Napoleon of Another World! (Volume 1 - Un Trono non si Rovescia con le Parole)

di Cj Spencer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 - UN NUOVO MONDO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 - LA YETI ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 - SCERIFFO ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 - IL DRAGO ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 - IL FURTO ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 - L'INGANNO ***
Capitolo 7: *** EPILOGO - RIVOLUZIONE ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 - UN NUOVO MONDO ***


“La morte può essere l'espiazione delle colpe,

ma non può mai ripararle.”

(Napoleone Bonaparte)

CAPITOLO 1

UN NUOVO MONDO

 

 

«L’Imperatore è morto!».

Questa era la frase che rimbombava in ogni angolo di quella squallida stamberga che era diventata la mia prigione, assieme a quella maledetta isola.

Potevo quasi vederli i servitori, i pochi militari rimastimi vicini, i miei carcerieri e tutti gli altri, raccolti intorno al letto ad assistere ai miei ultimi istanti di vita.

Sicuramente tra di loro c’era qualcuno che non vedeva l’ora di vedermi tirare le cuoia, e anche se mi ero abituato nella mia vita a deludere le aspettative dei miei nemici stavolta tutti sapevano che non ci sarebbe stato nessun colpo di scena.

E lo sapevo anche io.

Eravamo al gran finale.

Avrei voluto godermi la scena, ma in verità come ho già detto potevo solo immaginarmela.

Perché se il mio corpo era ancora lì, in quella minuscola stanza, la mia coscienza era già altrove.

Immerso in un mare di luce, mi ritrovavo a fissare l’enigmatica e decisamente inquietante figura che mi stava di fronte, e che si presentava a me nella forma di un individuo completamente nascosto all’interno di un mantello nero, con tricorno e maschera bianca a celarne le fattezze.

Se ne stava lì, immobile, guardandomi attraverso quei due buchi neri a forma di occhi come se cercasse di scrutarmi dentro.

Decisi di rompere il silenzio.

«E dunque? Sono morto?»

«Più o meno.»

«Non sapevo che la Morte avesse il senso dell’umorismo.»

«Credi che io sia la Morte?»

«Di sicuro vuoi farti passare come tale, con quel mantello e la maschera.»

«Sembri piuttosto calmo per qualcuno che ritiene di trovarsi faccia a faccia con la Morte.»

«È già da molto che il tristo mietitore mi cammina accanto. Sono scampato ad una fine prematura più volte di quante io possa ricordarmene. Peccato solo che altri abbiano avuto minor fortuna.»

Non posso dirlo con certezza, ma sono quasi sicuro che la mia ultima affermazione suscitò un sorrisetto divertito nel mio interlocutore.

«Allora anche il grande Imperatore Bonaparte aveva qualcuno che gli era caro.»

«Un uomo che non abbia degli affetti è un uomo arido come il deserto. E un uomo arido non lascerà mai nulla dietro di sé degno di essere ricordato.»

«E l’uomo che vive senza gloria muore ogni giorno, dico bene?»

Era davvero il colmo: la Morte che mi faceva il verso.

«Dunque dimmi, Imperatore. Sei fiero di come hai vissuto? Di ciò che hai lasciato?»

Stavolta fui io a sorridere, e non certo di gusto.

«Considerato che i miei nemici non hanno nemmeno aspettato la mia dipartita per distruggere tutto ciò che ho costruito dovrei sentirmi deluso e arrabbiato. Ma non è così. Al contrario, provo pena per loro.»

«Per quale motivo?»

«Perché per quanto si illudano del contrario, le lancette del tempo non si muovono mai all’indietro. Presto o tardi saranno travolti dall’onda delle coscienze che io ho risvegliato, e che loro pensano di poter ridurre nuovamente in catene. Mi spiace solo che non sarò lì a godermi la scena quando il castello di carte che hanno costruito gli franerà addosso. Ho preso un continente che aveva smarrito la via, ho portato ordine dove regnava il caos, e sparso i semi del cambiamento in ogni angolo del globo. E anche se a giudicarmi da fuori non si direbbe, ho dedicato tutti i miei sforzi ad un solo fine. La pace. Perché non vi è gloria più grande per un uomo che aspiri alla grandezza del portare la pace.»

«Portare la pace? Con la guerra?»

«La pace non cala dall’alto, né risulta indolore. Perché un nuovo mondo possa prevalere, è necessario che quello vecchio venga spazzato via. E se persino il buon Dio è dovuto ricorrere al diluvio per eliminare gli empi e salvare i giusti, non vedo come sia possibile per un semplice uomo agire diversamente. Chiunque non riconosca e non accetti questo semplice assunto è uno stolto o un bugiardo.»

«Quindi nessun rimpianto? Nessun aspetto della tua vita che non cambieresti, o in cui ritieni di aver sbagliato?»

In effetti c’era una cosa.

«Forse avrei dovuto essere più avveduto riguardo alle persone cui ho concesso la mia fiducia. Anche coloro di cui ero convinto di potermi fidare, nel momento della difficoltà non ci hanno pensato due volte a rinnegare me e ciò in cui sostenevano di credere pur di salvarsi la vita o la carriera.»

«Tutto qui? Non c’è altro?»

«Dovrebbe?»

La Morte parve fare un cenno sotto il mantello, di colpo mi ritrovai ad osservare tutto attorno a noi cose di cui mi sarei volentieri dimenticato.

Le statue, i dipinti. Perfino quella pantomima chiamata incoronazione, al cui solo pensiero mi ritrovavo ancora a volermi sotterrare per l’imbarazzo.

«E questi come li chiameresti?»

«Apparenze.» risposi senza esitazioni. «Fondamentali quando si governa. Il popolo non segue chi non dimostra di avere la giusta dose di ambizione. Io ho dimostrato che potevo fare qualunque cosa, è questo che dovrebbe fare chiunque aspiri ad essere un leader. E se il problema sono i colpi di stato, il dispotismo, o l’accentramento del potere, ti risponderei che le circostanze non mi concedevano il lusso di poter agire con i guanti di velluto.»

Mentre parlavo, però, un dubbio mi si stava insinuando nella mente, e forse era proprio questo ciò che la Morte sperava di ottenere.

«A ben pensarci, se mi fossi circondato di persone lungimiranti e competenti invece che di ambiziosi caproni ed esecutori scodinzolanti, forse avrei potuto gestire la cosa in maniera diversa. Sfortunatamente quando me ne sono reso conto era tardi per tornare indietro.»

Decisi di fermarmi. Visto che ero morto, non aveva senso rimuginare oltre su ciò che era stato.

«Se mi fai tutte queste domande, suppongo che il tuo ruolo sia quello di giudicarmi. Ebbene, che si fa? Se vuoi spedirmi all’inferno non tiriamola ulteriormente per le lunghe. So di aver fatto molte cose discutibili, ma rivendico la bontà e la correttezza dei miei propositi. Anche se dubito che voi dei abbiate molto in simpatia simili umane sottigliezze semantiche.»

«In effetti, è proprio all’inferno che stavo pensando per te. Ma non il genere di inferno che potresti aspettarti.»

«Prego?»

«Contrariamente a ciò che gli abitanti del tuo mondo credono, non esistono cose come il paradiso e l’inferno. Quando una persona muore perde tutti i ricordi della sua vita passata, ma il suo spirito si reincarna immediatamente da qualche altra parte. La maggior parte rinasce nel proprio mondo d’origine, alcuni invece trascendono il tempo e lo spazio per tornare in vita in altri mondi.»

«Presumo che la tua presenza qui implichi che il mio caso rientri nella seconda opzione.»

«Come ho detto all’inizio, dipende da te. In verità, ho una proposta da farti.»

«Sentiamo.»

«C’è un mondo là fuori, simile al tuo e al tempo stesso diverso. A prima vista potrebbe sembrare pacifico e prospero, ma in realtà si trova sull’orlo del baratro.»

«Che intendi dire?»

«Questo mondo è composto da due continenti, Erthea e Treibam. La distanza che li separa è troppo grande perché abbiano mai potuto sapere l’uno dell’esistenza dell’altro, ma ora le cose sono cambiate. Cento anni fa il Re dei Demoni è apparso su Treibam, che ora sta per essere completamente sottomesso dal suo esercito. E quando questo accadrà, Erthea diventerà inevitabilmente il suo prossimo bersaglio. Teoricamente le nazioni di Erthea sarebbero abbastanza potenti da riuscire a difendersi dall’invasione, se unissero le forze combattendo tutte insieme. Il problema è che al momento Erthea è un continente tutt’altro che unito. Al contrario, è funestato da innumerevoli problemi.»

«Di che problemi stiamo parlando esattamente?»

«Niente che tu già non conosca. Schiavi maltrattati, poveri sfruttati, nobili ambiziosi. Anche se le sue nazioni hanno smesso di farsi la guerra, l’equilibrio che lo ha tenuto in vita per molti secoli è sul punto di spezzarsi.»

«È chiaro dunque. Se le truppe del Re dei Demoni arrivassero con Erthea così divisa, non avranno problemi a sottometterla.»

«Il che ci porta al fulcro della questione. Se ti facessi rinascere ad Erthea saresti in grado di impedire il destino che l’attende?»

La situazione era così assurda che se non fossi stato sicuro di essere già morto avrei pensato di stare facendo il più bizzarro dei sogni.

Ma poi, che razza di richiesta era? Rinascere ad altra vita solo per rivivere quella che avevo appena concluso, e che non era certamente finita nel migliore dei modi?

E allora come mai il pensiero mi faceva tintinnare le corde del cuore?

«Che questa storia della reincarnazione sia vera o meno, ora posso affermare con esattezza che tu non sei un angelo, un demone, e di sicuro neanche la Morte.»

«Cosa te lo fa pensare?»

«La Morte è assoluta e imparziale. È l’immagine stessa dell’inevitabilità del destino. Non si scomoderebbe mai a cercare di invertire le sorti dei viventi.»

«Tu credi nel destino?»

«Io credo che il destino è una tela bianca che ogni uomo dipinge con le azioni che compie. Alcune diventano quadri superbi, altri scarabocchi da bambini. Ma prima o poi il disegno termina, ed è quel disegno a stabilire ciò che siamo stati e cosa lasceremo di noi.»

«Quand’è così, ti offro una nuova tela. E se non basta, anche i colori con cui realizzarla.»

«Che intendi dire?»

«Se accetti la mia offerta, rinascerai a nuova vita con tutti i tuoi ricordi. Se conosci già da ora quali conseguenze potrebbero avere certe tue scelte, saprai come evitare di commettere di nuovo gli stessi errori.»

«Supponiamo che io decida di accettare. Che cosa ti aspetteresti che io faccia? Dovrei unificare a mia volta Erthea e prepararla all’invasione? Formare un’alleanza tra le sue nazioni? E anche ammesso che ci riesca, poi come mi dovrei comportare? Dovrei concentrarmi sulla difesa? Oppure lanciare un attacco preventivo?»

«La cosa non mi riguarda. L’importante è che Erthea venga pacificata e l’invasione scongiurata. Il modo in cui porterai a termine quest’incarico è molto secondario.»

C’erano ancora un paio di cose che mi premeva di chiedere, anche se dentro di me la mia decisione l’avevo già presa.

«Sembri oltremodo potente. Perché ti serve uno come me? Io non sono che un uomo.»

«Per due motivi. Il primo è che circostanze che non starò a spiegarti mi impediscono di agire in prima persona nel mondo fisico. Posso solo indicare la strada ad altri.»

«E il secondo?»

La Morte parve sospirare, distogliendo lo sguardo per la prima volta da che aveva avuto inizio la nostra conversazione.

«Diciamo che alcuni dei problemi che affliggono attualmente Erthea sono una diretta conseguenza delle mie azioni. Sento di avere un debito nei confronti dei suoi abitanti più sfortunati, e questo mi è sembrato l’unico modo possibile per ripagarlo. Allora? Qual è la tua risposta?»

«Accetto.» dissi senza pensarci ulteriormente.

«Molto bene.»

«Ma voglio essere chiaro fin d’ora. Quando io mi assumo un obiettivo lo perseguo a prescindere da ogni altra cosa. Non mi sono mai fermato davanti a niente per fare ciò che ritenevo giusto, e voglio che tu sappia che non intendo farlo neanche stavolta. Non sarò responsabile del sangue che sarà destinato inevitabilmente a scorrere.»

«Non ha importanza. Fino a che avrò la convinzione che tu stia agendo nel miglior interesse di Erthea, non farò nulla che possa ostacolare la tua missione.»

La luce attorno a noi aumentò la sua forza, e partendo dai piedi vidi il mio corpo iniziare a farsi gradualmente pulviscolo scintillante.

«E adesso?»

«In verità ero sicuro che avresti accettato la mia offerta, così ho agito per tempo. La tua anima si è già reincarnata in un nuovo corpo. Quando ti sveglierai sarai un bambino umano di dieci anni. Ne avrai a disposizione altri dieci prima dell’arrivo delle truppe del Re dei Demoni.»

«Dovrei riuscire ad ottenere in dieci anni quello che non sono riuscito ad ottenere in trenta?»

«Non ho detto che sarebbe stato facile, d’altronde non ti sei mai fatto spaventare dalle imprese impossibili. E poi avrai ancora i tuoi ricordi. Confido che ne farai buon uso.»

«Ci rivedremo?»

«No, se farai bene il tuo lavoro.»

Ormai più di metà del mio corpo era svanito, e potevo percepire la mia stessa coscienza che andava affievolendosi.

«A presto, Imperatore. Non mi deludere.»

 

«Daemon! Svegliati!»

Quella voce tanto soave quanto imperiosa mi catapultò con la forza di una cannonata nel mondo reale, spalancandomi gli occhi sulla volta di paglia che mi stava sopra.

«Arrivo subito!»

Il tempo di saltare giù da quello scomodo letto, gettarmi addosso due manate di acqua fredda, disfarmi del camicione rattoppato in favore dell’uniforme, ed ero al piano di sotto.

Scalia e Zorech erano già seduti al tavolo intenti a consumare la loro misera colazione a base di gallette, latte annacquato e, solo per mio padre, del sidro caldo.

«Finalmente, era ora.» protestò mia sorella agitando nervosamente la coda «Lo sai che ore sono?»

«Scusami Scalia. Dormivo profondamente e così…»

«Basta con le scuse. Ormai hai più di dieci anni. È ora che impari a mettere un po’ di giudizio. Non chiedo tanto, mi basterebbe che ti svegliassi la mattina senza doverti chiamare tre o quattro volte.»

«Dai Scalia, non essere così severa.» disse Zorech grattandosi il corno alla base del mento che gli faceva da barba. «Dopotutto ieri sera ha studiato fino a tardi.»

«Ti ci metti anche tu padre?»

Ebbene sì.

Era questa la mia nuova famiglia.

Un cinquecentenario dragone con le ali tarpate, il muso allungato da lucertola e il corpo ricoperto di scaglie grigio-azzurre e la sua figlia sanguemisto dalla pelle scura, tanto carina quanto irascibile.

E io?

Io ero un umano, come aveva predetto Faucheur - l’unico nome che mi fosse venuto in mente per il mio funereo committente, essendosi rifiutato di rivelarmi la sua vera identità-

Il mio nome? Daemon.

Erano già trascorsi due mesi dal mio risveglio in quel mondo; o meglio, dal risveglio dei ricordi della mia vita passata. Perché da quanto avevo avuto modo di capire io vivevo con quei mostri fin dal giorno della mia nascita.

E quando parlo di mostri non intendo in senso dispregiativo. Era così che tutti li chiamavano: mostri.

Mi ci era voluto un po’ per riuscire ad assimilare le memorie che il mio nuovo corpo aveva collezionato fino a quel momento; in questo modo ero riuscito a metabolizzare velocemente la lingua, la cultura e l’alfabeto di quel mondo, al punto che ormai leggere, parlare e comprendere l’idioma locale mi veniva naturale.

«Ora però sbrigati a fare colazione Daemon. È tardi, e devi andare a scuola.»

«Sì, padre.»

Ingurgitate un paio di mele e un bicchiere di latte raccolsi la cartella appoggiata su una panca, e augurata la buona giornata uscii all’esterno.

Malgrado la pioggia avesse lavato via il proverbiale puzzo e rischiarato il cielo, il ghetto di Ende restava la solita cloaca a cielo aperto di sempre.

Quattro mura di legno su di un terrapieno rialzato delimitavano come un recinto quel piccolo e sovraffollato agglomerato di baracche improvvisate, suddivise in quattro isolati delimitati da un cardo e un decumano che unendosi al centro formavano una croce quasi perfetta.

La proverbiale attenzione ai dettagli e all’ordine geometrico dell’Impero si vedeva persino nel modo in cui trattava i suoi schiavi.

Perché questo erano i mostri: schiavi.

Tutte quelle creature dai tratti distorti o animaleschi che fossero dotati di un minimo di raziocinio erano chiamati mostri; e tutti, con pochissime esclusioni, erano la forza lavoro sul cui sangue, sudore e ossa l’Impero di Saedonia aveva costruito la propria grandezza.

La domanda, più che legittima, veniva da sé: perché dei mostri avrebbero dovuto, a prezzo di grandi rischi e ancor più grandi sacrifici, prendersi cura di un orfano appartenente alla stessa specie che li trattava come animali?

La risposta era tanto semplice quanto scontata: empatia.

Tanto per cominciare, un neonato per sua stessa natura è innocente per i crimini compiuti dai propri simili. Inoltre così vicini alla frontiera, in una terra tanto ricca quanto inospitale e pericolosa, i più saggi del gruppo avevano convenuto che tenermi con loro era a conti fatti l’unica soluzione per evitarmi una morte prematura che avrebbe pesato sulle loro coscienze.

O almeno, questo era ciò che ritenevo potesse essere stato il loro pensiero, perché frugando nei ricordi della mia infanzia non riuscivo a trovare una sola volta in cui, a precisa domanda, fosse seguita un altrettanto precisa risposta.

Ovviamente non mi avevano fatto firmare una cambiale in bianco. In base ad un qualche accordo stabilito nell’istante in cui avevano accettato di tenermi con loro sarei potuto restare nel ghetto solo fino al compimento dei sedici anni, passati i quali avrei dovuto andarmene per non fare più ritorno.

Era anche per quello che ora si stavano dannando tanto per mandarmi a scuola, al punto da avermi creato una finta identità per permettermi di frequentare il villaggio e farmi degli amici: dovevo acquisire le competenze e conoscenze necessarie a crearmi una vita e un avvenire fuori da Ende.

Mentre mi avviavo con circospezione alla baracca dietro la nostra casa potevo scorgere in lontananza i mostri già allineati di fronte all’ingresso in silenziosa attesa dei sorveglianti che li avrebbero condotti ai campi di lavoro.

Non c’erano ceppi, né corde, né altre costrizioni di sorta. Ogni schiavo portava dentro di sé la propria catena, nella forma di una piccola pietra magica che veniva inserita alla base del collo, e tramite la quale era possibile per qualunque guardia infliggere ogni sorta di dolore con il semplice movimento di un dito.

Perché sì, in quel mondo esisteva anche la magia. E non parlo di quelle cose da ciarlatani e venditori di fumo del mio vecchio mondo, ma di vera magia.

Ancora non capivo bene come funzionasse o cosa fosse esattamente, ed era anche per questo che amavo frequentare la scuola; qualsiasi informazione avessi incamerato su quel mondo e sulle sue regole mi sarebbe stata molto utile per capire come assolvere all’incarico che mi era stato assegnato.

Ma i minuti passavano, e io ero già in tremendo ritardo.

Il tunnel che partendo dall’interno della baracca arrivava fino ad una piccola baita poco distante nel cuore della foresta esisteva già da diversi anni, e serviva principalmente per rifornire segretamente gli schiavi di derrate alimentari in aggiunta a quelle fornite dalle guardie.

Nella baita in questione viveva un satiro, Drufo, che per quanto ne sapevano all’esterno era solo lo schiavo di un tale signor Jacob Haselworth, che per inciso ufficialmente era anche mio zio e tutore legale.

Ovviamente si trattava di una creatura fatta d’aria, più finta di una moneta da tre goldie, comparsa evanescente di una recita che solo in un posto così mal gestito e lontano dalla capitale poteva sopravvivere alla rigida burocrazia imperiale.

«Finalmente, si può sapere dove ti eri cacciato?» bofonchiò quel brontolone aprendomi la botola che stava sotto la sua branda

«Scusa Drufo, ho dormito troppo.»

«E allora sbrigati a levarti di torno. Sono stato a caccia tutta la notte, e ora a dormire voglio andarci io.»

Senza perdermi in ulteriori discussioni uscii di casa e mi misi a correre lungo la strada sterrata, raggiungendo in pochi minuti il sentiero che scendendo a valle mi condusse fino alle porte di Dundee.

Per essere solo una piccola cittadina Dundee era dotata di un sistema difensivo di tutto rispetto, con mura turrite, doppie porte, e una fortezza della legione sul colle appena più a sud.

Tutti retaggi dei cento e più anni di tensioni con la vicina Unione, e il fatto stesso che ormai le torri fossero deserte, la fortezza pressoché abbandonata, e a sorvegliare le porte ci fossero solo un paio di guardie cittadine annoiate testimoniava che quei tempi sopravvivevano ormai solo nella memoria dei più anziani.

«Buongiorno Daemon.» mi disse una bella bimba con occhiali e una lunga treccia appena entrai in classe

«Buongiorno Mary.»

«Dormito troppo? Mi stavo quasi abituando alla tua nuova puntualità.»

«Mi dispiace. Ho studiato fino a mezzanotte, e stamattina lo zio ha dovuto strillare parecchio per riuscire a farmi svegliare.»

«Tu che studi fino a tardi?» disse la rossa Giselle dal banco accanto al mio. «Non ci crederei neanche se lo vedessi.»

«Credici invece.» gli fece eco Septimus dal fondo dell’aula. «Ormai Daemon è diventato un bravo scolaretto modello. Pensa che non viene nemmeno più a tirare palle di fango su quei porci di miliziani.»

«Finitela, e prendete esempio da lui.» li ammonì Mary. «Daemon, che ne dici se oggi andiamo insieme in biblioteca?»

«Volentieri.»

«Che storia è questa? Mi avevi promesso che oggi ci saremmo allenati insieme!»

«Scusa Septimus, ma ho ancora parecchie materie da recuperare.»

«Puoi sempre allenarti con me.» gli sibilò Giselle con occhi da lince

«Fossi matto! L’ultima volta mi hai quasi slogato una spalla! Ma come fai ad essere così forte?»

«Sono pur sempre la figlia di un locandiere.»

In realtà il motivo era un altro, ma non stava a me rivelarlo; e poi quei due se la intendevano così bene che non mi andava di mettere il becco nei loro bisticci da mocciosi.

«In piedi!» ordinò Mary appena il maestro si palesò in classe.

Come al solito la prima ora fu dedicata alla lezione di storia, dalla quale mi chiamai subito fuori. Ormai tutti quegli sproloqui sulle Guerre Sacre, la gloriosa resistenza del grande Impero, le Sette Nazioni e tutto il resto li sapevo a memoria, e a giudicare dalle facce dei miei compagni valeva lo stesso anche per loro.

La mia attenzione fu ben presto catturata da quanto stava accadendo oltre le finestre, nel piazzale antistante la scuola, dove il mercato settimanale era in pieno svolgimento.

Malgrado le finestre chiuse si poteva sentire il vocione del banditore che cercava di spingere il più possibile al rialzo il valore della merce, spacciando sassolini per diamanti come il peggior imbonitore.

«Centodieci! Siamo a centodieci, nessuno offre di più? Avanti signori, guardate questo magnifico orco! Forte come dieci uomini, può sollevare due tronchi con un braccio e un covone di fieno con un solo dito!»

Ma per favore, quello di tronchi è già tanto se ne solleva uno. E guarda che occhi sprezzanti. Scommetto che è un piantagrane.

«Mi voglio rovinare! Se superiamo i duecento, con soli cinquanta goldie in più vi portate via anche questa dolcissima gattina! Guardate che denti, e che visino dolce! Sarà il perfetto animale da compagnia per i vostri figli, e una volta cresciuta… ci siamo capiti, vero?»

Peccato che il mese prossimo entrerà in vigore il nuovo editto imperiale che raddoppia le decime per il possesso di schiavi al di sotto dei sei anni. Altrimenti perché avresti tanta fretta di liberartene?

Come già fatto altre volte mi misi a trascrivere i risultati delle varie assegnazioni, arrivando a calcolare l’utile netto dell’asta molto prima che lo facesse il banditore.

Detraendo il mantenimento, il trasporto, le tasse e le tangenti per le guardie, siamo a circa duemilasettecento goldie. Proprio come pensavo.

Era evidente che ormai da tempo l’Impero produceva più schiavi di quanti non ne avesse effettivamente bisogno, e dal momento che era già la terza settimana di fila che l’asta degli schiavi andava al ribasso era evidente che la manodopera stava iniziando a sovrabbondare perfino nell’Eirinn Occidentale, dove tra miniere, segherie e latifondi agricoli i lavoratori tecnicamente non bastavano mai.

Oltretutto la schiavitù era una lama a doppio taglio. Nell’immediato o in situazioni di carenza di manodopera era sicuramente utile, ma nel lungo periodo produceva solo disoccupazione e malcontento nella popolazione libera. E questo senza contare che gli schiavi stessi se spinti al limite potevano diventare un problema non indifferente, come avevo avuto modo di sperimentare io stesso ad Haiti.

Un gessetto mi arrivò sulla fronte con la forza di un proiettile.

«Haselworth, se la mia lezione non è di tuo gradimento c’è sempre il corridoio!»

«Vogliate scusarmi maestro.»

Con la mira che ti ritrovi avresti fatto un figurone nella mia guardia, razza di vecchiaccio.

 

Come promesso finita la lezione io e Mary ci portammo nella biblioteca, situata in un’ala del palazzo del municipio.

Anche nella mia precedente vita mi ero sempre trovato a mio agio tra i libri, ed ero stato particolarmente felice di constatare che in quel mondo c’erano molte cose da imparare.

I miei volumi preferiti erano quelli di magia e alchimia, che leggevo in modo quasi morboso.

Mi era capitato di assistere ad alcune dimostrazioni di arte magica eseguite dai sacerdoti del piccolo tempio locale, e un po’ mi dispiaceva di non essere rinato con il segno di Gaia necessario a praticarla.

Per quanto riguardava l’alchimia invece, mi ero accorto ben presto che con le dovute eccezioni non era altro che un altro modo di intendere la chimica; cambiavano alcuni fattori e c’erano più elementi da tenere in considerazione, ma una volta presa confidenza mi stava venendo molto facile assimilarne i concetti.

Mary invece aveva una vera predilezione per la matematica, e forse era per questo che ancora prima del risveglio dei miei ricordi mi ero sempre trovato così bene a passare del tempo con lei: avevamo parecchi interessi in comune.

Studiammo insieme fin quasi al tramonto, e il custode dovette letteralmente buttarci fuori perché ci decidessimo a prendere entrambi la via di casa.

«Senti, pensavo…» mi disse, tutta rossa in volto, e tenendo gli occhi bassi «Forse potrei accompagnarti a casa. A quest’ora la foresta può essere pericolosa, e poi…»

«Sarebbe bello, ma lo zio non approverebbe. Ti ho già spiegato quanto possa essere burbero.»

«Quasi mi dispiace che tu sia costretto a vivere con una persona tanto problematica.»

«Ormai ci ho fatto l’abitudine. E poi mi ha accolto dopo la morte dei miei genitori, quindi non può essere tanto cattivo in fin dei conti.»

«Forse hai ragione. Però, mi permetti di accompagnarti almeno fino ai cancelli?»

«Certamente.»

Lungo il tragitto la nostra attenzione venne catturata da un rullo di tamburi, e ignorando l’esortazione di Mary a tirare dritto seguii il suono fin nella piazza centrale del villaggio, dove una piccola folla era in procinto di assistere all’impiccagione di tre condannati.

«Nel nome di Sua Eccellenza Tiberio Longinus, governatore dell’Eirinn Occidentale!» lesse il Comandante Beek, comandante della milizia locale. «I qui presenti membri del gruppo dei Guerrieri di Eirinn sono stati accusati di cospirazione e di alto tradimento, e sono pertanto condannati ad essere appesi per il collo finché morte non sopraggiunga! Lunga vita a Sua Maestà!»

Un colpo alla panca da parte del boia e tutto era finito.

Tutti, inclusa Mary, distolsero lo sguardo. Ovviamente non io; avevo visto troppi morti e assistito a troppe esecuzioni per farmi impressionare da una cosa del genere.

«Daemon ora andiamo. Ti prego.»

«Sì, d’accordo.»

 

«Daemon! Ma insomma, perché non vieni più a trovare la tua adorata mammina che ti vuole tanto bene?»

Lori era stata la mia nutrice quando ero piccolo, ma si considerava a tutti gli effetti mia madre.

Come tutti i minotauri aveva essenzialmente tre cose che la facevano costantemente svettare nella massa: l’altezza vertiginosa, le corna bovine ai lati della testa e, soprattutto, quelle tette improponibili.

Sul serio, persino la donna più prosperosa che avevo conosciuto nella mia precedente vita faceva la figura di una sottodotata se paragonata a lei.

Sfortunatamente nel suo caso c’era anche una quarta cosa a renderla speciale, quella che avevo sempre trovato in assoluto la più insopportabile: il suo essere troppo, troppo… troppo emotiva!

Il momento peggiore era quando mi abbracciava, ovvero ad ogni possibile occasione, dimenticandosi che con la sua forza avrebbe potuto rompermi tutte le ossa.

«Lori, lasciami! Non sono più un bambino!» urlai cercando di trovare un appiglio in quella coppia di budini tremolanti

«Quanto sei permaloso. Sembra solo ieri che ti davo il latte e piangevi quando ti portavano via da me. Ma non puoi ridiventare piccolo? Ti ordino di ridiventare piccolo!»

Come se fosse stato possibile.

E poi un’infanzia con lei mi era bastata.

Casa sua era assieme alla nostra una delle poche ad avere un aspetto dignitoso, e andare a cena da lei voleva dire quasi sempre potersi concedere il lusso di un pasto come si deve.

Le guardie si assicuravano personalmente che le sue razioni fossero le più abbondanti, perché solo da un minotauro sano e ben pasciuto poteva sgorgare quel prelibato nettare bianco che solo i più ricchi potevano permettersi.

Stando alle sue stesse parole, uno dei motivi per il quale aveva accettato fin dal primo momento di adottarmi e farmi vivere con loro era che avrebbe finalmente potuto dare il suo latte a chi voleva lei.

Insomma, paragonare Lori alla mia precedente madre voleva dire paragonare il giorno alla notte.

Quella megera! Non solo non è venuta alla mia incoronazione, ma quando le ho chiesto di baciarmi l’anello imperiale mi ha rifilato un ceffone!

Ma nonostante tutto le avevo voluto bene, tanto quanto ne volevo a Lori: perché che uomo è quello che non ha il massimo rispetto per la propria madre?

Andavamo a cena da Lori più o meno una volta al mese, un giorno che Scalia in particolare bramava più del suo compleanno, perché era l’unica occasione in cui la sua insaziabile fame di drago potesse essere in qualche modo placata.

Ovviamente la cosa non si applicava a me: per me c’era sempre qualcosa di più.

Se altri avevano zuppa di miglio, latte annacquato o sidro, io avevo piccoli spezzatini di cervo, del pesce essiccato o una zuppa di carne e verdure. Non erano certo i pasti che consumava abitualmente un bambino anche solo del ceto medio, ma era grazie a questo se malgrado tutto ero riuscito a crescere in modo abbastanza decoroso. Al massimo ero un po’ più basso e asciutto della media, ma niente a cui non fossi abituato.

«Ho saputo che da qualche settimana a questa parte stai studiando molto e che i tuoi voti stanno migliorando sempre di più. La tua mamma è così fiera di te.»

«È giusto che sia così. State facendo tutti grandi sacrifici per me, il minimo che posso fare è ripagarli impegnandomi nello studio.»

«Ma sentilo.» disse Scalia «Parli quasi come un adulto. Se penso che fino a due mesi fa eri una perpetua fonte di guai, e di studiare non ne avevi la minima intenzione. Sembri quasi un’altra persona.»

«Diciamo che ho avuto un risveglio di coscienza. Però giacché ne stiamo parlando, forse potrei fare anche qualcosa d’altro oltre a studiare. Potrei imparare un mestiere, oppure aiutare Drufo nella caccia.»

«Ne abbiamo già parlato altre volte Daemon.» mi fermò mio padre «Per adesso devi pensare solo alla scuola. L’impegno che metti nello studio è una ricompensa più che sufficiente per i nostri sforzi. Dico bene Lori?»

«Benissimo! E poi se passassi altro tempo fuori di qui, quando avrei l’occasione di coccolare e viziare il mio adorato bambino? Con quegli occhi azzurri, e quelle guanciotte rosate. Fatti abbracciare!»

«Per favore Lori, non di nuovo.»

L’improvviso aprirsi della porta interruppe sul nascere quell’ennesima situazione imbarazzante, ma la mia gioia durò solo per il tempo che impiegai ad accorgermi dell’identità dei nuovi arrivati.

«Felice serata, mastro Zorech.» disse il grassissimo maiale, ingioiellato come un re, che guidava il trio.

«Buonasera, mastro Borg.» rispose mio padre, come se ogni sillaba di quella frase gli venisse a costare uno dei suoi denti aguzzi.

Per interminabili secondi, nessun’altro aprì bocca.

«Lori. Porta Scalia e Daemon a casa.»

«Ma, padre…»

«Niente ma, Scalia.»

Sulle prime fingemmo di obbedire, ma una volta fuori facemmo a gara per arrivare per primi dietro la casa e poter sbirciare ciò che accadeva all’interno dalle fessure tra le assi del muro.

Borg aveva preso il mio posto accomodandosi di fronte a Zorech, mentre il coboldo e la lucertola che gli facevano da guardaspalle seguitavano a stare in piedi accanto alla porta chiusa.

Sembrava che la situazione potesse cambiare da un momento all’altro, difficile dire in che direzione; da parte mia, non ricordavo di aver mai visto un’espressione più spaventosa negli occhi di mio padre.

«Gradite, mastro Zorech?» disse il maiale prendendo un cofanetto d’argento dal taschino del suo giaccone doppio petto.

Zorech non si mosse né accennò alcunché. Al che il maiale aprì la scatola, prendendone fuori un grosso sigaro e accendendolo con la candela appoggiata sul tavolo.

«Lukra. Con le migliori foglie essiccate di Torian. Potresti fumarne uno sul letto di morte dopo una vita intera da pezzente, e diventerebbe di colpo una vita ben spesa.»

«La mia risposta l’avete già avuta, mastro Borg. Non importa quante volte ritornerete, non cambierà.»

Borg non sembrò raccogliere la provocazione, e anzi piegò le labbra sottili in un sorrisetto compiaciuto.

«Devo dire che vi facevo molto più lungimirante. Il vostro piccolo business della caccia ha delle enormi potenzialità, delle quali voi stesso sembrate non rendervi conto. Ora come ora, quanto vi frutta? Sette, forse ottocento goldie d’oro all’anno? Con le vostre competenze e la mia esperienza, vi assicuro che potrebbe fruttare dieci volte tanto.»

«Non ho creato questa operazione per arricchirmi. Quel denaro serve per il mantenimento di Daemon, ed è frutto degli sforzi di tutta la comunità. Gli paghiamo la retta, i libri di scuola, e quel poco che riesco a mettere in più in tavola per lui. E quello che avanza finisce in un fondo che stiamo mettendo da parte per darglielo al suo sedicesimo compleanno, quando dovrà andarsene da Ende.»

«Appunto. E allora per quale motivo non valorizzarlo ancora di più? Io chiedo solo una piccolissima percentuale. Sapete com’è, i rischi.»

«Esattamente. I rischi. Noi ne stiamo correndo già troppi. E non ho intenzione di rimettere la nostra sorte e l’unica piccola fonte di introiti che abbiamo nelle mani di qualcuno che la userebbe solo per riempirsi le tasche a nostre spese, o che ancora peggio sarebbe pronto a sacrificarci se le cose dovessero mettersi male.»

Stavolta Borg sembrò accusare il colpo fissando in cagnesco il suo interlocutore, che tutto sembrava meno che intimorito.

«Voi pensate di conoscermi, mastro Borg. Ma anche io conosco voi, e la reputazione che vi precede. Potreste uscire da qui in qualsiasi momento. La verità è che con i vostri intrallazzi avete fatto arrabbiare le persone sbagliate, e vi siete fatto rinchiudere qui dentro perché è l’unico posto in cui i vostri nemici non possono raggiungervi. Chiunque viva qui ad Ende è sotto la mia responsabilità, e ciò include ovviamente anche voi e i vostri tagliagole. Ma se voi dite o fate qualsiasi cosa che possa mettere in pericolo la nostra comunità, a cominciare dalla mia famiglia, vi posso assicurare che ciò a cui siete sfuggito là fuori è niente rispetto a quello che passerete per causa mia. E ora, fuori da qui.»

I due guardaspalle avevano già infilato le mani all’interno dei mantelli, ma Borg, rientrato in possesso del proprio autocontrollo, fece loro un cenno. Quindi, quasi sorridendo, si alzò dal tavolo dirigendosi verso la porta.

«Ho sentito che hai combattuto con il Signore Oscuro a suo tempo. Sai quale fu il suo più grande errore? Si era fatto i nemici sbagliati.»

E detto questo se ne andò, seguito a ruota dai suoi uomini.

 

Quella notte la passai in bianco, e non certo perché Scalia si era addormentata un’altra volta avvinghiandosi a me come fossi stato il suo orsacchiotto.

Nella mia vita precedente ero solito dire che solo gli stolti scendono in battaglia con un piano in testa, e che nell’improvvisazione vi è la chiave per la vittoria.

Ebbene, quello era invece il classico caso in cui tale affermazione andava a farsi benedire.

Per questo mi ero preso tutto quel tempo per ambientarmi ed avere un’idea più o meno chiara della situazione che mi stava intorno.

E ora, dopo due mesi, potevo affermare con assoluta certezza che Faucheur era stato fin troppo ottimista nel descrivermi la situazione.

Altro che inferno, altro che orlo del baratro: non avevo idea di quale fosse la situazione altrove, ma quella provincia era una santabarbara con la miccia innescata.

C’erano tutte le premesse per un disastro: un governatore inviso e incompetente, una politica altamente repressiva, moti indipendentisti faticosamente sopiti a suon di esecuzioni, e come se non bastasse gli schiavi.

Di questo passo non vi era dubbio che probabilmente Erthea era destinata a crollare su sé stessa prima ancora dell’arrivo del Re dei Demoni.

Come fare dunque?

Di ritentare la scalata alle sfere del potere o dell’esercito dell’Impero come avevo fatto nella mia vecchia vita non se ne parlava neanche; potevano aver aperto le porte delle accademie militari e delle università alle donne, ma era fuori discussione che un orfano cresciuto in un tugurio di confine potesse aspirare a tanto. E comunque ci sarebbe voluto troppo tempo.

Provare ad aggirare l’ostacolo facendosi amico qualcuno di importante e spiegandogli la situazione? E che cosa dovrei dirgli? Che un tizio vestito di nero mi ha predetto l’arrivo di un’invasione da parte di un continente che nessuno ha neanche mai sentito nominare? Sarei preso per pazzo.

Anche la carriera ecclesiastica, con cui provare a smuovere le coscienze usando lo spauracchio della fede, non era una strada percorribile, essendo le alte sfere precluse a chiunque non fosse dotato di poteri magici. E inoltre non mi ci vedevo per niente nella parte del fanatico religioso che in nome di Gaia chiama alla santa crociata contro il Re dei Demoni.

Rimaneva solo l’opzione che fin dal primo momento non avevo voluto neanche prendere in considerazione: una rivoluzione.

La sola idea mi suscitava disgusto, ma dopo ore e giorni spesi a scervellarmi inutilmente non potevo fare altro che rassegnarmi.

Vista la situazione una cosa del genere era comunque destinata a succedere, tanto valeva prenderne le redini e tenerla entro limiti accettabili, evitando il ripetersi di quella follia collettiva alla quale avevo già assistito.

Non sarebbe stato facile, e di certo al momento non ero in condizione di poter fare la differenza.

Tanto per cominciare avevo ancora i miei ricordi e la mia esperienza bellica, ma non il corpo adatto a fare ciò che avevo in mente per lui.

Il primo passo sarebbe quindi stato quello di rafforzarmi fisicamente, ma una volta che fossi riuscito a vincere la reticenza di mio padre questo non sarebbe stato un grosso problema.

Ben più complicato sarebbe stato ottenere l’influenza e l’autorità necessarie a mettere in atto i miei propositi, ma a quello ci avrei pensato in un secondo momento.

Non mi sarei fermato. Né avrei esitato. Il destino mi aveva dato un’altra occasione per dimostrare all’universo ciò che potevo essere e quello che potevo fare, ed ero più determinato che mai a non sprecarla.

Giratomi verso la finestra vidi le due lune gemelle stagliarsi nel cielo buio, alle quali rivolsi il medesimo giuramento che avevo pronunciato solennemente il giorno in cui avevo messo piede a Brienne.

Cambierò il destino di questo mondo con le mie mani.

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!

Mi presento, mi chiamo Cj Spencer.

Frequento da anni EFP con il nickname di Carlos Olivera, ma ho creato questo secondo canale per dedicarlo interamente a questo progetto.

“Furansu Kōtei ga Isekai ni Tensei shi Maō to Tatakau!”, questo il titolo originale, rappresenta la mia prima avventura nel mondo delle light novel, e rappresenta la tappa finale di un lungo lavoro preparatorio che è passato attraverso vari rimaneggiamenti e  riscritture che hanno modificato profondamente sia i personaggi che lo svolgimento della vicenda.

Trattandosi del mio “esordio” in questo ambiente ne consegue che sono aperto ad ogni sorta di opinione, consiglio o critica che possa aiutarmi a migliorare.

Attualmente ho completato il primo volume, e sto lavorando alla stesura del secondo. Pubblicherò regolarmente un capitolo ogni 2 settimane, la domenica mattina, mentre le tempistiche relative all’attesa tra un volume all’altro ovviamente non posso dare garanzie, anche se cercherò ovviamente di non farvi aspettare troppo.

Ecco, e questo è quanto.

A presto!^_^

Cj Spencer

 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 - LA YETI ***


Le occasioni non si cercano,

si creano!

CAPITOLO 2

LA YETI

 

 

«Ehi, Daemon. È una mia impressione, o negli ultimi mesi ti stai applicando anche più di prima?»

«Dò questa idea?»

«Non sei scappato neanche durante la lezione di storia, il che è tutto un dire. È successo qualcosa?»

E che cosa dovrei dirti? Che ho letteralmente supplicato Drufo di insegnarmi qualcosa di caccia, e lui in cambio ha preteso che dedicassi allo studio tutto il resto del mio tempo?

«Per te deve essere una specie di tortura.»

«Sono cresciuto nei boschi, mi piace stare allaria aperta. Però ammetto che studiare ha i suoi vantaggi.»

La facevo tragica per apparire credibile, ma in verità andare a scuola non era certamente un peso.

Per fortuna che dal vecchio me avevo ereditato anche la propensione allo studio e allapprendimento.

«Lo sapevi? Se mescoli della radice di perinzia grattugiata a della polvere doro, porti tutto ad ebollizione e ci aggiungi allultimo della malvasia, ottieni un infuso che se bevuto ti protegge dagli incantesimi di fuoco.»

Sembravo proprio un piccolo saputello presuntuoso che amava mettersi in mostra, ma che potevo farci? Ero fatto così.

«Ora scusa, ma devo andare. A questora il negozio è sempre pieno di clienti.»

Septimus, che amavo vedere così verde di invidia per come noi due andassimo tanto daccordo, attese che fosse uscita dallaula prima di avvicinarsi al mio banco.

«Che cosa ci trovi in te non lo capirò mai.»

«Invidioso?»

«Ma scherzi. È solo una quattrocchi innamorata dei numeri. Non è certo il mio tipo.»

Mentiva sapendo di mentire, e la cosa mi faceva morire dal ridere.

«Ad ogni modo, lo sai quello che si dice in giro riguardo a Mary? Dicono che suo padre la picchi, e che spenda tutti i soldi del negozio in vino e carte.»

Era una storia vecchia che tutti conoscevano al villaggio. Da quando Doug Wallace era rimasto vedovo era annegato sempre più nella bottiglia, e ora non passava quasi giorno senza che scatenasse risse nella locanda del padre di Giselle o alzasse le mani su Mary.

Purtroppo come tutti i luoghi di frontiera anche Dundee era quel genere di posto dove ognuno si faceva i fatti propri, e complice il fatto che Mary era troppo testarda o troppo spaventata per chiedere aiuto a qualcuno la situazione rimaneva immutata.

Per ora non potevo farci niente, ma anche quella era una cosa a cui avrei potuto provare a porre rimedio se fossi diventato abbastanza forte o importante.

«Ora vado. Sono in ritardo per la mia lezione di caccia.»

 

Se volevo dare vita alla mia visione dovevo migliorare lì dove ero sempre stato carente, o dove ora mi rendevo conto di avere sbagliato.

Ma prima di tutto dovevo fortificarmi, e imparare un mestiere che potesse essermi utile e nel contempo aprirmi le porte giuste. E visto che nelle legioni un orfano non avrebbe avuto possibilità reali di carriera e che la milizia era solo una manica di illetterati bifolchi, la professione di cacciatore mi era sembrata lunica opzione percorribile.

E poi almeno in questambito non partivo sicuramente da zero.

Per mia fortuna tirare larco non era molto diverso dallo sparare con un cannone o un moschetto; bastavano un po di inventiva, qualche nozione di fisica, e la freccia puntava dritta al suo obiettivo, senza mancarlo e soprattutto senza fare rumore.

In poche settimane avevo imparato a costruire, incordare e mantenere un arco, a fabbricare e piazzare trappole, a seguire le tracce e a muovermi per la foresta silenzioso come un lupo. Sapevo distinguere le prede ambite da quelle di scarsa qualità o individuare a colpo docchio il bersaglio giusto in mezzo ad unintera mandria.

E poi tirare con larco, scuoiare e trasportare le prede, muoversi nei boschi e arrampicarsi sugli alberi erano modi molto efficaci per fare muscoli e migliorare la mia già considerevole agilità.

Giustificavo le lunghe assenze da casa dicendo che passavo il tempo alla baita a studiare e fare i compiti, ma ero abbastanza sicuro che Scalia e Zorech sospettassero qualcosa.

Quello era il giorno del mio esame finale. Se fossi tornato entro il tramonto con quattro lepri o due volpi, dora in poi avrei potuto andare a caccia da solo e gestire da me i proventi del mio lavoro.

A metà pomeriggio avevo già portato a termine il compito affidatomi, ma incapace di contenere il mio brutto vizio di volermi sempre mettere in mostra avevo scelto di restare nei paraggi e accrescere il mio bottino di prede.

Uno degli allarmi sonori che avevo piazzato in giro per aiutarmi a individuare le prede si mise a tintinnare mentre me ne stavo appollaiato su di un ramo, seguito subito dopo da un gran fracasso ed ingiurie irripetibili.

Incuriosito andai a vedere, ritrovandomi di fronte ad una scena a metà tra il comico e il grottesco. Ai piedi dellalbero su cui mi ero arrampicato stava una grossa lucertola in abito scuro completamente avvolta dal filo della trappola, che più tentava di liberarsi e più rimaneva avvinghiata.

«Luda, brutto imbecille!» lo rimproverò il coboldo suo amico tagliando lo spago. «Ti pare il caso di fare tanto chiasso?»

«Non è colpa mia, Rust.» replicò la lucertola. «Vorrei tanto sapere chi si diverte a mettere fili e campane in mezzo alla foresta.»

«Sono trappole da cacciatori, idiota. Deve essercene uno nei dintorni.»

Al che entrambi si guardarono attorno, ignari del fatto che mi trovassi proprio sopra le loro teste.

«Ma il capo non ha detto che gli umani non si spingono fin quassù?» disse ancora Luda

«Di sicuro si tratta di quel caprone.» quindi Rust passò il pugnale al suo compare. «Trovalo e fallo tacere. Io vado al nascondiglio.»

«Il capo vuole mettere le mani sullaffare della caccia. Sicuro possiamo permetterci di farlo?»

«È chiaro che il vecchio drago non vuole collaborare. Lo avremmo fatto comunque. E poi, questo affare è mille volte più redditizio. Vuoi spiegarlo tu al capo che il nascondiglio potrebbe essere compromesso?»

Al che i due si separarono, con la lucertola che si allontanò in una direzione e il coboldo che, sistematosi meglio in spalla la sacca che aveva appresso, proseguì nellaltra.

Quanto a me, listinto mi diceva di girare i tacchi e andarmene per la mia strada.

Ma ormai, devo ammetterlo, il mio giudizio stava iniziando a risentire delle esperienze che avevo vissuto fino a quel momento come Daemon Haselworth, e alla fine spinto dalla curiosità che solo un bambino incosciente e troppo sicuro di sé poteva avere mi misi alle calcagna di Rust.

Seguii le sue tracce fin dentro ad una grotta nel cuore della foresta, con lingresso ben nascosto da alcune frasche e rami tagliati.

Non dovetti che fare pochi passi allinterno per capire che si trattava del magazzino segreto del maiale, una specie di stanza del tesoro traboccante di merci esotiche di ogni genere, dalle spezie ai tessuti, fino alle armi e a tutte le monete e valute conosciute.

Linterno era più grande di quanto mi sarei aspettato, e a causa delleco quando udii la voce di Rust mi rimbombò così vicina che per poco non mi venne un infarto.

«Anche stavolta non hai mangiato? Sarà meglio per te che la prossima volta che ritorno tu abbia finito tutto, o farai i conti con il capo.»

Commisi limprudenza di seguire il suono della voce in una camera secondaria, scorgendo Rust rivolto di spalle e intento a parlare con qualcuno ai propri piedi che non riuscivo a distinguere.

Ero così preso ad osservare ciò che avevo davanti da dimenticare di guardarmi le spalle; e nello stesso momento in cui riuscivo a percepire una presenza dietro di me qualcosa mi colpì con violenza alla base del collo spedendomi dritto nel mondo dei sogni.

 

Non so quanto tempo rimasi svenuto.

So solo che quando ripresi i sensi ero a terra, legato come un salame nella stessa stanza in cui avevo sbirciato.

Dallaltro lato rispetto a me, raggomitolata su sé stessa e incatenata alla parete, cera una bimba forse della mia stessa età, o anche più piccola, i capelli candidi come la neve, il naso piccolo e rotondo, orecchie ursine e una folta pelliccia su gambe e braccia.

Nei suoi occhi, grandi e azzurri, solo paura.

«Sei uno yeti. Come ti chiami? Cosa è successo?»

Lei non rispose, restando a fissarmi tutta tremante.

«Dobbiamo andarcene di qui.»

Tentai di liberarmi, ma quei maledetti ci avevano messo davvero impegno a fare quei nodi, e come se non bastasse un improvviso eco di passi mi costrinse a calarmi nuovamente nei panni della vittima inerme.

«Io lavevo capito subito.» disse Borg. «Avevo capito subito che saresti stato una bella seccatura, ragazzino.»

«Cosa avete fatto a Drufo

«A differenza tua, sa rendersi invisibile. Ma non può restarlo per sempre. I miei uomini stanno battendo la foresta, e altri sorvegliano la sua casa. Prima o dopo salterà fuori.»

Borg quindi si avvicinò afferrandomi per il mento e fissandomi dritto in volto; difficile dire se trovassi più nauseante il suo puzzo da maiale o i profumi che usava per nasconderlo.

«Ora che ti guardo bene, sei piuttosto in forma. Nessuno penserebbe che sei cresciuto in mezzo a un mucchio di mostri lerciosi

«Di sicuro sono infinitamente migliori di te, lurido maiale!»

Mi pentii subito di quellaffermazione. A quel porco bastarono due dita per serrarmi la gola, stringendo quel tanto che fosse necessario per rendere ogni mio respiro un rantolo agonizzante.

«La senti? Quella sensazione che stai provando? Si chiama paura. Mi basterebbe un gesto del pollice per spezzarti questo piccolo, fragile collo.»

Avevo passato tutta la mia precedente vita a cercare di mascherare le mie debolezze, e anche se dentro di me sapevo che il suo scopo non era quello di uccidermi non posso negare che in quelloccasione ebbi davvero paura.

«Considerala una lezione. Una molto importante. Prima di parlare, pensa sempre a chi hai davanti.»

Per tutto il tempo la piccola yeti dallaltro lato della stanza era rimasta immobile, in silenzio e raggomitolata in una nicchia, incapace di distogliere lo sguardo.

«Cosa facciamo ora, capo?» domandò Rust. «Usiamo il moccioso per costringere il drago a collaborare?»

«Ci sono modi migliori per far fruttare merce inaspettata. Specie se è di prima qualità.»

«Io non sono merce. E non lo è neanche lei.»

«Se un cliente richiede qualcosa, quella cosa diventa automaticamente merce da vendere e comprare. Che si tratti di cibo, armi, o di un piccolo yeti delle montagne di Khoral, che per inciso può valere una fortuna per i collezionisti di mostri esotici. Che si tratti anche di un ragazzino umano. Tu piccolo non hai neanche idea di quante famiglie nobili della Volkova senza eredi siano disposte a pagare cifre spropositate per un bambino sotto i dieci anni, in salute e di bellaspetto.»

A quel punto il maiale si infilò in bocca il mozzicone estinto, masticandolo rumorosamente.

«Dovresti ringraziarmi. Di sicuro il posto in cui andrai a finire sarà infinitamente meglio di questo letamaio.» quindi si girò verso i suoi uomini. «Luda, tu resta qui e sorveglia il magazzino, e tu Rust unisciti agli altri cacciatori. Voglio la testa di quel caprone su un vassoio entro domattina.»

Pensava di avermi domato, ma si sbagliava di grosso. Appena se ne furono andati mi rimisi al lavoro, e anche se mi ci vollero parecchie ore di tentativi con il rischio di slogarmi i polsi alla fine riuscii ad allentare i nodi e a liberarmi.

Mentirei se dicessi di non aver considerato per un attimo lidea di lasciare Borg libero di fare quello che voleva con me; di sicuro come figlio di una famiglia nobile avrei avuto molte più possibilità di portare a termine la mia missione. Il problema è che cerano troppe variabili da tenere in conto, dal prestigio e possibilità della mia eventuale famiglia dadozione al tempo che sarebbe occorso per raggiungerla, e vista la situazione non era il caso di affidarsi alla mia proverbiale fortuna.

«Ecco fatto.»

Provai a cercare le chiavi del collare della yeti, ma non trovandole non ebbi altra scelta che rimediare uno scalpello e improvvisarmi scassinatore.

Quella poveretta mi guardava come se ritenesse impossibile che un umano potesse fare qualcosa di buono per lei, e probabilmente aveva ragione.

Nella mia vecchia vita quasi mai avevo fatto qualcosa che non prevedesse un guadagno personale, e non avevo alcuna intenzione di venire meno a questo fondamentale del buon governante.

Ma la cosa più indispensabile per chi aspira a percorrere la scala del potere è da sempre la lealtà, e la lealtà di uno yeti, per quanto giovane, poteva diventare un ottimo investimento per il futuro.

«Sapi

«Come?»

«Il mio nome. Sapi

Almeno stava iniziando a fidarsi, dando un senso a tutti i rischi che stavo correndo per cercare di aiutarla.

Alla fine bastarono pochi colpi per rompere quella vecchia serratura.

«E ora andiamocene da qui!»

Il problema restava Luda che montava la guardia alla caverna, ma quella lucertola era così stupida da fare un giro di controllo a intervalli regolari di trenta minuti, cosicché fu facilissimo sgusciargli accanto senza che se ne accorgesse.

Una volta fuori, e sempre tenendo per mano Sapi, corsi il più velocemente possibile verso la baita di Drufo, trovandola però come mi aspettavo sorvegliata dagli sgherri di Borg.

«Maledizione, così non possiamo neanche usare i tunnel per raggiungere il ghetto.»

Occorreva trovare unaltra soluzione.

Prima ancora di diventare imperatore di mezza Europa avevo fatto tutto il possibile per non contare sugli altri, convinto comero di poter risolvere anche le situazioni più impossibili confidando unicamente in me stesso e nelle mie capacità.

Ma quando ti ritrovi in situazioni di quel genere, per di più nel corpo di un bambino, arrivi a riconsiderare limportanza di avere qualcuno fidato a cui rivolgersi, realizzando nel contempo quanto sia stupido ostinarsi a voler fare da soli per eccessiva confidenza o per senso dorgoglio.

«Cè solo una persona che può aiutarci.»

 

In tutta la mia vita non avevo conosciuto altro che sofferenza.

Non ho mai saputo chi fosse mia madre, forse una schiava o la discendente di alcuni degli umani che avevano seguito il Signore Oscuro.

Come quasi tutti gli schiavi ero nata in una riserva, lì dove i mostri venivano selezionati e accoppiati come animali da riproduzione, ed era stato solo per un caso se ancora piccola almeno per i miei standard ero stata destinata allo stesso ghetto in cui era rinchiuso mio padre.

Anche se sei un drago sanguemisto che invecchia dieci volte più lentamente di un uomo nei ghetti sei obbligato a crescere in fretta.

«Sei solo una schiava!» mi aveva gridato la prima guardia che mi aveva punita «E tale resterai per tutta la vita!»

Ma io non ero come gli altri. Io lottavo.

Non ricordo più tutte le volte che sono stata punita, e anche se le pietre del servo non lasciano segni fisici il dolore e le ferite nellanimo non scompaiono mai.

La prima volta che mio padre mi aveva sorpresa a cercare di imparare a usare una spada mi aveva rimproverata severamente. Lui diceva che lodio degli umani nei nostri confronti non era del tutto ingiustificato, visto quello che avevano subito per causa nostra.

Io però non ero daccordo. Che colpa avevamo noi, che il Signore Oscuro non lavevamo neanche mai visto, per ciò che avevano fatto i nostri antenati cinquecento anni prima?

Tutti i giorni andavo alla segheria, o nei boschi a tagliare alberi, alla sera tornavo a casa stanca morta, e il giorno dopo si ricominciava.

Era così da centosessantanni, e dentro di me mi stavo convincendo che non sarebbe mai cambiato.

Poi, allimprovviso, un raggio di sole.

Papà e gli altri mi avevano quasi mangiata quella sera vedendomi arrivare al ghetto con Daemon tra le braccia un nome che avrei scelto io stessa ed era stata dura convincerli a tenerlo.

Mi sono domandata spesso perché una come me, che odiava gli umani con tutto il cuore, si fosse dannata tanto per salvarne uno. Semplicemente di fronte a quel fagottino abbandonato nella foresta non avevo capito più niente, come se avessi avuto una voce invisibile a sussurrarmi nellorecchio.

Inutile dire che Lori era stata la prima a darmi manforte convincendo tutti ad adottarlo, tanto quella muccona bruciava di istinto materno represso, e le nostre litigate per accaparrarci le sue attenzioni quando era piccolo erano diventate quasi uno spettacolo comico per i nostri compagni.

Ma non era stato facile, per niente.

Era già difficile riuscire a badare a noi stessi, figuriamoci dover crescere un bambino umano tenendolo nel mentre nascosto al resto del mondo.

Lidea di creare lalias del signor Haselworth era stata del vecchio Passe, un coboldo che ne sapeva sempre una più di tutti, mentre quella di ricavare soldi e provviste dalla caccia della lucertola Bombi, che ogni tanto non mancava di rubare qualcosa dalle cucine dei minatori per nutrire il suo adorato nipotino.

In tutto ciò mio padre, che non sembrava mai essersi del tutto convinto della decisione che io e gli altri avevamo preso, aveva sempre supervisionato ogni cosa con zelo intransigente, e anche se era troppo austero ed orgoglioso per ammetterlo era chiaro che anche lui ben presto si era affezionato a Daemon.

Purtroppo devo ammettere che allinizio Daemon non aveva fatto niente per dimostrare di meritare i sacrifici che stavamo facendo per lui.

Forse lo avevamo viziato troppo, forse era semplicemente il suo carattere, fatto sta che per lungo tempo lidea di impegnarsi e dare un senso alle nostre fatiche non laveva mai neanche sfiorato, e passava tutto il suo tempo a marinare la scuola, fare il matto nei boschi o combinare guai al villaggio coi suoi compagni.

Poi improvvisamente, quattro mesi prima, un cambio radicale, e da un momento allaltro ci era quasi sembrato di avere a che fare con unaltra persona, perfino troppo matura e responsabile per un bambino di dieci anni.

Un po mi dispiaceva non dovermi sempre preoccupare per i colpi di testa del mio fratellino umano, così come mi aveva un po intristito che di punto in bianco Daemon avesse iniziato a prediligere lo studio allallenamento con la spada, che ormai praticava solo per una manciata di ore alla settimana ma nella quale, per quale motivo, stava diventando inspiegabilmente sempre più bravo.

Sapevo per certo che mi stava nascondendo qualcosa, e questo mi rendeva pensierosa ed irritabile; e non era quello il genere di preoccupazione che volevo avere per lui.

A volte speravo che combinasse di nuovo qualche guaio, o facesse qualche marachella propria della sua età, per poterlo rimproverare e mettere in castigo come un tempo.

Non avessi mai avuto simili pensieri!

Era un pomeriggio come tanti altri, passato a spaccarmi la schiena alla segheria. La luce riflessa di uno specchietto mi arrivò in faccia sbucando dagli alberi, e da come si muoveva capii subito che doveva trattarsi di qualcosa di grave.

Con la solita scusa di andare a riempire gli orci al torrente mi mossi in quella direzione, convinta di dover rimediare alla prima mattata del mio adorabile fratellino dopo tanto tempo. E invece, Daemon mi si presentò davanti in compagnia di una piccola yeti, entrambi coperti di sporco, raccontandomi la più assurda e paradossale delle storie.

«Ma si può sapere che hai combinato razza dincosciente? E poi cosè questa storia che Drufo ti sta insegnando a cacciare? Aspetta solo che papà ti metta le mani addosso!»

«Alla punizione di nostro padre ci penserò dopo. Ora limportante è mettere Sapi al sicuro.»

In effetti avevo notato che dopo la pausa per il pranzo quasi tutte le guardie di Borg erano sparite costringendo chi era rimasto a sgobbare il doppio di prima; quel maiale era così ricco e potente da poter comprare dalle guardie persino lesenzione dal lavoro per chiunque volesse, e dal suo arrivo erano stati in tanti di noi a vendersi a lui come faccendieri in cambio di una vita un po meno miserabile.

Lunica cosa da fare era chiedere aiuto alla sola altra persona capace di mettere insieme un gruppo abbastanza numeroso con la stessa facilità, ma prima era necessario trovare un nascondiglio per quelle due piccole pesti.

«Ti ricordi il nostro castello?»

«Certamente.»

«Andate lì, restate nascosti e non fiatate, intanto io cercherò un modo per avvisare nostro padre. Verremo a prendervi e vi porteremo al ghetto.»

«Grazie Scalia. Ti devo un favore.»

«Aspetta a ringraziarmi. Fossi in te mi preparerei fin dora per una punizione coi fiocchi.»

Tornai quindi al mio posto, spendendo la mezzora successiva rimuginando in cerca di una soluzione.

Anche se quel giorno avevano messo quel vecchio fossile di Oldrick a sorvegliarci non potevo certo dire semplicemente che stavo male e volevo tornarmene a casa.

Mentre aiutavo Tarto a segare un grosso tronco ebbi lidea giusta, e ringraziando gli dei per la mia natura di drago al momento opportuno misi fulminea il braccio lungo il tragitto della lama.

Vorrei dire che quello che feci dopo fu tutta scena, ma anche se il mio potere di guarigione accelerata mi permetteva di riprendermi anche da una ferita come quella il dolore che provai fu qualcosa di atroce, e le grida che lanciai per attirare lattenzione tutto fuorché finte.

«Ma sei impazzita? Perché hai messo la mano in quel modo?»

«Te lo spiego dopo, tu reggimi il gioco.»

Oldrick arrivò quasi subito con un paio di altre guardie.

«Che è successo?»

«Un incidente Capitano.» disse Tarto, che poveretto era così cotto di me che avrebbe fatto qualunque cosa gli avessi chiesto. «Ha messo la mano nel punto sbagliato e»

Chiamarono il cerusico, che a parte applicarmi una fasciatura non poté fare altro che riconoscere linevitabile.

«Visto che è un drago non rischia la vita, e presto la ferita inizierà a rimarginarsi. Per oggi però non può più lavorare.»

«Allora non cè niente da fare. Qualcuno di voi la prenda e la porti al ghetto.»

«No Capitano, non ce nè bisogno. Posso tornare da sola.»

«Non fare scherzi. Se vengo a sapere che sei andata altrove passerai un brutto quarto dora. Quanto a voi rimettetevi al lavoro. Dovrete lavorare anche per lei.»

Per quando riuscii a rimettermi in piedi e avviarmi verso il ghetto avevo già perso talmente tanto sangue che la testa mi girava come una trottola, e a stento riuscivo a camminare dritta.

Daemon, accidenti a te. Giuro che questa te la faccio pagare.

Non avevo fatto neanche metà strada che allimprovviso unorda di energumeni sbucò fuori dal nulla, circondandomi mentre percorrevo una zona di foresta poco battuta.

«Buongiorno signorina Scalia.» grugnì una insopportabile voce di porcello alle mie spalle «Di ritorno presto dal lavoro?»

«Buondì, Mastro Zorech. Mi sembrava di riconoscere una puzza familiare.»

Sapevo che provocarlo era pericoloso, specialmente nelle mie attuali condizioni, ma mio padre lo diceva sempre che avevo la lingua più velenosa di quella di una serpe.

«Sto cercando il vostro bastardino umano. E sono sicuro che voi sappiate dove posso trovarlo.»

«Perché, di grazia?»

«Si è impossessato indebitamente di una mia proprietà. Merce preziosa, commissionatami direttamente da un funzionario molto vicino alla famiglia reale di Patria. E ora, gradirei riaverla indietro.»

«Ti sei fatto rubare la merce da un bambino? Complimenti, bel trafficante che sei.»

In altri tempi quel maiale avrebbe raccolto la provocazione senza scomporsi, ma stavolta si vedeva che non aveva nessuna voglia di scherzare.

«Beh, mi spiace per te, ma non ho idea di dove sia Daemon.»

«Ne siete proprio sicura?»

«Assolutamente. E comunque, al tuo posto non mi preoccuperei troppo per quellaffare. Di umani pazzi che amano collezionare mostri ce ne sono quanti ne vuoi là fuori.»

Mi accorsi di avere detto più di quello che avrei dovuto prima ancora di veder comparire quellinsopportabile sorriso sdentato, e avrei tanto voluto staccarmi la lingua a morsi.

«Strano. Non ricordo di aver mai detto che la merce in questione fosse un mostro.»

Ad un suo cenno i suoi uomini mi saltarono addosso tutti insieme; se fossi stata nel pieno delle mie forze ne avrei fatto scempio in pochi secondi, ma mezza dissanguata comero riuscii a stenderne solo due prima che tutti gli altri riuscissero a bloccarmi a terra a pancia in giù.

«Lasciatemi, maledetti!»

«Mi dispiace che sia andata a finire così signorina Scalia. Ho grande rispetto per voi e vostro padre.»

«Va allinferno, sporco maiale!»

Il pollice che uno dei suoi sgherri mi infilò nella ferita per poco non mi fece perdere i sensi dal dolore, ma ero più determinata che mai a non dargliela vinta.

«Nel commercio gli accordi sono sacri. Non posso venire meno ad un accordo, o la mia reputazione ne soffrirebbe enormemente. E la reputazione di un mercante è tutto per lui. Quindi, ora mi direte dove si trovano quei due mocciosi.»

«Fai del tuo peggio, maledetto. Ce ne vorrà prima che tu riesca a farmi parlare, e per allora mio padre ti avrà già staccato la testa.»

«Ne dubito. I miei ragazzi sanno essere molto creativi quando si tratta di spezzare la resistenza anche dei più testardi. Ma sfortunatamente, non abbiamo tempo da perdere con le finezze estetiche.»

Un attimo dopo un fazzoletto impregnato di uno strano olio profumato mi venne ficcato con forza sulla faccia, e nel giro di pochi secondi mi sentii sopraffare da una tremenda stanchezza, mentre una voce impossibile da ignorare mi rimbombava direttamente nella testa.

«La verità è che ci sono metodi molto più efficaci per costringere qualcuno a collaborare.»

 

Il castello non era altro che un rudere di pietra perso nel cuore della foresta, divorato dai rampicanti e con il tetto sfondato, introvabile per chiunque non sapesse dove cercarlo.

Scalia lo aveva scoperto quando da piccola le permettevano ancora di girare liberamente attorno al ghetto, ed era anche il posto in cui mi aveva trovato appena nato una sera al rientro dal lavoro.

Da bravo maschietto avevo voluto trasformarlo in una fortezza vera e propria, coprendo di sassi e rocce porte e finestre e costruendo una scala di liane per entrare o uscire passando sopra il muro. Vi portavo anche delle provviste, lasciate a penzolare da una rete a due metri da terra al sicuro dagli animali.

Durante le due ore che passammo lì Sapi non disse una parola, restandosene seduta in un angolo con gli occhi bassi e rigirandosi tra le mani i biscotti che le avevo offerto per calmare i morsi della fame, mentre io ammazzavo il tempo esercitandomi a colpire al volo le foglie cadenti con un coltello da lancio che avevo rimediato nella grotta.

Io la osservavo restando a distanza, indeciso sul da farsi.

Da una parte ero consapevole che ormai non era più possibile tornare indietro; anche se mi ripetevo di averla salvata al solo scopo di conquistarmi la sua fiducia e poter così contare su di lei al momento opportuno, era chiaro che il bambino che era in me mi aveva spinto ad agire in maniera impulsiva, e ora non avevo idea di come venire fuori da quella situazione.

Se volevo portare a termine il mio compito non potevo più permettermi simili colpi di testa. Ma ormai la frittata era fatta, quindi tanto valeva sfruttare la situazione e cavarne fuori qualcosa di buono.

«Tranquilla, siamo al sicuro. A parte io e Scalia, nessun altro conosce questo posto.»

La piccola yeti sembrava ancor più confusa e spaventata di quando si trovava incatenata in quella caverna, e mi guardava come se non avesse ancora ben chiaro chi aveva davanti.

«Tu sei un umano?»

«Beh, suppongo di sì.» risposi con finta modestia

«Però la tua amica lei è una di noi»

«Scalia è più di unamica. Lei e Zorech sono la mia famiglia. Mi ha trovato lei quando ero appena nato, sai? Proprio qui, davanti a questa casa. Mi ha portato a Ende, e lì sono cresciuto. Ma mi raccomando, tu non dirlo a nessuno. È un segreto.»

«Ma gli umani ci odiano. Hanno distrutto il mio villaggio. Ucciso tutti i miei amici. I miei genitori. E hanno preso me.»

Era una storia che conoscevo bene.

Anche se quasi ovunque i mostri erano stati completamente sottomessi già dopo la fine delle Guerre Sacre esistevano ancora comunità e piccoli villaggi che sopravvivevano nelle zone più impervie e inospitali di Erthea, e i cacciatori di schiavi ci andavano a nozze.

«Ce lhanno spiegato a scuola. Le Guerre Sacre. I mostri che hanno combattuto per il Signore Oscuro. Mio padre dice che i mostri hanno fatto molte cose terribili allora, e che è naturale che oggi gli umani siano arrabbiati. Però, secondo me non è giusto.»

Sapi pareva non riuscire a credere alle proprie orecchie; sicuramente i suoi genitori le avevano raccontato chissà quali cose sul conto degli umani, quindi doveva sembrarle impossibile che ora uno di loro si stesse preoccupando tanto per lei.

«Quasi tutti i mostri che vivono a Ende non erano nemmeno nati quando è finita la guerra. Quindi, che colpa ne hanno loro? Così mi sono promesso che un giorno, quando sarò grande, farò qualcosa per far sì che tutto questo finisca.»

Qualcuno avrebbe trovato poco etico servirsi di parole melliflue per circuire una bambina spaventata; per quanto mi riguardava si trattava di prendere unanima smarrita e senza più niente e nessuno su cui contare e darle qualcosa di nuovo in cui credere.

Daltronde chi meglio di qualcuno alla disperata ricerca di un amico può dimostrarsi, se opportunamente stimolato, il più affidabile dei seguaci?

E io non avevo né tempo né voglia di perdermi dietro a dilemmi morali.

Un rumore di foglie calpestate ci fece entrambi scattare sullattenti.

«Daemon, sono io.»

«Scalia.»

«Va tutto bene. Ora sono qui. Ma ho una mano ferita.»

«Non cè problema, adesso esco io.»

Quindi, dopo aver istruito Sapi ad aspettarmi, uscii allesterno.

Scalia mi aspettava poco distante, ai piedi di una grande quercia.

«Cominciavo a preoccuparmi. Cosa è successo al tuo braccio?»

Purtroppo fu solo quando le fui vicino, troppo vicino, che mi accorsi della sua espressione assente e dellassenza di luce nei suoi occhi, vuoti come quelli di una bambola, ma ancora capaci di piangere.

«Mi dispiace, Daemon.»

Gli sgherri di Borg saltarono fuori come lupi in agguato tra gli alberi, e mentre Rust afferrava Scalia tenendola immobile tutti gli altri mi circondarono, pronti a saltarmi addosso.

Il maiale apparve per ultimo, tronfio e sorridente come mai prima.

«Bellinseguimento, moccioso. Ma ora siamo giunti alla resa dei conti.»

Stupido! Stupido!

Come potevo aver commesso una leggerezza simile?

«Che cosavete fatto a mia sorella?»

«Era poco collaborativa, così le abbiamo dato un piccolo incentivo.»

Interessante. Quindi anche in questo mondo esistono droghe e sieri in grado di annullare il raziocinio e spingere allobbedienza.

Mi facevo quasi paura da solo: anche in una situazione del genere il mio cervello non smetteva di recepire e catalogare ogni informazione potenzialmente utile.

«Lo sai, sono parecchio arrabbiato. Mi hai fatto correre per questa dannata foresta più di quanto sia disposto a fare, e io ormai non ho più letà per certe cose.»

Nel mentre un altro dei suoi uomini si era aperto la strada nel rudere ed aveva messo le mani su Sapi, e le sue grida non facevano altro che rendere la situazione ancor più tesa e insopportabile.

Mi ero ripromesso solo pochi minuti prima di non agire mai più dimpulso, ma feci lunica cosa che mi venne in mente in quel momento.

Alzai il coltello puntandolo verso Borg, ritrovandomi quasi subito almeno cinque balestre rivolte contro.

«Nessuno deve farsi male ragazzino.»

«Sono daccordo. Quindi ora lascia andare Sapi e mia sorella, e tutto finisce qui.»

«Che cosa vorresti fare? Colpirmi?»

«Se sarà necessario.»

«Saresti morto prima ancora di poter lanciare quel coltello.»

«Forse. Sei disposto a correre il rischio?»

Con tipi del genere limportante è mostrarsi determinati, ma la verità era che ci trovavamo in una situazione di stallo dalla quale non avevo alcuna idea di come uscire.

Ma evidentemente la buona sorte non aveva mai smesso di camminarmi accanto.

Una freccia sbucata dal nulla centrò Rust alla mano liberando Scalia, che ritornata in sé al momento giusto si liberò con una tallonata alle parti basse del coboldo e corse verso di me dopo avergli sottratto lascia.

Drufo aveva calcolato che prendersi una lavata di capo per avermi addestrato in segreto era sicuramente meglio di dover rendere conto della mia morte, quindi appena accortosi della situazione era immediatamente tornato al ghetto per chiedere aiuto.

E laiuto era arrivato.

Solo quando vidi sbucare da dietro il colle Zorech, Passe, la tartaruga Taren, il garuda Eilon e tutti gli altri, armati con quello che avevano trovato, mi resi conto di quanto dovessero tenere a me e alla mia sicurezza.

E, lo ammetto, la cosa mi colpì.

Contemporaneamente, il gorilla che teneva prigioniera Sapi si sentì picchettare su di una spalla.

«Non ti ha mai detto nessuno che i bambini non si toccano?» disse Lori prima di stenderlo con un singolo pugno.

Alla vista della sua preziosa merce che gli scivolava via dalle mani, Borg semplicemente perse il controllo.

«Uccideteli tutti!»

Quella che scoppiò ad alcuni sarebbe potuta sembrare una battaglia, ma ai miei occhi non era altro che una rissa tra primati.

Ma cera del potenziale.

Un mostro nella peggiore delle ipotesi valeva una volta e mezza un soldato di buona costituzione, e anche se i loro corpi portavano i segni di una vita di privazioni la forza non faceva difetto a nessuno di loro.

Oltretutto, a distanza di cinquecento anni molti di loro sapevano ancora menare le mani, e con un buon addestramento e la giusta disciplina potevano rivelarsi ottimi soldati.

Non avevo mai assistito prima dora ad uno scontro tra mostri, perciò mi presi un paio di minuti per osservarli bene e farmi qualche appunto mentale. Quindi, decisi che era meglio intervenire; in fin dei conti era il mio futuro esercito quello che ora si stava scannando senza ragione in quel campo.

«Smettetela subito!» urlai, venendo immediatamente obbedito.

Certe cose non cambiano mai, non importa in quale mondo ci si trovi. Usa il giusto tono e la giusta autorità nel parlare, e anche un bambino potrà farsi obbedire da un adulto.

E io avevo speso tutta una vita ad affinare larte del discorso e della parola; farmi ascoltare e domare le coscienze con le parole ormai mi veniva naturale come respirare.

Ma un conto era farsi ascoltare, un altro farsi obbedire o fare accettare le proprie idee.

Tutto sta a cominciare con la giusta enfasi, e una frase ad effetto è sempre il miglior modo per aprire una conversazione.

«Non bastano gli umani che vi uccidono e vi schiavizzano da secoli? Ora vi ammazzate pure tra di voi?»

Facevo finta di dimenticarmi che era soprattutto per colpa mia se si era arrivati a quella carneficina, ma daltronde saper portare la conversazione sui binari giusti è virtù del bravo oratore.

Nel frattempo poi mi era venuta in mente lidea giusta per cavarci tutti dimpaccio senza dover versare altro sangue. Ostentando sicurezza, e augurandomi di aver inquadrato bene il tipo, mi avvicinai a Borg.

«Hai detto che per te Sapi non è altro che merce da vendere, giusto? Quandè così, la compro io!»

Dire che tutti, incluso Borg, saltarono sul posto nel sentire quelle parole, e il tono con cui le pronunciai, non renderebbe lidea.

«Parlo seriamente. Se intendi venderla, allora vendila a me.»

«E con quali soldi pensi di pagarla?» replicò il maiale, in parte ironicamente, in parte incuriosito dalla piega che stava prendendo tutta quella situazione

«Ho del denaro. Soldi che mio padre e i miei amici hanno messo da parte per me. Posso pagarti con quelli.»

«Daemon, aspetta. Quei soldi servono a te.»

«Se possono evitare questo stupido spargimento di sangue, sono ben felice di spenderli adesso Scalia.»

Borg prese fuori lennesimo sigaro, rigirandoselo a lungo tra le mani, quindi alzò gli occhi in direzione di Zorech.

«E di quanto denaro stiamo parlando?»

«Capo» esclamò Rust, incapace di credere che il suo boss potesse prestarsi a tutto quel gioco.

Zorech mugugnò e strinse forte il suo piccone, incapace di sostenere il mio sguardo che bramava una risposta tanto quanto il maiale.

«Fino ad ora Abbiamo raccolto allincirca cinquemila goldie imperiali.»

Però, che cifra. Onestamente mi sarei aspettato molto meno.

Sfortunatamente, per il genere di clientela che Borg poteva vantare erano solo spiccioli.

«Il mio cliente mi ha fatto unofferta di venticinquemila goldie per quello yeti.»

Mentiva, e forse sospettava che io ne fossi consapevole. Nessun mostro valeva tanto, nemmeno uno yeti. Ma non era quello il momento di giocare al ribasso.

«Te ne offro trenta. Quello che manca, ce lo metterò io. Tu volevi entrare nellaffare della caccia, giusto? Allora, sarò io il tuo cacciatore!»

E stavolta, persino il maiale si ritrovò senza parole.

«Drufo mi sta insegnando a cacciare. Ti prometto che entro sei mesi sarò diventato un cacciatore bravo quanto lui. Caccerò per te, ti darò i quattro quinti di tutto quello che guadagnerò, fino a quando non ti avrò ripagato lintera cifra.»

«Daemon, basta così! Non penserai davvero di lavorare per questo porco!»

«Scalia, smettila!» la rimproverò Zorech, consapevole di quanto sua figlia potesse diventare imprevedibile quando si trattava di proteggermi. «Daemon, cerca di riflettere. Sei solo un bambino. Ti ho già spiegato tante volte che il tuo compito è studiare.»

«Farò anche quello, padre. Hai la mia parola. Studierò e andrò a scuola, e nel tempo che rimane mi dedicherò alla caccia. Non dovrete neanche più lavorare tanto per me, perché dora in poi guadagnerò da me i soldi che mi serviranno un domani per vivere. Così, i proventi della caccia di Drufo potranno essere usati interamente per aiutare gli abitanti di Ende

Borg aveva un rituale tutto suo quando si trattava di discutere e concludere un affare, e il solo fatto che si fosse ormai messo il sigaro in bocca fu sufficiente a lasciare i tirapiedi che lo conoscevano meglio con la bocca socchiusa e la pelliccia tutta rizzata.

«Forse potremmo discuterne.»

«Aspetta, non ho finito. Cè unaltra cosa.»

«Davvero? E sarebbe?»

«Tu sei un mercante onesto, giusto? Che onora sempre i suoi accordi.»

«Per chi mi hai preso? La parola di un mercante è sacra. Una volta che stringo la mano ad un cliente il contratto è indissolubile, a prescindere da tutto il resto.»

«In questo caso, voglio che porti Sapi al sicuro a Connelly.»

Il fatto che Borg per primo non si mostrò capace di nascondere il proprio stupore di fronte ad una tale richiesta è abbastanza per rendere lidea del tipo di reazione che suscitò in tutti gli altri presenti, a cominciare dalla stessa Sapi.

«Nel Principato i mostri semiumani come lei possono integrarsi facilmente, e sono sicuro che tu conosci sia il modo di farla passare attraverso i corridoi di accesso, sia persone che possano prendersi cura di lei.»

«Questo aumenterà di molto il tuo debito ragazzo, lo sai vero?»

«Non importa. Voglio che possa crescere libera. E se per riuscirci dovrò lavorare per te per più tempo, non importa. Ma voglio essere chiaro fin da ora, non farò nulla per te che non sia cacciare. Non sperare di usarmi per il contrabbando o cose del genere.»

Borg prese un fiammifero dalla tasca, lo accese sfregandolo sullapposito braccialetto, e aspirò piacevolmente una generosa quantità di fumo.

«Abbiamo un accordo.» disse mettendo in mostra i suoi denti luccicanti, con un sorriso che sapeva di sconfitta indolore.

Forse avevo davvero stretto un patto col diavolo, dissi tra me e me stringendo quella mano, ma almeno lavevo fatto alle mie condizioni.

 

Mi ero ripromesso non incensarmi mai più come troppo spesso avevo fatto nella mia precedente vita, ma sono costretto ad ammettere che in quelloccasione ero riuscito a compiere un autentico capolavoro diplomatico.

Avevo preso una situazione senza via di scampo scaturita da una mattata e ne ero uscito con tutto ciò che avrei potuto desiderare.

In primo luogo avevo risolto una volta per tutte il problema del mio addestramento; ora che avevo un debito da onorare Scalia e Zorech non avrebbero più potuto interferire, per non rischiare di inimicarsi Borg.

Lo stesso Borg era convinto di avermi in suo potere, ma era troppo stupido e sicuro di sé per capire che ero io in realtà che mi accingevo ad usarlo. Grazie alle sue conoscenze, molto presto mi si sarebbero aperte le porte del fitto e sicuramente ricco sottobosco degli affari leciti e illeciti di tutta lErthea Occidentale, che sarebbero state le fondamenta sulle quali avrei edificato e fatto prosperare la mia nazione.

Non mi dispiaceva essermi legato a lui per un lungo periodo: più tempo avessi trascorso alle sue dipendenze, maggiore sarebbero state la reputazione e i vantaggi che avrei potuto conquistare tra chi frequentava quegli ambienti.

Ma soprattutto, avevo fatto un importante investimento per il futuro.

Non mi illudevo certamente che tutti avrebbero accolto a braccia aperte la rivoluzione che presto o tardi avrei scatenato in tutto il continente.

Al contrario, sapevo fin troppo bene che avrei finito per versare molto sangue e inimicarmi gente potente e pronta a tutto per proteggere il mondo marcio e decadente in cui vivevano, come maiali che si godono il fango del porcile mentre il macellaio affila i coltelli.

Sapi era ancora piccola, ma lopera di condizionamento che avevo messo in atto con lei stava già iniziando a dare i suoi frutti.

Quando andai a salutarla il giorno che partì con una carovana di contrabbandieri diretta a Connelly, mi promise che un giorno sarebbe tornata per ripagare il suo debito e permettermi di realizzare i miei sogni.

Sarebbe stata una perfetta guardia del corpo.

Assolutamente fedele, e pronta a morire pur di proteggermi da ogni pericolo.

Non potevo chiedere di meglio.

Sapevo che quelli che mi si prospettavano non erano tempi facili e che avrei dovuto faticare, ma la cosa non mi spaventava.

Avrei salvato Erthea dal suo destino. E lavrei fatto a qualsiasi costo.

Era la mia missione.

Il mio scopo.

La mia vittoria.

 

 

Nota dellAutore

Salve a tutti!^_^

Come promesso, due settimane dopo eccomi di nuovo con il secondo (lunghissimo) capitolo di questa mia light novel con protagonista Napoleone Bonaparte.

Spero che la nuova impaginazione sia di vostro gradimento, realizzarla è stata una bella impresa perché dopo così tanti anni che mancavo da EFP mi ero del tutto dimenticato come ci si arrabatta con i font.

Ringrazio Tubo Belmont per la sua recensione, Valethebest92, Bindaz e il Sergente Salvucci per averla inserita tra le preferite/seguite/ricordate.

Mi raccomando, fatemi sapere le vostre opinioni, e se volete chiedermi qualunque cosa io sono qui!^^

Ci vediamo l11 giugno per il Capitolo 3!

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 - SCERIFFO ***


“Non si guida un popolo se non prospettandogli un avvenire,

un leader è un mercante di speranze”

CAPITOLO 3

SCERIFFO

 

 

Nella mia vita precedente non ero stato benedetto con un corpo prestante e atletico.

Al contrario ero sempre stato di costituzione piuttosto malferma, lo provava il fatto che me n’ero andato molto prima di quanto mi sarei aspettato.

Come se non bastasse ad un certo punto avevo ecceduto nei vizi, e questo oltre a dare ai miei nemici argomenti su cui ridere e fare satira aveva sicuramente contribuito alla mia prematura dipartita.

Questo era uno dei tanti errori che ero determinato a non ripetere.

Libero da costrizioni e vincoli famigliari, potevo ora coltivare il mio nuovo corpo al meglio delle sue possibilità non facendogli mancare niente.

Con la caccia mi tenevo in costante allenamento, ed i suoi frutti mi permettevano di seguire una dieta bilanciata e altamente energetica che mi garantiva le forze necessarie per nuovi esercizi in un circolo virtuoso senza fine.

Cinque anni dopo aver stretto l’accordo con Borg il bambino piccolo e magrolino aveva fatto spazio ad un giovane che si apprestava ad entrare nell’età adulta nel pieno delle sue forze.

I muscoli si erano fatti tonici, la vista acuta, i riflessi pronti. Conscio di come un bell’apparire sia il miglior biglietto da visita mi ero preso cura anche dell’aspetto esteriore, così da non dover più essere costretto a coprirmi di orpelli e altre chincaglierie per mascherare quello che stava al di sotto.

Nel mentre avevo lasciato definitivamente la mia casa nel ghetto per trasferirmi alla baita insieme a Drufo, congedando una volta per tutte l’inesistente signor Haselworth e prendendone il posto agli occhi del mondo.

In tutto questo tempo avevo trovato anche il tempo di addestrare una coppia di aquilotti recuperati da un nido caduto, Louis e Marie, che una volta cresciuti erano diventati compagni inseparabili, procurandomi talmente tante lepri e cerbiatti da non dovermi preoccupare di cacciarmi il pasto.

Ovviamente non avevo trascurato le pubbliche relazioni.

Come avevo previsto lavorare per Borg era stato il mio lasciapassare per le stanze del potere di mezza Erthea. Quel maiale poteva essere un arrogante, viscido, opportunista figlio di una scrofa, ma era un tipo di parola, che oltretutto sapeva come ricompensare il talento e riconoscere i buoni investimenti. Dal giorno in cui mi ero messo al suo servizio, restandoci anche dopo aver onorato in toto il nostro accordo, mai una volta era venuto meno al nostro accordo, prima detraendo fino all’ultimo goldie dal mio debito con assoluta precisione e in seguito pagandomi puntualmente per ogni incarico che svolgevo per lui.

Era anche per merito mio e dei proventi che gli procuravo con il mio lavoro se nel giro di tre anni era stato in grado di abbandonare quella caverna ammuffita in favore di un vero e proprio magazzino, costruito in una zona appartata ma a due passi dalla Via Magna.

Il giorno che mi aveva presentato al mio primo mercante Toriano mi aveva definito il miglior investimento della sua vita, e con simili credenziali non mi era stato difficile entrare nelle grazie di un gran numero di persone influenti, elargendo favori e servizi che un giorno avrei potuto riscuotere.

Alcuni di quegli azzimati faccendieri erano stati così stupidi da coinvolgermi in affari talmente sporchi che al momento giusto sarebbe stato un gioco da ragazzi poterli ricattare per ottenerne la collaborazione.

Dopotutto quando avevo ribadito a Borg che per lui non avrei fatto altro che il cacciatore non avevo mai detto che non mi sarei dedicato ad altre attività per conto mio.

Tuttavia, essendo consapevole di dover un domani unire tra di loro varie razze e popoli che al momento si odiavano a morte gli uni con gli altri, mi ero dato delle regole che servissero a preservare la mia immagine agli occhi di tutte le parti in causa.

Non facendomi coinvolgere nel traffico di schiavi ad esempio avevo nobilitato la mia immagine agli occhi di quegli ambienti altolocati che sbandieravano idee riformatrici, mentre adoperandomi nel contrabbando di armi destinate ad alimentare o stroncare insurrezioni nei ghetti mi facevo amici di qua e di là della barricata.

Ma era soprattutto nella provincia dell’Eirinn che mi sforzavo di farmi conoscere.

Oltre a rifornire il Castello con merci della migliore qualità, periodicamente scendevo a Dundee per vendere pelli, attrezzi e carne ai mercanti locali, e in questo senso l’emporio Wallace si stava rivelando molto utile.

Crescendo Mary era diventata un piccolo genio del commercio, capace di fiaccare la resistenza dei mercanti più taccagni a colpi di sagace dialettica –che ovviamente le avevo insegnato io– e con un fiuto per i buoni affari degno di un direttore della Compagnia delle Indie.

Un altro posto in cui crescendo avevo iniziato a farmi vedere spesso era la locanda del Cervo Nero di Giselle; quando aveva iniziato ad assistere assiduamente suo padre nella gestione del locale le era venuta la brillante idea di aumentare gli introiti aprendo una bacheca per gli avvisi e stipulando un accordo con la locale gilda degli avventurieri.

Caccie speciali, missioni di scorta e altre richieste simili mi fruttavano un bel gruzzolo ed accrescevano la mia reputazione nella provincia. E visto che tutti diventano loquaci dopo un paio di birre, frequentando la locanda potevo saggiare il sentimento popolare e capire come soffiava il vento.

Oltretutto il vecchio Rutte due anni prima era stato nominato sindaco del villaggio, quindi tenerselo amico e aiutarlo quando chiedeva dei favori era ovviamente una buona idea.

Nel nome del quieto vivere aveva cercato di dare una stretta al reunionismo serpeggiante di cui troppo spesso si parlava nella sua locanda, tenendo fuori i clienti più problematici –e con Giselle a disposizione non c’era neanche bisogno di un buttafuori–.

Se da una parte questo aveva aperto le porte del Cervo Nero anche ai membri della milizia aumentando le informazioni che ero in grado di carpire, dall’altro mi aveva reso più difficile saggiare il malcontento verso il governatore e l’Impero.

In tutto ciò riuscivo anche a trovare un po’ di tempo per studiare; anche dopo aver conseguito il diploma scolastico a pieni voti avevo continuato ad allargare le mie conoscenze coi libri che riuscivo a comprare da mercanti e librai di passaggio, accettandoli quando possibile anche come forma di pagamento per i miei servigi.

Studiavo un po’ di tutto, soprattutto alchimia, geografia, e naturalmente tattica e strategia. Mi ero persino costruito un mio laboratorio in un capanno dietro la baita, usando le conoscenze del mio vecchio mondo per realizzare semplici strumenti come termometri, barometri o sestanti che su Erthea ancora non erano stati inventati, e che sapevo mi sarebbero tornati utili.

 

Ma evidentemente ciò che stavo facendo non era abbastanza per il mio committente, che decise infine di venirmi a chiedere conto della situazione.

Una notte, dopo essermi appisolato sul ramo di un albero durante una caccia all’orso, mi ritrovai nuovamente in compagnia del mio amico Faucheur, seduti l’uno di fronte all’altro alla scrivania del mio vecchio studio alle Tuilerries. Naturalmente c’era lui seduto allo scranno che un tempo era stato mio.

«Non avevi detto che non ci saremmo più rivisti?»

«A condizione che tu avessi fatto un buon lavoro. Ma a giudicare da quello che vedo la situazione sembra stare evolvendo molto più lentamente di quanto dovrebbe.»

Il che ci portava alla questione di cui avrei sempre voluto chiedergli conto.

«Faccio quello che posso con ciò che ho a mia disposizione, come ho sempre fatto. Forse se tu mi avessi fatto rinascere in un contesto diverso le cose sarebbero potute andare diversamente e più in fretta.»

«Considerala una forma di garanzia. Un modo per essere sicuro che tu facessi ciò che mi aspettavo da parte tua.»

Il senso di quelle parole era chiaro, e d’altronde era una cosa che avevo sempre sospettato.

«Se fossi rinato come membro di una qualche famiglia nobile, o persino come un sovrano, avrei avuto molti meno vincoli o impedimenti, e una più vasta libertà d’azione. Invece, date le circostanze, la mia missione non potrà esimersi dal liberare gli schiavi.»

«Non avrebbe senso salvare Erthea da un Re dei Demoni e lasciare nel contempo invariata la miseria in cui versano molti dei suoi abitanti. Come ti avevo preannunciato Erthea è piena di problemi, e risolverli è importante tanto quanto fermare l’invasione.»

I miei occhi si portarono sul globo semitrasparente che roteava su sé stesso sopra la scrivania, sul quale potevo distinguere le forme di due diversi continenti; uno era sicuramente Erthea, l’altro, grande quasi il doppio, doveva essere Treibam. Ad occhio dovevano esserci non meno di cinquemila miglia di oceano sconfinato a separarli in ogni direzione, e dato il livello della tecnologia navale di quel mondo non sorprendeva che i loro popoli non si fossero mai incontrati.

«E questo?»

«Un piccolo regalo da parte mia. Non troverai mai mappe così dettagliate.»

Il mio ego in altri tempi mi avrebbe impedito di accettare, ma erano informazioni che difficilmente avrei potuto reperire in altro modo. Così memorizzai in pochi secondi gli aspetti più importanti della geografia di Erthea, soprattutto delle regioni più lontane da Eirinn.

Una macchia nera comparve in un punto a nord di Treibam, allargandosi rapidamente fino a ricoprirlo del tutto.

«Il tempo sta scadendo, Imperatore. Il Re dei Demoni ha sottomesso anche l’ultima nazione ancora libera di Treibam. Se i piccoli gruppi di resistenza che ancora si oppongono a lui dovessero venire sconfitti, l’invasione di Erthea potrebbe avvenire prima di quanto prevedessimo.»

«A tal proposito. Questo Re dei Demoni è per caso lo stesso Signore Oscuro che cinquecento anni fa usò i mostri per tentare di sottomettere Erthea?»

«Sono abbastanza simili, ma non sono lo stesso essere. Questo è tutto ciò che hai bisogno di sapere.»

«Capisco. Ad ogni modo, non hai motivo di preoccuparti. Ho lavorato più di quanto potresti immaginare. Ormai i semi sono piantati, e presto daranno i loro frutti.»

«Lo spero. Avevo grandi aspettative sul tuo conto. Non vorrei mai che si rivelassero malriposte.»

L’inizio della trasformazione del mio corpo in pulviscolo preannunciò la fine di quell’incontro.

«A presto, Imperatore. E ricordalo sempre. Ti tengo d’occhio.»

 

E l’occasione infatti arrivò.

E prima di quanto mi sarei aspettato.

Qualche settimana dopo, al termine di una cavalcata quasi ininterrotta durata una notte intera, mi ritrovavo a fissare in lontananza le linee possenti e maestose del Castello, arroccato sulla cima di un basso colle al centro di una vasta pianura e circondato da una piccola cittadina.

Era stato il governatore in persona a convocarmi con una lettera, e benché non fosse stato specificato il motivo di tale convocazione l’istinto mi diceva che stavo per raccogliere finalmente il frutto tutti i favori fatti a quel panzone lussurioso.

Mentre aspettavo di essere ricevuto, mi presi qualche attimo per osservare attentamente la fortezza e lo stato delle sue difese.

Due cerchi di mura. Dodici torri su quello più esterno, quattro su quello interno. Balliste su una torre ogni due. Canali per olio bollente. Porte con grate di ferro. Guarnigione, più o meno duemila soldati.

Anche se erano passati almeno cento anni dall’ultima volta che quel posto aveva visto un assedio si notava ad occhio nudo come fin dai tempi del Granducato quell’edificio fosse stato pensato per sopportare ogni genere di battaglie.

Un legionario mi venne incontro mentre calcolavo il raggio d’azione degli arcieri posizionati sulle mura chiamandomi per nome, ma dovette togliersi l’elmo perché potessi riconoscerlo.

«Septimus.»

«Ne è passato di tempo, Daemon. Quant’è, due anni?»

«Quasi tre. Da quando sei partito per Rhodes per arruolarti. Ne hai fatta di strada a quanto vedo. Sedici anni e sei già decurione.»

«Sono stato più intraprendente dei miei compagni. O forse solo più incosciente.»

Sorrideva e cercava di sembrare lo stesso di quando eravamo bambini, ma nei suoi occhi potevo leggere la consapevolezza che solo chi si sia trovato faccia a faccia con una battaglia poteva avere.

«Che ci fai qui comunque?»

«Sono stato convocato dal Governatore. E tu? L’ultima volta che mi hanno parlato di te dicevano che eri ad est a combattere i Baroni.»

«Mi hanno riassegnato dopo la promozione. Ora servo nella Quindicesima. E dalla settimana prossima sarò assegnato al forte di Dundee. Riesci a crederci? Un combina disastri come me secondo in comando di una guarnigione.»

«Sì, effettivamente mi risulta difficile crederlo. Ma sono sicuro che te lo sei guadagnato.»

L’arrivo del maggiordomo interruppe la rimpatriata.

«Master Haselworth, seguitemi. Sua Eccellenza vi attende in sala da pranzo.»

 

Una tavola così imbandita l’avevo vista solo il giorno della mia incoronazione, e la cosa assumeva contorni ancor più grotteschi se si considera che attorno ad essa erano sedute solamente tre persone.

A parte il governatore Longinus, che per quanto cercasse di darsi un contegno mangiava come un maiale sputando ovunque carne e vino, vi erano due giovani, entrambi poco più grandi di me, biondi di capelli e di bellissimo aspetto.

Lui era sicuramente un nobile, con occhi scuri che tagliavano come rasoi, e per quanto incredibile potesse essere vedevo una certa somiglianza con il governatore nei tratti del suo viso.

Lei invece doveva essere la sacerdotessa di corte, e si guardava attorno con l’aria di chi avrebbe tanto voluto essere da un’altra parte.

Infine, alle spalle del governatore, stava il Generale Ron, di cui avevo sentito parlare, con le insegne della Quindicesima Legione bene impresse sulla sua corazza. Mi guardava come se avesse voluto uccidermi, ma del resto il disprezzo che nutriva nei confronti di Eirinn e dei suoi abitanti era il motivo per il quale Longinus aveva voluto proprio lui e la sua legione assegnati a quella provincia.

«È un onore per me fare la vostra conoscenza, Vostra Eccellenza.»

«Mi hanno detto che devo ringraziare te per buona parte di queste prelibatezze. Sembri sapere il fatto tuo in materia di caccia.»

«Faccio quello che posso. Felice che il mio lavoro sia così tanto apprezzato.»

«Presumo tu abbia sentito parlare di mio figlio Adrian. Il meglio che un padre possa desiderare.»

In realtà l’unica cosa che avevo sentito sul suo conto era che fosse completamente agli antipodi rispetto al padre sotto molti aspetti, ma a vederli così tutto si poteva pensare tranne che potessero essere padre e figlio.

«La signorina qui presente invece è lady Sylvie Valera, ambasciatrice del Circolo presso la mia umile dimora.»

Scambiai con entrambi un rapido sguardo, salutandoli con il dovuto rispetto. Ma se lady Valera ricambiò a propria volta con un cenno del capo ed un sorriso abbozzato, tutto quello che ricevetti da Adrian fu una seconda occhiata obliqua, quasi che stesse cercando di leggermi nell’anima.

«Nella Vostra lettera accennavate ad una questione importante di cui volevate parlarmi. Sono a Vostra disposizione.»

Al che il governatore scoppiò il ridere, alzando il calice d’oro come a chiamare un brindisi.

«Mi fa piacere vedere che anche in questo covo di bifolchi reunionisti c’è ancora qualcuno che mostra il dovuto rispetto agli emissari dell’Imperatore. Lo vedi figliolo? Sono queste le persone di cui uno deve circondarsi per governare in sicurezza.»

Il tempo di tracannare il vino tutto d’un fiato e il panzone cambiò immediatamente espressione, piegando le labbra in uno strano sorriso.

«Il che ci porta al nocciolo della questione. Si dice che per essere così giovane, tu sia particolarmente rispettato nella tua comunità.»

«Ho questa fortuna, se così possiamo dire.»

«Come sicuramente saprai, fino a pochi anni fa la regione di Dundee era sotto amministrazione militare. Ma da quando quei pidocchi dell’Unione hanno capito con chi hanno a che fare molte legioni hanno lasciato i confini, e gran parte degli incarichi sono rimasti vacanti. Incluso, quello di sceriffo della provincia.»

Mi trovo costretto ad ammettere che lo stupore che manifestai in quell’occasione fu del tutto sincero: mi aspettavo una ricompensa, oppure una nomina per qualche posizione vacante di poco conto, ma non certo qualcosa del genere.

Essere sceriffo di una regione voleva dire guardare dall’alto in basso ogni altra carica istituzionale della stessa; perché mentre il comandante della milizia rispondeva sia al sindaco che agli ufficiali della legione, uno sceriffo doveva rendere conto del suo operato solo al governatore.

Non riuscivo a credere alla mia fortuna: stavo per saltare a piè pari almeno due o tre tappe del percorso che avevo in mente per la mia ascesa al potere.

«Mi sembri confuso.» disse il governatore quasi ghignando

«Effettivamente… lo ammetto, sono confuso.»

«L’Eirinn Occidentale è una terra piena di problemi. Fuggiaschi, spie e agenti nemici, o quegli schiavi lerci che ogni tanto tentano di scappare. C’è bisogno di qualcuno con le conoscenze e la forza necessarie a tenere pulite le mie foreste e i miei confini. E se a farlo è un ragazzino plebeo che vive tra i lupi, io dico chi se ne importa. Dunque? Qual è la tua risposta?»

Ovviamente accettai.

Sapevo che in molti non l’avrebbero presa bene, e già mi prefiguravo una tremenda litigata con Scalia.

Un orfano cresciuto dagli schiavi che diventa un cane sciolto al servizio dello stesso Impero che li teneva in catene.

Ma non c’era altra scelta. Era un rischio che dovevo correre, e al quale mi ero preparato da tempo.

Chi è di scena, inizia lo spettacolo.

 

Fin da bambina avevo sempre amato i numeri.

Prima di venire chiamata al cospetto degli dei, la mia adorata madre era solita dirmi che nei numeri vi è la risposta per ogni cosa.

Era stato suo padre, mio nonno Lawrence, a costruire l’emporio che portava il nostro nome, ma era stata lei, con le sue idee e il suo senso per gli affari, a portarlo alla gloria, facendone l’attività più famosa e ricercata di Dundee.

Ma quei giorni ormai erano lontani.

Da quando la mamma era morta mio padre non era più stato lo stesso; forse a differenza mia non era riuscito a lasciarsi alle spalle la tragedia, o forse semplicemente la sua vera natura, che la mamma con la sua sola presenza era sempre riuscita a tenere a bada, era infine venuta fuori.

Lo so che è una cosa terribile da dire di un genitore, ma io lo odiavo. Lo odiavo con tutte le mie forze.

Ma allo stesso tempo, ne avevo paura. E così lo rispettavo, sopportando in silenzio.

La prima volta che mi aveva picchiata avevo solo sette anni, colpendomi così forte sul viso con una bottiglia che da quel giorno ero stata costretta a portare gli occhiali.

Da allora era successo molte altre volte, più di quante voglia ricordarne; e dire che ogni tanto, quelle poche volte in cui riusciva a stare più di qualche ora lontano dal vino, sembrava tornare il padre gentile e buono che ricordavo, quello che mi portava in giro a cavalcioni sulle spalle e mi comprava i bastoncini di zucchero.

Il bello era che avevo avuto l’occasione di sottrarmi a tutta quella sofferenza quando la sorella di mia madre era venuta a farci visita e, intuendo la situazione, si era offerta di prendermi con sé.

Ma io avevo rifiutato; amavo troppo il ricordo della mamma, e non potevo sopportare l’idea che il negozio che lei il nonno avevano costruito con tanta fatica andasse in rovina.

Per fortuna prima di morire mi avevano lasciato in eredità molti affezionati clienti, oltre ad insegnarmi molti trucchi del mestiere; gli altri li avevo imparati da me strada facendo, guadagnandomi rispetto e reputazione tra gli altri mercanti prima ancora di terminare la scuola.

La scuola.

Anche prima della morte della mamma non ero mai stata una persona molto espansiva, e per un lungo periodo, tra il dolore per la sua perdita e quello che ero costretta a subire ogni giorno, me ne ero rimasta in disparte. Passavo tanto tempo a scuola o in biblioteca non tanto perché studiare mi piaceva, quanto per non dover tornare a casa, dedicando il poco tempo che restava a gestire il negozio e riuscendo con molta fatica a tenerlo a galla.

Poi, nella mia vita grigia e solitaria, era piombato un bambino, e tutto era cambiato.

Anche prima della sua improvvisa maturazione e cambio di atteggiamento, Daemon era sempre stato una forza della natura: battagliero, intraprendente, sicuro di sé.

Era un orfano finito nelle mani di un tutore che non lo voleva, ma benché la sua situazione fosse anche peggiore rispetto alla mia non aveva perso la voglia di vivere.

Oltretutto amava i numeri e la matematica proprio come me, e nel momento in cui gli avevo rivolto la parola per la prima volta era scattato qualcosa dentro di me.

Più crescevamo, più spesso mi ritrovavo a pensare a lui, e quando era entrato nel mio negozio proponendomi di diventare soci e gestire insieme un mercato sotterraneo di beni di lusso generati dalla sua attività di cacciatore avevo balbettato come una stupida nel momento di accettare.

Mi ero innamorata di lui, inutile nasconderlo.

Il problema era che, oltre al fatto di non riuscire a trovare il coraggio per dirglielo, le concorrenti non mancavano; praticamente non c’era ragazza a Dundee che non sospirasse quando lo vedeva passare.

E poi era così gentile. Tendeva la mano a chiunque gli chiedesse aiuto, a volte rifiutando persino di essere ricompensato per i suoi servigi, e questo non aveva fatto altro che accrescere la sua reputazione agli occhi di tutti.

Era stato un duro colpo vederlo apparire da un giorno all’altro in giro per il villaggio con la stella da sceriffo appuntata sulla giubba, ed erano stati in molti ad accusarlo di essersi venduto.

Ma lui, stoicamente, aveva risposto alle accuse, proclamando a cuore aperto e davanti a tutti che se aveva accettato quella posizione non era stato per guadagno personale –avremmo scoperto in seguito che prendeva meno della metà del suo salario, continuando a fare il cacciatore nel tempo libero per mantenersi– ma solo per essere ancora più di aiuto alla comunità che lo aveva accolto e che aveva così tanta stima di lui.

Non tutti gli avevano creduto, ma in tanti lo avevano comunque fatto, ma questo non mi aveva del tutto sorpresa.

Fin da quando eravamo bambini avevo sempre avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di ipnotico nel suo modo di parlare e di apparire, come un’aura che spingeva la gente a fidarsi di lui a prescindere da ogni cosa.

Usava le parole come fossero oro, con parsimonia ed attenzione, e agiva con la stessa intelligenza.

Qualcuno diceva a mezza voce che avesse tutte le qualità di un capo. Io ero certa che non avrebbe passato il resto della sua vita in un piccolo villaggio di frontiera: troppo grandi erano le cose che era destinato a fare.

Purtroppo lo aveva capito anche mio padre, l’unico al quale Daemon non fosse mai andato a genio.

«Ma che mi dici di quel ragazzo.» disse una delle pochissime volte in cui era intento a darmi una mano in negozio «Come si chiama? Quello con la faccia da ebete.»

«Intendete Daemon?»

«Se non sbaglio voi due andate molto d’accordo. Stavo pensando che forse dovresti entrare più in confidenza con lui, se capisci cosa intendo.»

«Che storia è questa, padre? Credevo che Daemon non vi piacesse.»

«Certo, quando era solo un bifolco che viveva in mezzo ai boschi. Ma ora la storia è ben diversa. Voglio dire, dove si è mai visto uno sceriffo così giovane?»

Era chiaro dove volesse andare a parare, e mi diedi della sciocca per non averlo capito subito.

«Si dice che sia entrato nelle buone grazie del grassone. Di sicuro è destinato a fare carriera, e presto tutte le donne di questo schifo di paese si metteranno in fila per farsi sposare. Tu però partiresti avvantaggiata, visto che te la intendi già bene con lui. Saresti sistemata per la vita.»

«E voi con me, dico bene?»

Stavolta il manrovescio arrivò senza alcun preavviso, ma nonostante il dolore e la guancia rossa stavolta fu diverso dal solito: stavolta non chiesi perdono.

«Ti ho già detto molte volte di non rivolgerti a me con quel tono, ragazzina. Ricorda che lo sto facendo per il tuo bene.»

«Del mio bene ha smesso di importartene tanto tempo fa, maledetto ubriacone. Anzi, forse non ti è mai importato davvero.»

Il secondo ceffone fu talmente forte da farmi volare via gli occhiali buttandomi a terra, ma neanche questo fu sufficiente a piegarmi.

Ormai avevo preso la mia decisione: non avrei più avuto paura di lui.

«Cosa sono quegli occhi? Devo forse darti un’altra lezione?»

 

Quella mattina non ero certo uscito dall’ufficio che il sindaco mi aveva assegnato con l’idea di recitare la parte del valoroso cavaliere nella sua scintillante armatura.

Al contrario, ero decisamente di cattivo umore.

Il giorno prima ero stato chiamato al cantiere della Via Imperiale perché il povero Malik era andato fuori di testa nel momento in cui quei sadici di miliziani avevano esagerato con il bind.

Ce l’avevo messa tutta per evitare di ucciderlo, ma quando quella montagna ambulante nel suo delirio distruttivo si era messo a caricare come un toro una carovana di passaggio semplicemente non mi aveva lasciato scelta.

E ovviamente tutto era avvenuto sotto gli occhi di Scalia e di un altro gruppo di altri mostri, arrivati giusto in tempo per vedermi ricevere i ringraziamenti del capitano Oldrick per aver salvato la vita ad una ventina di innocenti, inclusi parecchi schiavi.

Ne conseguiva che quel giorno avevo decisamente la luna storta, e non aspettavo altro che l’occasione giusta per menare le mani.

 Inoltre se c’era una cosa che odiavo più ancora di chi picchiava le donne era chi non sapeva riconoscere ed apprezzare il talento.

E Mary di talento ne aveva fin troppo per sprecarlo nella gestione di una piccola bottega di periferia, in balia di un ubriacone.

Un paio di volte avevo preso in considerazione l’idea di risolvere il problema togliendolo di mezzo, ma per legge Mary non avrebbe potuto ereditare l’attività fino ai vent’anni; e io non potevo rischiare di avere un burocrate pignolo a ficcare il naso nei molti affari sottobanco che gestivamo insieme.

Quando durante il mio giro di ronda passai accanto al negozio e sentii i rumori capii subito cosa stava succedendo, ma a differenza del passato stavolta avevo l’autorità per agire.

E ammetto che forse mi feci un po’ prendere la mano, anche perché quando vidi quel fallito in piedi sopra a Mary, pronto a riempirla di calci, persi completamente il controllo.

Prima gli piombai addosso scaraventandolo sul bancone, quindi presolo per la camicia lo scagliai contro lo scaffale della frutta.

«È facile prendersela con le ragazzine, vero bastardo? Prova un po’ con me!»

Quell’idiota tentò persino di reagire, ma benché fosse quasi il doppio di me mi bastarono un paio di pugni per stenderlo.

Era la prima volta che facevo a pugni seriamente con qualcuno, e fui felice di constatare che gli insegnamenti di Scalia avessero dato ottimi frutti.

Il Comandante Beek come al solito se la prese comoda, arrivando giusto in tempo per vedersi scaraventare quell’ubriacone già legato tra le braccia.

«Aggressione ad un funzionario imperiale e resistenza, quindici giorni di galera!»

Non era molto, ma almeno per un po’ se ne sarebbe stato lontano da Mary e dai nostri affari.

Beek ovviamente protestò: Doug era uno dei suoi debitori più fruttuosi, e guadagnava di più spennandolo a carte che con lo stipendio da Comandante. Ma io, il “montanaro bifolco” che solo il mese prima doveva sopportare in silenzio le calunnie di quell’illetterato in uniforme, adesso ero il suo superiore, e non poté fare altro che obbedire.

«Stai bene?»

«Io… sì, grazie…»

Mary mi guardava come se fossi stato il suo dio, ma avendo passato anni a coltivare con cura il nostro rapporto non ne ero sorpreso.

Apparendo ai suoi occhi come un modello a cui aspirare e un amico su cui contare mi ero assicurato sia la sua costante determinazione a migliorare che la sua dedizione, e sapevo che al momento giusto non sarebbe stato difficile persuaderla ad entrare a far parte della cerchia di fedelissimi che intendevo costruire.

Per lei vedevo già un futuro da ministro delle finanze del mio nuovo impero.

Ma per riuscire a spiccare il volo doveva liberarsi definitivamente delle sue catene con un evento catartico, che segnasse il passaggio dalla bambina spaventata dalla vita alla giovane donna fatta e finita, pronta a prendere nelle sue mani il suo destino e le sorti di un’intera nazione.

Per il momento però dovevo dare la priorità ad altre cose.

La mia nomina a sceriffo aveva scontentato parecchie persone, ma se con la determinazione, le giuste frasi e gesti simbolici come quello che avevo appena compiuto ero riuscito a mantenere inalterata la considerazione di cui godevo tra gli umani, arrivando anche ad accrescerla, altrettanto non si poteva dire per gli schiavi del ghetto.

Come aveva detto Faucheur, la creazione del mio impero passava inevitabilmente per l’emancipazione degli schiavi, che dovevano diventare la punta della lancia con cui tranciare le scricchiolanti fondamenta del potere imperiale nella provincia.

Non mi avrebbero mai seguito se non avessi prospettato loro un futuro, e per poterlo fare era necessario che avessero ancora fiducia in me.

Ma come avrebbero potuto averne se mi mettevo ad uccidere alcuni di loro, stringendo la mano ai loro aguzzini?

Dannazione. Perché è sempre così maledettamente difficile riuscire a mettere d’accordo tutti?

Ero preparato ad affrontare gli imprevisti, ma c’era un limite alle situazioni che potevo gestire nello stesso momento in una simile situazione di equilibrio precario: come se non bastasse ci si misero pure i burocrati della capitale a complicarmi le cose ancora di più.

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!

Anticipo di qualche ora la pubblicazione di questo terzo capitolo per via di alcuni impegni che mi terranno fuori casa per tutto il resto della giornata.

Così ci siamo. Dopo una premessa, questo è il momento in cui gli eventi cominciano effettivamente a mettersi in moto per giungere infine al cuore della vicenda.

Chi ha familiarità con l’ambiente delle light novel saprà che solitamente i primi capitoli sono sempre molto introduttivi, e che a partire dal terzo (in alcuni casi già dal secondo) la storia inizia a procedere molto più spedita.

Io ho cercato di essere un po’ più lineare per non creare buchi di trama o spiegare alcune cose in maniera troppo sbrigativa, prendendomi un po’ di tempo anche per presentare gli altri personaggi secondari che in questi primi capitoli si sostituiranno spesso a Daemon come voce narrante, cosicché gli eventi che porteranno alla Rivoluzione siano narrati da tutti i punti di vista.

Ringrazio Fenris per la sua recensione e tutti coloro che stanno leggendo.

Ora, una piccola domanda.

In occasione della release della versione inglese che avverrà domenica prossima (18 Giugno, anniversario della Battaglia di Waterloo) ho deciso, data la lunghezza considerevole di alcuni capitoli, di tagliarli in due e pubblicarli non più a cadenza bisettimanale ma ogni domenica.

Lo faccio perché molti lettori internazionali preferiscono capitoli brevi e facili da leggere, mentre per esperienza so che qui in Italia si tende a preferire capitoli più completi ed esaustivi anche se più lunghi.

Voi cosa preferite? Fatemelo sapere e mi adatterò secondo i vostri gusti^^

A presto!^_^

 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 - IL DRAGO ***


“L’ambizione di dominare l’animo altrui

è la più forte delle pulsioni umane.”

 

CAPITOLO 4

IL DRAGO

 

 

Inutile nascondere la verità.

Da un giorno all’altro, agli occhi di quasi tutti noi Daemon era passato dall’essere un figlio prediletto, la luce che portava un po’ di speranza nelle nostre vite miserabili, al diventare un traditore. Un nemico.

La cosa che mi aveva ferito di più era che non ci avesse detto nulla, o ne avesse parlato con noi. Forse perché sapeva che avremmo fatto di tutto per dissuaderlo.

Semplicemente, un giorno si era presentato a casa con la stella sul petto, e il fatto che nemmeno mio padre fosse stato capace di contenere il proprio sgomento a quella vista la diceva lunga su quale fosse stata la nostra reazione.

Lui diceva di averlo fatto per noi, che come sceriffo avrebbe potuto proteggerci dai soprusi che dovevamo sopportare ogni giorno lavorando come bestie nelle miniere o nei boschi. E noi, nonostante tutto, ci eravamo sforzati di credergli.

Invece, poco tempo dopo, l’avevo visto con i miei occhi uccidere Malik. Quel povero orco tanto enorme quanto ingenuo veniva punzecchiato giorno e notte, questo almeno fino a quando la sua pietra del servo non aveva ceduto sotto il peso di tutti quegli utilizzi azzardati. E quando una pietra del servo si rompe il risultato è che chi la porta impazzisce, diventando l’animale che agli occhi degli umani siamo sempre stati.

Non so con esattezza cosa sia successo. Quello che so è che quando assieme ad alcuni schiavi passai da lì diretta verso la segheria ciò che vidi fu Daemon che, davanti al corpo senza vita di Malik già coperto di sterpaglie e pronto ad essere bruciato, stringeva la mano al Capitano Oldrick.

In quel momento mi era crollato il mondo addosso.

Mio padre, l’unico che cercasse di trovare del buono anche in una cosa del genere, aveva provato a dire che si era trattato di una scelta inevitabile, quasi un atto di misericordia, ma il fatto che persino Lori avesse smesso di sorridere o di parlare di lui la diceva lunga su quale fosse l’opinione che ormai tutti avevano di Daemon.

Lo odiavo.

Era una cosa terribile da dire del proprio fratello, ma non c’erano altre parole per esprimere ciò che provavo.

Alla fine, un umano resta pur sempre un umano: perché avrebbe dovuto preoccuparsi di noi, quando davanti a lui stava per aprirsi una vita intera di possibilità che noi potevamo solo sognarci?

In un impeto di rabbia avevo distrutto tutti i suoi vecchi giocattoli, alcuni dei quali avevo intagliato io stessa quando ancora non riusciva a pronunciare il mio nome, spaccando anche le spade di legno con cui ci eravamo esercitati assieme fino a pochi mesi prima.

Poi, arrivò quella maledetta mattina. Quella che cambiò per sempre tutto ciò in cui credevo, o che pensavo di sapere ed aver capito.

Io, mio padre e tutti gli altri eravamo in coda davanti al cancello, in attesa di essere condotti al lavoro.

«Ferma. Tu non esci.» mi disse il Comandante Beek appena mi vide

«Per quale motivo?»

«Sei stata riassegnata.»

«Riassegnata!? Dove?»

«Alle riserve.»

Quella sola parola mi fece crollare il mondo addosso; le mie gambe presero a tremare, respirare divenne quasi impossibile, e tutti coloro che avevano sentito rimasero sconvolti almeno quanto me.

«Aspetti Comandante.» cercò di dire mio padre «Deve esserci un errore. Ende è sottoposto ad amministrazione speciale. Nessuno di noi può essere inviato alle riserve.»

«Questo è un ordine speciale che proviene direttamente dalla capitale. Tutti i draghi femmina, puri o sanguemisto che siano, devono essere raccolti e portati nelle riserve.»

«Però…»

«Ora basta, stupida lucertola! Ti ho detto che questi sono gli ordini! Il tuo scherzo di natura partirà con la prossima spedizione! Resta inteso che se dovesse capitarle qualcosa prima di allora ne risponderete tutti.»

Nessun altro fiatò. Nemmeno io riuscii a trovare la forza di parlare.

Del resto cos’avrei potuto dire? Per loro non eravamo altro che oggetti di cui disporre a piacimento.

Lasciato tutto corsi a perdifiato verso casa, e una volta chiusami dentro feci quello che non avevo mai fatto in vita mia.

Piansi.

 

Eirinn non aveva una riserva, né all’est né all’ovest.

La più vicina si trovava nella provincia di Baxos, quasi duecento miglia più a nord lungo la Via Imperiale.

Una volta al mese, un convoglio militare formato da vettovaglie, equipaggiamento e qualche rinforzo percorreva il tragitto dalla capitale alla frontiera e viceversa, e visto che l’ultimo era partito da pochi giorni sarebbero passate quattro settimane prima di vederne un altro.

Ogni secondo che passava era un’agonia, e non poter lavorare non faceva altro che darmi più tempo per pensare a cosa mi attendeva.

Anche se avevo lasciato quella in cui ero nata quando ero ancora molto piccola avevo sentito tutte quelle storie che si raccontavano sulle riserve, e sugli esperimenti che facevano sulle femmine appartenenti alle specie rare.

I draghi come me, specie se antropomorfi, erano versatili, longevi e altamente resistenti, e immuni a ferite mortali per chiunque altro.

Con queste premesse, essere trasformata in una bestia da monta quasi mi sembrava la prospettiva meno terribile se rapportata con quello che mi avrebbero fatto passare nel tentativo di creare altri come me.

Ero consapevole di essere un caso più unico che raro per la mia specie. I draghi antropomorfi ed intelligenti erano pochi, e secondo mio padre ero l’unica sanguemisto nata da un drago di cui lui avesse mai sentito parlare. Non stupiva che nell’impero qualcuno si fosse accorto di me e fosse determinato a sfruttarmi.

Non voglio. Non voglio finire in questo modo.

Mentirei a me stessa se dicessi di non aver considerato in quei giorni l’idea di farla finita, anche a costo di far pagare agli altri il prezzo del mio gesto, ma ogni volta il pensiero di cosa avrebbero potuto subire mio padre e gli altri mi aveva fermata, incatenandomi al mio destino.

«Accidenti, che faccia. Al tuo confronto, persino un orco con lo scorbuto sembrerebbe più attraente.»

Quella voce, tanto gioviale e squillante quanto sgradevole, mi diede la scossa, facendomi salire con la sua allegria un moto di rabbia.

Si chiamava Jack, diminutivo di Bojack, un nome che lui per primo affermava di detestare; non era altro che il frutto malriuscito dell’incrocio tra un uomo e un cavallo, alto e massiccio.

Di sicuro era un tipo a cui piaceva scherzare. Persino con le guardie faceva il facilone.

Esattamente il tipo di persona che più detestavo.

«Non sono dell’umore Jack.»

«Sì, questo lo vedo. Posso suggerire la radice di rabarbaro? Dicono sia portentosa per risollevare lo spirito. Altrimenti, puoi sempre provare con l’erba rossa.»

Se il mio sguardo avesse potuto incenerire qualcuno probabilmente di quel maledetto cavallo non sarebbe rimasto altro che un mucchio di polvere, per quanto il suo atteggiamento mi faceva infuriare.

«Accidenti, se avessi saputo che razza di compagni mi sarei ritrovato avrei chiesto di rimanere sulle galee. Almeno lì tra i pattugliamenti e gli scontri coi pirati Jormen c’era sempre qualcosa di interessante da fare.»

«Quelli come te sono i peggiori. Quanti anni hai? Ventisette? Ventotto? Io ne ho quasi duecento. Duecento anni che conduco questa esistenza. Quindi non venire qui a dirmi come dovrei sentirmi o che potrei essere più allegra, perché posso assicurarti che dopo tutto questo tempo la voglia di ridere e scherzare sparisce. E se pensi di aver visto il peggio che possono farti, ti accorgerai molto presto che quello che hai passato fino ad ora è niente rispetto a quello che subirai qui. E ora, vattene. Vattene e lasciami in pace.»

Neanche di fronte ad una risposta così piccata e ostile Jack sembrò scomporsi, anche se per il bene della quiete decise di chiuderla lì e rinunciare a ribattere.

«Purtroppo, a volte le cose non sempre vanno come si vuole. E occorre essere preparati ad eventi imprevisti.»

E detto questo se ne andò, lasciandomi di nuovo da sola con i miei tormenti.

 

Passò una settimana.

Sette giorni di dolore e angosciosa attesa, durante i quali la notizia fece il giro di Ende.

Quasi tutti si mostrarono comprensivi, qualcuno arrivò ad incitarmi a fare quello che volevo, senza curarmi di loro o di quello che sarebbe potuto capitare. Ma ero troppo preoccupata per la sorte dei miei amici, o forse solo troppo spaventata per mettere in atto quei propositi a cui pensavo giorno e notte.

Ormai l’autunno era agli sgoccioli. La temperatura andava abbassandosi rapidamente, e già si percepiva nell’aria l’arrivo imminente della neve.

Era un pomeriggio come tutti gli altri.

Me ne stavo lì, seduta alla panca accanto all’ingresso di casa, immersa nei più cupi pensieri incurante del freddo.

Un carro prigione arrivò da un momento all’altro trainato proprio da Jack, che fin dal suo arrivo alcuni anni prima era stato destinato al compito abbastanza ingrato di animale da tiro al servizio della milizia. Ad un cenno del comandante Oldrick, le due guardie che lo accompagnavano mi afferrarono e mi portarono via.

«Che state facendo? Non è ancora il momento! Lasciatemi!»

Fedele alla mia natura inizialmente urlai con tutta la mia voce, lanciando a quei tre umani ogni sorta di improperio o di maledizione, fino a che esausta e con l’anima svuotata non mi abbandonai esanime sul fondo del carro.

Seguimmo la Via Imperiale per qualche ora, salvo poi deviare in prossimità di un palazzotto signorile appena oltre i confini della regione, più lontano di quanto fossi mai andata in vita mia.

«Dove siamo? Perché ci fermiamo così presto?»

Ad attenderci nel cortile d’ingresso c’erano quattro schiave, un’orchessa, un cane e due conigliette, vestite come delle domestiche.

«Per quanto possa sembrarti ipocrita, sappi che mi dispiace.» mi disse il Capitano Oldrick mentre i suoi uomini mi facevano scendere. «Forse questa è la soluzione migliore dopotutto.»

Senza dire una parola le schiave mi condussero di peso in una specie di sala da bagno, dove fui lavata, profumata, pettinata e sistemata. Quindi mi misero addosso un vestito a dir poco provocante e mi affidarono a due legionari, che dopo avermi nuovamente ammanettata mi portarono in biblioteca, dove trovai ad attendermi un vecchio grassone coperto di gioielli e un giovane azzimato dagli occhi di ghiaccio.

«Allora, ragazzo. Che te ne pare del tuo regalo di compleanno?»

Non li avevo mai visti prima d’ora, ma intuii dovessero essere il governatore Longinus e suo figlio Adrian.

«Davvero stupenda, almeno per un mostro. E pensare che qualche microcefalo voleva farne un animale da monta. Ma si è mai vista una stupidità simile?»

«Padre, davvero. Non è necessario.»

«Ne abbiamo già parlato, ragazzo. Ormai sei quasi un uomo, e devi imparare a comportarti come tale. Alla tua età ne avevo già castigate a decine di queste bestie.»

«Con il dovuto rispetto, non credo sia qualcosa di cui dovreste vantarvi. Sono mostri.»

«Ma ci sono mostri e mostri. Voglio dire, l’hai vista? Se il mio vigore giovanile non fosse finito sottoterra anni fa insieme alla tua povera madre, avrei preso questo bel pezzo di lucertola per me. Se poi non ti piace quell’affare che ha dietro la schiena, possiamo sempre farglielo tagliare. Invece le corna al tuo posto le terrei. Con questa pelle così scura le danno un non so che di selvaggio.»

«Padre, vi ricordo che è arrivata una richiesta ufficiale dalla capitale di consegnare alle riserve ogni drago in età fertile di cui si disponga, e voi vi siete impegnato ad obbedire.»

«Che vadano all’inferno l’Imperatore e il suo branco di arraffoni. Se qualcuno verrà a controllare lo faremo tacere a forza di goldie.»

Adrian mi fissava in modo così cupo da farmi venire i brividi; aveva degli occhi talmente luminosi da poterci quasi scorgere il mio riflesso, di un color zaffiro penetrante, e dovetti distogliere lo sguardo per evitare di perdermici dentro.

«Facciamo così. Tienitela per qualche giorno, finché saremo ospiti del Barone Mecht. Se ti piace la portiamo al Castello, altrimenti la spediamo dove deve andare. Sei d’accordo?»

Il giovane sembrò titubante ma alla fine acconsentì, vedendosi dare anche del rammollito per il suo voler sempre seguire le regole evitando di godersi i privilegi dati dal suo status.

«Avanti, toglietemi questo animale da sotto gli occhi e portatelo in camera di mio figlio. E datele anche da mangiare. Deve essere in forma per la notte che l’aspetta.»

 

La stanza da letto in cui venni portata era più grande della mia casa.

Mi incatenarono al muro come un cane e mi diedero da mangiare, ma ero troppo arrabbiata e troppo spaventata per toccare cibo.

Quando Adrian arrivò attorno a mezzanotte ero immobile in un angolo, paralizzata dal freddo, anche perché nel frattempo fuori si era scatenata la prima bufera di neve.

«Idioti. Gli avevo detto di accendere il fuoco.»

Gli bastò un cenno della mano perché una scintilla di luce incendiasse la legna nel camino, diffondendo finalmente nella stanza un po’ di tepore.

«Tu sei uno stregone.»

«Possiedo quel minimo di potere necessario a farmi riconoscere come tale. Certo, non posso sperare di essere al tuo livello.»

«Io non possiedo poteri magici.»

«Solo perché sono neutralizzati dalla pietra del servo. Tu per prima dovresti sapere che i draghi sono gli unici mostri dotati di capacità affini alla stregoneria. Non potresti mai essere al livello di un vero drago, ma sono abbastanza sicuro che con il giusto addestramento potresti surclassare tranquillamente qualunque mago umano di questo mondo.»

Adrian allora mi afferrò per il mento, fissandomi a lungo senza dire una parola: e per qualche motivo non riuscii a ribellarmi.

«Certo. È naturale.»

«Di cosa parli?»

«Tu sai perché sono state create le riserve?»

«Perché vi servono continuamente nuovi schiavi.»

«Questa è la motivazione ufficiale. Da tempo ormai l’Impero ne produce più di quanti ne servano. La realtà è che fin dall’inizio lo scopo era effettuare esperimenti di ibridazione al fine di creare mostri sempre più umanizzati, più intelligenti ma anche più facili da controllare. Con alcuni ci sono riusciti, con altri invece le cose non sono andate come si sperava.»

Dall’altro lato della stanza c’era un grosso baule da viaggio; Adrian ne prese fuori un libro, una specie di grosso registro vecchio e logoro.

«Ovviamente è difficile ottenere informazioni attendibili dopo così tanto tempo, nonostante la natura notoriamente scrupolosa della macchina burocratica dell’Impero in materia di schiavi. Ma stando a questo archivio, sembra che già a partire da tre secoli fa ci siano stati svariati tentativi per ottenere un drago mezzosangue usando gli schiavi di cui si aveva notizia, e il drago Zorech risulta aver preso parte alla maggior parte di essi.»

«Mio padre!?»

«Quasi tutti gli esperimenti sono falliti, mentre quei pochi che hanno avuto come esito una nascita hanno prodotto esemplari non in linea con le aspettative. Ma all’incirca due secoli fa, ecco finalmente coronato il frutto di tanta fatica. Un drago mezzosangue, di sesso femminile, nato il sesto giorno del decimo mese del quattordicesimo anno di regno dell’Imperatore Agostino Ventunesimo, nella riserva di Estevan. Non occorre un grande sforzo di fantasia per capire che si sta parlando di te.»

«Perché mi stai raccontando queste cose?»

Adrian mi guardò di nuovo, stavolta in modo molto più freddo e minaccioso.

«Per farti capire quanto tu sia speciale. Se ogni ulteriore informazione sul tuo conto non fosse andata perduta durante il grande incendio della capitale avvenuto centocinquant’anni fa, a quest’ora saresti già stata inviata alle riserve da un pezzo. Ne consegue che al momento nessuno sa della tua esistenza. E anche adesso che l’Impero ha ripreso a cercarti, come ha detto mio padre basterebbero un po’ di soldi per farti sparire.»

Era chiaro cosa quel giovane dall’aria solo apparentemente così mite avesse in mente.

«Non sembri il tipo che agisce per compassione o un qualche nobile proposito. Perché mai faresti una cosa del genere?»

«Perché come tutti i nobili sono ambizioso, ma a differenza di mio padre so come trarre profitto dalle occasioni che mi si presentano. La verità è che ti ho notata qualche settimana fa durante una visita alla segheria, ma quell’idiota di mio padre ha scambiato un interesse pragmatico per attrazione sessuale. Ha ragione lui quando dice che sarebbe uno spreco inviarti alle riserve. Hai un potenziale che nemmeno immagini, tutto quello di cui hai bisogno è qualcuno che ti aiuti ad esprimerlo e una causa per cui usarlo. E di entrambe queste cose io ne ho in abbondanza.»

Mi divincolai disgustata, ma tra la pancia vuota e la catena finii nuovamente inginocchiata a terra, debole e indifesa come un gattino bagnato; ma ciò nonostante, ancora capace di mostrare le zanne.

«Ti nascondi dietro a belle parole e a quel bel faccino, ma sei solo un altro umano che ci considera solo degli strumenti. Mi fai schifo. Se potessi, ti affonderei i denti nella gola.»

Restando immune alla provocazione Adrian mi sfiorò il petto con un dito, e una sensazione mai provata prima mi attraversò tutto il corpo.

Non era dolore, tutt’altro.

Era qualcosa di strano, come un’onda di fuoco che risalendo da ogni singola parte del corpo mi arrivava dritta alla testa facendomi sragionare; ma era un fuoco buono, se così si poteva dire, completamente diverso da quello che mi dava la sensazione di bruciare viva quando venivo punita dalle guardie.

Il mio respiro divenne sempre più rapido, mentre quella piccola parte di autocontrollo che mi restava si sforzava di impedire alle mie mani di muoversi e alla mia bocca di gemere.

Mi sentivo patetica; capivo benissimo che tipo di idea stessi dando dal di fuori da come mugolavo, dalla mia espressione, dalla saliva che non mi riusciva di trattenere, ma non potevo farci niente. Il mio corpo era diventato mio nemico, e cercare di resistere a quel piacere serviva solo a renderlo più forte.

Nel mentre Adrian assisteva impassibile alla scena.

«Quegli idioti pensano che il bind serva solo a infliggere dolore. Ma come vedi, può essere usato anche in altri modi.»

«S… smettila… ti prego…»

«Mettiamola così. Quello che hai provato fino ad oggi è ciò che ti aspetta nelle riserve. Quello che stai provando adesso invece è ciò che potrai avere venendo con me. Ma non me ne faccio nulla di una cavalla bizzosa. Sta a te decidere.»

Detto questo, e senza preoccuparsi di far cessare l’azione del bind, se ne andò.

«Ti darò una notte per pensarci.» disse prima di chiudere la porta.

 

Passarono almeno due ore prima che il potere del bind si disperdesse da sé, e me ne servirono altrettante per riuscire a riprendermi.

Il solo pensare a ciò che avevo passato e alle cose che avevo fatto era abbastanza per farmi desiderare la morte, e il fatto di non riuscire malgrado tutto a negare quanto fosse stato indescrivibile e diverso dal solito mi faceva solo provare repulsione per me stessa e per gli istinti a cui il mio corpo semplicemente non poteva sottrarsi.

Da sola, alla luce del fuoco, vagliai le soluzioni che mi restavano, tutte terribili; potevo solo scegliere se diventare un animale da riproduzione o il giocattolo di un nobile viziato e ambizioso, che non si sapeva bene cosa avesse intenzione di fare di me.

Qualunque scelta avessi fatto, ero destinata in ogni caso ad un’esistenza misera.

Fuori intanto la tempesta diventava sempre più forte, e certamente entro la mattina metà della provincia si sarebbe ritrovata coperta da parecchi centimetri di neve.

Qualcosa mi piovve in testa dall’alto quando stavo quasi per addormentarmi, e aperti gli occhi vidi ai miei piedi un piccolo pezzo di metallo, lungo e sottile, ma dall’aria solida e con un’estremità appuntita.

«Ma che…»

Alzato lo sguardo, feci appena in tempo a scorgere una delle assi del soffitto che veniva furtivamente rimessa al suo posto, ed un rumore di passi felpati che si muovevano sopra la mia testa.

«Chi sei?»

Era chiaro che qualcuno aveva voluto offrirmi una terza scelta.

Nel tempo di un batter di ciglia analizzai quell’inaspettato capovolgimento di eventi e le conseguenze che avrebbe comportato.

A dar retta a ciò che avevano detto il grassone e suo figlio, io lì non avrei neanche dovuto esserci. Se mi fosse capitato qualcosa o se fossi fuggita sarebbe stato difficile per il governatore giustificare la mia presenza lì, e punire chicchessia sarebbe stato come ammettere di aver cercato di appropriarsi di merce di valore destinata all’Impero.

Ripensai a mio padre, ai miei compagni, persino a Daemon, pregando quegli dei in cui non credevo più da tempo di non stare sbagliandomi; quindi, fatta pace con la mia decisione, dissi loro addio.

Per una volta avrei pensato a me stessa. Era la mia vita in fin dei conti.

«Mi dispiace.»

 

Con la fine della tormenta e la scomparsa delle nubi, la notte si era fatta straordinariamente luminosa.

All’improvviso, urla d’allarme ruppero il silenzio della notte, e torce andarono accendendosi in tutti gli angoli del palazzo alle mie spalle.

«Allarme! – Il drago è fuggito! – Cercatela!»

Correvo trascinando a fatica i piedi nudi, che già dopo pochi passi si erano fatti duri e insensibili a causa del freddo. Ogni passo era un calvario, anche perché non essendo riuscita a rompere la serratura del grosso collare di ferro ero stata costretta a portarmelo dietro assieme alla catena.

Benché fossi abituata a patire il freddo il fazzoletto che mi avevano messo addosso era talmente scarno e sottile che era come se stessi correndo senza vestiti, e l’aria gelida, i rami e le spine non smettevano un momento di tagliarmi la pelle.

E intanto, sentivo sempre più vicino il latrato dei cani lanciati contro di me.

Ma ormai avevo preso la mia decisione. Non mi sarei lasciata prendere. Sarei scappata, o avrei usato l’ultimo briciolo di forze per squarciarmi la gola; anche una morte tanto orrenda era una prospettiva migliore rispetto a quello che mi attendeva.

Lottando con la fatica, mentre il freddo mi penetrava nelle ossa, continuai a correre, sempre più esausta, guidata solo dai pochi raggi di luna che riuscivano a penetrare tra le fronde degli alberi.

All’improvviso, un’ombra mi si parò dinnanzi, come un fantasma senza tratti, restando immobile sul sentiero. Dopo avermi fissato per qualche istante, puntò l’arco verso di me.

«Mi dispiace, Scalia. Tu devi morire.»

 

In quanto animale da tiro Bojack era quasi sempre alla caserma della milizia, quindi parlare con lui era il metodo migliore per avere informazioni su quello che succedeva nel ghetto. E quando mi aveva informato di quello che ai piani alti avevano deciso su Scalia, ammetto che per diversi giorni non avevo avuto idea di cosa fare.

In quanto sceriffo tecnicamente quello che accadeva nei ghetti non era affar mio, ma era ovvio che se fosse capitato qualcosa a mia sorella anche io avrei avuto la mia parte di responsabilità.

Da una parte sentivo di non poter mettere a rischio quello che stavo costruendo per salvare un singolo mostro, dall’altra non riuscivo a non pensare a Scalia sbattuta in una di quelle sudice riserve senza provare disgusto.

Una come lei non meritava una sorte simile.

In lei rivedevo Paolina; lo stesso spirito ribelle, la stessa aura selvaggia e imprevedibile.

E poi le dovevo molto; non solo mi aveva trovato –con un piccolo aiuto da parte di Faucheur, ormai ne ero certo–, ma mi aveva anche cresciuto. Ci eravamo anche allenati assieme.

Lei, Zorech e Lori erano la mia famiglia. E la famiglia è sacra.

Cercando di pensare che mi stavo probabilmente mettendo nei guai solo per risollevare la mia reputazione all’interno del ghetto –che ovviamente aveva subito un duro colpo con la questione di Malik– cominciai a scervellarmi in cerca di una soluzione.

Dovevo trovare il modo di salvare Scalia senza che questo mi costasse il prestigio che avevo accumulato presso il governatore e tra i pochi elementi da salvare all’interno della milizia.

Sapevo di avere poco tempo, quindi per una volta mi presi il rischio di agire in modo meno raffinato del solito, sperando di non dovermene pentire in seguito.

Persuadere il governatore a reclamare Scalia per sé non fu un problema; quello scimmione ninfomane avrebbe infilato il suo bastone flaccido anche nella bocca di un cannone se ciò fosse servito a saziare la sua lascivia.

Quello che non avevo considerato era che Longinus potesse decidere di fare di Scalia il regalo di compleanno per Adrian, che avevo capito al primo sguardo essere di tutt’altra pasta rispetto a suo padre.

Con lui non c’era da scherzare, così appena Jack mi informò che il giorno appresso avrebbero portato Scalia alla residenza del barone Mecht dove il governatore e suo figlio erano ospiti da alcuni giorni decisi di agire immediatamente.

Entrare di soppiatto nel palazzo fu un gioco da ragazzi, visto che mi ci ero recato spesso per ricevere commissioni dal padrone di casa.

Naturalmente non si sarebbe trattato di un comune salvataggio; in fin dei conti stavo già rischiando molto più di quanto avrei fatto per chiunque altro, e Scalia doveva quantomeno dimostrare di meritarselo.

Per questo mi ero limitato a fornirle i mezzi per tentare la fuga, piuttosto che aiutarla direttamente: per mettere alla prova lei e la sua determinazione.

Dopotutto lei era una componente fondamentale del mio piano. Se avesse rifiutato il mio aiuto accettando passivamente ciò che la sorte era pronta a farle calare addosso significava che avevo sbagliato a giudicarla, e che quindi non mi serviva né valeva il rischio.

Ma lei non mi aveva deluso: lei aveva scelto di lottare. Anche a costo di venire meno a ciò in cui aveva sempre creduto.

Abbandonato il castello col favore della tormenta mi portai lungo la strada che ero sicuro avrebbe seguito, attendendola al varco.

«Daemon!? Che ci fai qui?»

«Le spiegazioni a dopo. Riesci ancora ad arrampicarti?»

«Credo di sì.»

«Allora sali su un albero più in alto che puoi e fai silenzio. Al resto ci penserò io.»

Per un attimo temetti non mi avrebbe obbedito, ma evidentemente qualcosa dentro di lei le ricordò che in fin dei conti restavo comunque suo fratello, e che di me poteva ancora fidarsi.

Nel mentre il fuoco le torce si poteva ormai distinguere ad occhio nudo attraverso la boscaglia, così come Scalia si fu arrampicata estrassi dalla neve il cadavere che avevo già preparato il giorno prima, –uno degli sgherri di Borg, poco discreto nelle ruberie ai danni del suo capo, che mi ero offerto di eliminare– dandogli fuoco con la freccia magica che il governatore in persona mi aveva regalato.

I cacciatori arrivarono mentre il corpo stava ancora bruciando.

«Mi dispiace. Non mi ha lasciato scelta.»

 

La mattina dopo il governatore aveva un diavolo per capello.

Oltre a me erano stati convocati anche il Capitano Oldrick e il Generale Ron.

«Quello che è successo è intollerabile! Quel dragone era un regalo che avevo scelto personalmente per mio figlio Adrian, e adesso è morta!»

«Mio Signore, vi prego di perdonarmi.» dissi profondendomi nel più scenografico degli inchini. «Non ho scusanti per quanto successo. Mi assumo la piena responsabilità per l’accaduto.»

«Mi hanno detto che l’hai ridotta in un mucchietto di cenere. Era proprio necessario arrivare a tanto?»

«Vi sono stato costretto mio Signore. Quella bestia ha tentato di assalirmi. A malapena sono riuscito a difendermi.»

«Quella stella che ti ho dato non è certo per bellezza. Avresti potuto addomesticarla usando il bind.»

«Ci ho provato, ma non ha funzionato.»

«Temo sia colpa mia padre. La piccola puledra scalciava, e forse ho esagerato nel cercare di addolcirla.»

«Col dovuto rispetto, Governatore.» intervenne Ron fissandomi in modo più che eloquente. «Ridurre un corpo in quello stato è un ottimo modo per renderlo irriconoscibile.»

«State insinuando qualcosa Generale?»

«Un drago femmina fertile vale un sacco di soldi, specie ora che l’Impero li sta cercando assiduamente. E Voi signor Haselworth a quanto mi dicono non siete nuovo a stringere accordi con persone tutt’altro che oneste.»

«Questa è un’accusa infamante!» esclamò Oldrick. «Il comportamento dello sceriffo è stato sempre impeccabile. Inoltre voglio ricordarvi la faccenda della pietra.»

«Di che state parlando?» chiese il Governatore

«Come immagino saprete mio Signore, quel drago aveva quasi duecento anni. Ne consegue che la pietra del servo che aveva nel suo corpo era di un tipo molto vecchio, che da tempo non viene più utilizzato. E dai controlli è emerso che la pietra rinvenuta tra i resti del mostro ucciso dallo sceriffo non solo era effettivamente rotta, ma è risultata anche essere proprio di quel tipo.»

E non avete idea della fatica che ho fatto per trovarne una così vecchia. Per non parlare di quello che mi è costata! Però devo ammetterlo, Borg riesce a rimediare davvero di tutto.

Alla fine fu Ron l’unico a rimetterci, e la cosa mi procurò enorme piacere; anche se con la sua condotta brutale mi stava facilitando parecchio le cose, il suo eccessivo zelo mi era costato negli anni parecchi contatti e potenziali clienti, e averlo per qualche mese confinato al Castello era sicuramente una buona notizia.

Quanto a me ne uscii completamente pulito. Anzi, ci guadagnai anche una gratifica di duecento goldie, visto che offrendomi di firmare un atto ufficiale che rivendicava un’uccisione inevitabile durante il trasporto avevo incenerito assieme al drago anche il problema di dover spiegare la sua eventuale sparizione ai funzionari imperiali.

E non era ancora finita.

 

Scalia non poteva certo tornare a vivere al ghetto, quindi decisi di ospitarla a casa mia.

Anche se all’inizio le fu difficile realizzare di essere ormai completamente libera bastarono pochi giorni perché l’intimazione ad uscire solo dopo il tramonto cominciasse a starle stretta, tanto il pensiero di poter andare ovunque e fare quello che voleva le bruciava dentro.

Non c’è niente di meglio che dare a una persona ciò che in cuor suo ha sempre desiderato più di ogni altra cosa per ottenerne la fedeltà.

Per ovvi motivi non potevo correre il rischio che qualcuno andasse a rivelare ai quattro venti ciò che avevo fatto; per evitare che qualcuno potesse venire a curiosare in casa avevo persino provveduto a costruire un pesante cancello a metà del tunnel, troppo spesso e pesante per un qualunque mostro capace di infilarsi in quel pertugio.

Perché quell’investimento desse i suoi frutti però era necessario che almeno qualcuno lo venisse a sapere.

L’occasione si presentò solo qualche settimana dopo. Il barometro che mi ero costruito mi aveva messo in guardia circa l’imminente arrivo di un inverno ancora peggiore di quelli a cui quella parte di Erthea era abituata, ma la tempesta che quella notte si era abbattuta su di noi non assomigliava a nulla che avessi mai visto.

Il Comandante Beek e i suoi uomini si erano presentati al ghetto prima ancora del sorgere del sole, con l’ordine tassativo da parte del governatore di destinare ogni singolo schiavo della regione alla pulitura della Via Imperiale, trovando però me ad attendere il loro arrivo davanti ai cancelli.

«Ho bisogno di tre mostri. La tempesta si è portata via metà del mio tetto, e io e il mio schiavo da soli non bastiamo a sistemare tutto quel disastro.»

«Ma quanto mi dispiace.» disse a bassa voce il vecchio Passe, pensando forse che non potessi sentirlo.

Era evidente che la notizia di quanto accaduto era già arrivata anche a loro: se gli sguardi avessero potuto uccidere…

Ancora una volta Beek protestò, ma ormai la stima che il governatore nutriva nei miei confronti era tale che avrei potuto anche ordinare a quel caprone di abbassarsi i calzoni e succhiarsi il pollice senza che potesse disobbedire.

Oltre a Passe portai via con me anche Zorech, Lori e l’orco Grog, gli unici quattro di cui mi potessi realmente fidare, liberandomi alla prima occasione delle due guardie di scorta e proseguendo da solo insieme a loro alla volta della baita.

«Daemon, ascolta. Dimmi la verità. Quelle voci che si sentono non sono vere, giusto? Se l’hai fatto per salvare tua sorella però, forse potrei riuscire a capirlo. Però me lo devi dire. Ti prego.»

«Sprechi il fiato, Zorech

«Io so che tu non sei così Daemon. Non puoi averlo fatto davvero. Scalia è la tua adorata sorella. D’accordo, è irascibile e ha un caratteraccio, ma in fondo vi volevate bene.»

«Lascia perdere Lori. Grog ha ragione. Questo bastardo si è venduto definitivamente. Se non fosse che ci andremmo di mezzo tutti, sarei quasi tentato di raccontare una o due cose alle guardie.»

«Ben detto. Così forse ci penserebbero loro a spedirti dove potresti chiedere scusa a Scalia personalmente.»

«Passe! Grog! Ora basta!»

«Ma come fai ad essere così comprensivo Zorech? Questo umano ha ucciso tua figlia!»

Facile immaginare quale fu la loro reazione quando, prima ancora di arrivare alla baita, udirono la voce di Scalia che mi chiamava dall’interno.

«Era ora che tornassi! Lo sai da quant’è che sgobbiamo? E dire che questa dovrebbe essere casa tua!»

«Scalia!? Sei viva!?»

«Certo che sono viva, padre. Ne dubitavi?»

Spiegai dunque ogni cosa, ovviamente tenendomi per me gli aspetti sui quali Zorech e gli altri avrebbero avuto qualcosa da ridire.

«Io lo sapevo! Lo sapevo che non potevi aver fatto una cosa del genere!»

«Lori, accidenti a te, lasciami! Vuoi rompermi tutte le ossa?»

Lavorammo per tutto il giorno, e per il tramonto la baita era ritornata quantomeno abitabile.

Prima di congedarci mi raccomandai affinché nessun altro lo venisse a sapere, ma in realtà non avevo dubbi sul fatto che presto o tardi la notizia avrebbe fatto il giro di Ende, arrivando alle orecchie almeno di quelli di cui Zorech e gli altri si fidavano. Esattamente quello che volevo.

Ancora una volta avevo compiuto un piccolo miracolo.

E ormai eravamo quasi al gran finale.

 

Nota dell’Autore

Eccomi di nuovo con il quarto capitolo

Siamo arrivati a metà del Primo Volume, gli eventi da ora in poi procederanno in maniera abbastanza spedita.

Oltretutto, facendomi due conti, ho calcolato che se rispetto i tempi dovrei essere in grado di rilasciare i capitoli del Secondo Volume senza dover far passare troppo tempo.

Ringrazio OK_Man per la sua recensione.

Ci si vede tra due settimane!

A presto!^_^

Cj Spencer

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 - IL FURTO ***


“Per qualcuno con la pancia vuota

non esistono né obbedienza né timore”

CAPITOLO 5

IL FURTO

 

 

Fin da piccolissimo avevo sognato di essere qualcuno di importante.

Un eroe valoroso.

Un potente mago.

Un magistrato influente.

Ma ero solo il figlio del mugnaio di una piccola cittadina di frontiera, e in quanto tale mi ero reso conto molto presto di quante poche possibilità il destino avesse deciso di concedermi.

Non ero nato con il Segno, quindi non potevo essere un mago.

Non sarei mai riuscito a permettermi l’iscrizione all’Accademia Imperiale, quindi non potevo diventare un giudice o un funzionario.

Restava solo la via dell’eroe, ma anche così sarei dovuto partire dalla base della scala.

Quando ancora scolaretto avevo detto ai miei genitori che da grande mi sarei arruolato nelle legioni, per poco non mi avevano buttato fuori di casa.

Sì, perché come se non bastasse nel posto in cui sono cresciuto essere un servitore dell’Impero non era una professione di cui andare fiero.

Ma io, testardo, non mi ero perso d’animo, e i fatti mi avevano rapidamente dato ragione; dopo solo un anno da che avevo lasciato la mia casa alla volta della capitale ero già decurione della Quindicesima Legione Invicta.

Avevo chiesto io stesso di essere assegnato a quell’incarico, così da poter fare ritorno nei luoghi in cui ero cresciuto e avere l’occasione di dimostrare a tutti che si poteva essere dei soldati dell’Impero senza per questo rinnegare o dimenticare le proprie origini.

Come decurione mi avevano assegnato proprio a presidio del piccolo fortilizio che dall’alto di un colle dominava il mio villaggio natale; ufficialmente ero il comandante in seconda, ma visto che al nostro centurione piaceva di più ubriacarsi alla taverna che fare il proprio dovere in pratica ne facevo le veci.

Eravamo solo uno sparuto gruppo di soldati, visto che gli accordi di pace con l’Unione di Patria vietavano la presenza di grossi presidi in tutte le regioni affacciate sulle sponde del fiume Jesi, ma provenendo quasi tutti dai territori della vecchia Eirinn ci trovavamo bene e ci conoscevamo tutti.

Ovviamente non avevo alcuna intenzione di marcire in quel presidio di periferia, e contavo di mettermi in luce alla prima occasione utile per ottenere al più presto una nuova promozione.

Purtroppo il destino è beffardo, e si diverte a metterti davanti le prove più dure quando meno te l’aspetti.

 

L’Eirinn Occidentale non era mai stato il posto più ospitale del mondo, e accumulare delle scorte al termine del raccolto per far fronte all’inverno era una cosa normale per noi.

Daemon, le cui ipotesi quasi mai si erano rivelate inesatte, aveva suggerito di mettere da parte una quantità di cibo ancora maggiore del solito, dato che secondo un qualche strumento che si era costruito l’inverno in arrivo sarebbe stato assai peggiore dei precedenti. Ovviamente ci aveva visto giusto, e per nostra fortuna il sindaco gli aveva dato ascolto dando ordine di ammassare una montagna di cibo.

Quello stesso cibo che ora stava bruciando sotto i nostri occhi.

Il boato era stato così forte da scaraventarci tutti quanti giù dal letto nel cuore della notte, e al nostro arrivo avevamo potuto solo osservare impotenti il frutto di tanti mesi di fatiche andare letteralmente in cenere.

L’unica consolazione fu che riuscimmo a contenere il fuoco evitando il propagarsi dell’incendio e a portare in salvo qualcosa, ma al sorgere del sole del granaio e quasi tutto il suo contenuto non rimaneva più nulla.

Tra miliziani e legionari passammo quasi un’ora ad accusarci gli uni con gli altri per quanto accaduto, sotto gli occhi increduli, preoccupati e giustamente ostili degli abitanti. Fu Daemon a richiamarci tutti all’ordine.

«Smettetela! Sembrate un branco di scolaretti che si azzuffano! Invece di litigare su chi sia più colpevole cerchiamo di capire cos’è successo e come rimediare a questo disastro.»

«Hai ragione.» ringhiai in faccia a quell’idiota di Beek. «Non ne vale la pena.»

«Attento a come parli ragazzino. Portavo l’uniforme quando tu ancora bagnavi il letto.»

Senza che io e il Comandante smettessimo un attimo di beccarci facemmo un sopralluogo all’interno.

«Io non mi spiego quell’esplosione che abbiamo sentito. Qui dentro non c’è niente che potesse produrre una simile deflagrazione.»

«Ti sbagli, qualcosa c’era.» rispose Daemon sollevando da terra un sacco di farina carbonizzato. «La farina è infiammabile quasi quanto la polvere da sparo. Basta un niente per innescarla. Mettici una stanza chiusa e satura di polveri, più un vecchio edificio quasi interamente in legno…»

«Quindi…» disse il sindaco «Sarebbe stato un incidente?»

«Probabilmente. Forse qualche cassa è caduta e ha provocato una scintilla.»

Il mio attendente Jorn, un mio coetaneo proveniente dal nord che non aveva mai visto la frontiera e i suoi problemi in vita sua, aveva il morale a terra. Avevo cercato di spiegare al centurione Costanzio che non era ancora pronto ad assumere un ruolo delicato come il comando della ronda notturna, e ora cercava in tutti i modi di rimediare a quello che considerava un suo errore personale sfruttando il suo proverbiale acume.

«Decurione, venite a vedere! Ho trovato qualcosa!»

Seguendo la sua voce arrivammo nei pressi del muro, dove sul pavimento di pietra era ben visibile una sorta di lunga linea nera che sbucando da una fessura continuava dritta fino al punto in cui era stata stoccata la maggior parte della farina.

«Ora sappiamo cos’è successo.» disse Daemon

«Che intendi dire?»

«Questo è il segno lasciato da un innesco. Qualcuno ha fatto passare una miccia sotto il muro per incendiare i cumuli di farina. L’ambiente chiuso, il legno secco e gli altri materiali infiammabili hanno fatto il resto.»

«Quindi sarebbe stato un…»

«Un attentato.»

Beek non aspettava altro per scatenarsi.

«Io lo sapevo! Sono stati sicuramente quei bastardi reunionisti! Gli stessi che Voi sindaco vi ostinate a non voler reprimere!»

«Adesso non ricominciare. Questo non è certo il modo di agire dei reunonisti

«Tu sta zitto moccioso in armatura. Che cosa vuoi saperne? Ho dato la caccia a quella feccia ribelle per anni, non sono altro che un branco di animali!»

«Septimus ha ragione, Comandante. I reunionisti si considerano patrioti che lottano per il popolo e per la riunificazione di Eirinn. Non affamerebbero un’intera regione che brulica di loro simpatizzanti.»

«Hai detto bene sceriffo! Questo posto è un covo di serpi! E sono pronto a scommettere che tra di loro c’è chi ha avuto questa brillante idea! Chi credete che saranno i primi a patire la carenza di cibo? Miliziani e soldati ovviamente! Ma se sperano che questo basterà a piegarci hanno sbagliato i conti! Vig

«Signore?»

«Chiama l’adunata generale! Voglio tutti in caserma in dieci minuti e una lista completa di soggetti ostili entro stasera! Elimineremo quella feccia ribelle una volta per tutte!»

Il sindaco ed io invece avevamo tutt’altri pensieri per la testa.

«E adesso cosa facciamo sceriffo? Senza questo cibo sarà quasi impossibile superare l’inverno.»

«Il sindaco ha ragione. Quello che siamo riusciti a salvare non riuscirà mai a sfamare tutti.»

«Andrò a parlare con il Governatore, anche se non sono sicuro che mi ascolterà.»

«E tu credi davvero che quel porco accetterà di dividere il suo cibo con noi? Piuttosto ci lascerà morire di fame.»

«Sindaco, vi suggerisco di fare più attenzione a quello che dite. Con il Comandante in quello stato non è questo il momento di fare simili discorsi.»

«Che vada all’inferno Beek, ragazzo. Non è altro che un macellaio. L’unica ragione per cui non posso liberarmene è solo perché i fanatici come lui sono sempre benaccetti in posti come questo.»

 

Purtroppo Beek non aveva scherzato dicendo di voler stroncare definitivamente il reunionismo nella regione.

Quella notte stessa iniziarono i rastrellamenti. Casa per casa, porta per porta. Chiunque fosse anche solo minimamente sospettato di aver fatto parte o fare ancora parte di qualche cellula reunionista venne sorpreso nel sonno, bastonato fin quasi ad ucciderlo e portato via.

I pochi abbastanza fortunati da avere un cognome rispettabile o le giuste conoscenze vennero rinchiusi in prigione in attesa di fantomatici processi; tutti gli altri direttamente alla forca, non prima ovviamente di essere stati torturati a dovere nel tentativo di scovare altri presunti terroristi o svelare i nomi dei veri responsabili dell’attacco al granaio.

La breve strada tra il palazzo di giustizia e il patibolo era percorsa senza sosta da carretti carichi di disperati, e per il boia non c’era un attimo di respiro.

In pochi giorni si instaurò un clima di terrore tale da riportare alla mente il periodo più buio delle dispute di confine con l’Unione; chiunque poteva essere arrestato, e dal momento che ogni nome riferito alla milizia, vero o falso che fosse, valeva due goldie i delatori non mancavano: era l’occasione perfetta per sistemare vecchi conti in sospeso.

E intanto l’inverno peggiorava sempre di più. Non passava giorno senza che nevicasse, e le temperature erano scese al punto che perfino lo Jesi in alcuni punti aveva iniziato a congelarsi.

Daemon dal canto suo aveva fatto tutto quello che era in suo potere per convincere il Governatore ad aprire i granai, ma tutto quello che aveva ottenuto erano stati due carri destinati esclusivamente alla milizia e alla guarnigione. Qualcuno aveva avuto la brillante idea di consigliare a quel grassone di fare qualcosa per aumentare la sua popolarità tra la piccola nobiltà locale, e lui si era fatto venire in mente di trasformare un evento di poco conto come il ballo d’inverno in un ricevimento degno dell’Imperatore in persona.

E intanto i nostri concittadini morivano di fame.

Io e quasi tutti i miei compagni ovviamente facevamo il possibile per dividere le nostre già esigue razioni con la gente, ma tra la fame, il freddo e le esecuzioni che non si fermavano un attimo la rabbia montava sempre di più. Alcuni di noi avevano perfino paura ad avventurarsi da soli per strada, tale era il terrore di essere linciati da una folla che stava raggiungendo il limite dell’esasperazione.

E in tutto questo io avevo le mani legate.

Il mio superiore, il Centurione Costanzio era un fallito buono a nulla che non vedeva l’ora di concludere i tre anni di servizio obbligatorio che tutti i nobili dell’Impero dovevano onorare per scapparsene nuovamente a Maligrad a godersi l’eredità paterna, e non avrebbe mosso un dito per fermare Beek e i fanatici della milizia che lo seguivano. Anzi, in un paio di casi ci ordinò di collaborare attivamente nei rastrellamenti, forse pensando che scoprire l’identità dei sabotatori potesse essere un buon modo per accorciarsi il servizio militare.

Se la situazione a Dundee e tra gli umani in generale era grave, nel ghetto era anche peggio.

Quei poveracci non mangiavano quasi nulla, ma nonostante ciò da loro ci si aspettava che dessero sempre più di quanto erano effettivamente capaci.

Io e alcuni altri avremmo voluto fare qualcosa anche per loro, ma più che far visita alle miniere e ai cantieri per tenere a freno il sadismo dei miliziani non potevamo fare, e vederli così, magri da far paura e sottoposti a continue vessazioni ammetto che ci faceva stare molto male.

Nessuno merita un’esistenza così misera, non importa quale sia il suo crimine.

Ovviamente gli arresti, le torture e le esecuzioni non portarono a nulla, e ad un mese dall’incendio nessuno aveva ancora idea di chi fosse il responsabile di aver innescato quella situazione esplosiva.

Per tutto quel tempo io e gli altri legionari avevamo osservato senza reagire, ma si arrivò al punto in cui tutti insieme decidemmo che dovevamo fare qualcosa prima che la situazione esplodesse definitivamente; non tanto perché il nostro dovere di legionari ce lo imponeva, quanto piuttosto perché quella era la nostra gente. E anche se Beek e i suoi sembravano essersene dimenticati, eravamo tutti figli dell’Eirinn, pronti a dare la vita gli uni per gli altri.

Dapprima iniziammo a mettere i bastoni tra le ruote alla milizia millantando ordini dall’alto di limitare le loro attività di rastrellamento. E visto che teoricamente non erano altro che legionari senza insegna, civili prestati all’esercito e formalmente sottoposti all’autorità della legione, i nostri ordini travalicavano sempre i loro.

Quindi ci mettemmo a distribuire medagliette al merito; bastava portarne una appuntata sul vestito per essere riconosciuti come fedeli servitori dell’Impero, e far risultare assurda qualsiasi pretesa di cooperazione coi reunionisti.

Ma si trattava solo di espedienti che servivano a poco, anche perché come temevo furono in molti a rifiutare il nostro aiuto o di portare le medagliette, con il risultato di dare ai miliziani ulteriori pretesti per giustificare gli arresti.

Dovevamo trovare il modo di risolvere quella situazione il più in fretta possibile, o per come la vedevo io c’era il rischio concreto che l’intera regione saltasse per aria.

Per nostra fortuna il cervello di Jorn non aveva mai smesso di lavorare. Fu così che riuscì per primo ad intuire ciò che nessuno di noi era riuscito a capire.

«Decurione, stavo pensando. E se quello che può sembrare un sabotaggio non fosse altro che il tentativo di coprire qualcos’altro? Ad esempio, un furto?»

«Impossibile. Abbiamo perlustrato con attenzione il granaio e i dintorni. Anche ammesso che siano riusciti ad eludere le guardie non c’era niente che indicasse che fosse stato portato via qualcosa quella notte.»

«Hai ragione. Però c’è un’altra eventualità che non abbiamo considerato.»

«E quale sarebbe?»

«Chiunque abbia commesso questo furto intendeva trarne un grosso guadagno, portando via quello che bastava per giustificare il rischio di essere scoperti. Muovere una simile quantità di cibo tutta insieme senza lasciare tracce sarebbe difficile per chiunque, specie ora che la neve e il fango rendono le strade impraticabili. Se però il furto viene commesso poco per volta, la cosa diventa molto più fattibile.»

«Stai dicendo che avrebbero rapinato continuativamente il granaio per giorni?»

«Forse anche di più. Come suggerito dallo sceriffo il granaio è rimasto chiuso e sorvegliato già a partire dalla fine dell’autunno. Entrare e uscire nonostante la sorveglianza non sarebbe stato difficile per dei professionisti, a condizione di saccheggiare le provviste poco per volta.»

«Se è come dici tu allora temo sarà inutile cercarli. A quest’ora saranno già chissà dove.»

«No, io non credo. Ovvio che non possono sperare di rivendere il cibo qui, ma noi non siamo sicuramente gli unici che l’inverno ha messo a dura prova. Spostare un simile carico in pieno inverno e con la milizia che batte ogni sentiero giorno e notte in cerca di ribelli però non dev’essere per niente facile.»

«Mi stai dicendo che potrebbero essere ancora qui!?»

«Probabile. Deve essere per questo che hanno inscenato il sabotaggio, così da non far scoprire il furto e potersi allontanare indisturbati alla prima occasione.»

Se l’ipotesi di Jorn era giusta dovevamo comunque agire in fretta, prima che i ladri avessero il tempo di disfarsi anche solo di una parte della refurtiva.

Ma come fare a trovarli se erano stati così attenti a passare inosservati? Ancora una volta il mio amico ebbe l’intuizione giusta.

«Anche se probabilmente contano di rivendere la merce rubata per conto proprio potrebbero essersi rivolti a un trafficante. E da queste parti sappiamo bene che ce n’è uno molto potente.»

 

Non ero mai stato alla presenza di Borg, ma trovarmelo di fronte mi ricordava perché a distanza di cinquecento anni c’era ancora qualcuno che reputava giusto e doveroso il modo in cui l’Impero trattava quelli della sua specie.

Quel maiale era talmente sicuro della propria intoccabilità da essersi costruito un magazzino traboccante di merci preziose a due passi dalla Via Magna, e aveva al suo servizio come guardaspalle persino degli umani.

Il suo ufficio di contro era abbastanza umile; uno avrebbe pensato che non volesse palesare la propria oscena ricchezza, se non fosse stato per le vesti broccate e i gioielli di cui amava ricoprirsi.

«Dunque? Che cosa posso fare per i rispettabili delegati della Quindicesima Legione?»

«Ci servono delle informazioni.»

«Merce costosa. Immagino abbiate di che pagarla.»

Sapevamo che per Borg tutto aveva un prezzo, incluse le informazioni; e visto che come prevedibile la legione ci aveva negato l’accesso ai fondi eravamo stati costretti a fare una colletta tra di noi per mettere insieme un po’ di soldi.

Il coboldo e la lucertola che stavano alle nostre spalle ridacchiarono alla vista di quel sacchetto mezzo vuoto che ci era costato così tanti sacrifici. Invece Borg non disse niente, facendo scorrere le monete sulla scrivania e lasciandosi sfuggire uno strano sorriso.

«Sono a vostra disposizione.»

Jorn prese la parola.

«Vorremmo sapere se negli ultimi mesi siete stato contattato da qualcuno che vi ha proposto di acquistare o ricettare merce rubata. Soprattutto cibo, ma anche attrezzi da lavoro, grasso animale e pellicce.»

«Ragazzo mio, se mi conoscessi dovresti sapere che il mio commercio è perfettamente legale. I miei clienti sono tutte persone rispettabili, e da onesto mercante io stesso obbedisco devotamente alle leggi dell’Impero che regolamentano il commercio. Non farei mai una cosa tanto disonesta come vendere e comprare il frutto di una rapina.»

«Voi non siete un mercante, siete un trafficante.»

Jorn aveva negli occhi una luce che non gli avevo mai visto, fissando quel maiale come se avesse voluto saltargli addosso riducendolo ad una pancetta.

«Sembri sapere molte cose sul mio conto ragazzo.»

«Io vengo dalla provincia di Tingas, dove anche voi vivevate prima di trasferirvi qui. Mio padre è uno degli uomini che avete truffato con quel vostro affare delle pellicce.»

Colpito dal suo coraggio, anche io decisi di mettere da parte ogni timore.

«Ora ascoltami bene maledetto maiale. Lo sappiamo tutti e due che non possiamo torcerti un capello. Quello che possiamo fare però è rendere il tuo lavoro estremamente difficile. Darò ordine di ispezionare a fondo ogni filo d’erba che esce da questo posto, farò cambiare le guardie e i doganieri sul ponte almeno cinque volte al giorno. Dovrai pagare tante di quelle tangenti per far girare la tua merce che non ti rimarrà abbastanza nemmeno per pagare i tuoi uomini. Quindi ora dacci un taglio con la storia dell’onesto mercante e dicci quello che sai.»

I suoi due guardiani erano pronti a saltarci addosso, ed entrambi avevamo già la mano sull’impugnatura della spada. Invece, Borg fece loro segno di calmarsi, accendendosi uno dei suoi famosi sigari toriani.

«Non mi sorprende che vi abbia messo gli occhi addosso.»

«Di che parli?»

«Non importa. Ad ogni modo sì, sono venuti da me. Circa un mese fa.»

«Chi erano?»

«Stranieri. Banditi. Probabilmente del Torian. Mi hanno chiesto se ero interessato a ricettare derrate alimentari rubate, ma li ho messi alla porta invitandoli a non tornare. Come ho detto, io non tratto con gente di quella risma.»

«Hai idea di dove si potrebbero nascondere?»

«Se dovessi scommettere, e non sono uno che scommette, punterei sulla terra di nessuno, da qualche parte lungo le sponde del fiume.»

«Proprio dove gli accordi con l’Unione ci impediscono di entrare in forze.»

«A questo punto, l’accordo tra noi è concluso. E se non vi dispiace avrei parecchie cose da fare. Vi saluto signori.»

Una volta fuori io e Jorn discutemmo della situazione.

«Pensi che possano essere ancora lì?»

«Il ponte è sotto sorveglianza continua da quando Beek si è scatenato. E anche se il fiume è parzialmente congelato non mi arrischierei mai a tentare di attraversarlo portandomi appresso svariati quintali di refurtiva. Secondo me si trovano ancora nei paraggi.»

«Il problema è che in base ai trattati solo le guardie assegnate al controllo del ponte possono entrare nella terra di nessuno. Come facciamo a battere una zona tanto vasta senza poter contare sui nostri compagni?»

E il peggio doveva ancora arrivare. Mentre rientravamo al villaggio ci venne incontro il nostro compagno Finn, al galoppo e pallido come se avesse visto la morte in faccia.

«Decurione, abbiamo un problema serio!»

«Che altro c’è?»

«Al ghetto! Dovete venire subito!»

 

Twami era una gattina che il vecchio Edmund si era preso in casa come animaletto da compagnia per alleviare la sua solitudine, trattandola sempre molto bene.

L’avevo vista alcune volte al mercato intenta a fare la spesa, e quando qualche settimana prima il suo padrone era morto era stata portata al ghetto in attesa di capire cosa ne sarebbe stato di lei.

Quando io e Jorn arrivammo nel piazzale la situazione era a dir poco esplosiva; Daemon e una decina di miei compagni erano tutto quello che si frapponeva tra gli uomini di Beek e Twami, che se ne stava avvinghiata a quella muccona superdotata di Lori tremante di paura.

«Che sta succedendo qui?»

«Meno male che sei arrivato.» disse Daemon come se fossi stato il suo salvatore. «Vogliono entrare nel ghetto e portare via Twami

«Cosa!? Per quale motivo?»

«È presto detto!» sbottò il Comandante. «Quel vecchio fossile di Edmund era un noto reunionista, e abbiamo le prove che poco prima della sua morte in casa sua si è svolta una riunione segreta per pianificare un attacco. Lo stesso attacco in cui sono stati uccisi due dei miei uomini! Quell’animale avrà sicuramente sentito o visto qualcosa, quindi voglio interrogarla per sapere cosa sa.»

«Qui si sta scendendo nel ridicolo.» disse Daemon. «Twami capisce a malapena la nostra lingua. Cosa mai potrebbe dirti?»

«Inoltre nessun tribunale accetterebbe la parola di uno schiavo contro quella di un libero cittadino. Qualsiasi cosa lei ti dicesse sarebbe inutile.»

«Mi sono stancato di voi mocciosi! Ho detto che l’arresterò e intendo farlo! Soldati, prendete quella bestia!»

Così, istintivamente, feci qualcosa che mai avrei pensato di fare; estrassi la spada e la puntai contro di lui.

«Fermo! Ora basta!»

Con mio stesso stupore anche i miei uomini fecero altrettanto, e nello spazio di un attimo un muro di scudi si parò tra quella gattina e gli uomini di Beek, che divenne rosso di rabbia.

«Come osate alzare le armi contro di noi! Siamo i delegati del popolo di Eirinn e di Sua Maestà l’Imperaotre! I rappresentanti della legge!»

«Ho già inviato una lettera al Governatore, e lui ha autorizzato la dichiarazione dello stato di emergenza. E come dovresti sapere, durante uno stato d’emergenza la gestione dei ghetti passa interamente sotto il controllo delle legioni. Voi non avete più alcun titolo per restare qui.»

Nel mentre tutto attorno a noi si era formato un piccolo pubblico di schiavi, che osservavano con evidente stupore me e i miei compagni proteggere uno di loro.

«Ho sentito dire che anche tuo nonno era un noto simpatizzante reunionista, ragazzo. E anche tuo padre. E tua madre. Forse dovrei fare due chiacchiere anche con lei. E magari perquisirla anche un po’.»

Non so cosa mi trattenne dal piantargli la spada nel collo.

«Vattene da qui, maledetto pazzoide. E porta questa banda di macellai via con te.»

Quell’animale ringhiava come un cane rabbioso incatenato, ma sapeva di avere le mani legate.

«Non illudetevi che sia finita qui, luride bestie! Qui dentro sarete anche al sicuro, ma là fuori siete ancora in mio potere! Aspettate e vedrete!»

Quasi che non ci sentissimo sicuri, io e i miei compagni tenemmo alti gli scudi fino a quando non vedemmo Beek e i suoi uomini scomparire oltre il cancello, che una volta usciti provvedemmo a richiudere con una nuova serie di lucchetti.

«È come ha detto lui. Possiamo proteggerli finché sono qui dentro, ma le miniere e le segherie restano sotto il controllo della milizia.»

«Puoi fare in modo che Twami sia esentata dal lavoro?»

«Posso fare di meglio. Ho un amico a Basterwick. Lui e la sua famiglia cercano una nuova domestica. Lo convincerò a comprarla.»

«Grazie.»

«Di niente, Daemon. In realtà non mi è mai piaciuto il modo in cui trattiamo questi poveretti. Dopotutto ad Eirinn non esisteva la schiavitù prima che venisse assimilata dall’Impero.»

Nel mentre gli uomini di Beek erano arrivati in cima alla collina ad est che dominava la vallata in cui sorgeva il ghetto, restando lì immobili a guardarci come se ci stessero sfidando.

«Non riuscirò a tenere le cose sotto controllo ancora a lungo Septimus. Che siano schiavi o liberi cittadini, non si può far ragionare a lungo chi muore di fame.»

«Sì, lo so. In realtà stiamo indagando su una certa cosa. Non posso prometterti niente, ma forse c’è un’esile possibilità di riuscire a recuperare una parte delle provviste.»

«Di che stai parlando? Pensavo fosse andato tutto distrutto nell’incendio.»

«Ora non sono in grado di dirti di più, ma ti prometto che se arriveremo a qualcosa ti informerò subito.»

«Io devo restare qui a mantenere l’ordine e non posso aiutarvi. Ma se davvero avete un’idea di qualunque tipo che ci tiri fuori da questa polveriera, in nome del cielo fate qualcosa.»

Restammo ad osservare Daemon mentre visibilmente preoccupato e con lo sguardo basso rimontava a cavallo per fare ritorno a Dundee. Non che noi fossimo di umore migliore.

«Meno male che c’è lui. A chiunque altro la situazione sarebbe già scappata di mano.»

«E noi dobbiamo fare la nostra parte, Jorn. Troviamo quei ladri.»

 

Anche se l’Impero amava definire in modo altisonante “guerre di confine” quelle che in realtà per cento anni non erano state altro che scaramucce occasionali con l’Unione, nessuno voleva tornare a rivivere quei giorni.

Per questo era stata creata la Terra di Nessuno che istituiva due miglia di zona franca lungo tutto il confine tra Saedonia e Patria, che nell’Eirinn Occidentale corrispondeva al corso dello Jesi.

Io e Jorn ci muovevamo tra gli alberi come ladri in una casa da svaligiare. Sapevamo di stare correndo un grosso rischio. Anche se eravamo solo in due e senza armatura, se ci avessero scoperti ne sarebbe venuto fuori un grave incidente diplomatico.

«Sicuro che sia questa la direzione?»

«Assolutamente, Decurione. Le tracce sono evidenti. Cinque persone, di cui almeno un mostro. Probabilmente un felino.»

«Sei bravo a leggere le tracce. Potresti fare concorrenza a Daemon.»

«Mio padre era direttore di una prigione, prima di finirci dentro per i debiti che aveva accumulato. Come sapeva seguire lui i fuggitivi nelle paludi non lo sapeva fare nessuno. Ecco, ci siamo. Dovrebbe essere proprio davanti a noi.»

Non sarebbe stato facile avere ragione di cinque banditi che probabilmente sapevano anche menare le mani, ma potevamo contare sull’effetto sorpresa e coglierli nel sonno.

Prima che potessimo arrivare in vista del loro nascondiglio però un odore pestilenziale ci passò sotto il naso, uno che entrambi conoscevamo molto bene.

«Decomposizione.» dissi «Più avanti c’è qualcosa che marcisce.»

Senza più timore avanzammo a passo svelto seguendo quel fetore, e quando arrivammo finalmente a destinazione fummo entrambi presi dallo sconforto.

Il campo era in uno stato pietoso, e sembrava che un tarkana infuriato vi si fosse scagliato contro facendo una strage.

Come aveva detto Borg si trattava sicuramente di Toriani, e tra loro c’era anche una tigre con abiti di foggia Mahardiana. Il fatto che avessero tutti le armi vicino testimoniava che avevano provato a difendersi, ma chiunque li avesse affrontati non aveva avuto alcuna pietà, martoriando i loro corpi in modo a dir poco barbaro.

«Per tutti gli dei.» si lasciò sfuggire Jorn «Chi può aver fatto una cosa del genere?»

«Di sicuro saranno stati almeno una decina, per fare un tale disastro.»

Come se non bastasse nello scontro la farina era caduta dal suo bancale coprendosi di acqua e fango, e il poco cibo rimasto aveva fatto la felicità degli animali selvatici.

Non potevamo permettere che finisse così. Non dopo aver faticato e rischiato tanto per arrivare fino a quel punto.

«Cerchiamo in giro. Forse scopriremo qualcosa.»

Frugammo dappertutto, nelle sacche da viaggio, all’interno delle tende e perfino nelle tasche dai cadaveri, fino a che non Jorn non recuperò dai resti di un bivacco un foglio di pergamena mezzo bruciacchiato, coperto di scarabocchi per me incomprensibili.

«È scritto in lingua toriana. Si direbbe un elenco.»

«Puoi tradurlo?»

«Credo di sì, dammi solo un secondo.»

Lo stupore che gli apparve sul volto man mano che riusciva a decifrare il testo non si può descrivere, ma niente in confronto a ciò che provai io quando me ne rivelò il contenuto.

Era una lista: una lista di nomi.

Nomi che io conoscevo molto bene. Con accanto la descrizione dettagliata di quanta merce rubata avessero comprato, di quale tipo, e la somma sborsata per averla.

«Sono alcune tra le famiglie più importanti della provincia.»

«Forse gli assassini sono stati disturbati e sono dovuti scappare prima di avere la certezza che fosse stata distrutta.»

«Chi se ne importa. Presto, portiamola a Daemon. Forse possiamo ancora sperare di recuperare qualcosa.»

 

Era difficile che un qualunque ufficiale giudiziario accettasse come prova una lista recuperata in un covo di ladri, ma Daemon era lo sceriffo, e fintanto che si assumeva la responsabilità delle proprie decisioni poteva fare quello che voleva.

E a lui il coraggio non mancava di certo.

Nei giorni che seguirono rivoltammo come un calzino non solo la regione di Dundee ma l’intera Eirinn Occidentale, da Basterwick al Castello, effettuando decine di arresti.

Mercanti, piccoli borghesi, capi villaggio, e persino alcuni nobili.

Ovviamente quasi tutti negarono ogni responsabilità, ma le prove che trovammo in loro possesso erano più che sufficienti a farli finire in schiavitù per il resto dei loro giorni, nella migliore delle ipotesi.

La cosa davvero ironica fu che la maggior parte di loro erano forestieri, oppure gente del posto che aveva fatto fortuna cooperando a vari livelli con le autorità imperiali.

Persino il Sindaco Rutte venne coinvolto marginalmente nell’indagine. Ma il fatto che avesse accettato di comprare provviste per vie traverse sul mercato nero, tra l’altro indebitandosi pesantemente, solo per sfamare i suoi concittadini convinse sia noi che Daemon a chiudere un occhio, in un momento in cui gli abitanti di Dundee avevano più che mai bisogno di qualcuno che mantenesse unita la comunità.

Riuscimmo a recuperare anche della refurtiva; non moltissima, ma quello che bastava per tirare avanti fino a primavera.

C’era un nome però che aveva lasciato me e Daemon letteralmente senza parole. Un nome che avevamo voluto tenere per ultimo, ordinando ai nostri uomini di non alzare un dito prima del tempo; non perché tenessimo a lui, ma perché volevamo goderci appieno il momento in cui avremmo potuto finalmente toglierlo di mezzo.

Quando insieme ad un manipolo di soldati entrammo nell’emporio Wallace era in corso l’ennesimo litigio tra Mary e suo padre per questioni di soldi, con annessa inevitabile alzata di mani. Con noi c’era anche Giselle, nelle vesti di testimone la cui parola era risultata decisiva nel darci il via libera a mettere in atto ciò che stavamo per fare.

«Non lo perdi mai il vizio, vero bastardo?» disse Daemon scrocchiandosi le dita con evidente piacere.

«Che volete voi? Non sono per niente allegro stamattina.»

«A te l’onore, Septimus. E fai in fretta, altrimenti potrei fare qualcosa di stupido.»

«Doug Mornay! Ti dichiaro in arresto per furto e ricettazione!»

I miei uomini dovettero saltargli addosso tutti insieme per riuscire ad immobilizzarlo.

«Maledetti, lasciatemi! Di cosa state parlando? Io sono innocente!»

«Lo dicevano anche tutti gli altri. Peccato che qui ci sia una lista di compratori trovata nel campo dei ladri che hanno saccheggiato e distrutto il granaio, in cui appare anche il tuo nome.»

«Che storia è questa? Io non ho comprato niente!»

«Non ne dubito, visto che da fallito quale sei non ti saresti mai potuto permettere un esborso simile. Quello che hai fatto è stato spennare uno di quei ladri al gioco, e accettare come pagamento per la vincita una fornitura di provviste.»

«E se stai pensando di provare a negare lascia perdere.» intervenne Giselle «Ti ho visto coi miei occhi giocare a carte con quel tipo strano e firmare la cambiale. Te ne sei vantato per giorni. Davvero, quale idiota va in giro a raccontare ai quattro venti di aver accettato come pagamento merce rubata?»

«Vi ripeto che non so di cosa voi stiate parlando! È vero, ho giocato a carte con un toriano qualche settimana fa, ma la carta che ho firmato era solo una promessa di pagamento in moneta sonante.»

Ovviamente perquisimmo a fondo il negozio, trovando la cambiale in questione in un doppiofondo segreto nel forziere del negozio e constatando una volta per tutte che quella sera quell’ubriacone doveva aver bevuto anche più del solito. Oppure semplicemente mentiva sapendo di mentire.

«E di questa che mi dici? Qui c’è scritto chiaramente che accetti in pagamento una fornitura di generi alimentari. Con l’incendio che era avvenuto solo la sera prima, vuoi farci credere davvero che non sapevi che si trattava dei rifornimenti rubati dal magazzino distrutto?»

«No aspettate, io non ho mai visto quella carta in vita mia, lo giuro!»

«Continui a negare l’evidenza? Lo vedi o no che qui c’è la tua firma? E se speri di farla franca dicendo che eri ubriaco sappi che sarà inutile. Visto quello che abbiamo passato dubito che il magistrato la accetterà come giustificazione.»

«Questa è tutta una montatura! Un complotto! Dite la verità, siete stati voi! Mi volete incastrare! Mary tesoro, diglielo anche tu! Digli che si sbagliano!»

Invece la faccia di Mary diceva tutt’altro. Anzi, non nascondo che quel ghigno che mai una volta l’avevo vista sfoggiare mi fece quasi paura.

«Questa volta la forca non te la toglie nessuno maledetto! Portatelo via!»

«Con piacere, Signore!»

La scena di quel violento ubriacone scaraventato piangente sul carro per essere portato al Castello ci mise tutti di buonumore; finalmente io, Daemon e Giselle eravamo riusciti nell’impresa di far uscire quell’orco dalla vita di Mary una volta per sempre.

«Non devi preoccuparti per il negozio.» disse Daemon prima che la nostra amica potesse sollevare la questione. «Ho chiesto un favore personale al Governatore. A partire da questo momento l’emporio passa immediatamente sotto la tua proprietà. Niente supervisori o amministratori fiduciari.»

«Grazie Daemon. Grazie a tutti voi.»

«Figurati, aspettavo da un pezzo di togliermi questa soddisfazione. Ma ora che ci penso, adesso chi lo pagherà il suo conto arretrato alla locanda?»

 

Quella sera, il Sindaco ci invitò alla taverna e offrì da bere a tutti noi, ringraziandoci a nome di tutti i cittadini per quello che avevamo fatto.

Per quanto mi riguardava però, sentivo di avere ben poche ragioni per festeggiare.

Di sicuro ritrovando almeno una parte del cibo rubato avevamo salvato molte vite e scongiurato una carestia nel bel mezzo dell’inverno, ma nonostante i nostri sforzi era evidente che l’immagine dell’Impero e dei suoi governanti non era uscita per niente bene da tutta quella storia.

Prima l’atteggiamento del Governatore, più interessato al suo maledetto ballo che al destino dei suoi sudditi, poi la caccia indiscriminata di Beek e della milizia, e infine tutti quei nomi illustri che avevamo sbattuto al fresco.

In tutto ciò, il fatto che fossero stati proprio due legionari testardi e uno sceriffo determinato a risolvere la situazione non bastava certo a migliorare l’idea che la gente di Dundee, per non dire di tutta la provincia, si era fatta di chi li governava.

E ammetto che anche molte delle mie certezze si erano di colpo affievolite.

Mi ero arruolato nella legione perché credevo così facendo di poter proteggere i miei amici e la mia terra, ma quando il mio intervento si era reso necessario avevo fatto tutto meno che seguire gli ordini, proprio perché quell’Impero in cui riponevo fiducia non aveva potuto o voluto fare qualcosa.

Per che cosa stavo lottando?

Potevo davvero considerarmi un legionario al servizio di Saedonia? Oppure inconsciamente pensavo e agivo ancora come un abitante di Eirinn?

Inevitabilmente finii per affogare i miei dubbi nel sidro, tracannando un boccale dietro l’altro mentre attorno a me tutto si metteva a girare sempre di più.

Se avessi saputo cosa stava per succedere, mi sarei fermato in tempo.

 

C’era un motivo se prima come generale e poi anche come governante avevo fatto di tutto per limitare l’accesso dei giovani soldati agli alcolici. Metti troppo liquore in mano ad una recluta e berrà fino a stare male.

Per me bere non era un problema; forse era merito del fisico allenato, o forse avevo ereditato dalla mia vecchia vita quel mio famoso stomaco d’acciaio, capace di reggere persino una dose da cavallo di arsenico.

Altrettanto purtroppo non si poteva dire per i miei compagni di bevute: Septimus era collassato al terzo bicchiere e avrebbe smaltito la sbornia nella stanza di cortesia della locanda, mentre Jorn al termine della serata era così sbronzo che dovetti portarlo fuori a spalla.

La domanda sorge spontanea: quella lista era vera?

Per buona parte sì.

Era bastato che Borg facesse girare la voce, che subito un branco di squali affamati ci si era buttato a capofitto sperando di speculare il più possibile sulla penuria di cibo per riempirsi le tasche.

Naturalmente quegli stupidi e sprovveduti razziatori non erano capitati per caso da quelle parti. Di rifiuti organici che bazzicavano continuamente la Terra di Nessuno ce n’era sempre grande abbondanza, mi era bastato scegliere quelli abbastanza abili da mettere in atto il piano che io gli avevo suggerito.

Un po’ mi era dispiaciuto ingannare Scalia dicendole che si trattava di schiavisti venuti da Torian in cerca di manodopera, ma non potevo rischiare che una persona accorta come Jorn si accorgesse della presenza di un solo assalitore analizzando le ferite sui cadaveri.

Naturalmente mi ero preso la libertà di omettere qualche nome e aggiungerne altri; così, per togliermi dai piedi quelle persone che ero sicuro avrebbero avuto qualcosa da ridire in merito a ciò che stavo per provocare.

Per convincere Borg a rinunciare ad un simile guadagno ero stato costretto a scoprire in parte le mie carte, promettendogli di coinvolgerlo quanto prima in un affare i cui margini di guadagno non poteva neanche sognarseli.

Quanto a Doug l’idea di aggiungere il suo nome alla lista mi era venuta all’ultimo momento, ma per mia fortuna non era stato difficile incastrarlo a dovere. Quell’idiota quella sera era così ubriaco che mi era bastato mettermi addosso qualche straccio esotico e pitturarmi un po’ la faccia alla maniera toriana perché non mi riconoscesse. Più difficile era stato imitare la sua firma e sostituire le cambiali nel forziere dell’emporio.

Con quell’ubriacone fuori dai giochi Mary avrebbe avuto mano libera nella gestione del negozio per i prossimi due o tre mesi, ed osservandola avrei potuto avere la conferma definitiva del suo talento per le questioni economiche. Per non parlare della considerazione che ora sicuramente aveva di me.

Anche Septimus e Jorn avevano interpretato bene il proprio ruolo. Benché potesse essere un rischio mettersi accanto soldati capaci di anteporre la propria coscienza agli ordini ricevuti sapevo di non poter fare a meno di loro, quindi per il momento era un azzardo che non potevo evitare di compiere.

Qualcuno potrebbe dire che avevo forzato le cose, ma dal mio punto di vista non era così.

Da decenni l’Impero aveva ormai perso il controllo di molte delle sue regioni inclusa l’Eirinn, messe in mano ad ufficiali e governatori incapaci in nome di un sistema che favoriva il lignaggio a discapito del talento.

Io avevo solo aperto gli occhi anche ai più scettici.

Probabilmente una cosa del genere era comunque destinata a succedere prima o poi, poiché io per primo sapevo che a lungo andare il malcontento generato da un tale livello di malgoverno prima o poi conduce sempre ad una rivoluzione. Purtroppo il tempo non giocava a nostro favore, quindi mi ero visto costretto a velocizzare artificialmente un processo comunque inevitabile.

Ora si trattava solo di aspettare un altro po’. Gli animi erano tesi, la rabbia andava diffondendosi: la fame avrebbe fatto il resto.

Per il momento mi accontentavo di riportare al forte Jorn e scaraventarlo nel suo letto, prima che i suoi mugugni da ubriaco mi facessero saltare i nervi.

«Grazie dell’aiuto, sceriffo.» biascicò mangiandosi le parole «Non so proprio come avremmo fatto senza il tuo aiuto.»

«Non c’è di che. E comunque, chiamami pure Daemon. Ad ogni modo sono io che devo ringraziare te. È merito delle tue intuizioni se siamo riusciti a risolvere questa situazione.»

Alla fine quel poveretto non riuscì più a trattenersi, e raggomitolatosi in un angolo buttò fuori tutto quello che aveva nella pancia.

«Avanti, vieni. Ti porto alla fontana. Una buona sorsata d’acqua è quello che ti ci vuole.»

«Lo sai? Stavo pensando ad una cosa.»

«Che dovresti limitarti nel bere? Sono d’accordo.»

«E se avessimo sbagliato?»

«Riguardo a cosa?»

«A tutto. All’inizio non avevamo idea di cosa fare, poi la soluzione a tutti i problemi ci è letteralmente capitata davanti. Così, senza che facessimo davvero qualcosa.»

«Non direi. Se ho capito bene sei stato tu a scoprire come avevano fatto quei ladri a saccheggiare il granaio, e sempre tua è stata anche l’idea di andarli a cercare nella Terra di Nessuno.»

«È a questo che non riesco a smettere di pensare. Perché chi ha assalito il campo non si è preoccupato di cancellare le tracce? Perché non portare via quella lista di nomi, invece che lasciarla lì con il rischio che fosse trovata? Inoltre, trovare le prove della corruzione di quegli uomini è stato fin troppo semplice.»

«Si dice che gli uomini stolti si ritengano sempre più furbi degli altri. Direi che questa ne è la conferma.»

«Però alcuni di loro sembravano sinceramente sorpresi dalle nostre accuse e dalle prove compromettenti che gli abbiamo trovato addosso o in casa. Mio padre diceva sempre che per quanto un criminale possa negare le proprie colpe, se lo guardi negli occhi potrai sempre scorgervi la menzogna. Ed è ciò che io sono sicuro di non aver visto.»

«Un conto è fissare negli occhi un ladro o un assassino, un altro è cercare di vedere nell’anima di un mercante, un trafficante, o un qualsiasi altro individuo di quella risma che ha fatto della menzogna la propria religione. Dammi retta, certa gente sarebbe capace di venderti anche il sole.»

«Forse. Forse hai ragione.»

Intanto avevamo raggiunto la fontana della piazza, ancora funzionante malgrado il gelo della notte, in cui Jorn infilò immediatamente la testa per scacciare la sbronza.

«Niente di meglio che un getto di acqua ghiacciata per tornare sobri. Ora una bella bevuta, una sana dormita, e domattina sarò pronto a ricominciare.»

«Comunque devo ammettere che mi hai sorpreso. Onestamente non credevo che nelle legioni ci fosse posto per chi sa usare il cervello. Con la mente raffinata che ti ritrovi potresti essere molto di più che l’attendente di un Decurione in un posto sperduto come questo. Con tutto il rispetto per Septimus, ovviamente.»

«In realtà non mi dispiace essere qui. Sento che questo è il posto giusto per fare la mia parte di servitore dell’Impero.»

«Forse non te ne sei accorto, ma da queste parti l’Impero non è particolarmente amato. E dopo tutta questa storia temo che la situazione potrà soltanto peggiorare.»

«È proprio questo il punto. Lo so che l’Impero non è perfetto. Anzi, non direi nemmeno che è giusto. Ma le cose possono cambiare. Il nuovo Imperatore è diverso rispetto ai suoi predecessori. Con lui l’Impero potrebbe tornare ad essere quella luce di speranza e di rinascita che fu al tempo delle Guerre Sacre.»

«Scusa se ti sembrerò brutale, ma non mi pare stia facendo un buon lavoro. A est la rivolta dei baroni si espande ogni giorno di più, a ovest la pace con Connelly gli è costata cento milioni di goldie e diecimila miglia quadrate di territorio ceduto al Principato, provincie che appartenevano a Saedonia da duecento anni. E anche se ha concluso l’armistizio con l’Unione, ti assicuro che qui sono in pochi a pensare che le cose siano davvero migliorate.»

«Però qualcosa sta facendo. In fin dei conti è solo un uomo, e la pace non si crea di certo dall’oggi al domani. Ma io ho fiducia in lui, e ho deciso di fare la mia parte per aiutarlo a cambiare le cose. È questo lo scopo della mia vita.»

Ecco perché ho sempre detestato gli ideologi: basta dargli un po’ di corda che subito si mettono ad avere pensieri inopportuni. E quelli che abbinano all’ideologia l’idealismo sono i peggiori di tutti, perché sarebbero disposti a farsi cavare gli occhi piuttosto che vedere la realtà per quello che è.

«La sai una cosa? Hai proprio ragione. Hai bisogno di una bella bevuta.»

Un vero peccato. Un tipo così mi avrebbe fatto comodo. Ma purtroppo per lui aveva scelto la causa sbagliata a cui votarsi.

 

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 6 - L'INGANNO ***


“Un vero carattere riesce sempre

a emergere nei grandi momenti”

CAPITOLO 6

L’INGANNO

 

 

Su Erthea esisteva un gioco, il madara, molto popolare soprattutto tra l’aristocrazia, affine per alcuni aspetti agli scacchi del mio vecchio mondo.

Si giocava su una scacchiera undici per dodici, con due dadi a dieci facce e un set da nove pezzi, e impararne l’arte era ritenuta una parte fondamentale della formazione di ogni nobile rampollo.

La cosa interessante di questo gioco era che non esistevano pezzi predeterminati, e a condizione di farlo rientrare in una delle sei categorie che suddividevano le varie pedine –ognuna contraddistinta da punti d’attacco, punti difesa e punti vita– ogni giocatore poteva crearsi il pezzo che voleva, dargli un nome e schierarlo in qualunque momento sulla scacchiera in una casella a sua scelta tra quelle che componevano le prime due file, chiamate Castello, che rappresentavano la base da cui il giocatore, nei panni di sovrano, guidava la sua armata.

A differenza degli scacchi lo scopo finale del gioco non era tanto quello di infliggere lo scacco matto, ma la sconfitta di ogni singola pedina dell’avversario; oppure, si poteva portare una pedina ad occupare la casella dorata che stava al centro dei due Castelli, la Sala del Trono, alla quale per consuetudine si lasciava a difesa il proprio pezzo più potente.

Impararne le regole era stata per me una passeggiata, e negli anni avevo impartito sonore lezioni a tutti i giocatori che avevano osato sfidarmi, guadagnandone in denaro e prestigio.

Ora era giunto finalmente il momento di dare inizio alla più grande e memorabile partita di madara che Erthea avesse mai visto.

Ogni cosa era stata predisposta nel modo corretto.

Avevo scelto la scacchiera, analizzato il mio avversario e creato le mie pedine.

C’erano tutti i pezzi di cui avevo bisogno: il Mercante, i Mostri, i Plebei, il Capitano, la Saggia e il Dragone.

Ora non restava che far scendere in campo l’ultimo pezzo, il Generale, e dare inizio al gioco.

Erano passati quasi sei anni da quando mi ero risvegliato in quel mondo; sei anni passati a tessere trame, creare alleanze e pianificare con attenzione ogni mia singola mossa, sia quelle già fatte che quelle che mi apprestavo a compiere.

Conoscevo il mio avversario meglio di quanto lui conoscesse sé stesso, e potevo leggere nella sua anima come un libro aperto.

Mancava solo l’ultimo tassello, la prima tessera del domino, quella che una volta ribaltata avrebbe dato inizio all’inarrestabile effetto a catena destinato a cambiare per sempre il destino non solo di Erthea, ma di quell’intero mondo.

E quella tessera ce l’avevo proprio lì, chiusa nel pugno.

Un semplice pezzo di carta.

Mai prima d’ora avevo provato così nitidamente la sensazione di stringere letteralmente tra le mani lo strumento in grado di cambiare il corso della storia.

Sarei un bugiardo se dicessi di non aver mai considerato in tutti quegli anni almeno un paio di volte di lasciar perdere tutto.

Chi me lo faceva fare, del resto?

Rivivere daccapo eventi come quelli che avevano attraversato la mia precedente vita, seppur con rinnovata consapevolezza?

Ma anche i dubbi ormai erano alle spalle.

La verità era che l’ultima cosa che mi era passata per la mente un attimo prima di esalare l’ultimo respiro era stato il pensiero di cosa sarei stato capace di realizzare se avessi conosciuto anzitempo le conseguenze delle azioni che mi avevano condotto alla rovina.

Ora potevo rispondere a quella domanda.

«Il dado è tratto.»

 

Da quando mi ero trasferita a vivere a casa di Daemon mi ero accorta che qualcosa nel modo in cui mi rapportavo con lui era cambiato.

Quando era bambino dormivamo spesso nello stesso letto, e un paio di volte ci eravamo perfino fatti il bagno insieme. Ora invece il solo fatto di stare nella stessa stanza insieme a lui era sufficiente a farmi agitare, e se provavo a guardarlo negli occhi mi ritrovavo ad arrossire e balbettare come una stupida.

Non capivo cosa mi stesse succedendo, e rifiutavo a priori l’idea che potessi stare iniziando a provare qualcosa per lui che andasse oltre il naturale affetto tra fratelli.

In fin dei conti ai miei occhi lui restava pur sempre un bambino, anche se ormai guardandoci chiunque avrebbe potuto pensare che avessimo quasi la stessa età.

Una notte avevo sognato di vederlo in piedi accanto al mio letto che mi fissava con il suo occhio severo, tenendomi nel mentre il dito indice poggiato al centro della fronte, e al risveglio ero così imbarazzata da avere la sensazione che la mia pietra del servo vibrasse al ritmo dei battiti del mio cuore.

Così, per evitare il ripetersi di certe situazioni imbarazzanti, avevo deciso di andarmene, stabilendomi nel mio vecchio nascondiglio segreto in mezzo alla foresta, reso abitabile con qualche accorgimento e molto lavoro.

Qui passavo il mio tempo andando a caccia, esercitandomi con la spada e, incredibile a dirsi, studiando.

Daemon in questo era stato categorico, dandomi libri e libri da leggere ed imparare, e se solo provavo a lamentarmi della cosa venivo puntualmente rimproverata come una bambina.

All’inizio avevo protestato reputandola una perdita di tempo, ma più cose imparavo e più mi convincevo di quanta conoscenza ci fosse nel mondo, cose fantastiche che finalmente da ragazza libera avevo la possibilità di apprendere come e quanto volevo.

Grazie a Daemon e ai suoi insegnamenti stavo imparando tantissime cose di matematica, alchimia, letteratura, geografia e molto altro.

Ma più di tutto era stata la filosofia a spalancarmi un mondo davanti agli occhi.

Daemon diceva che quando era piccolo aveva potuto leggere molti libri di famosi autori dai nomi impronunciabili –qualcosa come Voltaire, Rousseau, Kant– che l’Impero qualche tempo prima aveva confiscato e nascosto reputandoli pericolosi, ma che lui aveva memorizzato e pazientemente ricopiato.

Leggendoli, mi ero resa conto perché gli umani non volessero che qualcuno li leggesse. Al loro interno si parlava di cose come la libertà universale, l’uguaglianza di tutti gli esseri senzienti, ma soprattutto una critica alla schiavitù a cui noi mostri eravamo costretti da secoli.

Quindi, mi ero detta, Daemon non era l’unico, e come lui c’erano altri umani che pensavano che quello che ci veniva fatto fosse sbagliato. Forse dopotutto c’era qualcosa in loro che valeva la pena di salvare; perché, mi ero detta, se tra loro c’erano persone capaci di simili pensieri, o di dare vita a meraviglie come quelle di cui avevo letto in quei mesi nei campi più diversi, voleva dire che la loro non era poi una specie così cattiva.

Nel mentre l’inverno aveva ceduto il passo alla primavera, e con essa era giunto infine il giorno che mai avrei voluto vedere.

Il giorno dell’addio.

In fin dei conti sapevo che prima o poi doveva finire.

Anche se ormai erano anni che Daemon aveva smesso di vivere al ghetto il patto che avevamo stabilito il giorno in cui l’avevo portato a Ende rimaneva immutato, e con l’arrivo del suo sedicesimo compleanno si era infine giunti anche al giorno in cui avrebbe dovuto abbandonare la provincia per non tornare mai più.

Il solo pensiero di vederlo andar via per sempre mi faceva morire, rendendomi scontrosa e irritabile.

Quasi che avesse intuito il mio pensiero, lui si era affrettato a dirmi che non gli importava di dovere andare via, e che non era saggio che andassi con lui.

«Drufo verrà via con me.» aveva detto, facendomi salire un moto d’invidia verso quel maledetto caprone annoiato dalla vita «Ormai è troppo abituato a vivere libero per fare ritorno al ghetto. Ma tu puoi restare qui se vuoi. Ti lascio in eredità la baita e tutto quello che possiedo. Usali come meglio credi.»

Parlava come se dovesse morire, ma dal mio punto di vista era praticamente così: perché sapevo che non ci saremmo rivisti mai più.

Che cosa me ne dovevo fare della casa, dei libri o dei suoi archi senza di lui?

Ma se da una parte avrei voluto seguirlo, dall’altra ero troppo legata ai miei compagni e alla loro miseria per andarmene così, libera e felice, lasciando loro a patire la schiavitù.

Decisi di prendermi un po’ di tempo per riflettere. Per il momento sarei rimasta a Ende, magari cercando di aiutare i miei compagni come Daemon per tanto tempo aveva aiutato noi, poi forse un giorno avrei preso a mia volta la mia strada, magari per partire alla sua ricerca.

Ma se era destino che ci dovessimo separare per chissà quanto tempo, lo avremmo fatto nel miglior modo possibile.

Non era stato per niente un inverno facile; oltre al freddo, alla neve e alla fatica, i miei compagni avevano dovuto sopportare anche la fame, mangiando ancora meno del solito senza però veder diminuire, oltre alle razioni, anche la mole di lavoro.

Ma nonostante ciò, quando avevo proposto loro la mia idea tutti avevano accettato di fare quell’ulteriore piccolo sacrificio, accantonando una parte di cibo per organizzare a Daemon sia un compleanno degno di questo nome che una doverosa festa d’addio.

D’altronde ormai tutti a Ende sapevano quello che aveva fatto, e quanto si fosse messo a rischio in quegli anni non solo per salvare me, ma anche e soprattutto per proteggere i nostri amici.

Io stessa avevo aperto infine gli occhi, capendo quanto dentro di sé avesse sofferto per quelle volte in cui era stato costretto a fare ciò che il suo ruolo gli imponeva, come uccidere il povero Malik o recitare la parte del sadico aguzzino di fronte ai soldati.

Avvantaggiati e galvanizzati dal fatto che per una fortunata coincidenza il compleanno di Daemon sarebbe caduto in contemporanea con il giorno di riposo che veniva concesso agli schiavi una volta al mese io, mio padre, Lori e molti altri lavorammo in gran segreto per settimane, riuscendo a mettere insieme la festa migliore che degli schiavi senza quasi niente potessero sperare di organizzare.

Si arrivò quindi al giorno fatidico.

Lungo la strada principale avevamo allestito tavoli con cibo, acqua, latte e perfino del sidro; alcuni di noi, me inclusa, si erano letteralmente svenati per pagare quella sanguisuga di Borg, ma anche se odiavo quel maledetto maiale per una volta potevamo fare un’eccezione.

Approfittando dell’assenza di Daemon per la caccia mi ero intrufolata nel tunnel e avevo fatto ritorno al ghetto; quindi, assicuratici che fosse tutto pronto, l’avevamo mandato a chiamare dicendogli che a Ende c’era un ferito che aveva bisogno del suo aiuto.

Non dico che non fosse sorpreso quando, aperta la porta del capanno, ci trovò tutti lì davanti ad augurarli in coro buon compleanno; ma se c’era una cosa che il mio fratellino aveva imparato a fare molto bene nel corso degli anni questa era senza dubbio non abbandonarsi ad esagerazioni emotive.

«Non avreste dovuto. Potrebbe essere pericoloso.»

«Sciocchezze. Ieri era giorno di paga. Le guardie si staranno tutte ubriacando alla locanda. Avanti fratellino, oggi è l’ultimo giorno che passeremo insieme. Dobbiamo renderlo indimenticabile.»

Alla fine sembrò quasi riuscire a divertirsi, perdendosi in lunghe conversazioni con tutti quelli che facevano la fila per congratularsi con lui, ringraziarlo ed augurargli buona fortuna per l’avvenire.

«Figliolo. Qualunque cosa accada da ora in poi, voglio che tu sappia che sono enormemente fiero di te. Vedere ciò che sei diventato è la prova che tutti i nostri sacrifici sono stati ben ripagati.»

«Ti ringrazio padre. Prometto che dovunque andrò continuerò a rendervi fieri di me.»

«Hai già deciso cosa farai?»

«Per il momento, nonno Passe, credo resterò ancora qualche giorno da queste parti. Devo consegnare al Governatore le mie dimissioni e congedarmi come si deve dai miei amici al villaggio. Poi penso che andrò a ovest. Prima di tutto vorrei andare a trovare Sapi, inoltre Connelly è un buon posto dove stabilirsi per chi come me vorrebbe aiutare i mostri.»

«Mi raccomando, prenditi cura anche di Drufo. È testardo e saccente, ma non ho mai conosciuto mostro più fedele.»

«Lo farò.»

«Il mio bambino! Non voglio che tu vada via! Come farò se non ti potrò vedere più?»

«Non preoccuparti, mamma Lori. Me la caverò. Non hai niente da temere.»

«Quanto tempo è passato dall’ultima volta che mi hai chiamata mamma? Lascia che ti abbracci un’ultima volta! Ti stringerò così forte da toglierti il respiro!»

Nonostante la tristezza che provavo anche io mi stavo godendo la giornata, meravigliandomi dell’allegria e spensieratezza che regnavano attorno a me. Mai una volta in vita mia avevo visto un simile atmosfera pervadere Ende e i suoi sfortunati abitanti.

Tutto venne spazzato via nello spazio di un’istante, ed eravamo tutti talmente presi dai festeggiamenti che quasi non ci accorgemmo di nulla.

Le porte del ghetto si aprirono da un momento all’altro, e un’orda di miliziani al comando di Oldrick fece irruzione ad armi spianate.

Mentre cercavamo di tenere Daemon nascosto e dargli il tempo di correre al tunnel un altro gruppo di soldati sbucò fuori proprio da lì, trascinando con sé Drufo incatenato e con addosso i segni di un violento pestaggio.

In un attimo ci ritrovammo circondati, con il Comandante Beek alla testa dei suoi uomini che ci fissava ghignando di soddisfazione.

«Guarda un po’ quale inaspettata sorpresa. Il nostro amato sceriffo che fa comunella con questi straccioni. Anche se stiamo parlando di te, dovevo vederlo con i miei occhi per poterci credere.»

«Che ci fai tu qui?»

«Forse non sei così amato e stimato come pensavi. Infatti ho ricevuto una certa lettera, in cui erano riportate molte cose interessanti sul tuo conto. Chi tu fossi in realtà, per esempio. Ma anche la verità dietro al misterioso e compianto signor Haselworth, o la faccenda del tunnel sotto casa tua.»

«Mi… mi dispiace Daemon. Ho provato a fermarli…»

«E come se non bastasse, il nostro anonimo ma leale suddito ci ha rivelato anche cosa ne fosse stato di questa lucertola. Sono sicuro che il Governatore e suo figlio saranno molto felici di fare due chiacchiere con te.»

«Tieni Scalia fuori da questa storia.»

«Scalia? Da quando in qua si chiamano le bestie per nome?»

«Smettila. È una questione tra me e te.»

«Ti sbagli, bifolco. Chiunque abbia avuto a che fare con te farà i conti con questa storia. Il sindaco, la mocciosa dell’emporio. Persino quel rompiscatole di Decurione. E quando finalmente avremo fatto pulizia, e la gestione di questo letamaio tornerà sotto il mio controllo, ti assicuro che questi animali passeranno il peggior quarto d’ora della loro vita. Perché se c’è una cosa che detesto è che mi si prenda in giro.»

«Considerato per quanto tempo sono riuscito a fartela sotto al naso, al tuo posto sarei arrabbiato anch’io.»

Non solo Daemon schivò senza alcuna difficoltà il pugno di Beek, ma quell’idiota era talmente scoordinato nei movimenti che perse l’equilibrio rotolando nel fango.

«Allora? Vuoi arrestarmi o preferisci restartene lì a mangiare la terra?»

«Tu, bastardo. Mi andava l’idea di trascinarti personalmente fino al patibolo, ma ora credo che risolverò la faccenda di persona!»

«Beek, forse è il caso che ti calmi un po’.» disse Oldrick tentando di mediare, ma ormai quello aveva perso del tutto la testa.

Io non so cosa sperasse di ottenere Daemon provocando in quel modo quell’animale rabbioso, fatto sta che si ritrovò a schivare un fendente dietro l’altro; per sua fortuna l’agilità non gli mancava, mentre di contro Beek era un pessimo schermidore che maneggiava la spada come fosse un randello.

«Non intervenite!» ordinò Oldrick al resto dei soldati, forse nel tentativo di tenere sotto controllo una situazione già pericolosa.

Quella specie di balletto andò avanti per parecchi minuti, ma all’improvviso Daemon sembrò perdere l’equilibrio, schivando per miracolo un ennesimo fendente ma ritrovandosi scoperto ed inerme al successivo affondo.

«Muori!»

Ancora oggi non so perché agii in quel modo, né potevo immaginare le conseguenze che il mio gesto avrebbe provocato.

Fatto sta che da un istante all’altro mi ritrovai lì, davanti a Daemon, con più di metà della spada di Beek conficcata nel ventre.

L’ultima cosa che sentii prima di perdere per un momento i sensi e cadere a terra fu un silenzio assoluto, rotto improvvisamente dalla voce di Daemon che urlava il mio nome.

Forse neanche Daemon immaginava cosa le sue azioni stavano per scatenare, reso furente dal vedermi esanime ai suoi piedi.

«Bastardo!» urlò con gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia, e un attimo dopo il suo pugnale trapassava da parte a parte la gola di Beek.

Quella che si dice la tempesta perfetta.

Da una parte io, che mi ero fatta infilzare per difendere un umano. Dall’altra Daemon, che per vendicare un mostro sgozzava selvaggiamente un membro della sua specie.

Quel silenzio che si era venuto a creare tutto attorno a noi iniziò a scomparire, cancellato da muggiti, ringhi e mormorii che diventavano sempre più forti.

I miliziani si guardavano attorno con aria disperata, consapevoli di come il loro capo l’avesse fatta davvero grossa, mentre qualcuno tra i miei compagni già raccoglieva sassi, snudava artigli o, nel caso di Grog, sollevava da terra un intero tavolo brandendolo come una clava.

«Ammazziamoli!» gridò il vecchio Passe dando il via all’assalto.

Alcuni dei soldati tentarono di difendersi con il bind, ma poter controllare una sola pietra per volta serviva a poco se ti saltavano addosso in cinquanta, e vennero immediatamente linciati.

Oldrick prese in mano la situazione, e raggruppati tutti i superstiti comandò immediatamente la ritirata, riuscendo a richiudere i portoni appena in tempo prima che Lori e gli altri potessero travolgerli.

Come le guardie se ne furono andate tornò il silenzio. Daemon nel mentre mi era rimasto sempre vicino, tenendomi la mano e chiamando continuamente il mio nome.

«Vuoi smettere di urlarmi nelle orecchie?» gli dissi appena fui nuovamente in grado di parlare

«Scalia!? Tu stai bene!?»

«Certo che sto bene. Ci vuole ben altro che una cosa del genere per farmi fuori.»

In effetti non gli avevo mai parlato delle mie capacità di guarigione, e quando mi tolsi la spada ancora conficcata nel corpo rimase senza parole nel vedere la ferita rimarginarsi a vista d’occhio.

«Sia ringraziato il cielo. Temevo di averti persa.»

«Allora anche tu sai come si fa a piangere.» sorrisi io

Il mio sarcasmo si sciolse come la neve quando mi ritrovai stretta nel suo abbraccio, che oltre a lasciarmi sgomenta mi pervase di un calore così bello che quasi mi ci persi dentro.

Nel frattempo la rabbia tra i nostri amici era passata, e alla vista dei corpi trucidati di Beek e di alcuni dei suoi uomini molti di loro furono presi dal terrore.

Era la prima volta che succedeva una cosa del genere a Ende. Ma sapevamo che c’erano stati altri episodi simili in altri ghetti, e in alcuni casi delle vere e proprie rivolte, così come sapevamo quali erano state le conseguenze di tali gesti.

«Che cos’abbiamo fatto?»

«Mi dispiace, padre. È stata colpa mia. Se non l’avessi provocato in quel modo…»

«Non devi scusarti di niente. Quell’animale ha avuto quello che si meritava.»

«Però, Scalia…»

«E ora cosa facciamo?» chiese Jack. «Di sicuro torneranno. E ho visto coi miei occhi cosa fanno a chi si ribella.»

«Io dico di combattere!»

Quelle parole mi uscirono così, senza che quasi me ne accorgessi. D’altronde ormai sentivo bruciare dentro di me quel fuoco che per tutti quegli anni ero riuscita faticosamente a sopire, e che gli ultimi mesi di libertà avevano già rinvigorito.

«Scalia che stai dicendo?»

«Lo ha detto anche Jack. Non hanno pietà per chi alza la testa. In questo caso perché dovremmo starcene qui ad aspettare di essere decimati o peggio? E se proprio dobbiamo morire, allora lo faremo alle nostre condizioni! Combattendo! Per difendere il nostro diritto di vivere! Quel diritto che loro ci hanno sempre negato!»

«Ragiona, Scalia. Quello che proponi è folle.»

«Io lo so perché dici questo padre. E ti capisco quando dici che forse i mostri in parte meritano il castigo che gli è stato inflitto. Ma non credi che cinquecento anni di schiavitù siano stati una pena più che sufficiente per ripagare ciò che tu e i nostri antenati avete fatto combattendo per il Signore Oscuro?»

«Scalia ha ragione! È ora di combattere!»

«Passe…»

«Ora basta subire in silenzio! Che paghino per tutto quello che hanno fatto a noi e ai nostri amici!»

«Grog…»

«Io ne ho davvero abbastanza. Non permetterò che facciano del male a coloro a cui voglio bene. E di certo non lascerò che facciano del male al mio bambino…»

«Lori, anche tu…»

«Adesso smettetela di dire idiozie!»

«Daemon!»

«Nostro padre ha ragione Scalia! Vi fareste solo ammazzare! Ora scendo al villaggio e mi consegno a Oldrick. Forse parlando con lui riuscirò a tenervi fuori da questa storia.»

«Non sei più un bambino Daemon! Perciò smettila di giocare all’eroe che ci protegge tutti!»

«E comunque, al punto in cui siamo pensi davvero che offrirti a loro come vittima sacrificale basterà a salvarci?»

«Lori dice bene, ragazzo.» disse Passe «Abbiamo ucciso degli uomini della milizia. La prossima volta che torneranno qui sarà per massacrarci tutti. Non importa se gli serviamo, una schiavo che si ribella diventa solo una minaccia.»

«Dunque vorreste combattere? Ammettiamo che riusciate a scacciare la pattuglia che verrà inviata qui a compiere la rappresaglia. Poi cosa farete? La volta successiva manderebbero l’esercito. E a quel punto non avrete scampo. L’ha detto anche Bojack, queste ribellioni possono finire in un solo modo.»

«E allora, indicaci tu la strada da seguire!» esclamai quasi senza riflettere.

Se solo ci pensavo mi sembrava incredibile: stavo chiedendo ad un essere umano, per quanto diverso dagli altri, di essere la nostra guida.

Ma chi altri se non lui avrebbe potuto farlo?

«Sei stato tu a farmi leggere quei libri, Daemon. Tutte quelle parole sulla libertà, sull’uguaglianza. Non puoi pretendere che me ne dimentichi. Non adesso che sto iniziando a credere davvero che sia possibile.»

Daemon guardò in basso, come schiacciato dal peso che non solo io, ma anche tutti gli altri a giudicare da come lo guardavano gli stavamo chiedendo di caricarsi sulle spalle.

«Può davvero succedere?» chiese Lori. «Puoi aiutarci ad essere liberi?»

«Sciocchezze. Io ho girato metà di Erthea come schiavo sulle navi. E vi dico una cosa. Non importa dove andiate, non c’è un solo posto in cui dei mostri come noi possano dirsi realmente liberi.»

«Hai ragione, Jack. Un luogo simile non esiste in questo mondo.»

«Visto? Lo dice persino lui.»

«Ma potete sempre crearlo.»

«Che intendi dire!?» chiese Zorech

«Esattamente ciò che ho detto. Se un mondo in cui i mostri possano dirsi liberi ancora non c’è, allora non avete altra scelta che costruirne uno con le vostre mani.»

«E dove dovremmo costruirlo se è lecito?» domandò Jack

«Proprio qui.»

«Qui!?» dissi io «Intendi ad Eirinn?»

«Questa terra è intrisa del vostro sudore e del sangue che i vostri amici hanno versato. Quale luogo migliore per dare vita ad un mondo in cui essere liberi se non quello che voi stessi con le vostre fatiche avete contribuito a far prosperare?»

«Hai detto tu stesso che non abbiamo speranze contro l’Impero e il suo esercito.» disse mio padre con rassegnazione, per non dire con cinismo. «Come potremmo mai sperare di conquistare questa provincia?»

«Infatti la nostra forza sola non sarebbe mai sufficiente. Non solo per ottenere il controllo di Eirinn, ma soprattutto per difenderla. Per fare questo servono degli alleati.»

Impiegammo un attimo a capire che cosa intendesse Daemon per alleati, e la sola idea bastò a far venire un moto di ribrezzo a molti, me inclusa.

«Dovremmo allearci con gli umani? Stai scherzando spero!»

«E cosa vorreste fare? Sottometterli? Sterminarli? Se è così, preparatevi a vedere la storia ripetersi. Che vi piaccia o no, questo mondo è interamente popolato dagli umani. O accettate l’idea che solo dalla coesistenza può nascere un mondo nuovo in cui possiate essere liberi, o la vostra libertà sarà solo un sogno.»

«E loro la accetteranno? Sono stati gli umani a tenerci in catene! Sono stati loro a metterci le pietre nel corpo! Per loro noi non siamo altro che animali!»

«Ormai pensavo che l’aveste capito. Non tutti gli umani sono così. C’ero anch’io quando Septimus e i suoi uomini vi hanno difeso da quel porco che vedete lì. E io vi giuro, su tutto quello che ho di più caro, che non l’hanno fatto perché era loro dovere, ma perché pensavano realmente che ciò che eravate costretti a subire fosse sbagliato. Siete liberi di non credermi, ma la gente di questa provincia ha sofferto e soffre tuttora quasi quanto voi, perché costretta a vivere sotto il giogo di funzionari incapaci. Tu Scalia. Hai parlato dei libri che ti ho fatto leggere, ma ti ricordo che sono stati degli umani a scriverli.»

Di fronte a quella considerazione non seppi cosa rispondere, e ammetto che provai un senso di vergogna per come mi fossi lasciata trasportare dalle emozioni e dalla rabbia.

«Anche supponendo che alcuni umani accettino di schierarsi con noi. E gli altri?» chiese Jack. «Gli altri cosa faranno?»

«Pretendere che tutto il mondo segua un unico pensiero è utopistico. Ma di certo non conquisterete la fiducia degli umani che ancora non sanno cosa pensare di voi comportandovi esattamente come temono che potreste fare. Pertanto, se davvero volete il mio aiuto per creare un mondo in cui possiate essere liberi, la mia prima richiesta è la seguente. Niente vendette personali. Niente ritorsioni. Avete la mia parola che chiunque abbia commesso dei crimini nei vostri confronti sarà chiamato a risponderne. Per tutti gli altri, tutto quello che è successo da oggi è cancellato. Tutti gli umani che accetteranno di seguirci nella creazione del nuovo mondo, o che semplicemente non si mostreranno ostili al nostro operato, saranno i benvenuti. Pregiudizi e intolleranza non saranno tollerati da una parte o dall’altra, e chiunque dovesse dimenticarsene vi assicuro che avrà modo di pentirsene.»

Fummo costretti a riconoscere che le sue erano parole sensate, anche se a molti la sola idea di dover vivere e probabilmente combattere fianco a fianco con gli stessi che ci avevano tenuto in schiavitù per secoli suscitava ribrezzo. Ed io ero sicuramente tra questi.

D’altronde però come potevano un migliaio di schiavi affamati e macilenti mettere in scacco da soli un intero esercito?

«Prima di andare oltre però, dovete rispondere a questa domanda.» disse ancora Daemon guardandoci tutti in modo talmente cupo da spaventarci «Siete davvero pronti a lottare e morire per ottenere ciò che volete? Costruire da zero un mondo che non esiste è l’impresa più difficile che una mente senziente sia in grado di concepire. Molti dovranno sacrificarsi per fare si che ciò avvenga. Se siete disposti a rischiare la vostra vita, o a veder morire i vostri amici, per inseguire questo sogno quasi impossibile, allora impugnate le armi e preparatevi a lottare. Ma se pensate di non esserne capaci, o se avete anche solo un dubbio, allora sedetevi nel fango e aspettate il vostro destino, che sarà comunque assai meno doloroso di ciò che vi aspetta oltre quel muro. La decisione è vostra.»

Una voce che non seppi riconoscere si sollevò quasi subito alle mie spalle.

«Alle armi!»

A quel punto un boato come non ne avevo mai sentiti fece tremare le case, le mura, perfino le montagne tutto intorno.

«Alle armi! Viva la libertà!»

E così, era successo quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare: un umano che a furore di popolo veniva eletto leader di una rivolta di mostri che solo poco prima sembrava impensabile.

A volte anche l’impossibile può accadere.

 

Una volta avevo sentito dire che le prime rivolte a Parigi nell’ottantanove erano esplose quando un idiota dei reggimenti tedeschi dal grilletto facile aveva sparato a un ragazzino durante una protesta ai giardini delle Tuilerries.

Che fosse vero o meno, è risaputo che mentre fame, soprusi e governanti inetti sono la legna che alimenta le rivoluzioni, il sangue è da sempre l’olio che le incendia.

 Di fronte a quella massa di poveri disgraziati che tutti insieme alzavano la testa al grido di libertà e uguaglianza non potevo fare a meno di provare un gran disgusto per me stesso.

D’accordo che avevo sempre saputo che Scalia non sarebbe mai potuta morire per così poco, tali erano le sue capacità rigenerative, ma ciò non toglie che l’avevo comunque messa in pericolo.

Per mia fortuna avevo iniziato a fare ricerche sul bind molto prima che mi fosse data quella stella, arrivando a scoprire cose che la comune soldataglia abituata ad usare quelle pietre solo come una sorta di frusta sovrannaturale neanche si immaginava.

In questo modo ero riuscito a mettere a punto un particolare incantesimo, che avevo chiamato con scarsissima fantasia mot de commande. Tutto quello che avevo dovuto fare era stato instillare nella pietra di Scalia l’ordine di proteggermi qualora la mia vita fosse stata in pericolo; tale direttiva era quindi rimasta latente fino a quando non si erano palesate le condizioni per il suo risveglio, avvenimento del quale naturalmente lei non poteva avere consapevolezza perché eseguito in una condizione di vera e propria ipnosi.

Era un vero peccato che lo sforzo magico richiesto per sopportare un incantesimo di tale complessità fosse più di quanto quelle pietre di bassa lega potessero sopportare, permettendone un singolo utilizzo, e che per instillarlo nella pietra fossero richiesti sia parecchi minuti che un contatto diretto.

Ma ciò che più contava era che avevo finalmente ottenuto quello che volevo.

Ora non si poteva più tornare indietro, ed ero consapevole che avessimo poco tempo.

Oldrick e i suoi uomini non si sarebbero certo arrischiati a rimettere piede nel ghetto, ma era solo una questione di due, massimo tre giorni prima che dal Castello venisse inviata una spedizione punitiva.

E prima che ciò accadesse era necessario aver preso il controllo della regione e cementato l’alleanza tra gli schiavi e gli abitanti del luogo.

Una volta selezionati i mostri più affidabili e maggiormente pronti alla lotta e aperte senza difficoltà le porte del ghetto puntammo direttamente i campi di lavoro, arrivandoci prima che la notizia della rivolta potesse diffondersi.

Le poche guardie assegnate alla loro difesa si arresero senza neanche provare a combattere, terrorizzate all’idea di dover affrontare una banda di schiavi armati di sassi e bastoni ma comunque arrabbiatissimi, permettendoci di mettere le mani su attrezzi da lavoro, vestiti di cuoio della forgia, cavalli e anche qualche arma.

Quindi, venne il momento di puntare al bersaglio grosso.

«A Dundee!».

 

Ormai era da mesi che faticavo ad essere me stesso.

La morte di Jorn, tanto improvvisa quanto paradossale, mi aveva colpito duramente.

Era successo la mattina dopo quel festino alla taverna.

Il sindaco Rutte mi aveva buttato giù dalla branda, dalla quale ero sceso tra l’altro con un tremendo mal di testa da sbronza, dicendomi che lo avevano ripescato dal fondo di una cisterna poco fuori le mura, lungo la strada per il forte.

Un incidente, si era detto. Gli avevano trovato addosso un sacchetto con l’ultima paga e la spilla d’argento di suo padre appuntata sulla tunica, senza alcun segno apparente di un’aggressione.

Daemon, che era apparso sconvolto tanto quanto me, mi aveva detto di averlo accompagnato fino alla piazza del villaggio, dove Jorn lo aveva però convinto a lasciarlo tornare indietro da solo promettendo che sarebbe tornato subito al forte.

Accidenti a lui e al suo orgoglio: di sicuro non voleva che qualcuno lo vedesse rientrare in branda ubriaco fradicio e sorretto a spalla dallo sceriffo.

Dannazione Jorn! Te l’ho sempre detto che non sei bravo a reggere l’alcol!

Se fossi stato più attento mi dicevo, se non mi fossi lasciato andare anch’io, di sicuro non sarebbe finita in quel modo.

Naturalmente tali pensieri non facevano altro che distrarmi dai miei doveri, e così accadde che quando la tempesta ci arrivò addosso quasi non mi accorsi di nulla finché non fu troppo tardi.

Quel pomeriggio ero seduto in riva al lago, con gli occhi piantati sui monti del Khoral che si stagliavano di fronte a me e la testa persa in un mare di pensieri.

«Un’insurrezione!?» esclamai all’indirizzo del messaggero che venne a portarmi la notizia. «E dove sono adesso i rivoltosi?»

«Hanno scacciato un manipolo di miliziani e ucciso il Comandante Beek, e sembra che ora siano diretti verso Dundee!»

«Corri subito al villaggio! Ordina alla milizia e alla guardia cittadina di prepararsi a respingerli! Io vi raggiungerò il prima possibile con il resto della guarnigione!»

«Sì, decurione!»

Mentre galoppavo sulla via del ritorno facendo scoppiare i polmoni al mio cavallo mi accorgevo di quanto la situazione stesse precipitando a vista d’occhio; le case e le fattorie più isolate erano già deserte, e la strada diretta a nord talmente intasata che molti avevano abbandonato carri e carretti per proseguire a piedi.

Il terrore si percepiva distintamente; i ribelli stavano venendo a presentare il conto, e sarebbe stato molto salato.

Al mio arrivo, il presidio era in preda al caos.

«Perché siamo così pochi? Dove sono tutti?»

«Draxler, Mascius e Corren se ne sono andati. Per gli altri, non ne abbiamo idea.»

«E il Centurione Costanzio

«È saltato su un cavallo assieme alla sua scorta personale appena è arrivata la notizia. Ha detto che andava a chiedere rinforzi, ma a meno che non abbiano spostato il Castello oltre il fiume non scommetterei sul suo ritorno.»

Ma se quelle sembravano pessime notizie era niente rispetto a ciò che aveva da dire il messaggero che avevo mandato al villaggio. Il solo fatto di vederlo entrare quasi sfondando la porta, bianco come un cadavere, fu sufficiente per farmi intuire cosa avesse da dirmi.

«Ebbene?»

«Vengo ora dalla caserma. Il posto è deserto. I miliziani sono già scappati tutti.»

«E la guardia cittadina?»

«Non mi hanno neanche lasciato parlare. Mentre tornavo qui però li ho visti aprire le porte su ordine del sindaco.»

«Maledizione!» sbottai calciando la sedia «Non possiamo difendere neanche questo forte, figuriamoci il villaggio!»

«Decurione! Sono qui! Sono alla base del colle e stanno salendo!»

Era dunque destino che il mio sogno di diventare un grande eroe fosse destinato ad accompagnarmi nella tomba. Ma non me ne sarei certo stato fermo ad aspettare di farmi scannare.

Se non per gli uomini al mio comando, dovevo provare a fare qualcosa almeno per coloro che volevo proteggere; ogni minuto che fossimo stati in grado di guadagnare sarebbe stato un minuto in più concesso ai fuggitivi per mettersi in salvo.

«A questo punto, che si sudino le nostre teste!»

Nessuno esitò, perché i codardi erano già tutti scappati. Era il pensiero di combattere per i nostri cari a darci la forza in quelli che sapevamo essere i nostri ultimi minuti.

Recuperati tutti gli archi, le frecce e i giavellotti che avevamo a disposizione ci portammo in cima al basso muro che delimitava il cortile del forte, pronti a vendere cara la pelle.

Da lì potei vederli mentre, come una marea in carne ed ossa, avanzavano lentamente lungo il pendio, talmente numerosi da nascondere la terra sotto i loro piedi.

Mi aspettavo di vederli sciamare contro di noi come un branco di lupi pronti a divorare le nostre carcasse. E invece, di colpo, arrestarono l’avanzata, fermandosi alla giusta distanza per essere fuori dalla gittata delle nostre frecce.

Una parte di tutti noi capiva. E anche se dentro di noi non volevamo realmente far loro del male, sapevamo che ai loro occhi tutto eravamo fuorché semplici soldati obbligati da un giuramento a compiere il nostro dovere.

«Abbiamo già chiamato rinforzi!» dissi, cercando di apparire il più convincente possibile. «Deponete le armi, ritiratevi pacificamente e vi giuro che non vi sarà fatto alcun male!»

Nessuno rispose, né si levò una voce.

Poi, d’un tratto, la massa si aprì ordinatamente, e una figura a noi molto familiare avanzò fino alla testa di quella specie di armata lasciandoci senza parole.

«No… Non può essere… Tra tutti, perché proprio tu?»

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!

Dopo due settimane, eccomi di nuovo qui con il penultimo capitolo del primo volume di questa mia pima Light Novel.

Mi sono sforzato di dare al mio protagonista una personalità il più sfaccettata possibile, facendo di lui un personaggio complesso e a tutto tondo piuttosto che il classico eroe isekai.

Ciò sarà risultato di sicuro evidente in questi ultimi due capitoli, in cui si è visto fino a che punto Daemon è disposto a spingersi pur di realizzare il proprio scopo, senza che tuttavia questo faccia di lui un personaggio totalmente malvagio.

Grazie a Fenris per la sua recensione.

Allora ci vediamo tra due settimane per l’epilogo!^^

A presto!^_^

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Capitolo 7
*** EPILOGO - RIVOLUZIONE ***


“Non v'è rivoluzione senza furore popolare.

Non v'è furore di popolo scatenato senza disordine e vittime.”

EPILOGO

RIVOLUZIONE

 

 

Quando un popolo si solleva, solitamente chi non vuole avere niente a che fare con la questione prende le proprie cose e scappa senza neanche guardarsi indietro.

Se poi a ribellarsi sono quegli stessi individui che fino al giorno prima hai trattato come bestie da soma, l’ultima cosa che vuoi è rischiare di capitargli tra le mani solo per rimanere a difendere un pezzo di campo o una bottega.

Per questo non mi sorprese più di tanto quando, lungo il tragitto verso Dundee, trovammo la maggior parte delle case e delle fattorie abbandonate.

Razziatori e banditi si erano già messi al lavoro, ma fu mia cura fare arrestare chiunque sorprendemmo a saccheggiare le case o assalire le carovane in fuga, promettendo a tutti quelli che incontravamo e che si buttavano il più delle volte ai nostri piedi implorando pietà che a nessuno sarebbe stato torto un capello.

L’eco di questi comportamenti, oltre a quello su chi stava guidando la rivolta, sembrò spargersi in fretta, e per quando arrivammo in vista delle mura di Dundee molta gente aveva già smesso di scappare, preferendo piuttosto restare alla finestra e vedere come la situazione si sarebbe evoluta.

Sapevo che Rutte era un uomo di giudizio, che non avrebbe mai corso il rischio di affidare le vite dei suoi concittadini alle risibili mura di Dundee o a quei mezzi soldati della guardia cittadina.

Quello di cui non ero ancora del tutto sicuro era come avrebbero reagito Septimus e i suoi uomini. Li conoscevo quasi tutti, e fatte salve alcune eccezioni sapevo che non si sarebbero fatti uccidere per difendere un Impero nel quale in fin dei conti nessuno di loro credeva davvero; a condizione ovviamente di dare loro qualcosa di migliore nel quale credere e a cui votare la propria lealtà.

Ignorando inizialmente Dundee, di cui Rutte aveva come previsto già fatto aprire le porte per dimostrare l’assenza di qualunque velleità di resistenza, ordinai di dirigersi immediatamente verso il forte, che invece trovammo in pieno assetto di guerra e pronto a difendersi.

Ovviamente tutti quei soldati, a cominciare da Septimus, restarono ammutoliti quando mi videro apparire dinnanzi a loro in mezzo a tutti quei mostri, ma sapevo che la mia sola presenza o le semplici parole non sarebbero bastate a convincerli a cedermi le loro armi.

Occorreva un gesto plateale. E io per fortuna, in quanto a gesti plateali, ero un professionista.

«Daemon, che stai facendo?» esclamò Scalia vedendomi avanzare verso il forte con le braccia conserte dietro la schiena, la schiena dritta e lo sguardo fisso davanti a me «Ti ammazzeranno!»

Subito ordinai ai miei pochi arcieri di posare le armi, fermandomi a metà strada tra le mura e la mia prima linea e restando a lungo a fissare negli occhi i soldati sui bastioni.

Mi sembrava di essere tornato a Laffrey, di fronte al quinto di linea schierato e pronto a spararmi.

«Mi riconoscete vero? Non vogliamo farvi alcun male! Non siete voi i nostri nemici!»

Non vi fu risposta, anche se potevo scorgere l’esitazione negli occhi di ognuno di loro.

«Se volete uccidermi, fate pure!» dissi allargando le braccia «Fatelo adesso e finirà tutto! Altrimenti, scendete da lì e parliamo! Avete la mia parola che nessuno di noi alzerà un dito!»

Carel, una giovane recluta poco più che quattordicenne, svenne letteralmente per lo stress, e a quel punto Septimus si decise ad ordinare ai suoi di abbassare le armi.

«Adesso scendo e parliamo! Ma se uno solo di loro muove un passo…»

«Hai la mia parola che non accadrà nulla!»

Di lì a breve le porte della fortezza si aprirono leggermente e Septimus uscì all’esterno accompagnato da un subalterno con la bandiera bianca.

«Che sta succedendo, Daemon?»

«Non poteva durare Septimus, e tu lo sapevi.»

«Perché sei insieme a loro? Sono solo schiavi.»

«Eri pronto anche tu a difenderli quando sono stati in pericolo. Avrò modo di spiegarti ogni cosa. Ma non adesso. Non c’è tempo. Avrai già saputo cos’è successo al ghetto. La spedizione punitiva sarà presto qui, e non possiamo affrontarli con attrezzi da lavoro e grembiuli da forgia. Ci servono le armi del forte.»

«E pensi davvero che te le consegnerò? Sono un Decurione dell’esercito imperiale. Tecnicamente dovrei dare l’ordine di uccidervi io stesso.»

«Otterresti solo di morire inutilmente, e i tuoi uomini con te.»

«Non ha alcuna importanza. Io ho fatto un giuramento.»

«Lo stesso che ha fatto il tuo superiore che se l’è data a gambe lasciandovi qui a farvi ammazzare? Non guardarmi così, so perfettamente che è già scappato. Abbiamo fermato lui e la sua scorta a neanche un miglio di qui, mentre cercavano di attraversare il ponte. Ora sei tu al comando. Le vite di quegli uomini sono nelle tue mani.»

Septimus stava scoprendo sulla sua pelle che decidere di gettare via la propria vita in nome dell’onore è facile, ben diverso però è fare lo stesso con quella dei soldati sotto il proprio comando.

Decisi di spingere ulteriormente.

«L’hai visto tu stesso il vero volto dell’Impero. Vuoi davvero morire per gli stessi che hanno vessato questi poveretti fino al punto di spingerli a dire basta? O che hanno incarcerato e ucciso i nostri amici durante quella stupida caccia alle streghe? Siamo cresciuti insieme, lo sai che di me ti puoi fidare. Ti assicuro che non vogliamo spargere sangue innocente.»

Era evidente che il suo orgoglio di soldato gli impediva di fare ciò che intimamente avrebbe voluto. Occorreva un’ultima spinta.

«Un gruppo di miei compagni sono già entrati a Dundee. Non hanno fatto del male a nessuno. Ora stiamo radunando tutti gli abitanti della regione che non sono ancora scappati. Venite anche voi. E se dopo che avrete ascoltato quello che ho da dire deciderete comunque di opporvi a noi vi lasceremo andare via incolumi, con tutte le armi che riuscirete a portarvi dietro. Sarete anche liberi di andare al nord e riunirvi con il resto della legione se lo vorrete. Lo giuro.»

Septimus accettò quasi subito la mia proposta, ponendo come unica condizione la garanzia che fatto salvo un piccolo gruppo di fedelissimi tutti gli altri ribelli sarebbero rimasti al di fuori delle mura.

Mentre si allontanava potevo sentirlo ordinare al proprio portabandiera di dare indicazioni perché tutti iniziassero a mettersi in spalla quante più armi possibili in vista del viaggio verso il Castello. Ma io sapevo benissimo che in realtà quel viaggio non ci sarebbe mai stato.

 

Eirinn non aveva subito le stesse devastazioni patite dall’Impero o da altre parti di Erthea durante le Guerre Sacre, quindi era quasi naturale che in molti tra noi non condividessero il fanatismo e la brutalità con cui l’Impero trattava i mostri.

Di sicuro non li consideravamo nostri pari, ma allo stesso tempo non li vedevamo neanche come oggetti da usare e gettare via a piacimento.

Certo, molti tra di noi avevano schiavi, ma con poche eccezioni quasi tutti facevano ciò che era in loro potere per trattarli nel modo più dignitoso possibile, dandogli da mangiare, un giaciglio caldo su cui dormire, e pretendendo da loro solo ciò che erano materialmente in grado di fare.

Per quanto riguarda me, fin da quando ero bambina non mi ero mai preoccupata troppo della sorte dei mostri, ritenendo di avere già abbastanza problemi nella mia vita per dovermi fare carico anche di quelli degli altri.

Crescendo però mi ero resa conto di quanto egoistico fosse stato il mio modo di pensare, e che se io mi ritenevo sfortunata solo per via dell’avere un padre ubriacone e violento quello era niente se paragonato alla miseria in cui erano costretti gli schiavi che vivevano nei ghetti.

Era stato l’ultimo, terribile inverno a cementare questa idea nel mio animo, nel momento in cui Daemon e Septimus mi avevano confidato che se noi avevamo poco da mangiare a causa dell’incendio al granaio, quei poveretti erano stati spesso costretti a lavorare per giorni e giorni senza poter mettere nulla sotto i denti.

Così, appena prese in mano appieno le redini del negozio, avevo iniziato a fare quello che potevo per aiutarli, ordinando cibo e vestiti caldi dai miei fornitori pagandoli con spezie e altri beni pregiati, e cercando nel mentre di compensare le perdite alzando i prezzi che praticavo abitualmente.

In qualche modo ero riuscita ad evitare di andare in perdita, e quando Septimus mi aveva detto che i mostri erano stati contenti di poter finalmente mangiare qualcosa di decente e proteggersi meglio dal freddo ammetto che mi si era scaldato il cuore.

Ma evidentemente tutti i miei sforzi non erano bastati, o forse più semplicemente quegli schiavi avevano deciso infine di dire basta.

Quello che mai mi sarei potuta immaginare era di trovare Daemon a capo della rivolta. Tutto quello che credevo di sapere sul suo conto si era sgretolato, ma ammetto che vederlo così, nel pieno del suo proverbiale carisma, tenendo in pugno senza difficoltà quella massa eterogenea di schiavi arrabbiatissimi prodigandosi nel mentre a rassicurare tutti sul fatto che non avessero cattive intenzioni non faceva altro che accrescere la mia stima nei suoi confronti.

Mentre cercavo ancora di metabolizzare tutto quello che stava accadendo in quel giorno pazzesco, un piccolo goblin armato di bastone fece irruzione nel negozio sfondando la porta che avevo sprangato per sicurezza e mettendosi a ingurgitare tutto quello che gli capitava a tiro.

Dimenticandomi con chi avevo a che fare presi la scopa e cercai di mandarlo via neanche avessi avuto a che fare con un topo molesto, con il risultato che quello per poco non si avventò anche su di me.

Ancora una volta fu Daemon a salvarmi, irrompendo sulla scena assieme ad una giovane ragazza con coda e corna di drago quando già mi immaginavo il peggio.

«Ero stato chiaro Pythus. Niente saccheggi o aggressioni.» e senza aggiungere altro lo trafisse da parte a parte quando quello cercò di assalire anche lui.

«Non credo che mancherà a nessuno.» osservò cinicamente la ragazza-drago «Era solo un viscido selvaggio.»

«Mary. Tu stai bene?»

«Sì, tranquillo. Non mi ha fatto niente.»

«Mi dispiace. Lui aveva l’ordine di restare fuori dalle mura, ma deve essersi intrufolato di nascosto. E mi dispiace anche per la frutta.»

«Ma no… non preoccuparti…»

«Puoi stare tranquilla, gli altri miei compagni non sono come lui. Ordinerò ad alcuni di loro di presidiare il negozio, così non dovrai temere neanche gli sciacalli.»

Se Daemon sembrava ancora il gentiluomo rude ma pieno di premure che avevo sempre conosciuto, la sua compagna al contrario mi fissava con occhi che sapevano di rabbia, per non dire di odio.

E in tutta onestà devo dire che anche a me fece una brutta impressione, più che altro per il modo schietto e poco educato con cui si rivolgeva a Daemon: come si permetteva di rivolgersi a lui come se fosse stato un suo parente?

Ovviamente ancora non sapevo che quella era davvero sua sorella –sorella adottiva per lo meno–, ma capii subito che non saremmo andate d’accordo.

Daemon aveva appena fatto le presentazioni quando una minotaura così alta da non passare attraverso la porta del negozio arrivò di corsa avvisando tutti che c’era un problema serio alla taverna del sindaco, e che Giselle era in pericolo.

Istintivamente, essendo io stessa in pensiero per la mia amica, li seguii fino al Cervo Nero, dove trovammo Giselle tenuta in ostaggio con un pugnale da uno dei pochi miliziani a non essere ancora fuggiti.

Si chiamava Vig, ed era uno dei peggiori aguzzini che avessi mai conosciuto, oltre ad essere un lascivo pervertito sempre alla ricerca di una ragazza da conquistare con i suoi modi da caprone. Tutti quelli della sua risma se l’erano data a gambe appena arrivata notizia della rivolta per non rischiare di finire nelle mani delle loro vittime, ma lui quel giorno si era ubriacato a tal punto da crollare addormentato sotto il tavolo della locanda, rendendosi conto di quanto stava accadendo solo una volta smaltita la sbronza.

«Ora smettila soldato!» disse il Capitano Oldrick, anche lui presente assieme a Septimus, al sindaco Rutte e ad un paio di mostri che, avendolo riconosciuto, avevano tentato di mettergli le mani addosso provocandone la reazione «Non c’è ragione di proseguire oltre con questa follia!»

«Io non voglio avere niente a che fare con queste bestie! Voglio cinquecento goldie e un salvacondotto per passare il ponte!»

«Tu non vai da nessuna parte maledetto!» strillò il vecchio coboldo indicandosi la benda sull’occhio. «Devo ancora manifestarti la mia gratitudine per questo!»

«Fai silenzio stupido animale, o giuro che ti cavo anche l’altro occhio!»

«Non fare stupidaggini.» disse Rutte con sguardo cupo, per nulla preoccupato a prima vista di quanto stava capitando a sua figlia. «Mantieni il sangue freddo e andrà tutto bene.»

«Tu taci vecchio! Non sono cose che ti riguardano!»

«Io non stavo parlando con te.»

«Mi dispiace padre. Ma ho avuto fin troppa pazienza con questo idiota.»

«Cos…»

Sì udì una specie di sibilo, come di qualcosa che veniva estratto con violenza, e un attimo dopo Vig stramazzò a terra come paralizzato, con la bava alla bocca e gli occhi quasi fuori dalle orbite.

Ma questo era in niente in confronto allo stupore che provammo quasi tutti nel momento in cui notammo una specie di punta acuminata che spuntava da dietro la gonna di Giselle.

«Giselle, ma cosa…»

«D’accordo, credo che questa recita sia durata anche troppo.»

A quel punto tutto il corpo della mia migliore amica sembrò come lacerarsi, e da sotto la sua pelle fece la propria comparsa in vari punti, soprattutto su braccia e gambe, una sorta di armatura scura simile alla corazza di un insetto. Quattro ali membranose le apparvero dietro la schiena lacerando la camicetta, e buona parte della gonna venne letteralmente sventrata dall’emergere di un grosso addome peloso giallo e nero terminante in un lungo pungiglione ricurvo. Infine, un paio di antenne le spuntarono in cima alla testa.

«Finalmente! Non ne potevo più di quell’involucro gommoso!»

A Septimus sembrava dovesse cadere la mascella da un momento all’altro, e a giudicare dal rigonfiamento sotto alla cintura era chiaro che la trasformazione della nostra amica in una specie di conturbante ape regina dal balcone quasi raddoppiato aveva destato in lui pensieri inopportuni.

«Giselle, ma tu sei un…»

«Uno schianto? Uno spettacolo? Una forza della natura?»

«Un mostro!?»

«Preferirei che non lo dicessi con quel tono.»

«Giselle non è propriamente un mostro.» disse Daemon. «È una sanguemisto.»

«Non dirmi che tu l’hai sempre saputo.» chiese lei, ghignando malevola come quando eravamo bambini

«Sono cresciuto in mezzo ai mostri. Ovvio che so riconoscerne uno, per quanto mascherato.»

In seguito scoprimmo che molti anni prima il signor Rutte si era imbattuto in una schiava fuggitiva e mezza morta mentre tornava da un viaggio nell’Unione, portandola a casa con sé e tenendola per molto tempo nascosta nella soffitta di casa sua dopo averla curata.

Alla fine si erano innamorati e dalla loro unione era nata Giselle, anche se lo sforzo di partorire un sanguemisto era stato tale che sua madre era morta nel darla alla luce.

Venne fuori anche che la specie a cui apparteneva la madre di Giselle aveva sviluppato la capacità di comprimere e celare il proprio vero aspetto dietro ad un involucro che simulava in tutto e per tutto la pelle umana, che però una volta distrutto non poteva più essere ricostruito.

«Allora? Volete restare lì a fissarmi o muovere le mani? Toglietemi di torno questo rifiuto ambulante prima che mi venga voglia di iniettargli un’altra dose di veleno.»

«Rude, selvaggia e testarda. Sei proprio tale e quale a tua madre.»

Mentre Oldrick e Septimus portavano via Vig un orco gigantesco ma dall’aspetto amichevole entrò nella locanda.

«Daemon. È tutto pronto.»

 

A sentire Daemon, la popolazione di Dundee era solita radunarsi in massa nella piazza centrale solo per assistere alle esecuzioni pubbliche.

Una volta smontate le forche e trasformato il patibolo in un palco avevamo radunato non solo gli abitanti del villaggio, ma anche tutti quelli che eravamo riusciti a trovare in giro per tutta la regione.

Era chiaro che avevano paura di noi, e che se molti di loro ci avevano obbedito seguendoci al villaggio era solo perché Daemon aveva preteso che i rastrellamenti venissero condotti da gruppi misti composti da mostri, membri della guardia e legionari.

A conti fatti c’era molta più gente di quanto mi aspettassi; gli occhi di tutti erano puntati ovviamente su Daemon, che si stagliava come un gigante tra i nani al centro del palco con il sindaco, il Decurione Septimus, il Capitano Oldrick e alcuni altri rispettabili cittadini alle sue spalle.

Molti fissavano anche la ragazza-ape in piedi accanto a suo padre, e dai loro sguardi si capiva che nessuno aveva mai avuto neppure un sospetto sulla sua vera natura.

Ad un cenno di Daemon scese il silenzio.

«Amici miei. Abitanti di Dundee. Non c’è bisogno che io mi presenti, tanto mi conoscete tutti. Ormai dovreste averlo capito. Vi ho mentito. Su molte cose. Ma se l’ho fatto non è stato perché mi vergognavo di chi fossi o delle mie origini. La verità è che io sono un orfano. Questi mostri, che molti voi hanno sempre considerato niente altro che bestie selvagge e senz’anima, mi hanno trovato abbandonato nella foresta quando ero solo un neonato in fasce. Avrebbero potuto ignorarmi, o persino mangiarmi. Invece mi hanno adottato. E hanno fatto enormi sacrifici per potermi crescere, affinché un giorno io potessi avere tutto ciò in cui loro non avrebbero mai potuto sperare. Ho vissuto in mezzo a loro, e ho visto quello a cui sono costretti. Ho asciugato le loro lacrime e pianto insieme a loro ogni volta che un loro compagno alla sera non rientrava nella sua baracca, solo perché qualcuno aveva ritenuto che la sua vita valesse meno di una pepita d’oro, un secchio di pece o un pezzo di carbone. Ma quali che siano i vostri pensieri, o qualunque cosa voi sappiate o crediate di sapere, voglio dirvi che non siamo qui per vendicarci, o per ripagare nel sangue chissà quali torti. Siamo qui perché crediamo che ogni essere senziente che cammina su questa terra sia tanto degno di vivere quanto chiunque altro. Ogni singolo individuo, umano, mostro o mezzosangue che sia ha il diritto di disporre liberamente della propria vita, e di rispondere in prima persona dell’abuso che potrebbe fare della propria libertà dinnanzi ad una legge di fronte alla quale tutti devono essere uguali. Quella stessa libertà e quella stessa legge che anche a voi sono stati strappati, calpestati da un governo che pretende di decidere delle vostre vite nello stesso modo in cui dispone a proprio piacimento di quelle degli schiavi. Un governo che dopo non essere stato capace di impedire che la nostra terra fosse ridotta alla fame non solo non ha fatto niente per aiutarci, ma si è perfino rivelato un nido di serpi che non ci hanno pensato un attimo a speculare sulle nostre sventure. Ebbene io dico, quando chi dovrebbe come prima cosa ad assicurare il benessere di coloro che si rimettono a lui si dimostra indegno della fiducia concessagli e del ruolo che ricopre, il popolo non ha soltanto il diritto, ma anche il preciso dovere di alzare la testa e gridare a piena voce la propria rabbia! Tutti quelli che non hanno fiducia nelle mie parole, non credono nella bontà di ciò che vogliamo costruire, o semplicemente non riescono a liberarsi dei loro pregiudizi possono andare via incolumi, con tutto ciò che saranno in grado di portarsi dietro. Non uno di loro sarà toccato. Coloro che condividono la nostra lotta ma hanno paura di rischiare la vita in prima persona non abbiano nulla da temere, perché combatteremo anche per loro, e avranno comunque l’occasione di rendere il loro servizio alla causa. Ma se anche voi credete che sia giusto sperare in qualcosa di più, se anche voi pensate che può esserci un’altra via, allora vi chiedo di schierarvi al nostro fianco e aiutarci a costruire un mondo migliore. Un mondo in cui nessun individuo avrà potere di vita o di morte sui propri simili. In cui ognuno di noi, dal più umile dei contadini al più illustre dei proprietari terrieri, dal mostro un tempo schiavo al più grande dei re, avrà diritto inalienabile alla libertà, alla proprietà, all’uguaglianza di fronte alla legge e allo stato e ad un giusto processo da parte di una giuria di suoi pari. Il sangue di coloro che daranno la vita per difendere questo mondo nelle guerre che sicuramente saranno scatenate contro di noi nel tentativo di spegnere il fuoco delle nostre coscienze risvegliate sarà l’acqua della vita che farà germogliare i semi di una nuova era. Anche nella morte, i martiri della nostra lotta avranno la consolazione che il loro sacrificio non sarà stato vano, che coloro che lasceranno dietro diventeranno figli di tutti noi, e che il loro ricordo vivrà per sempre. La decisione spetta a voi.»

Per tutto il tempo in cui Daemon aveva parlato non si era levata una voce, e ci eravamo ritrovati tutti ad ascoltarlo in silenzio come ipnotizzati. Era come udire la voce di un dio, un essere ultraterreno le cui parole sarebbero state capaci di convincerti che il bianco era nero e viceversa.

Conoscevamo tutti la potenza del suo carisma, ma mai prima d’ora ci eravamo trovati di fronte a qualcosa di così incredibile.

Il primo a farsi avanti fu il suo amico Septimus, che mosse un passo dopo essersi strappato dalla tunica blu da legionario lo stemma imperiale.

«Io sono con te Daemon!»

«Anche io!» disse dalla folla quell’antipatica quattrocchi col faccino da bambina

«Conta su di me! – E anche su di me! – Morte al Governatore! – Viva la libertà!»

Un attimo dopo la piazza esplose in un boato assordante, con migliaia di persone che tutte insieme invocavano a piena voce il nome del mio fratellino.

«Non ci posso credere.» disse Jack. «Ditemi che è tutto vero.»

«Non stai sognando, stallone.» rise Giselle. «Chi l’avrebbe mai detto? Il piccolo e gracile Daemon.»

Era vero. L’impossibile era infine successo.

Probabilmente la maggior parte di loro ancora non aveva compreso che da quel momento in poi avrebbero vissuto e combattuto fianco a fianco con le stesse creature che fino al giorno prima avevano guardato dall’alto in basso e trattato come dei servi, ma in quel momento non mi importava.

Ad un cenno di Daemon gli porsi l’asta sulla quale avevamo legato uno stendardo fatto di stracci recuperati qua e là, realizzato da Bonbi e dalle altre donne del ghetto seguendo il modello da lui suggerito.

Un contorno blu come il cielo notturno e un cuore rosso come il sangue versato dai nostri amici, divisi da un rettangolo bianco.

Infine, al centro, tre rose candide, una per ogni specie, uguali e bellissime.

La nostra bandiera.

Il simbolo della nostra libertà.

«La Rivoluzione è cominciata!»

 

 

Nota dell’Autore

Salve a tutti!^_^

E così siamo giunti alla fine di questo primo volume della mia prima light novel!

Spero che la storia vi sia piaciuta, e che continuerete a seguirmi nel prosieguo di questa mia avventura.

Ho dedicato molto tempo e passione alla creazione di ogni singolo aspetto della vicenda, dal susseguirsi degli eventi alla creazione dei personaggi.

Da qui in poi gli eventi procederanno in maniera molto più fluida, in un susseguirsi di situazioni che faranno evolvere la trama generale in modo abbastanza veloce.

Il Volume 2, intitolato “Solo chi è disposto a morire conoscerà la vera forza” è già completato nella sua versione italiana, mentre quella inglese sarà ultimata da qui ad un paio di mesi.

Quindi restate nei paraggi, perché tra due settimane arriva già il primo capitolo!

A presto!^_^

Cj Spencer

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