Il grande salto

di Glenda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Sun naa in söe la löena dumà cun't i öcc

ho sparaa cuntra el teemp e ho desfàa i urelòcc

ho pregaa mìla voolt senza nà giò in genöcc

ho giraa cun't el smoking e a pee biùtt piee de piöcc…

 

M'è tucaa impara' che la röeda la gira

che ogni taant se stravàcca el büceer de la bìra

tra furtöena e scarogna gh'è una corda che tira

quaand el diàvul el pica el ciàpa la mira…

 

(Davide Van De Sfroos)

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1

 

Da “Orazio” c'era silenzio solo quando trasmettevano le partite o le estrazioni del lotto. Ad Artin non interessava il calcio, ma al lotto giocava una volta al mese: forse qualche volta aveva sperato di vincere, ma ormai, in linea di massima, il suo era più che altro diventato un gesto scaramantico, quasi che non farlo significasse offendere la dea bendata e attirarsi addosso qualche sventura.

Come se non bastassero già.

A volte, si sentiva stupido… eppure, sotto lo schermo della TV, nella saletta del circolo, erano sempre in così tanti che non gli sembrava giusto tacciare di stupidità tutta quella gente che si sedeva accanto a lui e gli offriva risate complici e sigarette.

- Ci è andata buca di nuovo, eh, Artin? - Mario, con la lattina in mano, gli allungò una gomitata amichevole - vuoi un sorso? -

Il giovane sorrise

- Solo uno. - disse, e buttò giù tutto d’un fiato un’ingollata di birra di pessima qualità.

Non gli era mai piaciuta la birra. E non gli piaceva fumare.

Ma era una questione di riti: dividere quei gesti con gli altri – un bicchiere offerto, un tiro, una giocata – erano l’unica cosa che lo faceva sentire abbastanza forte da tirare avanti.

- Per scaldarsi il cuore, ci vorrebbe qualcosa di meglio di questa. -

- Dipende da quanta ne bevi! -

Gli arrivò una seconda pacca, più forte, stavolta sulla schiena. Chissà quanta ne aveva bevuta lui!

- Su con la vita! La prossima volta andrà meglio! -

Si alzò ridacchiando, e barcollò un po’.

Artin seguì la sua camminata ondeggiante, e pensò che forse avrebbe dovuto farlo anche lui: bere tutto ciò che poteva, bere fino a non capire più nulla, andarsene da quel bar, entrare in un locale, in una disco… e almeno per qualche ora non pensare a niente, non pensare più.

Ma il mondo era lì, presente ogni mattina, e ogni mattina si dovevano fare dei conti. Conti per far sopravvivere una famiglia di quattro persone di cui nessuna poteva contare su uno stipendio, conti con il lavoro che non si trovava, conti con le bollette, conti con la scuola dei fratelli, conti con una madre che stava morendo da anni, conti con la consapevolezza che le cose da aggiustare erano troppe, e, per quanto la si tirasse, la coperta era corta.

Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere un giorno tutto suo, in cui non dover fare più i conti con niente, in cui riposarsi un po': nascondersi sotto un grosso ombrello che lo riparasse dalle bastonate della vita. Invece, tutto ciò che poteva fare quando il bastone colpiva troppo forte era sedersi sull‘angolo di una strada, piangere per un po’, e poi saltare di nuovo in piedi e rimettersi alla ricerca di una chance di sopravvivenza – fosse un posto in un call center o l‘occasione della vita – sforzandosi di sorridere a tutti quelli che incontrava, perché era certo che quella fosse l'unica cosa che prima o poi gli sarebbe tornata indietro.

Sua madre gli aveva insegnato così, e lui, in trent’anni di vita, aveva sempre seguito quell'insegnamento: ma ora che lei non poteva più ripeterglielo, era diventato meno facile e meno automatico.

Non erano mai stati una famiglia serena; lei immigrata albanese, lui un poco di buono che non sapeva gestire i pochi soldi che guadagnava: avevano messo al mondo Artin per incidente, e cinque anni dopo, al secondo incidente, avevano finito con lo sposarsi. Lui ed Alba erano cresciuti vedendo il padre poco o niente, tra un soggiorno in galera e la volta che era scappato con tutti i risparmi per andare ad aprire un Bar alle Canarie con quel suo amico idiota. Quando era tornato con la coda tra le gambe, Artin si era quasi dispiaciuto, ed il senso di colpa per questo sentimento lo aveva fatto star male. Adesso, a ripensarci, malediceva il giorno in cui Giovanni Dorsi aveva rimesso piede a Firenze, anche se da quel ritorno erano nati Ana e Andrea. Non riusciva a capacitarsi di come si potessero mettere al mondo figli per rinsaldare una relazione e di come i suoi genitori lo avessero fatto ripetutamente: a volte si diceva che ognuno dei sui fratelli era l'occasione persa di sua madre per lasciare suo padre; odiava quel pensiero, ma nei momenti peggiori si insinuava nella sua mente tra una fessura e l'altra, facendo tabula rasa dei buoni propositi e dei sorrisi gratis.

Amava disperatamente sua madre, e lei li aveva ridotti così: lei che aveva desiderato Giovanni Dorsi sempre, irrazionalmente e nonostante tutto, lei che lo aveva tenuto nella loro vita, mettendolo, così, al centro di tutti i futuri possibili. Lei che, per causa sua, se ne stava andando un po’ ogni giorno.

Quella sera di tre anni prima, suo padre aveva bevuto come al solito, la stava riportando a casa da lavoro, ed aveva avuto uno scontro frontale con un'auto che viaggiava sulla corsia opposta: il conducente era morto sul colpo, e la moglie era finita così, in quella lunga non-vita che durava da allora.

Lui non si era fatto nulla.

Adesso era in carcere, e Artin non provava più senso di colpa nello sperare che quella fosse la volta buona in cui non sarebbe tornato.

A volte desiderava odiarlo, ma non ci riusciva. L'odio era un sentimento che in qualche modo non aveva imparato e certi giorni la trovava una cosa splendida, certi altri una cosa brutta.

Gridare, invece, era sempre una cosa bella, e lui lo faceva ogni volta che poteva: scendeva sulla pensilina pedonale del ponte all'Indiano, e lì buttava fuori tutta la sua voce, fino ad avere male al petto. L'Arno gli rispondeva con il suo gorgogliare placido, ed era come ascoltare il respiro calmo di un amico che accetta qualunque cosa tu dica.

Gridava senza pensare al sentimento che muoveva la sua bocca, ma solo all'atto stesso di gridare. Era il suono che contava, era l'intenzione: si poteva gridare di gioia, di rabbia o di dolore; non aveva importanza. La bellezza stava nel prestare attenzione esclusivamente a come la voce prendeva forma e rotolava giù dal ponte, in mezzo ai nodi del fiume, diventando schiuma e poi silenzio.

 

- Mi chiamo Artin Dorsi, vi ho portato il mio curriculum la settimana scorsa, mi avevate detto di ripassare oggi. -

La ragazza non lo guardò nemmeno in viso, digitò qualcosa su una tastiera, e nel giro di mezzo minuto lo liquidò con un sorriso di circostanza.

- Mi spiace, signor… - osservò il nome sullo schermo – Dorsi, ma il suo curriculum non soddisfa le nostre richieste. -

- Sono uno che impara in fretta. - insistette lui - Mi lasci fare almeno il corso di formazione. -

- Il corso è a numero chiuso. Vagliamo già in partenza i candidati. Cortesemente, ho del lavoro da fare… -

Da fuori della vetrina del punto vendita, si vedeva una parete coperta di vite americana, una colata di lava vivida sotto quel sole timido di primo autunno.

Artin sorrise affranto.

- Ha visto che bella? Lei sta seduta in una posizione molto fortunata, signorina. Guardi fuori, ogni tanto: tutto sembrerà un po' meglio di quello che è. -

La ragazza lo scrutò stordita.

- M-mi… scusi? -

Ma lui era già uscito.

C’erano altri tre luoghi in cui sperava di poter svolgere almeno un colloquio, e intendeva andarci, benché i due precedenti di quel giorno non avessero portato a niente e benché fossero mesi che non faceva altro senza risultato.

Il vento era freddo anche se il cielo limpido: per terra c'era già un primo strato di foglie morte. Sulla riva dell'Arno un bimbo giocava con una barchetta telecomandata: l'acqua ristagnava e il fiume sembrava fermo; sarebbe bastata un po' più di corrente e la barchetta sarebbe scivolata via. Sarebbe stata una barchetta libera e condannata a morte tra mulinelli troppo grandi per lei.

“Come una barca… ” mormorò a mezza voce “come una barca nella corrente” e anche in quel momento, cercò di non dar peso al dolore di quel pensiero, ma al suono leggero della sua voce che dava forma alle parole: contro tutto ciò che andava storto, non dare per scontata l’avventura del poter parlare, o camminare, o guardare, era una piccola forma di salvezza.

Il sole già calava: d’autunno, la sera veniva presto.

In mezz’ora di strada arrivò al magazzino di un grosso negozio di arredamento usato: era l‘ultimo tentativo della giornata. Quella zona della città non gli piaceva: c'erano solo ingrossi, magazzini, capannoni, tutti sovrastati dall'imponente insegna dell'Ikea. Non era bello passeggiarci a piedi, ma Artin non aveva una macchina e alla fine della giornata qualche biglietto dell'autobus risparmiato faceva la differenza. Andrea lo prendeva in giro: di norma, lui non comprava biglietti; diceva sempre che una società che permette che un uomo debba attraversare la città a piedi perché non ha abbastanza soldi neppure per pagarsi un autobus è una società sbagliata e quindi è giusto fotterla. In linea di principio, Artin non gli dava torto, ma la realtà era che non voleva trovarsi di fronte ad un controllore che gli facesse la multa: sapere di non poterla pagare lo faceva sentire un fallito.

L'ingresso del magazzino sembrava quasi l'entrata di un grosso hangar, e gli ci volle un po' prima che qualcuno si accorgesse dei sui cenni e venisse a dargli relazione.

- Buona sera. - si presentò - Sono Artin Dorsi, sono qui per un colloquio di lavoro. -

L’uomo sbuffò.

- Il responsabile non ha appuntamenti. -

- Ma sì, ci ho parlato al telefono. - cercò nelle tasche il cellulare - Ecco, vede? Ho anche un sms… mi ha detto che potevo passare oggi, dopo le cinque… -

Il tizio si stropicciò il mento.

- Aspetta. - disse.

Non lo invitò neppure a entrare e sparì all'interno: poco dopo al suo posto comparve un uomo robusto e sudaticcio, alto quasi due metri.

- Che vuoi? -

Per un momento Artin pensò che se quello avesse voluto avrebbe potuto spezzargli il collo con un solo schiaffo. Ma si fece forza e sfoderò la sua espressione più educata.

- Scusi se l’ho fatta scomodare. - gli parlò come se si rivolgesse ad un imprenditore importante che si è dimenticato di aggiustare il proprio look a causa del troppo daffare - Sono qui per il posto di magazziniere. -

L’altro lo guardò dall’alto in basso.

- Magazziniere? - scoppiò a ridere - Tu? -

- Sì… perché ride? -

Lo afferrò per le spalle e lo scrollò come un tappetino: Artin fu colto alla sprovvista, e quasi ruzzolò per terra.

- Ehi, dico, ma ti sei visto? Sembri uno stuzzicadenti: un colpo di vento ti butta giù! -

- Se mi permette, non mi giudichi dalle apparenze. Sono uno che lavora sodo. -

- Senti bello, un giorno di lavoro qui e ti portano via in ambulanza! -

Artin non si mosse: continuò a guardarlo con un rispetto incrollabile, mentre lui gli rideva in faccia.

- Signore… - non sapeva davvero più cosa fare, anche quel giorno gli pareva di aver esaurito tutta la sua energia, di essere arrivato sull’orlo della disperazione - La prego. Ho tre fratelli, se non lavoro non arriviamo alla fine del mese. Mi faccia fare qualcosa, qualsiasi cosa… -

- Se dovessi dar lavoro a tutti quelli che lo chiedono, starei fresco! Che cosa c'ho scritto, in faccia: “Caritas”? -

Il corpo robusto dell’uomo gli si fece incontro, costringendolo ad arretrare verso la porta. Poi, con uno spintone, lo sbatté fuori.

Il sole spariva lentamente dietro i tetti delle città: troppo radioso per quello schifo di giornata.

Mentre le ombre calavano sulla strada, Artin cominciava anche a sentire un gran freddo. Contò i soldi nel portafogli: altro che fine del mese! Era tanto se avevano di che fare la spesa per qualche giorno.

“… Come una barchetta nella corrente… ”

Tirò fuori un paio di monete: desiderava tanto fermarsi ad un bar e prendere un liquore da buttar giù in un fiato, ma al primo locale tirò oltre, ed anche al secondo, e al terzo, e al quarto, finché non si ritrovò sotto l'ingresso dell'ospedale. Ce lo portavano i piedi senza che ci pensasse.

Ogni volta che entrava in quel luogo, gli pareva di sentire freddo: gli succedeva anche d'estate, in pieno sole. Forse tutti gli edifici dei reparti, affacciandosi su una stessa strada che faceva da spartiacque, avevano creato una specie di corridoio di vento, ma Artin preferiva pensare che i luoghi fossero capaci di conservare residui di emozioni di chi ci aveva passato del tempo: immensi archivi non della memoria, ma delle sensazioni.

Quel freddo parlava di chi era stato lì prima di lui, era stato in ansia per un proprio caro, aveva lottato per la propria vita, aveva pianto una perdita, aveva sperato giorno dopo giorno che un miracolo cambiasse le carte in tavola scongiurando esiti inevitabili, o, più semplicemente, aveva condiviso il tempo con la propria paura, lasciandola esistere e dandole spazio. Lo strascico di tutte quelle vite gli suscitava un profondo senso di rispetto: lasciava passare quel brivido sulla sua pelle come la mano di uno spirito amico sulla spalla.

Entrò nel reparto e salutò con un cenno della mano la signora dell’accettazione, una donna grassoccia che gli aveva sempre fatto pensare a una cuoca, più che a un’infermiera. La sua rotondità era pacifica e terrestre e il suo accento del sud abbatteva le distanze.

- ‘Sera, signor Dorsi! Lei non manca mai, eh? -

Il ragazzo le andò incontro, e posò una caramella sul bancone.

Sapeva che la signora Curiello aveva una passione per le gelatine di frutta, e gli piaceva molto il modo in cui sorrideva quando lui gliene portava una: le sue gote si riempivano di fossette e gli occhi si strizzavano fino a scomparire, era una faccia che non rideva solo con la bocca, rideva con ogni più piccolo angolo di pelle.

- Artin, lei è sempre così gentile! E’ davvero un peccato che a uno come lei… -

Il ragazzo le fece cenno di non continuare.

- Così vanno le cose, – cantilenò con voce piana - qua c’è tanta gente che sta male come me… -

- E’ vero, – gli rispose - ma non c’è nessuno che meriterebbe quanto lei di stare meglio! -

 

Marta Curiello lavorava in ospedale da molti anni e, un po' per presa di posizione un po' per abitudine a stare a contatto con la sofferenza, non si era mai affezionata ad un paziente. Invece, per qualche strana via, aveva finito per affezionarsi ad Artin. Era in servizio lì già al tempo dell’incidente, e da allora si erano visti infinite volte. All’inizio, lui andava all’ospedale tutti i giorni, negli ultimi tempi aveva cominciato a passare solo un paio di volte alla settimana, ma non se ne dimenticava mai, e stava là, vicino al letto di sua madre, a parlare anche per ore. Lei non aveva mai visto una costanza del genere: di solito, in casi come quelli, quando i mesi, e poi gli anni cominciavano a passare senza segni di miglioramento, i parenti cedevano. I più per rassegnazione, perché la vita va avanti, e via dicendo; altri perché l’accumulo di dolore diventava insostenibile e finiva per abbatterli. Questi ultimi spesso cambiavano nel tempo i tratti stessi del loro viso: sbiadivano. Poi, piano piano, smettevano di venire, e lei non sapeva più nulla di loro. Solo un paio di volte aveva visto qualcuno dire addio al proprio caro prima di averlo detto alla speranza, ed erano state due madri. Una giovanissima, con un bambino di cinque anni, una già anziana, il cui figlio aveva avuto un incidente sul lavoro. Ma il loro tempo lì era stato comunque relativamente breve.

I casi come quelli della madre di Artin erano pochi: i pazienti in quello stato che non si svegliavano nell'arco di qualche mese, spesso se ne andavano nel giro di pochi altri. Eneda era senza dubbio la paziente che si trovava lì da più tempo: quasi cinque anni senza nessun cambiamento. Coma vegetativo, dicevano i medici, ma quelle terminologie erano etichette vuote, non volevano dire niente: non volevano dire né morte, né vita, ma nemmeno pronostico di morte o pronostico di vita. E i parenti stavano lì, sospesi in quell'incertezza, tra la vaga speranza di poter far qualcosa con la loro presenza, i sensi di colpa per non poterci essere sempre, il tempo portato via alla propria vita per una vita che forse era finita da un pezzo… No, davvero non era il caso di affezionarsi alle vicissitudini di questa gente, se si voleva lavorare con serenità.

Ma Artin era diverso. Lui, in tutti quegli anni, non era sbiadito nemmeno un po'.

E poi c'era il suo sorriso: tutte le volte, senza eccezione, lui entrava là dentro sorridendo, poi andava a sedersi al capezzale di sua madre, e sorrideva per tutto il tempo.

Marta ne era stupefatta e profondamente affascinata.

 

Il corridoio dell’ultimo piano era sempre vuoto: anche gli infermieri passavano di rado, quella gente sembrava “depositata” lì, in attesa di morire. Artin conosceva sempre i nomi di tutti, ad ogni stanza si fermava a salutare, a raccontare qualcosa della sua giornata. Quando trovava i letti vuoti, quasi sempre piangeva, e se non ci riusciva si sforzava di farlo. Una lacrima per ogni nome: gli sembrava giusto. Del resto, un residuo di loro sarebbe rimasto lì, gli avrebbe ricambiato quel gesto d'attenzione la prossima volta che fosse venuto: lo spirito amico che ti batte sulla spalla.

In quel luogo, tutto era un’anticamera della fine.

Persino le luci sembravano voler dire la stessa cosa: erano poche e basse… a quell’altezza il sole poteva bastare, perché sprecare energia per gente che non può vedere? Artin teneva sul comodino di sua madre una lampada colorata: voleva farle ricordare che nel mondo fuori gli uomini avevano scoperto il modo di illuminare la notte, e questo poteva essere almeno un buon motivo per rimanerci un altro po’.

Quella sera, come tante, aprì le finestre, lasciò entrare l’aria fresca, e poi si sedette sul bordo del letto e si mise a raccontare.

Di fronte al dolore senza voce, parlare era un atto di bellezza.

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Aveva fatto tardi, a casa dovevano essere tutti in pensiero. Si affrettò per le scale, e si fermò davanti al bancone della reception per salutare, ma Marta doveva aver già finito il suo turno. Questo lo mise ulteriormente in ansia sull’orario: da tempo non portava un orologio con sé, si era venduto tutto ciò che poteva vendersi, compresi gli orecchini d'oro della sorella, ereditati da una nonna albanese mai conosciuta.

Pensò che per quella volta avrebbe dovuto prendere un treno da Rifredi: uno su due fermava anche alle Piagge, e da lì a casa la strada era breve. Si avviò alla stazione a passo spedito, e appena fu abbastanza vicino, alzò la testa per cercare l'orologio a muro, e rendersi conto dell'effettiva ora che s'era fatta. Quasi le nove: peggio del previsto.

Quando riabbassò la testa, si trovò davanti un volto.

- Hai qualche spicciolo? -

Artin fu per un attimo catturato dai piccoli occhi luccicanti, così azzurri che sembravano due zaffiri: pensò che quella triste figura col volto emaciato e le occhiaie profonde un tempo doveva essere stato un uomo molto bello e che gli occhi erano sempre l'ultima parte del corpo da cui la bellezza se ne andava.

- Non ne ho neppure per pagarmi il treno. – mormorò.

- Per favore, solo uno spicciolo. -

Inaspettatamente, con un guizzo di una velocità imprevedibile, la mano dello sconosciuto afferrò il polso di Artin e lo stinse con forza.

- Mi stai facendo male. – disse lui, mantenendo la calma.

Vagliò con lo sguardo i dintorni, ma non c'era nessuno in giro: era una nebbiosa sera di novembre, e le persone felici erano sicuramente già a tavola con i propri cari.

La voce dell'uomo si fece più profonda.

- Tu lo sai che sto morendo. -

- So che ti stai uccidendo, e non ti posso aiutare. -

- È la vita che mi uccide. Come a te: lo vedo che ti uccide. -

Artin cominciava ad avere paura: quell'incontro stava diventando surreale e lui non era pronto ad incontrare il diavolo al crocevia.

- Lasciami in pace. -

Si liberò della mano che gli teneva il polso e l'uomo non fece resistenza. La sua voce cambiò di nuovo tono, diventando stridente.

- Va' a casa, ragazzino. Va' a casa da mamma. -

Artin fece qualche passo all'indietro, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quegli occhi innaturalmente blu.

- Va' a casa, non vedi com'è tardi? -

Cominciò a mugolare una canzonetta, e gli passò oltre, dandogli una spallata.

Istintivamente Artin si mise a correre verso la stazione.

Ci mise parecchio tempo a togliersi i brividi dalla schiena e l'immagine di quella faccia dalla mente.

Non riusciva a liquidare la faccenda pensando di aver semplicemente incontrato uno dei tanti tossici che girano per le stazioni chiedendo soldi ai passanti col pretesto di aver bisogno di fare il biglietto.

Quell'individuo lo aveva scelto perché aveva riconosciuto in qualche modo in lui un risentimento nei confronti della vita, e ci aveva cercato complicità.

Il suo rifiuto doveva averlo fatto sentire abbandonato, e nessuno dovrebbe pensare di star morendo da solo.

Il senso di colpa si sostituì lentamente allo spavento.

Della droga aveva sempre avuto paura: non per se stesso – a lui bastavano un paio di bicchieri di grappa per perdere completamente la cognizione di sé – ma per Andrea. Aveva quattordici anni e non era stato abbastanza con sua madre per crescere con l'idea che, quando sei figlio di un'albanese immigrata, devi fare l'impossibile per restare una brava persona nonostante tutto, perché i pregiudizi si alimentano già da soli.

Le case popolari delle Piagge erano un brutto posto, lo sapevano tutti: la “gente bene” che stava sull'altro lato della strada malediceva quel progetto edilizio da vent'anni. Ma Andrea aveva trovato lì i suoi amici, era abbastanza grande per essersi fatto le proprie idee sulla vita, e non aver più voglia di sentire Artin insegnargli le proprie.

Quella sera, però, gli avrebbe raccontato di aver incontrato un uomo che non voleva morire e a cui la bellezza era rimasta negli occhi, mentre tutto il resto del corpo voleva cacciarla via. Gli avrebbe detto anche – forse – che la bellezza va disseppellita dalla spazzatura del mondo e che impegnarsi per questo non è né far buon viso a cattivo gioco, né servilismo nei confronti di una società che ti lascia affondare nella merda. Poi gli avrebbe permesso di mandarlo al diavolo, ma la mamma sarebbe stata contenta.

La mamma. A volte si trovava ad agire come se lei potesse davvero osservare e giudicare le sue azioni, ma questo avrebbe presupposto pensarla morta – e non lo voleva – o credere nell’aldilà – e non ci riusciva. Forse ciò che gli restava di sua madre era proprio la bellezza negli occhi che lei aveva passato a lui solo, su quattro figli: gli stessi occhi di quella nonna albanese mai conosciuta di cui aveva dovuto vendere gli orecchini, memoria di una terra dove faceva meno freddo e il cielo era azzurro anche d'autunno.

 

Ana gli corse incontro. I due maglioni di lana che indossava la facevano sembrare un goffo pupazzo: stava cambiando il tempo e loro erano senza riscaldamento. Le uniche utenze che non gli avevano ancora staccato erano acqua e luce, ma Artin si aspettava che accedesse da un momento all'altro.

- Hai freddo, bimba bella? - la abbracciò forte, stropicciandole le spalle con le mani – Mi dispiace tanto. Le cose si aggiusteranno, vedrai. -

Lo ripeteva ogni volta, ma ormai non ne era convinto da un pezzo, ed era certo che Ana lo sapesse. Dopotutto non era più una bambina, era entrata quell'anno in prima media e, anzi, era spaventoso quanto apparisse più adulta delle ragazzine della sua età. Il suo sguardo non aveva nulla della leggerezza e delle promesse che hanno gli occhi delle adolescenti.

- Adesso ceniamo e poi facciamo un gioco. -

Ana sorrise e due allegre fossette le comparvero sulle guance. Era l'unico tratto fisico in cui la sorella gli somigliava. Nessuno dei suoi fratelli aveva preso dalla madre come lui: avevano tutti i tratti del padre, come se, figlio dopo figlio, la presenza di Giovanni Dorsi nella loro vita si fosse radicata più a fondo.

- Dov'è Alba? - chiese, accorgendosi d'un tratto che dalla cucina non proveniva alcun odore.

- Aveva un appuntamento. – spiegò la ragazzina non naturalezza.

- Ah. Ed è almeno uno bello? -

Rise, ma in realtà non era contento quando Alba stava fuori fino a tardi: aveva ventiquattro anni ed era la ragazza più corteggiata del caseggiato, le capitava spesso di essere in compagnia, ma, finché non la sentiva rientrare, Artin non riusciva ad addormentarsi, nonostante la sera fosse sempre distrutto. Talvolta avrebbe voluto che lei se ne rendesse conto, ma non per questo glielo aveva mai fatto presente: avvertiva che i suoi sentimenti avevano qualcosa di sbagliato, era quasi come se desiderasse provarli al posto dei suoi genitori, quasi che questo lo confermasse in un ruolo che in realtà nessuno gli riconosceva.

Notò Andrea accovacciato su divano, con una massa di capelli ogni giorno più lunghi tirati in avanti per coprire un vistoso sfogo di acne giovanile sulla fronte. Gli faceva effetto vederlo mezzo sbracciato in novembre, ma il corpo che si trasforma è come se producesse calore dall'interno: difesa fortunata dalla povertà, di cui c'era solo di che esser contenti.

- Ehi, non si saluta più? -

Il ragazzo non rispose, ed Artin si accorse subito che non lo aveva sentito: era tutto concentrato ad ascoltare qualcosa in un paio di cuffie. Tra le gambe incrociate teneva un I-phone.

- Dove lo hai preso? -

Lo scosse su una spalla col solo effetto di farlo sbuffare. Ci volle una seconda scrollata perché si togliesse una cuffietta, svogliatamente.

- Dove lo hai preso? - ripeté Artin, severo.

- Che palle! Devi sempre rovinare tutto? Voglio solo ascoltare un po' di musica! Non so più neppure cosa va: hai idea di che vuol dire? -

Sì, ne aveva idea. Sapeva cosa voleva dire entrare in prima superiore senza potersi comprare un paio di Jeans alla moda e doversi inventare che i genitori gli impedivano di prendere il motorino perché avevano paura. Ma non riusciva ad accettare che suo fratello rubasse, come non accettava che frequentasse i peggiori elementi del Gruppo Piagge, e che presto dal furto di telefonini sarebbe passato a quello d’auto.

- Dammelo. – disse.

- Ma nemmeno per un cazzo! Quella stronza ha soldi abbastanza da ricomprarne due! -

- Non c'entra niente! Non c'entra quanti soldi abbia la persona che derubi: si tratta della ferita che infliggi, le fai pensare di non essere al sicuro! -

- E noi? Al fatto che noi non siamo al sicuro, chi ci pensa? -

Artin gli strappò l'I-phone di mano.

- Non è una giustificazione. Robin Hood è morto da un pezzo. -

- Vaffanculo, Artin, sei uno stronzo! -

Lui lo ignorò, e, requisito l'oggetto, si diresse in cucina per mettere la cena in tavola.

Non gli piaceva che Ana ascoltasse quelle discussioni, e non gli piaceva doverne avere. Se fossero stati una famiglia normale, forse gli sarebbe parso quotidianità litigare un giorno sì e uno no con un quattordicenne in piena esplosione ormonale. Ma lui non era suo padre, non era capace di fare il genitore, e Andrea lo sapeva benissimo.

Ciò che non poteva sapere, era che quella situazione non sarebbe durata per molto. Erano già stati contattati più volte dagli assistenti sociali, e il fatto che entrambi i ragazzi avessero cambiato ordine di scuola aveva solo rallentato l'inevitabile: adesso era novembre, e quando la macchina burocratica si fosse definitivamente messa in moto, qualcuno sarebbe venuto a bussare alla loro porta, a vedere le condizioni in cui vivevano e a constatare che due minori non potevano restare affidati a due fratelli disoccupati e incapaci di garantirgli un'esistenza dignitosa.

Dentro di sé, Artin sapeva che era giusto così: almeno a loro sarebbe stata data un'opportunità. Ma l'idea di affrontare un'altra perdita lo lacerava: la morte, idealmente, avrebbe dovuto essere l'unica perdita a cui non c'è rimedio, e già bastava. Invece, nella vita di ogni giorno, ne esistevano tante altre contro cui non si poteva combattere.

Si sentiva impotente.

- Artin… -

Andrea stava appoggiato allo stipite della porta, mangiandosi un'unghia. I capelli erano una grossa nuvola infeltrita che gli copriva gli occhi.

- Sono un cretino, ok? Non fare quella faccia da cane bastonato. Davvero, non è colpa tua. -

Invece era colpa sua. Tutta la colpa del mondo, quella sera, gli pareva non avere altri proprietari che lui.

- So che è dura per te. – si sforzò di dire - Ma vorrei che cercassi di essere la persona migliore che puoi. È l'unica cosa che possiamo fare: cercare di restare delle belle persone, perché se anche la bellezza sparisce… -

Si interruppe. Che senso aveva? Come parlare di bellezza, di occhi come zaffiri o di avere amore per se stessi nonostante tutto, quando tutto stava morendo, ed anche un drogato incontrato per strada se ne accorgeva?

- Senti, domani lascio questo aggeggio alla coop. Lei penserà di averlo perso e tornerà sicuramente a chiederlo. Però, almeno per stasera, la possiamo ascoltare un po' di musica? -

Anche lui desiderava ascoltare della musica. Anche a lui avrebbe fatto bene.

Dopo cena si misero tutti seduti sul divano, mentre l'I-phone trasmetteva la play list che aveva accompagnato momenti di vita di una ragazza sconosciuta.

Arriverà la fine, ma non sarà la fine

ed ogni volta ad aspettare e fare mille file

con il tuo numero in mano e su di te un primo piano

come un bel film che purtroppo non guarderà nessuno1.

 

Era tardi, ed i ragazzi già dormivano, quando vide dalla finestra una macchina fermarsi sotto il portone: i suoi fanali proiettarono coni nel grigio. Alba uscì dallo sportello destro, si rassettò la gonna, si passò una mano tra i capelli, e frugò nella borsetta in cerca delle chiavi di casa.

Artin scese e le andò incontro sulla porta: la nebbia si tagliava a fette, e il suo odore inumidiva il cervello; gli sembrava d’essere immerso in una nube di cotone bagnato.

- Finalmente! Mi stavo preoccupando! -

Alba distolse lo sguardo, come turbata da quell’accoglienza inattesa.

- Scusa. - disse – Pensavo di far prima. -

La foschia sfumava i loro volti, ma il rossore dei suoi occhi era ben visibile. Lui la osservò solo per un attimo: indossava un abito sbracciato da due soldi ma che la rendeva sexy, e scarpe col tacco che non le aveva più visto mettere dalla festa del diciottesimo compleanno. La prima cosa che pensò fu quanto freddo avesse sofferto ad uscire vestita così, la seconda, che quell'appuntamento doveva essere parecchio importante, la terza che non doveva essere andato bene, dato che il rimmel le colava dalle ciglia.

- Che è successo? -

Tutto ad un tratto la nebbia gli sembrò più fredda; ora era una coltre pesante e quel nodo alla gola, quel giorno, voleva proprio lasciarlo senza respiro: voleva veramente ucciderlo.

C’erano troppe cose che erano appena andate a posto nel modo sbagliato.

- Entriamo in casa. – disse lei, infilandosi nell'atrio.

- Alba… sei impazzita! -

La afferrò per il polso, e lei si voltò di scatto, rossa in viso.

- Dobbiamo proprio parlane in mezzo alle scale? Vuoi proprio che tutto il palazzo sappia i fatti miei? Possibile che tu riesca sempre a non capire un cazzo? -

Artin si bloccò in mezzo all'androne, paralizzato. Rimase lì del tempo, senza rendersene conto: quando rientrò in casa lei era già in pigiama, struccata, che cercava a fatica di togliere lo smalto alle unghie.

- Non mi fare la predica. – lo prevenne, prima che lui potesse aprire bocca - Tu non trovi lavoro da mesi; con le pulizie prendo cinque euro l'ora, e non riesco a farne più di quattro al giorno. Lui me ne ha dati cinquanta. È stato corretto e mi ha sempre presentato gente corretta, che non fa stronzate perché non vuole guai. Posso arrivare a più di mille al mese: è uno stipendio. Come pensi di campare, sennò? Andrea ha ragione: bisogna farsi furbi. -

Non aveva obiezioni da porre. Solo una parola che lo faceva sentire amato e che avrebbe voluto potesse essere anche il sentimento di lei.

- Ma la mamma… -

- Non tirare sempre in ballo la mamma, Artin! La mamma è morta, e sei l'unico che non lo vuole capire! Non puoi scegliere come vivere pensando a cosa deluderebbe o meno lei, non puoi pensare di toglierci da questa situazione e al tempo stesso restare sempre in pace con la tua coscienza, non puoi continuare a credere alla morale dei bempensanti che se ti comporti bene prima o poi verrai ricompensato! Andrea ha 14 anni ed è cresciuto prima di te! -

Artin si sentiva come svuotato: non voleva giudicarla, eppure sentiva che lo stava facendo, e si rendeva conto che insieme a lei aveva giudicato Andrea e giudicava se stesso. Si detestava.

La voce gli uscì atona e distante.

- Da quanto tempo succede? -

- Tre volte. L'ho fatto tre volte. Non è così tremendo. -

Ma mentre lo diceva, si mise a piangere.

Artin si sentì il vuoto sotto i piedi. La tirò a sé, la abbracciò.

- Non ci sarà la quarta. -

La voce di Alba si addolcì, ricambiò l'abbraccio e affondò la testa sulla sua spalla.

- Artin, ti prego… -

- Non ci sarà una quarta volta, lo giuro. Qualcosa farò. Qualcosa farò. Dammi l'ultima possibilità, ti prego. -

Lei gli carezzò la testa, abbozzando un fragile sorriso.

- Non sono io che ti nego una possibilità: è il mondo che ce la nega. -

- Allora io la cercherò meglio! -

1Nesli, La fine

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Le luci psichedeliche del locale gli erano entrate nella testa, annebbiandogli i pensieri e facendogli dimenticare che era notte fonda, e lui era lì, lontano da casa, in un luogo quasi sconosciuto, solo per sciogliere la mente in un bicchiere, o nei movimenti caldi di ragazze che ballano… solo per mandare a fanculo tutto, per una sera, solo per distruggersi un po’, arrendersi almeno per poche ore, prima di doversi rialzare e ricominciare da capo.

Sarebbe riuscito a ricominciare?

Quella notte gli sembrava così estranea e improbabile… La sua testa annegava nel pulsare delle luci, il corpo annegava in un bicchiere di vodka e le gambe non lo tenevano in piedi. Avrebbe voluto sdraiarsi su uno di quei divanetti e dormire.

Ma era quasi ora di chiusura, il locale si stava svuotando. Si mosse a tentoni verso l'attaccapanni, incurante di chi gli passava attorno: era quasi sulla porta, quando qualcuno lo afferrò per un braccio.

- Stupefacente!!! -

Artin alzò la testa, e i suoi occhi appannati incrociarono quelli di un tizio alto e ben vestito - fin troppo ben vestito per trovarsi lì, in un posto dove ancora ci si poteva ubriacare senza svuotare il portafogli - che, senza lasciargli il tempo di parlare, gli sollevò il mento con una mano e prese ad analizzare la sua faccia come si osserva un dipinto d’autore.

- Ehi, ma cosa… ? -

Artin si tirò indietro, e barcollò andando a finire con le spalle contro la parete.

- Stupefacente. Veramente miracoloso… da non crederci! -

- Senta, signore: qui di stupefacente non c’è un cazzo, ok? Mi lasci in pace… -

Scrollò la testa, e si diresse nuovamente verso l'uscita: l'aria fredda della notte forse gli avrebbe fatto bene, o, se non altro, una sferzata di gelo allo stomaco gli avrebbe fatto vomitare tutto l’alcol che aveva addosso.

- Aspetti, mi dia un momento… - l’uomo lo trattenne di nuovo - tra l’altro, lei non sembra stare molto bene. -

No. Non stava bene per niente. Ma che gli importava? Quel damerino in giacca e cravatta poteva anche essere uno di quegli stronzi che si sarebbero scopati sua sorella, se non faceva qualcosa entro il mattino successivo. Dannazione, era tutto così terribile, anche a guardarlo con quegli occhi nebbiosi, quella sera…

- Capo, lei non immagina nemmeno… ! -

Beh? E ora cosa stava dicendo? Ah… ma si… parlava al telefono. Bah. Non riusciva a capire perché la sua mano lo trattenesse ancora… eppure, non aveva nemmeno più la forza di liberarsene.

- Le va se le offro un affare, giovanotto? -

Ora parlava di nuovo a lui, aveva riposto il cellulare chissà dove e lo guardava con quello strano stupore di poco fa.

- Affari… sono mesi che cerco affari. -

La testa gli girava dannatamente.

- Ragazzo? Ehi, mi sente? -

L’asfalto della strada sembrò dirigersi improvvisamente verso di lui. Qualcosa fermò il suo movimento. Il suo volto restò sospeso a pochi centimetri da quel nero che puzzava di smog, di macchine, di piscio di cane e di devastazione.

Non voleva sentire.

Non voleva vedere.

Non voleva più vedere.

Lo disse ai suoi occhi, e gli occhi si chiusero davvero.

 

- È pazzesco. -

Furono le prime parole che sentì - l’eco di un sogno? - ma non avevano lo stesso suono con cui le ricordava. La voce era più giovane, una voce rilassata e cristallina.

- Dove sono? -

Aprì gli occhi: una luce illuminava la stanza; si trovava disteso su un letto.

- Ah, vedo che sta meglio. Ha dormito un bel po'. -

- Dove sono? - ripeté lui

- In una camera d'albergo. A disposizione per stanotte. -

Si tirò su a sedere, la testa non girava più.

Un albergo? Caspita, quella stanza sembrava una suite extra lusso! Probabilmente nella vita non aveva mai visto un posto del genere.

- Io non capisco cosa… - i suoi occhi incrociarono quelli del tizio seduto vicino al letto, e si spalancarono all’improvviso - DIO… ! -

Il giovane sorrise, gentilmente impeccabile.

- Eh sì, fa un certo effetto! Quando l'ho vista, sono rimasto sconvolto anch’io. Io e lei sembriamo costruiti con lo stesso stampo: il creatore deve essersi parecchio divertito! -

Artin era rimasto paralizzato: non riusciva a distogliere gli occhi dell’uomo seduto di fronte a lui. Era elegante, molto bello, i morbidi capelli castani gli ricadevano in una mezza frangia scalata su un lato, aveva un viso lindo e labbra pallide, ma nonostante la evidente differenza nell’amore per la propria presenza estetica, guardare lui era come riflettersi in uno specchio: gli stessi occhi intensi, lo stesso taglio della bocca, lo stesso ovale del volto, persino le medesime fossette!

- Forse una piccola differenza nella forma del naso - fece ad un tratto il “sosia” - e naturalmente, la voce. Ma si può rimediare… -

Artin non si era ancora abbastanza ripreso dallo stupore da riuscire ad articolare frasi. Balbettò solo uno striminzito e un po' spaventato:

- Lei… chi è? -

Lui si presentò educatamente.

- Mi chiamo Elia Avanzini. Ma prima di procedere oltre, credo che lei abbia bisogno di un caffè. -

Sollevò la cornetta e chiese il servizio in camera. In breve, un caffè caldo e aromatico scivolò giù per la sua gola; era una sensazione piacevolissima: realizzò che erano passati almeno un paio di mesi dall'ultima volta che si era concesso un espresso al bar.

- Forse il mio nome non le dice niente, – riprese l'uomo, facendo intendere che quell'ignoranza non era per lui cosa così ovvia – ma sono l'amministratore delegato della *** -

- La ***… Intende la banca? -

- Esatto, signor Dorsi -

Lo stupore si stava tramutando in inquietudine. Qualcosa di strano doveva essere accaduto. Qualcosa che non sapeva, o non capiva. Si trovava in una stanza di albergo, con il dirigente di una delle più grosse banche del paese, che gli somigliava come una goccia d’acqua e che conosceva il suo nome! Le premesse non promettevano nulla di buono.

Ma, in fondo, cosa poteva accadergli di peggio?

Forse niente.

Forse.

Si rilassò.

- Come fa a sapere come mi chiamo, signor Avanzini? -

- Oh, abbia pazienza. Mi sono permesso di violare la sua privacy mentre smaltiva la sbornia. Naturale, quando si ha un gemello, no? Ho contatti che mi permettono di sapere velocemente più o meno tutto ciò che mi serve. È necessario, nel mio mestiere. E comunque, non ha importanza. Ciò che ne ha, invece, è che la situazione economica in cui lei si trova è parecchio spiacevole. O sbaglio? -

Il “gemello” parlava delle sue faccende private come se non ci fosse niente di male a indagare liberamente sulla vita di un uomo senza chiedergli il permesso: Artin ne era infastidito, ma purtroppo non era né nelle condizioni né nello stato giusto d’animo per mettersi a discutere sugli abusi di potere.

- Non sbaglia. – ammise.

- Dunque, suo padre dovrebbe averne per i prossimi quattro anni, e lei ha tre fratelli, di cui due minori, vero? E sono stati affidati a lei fino ad oggi. Mi risulta che quando il mezzano (Andrea, giusto?) era alle scuole medie, gli insegnanti abbiano allertato ripetutamente i servizi del territorio, ma che tutto sommato lei sia sempre piaciuto molto agli assistenti sociali. -

Sentir parlare senza alcun trasporto della tragedia della sua vita gli stringeva lo stomaco, e il modo in cui Elia Avanzini infarciva le affermazioni con domande di cui in realtà non era importante la risposta gli faceva rabbia. Se non avesse addolcito il senso del discorso con l‘ultima frase, avrebbe trovato veramente difficile resistere al desiderio di colpirlo con un pugno ben assestato, ma l‘effetto dell‘alcol se ne era andato, e quelle parole, purtroppo, erano maledettamente vere.

- Si, è così. - confermò di nuovo.

- Non è una situazione che può durare a lungo. -

Come poteva aver scoperto tante cose di lui in così pochi minuti? Artin non aveva mai considerato fin dove arrivasse il potere di gente simile.

- Troverò una soluzione. -

Elia Avanzini si fece d’improvviso serio.

- Io potrei offrirgliene una. - Gli occhi di Artin guardarono la loro immagine riflessa: lo stesso taglio, lo stesso colore...solo, una vita diversa nascosta nel loro movimento, nel loro luccichio – Ma dipende da quanto è disposto a pagare. -

- Quanto si può pagare senza un euro in tasca? Immagino che lei si sia preso la premura di controllare anche questo. -

- Naturalmente. Infatti non è di soldi che sto parlando. So bene che non ne ha -

Gettò un’occhiata vacua al di là di lui, poi tornò a osservarlo con la stessa espressione compiaciuta.

- Lei è proprio il mio gemello… -

- Che cosa vuole? -

Non ne poteva più.

- La sua vita, signor Dorsi. -

La voce di Elia Avanzini mantenne una serenità assoluta nel pronunciare quella frase.

- … C-cosa? -

- La sua vita. Ho bisogno che Elia Avanzini muoia entro la fine di novembre. Sa, ho combinato un bel casino. Quando lo si saprà, andrò in galera. Preferisco che prima che questo accada, Elia si sia ucciso per la disperazione. Le offro di farlo al posto mio, e se accetterà, la sua famiglia non avrà più bisogno di soldi, vita natural durante. -

Artin pensò per un momento che quel ricco snob lo avesse messo in quella situazione solo per ridere un po’ di lui: modo piuttosto perverso per scacciare la noia! Ma Elia Avanzini aprì il suo portatile, digitò velocemente dei codici e entrò in quello che sembrava chiaramente un sistema bancario.

- Gli dirà che ha vinto la lotteria. Capita, a volte. Poi gli racconterà che se ne vuole andare a fare un bel viaggio in qualche paese esotico, e nessuno si stupirà troppo quando non si avranno più notizie di lei. Che mi dice, cinque milioni possono bastare? -

Prima ancora che avesse realizzato pienamente la situazione in cui si trovava, tutto il suo corpo aveva preso a tremare. Gli stava offrendo di uccidersi per soldi? In quel modo, come se nulla fosse?

Aspettava la sua reazione, imperturbabile, e riusciva persino a sorridere: un sorriso di una freddezza disarmante, su un viso che era identico al suo, eppure così tanto, sinistramente più bello.

- Certo, capisco il suo turbamento. Facciamo otto milioni: staranno più tranquilli. -

Era così. Era davvero così. Quell’uomo stava dando un prezzo alla sua vita in tutta naturalezza. Gli assicurava che gli avrebbe permesso di accertarsi di persona della veridicità dell’offerta ben prima di “levarsi di mezzo”… Gli garantiva la riservatezza… il benessere dei suoi familiari… il silenzio su tutta la faccenda…

E lui, lì, si trovava a dover fare il conto più terribile che avesse mai fatto: dare un prezzo alla propria vita.

- D’accordo. Dieci milioni, signor Dorsi. E giusto perché siamo gemelli mancati. Dopodiché – sorrise di nuovo - dovrò rimettermi a cercare qualcuno disposto a sottoporsi ad un intervento plastico per somigliarmi… -

E avrebbe trovato qualcuno disposto ad accettare?

Un uomo disposto a morire per denaro?

Certo.

Perché in ogni angolo di mondo, ad ogni ora, c’era almeno un uomo che pensava di non avere più scelta.

Aveva ripetuto tante volte che per i suoi fratelli avrebbe sacrificato la vita. Ma era una maledetta frase fatta. Ora, invece, era proprio quello gli veniva chiesto.

Sacrificare la sua vita.

E la sua famiglia sarebbe stata libera.

Avrebbe voluto un momento – un momento calmo, fuori dal tempo – per pensarci lucidamente.

Ma non si poteva pensare, per decidere in una situazione simile.

Si doveva solo scegliere di non pensare più.

Si doveva fare quello che aveva desiderato di fare tante volte, affogato in un bicchiere.

Smettere di pesare.

- Quindici. – dichiarò.

Elia Avanzini annuì senza emozione.

- D’accordo. - disse - Lei sa veramente cosa vuol dire contrattare. -

 

Aveva incontrato il diavolo al crocevia.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Desiderare di donare la propria vita non significa desiderare di morire. E lui desiderava donare la vita, davvero, interamente… e non desiderava morire.

Dunque cosa lo aveva portato lì, su quel terrazzo di solitudine, in cima a quel palazzo, in una giornata come quella, in cui era bello lasciarsi baciare dal sole sulla fronte e sulle mani?

Quale punto irritornabile di disperazione, quale amore troppo grande lo teneva in bilico lassù?

Stava veramente scegliendo di morire?

Stava veramente morendo?

A volte le cose sapevano essere talmente innaturali da riuscire ad annientare la coscienza e la paura, da diventare corrente che trascina.

Da lassù si poteva vedere l'Arno serpeggiare.

Perché aveva accettato di vivere quella follia? Perché non guardava in basso la gente brulicare per le strade - la gente che amava, e a cui voleva sorridere gratis, ogni giorno - e non si aggrappava a quell’istinto disperato di tornare indietro? Di tornare lì, nel suo quartiere sudicio e abbandonato, in quegli intrichi di odio e sogni, nella confusione, nella rabbia, nel pianto, nel caldo buco del mondo, nella vita?

Non doveva pensare.

Un solo pensiero - un’esitazione – e non ci sarebbe riuscito.

Non poteva dare tempo alla paura. Non doveva permetterle di nascere, prendere forma, suggerirgli parole invitanti: suggerirgli nell’orecchio quella brama di esistere che l’uomo non dimentica mai - mai - nemmeno nel più cupo fondo della sofferenza - nemmeno sul tetto più alto del mondo.

Non voleva lasciarli. Voleva ancora vederli: vederli crescere, vederli vivere.

Strinse gli occhi. C’era uno strano sapore sulle sue labbra.

Lacrime e sale.

Ne aveva ingoiate tante: eppure, aveva ancora voglia di sentirlo, quel sapore. Aveva ancora nostalgia di tutte le cose per cui valeva la pena piangere.

 

Uno spiffero freddo, scivoloso.

Aria tagliata in due lungo il suo corpo.

Cadere.

Lento come una foglia - una foglia… Dio, sono così leggero? - una foglia nel vento.

La barchetta nella corrente.

Era così semplice morire?

 

- Elia! -

La presa lo afferrò forte: il volo si fermò.

Qualcuno gli stringeva il braccio, con entrambe le mani. La sua voce era un grido implorante, ma che tuttavia non ammetteva rifiuti.

- Elia, per dio! Aggrappati a me! -

Voleva farlo. Voleva salvarsi, sopravvivere.

Ma non poteva.

- Elia, ti prego! Aiutami a tirarti su! Che stai facendo? Elia, cristo santo, dammi la mano! -

Le sue dita scivolavano disperatamente sul suo polso: poteva quasi sentire il dolore di quella stretta, il dolore delle sue braccia, spenzolate oltre la ringhiera.

- AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI! PRESTO! -

La sua voce era ansia e lacrime. E coraggio.

- Elia… ! -

Lo chiamava con un nome che non era suo. Lo chiamava con una voce che non era per lui, ma era piena di forza e di affetto. Non si trattava di un atto d'eroismo civile, né di istinto o senso del dovere. Non era nemmeno pietà o paura di vedere un uomo sfracellarsi al suolo. Voleva salvarlo davvero. Voleva che Elia Avanzini non morisse.

Come si poteva fargli così male? Come si poteva fargli questo?

- Forza! Tieniti a me! -

Un’ombra lunga si affacciò su di lui.

Forti mani lo presero, altre braccia lo sorressero.

Voci. Grida. Persone.

Ma Artin non riusciva più a vedere.

- Avanti, tiratelo su di lì! -

- Porca puttana, signor Avanzini! Ma che le è preso? -

- Fate chiamare un’ambulanza, subito! -

Il terreno era di nuovo sotto i suoi piedi. Ma lo sentiva morbido, ondeggiante, come se stesse per affondarci dentro.

Non percepiva più il corpo: avvertiva dolore, ma non sapeva dove provenisse.

Gli sembrava di non respirare, era come se qualcuno gli stesse schiacciando il petto con violenza, con cattiveria.

Sentiva voci, ma un fischio nelle orecchie le copriva, e sembravano arrivare da luoghi lontanissimi.

- Su, coraggio, coraggio… va tutto bene… -

Due mani gli strinsero le spalle.

- Vieni qui, ragazzo, calmati… va tutto bene… -

Gli passò una mano tra i capelli, gli accarezzò la fronte

- È tutto a posto, ok? Elia, sono qui io. È tutto a posto -

Tutto a posto. Tutto a posto.

Artin affondò il viso sul suo petto - giacca di lana, profumo d’ufficio e inverno - e scoppiò a piangere. Desiderava solo questo. Piangere. Piangere tanto.

 

Lo avevano portato in ospedale. I paramedici lo avevano caricato in ambulanza, e forse era stato bene così, forse le gambe non lo avrebbero sorretto. Un dottore lo aveva visitato a lungo, e gli aveva fatto buttar giù chissà che porcheria psichiatrica credendolo un manager sotto stress che aveva avuto un esaurimento nervoso. Invece era molto peggio, e prima o poi avrebbe dovuto renderne conto a qualcuno: rendere conto del fatto di essere rimasto vivo.

Ma che importava? In quel momento, nulla era più forte dello spavento che aveva provato: guardare la morte in faccia dall’alto di un tetto, poter contare col battito del cuore gli ultimi istanti della propria esistenza… Accidenti, forse aveva davvero bisogno di quei farmaci… !

Ora - disteso su un letto, con la mente ovattata - la situazione gli sembrava talmente assurda da non riuscire a credere di averci provato davvero, di aver accettato un patto simile. Eppure, il volto di quell’uomo seduto lì accanto gli rinfacciava che lo aveva fatto eccome, e se lui non fosse intervenuto, su quel terrazzo, quell’ambulanza avrebbe portato via un cadavere, che qualcuno avrebbe pianto come se appartenesse davvero a un individuo che adesso se ne stava a zonzo chissà dove.

Si era sforzato di imitare Elia Avanzini in tutto e per tutto, ci aveva lavorato per intere settimane, sotto la supervisione del “gemello”. Aveva studiato ogni particolare in previsione di quella breve comparsa, per fare in modo che nulla andasse storto, ed era stato così bravo da ingannare chiunque. Tuttavia, ogni volta che ascoltava la propria voce, gli sembrava sempre che ci fosse una nota stonata, qualcosa di solo ed esclusivamente suo, e gli pareva impossibile che quell‘uomo non se ne fosse accorto.

Vittorio De Nistri, presidente della ***, era un amico prima che un socio. Questo lo sapeva. Le loro due famiglie erano sempre state vicine: lui ed Avanzini padre erano letteralmente cresciuti insieme, e questo aveva contribuito ad avvantaggiare Elia nella sua brillante carriera. Ma quest?ultimo non aveva speso molte parole sul loro legame, anzi, era stato particolarmente gelido nel parlargli di lui: Artin non era preparato a trovarsi di fronte ad un rapporto affettivo.

In verità, non riusciva proprio ad immaginare affetti per il diavolo del crocicchio, l'uomo che parlava della vita degli altri come di merce da scambio.

Eppure, De Nistri doveva essergli molto legato, altrimenti non gli sarebbe rimasto vicino tutto il tempo: su quel terrazzo, in ambulanza, adesso… quasi che la stretta che lo aveva tenuto sospeso tra la morte e la vita, lassù, non potesse essere allentata. Non gli aveva fatto nessuna domanda, nessun banale “perché lo hai fatto?”, nessuna stupida rassicurazione. Era soltanto stato lì.

 

Passarono ore prima che il via vai di medici cessasse.

- Vorrei tanto sapere cosa ti è successo… - disse allora Vittorio.

Quella richiesta lo riportò alla realtà, e ad un pensiero: il vero Avanzini lo avrebbe fatto ammazzare.

- Io… -

Cercò una risposta che non apparisse retorica, o falsa, o priva di senso. Ma l’uomo lo interruppe, scrollando lievemente la testa.

- Ma soprattutto, vorrei tanto sapere chi diavolo sei! -

Lo disse così, come se fosse una cosa normale, senza modificare nemmeno il tono della sua voce. Artin sbatté le ciglia, e le poche parole che aveva faticosamente pensato per togliersi d’impiccio gli si screpolarono sulle labbra.

- … Cosa? -

Un brivido lo percorse dalla testa ai piedi.

- Vittorio… che diavolo stai dicendo? -

Si sentì un idiota completo: da quanto tempo aveva capito? E adesso, cosa poteva dirgli? Il buon senso gli suggerì di scoprire le carte, ma in quel momento la soluzione più onesta gli sembrò anche la più ridicola.

- Io… - cercò di mettere insieme i dettagli: quel sorriso assente, quella sfacciataggine rilassata – sono così stanco… ho perso la testa, lo so, ma… -

- Ragazzo: - la voce di lui era meravigliosamente calma - non peggiorare la tua situazione. Chi credevi di prendere in giro? - diede in un’aspra risata senza emozione - Se sono stato zitto è stato solo perché, dopotutto, stavi per ammazzarti sul serio, e un uomo che arriva al punto di rinunciare alla propria vita penso abbia delle ragioni degne di rispetto. Ho creduto di doverti quel rispetto, e tuttavia, adesso, credo di meritarne altrettanto da te. -

Lo guardò dritto negli occhi: il suo sguardo non aveva più la disperazione di qualche ora prima, ma conservava la stessa determinata intensità. Uno sguardo che non ammetteva repliche, né, tanto meno, menzogne. Uno sguardo - pensò il giovane - che pareva fatto apposta per strappare la verità, per imprigionarla, per custodirla.

- Mi chiamo Artin Dorsi, - dichiarò tutto d’un fiato - e non avevo scelta. Non volevo prendere in giro lei, signor De Nistri. E non volevo nemmeno che lei mi salvasse. Anche se sono stato felice che lo abbia fatto. Anche se… -

- Artin Dorsi, - lo interruppe – è stato Elia ad organizzare tutto questo? -

Elia. Doveva dire la verità, ancora? Doveva depositarla in custodia a quello sguardo?

Abbassò gli occhi, ed esitò

- Allora? E‘ stato Elia? Avanti, devi solo rispondere si o no. -

Artin sospirò profondamente.

- Sì. -

- Lo immaginavo. E dove si trova adesso? -

Stavolta la domanda era più difficile. Eppure, la risposta era, a suo modo, più semplice.

- Non lo so. -

- Ah, non lo sai? -

- Non lo so. Non so quasi niente di Elia Avanzini, tranne che aveva bisogno di essere creduto morto perché ha fatto un casino, e che mi ha chiesto di uccidermi al suo posto. Non avevo scelta, signor De Nistri, non avevo scelta! Io non desideravo morire! -

La voce gli si ruppe in gola: lo scompiglio emotivo prese il sopravvento su di lui

- Rilassati: - fece De Nistri, serafico - per quanto tutta questa faccenda mi appaia assurda, come ti ho detto, penso che se un uomo arriva addirittura ad accettare di uccidersi al posto di un altro, abbia un valido motivo. -

Artin si stropicciò gli occhi arrossati.

- Posso sapere il tuo motivo? -

Gli sorrise, inaspettatamente, e stavolta il sorriso fu dolce.

- La mia famiglia. - rispose lui – Mio padre è in galera e mia madre sta morendo. Io sono disoccupato e non trovo un lavoro da mesi. Anno scorso ci hanno staccato il telefono, e quest'anno è toccato al riscaldamento. Viviamo nelle case popolari, l'affitto è minimo, ma io non ho più i soldi nemmeno per quello. -

Le parole gli venivano fuori come un fiume in piena: era quasi catartico elencare le proprie disgrazie; aveva sempre evitato di farlo, come se nominarle le rendesse più vere, invece adesso, frase dopo frase, gli sembrava di buttarle fuori da sé come delle scorie e che gli occhi di quell'uomo le ricevessero e le assorbissero.

- In casa siamo quattro: ho l'affido dei miei due fratelli minori, e non riesco a mantenerli, così presto me li toglieranno. Mia sorella ha venticinque anni: un mese fa ho scoperto che aveva cominciato a prostituirsi, ed io non me ne ero neppure accorto. Elia Avanzini ha pagato per il loro benessere a vita. Io non appartengo al vostro mondo, signor De Nistri. Nel mondo in cui vivo io, non è così strano che una ragazza carina che non riesce a tirare avanti pensi che la soluzione più facile sia fare la puttana, e un adolescente, nel caso migliore, si metta a rivendere telefonini rubati. Qui non si tratta di vivere da poveri o da poverissimi: si tratta di non morire di fame, e se la tua famiglia sta morendo di fame e uno sconosciuto molto potente si accorge che somigli dannatamente a lui e ti offre una fortuna per morire al suo posto… beh, le assicuro che la prima cosa che le viene voglia di fare, è ringraziare una buona stella! -

- Ringraziare una buona stella perché un uomo ti offre di morire? -

- Ringraziare una buona stella perché un uomo ti offre di donare la vita per le persone che vuoi proteggere. E’ molto diverso. Se lei mi avesse lasciato morire, signor De Nistri… -

Vittorio lo interruppe, gli mise le mani sulle spalle.

- Ma tu non volevi morire. -

Artin era di nuovo sul punto di piangere, non sapeva se per quel gesto gentile, o per la consapevolezza di trovarsi in una situazione senza sbocco.

- … se lei mi avesse lasciato morire, - continuò - sarebbe stato tutto a posto, e loro starebbero bene. Mentre ora, invece di salvarli, potrei averli cacciati in un guaio ancora più grosso, e, maledizione, solo perché ho esitato troppo a buttarmi da quel parapetto! -

Vittorio De Nistri lo ascoltò senza battere ciglio.

- Ma tu non volevi morire, Artin. - ripeté, di nuovo.

Il ragazzo alzò gli occhi, disarmato.

Era così confortante ascoltare il suono del proprio nome.

- No. -

- E tuttavia vuoi che la tua famiglia stia bene. -

- Si. -

- Anche a costo di grosse rinunce. -

- Sì. -

- Anche a costo di non vederli mai più. -

Artin deglutì forte.

- Sì. -

- Bene. – fece De Nistri – Allora vedrai che troveremo una soluzione che, in qualche modo, farà contenti entrambi. -

Un medico si affacciò alla porta e li interruppe: Vittorio smise di parlare subito.

- E’ permesso? - l’uomo avanzò nella piccola sala, verso di loro - Come si sente, signor Avanzini? -

Artin lo osservò: aveva il volto cordiale e teneva sotto braccio una cartelletta; pensò che probabilmente era uno psichiatra, o qualcosa del genere. Del resto, non ci sarebbe stato da stupirsi che credessero dovesse essere analizzato da un esperto: aveva appena tentato di ammazzarsi!

Sforzò un sorriso di cortesia.

- Meglio del previsto… -

- Ne sono contento. Le va di parlare? -

De Nistri si alzò in silenzio e offrì il posto al medico. Artin avrebbe voluto che non se ne andasse, che gli facesse capire che intenzioni aveva, che gli dicesse quale sarebbe stato il suo destino e quello dei suoi cari. Perché - avrebbe voluto chiedergli - perché aveva lasciato che quell’uomo lo chiamasse “signor Avanzini”? Perché faceva finta di niente? Perché non era furioso?

Ma lui era già arrivato sulla porta, e stava uscendo.

- Vittorio… -

De Nistri si voltò indietro, lo sorprese.

- Non farmi prendere più uno spavento simile, Elia. E quando te la sentirai, vorrei parlarti. -

Stupefatto, Artin non riuscì a rispondere: lo guardò uscire come se stesse osservando un uomo sparire nel nulla.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Disteso sul letto di una camera che non era sua, dopo sei giorni di accertamenti, analisi e colloqui, e con una fila di confezioni di farmaci sul comodino da prendere ad orari diversi, Artin pensò che anche per un uomo ricco e potente come Elia Avanzini quella appena trascorsa potesse definirsi una terribile settimana. E di terribili settimane forse ne aveva avute, se era arrivato a mettersi nella condizione di fuggire dalla sua casa, da un lavoro di prestigio, dalla sua stessa vita. Perché qualcuno doveva aver pur lasciato, in quella vita, e quelle persone ora lo credevano lì, nel suo appartamento, a imbottirsi di quelle pillole colorate.

Chi erano? Chi erano gli amici che Elia aveva abbandonato? Aveva legami, rapporti, odi, un sogno, un amore, da qualche parte?

Le sue mani lisciavano, senza riuscire a fermarsi, il copriletto: doveva essere di seta, o di qualche altro tessuto pregiato, che scivolava sotto i polpastrelli in modo piacevolissimo. Era una sensazione sconosciuta, e trasmetteva alle sue dita un solletico gradevole che allontanava almeno un po’ i pensieri.

In un’altra circostanza avrebbe pagato per passare anche solo una notte in una stanza così.

Voltò la testa: il comodino era vuoto, c’erano solo la sveglia, un libro e un agenda piena di impegni - roba di lavoro, niente di personale o di affettivo.

Si alzò dal letto a fatica e curiosò nei cassetti del comò: vi regnava un ordine sterile, i calzini ripiegati, gli oggetti personali quasi catalogati a seconda della propria funzione. Le ciabatte erano state lasciate ai piedi del letto, perfettamente allineate, l’armadio era pieno di completi da lavoro e di abiti eleganti, sobrie cravatte facevano mostra di sé appese ad un sostegno apposito sull’anta interna. Se avesse dovuto dare un colore a quella camera, avrebbe scelto il grigio, benché le tende fossero di un bel bianco panna e il pavimento d’un caloroso ocra opaco: ci mancava la vita, odorava di freddo e tuttavia, nel complesso, la stanza era estremamente ariosa.

Sul lato sinistro del letto si apriva un enorme porta finestra, che dava su un balcone da cui si poteva vedere Porta al Prato, illuminata nel traffico serale.

Non aveva ancora dato un’occhiata al resto della casa, se non di sfuggita. Del resto, era lì da nemmeno un’ora.

L’appartamento era al quarto piano di un lussuoso palazzo, ed era composta di sei stanze - chissà quanto poteva costare un posto così, a due passi dal centro! - la camera da letto, una camera per gli ospiti, un enorme salotto, uno studio asettico, la cucina, la sala da pranzo, ed un ingresso in cui si sarebbe potuto allestire un ballo!

Passeggiò in giro: quel posto non aveva l’aria di essere stato abbandonato… Era tutto lì, come se il proprietario dovesse tornare da un momento all’altro. Ma come poteva vivere una persona, in una casa così grande, da sola? L'idea gli dava quasi un senso di agorafobia.

L’occhio gli cadde sul telefono: la segreteria telefonica lampeggiava.

«C'è un nuovo messaggio. Per ascoltare, premere il tasto 1.»

Dal registratore emerse la voce angosciata di una ragazza.

“Elia, ti prego, chiamami! Il signor De Nistri mi ha impedito di venire a parlarti, ha detto che non volevi vedere nessuno. Elia, ma che hai fatto? Come hai potuto pensare di… ” a quel punto, le parole erano interrotte dai singhiozzi “Ti prego, chiamami!”

Rimandò indietro la registrazione, la ascoltò attentamente.

Si sforzò di ricollegare la voce a qualcuno che poteva avere anche solo incrociato in quel dannato mattino da sosia.

Poi gli tornarono in mente le istruzioni di Elia.

“Linda Dini, la mia segretaria privata, ha un debole per me. Poiché avrebbe potuto metterti in difficoltà ho fatto in modo che si prendesse una settimana. Ma potrebbe chiamarti, non si sa mai. Se possibile, evita di rispondere. È un po' ossessiva.”

Beh, quella chiamata dimostrava ben più di un debole - pensò Artin. Aveva abbandonato anche lei senza spiegare? Una donna che piange non è come un appartamento: Elia Avanzini cominciava a piacergli sempre meno.

Dovette fare un bello sforzo di volontà per non lasciarsi tentare dal desiderio di richiamarla - anche solo due parole, telegrafiche, magari un sms - per rassicurare quella poveretta.

Ma Vittorio De Nistri era stato tassativo.

“Fa’ come se nulla fosse. Se hai ingannato me per l’intera giornata non sarà troppo difficile farlo con l’autista. Fatti portare a casa, e non rispondere a nessuno. Domattina presto sarò da te. Le chiavi le hai?”

Sì, le aveva. Come aveva documenti, carte di credito - scoperte, presumibilmente - tessere varie, persino il telefono cellulare.

Il diavolo non tralascia niente.

Artin si affacciò sul terrazzo: la vista era veramente fantastica, il sole appena tramontato si era lasciato dietro una balza rosata, l'odore di pioggia era nell'aria, grosse nuvole avevano le stesse sfumature corallo del cielo. Grigio e rosa erano due colori che stavano così bene, insieme!

“Sotto macerie, e sopra colori.” pensò “I colori restano comunque. Per lo sguardo, almeno, c’è sempre una via d’uscita. Forse ci sarà anche per me. Staremo a vedere… ”

Respirò a pieni polmoni.

Quella corrente da qualche parte lo avrebbe portato. Nel male o nel bene, era ancora vivo.

Arriverà la fine, ma non sarà la fine.

 

Pensava che non avrebbe dormito, invece il sonno lo aveva colto di sorpresa, mentre le voci di un vecchio Law and Order alla TV gli tenevano compagnia.

Lo svegliò il campanello: erano le nove; Artin si alzò, cercò di raddrizzare alla meno peggio le pieghe della camicia e dei pantaloni che non si era neppure tolto, e si avviò all‘ingresso.

Sulla porta c'era De Nistri.

- Buongiorno! - esclamò – Scusi se l'ho fatta aspettare -

- Dovresti chiedere “chi è”, prima di aprire. E magari dare uno sguardo al video citofono, c'è apposta. -

- Immaginavo fosse lei, così… -

Lui lo guardò senza interesse.

- D'accordo. Ma Elia non avrebbe mai aperto senza chiedere, dunque dovrai abituarti a non farlo neanche tu. -

Quella allusione era troppo mattutina perché Artin potesse cogliere il messaggio tra le righe.

- Perché? - chiese, ingenuamente.

- Entra. - fece Vittorio - Ne parliamo. -

L’ospite lo precedette con la disinvoltura di chi conosce quel luogo come le proprie tasche: fu lui a incamminarsi nel salotto e fargli strada, pregandolo poi di accomodarsi. Era una situazione piuttosto buffa, in verità! Artin sedette sul bordo della poltrona, con le braccia appoggiate sulle ginocchia, proteso verso l’altro. Vittorio, invece, si accasciò tranquillamente tra i cuscini del divano e si accese un sigaro.

- Fumi? -

- No, grazie. -

Nella stanza si diffuse un odore pregnante, ma non sgradevole.

- Ti vedo testo. Dunque, andiamo subito al nocciolo. -

Il fumo saliva in delicate spirali verso il tetto, le tende non lasciavano passare il sole del mattino.

- Non so se tu abbia dormito. Lo spero, dato che forse ne avevi bisogno. Per quel che riguarda me e i miei più stretti collaboratori, siamo rimasti svegli tutta la notte per cercare di venire a capo di questa spinosa questione. Hai qualche competenza di economia? -

Lui scosse la testa: coi soldi, per forza di cose, non aveva mai avuto molto a che fare.

- Capisco. Quindi non ti illustrerò la faccenda nei dettagli. Del resto, non ti è necessario conoscerli, né a me è conveniente o piacevole rivelarteli. Lo stretto necessario perché tu comprenda la situazione in cui ci troviamo è che Elia Avanzini ha combinato un disastro finanziario senza precedenti. Ma prima che la questione venisse a galla, ha ben pensato di metter su niente meno che il proprio suicidio. Inutile che ti spieghi che in questa truffa tu sei suo complice, ed al momento anche l‘unico imputato, dato che chi l’ha organizzata è fuggito chissà dove e tutto ciò che resta di lui sono i soldi che ha versato alla tua famiglia. -

La naturalezza con cui quell’uomo illustrava il suo coinvolgimento in quella faccenda tanto grande lo agghiacciava.

- Se io non ti avessi scoperto, e tu fossi morto… -

Artin sentì la pelle d'oca formarsi lungo le sue braccia.

- … se tu fossi morto, dicevo, ora penseremmo che il povero Elia, devastato dal senso di colpa e terrorizzato dall’idea della bancarotta, ha preferito ammazzarsi. E noi tutti avremmo dovuto semplicemente rimboccarci le maniche e far fronte al problema. Mi segui? -

Il ragionamento non faceva una grinza. Ma dove voleva arrivare quell’uomo, adesso? Perché gli raccontava tutto questo?

- Come ben sai, però, le cose non sono andate così. Perché Elia Avanzini, ufficialmente, non è morto. Elia Avanzini ha avuto un esaurimento nervoso ed ha tentato di uccidersi, ma è stato salvato e probabilmente avrà solo bisogno di un po’ di cure per rimettersi in sesto. Al tempo stesso, dunque, Elia Avanzini non ha neppure devastato le finanze della banca, perché se questo si venisse a sapere, tutti i correntisti vorrebbero ritirare i propri soldi, non avremmo più investimenti, e per noi sarebbe la catastrofe. -

Artin si sentiva a disagio: gli pareva di cominciare a capire, ma la cosa gli sembrava così inverosimile che ancora una volta non interruppe, sperando di sbagliarsi.

- Oltre a me e a tre fidati soci, sei il solo a conoscere cosa è successo al vero Elia. E nessun altro deve aggiungersi a questa lista. Nessuno. La posizione in cui ti sei messo accettando quell'assurda offerta non ti dà altra scelta. -

Silenzio. Breve, tesissimo.

- Mi sta chiedendo di fingermi Elia Avanzini? -

La voce di De Nistri aveva un che di tranquilla constatazione.

- Non te lo sto chiedendo. Ti sto obbligando. Del resto, lo hai già fatto. -

- Ma io non… -

- Tu non puoi fare altro. - c’era un tono di pacata minaccia in quella frase - Non ti si offrono alternative. Pensi sia preferibile che io divulghi al mondo la verità? Mi ci vorrebbe un attimo, e all’improvviso ti ritroveresti davanti alla cattedra di un tribunale. Per non parlare dei familiari a cui dici di tenere tanto: non potrebbero neppure godere del prezzo del sacrificio che eri disposto a fare per loro. -

Spense il sigaro e lo fissò tranquillamente negli occhi.

- Ti sto offrendo un’ottima opportunità. Tu interpreterai il tuo ruolo, la banca terrà nascosto lo scandalo, e la tua famiglia godrà di ciò che resta del fondo generosamente offerto dallo scomparso Elia Avanzini. Devi soltanto dire addio alla tua vita precedente. Dopotutto, sei stato già disposto a farlo una volta. -

Lo guardava come si guarda il più folle dei folli: ora cominciava a capire come lui e il suo socio potessero fare affari insieme! Le proposte assurde erano un loro gusto comune. E assurdo era lui, che le accettava così, che non si sentiva folle altrettanto.

- Quando verrà a saperlo, il vero Elia mi farà ammazzare - esclamò - e la mia famiglia sarà in pericolo! -

De Nistri diede in una mezza risata.

- Tu proprio non conosci come funziona, ragazzo! Elia non penserà mai di farti del male: tu gli fornisci una copertura coi fiocchi! Nessuno lo cercherà mai più. Inoltre, se la cosa ti rassicura, metterò a tua disposizione i servizi di sicurezza della banca e Elia li conosce fin troppo bene per pensare di fare un passo falso. Quanto alla tua famiglia, se questa garanzia deve farti dormire sonni migliori, posso assicurarle una sorveglianza speciale di grande discrezione. -

- Dice… davvero? -

- Posso mettertelo per scritto. -

Artin abbassò il capo, serio - … quella corrente continuava a scorrere impetuosa, e lui, barchetta libera, sarebbe riuscito a non farsi divorare? - poi alzò gli occhi a cercare lo sguardo di Vittorio De Nistri.

- Come pensa che ce la faremo? Io non sono Elia Avanzini. E non sono nemmeno un grande attore. -

- Questo è il problema minore. Per quanto posso, col pretesto dell‘esaurimento, cercherò di farti avere il minor numero possibile di contatti con la gente. Inoltre, avrai qualche mese di permesso per malattia, ed in questo lasso di tempo io ed i miei collaboratori provvederemo ad istruirti su tutto ciò che è necessario tu sappia. Ricorda che la tua sarà fondamentalmente un’immagine di copertura, e in questo la tua somiglianza sorprendente con Elia ci basta. -

- … Ma la banca… io … so a stento di cosa vi occupate! -

- Oh, non ti verrà richiesto di intenderti realmente di finanza. Penseremo a tutto noi. Tu avrai già fin troppo da fare nello svolgere bene la tua parte. Ci facciamo un caffè? -

Artin era spiazzato: così, a tavolino, in pochi accordi sommari, la sua vita si era appena dissolta.

Fumo. Vapore. Svanita.

Da quel momento, quella era la sua casa, quello era il suo salotto, quello il suo socio d’affari, e la stanza dove egli si avviava era la sua cucina: la cucina dove non sapeva neppure preparare un caffè.

- La macchina da espresso, non so proprio come si usa… -

Vittorio De Nistri aveva già scartato una cialda, e il nero liquido caldo stava scivolando in due linde tazzine, riempiendo l’ambiente del suo aroma intenso.

- Sembra facile. - abbozzò un sorriso.

L’altro gli porse la tazza, era calda e profumatissima.

- Hai molto da imparare. - disse - A volte morire è troppo semplice. E’ molto più difficile vivere. -

Quel gradevole sapore sulle labbra permise ad Artin di continuare a sorridere.

- Beh, se mi permette, questa è una frase fatta, signor De Nistri. Non esiste un criterio per dire cosa sia facile e cosa difficile. Se vuole credermi, per me era difficilissimo morire, perché desideravo vivere. Per chi ha poche cose per cui vivere, morire sarà più semplice. Ogni uomo ha la sua scala di valori: la vita e la morte non sono che imprese fra le tante, al pari di amare, o rubare, uccidere, mettere al mondo un figlio. -

Pensò a sua madre, alla gratuità dei sorrisi, alla bellezza negli occhi e ai colori che non se ne vanno mai - anche in mezzo alla corrente. A quel tramonto rosa, dannatamente rosa.

- Non sarà facile, è vero. Ma va bene lo stesso, sa? Sono qui, ce la metterò tutta. Credo di dover solo ringraziare di essere ancora vivo. E dopotutto, me lo sono meritato. Chi fa provare agli altri il dolore della perdita, o anche solo la paura della perdita, una punizione se la merita. -

Finì il caffè, il cucchiaino tintinnò con un suono allegro.

- Spero di essere all’altezza. -

Vittorio De Nistri gli rivolse un’occhiata fonda.

- Ben venuto a bordo. - disse - Tu mi piaci. -

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Forse fa male eppure mi va

di stare collegato,

di vivere d'un fiato,

di stendermi sopra il burrone e di guardare giù,

la vertigine non è paura di cadere

ma voglia di volare.

Mi fido di te.

Mi fido di te.

Mi fido di te,

cosa sei disposto a perdere?

 

(Lorenzo Jovanotti)

 

 

Capitolo 6

 

Oltre un mese trascorso a studiare come divenire in tutto e per tutto un’altra persona, l’esaurimento nervoso lo avrebbe fatto venire a chiunque: se non altro, questo lo avrebbe reso credibile!

Vittorio De Nistri gli aveva confessato di essere soddisfatto di lui oltre le più rosee speranze e, ferma restando la garanzia di non esporlo ad un rapporto troppo diretto con colleghi e pubblico, era convinto che il piano potesse procedere liscio. Un portavoce dell’azienda aveva già annunciato che Elia Avanzini si era ormai ristabilito e sarebbe tornato al proprio posto quanto prima.

Ma Artin aveva come la sensazione che una finzione del genere qualche pecca la dovesse avere per forza, quindi non rimase poi così turbato quando, poco dopo essersi seduto in quello che sarebbe stato il suo ufficio, vide Linda Dini comparire sulla porta.

- Elia! Io… io… Maledizione! -

Si morse istericamente il labbro: non riusciva ad aprire bocca, ma il rossore che le colorava le guance e il lieve tremore del corpo la facevano assomigliare ad una graziosa teiera in ebollizione che sta per fischiare. Questa almeno fu l'immagine che la fantasia offrì ad Artin, qualche istante prima di pensare che la trovava carina.

Aveva capelli dorati a caschetto – chissà se erano naturali, gli sembravano troppo biondi per una ragazza italiana – una bocca dalla strana forma, col labbro inferiore molto più pronunciato, che amplificava lo spessore della sua rabbia ma prometteva un notevole sorriso, e gli occhi erano celesti: non di quel grigio azzurrino che spesso si chiama celeste per vanità, ma celesti davvero.

Gli ricordava un po' Cameron Diaz ai tempi di Tutti pazzi per Mary, icona sexy tra i compagni di scuola superiore.

No, non era solo carina: era bellissima.

Era indubbiamente la donna più bella che avesse mai visto in vita sua.

- Elia, ora tu… -

Se fosse stato nei propri panni, si sarebbe sentito pieno di orgoglio che quello splendore di ragazza si preoccupasse per lui: si sarebbe alzato, l'avrebbe stretta tra le braccia a avrebbe detto “Sta tranquilla, sto bene, sono solo un grandissimo figlio di puttana”. Ma Elia Avanzini era veramente un figlio di puttana, dunque fece mente locale, ricordò le istruzioni, poi la squadrò da capo a piedi, e, senza neppure scomodarsi, disse:

- Chi ti ha dato il permesso di entrare? -

La domanda sembrò avere l’effetto di calmarla: quantomeno, questo poteva significare che aveva recitato nel modo giusto, ed in quel momento poco importava che il corollario di una simile constatazione fosse che era riuscito ad essere abbastanza stronzo da apparire credibile.

- E’ stato Brunetti. -

“Brunetti,” richiamò alla mente “addetto alla sicurezza.”

- Abbastanza corruttibile, quando si tratta di me: dovresti saperlo. -

Come fosse solita “corromperlo” - in vero - proprio non lo sapeva. Fatto sta che a poco era servito che Vittorio De Nistri avesse fatto trasferire Linda presso un altra sede e si fosse tanto prodigato di impedirle alcun contatto, anche solo telefonico o telematico, con lui.

- Non dovresti essere qui. Sei stata assegnata alla succursale di Novoli e in questo momento ti stai assentando dal lavoro. -

La ragazza si avvicinò a lui, decisa.

- In questo momento sto usufruendo di un regolare permesso. -

Artin si alzò in piedi, le andò incontro.

- Linda, ascolta. -

Non fece in tempo a capire se fosse stato il suono con cui aveva pronunciato quelle parole, o il gesto della mano che si era mossa verso la spalla di lei, o solo una normale prassi fra quelle due persone la cui intimità gli era sconosciuta e che non poteva che improvvisare, ma la ragazza scoppiò a piangere, mentre ogni segno di rabbia, di dubbio, di apprensione, spariva dal suo volto, gettato fuori insieme a quelle lacrime.

“Una teiera”.

- Linda… -

Era rimasto paralizzato: il pianto di una bella donna aveva mandato in pezzi così, in pochi secondi, il suo primo giorno di interpretazione. Di fronte a quel piccolo dolore, aveva dimenticato la battuta giusta e non c’era nessun suggeritore nella buca sotto i suoi piedi, niente, solo una ragazza triste, e un uomo notoriamente scostante e approfittatore che adesso avrebbe dovuto dirle qualcosa.

- Perché non mi hai mai risposto, Elia? Perché mi hai fatto stare così in ansia? Perché in un momento di difficoltà non hai voluto contare su di me? - incespicò sull’ultima domanda, come se avesse appena commesso un errore (anche lei!) nel copione.

Si morse le labbra di nuovo e si asciugò gli occhi col polsino della camicia: un gesto così poco elegante e così infantile che Artin si sentì stringere lo stomaco.

- Scusa. Lo so che tu conti solo su te stesso. -

Solo su se stesso.

Era questa l’opinione che Elia Avanzini dava di sé nell’intimità, nel rapporto interpersonale, nel rapporto di coppia? La recita aveva mostrato le sue crepe fin da subito, e allora pazienza. Una screpolatura più, una meno, non avrebbe fatto la differenza. Nessun uomo aveva diritto di dire ad una ragazza che piange per lui “volevo solo giocare e ora ti voglio fuori dalla mia vita“.

- Io non voglio contare solo su me stesso. -

Le mise le mani sulle spalle con decisione

- Hai visto dove sono finito, a forza di pensarla così? In piedi sulla cima di un palazzo. Incontro alla morte ci vai davvero contando solamente su di te, e fa una gran paura, Linda, una paura bestiale. Quando la guardi in faccia una volta, la morte, non vuoi più pensare di voler morire da solo. -

La ragazza smise di piangere: era stupita, ma le sua guance erano ancora bagnate. Artin estrasse un fazzoletto e glielo porse.

- Mi dispiace non averti cercata. Mi dispiace averti fatta preoccupare. Mi dispiace anche aver richiesto che tu non lavorassi più con me. Ma i medici hanno voluto così. Tagliare i ponti con la vita precedente è la condizione fondamentale per uscirne fuori, dicono. Avrei persino dato le dimissioni, se mi fosse stato possibile, ma tu dovresti sapere cosa significa presiedere la ***. E dopotutto, lo devo a De Nistri. -

Linda strizzò gli occhi, che si ridussero a due piccole fessure, non per questo meno celesti.

- D-davvero… lo hai fatto per questo? -

La domanda era così banale che probabilmente era un semplice modo per rompere il silenzio, ma Artin amava pensare che non esistessero domande oneste che non meritavano risposta.

- Scusa, - disse - sono ancora molto confuso. In fondo è passato poco più di un mese. Mi riprenderò. Tu però non puoi aiutarmi a farlo. Puoi venirmi incontro solo lasciandomi tutto il tempo che mi servirà. Puoi capirmi, Linda? -

Non era un bel modo per scaricare una donna. Non era un bel modo nemmeno per addolcire la pillola. Ma certo era meglio che sbatterle in faccia quanto Elia Avanzini se ne fregasse di lei.

- Io… -

La ragazza lo fissò solo un attimo, quasi a fare un piccolo esame delle intenzioni.

- Ti faccio chiamare un taxi. - disse Artin - Ti riaccompagnerà dove preferisci. -

- Potrò vederti fra un po’ di tempo? -

Un po’ di tempo. Un po’ di tempo era così generico. Non c’era nulla di male a promettere una scadenza indefinita in una situazione incerta come era quella.

- Credo di sì. - rispose - Più avanti… -

Linda finalmente sorrise.

- Grazie, Elia. -

 

Avrebbe voluto gridare forte. Magari fuori da quella finestra, e restare a guardare la sua rabbia rotolare sui viali pieni di turisti, intenti a vedere solo il bello che questo Paese può offrire. Avrebbe voluto far vedere a tutti che dietro le finestre dei ricchi palazzi affacciati sull'Arno le cose non erano poi migliori che nelle case popolari delle Piagge. Avrebbe voluto richiamare Linda, mentre saliva sul suo taxi, e chiederle perdono. A nome suo, e a nome di Elia. Sì, anche a nome di Elia, perché farlo avrebbe significato potersi affezionare un po' al personaggio che interpretava e che gli calzava addosso così stretto.

La differenza tra recitare bene e recitare male forse stava tutta lì, nel trovare un piccolo punto d'affezione verso il proprio ruolo. O verso chi te lo ha assegnato. Chissà.

Se solo avesse potuto voler bene a Vittorio De Nistri, avrebbe potuto giustificare se stesso con l'alibi dell'amicizia, ma questo pensiero servì solo ad accrescere la sua rabbia: Vittorio avrebbe potuto rendere tutto più facile, se solo avesse speso una parola, almeno una parola, sul sentimento che lo legava ad Elia. Invece, l'unica traccia di quel legame era rimasta nella stretta della sua mano su quel terrazzo.

Vittorio voleva far sparire ogni barlume di sentimento dalla controfigura di Elia Avanzini, e non perché fosse pericoloso per la loro messinscena, ma perché chiamarlo in gioco avrebbe voluto dire tirar fuori qualcosa con cui non voleva confrontarsi.

E avrebbe voluto dire dare fiducia a lui.

Vittorio voleva una marionetta, e lui non voleva esserlo, perché intorno a lui non c'erano altri burattini: c'erano persone, e se c'era una cosa in cui credeva davvero era che le persone avessero diritto di essere trattate con gentilezza.

All'improvviso, come se avesse appena toccato il fondo e adesso una nuova forza lo stesse spingendo su, decise che quella gentilezza poteva reclamarla.

Poteva non essere l'Elia Avanzini che gli avevano presentato. Poteva non essere uno stronzo. E in quel “non essere” c'era in gioco qualcosa di molto più grosso per De Nistri e la banca che per lui. Lui doveva preoccuparsi solo di sé e della sua famiglia. Vittorio aveva di fronte la propria rovina e quella di migliaia di investitori.

Non era il solo a temere delle conseguenze, non era il solo ad essere incastrato. Si erano incatenati l'uno all'altro, a vicenda. Un altro patto infernale.

Ma, nella sua posizione così precaria, quella reciprocità lo metteva al sicuro, perché, per Vittorio, era lui il diavolo al crocevia. Per un attimo si rese conto di quanto fosse grande il potere di un diavolo, e se ne sentì inebriato.

Pensò come avrebbe potuto essere cambiare quelle vite, influenzarle in qualche modo: non essere semplicemente trasportato in un'altra esistenza, ma portare la propria nelle loro.

Pensò a Vittorio, l'uomo che gli aveva stretto la mano con tutta la forza necessaria a riportarlo in questa vita, al legame che c'era in quella stretta, al legame con un uomo di cui non gli aveva voluto dire niente, salvo dargli istruzioni su come si comportava in pubblico.

Lui non poteva essere Elia, perché nessuno lo aveva messo in contatto con l'anima di Elia; poteva essere solo un imitatore.

Ma il pubblico avrebbe guardato lui.

Lui poteva, con la sua interpretazione, toccare gli spettatori.

Lui poteva toccare Vittorio. Poteva reclamare quella stretta per sé.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 

- Tutto bene? -

Vittorio entrò senza bussare: il gesto stesso permise ad Artin di riconoscerlo prima ancora che parlasse. Si era fatta sera, e lui stava riordinando un po’ di documenti che, nonostante non fossero materia di sua competenza, aveva comunque trovato onesto prendersi la briga di provare a leggere.

- Sì, tutto bene. - rispose con una lieve apprensione.

L’uomo sedette sulla poltrona davanti alla scrivania.

- Ci capisci qualcosa? - fece, accennando alle cifre sulla schermata del computer.

- Qualcosa. - disse lui

- Davvero? - Vittorio sorrise, sinceramente curioso - Mi pareva che mi avessi detto di non intenderti di economia. -

- Conosco le leggi della sopravvivenza, signor De Nistri. -

- Non dovrei ricordarti che dovresti chiamarmi per nome, Elia. Cerca di farci l‘abitudine anche in privato. -

- Scusa, Vittorio. -

Lui fece un gesto di sufficienza con la mano.

- lasciamo andare. Non è di questo che devo parlarti. -

L’espressione di quell’uomo sapeva essere veramente imperscrutabile: nel loro breve periodo di frequentazione, l’unica cosa che Artin era riuscito a capire, era che non si sapeva mai cosa aspettarsi da lui.

- Ascolta con attenzione. -

Estrasse una chiavetta e la collegò al computer: il tempo di caricare il file, e due voci femminili si diffusero nella stanza. La riproduzione era così perfetta che sembrava di averle entrambe lì presenti.

“Giorgia?”

“Ah, Linda, cara, sei tu… ”

Era chiaramente una telefonata tra amiche, il tono della conversazione era quello complice di due donne molto intime.

“Allora, ce l’hai fatta?”

“Si, ci siamo visti… ”

“Beh? E che ti ha detto il bastardo? Si è inventato che svolgevi male il tuo lavoro o ti ha semplicemente confessato che era stufo di scoparti?”

Il viso di Artin avvampò.

“No… non è andata così… lui… ”

“Allora che ti ha raccontato? Che aveva momentaneamente perso la memoria o che era stato rapito dagli alieni?”

La voce della donna era velenosa: gli faceva pensare agli improperi che Alba, ancora ragazzina, lanciava ai ragazzi del quartiere che la facevano oggetto di attenzioni troppo pesanti: la maleducazione fresca e schietta che era stata costretta a perdere quando le attenzioni avevano cominciato a servirle per sopravvivere. Chissà come stava, ora…

“Giorgia! Elia ha tentato di uccidersi: vuoi lasciargli almeno il beneficio del dubbio?”

Il tono di Linda era dolce, gradevolmente malinconico e con una spruzzatina di sollievo qua e là.

“No, non dirmelo! E’ già riuscito a imbambolarti con due cazzate sul male di vivere? Ti ha detto che ti chiede perdono, che le sei mancata tanto, che ha bisogno di te, e tu te la sei bevuta?”

“Giorgia… ”

“… e che da ora in poi le cose cambieranno, che non nasconderà più la vostra relazione, che… ”

“Giorgia!”

La voce di Linda squillò forte tra le pareti: la piccola teiera che fischia...

“Giorgia, ti prego. Non mi ha detto niente di tutto questo. Si vede che non conosci Elia. Non ammetterebbe niente di simile neppure da morto!”

Artin pensò che anche lui doveva proprio conoscerlo poco, quell'Elia…

“E allora… ?”

“Allora.… ”

Breve silenzio.

“Allora niente. Lui… ha solo detto che non vuole stare con me. Che gli dispiace avermi fatta stare in ansia, ma non mi rivuole nella sua vita. Sta male davvero. Era onesto, ne sono sicura.”

La ragazza era scoppiata in una risata: Artin non era nello stato d’animo giusto per ridere, tuttavia pensò che un riso così sonoro lo avrebbe contagiato, in un’altra circostanza.

“ONESTO? Linda, stai parlando di Elia Avanzini. A quei livelli, nessuno è onesto.”

“Allora, non lo siamo neanche noi.”

“Ma certo, ma certo… coi clienti non lo siamo, infatti. Con i colleghi, neanche. Ma con un amico o un amante, sì. Siamo solo due comuni impiegate e abbiamo fatto l’abitudine a negare il capo al telefono: ma non l’abbiamo fatta a mentire nel privato. Per gente come Avanzini, il mondo va in un modo un po’ diverso. Sei stata la sua segretaria per un anno, dovresti saperlo!”

“Io voglio fidarmi di lui.”

“Cosa?”

Linda esitò, poi pronunciò una frase che Artin sentì rimbalzare dalle orecchie fino a tutte le vertebre del collo, in un lungo brivido.

“Voglio fidarmi di questo Elia.”

Giorgia non disse niente, forse indignata dalla testardaggine dell’amica.

“Non so come spiegarti, Giorgia. Avresti dovuto vederlo. Avresti dovuto sentirlo parlare. E’ stato così autentico, così diretto. Ha guardato davvero la morte in faccia: la sua ombra è rimasta nei suoi occhi. Parlava di dolore e di solitudine con parole che non erano le sue. Non è cecità di innamorata: era in difficoltà, e non si sforzava di nascondere di esserlo. Non avevo mai visto Elia mostrarsi vulnerabile. Dio, morivo dalla voglia di baciarlo! Se tu fossi stata lì, non avresti potuto non credergli.”

Il dito di Vittorio De Nistri impose il silenzio alle ragazze: nell’ufficio del signor Avanzini tornarono ad abitare solo due uomini.

- Come mai non mi hai detto subito che la signorina Dini era venuta qui? -

- Come… come ha fatto ad avere la registrazione di una telefonata privata? -

Parlò e si morse la lingua: che domanda stupida, e per altro del tutto inutile.

- Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda. -

- Glielo avrei detto. Non ho trovato opportuno chiamarla per questo. Mi sembrava… inappropriato. -

- Al momento, lascia decidere a me cosa è inappropriato. Avevo dato disposizioni precise a questo proposito e non voglio che vengano disattese. -

- Ed era proprio per questo che… -

Si interruppe, abbassò gli occhi.

- Scusi. Ho detto una cazzata, ok? Non volevo che la signorina Dini ne pagasse le conseguenze. Mi ha fatto molta pena, tutto qui. -

Vittorio gli fece cenno di tacere.

- Il “tu”, Dorsi. Cerca di ricordarti questo benedetto “tu”. E non ti è chiesto di essere onesto nelle tue risposte, ma solamente credibile. -

- Io non… -

Lo fermò di nuovo, proseguì.

- Dunque non volevi che io prendessi provvedimenti verso la signorina Dini. Ma Elia non se ne sarebbe preoccupato, questo lo sai? -

- Lo so, ma… -

- Ma? -

- Ma lasciare che per un mese una ragazza si preoccupi per qualcuno e non degnarla di risposta è una cosa vergognosa. -

- Che Elia avrebbe comunque fatto. -

- Vittorio! Stava piangendo davanti a me! -

- Già. E Elia le avrebbe detto di andare a piangere altrove. -

- E CHI SE NE FREGA! -

Prima di averne piena consapevolezza, le parole erano già sfuggite dalla bocca di Artin.

Prima che potesse calibrare una reazione – una qualsiasi – era balzato in piedi e aveva sbattuto il palmo sul tavolo.

- Chi se ne frega, signor De Nistri! -

- Il “tu”, Dorsi. -

- Il tu, o il lei, e o il voi… ma che importa? IO NON SONO FATTO COSI’! Per quanto mi possa impegnare, per quanto possa studiare una parte, io non sono capace di far del male a una persona e poi non cercare di rimediare! Io credo… io voglio credere che per ogni essere umano che oggi è felice, il mondo cominci ad andare un po’ meglio, e lei non può chiedermi di restare fermo, quando so che posso rendere una giornata un po’ meno grigia, quando posso aggiungere un tassellino al posto giusto in questo cazzo di vita! Anzi: lei può chiedermelo, MA IO NON LO FARÒ! -

Le dita di Vittorio continuavano a tamburellare con indifferenza sul ripiano.

- Hai finito? -

Il respiro di Artin era lievemente affannato, e un leggero luccichio gli illuminava lo sguardo. Non disse nulla, e De Nistri fece del silenzio un assenso.

- Bene. In ogni caso ti agiti per niente, ed anche questo Elia non lo farebbe. -

Gli fece un cenno sbrigativo con la mano.

- Siediti. -

Il giovane obbedì.

- La tua impulsività mi preoccupa, devo ammetterlo. Tuttavia, non ero qui per rimproverarti, ma per complimentarmi con te. -

Gli occhi di Artin si spalancarono.

- L’idea di dipingerti come un uomo traumatizzato dall’esperienza del tentato suicidio è stato quanto di più credibile potessi inventarti. Linda Dini, che conosceva Elia meglio di tanti, ci è caduta in pieno. E ci cadranno anche tutti gli altri. Hai appena dato un nuovo volto a Elia Avanzini: un volto che potrai gestire a tuo piacere, senza essere smentito con troppa facilità, senza rischiare di commettere errori imperdonabili interpretando un ruolo che non è tuo. C’è di meglio. Ti farai anche pubblicità e nessuno ti chiederà più di cacciare via una ragazza che piange per te. -

Artin credeva ormai di aver perso gli strumenti per capire di cosa, in quell’ambiente, ci fosse da gioire e di cosa da essere tristi.

- Lei mi sta dicendo che devo fare dei miei sentimenti un business? -

- Per la miseria, quanto sei retorico! - Vittorio alzò gli occhi al cielo, affettatamente - Ti sto solo dicendo che puoi servirtene per costruire un’immagine realistica. E vedi di ricordarti di non usare quel benedetto pronome di cortesia. Prendi un caffè? -

Un caffè. Ma sì. Con tanto zucchero che forse gli avrebbe tolto l’amaro dalla bocca.

Vittorio alzò la cornetta.

- Faccia portare due caffè all’ufficio del signor Avanzini. -

Artin lo ascoltò impartire la sua richiesta come se si trattasse di qualcosa di estremamente importante.

- Potevamo scendere a prenderlo fuori, un caffè. - osò obiettare - Fare due passi, distrarci un po’, sederci ad un tavolo… -

De Nistri lo guardò con scarsa partecipazione.

- Perderemmo tempo prezioso. -

- Prezioso per cosa? -

Artin girò volutamente il capo verso la finestra, ed esitò qualche attimo ad osservare il cielo sbiadito di gennaio. Linda aveva occhi più celesti.

- Se fossi in lei, dedicherei il tempo più prezioso a fare di meglio che lavorare. -

- E io se fossi in te dedicherei il mio a farmi i fatti miei. -

Pronunciò quella risposta con assoluto candore: Artin avrebbe voluto replicare, ma bussarono alla porta.

- Avanti. - fece Vittorio.

L’uomo entrò; era un tizio magro e lungo: un manico di scopa ben vestito. Spinse un carrello dentro l’ufficio e depose con cura due eleganti sottobicchieri sul ripiano del tavolo. Istintivamente, Artin si alzò in piedi, come a dire “faccio io”.

De Nistri sollevò la testa cercando di incrociare il suo sguardo, ma non fece in tempo: Artin aveva già preso la tazzina dalla mano dell’inserviente.

- Grazie, - esclamò – gentilissimo! -

L’uomo rimase per un attimo immobile, incerto se andarsene facendo finta di nulla o se dire qualcosa. Guardò l’interlocutore quasi aspettando da lui un cenno, una parola che glielo facesse riconoscere come l'uomo silenzioso che si faceva versare da bere non salutava mai.

Fu la voce di Vittorio a chiudere quel siparietto e a riportare l’interazione a toni più abituali.

- Lei può andare. - ordinò.

- Ah, già… - Artin si passò una mano dietro la testa, imbarazzato – Scusi, certo che può andare… era sottinteso, questo! -

L’uomo indietreggiò, messo ancor più a disagio proprio dalla condivisione dell’imbarazzo.

- Prego. - gli fece cenno d’uscire De Nistri - Torni al suo lavoro. Abbiamo avuto ottime notizie, oggi, e il signor Avanzini è particolarmente di buon umore… vero Elia? -

- Già! Sono di ottimo umore! - Artin pensò al sorriso di Linda - Lei come si chiama? -

Il tizio deglutì rumorosamente.

- Luca Romoli. -

- Non si sorprenda, signor Romoli. – riprese, sforzandosi di essere più formale - Da quando sono tornato in servizio, mi sono riproposto di dare un’impronta diversa alla mia vita sociale. - rise sommessamente - Lei è il primo a “farne le spese”! -

 

Vittorio lasciò passare qualche secondo dal chiudersi lento della porta, poi posò con malagrazia la tazzina di caffè sul tavolo. Nel gesto, il cucchiaino cadde per terra.

- Si può sapere che ti salta in mente? -

Artin si chinò a raccoglierlo.

- Faccio quello che lei mi ha chiesto. Sto al suo gioco. Faccio del mio modo di essere una rappresentazione. -

- Per Dio! Non prendere sempre tutto alla lettera! -

Artin si alzò di nuovo e osservò in controluce il minuscolo cucchiaino dal manico lavorato.

- E’ uno spreco impiegare tempo ed energia a rendere così bello un oggetto per darlo in mano a gente che non lo guarda. Questo cucchiaino butterà via la sua bellezza. -

- Dorsi! - la voce di Vittorio aveva finalmente subito un’alterazione, ma non si capiva se si trattasse di un suono di rabbia o solo di stupore - Ti stai forse divertendo? -

Artin si strinse nelle spalle: rise.

- Indovini. -

Vittorio buttò fuori un gran respiro.

- D'accordo. Inutile insistere. Ma, che funzioni o meno, non esagerare. Finché sei carino con Linda Dini, va bene, ma non c’è bisogno di fare amicizia con tutto il personale con la scusa che sei felice di essere rimasto vivo! -

Artin non si scompose. Si avvicinò alla poltrona dove Vittorio stava seduto ed appoggiò entrambe le mani sui braccioli: viso a viso con lui.

- Ma io sono felice di essere vivo - scandì, con dolcezza - e spesso desidero che lo siano anche le persone che mi camminano intorno. Mi ascolti. Da quando ero solo un ragazzino, sono stato abituato a guardare in faccia la gente. Ho dovuto distinguere di chi fidarmi e di chi no, e chi era onesto e da chi non lo era. Sono bravo a osservare. Da un volto riesco a capire centomila cose. E il suo, Vittorio, è di una tristezza che fa star male. -

De Nistri rimase pochi istanti in silenzio, poi rispose, serafico.

- E questo che c’entra? -

Artin si chinò su un ginocchio, poi sedette per terra, incrociò le gambe ai piedi della poltrona.

- Niente. - ammise - E’ che mi dispiace. Mi dispiace per lei, e per Linda, e per Luca Romoli, e per questo mondo. Perché lo trovo infelice. E credo sia infelice perché non può permettersi il lusso di esserlo, perché non può, gli è negato l’essere autentico. -

- Che vuoi dire? -

- Voglio dire che il disoccupato Artin Dorsi, con tre fratelli a carico e la madre in coma, ha tutto il diritto di lamentarsi. Ha tutto il diritto di sedersi sul bordo di una strada e piangere. Ma sotto i grandi riflettori della Firenze bene non c’è posto per questo, perché tutti voi siete ricchi e fortunati, potete avere tutto ciò che desiderate schioccando le dita, e rischiate persino di sentirvi in colpa se per un momento pensate che non state bene, che le cose vanno storte, che la vita è una merda. Potete imprecare per un affare che salta, per una festa andata a monte, ma non potete dichiararvi infelici perché non ne avete il diritto, e a volte, addirittura, perché non ne avete il tempo. Lo trovo terribile. E trovo ancora più terribile che lo accettiate così, che facciate della finzione uno status, che lei mi dica, in tutta naturalezza, che non le importa che io sia onesto. -

Vittorio non aveva più voglia di parlare: guardava stordito quel ragazzo bizzarro seduto in terra, a spiegazzare di proposito un completo che non sapeva indossare.

- Mi chieda di essere onesto con lei, Vittorio. Mi dica solo che lo desidera, che le fa piacere, ed io sarò onestissimo. Leale. Vero. Lei potrà dirmi qualunque cosa, potrà chiedermi qualunque cosa… e saprà che avrà solo onestà, da me -

Onestà. Lealtà. Limpidezza: il sorriso di quell’uomo prometteva tutto questo, come se fosse la cosa più facile del mondo, dopo che lui lo aveva ricattato, lo aveva messo in quella situazione, lo aveva strappato via dalla sua vita. Da dove saltava fuori uno così?

- Ti prego, - Vittorio si sforzò di mantenersi distante - spiegami perché faresti questo per me. -

Artin si passò un dito dentro il nodo della cravatta, quella cravatta rigida così innaturale, su di lui.

- Perché mi hai salvato la vita. Ti sembra una cosa qualsiasi? Non sono state le mani di coloro che mi hanno tirato su a riportarmi qui. E’ stata la tua voce. E’ stato il modo in cui desideravi salvare quella persona che non ero io, ed è stato anche l’unico momento in cui ho desiderato esserlo. -

C’era troppa pace in quel sorriso. Guardarlo era come sentirsi dire che tutto andava bene.

Mentre niente andava bene.

Niente.

- Signor Dorsi… -

- Elia. Adesso sono Elia. E siccome credo che nulla capiti mai a caso, credo di dover essere Elia perché magari avevi bisogno di me, oppure, boh, io di te. Dunque ora starò nella tua vita. Che tu lo voglia o meno. E mi impegnerò perché sia un po’ più bella di così. -

Vittorio De Nistri appoggiò la fronte sulla mano.

Aveva la testa pesante.

- Ok. – disse, assorto – Ok. Tu sei matto. -

- Sì, – asserì in una mezza risata - me lo dicono in parecchi -

- Peccato che questo ti renda un attore pessimo. -

- Ma non avevi appena detto che… -

Vittorio si tirò stancamente su dalla poltrona, come se quel gesto potesse strapparlo via da quella conversazione, dal dovergli una risposta, dall’essere lì.

- Gli somigli così tanto. Così tanto. – nella sua voce passò una nota di dolore – Ma ogni volta che sorridi, la finzione si rompe. Tu non sarai mai capace di imitare il sorriso di Elia. -

Se lo vide davanti, forse dieci, quindi anni prima.

Il sorriso di Elia.

Vittorio, tu non vedresti uno strappo nel cielo neppure se ci passasse in mezzo Dio in persona.”

Riportò lo sguardo su Artin: era ancora seduto lì, meno divertito e più confuso.

- Elia era l’uomo più affabile che avessi mai conosciuto. – gli disse - Sorrideva a tutti, cordiale, invitante: riusciva ad affascinare chiunque. Non sorrideva perché era felice, o perché voleva conquistare qualcuno, o anche solo per apparire più bello. Sorrideva così, per impostazione. Aveva un sorriso splendido. E dietro quel sorriso, niente. Assolutamente niente. Ma io sono stato cieco, e non gli ho dato importanza. Finché non ho visto sorridere te. -

Se ne andò senza dargli il tempo di controbattere o di fare domande. Si sentiva indebolito dalle su stesse parole.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


“Caro Elia,

so che queste righe potrebbero apparirti del tutto inopportune, dato che non rispondi al telefono, e la tua nuova segretaria continua a dirmi che non sei reperibile. Per quanto io cerchi di capire, non riesco a darmi pace. Chi era l’uomo con cui ho parlato, ormai più di un mese fa? Non so come, non so perché, ma il modo in cui mi hai guardata quel giorno, non era lo stesso. C’era qualcosa di cambiato qualcosa in cui non ti ho riconosciuto, e che devo trovare il modo di spiegarmi. Perché quella cosa, qualunque essa sia, mi è rimasta dentro come un chiodo e non la posso dimenticare. Dio, mi sembra così banale tutto ciò che ho creduto di provare prima. Io penso di essermi innamorata di te in quell’istante, e desidero vederti come non l’ho mai desiderato. Ti prego, lasciati trovare almeno una volta. Linda.”

Artin ripiegò in 4 il biglietto e se lo infilò in tasca. Glielo aveva fatto pervenire sottobanco il solito Brunetti: Linda Dini doveva proprio piacergli se si esponeva così spesso per lei. Del resto lo comprendeva bene, perché piaceva parecchio anche a lui.

L’importante era che De Nistri non venisse a saperlo, altrimenti se la sarebbe presa con i suoi “fidati collaboratori”, accusandoli di non avevano saputo tenere abbastanza bene sotto controllo le sua casella di posta, la sua linea telefonica, i suoi spostamenti, i suoi incontri, la sua vita privata.

Vita privata. Che parola grossa. Da quando era lì, non aveva più avuto una vita privata, e non solo perché era, di fatto, un prigioniero agli arresti domiciliari, quanto perché la stessa esistenza di un dirigente di quel livello - se ne era reso conto rapidamente - non lasciava molto posto a tutto ciò che non poteva essere incluso nella categoria “pubbliche relazioni”.

Elia Avanzini doveva aver avuto una vita molto meno divertente di quella che appariva all'esterno, a meno che non trovasse divertente guardarsi allo specchio ogni mattino pensando a quali facce indossare e quali frasi fatte mettere in borsa.

Si avvicinò alla finestra e guardò fuori: il palazzo della *** spiccava per altezza tra i tanti edifici di lusso del lungarno e quindi gli occhi di Artin potevano spaziare oltre i tetti. La vista era impagabile: si vedevano i viali snodarsi, inondati di traffico, decine di bus gran turismo, gli stranieri che passeggiavano sui marciapiedi e il fiume placido che passeggiava sotto i ponti.

Se la barchetta avesse potuto risalire al corrente, sarebbe arrivata fino al ponte all'Indiano, alla sua pensilina pedonale, e poi più indietro, lungo la pista ciclabile che dalle Cascine portava fino a Signa. Lungo quella strada, a solo pochi chilometri dalla sua nuova vita, Alba, Andrea e Ana continuavano a percorrere la rotta delle loro esistenze, chissà in che modo cambiate, invertite, o solo accarezzate da quell'immenso cambiamento. Si chiese se Alba andasse al suo posto a raccontare alla mamma che Artin le aveva lasciato un sacco di soldi, che era sparito da mesi, e che non si era più fatto sentire. Forse si era messo in qualche guaio e non poteva rientrare in Italia o forse aveva sposato una cubana e non voleva tornare più!

Quel pensiero lo fece per un attimo sorridere. E poi soffrire.

No, Alba non sarebbe andata a trovare la mamma, non ci era mai andata.

E forse lo credeva morto o pensava che li avesse voluti abbandonare.

Ma nessuno lo avrebbe cercato, come nessuno avrebbe cercato Elia Avanzini.

Come poteva - lui, il vero Elia - esserne contento?

E lo era?

Si era lasciato indietro un'intera vita.

Chissà se, senza più radici, si poteva vivere lo stesso: forse si era riempito le tasche di sassi, perché un soffio di vento non lo portasse via.

Appoggiò il capo sul vetro e posò la mano sulla tasca dove aveva riposto il biglietto.

“Vorresti che ti spiegassi, Linda? Anche io lo vorrei. Se potessi farlo, sarebbe come liberarsi di un peso. Sarebbe mettere un sasso in questa tasca. Ma tu sei una graziosa ragazza ricca e non potresti capire. Forse ti sentiresti solo presa in giro dall’uomo che amavi e che adesso, posta davanti a qualcosa che ha messo sottospora l’immagine che avevi di lui, dici di non aver amato. E chi potresti amare, allora? Me? Solo perché, nel più profondo pozzo di menzogna, a mio modo ho cercato di dirti la verità? È così grande e preziosa, la verità, da comprare anche l’amore? Perdonami Linda. Perdonami Alba, perdonami mamma, se non posso dire la verità. Se la bugia vi ha fatto rimanere vivi. Se questa vita si porta dietro la sofferenza di una perdita. Sai cosa penso, Elia? Che non sono tanto diverso da te. In fondo, siamo davvero gemelli.

 

De Nistri entrò nella stanza. Anche quella volta senza bussare.

- Buon giorno, Vittorio, - si riscosse Artin, recuperando il contegno abituale – la vista da qui non smette di affascinarmi. -

Il sole filtrava abbondante dalle finestre.

- Ma c’è troppa luce, non credi? -

- Al decimo piano deve esserci luce. O non servirebbe a niente stare in alto! -

Vittorio si accomodò sulla sedia che doveva essere sempre stata “sua”, anche quando quell'ufficio apparteneva ad Elia. Sembrava di buon umore.

- Dai un'occhiata qua. -

Gli tese una rivista che non aveva mai visto; roba di finanza, probabilmente. Sulla copertina c'era una sua foto, presa di sfuggita durante una serata in cui la banca aveva sponsorizzato un vernissage di artisti toscani a Palazzo Strozzi.

- O perbacco! Che ho fatto? -

Il titolo dell'articolo recitava così “Nuovo corso per la ***?”, e, più piccolo “Il giovane amministratore delegato Elia Avanzini prende posizione contro il degrado della periferia.”

Artin ricordava quella fugace intervista, aveva risposto a due domande per il notiziario locale, due parole in croce, ed aveva anche bevuto un po': non gli pareva di essersi lanciato in dichiarazioni che potessero far pensare a “nuovi corsi” o che altro, si era limitato a qualche osservazione che il suo vissuto gli aveva suggerito.

- Le persone non sanno più di cosa parlare. - disse.

- Elia, Elia! - ora Vittorio lo stava chiaramente canzonando - Adesso sei tu che usi frasi fatte! Io ci lavoro da vent’anni, coi giornalisti! E ti assicuro che sanno benissimo di cosa parlare e di cosa non parlare… Ma va bene così, sai? La pubblicità, in questo momento, ci serve! -

- Che vuoi dire? -

- Che la crisi si fiuta nell'aria, e le cose non vanno nel verso giusto, sai bene di che parlo. Ma tu hai una specie di dote naturale: in qualche modo, attiri l’attenzione! Non so come, ma hai il dono di incuriosire la gente e in una società in cui apparire è tutto, questa è un’arma da sfruttare. -

- Se mi stai dicendo che devo sorridere alle telecamere e dichiarare che la *** salverà il mondo, caschi male! -

Vittorio diede in una sonora risata.

- Vedi? E’ proprio questo ciò a cui mi riferivo! Per diavolo! Non sei nemmeno nella posizione di dirmi cosa vuoi o non vuoi fare… e tuttavia lo fai, e con una sfacciataggine così candida che non riesce neppure a innervosirmi. Questo è il dono a cui mi riferivo. Dobbiamo solo utilizzarlo al meglio! -

- Ovvero? -

Vittorio gli sventolò sotto gli occhi un foglio di carta patinata: l’invito ad una cena esclusiva nei locali della Fortezza da Basso.

- E’ gradita la tua presenza, è un’occasione importante. -

- La mia? -

Artin non capiva dove risiedesse l’importanza di una serata di gala per un uomo d’affari con un'azienda sull’orlo della crisi.

- La festa è organizzata da Pitti Immagine, penso tu sappia di che parlo. -

Certo che lo sapeva – avrebbe voluto rispondere - viveva a Firenze da sempre e tutti i fiorentini sapevano che se il traffico sui viali è bloccato ci deve essere Pitti uomo! Ma non fece in tempo a parlare, perché Vittorio era completamente preso dai suoi piani.

- Nel consiglio d'amministrazione è entrata una persona con cui avevo da tempo intessuto contatti d'affari. Se lei premesse nella direzione giusta, avremmo messo una bella pezza su quella spinosa faccenda. Credo che la cosa dovrebbe interessarti. -

Avrebbe dovuto? Quella non era la sua vita, e non aveva idea se risolvere i problemi della *** fosse una via d'uscita per riprendersi la propria. E poi… poteva riprendersela? Forse quando si butta via qualcosa, non ci è concesso di riaverla, come per i suicidi di Dante che gli avevano sempre fatto tanta pena.

- Se posso essere d’aiuto, io… -

- Lo sarai, eccome. La persona di cui ti parlavo, Rebecca Rinucci, ci tiene ad incontrarti di persona. -

Quel “di persona” detto così aveva un suono vagamente imbarazzante.

- Me? -

- Già. Dice che ultimamente sei diventato una presenza interessante. Sei giovane, brillante, di bell’aspetto: non credo di doverti delucidazioni. -

Ora l’imbarazzo era tutt’altro che vago. Ma guarda un po’! Adesso i contratti di lavoro si facevano al tavolo di una signora “personalmente interessata”?

- Nessuna delucidazione. In queste faccende me la cavo benissimo da me. -

Da sé? Beh, di certo non era nello stato d’animo ideale per flirtare. Ma tutto sommato, se gli veniva chiesto di elargire un po’ di sana galanteria ad una signora di mondo, gli sarebbe riuscito meglio che rispondere con compiacenza ad una telecamera dicendo che quello stesso mondo - così splendente, visto da lassù - andava bene così.

 

La sala preparata per la festa era quanto di più maestoso Artin avesse potuto immaginare. Certe cose le aveva viste solo nei telefilm. Eppure, mentre i suoi occhi s’incantavano tra mille luccichii, fino a rimanerne offuscati, la sua mente stava seguendo ancora la barchetta che risaliva il fiume. C'era un tavolo riservato per Elia Avanzini, mentre Artin Dorsi si era dissolto nel niente.

Eppure, la mano che sentiva il contatto con le lunghe dita d'avorio di Rebecca Rinucci era quella di Artin Dorsi, e lui avrebbe voluto tanto gridarlo.

- Benvenuto. È un piacere incontrarla. -

“Troppi anelli” pensò “troppi per una mano così bella, degna di essere guardata nella sua nuda marmoreità”.

Rebecca Rinucci poteva avere cinquant’anni, ma ne dimostrava dieci di meno: del resto, anche Elia aveva quasi dieci anni più di lui, e nonostante questo poteva scambiarsi identità con un trentenne che aveva dovuto sottoporsi anche a qualche aggiustamento per risultare altrettanto bello.

- Il piacere è mio – disse Artin cordialmente.

Rebecca ricambiò il sorriso e il contrasto tra i denti bianchissimi e le labbra rosso scarlatto gli fecero un effetto quasi cinematografico. Sembrava una diva, e sapeva atteggiarsi a tale: l’abito da sera nero le scendeva fino ai piedi avvolgendole i fianchi e lasciando scoperta la schiena, i capelli erano raccolti sulla nuca, in una strana acconciatura che certo aveva richiesto un lungo lavoro al suo parrucchiere e gli occhi erano di un nero affascinate. Artin aveva sentito dire che gli europei non possono avere occhi veramente neri, e che ormai non lo si poteva più scrivere nemmeno sulle carte d'identità, ma quelli di Rebecca non avrebbe saputo definirli altrimenti.

La donna si rivolse a De Nistri.

- Sono felice che abbiate accettato l’invito. Come sai, apprezzo come lavorate, e credo che avremo modo di parlarne. Ma non mi piace discutere d’affari prima di cena. Se dio vuole la notte è giovane, io sono di nuovo single ed ho voglia di divertirmi. –

Le parole scivolarono nelle orecchie e poi nel petto di Artin, che si contrasse.

Guardò Vittorio, che lo osservava come se stesse svolgendo una prova d'esame.

Si sentiva così fuori posto che se avesse risposto anche solo una parola forzata, sarebbe scoppiato, mandando in pezzi quella soffocante finzione.

Voleva essere irritante.

Desiderava essere irritante con ogni parte del suo corpo.

Non per Rebecca.

Per Vittorio.

- Sulla questione “divertimento” lei sfonda una porta aperta. – disse – Ma credo che qui manchi un bel po’ di atmosfera, per divertirsi davvero. -

Il volto di Vittorio De Nistri si contrasse: lo sguardo che rivolse ad Artin in concomitanza con l’emissione dell’ultimo frammento vocale fu così eloquente che chiunque si sarebbe sentito gelare il sangue nelle vene.

Artin decise di ignorarlo: quella sensazione di disturbo gli piaceva maledettamente.

Oh, sì, lui sapeva cos’era il divertimento.

Era quella donna che non lo sapeva, e non lo sapeva Vittorio De Nistri, non lo sapevano gli ospiti presenti in quella sala, nessuno lo sapeva. Il divertimento era qualcosa che non veniva né dallo sguardo né dalla testa, né da una grande sala, né da una bella cena, né dalle vesti eleganti di Rebecca, né dalla sua cravatta a strisce, nemmeno da una festa, nemmeno dal sesso. Il divertimento veniva dallo stomaco e dal ventre. Veniva da tutti gli organi del corpo che all’improvviso si mettono d’accordo, spengono i pensieri, e cominciano a ridere. Il divertimento era una risata che saliva dalla pancia, contorcendola tanto da far male.

- Le manca atmosfera, Elia? - Rebecca era lievemente stizzita, ma con un soffio di curiosità tra le labbra - Vuole dirmi cosa le piacerebbe? -

Vittorio tentò l'ultima disperata occhiata di minaccia.

Voglio essere irritante.

Voglio essere irritante per te.

- Beh, allora io… - prese la mano di Rebecca e ammirò quelle dita bellissime, svilite da tanto peso - io penso che, se avessi potuto scegliere, in una notte come questa, l'avrei invitata a passeggiare all'aperto. – fuori, al di là delle finestre, qualche pigro fiocco di neve stava già cominciando a cadere - Forse l'umidità le avrebbe rovinato l’acconciatura, ma il freddo illumina gli occhi ed io potrei capire se sono davvero neri. -

L’espressione di Vittorio era divenuta stupore.

- Mi divertirei se potessimo essere sfacciati, senza pensare che siamo legati da ragioni di denaro, ma che ci siamo incontrati per quei bei giochi del caso, che legano gli ubriachi in un locale per qualche ora, o per una notte. - le sorrise come aveva imparato da sua madre, perché prima o poi il sorriso gratis torna indietro - Il divertimento non appartiene a quella gamma di cose che si possono comprare o organizzare: è un sapore, è una rivolta del corpo, è una casualità che non ha luoghi né tempi definiti. È immediata e grandiosa, si costruisce e si disfà con niente, ma credo che abbia radici nella libertà. - lasciò andare la sua mano, e cercò i suoi occhi: erano neri, non c'era niente da dire – Che mi dice: è abbastanza? -

 

La pelle di Rebecca era liscia e calda: le carezzò la spalla rimasta fuori dalla coperta che avvolgeva i loro corpi, nascondendo con gentilezza quel triste gioco d’interessi e piacere. Eppure, in un’altra situazione, chissà, avrebbe anche potuto amarla, una donna così. Erano stati bene insieme, lei era colta, spiritosa, bellissima. Cosa c’era di sbagliato? Artin avrebbe voluto possedere sufficiente lucidità per capirlo. Afferrò la bottiglia di champagne sul comodino, se ne versò un bicchiere colmo. Nel sonno, la donna emise un lieve sussurro, si voltò su un lato, la coperta scivolò lungo il braccio lasciandola scoperta fino alla vita. Come era finito lì? Come era finito a fare sesso con una sconosciuta per far piacere al suo falso socio, e bene alla sua falsa azienda? Se tutto intorno a lui era finto, come potevano essere autentici atti come quello? Eppure, per quella notte, gli sarebbe piaciuto se fosse riuscito ad amarla, se fosse riuscito a pensare a lei come l’unica, a pensare che il giorno dopo quell’avventura si sarebbe conclusa - se era destinata a concludersi - con un mazzo di rose e un onesto addio, e non con un contratto di lavoro.

Peccato, non ci era riuscito.

Si tirò su a sedere: affondò le spalle sullo schienale del letto, ricoperto di fodera imbottita.

Certo, era stata una gran bella festa.

L'aveva fatta ballare, l'aveva fatta ridere, aveva persino trascinato gli ospiti, in certi momenti gli era parso di avvertire anche della gratitudine. Era stato l’anima della festa, doveva riconoscerlo. Forse era vero che era fatto per attirare l'attenzione, se non altro in un mondo così, dove ciò che a lui appariva naturale finiva per risultare esotico.

Aveva fatto ciò che Elia Avanzini non avrebbe fatto mai.

In mezzo a tutta quella folla indistinta, Vittorio lo aveva visto solo di sfuggita, seduto ad un tavolo, a conversazione con qualcuno, o più spesso per conto suo. Non aveva mai partecipato. Chissà cosa pensava di lui… Probabilmente lo aveva trovato ridicolo, e lo avrebbe anche rimproverato, appena ne avesse avuto l‘occasione, nonostante, attraverso una strada non prevista, avesse ottenuto comunque - e forse più in fretta - il loro scopo.

Il ricordo di quell’immagine trasformò la malinconia in tristezza.

Ogni suo gesto, ogni sua parola, quella sera, erano stati pensati per lui, misurati su di lui. Come avrebbe voluto scuoterlo anche un solo momento! Rubare un suo sguardo, rubare il suo disagio, il suo fastidio. Catturare la sua rabbia.

Invece, tutte le volte che lo aveva cercato tra i tavoli, aveva trovato sempre lo stesso viso impassibile.

Vittorio De Nistri.

L’uomo che gli aveva salvato la vita, e l'unico che gli sembrava di non poter toccare mai.

Ma in fondo, non aveva salvato la vita a lui, quel giorno: voleva salvarla a Elia, e lui era solo un ragazzo disgraziato che si era cacciato in un guaio, che si poteva ricattare, e che doveva obbedirgli.

Un ragazzo disgraziato che era pronto a sacrificare la vita per la propria famiglia.

Vittorio De Nistri non aveva una famiglia.

Vittorio De Nistri non aveva un'amante, un figlio, un parente caro.

Vittorio De Nistri era solitudine.

Ed Elia, allora, per lui, chi era stato?

Si alzò e si rivestì in silenzio: doveva essere notte fonda.

Con dolcezza, carezzò la testa della donna addormentata, e le tirò su la coperta fino al collo. Poi uscì piano dalla stanza, e percorse le scale del grande albergo, fino a scendere nella hall. Raggiunse la reception e dispose che un mazzo di fiori fosse fatto pervenire il mattino dopo alla camera della signora.

- Vuole che lasci scritto qualcosa? - chiese il portiere

- No. Solo il mio nome, grazie. -

Il suo nome.

Se solo avesse potuto scriverlo davvero, su quel biglietto, forse quella donna gli sarebbe parsa splendida, ed avrebbe addirittura desiderato rivederla.

Si fece chiamare un taxi, che lo accolse nel suo caldo anonimato. In quel momento, era comunque più gradevole della finzione. La mano cercò il cellulare, istintivamente, senza che il cervello avesse tempo di fermarla.

- Linda? -

La voce assonnata della ragazza gli scivolò nell’orecchio

- Chi è? -

- Sono Elia -

- Elia… ! -

Silenzio.

- Voglio vederti. Posso venire da te? -

- Elia… che è successo? Sono le cinque del mattino! -

- Che importa? Ho voglia di vederti, non basta? -

Il telefono emise un frizzìo. Qualche rumore confuso, poi la voce tornò.

- Dammi un minuto per sistemarmi… -

- Anche di più. Sono per strada. Sarò da te fra mezz’ora. Ti va di guardare l’alba? -

 

Nevicava.

Il cielo era puntellato da piccoli fiocchi leggeri, che non riuscivano ad attecchire sulla strada.

La neve gli spruzzava di bianco il cappotto.

- Scendi, vieni a vedere! -

La ragazza si presentò sulla porta con un ombrello. Il suo volto era un po’ tirato, lo sguardo tradiva una forte emozione, era stordita, ma non troppo da cancellare del tutto quella espressione così piacevole che gli diceva “sono felice di vederti”. In quel momento, nulla poteva essere meglio di quello: incontrare una persona felice di vederlo.

- Tu sei pazzo, Elia! -

Anche Vittorio gli aveva detto una cosa simile, tempo fa.

Forse, non era così lontano dalla realtà. Forse la follia era fatta d’una materia molto simile a quella dei sogni, quando questi sono troppo ingombranti o troppo vaporosi.

Le offrì il braccio, lei aprì l’ombrello sulle loro teste.

- Vieni con me, Linda! -

La condusse per il centro, fino a Piazza Santissima Annunziata, dove i palazzi avevano il pregio di lasciare lo spazio ad un ampio rettangolo di cielo. I loro piedi scalpicciavano in una poltiglia d’acqua e ghiaccio.

- Guarda che bello! -

Col braccio teso, le indicò la neve che fioccava, come se fosse qualcosa di raro e mai visto: i suoi occhi brillavano di entusiasmo.

La mano gelida di Linda accarezzò la sua guancia, e lui voltò il viso verso di lei.

- Io non riesco a capire… -

La trovava bellissima: il suo sorriso smarrito nella neve, la sua figura sottile stagliata nel buio, il lungo cappotto rosso, il biondo dei suoi capelli così acceso sotto quel buffo cappello che le copriva le orecchie e le schiacciava la frangia sul volto.

- Allora non capire. -

La abbracciò stretta: alla ragazza scivolò l’ombrello di mano, ma lo riprese al volo.

- Per stasera, non capire. Se dovessi spiegare, finirebbe tutto. -

Le braccia di lei si avvolsero attorno alla sua vita. La sua guancia contro il suo collo era fredda, ma tutto il resto era calore, tutto, anche la notte, anche la neve che cadeva.

- Linda - disse a fior di labbra, e assaporò il suono di quel nome, la gioia di pronunciare un nome con desiderio - tu hai un nome trasparente. -

Pensava che quella ragazza avesse un nome che le si ricamava addosso, un nome che voleva dire chiarore, limpidezza, autenticità. Anche sua sorella aveva un nome così: un nome che evocava la luce del mattino. Linda, era un nome onesto.

- Elia… ma cosa dici? -

- Sst, non domandare. Ti prego. Io non voglio essere finto con te, non lo meriti. Perciò, se vuoi rimanere con me, per stasera, anche se fosse l’unica, non domandare niente… -

La strinse più forte, le baciò i capelli. Erano sottili come fili di seta.

- Non chiedere nulla a me, non raccontare nulla alle tue amiche, fai finta che sia tutto un sogno o non funzionerà. Per queste poche ore, ti prego, immagina che io non sia quello che conosci, quello che non può mai essere chiaro, che non può dire la verità. Fai finta che io sia solo un uomo misterioso e stravagante che vuole prendersi un raffreddore sotto la neve con te. -

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


- Se proprio ti interessa, non ci sono stato a letto! -

- Già, ma per una ragazza che è stata l’amante di Elia, anche… -

- Accidenti, Vittorio! Non l’ho NEMMENO BACIATA, vuoi sentirtelo dire? Se proprio metti gente a sorvegliarmi, almeno sceglili con la vista buona, così quando mi scopo una ricca manager, almeno si divertono! -

- Guarda che se era questo il problema… -

- No, maledizione! Rebecca non c’entra, e non c’entra nemmeno il fatto, che, nel tuo cazzo di mondo, si scambi il sesso coi contratti d’affari! Almeno la gente del mio, di mondo, il sesso lo vende per necessità! Non è questo il “problema”! Il problema sei TU, Vittorio! -

- Io? -

Per la prima volta da che era iniziato quel fastidioso battibecco, Vittorio sentì mancare per un attimo la sua sicurezza.

- Perché io? -

Il viso di Artin era alterato: un rossore lieve gli colorava le gote.

- Perché tu - agitò le mani a mezz’aria, camminando su e giù, per poi piazzarsi di nuovo faccia a faccia con lui - tu non riesci a capire niente, non riesci a ascoltare niente! Come puoi non trovare commovente che una donna si conceda di uscire per una notte dalla recita reiterata per ciascun giorno della sua gloriosa carriera? Come puoi non trovare triste il fatto di esserne persino infastidito? E come puoi non trovare meravigliosamente bello e doloroso che una donna sia così innamorata di Elia Avanzini al punto di continuare a chiamarlo per nome, anche se ha di fatto davanti, in modo chiaro come il sole, una persona diversa? Linda è meravigliosa, Vittorio! Meravigliosa nel suo modo assoluto di amare, e meravigliosa nel suo non pretendere nulla in cambio. E io… - la voce di Artin si incrinò e distolse il viso - io mi sento… così devastato… che avrei pagato qualunque cosa perché l’altra sera una persona, una qualunque persona, mi facesse sentire così tanto indispensabile! -

Sbatté i pungi sul muro, poi ci appoggiò la fronte in mezzo.

Vittorio rimase per un momento in silenzio.

- Ed è per questo che sei qui, no? - disse ad un tratto - Perché volevi sentirti indispensabile. Beh, lo sei stato, e per farlo hai accettato le regole del “mio” mondo, quello che disprezzi ed insulti: cerca di ricordarlo, ogni tanto. -

Artin si voltò di scatto verso di lui, e per un attimo a Vittorio sembrò che volesse assestargli uno schiaffo.

- Lo ricordo meglio di quanto tu creda, e sai cosa detesto? Che tu riesca a mettere una scelta come quella a cui sono stato costretto sullo stesso piano della decisione di chiudere un‘azienda. Così come, per la stessa ragione, metti sullo stesso piano ciò che io ho fatto con Rebecca e il gesto che ha fatto mia sorella, e tante ragazze come lei. Da un lato si parla di vita e di morte e dall’altro soltanto di… -

- Non mi hai detto tu che vita e morte non sono uguali per tutti, e che è solo una questione di valori?-

- No. Io ho detto che morire e vivere possono essere ugualmente facili o difficili, ed entrambe sono scelte che comportano energia, e forza, e partecipazione. Ma una lunga morte in vita seduti dietro ad una scrivania a fare il conto delle entrate, invece, è faticosa? Dimmelo tu, Vittorio! -

- Stai diventando offensivo. Chi ti credi di essere? Sei solo un poco di buono raccattato per strada! Se Elia non fosse capitato sul tuo cammino… -

- Se Elia non fosse capitato sul mio cammino, forse starei facendo da pappone ad una sorella puttana, o sarei morto di fame sotto un ponte o magari avrei trovato lavoro e avrei riscattato me e la mia famiglia! Neanche la vita si fa coi se e coi ma, Vittorio! E non ci si volta indietro a pentirsi del fatto e del non fatto, perché ogni secondo che perdi lo stai sottraendo a qualcosa che puoi fare adesso! - lo fissò negli occhi, erano arrossati e aggressivi, pieni di quella stessa passione che c'era nelle sue parole - Te lo chiedi mai che cosa puoi fare di importante e di bello adesso? -

Vittorio sfidò il suo sguardo, accolse la provocazione.

- E tu, cosa credi di star facendo, di così bello? -

Artin, con un gesto quasi teatrale, si batté la mano sul petto

- Io sto cercando di portarti con me! -

- Eh? -

- Io voglio portati con me! Esci da qui, Vittorio! Guardati intorno, maledizione! E mandami affanculo, qualche volta! Che c’è? Hai paura che ti si screpoli la faccia? Lascia passare un’emozione ogni tanto e smetti di guardare il mondo con quel viso di palstica come se niente toccasse la tua vita, o prima o poi sarà lei a non guardare più te, e sarà molto peggio! -

 

Un'altra voce – una voce che, pur sforzandosi, Artin non poteva realmente imitare – si sovrappose alla sua, e le pareti di quell'ufficio all'improvviso diventavano le vetrate di un lussuoso ristorante, dove, seduti nel privé, lui ed Elia si guardavano negli occhi come non era mai successo.

- Arrabbiati, maledizione! Gridami in faccia, mandami al diavolo! Perché non lo fai, Vittorio? Perché non lo fai mai!?! -

Elia si era alzato in piedi, aveva sbattuto le mani sul tavolo, ed il suo calice di vino si era rovesciato. Aveva alzato la voce così tanto che qualcuno dei pochi clienti si era volato.

Lui si era sentito a disagio: quelle non erano scene da fare in pubblico, erano persone adulte e rispettabili. Doveva avergli detto proprio questo. E poi aveva aggiunto:

- Perché vuoi che ti tratti come un bambino? -

Ma il suo viso non si era incrinato, nemmeno quella volta.

Elia allora lo aveva mollato lì, prima che arrivassero le portate, ed era andato via, senza voltarsi indietro.

Vittorio ricordava vagamente il motivo di quella discussione, avvenuta almeno dieci anni prima. Aveva scoperto che Elia aveva una ragazza di cui non parlava con nessuno, così aveva chiesto ad un suo collaboratore di indagare. Era venuto a sapere che la fantomatica fidanzata lavorava nell'impresa di pulizie che serviva la banca, che si frequentavano da qualche mese e che la relazione sembrava seria. La cosa non gli era piaciuta e lo aveva invitato fuori in pausa pranzo per parlarne.

Cercò di riportare alla mente i dettagli di quella conversazione - fino a quel giorno solo una tra le tante e oggi, all'improvviso, così importate. Cosa aveva fatto alterare il suo imperturbabile amico? Qual era stata la parola, o l'espressione, o il sottinteso che all'improvviso aveva sgretolato la maschera e alterato per pochissimi istanti quel sorriso impassibile? Poteva davvero averlo dimenticato? Poteva avergli dato così poco valore?

C'era molto sole quel giorno, doveva essere primavera avanzata o già estate perché mentre aspettava aveva chiesto al cameriere di far spegnere l'aria condizionata, che gli sembrava eccessiva, e lui lo aveva fatto subito, incurante del punto di vista degli altri clienti.

Elia era arrivato un po' in ritardo, con l'aria di uno che non vuole restare molto e lo aveva sfidato con una frase inaspettata:

- Pensavo fosse una pausa pranzo, non un banchetto - si era versato il vino - ma comunque è meglio se butti via i tuoi soldi al ristorante che nel pagare un investigatore privato per sapere i fatti miei. -

- Su, su, non prendertela. Ero solo preoccupato. E facevo bene. -

- Perché? - aveva chiesto lui con falsa ingenuità.

- Andiamo, Elia. La donna delle pulizie? Con tutte le ragazze che puoi avere… Non pensi a tua madre? -

Ecco, forse era stato quello il momento in cui la sua espressione era cambiata.

- Cosa c'entra mia madre? -

- Glielo hai detto? -

- Non è necessario che lo faccia. -

- Insomma, Elia, pensa a quello che ha passato. Pensa all'imbarazzo in cui la metti. Lei desidera per te… -

Si era nascosto spendendo il nome di sua madre, quando in realtà quello che gli premeva era l'immagine da offrire alla gente. Come aveva fatto ad essere tanto vigliacco, con tanta naturalezza?

Elia lo aveva interrotto. Lo aveva fatto a voce alta, deliberatamente, quando il cameriere si era avvicinato per servire.

- Quando mio padre era vivo non ti sei preoccupato di quello che mia madre passava. Che noi passavamo. Te ne sei preoccupato quando è morto, e ti assicuro che la sua morte invece è stata una grazia del cielo! -

Ora ricordava quella frase ma comprese per la prima volta il desiderio di Elia di ferirlo, di colpirlo, di fargli del male. Il suo desiderio di essere ferito, di essere colpito, di avere diritto a stare male.

Invece lui lo aveva guardato limitandosi a sollevare un sopracciglio, gli aveva detto “Fai piano. Ti pare il momento?” ed allora Elia si era alzato in piedi, il bicchiere si era rovesciato, e con lui il suo fiume di parole. E quel sorriso era andato in frantumi.

- Certo che è il momento! E mi fa schifo che tu possa decidere quando lo è o non lo è! Non guardarmi con quella faccia di cera, maledizione! Ti ho appena insultato: reagisci, una buona volta!-

Dopo quel giorno, non gli aveva più parlato così.

Quel sorriso, non si era rotto più.

Non aveva capito niente.

 

- Elia – scosse la testa – Elia… -

Non disse altro.

Ma Artin sapeva che non si stava rivolgendo a lui.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Vittorio non riusciva a capire quale fosse il rapporto che lo legava ad Artin. L'unica cosa che gli era chiara era che quell’uomo sembrava avere una specie di dote per mettere gli altri di fronte non tanto a ciò che erano ma a ciò che avrebbero voluto essere. Aveva fatto così con Rebecca, lo aveva fatto con lui e certamente aveva fatto con Linda.

Qualcosa lo rendeva simile ad un alito di vento, che passa tra i capelli delle belle donne e tra le gonne delle puttane, accogliendo tutto senza sporcarsi mai, ed inesorabilmente quel vento sollevava i veli sotto i quali aveva nascosto, consapevolmente o meno, i propri sentimenti.

Aveva già vissuto tutto questo, e lo aveva sotterrato così bene da impedirsi di farlo venire a galla, ma nel sentire Artin parlare, nel sentire Artin gridare, arrabbiarsi o gioire, l'ombra di lei si materializzava ancora nella sua stanza, bianca e nuda, col suo sorriso senza perdono.

- Mi chiamo Elettra, ma tu chiamami “Libertà”. -

Libertà era la parola di Artin, ed era anche quella dell'unica donna che aveva amato.

- Io sono aria, Vittorio. Posso conformarmi al contenitore che mi accoglie, ma sempre aria resto. Per stare accanto a me, si deve essere liberi. -

Lui non era mai stato acqua o aria, semmai era stato argilla: si era lasciato plasmare dagli altri in una forma, ed era rimasto in quella, perché non aveva saputo tornare indietro. Cambiare avrebbe voluto dire bruciarsi nel fuoco.

- Vittorio, l’amore, quando è Amore, è senza cervello, ed anche senza cuore. L’amore è egoista e taglia come lama. Forse il mio modo d’amarti è impuro, ma non conosco altre forme d’amore. Amarmi e aver cura di me sono due cose che non puoi fare insieme, e che non posso lasciarti fare. Tu sei capace di grande affetto, ma non di grande amore, ed io ho bisogno di grandi amori per esistere. -

Dove aveva messo quella forza?

Dove aveva messo la passione e il dolore che servono per vivere e morire?

Forse li aveva persi a 15 anni, quando suo padre aveva fatto a pezzi la sua chitarra sfasciandola sul pavimento, e non li aveva più ritrovati.

Graziano De Nistri non sopportava che qualcuno della famiglia prendesse una qualsiasi iniziativa da lui non autorizzata. E soprattutto non sopportava che suo figlio potesse suonare in una band con quei debosciati dei suoi amici. Vittorio aveva osservato i frantumi del suo strumento, così innocenti da sentirci ancora dentro il gemito del legno che si spezza, e si era messo a piangere. Poi si era scagliato contro suo padre gridando che "non poteva decidere dalla sua vita". Ed era stato allora che lui gli aveva detto: "Ricordati che un uomo può fare ciò che vuole se è abbastanza intelligente da non farsi scoprire. E tu non lo sei stato."

In quella breve frase era morto il suo unico slancio di ribellione adolescenziale.

Col tempo aveva fatto tesoro del consiglio: era diventato talmente bravo a mentire da apparire imperscrutabile ai suoi stessi genitori. E a poco a poco aveva smesso di arrabbiarsi in modo brusco, o ridere in modo sfacciato e spontaneo, perché la gente - la “sua“ gente - amava le mezze misure: erano più rassicuranti.

Dopo la laurea, il padre lo aveva portato con sé in viaggi d'affari, incontri con "gente che conta" e occasioni mondane: lo considerava il figlio perfetto, era orgoglioso di presentarlo agli altri e di affidargli incarichi di responsabilità. La sua famiglia, la gente che frequentava, quelli che per gusto di forma chiamava "amici" non conoscevano di lui niente di più che l'immagine che voleva dare, e lui dava agli altri esattamente quello che si aspettavano di ricevere. Era così che era iniziata la scalata al potere.

Ma poi, era arrivata lei e gli aveva parlato delle rose.

Ed aveva illuminato tutto.

- I miei nonni erano giardinieri: mio nonno era specializzato in rose. Rose dei colori più improbabili, rose di due colori diversi, rose come non immagineresti mai. Mio nonno era un genio e un folle. Uccise l’amante di mia nonna e poi si impiccò. -

Ed aveva distrutto tutto.

- Ci pensi? Mio nonno. Un mite floricoltore. Sparò ad un altro uomo per amore. Mia nonna ha vissuto nell’odio per lui e nel rimpianto per quell’amore. Quale dei due sentimenti stupisce di più? L’odio o il rimpianto? Un uomo che uccide per una donna, senza secondi fini, senza brama di denaro, senza sperare di farla franca è una persona estremamente egoista… ma quale donna, nel fondo più oscuro di se stessa, non trova appassionante che un uomo uccida e muoia per lei? -

Aveva ricoperto ogni cosa con petali di rose.

- Mia nonna, per tutta la vita, nel giorno dell’anniversario ha portato sulla sua tomba una rosa blu, un fiore che rappresenta l’ “amore imperfetto”. Sai una cosa? A mia madre tu piaceresti tanto. Lei si preoccupa sempre degli uomini che frequento, teme che siano come suo padre, che coltivino “amori imperfetti”. Certamente vedrebbe in te tutte le cose belle che hai: la sensibilità, la dolcezza, la premura per il futuro e l’attenzione per il presente. E vorrebbe che ti sposassi. -

Aveva trafitto ogni cosa con le spine delle rose.

- Ma io non posso farlo. Io non posso sposarmi, avere dei bambini, portarli in vacanza al mare, andare a cena dai parenti. Io non posso mettere un bel vestito e farti fare bella figura in società. Io non posso essere la donna che vorresti. Perché io l’ho vista, la rosa blu di mia nonna… ed è la cosa più bella che si possa vedere: il suo odore non si avverte con i sensi, ma con gli occhi. Ti entra dentro e ti fa perdere la testa. Ed io l'ho persa, infatti. Io sono imperfetta. -

 

Aveva conosciuto Elettra negli anni ottanta. Allora aveva la stessa età di Artin, eppure, proprio come Elia, aveva già una posizione di prestigio. Si erano incontrati in una chiesa, durante al matrimonio di chissà che lontano amico o parente: erano talmente tanti i riti mondani a cui veniva invitato e a cui non poteva dire no, che davvero erano tutti un fascio nella sua memoria.

Però ricordava bene lei: in tempi non sospetti, ostentava numerosi tatuaggi, che non si era preoccupata di tener nascosti, anzi, che mostrava apposta, attraverso una maglietta che lasciava la schiena in buona parte scoperta.

Una donna - che poi avrebbe saputo essere sua madre - la stava rimproverando; dal suo angolo non era riuscito a sentire cose dicesse, ma aveva sentito bene la risposta di lei, anche perché l'aveva deliberatamente pronunciata in modo che fosse capita.

- Guarda che Dio ci ha creato nudi! -

Forse era stata la noia di quel pomeriggio afoso, forse il fatto che la gente che aspettava sul selciato di quella chiesa non aveva granché da dire, o forse solo la bellezza di quella ragazza dai capelli rossi, ma Vittorio aveva riso.

Lei aveva colto quella risata, e gli aveva lanciato un'occhiata d'intesa, mentre sua madre continuava:

- Se vai a casa di una persona importante, ti devi vestire bene… e allora, nella casa del Signore… -

- Quando vengo a trovare papà, mi faccio forse la piega? Mi metto l'abitino della festa? Che lo chiamiamo “padre nostro” a fare, se poi dobbiamo comportarci con Dio come ci comporteremmo con una persona che nemmeno conosciamo? In casa di un papà, ci si deve vestire come si sta meglio, anzi, non ci si deve neppure pensare. Ma tu vuoi fare piacere alla gente… e allora basta essere chiari: dimmi “il modo in cui ti sei vestita scontenterà gli sposi”. Lo capisco. Sono nata per scontentare. Ma non tirare in ballo Dio, che non c'entra niente. -

Aveva fatto un discorso accalorato, eppure non c'era nessuna nota di rabbia nella sua voce: sembrava che si divertisse, che stesse solo ripetendo un giochino a cui era abituata.

Durante la celebrazione non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Poi, d'un tratto, la vide uscire dalla chiesa: non resistette e la seguì.

Fuori, la trovò che fumava una sigaretta, seduta sul bordo di un'aiuola. I capelli rossi brillavano al sole, e le sue spalle scoperte mostravano i segni di un'abbronzatura presa senza curarsi di abbassare le spalline del costume. Era davvero fuori posto, lì: aveva ragione sua madre, nel dire che non sembrava vestita per un matrimonio. Jeans ed anfibi, e quella schiena scoperta… chiunque l'avrebbe trovata volgare, eppure aveva il viso meno volgare che avesse mai visto. Infantile, acqua e sapone. Sembrava un'adolescente nel corpo di un'adulta.

- Ciao. – gli disse, facendo cenno con la mano.

- Ciao. – fece eco lui.

- Non le sopporto, le cerimonie. Sono così finte. Lo sai che lei non è nemmeno credente? E lui va a messa solo per Natale. Ma si sposano in chiesa perché fa più scena. Mi fa rabbia. -

- Tu sei credente? -

Non sapeva come gli venisse così spontaneo darle del tu, e farle una domanda tanto personale. Succedeva, e gli piaceva come gli fosse facile.

- Sì. – rispose lei – Ma non nel modo che ci si immagina quando lo si dice. Sono credente perché voglio credere che siamo destinati a durare. Sono credente perché mi piace l'idea di un Dio che ti comanda di amare tutti, ma non ti spiega come. Ti dice semplicemente di farlo, e non giudica come lo fai, se la tua intenzione è vera. Tutte le altre cose sono stronzate e non mi interessano. La chiesa ha costruito monumenti ingombranti su fondamenta semplici. Le fondamenta non reggono e crolla tutto: tutto quello che fanno diventa un teatro di burattini. Ed io mi annoio, perciò. Anche tu ti annoiavi? -

- No. Sono uscito per seguire te. -

Non era mai stato così sfacciato: aveva iniziato a corteggiarla in un modo che non gli aveva insegnato nessuno. Proprio come aveva detto lei.

Si erano innamorati, e l'amore li aveva annullati completamente. Per mesi avevano quasi scordato le proprie identità, avevano messo da parte le proprie singole vite. Era stato naturale, finché l'amore era stato solo amore, ma poi l'amore aveva dovuto tornare a intrecciarsi con la vita, e la vita di Vittorio de Nistri non era la vita di Elettra.

Elettra immaginava la vita tutti i giorni, ogni mattino si svegliava e diventava quello che aveva voglia di essere. Non poteva averla con sé ad una festa, non poteva portarla a cena dalla sua famiglia: la scenetta che aveva visto sulla porta della chiesa con sua madre, si ripeteva con lui, ogni volta. Avrebbe voluto che l'amore bastasse, ma non bastava. Avrebbe desiderato seguirla, diventare anche lui aria per mescolarsi con lei, ma lei non lo aiutava. Avrebbe voluto che lei gli tendesse la mano, che lo guidasse a piccoli passi nel suo mondo, invece per Elettra c'erano solo il tutto o il nulla, il subito o il mai. Quelle mezze misure rassicuranti in cui aveva imparato a stemperare la vita, erano le radici che lei non voleva mettere. Elettra era troppo libera per lui, e lui aveva imparato che troppa libertà era pericolosa.

Ricordava ancora come fosse ieri il giorno in cui gli aveva chiesto: “uccideresti per me?” ed era rimasta stupita che lui avesse esitato a risponderle. Quello era stato il momento in cui entrambi avevano pensato di non amarsi abbastanza.

Forse non avevano capito l'amore, non avevano saputo curarlo e farlo crescere, lui credendo che la sua libertà significasse disamore, lei pensando che venire incontro all'altro fosse una distorsione dell'amore.

Una mattina, se ne era andata.

Aveva lasciato solo una rosa sul letto.

Non si era mai chiesto se lei avesse desiderato che lui la cercasse. Non si era chiesto se fosse anche quello un modo di nutrire l'amore. Eppure avrebbe potuto farlo: ne aveva i modi, i mezzi. Avrebbe potuto trovare dove stava, raggiungerla sotto la finestra, magari con un mazzo di rose blu. Scegliere l'amore imperfetto. Ma aveva avuto paura. Paura di perdere quei giorni in un tentativo di renderli duraturi. Paura di non essere in grado di trasformarsi, e finire per cercare di trasformare lei. Paura di tutta quella libertà, che non è sempre una cosa bella. Paura di non essere in grado di uccidere per lei.

Aveva deciso di perderla. Non aveva scelto lei, lo aveva fatto lui.

Poi aveva chiuso tutto in una scatola e l'aveva sigillata bene.

Dentro la stessa scatola aveva costretto Elia e la sua famiglia: un perverso surrogato dell'amore.

Elia aveva deciso di rompere il coperchio. Elia ne era fuori, adesso.

Elettra.

Elia.

Artin.

Ciascuno di loro, alacremente, con cattiveria, aveva rimesso insieme, scheggia dopo scheggia, i pezzi di quella chitarra rotta.

Ora, nulla sarebbe più tornato a posto.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Domenica mattina Vittorio suonò il campanello mentre Artin era ancora in pigiama.

Le finestre erano spalancate perché il cielo era limpido e aveva odori di primavera, anche se l'aria era ancora frizzante, imbevuta della nevicata di qualche settimana prima.

Vittorio si accomodò in cucina e si preparò il caffè come se fosse in casa propria. Artin non si era mai fermato a riflettere su quel gesto: anzi, fino ad allora gli era parso persino naturale, vista la sua estraneità a quel posto.

Ma dal giorno della loro ultima discussione, non riusciva a smettere di pensare ad Elia, a immaginare di essere lui, a cercare di scoprire quale fosse il vero rapporto che lo legava a Vittorio, dato che né l'uno né l'altro avevano mostrato desiderio di farglielo capire.

Cosa provava Elia di fronte ad un gesto del genere? Non la sentiva come una violazione di intimità? Ricordò le lamentele di una sua collega, durante l'ultimo lavoro che aveva svolto: una moretta con occhi accesi, lentigginosa, a cui non era riuscito a chiedere di uscire prima che lo licenziassero. Si arrabbiava un giorno sì e uno no con sua madre perché entrava a farle le pulizie di casa mentre lei non c'era, la soffriva come una vera e propria invasione. Artin le diceva di non prendersela, che avere una madre che si prende cura di noi è bellissimo, e che lui avrebbe fatto volentieri a cambio, ma lei gli rispondeva che la casa era “la sua fortezza”: “non solo fortezza come castello” spiegava “ma fortezza come una delle quattro virtù cardinali, hai presente? Prudenza, giustizia, temperanza e fortezza… Non forza, ma fortezza, che è qualcosa di più della forza. Io pago da sola il mutuo di questa casa, pagare per una casa è come pagare il sogno di camminare con le proprie gambe. Voglio avere un posto in cui chiunque, amico o nemico, bello o brutto, quando entra debba chiedermi il permesso.”

Forse Vittorio non si era comportato con Elia in modo diverso da come si comportava con lui: entrava nella sua vita e la indirizzava, senza neppure pensare, come la madre della sua amica, di essere un ospite sgradito. Chissà se gli aveva mai chiesto di andare a letto con una potenziale cliente, se lo aveva istruito su come comportarsi con una donna, se gli aveva detto in che modo si doveva sorridere. Eppure gli voleva bene: la stretta della sua mano su quel tetto non mentiva.

Ma Elia, invece?

 

- Oggi dobbiamo andare da tua madre. – fece Vittorio, a bruciapelo.

- Eh? -

Artin per un attimo desiderò che gli stesse davvero offrendo di accompagnarlo all'ospedale a vedere sua mamma, ma sapeva che non poteva essere così

- Dalla madre di Elia. Bisogna che tu ci vada. Lo ha chiesto troppe volte, e non possiamo più far finta di niente. -

- La… madre di Elia? -

Elia non gli aveva mai nominato una madre. Neppure Vittorio lo aveva fatto. Possibile che a entrambi fosse sfuggita una cosa talmente importante?

- No, non ti ho parlato di lei. – lo prevenne - Ma non ti era necessario per il tuo lavoro. -

- Non mi era necessario? - Artin si sentì colto sul vivo – Sapere se la propria madre è viva o morta secondo te non è necessario? Pensi che il mio approccio alla vita sarebbe lo stesso, se mia mamma potesse parlarmi, abbracciarmi, darmi un consiglio… ? Se avesse potuto, io non sarei nemmeno qui!-

Vittorio lasciò sfumare le sue domande in un breve silenzio.

- Sei molto legato a tua madre? - chiese poi.

Quella richiesta lo calmò. Era la prima volta che Vittorio s’informava sulla sua vita precedente, e il suo sguardo era quello che lo aveva colpito quel giorno in ospedale: depositario di verità.

- Mia mamma mi ha insegnato a sorridere. Perché a sorridere si impara, non è un dono di natura. Si impara come sorridere, e a chi, e come mai… e questo cambia la natura di un sorriso. Io ho imparato che ciascuno di noi sta combattendo una battaglia di cui non sappiamo nulla, e quindi un sorriso se lo merita. -

- Non mi avevi mai detto nulla di lei. -

C'era qualcosa che somigliava a un senso di colpa, in quella frase.

- Non me lo hai mai chiesto. Ma tanto sai già tutto, no? -

- Non lo so da te. -

- Vittorio, oggi tu sei strano! -

Gli rivolse un sorriso allegro, per sdrammatizzare.

- Non l’ho mai chiesto neppure a lui. -

Abbandonò la domanda tra le pareti di quella casa, testimoni dell'assenza.

- Non ho mai chiesto ad Elia come si sentisse, dopo che sua madre si è ammalata. Sembrava non esserne stato sfiorato. Andava a trovarla ogni tanto, ma solo perché da un figlio ce lo si aspetta. Elia faceva sempre ciò che ci si aspettava da lui, riusciva addirittura a prevederlo. Non gli ho mai chiesto cosa provasse. Si dà per scontato che a una madre si voglia bene: siamo tutti stati educati a questa idea. Ma sotto rapporti così ancestrali ci sono forze profonde che spesso non siamo in grado di capire – si fermò, come per prender fiato - Il padre di Elia era il mio migliore amico. Una notte di agosto si è buttato dalla finestra. -

Non aggiunse altro, si alzò per mettere la tazzina nel lavandino, e Artin capì che la conversazione era finita.

 

La madre di Elia aveva l'alzheimer. Si era ammalata relativamente giovane, e la malattia era già ad uno stadio avanzato. Non teneva il conto dei giorni e la memoria a breve termine era completamente scomparsa. Vittorio non gli aveva detto nulla della sparizione di suo figlio: gli aveva raccontato che era andato all'estero qualche mese per lavoro, ma lei lo aveva già dimenticato. Chiedeva di lui tutte le volte, si tranquillizzava di fronte alla spiegazione, e la volta successiva chiedeva nuovamente.

Vittorio aveva detto ad Artin che aveva scelto di non farli incontrare perché temeva che lei lo avrebbe riconosciuto, così come aveva fatto lui: la malattia annebbia la mente ma non l'istinto.

Poi però aveva cambiato idea, e non gli aveva detto perché.

Artin non sapeva se quella visita fosse un atto di dolcezza o di crudeltà, ma aveva lasciato che la corrente lo trascinasse ancora una volta, lo spingesse ancora più a fondo nella vita di Elia.

La casa della famiglia Avanzini era impressionante: un palazzo antico affacciato sull'Arno, dalle cui finestre si vedevano la biblioteca nazionale e il campanile di Santa Croce. In confronto, l'appartamento che Elia aveva scelto per vivere era decisamente modesto.

I mobili dell'ingresso sembravano emersi dalla bottega di un antiquario, ma non avevano sapore d'antico perché erano tirati a lucido, non un graffio o un segno di vita. Però c'erano piante ovunque: piante verdi, piante da fiori, piante grasse; portavano in quelle stanze senso di respiro.

La badante lo accolse con freddezza: nel suo stringergli la mano senza partecipazione c'era un rimprovero non espresso. Nessuno si poteva permettere di rimproverare Elia Avanzini di non essere un buon figlio, ma si poteva rendere palpabile quel pensiero: Artin per un momento desiderò che lei parlasse, e lo facesse con franchezza, come se attraverso di lui quelle parole potessero arrivare al vero Elia e avessero la forma di un refolo di vento. La vita del suo gemello era piena di polvere.

La signora Avanzini sedeva in poltrona in salotto, e ricamava. Artin trovò bello vedere le sue mani muoversi e pensare che il corpo in qualche modo conserva l'abilità di creare anche quando la mente non lo asseconda più.

- Mamma… - mormorò, quasi difendendosi da quella parola – Mamma… -

- Elia! Peccato che arrivi solo ora! È passata a trovarti quella ragazza, quella così carina, dovresti invitarla a cena, una volta. -

Artin si voltò verso Vittorio in cerca di consiglio, ma lui gli fece cenno di lasciarla parlare.

- Dovresti portarmi una fidanzata. Non posso morire senza averti visto sposato. I figli di tutte le mie amiche si sono sposati. Digli qualcosa tu, Vittorio. -

Pronunciò quell'ultima frase con il tono della consuetudine, e lo sguardo di Artin cadde sulle fotografie appese alle pareti: Elia bambino, una foto di nozze, e in tutte le altre De Nistri, come se fosse un membro della famiglia. La sua ingerenza in quelle vite era così tangibile che persino lui se ne sentì appesantito.

- Ma io ce l'ho una fidanzata, mamma. -

Artin si sedette accanto a lei, e le sorrise con tutta la dolcezza di cui era capace.

- Oh! Ed è una ragazza per bene? La famiglia la conosci? -

Avrebbe voluto risponderle che no, che la famiglia non l'aveva mai vista e che questo non aveva importanza: che era triste che sua madre per prima cosa non gli chiedesse qual era il suo nome.

Ma continuò a sorridere.

- Sono sicuro che ti piacerà. -

La madre di Elia si rivolse a Vittorio.

- Davvero? -

- Davvero. – confermò lui.

- Ma quella ragazza così carina che è venuta a trovarti… -

Riprese in mano il suo ricamo, diede un paio di punti, poi alzò gli occhi ed Artin vide la bellezza che resiste e poi scompare.

Pensò all'uomo della stazione.

- Elia… tu sei morto? -

Un brivido lo scosse fino alla punta dei piedi

- Ed io? Io sono morta? -

 

Quella casa metteva voglia di fuggire. Era come se i fantasmi di mille cose non dette aleggiassero tra le mura. Quando furono fuori e si sedettero in macchina, Artin si sentì sollevato.

- Lei era innamorata di te? - buttò fuori, come se dovesse liberarsi di un peso.

- Che razza di domanda è questa? -

- La tua presenza è ovunque. Persino tra lei e suo figlio. -

Vittorio ripeté la frase che doveva aver eletto ad alibi già altre volte.

- Suo marito era il mio migliore amico. -

- E quindi? -

- E quindi, quando è morto mi sono occupato di loro. Fine della storia. -

Artin provò il desiderio di colpirlo: aveva fatto la commedia per lui, aveva il diritto di sapere.

- Allora, perché ti senti in colpa? -

Vittorio non rispose, mise in moto e fece manovra.

- Non importa che lo dica a me. Però credo che avresti dovuto dirlo ad Elia. -

Lui accese la radio per interrompere quella conversazione: una canzone dolce si diffuse nell'abitacolo.

 

Il bambino rincorreva
la sua barca di carta,
che ci vedeva la vita,
ma il tempo non ha tempo,
l'orologio s'incarta,
la bussola è impazzita
cammini dentro una nebbia
di persone e di cose
che ti facevano sognare,
e hai voglia di andar via
senza accampare scuse
per non aver saputo amare,
quando hai finito tutte le più inutili scuse
per potere restare

 

La macchina si fermò sotto il palazzo, in doppia fila, ma Artin esitava a scendere.

- Non è vero che nulla ha mia toccato la mia vita. – fece Vittorio d’improvviso, senza guardarlo in faccia – Una persona l'ha fatto. La amavo, ma lei non voleva essere la mia famiglia. Lei era una che va, io uno che resta. E siccome non potevo avere una famiglia che comprendesse lei, ne ho trovata una già fatta, accanto ad una donna che, per paura o per abitudine, non sarebbe mai andata da nessuna parte. Sì, forse Serena mi ha amato. E sì, forse Elia mi ha odiato perché non ho saputo amarla, ma sono rimasto nella loro vita lo stesso. Ho fatto per loro tutto ciò che credevo fosse giusto fare. Ho fatto di Elia il mio socio, l'ho voluto dov'era a tutti i costi, ho fatto in modo che avesse la migliore delle carriere possibili. Ho protetto Serena, ne ho avuto cura, ho cercato di farle avere tutto ciò che desiderava, l'ho aiutata a crescere suo figlio come se fosse mio. Ho sbagliato? Può darsi, visto come sono andate le cose. Ma tu, tu che credi di capire tutto, tu che credi di potermi dire cosa sarebbe stato meglio per me… cosa avresti fatto al posto mio? Oh, certo. Tu non saresti stato al posto mio. Tu avresti fatto come Elettra. E come Elia. Tu te ne saresti andato, forse pensando di far bene. Ma non è sempre facile, e non è sempre bene. Nella vita si è legati da tanti fili. -

Artin ebbe un breve tremito che lo costrinse a rannicchiarsi nelle proprie spalle.

Non aveva mai pensato a questa immagine, affascinato da sempre dal pericolo della libertà. Ma sua madre era stata legata dal filo di Giovanni Dorsi, e lui, ora, era legato a quello di Elia Avanzini.

Avrebbe voluto poter tagliare i fili di Vittorio, ma capiva che ogni taglio avrebbe riaperto una ferita. Avrebbe voluto ancora sentirlo parlare di lei, di chi era, del perché l'aveva persa, di perché, perché aveva scelto di fingere l'amore. Ma era ingiusto.

Aveva ragione lui.

Aveva dannatamente ragione: al posto suo, lui si sarebbe sentito in trappola, e non sarebbe riuscito a trovare le ragioni per restare.

Come aveva fatto quella notte, accettando la proposta del diavolo.

Era così: in cima a quel palazzo, credendo di far bene, non aveva fatto altro che andarsene.

Come Elia.

“A volte morire è troppo semplice.” gli aveva detto Vittorio “E’ molto più difficile vivere.” Per la prima volta si rese conto di quanto avesse senso la frase che gli era parsa così banale allora, di quanto parlasse di sé, proprio mentre Artin lo accusava di essere freddo. Elia aveva scelto la strada facile, in cui non doveva più rendere conto a nessuno. In cui non c'erano più fili. E lo aveva fatto anche lui. Non solo: aveva desiderato di farlo ancora, ed ancora, in quei mesi, trovando un modo per lasciare quella vita, e riprendersi la propria: Vittorio lo sapeva benissimo.

Tutti se ne andavano, e lui restava.

Incapace di imitarli, legato dai fili.

Per paura?

Forse no.

Forse, dietro tutti quegli apparenti gesti di ribellione, c'era meno coraggio che nel rimanere fermi.

O forse entrambe le alternative erano sbagliate, e non c'era la terza.

Non c'era: ma c'era l'affetto che si accorgeva di provare per quell'uomo, un affetto potente e doloroso, che lo faceva sentire soffocato.

- Scusami. – mormorò – Scusami, Vittorio. -

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Artin guardò la macchina di Vittorio svoltare ed imboccare i viali.

Il sole tramontava solo ora: le giornate si erano fatte più lunghe da quando era arrivato per la prima volta in quella casa.

Aveva cercato di affezionarsi a quella strada, a quel marciapiede, alla bella vista di Porta al Prato e all'odore del parco delle Cascine, ma l'unica cosa che era riuscito ad amare davvero era il fiume, quasi un cordone ombelicale con la sua vecchia vita.

Cercò le chiavi nella tasca, e quando le estrasse si accorse di Linda.

Non avrebbe dovuto essere lì: quella era l'ultima cosa che doveva accadere quel giorno.

Ma quando gli occhi azzurri di lei, pacifici come due laghi di montagna, si spalancarono per la gioia di vederlo, Artin si trovò a pensare che invece aveva bisogno proprio di questo.

- Volevo solo salutarti. - gli disse.

Artin non aveva idea se questa fosse consuetudine tra Elia e lei, ma il disagio che emanava la sua postura, il modo in cui ondeggiava sui piedi e giocava con le proprie dita, gli fecero dedurre di no.

- Da quanto sei qui? -

Lei non rispose.

- È domenica… avevo pensato… che fossi libero. Hai lavorato anche oggi? -

Provò a immaginare quanto lo avesse aspettato, se avesse provato a suonare o fosse solo rimasta lì, per vedere se scendeva, o rientrava, come le sue compagne adolescenti ai tempi della scuola quando corteggiavano qualcuno.

Desiderò essere allora: desiderò essere loro.

- Faccende private. – disse.

Avrebbe voluto che quell’incontro con Linda fosse trasparente, come il suo nome.

Ma c'erano i fili.

- Vuoi… salire? -

Linda parve per un attimo stordita.

- Qualcosa non va? -

- Non mi avevi mai invitata in casa tua. -

Forse anche la casa di Elia era la sua “fortezza”, e lui la stava violando come faceva Vittorio ogni giorno. Ma Elia se ne era andato, e Linda era calore per quella casa fredda.

- Non vuoi… ? -

Lei si affrettò a cancellare quel turbamento dal viso e annuì, condiscendente.

- Certo che voglio. Sono curiosa di vedere dove vivi! -

Artin girò la chiave nella toppa come se fosse la prima volta che lo faceva: invitare qualcuno in un posto è prendere possesso, è sentirlo proprio.

Aiutò Linda a sfilarsi il cappotto, lo appese all'attaccapanni insieme al suo; le fece cenno di accomodarsi sul divano, ma lei rimase in piedi.

- Elia Avanzini, l’uomo del mistero! – cantilenò, guardandosi in giro.

- Credimi, è l’ultima cosa che vorrei essere. -

- Bugiardo. -

- No, dico sul serio. Li odio, i misteri. A me piace il tuo nome. -

I suoi occhi si abbassarono sul pavimento.

- Insomma, Elia, - disse Linda, docilmente, ma con fermezza nella voce – si può sapere cosa vuoi davvero da me? Cerco di dimenticarti, ci provo, e tu ogni volta mi stupisci e il desiderio ritorna, come un maledetto rimorso. Mi dici di non cercarti, e poi mi suoni sotto casa in piena notte: che devo pensare? Sono stata la tua amante per mesi. Mi stava bene così. Poi tu hai detto che preferivi che stessi fuori dalla tua vita. Mi stava bene anche questo. So adattarmi alla realtà, so chi sei tu, lo sapevo fin da subito, e so benissimo che io sono solo una di tante. Vuoi fare l’amore con me? Mi sta bene. Vuoi che io sia quella da cui si può passare quando ci si sente soli? Ve bene anche questo. Ma non dirmi che non sei un bugiardo, e che ti piace il mio nome. Un uomo nella tua posizione è un bugiardo. E che ti piacesse il mio nome, non lo hai mai detto. -

Sul volto di lei era dipinto un’espressione di desolata indolenza. Pensò a sua madre, alla sua immensa, profonda accettazione di tutto ciò che le era stato dato dalla vita. Accettazione che aveva il viso di Linda, gli occhi di Linda, le labbra di Linda.

Lui non la meritava. E non la meritava nemmeno Elia.

- Non te l’ho mai detto proprio perché sono un uomo nella mia posizione. E gli uomini nella mia posizione sono stupidi. Proprio così. Anche Vittorio è stupido. Lasciamo andare le cose, perché pensiamo che non vadano abbastanza bene. Ed è vero: le cose belle non vanno mai “abbastanza bene”. Vanno e basta, e le devi lasciare andare. L’amore è imperfetto. Ed è per questo che appassiona l’umanità dalla notte dei tempi. Non c’è nulla di appassionante nella perfezione. Non c’è nulla di appassionante in me, nella mia vita, nell’immagine che do al mondo, nella mia ‘posizione‘. Ma anche tu hai sbagliato tutto fin dall’inizio. Anche tu hai guardato quell’apparenza di perfezione e ti sei lasciata abbagliare: hai amato Elia Avanzini, insieme alla sua posizione, insieme alle sue bugie, necessarie perché la sua immagine stesse in piedi. -

La guardò negli occhi con un sorriso sul punto di sfaldarsi.

- Dai retta a me, Linda. Il mondo visto da questa posizione, non è affatto più rotondo che visto da un’altra. Forse tu non mi crederai, ma io ho avuto modo di vederlo da entrambe, e mi sono ritrovato a fare i conti con le storie di sempre, con il dolore di sempre, con le emozioni di sempre. Gli uomini sono anime incomplete. In loro c’è qualcosa di mancante, che cercano di colmare come possono, e per questo prendono strade che poi, all’apparenza, sembrano così diverse. Ma sotto sotto, basta guardare bene per ritrovare quel luminoso indizio di imperfezione che ci fa male e che ci avvicina tutti. E io sono stanco di vedere gente affannarsi per coprirlo. Per questo mi piace il tuo nome. Perché vorrei che il mondo fosse trasparente. -

Aveva detto cose che non erano da Elia, cose troppo sue per poter essere credute. Voleva essere creduto? Voleva davvero essere creduto?

Sentì le mani fredde di Linda prendergli il volto: un benefico refrigerio sulle sue gote che scottavano.

Poi lei afferrò la sua testa, la tirò a sé e lo baciò sulla bocca.

“O no, non deve andare così. Non deve andare così.” pensò Artin in un secondo.

Ma nel secondo successivo si accorse che le sue labbra si muovevano con quelle di Linda.

Era la cosa più stupida che avesse fatto da quando si trovava in quel ruolo, in quei vestiti. E non poteva togliere quei vestiti! Non poteva assecondarla, sarebbe saltato tutto, avrebbe scoperto tutto, avrebbe…

Le dita di Linda avevano slacciato uno ad uno i bottoni della sua camicia, le sue labbra scesero lungo il collo e sul suo petto: sentiva i capelli di lei strusciare contro la sua pelle. Avevano il profumo di neve di quella notte. Seta bionda.

“Linda… ” sospirò senza riuscire a dire altro, e ascoltò il suono di quel nome. Il nome della trasparenza.

La sua testa era in confusione, gli occhi pieni di colori che non avevano più a che fare con la realtà. Non c’era il soffitto sopra la sua testa, non c’era il divano sotto la sua schiena.

Addosso a lui, attorno a lui, c’era solo l’odore di Linda.

Pensò che era così bella, che la desiderava, e tutto, per qualche istante, fu solo ebrezza.

Poi lei disse qualcosa. Il suo peso si fece più leggero, il suo corpo si mosse.

“Mio Dio…!”

Si staccò da lui, si tirò su a sedere: il suo volto era stordito e spaventato.

“Mio Dio… tu chi sei?”

Artin realizzò in un attimo cosa era appena successo.

E, nello sconcerto più profondo, sentì un timido sollievo allargare il suo petto.

“Tu non sei Elia! Tu non… Lui non mi amerebbe mai così! Lui non mi amava!”

Linda si coprì alla meno peggio con il maglione che era scivolato a terra.

“Cristo santo, tu non sei lui! Gli somigli dannatamente, ma non sei Elia! Che idiota, dovevo capirlo! DOVEVO capirlo già da quel giorno!”

Anche Artin si rimise a sedere, senza trovare la forza di rivestirsi: per un istante pensò che, vista dall’esterno, quella scena dovesse apparire esilarante.

La guardò senza abbassare gli occhi e s’arrese.

“E’ vero.” disse “Non sono Elia.”

Lo spavento e lo stupore rimasero un solo istante sui begli occhi di Linda, poi le sue gote si accesero, lo sguardo si ravvivò: una libera, prorompente rabbia sembrò straripare da lei.

- RAZZA DI BASTARDO! - afferrò il cuscino del divano, lo sradicò letteralmente e glielo lanciò addosso - CHI CAZZO SEI, EH? DIMMI CHI CAZZO SEI! -

Si alzò furente, afferrò il primo oggetto che ebbe a portata di mano e lo scagliò contro Artin. Il ragazzo balzò in piedi scansando il pericolo, ed un prezioso posacenere andò in mille pezzi sul pavimento.

Lui alzò le mani in segno di resa, stordito, confuso, quasi divertito. Nudo.

Lei brandì la sua scarpa col tacco, il volto in fermento.

Una teiera.

Una piccola teiera col fischio.

- Mi chiamo Artin. - confessò - Mi sto fingendo Elia per il bene della banca. De Nistri sta tutto. -

Le gote di Linda sbollirono per un attimo.

- E Elia? Dov’è? -

- Non lo so. -

Si guardarono in silenzio, e quel silenzio li rese di nuovo per un attimo vicini, come se una complicità non detta aleggiasse nella stanza.

- Ascolta, Linda, - riprese Artin con voce piana - Elia ha fatto degli sbagli. Non so se ti amasse o meno, non sta a me giudicare. Ma di sicuro ha scelto di voler uscire dalla propria vita. E al suo posto, ci sono entrato io. Anche io ho fatto degli sbagli, e a volte credo che il destino mi abbia messo qui per provare a rimediare ai miei ed ai suoi. A volte, invece, penso che tutto questo sia un divertente scherzo di Dio. Ma sia come sia, sono felice di averti conosciuta. -

Un breve luccichio passò sugli occhi della ragazza.

- Non avresti dovuto chiedermi di salire. -

- Lo so, non avrei dovuto. -

Artin si rimise la camicia, raccolse il resto dei vestiti per terra.

- Linda, - mormorò, rivolto alla parete - questa storia, nessuno deve saperla… -

La voce della donna esplose di nuovo.

- Credi che mi divertirò ad andare in giro a raccontare che sono andata a letto con uno sconosciuto? Tu sei proprio deficiente! CAZZO, CHE RAZZA DI DEFICIENTE! -

Aveva già infilato anche le scarpe, prese il cappotto dall'attaccapanni e non gli diede nemmeno il tempo di rimettersi i pantaloni per seguirla, per fermarla, per dirle qualcosa.

Ma cosa avrebbe potuto dire?

Le cose vanno.

- Vaffanculo. – dichiarò lei, come una sentenza definitiva, e si sbatté la porta alla spalle.

Era solo, seminudo, in un salotto in cui sembrava passato il terremoto.

Ma adesso in quella casa c'era anche lui, c'era la sua vita: non era più uno spazio lasciato vuoto da un altro.

Si rivestì lentamente, e non fu come rientrare nei panni di Elia: i panni di Elia non avevano di sicuro mai assistito ad una simile, tragica commedia.

Avrebbe dovuto sentirsi in colpa, preoccupato, dispiaciuto? Non riusciva a provare niente di tutto questo. Aveva rubato l'amore di un altro, ma ci aveva anche messo tutto l'amore che l’altro non era stato in grado di dare. Non c'era nulla di sbagliato nell'ultima ora della sua vita.

Il cielo si era fatto scuro; accese distrattamente il punto luce del salotto e sorrise al cuscino abbandonato in mezzo al pavimento.

Poi lo sguardo gli cadde sul pezzo di divano lasciato sguarnito: c'era una busta di carta.

Non riusciva a credere che Elia Avanzini, padrone di una banca, utilizzasse ancora il vecchio trucco dei soldi nascosti sotto il materasso!

Si sedette sul lato buono e la aprì.

Non c'erano soldi: c'era un quaderno.

Al vederne la copertina Artin si sentì invadere da una tenerezza profonda: c'era disegnato un logo in voga tra le cose di scuola forse vent'anni prima, ai tempi in cui lui era ancora alle medie! Lo trovava così stonato con quella casa che provò subito affezione per quell'oggetto fuori tempo e fuori posto, e anche un po' per il sentimento che aveva mosso chi ce l'aveva messo.

Lo aprì, e cadde a terra un foglio volante: una pagina d'un diario scolastico, datato al due settembre di ventiquattro anni prima, una di quelle pagine dove non si scrivono compiti, perché le lezioni non sono ancora iniziate .

soffiasse davvero quel vento di scirocco,

e arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare

oltre la faccia abusata delle cose,

nei labirinti oscuri delle case

La prima pagina del quaderno portava la data di due mesi dopo: era scritta con una calligrafia piccolissima, che ignorava le righe ed era tanto fitta da sembrare illeggibile.

“Ieri è morto mio padre” cominciava.

Un diario.

Elia Avanzini aveva tenuto un diario.

Per ventiquattro anni.

E lo aveva lasciato lì.

Perché? Dio, perché?

Perché voleva che Vittorio lo trovasse, si rispose.

Sapeva che lui avrebbe violato ancora quella casa. Sapeva che sarebbe stato lui, dopo la sua finta morte, ad occuparsi di sgombrarla, venderla, o lasciarla così.

Quel diario era una lettera d'addio.

Sentì il cuore sobbalzare.

E iniziò a leggere.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


 

 

 

 

 

Proteggi i nostri figli puri nella vita quotidiana
e salvali dall'odio e dal potere
come il primo giorno come nella fantasia
occhi azzurri per vedere

 

(Antonello Venditti)

 

Capitolo 13

 

Ieri è morto mio padre, ed io non provo nulla.

Ho deciso di scriverlo perché devo dirlo, e dirlo non sta bene. Mia madre sta piangendo tutte le sue lacrime e mi ha urlato contro di stare zitto, di non farla vergognare.

Non provo nulla, ma forse questo vuoto è solo un nascondiglio: un nascondiglio del mio vero sentimento, che non so definire, ma deve somigliare a quando, in trincea, ti passa vicino un colpo, e ti manca.

Ieri notte, quando ci siamo svegliati, quando ho visto la finestra aperta, e mia madre che gridava di non venire, di non guardare, io mi sono sentito un sopravvissuto. E mi sono affacciato, ed ho guardato, e ho pensato che aveva fatto bene. Che finalmente aveva fatto qualcosa per noi.

Sono crudele? Non lo so. Ma vedere mio padre morto è stata una sensazione spaventosamente liberatoria, come quando guarisci da un malattia, come quando finisce un lungo stillicidio.

Non mi sento in colpa: lui era un bastardo. Lui era un grandissimo, fottuto, maledetto figlio di puttana, che sfogava il suo male su di noi. Non m'importa un cazzo di quel che diceva mia madre: che soffriva, che non era colpa sua; non m'importa di quando si scusava piangendo e blaterava che aveva il diavolo dentro. Quello che mi importa è che lui è morto ed io sono vivo. Nessuno mi romperà più il naso, niente più lividi, niente più paura che un giorno non riesca a fermarsi e mi ammazzi. Mai più le urla di mia madre e il suo viso tumefatto. Mai più dover raccontare ad un medico complice che sono caduto mentre facevo un gioco troppo avventuroso.

Siamo liberi. E lei piange? Perché accidenti piange? Dovrebbe essere almeno contenta per suo figlio, che non avrà più paura, che non sarà più in pericolo. Invece mi grida di non aprire bocca, di smettere di parlare così di mio padre, dell'uomo che mi ha messo al mondo.

Non l'ho chiesto io, di venire al mondo.

Non l'ho chiesto io, e siccome mi ci avete portato voi, era vostro dovere cercare di offrirmi la migliore vita possibile. Ma per voi la migliore vita possibile è quella che si vede, non quella che si vive.

Vi odio.

No, vorrei odiarvi. Vorrei provare così tanta rabbia da trasformarmi in fuoco, in tempesta, in vulcano. Invece provo solo la consapevolezza di non provare. Mi sento atrofizzato.

Vorrei aver odiato così forte, così forte, da averlo ucciso io.

 

I patetici funerali del giudice Bernardo Avanzini.

La chiesa traboccante di gente, il parroco che elogia la sua virtù morale e la sua integrità, le persone che abbracciano mia madre, ricordano che uomo meraviglioso era e portano corone di fiori sproporzionate.

Poveri fiori.

Strappati alla vita per celebrare la morte, come vittime sacrificali.

Mio padre, quando perdeva la testa e picchiava mia madre fino quasi a spezzarle le ossa, il giorno dopo le portava fiori, e le diceva di perdonarlo perché era malato. Io ho sempre pensato che fosse solo semplicemente cattivo. Un malato avrebbe cercato di farsi curare anziché togliere la vita a dozzine di rose rosse, ma lui non voleva, perché nessuno fuori di noi doveva venire a sapere che non era l'uomo perfetto che tutti credevano. La sua rispettabilità era più importante della sua famiglia e non solo, era così radicata in lui che il pensiero che il parere di un medico lo rendesse meno perfetto a sé stesso gli era insopportabile. Il suo senso di colpa era falso come tutta la sua persona, come sono falsi i suoi amici e come è stato falso il suo funerale.

Ma mia madre sembra che soffra davvero, ed io non le capisco. Non capisco, soprattutto, se la sofferenza abbia a che fare con la perdita o con l'abitudine a mostrare il dolore di fronte ad una perdita, perché è così che le hanno insegnato a fare.

Anche io fingo: metto su la mia faccia da poker e il mio sorriso d'ordinanza, che ho imparato a indossare alle feste di famiglia. Mi riesce bene, perché tutte le mie sensazioni sono come anestetizzate. Forse non sono capace di vera sofferenza o di vera rabbia o di vero odio, così come non sono capace di essere felice.

Ho quattordici anni e non sono mai stato felice.

Mi si potrebbe obiettare come faccio a sostenerlo, se non conosco in che consiste la felicità. Rispondo che lo so e basta. So anche che mia madre non è mai stata felice e che quasi tutta la gente presente al funerale non era triste. Perché i sentimenti si vedono: io ho imparato a vederli, e so che ce ne sono alcuni che non si possono in alcun modo mistificare. Uno di questi è la felicità. Non l'ho mai vista sul mio viso. Non l'ho mai vista su quello di mia madre. Ma l'ho vista: altrove, in giro, negli occhi di un compagno di classe, o in quelli della mia vicina quando le hanno regalato il gatto.

Anche io lo avrei voluto, un gatto: mia madre non me lo ha mai preso perché non vuole animali in casa. Per mia madre le piante sono la sola forma di vita, oltre alla gente della sua stessa classe sociale, che può essere ammessa alla sua presenza. Ho cercato di vedere in questo una potenziale forma d'amore, e mi sono affezionato alle piante come viatico per affezionarmi a lei.

Ma non ha funzionato.

Mio padre si è ucciso. Non avrebbe neppure dovuto avere un funerale cattolico. Poi, detto tra noi, non era nemmeno credente. È stato Vittorio ad insabbiare tutto, perché nessuno sapesse che il giudice dalla vita perfetta era morto suicida. Troppa vergogna… come se ad uno che s'ammazza ne potesse davvero fregare qualcosa.

In questo modo, mia madre resterà la vedova compianta di un uomo ineccepibile e tutti si rammaricheranno del terribile incidente. Bisogna essere deficienti parecchio per cadere da una finestra per sbaglio! Ma a questa gente non interessa la verità, e forse l'unico a cui poteva davvero interessare era proprio il giudice, che magari sperava di espiare con la morte le crudeltà che ha fatto in vita. Non gli è stato permesso, perché nel mio mondo anche la morte è una farsa.

Beh, almeno per lui, stavolta la farsa è finita.

 

Volevo andare alla scuola pubblica. Una volta l'ho persino detto, ma mia madre è bravissima a parlare mentre gli altri parlano: è il suo alibi per non sentire ciò che non le piace.

Volevo andare alla scuola pubblica non per ribellione adolescenziale da ragazzino ricco, ma solo perché nessuno mi avrebbe conosciuto e non sarei stato il figlio del giudice Avanzini – pace all'anima sua – e di quella santa donna di Serena Landi che presidia a tutte le attività mondane, benefiche e bigotte dell'intera provincia.

Io non posso permettermi di essere un adolescente rompipalle. Io sono un bravo ragazzo per partito preso. Nessun insegnante si sognerebbe di riprendere me.

Ma siccome non amo sostenere teorie non supportate da dati, ho fatto un esperimento. Ieri ho rubato. Ho preso il cellulare di quel fighetto idiota di Duccio Cecchi e l'ho nascosto nel mio zaino. So come vanno queste cose: ad un certo punto il professore ci ha obbligati a svuotare il contenuto di tutte le borse sui banchi, e la refurtiva è venuta fuori. È bastato il mio timido “Ma no, non è possibile, non sono stato io, perché avrei dovuto farlo?” che mi hanno subito creduto. Elia Avanzini non può essere niente altro che lo studente perfetto. Ed io posso approfittarne: posso ottenere quello che voglio essendo disonesto, manipolando gli altri, fingendo, ingannando. Posso arrivare quasi dove voglio, e la gente mi spianerà la strada. L'unica cosa che non posso fare è dire la verità.

Questo sarà il quaderno della verità.

 

All'esame di maturità, mi hanno chiesto Il Fu Mattia Pascal, “lo strappo nel cielo di carta”. Cosa succederebbe alle marionette di un teatrino di cartapesta se d'un tratto qualcosa bucasse il cielo? Probabilmente resterebbero lì, piene di dubbi, incapaci di portare a compimento la rappresentazione della propria vita: metafora pirandelliana della sensibilità novecentesca.

Vorrei che il mondo di mia madre, le sue cene di beneficenza, le sue serate con la gente che conta e la sua bella faccia da donna di chiesa che sostiene la comunità venissero spazzati via dal vento che passa attraverso lo strappo; vorrei che la bontà affettata di Vittorio, il suo comportarsi da padre surrogato, la sua gentilezza ad ogni costo, rimanessero congelate, a testa in su, a guardare.

Lo strappo nel cielo non è dramma, è salvezza. Non è tragedia, è opportunità.

Vorrei essere lo strappo nel cielo.

Vorrei diventare strappo.

 

Se questo è il quaderno della verità, allora è anche il quaderno di Olivia, perché lei è stata sempre vera, con me. Sono stato io a non esserlo, ma ciò che non era scontato era che lei lo accettasse, pur sapendolo. Con lei avevo sperato di poter imparare ad essere felice, ma non sono persona che persevera nel coltivare illusioni.

L'ho conosciuta perché faceva le pulizie in banca. Mi attardo spesso sul lavoro, senza ragioni particolari, a volte solo perché mi piace sentire il silenzio di uno spazio che è vuoto perché la gente se n'è andata. Casa mia è diversa: casa mia è vuota perché è vuota.

Mettevo Olivia in difficoltà occupando l'ufficio fino a tardi, e lei non osava disturbare. Abbiamo cominciato a parlare così; le facevo compagnia, mi trattenevo volentieri, quella dimensione mi era così estranea che era una parentesi nella noia.

Ma non credo che avremmo cominciato a frequentarci se non mi avesse detto di suo marito. Era finita in tribunale per averlo colpito con un piatto sulla testa, perché lui picchiava loro figlia. Alla fine, avevano dato ragione a lei. La trovavo eroica: una ragazzetta alta un metro e sessata, tutta ossa, che sollevava secchi e elettrodomestici più grossi di lei e cacciava il marito di casa a suon di botte. Ho pensato che se avessi avuto una madre così, la mia vita sarebbe stata tutta diversa, e che sua figlia era proprio fortunata.

È stata la mia prima donna, la prima con cui ho fatto l'amore, la prima per cui il corpo e la mente sembravano andare nella stessa direzione. Mi sono spaventato.

Con lei, non avevo la situazione sotto controllo, ed ho avuto paura di ciò che sarei potuto diventare privato del controllo di me. Ho avuto paura di mio padre, che non sapeva tenere a freno se stesso. Ho avuto paura del mio desiderio di ferire, distruggere, fare a pezzi le cose.

Ho fatto a pezzi un bicchiere di cristallo, davanti a Vittorio. Volevo fare a pezzi lui e il suo tavolino ben ordinato e quello sguardo immobile che invece di rassicurarmi, mi confermava nelle mie angosce.

Volevo fare a pezzi la mia vita, ma le schegge avrebbero colpito anche lei.

 

I miei giorni migliori sono stati quando ho chiuso la mia vita in casa e me ne sono andato senza portarla con me. Un mese intero, di cui non c'è traccia in queste pagine, perché quando si sta bene non si scrive. Scrivere – dice un poeta – è l'indizio d'un imperfezione.

Non ho avvertito nessuno, ho preso ferie ed ho detto che sarei partito per un tour dell'America del nord. Invece sono andato in stazione ed ho preso un treno per Torre del Lago, un posto che mi piaceva perché, con i miei compagni di liceo, ci ero andato a buttare il sale in mare, ai cento giorni.

Quella fu una delle giornate più oneste della mia vita: sulla spiaggia c'erano un sacco di altri ragazzi, gente che non sapeva nulla di me e neppure gli importava; ho scritto il voto sulla sabbia, ho gettato il sale, ho aspettato l'onda… ma non me ne fregava niente di quel voto. Non mi fregava niente dei mesi di studio che mi aspettavano: per me non era come per gli altri, per me non cambiava niente, la mia vita prima e dopo quel momento, o prima e dopo la maturità, non sarebbe cambiata. Ma quel giorno sì, quello cambiava. Nell'ebrezza del rito, del sole e della salsedine, eravamo davvero tutti stupidi ragazzi pieni di brufoli ed ormoni, che turbavano la quiete di una cittadina di mare, ed io mi sentivo nudo, proprio come se mi avessero tolto la maschera e mi avessero lasciato in mutande. La sensazione più simile alla libertà che io ricordi. Uno di noi aveva portato lo stereo con le casse; ascoltavamo i Pink Floyd, i Queen e Guccini e le immancabili parole cantate da migliaia di maturandi: questa notte è ancora nostra.

Come avrei voluto che fosse vero: un istante della vita ancora mio, mio, mio. Ma non mio soltanto. Un istante della vita mio e di una folla anonima che si sente parte della stessa cosa con me.

Ho lasciato le carte di credito a casa, ho affittato una stanza da un affittacamere, ho immaginato di dovermi cercare un lavoro, l'ho trovato, ed ho fatto il commesso stagionale in un bazaar sulla spiaggia, vendendo libri di dubbio gusto e occhiali da sole da checca a coppie gay che si tenevano per mano.

Poi Vittorio mi ha trovato. Anzi, mi ha fatto trovare. Come aveva fatto con Olivia. Si è giustificato dicendo che non riusciva a capire come mai mi fossi reso irreperibile ed era preoccupato e la sua preoccupazione si è fatta violenza, persecuzione, furto.

Ho abbandonato la mia vacanza, sono tornato a Firenze e ho dato le dimissioni.

Vittorio le ha buttate nel cestino, ed ha di nuovo tirato fuori mia madre, e il dispiacere che le davo, e quanti dispiaceri aveva già sopportato.

Con che coraggio? Con che faccia tosta?

Sarebbe bastato un suo gesto, uno solo, e quei dispiaceri avrebbe potuto impedirli!

Sarebbe bastato chiedersi, ogni volta che veniva da noi e sedeva a giocare a scacchi insieme al suo “migliore amico”, come mai alla donna che gli portava il tè tremassero le mani!

Sarebbe bastato porsi il dubbio che un bambino in salute non potesse cadere o ferirsi così spesso.

Ho desiderato di nuovo che s'arrabbiasse, ho desiderato sentirlo gridare almeno una volta. Ho desiderato poter litigare con lui, davvero: invece ho litigato da solo. Di nuovo.

Litigare da soli è terribile.

Così ho deciso di smettere. Ho deciso che non serviva più.

Ho lasciato che la mia vita andasse come avevano deciso che sarebbe andata. Il cielo di carta era troppo, incredibilmente in alto perché qualcuno lo rompesse, ed io non ci arrivavo.

Vittorio avrà pensato d'essere stato bravo a convincermi, con la sua calma e la sua pazienza.

Vittorio avrà pensato di aver fatto il mio bene, un'altra volta.

Vittorio non saprà mai quanto tutto questo faccia male.

 

Mia madre è malata: la diagnosi non lascia molte speranze, la malattia avanza velocemente e ogni giorno potrebbe essere l'ultimo in cui ricorda il mio nome. La buona norma dice che adesso dovrei sentirmi triste, e provare pena per lei, invece la sola cosa che riesco a pensare è che la malattia l'ha resa una persona migliore. Per quattordici anni ha lasciato che suo marito la torturasse e che picchiasse suo figlio sotto i suoi occhi, e non ha mai fatto niente. Non ha voluto difendermi: tra lui e me ha scelto lui, e solo perché scegliere lui voleva dire restare la rispettabile donna del rispettabile giudice; scegliere me significava confessare che il giudice non era così rispettabile e, chissà come, le pareva che questo portasse a fondo anche lei. A volte penso che potevamo salvarci, che io potevo essere diverso, che avevo una possibilità: ma ci sarebbe voluto lo strappo nel cielo – uno strappo, anche piccolo, che permettesse di far fermare Oreste a guardare su, senza più le sue belle certezze, ma forse con una nuova opportunità, con la chance di non essere Oreste per sempre, di non doversi vendicare per sempre.

Io vorrei non essere Elia Avanzini per sempre.

Vittorio prova i sentimenti che non provo io: vede mia madre sbiadire, e vorrebbe poterla trattenere.

Ma non lo fa.

Vittorio non ha mai allungato una mano per trattenere nessuno, perché per farlo bisogna saper gridare.

Vittorio, non sai che mia madre è un'infelice, che lo era anche prima, e che la malattia stempera la sua infelicità in una nebbia densa dove tutte le emozioni durano solo per pochi secondi? Non è preferibile un'infelicità di pochi secondi all'infelicità di una vita?

Forse tu avresti potuto aprire lo strappo: avresti potuto amarla, per esempio. Ma non lo hai fatto. Perché per amare lei avresti dovuto riconoscere che il tuo migliore amico era il bastardo che era, perché non si costruisce amore su fondamenta di non detto.

Cosa pensavi di Bernardo Avanzini? Ho provato a chiedertelo, quella volta che mi sono arrabbiato con te, quella volta che ho rovesciato un bicchiere di champagne, e le persone si sono girate, e tu ti sei sentito in imbarazzo. Te l'ho chiesto, e non hai capito, o non hai voluto capire.

Ti ho chiesto di difenderlo o di ripudiarlo. Non hai fatto né una cosa né l'altra.

Ma non parlando hai parlato: hai riconfermato la sua presenza tra me e te, definitiva, immensa, come lo è sempre stata. Io non sono tuo amico: tu sei amico del “grande giudice”. Ma non sono neanche tuo figlio, perché, ohimè, sono figlio suo.

Cosa vuoi ancora dalla mia vita, se non riesci nemmeno a lasciarmi gridare?

Se qualcuno mi avesse insegnato a gridare, forse sarei un po' più onesto e un po' meno infelice.

Invece, io che volevo essere strappo, io che volevo essere fuoco e vulcano, sono rimasto intrappolato nella mia vita. Sono diventato il figlio che mia madre voleva. Sono diventato l'uomo d'affari che Vittorio voleva. A volte vorrei morire, per rinascere sotto un cielo strappato.

 

Oggi sono diventato amministratore delegato della ***. Giorno di gloria per Vittorio De Nistri, che ha portato il suo pupillo fino alla vetta. Giorno di felicitazioni, strette di mano, regali che sottintendono promesse per il futuro, o timore di una minaccia.

Io sono una minaccia. Voglio esserlo. Voglio essere cattivo.

Ma la gente sorride a Elia Avanzini, l'imprenditore più giovane sulla piazza, brillante, versatile, invincibile, sempre sulla cresta dell'onda, e muore dalla voglia di ricevere considerazione da lui.

A volte mi domando cosa sanno davvero di me. Se, dietro quei sorrisi ossequiosi, sono consapevoli di cosa sono io, di cosa ho fatto o potrei fare, di quanto la vita di ognuno di loro per me conti meno di una cicca di sigaretta schiacciata sulla strada, di quanto li trovi inutili e insignificanti, di quanto la loro civetteria non mi tocchi, di come la loro meschinità non mi sfiori.

Se sanno che avrei voluto spingere io mio padre giù dalla finestra.

Me lo domando e vorrei rispondermi che no, non lo sanno, e semplicemente sorridono per essere gentili.

Lo vorrei, perché mi farebbe pensare per una volta che nel mondo c'è speranza. Che io ho speranza. Ma so che non è così. Siamo animali fatti d'istinto di sopravvivenza, e sappiamo percepire benissimo cosa c'è di perverso nell'altro e da cosa ci si deve difendere. Abbiamo solo imparato che non sta bene dirlo.

Così, io so che la gente che incrocio ogni giorno si guarda da me, e sente la distorsione che ho addosso.

Ma quando sarò morto, sarò un uomo meraviglioso, di cui tutti tesseranno le lodi, e che tutti piangeranno.

Come mio padre, che tutti lo stimavano, e nessuno sapeva.

 

Vittorio: come potevi non sapere?

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Forse stava commettendo un enorme sbaglio. Forse Vittorio non glielo avrebbe perdonato. Forse non aveva capito niente, e si sarebbe fatto ammazzare.

Ma aveva bisogno di sapere. Aveva bisogno di guardare il diavolo negli occhi, e trovarci la persona che aveva letto. Voleva credere che quella persona esistesse ancora e che il diavolo non se la fosse mangiata. Aveva bisogno di crederci, perché solo così le cose sarebbero tornate a posto, compreso il suo essere lì, compreso l'essere diventato un altro, compreso l'aver abbandonato i suoi cari. Compreso Vittorio.

L'autostrada si srotolava veloce sotto le ruote.

L'aveva combinata grossa, aveva ingannato De Nistri, aveva eluso la sorveglianza che in qualche modo gli era sempre alle costole, ed ora guidava da solo, in direzione Torre del Lago.

Erano anni che non guidava. Per qualche minuto la mente andò dietro al ricordo del giorno in cui aveva preso la patente, esercitandosi con la macchina di suo padre. La stessa macchina che aveva ucciso un uomo e gli aveva portato via la mamma. Ma quando aveva diciott'anni, quella macchina era ancora un miraggio d’indipendenza, era l'idea di una ragazza seduta sul sedile di fianco, di baci notturni scambiati in un angolo buio di monte Morello, di gite al mare con gli amici.

Invece non aveva mai guidato fino al mare.

Si sforzò di sorridere a se stesso, assaporando il gusto della prima volta.

Gli sarebbe piaciuto avere Ana e Andrea con sé, per vederli correre sulla spiaggia. Immaginò Ana con un due pezzi giallo, il suo colore preferito, bella come sua sorella maggiore quando erano ancora ragazzini, loro due soli, e qualche volta si erano potuti permettere una vacanza. Ad Ana sarebbe piaciuto il mare: era accogliente come lei. Anche ad Andrea sarebbe piaciuto: era ribelle come lui. Ed era morbido e vasto come l'anima di Alba. Il mare era un fratello.

 

Rimase in piedi lunghi minuti davanti a quel campanello senza nome.

Se avesse suonato e la porta non si fosse aperta, allora niente avrebbe avuto

Se invece lo avesse fatto, il suo intero mondo sarebbe stato di nuovo in piedi sul crocevia.

Cosa era andato a fare lì? Voleva davvero addomesticare il diavolo? Farci amicizia?

Pensò che, se un giorno tutti i sorrisi gratis avessero dovuto tornagli indietro, quello era il momento in cui gli sarebbe stato utile che lo facessero.

Lo dovevano fare.

Raccolse quell'idea sulla punta del dito e suonò.

 

Gli occhi di Elia Avanzini lo fissarono storditi, un po' spenti, come offuscati.

Poi si accesero, insieme alla sua voce.

- Che cazzo… Cosa ci fai qui? -

- Ti ho cercato. So che avrebbe dovuto essere Vittorio, ma… -

- Cosa c'entra Vittorio? Vittorio doveva credermi morto, se tu non avessi fatto lo stronzo! -

Artin fece un passo indietro per guardarlo: senza giacca e cravatta, affacciato sulla porta di una casa che perdeva l'intonaco, coi capelli un po' più lunghi e la piccola ruga che accompagnava un lato della sua bocca, sembrava davvero il suo gemello.

- Non fare la commedia, so che sei felice che io sia vivo! -

Elia fece per aprire bocca, ma Artin lo precedette.

- All'inizio mi sentivo quasi in colpa. Pensavo di aver tradito un patto, ed io non avevo mai tradito. Ma poi mi sono reso conto che non ti devo proprio niente, perché io non ti ho dato solo la vita: io ti ho dato molto di più. Ti ho dato tutto quello che sono stato, e pure quello che sarò. Ti ho dato i momenti vissuti coi miei fratelli, ti ho dato le sere passate a gridare su una pensilina pedonale, ti ho dato la rabbia verso mio padre e il sorriso gratuito di mia madre, ti ho dato la sua dolcezza e i suoi consigli, e la pena di vederla morire giorno per giorno. Ti ho dato i mille futuri possibili di Artin Dorsi. Tutto questo vale molto più di ciò che ho avuto io da te, e per questo ora voglio capire. Voglio capire cosa farai di quello che ti ho venduto. Perché la storia del disastro finanziario è una stronzata, Elia, come sono stronzate le tue finte belle maniere, e la tua sicurezza di te e il tuo sorriso di carta! È tutta un'immensa balla, ed io devo sapere. Ne ho diritto! -

- Hai finito? - Elia Avanzini lo guardava senza muovere un muscolo del viso.

Artin tacque.

Era come se quello sfogo lo avesse svuotato: tutto ciò che desiderava dirgli si era rovesciato fuori, come acqua da una enorme falla, ed ora si sentiva stanco, senza più parole.

- È vero. – disse allora Elia - Sono felice che tu sia vivo -

Non sorrideva. Nemmeno un'ombra di quel suo sorriso pallido, distaccato e bellissimo, che era la prima cosa che lo aveva colpito di lui, e la sola che non era mai riuscito davvero a imitare.

Quel sorriso con cui aveva conquistato un impero, e dietro cui non c'era niente.

Assolutamente niente.

- Ti sarai chiesto quale mostro abbia potuto chiederti una cosa del genere. Ma forse ti sei dato la tua risposta. Perché se tu sei qui, hai trovato il quaderno della verità. E quindi già lo sai: io non riesco a provare emozioni. Io, di fronte al dolore o alla gioia, non provo niente. Sono un guscio vuoto. Non amo. Non odio. Non mi affeziono. Mio padre era così. Ed io, che volevo essere altro, sono così: ho sempre pensato che non ci fosse altro modo di essere che questo, e che fossero gli altri a fingere, perché nessuno intorno a me riusciva a mostrarmi il contrario, né ad accorgersi di quanto io fingessi. Ma quel mattino, quando ho saputo che il piano era andato male, e che tu eri vivo, mi sono sentito bene. Ho avuto voglia di alzarmi, di fare cose, di vivere quel giorno come un giorno diverso dagli altri giorni. Perciò ti sono grato. -

Non sorrideva, ma c'era qualcosa nei suoi occhi di più bello di un sorriso: c'erano disperazione profonda e senso di impotenza, c'era voglia di piangere e di gridare, c'era una vita chiusa in una palla di vetro, c'era tutto l'Elia Avanzini di quelle pagine di diario, che nessuno, prima di allora, aveva mai potuto conoscere. Un uomo che si era convinto di non provare emozioni per paura che diventassero finte, come tutto il mondo che lo circondava.

- Non è vero un cazzo. – sentenziò Artin.

- Cosa… ? -

- Non è vero che non provi niente. Nel quaderno della verità, c'era la verità. Io l'ho sentita. Non è vero che non ami e non odi: ami ed odi Vittorio, ami ed odi tua madre, disprezzi il mondo in cui vivi ma ti fa paura staccartene, perché non sapresti gestire le conseguenze dei tuoi gesti e hai paura delle tue stesse reazioni. Così ti è venuta questa idea imbecille di ucciderti… e forse ti saresti ucciso davvero, se non ci fosse stato qualcosa che ti stava a cuore più di tutto il resto: vedere cosa avrebbe fatto Vittorio dopo la tua morte. Vedere se avrebbe avuto il fegato di comportarsi come al funerale di tuo padre, oppure se avrebbe detto la verità. Se avrebbe mostrato al mondo il vero Elia. Per questo hai nascosto il tuo diario tra i cuscini del divano, e per questo non potevi morire davvero. Perché era il tuo solo modo di scoprire se Vittorio avrebbe scelto te o la finzione. Per darti una chance di avere un affetto onesto. -

Elia sbatté un pugno sul muro. Il furin appeso sulla porta tintinnò.

Soffiasse davvero quel vento di scirocco…

- CHE COSA NE SAI? - gridò – CHE COSA NE SAI, TU!?! -

Artin vide gli occhi del suo gemello diventare vividi, la faccia era un'esplosione: era strappo e vulcano, ora.

- Tu non puoi sapere cosa significa passare una vita senza poter confessare a nessuno cosa ti è stato fatto: non perché non ti crederebbero, ma perché lo farebbero, e poi fingerebbero di non crederlo! Hai mai desiderato uccidere qualcuno? Tu, con la tua gentilezza gratuita, e questo amore testardo per un mondo che ti calpesta tutti i giorni, hai mai provato davvero la rabbia? Hai mai voluto distruggere tutto? Forse si, magari… e forse hai urlato, e fatto a pezzi qualcosa, e hai trovato qualcuno che ha raccolto quelle grida. Per me non c'era mai nessuno! Da questa parte di mondo, ero completamente solo. Vuoi che ti dica che volevo vedere Vittorio piangere la mia morte? È vero! Vuoi che ti dica che speravo che trovasse il mio diario, e provasse tanto, tanto rimorso? È vero! Sono un bastardo per questo? Si, e non me ne frega un cazzo! Lui lo meritava! -

- Elia… -

Non aveva nulla da opporgli. Solo il suono del suo nome, del nome che gli era capitato in prestito, ma che non era suo: apparteneva a quell'uomo infelice, che forse non lo aveva mai sentito pronunciare nel modo giusto, se aveva deciso di sbarazzarsene.

- Non mi sento in colpa verso Vittorio, non mi sento in colpa verso mia madre, verso mio padre, verso chi ho fregato, chi ho manipolato, chi ho scavalcato! Loro hanno creato le condizioni perché questo avvenisse! Tutti loro lo meritavano: tutti! -

- Elia. -

- Ho cercato di darmi una possibilità, ma già sapevo che non avrebbe funzionato, ed ora che tu sei qui davanti alla mia porta, vedo tutto andare in pezzi! -

- Elia. -

- Il mio mondo va in pezzi, le mie macchinazioni vanno in pezzi, la realtà va in pezzi, io vado in pezzi. Finalmente! -

Artin gli appoggiò le mani sulle spalle.

Elia scoppiò a piangere.

 

Quando si dissero addio davanti alla macchina, il vento soffiava forte: forse non era vento di scirocco, ma bastava per rendere la realtà abusata abbastanza irreale.

- C'è una cosa che vorrei chiederti .– disse Elia - Io ti ho prestato la mia vita, e tu sei riuscito a farci quello che a me non era mai riuscito. Qual è il trucco? -

- Mm… penso la corrente. -

- La corrente? -

- Sì. Quando le circostanze ti cadono addosso e ti trascinano, c’è modo e modo di esserne trascinati. C’è chi si dispera nuotando contro, e c’è chi decide di viversela, quell’ondata di acqua che ti porta via e di nuotare nella stessa direzione, per vedere dove ti porterà. Perché poi, alla fine, non importa il come o il dove. La vita a volte è solo merda. A volte lo è anche la gente. E attraversare le cose è dolore, ma ci metti la tua faccia, è così che va. Se qualcuno vuole trafiggerti con una spada, tu puoi chiedere al tuo petto di aprirsi a quella spada. Io ho deciso di fare così. -

Elia scrollò dolcemente la testa.

- La nostra storia sembra il luogo comune dei soldi che non fanno la felicità. -

- Già. E invece è proprio quel che non è. La verità è che non ha alcuna importanza chi sei, dove stai, quanti soldi hai. Le cose per cui gli uomini soffrono, sono le stesse dappertutto. Così come quelle per cui si è felici. Credimi, siamo tutte creature fottutamente simili. Solo che ciascuno di noi sente le cose in modo diverso, e per questo non possiamo fare a meno di ferirci ed essere feriti. -

Il mondo intorno a loro sembrava fermo. Trasparente.

- Mi fa paura, sai? Mi fa paura quanto, per evitare quelle ferite, riusciamo quasi a scomparire. In tanti anni, io sono lentamente scomparso dietro a Elia Avanzini e quando mi sono reso conto che ormai non mi vedevo più, sono scappato. Il quaderno della verità è tutto quel che resta di me. Mi sento così invisibile che chiunque potrebbe schiacciarmi con un piede senza accorgersene. -

Artin abbozzò un sorriso lieve.

- Allora devi fare come farebbe la pulce. -

- Cosa? -

- È una storia vecchia, ma il modo di dire mi piace. Quando ero al liceo, una volta, scrissi in un tema che mi sembrava di contare per la società poco di più che un verme che attraversa un marciapiede, e che può essere spappolato sotto una scarpa da un momento all'altro. Un mio insegnante mi disse che non dovevo piangermi troppo addosso, che questa non era una prerogativa solo mia: che un po' tutti noi siamo (per la società, per il destino, e quant'altro) poco più che vermi che attraversano il marciapiede. Tuttavia, noi possiamo scegliere di non essere sempre un verme, ma anche di essere una pulce, e saltare. -

- Essere una pulce… e saltare? -

Elia si lasciò sfuggire una mezza risata.

- Già. - Artin mimò il gesto sul posto, con un leggero sollevamento dei piedi - Saltare! -

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Questa è il quaderno della verità di Elia Avanzini.

Io mi chiamo Artin Dorsi, ed Elia mi ha passato la sua vita.

Per lui imparerò a non scomparirci dietro.

E per Vittorio imparerò a restare.

 

Dopo averlo salutato, mi sono fermato a comprare dei fiori: tanti, di tutti i colori possibili, ma soprattutto bianchi, perché il bianco è il colore della trasparenza.

 

È buio quando arrivo sotto casa di Linda.

Fa freddo, sta piovigginando, eppure tutto il mondo profuma, sugli alberi e nei prati è esplosa la primavera, e mi sembra d'aspettarla da anni.

Penso ai capelli di Linda sotto la neve, penso al maglione troppo largo di Ana, a quando ci hanno staccato il riscaldamento, alla lotta silenziosa di Alba, alla ribellione di Andrea. Penso alla canzone che ascoltavamo quella sera.

Vorrei che fosse oggi in un attimo già domani, per iniziare, per stravolgere tutti i miei piani, perché sarà migliore, ed io sarò migliore, come un bel film che lascia tutti senza parole.

Voglio essere dentro quel film, voglio essere qui, sotto la finestra di Linda, con questo mazzo di fiori in mano.

Voglio che si affacci.

La chiamo al telefono.

“Linda, sono Artin.”

Pronuncio il mio nome: è il nome che mia madre ha scelto per me, ed io lo amo. È un nome che viene da una terra dove il cielo è azzurro d'inverno. Anche il mio nome è trasparente.

“Sono sotto casa tua.”

Non risponde, ma la luce della sua finestra si accende.

“Mi dispiace, Linda. Io non Elia: non posso esserlo, non gli somiglio. Ma ho desiderato che lui somigliasse a me, e fosse più felice. Perché se Elia non ti amava, non era per mancanza d'amore, ma perché non riusciva ad essere felice. Io, invece, sono un uomo felice. Sono felice che Elia mi abbia dato l'opportunità di sacrificare me stesso per salvare i miei fratelli, sono felice che questa pioggia mi stia bagnando, sono felice del profumo della pioggia sull'asfalto, sono felice che Vittorio si fidi di me, e sono felice di averti visto comparire in ufficio quel mattino, piena di emozioni in pressione, come una piccola teiera che fischia. Sono felice che tu abbia creduto in me, in me, non in Elia, perché è me che hai sentito dire la verità, perché è con me che hai fatto l'amore, e perché io posso innamorarmi di te.”

 

Guardo la finestra illuminata, sola, al quarto piano.

Un po' di gente guarda me, sotto la pioggia con un mazzo di fiori in mano.

Non capirà.

Non lo posso pretendere. Non è stata nelle mie scarpe, nella mia vita.

Non lo accetterà mai.

 

La luce si spegne, la facciata rimane muta.

 

Poi nell'ingresso si accende un'altra luce, e la porta si apre.

C'è Linda, in pigiama, coi capelli spettinati, gli occhi azzurri come la primavera, bellissima.

C'è Linda, mi viene incontro e sta ridendo!

Ride, mi prende in giro, mi chiama per nome – il mio nome! - mi abbraccia, mi bacia.

Io la bacio.

E tutto comincia a cambiare.

 

La barchetta ora è in pace, cullata dal fiume.

Io sono la corrente.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Marta Curiello non riuscì a trattenere l’entusiasmo quando vide Artin andarle incontro con una scatola intera di gelatine di frutta, confezionate in una carta lucida e un grosso nastro giallo. Non si soffermò a pensare cosa gli fosse successo in tutti quei mesi: era solo felice di vederlo vivo.

Elia entrò nel reparto, camminando lentamente attraverso i corridoi del dolore silenzioso, attraverso vite appese alla speranza di altri, e a volte forse solo alla propria. Ma un uomo in coma può sperare? Ad un passo pensava che no, che se la consapevolezza si spegne, si spegne anche tutto il resto; al successivo sperava di sì, come se quei lunghi sonni fossero il suo sonno, come se anche per lui ci fosse aspettativa di risveglio.

Si sedette accanto a Eneda Dorsi, e si accorse che non riusciva a sorridere.

Ne fu felice.

Il suo vecchio sorriso era perso, e un giorno, forse, ne avrebbe avuto uno nuovo. Un po' più simile a quello del suo gemello.

Artin non aveva strappato il cielo: aveva semplicemente visto lo strappo e ci aveva puntato il dito, mostrandolo a tutti. Ora quel buco nella carta non poteva più essere ignorato: si doveva solo scegliere come guardarlo.

Lui avrebbe voluto vedere cose c’era di là, ma per riuscirci ci voleva un grande salto.

Osservò Eneda con dolcezza e vide la fronte di Artin, il naso di Artin, e, dietro le palpebre chiuse, immaginò gli occhi di Artin. La sua fronte, il suo naso, i suoi occhi. Sua madre.

- Sai… - disse - ultimamente penso spesso alla storia del verme e della pulce. Ci penso ogni volta che mi alzo. “Sei una pulce” mi dico “sei una pulce. Salta. Salta!” E allora… comincio a sentire. Sento l’energia delle mie gambe, sento il vento che mi accarezza mentre spicco il volo, sento che mi alzo ed il cielo si avvicina, e poi sento le mie gambe che tornano stabili sul suolo, e le vibrazioni del loro impatto col terreno. Sento tutta la pericolosità di quel salto: so che un giorno potrei mettere un piede in fallo e cadere, o solo non prendere lo slancio abbastanza in tempo ed essere schiacciato. Ho paura tutte le volte. Ma c’è energia in questo. Finalmente la sento, e con lei so che posso imparare a sentire, piano piano, anche tutto il resto. Ma per farlo ho bisogno di te. Ho bisogno di una madre che mi insegni. -

Elia guardò il cielo fuori dalla finestra diventare scuro e pensò che voleva accendere la lampada sul comodino, perché - anche se si dorme - è bello sapere che esistono modi di illuminare la notte.

 

Eneda aprì gli occhi.

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