Maritombola 2022/23

di TheSlavicShadow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 15. Unbreak my heart - Toni Braxton (UsUk) ***
Capitolo 2: *** 02. Bambole souvenir di viaggio [RuPru] ***
Capitolo 3: *** 44. Bagnoschiuma [FrUk] ***
Capitolo 4: *** 50. Libro di Bruno Vespa [Italie] ***
Capitolo 5: *** 60. Extremely slow burn, actually glacial [RuPru] ***
Capitolo 6: *** 05. Centrini di pizzo [AusHun] ***
Capitolo 7: *** 33. Il Giudizio [Prussia] ***
Capitolo 8: *** 32. La Stella [FraJeanne] ***
Capitolo 9: *** 16. Hurt - Christina Aguilera [Spamano] ***
Capitolo 10: *** 09. Macchina per cucire Singer a pedale [Polonia] ***
Capitolo 11: *** 48. Borsa dell'acqua calda [FraSey] ***



Capitolo 1
*** 15. Unbreak my heart - Toni Braxton (UsUk) ***


Yorktown, Ottobre 1781

 

Era inginocchiato nel terreno fangoso del campo di battaglia. Non sapeva se era così morbido per gli zoccoli dei cavalli che lo avevano calpestato o per il sangue di quei poveri disgraziati che avevano perso la vita da ambo le parti. 

O se erano le sue lacrime che stavano formando un lago di poltiglia melmosa tra le sue dita.

Aveva perso.

Aveva perso la battaglia.

Aveva perso la guerra.

La sua amata colonia aveva ottenuto quello che aveva tanto desiderato. Aveva ottenuto la propria libertà. Aveva lasciato la sua mano che aveva cercato di guidarlo per quei due secoli.

Ma cosa sono due secoli se non un battito di ciglia ai suoi occhi? Lui che aveva già così tanti anni e secoli sulle spalle. Che aveva già visto e provato così tanto. Quei due secoli non avrebbero dovuto significare assolutamente nulla.

Solo che non era mai stato così. Aveva adorato quell’esserino che lo aveva accolto quasi con paura. E aveva amato il giovane e meraviglioso uomo che era diventato. Un amore non più paterno. Un amore che non era mai stato fraterno ma che non aveva mai avuto il coraggio di confessare. 

“Arthur.”

Nel suo campo visivo erano entrati degli stivali. Le punte sporche di fango. E così dannatamente vicine.

“Vattene. Hai vinto.”

Non poteva alzare lo sguardo. Non avrebbe potuto sopportare l’umiliazione di essere visto in quello stato. Non da Alfred. Non dai suoi due alleati che sicuramente ridevano a crepapelle della sua miseria. 

“Non volevo arrivare a questo.”

“Vattene!” Aveva urlato alzando anche lo sguardo sul giovane uomo che gli stava di fronte. “Hai ottenuto quello che volevi, ora puoi anche lasciarmi in pace!”

Non era quello lo sguardo che però si aspettava di trovare sul viso di Alfred. Non era felice. Non era tronfio di orgoglio per aver sconfitto il glorioso regno britannico. 

Sembrava stanco, angosciato e triste. Non sembrava affatto il ragazzino combattivo e arrabbiato che qualche anno prima gli aveva dichiarato guerra. Non c’era il barlume di ribellione che gli aveva visto negli occhi dopo aver attaccato il porto di Boston. Non c’era quella forza esplosiva e distruttiva che gli aveva visto sfoggiare durante le prime battaglie. 

C’era di fronte a lui un giovane uomo stanco e distrutto dagli eventi. Un giovane Stato che non credeva si sarebbe protratto per così tanti anni quel battibecco tra fratelli.

“Non era questo ciò che volevo. Te l’ho sempre detto che non volevo farti la guerra. Volevo solo avere la tua stessa posizione, il tuo stesso status. Non avrei mai voluto dover arrivare a questo punto.” Alfred si era inginocchiato e lo aveva guardato negli occhi. 

Voleva colpirlo. Voleva dargli un pugno e urlare con quanto più fiato avesse in corpo. Avevano passato gli ultimi anni facendosi la guerra. Battaglia dopo battaglia avevano completamente rovinato il rapporto che avevano costruito. 

“Volevo semplicemente essere tuo pari e non il tuo fratellino.”

“Stai zitto! Sei solo un moccioso petulante che non capisce nulla della vita! Sei andato a piangere da quei due figli di puttana invece di venire da me!” Aveva urlato senza ormai pensare più alla propria dignità. Quella era sepolta sotto diversi strati di fango, assieme a tutti quei soldati che si era portato appresso e che erano morti inutilmente. 

“Tu non mi hai mai voluto ascoltare! Mai una sola volta hai ascoltato quello che avevo da dire! Perché tu sei il grande e potente Inghilterra e sai tutto meglio di chiunque altro! Beh, mi dispiace deluderti, ma per una volta sono stato più bravo di te in qualcosa!” 

“Più bravo di me?” Aveva urlato ancora a sua volta. Ormai sapevano parlare uno con l’altro solo urlando. “Da solo non avresti potuto fare assolutamente nulla! Stavo per schiacciarti come il verme che sei!”

Alfred lo aveva strattonato per la giacca, avvicinando pericolosamente i loro visi. Quei occhi azzurri li aveva amati da morire. Sarebbe morto pur di far felice quel bambino che gli teneva la mano. Ma voleva uccidere quel giovane uomo che lo guardava con disprezzo. Voleva uccidere quel giovane uomo che aveva ridotto il suo cuore in pezzi minuscoli e affilati che gli stavano graffiando il petto. Quella era una ferita da cui non sapeva come potersi riprendere. Non sapeva come si sarebbe potuto rialzare e recuperare il suo posto di nazione imbattibile. Il suo impero non avrebbe mai dovuto vacillare. Avrebbe sempre dovuto mostrare al mondo che i problemi interni li sapeva risolvere. Lo aveva dimostrato coi suoi fratelli in Europa. Lo aveva dimostrato con le colonie oltreoceano.

Fino a quel momento. 

Distrutto, lacerato dall’interno, e non sarebbe riuscito a riprendersi facilmente. Questo lo sapeva benissimo, mentre guardava Alfred alzarsi e dargli le spalle.

 

Un-break my heart

Say you'll love me again

Undo this hurt you caused

When you walked out the door

And walked out of my life

Un-cry these tears

I cried so many, many nights

Oh, un-break my

 

 

 

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Capitolo 2
*** 02. Bambole souvenir di viaggio [RuPru] ***


Con orgoglio aveva finito di spolverare e rimettere al proprio posto sulla mensola l’ultima scatolina contenente una bambolina colorata. Quella era una delle prime che aveva comprato. Aveva un bel abito colorato, lo scialle sulle spalle e un fazzoletto in testa. Sembrava una qualsiasi donna di campagna dell’Est europeo. Sapeva che sotto il fazzoletto i capelli erano raccolti in una treccia. L’aveva studiata attentamente appena l’aveva comprata. L’aveva tolta dalla scatolina. Aveva osservato attentamente l’abito, la fisionomia, le mani. Poi l’aveva rinchiusa nella scatola e se l’era portata a Berlino. 

Era forse la prima che aveva comprato in assoluto. Doveva essere quella che aveva comprato da qualche parte a Mosca, forse proprio nella Piazza Rossa. A quella ne erano seguite molte altre prese in ogni angolo visitato del mondo. Le aveva poi divise maniacalmente per continente. Alcune le aveva raggruppate per Stato in quanto le aveva comprate in ogni città visitata. 

Erano una sorta di ricordo tangibile dei luoghi che si era divertito a scoprire e vivere. A volte con i suoi amici. Altre da solo. 

Ma quella bambolina l’aveva comprata in un periodo non decisamente felice. In un periodo di cattività in cui tutto sembrava essersi sgretolato tra le sue dita. Secoli di storia cancellati con una riunione e una firma su un foglio di carta. 

Eppure ricordava benissimo il giorno in cui l’aveva comprata.

In tutta quella desolazione che era rimasta dentro di lui, quello era un ricordo felice. Una passeggiata a Mosca. Città che nei secoli aveva visitato più volte. Città che aveva sempre schernito dicendo che non ci avrebbe mai vissuto, che solo un pazzo poteva apprezzarla. Nulla era paragonabile alla sua Berlino. Assolutamente nulla. Ogni volta il suo cicerone si imbronciava, perché impossibile non apprezzare Mosca.

E lui rideva. Rideva ogni volta. 

Tranne quel giorno mentre comprava quella bambolina. Non c’era nulla di cui essere felici, nulla per cui ridere. Non esisteva più. Il nome con cui era stato chiamato per secoli era improvvisamente stato cancellato dalle cartine. Esisteva. Aveva cambiato nome. Ma era stato esiliato dal resto dell’Europa. Glielo avevano detto una volta che la sua sete di grandezza prima o poi gli si sarebbe ritorta contro. Tutti glielo avevano detto. Tranne il suo fratellino che lo seguiva sempre in ogni follia.

“Dovresti buttare quella vecchia bambola. Sei troppo vecchio anche tu per continuare a collezionarle.”

Aveva ridacchiato. Era vecchio. Davvero vecchio. Mai quanto l’uomo che aveva appena parlato, ma era vecchio e se li sentiva tutti addosso gli anni che aveva.

“Questa te la potrei regalare, ti assomiglia. Forse se tu fossi stato donna saresti una biondina carina proprio come questa bambola.” Gilbert si era voltato per osservare l’uomo che era appena entrato nella stanza. Non avrebbe dovuto essere lì, i loro capi non andavano nuovamente d’accordo, ma Ivan era arrivato senza avvertirlo. Senza una parola era entrato in casa quando gli aveva aperto la porta. Non c’era bisogno di parole. Sapeva che aveva bisogno di un posto dove restare nascosto per un po’. “Stavo pensando che magari questa estate potrei visitare un posto nuovo. E tu potresti venire con me.”

“Non credo sia una buona idea essere visti insieme.”

“Ah, ma io non esisto, Vanjuška. Sai che nessuno fa ormai caso a ciò che faccio.” Aveva messo la scatolina al proprio posto. Aveva una bella collezione. Diverse le aveva comprate assieme a quell’uomo che da secoli tormentava la sua esistenza. Avevano passato così tanto tempo a farsi la guerra che era davvero strano e malato il fatto che continuassero a frequentarsi. “Al massimo West. Ma sono troppo abituato ad essere guardato male da lui che non ci faccio nemmeno più caso.”

Suo fratello avrebbe avuto la solita reazione da checca isterica (che non era in verità) se avesse saputo che stava dando asilo al nemico numero 1 del mondo intero. Era così strano non essere lui il guerrafondaio per eccellenza. 

“Possiamo anche restare semplicemente qui tutta l’estate.” Ivan lo aveva abbracciato e aveva nascosto il viso contro il suo collo. Grande, grosso, enorme ed ingombrante, ma era così fragile quando cercava conforto in lui. Era abituato anche a quello. Sapeva che era lì solo per avere un luogo dove nascondersi. 

“Possiamo. Sì, possiamo.” 

Aveva osservato ancora una volta quella bambolina comprata in una fredda giornata moscovita. Un periodo per nulla felice, ma una giornata che gli aveva dato molta gioia.

 

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Capitolo 3
*** 44. Bagnoschiuma [FrUk] ***


Anche se ormai era vecchio, molto vecchio, gli piaceva questa usanza dello scambiarsi i doni per le festività natalizie proprio come facevano gli esseri umani. C’erano Stati con cui si incontrava annualmente, ogni volta in un posto diverso. Anche Stati con cui era perennemente in guerra su qualcosa. 

“La tua casa fa sempre più schifo ogni anno. Perché devi vivere in questo buco a Londra quando potresti vivere ovunque?” Aveva sorseggiato del vino appena versato da Arthur. Era il vino che aveva portato lui, ma che non avevano aperto a cena. Arthur non apriva mai a cena il vino che portava lui. Doveva sempre servirgli della birra. Che barbaro.

“Tu fai sempre più schifo ogni anno, eppure ti accolgo ogni volta.” Arthur si era seduto di fronte a lui. Aveva sorseggiato anche lui un po’ di vino. Aveva fatto una faccia disgustata. E aveva alla fine appoggiato il calice sul tavolino. 

“Mi accogli perché non puoi stare senza di me. Lo sanno tutti quanto mi ami ancora.”

“Taglia corto e tieni il tuo regalo. Tanto so che sei qui solo per quello.” Aveva allungato il braccio per prendere un pacchettino da sotto l’albero di Natale e glielo aveva lanciato. Bene. Sapeva che non era nulla di fragile dal modo in cui lo aveva lanciato. Però era pesante. Sicuramente sarebbe stato un altro libro orribile sulla orribile cucina inglese o qualcosa del genere. 

“Cosa mi hai regalato stavolta?”

“Sto iniziando a perdere le idee ormai. Dobbiamo smetterla con queste sciocchezze.”

“Non sono sciocchezze. Sono regali di Natale. Sono l’unica cosa bella che ci rimane in questo mondo alla deriva.”

“Oddio, Francis, sei deprimente quando bevi.” 

“E’ solo la triste realtà dei fatti.” Aveva sospirato prima di bere un altro sorso di vino. Aveva appoggiato anche lui il calice sul tavolino e aveva iniziato a scartare il regalo. Era sempre curioso come un bambino quando si trattava dei regali che riceveva. Anche da Arthur. Anche quando erano regali orribili. 

Come quello.

Era l’ennesimo regalo orrendo.

“Bagnoschiuma alla lavanda? Ma sei serio?”

“Così ti sembrerà di stare sempre in Provenza, no? A fare picnic nei campi di lavanda con qualche contadinella, come tuo solito. E anche perché puzzi.” 

“Io non puzzo! Guarda in che topaia piena di muffa vivi tu! Dovresti usarlo su di te!” Gli aveva lanciato la confezione e Arthur l’aveva presa ridendo.

“La muffa ce l’hai tu nel cervello!” 

“Ma hai ancora quella orrenda vecchia vasca in bagno?”

“Sì, ovvio. Non ho voglia di ristrutturare al momento. Perché me lo chiedi?”

“Perché magari possiamo testare insieme se quel coso davvero profuma come i campi provenzali e se risveglia in me gli stessi stimoli.”

“Come sei volgare ogni volta che apri bocca.” Nonostante le sue parole lo aveva visto alzarsi dalla poltrona, aprendo la bottiglia di bagnoschiuma e portandola al naso. Sapeva che la mossa successiva sarebbe stata andare verso il bagno.

 

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Capitolo 4
*** 50. Libro di Bruno Vespa [Italie] ***


Milano faceva sempre schifo. Soprattutto in inverno quando tutto era pieno di nebbia e umido. E faceva schifo. L’unica cosa vagamente decente era quella pacchianata tremenda in centro. L’albero di Swarovski era l’unica cosa decente da vedere. Il che la diceva lunga su che razza di posto fosse. Ancora non capiva come suo fratello preferisse passare buona parte dell’anno in un posto in cui l’aria ti avvelenava i polmoni ad ogni respiro.  

Roma poteva essere più caotica, meno organizzata della metropoli lombarda, ma era la città che avevano scelto come capitale. Milano non l’avevano mai scelta con quella intenzione. Chi sano di mente poteva mai desiderare di vivere in un posto in cui vedevano il sole forse cinque giorni all’anno?

Salire a Milano per Natale era poi sempre una tortura. Gli aeroporti sempre pieni di gente che andava o tornava. La stessa cosa succedeva alla Stazione Centrale. Ed era troppo tirchio per farsi tutta quella strada in macchina con i rincari degli ultimi anni su carburanti e autostrade. 

Una vera tortura. 

“Io spero vivamente che tu stia scherzando.” Aveva aperto il regalo che suo fratello gli aveva dato subito dopo pranzo. “Ho sempre saputo che le nostre opinioni politiche sono molto differenti, ma sei serio?”

“E’ un libro come un altro, Lovi!” 

“E’ il libro di un fascista che fa apologia pure in tv invitando altri fascisti a fare altra apologia. Sai che è un reato? Ti ricordi che eravamo lì quando firmavano quella legge?” Aveva fatto una smorfia guardando il titolo. Era l’ultimo uscito. Non sapeva cosa gli facesse più schifo. Il titolo. La descrizione. O il fatto che permettessero a simili porcherie di girare nelle librerie.  “Dovresti tornare a Roma con me. Stando qui stai diventando come il lombardo medio.”

Feliciano aveva messo un broncio enorme e incrociato le braccia al petto. Aveva stile suo fratello. Mai quanto lui, ma aveva stile. Gli aveva sempre fatto dei regali bellissimi. Vestiti firmati. Orologi. Gioielli. Suppellettili. Anche libri. Ma questa volta aveva toppato alla grande. 

“E’ un besteseller! Ci sarà un motivo se la gente lo compra!”

“Non l’hai nemmeno letto vero? Ma ancora gli permettiamo a questo di stare in tv e sprecare inchiostro a sto modo?”

“Non sei mai contento. Uffa.” 

“Mi hai regalato una cosa che userò per accendere il fuoco. Però così facendo potrebbe piacergli, ed essere una cosa da nostalgici. Che loop maledetto che si creerebbe.”

“Lovi!!”

“Lovi un cazzo. E io che mi sono impegnato per sceglierti il regalo di quest’anno e tu mi regali cartastraccia.” Aveva lanciato il libro sul tavolo, guardando male il fratello che continuava a tenergli il broncio.

 

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Capitolo 5
*** 60. Extremely slow burn, actually glacial [RuPru] ***


Lago di Peipus, 1242

 

Era mosso da più odio e rabbia di quanto non fosse normalmente possibile. Era sempre mosso dalla rabbia. Da quando era nato aveva qualcosa per cui essere furioso e scattenarsi per questo motivo in battaglia. Questa furia cieca gli aveva spesso portato fortuna. Aveva collezionato vittorie su vittorie. Era cresciuto in forza e potenza, e un giorno avrebbe conquistato tutte quelle zone popolate da infedeli per convertirli al cristianesimo. Era la sua missione. Era la missione a cui si votavano tutti i suoi cavalieri.

Ma quei stronzi bastardi ed infedeli gli stavano dando molto filo da torcere. Aveva avuto modo di combatterci ormai da tempo. Aveva vinto. Aveva perso. Ma erano sempre una spina nel fianco che non riusciva ad estirpare.

Soprattutto lui. Lui che era fatto della sua stessa sostanza, che stava dietro quei soldati che combattevano per tenerlo fuori dai suoi confini. Quei occhi ametista popolavano i suoi incubi ogni volta che chiudeva gli occhi e non riusciva a toglierseli dalla testa. 

Doveva toglierlo di torno. Doveva sconfiggerlo e catturarlo e porre così fine a quella agonia che viveva ogni notte. Mai un nemico lo aveva torturato a quel modo. Anche chi gli aveva dato del filo da torcere non aveva mai popolato i suoi incubi. Mai una volta aveva sognato qualcuno contro cui stava combattendo. Nemmeno quella stronza ungherese che lo aveva preso per i fondelli in modo epico e per cui credeva di essersi preso una sbandata tremenda. 

Ma questo figlio di puttana non riusciva a toglierselo dalla testa. Doveva farlo fuori. Doveva annientarlo totalmente e forse così sarebbe riuscito a cancellarlo dalla propria testa.

Doveva radere al suolo le sue città. Doveva distruggere le fondamenta della sua Novgorod. Avrebbe esposto la testa del suo principe su una picca. Avrebbe banchettato tra i cadaveri dei suoi uomini. 

E poi finalmente se ne sarebbe andato da quelle lande gelide e desolate. Quel freddo ti entrava dentro e ti indeboliva giorno dopo giorno. Aveva sentito i locali parlare del Generale Inverno che proteggeva quei luoghi, e gli dava quasi ragione. Quel freddo era troppo da sopportare anche per lui che era sempre stato abituato a vivere in modo relativamente spartano all’interno dei monasteri. 

La neve ed il gelo ad aprile erano davvero troppo. Doveva esserci l’erba verde, le fronde degli alberi che si risvegliavano, il cinguettio degli uccellini. Non distese di bianco a perdita d’occhio. Quel posto doveva essere un inferno sceso in Terra, peggio dell’arida sabbia dove era nato. 

“Avanziamo.” Il Gran Maestro del suo ordine aveva parlato, e lentamente tutti gli uomini si erano mossi. Lui in prima fila, come sempre. Quello era il suo posto. Accanto al Gran Maestro, per proteggerlo ma anche perché era il migliore. 

Quella era solo l’ennesima battaglia in quel posto dimenticato da dio e dagli uomini. Avrebbe combattuto. Nelle sue ore orecchie ci sarebbe stato solo un ronzio dovuto al costante scontrarsi di spade e armature. Sarebbe rientrato al loro nuovo monastero a fine giornata stanco e sporco di sangue e fango. Ma sarebbe ritornato vittorioso.

O almeno così aveva pensato fino al momento in cui erano stati tratti in inganno dalla superficie ghiacciata del lago. La fanteria nemica aveva attraversato il lago senza problemi, ma il ghiaccio non aveva sopportato il peso dei cavalieri e dei loro cavalli. Erano sprofondati in un attimo nell’acqua ghiacciata. Era stato un secondo. Un battito di ciglio e aveva sentito la morsa del gelo attanagliargli le viscere. 

Voleva risalire in superficie. Aveva bisogno di aria. Doveva liberarsi del peso dell’armatura che lo faceva sprofondare, ma le dita guantate di ferro lo rendevano quasi impossibile. Come poteva salvarsi da quella situazione? Come poteva salvare il resto dei suoi cavalieri se non riusciva a salvare nemmeno sé stesso? Sarebbero morti tutti quanti in un modo così stupido, facendosi fregare da un gruppo di bifolchi contadini?

Quando l’ossigeno era entrato nei suoi polmoni al posto dell’acqua gelida, aveva quasi creduto di morire dal dolore. Non sapeva cosa fosse stato peggio, l’acqua o l’aria gelida.

Qualcuno lo aveva tirato fuori dall’acqua, ma nessun umano poteva avere così tanta forza da farlo. Solo un essere poteva farlo. Solo quello che doveva sconfiggere. Solo quello che popolava i suoi incubi di notte.

L’altro ragazzo lo aveva trascinato a riva, lasciandolo sulla neve ghiacciata in malo modo. Era riuscito a girarsi su un fianco, sputando così l’acqua che gli impediva di respirare correttamente. Essere quasi immortali aveva i suoi lati positivi. Era ancora vivo, cosa che non poteva dire di buona parte dei suoi cavalieri. E del suo cavallo. Amava quel cavallo. Lo aveva addestrato da quando era solo un puledrino. Stava davvero pensando al suo cavallo in un momento simile? In cui non sapeva nemmeno che fine avesse fatto il suo Gran Maestro? Davvero era più importante il suo cavallo di tutto il resto?

All’improvviso era sdraiato sulla schiena con due mani attorno al collo e il respiro che iniziava a mancare. L’istinto gli aveva fatto portare le mani attorno ai polsi dell’altro ragazzo, ma era come se fosse senza alcuna forza contro quella montagna di rabbia e odio che torreggiava sopra di lui. 

Non poteva fronteggiarlo, non in quel momento. Non quando era così debole sotto ogni punto di vista. 

Già faceva fatica a combatterlo quando era al massimo delle energie e con tutti i suoi cavalieri in ottima salute. Ora che erano rimasti in pochi, dispersi da qualche parte nella foresta e probabilmente feriti, non aveva alcuna speranza di liberarsi di quello Stato. 

“Tu. Tu mi stai rovinando l’esistenza, maledetto bastardo.” Il ragazzo aveva stretto la presa attorno al suo collo, ben conscio che non lo avrebbe ucciso, ma fatto solo molto male. “Tornatene nei tuoi cazzo di monasteri e gioca a fare il prete lì.”

Parlava a voce bassa. Bassa e gelida, e gli faceva quasi paura quel tono. Era la prima volta che si trovavano così faccia a faccia, e per la prima volta aveva quasi paura. Aveva i brividi lungo tutto il corpo. Sperava fosse solo per il freddo, e non perché quella sembrava una situazione senza via d’uscita. 

“Dovrei farti fuori ora, e toglierti finalmente di mezzo. Così potrei tornare a occuparmi di cose più importanti.”

Il ragazzo aveva quasi ringhiato, stringendo di più la presa attorno al suo collo. Non aveva mai combattuto contro un personaggio simile. Nessuno era mai riuscito a mettergli le mani addosso. Nessuno era mai riuscito a catturarlo. 

“Cose importanti? Fare la puttanella dell’Orda d’Oro?” Doveva stare zitto. Aveva una bustina di fiato in corpo e lo sprecava provocandolo. Se lo avesse ucciso non avrebbe nemmeno potuto dargliene una colpa, le provocazioni non piacevano a nessuno. Soprattutto non quando toccavano argomenti così delicati.

“Non dovresti parlare di cose che non puoi capire. Tu vivi protetto dai tuoi cavalieri, nei tuoi monasteri accoglienti. Non hai assolutamente idea di cosa sia la vera vita fuori dalla bambagia in cui sei cresciuto.” La sua voce continuava ad essere bassa e gelida, così fredda che sembrava quasi potesse congelarlo essa stessa. Si era abbassato, avvicinando il viso al suo. “Forse dovresti provare sulla tua pelle cosa voglia dire vivere con un invasore in casa. Con questa pelle candida gli piaceresti molto, vuoi provare?”

Era sicuro adesso, non erano solo brividi di freddo quelli che continuavano a scorrergli lungo il corpo.

Era paura. Era il terrore di essersi messo contro un nemico più forte di quanto lui non fosse in quel momento. E aveva il brutto presentimento che quello fosse solo l’inizio di una lunga guerra.

 

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Capitolo 6
*** 05. Centrini di pizzo [AusHun] ***


Vienna, 172*

 

La ragazza stava seduta più composta possibile sulla poltrona. Non erano cose a cui era abituata, non era cresciuta così. Stare seduti composti su una poltrona imbottita era un privilegio per le ragazze di buona famiglia, non faceva proprio per lei.

Se ne stava seduta, sforzandosi di non dare fastidio, ma voleva alzarsi. Voleva parlare. Magari cantare mentre Roderich suonava il pianoforte. 

Stare seduta a ricamare non era mai stato il suo forte. Non era capace, nonostante gli anni di esperienza era sempre al livello di un principiante. Era un lavoro che richiedeva concentrazione e lei si innervosiva facilmente nello stare seduta immobile.

Ma non lui. Non lui le cui mani si muovevano velocemente e con precisione. Uncinetti e fili sembravano non avere segreti per quel ragazzo così tanto strano. Aveva le mani delicate, le dita affusolate. Aveva le mani di chi non aveva mai impugnato spade o fatto lavori duri. C’era lei per quello. C’era sempre stata. Era lei il soldato tra loro due.

Roderich era fatto per le cose delicate. Per la musica. Per la scrittura. Per il ricamo e i centrini in pizzo. Proprio come adesso, che per rilassarsi continuava a passare il filo tra un buco e l’altro con l’uncinetto, facendola sembrare la cosa più semplice del mondo. 

Lo osservava e ne era quasi ipnotizzata. Avevano stanze piene dei centrini che aveva fatto nel corso degli anni. Ogni volta che qualcosa non andava, lui ricamava. Era il suo modo per riflettere, per scaricare la tensione. Le guerre e le battaglie lui cercava di risolverle nella sua mente prima di dover scendere in battaglia.

Lei no. Lei sarebbe già scesa in battaglia senza porsi troppe domande, soprattutto conoscendo chi stava attaccando i loro confini. L’altro non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Era un combattente dalla nascita, di quelli nati dal sangue. La prova risiedeva nei suoi occhi vermigli e freddi. 

Sarebbe stata guerra e dovevano preoccuparsi. Dovevano preoccuparsene seriamente e prendere provvedimenti il prima possibile. Dovevano preparare l’esercito, difendere i confini, iniziare a muoversi.

Non continuare a fare centrini che sarebbero finiti dimenticati in qualche stanza. Dovevano muoversi. Dovevano battere il loro nemico sul tempo, non lasciargli alcun vantaggio. Se lo lasciavano in vantaggio ne sarebbero usciti sconfitti e questo non potevano e non dovevano permetterselo. Dovevano continuare a mostrare al mondo la potenza che erano, non potevano piegarsi di fronte a nulla. 

Roderich doveva continuare a difendere l’egemonia degli Asburgo in Europa, non poteva farli sembrare deboli. Non poteva in alcun modo farli sfigurare sulla scacchiera politica.

“Hai sbagliato diversi punti, Elizaveta. Dovresti concentrarti di più.” 

Roderich non aveva nemmeno spostato gli occhi dal centrino su cui stava lavorando ed era riuscito ad accorgersi che lei stava facendo un disastro vero e proprio. Non se ne era accorta nemmeno lei, eppure stava guardando le proprie dita e contando i punti. O forse non li stava contando in alcun modo? Aveva la testa già sulla cartina su cui studiare una tattica di guerra? Stava già pensando al campo di battaglia e da che parte attaccare?

“Roderich, Gilbert starà radunando tutto il suo esercito lungo i confini. Non dovremmo essere qui adesso.” Aveva smesso completamente di ricamare, tanto stava sbagliando tutti i passaggi. Aveva appoggiato le mani sulle cosce e aveva guardato il giovane uomo che le sedeva così vicino eppure così lontano. Erano ormai due secoli che vivevano insieme, eppure a volte le sembrava così irragiungibile. “Non passerà molto tempo prima che decida di fare una mossa ed invaderci. Dovresti conoscerlo ormai. Dovresti sapere come funziona quel suo cervello.”

“Non oserà attaccarci con il rischio di far scoppiare una guerra.” 

“Stai parlando di Gilbert!” Aveva alzato la voce, scattando in piedi e lanciando a terra il centrino su cui stava lavorando. “Sai che non si ferma di fronte a nulla se deve combattere! Vuole la Slesia! Sai che attaccherà e ha trovato anche il casus belli!”

“Non alzare la voce, non è molto educato per una ragazza.” Roderich aveva sospirato, sistemando meglio gli occhiali. “Quando attaccherà risponderemo. Fino a quel momento dobbiamo solo aspettare e vedere come si evolverà questa situazione. Se servirà, scenderò in battaglia io stesso per proteggere l’Impero e la nostra nuova imperatrice.”

Voleva protestare ancora. Voleva dirgli che dovevano per forza batterlo sul tempo. Ma Roderich continuava a starsene seduto in modo composto, senza smettere di lavorare sul proprio centrino che come sempre era complicato e perfetto. 

“Io non riesco a restare qui, Roderich. Devo uscire da questa stanza e fare qualcosa di costruttivo, o impazzirò.”

Non aveva atteso alcuna risposta, uscendo immediatamente dal salottino in cui avevano passato fin troppe ore.

 

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Capitolo 7
*** 33. Il Giudizio [Prussia] ***


Drittes Reich, 194*

 

Era nato dal sangue. Dalle battaglie. Era nato tra le urla a squarciagola dei cavalieri. Tra il rumore e le scintille delle spade. Tra zoccoli di cavalli e sabbia che bruciava le narici.

Era nato dal sangue di quelle battaglie e aveva sempre combattuto. Da quando aveva memoria non si era mai tirato indietro. Aveva visto tutte le atrocità di cui il mondo era capace. Era uscito da diverse battaglie coperto di sangue da capo a piedi, non sicuro se fosse il suo o quello dei nemici. Aveva visto secoli di guerre, secoli di atrocità. Credeva di aver visto davvero tutto. Credeva che l’umanità avesse raggiunto il suo apice di disumanità con l’Inquisizione.

Ma si era sbagliato.

Qualcosa stava riuscendo a stupire pure lui. E non lo stupiva in nessun modo positivo.

Sapeva chi avevano portato al potere i suoi cittadini. Ne aveva visti di uomini assetati di potere completamente folli e vaneggianti. Ma il più folle di tutti doveva capitare proprio a lui.

Avevano guardato in silenzio il susseguirsi degli eventi. Non potevano intervenire, non volevano farli intervenire in alcun modo. Questi governanti moderni erano così diversi da quelli che li avevano preceduti, che avevano anche ascoltato i loro consigli.

Questa volta voleva solo vomitare. Sentiva la bile che si muoveva nelle sue viscere e voleva uscire da qualche parte. 

Aveva visto mille atrocità. Le aveva perpetrate anche di proprio pugno senza battere ciglio. Aveva saccheggiato villaggi e datogli fuoco. Aveva passato da parte a parte con la sua spada soldati e civili senza battere ciglio. Aveva assistito agli stupri e alle torture più efferrate e non aveva mai detto nulla. Ma questa volta l’umanità lo aveva nauseato. E lui lo aveva permesso. Da guerrafondaio che era sempre stato, non aveva imparato proprio nulla dalle esperienze passate. Non aveva voluto guardare più in là del proprio naso. 

Aveva dei folli al potere e li aveva lasciati fare. Si era concentrato soltanto sul lato militare di quella inutile guerra che li stava portando molto lontano da quello che era il loro scopo, e non aveva guardato quello che succedeva tra i suoi gerarchi. Probabilmente suo fratello era stato altrettanto sciocco da lasciarli fare. Entrambi troppo concentrati alle conquiste e sconfitte, senza guardare quello che avrebbero dovuto avere davanti agli occhi.

Aveva il vomito in gola. Stava per uscire tutto lo schifo che stava provando per i suoi governanti, per i cittadini omertosi che non stavano facendo nulla, per sé stesso che distrattamente gli aveva permesso quell’orrore.

Sarebbero stati tutti puniti e giudicati. Doveva esserci una punizione divina in questa o nell’altra vita per quel massacro, per quel genocidio. 

Aveva permesso un orrore mai visto prima. Aveva creduto che l’orrore fosse la Grande Guerra? Si era sbagliato di grosso. Aveva permesso alla sua gente di massacrare la sua gente. L’orrore più grande lo aveva fatto in casa propria, non sui campi di battaglia. Campi di prigionia un corno. Erano solo campi di morte e niente di più. Campi di atrocità. Campi di disumanità. 

E lui aveva permesso tutto quello. Non ci sarebbe mai stato un giudizio abbastanza giusto per tutto quello. Nessuna punizione umana avrebbe potuto rimediare a quello che stava vedendo con i propri occhi. Milioni di persone rinchiuse in quei campi. Milioni di anime perdute a cui non avrebbe mai potuto chiedere perdono. E fino a quel momento lui era stato ignorante su cosa esattamente stessero facendo. Non gli interessava. Non gliene importava. Aveva solo i suoi piani bellici in testa. Aveva solo la conquista della Russia che gli premeva nel cervello, fregandosene di tutto il resto. Quanto era stato stupido. Quanto era stato sciocco a fidarsi degli umani e permettergli tutto quel potere senza limiti. Si credevano dei? Si credevano autorizzati a fare quello che volevano? Come potevano credere che ci fosse qualcosa di umano in quello che stavano perpetrando su altri esseri umani? Come?

Non c’erano risposte a cui poteva giungere. Solo lo schifo di fronte a ciò che stava vedendo, solo lo sconforto di fronte alla morte della umanità di cui era adesso testimone.

Non ci sarebbe mai stato un giudizio abbastanza giusto. Non ci sarebbe mai stata una vera giustizia per quello scempio. No, mai.

 

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Capitolo 8
*** 32. La Stella [FraJeanne] ***


Francia, 1430

 

La osservava sempre di nascosto quando la sera si allontanava in silenzio dall’accampamento. Non voleva mai disturbarla, era un momento suo. Un attimo di totale intimità con quel Dio che la ispirava, e che lui aveva ormai perso del tutto. La osservava in silenzio, protetto dalle tenebre e dagli alberi. Osservava la sua silhouette illuminata solo da qualche torcia o a volte dalla luce della luna. 

Sembrava un essere ultraterreno. Forse era anche lei una fata, una di quelle di cui gli aveva raccontato quando parlava della propria infanzia. E lui era abbastanza vecchio da credere a quella storia. Ci aveva creduto anche lui alle fate molto tempo addietro. Aveva creduto in tante cose pur di stare a galla e non perire sotto i colpi mortali di altri come lui.

Aveva visto così tanti umani credere in così tante cose diverse, in così tante divinità differenti, che oramai non sapeva nemmeno lui in cosa credere davvero. 

Perché come poteva credere e avere fede in un Dio che stava mettendo tutto nelle mani di quella giovane donna? Come poteva avere fede in Lui che la stava mettendo di fronte a battaglie sempre più sanguinose, sui campi di battaglia e non? Come poteva lui invece proteggerla da quel disegno divino che l’avrebbe vista morire, visto quanto scomoda stava diventando?

Lui lo sapeva come sarebbe finita. E non avrebbe potuto salvarla dal suo destino.

“Monsieur Francis, i vostri pensieri sono molto rumorosi questa sera.” Non si era nemmeno voltata verso di lui. Continuava a dargli la schiena, illuminata solo dalla luna e dalle stelle. Com’era quella storia che gli aveva raccontato una vecchia strega? Quella che gli aveva fatto un gioco strano con le carte? Cosa gli aveva raccontato? 

Come aveva potuto vedere nel suo futuro una ragazza illuminata dalle stelle che avrebbe portato speranza? Lui non credeva alla magia. Quello era il campo del suo nemico, che abitualmente danzava con fate e folletti. 

“Perdonatemi, Jeanne. Non volevo disturbare questo momento privato.” Si era spostato dal buio che lo proteggeva e si era avvicinato a lei, ancora seduta nella radura. “Volevo solo essere sicuro che nessun altro vi seguisse.” 

Erano al culmine della guerra. E da nessuna delle due parti erano felici della popolarità che una sola ragazza, una contadina per giunta, potesse avere tra i soldati e la popolazione. Era un’eroina. Più popolare del re stesso. 

“Ho Dio dalla mia parte.” Si era voltata verso di lui, e gli sorrideva. Gli sorrideva sempre perché lui era il suo amato Francia. Ero il suo amato regno. Solo che il loro amore non era uguale. E questo lo logorava ogni giorno. 

“Temo che Dio non potrà difendervi dagli uomini, mia Jeanne. Gli uomini sono crudeli e meschini, e voi siete ancora così giovane e ingenua.” Si era seduto accanto a lei, ma non la guardava. Non ci riusciva in quell’ultimo periodo. Non ci riusciva perché si sentiva sporco e meschino come gli uomini di cui parlava. Perché il suo desiderio verso quella ragazza era diventato qualcosa di peccaminoso. Lei lo guardava con adorazione, e lui con lussuria. 

“Non ho paura.” La piccola mano di lei aveva trovato la sua e l’aveva stretta. Era così piccola, ma salda. La sua stretta era sempre forte e sicura. “Devo solo svolgere il compito che mi ha dato l’Arcangelo Michele e poi si vedrà.”

“La tua fede mi commuove. Sei di ispirazione a molte persone, ma sei molto scomoda per altre. Temo che questa guerra stia durando già troppo, e il nostro re ha paura di voi.”

La ragazza aveva riso. Una risata cristallina, pura. Una risata che faceva vibrare il suo cuore arido. 

“E come potrei fargli paura? Non siate sciocco, monsieur Francis!” Sorrideva mentre lo diceva. Un sorriso dolce, sincero. Un sorriso colmo di tutto l’affetto che poteva nutrire per lui. Un sorriso pieno di speranza per il presente ed il futuro. “Io sono solo una ragazza, non ho grandi poteri. Mi è solo stata affidata una missione dal Nostro Signore. Portata a termine quella, tornerò a Domrémy dalla mia famiglia.”

Doveva proteggerla. Doveva vegliare su quella ragazza. Quella ragazza era portatrice di speranza. Era una stella che brillava con potenza nel firmamento. Era così preziosa, e non se ne rendeva assolutamente conto.

Avrebbe dovuto proteggerla da ogni cosa e da ogni male. Avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto farla scappare. Nasconderla da qualche parte, tenerla al sicuro. Qualcosa stava per succedere, di questo era certo. Troppa gente riponeva cieca lealtà in quella giovane ragazza, e questo spaventava i potenti più di ogni altra cosa.

“Vi accompagnerò io stesso a Domrémy, anche questa notte stessa se fosse necessario e se questo vi tenesse al sicuro.”

“Esagerate, monsieur. Finita questa guerra nessuno si ricorderà più di me.”

Gli sorrideva ancora, e lui avrebbe voluto avere la sua stessa fiducia verso il futuro.

 

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Capitolo 9
*** 16. Hurt - Christina Aguilera [Spamano] ***


Seems like it was yesterday when I saw your face

You told me how proud you were but I walked away

If only I knew what I know today

Ooh, ooh

 

Aveva sempre cercato di andarsene, aveva sempre cercato di allontanarlo. Non aveva mai voluto dare troppo peso a quel legame che c’era stato tra di loro.

Voleva sempre continuare a pensare che fosse soltanto un fastidio avere lo Stato spagnolo attorno, sin da quando era piccolo era questo che continuava a ripetersi. Era un fastidio. Spagna era inutile. Era uno stupido. Era debole.

Erano tutte cose che continuava a ripetersi mentre era sotto il suo dominio. Sognava di andarsene. Sognava di diventare grande come lo era stato suo nonno prima di lui. Aveva in mente vecchie glorie irraggiungibili. Ed era solo un giovane Stato sotto il dominio di altri. Quali sogni poteva perseguire?

E non si era reso allora conto che Antonio gli aveva sempre dato una libertà senza pari, che pochi altri territori dominati avevano avuto. Antonio gli diceva che era orgoglioso di lui, anche per le piccole cose. Antonio lo teneva sempre con cura sul palmo di una mano, non permettendo a nulla di scalfirlo.

Aveva vissuto nella bambagia senza rendersene nemmeno conto, circondato da un affetto senza pari che l’altro Stato gli offriva in continuazione, anche in modo esagerato a volte. E non aveva mai apprezzato veramente quello che gli veniva offerto. Aveva sempre creduto che ci fosse qualche secondo fine dietro tutto quell’affetto. 

Quanto si era sbagliato?

Antonio gli aveva detto che era orgoglioso di lui anche il giorno in cui lui se ne era andato, il giorno in cui aveva unificato la penisola in un unico regno. Antonio gli sorrideva e gli diceva che era orgoglioso, e lui credeva che fosse una trappola per farlo ritornare sui suoi passi. Antonio che gli sorrideva dolcemente e gli augurava tutto il meglio che il mondo avesse da offrirgli. 

E lui se ne era semplicemente andato. Gli aveva dato le spalle e se ne era andato senza voltarsi. Voleva essere indipendente, voleva essere un suo pari. Non voleva più essere un suo possedimento. Non voleva più essere considerato solo un bambino che doveva essere protetto da lui.

“Ma perché sei così ossessionato dal coltivare pomodori? Non puoi trovarti un nuovo hobby dopo tutti questi secoli?” 

Aveva osservato l’uomo che era chinato sopra una pianta di pomodoro. Un grosso cappello di paglia gli copriva la testa ed il collo. Le mani erano sporche di terra perché ormai era nell’orto da diverse ore. Ed era tutto così famigliare che faceva quasi male. Quante volte erano stati insieme nell’orto tra le piante di pomodoro?

“Perché dovrei? Sono buoni e mi fanno passare il tempo.” Antonio aveva fatto una lieve pausa. “E poi assomigliano a te.”

Lo aveva sentito ridacchiare e voleva colpirlo con qualcosa. Qualcosa di contundente che lo avrebbe lasciato tramortito a terra.

“Che stronzo che sei. Non ho più le guance grasse, bastardo.”

“Erano le guance più morbide e rosse del mondo. Dei piccoli pomodori.” Ridacchiava ancora, mentre le sue mani si muovevano con destrezza attorno alla pianta. Era ipnotizzante stare a guardarlo. Gli metteva sempre calma quando era bambino. “Come mai qui, Lovi?”

Non si era ancora voltato verso di lui. Continuava ad occuparsi con delicatezza delle sue piante. Quelle mani le aveva viste tinte di sangue più volte di quanto avesse voluto, eppure con lui erano sempre delicate. 

“Solite cose. Sai come diventano le cose a casa mia ad ogni nuovo governo in carica. Avevo bisogno di scappare.”

“Puoi sempre tornare ad essere un mio protetto. Anche se non so quanto meglio sono messo al momento.” Si era fermato e solo allora si era voltato verso di lui. Gli occhi di Antonio erano sempre caldi quando si posavano su di lui. “Però posso sempre trovare un posto dove ospitarti.”

“No, grazie. Permettimi di rifiutare, come sempre.” Rifiutava, ma alla fine era sempre da lui. Ogni volta che ne aveva bisogno, ogni volta che si annoiava o non sapeva cosa fare, si nascondeva nella casa dello Spagnolo. Non lo avrebbe mai ammesso apertamente a nessuno, ma gli mancavano quei giorni spensierati. Aveva sempre detto che si sentiva un prigioniero. Aveva sempre ripetuto che Antonio se lo teneva accanto solo per la fantomatica eredità di suo nonno. Ma era più per dare a sé stesso un motivo per odiare quell’uomo.

“E’ confortante sapere che non cambi proprio mai.” Antonio si era alzato e gli si era avvicinato. Non sapeva come fosse possibile, ma profumava di sole. E ne irradiava anche lo stesso calore. “Vieni, preparo uno spuntino e mi racconti per bene cos’è successo stavolta. Magari un po’ di sangria ti tira su di morale.”

Antonio lo aveva preso per mano. La sicurezza di quelle mani non l’avrebbe mai scordata. Si sarebbe sempre affidato alla guida di quell’uomo. Quell’uomo che lo accettava per come era e che non gliene faceva mai una colpa. Quell’uomo che lui aveva sempre incolpato per tutte le cose che andavano storte nella sua vita.

“In questo momento preferirei che mi tirasse su di morale altro.” Aveva mormorato più a sé stesso, ma Antonio lo aveva sentito ed era scoppiato in una risata fragorosa. Era contagiosa la sua risata. Ti metteva di buonumore solo sentirla.

“Non dire queste cose se poi devi diventare rosso come un pomodoro, mi querido.”

 

I'm sorry for blaming you

For everything I just couldn't do

And I've hurt myself

By hurting you

 

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Capitolo 10
*** 09. Macchina per cucire Singer a pedale [Polonia] ***


Varsavia, 186*

 

Feliks adorava le cose belle. Adorava i fronzoli e i merletti attaccati ai vestiti. E gli mancavano i vecchi tempi in cui gli uomini potevano conciarsi così senza sembrare meno virili. Certo, i suoi vicini indossavano pesanti armature la maggior parte del tempo, quel teutone violento soprattutto, ma avevano tutti anche abiti riccamente decorati. 

Adorava tutto questo. Adorava i ricami con i fili d’oro che rendevano tutto elegante. Veniva sempre preso in giro per la sua grande passione per gli abiti confezionati in modo impeccabile, ma se ne fregava altamente. Era anzi invidioso che i suoi cittadini non avessero lo stesso senso estetico che possedeva lui, e che ogni moda doveva essere importata dall’estero. Soprattutto da quel mangia lumache che sembrava sempre al top. O quei maledetti italiani che oltre alla moda avevano pure l’arte dalla loro parte. Mentre lui era nato e cresciuto solo tra guerrieri a cui non interessava nulla dei bei vestiti. C’era solo il clangore delle armi e il rumore metallico delle armature. Non c’erano stoffe pregiate.

Con un sospiro il biondo aveva fermato i piedi che muovevano il pedale metallico. Aveva guardato fuori dalla finestra. A volte ricordava quasi con nostalgia le ore passate a cucire e ricamare a mano gli abiti che avrebbe poi indossato. Lo rendeva felice passare così le ore, spesso con le donne che abitavano a corte coi suoi sovrani. 

Adesso era tutto più veloce. Tagliava con forbici professionali, e cuciva con le nuove macchine da cucire che avevano inventato. Un’invenzione magnifica. Dovevano dare un premio all’uomo che aveva inventato una tale cosa. 

Gli permetteva di creare gli abiti che desiderava. Comprare quella Singer era stato il miglior investimento che avesse fatto negli ultimi anni.

 

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Capitolo 11
*** 48. Borsa dell'acqua calda [FraSey] ***


Si era avvicinata sbuffando all’uomo che era sdraiato sul divano. Era lamentoso. Era farneticante. Aveva passato la notte a bere con i suoi degni compari che con molta probabilità erano nella stessa situazione. Ma che molto fortunatamente non erano affatto affar suo.

Non voleva che nemmeno quell’uomo fosse affar suo in quel preciso momento. Voleva buttarlo fuori tra i cassonetti dell'immondizia e lasciarlo lì per i netturbini che sarebbero passati all’alba. 

Era così raro che lei venisse a Parigi, e aveva sperato di passare dei bei momenti con quell’uomo che stava vedendo davvero poco negli ultimi tempi. Ma lui era dovuto uscire con i suoi due amici idioti, per festeggiare il compleanno di uno di questi.

E il risultato quale era stato?

Un uomo ubriaco, infreddolito, e farneticante sul divano.

Voleva lasciarlo lì, a morire di alcool e mal di ossa e di tutto quello che gli stava facendo male. Invece il suo buon senso e l’amore che provava per lui l’avevano spinta e mettergli una borsa dell’acqua calda sulla schiena. Lamentava dolore. Farneticava di cadute sul ghiaccio. E davvero non voleva sapere cosa avevano fatto durante la notte. Nemmeno dove fossero stati. 

Non voleva nemmeno sapere per quale motivo fosse stato Russia a suonare alla porta per riconsegnarlo con un sorriso inquietante. Dalla macchina parcheggiata alle spalle di Ivan aveva solo sentito delle risate e parole inappropriate uscire dalla bocca del Prussiano, ma non voleva indagare. Erano tutti abbastanza adulti - sicuramente più di lei - e potevano decidere cosa diavolo volessero fare delle proprie esistenze. E se la loro idea di divertimento fosse ancora quella di sbronzarsi fino a perdere i sensi, allora non dovevano pesare su chi li stava pensando a casa.

“Oh, Victoire, se non ci fossi tu…”

“Se non ci fossi sarebbe uguale. Avresti trovato qualcun altro.” 

Era infastidita. Molto infastidita. Doveva essere qualche giorno solo per loro. Doveva essere un momento in cui potevano fare i piccioncini in santa pace. Invece eccola lì a fare da infermiera ad uno Stato secolare che non aveva ancora imparato come stare al mondo e probabilmente mai lo avrebbe imparato. Bastava vedere in che stato pietoso versava sul divano in quel momento.

 

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