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Meowth si era
finalmente addormentato, dopo aver parlato – straparlato – fino a sentire i
propri occhi chiudersi davanti alle fiamme guizzanti del fuoco da campo. Lo
spiazzo che stava accogliendo lui, James e Jessie lasciava poco spazio
all’immaginazione, ma quella era la vita che si erano scelti: lavorare alle
dipendenze di Giovanni si era rivelato più complesso di quanto avevano sperato,
ma non avrebbero potuto fare altro… non Jessie, almeno. Il ricordo di Miyamoto,
la sua vera madre, era l’unica cosa che le era rimasta addosso e il motivo
recondito per cui aveva fatto di tutto per poter essere reclutata dal Team
Rocket. Aveva bisogno di soldi, di tanti soldi per poter partire per le Ande
alla sua ricerca, ritrovarla, riabbracciarla e riprendere una vita decente
lontana da tutto ciò che il gruppo era costretto a fare. Scorribande, furti,
sequestri per un piano superiore di arricchimento del Team criminale
cominciavano a pesarle, in fondo. Non si sarebbe arresa, però, questo mai,
perché non l’avrebbe voluto Miyamoto, perché non se lo sarebbe mai perdonato
lei stessa. Deludere Giovanni sarebbe stato terribile, ma ancor più trascinare
nella vergogna anche James l’avrebbe fatta sentire una fallita:sbagliava, si rialzava, tornava a lottare per
una dignità che si teneva stretta al petto e che inizialmente non credeva
nemmeno di avere.
Voltò il capo in direzione del compagno di squadra, osservandolo dormire
beatamente: come invidiava il suo riposo facile, il volto disteso nel sonno,
quel sorriso pacifico di chi sapeva d’aver trovato un posto nel mondo… lo
invidiava e lo odiava in un certo senso, perché lei il suo posto non se lo
sentiva cucito addosso come avrebbe voluto, anzi. Se lo sentiva largo, come non
le fosse calzato a pennello una sola volta.
Pensando a quanto fosse inutile perdere tempo e spenderlo in pensieri troppo
pesanti da sopportare, si raggomitolò nel sacco a pelo accoccolandosi,
stringendo le braccia al petto alla ricerca di un calore che non sarebbe
arrivato tanto facilmente. Il buio li inghiottì, e soltanto il bubolare di
qualche Hoothoot accompagnò la notte senza stelle che
avvolse il trio nella propria morsa.
James tendeva ad addormentarsi sempre prima di tutti, ma non quella sera, non
dopo il colloquio con le alte sfere del gruppo di ricerca del Team Rocket. Certo,
perché Giovanni non si sarebbe mai sporcato ad abbassarsi a parlare con lui
quel mattino. Per quanto fosse abituato a ricevere ordini, talvolta insulti o
rimproveri, rimpianse d’aver risposto alla chiamata il giorno prima, in cui
venne convocato al loro Quartier Generale, diviso dai suoi compagni e ricevuto
da solo all’interno del laboratorio principale in privata sede.
Deviò tutte le domande di Jessie, non si lasciò scappare nulla e il solito
buonumore che lo contraddistingueva finì divorato in quella mezzora. Lo avevano
masticato e risputato senza pietà, non avevano edulcorato assolutamente nulla.
Se avesse saputo... Avesse potuto evitare, si sarebbe sentito molto più leggero.
E invece eccolo lì, a qualche ora dalla notizia sganciata con una tale
freddezza da gelargli ancora le ossa, a osservare la volta celeste con
rammarico e un peso enorme. Quanto era bello il cielo quella notte, quanta
meraviglia quelle stelle… avrebbe chiamato volentieri Jessie accanto a lui a
osservarle, a cercarne forme e linee diverse, a ridere di nuovi nomi per le
costellazioni. Invece no. Lei se ne stava rannicchiata in uno dei due futon
presenti nella stanza di una vecchia locanda, osservando il muro: non stava
affatto dormendo lei, ma questo il compagno e amico non poteva certo saperlo.
Era tardi, chiunque avrebbe dormito a quell’ora.
Erano tutti e tre svegli, invece, e l’aver dato per scontato alcune cose
l’avrebbe pagato caro come errore.
Meowth si stiracchiò infastidito: lo stomaco
brontolava e ne approfittò per frugare nelle tasche del giaccone di James alla
ricerca di qualche caramella. Soddisfatto del piccolo misfatto si riempì la
bocca, impiastricciandosi il muso e il pelo di appiccicume zuccherino.
Delitto perfetto, pensò ridendo sotto ai baffi e nascondendo sotto al proprio
cuscino le carte della ladrata. Zitto zitto, convinto di averla fatta franca, tentò di rimettersi
a dormire ma avvertì un certo spazio vuoto a cui non era affatto abituato;
lanciò la zampa verso sinistra e vi trovò i capelli di Jessie, e ne fu rassicurato.
Si voltò dall’altra parte e notò il secondo futon vuoto.
«James…? Tu?» Stava per concludere dicendo “tu sveglio a quest’ora?” ma lo
inquadrò fuori in terrazza, la porta finestra accostata appena, coperta dai
pesanti tendaggi.
«Ciao, James.»
«Oh, Meowth, scusami, non ti avevo sentito.» Il
ragazzo era avvilito, scosso da qualcosa: le occhiaie violacee parlavano per
suo conto. Mantennero il silenzio quel tanto che bastava a innervosire un gatto
con l’abitudine di parlare fin troppo e con un entusiasmo raro anche per un
essere umano. Si sentì un rapido stropiccio e una caramella colorata spuntò
sulla balaustra del piccolo terrazzino in legno scuro: quasi splendeva con i
piccoli raggi di luce che filtravano dalla camera poco illuminata.
James sorrise pallido. «Grazie, riesci sempre a fare qualcosa al momento
giusto…»
«Tsk, è solo l’ultima rimasta.»
«Lo so.»
«Ed è pure tua.»
«So anche questo. Ma l’hai condivisa con me, ed è importante.»
L’aria era fredda quella notte, e il gatto corse a recuperare la trapunta dal
futon, balzò sull’asse di legno e si acquattò accanto all’allenatore,
avvolgendogli addosso la pesante coperta e trovando uno spazio anche per sé.
«Allora.»
«Mh.»
«Stavolta è qualcosa di grosso, vero?»
Il primo singhiozzo venne trattenuto a fatica, ma così non fu per il secondo.
Una zampa gli sfiorò la spalla, forse invitandolo a parlare, forse soltanto a
tentare un approccio di sostegno. Un “dai, ci sono” senza il bisogno di dirlo
ad alta voce. Perché Meowth parlava, sì, ma non era
poi così bravo con cose così complicate come quelle degli umani.
«Troppo grosso anche per dirlo a me?»
James inghiottì con tutta la forza che poté, inspirando ed espirando in modo
meccanico. Guardò ancora una volta il cielo, il blu notte lo affascinava. Era
appannato però.
«Hanno ritrovato la madre di Jessie.»
Le lacrime rigarono gli occhioni increduli del Pokémon, scendendo a inumidire
la pelliccia del petto. Era così felice che avrebbe potuto gridarlo all’intero
mondo fregandosene altamente dell’ora tarda. «No-non… non ci credo… non ci
credo!» Scattò in avanti ad abbracciare il compagno, lo strinse tanto forte da
avvertire un uhfstrozzato, ma si sentì sospinto via.
Cosa stava accadendo?
Dove era la felicità che si meritavano di condividere a una notizia simile?
Jessie aveva finto di dormire per tutta la durata della sera. Era ancora offesa
con James, in un modo arrogante e fisico che solo lei sapeva usare così bene:
un po’ per carattere, un po’ perché voleva farlo sentire in colpa, gliel’aveva
fatta pesare. Certo, perché loro due erano uguali, erano sempre stati allo
stesso livello, avevano sempre e comunque dato lo stesso impegno, dedizione ed
entusiasmo alla causa. Ecco, lei forse ancor di più perché il suo scopo lo
sentiva vivo addosso, tatuato sul cuore… quindi quando aveva capito che a esser
stato convocato era stato soltanto lui, ci era rimasta male; aveva pure pensato
d’aver sbagliato qualcosa, d’aver mancato agli ordini, chissà.
E c’era di peggio: James non aveva voluto condividere con lei il contenuto di
quella conversazione. Non gli aveva parlato per tutto il tempo, l’aveva evitata,
discostando lo sguardo a ogni occasione.
Certo, glielo avrebbe fatto ricordare: con lei non si scherzava affatto. Quindi
aveva optato per buttarsi a letto presto alla locanda, subito dopo una cena
consumata in un silenzio pesantemente oppressivo. Poco le importava, le avrebbe
chiesto scusa e sarebbe riuscita a cavargli dai denti tutto quanto. La scelta
di fingersi addormentata si era rivelata vincente, nessuno le aveva rotto le
scatole – nemmeno Meowth, incapace solitamente di
mantenere intatti gli spazi vitali delle persone che lo circondavano.
Sentì rovistare dietro di lei, sentì masticare, uno smuovere di cartacce e una
risatina. Sicuro il Pokémon ne aveva combinata un’altra delle sue ma non si era
permessa di intromettersi: mantenersi arrabbiata e continuare a così almeno
fino al giorno dopo pareva essere davvero una ottima trovata, peccato rovinarla
così. Questo fino a che non aveva allungato l’orecchio in direzione della porta
ormai aperta che dava alla terrazza. Una fredda folata di vento notturna aveva
aperto un più ampio spiraglio.
Un particolare che Jessie avrebbe maledetto a tempo debito.
Le parole le arrivarono dritte alle orecchie, trasportare dall’aria.
«Sei… sei sicuro fosse lei…? Miyamoto?»
Scattò in piedi dimenticando ogni proposito di vendetta. Mamma?
«Sì, non… non c’erano dubbi. Meowth… non si può
sbagliare.» Un sospiro. «È proprio lei.» Mamma…? Ti hanno ritrovata? Incurante del tono utilizzato dagli altri, non curandosi nemmeno del
proprio aspetto e dei propositi fissati, Jessie aveva già allungato la mano
verso la porta, pronta a spalancarla e saltare addosso a James. Insultandolo,
certo, chiedendogli perché avesse aspettato tanto per poterle dire quella
splendida verità.
«È rimasta tale e quale…» Certo, mia madre è sempre stata bellissima. Figurati se può invecchiare male
lei! I capelli magenta già avevano superato la soglia, le braccia rivolte verso
i compagni. Stava piangendo per la felicità, le scie lasciate dalle lacrime
pizzicavano per il freddo ma non le importava; il pigiama da solo non poteva
scaldarla a sufficienza, ma di questo non poteva fregargliene di meno. Si
bloccò a un paio di centimetri ormai, gli arti ancora sollevati verso il vuoto,
quando la maschera sorridente del solito James aveva lasciato il dovuto spazio
a una genuina disperazione.
E Meowth con lui. Perché piangono? Sono troppo felici? Sì, deve essere così, siamo tutti
felici perché mamma è stata finalmente ritrovata… lo sapevo, sapevo che
Giovanni mi avrebbe aiutata…
Sapevo che non avrei buttato la mia vita su qualcosa di inutile…
Perché non dicono nulla?
Fa male sentirli stringermi così tanto.
Fa male…
Fa così male… lasc-lasciatemi stare…!
And-
«Andate via…! Non… non è vero… sei… sei un bugiardo!»
Jessie si inginocchiò sul gelo del legno usurato, il calore del pelo di Meowth non era sufficiente, le labbra di James sui capelli
non bastavano nemmeno.
L’avevano ritrovata. Sì. Avevano ritrovato Miyamoto.
Su un ghiacciaio andino.
Esattamente come era quindici anni prima.
Giovane.
Bellissima.
Morta.
#Springbingo del gruppoNon solo
Sherlock
Casella n.1: Di notte a Lavandonia Prompt di Alice Signorina Beazley
«Ken, tesoro, rientra che è tardi, è
pronta la cena!»
«Arrivo, nonna, aspettami!» Il bambino percorse i pochi metri che lo separavano
dalla piccola abitazione saltellando allegro e canticchiando una canzoncina che
aveva imparato dagli amichetti di Lavandonia. Non capiva bene tutte le parole,
nonna Harue gli aveva confidato si trattasse di un
antico dialetto conosciuto soltanto nel paesino, ma a lui piaceva lo stesso:
era orecchiabile, gli piaceva, e se ne avesse conosciuto già il significato,
l’avrebbe definita nostalgica.
A Lavandonia il sole tramontava sempre un po’ prima, il buio arrivava presto e
l’illuminazione fioca della Torre si mischiava alle stelle. Ken
era abituato a vedere al buio in un luogo dove le case potevano contarsi sulla
punta delle dita di una mano, ma gli andava bene così: poca confusione, niente
traffico, poche persone.
Tanto per lui contava ci fossero sempre i suoi due amici, Shin e Satoshi. Parlavano, giocavano, ridevano e scherzavano con
lui ogni giorno, un po’ meno quando c’erano dei turisti in visita al cimitero
della città. Ecco, in quel caso non si presentavano fuori. “Forse non gli piace
la gente”, li giustificava Ken nella sua spontaneità,
“però gli piaccio io, questo va bene.”
Nonna Harue stava preparando la cena, servì in tavola
il pasto e mangiò in religioso silenzio mentre Ken raccontava
ciò che aveva fatto quel giorno, dal sognare a occhi aperti di diventare un
allenatore di Pokémon e poter viaggiare per il mondo, a rincorrere Shin e Satoshi su e giù per i gradoni della Torre. Veniva
apostrofato più volte dalla vecchina che si premurava sempre di ricordargli di
non salire oltre un certo numero di piani, ma Ken non
ricordava mai quanti: sapeva che al piano terra poteva entrare, poi avvertiva
una leggera punta di angoscia all’idea di prendere la prima rampa di scale e sconsolato
se ne usciva nuovamente alla luce del sole, scrollandosi di dosso i piccoli
brividi che gli avevano fatto il solletico. Prometteva di portare rispetto,
così come lei desiderava, e di mantenere le distanze dagli sconosciuti,
affidandosi alla compagnia dei pochi compaesani e dei suoi due coetanei. Così
facendo, poteva essere considerato sempre al sicuro.
«Ehi, ma che ci fate qui? Sapete che nonna non mi fa uscire di notte, non
posso…»
L’espressione di Satoshi alle parole di Ken cambiò: detestava ricevere un “no” come risposta, anche
perché si divertiva parecchio con i compagni di giochi. Serrò i pugni e la
bocca mimando una espressione di sentito disappunto, ma non insistette più di
così: sapeva sarebbe stato inutile, disobbedire ai vecchi era vietato e portava
soltanto guai.
«Solo per oggi, è una giornata speciale.» Gli occhi di Shin invece brillavano
di aspettativa, piccoli puntini luminosi nel buio del retro di casa Nakamura,
dove si affacciava la cameretta di Ken. «Fidati di
me, ti divertirai tanto con noi.» Ken fu tentato, ma ricordava le parole di Harue: “non uscire di notte a Lavandonia, sta’ dove io
possa proteggerti. Promettimi di non disobbedire.”
E lui non lo avrebbe fatto.
Si scusò con i bambini, chiuse la finestra e tirò le tende scure.
Anche quella sera obbedì. Anche quella sera sua nonna sospirò di sollievo nel
vedere come il nipote non avesse ceduto alle richieste dei due che vagavano tra
una casa e l’altra, bussando, sussurrando, chiamando. Ricevendo sempre risposte
negative.
«Nonna, perché non posso uscire di sera?» Ken
ricordava la cupa rassegnazione di Satoshi e
l’entusiasmo di Shin, voleva unirsi a loro, voleva correre per le strade
deserte di Lavandonia anche di notte, giocare a palla, a rincorrersi,
fantasticare sul futuro, stendersi sull’asfalto e guardare il cielo fino ad
addormentarsi… perché non gli era permesso?
«Sono cose che non ti serve sapere, Ken. Ora va’,
esci a giocare, approfitta di questo bel sole.»
Il bambino non rimbeccò, uscì a testa bassa e corse alla ricerca dei suoi
amici. Nonna Harue lo salutò con la mano, chiudendosi
la porta alle spalle e accomodandosi nel piccolo salotto: si lasciò cadere
sulla poltrona e borbottò qualcosa su come fossero particolarmente insistenti loro
quell’anno. Avrebbe dovuto fare qualcosa prima di vedere suo nipote
raggiungerli e lasciarla da sola. Capiva che le raccomandazioni ormai non erano
efficaci, Ken era un bambino esuberante e curioso,
bisognoso di contatto, del prossimo, di altri a tenergli compagnia… da quando i
genitori erano scomparsi lui gli era stato affidato, ancora troppo piccolo per
capire, e mai avrebbe voluto segregarlo in una comunità tanto ristretta e
protettiva, sapendo quanto fosse grande il sogno di Ken
di vivere il mondo e scoprire ogni cosa.
Ma non poteva partire, non poteva lasciarlo andare.
«Ken? Pssss, ehi, Ken!» Il sussurro di Shin entrò dalla finestra della camera
buia, picchiettando nelle orecchie del bambino. «Ken?
Mi senti?»
Lui mugugnò qualcosa stropicciandosi gli occhi, ancora mezzo addormentato:
scese dal letto quasi inciampando sul proprio pigiama, scostò le tende e salutò
l’amico con un cenno della mano.
«Oggi ti va di venire a giocare con noi?» Ken mugugnò qualcosa di incomprensibile senza dare
importanza a quel “noi” anche se di Satoshi
non c’era traccia.
«Dai, faremo presto, prometto che non sveglieremo tua nonna. Dimmi di sì…!»
Fu tentato, e avrebbe anche ceduto non fosse stato per Harue
che intervenne piazzandosi tra il nipote e la figura fuori dispersa nella notte:
spalancò la finestra recitando le parole della canzoncina che Ken cantava spesso con leggerezza, ripetendole come un
mantra, per poi intimare Shin di allontanarsi e non tornare prima del mattino.
Sigillò la vetrata, accompagnò il nipote a letto e gli intimò ancora una volta
di non cedere mai alla richiesta di giocare dopo il tramonto.
«Anche se insistono, anche se sorridono… Ken, non
dire mai di sì. Possono implorarti, prometterti dei regali, possono dirti di
fare qualcosa di speciale, ma non accettare mai. Promettimelo, ti prego… non
uscire mai al buio…»
«Spiegami, nonna, spiegami perché non posso…»
«Perché altrimenti… lascia stare… torna a dormire.»
Insistette il bambino, ma non ebbe risposta. Ancora una volta si accucciò sotto
la coperta, riaddormentandosi con una strana sensazione a rimescolargli lo
stomaco.
«Satoshi, come mai non c’è Shin oggi con noi?» Ken era preoccupato, non era da loro perdere una giornata
di gioco all’aria aperta. Lavandonia quel giorno era deserta, avevano tutto lo
spazio per giocare, faceva caldo e aveva tanta voglia di correre e sfogarsi. Satoshi temporeggiò, cambiò più volte argomento,
finse di non ascoltare o di non sapere, ma Ken non si
arrese: lo mise alle strette. «Cosa succede qui di notte? Perché non volete mai
parlarne? È un segreto tra te e lui? Dimmelo…» lo scosse per le spalle,
destabilizzandolo, «dimmelo!»
«Non posso, Ken, non posso parlartene. Abbiamo
promesso, non possiamo dirtelo…»
«Nonna, cosa succede di notte qui? È normale stare chiusi in casa così?» Harue sospirò amareggiata, le ultime sere Ken parve sempre più agitato, non riusciva a riposare bene
e rumori all’esterno attiravano continuamente la loro attenzione. Il sonno del
bambino era disturbato e scosso da sogni che non riusciva a ricordare, sogni di
voci a lui familiari, di parole che svanivano dalla testa subito dopo essere
state pronunciate. Le occhiaie erano pesanti, il bisogno di dormire ancora di
più.
«Tesoro, i bambini di notte non devono uscire a giocare.»
«Ma non esci nemmeno tu…»
«Certo, io non devo fare niente di sera. I miei doveri li svolgo durante il
giorno, come tutti qui.» Ken si arrabbiò, scattò dalla sedia della cucina
ribaltandola sul pavimento di legno: «tutti chi? Siamo pochissimi, non ci vive
quasi nessuno, e a parte un paio di persone, vedo soltanto Shin e Satoshi!» si fermò un attimo a riflettere, «anzi, negli
ultimi giorni solo Satoshi… Shin non esce più…» Harue sapeva. Lo aveva allontanato lei quella sera: Shin
insisteva troppo, voleva Ken tutto per sé anche durante
la notte e non era un bene. Il legame era forte ormai, pericoloso.
Andava reciso.
E così lei tentò, ottenendo un allontanamento provvisorio.
«Per favore, nonna. Prometto che non lo dirò a nessuno, va bene? Sarà il mio
segreto, anzi, il nostro! Come una squadra, come una famiglia, perché noi siamo
una famiglia, giusto?»
«Fidati, per il tuo bene e di questa città, fidati…»
Ken aveva smesso di uscire. La febbre era salita un
pomeriggio, lasciandolo stanco, a letto da solo, chiuso nella sua camera. Nonna
Harue aveva vincolato parte delle sue energie per
prendersi cura di Ken, tralasciando alcuni dei doveri
giornalieri. La Torre era scura quella sera, le luci erano spente.
«Strano…»
Il bambino si portò alla finestra, Lavandonia non era mai stata così buia. Dove
prima c’era luce, anche se flebile, ora il nero.
E nel buio Ken vedeva le cose muoversi.
Quali cose? Non poteva saperlo, sua nonna non voleva rispondere nemmeno a
questo.
Sentì sussurrare voci conosciute là fuori, le stesse dei suoi sogni, le stesse
dei suoi amici. Si avvolse nella coperta sfoderata dal letto, si trascinò con
fatica alla finestra della stanza e assottigliò lo sguardo: gli scuri non erano
chiusi, nonna doveva averli dimenticati, e un nero così nero non l’aveva mai
visto prima. Spostò le pupille a destra e a sinistra, alla ricerca della fonte
di quei suoni.
Era sicuro fossero Shin e Satoshi, era così felice!
Erano passati a trovarlo, sapevano che stava male… loro non volevano lasciarlo
da solo, non come Harue che aveva raggiunto la Torre
tutta trafelata, abbandonandolo malato in casa. Spalancò la finestra e
rabbrividì: faceva freddo per la stagione, anche troppo, ma tanto lui era
coperto.
Scavalcò il davanzale, poggiò i piedi nudi a terra e corse verso gli amici. Satoshi tentò di dissuaderlo, gli disse che avrebbe dovuto
ascoltare le raccomandazioni della nonna, ma Ken non
ascoltò. Li raggiunse, li abbracciò e in cambio ricevette il migliore dei
sorrisi da parte di Shin, mentre l’altro piangeva.
«Ora sei davvero uno dei nostri, adesso non potrai andartene via mai più. I
fantasmi della Torre non possono scappare da Lavandonia, e tu hai scelto di
diventare un fantasma della Torre.»
Harue correva, correva quel tanto che il corpo
acciaccato permetteva. Aveva udito fruscii lievi, lugubri, ascoltato piccole
voci dai toni diversi.
Sussurri.
Passi.
Dove l’occhio non vedeva.
Le finestre della Torre ora nuovamente riflettevano sul terreno.
Lei aveva fatto più in fretta possibile: pregò con tutta se
stessa di tornare a casa e ritrovare Ken steso a
dormire, così come lo aveva lasciato, sentendosi sfuggire le ore del giorno
dalle dita nodose. «Manca poco, manca poco.»
«Nonna?»
Si sentì chiamare dall’esterno.
Si voltò, e dove prima non c’era nessuno, ora tre bambini la stavano guardando:
Shin sorrideva tenendo per mano Ken, in modo
protettivo, Satoshi non riusciva nemmeno a guardarla
negli occhi. Suo nipote invece si dondolava sui talloni, salutandola con la
mano e sorridendo: «visto? Non è successo niente, stiamo giocando ai fantasmi
della Torre!»
«Ken…»
L’ironia di Shin arrivò pungente. «Abbiamo vinto noi, vecchia.»
Strattonò l’amico nella direzione dell’alta costruzione adibita a cimitero; «andiamo,
andiamo nella Torre a giocare.»
«Ma io non posso…» Ken si sentì trascinare con una
forza tale da farlo sollevare dal terreno. «Ho promesso…» Si voltò in direzione
della vecchia, allungando il braccio verso di lei, ma era troppo lontana,
sfinita. Era inginocchiata a terra, le mani tremanti a coprire un volto sfatto.
Il bambino sentì il peso della colpa addosso, tentò invano di opporre
resistenza e di raggiungere l’unica familiare che ancora aveva.
«Dove pensi di andare? È presto, andiamo a giocare nella Torre.» Shin strinse
di più, strattonò e lo trascinò sul pavimento senza il minimo sforzo,
allontanandolo dalla propria casa, da Harue. Satoshi mimò un inchino profondo in direzione
opposta, sussurrando un “mi dispiace”. Sapeva lei avrebbe sentito, e gli
dispiaceva davvero, perché Ken non sarebbe più
appartenuto a lei.
#Springbingo gruppo Non solo Sherlock
Casella n.2: Di tipo spettro Prompt di Ray Yadokari Fanart credits @Naturium
«Mamma, possiamo uscire almeno stavolta? Mi annoio a stare
qui…»
«Lo so, ma questo è il nostro posto, il nostro habitat.»
«Cosa vuol dire?» Il piccolo, incuriosito dalle parole della madre, si sporse da
una delle travi dello scantinato disabitato. «Cosa è un habitat?»
«Il posto dove vive la nostra specie si chiama habitat.»
«Le case abbandonate lo sono, sì. Posso chiamarle habitat?»
La madre lo guardò, notò gli occhi vispi spegnersi nel buio: «beh, diciamo che
i Pokémon vivono in posti tanto diversi, ognuno ha il suo, e questo è il
nostro.»
Non molto convinto, Mimikyu scosse le piccole spalle
nere, confuse nelle ombre della casa. Corrugò la fronte e rimase così a
riflettere per un tempo che gli parve sufficientemente lungo. Era curioso,
chiacchierone e insistente, esattamente come molti dei cuccioli della sua età.
«Ma di solito non si vive tutti assieme?»
Lei esasperata sospirò: non era sempre facile rispondergli in modo sereno,
vista la loro condizione.
«Sì, di solito sì, ma noi non possiamo…»
«Perché?»
«Perché noi Pokémon spettro abbiamo i nostri bisogni,» I nostri confini…
«le nostre abitudini,» Le nostre catene…
«e viviamo in posti tranquilli,» In solitudine.
«perché la quiete ci aiuta a stare meglio, e poi la luce del sole ci dà più
fastidio rispetto agli altri Pokémon.» Gli umani ci vogliono nel buio.
Forse più convinto, Mimikyu lasciò cadere il
discorso, continuando a chiedersi perché mai i suoi simili non vivevano con
loro: ricordava di storie ascoltate al di là delle pareti, al piano di sopra,
storie che cercava di cogliere tutte le sere. Arrivavano da una voce metallica,
qualcosa che gli teneva spesso compagnia, e raccontava di come i Pokémon
vivessero in armonia nel mondo esterno, in cielo e in mare: assieme, in stormi,
mandrie o banchi.
Tranne lui.
E questo a Mimikyu faceva male, male davvero.
«Sono maledetti. Lo sapevo, sapevo che non sarebbe stata una buona idea
integrarli, quei Mimikyu dovrebbero estinguersi…
avremmo dovuto ucciderli tutti!» La voce dell’uomo si levò più alta delle altre,
dedite intanto a sussurrare parole di conforto e di speranza d’una vita
migliore alla salma che veniva calata all’interno della tomba. L’ultima vittima
era stata ritrovata da un vicino di casa, insospettito dall’assenza di rumori
in casa e della porta d’ingresso mai aperta, se non l’insistente vociare basso di una televisione costantemente
accesa: l’arrivo delle forze dell’ordine aveva confermato ogni sospetto.
Una morte innaturale stampata sul volto sfigurato dall’orrore.
«Mamma, io non sento più niente...» Mimikyu aveva
esitato a esprimersi credendo di andare contro alle ire della madre. Le storie
che ascoltava spiando alleviavano il suoi giorni grigi, dandogli qualcosa da
fare, da scoprire e su cui riflettere. Lei si voltò verso di lui, immaginando
diverse domande a cui dover rispondere.
«Di solito parla di più, invece… invece adesso fa silenzio, tanto silenzio.»
Era amareggiato.
«Sei andato a cercarlo? Mimikyu, rispondimi… hai per
caso lasciato questa stanza, andando di sopra?» Sapeva già, aveva intuito perché
anche lei ascoltava, seguiva, captava ogni cosa al di fuori di quelle mura
umide per mantenere al sicuro lei e il cucciolo.
«Sì, mamma… volevo solo sapere… non pensavo che…» singhiozzava, ricordando
l’espressione di chi l’aveva guardato per la prima volta negli occhi. Ancora vedeva
le pupille dell’uomo dilatarsi, la bocca spalancarsi in un grido muto, e il
cuore fermarsi. «siamo così tanto brutti da fare morire le persone?»
Due braccia nere lo raggiunsero e lo cullarono.
«No, non lo siamo, tu non lo sei. Non sei brutto, non sei cattivo, non sei
niente di diverso da un Mimikyu. È solo che…» Siamo maledetti. «Solo che?»
«È difficile, tesoro. Per quello noi ce ne stiamo tranquilli al buio, per non
avere problemi. Nessuno ci disturba, e noi non disturbiamo gli altri.»
Un odore acre aveva svegliato Mimikyu: era qualcosa
che non aveva mai sentito prima, gli attaccava la bocca e il collo rendendogli
difficile anche solo respirare. Agitato raggiunse la madre che pareva stordita,
incapace a muoversi regolarmente; lo guardava spaesata, lo accolse tra le
braccia e lo strinse forte a sé. Sono venuti a prenderci perché hanno paura di noi.
«Mamma, mi fa male la gola…»
«Tranquillo, adesso passerà, vedrai…» Si alzò prima di sentire le forze venir
meno, raccolse le energie e spaccò la finestra che dava verso l’esterno,
l’unica via d’uscita dello scantinato. Lo scatto disperato, la via di fuga.
Il freddo, il buio là fuori. Un mondo vasto, tutto era fermo.
«Andiamo.»
«Ma quella… quella era casa nostra…»
«Potremo trovarci un’altra casa, un posto con più Pokémon, magari con qualcuno
come noi. Cosa dici? Andiamo?» Hanno appena cercato di avvelenarci, di ucciderci. «Sì, andiamo, ma sono così stanco…»
«Dormi, tesoro, abbiamo tutta la notte e nessuno ci disturberà.»
Non ci conoscono. Hanno paura di noi perché siamo spettri. Non vogliono
capirci, non ci provano nemmeno. Gli umani non fanno per noi, non faranno mai
niente per noi.
Questa fanfiction partecipa alla #3FrasiFic challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia
Fandom: Pokémon Personaggi: Red, Pikachu Prompt: esausto, compagno, lacrime di Jeremy Marsh
I passi affondano nel terreno umido uno dopo l’altro, dove il bianco perenne
della vetta del Monte Argento è nauseante, interrotto solamente da spruzzate di
colore dei sempreverdi quasi completamente ricoperti dalla neve.
Red incespica sui suoi stessi piedi, stanco di quella scarpinata sfiancante, con
le dita ormai gelate e il corpo scosso dai brividi dentro a vestiti troppo
leggeri per quell’altitudine; ha perso la cognizione del tempo in cerca di
Pikachu, scomparso per quanto, forse ore ormai?
La speranza di ritrovarlo ancora vivo in balia della bufera si è ridotta a una
percentuale così esigua che può contarsi nel numero di lacrime perse durante il
tragitto: lo chiama, l’eco delle sue parole si perde nel vuoto.
#Springbingo
Casella n.3: Tremore Prompt di Giulia Lausi
No, così non va bene. La
grafite grattava il foglio, il suono dei graffi riempiva la piccola stanza
immersa nel buio. La stentata luce di una lampada rischiarava il piano da
lavoro abbastanza da consentire una giusta illuminazione esclusivamente sulle
bozze, e nient’altro. La finestra era sigillata così come la porta,
rigorosamente chiusa a chiave.
Nessuno avrebbe dovuto permettersi di disturbarlo. Neppure la moglie. Cazzo, non è quello che voglio.
La carta venne stracciata, appallottolata con cattiveria, lanciata alle sue
spalle. Sugimori tentò di nuovo, ancora e ancora,
mentre le ore scorrevano: più lavorava, più rifiutava i risultati di quella
notte.
Sul pavimento giacevano idee morte, rigettate, scarti: occhi stanchi le
osservarono un’ultima volta, prima di calciare da parte il frutto sbagliato di
ore inutili. L’uomo si gettò sul letto sfatto, uno tra i pochi mobili presenti
nello stanzino adibito a studio. Domani andrà meglio, sì. Domani ci riuscirò. Domani. E senza nemmeno svestirsi, si addormentò.
«Non si preoccupi, signora Sugimori. Mi ha detto che
suo marito lavora di notte, quindi è normale abbia gli orari sonno/veglia
sfasati. Cerchi di renderlo conscio che potrebbero presentarsi dei problemi a
lungo andare. Al momento non vedo nulla di particolare su cui intervenire.» Atsuko salutò con cortesia e ripose la cornetta del
telefono. Non doversi preoccupare, insomma: questo il verdetto del medico di
famiglia. Sospirò di sollievo pensando di essersi impensierita troppo. Non era
la prima volta che suo marito Ken affrontava delle
difficoltà lavorative: essere illustratore per un’azienda ricca di progetti
fitti e complessi non doveva essere facile. Ovviamente. Anche se…
Anche se ultimamente aveva notato un certo sconforto nella barba non curata, in
quelle occhiaie e nei capelli sempre disordinati: non che faticasse a
riconoscere il marito, ma pareva davvero più sciupato del solito. Che stesse
lavorando troppo?
Gli avrebbe parlato, avrebbe cercato di capire cosa gli stesse passando per la
testa, anche perché se non fosse stato per lei… chi si sarebbe preso cura di Ken e della sua salute?
L’aria odorava di birra, di chiuso, di viziato e di fallimento. Disinteresse,
concentrazione indirizzata e aridità d’affetto. Lo studio era il ritratto
dell’autore e viceversa.
«Lasciami stare, ho bisogno di dormire…»
«Ma sono le quattro del pomeriggio… ti va di bere un tè, o un caffè?»
«Voglio dormire, devo. Sento che stanotte sarà la volta buona.» Atsuko era avvilita: ciò che era rimasto di suo
marito era un fantasma dalle vaghe linee familiari. Accusava uno stress passivo
rispecchiando quello più forte di Ken che si
riversava su di lei a ogni parola pronunciata con cinismo, cattiveria o
noncuranza. Ci stava soffrendo, ma sapeva di aver scelto un uomo difficile. O stava
semplicemente cercando di giustificarsi, per non ammettere apertamente che quello
non era certo il matrimonio che aveva sognato da giovane; ricredersi sulle
proprie scelte non sarebbe comunque stato ammissibile.
«Non vuoi nemmeno mangiare qualcosa?»
Era già il terzo giorno in cui gli proponeva di pranzare assieme, ricevendo
sempre un secco rifiuto biascicato.
«No.»
«Dottore, buongiorno. Sono AtsukoSugimori,
sì, di nuovo. Esatto. Non dà segni di miglioramento, è smagrito, non vuole us-… sì, sì certo, capisco. Credo però che ci sia qualcosa
che non vada. Quando si è degnato, perché sa, ormai lui si degna e basta di
uscire da quella maledetta camera… bene, quando era uscito da quel buco mi
pareva tremasse.» Una pausa. La donna stava cercando le parole giuste per
descrivere ciò che aveva notato la sera precedente. «Non quei tremori dei
vecchi, no, qualcosa più… più strano, ecco. Non saprei nemmeno come farglielo
capire.» Altra pausa, intenta ad attendere istruzioni. «Sì, guardi, è evidente:
faticava a portare il cibo alla bocca, la presa sulle bacchette era pessima.
Anche il capo? Sì, anche quello. Dice? E quanto è forte quel farmaco?»
La conversazione aveva dato i suoi frutti. Uscì con un po’ di buon umore
ritrovato, lasciandosi alle spalle l’atmosfera pesante del suo stesso tetto;
avrebbe raggiunto lo studio medico per poi andare in farmacia e dare un taglio
agli scatti del marito, al suo malessere, al suo trattarla con sufficienza e
distacco.
Era tutta colpa di quelmaledetto
lavoro, delle sue scadenze serrate e delle pretese troppo alte che i colleghi
di Ken avevano nei suoi confronti.
E anche di lui. Era anche colpa sua.
«Se le prendo mi prometti che non romperai più il cazzo e mi lascerai in pace,
finalmente?!» Il tono di Ken era acido, sarcastico,
acuto: nulla a che fare con il riservato signor Sugimori
che si era presentato ad Atsuko qualche anno prima,
titubante e introverso. «Quante? Quante sono? Ecco, contenta?» Lanciò il
bicchiere nel lavello, incurante del rumore del vetro in frantumi, e raggiunse
rapido il proprio nascondiglio, il suo angolo di mondo dove l’estro creativo
poteva uscire, prendere vita e dare soddisfazione. In fondo le uniche
soddisfazioni della vita di Ken risiedevano in
disegni bidimensionali dai tratti sempre più tremuli e imperfetti: le matite sbavavano
spesso sul foglio, le macchie delle chine si erano asciugate sui listelli di
legno del pavimento e nel complesso le opere concluse parevano più inquietanti,
anche se effettivamente molto più espressive. «Continua su questa strada, potremmo dedicarci a concetti di buio, spettri, poteri
psichici, città infestate. Mi piace. Bravo, Sugimori.»
Le parole dell’amico e collaboratore Tajiri per lui
erano state benefiche e quindi si era concentrato sul mantenere fede ai
propositi di entrambi. Una emozione positiva, finalmente. L’unica nella sua
giornata, nella sua esistenza. Tentava di tutto per riuscire a dare vita ai
frammenti di pensiero che gli ronzavano per la testa: da confusi puntini
luminosi si trasformavano in schizzi, in segni, in colori specifici e questo
era vita. La sua vita. Ciò a cui dedicava tempo e passione, realizzazione.
Ma cosa avrebbe potuto capirne sua moglie, in fondo? Atsuko
pensava davvero di inibirlo dandogli dei farmaci? Vuole sabotarmi. Più ci pensava, più la rabbia e la frustrazione cancellavano ogni singolo
momento di lucidità e di concentrazione.
Più il volto e la voce di lei si materializzavano nella sua testa, più grattava
con foga, tremava su quei fogli reggendo a stento la matita tra le dita. Non ha mai sopportato quello che faccio. Sabotarmi.
Tremavano ancora le dita di KenSugimori
strette al collo di Atsuko.
Tremavano.
Più stringeva però, e più le articolazioni si stendevano e dolevano meno.
Quando il colorito della pelle e delle labbra della donna cambiò, le mani erano
stese ferme. Perfettamente controllate. L’uomo si alzò, recuperò dal frigo una
lattina di birra e si accasciò di fianco al corpo esanime della donna che aveva
smesso di amare da tempo. Inspirò profondamente, rilassò le spalle contro alla
parete della cucina e chiuse gli occhi.
Non tremava più.
Eliminato il motivo dello stress, le conseguenze erano piacevolmente svanite. Nuovi
colori mescolati, diverse forme, espressioni, tratti si muovevano dietro alle palpebre.
Perfino la birra aveva un sapore migliore. Sicuramente Tajiri
sarebbe stato entusiasta delle nuove bozze dei personaggi.