Racconti di innocenza, di vita, di morte e di paradosso

di Milly_Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Cometa e l'Arcobaleno ***
Capitolo 2: *** L'angelo dai capelli del colore dell'oro e dalle ali del colore del latte ***
Capitolo 3: *** Non dirlo a nessuno ***
Capitolo 4: *** La vigilia del centesimo compleanno ***
Capitolo 5: *** Il cerchio del bicchiere scheggiato ***
Capitolo 6: *** Mostri in laboratorio ***
Capitolo 7: *** To cook or not to cook, this is the question ***
Capitolo 8: *** Venerdì 13 ***
Capitolo 9: *** Mentre bevi il mio sangue ***
Capitolo 10: *** Profumo di sangue ***
Capitolo 11: *** Due ore ***
Capitolo 12: *** Buco nero ***
Capitolo 13: *** Non importa che il tuo cuore batta ancora, perché quando tutti si dimenticano di te sei già morta ***
Capitolo 14: *** Scontro tra culture in una camera a ore ***
Capitolo 15: *** Erano solo saette variopinte ***
Capitolo 16: *** Lettera di un'auto da corsa al suo pilota ***
Capitolo 17: *** Un tempo il rosso non era il colore del tramonto ***
Capitolo 18: *** Mi esorterai a non temere il crepuscolo ***
Capitolo 19: *** Tramonto incantato di un pomeriggio di marzo ***
Capitolo 20: *** Astro nascente ***



Capitolo 1
*** La Cometa e l'Arcobaleno ***


LA COMETA E L'ARCOBALENO

"Si sono dimenticati di me?" domandò la Cometa.
"Credo di no" rispose l'Arcobaleno.
Con lo sguardo rivolto all'insù, tutti lo stavano fissando, prima che calasse la sera.
Veniva dopo un violento temporale, come per ricompensare tutti di ciò di cui li aveva privati: quel sereno che andavano cercando in ogni istante, ignorando che il sereno non può durare per tutta la vita.
"Ti guardano allo stesso modo in cui quando cala la notte guardano me" osservò la Cometa. "E' come se tu avessi preso il mio posto, per loro. Quando compare qualcosa di nuovo, si dimenticano di tutto ciò che hanno visto fino a quel momento."
"Credo di no" obiettò l'Arcobaleno. "Io vengo solo in questo momento, mentre la tua coda rischiarerà tante altre notti. A volte non ti vedranno e ti cercheranno tra le nubi. Adesso è troppo presto, non possiamo illuderli nello stesso momento."
"Illuderli? Di che illusione parli?"
"Né tu né io duriamo in eterno. Io duro un battito di ciglia, come la giovinezza. Tu continui a farti vedere più a lungo, come il resto della vita. Di fatto siamo una sola cosa, anche se un tramonto ci separa."
La Cometa non poté negarlo: l'Arcobaleno non era che la parte più splendente della vita umana.
C'era chi su aggrappava all'ultimo ricordo che aveva di quei colori, cercando di non far svanire la memoria.
Poi calava la sera e allora tutti cercavano la Cometa.
Un giorno sarebbe sparita, proprio come, di tanto in tanto, spariva qualcuno che per loro aveva significato tanto.
Arcobaleni e comete erano fatti per essere dimenticati: come stava già toccando all'Arcobaleno e come sarebbe toccato alla Cometa nel giro di appena pochi giorni, la stessa sorte non avrebbe risparmiato nemmeno tanti altri.
Quel pensiero diede un po' di tristezza alla Cometa, mentre gli occhi di chi stava sotto iniziavano ad alzarsi, per vedere la sua coda.
Le diede tristezza non perché fosse certa di essere dimenticata, ma perché, come chi non rimane mai fermo nello stesso posto, avrebbe dimenticato, a poco a poco, gli stessi che si sarebbero scordati di lei.
Erano quelli i momenti in cui desiderava di essere un arcobaleno: gli arcobaleni se ne vanno in fretta, senza avere tempo di affezionarsi a un certo lato della vita.
"Io e te siamo la stessa cosa" le ricordava, però, l'Arcobaleno, nella sua mente.
"Siamo la stessa cosa" concludeva la Cometa, "Ma vediamo le cose in modo diverso. L'hai detto tu stesso: tu sei come la giovinezza, io sono come il resto della vita. Il tramonto altro non è che il momento in cui cambia la prospettiva con cui guardiamo il cielo."

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Capitolo 2
*** L'angelo dai capelli del colore dell'oro e dalle ali del colore del latte ***


L'ANGELO DAI CAPELLI DEL COLORE DELL'ORO E DALLE ALI DEL COLORE DEL LATTE

Il bambino più piccolo insisteva nel raccontare la sua storia folle.
«Ti dico che c'era!»
Il più grande non sembrava convinto, ma allo stesso tempo appariva indeciso sul da farsi.
«Lo sai, queste cose non succedono nella realtà...»
Aveva ragione, o almeno così sembrava, anche nella logica di chi con occhi invisibili sorvegliava il mondo circostante.
«È successo» ripeté il bambino più piccolo. «Stavo raccogliendo il pallone in mezzo alla strada quando mi sono accorto che lui mi guardava.»
«Tu prendevi il pallone in mezzo alla strada e lui ti guardava. La mamma lo sa?»
«No. Non dirglielo. Dice sempre che non devo uscire dal cancello senza di lei.»
«Ma tu l'hai fatto.»
«Sì.»
Il bambino più grande sbottò: «Lo sai che non devi! Avrebbe potuto succederti qualcosa!»
Era andata proprio così: si era trovato nella traiettoria di un furgone il cui guidatore era impegnato in una conversazione al cellulare.
Non l'aveva visto.
Per fortuna tutto era andato per il meglio: il bambino aveva guardato nel punto giusto e, attirato da ciò che vedeva, si era allontanato appena in tempo. Quanto capitato, era il loro segreto.
«Non è successo niente.»
«Non è successo niente» replicò il bambino più grande, «Ma non devi farlo mai più. La mamma non può perdere anche te. Non ce la farebbe!»
Quelle parole avrebbero colpito chiunque, ma su di lui facevano un effetto maggiore.
L'aveva abbandonata.
Aveva abbandonato i bambini.»
Aveva pensato troppo a se stesso e troppo poco a loro.
Aveva dato troppo poca importanza alla vita, credendo che per tutti gli altri fosse facile.
Tornava indietro ogni istante, ma non poteva spingersi così indietro.
«Non lo farò più» promise il bambino promise il bambino più piccolo, «E se dovessi vederlo di nuovo...»
Suo fratello lo interruppe: «Non lo vedrai, perché non esiste.»
«Esiste» replicò il più piccolo. «La mamma dice sempre che gli angeli esistono.»
«E va bene» si arrese l'altro, «Esistono, ma non si vedono!»
«La mamma dice sempre che siamo i suoi angeli, ma non siamo invisibili!»
Il maggiore alzò gli occhi al cielo.
«Noi siamo un diverso tipo di angeli.»
«Quanti tipi ce ne sono?»
«Non lo so. Non possiamo vederli, quindi non possiamo contarli.»
«Quello, però, era un angelo. Ne sono certo.»
«Come lo sai?»
«Era strano. Aveva le ali del colore del latte e i capelli del colore dell'oro.»
Le... ali?!
Quel bambino aveva indubbiamente fantasia da vendere.
"O è così che mi vedono, quelli che riescono a superare le barriere e a vedermi?"
Il bambino più grande ci tenne a precisare: «Anche papà aveva i capelli del colore dell'oro, ma non era un angelo.»
Gli occhi del presunto avvistatore di angeli si illuminarono.
«Aveva anche le li?»
«No, non aveva le ali. Nessuno ha le ali.»
«L'angelo che ho visto le aveva.»
Non c'era verso di convincerlo del contrario, anche il bambino più grande doveva essersene reso conto.
«E poi? Com'era, a parte i capelli e le ali?»
«Non lo so.»
«Hai detto tu di averlo visto.»
«Poi è... mhm... volato via.»
Sì, aveva indubbiamente una gran fantasia.
Non era volato via.
Era ancora lì, accanto a loro, consapevole che non se ne sarebbe mai andato. Rimanere a vegliare su di loro era la sua condanna, per espiare l'imperdonabile colpa di averli lasciati soli, e più che una condanna gli appariva come un regalo.
«Dove è volato?»
«Non... non lo so. Perché vuoi saperlo?»
«Perché vorrei vederlo anch'io.»
«Hai detto che gli angeli sono invisibili.»
«Ma se l'hai visto tu, allora posso vederlo anch'io!»
L'"angelo dai capelli del colore dell'oro e dalle ali del colore del latte" fu tentato di mostrarsi anche al figlio maggiore, ma si rese conto che non sarebbe stata una buona idea. Diversamente dal fratello minore, che l'aveva sempre visto soltanto in fotografia, non avrebbe esitato a riconoscerlo.
Era un bene?
Era un male?
Era difficile trovare risposte.
Gli servivano?
No, realizzò, non gli servivano risposte: la possibilità di continuare a vedere i suoi figli sorridere valeva molto di più di mille risposte.

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Capitolo 3
*** Non dirlo a nessuno ***


NON DIRLO A NESSUNO

Oggi mi sento come se fosse la fine.
Le mie amiche mi guardano, cercando di capire. Sono bambine di dieci anni, non credo che possano davvero capire.
Mi guardano, nello spogliatoio.
Sono pronte a ridere, nel momento in cui mi toglierò la maglietta.
Ridono, perché pensano che indossi un reggiseno imbottito.
Ridono, perché loro non hanno peli sotto le ascelle.
Ridono, perché non sanno quanto mi senta male.
Una di loro mi guarda, come a chiedermi perché non sono ancora pronta. Le altre volte ero sempre la più veloce.
Non sono pronta, perché oggi è non è un giorno come tutti gli altri.
Stamattina mi sono svegliata con una strana sensazione addosso; ancora più strana delle fitte al basso ventre degli ultimi giorni, ancora più strana di quei misteriosi crampi a cui non sono riuscita a dare una spiegazione.
Ho guardato le lenzuola bianche.
Erano macchiate.
Ho urlato.
Mia madre ha detto che era normale.
Le ho chiesto se anche le mie amiche, un giorno, si sono svegliate in un lago di sangue.
Mi ha detto che no, a loro non è capitato, perché è normale, ma non è normale quando hai dieci anni.
Io sono diversa.
Io non sono normale.
Tutte e tre mi guardano, mentre dico che non sono pronta, che devo andare un attimo in bagno, ma che presto le raggiungerò.
Tutte e tre vogliono venire in bagno con me.
L’abbiamo sempre fatto e non ho il coraggio di dire che oggi è diverso.

Non ditelo a nessuno.
Non ditelo a nessuno, vi prego.

Ci guardiamo negli occhi e sappiamo che andrà proprio così: nessuna di noi rivelerà mai i segreti delle altre, specie quando sono imbarazzanti.
In quel momento, senza che me ne renda conto, loro hanno un vantaggio nei miei confronti, perché hanno qualcosa contro di me.
Che cosa diranno i nostri compagni di scuola?
Che cosa diranno, quando verranno a sapere che sono una bambina che vive nel corpo di una donna?
Immagino le risate, le risate di tutti quelli che già adesso ridono di me.
È in questo momento che sarà condannata per tutta la vita.
Non lo so ancora, ma “non dirlo a nessuno, come ho fatto io con te” è l’invocazione che avrò da ciascuna di loro.

Non dirlo a nessuno.
Non dirlo a nessuno, ti prego.
La lama si infiltra nella sua pelle.
Sanguina.
È normale, mi dice.
È normale, non dirlo a nessuno.

Non dirlo a nessuno.
Non dirlo a nessuno, lo sai che io, al posto tuo, non lo farei.
Si infila una pasticca tra le labbra.
Mi guarda.
Non starò male, mi dice.
Non starò male, non dirlo a nessuno.

Non dirlo a nessuno.
Non dirlo a nessuno, perché non capirebbero.
Entra nel bagno, lascia la porta accostata.
La sento.
La sento e poi la vedo.
Ha gli occhi arrossati e non si regge in piedi.
Va bene così, mi dice.
Va bene così, non dirlo a nessuno.

E io, intanto, affogo nei sensi di colpa.
Affogo nei sensi di colpa come a dieci anni affogavo nel sangue mestruale.

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Capitolo 4
*** La vigilia del centesimo compleanno ***


LA VIGILIA DEL CENTESIMO COMPLEANNO

Nessuno spera di dover portare la dentiera, un giorno, ma nessuno vuole morire quando è ancora abbastanza giovane da non averne bisogno.
Nonna Eva, come tutti la chiamavamo, aveva uno strano senso dell’humour. Tra i suoi grandi classici, quello era senza ombra di dubbio il mio preferito. Declamava le sue massime ogni volta in cui ce n’era l’occasione e, Nonna Eva lo sapeva bene, creare occasioni è un’arte.
Oltre alle sue perle di saggezza era solita raccontare storie, e la maggior parte di queste storie parlavano di morte.
«D’altronde» ripeteva sempre, «Chi ha la fortuna di vivere abbastanza a lungo ha modo di vedere morire parecchia gente, intorno a sé.»
Qualcuno, in paese, sosteneva che narrando aneddoti a proposito della macabra signora vestita di nero, riusciva a esorcizzarla. Forse era per questo che stava per spegnere cento candeline - spegnere in senso metaforico, sia chiaro, perché a una certa età bisogna evitare cibi che possono fare male e che gusto c’è a spegnere candele senza una torta?
Era la sera del 2 Settembre, la vigilia del suo centesimo compleanno, quando ebbi modo di incontrarla per l’ultima volta, per un motivo molto banale.
Mi aprì la porta uno dei suoi pronipoti, che stava andando a casa dopo una visita.
«Mia madre sta per andare a dormire» m’informò, «Perciò si sbrighi.»
Lo rassicurai immediatamente.
«È proprio quello che farò.»
Raggiunsi Nonna Eva nella sua stanza da letto e le comunicai che con tutta probabilità le tubature dell’acqua si erano rotte, dal momento che, io che abitavo al piano di sotto, notavo macchie sospette sul soffitto del bagno.
Mi suggerì di tornare il giorno successivo, al pomeriggio, perché ci sarebbe stato suo figlio, che se ne intendeva più di lei.
«Anzi, no, volevo dire mio nipote» si corresse immediatamente, «I miei figli sono tutti morti.»
«Va bene, tornerò domani e parlerò con lui» le garantii, mentre lei si infilava sotto le coperte.
Guardò la sveglia.
«Non è tardi, sono appena le otto» osservò. «Sono convinta che il momento in cui chiuderò gli occhi per sempre sia ormai vicino anche per me, perciò ritengo opportuno lasciare un mio testamento spirituale.»
Testamento spirituale? Di che cosa parlava?
Non mi volle molto per scoprirlo, dal momento che Nonna Eva specificò: «Ci sono fatti che mi riguardano che orecchio umano non ha mai avuto modo di udire. Vorrei lasciare a lei la mia più grande eredità.»
Mi ritrovai ad annuire.
«Va bene, sono lieta di ascoltarla.»
Nonna Eva mi guardò con aria soddisfatta, sempre ammesso che ci vedesse anche senza quegli occhiali dalla montatura di tartaruga, con lenti grosse come fondi di bottiglia, che le avevo visto indosso in numerose occasioni e che mi sembravano un reperto degli anni Sessanta. Probabilmente lo erano davvero.
«Qui in paese c’è chi dice che io sia immortale» mi comunicò, «E devo ammettere che talvolta ho creduto che avessero ragione. Sono tante le occasioni in cui avrei potuto morire, ma mi sono sempre ritrovata in vita e in buona salute.»
«Buon per lei» osservai. «Sono sicura che riuscirà a vivere ancora per molti anni.»
Era un po’ esagerato, ma d’altronde Nonna Eva era un record vivente, perché non avrebbe potuto entrare nel Guinnes World Record come donna più anziana al mondo?
«Credo di avere già vissuto abbastanza» si affrettò a rispondere. Non parlava lentamente, come avevo sentito fare a molte persone di quell’età - o meglio, un po’ più giovani di quell’età, dal momento che erano pochi i centenari con cui avevo avuto a che fare - forse perché temeva che la morte la stroncasse nel bel mezzo di una frase. «In fondo il 3 Settembre del 1913, il giorno in cui venni alla luce, rischiai la vita per la prima volta. Forse avrei dovuto morire allora.»
«Non dica sciocchezze» replicai. «La sua è stata una vita lunga ed è valsa sicuramente la pena di vivere.»
«Perché parla al passato?» ribatté lei, con un sorriso. «Dà per scontato che io sia già morta?»
«Oh, niente affatto...»
«Meglio così. Il giorno in cui nacqui, nessuno credeva che avrei avuto speranze di sopravvivere. Fu un parto molto difficile e mia madre se ne andò.»
«Che cosa triste...»
«Ha ragione. Si figuri che molta gente, quando ha appreso la storia della mia nascita, mi ha accusata di portare sfortuna. C’è chi si ostina a dire che la mia aura conduca le persone alla morte. Chissà, forse hanno ragione: quello che accadde il giorno della mia nascita è una delle tante prove.»
Scossi la testa con fermezza.
«Certo che no. All’epoca la morti di parto non erano poi così rare o improbabili.»
Nonna Eva annuì.
«Le morti di parto no, ma una volta uscita da casa la levatrice inciampò sul ghiaccio e si ruppe un femore. Sostenne che era colpa mia.»
Aggrottai le sopracciglia, pensierosa.
«La levatrice inciampò sul ghiaccio?»
«Sì. Era una signora che abitava a nemmeno un chilometro dalla casa in cui...»
La interruppi: «Non parlavo della levatrice e del suo femore, ma del ghiaccio! Lei è nata all’inizio di settembre! Come poteva esserci il ghiaccio per terra?»
Nonna Eva sogghignò.
«Come può immaginare, io non ho alcun ricordo relativo al giorno della mia nascita. Devo accontentarmi di ciò che mi riferì mio padre... e lui aveva l’abitudine di alzare il gomito molto spesso, il che non garantiva l’accuratezza dei suoi resoconti.»
Annuii.
«Ora mi è tutto molto chiaro.»
«È un piacere, per me, sentirle dire che non ha più dubbi circa la verosimiglianza di quanto le ho riferito. A questo punto direi che possiamo passare oltre. Sa, io stessa, diversi anni dopo, rischiai di morire di parto.»
Alzai gli occhi al cielo. Allora era vero: Nonna Eva era la personificazione di tutte le disgrazie.
«Era il 1929 e avevo l’abitudine di trascorrere le serate proprio insieme al figlio della levatrice» mi riferì. «Di solito rincasavo molto presto, ma una sera tornai con un certo ritardo e nove mesi dopo venne alla luce il primo dei miei figli. Nacque morto. Non mi scoraggiai e, prima di essere troppo vecchia per mettere al mondo un altro erede, decisi che io e il figlio della levatrice - che era divenuto mio marito - dovevamo fare un altro tentativo. La mia prima figlia vivente nacque nel 1931 e ne fui soddisfatta: sebbene l’età avanzasse ero riuscita a portare a termine una gravidanza senza problemi.»
«Aveva diciotto anni» calcolai. «Non mi sembra che fosse un’età poi così avanzata.»
Nonna Eva scosse la testa, quasi offesa.
«No, non ero così vecchia! Mia figlia Annalisa nacque ben due mesi prima del mio diciottesimo compleanno. Negli anni che seguirono altri eredi vennero alla luce. Ho avuto in totale sette figli, di cui sei nati vivi, una cosa che sarebbe inconcepibile, al giorno d’oggi, quando grazie al digitale terrestre le coppie hanno a disposizione una vasta scelta di canali.»
«Da me ce ne sono alcuni che saltano...»
Nonna Eva non si preoccupò della mia constatazione - ero certa che il mio decoder non fosse un argomento di conversazione degno di essere preso in considerazione - e riprese: «Prima dei televisori tutto era diverso, in qualche modo dovevamo pur passarlo il tempo, no?»
Annuii con aria distratta.
«Suppongo di sì.»
Nonna Eva si fece più seria.
«La mia povera Annalisa se ne andò nel 1971, poco prima di compiere quarant’anni, in un incidente stradale.»
«Mi spiace molto. Deve essere stato un duro colpo per lei.»
«Già: un colpo alla testa. Ero seduta accanto a lei, sulla sua Cinquecento gialla, quando ci schiantammo contro un’auto che veniva dal senso opposto. Andai a sbattere contro il parabrezza. Svenni, se non ricordo male.»
«E sua figlia?» le chiesi, timidamente.
«Morì subito dopo l’impatto.»
«Lei, invece? Si fece molto male nell’incidente?»
Nonna Eva scosse la testa.
«No, anche se quelli che mi vollero caricare sull’ambulanza non erano d’accordo con il mio parere. Tra l’altro c’era la strada tutta ghiacciata... Stavolta non era settembre. L’ambulanza uscì di strada lungo la via che portava all’ospedale.»
Alzai gli occhi al cielo.
“Questa donna è una disgrazia vivente!”
Nonna Eva rincarò la dose: «L’autista morì. Da quel momento in poi la gente iniziò a fare gesti scaramantici ogni volta in cui mi vedeva. E non solo gli estranei, ma anche i miei stessi familiari. Perfino mio marito. Non durò molto a lungo, comunque: nemmeno un anno più tardi ebbe un attacco cardiaco durante la cena, mentre festeggiavamo il nostro anniversario di matrimonio e se ne andò. Non ebbe nemmeno il tempo di arrivare al dolce... con tutto l’impegno che ci avevo messo! ...Ma che ore sono?»
Guardai l’orologio e le comunicai l’orario.
«Inizio ad essere un po’ stanca» osservò Nonna Eva. «Le andrebbe di tornare domani sera?»
«Per le tubature?»
«No, per ascoltare la seconda parte del mio testamento spirituale. Tra l’altro sarà il mio compleanno. È l’unico modo che ho, a quest’età, per festeggiarlo.»
Annuii.
«Va bene.»
Nonna Eva mi guardò con aria soddisfatta.
La salutai, la guardai chiudere gli occhi e la lasciai sola. Non li riaprì mai più.
La notizia fu accolta con un certo stupore, l’indomani.
«Ma come?» diceva qualcuno. «Nonna Eva sembrava immortale, è impossibile che si sia spenta per sempre!»
A volte anche l’impossibile diviene possibile, specie quando l’età avanza. Il mio più grande rammarico è quello di non avere chiesto a quell’amabile nonnina, che sempre parlava di dentiere, a che età avesse dovuto iniziare a portarla.
Presenziai naturalmente al suo funerale, che si tenne due giorni più tardi.
In chiesa, seduta accanto a me, c’era proprio la pettegola del paese. Mi spiego meglio: intendo la più pettegola di tutte, perché il paese pullulava di pettegole.
Secondo lei Nonna Eva portava sfortuna.
«Chiunque abbia avuto a che fare con lei è morto prematuramente» declamò, convinta di ciò che diceva. «Adesso che è morta lei, tutti potranno vivere molto più sereni!»
Tutti, infatti, vissero molto più sereni e sicuri. O meglio: tutti, tranne il prete che stava celebrando il funerale. Fu stroncato da un infarto a metà della cerimonia... ma questa è un’altra storia.

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Capitolo 5
*** Il cerchio del bicchiere scheggiato ***


IL CERCHIO DEL BICCHIERE SCHEGGIATO

L’orologio appeso alla parete segna le 9.54. È tardi. È più tardi di quanto Anna pensasse.
Fa qualche calcolo: ancora due minuti prima di uscire di casa, tredici per giungere al negozio in cui dovrà acquistare il regalo di compleanno per il figlio di suo cugino...
“Sarò là per le 10.09.”
Deve fare in fretta. Dopo ha un altro impegno, non può permettersi di fare tardi. Le è ben chiaro, mentre infila il suo cappotto rosso.
Si versa un bicchiere d’acqua. Se farà in fretta, starà dentro i due minuti che si è imposta.
Scola l’acqua tutta d’un fiato, poi appoggia il bicchiere sul lavello. Si ribalta. Lo tira su, senza accorgersi che s’era rotto. Un pezzo di vetro le si conficca nella pelle. Il palmo della mano destra inizia a sanguinare.

Nella mattinata del 6 novembre una donna di trentadue anni si è tagliata con un bicchiere scheggiato. È uscita di casa con sette minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale.

Giovanni sale le scale tenendo il giornale sotto al braccio.
Sente i passi di qualcuno che scende. È un ticchettio regolare, come quello di una donna che porta scarpe con i tacchi.
È Anna.
La donna del piano di sopra risveglia ancora i suoi sogni proibiti, nonostante abbia la metà dei suoi anni.
Giovanni guarda l’orologio. Sono le 10.03. Aveva calcolato di poter salire le scale, appoggiare il giornale sul tavolo e tornare a uscire entro le 10.10.
“Farò una piccola variazione al programma e cercherò di fare quattro chiacchiere con Anna.”
Anna è meno loquace del solito, ma Giovanni ci sa fare, quando si tratta di parlare. Con qualche pettegolezzo sull’antipatica vicina che non pulisce mai lo zerbino davanti alla porta, la trattiene.
Entra nel proprio appartamento giusto in tempo per sentire il telefono suonare.
“Poco male” si dice. “Se non avessi incontrato Anna, sarei andato via prima che squillasse il telefono.”
Si fionda verso l’apparecchio e solleva il ricevitore, senza nemmeno avere il tempo di togliersi il suo berretto scozzese di lana.
«Buongiorno, sono Silvana di Rayoflight, una compagnia emergente di servizi per l’elettricità. Potrebbe cortesemente leggermi i conteggi della sua ultima bolletta, in modo che mi sia possibile proporle un contratto che le farà risparmiare fino a...»

Nella mattinata del 6 novembre una donna di trentadue anni si è tagliata con un bicchiere scheggiato. È uscita di casa con sette minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale. Lungo le scale ha incontrato un pensionato di sessantaquattro anni, residente al piano di sotto. Lui si è intrattenuto a parlare con lei per sei minuti e ne ha persi altrettanti al telefono con un’operatrice di call-center. È uscito di casa con dodici minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale.

Jessica guarda l’orologio. Sono le 10,38 nel momento in cui si appresta a entrare in tabaccheria.
Un uomo che indossa un berretto scozzese la precede.
Jessica impreca mentalmente. Più tempo passerà lì e più aumenteranno le probabilità di perdere l’autobus che la condurrà in città, dove andrà ad ammirare le vetrine.
Jessica sbuffa, guardando l’uomo col berretto scozzese mentre parla con la tabaccaia.
“E tutto per comprare due francobolli!”
Scattano le 10,39 e poi le 10,40. L’autobus è previsto per le 10,42, alla fermata in fondo alla strada.
Finalmente il cliente che la precede se ne va. Jessica chiede un biglietto per dieci chilometri.
La tabaccaia le sembra subito dubbiosa.
«Forse sono finiti.»
Ne ha ancora, ma impiega un po’ di tempo per scoprirlo. L’autobus passa davanti a Jessica, quando esce dalla tabaccheria. Si dirige lo stesso verso la fermata. Quello successivo sarà alle 11.22.

Nella mattinata del 6 novembre una donna di trentadue anni si è tagliata con un bicchiere scheggiato. È uscita di casa con sette minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale. Lungo le scale ha incontrato un pensionato di sessantaquattro anni, residente al piano di sotto. Lui si è intrattenuto a parlare con lei per sei minuti e ne ha persi altrettanti al telefono con un’operatrice di call-center. È uscito di casa con dodici minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale, per dirigersi in tabaccheria, dove doveva comprare due francobolli. La cliente successiva era una studentessa di sedici anni, che perdendo tempo all’interno del negozio non ha potuto salire sull’autobus che avrebbe dovuto condurla in città. Ha atteso il mezzo successivo, trascorrendo quasi trenta minuti alla fermata.

«No, mia figlia non lo farebbe mai» mente Rebecca.
In realtà è proprio il genere di comportamento che si aspetterebbe da Jessica, che ha iniziato l’anno scolastico con il piede sbagliato, ancora di più rispetto all’anno scorso.
«Ti assicuro che era lei» ripete Gabriella. «Quando l’ho salutata ha abbassato lo sguardo con aria colpevole e ha fatto finta di non conoscermi.»
«Va bene» conclude Rebecca, desiderosa di riattaccare. «Non appena tornerà a casa, le parlerò.»
«Ma non devi andare dalla tua amica parrucchiera a farti sistemare i capelli?»
Gabriella ha ragione, se ne era completamente dimenticata.
«Sì. Al massimo farò tardi, ma parlare con mia figlia è troppo importante.»
Rebecca riaggancia il telefono e si prepara psicologicamente a quello che verrà. Una discussione interminabile con sua figlia, colpevole di avere marinato la scuola ancora una volta, la attende di lì a poche ore.

Nella mattinata del 6 novembre una donna di trentadue anni si è tagliata con un bicchiere scheggiato. È uscita di casa con sette minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale. Lungo le scale ha incontrato un pensionato di sessantaquattro anni, residente al piano di sotto. Lui si è intrattenuto a parlare con lei per sei minuti e ne ha persi altrettanti al telefono con un’operatrice di call-center. È uscito di casa con dodici minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale, per dirigersi in tabaccheria, dove doveva comprare due francobolli. La cliente successiva era una studentessa di sedici anni, che perdendo tempo all’interno del negozio non ha potuto salire sull’autobus che avrebbe dovuto condurla in città. Ha atteso il mezzo successivo, trascorrendo quasi trenta minuti alla fermata. Mentre attendeva ha incontrato un’amica di sua madre, che ha comunicato a quest’ultima l’accaduto. La studentessa e la madre hanno discusso del fatto piuttosto a lungo, facendo sì che quest’ultima sia giunta in ritardo di ventisette minuti all’appuntamento con una donna di trentacinque anni, parrucchiera a domicilio.

Quando Rebecca se ne va, dopo la tinta, il taglio e la messa in piega, Luana si prepara per uscire. È in ritardo, ma non ha importanza, a Luigi sono sempre piaciute le donne che fanno tardi. Dovevano vedersi alle cinque in punto, ma è chiaro come la luce del sole che non è fattibile. A causa del ritardo di Rebecca, ha iniziato a lavorare più tardi del solito.
A peggiorare la situazione sua madre rincaserà di lì a poco. Ricomincerà con le solite storie: Luigi non vale niente, Luigi rovinerà la vita a tutti, prima o poi, anzi no, ormai a lei l’ha già rovinata.
Luana non ne può più di quei discorsi senza capo né coda. Ne ha già sentiti abbastanza, negli ultimi sei mesi, come se non avesse il diritto di rifarsi una vita, dopo che suo marito è scappato con la segretaria.
Lo dice chiaro e tondo, quando sua madre le fa notare che potrebbe impiegare meglio il proprio tempo.
«Certo che hai il diritto di rifarti una vita» replica sua madre, «Ma al posto tuo eviterei di rifarmela con un uomo che è stato condannato per rapina a mano armata.»
«Quello era il passato» puntualizza Luana. «Adesso Luigi è cambiato.»
Dentro di sé, è quello che spera.
Sono le 17,57 quando finalmente esce di casa. Per arrivare da lui ci vogliono meno di cinque minuti.

Nella mattinata del 6 novembre una donna di trentadue anni si è tagliata con un bicchiere scheggiato. È uscita di casa con sette minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale. Lungo le scale ha incontrato un pensionato di sessantaquattro anni, residente al piano di sotto. Lui si è intrattenuto a parlare con lei per sei minuti e ne ha persi altrettanti al telefono con un’operatrice di call-center. È uscito di casa con dodici minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale, per dirigersi in tabaccheria, dove doveva comprare due francobolli. La cliente successiva era una studentessa di sedici anni, che perdendo tempo all’interno del negozio non ha potuto salire sull’autobus che avrebbe dovuto condurla in città. Ha atteso il mezzo successivo, trascorrendo quasi trenta minuti alla fermata. Mentre attendeva ha incontrato un’amica di sua madre, che ha comunicato a quest’ultima l’accaduto. La studentessa e la madre hanno discusso del fatto piuttosto a lungo, facendo sì che quest’ultima sia giunta in ritardo di ventisette minuti all’appuntamento con una donna di trentacinque anni, parrucchiera a domicilio che, a causa di questo divario temporale è giunta a casa del suo fidanzato un’ora e sei minuti più tardi rispetto all’orario che avevano concordato.

Dal piano di sotto giungono degli strani rumori. Giuseppe ricorda ancora una volta le parole dei suoi figli. Tutti e due non fanno altro che ripetergli che un uomo della sua età non dovrebbe vivere da solo in una casa così isolata. Giuseppe li mette sempre a tacere: per lui la vita non avrebbe senso senza il suo orto e senza il suo recinto con le galline.
Adesso, però, ha paura che stia davvero succedendo qualcosa. Guarda la fotografia di Marisa, incorniciata alla parete, chiedendosi se la sua defunta moglie lo possa vedere in quel momento, se possa vegliare su di lui.
Ci vuole poco per realizzare che Marisa non potrà fare nulla per difenderlo. Nel momento in cui sente chiaramente il tonfo della porta d’ingresso che viene sfondata, Giuseppe afferra il suo fucile da caccia e si precipita al piano di sotto.
Vede un’ombra, probabilmente un ladro che pensava di trovare vuota la casa in cui lui e Marisa hanno vissuto insieme per più di quarant’anni, la casa in cui i suoi figli sono cresciuti. Chiunque sia, ha commesso un grave errore nell’abbattere la sua porta. Giuseppe alza il fucile e inizia a sparare.

Nella mattinata del 6 novembre una donna di trentadue anni si è tagliata con un bicchiere scheggiato. È uscita di casa con sette minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale. Lungo le scale ha incontrato un pensionato di sessantaquattro anni, residente al piano di sotto. Lui si è intrattenuto a parlare con lei per sei minuti e ne ha persi altrettanti al telefono con un’operatrice di call-center. È uscito di casa con dodici minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale, per dirigersi in tabaccheria, dove doveva comprare due francobolli. La cliente successiva era una studentessa di sedici anni, che perdendo tempo all’interno del negozio non ha potuto salire sull’autobus che avrebbe dovuto condurla in città. Ha atteso il mezzo successivo, trascorrendo quasi trenta minuti alla fermata. Mentre attendeva ha incontrato un’amica di sua madre, che ha comunicato a quest’ultima l’accaduto. La studentessa e la madre hanno discusso del fatto piuttosto a lungo, facendo sì che quest’ultima sia giunta in ritardo di ventisette minuti all’appuntamento con una donna di trentacinque anni, parrucchiera a domicilio che, a causa di questo divario temporale è giunta a casa del suo fidanzato un’ora e sei minuti più tardi rispetto all’orario che avevano concordato. Lui, un disoccupato con numerosi precedenti penali, l’ha attesa soltanto per un’ora. Sei minuti prima del suo arrivo è uscito, diretto verso un’abitazione rurale, in cui credeva di non trovare nessuno, con l’intento di trovare qualcosa con cui saldare parte dei propri debiti.

Anna scende dalla macchina, che ha lasciato sul bordo della strada asfaltata. Procede a piedi, diretta verso la casa del contadino dal quale compra sempre le uova. Ha l’impressione che siano migliori rispetto a quelle del supermercato.
Si stringe nel suo cappotto rosso e alza la mano destra, sul cui palmo è applicato un ampio cerotto, per sistemarsi meglio la sciarpa di lana. Non ha idea di quanti fatti siano accaduti a causa del suo bicchiere scheggiato. Non lo scoprirà mai, ma il cerchio sta per chiudersi.

Nella mattinata del 6 novembre una donna di trentadue anni si è tagliata con un bicchiere scheggiato. È uscita di casa con sette minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale. Lungo le scale ha incontrato un pensionato di sessantaquattro anni, residente al piano di sotto. Lui si è intrattenuto a parlare con lei per sei minuti e ne ha persi altrettanti al telefono con un’operatrice di call-center. È uscito di casa con dodici minuti di ritardo rispetto alla sua stima iniziale, per dirigersi in tabaccheria, dove doveva comprare due francobolli. La cliente successiva era una studentessa di sedici anni, che perdendo tempo all’interno del negozio non ha potuto salire sull’autobus che avrebbe dovuto condurla in città. Ha atteso il mezzo successivo, trascorrendo quasi trenta minuti alla fermata. Mentre attendeva ha incontrato un’amica di sua madre, che ha comunicato a quest’ultima l’accaduto. La studentessa e la madre hanno discusso del fatto piuttosto a lungo, facendo sì che quest’ultima sia giunta in ritardo di ventisette minuti all’appuntamento con una donna di trentacinque anni, parrucchiera a domicilio che, a causa di questo divario temporale è giunta a casa del suo fidanzato un’ora e sei minuti più tardi rispetto all’orario che avevano concordato. Lui, un disoccupato con numerosi precedenti penali, l’ha attesa soltanto per un’ora. Sei minuti prima del suo arrivo è uscito, diretto verso un’abitazione rurale, in cui credeva di non trovare nessuno, con l’intento di trovare qualcosa con cui saldare parte dei propri debiti. È stato sorpreso dal proprietario della casa, un agricoltore di settantacinque anni, che ha tentato di sparargli col suo fucile da caccia. Sfortunatamente ha colpito a morte una donna che si stava recando a casa sua ad acquistare delle uova, la stessa che quella mattina aveva inavvertitamente rotto un bicchiere, dando vita a una complessa e incredibile catena di eventi.

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Capitolo 6
*** Mostri in laboratorio ***


MOSTRI IN LABORATORIO

C’è chi dice che abbiamo ricordi soltanto a partire dal momento in cui vediamo per la prima volta la luce. Forse è davvero così. In attesa di essere forte abbastanza per distruggere l’involucro che mi imprigionava, mi sembrava che qualcosa filtrasse. Era la luce, ma ancora non lo sapevo. Nessuno me l’aveva spiegato, ma non ero da solo. Ce n’erano tanti altri come me, racchiusi in involucri chiari, nascosti tra la vegetazione, perché qualche predatore non ci trasformasse in un lauto pasto.
Poi tutto cambiò. Un giorno spezzai l’involucro. Non fui il solo: mi guardai intorno spaesato e vidi tanti altri come me, che spezzavano quelle cose tondeggianti che, mia madre mi avrebbe raccontato, si chiamavano uova.
La luce era forte, ma a poco a poco mi ci abituai. La voce di mia madre era confortante... o almeno lo fu finché non iniziò a raccontare strane storie a me e ai miei fratelli. Non erano storie molto rassicuranti, parlavano tutte di mostri: animali strani, enormi e senza coda, che stavano in piedi sulle loro zampe posteriori e che comunicavano con una voce strana. Erano mostri terribili che, se ci trovavano nei loro giardini, ci scacciavano oppure ci facevano del male.
Io avevo paura, anche se sapevo, dentro di me, che i mostri non esistevano.
Una volta glielo dissi.
«I mostri non ci sono.»
«Lo pensi perché non ne hai mai incontrato uno» ribatté mia madre, «E ti auguro di non incontrarlo mai.»
Per un attimo mi sentii rassicurato: dentro di me ero sicuro che non mi sarei mai ritrovato davanti chi non esisteva.
Vivevamo ancora tra la fitta vegetazione, dove l’unico pericolo erano i predatori che non riuscivano a entrare nelle nostre tane. Mia madre se la cavava bene, a costruire tane.
Un giorno le chiesi, timidamente, se anche i mostri avessero delle tane. Lei mi raccontò che le loro dimore erano fatte di mattoni e a volte erano tanto alte da arrivare fino al cielo.
«Non è vero» la accusai, «Dici che i mostri esistono, ma in realtà non esistono.»
Invece non andò così: un giorno i mostri mi rapirono e mi portarono via dal mio bosco, dalla mia famiglia... e da tutto il resto.
Venni infilato in uno strano contenitore, che non somigliava per niente all’uovo che mi aveva intrappolato prima che fossi grande abbastanza per uscirne. Nel mio vecchio involucro potevo vedere un po’ di luce, mentre da quella scatola non vedevo niente. E poi si soffocava.

Quando tornai a vedere ero infilato dentro qualcosa di trasparente. Non potevo uscire, ma potevo vedere la luce. Eravamo dentro un’altra scatola, che ai lati e in alto era bianca. La luce veniva dall’alto: non era quella del sole, ma era originata da una palla bianca attaccata alla parte più alta della scatola. Forse non eravamo davvero in una scatola: doveva essere una delle strane costruzioni che i mostri realizzavano.
“No” mi dissi, “I mostri non esistono.”
Fu a quel punto che ne vidi due: erano proprio come li descriveva mia madre, enormi, in piedi sulle zampe posteriori, con uno sguardo crudele.
«Lasciatemi andare via» li pregai. «Voglio tornare nel mio bosco, dalla mia mamma e dai miei fratelli.»
Non lo fecero. Forse non mi capirono: ero sicuro che non conoscessero la mia lingua. Io imparai in fretta la loro e, nel tempo che passai in quella scatola, che in realtà loro chiamavano laboratorio, scoprii che erano un mostro maschio e un mostro femmina. Non avevo idea di quale fosse il loro scopo, ma parlavano sempre di scoperte scientifiche. Io non sapevo che cosa fossero, ma avevo l’impressione che riguardassero me.
Scoprii che non mi sbagliavo. Dopo giorni e giorni intrappolato dentro strani contenitori, nutrito dal loro cibo, che non era buono quanto quello che si trovava nel bosco, mi presentarono davanti qualcosa che aveva un odore strano.
Ero un po’ riluttante. Forse avrei fatto meglio a non mangiarlo, anche se avevo fame.
Il mostro femmina non ne fu molto soddisfatto. La sentii protestare con il suo compagno: «Secondo me dovremmo cambiare lucertola. Quell’obbrobrio non ci farà mai vincere un Nobel.»
Il mostro maschio rise di gusto.
«Dipende tutto da come andranno le cose. Abbiamo formulato una teoria sensazionale...»
«Ma non abbiamo ancora verificato» gli ricordò il mostro femmina, «Che la teoria sia riscontrabile anche nella pratica.»
«Lo verificheremo» la rassicurò il mostro maschio. «Quell’obbrobrio di lucertola si deciderà a mangiare, se non gli daremo null’altro. Se anche le nostre scoperte non saranno riconosciute dalla scienza accademica, senza ombra di dubbio i nostri mangimi potenziati ci faranno fruttare un sacco di soldi. Quanti allevatori vorranno utilizzarli per i loro animali? Cresceranno più del dovuto e costeranno di più, inoltre potranno chiedere anche un’extra: non è cosa da tutti giorni avere animali così grandi. E poi quell’obbrobrio non è una lucertola.»
«Lo sembra.»
«Le lucertole non vivono nell’acqua.»
Nemmeno io vivevo nell’acqua, anche se mia madre ogni tanto mi aveva portato a fare una nuotata. Diceva che potevamo stare sia dentro sia fuori. A me, però, il bagnato non piaceva. Preferivo le foglie, i rami secchi e la nostra tana buia.
«Non è rilevante dove viva questo obbrobrio» precisò, a quel punto, il mostro femmina. «Quello che conta è che il nostro mangime faccia effetto.»
Io decisi che non me ne sarei nutrito, qualunque cosa fosse. Pensavo di avere una forte capacità di resistenza, ma realizzai che non ce l’avevo: proprio come il mostro femmina, che non faceva che lamentarsi del fatto che il suo peso aumentasse perché non riusciva a contenersi davanti al cibo, anch’io finii per avventarmi su quell’alimento dallo strano odore.
L’odore era insolito, ma il sapore era molto buono. Mia madre avrebbe storto il naso, proprio come il mostro femmina diceva di storcere il naso quando i suoi figli preferivano ingozzarsi di confezioni di uno strano cibo per mostri chiamato patatine alla paprika piuttosto che di un altro strano cibo per mostri chiamato arrosto di manzo.
Mangiai cibo che a mia madre non sarebbe piaciuto per tanto tempo, forse troppo a lungo. Il mostro maschio e il mostro femmina mi mettevano giorno dopo giorno dentro scatole più grandi, perché crescevo a vista d’occhio.
Poi una notte mi lasciarono una porzione extra di cibo. Convinto di non avere più nulla da perdere, lo divorai con foga.

Frammenti del contenitore in cui ero tenuto prigioniero furono scagliati dalla sua rottura sulle quattro pareti che avevo intorno. Il mangime transgenico, ingerito in quantità industriale, aveva avuto un effetto che andava oltre le previsioni.
Ero enorme, al punto tale che rischiavo di rovesciare ogni cosa contro la quale sbattessi.
Probabilmente attirato dal rumore, sopraggiunse il custode dello stabile in cui si trovava il laboratorio. Era anche lui un mostro, che ogni tanto veniva a informarsi su come procedesse il lavoro dei due mostri che avevano distrutto la mia vita.
Lo sentii urlare. Chiamava qualcuno a gran voce. Io lo guardai senza capire.
“Cosa sta succedendo?” avrei voluto chiedergli. “Tu stesso sapevi come sarebbe andata a finire.”
Fu in quel momento che realizzai che forse qualcosa era andato storto.
Una gran folla si radunò nel giro di pochi istanti. Mi ritrovai davanti un intero esercito di mostri. Uno di loro gridò, indicandomi: «Cos’è quel mostro?»
Rimasi spiazzato. Non potevo essere un mostro. I mostri erano loro: erano tutti come mia madre me li aveva descritti. Non c’era null’altro da fare, se non fuggire darmi alla macchia. Non ero sicuro, però, di dove avrei potuto nascondermi.
Mi avviai verso la porta, affrontando con coraggio i mostri che mi si paravano davanti. Furono loro a correre via, mentre cercavo di non rimanere incastrato tra i due stipiti. Li guardai mentre si allontanavano in gran fretta e, per la prima volta da quando avevo iniziato ad avere a che fare con loro, mi accorsi che mi apparivano incredibilmente piccoli e spaventati.
Sorrisi tra me e me, pensando a quella strana inversione di ruoli: i mostri mi vedevano come un mostro e avevano paura di me.
Ricordai, però, gli avvertimenti di mia madre: i mostri, alla cui specie appartenevano quelli che mi avevano catturato e trasformato nella loro cavia da laboratorio e sottoposto a un ingegnoso processo scientifico all’avanguardia, quando erano spaventati diventavano ancora più pericolosi. Mi aveva raccontato che possedevano strani oggetti chiamati armi, con i quali potevano togliere la vita alle creature innocenti come noi.
Dovevo affrettarmi, se volevo trovare la strada con cui tornare a casa... anche se, sospettavo fortemente, anche mia madre mi avrebbe visto come un mostro. Per un attimo mi chiesi se non fosse meglio rimanere lì e permettere ai veri mostri di eliminarmi. Solo quando sentii le urla placarsi cominciai a correre più in fretta che potevo, nella notte rischiarata da strane luci che non somigliavano a quella del sole, ma sorgevano in cima a dei pali posizionati ai lati della strada.

Trovai un luogo in cui nascondermi. Mi ero allontanato dalle strade, mi ero allontanato da tutto e da tutti, proprio mentre il cielo a oriente cominciava a colorarsi di rosso.
Guardai il lago che mi ritrovavo davanti e compresi che, con tutta probabilità, era una buona soluzione: potevo vivere anche nell’acqua e avrebbe potuto nascondere meglio le mie strane forme, proteggendomi dallo sguardo dei mostri.
Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse individuarmi. Ai mostri, a quanto sembrava, piaceva occuparsi di quelli come me. Facevamo notizia, perciò i mostri si piazzavano in prima linea, con strani strumenti che emanavano flash. Mia madre mi aveva raccontato, quando ancora non ero stato separato da lei, che usavano quegli aggeggi per produrre ritratti. Che cosa facessero con quei ritratti, era un mistero. Considerando che si trattava di mostri, era probabile che li usassero per qualche scopo non troppo rispettabile.
Protetto dalle acque incontaminate del lago, comunque, finii per sentirmi libero. I mostri mi guardavano, ma non facevano nulla per avvicinarsi a me. Questo era un passo avanti che non si poteva sottovalutare. Mi rendeva felice. Più erano lontani e meno si sarebbero rivelati dannosi.
Poi accadde l’inevitabile. Finii addirittura per essere io ad avvicinarmi ai mostri. Ce n’erano due piuttosto piccoli, che si erano allontanati dagli adulti che li avevano accompagnati. Sebbene fossero mostri, e in quanto tali fossero brutti come la fame, avevano comunque un’aria simpatica. Chissà, magari avremmo addirittura potuto fare amicizia.
Mi spinsi verso la riva e li guardai. Cercai di mostrare loro quello che somigliava a un sorriso, senza avere la più pallida idea di come fare.
Per un attimo pensai che non fossero davvero pericolosi. Poi gettarono tra le acque fino a quel momento incontaminate del lago due lattine rosse e un involucro di quello strano cibo per umani chiamato patatine alla paprika.

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Capitolo 7
*** To cook or not to cook, this is the question ***


TO COOK OR NOT TO COOK, THIS IS THE QUESTION

“C’è del marcio in Danimarca” borbottò nonna Carolina, “e anche dentro al frigo...”
C’era una vaschetta con i pomodori, là nell’ultimo ripiano. Se n’era dimenticata e lo spettacolo era agghiacciante. Doveva eliminarli e, oltretutto, doveva anche bonificare il frigorifero.
Il ticchettio dell’orologio le ricordava che si stava facendo tardi. Erano già le undici e venti ed era indietro coi lavori. Doveva provvedere al pranzo, ma aveva bisogno di ispirazione.
Si diresse dall’altro lato della cucina, dove in un angolo l’albero di Natale la abbagliava con le sue luci intermittenti.
«Che cosa ne dici?» domandò all’albero sintetico.
Con suo grande dispiacere quell’enorme albero non proferì parola. Che fosse perché, non essendo antropomorfo, non era dotato di mente pensante?
“Dev’essere senz’altro così” pensò nonna Carolina e spostò lo sguardo sul presepe.
Qualcuno doveva risponderle al più presto.
Tentò un colpo di fortuna.
«Mezze penne con rucola e gamberetti o spaghetti al tonno?»
La statuina di San Giuseppe, a cui si era rivolta, non proferì una sola parola. Nonna Carolina valutò la possibilità di rivolgersi all’asinello, sperando che almeno lui la degnasse di un briciolo di attenzione.
Non fu così. Nonna Carolina, però, decise di non demordere. L’indifferenza dell’asino - o meglio, della statua che lo raffigurava - non la turbò. Prese addirittura a raccontargli di sua nipote.
Antonella, una giovane donna sulla trentina - nonna Carolina non era un genio nel ricordare delle età delle persone, specie se erano molto più giovani di lei - rappresentava il cento per cento dei suoi discendenti diretti ancora in vita. Non era sposata, probabilmente non si sarebbe sposata mai e da sei mesi si era trasferita chissà dove.
Non tornava mai, ma per le vacanze di Natale di quell’anno aveva fatto un’eccezione.
«Presto ci rivedremo» comunicò all’asinello, «E la mia intenzione era cucinarle il suo piatto preferito.»
Purtroppo, però, non ricordava quale fosse il suo piatto preferito.
Tornò a spostarsi dall’altro lato della cucina, aprì il mobiletto nel quale teneva i tegami e decise di mettersi all’opera, prima che fosse troppo tardi.
«Mezze penne con i gamberetti e la rucola» deliberò. «Così è deciso, l’udienza è finita.»
Sperava ancora in una risposta dell’asino, ma ciò non accadde. Ne avrebbe parlato con Antonella.
“Anzi, no.”
Tutto sommato sarebbe stata una pessima idea. Antonella avrebbe potuto consigliarle di consultare un medico e di raccontargli di avere preso l’abitudine di chiedere consigli culinari alle statuette del presepe. Quale sarebbe stato il suo destino, in tal caso? Il dubbio era atroce.
“Ma non sarà mai atroce come l’altro dubbio che mi tormenta!”
Che cosa ne era stato della rucola? Era marcita come i pomodori o era ancora nel pieno del suo splendore?
Aprì il frigorifero e scoprì che nessuna delle due versioni era corretta. La rucola si era afflosciata, ma facendole fare un bagno rigenerante in un recipiente pieno d’acqua poteva esserci qualche margine di recupero.
Con un sorriso sulle labbra provvide a compiere quell’impresa, con il ticchettio dell’orologio che le ricordava che di lì a poco Antonella sarebbe arrivata.
La rucola, con suo grande compiacimento, sembrò riprendersi almeno un po’. Nonna Carolina esultò. Stava per urlare dalla gioia, ma si trattenne. Perché di colpo aveva quella strana sensazione di essere osservata?
“È impossibile.”
Era sola in casa. Anzi, erano in due: sua nipote Antonella le aveva lasciato in “eredità” il suo animale da compagnia, il piccolo Hamlet. Ma Hamlet - così battezzato in onore della sua passione per la letteratura inglese - era in un’altra stanza, dentro la sua gabbietta, a correre lungo la ruota. A nonna Carolina, comunque, era sempre sembrata una bestiona significante, che non avrebbe mai compreso la vera essenza della vita umana.
La sensazione di essere osservata svanì all’improvviso, mentre prendeva fuori due tegami. Aveva già aperto il mobiletto che li conteneva, ma fino a quel momento erano rimasti inermi là dentro. Non poteva più attendere oltre.
«La vita è fatta di bilance» declamò nonna Carolina, compiendo quella semplice operazione. «Se hai il coraggio di chiudere gli occhi e di non leggere il tuo peso, ti senti molto più leggera.»
Quello era il paradosso della bilancia, una delle migliori teorie che avesse mai formulato in poco meno di settantacinque anni. Per quanto la riguardava, faceva parte della ristretta cerchia di eletti che si sentono leggeri, almeno a livello teorico. A livello pratico, in realtà, si sentiva spesso molto pesante, ma quello era un dettaglio che non aveva molto rilievo.
Di colpo tornò ad assalirla la sensazione di poco prima. Qualcuno la teneva d’occhio.
“Che sia l’asinello?”
Abbandonò il piano cottura e tornò a dirigersi verso il presepe. Tutto era immobile, e questo non sarebbe stato grave, di per sé, se non lo fosse stata anche la statuetta dell’equino.
Si guardò intorno. Non capiva perché, ma continuava a sentirsi tenuta sotto osservazione.

Quella donna si chiamava Carolina, altrimenti nota come nonna Carolina, per via della sua ormai veneranda età.
Quella cosa strana, sulla quale si potevano accendere fiamme dalle sfumature blu, si chiamava fornello. Serviva per cucinare cibo umano, ben diverso dai croccantini.
Quelle foglie verdi, che nonna Carolina stava sminuzzando su un tagliere, si chiamavano rucola. Anche quella non aveva lo stesso sapore delizioso dei croccantini.
Hamlet contemplava la scena con grande interesse.
“Gli umani sono proprio tipi strani!”
Per fortuna ogni tanto erano un po’ sbadati: nonna Carolina gli aveva dato da mangiare i suoi preziosi croccantini, un paio d’ore prima, e si era dimenticata di richiudere la gabbia. Hamlet, ovviamente, ne era stato molto soddisfatto. Era uscito di soppiatto, pronto a perlustrare quella piccola parte di mondo che aveva sempre desiderato vedere, anche se non gli era mai stato concesso.
Un tempo Antonella lo lasciava scorazzare qua e là, di tanto in tanto, ma quando era stato affidato alle amorevoli cure di sua nonna tutto era cambiato. Quella donna, con tutta probabilità, non era mai stata affascinata dai roditori...
Hamlet si perse qualche istante a sognare: sarebbe stato bello vivere in un mondo governato dai criceti, in cui gli umani stavano chiusi dentro le gabbie.
No, quello era un pensiero senza senso. Perché mai avrebbero dovuto tenere gli umani dentro le gabbie? Soltanto per ammirare la loro presenza?
“È meglio lasciar perdere.”
Nonna Carolina stava trafficando davanti al fornello e Hamlet, dopo essersi arrampicato di soppiatto su uno dei mobili della cucina, continuò a contemplarla.
Dentro un tegame c’era dell’acqua che attendeva di bollire. Il modo di cucinare di nonna Carolina non era tanto diverso da quelle che erano le abitudini di Antonella, prima che facesse le valigie e se ne andasse dall’altra parte del mondo insieme a un promoter finanziario indagato per truffa ai danni degli investitori.
Hamlet non era esperto di arte culinaria - tutto il cibo che non somigliava ai croccantini, di base, non lo interessava, così come il processo che serviva per cucinarlo - ma sapeva che nonna Carolina aveva intenzione di cuocere della pasta. Infatti, subito dopo, la vide prendere fuori un pacchetto di penne rigate. Tra l’altro erano penne molto più corte rispetto a quelle che prediligeva Antonella, dovevano essere circa la metà.
Nell’altro tegame che aveva messo sul fornello, intanto, qualcosa stava soffriggendo. Hamlet guardò attentamente. Era qualcosa che aveva lo stesso colore delle arance, ma che non somigliava neanche lontanamente alle arance...

Nonna Carolina terminò di tritare la rucola. La mise nel tegame in cui i gamberetti si stavano cuocendo. Alzò la fiamma, guardando il condimento mentre scoppiettava, rendendosi conto che, nella vita, gli eventi si suddividono in due categorie: quelli che contano e quelli che non contano. La possibilità di avere difficoltà di digestione faceva senz’altro parte della seconda categoria.
“E chissà, magari rientra nella seconda categoria anche il fatto di udire dei passi sulla cappa...”
Era come se un topo vi stesse passeggiando, anche se era impossibile.
«O magari no...»
Qualche animale dall’aria bizzarra poteva essere entrato in casa a sua insaputa.
Alzò lo sguardo e vide qualcosa che correva.
Stava per lanciare un urlo, ma lo riconobbe.
«Hamlet! Dannatissimo roditore, come sei arrivato qui?! Non dovresti essere chiuso nella tua gabbietta?»
Quel criceto le stava complicando la vita. L’avrebbe fatto presente a sua nipote: le avrebbe suggerito di portarlo con sé nella sua nuova casa, ovunque abitasse.
“Io ormai sono troppo anziana per badare a un animale così veloce e scattante.”
L’animale veloce e scattante, però, per il momento era un problema suo. Era sul bordo della cappa che, con un certo interesse, guardava al di sotto.
«Sto cucinando» lo informò Nonna Carolina. «Voi criceti non vi intendete di cucina, quindi non guardarmi così!»
Il criceto non la degnò di uno sguardo. Continuava a fissare il fornello. Poi accadde l’irreparabile.

“BANZAAAAAAAAAIIIIIIIIII!”
Hamlet avrebbe voluto poter disporre di una voce, per urlare mentre si lanciava giù. Mancò il fornello e precipitò sul pavimento.
Era stato un bel volo, ma fortunatamente era ancora tutto intero, anche se tormentato dai dubbi.
Perché quell’amabile signora non permetteva a un innocuo criceto di ammirare con l’attenzione degna di un momento così solenne la cottura del pranzo?
Perché quelli della sua specie non erano stati in grado di inventare rudimentali fornelli sui quali cuocere il proprio cibo e dovevano invece dipendere dagli umani che compravano loro scatole di croccantini?
Perché Nonna Carolina sbraitava, agitando un cucchiaio nella sua direzione?
«Non dovresti essere qui, maledetto topo!»
Maledetto topo?! TOPO?! Perché Nonna Carolina non era in grado di distinguere un topo da un criceto?
Poi la sentì urlare.
«No!»
Nonna Carolina, senza più degnarlo di uno sguardo, si concentrò sul fornello. Forse aveva bruciato qualcosa.
Prese a mescolare il condimento e, nella foga, qualcosa volò in aria.
Qualcosa che aveva lo stesso colore delle arance ma che non era un’arancia giunse fino al pavimento.
Hamlet si avvicinò rapidamente, mentre Carolina si girava.
«Oh, no, è caduto un gamberetto!»
Dunque, realizzò Hamlet, quello era un gamberetto. Aveva un’aria invitante, ancora di più dei croccantini.
Gli si gettò addosso. Aprì la bocca e ne assaporò finalmente il sapore.
Ebbene sì, i gamberetti di nonna Carolina erano migliori rispetto ai croccantini...

 

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Capitolo 8
*** Venerdì 13 ***


VENERDÌ 13

"Oggi è venerdì 13", diceva la radio, quando si è accesa in automatico, nell'avviare la macchina.
Ho infilato un CD nel lettore, perché non avevo voglia di sentire parlare di venerdì 13. Un tempo si diceva che fosse il venerdì 17, quello che portava sfortuna, ma soprattutto non ho voglia di ascoltare gente che parla alla radio, qualunque cosa dicano.
Oggi è venerdì 13, ma non me ne importa niente, perché sarà una giornata come tutte le altre, in cui gente ignara del fatto che sia andata a letto alle tre di notte si lamenterà con me di essere stanca perché è andata a letto alle tre di notte.
La radio non parla più, adesso risuona ad alto volume un CD masterizzato di una cantante di teen-pop. Ogni tanto ho momenti vintage, che mi riportano a quando avevo diciotto o diciannove anni.
Per forza che ho momenti vintage, sarebbe di una noia mortale ascoltare ogni giorno gente che parla di venerdì 13, di notizie attira-click vecchie di una settimana e già smentite da qualche giorno, che mi esorta a mandare loro messaggi watsapp per raccontare cosa sto facendo... e tutto per farmi sentire una canzone ogni dieci minuti.
È venerdì 13, ma non è la ragione per cui qualcosa non funziona, un ingranaggio salta e con esso salta anche tutto il resto.
Niente venerdì 13, niente notizie attira-click, niente wattsapp... non ho wattsapp e se anche ce l'avessi non lo utilizzerei per raccontare a quelli della radio che sono per strada.
Per strada c'è gente che va ai due all'ora. Non sono vecchi con il cappello di paglia in testa, probabilmente sono troppo impegnati a mandare messaggi su wattsapp mentre sono al volante.
La canzone che esce dallo stereo è ritmata, è movimentata.
Mi piace di più la seconda parte del CD, con le sue canzoni tristi e malinconiche, ma in questo momento sono incazzata e non ho voglia di tristezza e malinconia.
Ci sono lavori in corso, c'è un senso unico alternato, c'è un piccolo semaforo rosso in mezzo alla strada.
Mi fermo e alzò gli occhi, controllo nello specchietto se c'è qualcuno dietro di me. Mi sento braccata, inseguita dalla consapevolezza che qualcosa di spiacevole si stia per abbattere su di me.
Non è la prima volta, conosco questa sensazione, saprei come combatterla, ma oggi la vedo dura.
"Perché è venerdì 13", direbbero alla radio, e non perché stavo al computer fino a venti minuti fa.
Adesso sono impegnata in una lunga corsa contro il tempo e non ho tempo per chiedermi quanti caffè abbiano già bevuto tutti quelli che tra poco si lamenteranno di essere troppo stanchi per tenere gli occhi aperti.
Non ho tempo nemmeno per chiedermi quante ore dormirò questo weekend, come trascorrerò questo weekend e come arriverò a domenica sera.
Ancora non lo so, che domenica sera il ricordo di un venerdì 13 si fonderà, a modo suo, con l'aura nefasta del venerdì 17.
Nessun giorno, di per sé, ha un'aura nefasta, ogni data ha il solo significato che le vogliamo attribuire.
So quali sono, per me, i giorni nefasti, e anche se in questo momento ho l'acqua alla gola mi sento libera, libera di dimenticare la radio, libera di ascoltare una ragazzina che canta a proposito di feste e amori eterni, perché quando hai diciotto anni se ti ecciti per qualche secondo pensi già che sia amore eterno.
Poi tutto finisce.
Superati semafori e persone che vanno ai due all'ora perché sono impegnati a smanettare sullo smartphone, nulla mi separa più dalla mia missione da compiere.
Rallento un attimo, nel guardare un signore anziano che cammina appoggiato a una bicicletta carica di sacchetti della spesa. In passato lo incrociavo ogni venerdì. Non lo vedevo da tempo. Pensavo che...
...
...
...meglio non dirlo.
Riprendo velocità, poi rallento di nuovo nel passare sotto all'autovelox e nello svoltare a sinistra, verso la via desolata.
Parcheggio.
Scendo.
Mi sento ancora braccata, ma trovo il tempo di controllare che la portiera si sia chiusa a chiave. Non mi fido tanto del telecomando.
Inizio a correre.
Forse non è troppo tardi, forse tutto andrà per il verso giusto.
Continuo a correre, fino al momento della verità.
Alla fine striscio il badge, un attimo prima che sia troppo tardi. Anche oggi non sono arrivata in ritardo.

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Capitolo 9
*** Mentre bevi il mio sangue ***


MENTRE BEVI IL MIO SANGUE

Ci sono persone comuni e altre fuori dal comune, questo è un dato di fatto. C’è chi non osa l’impossibile, chi non ha l’opportunità di conoscere il vero senso della vita. Io mi sono sempre distinto dalla massa ed è per questo che ho sempre saputo che avrei conquistato qualsiasi donna. purtroppo per loro non me ne importa niente di essere un compagno perfetto, uno di quelli che aiutano la moglie a fare la spesa, che d’estate la portano al mare e che passano ogni sera della loro vita a guardare in TV stupidi programmi di varietà che non hanno nulla di gradevole se non il lato B di una soubrette in mini-abito e tacchi a spillo. Certo, nelle mie lunghe notti insonni ho fatto anche questo, finendo con lo scoprire il fascino di Stefi. Ha venticinque anni e apre buste con le risposte ai quesiti dell’ennesimo telequiz. Qualcuno sosterrebbe che ne sia ossessionato, ma non è così. C’è qualcosa di inumano in lei e voglio vederci chiaro. È per questo che sotto falso nome ho preso in affitto questo appartamento con un’ampia cantina sotterranea. Là dentro darò sfogo a tutte le mie più oscure fantasie.
Stefi sorride nel teleschermo e io sorrido con lei. Domani mattina agirò, è il momento giusto, dopo gli ultimi mesi passati a pedinarla.
Quando le riprese televisive terminano, Stefi si toglie il pesante trucco, si cambia e torna nel piccolo appartamento in cui vive, sotto il nome di Stefania Rossi. Da quell’appartamento esce ogni mattina in giacca, pantaloni e scarpe coi tacchi, per recarsi presso la facoltà universitaria dove un giorno si laureerà in giornalismo. Nel giro di dieci anni probabilmente condurrà un programma di attualità in seconda serata e non si spegneranno mai le voci sulla sua presunta incapacità, dato che in TV ha iniziato aprendo buste... Vale davvero la pena di lasciare andare avanti una simile carriera? Meglio mettere fine a tutto questo. Agirò domani mattina.

Stefi esce di casa dando un giro di chiave, mentre io attendo in silenzio sorbendomi le esalazioni sgradevoli provenienti dal cassonetto per la nettezza urbana dietro al quale mi sono nascosto. È vestita in maniera impeccabile e ha i lunghi capelli tinti di rosso rame raccolti in un elegante chignon. Esco dal mio nascondiglio e mi avvicino lentamente.
«Stefi!» esclamo. «Stefi, ti prego, firmami un autografo.»
Fa finta di non capire.
«Di che parla?»
Avrei dovuto aspettarmelo: Stefania Rossi, la secchiona che prende sempre trenta e lode, non va a raccontare in giro che lei è la stessa Stefi che mostra le gambe su TeleNotte e che in questi mesi mi ha provocato non poche erezioni.
«Non giocare con me, bambina» replico. «Io so chi sei.»
Scruto il suo volto diafano nella speranza di cogliere un minimo di paura, ma i suoi occhi del colore della pece mi stanno fulminando. Se pensa di ipnotizzarmi così, si sbaglia di grosso: lo fa ogni sera alle 23,30, lei, la mia deliziosa creatura della notte.
«Anch’io so chi sei» mi rivela, secca. «Mi hai seguita per giorni, credendo che fossi così cretina da non notarti. A che gioco stai giocando tu, piuttosto?»
«Non è colpa mia» mi giustifico. «Sei tu che mi provochi. Un tempo quelle come te le bruciavano sul rogo e poi finivano ad ardere tra le fiamme dell’inferno.»
Sembro un predicatore medievale fanatico, ma non importa. Devo liberarmi del peso che mi tormenta l’anima, e so per certo che non sarà facile quanto liberarmi del peso che ho spesso nei testicoli. Per riuscire nel mio scopo sono disposto a blaterare qualunque assurdità.
«Un tempo quelli come te non erano penalmente perseguibili» ribatte. «Ora il reato di stalking esiste.»
Come osa? Lei mi ossessiona al punto che la sogno ogni notte... e sostiene pure di avere ragione? Questa puttana da quattro soldi non mi conosce... ma è anche vero che mi domina.
«Stammi a sentire, ragazzina, io non ho mai permesso a nessuno di contraddirmi, specie a una creatura inferiore, come siete chiaramente voi donne.»
Il suo sguardo mi pare mutato, i suoi occhi scintillano.
«Perché, se ti contraddico cosa fai? Mi segreghi nella tua cantina, mi stupri, mi sgozzi e poi bevi il mio sangue?»
Sono davvero così scontato? Io credevo di avere avuto un’idea originale, e invece...
«Come lo sai?» le chiedo, imbarazzato.
«Tu mi hai seguita, ma io ho mille occhi e mi sono accorta che nascondevi qualcosa. Credevi di essere tu a tenere d’occhio me, invece era proprio il contrario.»
Avrei dovuto agire prima, come avevo fatto con le altre, non passare le notti a farmi delle seghe pensando al momento in cui avrei portato a termine il mio impegno.
Stefi mi fissa.
«Se mi prometti di non uccidermi, ti seguirò e potrai fare di me ciò che vuoi.»
Ho sentito bene? Per accertarmene mi avvicino a lei e le metto una mano sul seno. Sorride.
«In cantina farò ciò che vuoi, non qui in centro città.»
Giusto.
«Allora vieni con me» le ordino.
La porto verso la mia auto e lei sale a bordo, irradiata dall’odore dell’Arbre Magique al gelsomino. È fatta! Non mi aspettavo fosse così ingenua, è chiaro che morirà mettendo fine a tutte le mie ossessioni, come è successo a tutte le altre prima di lei.

Siamo arrivati. La faccio entrare in cantina, poi entro a mia volta. Non so ancora per quanto tempo mi divertirò, prima di dissetarmi. So che qualche moralista arriverebbe a credermi folle, ma non importa. Io sono nato per nutrirmi di sangue, proprio come un vampiro. L’ho fatto con studentesse svogliate e casalinghe disperate, ma ora è la volta di occuparmi di una piccola stella della TV. Sono nato per dissetarmi col sangue, come un vampiro... ma i vampiri non esistono, io sì.
Chiudo la porta a chiave e mi avvicino a Stefi.
«So che non hai cambiato idea» mi dice.
E allora perché è qui? C’è qualcosa che non torna. I suoi occhi inumani brillano di desiderio e mi rendo conto troppo tardi che non è desiderio erotico.
Cosa dicevo sui vampiri? Non ho tempo di ripensarci, mentre la mia ossessione mi conficca i canini nel collo.

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Capitolo 10
*** Profumo di sangue ***


PROFUMO DI SANGUE

Quando ero piccola, mio fratello mi spaventava con assurde storie su strane creature della notte. Dopo ogni racconto ero sempre più terrorizzata, credevo davvero che qualche strano essere potesse introdursi nella mia stanza mentre dormivo e mettere fine alla mia vita nel più doloroso dei modi. Nostra madre gli diceva di smetterla, che a vent’anni era troppo grande per spaventare una bambina. Lui non le dava ascolto e io, giorno dopo giorno, notte dopo notte, avevo sempre più paura.
Rivalutai le creature della notte quando una sera i suoi amici lo invitarono in un pub. Ero felice che fosse uscito, almeno per una volta avrei potuto addormentarmi senza i suoi racconti che mi ronzavano nella mente. Fu in quel luogo che conobbe quella che sarebbe diventata la sua futura moglie. All’epoca credevo che anche lei fosse una di quelle creature della notte. Se aveva portato via mio fratello, allora i suoi simili non dovevano essere poi così tremendi.
Il pub in cui si conobbero ha riaperto da poco. Lidia ha insistito tanto per andarci e io ho finito per acconsentire, anche se dovrei rimanere a casa a studiare.
Mia madre si accorge che non sono così convinta, mentre apro la porta.
«Ti senti ancora in colpa perché oggi hai passato sui libri le solite sette ore anziché otto?»
La guardo, imbarazzata.
«Sai quante madri vorrebbero avere una figlia come me?»
Lei, però, continua senza esitazioni: «Anche con sette ore di studio prenderai un altro trenta.»
Forse ha ragione, sette ore di studio sono abbastanza, per stasera posso dedicarmi a qualcos’altro.
Scendo le scale, le salgo di nuovo perché mi sono dimenticata le chiavi della macchina, torno a scendere e vado in cortile a raggiungere il mio bel gioiellino. D’altronde con quale termine dovrei descrivere una Panda di oltre trent’anni che non mi ha mai dato un solo problema?
Il pub è a meno di due chilometri di distanza, due chilometri di vie deserte e poco illuminate. Abitando fuori paese ho fatto l’abitudine a questo genere di strade.
Parcheggio a poca distanza dal locale. Scendo dal mio gioiellino e mi avvio verso quello che mi sembra un luogo di perdizione. Entro e mi accorgo che non lo è, almeno per chi è in grado di separarsi per qualche ora da testi universitari con centinaia di pagine.
Mi guardo intorno, alla ricerca di Lidia. Ho l’impressione che non ci sia.
Mi siedo a un tavolino vicino all’ingresso, restando in attesa. Lidia non c’è, ma non è un problema: è sempre in ritardo.
Passa mezz’ora, ma Lidia non si vede. Passa un’altra mezz’ora, nella quale sorseggio un succo d’arancia che probabilmente mi causerà acidità di stomaco. Passa ancora un po’ di tempo, nel quale mastico una chewing-gum senza zucchero per togliermi dalla bocca il sapore di quell’indigesto succo d’arancia. Dopo un po’ inizia a darmi il voltastomaco. La sputo in un fazzolettino di carta e la vado a buttare in un cestino, prima di tornare a sedermi al mio tavolo.
A quel punto qualcosa si muove. È il mio cellulare che vibra dentro la borsa.
Un messaggio ricevuto, mi avverte una scritta sul display. È Lidia. Bene, questo significa che è viva.
“Te lo ricordi Fabio, il cugino di Silvia? Quel gran bel figo di cui ti ho parlato la settimana scorsa? Mi ha chiesto di vederci, adesso sono con lui.”
Non le rispondo perché non voglio insultarla. Non è da lei dare buca alle persone, e in particolare non è da lei dare buca a me.
Getto distrattamente il cellulare dentro la borsa e avverto alle mie spalle una voce.
«Va tutto bene Clara?»
Mi giro e mi ritrovo faccia a faccia con una ragazza che pensavo non avrei visto mai più.
Qualche mese fa si sedette accanto a me sull’autobus che mi avrebbe condotta all’università. Teneva tra le mani un vecchio numero della Settimana Enigmistica. Mi lesse un paio di definizioni, perché non riusciva a compilare un certo cruciverba.
Non mi ricordo di averle detto il mio nome, ma evidentemente deve essere stato così.
«Sì, va tutto bene» rispondo, anche se sono consapevole di non sembrarne davvero convinta.
La ragazza mi indica il tavolino.
«Posso sedermi?»
Rifletto un attimo.
«Sì, certo.»
Perché dovrei dirle di no? Alla fine la mia serata è già sprecata, perché far sedere una sconosciuta di fronte a me dovrebbe peggiorare le cose?
Restiamo a guardarci per un attimo. I suoi occhi sono gelidi, ma non mi sembra che ce l’abbia con me; anche perché, in fin dei conti, che motivo avrebbe?
«Hai portato la Settimana Enigmistica anche stasera?» le chiedo, perché non so cos’altro dire. «Se vuoi ti aiuto.»
La ragazza sorrise.
«No, non ho portato nessuna rivista con me.»
«Che peccato.»
Lei scuote la testa.
«Magari potremmo approfittarne per chiacchierare un po’, Clara.»
«A proposito, come conosci il mio nome?»
«Me l’hai detto tu.»
Strano a dirsi, io non me ne ricordo.
«Tu come ti chiami?» le chiedo.
«Anna.»
Mi allunga una mano fredda e gliela stringo.
«È un piacere conoscerti.»
«Il piacere è tutto mio» risponde. Sembra sincera. «Non pensavo che ti avrei incontrata qui.»
«Frequenti spesso questo posto?»
«No, non esco tanto.»
Anna ridacchia.
«Guarda caso, l’avrei detto. Fin dalla prima volta in cui ti ho vista mi sei sembrata una secchiona.» Mi chiedo se dovrei offendermi, ma Anna si affretta a precisare: «Una di quelle secchione simpatiche, che sono disposte ad aiutare i compagni di classe in difficoltà. È quello che hai sempre fatto, vero?»
Mi ritrovo ad annuire. Sembra che Anna sappia molte più cose di me di quanto potrebbe. Per un attimo mi chiedo se non sia una pazza ossessionata da me che mi segue da anni.
“Che pensiero assurdo” mi dico subito dopo. “Perché dovrebbe?”
Non avrebbe alcuna ragione per farlo. Io non sono un soggetto interessante, o almeno non lo sono al punto tale da suscitare turbe psichiche in una donna.
È meglio cambiare discorso, in modo da togliermi dalla testa certi pensieri insensati.
«Bevi qualcosa?» le chiedo. «Offro io.»
Forse non dovrei essere così gentile nei suoi confronti, ma dopotutto perché no? La mia serata era rovinata, mentre il suo arrivo ha cambiato il senso delle cose.
«No, grazie» risponde Anna. «Non c’è bisogno che ti disturbi... anche perché non c’è niente che tu possa offrirmi.»
Non capisco il senso delle sue parole, ma cerco di non darlo a vedere.
«Non hai sete?»
«Ho molta sete, invece» puntualizza Anna, «Ma non è ancora arrivato il momento di bere.»
È una ragazza strana, questo l’ho già notato, perciò non do peso alle sue parole.
Le chiedo di lei, ma è molto evasiva. Scopro che le piacciono i cruciverba, i romanzi d’azione e i telefilm polizieschi che in TV vengono replicati da almeno trent’anni. A parte questo c’è il nulla più assoluto.
Per quanto mi riguarda, invece, mi ritrovo a raccontarle fin troppo di me. Non so come ci sono arrivata, ma mi scopro addirittura a parlare di mio fratello.
«S’è sposato da anni, ormai» le racconto, «Con una ragazza che ha conosciuto proprio qui.»
Anna annuisce.
«Magari anche tu, proprio in questo locale, conoscerai il tuo futuro marito.»
Mi affretto a scuotere la testa.
«Non penso proprio.»
«Perché no?» ribatte Anna. «Qualunque posto è buono per trovare l’amore della propria vita.»
Vorrei chiederle se lei, che pare tanto esperta, l’ha già trovato. Non lo faccio: sarei troppo invadente.
«Forse hai ragione» ammetto invece. «Un giorno, forse, ti saprò dire.»
«Non hai mai avuto un ragazzo, vero?»
Mi si legge in faccia, per caso? Oppure sembro una che ci sa talmente poco fare con gli uomini da farli scappare a gambe levate?
Anna interpreta il mio silenzio nel più azzeccato dei modi.
«Come sospettavo» deduce, «Non hai mai avuto un ragazzo.»
«E allora? È un problema?»
«Certo che no.» Anna abbassa lo sguardo e, quando alza di nuovo i suoi occhi glaciali, mi avverte: «Penso seriamente che dovresti fare attenzione e non andartene in giro da sola nel cuore della notte.»
«Infatti io non vado in giro da sola nel cuore della notte, di solito» puntualizzo. «Cosa c’entra, comunque, con il fatto di non avere mai avuto un ragazzo?»
La sua risposta mi lascia spiazzata.
«I vampiri preferiscono il sangue delle vergini.»
Alzo gli occhi al cielo.
«Ti sei messa d’accordo con mio fratello? Anche a lui piacevano questo genere di leggende senza senso.»
«Se fossi al tuo posto non le chiamerei leggende.»
«E va bene, come ti pare» mi arrendo. «Ora vorresti spiegarmi, se fosse così, come fanno i vampiri a sapere se una ragazza è vergine oppure no? Prima di nutrirsi del suo sangue la portano a fare una visita ginecologica?»
Anna ride, anche se non mi sembra di avere detto nulla di particolarmente divertente.
«Questa è proprio bella, non l’avevo ancora sentita» ammette. «È interessante il tuo punto di vista, ma purtroppo non corrisponde a realtà. Lo capiscono benissimo: prima il sangue emana profumo di donna.»
«E dopo?»
«Viene contaminato: puzza di uomo.»
«Non sapevo che gli uomini puzzassero.»
«Secondo i vampiri maschi sì, quindi preferiscono evitarlo. Sai, sono molto più schizzinosi delle vampire femmine...»
«Questo mio fratello non me l’aveva mai raccontato.»
Anna annuisce.
«Mi sembra normale. Dubito che tuo fratello abbia mai incontrato molti vampiri.»
«Perché, tu sì?»
Anna non risponde, ed è meglio così. Ho il sospetto che sia completamente pazza.
Decido di cambiare discorso, sperando di non finire per sfoderare qualche tormentone come quelli di mia nonna, convinta da sempre che gli anni della seconda guerra mondiale siano stati i migliori della storia dell’umanità e che rimpiange tutto di quell’epoca. Sono sicura, però, che mentre gioca a tombola o balla il valzer al centro anziani non senta la mancanza di un bombardamento.
Prima di avere il tempo di trovare un argomento interessante, però, Anna si alza in piedi e se ne va, senza dire una parola. Ne ho le prove: è davvero matta!
Vado a pagare il mio succo d’arancia e poi esco. Percorro il tratto di strada che mi separa dal mio gioiellino. Salgo a bordo, infilo la chiave e metto in moto.
«Dannato gioiellino!» mi ritrovo a urlare poco dopo. «Hai deciso che dovevi dimostrarmi proprio stanotte di essere un dannatissimo catorcio?»
Per quanto possa sembrarmi incredibile, la fedele Panda che non mi ha mai lasciata a piedi ha deciso di scioperare.
Avverto dei passi dietro di me.
«Vuoi un passaggio?»
L’individuo che si è rivolto a me non mi toglie gli occhi di dosso. Sono più gelidi di quelli di Anna.
«No, grazie, vado a piedi. Abito qui vicina.»
Accettare un passaggio da parte di uno sconosciuto sarebbe stata una pazzia, perciò inizio a camminare in fretta, decisa ad arrivare a casa il prima possibile.
Le strade buie mi proteggono... o almeno è quello che penso. Avrò fatto mezzo chilometro, quando sento dei passi alle mie spalle.
«Ehi, te l’avevo chiesto se volevi un passaggio!»
Non mi fermo. È ancora il tizio del parcheggio e questo non mi rende tranquilla.
Lui mi raggiunge in pochi istanti... e non è solo: ce ne sono altri tre insieme a lui e dubito che abbiano buone intenzioni.
In un attimo mi sono addosso. Ripenso alle parole di Anna, a quello che mi ha detto dei vampiri.
“Non essere ridicola” mi ordino. “Questi non sono vampiri.”
Sono pazzi esaltati, che mi faranno del male e probabilmente mi uccideranno. Mi pento di essere scesa dalla mia Panda: se non altro avrei potuto chiudermi dentro e aspettare che mi venisse un’idea migliore, come ad esempio chiamare qualcuno che potesse accompagnarmi a casa. Purtroppo si inizia a riflettere sempre nei momenti sbagliati.
Il tizio del parcheggio mi rompe la cerniera dei jeans proprio mentre sento una folata di vento freddo: è un gelo che ha il sapore della morte, o forse quello delle creature della notte di cui parlava mio fratello.
No, che assurdità! Non esistono quelle creature della notte... o forse sì.
All’improvviso il mio assalitore mi lascia andare. Sento i suoi complici urlare, prima di fuggire. Un attimo dopo vedo lui stramazzare al suolo. Sulla gola ha due fori inequivocabili.
Accanto a me vedo Anna.
«Te l’avevo detto» mi ricorda, con un sorriso stampato sulla bocca ancora insanguinata. «Le vampire femmine non sono schizzinose quanto i vampiri maschi: per noi il sangue profuma tutto.»

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Capitolo 11
*** Due ore ***


DUE ORE

Sono passati tanti anni da quel giorno. Non so dove tu sia, non so cosa ci sia adesso, tra i tuoi pensieri, ma voglio credere che almeno una parte di te si ricordi del passato che abbiano condiviso.
Ho provato a dimenticarti.
Ci ho provato e, ogni volta, all’improvviso, ho avvertito una fitta al cuore. Mi sono abituato a fare finta di niente, ma ogni giorno al tramonto vedo i tuoi occhi negli occhi degli altri. Ogni volta è come una coltellata, che non uccide, ma fa solo male.
Ne sono certo, avevi gli occhi tristi, quell’ultimo giorno. Sapevi già che sarebbe stata l’ultima volta.
«Tornerò» mi dicesti.
«Tornerai» confermai.
Eri pronto a voltarmi le spalle, ma ti fermasti all’improvviso.
«Mi mancherai.»
«Anche tu.»
Era una banalità, lo sapevamo entrambi. Era una banalità, ma in quel momento avevamo bisogno di banalità, come quando da bambino uscivi per andare a giocare con il figlio dei vicini e, con indifferenza, mi dicevi: “tornerò tra due ore”.
Ti guardavo, con la consapevolezza che quel giorno stavi uscendo per andare a giocare con la tua stessa vita e che quelle due ore avrebbero potuto durare per sempre.
Sono passati anni, da allora, ma è sempre passata un’ora e cinquantanove minuti.
A volte mi chiedo se funzioni così anche per te o se il tempo abbia assunto una dimensione diversa; mi chiedo se lo scorrere delle due ore sia il filo sottile che separa la vita dalla morte.
«Te l’ho mai detto?» mi chiedesti, al’improvviso. «Te l’ho mai detto che, giorno dopo giorno, ho provato con tutto me stesso a somigliare a te?»
«Non era necessario» replicai.
«Ho sempre pensato che facesse piacere a te.»
Quelle parole fecero crollare tutte le mie convinzioni. Chi aveva mai detto che ai genitori interessano le ambizioni dei figli, mentre ai figli non interessano i sogni dei genitori? Talvolta, lo ammetto, avviene l’esatto contrario.
Non avevo ancora finito di formulare quel pensiero, quando tu proseguisti: «Mi dispiace.»
Ti guardai, spalancando gli occhi, quegli occhi che ogni giorno, riflessi nello specchio, mi ricordano i tuoi.
«Per cosa?»
«Per non esserci riuscito.»
Sorrisi.
«Non eri obbligato a diventare come me.»
Sorridesti a tua volta.
«Quanti problemi in meno, se lo fossi diventato.»
Annuii.
«Sì, quanti problemi in meno, ma ti saresti mai sentito te stesso?»
Non ha senso porsi questa domanda: la risposta è così dannatamente chiara...
Accadde tutto molto in fretta, a quel punto.
Ti voltasti.
Te ne andasti, senza aggiungere altro.
A quel punto il timer partì, molto lentamente: le nostre due ore destinate a non finire per anni erano iniziate e non potevo tornare indietro.
Mi sono domandato per anni chi fossi davvero, se un angelo caduto che cercava la strada per tornare in paradiso, se un soldato che combatteva una guerra organizzata da altri, se un criminale sulla cui testa pendeva una taglia, o se soltanto un ragazzo di vent’anni che lasciava la casa dei propri genitori per andare incontro a un ingrato destino.
Me lo sono domandato per anni e alla fine mi sono reso conto che non sempre i confini cono così definiti come vorremmo.
Tu sei tutto questo e sei molto di più.
Tu sei molto di più e me ne rendo conto ogni volta in cui rivedo i tuoi occhi negli occhi degli altri... e anche nei miei.
Sei un fantasma che vive dentro a chiunque, ma solo chi ti conosceva fino in fondo può riconoscerti.
Il giorno in cui mi dicesti che saresti tornato mentivi: la verità è che non te ne sei mai andato.

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Capitolo 12
*** Buco nero ***


BUCO NERO

La sala era gremita di persone. Sulla pista da ballo qualcuno si scatenava al ritmo di una melodia sudamericana, mentre nel tavolo di fronte a me un gruppo di persone rideva e scherzava come se non ci fosse un domani.
Una donna dai lunghi capelli biondo platino, avvolta da un abito da sera nero con ricami dorati, si era appena alzata in piedi. Stava cercando di invitare qualcuno dei suoi amici - erano tutti uomini, a parte lei, a quel tavolo - a fare altrettanto.
Mi immaginai che volesse andare a ballare, ma tutti gli uomini presenti sembravano più interessati ai bicchieri che avevano davanti.
Istintivamente sorrisi.
Sorrisi e lei mi vide.
Lasciato il tavolo, venne verso di me.
La musica non era tanto alta, perciò quando mi rivolse la parola riuscii a sentirla senza troppi problemi.
«Sei appena arrivato?»
«Sì.»
«Che cosa ne pensi del posto?»
Che cosa ne pensavo? Forse che trasmettesse molta più serenità di quanto potessi aspettarmi.
«Non è male.»
La donna mi strizzò un occhio.
«Ci è andata di lusso, non credi?»
«Mhm... forse.»
«Con tutto quello che si racconta al di fuori...»
Aggrottai la fronte.
«Perché, cosa si dice là fuori?»
«Che qui dentro c'è il nulla.»
«Il nulla? Non mi pare.»
«Eppure prima di entrare mi avevano raccontato che avrei trovato un immenso buco nero, che avrei chiuso gli occhi e che non li avrei mai più riaperti.»
A proposito di occhi, ce li aveva verdi.
«Beh, mi sembrano aperti.»
«Anche i tuoi.»
«E hai anche dei begli occhi.» Risi. «Non preoccuparti, non ho nessuna intenzione di mettermi a flirtare. Era solo un'osservazione che non sono riuscito a trattenere.»
«Non c'è problema. Gli uomini, quando vogliono flirtare, di solito non si mettono a guardare i miei occhi.»
«Ne avrai a centinaia, dietro, immagino.»
«Ne dubito.»
Ne dubitava.
Strano, per il resto sembrava piena di certezze.
«Come ti chiami?» le domandai, cercando una conversazione normale.
La donna mi guardò storto.
«Non ti ricordi.»
Spalancai gli occhi.
«Dovrei ricordarmi?»
Mi indicò i suoi amici.
«Anche loro ti sembrano sconosciuti, vero?»
Li guardai, prestando un po' più di attenzione rispetto a prima.
«Mai visti prima.»
«Non mi aspettavo nulla di diverso. Speravo che potessi riconoscere almeno me, ma voi nuovi arrivati fate sempre un po' di fatica. Sono Serenity.»
Serenity.
Quel nome mi colpì come una coltellata.
«Quella Serenity?»
«Affermativo.»
«Oh. Io sono...»
Rimasi spiazzato, mentre tentavo di presentarmi. Non ricordavo più quale fosse il mio nome.
Per fortuna sembrava ricordarsene lei.
«Yunik.»
Annuii.
«Yunik.»
Serenity sorrise.
«Ti va di ballare?»
Accettai. Non ero bravo a ballare, ma era molto meglio che continuare quella conversazione ai limiti dell'assurdo.
Non ricordavo il mio nome e, in compenso, dopo avere scoperto quello di Serenity, mi ero convinto che si trattasse di una mia conoscente che non avrebbe dovuto essere viva e vegeta ad invitarmi a ballare.
Rimanemmo in pista per la durata di tre o quattro canzoni. Gli amici di Serenity, al suo tavolo, ci incitavano.
«Sei sicura» le chiesi, «Che nessuno di loro vorrebbe essere qui al posto mio?»
Serenity scosse la testa.
«Ormai sono stanchi di farmi ballare.»
«Perché? La serata è iniziata da molto?»
«Da molti anni, per alcuni, anche se non vuole dire molto, qui che il concetto di tempo non esiste.»
A quel punto pensai che fosse meglio tacere. Voleva portarmi via, ma insistetti per rimanere. Non ero bravo a ballare, ma avevo scoperto di cavarmela. Ballare, inoltre, era molto meglio che parlare con lei.
Non è esatto: parlare con lei sarebbe stato piacevole, se solo fossimo riusciti a fare un discorso normale.
Se ne andarono altre canzoni, se ne andarono altri balli.
Se ne andarono, ma noi restammo, senza mai essere stanchi.
Alla fine mi portò in un privè.
Mi ci portò e mi lasciò solo, dopo un'arcana osservazione.
«Non solo da questa parte non c'è il nulla, ma ci vengono anche restituiti tutti i nostri ricordi perduti.»
Nella saletta c'era un piccolo televisore.
Lo accesi e, senza particolare stupore, guardai scorrermi davanti tutte le immagini della mia vita.

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Capitolo 13
*** Non importa che il tuo cuore batta ancora, perché quando tutti si dimenticano di te sei già morta ***


NON IMPORTA CHE IL TUO CUORE BATTA ANCORA, PERCHÉ QUANDO TUTTI SI DIMENTICANO DI TE SEI GIÀ MORTA

Alzai gli occhi al cielo, sperando di intravedere almeno una stella. Invocai il bagliore affinché risplendesse, invocai la nebbia affinché si diradasse... Non ottenni risposta e non mi parve di ottenere nemmeno uno sguardo. A volte avevo quasi l’impressione che il firmamento mi fissasse e che mi sorridesse, se era la notte giusta... ma in quelle ore il firmamento non sorrideva e quella che stavo vivendo non era certo la notte giusta.
Il freddo mi penetrava sotto la pelle, s’insinuava fino a raggiungere le ossa. Non che questo cambiasse molto le cose: dentro di me ero già piena di gelo.
«Perché?» sbottai, rivolgendomi al nulla, sul ponte deserto dove quando calavano le tenebre alleviavo per pochi minuti le sofferenze di chi si sentiva troppo solo. «Perché questa dannata notte di merda?»
Mi guardai intorno. Non c’era nessuno a rispondermi. Non c’era rumore di passi intorno a me, anche se di tanto in tanto tendevo a immaginarmelo.
«Vorrei che tu fossi qui» mormorai. «Mi senti? Vorrei che tu fossi qui.»
Non mi stavo rivolgendo a nessuno, ed era questo a farmi male più di tutto il resto: avrei voluto qualcuno a cui poter rivolgere quelle parole.
Sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi, ma mi sforzai di cacciarle indietro, perché dopotutto forse non avevo un futuro, ma avevo qualcuno a cui garantirne uno. Quando lavoravo non potevo permettermi di avere le occhiaie intorno agli occhi, anche se nessuno degli uomini con cui avevo a che fare ci aveva mai fatto caso, nelle altre occasioni in cui, in preda allo sconforto, mi ero lasciata andare a quelle lacrime così micidiali. Dopotutto, quello che stavo facendo, lo facevo soltanto per Katy.

Quel pensiero improvviso, quasi casuale, mi sconvolse, nel ripensarci: se avevo qualcuno a cui dovevo garantire un futuro, significava che ero meno sola di quanto pensassi. Ma era davvero così? Era davvero meglio che non avere nessuno? No, non lo era: c’era mia sorella, che sognava a occhi aperti, giorno dopo giorno, di essere una tredicenne normale. Problema numero uno: non lo sarebbe diventata mai. Lo sarebbe stata, se non fosse stato per me. Io ero la ragione per cui non avrebbe mai raggiunto l’obiettivo e dovevo trovare un modo per risolvere quella situazione.
Nella notte buia realizzai che a casa non c’era davvero qualcuno che mi aspettasse. Io e Katy eravamo due estranee. Io era quella che portava a casa i soldi che, secondo lei, erano sempre troppo pochi.
Inoltre, giorno dopo giorno, capiva chi ero. Giorno dopo giorno capiva che quando qualcuno fingeva di occuparsi di noi non facevamo altro che pestare merda e che, nonostante le apparenze, stavamo ancora pestando tonnellate di merda.
«Dove vai?» mi aveva chiesto, mentre uscivo, appena un paio d’ore prima.
«Lo sai» avevo risposto. «Mi fai questa domanda ogni singola sera, da quando siamo rimaste sole.»
«Forse smetterò di fartela quando avrai il coraggio di dirmi la verità... ovvero mai.»
Katy non credeva più alle mie frottole. Katy sapeva tutto e mi odiava per quello che ero diventata.
«Andiamocene!» mi aveva invocato, subito dopo avermi accusata di mentirle. «Non pensi che possiamo ancora ricominciare da qualche altra parte?»
Sì, potevamo ricominciare, come aveva fatto nostro padre, quando se n’era andato: se era ancora vivo, da qualche parte doveva essere felice.
Potevamo ricominciare, come aveva fatto nostra madre: quando era ancora con noi, sosteneva di essere felice, almeno finché qualcuno non le allontanava la bocca dal collo della bottiglia.
L’avevo guardata con aria di sufficienza.
«E, sentiamo, dove vorresti andare a ricominciare? Quale luogo avrebbe qualcosa da offrirci?»
Katy aveva distolto lo sguardo.
«Non importa dove andremo. Mi basta non dovermi vergognare ogni giorno, quando entro a scuola. I miei compagni sanno la verità. Mi rendono la vita impossibile. Credimi, Amy, preferirei morire, piuttosto che dover continuare a raccontare menzogne a cui non crede più nessuno. Una volta, almeno, ci credevo io, ma adesso ho solo una gran voglia di tagliarmi le vene.»
Problema numero due, a quanto pareva: mia sorella desiderava suicidarsi e, se solo avesse tentato di mettere in atto il proprio proposito, sarebbe stata soltanto colpa mia.
Mi ero affrettata ad andarmene, guardando con la coda dell’occhio il mobiletto sul quale stava appoggiata una pila di conti da pagare giorno dopo giorno sempre più alta. Problema numero tre: i soldi non avevano ancora iniziato a cadere dal cielo.

Problema numero quattro: non ero all’asciutto. Dal cielo non cadevano soldi, ma qualcosa doveva per forza venire giù, in quella notte maledetta: cadeva pioggia, che si mescolava alle mie lacrime - no, ero riuscita a trattenerle troppe volte, ma quella notte era la goccia che stava facendo traboccare il vaso - e lavava via le mie speranze. Avevo ancora più freddo di poco prima. Il gelo penetrava dentro di me e non avevo niente da potergli frapporre.
“Niente, a parte quella felpa” non potei fare a meno di pensare, guardando a terra, dove l’avevo gettata.
La raccolsi. Non era ancora molto bagnata. La pioggia cadeva lentamente, scivolando tra il fitto strato di nebbia che avevo davanti agli occhi.
Me la infilai. Non faceva parte dei miei abiti da lavoro, ma era sempre meglio che morire congelata. E poi quella notte non c’era molto da lavorare, tanto che avrei potuto andarmene. Invece no, non volevo andarmene: era molto meglio abbassare le palpebre e cercai di immaginare una realtà alternativa: almeno in quella avrei avuto qualche ragione per cui trovare la forza di costringermi a sorridere.
Volevo essere un’altra. Dovevo essere un’altra. Sarei stata un’altra Amy, sarei stata in grado di costruire legami e avrei combattuto contro la parte di me che aveva preso il sopravvento, cancellando la bambina innocente che ero stata un tempo.
Mi sfuggì una risata isterica. Ero mai stata una bambina innocente? Avevo seri dubbi in proposito. La mia infanzia era stata un susseguirsi di speranze infrante. Era stata lo specchio degli anni a venire.
“Eppure io sono stata un’altra, un tempo.”
Spalancai gli occhi, con un’improvvisa certezza: qualcosa era cambiato, perché quello specchio si era spezzato.
Credevo che la vecchia me stessa fosse morta per sempre, ma evidentemente mi sbagliavo. Me ne accorsi quando la sua voce riecheggiò nei miei pensieri.
«No, Amy. Tu sei sola, completamente sola. Io avevo chi si occupava di me.»
«Non hai mai avuto nessuno» replicai, ad alta voce. Tanto, chi avrebbe potuto sentirmi? Forse la pioggia, che continuava a cadere, ma che sembrava ignorarmi. «Tu ti sei illusa di avere qualcuno. Tutti ti hanno lasciata. Ti hanno lasciata qui a chiederti se ci sia ancora qualcosa da fare.»
«Non essere ridicola, Amy» insisté la vecchia me stessa. «Sai bene che tutti i problemi hanno una soluzione.»
«Ah, sì? Allora, dato che pensi di saperne più di me, perché non mi illumini? Qual è la soluzione?»
«Innanzi tutto stare a sentire Katy. È l’ultima persona che ti è rimasta.»
«È soltanto una bambina.»
«Anch’io sono una bambina, ma so affrontare la vita molto meglio di te.»
Scoppiai a ridere. Davvero la presunta bambina innocente era in grado di combinare qualcosa di sensato? E allora perché aveva permesso che diventassi quella che ero.
«No, ti sbagli di grosso, piccola Amy» sbottai. «Tu eri una nullità, tanto quanto io sono una nullità. Che poi tua madre fingesse di trovarti più interessante delle sue bottiglie è un altro discorso.»
«Non dare la colpa a me di quello che sei» replicò lei. «In fondo sei stata tu che hai voluto prendere il mio posto.»
Alzai gli occhi al cielo. Davvero stavo parlando da sola? Quello stupido gioco - perché parlare alla vecchia me stessa non era altro che un gioco - si era trasformato in qualcosa di davvero assurdo e ridicolo. Dovevo essere pazza. Sì, sicuramente ero pazza, non c’erano altre spiegazioni: quello era il problema numero cinque e forse era il più insormontabile di tutti.

“No, Amy, non è così.”
Avevo smesso di rivolgermi a un’altra me stessa. Mi stavo limitando a pensare e a chiedermi se non ci fosse nulla di peggio della pazzia.
“Sì, Amy. Lo sai. L’hai sempre saputo.”
C’era di peggio e me ne accorgevo mentre, a poco a poco, iniziavo a invocare che qualcuno mi raggiungesse. Non si trattava di soldi. Prima o poi quelli sarebbero arrivati. Ero io che non ero sicura di resistere. Sarei rimasta sola fino ad allora?

Problema numero sei: intorno a me non c’era nessuno e ne sentivo la mancanza al punto tale da logorarmi l’anima, se ancora ne avevo una. Gli scopatori della tarda serata non si erano spinti fuori casa, con quel tempaccio. Nel momento in cui ne avevo più bisogno mi avevano abbandonata anche loro, loro che mi usavano come un giocattolo a basso prezzo, ma che per un attimo mi davano la sensazione di essere ancora viva. Mia madre, prima di gettare la propria vita in pasto a quella merda di alcool, lo diceva sempre: “non importa che il tuo cuore batta ancora, perché quando tutti si dimenticano di te sei già morta”.
Se quelle erano le premesse, io potevo considerarmi ufficialmente defunta. Non potevo essere viva, se avvertivo il cuore rimbalzarmi nel petto quando vedevo un paio di fari in avvicinamento, se speravo di poter resistere ancora soltanto perché qualcuno mi avrebbe aiutata ancora una volta a distruggere quella poca autostima che mi era rimasta.
L’autostima non contava. Non ero convinta di averne ancora. A tutto c’è un limite e, una volta che il limite è stato raggiunto, non si può passare oltre. Da quel punto di vista nessuno avrebbe più potuto ferirmi.
Un pensiero improvvisò mi folgorò: “Da quel punto di vista? E perché non dagli altri?”
Dopotutto ero già morta; l’avevo appena stabilito. C’erano davvero prospettive peggiori?
Mi sentii sollevata, nel chiudere di nuovo gli occhi. Mi immaginai il mio futuro e poi mi spinsi oltre. Immaginai anche quello di Katy. Chi sarebbe diventata? Avrebbe avuto il coraggio di percorrere una strada diversa dalla mia? Avrebbe avuto la forza di allontanarsi definitivamente da ciò che sosteneva di odiare?
Di colpo mi resi conto che nulla aveva più davvero importanza. Katy avrebbe fatto le proprie scelte e io non sarei stata accanto a lei per influenzarla. D’altronde perché avrebbe dovuto dare ascolto ai morti?

Feci un profondo respiro e raggiunsi il pieno della consapevolezza. C’era un ultimo problema insormontabile: mi sentivo morta, ma il mio cuore batteva ancora.
“Amy non si occuperà più di Katy. Amy non cercherà di convincere Katy a lasciar perdere le sue chiacchiere sul suicidio. Amy non pagherà le bollette. Amy non vedrà più il sole. Amy non parlerà più da sola. Amy non invocherà più qualche vecchio maiale con la bava alla bocca di farla sentire viva. Amy non compirà mai diciotto anni. Amy non invecchierà mai.”
Certi problemi, dopotutto, avevano una soluzione rapida e indolore.
Mi strinsi nella felpa, arrampicandomi sul parapetto e preparandomi a un tuffo nell’acqua gelida.
Non feci un conto alla rovescia. Avevo troppa paura di arrendermi e di tornare indietro.

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Capitolo 14
*** Scontro tra culture in una camera a ore ***


SCONTRO TRA CULTURE IN UNA CAMERA A ORE

Gli elementi da fiaba a lieto fine c’erano tutti: la stanza con le sue mezze luci, le lenzuola di tessuto pregiato, una bottiglia ormai vuota sul tavolo... e infine lui, il punto di partenza. Nulla sarebbe accaduto, senza di lui. A distinguere la realtà dalle fiabe era soltanto una questione di status: lui non era un principe, ma soltanto un manager che veniva da lontano e che, dopo anni passati a gestire la filiale locale di una multinazionale, aveva acquisito uno straordinario gusto in fatto di donne del posto; lei non sarebbe mai diventata una principessa, ma avrebbe continuato a trascorrere ogni notte in una stanza diversa, almeno finché ci fossero stati milionari stranieri disposti a pagare per i suoi servizi... o almeno era quello che aveva sempre pensato: era ancora giovane, ma né la sua carriera né la sua vita erano destinate a durare a lungo.
Tuttavia l’uomo che si ritrovava davanti in quell’occasione era diverso.
Si erano già visti.
Si erano già visti, ma lui non si ricordava di lei.
Non poteva ricordarsene: all’epoca era soltanto una bambina e la sua presenza era molto diversa, al punto che, se anche si fosse rammentato della sua esistenza, non sarebbe certo stato in grado di riconoscerla. O forse sì?
La fissava.
La fissava come se ci fosse qualcosa di più, così attese.
La domanda che lui le pose interruppe quella ridicola speranza.
«Ordino un’altra bottiglia?»
«Come vuoi.»
Era lui che pagava, spettava a lui decidere.
Lui sorrise, con quel sorriso falso e ipocrita di chi non si rende conto di essere falso e ipocrita.
«L’ho chiesto a te.»
«E io» replicò lei, «Ti ho detto che non è una decisione mia.»
Non aveva mai preso decisioni, fino a quel momento, se non dettate dalla necessità, e non aveva intenzione di iniziare quella notte.
«Niente bottiglia» decretò lui. «Piuttosto, parlami un po’ di te.»
Lei abbassò lo sguardo.
«Non c’è niente da dire, su di me.»
«Tutti» insisté lui, «Hanno una storia da raccontare.»
Era abituato a ottenere tutto ciò che voleva, lo si capiva dalla fermezza del tono della sua voce.
«Potrebbe non essere molto interessante.»
«Potrebbe non essere molto interessante, ma a me importa.»
Ma davvero? Aveva così a cuore i fatti personali delle donne che pagava non per alleviare la propria solitudine ma per dimostrare a se stesso che il suo status sociale gli permetteva tutto?
No, la verità era che non gliene importava nulla, qualunque fosse la versione dei fatti che raccontava a se stesso quando aveva bisogno di sentirsi addosso la romantica aura del benefattore.
Lui si fece insistente.
«Parlami di te. Pago anche per questo.»
Era vero: pagava anche per chiederle ciò che desiderava. Se si fosse trattato di un altro, avrebbe addirittura potuto esserne felice.
Con lui non poteva.
Con lui continuava a chiedersi cosa sarebbe accaduto se le loro strade non si fossero mai incrociate, quando era ancora una bambina.
Poteva mentire.
Desiderava mentire, ma non lo fece.
«Ho ventidue anni, ma forse ne dimostro il doppio.»
«È già un inizio.»
«Quando ero piccola avevo tanti sogni, che non si sono mai realizzati.»
«Ah, no?»
Il suo tono era indifferente e lasciava intendere che per lui fosse completa novità il fatto che per lei quella vita non fosse il coronamento di un desiderio.
«Le bambine, di solito, hanno altri sogni» ci tenne a puntualizzare.
«E tu» le chiese lui, «Cosa sognavi?»
«Non me lo ricordo. Avevo undici anni quando rimasi orfana. Il mio unico sogno, a quel punto, rimase quello di sopravvivere, e che potesse sopravvivere anche mio fratello.»
«E come andò a finire?»
«Male.»
«Mi dispiace. È anche per questo che ho cercato di tutelare i bambini di questo paese.»
Lei annuì, guardandolo finalmente negli occhi.
«Lo so.»
«Niente più sfruttamento, da parte dell’azienda che ho portato a diventare quello che è ora. Non l’ho fatto per stare al centro dell’attenzione, anche se ho ottenuto quell’effetto. L’ho fatto perché desideravo fare qualcosa di concreto.»
«Lo so.» Era tempo di rivelazioni. «Io c’ero quando decidesti che anche alla filiale locale dovevano essere applicati gli standard del tuo paese natale. Sei tu che non c’eri, quando avevo tredici anni e sia io sia mio fratello perdemmo le nostre uniche fonti di reddito, solo perché secondo te meritavamo un futuro migliore. Non c’eri nemmeno quando mio fratello prese una strada sbagliata. Tu non c’eri il giorno in cui fu ammazzato.»
«Però ci sono adesso» concluse lui, «Che possiedi bei vestiti e che trascorri il tuo tempo in alberghi di lusso.»
Quella, per lui, doveva essere l’unica “soluzione concreta”.
Chissà, rifletté lei, forse non c’era bisogno di commuoversi più di tanto, nel probabile caso in cui gli avesse contagiato il virus che un giorno l’avrebbe condotta alla morte.

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Capitolo 15
*** Erano solo saette variopinte ***


ERANO SOLO SAETTE VARIOPINTE

Erano solo saette variopinte, lanciate giù dal cielo per colorare un ambiente troppo grigio. Non m’importava di quale fosse la fine non ancora scritta, il mio sguardo le incontrava quasi per caso, senza cercare nulla, mentre la notte nascosta dietro l’angolo aspettava di far calare il suo velo fitto di tenebre.
Era un mondo di sorrisi finti, si recitava fino all’ultimo istante, quando il sipario calava e nulla poteva più essere messo in discussione. Dietro una tenda c’era qualcosa di invisibile, che soltanto in pochi avrebbero saputo violare. Era un mondo di sorrisi finti, che ha prosciugato occhi innocenti e ha strappato la linfa vitale a sognatori che non sapevano di essere precipitati in un incubo. Era un mondo materialista, che ha venduto sguardi innocenti e lacerato occhi che ancora non si erano aperti, che ancora non si erano resi conto del confine che non pensavano di dover già varcare.

Era un sorriso vero, quello che illuminava giorni di pioggia. La negatività era prosciugata, ma del resto cosa importava? Ricordavo solo una fotografia, ormai abbandonata in un cassetto, tra crisantemi appassiti e nastri neri ormai sgualciti.
Era un sorriso vero, quello che irradiava il mio volto nel fissare uno sconosciuto che aveva il potere di regalarmi un attimo di serenità. Chi era dopotutto? Forse qualcuno di cui non m’importava niente, che faceva parte di un mondo di cui non m’importava niente... Eppure, alla fine, non provai indifferenza.

Il sipario calò in un giorno d’autunno. Non vi era più differenza tra ciò che poteva essere rivelato e ciò che doveva restare celato dietro a una tenda. Una sagoma di metallo dall’anima di ferro scivolò a terra impotente e il sorriso che illuminava giorni di pioggia si spense.
Aprii la porta, chiedendomi che cos’avrei ricavato da una giornata come tante. E poi udii una voce che mi riferì cos’era accaduto.
«Che cosa?» chiesi, attonita, pensando di avere sentito male. Non poteva essere.
Quella voce ripeté lo stesso messaggio.
Non credevo che quel sorriso vero potesse spegnersi insieme a una sagoma vuota.

Sono lacrime calde, che scivolano lentamente. Fisso saette dai mille colori, lanciate giù dal cielo per colorare un ambiente troppo grigio. Sono rimaste, è tutto come prima, ma non posso fare a meno di chiedermi come possano colorare un ambiente che è diventato maledettamente più grigio nel momento in cui il cielo si è ripreso indietro uno dei suoi fulmini.
È un sorriso che nessuno vedrà più, quello che illuminava giorni di pioggia quando ancora pensavo che la notte non potesse durare per sempre. Le gocce continuano a scendere, a fermarsi a terra, una dopo l’altra. Non c’è nulla di più buio della consapevolezza che niente ci restituirà mai il passato.

Abbasso lo sguardo. Sono saette variopinte lanciate giù dal cielo, che rompono per un attimo la piattezza del grigio dell'ambiente. Eppure stavolta è diverso. Mi allontano in silenzio: non ce la faccio a tenere gli occhi su di loro.
Una sagoma di metallo si è spenta per sempre, un sorriso si è spento per sempre... ma la morsa d’acciaio che mi avvolge non lascia la presa e mi sento soffocare.
 

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Capitolo 16
*** Lettera di un'auto da corsa al suo pilota ***


LETTERA DI UN'AUTO DA CORSA AL SUO PILOTA

Non riesco più a ricordare il momento in cui ci siamo incontrati. Forse non importa quando sia accaduto, quello che conta è che sono qui accanto a te, qui insieme a te e che non mi separerò mai da te.
Senza di te io non sarei nessuno, senza di me anche tu saresti perduto, forse è questa la consapevolezza che ci unisce e che continuerà ad unirci fino alla fine.
Ora io sono tutto per te.
Ora tu sei tutto per me.
Io e te insieme potremmo arrivare ovunque vogliamo.
Ti accompagno nella tua cavalcata verso il successo, ti accompagno verso ciò che ancora non conosciamo, ma ci limitiamo soltanto a immaginare.
Insieme io e te siamo fantastici, insieme io e te siamo quello che nessuno dei due sarà mai da solo.
Io e te siamo l’unione perfetta.

All’improvviso sento che c’è qualcosa che non va.
All’improvviso qualcosa dentro di me si spegne.

Mi fermo.
Ora sono immobile.
Ora sei immobile.
Siamo uno accanto all’altra ma non ci siamo mai sentiti così soli.

Tu mi fissi e leggo la delusione nei tuoi occhi. Ti fidavi di me e io ti ho tradito. Mi guardi e mi chiedi se ci sia ancora un motivo valido per ricordare il momento in cui il tuo sguardo ha incrociato il mio per la prima volta.
Io e te eravamo l’unione perfetta, eravamo tutto e potevamo tutto.
Io ero perfetta per te, tu eri perfetto per me, non avrei mai pensato di abbandonarti.
Io e te eravamo irraggiungibili, io e te eravamo imbattibili.

È finita qui, con una nuvola di fumo.
È finita qui, ho dovuto abbandonarti.
È finita qui, e non ho potuto farci niente.

Io e te non siamo più l’unione perfetta, non siamo più tutto quello che eravamo.
Io ero perfetta per te, ma non mi sento più perfetta.
Il mio sogno era portarti alla vittoria, almeno per un'ultima volta.
Il mio sogno era stare accanto a te fino al traguardo.
Il mio sogno era permetterti di realizzare tutti i tuoi sogni.
Il mio sogno è poter tornare indietro nel tempo e farcela, stavolta, a stare con te fino alla fine.
Chiudo gli occhi, non posso guardarti mentre te ne vai.

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Capitolo 17
*** Un tempo il rosso non era il colore del tramonto ***


UN TEMPO IL ROSSO NON ERA IL COLORE DEL TRAMONTO

Un turbine di colori invade la buia notte. Il nero si trasforma lentamente, diventa azzurro come il cielo, diventa rosso come il tramonto...
Un tempo il rosso non era il colore del tramonto. Era una tonalità viva, che mi dava la forza di dare il meglio di me stesso, ma che oggi mi sfugge.

Gli occhi della mia mente vedono la stanza illuminarsi. La donna che mi sta accanto si muove lievemente. Mi fermo di scatto, temo di averla svegliata.
Non è così, dorme ancora, e sul suo volto sprofondato nel sonno mi pare di scorgere un lieve sorriso. Nemmeno lei conosce la verità.

Un tempo era tutto così facile. I giorni si susseguivano, più passavano e più mi sentivo vivo, più le fiamme che avevo dentro mi animavano.
E poi il crollo.
Non c’è niente di peggiore di non sentirsi più a proprio agio con sé stessi, non c’è niente di peggiore di sentirsi fuori luogo nel proprio mondo.
E poi la fine.
Quando si perde l’equilibrio, lentamente si raggiunge un nuovo equilibrio. Per un po’, dopotutto, funziona.
Lei conosceva la verità.

Mi chiedo se ci sia un giorno che vorrei rivivere.
Sì, c’è, devo solo trovarlo nel mio passato.
Ero in una situazione di stallo, non sapevo che cosa sarebbe accaduto. Le fiamme che avevo dentro si erano spente in un attimo in un giorno d’estate, ma ora potevo percepire di nuovo il loro calore.
Io c’ero.
Io esistevo.
Io vivevo.
Ricordo quelle emozioni per filo e per segno.
Ricordo quando ho capito che nulla era cambiato, che ero ancora me stesso.
Lei mi stava accanto e conosceva la verità.
Sapeva già che ce l’avrei fatta, sapeva già che avrei dato il meglio di me stesso, che finalmente ci sarei riuscito, e per molto tempo.

Ma davvero vorrei rivivere quel giorno?
Le emozioni sarebbero ancora le stesse, sapendo già in anticipo che cosa veniva dopo?
È una domanda a cui non so dare risposta.

Non devo mentire a me stesso.
Non c’è alcun giorno che vorrei rivivere. Niente è come ci era sembrato, quando lo riviviamo una seconda volta.

Mi chiedo se ci sia un giorno che vorrei eliminare dai miei ricordi.
Sì, c’è, devo solo trovarlo in un passato ancor più lontano.
Ero sul tetto del mondo, non sapevo cosa sarebbe accaduto. Il cielo azzurro risplendeva grazie al sole di un giorno di primavera, ma all’improvviso dentro di me sentivo una strana sensazione di gelo.
Io c’ero.
Io esistevo.
Io vivevo.
Ma non era abbastanza.
Ricordo quel giorno per filo e per segno.
Ricordo quando ho capito che gli amici che se ne vanno continueranno a vivere nel nostro cuore per sempre.
Ricordo quando ho capito che la nostra illusione di essere immortali prima o poi si sgretola sempre.
Lei mi stava accanto e conosceva la verità.
Sapeva già che sarei riuscito a chiudere gli occhi e a scacciare i ricordi, che avrei combattuto affinché il presente divenisse soltanto un passato da dimenticare.

Ma vorrei davvero dimenticare quel giorno?
Se quel momento fosse eliminato dai miei ricordi, la mia vita sarebbe migliore?
No.
La verità è che non posso dimenticare. Non voglio dimenticare.
C’è chi veglia su di noi costantemente e non è giusto dimenticare.

Quando si perde l’equilibrio, lentamente si raggiunge un nuovo equilibrio. Per un po’ funziona, ma con tanti anni ancora davanti non potrà funzionare per tutta la vita.
Il rimpianto per il vecchio equilibrio prende il sopravvento.
È l’inverso del crollo.
Si tenta di risalire, di arrampicarsi invano lungo una salita che tenta di franare.
Non è vero che non c’è niente di peggiore di non sentirsi più a proprio agio con sé stessi, la verità è che non c’è niente di peggiore di vedere il proprio ego sgretolarsi lentamente.

Lei non conosce questa verità.
Mi sforzo di sorridere.
So che lei continua ad amarmi, so che i nostri figli continuano ad amarmi, ma dentro di me mi chiedo se sia davvero abbastanza.

Questa notte mi sembra infinita.
Forse è la sindrome di chi ha avuto tutto e ora si accorge che in realtà non ha mai avuto niente.
È un po’ come l’illusione di sentirsi immortali.

Toccavo il cielo con un dito.
Brillavo insieme alle stelle.
Irradiavo un cielo che non sarebbe mai stato cupo.
E poi la fine.
Le altre stelle brillano più di me, adesso. Mi guardano, chiedendomi se non me la sento più di raggiungerle, in un firmamento che non mi è mai sembrato tanto lontano.

Gli occhi della mia mente rievocano il passato.
Sono qui, sdraiato sul mio letto, interrogandomi sul presente, mentre un orologio scandisce i minuti che mi separano dall’alba.
Se solo potessi dormire.
Se solo potessi farlo evitando di sognare ciò che non tornerà più.

Scosto il lenzuolo, mi sento soffocare.
Mi alzo.
Lei apre gli occhi e mi guarda un attimo, prima di richiuderli.
Non è vero che tutto è cambiato.
Lei era qui quando il cielo era azzurro.
Lei era qui quando il tramonto era ancora lontano.
Lei è qui ora, in questa notte cupa e senza fine. È questo a darmi la forza di andare avanti. Nessuna notte senza fine è così terribile, accanto alla persona che ami e che ha continuato ad amarti anche quando hai iniziato a vacillare.

Chiudo gli occhi e mi chiedo che ne sarà di me.
In fondo lei conosce la verità.
L’unica verità è che starò con lei finché avrò vita.
Di colpo mi rendo conto che non vi è alcuna illusione. Sì, in qualche momento ci siamo resi conto che non siamo immortali, ma ha davvero così tanta importanza?
Lei conosce la verità.
Sa che, senza di lei, per me l’eternità non avrebbe alcun valore.

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Capitolo 18
*** Mi esorterai a non temere il crepuscolo ***


MI ESORTERAI A NON TEMERE IL CREPUSCOLO

Ci sono momenti in cui il rosso del tramonto si fonde al cielo blu della notte.
Tu sei qui e guardi davanti a te.
Era questa la strada che pensavi di percorrere?

Mi dico che non ha senso farsi domande, che non ha senso porsi degli obiettivi, quando poi si sa già che crolleranno, uno dopo l'altro, come è sempre accaduto e come accadrà sempre.
Mi dico che i tuoi occhi si alzeranno per guardare il cielo, mi dico che sulle tue guance scorreranno le lacrime che hai trattenuto così a lungo, lentamente, mentre attendi che cali la notte.

Ci sono momenti in cui tutto sembra crollare, come se non ci fosse rimedio a nulla.
Tu sei qui e mi esorti a guardare davanti a me.
Era questa la strada che pensavo di percorrere?

Mi dico che non ha importanza, perché la vita è fatta di strade da percorrere e tutte conducono alla stessa fine.
Mi dico che i miei occhi un giorno si rispecchieranno nei tuoi, perché potranno leggervi quello che ancora mi sfugge.

Ci sono momenti in cui il giorno e la notte si fondono.
Noi siamo qui e guardiamo le strade davanti a noi.
Non s'incontreranno mai, la mia e la tua, non mi guarderai mai negli occhi, ma non ha importanza. Tu sarai la mia guida inconsapevole, mi esorterai a non temere il crepuscolo, perché è quando il giorno si fonde alla notte che le speranze tornano a riaccendersi.

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Capitolo 19
*** Tramonto incantato di un pomeriggio di marzo ***


TRAMONTO INCANTATO DI UN POMERIGGIO DI MARZO

Quando il cielo si colora di rosso un giorno sta volgendo al termine. Un giorno che scivola via, bruciato dal tempo che scorre sempre troppo velocemente, logorando il profondo di chi aspetta nel silenzio.
Il silenzio che cercavo, non l'ho trovato. C'è solo il mio silenzio, mentre le tenebre mi avvolgono e io, immobile, reclamo quella parte di me che mi è stata lacerata troppo tempo fa. Adesso lo so che domani sorriderò, che pronuncerò false frasi di circostanza, circondandomi di nuovo di quell'alone di irrealtà che mi ha sempre contraddistinta.
Qualcuno potrebbe pensare che mi diverto, a circondarmi di frasi di circostanza. Anche tu, forse. Tu che non sai niente di me e che per parlare con me fai affidamento su un'intermediaria che ti sta lentamente risucchiando. Non te ne accorgi, lo so. Forse provi gusto a non accorgertene. Hai avuto sei mesi di tempo per esternare la tua personalità come mai avevi fatto prima e ora ti ritrovi di nuovo chiusa dentro quel gheriglio che pensavi di avere spezzato.
Non lo spezzerai mai. Me ne rendo conto e sento che mi fa male come non mai. Evidentemente ho la propensione a cercare occasioni per stare male anche quando non è necessario. Avrei potuto passare tranquillamente il mio sabato pomeriggio a scrutare il cielo, cercando di cogliere un segnale, una fonte di ispirazione... chissà, magari la forma di una nuvola avrebbe potuto accendere una lampadina nella mia mente, mostrarmi qualcosa che ancora non vedo...
Non è andata così. Il cielo era coperto. Anzi, no, lo strato di nubi era sottile. Si intravedeva il sole, si intravedeva il cielo mentre si colorava di rosso. Era il tramonto incantato di un pomeriggio di marzo, il tramonto che mai avrei voluto vedere. Eppure tutto si spezza, prima o poi. Si spezza quando qualcuno ci spinge a spezzarlo. Dimmi, davvero pensi che adesso le cose siano più semplici? Rispondimi, e non farti suggerire la risposta, cosa che hai fatto di continuo in queste ultime due settimane.
Non preoccuparti, non voglio davvero una risposta. Piuttosto che sentire frasi fatte, preferisco non sapere nulla, preferisco vederti mentre fingi che niente sia accaduto. Parli del più e del meno, come se tutto fosse com'era fino a qualche giorno fa... Strano, non credevo che ci fosse solo questo nella tua vita. A quanto pare, è così.
Sento una lama che mi trafigge. Proprio mentre ricordo che una parte di me mi è stata strappata da tanto tempo e che mai la ritroverò. La parte che non hai mai conosciuto. La parte che non puoi più trafiggere. Nessuno può fare del male a qualcuno che non esiste. Nessuno può fare del male a quella persona che è scappata via per non vedere ciò che aveva intorno, che, chissà, forse non è nemmeno mai esistita.
Mai esistita o scomparsa nel silenzio. Sì, scomparsa nel silenzio è una definizione che mi piace. È qualcosa di poetico. Come dire che dentro di me vive un'anima morta. Che ne dici? Ci so fare con le parole, eh? anche se tu sostieni che metto sempre troppe virgole. Mi fa sorridere, adesso, quel tuo commento. È stato una vita fa, quando credevamo ancora che andasse tutto per il meglio. Quando ci illudevamo che andasse tutto per il meglio. Esatto, era un'illusione. Solo un'illusione. Uno dei tanti pensieri, quel giorno, in cui mi dicevo che l'amicizia dura per sempre. ...Una vita fa? No, non si tratta di una vita fa. Non sono passate nemmeno due settimane, da quel giorno. Ma ho una certezza: l'amicizia dura per sempre.
O forse no.

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Capitolo 20
*** Astro nascente ***


ASTRO NASCENTE

Stanotte ho visto te, a illuminare un cielo vuoto che non lascia spazio a illusioni: avevi il colore della carta invecchiata, delle promesse non mantenute e dei sogni che s’infransero, perdendosi tra le melodie spente della notte.
Non mi hai chiesto cosa ne è stato di me, né degli occhi che mi fissavano quando il tempo non mi chiedeva di restituire i desideri non realizzati.
Sfogliavo pagine mai scritte della mia storia, lasciando scivolare invano le consapevolezze che più non avevano valore.
C’era il suo nome in ogni angolo, come una lama pronta a ferirmi: perché non c’ero, forse perché c’ero, perché non gli permettevo di amarmi ma nemmeno aveva il coraggio di odiarmi.
Tu sei tutto ciò che ancora mi unisce a lui: è un legame molto sottile, un filo che presto si spezzerà costringendomi a dimenticare.
Si è accesa una nuova stella, mi ha fissata dall’alto e mi ha gettato addosso la certezza che nessuno potrà restituirci ciò che perdiamo lungo le vie buie e perdute della nostra vita. Davanti a noi c’è un orologio che scorre velocemente, ci consuma secondo dopo secondo, ci sconvolge quando gli lanciamo un’occhiata fugace, pronti a gettarci in pasto alla morte.
La vita scorre dentro di noi, ma il filo dei legami si spezza e ci distrugge.
La mia anima si spezza, il passato e il futuro non riescono a fondersi: il passato è il mio ultimo respiro, il futuro è il mio prossimo respiro; nel mezzo c’è l’apnea di un istante, un granello di sabbia che scivola via.
Lentamente il vuoto si dissolve.
La mia anima scivola verso l’ignoto.
A volte mi chiedo se la paura dell’ignoto sia così forte da costringerci a restare sulla stessa pagina.
Lui si domandava se la paura di ciò che già conosceva fosse tale da costringerlo a bruciare l’ultima pagina letta mentre la primavera svettava davanti a noi.

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