Le Petit Prince

di dirkfelpy89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Diario e l'Asteroide ***
Capitolo 2: *** La Fine di un Piccolo Sogno ***
Capitolo 3: *** Adieu, Empereur ***
Capitolo 4: *** La Stanza dei Quadri ***
Capitolo 5: *** Una Donna da Amare ***
Capitolo 6: *** Progetti e Ambizioni ***
Capitolo 7: *** Ragione e Fiammetta ***
Capitolo 8: *** Scandinavia e Africa ***
Capitolo 9: *** Un Posto del Mondo ***
Capitolo 10: *** Addii ***
Capitolo 11: *** L'Ultimo Viaggio ***
Capitolo 12: *** Adieu, Prince ***
Capitolo 13: *** Una Notte Africana ***
Capitolo 14: *** Caro Diario ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il Diario e l'Asteroide ***


Capitolo 1, Il Diario e L’Asteroide

 



"Both princes were young and adventurous, and had little fear of danger [...] They both then undertook long journeys to end up in Africa, whereupon they both meet rather violent deaths ... And in both cases they lay alone for one night each after "death" and then "returned" back home..."

 

1 Novembre 1998.

 

Lucienne osservò l'alba tingere l'orizzonte delle Hawaii proprio mentre imboccava, con la sua nuova Mercedes W163, la tortuosa strada che si inerpicava fin quasi alla cima del vulcano spento Mauna Kea.


La donna, che ormai aveva superato da qualche mese la quarantina, poteva contare su molti pregi riconosciuti da tutti i suoi amici e collaboratori: era intraprendente, solare, una lavoratrice infaticabile e anche molto affascinante, dato che i geni francesi, ereditati dalla nonna materna, avevano contribuito ad addolcire i tratti del volto.
Tra questi pregi innati però non c'era la capacità di alzarsi presto la mattina, solo una dose piuttosto massiccia di caffè bollente zuccherato riusciva, infatti, a renderla appena trattabile prima di mezzogiorno.

Si era presa tre giorni di ferie per festeggiare in pace il quindicesimo anniversario di matrimonio e perciò, quando aveva ricevuto una chiamata alle quattro del mattino dall'osservatorio, la sua prima reazione fu di mandare tutti al diavolo e di riaddormentarsi. Ma poi la sua parte razionale aveva avuto la meglio: sapevano che avrebbero fatto meglio a chiamarla prima delle nove di mattina solo per delle emergenze e così rispose.
Le parole del collega la svegliarono completamente. Nonostante le proteste del marito, si alzò come una molla dal letto, raccolse le prime cose che aveva intorno e si vestì, poi scese in cantina dove, dopo qualche minuto di affannosa ricerca, riuscì a trovare l'oggetto che adesso era riposto sul sedile del passeggero della macchina di Lucienne.
Era un vecchio quadernone ad anelli e conteneva una delle cose che la donna aveva più a cuore: il diario, per certi versi le memorie, di sua nonna, Anne Marie.
Era stata proprio lei, Lucienne, a trascrivere le memorie della nonna in quel quaderno quando era ancora una ragazzina e passava quasi tutti i pomeriggi in compagnia di quella donna così anziana e saggia.
Al solo pensiero, la ricercatrice ricacciò indietro le lacrime e il magone e continuò la sua scalata fino alla meta che si trovava proprio sulla sommità del vulcano: il Mauna Kea Observatories, in particolare il Canada–France–Hawaii Telescope.

Alla fine, dopo quelle che parvero ore, la donna arrivò davanti a un cancello che delimitava i confini del Mauna Kea Observatories.
"Lucienne?" Un uomo piuttosto alto e abbronzato, con la divisa blu piuttosto malridotta, le si avvicinò, "cosa ci fai qui, prima delle dieci?"
"Me lo domando anche io ma sono di fretta quindi, se potessi aprirmi il cancello senza dover cercare il mio tesserino, mi faresti un grande favore!" rispose la donna, una nota d’urgenza nella voce.
L'altro sorrise, scosse la testa e poi si diresse verso il gabbiotto. Dopo qualche secondo la cancellata si aprì e Lucienne si affrettò a dirigersi verso la sua destinazione.

Nonostante lavorasse a quell'osservatorio da più di tre anni, ogni volta che raggiungeva la cima della montagna, leggermente ansante data l'altezza, non poteva non rimanere estasiata dalla vista e dagli undici telescopi giganti che occupavano quella zona.
Dopo qualche secondo, utile per acclimatarsi, la donna con il quaderno in braccio si diresse verso il Canada–France–Hawaii Telescope.

Contrassegnato con il numero sette e attivo dal 1979, il grande telescopio giganteggiava di fronte a lei.
Il supervisore, W.J. Merline, la stava aspettando, gli occhi scintillanti di gioia dietro gli occhiali spessi.
"Sono già tutti qui?" Chiese la donna, stringendo la mano dell'altro.
"Oui." rispose l'uomo, osservando il quaderno che Lucienne teneva in mano. "È il quaderno che ti ho detto di cercare?"
"Sì, certo, ma non capisco," esclamò la donna, faticando a non apparire troppo frustrata, "Chapman mi ha chiamato dicendo solo che avete fatto una scoperta importantissima e di portare con me questo vecchio diario di mia nonna…"
"Sono sicuro che questa scoperta ti farà piacere, forse e soprattutto alla buonanima di tua nonna," disse, enigmatico, l'uomo, facendole strada fino all’ingresso.

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L'interno del Canada–France–Hawaii Telescope non era poi così imponente come la facciata esteriore poteva suggerire: con lo spazio per la maggior parte occupato dal telescopio, le stanze per il personale non erano certo molto comode, soprattutto per ospitare circa undici persone, tante quante stavano lavorando a quel telescopio in quel momento.
Quella mattina, cosa ancor più strana, tutti i ricercatori erano presenti allo stesso tempo, tutti radunati in una grande stanza chiamata scherzosamente "la Stanza delle Novità" perché era là che a Merline piaceva comunicare le varie scoperte o traguardi raggiunti dal team di ricerca.
In realtà era un semplice spazio con monitor e una decina di sedie scompagnate ma questo non diminuiva la sacralità del luogo, quando Lucienne entrò e vide tutti gli altri seduti, in attesa, non poté non sentire le viscere attorcigliarsi.
Perché erano tutti riuniti? Perché l'avevano richiamata dalle ferie?

Merline chiuse la porta e, senza dire una parola, si avvicinò alla parete, dove erano appese alcune fotografie. Ne staccò una che porse alla nuova arrivata.
Sul momento lei non capì che cosa rappresentasse ma poi riuscì a distinguere un piccolo asteroide... sì, nonostante il contorno sfocato la foto rappresentava inequivocabilmente un asteroide.

"Avete scoperto un nuovo asteroide? No perché chiaramente è una cosa bella, fantastica mon dieu, ma non capisco perché farmi svegliare alle quattro e portare questo quaderno con me," sbottò Lucienne, cercando con tutta sé stessa di non apparire isterica.
"No, questo non è un semplice asteroide," rispose, piccato, Morgan. "È un… come dire, un satellite di un asteroide!"
"Questo asteroide di circa tredici km di diametro orbita infatti intorno a un altro molto più grande," spiegò Merline.
Solo allora Lucienne spalancò la bocca, meravigliata. Un asteroide che aveva un satellite che orbitava intorno a lui.
"È.. è incredibile!" Esclamò.

"Non è la prima volta che troviamo un asteroide che a sua volta possiede, in un certo senso, una piccola luna ma penso che sia la prima volta che questa luna venga effettivamente osservata con un telescopio sulla superficie della Terra," spiegò Chapman. “Rappresenta un grande traguardo per noi e tutti e questo osservatorio!”
"Wow, grandi ragazzi… è fantastico!" esclamò Lucienne. Aveva esplorato la volta celeste così tante volte… eppure l’universo, e il progresso delle tecnologie umane, non finiva mai di meravigliarla. Ecco perché amava così tanto quel lavoro!
Senza volerlo avevano trovato un loro piccolo posto nella storia.

"Avete deciso come chiamarlo?"
Merline sorrise.
"È per questo che ti abbiamo chiamato, per questo ho chiesto che portassi il diario di tua nonna."
"Non… non capisco," replicò la donna.
"Non appena ti trasferisti qui, venni subito a trovarti. Mi ricordo che stavi sistemando il tuo appartamento in città e mi mostrasti il quaderno che hai ora tra le mani," spiegò l'uomo. "Mi raccontasti la storia della tua famiglia, mi ricordo una volta, per una mia ricerca, lo presi in prestito e lo lessi tutto. Non hai chiesto ancora una cosa importante e cioè intorno a quale asteroide questa luna appena scoperta effettivamente orbiti."
"No, infatti. Quale asteroide…"
"45 Eugenia," rispose, pronto, Merline.
"Un piccolo asteroide che orbita intorno a 45 Eugenia… non è possibile," sussurrò Lucienne, osservando il quaderno e cercando ancora una volta di ricacciare indietro le lacrime. "Le Petit Prince."

"Ogni volta dare il nome a un nuovo asteroide scoperto è un compito che, lo ammetto, mi stressa enormemente. È un compito che non prendo mai sotto gamba e ho già comunicato la scoperta dell'asteroide ma abbiamo ancora qualche ora prima di dover annunciare il nome," spiegò Merline, mettendosi a sedere su una vecchia poltrona verde e osservando intensamente Lucienne. "45 Eugenia... una piccola luna. Ho pensato di chiamarti subito qua... che ne dici, ti va di leggere un po' quel diario?"
Lucienne rimase per qualche secondo in silenzio, non sapendo ben descrivere il mix di sentimenti che stava provando.
Era anni che non apriva quel diario, che non leggeva le parole che lei aveva scritto e sua nonna dettato. Leggerlo di nuovo, anche se solo una parte, avrebbe riaperto una finestra sul passato e non sapeva se era pronta per farlo.

Sospirò poi, lentamente, aprì il quaderno e, sentendo doveroso fare una premessa, mentre sfogliava le pagine disse: "Queste sono le memorie di mia nonna, inutile che vi legga tutto… ma c'è una parte, verso l'inizio, che ci può interessare."
"E perché?" Chiese Chapman.
"Perché quando era ancora una ragazzina, poco prima che partisse per il Canada, si recava l'estate in vista da una sua zia, zia che era stata una nobildonna ed era amica di Eugenia, l'ultima imperatrice di Francia," rispose la donna, indicando sulla parete la foto dell'asteroide 45 Eugenia, nominata così in onore della donna.
"Per questo motivo mia nonna spesso incontrò l'anziana imperatrice, ormai più che novantenne ma comunque ancora in gamba, nonostante l'età e il fatto che fosse quasi del tutto cieca. Parlò molto con lei, soprattutto di Eugenio, le Petit Prince, il suo unico, perduto, figlio."
Lucienne finalmente trovò le pagine giuste.
"A sua volta ormai anziana, mia nonna ha ripreso in mano i suoi vecchi diari, me li ha dettati e io ho scritto tutto qui," spiegò la ricercatrice, indicando il quaderno ad anelli. "In questo quaderno si trova di tutto: ricette, recensioni, e tanto altro. A mia nonna piaceva molto scrivere e la colpì così tanto la storia del povero Eugenio che a lui dedicò alcune pagine, quasi un romanzo sugli ultimi anni e sulla fine di Eugenio Napoleone."

Dopo aver bevuto un goccio d'acqua, Lucienne iniziò a leggere ad alta voce.

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Salve a tutti, penso che dopo questo primo capitolo sia necessaria una piccola spiegazione. Sono una appassionato di storia, soprattutto quelle più nascoste e spesso, purtroppo, tragiche.
Quando mi sono imbattuto nella storia dell'unico figlio di Napoleone III, l'ultimo imperatore di Francia, da subito mi venne l'idea di scriverci sopra. Quando poi ho scoperto la storia della madre e di questo piccolo asteroide allora ha avuto la spinta per farlo e mettere nero su bianco le mie idee a riguardo.

Lucienne, il diario della nonna, sono personaggi e fatti di mia invenzione, un modo un po' diverso per introdurre una storia ambientata un paio di secoli fa, per il resto è tutto vero.
Le fonti che ho trovato sono molto poche quindi i capitoli non saranno tantissimi perché non mi piace inventarmi cose di sana pianta su personaggi realmente accaduti, spero che possiate apprezzare perché questo è il mio primo esperimento di una Long ambientata nel passato e ammetto che un po' di tensione, mentre a posto questa storia, la sto sentendo.

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Capitolo 2
*** La Fine di un Piccolo Sogno ***


Capitolo 2, La Fine di un Piccolo Sogno

 



"Due agosto. Luigi ha appena ricevuto il battesimo del fuoco: era ammirevole nella sua compostezza, non ne era affatto colpito. [...]Ci sono uomini che hanno pianto vedendolo così calmo." Lettera di Napoleone III alla moglie.

 

27 Agosto 1870, Tourton, Francia.

"Ho sentito grandi cose sul suo battesimo del fuoco, principe."
La voce del parroco di Tourton arrivò lontana alle orecchie del giovane erede. Erano arrivati in quella piccola città di confine da poche ore e ovviamente la piazza principale pupullava di uomini, cavalli, carrozze e tutto il necessario per muovere la guardia imperiale.
Si udivano urla, grida, ordini strillati nella notte ed era principalmente quella confusione, e tutto quello schiamazzare di voci acute, a disturbarlo, molto più che i rumori della battaglia che aveva da poco affrontato.
Là, sul campo di battaglia, vigevano ordine, disciplina, eroismo… in quella piccola piazza di un paesino dimenticato da Dio vedeva solo lo scorrere lento e noioso del tempo.

Eppure era necessario, tutta quella confusione sarebbe servita per la vittoria finale, così i suoi uomini continuavano a ripetere.
Perché in quel momento le cose non stavano andando bene per la Francia ma, Luigi ne era sicuro, la situazione sarebbe presto cambiata.
Suo padre non avrebbe fallito, glielo aveva promesso, e anche per questo motivo lo aveva seguito volentieri al fronte, nonostante avesse appena sedici anni. In quei mesi aveva imparato molte cose utili che certamente i libri, o i suoi noiosi precettori, non sarebbero mai riusciti a spiegare e, nonostante il parere contrario di sua madre, era convinto che quella guerra non poteva che fargli bene. Da una guerra si può solo che crescere.

"La battaglia è stata una vittoria per i francesi, non ha avuto paura mentre i Prussiani bombardavano le posizioni a voi vicine?" Lo incalzò ancora l'anziano.
"No, non ho avuto paura," rispose semplicemente Luigi. "Non è il mio compito avere paura, un giorno sarò Imperatore e che cosa penserebbero di me i miei futuri soldati se tremassi di paura? L'imperatore deve essere un esempio e così suo figlio!"

Napoléon le Petit, così i detrattori chiamavano suo padre, il piccolo Napoleone, il nipote che cercò di copiare lo zio più famoso, in versione ridotta questa volta. Luigi aveva sedici anni ma si rendeva già conto che, dietro il soprannome affettuoso di Petit Prince, si nascondeva, in alcuni, una nota di evidente sarcasmo.
Il piccolo Napoleone e il piccolo principe ma lui, lui sì aveva sedici anni, ma non era piccolo come tanti sussurravano dietro le spalle di suo padre, e l'aveva dimostrato in quella guerra.
Per quello, pur vedendo uomini consumati dalla guerra scappare, svenire o vomitare, lui non aveva esitato perché, anche se piccolo, era comunque un simbolo e i simboli non crollano.

"Davvero coraggioso, degno di suo padre e del suo vecchio zio… una volta che questa guerra sarà vinta dalla Francia se voi voleste ricordarvi di…"
Il confabulare del vecchio parroco venne interrotto dal grido "Vive l'Empereur! Vive la France!"
Suo padre era appena apparso nella piazza cittadina in compagnia di gran parte dello Stato Maggiore. Smontati da cavallo, si diressero rapidamente verso l'abitazione più grande della città, appartenente al medico, senza rivolgere nemmeno una parola ai soldati e alla folla di curiosi che mai aveva visto dal vivo Napoleone III.
Il grido "Vive l'Empereur! Vive la France!", già di per sé piuttosto flebile, venne interrotto non appena l'Imperatore scomparve dalla loro vista. Solo allora Luigi si riscosse: era probabile che stesse per iniziare una riunione dello Stato Maggiore e lui doveva esserci, volere del padre. Si affrettò a salutare il parroco, che lo congedò con una breve benedizione, e a sua volta fece ingresso in quell’abitazione privata.

La riunione era iniziata da poco e già gli animi si erano parecchio infervorati. Intorno a un grande tavolo rotondo, con sopra alcune mappe del fronte, erano riuniti suo padre, bianco in volto e d'aspetto quasi cadaverico, e una decina tra generali e marescialli.
Come sempre Luigi rimase in disparte, in piedi dietro il padre, cercando di capire come stessero andando le cose ma la verità era che, per colpa della stanchezza, dell'inesperienza o delle voci che continuavano a salire di volume, accavallandosi, capì ben poco.

Riuscii solo a discernere due cose: la situazione non si stava facendo per niente rosea e suo padre non era più in grado di continuare quella guerra.
L’Imperatore, il simbolo della Francia, rimase in silenzio per praticamente quasi tutto l'incontro, osservando con fastidio e sguardo vacuo i generali azzannarsi al collo a vicenda. Ebbe solo la forza per sussurrare: "A Sedan. Tutto si giocherà là!” prima di tornare in silenzio, come un vecchio malato.

Alla fine, dopo quella che parte un'eternità ma che poi realizzò fosse solo un'ora, la riunione venne sciolta.
Luigi fece per uscire ma un gesto del padre lo convinse a fermarsi. Non appena rimasero da soli, l’uomo lo invitò a sedersi alla sua destra e i due stettero in silenzio per qualche secondo.
"Pace," sussurrò Napoleone.
"Padre, voi non state bene, lasciate che chiami il medico…" propose Luigi ma l'altro scosse la testa.
"Non possono certo essere curato qui al fronte, a meno che non voglia morire di infezione… cosa che non è nei miei piani, per il momento," sussurrò l'uomo. Raccolse le energie e poi continuò.
"Immagino che avrai capito che le cose non stanno prendendo una buona piega, la situazione si sta facendo pericolosa e non possiamo più garantire la tua incolumità, Luigi. Stasera stessa partirai per il Belgio, un fronte molto più tranquillo ma comunque educativo."
"No," subito Luigi esclamò. "Non vi lascerò, padre. Vi ho seguito ovunque e non vi abbandonerò certo adesso, nel momento del bisogno. Ho già mostrato il mio valore a Sarrebruck!" Napoleone scosse ancora una volta la testa.
"Non servi più a niente qui, ma alla Francia e all'Impero sì. Questo non è un ordine di tuo padre ma è un ordine del tuo Imperatore, " disse.
Luigi non voleva credere alle sue orecchie e, sulle prime, pensò di dissentire ma ormai era abbastanza adulto per capire che un ordine dell'Imperatore non poteva essere disatteso. Osservò ancora una volta il padre negli occhi, speranzoso, ma l’altro distolse lo sguardo. Solo allora il giovane principe si alzò, chinò la testa e mormorò: "D’accordo, mon Empereur."

Napoleone sorrise e strinse la mano di quell'unico figlio, così caro a lui, certo di poterlo vedere, e toccare, per l'ultima volta prima della fine.

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Come mutano in fretta la mente umana e le sue fragili convinzioni.
Napoleone III aveva lottato tutta la vita contro la morte, contro l'idea che i suoi giorni finissero prima che potesse compiere qualcosa di grande, di memorabile. Di paragonabile a suo zio.
La morte non risparmia nessuno però le grandi gesta riecheggiano nell'eternità.
Sarebbero bastate, le sue, per garantirgli quell'onore? I posteri si sarebbero ricordati di Napoleone III anche anni dopo la sua morte?

No, prima di quella guerra non voleva che si parlasse di morte e malattia intorno a lui, ma le condizioni di salute ormai precarie, l'età che avanzava e la nuova guerra avevano rapidamente cambiato la sua visione.

La notte prima di partire per il fronte ne aveva parlato con sua moglie, distesi sul letto.
"Se morirò, voglio che tu vegli sulla Francia e su nostro figlio."
"Non parlate di queste cose prima di una guerra, non portano fortuna!" Sua moglie si era affrettata a interromperlo.
"È una guerra, una guerra che mette a repentaglio il nostro Impero ed è necessario che tu sappia," l'uomo aveva insistito. "Se dovessimo perdere, io non mi consegnerò, non ricoprirò di ridicolo la Francia."

"Farò il mio dovere."
Infine lo aveva capito e quel giorno, a Sedan, l'aveva cercata, invocata, irrisa, la sua vecchia nemica, la Morte.
Quasi piegato in due dai dolori ai reni, ben consapevole del fatto che fosse ormai solo un simbolo e che da settimane, o forse mesi, la sua parola non contasse più nulla, là al fronte, Napoleone III osservò la battaglia quasi come se non esistesse. Sordo ai rumori della guerra e agli avvertimenti dei suoi subordinati, l'uomo visitò ogni zona del fronte cercandola, la sua vecchia nemesi, adesso forse addirittura bramandola.

Era però abbastanza esperto da capire che le cose non stavano prendendo la giusta direzione e allora… un Imperatore che muore sul campo di battaglia, ecco, quello, quello sarebbe stato un gesto che il mondo si sarebbe ricordato… avrebbe addirittura battuto il suo egregio zio!
E così, più la battaglia andava avanti, più spasmodicamente la cercava, la desiderava, la insultava perché non si mostrava per sollevare le sue pene e il suo nome.
Di togliersi la vita non se ne parlava nemmeno, non era capace, né abbastanza coraggioso, di puntarsi la pistola o la sciabola al petto.
Forse sarebbe stato quello che la nazione si aspettava da lui, dal suo ruolo, ma da tempo aveva capito che le sue aspirazioni e desideri erano spesso in contrasto con quelli del popolo, o perlomeno di parte di esso.
Qualsiasi cosa avrebbe fatto sarebbe stato comunque criticato e quindi la risposta non doveva venire dagli altri… ma da dentro se stesso.

La mattina passò e velocemente terminò ma lo stesso non valeva per il conflitto: era chiaro che non c'era più alcuna possibilità.

"Onestamente, vostra altezza Imperiale, dubito che potremmo resistere ancora molto, questione di tempo e la sconfitta sarà disastrosa," venne a riferire un generale.
"Le vie di fuga sono molto difficili da praticare, giunti a questo punto della battaglia," annunciò un vecchio maresciallo.
"O ci arrendiamo o continuiamo fino all'estremo sacrificio!" Propose il generale.
"Arrendersi? Meglio la morte!"

E dunque stavano così le cose, il fato lo aveva messo di fronte a due scelte irreparabili. Cosa fare? Sguainare la sciabola, urlare "Avanti tutta!" e morire insieme a migliaia e migliaia di soldati… oppure arrendersi?
L'uomo abbassò la testa, la voce poco più di un cupo sussurro.
"Issate la bandiera bianca sulla cittadella."
Sulle prime gli altri non capirono le sue parole, o forse si rifiutarono di farlo, perché il maresciallo domandò: "Come, altezza?"
"Arrendiamoci, issate la bandiera bianca," rispose l'Imperatore, questa volta a voce più alta, "Non manderò alla morte migliaia di ragazzi senza possibilità di vittoria."

Il generale scosse la testa, il maresciallo, in silenzio, diede le spalle all'imperatore e tornò nella mischia. Ma sì, che se ne andassero al diavolo, a lui non importava più.
"Marc, vieni qui."
Un ragazzino brufoloso si avvicinò con rispetto all'Imperatore.
"Appena puoi, fai in modo che il re di Prussia, anche lui si trova qui a Sedan, riceva questo messaggio confidenziale e personale."
"Oui, Imperatore," borbottò il ragazzo, affrettandosi ad afferrare un foglio di carta e una penna.
"Mio Signor fratello, non essendo in grado di morire alla testa delle mie truppe, nulla resta per me, se non mettere la mia spada nelle mani di Sua Maestà" dettò, lentamente, Napoleone.
"... Fatto. Sì, sarà fatto, altezza!"
Napoleone annuì ma poi, appena prima che Marc se andasse via, esclamò: "Ah, al mio quartier generale troverai un telegramma da fare recapitare a mio figlio. Procedi con queste due operazioni poi vattene da qui."
"Certo. Grazie, altezza!" Il ragazzo borbottò ancora una volta, prima di lasciare l'Imperatore da solo, sofferente, a osservare l'orizzonte.

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La mattina del 3 settembre 1870, notizie di una sconfitta francese a Sedan iniziarono a circolare a Parigi.
Ma, fatto di importanza ancor maggiore, insieme alla notizia di una sconfitta serpeggiava anche l'ipotesi che l'Imperatore si fosse arreso al nemico. Il popolo iniziò presto a rumoreggiare.
"Un imperatore che si arrende… lo sapevo io che questo non ha nemmeno un briciolo di caratura del suo vecchio zio!"
"Un impostore, ecco che cos'è sempre stato, un impostore!"
"Lui e quella puttana di sua moglie, la spagnola. Mai piaciuta!"

Queste erano le numerose voci che circolavano incontrollate, la tristezza per la sconfitta militare mutata presto in rabbia per chi doveva governare e non aveva avuto nemmeno il coraggio di togliersi la vita.
"Andiamo al palazzo imperiale, ci devono dare delle risposte. I nostri figli probabilmente non torneranno mai a casa e l'imperatore si arrende!"
"Mio figlio è morto a Gravelotte, per salvare il suo reggimento, e il nostro Imperatore non ha il coraggio di uccidersi dopo una sconfitta?"

La rabbia sì tramutò in ira incontrollata e ben presto una folla sempre più numerosa, sempre meno intenzionata a perdonare quell'atto di codardia, si radunò sotto il palazzo imperiale.
Ma anche all'interno del palazzo, Eugenia più sapeva, meno credeva alle sue orecchie.

"No! Un imperatore non si arrende! È morto! Stanno cercando di nasconderlo!" Urlava, inconsolabile, trascinandosi da una stanza all'altra.
"No, altezza, abbiamo ricevuto conferma che si trova in mano prussiane!" Un vecchio generale mormorò, l'espressione desolata.
"E allora perché non si è suicidato? Non sa che così ha disonorato se stesso?"

Ci doveva essere un'altra spiegazione, conosceva bene suo marito, quasi come sé stessa. Ma forse, in realtà, non era così.
Di fronte alla morte gli uomini reagiscono nei modi più disparati... suo marito fors enel peggiore.
Ma il rumoreggiare della folla aumentava, la paura di fare la fine del topo, o meglio, di Maria Antonietta riempiva ogni suo pensiero.
!Non lascerò che la folla mi prenda," sussurrò. "Chiamate la carrozza e fatela passare dall'altro ingresso. E mettetemi in contatto con il mio dentista, lui potrà salvarmi!"

Nello stesso istante, a Maubeuge, Luigi Napoleone teneva in mano il telegramma del padre.
"Sono Prigioniero del Re di Prussia."
Pianse. Non se ne vergognò, non fece niente per dissimularlo.
Per suo padre, sconfitto e prigioniero; per la sua Francia, sapeva che l'Impero era praticamente finito; per sé stesso, perché la sua vita sarebbe cambiata per sempre, molto probabilmente lontano da casa.

"Altezza, l'aspetta una carrozza per Namur," un uomo della sua scorta interruppe quel momento. "Dobbiamo andare."
"È finito… vero?" Sussurrò Luigi, accartocciando il telegramma. "L'impero."
"Altezza,il domani non mi preoccupa. Al momento quello che mi preoccupa è il presente. Mi segua, la prego," insistette l'altro uomo.

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Il 4 settembre, un gruppo di deputati, guidati da Léon Gambetta, si riunì presso il municipio di Parigi e proclamò il ritorno della Repubblica e la creazione di un governo di difesa nazionale.
Il Secondo Impero di Napoleone III era finito. Luigi e Eugenia scapparono, in esilio, in Inghilterra.

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Con la caduta del padre si concluse la prima fase della vita del Petit Prince. Nel 1870 Napoleone Eugenio Luigi scappa in Inghilterra, la sua seconda casa.
Mancano 9 anni circa alla sua morte.

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Capitolo 3
*** Adieu, Empereur ***


Capitolo 3, Adieu, Empereur

 



"N'est-il pas vrai que nous n'étions pas lâches à Sedan?
Ultime parole di Napoleone III.

 

Inghilterra, Camden House, 7 Gennaio 1873

L'esilio di Napoleone III, dopo la sua resa e la fine dell'Impero, avvenne in Inghilterra.
Del resto sua moglie e suo figlio erano già venuti in possesso di una dimora elegante, nel sobborgo di Londra denominato Chislehurst, misera, rispetto ai palazzi dorati parigini, ma comunque discreta e comoda.
Gli inglesi storsero un po' il naso a quella decisione: Napoleone III avrebbe potuto facilmente complottare, vicino alla sua terra natia, e come sarebbero stati i rapporti con la regina Vittoria? Una figura così forte sarebbe riuscita a coesistere con un Imperatore, anche se deposto?

Entrambi i dubbi vennero presto fugati dal comportamento di Napoleone: pur prestando sempre occhi e orecchie alla situazione francese, e desiderando ardentemente di tornare in patria, in realtà le condizioni di salute ormai aggravate fecero in modo che l'uomo si concentrasse esclusivamente su compiti molto poco politici.
Per quanto riguardava la convivenza con la regina Vittoria, in realtà, la donna prese a cuore la causa dell'Imperatore francese, soprattutto di sua moglie e suo figlio, e nonostante i molti impegni la regina stessa, accompagnata dalla figlia più piccola, Beatrice, non mancava di recarsi in visita a quella famiglia tutto sommato sfortunata e lontana dalla propria patria.

Quel 7 gennaio la regina, accompagnata come sempre da Beatrice, non mancò al suo appuntamento.
Le tre donne presero un tè nel grande salone padronale: nonostante tra Eugenia e Vittoria regnasse quella che taluni avrebbero potuto definire amicizia, l'ex imperatrice ci teneva ad accogliere la sua illustre ospite con tutti gli onori.
In quelle occasioni le due svestivano i panni di regine o imperatrici, erano solamente due amiche, due donne che si limitavano a raccontarsi le loro giornate, scambiarsi confidenze e qualche dono.
Dalla fine dell'Impero, Eugenia non aveva avuto più molte occasioni mondane e quelle rare visite avevano il potere di farla tornare indietro a un tempo passato, quando davvero contava qualcosa e poteva guardare le altre regine, o imperatrici, dall'alto verso il basso.

Eugenia attendeva con tanta impazienza quelle visite, ci teneva in maniera quasi maniacale ad apparire perfetta, per questo motivo Beatrice si sorprese, vedendo l'imperatrice distante, scostante, quel pomeriggio. Un'atmosfera cupa era calata su quella casa altrimenti così bella e pacifica.

"Non ho più avuto notizie da dopo l'intervento," notò sua madre, spezzando un silenzio inedito tra di loro.
"Mi dovete perdonare, ho avuto mille pensieri per la testa…" rispose Eugenia, sistemando quasi maniacalmente una piega della tovaglia. "Sapevamo che sarebbe stato un intervento difficile, parte del calcolo è stato rimosso ma… da allora non sta molto bene, le sue condizioni si sono aggravate negli ultimi giorni.”
La donna abbassò il volto e subito Beatrice allungò la sua mano per stringere quella della donna. Era stato un gesto impulsivo per cercare di infonderle un po' di coraggio.
Aveva capito subito che la salute di Napoleone III, quell’uomo così enigmatico che aveva incontrato poche volte, era decisamente poco stabile.

Suo padre era morto quando lei era appena una bambina, non aveva nessun ricordo di lui, viveva nella sua memoria solo attraverso le fotografie, eppure ogni tanto riusciva a ricordare sprazzi del dolore provato negli anni successivi da sua madre.
Eugenia accettò volentieri quel segno di vicinanza, cercò di ricomporsi e poi aggiunse: "secondo i medici non manca molto… ormai passa più tempo nel sonno che nella veglia."
"È meglio così, quando dormono non soffrono," replicò Vittoria.
L'altra annuì e poi aggiunse: "ho fatto sì che Luigi Eugenio fosse richiamato dai suoi doveri all'accademia per stare vicino a suo padre, in questi giorni."
"Luigi tornerà qui?" Chiese Beatrice, cercando di non far trasparire troppa gioia dalla sua espressione facciale.
"Sì, è giusto così."

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8 Gennaio.

"Imperatrice, suo marito, l'Imperatore, la cerca."
La voce di Conneau venne da lontano, riscuotendo Eugenia dai suoi pensieri.

Il sole fuori dalle vetrate era da poco tramontato, le ombre fuori lunghe come quella giornata che sembrava non passare mai.
Si alzò con fatica dalla poltrona nella quale era sprofondata, cercando di ricamare un centrotavola. Nonostante l'esilio era sempre stata una donna attiva, impegnata nella vita quotidiana e nella gestione di Camden House.
Se le avessero detto che avrebbe passato le sue giornate osservando fuori dalle finestre, intenta solo a ricamare, avrebbe riso.
Eppure, da dopo il secondo intervento e la successiva malattia di suo marito, non ci riusciva, i suoi pensieri non potevano non andare a Napoleone, a quell'uomo che aveva amato così tanto.
Non riusciva a rimanere al suo capezzale, le era impossibile osservare quell'uomo sull'orlo della morte e riconoscerlo come suo marito.
Si sentiva in colpa perché era suo dovere rimanere al suo fianco, accompagnarlo verso l'inevitabile trapasso, eppure non ne era capace, forse si rifiutava di accettare la realtà, e allora scappava e cercava di rimanere il meno possibile nella stanza che ospitava Napoleone.
E più scappava, più si sentiva in colpa, e più si sentiva in colpa meno riusciva ad andare avanti.
Un tetro circolo di paura e vergogna che ormai l'accompagnava da giorni e non le dava pace.

La sala dal letto dove riposava l'ormai ex imperatore era buia e silenziosa, Eugenia perciò si avvicinò al letto di suo marito quasi in punta di piedi. Era evidente che l'uomo stesse soffrendo molto: il colorito era ormai bianco, quasi cadaverico.
La donna si sedette su una sedia e prese la mano destra di Napoleone tra le sue: era fredda.

"Eugenia, sei qui," sussurrò l'uomo, con evidente fatica.
"Oui."
"Scusami… per quello che è successo e per quello che… non ho fatto," lentamente Napoleone borbottò.
"Non capisco…" rispose Eugenia.
"Tu mi odi… non è vero? Tutti mi odiano" Chiese l'uomo. "Ne abbiamo parlato così tanto… eppure, giunto il momento, non ci sono riuscito."
Eugenio intuì il significato di quelle parole e fece per ribattere ma si bloccò. Suo marito non aveva finito.

"Avrei dovuto combattere fino alla fine a Sedan, fino alla morte, e tutto questo non sarebbe accaduto," sussurrò l'Imperatore, la voce sempre più debole. *"Alcuni credono che, seppellendoci sotto le rovine di Sedan, avremmo servito meglio il mio nome e la mia dinastia… è possibile. No, tenere in mano la vita di migliaia di uomini e non fare nulla per salvarli era qualcosa che… che andava oltre le mie capacità…"*
Eugenia cercò con tutta se stessa di mantenere un contegno degno del suo nome ma non ci riuscì e ben presto sentì calde lacrime traditrici scendere dagli occhi.
*"Avrei preferito la morte a una capitolazione così disastrosa, eppure, in quelle circostanze, era l'unico modo per evitare il massacro*. Scusami… ma non avevo scelta."
Detto questo, evidentemente troppo stanco per continuare, l'Imperatore chiuse gli occhi.
Eugenia si rialzò, si chinò su di lui e baciò la fronte.
"Non ti odio, non potrei mai farlo. Non devi chiedermi scusa," sussurrò e, prima di crollare definitivamente, prima di perdere le ultime briciole dignità, uscì fuori da quella stanza, trattenendo le lacrime con tutte le sue forze.

/ / / / / / /



9 Gennaio.

Il dottore chiuse la porta lentamente, poi si rivolse alla piccola folla radunata nel corridoio: "Farete meglio a chiamare un prete, non manca poi molto e io ho fatto tutto il possibile."
Immediatamente per tutta Camden House si diffuse un mormorio: dopo giorni di sofferenze era infine giunta l'ora dell'imperatore?

Ma Luigi era sordo a quella reazione, da quando quella mattina era tornato a casa in permesso speciale, non aveva fatto altro che sedere composto accanto al padre. Non gli importava che cosa gli altri stessero pensando, non provava il minimo interesse a cercare di comprendere quali fossero i discorsi che le persone al di là della porta stessero scambiando, quali intrighi bollissero in pentola.
La sola, unica, altra persona che all'interno di quella casa sembrasse avere la stessa predisposizione d'animo era sua madre. Quella mattina era stata la prima ad accoglierlo a casa, ad abbracciarlo e infondergli un po' di coraggio, ma da quel momento non l'aveva più vista.
Aveva sofferto troppo e lui era stato troppo lontano per aiutarla.

Napoleone III giaceva sul letto, immobile e freddo nonostante le numerose coperte che ricoprivano il suo corpo moribondo.
Il respiro via via meno forte, sempre più lento e debole.
Luigi lo aveva odiato, Napoleone non aveva compiuto il suo dovere, costringendo lui, e sua madre, a vivere grazie alla carità della regina Vittoria, da soli, per un anno in una nazione straniera.
Quando poi vide la carrozza di suo padre arrivare e lui così bianco in volto, malato e debole, non era riuscito a serbare nel suo cuore quell'odio che così tanto aveva covato nel corso di quell'anno solitario e misero.

"Tra poco arriverà il prete per l'estrema unzione, non penso che voi dovreste…"
Henry Conneau, uno degli uomini più fedeli a suo padre, e sempre presente accanto a lui, disse, rivolto al principe che però scosse la testa.
"Ho permesso a mio padre, una volta, di dividere le nostre strade ma adesso non lo farò. Rimarrò con lui," rispose, il tono di chi non si aspettava un no come risposta.
Aveva ringraziato Dio per aver fatto sì che le loro strade si riunissero e aveva vissuto ogni giorno con suo padre come se fosse l'ultimo.
Strinse la mano dell'uomo e Napoleone, lentamente, aprì gli occhi.

Posò lo sguardo su suo figlio e poi sul vecchio amico.
"Eri a Sedan?" Chiese, la voce appena percettibile, rivolto a quest'ultimo.
"S… mais oui, Imperatore!"
"Non è vero che a Sedan non siamo stati dei codardi?" Chiese Napoleone.
"No… non siamo stati codardi, abbiamo fatto il massimo… per la Francia," rispose Conneau, gli occhi ricolmi di lacrime.

Sedan, a distanza di anni quella dannata sconfitta tornava a tormentarlo persino sul letto di morte. Certi errori, certe scelte, o non scelte, ci perseguitano per sempre e quella fu una dura lezione che Luigi dovette imparare, quel giorno.
Sul viso di Napoleone comparve per un attimo un breve sorriso poi gli occhi dell'uomo si chiusero.

Non si riaprirono mai più.
Dieci minuti più tardi arrivò il prete, che somministrò al vecchio Imperatore l'estrema unzione, infine un'ultima visita del dottore confermò le paure di tutti.
"Il battito è sempre più debole, respira appena. Questione di poche decine di minuti, un'ora al massimo, e…"
L'uomo non ebbe il cuore di determinare quella frase: era evidente che tutti avevano intuito il significato di quelle parole.
Luigi continuò a tenere la mano del padre, pregando intensamente, cercando rifugio nella fede e nella preghiera.

/ / / / / / /



Le previsioni del medico si rivelarono tristemente azzeccate: dopo poco più di un'ora dall'ultima visita, intorno alle quattro del pomeriggio, Napoleone III esalò l'ultimo respiro.
Fu un'esperienza strana e colpì molto il principe perché, non appena sentì la mano dell'uomo afflosciarsi definitivamente, ebbe come l'impressione di percepire l'anima del padre abbandonare quelle spoglie mortali.

Alle sue spalle sentì sua madre cadere in ginocchio e piangere, dando finalmente sfogo alla tensione e al dolore che aveva cercato di celare in quelle settimane.
Era appena diventata vedova, il suo dolore adesso non sarebbe più stato giudicato come debolezza.

Luigi invece rimase immobile, fu solo quando il medico si avvicinò e confermò il decesso che lasciò la mano del padre deceduto.
Vittima di un vortice di emozioni che non riusciva a descrivere, il principe rimase immobile, come imbambolato.

L'urlo "L'imperatore è morto, viva l'imperatore!" raggiunse a malapena le sue orecchie.
A diciassette anni Luigi si era ritrovato esiliato e orfano di padre.

A diciassette anni Luigi, suo malgrado, era diventato un uomo.

/ / / / / / /



*Citazioni ad alcune lettere di Napoleone III dopo Sedan.

Salve a tutti, ci ho messo più tempo del previsto ad aggiornare perché ho trovato difficoltà nel gestire questo capitolo, spero di averlo fatto con giusto delicatezza.
Delle ultime ore di Napoleone III si sa poco, solo le ultime parole che ho qui riportato, mi fa piacere pensare che avesse i suoi cari vicino e che nella morte abbia trovato la pace che in vita non ha avuto, specie negli ultimi anni.

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Capitolo 4
*** La Stanza dei Quadri ***


Capitolo 4, La Stanza dei Quadri

 



”The Emperor died on Thursday the 9th inst., and by Saturday the little village of Chislehurst was filled to overflowing with an influx of persons drawn either by motive either of curiosity, of sympathy or of respect." (1))
Trafiletto dal “The Grapher” 25 Agosto 1873

 



14 Gennaio 1873

Una delle prime lezioni che Eugenia aveva dovuto imparare, nel corso della sua infanzia, era che nella morte tutti gli esseri umani sono uguali. La sofferenza, il carico emotivo della perdita di una persona cara, hanno lo stesso peso morale sia per una nobile che per una borghese; una presa di coscienza che all'inizio aveva turbato molto la futura imperatrice.
Ma quello che poteva differenziare una nobile da una semplice borghese era la dignità, la compostezza nella quale si affrontava la dipartita di un caro. Così sua madre ripeteva sempre.
Ma, Dio, quanto era difficile!

Una folla di francesi, fedeli alla causa imperiale, avevano attraversato la Manica ed erano arrivati fino a quel piccolo paesino inglese, riempiendo tutte le osterie e gli sparuti alberghi o locande. Nonostante tutto, pronti a credere ancora nell'impero, a supportare una causa, che al momento era in difficoltà, ma che tutti sapevano prima o poi sarebbe potuta tornare in auge in Francia. Quanto mai sarebbe potuta durare questa nuova Repubblica?
Migliaia di francesi speravano anche di vedere la loro imperatrice, di poterla confortare, ma lei non ce la faceva, non riusciva a trovare la compostezza o la dignità necessaria per mostrarsi in pubblico.
Così era rimasta rinchiusa in camera sua, rifiutandosi di mostrare il suo volto pallido e smunto, pieno di dolore e sfiducia nel futuro, alla folla.
Sapeva che sarebbe dovuta rimanere al fianco di suo figlio, aiutarlo ad affrontare quelle ore difficili, ma come poteva essere d'aiuto quando lei stessa non era in grado di mostrarsi al pubblico, venuto a onorare suo marito?
Quando era sul costante punto di crollare.

Qualcuno bussò alla porta, interrompendo il flusso di coscienza di Eugenia.
"Imperatrice, ci sono il principe di Galles e il duca di Edimburgo!"
La donna sbuffò: ci mancava anche quella seccatura!
Ma del resto, pensò, non poteva dimostrarsi così scortese nei confronti di chi tanta premura aveva mostrato nei suoi confronti e, dopotutto, era una cosa buona e giusta rimanere in termini amichevoli nei confronti dei futuri, possibili, eredi della regina Vittoria.
Perciò, dopo essersi seduta su una comoda poltrona, sussurrò un roco "sì" alla cameriera che subito fece aprire la porta.

Se non fosse stata in quella occasione, tanto nefasta, la donna avrebbe sorriso vedendolo il piccolo principe di Galles che, ad appena otto anni, con la faccia tutta computa, indossava un'alta uniforme e veniva a porgere le sue condoglianze.
Per fortuna accanto a lui c'era il duca di Edimburgo, Alfredo, che a quasi trent'anni, e con una vita avventurosa alle spalle, faceva tutta un'altra figura in quella spoglia camera.
Dopo essersi scambiati vari saluti di rito, fu proprio quest'ultimo a parlare.
"Imperatrice Eugenia, siamo qui, a nome della nostra regnante e di tutta la famiglia reale, per porgere le nostre più sentite condoglianze. Non ho avuto molte occasioni per parlare con suo marito," continuò, il tono basso e monotono di chi aveva appena imparato un discorso a memoria.
A quel punto l'attenzione di Eugenia crollò quasi verticalmente: di tutto aveva bisogno, tranne che dei soliti vuoti, noiosi e lunghi discorsi.
Sperava che almeno Alfredo avesse portato qualche parola di conforto vera, sentita, proveniente dal cuore e invece no, era rimasta delusa da quel monologo preparato in fretta e furia da qualche consigliere.
Certo, nessuno di loro aveva conosciuto suo marito quanto lei, e forse non sarebbero bastate mille parole dolci come il miele a sollevarle l'anima.
Perciò finse di mostrare apprezzamento per quelle parole e, dopo qualche minuto di vuote, e ricercate, ciance, finalmente poté congedare i due membri della famiglia reale per tornare nel suo bozzolo di oscuri pensieri.

Giunta a quel punto della giornata, l'unica cosa che desiderava era dormire, possibilmente per tutto il giorno successivo, in modo da saltare il funerale, i noiosi discorsi e altri pianti e lacrime.
Ma sapeva che non poteva permettersi di mantenere il suo lutto privato, che la cameriera l'avrebbe risvegliata in perfetto orario e che suo unico compito sarebbe stato quello di mostrarsi composta davanti al feretro del marito e al futuro, già segnato, di suo figlio.

Di provare a mantenere quella dignità e compostezza che la dovevano differenziare dalle altre.
Ma, Dio, quanto era difficile!

/ / / / / / /



I racconti delle avventure, e peripezie, del duca di Edimburgo per lungo tempo erano stati uno dei pochi divertissement del giovane Luigi Eugenio. Ricordava ancora, con somma gratitudine, i pomeriggi trascorsi a leggere i suoi diari e le rare fotografie prese durante il giro del mondo che il giovane Alfredo aveva intrapreso qualche anno prima: una fuga dalla tetra realtà di esuli francesi.
Nonostante il fatto che i due si fossero incontrati di persona poche volte, Alfredo aveva ben presto trovato un posto nel cuore del piccolo principe e perciò fu un po' allietato, nella sua sofferenza e dolore, dal fatto di poter parlare in privato, quel pomeriggio antecedente il funerale, con il duca di Edimburgo.
I due si trovavano nella stanza dei quadri, una delle preferite di suo padre e luogo scelto per conservarne la salma, in attesa del funerale.
Non era il primo cadavere che Luigi Eugenio vedeva dal vivo, nel corso della guerra contro la Prussia ebbe occasione di assistere a quello che rimaneva della vita umana dopo la morte, e del resto aveva assistito alla dipartita del padre in prima persona, al suo capezzale.
Ma vederlo lì, disteso in quella fredda bara, indossando l'alta uniforme che portava a Sedan… il giovane principe fu confortato dal fatto che al suo fianco ci fosse Alfredo: se fosse rimasto da solo sarebbe crollato.

"Potrà sembrare una cosa sciocca da dire, ma sembra più in pace adesso, il suo volto, per certi versi, finalmente sereno, che nel corso degli ultimi tre anni vissuti qua," commentò il duca di Edimburgo, osservando, con rispetto, la salma.
Luigi Eugenio non replicò, il peso alla gola, e al cuore, che provava da quando suo padre era morto lo opprimeva più che mai. Sentiva che avrebbe vomitato, se solo avesse provato a emettere qualche suono di senso compiuto, perciò si limitò ad annuire.
"Dovrai essere forte, Luigi, per tua madre, per i tuoi amici e per chi crede in te," continuò Alfredo, il quale, dopo un rapido segno della croce, volse le spalle alla salma dell'imperatore e si rivolse direttamente al principe.
"No… non è facile," sussurrò infine quest'ultimo. "Speravo di avere più tempo, di concludere l'accademia prima di poter pensare a… a questo."
Alfredo sorrise amaro e pose una mano sulla spalla di Luigi. Un gesto decisamente informale, che mai si sarebbe sognato di fare in pubblico… ma in quella stanza non c'erano principe e duca, solo due persone che provavano un forte rispetto reciproco.

"Devo andare, ho un impegno stasera. Ti porgo i saluti della regina e di tutti i miei fratelli e sorelle, in particolar modo Beatrice," dopo qualche minuto di silenzio, il duca di Edimburgo parlò, stringendo la mano del principe il quale, al solo sentire nominare l'ultimogenita della regina Vittoria, aveva arrossito lievemente.
"Se dovessi avere bisogno di qualsiasi cosa, contattaci," aggiunse Alfredo, prima di uscire dalla sala dei quadri, lasciando l'altro da solo.

"Grazie," sussurrò Luigi Eugenio. "Non lo dimenticherò."
Era rimasto solo, solo in compagnia del corpo di suo padre.
Al solo pensiero, sentì la testa vorticare, i volti dei quadri osservarlo sghignazzando, con disprezzo dipinto sui loro volti centenari.
"Luigi…"una voce lo stava chiamando, una voce che veniva direttamente dalla bara di suo padre! No, non era possibile, Luigi pensò, chiudendo gli occhi e appoggiandosi alla parete.
Dopo quel che parve un'eternità, tutto sembrò tornare alla normalità: la stanza smise di vorticare e gli occhi dei quadri tornarono al loro posto.
Lentamente azzardò un'ultima occhiata alla bara, ma niente era fuori posto. Sospirò.
Stava forse impazzendo o era solo l'ansia e la tensione, provata nelle ultime ore, a giocare degli scherzi?
In ogni caso, il principe a sua volta uscì da quella stanza tetra, diretto da sua madre.
Aveva un funerale da affrontare, il giorno successivo, non voleva sprecare le ultime ore di pace in silenzio, da solo.
In quella orribile stanza dei quadri

/ / / / / / /



(1)"L'imperatore è morto giovedì 9 e sabato il piccolo villaggio di Chislehurst è stato riempito fino a traboccare di un afflusso di persone attirate o da curiosità, simpatia o rispetto."

Scusatemi per l'attesa però questo ottobre l'ho impiegato in tutta una serie di iniziative di scrittura che mi hanno portato lontano da questa storia che comunque ha intenzione di continuare e infatti torno con questo capitolo che ho fatto un po' fatica a scrivere. È difficile immaginare cosa deve aver provato il principe, cosa devono aver provato in realtà tutti i regnanti al momento della morte del re/imperatore: divisi tra le responsabilità future e le lacrime e il dolore per la perdita di una persona cara.
Spero questo capitolo sia piaciuto ^^

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Capitolo 5
*** Una Donna da Amare ***


Capitolo 5, Una Donna da Amare



Giugno 1874

"Pensate un po', qualcuno già mi chiama Napoleone IV"
L'aria, all'esterno di quella dimora della famiglia reale inglese, era particolarmente piacevole, dopo alcuni giorni di pioggia leggera.
Beatrice e Luigi Eugenio, seduti sotto a un gazebo fresco e confortevole, osservavano la natura rifiorire, in vista dell'estate, mangiando dei piatti freddi e scambiandosi chiacchiere e confidenze. Cosa che ormai facevano sempre più spesso da quando il giovane principe aveva terminato l’accademia militare.
Normalmente, una delle tante dame di compagnia della ragazza sarebbero state presenti ma, da qualche tempo a quella parte, sembrava che la regina Vittoria avesse rallentato un po' le restrizioni in presenza del giovane principe.

"E la cosa non vi fa piacere?" Chiese Beatrice, mangiando alcuni chicchi d'uva belli gonfi e succosi.
"Sinceramente non lo so,” borbottò il ragazzo, la testa tra le mani. Erano successe talmente tante cose, aveva partecipato a così tanti incontri, nel corso degli ultimi mesi, che ormai sentiva il capo vorticare.
Era diventato maggiorenne, il ruolo di erede e di capo della fazione bonapartista erano sue di diritto.
Ma quanta fatica!

“É un grande onore!” esclamò la ragazza, sorridendo incoraggiante.
“Sì ma… a volte ho l'impressione di non meritarmi questo nome né tantomeno il mio titolo,” rispose Luigi, alzando le spalle e lasciando vagare lo sguardo.
Era vero, tutti che lo chiamavano Napoleone IV, tutti pronti ad aspettarsi che riportasse l’ordine in Francia, che facesse tornare l’Impero. Ma lui era solo un ragazzo appena maggiorenne.
Dentro sé sapeva quale fosse il suo ruolo, cosa il suo nome si portasse dietro, ma d’altra parte non poteva non vacillare, se si fermava a pensarci troppo a lungo.

“Ci sono alcune volte dove vorrei dare tutto in mano a uno dei miei cugini e vivere una vita tranquilla e felice… ma so che la situazione non è così semplice," aggiunse, dopo qualche secondo di silenzio.
Normalmente non avrebbe espresso quei timori ma conosceva Beatrice da anni, ormai, e i due erano riusciti a creare una solida amicizia nel corso del tempo. Sapeva che la ragazza non ne avrebbe parlato con nessuno.
Sapeva che avrebbe trovato conforto nelle sue parole.

Questa, dopo una rapida occhiata nei paraggi, prese la mano del giovane principe tra le sue. A quel contatto, dolce e caldo, Luigi Eugenio rimase per qualche secondo come intontito, immobile sentendo allo stesso tempo qualcosa di altrettanto caldo nascere dentro di lui e irradiarsi per tutte le membra.
Sarebbe rimasto in quel modo per ore, giorni forse: era un contatto decisamente piacevole. Ma, purtroppo breve perché, subito dopo, uno dei tanti paggi della ragazza si avvicinò al gazebo con una nuova portata di pietanze.
"Sono sicuro che troverai la tua strada," sussurrò Beatrice, piuttosto rossa in volto, "io credo in te."

/ / / / / / /



Sì, c'era decisamente qualcosa di strano nell'aria, Luigi Eugenio ne ebbe la conferma quella sera stessa mentre cenava, come al solito, insieme a sua madre.

Erano appena arrivati al dolce dopo una cena particolarmente piacevole e ben cucinata quando sua madre chiese: "Allora, com'è andata oggi con Beatrice?"
Il tono di voce dell'imperatrice madre era noncurante ma il giovane principe la conosceva abbastanza bene da sapere che sotto la cenere covava il fuoco. Un fuoco di curiosità
"Madre, non so cosa tu e la regina Vittoria siate tramando, ma credo sarebbe il caso di terminare questi giochetti alle mie spalle,” disse il ragazzo, terminando la sua fetta di torta e pulendosi la bocca a un tovagliolo.
"Quali… quali giochetti, non capisco!" Rispose prontamente la donna, fingendo stupore.
"Sono ormai alcune settimane che visito Beatrice e rimaniamo per diverse ore da soli, una cosa che non è mai accaduta prima," spiegò Luigi Eugenio.
"Ormai si fidano di te, sei uno di casa per loro…"
“Peccato che questo non avvenga quando vado in visita a qualche altra parente della regina,” continuò il giovane principe, ignorando la madre. “E, cosa ancora più strana, oggi Beatrice mi è sembrata… strana…”

Quelle parole però accesero ancora di più la curiosità di Eugenia.
"Davvero? Caro, ormai vi conoscete da tanti anni, è del tutto naturale che sia nato tra di voi un certo affetto. Per lo meno da parte di Beatrice, so che lei è molto… interessata a te e io credo che sarebbe una buona…" balbettò la donna.
"Una buona moglie?"
Eugenia si zittì per qualche istante e poi rispose con un secco "sì."

Luigi Eugenio sbuffò, alzandosi dal tavolo.
"Madre, lo sapete come la penso a riguardo. È troppo presto per pensare al matrimonio, sono appena maggiorenne e ho tante cose da fare prima di accasarmi!"
"E perché aspettare così tanto tempo? È ovvio che tu e Beatrice vi piacete, non capisco perché non ufficializzare la cosa!" Rispose prontamente Eugenia.
"Io… non lo so, se mi sposerò sarà per amore, con una donna che rispetto e che non tradirò mai per tutta la mia vita. Perché ciò che Dio unisce è sacro e non so se Beatrice può rappresentare questo ideale di donna!" Rispose il ragazzo.
"Il tuo ideale di donna? Ma allora non capisci la nostra situazione!" Esclamò Eugenia, la voce improvvisamente dura.
Sentendo quel tono di voce, Luigi Eugenio si ammutolì.
Normalmente era suo padre quello che si faceva prendere facilmente dall'ira, aveva udito sua madre urlare pochissime volte.
Quella era la prima volta che alzava la voce da quando erano in esilio, il loro primo litigio.

"Siamo soli, in esilio, la nostra causa appesa a un filo e tu pensi al tipo di donna ideale?" Continuò Eugenia. "Ma ti rendi conto che se tu morissi senza eredi, la causa Imperiale perderebbe tutto il suo vigore? Che sei l'unico faro di speranza per migliaia di bonapartisti che attendono un futuro diverso per la Francia?"
Il silenzio cadde di nuovo nella piccola sala, Eugenia si mise a sedere leggermente ansante mentre il figlio rimase in piedi, osservando il fuoco che guizzava allegro nel camino.
"Avete ragione, madre, siamo soli e la nostra causa è appesa a un filo ma è proprio per questo motivo che non voglio pensare a un matrimonio, adesso," disse infine il ragazzo.
"Voglio viaggiare, vedere il mondo e crescere, sia come età che come persona. Adesso, come dicono i miei detrattori, sono solo un ragazzino viziato e se voglio mettere su famiglia, se voglio sposarmi e fare dei figli, voglio essere un uomo."
"Luigi, tu…" rispose la madre, il tono nuovamente più basso e rilassato.
"Se mi dovessi sposare adesso," continuò Luigi, stringendo i pugni, "mia moglie si troverebbe come marito un ragazzo insoddisfatto, che non sa neanche quale sia il suo posto nel mondo e quale futuro lo attende. Se dovessi mettere su famiglia adesso, mia moglie e i miei figli si vergognerebbero di me."
Lacrime apparvero agli angoli degli occhi dell'imperatrice ma il ragazzo non tornò sui suoi passi. "Con permesso," mormorò e uscì dalla stanza da pranzo.

Vagò a lungo, irrequieto, per la casa fino a quando i suoi passi non lo condussero verso la stanza dei quadri.
Rimase per ore davanti ai quadri che raffiguravano le grandi battaglie vinte dal prozio e solo allora decise che davvero sarebbe diventato un uomo, che avrebbe fatto di tutto per portare avanti la sua causa e allora, quando sarebbe finalmente rimasto soddisfatto di sé stesso, si sarebbe sposato.
Perché no, con Beatrice.

/ / / / / / /



Anche questo capitolo non è stato molto facile da scrivere perché della vita privata di Luigi sappiamo poco. Effettivamente questo matrimonio con Beatrice a un certo punto è venuto e fuori da quello che ho ricostruito la ragazza era anche interessata ma Luigi tentennò molto quindi sì, mi è piaciuto dipingere questo ragazzo insicuro del futuro e alle prese con i primi tormenti amorosi da una parte e la figura pubblica dall'altra.

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Capitolo 6
*** Progetti e Ambizioni ***


Capitolo 6, Progetti e Ambizioni

 



"Il faut donner à la Classe ouvrière des droits et un avenir."(*)
Proclama di Napoleone III.

 



Camden House, 1876.

Quando suo padre era venuto a mancare, Luigi Eugenio aveva deciso di lasciare il più possibile immutata Camden House, la dimora dei loro tristi, ma allo stesso tempo paradossalmente piacevoli, giorni da esuli politici.
Era strano pensare come quelle stanze, che avevano accolto la sua famiglia in un momento così difficile, riuscissero, quasi per un gioco fortuito del caso, a rasserenare la mente del principe.
Non poteva riuscire ancora a considerare quella villa casa perché casa è dove nasci e cresci, dove il pensiero va prima di dormire, quando le irresistibili braccia di Morfeo sono pronte a cullarti verso un mondo dove non esiste dolore o paura.
Camden House non era casa ma rappresentava per lui un posto che, con il lento trascorrere dei mesi e degli anni, stava lentamente riuscendo a scavarsi un piccolo posto nel suo cuore e perciò ci mise particolarmente impegno nell'arredare il vecchio studio di suo padre, luogo dal quale avrebbe cercato di guidare quello che rimaneva del partito Bonapartista.

Molte cose rimasero al loro posto: Luigi Eugenio non si sognò nemmeno per un momento di buttare via i centinaia di volumi che la biblioteca di suo padre conteneva e nemmeno l'imponente scrivania e la comoda poltrona, posizionata proprio dietro una grande finestra che dava sul pacifico cortile interno della dimora. I cambiamenti che adottò furono più delicati, si concentrò maggiormente sui particolari perché sono quelli che fanno la differenza, o almeno così diceva sua madre.
Appese alla parete nuovi quadri commissionati per l'occasione, paesaggi non solo francesi ma anche provenienti dall'Africa, dalla Spagna, dall'Italia e dalla Scozia.
Da un mondo che avrebbe così tanto voluto esplorare.
Adorava leggere romanzi di avventura, era un passatempo forse sciocco, puerile, non adatto a un principe, ma ciò nonostante non gli impediva di divorarsi numerosi romanzi di quel genere.
E non solo romanzi, beveva come acqua sorgiva numerosi racconti sulle varie tribù indigene che popolavano il vasto mondo sconosciuto, i resoconti dettagliati dei vari esploratori e avventurieri che entravano per la prima volta in contatto con società sconosciute, inferiori forse, dato che ancora non avevano ricevuto la parola del Signore, ma, ciò nonostante, non di meno affascinanti.

Sua madre non riusciva a capirlo fino in fondo, non comprendeva la passione del figlio per argomenti così distanti dalla loro situazione terribilmente precaria.
La Repubblica che era nata dalle ceneri del secondo Impero era forse traballante ma allo stesso tempo pericolosa e da lì a pochi mesi si sarebbero tenute le elezioni del 1876 ed era vitale che i Bonapartisti fossero della partita. Che fosse costante, nei francesi, il ricordo di ciò che Napoleone III aveva fatto per loro.
"Dovresti iniziare a interessarti molto di più del tuo futuro!" Era il costante richiamo della donna.
Non capiva che lui era un Bonaparte e i Bonaparte non sono fatti per restarsene buoni, fermi, a complottare seduti su morbide poltrone…
La loro mente andava sempre oltre le tribolazioni passeggere.

/ / / / / / /



L'arrivo di Eugène Rouher non lo colse impreparato.
L'uomo, il quale ormai aveva abilmente passato i sessant'anni, uno dei collaboratori più importanti e fedeli a Napoleone III, era arrivato a Camden House con tutti gli onori del caso per una visita programmata da tempo.
Quell'uomo ormai quasi anziano, dalla faccia segnata dalle rughe, tra le quali facevano capolino due occhi sempre attenti e indagatori, e dai lunghi basettoni rappresentava uno dei pochi legami di Luigi Eugenio alla Francia e alla sua politica, perciò era importante trattarlo con rispetto e attenzione.
Il principe lo conosceva da quando era nato, praticamente, presenza discreta e costante nella sua infanzia a palazzo, e, nonostante fossero trascorsi ormai parecchi anni, non riusciva a non provare una qualche forma di tensione o timore ogni volta che doveva intrattenere una conversazione con lui.
Un politico così navigato, esperto e scaltro…

Dopo una mattinata passata a camminare in compagnia dell'imperatrice Eugenia, sicuramente intenti a elaborare una qualche arzigogolata strategia politica, e un pranzo squisito, Luigi Eugenio sapeva che sarebbe giunta l'ora delle chiacchiere.
Del reale motivo di quella visita.
Perciò, seduto composto dietro la scrivania del suo studio, intento a rileggere alcuni scritti che aveva buttato giù nel corso delle giornate precedenti, accolse con ben poca sorpresa la vista della faccia rotonda di Eugène fare capolino dallo stipite aperto.

"Posso avere l'onore di scambiare due parole, altezza?"
Il principe annuì, indicando all'uomo una delle tre poltrone poste dall'altro lato della scrivania.
Rouher si sedette, emettendo un flebile grugnito.
"Quando avrete aggiunto la mia età, potrete capire fino in fondo l'amore per le sedute comode e per i pasti luculliani," sorrise Eugene, lasciando vagare lo sguardo per la stanza. "Vedo che avete cambiato completamente questa stanza."
"Sì, non riesco a lavorare e concentrarmi in un posto che non sento davvero… mio," rispose Luigi Eugenio. "Adesso le cose sono cambiate, per fortuna."
L'ospite osservò brevemente, giusto un guizzo che venne notato dal principe, i fogli di carta che il padrone di casa teneva poggiati sul ripiano della scrivania.
"E questo… cambiamento che cosa ha portato? " chiese Rouher, apparentemente interessato.
Le quisquiglie sociali erano concluse.
Sapeva che tutto quello che avrebbe riferito al suo ospite quest'ultimo lo avrebbe a sua volta detto a sua madre perciò Luigi Eugenio scelse con deliberata cura le parole giuste.

"So che voi e mia madre siete in contatto stretto ormai da anni, contatto che si è ulteriormente rafforzato durante l'esilio e che adesso, in vista delle prossime elezioni in Francia, si sta rivelando particolarmente affiatato."
"Non lo negherò, l'imperatrice Eugenia è una donna saggia e tengo molto al suo parere," disse Rouher, candidamente.
"So anche che mia madre, e con lei parte della corte imperiale in esilio, è convinta che il mio amore per le avventure, per la letteratura e per la religione mi facciano apparire come un ragazzo debole, poco risoluto, un debosciato. Dovrei apparire come un ragazzo giovane ma determinato… però, all'esterno, pare che io dia un'impressione sbagliata," disse Luigi Eugenio.
Tacque per un attimo, bevendo un sorso d'acqua, notando con piacere come l'uomo che aveva di fronte fosse lievemente arrostito.
Si mosse, a disagio sulla sedia.
"Principe, io…"
"Mi avete visto in fasce, non serve mentire o scusarsi, so bene come sia importante la prima impressione e le apparenze. Amo mia madre, per lei mi getterei tra le fiamme dell'inferno fino a raggiungere Lucifero e duellare con lui in persona," sussurrò il ragazzo, "ma mia madre non capisce come in una giovane mente possano trovare spazio sia i pensieri più avventurosi sia quelli più meramente pratici."
Luigi prese in mano alcuni fogli che teneva sul ripiano del divano, li osservò intensamente e poi ne passò alcuni all'ospite il quale lesse con attenzione le fitte parole scritte con la calligrafia ancora infantile del principe.

Una piccola ruga scomparve tra i freddi occhi dell'uomo.
"Che cosa significa…" chiese, appoggiando i fogli sulla scrivania.
Il padrone di casa si alzò, quasi incapace di rimanere fermo seduto, si avvicinò a una delle finestre che davano sul cortile e sospirò.
Oltre la finestra regnava la pace e la tranquillità: era una domenica soleggiata, non si vedeva nessuno per le strade. Tutti riposavano, tutti tranne loro due.

"Significa che le elezioni generali si avvicinano e sono molto importanti, ovviamente. Una cosa ancor più importante è che non siamo organizzati. Il partito Bonapartista è forte, basti vedere quante persone hanno attraversato la Manica per rendere omaggio a mio padre, durante il suo funerale, eppure non riusciamo a essere una forza propositiva abbastanza grande da sconfiggere questa insulsa Repubblica," disse infine il principe, rompendo quel silenzio teso.
Poté giurare di aver visto gli occhi di Rouher scintillare, ma fu solo un attimo. L'uomo comunque parve effettivamente colpito dalle parole del ragazzo perché accese la pipa e lo osservò attentamente.
"Da qui è difficile prendere delle decisioni, so tutto con qualche giorno di ritardo per colpa della distanza, però ho cercato nei diari di mio padre e ho trovato tutta una serie di suoi vecchi collaboratori, gente che ha fatto carriera grazie a lui, che sono ancora presenti in Francia e che, a regola, potrebbero fungere da base al nuovo partito Bonapartista!"

L'ospite annuì, all'apparenza soddisfatto, e disse, sorridendo: "ben detto principe, mi avete sorpreso, lo ammetto. Mi leverei il cappello... se ne portassi uno, in questo momento!"
Un grosso sorriso comparve anche sul volto di Luigi ma la gioia, l'orgoglio di aver sorpreso quella vecchia volpe, fu di breve durata perché Rouher parlò e le sue parole si rivelano molto dure e pragmatiche.
"La situazione però non è molto semplice. L'esilio di vostro padre e la successiva morte hanno contribuito a sfilacciare il nostro movimento, senza una forte guida sul campo…"
"È vero, non sono in Francia, però adesso ho tutta intenzione di seguire attivamente questa vicenda e, per quanto riguarda la Francia, vi conferisco i più assoluti poteri per parlare a mio nome con i membri della lista!" Lo interruppe il principe, un groppo alla gola. Ci doveva essere un modo per mantenere attiva la lotta per l’Impero!
"Non si tratta di avere pieni poteri, il discorso è più complesso perché il movimento Bonapartista è diviso in tutta una serie di correnti e fazioni e non è facile unirle," spiegò Rouher, aspirando il fumo dalla piccola pipa e chiudendo gli occhi. Quando li riaprì scosse la testa.
"Il Partito Bonapartista è un grande calderone che comprende quelli che, come me, vedono il ritorno a un impero forte e autoritario, sì ma non solo: ci sono anche Liberali, Conservatori, Clericali e Anticlericali, più tutta una serie di piccoli movimenti mischiati tutti insieme. Ognuno di questi con una visione diversa per la Francia. Riuscirete facilmente a capire perché le forze repubblicane hanno avuto la meglio. Siamo in tanti, forti e battaglieri, ma divisi."
A quelle parole l'ottimismo del principe crollò.

"Ma, insomma, c'è una causa più grande di tutti noi: quella dell'Impero da difendere. Dovremmo cercare di mettere da parte le differenze e concentrarci su ciò che ci unisce e su quello per cui vogliamo lottare!" Esclamò, battendo il pugno sul tavolo.
L’altro alzò le spalle, desolato.
“Anche su questo punto il partito si rivela essere molto litigioso…”
No, non poteva essere… davvero quegli stolti stavano mettendo a repentaglio il futuro della loro nazione per colpa di antipatie personali o differenze di vedute?
C’era bisogno di una visione comune…
E lui forse poteva dargliela.

Il giovane principe aprì un cassetto e ne estrasse altri fogli fittamente scritti che porse all'ospite, quasi in sol gesto.
"E quanto più necessario che torniate in Francia e vi adoperiate per ricompattare il partito, mio caro Eugène," sospirò Luigi Eugenio mentre Rouher diede una rapida occhiata agli scritti del giovane.
"Un… un programma di governo?" Chiese, non riuscendo a dissimulare del tutto la sorpresa.
"Niente di così elaborato o ufficiale, solo dei pensieri che ho buttato giù negli ultimi mesi," si schernì il principe. “Ma se c’è bisogno di unificare il partito… forse può essere una base.”

"Parità del cittadino di fronte alla legge e al servizio militare, ricostruire un aristocrazia di merito… decentralizzazione del potere e creazione delle basi per un terzo impero," lesse Rouher, con attenzione.
"Ho deciso anche di riprendere in mano le idee sociali di mio padre. Estrema attenzione alle necessità degli strati più bassi e del nuovo proletariato… dobbiamo dare un sogno alle classi meno abbienti e quel sogno non può essere la Repubblica," sussurrò Luigi, pendendo dalle labbra del vecchio amico di famiglia.
La faceva così facile ma in realtà aveva passato su quelle carte molte notti insonni. Non ne aveva mai parlato con nessuno dei suoi assistenti o collaboratori, mai aveva anche solo sognato di dare vita a quei pensieri profondi ma la situazione della causa Imperiale necessitava un suo più forte intervento e a quanto pareva c'era riuscito.
Certo, erano solo parole, vuoto inchiostro su altrettanto vuota e insignificante carta, ma quel che contava davvero era essere riuscito a dare forma ai suoi pensieri.
Se fosse riuscito a convincere Rouher allora, ecco, sì, allora avrebbe potuto tirare un piccolo sospiro di sollievo.

Il gradito ospite piegò i fogli e li infilò in una tasca della giacca.
"L'ora è tarda e mi avete dato davvero molte cose sulle quali dover riflettere," ammise, "devo congedarmi e capire bene come agire."
"Ma certo…"
"Non so come andrà a finire ma vi prometto, altezza, che darò il massimo," l'uomo si alzò, digrignando i denti per il dolore alle ginocchia.
Dopo un breve inchino, volse le spalle al principe e si avviò verso l'uscita ma, aprendo la porta, si fermò per un istante, si voltò e disse, l'espressione visibilmente commossa: "se mi permettete un pizzico di sentimentalismo, oggi vostro padre sarebbe stato davvero orgoglioso di suo figlio."

Si voltò e uscì dalla stanza, quasi sicuramente diretto a salutare sua madre per commentare quella riunione, ma a Luigi Eugenio la cosa non interessava.
Si era tolto un peso che lo attanagliava da dentro e aveva reso orgoglioso suo padre, di questo ne era sicuro.
Per la prima volta da giorni si rilassò, il futuro sarebbe stato complicato, certo, ma lo avrebbero affrontato e con l'aiuto di Dio e del fidato Rouher la sua causa avrebbe trionfato.
Ne era sicuro.
Forse

/ / / / / / /



L'incontro con Eugenia fu più breve del previsto.
Quando Eugène entrò nel salotto che ospitava la donna era passata a malapena mezz'ora dall'incontro con il figlio. Questo voleva necessariamente significare due cose: o l'incontro era stato estremamente positivo oppure terribilmente negativo.

"Non posso fermarmi oltre, Eugenia cara," furono le prime parole dell'uomo, "tuo figlio ha incredibilmente sconvolto tutti i miei piani."
"Come mai?"
"Perché ha dimostrato un acume e un'intelligenza che non credevo possibili, scusami ma devo dirti la verità," rispose l'altro. "Ti ricordi, credevo di dover spiegare tutto al ragazzo e di impiegarci un'ora solo per introdurre l'argomento e invece mi ha anticipato e dato molte cose sulle quali riflettere!"
Eugenia parve radiosa.
"Davvero? Cosa…"
"Scusami, come ho detto devo tornare ai miei alloggi… inviare subito qualche lettera importante ai miei contatti," Eugene replicò, baciando, cortese, la mano della dama.
"Probabilmente domani non avrai mie notizie ma tornerò, non mi sentivo così emozionato e pieno di vigore da anni, puoi credermi, tuo figlio è una vera perla, anche se ancora da sgrezzare!"
Dopo aver bevuto un sorso d'acqua, l'uomo corse letteralmente fuori dal salotto, diretto quasi sicuramente fuori da Camden House alla ricerca di qualche carrozza che lo riportasse al villaggio.

Conosceva l'amico da anni e lo non aveva mai visto in quelle condizioni, era chiaro che qualunque cosa suo figlio avesse detto era riuscito a colpire quella vecchia volpe. Forse era vero, aveva sottovalutato le capacità del figlio non per malizia ma forse per eccessiva preoccupazione.
Ma allora se anche Rouher era rimasto sorpreso dalle capacità del figlio… forse la situazione non era poi così grave.
C'era una soluzione possibile alle porte?

“Devo averlo sconvolto per davvero…”
La donna si voltò e vide il figlio appoggiato alla porta aperta del salotto.
“Già, ha detto che sei una perla… anche se da sgrezzare!” disse Eugenia, sorridendo. Ma poi gli angoli della bocca si afflosciarono impercettibilmente.
“Luigi… devo chiederti scusa, io…”
“Non c’è bisogno che vi scusiate, madre," il figlio, intuendo le parole di Eugenia, si era avvicinato alla donna e aveva preso le fredde mani tra le sue. “So che non sono stato particolarmente presente… ma ora le cose andranno meglio, vedrete."
E Eugenia gli credette.
Di fronte a quel sorriso, e a quegli occhi così simili ai suoi, l’Imperatrice annuì.

“La Repubblica non durerà, si scioglierà come neve al sole… e al momento giusto riprenderò quello che mi… che ci spetta,” esclamò Luigi. “Sono ancora giovane, avrò tutto il tempo di questo mondo per lottare e ho intenzione di iniziare a farlo da adesso.”
“Lo faremo insieme, mon fils

/ / / / / / /



*Dobbiamo dare alla classe operaia diritti e un futuro

Eccomi qui, lo sapete che gli aggiornamenti arrivano un po’ a rilento ma ho tutta l’intenzione di non lasciare questa storia a metà.
Un capitolo molto più politico, un House of Cards ottocentesco potremmo dire. Sappiamo davvero poco sulla lotta anti-Repubblicana, per trovare queste fonti ci ho messo un bel po’, spero vi sia piaciuto^^

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Capitolo 7
*** Ragione e Fiammetta ***


Capitolo 7, Ragione e Fiammetta



Ottobre 1877

"Le elezioni del 1877 si sono concluse e finalmente possiamo annunciarvi che il nuovo primo ministro, uscito vincitore da questa disfida elettorale, è Jules Dufaure, in rappresentanza della vasta alleanza repubblicana di Centro-Sinistra.
Più di cinque milioni di aventi diritto si sono recati alle urne per favorire questa Alleanza che promette di far virare la Francia verso un futuro decisamente Repubblicano.
Lo stesso non si può dire dei Monarchici, i quali comunque hanno ricevuto circa 850.000 voti ma che alla fine formeranno un gruppo battagliero, certo, ma ben poco numeroso e determinante per le sorti della Repubblica.

Il Partito del Plebiscito, non ce lo siamo dimenticati, rappresentanti i fautori dell'Impero e sostenuti da Rouher e dal principe Napoleone, in esilio in Inghilterra, hanno mostrato di aver retto il colpo e il brutto risultato delle elezioni dell'anno passato.
Hanno ricevuto infatti più di un milione di voti e 104 deputati, un numero sicuramente importante e una base sulla quale Rouher potrà lavorare.
Quel che è certo è che gli elettori i quali speravano nel ritorno dell'Impero e dei Bonapartisti al potere hanno dovuto ridimensionare le loro aspettative. Una buona base di partenza quei 104 deputati, ma chiaramente non abbastanza per stravolgere le sorti del Parlamento."


Luigi Eugenio alzò gli occhi dal giornale spiegazzato, il quale gli era arrivato direttamente dalla Francia per via traverse, e sospirò.
Aveva già letto numerose analisi del voto ma quella rappresentava forse la più veritiera.
Il risultato ottenuto alle elezioni era andato al di là di ogni aspettativa.
L'opera del suo fidato Rouher era stata meticolosa, aveva dovuto lavorare in un campo minato, cercando di mettere insieme un partito diviso e sfilacciato, ma avevano ottenuto un risultato sicuramente interessante.
No, non si aspettava certo la vittoria, dato che erano usciti con le ossa rotte dalle elezioni legislative dell'anno precedente, quel centinaio di deputati non avrebbe potuto prendere in mano la vita politica della Repubblica, ma era un buon punto di partenza. I francesi dovevano sapere che potevano contare su un'alternativa e quella alternativa era forte, viva e attiva.

Da una parte la Repubblica, vecchia, già fallimentare in passato, stretta tra biechi giochi di potere e incapace di prendere decisioni in tempi stretti. Il passato
Dall'altra l'impero: volitivo, attento alla esigenze del popolo, efficiente e con lui, un giovane capace e intelligente, al comando. Il futuro.

"Ne deduco che le cose siano andate bene."
Vittorio de Vitis, il padrone di casa, chiese, sorseggiando il suo caffè mentre anche lui dava un'occhiata a un giornale della sua città.
Firenze. La splendida, decadente, medievaleggiante Firenze.
Quel lungo viaggio in Italia era stata un'idea di sua madre. Tutti i giovani rampolli si prendevano un anno di pace per viaggiare in Europa a riscoprire l'età classica, lui non poteva essere da meno e perciò, accompagnata da Eugenia, aveva già visitato Roma, Milano e quella, Firenze, rappresentava l'ultima tappa del suo piccolo Grand Tour.
I de Vitis avevano fatto carriera ai tempi del primo Napoleone, nell'esercito sabaudo, per quel motivo Vittorio aveva deciso di ospitare volentieri la vecchia Imperatrice e il figlio, nella sua grande villa vicino ai bellissimi Giardini di Boboli.

"Bene, sì, ma…"
L'ingresso sulla terrazza della secondogenita dei De Vitis, Fiammetta, bloccò la risposta del Principe.
La veste elegante che metteva in mostra allo stesso tempo un décolleté florido, i lunghi capelli ricci che si perdevano fino alla vita minuta, gli occhi azzurri che riuscivano a scavargli l'anima.
Per Luigi Eugenio quella ragazza aveva rappresentato una delle attrazioni più interessanti e affascinanti dell'Italia intera.
L'unica che riuscisse a distrarlo dai suoi propositi, la prima che fosse riuscito a fargli capire la bellezza della passione tra due giovani.

Si riscosse, scuotendo la testa.
"Scusate… sì, Il risultato è stato buono. Non abbiamo vinto ma comunque siamo uno dei gruppi parlamentari più numerosi," disse, rivolto al padrone di casa. “E se il fronte Repubblicano crollasse, saremo pronti.”
"Bene, bene," sorrise l'uomo. Anche Fiammetta dischiuse le sue labbra per sorridere e Luigi fece molta fatica a mantenere l'attenzione su Vittorio, il quale nel frattempo aveva chiesto: "avete avuto notizie da vostra madre?"
Il principe terminò di bere il suo tè e rispose, pronto: "so che stamattina aveva fissato un incontro con il re."
"E dopo questo incontro dove vi recherete? Eugenia mi ha riferito che entro breve avete intenzione di partire da Firenze."
"Di già?" Si intromise Fiammetta, l'espressione di colpo contrita.

Firenze, l'Italia, il Gran Tour. Tutte esperienze che lo avevano fatto crescere e maturare come persona e come uomo.
Aveva amato viaggiare insieme alla madre e aver visto posti così incredibili ma allo stesso tempo, da alcune settimane, era in preda a un'eccitazione, un’ansia, che non riusciva a comprendere.
L'amore di Fiammetta… la passione, o quello che era, aveva contribuito a dargli un motivo in più per restare ma sentiva che l'Italia non era più il posto giusto per lui.
Aveva esplorato e visto tutto quello che era possibile, era tempo di tornare in Inghilterra e riprendere da dove aveva lasciato: le elezioni e la pianificazione del futuro nel Partito dei Plebiscito.
Ma era davvero quello che voleva?
Dopo aver viaggiato così a lungo, e ampliato enormemente gli orizzonti, tornare a casa e ricominciare a pianificare noiose strategie politiche non era una prospettiva propriamente allettante. Voleva di più ma non sapeva cosa.
Anelava paesaggi diversi ma non sapeva bene quali.

Si accorse per l'ennesima volta, quella mattina, di essere entrato in un altro dei suoi silenzi pensierosi e perciò, a fatica, si riscosse e rispose, balbettando leggermente.
"S… sì, ho trascorso qui in Italia, nella vostra bellissima nazione, già più tempo di quanto non mi fossi prefissato all'inizio. Penso proprio che sia ora che torni in Inghilterra… c'è un partito da guidare," sorrise, cercando di alleggerire la tensione. Fiammetta, che nel frattempo aveva perso gran parte del suo solito colorito, chinò il capo e riprese a mangiare, senza aggiungere nulla, mentre il padre annuì.
"Un pensiero molto maturo, per un principe così giovane," esclamò Vittorio.
Luigi lo ringraziò con un cenno del capo.
Quell'uomo decisamente lo sopravvalutava: si sentiva tutto, in quel momento, tranne che maturo.

/ / / / / / /



La mattinata trascorse lenta e sonnacchiosa, il principe rimase sulla terrazza e scrisse diverse lettere indirizzate ai quadri del Partito del Plebiscito.
Ora più che mai era necessario programmare l'attività partitica, smontare pezzo per pezzo la retorica Repubblicana.

Quando le ore undici fecero capolino, però, Luigi Eugenio aveva fatto ben pochi progressi, la sua mente troppo distratta.
Sua madre sarebbe tornata solo nel primo pomeriggio, Vittorio sicuramente stava dipingendo nel solaio…
Quasi senza avere controllo sul proprio corpo, il principe si alzò e si diresse all'interno della Villa, più precisamente al primo piano.

La porta della camera di Fiammetta era aperta. Ormai erano riusciti a sviluppare una sorta di linguaggio non verbale: quando lei si trovava in camera ma la porta era serrata voleva dire che non desiderava essere disturbata, quando era socchiusa, come in quel caso, allora rappresentava un invito non scritto a visitarla.
Ma questa volta esitò.
Si sentiva uno sciocco: aveva mille cose da preparare in vista del suo ritorno in Inghilterra e lui a che cosa pensava? A una ragazza che non avrebbe mai più visto.
"Voi uomini siete tutti uguali, ragionate esclusivamente con quella cosa che avete in mezzo alle gambe. Proprio come il mio vecchio marito," le aveva detto Fiammetta, dopo la loro prima notte insieme.

Era stato tutto fin troppo facile: lui era un ragazzo alla scoperta del proprio corpo, lei una giovane vedova desiderosa di protezione e di calore.
Ma ora no, quella volta avrebbe dovuto essere freddo e lucido. Non c'era un futuro per loro, non aveva senso continuare quella storia.
Sospirando, spostò la porta ed entrò.

Fiammetta lo stava aspettando: era ovvio, aveva sciolto i lunghi capelli e, seduta sul letto, non sussultò quando la porta si aprì.
"Principe…" sussurrò.
Luigi chiuse la porta e si avvicinò alla ragazza, insicuro di come iniziare quella conversazione. Non ci fu bisogno perché l'altra parlò per prima.
"E così, entro pochissimo tempo ve ne andrete."
"Sì, sono venuto infatti per dirvi…"
Dio, com'era difficile dire addio.
"Per dirmi che ve ne andrete? Per dirmi che non mi porterete con voi? Per dirmi che sono stata solo un giocattolo che adesso non vi serve più e quindi mi lasciate qui, da sola, con mio padre? Non c'era bisogno di venire qui di persona, lo avevo già capito da sola."
Se avesse urlato, o pianto, l'avrebbe capita e forse sarebbe riuscito a sopportarlo ma vedendola ferma, il tono di voce basso ma duro, ecco quell'atteggiamento scompaginò completamente le difese del Principe.

Lentamente, senza dire una parola, il ragazzo si mise a sedere sul letto, proprio accanto a Fiammetta la quale non si ritrasse. Un punto a favore?
"No, sono venuto a dire che mi dispiace," sussurrò, prendendo le mani dell'altra tra le sue.
Erano gelide e ancora una volta non si ritrasse a quel contatto ma anzi puntò i suoi grandi occhi su di lui.
"Questo non cambia il fatto che te ne andrai e ben presto dimenticherai tutto questo, " rispose l'altra, scuotendo la testa.
"Fiammetta, non mi rendi giustizia se pensi che mi dimenticherò immediatamente il tuo volto, le tue mani, il tuo corpo e la tua voce."
L'altra sorrise, beffarda.
"Non ti preoccupare, capisco che il tempo cancellerà quello che proviamo adesso. Tra qualche anno non rimarrà più niente di questa illusione e capiremo che eravamo solo un ragazzo che scopre sé stesso e una ragazza troppo giovane per essere vedova e alla ricerca troppo disperata di un po' di calore umano," rispose Fiammetta.
"Forse è vero, e allora indugiamo un'ultima volta in questa illusione," sussurrò Luigi.

E poi si baciarono e l'altra non si ritrasse.
Fu un bacio lungo, diverso da tutti gli altri che si erano scambiati nelle settimane precedenti, di nascosto, ricco di cose non dette.
E poi si spogliarono e rimasero nudi, i vestiti per terra, senza alcun valore, solo di intralcio..
Poi si sdraiarono sul letto e indugiarono per l'ultima volta nella loro passione. Fu un amore lento, struggente, appassionato e rabbioso
Due volte Fiammetta raggiunse il piacere e in entrambe le occasioni non si trattenne dall'urlare e dal far sentire al padre quanto disperata e potente fosse la loro unione.
Sentendo quei gemiti Luigi rinnovò il suo ardore e le spinte, sempre più veloci e profonde.
"Veni, principe, vieni per me," esalò la ragazza all’orecchio dell’altro, cingendo i fianchi del ragazzo con le gambe. Le sue unghie gli graffiavano la schiena ma non se ne curò minimamente.
Al suono di quelle parole e al contatto così ravvicinato e profondo tra i due corpi sudati, Luigi non poté trattenersi oltre.

Venne, e a quel punto i due, ansanti ma soddisfatti, rimasero nudi, sdraiati, una accanto all'altra, le mani giunte. Non c’era niente da dire o fare, tranne bearsi di quella pace dei sensi. Lentamente si addormentarono insieme, stanchi ma felici, un'ultima volta.

/ / / / / / /



"Quel Vittorio Emanuele è davvero uno zoticone senza precedenti. Ha la fama di un gran tombeur de famme ma non ci vedo proprio niente di interessante, o anche solo leggermente appetibile, in quel mascalzone!"
Sua madre era tornata da poco, eppure non aveva ancora placato la sua ira verso il re d'Italia.
Il figlio la stava ascoltando, non riuscendo del tutto a trattenere un piccolo sorriso sotto i baffi.
"Sulla sua orrenda scrivania aveva numerose foto di reali. Nessuna di tuo padre, eppure è soprattutto grazie a lui che quei pecorai sono riusciti a formare la loro Nazione!"

Doveva intervenire se non voleva sorbirsi un'intera ora di improperi rivolti al sovrano.
"Mio padre li ha aiutati molto, eppure si opponeva alla conquista di Roma e all'unità d'Italia," disse.
"E ha fatto bene, visto quanto sono poco riconoscenti verso di noi. L'avevo detto che non ci si può fidare degli italiani, che sono inaffidabili, ma tuo padre non ha voluto darmi ascolto."
Eugenia si mise a sedere su una poltrona, esausta, e solo allora parve accorgersi del trambusto che c'era nella camera del figlio.
"Hai deciso di tornare in Francia? Altrimenti non mi spiego questo subbuglio," chiese.
"Sì, madre, ormai sento di aver concluso il mio viaggio. Devo tornare a Camden House e parlare con i capi del partito," rispose il principe. “É stata una bellissima esperienza… ma per me è ora di tornare in Inghilterra.”

"Sta bene, io ho intenzione di rimanere ancora qualche giorno e poi proseguirò verso la Spagna. Voglio andare a visitare mia madre e i pochi membri della mia famiglia che vivono ancora là," disse la donna.
"Mi sono già congedato da Vittorio, domattina farà chiamare una carrozza."
"Ti sei congedato anche dalla figlia?"
La domanda della madre prese completamente Luigi di sorpresa, tanto che arrossì visibilmente. La madre si alzò dalla poltrona, scuotendo il capo.
"Sento il suo profumo dozzinale lontano un miglio e tu ne sei pieno. È un olfatto, il mio, che ho imparato a sviluppare grazie a tuo padre, quando tornava al palazzo ero subito in grado di capire se si era trattenuto con qualcuna delle sue amichette," disse, il tono basso e duro. "Che Dio l'abbia in gloria, non gliene do una colpa, ad alcuni uomini una donna sola non basta e il rapporto che aveva con me le altre potevano solo sognarlo."
"Madre, io…" balbettò il principe. Non aveva proprio voglia di parlare della sua vita amorosa davanti alla madre ma quest'ultima continuò, imperterrita.
"Sei giovane, è naturale che tu voglia… sperimentare, la cosa importante però è che queste signorine non ti distraggano dalla missione che hai di fronte a te. La Francia si aspetta grandi cose, non sprecare il tuo talento tra le lenzuola di queste…"
La donna tacque e, dopo un rapido segno della croce, si voltò, avviandosi verso l'uscita.

Il Principe rimase in silenzio, la testa china. Odiava ammetterlo ma sua madre aveva ragione: era stato uno sciocco, un debole, quella relazione peccaminosa l'aveva distratto, in quelle settimane, dal suo vero compito.
Aveva dimenticato il suo divino dovere.
E forse, se avesse potuto scambiare il suo ruolo con quello di un altro, sposare e passare la sua vita a fare l'amore con Fiammetta, lo avrebbe fatto.

Scosse la testa, stringendo i pugni. No, così tante persone credevano in lui, non poteva deluderle in quel modo. Non poteva rifugiarsi all’interno della villa, c’era un mondo, fuori, che lo reclamava.
Per un istante, davanti ai suoi occhi, baluginò l'immagine di Beatrice e si sentì ancora più in colpa. Doveva decisamente andarsene via da quella città.

/ / / / / / /



La mattina seguente, Luigi Eugenio ringraziò uno per uno Vittorio e tutta la servitù per l'ospitalità, promettendo all'uomo di tornare a trovarlo in futuro.
Di Fiammetta neppure un segno. Era costipata, non si sentiva bene, sussurrò il padrone di casa, ma il Principe sapeva bene le reali motivazioni perché, in fondo, forse, erano anche le sue.
Se l'avesse vista avrebbe trovato la forza per andarsene via così facilmente?

Non ebbe mai la risposta a questo quesito. Dopo un rapido abbraccio alla madre, terminò di caricare le valigie e poi montò sopra la carrozza che lo avrebbe portato a Genova e poi da lì, in nave, verso l'Inghilterra.
Mentre, sollevando una nube di terriccio e polvere, la carrozza si avviava lentamente verso la strada principale, Luigi Eugenio ebbe la possibilità, per l'ultima volta, di osservare da lontano la villa e sentire il cuore un po' più leggero e pesante allo stesso tempo.

Non sapeva, allora, che non avrebbe più rivisto quella villa, Firenze, o Fiammetta.
Che quella sarebbe stata la sua prima e ultima travagliata storia d'amore.

/ / / / / / /



Del periodo trascorso dal principe in Italia sappiamo ben poco, sappiamo solo che ha abitato a Firenze ma sia Fiammetta che Vittorio sono personaggi di mia immaginazione.
Ho voluto donare a Luigi Eugenio un momento per sentirsi davvero vivo, ragazzo innamorato di un amore che non può avere un futuro. Un amore che non potrà sfociare in niente, come tanti ne abbiamo visti nel corso della storia. Sì, sempre quella puntina di angst, ma del resto il povero principe non ha avuto una vita molto fortunata..

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Capitolo 8
*** Scandinavia e Africa ***


Capitolo 8, Scandinavia e Africa



Novembre 1878

Il battello solcava rapido le fredde acque del Baltico mentre una pioggerellina fredda tormentava il loro viaggio ormai da ore.
In lontananza gli stanchi viaggiatori avrebbero potuto notare, sulla linea dell'orizzonte, l'apparire delle bianche coste di Dover.
Avrebbero perché, in realtà, la maggior parte dei passeggeri erano riuniti all'interno, intorno al grosso camino che riscaldava il salone di prima classe. Ma Luigi Eugenio non si curava del maltempo, si era preso così tanta pioggia durante la guerra Franco-Prussiana che ormai c'era abituato e, in piedi sul ponte, stringendosi nel lungo cappotto per ripararsi dal freddo, osservò le coste dell'Inghilterra provando, come ogni altra volta, delle sensazioni che non riusciva bene a spiegare. Da una parte era felice di tornare a Camden House ma dall'altra si ricordava che quella non era davvero casa sua.
La sua vera patria si trovava da tutt'altra parte.

"Signore, gli ufficiali hanno appena comunicato che entro breve saremo arrivati. Vi suggerisco di tornare all'interno e di prepararsi."
Eric Debois, il suo assistente, che l'imperatrice Eugenia aveva appositamente scelto per accompagnare il principe in Scandinavia (Luigi Eugenio sospettava che l'avesse scelto per sorvegliarlo ed evitare che lui indugiasse troppo nel letto di qualche nobile scandinava) prontamente lo recuperò e lo convinse a tornarsene al calduccio.
Normalmente il principe si sarebbe rifiutato, e tra i due sarebbe nato l'ennesimo diverbio di quel viaggio, ma la verità era che Luigi si sentiva davvero troppo stanco per replicare e quindi, placidamente, dette ascolto alle parole dell'assistente e insieme rientrarono all'interno delle comode e calde pareti del battello.

Il resto del viaggio Luigi lo passò con un bicchiere di scotch ghiacciato in mano, seduto in disparte, osservando gli altri passeggeri di prima classe intenti a parlare di affari oppure a giocare a carte.
Nessuna delle due attività lo attirava più di tanto in quel momento.
Quel breve viaggio in Scandinavia si era rivelato molto illuminante: lo aveva messo in contatto con una cultura per certi versi diversa, si era temprato nel freddo clima svedese per la prima volta da solo, eccezion fatta per Eric.
Sua madre ne aveva approfittato, infatti, per fare un breve viaggio in Germania dove viveva una qualche cugina di non sapeva bene quale grado, e adesso lo stava aspettando, pronto per riceverlo con tutti gli onori.

Il viaggio proseguì senza nessun altro scossone e un paio di ore più tardi finalmente la nave attraccò nel porto di Dover.
Luigi ne approfittò per salutare il capitano e l'equipaggio, ringraziandoli per quel viaggio tutto sommato piacevole, e poi scese la passerella con Eric alle spalle che arrancava, portando due valigie (la sua e quella del principe). Sì, sarebbe stato nobile aiutarlo, ma vederlo sbuffare, rosso per lo sforzo, lo divertiva troppo… insomma, doveva fargliela pagare in qualche modo per quanto fosse stato antipatico, durante il loro viaggio.

Il porto come sempre brulicava di vita. Luigi vide con la coda dell'occhio numerosi lavoratori e viaggiatori che erano appena arrivati o che stavano aspettando di cominciare il loro viaggio.
Erano quasi arrivati all'uscita quando un uomo alto, in uniforme nera, si avvicinò a loro.
"Le Prince Imperiale?"
Chiese, in un perfetto francese.
"Oui. Chi siete?"
"Il mio nome è Marc Lefleur, e sono stato assunto direttamente dall'imperatrice Eugenia. Avrò l'onore di accompagnarla a Camden House con la mia carrozza, molto più veloce della concorrenza che potrete trovare fuori di qui."

E così, senza dire un'altra parola o aspettare una risposta, prese le due valigie dalle mani di Eric e senza alcuno sforzo apparente si avviò verso l'uscita.
"Vostra madre è davvero una santa, l'ho sempre detto," esalò l'assistente, massaggiandosi le mani indolenzite.
Il principe fece per rispondergli, ma una voce a lui nota lo distrasse completamente.
"Luigi! Luigi!"

Si voltò e con sua somma sorpresa vide Philip Gambrin, un suo vecchio compagno di accademia.
Non era cambiato di una virgola dall'ultima volta che lo aveva visto: i corti capelli biondi erano gli stessi, così come gli occhi azzurri e il viso paffutello. Indossava con cura, e un pizzico di orgoglio, l'uniforme rossa dell'esercito britannico.
I due si strinsero calorosamente la mano, del resto non si vedevano da alcuni anni anche se non mancavano di scriversi diverse lettere per le festività.
"Sergente Gambrin, che piacere rivederti," esclamò Luigi, notando i gradi presenti sulla giubba dell'amico.
"Il piacere è il mio. Sì, sono fresco di nomina, anche se non comando i nostri vecchi compagni, mi hanno trasferito in un nuovo corpo circa tre mesi fa," rispose Philip, orgoglioso. "Abbiamo appena terminato un periodo di congedo e siamo pronti a ripartire, quasi sicuramente diretti verso il nostro battesimo del fuoco!"
A quelle parole Luigi si accigliò.
"Dove siete diretti? Che battesimo del fuoco?" Chiese, curioso suo malgrado.
Philip sorrise e disse, abbassando la voce, "non è ancora una cosa ufficiale ma pare che bolla qualcosa in pentola nel Sudafrica, contro il regno degli Zulu. Il Maggiore dice che entro breve ci sarà la guerra, anche se il governo appare titubante."

Era vero, sapeva che la situazione tra l'Inghilterra, in particolar modo tra l'alto commissario Frere e il belligerante regno degli Zulu era molto tesa, ma sarebbe davvero scoppiata una guerra? Chissà come l'avrebbe presa il governo inglese…
"Principe, la carrozza ci aspetta, " Eric lo chiamò.
"Vai pure, anzi mi dispiace se ti ho disturbato ma ti volevo proprio salutare," Philip esclamò, stringendo un'altra volta la mano al vecchio amico. "Non so se coinvolgeranno anche i nostri compagni di Woolwich, ma, insomma, sarebbe stato bello combattere con te. Capisco però che hai altri obiettivi, adesso."
"Sì, a quanto pare sono diventato un politico," sorrise Luigi, congedandosi dall'amico. "Voglio avere tue notizie, mi raccomando!"

L'altro rispose con un cenno del capo e poi tornò dai suoi commilitoni mentre il principe, con Eric alle calcagna, uscì dal porto, diretto alla sua carrozza.

/ / / / / / /



Isandlwana, 22 Gennaio 1879

"Caro Luigi,
Ti scrivo da un luogo sconosciuto nel regno degli Zulu. Il nostro battaglione si sta muovendo ma adesso ci siamo fermati, abbiamo messo su un accampamento, e quindi ne approfitto per scriverti.

La situazione non è male, lord Chelmsford è partito alla ricerca dell'armata Zulu qualche giorno fa e noi siamo rimasti qui, con l'ordine di tenere occhi e orecchie aperte.
Al comando è stato messo Henry Pulleine, tipo a posto, non ha molta esperienza sul campo ma ci tratta con rispetto e questo basta alla truppa.
So che Durnford è partito con la cavalleria ma non so bene dove, ha discusso molto a lungo con Pulleine, ieri sera.

Comunque, non ho avuto occasione di dirtelo nel nostro breve ma piacevole incontro, Margaret sta aspettando il nostro primo bambino, non so se quando riceverai questa lettera lui sarà già nato, ma in ogni caso ti chiedo di darle una mano se le dovesse servire qualcosa, sarà mia premura poi contraccambiare questo grande favore che mi fai.
Mia madre…"


Spari. Grida. Tumulto.
Philip non riuscì a terminare la lettera, l'improvvisa confusione che percepì fuori dalla sua tenda glielo impediva.
Si alzò e corse fuori per capire che cosa stesse accadendo.

Panico. Urla.
Decine e decine di giubbe rosse che correvano alla rinfusa.
"Sergente! Sergente!"
Era il Caporale Fulltram, lo riconobbe dai capelli rossi.
"Che sta succedendo?" Urlò sopra il trambusto. Aveva bisogno di informazioni, di capire che cosa diavolo stesse succedendo.
"Gli Zulu! Ci stanno attaccando," rispose l'altro. "Pulleine ha dato l'ordine di rispondere al fuoco, il Maggiore la sta cercando!"

Bestemmiando, Philip tornò all'interno della tenda, prese l'elmetto e la rivoltella, poi tornò nel caos dell'accampamento. Trovò il Maggiore della sua compagnia già intento a disporre gli uomini per la battaglia.
"Disponetevi su due file, le squadre ben distanziate, caricate i vostri fucili e fate vedere a quelli indigeni perché il nostro esercito è il migliore del mondo," sbraitò, indicando con la sciabola un polverone che lentamente si stava avvicinando alla loro posizione.

Philip obbedì e immediatamente si sistemò accanto alla squadra che comandava, occhieggiando preoccupato le altre compagnie del battaglione che prendevano posizione accanto alla loro, formando un semicerchio in protezione dell'accampamento.
Erano troppo pochi e non avevano nessun tipo di protezione per fermare i nemici.
La sera precedente in diversi avevano chiesto di fortificare il campo ma gli ufficiali si erano rifiutati: era un accampamento provvisorio, non avevo alcuna intenzione di combattere gli Zulu in quella zona.

I rinforzi e la colonna principale dell'esercito si trovavano da tutt'altra parte, le premesse non erano certo delle migliori.
Ma erano pur sempre inglesi, doveva cercare di infondere coraggio nei suoi uomini in qualche modo, non rimanere fermo come uno stoccafisso.
"Saranno armati di lancia e scudo, appena si prenderanno qualche fucilata se la faranno addosso e andranno via, vedrete che sarà così," esclamò ai suoi uomini.
Mentiva, sapeva che gli Zulu non si arrendevano tanto facilmente ma doveva pur dire qualcosa e i discorsi motivazionali non erano il suo forte.
Nonostante la loro situazione fosse difficile però non provava paura: la sua mente era completamente concentrata sul presente, sulla loro posizione, non c'era spazio per pensare al futuro.
A Margaret.
Alla sua vita.

Il polverone si avvicinò ulteriormente e gli inglesi poterono finalmente intravedere i loro nemici.
Erano praticamente nudi, armati di lancia e scudo, ma erano tantissimi, un'enormità, paragonati a loro.
"Non sprecate munizioni. Prendete la mira su un bersaglio e non mollatelo, vedrete che ne usciremo vivi, ragazzi, ci vuole ben altro per batterci," esclamò Fulltram.

La terra iniziò a vibrare, udirono le urla selvagge degli Zulu.
"Usuthu!"
Il loro grido di battaglia.
Poteva scorgere i volti di quelli in prima fila e non vedeva alcun tipo di paura.

"Caricate!"
Urlò il Maggiore, facendo roteare la sciabola. Philip ripeté e tutti caricarono il loro fidato fucile Martini - Henry.
"Puntate!"
Non ci fu bisogno di ripetere il messaggio, più di millecinquecento fucili erano già diretti verso i loro bersagli.
Il terreno continuò a vibrare, sembrava quasi un terremoto. Il polverone ormai si era alzato, potevano chiaramente distinguere i loro avversari mortali.
Si trovavano ormai vicini, a 500 metri.
"Tenete il calcio del fucile contro la spalla, diminuirà il rinculo," suggerì Philip ai suoi uomini che prontamente obbedirono.
Non c'erano altre istruzioni possibili da impartire, sentì il cuore battere praticamente vicino al pomo d'Adamo.
Estrasse la rivoltella ma non la puntò: era fin troppo lontano.

"Fuoco!"
Sbraitò il Maggiore.
"Fuoco!"
Urlò Philip.

Il fracasso provocato dagli spari risuonò per la vallata mentre numerosi Zulu nelle prime file caddero per terra, morti. Ma, contrariamente alle speranze degli inglesi, questo non bastò a spaventarli, anzi, i loro nemici corsero ancora più velocemente e rabbiosamente verso di loro.

"Fuoco a volontà!"
"Fuoco a volontà!"
I soldati obbedirono, altre decine di Zulu caddero per terra, ma ancora questo non bastava a rallentarli o impaurirli. Ogni volta che uno di loro veniva colpito, infatti, subito un altro riempiva il vuoto lasciato dal compagno.
Con il cuore in gola, Philip iniziò a comprendere come il loro destino fosse segnato.

"Formate il quadrato!"
A urlare questa volta non fu il Maggiore, ma direttamente Pulleine, giunto in prima linea.
Una decisione saggia, quando si era in difficoltà come in quel caso, ma ormai era troppo tardi: le varie compagnie iniziarono a muoversi, cercando al contempo di sparare, per creare una formazione difensiva ma già gli Zulu gli erano addosso.
La manovra fallì e ben presto le varie squadre si ritrovarono isolate, fuori posizione; soverchiate e circondate dall'avanzata nemica.
"Al diavolo, tornate all'accampamento. Ritirata, tornate all'accampamento!" Urlò Philip, ma già diverse decine di Zulu stavano attaccando la sua posizione.

Sparò e colpì un nemico sulla fronte.
"Baionette in canna, ritiratevi ma rimanete uniti!"
Ma in quella battaglia era impossibile e ben presto la squadra di Philip si disunì.
Il sergente sparò più volte con la rivoltella, colpendo tre Zulu, cercando di proteggere i suoi compagni dalla ferocia nemica, ma alla fine i proiettili terminarono e con sommo orrore assistette al macello dei suoi uomini.
Milligan, Torpe, Fulltram e tanti altri caddero trafitti dalle lance nemiche così come il Maggiore, il quale perì, ucciso da tre Zulu.

La battaglia si trasformò in una mischia, giubbe rosse e corpi neri si unirono in un feroce e drammatico tutt'uno.
Philip fu sul punto di mollare ma alla fine l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio, il sergente riuscì ad afferrare un fucile caduto per terra, sparò alla cieca e corse via, schivando colpi di lancia, spari e corpi che cadevano per terra, morti o feriti.
Gli urli degli Zulu aumentarono di volume: erano riusciti a ricacciare indietro gli inglesi e attaccare le prime tende dell'accampamento, ormai privo di difese.
Dopo una breve e folle corsa Philip riuscì a ripararsi dietro a un carro di munizioni; Pulleine era lì dietro, insieme ad altri ufficiali.

"Che cosa dobbiamo fare? La mia compagnia è stata letteralmente spazzata via," urlò, piegato in due dalla fatica. Non riuscì a nascondere la rabbia perché per giorni quell'uomo e i suoi sottoposti avevano ridicolizzato la potenza degli avversari e invece eccoli lì, sconfitti e tremanti.
Ma il suo comandante sembrava spaesato, incapace di reagire.
"Durnford è caduto, l'ala destra compromessa," aggiunse un tenente, “ci stanno accerchiando!”
"Gli uomini si ritirano, ci sono già addosso!"
"Melville! Coghill!" Urlò Pulleine, in risposta, e due ufficiali prontamente si avvicinarono.
"Prendete la bandiera del reggimento e portatela in salvo," ordinò. “Ormai possiamo solo salvare il nostro onore.”
Nient'altro. Nessuna soluzione, qualche idea dell'ultimo momento per salvarli.
Era finita.

Pulleine volse loro le spalle e lentamente si diresse verso la sua tenda mentre ormai gli Zulu erano a pochi passi da loro.

Margaret.
Il loro bambino.
Luigi Eugenio.
La guerra.

Tutto finito.

Si rialzò e vide una colonna di Zulu attaccare i cuochi indifesi.
Se doveva morire, se quella era la sua fine… meglio morire in quel modo.
Non avrebbe fatto la figura del codardo, scappato di fronte a lancia e scudo. Caricò un ultima volta la fidata rivoltella, respirando l'aria carica di sangue, sudore e sabbia.
"Carica!" Urlò, correndo verso il nemico, copiose lacrime che cadevano dalle guance.

/ / / / / / /



Nella battaglia di Isandlwana più di 1300 inglesi e 1000 Zulu persero la vita. Questa dura sconfitta riuscì a rinvigorire il regno Zulu e a bloccare momentaneamente i piani di aggressione dei Britannici.

/ / / / / / /



Capitolo un po' particolare perché a questo punto penso fosse giusto introdurre la guerra tra Inglesi e Zulu che accompagnerà gli ultimi capitoli di questa storia. Il sergente Philip è un personaggio di invenzione ma per il resto la battaglia e la sua ricostruzione sono quanto più possibilmente reali.
Spero vi sia piaciuta, vedremo come questa morte e questa sconfitta inglese impatterà il principe Luigi Eugenio.

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Capitolo 9
*** Un Posto del Mondo ***


Capitolo 9,Un Posto nel Mondo

 



"Lorsqu'on appartient à une race de soldat ce n'est que par le fer qu'on se fait connaître*”
Luigi Eugenio.

 

L'abitazione era piccola eppure decorata e ammobiliata in maniera elegante e sobria, così come si addiceva a un sottufficiale dell'esercito di sua maestà.
Margaret sedeva composta sul divano del salotto, una piccola creaturina attaccata al seno. Composta, ecco, Luigi Eugenio non sarebbe riuscito a trovare un altro aggettivo per descrivere quella donna e il suo dolore.
Non aveva pianto una volta da quando era entrato a farle visita, non perché non le importasse della sorte infausta del marito, semplicemente il principe aveva capito che il dolore che Margaret stava provando, in quel momento, andava al di là delle lacrime. La poteva comprendere benissimo perché, seppur in tono minore, anche il suo dolore per la perdita di Philip lo aveva annichilito per diverse ore.
Quando un uomo va in guerra, seppur contro una nazione sulla carta di potenza inferiore, ogni donna deve accettare che c'è una certa percentuale di possibilità che il marito non torni a casa.
Un pensiero già difficile in teoria, in pratica impossibile: nella realtà nessuno si aspetta di salutare il marito e di non vederlo mai più tornare.
E in quel caso nemmeno di poter piangere sul suo cadavere perché tutti i soldati morti nella guerra contro gli Zulu erano stati semplicemente seppelliti là, in Africa, tranne gli ufficiali: quelli che erano nelle condizioni migliori erano stati fatti rimpatriare.
Ma non c’era stato posto per Philip e la sua squadra.

Luigi si rigirò il cappello tra le mani. Ormai si trovava in quella abitazione da un quarto d'ora e a parte le condoglianze non era riuscito a esprimere un granché.
"Margaret, io…" si impappinò.
Che cosa poteva dire a una donna appena diventata vedova e madre?
"Conoscevo vostro marito, sono sicuro che sia morto con onore e in fondo… per un soldato morire in battaglia penso possa essere considerata come una morte onorevole. Insomma, credo che…"
Ma cosa stava dicendo?
La donna lo osservò con sguardo vitreo: era ovvio che non lo stesse a sentire e che ogni sua parola non potesse tirarla su di morale.

La sua visita non aveva più alcun senso quindi si alzò, strinse le mani alla vedova e sussurrò: "per qualsiasi cosa non esitate a scrivere a Camden House. Volevo davvero bene a vostro marito."
Nessuna reazione accolse quelle parole.
Luigi si affrettò quindi a uscire dalla casa, salì su una carrozza che lo stava aspettando, e si diresse il più velocemente possibile lontano da quel bozzolo di dolore.

/ / / / / / /



I giorni successivi si rivelarono particolarmente strani per il principe. Divenne irrequieto, Camden House una gabbia contro la quale sbatteva a ripetizione, le tediose chiacchiere politiche un'inutile perdita di tempo, il cervello e la mente in preda a mille idee diverse e a loro contrarie.
E quel che era peggio, non riusciva a confidarsi con nessuno.
Sua madre e i collaboratori che lo seguivano lo avrebbero considerato ancora una volta uno stupido viziato e perciò fu solo con una visita di Beatrice che riuscì a esprimere ciò che lo turbava da giorni.

I due decisero di occupare uno dei salottini che dava sul prato dietro la residenza, una delle stanze che offriva la maggiore privacy perché la più lontana, in linea d'aria, dalle stanze di sua madre e degli altri collaboratori.
Beatrice osservò a lungo il principe e non appena vennero serviti tè e pasticcini e rimasero da soli, non poté rimanere oltre in silenzio.
"Si può sapere cosa c'è? Sembri agitato, come se qualcosa ti rodesse dentro."
Luigi Eugenio sorrise, suo malgrado. Quei due ormai si conoscevano talmente bene che non c'era bisogno di parlare per esprimere i loro stati d'animo più nascosti e remoti.

Bevve un sorso di tè scuro e poi, finalmente, parlò.
"Ci ho pensato a lungo e ho un'idea che non mi passa più dalla testa e la quale, ormai da giorni, mi impedisce di svolgere anche la più stupida e semplice attività."
"E sarebbe?"
Il principe rimase in silenzio per alcuni secondi, assaporando l'aria carica di attesa.
"Voglio andare in Africa e unirmi alla guerra contro gli Zulu."

Beatrice l'osservò per qualche istante, l'espressione basita.
"L'esercito inglese si sta già organizzando e sta per mandare una seconda ondata di soldati per vendicare la sconfitta subita a gennaio. Per via traverse, sono riuscito a sapere che la mia vecchia compagnia verrà mandata in Africa perciò gli ho scritto, chiedendogli di potermi aggregare a loro e sarebbero felicissimi di farlo," spiegò il ragazzo. "Mi hanno risposto proprio stamattina. I tempi sono stretti… ma la cosa è fattibile."
"Ma… perché?" Chiese Beatrice, ancora stupita. "Perché vuoi combattere una guerra che non è nemmeno la tua?
L'altro rispose, pronto, si era aspettato quella domanda e sapeva bene cosa dire perché aveva scandagliato la sua anima per giorni e giorni.
"Potrei dirti che voglio vendicare il mio amico, e quella in effetti è stata una delle molle che mi ha spinto a pensare di partire, ma in realtà è da mesi che voglio andarmene via di qui. Non che stia male in Inghilterra, anzi, ma mi sembra di star sprecando il mio tempo. Noi Bonaparte siamo riusciti a dimostrare il nostro valore solo con la guerra, non con la mera politica," rispose, sorseggiando il tè. "Mi sento ancora un ragazzino, benché sia capo dei Bonapartisti. Ci ho pensato a lungo e alla fine mi sono convinto che la situazione è così perché non ho ancora dimostrato il mio valore in battaglia."

"Perdonami, ma è una motivazione che non riesco proprio a comprendere," sussurrò Beatrice.
"Non puoi, solo mio padre poteva farlo perché anche lui, da esiliato, riuscì a risalire al potere e solo grazie alle guerre che intraprese poté sentirsi davvero un uomo forte e un imperatore a tutti gli effetti," spiegò Eugenio.
"Ecco perché mi annoio, ecco il motivo della mia ricerca costante di distrazioni e di viaggi. Devo mostrare il mio valore e se non posso farlo con la Francia… allora forse lo potrò fare per l'Inghilterra.
E se non posso mostrare il mio valore con la politica allora ci riuscirò con la guerra."

Beatrice prese le sue mani e le strinse, lucide lacrime apparivano agli angoli degli occhi.
"Ti capisco, sei sconvolto dalla morte del tuo amico e allora credi che sia necessaria la guerra ma non lo è, hai già dimostrato il tuo valore, lo fai ogni giorno portando avanti la tua lotta in Francia!"
"Ma, cara Beatrice, sono tutto tranne che sconvolto, anzi, non sono mai stato più lucido in vita mia!” Esclamò l’altro. “Sono convinto che se andassi in Africa e dimostrassi il mio valore poi potrei tornare qui e finalmente prendere in mano la mia vita, il mio futuro. Non posso ancora farlo ma perché mi sento ancora un ragazzino sbarbato e imbelle e solo una guerra può estirpare questa sensazione che mi perseguita!”

Si alzò in piedi, avvicinandosi alla finestra.
"Quando si appartiene a una stirpe di soldati è solo con il ferro che ci si può far conoscere."*
Beatrice scosse la testa, ancora sconvolta.
"Tua madre non sarà affatto d'accordo con questa decisione, scommetto che non gliel'avrai ancora detto."
"Già, ma accetterà il mio volere."
La ragazza sorrise, amara.
"Tu ancora non la conosci…"
"Non ti preoccupare. Se vuoi aiutarmi, te ne sarei grato, introduci l'argomento a tua madre. Alla mia ci penserò io."

/ / / / / / /



Furono parole molto coraggiose ma distanti dalla realtà. Il principe conosceva la madre e sapeva che non l'avrebbe presa affatto bene.

Quella sera non mangiò quasi nulla, lo stomaco contratto dall'ansia per la conversazione che avrebbe dovuto affrontare.
Ecco, come poteva pensare di diventare Imperatore quando aveva ancora timore della propria madre?

Eugenia, d'altrocanto, s'accorse immediatamente che qualcosa non andava, del resto suo figlio era una buona forchetta, ma attese il termine della cena per rivolgergli la parola.
"C'è qualcosa che ti turba?"
Luigi alzò il capo dal bicchiere di vino rosso ancora a metà. Aveva senso mentire a quella donna?
"Sì. In realtà ho un proposito in mente ma so che a voi non piacerà," rispose, osservando la madre.
"Di cosa si tratta? Forse, dopo che avrai espresso questo proposito, la mia reazione sarà diversa da quella che credi," osservò la donna, curiosa.
Luigi sorrise, scuotendo la testa.
"Non credo… ma tanto non ha senso fingere. Voglio andare in Africa a combattere gli Zulu," disse, quasi senza prendere fiato.

Si era aspettato una reazione fragorosa da parte della madre, urla, strepiti, ma quella rimase in silenzio, una singola ruga tra gli occhi a far capire come quella rivelazione la turbasse.
Raccogliendo il coraggio a due mani, il principe continuò, parlando velocemente, le parole che incespicavano.
"In realtà, questo pensiero mi passa per la mente da mesi. Noi Bonaparte siamo una razza di guerrieri, non di semplici politicanti, desideravo da tempo una guerra per mettermi alla prova e per dimostrare il mio coraggio, il valore della mia stirpe. E questa, forse, può essere l'occasione giusta."
Prese fiato e continuò.
"Non nego che la morte del mio amico abbia aggiunto un certo peso ma sarei voluto partire comunque, anche senza la perdita di Philip."
Cos'altro poteva aggiungere?

La donna rimase in silenzio per qualche altro istante, poi si riscosse.
"Sono lieta del fatto che il tuo giudizio sia migliorato. In effetti hai ragione, non sono per niente d'accordo con quello che hai appena detto."
"Lo sapevo, infatti…"
"Ancora una volta, però, ti dimostri molto egoista, Luigi," la donna lo interruppe, "per l'ennesima volta pensi prima alle tue esigenze e poi a quella delle centinaia, migliaia di persone che credono nella nostra causa."
Erano parole dure, proprio quelle che si aspettava di ricevere.
Ma non avrebbe mollato, quello non era il capriccio di un ragazzino viziato e sua madre avrebbe dovuto capirlo e accettarlo.
"Già il fatto che tu abbandoni l'Inghilterra per andartene in Africa metterà in discussione il nostro movimento ma pensa se dovesse succederti qualcosa! Spezzeresti il cuore a tua madre ed a un'intera Nazione."
"Adesso siete terribilmente melodrammatica," sbottò Luigi.
"No, sono terribilmente realista. Che cosa penseranno i nostri oppositori, vedendoti partire? Che a te non importa nulla della Francia. E non saranno i soli a pensarlo, tanti dietro le tue spalle ti criticheranno aspramente e ferocemente per questo viaggio, per la partecipazione di una guerra che non ti appartiene minimamente."

"Madre, so che siete arrabbiata, ma dovete capire che il mio non è un cruccio ma un tormento che mi assilla tanto e adesso ho scoperto la causa di questo tormento," Luigi Eugenio disse, dopo qualche secondo di silenzio nei quali madre e figlio si occhieggiarono senza dire nulla.
"Per noi Bonaparte è attraverso il ferro che è arrivata la gloria e l'onore e io non posso essere da meno. Certo, in tanti mi criticheranno perché andrò in Africa, invece di rimanere qui a pensare alla Francia e alla politica, ma quando tornerò vincitore, ricoperto di onore, quando avrò mostrato a tutti che non sono un semplice ragazzino ma un uomo, allora le cose cambieranno e tutti mi guarderanno con rispetto e non con semplice condiscendenza!"
"Sembra di sentire parlare tuo padre. Ma non pensi a quello che proverò io, sapendoti a migliaia di chilometri di distanza, aspettando qualche notizia?" Chiese la donna. "Ci sono già passata molte volte con tuo padre e anche con te, durante la guerra Franco-Prussiana. Ma allora eri vicino, seppure nell'occhio della battaglia potevo sapere tutto entro pochi giorni… ma se tu vai in Africa io rimarrò qui, sorda e cieca."

Il principe si alzò in piedi e si avvicinò velocemente alla madre, mettendosi in ginocchio al suo fianco.
Prese le mani della donna tra le sue e sussurrò: "so che questo pensiero vi dilania ma il fatto di non poter fare niente divora anche me. Ho chiesto a Beatrice di parlare con la regina Vittoria, il mio vecchio reggimento mi accoglierebbe a braccia aperte. Sapete, in cuor vostro, che mio padre mi avrebbe dato ragione."
Eugenia accarezzò il volto del figlio poi, a sua volta, si alzò in piedi.
"Sì, lui avrebbe capito questa tua richiesta."
Aveva caricato in maniera forte e precisa il ‘lui’: era chiaro che lei non fosse dello stesso avviso ma non disse altro. Volse le spalle a Luigi e uscì dalla sala da pranzo senza aggiungere altro.

Il principe si alzò sbuffando e si rimise a sedere, terminando di bere il vino rosso.

Conosceva sua madre, ci sarebbe voluto del tempo per farle digerire quella sua scelta ma alla fine l'avrebbe accettata, la scelta di nominare Napoleone III si era rivelata vincente perché era chiaro che la donna non potesse contraddire il figlio. Non su quell’argomento, perlomeno.
Adesso rimaneva da convincere solo la regina Vittoria, ma contava sull'ascendente che Beatrice aveva sulla donna.
E poi l'Africa, il viaggio, la guerra e l'onore.

/ / / / / / /



Qui finalmente sono riuscito a recuperare un po' di informazioni frastagliate.
Sappiamo che Luigi voleva andare in Africa per mostrare il suo valore e che la madre all'inizio era contrario a questa scelta. Ho fatto 1 + 1 e spero che in questo capitolo le motivazioni del principe e quelle della madre siano chiare e soprattutto valide.
Si avvicina terribilmente la parte finale, da una parte non vedo l'ora di affrontarla dall'altra mi dispiace davvero tanto perché mi sto affezionando sempre più a questa storia e al povero principe.
Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Addii ***


Capitolo 10, Addii

 



"Quand j'aurai fait voir que je sais exposer ma vie pour un pays qui n'est pas le mien, on ne doutera plus que je sache la risquer mieux encore pour ma patrie* ”
Luigi Eugenio.

 

Le valigie erano appoggiate sul tavolo. Nonostante il principe avesse cercato di imporre una certa sobrietà nei preparativi per la partenza, inevitabilmente sua madre e i vari collaboratori avevano deciso di dotarlo di numerosi abiti e accessori che, sospettava, non avrebbe avuto modo di usare.
Sarebbe bastata solamente la sua fidata rivoltella e l'uniforme, per viaggiare in Africa, ma ovviamente nessuno gli aveva dato ascolto. Era un principe, non un soldato qualsiasi.
Anche se dubitava di poter partecipare a cene di gala durante la guerra.

Luigi Eugenio non aveva avuto il cuore di imporsi su quell'argomento, anche perché sapeva già di aver tirato molto la corda. Non era stato facile convincere la regina Vittoria, la quale forse, in fondo, da una parte temeva il ritorno di un impero in Francia, dall'altra guardava con sospetto la Repubblica, ma convincere Eugenia si era rivelato quasi impossibile.
C'erano volute molte altre discussioni per far capitolare la donna, la quale alla fine esercitò la sua influenza sulla sovrana inglese per convincerla a dare l'autorizzazione al figlio per partire con il suo reggimento.
Era stato necessario più tempo del previsto e aveva dovuto accettare la promessa di non partecipare a nessuno scontro in prima linea, ma comunque la cosa più importante era che sarebbe partito alla volta dell'Africa.

La porta della camera si aprì di scatto ed entrarono un paio di domestici, i quali presero le pesanti valigie e le portarono fuori.
Approfittando della porta aperta, nella stanza entrò Debois.
"La carrozza è ormai quasi pronta, principe, i preparativi sono ultimati," disse, nel suo solito tono pedante.
Luigi annuì, si avvicinò alla sua scrivania e chiuse un cassetto, poi consegnò la chiave al suo assistente.
"Dentro a quel cassetto ci sono dei documenti che devono essere aperti solo nel caso mi dovesse succedere… qualcosa, in Africa," spiegò il principe.
"Parlare di queste cose prima che lei si metta in viaggio porta male…" lo ammonì Debois.
"Lo so, però sono abituato a prepararmi ad ogni evenienza," spiegò il ragazzo.
"Posso sapere di quali documenti si tratta?" Chiese l'assistente, infilando la chiave in una tasca della giacca.
"Principalmente il mio testamento," rispose Luigi, dissimulando una tranquillità che invece non possedeva, affrontando quell'argomento. "So che a molti di voi sembrerò solo un ragazzino sciocco ma sono abbastanza intelligente da sapere che se mi dovesse succedere qualcosa, senza che io lasci un testamento dietro, i miei sostenitori si azzannerebbero alla gola a vicenda."

Debois rimase in silenzio, un piccolo cenno della testa a fare intendere che aveva compreso le parole del principe. Fece per voltarsi quando Luigi lo chiamò per un'ultima volta.
"Siete il mio assistente, perciò assistetemi e vegliate su mia madre, durante la mia assenza," sussurrò il ragazzo. "So che tenete molto a lei, che siete i suoi occhi e orecchie. Aiutatela e consolarla come meglio potete. E mi auguro che il vostro meglio sia abbastanza."
L'uomo annuì, non negò nemmeno le velate accuse del principe. Era inutile, lo sapeva bene.
"Sarà fatto, principe."
"Bene, potete andare,” lo congedò Luigi.

Debois lasciò la stanza ma il principe rimase ben poco tempo da solo perché, dall'uscio della porta aperta, comparve Beatrice.
La ragazza avanzò fino a raggiungere Luigi il quale le prese le mani; erano fredde.
"Beatrice, che piacevole sorpresa. Non pensavo che sareste venuta," esclamò il ragazzo.
"Non potevo mancare," rispose la nuova venuta. "Vi porgo gli omaggi di mia madre e dei miei fratelli e vi augurano tutti un buon viaggio, ringraziandovi per la lealtà dimostrata."
"No, sono io che vi devo ringraziare, siete stata una preziosa alleata e amica. Non lo dimenticherò," esclamò Luigi Eugenio ma a quelle parole la ragazza sbiancò.

"Non sono sicura di aver preso la decisione giusta, se vi dovesse succedere qualcosa io…"
"Ma non mi succederà niente, da questo viaggio non potrò che imparare e crescere come uomo, " disse il principe, interrompendo il flusso di parole di Beatrice, "e quando tornerò il mio futuro e la strada che dovrò percorrere mi saranno ben più chiari."
"Vi prego, non parliamo oltre di questo argomento perché mi riempie il cuore di ansia e paura,"sussurrò la ragazza.

Era evidente come quell'argomento la mettesse a disagio perciò il principe accettò quella proposta e i due parlarono ancora per qualche minuto, evitando accuratamente l'argomento Africa e guerra.
Furono minuti preziosi per i due giovani ma di breve durata perché dopo poco un’assistente della principessa la richiamò al suo dovere: aveva altri impegni urgenti nella giornata e non poteva trattenersi oltre.

Alla fine, quando la ragazza lasciò Camden House, con la promessa di tenersi in contatto tramite lettera, varie sensazioni albergavano nel principe.
Si sentiva strano, vedendola andar via sulla sua carrozza rossa.
Forse Eugenia e la regina Vittoria avevano ragione, forse Beatrice era la donna giusta per lui.

Dopotutto era simpatica, dolce eppure non stucchevole, come molte dame del suo stato sociale che il principe aveva avuto occasione di conoscere.
Si frequentavano da anni e ormai erano affiatati come una vecchia coppia però… però non era Fiammetta.
Osservando Beatrice, passando del tempo con lei, non provava dentro di sé quell'agonia che aveva sperimentato in Italia.
Allora sarebbe morto pur di passare un'altra notte nella camera di Fiammetta, anche se ormai il tempo e la lontananza avevano affievolito quel sentimento; provava qualcosa per Beatrice ma non sapeva, non riusciva a comprendere, se fosse amicizia, tenerezza o amore.
Dopotutto, non riusciva ancora a comprendere se i sentimenti che aveva provato per Fiammetta fossero semplicemente carnali o ci fosse qualcos'altro dietro.

Forse, anche in quel caso, la lontananza e il tempo avrebbero schiarito la mente del principe su quella materia terribilmente difficile e instabile.
L'amore.

/ / / / / / /



Quando Luigi Eugenio scese al piano di sotto, la mattina era ormai inoltrata.
Vide la carrozza pronta, fuori dalla porta, e tutti i domestici tirati a lucido per salutarlo.
Non notò però la madre e ne indovinò la ragione: anche se aveva dato il suo assenso alla regina Vittoria, in cuor suo ancora non comprendeva il gesto del figlio.
Si era stancato di dover dare giustificazioni ma non poteva partire sapendo che la madre era in collera con lui, perciò il principe fece dietrofront e si diresse, a passo spedito, verso il salotto privato di sua madre, certo che l'avrebbe trovata là.

Non si sbagliò: l'imperatrice Eugenia era seduta su una delle sue poltrone preferite, il capo chino e un rosario tra le mani.
"Madre, avete davvero intenzione di congedarmi in questo modo?"
Chiese il ragazzo, entrando nella stanza.
La donna si riscosse, alzando la testa e, vedendo il figlio, nascose immediatamente il rosario in una piega del vestito.

"Luigi, non ho intenzione di discutere prima della tua partenza…"
"Neanche io, madre. È solo che non capisco il vostro comportamento: avete infine appoggiato il mio progetto e proprio adesso che sto per partire vi rifiutate di parlarmi," rispose il ragazzo.
"Non ho mai appoggiato il tuo progetto," lo interruppe la donna. "Solo che, dopo infinite insistenze da parte tua, ho capito quanto sia importante il viaggio in Africa e ti ho sostenuto, con la regina Vittoria. Ma fosse dipeso esclusivamente da me…"
"Esatto, questo viaggio in Africa è terribilmente importante per me e io vi ringrazio per il sostegno. Ho promesso che non parteciperò a combattimenti in prima linea, che non farò mosse azzardate e che avrò sempre degli uomini con me," esclamò Luigi. "Sarò al sicuro, vedrete!"
"In una guerra non si è mai al sicuro. Possono succedere mille cose: malattie, ribellioni, attentati," replicò Eugenia.
"Non siete mai stata in una guerra, chi vi ha detto questo? Rouher?" Chiese il principe, aggrottando le sopracciglia.
La donna rimase in silenzio ma non c'era alcun bisogno che confermasse.

"E voi vi fidate più del parere di quell'uomo che di vostro figlio?"
"Non si tratta di questo," esclamò l'Imperatrice, sull'orlo delle lacrime." Io mi fido di te, figlio mio, ma una guerra è pur sempre una guerra e la tua vita sarà comunque a rischio… per di più per una nazione straniera!"
Nonostante fosse in collera con la madre per la sua evidente mancanza di fiducia, vedendola ridotta in quel modo Luigi Eugenio non poté non avvicinarsi e abbracciare la donna.
I due rimasero per qualche secondo in silenzio, abbracciati stretti; non c'era bisogno di parole inutili.
Luigi mise in quell'abbraccio tutto l'amore che provava per la madre e la donna tutta la sua pena e ansia per le sorti dell'unico figlio così adorato.

Finalmente Luigi indietreggiò e sussurrò: "lo so che in tanti dubitano di questa mia scelta, madre, ma sono convinto che quando avrò dimostrato di saper rischiare la vita per un paese che non è il mio, allora non ci saranno più dubbi che saprò rischiare tutto per il mio Paese.*"
Eugenia non seppe come reagire a quelle parole ma l'ingresso di Marc Lefleur, il quale comunicava come l'ora fosse ormai giunta per la partenza del principe, le tolse quell'imbarazzo.
Si chinò e baciò il figlio sulla fronte.
"Sii prudente e inviami più lettere possibili."
"Lo sarò e lo farò, madre."

Il principe si alzò e seguì Marc fuori dalla stanza.
Vide tutti i domestici, pronti per salutarlo, e strinse brevemente le mani di ogni singolo membro di Camden House.
"Durante la mia assenza vi do un singolo scopo: vegliate su questa casa e su mia madre come meglio potete," disse, scrutando attentamente tutte le facce, in particolar modo Debois.
"Sarà fatto, altezza," sussurrò Louis Demivalle, il capo dei domestici, con un piccolo inchino deferente.

Soddisfatto, Luigi uscì all'aria aperta, godendosi brevemente il sole che stava rischiarando quella mattina fino ad allora grigia e nuvolosa. Un presagio positivo?
Vide la carrozza pronta e, aiutato da Lefleur, montò dentro.
Prima di chiudere la porta però rimase per qualche secondo ad osservare Camden House, come faceva ogni volta che era di partenza per qualche lungo viaggio.

La sua partecipazione alla guerra contro gli Zulu sarebbe servita a fargli capire se era pronto a diventare un uomo a tutti gli effetti, a sposare oppure no Beatrice e forse anche a capire se poteva considerare l'Inghilterra come una seconda casa.
Vide i domestici intenti a salutarlo e intravide, da una finestra nel piano terra, la sagoma della madre.

"Altezza, dobbiamo partire," disse Marc e Luigi annuì, chiudendo la porta.
La carrozza iniziò a trotterellare lungo il viale diretta, a passo spedito, verso un futuro che appariva misterioso ma altrettanto affascinante.

Allora non poteva certo saperlo, ma quella fu l'ultima volta che gli occhi di Luigi Eugenio poterono osservare Camden House e i suoi occupanti.

/ / / / / / /



Siamo ormai in dirittura d'arrivo, non mancano più di tre o quattro capitoli più l'epilogo e si avvicina anche la parte più difficile da scrivere. Spero che questo capitolo di transizione, ma in qualche modo obbligatorio, vi sia piaciuto, appuntamento al prossimo con l'arrivo del principe in Africa!

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Capitolo 11
*** L'Ultimo Viaggio ***


Capitolo 11, L’Ultimo Viaggio



"Cara madre,
Non so quando questa lettera Vi arriverà, il servizio postale di sua maestà è all'avanguardia ma chiaramente tra Sudafrica e Camden House vi sono molte, forse troppe, miglia di distanza.
Ma comunque non importa entro quanti giorni questa mia sarà vostra, ci tengo a scrivere questa lettera un po' per confermarvi che la mia salute è buona, così come il mio morale, e un po', lo ammetto, per trascorrere il tempo altresì lento e noioso.

"La nave solca lenta, ma costante, la superficie piatta dell'Oceano Atlantico da ormai diversi giorni monotoni.
La parte migliore di tutto questo è il fatto che sono riuscito a riprendere in mano le tante conoscenze fatte ai tempi dell'Accademia. Loro, i miei vecchi compagni, sono diretti alla prima linea, io ovviamente no, per questo le nostre strade si divideranno ancora una volta, appena metteremo piede in Africa, ma non me ne cruccio. Questi giorni sono stati molto divertenti e sono sicuro ci rivedremo, una volta che la guerra contro gli Zulu sarà terminata.

"Non so quando ancora potrò scrivervi, nel frattempo vi mando il mio più grande abbraccio e vi prometto che il mio proposito è ancora più forte, man mano che i giorni che mi allontano da Inghilterra aumentano e quelli che mi separano dall'Africa diminuiscono.

“A presto,
Louis-Napoleon."


Luigi Eugenio osservò la lettera con attenzione, rileggendola più volte. Era stata la missiva più difficile che avesse mai dovuto scrivere, cosa che gli era costata diverse ore e numerosi fogli gettati nella piccola stufetta nella cabina.
Infine, apparentemente soddisfatto, mise il foglio da parte.
Osservò l'orologio (era mezzogiorno in punto) si alzò e camminò per qualche minuto nella stanza per sgranchirsi le giunture e schiarirsi le idee.

Oltre la porta poteva sentire la cornamusa del Tenente MacGuaire, la tirava fuori ogni volta che aveva nostalgia di casa, e la voce squillante del capitano Barreage, sicuramente intento a raccontare qualche barzelletta sconcia alla truppa.

Non aveva mentito nella lettera che aveva intenzione di spedire a sua madre: nonostante fosse un principe di sangue reale, si trovava bene in mezzo a quella compagnia variegata.
Peccato che loro fossero diretti in prima linea e a lui quell'onore fosse stato precluso direttamente da Vittoria. E da sua madre.
Poco male, pensò, mettendosi nuovamente a sedere e afferrando un foglio di carta ancora vergine, avrebbe trovato un modo per farsi notare lo stesso.

"Cara Beatrice,
Ti scrivo questa lettera quando mancano più o meno tre giorni al mio arrivo in Africa.
Ovviamente, quando avrai questo foglio di carta tra le mani sarò già in mezzo all'azione, o perlomeno spero, ma sappi che questa traversata si sta rivelando particolarmente interessante.
In questa nave non sono un principe, un erede al trono, sono soltanto un semplice sottotenente. Sì, lo so, quando sarò sbarcato molto probabilmente torneranno a chiamarmi 'principe' o 'altezza' ma qui non conta, in mezzo ai miei ex commilitoni sono solamente Luigi… o Eugenio, come più gli aggrada.

"Se non avessi sulle mie spalle la causa Imperiale penso che forse mollerei tutto e mi unirei in pianta stabile all'esercito… ma, tranquilla, so che non è possibile. Troppe cose dipendono da me e già il fatto che sia partito alla volta del Sudafrica rappresenta un qualcosa che ha turbato molti francesi.
Figuriamoci farlo in pianta stabile.

"So che, cosa molto importante, in mezzo a questi uomini semplici finalmente la mia mente è più libera, meno oppressa dai pensieri che mi turbavano a Camden House.
Si sta facendo strada nella mia intima convinzione che qualunque cosa accadrà in Sudafrica non potrà che farmi del bene.

“Un caloroso ed affettuoso bacio,
Louis."


Questa lettera invece fu molto più facile da scrivere: con Beatrice non sentiva così asfissianti il peso delle aspettative e delle convenzioni sociali. Chissà, forse quel viaggio in Sudafrica avrebbe potuto giovare anche alla sua vita sentimentale…
Scosse la testa, divertito, e poi corse fuori dalla cabina per consegnare le lettere all'addetto postale.

/ / / / / / /



Durban apparve finalmente all'orizzonte e l'atmosfera a bordo della nave cambiò completamente nel giro di pochi istanti. Tutti i soldati corsero in coperta, osservando la costa bagnata dall'Oceano Indiano.
La loro destinazione dopo giorni di noia e disagio.

Immediatamente si udì un lungo fischio: era il segnale convenuto. A quel suono, infatti, tutti i soldati avrebbero dovuto correre in cabina, prendere il loro equipaggiamento e prepararsi a sbarcare in Sudafrica.
Il principe accolse quel segnale con un groppo in gola.
Si affrettò a correre alla cabina che gli era stata assegnata all'inizio del viaggio, la mente già andava lontano: finalmente era arrivato a destinazione, avrebbe potuto mostrare il suo onore a se stesso e a tutta la nazione.

In realtà i suoi bagagli erano già pronti da ore, ma approfittò di quei pochi minuti per indossare la giubba rossa, con i gradi di Sottotenente, in maniera quasi maniacale e osservarsi nel piccolo specchio presente sopra il letto scomodo.
Sì, tutto sommato faceva una buona impressione.

"Sei pronto?"
Era Henry Burke, uno dei suoi vecchi compagni di accademia. Era pronto? I suoi bagagli erano fatti, mancavano pochi minuti al suo arrivo in Sudafrica, ma dentro di sé…
"Sì."
Non trovò una risposta migliore e più rapida di quella.
Sì, nonostante l'incertezza della guerra lo preoccupasse, in realtà non aspettava altro che scendere quella passerella e darsi da fare.
Henry gli strinse brevemente la mano e si affrettò a salire in coperta.
Poco dopo, dopo un'ultima preghiera e un pensiero alla madre, a Beatrice e alla causa Imperiale, Luigi Eugenio lo seguì.

La confusione, gli ordini gridati al vento, sudore e imprecazioni che si mischiano. Scendendo a Durban, il principe non poté non pensare alla sua breve esperienza durante la guerra Franco-Prussiana. Alla riunione con il padre, l'ultima volta che lo vide Imperatore, quando l'uomo, ormai distrutto dalla malattia, ordinò che le loro strade si dividessero. Chissà che cosa sarebbe successo se avesse disobbedito e fosse rimasto a fianco di Napoleone III.

Scese la passerella, un po' in disparte, e con la coda dell'occhio vide numerose altre giubbe rosse scendere dalla nave e riordinarsi al più presto sulla banchina di quello squallido porto. La sua direzione era altrove: avrebbe dovuto, come prima cosa, conferire con il comandante delle operazioni in Sudafrica, lord Chelmsford.

Prima che potesse anche solo pensare alla sua prossima mossa, però, il suo naso venne letteralmente assalito da numerosi odori che mai aveva sentito prima di allora, le orecchie soffocate da urla e rumori assillanti.
Rimase per qualche istante in piedi, in fondo alla passerella, non sapendo bene dove andare ma per fortuna, dopo qualche secondo, si fece avanti un ragazzo che evidentemente era in attesa del Principe.
"Bonsoir, Prince. Volete seguirmi da lord Chelmsford?" Disse in un francese tutto sommato accettabile.
Luigi annuì e, grato, seguì il nuovo arrivato mentre fendeva la folla, diretto verso un'uscita secondaria del porto.

"Come avete fatto a riconoscermi?" Chiese, mentre velocemente si allontanavano dal caos della banchina.
"Sono mesi che riceviamo uomini e rifornimenti. Dopo un po' si riesce facilmente a riconoscere un principe dalla marmaglia, anche se graduata," rispose il ragazzo, mostrando un lasciapassare a una guardia.
Finalmente il caos e il rumore del porto arrivarono con meno intensità alle loro orecchie e Luigi vide il mezzo che, immaginava, lo avrebbe portato dal comandante in capo delle operazioni: una carrozza rossa con sopra il simbolo della Marina Inglese.

L'altro prese la borsa del Principe e la gettò, senza apparente sforzo, nel piccolo portabagagli presente dietro la carrozza, poi si affrettò ad aprire la porta.
"Sarà un viaggio breve ma Lord Chelmsford ci tiene affinché voi non viaggiate con la truppa." Se quello era il desiderio del comandante non vedeva perché non accettarlo, perciò Luigi annuì e quindi si accomodò nello stretto, ma comodo, sedile di dietro. Dopo circa un minuto erano già in viaggio verso il quartier generale.

/ / / / / / /



Ben presto Il principe poté notare il cambiamento repentino tra la zona del porto, con i suoi quartieri malfamati e affollati, e le zone più residenziali e borghesi. Lontano dall'aria inquinata e dai rumori acuti e penetranti, Durban, tutto sommato, non sembrava un brutto posto dove vivere.
Mentre la carrozza filava su una strada polverosa, Luigi Eugenio tirò fuori, da una delle tasche della giubba, una lettera di presentazione del Duca di Cambridge, un regalo personale prima della partenza.
Dubitava che ne avrebbe avuto bisogno, a quanto pareva, la sua fama lo precedeva.

Infine, dopo quello che parve un quarto d'ora, la carrozza entrò in un quartiere piuttosto antico di Durban e si fermò in quello che pareva un lungo vialone alberato. Il principe si affrettò ad uscire.
Si trovò di fronte a una villa piuttosto elegante che si affacciava direttamente sulla strada, all'apparenza antica e spartana. La sua guida scesa dalla carrozza e gli si avvicinò.
"Lord Chelmsford l'attende già nel suo ufficio, al primo piano," disse. "Andate pure, troverete il vostro bagaglio al piano terreno."
"Merci," sussurrò Luigi Eugenio, avviandosi con passo malfermo, un po' per l'emozione e un po' perché non camminava sulla terraferma da diversi giorni ormai.
Il giardino, perfettamente curato, era deserto ma, una volta entrato all'interno della villa, l'atmosfera cambiò improvvisamente: una moltitudine di soldati, assistenti e personale di servizio sciamavano, in un perfetto caos controllato, tra le varie stanze del quartier generale.

"Salve, altezza," un ragazzo di colore, in divisa bianca lo accolse. "Lord Chelmsford vi sta attendendo al primo piano nel suo ufficio. Terza porta a destra."
Il principe annuì e si affrettò a salire al piano superiore tramite una scalinata di marmo ormai sbeccata qua e là.
Era ovvio che la guerra che il personale di servizio stava portando avanti contro lo sporco, e la confusione, non stesse andando molto bene ma non se ne crucciò. Era in un quartier generale, non in una villa di qualche aristocratico campagnolo.

Il primo piano, per molti versi, non era molto diverso da quello inferiore: un grande corridoio con numerose porte aperte dalle quali diversi soldati, ufficiali e personale vario, sbucavano ogni pochi secondi.
Il principe notò come la terza porta a destra fosse una delle poche porte chiuse, evidentemente era la sua destinazione.
Si avviò quindi deciso, evitando un paio di soldati intenti a correre come forsennati, e bussò, attendendo una risposta, un invito a entrare.

"Entrate pure."
Luigi non esitò ad obbedire, abbassò la maniglia ed entrò nell'ufficio.
Se nell'intera villa a regnare era il caos, in quella stanza l'ordine faceva da sovrano.
Sulle pareti erano appese alcune mappe dettagliate del regno degli Zulu e della colonia del Sudafrica mentre il pavimento era interamente ricoperto da preziosi, e all'apparenza antichi, tappeti.
Lord Chelmsford sedeva, composto, dietro una grossa scrivania in legno pregiato, l'intera superficie lignea coperta da mappe, schemi e tabelle: tutto il necessario per la seconda fase della guerra.
Quella volta avrebbero fatto le cose per bene, non avrebbero sottovalutato l'avversario.

L'uomo si alzò, strinse brevemente la mano del principe e indicò l'unica sedia posizionata di fronte a lui.
Frederic Thesiger, lord Chelmsford, si mise stancamente a sedere, lisciandosi quasi automaticamente i folti baffi neri.
"Dovrete perdonare il fracasso e la confusione che, in questo momento, fanno da padrone nel mio quartiere generale ma i preparativi per un'invasione non sono mai semplici né tantomeno pacifici e ordinati," borbottò l'uomo.
Luigi Eugenio rimase in silenzio, scuotendo appena le spalle. Non sapeva bene cosa aspettarsi da quell'uomo sicuramente energico, desideroso di vendicarsi della sconfitta cocente subita nella prima fase della guerra.
Suo padre gli aveva insegnato che, quando non riusciva a capire la persona che aveva di fronte, la migliore strategia era quella di giocare di rimessa.

"Lord, vi porgo i saluti personali dell'imperatrice Vittoria. Ho anche una lettera di raccomandazione scritta di proprio pugno dal Duca di Cambridge," disse, infine, porgendo all'uomo la lettera.
Un inizio di conversazione perfettamente neutrale. Ora toccava all'altro.
Frederic lesse brevemente le parole scritte, nella grafia precisa del Duca, poi la richiuse e la consegnò nuovamente a Luigi Eugenio.
"Perché vi trovate qui?" Chiese, secco.
La domanda, posta in maniera così decisa, senza tanti fronzoli, sulle prime sorprese e spiazzò il giovane Principe.
"Insomma, sono qui per combattere, ovviamente."
"E perché volete combattere? Perché qui?"
L'uomo insistette.

Perché.
Cosa gliene importava del perché?
Era lì e tanto bastava, no? No, evidentemente quella spiegazione non era sufficiente all'uomo che rimase immobile, fissandolo, lisciandosi i baffi.
Che cosa doveva dire? La risposta vera e propria oppure una di comodo? Quanto poteva, o doveva, aprirsi con quell'uomo che non aveva mai conosciuto prima?
Optò per una via di mezzo: una risposta sincera ma decisamente più breve.

"Sono un Bonaparte. Negli ultimi anni ho sempre cercato un modo di distinguermi, di emergere dalla massa, ma solo recentemente mi sono reso conto che l'unica possibilità per me, per noi, è quella di farlo attraverso la guerra. Attraverso la guerra," rispose, "l'onore, e tutto quello che ne comporta, noi Bonaparte riusciamo a scolpire il nostro nome nella storia. Quando ho scoperto, da un mio amico purtroppo deceduto durante una battaglia, che tra Zulu e Inghilterra ci sarebbe stata guerra, non ho esitato a contattare l'imperatrice Vittoria."
"Se voi siete qui per darvi da fare, per combattere in nome di sua maestà, allora siete assolutamente ben accetto. Ma, una cosa che non so se avete imparato, è importante, nella guerra, sublimare se stessi per una ragione, una causa più grande," esclamò l'altro, "quindi se voi siete qui alla ricerca esclusiva di onore e gloria…"
"Non si tratta solo di questo. Ho intrapreso questo viaggio per scoprire chi sono davvero, scoprire cosa voglio e come posso ottenerlo," il principe lo interruppe. "Certo, non nego che l'onore e la gloria siano una parte dei motivi che mi hanno messo in viaggio, ma non sono qui esclusivamente per queste ragioni."

Lord Chelmsford rimase qualche secondo in silenzio, continuando a lisciarsi i lunghi baffi mentre fuori dalla porta il caos controllato regnava sovrano.
"Ad ogni modo ho le mani legate," esalò, infine, prendendo un foglio di carta e scrivendoci sopra due righe con la sua stilografica. "A quanto pare avete amici potenti, non posso certo negare un ordine dell'Imperatrice."
“Verrete con me, vi unirete poi allo staff di Richard Harrison, responsabile per il trasporto e ricognizione della spedizione che invaderà il regno degli Zulu. Dovrebbe essere una posizione di responsabilità ma, allo stesso tempo, abbastanza sicura,” propose l’uomo.
"L'imperatrice lo ha reso molto chiaro nelle sue istruzioni. Dovreste rimanere al sicuro, per quanto possibile in una guerra."

“Perfetto, non vi deluderò,” esclamò, raggiante, Luigi Eugenio.
"Farete meglio a non farlo perché, se vi dovesse succedere qualcosa, non sarebbe il solo a rimetterci."
"Ho già partecipato a una guerra, so cosa può essere, o non essere, pericoloso in una battaglia," replicò Luigi.
Lord Chelmsford annuì, distratto, ma al ragazzo non importava.
Avrebbe davvero partecipato alla guerra e con un ruolo di responsabilità, per giunta!
“Date questa al ragazzo alla reception, giù. Vi darà una stanza,” rispose lord Chelmsford, sorridendo, porgendo all’altro il foglio di carta sul quale aveva appena scritto.
Il principe si alzò di scatto, prese la lettera e, dopo un breve saluto, corse fuori dalla stanza.

Il sorriso sul volto del lord si incrinò leggermente mentre tornò a tormentarsi i baffi. “Povero illuso,” borbottò, scuotendo la testa.

/ / / / / / /



Non sapevo bene come affrontare questa parte, se dividere questo capitolo in due ma poi mi sarei trovato di fronte due capitoli parecchio noiosi ed ho quindi preferito unirli.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare presto, siamo ormai nella fase conclusiva di questa storia.

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Capitolo 12
*** Adieu, Prince ***


Capitolo 12, Adieu, Prince



La tenda era piena di soldati dalle giubbe rosse, tutti intenti a osservare una cartina vecchia e polverosa, posta su un unico tavolo presente all'interno.
"La strada davanti a noi parrebbe sgombra," il colonnello Harrison parlò, indicando un punto nella mappa. "Tenente Carey, vi occuperete di guidare una pattuglia in avanscoperta, dobbiamo capire i movimenti del nemico. Partirete domattina."
Carey, un uomo ben piazzato e con una folta barba nera, annuì, osservando la mappa con attenzione.
"Non dovreste trovare nessun Zulu sul vostro cammino ma la prudenza non è mai troppa ed è bene capire come stanno davvero le cose," concluse il colonnello.
La riunione era quindi ufficialmente tolta. Tutti i presenti uscirono, parlottando tra di loro, tutti tranne uno.
Luigi Eugenio era rimasto piuttosto in disparte dagli altri ma aveva osservato con attenzione la cartina e ascoltato bene le parole del colonnello.
Era una missione adatta a lui!

"Colonnello, permettete una parola?" Chiese il ragazzo, avvicinandosi all'uomo.
Harrison sospirò e annuì stancamente.
"Vorrei tanto unirmi alla pattuglia che partirà domattina. La zona davanti a noi sembrerebbe priva di nemici, dovrebbe essere una missione giusta per me: in prima linea ma sempre lontano dal pericolo!"
Cercò di sembrare il più convincente possibile, da quando era entrato a far parte dell'esercito si sentiva un uomo completamente cambiato. Certo, avrebbe voluto distinguersi in prima linea, ma dato che ciò non era possibile, una missione di pattugliamento sarebbe stata comunque un'opportunità per mettersi in mostra.
"Avete già partecipato a una missione simile e per poco la vostra foga vi costava la vita," rispose Harrison.

Era vero, durante una missione la sua pattuglia era entrata in contatto con degli Zulu in ritirata. Avrebbe dovuto rimanere con gli altri ma la vista dei nemici gli aveva acceso un fuoco dentro, un calore che avrebbe potuto calmare solo attaccando gli avversari.
Aveva estratto la rivoltella e stava per lanciarsi all'inseguimento ma, per fortuna, il suo capitano l'aveva bloccato in tempo.
"Allora la mia irruenza stava per mettermi in grave pericolo ma ho imparato dagli errori. Mi dia una seconda possibilità, questa volta non la deluderò." Esclamò.
Harrison lo osservò attentamente, poi, dopo aver nuovamente sospirato, borbottò: "una seconda occasione non si nega a nessuno, specie perché la missione sembra davvero facile e virtualmente indolore. Sta bene, domattina partirete insieme agli altri."

Luigi Eugenio riuscì con molta difficoltà a trattenere l'esultanza. Tornò all'accampamento con il morale alle stelle e, dopo aver cenato, rientrò ben presto nella sua tenda.
Non aveva più ricevuto alcuna notizia dalla madrepatria, del resto si trovava in una zona piuttosto difficile da raggiungere, eppure, durante la notte, riusciva a sentire la presenza della madre, e per certi versi anche quella del padre, più vicina che mai.

Stendendosi sulla brandina piuttosto scomoda, rimase per qualche minuto ad osservare il telo della tenda.
Si domandò se suo padre sarebbe stato fiero di lui.
Se avrebbe approvato quel viaggio oppure si sarebbe schierato con la moglie.

Non c'era purtroppo un modo per saperlo e quei pensieri lo stavano tenendo sveglio troppo a lungo: il giorno dopo sarebbe stato molto impegnativo, avrebbe dovuto alzarsi molto presto.
Dopo un'ultima preghiera, si voltò sul fianco e si addormentò quasi immediatamente

/ / / / / / /



La mattina successiva, alle otto in punto, la pattuglia composta da Luigi Eugenio, da Carey ed altri sette soldati inglesi, partì dall'accampamento inglese a cavallo.
Fu ben presto evidente come i dintorni fossero decisamente sgombri da Zulu, perciò l'atmosfera di tensione che pervadeva il gruppo si alleggerì velocemente.

La giornata appariva perfetta, il clima non era infatti troppo afoso o caldo, e la nuova missione venne accolta dal principe come una manna dal cielo. Si sentiva vivo, forte e libero, solo un ragazzo con il suo cavallo in compagnia di altri uomini come lui. Nessuna carica onorifica o titolo nobiliare contava là, nella natura selvaggia.
Non c'era spazio nella sua mente, per la politica, per pensieri negativi; in mezzo ai soldati il suo pensiero andava unicamente al presente.
Gli altri non condividevano quell'entusiasmo. Per Carey e i suoi quella era l'ennesima missione noiosa, avrebbero decisamente preferito rimanere a dormire nelle loro tende piuttosto che cavalcare con quel principe così stranamente eccitato.
L'entusiasmo del giovane fu tale che ben presto prese, quasi naturalmente, il comando della pattuglia: iniziò a indicare le strade da seguire, i percorsi migliori, si mise davanti a tutti e dava l'andatura.
Normalmente sarebbe stato Carey a dover guidare quel manipolo di uomini, aveva molta più esperienza ed era stato indicato direttamente dal colonnello, ma in fondo l'ospite che avevano era talmente importante che non sarebbe stato saggio discuterci.
Per lui il valore di quella missione era decisamente minimo, aveva però il compito di vegliare sul principe e se Luigi Eugenio desiderava comandare quella pattuglia…

La mattinata si rivelò particolarmente noiosa, non incontrarono anima viva, l'unico che sembrava non affetto da quell'atmosfera apatica era proprio Luigi Eugenio.
Senza alcun ostacolo, il gruppo si inoltrò ben presto a fondo nella terra degli Zulu. Avrebbero dovuto essere molto più attenti, rimanere vicino al grosso dell'esercito, ma quella terra libera e intatta era così invitante, la temperatura mite e i cavalli vigorosi, ancora non stanchi.
Perciò avanzarono, tronfi e sicuri.

Verso mezzogiorno, a interrompere quella routine ci pensò il caporale Mcallister, il quale era avanzato ulteriormente in cerca di qualche pozza d'acqua. Tornò sui suoi passi, teso e nervoso, perciò il principe dette ordine alla pattuglia di fermarsi ed ascoltò il sottufficiale.
"Ho visto delle capanne e diverse tende a un paio di miglia da qui, dritto davanti a noi."
"C'erano vedette? Zulu?" Chiese Carey, teso.
"No, nessun'anima viva."
"La cosa non mi piace, potrebbe essere una trappola," mormorò Williamson.
"Oppure, molto più semplicemente, un accampamento abbandonato," propose Luigi Eugenio. Non era la prima volta che si imbattevano in kraal* abbandonati.
"È mezzogiorno, ci farebbe comodo un posto dove sostare, bere e riposare, prima di tornare all'accampamento."

Gli altri soldati si osservarono, insicuri. Anche Carey pareva dubbioso ma Luigi non riusciva a capirne il motivo: era piuttosto semplice scoprire se un kraal era abbandonato oppure no.
Approfittando dell'indecisione generale, il principe montò nuovamente a cavallo.
"Andiamo e scopriamo come stanno le cose," disse, prima di partire al trotto.
Sapeva che gli altri lo avrebbero seguito, avevano l'ordine preciso di non lasciarlo da solo in terra nemica; infatti, qualche minuto più tardi, sentì il rumore di zoccoli dietro di lui.
Si voltò e li vide.
La mente dei soldati era così semplice…

Dopo circa cinque minuti di cavalcata, alcune capanne apparvero all'orizzonte. La pattuglia inglese si fermò per qualche istante, cercando segni di attività o qualche vedetta, ma non videro nessuno.
Giunti a qualche metro dal kraal, a un segnale convenuto del principe, tutti i membri della pattuglia scesero da cavallo, fucile in mano, e, camminando lentamente, arrivarono in prossimità delle prime capanne.
C'era un silenzio carico di tensione, il vento che spazzava quelle terre sembrava essersi fermato, non volava nemmeno un insetto.
I soldati si divisero, ognuno puntò una capanna o una tenda diversa, ma dopo qualche minuto di apprensione l'atmosfera ben presto si rilassò: fu fin da subito ovvio che quel kraal fosse abbandonato da tempo.

"Leghiamo i cavalli, accendiamo un fuoco e riposiamoci," ordinò il principe, rinfoderando la sua rivoltella.
Tutti gli altri annuirono e ben presto un fuoco vivace rischiarò l'area.
Si sedettero in mezzo alle tende e alle capanne abbandonate, mangiando e bevendo, lieti.
Era ormai palese che non ci fosse nessuna traccia di guerrieri nemici, si erano fatti il culo, avevano percorso numerose miglia. Se la meritavano quella pausa, poi sarebbero ripartiti alla volta dell'accampamento.
Non c'era alcun bisogno di mettere delle sentinelle di guardia.

/ / / / / / /



Luigi Eugenio si mise a sedere al riparo di una tenda. Bevve avidamente l'acqua dalla sua borraccia e rimase fermo, osservando la situazione nel suo insieme.
Vide il resto della pattuglia prendere posizione nella poca ombra fornita dalle tende abbandonate: evidentemente erano tutti troppo stanchi per mettersi a parlare o fare confusione, molto meglio riposarsi e guadagnare energie per il ritorno. Erano ancora in territorio nemico, sebbene quell'accampamento sembrasse ormai abbandonato da giorni.
Anche i cavalli si erano radunati sotto la misera ombra fornita da una palma secca, le teste vicine, sembravano anche loro decisamente esausti.
Avevano viaggiato per quasi cinque ore, tolte le varie pause, se il loro obiettivo era tornare alla base prima di sera, e se i suoi calcoli erano esatti, avevano giusto un'ora per riposarsi e poi intraprendere il viaggio di ritorno.
Nella sua breve esperienza bellica, e da viaggiatore, si era ben presto reso conto di come i viaggi di ritorno fossero quelli più pericolosi: c'era più rilassamento nella truppa, la stanchezza si faceva sentire e inevitabilmente il viaggio durava di più che all'andata, pur compiendo lo stesso tragitto.

Avevano viaggiato per cinque ore, come minimo adesso gliene sarebbero servite almeno sei o sette.
Ma non era il caso di preoccuparsi, non ancora perlomeno, aveva giusto un'ora di tempo per riprendere le energie. Scrollò le spalle, stirò la colonna vertebrale e mosse le gambe per farle riacquistare prontezza.
Adorava andare a cavallo ma inevitabilmente quei lunghi viaggi riducevano spesso le sue gambe a pezzi.
La sua mente a quel punto volse, come spesso accadeva nei momenti di pausa e noia, alla madrepatria, alla madre e Beatrice. Chissà se le sarebbe piaciuto quel paesaggio così selvaggio, decisamente all'opposto della flora londinese.

Fece per estrarre carta e penna da una tasca dell'uniforme ma si bloccò: Carey era balzato in piedi, imitato ben presto da altri due soldati.
Che cosa avevano visto? Dalla sua posizione, il principe non riusciva a scorgere nulla di preoccupan…

Li sentì, ancor prima di vederli.
Urla, grida, parole gettate nella calda aria estiva in una lingua che non riuscivano a comprendere.
Poi il polverone che si dirigeva verso di loro.
No, non aveva il minimo senso, quell'accampamento era abbandonato da tempo, avevano perlustrato la zona circostante senza trovare anima viva.
Non si erano nemmeno curati di mettere delle sentinelle, tanto la situazione sembrava tranquilla e gestibile.
"Usuthu!"

Prima ancora che la pattuglia riuscisse a rendersi conto di essere finiti in trappola, a nemmeno duecento metri da loro apparvero i tanto temuti guerrieri Zulu.
Erano in tanti, forse una quarantina, tutti armati fino ai denti di lancia e scudo e all'apparenza molto bellicosi.
Si trattava di un'imboscata in piena regola e non avevano i numeri, né i mezzi, per difendersi, Luigi se ne rese conto immediatamente.
Non potevano combatterli.
"Scappate!" Urlò Carey, estraendo la rivoltella, "scappate ai cavalli!"
Ma certo, la loro unica fonte di salvezza erano quei quadrupedi: per quanto bellicosi o veloci fossero, quei guerrieri erano a piedi e una volta a cavallo sarebbero stati virtualmente al sicuro.
Luigi Eugenio scattò in piedi e subito corse, imitato dai suoi compagni, verso gli animali che, spaventati dal rumore, stavano già scalpitando.
Fece per voltarsi, ed esortare il soldato che si era seduto vicino a lui a fare lo stesso, ma con sommo orrore, proprio in quell'istante, alcuni Zulu spararono.

La cosa sorprese ulteriormente gli inglesi: sapevano che i guerrieri nemici usavano solo la lancia e lo scudo, in combattimento, ma evidentemente, durante la prima fase della guerra, erano riusciti a reperire diversi fucili europei, in special modo dopo la sconfitta subita dagli inglesi a Isandlwana.
Alcuni soldati provarono a rispondere al fuoco, finendo però a loro volta colpiti dalle pallottole Zulu.
Quell'ulteriore baccano contribuì a terrorizzare ancora di più i cavalli.

I sopravvissuti, correndo a perdifiato sotto le pallottole nemiche, riuscirono in breve tempo ad arrivare alle loro bestie e a salirci sopra ma Luigi tardò: i suoi compagni si erano allenati, erano in perfetta forma fisica mentre lui non correva a perdifiato da anni ormai.
Sentiva il cuore sul punto di esplodere, il fiato corto e il passo via via più incerto, ma continuò a correre, era l'unica cosa da fare.
Ginocchia alte e ritmo costante gli ripeteva il sergente Danton, in accademia. Si, non era propriamente una cosa semplice con un nemico mortale alle sue spalle.
Con la coda dell'occhio, vide che i suoi aggressori si trovavano ormai a una cinquantina di metri e quando arrivò ai cavalli, gli altri soldati erano già montanti sopra.

"Aspettatemi, aiutatemi," boccheggiò ma gli altri non lo sentirono.
Il panico si era impossessato di quei fedeli sudditi dell'imperatrice Vittoria, la stessa che gli aveva espressamente ordinato di curarsi di lui, di vegliarlo in caso di pericolo. Evidentemente la paura aveva avuto la meglio, doveva cercare di cavarsela da solo.

Con il cuore che ormai sbatteva furiosamente, e senza controllo, contro la gabbia toracica, con un'ultimo slancio di forza vitale, il principe afferrò la sella del suo cavallo. Fece per montarci sopra quando l'animale, vistosi ormai circondato e impaurito dalle urla e dalle grida degli assalitori, partì in una corsa disperata quando ancora Luigi Eugenio era solo in parte aggrappato alla sella.
La paura aveva infine vinto anche il suo amato destriero.

Se fosse stato nel pieno delle forze, se non avesse corso a rotta di collo, se il suo cavallo fosse andato un po' più piano, il ragazzo avrebbe potuto cercare di montare correttamente sulla sella… ma così non fu.
Il principe si aggrappò disperatamente alla porzione di sella che teneva tra le mani, sentendola sempre più scivolosa e difficile da trattenere.
Dopo neanche cento metri di folle corsa, infine, una cinghia si strappò e il principe, con un urlo di terrore, cadde per terra, finendo in parte calpestato dalle zampe dell'animale.

Una persona con meno vigore, un carattere più arrendevole, non si sarebbe rialzata. Avrebbe atteso per terra la sua morte e per qualche istante quel pensiero passò nella mente del Principe.
Ma poi quell'idea venne subito sostituita, nella sua mente, dall'immagine di sua madre. No, non poteva causare ulteriori sofferenze a quella donna.
Vide l'immagine di suo padre e no, non poteva essere lui la causa della fine del sogno Bonapartista.
Vide Beatrice. No, quella ragazza si era così tanto impegnata ad aiutarlo e lui la ripagava in quel modo?
Vide l'imperatrice Vittoria. Aveva dato asilo alla sua famiglia, sapeva che grazie a lei e al suo intervento lui si trovava in Sudafrica.
Avrebbe ricambiato il suo aiuto e la sua ospitalità con quella debacle?

Aprì gli occhi e con un grugnito selvaggio si rialzò.
Non poteva finire in quel modo.
Nonostante la caduta, non aveva nulla di rotto, o almeno così sembrava, solo la mano destra gli doleva molto, forse il cavallo l'aveva pestata nella caduta.
Vide gli Zulu farsi vicino e pensò a quello che aveva dovuto provare il padre durante la sua ultima battaglia.
Da una parte una morte eroica, dall'altra la possibilità di arrendersi e coprirsi di ridicolo. Ma in quel caso, nel suo caso, non aveva scelta: dubitava che gli Zulu lo avrebbero lasciato in pace e che figura ci avrebbe fatto? Imprigionato da una popolazione di indigeni, lui, il nipote di Napoleone.
Non avrebbe coperto di ridicolo la sua dinastia.

Dal gruppo di guerrieri se ne distaccarono una decina, puntando direttamente verso di lui. Forse Carey e gli altri erano lì vicini, ma dove?
Zoppicando leggermente, corse via, al contempo cercando di sparare con la sua rivoltella alle spalle, nel tentativo di rallentare gli Zulu.
Tutti i colpi, però, mancarono completamente il bersaglio e gli altri non si spaventarono anzi, adesso che la loro preda era così vicina, e in difficoltà, non si sarebbero fermati per nessun motivo al mondo.
Lo sapeva bene, avrebbe fatto lo stesso.

Sentì il panico attanagliare il suo cuore. Non c’era traccia degli altri inglesi, possibile lo avessero abbandonato?
Fermò un attimo la sua corsa, cercando di puntare la pistola verso il gruppo di assalitori, e sparò ancora due colpi. Anche questa volta li mancò, la mano tremava troppo e doveva usare la sinistra per sparare.
Adesso gli Zulu erano ancora più vicini, uno di loro prese in mano la lancia e la gettò verso di lui, mancandolo di qualche metro.
Avrebbe dovuto cercare di muoversi a zig zag, non di rimanere fermo, ma il Principe aveva già esaurito le poche forze rimaste. Aveva ancora un paio di colpi a disposizione, quindi cercò di sparare verso l'uomo che aveva lanciato la sua arma.
Fece per premere il grilletto quando provò un dolore indescrivibile alla spalla sinistra.
Uno degli assalitori lo aveva colpito con la sua lancia.

Urlò di dolore e rabbia, mentre gli Zulu festeggiarono quel colpo andato a buon segno.
Avevano ragione. Sua madre era nel giusto. Lui non era un soldato, era un principe e quello non era il suo posto.
Aveva tanto sognato quell'avventura e adesso doveva finire in quel modo?

Non dubitava che la sua morte sarebbe stata tragica.
Gli assalitori erano sul punto di lanciarsi su di lui, come tanti avvoltoi famelici che volavano sopra un leone morente.
Un leone sciocco e imprudente che si era avventato oltre il confine della savana, dove era al sicuro, re della foresta.
Là, fuori dalla sua tana, non era nulla, solo un micio bagnato che miagolava, invece di ruggire.

Sorrise amaramente, Luigi Eugenio, proprio come quel leone anche lui aveva osato troppo ed era finito nella trappola delle iene.
Il suo destino era segnato, era stato troppo avventato, commettendo un errore imperdonabile e gli errori si pagano. Così diceva suo padre.
Ma, se doveva pagare, avrebbe ruggito, forte e potente, prima di finire in pasto agli avvoltoi e alle iene. Un'ultima volta.

Cancellò dalla mente l'immagine di sua madre, di Beatrice, di tutti i collaboratori che avrebbe inevitabilmente deluso e rattristato.
Ormai non gli doleva nemmeno più la mano destra, perciò si chinò e raccolse la lancia che l'assalitore gli aveva prima lanciato, mancandolo.
La raccolse e, con la pistola nella sinistra e la lancia nella destra, osservò gli Zulu che a loro volta ricambiarono lo sguardo.
Non c'era più divertimento o rabbia nei loro occhi, ma rispetto.
Rispetto per quel leoncino malconcio ma combattivo.
Era coraggioso. Sciocco, certo, ma coraggioso.

Ci provò, Luigi, a combattere. Reggendo a malapena lancia e pistola, si lanciò contro gli Zulu, ben sapendo che quelle sarebbero state le sue ultimi azioni.
Attaccò ma erano in troppi e il ragazzo, ferito dalla caduta e dalla lancia conficcata nella spalla, esausto per la lunga corsa, venne ben presto circondato.
Il primo colpo lo raggiunse alla coscia, il secondo al petto.
Luigi Eugenio lottò come il leone ferito che era, ma non c'era più via di uscita.
Crollò a terra e rivisse, nella sua testa, la sua breve vita. L'infanzia a palazzo, la fuga in Inghilterra, i viaggi, le riunioni e infine l'arrivo in Sudafrica.

Venne circondato e la terza lancia lo colpì all'occhio.
Smise di lottare, esalando l'ultimo, flebile, respiro.

/ / / / / / /



*accampamento Zulu.

Mamma mia, ho affrontato questo capitolo con un magone addosso abbastanza incredibile.
Sapevo fin dall'inizio che saremo giunti a questo punto, ma nel corso dei mesi mi sono affezionato alle vicende di questo sciocco, avventuroso, principe e dirgli addio mi costa.
Ovviamente non sarà l'ultimo capitolo, ne mancano giusto due o tre, ma ovviamente le vicende di Luigi Eugenio terminano in Sudafrica!

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Capitolo 13
*** Una Notte Africana ***


Capitolo 1, Una Notte Africana

 



"Il mio dolore è selvaggio, inquieto, irascibile: non sono affatto rassegnata e non voglio sentir parlare di rassegnazione più che di consolazione. Non voglio essere consolata, voglio essere lasciata in pace."”
Imperatrice Eugenia, 1879

 

La donna, vestita completamente di nero, nonostante il clima caldo e afoso, avanzò lentamente e penosamente, accompagnata da una delle sue dame di compagnia e da un vecchio ufficiale, verso un drappello di uomini che non poteva essere più diverso di loro.
Era diversa la loro carnagione, gli indumenti e la condizione sociale. Erano guerrieri Zulù mentre davanti a loro avanzava la triste imperatrice Eugenia.

Quel viaggio in Sudafrica, per ripercorrere gli ultimi giorni di vita del figlio, aveva già duramente colpito le difese della povera donna.
Ma se aveva intrapreso quel viaggio era per un motivo e si trovava là, nella radura vicino alla quale suo figlio era morto, proprio per quella ragione.
Scoprire come Luigi Eugenio aveva lasciato quel mondo terrestre, venire a conoscenza di come il suo povero bambino fosse stato ucciso da quei selvaggi.
In molti le avevano sconsigliato quel viaggio, non c'era motivo per la donna, già provata dalla perdita del marito e del figlio, di intraprendere quella lunga traversata per affrontare un argomento così difficile e duro.
E poi cosa sarebbe cambiato, Luigi Eugenio non sarebbe tornato indietro.
Era morto in battaglia, la morte che ogni soldato desidera, questo sarebbe dovuto bastare.

Ma non ci riusciva.
Quando aveva ricevuto la notizia della morte di Luigi, una gran parte di lei aveva desiderato morire, farla finita per eliminare finalmente il dolore che l'aveva paralizzata e che le impediva di vivere.
Perché andare avanti, trascinarsi nel mondo dei vivi quando lei dentro era morta, sola, senza marito o figlio.
Solo l'immenso senso religioso le aveva proibito di farla finita, di gettarsi nel canale della Manica e forse qualche corrente l'avrebbe sospinta più vicino al figlio perduto.
Chissà.

Però c'erano anche altre due parti dell'anima della donna che avevano agito in maniera diametralmente opposta.
C'era quella, nascosta nei meandri più remoti, che aveva già dato suo figlio per perduto, una volta che si era imbarcato dall'Inghilterra alla volta del Sudafrica. Una parte che la donna aveva cercato, con fatica e costanza, di scacciare ma che, alla notizia della morte del figlio, era infine apparsa con un ghigno a chiederle: “che ti avevo detto?”
Esisteva poi il frammento di anima che sulle prime era stata frantumato ma che poi, lentamente, aveva ripreso il sopravvento.
Doveva resistere, andare avanti. Capire che cosa era successo a suo figlio, viaggiare in Sudafrica e finalmente, da sola, poter elaborare il lutto.

Avevo affrontato quei giorni in compagnia di due persone fidate, Louis Delassie e Mary Sturrard, i quali non l'avevano mai abbandonata e adesso erano al suo fianco, sorreggendola mentre l'interprete e il rappresentante degli Zulu si stringevano la mano e borbottavano tra di loro.
"Che cosa volete chiedere, imperatrice?"

Che cosa voleva davvero sapere?
Se suo figlio era morto da eroe, se aveva sofferto, se aveva combattuto fino alla fine?

Quelle domande non avrebbero portato indietro Luigi Eugenio, ne era consapevole, ma si era intestardita nell'intraprendere quel lungo viaggio per un motivo soltanto: venire a conoscenza degli ultimi giorni di vita del figlio e quindi, sebbene con la morte del cuore perché non avrebbe davvero mai voluto sapere i dettagli della morte del suo unico figlio, aprì lentamente la bocca e chiese semplicemente: "Cos'è successo?"

"Un imboscata, la pattuglia con il giovane principe si era fermata in un accampamento abbandonato, senza porre abbastanza sentinelle," rispose l'interprete, dopo aver conversato con gli Zulu, "tenevano sotto controllo quella zona ed è stato facile organizzare un agguato, non c'era alcuna speranza di salvezza per gli inglesi e per il principe."
Un imboscata, un vile attacco alle spalle. Niente onore, nessuno atto di eroismo o un combattimento ad armi pari, quindi.

"Alcuni hanno cercato di rispondere al fuoco ma sono stati colpiti, la maggior parte sono corsi ai cavalli, suo figlio era tra quelli," continuò l'interprete. "Non sanno bene che cosa sia successo, ma a un certo punto il principe è caduto per terra da cavallo. Nella fretta la sella ha ceduto, forse non si era aggrappato bene alle cinghie."

Luigi non svolgeva attività fisica da tempo, non era più abituato alle lunghe marce, alle corse sotto i colpi del nemico. La calma dei salotti inglesi era stata sostituita, forse troppo velocemente, dalla ferocia del campo di battaglia.
Non era pronto per tutto ciò.

"Alcuni Zulu, vedendo suo figlio per terra, lo aggredirono. Non avevano riconosciuto il rango del soldato caduto, altrimenti lo avrebbero semplicemente disarmato e preso prigioniero," spiegò l'altro. "Si scusano per questo terribile malinteso, per quanto capiscono che delle semplici scuse non possano bastare."

No, non potevano bastare. E non sarebbero serviti oro o gioielli per riparare la perdita di Luigi. Niente al mondo, nemmeno se tutti gli Zulu fossero morti, men che mai se l'umanità stessa fosse deceduta, avrebbe potuto affievolire il dolore di Eugenia.
All’imperatrice quella conversazione era bastata ma c'era un ultimo punto da approfondire, non perché le importasse più di tanto, ma comprendeva quanto quella domanda fosse importante per gli uomini che attendevano il suo ritorno.
"È morto… è morto da eroe?"
Quanto sembravano stupide e allo stesso tempo difficili da pronunciare quelle parole maledette.

L'interprete questa volta parlò a lungo con gli Zulu e, dalla sua espressione, Eugenia capì che la conversazione stava vertendo su aspetti piuttosto tristi e spiacevoli. Quando tornò da lei, l'uomo sembrava piuttosto colpito.

"Suo figlio poteva arrendersi, dichiarare il suo rango, e forse aver salva la vita, ma non l'ha fatto, ha impugnato la sua fidata pistola e una lancia e ha attaccato il nemico, sapendo bene che per lui era finita. Non ha sofferto, ma è morto da eroe e gli Zulu ci tengono a dirle che sono rimasti molto colpiti dalla difesa, dal coraggio dimostrato dal principe. É per questo che hanno…" l'uomo sembrò cambiare idea perché scosse la testa e rimase in silenzio.

Una morte da eroe. Avrebbe potuto arrendersi ma non lo aveva fatto.
A Eugenia non poté non venire in mente suo marito. Forse Luigi Eugenio non aveva voluto arrendersi per non fare la fine di suo padre, morto in esilio e dimenticato.
La sconfitta, e la successiva resa, era stata una macchia impossibile da cancellare per Napoleone III e forse Luigi, con il suo sacrificio, voleva in qualche modo lavare con il sangue quella disfatta.
Restituire la dignità perduta alla sua famiglia. Se suo marito fosse morto in battaglia forse suo figlio sarebbe ancora vivo.

La donna non aggiunse altro, aveva troppe cose sulle quali rimuginare.
Si fece scortare sul luogo della morte di Luigi Eugenio, proprio là era stata eretta una piccola croce di cemento in onore di Principe.

Davanti a quella visione, alla data di nascita e di morte impresse nel cemento, la donna crollò. Straziata, si mise in ginocchio davanti alla croce, incapace di proseguire oltre.

"Imperatrice, mancano poche ore al tramonto…"
Louis si era avvicinato, lo sentiva al suo fianco, ma non le importava.
"Non mi interessa. Passerò la notte qui, pregando per l'anima di mio figlio."
Non vide ma percepì gli sguardi che i suoi due accompagnatori si rivolsero tra di loro.
"Ma farà freddo, e da sola…"
"Non sarò da sola, mio figlio è con me," rispose, cripticamente. "Tornate domattina all'alba e se mi troverete morta, non piangete perché sarò con mio figlio."

Gli altri due cercarono in tutte le maniere di far desistere la donna ma Eugenia si rivelò inamovibile e alla fine, poco prima delle otto di sera, i due collaboratori, insieme all'interprete, si recarono ospiti in un vicino accampamento, lasciando la donna da sola.
Sola nel suo dolore.

/ / / / / / /



Di fronte a quella spoglia croce di cemento, davanti alla prova tangibile che suo figlio non c'era più, Eugenia finalmente poté permettersi di crollare.
Si lasciò cadere per terra, impolverandosi gli abiti, ma non le importó.
Abbracciò il freddo cemento e pianse tutte le sue lacrime.

Rimase in quella posizione fino a quando la notte arrivò, e con essa il freddo che giunse a penetrarle persino le ossa. Solo allora si mosse e iniziò a pregare a bassa voce, in spagnolo e francese, tutte le nenie e le litanie che sua madre le aveva insegnato quando era ancora una piccola figlia di Spagna.

Mi hijo…
Mon fils…

Perduto, proprio come lei, in quel momento, di fronte alla vastità della sua tristezza e all'incredulità di essere rimasta sola.
Che cosa avrebbe fatto?
Non aveva più un marito da amare e un figlio da guidare, si sentiva zoppa, un peso per gli altri.
E allora tanto valeva rimanere là, aggrappata quella croce fino a quando Dio non l'avrebbe accolta, insieme a suo figlio e al marito.
Finalmente insieme.
Verso le tre una leggera foschia cadde sulla zona dell'agguato, ma neanche quel cambiamento climatico mosse la donna la quale, accasciata vicino alla croce, sembrava fosse collassata.
In realtà era ben vigile perché, sentendo dei passi avvicinarsi, aprì immediatamente gli occhi. "Ecco quei guastafeste hanno visto la foschia e sono corsi in mio soccorso… ma non mi interessa, non mi muovo di qui," pensò.

"Mamma…. mamma…"
Una voce flebile risuonò nell'aria. C'era un qualcosa di tristemente familiare in quelle parole nella loro intonazione… ma che cosa ci faceva un ragazzino da quelle parti?
"Mamma, adesso basta… fatto già abbastanza… venire qui…"
No, non era possibile.

Eugenia alzò il capo e vide, a un centinaio di metri da lui, una sagoma di ombra.
Non riuscì a scorgerne i lineamenti, ma la voce, la voce era inconfondibile.
"Luigi…"
No, no, suo figlio era morto, le era stato impedito di vedere il corpo scempiato ma altri avevano confermato la sua dipartita. E allora, cosa stava accadendo?

"Torna… casa, non serve a niente… rimanere qui," la sagoma sussurrava. "Torna…qui soffri… e basta. Ser mi hai amato… torna a casa.”

Eugenia fece per alzarsi ma la foschia già era aumentata d’intensità e la sagoma venne inghiottita dall’oscurità.

“Luigi! Luigi!”
Per due ore Eugenia urlò il nome del figlio. Possibile che avesse percepito l’anima del figlio? Che fosse stato insieme a lei, quella notte?

Quando Louis, Mary e gli Zulu tornarono alla croce, la mattina seguente, trovarono Eugenia svenuta e delirante.
Ci vollero due giorni per farla riprendere e poter allontanarsi da quel luogo carico di dolore, ma quando partì Eugenia lo fece con animo ricolmo di un sentimento che faceva fatica a descrivere.
Capì fin da subito che nessuno le credeva… ma non le importava minimamente.
Sapeva che quella notte non era stata solo a quella croce, aveva avuto distintamente l'impressione che il figlio le fosse stato accanto.
Tanto le bastava.

/ / / / / / /



Scusate ma con questo caldo faccio fatica a aggiornare. Però ci sono e ormai manca pochissimo, giusto due capitoli.
Per chi se lo chiedesse… sì, davvero Eugenia ha dichiarato che, quella notte, ebbe la sensazione di sentire l’anima di suo figlio presente.
Triste e inquietante allo stesso tempo.

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Capitolo 14
*** Caro Diario ***


Capitolo 14, Caro Diario



1919, Parigi.

10 Settembre.

La traversata transoceanica è stata un vero e proprio disastro. Maltempo, un rollio incessante e tremendamente sgradevole per me, mio marito e il piccolo, e onde che hanno spazzato il ponte per metà del viaggio.
Non certo quello che mi ero aspettata, quando sono riuscita a prendere il biglietto per la tratta che andava dal Canada all'Inghilterra e poi fino in Francia.

L'occasione è una di quelle importanti: mia mamma compie cinquant'anni e adesso che la Grande Guerra è terminata, ha deciso che questa fosse l'occasione più giusta per celebrare il compleanno e raccogliere i familiari sparsi per tutto il pianeta.
C'è anche un'altra idea che mi frulla in testa, un motivo per il quale, dopo aver celebrato il compleanno, mi recherò, con questo diario, da una vecchia amica che non incontro da almeno quindici anni, anche se siamo rimasti costantemente in contatto tramite un rapporto epistolare incostante ma sincero.
Eugenia.

Quando mi sono imbarcata per il Canada, ormai quindici anni fa, l’anziana donna aveva fatto di tutto per aiutarmi.
Si era messa in contatto con alcuni suoi vecchi amici nel Quebec, aveva scritto di suo pugno alcune lettere di presentazione, si era presa a cuore, insomma, la mia causa. Forse in ricordo di mia zia, sua vecchia amica, forse per sdebitarsi della compagnia che le avevo fatto quando, da piccola, mi recavo a trovare quella donna così saggia e dal passato così drammatico.
Trascorrerò in Francia una settimana, so che anche Eugenia si trova in questo paese. Farò di tutto per incontrarla.

/ / / / / / /



13 Settembre.

Quanto mi erano mancate queste riunioni di famiglia!
Eravamo in più di trenta parenti, tutti riuniti nella grande casa che i miei genitori hanno acquistato qualche anno fa.
Enormi giardini, tanti alberi da frutto, un posto paradisiaco e perfetto dove invecchiare. So che gli è costato molti sacrifici e sono felice di vederli contenti, anche se stanchi perché badare a tutti quegli ettari non dev’essere un compito certo facile.
André si è divertito, ha incontrato i nonni per la prima volta ed è corso su e giù per i campi insieme ai tre pastori tedeschi di papà. Lucas era un po’ preoccupato, sulle prime (non ama molto i cani) ma poi si è rilassato ed ha passato la giornata parlando di viaggi con mio zio materno.
Diario, mi era mancato molto scriverti, ma i pensieri si rincorrono per la testa e trovo salutare, per me, raccoglierli e scriverti. Mi rilassa, prima di dormire.

Ho ricevuto un messaggio, da parte di Eugenia. Mi ha invitato nella sua residenza, tra due giorni.
Il pensiero mi riempie di gioia e anche, lo ammetto, di un po’ d’ansia. Vorrei tanto farle leggere le pagine che ho dedicato a suo figlio, ma non so se le farebbe piacere. Se davvero vorrebbe rivivere quel lutto e quei dispiaceri che ho scritto tanti anni fa.
Immagino che tutto dipenderà da come la troverò, so che è una donna arzilla e abbastanza in salute, ma voglio prima esserne completamente sicura.
Nel frattempo mi rilasso in compagnia dei miei chiassosi parenti e delle loro storie di un passato che ho solo sfiorato.

/ / / / / / /



15 Settembre.

La giornata è stata lunga, sfiancante, e vorrei dormire ma so per certo che non ci riuscirei.
Devo prima scriverti, diario, poi andrò a letto e solo allora Morfeo mi prenderà tra le sue braccia.

Sveglia alle sette di mattina, colazione frugale e poi mio zio ha deciso di darmi un passaggio con la sua nuova automobile fino alla villa che ospita l'imperatrice Eugenia.
Il viaggio è stato tutto sommato confortevole, la strana vettura filava sulle strade di campagna con sicurezza e poter tornare a scorgere quei paesaggi, un tempo a me così familiari, mi ha riempito il cuore di nostalgia, lo ammetto.

Dopo una mezz'oretta, infine, siamo arrivati nei pressi di una villa nei sobborghi di Parigi. Un tempo doveva essere stata una dimora signorile, forse appartenuta a qualche Conte o Marchese ai tempi dell'Impero, adesso sembrava un po' in disuso: i prati non erano molto ben curati e la facciata appariva un po' vecchia e in decadenza.
Scesa dalla vettura, ho chiesto a mio zio di aspettarmi, e poi mi sono incamminata, con il diario tra le braccia, verso l'edificio dove un uomo sulla cinquantina mi stava aspettando sulla soglia.

"Madame Dubois?" Mi ha chiesto, in un francese senza nessuna inflessione particolare.
"Oui, la signora Eugenia mi attende," è stata la mia timida risposta. Quell'uomo, dall'aspetto così formale e impettito, mi metteva un po' a disagio, ma non appena ebbi finito di parlare annuì, girò sui tacchi e mi fece strada.

L'interno della dimora rispecchiava la facciata e i prati.
Era bella, signorile, dai soffitti affrescati e dalle scalinate ampie completamente di marmo bianco, eppure, allo stesso tempo, dava l'aspetto di non essere abitata da anni, e mentre il mio cicerone mi portava alle stanze della vecchia Imperatrice, ho constatato che molti locali della villa erano praticamente vuoti, senza mobilio alcuno.

Finalmente, arrivati al secondo piano, l'uomo si è fermato davanti a una grossa porta bianca.
"L'Imperatrice è molto avanti con gli anni, anche se si mantiene tutto sommato in forma, non è consigliabile forzarla troppo da un punto di vista fisico e psicologico," mi ha detto, in un sussurro.
"Certo, capisco," è stata la mia replica.
"Che cosa ha tra le mani?" Ha borbottato, indicando il mio diario.
"Pensavo di leggerle qualcosa, quando ero piccola mi sono recato spesso in visita dell'Imperatrice e lei mi ha raccontato la sua vita. Forse le farebbe piacere pensare agli anni passati.”
Non era solo una scusa per farle leggere il diario, ci credevo davvero!

L'uomo ha aggrottato le sopracciglia, pensieroso, poi, abbassando ancora più la voce, mi ha sussurrato: "sta bene, ma eviti qualsiasi riferimento al periodo che va tra la fine dell'Impero e la morte del figlio. L'Imperatrice Eugenia è molto anziana e debilitata, cerchiamo di evitarle ogni tipo di stress, capisce."
Sì, capivo.
Capivo che il mio sogno di farle leggere il mio diario, nella speranza che accettasse di pubblicarlo, era sfumato.
Il fulcro del libro che sognavo di scrivere da una vita, era suo figlio, e se quello strano individuo mi vietava di parlarle di quel periodo… non aveva alcun senso accennare alla donna del mio proposito.

Lo ammetto, è stato un brutto colpo, e anche quella sottospecie di maggiordomo doveva averlo capito, perché ha distolto in fretta lo sguardo, lasciandomi qualche secondo per ricompormi, e poi, dopo aver bussato alla porta e averla aperta, mi ha fatto cenno di passare.

L'imperatrice era sdraiata sul letto ma non dormiva, era vigile, e appena mi ha visto un largo sorriso comparve sul suo volto rugoso e anziano.
"Mia cara Anne Marie!"
Mi affrettai ad avvicinarmi alla donna e, dopo un bacio veloce, mi sono seduta su una poltrona al suo fianco.
"Mi dispiace che tu debba vedermi a letto come una vecchia inferma, avrei preferito fare una camminata nel parco, ma quei noiosi dottori continuano a dirmi che devo riposarmi. Bah, gli ho fatto notare che avrò l'eternità per farlo… ma non sembrano volermi ascoltare," Eugenia ha esclamato, sorridendo.
"Avete un viaggio ancora lungo da compiere, da quello che mi avete scritto nelle lettere," ho risposto.
"Sì, voglio vedere la mia cara Spagna prima di morire. Mi sarebbe tanto piaciuto compiere questo viaggio in aereo, ne sono rimasta affascinatissima, ma quando l'ho detto ai miei collaboratori ho desistito," la donna ha sussurrato, indicando oltre la porta, "non me l'hanno detto, ma dalle loro espressioni ho capito che mi avevano preso per una vecchia pazza!"

Ha riso e mi sono unita volentieri a quel momento di ilarità. Poi, dopo aver preso la sua mano destra tra le mie, siamo rimaste in silenzio.
"Mi sei mancata. Ma, dimmi, com'è la vita in Canada?"
E allora le ho raccontato a grandi linee i miei ultimi anni in America del Nord. Di come io e Lucas abbiamo iniziato un'attività, piccola ma onesta, nel Quebec francese, della nascita del nostro primo figlio, delle tante differenze tra la Francia e Canada e il loro modo di vivere.
Eugenia era sempre stata un'ottima e attenta ascoltatrice e anche questa volta non è stata da meno.

Il maggiordomo nel frattempo era rientrato, mostrandomi alcune bevande fresche, ed ho accettato volentieri un bicchierone di acqua con ghiaccio e seltz di limone.
"Sono stati anni difficili, da stranieri, ma ce l'abbiamo fatta," ho terminato così la mia descrizione del Canada. "So che anche voi avete passato degli anni impegnativi."
Eugenia ha ancora una volta sorriso, alzando le spalle.
"Ho solo messo al servizio del paese che mi ha accolto, ormai tanti anni fa, il mio yacht e una parte della mia villa come ospedale," mi ha detto, dopo qualche secondo di silenzio. Era evidentemente provata dal lungo viaggio e già le sue parole erano molto più flebili.

"Era il minimo che potessi fare. Stare a contatto con i malati, prodigarmi ad avere i dottori e le apparecchiature più efficienti, mi ha dato un motivo di orgoglio. Una ragione di vita. Non ti nascondo il fatto che il Trattato di Versailles mi ha deluso grandemente," si è affrettata ad aggiungere.
"In ogni punto del trattato vedo un nucleo di ulteriori, possibili, guerre e le condizioni che sono state imposte alla Germania sono letteralmente risibili. Come faranno a ripagare il loro debito senza la marina mercantile e un commercio appropriato?"
L'argomento stava evidentemente molto a cuore alla donna: si era tanto arrabbiata al pensiero che il maggiordomo era entrato nella stanza, di corsa.

Era evidente anche che ormai la donna fosse troppo affaticata. Avevo appoggiato il diario su un mobiletto vicino al letto, Eugenia non se ne era nemmeno resa conto; avrei tanto voluto leggerle il mio racconto ma capivo anche che non potevo.

Dopo un'ultimo abbraccio, me ne sono andata via il prima possibile da quella villa.
Caro diario, non nego il fatto che ci sia rimasta davvero male, perché avrei tanto voluto leggerle le mie parole, che sognavo da tempo di pubblicare, ma ormai è impossibile, sarei stata troppo egoista a metterle un'ulteriore peso sulle spalle fragili della donna. Saranno solo i miei amici, e forse i miei figli, a leggere le triste vicende del principe Luigi.
Tanto mi basta, caro diario.
Nelle mie preghiere serali adesso riservo un posto per il piccolo principe e quando, un giorno, il più lontano possibile, l'Imperatrice Eugenia lascerà questo mondo, forse, lassù nel cielo, potranno finalmente riunirsi.

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*Lacrimuccia*
Ok, alcuni discorsi dell'Imperatrice li ho presi quasi letteralmente, la vita che Eugenia ha condotto negli ultimi anni mi ha sempre affascinato. Ha aperto un ospedale nella sua residenza, durante la prima guerra mondiale, spendendo di tasca propria per avere i dottori e l'attrezzatura migliore. Ha fatto tutto il possibile per aiutare il paese che l'aveva ospitato e per lo meno non ha dovuto subire gli orrori della seconda guerra.
Il prossimo capitolo sarà l'epilogo di questa lunga storia, se vi è piaciuta, fatemelo sapere con una recensione, l'epilogo arriverà poco dopo questo capitolo

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


Capitolo 15, Epilogo



Lucienne chiuse il diario con un gesto il più possibile delicato.
Si sentiva la gola secca e gli occhi umidi, ora che il viaggio del giovane principe e dell’Imperatrice Eugenia era terminato.
Era stato allo stesso tempo bello e doloroso, rileggere le parole che sua nonna le aveva dettato, anni prima. Un lungo viaggio a ritroso nel tempo, nella vita del principe, dell’Imperatrice e infine, di Anne Marie.

Si asciugò una lacrima e infine alzò lo sguardo.
Tutti gli altri ricercatori erano rimasti in silenzio, poteva vedere diversi occhi bagnati da calde lacrime, compreso Merline il quale capì che il racconto si era concluso solo dopo alcuni secondi di imbarazzato silenzio.
Infine si riscosse, con fatica si alzò dalla sedia e si posizionò a fianco di Lucienne.

“Adesso capite. Quando abbiamo trovato un piccolo satellite che ruota intorno all’asteroide 45 Eugenia… ho pensato subito al figlio della donna. Forse, chissà, lassù si sono riuniti e niente potrà separarli.”
Era un pensiero profondo per un’uomo all’apparenza così analitico e razionale, la donna ne rimase sorpresa ma non poté non annuire.
“C’è anche la storia del Piccolo Principe, il libro di Antoine de Saint-Exupéry,” aggiunse Chapman.
“Infatti, pensavo a entrambe le cose,” spiegò Merline, avvicinandosi a uno dei computer presenti nella stanza. “Credo che sia l’ora di dare un nome al piccolo asteroide.”

Dopo alcuni minuti, nei quali l’uomo digitò sulla tastiera del pc a velocità forsennata, infine soddisfatto, Merline si fece da parte.
Era il form da compilare per inserire il nome del nuovo asteroide.

“Entrambi i principi erano giovani e avventurosi e avevano poca paura del pericolo. Entrambi erano di statura piuttosto bassa. Entrambi lasciarono i confini dei loro piccoli mondi accoglienti (l'asteroide B612 per il Piccolo Principe e Chislehurst per il Principe Imperiale).
Entrambi allora intrapresero lunghi viaggi per finire in Africa, dopodiché entrambi incontrarono morti piuttosto violente... E in entrambi i casi rimasero soli per una notte dopo la "morte" e poi "tornarono" a casa..."


Lucienne annuì, così come gli altri scienziati, stringendo il diario forte tra le braccia.
C'est pour toi, grand-mère,” sussurrò, unendosi agli applausi dei colleghi.

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Un piccolo epilogo per tornare ai giorni nostri e giustificare la citazione che ho usato nel primo capitolo.
Cosa dire, siamo arrivati alla fine di un bellissimo viaggio, scrivere questa storia mi è davvero piaciuto, un po’ anche frustrato per le poche fonti (ma me la sono cercata da solo!)
Spero che questa prima long a tema storico vi sia piaciuta, non escludo il ritorno (cit) ma per il momento... adieu!

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