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Lista capitoli: Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 - UN NUOVO MONDO *** Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 - LA YETI *** Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - SCERIFFO *** Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - IL DRAGO *** Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 - IL FURTO *** Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 - L'INGANNO *** Capitolo 7: *** EPILOGO - RIVOLUZIONE ***
Questa era la frase che rimbombava in
ogni angolo di quella squallida stamberga che era diventata la mia prigione,
assieme a quella maledetta isola.
Potevo quasi vederli i servitori, i
pochi militari rimastimi vicini, i miei carcerieri e tutti gli altri, raccolti
intorno al letto ad assistere ai miei ultimi istanti di vita.
Sicuramente tra di loro c’era qualcuno
che non vedeva l’ora di vedermi tirare le cuoia, e anche se mi ero abituato
nella mia vita a deludere le aspettative dei miei nemici stavolta tutti
sapevano che non ci sarebbe stato nessun colpo di scena.
E lo sapevo anche io.
Eravamo al gran finale.
Avrei voluto godermi la scena, ma in
verità come ho già detto potevo solo immaginarmela.
Perché se il mio corpo era ancora lì, in
quella minuscola stanza, la mia coscienza era già altrove.
Immerso in un mare di luce, mi ritrovavo
a fissare l’enigmatica e decisamente inquietante figura che mi stava di fronte,
e che si presentava a me nella forma di un individuo completamente nascosto
all’interno di un mantello nero, con tricorno e maschera bianca a celarne le
fattezze.
Se ne stava lì, immobile, guardandomi attraverso
quei due buchi neri a forma di occhi come se cercasse di scrutarmi dentro.
Decisi di rompere il silenzio.
«E dunque? Sono morto?»
«Più o meno.»
«Non sapevo che la Morte avesse il senso
dell’umorismo.»
«Credi che io sia la Morte?»
«Di sicuro vuoi farti passare come tale,
con quel mantello e la maschera.»
«Sembri piuttosto calmo per qualcuno che
ritiene di trovarsi faccia a faccia con la Morte.»
«È già da molto che il tristo mietitore
mi cammina accanto. Sono scampato ad una fine prematura più volte di quante io
possa ricordarmene. Peccato solo che altri abbiano avuto minor fortuna.»
Non posso dirlo con certezza, ma sono
quasi sicuro che la mia ultima affermazione suscitò un sorrisetto divertito nel
mio interlocutore.
«Allora anche il grande Imperatore
Bonaparte aveva qualcuno che gli era caro.»
«Un uomo che non abbia degli affetti è
un uomo arido come il deserto. E un uomo arido non lascerà mai nulla dietro di
sé degno di essere ricordato.»
«E l’uomo che vive senza gloria muore
ogni giorno, dico bene?»
Era davvero il colmo: la Morte che mi
faceva il verso.
«Dunque dimmi, Imperatore. Sei fiero di
come hai vissuto? Di ciò che hai lasciato?»
Stavolta fui io a sorridere, e non certo
di gusto.
«Considerato che i miei nemici non hanno
nemmeno aspettato la mia dipartita per distruggere tutto ciò che ho costruito
dovrei sentirmi deluso e arrabbiato. Ma non è così. Al contrario, provo pena
per loro.»
«Per quale motivo?»
«Perché per quanto si illudano del
contrario, le lancette del tempo non si muovono mai all’indietro. Presto o
tardi saranno travolti dall’onda delle coscienze che io ho risvegliato, e che
loro pensano di poter ridurre nuovamente in catene. Mi spiace solo che non sarò
lì a godermi la scena quando il castello di carte che hanno costruito gli franerà
addosso. Ho preso un continente che aveva smarrito la via, ho portato ordine
dove regnava il caos, e sparso i semi del cambiamento in ogni angolo del globo.
E anche se a giudicarmi da fuori non si direbbe, ho dedicato tutti i miei
sforzi ad un solo fine. La pace. Perché non vi è gloria più grande per un uomo
che aspiri alla grandezza del portare la pace.»
«Portare la pace? Con la guerra?»
«La pace non cala dall’alto, né risulta
indolore. Perché un nuovo mondo possa prevalere, è necessario che quello vecchio
venga spazzato via. E se persino il buon Dio è dovuto ricorrere al diluvio per
eliminare gli empi e salvare i giusti, non vedo come sia possibile per un
semplice uomo agire diversamente. Chiunque non riconosca e non accetti questo
semplice assunto è uno stolto o un bugiardo.»
«Quindi nessun rimpianto? Nessun aspetto
della tua vita che non cambieresti, o in cui ritieni di aver sbagliato?»
In effetti c’era una cosa.
«Forse avrei dovuto essere più avveduto
riguardo alle persone cui ho concesso la mia fiducia. Anche coloro di cui ero
convinto di potermi fidare, nel momento della difficoltà non ci hanno pensato
due volte a rinnegare me e ciò in cui sostenevano di credere pur di salvarsi la
vita o la carriera.»
«Tutto qui? Non c’è altro?»
«Dovrebbe?»
La Morte parve fare un cenno sotto il
mantello, di colpo mi ritrovai ad osservare tutto attorno a noi cose di cui mi
sarei volentieri dimenticato.
Le statue, i dipinti. Perfino quella
pantomima chiamata incoronazione, al cui solo pensiero mi ritrovavo ancora a
volermi sotterrare per l’imbarazzo.
«E questi come li chiameresti?»
«Apparenze.» risposi senza esitazioni.
«Fondamentali quando si governa. Il popolo non segue chi non dimostra di avere
la giusta dose di ambizione. Io ho dimostrato che potevo fare qualunque cosa, è
questo che dovrebbe fare chiunque aspiri ad essere un leader. E se il problema
sono i colpi di stato, il dispotismo, o l’accentramento del potere, ti
risponderei che le circostanze non mi concedevano il lusso di poter agire con i
guanti di velluto.»
Mentre parlavo, però, un dubbio mi si
stava insinuando nella mente, e forse era proprio questo ciò che la Morte
sperava di ottenere.
«A ben pensarci, se mi fossi circondato
di persone lungimiranti e competenti invece che di ambiziosi caproni ed
esecutori scodinzolanti, forse avrei potuto gestire la cosa in maniera diversa.
Sfortunatamente quando me ne sono reso conto era tardi per tornare indietro.»
Decisi di fermarmi. Visto che ero morto,
non aveva senso rimuginare oltre su ciò che era stato.
«Se mi fai tutte queste domande,
suppongo che il tuo ruolo sia quello di giudicarmi. Ebbene, che si fa? Se vuoi
spedirmi all’inferno non tiriamola ulteriormente per le lunghe. So di aver
fatto molte cose discutibili, ma rivendico la bontà e la correttezza dei miei
propositi. Anche se dubito che voi dei abbiate molto in simpatia simili umane
sottigliezze semantiche.»
«In effetti, è proprio all’inferno che
stavo pensando per te. Ma non il genere di inferno che potresti aspettarti.»
«Prego?»
«Contrariamente a ciò che gli abitanti
del tuo mondo credono, non esistono cose come il paradiso e l’inferno. Quando
una persona muore perde tutti i ricordi della sua vita passata, ma il suo
spirito si reincarna immediatamente da qualche altra parte. La maggior parte
rinasce nel proprio mondo d’origine, alcuni invece trascendono il tempo e lo
spazio per tornare in vita in altri mondi.»
«Presumo che la tua presenza qui
implichi che il mio caso rientri nella seconda opzione.»
«Come ho detto all’inizio, dipende da
te. In verità, ho una proposta da farti.»
«Sentiamo.»
«C’è un mondo là fuori, simile al tuo e
al tempo stesso diverso. A prima vista potrebbe sembrare pacifico e prospero,
ma in realtà si trova sull’orlo del baratro.»
«Che intendi dire?»
«Questo mondo è composto da due
continenti, Erthea e Treibam. La distanza che li separa è troppo grande perché
abbiano mai potuto sapere l’uno dell’esistenza dell’altro, ma ora le cose sono
cambiate. Cento anni fa il Re dei Demoni è apparso su Treibam, che ora sta per essere
completamente sottomesso dal suo esercito. E quando questo accadrà, Erthea
diventerà inevitabilmente il suo prossimo bersaglio. Teoricamente le nazioni di
Erthea sarebbero abbastanza potenti da riuscire a difendersi dall’invasione, se
unissero le forze combattendo tutte insieme. Il problema è che al momento
Erthea è un continente tutt’altro che unito. Al contrario, è funestato da
innumerevoli problemi.»
«Di che problemi stiamo parlando
esattamente?»
«Niente che tu già non conosca. Schiavi
maltrattati, poveri sfruttati, nobili ambiziosi. Anche se le sue nazioni hanno
smesso di farsi la guerra, l’equilibrio che lo ha tenuto in vita per molti
secoli è sul punto di spezzarsi.»
«È chiaro dunque. Se le truppe del Re
dei Demoni arrivassero con Erthea così divisa, non avranno problemi a
sottometterla.»
«Il che ci porta al fulcro della
questione. Se ti facessi rinascere ad Erthea saresti in grado di impedire il
destino che l’attende?»
La situazione era così assurda che se
non fossi stato sicuro di essere già morto avrei pensato di stare facendo il
più bizzarro dei sogni.
Ma poi, che razza di richiesta era?
Rinascere ad altra vita solo per rivivere quella che avevo appena concluso, e
che non era certamente finita nel migliore dei modi?
E allora come mai il pensiero mi faceva
tintinnare le corde del cuore?
«Che questa storia della reincarnazione
sia vera o meno, ora posso affermare con esattezza che tu non sei un angelo, un
demone, e di sicuro neanche la Morte.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«La Morte è assoluta e imparziale. È
l’immagine stessa dell’inevitabilità del destino. Non si scomoderebbe mai a
cercare di invertire le sorti dei viventi.»
«Tu credi nel destino?»
«Io credo che il destino è una tela
bianca che ogni uomo dipinge con le azioni che compie. Alcune diventano quadri
superbi, altri scarabocchi da bambini. Ma prima o poi il disegno termina, ed è
quel disegno a stabilire ciò che siamo stati e cosa lasceremo di noi.»
«Quand’è così, ti offro una nuova tela.
E se non basta, anche i colori con cui realizzarla.»
«Che intendi dire?»
«Se accetti la mia offerta, rinascerai a
nuova vita con tutti i tuoi ricordi. Se conosci già da ora quali conseguenze
potrebbero avere certe tue scelte, saprai come evitare di commettere di nuovo
gli stessi errori.»
«Supponiamo che io decida di accettare.
Che cosa ti aspetteresti che io faccia? Dovrei unificare a mia volta Erthea e
prepararla all’invasione? Formare un’alleanza tra le sue nazioni? E anche
ammesso che ci riesca, poi come mi dovrei comportare? Dovrei concentrarmi sulla
difesa? Oppure lanciare un attacco preventivo?»
«La cosa non mi riguarda. L’importante è
che Erthea venga pacificata e l’invasione scongiurata. Il modo in cui porterai
a termine quest’incarico è molto secondario.»
C’erano ancora un paio di cose che mi
premeva di chiedere, anche se dentro di me la mia decisione l’avevo già presa.
«Sembri oltremodo potente. Perché ti
serve uno come me? Io non sono che un uomo.»
«Per due motivi. Il primo è che
circostanze che non starò a spiegarti mi impediscono di agire in prima persona
nel mondo fisico. Posso solo indicare la strada ad altri.»
«E il secondo?»
La Morte parve sospirare, distogliendo
lo sguardo per la prima volta da che aveva avuto inizio la nostra
conversazione.
«Diciamo che alcuni dei problemi che
affliggono attualmente Erthea sono una diretta conseguenza delle mie azioni.
Sento di avere un debito nei confronti dei suoi abitanti più sfortunati, e
questo mi è sembrato l’unico modo possibile per ripagarlo. Allora? Qual è la
tua risposta?»
«Accetto.» dissi senza pensarci
ulteriormente.
«Molto bene.»
«Ma voglio essere chiaro fin d’ora.
Quando io mi assumo un obiettivo lo perseguo a prescindere da ogni altra cosa.
Non mi sono mai fermato davanti a niente per fare ciò che ritenevo giusto, e
voglio che tu sappia che non intendo farlo neanche stavolta. Non sarò
responsabile del sangue che sarà destinato inevitabilmente a scorrere.»
«Non ha importanza. Fino a che avrò la
convinzione che tu stia agendo nel miglior interesse di Erthea, non farò nulla
che possa ostacolare la tua missione.»
La luce attorno a noi aumentò la sua
forza, e partendo dai piedi vidi il mio corpo iniziare a farsi gradualmente
pulviscolo scintillante.
«E adesso?»
«In verità ero sicuro che avresti
accettato la mia offerta, così ho agito per tempo. La tua anima si è già
reincarnata in un nuovo corpo. Quando ti sveglierai sarai un bambino umano di
dieci anni. Ne avrai a disposizione altri dieci prima dell’arrivo delle truppe
del Re dei Demoni.»
«Dovrei riuscire ad ottenere in dieci
anni quello che non sono riuscito ad ottenere in trenta?»
«Non ho detto che sarebbe stato facile,
d’altronde non ti sei mai fatto spaventare dalle imprese impossibili. E poi
avrai ancora i tuoi ricordi. Confido che ne farai buon uso.»
«Ci rivedremo?»
«No, se farai bene il tuo lavoro.»
Ormai più di metà del mio corpo era
svanito, e potevo percepire la mia stessa coscienza che andava affievolendosi.
«A presto, Imperatore. Non mi deludere.»
«Daemon!
Svegliati!»
Quella voce tanto soave quanto imperiosa
mi catapultò con la forza di una cannonata nel mondo reale, spalancandomi gli
occhi sulla volta di paglia che mi stava sopra.
«Arrivo subito!»
Il tempo di saltare giù da quello
scomodo letto, gettarmi addosso due manate di acqua fredda, disfarmi del
camicione rattoppato in favore dell’uniforme, ed ero al piano di sotto.
Scalia e Zorech erano già seduti al
tavolo intenti a consumare la loro misera colazione a base di gallette, latte
annacquato e, solo per mio padre, del sidro caldo.
«Finalmente, era ora.» protestò mia
sorella agitando nervosamente la coda «Lo sai che ore sono?»
«Scusami Scalia. Dormivo profondamente e
così…»
«Basta con le scuse. Ormai hai più di
dieci anni. È ora che impari a mettere un po’ di giudizio. Non chiedo tanto, mi
basterebbe che ti svegliassi la mattina senza doverti chiamare tre o quattro
volte.»
«Dai Scalia, non essere così severa.»
disse Zorech grattandosi il corno alla base del mento che gli faceva da barba.
«Dopotutto ieri sera ha studiato fino a tardi.»
«Ti ci metti anche tu padre?»
Ebbene sì.
Era questa la mia nuova famiglia.
Un cinquecentenario dragone con le ali
tarpate, il muso allungato da lucertola e il corpo ricoperto di scaglie
grigio-azzurre e la sua figlia sanguemisto dalla pelle scura, tanto carina quanto
irascibile.
E io?
Io ero un umano, come aveva predetto
Faucheur - l’unico nome che mi fosse venuto in mente per il mio funereo
committente, essendosi rifiutato di rivelarmi la sua vera identità-
Il mio nome? Daemon.
Erano già trascorsi due mesi dal mio
risveglio in quel mondo; o meglio, dal risveglio dei ricordi della mia vita
passata. Perché da quanto avevo avuto modo di capire io vivevo con quei mostri
fin dal giorno della mia nascita.
E quando parlo di mostri non intendo in
senso dispregiativo. Era così che tutti li chiamavano: mostri.
Mi ci era voluto un po’ per riuscire ad
assimilare le memorie che il mio nuovo corpo aveva collezionato fino a quel
momento; in questo modo ero riuscito a metabolizzare velocemente la lingua, la
cultura e l’alfabeto di quel mondo, al punto che ormai leggere, parlare e
comprendere l’idioma locale mi veniva naturale.
«Ora però sbrigati a fare colazione
Daemon. È tardi, e devi andare a scuola.»
«Sì, padre.»
Ingurgitate un paio di mele e un
bicchiere di latte raccolsi la cartella appoggiata su una panca, e augurata la
buona giornata uscii all’esterno.
Malgrado la pioggia avesse lavato via il
proverbiale puzzo e rischiarato il cielo, il ghetto di Ende restava la solita
cloaca a cielo aperto di sempre.
Quattro mura di legno su di un
terrapieno rialzato delimitavano come un recinto quel piccolo e sovraffollato
agglomerato di baracche improvvisate, suddivise in quattro isolati delimitati
da un cardo e un decumano che unendosi al centro formavano una croce quasi
perfetta.
La proverbiale attenzione ai dettagli e
all’ordine geometrico dell’Impero si vedeva persino nel modo in cui trattava i
suoi schiavi.
Perché questo erano i mostri: schiavi.
Tutte quelle creature dai tratti
distorti o animaleschi che fossero dotati di un minimo di raziocinio erano
chiamati mostri; e tutti, con pochissime esclusioni, erano la forza lavoro sul
cui sangue, sudore e ossa l’Impero di Saedonia aveva costruito la propria
grandezza.
La domanda, più che legittima, veniva da
sé: perché dei mostri avrebbero dovuto, a prezzo di grandi rischi e ancor più
grandi sacrifici, prendersi cura di un orfano appartenente alla stessa specie
che li trattava come animali?
La risposta era tanto semplice quanto
scontata: empatia.
Tanto per cominciare, un neonato per sua
stessa natura è innocente per i crimini compiuti dai propri simili. Inoltre
così vicini alla frontiera, in una terra tanto ricca quanto inospitale e
pericolosa, i più saggi del gruppo avevano convenuto che tenermi con loro era a
conti fatti l’unica soluzione per evitarmi una morte prematura che avrebbe
pesato sulle loro coscienze.
O almeno, questo era ciò che ritenevo
potesse essere stato il loro pensiero, perché frugando nei ricordi della mia
infanzia non riuscivo a trovare una sola volta in cui, a precisa domanda, fosse
seguita un altrettanto precisa risposta.
Ovviamente non mi avevano fatto firmare
una cambiale in bianco. In base ad un qualche accordo stabilito nell’istante in
cui avevano accettato di tenermi con loro sarei potuto restare nel ghetto solo
fino al compimento dei sedici anni, passati i quali avrei dovuto andarmene per
non fare più ritorno.
Era anche per quello che ora si stavano
dannando tanto per mandarmi a scuola, al punto da avermi creato una finta
identità per permettermi di frequentare il villaggio e farmi degli amici:
dovevo acquisire le competenze e conoscenze necessarie a crearmi una vita e un
avvenire fuori da Ende.
Mentre mi avviavo con circospezione alla
baracca dietro la nostra casa potevo scorgere in lontananza i mostri già
allineati di fronte all’ingresso in silenziosa attesa dei sorveglianti che li
avrebbero condotti ai campi di lavoro.
Non c’erano ceppi, né corde, né altre
costrizioni di sorta. Ogni schiavo portava dentro di sé la propria catena,
nella forma di una piccola pietra magica che veniva inserita alla base del
collo, e tramite la quale era possibile per qualunque guardia infliggere ogni
sorta di dolore con il semplice movimento di un dito.
Perché sì, in quel mondo esisteva anche
la magia. E non parlo di quelle cose da ciarlatani e venditori di fumo del mio
vecchio mondo, ma di vera magia.
Ancora non capivo bene come funzionasse
o cosa fosse esattamente, ed era anche per questo che amavo frequentare la
scuola; qualsiasi informazione avessi incamerato su quel mondo e sulle sue regole
mi sarebbe stata molto utile per capire come assolvere all’incarico che mi era
stato assegnato.
Ma i minuti passavano, e io ero già in
tremendo ritardo.
Il tunnel che partendo dall’interno
della baracca arrivava fino ad una piccola baita poco distante nel cuore della
foresta esisteva già da diversi anni, e serviva principalmente per rifornire
segretamente gli schiavi di derrate alimentari in aggiunta a quelle fornite
dalle guardie.
Nella baita in questione viveva un
satiro, Drufo, che per quanto ne sapevano all’esterno era solo lo schiavo di un
tale signor Jacob Haselworth, che per inciso ufficialmente era anche mio zio e
tutore legale.
Ovviamente si trattava di una creatura
fatta d’aria, più finta di una moneta da tre goldie, comparsa evanescente di
una recita che solo in un posto così mal gestito e lontano dalla capitale
poteva sopravvivere alla rigida burocrazia imperiale.
«Finalmente, si può sapere dove ti eri
cacciato?» bofonchiò quel brontolone aprendomi la botola che stava sotto la sua
branda
«Scusa Drufo, ho dormito troppo.»
«E allora sbrigati a levarti di torno.
Sono stato a caccia tutta la notte, e ora a dormire voglio andarci io.»
Senza perdermi in ulteriori discussioni
uscii di casa e mi misi a correre lungo la strada sterrata, raggiungendo in
pochi minuti il sentiero che scendendo a valle mi condusse fino alle porte di
Dundee.
Per essere solo una piccola cittadina
Dundee era dotata di un sistema difensivo di tutto rispetto, con mura turrite,
doppie porte, e una fortezza della legione sul colle appena più a sud.
Tutti retaggi dei cento e più anni di
tensioni con la vicina Unione, e il fatto stesso che ormai le torri fossero
deserte, la fortezza pressoché abbandonata, e a sorvegliare le porte ci fossero
solo un paio di guardie cittadine annoiate testimoniava che quei tempi
sopravvivevano ormai solo nella memoria dei più anziani.
«Buongiorno Daemon.» mi disse una bella
bimba con occhiali e una lunga treccia appena entrai in classe
«Buongiorno Mary.»
«Dormito troppo? Mi stavo quasi
abituando alla tua nuova puntualità.»
«Mi dispiace. Ho studiato fino a
mezzanotte, e stamattina lo zio ha dovuto strillare parecchio per riuscire a
farmi svegliare.»
«Tu che studi fino a tardi?» disse la
rossa Giselle dal banco accanto al mio. «Non ci crederei neanche se lo
vedessi.»
«Credici invece.» gli fece eco Septimus
dal fondo dell’aula. «Ormai Daemon è diventato un bravo scolaretto modello.
Pensa che non viene nemmeno più a tirare palle di fango su quei porci di
miliziani.»
«Finitela, e prendete esempio da lui.»
li ammonì Mary. «Daemon, che ne dici se oggi andiamo insieme in biblioteca?»
«Volentieri.»
«Che storia è questa? Mi avevi promesso
che oggi ci saremmo allenati insieme!»
«Scusa Septimus, ma ho ancora parecchie
materie da recuperare.»
«Puoi sempre allenarti con me.» gli
sibilò Giselle con occhi da lince
«Fossi matto! L’ultima volta mi hai
quasi slogato una spalla! Ma come fai ad essere così forte?»
«Sono pur sempre la figlia di un
locandiere.»
In realtà il motivo era un altro, ma non
stava a me rivelarlo; e poi quei due se la intendevano così bene che non mi
andava di mettere il becco nei loro bisticci da mocciosi.
«In piedi!» ordinò Mary appena il
maestro si palesò in classe.
Come al solito la prima ora fu dedicata
alla lezione di storia, dalla quale mi chiamai subito fuori. Ormai tutti quegli
sproloqui sulle Guerre Sacre, la gloriosa resistenza del grande Impero, le
Sette Nazioni e tutto il resto li sapevo a memoria, e a giudicare dalle facce
dei miei compagni valeva lo stesso anche per loro.
La mia attenzione fu ben presto
catturata da quanto stava accadendo oltre le finestre, nel piazzale antistante
la scuola, dove il mercato settimanale era in pieno svolgimento.
Malgrado le finestre chiuse si poteva
sentire il vocione del banditore che cercava di spingere il più possibile al
rialzo il valore della merce, spacciando sassolini per diamanti come il peggior
imbonitore.
«Centodieci! Siamo a centodieci, nessuno
offre di più? Avanti signori, guardate questo magnifico orco! Forte come dieci
uomini, può sollevare due tronchi con un braccio e un covone di fieno con un
solo dito!»
Ma
per favore, quello di tronchi è già tanto se ne solleva uno. E guarda che occhi
sprezzanti. Scommetto che è un piantagrane.
«Mi voglio rovinare! Se superiamo i
duecento, con soli cinquanta goldie in più vi portate via anche questa
dolcissima gattina! Guardate che denti, e che visino dolce! Sarà il perfetto
animale da compagnia per i vostri figli, e una volta cresciuta… ci siamo
capiti, vero?»
Peccato
che il mese prossimo entrerà in vigore il nuovo editto imperiale che raddoppia
le decime per il possesso di schiavi al di sotto dei sei anni. Altrimenti
perché avresti tanta fretta di liberartene?
Come già fatto altre volte mi misi a
trascrivere i risultati delle varie assegnazioni, arrivando a calcolare l’utile
netto dell’asta molto prima che lo facesse il banditore.
Detraendo
il mantenimento, il trasporto, le tasse e le tangenti per le guardie, siamo a
circa duemilasettecento goldie. Proprio come pensavo.
Era evidente che ormai da tempo l’Impero
produceva più schiavi di quanti non ne avesse effettivamente bisogno, e dal
momento che era già la terza settimana di fila che l’asta degli schiavi andava
al ribasso era evidente che la manodopera stava iniziando a sovrabbondare
perfino nell’Eirinn Occidentale, dove tra miniere, segherie e latifondi
agricoli i lavoratori tecnicamente non bastavano mai.
Oltretutto la schiavitù era una lama a
doppio taglio. Nell’immediato o in situazioni di carenza di manodopera era
sicuramente utile, ma nel lungo periodo produceva solo disoccupazione e
malcontento nella popolazione libera. E questo senza contare che gli schiavi
stessi se spinti al limite potevano diventare un problema non indifferente,
come avevo avuto modo di sperimentare io stesso ad Haiti.
Un gessetto mi arrivò sulla fronte con
la forza di un proiettile.
«Haselworth, se la mia lezione non è di
tuo gradimento c’è sempre il corridoio!»
«Vogliate scusarmi maestro.»
Con
la mira che ti ritrovi avresti fatto un figurone nella mia guardia, razza di vecchiaccio.
Come
promesso finita la lezione io e Mary ci portammo nella biblioteca, situata in
un’ala del palazzo del municipio.
Anche nella mia precedente vita mi ero
sempre trovato a mio agio tra i libri, ed ero stato particolarmente felice di
constatare che in quel mondo c’erano molte cose da imparare.
I miei volumi preferiti erano quelli di
magia e alchimia, che leggevo in modo quasi morboso.
Mi era capitato di assistere ad alcune
dimostrazioni di arte magica eseguite dai sacerdoti del piccolo tempio locale,
e un po’ mi dispiaceva di non essere rinato con il segno di Gaia necessario a
praticarla.
Per quanto riguardava l’alchimia invece,
mi ero accorto ben presto che con le dovute eccezioni non era altro che un
altro modo di intendere la chimica; cambiavano alcuni fattori e c’erano più
elementi da tenere in considerazione, ma una volta presa confidenza mi stava
venendo molto facile assimilarne i concetti.
Mary invece aveva una vera predilezione
per la matematica, e forse era per questo che ancora prima del risveglio dei
miei ricordi mi ero sempre trovato così bene a passare del tempo con lei:
avevamo parecchi interessi in comune.
Studiammo insieme fin quasi al tramonto,
e il custode dovette letteralmente buttarci fuori perché ci decidessimo a
prendere entrambi la via di casa.
«Senti, pensavo…» mi disse, tutta rossa
in volto, e tenendo gli occhi bassi «Forse potrei accompagnarti a casa. A
quest’ora la foresta può essere pericolosa, e poi…»
«Sarebbe bello, ma lo zio non
approverebbe. Ti ho già spiegato quanto possa essere burbero.»
«Quasi mi dispiace che tu sia costretto
a vivere con una persona tanto problematica.»
«Ormai ci ho fatto l’abitudine. E poi mi
ha accolto dopo la morte dei miei genitori, quindi non può essere tanto cattivo
in fin dei conti.»
«Forse hai ragione. Però, mi permetti di
accompagnarti almeno fino ai cancelli?»
«Certamente.»
Lungo il tragitto la nostra attenzione
venne catturata da un rullo di tamburi, e ignorando l’esortazione di Mary a
tirare dritto seguii il suono fin nella piazza centrale del villaggio, dove una
piccola folla era in procinto di assistere all’impiccagione di tre condannati.
«Nel nome di Sua Eccellenza Tiberio
Longinus, governatore dell’Eirinn Occidentale!» lesse il Comandante Beek,
comandante della milizia locale. «I qui presenti membri del gruppo dei
Guerrieri di Eirinn sono stati accusati di cospirazione e di alto tradimento, e
sono pertanto condannati ad essere appesi per il collo finché morte non
sopraggiunga! Lunga vita a Sua Maestà!»
Un colpo alla panca da parte del boia e
tutto era finito.
Tutti, inclusa Mary, distolsero lo
sguardo. Ovviamente non io; avevo visto troppi morti e assistito a troppe
esecuzioni per farmi impressionare da una cosa del genere.
«Daemon ora andiamo. Ti prego.»
«Sì, d’accordo.»
«Daemon!
Ma insomma, perché non vieni più a trovare la tua adorata mammina che ti vuole
tanto bene?»
Lori era stata la mia nutrice quando ero
piccolo, ma si considerava a tutti gli effetti mia madre.
Come tutti i minotauri aveva
essenzialmente tre cose che la facevano costantemente svettare nella massa:
l’altezza vertiginosa, le corna bovine ai lati della testa e, soprattutto,
quelle tette improponibili.
Sul serio, persino la donna più
prosperosa che avevo conosciuto nella mia precedente vita faceva la figura di una
sottodotata se paragonata a lei.
Sfortunatamente nel suo caso c’era anche
una quarta cosa a renderla speciale, quella che avevo sempre trovato in
assoluto la più insopportabile: il suo essere troppo, troppo… troppo emotiva!
Il momento peggiore era quando mi
abbracciava, ovvero ad ogni possibile occasione, dimenticandosi che con la sua
forza avrebbe potuto rompermi tutte le ossa.
«Lori, lasciami! Non sono più un
bambino!» urlai cercando di trovare un appiglio in quella coppia di budini
tremolanti
«Quanto sei permaloso. Sembra solo ieri
che ti davo il latte e piangevi quando ti portavano via da me. Ma non puoi
ridiventare piccolo? Ti ordino di ridiventare piccolo!»
Come se fosse stato possibile.
E poi un’infanzia con lei mi era
bastata.
Casa sua era assieme alla nostra una
delle poche ad avere un aspetto dignitoso, e andare a cena da lei voleva dire
quasi sempre potersi concedere il lusso di un pasto come si deve.
Le guardie si assicuravano personalmente
che le sue razioni fossero le più abbondanti, perché solo da un minotauro sano
e ben pasciuto poteva sgorgare quel prelibato nettare bianco che solo i più
ricchi potevano permettersi.
Stando alle sue stesse parole, uno dei
motivi per il quale aveva accettato fin dal primo momento di adottarmi e farmi
vivere con loro era che avrebbe finalmente potuto dare il suo latte a chi
voleva lei.
Insomma, paragonare Lori alla mia
precedente madre voleva dire paragonare il giorno alla notte.
Quella
megera! Non solo non è venuta alla mia incoronazione, ma quando le ho chiesto
di baciarmi l’anello imperiale mi ha rifilato un ceffone!
Ma nonostante tutto le avevo voluto
bene, tanto quanto ne volevo a Lori: perché che uomo è quello che non ha il
massimo rispetto per la propria madre?
Andavamo a cena da Lori più o meno una
volta al mese, un giorno che Scalia in particolare bramava più del suo
compleanno, perché era l’unica occasione in cui la sua insaziabile fame di
drago potesse essere in qualche modo placata.
Ovviamente la cosa non si applicava a
me: per me c’era sempre qualcosa di più.
Se altri avevano zuppa di miglio, latte
annacquato o sidro, io avevo piccoli spezzatini di cervo, del pesce essiccato o
una zuppa di carne e verdure. Non erano certo i pasti che consumava
abitualmente un bambino anche solo del ceto medio, ma era grazie a questo se
malgrado tutto ero riuscito a crescere in modo abbastanza decoroso. Al massimo
ero un po’ più basso e asciutto della media, ma niente a cui non fossi
abituato.
«Ho saputo che da qualche settimana a
questa parte stai studiando molto e che i tuoi voti stanno migliorando sempre
di più. La tua mamma è così fiera di te.»
«È giusto che sia così. State facendo
tutti grandi sacrifici per me, il minimo che posso fare è ripagarli
impegnandomi nello studio.»
«Ma sentilo.» disse Scalia «Parli quasi
come un adulto. Se penso che fino a due mesi fa eri una perpetua fonte di guai,
e di studiare non ne avevi la minima intenzione. Sembri quasi un’altra
persona.»
«Diciamo che ho avuto un risveglio di
coscienza. Però giacché ne stiamo parlando, forse potrei fare anche qualcosa
d’altro oltre a studiare. Potrei imparare un mestiere, oppure aiutare Drufo
nella caccia.»
«Ne abbiamo già parlato altre volte
Daemon.» mi fermò mio padre «Per adesso devi pensare solo alla scuola.
L’impegno che metti nello studio è una ricompensa più che sufficiente per i
nostri sforzi. Dico bene Lori?»
«Benissimo! E poi se passassi altro
tempo fuori di qui, quando avrei l’occasione di coccolare e viziare il mio
adorato bambino? Con quegli occhi azzurri, e quelle guanciotte rosate. Fatti
abbracciare!»
«Per favore Lori, non di nuovo.»
L’improvviso aprirsi della porta
interruppe sul nascere quell’ennesima situazione imbarazzante, ma la mia gioia
durò solo per il tempo che impiegai ad accorgermi dell’identità dei nuovi
arrivati.
«Felice serata, mastro Zorech.» disse il
grassissimo maiale, ingioiellato come un re, che guidava il trio.
«Buonasera, mastro Borg.» rispose mio
padre, come se ogni sillaba di quella frase gli venisse a costare uno dei suoi
denti aguzzi.
Per interminabili secondi, nessun’altro
aprì bocca.
«Lori. Porta Scalia e Daemon a casa.»
«Ma, padre…»
«Niente ma, Scalia.»
Sulle prime fingemmo di obbedire, ma una
volta fuori facemmo a gara per arrivare per primi dietro la casa e poter
sbirciare ciò che accadeva all’interno dalle fessure tra le assi del muro.
Borg aveva preso il mio posto
accomodandosi di fronte a Zorech, mentre il coboldo e la lucertola che gli
facevano da guardaspalle seguitavano a stare in piedi accanto alla porta
chiusa.
Sembrava che la situazione potesse
cambiare da un momento all’altro, difficile dire in che direzione; da parte
mia, non ricordavo di aver mai visto un’espressione più spaventosa negli occhi
di mio padre.
«Gradite, mastro Zorech?» disse il
maiale prendendo un cofanetto d’argento dal taschino del suo giaccone doppio
petto.
Zorech non si mosse né accennò alcunché.
Al che il maiale aprì la scatola, prendendone fuori un grosso sigaro e
accendendolo con la candela appoggiata sul tavolo.
«Lukra. Con le migliori foglie essiccate
di Torian. Potresti fumarne uno sul letto di morte dopo una vita intera da
pezzente, e diventerebbe di colpo una vita ben spesa.»
«La mia risposta l’avete già avuta,
mastro Borg. Non importa quante volte ritornerete, non cambierà.»
Borg non sembrò raccogliere la
provocazione, e anzi piegò le labbra sottili in un sorrisetto compiaciuto.
«Devo dire che vi facevo molto più
lungimirante. Il vostro piccolo business della caccia ha delle enormi
potenzialità, delle quali voi stesso sembrate non rendervi conto. Ora come ora,
quanto vi frutta? Sette, forse ottocento goldie d’oro all’anno? Con le vostre
competenze e la mia esperienza, vi assicuro che potrebbe fruttare dieci volte
tanto.»
«Non ho creato questa operazione per
arricchirmi. Quel denaro serve per il mantenimento di Daemon, ed è frutto degli
sforzi di tutta la comunità. Gli paghiamo la retta, i libri di scuola, e quel
poco che riesco a mettere in più in tavola per lui. E quello che avanza finisce
in un fondo che stiamo mettendo da parte per darglielo al suo sedicesimo
compleanno, quando dovrà andarsene da Ende.»
«Appunto. E allora per quale motivo non
valorizzarlo ancora di più? Io chiedo solo una piccolissima percentuale. Sapete
com’è, i rischi.»
«Esattamente. I rischi. Noi ne stiamo
correndo già troppi. E non ho intenzione di rimettere la nostra sorte e l’unica
piccola fonte di introiti che abbiamo nelle mani di qualcuno che la userebbe
solo per riempirsi le tasche a nostre spese, o che ancora peggio sarebbe pronto
a sacrificarci se le cose dovessero mettersi male.»
Stavolta Borg sembrò accusare il colpo
fissando in cagnesco il suo interlocutore, che tutto sembrava meno che
intimorito.
«Voi pensate di conoscermi, mastro Borg.
Ma anche io conosco voi, e la reputazione che vi precede. Potreste uscire da
qui in qualsiasi momento. La verità è che con i vostri intrallazzi avete fatto
arrabbiare le persone sbagliate, e vi siete fatto rinchiudere qui dentro perché
è l’unico posto in cui i vostri nemici non possono raggiungervi. Chiunque viva
qui ad Ende è sotto la mia responsabilità, e ciò include ovviamente anche voi e
i vostri tagliagole. Ma se voi dite o fate qualsiasi cosa che possa mettere in
pericolo la nostra comunità, a cominciare dalla mia famiglia, vi posso
assicurare che ciò a cui siete sfuggito là fuori è niente rispetto a quello che
passerete per causa mia. E ora, fuori da qui.»
I due guardaspalle avevano già infilato
le mani all’interno dei mantelli, ma Borg, rientrato in possesso del proprio
autocontrollo, fece loro un cenno. Quindi, quasi sorridendo, si alzò dal tavolo
dirigendosi verso la porta.
«Ho sentito che hai combattuto con il
Signore Oscuro a suo tempo. Sai quale fu il suo più grande errore? Si era fatto
i nemici sbagliati.»
E detto questo se ne andò, seguito a
ruota dai suoi uomini.
Quella
notte la passai in bianco, e non certo perché Scalia si era addormentata
un’altra volta avvinghiandosi a me come fossi stato il suo orsacchiotto.
Nella mia vita precedente ero solito
dire che solo gli stolti scendono in battaglia con un piano in testa, e che
nell’improvvisazione vi è la chiave per la vittoria.
Ebbene, quello era invece il classico
caso in cui tale affermazione andava a farsi benedire.
Per questo mi ero preso tutto quel tempo
per ambientarmi ed avere un’idea più o meno chiara della situazione che mi
stava intorno.
E ora, dopo due mesi, potevo affermare
con assoluta certezza che Faucheur era stato fin troppo ottimista nel
descrivermi la situazione.
Altro che inferno, altro che orlo del
baratro: non avevo idea di quale fosse la situazione altrove, ma quella
provincia era una santabarbara con la miccia innescata.
C’erano tutte le premesse per un
disastro: un governatore inviso e incompetente, una politica altamente
repressiva, moti indipendentisti faticosamente sopiti a suon di esecuzioni, e
come se non bastasse gli schiavi.
Di questo passo non vi era dubbio che
probabilmente Erthea era destinata a crollare su sé stessa prima ancora
dell’arrivo del Re dei Demoni.
Come fare dunque?
Di ritentare la scalata alle sfere del
potere o dell’esercito dell’Impero come avevo fatto nella mia vecchia vita non
se ne parlava neanche; potevano aver aperto le porte delle accademie militari e
delle università alle donne, ma era fuori discussione che un orfano cresciuto
in un tugurio di confine potesse aspirare a tanto. E comunque ci sarebbe voluto
troppo tempo.
Provare
ad aggirare l’ostacolo facendosi amico qualcuno di importante e spiegandogli la
situazione? E che cosa dovrei dirgli? Che un tizio vestito di nero mi ha
predetto l’arrivo di un’invasione da parte di un continente che nessuno ha
neanche mai sentito nominare? Sarei preso per pazzo.
Anche la carriera ecclesiastica, con cui
provare a smuovere le coscienze usando lo spauracchio della fede, non era una
strada percorribile, essendo le alte sfere precluse a chiunque non fosse dotato
di poteri magici. E inoltre non mi ci vedevo per niente nella parte del
fanatico religioso che in nome di Gaia chiama alla santa crociata contro il Re
dei Demoni.
Rimaneva solo l’opzione che fin dal
primo momento non avevo voluto neanche prendere in considerazione: una
rivoluzione.
La sola idea mi suscitava disgusto, ma
dopo ore e giorni spesi a scervellarmi inutilmente non potevo fare altro che
rassegnarmi.
Vista la situazione una cosa del genere
era comunque destinata a succedere, tanto valeva prenderne le redini e tenerla
entro limiti accettabili, evitando il ripetersi di quella follia collettiva
alla quale avevo già assistito.
Non sarebbe stato facile, e di certo al
momento non ero in condizione di poter fare la differenza.
Tanto per cominciare avevo ancora i miei
ricordi e la mia esperienza bellica, ma non il corpo adatto a fare ciò che
avevo in mente per lui.
Il primo passo sarebbe quindi stato
quello di rafforzarmi fisicamente, ma una volta che fossi riuscito a vincere la
reticenza di mio padre questo non sarebbe stato un grosso problema.
Ben più complicato sarebbe stato
ottenere l’influenza e l’autorità necessarie a mettere in atto i miei
propositi, ma a quello ci avrei pensato in un secondo momento.
Non mi sarei fermato. Né avrei esitato.
Il destino mi aveva dato un’altra occasione per dimostrare all’universo ciò che
potevo essere e quello che potevo fare, ed ero più determinato che mai a non
sprecarla.
Giratomi verso la finestra vidi le due
lune gemelle stagliarsi nel cielo buio, alle quali rivolsi il medesimo
giuramento che avevo pronunciato solennemente il giorno in cui avevo messo
piede aBrienne.
Cambierò
il destino di questo mondo con le mie mani.
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti!
Mi
presento, mi chiamo Cj Spencer.
Frequento
da anni EFP con il nickname di Carlos Olivera, ma ho creato questo
secondo canale per dedicarlo interamente a questo progetto.
“Furansu
Kōtei ga Isekai ni Tensei shi Maō to Tatakau!”,
questo il titolo originale, rappresenta la mia prima avventura nel mondo delle
light novel, e rappresenta la tappa finale di un lungo lavoro preparatorio che
è passato attraverso vari rimaneggiamenti e riscritture che hanno modificato
profondamente sia i personaggi che lo svolgimento della vicenda.
Trattandosi
del mio “esordio” in questo ambiente ne consegue che sono aperto ad ogni sorta
di opinione, consiglio o critica che possa aiutarmi a migliorare.
Attualmente
ho completato il primo volume, e sto lavorando alla stesura del secondo. Pubblicherò
regolarmente un capitolo ogni 2 settimane, la domenica mattina, mentre le
tempistiche relative all’attesa tra un volume all’altro ovviamente non posso
dare garanzie, anche se cercherò ovviamente di non farvi aspettare troppo.
«Ehi, Daemon. È una mia impressione, o negli
ultimi mesi ti stai applicando anche più di prima?»
«Dò
questa idea?»
«Non sei
scappato neanche durante la lezione di storia, il che è tutto un dire. È
successo qualcosa?»
E che
cosa dovrei dirti? Che ho letteralmente supplicato Drufo
di insegnarmi qualcosa di caccia, e lui in cambio ha preteso che dedicassi allo
studio tutto il resto del mio tempo?
«Per te
deve essere una specie di tortura.»
«Sono
cresciuto nei boschi, mi piace stare all’aria aperta. Però
ammetto che studiare ha i suoi vantaggi.»
La facevo
tragica per apparire credibile, ma in verità andare a scuola non era certamente
un peso.
Per
fortuna che dal vecchio me avevo ereditato anche la propensione allo studio e
all’apprendimento.
«Lo
sapevi? Se mescoli della radice di perinzia
grattugiata a della polvere d’oro, porti tutto ad
ebollizione e ci aggiungi all’ultimo della malvasia,
ottieni un infuso che se bevuto ti protegge dagli incantesimi di fuoco.»
Sembravo
proprio un piccolo saputello presuntuoso che amava mettersi in mostra, ma che
potevo farci? Ero fatto così.
«Ora
scusa, ma devo andare. A quest’ora il negozio è sempre
pieno di clienti.»
Septimus,
che amavo vedere così verde di invidia per come noi due andassimo tanto d’accordo, attese che fosse uscita dall’aula
prima di avvicinarsi al mio banco.
«Che cosa
ci trovi in te non lo capirò mai.»
«Invidioso?»
«Ma
scherzi. È solo una quattrocchi innamorata dei numeri. Non è certo il mio
tipo.»
Mentiva
sapendo di mentire, e la cosa mi faceva morire dal ridere.
«Ad ogni
modo, lo sai quello che si dice in giro riguardo a Mary? Dicono che suo padre
la picchi, e che spenda tutti i soldi del negozio in vino e carte.»
Era una
storia vecchia che tutti conoscevano al villaggio. Da quando Doug Wallace era
rimasto vedovo era annegato sempre più nella bottiglia, e ora non passava quasi
giorno senza che scatenasse risse nella locanda del padre di Giselle o alzasse
le mani su Mary.
Purtroppo
come tutti i luoghi di frontiera anche Dundee era quel genere di posto dove
ognuno si faceva i fatti propri, e complice il fatto che Mary era troppo
testarda o troppo spaventata per chiedere aiuto a qualcuno la situazione
rimaneva immutata.
Per ora
non potevo farci niente, ma anche quella era una cosa a cui avrei potuto
provare a porre rimedio se fossi diventato abbastanza forte o importante.
«Ora
vado. Sono in ritardo per la mia lezione di caccia.»
Se volevo dare vita alla mia visione dovevo
migliorare lì dove ero sempre stato carente, o dove ora mi rendevo conto di
avere sbagliato.
Ma prima
di tutto dovevo fortificarmi, e imparare un mestiere che potesse essermi utile
e nel contempo aprirmi le porte giuste. E visto che nelle legioni un orfano non
avrebbe avuto possibilità reali di carriera e che la milizia era solo una
manica di illetterati bifolchi, la professione di cacciatore mi era sembrata l’unica opzione percorribile.
E poi
almeno in quest’ambito non partivo sicuramente da zero.
Per mia
fortuna tirare l’arco non era molto diverso dallo sparare
con un cannone o un moschetto; bastavano un po’ di
inventiva, qualche nozione di fisica, e la freccia puntava dritta al suo
obiettivo, senza mancarlo e soprattutto senza fare rumore.
In poche
settimane avevo imparato a costruire, incordare e mantenere un arco, a
fabbricare e piazzare trappole, a seguire le tracce e a muovermi per la foresta
silenzioso come un lupo. Sapevo distinguere le prede ambite da quelle di scarsa
qualità o individuare a colpo d’occhio il bersaglio giusto
in mezzo ad un’intera mandria.
E poi
tirare con l’arco, scuoiare e trasportare le prede,
muoversi nei boschi e arrampicarsi sugli alberi erano modi molto efficaci per
fare muscoli e migliorare la mia già considerevole agilità.
Giustificavo
le lunghe assenze da casa dicendo che passavo il tempo alla baita a studiare e
fare i compiti, ma ero abbastanza sicuro che Scalia e Zorech
sospettassero qualcosa.
Quello
era il giorno del mio esame finale. Se fossi tornato entro il tramonto con
quattro lepri o due volpi, d’ora in poi avrei potuto
andare a caccia da solo e gestire da me i proventi del mio lavoro.
A metà
pomeriggio avevo già portato a termine il compito affidatomi, ma incapace di
contenere il mio brutto vizio di volermi sempre mettere in mostra avevo scelto
di restare nei paraggi e accrescere il mio bottino di prede.
Uno degli
allarmi sonori che avevo piazzato in giro per aiutarmi a individuare le prede
si mise a tintinnare mentre me ne stavo appollaiato su di un ramo, seguito
subito dopo da un gran fracasso ed ingiurie irripetibili.
Incuriosito
andai a vedere, ritrovandomi di fronte ad una scena a metà tra il comico e il
grottesco. Ai piedi dell’albero su cui mi ero arrampicato
stava una grossa lucertola in abito scuro completamente avvolta dal filo della
trappola, che più tentava di liberarsi e più rimaneva avvinghiata.
«Luda, brutto imbecille!» lo rimproverò il coboldo suo amico
tagliando lo spago. «Ti pare il caso di fare tanto chiasso?»
«Non è
colpa mia, Rust.» replicò la lucertola. «Vorrei tanto
sapere chi si diverte a mettere fili e campane in mezzo alla foresta.»
«Sono
trappole da cacciatori, idiota. Deve essercene uno nei dintorni.»
Al che
entrambi si guardarono attorno, ignari del fatto che mi trovassi proprio sopra
le loro teste.
«Ma il
capo non ha detto che gli umani non si spingono fin quassù?» disse ancora Luda
«Di
sicuro si tratta di quel caprone.» quindi Rust passò
il pugnale al suo compare. «Trovalo e fallo tacere. Io vado al nascondiglio.»
«Il capo
vuole mettere le mani sull’affare della caccia. Sicuro
possiamo permetterci di farlo?»
«È chiaro
che il vecchio drago non vuole collaborare. Lo avremmo fatto comunque. E poi,
questo affare è mille volte più redditizio. Vuoi spiegarlo tu al capo che il
nascondiglio potrebbe essere compromesso?»
Al che i
due si separarono, con la lucertola che si allontanò in una direzione e il
coboldo che, sistematosi meglio in spalla la sacca che aveva appresso, proseguì
nell’altra.
Quanto a
me, l’istinto mi diceva di girare i tacchi e andarmene per
la mia strada.
Ma ormai,
devo ammetterlo, il mio giudizio stava iniziando a risentire delle esperienze
che avevo vissuto fino a quel momento come Daemon Haselworth, e alla fine spinto
dalla curiosità che solo un bambino incosciente e troppo sicuro di sé poteva
avere mi misi alle calcagna di Rust.
Seguii le
sue tracce fin dentro ad una grotta nel cuore della foresta, con l’ingresso ben nascosto da alcune frasche e rami tagliati.
Non
dovetti che fare pochi passi all’interno per capire che si
trattava del magazzino segreto del maiale, una specie di stanza del tesoro
traboccante di merci esotiche di ogni genere, dalle spezie ai tessuti, fino
alle armi e a tutte le monete e valute conosciute.
L’interno era più grande di quanto mi sarei aspettato, e a causa
dell’eco quando udii la voce di Rust
mi rimbombò così vicina che per poco non mi venne un infarto.
«Anche
stavolta non hai mangiato? Sarà meglio per te che la prossima volta che ritorno
tu abbia finito tutto, o farai i conti con il capo.»
Commisi l’imprudenza di seguire il suono della voce in una camera
secondaria, scorgendo Rust rivolto di spalle e
intento a parlare con qualcuno ai propri piedi che non riuscivo a distinguere.
Ero così
preso ad osservare ciò che avevo davanti da dimenticare di guardarmi le spalle;
e nello stesso momento in cui riuscivo a percepire una presenza dietro di me
qualcosa mi colpì con violenza alla base del collo spedendomi dritto nel mondo
dei sogni.
Non so quanto tempo rimasi svenuto.
So solo
che quando ripresi i sensi ero a terra, legato come un salame nella stessa
stanza in cui avevo sbirciato.
Dall’altro lato rispetto a me, raggomitolata su sé stessa e incatenata
alla parete, c’era una bimba forse della mia stessa età, o
anche più piccola, i capelli candidi come la neve, il naso piccolo e rotondo,
orecchie ursine e una folta pelliccia su gambe e braccia.
Nei suoi
occhi, grandi e azzurri, solo paura.
«Sei uno
yeti. Come ti chiami? Cosa è successo?»
Lei non
rispose, restando a fissarmi tutta tremante.
«Dobbiamo
andarcene di qui.»
Tentai di
liberarmi, ma quei maledetti ci avevano messo davvero impegno a fare quei nodi,
e come se non bastasse un improvviso eco di passi mi costrinse a calarmi
nuovamente nei panni della vittima inerme.
«Io l’avevo capito subito.» disse Borg. «Avevo capito subito che
saresti stato una bella seccatura, ragazzino.»
«Cosa
avete fatto a Drufo?»
«A
differenza tua, sa rendersi invisibile. Ma non può restarlo per sempre. I miei
uomini stanno battendo la foresta, e altri sorvegliano la sua casa. Prima o
dopo salterà fuori.»
Borg
quindi si avvicinò afferrandomi per il mento e fissandomi dritto in volto;
difficile dire se trovassi più nauseante il suo puzzo da maiale o i profumi che
usava per nasconderlo.
«Ora che
ti guardo bene, sei piuttosto in forma. Nessuno penserebbe che sei cresciuto in
mezzo a un mucchio di mostri lerciosi.»
«Di
sicuro sono infinitamente migliori di te, lurido maiale!»
Mi pentii
subito di quell’affermazione. A quel porco bastarono due
dita per serrarmi la gola, stringendo quel tanto che fosse necessario per
rendere ogni mio respiro un rantolo agonizzante.
«La
senti? Quella sensazione che stai provando? Si chiama paura. Mi basterebbe un
gesto del pollice per spezzarti questo piccolo, fragile collo.»
Avevo
passato tutta la mia precedente vita a cercare di mascherare le mie debolezze,
e anche se dentro di me sapevo che il suo scopo non era quello di uccidermi non
posso negare che in quell’occasione ebbi davvero paura.
«Considerala
una lezione. Una molto importante. Prima di parlare, pensa sempre a chi hai
davanti.»
Per tutto
il tempo la piccola yeti dall’altro lato della stanza era
rimasta immobile, in silenzio e raggomitolata in una nicchia, incapace di
distogliere lo sguardo.
«Cosa
facciamo ora, capo?» domandò Rust. «Usiamo il
moccioso per costringere il drago a collaborare?»
«Ci sono
modi migliori per far fruttare merce inaspettata. Specie se è di prima
qualità.»
«Io non
sono merce. E non lo è neanche lei.»
«Se un
cliente richiede qualcosa, quella cosa diventa automaticamente merce da vendere
e comprare. Che si tratti di cibo, armi, o di un piccolo yeti delle montagne di
Khoral, che per inciso può valere una fortuna per i
collezionisti di mostri esotici. Che si tratti anche di un ragazzino umano. Tu
piccolo non hai neanche idea di quante famiglie nobili della Volkova senza eredi siano disposte a pagare cifre
spropositate per un bambino sotto i dieci anni, in salute e di bell’aspetto.»
A quel
punto il maiale si infilò in bocca il mozzicone estinto, masticandolo
rumorosamente.
«Dovresti
ringraziarmi. Di sicuro il posto in cui andrai a finire sarà infinitamente
meglio di questo letamaio.» quindi si girò verso i suoi uomini. «Luda, tu resta qui e sorveglia il magazzino, e tu Rust unisciti agli altri cacciatori. Voglio la testa di
quel caprone su un vassoio entro domattina.»
Pensava
di avermi domato, ma si sbagliava di grosso. Appena se ne furono andati mi
rimisi al lavoro, e anche se mi ci vollero parecchie ore di tentativi con il
rischio di slogarmi i polsi alla fine riuscii ad allentare i nodi e a
liberarmi.
Mentirei
se dicessi di non aver considerato per un attimo l’idea di
lasciare Borg libero di fare quello che voleva con me; di sicuro come figlio di
una famiglia nobile avrei avuto molte più possibilità di portare a termine la
mia missione. Il problema è che c’erano troppe variabili
da tenere in conto, dal prestigio e possibilità della mia eventuale famiglia d’adozione al tempo che sarebbe occorso per raggiungerla, e vista
la situazione non era il caso di affidarsi alla mia proverbiale fortuna.
«Ecco
fatto.»
Provai a
cercare le chiavi del collare della yeti, ma non trovandole non ebbi altra
scelta che rimediare uno scalpello e improvvisarmi scassinatore.
Quella
poveretta mi guardava come se ritenesse impossibile che un umano potesse fare
qualcosa di buono per lei, e probabilmente aveva ragione.
Nella mia
vecchia vita quasi mai avevo fatto qualcosa che non prevedesse un guadagno
personale, e non avevo alcuna intenzione di venire meno a questo fondamentale
del buon governante.
Ma la
cosa più indispensabile per chi aspira a percorrere la scala del potere è da
sempre la lealtà, e la lealtà di uno yeti, per quanto giovane, poteva diventare
un ottimo investimento per il futuro.
«Sapi.»
«Come?»
«Il mio
nome. Sapi.»
Almeno
stava iniziando a fidarsi, dando un senso a tutti i rischi che stavo correndo
per cercare di aiutarla.
Alla fine
bastarono pochi colpi per rompere quella vecchia serratura.
«E ora
andiamocene da qui!»
Il
problema restava Luda che montava la guardia alla
caverna, ma quella lucertola era così stupida da fare un giro di controllo a
intervalli regolari di trenta minuti, cosicché fu facilissimo sgusciargli
accanto senza che se ne accorgesse.
Una volta
fuori, e sempre tenendo per mano Sapi, corsi il più
velocemente possibile verso la baita di Drufo,
trovandola però come mi aspettavo sorvegliata dagli sgherri di Borg.
«Maledizione,
così non possiamo neanche usare i tunnel per raggiungere il ghetto.»
Occorreva
trovare un’altra soluzione.
Prima
ancora di diventare imperatore di mezza Europa avevo fatto tutto il possibile
per non contare sugli altri, convinto com’ero di poter
risolvere anche le situazioni più impossibili confidando unicamente in me
stesso e nelle mie capacità.
Ma quando
ti ritrovi in situazioni di quel genere, per di più nel corpo di un bambino,
arrivi a riconsiderare l’importanza di avere qualcuno fidato
a cui rivolgersi, realizzando nel contempo quanto sia stupido ostinarsi a voler
fare da soli per eccessiva confidenza o per senso d’orgoglio.
«C’è solo una persona che può aiutarci.»
In tutta la mia vita non avevo conosciuto
altro che sofferenza.
Non ho
mai saputo chi fosse mia madre, forse una schiava o la discendente di alcuni
degli umani che avevano seguito il Signore Oscuro.
Come
quasi tutti gli schiavi ero nata in una riserva, lì dove i mostri venivano
selezionati e accoppiati come animali da riproduzione, ed era stato solo per un
caso se ancora piccola –almeno per i miei standard– ero stata destinata allo stesso ghetto in cui era rinchiuso
mio padre.
Anche se
sei un drago sanguemisto che invecchia dieci volte più lentamente di un uomo
nei ghetti sei obbligato a crescere in fretta.
«Sei solo
una schiava!» mi aveva gridato la prima guardia che mi aveva punita «E tale
resterai per tutta la vita!»
Ma io non
ero come gli altri. Io lottavo.
Non ricordo
più tutte le volte che sono stata punita, e anche se le pietre del servo non
lasciano segni fisici il dolore e le ferite nell’animo non
scompaiono mai.
La prima
volta che mio padre mi aveva sorpresa a cercare di imparare a usare una spada
mi aveva rimproverata severamente. Lui diceva che l’odio
degli umani nei nostri confronti non era del tutto ingiustificato, visto quello
che avevano subito per causa nostra.
Io però
non ero d’accordo. Che colpa avevamo noi, che il Signore
Oscuro non l’avevamo neanche mai visto, per ciò che
avevano fatto i nostri antenati cinquecento anni prima?
Tutti i
giorni andavo alla segheria, o nei boschi a tagliare alberi, alla sera tornavo
a casa stanca morta, e il giorno dopo si ricominciava.
Era così
da centosessant’anni, e dentro di me mi stavo convincendo
che non sarebbe mai cambiato.
Poi, all’improvviso, un raggio di sole.
Papà e
gli altri mi avevano quasi mangiata quella sera vedendomi arrivare al ghetto
con Daemon tra le braccia –un nome che avrei scelto io
stessa– ed era stata dura convincerli a tenerlo.
Mi sono
domandata spesso perché una come me, che odiava gli umani con tutto il cuore,
si fosse dannata tanto per salvarne uno. Semplicemente di fronte a quel
fagottino abbandonato nella foresta non avevo capito più niente, come se avessi
avuto una voce invisibile a sussurrarmi nell’orecchio.
Inutile
dire che Lori era stata la prima a darmi manforte convincendo tutti ad
adottarlo, tanto quella muccona bruciava di istinto
materno represso, e le nostre litigate per accaparrarci le sue attenzioni
quando era piccolo erano diventate quasi uno spettacolo comico per i nostri
compagni.
Ma non
era stato facile, per niente.
Era già
difficile riuscire a badare a noi stessi, figuriamoci dover crescere un bambino
umano tenendolo nel mentre nascosto al resto del mondo.
L’idea di creare l’alias del signor
Haselworth era stata del vecchio Passe, un coboldo che ne sapeva sempre una più
di tutti, mentre quella di ricavare soldi e provviste dalla caccia della
lucertola Bombi, che ogni tanto non mancava di rubare qualcosa dalle cucine dei
minatori per nutrire il suo adorato nipotino.
In tutto
ciò mio padre, che non sembrava mai essersi del tutto convinto della decisione
che io e gli altri avevamo preso, aveva sempre supervisionato ogni cosa con
zelo intransigente, e anche se era troppo austero ed orgoglioso per ammetterlo
era chiaro che anche lui ben presto si era affezionato a Daemon.
Purtroppo
devo ammettere che all’inizio Daemon non aveva fatto
niente per dimostrare di meritare i sacrifici che stavamo facendo per lui.
Forse lo
avevamo viziato troppo, forse era semplicemente il suo carattere, fatto sta che
per lungo tempo l’idea di impegnarsi e dare un senso alle
nostre fatiche non l’aveva mai neanche sfiorato, e passava
tutto il suo tempo a marinare la scuola, fare il matto nei boschi o combinare
guai al villaggio coi suoi compagni.
Poi
improvvisamente, quattro mesi prima, un cambio radicale, e da un momento all’altro ci era quasi sembrato di avere a che fare con un’altra persona, perfino troppo matura e responsabile per un
bambino di dieci anni.
Un po’ mi dispiaceva non dovermi sempre preoccupare per i colpi di
testa del mio fratellino umano, così come mi aveva un po’
intristito che di punto in bianco Daemon avesse iniziato a prediligere lo studio
all’allenamento con la spada, che ormai praticava solo per
una manciata di ore alla settimana ma nella quale, per quale motivo, stava
diventando inspiegabilmente sempre più bravo.
Sapevo
per certo che mi stava nascondendo qualcosa, e questo mi rendeva pensierosa ed
irritabile; e non era quello il genere di preoccupazione che volevo avere per
lui.
A volte
speravo che combinasse di nuovo qualche guaio, o facesse qualche marachella
propria della sua età, per poterlo rimproverare e mettere in castigo come un
tempo.
Non
avessi mai avuto simili pensieri!
Era un
pomeriggio come tanti altri, passato a spaccarmi la schiena alla segheria. La
luce riflessa di uno specchietto mi arrivò in faccia sbucando dagli alberi, e
da come si muoveva capii subito che doveva trattarsi di qualcosa di grave.
Con la
solita scusa di andare a riempire gli orci al torrente mi mossi in quella
direzione, convinta di dover rimediare alla prima mattata del mio adorabile
fratellino dopo tanto tempo. E invece, Daemon mi si presentò davanti in
compagnia di una piccola yeti, entrambi coperti di sporco, raccontandomi la più
assurda e paradossale delle storie.
«Ma si
può sapere che hai combinato razza d’incosciente? E poi
cos’è questa storia che Drufo ti
sta insegnando a cacciare? Aspetta solo che papà ti metta le mani addosso!»
«Alla
punizione di nostro padre ci penserò dopo. Ora l’importante
è mettere Sapi al sicuro.»
In
effetti avevo notato che dopo la pausa per il pranzo quasi tutte le guardie di
Borg erano sparite costringendo chi era rimasto a sgobbare il doppio di prima;
quel maiale era così ricco e potente da poter comprare dalle guardie persino l’esenzione dal lavoro per chiunque volesse, e dal suo arrivo
erano stati in tanti di noi a vendersi a lui come faccendieri in cambio di una
vita un po’ meno miserabile.
L’unica cosa da fare era chiedere aiuto alla sola altra persona
capace di mettere insieme un gruppo abbastanza numeroso con la stessa facilità,
ma prima era necessario trovare un nascondiglio per quelle due piccole pesti.
«Ti
ricordi il nostro castello?»
«Certamente.»
«Andate
lì, restate nascosti e non fiatate, intanto io cercherò un modo per avvisare
nostro padre. Verremo a prendervi e vi porteremo al ghetto.»
«Grazie
Scalia. Ti devo un favore.»
«Aspetta
a ringraziarmi. Fossi in te mi preparerei fin d’ora per
una punizione coi fiocchi.»
Tornai
quindi al mio posto, spendendo la mezz’ora successiva
rimuginando in cerca di una soluzione.
Anche se
quel giorno avevano messo quel vecchio fossile di Oldrick
a sorvegliarci non potevo certo dire semplicemente che stavo male e volevo
tornarmene a casa.
Mentre
aiutavo Tarto a segare un grosso tronco ebbi l’idea giusta, e ringraziando gli dei per la mia natura di drago
al momento opportuno misi fulminea il braccio lungo il tragitto della lama.
Vorrei
dire che quello che feci dopo fu tutta scena, ma anche se il mio potere di
guarigione accelerata mi permetteva di riprendermi anche da una ferita come
quella il dolore che provai fu qualcosa di atroce, e le grida che lanciai per
attirare l’attenzione tutto fuorché finte.
«Ma sei
impazzita? Perché hai messo la mano in quel modo?»
«Te lo
spiego dopo, tu reggimi il gioco.»
Oldrick arrivò quasi subito con un paio di altre
guardie.
«Che è
successo?»
«Un
incidente Capitano.» disse Tarto, che poveretto era
così cotto di me che avrebbe fatto qualunque cosa gli avessi chiesto. «Ha messo
la mano nel punto sbagliato e…»
Chiamarono
il cerusico, che a parte applicarmi una fasciatura non poté fare altro che
riconoscere l’inevitabile.
«Visto
che è un drago non rischia la vita, e presto la ferita inizierà a rimarginarsi.
Per oggi però non può più lavorare.»
«Allora
non c’è niente da fare. Qualcuno di voi la prenda e la
porti al ghetto.»
«No
Capitano, non ce n’è bisogno. Posso tornare da sola.»
«Non fare
scherzi. Se vengo a sapere che sei andata altrove passerai un brutto quarto d’ora. Quanto a voi rimettetevi al lavoro. Dovrete lavorare anche
per lei.»
Per
quando riuscii a rimettermi in piedi e avviarmi verso il ghetto avevo già perso
talmente tanto sangue che la testa mi girava come una trottola, e a stento
riuscivo a camminare dritta.
Daemon,
accidenti a te. Giuro che questa te la faccio pagare.
Non avevo
fatto neanche metà strada che all’improvviso un’orda di energumeni sbucò fuori dal nulla, circondandomi mentre
percorrevo una zona di foresta poco battuta.
«Buongiorno
signorina Scalia.» grugnì una insopportabile voce di porcello alle mie spalle
«Di ritorno presto dal lavoro?»
«Buondì,
Mastro Zorech. Mi sembrava di riconoscere una puzza familiare.»
Sapevo
che provocarlo era pericoloso, specialmente nelle mie attuali condizioni, ma
mio padre lo diceva sempre che avevo la lingua più velenosa di quella di una
serpe.
«Sto
cercando il vostro bastardino umano. E sono sicuro che voi sappiate dove posso
trovarlo.»
«Perché,
di grazia?»
«Si è
impossessato indebitamente di una mia proprietà. Merce preziosa,
commissionatami direttamente da un funzionario molto vicino alla famiglia reale
di Patria. E ora, gradirei riaverla indietro.»
«Ti sei
fatto rubare la merce da un bambino? Complimenti, bel trafficante che sei.»
In altri
tempi quel maiale avrebbe raccolto la provocazione senza scomporsi, ma stavolta
si vedeva che non aveva nessuna voglia di scherzare.
«Beh, mi
spiace per te, ma non ho idea di dove sia Daemon.»
«Ne siete
proprio sicura?»
«Assolutamente.
E comunque, al tuo posto non mi preoccuperei troppo per quell’affare.
Di umani pazzi che amano collezionare mostri ce ne sono quanti ne vuoi là
fuori.»
Mi
accorsi di avere detto più di quello che avrei dovuto prima ancora di veder
comparire quell’insopportabile sorriso sdentato, e avrei
tanto voluto staccarmi la lingua a morsi.
«Strano.
Non ricordo di aver mai detto che la merce in questione fosse un mostro.»
Ad un suo
cenno i suoi uomini mi saltarono addosso tutti insieme; se fossi stata nel
pieno delle mie forze ne avrei fatto scempio in pochi secondi, ma mezza
dissanguata com’ero riuscii a stenderne solo due prima che
tutti gli altri riuscissero a bloccarmi a terra a pancia in giù.
«Lasciatemi,
maledetti!»
«Mi
dispiace che sia andata a finire così signorina Scalia. Ho grande rispetto per
voi e vostro padre.»
«Va all’inferno, sporco maiale!»
Il
pollice che uno dei suoi sgherri mi infilò nella ferita per poco non mi fece
perdere i sensi dal dolore, ma ero più determinata che mai a non dargliela
vinta.
«Nel
commercio gli accordi sono sacri. Non posso venire meno ad un accordo, o la mia
reputazione ne soffrirebbe enormemente. E la reputazione di un mercante è tutto
per lui. Quindi, ora mi direte dove si trovano quei due mocciosi.»
«Fai del
tuo peggio, maledetto. Ce ne vorrà prima che tu riesca a farmi parlare, e per
allora mio padre ti avrà già staccato la testa.»
«Ne
dubito. I miei ragazzi sanno essere molto creativi quando si tratta di spezzare
la resistenza anche dei più testardi. Ma sfortunatamente, non abbiamo tempo da
perdere con le finezze estetiche.»
Un attimo
dopo un fazzoletto impregnato di uno strano olio profumato mi venne ficcato con
forza sulla faccia, e nel giro di pochi secondi mi sentii sopraffare da una
tremenda stanchezza, mentre una voce impossibile da ignorare mi rimbombava
direttamente nella testa.
«La
verità è che ci sono metodi molto più efficaci per costringere qualcuno a
collaborare.»
Il castello non era altro che un rudere di
pietra perso nel cuore della foresta, divorato dai rampicanti e con il tetto
sfondato, introvabile per chiunque non sapesse dove cercarlo.
Scalia lo
aveva scoperto quando da piccola le permettevano ancora di girare liberamente
attorno al ghetto, ed era anche il posto in cui mi aveva trovato appena nato
una sera al rientro dal lavoro.
Da bravo
maschietto avevo voluto trasformarlo in una fortezza vera e propria, coprendo
di sassi e rocce porte e finestre e costruendo una scala di liane per entrare o
uscire passando sopra il muro. Vi portavo anche delle provviste, lasciate a
penzolare da una rete a due metri da terra al sicuro dagli animali.
Durante
le due ore che passammo lì Sapi non disse una parola,
restandosene seduta in un angolo con gli occhi bassi e rigirandosi tra le mani
i biscotti che le avevo offerto per calmare i morsi della fame, mentre io
ammazzavo il tempo esercitandomi a colpire al volo le foglie cadenti con un
coltello da lancio che avevo rimediato nella grotta.
Io la
osservavo restando a distanza, indeciso sul da farsi.
Da una
parte ero consapevole che ormai non era più possibile tornare indietro; anche
se mi ripetevo di averla salvata al solo scopo di conquistarmi la sua fiducia e
poter così contare su di lei al momento opportuno, era chiaro che il bambino
che era in me mi aveva spinto ad agire in maniera impulsiva, e ora non avevo
idea di come venire fuori da quella situazione.
Se volevo
portare a termine il mio compito non potevo più permettermi simili colpi di
testa. Ma ormai la frittata era fatta, quindi tanto valeva sfruttare la
situazione e cavarne fuori qualcosa di buono.
«Tranquilla,
siamo al sicuro. A parte io e Scalia, nessun altro conosce questo posto.»
La
piccola yeti sembrava ancor più confusa e spaventata di quando si trovava
incatenata in quella caverna, e mi guardava come se non avesse ancora ben
chiaro chi aveva davanti.
«Tu sei… un umano?»
«Beh,
suppongo di sì.» risposi con finta modestia
«Però… la tua amica… lei è una di noi…»
«Scalia è
più di un’amica. Lei e Zorech
sono la mia famiglia. Mi ha trovato lei quando ero appena nato, sai? Proprio
qui, davanti a questa casa. Mi ha portato a Ende, e
lì sono cresciuto. Ma mi raccomando, tu non dirlo a nessuno. È un segreto.»
«Ma gli
umani ci odiano. Hanno distrutto il mio villaggio. Ucciso tutti i miei amici. I
miei genitori. E hanno preso me.»
Era una
storia che conoscevo bene.
Anche se
quasi ovunque i mostri erano stati completamente sottomessi già dopo la fine
delle Guerre Sacre esistevano ancora comunità e piccoli villaggi che
sopravvivevano nelle zone più impervie e inospitali di Erthea, e i cacciatori
di schiavi ci andavano a nozze.
«Ce l’hanno spiegato a scuola. Le Guerre Sacre. I mostri che hanno
combattuto per il Signore Oscuro. Mio padre dice che i mostri hanno fatto molte
cose terribili allora, e che è naturale che oggi gli umani siano arrabbiati.
Però, secondo me non è giusto.»
Sapi pareva non riuscire a credere alle proprie
orecchie; sicuramente i suoi genitori le avevano raccontato chissà quali cose
sul conto degli umani, quindi doveva sembrarle impossibile che ora uno di loro
si stesse preoccupando tanto per lei.
«Quasi
tutti i mostri che vivono a Ende non erano nemmeno
nati quando è finita la guerra. Quindi, che colpa ne hanno loro? Così mi sono
promesso che un giorno, quando sarò grande, farò qualcosa per far sì che tutto
questo finisca.»
Qualcuno
avrebbe trovato poco etico servirsi di parole melliflue per circuire una
bambina spaventata; per quanto mi riguardava si trattava di prendere un’anima smarrita e senza più niente e nessuno su cui contare e
darle qualcosa di nuovo in cui credere.
D’altronde chi meglio di qualcuno alla disperata ricerca di un
amico può dimostrarsi, se opportunamente stimolato, il più affidabile dei
seguaci?
E io non
avevo né tempo né voglia di perdermi dietro a dilemmi morali.
Un rumore
di foglie calpestate ci fece entrambi scattare sull’attenti.
«Daemon,
sono io.»
«Scalia.»
«Va tutto
bene. Ora sono qui. Ma ho una mano ferita.»
«Non c’è problema, adesso esco io.»
Quindi,
dopo aver istruito Sapi ad aspettarmi, uscii all’esterno.
Scalia mi
aspettava poco distante, ai piedi di una grande quercia.
«Cominciavo
a preoccuparmi. Cosa è successo al tuo braccio?»
Purtroppo
fu solo quando le fui vicino, troppo vicino, che mi accorsi della sua
espressione assente e dell’assenza di luce nei suoi occhi,
vuoti come quelli di una bambola, ma ancora capaci di piangere.
«Mi
dispiace, Daemon.»
Gli
sgherri di Borg saltarono fuori come lupi in agguato tra gli alberi, e mentre Rust afferrava Scalia tenendola immobile tutti gli altri mi
circondarono, pronti a saltarmi addosso.
Il maiale
apparve per ultimo, tronfio e sorridente come mai prima.
«Bell’inseguimento, moccioso. Ma ora siamo giunti alla resa dei
conti.»
Stupido!
Stupido!
Come
potevo aver commesso una leggerezza simile?
«Che cos’avete fatto a mia sorella?»
«Era poco
collaborativa, così le abbiamo dato un piccolo incentivo.»
Interessante.
Quindi anche in questo mondo esistono droghe e sieri in grado di annullare il
raziocinio e spingere all’obbedienza.
Mi facevo
quasi paura da solo: anche in una situazione del genere il mio cervello non
smetteva di recepire e catalogare ogni informazione potenzialmente utile.
«Lo sai, sono
parecchio arrabbiato. Mi hai fatto correre per questa dannata foresta più di
quanto sia disposto a fare, e io ormai non ho più l’età
per certe cose.»
Nel
mentre un altro dei suoi uomini si era aperto la strada nel rudere ed aveva
messo le mani su Sapi, e le sue grida non facevano
altro che rendere la situazione ancor più tesa e insopportabile.
Mi ero
ripromesso solo pochi minuti prima di non agire mai più d’impulso,
ma feci l’unica cosa che mi venne in mente in quel
momento.
Alzai il
coltello puntandolo verso Borg, ritrovandomi quasi subito almeno cinque
balestre rivolte contro.
«Nessuno
deve farsi male ragazzino.»
«Sono d’accordo. Quindi ora lascia andare Sapi
e mia sorella, e tutto finisce qui.»
«Che cosa
vorresti fare? Colpirmi?»
«Se sarà
necessario.»
«Saresti
morto prima ancora di poter lanciare quel coltello.»
«Forse.
Sei disposto a correre il rischio?»
Con tipi
del genere l’importante è mostrarsi determinati, ma la
verità era che ci trovavamo in una situazione di stallo dalla quale non avevo
alcuna idea di come uscire.
Ma
evidentemente la buona sorte non aveva mai smesso di camminarmi accanto.
Una
freccia sbucata dal nulla centrò Rust alla mano
liberando Scalia, che ritornata in sé al momento giusto si liberò con una
tallonata alle parti basse del coboldo e corse verso di me dopo avergli
sottratto l’ascia.
Drufo aveva calcolato che prendersi una lavata di
capo per avermi addestrato in segreto era sicuramente meglio di dover rendere
conto della mia morte, quindi appena accortosi della situazione era
immediatamente tornato al ghetto per chiedere aiuto.
E l’aiuto era arrivato.
Solo
quando vidi sbucare da dietro il colle Zorech, Passe,
la tartaruga Taren, il garudaEilon e tutti gli altri, armati con quello che
avevano trovato, mi resi conto di quanto dovessero tenere a me e alla mia
sicurezza.
E, lo
ammetto, la cosa mi colpì.
Contemporaneamente,
il gorilla che teneva prigioniera Sapi si sentì
picchettare su di una spalla.
«Non ti
ha mai detto nessuno che i bambini non si toccano?» disse Lori prima di
stenderlo con un singolo pugno.
Alla
vista della sua preziosa merce che gli scivolava via dalle mani, Borg
semplicemente perse il controllo.
«Uccideteli
tutti!»
Quella
che scoppiò ad alcuni sarebbe potuta sembrare una battaglia, ma ai miei occhi
non era altro che una rissa tra primati.
Ma c’era del potenziale.
Un mostro
nella peggiore delle ipotesi valeva una volta e mezza un soldato di buona
costituzione, e anche se i loro corpi portavano i segni di una vita di
privazioni la forza non faceva difetto a nessuno di loro.
Oltretutto,
a distanza di cinquecento anni molti di loro sapevano ancora menare le mani, e
con un buon addestramento e la giusta disciplina potevano rivelarsi ottimi
soldati.
Non avevo
mai assistito prima d’ora ad uno scontro tra mostri,
perciò mi presi un paio di minuti per osservarli bene e farmi qualche appunto
mentale. Quindi, decisi che era meglio intervenire; in fin dei conti era il mio
futuro esercito quello che ora si stava scannando senza ragione in quel campo.
Certe
cose non cambiano mai, non importa in quale mondo ci si trovi. Usa il giusto
tono e la giusta autorità nel parlare, e anche un bambino potrà farsi obbedire
da un adulto.
E io
avevo speso tutta una vita ad affinare l’arte del discorso
e della parola; farmi ascoltare e domare le coscienze con le parole ormai mi
veniva naturale come respirare.
Ma un
conto era farsi ascoltare, un altro farsi obbedire o fare accettare le proprie
idee.
Tutto sta
a cominciare con la giusta enfasi, e una frase ad effetto è sempre il miglior
modo per aprire una conversazione.
«Non
bastano gli umani che vi uccidono e vi schiavizzano da secoli? Ora vi ammazzate
pure tra di voi?»
Facevo
finta di dimenticarmi che era soprattutto per colpa mia se si era arrivati a
quella carneficina, ma d’altronde saper portare la
conversazione sui binari giusti è virtù del bravo oratore.
Nel
frattempo poi mi era venuta in mente l’idea giusta per
cavarci tutti d’impaccio senza dover versare altro sangue.
Ostentando sicurezza, e augurandomi di aver inquadrato bene il tipo, mi
avvicinai a Borg.
«Hai
detto che per te Sapi non è altro che merce da
vendere, giusto? Quand’è così, la compro io!»
Dire che
tutti, incluso Borg, saltarono sul posto nel sentire quelle parole, e il tono
con cui le pronunciai, non renderebbe l’idea.
«Parlo
seriamente. Se intendi venderla, allora vendila a me.»
«E con
quali soldi pensi di pagarla?» replicò il maiale, in parte ironicamente, in
parte incuriosito dalla piega che stava prendendo tutta quella situazione
«Ho del
denaro. Soldi che mio padre e i miei amici hanno messo da parte per me. Posso
pagarti con quelli.»
«Daemon,
aspetta. Quei soldi servono a te.»
«Se
possono evitare questo stupido spargimento di sangue, sono ben felice di
spenderli adesso Scalia.»
Borg
prese fuori l’ennesimo sigaro, rigirandoselo a lungo tra
le mani, quindi alzò gli occhi in direzione di Zorech.
«E di
quanto denaro stiamo parlando?»
«Capo…» esclamò Rust, incapace di credere
che il suo boss potesse prestarsi a tutto quel gioco.
Zorech mugugnò e strinse forte il suo piccone,
incapace di sostenere il mio sguardo che bramava una risposta tanto quanto il
maiale.
«Fino ad
ora… Abbiamo raccolto all’incirca
cinquemila goldie imperiali.»
Però, che
cifra. Onestamente mi sarei aspettato molto meno.
Sfortunatamente,
per il genere di clientela che Borg poteva vantare erano solo spiccioli.
«Il mio
cliente mi ha fatto un’offerta di venticinquemila goldie
per quello yeti.»
Mentiva,
e forse sospettava che io ne fossi consapevole. Nessun mostro valeva tanto,
nemmeno uno yeti. Ma non era quello il momento di giocare al ribasso.
«Te ne
offro trenta. Quello che manca, ce lo metterò io. Tu volevi entrare nell’affare della caccia, giusto? Allora, sarò io il tuo
cacciatore!»
E
stavolta, persino il maiale si ritrovò senza parole.
«Drufo mi sta insegnando a cacciare. Ti prometto che entro
sei mesi sarò diventato un cacciatore bravo quanto lui. Caccerò per te, ti darò
i quattro quinti di tutto quello che guadagnerò, fino a quando non ti avrò
ripagato l’intera cifra.»
«Daemon,
basta così! Non penserai davvero di lavorare per questo porco!»
«Scalia,
smettila!» la rimproverò Zorech, consapevole di
quanto sua figlia potesse diventare imprevedibile quando si trattava di
proteggermi. «Daemon, cerca di riflettere. Sei solo un bambino. Ti ho già
spiegato tante volte che il tuo compito è studiare.»
«Farò
anche quello, padre. Hai la mia parola. Studierò e andrò a scuola, e nel tempo
che rimane mi dedicherò alla caccia. Non dovrete neanche più lavorare tanto per
me, perché d’ora in poi guadagnerò da me i soldi che mi
serviranno un domani per vivere. Così, i proventi della caccia di Drufo potranno essere usati interamente per aiutare gli
abitanti di Ende.»
Borg
aveva un rituale tutto suo quando si trattava di discutere e concludere un
affare, e il solo fatto che si fosse ormai messo il sigaro in bocca fu
sufficiente a lasciare i tirapiedi che lo conoscevano meglio con la bocca
socchiusa e la pelliccia tutta rizzata.
«Forse
potremmo discuterne.»
«Aspetta,
non ho finito. C’è un’altra cosa.»
«Davvero?
E sarebbe?»
«Tu sei
un mercante onesto, giusto? Che onora sempre i suoi accordi.»
«Per chi
mi hai preso? La parola di un mercante è sacra. Una volta che stringo la mano
ad un cliente il contratto è indissolubile, a prescindere da tutto il resto.»
«In
questo caso, voglio che porti Sapi al sicuro a
Connelly.»
Il fatto
che Borg per primo non si mostrò capace di nascondere il proprio stupore di
fronte ad una tale richiesta è abbastanza per rendere l’idea
del tipo di reazione che suscitò in tutti gli altri presenti, a cominciare
dalla stessa Sapi.
«Nel
Principato i mostri semiumani come lei possono integrarsi facilmente, e sono
sicuro che tu conosci sia il modo di farla passare attraverso i corridoi di
accesso, sia persone che possano prendersi cura di lei.»
«Questo
aumenterà di molto il tuo debito ragazzo, lo sai vero?»
«Non
importa. Voglio che possa crescere libera. E se per riuscirci dovrò lavorare
per te per più tempo, non importa. Ma voglio essere chiaro fin da ora, non farò
nulla per te che non sia cacciare. Non sperare di usarmi per il contrabbando o
cose del genere.»
Borg
prese un fiammifero dalla tasca, lo accese sfregandolo sull’apposito
braccialetto, e aspirò piacevolmente una generosa quantità di fumo.
«Abbiamo
un accordo.» disse mettendo in mostra i suoi denti luccicanti, con un sorriso
che sapeva di sconfitta indolore.
Forse
avevo davvero stretto un patto col diavolo, dissi tra me e me stringendo quella
mano, ma almeno l’avevo fatto alle mie condizioni.
Mi ero ripromesso non incensarmi mai più
come troppo spesso avevo fatto nella mia precedente vita, ma sono costretto ad
ammettere che in quell’occasione ero riuscito a compiere
un autentico capolavoro diplomatico.
Avevo
preso una situazione senza via di scampo scaturita da una mattata e ne ero
uscito con tutto ciò che avrei potuto desiderare.
In primo
luogo avevo risolto una volta per tutte il problema del mio addestramento; ora
che avevo un debito da onorare Scalia e Zorech non
avrebbero più potuto interferire, per non rischiare di inimicarsi Borg.
Lo stesso
Borg era convinto di avermi in suo potere, ma era troppo stupido e sicuro di sé
per capire che ero io in realtà che mi accingevo ad usarlo. Grazie alle sue
conoscenze, molto presto mi si sarebbero aperte le porte del fitto e
sicuramente ricco sottobosco degli affari leciti e illeciti di tutta l’Erthea Occidentale, che sarebbero state le fondamenta sulle
quali avrei edificato e fatto prosperare la mia nazione.
Non mi
dispiaceva essermi legato a lui per un lungo periodo: più tempo avessi
trascorso alle sue dipendenze, maggiore sarebbero state la reputazione e i
vantaggi che avrei potuto conquistare tra chi frequentava quegli ambienti.
Ma
soprattutto, avevo fatto un importante investimento per il futuro.
Non mi
illudevo certamente che tutti avrebbero accolto a braccia aperte la rivoluzione
che presto o tardi avrei scatenato in tutto il continente.
Al
contrario, sapevo fin troppo bene che avrei finito per versare molto sangue e
inimicarmi gente potente e pronta a tutto per proteggere il mondo marcio e
decadente in cui vivevano, come maiali che si godono il fango del porcile
mentre il macellaio affila i coltelli.
Sapi era ancora piccola, ma l’opera
di condizionamento che avevo messo in atto con lei stava già iniziando a dare i
suoi frutti.
Quando
andai a salutarla il giorno che partì con una carovana di contrabbandieri
diretta a Connelly, mi promise che un giorno sarebbe tornata per ripagare il
suo debito e permettermi di realizzare i miei sogni.
Sarebbe
stata una perfetta guardia del corpo.
Assolutamente
fedele, e pronta a morire pur di proteggermi da ogni pericolo.
Non
potevo chiedere di meglio.
Sapevo
che quelli che mi si prospettavano non erano tempi facili e che avrei dovuto
faticare, ma la cosa non mi spaventava.
Avrei
salvato Erthea dal suo destino. E l’avrei fatto a
qualsiasi costo.
Era la
mia missione.
Il mio
scopo.
La mia
vittoria.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Come promesso, due settimane dopo eccomi di
nuovo con il secondo (lunghissimo) capitolo di questa mia light novel con protagonista Napoleone Bonaparte.
Spero che la nuova impaginazione sia di
vostro gradimento, realizzarla è stata una bella impresa perché dopo così tanti
anni che mancavo da EFP mi ero del tutto dimenticato
come ci si arrabatta con i font.
Ringrazio Tubo Belmont
per la sua recensione, Valethebest92, Bindaz e il
Sergente Salvucci per averla inserita tra le preferite/seguite/ricordate.
Mi raccomando, fatemi sapere le vostre
opinioni, e se volete chiedermi qualunque cosa io sono qui!^^
“Non
si guida un popolo se non prospettandogli un avvenire,
un leader è un mercante di speranze”
CAPITOLO 3
SCERIFFO
Nella mia vita precedente non ero stato
benedetto con un corpo prestante e atletico.
Al
contrario ero sempre stato di costituzione piuttosto malferma, lo provava il
fatto che me n’ero andato molto prima di quanto mi sarei aspettato.
Come
se non bastasse ad un certo punto avevo ecceduto nei vizi, e questo oltre a
dare ai miei nemici argomenti su cui ridere e fare satira aveva sicuramente
contribuito alla mia prematura dipartita.
Questo
era uno dei tanti errori che ero determinato a non ripetere.
Libero
da costrizioni e vincoli famigliari, potevo ora coltivare il mio nuovo corpo al
meglio delle sue possibilità non facendogli mancare niente.
Con
la caccia mi tenevo in costante allenamento, ed i suoi frutti mi permettevano
di seguire una dieta bilanciata e altamente energetica che mi garantiva le
forze necessarie per nuovi esercizi in un circolo virtuoso senza fine.
Cinque
anni dopo aver stretto l’accordo con Borg il bambino piccolo e magrolino aveva
fatto spazio ad un giovane che si apprestava ad entrare nell’età adulta nel
pieno delle sue forze.
I
muscoli si erano fatti tonici, la vista acuta, i riflessi pronti. Conscio di
come un bell’apparire sia il miglior biglietto da visita mi ero preso cura
anche dell’aspetto esteriore, così da non dover più essere costretto a coprirmi
di orpelli e altre chincaglierie per mascherare quello che stava al di sotto.
Nel
mentre avevo lasciato definitivamente la mia casa nel ghetto per trasferirmi
alla baita insieme a Drufo, congedando una volta per
tutte l’inesistente signor Haselworth e prendendone il posto agli occhi del
mondo.
In
tutto questo tempo avevo trovato anche il tempo di addestrare una coppia di
aquilotti recuperati da un nido caduto, Louis e Marie, che una volta cresciuti
erano diventati compagni inseparabili, procurandomi talmente tante lepri e
cerbiatti da non dovermi preoccupare di cacciarmi il pasto.
Ovviamente
non avevo trascurato le pubbliche relazioni.
Come
avevo previsto lavorare per Borg era stato il mio lasciapassare per le stanze
del potere di mezza Erthea. Quel maiale poteva essere un arrogante, viscido,
opportunista figlio di una scrofa, ma era un tipo di parola, che oltretutto
sapeva come ricompensare il talento e riconoscere i buoni investimenti. Dal
giorno in cui mi ero messo al suo servizio, restandoci anche dopo aver onorato
in toto il nostro accordo, mai una volta era venuto meno al nostro accordo, prima
detraendo fino all’ultimo goldie dal mio debito con assoluta precisione e in
seguito pagandomi puntualmente per ogni incarico che svolgevo per lui.
Era
anche per merito mio e dei proventi che gli procuravo con il mio lavoro se nel
giro di tre anni era stato in grado di abbandonare quella caverna ammuffita in
favore di un vero e proprio magazzino, costruito in una zona appartata ma a due
passi dalla Via Magna.
Il
giorno che mi aveva presentato al mio primo mercante Toriano
mi aveva definito il miglior investimento della sua vita, e con simili
credenziali non mi era stato difficile entrare nelle grazie di un gran numero
di persone influenti, elargendo favori e servizi che un giorno avrei potuto
riscuotere.
Alcuni
di quegli azzimati faccendieri erano stati così stupidi da coinvolgermi in
affari talmente sporchi che al momento giusto sarebbe stato un gioco da ragazzi
poterli ricattare per ottenerne la collaborazione.
Dopotutto
quando avevo ribadito a Borg che per lui non avrei fatto altro che il
cacciatore non avevo mai detto che non mi sarei dedicato ad altre attività per
conto mio.
Tuttavia,
essendo consapevole di dover un domani unire tra di loro varie razze e popoli
che al momento si odiavano a morte gli uni con gli altri, mi ero dato delle
regole che servissero a preservare la mia immagine agli occhi di tutte le parti
in causa.
Non
facendomi coinvolgere nel traffico di schiavi ad esempio avevo nobilitato la
mia immagine agli occhi di quegli ambienti altolocati che sbandieravano idee
riformatrici, mentre adoperandomi nel contrabbando di armi destinate ad
alimentare o stroncare insurrezioni nei ghetti mi facevo amici di qua e di là
della barricata.
Ma
era soprattutto nella provincia dell’Eirinn che mi sforzavo di farmi conoscere.
Oltre
a rifornire il Castello con merci della migliore qualità, periodicamente
scendevo a Dundee per vendere pelli, attrezzi e carne ai mercanti locali, e in
questo senso l’emporio Wallace si stava rivelando molto utile.
Crescendo
Mary era diventata un piccolo genio del commercio, capace di fiaccare la
resistenza dei mercanti più taccagni a colpi di sagace dialettica –che
ovviamente le avevo insegnato io– e con un fiuto per i buoni affari degno di un
direttore della Compagnia delle Indie.
Un
altro posto in cui crescendo avevo iniziato a farmi vedere spesso era la
locanda del Cervo Nero di Giselle; quando aveva iniziato ad assistere
assiduamente suo padre nella gestione del locale le era venuta la brillante
idea di aumentare gli introiti aprendo una bacheca per gli avvisi e stipulando
un accordo con la locale gilda degli avventurieri.
Caccie
speciali, missioni di scorta e altre richieste simili mi fruttavano un bel
gruzzolo ed accrescevano la mia reputazione nella provincia. E visto che tutti
diventano loquaci dopo un paio di birre, frequentando la locanda potevo
saggiare il sentimento popolare e capire come soffiava il vento.
Oltretutto
il vecchio Rutte due anni prima era stato nominato sindaco del villaggio,
quindi tenerselo amico e aiutarlo quando chiedeva dei favori era ovviamente una
buona idea.
Nel
nome del quieto vivere aveva cercato di dare una stretta al reunionismo
serpeggiante di cui troppo spesso si parlava nella sua locanda, tenendo fuori i
clienti più problematici –e con Giselle a disposizione non c’era neanche
bisogno di un buttafuori–.
Se
da una parte questo aveva aperto le porte del Cervo Nero anche ai membri della
milizia aumentando le informazioni che ero in grado di carpire, dall’altro mi aveva
reso più difficile saggiare il malcontento verso il governatore e l’Impero.
In
tutto ciò riuscivo anche a trovare un po’ di tempo per studiare; anche dopo
aver conseguito il diploma scolastico a pieni voti avevo continuato ad
allargare le mie conoscenze coi libri che riuscivo a comprare da mercanti e
librai di passaggio, accettandoli quando possibile anche come forma di
pagamento per i miei servigi.
Studiavo
un po’ di tutto, soprattutto alchimia, geografia, e naturalmente tattica e
strategia. Mi ero persino costruito un mio laboratorio in un capanno dietro la
baita, usando le conoscenze del mio vecchio mondo per realizzare semplici
strumenti come termometri, barometri o sestanti che su Erthea ancora non erano
stati inventati, e che sapevo mi sarebbero tornati utili.
Ma evidentemente ciò che stavo
facendo non era abbastanza per il mio committente, che decise infine di venirmi
a chiedere conto della situazione.
Una
notte, dopo essermi appisolato sul ramo di un albero durante una caccia
all’orso, mi ritrovai nuovamente in compagnia del mio amico Faucheur,
seduti l’uno di fronte all’altro alla scrivania del mio vecchio studio alle Tuilerries. Naturalmente c’era lui seduto allo scranno che
un tempo era stato mio.
«Non
avevi detto che non ci saremmo più rivisti?»
«A
condizione che tu avessi fatto un buon lavoro. Ma a giudicare da quello che
vedo la situazione sembra stare evolvendo molto più lentamente di quanto
dovrebbe.»
Il
che ci portava alla questione di cui avrei sempre voluto chiedergli conto.
«Faccio
quello che posso con ciò che ho a mia disposizione, come ho sempre fatto.Forse se tu mi avessi
fatto rinascere in un contesto diverso le cose sarebbero potute andare
diversamente e più in fretta.»
«Considerala
una forma di garanzia. Un modo per essere sicuro che tu facessi ciò che mi
aspettavo da parte tua.»
Il
senso di quelle parole era chiaro, e d’altronde era una cosa che avevo sempre sospettato.
«Se
fossi rinato come membro di una qualche famiglia nobile, o persino come un
sovrano, avrei avuto molti meno vincoli o impedimenti, e una più vasta libertà
d’azione. Invece, date le circostanze, la mia missione non potrà esimersi dal
liberare gli schiavi.»
«Non
avrebbe senso salvare Erthea da un Re dei Demoni e lasciare nel contempo
invariata la miseria in cui versano molti dei suoi abitanti. Come ti avevo
preannunciato Erthea è piena di problemi, e risolverli è importante tanto
quanto fermare l’invasione.»
I
miei occhi si portarono sul globo semitrasparente che roteava su sé stesso
sopra la scrivania, sul quale potevo distinguere le forme di due diversi
continenti; uno era sicuramente Erthea, l’altro, grande quasi il doppio, doveva
essere Treibam. Ad occhio dovevano esserci non meno di cinquemila miglia di
oceano sconfinato a separarli in ogni direzione, e dato il livello della
tecnologia navale di quel mondo non sorprendeva che i loro popoli non si
fossero mai incontrati.
«E
questo?»
«Un
piccolo regalo da parte mia. Non troverai mai mappe così dettagliate.»
Il
mio ego in altri tempi mi avrebbe impedito di accettare, ma erano informazioni
che difficilmente avrei potuto reperire in altro modo. Così memorizzai in pochi
secondi gli aspetti più importanti della geografia di Erthea, soprattutto delle
regioni più lontane da Eirinn.
Una
macchia nera comparve in un punto a nord di Treibam, allargandosi rapidamente
fino a ricoprirlo del tutto.
«Il
tempo sta scadendo, Imperatore. Il Re dei Demoni ha sottomesso anche l’ultima
nazione ancora libera di Treibam. Se i piccoli gruppi di resistenza che ancora
si oppongono a lui dovessero venire sconfitti, l’invasione di Erthea potrebbe
avvenire prima di quanto prevedessimo.»
«A
tal proposito. Questo Re dei Demoni è per caso lo stesso Signore Oscuro che
cinquecento anni fa usò i mostri per tentare di sottomettere Erthea?»
«Sono
abbastanza simili, ma non sono lo stesso essere. Questo è tutto ciò che hai
bisogno di sapere.»
«Capisco.
Ad ogni modo, non hai motivo di preoccuparti. Ho lavorato più di quanto
potresti immaginare. Ormai i semi sono piantati, e presto daranno i loro
frutti.»
«Lo
spero. Avevo grandi aspettative sul tuo conto. Non vorrei mai che si
rivelassero malriposte.»
L’inizio
della trasformazione del mio corpo in pulviscolo preannunciò la fine di
quell’incontro.
«A
presto, Imperatore. E ricordalo sempre. Ti tengo d’occhio.»
E l’occasione infatti arrivò.
E
prima di quanto mi sarei aspettato.
Qualche
settimana dopo, al termine di una cavalcata quasi ininterrotta durata una notte
intera, mi ritrovavo a fissare in lontananza le linee possenti e maestose del
Castello, arroccato sulla cima di un basso colle al centro di una vasta pianura
e circondato da una piccola cittadina.
Era
stato il governatore in persona a convocarmi con una lettera, e benché non
fosse stato specificato il motivo di tale convocazione l’istinto mi diceva che stavo
per raccogliere finalmente il frutto tutti i favori fatti a quel panzone
lussurioso.
Mentre
aspettavo di essere ricevuto, mi presi qualche attimo per osservare
attentamente la fortezza e lo stato delle sue difese.
Due
cerchi di mura. Dodici torri su quello più esterno, quattro su quello interno.
Balliste su una torre ogni due. Canali per olio bollente. Porte con grate di
ferro. Guarnigione, più o meno duemila soldati.
Anche
se erano passati almeno cento anni dall’ultima volta che quel posto aveva visto
un assedio si notava ad occhio nudo come fin dai tempi del Granducato
quell’edificio fosse stato pensato per sopportare ogni genere di battaglie.
Un
legionario mi venne incontro mentre calcolavo il raggio d’azione degli arcieri
posizionati sulle mura chiamandomi per nome, ma dovette togliersi l’elmo perché
potessi riconoscerlo.
«Septimus.»
«Ne
è passato di tempo, Daemon. Quant’è, due anni?»
«Quasi
tre. Da quando sei partito per Rhodes per arruolarti.
Ne hai fatta di strada a quanto vedo. Sedici anni e sei già decurione.»
«Sono
stato più intraprendente dei miei compagni. O forse solo più incosciente.»
Sorrideva
e cercava di sembrare lo stesso di quando eravamo bambini, ma nei suoi occhi
potevo leggere la consapevolezza che solo chi si sia trovato faccia a faccia
con una battaglia poteva avere.
«Che
ci fai qui comunque?»
«Sono
stato convocato dal Governatore. E tu? L’ultima volta che mi hanno parlato di
te dicevano che eri ad est a combattere i Baroni.»
«Mi
hanno riassegnato dopo la promozione. Ora servo nella Quindicesima. E dalla
settimana prossima sarò assegnato al forte di Dundee. Riesci a crederci? Un
combina disastri come me secondo in comando di una guarnigione.»
«Sì,
effettivamente mi risulta difficile crederlo. Ma sono sicuro che te lo sei
guadagnato.»
L’arrivo
del maggiordomo interruppe la rimpatriata.
«Master
Haselworth, seguitemi. Sua Eccellenza vi attende in sala da pranzo.»
Una tavola così imbandita l’avevo
vista solo il giorno della mia incoronazione, e la cosa assumeva contorni ancor
più grotteschi se si considera che attorno ad essa erano sedute solamente tre
persone.
A
parte il governatore Longinus, che per quanto
cercasse di darsi un contegno mangiava come un maiale sputando ovunque carne e
vino, vi erano due giovani, entrambi poco più grandi di me, biondi di capelli e
di bellissimo aspetto.
Lui
era sicuramente un nobile, con occhi scuri che tagliavano come rasoi, e per
quanto incredibile potesse essere vedevo una certa somiglianza con il
governatore nei tratti del suo viso.
Lei
invece doveva essere la sacerdotessa di corte, e si guardava attorno con l’aria
di chi avrebbe tanto voluto essere da un’altra parte.
Infine,
alle spalle del governatore, stava il Generale Ron,
di cui avevo sentito parlare, con le insegne della Quindicesima Legione bene
impresse sulla sua corazza. Mi guardava come se avesse voluto uccidermi, ma del
resto il disprezzo che nutriva nei confronti di Eirinn e dei suoi abitanti era
il motivo per il quale Longinus aveva voluto proprio
lui e la sua legione assegnati a quella provincia.
«È
un onore per me fare la vostra conoscenza, Vostra Eccellenza.»
«Mi
hanno detto che devo ringraziare te per buona parte di queste prelibatezze.
Sembri sapere il fatto tuo in materia di caccia.»
«Faccio
quello che posso. Felice che il mio lavoro sia così tanto apprezzato.»
«Presumo
tu abbia sentito parlare di mio figlio Adrian. Il meglio che un padre possa
desiderare.»
In
realtà l’unica cosa che avevo sentito sul suo conto era che fosse completamente
agli antipodi rispetto al padre sotto molti aspetti, ma a vederli così tutto si
poteva pensare tranne che potessero essere padre e figlio.
«La
signorina qui presente invece è lady Sylvie Valera, ambasciatrice del Circolo
presso la mia umile dimora.»
Scambiai
con entrambi un rapido sguardo, salutandoli con il dovuto rispetto. Ma se lady
Valera ricambiò a propria volta con un cenno del capo ed un sorriso abbozzato,
tutto quello che ricevetti da Adrian fu una seconda occhiata obliqua, quasi che
stesse cercando di leggermi nell’anima.
«Nella
Vostra lettera accennavate ad una questione importante di cui volevate
parlarmi. Sono a Vostra disposizione.»
Al
che il governatore scoppiò il ridere, alzando il calice d’oro come a chiamare
un brindisi.
«Mi
fa piacere vedere che anche in questo covo di bifolchi reunionisti
c’è ancora qualcuno che mostra il dovuto rispetto agli emissari
dell’Imperatore. Lo vedi figliolo? Sono queste le persone di cui uno deve
circondarsi per governare in sicurezza.»
Il
tempo di tracannare il vino tutto d’un fiato e il panzone cambiò immediatamente
espressione, piegando le labbra in uno strano sorriso.
«Il
che ci porta al nocciolo della questione. Si dice che per essere così giovane,
tu sia particolarmente rispettato nella tua comunità.»
«Ho
questa fortuna, se così possiamo dire.»
«Come
sicuramente saprai, fino a pochi anni fa la regione di Dundee era sotto
amministrazione militare. Ma da quando quei pidocchi dell’Unione hanno capito
con chi hanno a che fare molte legioni hanno lasciato i confini, e gran parte
degli incarichi sono rimasti vacanti. Incluso, quello di sceriffo della provincia.»
Mi
trovo costretto ad ammettere che lo stupore che manifestai in quell’occasione
fu del tutto sincero: mi aspettavo una ricompensa, oppure una nomina per
qualche posizione vacante di poco conto, ma non certo qualcosa del genere.
Essere
sceriffo di una regione voleva dire guardare dall’alto in basso ogni altra
carica istituzionale della stessa; perché mentre il comandante della milizia
rispondeva sia al sindaco che agli ufficiali della legione, uno sceriffo doveva
rendere conto del suo operato solo al governatore.
Non
riuscivo a credere alla mia fortuna: stavo per saltare a piè pari almeno due o
tre tappe del percorso che avevo in mente per la mia ascesa al potere.
«Mi
sembri confuso.» disse il governatore quasi ghignando
«Effettivamente…
lo ammetto, sono confuso.»
«L’Eirinn
Occidentale è una terra piena di problemi. Fuggiaschi, spie e agenti nemici, o
quegli schiavi lerci che ogni tanto tentano di scappare. C’è bisogno di
qualcuno con le conoscenze e la forza necessarie a tenere pulite le mie foreste
e i miei confini. E se a farlo è un ragazzino plebeo che vive tra i lupi, io
dico chi se ne importa. Dunque? Qual è la tua risposta?»
Ovviamente
accettai.
Sapevo
che in molti non l’avrebbero presa bene, e già mi prefiguravo una tremenda
litigata con Scalia.
Un
orfano cresciuto dagli schiavi che diventa un cane sciolto al servizio dello
stesso Impero che li teneva in catene.
Ma
non c’era altra scelta. Era un rischio che dovevo correre, e al quale mi ero
preparato da tempo.
Chi
è di scena, inizia lo spettacolo.
Fin da bambina avevo sempre amato i
numeri.
Prima
di venire chiamata al cospetto degli dei, la mia adorata madre era solita dirmi
che nei numeri vi è la risposta per ogni cosa.
Era
stato suo padre, mio nonno Lawrence, a costruire l’emporio che portava il
nostro nome, ma era stata lei, con le sue idee e il suo senso per gli affari, a
portarlo alla gloria, facendone l’attività più famosa e ricercata di Dundee.
Ma
quei giorni ormai erano lontani.
Da
quando la mamma era morta mio padre non era più stato lo stesso; forse a
differenza mia non era riuscito a lasciarsi alle spalle la tragedia, o forse
semplicemente la sua vera natura, che la mamma con la sua sola presenza era
sempre riuscita a tenere a bada, era infine venuta fuori.
Lo
so che è una cosa terribile da dire di un genitore, ma io lo odiavo. Lo odiavo
con tutte le mie forze.
Ma
allo stesso tempo, ne avevo paura. E così lo rispettavo, sopportando in silenzio.
La
prima volta che mi aveva picchiata avevo solo sette anni, colpendomi così forte
sul viso con una bottiglia che da quel giorno ero stata costretta a portare gli
occhiali.
Da
allora era successo molte altre volte, più di quante voglia ricordarne; e dire
che ogni tanto, quelle poche volte in cui riusciva a stare più di qualche ora
lontano dal vino, sembrava tornare il padre gentile e buono che ricordavo,
quello che mi portava in giro a cavalcioni sulle spalle e mi comprava i
bastoncini di zucchero.
Il
bello era che avevo avuto l’occasione di sottrarmi a tutta quella sofferenza
quando la sorella di mia madre era venuta a farci visita e, intuendo la
situazione, si era offerta di prendermi con sé.
Ma
io avevo rifiutato; amavo troppo il ricordo della mamma, e non potevo
sopportare l’idea che il negozio che lei il nonno avevano costruito con tanta
fatica andasse in rovina.
Per
fortuna prima di morire mi avevano lasciato in eredità molti affezionati
clienti, oltre ad insegnarmi molti trucchi del mestiere; gli altri li avevo
imparati da me strada facendo, guadagnandomi rispetto e reputazione tra gli
altri mercanti prima ancora di terminare la scuola.
La
scuola.
Anche
prima della morte della mamma non ero mai stata una persona molto espansiva, e
per un lungo periodo, tra il dolore per la sua perdita e quello che ero
costretta a subire ogni giorno, me ne ero rimasta in disparte. Passavo tanto
tempo a scuola o in biblioteca non tanto perché studiare mi piaceva, quanto per
non dover tornare a casa, dedicando il poco tempo che restava a gestire il
negozio e riuscendo con molta fatica a tenerlo a galla.
Poi,
nella mia vita grigia e solitaria, era piombato un bambino, e tutto era
cambiato.
Anche
prima della sua improvvisa maturazione e cambio di atteggiamento, Daemon era
sempre stato una forza della natura: battagliero, intraprendente, sicuro di sé.
Era
un orfano finito nelle mani di un tutore che non lo voleva, ma benché la sua
situazione fosse anche peggiore rispetto alla mia non aveva perso la voglia di
vivere.
Oltretutto
amava i numeri e la matematica proprio come me, e nel momento in cui gli avevo
rivolto la parola per la prima volta era scattato qualcosa dentro di me.
Più
crescevamo, più spesso mi ritrovavo a pensare a lui, e quando era entrato nel
mio negozio proponendomi di diventare soci e gestire insieme un mercato
sotterraneo di beni di lusso generati dalla sua attività di cacciatore avevo
balbettato come una stupida nel momento di accettare.
Mi
ero innamorata di lui, inutile nasconderlo.
Il
problema era che, oltre al fatto di non riuscire a trovare il coraggio per
dirglielo, le concorrenti non mancavano; praticamente non c’era ragazza a
Dundee che non sospirasse quando lo vedeva passare.
E
poi era così gentile. Tendeva la mano a chiunque gli chiedesse aiuto, a volte
rifiutando persino di essere ricompensato per i suoi servigi, e questo non
aveva fatto altro che accrescere la sua reputazione agli occhi di tutti.
Era
stato un duro colpo vederlo apparire da un giorno all’altro in giro per il
villaggio con la stella da sceriffo appuntata sulla giubba, ed erano stati in
molti ad accusarlo di essersi venduto.
Ma
lui, stoicamente, aveva risposto alle accuse, proclamando a cuore aperto e
davanti a tutti che se aveva accettato quella posizione non era stato per
guadagno personale –avremmo scoperto in seguito che prendeva meno della metà
del suo salario, continuando a fare il cacciatore nel tempo libero per
mantenersi– ma solo per essere ancora più di aiuto alla comunità che lo aveva
accolto e che aveva così tanta stima di lui.
Non
tutti gli avevano creduto, ma in tanti lo avevano comunque fatto, ma questo non
mi aveva del tutto sorpresa.
Fin
da quando eravamo bambini avevo sempre avuto la sensazione che ci fosse
qualcosa di ipnotico nel suo modo di parlare e di apparire, come un’aura che
spingeva la gente a fidarsi di lui a prescindere da ogni cosa.
Usava
le parole come fossero oro, con parsimonia ed attenzione, e agiva con la stessa
intelligenza.
Qualcuno
diceva a mezza voce che avesse tutte le qualità di un capo. Io ero certa che
non avrebbe passato il resto della sua vita in un piccolo villaggio di
frontiera: troppo grandi erano le cose che era destinato a fare.
Purtroppo
lo aveva capito anche mio padre, l’unico al quale Daemon non fosse mai andato a
genio.
«Ma
che mi dici di quel ragazzo.» disse una delle pochissime volte in cui era
intento a darmi una mano in negozio «Come si chiama? Quello con la faccia da
ebete.»
«Intendete
Daemon?»
«Se
non sbaglio voi due andate molto d’accordo. Stavo pensando che forse dovresti
entrare più in confidenza con lui, se capisci cosa intendo.»
«Che
storia è questa, padre? Credevo che Daemon non vi piacesse.»
«Certo,
quando era solo un bifolco che viveva in mezzo ai boschi. Ma ora la storia è
ben diversa. Voglio dire, dove si è mai visto uno sceriffo così giovane?»
Era
chiaro dove volesse andare a parare, e mi diedi della sciocca per non averlo
capito subito.
«Si
dice che sia entrato nelle buone grazie del grassone. Di sicuro è destinato a
fare carriera, e presto tutte le donne di questo schifo di paese si metteranno
in fila per farsi sposare. Tu però partiresti avvantaggiata, visto che te la
intendi già bene con lui. Saresti sistemata per la vita.»
«E
voi con me, dico bene?»
Stavolta
il manrovescio arrivò senza alcun preavviso, ma nonostante il dolore e la
guancia rossa stavolta fu diverso dal solito: stavolta non chiesi perdono.
«Ti
ho già detto molte volte di non rivolgerti a me con quel tono, ragazzina.
Ricorda che lo sto facendo per il tuo bene.»
«Del
mio bene ha smesso di importartene tanto tempo fa, maledetto ubriacone. Anzi,
forse non ti è mai importato davvero.»
Il
secondo ceffone fu talmente forte da farmi volare via gli occhiali buttandomi a
terra, ma neanche questo fu sufficiente a piegarmi.
Ormai
avevo preso la mia decisione: non avrei più avuto paura di lui.
«Cosa
sono quegli occhi? Devo forse darti un’altra lezione?»
Quella mattina non ero certo uscito
dall’ufficio che il sindaco mi aveva assegnato con l’idea di recitare la parte
del valoroso cavaliere nella sua scintillante armatura.
Al
contrario, ero decisamente di cattivo umore.
Il
giorno prima ero stato chiamato al cantiere della Via Imperiale perché il
povero Malik era andato fuori di testa nel momento in cui quei sadici di
miliziani avevano esagerato con il bind.
Ce
l’avevo messa tutta per evitare di ucciderlo, ma quando quella montagna
ambulante nel suo delirio distruttivo si era messo a caricare come un toro una
carovana di passaggio semplicemente non mi aveva lasciato scelta.
E
ovviamente tutto era avvenuto sotto gli occhi di Scalia e di un altro gruppo di
altri mostri, arrivati giusto in tempo per vedermi ricevere i ringraziamenti
del capitano Oldrick per aver salvato la vita ad una
ventina di innocenti, inclusi parecchi schiavi.
Ne
conseguiva che quel giorno avevo decisamente la luna storta, e non aspettavo
altro che l’occasione giusta per menare le mani.
Inoltre se c’era una cosa che odiavo più
ancora di chi picchiava le donne era chi non sapeva riconoscere ed apprezzare
il talento.
E
Mary di talento ne aveva fin troppo per sprecarlo nella gestione di una piccola
bottega di periferia, in balia di un ubriacone.
Un
paio di volte avevo preso in considerazione l’idea di risolvere il problema
togliendolo di mezzo, ma per legge Mary non avrebbe potuto ereditare l’attività
fino ai vent’anni; e io non potevo rischiare di avere un burocrate pignolo a
ficcare il naso nei molti affari sottobanco che gestivamo insieme.
Quando
durante il mio giro di ronda passai accanto al negozio e sentii i rumori capii
subito cosa stava succedendo, ma a differenza del passato stavolta avevo
l’autorità per agire.
E
ammetto che forse mi feci un po’ prendere la mano, anche perché quando vidi
quel fallito in piedi sopra a Mary, pronto a riempirla di calci, persi
completamente il controllo.
Prima
gli piombai addosso scaraventandolo sul bancone, quindi presolo per la camicia
lo scagliai contro lo scaffale della frutta.
«È
facile prendersela con le ragazzine, vero bastardo? Prova un po’ con me!»
Quell’idiota
tentò persino di reagire, ma benché fosse quasi il doppio di me mi bastarono un
paio di pugni per stenderlo.
Era
la prima volta che facevo a pugni seriamente con qualcuno, e fui felice di
constatare che gli insegnamenti di Scalia avessero dato ottimi frutti.
Il
Comandante Beek come al solito se la prese comoda,
arrivando giusto in tempo per vedersi scaraventare quell’ubriacone già legato
tra le braccia.
«Aggressione
ad un funzionario imperiale e resistenza, quindici giorni di galera!»
Non
era molto, ma almeno per un po’ se ne sarebbe stato lontano da Mary e dai
nostri affari.
Beek
ovviamente protestò: Doug era uno dei suoi debitori più fruttuosi, e guadagnava
di più spennandolo a carte che con lo stipendio da Comandante. Ma io, il
“montanaro bifolco” che solo il mese prima doveva sopportare in silenzio le
calunnie di quell’illetterato in uniforme, adesso ero il suo superiore, e non
poté fare altro che obbedire.
«Stai
bene?»
«Io…
sì, grazie…»
Mary
mi guardava come se fossi stato il suo dio, ma avendo passato anni a coltivare
con cura il nostro rapporto non ne ero sorpreso.
Apparendo
ai suoi occhi come un modello a cui aspirare e un amico su cui contare mi ero
assicurato sia la sua costante determinazione a migliorare che la sua
dedizione, e sapevo che al momento giusto non sarebbe stato difficile
persuaderla ad entrare a far parte della cerchia di fedelissimi che intendevo
costruire.
Per
lei vedevo già un futuro da ministro delle finanze del mio nuovo impero.
Ma
per riuscire a spiccare il volo doveva liberarsi definitivamente delle sue
catene con un evento catartico, che segnasse il passaggio dalla bambina
spaventata dalla vita alla giovane donna fatta e finita, pronta a prendere
nelle sue mani il suo destino e le sorti di un’intera nazione.
Per
il momento però dovevo dare la priorità ad altre cose.
La
mia nomina a sceriffo aveva scontentato parecchie persone, ma se con la
determinazione, le giuste frasi e gesti simbolici come quello che avevo appena
compiuto ero riuscito a mantenere inalterata la considerazione di cui godevo
tra gli umani, arrivando anche ad accrescerla, altrettanto non si poteva dire
per gli schiavi del ghetto.
Come
aveva detto Faucheur, la creazione del mio impero
passava inevitabilmente per l’emancipazione degli schiavi, che dovevano
diventare la punta della lancia con cui tranciare le scricchiolanti fondamenta
del potere imperiale nella provincia.
Non
mi avrebbero mai seguito se non avessi prospettato loro un futuro, e per
poterlo fare era necessario che avessero ancora fiducia in me.
Ma
come avrebbero potuto averne se mi mettevo ad uccidere alcuni di loro,
stringendo la mano ai loro aguzzini?
Dannazione.
Perché è sempre così maledettamente difficile riuscire a mettere d’accordo
tutti?
Ero preparato ad affrontare gli imprevisti, ma c’era
un limite alle situazioni che potevo gestire nello stesso momento in una simile
situazione di equilibrio precario: come se non bastasse ci si misero pure i burocrati
della capitale a complicarmi le cose ancora di più.
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti!
Anticipo
di qualche ora la pubblicazione di questo terzo capitolo per via di alcuni
impegni che mi terranno fuori casa per tutto il resto della giornata.
Così
ci siamo. Dopo una premessa, questo è il momento in cui gli eventi cominciano
effettivamente a mettersi in moto per giungere infine al cuore della vicenda.
Chi
ha familiarità con l’ambiente delle light novel saprà
che solitamente i primi capitoli sono sempre molto introduttivi, e che a
partire dal terzo (in alcuni casi già dal secondo) la storia inizia a procedere
molto più spedita.
Io
ho cercato di essere un po’ più lineare per non creare buchi di trama o
spiegare alcune cose in maniera troppo sbrigativa, prendendomi un po’ di tempo
anche per presentare gli altri personaggi secondari che in questi primi
capitoli si sostituiranno spesso a Daemon come voce narrante, cosicché gli
eventi che porteranno alla Rivoluzione siano narrati da tutti i punti di vista.
Ringrazio
Fenris per
la sua recensione e tutti coloro che stanno leggendo.
Ora,
una piccola domanda.
In
occasione della release della versione inglese che avverrà domenica prossima
(18 Giugno, anniversario della Battaglia di Waterloo) ho deciso, data la
lunghezza considerevole di alcuni capitoli, di tagliarli in due e pubblicarli
non più a cadenza bisettimanale ma ogni domenica.
Lo
faccio perché molti lettori internazionali preferiscono capitoli brevi e facili
da leggere, mentre per esperienza so che qui in Italia si tende a preferire
capitoli più completi ed esaustivi anche se più lunghi.
Voi
cosa preferite? Fatemelo sapere e mi adatterò secondo i vostri gusti^^
Da
un giorno all’altro, agli occhi di quasi tutti noi Daemon era passato dall’essere
un figlio prediletto, la luce che portava un po’ di speranza nelle nostre vite
miserabili, al diventare un traditore. Un nemico.
La
cosa che mi aveva ferito di più era che non ci avesse detto nulla, o ne avesse
parlato con noi. Forse perché sapeva che avremmo fatto di tutto per
dissuaderlo.
Semplicemente,
un giorno si era presentato a casa con la stella sul petto, e il fatto che
nemmeno mio padre fosse stato capace di contenere il proprio sgomento a quella
vista la diceva lunga su quale fosse stata la nostra reazione.
Lui
diceva di averlo fatto per noi, che come sceriffo avrebbe potuto proteggerci
dai soprusi che dovevamo sopportare ogni giorno lavorando come bestie nelle
miniere o nei boschi. E noi, nonostante tutto, ci eravamo sforzati di credergli.
Invece,
poco tempo dopo, l’avevo visto con i miei occhi uccidere Malik. Quel povero
orco tanto enorme quanto ingenuo veniva punzecchiato giorno e notte, questo
almeno fino a quando la sua pietra del servo non aveva ceduto sotto il peso di
tutti quegli utilizzi azzardati. E quando una pietra del servo si rompe il
risultato è che chi la porta impazzisce, diventando l’animale che agli occhi
degli umani siamo sempre stati.
Non
so con esattezza cosa sia successo. Quello che so è che quando assieme ad alcuni
schiavi passai da lì diretta verso la segheria ciò che vidi fu Daemon che,
davanti al corpo senza vita di Malik già coperto di sterpaglie e pronto ad
essere bruciato, stringeva la mano al Capitano Oldrick.
In
quel momento mi era crollato il mondo addosso.
Mio
padre, l’unico che cercasse di trovare del buono anche in una cosa del genere,
aveva provato a dire che si era trattato di una scelta inevitabile, quasi un
atto di misericordia, ma il fatto che persino Lori avesse smesso di sorridere o
di parlare di lui la diceva lunga su quale fosse l’opinione che ormai tutti
avevano di Daemon.
Lo
odiavo.
Era
una cosa terribile da dire del proprio fratello, ma non c’erano altre parole
per esprimere ciò che provavo.
Alla
fine, un umano resta pur sempre un umano: perché avrebbe dovuto preoccuparsi di
noi, quando davanti a lui stava per aprirsi una vita intera di possibilità che
noi potevamo solo sognarci?
In
un impeto di rabbia avevo distrutto tutti i suoi vecchi giocattoli, alcuni dei
quali avevo intagliato io stessa quando ancora non riusciva a pronunciare il
mio nome, spaccando anche le spade di legno con cui ci eravamo esercitati
assieme fino a pochi mesi prima.
Poi,
arrivò quella maledetta mattina. Quella che cambiò per sempre tutto ciò in cui
credevo, o che pensavo di sapere ed aver capito.
Io,
mio padre e tutti gli altri eravamo in coda davanti al cancello, in attesa di
essere condotti al lavoro.
«Ferma.
Tu non esci.» mi disse il Comandante Beek appena mi
vide
«Per
quale motivo?»
«Sei
stata riassegnata.»
«Riassegnata!?
Dove?»
«Alle
riserve.»
Quella
sola parola mi fece crollare il mondo addosso; le mie gambe presero a tremare,
respirare divenne quasi impossibile, e tutti coloro che avevano sentito
rimasero sconvolti almeno quanto me.
«Aspetti
Comandante.» cercò di dire mio padre «Deve esserci un errore. Ende è sottoposto ad amministrazione speciale. Nessuno di
noi può essere inviato alle riserve.»
«Questo
è un ordine speciale che proviene direttamente dalla capitale. Tutti i draghi
femmina, puri o sanguemisto che siano, devono essere raccolti e portati nelle
riserve.»
«Però…»
«Ora
basta, stupida lucertola! Ti ho detto che questi sono gli ordini! Il tuo
scherzo di natura partirà con la prossima spedizione! Resta inteso che se
dovesse capitarle qualcosa prima di allora ne risponderete tutti.»
Nessun
altro fiatò. Nemmeno io riuscii a trovare la forza di parlare.
Del
resto cos’avrei potuto dire? Per loro non eravamo altro che oggetti di cui
disporre a piacimento.
Lasciato
tutto corsi a perdifiato verso casa, e una volta chiusami dentro feci quello
che non avevo mai fatto in vita mia.
Piansi.
Eirinn non aveva
una riserva, né all’est né all’ovest.
La
più vicina si trovava nella provincia di Baxos, quasi
duecento miglia più a nord lungo la Via Imperiale.
Una
volta al mese, un convoglio militare formato da vettovaglie, equipaggiamento e
qualche rinforzo percorreva il tragitto dalla capitale alla frontiera e
viceversa, e visto che l’ultimo era partito da pochi giorni sarebbero passate
quattro settimane prima di vederne un altro.
Ogni
secondo che passava era un’agonia, e non poter lavorare non faceva altro che
darmi più tempo per pensare a cosa mi attendeva.
Anche
se avevo lasciato quella in cui ero nata quando ero ancora molto piccola avevo
sentito tutte quelle storie che si raccontavano sulle riserve, e sugli
esperimenti che facevano sulle femmine appartenenti alle specie rare.
I
draghi come me, specie se antropomorfi, erano versatili, longevi e altamente
resistenti, e immuni a ferite mortali per chiunque altro.
Con
queste premesse, essere trasformata in una bestia da monta quasi mi sembrava la
prospettiva meno terribile se rapportata con quello che mi avrebbero fatto
passare nel tentativo di creare altri come me.
Ero
consapevole di essere un caso più unico che raro per la mia specie. I draghi
antropomorfi ed intelligenti erano pochi, e secondo mio padre ero l’unica
sanguemisto nata da un drago di cui lui avesse mai sentito parlare. Non stupiva
che nell’impero qualcuno si fosse accorto di me e fosse determinato a sfruttarmi.
Non voglio. Non voglio finire in
questo modo.
Mentirei
a me stessa se dicessi di non aver considerato in quei giorni l’idea di farla
finita, anche a costo di far pagare agli altri il prezzo del mio gesto, ma ogni
volta il pensiero di cosa avrebbero potuto subire mio padre e gli altri mi
aveva fermata, incatenandomi al mio destino.
«Accidenti,
che faccia. Al tuo confronto, persino un orco con lo scorbuto sembrerebbe più
attraente.»
Quella
voce, tanto gioviale e squillante quanto sgradevole, mi diede la scossa,
facendomi salire con la sua allegria un moto di rabbia.
Si
chiamava Jack, diminutivo di Bojack, un nome che lui
per primo affermava di detestare; non era altro che il frutto malriuscito
dell’incrocio tra un uomo e un cavallo, alto e massiccio.
Di
sicuro era un tipo a cui piaceva scherzare. Persino con le guardie faceva il
facilone.
Esattamente
il tipo di persona che più detestavo.
«Non
sono dell’umore Jack.»
«Sì,
questo lo vedo. Posso suggerire la radice di rabarbaro? Dicono sia portentosa
per risollevare lo spirito. Altrimenti, puoi sempre provare con l’erba rossa.»
Se
il mio sguardo avesse potuto incenerire qualcuno probabilmente di quel
maledetto cavallo non sarebbe rimasto altro che un mucchio di polvere, per
quanto il suo atteggiamento mi faceva infuriare.
«Accidenti,
se avessi saputo che razza di compagni mi sarei ritrovato avrei chiesto di
rimanere sulle galee. Almeno lì tra i pattugliamenti e gli scontri coi pirati Jormen c’era sempre qualcosa di interessante da fare.»
«Quelli
come te sono i peggiori. Quanti anni hai? Ventisette? Ventotto? Io ne ho quasi
duecento. Duecento anni che conduco questa esistenza. Quindi non venire qui a
dirmi come dovrei sentirmi o che potrei essere più allegra, perché posso
assicurarti che dopo tutto questo tempo la voglia di ridere e scherzare
sparisce. E se pensi di aver visto il peggio che possono farti, ti accorgerai
molto presto che quello che hai passato fino ad ora è niente rispetto a quello
che subirai qui. E ora, vattene. Vattene e lasciami in pace.»
Neanche
di fronte ad una risposta così piccata e ostile Jack sembrò scomporsi, anche se
per il bene della quiete decise di chiuderla lì e rinunciare a ribattere.
«Purtroppo,
a volte le cose non sempre vanno come si vuole. E occorre essere preparati ad
eventi imprevisti.»
E
detto questo se ne andò, lasciandomi di nuovo da sola con i miei tormenti.
Passò una
settimana.
Sette
giorni di dolore e angosciosa attesa, durante i quali la notizia fece il giro
di Ende.
Quasi
tutti si mostrarono comprensivi, qualcuno arrivò ad incitarmi a fare quello che
volevo, senza curarmi di loro o di quello che sarebbe potuto capitare. Ma ero
troppo preoccupata per la sorte dei miei amici, o forse solo troppo spaventata
per mettere in atto quei propositi a cui pensavo giorno e notte.
Ormai
l’autunno era agli sgoccioli. La temperatura andava abbassandosi rapidamente, e
già si percepiva nell’aria l’arrivo imminente della neve.
Era
un pomeriggio come tutti gli altri.
Me
ne stavo lì, seduta alla panca accanto all’ingresso di casa, immersa nei più
cupi pensieri incurante del freddo.
Un
carro prigione arrivò da un momento all’altro trainato proprio da Jack, che fin
dal suo arrivo alcuni anni prima era stato destinato al compito abbastanza
ingrato di animale da tiro al servizio della milizia. Ad un cenno del
comandante Oldrick, le due guardie che lo
accompagnavano mi afferrarono e mi portarono via.
«Che
state facendo? Non è ancora il momento! Lasciatemi!»
Fedele
alla mia natura inizialmente urlai con tutta la mia voce, lanciando a quei tre
umani ogni sorta di improperio o di maledizione, fino a che esausta e con
l’anima svuotata non mi abbandonai esanime sul fondo del carro.
Seguimmo
la Via Imperiale per qualche ora, salvo poi deviare in prossimità di un
palazzotto signorile appena oltre i confini della regione, più lontano di
quanto fossi mai andata in vita mia.
«Dove
siamo? Perché ci fermiamo così presto?»
Ad
attenderci nel cortile d’ingresso c’erano quattro schiave, un’orchessa, un cane
e due conigliette, vestite come delle domestiche.
«Per
quanto possa sembrarti ipocrita, sappi che mi dispiace.» mi disse il Capitano Oldrick mentre i suoi uomini mi facevano scendere. «Forse
questa è la soluzione migliore dopotutto.»
Senza
dire una parola le schiave mi condussero di peso in una specie di sala da bagno,
dove fui lavata, profumata, pettinata e sistemata. Quindi mi misero addosso un
vestito a dir poco provocante e mi affidarono a due legionari, che dopo avermi
nuovamente ammanettata mi portarono in biblioteca, dove trovai ad attendermi un
vecchio grassone coperto di gioielli e un giovane azzimato dagli occhi di
ghiaccio.
«Allora,
ragazzo. Che te ne pare del tuo regalo di compleanno?»
Non
li avevo mai visti prima d’ora, ma intuii dovessero essere il governatore Longinus e suo figlio Adrian.
«Davvero
stupenda, almeno per un mostro. E pensare che qualche microcefalo voleva farne
un animale da monta. Ma si è mai vista una stupidità simile?»
«Padre,
davvero. Non è necessario.»
«Ne
abbiamo già parlato, ragazzo. Ormai sei quasi un uomo, e devi imparare a comportarti
come tale. Alla tua età ne avevo già castigate a decine di queste bestie.»
«Con
il dovuto rispetto, non credo sia qualcosa di cui dovreste vantarvi. Sono
mostri.»
«Ma
ci sono mostri e mostri. Voglio dire, l’hai vista? Se il mio vigore giovanile non
fosse finito sottoterra anni fa insieme alla tua povera madre, avrei preso
questo bel pezzo di lucertola per me. Se poi non ti piace quell’affare che ha
dietro la schiena, possiamo sempre farglielo tagliare. Invece le corna al tuo
posto le terrei. Con questa pelle così scura le danno un non so che di
selvaggio.»
«Padre,
vi ricordo che è arrivata una richiesta ufficiale dalla capitale di consegnare
alle riserve ogni drago in età fertile di cui si disponga, e voi vi siete
impegnato ad obbedire.»
«Che
vadano all’inferno l’Imperatore e il suo branco di arraffoni. Se qualcuno verrà
a controllare lo faremo tacere a forza di goldie.»
Adrian
mi fissava in modo così cupo da farmi venire i brividi; aveva degli occhi
talmente luminosi da poterci quasi scorgere il mio riflesso, di un color
zaffiro penetrante, e dovetti distogliere lo sguardo per evitare di perdermici
dentro.
«Facciamo
così. Tienitela per qualche giorno, finché saremo ospiti del Barone Mecht. Se ti piace la portiamo al Castello, altrimenti la
spediamo dove deve andare. Sei d’accordo?»
Il
giovane sembrò titubante ma alla fine acconsentì, vedendosi dare anche del
rammollito per il suo voler sempre seguire le regole evitando di godersi i
privilegi dati dal suo status.
«Avanti,
toglietemi questo animale da sotto gli occhi e portatelo in camera di mio
figlio. E datele anche da mangiare. Deve essere in forma per la notte che
l’aspetta.»
La stanza da letto
in cui venni portata era più grande della mia casa.
Mi
incatenarono al muro come un cane e mi diedero da mangiare, ma ero troppo
arrabbiata e troppo spaventata per toccare cibo.
Quando
Adrian arrivò attorno a mezzanotte ero immobile in un angolo, paralizzata dal
freddo, anche perché nel frattempo fuori si era scatenata la prima bufera di
neve.
«Idioti.
Gli avevo detto di accendere il fuoco.»
Gli
bastò un cenno della mano perché una scintilla di luce incendiasse la legna nel
camino, diffondendo finalmente nella stanza un po’ di tepore.
«Tu
sei uno stregone.»
«Possiedo
quel minimo di potere necessario a farmi riconoscere come tale. Certo, non
posso sperare di essere al tuo livello.»
«Io
non possiedo poteri magici.»
«Solo
perché sono neutralizzati dalla pietra del servo. Tu per prima dovresti sapere
che i draghi sono gli unici mostri dotati di capacità affini alla stregoneria.
Non potresti mai essere al livello di un vero drago, ma sono abbastanza sicuro
che con il giusto addestramento potresti surclassare tranquillamente qualunque
mago umano di questo mondo.»
Adrian
allora mi afferrò per il mento, fissandomi a lungo senza dire una parola: e per
qualche motivo non riuscii a ribellarmi.
«Certo.
È naturale.»
«Di
cosa parli?»
«Tu
sai perché sono state create le riserve?»
«Perché
vi servono continuamente nuovi schiavi.»
«Questa
è la motivazione ufficiale. Da tempo ormai l’Impero ne produce più di quanti ne
servano. La realtà è che fin dall’inizio lo scopo era effettuare esperimenti di
ibridazione al fine di creare mostri sempre più umanizzati, più intelligenti ma
anche più facili da controllare. Con alcuni ci sono riusciti, con altri invece
le cose non sono andate come si sperava.»
Dall’altro
lato della stanza c’era un grosso baule da viaggio; Adrian ne prese fuori un
libro, una specie di grosso registro vecchio e logoro.
«Ovviamente
è difficile ottenere informazioni attendibili dopo così tanto tempo, nonostante
la natura notoriamente scrupolosa della macchina burocratica dell’Impero in
materia di schiavi. Ma stando a questo archivio, sembra che già a partire da
tre secoli fa ci siano stati svariati tentativi per ottenere un drago
mezzosangue usando gli schiavi di cui si aveva notizia, e il drago Zorech risulta aver preso parte alla maggior parte di
essi.»
«Mio
padre!?»
«Quasi
tutti gli esperimenti sono falliti, mentre quei pochi che hanno avuto come
esito una nascita hanno prodotto esemplari non in linea con le aspettative. Ma
all’incirca due secoli fa, ecco finalmente coronato il frutto di tanta fatica.
Un drago mezzosangue, di sesso femminile, nato il sesto giorno del decimo mese del
quattordicesimo anno di regno dell’Imperatore
Agostino Ventunesimo, nella riserva di Estevan. Non
occorre un grande sforzo di fantasia per capire che si sta parlando di te.»
«Perché
mi stai raccontando queste cose?»
Adrian
mi guardò di nuovo, stavolta in modo molto più freddo e minaccioso.
«Per
farti capire quanto tu sia speciale. Se ogni ulteriore informazione sul tuo
conto non fosse andata perduta durante il grande incendio della capitale
avvenuto centocinquant’anni fa, a quest’ora saresti già stata inviata alle
riserve da un pezzo. Ne consegue che al momento nessuno sa della tua esistenza.
E anche adesso che l’Impero ha ripreso a cercarti, come ha detto mio padre
basterebbero un po’ di soldi per farti sparire.»
Era
chiaro cosa quel giovane dall’aria solo apparentemente così mite avesse in
mente.
«Non
sembri il tipo che agisce per compassione o un qualche nobile proposito. Perché
mai faresti una cosa del genere?»
«Perché
come tutti i nobili sono ambizioso, ma a differenza di mio padre so come trarre
profitto dalle occasioni che mi si presentano. La verità è che ti ho notata
qualche settimana fa durante una visita alla segheria, ma quell’idiota di mio
padre ha scambiato un interesse pragmatico per attrazione sessuale. Ha ragione
lui quando dice che sarebbe uno spreco inviarti alle riserve. Hai un potenziale
che nemmeno immagini, tutto quello di cui hai bisogno è qualcuno che ti aiuti
ad esprimerlo e una causa per cui usarlo. E di entrambe queste cose io ne ho in
abbondanza.»
Mi
divincolai disgustata, ma tra la pancia vuota e la catena finii nuovamente
inginocchiata a terra, debole e indifesa come un gattino bagnato; ma ciò
nonostante, ancora capace di mostrare le zanne.
«Ti
nascondi dietro a belle parole e a quel bel faccino, ma sei solo un altro umano
che ci considera solo degli strumenti. Mi fai schifo. Se potessi, ti affonderei
i denti nella gola.»
Restando
immune alla provocazione Adrian mi sfiorò il petto con un dito, e una
sensazione mai provata prima mi attraversò tutto il corpo.
Non
era dolore, tutt’altro.
Era
qualcosa di strano, come un’onda di fuoco che risalendo da ogni singola parte
del corpo mi arrivava dritta alla testa facendomi sragionare; ma era un fuoco
buono, se così si poteva dire, completamente diverso da quello che mi dava la
sensazione di bruciare viva quando venivo punita dalle guardie.
Il
mio respiro divenne sempre più rapido, mentre quella piccola parte di
autocontrollo che mi restava si sforzava di impedire alle mie mani di muoversi
e alla mia bocca di gemere.
Mi
sentivo patetica; capivo benissimo che tipo di idea stessi dando dal di fuori
da come mugolavo, dalla mia espressione, dalla saliva che non mi riusciva di
trattenere, ma non potevo farci niente. Il mio corpo era diventato mio nemico,
e cercare di resistere a quel piacere serviva solo a renderlo più forte.
Nel
mentre Adrian assisteva impassibile alla scena.
«Quegli
idioti pensano che il bind serva solo a infliggere dolore. Ma come vedi, può
essere usato anche in altri modi.»
«S…
smettila… ti prego…»
«Mettiamola
così. Quello che hai provato fino ad oggi è ciò che ti aspetta nelle riserve.
Quello che stai provando adesso invece è ciò che potrai avere venendo con me.
Ma non me ne faccio nulla di una cavalla bizzosa. Sta a te decidere.»
Detto
questo, e senza preoccuparsi di far cessare l’azione del bind, se ne andò.
«Ti
darò una notte per pensarci.» disse prima di chiudere la porta.
Passarono almeno
due ore prima che il potere del bind si disperdesse da sé, e me ne servirono
altrettante per riuscire a riprendermi.
Il
solo pensare a ciò che avevo passato e alle cose che avevo fatto era abbastanza
per farmi desiderare la morte, e il fatto di non riuscire malgrado tutto a
negare quanto fosse stato indescrivibile e diverso dal solito mi faceva solo
provare repulsione per me stessa e per gli istinti a cui il mio corpo
semplicemente non poteva sottrarsi.
Da
sola, alla luce del fuoco, vagliai le soluzioni che mi restavano, tutte
terribili; potevo solo scegliere se diventare un animale da riproduzione o il
giocattolo di un nobile viziato e ambizioso, che non si sapeva bene cosa avesse
intenzione di fare di me.
Qualunque
scelta avessi fatto, ero destinata in ogni caso ad un’esistenza misera.
Fuori
intanto la tempesta diventava sempre più forte, e certamente entro la mattina
metà della provincia si sarebbe ritrovata coperta da parecchi centimetri di
neve.
Qualcosa
mi piovve in testa dall’alto quando stavo quasi per addormentarmi, e aperti gli
occhi vidi ai miei piedi un piccolo pezzo di metallo, lungo e sottile, ma
dall’aria solida e con un’estremità appuntita.
«Ma
che…»
Alzato
lo sguardo, feci appena in tempo a scorgere una delle assi del soffitto che
veniva furtivamente rimessa al suo posto, ed un rumore di passi felpati che si
muovevano sopra la mia testa.
«Chi
sei?»
Era
chiaro che qualcuno aveva voluto offrirmi una terza scelta.
Nel
tempo di un batter di ciglia analizzai quell’inaspettato capovolgimento di
eventi e le conseguenze che avrebbe comportato.
A
dar retta a ciò che avevano detto il grassone e suo figlio, io lì non avrei
neanche dovuto esserci. Se mi fosse capitato qualcosa o se fossi fuggita
sarebbe stato difficile per il governatore giustificare la mia presenza lì, e
punire chicchessia sarebbe stato come ammettere di aver cercato di appropriarsi
di merce di valore destinata all’Impero.
Ripensai
a mio padre, ai miei compagni, persino a Daemon, pregando quegli dei in cui non
credevo più da tempo di non stare sbagliandomi; quindi, fatta pace con la mia
decisione, dissi loro addio.
Per
una volta avrei pensato a me stessa. Era la mia vita in fin dei conti.
«Mi
dispiace.»
Con
la fine della tormenta e la scomparsa delle nubi, la notte si era fatta
straordinariamente luminosa.
All’improvviso,
urla d’allarme ruppero il silenzio della notte, e torce andarono accendendosi
in tutti gli angoli del palazzo alle mie spalle.
«Allarme!
– Il drago è fuggito! – Cercatela!»
Correvo
trascinando a fatica i piedi nudi, che già dopo pochi passi si erano fatti duri
e insensibili a causa del freddo. Ogni passo era un calvario, anche perché non
essendo riuscita a rompere la serratura del grosso collare di ferro ero stata
costretta a portarmelo dietro assieme alla catena.
Benché
fossi abituata a patire il freddo il fazzoletto che mi avevano messo addosso
era talmente scarno e sottile che era come se stessi correndo senza vestiti, e
l’aria gelida, i rami e le spine non smettevano un momento di tagliarmi la
pelle.
E
intanto, sentivo sempre più vicino il latrato dei cani lanciati contro di me.
Ma
ormai avevo preso la mia decisione. Non mi sarei lasciata prendere. Sarei
scappata, o avrei usato l’ultimo briciolo di forze per squarciarmi la gola;
anche una morte tanto orrenda era una prospettiva migliore rispetto a quello
che mi attendeva.
Lottando
con la fatica, mentre il freddo mi penetrava nelle ossa, continuai a correre,
sempre più esausta, guidata solo dai pochi raggi di luna che riuscivano a
penetrare tra le fronde degli alberi.
All’improvviso,
un’ombra mi si parò dinnanzi, come un fantasma senza tratti, restando immobile
sul sentiero. Dopo avermi fissato per qualche istante, puntò l’arco verso di
me.
«Mi
dispiace, Scalia. Tu devi morire.»
In quanto animale
da tiro Bojack era quasi sempre alla caserma della
milizia, quindi parlare con lui era il metodo migliore per avere informazioni su
quello che succedeva nel ghetto. E quando mi aveva informato di quello che ai
piani alti avevano deciso su Scalia, ammetto che per diversi giorni non avevo
avuto idea di cosa fare.
In
quanto sceriffo tecnicamente quello che accadeva nei ghetti non era affar mio, ma era ovvio che se fosse capitato qualcosa a
mia sorella anche io avrei avuto la mia parte di responsabilità.
Da
una parte sentivo di non poter mettere a rischio quello che stavo costruendo
per salvare un singolo mostro, dall’altra non riuscivo a non pensare a Scalia
sbattuta in una di quelle sudice riserve senza provare disgusto.
Una
come lei non meritava una sorte simile.
In
lei rivedevo Paolina; lo stesso spirito ribelle, la stessa aura selvaggia e
imprevedibile.
E
poi le dovevo molto; non solo mi aveva trovato –con un piccolo aiuto da parte
di Faucheur, ormai ne ero certo–, ma mi aveva anche
cresciuto. Ci eravamo anche allenati assieme.
Lei,
Zorech e Lori erano la mia famiglia. E la famiglia è
sacra.
Cercando
di pensare che mi stavo probabilmente mettendo nei guai solo per risollevare la
mia reputazione all’interno del ghetto –che ovviamente aveva subito un duro
colpo con la questione di Malik– cominciai a scervellarmi in cerca di una
soluzione.
Dovevo
trovare il modo di salvare Scalia senza che questo mi costasse il prestigio che
avevo accumulato presso il governatore e tra i pochi elementi da salvare
all’interno della milizia.
Sapevo
di avere poco tempo, quindi per una volta mi presi il rischio di agire in modo
meno raffinato del solito, sperando di non dovermene pentire in seguito.
Persuadere
il governatore a reclamare Scalia per sé non fu un problema; quello scimmione
ninfomane avrebbe infilato il suo bastone flaccido anche nella bocca di un
cannone se ciò fosse servito a saziare la sua lascivia.
Quello
che non avevo considerato era che Longinus potesse
decidere di fare di Scalia il regalo di compleanno per Adrian, che avevo capito
al primo sguardo essere di tutt’altra pasta rispetto a suo padre.
Con
lui non c’era da scherzare, così appena Jack mi informò che il giorno appresso
avrebbero portato Scalia alla residenza del barone Mecht
dove il governatore e suo figlio erano ospiti da alcuni giorni decisi di agire
immediatamente.
Entrare
di soppiatto nel palazzo fu un gioco da ragazzi, visto che mi ci ero recato
spesso per ricevere commissioni dal padrone di casa.
Naturalmente
non si sarebbe trattato di un comune salvataggio; in fin dei conti stavo già
rischiando molto più di quanto avrei fatto per chiunque altro, e Scalia doveva
quantomeno dimostrare di meritarselo.
Per
questo mi ero limitato a fornirle i mezzi per tentare la fuga, piuttosto che
aiutarla direttamente: per mettere alla prova lei e la sua determinazione.
Dopotutto
lei era una componente fondamentale del mio piano. Se avesse rifiutato il mio
aiuto accettando passivamente ciò che la sorte era pronta a farle calare
addosso significava che avevo sbagliato a giudicarla, e che quindi non mi
serviva né valeva il rischio.
Ma
lei non mi aveva deluso: lei aveva scelto di lottare. Anche a costo di venire
meno a ciò in cui aveva sempre creduto.
Abbandonato
il castello col favore della tormenta mi portai lungo la strada che ero sicuro
avrebbe seguito, attendendola al varco.
«Daemon!?
Che ci fai qui?»
«Le
spiegazioni a dopo. Riesci ancora ad arrampicarti?»
«Credo
di sì.»
«Allora
sali su un albero più in alto che puoi e fai silenzio. Al resto ci penserò io.»
Per
un attimo temetti non mi avrebbe obbedito, ma evidentemente qualcosa dentro di
lei le ricordò che in fin dei conti restavo comunque suo fratello, e che di me
poteva ancora fidarsi.
Nel
mentre il fuoco le torce si poteva ormai distinguere ad occhio nudo attraverso
la boscaglia, così come Scalia si fu arrampicata estrassi dalla neve il
cadavere che avevo già preparato il giorno prima, –uno degli sgherri di Borg,
poco discreto nelle ruberie ai danni del suo capo, che mi ero offerto di
eliminare– dandogli fuoco con la freccia magica che il governatore in persona
mi aveva regalato.
I
cacciatori arrivarono mentre il corpo stava ancora bruciando.
«Mi
dispiace. Non mi ha lasciato scelta.»
La mattina dopo il
governatore aveva un diavolo per capello.
Oltre
a me erano stati convocati anche il Capitano Oldrick
e il Generale Ron.
«Quello
che è successo è intollerabile! Quel dragone era un regalo che avevo scelto
personalmente per mio figlio Adrian, e adesso è morta!»
«Mio
Signore, vi prego di perdonarmi.» dissi profondendomi nel più scenografico
degli inchini. «Non ho scusanti per quanto successo. Mi assumo la piena
responsabilità per l’accaduto.»
«Mi
hanno detto che l’hai ridotta in un mucchietto di cenere. Era proprio
necessario arrivare a tanto?»
«Vi
sono stato costretto mio Signore. Quella bestia ha tentato di assalirmi. A
malapena sono riuscito a difendermi.»
«Quella
stella che ti ho dato non è certo per bellezza. Avresti potuto addomesticarla
usando il bind.»
«Ci
ho provato, ma non ha funzionato.»
«Temo
sia colpa mia padre. La piccola puledra scalciava, e forse ho esagerato nel
cercare di addolcirla.»
«Col
dovuto rispetto, Governatore.» intervenne Ron fissandomi
in modo più che eloquente. «Ridurre un corpo in quello stato è un ottimo modo
per renderlo irriconoscibile.»
«State
insinuando qualcosa Generale?»
«Un
drago femmina fertile vale un sacco di soldi, specie ora che l’Impero li sta
cercando assiduamente. E Voi signor Haselworth a quanto mi dicono non siete
nuovo a stringere accordi con persone tutt’altro che oneste.»
«Questa
è un’accusa infamante!» esclamò Oldrick. «Il
comportamento dello sceriffo è stato sempre impeccabile. Inoltre voglio
ricordarvi la faccenda della pietra.»
«Di
che state parlando?» chiese il Governatore
«Come
immagino saprete mio Signore, quel drago aveva quasi duecento anni. Ne consegue
che la pietra del servo che aveva nel suo corpo era di un tipo molto vecchio,
che da tempo non viene più utilizzato. E dai controlli è emerso che la pietra
rinvenuta tra i resti del mostro ucciso dallo sceriffo non solo era
effettivamente rotta, ma è risultata anche essere proprio di quel tipo.»
E non avete idea della fatica che ho
fatto per trovarne una così vecchia. Per non parlare di quello che mi è
costata! Però devo ammetterlo, Borg riesce a rimediare davvero di tutto.
Alla
fine fu Ron l’unico a rimetterci, e la cosa mi
procurò enorme piacere; anche se con la sua condotta brutale mi stava facilitando
parecchio le cose, il suo eccessivo zelo mi era costato negli anni parecchi
contatti e potenziali clienti, e averlo per qualche mese confinato al Castello
era sicuramente una buona notizia.
Quanto
a me ne uscii completamente pulito. Anzi, ci guadagnai anche una gratifica di
duecento goldie, visto che offrendomi di firmare un atto ufficiale che
rivendicava un’uccisione inevitabile durante il trasporto avevo incenerito
assieme al drago anche il problema di dover spiegare la sua eventuale
sparizione ai funzionari imperiali.
E
non era ancora finita.
Scalia non poteva
certo tornare a vivere al ghetto, quindi decisi di ospitarla a casa mia.
Anche
se all’inizio le fu difficile realizzare di essere ormai completamente libera
bastarono pochi giorni perché l’intimazione ad uscire solo dopo il tramonto
cominciasse a starle stretta, tanto il pensiero di poter andare ovunque e fare
quello che voleva le bruciava dentro.
Non c’è niente di meglio che dare a
una persona ciò che in cuor suo ha sempre desiderato più di ogni altra cosa per
ottenerne la fedeltà.
Per
ovvi motivi non potevo correre il rischio che qualcuno andasse a rivelare ai
quattro venti ciò che avevo fatto; per evitare che qualcuno potesse venire a
curiosare in casa avevo persino provveduto a costruire un pesante cancello a
metà del tunnel, troppo spesso e pesante per un qualunque mostro capace di
infilarsi in quel pertugio.
Perché
quell’investimento desse i suoi frutti però era necessario che almeno qualcuno
lo venisse a sapere.
L’occasione
si presentò solo qualche settimana dopo. Il barometro che mi ero costruito mi
aveva messo in guardia circa l’imminente arrivo di un inverno ancora peggiore
di quelli a cui quella parte di Erthea era abituata, ma la tempesta che quella
notte si era abbattuta su di noi non assomigliava a nulla che avessi mai visto.
Il
Comandante Beek e i suoi uomini si erano presentati
al ghetto prima ancora del sorgere del sole, con l’ordine tassativo da parte
del governatore di destinare ogni singolo schiavo della regione alla pulitura
della Via Imperiale, trovando però me ad attendere il loro arrivo davanti ai
cancelli.
«Ho
bisogno di tre mostri. La tempesta si è portata via metà del mio tetto, e io e
il mio schiavo da soli non bastiamo a sistemare tutto quel disastro.»
«Ma
quanto mi dispiace.» disse a bassa voce il vecchio Passe, pensando forse che
non potessi sentirlo.
Era
evidente che la notizia di quanto accaduto era già arrivata anche a loro: se
gli sguardi avessero potuto uccidere…
Ancora
una volta Beek protestò, ma ormai la stima che il
governatore nutriva nei miei confronti era tale che avrei potuto anche ordinare
a quel caprone di abbassarsi i calzoni e succhiarsi il pollice senza che
potesse disobbedire.
Oltre
a Passe portai via con me anche Zorech, Lori e l’orco
Grog, gli unici quattro di cui mi potessi realmente fidare, liberandomi alla
prima occasione delle due guardie di scorta e proseguendo da solo insieme a
loro alla volta della baita.
«Daemon,
ascolta. Dimmi la verità. Quelle voci che si sentono non sono vere, giusto? Se
l’hai fatto per salvare tua sorella però, forse potrei riuscire a capirlo. Però
me lo devi dire. Ti prego.»
«Sprechi
il fiato, Zorech.»
«Io
so che tu non sei così Daemon. Non puoi averlo fatto davvero. Scalia è la tua
adorata sorella. D’accordo, è irascibile e ha un caratteraccio, ma in fondo vi
volevate bene.»
«Lascia
perdere Lori. Grog ha ragione. Questo bastardo si è venduto definitivamente. Se
non fosse che ci andremmo di mezzo tutti, sarei quasi tentato di raccontare una
o due cose alle guardie.»
«Ben
detto. Così forse ci penserebbero loro a spedirti dove potresti chiedere scusa
a Scalia personalmente.»
«Passe!
Grog! Ora basta!»
«Ma
come fai ad essere così comprensivo Zorech? Questo
umano ha ucciso tua figlia!»
Facile
immaginare quale fu la loro reazione quando, prima ancora di arrivare alla
baita, udirono la voce di Scalia che mi chiamava dall’interno.
«Era
ora che tornassi! Lo sai da quant’è che sgobbiamo? E dire che questa dovrebbe
essere casa tua!»
«Scalia!?
Sei viva!?»
«Certo
che sono viva, padre. Ne dubitavi?»
Spiegai
dunque ogni cosa, ovviamente tenendomi per me gli aspetti sui quali Zorech e gli altri avrebbero avuto qualcosa da ridire.
«Io
lo sapevo! Lo sapevo che non potevi aver fatto una cosa del genere!»
«Lori,
accidenti a te, lasciami! Vuoi rompermi tutte le ossa?»
Lavorammo
per tutto il giorno, e per il tramonto la baita era ritornata quantomeno
abitabile.
Prima
di congedarci mi raccomandai affinché nessun altro lo venisse a sapere, ma in
realtà non avevo dubbi sul fatto che presto o tardi la notizia avrebbe fatto il
giro di Ende, arrivando alle orecchie almeno di
quelli di cui Zorech e gli altri si fidavano.
Esattamente quello che volevo.
Ancora
una volta avevo compiuto un piccolo miracolo.
E
ormai eravamo quasi al gran finale.
Nota dell’Autore
Eccomi
di nuovo con il quarto capitolo
Siamo
arrivati a metà del Primo Volume, gli eventi da ora in poi procederanno in
maniera abbastanza spedita.
Oltretutto,
facendomi due conti, ho calcolato che se rispetto i tempi dovrei essere in grado
di rilasciare i capitoli del Secondo Volume senza dover far passare troppo
tempo.
Fin da piccolissimo avevo sognato di
essere qualcuno di importante.
Un
eroe valoroso.
Un
potente mago.
Un
magistrato influente.
Ma
ero solo il figlio del mugnaio di una piccola cittadina di frontiera, e in
quanto tale mi ero reso conto molto presto di quante poche possibilità il
destino avesse deciso di concedermi.
Non
ero nato con il Segno, quindi non potevo essere un mago.
Non
sarei mai riuscito a permettermi l’iscrizione all’Accademia Imperiale, quindi
non potevo diventare un giudice o un funzionario.
Restava
solo la via dell’eroe, ma anche così sarei dovuto partire dalla base della
scala.
Quando
ancora scolaretto avevo detto ai miei genitori che da grande mi sarei arruolato
nelle legioni, per poco non mi avevano buttato fuori di casa.
Sì,
perché come se non bastasse nel posto in cui sono cresciuto essere un servitore
dell’Impero non era una professione di cui andare fiero.
Ma
io, testardo, non mi ero perso d’animo, e i fatti mi avevano rapidamente dato
ragione; dopo solo un anno da che avevo lasciato la mia casa alla volta della
capitale ero già decurione della Quindicesima Legione Invicta.
Avevo
chiesto io stesso di essere assegnato a quell’incarico, così da poter fare
ritorno nei luoghi in cui ero cresciuto e avere l’occasione di dimostrare a
tutti che si poteva essere dei soldati dell’Impero senza per questo rinnegare o
dimenticare le proprie origini.
Come
decurione mi avevano assegnato proprio a presidio del piccolo fortilizio che
dall’alto di un colle dominava il mio villaggio natale; ufficialmente ero il
comandante in seconda, ma visto che al nostro centurione piaceva di più
ubriacarsi alla taverna che fare il proprio dovere in pratica ne facevo le
veci.
Eravamo
solo uno sparuto gruppo di soldati, visto che gli accordi di pace con l’Unione
di Patria vietavano la presenza di grossi presidi in tutte le regioni
affacciate sulle sponde del fiume Jesi, ma provenendo quasi tutti dai territori
della vecchia Eirinn ci trovavamo bene e ci conoscevamo tutti.
Ovviamente
non avevo alcuna intenzione di marcire in quel presidio di periferia, e contavo
di mettermi in luce alla prima occasione utile per ottenere al più presto una
nuova promozione.
Purtroppo
il destino è beffardo, e si diverte a metterti davanti le prove più dure quando
meno te l’aspetti.
L’Eirinn Occidentale non era mai
stato il posto più ospitale del mondo, e accumulare delle scorte al termine del
raccolto per far fronte all’inverno era una cosa normale per noi.
Daemon,
le cui ipotesi quasi mai si erano rivelate inesatte, aveva suggerito di mettere
da parte una quantità di cibo ancora maggiore del solito, dato che secondo un
qualche strumento che si era costruito l’inverno in arrivo sarebbe stato assai
peggiore dei precedenti. Ovviamente ci aveva visto giusto, e per nostra fortuna
il sindaco gli aveva dato ascolto dando ordine di ammassare una montagna di
cibo.
Quello
stesso cibo che ora stava bruciando sotto i nostri occhi.
Il
boato era stato così forte da scaraventarci tutti quanti giù dal letto nel
cuore della notte, e al nostro arrivo avevamo potuto solo osservare impotenti
il frutto di tanti mesi di fatiche andare letteralmente in cenere.
L’unica
consolazione fu che riuscimmo a contenere il fuoco evitando il propagarsi
dell’incendio e a portare in salvo qualcosa, ma al sorgere del sole del granaio
e quasi tutto il suo contenuto non rimaneva più nulla.
Tra
miliziani e legionari passammo quasi un’ora ad accusarci gli uni con gli altri
per quanto accaduto, sotto gli occhi increduli, preoccupati e giustamente
ostili degli abitanti. Fu Daemon a richiamarci tutti all’ordine.
«Smettetela!
Sembrate un branco di scolaretti che si azzuffano! Invece di litigare su chi
sia più colpevole cerchiamo di capire cos’è successo e come rimediare a questo
disastro.»
«Hai
ragione.» ringhiai in faccia a quell’idiota di Beek.
«Non ne vale la pena.»
«Attento
a come parli ragazzino. Portavo l’uniforme quando tu ancora bagnavi il letto.»
Senza
che io e il Comandante smettessimo un attimo di beccarci facemmo un sopralluogo
all’interno.
«Io
non mi spiego quell’esplosione che abbiamo sentito. Qui dentro non c’è niente
che potesse produrre una simile deflagrazione.»
«Ti
sbagli, qualcosa c’era.» rispose Daemon sollevando da terra un sacco di farina
carbonizzato. «La farina è infiammabile quasi quanto la polvere da sparo. Basta
un niente per innescarla. Mettici una stanza chiusa e satura di polveri, più un
vecchio edificio quasi interamente in legno…»
«Quindi…»
disse il sindaco «Sarebbe stato un incidente?»
«Probabilmente.
Forse qualche cassa è caduta e ha provocato una scintilla.»
Il
mio attendente Jorn, un mio coetaneo proveniente dal nord che non aveva mai
visto la frontiera e i suoi problemi in vita sua, aveva il morale a terra.
Avevo cercato di spiegare al centurione Costanzio che
non era ancora pronto ad assumere un ruolo delicato come il comando della ronda
notturna, e ora cercava in tutti i modi di rimediare a quello che considerava
un suo errore personale sfruttando il suo proverbiale acume.
«Decurione,
venite a vedere! Ho trovato qualcosa!»
Seguendo
la sua voce arrivammo nei pressi del muro, dove sul pavimento di pietra era ben
visibile una sorta di lunga linea nera che sbucando da una fessura continuava
dritta fino al punto in cui era stata stoccata la maggior parte della farina.
«Ora
sappiamo cos’è successo.» disse Daemon
«Che
intendi dire?»
«Questo
è il segno lasciato da un innesco. Qualcuno ha fatto passare una miccia sotto
il muro per incendiare i cumuli di farina. L’ambiente chiuso, il legno secco e
gli altri materiali infiammabili hanno fatto il resto.»
«Quindi
sarebbe stato un…»
«Un
attentato.»
Beek
non aspettava altro per scatenarsi.
«Io
lo sapevo! Sono stati sicuramente quei bastardi reunionisti!
Gli stessi che Voi sindaco vi ostinate a non voler reprimere!»
«Adesso
non ricominciare. Questo non è certo il modo di agire dei reunonisti.»
«Tu
sta zitto moccioso in armatura. Che cosa vuoi saperne? Ho dato la caccia a
quella feccia ribelle per anni, non sono altro che un branco di animali!»
«Septimus
ha ragione, Comandante. I reunionisti si considerano
patrioti che lottano per il popolo e per la riunificazione di Eirinn. Non
affamerebbero un’intera regione che brulica di loro simpatizzanti.»
«Hai
detto bene sceriffo! Questo posto è un covo di serpi! E sono pronto a
scommettere che tra di loro c’è chi ha avuto questa brillante idea! Chi credete
che saranno i primi a patire la carenza di cibo? Miliziani e soldati
ovviamente! Ma se sperano che questo basterà a piegarci hanno sbagliato i
conti! Vig!»
«Signore?»
«Chiama
l’adunata generale! Voglio tutti in caserma in dieci minuti e una lista
completa di soggetti ostili entro stasera! Elimineremo quella feccia ribelle
una volta per tutte!»
Il
sindaco ed io invece avevamo tutt’altri pensieri per la testa.
«E
adesso cosa facciamo sceriffo? Senza questo cibo sarà quasi impossibile
superare l’inverno.»
«Il
sindaco ha ragione. Quello che siamo riusciti a salvare non riuscirà mai a
sfamare tutti.»
«Andrò
a parlare con il Governatore, anche se non sono sicuro che mi ascolterà.»
«E
tu credi davvero che quel porco accetterà di dividere il suo cibo con noi?
Piuttosto ci lascerà morire di fame.»
«Sindaco,
vi suggerisco di fare più attenzione a quello che dite. Con il Comandante in
quello stato non è questo il momento di fare simili discorsi.»
«Che
vada all’inferno Beek, ragazzo. Non è altro che un
macellaio. L’unica ragione per cui non posso liberarmene è solo perché i
fanatici come lui sono sempre benaccetti in posti come questo.»
Purtroppo Beek
non aveva scherzato dicendo di voler stroncare definitivamente il reunionismo nella regione.
Quella
notte stessa iniziarono i rastrellamenti. Casa per casa, porta per porta.
Chiunque fosse anche solo minimamente sospettato di aver fatto parte o fare
ancora parte di qualche cellula reunionista venne
sorpreso nel sonno, bastonato fin quasi ad ucciderlo e portato via.
I
pochi abbastanza fortunati da avere un cognome rispettabile o le giuste
conoscenze vennero rinchiusi in prigione in attesa di fantomatici processi;
tutti gli altri direttamente alla forca, non prima ovviamente di essere stati
torturati a dovere nel tentativo di scovare altri presunti terroristi o svelare
i nomi dei veri responsabili dell’attacco al granaio.
La
breve strada tra il palazzo di giustizia e il patibolo era percorsa senza sosta
da carretti carichi di disperati, e per il boia non c’era un attimo di respiro.
In
pochi giorni si instaurò un clima di terrore tale da riportare alla mente il
periodo più buio delle dispute di confine con l’Unione; chiunque poteva essere
arrestato, e dal momento che ogni nome riferito alla milizia, vero o falso che
fosse, valeva due goldie i delatori non mancavano: era l’occasione perfetta per
sistemare vecchi conti in sospeso.
E
intanto l’inverno peggiorava sempre di più. Non passava giorno senza che
nevicasse, e le temperature erano scese al punto che perfino lo Jesi in alcuni
punti aveva iniziato a congelarsi.
Daemon
dal canto suo aveva fatto tutto quello che era in suo potere per convincere il
Governatore ad aprire i granai, ma tutto quello che aveva ottenuto erano stati
due carri destinati esclusivamente alla milizia e alla guarnigione. Qualcuno
aveva avuto la brillante idea di consigliare a quel grassone di fare qualcosa
per aumentare la sua popolarità tra la piccola nobiltà locale, e lui si era
fatto venire in mente di trasformare un evento di poco conto come il ballo
d’inverno in un ricevimento degno dell’Imperatore in persona.
E
intanto i nostri concittadini morivano di fame.
Io
e quasi tutti i miei compagni ovviamente facevamo il possibile per dividere le
nostre già esigue razioni con la gente, ma tra la fame, il freddo e le
esecuzioni che non si fermavano un attimo la rabbia montava sempre di più.
Alcuni di noi avevano perfino paura ad avventurarsi da soli per strada, tale
era il terrore di essere linciati da una folla che stava raggiungendo il limite
dell’esasperazione.
E
in tutto questo io avevo le mani legate.
Il
mio superiore, il Centurione Costanzio era un fallito
buono a nulla che non vedeva l’ora di concludere i tre anni di servizio
obbligatorio che tutti i nobili dell’Impero dovevano onorare per scapparsene
nuovamente a Maligrad a godersi l’eredità paterna, e
non avrebbe mosso un dito per fermare Beek e i
fanatici della milizia che lo seguivano. Anzi, in un paio di casi ci ordinò di
collaborare attivamente nei rastrellamenti, forse pensando che scoprire
l’identità dei sabotatori potesse essere un buon modo per accorciarsi il
servizio militare.
Se
la situazione a Dundee e tra gli umani in generale era grave, nel ghetto era
anche peggio.
Quei
poveracci non mangiavano quasi nulla, ma nonostante ciò da
loro ci si aspettava che dessero sempre più di quanto erano effettivamente
capaci.
Io
e alcuni altri avremmo voluto fare qualcosa anche per loro, ma più che far
visita alle miniere e ai cantieri per tenere a freno il sadismo dei miliziani
non potevamo fare, e vederli così, magri da far paura e sottoposti a continue
vessazioni ammetto che ci faceva stare molto male.
Nessuno
merita un’esistenza così misera, non importa quale sia il suo crimine.
Ovviamente
gli arresti, le torture e le esecuzioni non portarono a nulla, e ad un mese
dall’incendio nessuno aveva ancora idea di chi fosse il responsabile di aver
innescato quella situazione esplosiva.
Per
tutto quel tempo io e gli altri legionari avevamo osservato senza reagire, ma
si arrivò al punto in cui tutti insieme decidemmo che dovevamo fare qualcosa
prima che la situazione esplodesse definitivamente; non tanto perché il nostro
dovere di legionari ce lo imponeva, quanto piuttosto perché quella era la
nostra gente. E anche se Beek e i suoi sembravano
essersene dimenticati, eravamo tutti figli dell’Eirinn, pronti a dare la vita
gli uni per gli altri.
Dapprima
iniziammo a mettere i bastoni tra le ruote alla milizia millantando ordini
dall’alto di limitare le loro attività di rastrellamento. E visto che
teoricamente non erano altro che legionari senza insegna, civili prestati
all’esercito e formalmente sottoposti all’autorità della legione, i nostri
ordini travalicavano sempre i loro.
Quindi
ci mettemmo a distribuire medagliette al merito; bastava portarne una appuntata
sul vestito per essere riconosciuti come fedeli servitori dell’Impero, e far
risultare assurda qualsiasi pretesa di cooperazione coi reunionisti.
Ma
si trattava solo di espedienti che servivano a poco, anche perché come temevo
furono in molti a rifiutare il nostro aiuto o di portare le medagliette, con il
risultato di dare ai miliziani ulteriori pretesti per giustificare gli arresti.
Dovevamo
trovare il modo di risolvere quella situazione il più in fretta possibile, o per
come la vedevo io c’era il rischio concreto che l’intera regione saltasse per
aria.
Per
nostra fortuna il cervello di Jorn non aveva mai smesso di lavorare. Fu così
che riuscì per primo ad intuire ciò che nessuno di noi era riuscito a capire.
«Decurione,
stavo pensando. E se quello che può sembrare un sabotaggio non fosse altro che
il tentativo di coprire qualcos’altro? Ad esempio, un furto?»
«Impossibile.
Abbiamo perlustrato con attenzione il granaio e i dintorni. Anche ammesso che
siano riusciti ad eludere le guardie non c’era niente che indicasse che fosse
stato portato via qualcosa quella notte.»
«Hai
ragione. Però c’è un’altra eventualità che non abbiamo considerato.»
«E
quale sarebbe?»
«Chiunque
abbia commesso questo furto intendeva trarne un grosso guadagno, portando via
quello che bastava per giustificare il rischio di essere scoperti. Muovere una
simile quantità di cibo tutta insieme senza lasciare tracce sarebbe difficile
per chiunque, specie ora che la neve e il fango rendono le strade impraticabili.
Se però il furto viene commesso poco per volta, la cosa diventa molto più
fattibile.»
«Stai
dicendo che avrebbero rapinato continuativamente il granaio per giorni?»
«Forse
anche di più. Come suggerito dallo sceriffo il granaio è rimasto chiuso e sorvegliato
già a partire dalla fine dell’autunno. Entrare e uscire nonostante la
sorveglianza non sarebbe stato difficile per dei professionisti, a condizione
di saccheggiare le provviste poco per volta.»
«Se
è come dici tu allora temo sarà inutile cercarli. A quest’ora saranno già
chissà dove.»
«No,
io non credo. Ovvio che non possono sperare di rivendere il cibo qui, ma noi
non siamo sicuramente gli unici che l’inverno ha messo a dura prova. Spostare
un simile carico in pieno inverno e con la milizia che batte ogni sentiero
giorno e notte in cerca di ribelli però non dev’essere per niente facile.»
«Mi
stai dicendo che potrebbero essere ancora qui!?»
«Probabile.
Deve essere per questo che hanno inscenato il sabotaggio, così da non far
scoprire il furto e potersi allontanare indisturbati alla prima occasione.»
Se
l’ipotesi di Jorn era giusta dovevamo comunque agire in fretta, prima che i
ladri avessero il tempo di disfarsi anche solo di una parte della refurtiva.
Ma
come fare a trovarli se erano stati così attenti a passare inosservati? Ancora
una volta il mio amico ebbe l’intuizione giusta.
«Anche
se probabilmente contano di rivendere la merce rubata per conto proprio
potrebbero essersi rivolti a un trafficante. E da queste parti sappiamo bene
che ce n’è uno molto potente.»
Non ero mai stato alla presenza di
Borg, ma trovarmelo di fronte mi ricordava perché a distanza di cinquecento
anni c’era ancora qualcuno che reputava giusto e doveroso il modo in cui
l’Impero trattava quelli della sua specie.
Quel
maiale era talmente sicuro della propria intoccabilità da essersi costruito un
magazzino traboccante di merci preziose a due passi dalla Via Magna, e aveva al
suo servizio come guardaspalle persino degli umani.
Il
suo ufficio di contro era abbastanza umile; uno avrebbe pensato che non volesse
palesare la propria oscena ricchezza, se non fosse stato per le vesti broccate
e i gioielli di cui amava ricoprirsi.
«Dunque?
Che cosa posso fare per i rispettabili delegati della Quindicesima Legione?»
«Ci
servono delle informazioni.»
«Merce
costosa. Immagino abbiate di che pagarla.»
Sapevamo
che per Borg tutto aveva un prezzo, incluse le informazioni; e visto che come
prevedibile la legione ci aveva negato l’accesso ai fondi eravamo stati
costretti a fare una colletta tra di noi per mettere insieme un po’ di soldi.
Il
coboldo e la lucertola che stavano alle nostre spalle ridacchiarono alla vista
di quel sacchetto mezzo vuoto che ci era costato così tanti sacrifici. Invece
Borg non disse niente, facendo scorrere le monete sulla scrivania e lasciandosi
sfuggire uno strano sorriso.
«Sono
a vostra disposizione.»
Jorn
prese la parola.
«Vorremmo
sapere se negli ultimi mesi siete stato contattato da qualcuno che vi ha
proposto di acquistare o ricettare merce rubata. Soprattutto cibo, ma anche
attrezzi da lavoro, grasso animale e pellicce.»
«Ragazzo
mio, se mi conoscessi dovresti sapere che il mio commercio è perfettamente
legale. I miei clienti sono tutte persone rispettabili, e da onesto mercante io
stesso obbedisco devotamente alle leggi dell’Impero che regolamentano il
commercio. Non farei mai una cosa tanto disonesta come vendere e comprare il
frutto di una rapina.»
«Voi
non siete un mercante, siete un trafficante.»
Jorn
aveva negli occhi una luce che non gli avevo mai visto, fissando quel maiale
come se avesse voluto saltargli addosso riducendolo ad una pancetta.
«Sembri
sapere molte cose sul mio conto ragazzo.»
«Io
vengo dalla provincia di Tingas, dove anche voi
vivevate prima di trasferirvi qui. Mio padre è uno degli uomini che avete
truffato con quel vostro affare delle pellicce.»
Colpito
dal suo coraggio, anche io decisi di mettere da parte ogni timore.
«Ora
ascoltami bene maledetto maiale. Lo sappiamo tutti e due che non possiamo
torcerti un capello. Quello che possiamo fare però è rendere il tuo lavoro
estremamente difficile. Darò ordine di ispezionare a fondo ogni filo d’erba che
esce da questo posto, farò cambiare le guardie e i doganieri sul ponte almeno
cinque volte al giorno. Dovrai pagare tante di quelle tangenti per far girare
la tua merce che non ti rimarrà abbastanza nemmeno per pagare i tuoi uomini.
Quindi ora dacci un taglio con la storia dell’onesto mercante e dicci quello
che sai.»
I
suoi due guardiani erano pronti a saltarci addosso, ed entrambi avevamo già la
mano sull’impugnatura della spada. Invece, Borg fece loro segno di calmarsi,
accendendosi uno dei suoi famosi sigari toriani.
«Non
mi sorprende che vi abbia messo gli occhi addosso.»
«Di
che parli?»
«Non
importa. Ad ogni modo sì, sono venuti da me. Circa un mese fa.»
«Chi
erano?»
«Stranieri.
Banditi. Probabilmente del Torian. Mi hanno chiesto
se ero interessato a ricettare derrate alimentari rubate, ma li ho messi alla
porta invitandoli a non tornare. Come ho detto, io non tratto con gente di
quella risma.»
«Hai
idea di dove si potrebbero nascondere?»
«Se
dovessi scommettere, e non sono uno che scommette, punterei sulla terra di
nessuno, da qualche parte lungo le sponde del fiume.»
«Proprio
dove gli accordi con l’Unione ci impediscono di entrare in forze.»
«A
questo punto, l’accordo tra noi è concluso. E se non vi dispiace avrei
parecchie cose da fare. Vi saluto signori.»
Una
volta fuori io e Jorn discutemmo della situazione.
«Pensi
che possano essere ancora lì?»
«Il
ponte è sotto sorveglianza continua da quando Beek si
è scatenato. E anche se il fiume è parzialmente congelato non mi arrischierei
mai a tentare di attraversarlo portandomi appresso svariati quintali di
refurtiva. Secondo me si trovano ancora nei paraggi.»
«Il
problema è che in base ai trattati solo le guardie assegnate al controllo del
ponte possono entrare nella terra di nessuno. Come facciamo a battere una zona
tanto vasta senza poter contare sui nostri compagni?»
E
il peggio doveva ancora arrivare. Mentre rientravamo al villaggio ci venne
incontro il nostro compagno Finn, al galoppo e
pallido come se avesse visto la morte in faccia.
«Decurione,
abbiamo un problema serio!»
«Che
altro c’è?»
«Al
ghetto! Dovete venire subito!»
Twami
era una gattina che il vecchio Edmund si era preso in casa come animaletto da
compagnia per alleviare la sua solitudine, trattandola sempre molto bene.
L’avevo
vista alcune volte al mercato intenta a fare la spesa, e quando qualche
settimana prima il suo padrone era morto era stata portata al ghetto in attesa
di capire cosa ne sarebbe stato di lei.
Quando
io e Jorn arrivammo nel piazzale la situazione era a dir poco esplosiva; Daemon
e una decina di miei compagni erano tutto quello che si frapponeva tra gli
uomini di Beek e Twami, che
se ne stava avvinghiata a quella muccona superdotata
di Lori tremante di paura.
«Che
sta succedendo qui?»
«Meno
male che sei arrivato.» disse Daemon come se fossi stato il suo salvatore.
«Vogliono entrare nel ghetto e portare via Twami.»
«Cosa!?
Per quale motivo?»
«È
presto detto!» sbottò il Comandante. «Quel vecchio fossile di Edmund era un
noto reunionista, e abbiamo le prove che poco prima
della sua morte in casa sua si è svolta una riunione segreta per pianificare un
attacco. Lo stesso attacco in cui sono stati uccisi due dei miei uomini! Quell’animale
avrà sicuramente sentito o visto qualcosa, quindi voglio interrogarla per
sapere cosa sa.»
«Qui
si sta scendendo nel ridicolo.» disse Daemon. «Twami
capisce a malapena la nostra lingua. Cosa mai potrebbe dirti?»
«Inoltre
nessun tribunale accetterebbe la parola di uno schiavo contro quella di un
libero cittadino. Qualsiasi cosa lei ti dicesse sarebbe inutile.»
«Mi
sono stancato di voi mocciosi! Ho detto che l’arresterò e intendo farlo!
Soldati, prendete quella bestia!»
Così,
istintivamente, feci qualcosa che mai avrei pensato di fare; estrassi la spada
e la puntai contro di lui.
«Fermo!
Ora basta!»
Con
mio stesso stupore anche i miei uomini fecero altrettanto, e nello spazio di un
attimo un muro di scudi si parò tra quella gattina e gli uomini di Beek, che divenne rosso di rabbia.
«Come
osate alzare le armi contro di noi! Siamo i delegati del popolo di Eirinn e di
Sua Maestà l’Imperaotre! I rappresentanti della
legge!»
«Ho
già inviato una lettera al Governatore, e lui ha autorizzato la dichiarazione
dello stato di emergenza. E come dovresti sapere, durante uno stato d’emergenza
la gestione dei ghetti passa interamente sotto il controllo delle legioni. Voi
non avete più alcun titolo per restare qui.»
Nel
mentre tutto attorno a noi si era formato un piccolo pubblico di schiavi, che
osservavano con evidente stupore me e i miei compagni proteggere uno di loro.
«Ho
sentito dire che anche tuo nonno era un noto simpatizzante reunionista,
ragazzo. E anche tuo padre. E tua madre. Forse dovrei fare due chiacchiere
anche con lei. E magari perquisirla anche un po’.»
Non
so cosa mi trattenne dal piantargli la spada nel collo.
«Vattene
da qui, maledetto pazzoide. E porta questa banda di macellai via con te.»
Quell’animale
ringhiava come un cane rabbioso incatenato, ma sapeva di avere le mani legate.
«Non
illudetevi che sia finita qui, luride bestie! Qui dentro sarete anche al
sicuro, ma là fuori siete ancora in mio potere! Aspettate e vedrete!»
Quasi
che non ci sentissimo sicuri, io e i miei compagni tenemmo alti gli scudi fino
a quando non vedemmo Beek e i suoi uomini scomparire
oltre il cancello, che una volta usciti provvedemmo a richiudere con una nuova
serie di lucchetti.
«È
come ha detto lui. Possiamo proteggerli finché sono qui dentro, ma le miniere e
le segherie restano sotto il controllo della milizia.»
«Puoi
fare in modo che Twami sia esentata dal lavoro?»
«Posso
fare di meglio. Ho un amico a Basterwick. Lui e la
sua famiglia cercano una nuova domestica. Lo convincerò a comprarla.»
«Grazie.»
«Di
niente, Daemon. In realtà non mi è mai piaciuto il modo in cui trattiamo questi
poveretti. Dopotutto ad Eirinn non esisteva la schiavitù prima che venisse
assimilata dall’Impero.»
Nel
mentre gli uomini di Beek erano arrivati in cima alla
collina ad est che dominava la vallata in cui sorgeva il ghetto, restando lì
immobili a guardarci come se ci stessero sfidando.
«Non
riuscirò a tenere le cose sotto controllo ancora a lungo Septimus. Che siano
schiavi o liberi cittadini, non si può far ragionare a lungo chi muore di fame.»
«Sì,
lo so. In realtà stiamo indagando su una certa cosa. Non posso prometterti
niente, ma forse c’è un’esile possibilità di riuscire a recuperare una parte
delle provviste.»
«Di
che stai parlando? Pensavo fosse andato tutto distrutto nell’incendio.»
«Ora
non sono in grado di dirti di più, ma ti prometto che se arriveremo a qualcosa
ti informerò subito.»
«Io
devo restare qui a mantenere l’ordine e non posso aiutarvi. Ma se davvero avete
un’idea di qualunque tipo che ci tiri fuori da questa polveriera, in nome del
cielo fate qualcosa.»
Restammo
ad osservare Daemon mentre visibilmente preoccupato e con lo sguardo basso
rimontava a cavallo per fare ritorno a Dundee. Non che noi fossimo di umore
migliore.
«Meno
male che c’è lui. A chiunque altro la situazione sarebbe già scappata di mano.»
«E
noi dobbiamo fare la nostra parte, Jorn. Troviamo quei ladri.»
Anche se l’Impero amava definire in
modo altisonante “guerre di confine” quelle che in realtà per cento anni non
erano state altro che scaramucce occasionali con l’Unione, nessuno voleva
tornare a rivivere quei giorni.
Per
questo era stata creata la Terra di Nessuno che istituiva due miglia di zona
franca lungo tutto il confine tra Saedonia e Patria,
che nell’Eirinn Occidentale corrispondeva al corso dello Jesi.
Io
e Jorn ci muovevamo tra gli alberi come ladri in una casa da svaligiare. Sapevamo
di stare correndo un grosso rischio. Anche se eravamo solo in due e senza
armatura, se ci avessero scoperti ne sarebbe venuto fuori un grave incidente
diplomatico.
«Sicuro
che sia questa la direzione?»
«Assolutamente,
Decurione. Le tracce sono evidenti. Cinque persone, di cui almeno un mostro.
Probabilmente un felino.»
«Sei
bravo a leggere le tracce. Potresti fare concorrenza a Daemon.»
«Mio
padre era direttore di una prigione, prima di finirci dentro per i debiti che
aveva accumulato. Come sapeva seguire lui i fuggitivi nelle paludi non lo
sapeva fare nessuno. Ecco, ci siamo. Dovrebbe essere proprio davanti a noi.»
Non
sarebbe stato facile avere ragione di cinque banditi che probabilmente sapevano
anche menare le mani, ma potevamo contare sull’effetto sorpresa e coglierli nel
sonno.
Prima
che potessimo arrivare in vista del loro nascondiglio però un odore
pestilenziale ci passò sotto il naso, uno che entrambi conoscevamo molto bene.
«Decomposizione.»
dissi «Più avanti c’è qualcosa che marcisce.»
Senza
più timore avanzammo a passo svelto seguendo quel fetore, e quando arrivammo
finalmente a destinazione fummo entrambi presi dallo sconforto.
Il
campo era in uno stato pietoso, e sembrava che un tarkana
infuriato vi si fosse scagliato contro facendo una strage.
Come
aveva detto Borg si trattava sicuramente di Toriani,
e tra loro c’era anche una tigre con abiti di foggia Mahardiana.
Il fatto che avessero tutti le armi vicino testimoniava che avevano provato a
difendersi, ma chiunque li avesse affrontati non aveva avuto alcuna pietà,
martoriando i loro corpi in modo a dir poco barbaro.
«Per
tutti gli dei.» si lasciò sfuggire Jorn «Chi può aver fatto una cosa del
genere?»
«Di
sicuro saranno stati almeno una decina, per fare un tale disastro.»
Come
se non bastasse nello scontro la farina era caduta dal suo bancale coprendosi
di acqua e fango, e il poco cibo rimasto aveva fatto la felicità degli animali
selvatici.
Non
potevamo permettere che finisse così. Non dopo aver faticato e rischiato tanto
per arrivare fino a quel punto.
«Cerchiamo
in giro. Forse scopriremo qualcosa.»
Frugammo
dappertutto, nelle sacche da viaggio, all’interno delle tende e perfino nelle
tasche dai cadaveri, fino a che non Jorn non recuperò dai resti di un bivacco un
foglio di pergamena mezzo bruciacchiato, coperto di scarabocchi per me
incomprensibili.
«È
scritto in lingua toriana. Si direbbe un elenco.»
«Puoi
tradurlo?»
«Credo
di sì, dammi solo un secondo.»
Lo
stupore che gli apparve sul volto man mano che riusciva a decifrare il testo
non si può descrivere, ma niente in confronto a ciò che provai io quando me ne
rivelò il contenuto.
Era
una lista: una lista di nomi.
Nomi
che io conoscevo molto bene. Con accanto la descrizione dettagliata di quanta
merce rubata avessero comprato, di quale tipo, e la somma sborsata per averla.
«Sono
alcune tra le famiglie più importanti della provincia.»
«Forse
gli assassini sono stati disturbati e sono dovuti scappare prima di avere la
certezza che fosse stata distrutta.»
«Chi
se ne importa. Presto, portiamola a Daemon. Forse possiamo ancora sperare di
recuperare qualcosa.»
Era difficile che un qualunque
ufficiale giudiziario accettasse come prova una lista recuperata in un covo di
ladri, ma Daemon era lo sceriffo, e fintanto che si assumeva la responsabilità
delle proprie decisioni poteva fare quello che voleva.
E
a lui il coraggio non mancava di certo.
Nei
giorni che seguirono rivoltammo come un calzino non solo la regione di Dundee
ma l’intera Eirinn Occidentale, da Basterwick al
Castello, effettuando decine di arresti.
Mercanti,
piccoli borghesi, capi villaggio, e persino alcuni nobili.
Ovviamente
quasi tutti negarono ogni responsabilità, ma le prove che trovammo in loro
possesso erano più che sufficienti a farli finire in schiavitù per il resto dei
loro giorni, nella migliore delle ipotesi.
La
cosa davvero ironica fu che la maggior parte di loro erano forestieri, oppure
gente del posto che aveva fatto fortuna cooperando a vari livelli con le
autorità imperiali.
Persino
il Sindaco Rutte venne coinvolto marginalmente nell’indagine. Ma il fatto che
avesse accettato di comprare provviste per vie traverse sul mercato nero, tra
l’altro indebitandosi pesantemente, solo per sfamare i suoi concittadini
convinse sia noi che Daemon a chiudere un occhio, in un momento in cui gli
abitanti di Dundee avevano più che mai bisogno di qualcuno che mantenesse unita
la comunità.
Riuscimmo
a recuperare anche della refurtiva; non moltissima, ma quello che bastava per
tirare avanti fino a primavera.
C’era
un nome però che aveva lasciato me e Daemon letteralmente senza parole. Un nome
che avevamo voluto tenere per ultimo, ordinando ai nostri uomini di non alzare
un dito prima del tempo; non perché tenessimo a lui, ma perché volevamo goderci
appieno il momento in cui avremmo potuto finalmente toglierlo di mezzo.
Quando
insieme ad un manipolo di soldati entrammo nell’emporio Wallace era in corso
l’ennesimo litigio tra Mary e suo padre per questioni di soldi, con annessa
inevitabile alzata di mani. Con noi c’era anche Giselle, nelle vesti di
testimone la cui parola era risultata decisiva nel darci il via libera a
mettere in atto ciò che stavamo per fare.
«Non
lo perdi mai il vizio, vero bastardo?» disse Daemon scrocchiandosi le dita con
evidente piacere.
«Che
volete voi? Non sono per niente allegro stamattina.»
«A
te l’onore, Septimus. E fai in fretta, altrimenti potrei fare qualcosa di
stupido.»
«Doug
Mornay! Ti dichiaro in arresto per furto e
ricettazione!»
I
miei uomini dovettero saltargli addosso tutti insieme per riuscire ad
immobilizzarlo.
«Maledetti,
lasciatemi! Di cosa state parlando? Io sono innocente!»
«Lo
dicevano anche tutti gli altri. Peccato che qui ci sia una lista di compratori
trovata nel campo dei ladri che hanno saccheggiato e distrutto il granaio, in
cui appare anche il tuo nome.»
«Che
storia è questa? Io non ho comprato niente!»
«Non
ne dubito, visto che da fallito quale sei non ti saresti mai potuto permettere
un esborso simile. Quello che hai fatto è stato spennare uno di quei ladri al
gioco, e accettare come pagamento per la vincita una fornitura di provviste.»
«E
se stai pensando di provare a negare lascia perdere.» intervenne Giselle «Ti ho
visto coi miei occhi giocare a carte con quel tipo strano e firmare la
cambiale. Te ne sei vantato per giorni. Davvero, quale idiota va in giro a
raccontare ai quattro venti di aver accettato come pagamento merce rubata?»
«Vi
ripeto che non so di cosa voi stiate parlando! È vero, ho giocato a carte con
un toriano qualche settimana fa, ma la carta che ho
firmato era solo una promessa di pagamento in moneta sonante.»
Ovviamente
perquisimmo a fondo il negozio, trovando la cambiale in questione in un doppiofondo
segreto nel forziere del negozio e constatando una volta per tutte che quella
sera quell’ubriacone doveva aver bevuto anche più del solito. Oppure
semplicemente mentiva sapendo di mentire.
«E
di questa che mi dici? Qui c’è scritto chiaramente che accetti in pagamento una
fornitura di generi alimentari. Con l’incendio che era avvenuto solo la sera
prima, vuoi farci credere davvero che non sapevi che si trattava dei
rifornimenti rubati dal magazzino distrutto?»
«No
aspettate, io non ho mai visto quella carta in vita mia, lo giuro!»
«Continui
a negare l’evidenza? Lo vedi o no che qui c’è la tua firma? E se speri di farla
franca dicendo che eri ubriaco sappi che sarà inutile. Visto quello che abbiamo
passato dubito che il magistrato la accetterà come giustificazione.»
«Questa
è tutta una montatura! Un complotto! Dite la verità, siete stati voi! Mi volete
incastrare! Mary tesoro, diglielo anche tu! Digli che si sbagliano!»
Invece
la faccia di Mary diceva tutt’altro. Anzi, non nascondo che quel ghigno che mai
una volta l’avevo vista sfoggiare mi fece quasi paura.
«Questa
volta la forca non te la toglie nessuno maledetto! Portatelo via!»
«Con
piacere, Signore!»
La
scena di quel violento ubriacone scaraventato piangente sul carro per essere
portato al Castello ci mise tutti di buonumore; finalmente io, Daemon e Giselle
eravamo riusciti nell’impresa di far uscire quell’orco dalla vita di Mary una
volta per sempre.
«Non
devi preoccuparti per il negozio.» disse Daemon prima che la nostra amica
potesse sollevare la questione. «Ho chiesto un favore personale al Governatore.
A partire da questo momento l’emporio passa immediatamente sotto la tua
proprietà. Niente supervisori o amministratori fiduciari.»
«Grazie
Daemon. Grazie a tutti voi.»
«Figurati,
aspettavo da un pezzo di togliermi questa soddisfazione. Ma ora che ci penso,
adesso chi lo pagherà il suo conto arretrato alla locanda?»
Quella sera, il Sindaco ci invitò
alla taverna e offrì da bere a tutti noi, ringraziandoci a nome di tutti i
cittadini per quello che avevamo fatto.
Per
quanto mi riguardava però, sentivo di avere ben poche ragioni per festeggiare.
Di
sicuro ritrovando almeno una parte del cibo rubato avevamo salvato molte vite e
scongiurato una carestia nel bel mezzo dell’inverno, ma nonostante i nostri sforzi
era evidente che l’immagine dell’Impero e dei suoi governanti non era uscita
per niente bene da tutta quella storia.
Prima
l’atteggiamento del Governatore, più interessato al suo maledetto ballo che al
destino dei suoi sudditi, poi la caccia indiscriminata di Beek
e della milizia, e infine tutti quei nomi illustri che avevamo sbattuto al
fresco.
In
tutto ciò, il fatto che fossero stati proprio due legionari testardi e uno
sceriffo determinato a risolvere la situazione non bastava certo a migliorare l’idea
che la gente di Dundee, per non dire di tutta la provincia, si era fatta di chi
li governava.
E
ammetto che anche molte delle mie certezze si erano di colpo affievolite.
Mi
ero arruolato nella legione perché credevo così facendo di poter proteggere i
miei amici e la mia terra, ma quando il mio intervento si era reso necessario
avevo fatto tutto meno che seguire gli ordini, proprio perché quell’Impero in
cui riponevo fiducia non aveva potuto o voluto fare qualcosa.
Per
che cosa stavo lottando?
Potevo
davvero considerarmi un legionario al servizio di Saedonia?
Oppure inconsciamente pensavo e agivo ancora come un abitante di Eirinn?
Inevitabilmente
finii per affogare i miei dubbi nel sidro, tracannando un boccale dietro
l’altro mentre attorno a me tutto si metteva a girare sempre di più.
Se
avessi saputo cosa stava per succedere, mi sarei fermato in tempo.
C’era un motivo se prima come
generale e poi anche come governante avevo fatto di tutto per limitare
l’accesso dei giovani soldati agli alcolici. Metti troppo liquore in mano ad
una recluta e berrà fino a stare male.
Per
me bere non era un problema; forse era merito del fisico allenato, o forse
avevo ereditato dalla mia vecchia vita quel mio famoso stomaco d’acciaio,
capace di reggere persino una dose da cavallo di arsenico.
Altrettanto
purtroppo non si poteva dire per i miei compagni di bevute: Septimus era
collassato al terzo bicchiere e avrebbe smaltito la sbornia nella stanza di
cortesia della locanda, mentre Jorn al termine della serata era così sbronzo
che dovetti portarlo fuori a spalla.
La
domanda sorge spontanea: quella lista era vera?
Per
buona parte sì.
Era
bastato che Borg facesse girare la voce, che subito un branco di squali
affamati ci si era buttato a capofitto sperando di speculare il più possibile
sulla penuria di cibo per riempirsi le tasche.
Naturalmente
quegli stupidi e sprovveduti razziatori non erano capitati per caso da quelle
parti. Di rifiuti organici che bazzicavano continuamente la Terra di Nessuno ce
n’era sempre grande abbondanza, mi era bastato scegliere quelli abbastanza
abili da mettere in atto il piano che io gli avevo suggerito.
Un
po’ mi era dispiaciuto ingannare Scalia dicendole che si trattava di schiavisti
venuti da Torian in cerca di manodopera, ma non
potevo rischiare che una persona accorta come Jorn si accorgesse della presenza
di un solo assalitore analizzando le ferite sui cadaveri.
Naturalmente
mi ero preso la libertà di omettere qualche nome e aggiungerne altri; così, per
togliermi dai piedi quelle persone che ero sicuro avrebbero avuto qualcosa da
ridire in merito a ciò che stavo per provocare.
Per
convincere Borg a rinunciare ad un simile guadagno ero stato costretto a
scoprire in parte le mie carte, promettendogli di coinvolgerlo quanto prima in
un affare i cui margini di guadagno non poteva neanche sognarseli.
Quanto
a Doug l’idea di aggiungere il suo nome alla lista mi era venuta all’ultimo
momento, ma per mia fortuna non era stato difficile incastrarlo a dovere.
Quell’idiota quella sera era così ubriaco che mi era bastato mettermi addosso
qualche straccio esotico e pitturarmi un po’ la faccia alla maniera toriana perché non mi riconoscesse. Più difficile era stato
imitare la sua firma e sostituire le cambiali nel forziere dell’emporio.
Con
quell’ubriacone fuori dai giochi Mary avrebbe avuto mano libera nella gestione
del negozio per i prossimi due o tre mesi, ed osservandola avrei potuto avere
la conferma definitiva del suo talento per le questioni economiche. Per non
parlare della considerazione che ora sicuramente aveva di me.
Anche
Septimus e Jorn avevano interpretato bene il proprio ruolo. Benché potesse
essere un rischio mettersi accanto soldati capaci di anteporre la propria
coscienza agli ordini ricevuti sapevo di non poter fare a meno di loro, quindi
per il momento era un azzardo che non potevo evitare di compiere.
Qualcuno
potrebbe dire che avevo forzato le cose, ma dal mio punto di vista non era
così.
Da
decenni l’Impero aveva ormai perso il controllo di molte delle sue regioni
inclusa l’Eirinn, messe in mano ad ufficiali e governatori incapaci in nome di
un sistema che favoriva il lignaggio a discapito del talento.
Io
avevo solo aperto gli occhi anche ai più scettici.
Probabilmente
una cosa del genere era comunque destinata a succedere prima o poi, poiché io
per primo sapevo che a lungo andare il malcontento generato da un tale livello
di malgoverno prima o poi conduce sempre ad una rivoluzione. Purtroppo il tempo
non giocava a nostro favore, quindi mi ero visto costretto a velocizzare
artificialmente un processo comunque inevitabile.
Ora
si trattava solo di aspettare un altro po’. Gli animi erano tesi, la rabbia
andava diffondendosi: la fame avrebbe fatto il resto.
Per
il momento mi accontentavo di riportare al forte Jorn e scaraventarlo nel suo
letto, prima che i suoi mugugni da ubriaco mi facessero saltare i nervi.
«Grazie
dell’aiuto, sceriffo.» biascicò mangiandosi le parole «Non so proprio come
avremmo fatto senza il tuo aiuto.»
«Non
c’è di che. E comunque, chiamami pure Daemon. Ad ogni modo sono io che devo
ringraziare te. È merito delle tue intuizioni se siamo riusciti a risolvere
questa situazione.»
Alla
fine quel poveretto non riuscì più a trattenersi, e raggomitolatosi in un
angolo buttò fuori tutto quello che aveva nella pancia.
«Avanti,
vieni. Ti porto alla fontana. Una buona sorsata d’acqua è quello che ti ci
vuole.»
«Lo
sai? Stavo pensando ad una cosa.»
«Che
dovresti limitarti nel bere? Sono d’accordo.»
«E
se avessimo sbagliato?»
«Riguardo
a cosa?»
«A
tutto. All’inizio non avevamo idea di cosa fare, poi la soluzione a tutti i
problemi ci è letteralmente capitata davanti. Così, senza che facessimo davvero
qualcosa.»
«Non
direi. Se ho capito bene sei stato tu a scoprire come avevano fatto quei ladri
a saccheggiare il granaio, e sempre tua è stata anche l’idea di andarli a cercare nella Terra di Nessuno.»
«È
a questo che non riesco a smettere di pensare. Perché chi ha assalito il campo
non si è preoccupato di cancellare le tracce? Perché non portare via quella lista
di nomi, invece che lasciarla lì con il rischio che fosse trovata? Inoltre,
trovare le prove della corruzione di quegli uomini è stato fin troppo
semplice.»
«Si
dice che gli uomini stolti si ritengano sempre più furbi degli altri. Direi che
questa ne è la conferma.»
«Però
alcuni di loro sembravano sinceramente sorpresi dalle nostre accuse e dalle
prove compromettenti che gli abbiamo trovato addosso o in casa. Mio padre
diceva sempre che per quanto un criminale possa negare le proprie colpe, se lo
guardi negli occhi potrai sempre scorgervi la menzogna. Ed è ciò che io sono
sicuro di non aver visto.»
«Un
conto è fissare negli occhi un ladro o un assassino, un altro è cercare di
vedere nell’anima di un mercante, un trafficante, o un qualsiasi altro
individuo di quella risma che ha fatto della menzogna la propria religione.
Dammi retta, certa gente sarebbe capace di venderti anche il sole.»
«Forse.
Forse hai ragione.»
Intanto
avevamo raggiunto la fontana della piazza, ancora funzionante malgrado il gelo
della notte, in cui Jorn infilò immediatamente la testa per scacciare la
sbronza.
«Niente
di meglio che un getto di acqua ghiacciata per tornare sobri. Ora una bella
bevuta, una sana dormita, e domattina sarò pronto a ricominciare.»
«Comunque
devo ammettere che mi hai sorpreso. Onestamente non credevo che nelle legioni
ci fosse posto per chi sa usare il cervello. Con la mente raffinata che ti
ritrovi potresti essere molto di più che l’attendente di un Decurione in un
posto sperduto come questo. Con tutto il rispetto per Septimus, ovviamente.»
«In
realtà non mi dispiace essere qui. Sento che questo è il posto giusto per fare
la mia parte di servitore dell’Impero.»
«Forse
non te ne sei accorto, ma da queste parti l’Impero non è particolarmente amato.
E dopo tutta questa storia temo che la situazione potrà soltanto peggiorare.»
«È
proprio questo il punto. Lo so che l’Impero non è perfetto. Anzi, non direi
nemmeno che è giusto. Ma le cose possono cambiare. Il nuovo Imperatore è
diverso rispetto ai suoi predecessori. Con lui l’Impero potrebbe tornare ad
essere quella luce di speranza e di rinascita che fu al tempo delle Guerre
Sacre.»
«Scusa
se ti sembrerò brutale, ma non mi pare stia facendo un buon lavoro. A est la
rivolta dei baroni si espande ogni giorno di più, a ovest la pace con Connelly
gli è costata cento milioni di goldie e diecimila miglia quadrate di territorio
ceduto al Principato, provincie che appartenevano a Saedonia
da duecento anni. E anche se ha concluso l’armistizio con l’Unione, ti assicuro
che qui sono in pochi a pensare che le cose siano davvero migliorate.»
«Però
qualcosa sta facendo. In fin dei conti è solo un uomo, e la pace non si crea di
certo dall’oggi al domani. Ma io ho fiducia in lui, e ho deciso di fare la mia
parte per aiutarlo a cambiare le cose. È questo lo scopo della mia vita.»
Ecco
perché ho sempre detestato gli ideologi: basta dargli un po’ di corda che
subito si mettono ad avere pensieri inopportuni. E quelli che abbinano
all’ideologia l’idealismo sono i peggiori di tutti, perché sarebbero disposti a
farsi cavare gli occhi piuttosto che vedere la realtà per quello che è.
«La
sai una cosa? Hai proprio ragione. Hai bisogno di una bella bevuta.»
Un
vero peccato. Un tipo così mi avrebbe fatto comodo. Ma purtroppo per lui aveva
scelto la causa sbagliata a cui votarsi.
Su Erthea esisteva un gioco, il madara, molto popolare soprattutto tra l’aristocrazia, affine
per alcuni aspetti agli scacchi del mio vecchio mondo.
Si
giocava su una scacchiera undici per dodici, con due dadi a dieci facce e un
set da nove pezzi, e impararne l’arte era ritenuta una parte fondamentale della
formazione di ogni nobile rampollo.
La
cosa interessante di questo gioco era che non esistevano pezzi predeterminati,
e a condizione di farlo rientrare in una delle sei categorie che suddividevano
le varie pedine –ognuna contraddistinta da punti d’attacco, punti difesa e
punti vita– ogni giocatore poteva crearsi il pezzo che voleva, dargli un nome e
schierarlo in qualunque momento sulla scacchiera in una casella a sua scelta
tra quelle che componevano le prime due file, chiamate Castello, che
rappresentavano la base da cui il giocatore, nei panni di sovrano, guidava la
sua armata.
A
differenza degli scacchi lo scopo finale del gioco non era tanto quello di
infliggere lo scacco matto, ma la sconfitta di ogni singola pedina
dell’avversario; oppure, si poteva portare una pedina ad occupare la casella dorata
che stava al centro dei due Castelli, la Sala del Trono, alla quale per
consuetudine si lasciava a difesa il proprio pezzo più potente.
Impararne
le regole era stata per me una passeggiata, e negli anni avevo impartito sonore
lezioni a tutti i giocatori che avevano osato sfidarmi, guadagnandone in denaro
e prestigio.
Ora
era giunto finalmente il momento di dare inizio alla più grande e memorabile
partita di madara che Erthea avesse mai visto.
Ogni
cosa era stata predisposta nel modo corretto.
Avevo
scelto la scacchiera, analizzato il mio avversario e creato le mie pedine.
C’erano
tutti i pezzi di cui avevo bisogno: il Mercante, i Mostri, i Plebei, il Capitano,
la Saggia e il Dragone.
Ora
non restava che far scendere in campo l’ultimo pezzo, il Generale, e dare
inizio al gioco.
Erano
passati quasi sei anni da quando mi ero risvegliato in quel mondo; sei anni
passati a tessere trame, creare alleanze e pianificare con attenzione ogni mia
singola mossa, sia quelle già fatte che quelle che mi apprestavo a compiere.
Conoscevo
il mio avversario meglio di quanto lui conoscesse sé stesso, e potevo leggere
nella sua anima come un libro aperto.
Mancava
solo l’ultimo tassello, la prima tessera del domino, quella che una volta
ribaltata avrebbe dato inizio all’inarrestabile effetto a catena destinato a
cambiare per sempre il destino non solo di Erthea, ma di quell’intero mondo.
E
quella tessera ce l’avevo proprio lì, chiusa nel pugno.
Un
semplice pezzo di carta.
Mai
prima d’ora avevo provato così nitidamente la sensazione di stringere
letteralmente tra le mani lo strumento in grado di cambiare il corso della
storia.
Sarei
un bugiardo se dicessi di non aver mai considerato in tutti quegli anni almeno
un paio di volte di lasciar perdere tutto.
Chi
me lo faceva fare, del resto?
Rivivere
daccapo eventi come quelli che avevano attraversato la mia precedente vita,
seppur con rinnovata consapevolezza?
Ma
anche i dubbi ormai erano alle spalle.
La
verità era che l’ultima cosa che mi era passata per la mente un attimo prima di
esalare l’ultimo respiro era stato il pensiero di cosa sarei stato capace di
realizzare se avessi conosciuto anzitempo le conseguenze delle azioni che mi
avevano condotto alla rovina.
Ora
potevo rispondere a quella domanda.
«Il
dado è tratto.»
Da quando mi ero trasferita a vivere
a casa di Daemon mi ero accorta che qualcosa nel modo in cui mi rapportavo con
lui era cambiato.
Quando
era bambino dormivamo spesso nello stesso letto, e un paio di volte ci eravamo
perfino fatti il bagno insieme. Ora invece il solo fatto di stare nella stessa
stanza insieme a lui era sufficiente a farmi agitare, e se provavo a guardarlo
negli occhi mi ritrovavo ad arrossire e balbettare come una stupida.
Non
capivo cosa mi stesse succedendo, e rifiutavo a priori l’idea che potessi stare
iniziando a provare qualcosa per lui che andasse oltre il naturale affetto tra
fratelli.
In
fin dei conti ai miei occhi lui restava pur sempre un bambino, anche se ormai
guardandoci chiunque avrebbe potuto pensare che avessimo quasi la stessa età.
Una
notte avevo sognato di vederlo in piedi accanto al mio letto che mi fissava con
il suo occhio severo, tenendomi nel mentre il dito indice poggiato al centro
della fronte, e al risveglio ero così imbarazzata da avere la sensazione che la
mia pietra del servo vibrasse al ritmo dei battiti del mio cuore.
Così,
per evitare il ripetersi di certe situazioni imbarazzanti, avevo deciso di
andarmene, stabilendomi nel mio vecchio nascondiglio segreto in mezzo alla
foresta, reso abitabile con qualche accorgimento e molto lavoro.
Qui
passavo il mio tempo andando a caccia, esercitandomi con la spada e,
incredibile a dirsi, studiando.
Daemon
in questo era stato categorico, dandomi libri e libri da leggere ed imparare, e
se solo provavo a lamentarmi della cosa venivo puntualmente rimproverata come
una bambina.
All’inizio
avevo protestato reputandola una perdita di tempo, ma più cose imparavo e più
mi convincevo di quanta conoscenza ci fosse nel mondo, cose fantastiche che
finalmente da ragazza libera avevo la possibilità di apprendere come e quanto
volevo.
Grazie
a Daemon e ai suoi insegnamenti stavo imparando tantissime cose di matematica,
alchimia, letteratura, geografia e molto altro.
Ma
più di tutto era stata la filosofia a spalancarmi un mondo davanti agli occhi.
Daemon
diceva che quando era piccolo aveva potuto leggere molti libri di famosi autori
dai nomi impronunciabili –qualcosa come Voltaire, Rousseau, Kant– che l’Impero
qualche tempo prima aveva confiscato e nascosto reputandoli pericolosi, ma che
lui aveva memorizzato e pazientemente ricopiato.
Leggendoli,
mi ero resa conto perché gli umani non volessero che qualcuno li leggesse. Al
loro interno si parlava di cose come la libertà universale, l’uguaglianza di
tutti gli esseri senzienti, ma soprattutto una critica alla schiavitù a cui noi
mostri eravamo costretti da secoli.
Quindi,
mi ero detta, Daemon non era l’unico, e come lui c’erano altri umani che
pensavano che quello che ci veniva fatto fosse sbagliato. Forse dopotutto c’era
qualcosa in loro che valeva la pena di salvare; perché, mi ero detta, se tra
loro c’erano persone capaci di simili pensieri, o di dare vita a meraviglie
come quelle di cui avevo letto in quei mesi nei campi più diversi, voleva dire
che la loro non era poi una specie così cattiva.
Nel
mentre l’inverno aveva ceduto il passo alla primavera, e con essa era giunto
infine il giorno che mai avrei voluto vedere.
Il
giorno dell’addio.
In
fin dei conti sapevo che prima o poi doveva finire.
Anche
se ormai erano anni che Daemon aveva smesso di vivere al ghetto il patto che
avevamo stabilito il giorno in cui l’avevo portato a Ende
rimaneva immutato, e con l’arrivo del suo sedicesimo compleanno si era infine
giunti anche al giorno in cui avrebbe dovuto abbandonare la provincia per non
tornare mai più.
Il
solo pensiero di vederlo andar via per sempre mi faceva morire, rendendomi
scontrosa e irritabile.
Quasi
che avesse intuito il mio pensiero, lui si era affrettato a dirmi che non gli
importava di dovere andare via, e che non era saggio che andassi con lui.
«Drufo verrà via con me.» aveva detto, facendomi salire un
moto d’invidia verso quel maledetto caprone annoiato dalla vita «Ormai è troppo
abituato a vivere libero per fare ritorno al ghetto. Ma tu puoi restare qui se
vuoi. Ti lascio in eredità la baita e tutto quello che possiedo. Usali come
meglio credi.»
Parlava
come se dovesse morire, ma dal mio punto di vista era praticamente così: perché
sapevo che non ci saremmo rivisti mai più.
Che
cosa me ne dovevo fare della casa, dei libri o dei suoi archi senza di lui?
Ma
se da una parte avrei voluto seguirlo, dall’altra ero troppo legata ai miei
compagni e alla loro miseria per andarmene così, libera e felice, lasciando
loro a patire la schiavitù.
Decisi
di prendermi un po’ di tempo per riflettere. Per il momento sarei rimasta a Ende, magari cercando di aiutare i miei compagni come
Daemon per tanto tempo aveva aiutato noi, poi forse un giorno avrei preso a mia
volta la mia strada, magari per partire alla sua ricerca.
Ma
se era destino che ci dovessimo separare per chissà quanto tempo, lo avremmo
fatto nel miglior modo possibile.
Non
era stato per niente un inverno facile; oltre al freddo, alla neve e alla
fatica, i miei compagni avevano dovuto sopportare anche la fame, mangiando ancora
meno del solito senza però veder diminuire, oltre alle razioni, anche la mole
di lavoro.
Ma
nonostante ciò, quando avevo proposto loro la mia idea tutti avevano accettato
di fare quell’ulteriore piccolo sacrificio, accantonando una parte di cibo per
organizzare a Daemon sia un compleanno degno di questo nome che una doverosa
festa d’addio.
D’altronde
ormai tutti a Ende sapevano quello che aveva fatto, e
quanto si fosse messo a rischio in quegli anni non solo per salvare me, ma
anche e soprattutto per proteggere i nostri amici.
Io
stessa avevo aperto infine gli occhi, capendo quanto dentro di sé avesse
sofferto per quelle volte in cui era stato costretto a fare ciò che il suo
ruolo gli imponeva, come uccidere il povero Malik o recitare la parte del
sadico aguzzino di fronte ai soldati.
Avvantaggiati
e galvanizzati dal fatto che per una fortunata coincidenza il compleanno di
Daemon sarebbe caduto in contemporanea con il giorno di riposo che veniva
concesso agli schiavi una volta al mese io, mio padre, Lori e molti altri
lavorammo in gran segreto per settimane, riuscendo a mettere insieme la festa
migliore che degli schiavi senza quasi niente potessero sperare di organizzare.
Si
arrivò quindi al giorno fatidico.
Lungo
la strada principale avevamo allestito tavoli con cibo, acqua, latte e perfino
del sidro; alcuni di noi, me inclusa, si erano letteralmente svenati per pagare
quella sanguisuga di Borg, ma anche se odiavo quel maledetto maiale per una
volta potevamo fare un’eccezione.
Approfittando
dell’assenza di Daemon per la caccia mi ero intrufolata nel tunnel e avevo
fatto ritorno al ghetto; quindi, assicuratici che fosse tutto pronto, l’avevamo
mandato a chiamare dicendogli che a Ende c’era un
ferito che aveva bisogno del suo aiuto.
Non
dico che non fosse sorpreso quando, aperta la porta del capanno, ci trovò tutti
lì davanti ad augurarli in coro buon compleanno; ma se c’era una cosa che il
mio fratellino aveva imparato a fare molto bene nel corso degli anni questa era
senza dubbio non abbandonarsi ad esagerazioni emotive.
«Non
avreste dovuto. Potrebbe essere pericoloso.»
«Sciocchezze.
Ieri era giorno di paga. Le guardie si staranno tutte ubriacando alla locanda.
Avanti fratellino, oggi è l’ultimo giorno che passeremo insieme. Dobbiamo
renderlo indimenticabile.»
Alla
fine sembrò quasi riuscire a divertirsi, perdendosi in lunghe conversazioni con
tutti quelli che facevano la fila per congratularsi con lui, ringraziarlo ed
augurargli buona fortuna per l’avvenire.
«Figliolo.
Qualunque cosa accada da ora in poi, voglio che tu sappia che sono enormemente
fiero di te. Vedere ciò che sei diventato è la prova che tutti i nostri
sacrifici sono stati ben ripagati.»
«Ti
ringrazio padre. Prometto che dovunque andrò continuerò a rendervi fieri di
me.»
«Hai
già deciso cosa farai?»
«Per
il momento, nonno Passe, credo resterò ancora qualche giorno da queste parti.
Devo consegnare al Governatore le mie dimissioni e congedarmi come si deve dai
miei amici al villaggio. Poi penso che andrò a ovest. Prima di tutto vorrei
andare a trovare Sapi, inoltre Connelly è un buon
posto dove stabilirsi per chi come me vorrebbe aiutare i mostri.»
«Mi
raccomando, prenditi cura anche di Drufo. È testardo
e saccente, ma non ho mai conosciuto mostro più fedele.»
«Lo
farò.»
«Il
mio bambino! Non voglio che tu vada via! Come farò se non ti potrò vedere più?»
«Non
preoccuparti, mamma Lori. Me la caverò. Non hai niente da temere.»
«Quanto
tempo è passato dall’ultima volta che mi hai chiamata mamma? Lascia che ti
abbracci un’ultima volta! Ti stringerò così forte da toglierti il respiro!»
Nonostante
la tristezza che provavo anche io mi stavo godendo la giornata, meravigliandomi
dell’allegria e spensieratezza che regnavano attorno a me. Mai una volta in
vita mia avevo visto un simile atmosfera pervadere Ende
e i suoi sfortunati abitanti.
Tutto
venne spazzato via nello spazio di un’istante, ed eravamo tutti talmente presi
dai festeggiamenti che quasi non ci accorgemmo di nulla.
Le
porte del ghetto si aprirono da un momento all’altro, e un’orda di miliziani al
comando di Oldrick fece irruzione ad armi spianate.
Mentre
cercavamo di tenere Daemon nascosto e dargli il tempo di correre al tunnel un
altro gruppo di soldati sbucò fuori proprio da lì, trascinando con sé Drufo incatenato e con addosso i segni di un violento
pestaggio.
In
un attimo ci ritrovammo circondati, con il Comandante Beek
alla testa dei suoi uomini che ci fissava ghignando di soddisfazione.
«Guarda
un po’ quale inaspettata sorpresa. Il nostro amato sceriffo che fa comunella
con questi straccioni. Anche se stiamo parlando di te, dovevo vederlo con i
miei occhi per poterci credere.»
«Che
ci fai tu qui?»
«Forse
non sei così amato e stimato come pensavi. Infatti ho ricevuto una certa
lettera, in cui erano riportate molte cose interessanti sul tuo conto. Chi tu
fossi in realtà, per esempio. Ma anche la verità dietro al misterioso e
compianto signor Haselworth, o la faccenda del tunnel sotto casa tua.»
«Mi…
mi dispiace Daemon. Ho provato a fermarli…»
«E
come se non bastasse, il nostro anonimo ma leale suddito ci ha rivelato anche
cosa ne fosse stato di questa lucertola. Sono sicuro che il Governatore e suo
figlio saranno molto felici di fare due chiacchiere con te.»
«Tieni
Scalia fuori da questa storia.»
«Scalia?
Da quando in qua si chiamano le bestie per nome?»
«Smettila.
È una questione tra me e te.»
«Ti
sbagli, bifolco. Chiunque abbia avuto a che fare con te farà i conti con questa
storia. Il sindaco, la mocciosa dell’emporio. Persino quel rompiscatole di Decurione.
E quando finalmente avremo fatto pulizia, e la gestione di questo letamaio
tornerà sotto il mio controllo, ti assicuro che questi animali passeranno il
peggior quarto d’ora della loro vita. Perché se c’è una cosa che detesto è che
mi si prenda in giro.»
«Considerato
per quanto tempo sono riuscito a fartela sotto al naso, al tuo posto sarei
arrabbiato anch’io.»
Non
solo Daemon schivò senza alcuna difficoltà il pugno di Beek,
ma quell’idiota era talmente scoordinato nei movimenti che perse l’equilibrio
rotolando nel fango.
«Allora?
Vuoi arrestarmi o preferisci restartene lì a mangiare la terra?»
«Tu,
bastardo. Mi andava l’idea di trascinarti personalmente fino al patibolo, ma
ora credo che risolverò la faccenda di persona!»
«Beek, forse è il caso che ti calmi un po’.» disse Oldrick tentando di mediare, ma ormai quello aveva perso
del tutto la testa.
Io
non so cosa sperasse di ottenere Daemon provocando in quel modo quell’animale
rabbioso, fatto sta che si ritrovò a schivare un fendente dietro l’altro; per
sua fortuna l’agilità non gli mancava, mentre di contro Beek
era un pessimo schermidore che maneggiava la spada come fosse un randello.
«Non
intervenite!» ordinò Oldrick al resto dei soldati,
forse nel tentativo di tenere sotto controllo una situazione già pericolosa.
Quella
specie di balletto andò avanti per parecchi minuti, ma all’improvviso Daemon
sembrò perdere l’equilibrio, schivando per miracolo un ennesimo fendente ma
ritrovandosi scoperto ed inerme al successivo affondo.
«Muori!»
Ancora
oggi non so perché agii in quel modo, né potevo immaginare le conseguenze che
il mio gesto avrebbe provocato.
Fatto
sta che da un istante all’altro mi ritrovai lì, davanti a Daemon, con più di
metà della spada di Beek conficcata nel ventre.
L’ultima
cosa che sentii prima di perdere per un momento i sensi e cadere a terra fu un
silenzio assoluto, rotto improvvisamente dalla voce di Daemon che urlava il mio
nome.
Forse
neanche Daemon immaginava cosa le sue azioni stavano per scatenare, reso
furente dal vedermi esanime ai suoi piedi.
«Bastardo!»
urlò con gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia, e un attimo dopo il suo
pugnale trapassava da parte a parte la gola di Beek.
Quella
che si dice la tempesta perfetta.
Da
una parte io, che mi ero fatta infilzare per difendere un umano. Dall’altra
Daemon, che per vendicare un mostro sgozzava selvaggiamente un membro della sua
specie.
Quel
silenzio che si era venuto a creare tutto attorno a noi iniziò a scomparire,
cancellato da muggiti, ringhi e mormorii che diventavano sempre più forti.
I
miliziani si guardavano attorno con aria disperata, consapevoli di come il loro
capo l’avesse fatta davvero grossa, mentre qualcuno tra i miei compagni già
raccoglieva sassi, snudava artigli o, nel caso di Grog, sollevava da terra un
intero tavolo brandendolo come una clava.
«Ammazziamoli!»
gridò il vecchio Passe dando il via all’assalto.
Alcuni
dei soldati tentarono di difendersi con il bind, ma poter controllare una sola
pietra per volta serviva a poco se ti saltavano addosso in cinquanta, e vennero
immediatamente linciati.
Oldrick
prese in mano la situazione, e raggruppati tutti i superstiti comandò
immediatamente la ritirata, riuscendo a richiudere i portoni appena in tempo
prima che Lori e gli altri potessero travolgerli.
Come
le guardie se ne furono andate tornò il silenzio. Daemon nel mentre mi era
rimasto sempre vicino, tenendomi la mano e chiamando continuamente il mio nome.
«Vuoi
smettere di urlarmi nelle orecchie?» gli dissi appena fui nuovamente in grado
di parlare
«Scalia!?
Tu stai bene!?»
«Certo
che sto bene. Ci vuole ben altro che una cosa del genere per farmi fuori.»
In
effetti non gli avevo mai parlato delle mie capacità di guarigione, e quando mi
tolsi la spada ancora conficcata nel corpo rimase senza parole nel vedere la
ferita rimarginarsi a vista d’occhio.
«Sia
ringraziato il cielo. Temevo di averti persa.»
«Allora
anche tu sai come si fa a piangere.» sorrisi io
Il
mio sarcasmo si sciolse come la neve quando mi ritrovai stretta nel suo
abbraccio, che oltre a lasciarmi sgomenta mi pervase di un calore così bello
che quasi mi ci persi dentro.
Nel
frattempo la rabbia tra i nostri amici era passata, e alla vista dei corpi
trucidati di Beek e di alcuni dei suoi uomini molti
di loro furono presi dal terrore.
Era
la prima volta che succedeva una cosa del genere a Ende.
Ma sapevamo che c’erano stati altri episodi simili in altri ghetti, e in alcuni
casi delle vere e proprie rivolte, così come sapevamo quali erano state le
conseguenze di tali gesti.
«Che
cos’abbiamo fatto?»
«Mi
dispiace, padre. È stata colpa mia. Se non l’avessi provocato in quel modo…»
«Non
devi scusarti di niente. Quell’animale ha avuto quello che si meritava.»
«Però,
Scalia…»
«E
ora cosa facciamo?» chiese Jack. «Di sicuro torneranno. E ho visto coi miei
occhi cosa fanno a chi si ribella.»
«Io
dico di combattere!»
Quelle
parole mi uscirono così, senza che quasi me ne accorgessi. D’altronde ormai
sentivo bruciare dentro di me quel fuoco che per tutti quegli anni ero riuscita
faticosamente a sopire, e che gli ultimi mesi di libertà avevano già
rinvigorito.
«Scalia
che stai dicendo?»
«Lo
ha detto anche Jack. Non hanno pietà per chi alza la testa. In questo caso
perché dovremmo starcene qui ad aspettare di essere decimati o peggio? E se
proprio dobbiamo morire, allora lo faremo alle nostre condizioni! Combattendo!
Per difendere il nostro diritto di vivere! Quel diritto che loro ci hanno
sempre negato!»
«Ragiona,
Scalia. Quello che proponi è folle.»
«Io
lo so perché dici questo padre. E ti capisco quando dici che forse i mostri in
parte meritano il castigo che gli è stato inflitto. Ma non credi che
cinquecento anni di schiavitù siano stati una pena più che sufficiente per
ripagare ciò che tu e i nostri antenati avete fatto combattendo per il Signore
Oscuro?»
«Scalia
ha ragione! È ora di combattere!»
«Passe…»
«Ora
basta subire in silenzio! Che paghino per tutto quello che hanno fatto a noi e
ai nostri amici!»
«Grog…»
«Io
ne ho davvero abbastanza. Non permetterò che facciano del male a coloro a cui
voglio bene. E di certo non lascerò che facciano del male al mio bambino…»
«Lori,
anche tu…»
«Adesso
smettetela di dire idiozie!»
«Daemon!»
«Nostro
padre ha ragione Scalia! Vi fareste solo ammazzare! Ora scendo al villaggio e
mi consegno a Oldrick. Forse parlando con lui
riuscirò a tenervi fuori da questa storia.»
«Non
sei più un bambino Daemon! Perciò smettila di giocare all’eroe che ci protegge
tutti!»
«E
comunque, al punto in cui siamo pensi davvero che offrirti a loro come vittima
sacrificale basterà a salvarci?»
«Lori
dice bene, ragazzo.» disse Passe «Abbiamo ucciso degli uomini della milizia. La
prossima volta che torneranno qui sarà per massacrarci tutti. Non importa se
gli serviamo, una schiavo che si ribella diventa solo una minaccia.»
«Dunque
vorreste combattere? Ammettiamo che riusciate a scacciare la pattuglia che
verrà inviata qui a compiere la rappresaglia. Poi cosa farete? La volta
successiva manderebbero l’esercito. E a quel punto non avrete scampo. L’ha
detto anche Bojack, queste ribellioni possono finire
in un solo modo.»
«E
allora, indicaci tu la strada da seguire!» esclamai quasi senza riflettere.
Se
solo ci pensavo mi sembrava incredibile: stavo chiedendo ad un essere umano,
per quanto diverso dagli altri, di essere la nostra guida.
Ma
chi altri se non lui avrebbe potuto farlo?
«Sei
stato tu a farmi leggere quei libri, Daemon. Tutte quelle parole sulla libertà,
sull’uguaglianza. Non puoi pretendere che me ne dimentichi. Non adesso che sto
iniziando a credere davvero che sia possibile.»
Daemon
guardò in basso, come schiacciato dal peso che non solo io, ma anche tutti gli
altri a giudicare da come lo guardavano gli stavamo chiedendo di caricarsi
sulle spalle.
«Può
davvero succedere?» chiese Lori. «Puoi aiutarci ad essere liberi?»
«Sciocchezze.
Io ho girato metà di Erthea come schiavo sulle navi. E vi dico una cosa. Non
importa dove andiate, non c’è un solo posto in cui dei mostri come noi possano
dirsi realmente liberi.»
«Hai
ragione, Jack. Un luogo simile non esiste in questo mondo.»
«Visto?
Lo dice persino lui.»
«Ma
potete sempre crearlo.»
«Che
intendi dire!?» chiese Zorech
«Esattamente
ciò che ho detto. Se un mondo in cui i mostri possano dirsi liberi ancora non c’è,
allora non avete altra scelta che costruirne uno con le vostre mani.»
«E
dove dovremmo costruirlo se è lecito?» domandò Jack
«Proprio
qui.»
«Qui!?»
dissi io «Intendi ad Eirinn?»
«Questa
terra è intrisa del vostro sudore e del sangue che i vostri amici hanno
versato. Quale luogo migliore per dare vita ad un mondo in cui essere liberi se
non quello che voi stessi con le vostre fatiche avete contribuito a far
prosperare?»
«Hai
detto tu stesso che non abbiamo speranze contro l’Impero e il suo esercito.»
disse mio padre con rassegnazione, per non dire con cinismo. «Come potremmo mai
sperare di conquistare questa provincia?»
«Infatti
la nostra forza sola non sarebbe mai sufficiente. Non solo per ottenere il
controllo di Eirinn, ma soprattutto per difenderla. Per fare questo servono
degli alleati.»
Impiegammo
un attimo a capire che cosa intendesse Daemon per alleati, e la sola idea bastò
a far venire un moto di ribrezzo a molti, me inclusa.
«Dovremmo
allearci con gli umani? Stai scherzando spero!»
«E
cosa vorreste fare? Sottometterli? Sterminarli? Se è così, preparatevi a vedere
la storia ripetersi. Che vi piaccia o no, questo mondo è interamente popolato
dagli umani. O accettate l’idea che solo dalla coesistenza può nascere un mondo
nuovo in cui possiate essere liberi, o la vostra libertà sarà solo un sogno.»
«E
loro la accetteranno? Sono stati gli umani a tenerci in catene! Sono stati loro
a metterci le pietre nel corpo! Per loro noi non siamo altro che animali!»
«Ormai
pensavo che l’aveste capito. Non tutti gli umani sono così. C’ero anch’io
quando Septimus e i suoi uomini vi hanno difeso da quel porco che vedete lì. E
io vi giuro, su tutto quello che ho di più caro, che non l’hanno fatto perché
era loro dovere, ma perché pensavano realmente che ciò che eravate costretti a
subire fosse sbagliato. Siete liberi di non credermi, ma la gente di questa
provincia ha sofferto e soffre tuttora quasi quanto voi, perché costretta a
vivere sotto il giogo di funzionari incapaci. Tu Scalia. Hai parlato dei libri
che ti ho fatto leggere, ma ti ricordo che sono stati degli umani a scriverli.»
Di
fronte a quella considerazione non seppi cosa rispondere, e ammetto che provai
un senso di vergogna per come mi fossi lasciata trasportare dalle emozioni e
dalla rabbia.
«Anche
supponendo che alcuni umani accettino di schierarsi con noi. E gli altri?»
chiese Jack. «Gli altri cosa faranno?»
«Pretendere
che tutto il mondo segua un unico pensiero è utopistico. Ma di certo non
conquisterete la fiducia degli umani che ancora non sanno cosa pensare di voi comportandovi
esattamente come temono che potreste fare. Pertanto, se davvero volete il mio
aiuto per creare un mondo in cui possiate essere liberi, la mia prima richiesta
è la seguente. Niente vendette personali. Niente ritorsioni. Avete la mia
parola che chiunque abbia commesso dei crimini nei vostri confronti sarà
chiamato a risponderne. Per tutti gli altri, tutto quello che è successo da
oggi è cancellato. Tutti gli umani che accetteranno di seguirci nella creazione
del nuovo mondo, o che semplicemente non si mostreranno ostili al nostro
operato, saranno i benvenuti. Pregiudizi e intolleranza non saranno tollerati
da una parte o dall’altra, e chiunque dovesse dimenticarsene vi assicuro che avrà
modo di pentirsene.»
Fummo
costretti a riconoscere che le sue erano parole sensate, anche se a molti la
sola idea di dover vivere e probabilmente combattere fianco a fianco con gli
stessi che ci avevano tenuto in schiavitù per secoli suscitava ribrezzo. Ed io
ero sicuramente tra questi.
D’altronde
però come potevano un migliaio di schiavi affamati e macilenti mettere in
scacco da soli un intero esercito?
«Prima
di andare oltre però, dovete rispondere a questa domanda.» disse ancora Daemon
guardandoci tutti in modo talmente cupo da spaventarci «Siete davvero pronti a
lottare e morire per ottenere ciò che volete? Costruire da zero un mondo che
non esiste è l’impresa più difficile che una mente senziente sia in grado di
concepire. Molti dovranno sacrificarsi per fare si
che ciò avvenga. Se siete disposti a rischiare la vostra vita, o a veder morire
i vostri amici, per inseguire questo sogno quasi impossibile, allora impugnate
le armi e preparatevi a lottare. Ma se pensate di non esserne capaci, o se
avete anche solo un dubbio, allora sedetevi nel fango e aspettate il vostro
destino, che sarà comunque assai meno doloroso di ciò che vi aspetta oltre quel
muro. La decisione è vostra.»
Una
voce che non seppi riconoscere si sollevò quasi subito alle mie spalle.
«Alle
armi!»
A
quel punto un boato come non ne avevo mai sentiti fece tremare le case, le
mura, perfino le montagne tutto intorno.
«Alle
armi! Viva la libertà!»
E
così, era successo quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare: un umano
che a furore di popolo veniva eletto leader di una rivolta di mostri che solo
poco prima sembrava impensabile.
A
volte anche l’impossibile può accadere.
Una volta avevo sentito dire che le
prime rivolte a Parigi nell’ottantanove erano esplose quando un idiota dei
reggimenti tedeschi dal grilletto facile aveva sparato a un ragazzino durante
una protesta ai giardini delle Tuilerries.
Che
fosse vero o meno, è risaputo che mentre fame, soprusi e governanti inetti sono
la legna che alimenta le rivoluzioni, il sangue è da sempre l’olio che le
incendia.
Di fronte a quella massa di poveri disgraziati
che tutti insieme alzavano la testa al grido di libertà e uguaglianza non
potevo fare a meno di provare un gran disgusto per me stesso.
D’accordo
che avevo sempre saputo che Scalia non sarebbe mai potuta morire per così poco,
tali erano le sue capacità rigenerative, ma ciò non toglie che l’avevo comunque
messa in pericolo.
Per
mia fortuna avevo iniziato a fare ricerche sul bind molto prima che mi fosse
data quella stella, arrivando a scoprire cose che la comune soldataglia
abituata ad usare quelle pietre solo come una sorta di frusta sovrannaturale
neanche si immaginava.
In
questo modo ero riuscito a mettere a punto un particolare incantesimo, che
avevo chiamato con scarsissima fantasia mot de commande. Tutto quello che avevo dovuto fare era stato
instillare nella pietra di Scalia l’ordine di proteggermi qualora la mia vita
fosse stata in pericolo; tale direttiva era quindi rimasta latente fino a
quando non si erano palesate le condizioni per il suo risveglio, avvenimento
del quale naturalmente lei non poteva avere consapevolezza perché eseguito in
una condizione di vera e propria ipnosi.
Era
un vero peccato che lo sforzo magico richiesto per sopportare un incantesimo di
tale complessità fosse più di quanto quelle pietre di bassa lega potessero
sopportare, permettendone un singolo utilizzo, e che per instillarlo nella
pietra fossero richiesti sia parecchi minuti che un contatto diretto.
Ma
ciò che più contava era che avevo finalmente ottenuto quello che volevo.
Ora
non si poteva più tornare indietro, ed ero consapevole che avessimo poco tempo.
Oldrick
e i suoi uomini non si sarebbero certo arrischiati a rimettere piede nel
ghetto, ma era solo una questione di due, massimo tre giorni prima che dal
Castello venisse inviata una spedizione punitiva.
E
prima che ciò accadesse era necessario aver preso il controllo della regione e
cementato l’alleanza tra gli schiavi e gli abitanti del luogo.
Una
volta selezionati i mostri più affidabili e maggiormente pronti alla lotta e
aperte senza difficoltà le porte del ghetto puntammo direttamente i campi di
lavoro, arrivandoci prima che la notizia della rivolta potesse diffondersi.
Le
poche guardie assegnate alla loro difesa si arresero senza neanche provare a
combattere, terrorizzate all’idea di dover affrontare una banda di schiavi
armati di sassi e bastoni ma comunque arrabbiatissimi, permettendoci di mettere
le mani su attrezzi da lavoro, vestiti di cuoio della forgia, cavalli e anche
qualche arma.
Quindi,
venne il momento di puntare al bersaglio grosso.
«A
Dundee!».
Ormai era da mesi che faticavo ad
essere me stesso.
La
morte di Jorn, tanto improvvisa quanto paradossale, mi aveva colpito duramente.
Era
successo la mattina dopo quel festino alla taverna.
Il
sindaco Rutte mi aveva buttato giù dalla branda, dalla quale ero sceso tra
l’altro con un tremendo mal di testa da sbronza, dicendomi che lo avevano
ripescato dal fondo di una cisterna poco fuori le mura, lungo la strada per il
forte.
Un
incidente, si era detto. Gli avevano trovato addosso un sacchetto con l’ultima
paga e la spilla d’argento di suo padre appuntata sulla tunica, senza alcun
segno apparente di un’aggressione.
Daemon,
che era apparso sconvolto tanto quanto me, mi aveva detto di averlo
accompagnato fino alla piazza del villaggio, dove Jorn lo aveva però convinto a
lasciarlo tornare indietro da solo promettendo che sarebbe tornato subito al
forte.
Accidenti
a lui e al suo orgoglio: di sicuro non voleva che qualcuno lo vedesse rientrare
in branda ubriaco fradicio e sorretto a spalla dallo sceriffo.
Dannazione
Jorn! Te l’ho sempre detto che non sei bravo a reggere l’alcol!
Se
fossi stato più attento mi dicevo, se non mi fossi lasciato andare anch’io, di
sicuro non sarebbe finita in quel modo.
Naturalmente
tali pensieri non facevano altro che distrarmi dai miei doveri, e così accadde
che quando la tempesta ci arrivò addosso quasi non mi accorsi di nulla finché
non fu troppo tardi.
Quel
pomeriggio ero seduto in riva al lago, con gli occhi piantati sui monti del Khoral che si stagliavano di fronte a me e la testa persa
in un mare di pensieri.
«Un’insurrezione!?»
esclamai all’indirizzo del messaggero che venne a portarmi la notizia. «E dove
sono adesso i rivoltosi?»
«Hanno
scacciato un manipolo di miliziani e ucciso il Comandante Beek,
e sembra che ora siano diretti verso Dundee!»
«Corri
subito al villaggio! Ordina alla milizia e alla guardia cittadina di prepararsi
a respingerli! Io vi raggiungerò il prima possibile con il resto della
guarnigione!»
«Sì,
decurione!»
Mentre
galoppavo sulla via del ritorno facendo scoppiare i polmoni al mio cavallo mi
accorgevo di quanto la situazione stesse precipitando a vista d’occhio; le case
e le fattorie più isolate erano già deserte, e la strada diretta a nord
talmente intasata che molti avevano abbandonato carri e carretti per proseguire
a piedi.
Il
terrore si percepiva distintamente; i ribelli stavano venendo a presentare il
conto, e sarebbe stato molto salato.
Al
mio arrivo, il presidio era in preda al caos.
«Perché
siamo così pochi? Dove sono tutti?»
«Draxler, Mascius e Corren se ne sono andati. Per gli altri, non ne abbiamo
idea.»
«E
il Centurione Costanzio?»
«È
saltato su un cavallo assieme alla sua scorta personale appena è arrivata la
notizia. Ha detto che andava a chiedere rinforzi, ma a meno che non abbiano
spostato il Castello oltre il fiume non scommetterei sul suo ritorno.»
Ma
se quelle sembravano pessime notizie era niente rispetto a ciò che aveva da
dire il messaggero che avevo mandato al villaggio. Il solo fatto di vederlo entrare
quasi sfondando la porta, bianco come un cadavere, fu sufficiente per farmi
intuire cosa avesse da dirmi.
«Ebbene?»
«Vengo
ora dalla caserma. Il posto è deserto. I miliziani sono già scappati tutti.»
«E
la guardia cittadina?»
«Non
mi hanno neanche lasciato parlare. Mentre tornavo qui però li ho visti aprire
le porte su ordine del sindaco.»
«Maledizione!»
sbottai calciando la sedia «Non possiamo difendere neanche questo forte,
figuriamoci il villaggio!»
«Decurione!
Sono qui! Sono alla base del colle e stanno salendo!»
Era
dunque destino che il mio sogno di diventare un grande eroe fosse destinato ad
accompagnarmi nella tomba. Ma non me ne sarei certo stato fermo ad aspettare di
farmi scannare.
Se
non per gli uomini al mio comando, dovevo provare a fare qualcosa almeno per
coloro che volevo proteggere; ogni minuto che fossimo stati in grado di
guadagnare sarebbe stato un minuto in più concesso ai fuggitivi per mettersi in
salvo.
«A
questo punto, che si sudino le nostre teste!»
Nessuno
esitò, perché i codardi erano già tutti scappati. Era il pensiero di combattere
per i nostri cari a darci la forza in quelli che sapevamo essere i nostri
ultimi minuti.
Recuperati
tutti gli archi, le frecce e i giavellotti che avevamo a disposizione ci
portammo in cima al basso muro che delimitava il cortile del forte, pronti a
vendere cara la pelle.
Da
lì potei vederli mentre, come una marea in carne ed ossa, avanzavano lentamente
lungo il pendio, talmente numerosi da nascondere la terra sotto i loro piedi.
Mi
aspettavo di vederli sciamare contro di noi come un branco di lupi pronti a
divorare le nostre carcasse. E invece, di colpo, arrestarono l’avanzata,
fermandosi alla giusta distanza per essere fuori dalla gittata delle nostre
frecce.
Una
parte di tutti noi capiva. E anche se dentro di noi non volevamo realmente far
loro del male, sapevamo che ai loro occhi tutto eravamo fuorché semplici
soldati obbligati da un giuramento a compiere il nostro dovere.
«Abbiamo
già chiamato rinforzi!» dissi, cercando di apparire il più convincente
possibile. «Deponete le armi, ritiratevi pacificamente e vi giuro che non vi
sarà fatto alcun male!»
Nessuno
rispose, né si levò una voce.
Poi,
d’un tratto, la massa si aprì ordinatamente, e una figura a noi molto familiare
avanzò fino alla testa di quella specie di armata lasciandoci senza parole.
«No…
Non può essere… Tra tutti, perché proprio tu?»
Nota dell’Autore
Salve
a tutti!
Dopo
due settimane, eccomi di nuovo qui con il penultimo capitolo del primo volume di
questa mia pima Light Novel.
Mi
sono sforzato di dare al mio protagonista una personalità il più sfaccettata
possibile, facendo di lui un personaggio complesso e a tutto tondo piuttosto che
il classico eroe isekai.
Ciò
sarà risultato di sicuro evidente in questi ultimi due capitoli, in cui si è
visto fino a che punto Daemon è disposto a spingersi pur di realizzare il
proprio scopo, senza che tuttavia questo faccia di lui un personaggio
totalmente malvagio.
Grazie
a Fenris
per la sua recensione.
Allora
ci vediamo tra due settimane per l’epilogo!^^
Non
v'è furore di popolo scatenato senza disordine e vittime.”
EPILOGO
RIVOLUZIONE
Quando un popolo si solleva,
solitamente chi non vuole avere niente a che fare con la questione prende le proprie
cose e scappa senza neanche guardarsi indietro.
Se
poi a ribellarsi sono quegli stessi individui che fino al giorno prima hai
trattato come bestie da soma, l’ultima cosa che vuoi è rischiare di capitargli
tra le mani solo per rimanere a difendere un pezzo di campo o una bottega.
Per
questo non mi sorprese più di tanto quando, lungo il tragitto verso Dundee,
trovammo la maggior parte delle case e delle fattorie abbandonate.
Razziatori
e banditi si erano già messi al lavoro, ma fu mia cura fare arrestare chiunque
sorprendemmo a saccheggiare le case o assalire le carovane in fuga, promettendo
a tutti quelli che incontravamo e che si buttavano il più delle volte ai nostri
piedi implorando pietà che a nessuno sarebbe stato torto un capello.
L’eco
di questi comportamenti, oltre a quello su chi stava guidando la rivolta,
sembrò spargersi in fretta, e per quando arrivammo in vista delle mura di
Dundee molta gente aveva già smesso di scappare, preferendo piuttosto restare
alla finestra e vedere come la situazione si sarebbe evoluta.
Sapevo
che Rutte era un uomo di giudizio, che non avrebbe mai corso il rischio di
affidare le vite dei suoi concittadini alle risibili mura di Dundee o a quei
mezzi soldati della guardia cittadina.
Quello
di cui non ero ancora del tutto sicuro era come avrebbero reagito Septimus e i
suoi uomini. Li conoscevo quasi tutti, e fatte salve alcune eccezioni sapevo
che non si sarebbero fatti uccidere per difendere un Impero nel quale in fin
dei conti nessuno di loro credeva davvero; a condizione ovviamente di dare loro
qualcosa di migliore nel quale credere e a cui votare la propria lealtà.
Ignorando
inizialmente Dundee, di cui Rutte aveva come previsto già fatto aprire le porte
per dimostrare l’assenza di qualunque velleità di resistenza, ordinai di
dirigersi immediatamente verso il forte, che invece trovammo in pieno assetto
di guerra e pronto a difendersi.
Ovviamente
tutti quei soldati, a cominciare da Septimus, restarono ammutoliti quando mi
videro apparire dinnanzi a loro in mezzo a tutti quei mostri, ma sapevo che la
mia sola presenza o le semplici parole non sarebbero bastate a convincerli a
cedermi le loro armi.
Occorreva
un gesto plateale. E io per fortuna, in quanto a gesti plateali, ero un
professionista.
«Daemon,
che stai facendo?» esclamò Scalia vedendomi avanzare verso il forte con le
braccia conserte dietro la schiena, la schiena dritta e lo sguardo fisso
davanti a me «Ti ammazzeranno!»
Subito
ordinai ai miei pochi arcieri di posare le armi, fermandomi a metà strada tra
le mura e la mia prima linea e restando a lungo a fissare negli occhi i soldati
sui bastioni.
Mi
sembrava di essere tornato a Laffrey, di fronte al
quinto di linea schierato e pronto a spararmi.
«Mi
riconoscete vero? Non vogliamo farvi alcun male! Non siete voi i nostri
nemici!»
Non
vi fu risposta, anche se potevo scorgere l’esitazione negli occhi di ognuno di
loro.
«Se
volete uccidermi, fate pure!» dissi allargando le braccia «Fatelo adesso e
finirà tutto! Altrimenti, scendete da lì e parliamo! Avete la mia parola che
nessuno di noi alzerà un dito!»
Carel,
una giovane recluta poco più che quattordicenne, svenne letteralmente per lo
stress, e a quel punto Septimus si decise ad ordinare ai suoi di abbassare le
armi.
«Adesso
scendo e parliamo! Ma se uno solo di loro muove un passo…»
«Hai
la mia parola che non accadrà nulla!»
Di
lì a breve le porte della fortezza si aprirono leggermente e Septimus uscì
all’esterno accompagnato da un subalterno con la bandiera bianca.
«Che
sta succedendo, Daemon?»
«Non
poteva durare Septimus, e tu lo sapevi.»
«Perché
sei insieme a loro? Sono solo schiavi.»
«Eri
pronto anche tu a difenderli quando sono stati in pericolo. Avrò modo di
spiegarti ogni cosa. Ma non adesso. Non c’è tempo. Avrai già saputo cos’è
successo al ghetto. La spedizione punitiva sarà presto qui, e non possiamo
affrontarli con attrezzi da lavoro e grembiuli da forgia. Ci servono le armi
del forte.»
«E
pensi davvero che te le consegnerò? Sono un Decurione dell’esercito imperiale.
Tecnicamente dovrei dare l’ordine di uccidervi io stesso.»
«Otterresti
solo di morire inutilmente, e i tuoi uomini con te.»
«Non
ha alcuna importanza. Io ho fatto un giuramento.»
«Lo
stesso che ha fatto il tuo superiore che se l’è data a gambe lasciandovi qui a
farvi ammazzare? Non guardarmi così, so perfettamente che è già scappato.
Abbiamo fermato lui e la sua scorta a neanche un miglio di qui, mentre
cercavano di attraversare il ponte. Ora sei tu al comando. Le vite di quegli
uomini sono nelle tue mani.»
Septimus
stava scoprendo sulla sua pelle che decidere di gettare via la propria vita in
nome dell’onore è facile, ben diverso però è fare lo stesso con quella dei
soldati sotto il proprio comando.
Decisi
di spingere ulteriormente.
«L’hai
visto tu stesso il vero volto dell’Impero. Vuoi davvero morire per gli stessi
che hanno vessato questi poveretti fino al punto di spingerli a dire basta? O
che hanno incarcerato e ucciso i nostri amici durante quella stupida caccia
alle streghe? Siamo cresciuti insieme, lo sai che di me ti puoi fidare.Ti assicuro che non
vogliamo spargere sangue innocente.»
Era
evidente che il suo orgoglio di soldato gli impediva di fare ciò che
intimamente avrebbe voluto. Occorreva un’ultima spinta.
«Un
gruppo di miei compagni sono già entrati a Dundee. Non hanno fatto del male a
nessuno. Ora stiamo radunando tutti gli abitanti della regione che non sono
ancora scappati. Venite anche voi. E se dopo che avrete ascoltato quello che ho
da dire deciderete comunque di opporvi a noi vi lasceremo andare via incolumi,
con tutte le armi che riuscirete a portarvi dietro. Sarete anche liberi di
andare al nord e riunirvi con il resto della legione se lo vorrete. Lo giuro.»
Septimus
accettò quasi subito la mia proposta, ponendo come unica condizione la garanzia
che fatto salvo un piccolo gruppo di fedelissimi tutti gli altri ribelli
sarebbero rimasti al di fuori delle mura.
Mentre
si allontanava potevo sentirlo ordinare al proprio portabandiera di dare
indicazioni perché tutti iniziassero a mettersi in spalla quante più armi possibili
in vista del viaggio verso il Castello. Ma io sapevo benissimo che in realtà
quel viaggio non ci sarebbe mai stato.
Eirinn non aveva subito le stesse
devastazioni patite dall’Impero o da altre parti di Erthea durante le Guerre
Sacre, quindi era quasi naturale che in molti tra noi non condividessero il
fanatismo e la brutalità con cui l’Impero trattava i mostri.
Di
sicuro non li consideravamo nostri pari, ma allo stesso tempo non li vedevamo
neanche come oggetti da usare e gettare via a piacimento.
Certo,
molti tra di noi avevano schiavi, ma con poche eccezioni quasi tutti facevano
ciò che era in loro potere per trattarli nel modo più dignitoso possibile,
dandogli da mangiare, un giaciglio caldo su cui dormire, e pretendendo da loro
solo ciò che erano materialmente in grado di fare.
Per
quanto riguarda me, fin da quando ero bambina non mi ero mai preoccupata troppo
della sorte dei mostri, ritenendo di avere già abbastanza problemi nella mia
vita per dovermi fare carico anche di quelli degli altri.
Crescendo
però mi ero resa conto di quanto egoistico fosse stato il mio modo di pensare,
e che se io mi ritenevo sfortunata solo per via dell’avere un padre ubriacone e
violento quello era niente se paragonato alla miseria in cui erano costretti
gli schiavi che vivevano nei ghetti.
Era
stato l’ultimo, terribile inverno a cementare questa idea nel mio animo, nel
momento in cui Daemon e Septimus mi avevano confidato che se noi avevamo poco
da mangiare a causa dell’incendio al granaio, quei poveretti erano stati spesso
costretti a lavorare per giorni e giorni senza poter mettere nulla sotto i
denti.
Così,
appena prese in mano appieno le redini del negozio, avevo iniziato a fare
quello che potevo per aiutarli, ordinando cibo e vestiti caldi dai miei
fornitori pagandoli con spezie e altri beni pregiati, e cercando nel mentre di
compensare le perdite alzando i prezzi che praticavo abitualmente.
In
qualche modo ero riuscita ad evitare di andare in perdita, e quando Septimus mi
aveva detto che i mostri erano stati contenti di poter finalmente mangiare
qualcosa di decente e proteggersi meglio dal freddo ammetto che mi si era
scaldato il cuore.
Ma
evidentemente tutti i miei sforzi non erano bastati, o forse più semplicemente
quegli schiavi avevano deciso infine di dire basta.
Quello
che mai mi sarei potuta immaginare era di trovare Daemon a capo della rivolta.
Tutto quello che credevo di sapere sul suo conto si era sgretolato, ma ammetto
che vederlo così, nel pieno del suo proverbiale carisma, tenendo in pugno senza
difficoltà quella massa eterogenea di schiavi arrabbiatissimi prodigandosi nel
mentre a rassicurare tutti sul fatto che non avessero cattive intenzioni non
faceva altro che accrescere la mia stima nei suoi confronti.
Mentre
cercavo ancora di metabolizzare tutto quello che stava accadendo in quel giorno
pazzesco, un piccolo goblin armato di bastone fece irruzione nel negozio
sfondando la porta che avevo sprangato per sicurezza e mettendosi a ingurgitare
tutto quello che gli capitava a tiro.
Dimenticandomi
con chi avevo a che fare presi la scopa e cercai di mandarlo via neanche avessi
avuto a che fare con un topo molesto, con il risultato che quello per poco non
si avventò anche su di me.
Ancora
una volta fu Daemon a salvarmi, irrompendo sulla scena assieme ad una giovane
ragazza con coda e corna di drago quando già mi immaginavo il peggio.
«Ero
stato chiaro Pythus. Niente saccheggi o aggressioni.»
e senza aggiungere altro lo trafisse da parte a parte quando quello cercò di
assalire anche lui.
«Non
credo che mancherà a nessuno.» osservò cinicamente la ragazza-drago «Era solo
un viscido selvaggio.»
«Mary.
Tu stai bene?»
«Sì,
tranquillo. Non mi ha fatto niente.»
«Mi
dispiace. Lui aveva l’ordine di restare fuori dalle mura, ma deve essersi
intrufolato di nascosto. E mi dispiace anche per la frutta.»
«Ma
no… non preoccuparti…»
«Puoi
stare tranquilla, gli altri miei compagni non sono come lui. Ordinerò ad alcuni
di loro di presidiare il negozio, così non dovrai temere neanche gli
sciacalli.»
Se
Daemon sembrava ancora il gentiluomo rude ma pieno di premure che avevo sempre
conosciuto, la sua compagna al contrario mi fissava con occhi che sapevano di
rabbia, per non dire di odio.
E
in tutta onestà devo dire che anche a me fece una brutta impressione, più che
altro per il modo schietto e poco educato con cui si rivolgeva a Daemon: come
si permetteva di rivolgersi a lui come se fosse stato un suo parente?
Ovviamente
ancora non sapevo che quella era davvero sua sorella –sorella adottiva per lo
meno–, ma capii subito che non saremmo andate d’accordo.
Daemon
aveva appena fatto le presentazioni quando una minotaura
così alta da non passare attraverso la porta del negozio arrivò di corsa
avvisando tutti che c’era un problema serio alla taverna del sindaco, e che
Giselle era in pericolo.
Istintivamente,
essendo io stessa in pensiero per la mia amica, li seguii fino al Cervo Nero,
dove trovammo Giselle tenuta in ostaggio con un pugnale da uno dei pochi
miliziani a non essere ancora fuggiti.
Si
chiamava Vig, ed era uno dei peggiori aguzzini che
avessi mai conosciuto, oltre ad essere un lascivo pervertito sempre alla
ricerca di una ragazza da conquistare con i suoi modi da caprone. Tutti quelli
della sua risma se l’erano data a gambe appena arrivata notizia della rivolta
per non rischiare di finire nelle mani delle loro vittime, ma lui quel giorno
si era ubriacato a tal punto da crollare addormentato sotto il tavolo della
locanda, rendendosi conto di quanto stava accadendo solo una volta smaltita la
sbronza.
«Ora
smettila soldato!» disse il Capitano Oldrick, anche
lui presente assieme a Septimus, al sindaco Rutte e ad un paio di mostri che,
avendolo riconosciuto, avevano tentato di mettergli le mani addosso
provocandone la reazione «Non c’è ragione di proseguire oltre con questa follia!»
«Io
non voglio avere niente a che fare con queste bestie! Voglio cinquecento goldie
e un salvacondotto per passare il ponte!»
«Tu
non vai da nessuna parte maledetto!» strillò il vecchio coboldo indicandosi la
benda sull’occhio. «Devo ancora manifestarti la mia gratitudine per questo!»
«Fai
silenzio stupido animale, o giuro che ti cavo anche l’altro occhio!»
«Non
fare stupidaggini.» disse Rutte con sguardo cupo, per nulla preoccupato a prima
vista di quanto stava capitando a sua figlia. «Mantieni il sangue freddo e
andrà tutto bene.»
«Tu
taci vecchio! Non sono cose che ti riguardano!»
«Io
non stavo parlando con te.»
«Mi
dispiace padre. Ma ho avuto fin troppa pazienza con questo idiota.»
«Cos…»
Sì
udì una specie di sibilo, come di qualcosa che veniva estratto con violenza, e
un attimo dopo Vig stramazzò a terra come
paralizzato, con la bava alla bocca e gli occhi quasi fuori dalle orbite.
Ma
questo era in niente in confronto allo stupore che provammo quasi tutti nel
momento in cui notammo una specie di punta acuminata che spuntava da dietro la
gonna di Giselle.
«Giselle,
ma cosa…»
«D’accordo,
credo che questa recita sia durata anche troppo.»
A
quel punto tutto il corpo della mia migliore amica sembrò come lacerarsi, e da sotto
la sua pelle fece la propria comparsa in vari punti, soprattutto su braccia e
gambe, una sorta di armatura scura simile alla corazza di un insetto. Quattro
ali membranose le apparvero dietro la schiena lacerando la camicetta, e buona
parte della gonna venne letteralmente sventrata dall’emergere di un grosso
addome peloso giallo e nero terminante in un lungo pungiglione ricurvo. Infine,
un paio di antenne le spuntarono in cima alla testa.
«Finalmente!
Non ne potevo più di quell’involucro gommoso!»
A
Septimus sembrava dovesse cadere la mascella da un momento all’altro, e a
giudicare dal rigonfiamento sotto alla cintura era chiaro che la trasformazione
della nostra amica in una specie di conturbante ape regina dal balcone quasi
raddoppiato aveva destato in lui pensieri inopportuni.
«Giselle,
ma tu sei un…»
«Uno
schianto? Uno spettacolo? Una forza della natura?»
«Un
mostro!?»
«Preferirei
che non lo dicessi con quel tono.»
«Giselle
non è propriamente un mostro.» disse Daemon. «È una sanguemisto.»
«Non
dirmi che tu l’hai sempre saputo.» chiese lei, ghignando malevola come quando
eravamo bambini
«Sono
cresciuto in mezzo ai mostri. Ovvio che so riconoscerne uno, per quanto
mascherato.»
In
seguito scoprimmo che molti anni prima il signor Rutte si era imbattuto in una
schiava fuggitiva e mezza morta mentre tornava da un viaggio nell’Unione,
portandola a casa con sé e tenendola per molto tempo nascosta nella soffitta di
casa sua dopo averla curata.
Alla
fine si erano innamorati e dalla loro unione era nata Giselle, anche se lo
sforzo di partorire un sanguemisto era stato tale che sua madre era morta nel
darla alla luce.
Venne
fuori anche che la specie a cui apparteneva la madre di Giselle aveva
sviluppato la capacità di comprimere e celare il proprio vero aspetto dietro ad
un involucro che simulava in tutto e per tutto la pelle umana, che però una
volta distrutto non poteva più essere ricostruito.
«Allora?
Volete restare lì a fissarmi o muovere le mani? Toglietemi di torno questo
rifiuto ambulante prima che mi venga voglia di iniettargli un’altra dose di
veleno.»
«Rude,
selvaggia e testarda. Sei proprio tale e quale a tua madre.»
Mentre
Oldrick e Septimus portavano via Vig
un orco gigantesco ma dall’aspetto amichevole entrò nella locanda.
«Daemon.
È tutto pronto.»
A sentire Daemon, la popolazione di
Dundee era solita radunarsi in massa nella piazza centrale solo per assistere
alle esecuzioni pubbliche.
Una
volta smontate le forche e trasformato il patibolo in un palco avevamo radunato
non solo gli abitanti del villaggio, ma anche tutti quelli che eravamo riusciti
a trovare in giro per tutta la regione.
Era
chiaro che avevano paura di noi, e che se molti di loro ci avevano obbedito
seguendoci al villaggio era solo perché Daemon aveva preteso che i
rastrellamenti venissero condotti da gruppi misti composti da mostri, membri
della guardia e legionari.
A
conti fatti c’era molta più gente di quanto mi aspettassi; gli occhi di tutti
erano puntati ovviamente su Daemon, che si stagliava come un gigante tra i nani
al centro del palco con il sindaco, il Decurione Septimus, il Capitano Oldrick e alcuni altri rispettabili cittadini alle sue
spalle.
Molti
fissavano anche la ragazza-ape in piedi accanto a suo padre, e dai loro sguardi
si capiva che nessuno aveva mai avuto neppure un sospetto sulla sua vera
natura.
Ad
un cenno di Daemon scese il silenzio.
«Amici
miei. Abitanti di Dundee. Non c’è bisogno che io mi presenti, tanto mi
conoscete tutti. Ormai dovreste averlo capito. Vi ho mentito. Su molte cose. Ma
se l’ho fatto non è stato perché mi vergognavo di chi fossi o delle mie
origini. La verità è che io sono un orfano. Questi mostri, che molti voi hanno
sempre considerato niente altro che bestie selvagge e senz’anima, mi hanno
trovato abbandonato nella foresta quando ero solo un neonato in fasce.
Avrebbero potuto ignorarmi, o persino mangiarmi. Invece mi hanno adottato. E
hanno fatto enormi sacrifici per potermi crescere, affinché un giorno io
potessi avere tutto ciò in cui loro non avrebbero mai potuto sperare. Ho
vissuto in mezzo a loro, e ho visto quello a cui sono costretti. Ho asciugato
le loro lacrime e pianto insieme a loro ogni volta che un loro compagno alla
sera non rientrava nella sua baracca, solo perché qualcuno aveva ritenuto che
la sua vita valesse meno di una pepita d’oro, un secchio di pece o un pezzo di
carbone. Ma quali che siano i vostri pensieri, o qualunque cosa voi sappiate o
crediate di sapere, voglio dirvi che non siamo qui per vendicarci, o per
ripagare nel sangue chissà quali torti. Siamo qui perché crediamo che ogni
essere senziente che cammina su questa terra sia tanto degno di vivere quanto
chiunque altro. Ogni singolo individuo, umano, mostro o mezzosangue che sia ha
il diritto di disporre liberamente della propria vita, e di rispondere in prima
persona dell’abuso che potrebbe fare della propria libertà dinnanzi ad una
legge di fronte alla quale tutti devono essere uguali. Quella stessa libertà e
quella stessa legge che anche a voi sono stati strappati, calpestati da un
governo che pretende di decidere delle vostre vite nello stesso modo in cui
dispone a proprio piacimento di quelle degli schiavi. Un governo che dopo non
essere stato capace di impedire che la nostra terra fosse ridotta alla fame non
solo non ha fatto niente per aiutarci, ma si è perfino rivelato un nido di
serpi che non ci hanno pensato un attimo a speculare sulle nostre sventure.
Ebbene io dico, quando chi dovrebbe come prima cosa ad assicurare il benessere
di coloro che si rimettono a lui si dimostra indegno della fiducia concessagli
e del ruolo che ricopre, il popolo non ha soltanto il diritto, ma anche il
preciso dovere di alzare la testa e gridare a piena voce la propria rabbia!
Tutti quelli che non hanno fiducia nelle mie parole, non credono nella bontà di
ciò che vogliamo costruire, o semplicemente non riescono a liberarsi dei loro
pregiudizi possono andare via incolumi, con tutto ciò che saranno in grado di
portarsi dietro. Non uno di loro sarà toccato. Coloro che condividono la nostra
lotta ma hanno paura di rischiare la vita in prima persona non abbiano nulla da
temere, perché combatteremo anche per loro, e avranno comunque l’occasione di
rendere il loro servizio alla causa. Ma se anche voi credete che sia giusto
sperare in qualcosa di più, se anche voi pensate che può esserci un’altra via,
allora vi chiedo di schierarvi al nostro fianco e aiutarci a costruire un mondo
migliore. Un mondo in cui nessun individuo avrà potere di vita o di morte sui
propri simili. In cui ognuno di noi, dal più umile dei contadini al più
illustre dei proprietari terrieri, dal mostro un tempo schiavo al più grande
dei re, avrà diritto inalienabile alla libertà, alla proprietà, all’uguaglianza
di fronte alla legge e allo stato e ad un giusto processo da parte di una
giuria di suoi pari. Il sangue di coloro che daranno la vita per difendere
questo mondo nelle guerre che sicuramente saranno scatenate contro di noi nel
tentativo di spegnere il fuoco delle nostre coscienze risvegliate sarà l’acqua
della vita che farà germogliare i semi di una nuova era. Anche nella morte, i
martiri della nostra lotta avranno la consolazione che il loro sacrificio non
sarà stato vano, che coloro che lasceranno dietro diventeranno figli di tutti
noi, e che il loro ricordo vivrà per sempre. La decisione spetta a voi.»
Per
tutto il tempo in cui Daemon aveva parlato non si era levata una voce, e ci
eravamo ritrovati tutti ad ascoltarlo in silenzio come ipnotizzati. Era come
udire la voce di un dio, un essere ultraterreno le cui parole sarebbero state
capaci di convincerti che il bianco era nero e viceversa.
Conoscevamo
tutti la potenza del suo carisma, ma mai prima d’ora ci eravamo trovati di
fronte a qualcosa di così incredibile.
Il
primo a farsi avanti fu il suo amico Septimus, che mosse un passo dopo essersi strappato
dalla tunica blu da legionario lo stemma imperiale.
«Io
sono con te Daemon!»
«Anche
io!» disse dalla folla quell’antipatica quattrocchi col faccino da bambina
«Conta
su di me! – E anche su di me! – Morte al Governatore! – Viva la libertà!»
Un
attimo dopo la piazza esplose in un boato assordante, con migliaia di persone
che tutte insieme invocavano a piena voce il nome del mio fratellino.
«Non
ci posso credere.» disse Jack. «Ditemi che è tutto vero.»
«Non
stai sognando, stallone.» rise Giselle. «Chi l’avrebbe mai detto? Il piccolo e
gracile Daemon.»
Era
vero. L’impossibile era infine successo.
Probabilmente
la maggior parte di loro ancora non aveva compreso che da quel momento in poi
avrebbero vissuto e combattuto fianco a fianco con le stesse creature che fino
al giorno prima avevano guardato dall’alto in basso e trattato come dei servi,
ma in quel momento non mi importava.
Ad
un cenno di Daemon gli porsi l’asta sulla quale avevamo legato uno stendardo
fatto di stracci recuperati qua e là, realizzato da Bonbi
e dalle altre donne del ghetto seguendo il modello da lui suggerito.
Un
contorno blu come il cielo notturno e un cuore rosso come il sangue versato dai
nostri amici, divisi da un rettangolo bianco.
Infine,
al centro, tre rose candide, una per ogni specie, uguali e bellissime.
La
nostra bandiera.
Il
simbolo della nostra libertà.
«La Rivoluzione è cominciata!»
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
E così siamo giunti alla fine di questo
primo volume della mia prima light novel!
Spero che la storia vi sia piaciuta, e che
continuerete a seguirmi nel prosieguo di questa mia avventura.
Ho dedicato molto tempo e passione alla
creazione di ogni singolo aspetto della vicenda, dal susseguirsi degli eventi
alla creazione dei personaggi.
Da qui in poi gli eventi procederanno in
maniera molto più fluida, in un susseguirsi di situazioni che faranno evolvere
la trama generale in modo abbastanza veloce.
Il Volume 2, intitolato “Solo chi è disposto a morire conoscerà la vera forza” è già completato nella sua versione italiana, mentre
quella inglese sarà ultimata da qui ad un paio di mesi.
Quindi restate nei paraggi, perché tra due
settimane arriva già il primo capitolo!