La parte tangibile dell'amore

di summers001
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Andrè

“L’amore si tocca. Si bacia, si lecca, si scopa.” Disse una volta Alain, appena conoscente e solo commilitone all’epoca, in un tentativo di screditare quello che provo per te, Oscar. Mi aveva appena salvato da un pestaggio in armeria e, per dimostrarmi che aveva ragione, mi aveva dato in pasto a te osservando attentamente le tue mosse. “Quella è fredda come il ghiaccio.” continuava a sbraitare “Non sa neanche com’è fatto un essere umano”.

Quel giorno lo guardai come si guarda un bambino alla sua prima esperienza del mondo, con tenerezza ed amarezza. Pensai a quanto povera dovesse essere stata la sua vita, quanto poco avesse vissuto, visto o conosciuto. A quante poche esperienze pregne di significato avesse avuto. Evitai di uscirmene con certe frasi che riecheggiavano un po’ quelle di mia nonna: “Vedrai quando crescerai”. Non dissi niente. Lo lasciai a crescere, mentre io mi riprendevo ed i lividi impallidivano. Fatto sta che è diventato “il poeta” da allora.

“Che dice oggi il poeta?” Gli faccio per scherzare una mattina.

“Ah, ah, ah!” Ride ironico lui “Che te ne devi andare a fanculo!” Mi risponde con quei suoi modi bruschi, poco sagaci, che nascondono una ferita nella sua parte intima.

Eppure a volte penso che abbia ragione: l’amore è tangibile. È come quel senso di familiarità che provo a starti vicino. È la libertà con cui ti prendevo in giro da bambina. È sapere che quando ti allontani a cavallo, ti giri sempre a controllare dove sono. È conoscere la forma della tua presenza, sapere a memoria le tue abitudini. Capire che sei nei paraggi dalla posizione dei pezzi sulla scacchiera, del bicchiere sulla tavola o del cuscino sul divano, immaginandoti mentre pensierosa sposti l’alfiere e non la regina, fai ondeggiare il vino con movimenti circolari o ti siedi spostando tutti i cuscini di lato perché detesti la sensazione del velluto sotto i polpastrelli. E forse per questa intuizione poco geniale inizio un po’ a fidarmi di Alain.

“Sta succedendo qualcosa.” Almeno questo è quello che dice lui. Ora siamo diventati amici, spalleggia per me. Mi da’ dei consigli, mi dice come comportarmi, cosa una donna come te vorrebbe sentirsi dire. Mi riporta qualunque cosa io sia troppo cieco per vedere. Mi parla spesso di te. Non ti odia più così tanto, al punto che sono arrivato a vederci qualcosa dietro, ma non mi interessa.

Però ha ragione. Da quando siamo qui tra le guardie cittadine siamo cambiati. Ma lui cosa ne può sapere? Cosa ne sa di te, di me, di quello che ti ho fatto. E non parlo del gesto fisico, ma dell’amore usato come un’arma con due lame, una per difenderti ed un’altra per ferirti.

Tu sei cambiata.

Tu sei esplosa rigogliosa, un fiore che sboccia a primavera in un tripudio di petali, ricca di nettare. Hai fatto vedere a tutti di cosa sei capace. Hai sovvertito le regole, hai dimostrato che tutti possono tutto. Ti sei adattata, hai lasciato gli agi per la vita spartana. Hai disciplinato i più restii all’ordine tra tutti i reggimenti di Sua Maestà. Sarebbe tutto troppo per chiunque. Eppure tu ce l’hai fatta. Sapevo sin da quando eravamo bambini che tu eri destinata a grandi cose. Come posso non ammirarti? Come posso non amarti?

Invece io sto diventando più lento, più triste, più cieco. Ho due occhi nuovi però. Ho Alain. E’ diventato mio amico per davvero. “Ehi Andrè!” Mi chiama sempre quella mattina. Si stanno esercitando tutti con la spada. Tu sei a cavallo e ci controlli. “Di nuovo.” Mi fa lanciando un cenno ad una figura alta, blu e gialla, che dovresti essere tu. Vuole dirmi che stai di nuovo là ad guardarmi, che certe volte rimani come assorta. Gli altri lo notano. Alain lo nota. Si è fissato col fatto che mi cerchi. Sono così abituato a risponderti che non lo noto neanche più, dice sempre lui.

“Vaneggi.” Gli dico solo.

“Proviamo?” mi chiede soltanto con sorriso malizioso. Mi si avvicina, tende la lama della spada. Me la para davanti agli occhi e poi la piega, indietreggia come a voler prendere la rincorsa. In pochi attimi mi è di nuovo addosso. E’ fulmineo, veloce, persino delicato nei gesti, non attira l’attenzione. Io per tutta risposta, con un occhio andato e l’altro che regge appena, mi paro la faccia con le braccia. Mi lacera il palmo con un taglio verticale. Non si fa, ce l’ha insegnato il generale. Schivare piuttosto, mai rischiare le mani: il dolore è acuto e le armi si impugnano con quelle. Ho sbagliato, lo so, dovresti costringermi a duellare fino a sera, a fare dieci giri della caserma di corsa, cento flessioni a terra o che altro ne so.

Invece ti vedo scendere da cavallo e raggiungerci con passo deciso. “Ti è andato di volta il cervello?” fai verso Alain, lo spintoni e lo allontani. Lo porti via, dall’altro lato del plotone. Ci separi come due scolaretti. Lui se la ride ed alza le mani, mentre batte in ritirata.

“Visto?” mi fa prima di farsi trascinare via, ma intanto lo so, qualcosa è cambiato. Una cosa nuova mi rende più allegro, mi fa stare bene, mi scioglie la lingua. Qualcosa è cambiato, ma non voglio essere impaziente e scoprire le carte, forzare la mano. Me li hai insegnati tu questi giochi di furbizia: bisogna pazientare, l’attesa ripaga sempre. Non ho bisogno di tenderti una trappola con un pedone. La regina si muove sempre alla fine.

Qualcosa è cambiato. Chissà se anche tu te ne accorgi, chissà come spieghi i tuoi comportamenti, cosa pensi che sia quell’irresistibile malia che ti incanta. Vorrei chiedertelo, essere sfrontato al punto da metterti in crisi e domandartelo: mi sei forse tornata vicina o qualcosa ti si muove dentro? E’ una meravigliosa illusione. Mi accontenterei di qualunque sia la tua forza motrice.

Mi accontenterò.

Lo farò.

E più ti guardo, più lo so che un giorno diventerò spavaldo. Ti parlerò e ti confiderò i segreti del mio amore. Sorriderai, mi dirai che sono uno sciocco. Sì, lo vedo.

Qualcosa sta cambiando.


 


Angolo dell'autrice
Bon jour! 
Allor, questa storia era in orgine una one shot in più capitoletti, divisi da banali asterischi. Mi sembrava poco e così ecco una piccolissima long fatta di brevi capitoli, che tengo già scritti sul pc. Probabilmente ne posterò un altro stasera e i prossimi nei giorni a seguire in pochissimo tempo. 
Sto esaurendo le mie idee di sempre nel frattempo di avere più tempo per continuare la long. Questa è una storia che ho sempre voluto scrivere. L'avevo immaginata all'inizio come solo una missing moments del manga. Poi come al solito mi sono fatta prendere e ho voluto rivoltarla. E così ecco una storia sulla parte del rapporto tra Oscar ed Andrè credo più emozionante: quel momento in cui tu non sai cosa prova lui, e viceversa, se esporsi o non esporsi, se dire o non dire. E nel frattempo c'è la complicità, la vicinanza, quel toccarsi casualmente. 
Beh. Detto questo ci risentiamo a brevissimo. Oggi? Chissà! (sììì)
Summers

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Oscar

Sono cambiate tante cose in realtà. E’ cambiato mio padre e la sua necessità di vedersi seguito da un erede che avesse per sempre portato il suo cognome. E’ cambiata mia madre, che è convinta di avermi dato un’occasione stravolgendo il suo pentimento. Sei cambiato tu, Andrè. Siamo cambiati entrambi.

Mi sono trovata a pensarti di recente. Te la ricordi quella volta, in quella taverna, quando facemmo a botte? Mi portasti in braccio e mi baciasti sulla via di casa. Le tue labbra erano gentili, dolci e delicate. Ancora me le ricordo. Credo di non averle mai scordate. Ci ripenso da quando Girodelle è venuto qui a casa mia, pretendendomi come merce di scambio, barattata da mio padre per la promessa di altri eredi. Come se la mia vita finora non fosse valsa a niente, come se avessi potuto cancellarla alla stregua di un errore.

Me ne stavo seduta davanti a mio padre ed accanto a Girodelle. Parlavano di un matrimonio come di una “splendida occasione” per vivere finalmente la vita che avrei sempre dovuto, senza pronunciare né “scusa”, né “grazie”. Mi infilavo le unghie nei palmi, mentre finalmente capivo che mi ero sempre illusa di contare qualcosa e di poter prendere una decisione che mi riguardasse. Capivo di essere libera solo nei confini che mi avevano disegnato. Me ne sono andata furiosamente, sbattendomi dietro la porta per fare scena. Avrei voluto raccontarti tutta la scena. Quando più tardi in giardino Girodelle mi si è avvicinato, quell’uomo che aveva preso ordini da me sin da che lo conoscevo, sapevo solo che non eri tu e che non era giusto. Inconsapevolmente stavo conservando per qualcun altro ogni cosa di me. Del suo bacio sapevo solo che non era il tuo. Ho cominciato da allora a pensare a te ossessivamente.

Ho scoperto che ti svegli presto qui in caserma, che ti metti seduto sui gradini a masticare frutta mentre aspetti il tuo compagno che torna dalla ronda della notte. Chissà forse vuoi offrirgli la colazione o dargli solo una pacca sulla spalla. Ho iniziato allora ad arrivare prima anch’io. All’alba parto di casa, corro con Cesar chiedendogli troppo. Mi faccio schiaffeggiare la faccia dal vento e dalla rugiada degli alberi e dei fili d’erba. Prendo fiato davanti alla caserma e rimango là ad ascoltare il cuore che batte forte, prima di entrare e vederti. La prima persona che vedo al mattino.
Non lo so perché lo faccio. Forse è malinconia la mia, forse voglio solo ricordarmi di quando eravamo a casa insieme e venivi a svegliarmi con le spade di legno in mano. Tu ed io, due bambini, in quella stanza che è sempre stata troppo grande per me sola.

“Non hai sonno?” ti domando quando ti raggiungo, con una voce che mi esce strana, troppo seria, troppo brusca, troppo tutto. Ti vorrei chiedere in realtà come stai, se ti danno da mangiare come fa la nonna, se hai tempo per te, se ti va di accompagnarmi o di baciarmi di nuovo. Non te lo racconto di Girodelle. Ho paura che ne soffriresti o che non ti importi. Ho paura di averci ucciso aspettando troppo.

Guardi in alto, verso il cielo ancora pallido. Poi guardi me. “E tu?” mi domandi. Chissà cosa vuoi dire, chissà cosa nascondi. Mi siedo accanto a te stavolta. La manica della mia giubba struscia accanto alla tua. Vorrei allungare la mano, respirarti meglio. Immagino il calore del tuo corpo.

Sì, che ho sonno, ti vorrei dire. Ma non voglio ammettere di privarmi del sonno per raggiungere te. Provo a pensarci e poi cambio argomento. “Hai visto ieri davanti all’assemblea?” faccio. “C’era una donna vestita da uomo.” Avrei voluto salutarla ieri, dirle che la capivo, spiegarle quello che aveva detto mia madre e che aveva tradito mio padre: quei vestiti sono una possibilità, ma rimarrai una donna comunque. Quei vestiti, persino i miei, erano la prova che l’uguaglianza urlata dal popolo erano una necessità. “Era anche molto bella.” Ti dico, ricordandomela come un inno alla femminilità. Mi manca parlare con te. Mi manca la tua prospettiva. Mi aspetto che mi dirai qualcosa sulla sua vera natura o sulla mia. Ti risponderei che finalmente lo so anch’io e che hai sempre avuto ragione.

Ti giri, mi guardi, sorridi. Mi batte forte il cuore quando sorridi. Sei cambiato, sei più bello, più maturo. Chissà perché nessuna mai ti si è proposta. “Secondo me tu sei molto più bella!” mi dici.

Prendo un respiro profondo mentre capisco il significato di quello che stai dicendo. Balbetto suoni, mentre tutta la mia finta sicurezza se ne va. “Gr…” grazie, vorrei dire o comincio a dire, ma qualcosa mi muore in gola e sto ferma e zitta. Questo non me l’avevi mai detto. Non così direttamente. Non credevo lo pensassi. Sorridi, abbassi il capo, te ne vai soddisfatto, gongolando e mi lasci sola.

Più tardi a casa nella mia camera ci ripenso. Di cosa parlavi? Come sarei bella io? Maria Antonietta è bella. Rosalie è bella. Io, invece, ero ridicola in abito lungo, imbellettata apposta. Raggiungo lo specchio e guardo la persona dall’altro lato. Vorrei non averne paura. La conosco così poco che ho bisogno di osservarla a lungo per riconoscermi. Mi chiedo se questi sono ancora i lineamenti di cui una volta eri innamorato. Mi chiedo se sono capace io di innamorarmi di nuovo, di dare qualcosa, di essere una donna, di “vivere la vita che avrei sempre dovuto”.

Una ragazzina aspra che si fa chiamare come un maschio mi guarda dall’altra parte. Vorrei cancellarla, dirle di andarsene. E’ passata troppa vita, quella non sono più io. Stringo i denti, le palpebre ed invece apro la giubba e mi tolgo la camicia. Vorrei aprire gli occhi, ma ho paura di quella ragazzina dall’altro lato che mi guarderà inorridita e sconvolta. Quella che trovo invece è una donna. E’ mutilata nelle fasce ed in una pelle piena di cicatrici. Le srotolo, mi srotolo. La libero, mi libero. Ed alla fine eccomi là. Sono fuggita così a lungo. Mi guardo con curiosità il torace che si apre e si spande, i seni che si muovono, la pelle che prende colore. Alla fine dovevamo pur incontrarci.

Hai sempre visto questa donna, Andrè? Hai sempre saputo che la ragazzina brusca nascondeva questo, nascondeva me? Hai sempre saputo che ho avuto paura, e che quando dall’altro lato ho appena scorto la donna, ho cercato la ragazzina ovunque, fin dentro la guardia cittadina?

Ti piaccio ancora?

Il pensiero che possa averla torturata troppo, persino per te, di aver distrutto la donna che hai sempre saputo che ero, mi scotta e mi allontano. Ho rovinato tutto. Una lacrima mi solletica gli occhi, mentre un colpo di tosse si rompe nella notte.

 


Angolo dell'autrice
Io ve l'avevo detto che ce l'avevo già scritta ed avrei ripostato in serata xD la prossima se riesco domani o mercoledì pomeriggio. 
Coomunque, la scena con Andrè è un rimaneggiamento (o missing moments) del manga. La seconda, Oscar da sola nella stanza, del film famoso del 1979 (giusto?). Mi è molto piaciuta, è una scena forte, che ha il suo perché. Molto reale, capisco il bisogno di guardarsi per accettarsi. 
E vabbè. 
I capitoli avranno tutti bene o male questa lunghezza, forse il prossimo qualche righetta in più.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Oscar

Comincia tutto negli occhi e nella voce di Fersen “Il mio Andrè avete detto?”

Sì, l’avevo detto.

L’odore di sangue, urina, fuoco e tizzoni bruciati, tenuti da mani madide di sudore, l’odore dell’odio, mi riempie le narici e mi annebbia la vista, esplodendo in cieca agitazione. Il buio nasconde i crimini. Si sentono al sicuro i francesi durante la notte. Cala il sole e si raggruppano nelle taverne e nelle piazze. Accendono un fuoco, si armano di picche e bastoni. L’alcol li fomenta, la puzza li accoglie, li alimenta, in un circolo vizioso di violenza. A Parigi di notte si suda come all’inferno.

L’avevo detto tante volte prima di allora: è sempre stato il mio Andrè. E allora? Provo a scappare, tento di strattonare le mani di Fersen che mi tengono le spalle, le braccia, le mani, mentre gli sfuggo alla presa e la riacciuffa al volo. Devo correre, aiutarlo. Cerco e studio quella fetta di mondo oltre il vicolo fetido in cui mi ha tratta in salvo. Non urlo, per non giocarmi un nascondiglio. Ascolto le voci, ignorando lui. Ogni suono in più mi ricorda il rumore di spari, di calci, pugni e bastonate. Ognuna di loro potrebbe essere per il mio Andrè. Contro di lui, le sue ossa, i suoi polmoni, la sua testa.

“Oh Oscar,” mi fa Fersen e smette di stringere e trattenermi con la forza. Mi passa una mano sulla guancia, una carezza, ed io mi irrigidisco confusa. Non ha bisogno di trattenermi perché non sto più fuggendo “andrò io a salvare il vostro Andrè.”

Comincia tutto da Fersen.

Il mio Andrè.

Respiro a fatica, ansimo quasi. L’ha capito lui prima di me. Scappa via e mi lascia col fiato corto mentre il pensiero si forma chiaro: il mio Andrè. Mi chiudo le mani attorno alla bocca ed urlo. Un urlo soffocato, energia senza aria, così tanta che mi fa male la bocca e le dita mi lasciano il segno sulle guance. Mi lascio cadere a terra ed urlo, urlo ancora.

Cazzo, cazzo, cazzo.

Quasi non respiro, è tutto offuscato. Ho paura e mi manca il fiato. Ricomincio a ragionare solo quando la mano mi finisce in una pozza calda. Urina, forse. Mi levo il guanto schifata e cerco di mettermi in piedi. Tengo ancora l’altra mano sopra la bocca per paura della mia voce. Sento il petto vibrare ed urlare ancora.

La fetta di mondo nascosta dal vicolo si apre di nuovo e vedo la piazza. Sento rumori di scarpe e frenesia. Un urto, un calcio forse. Nelle tue costole. Le sento rompersi, le conto e chiudo gli occhi per trattenermi. Uno, due, tre. Se ti raggiungo e mi prendono è finita per entrambi. Quattro.
Solo quattro.

La gente scappa dall’altro lato. Mi vede e mi ignora. Abbandona quella che potrebbe essere la scena di un delitto. Il pensiero mi muore dentro. No, no, no. Solo quattro, mi ripeto. Non sento più niente e piano piano mi sporgo, ti cerco, ti raggiungo. Seguo i suoni.
Non ci sono parole per descrivere la gioia che provo nel vederti, e muovere anche. Eccoti. Una macchia blu e nera sfocata, che imperterrita cerca di alzarsi, mentre io mi lascio cadere a terra e ti raggiungo, quasi ti trascino di nuovo giù.

“Oscar.” Mi chiami, mi guardi e mi chiedo se i miei occhi sembrino come i tuoi adesso. Mi incanto a guardarti, mente le mie mani placano le mie paure e tastano le tue costole per cercare le fratture. Ci sono? Neanche me ne rendo conto. “Tutta intera?” Mi chiedi e devi averla percepita la mia paura, perché mi sorridi e mi vuoi dire che è tutto apposto. Vorrei sorridere anch’io ma non ce la faccio e piango come una stupida, singhiozzo, come una donna innamorata.

Sei sulle ginocchia adesso. Non ti rispondo e mi tocchi i fianchi anche tu. Tutta intera, vorrei dire, ma faccio solo sì con la testa e asciugo le lacrime. I capelli si sono appiccicati ed impastocchiati sulla fronte tra il sudore e le lacrime. Che sciocco pensare a queste cose proprio adesso, a cosa sembro, all’aspetto che ho.

“Andiamocene prima che tornino.” Dici soltanto e fai uno sforzo che sembra immane. Fai forza su un piede ed allora ti prendo una mano senza pensarci. Non è strano. Non è stata come la carezza di Fersen. Conosco la forma ed il calore della tua pelle alla perfezione.

Siamo in piedi, l’uno di fronte all’altra e mi fermo a guardarti, perdo tempo. Sei alto. Sento il rumore del mio cuore, e quelle parole con la voce di Fersen “il mio Andrè”. Mi torna in mente il vicolo e mi girò. “Là!” Ti indico e tu capisci e cominci a zoppicare in quella direzione. Ti vengo dietro, ti afferro per le spalle ma neanch’io cammino bene e ti sento sorridere.

“Sei tu che reggi me o il contrario?” Mi chiedi. Hai una voce viva, dolce, mi fa pensare alla primavera.

“Entrambi.” Rispondo solo, è il meglio che riesco ad ottenere. Eppure di parole ne ho tante che mi esplodono in testa.

“Se solo non fossi così mal ridotto.” Dici e lasci che quello che hai detto rimanga sospeso nell’aria.
Se non fossi così mal ridotto, cosa succederebbe, Andrè? Ti studio raggiungere il vicolo, il mio rifugio, dove tutto è cominciato; accasciarti contro il muro come avevo fatto anch’io, quando? Cinque minuti fa? Guardo altrove perché tu non ti insospettisca. Mi conosci così bene che potrei tradirmi presto.

Arriva una carrozza. La fermiamo. Il cocchiere mi fa un cenno. Che venga da Fersen?

Salgo io per prima ed allungo da dentro una mano per tirare su anche te. Tu, con le mani sulle ginocchia, mi guardi come se volessi contraddirmi, provarmi che sei forte anche tu, ma per questa volta non hai le forze ed accetti il mio aiuto. Lo vedi, ti conosco anch’io.

Mi prendi la mano e ti lancio su. Cadi sul sedile davanti ed io su quello dietro, l’uno di fronte all’altra. Ci accasciamo e ridiamo. Ridiamo di cuore mentre ce ne andiamo da Parigi, sani e salvi. Ridiamo perché siamo vivi. Rido perché sono innamorata. Ci mettiamo le dita davanti alla bocca come dei bambini quando sentiamo voci da fuori, ma le voci aumentano e dobbiamo davvero smetterla. Sento il cuore leggero come quando scappavamo dalla nonna dopo aver rubato il dolce in cucina.

Guardo fuori. Passiamo da certi vicoli e penso a Rosalie. A lei, nella sua casa, nel suo letto, con suo marito. Vorrei dirtelo ora, adesso. Vorrei dirti che ho scoperto una cosa, che non ci avevo mai pensato prima. O forse sì, ma non sembrava così perché i miei sentimenti s’erano mischiati e confusi ed è giusto, forse è così che dovrebbe essere. L’amore confina un po’ con l’amicizia, o sono proprio la stessa cosa? Due facce della stessa medaglia.

“A proposito chi è stato il nostro benefattore?” Mi domandi.

“Fersen.” Dico e torno a guardare fuori, pensando a come dirtelo. Mi rendo conto subito del silenzio. Pesante, arido, spoglio. Crederai che è a lui che sto pensando, magari in pensiero per la sua vita. Sì, ovvio, anche, ma…

Ora guardi fuori anche tu. Hai messo una mano davanti alla bocca, hai creato distanza. Ti ho ricordato quanto amarmi ti ferisca. Hai paura di vedere cose che credi non ci siano. No, no, Andrè, mio Andrè come posso convincerti che è a te che pensavo? Apro la bocca per dire qualcosa, ma non mi esce niente. Non so che dire. Torno a guardare fuori, poi sento un fruscio. Sei tu? Mi giro e fingi di distarti ancora.

Ti piaccio ancora?
Mi ami ancora?


 


Angolo dell'autrice
Heeeello!
Eccone un altro. Quando facciamo uscire il prossimo?
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Andrè

L’assemblea sta lavorando per la Francia. Siamo tutti qui davanti a sopportare gli sforzi e la fatica, sperando in un mondo migliore, fatto di diritti: il diritto di mangiare, di vivere, di lavorare, di studiare, di amare. Facciamo tutti quanti parte di questa grande nazione. Guardo verso quelle porte e spero. So che non riuscirò mai a vedere una nuova Francia, ma chissà che un giorno ci sia un uomo che si innamora di una donna, la sposa, lavora, dà da mangiare ai suoi figli. La Francia cambierà. Saremo tutti uguali, non solo davanti alla legge di Dio.

Il pensiero mi distrae, tiene lontano persino l’idea che presto potrei non vederci più. A volte mi fa dimenticare persino di te o di Fersen. Ma eccoti che torni, pattugliando avanti e dietro per sgranchirti le gambe. Il rumore dei tuoi passi risuona solitario insieme alla pioggia che picchetta. Mi ossessioni anche quando sono stanco e disilluso. Era cambiato qualcosa ed io ne ero sicuro. Eravamo di nuovo noi due, avevamo cancellato anche il passato, anche quella notte. Invece l’assemblea, questo clima di cambiamenti, mi ha fatto vedere cose che non c’erano. Sei ancora qua, persa, innamorata di uomo che non riesco neanche ad odiare.

Abbasso la testa per non doverti guardare. Dammi solo un po’ di tempo, tornerò di nuovo io, o quello di cui avrai bisogno. Invece ti schiarisci la voce quando mi passi davanti. Non mi dai tregua, devo per forza starti attorno. “Hai sentito qualcosa?” mi domandi ed indichi di là. Intendi dentro: di cosa stanno discutendo, che temi adesso si stanno toccando.
Scuoto solo la testa.

“Ho paura che non arriveranno a niente.” Dici. Sei stanca, lo vedo. In questi giorni più di sempre. Sospiri e ti lasci andare alla negatività. Torni indietro. Il ticchettio dei tuoi tacchi sui sampietrini riecheggia sul nostro silenzio fino a che non diventa un suono lontano. La pioggia accompagna le mie riflessioni. La ascolto, mi concentro. Chiudo gli occhi ed aspetto qualche goccia che mi colga il viso, rilassi i muscoli, dandomi sollievo come acqua fredda su una lama calda. Mi sento sbollire allo stesso modo, fumando.

Alain mi da un colpetto con un gomito. “Visto?” mima con le labbra.

Sorrido, ma gli vorrei ridere in faccia. In realtà è colpa mia che lo sono stato pure a sentire. “Pensa ancora a lui.” Gli rispondo a bassa voce.

“Ma chi? Il damerino? Tu sei proprio cieco.” Dice, poi se ne rende conto. Una frase detta a caso. “Oh, cazzo, scusa.”

Ti percepisco in un angolo del mio campo visivo. Mi giro, ti vedo con la schiena contro il muro, fare dei grandi respiri profondi con una mano sul petto. Ti togli un guanto e col palmo, proprio come ci ha insegnato la nonna, ti senti la fronte, che, chissà, forse scotta. “Non fa niente.” Rispondo ad Alain. Vorrei rompere le righe, correrti incontro, metterti una mano sulla schiena ed una sulla spalla, chiederti se stai bene, accompagnarti a casa e lasciarti a letto nella tua stanza. Saperti lì cambierebbe tutto.

“Va’ da lei.” Mi suggerisce Alain, dietro di me.

“Per dire cosa.” Gli rispondo, senza domandargli anche piuttosto spazientito dall’insistenza di Alain, dal suo cercare di convincermi a vedere cose che non ci sono, dal suo illudermi con le sue convinzioni.

“E che ne so!” mi fa innervosito, poi rincara la dose e mi spinge sul pavimento. Rompo le righe, sono il solo. Quasi cado ed il baccano fa girare tutti.

Mi sento in mezzo a due muri di persone che mi guardano: solo io al centro di due file di soldati schierati. Te ne accorgi anche tu in lontananza. Ti ricomponi, abbassi le mani, indossi di nuovo i guanti. “Ti preferivo a decantare poesie.” Dico intanto ad Alain e poi mi allontano.

Chini la testa. Lo so che succede quando fai così. Sorridi e cerchi di nasconderlo dietro il sipario dei tuoi capelli che ti cadono sul volto, come facevi nei nostri primi giorni a Versailles. Ti mordi le labbra e ci passi la lingua. Ti giri, guardi la pioggia ed io credo di vedere quel sorriso.
“Sai, posso metterlo in punizione.” Incroci le braccia e me lo dici come se lo stessi raccontando ad un amico. Lo so che puoi metterlo in punizione, ci puoi mettere tutti noi. Qui tu sei capo e comandi, e noi ti seguiamo, leali e devoti, persino quando vuoi punirci. Ti adoriamo tutti qui e ne sei ben consapevole. Ti muovi spavalda tra noi, a testa alta, guardando dritto davanti a te, senza più dover controllare cosa pestano i tuoi piedi. Sorridi tra di noi, come non facevi a Versailles. Forse sono uno sciocco a vedere una cosa del genere.

“Distruggerebbe anche la cella in cui lo rinchiuderesti.” Ti rispondo e tu sorridi di nuovo, ancora di più. Ridi in maniera percettibile alle mie battute. Mi sembra di sentirti di nuovo vicina. Mi convinco e cambio idea e poi di nuovo, come su un’altalena dove prima sali da Fersen e poi scendi da me. Rimangono però i tuoi sorrisi, il tuo profumo, l’odore che sento perché mi sei fisicamente di nuovo vicina. E forse sta cambiando davvero qualcosa in meglio. Forse sei di nuovo mia amica, l’altra metà della mia vita che però con l’amore non ha niente a che fare.

Vuoi dirmi qualcosa, si vede. Giochi con le parole prima che escano dalla tua bocca. Forse parli davvero, ma la pioggia non mi fa sentire niente, rendendomi anche sordo oltre che cieco. “Torna al tuo posto.” Capisco soltanto, quasi mi ammonissi. “La nonna ti aspetta a casa stasera.” Colgo poi.

Mi lascio convincere. E’ così facile e non dovrei. Guardo tutti i miei compagni e mi sento di tradirli, perché prima o poi ci useranno contro la povera gente che preme lungo le porte per irrompere nell’assemblea. Ma tu sei più importante di loro. Noi lo siamo di più. Forse, quando saprò che non odierai il mio attaccamento, sceglierò il popolo e lotterò con loro. Forse arriverà una resa dei conti e saremo chiamati a schierarci. Forse scapperemo prima io e te.

“Due piccioncini che tubano.” Dice Alain quando gli torno vicino.

“Ma sta’ zitto.” Gli dico ed aspetto trepidante il tramonto.

A sera torno a casa. I miei compagni pensano sia fortunato perché ho una casa in cui tornare, una nonna che mi aspetta, qualcuno che si prenderà cura di me. Mi salutano dicendomi di andare io che posso. La pioggia si è calmata, ed allora vado. Torno di corsa, ma perché voglio vedere te, sentire il tuo profumo e farti ridere. Io che posso. Gli zoccoli del cavallo si portano dietro terra e fango, con un rumore umido che si aggiunge allo scalpiccio. Spero tu non sia già nella tua stanza, che la nonna ti abbia trattenuta, fingendosi almeno per una volta mia complice. Corro a perdifiato in preda ad una strana euforia, a quel sorriso. Forse siamo tornati di nuovo bambini, abbiamo ricominciato daccapo. Forse ho solo voglia di ridere con la mia nuova vecchia amica.

Quando arrivo, la casa ha l’odore misto dei tappeti e del camino acceso. Mi investe un tepore che mi fa sentire subito al caldo. Non ho bisogno di altri occhi per orientarmi qui. Conosco ogni gradino, ogni fuga ed ogni mattone. C’è silenzio: la cena deve esser già stata servita da un pezzo, la tavola sparecchiata e le stoviglie ripulite. Le cameriere ed i camerieri saranno già nei loro letti con le candele da spegnere sul comodino. I padroni di casa staranno dormendo già da un pezzo ognuno nelle proprie stanze. Eppure un camino è ancora acceso, delle voci risuonano ancora tra i marmi bianchi.

Sento la nonna: racconta qualcosa, è allegra e ridacchia. Me la immagino a ridere, accasciandosi indietro sullo schienale della poltrona. Tu, invece, ti porti prima la mano sulla bocca per coprirti e poi ti lasci andare. Vi trovo in salotto. Hai le guance rosse, il viso caldo, ancora in uniforme, con un bicchiere di vino in mano e gli stivali abbandonati sul tappeto. La nonna ti stava raccontando qualcosa e tu ridevi. La vorrei abbracciare e ringraziare, invece non le dico niente. È te che guardo: hai negli occhi la fatica delle risate.

Vi zittite entrambe quando mi vedete entrare. “Andrè!” mi chiami, col mio nome che ha un sapore dolce sulle tue labbra. Ti sposti e mi fai spazio sul divano, mi inviti accanto a te. Ti raggiungo e tu bevi l’ultimo sorso, mentre io lo guardo andare giù nella tua gola. Posi il bicchiere a terra e ti risistemi. Le tue ginocchia toccano le mie gambe, con una spalla mi urti il braccio.

La nonna mi lancia un’occhiata torva. Vorrebbe sgridarmi, neanche un saluto, una lettera e torno così senza neanche avvisare. Lo so, nonna, scusa. Ma deve aver visto quello che vedo anch’io, o chissà anche di più, perché invece mi saluta ed insieme mi da anche la buona notte. Recupera il tuo bicchiere e ci lascia. “Vi lascio soli.” Dice soltanto.

C’è sempre stata questa cosa, te la ricordi? Eravamo in un modo a parte io e te. Non abbiamo mai voluto nessuno. Parlavamo di filosofia, di politica e geografia come in un salotto. All’inizio la nonna ci provava, studiava, lèggeva, ma io e te cambiavamo argomento e non riusciva più a starci dietro. Così ci rinunciò ed ogni volta che tra me e te si apriva un argomento, lei diceva solo “vi lascio soli” e se ne andava arresa. Eravamo in un mondo a parte, complici, ci capivamo al volo. E te la ricordi, invece, quella volta quando cercavamo sui libri insieme a Rosalie? Sapevamo dove avresti guardato tu e dove avrei guardato io senza dircelo. E quando duellavamo con la spada? Capivo le tue intenzioni fin da prima che ti muovessi, solo incrociando la direzione del tuo sguardo. Riuscirei a farlo ancora oggi, nonostante la vista, nonostante tutto.

Non è insolito rimanere soli per me e te. Anche se di recente io ho cercato di evitarti e tu di evitare me, entrambi per vergogna. Ma di cosa dovremmo vergognarci noi due? Ci conosciamo da sempre, sappiamo tutto dell’altro. “Mi stava raccontando delle sue avventure giovanili.” Mi dici di getto, con gli occhi che brillano, forse d’alcol, forse qualcos’altro.

“A-avventure? Che…” ti chiedo distratto in contro piede. Tra tutti gli argomenti, l’amore, i legami, i sentimenti era qualcosa che non avevamo mai toccato, neanche con la nonna da lontano, o coi miei genitori o i tuoi.

“Beh…” cominci facendo la vaga. Alzi gli occhi al cielo, ti abbracci le ginocchia. Sei maliziosa ed a tuo agio insieme. E’ il vino? Oscar, che ti succede? “Ha molte storie da raccontare.” Dici poi alla fine e sorridi ancora. Sorridi e sorridi e non smetti mai. Sento il calore della tua pelle, del tuo viso, come se potessi riscaldare la stanza. Profumi di pelle scaldata al sole. Mi ricorda la salsedine della Normandia sulla pelle a sera in estate. Se il coraggio ce l’avessi per davvero, ti sposterei i capelli dal viso e ti accarezzerei le guance. Nelle mie fantasie sorrideresti. Invece l’unica cosa che riesco a fare è allungare le braccia dietro le tue spalle, sopra al divano, abbracciandoti da lontano, senza farlo realmente. E stavolta, senza essere in nessuna fantasia, ma reale, viva, fatte di carne, arterie e sangue, tu posi il capo sulla mia spalla, chiudi gli occhi e ti rilassi.

Ti guardo e basta da una prospettiva nuova. Il tuo respiro cambia, ritmico e lento. Ti sei assopita sulla mia spalla. Sei così vicina che neanche me lo ricordo se i nostri respiri si sono mai toccati così. Ti sfioro i capelli. Sembra quasi che tu lo sappia. Sembra quasi che tu trattenga il respiro, che finga di dormire per scoprire che faccio, per ricevere affetto senza dover ammetter di averne bisogno, come una bambina che finge di dormire sul divano per essere portata a letto. Sembra quasi che qualcosa stia cambiando davvero. Che tu sia mia amica o amante segreta, mi sei finalmente vicina.

L’altra metà della mia vita.


 

Angolo dell'autrice
Zan-zan!
Rivisitazione tra manga ed anime: anime la prima parte, manga la seconda. Ci sono tante piccole cose che hanno tolto dall'anime e non me lo spiego proprio. C'è questa scena bellissima dove Andrè ed Oscar parlano (forse lei gli promette di non sposarsi? Mi pare) e lei si addormenta (o finge) sulla spalla di Andrè e quando lei lo fa, lui piange quasi forse. Ok da un lato c'è il fatto del matrimonio, dall'altro cavolo significa che inizia a comparire un po' di ambiguità, che il rapporto tra di loro viene vissuto anche più fisicamente. 
Mi pare che anche il prossimo capitolo sia un missing moments sulla scia del manga. 
Vi saluto, vi auguro buona serata e ci sentiamo domani ;)

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Oscar

“Avanti dentro, tutti quanti!” Faccio strada davanti alla porta. Mentre loro avanzano io urlo misure di igiene, per non farli ammalare. La mia tosse e la febbre che accuso, qualunque cosa sia, è successa qui. La trattengo, col braccio copro naso e bocca, nascondendomeli nella piega del gomito. La tosse è così fastidiosa che mi esce dagli occhi e si concretizza in una sensazione viscida sulla lingua. Lascio passare altri soldati e riprendo ad urlare. “Non vi ammassate tutti nelle stesse stanze, distribuitevi. Tutti gli uffici. Avanti, avanti, avanti!”
Ripeto come un mantra le stesse cose perché entrino in testa a tutti.

Finiti tutti chiudo le porte e passo davanti a tutte le stanze per la conta. I soldati intanto si spogliano, si levano i vestiti bagnati, si asciugano con quello che possono, senza neanche curarsi di me. Finalmente, penso, e sorrido. Sono chiassosi, scalmanati, frenetici. Fanno baccano: le loro voci grosse si sommano l’una all’altra, s’agitano e si muovono, tirandosi appresso gli stivali pesanti o i vestiti bagnati. 

I miei, di vestiti, me li tengo invece ancora addosso, preferendo gocciolare per tutta la caserma e raffreddarmi tra gli spifferi d’aria freddi che sento camminando davanti all’una o l’altra finestra. Chissà quando smetterà di piovere. 

Mi raggiunge per i corridoi il colonnello D’Agoult, che mi annuncia “Cinquantaquattro, comandante.” 

“Ci sono tutti.” Dico soddisfatta “Riposo.” Gli ordino sul baccano e mi allontano. Raggiungo il mio ufficio per fare come tutti loro: il costato mi brucia, la tosse mi sfianca il petto. Strizzo come posso le maniche della giubba contro un braccio poi l’altro, facendo gocciolare acqua mentre raggiungo il mio ufficio. Apro la porta ed arrotolo i capelli e stringo perché si asciughino prima. Alzo gli occhi e ti vedo.

Sei davanti a me, chiuso nella mia stanza. Senza giubba, senza camicia, senza niente, solo i pantaloni, seminudo ed io mi paralizzo. Sono passata davanti a uomini spogliati senza battere ciglio, ed ora invece... Sono stata cieca fino a questo punto? Mi tremano le mani, le nascondo nelle maniche dei vestiti bagnati, affanno e sento il cuore battere. Guardo altrove: i battiscopa, la muffa, la polvere di vernice grattata dal muro a terra. Poi ti spio. Possibile essere stati tanto ciechi?

Ti giri e mi guardi. “Oscar?” Mi chiami, mi domandi forse, non lo so. Hai un’espressione tra l’incredulo ed il curioso. Mi rendo conto di aver corso con gli occhi sulla tua figura troppe volte, di esser rimasta ferma tutto il tempo e di esser arrossita forse. Mi rendo conto di esser stata anche colta in flagrante. Mi sento la faccia calda di vergogna sotto i capelli bagnati.

Mi chiami per nome. Non comandante, non signore né conte. Apro la porta ed esco senza darti il tempo di dire altro. “Questo è l’ufficio del comandante, maleducato!” Ti urlo da dietro la porta, per essere convincente nel mascherare la libidine in pudore. 

Ti immagino a ridere di me dall’altro lato, di questa cosa, questo sentimento travolgente e mai sentito, che esiste dalla notte dei tempi e mi prende solo ora, quando di tempo ne è ormai passato. La vergogna torna. È strano. Non provo vergogna ad essermi innamorata di te, né a desiderarti. Provo vergogna per esser stata cocciuta, ligia a delle regole di un mondo di cui non sono mai stata parte, per aver recitato un ruolo che non mi avrebbe mai regalato l’amore di cui avevo disperatamente bisogno, sin dai miei genitori. Mi tocco la faccia per raffreddarla e ti ripenso: hai il fisico ben formato, una mente sveglia, i lineamenti saldi e così familiari, mani grandi e braccia forti. Sei capace di accarezzare e sollevarmi di peso, di parlarmi di etica e politica. Hai un cuore grande, sei gentile, paziente. Ed io sono stata così cieca da poggiare il viso sul tuo petto senza farci caso. Sono stata così cieca ad avere un uomo come te nella mia vita per tutto questo tempo, senza davvero notarti. 

La tua immagine mi ossessiona e mi fa battere il cuore, fino a non sentire più un battito. Si paralizza come in attesa e torna poi violento nel mio petto, nella mia laringe e nella mia bocca con un colpo di tosse. Questa volta mi piega, aggressivo e feroce. Escono dalla bocca suoni che non mi ero mai sentita, fino a sentirne il sapore in bocca. La violenza ha il sapore del sangue: dolce e metallico insieme. 

“Comandante, tutto bene?” È D’Agoult che mi raggiunge per primo. 

Lo ricaccio dentro, mi pulisco la bocca senza avere il tempo di guardarmi la mano fingendo indifferenza.  Mi riprometto di controllare, di farci più volte caso, ma non è questo il momento. Coi vestiti ed i capelli ancora bagnati lascio la caserma, suggerendo a D’Agoult di usare anche le mie stanze per lasciare spazio.  

A casa da sola sul mio letto ripenso a te. Ho quasi voglia di scendere le scale, trovare la nonna e lasciare che sia lei a nominarti e parlare di te. Vorrei imparare cose nuove su di te, o dimostrarle di conoscerne tantissime, per provare a me ed a lei che io e te esistiamo. E poi c’è quest’altra cosa ancora che mi preme dentro. Avrei voluto restare là ad osservarti. E’ un pensiero impuro, invadente, egoistico e scorretto. Ne provo quasi vergogna e paura. Paura per come mi fai sentire, per il modo in cui mi batte il cuore, trema la pelle e si sciolgono le viscere. Vergogna per aver sempre disprezzato ed allontanato tali pensieri.  

Chiudo gli occhi, ripensando a te, all’ultima volta che ti ho visto: seminudo, a tuo agio. Tu di vergogna sembravi non averne. E’ così naturale pensarti in quel modo vicino a me. Riesco ad immaginare il tuo calore, ed a ricordare il tuo bacio. 

Quando riapro gli occhi è già mattino. Mi alzo con ancora il cuore che batte e la voglia di vederti. E’ insensato e sciocco il modo in cui mi sei entrato dentro. Mi sembra di sentirti suonare un tamburo nella mia testa, dove sei sempre stato, solo che forse ad un ritmo più lento. La tua musica diventa euforia nelle mie azioni, e  corro. Corro veloce per raggiungerti in caserma, dove so di trovarti seduto e questa volta non fa niente che mi vedi smaniosa di arrivare in questo posto freddo ed umido, pieno di uomini miei sottoposti, che mi lasceranno sola a comandarli dal mio studio in fondo al corridoio. 

“Andrè!” ti chiamo quando ti vedo. Quasi sono delusa dal fatto che non mi stessi aspettando come ho fatto io. 

Sei seduto sui gradini all’ingresso. Hai già consumato la tua colazione e ti stai pulendo le mani sfregandole tra di loro. Mi guardi raggiungerti. Mi sento i tuoi occhi addosso mentre arrivo e mi siedo accanto a te. Tengo ancora le briglie di Cèsar, rifiutandomi di lasciarlo andare al primo stalliere. La luce azzurrina del primo mattino ti illumina appena il volto. Sembri quasi scuro, preoccupato, con quello sguardo truce. L’aria è fresca ed umida della rugiada, sa di erba e di terra. Per un attimo mi torna in mente lo stesso odore che sentivamo a Versailles di primo mattino. 

Io ti guardo e tu mi guardi. Stiamo a fissarci mentre i tuoi occhi corrono da un lato all’altro  del mio viso. “Stai bene?” mi domandi. Hai la voce ancora roca, come se ti fossi appena svegliato. Ti immagino a parlarmi così tutte le mattine. 

“Sto bene.” Ti dico e tu a malapena sembri convinto “Davvero. Tu come stai?”

Apri la fronte, alzi le sopracciglia, in un’espressione che è tutta tua e non ti ho mai visto perdere, persino dopo la ferita che ti ha tolto la vista da un lato. Sei sorpreso. Raramente te l’ho chiesto, non perché non mi fosse mai interessato, ma in un certo senso l’ho sempre capito. Un po’ come adesso. Ti guardo stringere gli occhi, entrambi, e mi chiedo come sia possibile che tu creda che io non l’abbia capito stavolta. 

“Sto bene.” Rispondi facendomi eco “Sto bene.” Ripeti e forse sei anche tu a voler costringere me, ma quasi balbetti nel pronunciare due parole in litania lenta. E’ tenero. Sorrido e mi guardo le scarpe strusciare sui sampietrini umidi del mattino. Ti capisco, succede anche a me. Ci sono tante cose che vorrei dirti, ma non mi esce neanche un suono. 

“Ho letto La nuova Eloisa.” Esordisco poi, in un goffo tentativo di parlare di me e di te. Ho paura di questa cosa. Ho paura di me, che non sono capace di dirti niente, di avvicinarmi e chiederti se mi vuoi davvero, se mi vuoi ancora. Mi escono frasi di getto allora, per colmare una spontaneità che sembro solo aver perso.

Lo capisci. Ti irrigidisci. Vedo lo scatto che fanno le tue spalle, la postura rigida, l’uniforme tesa sotto i muscoli contratti. Aspetti che continui, ma ti prende qualcosa e diventi impaziente. “E?” mi chiedi. Solo una lettera. 

“E’ triste.” Dico soltanto. “Ho pianto.” Confesso un po’ imbarazzata. 

Sorridi proprio come ho fatto io poco prima. Guardi a terra, tra i tuoi piedi. Hai una fossetta sulla guancia, in mezzo a tutta quella barba incolta. E’ un sorriso dolce che mi fa saltare un battito e mi scalda il cuore. “Non ci credo.” Mi dici diffidente. 

Sorrido con te e mi nascondo dietro i capelli che mi cadono davanti al viso. Mi sento le guance avvampare. Continuo solo a fare sì con la testa per convincerti. Alzo gli occhi solo per controllare. È sembrato un attimo eppure è tutto cambiato. Sei serio, non ridi più, mi guardi come se potessi leggermi dentro. Mi prende il panico, solo per un attimo, come se già sapessi cosa stai per dire o fare. Sono stata scoperta. 

“Perché?” Mi domandi d’impulso. Sporgi le braccia appena un po’ verso di me e poi stringi i punti. Ti trattieni. “Oscar, è importante.” Aggiungi.

È importante. Lo so che lo è. Cullo per un attimo la fantasia di spiegarti tutto, di baciarti e di scappare via da tutto. Invece sono ferma, rigida, non mi muovo, paralizzata dalla paura di non saper fare né la prima né la seconda mossa, di non esserne sufficiente o capace. Ti guardo supplichevole. Io vorrei dirti tutto, davvero, ma se poi rovino anche questo come è successo l’ultima volta? Mi basta venire qui e guardarti e parlarti. Scrollo solo le spalle alla fine. Ti prego, non chiedermi di più. 

Ti allontani di scatto e sbuffi, in collera, sulle tue, forse contro te stesso. Scalci del pietrisco e guardi lontano. Ti osservo in piedi, alto, slanciato, in controluce ai primi raggi dell’alba. Solo pochi attimi e poi ritorni. “Scusa.” Mi dici soltanto guardandomi. Ti stiracchi e ti allontani. 

I tuoi passi mi allarmano. Te ne vai, perché te ne vai? Ti raggiungo e d’istinto ti prendo una mano. “Andrè!” Ti chiamo, ma non è necessario, mi guardi di già. Guardi le mie dita che si intrecciano alle tue e ne rimani affascinato tanto quanto me, immaginando quasi come potrebbe essere se…

Mi stringi la mano e rimaniamo stupiti a guardarci. Troviamo entrambi la strada come se l’avessimo sempre fatto. Non forzi, non chiudi in una morsa, non sei possessivo. Abbracci le mie dita e col pollice massaggi il profilo delle mie. Ti sento aprire la bocca, schioccare la saliva tra le labbra, ma alla fine non dici niente. Sorridi di nuovo e solo allora mi rendo conto della corsa frenetica del mio cuore e vorrei piangere adesso e dirti tutto: come mi sento, perché uno stupido libro mi fa piangere, la forma della paura che mi stringe la gola. 

“Quando sarai pronta.” Dici solo e mi lasci a pesare la tua assenza mentre ti guardo andare via. 

Pronta per cosa? Per raccontarti dei miei sentimenti, delle mie letture? Per sorprenderti in un bacio, chiederti di fare l’amore? Lasciare tutto, andare via, riuscire dove Eloisa aveva fallito? Amarti?



 



Angolo dell'autrice
Che bello ragazzi, quanti bei commenti! 
scusatemi per non aver aggiornato ieri, purtroppo non ho proprio acceso il pc. Mancano più o meno due capitoli se non decido di aggiungere altro.
anche qui una scena dal manga, una dall'anime (ma rivoluzionata). 
vabbe, ci leggiamo che sennò mi allungo troppo!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Andrè 


Siamo fuggiti col favore della pioggia. Come dei ladri al primo rumore di zoccoli. Noi che i ladri siamo sempre stati soliti incastrarli, stanarli, attirarli. Sembra tutto così sbagliato per me e te.

A casa tua, dal balcone della tua stanza guardi fuori, che si apre sul giardino e sul cancello, nascosta sotto gli occhi di tutti, ripensando alle ultime ore, riflettendo sulle ultime azioni: cosa hai fatto bene e cosa potevi fare diversamente. Te l’ha insegnato tuo padre: quando perdi, ripeti sempre le ultime mosse, impara dai tuoi errori. Cosa avresti fatto diversamente? Forse nulla stavolta. Quello che è successo non è stato un errore. Ti diranno che è così, ma tu sei convinta del contrario. Lo vedo dai tuoi occhi bruciare d’ingiustizia.

“Dannazione!” Lasci andare solo, dando un calcio al muretto che si sgretola sotto la suola della tua scarpa. Stringi i pugni e fissi le tue mani per non lasciar cadere neanche una lacrima.

Ed ora aspetti tuo padre. Credi di poterlo far ragionare, che sia dalla tua parte, da quella del popolo, quella dell’assemblea. È la cosa più normale l’amore genitoriale. In fondo, però, sai che non è così, non c’è niente di normale o di scontato. Non è detto che tocchi a tutti, non a me e te, quanto meno. Lo so anch’io: lui non disubbidirebbe mai alla corona, la corona non accetterà mai i diritti della povera gente, la corona per lui è più importante di te.

E tu, quanto si può esser fieri di un’altra persona? Quanto è grande l’orgoglio che posso provare nel vederti uscire dagli schemi, pensare libera, sprigionare quello che in te c’è sempre stato. Amore mio. Ti vedo finalmente tutta: bella, forte, donna. Neanche un corsetto ed una gonna potrebbero renderti più bella di così. Vedo i tuoi valori, i tuoi ideali, i tuoi pensieri volare e combattere per essere ascoltati con quel fuoco che ti ha sempre tenuta viva. Sono così simili ai miei che vorrei abbracciarti, dirti che non sei sola. Combattiamo insieme, se ti va. Vorrei dirti che l’ho sempre saputo, che ti ho sempre aspettata. Io e te contro le ingiustizie, contro i ranghi, contro la monarchia. Perché io e te abbiamo giocato insieme da bambini, abbiamo sognato ed immaginato insieme. Il tuo cuore l’ho sempre conosciuto. Ed eccolo finalmente.

Dio, quanto vorrei stringerti e baciarti, e fare l’amore e dirti che ti amo da morire, persino adesso che abbiamo le ore contate.

Tiri su le lacrime, fermi un singhiozzo davanti alla bocca e poi ti calmi con un lungo respiro. Sei nell’occhio del ciclone, amore mio, lo sai, però ti giri verso di me e sorridi. Oltre tutto questo, c’è questa nuova cosa in te. È inutile che provi a dirmi il contrario, che mi ripeto di non sperare, che dovrei aver imparato la lezione. No, no, non l’ho fatto. Perché, guardati, come faccio a non sperare se tu mi guardi così? Pendo dalle tue labbra come se fossi una sirena. Mi sorridi e poi guardi lontano. Cerchi le parole, vorresti dirmi qualcosa. Dimmi, dimmi tutto quello che vuoi.

“Ripensavo a Rosalie qualche giorno fa.” Dici alla fine, cullandoti in un pensiero dolce per non impazzire “Abbiamo fatto qualcosa di buono. Ha conosciuto qui Bernard, ricordi?” Tieni gli occhi fissi in un punto adesso, come se possa aiutarti a concentrarti “Sono felice per loro.”

Prendo un respiro profondo, cambio posizione sui piedi, quasi fossi ansioso. In un altro tempo parlare di amore e relazioni con te, mi avrebbe fatto nascere un sentimento ibrido tra la voglia di continuare e dirti tutto e quella di fermarmi, per non dover mai dire una parola più del dovuto e continuare a stare in tua compagnia. Amore, amore. “Sai anch’io ti amo” ti avrei detto. E avrei voluto parlarti della passione che brucia i cuori, di come consumi e faccia fare delle sciocchezze. “Anch’io.” Rispondo invece, in preda ad una calma irreale. Sono felice per loro ed anche invidioso. Invidio Rosalie che si è potuta innamorare di un uomo, che l’ha potuta corteggiare e chiederne la mano. Immagino di avere più coraggio adesso. Di cingerti la vita, una mano dietro al collo e baciarti. E questa volta anche tu baci me. Ed hai il sapore della pioggia, pulito e terroso insieme, pura e ribelle. Sento il calore della tua pelle, la morbidezza dei tuoi capelli, la linea definita del tuo corpo. Riesco ad immaginare persino quel sospiro che ti sfugge dalle labbra quando ci separiamo, un uno che si divide in due. E mi manca tutto questo anche se non è mai successo. Immagino di baciarti così davanti a tuo padre, che mi punisca pure. Davanti alla nonna, tua madre, il re e la regina. Persino i soldati. Come ha potuto fare Rosalie, come ha potuto fare Bernard.

E se fossimo vissuti diversamente, forse avrei colto gli indizi di cui parla Alain. Ti avrei corteggiata godendomi il pudore che ti tinge di rosa le guance. Ti avrei ammirata come sei ora, ma senza nasconderci niente, anche se in fondo non abbiamo niente da nascondere. Tu già sai tutto ed io pure.
 
Ti volti invece e mi fissi con quegli occhi quasi lucidi che sembra vogliano interrogarmi. “Perché non me l’avevi detto?” Mi domandi, sottraendomi alle mie fantasie. Ti guardo  stringere il marmo tra le mani mentre me lo domandi. Le venuzze sulle mani si gonfiano, i tendini quasi scappano via dai polsi. Ti curvi sulla schiena e sembri così indifesa e piccola. Tu, fiera condottiera che scende in guerra, intimorita al pensiero di essere amata. Devi esser dimagrita. Sì, ne sono quasi sicuro.

È bello tornare a parlare con te, come se nulla fosse. Come se non fossimo alla fine. Ricordarmi il tuo punto di vista, vedere nelle tue poche parole il tuo cuore in tumulto, quel sentimento quasi materno che avevi provato verso una ragazzina. Poi ti vedo agitare le dita, con l’indice stringere il pollice, grattare sotto l’unghia. Nervosa, sei nervosa, qua davanti a me a parlare di una nostra cara amica. Sembra quasi che tu voglia dire anche altro da giorni, da come sei vicina, dal modo in cui aspetti una risposta, come se invece la tua ti bruciasse dentro. Vorresti essere sincera, dirmi chissà cosa. Vuoi che ti segua, che lo sia anch’io. Ed allora eccola la sincerità. “Mi sentivo ancora troppo in colpa per quello che ti avevo fatto per rivolgerti la parola.” Ti rispondo alla fine con un sorriso amaro sulla bocca. Ripenso a quello che ho fatto, a tutti quegli anni passati a nascondere i miei sentimenti, a dissimulare ed a cercare in tutti i modi di non farti capire cosa provavo per te, solo per continuare a starti vicino. Ripenso al modo in cui ti ho detto tutto alla fine, a come stavo con il pugnale del senso di colpa ad attraversarmi lo stomaco, ma le spalle leggere per il peso che non portavo più.

Ti incupisci anche tu, più di prima. Guardi lontano, dietro di me. Chiudi gli occhi e ripensi, chissà se al dolore che ti ho lasciato, alla fiducia che ho tradito o a quella cosa che abbiamo perso io e te. Quel tempo però è passato ed adesso rivoglio quello sguardo ansioso e vivo, quello che sembrava volermi dire qualcosa ed aprire le porte del paradiso. Sono io allora che cambio registro. “Finalmente una storia a lieto fine,” Dico e provo per riportarti all’idea di quella bella conclusione che la storia di una tua amica aveva avuto. “sono stanco delle tragedie”. Ti dico scherzando.

Vedo un sorriso triste fare capolino sul tuo viso. Sorridi, ma un po’ sembri ancora triste. Stai pensando a questa tragedia, vero? A tuo padre, come ti punirà, a quando affronterai la corte marziale, la pena di morte e tutto finirà prima ancora di pronunciare quelle poche parole. “Le vere tragedie sono quelle che non cominciano mai.” Ti esprimi alla fine.

Ti guardo, mi fai tenerezza. Sorrido. E quella tenerezza mi rende preda di una strana sicurezza. Per quel che ne so io, queste parole possono essere per Fersen, per un sentimento che va dalla negazione verso la malinconia. Eppure no, lo so che non è così. Non sei mai stata così nervosa ed emozionata. Rivedo in te i miei stessi ardori di quando mi sono innamorato: l’incredulità, l’ansia, la passione, persino l’amarezza e la delusione. Quella voglia di correre a cavallo per riunirci la mattina. Quella non passa, sai? Ancora oggi chiedo a Cesar di correre forte, per portarti quanto prima da me, che ti aspetto sveglio mentre tutto il resto del mondo dorme. Caccio il coraggio, anche se non mi ci vuole molto, quasi non mi serve. Che paura deve esserci nel parlare alla donna che amo da tutta la vita? “A volte cominciano senza che tu te ne accorga.” Ti rispondo e non so se parlo di me o di te.

Ti giri, mi guardi. Devi sentirti con le spalle al muro, capire che ti ho scoperta. Ed è tutto così strano. Perché hai così tanta paura di quello che senti da pensarmi quasi ostile, ma ti sono insieme così familiare da non esserti neanche accorta della mia mano sulla tua, tanto era abituata alla mia presenza. Perché avere paura di me? Paura di esser fragile forse? Paura che ti possa fare del male come già mi ero dimostrato capace? O paura di farmene? Hai paura di morire oggi? Che la tua vita, la nostra sia una tragedia? Perché una cosa così bella come l’amore deve essere una tragedia? “Oscar, che stiamo facendo?” ti domando ed è forse arrivato quel momento in cui posso dirti tutto liberamente. E’ la fine a rendermi spavaldo. So cosa tuo padre proverà a fare. So che non ti lascerò sola, che ti tirerò fuori da questa situazione. Tuo padre in fondo è solo un uomo anziano, che male può farmi? Lo soggiogherò e ti farò scappare. Sconterò io le tue colpe, mentre tu, eroina del mio cuore, vincerai contro la monarchia che ti soffoca.   

Come se avessi sentito i miei pensieri, ti riprendi la tua mano ed allarghi il collo della tua uniforme. È come se ti stringesse, ti strozzasse. I tuoi polsi tradiscono la paura, il freddo e la pelle d’oca. Incroci le dita e ti appoggi al parapetto del balcone. Un leggero fiato di vento ti muove i capelli e mi lascia intravedere il tuo sguardo, preoccupato e nervoso ancora. Guardi fuori, vuoi sembrarmi di nuovo distante. “Quando arriva,” mi dici quasi fosse un monito “vorrei che tu non fossi presente”. Mi proteggi da tuo padre, l’hai sempre fatto.

Ricordi quando rubai dalla cucina una fetta di torta? Volevo portartela al mattino ai piedi del letto, mentre dormivi in preda alle vampate febbrili di pieno inverno. Ero arrivato da poco, avevo paura di essere cacciato, ma lo feci per te. Ti guardo, sorrido. Come se fosse possibile abbandonarti. “Sarò dietro la porta.” Scendo a compromessi.

“Oscar!” Sentiamo urlare dal piano di sotto. Eravamo così distratti da non esserci accorti di tuo padre che smontava dalla carrozza ed entrava in casa. “Oscar!” urla di nuovo.

Stringi gli occhi, lasci cadere una lacrima. Ti tremano le gambe e stringi i pugni. Rientri in casa. Ti giri verso di me, mi aspetti e poi mi raggiungi come se non riuscissi a star ferma. Mi prendi le mani, le stringi. “Va’ fuori.” Mi supplichi “Ti prego.” Usi e mi guardi con gli occhi imploranti. Non mi dai il tempo di risponderti che mi spingi via, verso la porta che va verso i passaggi segreti che usavamo da bambini, che vanno dalle tue stanze a quelle che erano le mie.

Ti sto stringendo, ti tengo per le braccia e nel trambusto nessuno dei due sembra farci caso. “Solo una parola ed io…” comincio, e tu scuoti la testa e mi dici di no e chiudi la porta. Sono al buio ed ascolto ed aspetto. Sento tuo padre che irrompe nella tua stanza. Ti chiede di parlare e forse vuole ragionare con te.

Ascolto ed aspetto.

Sono qui, amore mio. Sono pronto.

Solo una parola ed io sono da te.


 


Angolo dell'autrice
Salve e buon sabato a tutti :D come state? 
E niente, come avrete notato ogni tanto ho uno sprazzo di tempo ed eccomi qui a condividere cose con voi. Vi mando un caro saluto a tutti! Vi aspetto alla prossima :)

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Oscar

Ti sei buttato nelle fiamme per me? Hai sacrificato la vista per me? Ti sei arruolato, hai rinunciato alla tua vita per vegliare su di me, per vedermi ogni giorno, per starmi accanto e non perdermi del tutto? Hai messo una pistola in mano a mio padre per me? Come riuscirò mai a dirti che ti amo, davanti all’immensità del tuo amore per me, ai tuoi gesti così eclatanti, ai tuoi sentimenti che travolgono tutti e cambiano tutto quello che crediamo giusto e cristiano, alla tua voce che si guadagna ascolto. Come ti dico che ti amo e ti convinco che è così se non mi sono mai buttata nelle fiamme e non ho perso niente?

Sospiri, quasi scherzosamente. Un vero e proprio “fiuu!”, con tanto di polso appoggiato sulla fronte. Mascheri la paura dietro una mezza risata. Fai finta di niente, come se fosse normale, in fondo che hai detto di strano, che non si sapesse?

Allungo la mano e ti fermo per non farti andare via e per non farti avvicinare. Sento che ti irrigidisci come una vibrazione sul palmo della mano. “Giuralo.” Dico mentre prendo coraggio. Vorrei spiare le tue reazioni, il tuo viso, rivedere quella naturalezza con cui a voce alta dici a mio padre che mi ami, a dispetto di me che non riesco a dirlo a voce alta neanche a me stessa. “Giuralo!” ti chiedo di nuovo. Mi brucia così tanto il cuore e devo dirtelo. E’ un dovere e poi voglio farlo, per te, perché non è giusto che tu non lo sappia, che rischi la vita gridando, davanti a mio padre, tu ammetti tutto quello che c’è sempre stato, quello che hai dentro. Fa così male al cuore il mio stesso silenzio, saperti solo in questo amore, quando ci sono io qui che aspetto non so cosa. Più passano i secondi, più so che devo farlo.

Non voglio guadarti, o so che no avrò più il coraggio. Ascolto il cuore, aspetto che si fermi che mi lasci parlare. Ingoio saliva e prendo un respiro per costringermi ad aprire la bocca. Sento le parole formarmisi in gola, ed adesso non si torna più indietro.

“Ti amo.”

L’ho detto. E tu non dici niente ed io non dico niente. Ascolto il silenzio. Il cuore ha ripreso a battermi all’impazzata, mi fa quasi tremare. E tu perché non dici niente? Mi giro preoccupata, ho il respiro pesante e finalmente ti vedo. Mi sorridi, anche se cerchi di nasconderlo. Vuoi essere serio, ma non ci riesci. Quella piega delle labbra rompe la tua finta serietà ed una lacrima ti solca la guancia. Ti mordi la bocca, la maltratti e sembra quasi che tu voglia ridere a voce alta. Ti commuovi anche e ti asciughi gli occhi, che piangono entrambi. Poi mi allunghi una mano ed io mi accorgo di essere stata col fiato sospeso finora. La prendo ed in un attimo sono tra le tue braccia.

Mi ritrovo schiacciata tra il tuo petto e le tue braccia. Riconosco subito il tuo odore, chiudo gli occhi ed il cuore si calma. Allungo le braccia anch’io e mentre stringo te uomo, penso a te bambino ai giochi con la spada, alle corse interminabili, alle lotte fatte nell’erba, a come bene conosco le tue mani, l’odore di cuoio caldo e di vento autunnale che ha la tua pelle, il suono rassicurante che ha la tua voce.

“Mi batte così forte il cuore che rischio di svenire.” Mi confessi “Quanti altri giuramenti vuoi?” mi domandi. Mi prendi il viso tra le mani e mi costringi a guardarti. Mi accarezzi le guance e mi guardi e non riesci a smettere di ridere, sorridere e piangere. Non lo so neanch’io cosa stai facendo. Tiri su col naso e finalmente ti fai serio di nuovo. “Ti amo, lo giuro, per tutta la vita.”

Lo dici mentre piangi e così piango anch’io. Adesso ha tutto così senso. Mi tieni ancora il viso e ti vedo chinarti, avvicini la tua guancia alla mia. E’ ispida e mi da i brividi. Mi giro, ti giri. Mi batte forte il cuore. Rischio di svenire, proprio come te. Chiudo gli occhi e sento le tue labbra contro le mie, così morbide, dolci, umide, calde. Sono le labbra che conosco, il bacio che conosco.

E’ timido, casto, appena accennato sull’angolo della mia bocca. Ci tocchiamo con la punta del naso, sorridiamo entrambi, tu sulle mie labbra, io sulle tue. Sento il calore ed il sapore della tua risata. Ti bacio d’impulso e mi raggiungi.

Il bacio che conosco.

 


Angolo dell'autrice
Ogni tanto compaio e posto XD A prestissimissimo il prossimo capitolo, tipo il tempo di creare l'HTML

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Andrè

“Andrè!” Mi chiami ed io mi giri. C’è urgenza nella tua voce. Non vuoi che me ne vada, che scompaia dentro la caserma, ma no, no amore mio, non posso più scomparire e stare lontano da te.

Scendo da cavallo, lo porto per le redini. Accarezzo Cèsar e faccio lo stesso con lui, lo guido con te ancora in sella. Ti lasci trascinare, andiamo nelle stalle. Il nostro stalliere ci guarda stranito. Gli fai un cenno e quello se ne va. Io lo guardo farti il saluto e poi lasciarci. Mi chiedo cosa possa pensare di te, di me, di noi soli ora qui dentro. Mi si riempie il petto d’orgoglio al pensiero che qualcun altro possa immaginarci con malizia, qui soli io e te. Insieme ho paura per te, che certe voci girino davvero, che ti possano rovinare in qualche modo.

Ti aiuto scendere come altre mille volte nella mia vita. Ti lasci andare e ti prendo per i fianchi. Adesso sembra diverso. Ti sfioro col respiro mentre scivoli giù, con le spalle rivolte a me ed il busto ancora al cavallo. Quando atterri appena ti muovi. Rimani ferma e ti giri appena. Mi vedi con la coda dell’occhio, sai che potrei toccarti ed aspetti. Mi cerchi solo con le dita, un movimento impercettibile, ma io sento tutto di te. Ti prendo le mani, incrocio le dita e tu sciogli le spalle e chiudi gli occhi, abbandonata sul mio petto e sulla mia spalla.

Dio, se solo potessi baciarti, accarezzarti, farti mia, superare questa barriera di pudore, fare l’amore. Ti immagino nuda, come sei adesso, pronta ad abbandonarti sul mio corpo, ad offrirmi tutta la tua pelle. Ti amerei, ti darei tutto lo giuro. Guarderei il piacere crescerti dentro ed esplodere fuori. Mi dedicherei a te, mi dimenticherei persino che esisto. Vorrei tutte queste cose. Ti sfioro le braccia sopra all’uniforme. Vorrei tutte queste cose, ma non le farei mai. No, non così. Non è così che deve andare, tu meriti tutte le cose nel modo giusto, nell’ordine giusto. Dovrei poter chiedere la tua mano a tuo padre ed al re, come lui stesso aveva suggerito. Dovrei poter aspettare ogni giorno, facendo il conto alla rovescia. Guardarti vestita da sposa, desiderarti ed immaginarti a letto con me tutto il giorno. Dovrei poter solo poi fare l’amore con te.

“Sei triste?” Mi chiedi. Ti sei girata verso di me, mi guardi, mi studi.

Sorrido e faccio no con la testa. “No,” dico pure per convincerti “come potrei.”

Pieghi il capo di lato, stringi gli occhi. Per un attimo mi ricordo della stessa espressione sul tuo viso da bambina. Ti do un bacio e ti abbraccio. Sento la sorpresa, spio le sopracciglia alte e gli occhi chiusi. Allora per sorprenderti ancora di più ti sollevo e continuo a baciarti. Ridi contro la mia bocca. È un suono meraviglioso e sono felice.

Forse un giorno, con questa rivoluzione, tutto sarà diverso. Forse un giorno potrò sposarti. Questa rivoluzione la faccio per te.


 


Angolo dell'autrice
Boom! Ecco l'altro. L'ultimo è pronto a metà e sono in ferie. Traetene le vostre considerazioni!
A presto

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Oscar

È così difficile fingere, starti lontana: vederti entrare ed uscire da quella caserma, lasciarti la mano prima di rientrare in casa, saperti a cena in cucina al caldo del fuoco con la nonna, dormire a qualche metro di distanza in una camera diversa, in cui tu non ci sei.

Ci separiamo ogni mattina dopo le scuderie di Parigi. Ci rincontriamo a cavallo sulla via di casa. Ci lasciamo di nuovo prima del cancello. Ci guardiamo da lontano prima di cena, dove vengo portata io al lungo tavolo enorme e freddo del salone, tu in cucina al caldo, con tutti gli altri. Da bambini era persino divertente: mangiavo in fretta qualche boccone con mio padre e sgattaiolavo poi da te, al tavolo della servitù, dove la nonna ci sfamava con gli avanzi. Ridevamo, ascoltavamo le storie, ci rincorrevamo fino a prenderci le strigliate. Adesso la separazione mi fa male. Chiudo gli occhi ed immagino di alzarmi, raggiungerti, baciarti davanti a tutta la casa, a mio padre, a tua nonna, alle cameriere e gli stallieri, mente ti sorprendi e poi mi prendi. Reclamarti, farmi reclamare, dire ad alta voce il posto dove vorrei essere.

Riapro gli occhi e rilasso i muscoli per non piangere. Guardo la mano, mi accorgo di aver stretto una forchetta troppo forte. Una linea netta bianca mi percorre il palmo della mano gonfio e rosso. Ti immagino prendermi la mano, guardarmi negli occhi e darmi lì un bacio. “Con un bacio passa tutto”, mi sembra di risentire quello che diceva la nonna, ma col suono della tua voce. Ha una sfumatura diversa adesso, più profonda. Immagino il tuo sguardo intenso e languido. Mi rendo conto che la mia memoria mi sta giocando uno strano scherzo: mischia ricordi e fantasia, mi propone immagini che mi fanno battere il cuore e mi paralizzano il corpo. Mi sembra quasi di avere paura.

Cancello tutto, nascondo gli occhi dietro le dita anche se nessuno può vedermi. Sono sola qui e la vergogna rimarrà solo mia. Ho paura di non saperti amare ormai, come se fosse troppo tardi. Forse sono stata recuperabile ad un certo punto della mia vita. Sono testarda, rigida, pudica, vecchia, magra. Non ho mai amato, non sono mai stata amata o toccata. E se non ne fossi in grado? Se tu mi avessi aspettato per così tanto tempo, per scoprire poi che sono un totale fallimento?

Butto giù l’ultimo sorso di vino e me ne vado con le guance in fiamme. Aspetto al balcone della mia stanza. L’aria è fresca e mi pizzica la pelle. Ti cerco e poi ti aspetto. Alla fine ti vedo mentre porti fuori un secchio d’acqua per i cavalli. Chissà se hai già cenato. Ti sorrido ed alzo la mano per salutarti e mi dimentico tutto. Ti faccio segno con capo alla mia destra: il passaggio segreto che collega la mia stanza al corridoio della servitù. Mi rispondi appena, è solo un piccolo accenno, ma io capisco ed appena scompari dalla mia vista corro lì ad aspettarti.

E’ una storia fatta di attese ormai la nostra. Cerco di non fare rumore, trattengo il fiato e la tosse. Mi gira la testa e non so se è la febbre o il vino. Mi metto una mano sul petto e faccio respiri profondi. Vorrei calmarmi, quasi mi riesce fino a che sento il suono dei tuoi passi, quel ritmo cadenzato che riconoscerei ovunque, e si vanificano così tutti i miei sforzi.

È facile fare quei pochi gradini di corsa, raggiungerti presto come una disperata e stringerti forte. Sento la tua pelle del petto e delle braccia calda contro la mia, tra le camicie impegnate di frescura notturna ed odore di muschio. Mi stringi forte anche tu e mi nascondo nel tuo abbraccio, in quell’angolo speciale sulla tua pelle che mi sono ritagliata. Nascondo il viso ed aspiro forte l’odore della sera su di te. Mi calma e mi agita insieme. Non riesco a rimanere ferma, ho una frenesia addosso che non so controllare, mente tu mi tieni come una roccia.

“Come fai, sei così calmo” ti dico “e caldo.” Mi sfugge. Vorrei non averlo detto, ma sono fiera di averlo fatto. Sembra tutto così poco, così non abbastanza.

“Non lo sono per niente.” Ti sento dire con voce roca. Qui al buio immagino di nuovo quello sguardo languido e serio. Invece ti sento sorridere sulla mia pelle quando mi lasci un bacio tenero sulla fronte, e sei ancora meglio che di come ti riesco a sognare. Il tuo bacio è come un balsamo per l’anima: mi calma in superficie e mi lascia a ribollire dentro.

Sei tu poi che ti allontani. “Ci vediamo domani.” Mi dici. Mi prendi le mani, provi a guardarmi, mi accarezzi il dorso delle dita col pollice. Sto per parlare, per dire qualcosa, invece ti stringo le mani forte più che posso. Sento la tua mancanza ancora prima che tu te ne vada. Sorridi di nuovo. “Buona notte, contessa” mi dici con voce tenera ed io mi ritraggo. Tieni ancora la mano allungata verso di me mentre te ne vai.

I miei titoli, conte e contessa, mi colpiscono come un pugno nello stomaco. Mettono una distanza tra noi che quasi cancellano la nostra infanzia condivisa. Mi fanno sentire sola, di nuovo, e mi tengono lontana dal calore e dalla libertà del popolo: libertà di scegliere, di vivere, di servire o non farlo, di andarecene dove ci pare, vederci quando ci pare. Torno nella mia camera e mi stendo sul letto. Guardo la mia divisa, i gradi e le medaglie che si distinguono al buio mentre mi addormento.


 


Angolo dell'autrice
Cari lettori, buon anno a tutti! Segue a carrellata il capitolo 10, quindi bando alle ciance e passiamo al prossimo. Magari si riesce a finire presto ;)
Spero che il capitolo comunque vi abbia allietato e vi abbia trasmesso la frenesia che avevo in mente. Un bacione!
Summers

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Oscar

La prima volta che ho visto il sesso è stato tra i corridoi di Versailles. Quell’uomo mi guardava, mentre si muoveva tra le sottane di una nobildonna. Distolsi lo sguardo per l’imbarazzo, mio più che non loro, e per non doverli riconoscere. Gli occhi di lui però, vuoti, mi paralizzarono. Stupida, mi sarei detta dopo: potevo fuggire, urlare, persino picchiarlo o ucciderlo per fargli sapere solo come mi aveva fatto sentire. Sbagliata, come vestita di stracci. Il suo sguardo che neanche mi guardava davvero, mi era scivolato lungo i vestiti insozzandoli. Quello era il sesso per me. Non ha mai avuto niente di piacevole, mi pareva una pratica barbara per uomini barbari che si prendono quello che volevano con prepotenza, sovrastando le donne che capitavano a tiro, per perdersi e null’altro. Non era per uomini colti ed educati come te.

Mento però se dico che non l’ho mai desiderato. L’ho desiderato una volta. Credevo che avrei dovuto desiderarlo, con Fersen, perché semmai mi avesse visto, semmai mi avesse scelto, l’avrebbe voluto lui. Avrebbe voluto che io lo volessi. Come quell’uomo e qualunque altro conosciuto poi.

Ma tu?

Per tanto tempo ho visto il bambino, poco più tardi il ragazzo gentile. Una sera, tanto tempo dopo, mi hai urlato in faccia che non lo eri. Sei stato come quell’uomo. Allora ho iniziato a pensare a te come sei ora, adulto. Ho pensato che avessi ragione, che i nuovi valori della rivoluzione ci rendessero tutti uguali e ci dessero tante possibilità. Quella di essere una donna sovrastata da nessuno per esempio. Non volevo essere un oggetto di nessuno, tuo o di Girodelle, e neanche di Fersen. Sembrava sbagliato prima.

Ora invece, è tutto così giusto, così naturale, così perfetto il modo in cui ci incastriamo, ci muoviamo. Sembra frutto di un’intesa che nasce dall’esperienza. Invece no, è solo la prima volta. Non sei tu che hai la meglio su di me, non sono neanch’io che voglio impormi. Siamo pari, siamo uguali, la perfetta espressione della rivoluzione: un uomo ed una donna, liberi, insieme ed uguali.

È strano, sai. Non credevo sarebbe mai successo. Non credevo che il tuo amore superasse le mie insicurezze, che sembravano così grandi e spaventose. Sono sotto di te e per la prima volta il mio corpo non è più mio nemico. Non lo odio come quando avevo quattordici anni, non lo sento mio rivale come ora che ne ho trenta, non me ne sento tradita come il mese scorso. Faccio l’amore con te, Andrè, e sento i brividi ed il languore che ci scambiamo a vicenda. Neanche lo controllo quello che succede: qualcosa gratta, gratta e poi si scioglie. Mi sento leggera, morbida e tutto si allenta. Ti cerco con gli occhi chiusi e sento i tuoi capelli sulla spalla e le labbra sul mio cuore. Chissà se lo senti. Vorrei che tu lo sentissi, per capire quello che non riesco a dirti a parole.

Solo poi apro gli occhi e ti vedo. Tremi, mi guardi. Hai il respiro pesante e non ti muovi. Sembri preso da chissà quale sforzo. Immagino quello che ho provato prima, immagino come mi sarei sentita se ti fossi fermato ed io costretta ad aspettare, ancora per l’ennesima volta. Immagino scaricare quelle energie, dipanatesi coi brividi, lasciare il tuo corpo così, trattenuto, in attesa. Cerco di ricordare tutte le esperienze che ho avuto col sesso. I cortigiani, i marchesi, i conti, i soldati, i contadini, gli uomini, tutti avevano un unico schema, messo in bella mostra nei corridoi di Versailles o tra le vie di Parigi: alzare le gonne, penetrare, muoversi freneticamente fino a sentire il piacere misto a solitudine e ribrezzo, e lasciar andare le donne correre via con lo stesso sentimento addosso. Ricordo loro tutti. Tu invece, sei così diverso.

Ti guardo: i capelli corvini, le labbra martoriate dai denti, le gocce di sudore sulla fronte. Ho in testa la tua risata. So che è mia, che la sentirò ancora tante volte, che sarai felice con me, perché ti amo e so adesso che sono capace di dimostrartelo.

Ti accarezzo una guancia e capisco che ancora non ci sei abituato. Non ti ritrai, ma sobbalzi. Ti capisco. Non ci sono abituata neanch’io: esploro il pizzicore della barba che appena spunta, il calore delle guance, la fossetta che compare quando appena sorridi, nervoso, come se il mio aperto affetto fosse ancora così strano per te. Mi sporgo fino al punto che sembra un esercizio, con i muscoli rigidi e lo sforzo che si sente sotto pelle, e ti bacio. Tu mi prendi il capo e mi culli, fino a portarmi giù e farmi da cuscino, mentre coi gomiti ti tieni. Avvolgo le gambe attorno alle tue e ti trattengo. La mia pelle sudata scivola sulla tua.

“Oscar.” Mi chiami, sembri quasi implorarmi. Sei così indifeso che ti accarezzo perché tu senta la mia vicinanza, perché adesso so che il mio abbraccio ti tranquillizza.

“Shh.” Ti sussurro e devo sembrare così implorante anch’io.

Chiudi la bocca, ingoi saliva. I capelli ti si sono appiccicati alla fronte. Spingi di nuovo, cacci un verso che è di nuovo supplica e liberatorio insieme. Ti appoggi alla mia spalla e respiri pesantemente, e ti trattieni ancora ed ancora. Ma io sono qua e non ti lascerò solo. Stringo le gambe ancora più forte, un altro verso e so che manca poco. Allungo una mano per toccarti le labbra, per sentire il tuo piacere sulla punta delle dita. Vedi, non sono capace solo di ferirti. E’ meraviglioso, non credi? L’avresti mai detto?

Mi giro e ti catturo con un bacio, proprio in quel momento, durante l’ultimo gemito. Lo assaggio in bocca, mentre tremi e crolli sfinito. Ti stringo, ti tengo forte, ci sono io.

Ti lasci abbracciare, poi ti riprendi e mi abbracci anche tu. E’ una stretta forte, solida, così rassicurante. Dura solo un attimo, prima che i nostri respiri affannati si incontrino. Mi sorridi come non hai mai fatto e fai sorridere anche me. Allunghi una mano, mi accarezzi una guancia e mi lasci un tenero bacio sotto l’occhio.

“Salato.” Sussurri. E’ la prima parola che mi dici da quel primo bacio di stasera. Ti esce roca, devo sforzarmi per capirla.

Mi tocco le guance e capisco che sto piangendo. “Non sono triste.” Mi affretto a giustificare e mi pulisco nervosa con una mano. Ho già rovinato tutto? Piango ancora e non mi riesco a fermare.

Il rumore di un tuo sorriso mi interrompe. Alzo gli occhi e capisco che sai tutto, mi hai letto dentro. Sei una parte di me. Afferri le mie dita con le tue. Il tuo respiro ora è calmo sul mio petto. “Lo so.” Mormori e di nuovo mi baci la guancia, una, due, tre volte.

Sorrido e ti faccio spazio vicino a me. Aspetto che ti stendi e non smetti di guardarmi. Ti abbraccio e raggiungo di nuovo quel posto sul tuo petto, dove poggio la testa. Da qui ti vedo tutto. Ti tocco e ti accarezzo con la punta delle dita per imprimerti nella memoria: il petto, i peli, la pancia, l’ombelico, la linea dei fianchi.

“Se continui così dovrò sforzarmi di pensare alla nonna.” Mi dici. Sollevo il capo ed hai gli occhi chiusi, come se volessi concentrarti sulle mie dita o su tua nonna.

“In sottoveste?” ti chiedo per mantenere lo scherzo.

“E col matterello in mano.” sorridi e poi aggiungi "Hai fatto piangere la mia bambina!" facendole il verso.

Mi scappa una risata, poi scappa pure a te, mi prendi una mano, mi dai un bacio e poi ti avvicini, mi prendi le labbra tra i denti ed è quasi più tenero di un bacio. Sorrido sorpresa. Imparerò, lo giuro. Imparerò questo nuovo linguaggio. Ti sorprenderò. Ti bacio e ti abbraccio anch’io. Ti accompagno sulla mia spalla e sento i nostri movimenti più calmi e più lenti. “Dormi.” Ti sussurro e ti cullo con le mani sulla schiena, stringendoti prima forte poi solo teneramente.

“Non voglio.” Mi dici prima che ti senta chiudere gli occhi e dal ritmo del tuo respiro capisco che ti sei addormentato, che tu lo volessi o no. Ti lascio andare sul cuscino. Riposati, amore mio, dormi sulle piume stanotte. Sei bellissimo, non riesco a smettere di guardarti tutto. Mio marito.

Mi giro e mi poso accanto a te, dall’altro lato. Scorgo la divisa abbandonata sulla poltroncina. Mi alzo nuda. La prendo in mano quasi la cullassi. Tocco il metallo così freddo delle spille: insignificanti, materiali, prive di calore, sole.

C’è solo una cosa che rimane da fare.

 


Angolo dell'autrice
Eccociiii
Allor, penultimo capitolo. Il prossimo è brutto, ma intanto pensiamo alle cose belle. Spero che questo vi sia piaciuto. Vi saluto e vi lascio con un bacio. 
A prestissimo, un saluto
Summers

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Oscar

Ci hanno trascinati in questa chiesa poco fa. Fuori è già buio, non ricordo quanto tempo sia passato dal tramonto. Sono appesa alle tue dita. Sono fredde, così fredde che le tengo strette in una mano per riscaldarle. Me ne sto seduta a terra, ad occhi chiusi, contro il legno di questa branda, dove ci sei tu. Non voglio vedere le decine di bare attorno. C’è odore di morte sopra a quello dell’acqua santa qui dentro, ed il suono dei pianti e delle urla di donne disperate. Chiudo le labbra per non sentire il sapore di corpi in putrefazione. Alcuni sono qui da troppo tempo e di giorno fa caldo, è estate. Tranquillo, non ti lascio andare, amore mio. Ti stringo più forte perché tu non debba sentirle. Tranquillo, non sono io. Non sto così male finché tu sei qui con me.  

Te le ricordi le nostre estati in Normandia? La casa al mare, i giochi sulla spiaggia, gli schizzi di acqua salata, le cene al tramonto sulla sabbia. E se tornassimo lì? Se ce ne andassimo da Parigi e tornassimo lì? Riesco ad immaginarti come sei adesso, adulto, con la camicia bianca ed i pantaloni arrotolati sui polpacci, che ridi e mi trascini a riva. L’acqua sarà fredda, ma mi ci abituerò presto.

Rabbrividisco. Fa freddo, come in tutte le chiese, forse per non far marcire i fiori. Mi salirà la febbre se rimango ancora qui, chissà poi quante me ne dirai. Ma rimango comunque, non ti preoccupare, non posso abbandonarti. E non mi addormenterò. Ho sonno, ma ce la faccio. Resterò con te ogni minuto che posso, ma tu riposa. Ci sono io qua.

Qualcuno bisbiglia. E’ normale parlare coi morti, amore mio? Poi una donna urla “No!” Stringo ancora di più gli occhi come se il gesto potesse non farmela più sentire. “Ancora un minuto! Ancora un minuto!” ma viene trascinata via. Sento il rumore dei suoi calci tirati nel vuoto, di una candela che cade e di qualcuno che con un piede la spegne. Le porte pesanti di legno vengono trascinate e si chiudono. Piango ancora senza accorgermene. Verranno anche per me?

“No, amore mio,” sussurro. Mi tiro sulle ginocchia. Da qui riesco a vederti. Ti accarezzo i capelli, spostandoli da quella orrenda cicatrice che ti deturpò il viso anni fa. “non ti lascio, resto qui, resto qui.” Ripeto come una nenia. “Sono il loro comandante, non possono trascinarmi via.”

Tiro su col naso, mi copro la bocca per soffocare un gemito che non mi avevo mai sentito fare. Mi nascondo seduta a terra come prima per piangere, ma ti tengo ancora la mano. No, questa non la lascio, tranquillo. Cerco di calmarmi mentre tremo. Mi ripeto che devo allontanarmi, non ci devo pensare. A cosa? A te? Devo ricordare, ricordare tutto.

Per esempio, te lo ricordi quando ballai con Fersen? Che stupida. Io lo sapevo allora. Lo sapevo anche prima. Sai da quando? Non te l’ho mai detto. Ero sveglia quel giorno, quando mi baciasti mentre mi riportavi a casa. La tua delicatezza mi ha ossessionata per anni. Quante cose che ho da dirti. Chissà se le sai già tutte. Conosci i miei silenzi così bene.

“Comandante.” Mi chiama qualcuno. Faccio segno di no con la testa, e mi preparo a scattare aggressiva, come ho fatto quando volevano proibirmi di venire qui da te. Come potevo lasciarti solo per tutto questo tempo? Come posso non proteggerti per sempre?

“Comandante.” Ci prova un altro, ma neanche li voglio ascoltare.

“Oscar.” Fa Alain, chiamandomi per nome. Apro gli occhi solo allora. Ascolto lui perché ti conosce, è tuo amico. Potrebbe capire almeno in parte il mio dolore. Invece mi tradisce, ci separa, allontana la tua mano dalla mia con la forza. Mi giro, mi allungo disperata, cerco di riprendermela, ma lui ti posa la mano in grembo ed io non ce la faccio a rialzarmi, a guardarti di nuovo così: cereo, freddo. “Avanti, alzati, ti do una mano.” Alain si mette tra me e te, forzando una voce paziente e penosa. Mi allungo oltre la sua schiena per afferrare i tuoi vestiti, prenderti di nuovo e stringerti ancora. Devo ancora provare a chiudere il tuo polso tra il pollice e l’indice o confrontare la lunghezza delle mie dita alle tue, una stupida misura delle differenze tra me e te. Alain però mi allontana di nuovo in una lotta silenziosa, mi mette in piedi e mi sostiene per le spalle appena un passo più avanti. D’istinto mi sposto e ti cerco. Così ti vedo e ricordo.

Hai la pelle sempre più chiara. Una mano ben sistemata in grembo mantiene un fiore, l’altra è malamente poggiata sulla pancia. Non ho bisogno di chiudere gli occhi per ricordarmi di come vibrava la tua pelle sopra all’ombelico mentre ti sfioravo ieri notte. Mi passano davanti immagini confuse che si sovrappongono al tuo volto. Adesso hai le labbra schiuse, sembra quasi un respiro. “Lasciami.” Grido ad Alain, mi rendo conto di essere l’unica a far rumore in questa chiesa. “L’ho visto.” Urlo poi “Respira, l’ho visto!” ma lui mi porta via, mi prende di peso mentre strepito ed allungo le mani.

No, no, no, no, no.

Urlo adesso perché ti sto vedendo per l’ultima volta. Non ti vedrò mai più, non mi sorriderai mai più, non ti terrò mai più la mano, non proverò mai se riesco a chiuderti il polso tra le dita. Non ci sarai più. Andrè. Ci si mettono anche le lacrime, mi confondono la vista. L’ultima volta che ti vedo sei una sottile linea lontana, scura, sfocata.

Appena Alain mi rimette a terra è sui gradini della chiesa. Corro per tornare dentro, ma un altro dei miei soldati è più veloce di me e mi chiude fuori. Da dentro sento una chiave che gira la serratura. “Fammi entrare!” urlo e supplico più e più volte, gridando sempre più forte, consumandomi la voce, con la tosse che mi mozza il fiato.

Alain mi mette le mani sulle spalle. E’ così brusco che mi scuote quasi. “Oscar, se n’è andato.” Mi dice poi con voce ferma. Mi circonda dalle spalle, mi prende per le braccia e mi porta via, di nuovo sui gradini. Vuole allontanarmi un po’ per volta. Resta dietro di me e mi tiene imponendomi la sua presenza, quasi fosse un abbraccio ed io tremo ancora e piango e tossisco contro di lui.

“Non me ne posso andare.” Gli dico alla fine tra le lacrime, supplichevole. Sono stanca, non farmi combattere anche contro di te.
Alain rimane fermo, mi tiene ferma, aspetta che mi calmi, aspetta che smetta di piangere ed ascolti. “Non gli interessa più se tu resti qui oppure no.” Alla fine mi parla mentre le lacrime mi scuotono ancora. “Gli interessa che non t’ammali.”

Piango di nuovo, chiudo gli occhi, poi ti cerco nelle stelle. Sì, forse è così, ma non importa più a me. Te lo ricordi quando cercavamo le costellazioni? Ci mettevamo di notte da bambini distesi sull’erba. Ci infreddolivamo e la nonna ci sgridava sempre. Te le ricordi le costellazioni, Andrè? Orione, l’Orsa, Cancro, Gemelli… Te lo ricordi il mito di Castore e Polluce? E se potessi cederti io metà della mia vita, come Castore e Polluce?

“Oscar?” mi riscuote di nuovo Alain fino a che non ci ritroviamo faccia a faccia. Mi ha avvolto in un mantello. Mi accompagna davanti ad un fuoco, mi fa sedere a terra sull’ultimo gradino. Si siede affianco a me, guarda le fiamme, tira su col naso e nasconde le lacrime dietro i pugni chiusi sulle guance.

Vorrei dirgli che mi dispiace. Mi dispiace che il suo amico non ci sia più, come se stessi parlando di un’altra persona, come se non stessi parlando del mio Andrè. Si accorge di me, vede le mie lacrime. Sono persa. Dove sei? Alain mi abbraccia e piangiamo insieme. Mi aggrappo alla sua giubba ruvida, quel tessuto orribile che hai addosso pure tu adesso e per sempre. Vorrei vederti con indosso una camicia pulita, bianca, intera, che mi chiedi che faccio, perché me ne sto lì. “Su, andiamo.” Vorrei sentirti dire. Invece è Alain che lo dice. Si tira su, si pulisce la faccia, mi allunga la mano. Mi giro, guardo la chiesa. Tu sei là.

“Oscar, lui non c’è.” Dice per convincermi.

Lo so, lo so. Perché continua a ripetermelo? “Ancora un po’.” Gli dico e mi chiudo nel mantello come se potesse mettere insieme i pezzi del cuore. Mi avvolgo, mi faccio calore per convincerlo.

Alain mi guarda, fa un cenno con la testa. “Va bene.” Si arrende “Casa mia è di là, ricordi?” fa segno con un dito e tira di nuovo su col naso. Certo che me lo ricordo, faccio segno di sì. Eravamo venuti insieme, io e te, Andrè. Ti amavo già allora. Ti guardavo mentre salivi le scale nel condominio dove abiti lui, Alain. Ero dietro di te e guardavo la tua mano sulla ringhiera, i muscoli che si tendevano, piccole cose che avevo  sempre avuto davanti agli occhi e che da allora mi fecero battere il cuore.

“Va bene.” Ripete Alain “A più tardi.” Gira la testa, guarda dietro di noi lungo il profilo dell’orizzonte. Mi giro anch’io.

La Bastiglia.

Mi coglie un pensiero di sfuggita: la regina, Maria Antonietta, il generale Bouille. “I cannoni.” Gli dico.

Alain sospira e sorride nervosamente, come se non ci avesse ancora pensato. Con gli occhi rossi di lacrime mi fa un cenno col capo.

“Grazie, comandante.” E se ne va. Rimango per un’eternità a guardarla: i cannoni, i fucili. Me li sento puntati addosso. La tosse mi toglie di nuovo qualsiasi pensiero, scava violenta nel mio petto. Vedo il sangue che mi sale come vomito alla gola. E’ la vita che se ne va, che non posso più dividere per dare a te, come Castore e Polluce.

Arriverò presto.

Arriverò presto.


 


Angolo dell'autrice
It's the final chapteeeerr, ta-da-da ta-da-na-na...
Anyway. Ho pianto un po' per scrivere questo capitolo. 
Ok, dunque, volevo raccomandare a chi legge di fare attenzione. Ho notato che alcuni capitoli (9 e 7) hanno metà delle visualizzazioni. Credo perché pubblicate nello stesso giorno dei seguenti, chi legge clikkava su "ultimo capitolo" e via. Il 7 è tra i più importanti ;P
Dunque, invece. Quando si arriva alla fine di qualcosa si fanno un po' i bilanci. Ricordo che un paio di anni fa tornai su Lady Oscar, dopo un abbandono più o meno dall'adolescenza, ispirata da una canzone. Sin da allora volevo pubblicare due storie, che sono maturate e sono diventate "La parte tangibile dell'amore" , "Gli ultimi mesi" e (la incompleta) "Effetto farfalla". Tutte le altre storie sono stati felici intermezzi, nati dall'ispirazione. Per questo, volevo ringraziarvi, perché i lettori ed i commenti sono una sorta di motore. Scrivere ff è un hobby, una cosa da fare purtroppo nel tempo libero, sapere che c'è qualcuno che aspetta fa venire voglia di condividere sempre di più, ma mette ansia ad un certo punto. Proprio per questo motivo non ho pubblicato moltissimo nell'ultimo anno: quando non è più un hobby e si mette anche la vita di mezzo, quello che scrivi non ha la stessa "forza". Negli ultimi giorni ho ritrovato però il piacere di farlo, quindi spero di tornare prestissimo da voi. 
Con ciò vi saluto e spero di avervi allietato gli ultimi minuti.
Un saluto grandissimo, un bacione forte. 
Summers

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