l’altro avevano raggiunto la spiaggia, e non un piano dell’hotel con tanto di camere annesse, si sentì sollevato. Almeno sapeva dove trovarla.


 
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Capitolo 12
*** Ȼapitolo Ðodici “Ϻare Ϻare Ϻare” ***




Ȼapitolo Ðodici

 “Ϻare Ϻare Ϻare


 
 
Quando era piccola, suo nonno materno – il quale aveva origini meridionali – le aveva detto che se metteva una conchiglia vicino all’orecchio avrebbe potuto sentire il rumore del mare. Così, ogni volta che la domenica andava a pranzo dai nonni, la piccola Anita prendeva una vecchia conchiglia dal mobile in salotto e se la portava all’orecchio, chiudendo gli occhi e rannicchiandosi in un angolo. Non sentiva nulla, solo un fruscio che in verità era la conseguenza dell’oggetto chiuso intorno al timpano, ma lei diceva di sì.
«Si sente il mare, mamma!» Esclamava, mentre sua sorella la prendeva in giro poiché diceva che quella non era una vera conchiglia raccolta sulla spiaggia, ma un soprammobile di poco prezzo comprato in chissà quale mercato o negozio di paese.
Nel momento in cui le porte dell’ascensore si aprirono, lo sciabordio delle onde le fece tornare alla mente le domeniche trascorse ad ascoltare il rumore del mare da una conchiglia fasulla e dovette ammettere che sua sorella aveva ragione: il brusio che udiva allora non aveva niente a che fare con l’originale.
Fece un passo avanti, ma i sandali con il tacco sprofondarono nella sabbia e per poco non cadde in avanti come un sacco di patate. D’istinto si aggrappò a Mattia e questo la sorresse, consigliandole di togliersi le scarpe. Insieme si incamminarono lungo la spiaggia, i granelli di sabbia erano freddi e umidi, ed era così buio che il mare sembrava un abisso profondo e nero. Se ne poteva udire solo in sottofondo la musicalità cullante delle onde e intravederne la schiuma bianca. In compenso, il cielo era una distesa di puntini luccicanti.
Raggiunsero altri ragazzi, erano tre in tutto, due femmine – la #7 e la #6 – e un maschio. Quest’ultimo era il terzo classificato che le si era stretto in un goffo intreccio di braccia, mentre attendevano che il presidente dell’associazione annunciasse il verdetto finale. Si presentarono e Anita fu divertita dal fatto che ognuno di loro arrivasse da zone diverse dell’Italia. Si erano fermati sotto un ombrellone aperto, occupando un paio di lettini e una sdraio. Le due ragazze sembravano conoscersi già da tempo per quanto erano entrate in confidenza: si passavano la sigaretta, si davano consigli sui ragazzi, ci provavano con i presenti.
Anche in quell’occasione, Anita si sentì un pesce fuor d’acqua, come capitava a casa, a scuola. Lei era così diversa dalle altre. Innanzitutto, non le importava molto degli abiti, dei ragazzi, di fumare per darsi delle arie. Aveva deciso di seguire Mattia perché le aveva proposto di vedere il mare da vicino e adesso cosa si aspettava? Che le chiedesse di farsi un bagno?
«E tu?» Le chiese all’improvviso la #7, dall’accento palesemente romano. Anita cadde dalle nuvole, era intenta a fissare la schiuma bianca delle onde.
«Scu-scusa, non ho capito.»
Mattia e il #3 ridacchiarono mentre si passavano uno spinello (ma da dove lo avevano cacciato?).
«Tu l’hai mai fatto?» Continuò la #7.
Anita Lentini arrossì fino al midollo. Lei? Averlo fatto? Ma se non aveva mai neanche baciato un ragazzo in vita sua, figuriamoci se pensava a quelle cose!
«Dai Angela, lasciala stare! La stai mettendo in imbarazzo!» Mattia le posò una mano sul ginocchio coperto dal tessuto di chiffon dell’abito che aveva indossato per l’occasione. «Non ascoltarle, sono due ninfomani!»
Risero tutti, eccetto Anita.
«Ma lo sai che sei proprio caruccia» continuò la ragazza di Roma, allungandosi per toccarle i capelli. Quell’estate erano cresciuti molto, adesso sfioravano le scapole.
«Gra-grazie.»
«Vero? Non trovate anche voi che sia carina? Secondo me però non ti valorizzi.»
«Hai ragione, sai», questa volta intervenne anche l’altra ragazza del gruppo, la #6. Quest’ultima quasi non aveva accento nella voce e Anita ipotizzò fosse del centro nord. «Guarda che ai maschi piacciono quelle che si mettono in mostra!»
Anita teneva la testa china e le dita intrecciate in grembo. Dov’era l’uscita di emergenza?
«Invece a me piacciono le ragazze come lei» a parlare era stato di nuovo Mattia. «Acqua e sapone, semplici. Anche un po’ timide» aggiunse e sorrise con tanto di occhiolino quando Anita lo osservò di sottecchi. La stava prendendo in giro? Eppure, sembrava così sincero.
«Invece, la mia prima volta è stata a quattordici anni con una ragazza più grande di me» la voce del #3 tolse Anita dall’imbarazzo. Si chiamava Antonio Esposito e giocava in casa.
«Dai, racconta! Racconta!» Fece la #7.
«Era il primo anno di liceo, no?! Ed ero rimasto a scuola per un corso pomeridiano. Sono andato nella sala professori e c’era quella dell’università che da qualche giorno era venuta per il tirocinio e cose così.»
«Nooo, troppo figo!» La #6 si portò le mani a coppa sulla bocca. «E l’avete fatto in sala professori?»
«Non subito! Mica era il set di un porno!» risolini vari. «Abbiamo scambiato qualche battuta, ci siamo beccati un po’ nei giorni seguenti, lanciati frecciatine e sguardi durante le ore di lezione e infine…» Antonio fece una pausa, gli altri erano praticamente rapiti dalla sua storia. «Ci siamo visti negli spogliatoi della palestra e l’abbiamo fatto.»
«E com’è stato?»
«Bello, soprattutto perché lei era molto esperta e sapeva dove mettere le mani.»
«E la bocca» aggiunse la #7. Risate e ammiccamenti generali.
Anita si meravigliò soprattutto del fatto che quegli sconosciuti si stessero confidando segreti così intimi, parlando di argomenti tanto spigolosi, senza provare un briciolo di vergogna. Completamente presa da quelle considerazioni che quasi balzò sul posto per lo spavento quando udì la voce di Stefano Parisi che le diceva di andare. Sollevò il capo e se lo trovò alle spalle, nero in viso.
«Ah, tu sei l’altro ragazzo del liceo di Torino: l’unico ad aver presentato due concorrenti. Resti anche tu?» La #7 di Roma si spostò per fare spazio al nuovo arrivato, ammiccandogli con malizia.
«No, grazie. Andiamo» ripeté, rivolto alla compagna di classe che senza dire nulla si alzò in piedi, raccogliendo i sandali che aveva adagiato sulla sabbia. Mattia la fermò.
«Resta ancora un po’, ti accompagno io in camera.»
«Non si può, i professori ci cercano» intervenne Stefano, rivolgendosi al ragazzo toscano e allora anche questo si rivolse a lui con finto garbo.
«Non siamo a scuola.»
«Sì, dai, resta anche tu!» Ancora la #7 con insistenza. «Facciamo due chiacchiere, ci conosciamo meglio, ci divertiamo…»
«Se, ti piacerebbe…» rimbeccò Stefano.
«Allora te ne vai?» Mattia si alzò dalla sdraio, sfiorando il viso di Anita con i polpastrelli e parlandole a una spanna. La ragazza annuì, non riuscendo a comprendere bene i comportamenti di quello sconosciuto. Che fosse un tantino fuori di sé per lo spinello?
«(Mi piaci davvero)» le bisbigliò a un orecchio in modo che sentisse solo lei, gli altri poterono solo notare le gote della giovane accendersi, poi Mattia le sfiorò l’angolo della bocca con la sua, un tocco lieve, gentile, sussurrato. Nulla di più. Numero 3, 6 e 7 applaudirono, fischiando e ululando, mentre Anita si allontanava da Mattia che continuò a tenerle le dita della mano fin quando poté.
 
Elia Morales appena svoltato l’angolo li aveva visti: il brizzolato, dai bei capelli e la dentatura perfetta, teneva una mano sulla spalla di Giovanna, mentre con l’altra le indicava qualcosa che ovviamente, a causa del buio della notte, era impossibile da scorgere. Le guance si toccavano e lui dovette dire qualcosa di tremendamente ironico e spudorato poiché lei dapprima sghignazzò, poi si voltò a guardarlo negli occhi e lentamente, quasi impercettibilmente, le labbra stavano per toccarsi.
Anzi, si sarebbero sicuramente baciati se non fosse intervenuto Elia a irrompere come un razzo nel momento romantico. Giovanna si staccò dal professore di filosofia con un balzo di lato, colta in flagrante si acconciò i boccoli ramati e si tirò giù il tubino scuro, la cui gonna inspiegabilmente era arrivata sopra al ginocchio. Sperò che il decolté fosse a posto poiché non ebbe il coraggio di acconciarselo.
«E-Elia» balbettò, accennando un sorriso imbarazzato. «Tutto bene? Ci sono problemi?»
«Ma chi è? Uno dei tuoi alunni?» Fece il professore di Napoli, evidentemente infastidito dall’interruzione.
«No-no. Lui è il mio collega, Elia Morales. Insegna spagnolo nella mia stessa scuola. Elia, lui è Paolo, insegnante di filosofia a Napoli.»
I due si strinsero la mano, ma quando il più maturo tentò di tirare via la sua, Elia la trattenne qualche secondo di troppo.
«Professor Morales!» Neanche la voce di Giovanna era riuscita a fare breccia nella rabbia del giovane collega e per un attimo la donna temette che potesse fare qualcosa di sconsiderato, come tirare un pugno a Paolo. «Elia!» Tuonò con maggior decisione e finalmente la presa tra i due si spezzò.
Paolo si massaggiò la mano, chiaramente non gli era sfuggita la minaccia di aver invaso lo spazio vitale dello spagnolo.
«Avresti potuto dirmi che dovevi fare da balia al bimbetto, qua!» Esclamò e subito Elia lo afferrò per la collottola della giacca.
«Elia, per l’amor del cielo! Che stai facendo?» Giovanna Dell’Arco gli si aggrappò alle braccia e riuscì a tirarlo indietro, scusandosi, quasi con la schiena prostata in avanti, verso l’insegnante di filosofia che intanto si stava acconciando la giacca e teneva un ghigno stampato in faccia.
«E poi dite che siamo noi del sud che non sappiamo comportarci!» Così dicendo, Paolo aveva aperto la porta di emergenza che portava all’interno dell’albergo e vi era scomparso.
«Stai bene?» Chiese Elia Morales a Giovanna, la quale si voltò a guardarlo con una tale ira che se non fossero stati lontani mille chilometri da casa chissà cosa gli avrebbe urlato contro.
«Stai scherzando, vero? Perché non dovrei stare bene?»
«Scusa se mi sono preoccupato per te!»
«Tu sei ubriaco! Ma quanto hai bevuto? Si sente la puzza di alcol fino a qui!» Giovanna lo oltrepassò per tornare sul terrazzo della piscina, richiamare i due alunni e andare a dormire (anche se sospettava non avrebbe preso sonno tanto facilmente). Ma il collega spagnolo le si parò davanti.
«Io credevo che avremmo passato la serata insieme» la sua voce era un lamento. Giovanna lo fulminò con un’occhiataccia, onestamente non sapeva cosa dire. O meglio, lo sapeva, ma non voleva affrontare l’argomento lì, non in quel momento e con lui mezzo brillo. Riuscì a girargli intorno e uscire allo scoperto, oltre l’angolo, ma di nuovo lui la fermò afferrandole un polso.
«Ci saresti andata a letto con quello lì?» Quasi urlò.
«Shhh! Abbassa la voce, Elia! Santo cielo, sei strafatto!»
«Rispondimi: ci saresti andata a letto?»
«E pure che fosse non sono tenuta a darti alcuna risposta, poiché non sono fatti tuoi!» Giovanna si liberò dalla presa con un gesto violento. «Troviamo Parisi e Lentini e torniamocene in camera» aggiunse, scrutando l’ambiente intorno alla piscina e pregando in cuor suo di scovarli presto. Per due motivi: uno, il più importante, non voleva restare un secondo in più da sola con Elia; due, desiderava solo che la notte passasse velocemente e tornassero a casa, magari dimenticando quella scena pietosa.
«Perché con lui sì e con me no?» Elia le adagiò i polpastrelli sul mento, alzandole il viso verso il proprio. A quella domanda lei sgranò gli occhi, era fuori di sé. Si allontanò di nuovo e cominciò a cercare i suoi alunni chiamandoli per nome, ma niente. Di loro neanche l’ombra. Chiese in giro, ma nessuno sembrava averli visti.
«Perfetto!» Esclamò, cercando di non cedere alla disperazione. «Una cosa dovevi fare», ringhiò contro Elia Morales. «Una! E non sei stato capace di farla!»
«Mentre tu te la spassavi con capelli perfetti, vero?! Perché non ci hai pensato prima che quello ti toccasse ai tuoi cari, dolci e preziosi alunni!»
«Non ti permettere di insinuare certe cose, mi sono spiegata?!»
«Scusatemi…» a parlare era stata un’insegnante dall’accento toscano, vicino a lei c’era uno studente dai capelli chiari e il viso angelico. «Mattia mi ha detto che ha visto i vostri alunni giù, alla spiaggia. Sono stati tutti insieme per un po’, poi si sono allontanati da soli.»
«Grazie, grazie infinite!» Giovanna Dell’Arco si precipitò verso l’ascensore, seguita a ruota da Elia Morales. Mentre attendevano che le porte automatiche si aprissero, le gambe di lei non volevano saperne di stare ferme. Aveva una voglia matta di sigaretta e di urlare. Soprattutto di urlare!
«Giovanna…» cominciò lui.
«Zitto, Elia! Devi stare muto!»
 
Anita Lentini fece qualche metro alle spalle di Stefano, prima che lui virasse dal lato opposto dell’ascensore e continuasse la sua falcata.
«Ma dove vai?» Anita cercava di tenere il passo.
«Un addio straziante» commentò lui, accendendosi una sigaretta.
«Mi stavo divertendo.»
«Divertimento finito.» Quando fu certo che da dove si trovavano gli altri concorrenti non li avrebbero notati, Stefano si arrestò sotto un ombrellone in prima fila e si sedette alla punta di un lettino. Per l’occasione aveva indossato una giacca dal taglio classico sopra una camicia chiara, senza cravatta, e un jeans blu notte. I capelli gli conferivano sempre un’aria trasandata, ma con un po’ di attenzione si sarebbe notato che invece era tutto ricercato, curato. Anche i capelli spettinati erano frutto di preparazione. Nulla al caso per lui.
Rimasero qualche minuto in silenzio, con il ragazzo rivolto verso la riva a fumare la sua Marlboro, e lei che si era seduta sullo stesso lettino ma mezzo metro più in là, intenta a disegnare sulla sabbia cerchi concentrici con le dita dei piedi nudi.
«Ti ha mandato la Dell’Arco?» Domandò dopo un po’.
«No. Stasera siete impazziti tutti!» Stefano spense la cicca nella sabbia e si tenne la testa fra le mani.
«Tutto ok?»
«Che ti è venuto in mente di seguire quell’idiota fin quaggiù? L’ascensore ci ha messo una vita per tornare su e ridiscendere!»
«Volevo vedere il mare da vicino.»
«Il mare? Volevi vedere il mare?» Stefano scosse il capo. Quella ragazza era tutta strana, davvero! «Non hai mai visto il mare?»
«Certo che l’ho visto! Ma quest’anno non sono andata in vacanza e mi è mancato.»
«Ci credo! Hai passato un’estate chiusa in casa praticamente!» Non avrebbe voluto dirlo, non avrebbe voluto rivelarle che sapeva cosa avesse fatto nei mesi di vacanza, ma il danno era fatto. Per fortuna lei non replicò, né chiese come facesse a saperlo, poiché era consapevole che sua sorella Alessia ormai se la faceva con la combriccola di Stefano e Barbie. Anche lei conosceva benissimo come e dove Parisi aveva trascorso la bella stagione, i giorni in cui era andato in Liguria alla villa di famiglia, quelli di quando si era buscato una brutta influenza estiva ed era stato costretto a letto per una settimana circa.
«Allora, vai a vederlo questo mare!» Esclamò lui all’improvviso, stendendo un braccio dinnanzi a sé. Pareva sempre arrabbiato nei confronti della compagna di classe. «Hai detto che sei venuta quaggiù per il mare. Perfetto! È lì! Avvicinati! Toccalo! Bagnati i piedi! Hai fatto una scelta? Portala fino in fondo, cazzo!» Stefano si alzò e cominciò a liberarsi delle scarpe prima e dei calzini poi, mentre si faceva le pieghe al pantalone fino a metà polpaccio. Si liberò della giaccia e cominciò ad arrotolarsi le maniche della camicia, e quando ebbe finito sospirò tenendo le mani sui fianchi. Anita lo osservava allibita.
«Andiamo, vieni!» Le fece cenno con la testa di seguirlo. «Hai mai fatto un bagno a mare di notte?».



 
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