Eden

di Rameo_Laufeyson8
(/viewuser.php?uid=864870)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


PREMESSA

 

Gli eventi a cui si ispira questa storia sono basati su "The last of us parte due", quindi contiene spoiler per chi non avesse giocato il secondo capitolo della saga.

I miei personaggi non fanno altro che aggiungersi all'opera originale modificando alcuni dettagli per il decorso del racconto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Provo a combattere il dolore ai piedi e alle ginocchia da ore. Siamo in cammino da giorni ed in questo caldo periodo dell'anno attraversare la vegetazione è sempre un calvario. Le scarpe consumate e scomode mi danno altri cento motivi per zoppicare, evidentemente si consumeranno prima i miei piedi malconci che questi fottuti scarponcini rubati ad cadavere mummificato. Già, credevo di essere stata fortunata a trovarli, ma il proprietario trapassato starà mandandomi delle maledizioni per vendicare il furto. Sorrido pensando ad un poveretto che si diverte a mettermi in difficoltà mentre procedo con testardaggine verso il percorso segnato nella mappa.

-Possiamo fermarci a riposare se sei troppo stanca.- mi dice Pietro qualche passo avanti a me.

Scuoto la testa anche se lui non può vedermi, ma il mio respiro affannato mi tradisce; -Sto bene, non perdiamo altro tempo facendo soste inutili.-

-Non sono inutili se ne hai bisogno.- replica lui.

-Non ho proprio bisogno di nulla mio caro Pietro.- poggio la lingua sui denti e sorrido. Mi irrita terribilmente quando insiste in quel modo premuroso. Sa esattamente quando preoccuparsi per me, e conosce a memoria ogni sfumatura del mio orgoglio. Sono stata capace di negare persino la sete causata dalla disidratazione, quando non abbiamo avuto acqua per due giorni e le mie labbra erano screpolate a tal punto che la pelle si era sollevata.

-Sai, certe volte ti farebbe bene lamentarti, o almeno ammettere che i tuoi cazzo di piedi sono in fiamme- si volta verso di me con qualcosa che somiglia ad una mezza piroetta e mi sorride coi denti perfettamente dritti -mia preziosissima Eden.-

Io lo raggiungo e gli poggio una mano sul petto fingendo di spintonarlo amorevolmente, dicendogli: -Proseguiamo.-

Abbiamo quasi finito le nostre provviste, e la caccia non è stata molto ricca negli ultimi giorni, a parte due scoiattoli e un coniglio. Siamo spinti a proseguire senza la possibilità di stabilire un buon accampamento, soprattutto per via degli infetti.

Questa zona pullula di clicker e runner. Pare che si siano concentrati tutti insieme di recente, e la faccenda non fa che aumentare le mie ansie. L'unica cosa che desidero è allontanarmi il più possibile da questo postaccio. Pietro non la pensa come me, dice che qui si possono trovare prede molto grandi, come dei cervi ad esempio. Ma in che modo possiamo concentrarci sulla caccia quando quei mostri rischiano di sbucare fuori da ogni dove e farci a pezzi?

Ancora oggi mi domando perché io continui a voler andare avanti, a cercare di aggrapparmi alla vita così avidamente dopo tutto quello che ho perso. Già, resisto anche per Pietro, ma certe notti penso a come sarebbe se mi arrendessi e lasciassi che un infetto qualunche mi morda. Un solo morso mi basterebbe, profondo e veloce, e tutti i miei problemi sparirebbero se perdessi la testa.

Ma Pietro non è entusiasta del mio piano, dice che non riuscirebbe mica a baciarmi con quella bocca putrida invasa dal fungo. Lui è sempre ironico e smielato, avvolte non lo sopporto proprio. Poi mi soffermo a guardarlo e quasi i miei occhi rischiano di non trattenere le lacrime per la commozione. Per me è la persona più importante su questo mondo tremendo. La persona che amo più di ogni altra cosa.

-Stanotte potremmo accamparci in quella casa dismessa lì sopra -Pietro me la indica all'orizzonte- se ci assicuriamo che è sgombera potremmo rifocillarci, e fare qualcosa di speciale.-

-Ah sì?- lo canzono io. Lo guardo e il mio viso si illumina. I suoi capelli castani sono cresciuti, ma nonostante siano sporchi e scompigliati non lo rendono meno affascinante.

-Sai, quella cosa speciale che so fare con la lingua.- mi provoca lui.

Io arrossisco e sorrido di gusto. Non poter prima fare un bel bagno profumato mi imbarazza.

-Allora dovremmo sbrigarci, non vorrei che una coppia di clicker ci rubi l'idea.-

Il suono della risata di Pietro è così genuino e piacevole. Sono felice che ci sia ancora qualcuno capace di gioire per le piccole cose come fa lui. Io ho perso quella capacità da quando il contagio è iniziato, dieci anni fa. Avevo tredici anni, adesso, nel 2023, ne ho esattamente ventitré. Pietro è solamente due anni più grande di me, ma la sua corporatura magra per la scarsità di cibo lo fa sembrare ancora un ragazzino. Almeno gli cresce la barba, che cerca di curare gelosamente.

Io non mi soffermo a guardare la mia immagine da qualche tempo ormai. Ogni cosa ormai mi ha cambiata irreparabilmente. I lunghi capelli biondi sono l'unica cosa che mi è rimasta di mio padre. Lui è stato il primo a morire, la notte stessa che ha cambiato per sempre le nostre vite. Gli infetti, rabbiosi, si erano riversati per le strade provocando letteralmente la fine del mondo. Mio padre ha perso la vita per cercare di salvare me, mia madre ed il mio fratellino. Il nostro vicino di casa, ormai folle dall'infezione, lo aggredì mentre lui cercava di farci scappare disperatamente dal nostro quartiere in subbuglio.

Dopo dieci anni non riesco ancora ad affrontare la faccenda, ma ricordo perfettamente la forma ovale che assunse la pozza di sangue sotto il suo corpo smembrato.

Pietro mi accarezza il viso dolcemente, capisce che mi sono dissociata di nuovo travolta dai ricordi tremendi che infestano la mia mente.

-Eden va tutto bene?- mi domanda a voce bassa, preoccupato.

Inspiro, pregando di non essere travolta da un violento capogiro.

-Sì, sta tranquillo.- e lo bacio dolcemente sulle labbra continuando a camminare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Il virus ha portato via tutte le persone che amavo. E' stato così crudele da lasciarmi la sola a piangere una ad una le sue vittime. Il primo è stato mio padre, poi è arrivato il turno di mio fratello, che all'epoca aveva solamente otto anni.

-Pietro ho bisogno di un momento.- dico con un filo di voce, tenendomi il petto con una mano. Ogni volta che rivivo certi attimi sento il cuore come sul punto di fermarsi, il che sarebbe anche un bene se non fosse così doloroso. Provo con tutta me stessa a scacciare dalla mente certe immagini, ma i miei pensieri giocano brutti scherzi e influiscono anche sul mio fisico. Eppure io vorrei ricordarli con gioia, dopo tutto questo tempo dovrei almeno pensare alla mia famiglia in momenti felici.

Invece l'unica immagine che rivivo è l'ultima: il mio fratellino strappato dalle braccia di mia madre da un militare, gettato nella mischia con altri bambini terrorizzati e fatto fuori da un proiettile. Tutto questo perché il governo, nel tentare di contenere il cordyceps, aveva emanato l'ordine di fare fuori quanti più bambini possibile poiché sembrava che su di loro il virus avesse una durata di incubazione maggiore. Questa ipotesi suonò come un rischio troppo alto da correre, ma si rivelò alla fine un'informazione oltretutto falsa. Erano i primi mesi di pandemia, i medici brancolavano nel buio alla ricerca di una soluzione. Quando albergava  ancora la convinzione che le cose potessero risolversi.

L'omicidio di mio fratello fu uno sbaglio, uno dei numerosi tentativi per salvare il mondo da una minaccia tremenda. Nelle mie orecchie ulula ancora la voce rotta di quel bambino in lacrime che cerca disperatamente la mamma. E poi dopo i colpi di arma da fuoco ci fu il silenzio.

Mia madre non si riprese più da quell'esecuzione pubblica. I mesi senza mio padre erano già stati un vero incubo, ma la morte di mio fratello fu troppo per tutte e due.

-Sta tranquilla, adesso passa.- sento la voce amorevole di Pietro che mi riporta alla realtà. Eccomi seduta per terra, tra le erbacce alte e la terra dismessa. Non mi sono nemmeno resa conto di ansimare violentemente.

Pietro è inginocchiato difronte a me e si premura di togliermi dalle spalle il pesante zaino. -Sei pallida come un fantasma.- dice, ma probabilmente questo è una delle sue ansie che si è fatta spazio tra le parole.

-Mi è già passato.- cerco di tranquillizzarlo con un gesto della mano. Pietro mi porge la sua borraccia piena per metà. Io la rifiuto scuotendo il capo; -Non ci resta molta acqua, l'abbiamo già razionata.-

-Me ne fotto, tu ne hai bisogno adesso.- insiste serio.

Provo a sorridere, so esattamente che se lo guardo in questo modo Pietro esiterà. Lo leggo da ogni suo movimento del viso che è pazzo di me.

Finisce sempre così, lui prova a rassicurarmi ma sono io quella a preoccuparsi per lui, allarmato com'è. Mento pur di non dargli pensiero, e alla fine lo bacio per suggellare questa falsa consolazione.

Lo conosco da cinque anni, e da quel momento non ci siamo più separati. Mai, nemmeno per un singolo giorno. Entrambi orfani, lasciati alla malnutrizione e alle grinfie degli infetti, o peggio, delle bande di trafficanti di essere umani e assassini.

-Andiamo nella nostra casetta. Sarà una luna di miele per caso?- mi rimetto in piedi un po' barcollante e provo a smorzare la tensione, afferrando lo zaino.

Pietro mi segue stando vicinissimo a me, so che lo fa nel caso in cui un'altra delle mie crisi mi colpisca ancora. C'è passato prima di me, quando gli infetti hanno aggredito sua madre e sua sorella, sa cosa provo.

-Frena un momento, quand'è che ci siamo sposati?- sbotta spiritosamente. Un debole sorriso mi rinvigorisce il volto segnato dalla stanchezza; -Beh se tu ti degnassi almeno di farmi una proposta come si deve potremmo anche dirci sposati ormai.-

-Scusa, ma non ho trovato negozi che vendono anelli di fidanzamento nelle vicinanze.- mi risponde lui a tono.

Rido: -Idiota.-

Un rumore improvviso nel fogliame ci fa scattare sul posto contemporaneamente. Restiamo un istante immobili, nemmeno i respiri emettono un solo sibilo. Non ci serve altro tempo per capire che la minaccia è imminente.

Quel lieve fruscio tra le piante diventa presto il forte rumore di una corsa, accompagnata da versi animaleschi e urla fameliche. Saranno almeno quattro o cinque infetti.

Pietro mi afferra un polso e inizia a correre. Lo zaino pesante mi rallenta un po', ma è così forte la paura che ignoro il dolore ai piedi, e quei maledetti scarponi adesso mi sembrano perfetti per una corsa simile.

Sfrecciamo tra gli alberi e i sentieri percorsi sicuramente già da qualcun altro. Il pensiero che possano essere stati attraversati da bande di infetti mi dà la tachicardia. Sicuramente in inverno da queste parti la neve ricoprirà ogni cosa, si spiegano gli chalet abbandonati disseminati nel paesaggio che si apre davanti a noi.

La nostra fuga disperata non sembra darci scampo da quei mostri impazziti, le cui grida si avvicinano ad ogni passo.

Ho una paura fottuta che questa volta non saremo capaci di nasconderci o di contrattaccarli. Negli anni ne abbiamo abbattuti parecchi, ma riusciamo ad ucciderne uno o due al massimo anche quando siamo insieme. Purtroppo non possediamo molte armi, un coltello da caccia, una pistola ormai scarica, ed un fucile con tre pallottole rimaste. L'ultimo periodo è stato molto duro per noi, le nostre munizioni sono servite per difenderci dai gruppi di criminali e altri infetti.

Pietro si vede costretto a sfoderare il fucile, io impreco perché abbiamo letteralmente tre tentativi per salvarci da cinque, ma che dico, adesso almeno otto runner.

Spara un colpo e ne becca uno. Questo rallenta il mostro, ma io mi volto a guardare e con orrore mi accorgo che i nostri inseguitori sono più vicini di quanto avessi realizzato.
Corro avanti a Pietro ma solamente per istinto, lui è rallentato dal tentativo di colpire il bersaglio.

Cerco di essere razionale e gli urlo: -Non sprecare gli ultimi colpi!-

Lui, frustrato, esordisce urlando: -Suggerisci di farci sbranare?!-

Spara un altro colpo e stavolta ne colpisce uno dritto alla testa, abbattendolo. La mira di Pietro è ottima, il fatto di star correndo lo mette parecchio in difficoltà.

Ci siamo addentrati nel bosco, e a furia di scappare ci ritroviamo difronte ad una valle pullulante di vegetazione. Ci guardiamo spaesati mentre i versi minacciosi degli infetti tornano ad avvicinarsi a noi. Siamo costretti a scappare verso quella direzione, tornare indietro significherebbe andare incontro a morte certa.

Il sentiero è stretto e l'unico appiglio per mantenere l'equilibrio è la parete rocciosa levigata, priva quasi del tutto di appigli saldi. Non riusciamo a correre, il terreno sotto i nostri piedi potrebbe franare ad un passo falso. Procediamo comunque a posso svelto, con il cuore in gola e i primi runner che sbucano dalla boscaglia.

Due di loro per la foga brutale dell'inseguimento corrono dritto e cadono giù per lo strapiombo, ruzzolando lontani. Gli altri purtroppo sono più agili, non di certo intelligenti, e continuano a inseguirci senza pietà.

Il panico prende il sopravvento in me. Mi volto indietro, poi guardo nuovamente avanti, non so cosa fare. Pietro impreca e prova a farsi spazio, il mio corpo rigido e incerto sul da farsi gli blocca il passaggio.

Cerca di impugnare il fucile in modo da non colpirmi alla testa con la canna, ma uno degli zombie si lancia su di noi. Si aggrappa al mio grosso -dannato- zaino ed è impossibile che io riesca a mantenere ancora l'equilibrio.

Sento un vuoto d'aria alla schiena, cerco disperatamente di respirare agitando braccia e gambe per divincolarmi dalla stretta dell'infetto.

La caduta è breve, di pochi metri ed io, magra e mal nutrita come sono, rotolo giù nella valle con la forza violentissima dell'uomo infetto attaccato ancora al mio zaino, che per fortuna mi protegge dai suoi morsi.

I lunghi capelli mi si annodano sul viso, le foglie mi sbattono sugli occhi mentre continuo a cadere giù, sempre più in basso. Rami e spine mi graffiano le braccia nude, e nonostante i pantaloni spessi le ginocchia si stanno sbucciando nella terra disseminata di sassi.

Combatto disperatamente, colpendo quel mostro dove posso col terrore che possa mordermi in qualsiasi punto del corpo.

Tutto gira intorno a me, non riesco nemmeno ad urlare, non fino a quando sbatto con violenza su un grande masso acuminato.

Per un istante persino l'infetto sembra arrestare la propria furia. Il grido di dolore che mi squarcia la gola è così forte che ha spaventato persino lui.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Il sangue sgorga immediatamente dalla ferita. Quando sono caduta sulla roccia è schizzato un po' dappertutto, persino sugli abiti a brandelli del runner che prova a divorarmi con ingordigia.

La ferita non sarebbe stata tanto grave se a cadere su quella pericolosa roccia fossi stata la sola con il mio misero peso di 50 kili. Invece a quello si sommano gli almeno 80 chilogrammi di un uomo adulto, perlopiù rinvigorito dalla forza sovrumana dell'infezione.

Penso immediatamente che il colpo sia letale. Sbatto e scivolo, in questo modo la pietra acuminata squarcia in lunghezza la mia carne, poco più sopra del ginocchio fino all'altezza del femore.

Una porzione di osso è esposta e probabilmente rotta, nonostante il sangue che sgorga a fiumi e schizza dai bordi rosei tagliuzzati, il biancore lucido dell'osso si distingue perfettamente.

Non mi importa più di provare a combattere l'infetto, sono ferma in terra tra foglie secche e cespugli folti mentre mi dissanguo ad una velocità spaventosa. Avverto caldo alla ferita, brucia ma allo stesso tempo pulsa. Più il runner mi scuote e tenta di aggredirmi più il mio dolore lancinante aumenta.

Tento ancora, per istinto probabilmente, di contrastarlo con le braccia. Provo a spingerlo lontano dal mio volto ma sono certa che sia una questione di attimi prima che conficchi i suoi denti neri sul mio collo. E poi? Riuscirei ad aggirarmi per i boschi con una ferita simile? Il cordyceps mi farebbe sopravvivere al dissanguamento e alla necrosi?

L'idea non mi dispiace, se significasse non provare più questo tremendo dolore.

Allora lascio che le mie braccia magre trovino riposo. Serro gli occhi e sposto la testa da un lato. Che mi morda ora, e che sia veloce almeno.

Ma un colpo di fucile pone fine ai versi sinistri dell'infetto. Questo ricade di lato al mio corpo, morto quasi all'istante con un proiettile da caccia che gli ha oltrepassato la testa.

Pietro si fionda su di me, abbandona il fucile perché ormai è privo di munizioni. La nostra unica speranza è sfumata.

Gli afferro le spalle con tutta la forza che ho e gemo, poi strillo. Il mio corpo non fa altro che contorcersi involontariamente, inarco la schiena e calcio l'aria con la gamba buona. Quella ferita non riesco nemmeno a sollevarla.

-Andrà tutto bene.- sbotta Pietro, ma lo shock rende il suo tono disperato.

Gli imploro aiuto, anche se riconosco che può far ben poco per darmi sollievo. Lui mi pulisce il viso dai capelli e dai rami, sono ricoperta di tagli e macchie scure di terriccio ovunque. I miei capelli dorati sono lerci e gonfi. Le sue mani sudate mi prendo saldamente il capo costringendomi a guardarlo nello sguardo terrorizzato.

-Adesso ti sollevo e ti porto in quel capanno, okay?- mi dice con tono fermo. Non avevo nemmeno fatto caso a quella catapecchia sicuramente abbandonata ancor prima che il virus annientasse ogni cosa. Scuoto la testa istericamente, declinando la sua proposta. Non se ne parla proprio, non riuscirei nemmeno a mettermi seduta con la gamba in questo stato. Conficco le unghie nella carne delle sue braccia, dovrà pur lasciarmi lì in terra. Ovviamente mi sono chiesta dove siano gli altri infetti che ci erano alle calcagna, probabilmente ci raggiungeranno presto e un riparo potrebbe salvarci dall'orda.

-Pietro non ce la faccio.- lo supplico in lacrime. Lui mi ignora e mi solleva la schiena da terra. Un altro urlo riempie la valle e si ripete nell'eco.

Do' a Pietro dei pugni sul petto con le poche forze che mi sono rimaste in corpo; -Non toccarmi cazzo!-

-Eden ti prego!- il suo tono sembra un singhiozzo, ma non presto attenzione alle sue lacrime.

La mia sofferenza si fa spazio tra sangue bollente e urla da rompere i timpani, ma Pietro continua imperterrito a issarmi tra le sue braccia per portami al sicuro, in quella casetta a pochi metri da noi.

Tutti i suoi abiti, che puliti non erano già da settimane, sono inzuppati di sangue. Pietro mi adagia in terra sul pavimento di legno scricchiolante, barrica la porta con un vecchio tavolo molto pesante scorrazzando come un forsennato per tutta la stanza alla ricerca di qualcosa con cui sigillare le finestre.

Io tremo come una foglia, non riesco più a riprendermi dal trauma che questo trasporto disperato ha causato sul mio fisico. Inizio ad avere molto sonno, è una tortura provare a non abbandonarmi allo sfinimento.

Pietro si inginocchia al mio fianco e prova a far qualcosa con la sua cintura. Non c'è nemmeno un punto in cui lui potrebbe stringere un laccio emostatico. La ferita è orripilante, non solo profonda ma soprattutto estesa in lunghezza. Dal lato esterno della mia coscia scende verso l'interno del ginocchio.

Pietro si è sempre premurato di impersonare il ruolo da infermiere. È stato lui a darmi tre punti alla mano quando mi sono tagliata scuoiando un coniglio. Ma questa volta è diverso, di punti ne servirebbero un migliaio.

Vedo che si porta una mano sporca di sangue sulle labbra, incurante di insudiciarsi col sapore metallico. Sta piangendo, e ora ricomincio anch'io.

Spero davvero che esista un aldilà, vorrei tanto che ci fosse la mia famiglia ad attendermi. Allo stesso tempo pensare di abbandonare Pietro su questa terra nella completa solitudine mi devasta. Se continuo a respirare è per concedergli ancora un po' di tempo con me.

-Non voglio morire.- sibilo tra i singhiozzi. Lui si fa mancare l'aria e boccheggia con lacrime violente. Si rannicchia su di me senza schiacciarmi e mi avvolge il capo con un braccio.

-Mi dispiace, non posso salvarti Eden.- sussurra disperato. Come vorrei che non si sentisse così impotente. La mia morte lo distruggerà, non ce la farà mai senza di me. Ed io sono talmente stanca...

Urla terrificanti sono tornate a cercare la nostra carne. D'altronde la scia del mio sangue è stata la traccia perfetta da seguire per gli infetti.

Pietro scatta in piedi e si guarda intorno, orientandosi con i suoni ormai vicinissimi provenienti dall'esterno. Mi guarda dall'alto verso il basso, io piango ancora respirando irregolarmente quando si avvicina di nuovo a me. Gli accarezzo il collo ed il viso ruvido dalla barba e dal sangue che si sta seccando sulla sua pelle. Ho bisogno di lui, non voglio morire da sola.

Si china sulle mie labbra e mi bacia profondamente. È un gesto svelto ma intenso, così gentile e disperato, ed in vano io ricerco l'umidità della sua lingua. Pietro non me la concede.

-Ti amo.- dice con un sorriso amaro. Poi scatta in piedi, spalanca la porta sul retro e fugge nel bosco.

Strillo il suo nome, gli dico di non abbandonarmi, so che sta facendo da esca per allontanare gli infetti da me. Ma che possibilità ho qui da sola, ferita e perlopiù moribonda? Come ha potuto abbandonarmi?

Sono fuori di me, mi sorreggo con i gomiti ma più di così non riesco a spostarmi. Il sangue ha creato una pozza larga intorno a me, così simile a quella che ha bagnato l'asfalto sotto mio padre...

Singhiozzo, immergo una mano nella ferita nel tentativo insensato di bloccare il sangue, percependo al tatto la caloria viscida dei lembi di carne squarciati.

La porta da cui siamo entrati viene forzata. Il tavolo che avrebbe dovuto barricarla non serve a nulla, striscia sul pavimento rumorosamente.

Ne sono certa, il sacrificio di Pietro è stato vano.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Vorrei essere pronta ad agire, tentando qualsiasi cosa per difendermi, ma sono troppo debole e impossibilitata a muovermi. Non sono capace nemmeno di fuggire, e Pietro è corso via chissà dove adesso, portando con se il coltello, l'unica arma utile.

Crollo in terra perché i gomiti hanno perduto ogni briciolo di forza, gli occhi chiari sono spalancati verso la porta spinta insistentemente per essere aperta. Ci siamo, mi ripeto tra i pensieri. Stringo forte la coscia causandomi maggiore dolore. A denti stretti prendo consapevolezza della mia fine, sperando che i runner mi aggrediscano in punti vitali, favorendomi una morte rapida.

Ed ecco che finalmente irrompono in questa casa che sarà la mia tomba. Emetto rantoli e sospiri, per la disperazione oramai. Con mia tremenda sorpresa non si tratta degli infetti. Varcano la soglia due uomini di mezza età, sani e senza traccia dell'infezione. Sono ben vestiti e sembra che abbiamo abbastanza acqua corrente da potersi permettere un bagno abitualmente. Ciascuno ha in spalla un fucile, e se il mio primo istinto è quello di chiedergli aiuto la mia esperienza mi mette sulla difensiva. Potrebbero uccidermi o peggio, torturami, per estorcermi chissà quale improbabile confessione, oppure solamente per il gusto di vedermi soffrire. In giro ce n'è di gente crudele e spietata, io e Pietro abbiamo sempre viaggiato in solitudine proprio per stare alla larga da gruppi estremisti come loro.

Provo ad indietreggiare strisciando in mezzo al sangue. L'uomo più adulto mi si avvicina con cautela, come se fossi una preda ferita in una trappola. I suoi lineamenti sono ostili, porta negli occhi evidenti segni di sofferenze e anni duri. I suoi capelli scuri brillano nei riflessi di qualche ciocca ingrigita dall'età, così come anche nella folta barba sfavilla una sfumatura d'argento. Solleva le mani come se quella armata fossi io, e lentamente si inginocchia poco distante da me.

-Joel, degli infetti sono passati da qui dovremmo andarcene.- dice l'altro uomo più giovane, inquieto e con l'arma tra le mani.

-Ti hanno morsa?- sta ignorando il suo compagno, ed evidentemente anche la mia orrenda ferita che spuzza ancora sangue. Un po' lo capisco, vuole assicurarsi che io sia pulita, altrimenti spero che abbia pietà di me e mi faccia fuori alla svelta.

Io scuoto la testa e cerco di mostrargli le braccia nude ed il collo; -No.-

Mi guarda come se stesse studiando ogni millimetro della mia pelle pallida, accorciando la distanza tra me e lui rimanendo sulle ginocchia.

-Come ti chiami?- mi domanda sfilandosi la giacca di jeans. Io esito, il labbro mi trema. Evidentemente ha assunto un colore violaceo.

-Eden.- rispondo provando a non balbettare. Un piccolo sorriso lo addolcisce; -E' un nome splendido.-

-Joel!- sbotta nervosamente l'altro.

-Ho capito Tommy! Aiutami a sollevarla.-

Mi agito immediatamente. Il breve trasporto di Pietro mi ha graffiato la gola per le urla di dolore, non credo che sopporterei un secondo viaggio della speranza in queste condizioni, soprattutto se sarà lungo e tortuoso.

-No! Non toccatemi!- strillo terrorizzata che un minimo sussulto possa aumentare l'intensità del mio dolore.

-Lo so, la ferita è brutta e dovrà farti un male tremendo...- dice Joel. Io lo interrompo guardandolo in cagnesco; -Tu non sai proprio un cazzo.-

Questo vecchio uomo starà pensando a quale ingrata ragazzina abbia trovato da salvare. Ma dalle sue espressioni decifro qualcosa di soddisfatto che somiglia a "che bel caratterino".

-Se vuoi salvare la gamba devi resistere fino a Jackson.- continua.

A questo punto non ci capisco più niente; -Salvare la gamba? Come potreste anche solo salvarmi la vita! Insomma, ormai sono spacciata.-

Joel sbuffa, adesso sì che è contrariato, e ciò non fa che influire negativamente sull'agitazione di Tommy.

-Eden- pronuncia in mio nome con una cadenza quasi latina, questo spiegherebbe i suoi lineamenti pronunciati; -fidati di me, altrimenti ti avrei già piantato una pallottola in testa per risparmiarti tutta questa sofferenza.-

Mi stupisce, sembra che noi due la pensiamo allo stesso modo.

-Abbiamo finito di perderci in chiacchiere? La ragazza si sta dissanguando, e la zona pullula di infetti.- Tommy taglia corto e cerca di aiutare Joel a mettermi seduta.

-Il mio ragazzo, Pietro, era qui con me quando gli infetti ci hanno raggiunto. E' corso da quella parte per tenerli alla larga da me, vi prego aiutatelo.- tento di tutto, non mi importa più che mi vedano bisognosa e supplicante. Magari la loro è solo una messa in scena per portami in questa Jackson, che non è su nessuna mappa, e farmi a pezzi per divorarmi. Spero almeno che la mia carne sia tenera.

-Manderò una pattuglia a cercarlo.- mi rassicura Joel, ma entrambi sappiamo che inseguito da una decina di runner ci sono pochissime possibilità, se non addirittura nessuna, che il mio Pietro sia ancora vivo. Preferisco illudermi, se lascio che il pensiero che Pietro sia morto mi pervada allora sì che non ce la farò a sopportare tutto questo.

Joel e Tommy mi prendono saldamente, contando fino a tre prima di sollevarmi. Urlo ancora, provando a stringere i denti e trattenere i lamenti, ma dubito che chiunque nelle mie condizioni sarebbe in grado di controllare il dolore.

La giacca pesante di Joel mi copre le spalle, si è accorto che sto tremando come una foglia. Fuori dalla casetta ci sono due cavalli, con sella e briglie. Devono avere molte risorse da dove provengono. 

Mi avvicinano ad uno degli animali e Joel, che mi tiene da sotto le braccia, avvicina il viso al mio capo e mi domanda; -Pronta?-

-No- gli rispondo disperata.

E' evidentemente dispiaciuto per me, ma non può fare altro che sopportare i miei lamenti mentre mi sistema sul suo cavallo. Vi monta anche lui, dietro di me. Potrei svenire da un momento all'altro, e per evitarlo mi abbandono contro il corpo caldo e robusto di Joel.

Non mi rendo conto di quanto tempo trascorriamo in viaggio, per me è comunque troppo. Il mio sangue sporca il fianco del cavallo, lascia anche su questa strada una scia nel sentiero che per Tommy pare un evidente problema.

Credo di avere le allucinazioni, levo lo sguardo e mi trovo davanti alte mura e recinsioni, che custodiscono una vera e propria città, popolata da persone che non siano banditi.

Me la caverò, spero, ma non riesco a gioire pensando a Pietro che non è qui con me.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Non credo che a questo punto Joel e Tommy vogliano usarmi come carne da macello. I cancelli si spalancano, sorvegliati da alcune persone di vedetta. Gli sguardi di tutti sono rivolti a me, inorriditi e sgomentati. Come se fosse un corso d'acqua sorgente il sangue cola dai miei piedi, mentre la ferita aperta mostra uno spettacolo disgustosamente impressionante.

I cavalli avanzano fino alla strada pulita e circondata da case e negozi, i marciapiedi gremiti di gente; c'è chi si allontana per risparmiarsi l'immagine traumatica di me in sella ricoperta di sangue, altri invece si accalcano curiosi. Probabilmente non è cosa di ogni giorno accogliere forestieri feriti nella loro splendida cittadina.

Metà del sangue che mi circola in corpo l'ho lasciato sulle rocce e nel pavimento del vecchio capanno. Le mie braccia mollano la criniera bionda del cavallo, a cui mi sono aggrappata con sofferenza per mantenere l'equilibrio. Le mani mi ricadono sui fianchi, quella sinistra tocca i lembi sanguinolenti della coscia, ma non sobbalzo nonostante la fitta di dolore, sono priva di ogni forza.

La testa mi ricade indietro, ed inizio a vedere tutto nero. Questa volta sverrò.

Joel mi afferra il ventre da dietro, con un gesto improvviso e allarmato. Sarei finita in terra, disarcionata da cavallo se non fosse stato per lui.

-Tieni duro.- mi dice mentre la mia testa ricade sulla sua spalla. Il calore del suo fiato riscalda la mia tempia. I miei occhi adesso ciechi sono il preludio della mia perdita di sensi imminente. Devo essere quasi svenuta, ma lotto con tutta me stessa per non abbandonarmi alla sensazione dell'oblio. Ho così paura di non risvegliarmi mai più.

Ho perso il controllo dei miei muscoli, sarò già con gli occhi chiusi e sicuramente Joel penserà che non sono più lì con loro. Ma io continuo a sentire ciò che accade intorno a me, persino le mani di Tommy che mi afferrano e mi fanno scendere da cavallo.

-Joel!- la voce di una giovane donna si avvicina al mio udito.

-Ellie allontanati da qui, ci penso io.- gli risponde Joel con apprensione.

-Chi diavolo è?- sbotta la ragazza con agitazione.

Qualcuno mi ha presa fra le braccia, sento la vita scivolarmi via dalle dita. Joel le avrà sicuramente risposto, ma io oramai sono scomparsa nell'oscurità.
 

La voce di mia madre mi chiama con dolcezza.

-Eden, mio dolce tesoro.- sorrido, mi starà svegliando per andare a scuola. Ha sempre una tenerezza insensata nel tono, quasi riesco a distinguere il suo profumo di viola e vaniglia.

-Eden- questo volta è la voce di Pietro a chiamare il mio nome, io però sono così stanca. Vorrei rispondergli di concedermi altri cinque minuti, che resti ancora lui di guardia.

-Eden, amore, dove sei?- mi domanda Pietro. Già, ha proprio ragione. Dove sono finita? O meglio, lui dov'è? Inizio ad agitarmi, il cuore mi batte forte nel petto, risale per la gola secca e la raggiunge...

Mi divincolo leggermente, mi avvicino sempre di più al risveglio. E poi una terza voce, a me non familiare ma profonda e fidata;

-Eden-

Joel?

-Si sta risvegliando.- afferma Ellie, credo, la ragazza che si è rivolta a Joel poco prima che perdessi conoscenza.

A fatica riapro gli occhi, una luce bianca è puntata su di me e mi provoca un pungente fastidio. Muovo lentamente il capo come se cercassi ancora mia madre tra le sagome di queste persone che circondano il mio capezzale.

Qualcuno lavora sulla mia gamba ferita, è intento a far qualcosa nella parte alta della coscia. Mi lamento emettendo un rauco urlo, e d'istinto provo ad allontanarmi dalle sue mani.

Joel mi stinge piano un braccio, a cui sono attaccati due sottili tubi trasparenti, contenenti un liquido giallo ed uno trasparente. Stanno iniettando qualcosa nelle mie vene, probabilmente per evitare un'infezione.

-Sta calma, la morfina farà presto effetto. Lascia che ti mettano gli ultimi punti.- mi rassicura Joel con voce ferma.

Sento la bocca asciutta, schiocco la lingua sul palato non riuscendo a produrre abbastanza saliva per parlare chiaramente.

-Avete trovato Pietro?- farfuglio fissando intensamente Joel. È l'unico riferimento che ho adesso.

Lui sembra quasi esitare. Lo sapevo, non hanno mandato nessuno per le ricerche di Pietro. Eppure glielo avevo detto, non possono darlo già per spacciato senza nemmeno aver tentato di seguire le sue orme.

Ellie, la giovane ragazza dai capelli castani, incalza e non lascia il tempo a Joel di trovare le parole adatte per rispondermi. Probabilmente è sua figlia, dal modo in cui lui la osserva con amore. Un pizzico di invidia mi inacidisce il volto; mi ricorda quando mio padre mi rivolgeva le stesse attenzioni.

-Chi è Pietro?- domanda Ellie.

Abbasso lo sguardo per un momento e vedo un uomo con gli abiti sporchi di sangue (il mio) applicare dei punti con dei guanti che prima dell'operazione erano bianchi.

Mi volto immediatamente per non vedere ancora la gravità della ferita, ora chiusa ma comunque gonfia e stretta da un numero davvero spropositato di punti di sutura.

-È il mio compagno. Ha attirato gli infetti lontano da me, nel luogo in cui mi avete trovata. Si sarà inoltrato nel bosco, ma gli infetti erano almeno sei, ha bisogno di aiuto.- ad ogni parola arranco, è così difficile mettere insieme voce e pensieri.

Ellie mi ascolta attentamente con le braccia incorniciate al petto. Annuisce e fa qualche passo indietro per prendere il suo zaino abbandonato le terra.

-Andrò io assieme a Jesse, anticiperemo la nostra perlustrazione di domani.

Joel scatta in piedi, contrariato: -Non se ne parla, non dopo questo.- indica la mia gambe. Vorrei ringraziarlo sarcasticamente, ma non ho abbastanza energie per farlo.

Ellie fa spallucce, pare che voglia dire qualcosa di ovvio a Joel, ma si trattiene.

-Joel, avanti. Tommy mi ha addestrata bene, so cavarmela da sola.- replica tentando un approccio complice. Joel china il capo e le risponde: -D'accordo, ma verrò io con te.-

Ellie sorride, chissà quali pensieri le sfiorano la mente. A questo punto sono quasi commossa. Sono impotente davanti a tutto questo, se potessi anche solamente camminare sarei andata a cercare Pietro io stessa. Ma, senza nemmeno domandarlo, non credo che riuscirò più ad usare le gambe come un tempo.

Afferrò forte una mano di Joel e lo guardo negli occhi scuri prima che vada. È un perfetto sconosciuto, ma sia lui che tutte le persone che mi circondano stanno facendo di tutto per me.

I miei occhi azzurri lo ipnotizzano, le sue labbra sono sul punto di trasformare un sospiro in qualcosa che somigli ad una frase di conforto.

-Grazie.- riesco a dire con un indissolubile nodo alla gola. Guardo anche Ellie allora, una giovane ragazza poco più piccola di me. È così sicura di se, confido che riesca a trovare Pietro.

I due mi salutano con un cenno del capo, ed io rimango sola con il medico che ha finalmente smesso di pungere e ricucire la mia pelle.

Non mi sentivo così sola da anni, non da quando ho conosco Pietro. Il pensiero che possa essere morto, o peggio, contagiato mi affoga in un pianto disperato.

Come potrei mai dirgli addio? Lui, che è la fonte inesauribile di vita per me. Vorrei che il destino si prendesse anche l'altra mia gamba pur di farlo tornare da me, sano e salvo.

Se Pietro fosse qui verserebbe qualche lacrima per il dispiacere delle mie condizioni, ma mi direbbe che in questo posto probabilmente cucinano da Dio.

Ed io sorriderei, appresso alle sue buffe espressioni genuine. Ma sto piangendo, con una mano a tapparmi la bocca dai violenti singhiozzi.

Se gli fosse accaduto qualcosa non me lo perdonerei mai.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Fremo sul posto ma non per il dolore. La morfina mi concede qualche ora di tregua, sembra che la mia gamba gonfia ora non faccia parte del mio corpo, e spero che questa sensazione duri quanto più a lungo possibile. Lo stomaco mi si contorce, vuoi per la fame ma soprattutto per l'ansia dell'attesa. Chi si prende cura di me in questa stanza pulita simile ad un'infermeria mi ha dato l'ordire di bere solamente qualche sorso d'acqua. Mangiare è ancora troppo rischioso, il mio appetito è vorace ma lo stomaco avrà le dimensioni di una prugna per quanto è stato a digiuno. Non sanno nemmeno dirmi quanto tempo rimarrò a letto, ed ingozzarmi non favorirà il periodo di degenza da immobilizzata. Mi faccio bastare quei piccoli sorsi d'acqua fresca, fuori da questa città non avevo neppure questo lusso.

Sprofondo nel sonno più e più volte. L'uomo che mi ha medicata mi spiega che avrei bisogno di una trasfusione di sangue, ne ho perso parecchio e questo mi causerà molta sonnolenza nei giorni a venire. Sono impaziente, è un supplizio aspettare il ritorno di Joel ed Ellie ma per fortuna crollo più volte durante il pomeriggio, e scandisco il trascorrere del tempo recuperando la stanchezza con un sonno privo di sogni.

Mi risveglio di soppiatto per l'ennesima volta. I miei pisolini durano pochi minuti ma sono continui e ripetitivi, dunque finalmente spalanco gli occhi decisa a resistere. Dalla finestra vedo che il sole sta calando, il tramonto sparisce tra i monti e sembra non portare nessun buon presagio.

Poi finalmente sento il suono di alcuni passi provenire dal corridoio. La porta della mia camera si apre quasi di getto, come se continuare a mettere tempo tra me e Pietro fosse superfluo. Sento Ellie che a voce bassa ammonisce Joel, avrebbe dovuto almeno bussare. Io mi tiro a sedere con difficoltà, la schiena sui cuscini e le braccia che tremano per lo sforzo. Dalla mia gamba esce un lungo drenaggio, un tubo collegato direttamente al mio osso, mi hanno spiegato.

-Allora?- chiedo di getto. Non ho fatto altro che aspettare questo momento per ore. Joel rimane in silenzio. Il linguaggio del suo corpo, rigido e lento, parla da se'.

Ed io so già ogni cosa. La trachea mi si stringe, dischiudo le labbra per provare a respirare.

Io so che Pietro è andato via per sempre, come mio padre, come mio fratello e mia madre.

Il formicolio delle lacrime prosegue negli occhi e dentro al naso, il mio sguardo è in fiamme per via di tutto questo dolore. Joel continua a non dire una parola, Ellie resta dietro di lui.

Da una narice sento colare il muco, mentre i miei zigomi sono umidi di lacrime.

-E' morto, non è così?- chiedo con coraggio aggrottando la fronte.

Ellie vorrebbe scappare da questa stanza, lo si capisce dalla posizione dei suoi piedi, pronti a correre al primo segnale.

-Dimmelo cazzo! L'avete trovato?!- urlo, sputacchiando saliva e lacrime.

-No.- risponde Joel.

Un brivido mi percorre la schiena. Sono pietrificata, le cose potrebbero essere peggio di come le immagino.

-Che significa allora?- insisto giungendo le mani in una preghiera agnostica.

-Che non abbiamo trovato nessun corpo, solamente uno zaino nero con all'interno una borraccia smezzata, un coltello da caccia, una pistola scarica, una mappa e altri oggetti simili...- dice Joel. Sta parlando dello zaino di Pietro, non ho alcun dubbio al riguardo.

-E c'era anche del sangue.- aggiunge Ellie. Ha compreso il mio disperato bisogno di dettagli, è inutile nascondermi la verità.

Mi stringo un pugno al petto, è come se fossi stata pugnalata.

-Potrebbe persino essere stato morso, abbiamo setacciato per ore la zona ma non abbiamo trovato alcuna traccia. Mi dispiace Eden.- le parole di Joel sono futili, questo io l'avevo già pensato ancor prima che lo dicesse.

Le mie budella si annodano e si contraggono. Mi piego su me stessa per i crampi causati dal dispiacere. Mio povero amore, che fine ignobile e crudele ti è toccata. Chi l'avrebbe mai detto che dei due, io che ero quella incapace persino di fuggire ha trovato salvezza, e tu, coraggioso e nobile, hai perso la tua vita per me?

Non mi sembra vero, per me è impossibile realizzare che Pietro abbia sofferto morendo, i miei pensieri si fanno cupi e violenti, ideo migliaia di scenari e ipotesi sul destino che potrebbe essergli toccato.

Lui che per me significava ogni cosa, che mi ha nutrita quando stavo per morire di fame e mi ha scaldata nelle notti più gelide. Pietro, con il suo animo immensamente puro, rimasto immacolato persino quando la sua famiglia si è trasformata davanti a lui, mostrandogli gli orrori di questo terribile virus. Mi ha raccolto da per terra e poco a poco si è guadagnato la mia fiducia, io come una randagia, terrorizzata da ogni mano che osasse levarsi su di me.

Nei quattro anni in cui sono rimasta da sola, dopo che mia madre si lasciò saltare in aria durante i bombardanenti in città per contenere gli infetti, ho vagato in lungo e in lago commettendo crimini e atti incresciosi. Uomini di ogni genere hanno provato ad approfittarsi di me, ad impossessarsi del mio corpo, quello di una ragazzina sedicenne scheletrica per la fame e lurida, in fuga continua. Pietro mi ha ridato la luce, lui stesso brillava intensamente, regolando il flusso di eclissi delle mie stagioni. In me è ritornata la primavera grazie alle sue parole confortanti e ai silenzi che lasciano spazio. Mi ha insegnato a non disprezzare il mio corpo, e a provare le sensazioni migliori che potessi concedermi.
Non ho amato nessuno che somigli a Pietro. Persino dopo cinque anni passati con lui provavo ancora ad imparare i segmenti e le proiezioni del suo corpo nudo nei tramonti estivi dei boschi, disegnandoli con le mie dita direttamente sulla sua pelle.

Ora non riuscirò mai più a replicarli.

Piango, mi consumo tutta. Quei miseri sorsi d'acqua che ho mandato giù sono spariti nella tempesta delle mie lacrime.

Ellie esce, probabilmente questo spettacolo è patetico ed insopportabile. Anche Joel prova sofferenza a rimanermi accanto, credo abbia paura di sbagliare. Pensa che sia meglio restare e darmi conforto o lasciarmi da sola? Cosa voglio?

In verità non lo so.

Mi accartoccio su me stessa come se dovessi spezzarmi, singhiozzo a voce alta e mi rendo conto che i miei lamenti sono fin troppo simili alle urla di dolore per la gamba ferita.

Joel si muove sul posto, mi guarda, credo, e con passi silenziosi raggiunge il letto su cui sono distesa.

Non mi tocca, anche se vorrei che qualcuno mi offrisse una mano sulla spalla per onorare il mio profondo lutto.

La sua voce è rauca ma non si schiarisce la gola prima di parlare.

-So cosa significa perdere la persona che ami di più al mondo. Mi dispiace.-

È pronto persino ad una mia orrenda risposta. Dopotutto non ci conosciamo nemmeno, non siamo costretti a parlare di cose talmente intime.

Ma io lo guardo, il mio viso morbido e roseo è sfregiato dal pianto violento. Pietro mi ripeteva in continuazione quanto io fossi bella. Certe volte mi infastidiva, non ho mai pensato neanche di essere carina. Se mi vedesse in queste condizioni continuerebbe a dire che sono splendida. Ma questa volta non lo odierei.

Cerco in Joel qualcosa che credo mi spetti, con egoismo penso ad una figura che rimpiazzi mio padre, oppure Pietro stesso. Ho bisogno di qualcuno che mi ami talmente tanto da prendere una parte del dolore nel mio cuore.

Ed i miei occhi vitrei di lacrime parlano, anzi che dico, urlano.

-Non ti lascerò sola.- dice Joel -Sarò sempre dietro quella porta se avrai bisogno di qualcosa.-

Annuisco tirando su col naso mentre mi mordo il labbro superiore.

Garantendomi la sua presenza si congeda, ed io malgrado tutto rimango da sola ad aggiungere dentro di me una nuova tomba anche per Pietro.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Ci siamo incontrati che era appena autunno. L'umidità ricopriva l'asfalto vecchio delle città in rovina e i sopravvissuti vagavano in lungo e in largo alla ricerca di provviste per l'inverno. Io avevo diciassette anni, e ne avevo trascorsi già quattro in completa solitudine. Se ripercorro il mio tortuoso passato non riesco ancora a spiegarmi come io sia sopravvissuta. Era più facile che io morissi di fame che per colpa dell'infezione. Eppure, rubando, contrattando e unendomi a vari gruppi di viaggiatori decisi di tenermi cara la mia vita per cercare di onorare almeno quella dei miei cari.

Avevo diciassette anni, come già detto, e nessuno al mondo su cui fare affidamento. Da poco ero fuggita da una cerchia molto ristretta di famiglie, da cui avevo trovato cibo e protezione. Mi avevano presa a cuore data la mia storia, la maggior parte di loro mi metteva di fianco ad uno dei loro figli affermando: -Guardatela, povera bambina, potrebbe essere la nostra.- Pensavo che sarei rimasta per sempre con loro, le donne erano gentili e materne, gli uomini proteggevano il gruppo a costo della vita.

Poi una notte di fine estate, accampati ai margini di un fiume che aveva reso abbondante la nostra pesca, mi trovai ad assistere ad un loro abituale rituale. Quando una delle loro figlie raggiungeva la maggiore età doveva concedersi ad ognuno dei membri maschili del branco.

La prossima sarei stata io, nel giro di qualche mese. Persino alle madri, così le chiamavamo noi ragazzi, sembrava andar bene questa pratica immorale e, definirei, disumana.

Approfittai del buio pesto, la notte successiva, mentre il padre di guardia adempiva ai suoi doveri da capofamiglia con la povera giovane vittima. Li derubai di quante più provviste possibile e sgattaiolai silenziosamente via.

In quel bosco spaventoso, dove gli alberi altissimi coprivano persino la luce bianca della luna, ebbi più paura di essere inseguita da quegli uomini che dagli infetti.

Quindi ripresi il mio insidioso viaggio senza meta nell'insopportabile solitudine di sempre. Fui molto attenta a nascondere la mia identità, per paura che qualcuno del gruppo mi stesse ancora cercando. Ero un fantasma, vivevo razionando il cibo in scatola che appesantiva il mio zaino e dormivo in edifici abbandonati ai piani alti pregando che alcun infetto o assassino mi scovasse.

Fu uno di quei periodo in cui pensai ossessivamente alla morte della mia famiglia, ero tornata a rivivere un altro momento di carestia e crisi, esposta a qualsiasi pericolo potenzialmente letale e deperita dall'ansia per il mio destino incerto.

Mi aggiravo per le strade solo quando vedevo alcune persone sventurate quasi quanto me alla ricerca di una speranza. L'unica mia arma era una spranga di metallo recuperata in un negozio razziato, e non sapevo nemmeno usarla data la mia debolezza per la scarsità di cibo.

Provavo ad andare a caccia ma non avevo risorse nemmeno per piazzare delle trappole o per pescare, ed il pensiero di aggirarmi tra i boschi da sola mi terrorizzava ancora troppo.

Poi arrivò Pietro. Un diciannovenne mingherlino ma elettrizzato da mille progetti. Era talmente iperattivo all'epoca, come se la sua paura si fosse trasformata in qualcosa di utile, in fin dei conti; cacciava con un arco artigianale, ma allo stesso tempo seminava per la sua strada qualche esca per i conigli. Raccoglieva frutta commestibile spezzando i rami sottili degli alberi per farci legna da ardere. Insomma, non stava un attimo fermo e col tempo questa cosa aveva iniziando anche a snervarmi.

La prima volta che ci incontrammo io tentai di ucciderlo.

Ero nascosta in un vecchio ufficio all'ottavo piano di un palazzo in centro. Era molto rischioso come nascondiglio, ma la zona non era stata invasa dagli infetti in quell'ultimo periodo, e le persone per paura di trovarci i mostri si tenevano ben alla larga da luoghi così lontani dalle periferie.

Trascorrevo giornate relativamente tranquille nutrendomi di arance fresche che crescevano in un albero ad un isolato di distanza da me, e raccoglievo l'acqua piovana con scodelle e bottiglie.

Me la cavavo bene tutto sommato, e lo credevo finché il rumore dei passi di Pietro fece salire alle stelle il mio istinto di sopravvivenza.

Nascosta dietro alla porta chiusa agguantavo con fermezza la mia arma di ferro, sottile ma lunga. La impugnavo con entrambe le mani per garantire maggiore potenza.

L'idiota, sicuro di se per non aver visto anima viva fino a quel momento, aprì la porta come se nulla fosse ricevendo un forte colpo allo stomaco da una ragazzina terrorizzata.

Imprecò parole incomprensibili. Ridevamo sempre ripensando a quella storia, fino alle lacrime.

Si accasciò in terra tenendosi la pancia con una mano implorandomi pietà. Pensai che fosse una femminuccia, ma nonostante le sue suppliche non abbassai la guardia. Tutti quegli anni mi avevano insegnato a non fidarmi e a non avere pietà per nessuno.

Lui sollevò il capo e quella fu la primissima volta che ci guardammo. Pietro diceva sempre che per lui fu amore a prima vista, io, che sono meno smielata, gli ripetevo che pensavo fosse un ragazzo svitato.

 E lo pensai per molto altro tempo ancora finché, dopo pochi mesi dalla nostra saggia alleanza, Pietro mi baciò suggellando il nostro indissolubile legame con un bacio domandato a bassa voce sotto la pioggia.

Ci sono giorni, un po' come questo, in cui il mio dolore è così elaborato... in cui il sapore salato delle mie lacrime non sa di me ma di tutti i morti che mi trascino, sfinita, sulle spalle. Pietro è diventato uno di quei lutti inaspettatamente, spezzando ogni singola vertebra della mia schiena.

Guardo la notte attraverso la finestra, frustrata perché non riesco a muovermi da questo maledetto letto. Scorgo alcune stelle lucenti, vorrei trovare la pace ma nemmeno i miei affezionatissimi astri riescono a calmare la mia crisi di pianto. Sono sola al mondo.

Non sarò di certo la prima, e nemmeno l'ultima, ma in questo momento non esiste anima viva e pensante che si preoccupi per me, che conosca le mie paure e sappia interpretare i miei sorrisi.

Pietro, bisbiglio, mio tesoro ti prego non sparire.

Temo che col tempo i miei pensieri trascureranno il suo ricordo trasformandolo in quell'ammasso putrescente di dolore che è diventata la mia famiglia, dato che l'accettazione per la loro orripilante morte non è mai giunta a me. Sono tormentata dai loro spiriti.

Trascorro la notte insonne, sudando per la febbre e soffocando per il pianto. Se Joel ed Ellie non sono riusciti a trovare nemmeno i resti di Pietro significa che gli infetti l'hanno spolpato fino alle ossa, e poi...

-Eden? Respira.- Joel accorre al mio letto. Credo sia l'alba, mi domando cosa ci faccia qui a quest'ora. Assieme a lui c'è anche Tommy, che accorre svelto a chiamare il medico.

Non riesco a respirare, sono sdraiata e mi graffio la gola ansimando e gracchiando. La trachea mi si è chiusa, non presentavo una crisi talmente violenta da anni.

Joel allontana le mie mani dalla gola, con le unghie la sto graffiando quasi a sangue. Mi tiene la testa ferma e prova disperatamente a creare un debole contatto visivo.

-Da brava bambina, respira.- mi ripete. Quest'uomo è talmente gentile, persino Pietro fuggiva le prime volte che manifestavo certi sintomi, svegliandomi si soprassalto soffocando.

Spalanco gli occhi, il mio viso è teso e arrossato. Stringo Joel per i gomiti e lo imploro di aiutarmi con lo sguardo.

-Coraggio, respira insieme a me.- mi dice, mostrandomi come inspirare ed espirare lentamente. Mi concentro sui bordi della sua bocca, guardo la folta barba e colta da un deliro febbrile tendo la mano verso il suo viso toccando i suoi baffi con le dita.

Chi mi ricorda? L'amorevole preoccupazione di Pietro o la matura rassicurazione di mio padre?

Mentre penso questo Joel poggia una mano sul mio petto, e sorride assicurandosi che io abbia ripreso a respirare normalmente.

-Così, bene.- mormora con sollievo.

Tommy è ritornato in stanza con l'uomo che si occupa della mia salute; quest'ultimo controlla i miei parametri vitali, misura la temperatura e la pressione, diagnosticando quello che da tempo io sapevo già;

-Ha avuto una crisi da stress post traumatico.-

-Tipico, ci siamo passati tutti.- aggiunge Tommy. I tratti sono molto somiglianti a quelli di Joel, ma Tommy è più giovane, il suo volto è ancora abbastanza pulito e vanta una folta chioma di capelli neri.

-Non andava lasciata da sola.- dice Joel, e persino io temo il suo tono.

-Potremmo fare a turni per assisterla, soprattutto la notte.- propone Tommy. Io ascolto ogni parola dato che non sembrano avere problemi nel discutere davanti a me.

-Joel sai che oggi dovrò sospenderle la morfina.- annuncia il medico. Un senso di panico mi assale pungendomi ogni parte del copro.

Joel si oppone in maniera evidente con dei gesti. Tommy insiste; -Hai visto le condizioni della sua gamba? Adesso persino questo -si riferisce alla mia violenta crisi- diamole qualche giorno di tregua.-

Il dottore sospira, capisco che non è entusiasta della sua scelta; -Lo so esattamente, ma vi prego di capirmi. Le nostre scorte di farmaci sono molto limitate, le servirebbero dei cicli interi di morfina ma purtroppo non posso darla tutta a lei. Come farò con gli altri pazienti?-

Nessuno obbietta. Persino io non posso dargli torto.

-E' assurdo.- Joel scuote il capo allontanandosi dai due uomini. Si avvicina, mi sposto i capelli sporchi sulla schiena e deglutisco. Devo pur accettare la cosa, queste persone mi hanno salvato la vita non posso essere così pretenziosa da voler tutta la loro stramaledetta morfina.

-Hai sentito, non è vero? Sei una ragazza sveglia.- 

-Già, stringerò i denti.- rispondo a Joel, anche lui sa che non sarà una passeggiata. Se fossi stata Ellie sono certa che avrebbe picchiato il medico per servirsi della morfina fino all'ultima goccia. Ma non sono sua figlia, qui non valgo più di una randagia salvata dalla strada.

-Vuoi qualcosa? Un po' d'acqua, da mangiare...- elenca alcune cose mentre una donna sfila dal mio braccio la cannula che infondeva la morfina nel mio organismo. Non voglio crollare, non di nuovo.

Lo fermo, agitata, e sbotto: -Compagnia. Vorrei un po' di compagnia. Mi va bene chiunque voglia stare con me, ma non lasciatemi da sola, almeno finché non controllo il dolore.- 

Un debole sorriso gonfia il viso di Joel. -Ma certo- dice- resto io qui con te.-

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


All'interno delle mie ossa avvampa un dolore caldo e pulsante. E' tremendamente complicato riuscire a trovare le parole adatte per descrivere la sensazione di agonia che mi percuote ogni fibra nervosa che mi è in corpo. Non è la carne ricucita e gonfia a farmi contorcere e irrigidire, come se fossi vittima di un violento susseguirsi di doglie e contrazioni. No, è l'osso del femore a farmi sudare per lo sforzo di trattenere il dolore. Provo a gestire la mia immane sofferenza da ore; l'effetto della morfina è svanito del tutto, e nessuno sa darmi -o vuole darmi- un prognostico di quanto ancora durerà questa fase critica.

Per mia fortuna l'osso non ha riportato una frattura scomposta, per tanto mentre ero incosciente e sotto le mani abili del medico mi sono state applicate due piccole placche in lega di titanio. Un vero pezzo raro, offertomi con privilegio dalle mie condizioni critiche all'arrivo qui a Jackson.

Queste piccole lamine serviranno a far rimarginare il danno al mio femore, eppure sento di soffrire peggio di quando mi sono violentemente squarciata la gamba sulla roccia.

Stremata arranco alla ricerca di un attimo di riposo, vorrei tanto dormire ma la smania del dolore mi fa fremere nel letto, adesso sfatto e fradicio di sudore.

Un forte senso di nausea mi ha già fatto rimettere quella scarsa porzione di cibo che mi è stata concessa, oramai non sono più in grado nemmeno di bere. L'unica cosa che riesco a fare è mugugnare e gemere, con la gamba ferita rigida come fosse di legno. Stringo le lenzuola nei pugni, mi conficco le unghie nella gamba sana e creo profondi graffi sulla pelle candida.
 

Quanti giorni sono passati?

Spero molti, a questo punto. Sono talmente confusa, la febbre sale e scende e mi rende fortemente confusa. Non riesco a scandire le giornate, ma se fossero trascorsi solamente due giorni da questo calvario darei davvero di matto.

Vengo controllata spesso da diverse persone, tutte facce nuove e fuggenti, distinguo quella del medico, ma la maggior parte sono uomini o donne che passano per darmi una ripulita, assicurarsi che mi nutra con qualcosa o che io sia ancora viva.

Odio la loro presenza, e non dovrei essere tanto ingrata con le persone che mi stanno accudendo. Ma il dolore mi rende irrequieta e aggressiva, e cosa peggiore non ha messo da parte il mio lutto per Pietro.

Pare che il tormento alla gamba, invece che distrarmi dall'agonia della morte di Pietro, aggravi il mio stato d'animo, che oramai non riesco nemmeno a definire.

Sono un relitto quasi putrescente di lacrime e lamenti, se nessuno si fosse preoccupato di avermi levato i drenaggi alla cicatrice, medicandomi quotidianamente, puzzerei davvero di carne morta.

Sto soffrendo un caldo tremendo, mi straccio il colletto della maglia bagnata che indosso ma non riesco a strapparlo. Lo farei se lasciassi che i miei istinti prendessero il sopravvento, ma non voglio aggiungere anche l'umiliazione di farmi trovare nuda dalla prossima persona che entrerà da quella porta.

E ringrazio il cielo di non essermi denudata come una selvaggia quando nella mia stanza entra Joel.

L'odore dei suoi abiti puliti mi travolge, e mi rendo conto di quanto io sia disgustosa rispetto a lui. Volto il capo e poggio una parte del viso sul cuscino stropicciato. Ansimo velocemente, i capelli biondi mi si sono incollati alla fronte per il sudore.

Stringo più forte le coperte sotto di me per provare a trattenere una fitta di dolore. Joel se ne accorge, ma continua ad avvicinarsi a me con sguardo serio.

Mi accorgo solo dopo che nelle mani tiene un vassoio con sopra un piatto di carne morbida e un bicchiere di vetro pieno d'acqua fresca. Il profumo del coniglio speziato mi fa girare la testa, forse riuscirà a saziare la mia fame nauseata.

Poggia il cibo sul tavolino accanto al mio letto e mi sorride appena. Lo prendo come un cordiale saluto.

Serro le labbra un po' tremante, puntando lo sguardo sul piatto fumante. Mi viene l'acquolina in bocca, lo stufato di coniglio mi fa davvero venire un sano appetito.

Joel estrae qualcosa dalla tasca della sua camicia, quasi la nasconde nella mano con imbarazzo.

Esita, e finalmente guardo lui anziché la leccornia che mi ha offerto. È stato l'unico a portarmi qualcosa di veramente appetitoso da mangiare che non fosse riso in bianco o brodo di pollo.

-Come ti senti?- mi domanda, ma credo si sia pentito subito di farmi una domanda tanto stupida. Basta guardami per ricevere una risposta.

Sfoggio un amaro sorriso che somiglia ad una smorfia; -Porca puttana sto impazzendo di dolore. Tu che mi dici invece?-

Non sono in vena di scherzare, il mio tono è parecchio aggressivo e provocatorio, anche se non vorrei prendermela proprio con Joel.

-Sono un idiota.- Joel scuote in capo. Mi sento mortificata per averlo fatto sentire così, vorrei dirgli che sono contenta che sia venuto a trovarmi. All'improvviso ho paura che non possa più tornare, che si senta di troppo. Eppure mi aveva garantito che sarebbe stato sempre dietro quella porta, è la mia unica certezza in questa terribile situazione.

-No, scusami. Sono troppo scortese, è che me la sto vedendo davvero brutta.- dico gesticolando con le mani ed indicandogli la gamba nuda tappezzata di cerotti bianchi.

-Dovrei scusarmi io, volevo venire qui per parlare di altro, se ti va naturalmente.-

-Di cosa?-

Joel fa spallucce, alza le sopracciglia e la sua espressione mi mette a mio agio; -Qualsiasi cosa tu voglia. Possiamo anche rimanere in silenzio.-

-Finché ho la forza di parlare voglio sfruttare l'occasione, altrimenti sprecherò il fiato solamente per lamentarmi.- provo ad essere meno dura ma serro i denti per via dell'ennesima ondata di dolore.

Joel sembra sentirsi più leggero. Il suo viso si rilassa e apre il pugno porgendomi ciò che aveva estratto dalla tasca poc'anzi.

Guardo il suo palmo, le dita sono rovinate dalla fatica e dal tempo. Tra le diverse cicatrici bianche nella sua mano noto il dono che ha deciso di portarmi; è un ciondolo d'oro, talmente vecchio che da giallo è diventato bianco. Distinguo nella forma un piccolo angelo, in verità ha solamente la testolina capelluta, le piccole braccia sul viso e le ali piene di dettagli. Chissà se è stato realizzato appositamente senza il corpo o questa dannata apocalisse ha rotto persino questo splendido gioiello.

Con stupore prendo il piccolo ciondolo tra le dita senza nemmeno chiedergli il permesso. Lo guardo contro la luce che penetra dalla finestra e sorrido come una bambina che ha appena ricevuto quello che sognava da sempre.

-Troverò anche una collana, così potrai indossarlo.- mi dice. Gli si scalda il cuore vedere questa povera ragazzina malata stupirsi per il suo bel pensiero.

-Non preoccuparti, è stupendo anche così.- per un attimo mi sono distaccata dal mio fardello alla gamba. Rivolgo un dolce sguardo a Joel e lo ringrazio, la voce mi esce a mal appena perché sto iniziando a commuovermi.

Joel cala in fretta lo sguardo, per imbarazzo probabilmente. Non avrei mai pensato che qualcuno facesse un gesto talmente prezioso per me. Pietro ormai se n'è andato per sempre dalla mia vita, non esiste nessun altro al mondo che mi regalerebbe un angelo d'oro.

Questo momento sospeso nel silenzio si spezza, e ne sono grata perché incrociare lo sguardo con Joel mi fa arrossire in maniera spontanea. La cosa mi imbarazza molto, ma noto che la cosa è reciproca perché anche le guance di Joel si sono fatte rosa.

Ellie ha bussato alla porta e si permette di entrare. Ci saluta dicendo che ha avuto il piacere di passare a trovarmi, sapendo che Joel fosse già qui.

Anche con Ellie adesso mi sento a mio agio, lei è giovane ma la differenza d'età tra noi due sembra molto evidente. Ellie è abbastanza loquace, ed è grazie alla sua parlantina che mi rianimo abbastanza da mangiare metà dello stufato di carne ancora caldo.

Mangio a rilento, gustando ogni piccolo boccone con la speranza che rimanga nel mio stomaco abbastanza a lungo da ridarmi le forze.

Joel ed Ellie sono seduti ognuno su di uno sgabello, proprio di fianco al mio letto. Per fortuna si risparmiano lo spettacolo disgustoso della mia gamba ferita, che si trova nel lato opposto.

Chiacchieriamo cordialmente, la mia mente si alleggerisce da tutte le cose orribili che mi sono accadute in questi giorni, e per gestire gli attacchi di dolore all'osso ora chiudo gli occhi di colpo e arriccio il naso, chiudendo la bocca per non lamentarmi a voce troppo alta. Una volta che il peggio è passato i miei due visitatori riprendono a stento il discorso frivolo che stavamo facendo.

È all'ennesima scarica di dolore che Ellie e Joel non riescono a riprendere il filo della discussione. Non voglio che si sentano assolutamente indisposti, che se ne vadano pensando di dovermi lasciare del tempo per riposare.

Getto lo sguardo su un braccio di Ellie e decido di essere sfacciata, fintanto che trovo qualcosa di cui parlare; -Cosa hai fatto al braccio?-

Ellie impallidisce. Sembra che l'abbia colta in flagrante in qualcosa di orribile. Di rimando abbassa il braccio avvolto dalla medicazione pulita, e lo nasconde.

-Oh- guarda Joel come per cercare conferma su qualcosa -una brutta bruciatura, nulla di grave. E invece tu, come ti sei procurata quella cicatrice da dura?-

Rido. Lo faccio per non piangere. Spero proprio che mi faccia sembrare una tosta e non una storpia.

Racconto ad entrambi di come gli infetti ci hanno colto di sorpresa, dalla fuga e di come infine sono rotolata giù dal pendio, con il mostro che tentava di sbranarmi. Ometto i dettagli più disturbanti, e non mi va nemmeno di parlare nello specifico di cosa ha fatto o detto Pietro. Pensarlo mi incupisce di nuovo.

Joel se ne accorge. Anche se la curiosità di sapere cosa diavolo mi sia successo l'ha spinto ad ascoltare ogni dettaglio, adesso capisce che non ci sia bisogno di dire altro.

Si rivolge ad Ellie: -Perché non vai a prendere la chitarra? Se Eden non è troppo stanca potremmo farle ascoltare qualcosa prima di andare a casa.-

Ad Ellie brillano gli occhi. Scatta in piedi e segue la proposta di Joel. Io sono rimasta a bocca aperta. Ho dimenticato l'ultima volta in cui ho sentito della musica, della vera musica.

Il cuore mi batte all'impazzata. Stringo nel pugno sudato il ciondolo che Joel mi ha regalato, e lo guardo con immensa gratitudine.

-Per caso sai suonarmi qualcosa dei Nirvana?- gli chiedo speranzosa. Joel sorride di gusto.

-Non sono un tipo molto rock.-

-Allora immagino che non te ne intenda nemmeno di Beyoncé.- lo stuzzico.

-Mi dispiace, sono solo un povero vecchio rimasto fermo agli anni ottanta.- mi dice.

Trattengo una smorfia di dolore, non voglio rovinare questo momento. Annuisco deglutendo a fatica, con i pugni al petto.

-Andranno bene anche gli anni ottanta, sono una che di musica se ne intende. Non trovi?-

Ecco che arrossisco ancora, c'è qualcosa in Joel, nel suo viso -o nel suo corpo magari?- che mi agita.

-Eccome.- il suo sguardo, ora, sembra proprio che riesca a toccarmi. Ma non l'anima, io a quella non credo. Si poggia sulla mia pelle, non ha bisogno di chiedermi il permesso perché sa già che glielo concederei senza esitare un istante.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Joel mi aveva mentito riguardo i Nirvana. In verità non aveva smentito il fatto di non saper suonare nessuna delle canzoni del gruppo rock, ma di non essere quel tipo di musicista. Lui non si definisce affatto così, ma per me lo è eccome. Senza pensarci due volte, quando Ellie gli ha porto la chitarra lui l'ha accordata ed ha iniziato a suonare "lithium" dei Nirvana. Io ho squittito, lasciandomi scappare un insulto affettuoso per la bugia che mi aveva detto. Ellie non conosceva quella canzone, ma la cosa non mi ha di certo stupita. Joel, invece, l'ha cantata perfettamente. Il suo tono di voce è profondo, scandisce così bene le parole e nonostante interpreti il brano con una lenta cadenza molto personale riesce ad andare perfettamente a tempo. Verso la fine della sua esibizione, proprio tra le frasi "I love you, I'm not gonna crack" e "I killed you, I'm not gonna crack" invece della musicalità dolce della chitarra mi risuonavano in testa gli accordi originali della chitarra elettrica e l'intensità della batteria. Non ascoltavo questa canzone da dieci anni almeno, mia mamma adorava quell'album. La mia preferita era "smells like teen spirit" naturalmente, ma soltanto perché la trasmettevano più spesso alla radio. Ho pregato Joel di suonarmela, lui di tutta risposta mi ha detto di non essere così impaziente.

Questo infatti è successo nove giorni fa. Da quel pomeriggio lui ed Ellie sono venuti a trovarmi abitualmente. Per me è tutto molto difficile. Il dolore sembra darmi una breve tregua, come se finalmente stessi iniziando a guarire, ma la notte mi sveglio urlando, perseguitata da vecchi e nuovi incubi. Alle mie visioni di terrore e morte si è aggiunto anche Pietro, e quando scatto seduta nel letto per via di questi terrori notturni trascorro il resto delle ore insonne per il dolore alla gamba che si inacutisce. Non mi hanno tolto la morfina per lasciarmi da sola in agonia, anzi qui sono tutti molto gentili e disponibili. Mi danno dell'ibuprofene, più facile da reperire per tutti ma inefficace per i miei tremendi dolori.

Mando giù due o tre pastiglie in una volta anche se il dottore mi ha sconsigliato di fare una cosa tanto stupida, eppure non riesco a trovare pace. Vorrei qualcosa per riuscire a dormire senza sognare, delle gocce o altre pillole magari, qualcosa che mi impedisca di strapparmi i punti quando sobbalzo urlante per l'immagine di Pietro fatto a brandelli da infetti immaginari.

Joel qualche volta ha portato con se la chitarra, in genere lo ha fatto se il giorno prima mi ha trovata particolarmente provata. Per tirarmi su di morale mi ha suonato "come as you are" e "losing my religion", perché ha finito il suo repertorio sui Nirvana. Quest'ultima canzone la conoscevo appena, mi ha scaldato il cuore ascoltarla mentre prendeva vita nelle parole di Joel, ma non vuole ancora darmi sazio riguardo a "smells like teen spirit". Non suonarmi quella maledetta canzone lo diverte molto, io ho smesso di pregarlo ma la mia espressione offesa fa ridere di cuore sia lui che Ellie. E un po' anche me.

Oggi non è una buona giornata, in effetti se riguardo quelle passate non mi pare che ce ne sia stata effettivamente almeno una che possa definirsi tale. Dovrebbero togliermi i punti la prossima settimana, e solo al pensiero devo sdraiarmi per via un capogiro. Ho mandato giù senza nemmeno bere già due compresse di ibuprofene in poco meno di mezzora. Non riesco ad aspettare l'intervallo suggeritami dal medico, anche perché so che queste futili medicine non faranno nulla contro il dolore.

E' insopportabile, sono talmente avvilita. Per quanto tempo ancora andrà avanti così? Non sono ancora stata in grado di camminare, per il momento tutti concordano che sia meglio aspettare che l'osso sia guarito del tutto. E dopo? Come camminerò?

L'ipotesi di essere rimasta zoppa a vita per me è inconcepibile.

Joel bussa alla mia porta, quest'oggi Ellie non c'è. Mi dice che è con Cat a disegnare degli uccelli azzurri che hanno nidificato su di un certo albero a ridosso della recinsione. Ellie è molto brava nel disegno, me ne ha fatto vedere qualcuno dei suoi e mi sono congratulata sinceramente. Avrei voluto tanto frequentare un liceo d'arte, ma la pandemia non me ne ha dato l'opportunità...

Già, oggi è un giorno grigio. L'amarezza traspare dalle mie occhiaie. Sono certa che Joel si presenterà con la sua chitarra domani, magari è la volta buona in cui mi delizierà con la mia canzone tanto richiesta.

-Cosa hai mangiato oggi?- mi domanda, sperando di alleviare la mia sofferenza con i soliti discorsi di compagnia.

Io non gli sto rivolgendo la benché minima attenzione. Quando persiste il silenzio mi risollevo dalle mie fitte di dolore e capisco che Joel sta aspettando, in difficoltà, che gli risponda.

-Hai detto qualcosa?- mormoro. Mi manca la voce, il dolore è insostenibile.

-No, non preoccuparti.- Joel taglia corto. Vacilla, è evidente.

La schiena mi duole per via di tutto questo tempo trascorso da sdraiata. E' tremendo quando si susseguono tutti questi diversi dolori uno dopo l'altro. Vorrei sollevarmi piano e allontanare la schiena al materasso, giusto per avvertire leggerezza e frescura. La colonna è rigida, la gamba in preda a spasmi muscolari. Approfitto della presenza di Joel, altrimenti avrei dovuto disturbare qualcun altro che si trova nei paraggi. Mi sento in confidenza con lui, e quindi gli chiedo, stanca: -Potresti darmi una mano per favore?-

Joel si alza dallo sgabello; -Di cosa hai bisogno?-

-Aiutami a mettermi un po' a sedere, la schiena mi sta dando il tormento.- il mio è un mero sfogo, la stanchezza parla per me. Dormo sempre meno, il riposo a letto mi sta portando al deperimento, inferma su questo letto per un dolore impossibile da placare.

-Come?- mi domanda Joel un po' incerto. E' buffo, quando mi ha trovata quasi morta nella casetta abbandonata non ha dato ascolto alle mie preghiere disperate, mi ha comunque caricata di peso e messa a cavallo. Quelle urla dovrà pur ricordarsele. Eppure adesso sembra timoroso, come se avesse paura di toccarmi e farmi soffrire.

Tendo le braccia verso di lui e gli faccio gesto di avvicinarsi. Sollevo la testa dal cuscino e per un momento mi sento mancare. Chiudo gli occhi ed evito di svenire, incitando Joel; -Da sotto le braccia, sollevami piano io faccio leva su di te.-

-D'accordo.- brontola infilando le mani sotto le mie ascelle. Sento gravare sulla sua presa tutto il mio peso, sono molto magra ma comunque sembro un macigno in balìa della forza di gravità. Vorrei non abbandonarmi a Joel ma questa posizione mi fa formicolare la spina dorsale per il sollievo.

Il respiro di Joel è contro la mia guancia, ma io quasi non lo percepisco tanto questa breve pausa dalla mia tortura mi sta estasiando. Sorrido ad occhi chiusi, mi sembra quasi di sognare. Fletto i gomiti e accarezzo leggermente le spalle di Joel per prepararmi a tenermi su di lui, quando un suo piccolo movimento mi tira a sedere ed io gli conficco ferocemente le unghie nella schiena. Urlo di colpo, disperata.

Mi ha mossa con uno scatto sì morbido, ma troppo svelto. Questo mi ha trascinato la gamba ferita irradiandomi di dolore dalla punta dei piedi al bacino.

Joel sobbalza dallo spavento, ed io continuo a gridare e singhiozzare sul suo petto. Mordo il colletto della sua camicia verde scuro così da soffocare tra i denti ed il tessuto il mio urlo.

Non vorrei comportarmi così, odio sembrare disperata ma sono ore, ma che dico, giorni che dentro di me concentro tutte le mie poche energie per non arrivare a questo. Non è stata colpa di Joel, sarebbe bastato anche solo uno starnuto per ridurmi così. Ma lui è mortificato, terribilmente.

Mi rimette sul materasso come se stesse maneggiando una bambina, e mi guarda precipitosamente, quasi potesse far qualcosa per far smettere il mio dolore.

Mordendomi il labbro inferiore per calmare questa crisi si apre un taglio e del sangue riga il mio mento.

Joel mi poggia una mano calda sulla fronte; -Perdonami, non volevo.-

Provo a dirgli che non è colpa sua, che è il mio fottuto corpo a farmi tutto questo. Ma, ancora, la mia voce non trova un suono.

Joel esce dalla stanza, letteralmente scappa via. So che questo è troppo da sopportare persino per uno come lui. Avrà già i suoi problemi, questo povero uomo. Qui tutti noi siamo tormentati dal nostro passato, anche lui ha la faccia di qualcuno che non riesce a dormire otto ore consecutive senza terrori notturni. E per tale motivo non lo biasimo se ha preferito fuggire dallo spettacolo pietoso di me stessa agonizzante. Ma mi sento comunque, inesorabilmente, abbandonata.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Tommy si palesa vicino a me. Il tempo trascorso da quando Joel è uscito dalla mia stanza mi è scivolato tra l'incoscienza. Ora sono sveglia e in sofferenza, un attimo dopo il vuoto da tregua alla mia psiche e ai miei nervi in fiamme. Ed in questo lasso incalcolabile di tempo ecco Tommy.

Quando lo guardo sorrido, stordita. Penso che sia Joel data la somiglianza. Socchiudo le palpebre e mi concentro per metterlo a fuoco; rido mostrando i denti, con tenerezza. Se solo avessi la lucidità di parlargli direi anche a lui cosa trovo di così divertente,  tanto sono ridotta male da averlo scambiato per Joel.

Come se Tommy dubitasse che io ci veda ancora passa lentamente una mano davanti al mio viso, ed io seguo i suoi movimenti del palmo aperto, che vanno dal basso verso l'alto.

-Eden?-

Non capisco perché mi chiama. Ho un aspetto talmente schifoso da sembrare fuori come un balcone? Il mio sorriso svanisce di colpo. Corrugo la fronte e provo a fargli capire che lo vedo, non è mica colpa mia se le palpebre si abbassano senza permesso.

-Joel è andato a prendere la chitarra?- gli chiedo. Sollevo a fatica una mano per provare a toccare la sua. La mia vista si è sdoppiata, e quando penso di aver stretto le dita di Tommy in realtà agguanto il vuoto.

-Non va affatto bene dannazione.- borbotta fra se e se. Scuote la testa e fa per andare. Anche lui.

-Aspetta.-

Tommy mi guarda con espressione truce. Mi tremano le labbra, per reprimere il pianto tiro su col naso.

-Avevi detto che avreste fatto a turni per controllarmi- resto senza voce perché mi manca l'aria, arranco alla ricerca di ossigeno e tossico piano. Questo mi provoca una nuova scossa di dolore alla ferita. Non ho intenzione di interrompermi, e quindi proseguo ostinatamente; -Joel mi aveva garantito la sua compagnia. Ti prego non lasciarmi da sola anche tu.-

Tommy è in evidente difficoltà: -Avrai la febbre molto alta, lo dirò a  qualcuno che ti sappia dare l'aiuto di cui hai bisogno.-

-Tommy per favore, rimani qui ancora un po'.- sono irragionevole. So che Tommy vuole fare la cosa giusta, dal canto mio però mi sento una bambina, vulnerabile e terrorizzata. Non m'importa della febbre o del dolore, il medico ha a disposizione solamente farmaci per il mal di testa e per influenze qualsiasi, nulla che abbia effetto su questo mio corpo disintegrato. Quindi perché negarmi ciò che desidero più di ogni altra cosa? Perché lasciarmi nel momento in cui ho più bisogno di una presenza fidata? Non ho per caso già perso abbastanza?

Tommy ha un cuore più tenero di quello di Joel, è molto facile persuaderlo. Stringe le labbra, trovo divertente il modo in cui i suoi baffi neri si infittiscano, mi ricordano l'espressività di Pietro...

-Come hai conosciuto Joel?- gli domando allungando il mento. La sua risposta non mi importa granché ma parlo di getto per allontanare il pensiero di Pietro.

Lui è sorpreso dal modo in cui io sia loquace. Fa spallucce e mi risponde: -Io e Joel siamo fratelli.-

Adesso sì che tutto quadra.

-In effetti vi somigliate.- constato.

-Joel è il maggiore.- pare obbligato a fornirmi più informazioni. Io voglio parlare, e non di me. Tutto ciò che mi riguarda è drammatico e deprimente. Devo smettere di pensare a tutte le cose orribili che mi sono accadute, parlare di altri potrebbe tenermi i pensieri occupati altrove.

-Ellie però non gli somiglia.- dico giungendo le mani sudate.

Tommy non è entusiasta di rivelarmi troppi particolari, e si limita a tagliare corto; -Ellie non è la figlia di Joel. E' una storia molto lunga, se vorrà te la racconteranno entrambi un giorno.-

Se vivrò abbastanza per ascoltarla, penso battendo i denti infreddolita.

Tommy si volta a guardare fuori dalla finestra. Il suo profilo è sporgente ma più armonioso e levigato rispetto a quello di Joel. I ricci neri gli sfiorano la nuca, immagino la sensazione di solletico sulla sua pelle mentre scuote il capo per via dei suoi pensieri segreti. Ora è malinconico.

-Ellie lo ha reso una persona migliore, lo ha reso felice.- le sue parole fanno sorridere anche me. Ricordo bene come si ci sente ad amare così tanto una persona.

Tommy poggia una mano sulla mia fronte diventando improvvisamente serio.

-Stai scottando Eden, torno subito.-

Chiudo gli occhi. Esalo un debole soffio di fiato.

Come vorrei rivedere il viso di Pietro in questo limbo di oscurità.

Pietro...

 

Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, PietroPietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro, Pietro...

-Pietro.- sussurro risvegliandomi. E' notte fonda, la fiamma di una candela dal cero bianco fa luce nella mia stanza buia. E' poggiata nel comodino di fianco alla spalliera del mio letto, ed anche se il fuoco è flebile mi pare di essere accecata.

Sollevo un braccio per coprirmi gli occhi abituati al nero del mio sonno profondo e senza farci caso urto contro la mano di qualcuno. Provo a ricollegare tutti gli ingranaggi dei miei sensi annebbiati, e capisco che sulla mia fronte c'era il tocco ruvido e caldo di un uomo.

-Pietro?- lo chiamo, sono sicura che questo non sia un sogno. Le sue mani le ricordavo così morbide e affusolate... cosa mai gli è accaduto? Ha per caso lottato contro l'orda di infetti? E' riuscito a salvarsi la vita?

-Eden no- mi interrompe quella voce così profonda.

Le lacrime scivolano da sole, corrono sul mio viso come se fossero la testimonianza lampante di una martire addolorata.

Il mio corpo, invaso dalla febbre, ignora le condizioni in cui sono riversa da giorni. Come se fossi un'entità distaccata da tutto ciò che mi affligge mi tiro a sedere di scatto. Mi sollevo con un solo gesto del busto, talmente su di giri che non avverto neanche le mie solite vertigini.

I miei lunghi capelli trascurati mi scivolano sulla schiena nuda. Qualcuno deve avermi spogliata. Cosa mi è accaduto?

Questo pensiero mi sfiora a mal appena mentre il lenzuolo cade dal mio petto e lascia i seni nudi alla frescura della stanza.

Piego i gomiti e con ingordigia afferro tra le mani il volto dinanzi a me. L'uomo è seduto ai piedi del mio letto, come se mi stesse vegliando. Piego la gamba buona attorno alla sua vita e sollevo rigidamente quella dolorante. Ignoro la mia sofferenza, respiro intensamente con le labbra secche socchiuse.

Mi pare quasi di vederlo, giovane e raggiante. La barba chiara e gli occhi vitrei.

-Pietro.- ripeto ancora, il suo nome sembra una preghiera.

Mi afferra i polsi chiudendoli tutti nelle sue mani grandi, e tenta di allontanarmi.

Io, disperata, mi porgo a lui con la lingua appena fuori dalla bocca.

Lui prova a ritrarsi, sta per alzarsi dal letto, ma io ho bisogno di lui. Non m'importa nient'altro se non sentirlo addosso dopo averlo creduto morto.

-Eden sono io, sono Jo- - interrompo quella voce fiondandomi sulle sue labbra. Riesco a sfiorarle appena, passando la punta della lingua in mezzo alla fessura di quella bocca umida e sottile.

Joel non è violento, ma utilizza bene la sua forza per spingermi di nuovo a letto, lontano dalle mie allucinazioni.

-Eden!- sbotta provando a mantenere un tono basso. Prende il lenzuolo bianco e me lo tira fino al collo. Sta sudando, i suoi capelli morbidi ondeggiano perchè è sospeso sopra di me.

Freneticamente gli accarezzo il volto, passo le dita sulle sue guance, dietro alle sue orecchie. Lo percorro ovunque, ingorda e disperata, quasi potessi rubare i suoi lineamenti.

-Non è possibile. Pietro?- mi lamento ed inizio a realizzare che la mia non è stata altro che un'allucinazione.

-Sono Joel. Eden, guardami non sono Pietro, sono Joel.- mi ripete con voce ferma, rimanendo sospeso sopra di me, con le mani a tenere saldo il lenzuolo per far si che io non mi denudi più.

Ed ecco che realizzo, e crollo. Con una mano tappo la mia bocca in un gesto di sdegno. Mi sento così in colpa per ciò che ho fatto, ed anche molto in imbarazzo, ma più di ogni altra cosa sono sconvolta. L'immagine di Pietro era solamente un fantasma. Capirlo mi fa avvertire terribilmente la sua mancanza.

Stringo un pungo al petto perché il cuore sta per smembrarsi. Batte all'impazzata e fa male per questa perdita incolmabile.

-Joel perdonami.- singhiozzo tremando sul posto.

Lui allenta la presa sul lenzuolo; -Tranquilla.-

Piango ad occhi chiusi raggomitolando le braccia magre su me stessa, irrigidirmi così pare trattenere il rumore dei miei versi disperati.

Joel è impacciato, capisco che non si sente a suo agio dopo che ho cercato di saltargli addosso. Eppure non ostenta, ed il suo abbraccio è del tutto sincero.

Mi cinge con un braccio facendolo passare sotto la mia schiena e mi solleva dolcemente, stavolta non ha paura di farmi male.

Io mi lascio stringere contro il suo petto. Sta in silenzio e a me sta bene così, fintanto che posso riversare le mie lacrime su di lui.

Resto pietrificata con le braccia tra i miei seni, i pugni chiusi dolorosamente scavandomi mezzelune nei palmi con le unghie. Joel mantiene le distanze, non poggia nemmeno il mento contro il mio capo.

Stiamo fermi nell'oscurità. La candela minaccia di spegnersi per un soffio d'aria che entra dagli spifferi. L'esistenza mi ha sopraffatta, la mia stessa identità è smarrita nelle sofferenze che ho cercato di sopportare da dieci anni a questa parte. Non sono più me stessa.

Perché il destino non mi ha concesso la grazia di sparire come tutte le persone che ho amato? Perché lasciarmi sopravvivere con il peso di questo dolore a gravare sulle mie spalle?

Guardo Joel e trovo una temporanea risposta; i suoi occhi stanchi parlano, sembrano il riflesso dei miei.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4054246