La Ballata degli Incubi e dei Fantasmi

di GinChocoStoreAndCandy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Prezzo del Tempo ***
Capitolo 2: *** Alla Fine ***
Capitolo 3: *** La notte passa in fretta ***



Capitolo 1
*** Il Prezzo del Tempo ***


Tanto tempo fa,
in una galassia lontana lontana...




 

«Non c’è Forza nel vuoto, solo la morte;
Non c’era Forza nel vuoto, solo la morte;
Non c’è Forza nel vuoto, solo le aberrazioni»

Gospel del Mostro di Dtio



«Qui è Obi-Wan Kenobi,
le forze della Repubblica si sono rivoltate contro i Jedi,
state lontani da Coruscant,
non fatevi riconoscere,
siate forti,
che la Forza sia con voi»


19, BBY

*


*


*
 

Il Prezzo del Tempo

 

1

Il radiofaro cominciò a lampeggiare.
Ad intermittenza, la luce rossa si accendeva e spegneva mettendo in risalto lo strato sottile di polvere che ne ricopriva la forma arrotondata, mettendo a sua volta in risalto sé stessa tra la marea di bottoni, interruttori e leve sulla plancia della piccola astronave. Dai vetri della cabina di pilotaggio si vedeva il cielo nero con poche stelle, il grigio chiaro degli esterni assumeva un colore spettrale sotto i raggi delle lune piene che si alternavano assieme alle ore della notte. Fuori, il parcheggio era vuoto e silenzioso, così come il resto della città diroccata, intercalata da un manto scuro, fervido tra i cunicoli, tra le ombre, negli scatafossi e negli scoli delle fogne; ecco perché, quando il radiofaro cominciò a lampeggiare, la luce rossa rischiarò non solo l’interno della cabina di pilotaggio, ma si proiettò anche sul pavimento del parcheggio e sulla superficie dell’astronave, disegnando i contorni dello scafo appiattito e colorando di un diverso tono il porpora delle bande decorative.
Occorsero alcuni minuti prima che il pilota si accorgesse dello strano riverbero che proveniva dalla plancia della sua astronave e che insistentemente cercava di attirare l’attenzione.
Infastidito, si sbrigò a salire su per la rampa: la lasciavano sempre aperta, nessuno avrebbe osato rubare quell’astronave, erano in un purgatorio vivente, tuttavia i dannati che ci vivevano tenevano ancora alla vita per gettarla via per un pezzo di metallo come quello.
Giunto al corridoio, camminò rapido nel buio interrotto solamente dalle poche luci di direzione che si riflettevano sul lucido della maschera che indossava; accostandosi, la luce intermittente irradiava il colore rosso a tutta la cabina fino al limitare con il corridoio. Una volta dentro, gli occhi andarono immediatamente al solito interruttore che i clienti usavano per contattare il pilota e i suoi compagni per i lavori di pulizia, ma scoprendolo spento si allarmò. Sulla maschera, il rosso brillava espandendosi sulla curva della visiera, somigliando ad un battito di ciglia, lasciando intravedere, ad ogni impulso, la forma convessa dello specchio di cui era fatto l’oggetto: serviva a mostrare ai propri nemici la loro stessa faccia negli ultimi istanti di vita; anche al termine di quella notte avrebbe mostrato una fine, diversa, ma sempre una fine sarebbe stata.
Il pilota fece un paio di passi dal suono impercettibile, premette l’interruttore per la ricezione, lo schermo rettangolare si accese, l’aurebesh scorse rapido parola per parola, lettera per lettera, finché l’intero messaggio non fu completamente scritto.
La luce intermittente si rifletté nuovamente sulla maschera, l’attimo dopo illuminava di rosso sangue i tratti dell’uomo che leggeva e rileggeva il testo. Spinse in sequenza i vari pulsanti, le dita tremanti salvano la comunicazione nella memoria del computer dell’astronave.
Spense il radiofaro; il buio tornò ad imporsi placido all’interno della cabina della corvetta e la luce delle lune del piccolo pianeta dell’orlo esterno illuminò il largo sorriso euforico del jedi.

 

2

 

L’ultimo suono che uscì dal trasmettitore fu lo sparo di un blaster. La comunicazione si chiuse e il comlik venne riposto diligentemente in una delle tasche del cinturone bianco; lo stormtrooper riprese ad imbracciare il fucile con due mani. Sull’attenti assieme al suo commilitone, erano in difesa della porta di accesso ad un tempio, simile nella forma, a quello principale su Coruscant. Non che i due soldati avessero mai avuto occasione di vederlo dal vivo; solo di recente, tramite gli ologrammi tattici, ne avevano esplorato le forme e gli interni dei punti nevralgici, per individuarne le entrate principali, gli accessi remoti, le vie di fuga secondarie, tutto studiato dettagliatamente per il giorno dell’assalto finale.
Ormai era questione di tempo, forse di qualche ora che il grosso delle forze nemiche sarebbe stato abbattuto, dopo sarebbero cominciati gli anni di caccia serrata, in giro per la Galassia a ripristinare l’ordine definitivo imposto dall’Imperatore. L’altro commilitone sospirò stizzito attraverso il casco e sul microfono l’aria del respiro prese un suono metallico distaccato; erano su quel pianeta da circa due ore, atterrati sulla base del rilievo su cui sorgeva il tempio jedi, erano saliti passando per i sentieri di meditazione, divisi in squadroni avevano attaccato su più fronti, occupando e facendo saltare le uscite d’emergenza, i canali di scolo e distruggendo i ripetitori di comunicazione prima e le astronavi da battaglia dei cavalieri poi, palesandosi all’ingresso principale, dopo aver invaso quelli secondari, intrappolando i traditori nella loro stessa casa. I due erano stati parte della retroguardia, spediti da quel lato del tempio che, secondo le mappe, fungeva da ingresso e uscita; mentre il resto della truppa entrava, i due cloni avevano ricevuto l’ordine di presidiare l’area.
Uno dei due alzò lo sguardo al cielo, lassù, assieme alla planetoide che fungeva da luna, orbitava l’astronave madre, lo star destroyer classe Imperator; ma non uno qualsiasi.
«Quanto ci mettono a stanare quella feccia?» la voce meccanica del collega proveniente dal casco era irritata; l’altro smise di fissare il cielo e si voltò dietro annoiato, notando in quel momento di attesa, l’ingresso alto del tempio. Sotto il casco, aggrottò le sopracciglia: stando alle mappe, rispetto a Coruscant, l’edificio di quel pianeta sembrava fosse stato costruito di fretta e con una struttura su diversi livelli. Quello dove presidiavano i due stormtroopers era il secondo, nonostante fosse posizionato più in alto rispetto al primo, che era più basso e sul versate opposto dell’altura; il tetto dell’edificio arrivava alle spalle delle imponenti statue che stavano di guardia al portone principale, mentre in quello secondario, salvo un’apertura spropositata, tanto alta quanto era stretta, non c’era nulla a decoro, nemmeno illuminazione sufficiente affinché si potesse vedere a due passi dallo stipite e nemmeno un accenno di meccanismo automatizzato di chiusura delle ante. La folta vegetazione circondava incolta il tempio creando archi di rami intricati, foglie dalla forma a stella e rampicanti secchi, che tutti assieme pendevano sfiorando il tetto piatto della struttura; a contrastare ciò, vi era lo spiazzo perfettamente pulito e ordinato dove i cloni presidiavano e un ampio spazio a cui si accedeva da una scalinata, per l’atterraggio di astronavi di media grandezza, simile in tutto per tutto a quello posizionato all’ingresso principale.
Tuttavia, spogliato delle vestigia che gli abitanti rappresentavano, era un banale edificio dallo sciatto color conchiglia. Come la città che si estendeva a nord di lì.
«Perché hanno portato un super star destroyer per un tempio appena fuori l’orlo esterno?» il collega proseguì la lamentela.
L’altro invece, continuò a scrutare l’ingresso; il casco bianco con le forme stilizzate di occhi e bocca disegnata come due righe a capanna, rimase fisso sull’ingresso.
«Forse dovrem...» il clone alzò la mano per far tacere il collega. Interrogativo, anche l’altro voltò la testa nella stessa direzione.
La massa oscura dalla forma rettangolare spropositata pareva densa; inoltre, la statua del maestro jedi della fattezze di una creatura dal cranio cilindrico e dal collo corazzato che si intravedeva di spalle dall’altra parte del tempio, diede al primo clone un’insana sensazione di raccapriccio.
Attesero in silenzio per qualche istante e fu proprio quell’assenza di rumori ad insospettire il primo stormtrooper.
«C’è troppa calma» commentò ansioso.
«Li avranno già ammazzati tutti» l’altro cercò una soluzione sbrigativa, ma la voce gli tremò verso la fine della frase.
Qualcosa non tornava.
Al tempio di Coruscant, così come in tutti gli altri pianeti con cui si erano collegati, di sottofondo agli assalti si udivano sempre colpi di blaster o il sibilo di qualche swipe di spada laser, grida o rumori di battaglia; lì, nulla.
Nemmeno il frusciare delle foglie, il verso di qualche animale o il rullare di un motore che restava in sosta.
C’era solo il nulla.
Come nel vuoto.
Come se gli avesse letto nel pensiero, dal buio denso, strisciò un gorgoglio, ringhiante attraversò lo stretto portale per poi estinguersi nell’aria della notte.
Il tempo giusto, per far sì che i cloni lo riconoscessero.
Il primo clone portò immediatamente la mano alla cintura e prese il comlink, il suo collega allarmato alzò il fucile, puntando verso il vuot del portone, pestando i piedi a terra nervoso.
«Ammiraglia, qui squadrone beta, ci occorrono rinforzi...» si interruppe: la comunicazione uscì pesantemente disturbata. Riprovò.
«Ammiraglia, qui squadrone di difesa…» il chiasso delle interferenze si fece più intenso, da dar fastidio alle orecchie a causa dei fischi acuti.
«Ammiraglia...» gridò.
«...smi...» fu tutto quello che uscì dalla bocca della trasmittente.

 

3

 

L’ombra sgusciò di fretta.
Furtiva e lenta aveva la stessa forma della luna nel cielo: gibbosa.
Arrancò rapida giù per il pendio, correndo di lato a piccoli saltelli, le braccia ciondoloni ondeggiavano con il muoversi del corpo. Il volto coperto dal cappuccio lasciava intravedere un barba rada e un sorriso maligno.
Gliel’ho fatta, gliel’ho fatta! Canticchiò nella sua testa, ruzzolando giù, verso il fondo della collina E ho lasciato una bella sorpresa, sì, una bella sorpresa!
I denti acuminati si allargarono con il sorriso mentre la strana creatura continuava a balzare giù dal pendio.

 

4
 

I due stormtroopers fissavano attoniti il cielo notturno. Al posto della loro astronave in orbita, era apparso uno sfavillio tremulo, di una inquietante luce rossa, come le stelle che stanno per morire.
Era accaduto dopo la fine della trasmissione. Contrariamente a quanto intuivano, continuavano a sperare che fosse un problema di interferenze la mancata risposta dell’ammiraglia. Sotto le armature però, i due soldati sudavano freddo, uno apriva e chiudeva nervosamente le dita attorno al grilletto del blaster, l’altro deglutì a vuoto, stringendo ancora il comlink cambiò canale e cercò quello del proprio superiore.
«Qui entrata nord, mi ricevete?» parlò atono, il tentativo era una sorta di effetto placebo, lo avrebbe convinto che le cose erano a posto.
Il canale era lievemente e nuovamente disturbato. Le interferenze dai suoni elettronici si dispersero tra la vegetazione tramite l’eco che distorto, fece assumere al suono grattante la cantilena di una risata di scherno. Durò per alcuni secondi, che i due soldati passarono circondati dai penetranti suoni deformati.
«Forte e chiaro, passo» la voce del superiore fece sobbalzare il soldato sul posto.
Aprì e chiuse la bocca sotto il casco, quasi incapace di emettere parole, credendo che ne sarebbe uscita la strana risata dell’eco. Gli occorse un attimo per rispondere:
«Non riesco a mettermi in contatto con la nave madre, chiedo il permesso di usare l’holo di uno dei nostri trasporti».
Dalla porta d’entrata il gorgoglio risuonò di nuovo; i due stormtrooper si voltarono di scatto.
«Soldato, resta al tuo posto qua abbiamo quasi finito» la voce metallica e gracchiante di rimprovero non scalfì la mente del clone. Era scosso e nervoso da quel suono anomalo che proveniva dal posto che per antonomasia, doveva essere il più innocuo della galassia.
«Capitano, c’è qualcosa qui all’ingresso nord!» parlò rapido, imbracciando il fucile e puntando alla cieca dentro quella massa oscura che gli si imponeva di fronte; l’altro soldato teneva sotto tiro il buio, scalpitando tra il dover ubbidire e il voler scappare.
«Non c’è niente, soldato» decretò il caposquadra attraverso il trasmettitore; la voce metallica assunse il tono dell’eco distorto: la risata divenne il sottofondo delle parole del superiore.
«Restate al vostro posto» continuò il duetto:
«Non c’è niente».
Ma qualcosa c’era.
Una luce di fuoco la illuminò per un momento.
Lo stormtrooper l’ebbe come ultima immagine negli occhi.
Un istante dopo, le sue viscere, mescolate al plastoide dell’armatura e al ferrame del super star destroyer, erano sparpagliate all’interno del tempio.

 

5

 

La piccola astronave atterrò con noncuranza nel terrazzamento che introduceva alla scalinata per il tempio jedi del pianeta Ostrich; nemmeno attese di aver poggiato perfettamente i carrelli che la passerella stava già calando per far scendere uno dei passeggeri.
La jedi camminò rapidamente lungo il piano mobile inclinato, pochi passi e toccò terra assieme all’astronave; il vento provocato dai continui scoppi mosse la cappa scura, facendo riverberare alla luce rossa delle fiamme il decoro sulla schiena. Alzò lo sguardo verso la cima delle scale: il super star destroyer, di classe Imperator, precipitando aveva tagliato e distrutto la parte destra del tempio, infilzandola prima con la prua, proseguendo con il resto del corpo a punta di freccia, fino ad arrivare dalla parte opposta, demolendo una delle statue, i cui pezzi erano rotolati fino in fondo alla collina frantumandosi, mentre l’astronave era rimasta incastrata, con la coda inclinata verso l’alto. Il fianco emergeva svettando sulle forme del tempio, illuminato di quando in quando da esplosioni secondarie; aguzzando lo sguardo verso l’area una volta c’era la torretta di comando, si intravedeva il foro di uscita per quale erano passati.
Sbuffò e diede un calcio ad uno dei bracci che faceva alzare e abbassare la passerella; l’astronave aveva sempre avuto dei problemi con i freni, ma quella notte, dopo essere partiti in tutta fretta, aveva chiesto agli altri se avessero rimesso il liquido di frenatura per sistemare il problema; i due che se ne dovevano occupare si erano guardati tra loro, avevano fatto spallucce e poi la loro astronave aveva attraversato a tutta velocità la torretta della nave imperiale, frenando solo poco prima di atterrare.
«Avevano pure gli scudi deflettori abbassati, gli imperiali» mormorò a denti stretti; la jedi aveva una voce rasoiata e bassa:
«Che tempi!» e una particolare predisposizione a lamentarsi.
Erano finiti nella zona posteriore del complesso, poco illuminata e dalla vegetazione incolta, fu guardandosi attorno che notò le colonne corte, alte e strette con sulla sommità una specie di piccolo schermo montato su una casetta. Si avvicinò a grandi passi, una nuova forte esplosione proiettò l’ombra della jedi sul pavimento, il fuoco e il fumo nero salirono nella notte in una letale nube arancione, il vento di spostamento d’aria le mosse il capelli scuri legati dietro la testa, mosse i tabard ai fianchi e il colletto della giacca: non indossava la classica divisa da jedi, somigliava più al vestiario di una comune cittadina di frontiera.
Rilevando la presenza, lo schermo in cima alla colonna più vicina si accese, la donna vide che ce ne erano disposte ad intervalli regolari su tutto il perimetro che correva attorno al basamento del tempio.
Gli occhi dalle iridi verdi scorsero pigri sulle scritte in basic dello schermo.

 

6

 

Dalla passerella, silenziose sagome scivolarono verso l’esterno.
Accanto a loro, un droide octuptarra avvisò della ricezione dell’immagine al destinatario prima di essere congedato.
La maschera lucida rifletté la devastazione, così come fecero quelle dei compagni.
«Quanto tempo abbiamo?» con voce profonda, il capo del gruppo parve rivolgersi a nessuno; il silenzio tra i tre, rotto solo delle continue esplosioni che dardeggiavano nella notte, sembrava potesse inghiottire anche quei rumori assordanti.
«Un’ora» dopo poco, la voce della jedi rispose, porgendo un disco d’argento su cui era incominciato un inesorabile conto alla rovescia.
«Ecco lo scotto di essere stati in esilio per tutti questi anni» sentenziò cupo uno dei tre.
«Il prezzo del tempo» puntualizzò quello che era il loro capo, il quale cominciò a salire le scale.
Le tre ombre si incamminarono sui gradini, svanivano e apparivano grazie alla luce delle esplosioni che laceravano lo star destroyer.
La jedi rimasta indietro, si avviò dentro l’astronave per depositare il disco che già aveva consumato un minuto.
«Tre crediti e mezzo per un’ora di sosta» la voce era scocciata tanto quanto la proprietaria:
«È questo adesso il prezzo del tempo?».

 

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Capitolo 2
*** Alla Fine ***


Alla fine


 

 

1

 

Il computer era un vecchissimo modello, tuttavia ancora funzionava. L’immagine che proiettava aveva numerosi glich che creavano delle zone segmentate spostate rispetto alla forma originaria; era rozza come tecnologia, apparteneva ai tempi della Vecchia Repubblica, ma era efficace. Al centro mostrava quattro individui, divisi nei due angoli dell’immagine, i tre in primo piano salutavano amichevolmente, la quarta, mostrava indifferenza. Erano dentro la cabina di comando di quella piccola e irritante corvetta dalle bande porpora; sullo sfondo delle quattro figure, tra i due gruppi, si vedeva l’interno confuso di una torretta di quello che doveva essere uno star destroyer, forse un nuovo modello; il volto dell’ufficiale in comando era spalmato, con il naso sanguinolento e la bocca che sputava organi interni, sul vetro esterno della cabina. Lo scatto doveva essere stato fatto un istante prima che la folle velocità d’impatto riducesse ad un ammasso di poltiglia l’ufficiale.
L’invio invece, doveva essere approssimativamente di qualche minuto dopo che la corvetta era atterrata sul pianeta che si intravedeva in oltre il macello in atto, nell’angolo di destra: un banale ammasso di media grandezza con una luna pressoché insignificante.
Con un semplice tocco, la mano guantata allargò l’immagine che divenne sfocata, però abbastanza comprensibile per mostrare la superficie color ocra giallo.
«Imposta la rotta per il pianeta Ostrich» la voce caustica ordinò al pilota che silenzioso, agì immettendo i dati di navigazione.
Il sith tornò a scorrere i volti sull’ologramma, l’espressione si fece rabbiosa soffermandosi sul come quei maledetti tre salutavano sprezzanti.
Erano lì, liberi! Poi qualcos’altro catturò la sua attenzione.
Tra la punta dell’ultima goccia di sangue dell’ufficiale e il bordo superiore dell’immagine, una minuscola chiazza nera lasciava il pianeta; lo capì dalla forma appiattita e sfuocata che mostrò quando, questa volta, ordinò al computer di ingrandire e rendere nitida la zona; girò attorno all’oloproiezione, scrutandola sostare sospesa sopra lo schermo. Lo aveva scambiato per un detrito derivato dallo schianto, quando invece era altro.
Anche quelli liberi doveva succedere.
Ed ora, tutti loro, avrebbero ricominciato finalmente da dove avevano lasciato.

 

2

 

L’interno del tempio, varcato il solenne ed immenso portale d’ingresso, era illuminato dai colori che emanava il corpo abbattuto dello star destroyer. Le tre sagome si delinearono allungando le proprie ombre sulla superficie grettata e scomposta dell’atrio, longilinee, scarne negli arti e senza origine, apparivano simili a fantasmi sebbene i colori tradissero la natura delle ombre.
Al crepitare consuntivo delle fiamme e delle esplosioni, si univa il suono pesante degli stendardi con il simbolo dell’Ordine dei Jedi: sventolavano svogliati e lenti, producendo un rumore schioccante soffuso, appesi nella parte di sinistra a decoro del corridoio. Sulle maschere dei tre, il riflesso era diviso in due, uno oscuro, come la parte dell’edificio avvolta dal buio e dal fumo delle sale sterili; l’altra, tempestata dai bagliori della carcassa fatta di ferro. Camminando, parve loro di avanzare dentro il ventre di un essere gigantesco, abbattuto dal suo nemico e con lui morto: un’orgia di lamiere, ionizzatori solari, armamenti e carni dell’equipaggio che si accompagnava al calore rovente del fuoco.
I tre jedi, non poterono far altro che gioire in silenzio del loro operato.
La forma della carcassa era inclinata in prossimità della terrazza che si affacciava, a qualche metro di distanza, sulla parte bassa del tempio, con le sale del concilio, gli appartamenti, le sale d’addestramento e le utenze.
Ci sarà qualche sopravvissuto? Lo jedi più giovane si guardò attorno, ma vide solo ciottoli e detriti, allo sfrigolare del fuoco e dei corpi liquiescenti che pendevano dagli squarci, si unì il suono pungente e il fischio di uno dei sostegni degli stendardi che per metà pendeva, ancora trattenendo il pesante peso della stoffa azzurra; l’altro, libero, dondolava al vento che entrava dalla porta principale Assurdo, siamo vicino all’orlo esterno, ma com’è che è così antiquato il mondo? Era rimasto così com’era, pensò poco dopo e al giovane jedi venne un dubbio, che anche ciò che era stato lasciato lì prima dell’esilio fosse rimasto uguale.
Si staccò dalla formazione, procedendo verso l’ala est del tempio, tra le immense colonne che facevano apparire quella zona come una sinistra foresta delle paludi di Degoba. L’odore del fumo si unì alla foschia che saliva fino a sostare nella parte mezzana, lasciando un vuoto spettrale tra soffitto e pavimento. Lo jedi si mosse a passo sicuro, presto la sua ombra si perse nel buio, inghiottita dall’oscurità; i due che erano con lui, rimasti indietro, deviarono a loro volta cominciando a seguirlo.
Giunto a metà, grazie alla luce della spada accesa, vide che qualche spanna sopra la propria testa il fumo dell’incendio dello star destroyer si arricciava, spariva per poi tornare ad unirsi al mucchio, scompigliando lo strato di nebbia che in quella parte era diventato uniforme e molto spesso. Tirò su la maschera, alzò la lama color ciano: alla luce prodotta dal cristallo kyber, si delineò quella che era una parete dall’aspetto butterato, dal colore arancio bruciato con delle strane striature nere, con protuberanze acuminate; muovendo la spada a destra e sinistra, sembrò che la parete si estendesse per quasi dodici metri di lunghezza. Lo jedi sorrise, poi un grugnito ruvido, di una gola immensa, si levò quasi a lamento di fastidio; il giovane allungò il braccio con la spada in direzione dell’origine del suono, intravedendo una massa rettangolare e il terminale del muro che si fletteva per scendere in una curva brulla.
Uno sbuffo stizzito e la luce della spada si rifletté su una superficie lucida tonda.
«Maestro Rex?».

 

3

 

Il co-pilota del Persecutor 42 fissava disgustato la serie di colonnine che adornavano la piattaforma di atterraggio. Il respiro che usciva da sotto il cappuccio era roco e concitato: quel genere di sith mal sopportava gli affronti.
Il braccio meccanico si contrasse, il pugno si strinse fino a far sfrigolare il metallo di cui era composto, l’altro accanto a lui era calmo, gli mise una mano sulla spalla per bloccarlo. Il sith si ribellò immediatamente, usando la Forza come un’onda violenta per scacciarlo, tuttavia questa si infranse contro il muro sollevato dall’altro.
«Mi occupo io di questa faccenda» la voce era gelida, nonostante le esplosioni dello star destroyer avessero ormai diffuso nell’aria il calore del fuoco.
«Precedetemi, ci incontriamo al piano inferiore» fece cenno agli altri due appena scesi.
Lasciò la presa sul terzo, non prima di avergli sussurrato all’orecchio di fare attenzione al custode.
Se c’era.

 

4

 

All’ombra dell’imponente sagoma del Maestro Rex, una più umanoide ed imbronciata emerse, accarezzò un paio di volte la pelle fredda dell’immenso rettile, lasciando che la luce riflessa della spada laser si rimpicciolisse o si allargasse in base ai movimenti della testa calva dell’uomo che si era appena palesato.
Aveva lo sguardo seccato, sotto la cappa marrone aveva la tradizionale divisa da jedi, la testa glabra rifletteva la luce della spada azzurra con una certa grazia; il giovane si stupì nel vederne uno ancora vivo e con gli abiti classici. Se ne stava come se niente fosse ad accarezzare la grossa bestia, che, da emettere borbottii irritati, tornava ad arricciare il fumo con il respiro regolare del sonno.
«Sta usando la Forza per calmarlo» mormorò il giovane tra sé.
Uno scoppio vistoso illuminò le sagome: il jedi, i fantasmi e il rettile.
La luce come era esplosa e lentamente affievolì, resistendo affinché tra le due fazioni ci fosse la possibilità di vedersi. Il giovane jedi con i capelli lunghi fece per avvicinarsi, ma l’altro che aveva di fronte lo fermò, sbarrandogli la strada, puntandogli la sua lama verde al petto.
«Non ti avvicinare, Ivantyl» la voce accorta del capo dei tre avvertì con calma:
«È uno jedi consolare, in teoria non dovrebbe neanche essere qui» insinuò, avvicinandosi, mostrando il logo che aveva cucito alla spalla.
L’altro lo fissò con disinteresse, smise di ammansire il Maestro Rex e si volse verso i nuovi venuti.
«Quindi vi hanno rilasciato, come un branco di anoobas rabbiosi» fece cenno col capo alla carcassa dello star destroyer.
«Il resto della mandria sarà qua attorno» in modo sprezzante, il jedi consolare si guardò attorno non notando altro che quelle tre ombre.
«Siamo solo noi, Jaari-Len» puntualizzò il capo:
«E un membro del Concilio, abbiamo dovuto operare una riduzione dell’organico» il capo parlò seriamente, ma il suo compare con la divisa scura sghignazzò allegramente.
Jaari-Len si voltò all’istante, afferrò qualcosa che lanciò ai piedi di quello che rideva, lo jedi si fece indietro con un balzo.
«Cos’è questo?» chiese muovendo appena la testa in direzione dell’oggetto.
«Il cazzo che me ne frega» eloquente, il jedi consolare si tirò su il cappuccio, spense la spada e si incamminò verso il capo di tre; gli si fermò a fianco, all’altezza della spalla.
«Della vostra noiosa faida non mi importa, ma non siete l’unico ordine rimasto nell’ombra, quindi badate bene a non intralciare le mie missioni, Maestro Phex» risoluto, Jaary-Len, il jedi consolare, restò accanto alla figura del suo collega finché non si fu assicurato che il messaggio fosse stato recepito.
«Ci vediamo in giro e anche non ci rivedessimo, chi se ne frega» il jedi consolare se ne andò, camminando a metà tra luce di fuoco e buio dell’ombra.
Avrei voluto incontrarli più tardi pensò il Maestro Phex e si appuntò un nuovo nemico da ammazzare.
«A che ordine jedi apparteneva quello là?» Ivantyl si ritirò giù la maschera, rivolgendosi al superiore.
«Ad un ordine più antico del nostro» rispose il capo, continuando a fissare la sagoma del jedi consolare che si affrettava verso l’uscita riflettendosi sulla maschera.
«L’Ordine dei Jedi Stempiati».

 

5

 

La testa saltò via schizzando in cielo per l’impeto vibrato dalla lama rossa che decapitò l’ultimo dei parchimetri.
Il sith raccolse l’oggetto, gettando il mozzicone di metallo nella pila con gli altri; aveva il fiato grosso, non per lo sforzo di aver distrutto dei miseri oggetti che misuravano il tempo, ma per la felicità di averlo fatto.
Il comune ha cambiato l’ordinanza due anni fa, ridicolo! Aveva pensato. Quando gli era giunta la notizia, si era ripromesso di distruggere quelle inutili cose una volta libero Nessuno monetizza il suolo sacro di un tempio, solo lo si bagna con il sangue dei jedi che lo abitano! Estrasse un droide LO-LA59 modificato, lo lanciò in aria e questo rimase sospeso muovendosi a scatti per inquadrare per intero la figura del sith.
Sto arrivando, Maestro Phex!

 

6

 

Lo jedi con gli abiti scuri, Kai Senko, era in ginocchio vicino all’oggetto che il jedi consolare aveva buttato.
Lo stava esaminando con cura, spostandolo e rigirandolo produceva dei rumori viscidi e spugnosi eppure il rivestimento era rigido, ruvido, pareva di stare toccando la foglia di una pianta, ma la forma era quella di uno pseudopodio o di una protuberanza simile.
«Questa è roba per Lyl» concluse, alzandosi e calciando via quel resto.
«Dov’è?» domandò; Phex scrollò le spalle:
«Sarà a mettere il disco orario alla corvetta; ora la chiamo così a quello ci pensa lei, noi abbiamo i nostri bisogni da appagare» prese l’olocron di trasmissione dalla tasca alla cintura, digitò un paio di tasti inviando il segnale di allerta; quando scomparì dallo schermo, apparve subito una notifica che fece bloccare lo jedi.
Gli altri due, notando lo strano umore del compagno, si avvicinarono.
Nello scoppiettio delle fiamme e nel salire pigro del respiro del Maestro Rex, i tre jedi contemplarono l’immagine di un sith che calpestava un cumulo di moncherini di metallo; su di essi c’era stata aggiunta una scritta in basic: I prossimi siete voi.
Le teste dei tre si alzarono all’unisono.
«Sono qui».

 

7

 

Era cominciato tutto come un incubo.
Prima il messaggio del Maestro Kenobi, dopo lo sbarco in massa di stormtroopers e infine il massacro.
Tutto era diventato un turbinio incessante di colpi di blaster, sfrigolii di spada, grida, urla e corpi che cadevano. Uno dopo altro, sul suolo del tempio.
Dove si girava vedeva i propri compagni di una vita morire crivellati dai colpi che come frecce scarlatte, volavano e uccidevano. Di centocinquanta tra cavalieri, maestri e padawan erano rimasti in cinque; lui e la sua amica, gli ultimi due maestri avevano mandato le loro padawan e l’ultimo dei cavalieri all’archivio, eppure la Forza gli stava trasmettendo un’altra massiccia sensazione di qualcosa di tremendo che era appena cominciato.
Quello star destroyer precipitato li aveva salvati.
O condannati tutti.
Alla fine, era una questione di punti di vista.

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Capitolo 3
*** La notte passa in fretta ***


La notte passa in fretta




 

1
 

All’inizio, quando il messaggio di allarme era rimbalzato per tutti i radiofari della galassia, Dama-An aveva pensato ad uno scherzo; o al solito allarmismo di quelli di Coruscant.
Invece, appena spento l’Holonet , presa la spada per l’allenamento, aveva notato nel riflesso dell’elsa, una figura opaca, oblunga bianca che le puntava addosso un distorto blaster. Era riuscita a parare e riflettere il colpo addosso allo stormtrooper poco dopo aver udito il suono pigolante dello sparo.
E poi era cominciata al mattanza.
Compagni che cadevano da ogni lato, colpiti dai soldati che dovevano essere lì per difendere un luogo sacro.
Il tempo era sembrato infinito in quella specie di caccia che si era scatenata senza motivo, la Forza era stata pregna di vibrazioni che scuotevano i sensi, così come l’aria era stata pregna dell’odore della carne bruciata. In quel turbinio caleidoscopico di spade laser e di proiettili, in quella catena di colpi sferrati per abbattere e parare, davanti agli occhi della maestra jedi Dama-An si era creata una patina che le mostrava solo il muoversi frenetico della propria arma, usando l’istinto per distingue amici e nemici, per sapere chi uccidere o proteggere. E quando alla fine si era fermata, aveva scoperto che erano rimasti in due, schiena contro schiena, ma la donna non si era resa conto di chi fosse l’altro con cui avrebbe combattuto fino alla morte e per un motivo che nemmeno conosceva a fondo.
La Repubblica ci ha traditi, ma che problemi hanno? Le era rimasta la domanda in sospeso in testa, perché il fragore di metallo e muratura aveva invaso l’aria.
La colossale forma di punta di freccia dello star destroyer aveva squarciato una metà del tempio, dal basso del piano aveva visto la fiancata restare sospesa per qualche istante sopra il pavimento, riflettendosi in esso, restando in bilico; era sorto poi un suono metallico somigliante a quello di un grosso animale in agonia, infine era precipitata al suolo, falciando tutto e tutti. Anche i nemici.
La torretta di comando, al centro della nave, era crollata durante il crollo, sbalzando via lei e l’altro. Ora la maestra jedi era riversa a terra, la testa le doleva, le orecchie le fischiavano e il corpo era tutto un vibrare dalle ossa agli organi interni; lamentandosi, sentendo la presa mancare sulla spada laser, i tratti del viso si delinearono grazie ad una potente luce rossa che si allungava silenziosa su di lei.
Troppo intensa e regolare per essere una lingua di fuoco.
 

2
 

Ruotò su sé stessa schivando il fendente.
Udì il colpo che si infrangeva; tra le schegge di luce sul pavimento del tempio, vide la forma nera e massiccia bardata di oscurità e rosso caricarla come una furia.
Richiamò a sé la sua arma appena in tempo.
La spada laser scarlatta piombò sulla quella azzurro chiaro. L’impatto fu tremendo, Dama-An riuscì a reggere la potenza della pressione lama su lama, ritorcendola per scagliare il nemico lontano grazie alla Forza, il sith ci mise un attimo a riprendere la carica, avventandosi su di lei che frattanto si era rialzata e messa in guardia. La serie di colpi della maestra era una continua difesa, sentiva tutto il peso della potenza avversaria ad ogni incrocio di spada, era sfiancante per entrambi, ma la jedi sapeva che sarebbe morta per prima, il sith aveva dalla sua un braccio completamente meccanico, con quello avrebbe potuto scagliare fendenti all’infinito.
Sondò il terreno attorno a sé, nella continua danza di parate e finte, vide altre due spade rosse come sospese in aria e l’altro jedi fissarla con occhi pieni di concitazione. An percepì la stanchezza per la battaglia passata e quella in atto intaccare le sue forze, decise che avrebbe scelto lei come morire: all’incrocio di lame, gettando la poca energia che aveva nell’ultimo colpo, spinse a terra l’arma dell’avversario colpendolo al volto con una gomitata e allontanandosi, liberandosi così dal giogo del sith, fece per porre fine al duello quando sentì una scarica di dolore alla gamba.
Cadde a terra in ginocchio, voltandosi verso l’arto dolorante: confuso con la penombra doveva aver mancato di parare il colpo sferratogli dal sith prima che questo fosse scagliato via. Girando la testa per cercarlo, trovò la figura già a torreggiare su di lei, con le braccia sopra la testa e la spada laser come una ghigliottina pronta a tagliarla in due; la lama rossa, da una semplice striscia riflessa negli occhi si allargò nell’iride fino a quasi sfiorarlo.
La maestra jedi vide la morte ghignare sotto il cappuccio del sith: aveva il volto di un essere umano.
 

3
 

Kenth aveva percepito la Forza circondarlo appena dopo essersi ripreso dall’intontimento dell’onda d’urto. I due sith erano emersi dal nulla, materializzandosi come incubi nel cuore di un sogno che già incubo era. Lo avevano incalzato in un angolo, senza mai mostrare completamente le proprie fattezze, uno celato con una maschera arcigna e l’altro mostrando solo la pelle grigiastra del capo senza capelli. Lo avevano bloccato, facendogli guardare la lotta impari tra la jedi e il sith; lei era maestra da molto più tempo di lui, ma quelli non erano i sith dei miti canonici o delle leggende che raccontavano ai padawan, erano la loro versione reale E io non ho intenzione di morire per mano di una fiaba! Senza pensare, affidandosi all’istinto, nel secondo in cui i due sith erano distratti nel gustarsi la morte della jedi, lui raccolse la Forza e la scagliò come un colossale pugno: un avversario lo buttò tra le fiamme vive dello star destroyer facendolo ardere; l’altro lo schiantò in un ammasso di cadaveri di strormtroopers che gli si riversarono addosso seppellendolo sotto il peso di cento corpi.
Rapido, corse verso l’ultimo sith, incrociò la lama rossa che stava calando sull’amica e con uno spintone scagliò via l’avversario, utilizzando infine l’ultimo briciolo di Forza per sbatterlo contro una parete: l’avversario venne avvolto dal fumo, che lo inghiottì, turbinando là dove era passato il corpo strisciando.
Lo jedi afferrò di peso la maestra, correndo e trascinandola fino a che i polmoni non gli bruciarono, il fumo che aveva avvolto il nemico, ora faceva infuocare ogni respiro affannoso dei due sopravvissuti, però Kenth continuò finché non giunse alla scalinata; ce ne erano due per accedere al piano superiore, una era stata distrutta dallo star destroyer precipitato, l’altra, dalla parte opposta, i due jedi la inforcarono e salirono fino ad arrivare al ballatoio.
Allora si fermarono.
Ansimante, l’appena nominato Maestro Kenth Rhonys depositò a terra Dama-An.
«Ma tu i cazzi tuoi mai, vero?» lei aveva questa fissa di voler morire in modo eroico e lui quella di non voler morire da solo.
«Che facciamo?» per ora la ignorò: «Il Tempio è perduto e quella cosa...»
«Anche!» sofferente per la ferita alla gamba, la maestra jedi tagliò corto.
«Almeno due ne ho uccisi» rimbeccò il maestro, sospirando stremato.
«Dimmi, da quando gli incubi viventi si possono uccidere?» la voce cupa dietro la maschera fu ironica e allo stesso tempo inquisitoria.
 

4


Lo scricchiolio di fiamma sembrava il lento masticare di un mostro di Mustafar: insidioso e pastoso, ardeva negli incavi della carcassa di lamiere. Da quella costellazione morente di fuoco, emerse gridando il sith.
Sotto la maschera gli occhi erano dello stesso colore delle fiamme, queste si deformarono al suo passaggio come se una lente vi stesse scorrendo sopra: lo scudo della Forza, era riuscito ad avvolgersene appena in tempo prima che lo jedi lo infilasse in quella trappola scontata.
Uscì correndo dalle lamiere, cercando e non trovando, se non il suo compagno che sollevando i corpi impilati degli stormtroopers, si liberava. La pelle color della cenere, metà volto nascosto dall’armatura, Marbarr Shistav scaraventò via i cadaveri come se nulla fosse e si ripulì la veste dai resti che gli si erano appiccicati addosso.
«Dank farrik! Quegli schifosi jedi sono spariti!» ruggì Khal Tor facendo svanire l’involucro della Forza.
«Uccidiamoli prima che Lord...» il sith dalla pelle cinerea non fece in tempo a pronunciare quel nome che su entrambi calò un macigno pesante quanto una montagna.
Sgranarono gli occhi, sentirono la Forza del lato oscuro gravare su di loro in modo così massiccio che si inginocchiarono all’istante. Il corpo piegato, le facce prostrate fino a quasi toccare il pavimento.
Il loro signore era lì.
«Sono ancora vivi?!» esclamò irritato Lord Khamûl.
Passò tra i due camminando svelto, la rabbia calma che sentiva dentro di sé lo guidò fino a metà della sala. Quel luogo sacro, ora appariva come un relitto di un’epoca appena conclusa, fresca di fine assieme al sangue riverso in pozze, che si illuminava lucido sulle carni spezzate dall’astronave, un’epoca fresca dell’odore di interiora bruciate dei corpi dei jedi crivellati dai blaster o delle viscere degli stormtroopers squartati e ammucchiati dal custode delle macchine.
«Magnifico!» commentò Darth Khamûl e i due che erano piegati in ginocchio capirono che si stava riferendo non a ciò che aveva attorno.
Si fissarono a vicenda, questa volta avrebbero filmato tutto e postato sull’Holonet.

 

5
 

Quando era stato scagliato via da quella misera ondata di Forza, il sith dal braccio meccanico si era ritrovato sbattuto contro il muro sotto il ballatoio. Phyton si era ripreso dallo stordimento rapidamente, aveva alzato la testa al momento giusto, intravedendo in mezzo al fumo i due jedi strisciare al piano superiore; gli erano sembrati come gungan: tanto bravi a scappare e rintanarsi nei loro pertugi Ma possono scendere in basso quanto vogliono, anche fino al nucleo del pianeta, li stanerò tutti! Il sith ora si aggirava in quella che era la terrazza affacciata sulla zona abitabile del tempio e che conduceva all’ingresso secondario.
Era in penombra, la parte alta dell’ala dello star destroyer era attraversata da scariche dell’elettronica che stava collassando, come aveva fatto già quella del tempio; l’atmosfera era illuminata da una tetra luce tremolante. Notò un chiarore fermo in un angolo, alzò prontamente la spada inondando di rosso il barlume bluastro e il nero della notte e dell’edificio. I due bagliori diedero forma ad un macchinario per l’erogazione di bibite; il sith sentì la gola riarsa dal fumo del fuoco che saliva dal piano sotto e che proveniva dalla sala d’ingresso. Con un unico pugno del braccio metallico sfasciò il vetro e ne estrasse una bottiglia di tè rosa: il tempo che il tappo fosse rimosso e quella bottiglia fu vuota. Esclamò soddisfatto, la accartocciò stringendola e stritolandola tra le dita di metallo immaginando al posto di essa il cranio della jedi che gli era sfuggita e il contrarsi del materiale artificiale della bottiglia gli presagì il fracasso che avrebbero fatto le ossa del jedi che si era intromesso. Lanciò via l’oggetto quando questo fu ridotto ad un ammasso informe.
Sfortuna volle che centrò in pieno la testa di una persona.
 

6

 

Lord Khamûl attese con pazienza.
Percepiva con interesse la Forza che palpitava e si muoveva attorno a lui. Poteva sentire le perturbazioni che animavano i jedi radunati sopra la sua testa; la Forza faceva sì che gli stati d’animo si imprimessero in essa e trasmettessero a lui le varie emozioni: concitazione, sgomento, quiete, rabbia, arroganza e infine, la sua preferita, la paura. L’intera struttura ne era infestata, ma per quanto potesse compiacersene, un parte di essa era radunata in un luogo e un’altra era appena scomparsa.
Dal ballatoio, un’ombra cadde rapida schiantandosi al suolo; subito la seguì un più piccola e veloce; rimbalzò sul corpo, rotolando fino alla punta dello stivale di Khamûl che strinse gli occhi neri e lesse l’etichetta della marca del tè rosa.
«Ah, ecco i Phantom Jedi!» esclamò compiaciuto.
Gli altri due sith si chiesero come fosse possibile che lo scoprisse ogni volta da episodi simili.
Dal ballatoio calò una terza ombra, senza fare rumore in quell’inferno di metallo, fuoco e ombre, sembrò un vento spettrale che calava con il suo carico di gelo.
I due si fronteggiarono muti; entrambi provenivano da un luogo dimenticato, entrambi costretti ad un esilio, entrambi costretti a stare l’uno lontano dall’altro eppure sentendo l’indescrivibile bisogno di massacrarsi a vicenda: i due lati della Forza che da sempre avevano plasmato la galassia, i pianeti e le stelle erano ora raccolti lì, in attesa di ricominciare come da principio.
Dietro di loro c’era solo il crepitio delle fiamme e lo scoppiettare allegro dei pop-corn che i sith, recuperato il compagno caduto, stavano preparandosi: ne avevano bisogno, quella sarebbe stata una lotta epica.
«Che è successo l’ultima volta che quei due si sono scontrati?» chiese dal ballatoio Kenth titubante, deglutendo a vuoto e temendo dei risvolti per la loro vita, percependo le vibrazioni della Forza trafiggerlo per quanto erano violente.
«Hai presente il buco che ha inghiottito la città stato su Kelp?» gli domandò Ivantyl. L’altro annuì con il capo.
«Prima della Guerra dei Cloni non c’era» proseguì Kai Senko, ridacchiando alla faccia del maestro jedi.
I due sopravvissuti si scambiarono occhiate stravolte, quella voragine aveva trapassato il pianeta da parte a parte.
«E si ricomincia» udirono sussurrare il capo dei Phantom Jedi, il Maestro Phex.

 

7

 

Il fantasma sparì e l’incubo si dissolse.
Si rincontrarono, lame incrociate, bianco e rosso, sfrigolando disperate e il suono che produssero parve una moltitudine di urla agghiaccianti, un susseguirsi di grida fu ogni volta che le spade si intrecciarono. Fendenti rapidi e letali si susseguivano ad un ritmo implacabile; i due si muovevano sul pavimento del tempio in una macabra cornice di mucchi di cadaveri e astronave sventrata. Le lame rotearono dietro le schiene dei due avversari, incrociandosi con potenza, cominciando un duello di spinte per guadagnare terreno finché Phex mollò la presa di una mano dall’elsa e usò la Forza; nello stesso momento di Khamûl.
L’impatto fu immenso, come se due pianeti in miniatura facessero urtare le proprie orbite.
I due liberarono le spade dall’incrocio, lasciando ancor più la Forza scorrere: questa spaccò il pavimento, presto un labirinto di crepe si espanse per tutto il suolo già devastato, estendendosi ai resti dell’astronave, alle scale e alle fondamenta del ballatoio. Khamûl alzò il braccio, vibrando un colpo con la spada laser nella mano libera, Phex scagliò l’onda di Forza contro l’elsa avversaria, schiantando l’oggetto contro un muro nel quale vi si conficcò perforandolo prima di spegnersi e rotolare al suolo.
«C’è una cosa che devi sapere, Herm!» Phex puntò la spada contro avversario e la faccia dell'acerrimo nemico, furibonda negli occhi e calma nel volto.
«Cosa?» gridò Khamûl: «Cosa? Sono anni che aspetto che parli!».
Phex si tirò su la maschera e sorrise:
«Quello che la tua spada ha trafitto è un muro portante» lo jedi scavalcò il sith con un salto e con un secondo arrivò al ballatoio dove i suoi compagni lo attendevano per andarsene.
Nessuno di loro si voltò indietro.
Tutto attorno cominciò a crollare, parti di tetto piovevano e il pavimento tremava, Lord Khamûl fissò le sagome dei fantasmi scomparire come erano apparse.
«Non finisce qui, qui è dove ricomincia» sibilò con tono profetico, si voltò avviandosi all’uscita, mentre uno dei suoi accoliti gli porgeva la spada, l’altro gli offriva un sacchetto di pop-corn dove lui affondò la mano e il terzo distruggeva le macerie che intralciavano il passo.
Crollò l’intera ala che un tempo era adibita ad abitazione, seppellendo come una tomba stormtroopers e jedi caduti in quella scellerata lotta.
Crollò tutto, tranne la sala d’ingresso.
E l’archivio.

 

8
 

Un boato ovattato attraversò l’edificio, le pareti parvero strillare. Lyl-Myr Beren aveva percepito il fronte di Forza che si era scatenato nella parte bassa del tempio; lei, ancora avvolta dalle tenebre dell’ingresso, si era avviata verso l’archivio alla ricerca di un oggetto particolare di cui nessuno aveva sentito parlare se non in qualche hololibro.
Tuttavia, l’urlo della Forza e le sua conseguente scomparsa improvvisa le avevano fatto intuire la fine dello scontro.
«Quando ci sono di mezzo i Nightmare va’ sempre a finire che ci scappano i sopravvissuti» commentò a voce alta e il tono caustico si perse nell’eco del corridoio.
Ad esso si unirono i passi e lo scorrere verso l’altro della porta d’accesso all’archivio; appena entrata, la avvolse un odore strano, non il solito di chiuso e di apparecchi tecnologici vecchi, ma lo stesso di quando era stata, per sbaglio, su una delle lune di Endor; avanzò cauta, si vedeva poco, ma quel poco che riusciva a scorgere non corrispondeva alle mappe che aveva studiato: a metà della prima sezione, una sorta di coltre copriva la visuale perfino dei pannelli che davano sull’esterno. E quell’oscurità era troppo compatta.
E soprattutto: viva.
Lyl continuò ad avanzare, mosse un piede avanti e appoggiandolo udì il suono di qualcosa che si frantuma, di ossa che si frantumano. Le scorse sotto i propri stivali, ossa candide al riverbero lieve, ricoperte di un collante viscido, come se fosse stata bevuta la parte molle, rimescolata nello stomaco e poi sputata la parte dura. Si chinò per controllare, afferrò invece l’elsa di una spada laser coperta di quella bava grumosa: era di un cavaliere jedi. Respirò fondo e al suo espirare se ne unì uno più pesante; l’aria si riempì di odore di marcio, suoni viscerali simili a liane che scorrono tra loro riempirono l’aria che si caricò di tensione. Un sinistro gorgoglio sibilante, seguì lo sbuffo di una nuvola di dorata polvere che luccicò sotto la sottile luce del planetoide-luna di Ostrich. Lyl andò a cercare l’elsa della sua spada, accese l’altra, le ombre si mossero sotto la luce azzurra e fecero emergere dal fondo nero le forme di un imbuto orale contornato da cinque petali a triangolo, irti di aculei che si stavano richiudendo a baccello. Senza occhi, né orecchie, la testa era connessa ad un lungo corpo serpentino.
Una Mortagon. Era una creatura artificiale che proveniva da un’epoca antica di formazione della Galassia e lei, come i Phantom Jedi e i Nightmare Sith, era stata liberata con l’Ordine 66, con la caduta dei Jedi ordinari.
«Ecco perché i vecchi rimbambiti non devono stare al comando» parole al vento, quelle della jedi, non attirarono l’attenzione della Mortagon quanto invece fu l’espandere della Forza da parte della donna, in modo da punzecchiare l’essere.
Stordita, la creatura si agitò forsennata, le spire che riempivano metà stanza presero a muoversi ruotando viscide su sé stesse in un crescendo smisurato finché si innalzò a sfiorare il soffitto; gonfiando il resto del corpo serpentino, i petali della testa si aprirono gridando e sputando il sangue rappreso delle prede dall’imbuto orale, scagliandosi in un arco sull’avversaria che astrasse l’elsa della propria spada, l’accese, la lanciò.
Una saetta ambra volteggiò nell’aria.
Il tonfo della testa della Mortagon rimbombò in ciò che restava dell’archivio.

 

9

 

Il panorama stava lentamente mutando; al calar della sera gli immensi grattacieli si accesero di una moltitudine di mille luci; ben presto la miriade di edifici spenti sarebbe stata tempestata di lumi brillanti come diamanti nella notte.
Una notte triste, come quella appena trascorsa, gravida di funeste notizie di tradimento e omicidi, di morte e rinascita, di repubbliche ed imperi. La senatrice restava a fissare attonita il Tempio Jedi di Coruscant che veniva smantellato tra i fiumi di traffico che coprivano la visuale ad intermittenza e in lunghe fasce in perenne movimento.
Da quel giorno in avanti sarebbe stato diverso, l’ordine della Galassia, l’ordine delle cose, l’ordine dell’amore, tutto racchiuso nelle mani sfigurate di un unico uomo.
E la Repubblica era ora un Impero. Il Primo Impero Galattico, pareva un nome ridicolo, ma la minaccia aveva già spazzato via molte delle cose che la donna amava, compresa la persona che soleva accompagnarla in quelle tristi notti buie alle sale raccolte dell’ora Senato Imperiale.
Sfiorò con le dita sottili e curate dall’incarnato zaffiro, l’olotrattato segreto dei Buchi di Trama, storie di wormhole che avevano inghiottito la trama delicata della storia e a cui si dava ad ognuno un nome proprio.
Le altre persone assieme a lei nella stanza si erano già disposte in cerchio, la senatrice le raggiunse sentendo alla sua destra la mancanza dell’accompagnatore Chissà se mi sarà permesso tenere in ricordo l’elsa della sua spada? Chiuse gli occhi e sconfortata attese che tutto cominciasse ancora una volta.
«E che al suono del sacro strumento» intonò il senatore di Peroogia:
«Che il rito possa avere inizio!».




 

EPISODIO I
L’ASCESA DEGLI ESILIATI

*

FINE

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