Walk of Life - Adulthood

di Kimando714
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Time dies ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Progress ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Keep the faith ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Can't hear you now ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Ave atque vale ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Fernando ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - The truth untold ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Spring day ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Tonight ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Tear ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Life must go on ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Ballad of the lonely hearts ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Hurricane ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Hope is a dangerous thing ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - In mille pezzi ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Euphoria ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - Like I never loved you at all ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Per dimenticare ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - God bless America (Pt. 1) ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 - God bless America (Pt. 2) ***
Capitolo 21: *** Capitolo 18 - God bless America (Pt. 3) ***
Capitolo 22: *** Capitolo 19 - Blue side ***
Capitolo 23: *** Capitolo 20 - Wawing goodbye ***
Capitolo 24: *** Capitolo 21 - Ocean eyes ***
Capitolo 25: *** Capitolo 22 - Cruel world ***
Capitolo 26: *** Capitolo 23 - You never walk alone ***
Capitolo 27: *** Capitolo 24 - This is me ***
Capitolo 28: *** Capitolo 25 - Stay ***



Capitolo 1
*** Prologo - Time dies ***


DISCLAIMER
Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale. I nomi dei personaggi e dei luoghi sono di nostra invenzione, e ci scusiamo in anticipo per qualsiasi omonimia non voluta.
I diritti di questa storia appartengono esclusivamente alle sue autrici. In caso di plagio et similia, non esiteremo a ricorrere per vie legali. Uomo avvisato, mezzo salvato
😊
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We’re back!
Siete pronti ad iniziare il lungo viaggio che sarà questa terza e ultima parte della serie di Walf of Life? Per rinfrescarvi un po’ le idee vi lasciamo dei brevi riassunti di Youth e Growing, se ci avete seguito già dalle prime due parti. Ovviamente, se doveste aprire questa storia senza aver letto le prime due parti della serie, nulla vi vieta comunque di proseguire nella lettura, anche se potreste perdervi qualche collegamento e alcuni particolari. 
Infine, vi ricordiamo che potrete trovarci su Instagram come @kimando714 e su Facebook come Chiara Gioiagrigia (https://www.facebook.com/profile.php?id=100089602535826) per rimanere aggiornati sulle nostre pubblicazioni. Abbiamo inoltre aperto anche la playlist su Spotify per questa nuova storia, che verrà aggiornata man mano (https://open.spotify.com/playlist/4rD3aEh6aZMKKV2YQDRm1V?si=2acb4ae1318642a4).

Previously on Youth:
Giulia, Filippo, Caterina, Nicola, Pietro e Alessio sono un gruppo di sei aamici che, per casualità o per destino, si sono conosciuti a scuola. Durante questi anni molte cose sono successe e finalmente, dopo un anno di "separazione", anche Giulia e Caterina sono approdate in quel di Venezia, come i ragazzi avevano già fatto l'anno precedente ... Ed è proprio qui che ci eravamo lasciatiGiulia e Caterina si stanno ambientando nella nuova vita universitaria e lagunare; Filippo e Nicola danno loro una mano; Alessio è determinato e vuole raggiungere il suo obiettivo, ovvero fare carriera; infine Pietro invece fatica a convivere con le proprie emozioni e il proprio orientamento.
 
Previously on Growing: 
Passano gli anni e i “Magnifici 6” continuano a crescere in quel di Venezia. In questi anni sono due le principali sfide affrontate, con sentimenti e reazioni distinte, da tutte le coppie: la convivenza e il diventare genitori.
Aprono le danze della genitorialità Caterina e Nicola: la paura e la voglia di scappare si fanno sentire, ma la voglia di riunirsi e superare insieme queste nuove responsabilità ha la meglio.
Giulia e Filippo, invece, dopo un gioioso inizio di convivenza, ed essere sopravvissuti alle avventure matrimoniali (con tanto di ospite a sorpresa!), vedono la propria famiglia raddoppiare. La nascita delle gemelle, però, porta tensione tra la coppia più romantica sul mercato.
Anche Alessio e Pietro, con le rispettive compagne, non si fanno attendere. Dopo un iniziale malessere, un confronto con il proprio passato stravolge, in positivo, Alessio e il suo essere padre. Pietro, invece, piuttosto che affrontare i dilemmi derivanti dal suo orientamento sessuale e da quello che potrebbe nascere con Fernando, sceglie inizialmente la strada apparentemente più semplice: la convivenza con Giada. Quando, con il tempo, capisce di non poter e voler cambiare quello che è o quello che prova, la nascita di un figlio cambia le sue priorità, portandolo a chiedersi come sarebbe stata la sua vita se avesse preso scelte diverse e il tempismo fosse stato dalla sua.

E detto ciò, vi lasciamo al prologo di Adulthood e alle note a fine capitolo!😎
 


PROLOGO - TIME DIES
 

“Los laberintos
que crea el tiempo
se desvanecen.
(Sólo queda
el desierto)
El corazón,
fuente del deseo,
se desvanece.
(Sólo queda
el desierto)
La ilusión de la aurora
y los besos,
se desvanecen.
(Sólo queda
el desierto.
Un ondulado
desierto)”

Federico Garcìa Lorca, "Y después"
 


Erano giorni freddi, il gelo dell’inverno che calava la sua scure – e il vento bianco e gelido continuava a soffiare, il manto etereo e candido della neve che ricopriva ogni cosa, ogni angolo remoto, ogni ponte.
Poi venne la pioggia, a sciogliere le ultime tracce della tanaglia dell’inverno. Abbeverò ogni radice, la linfa della vita che tornava a scorrere forte e vigorosa. Le piogge vennero a mancare con l’arrivo del caldo, della torrida brezza sotto i raggi cocenti del sole di mezzogiorno; l’aridità e la canicola non mollarono la loro presa.
Tornarono i venti, sempre più freddi, e con loro portarono di nuovo i temporali e i cieli dal manto plumbeo e scuro.
Calò di nuovo la lunga notte, con i suoi minuti interminabili e il tempo che sembrava sparire. L’attimo più lungo sarebbe stato quello che avrebbe preceduto il primo nuovo raggio di luce.
 
*
 
“Il mio cuore angustiato
Avverte alle prime luci
La pena del suo amore
E il sogno di lontananza” [1]
 
L’aria di Luglio era soffocante, a tratti fastidiosa nonostante l’aria fresca che arrivava dal climatizzatore lasciato acceso nel salotto.
Il caldo poteva essere soffocante, ma l’atmosfera che respirava in quella casa non era opprimente. Non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello che aveva vissuto lei, un anno prima, e di questo era felice. Era felice per Ilaria, nel modo sincero e disinteressato che poteva essere l’affetto verso una sorella.
Più la guardava stesa a letto, ancora vagamente dolorante e stanca dopo pochi giorni dal parto, e più Giulia si rivedeva in lei.
E non ci si rivedeva.
Era un costante contrasto, ricordi agrodolci e sensazioni che a lei erano toccate prima di sua sorella e che conosceva meglio.
Si riconosceva nel sorriso affaticato ma raggiante che continuava a rivolgere al nascituro, in quella stanchezza gioiosa che Giulia aveva provato allo stesso modo. Forse in Ilaria c’era anche il disorientamento, la confusione e la paura per quella nuova vita che teneva tra le braccia, delicatamente. Se fosse stato così, Giulia avrebbe voluto rassicurarla dicendole che era normale, che all’inizio si è sempre più spaventati. Poi ci si fa l’abitudine, anche se per quante cose puoi imparare a conoscere, ne rimarranno sempre un centinaio e più sconosciute che ti spaventeranno sempre.
E poi sapeva che sua sorella, in Ettore, il compagno di una vita, avrebbe potuto trovare un punto di riferimento, qualcuno su cui contare. Non era da sola.
Non quanto si era sentita lei con Filippo, accanto e così lontano come non lo era mai stato allo stesso tempo.
In questo poteva dire di non assomigliare a sua sorella: lei non sarebbe stata inascoltata, lasciata a se stessa. Non di certo quanto ci si era sentita lei.
Le cose potevano essere migliorate, Filippo poteva anche essere più o meno tornato quello di sempre, l’uomo che aveva sposato – ma quel silenzio che avevano accompagnato quei mesi, dell’anno passato, non lo avrebbe mai dimenticato.
Aveva imparato a convivere con quel ricordo, con la sua presenza tagliente che se ne stava sempre appena sotto la superficie.
Temeva sempre che potesse tornare a galla, da un momento all’altro, senza alcun preavviso.
-Stai bene?-.
Giulia si riscosse, quando sentì il calore della mano di Filippo posarsi sulla sua spalla, con delicatezza. Si girò a guardarlo, annuendo e cercando di sorridere:
-Sì, sto bene- gli disse, posandogli sopra il dorso la sua stessa mano – Le bambine?-.
-Sono di là in salotto a spassarsela- le rispose lui, ridendo – Non sembrano essere molto interessate al loro nuovo cugino-.
L’unica cosa a cui erano interessate Caterina e Beatrice, a un anno e cinque mesi d’età, era solo combinare più guai possibili nel minor tempo a disposizione. Erano estremamente vivaci entrambe, anche se, se prese singolarmente, Beatrice riusciva a contenersi più della sorella.
-Meglio che vada a sorvegliarle- aggiunse subito Filippo, lanciando una veloce occhiata ad Ilaria e Ettore, che per ora stavano prestando attenzione solo al figlio neonato – Non è il caso che distruggano casa di tua sorella e tuo cognato-.
Filippo sembrava essere riuscito ad entrare più in confidenza con le figlie solo quando erano finalmente cresciute abbastanza per smettere di piangere la notte, ed essere totalmente dipendenti da lui e Giulia ad ogni ora del giorno. Per quanto la cosa la facesse sentire sollevata, Giulia non riusciva a non dirsi amareggiata almeno in parte per quella consapevolezza.
Osservò Filippo mentre tornava di nuovo in salotto, prima di avvicinarsi a sua sorella, sedendosi a sua volta dall’altro lato del letto. Sorrise a suo nipote Davide, ancora troppo piccolo per rendersi conto di quel che succedeva intorno a lui.
-Che succede?- le chiese sua sorella, sollevando gli occhi su di lei con aria confusa. Per una volta, da più di un anno a quella parte, Giulia non ebbe il timore di non sembrare convincente mentre le rispondeva:
-Nulla, solo le gemelle che sono in una fase particolarmente esuberante. Filippo è andato a tenerle d’occhio prima che vi riducano casa in una zona di guerra-.
Con sua sorella non c’erano mai stati segreti, di nessun tipo. Giulia ancora non riusciva bene a spiegarsi perché non fosse riuscita a dirle, nemmeno una volta, di quanto le cose con Filippo si fossero trasformate dopo la nascita delle figlie.
Forse l’odore di fallimento era ancora troppo forte anche in quel momento, quando le cose si stavano riprendendo, per riuscire a lasciarsi andare a confidenze del genere con sua sorella.
-Speriamo che il piccolo non somigli alle cuginette- commentò Ettore, ridendo.
Giulia si ritrovò ad annuire, ma con aria ben più grave di quel che avrebbe voluto:
-Speriamo che almeno lui di notte dorma-.
Allungò una mano, accarezzando dolcemente i capelli ancora corti di Davide. Erano castani come quelli di Caterina, totalmente differenti dal biondo scuro di Beatrice. Lo osservò mentre sbatteva le palpebre un paio di volte, forse combattendo contro le prime avvisaglie di stanchezza.
A Giulia ricordò una volta in cui, entrambe le gemelle, quando ancora non avevano nemmeno sei mesi, avevano lottato con tutte le loro forze per non cadere addormentate. Non rammentava più chi delle due stava cullando lei – e chi invece fosse affidata a Filippo-, ma ricordava bene quel che aveva pensato in quel momento: era possibile per loro, seppur così piccole e ingenue riguardo il mondo, percepire, comprendere, che qualcosa nella loro famiglia non andava?
Era stata una domanda, seppur stupida, che aveva tormentato Giulia per lungo tempo.
-Ehi- sua sorella richiamò la sua attenzione, studiandola attentamente – Ma sei sicura di stare bene?-.
Giulia cercò di sorridere – ancora non riusciva a togliersi l’abitudine di fingere di essere serena neppure quando non lo era davvero-, rassicurante:
-Sì-.
Annuì, come a voler dimostrare ancor di più la veridicità di quelle parole.
-Sto bene-.
Quanto sarebbe durata, però, ancora non le era dato sapere.
 
*
 
“Il sepolcro della notte
Innalza il suo velo nero
A occultare nella luce
L’immensa cima stellata” [2]
 
La stagione d’autunno non era mai stata più gradita, addirittura amata, come in quel giorno di metà Settembre. Il sole aranciato del tardo pomeriggio rifletteva i raggi sui suoi capelli corti, facendoli rilucere come oro colato.
Anche i fili d’oro di Nicola risplendevano, facendolo sembrare, con i suoi tratti delicati e i grandi occhi blu, quasi un cherubino. Quando Alessio gli si avvicinò, arrivandogli finalmente di fronte, Nicola lo osservò attentamente, quasi a voler cogliere qualsiasi segnale che potesse dirgli qualcosa in anticipo. Era sicuro, Alessio, che il suo sorriso trionfante non lasciasse adito ad alcun dubbio.
-Allora? Come è andata?- gli chiese Nicola impaziente.
Alessio non rispose subito. Si prese qualche secondo d’attesa, pura adrenalina che gli correva nelle vene, dritta al cervello. Fu quando Nicola meno se l’aspettava che spostò la mano da dietro la schiena, sventolando davanti a Nicola il contratto d’affitto appena firmato.
-È fatta!-.
Si fermò solo per permettere a Nicola di prendere in mano a sua volta i fogli, per constatare senza alcuna ombra di dubbio la siglatura del contratto.
-Sembra che abbia ufficialmente preso in affitto metà ala del secondo piano del palazzo-.
Nicola alzò gli occhi dai fogli con un sorriso contento a disegnarli le labbra piene:
-Ora non ti rimane che riempirlo di scrivanie e di gente-.
Alessio si ritrovò a passarsi una mano sul viso, anche se non si sentiva davvero disperato come voleva far credere in quel momento:
-Come se fosse poco-.
La verità era che non vedeva l’ora di cominciare. Sapeva bene che all’inizio sarebbe stata tutta in salita, che i dipendenti sarebbero stati pochi e che prima doveva farsi conoscere in giro, ma anche davanti a tutte quelle difficoltà stava riuscendo a stento a trattenersi dal mettersi a saltare per l’euforia.
-In ogni caso vale la pena festeggiare- Nicola gli batté una pacca sulla spalla, con fare affettuoso – Spritz?-.
Per un attimo Alessio esitò: era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che aveva bevuto qualcosa di alcolico. Si era sforzato di evitarlo, si era ripromesso di passare il più distante possibile da qualsiasi bar o supermercato nei momenti più difficili per non cedere a quella tentazione.
In quel momento, però, non sarebbe stata la stessa cosa: era felice, si sentiva vivo, più che mai.
Erano lontani i giorni in cui si faceva un bicchiere per non lasciarsi completamente soffocare dalla sofferenza.
-E spritz sia-.
La piazza di Piove di Sacco non era distante dal punto in cui si trovavano. Si avviarono a piedi, sotto la luce aranciata del tardo pomeriggio, quella del sole morente che di lì a poco avrebbe lasciato spazio alla notte.
C’era parecchia gente in giro, a quell’ora; Alessio si domandò se sarebbero anche solo riusciti a trovare un tavolo a cui sedersi in uno dei bar del centro.
-Sei contento?-.
Stavano camminando già da qualche minuto, quando Nicola parlò. Nonostante fosse Settembre inoltrato faceva ancora caldo, ed Alessio lo osservò arrotolarsi le maniche della camicia per lasciare le braccia scoperte.
Arrivarono sotto i portici di una strada che portava alla piazza dopo qualche secondo, finalmente all’ombra; guardandosi intorno, tra quelle vie a lui ancora sconosciute, Alessio si rese conto, in un attimo fugace, che Piove di Sacco sarebbe diventata quasi una seconda casa da quel giorno in poi. Sarebbe finito per conoscerle piuttosto bene, quelle strade placide e strette.
-Come non lo ero da molto- ammise, a mezza voce.
Sapeva che non sarebbe stato facile. Non lo era mai stato fino ad allora, e non lo sarebbe certo stato da quel giorno in avanti.
Sapeva però che ora le cose sarebbero state diverse, che gli sarebbe bastato allungare la mano per afferrare, finalmente, ciò per cui aveva lottato ogni singolo giorno.
Forse la sua azienda appena nata – ancora non del tutto, solo nel nome e sulla carta- non sarebbe durata per sempre, e forse sarebbe stato ben diverso da come se l’era immaginato. Non si sarebbe mai comunque pentito di averci provato con tutte le sue forze, di aver reso possibile tutto quello che aveva sempre desiderato.
Quello era l’unico raggio di luce che gli rendeva meno amare le giornate, che lo faceva alzare ogni mattina con qualche energia in più. E forse, in fondo, era anche l’unica cosa di cui gli importava sul serio.
-Si vede- disse infine Nicola, annuendo.
Era stato gentile da parte sua volerlo accompagnare fino a Piove di Sacco semplicemente per non lasciarlo completamente da solo nel firmare il contratto d’affitto per i locali dove avrebbe installato la sua impresa. Ad Alessio andava bene così: Nicola sapeva essere discreto e dimostrare il suo appoggio nella giusta misura, e sapeva che in lui avrebbe trovato qualcuno su cui poter contare sempre.
-Forse è la felicità del momento, ma sto pensando una cosa- si ritrovò a mormorare Alessio, istintivamente, mentre i portici sopra le loro teste finivano per lasciar spazio ad una delle piazze del paese. Il sole tornò a battere sui loro capelli, facendo strizzare loro gli occhi per l’improvvisa illuminazione.
-Cosa?-.
Alessio si prese qualche secondo per riflettere – anche se in quel momento non gli importava nemmeno troppo di rischiare di parlare troppo-, prima di rispondere:
-Un giorno, in futuro, non mi dispiacerebbe averti come socio-.
Nicola si girò verso di lui, le sopracciglia bionde alzate. Anche se non aveva fatto gesti eclatanti, Alessio poteva leggere tutta la sua sorpresa negli occhi, appena un po’ più spalancati del solito.
-Socio in affari con te?- ripeté, come se non gli fosse chiaro di aver capito bene.
Alessio annuì, più esitante. Non ci aveva mai davvero pensato: era stato un colpo di fulmine che gli era venuto in mente in quel momento, come un’illuminazione improvvisa. Nicola sapeva essere diligente e concentrato, e soprattutto, cosa ancor più importante, era una persona di cui poteva fidarsi.
Per un attimo ebbe la netta certezza che, se le cose si fossero messe bene e ci sarebbe stata la possibilità, quella sarebbe stata un’idea che avrebbe preso in considerazione sul serio.
Nicola si lasciò andare ad un sorriso, l’unico gesto evidente che dimostrava il suo essere rimasto piacevolmente sorpreso:
-Non sarebbe male-.
Non aveva detto altro, ma ad Alessio bastò anche solo quello.
-No, non lo sarebbe-.
Non era sicuro di cosa gli avrebbe riservato il futuro. Sapeva solo che, da quel giorno, sarebbe stato pronto ad abbracciarlo, qualsiasi cosa succedesse.
 
*
 
“La luce d’aurora reca
Una vena di rimpianti
E la tristezza senz’occhi
Del midollo dell’anima” [3]
 
La pioggia continuava a cadere ininterrottamente, facendo scivolare le sue mille gocce lungo i vetri delle finestre, tracciando rilucenti scie infinite.
Caterina sbuffò ancora una volta, portandosi una mano alla fronte senza nemmeno darsi pena per cercare di occultare la sua rassegnazione. Lasciò la penna sui fogli del libro aperto davanti a lei – pagine piene di formule che non avrebbe imparato nemmeno dopo mille ore passate ad osservarle-, in una tacita resa che non passò inosservata agli occhi di Pietro.
-Mi vuoi ripetere la formula della sparseness?-.
Caterina lo fulminò talmente rapidamente che Pietro si accigliò:
-Un argomento a piacere? Nemmeno quello?-.
Tirò un sospiro rassegnato a sua volta, abbassando per un attimo gli occhi sul libro di Caterina.
-Non lo passerò mai quest’esame- sbuffò d’un tratto lei, richiudendo il libro con un gesto nervoso e improvviso, facendo quasi sobbalzare Pietro sulla sedia. Erano al tavolo della cucina dell’appartamento che lei condivideva con Nicola, lì fermi da ormai quasi due ore.
Sapeva che anche Pietro doveva essere stanco, demoralizzato dal fatto che, per quanto cercasse di ripeterle e spiegarle gli argomenti d’informatica nel modo più semplice possibile, lei non riuscisse a memorizzare le nozioni a dovere. Glielo leggeva in faccia, mentre si stropicciava gli occhi, mostrando le nocche arrossate delle mani per il freddo di Dicembre.
-Se vuoi laurearti, prima o poi dovrai- riprese Pietro, dopo almeno un paio di minuti di silenzio. Con un gesto estremamente paziente riaprì il libro, cercando la pagina dove erano rimasti quando Caterina l’aveva chiuso in un attimo d’impulsività.
A rivedere le pagine piene di formule e nozioni matematiche, le venne la nausea.
-E se non succedesse?- borbottò, d’un tratto molto più sfiduciata che arrabbiata. Aveva accettato di proseguire con la laurea magistrale per darsi quella possibilità in più che, con la nascita di Francesco, non avrebbe più potuto avere più avanti nel tempo. Quell’ultimo esame si stava rivelando un osso ben più duro di quanto si sarebbe immaginata.
-Vorrà dire che avrai buttato nel cesso soldi e anni per una magistrale che non prenderai mai- commentò Pietro, alzando le spalle – E mi avrai fatto dare ripetizioni totalmente inutili-.
Caterina sbuffò sonoramente, ignorando deliberatamente la prima parte della risposta dell’altro:
-Ti sei offerto tu di darmele, ti ricordo-.
Era stato quasi un gesto disperato, quello che l’aveva portata a chiedere aiuto a Pietro. Non aveva voluto chiedere a Nicola – non credeva sarebbe riuscita a sopportare un qualche suo sguardo deluso nell’apprendere quanto fosse in difficoltà per quell’esame-, e aveva dovuto scartare Alessio per non distrarlo ulteriormente da tutto il lavoro che doveva avere sulle spalle. Pietro era stata la sua unica opzione sin dall’inizio.
-Mi ricordo eccome- le rispose, lanciandole un’occhiataccia.
Caterina sbuffò ancora una volta, una sfumatura di rassegnazione nella voce. I primi dubbi sulla sua scelta di tornare a studiare erano nati già mesi prima, e la paura di quell’esame non faceva altro che ravvivarli ancora una volta.
-Comunque la vedo dura- borbottò, torturandosi le mani, sotto il tavolo.
Non alzò gli occhi, quando sentì una mano di Pietro appoggiarsi delicatamente sulla spalla, come a volerla scuotere e darle sostegno contemporaneamente:
-Non puoi abbatterti così, non ad un passo dalla fine-.
Quando Caterina alzò gli occhi verso di lui, Pietro parlò ancora, stavolta con aria solenne:
-La vita ci presenterà sempre degli ostacoli, ma sta a noi trovare la forza per superarli-.
Per un attimo, ascoltandolo e guardandolo, ebbe quasi l’impressione che Pietro stesse parlando più a se stesso che non a lei. Era una sensazione che non riusciva a togliersi dalla testa, anche se non aveva alcuna prova razionale per poter dire con sicurezza che fosse davvero così.
-E questa da dove l’hai tirata fuori?- gli chiese scettica, dopo alcuni secondi di silenzio.
Pietro alzò le spalle, scuotendo appena il capo:
-Mi è venuta sul momento-.
Caterina rimase in silenzio per un secondo, gli occhi puntati su Pietro, prima di scoppiare a ridere. Di fronte alla faccia basita dell’altro non riuscì a fare a meno di ridere ancora di più; sentì quasi le lacrime agli occhi, mentre si portava una mano davanti alla bocca. Anche se Pietro prese a scuotere il capo, con aria rassegnata, Caterina lo vide chiaramente sorridere tra sé e sé.
-Mamma?-.
Caterina cercò di frenare subito le risate: si ricompose il più in fretta possibile, girandosi verso la soglia della cucina. Francesco la stava guardando con i grandi occhi scuri vagamente confusi, i capelli biondi da accorciare che cominciavano ad andargli davanti agli occhi; doveva essersi svegliato da poco dal suo consueto pisolino pomeridiano.
-Tesoro, tutto bene?- Caterina aspettò che fosse lui a muoversi per primo, se voleva raggiungere lei e Pietro al tavolo. Francesco rimase fermo per qualche attimo, stropicciandosi gli occhi; a guardarlo così, sepolto nel maglione un po’ troppo grande per il suo fisico mingherlino, Caterina ebbe quasi la tentazione di avvicinarglisi e tenerselo stretto per un po’.
-Ho sonno- mormorò Francesco, con la voce vagamente arrocchita per il risveglio recente. Caterina si trattenne a stento dal ridere: era incredibile quante ore riuscisse a dormire suo figlio, ed avere comunque sonno una volta sveglio.
-Vieni qui-.
Allungò una mano, in un chiaro invito a raggiungerla. Si voltò per un attimo verso Pietro, col timore di trovarlo in disaccordo con la sua scelta nell’invitare Francesco a restare con loro: era consapevole che con il bambino lì l’impegno sarebbe venuto meno, ma non sarebbe nemmeno riuscita a dir di no a qualche momento in più con suo figlio.
Il sorriso che Pietro stava rivolgendo a Francesco la rincuorò a sufficienza per lasciar perdere qualsiasi dubbio. Francesco li raggiunse in pochi attimi, arrampicandosi tra le braccia di Caterina per riuscire a sedersi sulle sue gambe; gli lasciò un leggero bacio sui capelli biondi, prima di tornare ad osservare Pietro.
-Mio caro, ora assisterai tua madre mentre tenterà di spiegarci qualcosa sul modello booleano- Pietro sorrise sornione a Francesco, facendolo ridere – Siamo pronti?-.
Alzò gli occhi su Caterina, in attesa di una conferma che venne con un sospiro rassegnato:
-Siamo pronti-.




[1],[2],[3] 
Federico Garcia Lorca, "Alba"

NOTE DELLE AUTRICI
Con il prologo di oggi diamo il via all'inizio della fine... Con Adulthood finiremo la trilogia di Walk of Life, quindi scopriremo anche i destini dei nostri protagonisti!
Al contrario del prologo di Growing, qua non ci troviamo di fronte a flash forward dei capitoli che verranno, ma a tre eventi sparsi nell'anno 2020. E se ve lo stavate chiedendo: no, non ci sarà traccia della pandemia di Covid in questa storia 😷❌. Anche perchè quando abbiamo iniziato a scrivere i capitoli, una pandemia mondiale non era neanche lontanamente immaginabile come evento ... Prendete questa storia come una realtà parallela in cui il 2020 è stato un anno come un altro 😅
Vediamo rispettivamente Giulia e Filippo diventati zii e alle prese con il loro rapporto ancora non del tutto ripresosi dai tanti cambiamenti avvenuti nelle loro vite, Alessio che finalmente realizza il suo sogno più grande e dà vita ad una sua impresa, e infine Caterina che, pur con difficoltà, sembra avviarsi alla tanto sudata laurea magistrale... Insomma, molta carne al fuoco che inizierà ad essere sviscerata sin dal capitolo 1.
A tal proposito, tenete a mente che Adulthood ricoprirà un periodo temporale che andrà dal 2021 al 2025 ... Quindi tanti capitoli! Al contrario delle due parti precedenti, siamo ancora in fase di scrittura: attualmente siamo al capitolo 47 e ne rimangono ancora circa una ventina da scrivere, epilogo compreso. Dovremmo farcela senza ritardi 🧐
Ci rivediamo subito mercoledì prossimo, il 10 maggio, con il capitolo 1!
Kiara & Greyjoy


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Progress ***


CAPITOLO 1 - PROGRESS



 
Standing on the edge of forever
At the start of whatever
Shouting love at the world
 

Fece un respiro lungo e affaticato, nonostante non si sentisse davvero così stanca come quel suo sbuffo poteva far supporre. Giulia si scostò velocemente una ciocca di capelli finita davanti agli occhiali, prendendo mentalmente appunto di dover passare a tagliargli entro breve.
Quando alzò gli occhi dal tagliere dove stava preparando gli antipasti, non si stupì molto di notare Alice massaggiarsi con aria seccata la schiena, interrompendo il suo affettare alcune patate in fette sottili.
-Stai bene?- Giulia le si accostò, posandole delicatamente una mano sulla spalla. La fronte di Alice era corrugata, e le guance erano arrossate per il caldo che faceva in cucina in quel momento.
-Solo un po’ di nausea- rispose vagamente la rossa, l’accento inglese che ormai era solo una lieve presenza, sempre meno udibile – Forse mi serve un attimo di break, se non voglio vomitare nel lavandino-.
Lo disse quasi ridendo, segno che – forse- non era proprio ad un passo dal farlo sul serio. Giulia era comunque sicura che non valesse la pena correre quel rischio:
-Facciamo una cosa: tu ora vai a riposarti di là- disse, prendendo in mano la situazione – E al tuo posto verrà quel genio del tuo fidanzato-.
Alice non fece nemmeno in tempo ad obiettare, che Giulia si era già voltata verso la porta aperta della cucina, riempiendo i polmoni d’aria:
-Alessio!- urlò senza esagerare troppo, sperando di essersi fatta sentire già al primo tentativo – Raggio di sole, sei richiesto ai fornelli!-.
Non dovettero attendere molto: passò a malapena qualche secondo prima che Giulia riuscisse a percepire il suono dei passi di Alessio, proveniente dal piccolo salotto dell’appartamento, farsi sempre più distinto e vicino. Un minuto dopo era già sulla soglia, la fronte aggrottata ed uno sguardo interrogativo stampato in viso.
-Che c’è?- chiese, incrociando le braccia contro il petto, continuando ad apparire confuso.
Giulia non perse ulteriore tempo:
-Dai il cambio ad Alice, lei ha bisogno di sedersi un attimo- iniziò subito, posando una mano sulla schiena dell’altra, spingendola delicatamente nella direzione della porta. Alice non aggiunse nulla: si avviò nella direzione in cui Giulia l’aveva sospinta. Quando fu quasi di fianco ad Alessio, lui si allontanò di colpo dal punto in cui era rimasto fino a quel momento, continuando a tenere gli occhi fissi solo su Giulia.
-Tu, invece, mi sembri in ottima salute, quindi vieni qui e non protestare- proseguì, puntandogli contro il mestolo che stava usando.
Osservò Alessio alzare gli occhi al cielo e sbuffare, mentre si avvicinava:
-Non lo avrei fatto-.
-Non smetti mai di stupirmi- ironizzò Giulia, ridendo subito dopo. In realtà era piuttosto sicura che Alessio preferisse comunque dover cucinare – cosa che gli riusciva comunque male-, piuttosto che passare troppo tempo con troppi bambini vicini. Con il solo Christian riusciva ancora a sembrare un padre piuttosto pacato, ma Giulia sapeva benissimo che l’ulteriore presenza delle gemelle di certo non doveva averlo incoraggiato troppo a rimanere in salotto. Quello scambio tra lui ed Alice avrebbe reso più facile la vita a tutti.
-Non ti ho mica chiamata qui per farmi da cuoca. Non amo la schiavitù- borbottò Alessio, arrivato infine ad affiancare Giulia. Osservò con la fronte ancor più aggrottata il lavoro lasciato interrotto da Alice, probabilmente cercando di intuire quale fosse lo scopo.
-Lo so, ma far cucinare solo te equivarrebbe ad un avvelenamento di massa. Mi sto sacrificando per quello- replicò Giulia, con aria innocente; anche se non sollevò gli occhi, seppe benissimo che in quel momento Alessio doveva averla appena fulminata con lo sguardo.
Lo sentì sospirare pesantemente:
-Farò finta di non aver sentito-.
Giulia, invece, non si trattenne affatto dal ridere di nuovo. Per qualche minuto continuarono in silenzio, i gomiti che ogni tanto entravano in contatto per i movimenti maldestri di Alessio: lanciandogli occhiate di tanto in tanto per controllare che non si stesse affettando anche i polpastrelli, Giulia continuò a sperare di non dover chiamare qualche ambulanza in tutta fretta.
-Comunque grazie per le sedie. Poi vi aiuto a riportarle da voi-.
Alessio aveva parlato con calma, quasi a mezza voce, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo; si avvertiva la sua concentrazione solo dal modo quasi distaccato con cui aveva parlato.
Giulia si voltò verso di lui, un sorriso compiaciuto a distenderle le labbra:
-A che servono sennò i vicini di palazzo, Raggio di sole?-.
Di certo le sedie che aveva in casa Alessio sarebbero bastate se fossero stati solamente in sei, ma aggiungendo anche Giada e i bambini di tutti, sarebbe stato difficile evitare di costringere qualcuno a sedersi sul pavimento. Quando Alessio, qualche giorno prima, aveva telefonato a Giulia dicendole che aveva intenzione di invitarli tutti a cena per festeggiare le prime settimane di attività della Progress, le aveva anche chiesto se lei e Filippo avrebbero potuto trasportare alcune sedie dal loro appartamento. Ora che di sedie ne avevano a sufficienza, era più che altro lo spazio a mancare: si sarebbero dovuti stringere un po’ tutti per stare intorno al tavolo.
-La smetterai mai di chiamarmi così?-.
-Dovresti essertici abituato, sono dieci anni che ti chiamo così- replicò Giulia, con convinzione, non lasciandosi ammorbidire dagli occhi esausti dell’altro.
-Appunto, non ti sembra giunto il tempo di cambiare soprannome?- sbuffò Alessio, alzando finalmente gli occhi e guardandola speranzoso.
-Ma ti si adatta così bene- gesticolò Giulia, muovendo in ampi gesti,  volutamente esagerati, il mestolo che ancora teneva in mano – E poi quale altro soprannome potrei darti? L’unico che mi viene in mente è Culo di mar… -.
-Va bene, va bene, ho capito- Alessio la interruppe quasi subito, rosso in viso – Raggio di sole andrà ancora benissimo-.
-Saggia scelta, Raggio di sole, molto saggia-.
Il campanello suonò un attimo dopo, togliendo ad Alessio qualsiasi possibilità di replica. Si dovevano sbrigare ed evitare di perdersi in ulteriori chiacchiere: la serata stava per avere inizio.
 


-Mi passi il vino?-.
Giulia si allungò sopra il tavolo della cucina, afferrando il collo della bottiglia e passandola a Nicola, seduto al fianco di Caterina, stretta tra lui e Giulia.
-Da quando bevi così tanto?- chiese lei, aggrottando appena la fronte, voltata verso il compagno.
-Da stasera- Nicola alzò le spalle, versandosi una dose abbondante di vino rosso nel bicchiere – Mi piace particolarmente. Che vino è?-.
-È lambrusco. Mai bevuto prima?- rispose Alessio, seduto di fronte all’amico, sorpreso – In realtà non me ne intendo molto nemmeno io di vini. Me l’ha suggerito Filippo-.
-Infatti- confermò il diretto interessato, annuendo con soddisfazione – Ammettetelo che è stata un’ottima scelta-.
-Adesso però non te la tirare troppo, Pippo- Pietro, seduto accanto ad Alessio, sembrava sul punto di scoppiare a ridere da un momento all’altro – Di certo non sei un gran esperto perché sai che il lambrusco è buono-.
Si levarono parecchie risate, che non vennero zittite nemmeno dall’occhiataccia minacciosa – particolarmente torva nei confronti di Pietro- che Filippo lanciò a tutti i presenti intorno al tavolo. Si salvarono solamente i bambini, che avevano già finito il primo piatto ed avevano preferito allontanarsi dalla tavolata il prima possibile per correre a giocare.
Giulia si voltò a controllarli, quasi istintivamente: seduti sul divano a qualche metro dal tavolo, Caterina sembrava presa in un qualche gioco con la sorella e Francesco, osservati da Christian. Giacomo, invece, sembrava già essere caduto addormentato contro il bracciolo sinistro.
-Ne vorrei sentire anche io un goccio, giusto per assaggiare-.
Quando Giulia tornò a girarsi, vide Alice, a capotavola tra Alessio e Nicola, alzare ed allungare il proprio bicchiere verso Nicola, detentore temporaneo della bottiglia di lambrusco. 
Nicola gliene versò poco, la giusta quantità per assaggiarlo, come aveva precisato Alice stessa: ne bevve un sorso e sembrò esserne piacevolmente sorpresa.
-A proposito, come procede con la gravidanza?-.
Giada, seduta all’altro capo del tavolo, si era appena sporta verso l’altra, forse davvero interessata e non solo spinta da un moto unicamente di cortesia.
Alice alzò le spalle, colta alla sprovvista e non del tutto a suo agio:
-A parte le nausee terribili, tutto nella norma- mormorò velocemente, lasciando fluire le parole con l’accento inglese che, molto più spesso rispetto a tempo prima, riusciva a camuffare piuttosto bene.
Alice evitò accuratamente qualsiasi contatto visivo con Alessio, in un distacco evidente che Giulia aveva notato da almeno un mese. Non la sorprendeva affatto non vederli esternare troppo qualche emozione – non li aveva mai considerati una coppia troppo esplicita, almeno non in pubblico-, ma si stava rendendo conto di quanto gelo fosse calato tra di loro ogni settimana di più che passava.
-Evitare le nausee mattutine sarà uno dei motivi per cui non vorrò un secondo figlio ancora per molto- sbuffò Caterina, sarcastica. Risero un po’ tutti, tranne Nicola, che si limitò ad un sorriso alquanto tirato.
-Io invece spero di averne presto, di nausee mattutine. Se capite cosa intendo- fece subito Giada, arrossendo lievemente e lasciandosi scappare un risolino nervoso.
Giulia rimase sbigottita per svariati secondi, trattenendosi a stento dallo spalancare la bocca senza riuscire a spiccicare alcuna parola. Era sicura che anche Filippo, Caterina e Alice fossero nella sua stessa condizione, anche se non cercò i loro visi per averne conferma; Alessio aveva abbassato per un attimo gli occhi, come se la notizia sottintesa nelle parole di Giada fosse stata più assimilabile ad un pugno nello stomaco.
Pietro rimase impassibile, anche le sue gote erano leggermente arrossate per l’imbarazzo: non disse nulla, quasi sperando che fosse qualcun altro a toglierlo da quel disagio.
Filippo si schiarì la voce dopo interminabili attimi di silenzio interrotto solamente dal chiacchiericcio dei bambini:
-Ah, Pietro, non ci hai detto che state cercando di avere un altro figlio-.
Pietro fece schioccare le labbra, allungando la mano verso il proprio bicchiere:
-Non è esattamente così, infatti- disse, lo sguardo abbassato.
-Però se dovesse capitare … - aggiunse tempestivamente Giada, portandosi una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, e cercando gli occhi di Pietro. Dovette rimanere delusa dal mancato contatto visivo.
-Ne sareste contenti- concluse Nicola, la voce quasi strozzata.
Pietro annuì, mandando giù un sorso abbondante di lambrusco:
-Già-.
-Si vede- si lasciò sfuggire Giulia, talmente a bassa voce da essere quasi inudibile. Probabilmente quasi nessuno captò il sarcasmo di cui era impregnata la sua voce, tranne Alessio: fu l’unico che, come notò Giulia, trattenne a stento una risata.
Era difficile immaginare un possibile scenario in cui Giada aspettava un secondo figlio. Per quanto lei – ed anche Pietro, in modo diverso- si fossero sforzati nell’ultimo anno e mezzo di sembrare la coppia ritrovata che poteva dar vita alla famiglia perfetta, era improbabile cadere davvero in quel tranello. Giulia era sicura che Pietro tenesse davvero a Giacomo più di qualsiasi altra cosa, ma non sarebbe mai riuscita a convincersi del fatto che, checché si sforzasse di sembrare convintamente innamorato, con Giada fosse davvero felice.
C’era qualcosa che stonava e strideva fastidiosamente ancor prima che Giacomo nascesse, qualcosa che la portava a credere che Pietro fosse semplicemente intrappolato in una realtà che non era sua.
-Io ve lo dico: un figlio è già una mezza tragedia, due piccoli sono proprio una condanna- cercò di portare un po’ di umorismo Filippo, facendo ridere Giada ma solo sorridere Pietro.
-Come la fai tragica- commentò Nicola per primo, salvando i due diretti interessati da quella che sembrava una vera e propria situazione di puro imbarazzo.
Alessio sembrava essere riuscito a reprimere le risate, schiarendosi sonoramente la voce:
-Non ha tutti i torti, però-.
Per qualche altro secondo nessuno disse nulla. Giulia sperò ardentemente che quella conversazione potesse essersi esaurita già così, ma le sue speranze sfumarono nel momento stesso in cui Giada prese di nuovo a parlare:
-Eppure tu sei il primo che avrà un secondo figlio-.
Se fosse stato chiunque altro a parlare, la voce sarebbe potuta sembrare semplicemente sarcastica: Giada, invece, non si era premurata affatto di nascondere l’occhiata di fuoco con cui aveva adocchiato Alessio mentre gli si rivolgeva.
-Sì, ma non mi illudo pensando che sarà facile-.
Prima che la situazione potesse peggiorare, ci pensò Caterina ad inserirsi; Giulia sperò con tutta se stessa che riuscisse a stemperare la tensione che cominciava a farsi palpabile:
-In ogni caso, se avrete bisogno di una mano, non esitate a chiedere- disse, rivolgendo un sorriso mite sia ad Alessio che ad Alice, che lo ricambiò prontamente – Voglio dire, Christian è ancora piccolo, e poi tu con l’azienda ora … Sarà anche più impegnativo-.
-Sì, probabilmente avrò meno ore libere rispetto a prima- Alessio annuì, pensieroso, continuando ad evitare il contatto visivo praticamente con chiunque altro della tavolata – Però troverò un modo per organizzarmi-.
-Lo troveremo di sicuro, ma adesso … - Alice aveva finalmente preso parola, la voce dolce che nascondeva però un velo autoritario – Adesso non voglio pensarci-.
Non tornarono più sull’argomento per il resto della cena.
 


Il mondo sembrava farsi sempre più sfumato, quasi liquido, mentre cercava di camminare senza perdere l’equilibrio. Si stava rendendo conto che non reggeva più l’alcool come una volta, prima della gravidanza: Giulia sentiva la testa farsi sempre più leggera, lo spazio intorno a lei sempre più malleabile.
C’era parecchio trambusto intorno a lei, in quell’istante: vide Caterina e Giada occupate con i bambini, intrattenendoli e facendoli ridere mentre si spostavano verso il salotto; Alice sembrava essere scappata in bagno, forse impossibilitata a reprimere un attacco di nausea che l’aveva colta sin dalla fine della cena; tutti gli altri erano ancora lì, intorno al tavolo, nonostante il dolce fosse stato mangiato almeno mezz’ora prima. Solamente Alessio se ne stava in piedi, come lei, incapace di trattenersi dal muoversi e con una sorta di nervosismo elettrico addosso. Aveva ancora in mano il suo calice, gli ultimi sorsi di vino che di lì a poco avrebbe bevuto del tutto. Si era fermato a malapena un metro da lei, l’aria enigmatica che Giulia, forse a causa dell’alcool o per l’intrinseca ambigua freddezza dell’altro, faticava a interpretare.
C’erano stati diversi momenti, prima e durante la cena, in cui aveva colto certi atteggiamenti in Alessio che la lasciavano perplessa. Aveva continuato ad ignorare Alice la maggior parte del tempo, preferendo il silenzio ad una qualsiasi altra conversazione; aveva parlato poco, spesso in maniera vaga, quasi non desiderasse nemmeno essere lì.
-Tra cinque minuti dò una mano a Filippo con le sedie-.
Giulia quasi sussultò, aggrappandosi con una mano al mobile della cucina per l’improvviso capogiro che l’aveva colta; alzò gli occhi verdi su Alessio, che le si era appena rivolto. Doveva essersi accorto solo in quel momento delle sue condizioni, mentre la osservava con occhio critico ed apprensivo allo stesso tempo, quasi come se fosse indeciso se partire con qualche rimprovero o allungarle prima una mano per tenerla in equilibrio.
Riusciva a figurarselo perfettamente come quel tipico genitore severo, a tratti autoritario, che però sotto la scorza dura non faceva altro che nascondere preoccupazione e attaccamento.
-Grazie, comunque- aggiunse subito, ancora perplesso, mentre Giulia staccava la mano come per provare che non era così ubriaca da non riuscire a reggersi da sola.
-Per te questo ed altro, Raggio di sole-.
Giulia si mise a ridere, l’improvviso scoppio di ilarità causato molto di più dall’alterazione dell’alcool che non dalla situazione in sé; in un movimento molto più fluido e veloce di quel che si sarebbe aspettata – e che probabilmente anche Alessio avrebbe sospettato- riuscì ad allungarsi verso di lui e lasciargli un bacio, che anziché essere sulla guancia finì per essere sul collo.
Alessio non si ritrasse, almeno non subito; prima ancora di alzare gli occhi verso di lui, Giulia lanciò un’occhiata veloce verso gli altri ancora seduti al tavolo. Pietro li stava guardando in un modo che non avrebbe saputo definire – un misto di occhi sgranati e una vena di malinconica sorpresa-, mentre Nicola aveva gli occhi abbassati sul suo cellulare. Filippo si era girato verso di lei, senza dire nulla: ricambiava lo sguardo di lei, in un’espressione di vago fastidio che le fece ricordare terribilmente i primi tempi in cui le gemelle erano nate.
Giulia distolse lo sguardo subito, giungendo infine al viso di Alessio: era forse quello meno colto di sorpresa tra tutti, forse a tratti nemmeno troppo infastidito.
-Forse ti converrebbe fermati dal bere, prima di finire ancor più ubriaca- le sussurrò, in un modo che sarebbe dovuto suonare seccato, ma che invece a Giulia sembrò molto più morbido del previsto.
-Dovevamo festeggiare … - cercò di giustificarsi, facendo un passo indietro per mettere più spazio tra se stessa ed Alessio. Si rese conto di aver parlato più forte di quanto avrebbe voluto quando, dopo nemmeno un secondo, sentì Filippo replicare asciutto:
-Lo hai fatto anche troppo-.
Giulia si voltò verso di lui, guardandolo alzarsi ed allontanarsi dopo aver recuperato una delle loro sedie. Non si era nemmeno voltato una volta verso di lei, ignorandola del tutto.
Se ne rimase in silenzio, stordita e sentendosi talmente fuori posto da non sapere nemmeno più dove sbattere la testa. Pregò che qualcuno dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, bastava che interrompessero quel silenzio che si era fatto troppo pesante e che la stava inevitabilmente schiacciando a terra.
Dopo almeno un minuto, Nicola si alzò a sua volta, schiarendosi la voce:
-Vi aiuto anche io, se mi dite che devo fare-.
Pur tenendo gli occhi abbassati, Giulia udì Alessio indicargli brevemente una delle sedie da riportare al suo appartamento e di Filippo; qualche secondo dopo si erano già allontanati in silenzio, e Giulia quasi si sentì sollevata nell’udire la serratura della porta d’ingresso scattare.
Quando si voltò, quasi sussultò: Pietro la stava guardando senza dire nulla, la stessa espressione enigmatica ancora dipinta in viso. Si era quasi dimenticata della sua presenza, convinta che avesse seguito a sua volta Alessio e Nicola.
Continuando a rimanere in silenzio, si alzò anche lui. Non si diresse verso il salotto, o verso l’ingresso: le si avvicinò in pochi passi, accostandosi a lei, continuando a guardarlo con gli stessi occhi scuri carichi di quel che a Giulia parve quasi compassione.
-Meglio se ti siedi-.
Giulia non oppose resistenza: si fece guidare da Pietro, una mano che la teneva gentilmente sulla spalla e la guidava verso la sedia più vicina, a capotavola. Quando si sedette la testa cominciò a girarle meno, e per un attimo gli effetti dell’alcool sembrarono farsi meno pressanti.
Per un momento si rivide addosso lo sguardo pieno di biasimo che Filippo le aveva lanciato, prima di uscirsene con una delle loro sedie sollevata tra le mani. Era stata un’occhiata tanto veloce quanto impietosa, come se volesse marchiarla a fuoco.
Non ricordava un’altra volta in cui si era sentita così tanto giudicata – non da Filippo, non dalla persona che credeva non sarebbe mai stata guardata in quel modo.
Alzò gli occhi, sperando di non averli troppo lucidi: era rimasta sola con Pietro, nel silenzio della cucina, in una situazione del tutto imprevista. Stranamente trovò la sua compagnia come l’unica che poteva sopportare in quel frangente: sapeva che Pietro non le avrebbe fatto alcuna domanda sul perché doveva sembrare così pateticamente triste.
Non che lui sembrasse passarsela meglio: era seduto a qualche sedia di distanza da lei, lo sguardo vacuo e perso nel vuoto. Sembrava fermo ed immobile su qualche pensiero a lei sconosciuto.
-È una mia impressione o sembri piuttosto imbronciato?-.
Pietro sembrò riscuotersi di colpo, sussultando appena. Alzò gli occhi scuri su di lei, il viso che tradiva ancora una certa distanza.
-Sicura di non star parlando di te stessa?- le rigirò sarcasticamente la domanda, stizzito. Sembrava essersi offeso per essere stato colto in quello stato di muta e laconica malinconia.
Giulia si ritrovò ad alzare le spalle, senza rispondergli: non aveva voglia di spiegargli quanto tutto fosse appeso ad un filo sottile, pronto a spezzarsi in ogni momento.
-Non lo sono, comunque- Pietro sussurrò ancora, scostando gli occhi da lei – Smettila di farti viaggi mentali. Sei solo un po’ troppo brilla-.
Giulia sbuffò, un velo di amaro divertimento a distorcerle la voce.
Sì, di sicuro brilla lo era, almeno in parte, eppure anche in quello stato riusciva a capire quel che le stava succedendo intorno. L’unica differenza era che riusciva a cogliere il tutto solo con una vena di indotta allegria in più.
-Io sarò brilla, ma tu mi sembri piuttosto depresso-.
Pietro non replicò nulla, forse in un muto tentativo di confermarlo o di rinuncia rassegnata a qualsiasi negazione. Si limitò solo ad allungare il braccio verso l’ultima bottiglia di vino, svuotare il poco liquido rossastro all’interno nel suo calice, e berlo tutto di fiato.
“Lo siamo tutti, piuttosto brilli e depressi”.
                                                                                     
Tiny minds and eager hands will try to strike but now will end today
There’s progress now
Where there once was none
Where there once was none
Then everything came along [1]
 
*
 
I won't suffer, be broken, get tired, or wasted
Surrender to nothing, or will give up what I
Started and stop this, from end to beginning
A new day is coming, and I am finally free
 
-Fai bei sogni stanotte-.
Alessio passò delicatamente la mano tra i capelli biondi di Christian, il capo posato sul cuscino e le palpebre già abbassate sulle iridi azzurre. Non era resistito molto: erano passati a malapena dieci minuti da quando aveva toccato il letto al momento in cui si era addormentato, esausto.
Allungò le braccia per sistemargli meglio le coperte, coprendolo per bene con gesti lenti per disturbarlo il meno possibile. Suo figlio non si mosse nemmeno, troppo stanco e già profondamente addormentato anche solo per accorgersi della sua presenza.
Gli lanciò un’ultima occhiata per controllare che fosse tutto a posto, prima di avviarsi verso la porta. Alessio spense la luce tenendo gli occhi ancora rivolti verso il lettino di Christian, la sua figura minuscola e raggomitolata tra le coperte pesanti distinguibile tra le sponde.
“Sii sempre sereno come lo sei ora”.
Lasciò la porta socchiusa, rimanendo lì ancora qualche secondo, prima di muovere qualche passo verso la cucina.
Si stiracchiò pigramente, la schiena un po’ bloccata dopo aver percorso diverse rampe di scale nel palazzo di Giulia e Filippo – si era quasi pentito per essersi offerto di dar loro una mano nel riportare indietro le sedie che gli avevano prestato per la serata.
Quando entrò in cucina non si stupì affatto di trovarci Alice, intenta a sistemare alcune delle ultime cose sparse sul tavolo. Non lo degnò nemmeno di uno sguardo, anche se era sicuro che si fosse accorta subito del suo ritorno.
-Forse dovresti lasciar perdere e metterti a letto-.
Alessio le si avvicinò, guardandola con rimprovero: la gravidanza, a quanto pareva, stava avendo su Alice un effetto piuttosto gravoso sul fisico. Così come nei primi mesi in cui aspettava Christian, anche stavolta riusciva a malapena a reggersi in piedi prima di soccombere ai capogiri.
-Ce la faccio- lo rimbrottò lei, a mezza voce, richiudendo una bottiglia di vino – Non sono così debole-.
Lui non insistette. Appoggiò la schiena contro la parete, le braccia incrociate al petto e la tentazione sempre più forte di riaprire il vino che Alice stava già per riporre nel frigo. Si costrinse a rimanere fermo, ancorato nella posizione dove si trovava.
-Dovremo dirglielo, prima o poi-.
Alice lo disse senza nemmeno girarsi, continuando a riporre cose nei vari scompartimenti del frigo. Quando si rialzò, Alessio vide distintamente quanta fatica stava facendo per non crollare sul pavimento: non seppe cosa lo trattenne dal darle della stupida ostinata – perché non c’era alcun bisogno di rifiutare il suo aiuto per dimostrare che sapeva resistere a qualsiasi malessere.
-Non ce la faccio più a fingere- tornò a dire, stavolta guardandolo dritto in faccia. Aveva parlato con freddezza, un’indifferenza che Alessio non credeva avrebbe mai pensato di poter accostare a lei.
Si era sbagliato su tante cose, negli ultimi anni.
 
I would've kept you, forever, but we had to sever
It ended for both of us, faster than a ...
Kill off this thinking, it's starting to sink in
I'm losing control now, but without you I can finally see
 
-Se non ricordo male sei tu che mi hai chiesto di tenerci questa cosa tra noi- obiettò, con calma calcolata. Si rese conto, per l’ennesima volta negli ultimi mesi, che l’unico obiettivo delle sue parole era quello di ferirla, del tutto volontariamente.
Alice sospirò pesantemente, esausta:
-Forse non era la cosa migliore da fare-.
Stavolta Alessio non riuscì a trattenere uno sbuffo sonoro:
-Ma davvero?- le si rivolse, con amaro sarcasmo – Non l’avrei mai detto-.
Gli bastò vedere il cambio d’espressione di Alice – c’era della stanchezza nelle iridi verdi dei suoi occhi, una stanchezza che trasmetteva tutta la frustrazione derivata da quella situazione assurda- per capire che la frecciatina aveva fatto il suo dovere.
-Smettila di fare così-.
Era sicuro che, al contrario suo, Alice non avesse alcuna intenzione di infierire su di lui, ma con quella semplice frase riuscì comunque a farlo scoppiare di rabbia:
-Sei tu che mi hai chiesto di portare avanti questa cazzo di sceneggiata ancora per un po’- sibilò a denti stretti, puntandole addosso un dito accusatore, mentre compiva un passo verso di lei – Ora ti penti di aver voluto giocare alla famigliola felice?-.
Era consapevole che dire quelle cose, e dirgliele in quel modo, avrebbe ferito Alice più di qualsiasi altra cosa. Si spaventò un po’ della propria crudeltà, e della consapevolezza che, in fondo, in quel momento non gliene importava nulla di lei o di quel che avrebbe provato.
Forse, anche se non voleva ammetterlo, lo faceva per vendicarsi del modo in cui lei per prima l’aveva fatto sentire un mese addietro.
-Non parlami con quel tono-.
Per quanto Alice si fosse sforzata di parlare con voce ferma, Alessio non dovette nemmeno cercare di acuire la vista per vedere i suoi occhi farsi lucidi – stava cominciando a crollare, ma era più forte di quel che pensava: non sarebbe successo facilmente, né a breve.
-Tu non hai protestato quando te l’ho chiesto- aggiunse, con più rabbia.
Alessio dovette prendersi qualche secondo per trattenersi dall’urlare addosso: ricordava ancora ogni singolo istante di quando erano giunti a quel patto – che aveva odiato con tutto se stesso, ma a cui era sottostato-, e rinfacciargli qualcosa che lei per prima gli aveva chiesto – quasi supplicato- era solamente da ipocriti.
-Solo per assecondarti-.
Alice lo guardò con sguardo vacuo, per diversi istanti, prima di iniziare a camminare verso di lui. Lo oltrepassò senza degnarlo di uno sguardo, andando a sbattere la sua spalla con quella di Alessio, ma senza ugualmente fermarsi.
-Allora vai, diglielo a tutti. Anche a Christian. Cosa aspetti?- disse, dopo aver superato Alessio di qualche passo. C’era stizza nella sua voce, la furia repressa che però emergeva ogni attimo di più.
-Ricorda che dandoti corda ti ho solo fatto un favore-.
Alessio si voltò indietro, osservandola mentre di allontanava verso il corridoio, probabilmente diretta alla camera da letto – quella che una volta era la loro camera e che ora era solamente sua, quando lei gli aveva detto che era tutto finito e Alessio aveva convenuto che non sarebbe neppure riuscito a dormire nello stesso letto. La vide fermarsi, senza voltarsi, in ascolto.
-Sei tu che mi hai lasciato-.
Sentì risuonare la propria voce intrisa di una certa sofferenza. Doveva averla percepita anche Alice, anche se non lo dette a vedere.
-E sei sempre tu che non vuoi farlo sapere in giro. Non io-.
Alessio rimase fermo lì, in mezzo alla cucina, gli occhi puntati ancora sulla schiena di Alice, fino a quando lei non riprese a camminare. La vide scomparire dietro la porta della stanza, sbattendola dietro di sé.
 
Your promises, they look like lies
Your honesty, like a back that hides a knife [2]





 

[1] Take That - "The Flood"
[2] Thirty Seconds to Mars - "Attack"
Il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente alle rispettive band e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Le feste e le riunioni tra amici non sembrano mancare in quel di Venezia, nemmeno a gennaio 2021. Tutti i nostri beniamini si sono infatti ritrovati a casa di Alessio e Alice per festeggiare l'apertura della Progress... Ma questa è solo un’occasione come un’altra per svelare come sono cambiate le cose nel tempo intercorso tra l’ultimo capitolo di Growing e questo primo di Adulthood!
Per prima cosa,  scopriamo che il nostro Raggio di sole diventerà preso papà bis dato che Alice è di nuovo in dolce attesa... E qualcuno non troppo velatamente vorrebbe imitarla a breve 👀 a quanto pare Giada e Pietro stanno effettivamente accarezzando l'idea di avere un secondo figlio. Anche se, ad un'occhiata più attenta, la cosa non sembra rendere particolarmente felice o convincere Pietro. Chissà se sarà davvero così o solo un'impressione di Giulia!
In realtà, sotto questa superficiale aria di festa, la tensione latente non sembra mancare tra tutti i personaggi. Proprio Giulia crea un leggero scompiglio a cena finita, essendo un po' brilla e non del tutto lucida per l'alcool, e poi, una volta rimasti soli, scopriamo in modo totalmente inaspettato e improvviso che Alessio ed Alice sono tornati sulla piazza per scelta proprio di quest'ultima. Nonostante ciò, i due novelli single, sempre per volontà di Alice, non hanno ancora dato la notizia al gruppo e la tensione che scaturisce da ciò è particolarmente tangibile. Che cosa sarà successo tra loro due?
A mercoledì 24 maggio con un nuovo capitolo per iniziare a capirlo!
Kiara & Greyjoy
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Keep the faith ***


CAPITOLO 2 - KEEP THE FAITH
 
 
What do you got, if you ain't got love
Whatever you got, it just ain't enough
You're walking the road, but you're going nowhere
You're trying to find your way home, but there's no one there
Who do you hold, in the dark of night
You wanna give up, but it's worth the fight
(Bon Jovi - "What do you got?")*
 

Il sole degli ultimi giorni di Gennaio non aveva mai riscaldato così tanto. Sembrava quasi una primavera anticipata, una falsa primavera che sarebbe durata solamente fino al ritorno delle piogge e delle mattine gelide. C’era una bella luce che entrava dalla finestra della cucina: Pietro era sicuro che, vicino alle vetrate, dovesse fare davvero caldo.
Represse con fatica uno sbadiglio, mentre si versava il caffè appena pronto nella tazzina che usava ogni singolo giorno; poteva permettersi più calma, al sabato mattina, per fare colazione e riprendersi dal risveglio avvenuto da poco.
Andò a sedersi al solito posto al tavolo, sul lato sinistro, di fronte a Giada. Si era svegliata prima di lui, come al solito, insolitamente piena di energie e florida come non succedeva da un po’ di settimane.
-Forse dovremmo pensare a trasferirci in un appartamento più grande-.
Per i primi secondi Pietro non si rese nemmeno conto che Giada aveva parlato, con una tale disinvoltura che faceva sembrare di aver appena ripreso un discorso interrotto solo qualche minuto prima.
Forse per il sonno, o forse per l’incredulità delle parole, Pietro non comprese appieno ciò che aveva appena udito.
-Perché?- chiese semplicemente, alzando appena gli occhi dalla sua tazzina di caffè fumante.
Giada sgranò gli occhi, bloccandosi con il cucchiaino a metà strada tra la sua bocca e lo yogurt che stava mangiando:
-Come perché?- ripeté, quasi incredula – Quando saranno grandi questo appartamento sarà troppo piccolo. E poi vorranno ognuno una stanza per sé-.
“Ma certo” si ritrovò a pensare tra sé e sé Pietro, con una punta di malcelato fastidio, “Come ho fatto a non pensarci subito”.
Cercò di reprimere il soddisfacimento che provò mentre, con tutta la nonchalance che gli era possibile, cercava il modo per smontare i piani di Giada nel più breve tempo possibile:
-Manca ancora un sacco di tempo. Lascia che prima crescano un po’, almeno-.
Erano passate a malapena due settimane dalla cena a casa di Alessio, e poco meno di dieci giorni da quando Giada – quasi provvidenzialmente- aveva fatto il test di gravidanza che accertava che, effettivamente, era di nuovo incinta. Stavolta non c’erano stati tentennamenti di alcun genere, né dubbi né timori che l’avevano spinta a fermarsi a pensare per più di un secondo: era partita con mille progetti diversi, tutti riguardanti la vita che li attendeva. L’idea di una casa più grande andava solo ad aggiungersi ad una lista già troppo ampia.
Avrebbe dovuto farci l’abitudine a quella nuova vitalità che aveva ritrovato Giada nel loro rapporto, dopo un anno e mezzo: era come se dopo la nascita di Giacomo, pian piano, avessero ritrovato anche qualche motivo per essere legati – per rimanere legati.
“O forse mi sono solo rassegnato a vivere così, con lei accanto”.
Forse poco importavano le dinamiche e come si erano evolute: l’unico risultato era quello, uno scenario in cui stavano giocando a fare la famiglia felice, con un secondo figlio in arrivo.
-Se sarà una bambina i tempi si accorceranno- obiettò lei, aggrottando la fronte.
-Ci penseremo più avanti- tagliò corto lui, cercando di ignorare gli occhi azzurri di Giada che lo tenevano fissato in un misto di stupore e delusione. Sembrava del tutto sorpresa di non trovare l’appoggio di Pietro in cui, a quanto pareva, aveva creduto e dato per scontato. Si alzò lentamente dalla sedia, Pietro che la teneva osservata di sottecchi mentre finiva di rigirare il cucchiaino nella tazzina. La alzò, bevendo tutto di fiato, qualche secondo prima che Giada finisse la sua circumnavigazione del tavolo, arrivandogli di fianco. Gli sfilò la tazzina dalle dita, riappoggiandola sulla superficie del tavolo, prima di sederglisi in grembo.
Ora che l’aveva così vicina, a tanto così dal poter inspirare il suo profumo femminile, Pietro si sentì più vulnerabile: gli era sempre stato difficile combattere contro il lato più ostinato del carattere di Giada. Era conscio che quella vicinanza fosse solo una tattica che, a quanto sembrava, secondo lei l’avrebbe fatto capitolare più in fretta.
-Non mi sembri molto entusiasta all’idea di trasferirti-.
Pietro represse a stento uno sbuffo sonoro, mentre Giada portava una mano sui suoi capelli, accarezzandoglieli piano.
Aveva ragione: l’idea di andarsene da quell’appartamento gli dava semplicemente la nausea. C’erano troppi ricordi racchiusi tra quei muri, troppi legami che erano rimasti nonostante il passare degli anni.
Ricordava ancora perfettamente, in ogni minimo particolare, il giorno in cui lui ed Alessio avevano varcato la porta d’ingresso per la prima volta. Pensare di lasciare quella casa gli faceva stringere il cuore, lo lasciava vuoto come un guscio aperto ed ormai inutile.
-Dico solo che non c’è bisogno di pensare di traslocare subito- si sforzò di mormorare, passandosi una mano sul viso – E poi non abbiamo abbastanza soldi da parte per farlo-.
-Questo è vero- per una volta Giada sembrò ammettere la sconfitta su quel fronte – Dovremo mettere da parte qualcosa. Però gli affitti a Mestre sono decisamente più bassi, e … -.
-Possiamo parlare d’altro?- la interruppe, alzando finalmente gli occhi verso di lei – Mi stai facendo venire l’ansia-.
Sperò con tutto il cuore che si alzasse per allontanarsi – era già abbastanza difficile la notte quando si ritrovavano a dover condividere lo stesso letto per dormire-, ma quando seguì il lento movimento della mano di Giada, Pietro non riuscì a reprimere un brivido di repulsione. La sentì abbandonare i capelli, scendere lungo la mascella e poi con gli stessi movimenti calcolati accarezzargli il collo, la curva delle spalle.
Non erano carezze casuali, e per quanto cercasse di allontanare la nausea che gli stava salendo, ogni tentativo sembrava sempre meno funzionante. Ormai succedeva sempre più spesso e ogni volta che Giada lo toccava in quel modo, ed ogni volta diventava sempre più difficile da sopportare.
Il timore di arrivare presto al limite era sempre più concreto e sempre più ingombrante.
-Va bene- Giada gli sussurrò in un orecchio, sensuale – Se vogliamo parlare d’altro … Avrei un’idea da proporti-.
Pietro rimase immobile, mentre l’altra mano di Giada si intrufolava sotto il bordo della maglietta, arrivando alla pelle dell’addome.
-Tipo?-.
Sentì se stesso sussurrarlo quasi con timore, talmente piano che Giada non l’avrebbe nemmeno sentito, se solo si fosse trovata un po’ più distante.
-Questo-.
Sapeva che di lì in poi sarebbe stato tutto meccanico, come se a guidarlo fosse qualcuno altro. Non impedì a Giada di baciarlo, né di continuare quel contatto.
Era un’abitudine, ormai: aspettare che finisse tutto, cercare di non pensarci troppo ed immaginare che fosse qualcun altro al suo posto.
 
*
 
Everyone needs just one, someone
To tell them the truth
 
Tirava una leggera brezza pomeridiana, mentre le nuvole rendevano il sole sempre meno visibile e lontano. Pietro rabbrividì appena, quando una folata più forte delle precedenti lo raggiunse, colpendolo e scompigliandogli appena i capelli.
Anche le innumerevoli barche attraccate al molo, lungo la riva degli Schiavoni, ondeggiavano al ritmo della laguna sollecitata dal vento, i rimbombi degli scafi che facevano da sottofondo a quella passeggiata particolarmente silenziosa.
Quando Fernando gli aveva telefonato a metà settimana, Pietro era rimasto sorpreso: erano mesi che si faceva vivo solamente attraverso qualche messaggio, con risposte laconiche che non lasciavano trasparire nulla che non fosse superficiale. Quando aveva visto il mittente della chiamata aveva sbattuto le palpebre un paio di volte per l’incredulità.
Non poteva non ammettere, però, che gli aveva fatto piacere scoprire che Fernando non aveva affatto dimenticato l’arrivo del suo compleanno. Gli aveva chiesto se gli andava di passare qualche ora con lui – tanto per fargli gli auguri, chiacchierare in pace, una normale uscita come non capitava da tempo-, e a quella proposta Pietro non aveva potuto rifiutare, non quando il suo compleanno cadeva proprio di sabato.
Erano appena le tre del pomeriggio, mentre si ritrovavano a girovagare senza una reale meta: quando mezz’ora prima si erano incontrati, davanti a San Marco, la prima cosa che Fernando aveva fatto era stato abbracciarlo mentre gli sussurrava gli auguri per il suo ventisettesimo compleanno. Era stato un abbraccio lungo, intenso, ed aveva lasciato a Pietro una sensazione così strana che non era riuscito a decodificarla. Non era qualcosa dovuto al lungo tempo che era passato dall’ultima volta che si erano visti: era una malinconia totalmente differente, che l’aveva scosso nel profondo.
Svoltarono per una calle che si addentrava nei meandri della città, poco affollata di turisti di passaggio. Poco più avanti Fernando alzò un braccio per indicare l’insegna di un piccolo bar: ad una prima occhiata a Pietro sembrò una di quelle bettole frequentate unicamente dagli abitanti del posto, dove i proprietari dovevano conoscere ognuno dei clienti.
-Ci avventuriamo lì dentro?- Fernando si voltò brevemente verso di lui, un sorriso incoraggiante che spuntava fuori dalla barba scura e fitta.
-Già stanco di girovagare?- lo prese in giro Pietro, prima di seguirlo verso l’entrata.
Qualche minuto dopo avevano già occupato un tavolo – uno minuscolo che bastava appena per due persone- e ordinato due birre. A quell’ora nel piccolo bar non c’era quasi nessuno oltre a loro – solo una coppia di anziani infervorati dalla partita a carte che stavano portando avanti-, e le loro ordinazioni arrivarono praticamente subito.
-Speravo di poterti festeggiare in posto migliore, ma ultimamente le mie tasche sono un po’ vuote- mormorò Fernando, il tono di scuse che la sua voce lasciava trapelare. Pietro sorrise tra sé e sé, nel poter risentire il famigliare e vago accento ispanico dell’altro.
-Va benissimo anche qui- disse, cercando di essere convincente – E poi mi interessa più parlare con te che festeggiare sul serio-.
Di certo quello non era il primo posto che gli sarebbe venuto in mente dove andare – troppo spartano e rozzo come ambiente, troppo piccolo per non sentirsi soffocare-, ma in quel momento gli importava davvero molto di più poter passare qualche ora da solo con Fernando.
-Immagino tu abbia festeggiato già decentemente a casa- Fernando prese un lungo sorso di birra, la schiuma che gli imbiancò la parte superiore della barba – Hai ricevuto qualche regalo?-.
-Un disegno da mio figlio vale?- rise Pietro.
Giacomo l’aveva festeggiato regalandogli un foglio bianco dove aveva disegnato – per quanto i tratti delle figure fossero stilizzati ed abbozzati con mille diverse matite colorate- lui, Pietro e Giada tutti insieme. Quando l’aveva preso dalle sue mani, Pietro aveva dovuto sforzarsi un po’ per non piangere.
-Certo che vale- gli sorrise addolcito Fernando – Era un bel disegno?-.
-Ci sono ampi margini di miglioramento, ma per ora va benissimo così-.
Risero di nuovo, in un momento di distensione totale come ancora non era successo. Per un attimo a Pietro sembrò di essere tornato a tre anni prima, quando Giacomo ancora era ben lontano anche solo dal nascere, e Fernando cominciava ad essere sempre più un punto di riferimento imprescindibile. Sembravano tempi lontanissimi, e ricordarli lo fece diventare a tratti malinconico.
-Non sai quanto mi piacerebbe rivedere tuo figlio, ora che è cresciuto-.
Pietro osservò il sorriso mesto di Fernando, mentre parlava con aria così pensierosa che gli sembrò quasi si stesse rivolgendo a se stesso.
-Me lo immagino un po’ come la tua fotocopia, solo un po’ ringiovanita- aggiunse, a voce un po’ più alta, rialzando gli occhi scuri.
Pietro rise appena, pensando che, pur inconsapevolmente, Fernando non ci era andato poi così tanto distante.
-Magari un giorno te lo presento di nuovo- disse, riportando alla mente un altro ricordo, quello del giorno in cui Fernando aveva conosciuto Giacomo ancora neonato – Probabilmente non si ricorda di te dall’ultima volta … Era giusto un po’ piccolo-.
Fernando annuì, in una tacita conferma:
-Già-.
Pietro prese un lungo sorso di birra fresca, nel tentativo di prendere tempo. Era da quando aveva rivisto Fernando, nell’esatto momento in cui l’aveva abbracciato e tenuto stretto, che sapeva che non sarebbe riuscito a tenersi dentro la notizia di quel che stava avvenendo nella sua vita.
Non aveva idea di come l’avrebbe presa: le cose erano cambiate rispetto a quando Giada era rimasta incinta la prima volta, e anche Fernando era cambiato. Lui stesso non era più lo stesso, su questo non ci pioveva.
Era qualcosa che gli voleva dire, nonostante tutto; sarebbe stato il primo a saperlo, e sarebbe passato ancora un po’ di tempo prima che la notizia si spargesse – Giada cominciava a fidarsi poco dei suoi trentasette anni, e aspettare il terzo mese prima di annunciarlo a parenti ed amici era l’unica cosa che le importava.
-Sembra che avrà un fratello, ad Agosto- si ritrovò a mormorare piano Pietro, con più serenità di quella che si era aspettato da se stesso – O una sorella, chi lo sa-.
Fernando sgranò gli occhi, guardandolo sorpreso:
-Sul serio?-.
Pietro annuì, di colpo sul chi vive; il nodo d’agitazione che sentiva in gola si sciolse dopo qualche secondo, quando Fernando si lasciò andare ad un sorriso contento:
-Congratulazioni, caspita!- si sporse sopra il tavolo per lasciare una pacca sulla spalla di Pietro – Sei felice della notizia?-.
Quella era una domanda a cui rispondere era più complicato di quel che poteva sembrare.
-Sì, non lo sembro?- replicò Pietro, conscio che quel tentativo di sviare non avrebbe mai potuto funzionare appieno con Fernando: condivideva con Alessio la capacità di capire cosa gli passasse per la mente in qualsiasi momento, in qualsiasi occasione. Era come se le sue difese venissero meno ogni volta che veniva scrutato dai loro occhi.
-Non lo so-.
Fernando abbassò per un attimo lo sguardo, le mani lasciate intorno al suo boccale, ormai pieno solo per metà. Sembrava in preda ai suoi pensieri, e Pietro riuscì a percepire che, inevitabilmente, l’atmosfera si era fatta più seria e meno svagata.
-Fatico ancora un po’ a credere che mettere su famiglia con Giada sia la cosa che vuoi davvero. Ma se senti di essere sufficientemente felice così … -.
Pietro tacque per un attimo, gli occhi abbassati sul tavolo. Fernando era stato interrotto da un accesso di tosse particolarmente violento che spinse Pietro ad alzare gli occhi, chiedendosi se gli fosse andato di traverso qualcosa; il volto cereo di Fernando era ancora contratto dallo sforzo di tossire, un fazzoletto tirato fuori e messo davanti alla bocca.
Quando riuscì finalmente a calmarsi, Pietro si fece coraggio:
-Le cose sono un po’ cambiate- mormorò, le mani giunte in grembo sotto il tavolino.
Erano cambiate, per davvero … Ma in peggio. Pietro tacque su quel particolare: Fernando non gli sembrava nella miglior forma possibile, né così sereno come tentava di apparire. Fargli sapere anche quel lato della sua vita attuale, quello più difficile anche solo da spiegare, sarebbe equivalso solo a farlo tornare a casa ancor più in apprensione.
Pietro trattenne a stento un sospiro stanco, esasperato.
Si era talmente abituato a vivere in quella bolla di finzione che ora, nel rischiare di farla scoppiare, quasi si sentiva terrorizzato.
E non poteva caricare di nuovo anche le spalle di Fernando con i suoi problemi. Era lui che aveva scelto quella strada, senza distrarsi un attimo dal sentiero principale.
Era la norma, ormai, fare finta che andasse tutto bene. Forse anche Giada ci si era abituata: non sembrava nemmeno più delusa ogni volta che tra di loro non riuscivano ad andare oltre qualche bacio, qualche carezza più spinta e qualche contatto intimo. Era stato così anche la settimana prima: ormai non c’era neppure più il bisogno di accampare scuse per certe défaillance, tanto erano diventate ricorrenti.
A Pietro non importava neppure più il giudizio di Giada. Era arrivato ad un punto tale in cui la strada si biforcava inevitabilmente: cedere alle paure, o avere fede in sé e sperare che, prima o poi, tutto sarebbe finito.
Era quella fede che lo stava facendo andare avanti, ogni singolo giorno.
Fernando annuì piano, un sorriso appena presente sulle sue labbra ma sincero:
-Buon per te. Davvero, Pietro: se sei contento tu, lo sono anche io-.
Pietro gli sorrise di cuore: era come sentirsi dire che, finalmente, anche qualcun altro credeva in lui.
-Grazie-.
Per un attimo nessuno di loro disse altro. Pietro non ne sentiva l’esigenza, né percepiva quell’improvviso silenzio con la pesantezza con cui l’avrebbe percepito in qualsiasi altra situazione: sapeva che non c’era bisogno di aggiungere altro. Era consapevole che, in fondo, il punto era proprio quello: che nonostante la lontananza, gli sporadici incontri e le idee completamente diverse, Fernando era lì per lui. Ci sarebbe stato sempre.
Per un attimo sentì alcune lacrime agli angoli degli occhi, ma cercò di ricacciarle indietro come meglio poté. Gli sorrise ancora, poco prima di avvicinare il boccale di birra per mandar giù un altro sorso generoso.
-E tu?- gli chiese qualche secondo dopo, schiarendosi la voce – Che mi dici?-.
Fernando alzò le spalle, d’un tratto meno sorridente:
-Non è cambiato molto negli ultimi sei mesi- mormorò, con una sorta d’esitazione che mal gli si addiceva. Pietro aggrottò la fronte, confuso:
-A me sembri un po’ cambiato-.
Era la prima volta che glielo faceva notare, anche se non poteva dire che Fernando fosse cambiato davvero e solo negli ultimi sei mesi in cui non l’aveva visto. Era stato un cambiamento graduale, da un anno e mezzo a quella parte, e che ancora non era del tutto percepibile.
La differenza stava nei piccoli dettagli, nei gesti meno entusiasti e nei sorrisi meno calorosi che, invece, appartenevano al Fernando che Pietro aveva conosciuto alla laurea di Giulia.
-Forse sono più disilluso-.
Fernando abbassò gli occhi per un lungo attimo durante il quale, esitante, Pietro non era riuscito a scrollarsi di dosso la sensazione che ci fosse molto di più dietro a quelle parole vaghe. Sembrava che Fernando volesse chiudere quella conversazione il prima possibile, ma Pietro fece comunque un tentativo:
-Ne vuoi parlare?-.
Cercò di avvicinarsi a lui più che potè, da sopra il tavolo, come a volergli dimostrare ancor di più la sua vicinanza. Non era sicuro di poter aiutare sul serio Fernando – non parlavano seriamente da troppo tempo, e Fernando eludeva le domande su di sé troppo facilmente per lasciar trasparire qualcosa che andasse oltre la superficie-, ma era almeno sicuro di volerci provare. Per una volta avrebbe volentieri ricambiato tutti i favori che aveva ricevuto da quando si conoscevano; aveva voglia di ascoltarlo, non solo di parlargli di quanto la sua vita fosse un intero casino.
-Va tutto bene, non preoccuparti- Fernando gesticolò appena, per niente meno determinato di fronte allo sguardo pieno di scetticismo che Pietro gli rivolse.
-Sul serio, sto bene-.
Fernando allungò il braccio da sopra il tavolo, raggiungendo la mano che Pietro aveva lasciato mollemente sulla superficie; il palmo di Fernando aderì al suo dorso in un contatto d’affetto che, per qualche secondo, riuscì a rincuorare Pietro.
Abbassò gli occhi per un secondo, un sorriso lieve che gli si stava dipingendo sulle labbra, lo stesso sorriso che gli si ghiacciò nel momento in cui osservò la manica lievemente sollevata di Fernando, nello sforzo di tendere il braccio verso di lui.
C’era uno strano rossore sul polso – una macchia color vinaccia che rovinava la pelle leggermente ambrata di Fernando-, che era rimasto coperto dal bordo della manica fino a quel momento.
Forse era solo una bruciatura che Fernando doveva essersi procurato cucinando, anche se non ne aveva molto l’aria.
 “È solo un neo. Deve essere solo un neo”.
-Ne sei sicuro?-.
Pietro rialzò gli occhi, percependo la propria voce più profonda e più inquieta di quel che si sarebbe immaginato. C’erano mille spiegazioni diverse che potevano ricondurre a quegli sfoghi, e non voleva sembrare troppo paranoico; c’era qualcosa, però, una sensazione irrazionale che invece non lo lasciava respirare.
Fernando aggrottò la fronte, stringendogli un po’ di più la mano:
-Ehi, non devi farti prendere dall’ansia anche per me, ok?-.
Lo disse sorridendo, lo stesso sorriso forzato che Pietro aveva imparato a riconoscere e a distinguere da quelli sinceri.
Lasciò vagare gli occhi su tutta la figura di Fernando, sulle poche parti di pelle lasciate scoperte dai vestiti invernali e dalla sciarpa che aveva ancora intorno al collo. Era proprio lì, appena sotto il mento, quasi nascosta dal tessuto morbido della sciarpa, che gli parve di vedere lo stesso livido rosso, fin troppo simile a quello sul polso.
Non riusciva a vederlo distintamente, e non aveva l’assoluta certezza che fosse una macchia simile alla prima; quasi in un tentativo di autoconvincimento, Pietro liquidò la cosa come autosuggestione. Doveva essere solo un neo, nulla di cui aver paura – o almeno, era questo che voleva credere.
Alzò gli occhi sul viso di Fernando, ricambiando la stretta della sua mano.
-Ma se ci fosse qualcosa che non va me lo diresti, vero?-.
Sperò con tutto sé stesso che Fernando gli dicesse di sì.
Sperò che, prima o poi, si fidasse di nuovo abbastanza per parlare con lui; non voleva vedere Fernando seguire la sua stessa strada e vederlo fare forza unicamente su di sé.
Avrebbe voluto dirglielo a voce, dirgli che almeno lui doveva avere fiducia e fidarsi di chi gli stava accanto.
-Sì, certo-.
Fernando abbassò appena gli occhi, prima di sciogliere lentamente la presa della mano e cercare di tornare a sorridere più convintamente di prima.
Quel tentativo di farlo restare tranquillo fece stringere il cuore di Pietro ancora una volta, nella maniera più dolorosa possibile.
-Ma ora piantala con queste paranoie. È il tuo compleanno, e stai per diventare di nuovo padre: dobbiamo festeggiare- Fernando alzò il suo boccale a mezz’aria, in una tacita proposta di brindisi – E non accetterò proteste-.
Pietro si arrese: alzò a sua volta il suo boccale, ormai più vuoto che pieno, facendolo scontrare con quello di Fernando. Il tintinnio di vetro accompagnò la sua incertezza e il suo domandarsi se, prima o poi, ci sarebbe stato sul serio qualcosa da festeggiare.
 






 
*il copyright della canzone appartiene esclusivamente alla band e ai suoi autori.

NOTE DELLE AUTRICI
Il secondo capitolo è interamente dedicato a Pietro, e allo scorcio sulla sua vita attuale. A quanto pare, da quando ha deciso di rimanere con Giada per amore del figlio, la sua vita è rimasta incastrata nel ruolo di compagno e padre che, però, gli va stretto, non tanto a causa di Giacomo ma per Giada stessa. Sembra ormai essersi assuefatto e rassegnato a restare con lei pur non provando alcuna felicità, e soprattutto sentendosi sempre meno a suo agio. 
Tutt'altro sentimento che prova nel rivedere il vecchio amico Fernando, dopo molti mesi di silenzio e senza essersi mai incontrati. Il loro è comunque un incontro dal tono di velata malinconia, a cui si aggiunge poi una sensazione poco serena da parte di Pietro. Fa bene ad essere preoccupato o sta ingigantendo il tutto? Voi cosa avreste fatto al suo posto?
Questi primi due capitoli sono stati piuttosto brevi, ma erano solo un assaggio: dal prossimo aggiornamento aspettatevi capitoli decisamente (ma davvero molto) molto più lunghi! E stavolta non dovreste nemmeno aspettare molto … Ci rivediamo mercoledì prossimo con il capitolo 3! 😊
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Can't hear you now ***


CAPITOLO 3 - CAN'T HEAR YOU NOW




 
-Alla dottoressa!-.
Lo stappo della bottiglia di spumante sovrastò tutti gli schiamazzi provenienti dal tavolo, almeno per una frazione di secondo.
Caterina si guardò intorno, intimorita che, da un momento all’altro, qualcuno del bar si avvicinasse per intimare loro di far meno baccano e non disturbare gli altri clienti. Non vide nessuno in vista, a parte una coppia di anziani che, seduti qualche tavolo più in là, continuavano a guardarli con occhiate torve da quando erano entrati.
-A te, festeggiata- Filippo si allungò verso di lei da sopra il tavolo, porgendole un flûte mezzo pieno di spumante dorato – Vuoi che te ne versi ancora un po’?-.
Caterina fece segno di diniego scuotendo la testa:
-Va bene così. Ormai non sono più abituata a bere molto-.
-Se non ti ubriachi oggi, non potrai farlo mai più- le disse Giulia, seduta al suo lato sinistro.
Erano passati quattro anni dalla sua prima laurea, e a Caterina continuava a sembrare a tratti miracoloso anche solo pensare di essere riuscita a raggiungerne una seconda. Erano stati anni lunghi, quasi infiniti, in cui aveva avuto a malapena il tempo di respirare.
Bevve un sorso generoso di spumante, come premio verso se stessa e per tutti gli sforzi che aveva compiuto per arrivare a quel punto. Bevve anche per la Caterina di quattro anni prima quando, alla sua stessa festa di laurea triennale, non aveva potuto toccare nemmeno lontanamente l’alcool: le faceva ancora strano pensare che, a quel tempo, Francesco non era ancora nato.
-Meglio evitare, sennò poi non so come faccio a riportare lei e Francesco a casa- si aggiunse alla conversazione Nicola, al lato destro di Caterina. Doveva aver ascoltato la battuta che Giulia le aveva appena rivolto, lanciando subito dopo uno sguardo severo in direzione di entrambe.
-Probabilmente sarà il pargolo a dover portare a casa voi due-.
Sia Caterina che Giulia risero di gusto, voltandosi verso Pietro: si era appena avvicinato alla loro zona della tavolata, tenendo Francesco per una mano, e facendo un cenno inequivocabile verso il bicchiere quasi del tutto pieno che Nicola teneva di fronte a sé.
Al contrario delle due, Nicola, nel girarsi verso l’amico, lo fulminò con lo sguardo.
-Mamma, posso assaggiare?- Francesco, con la voce stentata, si avvicinò al tavolo, artigliando i bordi ed allungandosi sulle punte dei piedi. Sembrava particolarmente incuriosito dallo spumante nei flûtes che vedeva sul tavolo, e a quella richiesta inaspettata Caterina dovette trattenere una risata divertita.
Passò una mano sui capelli biondi del figlio, affettuosamente:
-Magari tra qualche anno, tesoro-.
Di fronte all’ilarità dei presenti lì intorno, Francesco riuscì solamente ad imbronciarsi e rassegnarsi subito.
-Sangue veneto non mente-.
Alessio, seduto di fianco a Nicola, non era riuscito a trattenere le risate: era ancora rosso in viso per il troppo ridere, e il fiato corto per la mancanza d’ossigeno.
-Ma non vogliamo alcolizzati a nemmeno cinque anni- gli fece notare Caterina, alzando un sopracciglio. Al contrario di Francesco, Caterina e Beatrice sembravano essere ancora troppo piccole anche solo per incuriosirsi a ciò che stavano bevendo tutti in quel momento: si trovavano esattamente all’altra estremità del tavolo, con Giada che sembrava ben felice di distrarle e giocare con loro. Caterina la tenne osservata per qualche momento: la forma appena più arrotondata del ventre era ancora ben celata sotto i vestiti invernali, ma era evidente quanto fosse felice dal sorriso radioso perennemente stampato in viso. Non la stessa cosa che si poteva dire di Pietro, o di Alessio, e nemmeno di Alice: per quanto si fosse rammaricata sinceramente con lei per non poter essere presente a festeggiare, Caterina era ancora convinta che la sua assenza fosse più dovuta al voler evitare Alessio il più possibile, che non alla gravidanza e al voler tener Christian a casa, ancora troppo debole dopo una leggera influenza avuta a fine Febbraio.
-Hai ragione, meglio evitare- cedette Alessio, impegnato a riempire nuovamente il suo flûte. Caterina scosse il capo, guardandolo, mentre attirava sufficientemente vicino a sé Francesco per poterlo far sedere sulle sue gambe.
-Quando avete intenzione di tornare a Torre San Donato?- chiese Pietro, ancora in piedi dietro la sedia di Nicola. Anche lui sembrava piuttosto intenzionato a prolungare il più possibile quella conversazione, pur di non dover fare ritorno al suo posto accanto a Giada.
Nicola aggrottò la fronte, con fare pensieroso:
-Il prossimo weekend, con calma- disse vagamente. Caterina annuì, tra sé e sé: non avevano ancora davvero pensato ad un giorno in cui tornare. I suoi genitori erano riusciti a venire a Venezia il giorno prima, quando si era tenuta la proclamazione, ma si erano trattenuti solo per poche ore. Avevano fatto ritorno a Torre San Donato quando la sera aveva iniziato a calare, appena dopo aver riaccompagnato Nicola, Caterina e Francesco al loro appartamento.
-Andiamo dai nonni?- chiese Francesco, crogiolandosi sotto le carezze di Caterina. Sembrava essere felice della cosa, e Caterina non poteva certo dargli torto: in veste di primo, e finora anche unico, nipote nato era costantemente viziato e riempito d’attenzione da tutti i nonni, ogni volta che li vedeva.
Nicola allungò una mano verso il figlio, lasciandogli un buffetto su una guancia rosea:
-Sì, piccolo. Sei contento?-.
Francesco annuì, facendola ridere.
-Ovvio che lo sei- disse, abbassando gli occhi sulla testa dorata del bambino – Chi non lo sarebbe sapendo di ricevere l’ennesimo regalo senza alcuna ricorrenza da festeggiare?-.
-È a questo che servono i nonni- s’intromise Filippo, passando un braccio dietro la schiena di Giulia – A viziare i nipoti, e a far passare i genitori come dei taccagni-.
-Anche gli zii adottivi se la cavano bene nel viziarli- disse sogghignando Pietro.
Giulia alzò il proprio calice, restituendo lo sguardo dell’altro, prima di berne gli ultimi sorsi rimanenti tutto d’un fiato:
-Ci puoi scommettere, tesoro-.
Caterina non riuscì a trattenersi oltre: scoppiò a ridere, in una risata così lunga, che le ci vollero diversi attimi per recuperare il fiato.
 
*
 
Con un lungo sospiro Caterina si stese sotto le coperte pesanti, stiracchiandosi e facendo scricchiolare la schiena. Erano appena le dieci e mezza, ma si sentiva comunque stanchissima: erano stati giorni lunghi, stressanti, pur essendo state giornate altrettanto felici.
Rimase ferma, ascoltando distrattamente le prime gocce di pioggia che avevano cominciato a cadere da poco, osservandone il riflesso contro il vetro della finestra; stavano arrivando le prime piogge di inizio Marzo, quelle che anticipavano la primavera e le prime belle giornate.
Nicola era in piedi, accanto al letto, intento a sfilarsi i pantaloni della tuta che usava sempre quando era a casa: Caterina ne osservò i movimenti lenti che tradivano stanchezza, le dita delle mani che andavano a stendere le pieghe del tessuto, mentre riponeva i pantaloni sulla sedia accanto all’armadio.
Mentre artigliava il bordo del maglione per cambiarlo con la canottiera che indossava sempre per dormire, Nicola intercettò il suo sguardo. Le lanciò un sorriso incerto, arrossendo lievemente:
-Come mai mi stai guardando?-.
Caterina trattenne a stento una risata: nonostante tutti gli anni passati insieme, Nicola continuava ad essere sempre un po’ a disagio con la consapevolezza di essere osservato da lei. Non cercava mai di nascondersi, ma il rossore delle sue guance rimaneva sempre lì, a ricordarle quella sua sorta di purezza.
-Mi gusto l’attesa di quando avrai finito di cambiarti e mi raggiungerai qui- gli disse altrettanto innocentemente, lasciandosi però sfuggire un sorriso malizioso.
Nicola si bloccò un attimo, interdetto:
-Lasciami indovinare- le disse, dopo essersi tolto il maglione ed averlo posato sopra i pantaloni – Ora stai lasciando che mi metta il pigiama, ma poi con tutta probabilità, quando ti raggiungerò, finirò per rimanere comunque senza vestiti?-.
Caterina si morse il labbro per non ridere:
-Se vuoi metterla così, allora diciamo di sì-.
Nicola scosse il capo, fintamente oltraggiato, ma non disse nulla: si limitò ad infilarsi la canotta, ed avvicinarsi a passi lenti verso il letto.
Quando scostò le coperte per potercisi infilare sotto, Caterina non perse altro tempo: si sporse verso il lato del letto occupato da Nicola, aspettando che ci si coricasse. Gli si avvicinò fino ad arrivargli a qualche centimetro dal volto, ma ancora senza alcun contatto.
Lui la osservò con un mezzo sorriso stampato sulle labbra, il sopracciglio alzato per la sorpresa:
-Pensavo saresti stata più veloce ad entrare in azione-.
Caterina lo guardò malamente per qualche secondo, scuotendo appena il capo:
-Volevo tenerti un po’ sulle spine anche io-.
Fu Nicola il primo ad annullare lo spazio tra loro. La baciò lentamente, con dolcezza, senza la fretta che poteva esserci in altri momenti della giornata, quando Francesco non era a dormire nella sua stanza e poteva interromperli in qualsiasi occasione.
Caterina chiuse subito gli occhi, mentre lasciava vagare una mano tra i capelli biondi del compagno, scompigliandoglieli inevitabilmente. Fece proseguire il percorso della mano lungo la mascella, accarezzando a palmo aperto il viso appena ispido di Nicola, prima di scendere sul collo e sulla curva della spalla. Quando sentì la mano di lui alzarle appena l’orlo della maglietta, e toccarle la pelle nuda del fianco, rise sulle sue labbra per il solletico che le stava causando.
Un secondo dopo Caterina sussultò, non appena sentì la porta della camera aprirsi di scatto, senza alcun preavviso. Nicola si staccò da lei nel giro di un secondo, altrettanto sorpreso.
Quando Caterina si voltò verso la soglia, non si sorprese affatto di vedere Francesco, vestito del suo pigiama invernale giallo ed azzurro, in piedi appena dietro la porta socchiusa. Anche in penombra riusciva a distinguere i suoi occhi scuri e il suo broncio annoiato.
-Ehi!- Caterina si rigirò nel letto, mettendosi a sedere e sistemandosi in pochi movimenti rapidi la maglietta – Come mai sei fuori dal letto a quest’ora?-.
Parlò con imbarazzo, anche se Francesco non doveva averlo colto: era ancora troppo piccolo per comprendere certe dinamiche, anche se doveva comunque star chiedendosi cosa fosse successo ai capelli di Nicola per averli così in disordine.
-Non ho sonno- borbottò il bambino, congiungendo le mani in grembo. Anche se Caterina trovò quella scusa poco credibile – più facile avesse avuto un incubo-, gli sorrise di rimando.
-Vieni un po’ qui, dai- Nicola parlò per primo, facendo uscire una mano da sotto le coperte e battendola sul materasso, tra lui e Caterina – Però per poco, eh: non pensare di fare il furbetto-.
Francesco non si fece intimorire da quelle parole: aprì maggiormente la porta per riuscire a passare, zampettando velocemente verso il letto. Vi si arrampicò con qualche difficoltà, aiutato da Caterina che si era sporta verso di lui.
Nemmeno un minuto dopo si era già sdraiato sotto le coperte, nello spazio vuoto tra i corpi dei suoi genitori.
-Che ci racconti di bello, piccolo?- Caterina si accoccolò meglio accanto al figlio – Che avete fatto stamattina a scuola?-.
Nonostante il pranzo di festeggiamento al locale dove Nicola aveva lavorato fino a quando non si era laureato, Francesco aveva comunque passato la mattinata alla scuola materna. Caterina quasi si stupiva di non notarlo particolarmente stanco, nonostante la giornata lunga e pesante.
-Niente- mormorò lui, socchiudendo gli occhi sotto le carezze sui capelli di Nicola, che trattenne a stento una risata:
-Andiamo bene- disse ironicamente, scambiandosi uno sguardo complice con Caterina.
Rimasero per un po’ in silenzio, la luce soffusa che emanava la lampada accesa sul comodino di Caterina che conciliava il sonno. Si ritrovò a sbadigliare due volte nel giro di pochi secondi, sentendo per la prima volta da quella mattina la fatica che quella giornata aveva portato anche a lei.
Abbassò gli occhi su Francesco, sicura di trovarlo assopito: venne delusa nel momento stesso in cui lo vide giocherellare con il bordo del piumone, tutt’altro che caduto addormentato.
-Voglio un fratellino-.
Caterina sgranò gli occhi, chiedendosi se aveva sentito bene. Francesco aveva parlato così piano che stentava a credere di aver udito davvero quelle parole.
Alzò gli occhi su Nicola, sentendosi ghiacciare il sangue: a giudicare dalla sua espressione altrettanto stupita, forse non aveva capito così male come sperava.
-Cosa?- chiese, con un risolino nervoso.
Suo figlio alzò gli occhi verso di lei, guardandola con fare ovvio:
-Come Giulio- le rispose semplicemente. Caterina faticava ancora a ricordare tutti i nomi dei compagni di Francesco alla scuola materna, ma il nome pronunciato le sembrava sufficientemente famigliare per non allarmarsi.
-Diceva che avrà un fratellino- proseguì Francesco, riabbassando gli occhi sul suo intreccio di dita e piumone – Ne voglio uno anche io-.
Caterina represse a stento un’imprecazione: aveva potuto appurare, soprattutto negli ultimi mesi, quanto insistente e ostinato potesse diventare un bambino quando faceva i capricci per avere qualcosa che desiderava.
Rimase in silenzio, troppo spiazzata per riuscire a parlare. Scostò lo sguardo per evitare anche quello di Nicola: era sicura che la stesse osservando, anche lui senza dire alcunché.
Lo sentì schiarirsi la gola, prima di parlare:
-Beh tesoro, forse tra un po’ di tempo- provò a negoziare, impacciato.
-Ma lo voglio ora- brontolò in risposta Francesco.
Caterina si ritrovò a voltarsi verso di lui di scatto, cercando di ripetersi che era ancora troppo piccolo per spiegargli tutto quello che c’era dietro per avere il tanto decantato fratellino.
-Ci penseremo, promesso- gli disse, forse fin troppo bruscamente, e decisamente di più di quel che lei stessa si sarebbe aspettata.
Sbuffò appena, ridistendendosi meglio sul materasso. Evitò ancora per un po’ gli occhi di Nicola, non molto sicura di voler scoprire il modo in cui la stava guardando ancora.
 


Richiuse la porta dietro di sé, sperando che, almeno per quella notte, non ci fossero altri imprevisti. Nicola camminò velocemente verso il letto, maledicendosi per essersi dimenticato di infilarsi le ciabatte quando si era alzato per mettere a letto Francesco: il pavimento freddo continuava a dargli fastidio alle piante dei piedi.
-Credo si sia addormentato- mormorò, mentre si infilava di nuovo sotto le coperte. Rabbrividì appena, nel calore del piumone e delle lenzuola.
-Finalmente- sospirò Caterina, contro il cuscino.
Francesco era rimasto con loro per quasi un’ora, senza mai addormentarsi. Solo negli ultimi minuti della sua permanenza aveva cominciato a crollare; quando le palpebre si erano finalmente abbassate, Nicola si era deciso a sollevarlo il più delicatamente possibile per metterlo a letto, nella sta stanza. Tenuto tra le sue braccia, non aveva accennato a svegliarsi di nuovo.
-Comincio a domandarmi da chi abbia preso tutta la vivacità- commentò, lasciandosi scivolare con la testa sul cuscino. Cominciava a sentirsi esausto.
Sentì Caterina ridacchiare tra sé e sé:
-Forse è l’influenza di Giulia-.
Anche Nicola si lasciò andare ad una risata debole, distratta. Giulia era sempre solare ed allegra, ma lo era in maniera totalmente diversa da quando erano nate le gemelle. Si era dovuto arrendere a quell’evidenza ogni volta che notava il suo sorriso sempre più spento e meno genuino di come lo ricordava. Si rigirò nel letto, finendo per distendersi supino, gli occhi puntati sul soffitto.
Forse crescere due figlie piccole era una cosa troppo ingestibile persino per Giulia, che gli era sempre sembrata sufficientemente pragmatica per affrontare quel genere di questioni. Forse nemmeno Filippo aveva davvero messo in conto quante difficoltà sarebbero arrivate: non lo diceva a voce, ma Nicola gli leggeva in viso una sorte d’inquietudine che, due anni prima, era sicuro non ci fosse.
Per un attimo ripensò a Francesco, alla sua voglia di avere un fratello: era piuttosto sicuro che fosse solo qualcosa di passeggero, almeno per il momento, ma si chiese cosa sarebbe successo se fosse accaduto davvero. Sarebbe stato altrettanto difficile, con un bambino di tre anni a cui badare? Era una domanda che si stava ponendo da tempo, senza però mai trovare alcuna risposta.
-Però … - si lasciò sfuggire a bassa voce, riflettendo tra sé e sé. Non si rese conto di aver dato voce ai suoi pensieri fino a quando non sentì Caterina parlare a sua volta:
-Che c’è?-.
Nicola si voltò brevemente verso di lei, d’un tratto prudente:
-Stavo ripensando a quel che ha detto Francesco- disse, soppesando ogni parola – Su un ipotetico fratello-.
Caterina alzò le spalle, con indifferenza:
-A tre anni si dice qualsiasi cosa. E soprattutto, si vuole qualsiasi cosa- disse, con meno distacco di quel che, Nicola ne era sicuro, avrebbe voluto fare credere – Sono piuttosto convinta che se poi avesse davvero un fratello o una sorella si lamenterebbe in continuazione per gli strilli o per i giochi che si ritroverebbe a dover condividere o, ancor peggio, cedere-.
-Il fatto è che anche io ci sto pensando da un po’-.
Nicola sentì il silenzio calare, inevitabilmente.
Aveva parlato d’istinto, senza riflettere come il suo solito. Non aveva ponderato di dirlo così, e non in quel momento: era stato tutto talmente spontaneo che si spaventò di se stesso.
Il silenzio di Caterina, però, lo inquietava ancora di più. Si stava prolungando oltre quello che si era aspettato, e guardandola di sottecchi Nicola si rese conto che stava fissando il soffitto con fare teso.
-A cosa pensavi, esattamente?- la sentì borbottare, infine. Aveva parlato con voce fredda, e nonostante la domanda, Nicola era sicuro avesse capito dove la conversazione sarebbe andata a parare.
Si sentì a disagio, in quel momento: quando settimane prima aveva pensato di parlarle di quell’idea, aveva messo in conto una reazione non del tutto positiva. Quella che Caterina stava avendo per davvero, però, andava ben oltre le aspettative.
-Vorrei un altro figlio-.
Nicola lo sussurrò talmente piano che, per un attimo, pensò di non essere nemmeno riuscito a farsi udire. Nel silenzio della camera e della notte fuori dalla loro finestra, però, si rese conto che Caterina non poteva non aver colto le sue parole. Si schiarì la voce, con fare incerto, odiando quella sensazione di insicurezza che solo con lei riusciva a vivere:
-Non dico subito. Anche perché magari potrebbe non essere così facile- si affrettò ad aggiungere, voltandosi meglio verso di lei – Però, ecco, non mi dispiacerebbe l’idea-.
Caterina continuava a voler evitare il suo sguardo. Rimase immobile, ancora senza dir nulla, mentre Nicola restava in attesa con i nervi a fior di pelle.
Aveva pensato di parlargliene più avanti, quando la tensione per la laurea sarebbe svanita. Pochi giorni prima si era ritrovato a pensare di parlarle, dirle che stava pensando che allargare la famiglia non sarebbe poi stato così male, nel giorno in cui sarebbero tornati a Torre San Donato per festeggiare con le loro famiglie.
Non aveva mai davvero preso in considerazione l’idea di confidarsi con lei quella sera, poco prima di andare a dormire; Nicola si ritrovò ad odiare le improvvisazioni per l’ennesima volta.
Caterina sospirò pesantemente, con stanchezza:
-Non pensavo volessi un altro figlio così presto-.
Nicola annuì, pur consapevole che lei non se ne sarebbe accorta.
Caterina non aveva tutti i torti: nemmeno lui aveva mai immaginato di ritrovarsi a volere un secondo figlio in quel periodo della sua vita. Non riusciva nemmeno a capire se fosse stato un cambiamento davvero graduale: non ricordava il momento preciso in cui si era ritrovato ad ammettere di volerlo, né si ricordava cosa avesse scatenato quella consapevolezza.
Sapeva solo che, da quando era nato Francesco, parecchie cose erano cambiate. Sapeva che, se Caterina fosse rimasta incinta di nuovo, l’ultima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata quella di scappare di nuovo.
Se ne avesse avuto la possibilità, di scappare, Caterina invece l’avrebbe fatto eccome, di questo era cosciente.
-Tu no, immagino-.
Cercò di non caricare la voce d’amarezza, ma non fu sicuro di esserci riuscito per davvero. L’attimo dopo Caterina si mosse di scatto, mettendosi a sedere: teneva la schiena appoggiata contro la spalliera, le braccia incrociate contro il petto e i tratti del viso ancora tesi.
Nicola si rese conto che, forse, la fine di quel silenzio assordante stava per giungere al termine nel peggior modo possibile.
-Non so nemmeno se ne voglio un secondo, non ci ho mai pensato- Caterina iniziò a parlare con rabbia, senza nemmeno guardarlo – Non ultimamente-.
Nicola non la interruppe: sembrava arrivata al limite, pronta a sfogarsi e a smettere di nascondersi dietro quel silenzio con cui si era fatta scudo fino a quel momento.
-Mi sono appena laureata. Tra poco avrò una promozione, finalmente, e non voglio pensare subito ad un’altra gravidanza- Caterina lo guardò per la prima volta dopo parecchi minuti, lo sguardo carico d’astio.
Nicola annuì, abbassando per un attimo gli occhi: riusciva a comprenderla da quel punto di vista, molto meglio di quel che lei doveva immaginare. Era giusto che prima volesse togliersi qualche soddisfazione lavorativa: era da un anno che aveva trovato lavoro in una piccola casa editrice, dove le cose sembravano andare bene. A Caterina sembrava piacere, e lui non poteva fare a meno di pensare che se lo meritava.
-Infatti non ho detto subito- mormorò, ad occhi bassi.
Caterina sospirò di nuovo pesantemente, prendendosi qualche secondo prima di proseguire:
-Voglio prima pensare a me. A quel che abbiamo già-.
Sembrava meno arrabbiata di prima, ma non meno offesa: Nicola, pur non guardandola in viso, riusciva a capirlo dalla nota nervosa della sua voce.
-Magari tra qualche mese cambierò idea, non lo so, ma per ora non voglio pensarci-.
Il tono di Caterina non lascava spazio a dubbio ulteriori su quali fossero le sue prossime intenzioni: Nicola sapeva già che non avrebbe proseguito oltre quella conversazione.
Per un attimo si strinse nelle spalle, pentendosi amaramente di aver anche solo pensato di poter aprire un argomento simile con lei in un periodo come quello. Non riusciva nemmeno a darle torto per la durezza della voce e delle parole: in fondo era lui che avrebbe dovuto rifletterci prima.
-Non voglio forzarti, lo sai- cercò di limitare i danni, mormorando a mezza voce.
Lo sguardo di Caterina non si addolcì nemmeno per un secondo, restituendogli la stessa espressione fredda mantenuta per tutti quei minuti.
-Però mi stai guardando comunque come se fossi un’egoista-.
Non attese nemmeno ulteriore risposta: si coricò di nuovo, rannicchiandosi nella sua metà letto, voltandogli le spalle e coprendosi con il piumone.
Nicola rimase immobile, incapace di dire qualcosa. Allungò la mano verso la spalla di Caterina, fermandosi a mezz’aria: era sicuro che si sarebbe scostata al suo contatto, e non credeva sarebbe riuscito a convivere con quella consapevolezza.
Lasciò cadere la mano sul materasso, inerme.
-Non è così-.
Si stese anche lui, dandole le spalle a sua volta. Spense la lampada sul comodino, l’unica fonte di luce ancora accesa, facendo piombare la stanza nell’oscurità.
Nel nero della notte, Nicola riuscì solo a distinguere il lungo e pesante sospiro che Caterina rilasciò, le ultime parole taglienti ancora incastrate tra le labbra.
-Lo vedremo-.
 
*
 
I'm tired of being what you want me to be
Feeling so faithless, lost under the surface
I don't know what you're expecting of me
Put under the pressure of walking in your shoes

(Linkin Park - "Numb")*
 
Aveva cominciato a piovere da pochi minuti, poche gocce silenziose che cominciavano a rigare i vetri delle finestre. Alessio si perse nell’osservare il percorso di una di loro, mentre scendeva lentamente verso il basso, sempre più giù: era un cammino inesorabile che si avviava a trovare il suo termine dove il vetro finiva.
Spense svogliatamente la tv, stanco di ricercare qualche film che, probabilmente, non l’avrebbe interessato comunque. Erano solo le dieci e mezza, e si ritrovava senza sonno a domandarsi cosa fare nell’attesa che i primi sentori di stanchezza arrivassero.
Passare un po’ di tempo con Christian sarebbe stata la sua prima scelta, ma l’aveva messo a dormire già quasi due ore prima, dopo avergli misurato la febbre ormai bassa. Si era addormentato appena toccato il letto, stanco per l’influenza che, seppur leggera, l’aveva indebolito parecchio in quegli ultimi giorni.
Tirò un sospiro seccato, mentre poggiava la nuca contro lo schienale del divano, chiudendo gli occhi per un attimo: la giornata era stata intensa, stressante e vivace.
Il pranzo per festeggiare Caterina si era protratto per quasi tre ore, e l’unica cosa che l’aveva fatto andare avanti era stato prima il vino rosso delle prime portate, e poi lo spumante che Filippo aveva stappato. Aveva bevuto svariati bicchieri, e non era riuscito comunque a sentirsi nemmeno decentemente brillo.
-Come è andata oggi?-.
Alessio non riaprì gli occhi, limitandosi ad ascoltare i passi felpati di Alice, appena entrata nel piccolo salotto del loro appartamento.
-Bene- mormorò con indifferenza, rialzando le palpebre e raddrizzandosi – Siamo rimasti lì per un po’-.
Non precisò quanto effettivamente erano rimasti nel ristorante: non aveva voglia di spiegarle che aveva preferito non rientrare subito a casa, preferendo girovagare per le calli di Venezia. Forse, in fin dei conti, a lei nemmeno interessava sapere quel dettaglio.
Alice andò a sedersi sulla poltrona accanto al divano, abbassandosi con movimenti lenti ed impacciati. Alessio posò lo sguardo sul suo grembo, ormai piuttosto evidente e sempre più pesante: avrebbe voluto provare ad avvicinarvi una mano, cercare di viverla più serenamente di quanto non fosse accaduto quando aspettavano Christian, ma la sola idea di doversi avvicinare anche ad Alice lo teneva a distanza.
Cercò di non guardarla troppo truce, anche se gli risultò difficile.
-Domani o domenica passerò da Caterina e Nicola per vederli- sospirò lei, massaggiandosi il pancione con gesti circolari: la bambina doveva aver appena scalciato.
Alessio alzò le spalle:
-Come preferisci-.
Sperò che la conversazione si fermasse lì. Aveva cercato di evitare Alice tutto il giorno – più o meno quello che succedeva ogni giornata, da Novembre-, e non aveva la minima intenzione di recuperare tutto il tempo che avevano passato separati in quel preciso istante.
Fece per alzarsi, già pregustando la calma che la camera degli ospiti gli avrebbe donato, ma Alice parlò ancora:
-Lo sai che sarei venuta, se Christian fosse stato bene-.
A giudicare dalla voce sembrava realmente dispiaciuta. Su questo Alessio non aveva dubbi: era piuttosto sicuro che si sentisse in colpa verso Caterina per la sua assenza, ma non era altrettanto certo che, se non ci fosse stata di mezzo l’influenza di Christian, si sarebbe fatta vedere ugualmente.
-In realtà credevo te ne saresti stata a casa in ogni caso- ribatté, alzandosi lentamente dal divano.
L’espressione di Alice mutò nel giro di qualche secondo, irrigidita e non più apparentemente serena come un attimo prima. Doveva aver compreso benissimo dove Alessio stesse andando a parare.
-Non gira tutto intorno a te- sussurrò, ferita. L’accento inglese si fece più presente: le succedeva ogni volta che la rabbia cominciava ad arrivare, facendola parlare più velocemente e senza calibrare bene la pronuncia.
Alessio alzò le spalle, tutt’altro che invogliato a litigare con lei in quel momento: pur di evitarlo era persino disposto a dargliela vinta.
-No, ovviamente-.
Alice continuò a guardarlo con sguardo ferito, mentre si avviava lentamente verso la sua camera. Per un attimo si bloccò, prima di oltrepassare definitivamente la soglia del salotto; sentiva il nervosismo montare, tanto da farlo quasi desistere dal suo intento di non cercare lo scontro. Si trattenne solo pensando che, nel suo stato, l’ennesimo litigio non avrebbe giovato ad Alice.
Si voltò verso di lei, la voce strascicata per la poca voglia di avvisarla:
-Credo che sia solo questione di tempo prima che gli altri comincino a chiederci che succede- le disse, come a volerla mettere in guardia – Ormai è piuttosto evidente che c’è qualcosa che non va tra noi-.
Alice annuì lentamente, soppesando quelle parole:
-Non dobbiamo per forza spiegare tutto-.
Alessio sbuffò, quasi divertito: quella faccenda stava semplicemente diventando una farsa. Difficilmente gli altri si sarebbero bevuti ancora a lungo le molteplici scuse che lui ed Alice rifilavano loro per giustificare quella distanza.
-Sarebbe piuttosto strano se parlassi con qualcun altro che non sono io del motivo per cui mi hai lasciato-.
Fece per andarsene, e l’avrebbe fatto sul serio, se solo Alice non avesse proseguito a parlare:
-About this … -.
Alessio si bloccò per la seconda volta, stavolta decisamente più attento: si voltò di nuovo verso Alice, osservandola mentre si alzava con movimenti goffi dalla poltrona. Non aveva idea di cosa avesse voluto dire con quelle parole, né cercava di farsi qualche prospettiva: per troppo tempo aveva sperato di capire cosa Alice gli nascondesse, per talmente tanto tempo che era quasi arrivato a rinunciare a chiederle ancora spiegazioni.
-Cosa? Ci hai ripensato?- le chiese, con amara ironia – Vuoi forse tornare a fingere di essere una famiglia perfetta?-.
Era del tutto sicuro che Alice non avrebbe mai più voluto tornare ad avere una relazione con lui, e non si stupì affatto della sua risposta:
-Non credo che quello succederà mai-.
“Prevedibile”.
Alessio sbuffò, annuendo:
-Almeno su una cosa siamo d’accordo-.
Alice gli venne incontro lentamente, tenendolo fissato con lo stesso sguardo grave – Alessio l’avrebbe definito più puntualmente malinconico-; si teneva una mano sotto il grembo, come a voler reggere il peso del pancione.
-Però sono stanca di tenermi tutto dentro- mormorò, una volta arrivatagli ad un metro di distanza – Stanca di vederti sempre così pieno di rabbia-.
Alessio la guardò di rimando, duramente:
-Sai già cosa potrebbe calmarmi-.
-Oh, non credo affatto ti calmerà sapere il motivo che mi ha spinto a prendere quella decisione-.
Lo credeva anche Alessio, anche se non voleva darlo a vedere. Era difficile fingere di poter riuscire a rimanere distaccato, quando invece sentiva solamente la rabbia ribollirgli dentro, per l’ennesima volta.
Si chiese se, prima o poi, sarebbe riuscito a sopportare la presenza di Alice accanto a lui, a parlarle ancora come una volta, senza sentire costantemente l’istinto di allontanarsi il più velocemente possibile.
Gli si era fermata di fronte, lo sguardo abbassato verso il pavimento, l’aria pensierosa:
-Però allo stesso tempo credo che se continuo a tenertelo ancora nascosto potrei impazzire- mormorò, quasi più a se stessa che non a lui.
Alessio tirò un sospiro pesante, appoggiandosi con la schiena alla parete:
-Credo che ormai non mi interessi più sapere come potrei stare nel saperlo- si ritrovò ad ammettere, a malincuore. Era certo che, in un modo o nell’altro, si sarebbe comunque ritrovato di nuovo divorato dalla rabbia e dal rimpianto, esattamente com’era stato nel momento in cui Alice gli aveva detto che voleva lasciarlo.
-Voglio solo la verità, Alice, solo quello-.
Attese, in silenzio, osservandola ancora mentre teneva il viso chinato. Gli parve di scorgere una lacrima rigarle una guancia, ma nella penombra notturna del salotto non poté dirsene sicuro.
Nel silenzio che li circondava, dopo qualche secondo, le parole di Alice parvero quasi risuonare a gran voce, nonostante le avesse sussurrate:
-I’m in love with someone else-.
 
Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù

Cercavo in te la tenerezza che non ho
La comprensione che non so
Trovare in questo mondo stupido
Quella persona non sei più
Quella persona non sei tu
 


Fece girare la chiave nella toppa della porta, un lungo sospiro trattenuto a stento nelle labbra raffreddate. La porta d’ingresso si aprì con uno scatto, ed Alessio non attese oltre per oltrepassare la soglia e rabbrividire non appena si sentì avvolto dal tepore dell’appartamento.
Erano le sette, e l’unica cosa a cui riusciva a pensare dopo una giornata di lavoro – quasi gli sembrava strano pensare che quello sarebbe stato l’ultimo mese da dipendente- era la prospettiva di una doccia calda, qualcosa da mettere sotto i denti e finalmente dormire.
Si sfregò gli occhi stancamente, mentre si levava il cappotto pesante, nel piccolo ingresso: quando era uscito dall’ufficio aveva guidato fino a Piove di Sacco, per leggere e firmare altri documenti per quella che – ancora faticava a crederlo- di lì a poco sarebbe stata la sua neonata impresa. Aveva dovuto apporre così tante firme che aveva perso il conto.
Mosse qualche passo verso il piccolo salotto, nell’oscurità: si chiese, per un attimo, se Alice fosse uscita. Non udiva alcun rumore nella casa, a parte il rimbombo dei suoi passi. Si tolse le scarpe, prima di proseguire verso la camera di Christian: la porta era socchiusa, e solo la tenue lampada del comodino era accesa, lasciando la camera in penombra.
Suo figlio sembrava addormentato, avvolto nelle coperte colorate del lettino; Alessio riusciva a distinguerne il profilo del corpo, girato di spalle e con i capelli biondi spettinati per il contatto col cuscino.
Alessio richiuse la porta con un mezzo sorriso stampato in viso: gli sarebbe piaciuto andarlo a salutare, ma l’avrebbe fatto quando si sarebbe risvegliato.
Proseguì qualche metro più in là, verso la camera da letto: anche la porta di quella stanza era socchiusa, ma lo spicchio di luce giallastra proiettata sul pavimento tradiva la presenza di qualcuno all’interno.
Quando spinse appena la porta per entrare, Alessio non si stupì di trovarvi Alice, seduta sul bordo del materasso. Si meravigliò per i capelli rossi scombinati, ormai lunghi fino a metà vita, le lacrime che le rigavano il viso e gli occhi cerchiati di rosso che aveva sollevato non appena si era accorta del suo arrivo.
-Che succede?-.
In un secondo le fu accanto, in apprensione, mille domande che gli stavano riempendo la mente, senza riuscire a trovare una risposta.
-Stai bene?- le chiese ancora, scontrandosi con il silenzio di Alice. Provò a posarle una mano sulla schiena, ma si bloccò con la mano a mezz’aria non appena la vide scostarsi piano, evitandolo.
Non le chiese ancora cos’avesse: sapeva che non gli avrebbe risposto, fino a quando non avrebbe voluto lei. In quello si erano sempre assomigliati molto: era il silenzio il loro alleato, nei momenti in cui la fragilità prendeva il sopravvento su qualsiasi altra cosa.
Alice i schiarì la voce dopo quella che ad Alessio parve un’eternità:
-Ti devo parlare-.
Stava piovendo, all’esterno, e il suono della sua voce si perse nel ticchettio frenetico delle gocce di pioggia che rigavano i vetri delle finestre.
-Sono qui- si ritrovò a sussurrare a sua volta lui, incerto.
Alice aveva smesso di guardarlo subito, non appena le si era seduto accanto, su quel materasso malandato che mandava cigolii di molle ad ogni minimo movimento.
-Ho avuto dei risultati di alcune analisi stamattina- sussurrò Alice, la voce rotta e l’italiano che, in certi momenti, si faceva più incerto come se fosse sempre sull’orlo di tornare alla propria lingua madre – Me l’aspettavo, ma volevo averne conferma-.
Alessio si prese qualche secondo per cercare di fare mente locale, ricordare qualcosa che potesse avere a che fare con le analisi di cui Alice gli stava parlando. Non si erano parlati molto nelle ultime settimane – forse negli ultimi mesi-, non da quando lui rientrava sempre più tardi a casa, talmente stanco da riuscire a malapena a cenare.
Si sentì in colpa per non riuscire a ricordare un dettaglio del genere.
-Ma stai bene?- azzardò, sentendosi fuori posto – Di che analisi parli?-.
Alice si prese il viso tra le mani, scostando le ciocce ramate dal viso e celandogli lo sguardo. Era come una tela bianca, in quel momento, ed Alessio avrebbe potuto attribuirle qualsiasi espressione: sapeva, anche senza riuscire a studiarne le iridi verdi, che i suoi occhi dovevano essersi ancora riempiti di lacrime.
Provò a parlare una prima volta, ma non riuscì a dire nulla. Si schiarì la gola un paio di volte, l’ansia in Alessio che cominciava a crescere ad ogni secondo che passava.
-I’m pregnant-.
Era stato un sussurro poco più che udibile, come un alito di vento nelle giornate d’Agosto. Non c’era inflessione nella voce di Alice, solo un profondo rimpianto che Alessio avvertì forte, ancor di più della notizia.
-Ne sei sicura?-.
Aveva cercato di non sembrare arrabbiato. Non lo era, non stavolta: quando aveva saputo di Christian era stato uno schiaffo in faccia, non ancora consapevole di cosa significasse un figlio. Si sentiva stordito, perché era ancor più inaspettato della prima gravidanza, ma paradossalmente non si sentiva sperduto e solo, non di nuovo.
-Ho fatto gli esami apposta- Alice tirò su con il naso, finalmente abbassando le mani e scoprendo il volto teso – Ho aspettato fino all’ultimo, ma lo sospettavo da un po’-.
Alessio non se ne sorprese affatto: l’ultima volta in cui si erano ritrovati in intimità, in quella stessa stanza, su quel letto, era stata più una situazione dettata dalla noia e dallo sfogo, che dalla passione. Quella era scemata da tempo, sempre di più, fino a scomparire.
-Forse non volevo saperlo-.
L’amarezza di Alice trasparì anche solo da quelle parole, dal modo in cui le aveva pronunciate: taglienti, come se le avesse dette più per ferire che non per un moto di sincerità.
Alessio accusò il colpo, sentendo la sensazione di contentezza consumarsi poco a poco:
-È per questo che stai piangendo?-.
Si era reso conto di aver parlato con durezza, quasi aspramente, ma non corresse il tiro.
Alice non sembrò voler rispondere, non subito: tenne ancora gli occhi fissi davanti a sé, senza voltarsi, in quel contatto che continuava ad evitare da quando Alessio le si era seduto accanto.
-Non solo- la sentì sussurrare, mentre si passava una mano sul viso.
Alessio sospirò pesantemente: si sentiva incapace di capire cosa le stesse passando per la testa, alienato e bloccato nei gesti e nelle parole. Non riusciva ad intuire quali fossero i veri sentimenti di Alice in quella situazione: riusciva a capire che non fosse felice, che la notizia l’avesse spiazzata più di quanto non fosse successo a lui, ma c’era qualcosa che continuava a sfuggirgli e a nascondersi dietro quelle lacrime.
-È inaspettata, come cosa … - provò a dire, schiarendosi la voce – Un secondo figlio in questo periodo sarà dura, soprattutto ora. Però incredibilmente la vedo meno nera di quando aspettavi Christian-.
Aveva cercato di fare del suo meglio, fallendo miseramente. Avrebbe voluto perlomeno posarle una mano sulla spalla, dirle così che le era vicino, e che – nonostante un’azienda appena fondata e un figlio ancora piccolo a cui badare- non sarebbe stato di nuovo un calvario come un anno e mezzo prima; dovette trattenersi, perché sapeva che ad un eventuale contatto Alice si sarebbe sottratta di nuovo.
-Sono cambiate tante cose da allora- gli rispose Alice, la voce distante. Sembrava essere assente, come se la sua mente fosse in un altro posto rispetto al suo corpo, lontana da quella stanza e da Alessio: potevano essere seduti vicini, ma Alice non era davvero lì.
-Avrei voluto parlarti di una cosa, tra un po’ di tempo … Ma ora non c’è tempo, non più-.
Alessio si ritrovò a corrugare la fronte, perplesso:
-Di che stai parlando?-.
Stavolta Alice non evitò il suo sguardo: si voltò verso di lui, in un’espressione che Alessio non seppe definire. Nelle iridi verdi e ancora umide ci leggeva rabbia, delusione, malinconia e paura, tutte mescolate tra loro, indivisibili e distinguibili allo stesso tempo.
-Non voglio più stare con te, Alessio-.
Fu come uno schiaffo improvviso, inaspettato, che non aveva visto arrivare prima di colpirlo dritto in faccia.
Mille pensieri e domande gli affiorarono alla mente, ma non riuscì a pronunciare nemmeno una sillaba.
Riusciva solo a vedere gli occhi di Alice e la durezza con cui lo stava osservando.
-Ci ho riflettuto per mesi, ci ho provato. Ma non posso più-.
Quando Alice si alzò in piedi, mettendo tra di loro almeno qualche metro di distanza, Alessio non la imitò: si sentiva schiacciato lì, dove si trovava, impossibilitato a muovere anche solo un muscolo.
Alzò lo sguardo lentamente, puntando gli occhi sul volto tirato e teso di Alice, abbassandolo fino al suo ventre ancora piatto:
-Ma sei incinta … -.
La sua voce risuonò talmente strana, talmente distante, che gli parve di non essere davvero lui a parlare.
-E Christian … -.
-Non ti amo più-.
Alice non gli aveva nemmeno dato il tempo di riflettere, di pensare a quel che voleva dire sul serio: aveva parlato in modo così perentorio che riuscì ad annientare in una sola volta qualsiasi sforzo di Alessio di trovare una seppur minima obiezione.
Per un attimo, nel caos che si sentiva in testa, non riuscì nemmeno a darle torto per quella scelta.
-Ma non è solo per questo- Alice tirò su col naso, chiudendo gli occhi per un attimo – Ma non voglio parlarne. Non con te. Non adesso-.
-Mi lasci così?-.
Nella sua mente si era immaginato di parlarle con voce irata, furente, ma non fu affatto così: era flebile ed appena udibile, come il vuoto che si sentiva dentro e che sostituiva la rabbia che, fino a qualche minuto prima, si sarebbe immaginato di incamerare in una situazione simile.
Cercò di alzarsi a sua volta, fermandosi di fronte ad Alice, sentendosi sempre più debole:
-Senza una spiegazione? Senza nemmeno provare a parlarne?-.
Seppe ancor prima che Alice aprisse bocca quale sarebbe stata la sua risposta: gliela leggeva in faccia, negli occhi chiari che non lasciavano trasparire alcuna intenzione di cedere, nei gesti che facevano trapelare solamente la voglia di andarsene.
-Non c’è nient’altro da dire-.
Di fronte agli occhi di ghiaccio di Alice si sentì soffocare: fu istintivo camminare fino alla porta, richiuderla dietro di sé, mentre si allontanava sempre di più.
Alessio andò ad accasciarsi sul divano del salotto, senza nemmeno accendere le luci, rimanendosene nel silenzio dell’oscurità.
 



Avvertì il suo respiro bloccato, fermo al momento in cui Alice aveva parlato. Per i primi secondi aveva temuto di aver capito male, ma era altrettanto consapevole che quello fosse solo un meccanismo di difesa: non poteva aver capito male, non se intorno a loro vi era solo silenzio, con il picchiettio della pioggia contro i vetri delle finestre come unico accompagnamento.
Alessio era rimasto pietrificato, la bocca socchiusa nel tentativo di dire parole che gli erano morte in gola, ben prima di riuscire anche solo a pensarle.
Si era chiesto a lungo, in quei lunghi mesi, quale fosse l’altro motivo per cui Alice aveva messo fine a tutto. Sarebbe potuto bastare benissimo il primo – il non amarlo più-, ma il pensiero che ci fosse anche dell’altro lo aveva sempre fatto dubitare di cosa potesse essere accaduto.
Non riusciva a darle torto: per quanto tempo la loro relazione si era trascinata senza un reale motivo a tenerli insieme? Alice era sempre stato il motore che li teneva legati, lei e il suo amore e lui e il suo bisogno di avere accanto qualcuno – senza chiedersi mai troppo se, quando ricambiava i “ti amo” di Alice, fosse davvero sincero o fosse solo un’altra maniera per dirle che le voleva bene e che la ringraziava per esserci.
Sapere però che c’era un’altra persona, di cui non sapeva nulla e di cui non aveva minimamente sospettato la presenza, lo destabilizzò ugualmente. Alice stava rivolgendo il suo amore e la sua attenzione verso qualcun altro che non era e non sarebbe più stato lui.
E poco importava se all’epoca gli aveva chiesto di tenere per loro il dettaglio che non sarebbero più stati una coppia: lo aveva fatto solo per Christian, per non turbarlo quando era ancora così piccolo nel vedere uno dei suoi genitori andarsene di casa, senza nemmeno molte spiegazioni da potergli dare. Gli aveva chiesto di restare, e gli aveva chiesto di farla restare, solo per il figlio che già avevano e per la figlia che sarebbe nata in primavera, e solo dopo la sua nascita avrebbero deciso cosa fare.
Alice non se n’era andata solo per loro, e Alessio sapeva che aveva ragione nell’agire così, in fondo. Ma non bastò a non ricordargli quella sensazione d’abbandono che aveva già vissuto anni prima, e che come un fantasma ora tornava ad aleggiargli attorno.
“Le persone se ne vanno sempre”.
Alice sembrava essere riuscita a vincere l’insicurezza: aveva rialzato il volto, gli occhi lucidi ma fermi. Non sembrava intenzionata a ritrattare in alcuna maniera, né a negare ciò che aveva appena confessato.
-Lui chi è?-.
Alessio sentì la propria voce risuonare atona, quasi rauca da tanto era bassa. Non aveva davvero riflettuto prima di parlare: era stata una domanda istintiva, tutt’altro che calcolata.
Alice scosse la testa, rassegnata:
-Non ha importanza-.
-Ne ha per me-.
Si odiò, nel dire quelle parole. Avrebbe fatto di tutto, qualsiasi cosa, piuttosto che lasciar anche solo trasparire la fragilità che si sentiva addosso in quel momento.
Immaginò che anche Alice dovesse odiarlo per averle chiesto una cosa del genere: se lo stava facendo, però, non lo dette a vedere, perché non indurì l’espressione del viso, né cercò di allontanarsi.
Tirò solamente un sospiro rassegnato, chiudendo gli occhi per un attimo e passandosi le mani sul volto.
-Sergio- esalò, a voce così bassa che Alessio la udì a malapena.
Non appena ebbe capito il nome appena pronunciato aggrottò la fronte, cercando di farsi venire in mente il Sergio che Alice doveva intendere. Gli ci volle qualche minuto per rammentare, tra tutte le persone conosciute lì a Venezia, ex compagni di università e colleghi di lavoro, il volto di colui che stava cercando tra i suoi ricordi.
-Il tuo collega?- chiese, a mezza voce, insicuro.
Da come Alice gli restituì lo sguardo – intenso e sincero- ebbe la certezza di aver indovinato prima ancora che aprisse bocca:
-Lui-.
Per un attimo Alessio non riuscì a dire nulla. Sergio Salvatore, un collega di Alice, non poteva dire di conoscerlo bene: ricordava di averlo visto solo poche volte, a qualche festa di compleanno di Alice o quando – ormai più di un anno fa- capitava di accompagnarla fino al museo dove lavorava. Si erano parlati forse due o tre volte, e di lui era riuscito solo a pensare che, sotto gli innumerevoli tatuaggi che gli ricoprivano le braccia, nascondesse una certa arroganza.
-Avete una storia?- chiese ancora, con voce strozzata.
Non si stupì molto di rendersi conto, in un breve attimo, di non riuscire nemmeno a sentirsi geloso: poteva immaginarsi Alice tra le braccia di Sergio, baciarlo come una volta faceva con lui, e non sentire assolutamente nulla. Era solamente la sorpresa di scoprire cosa l’aveva allontanata a renderlo, in un certo senso, inquieto.
-Lui non sa niente- disse Alice, con decisione – Non gliel’ho nemmeno detto. Non c’è stato niente tra di noi-.
A quella domanda chiunque altro avrebbe mentito, ma non era quello il caso. Alessio la guardò pensieroso, e non ebbe alcun dubbio sul fatto che Alice, nonostante tutti i mesi in cui gli aveva nascosto quei particolari, stavolta fosse sincera: riusciva a leggerle il dolore negli occhi, e quello non poteva essere falsificabile.
Attese ancora, prima di dire qualsiasi cosa; Alice sussultò appena, forse per un calcio della bambina che portava in grembo, ma proseguì quasi subito:
-Ma a che serviva restare con te, quando ormai in qualsiasi momento pensavo a Sergio? Ti stavo solo ingannando-.
Non riuscì a darle torto, non quanto avrebbe voluto.
-Perché non l’hai detto subito?- le domandò, abbassando per un attimo gli occhi. Forse era proprio quella la domanda che gli premeva di più, quella a cui avrebbe davvero voluto dare finalmente una risposta.
-Dirti che amavo un altro uomo subito dopo averti detto che ero di nuovo incinta?- Alice sbuffò, amareggiata, farfugliando appena e lasciando evidenziare l’accento britannico – Forse non avresti nemmeno creduto che fosse tua figlia, forse non mi avresti nemmeno voluto più vedere … I was afraid. Però allo stesso tempo non potevo nemmeno restare con te-.
Alessio rialzò il viso di scatto, guardandola incredulo, gli occhi sgranati: si sentì così tremendamente offeso da quel che aveva appena sentito, che per un attimo ebbe la tentazione di andarsene e interrompere quella conversazione.
-Pensavi davvero che avrei reagito così?- sbottò, sforzandosi di non alzare la voce – Non sono quel tipo di persona-.
Si sentì inorridito, mentre guardava Alice con occhi venati di rabbia.
Ripensò al momento in cui lei l’aveva lasciato, all’attimo in cui gli aveva anche detto di essere incinta: aveva pensato a mille cose diverse, alle difficoltà economiche, al poco tempo libero che avrebbero avuto per occuparsi dei bambini, a qualsiasi cosa, ma non gli era mai passato per la mente l’idea di andarsene e abbandonarli. Ricordava ancora com’era stato prima che Christian nascesse, e ricordava anche quanto quella situazione l’avesse fatto sentire in gabbia: non se ne era andato nemmeno quella volta, quando le cose erano decisamente peggiori e ancora non sapeva come affrontarle.
-Lo so cosa stai pensando: non sei come tuo padre-.
Alice non aveva ceduto all’ira. Non quanto lui, almeno. Lo guardava duramente, con sguardo affilato, ma senza accennare nemmeno a voler alzare la voce.
-Probabilmente lo stai pensando di me- gli disse ancora, senza abbassare gli occhi.
-Non l’ho pensato-.
Gli fu difficile evitare di contraddirla. Alessio cercò di impedirsi di pensare a Riccardo, al modo in cui aveva lasciato indietro lui, sua sorella e sua madre; il groppo in gola che gli si era formato gli impedì di parlare per quasi un minuto.
-Ma forse ho appena capito quel che ha passato mia madre con lui-.
Alice lo guardò incredula, prima di sbuffare sonoramente, stavolta senza nemmeno provare a nascondere la rabbia:
-Non metterti sullo stesso piano di tua madre- alzò la voce, avvicinandosi di nuovo ad Alessio in uno scatto inaspettatamente rapido – Lei è stata una vittima, ma tu con me non hai mai cercato di migliorare le cose. Nemmeno una volta-.
Ad Alessio non rimase che rimanere in silenzio, sforzandosi di non abbassare lo sguardo.
Si sentì tremare – se per la rabbia, l’umiliazione o la fastidiosa sensazione di vedersi sbattute davanti agli occhi le sue colpe ancora non riusciva a capirlo-, ma non cercò nemmeno di ribattere.
Riusciva a comprendere quel che voleva dire Alice, riusciva a comprenderlo più d quanto non avrebbe voluto; l’idea che, in fin dei conti, avesse ragione lo fece sentire ancor più distrutto.
-Io ho le mie colpe, ma non puoi credere davvero di non averne anche tu- la voce di Alice si fece di nuovo malferma e tremante, gli occhi ancora lucidi – Non vuoi essere come tuo padre, ma sei davvero sicuro che non sia così?-.
Alessio tacque ancora, restituendole lo sguardo in silenzio.
Alice non demorse nemmeno in quel momento, continuando a guardarlo con rabbia e con le lacrime che ormai le avevano di nuovo rigato il viso:
-Prova a chiederti come ho fatto ad allontanarmi, ad allontanarmi così tanto da te da guardare un altro uomo … E allora ti sarà tutto più chiaro-.
Quando se ne andò, allontanandosi da lui il più velocemente possibile, Alessio non fece nulla per fermarla. Rimase ancora lì, le spalle contro la parete del salotto, nella penombra della stanza, ascoltando distrattamente la pioggia che, fuori dalle finestre, continuava a cadere sulla città ormai addormentata.
 
E quando andrò devi sorridermi se puoi
Non sarà facile ma sai
Si muore un po' per poter vivere
(Caterina Caselli - "Insieme a te non ci sto più")*





 
*il copyright delle canzoni appartiene ai rispettivi cantanti e autori.

NOTE DELLE AUTRICI
Nuovo capitolo e nuovo piccolo salto temporale, a qualche settimana di distanza dagli eventi del precedente aggiornamento.
Finalmente anche Caterina è riuscita a coronare il suo obiettivo di laurearsi alla magistrale, godendosi giustamente i festeggiamenti... Ma, come sempre nelle nostre storie, le feste di laurea portano sempre novità! Francesco, a quanto pare, desidererebbe un fratellino più piccolo... Non che i suoi genitori siano altrettanto d'accordo
😂 O per meglio dire: Caterina non sembra esserlo. Lei e Nicola, infatti, sembrano mostrare, senza troppi peli sulla lingua, di avere due visioni ben distinte sull'avere oppure no il secondogenito. Qualcuno cambierà prima o poi idea, oppure ognuno rimarrà saldo nelle proprie convinzioni, con tutte le conseguenze del caso?
Il focus poi si sposta su Alessio ed Alice, ma il clima, anche in questo caso, non sembra migliorare più di tanto. E in questo capitolo sembra proprio essere giunto il momento di certi chiarimenti (e anche certe scoperte) su cosa sia successo tra Alice e Alessio, e soprattutto quale sia stato il motivo della loro rottura. E a quanto pare non è nient'altro che il fatto che Alice si sia innamorata di qualcun altro!
Omai non ci sono molte alternative per la loro relazione ormai finita, ma una domanda sorge spontanea: Alice aveva ragione nel dire quello che ha detto ad Alessio, oppure c'era la possibilità e la volontà di agire diversamente? Chi lo sa. A giochi fatti è sempre più facile parlare. Cosa ne pensate?
Nel frattempo vi diamo appuntamento a mercoledì 14 giugno con un nuovo capitolo... e preparatevi: sarà un capitolo particolarmente importante ed emotivamente significativo (e sì, ci odierete profondamente)!
Kiara & Greyjoy


 
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Ave atque vale ***


CAPITOLO 4 - AVE ATQUE VALE



 
Maybe by the time summer's done
I'll be able to be honest, capable
Of holdin' you in my arms without letting you fall [1]
 
Cercò di controllare l’orario sul display del telefono in meno tempo possibile, la luminosità al minimo per non disturbare i tre ragazzi che aveva seduti sulle poltroncine accanto alle sue.
Erano da poco passate le undici e mezza, ma poco importava: era sabato sera, e almeno una volta alla settimana si sarebbe potuto permettere di andarsene a dormire più tardi del solito.
Alessio si rilassò meglio contro la poltroncina foderata, il buio della sala che lo attorniava, puntando di nuovo gli occhi sul grande schermo di fronte a sé, dove le immagini di Judas and the Black Messiah [2] stavano venendo proiettate. Erano mesi che non metteva piede in un cinema, e cominciava a pensare che quello fosse stato un enorme sbaglio: era riuscito a distrarsi, seppur per quelle due sole ore passate in sala, e a lasciar fuori tutti i pensieri che lo rendevano inquieto nelle ultime settimane.
A giudicare dalle scene che si stavano susseguendo, alla fine del film doveva mancare poco: si sentì per un attimo piuttosto incerto, la voglia di tornare a casa che ancora scarseggiava.
Aveva cominciato a farci il callo, nelle ultime due settimane, a passare le sue serate in solitaria rinchiuso nella camera degli ospiti – ormai da mesi diventata la sua stanza-, o in giro per Venezia, altrettanto da solo. Il silenzio era un sollievo ed una condanna allo stesso tempo: gli permetteva di stare lontano da Alice, di incrociarla il meno possibile per evitare di volerle fare altre domande che, ne era sicuro, gli avrebbero solo fatto male.
Ma era sempre nel silenzio che la sua mente si divertiva a ricordargli costantemente l’ultima vera conversazione che c’era stata tra di loro. Alla mattina la vedeva prepararsi per uscire e andare al lavoro, e non poteva fare a meno di domandarsi se in quel frangente avrebbe visto Sergio: era diventata una routine che non riusciva a spezzare nemmeno sforzandosi, nemmeno facendo leva sul fatto che, in fin dei conti, non gli interessava davvero sapere cosa potesse succedere tra di loro da quel momento in avanti.
Christian rappresentava l’unico lato positivo delle sue ore a casa: era la sua unica compagnia, l’unica che spezzava le serate passate in silenzio steso a letto o le lunghe passeggiate serali per la città. Aveva passato più tempo con suo figlio in quelle ultime settimane di quanto non gli era mai capitato prima.
Qualche minuto dopo, quando gli ultimi secondi del film avevano lasciato spazio allo sfondo nero per i titoli di coda, Alessio strizzò gli occhi infastidito per le luci che si accesero di colpo in sala. Gli ci volle qualche attimo per riabituarcisi, dopo aver passato due ore al buio quasi completo; intorno a sé le poche altre persone presenti cominciarono a rivestirsi ed alzarsi dalle poltroncine, inforcando gli ombrelli ancora umidi per la pioggia di quella sera.
Alessio si decise ad alzarsi, stiracchiandosi brevemente e trattenendo a stento uno sbadiglio. Un po’ di gente era già defluita fuori dalla sala, lungo il corridoio che portava alla sala d’entrata del piccolo cinema; si incamminò anche lui, con fare stanco, verso l’uscita.
Dovette rallentare il passo, trattenendo a stento uno sbuffo: c’era più gente del previsto che stava cercando di uscire in quel momento, e non poté fare altro che accodarsi pensando che, in fin dei conti, non aveva fretta di andare da nessuna parte.
C’erano almeno due famiglie con bambini appresso – Alessio, osservandoli, non poté fare a meno di chiedersi come potessero essere capitati a guardare un film che non avrebbe certo giudicato adatto a bambini così piccoli- che rallentavano la fiumana, e qualche altra persona ancora davanti a lui.
Nella penombra del corridoio stretto che portava fuori dalla sala lasciò vagare annoiato gli occhi sull’uomo alto a qualche metro da lui. Si soffermò sulla linea delle spalle larghe, coperte dal cappotto lungo, e per un attimo si ritrovò ad avere il sospetto di averlo già visto.
Avanzarono ancora un po’, e qualche attimo dopo uscirono tutti. Alessio fece qualche passo verso l’uscita, gli occhi che ancora cercavano l’uomo attraente che era davanti a lui: lo individuò a qualche metro da lui, e solo quando lo vide sotto le luci della sala d’ingresso del cinema poté darsi dell’idiota.
-Pietro!-.
Lo vide voltarsi dopo qualche secondo, forse insicuro di essere proprio lui il Pietro che era stato chiamato. Vide l’espressione dubbiosa sparire nell’istante in cui posò gli occhi su di lui, mentre accelerava il passo per andargli incontro. Alessio gli si fermò di fronte, tra lo sorpreso e l’imbarazzato: aveva dato così tanto per scontato di non incrociarlo lì, proprio quella sera, da non prendere nemmeno in considerazione che quella somiglianza potesse derivare dal fatto che lo conosceva.
-Ciao- Pietro lo guardò inizialmente con la stessa incertezza, appena rosso in viso – Non pensavo di trovarti qui-.
-Nemmeno io, a dire il vero- replicò Alessio, lievemente a disagio. Non ricordava nemmeno quand’era stata l’ultima volta che si era ritrovato a tu per tu con Pietro, completamente da soli: era passato così tanto tempo che gli sembrava quasi un secolo. Sentì il cuore stringersi per un attimo, nel rendersi conto di quel particolare.
-Se avessi saputo che ti interessava questo film ti avrei detto di venire con me- aggiunse subito, cercando di non far trasparire il malumore che non lo abbandonava da settimane.
Non sapeva se fosse stata una buona mossa. Non serviva un genio per capire che, se le cose fossero andate così, Pietro molto probabilmente gli avrebbe rifilato qualche scusa per evitarlo: riusciva a cogliere il suo imbarazzo, nel parlargli così inaspettatamente e da solo, in ogni gesto e in ogni segnale che il suo corpo gli mandava. Lo capiva dalla tensione del viso, dallo sguardo fuggente, e dal tono di voce impacciato.
-È che ho deciso all’ultimo, in realtà- Pietro si passò una mano tra i capelli castani, abbassando lo sguardo per un attimo – E intendo letteralmente cinque minuti prima che iniziasse-.
Alessio si ritrovò ad annuire, senza sorprendersi troppo. Non poteva comunque dargli tutti i torti: lui per primo si era infilato in quel cinema principalmente per sottrarsi alla pioggia che aveva iniziato a scendere non appena uscito. L’idea di tornarsene a casa, in ogni caso, era ancor peggiore di quella di pensare di trovare qualche posto dove passare la serata senza inumidirsi fino alle ossa.
Per un attimo si ritrovò a non sapere che altro dire. Si guardò intorno spaesato, cercando di ignorare la sensazione di malinconia che lo stava affogando: con Pietro non c’era mai stato bisogno di sforzarsi per pensare a qualcosa per rendere più sopportabile il silenzio. Si chiese come avessero potuto arrivare a quel punto, quando tempo addietro persino i loro silenzi significavano tutto.
-Stai andando a casa?- borbottò infine, con così poca convinzione che non riuscì nemmeno a guardare in faccia Pietro.
Quando rialzò a stento lo sguardo lo vide annuire:
-Tu no?-.
-Sì, anche io- Alessio sospirò pesantemente, la voglia di rincasare praticamente sotto i piedi. Pietro non disse nulla: a dispetto di quel che si sarebbe aspettato, non sembrava così desideroso di allontanarsi il prima possibile.
In un attimo, senza rifletterci troppo, Alessio si buttò:
-Ti va se facciamo la strada insieme?-.
Avere Pietro come compagnia gli sembrava l’unico motivo valido per camminare verso casa, nonché l’unica cosa che poteva addolcirgli quel tragitto.
Sperò ardentemente di non essere sembrato troppo avventato: per i primi secondi Pietro lo guardò quasi stupito, poi con l’incertezza a velargli gli occhi scuri. Alessio aveva quasi accantonato tutte le sue speranze, quando lo sentì rispondere:
-Va bene-.
Gli servì più di un secondo per processare quella risposta e realizzare quel che lo attendeva.
 


-Quindi esci spesso ultimamente?-.
Alessio tenne gli occhi abbassati sul terreno, facendo attenzione a dove metteva i piedi. Era difficile aggirarsi di sera tardi in alcune zone di Venezia, nell’oscurità quasi totale, e la cosa non gli era affatto facilitata dal tentativo di portare avanti quella – strana, fin troppo strana- conversazione con Pietro.
Sospirò appena, optando per la sincerità:
-Non dico tutte le sere, ma quasi- si lasciò sfuggire, stringendo un po’ meglio il manico dell’ombrello, ora richiuso. Erano stati abbastanza fortunati: a quanto pareva, durante il film, aveva smesso di piovere. C’era ancora odore d’umido in giro per le calli, ma Alessio aveva cominciato a non farci nemmeno più caso.
Quando alzò gli occhi vide il volto di Pietro sorpreso:
-E Alice non ti dice nulla?- gli chiese, forse un po’ incredulo – Di questo passo potrebbe pensare che ti vedi con qualcuno-.
L’aveva detto scherzando, ma Alessio percepì una punta d’amarezza nella sua voce.
-Non credo lo pensi- borbottò, trattenendosi a stento dall’aggiungere che, in fin dei conti, tra loro due sarebbe stata Alice quella a voler vedere qualcun altro.
-E tu?- riprese in fretta a parlare, cercando di sviare l’argomento – A parte stasera sei sempre in casa?-.
Pietro alzò le spalle, sbuffando debolmente:
-In pratica … Quando devo scrivere degli articoli la sera è l’unico momento libero che ho-.
Alessio si ritrovò ad annuire, comprensivo: riusciva a capire benissimo Pietro da quel punto di vista. Da quando la Progress aveva iniziato le attività trovare del tempo libero era un miracolo; sospettava che sarebbe servito parecchio tempo prima di stabilizzare la situazione e trovare un po’ di respiro.
-Non pensi mai di darti solo al giornalismo?- gli chiese, voltandosi verso di lui – Ormai potresti passare al livello successivo-.
Pietro lo guardò di rimando, scettico:
-Diventare professionista, dici? Sì, potrei- alzò le spalle, mentre spostava l’ombrello richiuso da una mano all’altra – Forse, prima o poi. Per ora ho già avuto abbastanza casini a cui pensare. Mi va bene così, magari poi tra qualche anno deciderò di fare il salto-.
-Sei bravo-.
Alessio si sentì arrossire, e fu estremamente grato del fatto che ci fosse troppo buio, in quel momento, lungo la calle che stavano percorrendo, per far sì che Pietro riuscisse a notarlo.
Si schiarì la voce, piuttosto in imbarazzo quando si sentì il suo sguardo addosso:
-Voglio dire, ogni tanto mi capita di leggere qualche tuo pezzo. Mi sembri bravo-.
Sorvolò sul dettaglio che, in realtà, ogni suo singolo articolo era stato letto almeno una volta. Era un’abitudine che aveva preso negli ultimi tempi, quando aveva cominciato ad avvertire Pietro sempre più distante: forse poteva illudersi di sentirlo più vicino così, leggendo le parole che aveva intrecciato su un giornale.
-Grazie- mormorò Pietro, e ad Alessio non servì guardarlo in volto per capire che doveva essere stato colto di sorpresa – E a te come va il lavoro?-.
-È una faticaccia, ma mi piace- ammise Alessio, un mezzo sorriso a increspargli le labbra – Non mi posso lamentare, in realtà: ho trovato gente in gamba, e le cose non vanno male per essere così agli inizi … Può solo che migliorare-.
Per un attimo gli parve di notare Pietro accennare un sorriso, ma un secondo dopo aveva già distolto lo sguardo, guardando dritto davanti a sé.
-Buon per te- commentò, mentre svoltavano un angolo per finire in una calle più larga e un po’ più illuminata – Io credo avrei già avuto una crisi nervosa a pensare di mandare avanti una mia azienda-.
Alessio lo guardò con sguardo grave per qualche secondo:
-E chi ti dice che io non ce l’abbia già avuta?-.
Pietro lo guardò attonito per qualche secondo, prima di sciogliersi in una leggera risata. Anche Alessio si lasciò andare: era la prima volta dopo tanto tempo che riuscivano a parlare tranquillamente, come se nulla tra loro fosse mai cambiato. Trovò il sorriso di Pietro sincero, e bello come lo ricordava quando ridevano insieme anni prima, per qualsiasi scemenza.
Quando smisero di ridere rimasero entrambi in silenzio per un po’. Era un silenzio diverso dal precedente: non c’era ancora imbarazzo, né la necessità di riempirlo di parole per farlo pesare meno.
Alessio osservò di sottecchi Pietro, mentre camminavano ancora affiancati: era un po’ cambiato, nel corso degli ultimi mesi, in un modo che nemmeno lui riusciva a definire. Vestiva più elegante, come lo era il cappotto lungo che aveva addosso quella sera: rendeva la sua figura più slanciata e distinta, forse dandogli un’aria di troppa serietà per un uomo di appena ventisette anni.
Sarebbe stato curioso di uscire con lui qualche altra volta la sera: si chiedeva come sarebbe stato riscoprire la loro vicinanza che mancava da tempo.
-Comunque non me ne sto fuori casa così tanto per qualche amante o cose così-.
Alessio abbassò lo sguardo, pentendosi in parte di essersi lasciato prendere dal momento ed aver accennato a quel lato della sua vita che, fino a quel momento, nessun altro conosceva.
Si sentiva gli occhi scuri di Pietro addosso e, per un attimo, si chiese come sarebbe stato parlargliene a cuore aperto: forse Pietro l’avrebbe capito, o forse avrebbe solo fatto finta di comprenderlo. L’unica cosa di cui era abbastanza certo era che, nel bene e nel male, non l’avrebbe fatto sentire giudicato.
-È che semplicemente non voglio restare a casa- mormorò ancora, a mezza voce – Le cose non vanno benissimo-.
Quasi si mise a ridere per quell’eufemismo: dire che le cose non andavano ottimamente era un modo più gentile per evitare di sottolineare ad alta voce quanto stessero andando a catafascio.
Pietro annuì, rimanendo in silenzio per i primi secondi:
-Con Alice?- chiese, senza troppa esitazione.
-Già- sospirò Alessio, d’un tratto di nuovo ripiombato nello stesso stato di insofferenza in cui si ritrovava ogni volta che ripensava a lei.
-Anzi, diciamocela tutta: le cose non vanno proprio- sbottò, ancora a bassa voce – Hanno smesso di andare da tempo-.
-Una gravidanza è sempre un periodo particolare, può capitare- cercò di consolarlo Pietro, senza però troppa convinzione. Era come se si aspettasse già ci fosse dell’altro, ed Alessio quasi si sentì impreparato di fronte a quell’impressione.
Rallentò appena il passo, rialzando lo sguardo e facendolo vagare sul canaletto che costeggiava il marciapiede dove stavano camminando: si perse ad osservare le acque scure, mosse appena dalla brezza gelida che si era alzata.
-Non è per la gravidanza- ammise, con amarezza – Era già da prima, solo che sono stato troppo cieco per non capirlo-.
Si fermò per qualche attimo, lo sguardo perso nel vuoto, i ricordi che cominciavano a farsi così vividi e concreti da sembrargli quasi di essere tornato a quel tempo, sul letto dove si era seduto poco prima che Alice iniziasse a parlargli e a dirgli che non lo amava più.
Ricordava ancora il senso di vuoto, di solitudine, ma non di rabbia: era come se fosse davvero già tutto finito da tempo, ma che fosse successo senza che lui se ne rendesse conto.
-Io ed Alice non stiamo più insieme. Da mesi, ormai-.
Si sentì addosso lo sguardo di Pietro, e pur non voltandosi verso di lui, poteva quasi indovinare – quasi sentire- la sua espressione sorpresa, la sua incredulità.
Quando alzò gli occhi verso di lui, Pietro gli stava di fronte, immobile, gli occhi enigmatici e il viso teso. Alessio non riuscì a capire cosa potesse star pensando in quel momento.
-Sei il primo a cui lo dico- aggiunse subito, lasciandosi andare ad un altro sorriso amaro – Lei non voleva farlo sapere a nessuno, in pratica, almeno fino alla fine della gravidanza. Non si sente ancora pronta a doverlo dire e dare eventuali spiegazioni … Se scopre che te l’ho detto mi uccide-.
Pietro si schiarì la voce, prima di parlare, qualche secondo dopo:
-Mi dispiace. Io … Non ne avevo idea-.
Sembrava sincero, ed Alessio quasi se ne sorprese:
-Sul serio? A me sembrava evidente che non ci parlassimo nemmeno più-.
Si chiese se anche gli altri – Giulia, Caterina, Nicola e Filippo- non sospettassero nulla. Gli sembrava quasi impossibile: per lui era così evidente che con Alice il rapporto si fosse ridotto a poche frasi di circostanza che gli sembrava persino incredibile che la cosa non trasparisse anche all’esterno.
-Beh, forse un po’ strani lo eravate ultimamente, ma non mi sono fatto domande- cercò di spiegarsi Pietro, gesticolando appena.
Per un attimo ad Alessio parve agitato, quasi scioccato: lo vedeva nei gesti d’un tratto nervosi delle mani, nella mascella tesa del viso, negli occhi adombrati.
-L’hai lasciata tu?-.
Alessio alzò le spalle, riprendendo a camminare lentamente, forse per avere una scusa per distogliere lo sguardo:
-Lei, in realtà- ammise, sospirando pesantemente – E forse comincio a rendermi conto solo ora che, in fin dei conti, prima o poi sarebbe comunque finita così: non avevamo più niente da dirci da tempo. Non che il colpo sia stato meno forte-.
Era strano parlare di Alice proprio con Pietro, ed allo stesso tempo era la cosa più ovvia che potesse accadere: non parlavano così intimamente da mesi, ma in momenti come quello il tempo di separazione sembrava non esserci mai stato davvero. Gli stava venendo facile come respirare, come se le parole venissero da sé, come se avesse sempre voluto dirle in quel momento e proprio a Pietro.
Rimasero in silenzio per un po’ di tempo, continuando a camminare nell’oscurità della notte. Cominciava a fare freddo, l’aria pungente salmastra mischiata a quella della pioggia che riempiva le narici di Alessio.
-Stai pensando di andare a vivere da qualche altra parte?-.
Pietro interruppe il silenzio dopo così tanti minuti che Alessio aveva quasi pensato non si sarebbero detti più nulla. Gli sarebbe andato bene anche così, si ritrovò a pensare.
-Non ci ho ancora pensato, anche perché abbiamo deciso di rimanere insieme in quella casa per non destabilizzare troppo Christian. Si vedrà dopo la nascita della bambina- disse, sinceramente – Non avrei abbastanza soldi per farlo subito, in ogni caso-.
Aveva rimandato quel lato della situazione il più a lungo possibile, ma prima o poi avrebbe dovuto affrontarlo: sapeva già che sarebbe stato difficile farlo con Alice.
-Non so che succederà dopo che nascerà la piccola- continuò, la voce che tradiva stanchezza – Forse continueremo a condividere la casa ed evitarci ancora per un po’-.
Tenne lo sguardo abbassato per un po’, forse conscio di quanto fossero state sincere tutte le parole che aveva pronunciato fino a quel momento.
Si sentiva più leggero, al di là dell’imbarazzo: era come essersi liberato di un peso che l’aveva schiacciato a poco a poco ogni giorno di più, fino a quasi sopraffarlo.
-Non deve essere facile-.
La voce di Pietro gli arrivò appena udibile, come se l’avesse più pensato tra sé e sé che gliel’avesse detto rivolgendosi a lui.
Alessio sbuffò debolmente:
-Niente è mai facile-.
Pietro non disse nulla, ed Alessio non cercò di incalzarlo. Si rendeva conto di quanto potesse essere difficile anche per lui ritrovarsi nella sua posizione, a parlare di qualcosa di così intimo con qualcuno con cui non parlava in quel modo da tempo. Riusciva a comprenderlo, e gli bastava.
Arrivarono di fronte al palazzo di Alessio in pochi minuti, lungo la calle che stavano già percorrendo. C’era un po’ più gente che camminava come loro in quella zona, e vedere qualche faccia in giro risollevò un po’ Alessio: era meno tetro di quanto era stato fino a quel momento, nel passeggiare in vie piuttosto oscure e completamente da soli. Quando arrivarono di fronte al portone, Pietro gli si fermò davanti:
-Comunque stai tranquillo, non ho intenzione di dire in giro questa cosa. Di te e Alice, intendo- disse, le mani sepolte nelle tasche del cappotto pesante ed una ciocca di capelli castani che gli era ricaduta sulla fronte.
-Grazie- Alessio si lasciò andare ad un sorriso esitante – Forse Alice ci risparmierà entrambi-.
Davanti a quel portone ancora chiuso, con la luce giallastra del lampione lì vicino ad illuminarli, Alessio si sentì a disagio come all’inizio, quando aveva fermato Pietro senza pensarci due volte e senza ancora sapere cosa dirgli.
Lo guardò di sottecchi, mentre abbassava il viso per cercare le chiavi nella tasca del cappotto: Pietro sembrava attendere con pazienza, gli occhi scuri che si spostavano dalle acque scure del canale, al cielo ancora nuvoloso. Quando Alessio rialzò il capo, tenendo lo sguardo su di lui, notò una ciglia caduta poco sotto l’occhio: allungò una mano a toglierla in automatico, facendo sobbalzare Pietro quando un secondo dopo si era voltato verso di lui.
-Scusami- Alessio rise appena, imbarazzato – Hai una ciglia sulla faccia-.
-Dove?- Pietro alzò una mano a sua volta, ma Alessio agì per primo: riavvicinò di nuovo la mano, lentamente. Stavolta Pietro non sussultò, né si sottrasse al contatto: lo lasciò fare guardandolo con un misto di sorpresa e impaccio.
-Ce l’hai qui- mormorò Alessio, quando appoggiò i polpastrelli sulla guancia fredda dell’altro – Aspetta, ci penso io-.
Andò a spostargliela con il pollice, passandoglielo sulla pelle fresca e liscia del viso. Alessio deglutì con forza, mentre prolungava di qualche secondo di più il contatto tra la sua mano e il volto di Pietro: si sentiva il suo sguardo addosso, ma staccò la mano solo quando sentì delle risatine mal trattenute da qualcuno vicino loro.
Si voltò appena in tempo per notare due ragazzine – ad una prima occhiata non potevano avere più di quindici anni- passare accanto a lui e Pietro, lanciando loro occhiatine di fronte alle quali Alessio rimase in silenzio e perplesso.
-Guardali, sembrano proprio Jack ed Ennis![3]- bisbigliò la prima, forse pensando di parlare abbastanza a bassa voce per farsi udire solo dall’amica, che commentò subito di rimando con voce stridula:
-Che carini!-.
Li sorpassarono in pochi secondi, e ad Alessio non rimase altro che tenerle osservate ancora qualche secondo a bocca aperta, chiedendosi cosa diavolo stesse passando per la testa a quelle ragazzine un po’ ficcanaso.
Scosse la testa, mentre tornava a voltarsi verso Pietro. A giudicare dall’espressione confusa e imbarazzata del suo volto doveva aver colto anche lui quel dialogo tra le due; quando incrociò gli occhi di Alessio si fece più rosso in viso, prima di lasciarsi andare ad una risata sommessa.
L’unica cosa che Alessio riuscì a fare fu unirsi a sua volta al riso dell’altro, abbassando per un attimo gli occhi e rendendosi conto che, in fin dei conti, Pietro non era l’unico di loro due ad essere arrossito.
-Non pensavo che potessimo diventare così interessanti agli occhi di qualche adolescente- commentò, piccato e divertito allo stesso tempo. Pietro annuì lentamente, schiarendosi la voce:
-Già- prese un sospiro profondo, tornando con gli occhi scuri sul viso di Alessio – Ora è meglio che vada-.
“Sembra che sia giunta la fine anche di questo momento”.
-Certo- la voce con cui Alessio parlò gli parve più amareggiata di quanto avrebbe voluto – Meglio che salga anch’io-.
Ci fu un attimo di silenzio in cui non seppe bene cosa fare: aveva già le chiavi in mano, pronte ad usarle per aprire il portone ed entrare nell’androne del palazzo, ma Pietro non si era spostato, come se avesse improvvisamente cambiato idea. Per un attimo, un attimo fugace, Alessio si ritrovò quasi a sperarlo.
Quando aprì la bocca per dargli la buonanotte, non si stupì davvero molto nel sentirsi dire tutt’altro:
-Mi ha fatto piacere vederti-.
Abbassò per un attimo gli occhi, sentendosi arrossire di nuovo. Si chiese da quando faceva così fatica a dire quel genere di cose proprio a Pietro.
-È stato bello parlare con te- sospirò, a mezza voce – Mi erano mancati questi momenti-.
Avrebbe voluto aggiungere che viverne altri, simili a quello di quella notte, gli sarebbe piaciuto; tacque perché, in fin dei conti, esternandolo la casualità della cosa sarebbe inevitabilmente andata perduta. Non voleva togliere quell’aura di sorpresa che la loro passeggiata aveva mantenuto per tutto il tempo.
-Anche a me-.
Pietro annuì gravemente, prima di rivolgergli un sorriso che ad Alessio parve più malinconico che allegro:
-Buonanotte, Alessio-.
“Perché ti ho lasciato andare così?”.
-Buonanotte-.
Quando Pietro si voltò, incamminandosi, gli occhi di Alessio rimasero su di lui, tenendo osservata la linea delle spalle mentre si allontanava sempre di più. Si costrinse a girare le chiavi nella toppa solo quando lo ebbe perso di vista del tutto.
 
Every time that we run, we don't know what it's from
Now we finally slow down, we feel close to it
There's a change gonna come, I don't know where or when
But whenever it does, we'll be here for it
 
*
 
Remember those walls I built?
Well, baby, they're tumblin' down
And they didn't even put up a fight
They didn't even make a sound
I found a way to let you in
But I never really had a doubt
Standin' in the light of your halo
I got my angel now [4]
 
Lo squillo del telefono interruppe bruscamente il silenzio della stanza, facendolo sussultare.
Pietro alzò gli occhi dallo schermo del pc con fare annoiato, lanciando un’occhiata obliqua al display acceso del suo cellulare. Aggrottò subito la fronte, sorpreso, nel leggere il mittente della chiamata.
Lasciò perdere la revisione dell’articolo che avrebbe dovuto mandare in redazione di lì a pochi giorni, avvicinando una mano al cellulare, accettando velocemente la chiamata prima di accostarlo all’orecchio.
-Pensavo non ti saresti fatto risentire per altri sei mesi-.
Sentì ridere all’altro capo della linea, segno che la sua frecciatina non aveva avuto molto effetto.
-Potrei dire lo stesso di te, tío-.
“Touché”.
A Pietro non rimase che sbuffare:
-Come stai?- cambiò subito argomento, ben consapevole di aver appena ammesso la sconfitta.
-Starei meglio se alla proposta che ti farò entro i prossimi trenta secondi mi dirai di sì-.
Pietro aggrottò ancor di più la fronte, confuso: Fernando poteva talvolta sembrare criptico, ma così era decisamente troppo anche per lui. Aveva evitato elegantemente quella domanda per introdurre un nuovo mistero che stava lasciando Pietro piuttosto disorientato.
-Quale proposta?- si ritrovò a chiedergli, sperando ardentemente che Giada e Giacomo non rientrassero proprio in quel momento dalla passeggiata pomeridiana della domenica.
-Domani fino a che ora lavori?- controbatté Fernando, ignorandolo ancora.
Pietro rimase interdetto: era incerto se fargli notare che i trenta secondi erano appena passati, o che ad una domanda non si risponde mai con una seconda domanda.
Alla fine optò per la terza ed unica altra opzione che aveva:
-Fino alle cinque e mezzo- sospirò, stropicciandosi l’occhio destro.
-Quindi per le sei sarai libero e in città-.
Non era una domanda, né c’era ombra di dubbio nella voce di Fernando: era un’affermazione talmente certa che a Pietro sarebbe quasi dispiaciuto non confermare.
-In linea teorica sì-.
Cercò di ripassare a mente velocemente tutti gli impegni della settimana, ma per il giorno dopo non gli venne in mente nulla. Nessuna visita di Giada, né compere da fare, né nient’altro. Poteva dirsi libero.
-Allora che ne dici di vederci?-.
Solo in quel momento, con quell’ultima richiesta, la voce di Fernando gli era parsa insolitamente esitante. Pietro annuì tra sé e sé, pur consapevole che l’altro non potesse vederlo:
-Dove?-.
La risata di Fernando gli preannunciò che, in un modo o nell’altro, a quella domanda non avrebbe avuto risposta. Non subito.
-Lo scoprirai domani- gli disse, con tono che non ammetteva repliche – Ti passo a prendere alle sei-.
Pietro sapeva già, ancor prima di finire quella telefonata, che avrebbe passato il resto di quella giornata e metà di quella seguente a domandarsi cosa fosse venuto in mente a quel dannato pazzo di uno spagnolo.
 
*
 
-Ci eri mai venuto qui?-.
No, ovviamente non ci aveva mai nemmeno messo piede in quel posto, e Pietro non poté non ammettere l’errore madornale che quella sua mancanza rappresentava.
Conosceva il parco delle Rimembranze solo di fama, ma non lo aveva mai visitato, né ci si era mai anche solo lontanamente avvicinato. Se ne era pentito quasi subito, non appena Fernando aveva cominciato a condurlo lungo i sentieri alberati che fiancheggiavano la banchina del mare. C’era una calma estatica, in quel posto: la pace che a Pietro sarebbe servita in tanti altri momenti.
-No, è la prima volta che ci vengo- ammise, a malincuore – Sembra che tu mi stia facendo scoprire nuovi posti-.
Fernando ammiccò divertito nella sua direzione, prima di rivolgere lo sguardo alla sterminata distesa della laguna che sfociava nel mare. Avevano occupato una panchina di pietra all’ombra di due arbusti, per ripararsi dal sole che, per essere fine Marzo, picchiava quanto quello di piena primavera.
-È il mio posto preferito di Venezia, te l’ho mai detto?-.
Fernando parlò con voce sognante e a tratti malinconica, mentre si voltava di nuovo verso Pietro:
-Qui ho sempre trovato la pace che cercavo in certi momenti-.
“Avrebbe fatto anche al caso mio”.
-È bello qui-.
-Ci rimarrei per sempre, qui- mormorò di nuovo Fernando, inspirando a pieni polmoni l’aria salmastra.
Quando il pomeriggio prima aveva ricevuto la sua chiamata, Pietro non aveva nemmeno cercato di fare supposizioni sul posto in cui si sarebbero fermati per quel giorno: aveva imparato che, con Fernando, le sorprese si sprecavano in continuazione. Aveva fatto bene a non scervellarsi per cercare di indovinare: qualsiasi opzione che sarebbe potuta venirgli in mente non sarebbe mai corrisposta alla soluzione.
-L’altra sera ho incontrato Alessio al cinema-.
Erano passati alcuni minuti di silenzio, prima che a Pietro venisse in mente quel particolare. Fernando girò appena il volto verso di lui, il sopracciglio alzato per la curiosità.
-Del tutto a caso, senza nemmeno che ci mettessimo d’accordo- proseguì Pietro, trattenendo a stento un sorriso divertito al ricordo – È stato strano-.
Fernando aggrottò la fronte:
-Cosa, incrociarvi per puro caso?-.
-Fosse solo quello- mormorò in risposta Pietro, trattenendo a stento una risata vagamente isterica.
Erano passati a malapena due giorni dalla sera in cui lui ed Alessio si erano incontrati, ma sembrava fosse molto più tempo: ogni momento in cui si era soffermato sul ricordo di loro due mentre passeggiavano di notte, lungo le calli deserte, gli sembrava più di pensare ad un sogno particolarmente vivido piuttosto che alla realtà. Era stato tutto così inaspettato che gli era ancora difficile credere che sabato sera si fossero ritrovati in una situazione simile, da soli, come in tempi lontani.
Si soffermò per un attimo con lo sguardo verso le acque azzurre davanti a sé: sembravano brillare sotto i raggi del sole calante di inizio primavera.
-Abbiamo passeggiato insieme, l’ho riaccompagnato a casa- iniziò a parlare a mezza voce, come se dirlo con un tono più alto significasse spezzare la forza del ricordo – Abbiamo parlato. È stato strano … È passato così tanto tempo dalle nostre serate in solitaria-.
-Non mi sembri dispiaciuto, però- commentò Fernando, con voce soffice. Anche se non era voltato verso di lui, Pietro poteva percepire il lieve sorriso che gli si stava disegnando sulle labbra: non si stupì affatto di notarlo per davvero quando, qualche secondo dopo, alzò gli occhi sul suo viso cereo.
-Diciamo che ora riesco ad essere sufficientemente distaccato da non soffrirci troppo- mormorò, scrollando le spalle – Ad un certo punto sembrava quasi ci stesse provando, e sono riuscito quasi a riderci su, quando sono tornato a casa-.
Rise debolmente nel riportare alla mente le gote arrossate di Alessio e la sua voce imbarazzata quando si era lasciato sfuggire il complimento verso le sue abilità di scrittura. Erano anni dall’ultima volta in cui si era esposto in quella maniera dolce ed impacciata per dirgli che apprezzava qualcosa di lui.
Fernando rise a sua volta, lanciandogli un’occhiata maliziosa:
-Fossi stato in te l’avrei messo alla prova e avrei osservato la sua reazione-.
-Non ho dubbi che tu l’avresti fatto- annuì Pietro, con convinzione.
Si bloccò per qualche secondo, indeciso se proseguire nel raccontargli ciò che, fino alla sera prima, gli era rimbalzato in mente più volte. Si morse il labbro inferiore, in preda all’esitazione: sapeva che con almeno qualcuno ne doveva parlare, anche solo per sfogarsi, ma l’idea di rompere la promessa fatta ad Alessio lo faceva sentire colpevole anche solo al pensiero di farlo.
Guardò Fernando di sottecchi: era forse la persona di cui si poteva fidare di più, in quel momento della sua vita. Era piuttosto sicuro che, se glielo avesse chiesto, non ne avrebbe parlato ad anima viva nemmeno sotto tortura.
-Mi ha detto una cosa, in confidenza-.
-Cosa?- gli chiese subito Fernando, aggrottando appena la fronte.
Pietro si morse il labbro ancora una volta, prima di lasciare da parte le ultime incertezze:
-In realtà gli ho promesso che non l’avrei detto a nessuno-.
Osservò l’altro sbuffare divertito, mentre si stringeva nel suo cappotto di mezza stagione:
-Beh non credo andrò ad attaccare i manifesti per tutta Venezia con la trascrizione di quel che vi siete detti- scherzò, sorridendo appena prima di tornare serio – Lo giuro-.
A Pietro venne quasi da ridere nell’immaginarsi Fernando andare in giro per la città a far sapere a tutti quel che gli stava per dire: in una situazione simile ad Alice, da quel che Alessio gli aveva detto, sarebbe preso un coccolone non da poco.
-Lui e la compagna si sono lasciato da un po’ di mesi-.
Si fermò quasi subito, rimanendo in silenzio per notare meglio la reazione di Fernando: lo vide sgranare gli occhi non appena compreso quel che Pietro gli aveva comunicato.
-Vivono ancora insieme, come se fossero due separati in casa- aggiunse quasi subito – Onestamente tutto mi sarei aspettato, tranne che sarebbe giunto il momento in cui gliel’avrei sentito dire-.
Aveva parlato d’istinto, senza davvero pensare a quel che stava per dire. Per i primi secondi non ebbe il coraggio di alzare ancora lo sguardo per incrociare quello di Fernando, né sentì il bisogno di doversi spiegare meglio: aveva la certezza che fossero bastate quelle parole per chiarire la situazione.
-E come ti senti al riguardo?-.
Pietro sbuffò debolmente, gli occhi piantati a terra, sulle sue scarpe circondate dai primi ciuffi di erba verde che stava iniziando a ricrescere.
-Non lo so- ammise, con un filo di voce.
Chiuse gli occhi per un attimo, il disorientamento che aveva provato nell’esatto momento in cui Alessio gli aveva dato quella notizia che tornava ad essere forte, a farlo sentire sperduto e sconcertato.
Aveva sempre evitato di immaginarsi un momento simile – e poi, quanti anni ci sarebbero potuti volere per sentirgli dire quelle parole? “Io e Alice non stiamo più insieme”, la sua speranza e la sua dannazione-, per il semplice motivo che farlo l’avrebbe tramutato in automatico in un’illusione. Era esattamente quello che si era sempre detto di evitare: non illudersi.
Forse era per quel motivo per cui, quando Alessio glielo aveva detto, era rimasto più spiazzato che altro.
Poi la sua sorpresa si era lentamente trasformata in paura, quando aveva realizzato, in mezzo secondo, che in fin dei conti le sue speranze non si erano mai davvero sopite del tutto.
-Il fatto è che devo mantenere i piedi per terra- si sforzò a dire, più a sé che non a Fernando – Non è che posso andare da lui e invitarlo fuori per un caffè e dirgli “Ehi, è un appuntamento, non un’uscita tra amici”. Non posso-.
La sola idea di avere una qualche speranza, un qualche minimo livello di possibilità di poterlo finalmente fare sul serio, era anche ciò che lo spaventava a morte. Prima di fare un simile passo avrebbe dovuto affrontare Giada, affrontare sé stesso, e poi forse rendersi conto che, per quanto potesse essere tornato single, Alessio poteva ancora guardarsi meglio intorno e scegliere qualcun altro che non era lui.
Fernando scosse per un attimo il capo, e già solo da quel gesto Pietro poté intuire il suo malcontento:
-Continuo a domandarmi perché sei tu per primo a metterti certi paletti. Mi sembra di ricordare che un tempo fossi stato ad un passo dal lasciarli perdere-.
La sua voce risultò ben più dura di quel che Pietro si sarebbe aspettato. Non sembrava davvero arrabbiato, non più di quanto non sembrasse amareggiato.
Cominciava a sentirsi anche lui così: era stato un idiota a tirar fuori quell’argomento, quando poteva benissimo immaginare dove sarebbero finiti a parare per l’ennesima volta.
-È facile parlare per te che non hai due figli- borbottò, torturandosi le mani.
Si pentì subito di averlo detto, ma non si scusò. Aspettò che Fernando si voltasse lentamente verso di lui, tenendolo osservato con sguardo grave, gli occhi scuri che lo tenevano fissato e davanti ai quali Pietro non riusciva a sottrarsi.
-Credi davvero che per me sia facile, Pietro?-.
Era bastato un secondo per cambiare l’atmosfera di timida allegria che, nel bene e nel male, c’era stata tra di loro fino a quel momento.
Pietro rimase in silenzio, dardeggiando con gli occhi sul volto smagrito di Fernando, cercando di carpire se a parlare fosse stata la rabbia, il dispiacere, o qualsiasi altra cosa.
L’unica cosa che riusciva ad osservare erano le sue iridi castane che non accennavano a spostarsi dal suo viso. Non riuscì ad aprir bocca, e forse, si ritrovò a pensare, fu un bene: Fernando sospirò pesantemente, prendendosi il volto tra le mani per alcuni attimi, prima di tornare a guardarlo con intensità.
-Prima ti ho detto che vengo qui per stare tranquillo, lontano dal resto del mondo … -.
La voce di Fernando era cambiata anch’essa, una sorta di malinconica a venarla e a farla risultare ombrosa, a tratti atona.
-E sai, quando ho deciso di chiamarti ieri, ero piuttosto indeciso su dove andare, in quale posto portarti per poterti parlare- proseguì ancora, lentamente come se le parole fossero difficili da trovare – Ma avevo la soluzione sotto il naso, perché qui è perfetto: il resto del mondo è lontano, e io qui mi sento a casa. Mi sento abbastanza sicuro per parlarti di quel che vorrei dirti-.
Pietro sentì il cuore accelerare appena, d’un tratto sulla difensiva. C’era qualcosa – una sensazione, qualcosa di così immateriale da non riuscire nemmeno a pensarlo- che gli diceva che non sarebbe stato qualcosa di semplice da dire. Forse erano gli occhi velati di Fernando, la sua voce profonda e con cui pronunciava le parole a rilento, o forse solo il presentimento che gli stava afferrando la bocca dello stomaco.
-È così tanto tempo che rimando questa conversazione che ho perso il conto dei mesi-.
Fernando spostò gli occhi verso il mare, osservandolo a lungo; Pietro ebbe il sospetto che stesse sorridendo, mentre continuava a tenere lo sguardo sulle onde morbide striate di spuma.
-Ma ormai il tempo stringe. Ora o mai più, no?-.
Pietro aggrottò all’istante la fronte:
-Che intendi dire?- gli domandò stranito.
Quando Fernando tornò a voltarsi verso di lui, dopo attimi di silenzio, Pietro riuscì a specchiarsi nelle iridi scure velate di poche lacrime, incastrate agli angoli degli occhi.
-C’è una cosa di cui ti volevo raccontare già da tempo, ma ho sempre rimandato il momento-.
Prese un altro sospiro, ma senza scostare lo sguardo:
-Per paura, ovviamente. Forse perché dirlo a te avrebbe reso ancor più reale il tutto. O forse perché non ne avevo le forze per farlo-.
Pietro si ritrovò a trattenere quasi il respiro, immobile come non lo era mai stato.
-Ho l’AIDS, Pietro-.
C’era il silenzio più completo attorno a loro, anche se si trovavano in un parco, di sera, quando il sole aveva appena accennato a calare e a colorare d’arancio il cielo sopra le loro teste e gli alberi che li circondavano.
C’era solo lo sciabordio delle onde, il fruscio delle prime foglie della nuova stagione, il chiacchiericcio distante delle persone che stavano passeggiando lungo le strade acciottolate.
-Che stai dicendo?-.
Pietro si meravigliò di essere riuscito a rendere udibile quell’unico filo di voce che era riuscito ad emettere.
Il leggero sorriso rassicurante che Fernando gli stava rivolgendo, con gli occhi ancora pieni di lacrime che però non gli ricadevano lungo le guance, cozzava irrimediabilmente con quello che gli aveva appena detto.
-Sono malato-.
C’era solo il rumore dei loro respiri, resi pesanti dai battiti accelerati, c’era solo il fruscio delle mani di Fernando che continuava a torturare il tessuto dei suoi jeans.
-Fino a Gennaio era solo HIV, ma la terapia non sembra aver funzionato molto. Probabilmente perché l’ho scoperto tardi e ho perso mesi preziosi. O forse solo perché non rientro tra i fortunati che ci convivono senza troppi problemi … E così ora … - esitò, mordendosi il labbro inferiore – Beh, siamo qui, quasi al traguardo-.
Allungò una mano verso il suo viso, tenendolo come per impedirgli di andarsene, o anche solo di guardare altrove.
“Respira, cazzo”.
Pietro deglutì a fatica, la gola chiusa che gli impediva anche solo di provare a parlare.
Sentiva girare la testa; non riusciva nemmeno a capire se riusciva ancora a respirare, perché il battito del cuore stava sovrastando tutto il resto, anche i suoi stessi pensieri.
-Sto morendo, Pietro-.
Non sapeva chi tra loro due stesse piangendo.
Osservò una lacrima rigare la guancia esangue di Fernando, scendere fino ad arrivargli alle labbra.
Forse anche lui stava piangendo, in totale silenzio, ma non riusciva a capirlo.
C’era quel silenzio attorno a loro che lo stava facendo impazzire, la mano di Fernando che gli sembrava troppo calda, il respiro che si faceva troppo affannoso.
Era come se gli avesse appena infilzato il cuore con uno stiletto: sottile, lungo, il dolore talmente veloce da non essere percepito prima di aver raggiunto la sua meta.
-Se è uno scherzo è uno scherzo del cazzo, ma veramente tanto del cazzo- farfugliò, la voce che raschiava contro la sua gola.
Il sorriso più mesto che si vide rivolgere non fece altro che soffocarlo:
-Non ti farei mai uno scherzo del genere-.
No, non lo avrebbe mai fatto.
Per quanto gli sarebbe piaciuto crederlo – per quanto stesse cercando di sperarlo con tutte le sue forze, per quanto si appigliasse ancora alla possibilità che non fosse reale-, Pietro lo sapeva: Fernando non lo avrebbe mai detto senza averne la certezza.
Quella consapevolezza che si faceva sempre più spazio in lui lo stava pugnalando ancor più duramente di tutto il resto.
Il sorriso triste di Fernando, le lunghe occhiate umide di lacrime che gli stava riservando, erano la pugnalata più devastante di tutte. Forse voleva solo cercare di rassicurarlo – ma cosa rimaneva da rassicurare, quando era lui per primo quello che aveva bisogno di sostegno?-, di continuare a dimostrargli che stava andando tutto bene anche se stava andando tutto a rotoli.
Pietro si lasciò sfuggire un singhiozzo colmo di disperazione.
Aveva pianto in silenzio fino a quel momento, accorgendosi a malapena delle lacrime che gli avevano inumidito tutto il viso. Riuscì a rendersi conto di quante ne fossero cadute solo quando si portò le mani per coprirsi il volto, trovando la pelle umida per le lacrime.
La mano che Fernando aveva tenuto sul suo viso fino a quel momento era scivolata lentamente sulla sua spalla, in una stretta gentile che gli ricordava la sua presenza lì accanto. Non gli disse nulla, non ce n’era bisogno: Pietro si sentiva così dilaniato da non credere nemmeno di poter riuscire ad ascoltare altro.
Non cercò di calmare i singhiozzi, né di renderli meno evidenti. Non cercò nemmeno di nascondere gli occhi arrossati quando, dopo alcuni minuti che gli sembrarono ore, abbassò lentamente le mani, tenendole a coprirgli la bocca con gesti febbrili.
Caos.
C’era solo caos nella sua testa, accompagnato da un silenzio assordante che lo disorientava.
Faticava a mettere in ordine i pensieri, a mettere insieme i pezzi: avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, a Fernando, ma la sola idea di mettere insieme una frase, anche la più semplice, gli risultava essere uno sforzo troppo grande.
Cercò a tentoni la mano di Fernando, posata ancora sulla sua spalla; pur andando alla cieca riuscì a trovarla, a posare sul suo dorso il palmo della sua mano.
Non riuscì nemmeno a voltarsi a guardarlo, il corpo tremante e la voce che ancora non riusciva ad uscire dalle sue labbra.
 


-Da quanto lo sai?-.
Doveva essere passata almeno mezz’ora dall’ultima volta in cui uno di loro due aveva parlato, ma Pietro non poteva affermarlo con certezza: continuava imperterrito a non voler controllare l’ora sul cellulare, sentendosi troppo spossato anche solo al pensiero di un gesto simile.
Il sole era calato quasi del tutto, il cielo che cominciava a farsi più plumbeo del previsto: c’era qualche nuvola che lo rendeva scuro, a tratti minaccioso. Forse, di lì ad un’ora, avrebbe cominciato a piovere.
-Sono diventato sieropositivo più di due anni fa, ormai-.
Fernando si schiarì la voce, portandosi le mani in grembo. Pietro si era ripreso a fatica, dopo parecchi minuti passati a piangere e singhiozzare senza riuscire a dire nulla: quando era finalmente riuscito a ritrovare un lume di razionalità a cui aggrapparsi, la prima cosa che aveva pensato era che doveva capire.
E star accanto a Fernando, per quanto gli fosse possibile.
-E da Gennaio … - la voce di Fernando si spense pian piano, prima che si lasciasse ad un accesso di tosse particolarmente violento. Dovette schiarirsi ancora una volta la gola, prima di riuscire a proseguire:
-Beh, te l’ho detto, non è andata come si sperava-.
Pietro annuì debolmente, dandosi dell’idiota.
Gli tornò in mente il loro incontro a Febbraio, quando aveva notato quei due strani rossori che macchiavano la pelle pallida di Fernando. Aveva accantonato il pensiero convincendosi che non fosse davvero nulla di che, che se fosse stato qualcosa di grave quanto gli avevano fatto supporre, Fernando glielo avrebbe detto già allora. Dovette trattenere a stento uno sbuffo d’amarezza, nel rendersi conto quanto ingenuo era stato.
Provò rabbia nel pensare a quanto le terapie per la sieropositività si fossero evolute nel corso degli anni, ma che quel particolare non avesse comunque fatto la differenza per salvare Fernando.
“Perché proprio lui?”.
-Due anni?- domandò invece, la voce ancora roca per il pianto di poco prima – Così tanto tempo?-.
Si sorprese solo in parte nell’accorgersi di non essere così tanto preso in contropiede come si sarebbe aspettato. La verità era che erano davvero due anni che Fernando era cambiato: a lungo si era domandato se fosse responsabile almeno in parte di quel cambiamento, ma si rendeva conto che, in fin dei conti, era stato ben altro a renderlo così.
Si voltò maggiormente verso di lui, la voce ancora incrinata:
-Ma com’è successo?-.
Era una domanda inutile, del tutto superflua, ma non era riuscito a togliersela dalla testa fino a quel momento. Non riusciva a capire davvero il suo bisogno di sapere, ma non riusciva comunque a reprimerlo.
Fernando scostò lo sguardo, forse davvero a disagio per la prima volta.
-Ricordi quell'articolo?- disse infine, a mezza voce – Quello che mi avevi letto tu il giorno in cui ci siamo visti, poco dopo la nascita di Giacomo-.
Pietro dovette scavare a fondo nella sua memoria, tornando a quella giornata e a quello di cui avevano parlato. Ricordò di qualcosa che aveva letto riguardante certe aggressioni nelle zone in cui c’erano locali frequentati apertamente da persone LGBT, e di come si era preoccupato e quanto orrore l’aveva colto nel leggere quelle righe d’articolo.
-Sì, vagamente-.
Fernando annuì, continuando a tenere lo sguardo dritto davanti a sé:
-Quel giorno non me ne ero reso conto del tutto, non ancora, ma c'ero anche io tra le vittime di quello squilibrato-.
Pietro avvertì un senso di nausea così forte che stentò a reprimere un conato.
-Cosa?- balbettò – Ti ha contagiato lui?-.
-Sì- stavolta Fernando non esitò –  Non ci avevo dato troppo peso, quando è successo. Pensavo fosse solo un ubriacone omofobo, uno dei tanti … Ma era quello lo scopo. Contagiare altre persone. Ho seguito la vicenda da vicino, dopo che … -.
Si bloccò per qualche secondo, come se non sapesse come proseguire.
-Dopo che avevo fatto il test ed ero risultato sieropositivo- mormorò – Ricordi che nell’articolo dicevano che chi era stato aggredito avrebbe fatto meglio a fare un test per le MST? Non era solo per precauzione-.
Pietro non riuscì a dire nulla. Era come se le parole gli si fossero congelate in gola.
-Sembra che non fosse molto fiero di essersi beccato una malattia da froci- Fernando disegnò delle virgolette nell’aria, con le dita, un sorriso pieno d’amarezza sulle labbra – Nella sua instabilità, trovava giusto far malare quante più persone possibili. Far vivere anche a noi il suo stesso destino. Andare fuori dai locali frequentati da noi, causare di proposito qualche rissa, durante le quali è facile graffiarsi, causarsi ferite … Soprattutto se ci vai con i denti. C'è stato un po' di scambio di sangue, solo che in quel momento non ci ho dato peso. Avere il suo sangue addosso mischiato al mio era l'ultimo dei miei pensieri-.
“Fino a che punto arriva la gente per far del male agli altri?”.
Pietro non aveva una risposta precisa a quella domanda, ma ciò che era accaduto a Fernando era un buon indicatore fin dove certe persone potevano spingersi.
Si sentiva totalmente impotente, terrorizzato e inorridito, e incapace di non provare una sorda rabbia.
-Immagino tu l’abbia odiato-.
Fernando non rispose subito, limitandosi a lanciargli un’occhiata veloce, in silenzio.
-Forse. Ma non è più importante- mormorò, a voce a malapena udibile – Non più. Ho deciso di non voler più guardarmi indietro, ora che rimane poco tempo davanti a me-.
-Perché non me l’hai detto?-.
Pietro tirò su con il naso, gli occhi che si inumidivano ancora. Tornò ad osservare le acque sempre più scure della laguna, il sole che aveva smesso di riverberare i suoi raggi sulle onde molli che si muovevano per la brezza.
-Ti avrebbe fatto troppo male, Pietro-.
Si sentiva addosso gli occhi di Fernando, ma non riuscì a restituirgli quello sguardo, non subito.
Cercò di respirare lentamente, in un ultimo tentativo di mantenere il controllo, ma l’unica cosa che riusciva a percepire era lo strappo sempre più grande che gli partiva dal petto.
-E ti saresti spaventato, e non era il caso-.
Si voltò verso Fernando, ignorando del tutto le lacrime che erano tornate a rigargli il viso. Non era più il pianto disperato di prima: erano lacrime silenziose, come se, inconsciamente, la rassegnazione avesse già preso il posto delle urla rabbiose che prima aveva lanciato dentro di sé.
-Ma ti avrei aiutato, in un qualche modo … - Pietro represse a stento un altro singhiozzo, la voce che sembrava sul punto di venire a mancare da un momento all’altro – Non so … -.
Fernando gli sorrise ancora in quella maniera che apparteneva solo a lui, un sorriso morbido e dolce che, in un modo o nell’altro, riusciva a far sentire Pietro al sicuro anche in quel momento di intima tristezza.
-Lo so, lo so che l’avresti fatto-.
Pietro scosse il capo:
-Ma i dottori che dicono?-.
Era una speranza inutile, lo sapeva già: bastava lo sguardo perso di Fernando, e quel che gli aveva detto poco prima per dargli quella certezza.
Pietro non era un medico, e le sue conoscenze in materia erano quasi del tutto inesistenti, ma proprio quel nome – AIDS, perfino quell’acronimo suonava così terribilmente male- lasciava un senso di ineluttabilità innegabile.
Ineluttabile, quella era la parola giusta: la fine, quella era ineluttabile sul serio.
-Che dicono … -.
Fernando sbuffò debolmente, a disagio:
-Dicono che è meglio che me la goda, arrivato a questo punto-.
Pietro si trattenne a stento dal dirgli che forse, da qualche parte, c’era qualche medico più bravo, specializzato a sufficienza per cercare di alleviare – si morse il labbro nel rendersi conto che risolvere quella situazione sarebbe stato impossibile anche per il massimo luminare in materia- gli effetti della malattia. Sarebbe servito tempo anche solo per trovare qualcuno del genere, e il tempo non era in loro favore.
-Non sempre va bene, non a tutti- continuò Fernando, con rassegnazione nella voce – Sono sicuro che qualcun altro al posto mio ora sta portando avanti la sua terapia e tiene a bada l’HIV meglio di quanto non sia capitato a me-.
Quella era una consolazione talmente magra che Pietro non riuscì a reprimere uno sbuffo rabbioso:
-Non so come tu faccia a non essere incazzato-.
Fernando lo osservò intensamente per diversi secondi, uno sguardo che Pietro non riuscì a decifrare.
-Che senso avrebbe avuto passare quel che mi rimaneva da vivere incazzato per qualcosa, Pietro?- esalò infine, la fronte corrucciata – Non voglio sprecare le ultime energie per il rancore, nemmeno per quello che mi ha causato tutto questo-.
Aveva parlato con una durezza che trasudava tutta la stanchezza che doveva provare. Strinse le mani in grembo, lasciandosi andare ad un sospiro pesante; anche Pietro rimase in silenzio per un po’, stringendosi nelle spalle a disagio: l’unica cosa che riusciva a pensare in quel preciso momento era solo che, se ne avesse avuto la possibilità, avrebbe urlato fuori tutta la frustrazione che cominciava a provare.
-Eppure è per quello che è successo se ora stai per … -.
La voce gli morì in gola prima di riuscire a concludere la frase. Non riusciva a dirlo, non ad alta voce, non ancora; forse non ci sarebbe mai riuscito, nemmeno quando il fato avrebbe fatto il suo corso.
Si rifiutava di pensare a Fernando lontano da lui in quella maniera irraggiungibile come era la morte. Era un vuoto che già sentiva nascere dentro di sé, e che sapeva già, in un gioco crudele, che prima o poi sarebbe scoppiato del tutto.
-E allora?- Fernando si voltò ancora verso di lui, lo sguardo indurito quando la voce – A me va bene così, te lo posso assicurare-.
Sbuffò ancora una volta, sonoramente, mordendosi il labbro inferiore nervosamente. Ci vollero diversi minuti prima che, inalando un respiro profondo, Fernando tornasse a guardarlo con determinazione:
-Il fatto è che tu non ti sei mai esposto, non hai mai provato a vivere la vita che avresti voluto per te, e per questo sei spaventato all’idea della morte-.
Pietro abbassò per un attimo gli occhi, incapace di sostenere quelli castani di Fernando che ora non gli stavano lasciando scampo.
-Ma ti voglio dire una cosa: tu ora mi chiedi se ne sia valsa la pena, vivere come ho fatto io, vivere senza render conto a nessuno … -.
Quando rialzò il viso, Pietro si ritrovò di fronte il viso contratto e cereo di Fernando, lo sguardo grave e concentrato. Aveva parlato lentamente, come se avesse in mente con precisione tutto ciò che voleva dirgli. C’era qualcosa nel suo modo di guardarlo, si ritrovò a pensare Pietro, che trasudava più forza di quanto non si aspettasse:
-Tu ora vorresti che io mi incazzassi, che mi guardassi indietro e meditassi vendetta, ma non è così: ho deciso di vivermi la vita senza darmi limiti, magari rischiando le botte, magari rischiando anche di ammalarmi … Ma è stata una mia scelta. E non c’è niente di frivolo, o di stupido, nel decidere di vivere quel che si è ogni giorno, a testa alta, sempre, nonostante tutto-.
Fernando trasse un lungo sospiro, tornando a volgere lo sguardo verso le acque scure della laguna. Cominciava a calare la sera, il lampione a qualche metro da loro l’unica fonte di luce ormai rimasta che rischiarasse i dintorni.
-Preferisco morire con la consapevolezza di non avere rimpianti, di essere in pace con me stesso e con gli altri, piuttosto che avere l’alternativa di essere in salute e vivere nella rabbia, o dovermi precludere la mia libertà per fingere qualcosa che non sono- mormorò ancora Fernando, a mezza voce. Per un attimo Pietro ebbe il sospetto che quelle ultime parole le avesse dette cercando di trattenere le ultime lacrime, il respiro un po’ velocizzato e la voce incrinata.
Avrebbe voluto posargli una mano su una spalla esattamente come Fernando aveva fatto con lui prima, ma si trattenne: aveva l’impressione che quello non fosse il momento giusto per farlo. Attese ancora in silenzio, fino al momento in cui lo vide girarsi ancora, gli occhi lucidi:
-Lo so che è un discorso forte, e che magari non è nemmeno condivisibile … - Fernando tirò su con il naso, la voce arrocchita – Ma se tu dovessi morire domani, Pietro, potresti dire anche tu di non avere rimpianti, di non avere rancore verso nessuno?-.
Pietro tacque ancora, gli occhi che ricambiavano l’occhiata di Fernando.
-Secondo me no. Secondo me devi ancora trovare quel coraggio e quella forza-.
Il labbro inferiore gli doleva per la forza con cui l’aveva morso per gli ultimi secondi.
Avrebbe davvero voluto trovare il modo per controbattere a quelle parole di Fernando, dimostrargli che si sbagliava e che non era vero, che non era vero niente di quel che aveva detto su di lui. Dovette rifugiarsi in quel silenzio assordante che gli stava ricordando che, se non stava trovando nulla con cui confutarlo, era solo perché, a malincuore, Fernando aveva ragione.
Ce l’aveva sempre avuta, e ce l’aveva anche in quel momento di intenso sfogo.
-Io non sono come te-.
Gli venne ancora da piangere, anche se per motivi così intimamente diversi da quelli precedenti: stavolta c’era lui al centro di quel che Fernando gli aveva appena detto, c’era lui e la sua vulnerabilità messa a nudo.
-Non ci riesco a … - Pietro scosse la testa con rassegnazione – A fregarmene. Forse sono solo troppo codardo e basta-.
Lo sguardo di Fernando si ammorbidì quasi all’istante, mentre lo osservava in ascolto. Non era davvero arrabbiato, Pietro ne aveva la certezza: sapeva che se lo fosse stato avrebbe insistito ancora, senza arretrare di un millimetro. Invece, tutto quello che fece Fernando, fu passargli un braccio attorno alle spalle come a volerlo consolare.
“Dovrei essere io a consolare lui, non il contrario”.
-E io che pensavo di averti dato le basi per trasformarti nel miglior omosessuale di tutta Venezia- sospirò con teatralità Fernando, in un tentativo di alleggerire l’atmosfera che si era andata creando.
Pietro rise debolmente, cercando di tirargli una gomitata leggera in risposta a quella presa in giro del tutto affettuosa. Fernando lo attirò ancor di più nel suo abbraccio:
-A parte gli scherzi, non credi di star esagerando con la sfiducia in te stesso?-.
Le dita fredde di Fernando gli toccarono delicatamente il viso, spingendolo gentilmente ad alzarlo.
-Guardami-.
Con un sospiro, Pietro cedette a quei gesti, tornando ad alzare gli occhi su di lui, smettendo di provare a nascondere il volto nell’incavo della sua spalla.
-Non puoi pensare unicamente alla felicità degli altri e mai alla tua- sussurrò Fernando, accarezzandogli piano le guance ispide con i polpastrelli – So che fa paura percorrere la propria strada, piuttosto che seguire quella che gli altri si aspettano-.
-Non è solo quello- replicò Pietro, abbassando per un attimo lo sguardo.
Vide annuire l’altro, comprensivo:
-Sei terrorizzato dal metterti in gioco- disse semplicemente – Esattamente come la notte in cui ci siamo rivisti, dopo la laurea di Giulia: ero sicuro non avresti accettato le mie avances, che mi avresti mandato a fanculo piuttosto che rivedermi ancora … Eppure poi hai accettato il mio invito e sei venuto da me. Hai messo da parte la tua paura, quella sera-.
Pietro non fece nulla per impedire ad un sorriso intenerito di distendergli le labbra. Sembrava passata un’eternità da quella sera; gli sembrava incredibile quanto l’aver incontrato Fernando proprio quel giorno avesse cambiato invariabilmente tutto ciò che era venuto dopo.
-E guarda dove siamo ora- anche Fernando sorrise, continuando con le sue carezze – Hai fatto dei passi avanti, in fin dei conti-.
Pietro sbuffò amareggiato:
-Sì, ora sono un frocio consapevole che però si nasconde ancora nell’armadio-.
-Farai bene a romperlo, quel cazzo di armadio- Fernando gli puntò contro l’indice con aria minacciosa, ma l’unico risultato che ebbe fu quello di far ridere Pietro. Per un attimo gli parve che nulla di tutto quello che Fernando gli aveva detto prima fosse mai avvenuto: niente AIDS, niente filosofeggiare sulla vita, niente di niente. Poteva essere sembrato tutto un incubo troppo lungo, un incubo dal quale si sarebbe svegliato a momenti.
La mano che lo spagnolo gli posò su una spalla, però, era fin troppo reale per essere solo una proiezione della sua mente addormentata.
-E sai una cosa?- Fernando lo guardò sorridendo dolcemente – Sono sicuro che lo farai. Altrimenti non avrei sprecato il mio tempo con te-.
“Tu mi sopravvaluti”.
Anche Pietro avrebbe voluto avere la stessa fiducia verso di sé che aveva Fernando. Sarebbe stato curioso di sapere come lui lo vedeva: guardarsi attraverso gli occhi di Fernando doveva essere completamente diverso che ritrovarsi a convivere con la sua coscienza ogni singolo giorno. Forse, così, si sarebbe convinto anche lui di valere di più di quel che si considerava.
-Non credi che così anche Giada vivrebbe meglio?- continuò Fernando, con fare pensieroso – Troverebbe qualcuno che la ama sul serio. Saresti onesto con te, con lei, e con tutti coloro a cui tieni-.
Sì, probabilmente anche a Giada avrebbe giovato. L’ostacolo più grande era però anche dover subire i probabili sguardi d’odio e di rabbia che lei per prima gli avrebbe riservato, dopo essersi scoperta presa in giro per anni interi.
-E credimi, una volta che provi quella sensazione di libertà, Pietro, è troppo tardi per tirarsi indietro-.
Fernando si alzò in piedi traballando un po’, ma senza perdere l’equilibrio. Rimase di fronte a Pietro, e dopo qualche secondo gli allungò una mano come ad invitarlo ad imitarlo.
-Non c’è ritorno, non dopo aver assaggiato la vita vera-.
Pietro afferrò la sua mano, ma senza facendo forza su di lui. Quando si rimise in piedi a sua volta sentì la testa girare appena, dopo tutto quel tempo passato seduto.
-Questa conversazione ha preso una piega inaspettata- commentò, borbottando sottovoce. Si guardò intorno brevemente: non c’era quasi più nessuno, oltre a loro, nel parco a quell’ora. Doveva essere quasi ora di cena, ed ormai il buio della notte era calato del tutto.
Fernando prese a camminare, raggiungendo in pochi passi il vialetto che avevano percorso al loro arrivo, nella direzione opposta; a Pietro non rimase che seguirlo, fiancheggiandolo.
-Non per me- Fernando alzò il capo per guardarlo meglio, mentre continuavano a camminare – Sai qual è la cosa ironica? Che finalmente ti ho detto tutto quello che avrei voluto dirti da tanto tempo-.
“Io invece vorrei dirti ancora tante cose”.
Nonostante quel pensiero Pietro si limitò ad annuire in silenzio, continuando a camminare con il volto abbassato.
Avrebbe voluto rimandare ancora di un po’ la sua separazione da Fernando: in quel momento fermarsi con lui, anche senza per forza parlare, per qualche altra ora o anche per tutta la notte, gli sembrava l’unico modo per fargli capire che non lo avrebbe abbandonato. Le parole gli si incastrarono in gola, gli occhi che bruciavano ancora per il pianto di prima e per le lacrime che ancora cercava di trattenere.
In una decina di minuti arrivarono al molo dove Pietro avrebbe dovuto attendere il traghetto. Non aveva idea di quando sarebbe passata la prossima corsa, ma poco importava: in quel momento non badava neppure alla temperatura sempre più bassa e alla poca illuminazione che un lampione poco distante offriva loro.
Osservò Fernando in piedi accanto a lui, in silenzio: nonostante il volto smagrito e i capelli castani che arrivavano alle spalle, meno lucenti di quel che ricordava, conservava ancora il fascino che l’aveva colpito sin dalla prima volta che si erano conosciuti. Stava ancora tutto lì, nonostante il grigiore mortale della malattia.
-Sei sicuro che non ti serva una mano?- Pietro si schiarì la voce, agitando le mani nelle tasche del suo cappotto – Lo sai che devi solo chiedere-.
Fernando gli rivolse un sorriso riconoscente, insieme al cenno di diniego del capo:
-Sono sicuro, non preoccuparti-.
Fece un passo avanti, arrivando a meno di un metro da Pietro, guardandolo dritto negli occhi con la determinazione che aveva sempre rivisto in Fernando:
-L’unica cosa che mi interessa è che tu mi prometta di trovare quel coraggio di cui ti ho parlato prima-.
C’era dolcezza nella voce appena incrinata di Fernando, e la stessa ostinazione che Pietro gli leggeva nelle iridi scure.
-Non devi farlo per nessun altro, Pietro, ma per te- mormorò ancora, allungando una mano e poggiandogliela a palmo aperto sulla guancia fredda – Per favore-.
Pietro sospirò pesantemente, il groppo in gola che gli impediva di dire tutto quello che avrebbe voluto.
Aveva paura, ed era sicuro che Fernando glielo stesse leggendo in faccia. Era una promessa dal peso importante, quasi come se fosse un giuramento.
Si morse il labbro inferiore, esitante per un secondo: c’erano fin troppi pensieri che gli vorticavano nella mente – Giada, i loro figli, la sua famiglia, tutta la facciata fondata su bugie che aveva faticosamente costruito negli ultimi anni-, ma c’era anche Fernando lì davanti a lui, in attesa di una risposta.
Non poteva dargli una delusione simile, non così, non in quel momento.
-Te lo prometto-.
Pietro portò una mano a coprire quella che Fernando gli teneva ancora sul viso, le lacrime agli angoli degli occhi che minacciavano pericolosamente di tornare a rigargli la pelle del viso.
-E tu promettimi di venire da me a chiedermi aiuto, se dovessi trovarti nei guai- sussurrò, non cercando nemmeno di nascondere la voce spezzata dal pianto – Lo so che ultimamente non ci siamo visti spesso, ma ci sarò sempre per te-.
Si fece avanti, appoggiando delicatamente la sua fronte a quella di Fernando, in un contatto più intimo di quanto non sarebbe stato un bacio.
-Non sei solo, Fernando-.
Anche tenendo gli occhi chiusi, e non potendolo vedere, sapeva che Fernando gli stava sorridendo ancora, anche lui con gli occhi lucidi.
-Neanche tu-.
Lo sentì muoversi appena, e Pietro non si stupì quando sentì le sue labbra poggiarsi piano sulle sue.
Non gli sembrò sbagliato, in quel momento, dischiudere e frapporre le labbra a quelle di Fernando: era un bacio che, per quanto inaspettato, era giusto. Un semplice toccarsi, un contatto che gli ricordava quello che avrebbero potuto avere due anni prima, quando una nuova vita sembrava essere stata ad un passo, ma che poi era finita accartocciata in un angolo delle sue memorie.
Quando Fernando si staccò dopo qualche secondo, Pietro riaprì finalmente gli occhi: lo vide con il viso umido per le lacrime, ma sempre con lo stesso sorriso sincero che gli rivolgeva sempre per rassicurarlo.
-Ricordati sempre chi sei, Pietro-.
Rialzò il capo, un’ultima carezza sul suo viso prima di staccare la mano.
-E se non vuoi farlo per te stesso, fallo per me-.
Pietro lo osservò allontanarsi subito dopo, passo dopo passo, in silenzio, sempre più distante. Si rese conto che avrebbe voluto fermarlo, dirgli di restare con lui ancora un po’, ma la voce gli mancò per dirglielo quando ancora non era troppo tardi.
La figura di Fernando venne risucchiata dal buio della sera, insieme al vuoto all’altezza del petto che Pietro si sentiva addosso e che gli bloccava il respiro.
 
Everywhere I'm lookin' now
I'm surrounded by your embrace

Baby, I can see your halo
You know you're my savin' grace
 
*
 
“Le prime volte sono speciali, uniche.
Però le ultime volte non hanno paragone, non hanno prezzo. Il fatto è che la gente di solito non sa che lo sono”. [5]
 

Lanciò un’occhiata sconsolata fuori dalla finestra, esattamente come negli ultimi due giorni. Aveva iniziato a piovere nella notte tra lunedì e martedì, e dopo due giorni il cielo ancora non sembrava offrire nulla di diverso: Pietro osservò con una punta d’apprensione le gocce di pioggia che rigavano il vetro della finestra. C’era un cielo plumbeo nonostante fossero solo le sei di sera, quando era da poco rientrato in casa dal lavoro.
“Se continua così domani mi servirà una canoa per spostarmi”.
Era da un po’ di tempo che non pioveva così tanto, ed aveva sperato fino all’ultimo di non dover ritirare fuori gli stivali di gomma proprio ora che la primavera era appena giunta, per riuscire a spostarsi in una Venezia fin troppo allagata.
Sbuffò contrariato, allontanandosi dalla finestra e dandovi le spalle.
Sperò che Giada non avesse problemi nel rientrare a casa: gli aveva scritto un’ora prima che si era dovuta trattenere con Giacomo a Mestre un po’ più del previsto, per alcune compere urgenti.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans, controllando di non aver ricevuto qualche altra chiamata: nessuna notifica, nulla di nulla. Lo lasciò distrattamente sul tavolo della cucina, mentre si avvicinava alla credenza per tirare fuori un bicchiere che poi avrebbe riempito d’acqua.
Bevve qualche sorso velocemente, la gola arsa che finalmente gli dava meno fastidio. Si sbottonò i primi bottoni della camicia bianca, reggendo il bicchiere con la mano libera; non vedeva l’ora di poter liberarsi di quegli abiti troppo formali per i suoi gusti e infilarsi in una felpa comoda, nell’attesa del ritorno di Giada e Giacomo.
Per un attimo ripensò a quel che gli aveva detto Fernando la sera di lunedì, quando gli aveva fatto promettere di trovare il coraggio per parlare a Giada. Si chiese se non fosse stato troppo avventato: odiava anche solo l’idea di avergli promesso qualcosa che non avrebbe saputo mantenere.
Con la mano a mezz’aria, il bicchiere ancora mezzo pieno, si ritrovò a pensare che avrebbe potuto parlarle dopo la nascita del bambino, quando le cose si sarebbero stabilizzate maggiormente. Il suo era un ulteriore rimandare, ma nemmeno una rinuncia definitiva o la rottura della sua promessa: serviva aspettare il momento giusto, per un passo del genere.
Pietro si portò il bicchiere alle labbra, bevendo in un sol sorso l’acqua rimanente. Lo stava per appoggiare sul tavolo, quando il suo cellulare prese a vibrare.
Si allungò per capire chi lo stesse chiamando: era convinto fosse ancora Giada, ma si ritrovò invece a corrugare la fronte confuso, nello scoprire che il mittente era Giulia.
Accettò la chiamata e accostò il cellulare all’orecchio ancora spaesato.
-Pronto?-.
C’era silenzio, dall’altro capo della linea, sufficiente silenzio per sentirlo spezzare dal respiro irregolare della persona che lo aveva appena chiamato per parlargli.
-Pietro … -.
La voce di Giulia era incrinata, agitata e poco comprensibile. Pietro si sedette su una sedia della cucina, ancor più disorientato di prima, oltre che spaventato.
-Stai bene?- le chiese, allarmato. Non gli sarebbe servito avere di fronte Giulia per capire che stava piangendo fino ad un attimo prima di chiamarlo: il respiro veloce, la voce rauca e spezzata dai singhiozzi mal trattenuti erano tutti indizi che andavano in quella direzione.
Anche il silenzio che era calato non lasciava presupporre nulla di buono.
-Ma che hai?- le domandò ancora, con maggiore esortazione – È successo qualcosa?-.
Era insolito che Giulia chiamasse proprio lui, in caso di problemi. Nel corso degli anni, per qualche imprevisto, si era sempre affidata quasi esclusivamente ad Alessio, per la vicinanza a casa sua, o a Caterina. Si chiese, con parecchia ansia, se fosse capitato qualcosa a Filippo o alle gemelle.
Stava per riprendere a riempirla di domande, quando Giulia cercò di tossire per schiarirsi la voce e provare a parlare:
-Scusa, io … -.
Si interruppe di nuovo, respirando a fondo.
-Volevo venire da te per dirtelo, ma … - non riuscì a dire tutto quello che voleva comunicargli subito, un singhiozzo più forte degli altri che non era riuscita a soffocare – Non ce l’ho fatta-.
Pietro cominciò a sudare per l’agitazione, ma si rese conto che bombardarla di ulteriori domande non l’avrebbe portato da nessuna parte:
-Non fa niente- cercò di rassicurarla, pur consapevole che non sarebbe bastato – Che mi devi dire?-.
Ascoltò il pianto di Giulia per secondi che gli parvero lunghi ore intere.
Passò in rassegna tutte le ipotesi di quel che poteva essere successo per ridurla in quello stato, ma non riusciva a ragionare abbastanza razionalmente. Si rese conto che, oltre che a Giulia, anche a lui sarebbe servito qualcuno che lo rassicurasse.
-È Fernando-.
Pietro si raggelò sulla sedia, immobilizzandosi all’istante.
-Cos’è successo?- mormorò lentamente, il sudore per la paura che cominciava ad imperlargli la fronte – È in ospedale? Sta male?-.
Non lo aveva più sentito da dopo il loro incontro, e per un attimo si diede dell’idiota. Fernando aveva l’AIDS e, per quanto ne sapesse poco, era piuttosto sicuro che la sua salute ormai precaria potesse peggiorare significativamente da un momento all’altro. E non sapeva nemmeno se Giulia fosse al corrente delle sue condizioni.
Da lei non arrivò altro che silenzio e lacrime, senza che riuscisse a calmarsi.
-Giulia, mi vuoi dire qualcosa?-.
Pietro sentì risuonare la sua voce più disperata di quel che si sarebbe aspettato. Stava per mettersi a piangere anche lui, senza sapere nemmeno quel che era successo.
Sembravano secondi interminabili, durante i quali sentì solamente il battito del proprio cuore battergli così forte come se fosse sul punto di scoppiare.
-L’hanno trovato morto stamattina-.
Giulia stentò a parlare, il pianto violento che le sconquassava la voce.
-Credono si sia suicidato-.
La mano di Pietro cedette, facendo cadere rovinosamente il cellulare sul tavolo.
Il tonfo che fece fu l’unico rumore che interruppe il silenzio appena calato.







[1] Lana del Rey - "Change"*
[2] film del 2021 che per ovvi motivi (vedasi Covid) in Italia, in realtà, non è mai passato nelle sale cinematografiche ma solo in streaming ... Ma siccome in questa storia la pandemia non è mai avvenuta, facciamo finta che i cinema non siano mai stati chiusi LOL
[3] Jack Twist e Ennis del Mar, i protagonisti de "I segreti di Brokeback Mountain"
[4] Beyoncé - "Halo"*
[5] Persino "La casa di carta" regala citazioni molto memorabili 😂 e oltre a questa citazione, sparsi in tutto il capitolo potrete notare certe citazioni, più o meno esplicite, a "Skam Italia" e "Queer as folk" 😉
 
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente alle rispettive cantanti e ai loro autori 

NOTE DELLE AUTRICI
Era partito come un capitolo tranquillo … Ma non è finito esattamente nella stessa maniera
Questo quarto capitolo ha avuto come protagonista assoluto Pietro, che è stato affiancato da due delle persone che più hanno influenzato la sua vita. Il primo è Alessio, che vede in Pietro una persona a cui confidare gli ultimi cambiamenti avvenuti con Alice.
E di cambiamenti ce ne sono molti altri, ma con Fernando al centro, di cui finalmente scopriamo tutti i passati trascorsi negli ultimi due anni della sua vita. E arriviamo alla fine … Il finale che nessuno si aspettava e, ancor di più, che nessuno voleva, Pietro meno di tutti. La morte di Fernando, della quale il suicidio sembra la spiegazione più plausibile, ha sicuramente distrutto Giulia, la cui voce è rotta dal pianto, e soprattutto Pietro. Per lui, infatti, l'accaduto rappresenterà sicuramente un punto di rottura definitiva.
Che dire … Forse questo rimarrà come uno dei capitoli più importanti e più malinconici di tutta Walk of Life
Scopriremo come le cose cambieranno da qui in avanti, e inizieremo a farlo da mercoledì 28 giugno con il capitolo 5!
Kiara & Greyjoy
PS: vi avevamo promesso approfondimenti e curiosità sui personaggi e sui retroscena delle nostre storie e, per mantenere la parola, nei prossimi giorni scriveremo un post tutto dedicato al personaggio di Fernando e che pubblicheremo sui nostri social. Vi diamo quindi appuntamento su Facebook domani e su Instagram domenica!

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Fernando ***


Prima di leggere il capitolo: non proprio un tw ma una premessa per dirvi che questo sarà un capitolo abbastanza pesante a livello emotivo. Se non ve la sentite/non siete nella condizione psicologica migliore, potrebbe essere una lettura un po' dura.


 
CAPITOLO 5 - FERNANDO


 
There's an emptiness tonight
A hole that wasn't there before
And I keep reaching for the light
But I can't find it anymore
There's an emptiness tonight
A heavy hand that pulls me down
They say it's gonna be alright
But can't begin to tell me how [1]
 

“Taking your own life. Interesting expression – taking it from who? Once it’s over, it’s not you who’ll miss it. Your own death is something that happens to everybody else” [2]


 
Trascinò l’ombrello, ora richiuso, lungo il vialetto, gli occhi abbassati sui suoi piedi, l’udito perso ad ascoltare la quiete silenziosa che lo circondava e il lontano sciabordio delle onde della laguna.
Quando alzò gli occhi, per un lungo attimo, si ritrovò ad osservare il grigiore del cielo: aveva smesso di piovere, ma rimanevano nuvole tetre a coprire ogni traccia di sole. Non c’erano colori che rendessero quel posto meno malinconico: solo le macchie rosse dei mattoni dei muri e il verde intenso dei cipressi si distaccavano da quell’immenso miscuglio di toni freddi.
Le campane della chiesa di San Michele rintoccarono, riportandolo alla realtà con il loro frastuono secco, prolungato.
Pietro rabbrividì, stringendosi nel cappotto nero, di freddo e del dolore sordo che lo stava accompagnando per il quinto giorno di seguito.


 
L’isola di San Michele l’aveva sempre incuriosito, si ritrovò a rammentare mentre il traghetto attraccava al molo poco distante dalla chiesa. Ne aveva sempre sentito parlare come di un posto etereo, un posto in cui persino un cimitero poteva diventare un luogo d’interesse meramente turistico. Non aveva mai davvero preso in considerazione l’ipotesi di metterci piede per la prima volta per usufruirne in prima persona, di quel cimitero.
Quando sbarcò le sue gambe si fecero talmente pesanti da volerci interi minuti per arrivare vicino all’entrata della chiesa.
Pietro vi si fermò di fronte, gli occhi spenti a studiarne i mattoni candidi e le linee rigide e simmetriche, austere e intriganti come solo le linee di una chiesa potevano essere.
Prese un sospiro profondo, mentre lentamente riportava gli occhi all’entrata centrale. Sentiva arrivare dall’interno voci che intonavano inni religiosi, segno inequivocabile che il rito era già iniziato.
Giulia e Filippo dovevano essere già all’interno. Riusciva benissimo ad immaginarseli, Giulia che faticava a smettere di piangere, stretta a Filippo su una delle panche scomode, mentre lui le teneva un braccio sulle spalle.
Pietro rilasciò un sospiro, stanco e senza alcuna forza.
Lui, invece, non riusciva ad immaginarsi là dentro, ad ascoltare inutili inni cristiani e a pregare qualcuno o qualcosa che non era nemmeno sicuro esistesse.
Sapeva già che non sarebbe riuscito a starsene seduto, non fino alla fine.
E sapeva anche che, per quanto gli sarebbe piaciuto, non sarebbe nemmeno riuscito a distogliere lo sguardo dalla bara che era ai piedi del coro.
Si sentì svuotare anche delle ultime energie rimastegli, mentre in un attimo di avventatezza percorreva gli ultimi metri ed andava ad aprire la porta della chiesa.


 
Tirò su con il naso, affondando le mani nelle tasche del cappotto in cerca del fazzoletto che era sicuro vi fosse. Non riuscì a trovarlo, nemmeno dopo due tentativi: doveva essergli caduto in un qualche momento in cui non se ne era reso conto.
-Tieni-.
Alzò lentamente gli occhi, ritrovandosi di fronte Giulia, e la sua mano che gli porgeva un pacchetto di fazzoletti. Lo prese con un gesto lento, calcolato.
-Grazie- mormorò, atono.
Filippo era poco distante da loro, gli occhi arrossati e le guance ancora umide per le lacrime versate. Riusciva a mantenere un’aria sufficientemente distinta e dignitosa, un po’ come Giulia: Pietro non ricordava un altro momento in cui l’aveva vista vestita completamente di nero, e con gli occhi così gonfi da farli sembrare piccoli dietro le lenti degli occhiali.
Anche in quel momento, mentre le ridava il pacchetto di fazzoletti dopo averne sfilato uno, notò le iridi verdi di lei lucide, arrossate per il pianto degli ultimi giorni.
Lui, invece, l’aspetto dignitoso l’aveva perso da tempo.
La mancanza di sonno, d’appetito, di lucidità e di qualsiasi altro stimolo gli aveva scavato il volto. Gli occhi gli bruciavano, ma non aveva smesso di piangere nemmeno per evitare di strofinarseli ancora.
Avanzò di qualche passo, continuando a trascinarsi dietro l’ombrello, affiancando prima Giulia e poi Filippo, schiarendosi la voce:
-Le gemelle sono con qualcuno?- chiese, totalmente disinteressato alla risposta.
Filippo annuì debolmente, i capelli ricci che ondeggiavano lentamente in balia del vento che si era alzato da un po’.
-Le abbiamo lasciate da Caterina e Nicola-.
Anche Pietro annuì, soffiandosi il naso e riponendo il fazzoletto ripiegato in una delle tasche.
Desiderava con tutto il cuore andarsene da quell’isola maledetta, prendere il maledetto traghetto e tornarsene a casa, possibilmente rinchiudersi da qualche parte e rimanere in silenzio per altri giorni.
C’era un’unica cosa che lo teneva bloccato lì, che lo frenava dal lasciarsi definitivamente il cimitero di San Michele alle spalle. Alzò gli occhi su Giulia, sperando che quello fosse il momento giusto per domandarle quel qualcosa che lo tormentava da giorni, da quando aveva ricevuto la notizia che aveva cambiato tutto.
-Posso chiederti una cosa?- le si rivolse con voce rauca.
Giulia gli si accostò maggiormente, non riuscendo nemmeno a rivolgergli un sorriso di cortesia:
-Sì, certo-.
Pietro esitò, le parole che faticavano ad essere pronunciate. Dirle a voce non avrebbe fatto altro che rendere reale quello che sembrava – che sperava fosse- essere solo un incubo da cui non esisteva alcuna via di fuga.


 
La chiesa era tutt’altro che affollata, e d’altra parte non si era aspettato nulla di diverso.
Si guardò intorno, cercando di riconoscere un volto famigliare tra quegli sconosciuti di cui non sapeva nulla. Non ne conosceva i nomi, né il legame che potevano avere con Fernando, o quanto e da quando lo conoscessero.
Si sentì sperduto, in mezzo a quella chiesa mezza vuota, l’omelia che andava avanti, e quella bara che portava su di sé gli sguardi dei presenti.
Cercò di non voltarsi in quella direzione.
Si passò una mano sugli occhi gonfi e arrossati, troppo doloranti per piangere ancora. Non sapeva nemmeno se gli rimanesse qualche altra lacrima, oltre quelle che aveva già pianto.
Alzò lentamente lo sguardo, individuando Giulia e Filippo a qualche fila di panche più in avanti di dove si trovava seduto lui, talmente vicini alla bara che si chiese come facessero a rimanersene seduti lì senza impazzire.
Le prime panche, quelle davanti a tutti, erano vuote.
Non c’era traccia di qualche famigliare, nessuno dei Rodríguez Garcia che fosse lì a dare l’ultimo saluto al loro figlio. Pietro si morse il labbro con rabbia, ma non poteva dirsi sorpreso di quell’assenza: non avrebbe avuto senso trovarli lì a fingere di piangerlo, dopo non essersi nemmeno accollati le spese del funerale.
Alla faccia loro si poteva dire perlomeno, si ritrovò a pensare, che il Comune avesse dato a Fernando un funerale dignitoso. Molto più dignitoso di quanto lo sarebbe stato con la loro presenza.


 
Pietro lasciò andare un sospiro pesante, la voce che cominciava già a cedere prima ancora di provare a parlare:
-Come hai fatto a … -.
Le parole restanti gli morirono in gola, gli occhi che bruciavano pericolosamente.
Giulia abbassò gli occhi per qualche istante, forse sul punto lei stessa di abbandonarsi ad un altro pianto, ma poi li rialzò. Pietro avrebbe voluto essere come lei: sufficientemente forte per rialzarsi e farcela da solo. Ma non era come Giulia. Lui si stava tenendo in piedi a fatica.
-È un po’ complicata da spiegare-.
Giulia si schiarì la voce, muovendo un passo verso di lui:
-Lo sapevi che i suoi genitori gli hanno tagliato tutti i fondi quando hanno saputo che aveva l’AIDS?-.
Pietro scosse la testa, ma senza esserne troppo stupito: quel dettaglio era intuibile già da quando aveva saputo, sempre da lei, che il funerale sarebbe stato unicamente a spese del Comune. La loro assenza completa al funerale o al cimitero non aveva fatto altro che confermare che, tra loro e il figlio, qualcosa doveva essere successo.
-Era da Gennaio che stava in un B&B a pochi soldi- proseguì Giulia, passandosi una mano sul viso tirato – Sai, per risparmiare … -.
Pietro la osservò mentre chiudeva lentamente gli occhi, soffocando l’ennesimo singhiozzo. Filippo, rimasto in silenzio fino a quel momento e a pochi passi da loro, le si avvicinò cautamente, posandole una mano su una spalla.
-Non lo sapevamo nemmeno noi all’epoca, o gli avremmo dato una mano- mormorò Giulia a fatica, scossa.
Pietro la capiva perfettamente: anche lui si stava incolpando di non aver fatto abbastanza dal momento in cui aveva realizzato quel che aveva fatto Fernando.
Forse, con quel senso di colpa schiacciante, non sarebbe mai riuscito a venire a patti.
-Non ha detto nulla nemmeno a me- disse atono, lo sguardo vacuo puntato sul selciato del vialetto.
Stavolta fu Giulia a lanciargli un’occhiata tutt’altro che sorpresa:
-Credo di sapere perché-.


 
Quando trovò il coraggio sufficiente per spostare appena un po’ gli occhi e far rientrare nella sua prospettiva la bara ai piedi del coro, Pietro ebbe la tentazione di scostarli subito come se si fosse appena scottato. Il legno lucido e scuro quasi scompariva sotto le ghirlande e i mazzi di fiori che vi erano appoggiati sopra e ai lati.
Pietro odiò quella bara, ne odiò i bei fiori appoggiati, ne odiò ogni più piccola sfumatura.
Si agitò appena sulla panca dove si trovava seduto da solo, in fondo alla chiesa, mentre continuava a tenere a forza gli occhi fissi in quella direzione.
C’era una minima speranza, che sfuggiva ad ogni razionalità e ad ogni logica, di vedere Fernando sbucare fuori da quella bara e gridare a tutti che era solo uno scherzo dei suoi. Riusciva quasi a sentire la sua voce allegra, lievemente roca, parlare a tutti per prenderli bonariamente in giro per le loro facce lunghe e tristi.
“Mi piace l’idea di essere seppellito vicino ad Ezra Pound, ma per la bara potevate a fare uno sforzo in più”.
Sì, riusciva decisamente ad immaginarselo.
 
Is there sunshine where you are?
The way there was when you were here
‘Cause I’m just sitting in the dark
In disbelief that this is real
In disbelief that this is real
 
Pianse silenziosamente, con rabbia, con tutto il dolore e la mancanza che gli occludevano la gola e gli facevano sentire il petto pesante.
 


Giulia lo guardò con sguardo grave, esitante come non lo era stata in nessun momento prima di quello. Pietro sperò che non fosse tentata di lasciar cadere l’argomento: non voleva essere protetto dal silenzio, non in quel frangente.
C’erano cose che lo avrebbero fatto soffrire – stava già soffrendo come un cane-, ma era consapevole che anche quel dolore sarebbe servito.
Gli serviva per capire, per cercare di comprendere, di dare un senso a quel gesto.
Ignorare le cose non sarebbe bastato a cancellare tutto, né a rendere il dolore meno sordo.
Fece un passo verso Giulia, nel momento in cui lei respirò pesantemente, stringendosi maggiormente a Filippo come in cerca di un appiglio.
-Da quel che mi hanno detto i poliziotti che l’hanno trovato, i gestori del B&B hanno scoperto cos’era successo solo perché la sua prenotazione della camera finiva il 1° Aprile, ma non si è presentato per il check out- iniziò a dire, sommessamente – Hanno aperto la camera, e … Beh, il resto lo sai-.
Pietro annuì a fatica: certo che lo sapeva com’era proseguita, lo sapeva fin troppo bene. La telefonata che aveva ricevuto da Giulia quel giorno sarebbe rimasta impressa a fuoco nella sua memoria per il resto dei suoi giorni.
-Un mese fa Fernando mi ha chiamato per parlarmi, mi ha spiegato tutta la situazione-.
Giulia alzò gli occhi su di lui, rivelandoli già lucidi e pieni di lacrime che solo miracolosamente non erano già scese a rigarle le guance esangui.
-Mi ha chiesto di non dirti niente-.
Pietro per un attimo si ritrovò sul punto di chiederle perché non gli aveva parlato comunque. Si trattenne pensando che, in fondo, Giulia aveva solo mantenuto la parola data ad un amico. Non poteva incolparla di aver rispettato quella che allora era stata la volontà di Fernando.
Si morse il labbro inferiore, colmo di rabbia: era sicuro che, se ce lo avesse avuto davanti, gli si sarebbe scagliato addosso per dargli dello stupido, per chiedergli perché avesse voluto tenerlo all’oscuro di tutto in quella maniera.
-Mi ha anche chiesto di potermi inserire come contatto d’emergenza in rubrica- Giulia proseguì passandosi una mano sugli occhi – È per quello che hanno chiamato me. Avevo anche provato a chiamarlo la sera prima, ma era appena successo e … -.
Non riuscì ad andare oltre: un singhiozzo le fece incrinare la voce, e il pianto che ne seguì fu tutt’altro che silenzioso come lo era stato prima.
Pietro rimase ancora in silenzio, pensando che, se solo avesse avuto altre lacrime da piangere, anche lui si sarebbe unito al pianto di Giulia.


 
Perché cazzo lo hai fatto?”.
Era l’unica domanda che gli ronzava in testa mentre gli addetti del cimitero di San Michele chiudevano con la calce fresca il loculo dove, una volta e per sempre, la bara di Fernando avrebbe riposato.
Pietro tenne gli occhi fissi su quel punto dove era appena sparita la bara dalla sua vista. Osservò uno degli addetti afferrare con delicatezza la lapide di marmo bianco che avrebbe completato l’opera.
“Avresti potuto parlarmi”.
Pietro guardò con rabbia la lapide, e con ancor più ira portò il suo sguardo alla foto che era stata scelta per adornarla. Non doveva essere più vecchia di due anni: Fernando aveva lo stesso sorriso sbarazzino e vivace che Pietro gli aveva sempre attribuito, i capelli castani che gli toccavano le spalle e gli occhi grandi e scuri allegri come li ricordava l’anno in cui l’aveva conosciuto.
In quel momento, se lo avesse avuto davanti, gli avrebbe dato un pugno dritto su quel viso che aveva baciato così tante volte che aveva perso il conto.
“Hai preferito essere codardo”.


 
-Ci hanno convocato nel pomeriggio, e ci hanno spiegato la situazione-.
Filippo aveva preso la parola al posto di Giulia, che continuava a piangere sommessamente con il volto seppellito tra la spalla e il collo del marito.
Pietro si limitò ad annuire ancora, senza riuscire a trovare le parole giuste. Non riusciva nemmeno a farsene venire in mente: si sentiva così schiacciato dal peso della verità che gli stavano raccontando Filippo e Giulia da sentirsi completamente impotente.
Mosse qualche passo oltre loro due, lo sguardo perso verso l’orizzonte della laguna. Cominciava a calare la sera, e le acque si facevano sempre più scure.
-Ha lasciato una lettera-.
Pietro si voltò di scatto indietro, verso Giulia. Aveva alzato il capo a sufficienza per riuscire a farsi udire chiaramente nonostante il groppo in gola e la voce rotta ancora dal pianto.
-È indirizzata a te, quindi … - si interruppe un attimo, prendendo un sospiro profondo – Credo che la debba avere tu-.
Pietro rimase immobile, spiazzato.
Non si era aspettato che Fernando avesse lasciato qualcosa di scritto: non si sentiva pronto a quell’evenienza. Non poteva nemmeno arrivare a pensare a come sarebbe stato posare gli occhi sulle sue parole dopo quel che era successo cinque giorni prima.
-Non so se sarei in grado di leggere qualcosa di suo ora-.
Era un’ammissione dolorosa, ma non poteva fare altrimenti.
Giulia si staccò lentamente da Filippo, avanzando verso di lui; quando gli arrivò di fronte, dopo pochi passi, gli posò una mano su una spalla.
-Te la darò più avanti, quando vorrai, ma è giusto che l’abbia tu-.
“Avrebbe potuto dirmelo in faccia quel che aveva da dire”.
Pietro tacque, respingendo a fatica quei pensieri.
-Ha lasciato spiegate alcune cose- aggiunse ancora Giulia, a mezza voce.
-Ne sono sicuro- Pietro evitò il suo sguardo, puntandolo verso le mura dai mattoni rossi che delimitavano il perimetro del cimitero, e verso gli alberi di cipresso – Ma ora non so se vorrei leggerle, quelle spiegazioni-.
Vide Giulia annuire, comprensiva, e le fu grato per quel suo tacito assenso.
-Ti voleva bene-.
“Gliene volevo anche io”.


 
Era un colpo al cuore leggere quelle poche righe sul marmo bianco.
“Fernando Jorge Rodríguez Garcia, 14 Giugno 1993 – 31 Marzo 2021”
C’era qualcosa che strideva tra quelle lettere e quelle cifre, qualcosa che urlava che era andato tutto storto, tutto in modo sbagliato.
Non era rimasto più nessuno lì, non dopo mezz’ora che la celebrazione era finita.
Era rimasto da solo, lì davanti, con gli occhi ridotti ad una fessura e il viso contratto dalla rabbia davanti a quella lapide.
Era sicuro che, da qualche parte appena poco distante, ci fossero Giulia e Filippo ad aspettarlo. Non si erano ancora parlati da quando era giunto lì.
“Avrei potuto darti una mano. Avresti potuto parlarmi”.
C’era ancora il sorriso di Fernando negli occhi di Pietro, il sorriso di quella vecchia foto che ritraeva un tempo ormai passato. Si rese conto, forse per la prima volta sul serio, che non avrebbe più rivisto quel sorriso. Non avrebbe più potuto inspirare il profumo della pelle di Fernando, non avrebbe più potuto toccarlo, non avrebbe più udito la sua voce.
Avrebbe voluto urlargli addosso tutta la sua frustrazione, se fosse stato certo che, ovunque fosse, avrebbe potuto udirlo: almeno avrebbe saputo quanto fosse incazzato con lui.
Strinse i pugni così tanto che si conficcò le unghie nei palmi delle mani, ma non vi badò. Il dolore fisico non era nulla in confronto a quello che aveva incastrato in gola, quello che gli stava togliendo il respiro.
Avrebbe voluto gridargli di tornare, anche solo per un minuto. Un minuto solo.
Rivedere quel sorriso con la consapevolezza che sarebbe stata l’ultima volta per sempre.
“Mi manchi”.
Pietro non fece nulla per provare a frenare le lacrime che gli rigarono il viso.
“Non sai quanto mi manchi”.


 
-Credo fosse un po’ innamorato di me-.
Pietro non portò la mano al viso per cancellare la lacrima che cadde ad inumidirgli la guancia.
Giulia annuì debolmente, gli occhi ugualmente lucidi.
-Lo credo anche io-.
No, lo sapeva, lo aveva sempre saputo che non si era sbagliato su quello. Era tutto il resto ad essere tutto, infinitamente, sbagliato.
“Mi manchi così tanto che ho paura di non farcela”. [3]
 
Have I been lost all along?
Was there something I could say or something I should not have done?
Was I lost all along?
Was I looking for an answer when there never really was one?
Was I looking for an answer when there never really was one?
 
*
 
And there's no remedy for memory
Your face is like a melody
It won't leave my head
Your soul is haunting me
And telling me that everything is fine
But I wish I was dead [4]
 
Fece girare stancamente le chiavi nella toppa della porta d’ingresso. La serratura scattò con uno schiocco sordo dopo un secondo; spinse la porta, trascinandosi dentro all’appartamento, richiudendola dietro di sé con un tonfo. Abbandonò il cappotto sull’appendiabiti con un gesto meccanico, e si tolse le scarpe, prima di avviarsi verso la camera.
Giada era con Giacomo sul divano del salotto, ridendo per qualche espressione buffa del figlio. Pietro la vide voltarsi lentamente verso di lui e raggelarsi quando posò gli occhi sulla sua figura, mentre passava fugacemente per quella stanza. Le fu grato per non aver detto nulla: si era limitata ad osservarlo in silenzio, in quei pochi secondi in cui Pietro aveva oltrepassato il soggiorno per imboccare il corridoio che conduceva alle altre stanze della casa.
La stanza da letto era calata nella penombra della sera; non badò nemmeno ad accendere la luce. Si limitò a chiudere la porta, sperando che a Giada non venisse la malsana idea di seguirlo e venirgli a parlare in quel momento. Forse, di fronte ad una porta chiusa, si sarebbe posta qualche scrupolo in più prima di entrare lì dentro.
Si lasciò andare sul letto, rannicchiato su un fianco e con il volto girato verso la finestra: da quella posizione riusciva solo a distinguere il cielo sempre più nuvoloso e la notte sempre più vicina.
Si sentiva la testa scoppiare.
Aveva lasciato Filippo e Giulia prendere il primo traghetto utile per tornare a Venezia, mentre il pomeriggio lasciava posto alla sera. Lui, invece, era rimasto al molo, davanti alla chiesa di San Michele, ancora per un po’. Si era ritrovato attorniato da diversi turisti, ma aveva continuato a sentirsi inevitabilmente solo.
Svuotato.
Aveva continuato a piangere silenziosamente, con gli occhi abbassati e gonfi. Uno dei turisti si era persino avvicinato per chiedergli, in un inglese dal forte accento tedesco, se avesse bisogno d’aiuto. Sforzarsi di sorridergli rassicurante, rispondendogli che se la sarebbe cavata, era stata una delle cose più difficili da fare della giornata.
Ora che era a casa, su quel letto dove si era steso ancora vestito, stropicciando inevitabilmente la camicia che aveva indosso, desiderava solo chiudere gli occhi e dormire. Lasciare tutto fuori dalla sua testa anche solo per qualche minuto.
Non era riuscito a chiudere occhio per tutti quei giorni. Aveva dormito solo qualche ora ogni notte, svegliandosi ogni volta con il fiatone e domandandosi cosa fosse successo prima di addormentarsi.
Poi la memoria tornava, tornava sempre, e tornava anche il ricordo di Fernando – tornava sempre il pensiero che lui non c’era più.
Si sentiva così esausto, così senza energie, da non riuscire neppure ad immaginare di non riuscire a dormire. Voleva cancellare, almeno per quel lasso di tempo, i ricordi di quella giornata, fare finta che non fosse esistita. Lasciò che le palpebre calassero, donandogli l’oscurità.
Avrebbe pensato al risveglio a come affrontare la vita che iniziava da quel giorno.
 



Non ricordava quando si era svegliato – era quella la realtà? O stava sognando?-, né com’era finito a vagare per San Marco, immersa nel buio della notte.
Pietro si guardò intorno: doveva essere davvero tardi, per non vedere nessuno in giro. Non c’era anima viva oltre a lui, solo la piazza e i suoi palazzi dorati.
Era senza cappotto, ma non provava freddo. Non provava nulla. Continuava solamente a camminare, verso una meta che doveva conoscere, anche se non la ricordava.
Arrivò fino al molo, dove nessuna barca o traghetto vi era attraccato. C’era una calma surreale, ed anche lui, inaspettatamente, si sentiva tale.
Dette un’occhiata intorno ancora una volta, incredulo di poter vedere Venezia così silenziosa, nel cuore della notte. Arrivò poco distante da una delle panchine che si trovavano lungo il molo, e solo in quel momento, posandovi gli occhi, si accorse di non essere solo.
Si fermò a qualche metro, gli occhi posati sulla schiena della persona che vi era seduta.
Prese un respiro profondo. Non era spaventato, perché anche se non poteva vedere il volto di colui che gli girava ancora le spalle, in fondo all’anima sapeva già chi fosse.
Non c’era paura, non poteva averne, non quando aveva sperato in quel momento così profondamente.
Pietro si decise ad avanzare, lentamente, il cuore in gola che continuava a martellargli velocemente.
Quando arrivò alla panchina, non portò subito gli occhi all’altro: si limitò a sederglisi a fianco, congiungendo le mani in grembo, lo sguardo puntato sulle acque nere e increspate della laguna.
-Sei tu?-.
Aveva parlato con voce a malapena udibile, ma nel silenzio della notte a Pietro parve quasi di aver urlato. Stavolta non attese oltre: si voltò verso l’altra persona, una flebile speranza a venargli la voce.
-Sei davvero tu?-.
Incontrò le iridi castane e famigliari di Fernando: erano sempre le stesse, gli occhi che aveva sempre conosciuto, ma erano anche occhi diversi. C’era una calma eterea, sul viso di Fernando, che non gli aveva mai visto.
-Conosci già la risposta a questa domanda- gli sorrise, sincero.
Sì, Pietro la conosceva.
Era una risposta che non osava pronunciare in quel mondo, ma una parte di lui la ricordava anche lì, e l’avrebbe ricordata ancora di più quando sarebbe tornato a riaprire gli occhi.
-Dove siamo?- chiese, in un soffio.
Forse anche lui era morto, mentre dormiva. Non c’era altro modo per spiegarsi come avrebbe potuto rivedere Fernando. Lo vide sorridere ancora, più malinconicamente:
-Non lo so- ammise, spostando lo sguardo davanti a sé – In un qualche luogo che per te sembrava adatto a questo incontro-.
“È solo un sogno” si ritrovò a pensare Pietro, scoraggiato, “Non è niente di reale”.
Si chiese se, piangendo nei sogni, si sarebbe messo a piangere anche nella realtà, durante il sonno. Si trattenne, per paura di poter svegliare il Pietro reale.
-Non vuoi parlarmi?-.
Pietro tenne fisso lo sguardo davanti a sé, le labbra serrate e le lacrime – di rabbia, di dolore, di felicità o tutto insieme, ancora non riusciva a capirlo- che spingevano agli angoli dei suoi occhi.
-Tu non l’hai fatto con me-.
Si morse il labbro inferiore, perché avrebbe voluto dirglielo con tutta la rabbia che sentiva in corpo da giorni, e invece era riuscito a parlare solo con un filo di voce strozzata, rotta dai singhiozzi che cercava ancora di trattenere.
-Ti sbagli, Pietro- la voce di Fernando, invece, era dolce, delicata – Ti ho detto tutto quello che volevo dirti prima di andarmene-.
Pietro si voltò verso di lui, lentamente, un vaffanculo sulla punta della lingua pronto ad essere pronunciato.
-Beh, hai saltato una parte bella consistente, non ti sembra?- sbottò, strizzando gli occhi e guardandolo con ira. Fernando non reagì, nemmeno in quel momento: sembrava essersi aspettato quella reazione – “Non è reale, è tutto nella mia testa”- sin dall’inizio. Non ne era turbato, né sorpreso.
-Sapevo che ne saresti venuto a conoscenza in ogni caso- disse, con lo stesso sorriso malinconico.
-Intendi con la tua lettera?- chiese Pietro, con amarezza – Non l’ho nemmeno letta-.
“E non so nemmeno se ci riuscirò mai”.
Fernando annuì pensieroso, accarezzandosi distrattamente la barba scura che gli copriva le guance:
-So che Giulia te la darà al momento giusto-.
Quella era una ben magra consolazione, e Pietro fu quasi sul punto di dirglielo – di sputarglielo in faccia, quanta poca differenza potesse fare una maledetta lettera. Si morse il labbro inferiore per cercare di trattenere le lacrime, per non crollare per l’ennesima volta.
-Non è una fottuta lettera d’addio che voglio leggere-.
Era riuscito a pronunciare quelle parole a fatica, affannosamente e con la voce pronta ad incrinarsi ad ogni secondo.
-Volevo che fossi tu a spiegarmi cos’era successo, a dirmi cosa stavi passando-.
Puntò gli occhi neri su Fernando, guardandolo dritto in volto:
-Ora non serve a niente- sibilò, con rabbia mal trattenuta – Serve solo a farmi sentire incazzato. A farmi sentire inutile-.
“E vuoto”.
Era così che si sentiva, da quando Giulia gli aveva detto che avevano ritrovato Fernando senza vita, in una squallida camera di un B&B da pochi soldi, appeso ad un lampadario con un lenzuolo stretto attorno al collo: inutile e vuoto.
Voleva che lo sentisse, voleva farglielo sapere come ci si sentiva, a stare dall’altra parte.
Era uno schifo che non se ne sarebbe mai andato, che sarebbe rimasto lì, sotto la pelle, ad accompagnarlo in qualsiasi momento futuro.
Avrebbe voluto urlarglielo in faccia con tutte le forze che gli rimanevano, urlare fino a farsi dolere la gola, ma non ci riuscì. Non riuscì nemmeno ad aprir bocca: il groppo in gola si era fatto troppo ingombrante, le lacrime gli offuscavano la vista e gli bagnavano le labbra con il loro sapore salato.
-Non lo sei, Pietro-.
Fernando parlò piano, sussurrando appena. Anche se aveva scostato lo sguardo, Pietro poteva immaginare la sua espressione di pentimento e dolore.
-Non sei mai stato inutile. Sei stato una delle persone più importanti della mia vita-.
Quelle parole fecero singhiozzare Pietro più rumorosamente, senza controllo.
Riuscì a respirare solo quando sentì una mano di Fernando posarglisi sulla spalla, stringendolo appena.
-Sono felice di questo- mormorò ancora, la voce rotta per la commozione.
Pietro chiuse gli occhi, il pianto che si era fatto silenzioso, scomparso nella notte.
“Avrei voluto sentirtelo dire davvero”.
Avrebbe voluto ricambiare la stretta di Fernando con un abbraccio, con un qualche gesto che potesse dirgli che, in un qualche modo, era ancora lì, accanto a lui.
Non si mosse: non voleva spezzare quell’illusione in cui si stava cullando.
-Eri innamorato di me?- mormorò così piano che temette di non poter essere udito.
Non c’era nessun altro intorno a loro, né calpestii né traghetti che muovevano le acque della laguna avrebbero potuto impedire a Fernando di cogliere ogni più lieve sfumatura della sua voce.
-Ti ho amato, sì-.
Quella sincerità, meno di una settimana prima, sarebbe stata in grado di annientarlo. Ora ne aveva bisogno, il bisogno quasi vitale di sapere, di avere le risposte che altrove non avrebbe più potuto avere.
-Ma tu avevi bisogno dell’affetto di un amico, non dell’amore di un amante- continuò Fernando, la voce animata da una sfumatura di dolcezza malinconica – Mi andava bene così-.
Quale sarebbe stata la sua risposta, quella vera, quella reale?
Pietro si morse ancora il labbro martoriato, rendendosi conto che quell’interrogativo lo avrebbe accompagnato per sempre.
C’erano così tante cose che ancora non sapeva, e se ne stava rendendo conto solo in quel momento.
Fernando non mollò la presa dalla sua spalla neppure in quel momento, sporgendosi appena verso di lui:
-Non devi sentirti in colpa per me- disse, con voce ferma. Pietro ancora non lo guardava, anche se lo sentiva vicino, con gli occhi scuri puntati sul suo viso.
-So che avresti fatto tutto il possibile per aiutarmi, ma anche se le cose fossero andate diversamente non c’era più nulla da fare per me-.
“Tu non sei qui”.
Pietro mosse lentamente il viso, gli occhi che incontrarono quelli profondi di Fernando in un attimo.
“Non sei più qui con me”.
Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che li dimenticasse?
Prima che cominciassero a farsi poco delineati tra i suoi ricordi?
-Perché l’hai fatto?-.
Avrebbe voluto risultare rabbioso, ma la sua voce suonò supplichevole, straziata. Non gliene importava nemmeno più.
-Mi hai lasciato solo, e io non so cosa fare, non so cosa dovrei fare- parlò ancora, gli occhi che ancora lacrimavano – Vorrei solamente poterti pensare ancora senza ricordare ogni volta che ti sei legato un cazzo di lenzuolo al collo e ti sei lasciato soffocare-.
Fernando gli stava restituendo lo sguardo senza vacillare, e Pietro lo rivide mesto e straziato esattamente come si sentiva lui.
-Vorrei poterti rivedere anche solo una volta, poterti parlare e abbracciare-.
Avrebbe voluto farlo anche in quel momento, ancorarsi con le braccia al corpo smagrito di Fernando e tenerlo stretto a sé.
-Quanto ancora dovrò aspettare per poterlo fare?-.
Si prese il volto tra le mani, e per la prima volta da quando era giunto lì, in quel posto sospeso tra la realtà e la supposizione, si sentì solo. Fernando gli era ancora accanto, ma era come se non fosse già più lì.
Aveva lasciato scivolare la mano che aveva tenuto sulla spalla di Pietro fino a poco prima, ma non aveva allontanato lo sguardo. Pietro se lo sentiva addosso anche se, con le mani ancora a coprirgli il volto, non poteva vederlo.
Lo sentì prendere un respiro profondo, forse trattenendo a sua volta le lacrime.
-Devi vivere la tua vita, Pietro-.
La sua voce risuonò ferma, anche se con la stessa vena gentile che gli aveva rivolto ogni volta. Pietro si asciugò frettolosamente le ultime lacrime, prima di decidersi a fatica ad alzare il viso verso di lui ancora una volta.
Fernando teneva le mani giunte in grembo, gli occhi che lo tenevano inchiodato con un velo di tristezza.
-A me non rimaneva più nulla che mi legasse alla mia, ma tu hai ancora tanto da dare a te stesso e a coloro che ti sono intorno- mormorò ancora, a mezza voce – Devi lasciare morire il Pietro che vogliono che tu sia, e lasciare che nasca il Pietro che sei-.
Pietro abbassò gli occhi per un attimo, sentendosi vacillare.
Era la stessa cosa che Fernando – quello vero, quello che aveva visto per l’ultima volta una settimana prima, e quello che non sarebbe più tornato- gli aveva detto prima di andarsene la sera che avevano passato al parco delle Rimembranze.
“Fa paura percorrere la propria strada, piuttosto che seguire quella che gli altri si aspettano”.
Quelle parole di Fernando gli vorticarono in testa, facendolo quasi soffocare.
Scosse il capo, rassegnato:
-Non so come fare- sussurrò, con un filo di voce.
Quando sentì i polpastrelli freddi e famigliari di Fernando raggiungere il suo viso non oppose resistenza: lasciò che lo girasse verso di lui, tenendogli ancora il volto tra le mani.
Gli stava ancora sorridendo, in un modo che a Pietro parve stranamente felice.
-Sì, che lo sai-.
Staccò le mani dal viso di Pietro poco a poco, con un gesto estremamente lento, come a voler rimandare quel momento il più possibile.
Fernando si alzò un attimo dopo, e Pietro sentì tutte le parole che ancora avrebbe voluto dirgli bloccarglisi in gola.
Lo osservò mentre gli stava di fronte, in piedi, e già sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco.
-Ti rivedrò ancora qui?- gli chiese, gli occhi alzati sul suo viso.
Fernando non rispose, limitandosi a restituirgli lo sguardo, le labbra ancora incurvate.
-Voglio sapere se ti incontrerò ancora-.
“Almeno qui”.
-Io sono sempre con te, non solo in questo momento- Fernando infilò le mani nelle tasche del giubbotto, una ciocca di capelli castani che gli ricadde sulla fronte.
Stava per allontanarsi, Pietro lo sapeva: lo avrebbe visto scomparire nella nebbia della città, risucchiato nella notte. Non cercò di trattenerlo: si sentiva pervadere da una straziata serenità, data dal sorriso di Fernando, che glielo impediva.
-Non me ne sono mai andato-.



 
Riaprì gli occhi lentamente, sentendo le ciglia umide e il bruciore che quasi gli impedì di alzare le palpebre.
Gli ci vollero un po’ di secondi per riconoscere il posto in cui si trovava. Pietro si guardò intorno a fatica, la testa che gli girava dolorante,  la vista ancora offuscata dalle lacrime. Si tirò su a sedere, muovendo lo sguardo per la stanza: era ancora nel suo letto, nella stanza a luci spente dove era entrato un’ora prima. Si passò le mani sul viso, cercando di scacciare quel senso di disorientamento che si sentiva ancora addosso.
“Era solo un sogno”.
Non si era mai mosso da lì, profondamente addormentato. Non c’era stata nessuna passeggiata nella notte lungo le calli di Venezia, nessuna panchina vicino San Marco nel totale silenzio.
Cominciava a sentirsi meno confuso, ma la sensazione delle dita di Fernando che gli toccavano la pelle del volto era ancora lì, palpabile come se fosse appena successo.
 
There's no relief
I see you in my sleep
And everybody's rushing me
But I can feel you touching me
There's no release
I feel you in my dreams
Telling me “I'm fine”
 
Si girò ancora una volta verso la sua sinistra, ma si ritrovò da solo. Si dette mentalmente dello stupido, perché non aveva alcun senso sperare di trovare Fernando seduto accanto a lui, come nel suo sogno.
Non c’era nessuno lì, nessuno oltre a se stesso.
Pietro si ributtò sul materasso, la delusione che ormai non riusciva neppure più a sconvolgerlo – cos’altro poteva straziarlo ancor di più, quando il limite era già stato raggiunto?-, né ad aumentare il vuoto che si sentiva dentro.
Rimase a fissare il soffitto, incurante dell’oscurità che ormai regnava anche dentro a quella stanza. Non aveva nemmeno la forza di alzare un braccio ed allungarlo fino alla lampada posata sul suo comodino.
Era stato tutto così vivido, quello che aveva vissuto sognando, così tanto che aveva ancora addosso la sensazione del freddo delle prime notti di primavera addosso.
Ricordava ancora il viso di Fernando, i suoi occhi espressivi e malinconici. Ricordava il tocco delle sue mani, il suono famigliare della sua voce; ricordava anche la rabbia e il dolore sordo che aveva provato.
“Devi vivere la tua vita, Pietro”.
Chiuse gli occhi sospirando a fondo, cercando di trattenere altre lacrime.
Si sentiva stupido al pensiero di sentirsi così condizionato da quello che era solo un sogno, nient’altro che quello. Eppure le parole che Fernando gli aveva detto – quelle del Fernando della sua mente- continuavano a ronzargli in testa, come una cantilena che non riusciva a frenare.
Si ritrovò a pensare che, probabilmente, quelle erano parole che gli avrebbe detto anche Fernando, quello vero.
Gli venne da piangere, al pensiero che non avrebbe più sentito la sua voce pronunciarle, dirgliele in faccia senza la paura di sembrare troppo insistente.
Persino la rabbia che aveva provato fino a quel momento, in un attimo, sembrò svanire, i contorni sempre più offuscati come quelli del viso di Fernando nel suo sogno.
 
Every time I close my eyes
It's like a dark paradise
No one compares to you
I'm scared that you
Won't be waiting on the other side
Every time I close my eyes
It's like a dark paradise
No one compares to you
But there's no you
Except in my dreams tonight
I don't wanna wake up from this tonight
I don't wanna wake up from this tonight
 
*
 
-Che hai?-.
Per i primi attimi Pietro non alzò nemmeno il viso, convinto che Giada ce l’avesse con Giacomo – forse stava cercando inutilmente di convincerlo a mangiare. Si limitò a tenere il volto chinato sul suo piatto ancora praticamente intatto, il gracchiare della televisione in sottofondo che spezzava il silenzio che ci sarebbe stato nella cucina della casa.
-Pietro?-.
Quando si sentì chiamare, gli ci volle qualche attimo per riportare l’attenzione al luogo in cui si trovava. Alzò lentamente gli occhi: Giada, dopo aver finito il suo risotto, si stava effettivamente affaccendando a far cercare di mangiare un po’ di mela a Giacomo, seduto sul seggiolone. Ma non era al bambino che stava rivolgendo il suo sguardo in quel momento: Pietro si vide le iridi azzurre di lei puntate addosso, in uno sguardo che non seppe decifrare.
-Che c’è?- le chiese, a mezza voce. Aveva la gola che gli doleva, forse più della testa e degli occhi, e meno parlava meglio stava.
Giada sospirò pesantemente, prima di parlare:
-Ti ho fatto una domanda- disse, piuttosto infastidita – Ti ho chiesto che hai-.
Pietro aggrottò la fronte, chiedendosi se aveva sentito bene, se magari era lui che non riusciva a cogliere il senso di quel che Giada stava cercando di dirgli. Si sentì tremendamente stupido, ma in fondo non gliene importava nemmeno molto.
-In che senso?- mormorò, sistemandosi meglio sulla sedia.
Mise da parte il suo piatto, quasi non toccato. Aveva accettato di sedersi a tavola quella sera solo per non lasciare ancora in solitudine Giada e Giacomo, non per reale appetito o voglia di parlare; cominciava già a pentirsi di quella scelta.
Giada posò la fetta di mela che teneva in mano, lasciando che Giacomo giocasse con uno dei suoi pupazzi che aveva sul seggiolone; si girò completamente verso Pietro, di fronte a lei, la fronte corrucciata.
-Nel senso … - iniziò a dire, e a Pietro sembrò quasi di rivederla durante le lezioni di matematica che aveva frequentato quando lei era ancora la sua insegnante, sempre pronta a trovare un modo alternativo per illustrare un concetto – Sei tornato a casa e non hai nemmeno salutato, ti sei rinchiuso in camera per due ore, e ora non apri bocca nemmeno per sbaglio. Si può sapere che succede?-.
Pietro si irrigidì sulla sedia, incrociando i gomiti sul tavolo e chiedendosi se valesse davvero la pena risponderle.
Era da parecchio che non si confidava con lei su nulla, ma su quel che era accaduto negli ultimi giorni non aveva nascosto niente, non ci sarebbe mai riuscito.
-Secondo te che ho?- le rigirò la domanda, parlando lentamente. Non si sentiva nemmeno arrabbiato: era troppo stanco per poterlo essere, senza energie.
Tenne gli occhi fissi su Giada così a lungo, senza dire nient’altro, da costringerla a distogliere lo sguardo, in difficoltà. La vide massaggiarsi lentamente il grembo gonfio, e cercare di reprimere una smorfia di dolore, prima di tornare a guardarlo:
-Capisco che sia un momento difficile, ma ... – cominciò, con più cautela. Stavolta Pietro non la lasciò finire: aveva già intuito dove volesse andare a parare.
-No, non lo capisci-.
La sua voce era risuonata dura, fredda, ma Giada non aveva abbassato il viso. Gli stava restituendo lo sguardo, con un’espressione insofferente che Pietro trovò al limite del sopportabile.
-È evidente che non comprendi, o non avresti mai iniziato un discorso del genere- disse ancora, cercando di non alzare la voce solo per non rischiare di far scoppiare in lacrime Giacomo – Uno dei miei più cari amici si è appena ammazzato. Secondo te come dovrei stare?-.
Giada provò a dire qualcosa, ma Pietro non le lasciò il tempo di articolare nemmeno la prima sillaba:
-Dovrei tenermi tutto dentro? Può darsi- disse, stringendo così forte le mani da segnare il palmo con le unghie – Ma non posso. Non ci riesco-.
Si trattenne a stento dall’alzarsi, anche se qualcosa gli diceva che non sarebbe resistito ancora a lungo. Forse era lo sguardo pieno di pena e rimprovero che gli stava rivolgendo Giada, o il suo sentirsi soffocare nel restare lì con lei, ma l’unica cosa che voleva davvero era uscire da quella stanza e, forse, uscire anche di casa.
-Volevo solo dire che dovresti provare a superarla- sospirò amareggiata Giada, dopo alcuni minuti di silenzio.
“Non ci provi neanche a metterti nei miei panni”.
-Massì, perché non fare finta di nulla dopo nemmeno una settimana?- Pietro lo disse con una risata amara incastrata in gola, i pugni ancora serrati e la voglia di sbatterli sulla tavola, o qualsiasi altra superficie, che gli faceva fremere le mani – Tanto ormai è crepato, no?-.
Giada aprì la bocca scioccata, come se si sentisse offesa lei per prima da quelle parole. Pietro si morse il labbro per evitarle di dirle altro, ma si alzò dalla sedia:
-Se ti dà tanto fastidio vedermi così, ti aiuto subito-.
Si sistemò meglio il maglione che indossava, senza nemmeno guardarla nonostante si sentisse addosso il suo sguardo. Riusciva perfettamente a raffigurarsela nella mente, ora guardinga e cauta.
-Dove vai?-.
La voce di Giada aveva vibrato, probabilmente dalla rabbia e dal dubbio. Pietro non si voltò verso di lei nemmeno in quel momento; si girò solo verso Giacomo, che per quanto non potesse ancora comprendere appieno quel che si erano detti, li stava guardando entrambi meno allegro di prima.
Avrebbe voluto rimanere solo per lui, per suo figlio, ma non ce la faceva.
Voleva solo prendere una boccata d’aria fresca, svuotare la testa da tutti i pensieri e allontanarsi da quel posto il prima possibile, prima che Giada continuasse a provare a farlo sentire in colpa per quel che provava.
-Non lo so- mormorò, mentre si avviava fuori dalla cucina – Ovunque è meglio che qui-.
Recuperato il cappotto ed infilate le scarpe aprì la porta d’ingresso, sbattendola un secondo dopo, alle sue spalle.
 
If they say
Who cares if one more light goes out?
In the sky of a million stars
It flickers, flickers
Who cares when someone's time runs out?
If a moment is all we are
Or quicker, quicker

Who cares if one more light goes out?
Well I do [5]
 
*
 
“But it's too late now, there's no turning back” [6]


 
Era deserta e buia anche la Venezia reale, quella in cui si ritrovava a camminare ormai da diverse ore. Era una nottata fredda, le stelle le uniche fonti di luce oltre ai lampioni con le loro luci giallastre e arancioni.
Pietro sospirò pesantemente, guardando verso le acque nere della laguna.
La temperatura era bassa, ma era come non sentirla: non ci pensava e basta, come se fosse infine riuscito ad astrarsi lontano dal suo stesso corpo.
Aveva camminato a lungo, dopo essersene andato di casa. Non sapeva esattamente quanto ci avesse messo ad arrivare fino a quel luogo, dopo aver seguito un percorso irregolare, fatto di calli strette e silenziose e piazzette dove le fronde degli alberi erano smosse dalla brezza leggera.
Anche lì, nel parco delle Rimembranze, gli unici rumori che poteva udire erano quelli delle foglie smosse, appena nate, degli alberi attorno alla sua panchina, e le onde della laguna.
Non aveva in mente di arrivare proprio lì quando aveva iniziato a camminare. Non aveva pensato a nessun posto specifico dove dirigersi: aveva solo preso a camminare, lasciandosi guidare dall’istinto più profondo, senza nemmeno domandarsi quale direzione stesse prendendo il suo corpo.
Non poteva dirsi stupito di trovarsi lì.
Forse aveva sempre saputo che per chiudere il cerchio era in quel luogo che doveva andare.
Pietro si lasciò ricadere contro lo schienale della panchina, sospirando a fondo. Era notte fonda, anche se ormai non doveva mancare molto all’alba; aveva passato lì talmente tante ore che si sentiva intirizzito, e le gambe gli avrebbero fatto male quando avrebbe deciso di rialzarsi.
Era come se fossero passati anni dall’ultima volta in cui aveva passeggiato su quei marciapiedi, in cui si era seduto su quella stessa panchina. Erano ricordi che sembravano appartenere ad un’altra persona che sentiva sempre più distante, sempre meno appartenente al presente.
Alzò gli occhi al cielo: sembrava un manto nero punteggiato qua e là d’argento, le stelle che ricambiavano il suo sguardo dall’alto.
“Io sono sempre con te”.
Pietro si sentiva stanco, la mente annebbiata, ma quelle parole gli risuonarono chiare nella mente, come se le avesse appena ascoltate.
Avrebbe voluto che Fernando glielo avesse detto sul serio, e che non fosse frutto solamente di un sogno. Avrebbe voluto sentirglielo dire, sentirsi rassicurato sul fatto che, anche se non poteva più vederlo, lui sarebbe stato lì in ogni caso.
Si sentì stupido nello sperarci, quando non aveva mai creduto che ci potesse essere qualcosa oltre la morte; in quel momento era l’unica speranza a cui riusciva ad aggrapparsi. Quella, e i ricordi che gli rimanevano.
 
Can you hear the drums, Fernando?
I remember, long ago, another starry night like this
In the firelight, Fernando
You were humming to yourself and softly strumming your guitar [7]
 
Gli sembrò di rivederlo lì, davanti a sé, il Fernando che aveva rivisto dopo mesi dalla laurea di Giulia. Lo riusciva a vedere con nitidezza, a ricordarlo con il suo sorriso sfacciato, la sigaretta stretta tra le dita e i capelli castani che rischiavano di ricadergli sulle spalle.
Non credeva nel destino. Non ci aveva mai creduto, e non lo avrebbe mai fatto, ma per la prima volta si ritrovò a pensare che, forse, c’era stato davvero qualcosa – qualcosa che non dipendeva solo e totalmente da lui, e che non avrebbe saputo definire- che aveva fatto in modo che Fernando capitasse sulla sua strada.
Pietro chiuse gli occhi per un attimo, quel pensiero che l’aveva colpito come una realizzazione improvvisa, che era sempre stata nascosta, lontana dalla superficie, e che emergeva solo ora, nel buio della notte.
“Hai messo da parte la tua paura, quella sera”.
Era quello che aveva fatto la sera in cui Fernando l’aveva invitato da lui la prima volta. Era quello che doveva fare ancora?
Pietro si morse il labbro inferiore, improvvisamente inquieto: avrebbe voluto avere Fernando lì con lui, a consigliarlo, a dirgli cosa fare, da dove iniziare.
Si sentì tremendamente sperduto, in quel momento, ma poi ricordò: Fernando era con lui. Lo era attraverso i ricordi, le parole, gli abbracci e i baci che c’erano stati. Quelli sarebbero rimasti per sempre, forse con contorni meno precisi e sempre più confusi, ma non l’avrebbero mai abbandonato.
C’era un modo, l’unico altro che gli rimaneva, per portare avanti l’eredità che gli aveva lasciato Fernando.
“L’unica cosa che mi interessa è che tu mi prometta di trovare quel coraggio”.
Sentì una lacrima scorrergli lungo la guancia, tiepida e lenta nell’incidere nel suo percorso. Si ritrovò ad alzare gli occhi, quando sentì che a colpirlo sulla fronte era stata una goccia di pioggia.
Pietro imprecò sottovoce, ma non si mosse: il cielo cominciava a venarsi delle prime luci dell’alba, il rosso e l’arancio mischiati all’orizzonte contro il blu della notte. Osservò le poche e rade nuvole sopra la zona in cui si trovava, alcune altre gocce di pioggia che lo colpirono inevitabilmente.
Aspettò qualche altro attimo, il dubbio di doversi alzare ed andarsene per ripararsi che gli si instillò amaramente nell’animo, come se l’ipotesi di allontanarsi da quel posto prima di sentirsi davvero pronto per farlo lo rendesse automaticamente inquieto.
La pioggia, però, non divenne più fitta: cadevano gocce meno rade, ma fini, leggere, che gli inumidivano i capelli e la pelle del viso con il loro tocco delicato. Tenne gli occhi chiusi, mentre alzava il viso verso l’alto, socchiudendoli appena per poter vedere l’alba che nasceva pian piano.
“Devi lasciare morire il Pietro che vogliono che tu sia, e lasciare che nasca il Pietro che sei”.
Era stata quella l’ultima richiesta che Fernando gli aveva fatto, nel suo sogno come nell’ultimo incontro che avevano condiviso.
Rinascere.
Si sentì quasi schiacciare dal peso di quel ricordo, e si sentì sperduto ancora una volta, terribilmente solo, in quel momento in cui si ritrovava a pensare a cosa dover fare.
Non c’era un modo indolore per lasciarsi alle spalle tutto, di quello era consapevole. Era altrettanto conscio che non ci fosse nemmeno un modo per andare avanti così.
“Cosa dovrei fare?”.
Sapeva che non c’era una risposta univoca. Poteva solo affidarsi all’istinto, alla propria coscienza e alla speranza che, in fondo, le cose non avrebbero potuto fare altro che migliorare.
Voltò appena la testa verso sinistra, dove su quella panchina meno di una settimana prima Fernando era seduto accanto a lui. Gli avrebbe detto cosa fare? Gli avrebbe detto come farlo?
“Sì, che lo sai”.
Non ne aveva la certezza, ma sentì dentro di sé che la risposta sarebbe stata no. Gli avrebbe solo detto di fare quello che sentiva fosse migliore per lui.
Era sicuro che, se Fernando aveva deciso di andarsene, fosse stato anche sicuro che, in fin dei conti, sarebbe stato in grado di affrontare da solo quella questione una volta per tutte.
“Lui ha sempre saputo”.
 
There was something in the air that night
The stars were bright, Fernando
They were shining there for you and me
For liberty, Fernando
Though I never thought that we could lose
There's no regret
If I had to do the same again
I would, my friend, Fernando
 
Le prime luci dell’alba cominciarono a rischiarare il parco. Pietro si girò lentamente verso il sole che stava sorgendo di nuovo, il cielo che si schiariva sempre di più. Era ora di andare.
Sentì le lacrime – di terrore, di dolore, di speranza- rigargli ancora una volta il viso, incontrando il sorriso che, pian piano, cominciava a distendergli le labbra.
Quando si alzò, gli occhi socchiusi per non rimanere abbagliato dai primi raggi del sole della mattina, si voltò un’ultima volta verso la panchina dove era rimasto seduto per tutte quelle ore.
C’era qualcosa di diverso: se lo sentiva addosso, mentre con lentezza staccava lo sguardo e lo puntava verso il vialetto che avrebbe percorso di lì a pochi momenti. Forse era la consapevolezza di dovere – di volere- mantenere la parola data.
“Te lo prometto”
Mosse un primo passo lontano dalla panchina, senza voltarsi indietro, la pelle del viso ancora umida e il sorriso che, nonostante tutto, non se ne stava andando.
Sarebbe stato un lungo cammino, ma nemmeno la notte più buia poteva durare per sempre.
 
Yes, if I had to do the same again
I would, my friend, Fernando
If I had to do the same again
I would, my friend, Fernando





 
[1] Linkin Park - "Looking for an answer"
[2] cit. dalla serie tv Sherlock
[3] cit. dal film "I segreti di Brokeback Mountain"
[4] Lana Del Rey - "Dark paradise"
[5] Linkin Park - "One more light"
[6] citazione dalla serie tv Queer as folk
[7] Abba - "Fernando"
Il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori
 
NOTE DELLE AUTRICI
In queste righe è trasparita tutta la tristezza e la malinconica, e il disorientamento, che la morte di Fernando ha lasciato in Pietro. Vi possiamo assicurare che non sono state pagine facili da scrivere, rivivendo certe esperienze e riversandoci ricordi e sensazioni da un punto di vista molto personale per noi autrici, e probabilmente non sono state nemmeno semplici da leggere. 
Ma dopo un dolore così immenso, alla fine arriva anche un nuovo giorno, e con esso anche una nuova consapevolezza che sembra smuovere Pietro: a cosa porterà tutto questo? 
Lo scopriremo mercoledì 12 luglio con il capitolo 6, "The truth untold"!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - The truth untold ***


CAPITOLO 6 - THE TRUTH UNTOLD


 
It's never too late
To be who you wanna be
To say what you wanna say
It's never too late
To leave if you wanna leave
Or to stay if you wanna stay [1]
 
“I morti ci parlano dalla loro tomba, e formano la nostra coscienza”

 
Quando sentì la porta dell’ingresso aprirsi, dopo minuti che gli erano parsi infiniti nell’attesa di quel momento, Pietro si irrigidì di colpo. Alzò gli occhi da Giacomo – seduto sul tappeto del salotto ed intento a giocare allegramente con uno dei suoi giocattoli- giusto in tempo per scorgere Giada fare il suo ingresso nella stanza. Aveva il viso stanco, il vestito che indossava che le lasciava le gambe leggermente gonfie scoperte e che sottolineava il ventre ormai visibile, ma con un sorriso luminoso che non le vedeva addosso da tempo.
Cercò di reprimere il pensiero che quello stesso sorriso e l’aria affaticata ma felice sarebbe durato ancora per poco, concentrandosi invece sull’ipotesi – ormai piuttosto certa- che la visita fosse andata bene.
Pietro si alzò con gesti lenti, scavalcando Giacomo con un passo lungo, andando incontro a Giada:
-Com’è andata?- le chiese semplicemente, ancora un po’ in apprensione.
-Bene- disse lei, avvicinandoglisi per lasciargli un bacio a stampo su una guancia. Pietro si irrigidì impercettibilmente, stringendosi nelle spalle: era piuttosto sicuro che quello sarebbe stato l’ultimo bacio che ci sarebbe mai stato tra di loro dopo quella sera.
La lasciò fare, ben consapevole che, quando avrebbe iniziato a parlarle – e quando lei avrebbe iniziato a capire dove la conversazione sarebbe andata a parare-, difficilmente gli si sarebbe riavvicinata ancora. Di certo non lo avrebbe fatto ancora allo stesso modo.
-La ginecologa ha detto che è tutto in regola- proseguì Giada, muovendo qualche passo verso l’interno del salotto – Sta crescendo bene-.
Pietro si sentì sollevato, e solo un po’ meno in colpa verso il piccolo non ancora nato.
-Bene, direi- si limitò a mormorare, rendendosi conto di non riuscire ad aggiungere altro per l’agitazione che si sentiva addosso. Avrebbe voluto dire a Giada altro, tanto altro – dirle che era sinceramente contento che andasse tutto bene, che fosse felice per lei e i bambini, che per loro ci sarebbe sempre stato in qualunque caso-, ma non ci riuscì.
Vide Giada guardarlo confusa per qualche attimo: per un attimo a Pietro sembrò quasi che avesse intuito qualcosa – ma come avrebbe potuto?-, che avesse l’impressione che di lì a poco qualcosa sarebbe successo.
Si schiarì la gola, ancora sorridente, posandogli una mano su un braccio:
-Mi ha anche detto un’altra cosa- mormorò, con voce dolce – È un maschio-.
Pietro allargò gli occhi, sorpreso. Avrebbe voluto esserci anche lui, a scoprire il sesso del bambino, ma non si sentì deluso a lungo. Aveva in parte sperato in una femmina, per questa volta, ma andava bene anche così: sapeva già che, così come con Giacomo, si sarebbe ritrovato ad amarlo profondamente dalla prima volta in cui l’avrebbe visto.
-Sono contento che stiate bene. Sul serio-.
Giada sembrò in attesa di un qualche suo gesto – un abbraccio, una carezza, un bacio- ma Pietro non si mosse. Non riuscì nemmeno ad allungare una mano per poggiarla sopra il grembo di Giada, il cuore che cominciava a palpitargli troppo forte.
Si chiese, per un attimo, se non fosse il caso di rimandare di qualche altro giorno, ma cercò di frenare quell’istinto subito: andava avanti così, a rimandare in continuazione, da troppo tempo.
Era giunto il momento.
Non sapeva se fosse quello giusto, ma non poteva essere rimandato ancora.
-Perché non vieni a sederti un po’ qua?- le disse, indicandole con un cenno il divano, schiarendosi la voce. Vide Giada guardarlo confusa, ma non protestò nel seguirlo. Si sedettero entrambi lì, uno di fianco all’altra, nel punto del salotto più distante da Giacomo, ma con una visuale piuttosto ampia per riuscire a vederlo.
Fu verso di lui che Pietro puntò gli occhi, durante quell’attesa: lo osservò giocare divertito, ogni tanto bofonchiando una qualche parola sgrammaticata che aveva appena memorizzato, i capelli castani che gli ricadevano quasi sugli occhi.
-Stai bene?- Giada lo distrasse, posandogli una mano su una spalla con delicatezza – Ti vedo strano-.
Pietro si voltò a fatica verso di lei, ma non fece in tempo a formulare una risposta che fu di nuovo Giada a parlare:
-E prima che tu me lo dica: ho capito che non è un bel periodo- mormorò, con cautela – Non intendo dire che tu non debba sentirti in lutto per il tuo amico, ma … -.
-No, ho capito cosa intendi-.
Pietro cercò di sorriderle, ma gli riuscì talmente a fatica e così forzato che vi rinunciò. Prese un sospiro profondo, distaccando ancora una volta lo sguardo, il cuore in gola e il fiato che si faceva sempre più corto.
-Effettivamente ti devo dire una cosa-.
-Cosa?-.
Anche se non la poteva vedere in viso, Pietro riuscì a percepire la leggera agitazione nella voce di Giada. Era una novità, sentirla così incerta.
Pietro cominciò a muovere il piede, ticchettando nervosamente contro il pavimento. Si era preparato quel discorso almeno un centinaio – un migliaio- di volte nella sua mente, ma nessuna delle tante gli sembrava la versione migliore da seguire, in quel momento.
Forse doveva solo improvvisare, sperare che le parole giuste, quelle migliori, sarebbero state pronte per essere pronunciate.
-Non so neanche se sia il momento giusto. Probabilmente no-.
Sospirò ancora, pesantemente, mentre si costringeva ad alzare lo sguardo verso Giada. Voleva guardarla in faccia, nel parlarle: non voleva nascondersi, non più.
-Il fatto è che potrebbe non esserlo mai, il momento giusto-.
Ci aveva riflettuto a lungo, ogni singolo secondo che c’era stato dall’alba vista sulla panchina del parco delle Rimembranze a quel momento preciso, in cui si ritrovava di fronte a Giada, senza più maschere a proteggerlo.
Aveva pensato a qualsiasi fattore potesse anche solo fargli pensare di rimandare a dopo la nascita del bambino che lei stava aspettando, ma quella prospettiva non era riuscita a convincerlo: dirglielo in quel periodo, o aspettare alcuni mesi non avrebbe alleggerito il peso che Giada avrebbe sentito addosso.
Non aveva idea di come avrebbe reagito, né di cosa sarebbe successo: sperava solo di non doversi separare per troppo tempo da Giacomo e dal bambino che ancora doveva nascere.
E sperava che Giada non lo avrebbe odiato per il resto dei suoi giorni, anche se l’avrebbe accettato se fosse successo: al posto suo avrebbe fatto lo stesso, lo sapeva.
-Di che stai parlando?- gli chiese ancora Giada, lentamente, a mezza voce.
Il sorriso che aveva quando era rientrata in casa si era andato spegnendosi inevitabilmente, sostituito da una cupa espressione d’ansia. Pietro si sentì tremendamente in colpa: l’aveva vista agitata nei giorni precedenti alla visita di quella sera, nel timore che qualcosa potesse andare storto, e ora che poteva sentirsi finalmente sollevata stava per arrivare l’ennesima tegola.
Si odiò profondamente per quello, ma non poté non ripetersi che, in fin dei conti, lo faceva anche per il bene di Giada stessa.
Le prese delicatamente una mano tra le sue. Non l’aveva mai fatto prima: non era mai riuscito a lasciarsi andare a quel genere di gesti con lei. In quel momento, per la prima volta, gli sembrò giusto, naturale, farlo.
-C’è una cosa … - sentì la propria voce tremare, di paura ed emozione insieme – Avrei dovuto dirtela molto tempo fa. Me la sono sempre tenuta dentro perché io per primo non riuscivo ad accettarlo. Ho sperato così tanto di poterla ignorare … -.
Abbassò per un attimo gli occhi, prima di tornare a puntarli su Giada. La vide sbiancare, e per un attimo pensò quasi che avesse già intuito, o perlomeno avesse qualche sospetto, su quel che le avrebbe detto.
Giada ricambiò la stretta delle sue mani, gli occhi chiari che tradivano insicurezza:
-Pietro, così mi spaventi-.
Avrebbe voluto dirle che non c’era nulla di cui spaventarsi, anche se lui per primo aveva una paura immensa di quel che sarebbe successo dopo quel momento. Avrebbe voluto dirle che, nonostante tutto, avrebbero potuto trovare una soluzione che non li mettesse troppo in difficoltà entrambi, che per i bambini e per lei ci sarebbe stato sempre.
Avrebbe voluto dirle che le voleva bene, gliene avrebbe sempre voluto, ma che non poteva offrirle nulla di più, e che non se lo meritava. Si meritava qualcuno che la amasse davvero, meglio di quanto aveva e avrebbe mai potuto fare lui.
Non riuscì a dire nemmeno una parola, il groppo in gola che gli impediva di dar voce a tutte quelle parole, e il cuore che aveva preso a battergli così forte che, nel quasi totale silenzio del salotto, si stupì che Giada non riuscisse ad udirlo a sua volta.
-Sono gay-.
Rilasciò il fiato che, senza quasi accorgersene, aveva trattenuto fino a quel momento.
Aveva parlato con un filo di voce a malapena udibile, ma gli sembrò di aver appena urlato. E avrebbe voluto farlo davvero, urlarlo a squarciagola e a pieni polmoni, in un momento che lo stava facendo sentire tremendamente male e più libero che mai allo stesso tempo.
Quando alzò di nuovo gli occhi, Giada lo stava guardando impietrita, cerea in volto.
-È uno scherzo?-.
Pietro sapeva che non credeva nemmeno lei a quella possibilità, glielo leggeva in faccia: era troppo immobile, troppo scossa per sperarci davvero.
-Non lo è- sospirò piano, scuotendo appena il capo.
Giada sfilò la mano che Pietro teneva ancora tra le sue, e non si stupì affatto di quel gesto. Se l’era aspettato, e non fece nulla per costringerla a subire un qualsiasi contatto fisico.
-Pietro, che cazzo stai dicendo?- sibilò, la rabbia che cominciava a superare lo sbigottimento iniziale, rendendole la voce tremante – Abbiamo un figlio, Pietro, e ne stiamo aspettando un altro-.
Pietro annuì debolmente, il senso di colpa che lo faceva sprofondare sempre di più.
Giada lanciò uno sguardo veloce verso Giacomo, troppo piccolo per comprendere, prima di tornare a guardarlo con sguardo duro:
-Mi spieghi come cazzo è possibile che tu sia gay?- disse ancora, sforzandosi di non alzare la voce ma riuscendoci a stento – Se devi lasciarmi almeno dammi un motivo più plausibile-.
-Non è una scusa-.
Pietro si passò una mano sul viso. Era perfettamente consapevole che la vera difficoltà sarebbe giunta da lì in poi: si era immaginato quel punto della discussione tante volte, ma nessuna si avvicinava nemmeno lontanamente alla realtà.
-È la verità- mormorò ancora, con decisione – La verità che ti ho taciuto per anni-.
Era una sensazione strana, quella di essersi liberato di un peso che l’aveva oppresso per così tanto tempo, ma non riuscire a sentirsene felice fino in fondo. Forse prima o poi ci sarebbe riuscito, a sentirsi davvero così. Era difficile, di fronte agli occhi attoniti e feriti di Giada, anche solo pensare che una qualche felicità sarebbe potuta derivare da quel momento.
-Non ti sei mai chiesta perché in certi momenti non ti cercavo mai?- proseguì ancora, dopo alcuni momenti di silenzio pesante – Perché le cose vanno sempre peggio, anche se abbiamo provato a fingere che non fosse così?-.
Da Giada non arrivò alcuna risposta, se non uno sguardo di pura rabbia.
-È per questo. Perché vivevo la vita di un altro-.
Pietro si ritrovò a pensare che sarebbe anche potuta essere una vita bella – con una famiglia felice, un lavoro di cui non poteva nemmeno lamentarsi, poter ancora scrivere, una bella casa dove vivere-, se solo fosse stata la sua.
-E so che ti ho trascinata dentro a questo casino, te e Giacomo e il bambino che deve ancora nascere, e so anche che per questo non mi perdonerò mai-.
Voleva che suonassero come delle scuse, le più sincere che poteva offrirle, ma era complicato anche solo pensare che a Giada potessero bastare quelle parole. Pietro sospirò a fondo, congiungendo le mani come se stesse pregando:
-Però è questa la verità. Ho provato a dirtelo anni fa, ma poi sei rimasta incinta e … E non ce l’ho fatta- mormorò ancora, trovando sempre più difficile continuare a parlare – Mi dispiace-.
Calò il silenzio per minuti che a Pietro sembrarono durare cent’anni. Aveva distolto lo sguardo da Giada, incapace di continuare a guardarla.
La sentiva respirare pesantemente, e poteva intuire già solo da quello la rabbia che doveva animarla. Tenne gli occhi fissi su Giacomo, seduto sul tappeto, che ogni tanto si distraeva ricambiando lo sguardo.
-Perché me lo dici ora?-.
Nel silenzio del salotto a Giada bastò sibilare quelle parole per essere comunque udibile.
-Sono successe cose che mi hanno fatto capire che non potevo più continuare a fingere- ammise Pietro con un filo di voce.
Quando si girò, vide il volto teso, gli occhi leggermente socchiusi e le labbra contratte di Giada: sembrava sul punto di trattenersi a stento dall’urlargli addosso, e Pietro non aveva alcun dubbio fosse esattamente così. Doveva cercare di trattenersi solo per non spaventare Giacomo.
-Ha a che fare con il tuo amico?- gli chiese aspramente, in una domanda che si avvicinava più ad un’affermazione.
Pietro si sentì insicuro, per davvero e nel profondo, per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata. Non poteva parlarle di Fernando, quello non l’avrebbe mai fatto: sarebbe servito solo a procurarle più dolore del necessario.
-Guardami, Pietro, cazzo- Giada alzò appena la voce, serrando i denti per non mettersi a gridare – Guardami e dimmelo-.
Voltarsi verso di lei fu quasi penoso. Pietro lo fece lentamente, come a voler ritardare, anche se solo di qualche secondo, il momento in cui l’avrebbe vista così rabbiosa.
Il modo di Giada per esprimere l’ira che la stava muovendo in quel momento era controllato, così sottile che traspariva unicamente dagli occhi e dalla tensione dei lineamenti del viso. Sarebbe quasi stato più facile, si ritrovò a pensare Pietro, se gli avesse urlato addosso qualsiasi insulto.
-Stavate insieme alle mie spalle?- gli chiese, dandogli uno schiaffo su un braccio – O magari te la facevi con Alessio, quando vivevate qui insieme?-.
Pietro si trattenne a stento dallo sgranare gli occhi. Poteva capire che Giada potesse sospettare di Fernando, ma non si era aspettato un’insinuazione simile su Alessio.
“Non può saperlo sul serio” pensò, cercando di ritrovare lucidità, “È impossibile”.
Doveva essere solo condizionata da Alessio e il suo non aver mai badato troppo a nascondere le sue preferenze. Doveva essere così per forza.
-Non c’entra nulla nessuno dei due. Sono io che ho deciso di dirtelo-.
Si rese conto di non aver parlato con la convinzione dovuta. Per un attimo gli tornarono alla mente gli anni in cui aveva vissuto con Alessio, quando erano così vicini e allo stesso tempo lontani: Giada non poteva nemmeno lontanamente immaginare cosa avesse significato vivergli accanto, amarlo nell’ombra, ed avere paura di esporsi.
-Hai scelto un gran bel momento per farlo- gli disse aspramente lei, guardandolo con durezza – Forse avresti dovuto pensarci molto prima-.
Era la verità, e Pietro non poteva farci nulla: non poteva negarlo, non quando Giada aveva così tanta ragione.
-Lo so- sospirò piano.
Giada si alzò un secondo dopo, una mano sul grembo prominente e il rumore dei suoi passi che rimbombavano nella stanza. Andò alla finestra, continuando a voltargli le spalle, e Pietro intuì che non voleva essere raggiunta. Si alzò a sua volta, ma non avanzò.
La sentì sospirare pesantemente, il volto ancora rivolto al di là del vetro chiuso:
-Voglio stare da sola- mormorò, dopo qualche minuto di silenzio. Aveva parlato piano, e non c’era traccia di rabbia nella sua voce, non più: Pietro distinse solo dolore, e per un attimo pensò che stesse trattenendo a stento le lacrime.
-Per un po’ di giorni, almeno- Giada proseguì ancora, continuando a dargli le spalle – Devo riflettere, capire cosa fare … Non ti voglio qui per adesso-.
Pietro annuì, inerme.
Se lo aspettava. Lo aveva messo in conto fin dall’inizio, ed in realtà lo stupiva che Giada gli avesse chiesto di andarsene solo temporaneamente.
Forse una parte di sé aveva sperato che non arrivasse a tanto, ma non riusciva a darle torto fino in fondo. Era forse lo stesso che avrebbe fatto lui, al posto suo.
E in fondo sapeva che anche per lui sarebbe stato meglio così: non sarebbe riuscito a sopportare il senso di colpa, più vivo che mai, nel restarle così tanto – troppo- vicino. Serviva tempo ad entrambi per ridisegnare una quotidianità che sarebbe stata irrimediabilmente del tutto nuova.
Ora non gli rimaneva che andare di là, nella camera da letto che avevano condiviso per anni, piegare qualche vestito di ricambio ed infilarlo in una qualche borsa. E poi, prima di andarsene a cercare un posto dove poter stare per quei giorni, si sarebbe chinato su Giacomo per lasciargli un bacio sul capo, per salutarlo.
-Va bene- mormorò, con voce a malapena udibile.
Non ricevette alcuna risposta da Giada, né la vide voltarsi, ma sapeva che aveva capito.
Mentre si incamminava verso la stanza da letto si ritrovò a pensare che, dopotutto, non era tristezza quella che si sentiva addosso.
Era qualcosa di più simile al disorientamento.
Quello di un animale che, per la prima volta dopo anni, si ritrovava a vagare al di là delle sbarre della gabbia in cui era rimasto imprigionato, senza ancora riuscire a capire cosa fare.
 
Da grande sarai frocio
E non è un reato
Niente di sbagliato
E ti chiedi perché
Se ne accorgono tutti, tutti tranne te
E imparerai che
Per nascondere il dolore basta un po’ di correttore [2]
 
*
 
-Si sono appena addormentate-.
Caterina tornò stancamente a sedersi all’angolo del divano, sistemandosi meccanicamente le pieghe dei pantaloni eleganti che aveva indosso da quella mattina, da prima di uscire per andare in ufficio. Si sentiva gli occhi pesanti e le membra stanche, ma in quel momento cercava di non badarci: l’aria di Giulia, il viso cereo e gli occhi gonfi, la preoccupavano ben di più.
-Meno male- la sentì sussurrare, mentre si passava una mano sulla fronte, tenendo gli occhi chiusi – Credo che il mio mal di testa sia comunque peggiorato-.
-Vuoi che ti vada a prendere qualcosa?- le chiese Caterina, già pronta ad alzarsi di nuovo. Era arrivata a casa di Giulia e Filippo da meno di mezz’ora, prima di tornare direttamente a casa sua da Nicola e Francesco, e per la maggior parte del tempo entrambe le gemelle avevano pianto ininterrottamente.
Ancora non riusciva a credere al miracolo di essere riuscita ad addormentarle da sola, lasciando Giulia a riposare sul divano, vittima dell’emicrania.
Lei scosse il capo, debolmente:
-No, non è passato molto da quando ho preso l’aspirina-.
Caterina lasciò ricadere la testa contro lo schienale del divano, imitando la posizione in cui si trovava Giulia, osservandola di sottecchi con apprensione.
-Filippo torna a casa tra poco, giusto?- le chiese, con vaghezza. Non era del tutto sicura che la sua presenza avrebbe migliorato le cose: da quel poco che le aveva scritto Giulia negli ultimi giorni, tenendola aggiornata per messaggio nel passare di quella settimana di Aprile, nemmeno Filippo sembrava passarsela troppo bene.
-In realtà credo si fermerà in palestra- sospirò Giulia, voltandosi verso di lei. Caterina aggrottò la fronte, confusa, e bastò quello per spingere Giulia a spiegarsi meglio:
-Ha iniziato da poco, neanche un mese- disse, con semplicità – Per sfogare lo stress, e tenersi in forma-.
Caterina annuì, pensierosa:
-E funziona?-.
Giulia alzò le spalle, le braccia incrociate contro il petto:
-Torna a casa meno nervoso. E poi … - si interruppe per un attimo, il viso appena un po’ più rabbuiato di prima – Beh, durante questa settimana sarei andata anche io in palestra, giusto per prendere a pugni qualcosa-.
Caterina annuì ancora, senza sapere bene cosa risponderle.
La verità era che, quando Giulia l’aveva chiamata la sera che aveva seguito il giorno del suicidio di Fernando, si era ritrovata spiazzata lei stessa, come se uno schiaffo le fosse arrivato dritto in faccia.
Non lo conosceva bene, non quanto lo conoscevano Giulia, Filippo e Pietro. Non lo conosceva abbastanza per capire le dinamiche di quel che era accaduto, ma lo conosceva a sufficienza per ritrovarsi a sua volta travolta dalla tristezza che aveva accompagnato loro tre in quei giorni.
-Sì, lo capisco- sospirò pesantemente Caterina, malinconica – Non è stata una settimana semplice-.
Non aveva mai saputo come riuscire a stare accanto ad una persona in lutto, e forse non lo sapeva nemmeno ora, che di fianco a Giulia aveva passato tutte le sere dell’ultima settimana. Non aveva idea se fosse stato sufficiente per alleviarle quel dolore, anche solo in parte.
-Ho l’impressione che a Pietro sia andata anche peggio- mormorò Giulia, quasi sovrappensiero.
Caterina annuì impercettibilmente:
-Vorrei passare a vedere come sta, ma lo sai com’è … Se non vuole parlare, è inutile-.
Giulia le aveva raccontato com’era andato il funerale, quattro giorni prima. Le aveva anche detto dello stato in cui aveva versato Pietro tutto il tempo, e Caterina non si era potuta dire sorpresa. Aveva provato a chiamarlo svariate volte, in quei giorni, senza ricevere nemmeno un messaggio in risposta.
Nemmeno quello l’aveva sorpresa: quando tre giorni prima era andata da Alessio, per il suo compleanno, le aveva rivelato che Pietro non aveva risposto nemmeno alle sue chiamate.
-Fai un tentativo comunque- le consigliò Giulia, tossendo appena – Magari vai con Nicola-.
Caterina annuì, distrattamente.
Per un attimo alzò gli occhi su Giulia, ritrovandola esattamente come qualche minuto prima, quando aveva distolto lo sguardo: il viso stremato, gli occhi gonfi e tristi, l’umore ben lontano dall’allegria che, nel bene e nel male, l’abbandonava poche volte.
Esitò qualche secondo, cercando qualcosa da dire che potesse distrarla a sufficienza, almeno temporaneamente. Si morse il labbro nervosamente, perché, a ben pensarci, qualcosa da dirle lo aveva davvero.
-A proposito di Nicola … - Caterina si schiarì la gola, leggermente a disagio – Vuoi sapere una cosa?-.
Giulia aggrottò la fronte, curiosa:
-Cosa?-.
Caterina abbassò gli occhi, torturandosi le mani nell’indecisione. Non era partita con l’idea di parlarle di quella cosa – non in un momento simile-, ma in quel frangente non le parve un’idea così pessima. Giulia aveva bisogno di pensare ad altro, anche solo per poco, e lei aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno.
-Non è una cosa recentissima, però prima di parlarne con qualcuno volevo rifletterci meglio- iniziò lentamente, continuando a tenere lo sguardo abbassato, ma sentendo gli occhi di Giulia su di sé – La sera della mia festa di laurea mi ha detto che vorrebbe un secondo figlio. E che vorrebbe provare ad averlo tra non molto tempo-.
Caterina parlò adagio, sentendo le gote arrossire inevitabilmente. Sperò che la penombra del salotto, dove ancora non avevano acceso la luce nonostante il calare della sera, fosse sufficiente per non rendere troppo visibile il rossore del suo viso.
-Sul serio?- Giulia sgranò gli occhi subito, sollevandosi appena dallo schienale – Calcolando che all’inizio non voleva nemmeno Francesco, direi che è un gran cambiamento-.
Caterina annuì, ancora un po’ in imbarazzo, ma sollevata – e divertita- dalla reazione coinvolta di Giulia.
-Sì, a quanto pare si è preso bene a fare il padre che vizia e coccola il proprio figlio ventiquattr’ore al giorno- snocciolò, cercando di nascondere la dolcezza istintiva che sopraggiungeva ogni volta che, inevitabilmente, pensava a Nicola e al suo modo di fare – un po’ impacciato, un po’ burbero, ma costantemente adorante nei confronti del figlio- con Francesco.
Sembravano passati secoli da quando, alla notizia della gravidanza, lo stesso Nicola si era fatto prendere dal panico totale.
-E tu, invece?-.
La voce di Giulia la riportò al presente, i ricordi che si facevano più offuscati mentre Caterina tornava a guardarla, in attesa che continuasse.
-Che ne pensi?-.
Caterina sospirò pesantemente, perché quella era forse la domanda più difficile alla quale rispondere. Se l’era aspettata, e in fin dei conti era proprio lì che voleva arrivare.
-All’inizio ero incazzata, a dire la verità- ammise, a mezza voce. Si era arrabbiata così tanto che Nicola non aveva nemmeno più provato a sfiorare l’argomento, e dubitava che l’avrebbe fatto prima che fosse passato altro tempo.
Giulia la guardò intensamente, annuendo tra sé e sé:
-Da come lo hai detto fai quasi supporre che ora la pensi diversamente-.
-Non esattamente- si ritrovò a mormorare Caterina, torturandosi le mani nell’indecisione.
Era stato come avere un tarlo costante, dalla sera in cui Nicola le aveva confessato quel desiderio. Ci aveva pensato dapprima con sdegno, a lungo, prima di fermarsi a rifletterci su per davvero.
-Diciamo che non vorrei provare a rimanere incinta stanotte stessa- disse, lanciando un’occhiata fulminante a Giulia, quando la vide sogghignare maliziosamente.
-Però … - Caterina sospirò ancora – Diciamo che ci sto un po’ ripensando-.
Si morse il labbro inferiore, forse ancora un po’ incredula lei stessa per averlo detto ad alta voce. S’immaginò di avere di fronte a sé Nicola, al posto di Giulia, e quasi si mise a ridere nel pensarlo con gli occhi sgranati per l’incredulità di quel cambio di rotta.
Giulia, invece, non sembrava così tanto sorpresa. Per quanto Caterina riuscisse a notare che il malessere che la stava accompagnando in quella settimana era ancora tutto lì, si sentiva almeno un po’ sollevata nel vederla sorridere, con un pizzico di malizia divertita nello sguardo.
-Quindi entro l’anno avrò un altro nipote acquisito?- chiese, spostandosi più vicina a Caterina – O magari direttamente come regalo di laurea-.
Caterina roteò gli occhi verso l’alto:
-Frena, non ho detto questo- la rimbrottò subito, muovendo le mani nervosamente – Dico solo che forse in fondo non è un’idea così malvagia. Lavoriamo entrambi, e ora ho finito pure con l’università. Le cose si stanno stabilizzando in fretta-.
Giulia la stava ascoltando attentamente, annuendo mentre Caterina cercava le parole migliori per spiegarsi. La verità era che, forse, non sapeva bene nemmeno lei da dove provenisse quel nuovo sentimento sull’allargare la famiglia. Non aveva dubbi che l’inaspettata buona situazione lavorativa avesse giocato un ruolo importante, ma sentiva che c’era anche altro. Altro che ancora non sapeva definire.
-Se prima non volevo in nessun caso, ora magari mi sto aprendo un po’ alla possibilità, ecco tutto- mormorò, alzando le spalle.
Giulia le posò una mano su una spalla:
-A Francesco farebbe bene crescere insieme a un fratello o una sorella- le disse, stavolta con voce dolce e con lo stesso sorriso che ora aveva perso la nota di malizia – A me ha aiutato molto avere mia sorella accanto-.
Caterina sbuffò appena, amareggiata:
-Vorrei poter dire lo stesso-.
Forse, inconsciamente, sperava che far crescere sin da piccolo Francesco con un fratello o una sorella evitasse i rapporti burrascosi che erano intercorsi tra lei e Lorenzo. Sapeva che non poteva averne la certezza – non potevano esserci certezze per cose del genere-, ma voleva aggrapparsi almeno a quella speranza.
-Non essere pessimista-.
Giulia sembrava averle appena letto il pensiero, mentre le accarezzava incoraggiante la spalla, e Caterina si sentì capita fino in fondo – forse in un modo in cui nemmeno Nicola era riuscito.
-Sono sicura che se tu e Nicola deciderete effettivamente di avere un altro bambino, con Francesco andrà tutto bene- le mormorò ancora.
Caterina non aggiunse nulla: si limitò a restituire lo sguardo a Giulia, prima di annuire debolmente e tirare un sospiro pesante, la testa piena di interrogativi che, lo sapeva, non avrebbero mai trovato risposta. Non fino a quando, inevitabilmente, non avrebbe deciso come agire.
 
*
 
-Hai una faccia terribile-.
Pietro si sedette con pesantezza su una delle sedie attorno al tavolo della cucina, lanciando uno sguardo scettico verso Nicola.
-Grazie per avermelo ricordato, Tessera- mormorò, senza reale risentimento – Ora sì che mi sento davvero molto meglio-.
Non sapeva bene cosa l’avesse spinto ad andare fino a casa di Caterina e Nicola a quell’ora, poco prima di cena. Non era uscito di casa con l’idea di passare da loro, non l’aveva davvero sfiorato.
Non doveva essere passata più di un’ora da quando se ne era andato di casa, dopo aver ripiegato pochi vestiti, aver raccolto altre cose che gli sarebbero potute servire per il tempo in cui Giada avrebbe voluto rimanere sola, e infilare tutto in una vecchia borsa da ginnastica. Se n’era uscito così, senza dire una parola di più, con Giada che si rifiutava ancora di guardarlo, e limitandosi a dare un bacio sui capelli castani di Giacomo prima di andarsene.
E poi si era ritrovato a vagare lungo le calli poco illuminate, senza un’idea precisa su dove andare per passare la notte. Aveva pensato di cercare qualche B&B, ma poi, inconsciamente, si era ritrovato a percorrere la calle dove si trovava il palazzo di Caterina e Nicola. Ci si era fermato davanti diversi minuti, prima di decidersi e suonare il citofono per farsi aprire.
Nicola l’aveva accolto in casa nemmeno dieci minuti prima, tra la sorpresa e il sollievo – Pietro gliel’aveva letto nello sguardo, in quegli occhi azzurri troppo grandi e troppo famigliari per non riconoscervi ogni più piccola sfumatura che li animava.
-Zio!-.
Pietro si voltò verso la soglia, già sapendo chi vi avrebbe trovato. Francesco gli stava già venendo incontro sorridente, i capelli biondi scompigliati. Pietro si ritrovò a ricambiare il sorriso del bambino con più facilità di quella che si sarebbe aspettata, allargando le braccia per invitarlo a raggiungerlo.
-Ecco dov’eri!- gli fece, sporgendosi ad abbracciarlo, sotto gli occhi attenti e addolciti di Nicola.
Si sentì meglio, nell’abbraccio innocente di Francesco. Pietro lo fece accoccolare sulle sue gambe, scompigliandogli appena i capelli così simili a quelli del padre, in un moto d’affetto. Non c’era bisogno che ci fosse davvero del sangue in comune tra loro per sentirsi davvero suo zio, come Francesco aveva preso a chiamarlo da quando aveva imparato a parlare, nel suo modo stentato da treenne: per lui era davvero un nipote, il figlio di due tra le poche persone a cui teneva più di qualsiasi altra cosa.
-Mi sento un po’ geloso- fece Nicola, andando a sedersi dall’altra parte del tavolo. Il suo sorriso tradiva quel che aveva detto, e Pietro non poté fare a meno di dargli corda:
-Fai bene- gli rispose, mentre Francesco si sedeva meglio – Gli zii sono fatti apposta per far ingelosire un po’ i genitori-.
Pietro rise appena, nel notare lo sguardo pieno di scetticismo di Nicola. Riuscì a sentirsi quasi rilassato, in quell’atmosfera quasi scherzosa: gli parve quasi di poter riuscire a mettersi alle spalle, almeno per il tempo in cui sarebbe rimasto lì, la discussione con Giada. Forse riuscì persino a sfiorare la sensazione di poter non pensare agli ultimi giorni, a Fernando, al funerale.
-Allora, come mai da queste parti?- gli fece Nicola, con aria del tutto casuale, prima di sbattersi una mano sulla fronte – Oh, non ti ho offerto nulla. Vuoi qualcosa?-.
-Sono a posto così- Pietro iniziò dalla domanda più semplice, perché alla prima non aveva nemmeno pensato bene come poter rispondere. Si poteva aspettare una domanda simile, ma si era recato lì così tanto istintivamente che non si era soffermato a pensare a come poter giustificare quella decisione.
-In realtà io … -.
Prima che Pietro potesse concludere in qualunque maniera, la serratura della porta d’ingresso scattò, e prima ancora che la persona appena entrata dicesse qualcosa, Pietro già poteva intuire di chi si trattava.
-Sono tornata!-.
La voce di Caterina arrivò fino alla cucina, quasi urlata per potersi fare udire.
-Vieni di qua, abbiamo un ospite- anche Nicola parlò quasi gridando. Caterina non rispose, ma dai suoi passi Pietro capì che si stava affrettando a raggiungerli.
Ci vollero solo pochi secondi, prima che Caterina comparisse sulla soglia della cucina, strabuzzando gli occhi sorpresa quando li posò su Pietro.
-Ehi, non pensavo di trovarti qui- esclamò oltrepassando Nicola, andando dritta da lui e Francesco – Prima stavo giusto dicendo a Giulia che volevo passare da te nel weekend-.
Si chinò per lasciare un bacio sui capelli dorati del figlio, che la salutò di rimando, rimanendosene però seduto sulle gambe di Pietro.
-Invece ti ho direttamente anticipata-.
Pietro si sentì loro grato del fatto che non si stessero prodigando in condoglianze e cose simili. Preferiva di gran lunga così, una conversazione normale, che non lo facesse sentire oggetto di pietà.
-Scusate se non vi ho avvisato prima- riprese, mentre Caterina prendeva posto a capotavola, tra lui e dove si era appena seduto Nicola – È che già che ero per strada avevo pensato di passare qui, almeno per dirvi che sto bene. Mi spiace se non ho risposto alle telefonate nei giorni passati-.
Si morse il labbro, leggermente in imbarazzo, la voce che si era fatta più bassa. Aveva perso il conto di quante volte nei giorni passati sia Caterina che Nicola avevano provato a chiamarlo; aveva rifiutato ogni chiamata, incapace anche solo di prendere in considerazione l’idea di sostenere una conversazione telefonica in giorni così difficili.
Pensò che anche Alessio doveva aver saputo, e che con tutta probabilità anche i suoi tentativi di raggiungerlo telefonicamente dovessero essere dovuti agli stessi motivi di Caterina e Nicola. Non gli aveva risposto nemmeno il giorno del suo compleanno, il giorno dopo il funerale.
-Figurati. Non è un problema- Nicola parlò con convinzione, muovendo la mano come a voler liquidare ancor più velocemente quel dettaglio.
Caterina si allungò appena da sopra il tavolo, posandogli delicatamente una mano sul braccio:
-Come stai?-.
Pietro rimase in silenzio per un secondo. Non voleva parlare di Giada, né di Fernando, e la verità era che, in quel momento, non sapeva ancora bene come rispondere decentemente a quella domanda. Non aveva idea nemmeno lui stesso di come si sentiva sul serio.
-Cerco di andare avanti- mormorò, abbassando gli occhi sul capo biondo di Francesco – Ora va un po’ meglio, in un certo senso-.
Lo disse solo per rassicurarli, sforzandosi di sembrare sufficientemente convincente; quando risollevò lo sguardo, sia Caterina che Nicola lo stavano guardando con una certa apprensione.
-Sai che se hai bisogno di parlare con qualcuno noi ci siamo, vero?- Nicola non provò a toccarlo come aveva fatto Caterina, ma bastava guardarlo in viso per capire che doveva essere ad un passo dall’alzarsi ed andare ad abbracciarlo.
Pietro si ritrovò ad annuire:
-Lo so- disse, e sperò davvero di essere riuscito a trasmettere tutta la sincerità che quell’affermazione conteneva – Ma per ora … Per ora non credo di averne le forze-.
Caterina strinse appena la presa, per qualche secondo fugace, prima di scioglierla lentamente:
-Non preoccuparti- gli sorrise dicendoglielo, prima di rivolgergli un’occhiata confusa – Ma … -.
Pietro aspettò che continuasse con un po’ d’agitazione addosso: aveva la sensazione di doversi aspettare qualche domanda scomoda.
-Perché hai una borsa dietro?- gli chiese infine Caterina, scambiandosi un’occhiata veloce con Nicola – È tua la borsa che c’è in ingresso, no?-.
Pietro tossì con troppa poca convinzione per sembrare credibile, ma l’importante era solo riuscire a guadagnare qualche secondo in più per poter rimandare la risposta.
Quando era arrivato lì, Nicola non gli aveva domandato nulla, anche se aveva occhieggiato al borsone; forse aveva sperato che fosse Pietro stesso a spiegarglielo, ma Caterina era arrivata troppo presto anche solo per pensare di intavolare una conversazione.
-Ecco … - mormorò, abbassando un attimo gli occhi con la scusa di controllare Francesco, che aveva sbadigliato piuttosto rumorosamente, forse troppo annoiato da quei discorsi.
Pietro si morse il labbro inferiore, preda dell’indecisione.
Non gli andava di nascondere loro che Giada l’aveva cacciato di casa, anche se solo temporaneamente, ma non aveva nemmeno intenzione di spiegarne il motivo. Se voleva percorrere la prima via fino in fondo, poteva solo sperare che né Nicola né Caterina cercassero di indagare.
-Diciamo che ho avuto una discussione con Giada stasera- borbottò a mezza voce, in imbarazzo.
Vide Caterina accigliarsi, stupita, e Nicola annuire con gravità.
-Ed è stata piuttosto brutta?- gli chiese lui, con un mezzo sorriso che, però, non aveva nulla di allegro.
Pietro sbuffò piano, alzando le spalle:
-A sufficienza per dirmi di andarmene di casa per qualche giorno-.
Cercò di dirlo con autoironia, almeno per cercare di non far trasparire la reale agitazione che, in parte, si sentiva ancora inevitabilmente addosso. Sembrò funzionare abbastanza per stemperare la tensione: Nicola gli sorrise con più convinzione, e Caterina annuì divertita.
-Che hai fatto di così terribile, Pietro?- gli chiese lei, senza troppa serietà – Devi dirci qualcosa?-.
Pietro se ne rimase in silenzio per qualche secondo, soppesando cosa gli convenisse dire. Caterina non sembrava voler davvero avere delle spiegazioni, non nel modo scanzonato in cui gli si era rivolta, ma sarebbe stato troppo sospetto cercare di cambiare discorso subito.
-Lo sapete com’è fatta … - iniziò, gesticolando appena – Se qualcosa non va come vuole lei, reagisce così-.
Caterina alzò le mani, scuotendo il capo:
-Ok, non ce lo vuoi dire. È un tuo diritto, d’altro canto- disse, ridendo appena.
Non avrebbe insistito oltre, di quello Pietro aveva ora la certezza. La stessa certezza che aveva nel pensare che, da parte sua, di certo non avrebbe provato a prolungare quella parte della conversazione.
-Sai già dove andare?- gli chiese Nicola, stavolta più seriamente.
-A dire la verità no, non esattamente-.
Pietro alzò le spalle, perché stavolta non aveva davvero una risposta valida da dargli. Di certo la prima cosa che avrebbe fatto, uscito da lì, sarebbe stata quella di fare una veloce ricerca web sui B&B in zona e con ancora qualche stanza disponibile.
-Pensavo di andare a cercare un qualche ostello con una camera libera- aggiunse a mezza voce.
Caterina sgranò gli occhi, leggermente in apprensione:
-A quest’ora? E senza prenotazione?- esclamò scettica – La vedo un po’ dura-.
Caterina non aveva tutti i torti, e Pietro non poté del tutto ignorare quello stato di cose. Venezia, però, era comunque una città grande: era piuttosto sicuro che almeno una misera camera fosse ancora libera, da qualche parte.
-Resta qui, no?-.
Pietro spalancò gli occhi, puntandoli su Nicola, incredulo. Credette di aver sentito male, rimanendosene in silenzio per qualche secondo di troppo, un tempo sufficiente per lasciare che Francesco esclamasse a sua volta:
-Sì, zio!- disse, con la voce acuta tipica dei bambini piccoli, mentre si girava verso di lui – Resta!-.
Pietro si sentì in difficoltà: era certo che nel momento in cui Nicola gliel’aveva proposto fosse piuttosto sicuro di potergli offrire ristoro, ma non voleva nemmeno sembrare un approfittatore.
-Sì, potresti restare qui- aggiunse Caterina, dopo essersi scambiata un’occhiata veloce con Nicola – Il divano è piuttosto comodo-.
Pietro sospirò, passando lo sguardo su tutti e tre:
-Non voglio costringervi ad ospitarmi per giorni- mormorò infine, impacciato.
Nicola sbuffò sonoramente, alzando le braccia teatralmente:
-Non essere idiota. Se Giada non ti rivuole indietro solo per qualche giorno, non vedo perché non dovresti restare- replicò con convinzione.
Caterina annuì a sua volta, allungando una mano e posandola sulla spalla di Pietro:
-Almeno sei qui in compagnia, piuttosto che stare in un B&B da solo-.
Per un attimo Pietro sentì un groppo in gola. Era una cosa stupida, sentirsi commosso per un gesto simile da parte di amici stretti che conosceva da una vita, ma dopo giorni difficili come lo erano stati quelli dell’ultima settimana, si sentì davvero confortato.
-Sul serio, non voglio … - cercò di dire ancora, ma Nicola non gli lasciò nemmeno il tempo di finire:
-Cadorna, stai zitto- disse, con la calma autoritaria che lo accompagnava da sempre.
Arrivati a quel punto, Pietro non provò nemmeno più ad insistere nel rifiutare.
-Da quando sei così dispotico, Tessera?- gli chiese, con mezzo ghigno a disegnargli le labbra.
Osservò Nicola lanciargli un’occhiataccia, con Caterina in sottofondo che si lasciava andare ad una risata sommessa.
Si lasciò andare anche lui ad un sorriso, il primo dopo giorni di buio. Per la prima volta da quando Fernando era morto, per la prima volta da quando aveva toccato il fondo, Pietro non credette che la luce fosse poi così irraggiungibile.
 
*
 
Spostò il proprio peso da un piede all’altro, i denti che mordevano piano il labbro inferiore. Era strana quell’ansia che si sentiva addosso da qualche minuto – esattamente da quando si era trovato davanti al citofono del palazzo di Alessio, prima ancora di premere il pulsante. Strana perché verso Alessio si era sentito in mille modi diversi, ma mai davvero agitato.
Pietro si voltò solo quando avvertì il portone del palazzo aprirsi, ritrovandosi di fronte un Alessio dall’aria vagamente preoccupata e il viso particolarmente cereo. Nonostante fossero le dieci della mattina, sembrava essersi svegliato da poco: aveva ancora i capelli biondi scombinati, la barba non regolata, e probabilmente il primo maglione che aveva trovato sottomano e messo addosso giusto per uscire. Pietro lo trovò tenero anche così, in quella versione totalmente casalinga ed incasinata del sabato mattina, bello in un modo semplice.
-Ehi … - Alessio gli si avvicinò passandosi le mani sulle braccia, probabilmente infreddolito per l’ara frizzante della mattinata – Non mi aspettavo di vederti qui-.
-Nemmeno io- ammise Pietro, muovendo qualche passo per andargli incontro – È stata un’improvvisata-.
Era esattamente com’era andata, perché fino a due ore prima non aveva ancora minimamente messo in conto di presentarsi sotto casa di Alessio per parlargli.
Quella mattina si era svegliato sul divano di Caterina e Nicola, sotto due coperte che gli avevano prestato, con Alessio in mente. Non sapeva spiegarsi bene per quale motivo fosse successo: forse l’aveva sognato e non lo ricordava, ma era proprio a lui che aveva pensato sin dai primi attimi in cui aveva sollevato le palpebre. Si era ritrovato a pensare che, in fondo, dopo tutte le chiamate che aveva ricevuto da parte sua, meritasse almeno una visita di persona; l’aveva deciso in pochi minuti, senza starci a riflettere troppo, senza domandarsi se fosse una buona idea rivedere Alessio proprio in quel periodo.
Alla fine era lì che era giunto, davanti al portone del palazzo dove si trovava il suo appartamento, a premere sul citofono e ad ascoltare la sua voce assonnata e sorpresa mentre gli rispondeva che l’avrebbe raggiunto di sotto in pochi minuti.
Pietro strinse le mani nelle tasche del cappotto leggero, ora leggermente a disagio, come la sera in cui lui ed Alessio si erano incontrati per caso al cinema:
-È che ti dovevo parlare. Nulla di lungo, solo qualche parola-.
Alessio annuì, sorridendogli appena:
-Io non ho fretta-.
Pietro abbassò per un attimo lo sguardo, rendendosi conto che non si era preparato una qualche sorta di discorso prima di arrivare lì. Si schiarì la voce tossendo, tenendo il viso ancora verso il basso:
-È che … -.
Prese coraggio, e rialzò lo sguardo. Si trovò di fronte agli occhi chiari di Alessio che lo tenevano fissato, con una nota di dolcezza nello sguardo apprensivo che gli stava rivolgendo.
-Scusa se non ti ho risposto nei giorni passati- Pietro fece un altro passo verso di lui, ritrovandosi a poco più di un metro di distanza – Non era per te. È che sono stati giorni difficili-.
Gli venne quasi da ridere, nel pensare a quante cose potesse racchiudere quella definizione, giorni difficili. In meno di una settimana aveva perso uno dei suoi migliori amici, ed aveva fatto coming out con la sua – ormai definitivamente ex- compagna. Neppure lui riusciva del tutto a rendersi ancora conto di quanto quei due eventi avrebbero influenzato per sempre la sua vita da quel momento in avanti.
Alessio alzò le spalle, scuotendo appena il capo:
-Non devi scusarti-.
Stavolta sembrò lui ad essere in difficoltà, e Pietro non lo forzò.
-So cos’è successo- mormorò infine, visibilmente a disagio – Ne ho parlato con Giulia, mi ha spiegato alcune cose. Non tutte, ma quel che serviva per capire la situazione-.
Pietro annuì, rimanendo ancora in silenzio. In fin dei conti era meglio così: non credeva di aver la forza anche di dover spiegare ad Alessio cosa fosse accaduto negli ultimi giorni.
-Ti ho chiamato per sapere come stavi- Alessio chiuse gli occhi, le braccia incrociate contro al petto e un’espressione amareggiata dipinta in viso – Domanda idiota visto il contesto, ma tant’è. Comunque immaginavo non avresti risposto, credo che al posto tuo avrei fatto lo stesso-.
Pietro accennò ad un sorriso tutt’altro che allegro:
-Non avevo molta voglia di parlare con nessuno-.
In quel momento, invece, avrebbe allungato volentieri i minuti che stava passando lì, di fronte ad un Alessio infreddolito per l’aria mattutina di primavera, e con le lentiggini sul naso rese più evidenti dalla pelle particolarmente pallida. Non si era aspettato qualcosa del genere, mentre camminava per arrivare fin lì; forse aveva accantonato da tempo l’idea di crearsi aspettative su una qualsiasi conversazione con lui.
-Lo capisco- annuì Alessio. Ci furono diversi secondi di silenzio, prima che gli si avvicinasse ulteriormente: a quella poca distanza, guardandolo dritto in faccia, Pietro si rese conto che c’era qualcosa nello sguardo di Alessio che rendeva davvero visibile il dolore che stava provando.
-Mi dispiace, Pietro-.
Lo disse con la voce inaspettatamente incrinata, e a Pietro parve quasi di leggervi una scusa per tutto. Non era solo per Fernando: era uno scusarsi per il loro allontanamento, per il suo vecchio egoismo, per tutto quello che non era funzionato negli ultimi tre anni.
-Lo so che Fernando non lo conoscevo quasi per niente, ma mi dispiace sul serio lo stesso. Nessuno merita una cosa simile- mormorò ancora.
Sembrava sincero, e a Pietro quello bastò.
-Lui meno degli altri- disse a mezza voce, in risposta.
Non aggiunse altro, perché il groppo in gola gli stava impedendo di parlare ancora. Non aveva idea di quanto tempo ci sarebbe voluto, prima di riuscire a parlare di Fernando senza sentirsi sul punto di piangere ogni volta.
-Lo so che ti può sembrare avventato, ma se avrai bisogno di parlare, di sfogarti, qualsiasi cosa … - Alessio si interruppe qualche secondo, la voce addolcita – Io ci sono-.
Pietro annuì, inerte. C’erano così tante cose, troppe cose, di cui avrebbe voluto parlare in quel momento, che la proposta di Alessio non gli sembrò poi così male.
Un giorno forse gli si sarebbe davvero avvicinato per raccontargli cosa stava passando, ma non subito, non quando il ricordo di aver perso la persona con cui avrebbe davvero voluto parlare era ancora troppo fresco, troppo recente.
-Credo che mi servirà del tempo- mormorò infine, sentendosi ancora un po’ in imbarazzo. Sperò che Alessio non lo prendesse erroneamente come un rifiuto, e il sorriso timido che gli rivolse rese Pietro meno spaventato.
-Non c’è una data di scadenza per queste cose-.
Gli occhi chiari di Alessio si staccarono dal suo viso per qualche secondo, mentre sospirava profondamente, prima di tornare a scrutarlo:
-Però se un giorno dovessi sentirne il bisogno, con me ne puoi parlare-.
A Pietro venne naturale, quasi istintivo, piegare le labbra in un leggero sorriso:
-Grazie-.
Passò appena un secondo prima che Alessio sciogliesse la posizione rigida in cui era rimasto fino a quel momento, allungando un braccio verso di lui. Per un attimo Pietro si aspettò quasi di vedere la sua mano destra raggiungere il suo viso: non ricordava nemmeno quando era stata l’ultima volta che Alessio gli aveva lasciato una delle sue carezze sulla guancia, ed in quel momento, ammettendolo a fatica, si ritrovò a desiderarne una.
Non sentì le sue dita appoggiarsi al suo volto, ma più in basso, sulla spalla, in una presa delicata. Spostò il proprio sguardo su Alessio, notandone le gote arrossate, gli occhi abbassati.
-A proposito … - Pietro si schiarì la voce, fortunatamente già sapendo cosa dire per rendere quel silenzio meno strano – Auguri-.
Alessio rialzò lo sguardo subito, lievemente confuso.
-Anche se in ritardo, lo so- Pietro annuì, cercando di trattenersi dal seguire con gli occhi la mano di Alessio che lasciava la presa – Però non mi sono dimenticato del tuo compleanno-.
Lo vide ridere appena, già meno a disagio di qualche minuto prima.
-Non ne avevo alcun dubbio- Alessio schioccò le labbra, guardandolo vagamente divertito – Grazie per avermi ricordato che sono appena invecchiato, stavo giusto cominciando a dimenticarmene-.
Pietro si lasciò andare ad una risata leggera, più sentita e più sincera di quel che si sarebbe aspettato lui stesso. Si era immaginato quella conversazione in mille modi diversi, ma non aveva preso davvero in considerazione l’idea che potesse essere liberatoria.
Aveva passato la notte quasi insonne per i troppi pensieri che gli occupavano la testa, ma in quel momento, con Alessio di fronte che gli sorrideva ancora, non gli parve davvero di star vivendo uno dei periodi più difficili della sua vita. Era una sensazione che sarebbe passata nel momento stesso in cui si sarebbero separati di lì a poco, ma si sentì bene per averla assaporata, anche se per poco.
-Ora credo di dover andare- mormorò, torturandosi le mani.
Vide Alessio annuire, forse meno allegro di poco prima:
-Riguardati- gli si avvicinò di nuovo, ma non tentò un altro contatto fisico – E passa quando vuoi, non per forza per scusarti di qualcosa di cui non hai colpa-.
Pietro gli sorrise ancora. Gli parve facile farlo, con l’animo più leggero di quanto non lo era mai stato.
-Ci penserò-.
 
Part of where I'm going
Is knowing where I'm coming from
I don't want to be
Anything other than what I've been trying to be lately
All I have to do is think of me
And I have peace of mind
I'm tired of looking 'round rooms
Wondering what I've got to do
Or who I'm supposed to be
I don't want to be anything other than me [3]





 
[1] Lana del Rey - "Summer Bummer"
[2] Immanuel Casto - "Da grande sarai fr***o"
[3] Gavin DeGraw - "I don't want to be"
Il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Quando si dice... iniziare con il botto! 💣
Il momento che tutti, probabilmente, stavamo aspettando da tempo... Pietro, finalmente (e diciamolo questo finalmente!!!), ha sganciato la bomba con Giada sui suoi veri sentimenti. E, com'era prevedibile, si sono ufficialmente lasciati … Oltre a ciò, per ragionare e soprattutto sbollire dopo la lieta novella (lieta per Pietro e per noi, per Giada un po' meno), Giada lo ha "leggermente" cacciato di casa.
Un clima un po' più leggero, nonostante alcuni riferimenti malinconici a Fernando, si respira con Giulia e Caterina. Quest'ultima lancia anche lei una piccola bomba, molto più innocua e ancora da concretizzare, ovvero la possibilità dell'arrivo di un altro figlio per lei e Nicola... per la gioia di Giulia! Avverrà davvero? Entro l'anno come dice Giulia, oppure sarà qualcosa sul lungo periodo? 
Tornando poi a Pietro, lo seguiamo nel suo vagare per Venezia alla ricerca di un posto in cui stare, divenendo invece ospite di Caterina e Nicola. Di sicuro una situazione migliore rispetto a quella preventivata inizialmente, rimanendo con amici che di sicuro gli resteranno accanto e che potranno consolarlo o distrarlo. 
E infine, sul finale di questo capitolo, Pietro fa visita anche ad Alessio che, da buon amico, si è dimostrato fin da subito disponibile per parlare o per offrirgli il suo sostegno, qualora ne avesse bisogno. Potrebbe essere il primo segno di un miglioramento (nei toni, nei gesti, nelle dinamiche) per la loro amicizia che, negli ultimi anni, come sappiamo bene tutti, sono stati anni complicati?
Solo il tempo ce lo dirà... nel frattempo vi diamo appuntamento mercoledì 26 luglio con il capitolo 7!
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Spring day ***


CAPITOLO 7 - SPRING DAY



 
Passing by the edge of the cold winter
Until the days of spring
Until the days of flower blossoms
Please stay, please stay there a little longer [1]
 
 
Guardò le gocce scivolare lungo il vetro chiuso della finestra, illuminate da un lampo improvviso. L’ennesimo tuono sembrò sul punto di squarciare il cielo – un altro motivo che gli fece ricordare come mai odiava tanto i temporali primaverili.
Alessio sospirò pesantemente, allungando la schiena e facendola scricchiolare sulla sedia scomoda della sala d’aspetto, l’odore pungente di disinfettante che gli faceva arricciare il naso.
Si girò a guardare Christian, profondamente addormentato nonostante la confusione dell’ospedale e il temporale che continuava ad agitarsi fuori. Aveva dormito poche ore, quella notte: non si stupì di vederlo crollato così, rannicchiato sulla sedia nera accanto alla sua.
All’ennesimo tuono Alessio trattenne a stento uno sbuffo nervoso.
“Quando sarà più grande le racconterò che il giorno in cui è nata si stava agitando la tempesta primaverile peggiore del decennio”.
Con tutta probabilità non era davvero la peggiore degli ultimi dieci anni, ma stava cominciando seriamente a non sopportarla più.
Si sentiva nervoso, confuso e con una sensazione di paura che gli attanagliava il petto. Tutti quei tuoni non stavano facendo altro che renderlo ancor più inquieto.
Chiuse anche lui gli occhi per un po’, imitando Christian di fianco a lui: cominciava a sentire la stanchezza per la notte passata in bianco, per l’agitazione inconscia che rimaneva sempre lì, a bloccargli la bocca dello stomaco.
Quando riaprì gli occhi si rese conto del rumore di passi che rimbombavano nel corridoio, sempre più vicini. C’era l’ostetrica che aveva seguito Alice sin da quando, alle nove della sera prima, era entrata in reparto, sudata e affaticata per le contrazioni dolorose.
Alessio raggelò quando notò che, al contrario di qualsiasi altra volta, il volto dell’ostetrica era rabbuiato e teso, le labbra strette in una linea dritta.
Si alzò subito, rendendosi conto che le gambe gli tremavano: per un attimo pensò che non sarebbe riuscito a reggere il suo stesso peso e che sarebbe caduto indietro, di nuovo sulla sedia.
Tuonò ancora quando l’ostetrica gli era ormai a due metri di distanza. Il temporale di tarda primavera continuava ad infuriare contro i vetri, ma l’unica cosa che riusciva ad udire ora era il fischio sordo che soffocava qualsiasi altro suono attorno a lui.
 


-Pronto?-.
Alessio tirò un breve sospiro di sollievo, quando la voce di Eva rispose dall’altra parte della linea. Era assonnata ed impastata, segno che l’aveva chiamata troppo presto e che stava ancora dormendo. Alessio non aveva davvero badato all’orario in cui aveva fatto partire la chiamata: potevano essere le cinque come le sei, e non gli sarebbe importato comunque.
-Mamma?- la chiamò, in attesa di una sua risposta. Gli sembrò quasi strano pronunciare quella parola in quel momento: si sentì ancora un bambino, un bambino bisognoso delle cure e dell’aiuto di sua madre.
Era strano sentirsi così, quando con la mano libera teneva ferma, stesa sulle sue gambe, una neonata che pesava poco più di tre chili. Aveva pianto fino a quel momento, accompagnata dai lampi e dai tuoni del temporale.
-Alessio, ma che succede?- Eva gli rispose allarmata – Ma sai che ore sono?-.
Alessio non lo sapeva, e non vi badò nemmeno.
-È nata- disse invece, abbassando gli occhi appesantiti su sua figlia. Sapeva che, accanto a lui, con il viso ancora umido di lacrime, Christian stava facendo lo stesso: nonostante tutto, Alessio si era reso conto di quanto fosse incuriosito dalla sorella sin dal primo istante in cui si erano visti.
Dall’altra parte della linea sua madre si lasciò sfuggire un’esclamazione sorpresa, la sonnolenza che già sembrava essere sparita:
-Sul serio?- gli chiese, incredula – Come sta?-.
Alessio strinse un po’ di più a sé la bambina, osservandone i ciuffi biondi e gli occhi piccoli, le palpebre finalmente calate.
-Sta bene- esalò, a mezza voce – Lei sta bene-.
Federica.
Continuava a ripetere quel nome come una cantilena, come se fosse l’unica cosa a cui aggrapparsi in quel momento. Stava riuscendo a tenere gli occhi aperti e mantenere il contatto con la realtà solo per lei.
-E Alice?-.
La voce di Eva gli giunse lontana e ovattata, come se Alessio non la stesse davvero ascoltando mentre parlava al cellulare.
Sentir nominare Alice in quel frangente gli fece tremare le gambe, la paura che tornava a investirlo esattamente come quando l’ostetrica gli era andata incontro, qualche ora prima, con l’espressione tirata tipica di chi porta qualche cattiva notizia.
Sospirò pesantemente, serrando gli occhi:
-È complicato- mormorò, ripercorrendo con la memoria le parole dell’ostetrica – Ha avuto un distacco della placenta durante il parto-.
Non aveva capito subito cosa potessero significare quelle parole, quando le aveva udite la prima volta. Aveva annuito in ogni caso, anche se non aveva capito davvero. L’unica cosa che aveva colto era che qualcosa non era andato come previsto, e che Alice non stava bene come aveva sperato.
-Le ha provocato un’emorragia-.
Non aveva visto la sala in cui il parto era avvenuto, ma sapeva che c’era stato molto sangue perso. Fin troppo per essere normale.
Quando l’ostetrica glielo aveva detto, Alessio aveva pensato al peggio. La sua mente si era spinta oltre il limite degli scenari più preoccupanti, ma prima che potesse anche solo pensare di riuscire ad articolare qualche parola, l’ostetrica aveva precisato meglio le sue parole: forse l’emorragia che c’era stata era stata importante, ma Alice non sembrava in pericolo di vita. Non ancora, perlomeno.
-Come sta ora?- Eva gli sembrò agitata, ed anche se non poteva vederla, Alessio si immaginò sua madre irrigidita sul bordo del letto, i capelli ancora scompigliati per essere stata appena svegliata dalla sua chiamata – L’hanno fermata, vero?-.
-Sì, ma ha perso parecchio sangue. E potrebbe ricominciare a perderne- Alessio sospirò ancora, tenendo lo sguardo abbassato su Federica, ancora addormentata –Vogliono tenerla ricoverata fino a quando non si riprenderà. Le faranno delle trasfusioni-.
-Non ci voleva- esalò Eva, a mezza voce.
“No, non ci voleva”.
Alice non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere sua figlia: aveva perso conoscenza non appena Federica era nata, probabilmente riuscendo solo a sentirne le urla ed i gridi prima di svenire.
Alessio scrutò ancora per qualche secondo il profilo di Federica, le poche ciocche bionde che ricordavano nella sfumatura i suoi capelli. Non appena Alice si fosse risvegliata, Alessio si ripromise di farle conoscere sua figlia: doveva vederla, ed era sicuro che anche solo quel piccolo gesto avrebbe contribuito a farla stare meglio, almeno moralmente.
-Non puoi prenderti qualche giorno per venire qua?-.
Alessio sentì risuonare quelle parole in tutta l’insicurezza con cui vi aveva dato voce, la paura di non farcela che tornava a palesarsi inevitabilmente.
Con Christian era stato difficile perché non si era sentito pronto, anche se Alice gli era stata accanto per tutto il tempo. Stavolta, però, non credeva sarebbe mai riuscito a sopportare quella situazione facendo leva solamente su se stesso.
-Non sono sicuro di farcela con i bambini- sussurrò ancora, il groppo in gola che gli impediva di parlare a voce più alta e più stabile.
Sentì sua madre respirare pesantemente dall’altra parte della linea, l’apprensione profonda percepibile anche attraverso quel semplice sospiro.
-Non sai quanto vorrei, Alessio, ma prima di un paio di giorni non credo di riuscire a venire a Venezia-.
Alessio si irrigidì sul posto, d’un tratto completamente disorientato: aveva chiamato sua madre perché era l’unica persona a cui avrebbe potuto chiedere un aiuto simile, e sentirsi rifiutare così non era stata un’opzione che aveva davvero preso in considerazione.
-Se riesco a trovare un modo, cercherò di esserci il prima possibile- continuò Eva, con tono dispiaciuto.
Alessio annuì tra sé e sé, nonostante fosse consapevole che sua madre non avrebbe potuto notarlo.
Per un momento dimenticò persino di essere al telefono, che sua madre probabilmente era in attesa di una qualche sua risposta. L’unica cosa che riusciva a percepire era la paura serpeggiante di soccombere agli eventi, e i tuoni distanti del temporale primaverile che continuava a bagnare i vetri delle finestre dell’ospedale.
 
*
 
-Non hanno detto quando potrà uscire?-.
Alessio fece cenno di diniego col capo, mentre teneva gli occhi stanchi abbassati sul bicchierino di plastica che teneva tra le mani. Continuò a mescolare il suo caffè, prima di decidere di berlo; lo buttò giù in un unico sorso, assaporandone il gusto amaro e l’aroma pungente. Sperò che due caffè presi nel giro di tre ore fossero sufficienti per tenerlo sveglio ancora un po’.
Quando rialzò gli occhi, Pietro se ne stava ancora seduto su una di quelle anonime sedie tipiche delle sale d’attesa. Anche lui aveva l’aria stravolta, ma in positivo: la sua espressione passava dalla preoccupazione di quando aveva chiesto di Alice, qualche secondo prima, all’allegria più pura, ogni volta che abbassava gli occhi scuri sulla piccola che Alessio gli aveva affidato in braccio poco prima.
-Non esattamente- disse infine, con la voce roca per la stanchezza – Hanno solo detto che prima deve rimanere sotto controllo nel caso l’emorragia ricominciasse. Se non ricomincia, deve comunque fare altre trasfusioni, riprendersi un po’, e poi eventualmente tornare a casa-.
Cercò di non far trasparire troppo l’apprensione che, in realtà, si sentiva addosso. La situazione di Alice era decisamente più complicata di come appariva descritta così, ma non c’era alcun motivo di trasferire anche su Pietro la sua ansia.
Spostò lo sguardo su Christian, sveglio già dalla tarda mattinata, ma in religioso silenzio da quando, chiedendo della madre, Alessio non aveva potuto fare a meno di dirgli, nel modo più semplice possibile, che non avrebbe potuta vederla subito. Il mutismo e lo sguardo perso del figlio lo faceva stare inquieto in modo ancor più doloroso.
-Cazzo, non ci voleva- borbottò Pietro, alzando il viso verso Alessio.
-Direi di no-.
Erano le sette di sera, ed Alessio cominciava a sentirsi distrutto dalla stanchezza. Non vedeva l’ora di rinchiudersi in casa, mettere finalmente a letto Christian cercando di rassicurarlo il più possibile, e recuperare tutte le ore di sonno che aveva perso quella notte, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito: era in ansia per Alice, talmente tanto che riusciva persino a dimenticare del tutto i malumori che c’erano stati tra di loro per tutto il periodo della gravidanza. E sapeva che avrebbe pensato anche a sua figlia, al momento in cui avrebbe potuto portare a casa almeno lei, sana e al sicuro.
Osservò Pietro mentre guardava la neonata, trovandola un’immagine piuttosto inaspettata: non sapeva bene quando era avvenuto il momento del risanamento del loro rapporto, ma ormai poteva dirsi piuttosto sicuro che ci fosse effettivamente stato. Probabilmente era stato dopo la morte di Fernando, poco più di due mesi prima.
-Com’è piccola- Pietro lo sussurrò teneramente, alzando gli occhi dalla bambina ad Alessio – Ti assomiglia un po’-.
Alessio lo guardò scettico per qualche secondo:
-Sì, nel colore di capelli siamo davvero uguali- gli rispose ironico.
Non riusciva a trovare davvero una qualche somiglianza tra lui e Federica, ma non insistette oltre: era troppo stanco anche solo per pensarci.
Alessio buttò il bicchierino di plastica che ancora teneva in mano nel cestino lì vicino, prima di sedersi accanto a Pietro. Era così strano trovarsi lì con lui, alla nascita della sua secondogenita, ma era anche una cosa che, per quanto piccola, riusciva a dargli un po’ di serenità.
-Comunque grazie per essere venuto-.
Pietro alzò il viso su di lui, in ascolto.
-Stavo impazzendo qui da solo- ammise Alessio, a mezza voce.
Era stata dura, passare tutte quelle ore solo con Christian, con la sua agitazione e la paura da tenere a bada, insieme a quelle di suo figlio. Il fatto di non essere ancora riuscito a non parlare nemmeno con Alice non facilitava le cose. Avrebbe perlomeno voluto vederla con i suoi occhi, accertarsi delle sue condizioni, dirle che Federica stava bene e che anche lei sarebbe stata bene.
-Tua madre e tua sorella verranno?- gli chiese Pietro, allungando le braccia per facilitargli il passaggio della neonata. Alessio la prese in braccio con più sicurezza di quel che si sarebbe aspettato dal suo fisico stanco: la vide muovere appena le mani minuscole, andando a coprirsi gli occhi ancora chiusi.
Con Alice così debilitata non era rimasto che lui a badare alla piccola: l’aveva allattata, cullata e calmata per tutto il tempo in cui le infermiere glielo avevano lasciato fare. Sapeva che in meno di un’ora sarebbe dovuto tornare a casa con Christian, e l’idea di lasciarla lì in ospedale ancora qualche giorno gli spezzava il cuore.
-In realtà no, non subito- disse a mezza voce – Mia sorella non è nemmeno in Italia in questi giorni, e mia madre non è riuscita a liberarsi con così poco preavviso-.
Gli sembrava essere passato un secolo da quando quella mattina aveva chiamato sua madre. Era un ricordo talmente sfocato, nonostante non fosse passato poi così tanto tempo, da sembrargli quasi una cosa surreale.
-In effetti non ho idea di come farò tra qualche giorno, a casa da solo con una neonata e un bambino di due anni, ed Alice costretta a rimanere qua- ammise, con un sospiro sconsolato.
Era già stato piuttosto scoraggiato durante quella giornata, senza dover per forza pensare alle successive. Quando qualche ora dopo la nascita di Federica si era calmato a sufficienza per avvertire anche Caterina, Giulia, Nicola, Filippo e Pietro degli ultimi eventi, e aveva sperato ardentemente che almeno uno di loro lo raggiungesse lì. Erano dovute passare diverse ore, ma almeno alla sera, dopo il lavoro, Pietro era comparso.
-Una situazione davvero magnifica- commentò lui, con lo stesso tono pessimista.
Alessio alzò le spalle, accarezzando piano una guancia piena e leggermente arrossata di Federica:
-Poteva andare anche peggio, visto le premesse-.
Sentì una mano di Pietro posarglisi delicatamente su una spalla. Alessio sobbalzò appena, sorpreso: era un po’ come dover tornare ad abituarsi a quei contatti che c’erano sempre stati tra loro, pian piano recuperare la naturalezza di un tempo.
-Non pensarci- Pietro sospirò pesantemente. Quando Alessio rialzò gli occhi su di lui, lo notò piuttosto pensieroso, come se stesse riflettendo su qualcosa. Per i primi attimi Pietro non aggiunse nulla, continuando semplicemente ad avere la stessa espressione corrucciata.
Passarono almeno alcuni minuti, prima che facesse scivolare la mano lontana dalla spalla di Alessio, prima di schiarirsi la voce:
-Senti … -.
-Ehi!-.
Sia Alessio che Pietro sussultarono appena, girandosi nella direzione della voce che li aveva appena interrotti. Lungo il corridoio stava correndo Nicola, verso di loro, un braccio alzato in segno di saluto. Alessio dovette rinunciare a malincuore a chiedere a Pietro cosa stesse per dire: nel giro di qualche secondo Nicola li avrebbe raggiunti.
-Sono uscito dal lavoro e sono corso qui il prima possibile- Nicola parlò con fatica, il fiatone che gli rendeva la voce più roca e strozzata, ed il volto paonazzo. Alessio non faticava a credergli sulla parola: Nicola indossava ancora la camicia e i jeans, segno che non era ancora effettivamente passato da casa per vestire abiti più comodi e più adatti al caldo di inizio Giugno.
-Tranquillo- gli disse subito, cercando di sorridergli – Anzi, grazie per essere venuto … Grazie ad entrambi-.
Lanciò una veloce occhiata anche a Pietro, al suo fianco. Annuì di rimando, prima di voltarsi verso Christian, che, nel suo mutismo, sembrava incuriosito dall’arrivo improvviso di Nicola.
Quando Alessio tornò a voltarsi, vide proprio Nicola tenere lo sguardo abbassato, rivolto alla neonata. Un sorriso allegro gli si stava formando sulle labbra.
-È lei l’ultima arrivata?- chiese ad Alessio, indicando Federica, che si stava agitando appena tra le sue braccia.
Alessio annuì:
-Così sembra-.
Si alzò di nuovo per permettere a Nicola di poterla vedere meglio e più da vicino. Lo vide abbassare il viso, sorridere con gioia mentre osservava il viso e gli occhi ancora chiusi della neonata.
-È uguale a te- commentò, ridendo appena allo sbuffo scettico di Alessio. Passò appena un attimo, prima che Nicola rialzasse lo sguardo per puntare gli occhi su Alessio, il sorriso già meno luminoso:
-Alice come sta?-.
C’era preoccupazione nella voce, e anche se Alessio nel messaggio che aveva mandato ore prima si era limitato solo ad accennare cosa fosse successo, immaginava che non dovesse essere difficile per Nicola intuire che qualcosa non avesse funzionato.
-Non molto bene- mormorò, rabbuiandosi di nuovo – Ci sono state delle complicazioni-.
-Complicazioni quanto complicate?- gli chiese subito Nicola, corrugando la fronte.
A quella domanda Alessio preferiva non rispondere: non sapeva con esattezza quanto potersi sbilanciare con le previsioni, né voleva cadere nell’illusione di poter minimizzare la situazione.
Sospirò profondamente, scuotendo appena il capo:
-Diciamo che ad essere ottimisti starà meglio tra qualche giorno-.
Si lasciò ricadere sulla sedia accanto a Pietro, rimasto in silenzio negli ultimi minuti. Si sentiva il suo sguardo e quello di Nicola addosso, mentre abbassava il viso su Federica.
Lei almeno stava bene. Era lì con lui, viva, in salute.
Era una situazione a tratti insostenibile, ma aveva almeno lei e Christian.
-Allora restiamo ottimisti- sussurrò Nicola, rimanendosene in piedi davanti a lui.
Alessio si ritrovò a pensare tra sé e sé che, per restare ottimista, avrebbe perlomeno dovuto iniziare ad esserlo.
 
*
 
Aveva finalmente smesso di piovere quando, quella mattina, Alessio era uscito di casa di nuovo, una mano di Christian stretta nella sua e il cuore che batteva forte.
Aveva atteso quel giorno da quando l’ostetrica gli aveva assicurato che Federica stava bene e che sarebbe potuta essere portata a casa entro breve tempo. Era arrivato quel momento.
Erano rimasti in ospedale per poco, giusto il tempo di sapere come stava Alice, se c’erano stati miglioramenti, mentre aspettava che l’infermiera di turno preparasse Federica. Quando finalmente si era lasciato alle spalle, anche per quella giornata, l’entrata dell’ospedale, stavolta con sua figlia e Christian che lo seguiva a passi veloci, riuscì a sentirsi meno vulnerabile.
A mezzogiorno qualche raggio di sole stava arrischiando ad uscire oltre la coltre bianca di nuvole che, fino a quel momento, avevano oscurato il cielo.
Attraversò l’ultimo ponte che collegava una parte all’altra delle calli divise dal piccolo canale che scorreva di fronte al suo palazzo. Cominciava a sentire affaticato il braccio con il quale stava tenendo l’ovetto dove Federica stava dormendo, ma ormai mancavano pochi metri al portone verso il quale era diretto.
Alessio si bloccò per qualche attimo, gli occhi sgranati per la sorpresa, quando, sbattendo gli occhi un paio di volte, riconobbe una figura famigliare appoggiata al muro vicino all’entrata.
-Zio!-.
Lasciò andare la mano di Christian, osservandolo lanciarsi con gioia e con passi ancora un po’ incerti verso Pietro. Anche Alessio si ritrovò ad accelerare il passo: osservò l’altro sciogliersi dalla posizione in cui si trovava, sorridendo affettuosamente a Christian e chinandosi alla sua altezza dopo averlo raggiunto, in poche falcate.
Alessio spostò il peso dell’ovetto e di Federica all’altra mano, ora libera, giusto poco prima di arrivare poco dietro Christian.
-Che ci fai qui?-.
Per quanto si era immaginato la sua voce più sorpresa che altro, ad Alessio risuonò più sbigottita di quanto si era aspettato. Aveva scritto a Pietro la sera prima per dirgli che quella mattina finalmente avrebbe potuto portare almeno Federica a casa, ma non si era minimamente immaginato di trovarlo lì, in attesa.
Pietro rimase accucciato a terra, alzando solo gli occhi scuri verso di lui, accennando ad un sorriso leggermente imbarazzato:
-Ti stavo aspettando- disse, alzando le spalle – Sei andato a prendere la piccola?-.
Alessio si ritrovò ad annuire, cercando di non soffermarsi troppo sul lieve rossore che imporporava le guance di Pietro. Lo osservò alzarsi, tenendo Christian in braccio come se non gli costasse alcuno sforzo.
-E Alice come sta?- gli chiese ancora, muovendo un passo avanti.
-Stabile- Alessio non riuscì a trovare qualche altro aggettivo più adatto alla situazione, ma la sorpresa di ritrovarsi di fronte Pietro, che lo aveva aspettato a casa, gli rendeva difficile pensare ad altro – Debole, ma stabile. La tengono ancora sotto controllo-.
Pietro annuì, pensieroso:
-È già qualcosa- disse, d’un tratto più esitante – Comunque … -.
Abbassò per una frazione di secondo lo sguardo, ed una parte di Alessio sperò che non fosse il preludio di una separazione.
-Volevo già chiedertelo in ospedale l’altro giorno, ma poi è arrivato Nicola- Pietro spostò il peso da una gamba all’altra, spostando lo sguardo oltre le spalle di Alessio – Se ti serve una mano con i bambini posso rimanere con te. Non è il caso che tu rimanga da solo così a lungo-.
Alessio cercò di reprimere il suo istinto di rimanere a bocca aperta, senza sapere bene cosa rispondere. Si era aspettato che Pietro potesse passare per vedere come se la stava cavando, ma non aveva neanche lontanamente preso in considerazione l’ipotesi che volesse stargli accanto in modo più prolungato.
Si trattenne dall’accettare subito l’offerta solo pensando a Giacomo e al secondo figlio che aspettava Giada: non voleva essere lui la causa dell’assenza di Pietro da casa, non a tutti i costi.
-Sicuro che non sia troppo impegnativo?- Alessio lo guardò corrugando la fronte, sperando che Pietro non equivocasse e non lo considerasse un ingrato – Voglio dire … Hai anche tu dei figli a cui badare-.
Lo vide sbuffare debolmente, alzando le spalle e lanciandogli un sorriso imbarazzato:
-Figurati, se me ne sto fuori dai piedi per un po’ a Giada non può far altro che piacere- disse, ridendo appena, con amarezza malcelata.
Alessio annuì, sovrappensiero. Da quando qualche settimana prima Pietro gli aveva detto, con semplicità, che anche tra lui e Giada era finita, era rimasto sorpreso, ma non aveva fatto domande. Aveva l’impressione che a Pietro ancora non andasse di parlarne, e si trattenne anche in quel momento.
-Se è così, direi che accetto volentieri l’offerta- disse infine, cercando di restituirgli il sorriso – Non sentirti obbligato, però-.
Per tutta risposta, Pietro mosse qualche passo verso il portone del palazzo:
-Ti dò una mano volentieri, sul serio-.
Ad Alessio non rimase altro che seguirlo, a passi lenti per non ritrovarsi sbilanciato dall’ovetto di Federica, verso la porta di casa.
 


-Avevo dimenticato quanto fosse dura stare dietro ad un neonato-.
Alessio si lasciò sfuggire un sospiro profondo, stanco, mentre si buttava letteralmente sul divano del piccolo salotto. Udì Pietro ridere piano, già seduto; quando Alessio lo affiancò, rilassò finalmente i muscoli, chiudendo gli occhi per un attimo e accarezzando l’idea di lasciarsi andare al sonno.
Erano appena le dieci di sera, ma la giornata era stata talmente stressante che gli sembrava di aver corso per chilometri senza mai fermarsi, per ore intere. Federica aveva cominciato a piangere dal primo momento in cui avevano tutti messo piede in casa, senza quasi mai interrompersi: aveva dormito poco, mangiato abbastanza, e pianto fin troppo. Dopo cinque ore di pianti continui, anche Christian aveva ceduto per la frustrazione.
Alessio si era ritrovato a pensare che era stato un miracolo che Pietro avesse deciso di andare da lui: era perfettamente conscio del fatto che, da solo con due bambini piangenti, si sarebbe messo a piangere a sua volta per la disperazione.
Le acque si erano calmate solo quando la sera stava per calare: Pietro aveva messo a dormire Christian un’ora prima, e Federica si era finalmente calmata da poco meno di mezz’ora; Alessio si sentiva stordito ancor peggio dei primi giorni di Christian a casa.
-Non dirmelo- mormorò Pietro, con voce fintamente disperata – Dovrò ripetere la stessa esperienza tra pochi mesi-.
Alessio annuì piano, consapevole che però, nel buio della stanza, Pietro difficilmente avrebbe potuto notare il suo movimento. C’era solo la fioca luce dei lampioni che filtrava dalla finestra aperta a mitigare l’oscurità in cui era immerso il salotto: non avevano acceso nemmeno una luce, forse troppo stravolti anche solo per pensarci.
-Vero. Avete già pensato ad un nome?- gli chiese Alessio, non del tutto sicuro che affrontare quell’argomento fosse l’idea migliore. Pietro non aveva parlato molto di quella che era la situazione con Giada, negli ultimi due mesi: accennava poche cose, e raramente. Alessio aveva il dubbio che preferisse non parlarne per il troppo dolore o per non rivelare troppo.
-Non esattamente-.
Pietro sospirò a fondo, con stanchezza.
-Diciamo che Giada non mi parla quasi, ultimamente-.
Alessio si morse il labbro inferiore, dandosi mentalmente dell’idiota per essere andato a parare con la conversazione proprio in quella direzione.
-Vero anche questo- mormorò, sentendosi leggermente arrossire – Più o meno è la situazione in cui siamo passati anche io ed Alice-.
Per un attimo tacque, lasciando che la propria nuca affondasse nel tessuto morbido dello schienale del divano. Non aveva nemmeno avuto il tempo, negli ultimi giorni, di domandarsi come sarebbe stato quando Alice sarebbe tornata a casa dall’ospedale. Avrebbe dovuto cominciare a cercarsi un altro posto in cui stare e se ne sarebbe dovuto andare? O sarebbero finalmente riusciti ad andare oltre i rimpianti e le accuse reciproche?
Pietro sembrò leggergli nella mente tutti quei dubbi:
-Andavano meglio le cose ultimamente?- lo sentì chiedere, esitante.
Alessio scosse piano il capo, prima di ricordarsi che, lì al buio, difficilmente Pietro sarebbe riuscito a distinguere un cenno del genere.
-Prima del parto? No- ammise, mordendosi il labbro inferiore – Però ora, dopo quel che è successo, mi sento come se la rabbia fosse passata tutta di colpo-.
Si chiese se lo stesso sarebbe valso anche per Alice. Forse, un giorno, avrebbe smesso di sentirsi così ferita, ma non era certo che quel giorno potesse essere così vicino.
-Non torneremo mai insieme, ma … - si bloccò per un istante, sospirando pesantemente – Sarebbe così strano volerla ancora come un’amica?-.
“O come una sorella”, si ritrovò a pensare per un attimo. Con Alice negli ultimi mesi era stato difficile, più difficile che mai, ma la rabbia non aveva cancellato l’affetto che provava verso di lei. L’aveva solo sepolto, sotto i cumuli di macerie.
-Avete due figli insieme, direi che non è strano-.
-Lo vorresti anche tu per te e Giada?- gli chiese Alessio, istintivamente. Si pentì quasi subito di avergli posto quella domanda di getto, ma Pietro non sembrò più di tanto turbato:
-Sì, credo di sì- mormorò appena, pensieroso – Le voglio bene, nonostante tutto-.
Nonostante le chiare difficoltà che dovevano esserci tra di loro, Alessio percepì nella voce di Pietro una nota di dolce malinconia.
-È che forse in fondo non ci siamo mai capiti a sufficienza-.
“Nemmeno io ed Alice”.
-Esistono poche persone con le quale riusciamo a capirci davvero bene- Alessio lo sussurrò talmente piano che, per un attimo, dubitò persino che Pietro potesse udirlo. Nel silenzio della stanza, però, in quell’attimo di calma temporanea, Pietro si lasciò sfuggire un sospiro lungo, stanco:
-Già-.
Per dei lunghi attimi calò un silenzio improvvisamente pesante, carico di parole non dette. Alessio abbassò il capo per alcuni secondi, sentendosi improvvisamente fuori posto. Era una sensazione che, con Pietro, capitava raramente di poter provare, ma non poteva negare che ci fosse: era come se si fosse appena incrinato qualcosa nella neonata serenità in cui erano piombati. Non aveva idea da cosa dipendesse, ma la sentiva sottopelle, come un serpente che stava tentando di stringerlo sempre di più nella sua morsa strisciante.
-Ho detto qualcosa che non va?- tentò, con un filo di voce.
Per la prima volta da quando si trovava seduto su quel divano, si ritrovò ad odiare un po’ il non aver acceso la luce: in quel momento poter riuscire ad osservare il viso di Pietro gli sarebbe stato utile, anche solo per provare ad intuire cosa gli potesse star passando per la testa.
Pietro si schiarì la gola qualche secondo dopo:
-No, è che … - esitò ancora, prima di lasciare andare l’ennesimo sospiro pesante – È che ogni tanto ripenso a Fernando-.
Alessio si morse il labbro inferiore, in difficoltà: non si era aspettato una risposta del genere.
Forse non si era nemmeno mai aspettato che Pietro gliene parlasse apertamente.
-Lui probabilmente mi capiva meglio di quanto non mi capivo io-.
“Capire se stessi è sempre più difficile che capire gli altri”.
Alessio tacque a sua volta, forse per quello che gli parve un minuto intero. Avrebbe voluto dirgli che non era nulla di strano, che cercare di comprendersi significava prima dover affrontare la paura di conoscersi davvero, ma non disse nulla. Sentiva un groppo in gola che gli impediva di dire tutte quelle cose.
-Ti manca- mormorò semplicemente.
Anche se non poteva vederlo, si immaginò Pietro annuire gravemente, con gli occhi lucidi.
-Ogni giorno-.
La voce di Pietro era risultata vuota, a malapena udibile, ed allo stesso tempo così pregna di dolore ormai cementato che Alessio si ritrovò ancor di più a disagio.
Avrebbe voluto essere in grado di relazionarsi meglio con il dolore altrui, meglio di quanto non ci era mai riuscito: per un attimo esitò sul portare una mano alla spalla di Pietro, ma non riuscì a muovere nemmeno un muscolo.
Si sentì inutile: era la prima volta che Pietro tornava sull’argomento da Aprile, in modo totalmente inaspettato, ed anche stavolta si stava ritrovando impreparato.
Sospirò pesantemente, sconfitto.
-Se potessi fare qualcosa per rendertelo più sopportabile lo farei-.
Aveva parlato a sua volta a voce a malapena udibile, come a non voler davvero spezzare il silenzio che era calato.
-Mi serve solo tempo- mormorò Pietro, forse più a se stesso che non ad Alessio – Prima o poi andrà meglio-.
Alessio si ritrovò a pensare che quello sembrava essere più un tentativo di autoconvinzione, che non una certezza davvero esistente.
Non voleva dirgli che forse prima o poi sarebbe andata meglio, perché non lo credeva sul serio: avrebbe solo fatto meno male, si sarebbe abituato al senso di perdita, ma non se ne sarebbe mai davvero andato.
-Non pensavo foste così tanto legati- commentò vagamente, senza capire da dove precisamente provenisse la sofferenza che gli aveva appesantito il petto nel momento in cui si era lasciato sfuggire quelle parole.
Pietro tacque alcuni attimi, prima di mormorare ancora:
-Non saprei come spiegarlo- iniziò, la voce esitante – È che forse ci siamo conosciuti al momento giusto-.
Il silenzio cadde di nuovo tra i muri del salotto.
Nell’oscurità Alessio riuscì solo a percepire il respiro regolare e appesantito di Pietro, come se stesse cercando di trattenere le lacrime. Si sentì di nuovo impotente, in colpa per essersi fatto trascinare da una sorta d’invidia quando aveva parlato di Fernando in quel modo. Non poté fare a meno di darsi dello stupido mentalmente.
-Forse è meglio se vado a casa, sta venendo tardi e tu sarai stanco morto-.
Dopo quella che era parsa essere un’eternità, Pietro aveva finalmente parlato. Le molle del divano vibrarono sotto lo spostamento del suo peso, ed Alessio intuì che si stava per alzare da lì.
Rimase per un attimo interdetto: si chiese se la sua improvvisa voglia di andarsene fosse dovuta alla loro conversazione, ma preferì in ogni caso non sapere la risposta.
Seguì Pietro e il rimbombo dei suoi passi fino all’interruttore più vicino: l’attimo in cui il salotto venne illuminato dal lampadario sul soffitto Alessio si ritrovò a strizzare gli occhi, tutt’altro che preparato all’improvvisa luce. Cercò con lo sguardo Pietro, ancora in piedi accanto alla parete.
-Domani mattina posso tornare- mormorò ancora, le mani nelle tasche dei jeans e lo sguardo abbassato. Alessio si alzò a sua volta, sentendo tutti i muscoli del corpo tirare fastidiosamente; cercò di non badarci, mentre si avvicinava all’altro con passo lento.
-Perché non rimani direttamente qui?-.
Si morse il labbro in imbarazzo, in attesa di una qualche risposta. Notò Pietro alzare il viso e sgranare gli occhi per un fugace secondo, prima di rivolgergli un’espressione tra l’incredulo e l’interrogativo, come se non fosse affatto sicuro di aver capito bene.
-Non è troppo un peso per te?- gli chiese di rimando, un secondo dopo. Non era stata esattamente la risposta che Alessio si era prospettato, ma era stata comunque migliore di quel che si era aspettato di ricevere: era già pronto a vedersi declinare l’offerta, ma quella domanda stupita di Pietro gli stava quasi facendo credere di avere qualche speranza. Poteva comprendere se Pietro gli avesse detto di dover rientrare, ma non gli andava nemmeno di rimanere solo, non quella notte.
Lo guardò fisso per qualche attimo, prima di scuotere il capo con finta esasperazione:
-Non essere idiota-.
Pietro rimase spiazzato di nuovo solo per poco, prima di accennare ad una risata leggera. Non disse nulla, ma ad Alessio bastò quello per capire quale sarebbe stata la sua risposta definitiva.
 
*
 
Imagine your face
Say hello to me
Then all the bad days
They’re nothing to me
With you [2]
 
I pochi raggi di sole che filtravano dalle fessure della persiana quasi abbassata del tutto finirono per svegliarlo. Pietro si rigirò stancamente nel letto, le lenzuola ormai un groviglio disordinato intorno alle gambe e ai piedi; dette un’occhiata veloce alla sveglia, trattenendo a stento uno sbuffo nel rendersi conto che erano appena le sei e mezza di domenica mattina.
Tornò a sistemarsi in una posizione più comoda, la schiena aderente al materasso e gli occhi puntati sul soffitto della stanza. Per un attimo si sentì disorientato, ma ricordò quasi subito dove si trovava: era difficile non riuscirci dopo aver notato Alessio, steso supino, di fianco a lui. Gli sarebbe bastato allungare appena il braccio per riuscire a toccarlo.
Pietro lo osservò per qualche minuto: era ancora profondamente addormentato, la stanchezza che vinceva persino su quelle fastidiose fasce di luce che rischiaravano la camera.
Si passò le mani sul viso, sentendosi più stanco di quando la sera prima erano andati a dormire. Avevano avuto giusto il tempo di cambiare le lenzuola, prima di crollare addormentati. Era stato un momento di tranquillità destinato sin dal principio a durare poco: era passata da poco la mezzanotte quando Federica aveva iniziato a strillare e piangere la prima volta. Pietro ricordava vagamente la voce assonnata di Alessio dirgli di restare fermo e che sarebbe andato lui; era rimasto fermo come gli aveva detto, ad ascoltare i passi di Alessio avvicinarsi alla culla, posta poco lontana dal letto, e la sua voce calma parlare alla bambina per cercare di calmarla.
Quasi quattro ore dopo era stato il turno di Pietro di andare: ricordava più distintamente quando aveva detto ad Alessio che stavolta ci avrebbe pensato lui, subito dopo aver acceso la lampada sul comodino. Era stato più facile calmare Federica quella seconda volta: aveva passeggiato per una decina di minuti nel salotto dell’appartamento, tenendola in braccio, canticchiandole la prima cosa che era gli era venuta in mente.
Quando era tornato a letto, dopo averla rimessa nella sua culla, Pietro era piuttosto sicuro di essersi riaddormentato subito, non appena aveva toccato il materasso.
“Peccato aver dormito solo altre due ore”.
Si rimise steso di fianco, sperando di poter di nuovo conciliare il sonno. Aveva le speranze quasi a zero: nonostante gli occhi gonfi e le membra stanche, sentiva il cervello ormai fin troppo sveglio anche solo per poter pensare di rimettersi a dormire. Era spacciato.
Si sistemò meglio il cuscino sotto la testa, rifiutandosi di alzarsi. Era un giaciglio comodo, il letto matrimoniale in quella che, fino a nove mesi prima, era stata solo la stanza degli ospiti. Non si era stupito molto, la sera precedente, di scoprire che Alessio ne aveva preso possesso in maniera permanente: era piuttosto impensabile che lui ed Alice potessero condividere la stessa stanza, dopo quel che era successo tra loro.
Anche se arredata in modo spartano, Pietro riusciva a cogliere l’essenza di Alessio in qualsiasi angolo posasse gli occhi: parlava di lui l’alta libreria piena di album musicali, alcuni dei quali gli aveva regalato lui stesso, o le cornici di fotografie dove poteva osservare Alessio con Christian, con Caterina e Nicola, persino una con Giulia e Filippo.
Spostò gli occhi su Alessio stesso, ancora addormentato, nel sentirlo prendere un respiro più profondo dei precedenti. Sembrava sereno, almeno mentre dormiva: non c’era traccia della fronte corrucciata che aveva costantemente negli ultimi mesi, niente sguardo perso e affaticato.
Pietro quasi rise tra sé e sé, nel soppesare l’ironia del fato: se qualcuno gli avesse detto, anche solo tre mesi prima, che un giorno di Giugno si sarebbe ritrovato a condividere il letto con lui, non gli avrebbe creduto mai. Forse non riusciva ancora a crederci del tutto nemmeno ora, nemmeno quando si trovava effettivamente steso su quel letto, con Alessio accanto a lui, inconsapevole del suo sguardo.
Forse era tutto così strano ed inaspettato da faticare persino a capire come erano tornati al quel punto.
Non si sentiva sbagliato, non lì, non in quel momento.
C’era qualcosa di intrinsecamente giusto, nel trovarsi lì, a dispetto di tutti i suoi tentativi di tenersi a distanza.
In un modo o nell’altro calamitava sempre intorno ad Alessio, ed Alessio tornava sempre da lui.
Non se ne era davvero reso conto quando era andato da lui a scusarsi per non aver risposto alle sue chiamate, due mesi prima, né se ne era accorto quando, in ospedale, si era ritrovato sul punto di dirgli che poteva dargli una mano con Christian e Federica.
Stava prendendo consapevolezza in quel momento, con gli occhi puntati sulla figura placida di Alessio. Forse non c’era davvero soluzione: non poteva fare altro che rassegnarsi a restare.
 
Thought I found a way
Thought I found a way out
But you never go away
So I guess I gotta stay now [3]
 
*
 
-Immaginavo che oltre questa porta ci avrei trovato un tenero quadretto famigliare, ma non immaginavo esattamente questo tipo di quadretto famigliare-.
Alessio fulminò con lo sguardo Giulia, prima ancora di salutarla decentemente: per tutta risposta, si vide rivolgere il sorriso più innocente che le fosse possibile rivolgergli. Le risate di Caterina non fecero altro che acuire i suoi già esistenti istinti omicidi.
-Di che state ridendo?- Pietro li raggiunse tutti in cucina, guardandosi intorno confuso, arrossendo appena di fronte all’occhiata eloquente che Giulia gli rivolse.
Alessio sbuffò sonoramente, gesticolando con la mano a mezz’aria:
-Lascia stare- sbottò, ancora vagamente infastidito – Una delle solite allusioni di Giulia-.
-Allora preferisco non ascoltare- concordò l’altro, andando a sedersi su una delle sedie attorno al tavolo, al centro della stanza.
Alessio trattenne qualche impropero che, nonostante tutto, avrebbe volentieri lanciato a Giulia e Caterina e ai loro risolini divertiti: era stato sicuro sin da quando avevano suonato al campanello, nemmeno cinque minuti prima, che non si sarebbero lasciate scappare l’occasione di commentare la presenza di Pietro in quella casa. Non avevano deluso le sue aspettative nemmeno un po’. Soprattutto ora che, da un paio di mesi, erano a conoscenza del fatto che entrambi erano di nuovo single.
-In ogni caso, sbaglio o siamo qui per vedere qualcuno?- Caterina finalmente si riprese dalla risata che l’aveva scossa fino a qualche secondo prima, lanciando ad Alessio un’occhiata piena d’attesa.
-Appunto- soggiunse Giulia, annuendo vigorosamente – Dov’è la nuova arrivata?-.
Ad Alessio non rimase altro che sospirare, sconfitto:
-È di là in camera-.
Non attese oltre, prima di fare strada. Anche se né Giulia né Caterina l’avevano avvisato del loro arrivo, si era aspettato un’improvvisata del genere. Nonostante le battutine, era felice di vederle: erano entrambe due volti famigliari che, bene o male, riuscivano in un qualche modo a rasserenarlo.
Forse avrebbe solo preferito ci fosse stato anche Filippo: di sicuro, almeno in parte, la sua presenza avrebbe frenato un po’ Giulia sul lato del sarcasmo.
Percorsero il corridoio dell’appartamento fino alla camera di Alessio, dove la culla accanto al letto ospitava una dormiente Federica. Christian era già lì, seduto sul bordo del materasso intento a lanciare regolarmente occhiate alla sorella: da quel poco che aveva detto in quei giorni, Alessio era solo riuscito a capire quanto quella situazione gli fosse ancora del tutto nuova. La mancanza di Alice non doveva star facilitando l’adattamento.
-Giuro che se la svegliate vi uccido con le mie mani- Alessio si girò indietro, mormorando con voce appena udibile, e lanciando un’occhiata minacciosa sia a Giulia che a Caterina.
-Ha pianto parecchio?- gli chiese quest’ultima, abbassando a sua volta il tono di voce.
-Diciamo che deve avere un timer fissato ogni tre ore- esalò Pietro, con evidenti occhiaie sotto gli occhi – E ora si è riaddormentata da poco-.
Si avvicinarono con passo felpato alla culla, il più silenziosamente possibile. Alessio si fermò un secondo a lasciare una carezza sui capelli biondi di Christian, prima di seguire gli altri tre, già fermi con gli occhi abbassati verso Federica. Stava dormendo come un sasso, ma Alessio aveva già imparato a non venire ingannato da quell’apparenza: sembrava avere il sonno decisamente meno pesante rispetto a Christian, a suo tempo.
-È uguale a te, Alessio- sussurrò Caterina, alzando per una frazione di secondo gli occhi su di lui, sorridendogli – Ancor più di Christian-.
-Speriamo che non sia così anche per il carattere- soggiunse Giulia, rischiando di far scoppiare a ridere Caterina e Pietro, ma guadagnandosi l’ennesima occhiataccia da Alessio. Sospirò pesantemente, alzando gli occhi al cielo:
-Ti voglio bene anch’io, Giulia- borbottò ironico, seccato.
In tutta risposta ricevette un buffetto su una guancia:
-Non essere permaloso, Raggio di sole, sto solo scherzando-.
Alessio non demorse nel continuare a guardarla malamente. Dovette ammettere però, nel momento stesso in cui le labbra rischiarono di stendersi in un sorriso appena accennato, che quello era di gran lunga il momento più divertente che aveva avuto in quella lunga settimana.
 


-Nicola mi ha detto che Alice non se la sta passando molto bene- buttò lì vagamente Caterina, con sguardo serio. Ora che erano tornati nella cucina dell’appartamento erano liberi di parlare senza sussurrare.
Se ne stavano tutti seduti intorno al tavolo, Christian rimasto ancora a badare alla sorella nella camera da letto.
-Va un po’ meglio ora- sospirò Alessio, prendendo nota che l’indomani avrebbe fatto bene ad andare in ospedale a trovarla – Pian piano si sta riprendendo-.
Per un attimo nessuno disse nulla. L’unico rumore percepibile nella stanza era il cucchiaino che sbatteva contro la ceramica della tazzina piena di caffè appena preparato, mentre Pietro lo girava con lentezza.
Alessio stava per chiedere se qualcun altro volesse qualcosa da bere – non che avesse anche solo l’energia necessaria per alzarsi dalla sedia, ma non voleva passare per un pessimo padrone di casa-, quando la voce di Giulia gli arrivò alle orecchie cristallina quanto dubbiosa:
-Ma hai dormito anche tu qui?-.
Alessio non aveva dubbi a chi si stesse rivolgendo, non li avrebbe avuti nemmeno se non l’avesse vista puntare l’indice indagatore nella direzione di Pietro, sedutole di fronte.
Pietro alzò le spalle, confuso:
-Perché me lo domandi?- chiese, con cautela. Fin troppa cautela, dovette ammettere Alessio, per non lasciar già intuire così la risposta.
-Perché se la tua risposta fosse sì, allora mi spiegherei i due cuscini sul letto di Alessio- spiegò Giulia, pazientemente. Fece una pausa, prima di lasciarsi sfuggire un sorriso malizioso:
-E mi spiegherei anche un’altra cosa-.
Per un attimo Alessio fu tentato di dire che non era per niente intenzionato a scoprire a cosa si stesse riferendo in quel momento.
-Ho paura di sentirtela dire- borbottò, facendo ridere Caterina.
Giulia non sembrò badarci per niente: il suo sorriso si allargò ancora di più, il divertimento che le si leggeva nello sguardo che stava rivolgendo a Pietro.
Tenne il dito puntato su di lui, ma stavolta calibrandolo un po’ più in basso:
-Sbaglio o quella maglietta non è tua?- domandò, anche se da come lo disse Alessio intuì, con orrore, che doveva già essere sicura della risposta.
-Effettivamente ti va un po’ stretta- le diede man forte Caterina, portandosi una mano alla bocca per trattenere le risate.
Alessio non perse nemmeno tempo a fulminarle entrambe; si girò lentamente verso Pietro, non stupendosi affatto di vederlo ricambiare lo sguardo disperato. Era arrossito in maniera incredibile, in un modo così teneramente spontaneo che riuscì a far dimenticare, anche se solo per qualche secondo, il fastidio che Alessio stava provando.
Si girarono entrambi solo quando sentirono Giulia sospirare estasiata:
-Oh, che dolci, già vi prestate i vestiti- esalò, piegando il capo di lato e parlando con voce esageratamente dolce.
-A quando il matrimonio?- le fece eco Caterina, un attimo prima di non riuscire più a trattenere il riso.
Giulia non demorse, nemmeno di fronte all’ennesima occhiata torva che Alessio le rivolse:
-Vedete di invitarci, ingrati che non siete altro-.
Alessio si appuntò mentalmente, per qualsiasi eventuale futuro matrimonio, di non rischiare nemmeno per un secondo di invitare quelle due.
 
*
 
La luce soffusa della lampada accesa sul suo comodino cominciava a risultargli fastidiosa. Poteva essere un buon segno: forse, finalmente, il sonno stava arrivando.
Alessio si sistemò meglio tra le lenzuola del letto, cercando di non tirarle troppo dalla sua parte e lasciare Pietro senza nemmeno un lembo. Era da poco passata l’una di notte, ma nessuno di loro stava ancora dormendo: Federica aveva smesso di piangere da a malapena dieci minuti; erano bastati per svegliarli entrambi. Alessio aveva camminato in circolo nel salotto dell’appartamento per quasi mezz’ora, senza riuscire a calmarla nemmeno un po’. Solo la voce di Pietro era riuscita a farla addormentare: l’aveva presa delicatamente dalle braccia di Alessio, continuando a camminare a sua volta, sussurrandole qualche melodia che Alessio, in quel momento, non aveva riconosciuto. L’importante era che, perlomeno, avesse funzionato.
Forse la voce di Pietro avrebbe potuto sortire gli stessi effetti anche su di lui: per un attimo si girò verso di l’altro, scorgendolo intento a leggere il quotidiano del giorno prima, e fu davvero tentato di chiedergli di canticchiare pure a lui qualcosa.
Pietro aveva un’aria da intellettuale, con il giornale aperto e gli occhiali da vista che usava solo per leggere, con qualche ciocca di capelli castani che gli finiva inevitabilmente davanti le lenti. Rimase per un po’ a guardarlo, girandosi meglio verso di lui ed appoggiando il capo sul cuscino: le mani di Pietro si erano fatte un po’ più nodose di quando l’aveva conosciuto, ma rimanevano sempre eleganti, con quelle dita sottili e lunghe che tenevano ferme le pagine del giornale. Alessio le trovava delle belle mani, mani gentili e calde, mani da cui si sarebbe fatto volentieri accarezzare fino a cadere nel sonno.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, fino al momento in cui Pietro aveva finalmente spostato lo sguardo dalle righe d’inchiostro al suo viso.
-Che c’è?- gli chiese in un soffio di voce, per non svegliare Federica.
Alessio scosse a malapena il capo:
-Niente- mormorò, sentendosi appena arrossire – Ti stavo solo guardando-.
Era una strana quotidianità, quella che si era ritrovato a vivere in quei due giorni. Avere Pietro lì era stato un po’ come tornare ai tempi dell’università, quando condividevano quella che, ormai, era casa solo di Pietro.
Era stato così naturale che ad Alessio non era nemmeno sembrato che ci fossero stati anni a separarli da quel tempo a quei pochi giorni del presente.
-Non hai sonno?- gli chiese ancora Pietro, prima di ripiegare il giornale con movimenti attenti, e appoggiarlo sul comodino. Si tolse anche gli occhiali, prima di tornare con lo sguardo su Alessio.
-Nemmeno tu sembri averne- gli rispose lui, sorridendo appena.
Pietro si mise più disteso, la nuca che toccava il cuscino completamente, gli occhi fissi al soffitto. Alla luce debole e giallastra della lampada da comodino, i suoi capelli sembravano quasi più scuri, alcune ciocche vagamente rossastre.
Alessio se ne rimase in silenzio, non ancora del tutto deciso a girarsi e spegnere la luce. Continuava ad avere un dubbio che non smetteva di martellargli la mente, impedendogli di lasciarsi andare al riposo. Pietro sembrò quasi leggergli il pensiero: quando poco dopo si voltò verso di lui, Alessio lo vide osservarlo con la fronte corrugata.
-A che pensi?-.
Alessio soppesò la risposta per un po’, prima di parlare:
-Ad una persona- sussurrò, rendendosi subito conto degli occhi sgranati di Pietro – Non in quel senso-.
Seppe di non avergli facilitato il capire a cosa si riferiva quando lo vide corrugare ancor di più la fronte, lo sguardo confuso che non abbandonava gli occhi scuri.
Alessio sospirò a fondo, premendo il viso contro la superficie morbida del cuscino:
-C’è una persona a cui credo interesserebbe sapere come sta Alice- mormorò infine, riportando gli occhi su Pietro – O perlomeno vederla, se sa già cosa le è successo. E sono abbastanza sicuro che non le abbia ancora fatto visita in ospedale-.
Era dal giorno prima che Alessio si era soffermato a pensare a lungo a Sergio Salvatore. Ora che Alice stava decisamente meglio, pur restando in ospedale, e che con lui c’era anche Pietro per badare ai bambini, si era ricordato dell’inghippo che rappresentava quell’uomo. Non aveva nemmeno idea se Alice lo avesse già chiamato per dirgli delle sue condizioni, anche se qualcosa gli diceva non l’avesse fatto; tra tutti i pensieri e le preoccupazioni avute in quella settimana, dedicarsi anche al motivo per cui Alice l’aveva lasciato gli era sembrato troppo.
Pietro annuì debolmente, probabilmente chiedendosi tra sé e sé a chi si stesse riferendo. L’unica cosa che gli domandò, però, non fu su quello:
-E il tuo dubbio su cos’era?-.
Alessio lasciò andare un lungo sospiro, una mano tra le ciocche di capelli biondi che stavano già ricominciando a crescere e a risultare troppo lunghe:
-Mi sentirei estremamente a disagio a chiamarlo per dirgli di andare in ospedale a trovarla, ma allo stesso tempo credo che sarebbe giusto che si vedessero- borbottò dopo alcuni attimi d’esitazione.
Per un attimo s’immaginò davvero di chiamare Sergio, dirgli di Alice e dirgli di andarla a trovare in ospedale. Con sorpresa si ritrovò a non considerarla una cosa troppo stonata.
-È la gelosia a fermarti?- gli chiese ancora Pietro, con un velo d’incertezza. Ad Alessio non sembrò del tutto convinto di voler scoprire la risposta, come se la stesse temendo particolarmente.
Scosse il capo subito, con determinazione:
-No, non sono geloso- ammise, tornando a puntare gli occhi sul viso in penombra di Pietro – Non ho alcuna intenzione di ricominciare una relazione con Alice. Penso solo che sarebbe una situazione un po’ strana-.
Pietro non rispose subito. Alzò gli occhi al soffitto, probabilmente perso in qualche pensiero che Alessio ancora non conosceva. Gli ci vollero parecchi altri secondi, prima di voltarsi di nuovo, la voce meno insicura di prima:
-Credi che ad Alice potrebbe servire vedere questa persona? A renderla più felice, intendo-.
Alessio si morse il labbro inferiore, nervosamente. Era vero che non si sentiva geloso di Alice e Sergio, e che probabilmente non lo sarebbe stato nemmeno se un giorno avrebbero deciso di ufficializzare una qualche storia tra loro; eppure sentì qualcosa dargli fastidio, come una scheggia infilatasi nella carne morbida del polpastrello.
Forse un tempo sarebbe potuto essere lui la persona a rendere felice Alice. Era un tempo così distante che gli parve quasi una mera illusione, più che qualcosa di realmente avvenuto in passato. La verità era che sì, Sergio l’avrebbe resa felice. Lui, ormai, non avrebbe più potuto farlo, non in quello stesso modo, così come Alice a sua volta non rappresentava più la sua possibile felicità – e forse nessuno di loro lo era mai stato davvero per l’altro.
-Credo che ne sarebbe felice, sì-.
Cercò di reprimere l’amarezza che lo accompagnò in quell’ammissione, la consapevolezza di quanto le cose erano cambiate e che, ancora, lo lasciava talvolta destabilizzato.
-Forse le renderebbe le cose un po’ meno difficili-.
Il sorriso enigmatico che gli rivolse Pietro subito dopo sembrava già contenere la risposta che cercava a tutte le sue domande:
-Allora credo che tu conosca già la risposta su cosa fare-.
 
*
 
Alessio arricciò il naso, cercando di ignorare l’odore pungente di disinfettante dell’ospedale. Nonostante fosse tornato lì quasi ogni giorno nell’ultima settimana, faticava ancora ad abituarsi all’aria pesante che vi si respirava. Guardò l’ora nervosamente, sbloccando il display del cellulare per un secondo, prima di rimetterlo nella tasca dei jeans.
“Sarà qui a minuti” si ripeté tra sé e sé, guardandosi intorno ancora una volta, ma senza scorgere nessun volto famigliare all’inizio del lungo corridoio.
Aveva pensato per tutta la notte se contattarlo sul serio o no. Alla fine le parole di Pietro erano state la spinta definitiva: quella mattina se n’era uscito in fretta e furia, raggiungendo il museo dove lui ed Alice lavoravano in ancor meno tempo.
Quello era il giorno libero di Sergio Salvatore, ma Alessio era riuscito in ogni caso a procurarsi un suo contatto telefonico chiedendo ad altri colleghi. Quando mezz’ora dopo, sulla via di casa, l’aveva chiamato, era riuscito a percepire la sorpresa dell’altro dall’altra parte della linea. Non ci era voluto molto per spiegare la situazione, né Sergio aveva in qualche modo negato che vedere Alice sarebbe stato un sollievo anche per lui.
Ora che era ormai sera, e da quella telefonata erano passate ore ed ore, ad Alessio parve quasi un ricordo lontano e sfocato, come se non fosse nemmeno stato davvero lui a chiamarlo.
Era sul punto di controllare ancora l’ora sul cellulare, quando in fondo al corridoio scorse un volto che non gli sembrava del tutto sconosciuto. Strizzò gli occhi per acuire la vista, ma aveva pochi dubbi sull’identità dell’uomo alto e dai capelli neri che stava puntando dritto nella sua direzione.
Alessio attese che Sergio lo raggiungesse, cosa che gli portò via a malapena una manciata di secondi: era di sicuro avvantaggiato nella sua camminata veloce dalle gambe lunghe e affusolate.
Quando gli fu a meno di due metri, lo vide fargli un cenno con il capo, il volto più serio e l’espressione meno arrogante di quanto Alessio ricordava le volte precedenti che l’aveva incontrato.
-Ciao- mormorò formalmente, quando l’altro gli si fermò di fronte, il fiato leggermente velocizzato.
-Ciao- gli occhi verdi di Sergio ricambiarono il suo sguardo, con la stessa distanza formale che Alessio gli stava rivolgendo – Grazie per avermi chiamato-.
Nonostante non potesse dire di averlo mai trovato particolarmente simpatico o di piacevole compagnia, Alessio riuscì a cogliere della sincerità nella voce dell’altro.
Sergio abbassò lo sguardo per qualche attimo, spostando il peso da una gamba all’altra:
-Sapevo che Alice era qui, ma non avevo idea se fosse il caso di presentarmi-.
Il volto di Sergio sembrava contratto da quella che, ad Alessio, parve quasi dolorosa apprensione. Si ritrovò a pensare che, forse in fondo, non sarebbe stata solo Alice a trarre qualche gioia e sollievo da quella visita.
-Sono rimasto indeciso fino a ieri, in realtà- ammise, a mezza voce, trattenendo uno sbuffo sarcastico al pensiero che Sergio, pur non conoscendolo, era già in forte debito verso Pietro – Però credo che vederti le renderebbe le cose meno difficili-.
Sergio annuì di rimando, il viso un po’ meno teso rispetto a prima. Alessio usò quei secondi di silenzio per osservare le braccia dell’altro, ricoperte da innumerevoli tatuaggi: quello era forse l’unico punto d’incontro tra loro. I tatuaggi, ed Alice.
-Sicuro non sia un problema?- la voce profonda di Sergio lo distrasse dai suoi pensieri. Alessio scosse il capo con convinzione:
-Non lo è, o non ti avrei detto di venire-.
-Allora grazie. Sul serio-.
Sergio gli sorrise appena, riconoscente, forse per la prima volta da quando si conoscevano. Alzò un braccio, indicando il dito la stanza sul lato destro del corridoio, la porta ancora chiusa.
-La sua stanza è questa?- gli chiese ancora, un po’ incerto.
-Sì- Alessio mosse un passo indietro, come a volergli lasciare strada libera – Faresti bene ad entrare, il turno di visita non dura molto-.
Sergio, al contrario suo, fece un passo in direzione della porta; si voltò verso di lui un’ultima volta, un’espressione che Alessio pensò potesse essere un misto di riconoscenza e felicità.
-A dopo, allora-.
Alessio si limitò ad annuire di rimando, quasi incoraggiandolo a muovere la mano sulla maniglia. Si allontanò prima di poter vedere Sergio entrare nella stanza riservata ad Alice, andando a prendere posto su una delle scomode sedie del corridoio d’ospedale. Avrebbe atteso lì il suo turno, quando Sergio sarebbe uscito di nuovo; anche se non poteva essere lì dentro con loro, riusciva ad immaginarsi senza fatica il viso sorpreso e felice di Alice nel vederlo lì, accanto a lei. Sapeva che, quando avrebbe varcato a sua volta la soglia della camera, l’avrebbe trovata più sorridente e più serena di quanto non sarebbe mai stata con lui.
Attese in pace quel momento, il cuore e l’animo più leggero.
 
The morning will come again
No darkness, no season is eternal [1]





 
[1] BTS - "Spring Day"
[2] BTS V - "Winter Bear"
[3] Billie Eilish, Khalid - "Lovely"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori
 
NOTE DELLE AUTRICI
E con l'arrivo della primavera, finalmente c'è l'arrivo anche di qualche gioia (ma non troppe, o non saremmo noi 🤣): diamo il benvenuto a Federica Eva Bagliore, che nei giorni di giugno, quindi a distanza di un paio di mesi dal capitolo precedente, è finalmente nata!
E se la nuova arrivata sta bene ed è in salute, lo stesso purtroppo non si può dire di Alice, che a quanto pare ha avuto un parto un po' più complicato del previsto ... Ed è proprio in questa situazione non del tutto ottimale che ritroviamo Alessio: nonostante lui ed Alice non si siano lasciati nel migliore dei modi e ci sia attrito tra di loro, c'è comunque preoccupazione per lei.
In suo soccorso, però, giunge soprattutto Pietro che, in un ritratto quasi da famigliola più o meno felice, a distanza di due mesi, ha accennato a parlare di Fernando. Il che è già un passo avanti sul non tenersi tutto dentro ... Riuscirà prima o poi a parlarne davvero e a fondo? Questa ritrovata vicinanza con Alessio, comunque, sembra davvero stia risanando il loro legame ... Vedremo se le cose continueranno ad andare verso la direzione giusta o meno!
E poi arriviamo alla conclusione di questo capitolo con una nota positiva: Alessio ha seguito il consiglio di Pietro e anche il suo istinto, e ha deciso di contattare Sergio per far sì che lui ed Alice potessero vedersi. Ed è proprio Sergio che qui fa la sua prima apparizione: ve lo aspettavate? E soprattutto, vi aspettavate un gesto del genere da parte di Alessio? 
Chissà che non riesca a riparare i rapporti anche con Alice, un po' alla volta, almeno in amicizia!
Un capitolo che, nonostante sia iniziato in salita, ha trovato un buon finale ... Ci saranno gioie anche nel capitolo successivo? Chi lo sa!
Lo scopriremo mercoledì 9 agosto :)
Kiara & Greyjoy
 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Tonight ***


CAPITOLO 8 - TONIGHT


 

Mancavano pochi minuti a mezzanotte quando lasciò il cellulare posato sul tavolino di vetro di fronte al divano – quello che ormai da qualche mese poteva definire il suo nuovo comodino. Pietro si rigirò meglio sul divano, il lenzuolo leggero che gli copriva le gambe nude e lo proteggeva dall’aria che entrava dalla finestra del salotto lasciata aperta.
La mattina dopo, un qualsiasi venerdì di fine Luglio, si sarebbe svegliato presto come al solito per andare al lavoro, ma non aveva ancora sonno: prospettava di doversi rigirare più volte su quel divano troppo stretto, prima di riuscire a raggiungere anche solo uno stadio di sonnolenza.
Dette le spalle al tavolino e al resto della stanza, posizionandosi con la testa verso lo schienale, cercando di riparare gli occhi dalle luci dei lampioni che riusciva a notare dalla finestra. Si era scordato di tirar giù le persiane – o perlomeno tirare le tende-, ma non aveva voglia di alzarsi.
Non sapeva quanti minuti erano passati da quando si era sforzato di serrare gli occhi e rimanere fermo, al momento in cui gli parve di percepire il rimbombo di alcuni passi sul pavimento.
Pietro alzò la testa lentamente, chiedendosi se si fosse addormentato prima del previsto e fosse tutto un sogno, o se quei passi fossero davvero di Giada.
Ebbe la sua risposta nemmeno un minuto dopo, quando sentì i passi fermarsi sulla soglia del salotto. Si mise seduto per riuscire a guardare oltre lo schienale del divano, e nella penombra riuscì a riconoscere la figura di Giada. Era vestita con una camicia da notte leggera e viola, i capelli lunghi biondi scompigliati come se si fosse agitata nel letto. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di parlare per prima:
-Non pensavo fossi ancora sveglio-.
A Pietro parve più il contrario: era piuttosto evidente che fosse venuta fin lì senza qualche altro motivo preciso, se non parlare con lui. Giada doveva aver in qualche modo imparato le sue nuove abitudini: Pietro, da quando non dormiva più con lei in quella che era stata la loro stanza, aveva preso ad addormentarsi a notte fonda.
-Tu dovresti essere già andata a riposarti- le rispose, lanciando un cenno al grembo ormai evidente coperto dal tessuto della camicia da notte. Mancavano meno di due mesi al parto, e il pancione di Giada sembrava già sul punto di scoppiare. Pietro non ne era del tutto sicuro, ma gli sembrava di ricordare che quando stava aspettando Giacomo, la pancia al settimo mese non fosse così prominente.
-Tanto non riuscirei comunque a dormire- Giada sbuffò a mezza voce, per non farsi udire da Giacomo. Fece qualche passo lentamente, andando a sedersi su una delle poltrone accanto al divano.
-Non ne posso più di questa situazione-.
Pietro annuì, colpevole:
-Lo so- mormorò, un sussurro appena udibile.
Pur nella penombra della stanza, fu sicuro di notare un sorriso tutt’altro che allegro sulle labbra di Giada.
-Oh, lo so che lo sai- fece lei, con ironia pungente. Sospirò a fondo, stancamente, passando una mano tra le ciocche bionde per spostarle dal viso.
-Sto pensando da settimane … Anzi, da mesi, su cosa fare dopo che nascerà il bambino- fece di nuovo lei, dopo alcuni secondi di silenzio.
Pietro si ritrovò a strabuzzare gli occhi, incredulo:
-Ne vuoi parlare ora?- le chiese, senza provare a nascondere il disappunto.
Per un attimo credette davvero di star sognando: aveva provato ad introdurre quell’argomento infinite volte, nei mesi precedenti, ritrovandosi di fronte al muro di silenzio eretto da Giada. Era come se anche il solo accennare a quel che sarebbe venuto dopo la nascita del loro secondogenito le potesse procurare un rigetto totale.
Non si era aspettato che fosse lei a tornare su quella discussione, né tantomeno che l’avrebbe fatto in piena notte. Forse era proprio quello che la stava tenendo sveglia.
Giada sbuffò di nuovo, stavolta più sonoramente:
-Farebbe differenza aspettare qualche ora?- disse, con tono di sfida – E poi in realtà la situazione è molto semplice-.
Pietro schioccò le labbra, preso in contropiede. La situazione poteva essere meno semplice di quel che sembrava – con il suo budget stava diventando piuttosto difficoltoso pensare di trovare un appartamento a Venezia, o anche solo a Mestre-, ma riusciva ad intuire cosa Giada intendesse con quelle parole.
D’altra parte non era lei ad avere urgenza di andarsene.
-Sì, sto già cercando un altro posto dove andare a stare, solo che … -.
-No- Giada lo interruppe bruscamente, rivolgendogli uno sguardo duro – Sono io che me ne andrò-.
Pietro era sicuro che, se avesse avuto uno specchio di fronte, avrebbe visto il suo riflesso con occhi sgranati e la bocca semiaperta, senza riuscire ad articolare alcuna parola.
Giada sospirò appena, abbassando per un attimo lo sguardo:
-Non ho alcun motivo di rimanere in questa casa- disse a mezza voce, con amarezza – È sempre stata tua, di mio non ha mai avuto granché. Puoi anche tenertela, per quel che mi riguarda-.
Pietro cercò di riordinare le idee, di ritrovare la voce per essere in grado di chiederle se fosse del tutto certa di voler proseguire in quella direzione. Era sicuro che Giada, con il suo stipendio, era decisamente più avvantaggiata di lui, e non escludeva del tutto che avesse iniziato a cercare un’altra abitazione già da qualche tempo, senza dirglielo. Non riuscì però a non pensare al fatto che, con lei, sarebbero andati anche Giacomo e il piccolo che sarebbe nato tra non molto.
-Sei sicura?- le chiese, schiarendosi la voce dopo essersi reso conto di averla troppo rauca – Voglio dire, non è facile trovare un altro appartamento a Venezia-.
Si rese conto che avrebbe potuto farle notare qualsiasi altro aspetto problematico della questione – come il fatto che un trasloco con un neonato e un bambino di due anni non sarebbe stato esattamente facile-, ma Giada non sembrò farci comunque caso.
-Ho i miei contatti- gli rispose, distendendosi meglio contro lo schienale della poltrona – E in ogni caso mi sono mossa già da tempo, solo che non te l’ho detto-.
Pietro non si stupì affatto di sentir confermare i suoi sospetti: Giada era sempre stata previdente. Era avversa solo alle sorprese, come quella che Pietro le aveva riservato nel lasciarla.
-Non appena mi sarò ripresa abbastanza dal parto per affrontare un trasloco, me ne andrò- proseguì ancora lei, con determinazione. A Pietro bastò sentirla parlare in quel modo per capire che non ci sarebbe stato modo di farle cambiare idea nemmeno di una virgola su quel suo progetto.
C’era qualcos’altro che gli premeva sapere, qualcosa che lo stava tormentando da quando aveva fatto coming out con la certezza che sarebbe cambiata ogni cosa.
-E … -.
Pietro si schiarì la voce, forse per la prima volta intimidito di fronte a Giada. Anche se teneva lo sguardo abbassato sul lenzuolo leggero che in parte gli copriva le gambe nude, sentiva addosso gli occhi di lei scrutarlo in attesa.
Cercò di farsi coraggio, anche se la risposta che avrebbe potuto ricevere avrebbe potuto anche distruggerlo:
-E i bambini?-.
Giada aggrottò la fronte:
-Che intendi dire?-.
Pietro continuò a tenere gli occhi lontano da lei, le mani che si torturavano tra loro con nervosismo:
-Me li farai vedere?- mormorò, con voce a malapena udibile – Quando non vivrai più qui-.
Si era ripromesso tante volte di parlarne con Giada, molto prima di quella notte, ma si era sempre frenato per paura. Paura di sentirsi dire che non gli avrebbe permesso di vederli, che non se lo meritava.
Giada rimase in silenzio per diversi secondi, immobile sulla poltrona. Sembrava immersa in pensieri profondi, e Pietro sperò solo che non fosse indecisa su come dirgli che i loro figli sarebbero rimasti con lei e unicamente con lei. Quando la sentì sospirare, Pietro si stupì di cogliere quella che sembrava una nota di sconfitta nella sua voce:
-Non sono quel tipo di persona, Pietro-.
Staccò la schiena dallo schienale della poltrona, sporgendosi verso di lui per quanto le era possibile, il viso che a Pietro parve più stanco del solito.
-Lo so che sono i tuoi figli, e per quanto meschino e codardo tu sia stato con me, non mi hai ancora dato un reale motivo per impedirti di vedere loro- sussurrò ancora Giada, la voce completamente diversa da come gli si era rivolta prima. Si alzò qualche secondo dopo, probabilmente diretta alla stanza da letto; prima di allontanarsi, però, gli rivolse ancora un ultimo sguardo, ferito e deluso come poche altre volte Pietro lo aveva visto.
-Lo faccio solo per loro, tienitelo bene a mente-.
Per quanto quelle ultime parole di Giada gli risuonarono sprezzanti e taglienti, Pietro non aggiunse nulla, mentre la osservava allontanarsi dal salotto. Quella risposta gli bastava.
 
*
 
-Stai bene?-.
Caterina sobbalzò di colpo, voltandosi con sguardo torvo verso la direzione da cui proveniva la voce. Nicola emerse dalla penombra, soffermandosi sulla soglia della porta e venendo finalmente colpito dal fascio di luce della lampada accesa del bagno.
-Ti sembra il modo di sbucarmi alle spalle?- lo rimproverò Caterina, non smettendo nemmeno per un attimo di guardarlo malamente – Di notte, poi … Come un ladro-.
-Veramente sei tu che rovistavi come un ladro- le fece notare lui, alzando un sopracciglio e rispondendo all’ennesima occhiata minacciosa di Caterina con un sorriso compiaciuto – Non hai risposto alla domanda, comunque-.
Caterina sbuffò sonoramente, ritirando la mano che aveva infilato in mezzo ai medicinali che tenevano nell’armadietto del bagno. Tenne stretta tra le dita la scatola degli analgesici che era venuta a cercare, ignorando ancora per qualche secondo Nicola e il suo sguardo insistente.
-Sto bene- gli disse, a mezza voce – Solo un po’ di mal di testa-.
A quelle parole gli occhi di Nicola brillarono:
-Mal di testa, eh?- ripeté, avvicinandosi ancora un po’. A Caterina parve quasi che stesse sperando di vederla malconcia.
-Non è uno dei sintomi- gli fece presente, con un sorriso falso che somigliava più ad uno stiramento dei muscoli facciali.
Nicola sembrò adombrarsi un po’:
-Nemmeno un po’ di nausea?- tentò ancora, senza sentirsi sconfitto di fronte al cenno di diniego di Caterina – Neanche poca?-.
-Stai sperando che io stia male?- Caterina lasciò la scatola di medicine sul lavandino, dando pacche leggere in direzione di Nicola con entrambe le mani. Si mise a ridere, nonostante tutto. Lui le bloccò i polsi dopo qualche tentativo andato a vuoto, tenendoli in una presa non troppo forte, ma salda:
-Non esattamente- puntualizzò, affannato – Cioè … Sì, ma per un buon motivo-.
Caterina lo guardò ancor più malamente di prima:
-Che ne dici di dormire sul divano stanotte?-.
Nicola la guardò con occhi sgranati, cosa che fece rischiare Caterina di scoppiare a ridergli in faccia. Scosse il capo, spostando lo sguardo verso la confezione di antidolorifici: l’aprì per prendere tra le dita il blister già iniziato, recuperando una delle ultime pastiglie. La portò alla bocca velocemente, prima di afferrare il bicchiere che era andata a riempire in cucina e mandar giù un sorso generoso di acqua. Lo rimise subito giù, sulla mensola sotto lo specchio, tornando finalmente a guardare Nicola, rimasto in silenzio.
-L’unico sintomo che ti dovrà far drizzare le antenne sarà quando avrò un ritardo- gli disse, con molta più calma di quanto lei stessa si sarebbe aspettata – Fino ad allora qualsiasi nausea o mal di testa potrebbe essere semplicemente stress-.
Era una sensazione strana parlare così di possibili sintomi di una gravidanza. Era una novità talmente grande che Caterina faticava ancora, dopo alcuni mesi, a rendersene conto.
Da quando un giorno d’Aprile aveva confessato a Nicola, senza nemmeno starci troppo a pensare per il timore di cambiare nuovamente idea, che l’idea di un secondo figlio non le era più così sgradita, non si era comunque sentita troppo sotto pressione. Nicola le chiedeva puntualmente ogni mese come si sentisse, ma Caterina si ritrovava più divertita da quelle domande senza capo né coda, che infastidita. Quella era forse l’unica sera, probabilmente non aiutata dall’imperante mal di testa, in cui l’avrebbe volentieri fatto dormire sul serio nel salotto dell’appartamento.
-Stress causato da te e tuo figlio, per la precisione- puntualizzò, puntandogli un dito accusatorio contro il petto.
Nicola non sembrò darsi per vinto:
-O magari dai miei figli- disse, per niente intimorito dall’occhiata di fuoco che Caterina gli lanciò subito – Che sarebbero anche tuoi, per inciso-.
Caterina roteò gli occhi al cielo, esasperata e del tutto intenzionata a porre fine a quella conversazione il prima possibile:
-Ci rinuncio- sospirò pesantemente, rassegnata.
Fece per scostare Nicola per avere spazio sufficiente per uscire dal bagno, ma dovette bloccarsi subito, gli occhi sgranati posati sulla figura bassa di Francesco. Se ne stava in mezzo al corridoio, nella penombra, poco dietro Nicola: doveva essersi svegliato da poco, l’aria frastornata e i capelli biondi scompigliati.
-Che figli?- chiese, con la voce assonnata e le parole pronunciate ancora con l’incertezza tipica dei suoi tre anni e mezzo.
-Ehi, tu che ci fai sveglio a quest’ora?- Caterina ignorò del tutto la domanda rigirandola a lui. Era comunque sinceramente curiosa di sapere perché si trovasse fuori dal letto a quell’ora, senza apparente motivo.
-State disturbando- rispose Francesco, con un certo disappunto.
Nicola si girò meglio nella sua direzione, piegando le gambe per ritrovarsi alla sua altezza:
-Quindi sei venuto a dirci di stare zitti?- gli chiese, con amorevole ironia.
Francesco annuì subito, con determinazione:
-Sì-.
Nicola alzò subito gli occhi verso Caterina, un sorriso divertito stampato sulle labbra:
-È proprio tuo figlio, non c’è dubbio-.
Caterina roteò gli occhi al cielo, le braccia incrociate contro il petto:
-Oh, ma piantala!- replicò, cercando di trattenersi dall’alzare la voce per non sembrare troppo brusca agli occhi di Francesco – Come se tu … -.
Prima che potesse concludere la sua frase, uno squillo di cellulare la interruppe improvvisamente. Guardò Nicola confusa, riconoscendo la suoneria del suo telefono, ma lo vide solamente restituirle lo stesso sguardo disorientato.
Nicola si alzò di scatto, muovendosi subito dopo verso la loro stanza da letto, dove entrambi i loro cellulari se ne stavano appoggiati sui rispettivi comodini. Caterina lo seguì subito, prendendo Francesco per mano e spingendolo a camminare velocemente per star dietro a lei e a Nicola.
-Chi può essere a quest’ora?- Caterina non riuscì a trattenere oltre quella domanda che le stava pungolando la mente da quando la suoneria aveva spezzato il silenzio.
Nicola entrò in quel momento nella camera, voltandosi appena verso di lei:
-Non lo so, ma se chiamano dopo mezzanotte non è nulla di buono-.
Anche se non lo disse a voce alta, Caterina si ritrovò a pensare lo stesso: chiunque stesse chiamando Nicola nel cuore della notte di una comunissima giornata di inizio Agosto, doveva essere in guai seri.
Nicola accese la luce sul comodino, piegandosi verso il cellulare che ancora suonava; un secondo dopo si voltò verso Caterina, il volto tirato per l’apprensione:
-È Pietro-.
Non attese una risposta: prese il cellulare tra le mani, ed accettò la chiamata prima di portarselo all’orecchio. Caterina non lo seguì, quando Nicola fece per uscire dalla stanza mormorando un sommesso “Pronto?”; si limitò a sedersi sul bordo del letto, aspettando che Francesco la imitasse e che Nicola tornasse indietro con qualche notizia in più.
Le sembrarono minuti interminabili, quelli passati in silenzio su quel letto: Nicola doveva essersene andato nel piccolo salotto del loro appartamento, perché non riusciva a cogliere nessuna parola della telefonata che stava avvenendo.
Cercò di non pensare al peggio, anche se il fatto che fosse Pietro a chiamare, e che lo stesse facendo in un momento simile, non faceva altro che terrorizzarla ancor di più.
Pensò a tutto quel che poteva essere successo: forse qualcosa a Giada e al bambino che portava in grembo, o qualcosa direttamente a Pietro. Non aveva idea di quale delle ipotesi la stesse mettendo più in ansia.
Rialzò il viso nel momento stesso in cui avvertì i passi di Nicola sempre più vicini. Non si mosse dal letto, in attesa, mentre portava una mano attorno alle spalle di Francesco per stringerselo più addosso, come se la sua vicinanza potesse tenere a bada la sua agitazione.
Quando vide Nicola fermarsi sulla soglia, il volto teso per la preoccupazione e l’aria vagamente stravolta, Caterina non riuscì nemmeno a formulare una domanda per chiedergli spiegazioni.
-È in ospedale- Nicola teneva nervosamente tra le mani il cellulare, gli occhi agitati che si erano fissati su Caterina – Giada è entrata in travaglio-.
Per un attimo Caterina non disse nulla, ma le ci vollero pochi altri secondi per realizzare che qualcosa non stava andando per niente nel verso giusto.
Sgranò gli occhi, portandosi una mano alla bocca:
-Ma non è possibile- replicò, con voce sommessa – Siamo solo a inizio Agosto-.
Non aveva mai tenuto conto del tempo che mancava a Giada prima del parto, ma era più che sicura di ricordare di averla sempre sentita parlare di Settembre come il mese in cui il bambino sarebbe nato.
Settembre, non Agosto.
Nicola annuì con aria sconfitta, come se si fosse già abituato a quell’informazione:
-Sembra proprio che nascerà prematuro-.
Caterina rimase in silenzio, l’ansia che lasciava il posto ad un sentimento più vicino alla paura e al timore.
 
*
 
-Ma guarda che guanciotte!-.
Pietro si trattenne a stento dall’urlare a Giulia di rimettere nella culla Giorgio: prima che potesse aprire bocca la vide fermarsi, smetterla di portarlo in alto con le braccia e lasciarlo sedere sulle sue gambe.
Si chiese, per l’ennesima volta nel giro di venti minuti, chi glielo avesse fatto fare ad accettare di far venire lei, Filippo, Alessio e Caterina a casa per vedere il nuovo arrivato.
-Come quelle del padre- aggiunse Caterina, lanciandogli un’occhiata divertita dal suo posto sul divano del salotto, dove se ne stava seduta accanto a Giulia.
Pietro sospirò profondamente di nuovo, alzando gli occhi al cielo e chiedendosi se prenderlo come un complimento o meno.
-Veramente a me le sue sembrano più incavate- fece Filippo, acuendo lo sguardo per osservare meglio Pietro – Giorgio mi pare più in forma-.
-La volete smettere con queste battute idiote?- Pietro allargò le braccia, fissando l’amico con aria esasperata. Filippo, in piedi accanto alla finestra, rise sotto i baffi, divertito.
-Te le dovevi aspettare- Alessio gli si avvicinò, dandogli una leggera pacca sulla spalla, prima di rivolgersi a Giulia e Caterina – Comunque ha ragione Filippo, lui ha il viso decisamente più smunto-.
Pietro lanciò un’occhiataccia anche ad Alessio, rinunciando a guardarlo in quella maniera non appena scontratosi con il suo sorriso divertito.
-Non c’erano dubbi che il figlio sarebbe stato più bello del padre- pigolò contenta Giulia, continuando a giocare con Giorgio facendogli linguacce e facce strane.
Pietro sbuffò debolmente, le braccia incrociate contro il petto:
-Grazie, Giulia. Sempre di grande supporto emotivo-.
Per un lungo istante calò il silenzio, interrotto solo dalla voce di Giulia e dai gorgoglii di Giorgio, ancora troppo piccolo per capire cosa lei gli stesse dicendo con così tanto entusiasmo. Pietro andò verso la finestra a sua volta, affiancando Filippo: nonostante fosse tardo pomeriggio, quasi sera, il cielo era ancora soleggiato come non mai. Sapeva già che a distanza di un solo mese gli sarebbero mancate le lunghe serate estive, in cui la notte tardava ad arrivare.
-Ma Giada e Giacomo?- Caterina riprese a parlare all’improvviso, come se quella domanda le fosse appena venuta in mente – Dove sono finiti?-.
Pietro si voltò verso di lei, alzando le spalle:
-Dal pediatra- disse semplicemente, rendendosi conto un attimo dopo che tutti si fossero voltati verso di lui con aria apprensiva.
-Nulla di grave, era solo un controllo- si affrettò a spiegare, calmandoli all’istante – Però qualcuno ce lo doveva portare. E qualcun altro doveva rimanere con il piccolo-.
Se proprio doveva essere sincero – anche se non lo disse ad alta voce- era Giada che lo preoccupava più di tutti, persino rispetto a Giacomo e a Giorgio: si era ripresa a fatica dal parto anticipato, e anche se era già passata una settimana era ancora troppo spesso stanca e spossata. Era già un passo avanti che quel pomeriggio fosse stata lei per prima a decidere di accompagnare Giacomo fuori.
Il discorso cadde lì, senza proseguire oltre. Osservò Filippo mentre faceva qualche passo, andando verso il divano: vi si appoggiò, sorridendo a Giorgio e guardandolo attentamente.
-Certo che per essere prematuro è davvero molto in forma- commentò, girandosi verso Pietro.
Prima che lui stesso potesse rispondere, ci pensò Alessio:
-È nato all’ottavo mese di gravidanza, Filippo, non al quinto- gli fece notare, mentre si avvicinava a sua volta – Se non fosse stato in forma dubito saremmo qui a casa a parlarne-.
“Ne dubito anche io” si ritrovò a pensare Pietro.
Quando la notte del 9 Agosto Giada aveva iniziato ad avere contrazioni non fraintendibili era entrato nel panico più assoluto: era stato in pensiero fino a quando, a parto terminato, il ginecologo era venuto da lui in persona a rassicurarlo che Giorgio stava benone. Un po’ piccolo rispetto a quando sarebbe nato al momento giusto, ma sarebbe cresciuto ugualmente fuori dal grembo di Giada.
Osservò suo figlio mentre veniva cullato entusiasticamente da Giulia: nonostante tutto, sembrava a suo agio, senza il rischio di scoppiare a piangere da un momento all’altro.
-Ne vuoi uno anche tu, vero?- Giulia dette una leggera gomitata sul fianco a Caterina, ridendo maliziosamente subito dopo averle posto quella domanda.
Caterina scrollò le spalle, indifferente:
-Cosa te lo fa pensare?- le chiese.
Prima ancora che Giulia potesse rispondere alcunché, Pietro seppe che porre quella domanda – e darle una possibilità così grande di fare battute- era stata una pessima idea.
Anche se dalla sua posizione non poteva vederla dritta in faccia, sapeva che Giulia stava sorridendo altrettanto maliziosamente.
-Me lo fa sospettare l’intensa attività che state portando avanti tu e Nicola- disse infine lei, con lo stesso tono ambiguo e divertito di prima.
“Tutto come da copione”.
-Giulia!- esclamò Alessio, più annoiato che scandalizzato.
Filippo scosse il viso con fare rassegnato, e Pietro riuscì a malapena a trattenere una risata per la situazione imbarazzante – cercando di non chiedersi come facesse Giulia ad essere informata di certi aspetti sulla situazione tra Caterina e Nicola.
-Grazie al cielo che è troppo piccolo per capire che ha detto- borbottò, abbastanza ad alta voce per riuscire a farsi sentire dalla diretta interessata.
-Non ho detto nulla di strano- replicò prontamente Giulia, voltandosi verso di lui.
Pietro sbuffò sonoramente:
-Sì, e io sono Babbo Natale-.
Scosse la testa come aveva fatto Filippo qualche secondo prima, muovendo qualche passo verso il corridoio. Doveva prendersi una pausa da quel casino il prima possibile.
-Vado a bere qualcosa in cucina- mormorò, mentre costeggiava il divano, lanciando un’occhiata a Giulia e un cenno verso Giorgio – Non maltrattarlo e non farlo vomitare-.
-È in ottime mani- lo rassicurò Giulia, ridendo.
L’unica risposta che ricevette fu lo sguardo pieno di scetticismo che Pietro le rivolse prima di uscire dal salotto.
 


La quiete che si respirava in cucina, al contrario del salotto, gli dette un po’ di tregua con il mal di testa che lo tormentava da giorni.
Pietro si avvicinò alla credenza, già pronto ad allungare una mano per afferrare un bicchiere e riempirlo d’acqua fresca. Avvertì dei passi nel corridoio: qualche secondo dopo sentì fermarsi chiunque stesse camminando nella sua direzione. Quando si girò non si stupì molto di scorgere Alessio sulla soglia della stanza.
-Sei scappato anche tu dal casino di Giulia e Caterina?- gli chiese, lanciandogli un sorrisetto.
Alessio avanzò nella sua direzione, ridendo piano sotto i baffi:
-Quindi venire a bere qualcosa era solo una scusa per scappare da loro?- gli chiese in risposta, accostandosi al tavolo da pranzo.
Pietro alzò le spalle, andando verso il frigo per recuperare la bottiglia d’acqua che vi era all’interno:
-Può darsi- mormorò vago, un sorriso che gli nasceva sulle labbra – E tu non hai ancora risposto alla mia domanda-.
Alessio lo imitò, alzando le spalle e lanciandogli un mezzo sorriso divertito:
-Avevo davvero sete- disse semplicemente, arrivando ad affiancarlo, spalla contro spalla – Puoi dare un po’ d’acqua anche a me?-.
Pietro annuì, appoggiando sulla tavola il suo bicchiere e voltandosi verso la credenza:
-Subito-.
Trovò strana quella situazione: era da così tanto tempo che Alessio non metteva piede in casa sua che ora ritrovarselo in cucina era paragonabile ad una allucinazione visiva. Eppure era lì, in carne ed ossa, con il sorriso rilassato che gli stava rivolgendo, e i capelli biondi che cominciavano ad essere un po’ più lunghi.
Nonostante la stranezza, era come se Alessio, in fin dei conti, non se ne fosse mai davvero andato da lì.
Lo ringraziò sottovoce, quando Pietro gli porse un bicchiere d’acqua, qualche attimo dopo. Per un po’ rimasero in silenzio, fino a quando Alessio, dopo aver mandato giù qualche sorso, tornò a guardarlo:
-Quindi resterai tu a vivere qui- disse, senza curarsi di nascondere il vago tono di sollievo nella voce.
Pietro si ritrovò ad annuire, ricambiando lo sguardo:
-Già. Mi va bene così- ammise per la prima volta ad alta voce, da quando Giada gli aveva fatto sapere quali erano le sue intenzioni – Mi avrebbe fatto tristezza lasciare questo appartamento-.
-Beh, ora non hai molti motivi per sentirti triste- Alessio rise appena – Hai anche un neonato a cui badare-.
-Quindi avrò motivi per soffrire d’insonnia-.
Risero insieme, interrompendo per qualche secondo il contatto visivo.
-Sì, decisamente- Alessio gli rispose con la voce ancora strozzata; si schiarì la gola, prima di parlare ancora:
-Chi ha scelto il nome?-.
Era una domanda del tutto casuale, ma Pietro si ritrovò a stringersi istintivamente nelle spalle, insicuro. Tenne lo sguardo basso, consapevole che Alessio dovesse aver captato ogni singolo segnale di disagio che il suo corpo aveva appena rivelato.
Sospirò impercettibilmente, incerto se gli convenisse mandar giù tutto il resto dell’acqua che rimaneva nel suo bicchiere e prendere tempo, o se tenersela da parte in caso di emergenza. Rimase fermo, continuando a non guardare Alessio.
-È stata un’idea mia- ammise infine, ancora indeciso su quanto rivelare – A Giada piaceva e non era convinta su altri nomi, quindi … -.
Era una mezza verità, ed era sicuro che Alessio l’avesse intuito anche solo dal tono incerto con cui aveva parlato. Se l’aveva capito, però, non lo dette a vedere:
-Non ti facevo tipo da Giorgio. Anche se con Giacomo suona bene- commentò, con serenità.
Pietro annuì, stringendo le dita attorno al vetro del bicchiere.
Non era del tutto sicuro di volerne parlare – con Giada non l’aveva fatto, e probabilmente non l’avrebbe fatto mai-, ma qualcosa gli diceva che farlo con Alessio non sarebbe stata un’idea negativa.
-Non è una scelta casuale- mormorò a mezza voce, tra la volontà di non farsi sentire da nessun altro se non Alessio, e per l’esitazione che ancora lo teneva incatenato – È stata ragionata … Anche un po’ dolorosa, a dire il vero-.
Anche se continuava a tenere il viso abbassato, sapeva che, se avesse alzato gli occhi, in quel momento avrebbe trovato Alessio ad osservarlo con lo stesso sguardo intenso che aveva sempre quando la conversazione iniziava a farsi più tortuosa.
-Ne vuoi parlare?-.
Pietro non sapeva ancora cosa rispondergli.
-Non c’è molto da dire, in realtà-.
Si morse il labbro inferiore nervosamente, i pensieri che gli affollavano la mente senza un ordine preciso. C’erano in realtà tante cose che avrebbe voluto dire, ma non riusciva a trovare un modo per poterle esprimere tutte con la dovuta importanza.
-Jorge era il secondo nome di Fernando- disse infine, ancor più a bassa voce – Volevo ricordarlo in qualche modo. E dare un nome importante a mio figlio-.
Pietro rimase immobile, nel silenzio.
Ricordava a malapena il momento in cui aveva avuto la prima idea su quel nome. Forse era solo stato un attimo di realizzazione, un rendersi conto di qualcosa che già voleva da molto: trovare un modo per ricordare Fernando, o un modo per averlo accanto a sé.
Non se l’era sentita di imporre quel nome a Giada: Giorgio sarebbe potuto benissimo essere un secondo nome, esserci ma venire dopo a quello che avrebbero scelto insieme. Aveva funzionato per Federica – l’idea di Alessio di aggiungere Eva come secondo nome, per sua madre, non era meno significativa-, e forse avrebbe funzionato anche nel loro caso.
Pietro ricordava piuttosto bene, invece, il momento in cui Giada gli aveva detto che trovava Giorgio il nome adatto a quel figlio che, all’epoca, ancora aveva in grembo: non aveva detto nient’altro, e a Pietro era andata bene così. Era stato uno dei pochi momenti di quiete che avevano vissuto negli ultimi mesi, mettendo da parte gli enormi problemi che c’erano tra di loro per quell’obiettivo comune.
Si riscosse da quelle memorie quando sentì il peso della mano di Alessio posarsi sulla sua spalla; ebbe la forza di alzare il viso solo dopo alcuni secondi, dopo aver ricacciato indietro a forza alcune lacrime che gli si erano accumulate agli angoli degli occhi.  
-È un bel gesto, Pietro- Alessio glielo disse dolcemente, sorridendogli in maniera appena visibile, ma sinceramente – Sono sicuro che a Fernando farebbe piacere la scelta-.
Pietro avrebbe voluto avere quella certezza più di ogni altra cosa: si aggrappò alle parole di Alessio come se si stesse aggrappando ad una corda che gli stava impedendo di cadere nel vuoto.
-Dici?- gli chiese, incerto.
-Sì, dico-.
Pietro fece per aprire bocca, ancora del tutto insicuro su cosa poter dire – su come lasciar cadere quella conversazione e iniziare a parlare d’altro-, ma dovette bloccarsi un attimo dopo: sentì bussare leggermente alla porta lasciata semiaperta. Un secondo dopo la testa di Giulia fece capolino nella cucina.
-Sto interrompendo qualcosa?- chiese, esitante. Per un attimo a Pietro sembrò di vederla piuttosto a disagio, quasi in difficoltà: non c’era più traccia, sul suo viso, dell’allegria che aveva mostrato mentre erano in salotto, qualche minuto prima. L’espressione rabbuiata lasciava pochi dubbi.
-No, vieni pure- le rispose subito, schiarendosi la gola – Hai bisogno di qualcosa?-.
-Il biberon- Giulia avanzò verso l’interno della stanza, le mani giunte – Credo che Giorgio abbia fame-.
Pietro si lasciò andare ad una risata leggera: non c’era nulla di meglio per distrarsi del dover pensare a non lasciare affamato suo figlio.
 
*
 
La sera era calata in fretta, le giornate che ormai non duravano più così a lungo come all’inizio dell’estate. Giulia si allontanò dalla finestra a cui era rimasta accostata fino ad un secondo prima: aveva perso la cognizione del tempo. Non aveva idea di quanto fosse rimasta ferma lì, lo sguardo smarrito verso l’esterno del vetro, tra le luci lontane della parte notturna di Venezia. Potevano essere passati pochi minuti come una lunga ora.
C’era un’insolita quiete in casa: le gemelle si erano addormentate dopo poco essere rientrati tutti a casa – Giulia non dubitava affatto che quella stanchezza fosse il frutto del pomeriggio passato a casa di Nicola e Caterina, in compagnia di Francesco. Si stava avvicinando anche per loro l’ora di cena, ma non osò svegliarle: avrebbero mangiato tranquillamente una volta che il loro sonnellino fosse finito.
Si avviò comunque verso la cucina, perché sebbene la cena delle gemelle fosse stata rimandata, quella sua e di Filippo non avrebbe subito la stessa sorte. Sentiva un certo languore, nonostante i pensieri che le stavano riempendo la testa le stessero quasi facendo passare la voglia di sedersi a tavola e mangiare qualcosa.
Quando entrò in cucina Filippo era già lì, intento a lavare dell’insalata sotto l’acqua che usciva dal rubinetto del lavandino. Non sembrò accorgersi subito di lei: si voltò appena solo quando Giulia gli fu a pochi passi, mentre lo osservava distrattamente.
-Ehi- le fece lui, alzando appena lo sguardo verso di lei – Tutto bene?-.
Giulia si irrigidì appena, non meravigliandosi del tutto di quanto poco fosse servito a Filippo per notare il suo silenzio prolungato. Si ritrovò ad annuire, senza reale convinzione:
-Perché me lo chiedi?- gli domandò in risposta, rendendosi conto che così non faceva altro che rendere ancor più evidente che non stesse andando tutto bene.
-Sei strana- Filippo continuò a lavare l’insalata con gesti meccanici – Sei silenziosa, e non è da te. E sei rimasta ferma in salotto per diverso tempo, e questo è ancor meno da te-.
“Touché”.
Giulia si torturò le mani in silenzio per secondi che le parvero durare minuti. Si accostò al mobile della cucina, tenendo lo sguardo abbassato per evitare gli occhi di Filippo, che ancora dardeggiavano su di lei.
-In effetti c’è una cosa che non riesco a togliermi dalla testa- mormorò, con voce a malapena udibile – Non posso fare a meno di pensarci-.
Filippo aspettò qualche attimo, prima di chiederle:
-A cosa ti riferisci?-.
Per un attimo Giulia si chiese se parlargliene fosse una buona idea. Si morse il labbro inferiore, in preda all’esitazione: sapeva che quella era una cosa che non sarebbe riuscita a tenersi dentro, non ancora a lungo. Doveva parlarne con qualcuno, anche solo per avere un altro parere da ascoltare, ma aveva la sensazione che Filippo non l’avrebbe presa bene.
Si sentì invadere da una profonda malinconia, nel rendersi conto che, in pochi anni, quello che era suo marito non era più la stessa persona alla quale non avrebbe esitato a confidare anche la sua paura più profonda.
-A Pietro- esalò, cercando di lasciare da parte quei pensieri e concentrarsi su quella conversazione. Sapeva già che sarebbe stato difficile affrontarla, solo non sapeva quanto.
-E alla lettera che ha lasciato Fernando-.
Filippo continuò a lavare l’insalata in silenzio, secondi durante i quali solo lo scroscio dell’acqua nel lavandino impediva al silenzio più completo di rimanere ad aleggiare tra loro. Ci volle quasi un minuto prima che Filippo allungasse una mano per chiudere il rubinetto e posare le foglie lavate in una ciotola sul ripiano lì accanto.
-Pensavo non ci stessi più pensando- mormorò mentre si voltava verso di lei, una nota di durezza nella voce.
Quello era un pessimo inizio, Giulia ne era perfettamente consapevole.
-Ci penso dal momento in cui me la sono trovata tra le mani- gli disse, con più fermezza – Dovrei dargliela-.
L’unica cosa che l’aveva frenata così a lungo era stato il dubbio che quella lettera potesse turbare troppo Pietro. Era l’esitazione su cui Filippo aveva premuto per convincerla ad aspettare: ad Aprile le era sembrata la scelta migliore, ma ora quella certezza cominciava pian piano a sgretolarsi.
Si chiese, per un attimo, se avrebbe cominciato a cambiare idea anche se, quel pomeriggio, non avesse captato le parole che Pietro aveva rivolto ad Alessio: forse, se non fosse successo, non si sarebbe resa conto del dolore che ancora impregnava Pietro ogni volta che parlava di Fernando.
-Sono passati mesi, Giulia- Filippo sospirò pesantemente, esasperato.
Andò a sedersi al tavolo, scostando malamente una sedia con nervosismo; Giulia se ne rimase in piedi, lì dov’era.
-Proprio per questo dovrei- replicò, a mezza voce – Non possiamo rimandare il momento per sempre-.
Era piuttosto certa che Filippo non condividesse ancora quel parere; lo vide scuotere il capo, poco convinto:
-Sei sicura che sia una buona idea dargliela?-.
Stavolta Giulia preferì avvicinarglisi. Si sedette di fianco a lui, lentamente, come per prendere più tempo per trovare le parole giuste. Le aveva intrappolate in gola, da mesi: era arrivato il momento di darvi voce.
-Fernando l’ha lasciata per lui- ripeté, con voce ferma – Pietro ha il diritto di averla, e leggerla o farne quel che vuole-.
Quella era l’unica certezza che aveva: Fernando aveva scritto quella lettera, e scritto qualcosa di cui nemmeno lei era a conoscenza, perché Pietro la leggesse. Non era una decisione che riguardava lei in prima persona o Filippo: era solo un tramite, l’unico canale che poteva finalmente far avere quella lettera a Pietro, come Fernando avrebbe voluto.
Filippo rimase in silenzio a lungo. Giulia lo scrutò in viso: non riusciva a decifrare l’espressione crucciata che gli tendeva i tratti del volto, ma la sensazione che non le sarebbe piaciuto ciò che prima o poi avrebbe detto era ancora lì, immobile.
-Non credi ci abbia già sofferto abbastanza?-.
-Ci abbiamo sofferto tutti- replicò Giulia, con durezza.
Le sembrò che Filippo si fosse del tutto dimenticato delle notti insonni che aveva passato – che avevano passato entrambi- nei giorni che erano seguiti alla scomparsa di Fernando. Fu la cosa che la fece innervosire di più, i pugni stretti sotto la tavola, celati alla vista di Filippo.
-Ma non posso nemmeno negargliela- proseguì, cercando di soffocare la rabbia – Deve averla, poi starà a lui decidere se e quando leggerla-.
Filippo la guardò come se stesse delirando:
-È ovvio che lo farà- ribatté, ancor più esasperato di prima – La leggerà e tornerà a starci male esattamente come quattro mesi fa-.
“Sta già male” avrebbe voluto dirgli Giulia, “Non ha mai smesso”.
Le servì più di qualche secondo per cercare di calmarsi ed impedirsi di alzare la voce:
-O magari riuscirà a mettere un punto a questa storia-.
Filippo scostò lo sguardo come se si fosse scottato, torturandosi le mani senza smettere. Giulia continuò ad osservarlo anche se vederlo così – e rendersi conto di non avere il suo appoggio- le stava facendo crescere un groppo in gola.
-Secondo te ora sta bene?- continuò ancora, la voce che le usciva a fatica – Perché credi che ci stia pensando proprio oggi?-.
Filippo non sembrò intenzionato a chiederglielo.
-Quando eravamo da lui l’ho sentito parlare di Fernando mentre era con Alessio-.
Non ebbe alcuna reazione forte nemmeno con quelle parole, come se Filippo si rifiutasse ancora di crederle. Giulia sospirò pesantemente, esausta:
-Non se l’è messa alle spalle, tutta questa storia- disse ancora, sporgendosi verso lui come se quel solo gesto potesse bastare a riavvicinarlo a sé – E dubito che si sia dimenticato dell’esistenza di quella lettera-.
Filippo si girò finalmente verso di lei, con una lentezza che a Giulia parve infinita. Le rughe sulla sua fronte non facevano altro che dirle che fosse ancora sulle stesse posizioni di prima.
-Non sai neanche cosa Fernando ci abbia scritto, in quella dannata lettera- sbottò alla fine, allargando le braccia come a voler puntualizzare ancor di più il senso d’ignoto – E se servisse solo per ferirlo ancora di più? Onestamente non voglio perdere un altro amico-.
Filippo si alzò di scatto, allontanando bruscamente la sedia sulla quale era rimasto seduto fino a qualche secondo prima. Anche se ora le dava le spalle, Giulia lo vide passarsi le mani sul viso un paio di volte, con gesti nervosi.
Si chiese se Caterina e Beatrice potessero aver sentito la sedia strisciare fastidiosamente sul pavimento nel momento in cui Filippo l’aveva spostata. Cercò di acuire l’udito, alla ricerca di un qualche rumore che potesse indicarle che si erano svegliate: non captò nulla, anche se non bastò a tranquillizzarla di più.
Si alzò a sua volta, tenendo gli occhi puntati su Filippo: cercò di non domandarsi da quando era diventato così cedibile alla rabbia, così poco accorto ed attento a quel che gli veniva detto. Erano passati due anni da quel momento, e faticava ancora a trovare il modo giusto per approcciarsi a quella versione di Filippo che era entrata nella loro vita così inaspettatamente.
-Fernando era malato, Filippo-.
Disse quelle parole con gli occhi velati di lacrime e un groppo in gola che le impediva di pronunciarle chiaramente. Sentiva il proprio cuore stritolato in una presa, la stessa che percepiva sempre ogni volta che il suo pensiero andava a Fernando.
-L’avremmo perso comunque, anche se non ci fosse stata di mezzo la depressione … Pietro questo lo sa- parlò ancora, restando ferma in piedi, gli occhi ancora sulla schiena di Filippo – E ha diritto di sapere cosa volesse dirgli prima di andarsene-.
Calò il silenzio per diversi secondi, ancora una volta. Stavolta però, quando si girò verso di lei, Giulia non faticò ad intuire quali potessero essere i pensieri di Filippo: era cereo in volto, i tratti tesi e gli occhi induriti dall’espressione di cupo dissenso.
-Certe volte mi sembra di tornare al liceo, quando tu e Pietro vi odiavate-.
Lo aveva detto a voce così bassa che Giulia sperò di aver sentito male, anche se sapeva benissimo di non averlo fatto.
Filippo la guardò ancora duramente, senza esitazioni:
-Il tuo mi sembra solo un tentativo di farlo stare ancora peggio di quanto non stia già ora-.
La crudezza con cui aveva impregnato quelle parole arrivò dritta a Giulia. Si sentì come se qualcuno le avesse appena tirato un pugno sullo stomaco, con tutta la forza possibile per farle più male.
Rischiò di rimanere a bocca aperta, senza trovare le parole giuste per ribattere.
In quel momento si rese conto che tutti i suoi tentativi, tutte le sue parole e le buone intenzioni non erano servite a nulla: Filippo era come richiuso in una muraglia, al di là di mura spesse ed alte, irraggiungibile da dove si trovava lei.
-Lo pensi sul serio?-.
Giulia sentì i propri occhi velarsi di lacrime, ma si morse il labbro inferiore sforzandosi di non lasciare che neanche una lacrima le rigasse il viso.
-Penso che non dovresti dargli quella lettera. Non dargliela mai più-.
Le suonarono come parole definitive di qualcuno che continuava a non voler ascoltare.
Per un attimo non le sembrò di avere più alcun motivo per continuare a provare a parlargli: l’unica cosa che voleva, come un pensiero fisso, era allontanarsi da lì il prima possibile.
-Non ho fame- mormorò, sentendo davvero la bocca dello stomaco ormai chiusa per quella sera – Vado a mettermi a letto-.
Si diresse verso l’uscita della cucina senza nemmeno degnare Filippo di un’altra occhiata. Sentiva il suo sguardo su di sé, ma fu come se le stesse scivolando addosso.
 


C’era oscurità intorno a lei, ma il sonno non sembrava comunque arrivare.
Aveva perso il conto di quante ore avesse passato lì, stesa sul proprio lato del letto matrimoniale, immobile e con lo sguardo fisso, gli occhi arrossati per il pianto silenzioso a cui si era abbandonata.
Non sapeva nemmeno che ore potessero essere quando udì i passi di Filippo farsi più vicini. Forse non le importava nemmeno saperlo.
Aveva seguito i suoi movimenti nelle altre stanze per tutta la sera: l’aveva udito sedersi a tavola, in cucina, a mangiare qualcosa. Poi si era spostato in salotto, il gracchiare della tv che faceva presupporre che si fosse messo comodo sul divano a guardare qualche programma o un film.
Poi, dopo un tempo imprecisato, si era avviato in bagno. Era stata solo questione di tempo prima della tappa finale, lì nella loro stanza.
Giulia rimase ancora immobile, quando lo sentì richiudere la porta dietro di sé, avanzando lentamente e con passo felpato verso il letto.
Cercò di regolarizzare il respiro come se stesse dormendo per davvero: non aveva alcuna intenzione di farsi scoprire ancora sveglia da lui.
Sentì il peso del materasso spostarsi sotto il corpo di Filippo, mentre si infilava sotto il lenzuolo leggero e si stendeva. Non accese la luce sul comodino, limitandosi a pochi movimenti per sistemarsi, rimanendo nell’oscurità.
Giulia non si mosse per tutto quel tempo, respirando piano quasi istintivamente. Chiuse gli occhi, sperando che Filippo si addormentasse in fretta, al contrario di lei: forse, se si fosse addormentato alla svelta, sarebbe potuta scivolare fuori dal letto e andare a bere qualcosa in cucina.
Rimase in attesa per quelli che le sembrarono lunghi minuti, immersi nel silenzio e nel buio della loro camera. Percepì Filippo sospirare profondamente, al limite del lamento, come se qualcosa lo stesse rendendo scontento.
-Mi dispiace per prima-.
Giulia si impietrì, ma costringendosi a tenere gli occhi chiusi comunque. Non sentiva il calore del corpo di Filippo, segno che non le si era avvicinato. Non c’erano dubbi, però, sul fatto che si stesse rivolgendo a lei: Giulia si chiese se le stesse parlando pur credendo che fosse già addormentata, o se si fosse reso conto che la sua era solo finzione.
-Lo so che sono stato troppo brusco e non avrei dovuto dire certe cose- Filippo sospirò ancora, la voce spenta come se fosse davvero dispiaciuto – Sono stato ingiusto con te, ma non riesco a non pensare che tu sia ingiusta anche verso Pietro-.
Giulia dovette far forza su se stessa per non ribattere. Se ne rimase in silenzio ed immobile anche in quel momento, anche se avrebbe voluto chiedere ancora a Filippo cosa lo rendesse così convinto che Pietro non sarebbe riuscito a reggere quella situazione.
-Ho davvero paura che possa rimanere incastrato in questa storia. Ho paura di perderlo- mormorò ancora, in quella sorta di monologo. Si prese una lunga pausa, prima di aggiungere, in un soffio di voce:
-Lo sai cosa si prova nel perdere un amico-.
“Sì, lo so”.
Avrebbe voluto dire a Filippo che proprio perché lo sapeva era convinta di quanto Pietro avesse bisogno di quella lettera per darsi pace.
Non rispose. Rimase solo il silenzio della notte, e le sue parole non pronunciate.
 


 




NOTE DELLE AUTRICI
In questo inizio di capitolo, seppur a giorni di distanza tra loro, i nostri protagonisti non sembrano voler dormire 😂Da un lato, infatti, abbiamo Pietro e Giada che, con toni più o meno pacati, discutono sul loro futuro. Non sorprende di certo, visti i recenti avvenimenti, la scelta di Giada di voler lasciare quella casa dopo il parto. Forse non sorprende nemmeno troppo scoprire che la donna abbia già iniziato a cercare, senza dirlo a Pietro. Dall’altra abbiamo Caterina e Nicola, che sembrano non aver troppo sonno: in modo più o meno esplicito, capiamo che i due stanno già cercando di "mettere in cantiere" un o una secondogenito/a. Nicola, in particolar modo, sembra molto entusiasta ed ansioso all'idea, mentre Caterina vorrebbe ammazzarlo sempre più 🤣 il battibecco tra Caterina e Nicola interrotto dall'arrivo di un assonnato Francesco e da una misteriosa chiamata, che scopriamo essere da parte di Pietro. A quanto pare, infatti, Giada è entrata in travaglio prima del previsto e, come nel capitolo precedente, anche stavolta diamo il benvenuto ad un nuovo arrivato: Giorgio!
Che ovviamente, tempo qualche giorno, e riceve la visita dei nostri protagonisti, e scopriamo in questa occasione il significato segreto dietro al nome del piccolo: un piccolo omaggio all'amico Fernando a cui Pietro, come ben sappiamo, era molto legato! Ha ragione Alessio nel dire che si tratta di un bel gesto... ma voi avevate intuito il reale significato del nome?
Il capitolo non si chiude nel migliore dei modi, con una discussione tra Giulia e Filippo su cosa fare della lettera lasciata da Fernando: se da una parte abbiamo Filippo che non vorrebbe fargliela avere per paura che le cose peggiorino e Pietro ci soffra ancora di più, esprimendo questo parere senza risparmiare colpi bassi a Giulia (diciamocelo: è stato stronzo), dall'altra abbiamo Giulia, che invece crede che debba essere Pietro a decidere cosa fare della lettera, in quanto indirizzata a lui. 
Secondo voi chi ha ragione? Anche se, a parere di noi autrici, la verità sta un po' nel mezzo ... Fatto sta che l'atmosfera tra Giulia e Filippo non era delle migliori prima, ed ora con la questione della lettera di Fernando è pure peggiorata. Come si evolverà la situazione?
Lo scopriremo forse nel prossimo capitolo, che pubblicheremo mercoledì 23 agosto!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Tear ***


CAPITOLO 9 - TEAR


 

-Ora fai attenzione-.
Caterina afferrò il pennarello indelebile che aveva posato dieci minuti prima sul tavolo della cucina, avvicinandolo a Francesco e porgendoglielo.
-Ti dico io che lettere scrivere, va bene?- gli spiegò, sorridendogli e scompigliandogli i capelli biondi.
Francesco annuì entusiasta, afferrando il pennarello e sporgendosi meglio sulla maglietta bianca, della sua misura, aperta sulla superficie del tavolo.
-Ok, mamma- borbottò, già concentrato su quel che sarebbe andato a fare.
Caterina si avvicinò il più possibile al tavolo con la sedia, per lasciare che Francesco – ora in piedi, i piedi scalzi che appoggiavano direttamente sulle sue cosce- riuscisse ad essere più comodo nello scrivere sul tessuto candido. Gli mise entrambe le mani sui fianchi per bilanciarlo meglio ed evitare che cadesse, mentre lo osservava quasi stendersi del tutto sul tavolo.
-La prima lettera è una b- gli disse, portandosi a sua volta più vicina alla maglietta per indicargli meglio da dove iniziare a scrivere.
Aveva comprato quella maglietta bianca per Francesco poco prima di doverlo andare a prendere all’asilo, dopo essere uscita dal lavoro: si era fermata al primo negozio per abbigliamento per bambini che aveva scovato lungo la strada. Quando un’ora prima erano rientrati in casa, Francesco era rimasto entusiasta dalla sorpresa che Caterina aveva in serbo per lui: le era bastato mostrargli l’indelebile nero e la maglietta per fargli capire che era giunta l’ora di una sessione di disegno. Francesco non si era posto domande: gli bastava dare sfogo alla sua fantasia da bambino di tre anni e mezzo.
Caterina lanciò un’occhiata all’orologio appeso alla parete della cucina: mancava circa un’ora al ritorno di Nicola dal lavoro. Sperava che per allora lei e Francesco avessero finito con la maglietta.
Osservò suo figlio tracciare la lettera che gli aveva indicato, scrivendola maiuscola. Sapeva che le altre lettere avrebbe, molto probabilmente, dovuto tracciargliele lei, prima che Francesco ne riempisse i contorni: per quanto gli piacesse disegnare e provare a tracciare qualche parola di cui ancora non conosceva il significato, Francesco ancora faticava a riconoscere tutte le lettere dell’alfabeto.
Nonostante tutto, si sentiva particolarmente fiduciosa: non le interessava come sarebbe potuto essere il risultato finale della maglietta, non quanto le interessava la riuscita della sorpresa che aveva in serbo per Nicola e quale sarebbe stata la sua reazione. Di lì a un’ora l’avrebbe scoperto.
 
*
 
Quando udì la chiave girare nella serratura, sentì il cuore cominciare a batterle più velocemente. Caterina si avviò con lunghi passi verso l’ingresso, cercando di mantenere la calma, almeno in apparenza: non voleva dare indizi a Nicola prima del previsto.
Arrivò nel momento in cui vide la porta dell’appartamento aprirsi: Nicola entrò con un lungo sospiro, dandole le spalle per lasciare l’ombrello bagnato accanto allo stipite della porta. Aveva iniziato a piovere da poco, e Caterina sperava solo che il temporale non durasse oltre la notte: non voleva che il maltempo rovinasse la festa per la laurea di Giulia, che ci sarebbe stata il giorno dopo.
-Sono a casa- Nicola lo disse ad alta voce, probabilmente non ancora accortosi della presenza di Caterina lì vicino. Quando si girò, qualche secondo dopo, sobbalzò appena nel vederla già lì:
-Non ti avevo sentita arrivare- le disse, richiudendo la porta d’ingresso.
Caterina gli lanciò un sorriso divertito:
-Me ne sono accorta- fece, aspettando che Nicola si avvicinasse – Ti stavamo aspettando-.
Nicola si chinò appena su di lei per lasciarle un bacio sulla fronte:
-Ah sì? Come mai?- le chiese, alzando un sopracciglio, incuriosito.
“Lo scoprirai molto presto”.
-Per farti vedere l’ultimo acquisto di Francesco- gli rispose semplicemente, prima di girarsi nella direzione della cucina e preparandosi ad alzare un po’ la voce per farsi sentire – Tesoro, vieni a far vedere a papà la tua maglietta!-.
Con suo grande stupore Francesco fu piuttosto ubbidiente: aveva aspettato in cucina, per iniziare a correre solo dopo che lei l’aveva finalmente chiamato. Caracollò nell’ingresso a tutta velocità, sorridente e felice per il ritorno di Nicola:
-Ciao, papà!-.
Nicola fece appena in tempo ad inginocchiarsi prima che Francesco lo raggiungesse, quasi schiantandoglisi addosso. Finì tra le braccia aperte del padre, ricambiandone la stretta ma arrivando a malapena a contenere nell’abbraccio i fianchi di Nicola.
-Ehi! Fatti vedere- Nicola gli passò una mano tra i capelli, biondi esattamente come i suoi, cercando di convincere Francesco a staccarsi da lui quel che bastava per poterlo osservare.
Caterina giunse le mani, il cuore che le batteva forte per l’impazienza. Non sapeva come avrebbe affrontato quello che sarebbe accaduto di lì a pochi secondi: sapeva solo che l’agitazione le stava rendendo il respiro difficile.
Nicola allontanò dolcemente Francesco, adocchiando alla maglietta bianca che indossava. Ci mise qualche secondo a leggerla, e Caterina vide l’esatto momento in cui, ora ad occhi sgranati, doveva aver finalmente intuito.
Francesco non se l’era cavata male con il disegno della scritta, anche se si era macchiato così tanto le mani da lasciare impronte tutto intorno alle lettere. Ce n’erano almeno sei che contornavano la scritta, senza però andare a renderla illeggibile.
 “Best brother ever”.
Osservò Nicola mentre si girava di scatto verso di lei, con gli occhi grandi e che lasciavano trasparire la stessa agitazione che Caterina si sentiva in corpo. Sperò che fosse un segno positivo.
-Non è uno scherzo, vero?-.
Nicola si alzò lentamente, sotto gli occhi attoniti di Francesco che, Caterina ne era sicura, doveva essere confuso dalla situazione che si era appena creata.
Per quanto si sentisse ansiosa, si lasciò sfuggire un sorriso:
-Diciamo che volevo fartelo sapere in un modo un po’ più creativo- mormorò.
-Sapere cosa?- chiese Francesco, la fronte aggrottata mentre spostava lo sguardo da lei al padre. Caterina fece per rispondergli, ma Nicola la precedette, rivolgendosi a lei:
-Quindi è vero?- le chiese ancora, la voce appena tremante. Le prese una mano, mentre le si fermava di fronte, in attesa.
-Sei incinta?-.
Caterina ricordò, per un attimo, quando quella stessa domanda gliel’aveva posta quattro anni prima, in un’atmosfera completamente diversa. All’epoca c’era la paura, la rabbia e lo sconforto a farla sentire fragile, così come aveva contribuito il rifiuto iniziale di Nicola. Quel giorno non c’era nulla di tutto quello: c’era l’agitazione, ma era un sentimento positivo, ciò che la stava animando in attesa di poter finalmente rivelare la verità.
-Sì, ho fatto gli esami del sangue qualche giorno fa- disse infine, sorridendo ancora – Stamattina mi hanno dato i risultati-.
Rimase sorpresa nel constatare che Nicola sembrava non aver avuto alcun sospetto fino a quel momento: aveva già avuto qualche mattinata all’insegna della nausea, che era stato anche uno dei tanti segnali che l’avevano portata a voler fare gli esami. L’esito, in fin dei conti, era stata solo una conferma a ciò che già si aspettava.
Nicola non le dette il tempo di aggiungere altro: annullò lo spazio tra loro compiendo un passo più vicino a lei, allargando le braccia e chiudendole dolcemente intorno alle sue spalle. Caterina lasciò che la portasse più vicina, tenendola stretta a sé senza stringerla eccessivamente. Appoggiando il viso al suo petto riuscì a percepire il respiro irregolare di Nicola, e quando alzò appena gli occhi verso di lui, non si stupì di trovare i suoi occhi velati e le guance già rigate.
-Che c’è?- domandò quasi urlando Francesco, impettito. Da sopra la spalla di Nicola, Caterina lo osservò mentre li studiava con occhi sgranati, forse vagamente innervosito per essere passato improvvisamente in secondo piano.
Passarono alcuni secondi prima che Nicola si staccasse lentamente da lei, girandosi verso il figlio dopo essersi asciugato velocemente le lacrime.
-Ti ricordi quando dicevi di volere un fratellino o una sorellina?- gli chiese, chinandosi di nuovo per essere più o meno alla stessa altezza di Francesco. Caterina lo imitò, affiancandolo, e allungando una mano verso il viso del figlio.
Francesco annuì lentamente, ancora confuso, spostando lo sguardo da lei a Nicola.
-Tra un po’ di mesi l’avrai- Caterina glielo disse sorridendo, piuttosto certa che la reazione di Francesco sarebbe stata più d’entusiasmo che di gelosia: d’altra parte era stato lui per primo ad esprimere il desiderio di non essere più figlio unico, anche se era ancora all’oscuro di cosa avrebbe significato sul serio.
Se possibile gli occhi di Francesco si sgranarono ancor di più, prima che mettesse su un broncio annoiato:
-Perché non subito?- chiese, abbassando il viso verso terra, deluso.
Caterina dovette trattenersi dal ridere, anche se era sicura che, vedendola scoppiare in una risata, Francesco si sarebbe irritato ancora di più.
-Perché prima deve crescere un po’, nella pancia della mamma- gli parlò con calma Nicola, scompigliandogli ancora un po’ i capelli.
Francesco guardò suo padre tenendo la fronte corrugata:
-E poi come fa a uscire?- chiese, ingenuamente.
Caterina stavolta rise sul serio, addolcita dall’innocenza tipica dell’infanzia. Sapeva che, un giorno, tra diversi anni, avrebbe rimpianto il tempo in cui Francesco poneva quelle domande con il solo intento di capire e nutrire la proprio naturale curiosità.
-Questo te lo spiego tra qualche anno- gli disse, ben conscia che quella non era certo la risposta che Francesco si aspettava o che avrebbe voluto.
Continuò a sorridere, voltandosi verso Nicola: anche lui stava sorridendo, con una leggerezza che Caterina non gli vedeva in viso da mesi. C’erano ancora delle lacrime ad appesantirgli le ciglia, ed altre bloccate agli angoli dei suoi occhi, pronte a scendere da un momento all’altro.
Non se ne preoccupò: quelle non erano lacrime di malinconia o paura. Erano lacrime che provavano solo quanto quel momento fosse stato lungamente atteso.
 
*
 
Continuava a piovere da ore, ormai, le gocce di pioggia che continuavano a rigare il vetro della finestra di fronte a lei. Giulia si riscosse a fatica, sobbalzando appena:
-Terra chiama Giulia!- Caterina le stava muovendo una mano davanti agli occhi, per richiamare la sua attenzione – Ti eri incantata, per caso?-.
Giulia sospirò appena, cercando di dissimulare la stanchezza che si sentiva addosso:
-Non esattamente-.
Osservò per qualche attimo, distrattamente, le sue figlie sedute su due seggioloni dall’altro lato del tavolo, con Filippo che cercava di invogliarle ad aprire la bocca per mangiare. Mosse lo sguardo un po’ più in là, oltre i suoi genitori, sua sorella, suo cognato e il piccolo Davide, arrivando a posarli su Alessio. Sembrava immerso in una conversazione piuttosto intensa con Pietro, fermandosi dal parlare solo per ridere ogni tanto su qualcosa che si stavano dicendo.
Gli occhi di Giulia si mossero appena di qualche altro centimetro, fissandosi su Pietro: sembrava a suo agio lì seduto con Alessio, praticamente all’altra estremità della tavolata rispetto a dove si trovava lei. A suo agio e persino allegro, con un sorriso che Giulia avrebbe definito persino felice, oltre che vagamente timido. L’alcool e le risate gli avevano tinto le gote di rosa, dandogli un’aria di benessere che su Pietro non vedeva da mesi.
“Forse Filippo ha ragione”.
Quel pensiero le spuntò in mente quasi inaspettatamente, mentre con lo sguardo non abbandonava ancora Pietro.
“Forse non è la cosa giusta da fare”.
Giulia abbassò le palpebre di colpo, stringendole con forza, impedendosi di dimostrarsi debole.
“No”.
Strinse le mani a pugno sotto il tavolo, nascoste dalla vista di tutti.
“Non posso tenergliela nascosta per sempre. È suo diritto averla”.
-Stai bene?-.
Giulia riaprì gli occhi lentamente, voltandosi verso la sua destra: Caterina la stava guardando confusa, una ruga che le solcava la fronte.
-Sei un po’ strana- le disse ancora, continuando ad osservarla con disorientamento – Non è che hai bevuto troppo?-.
Giulia scosse subito il capo:
-No, anzi- allungò una mano verso la prima bottiglia di vino che le capitò a tiro, versandosene una buona dose nel calice semivuoto – Forse non ho bevuto abbastanza-.
Fece per riempire anche quello di Caterina, ma ricevette in risposta un deciso cenno di diniego:
-Io invece sto bene così- Caterina rise appena, in imbarazzo – Non voglio esagerare. Già l’avrà fatto Nicola, e almeno io devo rimanere sana per riportare a casa lui e Francesco-.
Giulia si lasciò andare ad un sorriso divertito. Francesco, seduto subito a fianco di Caterina, sembrava del tutto concentrato a finire il suo piatto di spaghetti; oltre la sua figura minuta, Nicola era impegnato in una qualche conversazione con Anita, seduta di fronte a lui, mentre sorseggiava con calma un bicchiere di prosecco.
Per un attimo le parve una cosa piuttosto logica che Caterina non volesse esagerare – d’altro canto, come lei stessa aveva detto, qualcuno doveva pur rimanere lucido per guidare fino a casa Nicola e Francesco-, ma poi ricordò di non aver mai visto Caterina bere quel giorno. Nemmeno al brindisi subito dopo la proclamazione della laurea, quando Giulia aveva stappato una bottiglia di spumante appena fuori la sede della sua facoltà. C’era qualcosa che non le tornava, e l’improvvisa intenzione di Caterina di essere completamente astemia non la convinceva per niente.
Prese il suo cellulare dalla pochette poggiata sul pavimento accanto alla sedia, digitando velocemente un messaggio – il metodo più veloce per non farsi beccare in certe discussioni da orecchie indiscrete-, sperando che il suo istinto non la stesse ingannando.
«Non è che sei incinta e non vuoi dirlo?».
Giulia digitò velocemente, trattenendo a stento una risata divertita da quella sua stessa domanda. Inviò il messaggio a Caterina un secondo dopo, senza alcun pentimento: forse si era del tutto sbagliata, forse il suo istinto aveva preso un granchio grande quanto una casa, ma c’era qualcosa di diverso in Caterina. Non avrebbe saputo dire cosa di preciso, ma la sensazione che ci fosse non la stava abbandonando.
Quando Caterina avvertì il proprio cellulare vibrare, le lanciò uno sguardo confuso: ci vollero pochi secondi prima che lo recuperasse dalla tasca della giacca leggera, appesa allo schienale della sedia.
Giulia quasi non si accorse di star quasi trattenendo il fiato, mentre Caterina leggeva il messaggio: la tenne osservata per tutto il tempo, cercando di coglierne anche le più piccole reazioni.
Quasi inaspettatamente, nel giro di pochi attimi, Caterina scoppiò in una risata piuttosto divertita.
-Non pensavo di provocarti una reazione del genere- borbottò Giulia, ancora senza risposta e forse ora ancor più curiosa.
Caterina continuò a ridere ancora qualche minuto, guadagnandosi sguardi confusi e curiosi anche dal resto della tavolata. Solo dopo che si fu calmata, piuttosto a fatica, tornò a voltarsi verso Giulia.
-Pensavo che per domandarmelo mi avresti trascinata in bagno- le disse, con la voce ancora rauca per lo sforzo e sventolando le mani per farsi più aria.
-Ma non hai ancora risposto alla mia domanda- le ricordò Giulia, puntandole un dito contro – Mi vuoi far morire d’ansia?-.
Il sorriso che nacque pian piano sulle labbra di Caterina valse molto di più delle parole:
-Diciamo che … - iniziò, prendendosi ancora qualche attimo di silenzio – Non so come tu abbia fatto, ma potresti averci visto giusto-.
Giulia si portò le mani alla bocca immediatamente, cercando di soffocare il grido d’entusiasmo venutole spontaneo, ma che avrebbe inesorabilmente aumentato ancor di più l’attenzione verso il loro angolo di tavolo.
-Sul serio? Sei all’inizio?- si avvicinò così tanto a Caterina che non si stupì affatto che l’altra fosse riuscita a sentirla comunque, anche se aveva parlato con un filo di voce.
Caterina annuì:
-Quattro settimane-.
Giulia trattenne ancora un gridolino estasiato a fatica. Era piuttosto consapevole che doveva essere rossa in viso, più per la fatica di trattenersi che per altro, ma non le importò.
-Un altro nipote a cui badare, insomma- mormorò, ridendo quando Caterina le dette un buffetto sulla spalla, in risposta:
-Sono piuttosto sicura che prima o poi mi ricambierai il favore-.
Stavolta la risata che lasciò andare Giulia fu meno sincera delle precedenti. Non aveva mai davvero preso in considerazione quell’idea – perché le gemelle erano ancora troppo piccole e troppo impegnative, perché si era appena laureata alla magistrale, perché con Filippo le cose non erano ancora tornate alla normalità-, anche se non negava a se stessa che le sarebbe piaciuto.
“È solo un desiderio” si disse, tra sé e sé.
Un desiderio piuttosto distante da quella che era la situazione attuale.
 


-Sei sicura di reggerti in piedi?- Filippo allungò una mano verso di lei, ma Giulia la scostò dolcemente, scuotendo il capo:
-Non sono ubriaca- replicò, sperando di non star parlando con la lingua ingrossata e apparire tutt’altro che credibile – Devo solo andare un attimo in bagno-.
-Allora dico agli altri di aspettarti, prima di andarsene- soppesò lui, annuendo tra sé e sé.
Giulia annuì a sua volta in approvazione: anche l’ultima portata del pranzo era stata consumata almeno mezz’ora prima, segno che ormai era giunta l’ora di separarsi. Era pomeriggio inoltrato, e non aveva ancora smesso di piovere.
Si avviò lentamente verso il bagno del ristorante, la pochette sottobraccio, scostandosi distrattamente una ciocca di capelli che le era finita davanti agli occhi. Si sentiva piuttosto stanca, e tutt’altro che volenterosa nel salutare uno per uno tutti gli ospiti prima di congedarsi.
Svoltò l’angolo del corridoio che conduceva al bagno, e per poco non cadde a terra rovinosamente: si era fermata appena in tempo prima di finire addosso a qualcuno che, nella direzione opposta alla sua, aveva svoltato nel suo stesso momento. Le ci vollero alcuni secondi per riprendersi e riconoscere nell’uomo che per poco non l’aveva investita proprio Pietro.
-Come sei poco galantuomo- gli disse, quando anche Pietro le si fermò di fronte, sorpreso per il mancato schianto – Avresti dovuto darmi la precedenza-.
-Scusa se non vedo attraverso le pareti- Pietro le indirizzò un sorriso piuttosto sarcastico – O se non sono un indovino e non sapevo che c’eri tu dietro l’angolo-.
Giulia sbuffò debolmente, senza cedere nell’ammettere che non aveva tutti i torti. Pietro fece per superarla, ed inevitabilmente Giulia si voltò nella sua direzione, seguendolo con lo sguardo.
Di lì a poco si sarebbe allontanato definitivamente, tornando alla sala e al loro tavolo, insieme a tutti gli altri. Per un attimo si sentì intrappolata tra due fuochi: aspettare un’occasione migliore, o finalmente decidersi ed agire. Rimase con gli occhi incollati alla schiena di Pietro: gli mancavano pochi passi prima di arrivare in fondo al corridoio.
-Aspetta!-.
Giulia sentì il cuore battere all’impazzata contro le costole, ancor di più quando Pietro si fermò, voltandosi indietro verso di lei con sguardo confuso.
-Che c’è?- le chiese, la fronte aggrottata – Non ti senti bene?-.
Giulia cercò di apparire il più naturale possibile, anche se d’improvviso l’ansia cominciava a renderle il respiro accelerato. Rimase ferma dov’era, aspettando che fosse Pietro a tornare indietro da lei.
-È solo che … - iniziò, quando le fu di nuovo davanti, qualche secondo dopo. Sentì la propria voce morirle pian piano in gola, come se l’improvviso coraggio di poco prima si fosse già dissipato.
“E se non fosse il momento giusto?”.
-Ti devo parlare un attimo- si costrinse a mormorare, osservando lo sguardo sempre più confuso di Pietro.
-Mi devo preoccupare?- le chiese ancora – Tra poco devo andare-.
“E se non fosse la scelta giusta?”.
-Ci vorrà poco-.
Giulia cercò di reprimere le sue stesse incertezze, afferrando il polso di Pietro e guidandolo verso il bagno, dove sperava sarebbero potuti stare più in tranquillità.
-Vieni- mormorò ancora, incoraggiandolo.
Pietro non oppose resistenza, anche se Giulia riusciva ad intuirne il disorientamento più totale. Non si erano rivolti molto la parola per tutta la giornata, a causa della confusione eccitata dei festeggiamenti: quella era la prima vera occasione in cui si ritrovavano soli.
Quando Giulia chiuse dietro di sé la porta dell’antibagno, sentì Pietro trattenere a stento una risata sommessa.
-Non avrei mai creduto di ritrovarmi in una situazione ambigua proprio con te- disse, una mano davanti alla bocca – Se qualcuno ci vedesse da soli in bagno potrebbe pensare male-.
In una qualsiasi altra situazione Giulia sapeva che si sarebbe messa a ridere – forse addirittura a stuzzicare Pietro per vederlo ritrattare subito le proprie parole-, ma stavolta non si lasciò sfuggire nemmeno l’ombra di un sorriso.
Non aveva esattamente pianificato quella situazione – di certo non si era aspettata di parlare da sola con Pietro in un bagno-, ma ormai il tempo era poco e difficilmente un’altra possibilità si sarebbe ripresentata quel giorno. E forse, in fondo, non sarebbe riuscita a trovare lo stesso coraggio se avesse aspettato oltre.
-È una cosa seria- gli disse, guardandolo gravemente – E non potevo parlartene di là con tutti-.
Vide Pietro arcuare un sopracciglio, una piccola ruga che gli solcava la fronte:
-Va bene- mormorò, piuttosto incerto – Ora puoi dirmi che succede?-.
“Come se fosse facile”.
Giulia sospirò a fondo, agitata. Aveva provato a formulare un discorso, nella sua mente, svariate volte nei lunghi mesi passati in attesa di quel momento; arrivata lì le sembrò tutto inutile. Non esisteva un modo più giusto o più delicato per dire a Pietro il motivo per cui si trovavano lì: l’unica cosa che le rimaneva da fare era cercare di essere il più sincera possibile.
-Ci ho pensato tanto su quello che sto per fare-.
Sospirò ancora, muovendosi ed andando ad aggrapparsi ai bordi del lavandino, alzando gli occhi sullo specchio affisso alla parete di fronte a lei: alle sue spalle Pietro la stava guardando, l’espressione sempre più confusa in viso.
-E so che Filippo non condividerà mai la mia decisione, ma ho fatto la mia scelta- mormorò ancora, cercando di relegare in un angolo della sua mente le parole che Filippo le aveva rivolto un mese prima.
Sperò di non pentirsi di averle ignorate.
-Scelta di cosa?- Pietro le si avvicinò. Aveva abbandonato qualsiasi baldanza che aveva conservato fino a poco dopo il loro arrivo lì: anche se riusciva a non darlo troppo a vedere, Giulia intuì che doveva essere un fascio di nervi dall’agitazione.
Rimase in silenzio per quelli che le sembrarono minuti infiniti e pesantissimi. Era l’ultima possibilità che aveva prima di prendere la decisione definitiva, l’ultima che aveva per tirarsi indietro.
Prese un sospiro profondo, chiudendo gli occhi come a volersi isolare da tutto ciò che la circondava.
“Lo devo a Fernando”.
Alcune lacrime le si formarono agli angoli degli occhi. Non aveva idea se fossero dovute più alla paura di fare la mossa sbagliata, al timore di come avrebbe potuto reagire Pietro, o alla sensazione di non esserne all’altezza. Forse, invece, il suo era solo nervosismo, talmente tanto accumulato da renderla così emotiva.
“Lo devo anche a Pietro”.
Riaprì gli occhi lentamente, ritrovandosi di nuovo di fronte all’immagine di Pietro riflessa nello specchio. Non aveva detto nulla nemmeno lui, in attesa e rimasto a studiarla con lo sguardo.
Staccò le mani dal lavandino, rendendosi conto del tremore leggero delle proprie dita; cercò di ignorarlo, mentre andava a cercare la cerniera della pochette che teneva ancora sottobraccio. La appoggiò contro il mobiletto accanto al lavandino, per riuscire ad aprirla meglio e non farsela scivolare per la sua presa poco salda. Aspettò ancora qualche secondo, prima di estrarre la busta di carta che per mesi aveva abitato in un cassetto del suo comodino in camera da letto.
La tenne stretta tra le dita ancora per poco – per l’ultima volta-, prima di voltarsi verso Pietro e porgergliela.
-Di darti questa-.
Lo sguardo di Pietro si abbassò lentamente, indugiando sulla carta candida della busta che conteneva le ultime righe di Fernando.
-È quello che penso che sia?- chiese a mezza voce, un lieve tremolio a rendere incerte le sue parole.
Giulia annuì:
-È la lettera che Fernando ha scritto per te- confermò, un groppo in gola a impedirle di dire quanto avrebbe voluto – Prima che … -.
-Prima che si suicidasse- completò Pietro per lei, quando la voce le morì in gola.
Giulia annuì ancora, avvicinandosi di qualche passo ad un immobile Pietro:
-Voleva che l’avessi tu, e onestamente non so neanche perché l’abbia tenuta io così a lungo- allungò ancora un po’ il braccio, sperando che Pietro la prendesse – Spetta a te-.
Quando Pietro alzò il viso, guardandola dritta in faccia, Giulia non si stupì di notare i suoi occhi essersi fatti lucidi.
-Non sono sicuro di volerla leggere-.
Pietro aveva paura, Giulia glielo riusciva a leggere in faccia anche senza che lui dicesse nulla. Non si era aspettata nulla di diverso: era convinta che, al posto suo, anche lei sarebbe morta di paura, annientata dal peso di quella lettera e delle parole che poteva contenere.
-Ne puoi fare quello che vuoi, da qui in avanti non è più affare mio- disse infine, cercando di trattenersi dall’aggiungere altro. Cercò di convincersi che non erano affari che la riguardavano, che Pietro ne avrebbe fatto quel che voleva: quella lettera era sua, destinata solo a lui. Una volta che l’avrebbe avuta tra le mani, lei non avrebbe avuto più alcun ruolo in quella faccenda.
Trattenne a stento un sospiro di sollievo quando, dopo qualche secondo, Pietro alzò una mano per afferrare delicatamente un angolo della busta, lasciando che Giulia mollasse la presa.
-Però, Pietro … -.
Giulia si schiarì la voce, cercando di trattenere ancora un po’ le lacrime. Vide Pietro tornare a guardarla a fatica, gli occhi ora incollati alla lettera tra le sue mani.
-Forse ti ci vorrà tempo per volerla leggere, ma credo che se te l’ha indirizzata un motivo ci sia- Giulia si passò una mano sotto gli occhi, la voce sempre più incerta – Forse varrebbe la pena scoprirlo, non credi?-.
Pietro la guardò ancora una volta: c’era paura nel suo sguardo, ma c’era anche altro che le parve speranza.
Forse la speranza di poter capire, di comprendere cose che ancora gli dovevano sfuggire.
Si allontanò da lui con passi lenti, avviandosi verso la porta che portava al corridoio del ristorante. Non si aspettava una risposta da Pietro, e forse era meglio così: non credeva avrebbe sopportato il peso delle sue parole.
-Scusami se te l’ho consegnata solo ora- mormorò, gli occhi lucidi e la mano tremante sulla maniglia – Spero tu possa perdonarmi-.
Aprì la porta lasciandosi indietro Pietro, e il peso che fino a quel momento si era portata sulle spalle insieme a quella lettera.
 
*
 
Now and then I tried to find
A place in my mind
Where you can stay
You can stay away forever [1]
 
La pioggia sottile che continuava a cadere gli aveva inumidito tutti i capelli, incollandogli le ciocche più lunghe sulla pelle della fronte e della nuca. Era una sensazione fastidiosa, ma Pietro non fece nulla per alleviarla, nemmeno allungare una mano per scostare i capelli.
Si rendeva conto che avrebbe fatto bene ad andarsene a casa.
Si rendeva anche conto che, nel silenzio del suo appartamento, sarebbe stato difficile ignorare il peso che si sentiva sul petto, e che gli impediva di respirare normalmente.
“Non sono sicuro di volerla leggere”.
Le sue stesse parole, pronunciate meno di una quindicina di minuti prima, continuavano a risuonargli in mente come una fastidiosa cantilena che cominciava ad essere fin troppo ripetitiva.
Cercò di ignorare la consapevolezza della presenza della lettera, riposta al sicuro nella tasca interna della giacca leggera che stava indossando. Era difficile non pensarci, difficile quanto cercare di dimenticare quante volte si era immaginato il momento in cui Giulia gliel’avrebbe consegnata.
Non era mai riuscito a capire cosa prevalesse tra la paura di ritrovarsela tra le mani e il desiderio di cercare una risposta alle tante domande che aveva: forse non c’era nulla che prevalesse sull’altra, forse era una sorta di equilibrio tra due voleri che si trovavano totalmente all’opposto.
Quando Giulia se n’era andata da quel bagno gli ci erano voluti alcuni minuti per realizzare fino in fondo ciò che era successo. Aveva passato i polpastrelli sulla carta della busta con così tanta delicatezza da chiedersi se fosse reale.
Se ne era andato a sua volta poco dopo, dopo averla nascosta nella tasca interna della giacca, dov’era tutt’ora. Aveva salutato tutti in fretta, sperando che il suo sorriso finto fosse sufficientemente convincente da non scatenare strani sospetti. Aveva incrociato appena lo sguardo di Giulia, solo qualche momento fugace quando era venuto il momento di salutare lei e Filippo.
E poi era uscito dal ristorante, sotto la pioggia leggera che continuava a cadere. Non era riuscito ad andare molto distante: aveva a malapena svoltato l’angolo, prima di lasciarsi scivolare contro la parete del muro più vicino.
Non aveva idea da quanto tempo fosse lì, ma immaginava che presto o tardi si sarebbe dovuto incamminare: era già miracoloso il fatto che nessun altro dei suoi amici avesse preso quella via per tornare nelle rispettive case, trovandolo ancora lì, inzuppato di pioggia.
Pietro chiuse gli occhi per un lungo attimo. Sperò quasi di non riuscire nemmeno più ad aprirli: forse sarebbe stato più semplice così, lasciarsi andare ad un oblio infinito che non lo avrebbe obbligato a percepire ogni decimo del peso di quella lettera.
-Ma che ci fai qui?-.
Sobbalzò immancabilmente, quando si sentì approcciare dalla voce allarmata di Alessio. Pietro si affrettò a rialzare le palpebre, ritrovandosi di fronte all’altro. Alessio lo stava guardando in un misto di confusione e apprensione, l’ombrello aperto sopra la sua testa che lo riparava dalla pioggia.
La prima cosa che fece, in attesa di una qualche risposta, fu proprio spostarlo in avanti, coprendo anche lui.
-Pietro, che c’è?- chiese ancora, forse convinto che non avrebbe sentito nemmeno una parola da lui. Pietro abbassò gli occhi per qualche secondo, mordendosi il labbro: non era sua intenzione farsi vedere da qualcuno in quello stato, ma era stato abbastanza stupido da fermarsi troppo vicino al ristorante. Non poteva incolpare Alessio per essere passato di lì al momento sbagliato, e tantomeno per essersi fermato.
-Niente- mormorò a mezza voce, rendendosi conto di non essere stato per niente convincente – Mi girava un po’ la testa-.
Era una scusa banale e il modo in cui l’aveva detta non avrebbe convinto nessuno, ma Pietro non aggiunse altro comunque. Non si stupì affatto quando, un secondo dopo, alzando gli occhi, incrociò lo sguardo scettico di Alessio:
-E fai schifo a dire cazzate, lo sai?-.
Pietro non perse nemmeno tempo a provare a negare:
-Lo so-.
Alessio gli si avvicinò ancora un po’, la fronte corrugata e solcata da alcune rughe che davano appieno l’idea di quanto fosse preoccupato:
-Hai una faccia terribile- gli disse infine, mormorando appena – Dimmi solo se stai bene o se hai bisogno che ti accompagni a casa-.
A quell’idea, nonostante tutto, Pietro si sentì lievemente arrossire. Avere qualcuno accanto anche solo per una decina di minuti, il tempo per arrivare al suo palazzo, gli avrebbe fatto bene. Sarebbe stata una piccola consolazione rispetto al resto della serata e delle giornate seguenti che avrebbe passato da solo nel silenzio dell’appartamento, fino a quando Giada non fosse tornata con i bambini dopo la visita dai suoi genitori a Udine.
Sarebbe stato consolante, ma altrettanto egoistico: dovette ricordare a se stesso che, nonostante non fossero più una coppia, Alessio doveva comunque tornare a casa da qualcuno.
-No, ce la faccio- cercò di suonare convincente, stavolta, mentre scuoteva il capo – Dovrai tornare da Alice e dai bambini-.
Alessio sembrava aspettarsi del tutto una risposta del genere, perché si lasciò sfuggire un leggero sorriso divertito:
-Alice sta bene, e i bambini anche. Non è un problema se mi trattengo da te per un po’- replicò con voce gentile, dopo qualche attimo di silenzio.
Pietro esitò per qualche secondo. Avere Alessio accanto, anche solo per poco altro tempo, sarebbe significato avere un appoggio e non sentirsi completamente abbandonato a sé stesso.
Non abbandonato da solo con quella lettera.
Il pensiero che lo frenò dall’accettare subito quella cortesia fu quello di dovergli dare delle spiegazioni: era pronto a parlarne con lui? Non si era mai davvero posto quel problema. Dell’esistenza della lettera sapevano solo lui, Giulia e Filippo, e dal momento in cui non l’aveva mai avuta tra le mani non si era nemmeno mai avventurato ad accennarne con qualcun altro che non fosse loro. Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire Alessio, o di cosa gli avrebbe detto in merito: quel timore lo rese incerto per più tempo del dovuto.
-Non è niente, sul serio- cercò di minimizzare ancora. Si sentiva gli occhi di Alessio addosso, uno sguardo grave che faticava a ricambiare in qualsiasi modo.
Sapeva già che non gli avrebbe creduto nemmeno quella volta: forse era un destino a cui doveva inevitabilmente piegarsi.
Sentì una mano di Alessio posarsi sulla sua spalla, in una presa così delicata da essere quasi immateriale:
-Lo capisco se non ne vuoi parlare con me, qualsiasi cosa sia, e va bene- sussurrò con voce calma, stringendo appena un po’ di più la stretta – Però non ti lascio da solo in questo stato. È evidente che non è vero che non è niente-.
Pietro lasciò andare un sospiro pesante e prolungato.
“Certo che non è vero che non è niente”.
Alzò il viso a sufficienza per incrociare gli occhi di Alessio: probabilmente si stava chiedendo cosa fosse successo di così terribile da renderlo così sconvolto. Forse si stava anche chiedendo quale potesse essere il modo per rendergli quel peso meno difficile da sopportare. C’era qualcosa nello sguardo di Alessio che suggeriva il suo volerlo aiutare, e fu a quel qualcosa a cui Pietro si aggrappò: tenersi tutto dentro gli avrebbe evitato di riportare a galla ricordi dolorosi, ma significava anche farsi lentamente divorare da quella sofferenza che il presente portava comunque con sé.
-Giulia mi ha dato una cosa-.
Alessio lo guardò confuso per un attimo:
-Cosa?- gli chiese subito.
Pietro infilò una mano sotto la giacca, cercando a tastoni la carta ruvida e candida della busta contenente la lettera. Quando la mostrò ad Alessio, tenendola tra le mani e sotto l’ombrello per non rischiare che si bagnasse, tenne lo sguardo abbassato, come a volerne imparare a memoria ogni più piccolo dettaglio.
-Fernando aveva lasciato scritta una lettera prima di … Hai capito- mormorò, sentendo gli occhi già farsi lucidi – L’ha indirizzata a me-.
Anche senza vederlo, seppe per certo che in quel momento Alessio doveva aver sgranato gli occhi per la sorpresa.
-Oh- lo sentì esclamare debolmente – L’hai già … -.
-No- Pietro lo interruppe ancor prima che potesse concludere la domanda – Non so neanche se ci riuscirò mai-.
Alessio tenne ancora la mano sulla sua spalla, muovendola appena in una muta carezza.
-Non devi sentirti obbligato- mormorò con voce appena udibile.
Quando alzò finalmente il viso, Pietro lo vide rabbuiato ed in apprensione esattamente come si era aspettato di trovarlo: sapeva già che da quel momento in poi non ci sarebbe stata alcuna scusa abbastanza credibile per convincere Alessio a lasciarlo andare da solo. In fondo, dovette ammettere, era meglio così.
-Lo so- sussurrò a sua volta, infilando di nuovo la lettera al sicuro nella tasca interna.
Ci furono dei lunghi attimi in cui l’unico rumore udibile fu il ticchettio ritmico della pioggia, oltre i passi di qualche passante che li oltrepassò poco dopo.
Solo dopo quello che a Pietro parve un lungo minuto, Alessio si schiarì finalmente la voce. Gli dette un’ultima stretta con la mano, prima di sciogliere la presa e rivolgergli quello che doveva essere un sorriso incoraggiante:
-Dai, ti accompagno a casa-.
A Pietro non rimase che annuire, muovendo un primo passo e seguendo Alessio.
Cercò di ignorare, per quanto possibile, la domanda che continuava a ronzargli in testa, su cosa sarebbe successo nel momento stesso in cui avrebbero messo piede in casa.
Sperò di rimandare il più possibile l’attimo in cui avrebbe potuto rispondere a quel quesito.

 
Place and time always on my mind
And the light you left remains but it’s so hard to stay
When I have so much to say and you’re so far away
 
*
 
Let’s leave the world for the ones who change everything
Nothing could stop the two of us
Let's just get lost, that's what we want [2]
 
Il silenzio dell’appartamento aveva dato loro il benvenuto non appena Pietro aveva fatto girare le chiavi nella serratura della porta d’ingresso, aprendola.
C’era una luce grigia che entrava dalle finestre del salotto, il cielo oscurato dalle nubi cariche di pioggia che rendevano l’ambiente spento e senza colori.
Pietro fece qualche passo avanti, lasciando ad Alessio il compito di richiudere la porta. Ne sentì il tonfo qualche secondo dopo. Avanzò fino al divano, dimenticandosi persino di togliersi la giacca leggera che ancora aveva addosso, ancora umida delle poche gocce di pioggia che l’avevano raggiunto quando, in poche occasioni, il suo corpo era finito fuori dal raggio di protezione dell’ombrello di Alessio. Pietro vi si sedette a peso morto, lasciando andare un sospiro profondo mentre inclinava la testa all’indietro, contro lo schienale, chiudendo gli occhi per qualche secondo.
Ascoltò i passi di Alessio farsi sempre più vicini, fino a quando non percepì il peso del divano muoversi. Quando riaprì appena le palpebre, qualche attimo dopo, non si sorprese per niente di ritrovarlo seduto di fianco a lui, con un’espressione d’attesa dipinta in viso.
“È il momento di separarsi”.
Come se gli avesse appena letto nella mente, Alessio si schiarì la voce, poco prima di parlare:
-Stavo pensando una cosa- iniziò, esitante – E forse non sarai d’accordo con me, ma credo sia la cosa migliore da fare-.
Pietro aggrottò la fronte, confuso: non avevano parlato per tutto il tempo che ci avevano impiegato per camminare fin lì, e non aveva la minima idea a cosa Alessio si stesse riferendo.
-Magari sarò d’accordo con te- ipotizzò, senza troppa convinzione – Ma non so di cosa tu stia parlando-.
Doveva alludere alla lettera, ma non ne era del tutto sicuro. In quel momento Alessio gli sembrava enigmatico come non mai. Lo vide esitare ancora qualche secondo, prima che alzasse lo sguardo e lo puntasse sul suo viso:
-Ti avevo detto che ti avrei accompagnato qui e poi me ne sarei andato, ma credo che se lo facessi sarebbe una pessima idea-.
Pietro si lasciò scappare un sorriso intenerito: era da tempo che Alessio aveva ripreso a mostrargli e riservargli quelle attenzioni, ma faticava ancora ad abituarcisi. Cercò di ignorare il calore che sentì all’altezza del petto mentre quelle parole gli risuonavano nella mente, ricordandosi che, al contrario suo, Alessio aveva dei figli piccoli a cui badare a casa.
-Sto bene, davvero- cercò di dire ancora, ma Alessio scosse il capo energicamente:
-Non è vero, Pietro, e non c’è nulla di male a dirlo- disse con forza, guardandolo gravemente – Al posto tuo credo che sarei distrutto allo stesso modo. E credo che morirei di paura … Ma anche se probabilmente cercherei di allontanare tutti, in fondo vorrei avere qualcuno accanto in un momento simile-.
Si sporse appena verso di lui, e Pietro per un attimo si aspettò che lo toccasse ancora, come poco prima fuori dal ristorante. Alessio, però, non si mosse: si limitò a guardarlo con la stessa espressione ostinata e preoccupata di quando l’aveva convinto ad accompagnarlo a casa.
-Non devi affrontarlo da solo-.
Per un lungo attimo Pietro pensò di cedere subito, senza provare a resistere ancora. C’era il senso di colpa a frenarlo, ma aveva già il sospetto che nulla avrebbe fatto cambiare idea ad Alessio.
Si costrinse, però, a parlare ancora, senza accettare esplicitamente:
-Non voglio costringerti a rimanere con me- mormorò a mezza voce, abbassando lo sguardo.
Stavolta Alessio si mosse: Pietro lo sentì posare cautamente una mano sulla sua coscia, con lo stesso fare delicato di prima.
-Sono io che voglio rimanere-.
Alessio sospirò profondamente, e quando Pietro rialzò il viso per osservarlo, lo vide passarsi una mano sul viso, con fare stanco.
-Magari nemmeno leggerai la lettera stasera, ma non voglio comunque andarmene- aggiunse ancora, tornando a ricambiare il suo sguardo.
Pietro esitò ancora qualche secondo: era vero, non aveva idea di come sarebbe finita quella sera. Ma Alessio aveva ragione: nemmeno lui credeva che l’idea migliore fosse quella di rimanere solo, non in quel momento.
-Ne sei sicuro?- gli chiese ancora, incerto.
Alessio gli sorrise rassicurante, una nota di dolcezza e malinconia che, in un certo modo, tranquillizzò Pietro.
-Sì, certo-.
-Non so nemmeno che ho da offrirti per cena- Pietro si lasciò sfuggire una breve risata amareggiata, reclinando di nuovo il capo all’indietro fino a ritrovare lo schienale. Anche Alessio rise, la mano ancora appoggiata sulla sua coscia e gli occhi che lo scrutavano in continuazione:
-A quello possiamo porre rimedio. È ancora presto, possiamo andare a comprare qualcosa- gli disse, prima che il suo sorriso si allargasse ancora, la traccia di malinconia più visibile – Come ai vecchi tempi-.
Pietro rimase in silenzio per un secondo: non era la piega che si era aspettato di prendere una volta rientrato a casa, ma era un inizio. In un certo senso, in quel frangente di insolita famigliarità che si stava creando tra lui ed Alessio soli, si sentì al sicuro.
-Come ai vecchi tempi-.
 
Say goodnight
Say goodnight to the life and the world you knew
I’m going to follow you
 
*
 
Goodbyes are for me a tear
Without even knowing, it blooms around my eyes
The words that I could not bring myself to say flow down
And lingering regret crawls over my face [3]
 
-Avevo dimenticato quanto fossi bravo in cucina-.
Pietro lanciò un’occhiata scettica nella direzione di Alessio, un sopracciglio alzato:
-Non era nulla di che- gli rispose, alzando le spalle e asciugando le ultime gocce che scivolavano sulla superficie del piatto che stava tenendo in mano.
Avevano finito di cenare da appena mezz’ora. La spesa che erano andati a fare era stata breve, giusto il tempo che ci era voluto per raggiungere il primo negozio di alimentari e recuperare tutto l’occorrente per un’omelette e dell’insalata di contorno. Nulla di troppo elaborato.
Ora che stavano finendo di lavare i piatti – Alessio strofinandoli sotto l’acqua, e Pietro asciugandoli prima di riporli nelle giuste credenze- era calato silenzio nella cucina. La tv era rimasta accesa in sottofondo, ma Pietro l’ascoltava a malapena, perso in pensieri che lo stavano assorbendo completamente.
Era riuscito a lasciarsi andare di più mentre cenavano: era stato visibile lo sforzo che Alessio aveva fatto per tenerlo sempre distratto, farlo ridere e parlare il più possibile come a non lasciarlo in balia di sé stesso. C’era riuscito, almeno per un po’ di tempo.
Pietro ripose il piatto ora asciutto, sospirando profondamente: quella cena gli aveva davvero ricordato i tempi in cui a vivere con lui c’era Alessio, in quello stesso appartamento. Anche all’epoca si erano ritrovati spesso a lavare i piatti insieme, spalla contro spalla, esattamente come in quel frangente: si era sentito pervaso da una insolita famigliarità che, in un certo senso, lo lasciava spaesato e lo spaventava.
-Ma era comunque molto buono- insistette Alessio, imbronciato. Gli passò l’ultimo piatto, rimanendo comunque lì dopo aver richiuso il rubinetto.
Pietro passò lo straccio con gesti veloci, prima di posare anche quell’ultimo piatto insieme agli altri. Sospirò ancora, muovendo qualche passo verso la finestra e rimanendovi fermo di fronte per qualche attimo: aveva preso a piovere più forte da non molto tempo. Sembrava che fosse in atto un vero e proprio temporale, e quasi si sentì in colpa all’idea che Alessio, non molto più tardi, sarebbe dovuto uscire sotto quella pioggia.
Rimase fermo lì per quelli che a lui parvero pochi secondi, ma che a quanto pareva divennero interi minuti: sentì i passi di Alessio raggiungerlo, fino a quando non arrivò ad accostarglisi di nuovo accanto.
-Che c’è?- gli chiese a mezza voce, come a non volerlo davvero distrarre.
Pietro alzò le spalle, senza dire nulla. Alessio doveva aver notato il suo essere silenzioso: era sempre così, quando si soffermava a pensare a qualcosa che lo tormentava.
Si torturò le mani, lo sguardo abbassato sul pavimento mentre fuori dalla finestra la tempesta continuava ad imperversare.
-Penso di volerla leggere-.
Non specificò a cosa si stava riferendo, perché sapeva già che Alessio l’avrebbe intuito ugualmente. Era difficile dimenticare la presenza della lettera di Fernando, lasciata sul tavolino del salotto, in bella vista.
-Ora?-.
Non c’era traccia di sorpresa nella voce di Alessio: sembrava quasi se lo aspettasse del tutto.
Pietro incrociò le braccia contro il petto, prendendo un respiro profondo prima di alzare il viso e girarsi verso l’altro. Si sentiva così terribilmente indifeso e vulnerabile, in quel momento, che si sorprese di non essere ancora crollato in lacrime.
-Non so se sia la cosa migliore da fare, ma non ce la faccio a far finta di nulla- mormorò – Devo sapere cosa ci ha scritto-.
Sentì la propria voce tremare, e si chiese se fosse più per la tristezza immensa che lo stava investendo al pensiero di leggere le ultime parole di Fernando, o più per la paura di scoprire cosa quella lettera contenesse. Erano entrambe cose che, nel bene o nel male, lo stavano spingendo a compiere quel passo.
Osservò Alessio annuire gravemente, prima di schiarirsi la voce:
-Vuoi che … -.
-Resta qui- Pietro lo interruppe prima ancora che Alessio gli chiedesse se doveva rimanere o andarsene. Abbassò di nuovo il viso, ma muovendo un passo verso l’altro:
-Per favore-.
Si rese conto che i suoi occhi si erano fatti lucidi nel momento stesso in cui aveva abbassato le palpebre, l’oscurità calata intorno a lui. L’unica cosa che percepì fu di nuovo la mano di Alessio sulla sua spalla, l’unica evidenza che gli ricordava della sua presenza.
-Non mi muovo- sussurrò, delicatamente – Sei forte. Ce la puoi fare-.
“Vorrei davvero essere così forte” si ritrovò a pensare Pietro, con una lacrima all’angolo dell’occhio che rischiava di cadere e rigargli il viso.
 
*
 
We walked towards the same place
But this place becomes our last
Although we used to talk about forever
Now we break each other without mercy
Although we thought that we dreamed the same dream
That dream has finally become a dream
My heart is torn, please burn it instead
So that pain and regret, none of that would be left
 
La luce proveniente dalla lampada accesa sopra al comodino, accanto al letto, era fioca e a malapena rischiarava gli angoli più lontani della stanza. Pietro andò ad appoggiarsi contro il muro e accanto alla finestra, in un punto in cui la luce bastava a sufficienza a non rendergli del tutto oscura la vista.
Ascoltò distrattamente, per qualche secondo, il risuonare della pioggia all’esterno: le gocce continuavano a scendere lungo il vetro della finestra, l’unico rumore che spezzava il silenzio pesante che aleggiava nella camera.
Si rigirò la busta tra le mani, cercando di ignorare il leggero tremore delle sue dita. Alzò gli occhi brevemente, puntandoli su Alessio: lui, al contrario suo, non lo stava guardando. Teneva gli occhi abbassati, mentre se ne stava seduto sul bordo del letto, forse troppo perso in pensieri che Pietro non conosceva.
“Non mi muovo”.
Alessio aveva mantenuto la parola: non si era allontanato da lui più di qualche passo, dopo aver pronunciato quelle parole. Si erano avviati con calma verso il salotto, dove la lettera era ancora sul tavolino davanti al divano, in attesa solo di essere letta.
Pietro ricordava di averla presa tra le mani in un attimo d’impulsività: era sicuro che, se fosse rimasto troppo tempo a rifletterci, non sarebbe più riuscito a trovare abbastanza coraggio per farlo. Alessio era rimasto con lui anche in quel momento: gli aveva preso la mano rimasta libera, incrociando le sue dita con quelle di Pietro e guidandolo verso la camera da letto. Non si erano detti nulla per tutto quel tempo, e Pietro aveva preferito di gran lunga così: era bastato lo sguardo di muto incoraggiamento che Alessio gli aveva rivolto appena arrivati, per riuscire a tenere in mano la lettera e non cedere alla tentazione di lanciarla da qualche parte.
“Sei forte”.
Rimase con lo sguardo su Alessio ancora qualche secondo. Anche se erano nella stessa stanza, ad appena poco più di un metro di distanza, Pietro si sentiva terribilmente solo. Avrebbe voluto andare a sederglisi accanto, e per poco non l’aveva fatto, qualche minuto prima.
Il solo pensiero di farlo, però, gli era sembrato sbagliato.
Era sicuro di voler Alessio lì con lui, e sapeva – ne era consapevole, per quanto non volesse pensarci- che dopo aver letto quella lettera sarebbe crollato accanto a lui, alla ricerca di un conforto.
Ma doveva leggerla da solo, affrontare da solo le parole che Fernando aveva scritto per lui.
Quando abbassò lo sguardo, tenendo ora gli occhi sulla busta candida che teneva tra le mani, osservò le proprie dita spiegare la carta lentamente.
Lasciò cadere a terra la busta vuota, concentrandosi unicamente sui tre fogli che aveva contenuto fino a qualche secondo prima. Erano scritti a mano, e anche se si sforzò di non leggere parole a caso, Pietro riconobbe subito la scrittura di Fernando: la stessa scrittura rotonda e gentile, a tratti quasi femminile, conosciuta e rassicurante.
Pietro cercò di ordinare i fogli, individuando quello da cui forse avrebbe dovuto iniziare. La lettera era molto più lunga di quel che si era sempre aspettato: forse si era a lungo cullato nell’illusione che Fernando gli avesse detto tutto o quasi ciò che voleva fargli sapere prima di togliersi la vita, ma evidentemente non era proprio così.
Erano pagine piene di frasi fitte, parole scritte in piccolo per guadagnare più spazio, come se Fernando avesse temuto di finire a corto di fogli prima di concludere ciò che voleva scrivere.
Pietro sospirò a fondo e a lungo, terrorizzato alla sola idea di tuffarsi in quel mare d’inchiostro nero, così distinguibile rispetto al bianco della carta su cui erano incisi i segni della penna.
Quando dispiegò del tutto il primo foglio, si sentì quasi mancare ancora prima di iniziare a leggere. Strinse forte le dita attorno alla carta, creando piccole pieghe per averla stropicciata troppo forte.
Cercò di tranquillizzarsi: in fin dei conti era sempre Fernando. Non in carne ed ossa, non davanti a lui a raccontargli l’ultimo aneddoto con la sua voce profonda e il vago residuo di accento spagnolo, ma era sempre Fernando. Erano parole sue, scelte per essere lette da lui.
E Pietro era sicuro che, nonostante tutta la delusione e il dolore che Fernando poteva aver provato poco prima di morire, non avrebbe mai scritto qualcosa che potesse ferirlo in qualche modo.
Iniziò a leggere con quella consapevolezza in mente.
 


Ciao Pietro,
probabilmente se stai leggendo questa lettera io non ci sarò già più. Non posso giurarti su dove sarò, dipende un po’ da cosa preferisci credere. In cielo? Troppo metafisico. Sottoterra mangiato dai vermi? Molto più terreno.
So anche che leggendo queste righe che ti sto lasciando, sarai tremendamente incazzato con me. Non posso darti torto: al posto tuo mi sentirei allo stesso modo.
So anche che probabilmente avrai già pianto, e prima di iniziare vorrei mi promettessi una cosa: leggi questa lettera senza dolore nel cuore, senza pianti e senza rabbia nei miei confronti. Non l’ho scritta per farti soffrire più di quanto non starai già facendo. Pensala più come qualcosa che ti sto lasciando in ricordo di me.


 
Pietro si ritrovò a chiudere gli occhi dopo quelle prime righe.
La voglia di accartocciare i fogli di quella lettera era forte, ma cercò di resistervi: sapeva che, per quanto la tentazione fosse forte in quel momento, se ne sarebbe pentito nell’immediato dopo averlo fatto.
Si sentiva lo sguardo di Alessio addosso, ora, ma non provò ad alzare gli occhi per accertarsi che lo stesse davvero guardando.
Sospirò di nuovo a fondo, la vista incollata sulle parole fitte lasciate da Fernando. Alzò di nuovo la mano che teneva i fogli, non del tutto sicuro di essere pronto per continuare.


 
Lo so, starai pensando che tutto quello che ti dovevo dire avrei potuto benissimo dirtelo a voce, faccia a faccia come ho sempre fatto. Però credo anche che lasciarti la mia memoria immacolata, non macchiata da triste rivelazioni e troppa rabbia repressa sarebbe stata di gran lunga meglio. E poi, quel nostro ultimo giorno al parco era dedicato a te, non a me. Io avevo già dato, e tu avevi bisogno di un amico che ti ascoltasse e ti capisse. Non sentirti in colpa per questo: sono state felice di farlo. È forse stata l’ultima cosa che mi ha reso davvero orgoglioso di me.
Non è facile provare a mettere per iscritto quello che vorrei dirti. Pensavo che scriverti una lettera sarebbe stato più semplice, ma non è così: pensare a come ti sentirai quando la leggerai mi riempie di dolore.
So che mi odierai.
So che ti arrabbierai.
So che piangerai.
Vorrei evitarti tutto questo, ma sento di doverti alcune spiegazioni che non sono riuscito a darti prima.
Spero tu possa scusarmi per questo.
So che per quando leggerai queste mie parole probabilmente saprai già un po’ di cose, anche se non ne saprai altrettante. Voglio essere sincero fino in fondo con te, perché te lo devo.
Ti starai facendo molte domande, lo so. Te lo leggevo già in faccia quando ci siamo visti e ti ho detto della malattia.
Quando due anni fa, in quel pomeriggio in cui mi leggesti quell’articolo, quello da cui tutto è partito, sulle aggressioni da parte di quell’uomo, ancora non avevo idea di cosa mi stesse aspettando. Sei stato tu a farmi aprire gli occhi, pur inconsapevolmente.
La notte in cui è successo tutto era stato tutto così veloce e confuso che avevo preferito non pensarci più: una normale sera passata in un locale dedicato alla nostra comunità, uscito a fumare da solo e ritrovandomi ben presto in compagnia non voluta. Non mi sono chiesto subito perché quell’uomo mi si era avvicinato e aveva iniziato a colpirmi. So solo che per difendermi ho risposto ai suoi pugni, e poi mi si è avventato addosso mordendomi. Forse, dopo aver letto questo dettaglio, ti ricorderai della fasciatura che mi copriva la mano una delle ultime volte che ci siamo visti prima della nascita di Giacomo.
Ti ho mentito anche in quell’occasione, e non ti ho detto nulla nemmeno mentre mi leggevi quell’articolo, scegliendo consapevolmente di non dirti nulla sebbene stessi intuendo, a poco a poco, che era una storia che riguardava anche me. Le motivazioni del mio silenzio? Banali, direi. 
Avevi appena avuto Giacomo, ti stavi creando una vita tutta tua – sebbene non fosse esattamente quella che avevi sempre sognato-, e non era mia intenzione rovinarti quegli anni con una notizia del genere. E con tutte quelle che sono seguite – la terapia che non funzionava, le mie condizioni sempre precarie. E poi la depressione.
E poi sapevo che ti avrebbe spaventato sapere cosa mi fosse successo. Ma questo lo sai già.
L’HIV ti rovina la vita. L’AIDS te la porta via.
Ma è quasi ironico pensare che, in realtà, non saranno queste cose ad avermi ucciso, non trovi?
Quando si allontanano tutti e ti senti così solo da chiederti se ne vale ancora la pena, non riesci a tenere a bada la solitudine. Il senso di colpa. La vergogna. La voglia di farla finita.
Me lo sono chiesto tante volte, in questi ultimi mesi, se ne valesse la pena. Non trovavo mai la risposta, o forse non volevo trovarla. Forse la stavo solo ignorando.


 
Leggere quelle righe fu come rimettere insieme i pezzi di un puzzle che a lungo era rimasto impenetrabile a Pietro. Rilesse quei passaggi un paio di volte, prima di capire fino in fondo cosa Fernando avesse scritto.
Odiò anche il senso di colpevolezza che traspariva da quelle poche parole. C’era un alone di accusa che Fernando rivolgeva a se stesso che lo fece tremare impercettibilmente. Gli sembrò quasi incredibile essere stato così tanto cieco, non essersi mai accorto di niente: era stato Fernando ad essere troppo bravo a non mostrargli nulla di quel che stava succedendo nella sua vita, o era stato lui ad aver pensato troppo a quelle che considerava fossero disgrazie da tenere nascoste a tutti i costi?
Qualsiasi fosse la risposta giusta, però, ormai non contava più.
Passò al secondo foglio, dove le righe erano meno fitte ed ordinate, come se arrivato a quel punto della lettera Fernando avesse faticato a concentrarsi e a trovare la forza di proseguire.
Forse era quella la parte peggiore, si ritrovò a pensare Pietro: la parte della lettera più difficile da scrivere non era stata quella iniziale, ma quella che chiudeva tutto.


 
Ecco cosa sono diventato, Pietro: un guscio vuoto. Cammino, mangio, dormo, ma non esisto. E poi, in fondo, sarebbe davvero servito a qualcosa continuare ad andare avanti così pur sapendo che, dopotutto, il mio corpo avrebbe ceduto da un momento all’altro?
Almeno ho preservato l’ultima briciola di dignità che mi rimaneva. E ora che mi trovo di fronte alla fine, mi ritrovo a non provare nemmeno più nulla: non sono arrabbiato con l’uomo che mi ha attaccato il virus. Non lo sono nemmeno con i miei genitori.
Non sono arrabbiato nemmeno più con me stesso per non aver lottato abbastanza. 
Tutto questo ti suonerà forse strano, forse da pazzi: probabilmente penserei lo stesso se fossi dall’altra parte. Ma questo è il vero me, o almeno quel che è rimasto di me in questi ultimi mesi.
La depressione ti rode da dentro. Scava fino a quando non lascia più niente, Pietro. E la verità è che mi sento così vuoto da non aver nemmeno più la voglia di farmi forza. A che servirebbe ancora? A farmi guadagnare qualche giorno in più? Non è quel che voglio. So che non sarai d’accordo con questo, ma è quel che sento.
Avrei dovuto dirtelo prima, lo so, ma come ti ho già detto non volevo sporcare il tuo ricordo di me.
Se qualcuno portasse indietro il tempo sarei stato capace di essere un po’ più sincero? Non lo so.
Forse ci sarebbe riuscito il me stesso di quando ci siamo conosciuti.


 
Sentì pungere le lacrime agli angoli degli occhi, ma non staccò ugualmente gli occhi dal foglio, non prima di arrivare in fondo.
Sconfitta.
Si sentiva così sconfitto e schiacciato a terra da non riuscire nemmeno più a formulare qualche pensiero riguardo ciò che gli stava passando davanti agli occhi.
Era l’unica cosa a cui riusciva a pensare leggendo.
Era la sconfitta che Fernando descriveva, la sconfitta peggiore.
Ed era anche la sua, per non averlo realizzato prima.

 
This is the real you and this is the real me
Now we’ve seen the end and not even resentment is left
I’ve woken up from the sweet dream and I close my eyes
This is the real you and this is the real me

 
Quando anche quel secondo foglio lasciò il posto all’ultimo, Pietro si bloccò per qualche secondo. C’erano solo poche frasi davanti a lui, poche altre parole per chiudere quel lungo monologo.
“Le ultime parole che Fernando mi lascerà”.
Si accinse a leggere con un groppo in gola che gli impediva quasi di respirare.
 


Ti sentirai tradito quando leggerai questa lettera. Forse ti sentirai già così quando scoprirai che me ne sono andato.
E hai ragione: ho tradito qualsiasi promessa ci siamo fatti. Fino a poco fa parlavamo insieme del futuro e di progetti, di sogni che per me continueranno a rimanere sogni.
Per te è diverso. Non fermarti mai, Pietro. Hai molta più forza in te di quanto non credi. Devi solo trovarla.
O forse l’avrai già trovata, quando mi starai leggendo.
Sei stato la mia famiglia più di quanto non lo sia stato chiunque altro. Non credo lo dimenticherò.
Mi mancherai, molto più di quanto io mancherò a te. Come disse Éponine al suo Marius prima di spirare tra le sue braccia, credo di essere stato un po’ innamorato di te. Però non sempre questo basta.
Spero che un giorno tu possa perdonarmi, Pietro.


 
Si rese conto di star ormai piangendo solo quando vide una lacrima cadere e bagnare un angolo del foglio, inumidendolo e rendendo la carta fragile, pronta a spezzarsi.
Per i primi attimi rimanere in silenzio, con le lacrime che gli rigavano la pelle del viso, fu addirittura facile. Abbassò lentamente le mani, le dita sempre più tremanti: sentì i fogli scivolare dalla sua presa, e atterrare sul pavimento con un fruscio leggero.
Rimase immobile, le braccia a peso morto lungo i fianchi, il volto umido e le labbra socchiuse per poter respirare meglio. Era sicuro che a quel punto Alessio si fosse girato verso di lui – forse lo stava fissando ancora da prima-, ma non riusciva a vederlo: era tutto troppo sfocato, tutto troppo oscurato dal vuoto che sentiva all’altezza della bocca dello stomaco.
“È questo che si prova, nell’essere abbandonati a sé stessi?”.
C’era solo vuoto, intorno e dentro di sé.
Cercò di reprimere un singhiozzo, ma prima ancora che se ne rendesse conto sentì la propria voce squarciare il silenzio della stanza. Si portò una mano alla bocca, quasi come se bastasse un gesto del genere per frenare i singhiozzi di disperazione. Chiuse gli occhi, l’oscurità delle sue palpebre abbassate che, per un attimo, gli parve un luogo confortevole.
Passarono pochi secondi prima di percepire un paio di mani sulle sue spalle, scuoterlo leggermente.
-Pietro-.
La voce di Alessio era bassa e roca, come se stesse cercando lui stesso di non cedere al pianto.
Si lasciò guidare verso il letto, mettendosi a sedere sul bordo del materasso, le mani portate a coprirsi il viso istintivamente.
Sentiva ancora le mani di Alessio su di sé, tracciare lenti gesti regolari sulla sua schiena, portandoselo addosso: Pietro non oppose resistenza nemmeno in quel momento.
-Va tutto bene- Alessio sussurrò appena, un soffio di voce venato di dolcezza e tristezza – È tutto ok-.
-Non è tutto ok- Pietro fece fatica a pronunciare quelle parole, le lacrime che scendevano ormai copiose e la gola chiusa dal nodo che non gli facilitava nemmeno il respiro. Lasciò cadere il capo sulla spalla di Alessio, cullandosi nell’abbraccio stretto dell’altro.
Rimase così per alcuni secondi, prima di sentire sulla pelle bagnata del viso le stesse mani che, fino ad un attimo prima, erano sulla sua schiena. Alessio gli mosse gentilmente il volto, portandoselo di fronte; Pietro lasciò che le loro fronti si toccassero. Sapeva che in un momento diverso – in un momento di lucidità- si sarebbe reso conto di quanto fosse ridotta la distanza che li separava, di come Alessio lo stesse guardando, e quanto poco sarebbe bastato per annullare le distanze: in quel frangente non riuscì a fare nulla di diverso dal rimanere immobile, le palpebre abbassate.
-No, ma è quello che è-.
“Sono lacrime”.
Pietro si ritrovò ad annuire debolmente, un altro singhiozzo che lo sconquassò.
“È abbandono”.
 
You’re my tear
You’re my, you’re my tear
You’re my tear
You’re my, you’re my tear
You’re my fear
You’re my, you’re my fear

What more can I say?
You’re my ...
 
*
 
Watch my back so I'll make sure
You're right behind me as before
Yesterday the night before tomorrow
Dry my eyes so you won't know
Dry my eyes so I won't show
I know you're right behind me
And don't you let me go, let me go tonight
Don't you let me go, let me go tonight [4]
 
Stava continuando a piovere anche in quel momento, quando la notte era ormai arrivata e l’oscurità aveva inglobato in sé ogni cosa.
Alessio rimase ad ascoltare ogni goccia toccare il vetro chiuso della finestra, gli occhi chiusi ma la mente ancora sveglia, il sonno ancora distante da lui.
La pioggia scendeva imperterrita, senza mai fermarsi – un po’ come era successo a Pietro e alle lacrime che gli avevano solcato il viso per minuti interminabili. Non aveva idea di quanto tempo avessero passato abbracciati seduti sul bordo del letto, senza dire nulla: Alessio aveva perso la cognizione del tempo dal momento in cui aveva messo piede in quella camera, nell’attesa che Pietro leggesse la lettera – l’ineluttabile evidenza della separazione che c’era stata con Fernando già mesi prima.
Si era sentito così inutile nel rendersi conto di non riuscire a calmare Pietro da sentirsi persino arrabbiato con se stesso. Forse era anche per quel motivo che non aveva più detto nulla: non voleva che l’altro scambiasse l’ira che provava per sé per qualcosa di negativo nei suoi confronti.
Si era limitato a portargli le mani sulle guance umide, cercando di cancellare ed asciugare le lacrime che ancora cadevano. Era stato un gesto così intimo che Alessio si era sentito quasi sorpreso per non essersi bloccato a pensare al suo significato.
Pietro gli era parso stremato, spezzato; non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea di tornare a casa e lasciarlo da solo. Non era una notte da passare soli, non quella.
L’aveva fatto stendere sul letto, e ci era voluto davvero poco prima che Pietro chiudesse gli occhi e finisse per addormentarsi: la tensione che aveva avuto in corpo fino a quel momento doveva essere stata talmente tanta da avergli causato tutta quella stanchezza.
Alessio non si era mosso da lì nemmeno una volta, anche se doveva essere passata almeno un’ora da quando Pietro era caduto nel suo sonno agitato.
Lo guardò un’altra volta, steso accanto a lui: sembrava quasi sereno, in quel momento, con le gambe piegate portate al petto in posizione fetale, i capelli in disordine sul cuscino e gli occhi ancora arrossati e cerchiati per il pianto. Alessio allungò una mano per scostargli una ciocca di capelli finitagli davanti agli occhi: protrasse il gesto fino ad accarezzargli delicatamente il lato del capo, facendo attenzione a non svegliarlo.
Gli si accoccolò più vicino, tenendo ancora gli occhi chiusi e ascoltando il suo respiro regolare.
Sapeva che prima o poi avrebbero parlato di quel che era successo quella sera, di quel che Pietro aveva letto, o di quel che avevano significato per lui quelle lacrime: forse era solo dolore per la separazione, o forse anche per qualcosa in particolare che aveva letto. Alessio aveva cercato di non trarre conclusioni affrettate: era una cosa che aveva imparato a fare con Pietro – per Pietro-, e che a volte faticava ancora a mettere in pratica. Sapeva che gli avrebbe parlato di tutto, a tempo debito.
Avrebbe aspettato: quella non era una notte in cui parlare.
 

 



[1] Avenged Sevenfold - "So far away"
[2] Lana del Rey - "Swan Song"
[3] BTS - "Outro: Tear"
[4] Lykke Li - "Tonight"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori

NOTE DELLE AUTRICI
Questo aggiornamento post Ferragosto è iniziato nei migliori dei modi (e finito non altrettanto LOL) per Caterina e Nicola, ma diciamocelo... dalla coppia che, nel corso degli anni, ha saputo dare il meglio di sé proprio in questi giorni estivi (come il capitolo "Into You" ben ci insegna!), non potevamo aspettarci di meno! E così Baby 2 è ufficialmente in arrivo in casa Tessera-Maccaferri! 
L’unica a scoprirlo, oltre a Nicola e Francesco, è anche Giulia, la cui reazione è ovviamente di gioia, come prevedibile ... Gioia che però dura poco, dato che un'altra questione ben più complessa prende piede: alla fine Giulia ha deciso di dare la lettera di Fernando a Pietro, seppur non a cuor leggero. 
Ed è proprio con la lettera di Fernando al centro delle vicende che si chiude il capitolo: Pietro, infatti, ha deciso di leggerla subito. Finalmente anche noi abbiamo potuto leggere, insieme a Pietro, le ultime parole messe nero su bianco da Fernando. Parola dopo parola, frase dopo frase, abbiamo la conferma che lo spagnolo non soffrisse solamente di HIV prima e AIDS poi, ma anche di depressione, irrimediabilmente legata alle prime. Tutto questo ha portato agli eventi e all'esito finale di cui, purtroppo, siamo già tristemente a conoscenza.
Pietro, come tutti probabilmente sospettavamo, non riesce a trattenere le forti emozioni e la disperazione che derivano da questa intensa lettura, ma nessuno si aspetta qualcosa di diverso da queste reazioni da lui, essendo esse stesse più che comprensibili.
Solo il tempo ci dirà come le parole di Fernando verranno assimilate da Pietro e come il ragazzo imparerà a convivere con le stesse.
A mercoledì 6 settembre per l'inizio di un nuovo capitolo!
Kiara & Greyjoy

 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Life must go on ***


CAPITOLO 10 - LIFE MUST GO ON



 
 
Sbuffò sonoramente, cercando di impilare alla bell’e meglio la pila di scartoffie che aveva compilato nelle ultime due ore. Filippo rimise il blocco di fogli sulla sua scrivania, portandosi una mano alla fronte e massaggiandosela con gesti lenti. Chiuse gli occhi per qualche secondo, riuscendo a stento a trattenere uno sbadiglio: Beatrice aveva pianto tutta la notte, in preda a quello che probabilmente era stato un brutto mal di pancia. L’unica fortuna era stata che almeno Caterina non si era aggiunta al coro di urla, lasciando liberi lui e Giulia di occuparsi della sua gemella.
Si erano riaddormentati tutti alle cinque, con meno di due ore rimanenti prima di doversi rialzare, preparare le bambine da lasciare al nido, e andarsene al lavoro.
Filippo tirò un altro sospiro pesante: per quella mattina l’unico lavoro che gli era toccato era stato puro e semplice lavoro d’ufficio, noioso come pochi altri e così conciliante il sonno che ancora si stupiva di non essersi addormentato sulla sua stessa scrivania.
Si alzò a fatica, le gambe ormai abituatesi a rimanere ferme a lungo; frugò nella tasca dei jeans, sperando solo di avere ancora qualche moneta per potersi andare a prendere un caffè ai distributori automatici.
Fuori dalle finestre alte dell’ufficio sembrava esserci una bella giornata: persino le strade monotone di Mestre parevano risplendere quando, in autunno inoltrato, il sole era alto in cielo. Filippo sospirò profondamente, mentre imboccava la direzione della porta che dava sul piccolo corridoio che l’avrebbe portato alla piccola area break: non riusciva ad essere di buonumore nemmeno osservando i raggi del sole colpire le vetrate del suo ufficio.
Camminò lungo il corridoio portandosi una mano alla bocca, non riuscendo a trattenere oltre lo sbadiglio che stava cercando di reprimere già da prima. Era una giornata calma in dipartimento, e quasi sperò di ritrovare la stessa calma anche ai distributori: per quanto gli fossero simpatici gli altri ricercatori suoi colleghi, e per quanto andasse piuttosto d’accordo con la maggior parte di loro, si sentiva così stanco da non aver nemmeno voglia di fare quattro chiacchiere.
La sua speranza durò fin troppo poco: quando ebbe i distributori in vista, non poté fare a meno di notare almeno due persone già lì, con suo incredibile disappunto. Filippo trattenne a stento uno sbuffo, mentre acuiva la vista per cercare di riconoscere chi fossero: l’uomo alto e dalla folta chioma riccia era senza dubbio Marco, forse il più chiacchierone di tutto l’ufficio – Filippo quasi prese in considerazione l’idea di sotterrarsi sottoterra pur di evitarlo, ma quel caffè gli serviva più di ogni altra cosa. La ragazza bionda che era con lui, invece, non la riconobbe: era quasi certo di non averla mai vista prima, anche se non escluse di non aver riconosciuto una qualche collega a causa del troppo sonno arretrato.
Si avvicinò vagamente incuriosito, forse pentendosene appena la voce squillante di Marco gli giunse alle orecchie.
“Mal di testa assicurato”.
-Buongiorno- esordì Filippo, la voce poco più di un sussurro, accostandosi di più al distributore ed affiancando infine Marco e la ragazza bionda che, ora che poteva osservarla meglio, poteva dire con sicurezza di non conoscere affatto.
-Ciao!- Marco si girò verso di lui con un ampio sorriso, la sua vivacità innata che solitamente rallegrava Filippo, ma che in quell’istante non stava facendo altro che peggiorargli l’umore – Vi siete già conosciuti voi due?-.
Indicò prima Filippo e poi la bionda: entrambi scossero il capo, in contemporanea.
-No, non direi- confermò a voce Filippo.
Marco annuì, prima di parlare di nuovo:
-Lei è Linda Cosser, l’ultimo nuovo acquisto del dipartimento- disse con una certa fierezza, quasi fosse stato lui stesso ad assumerla.
La bionda – Linda, cercò di tenere a mente Filippo- gli sorrise ampiamente, allungandosi verso di lui con il braccio destro:
-Molto piacere- fece, con tono cordiale.
Lui le strinse velocemente la mano:
-Filippo, piacere- si presentò a sua volta. Già non più interessato alla faccenda fece per girarsi di nuovo verso il distributore, infilando la mano nella tasca dei jeans per recuperare le monete che gli servivano. Le infilò velocemente, digitando il numero per un caffè normale.
-È arrivata stamattina, quindi le stavo facendo fare un primo giro degli uffici e le stavo presentando un po’ di gente- Marco riprese a parlare dopo poco, e Filippo si costrinse perlomeno a girarsi verso di lui ed annuire silenziosamente. Si sentì decisamente risollevato nell’animo quando, finalmente, dopo pochi attimi riuscì ad avere il suo bicchierino di caffè caldo tra le mani.
-Oh, benarrivata, allora- disse, cercando di simulare un qualche entusiasmo, girandosi verso Linda – Prima dov’eri?-.
-Ero ricercatrice a tempo determinato al Politecnico di Torino. Ho studiato lì- gli rispose subito lei, cordiale. Per quanto avesse appena affermato di essere stata prima studentessa e poi ricercatrice a Torino, a Filippo non parve di cogliere alcun accento piemontese nella sua parlata. Cercò di ricordare il cognome, dall’aria vagamente tedesca e decisamente non della zona dove Linda era stata fino a poco prima.
Lasciò perdere quelle sue ipotesi, quando si accorse di essere rimasto in silenzio un po’ troppo a lungo.
-Chi te l’ha fatto fare di spostarti da Torino a Venezia?- le chiese ironicamente, ma con una punta di curiosità. Marco rise sotto i baffi, ed anche Linda sorrise a suo agio: alzò le spalle con rassegnazione, scuotendo appena il capo.
-Il contratto a tempo indeterminato- rispose semplicemente, scatenando un’altra ondata di risate da parte di Marco. Filippo si limitò ad annuire: capiva perfettamente quanto fosse importante cogliere un’occasione del genere. Dopo un anno stentava a credere persino lui di aver raggiunto quel tipo di contratto, finendo tra i pochissimi ricercatori a poter vantare quel tipo di sicurezza lavorativa.
-Allora speriamo che ti troverai bene qui- disse infine, per congedarsi. Era ancora del tutto intenzionato a bere con calma il suo caffè, nella tranquillità del suo ufficio.
Linda gli sorrise ancora una volta, piantando lo sguardo su di lui: per un attimo Filippo si sentì leggermente a disagio, nel rendersi conto di essere al centro dell’attenzione dell’altra. Cercò di non farci caso, quando la voce di Linda risuonò ancora una volta nelle sue orecchie:
-Sono sicura che sarà così-.
 
*
 
-Oggi è arrivata una nuova collega-.
Giulia si ritrovò ad annuire impercettibilmente alle parole appena pronunciate con totale nonchalance da Filippo.
Si girò di nuovo verso Beatrice, aprendo la bocca e sperando che la bambina la imitasse ancora una volta: il tentativo di Giulia andò a buon fine qualche secondo dopo, quando vide finalmente la bambina aprire a sufficienza la bocca per avvicinarle il cucchiaio e darle un altro boccone di omogeneizzato.
-E come ti sembra?- chiese distrattamente Giulia, senza nemmeno girarsi verso Filippo, occupato ai fornelli per preparare quella che sarebbe stata la loro cena per quella sera. Giulia si ritrovò ad invidiare almeno un po’ le figlie: al contrario di Beatrice e Caterina – quest’ultima che aveva già la pancia piena e poteva permettersi di giocare ai piedi della tavola-, lei avrebbe dovuto attendere ancora un po’ per sfamarsi.
Era stata una lunga giornata al lavoro, e l’unica cosa per cui non vedeva l’ora, oltre a finire di far cenare anche Beatrice, era sedersi compostamente a tavola per buttarsi sulle bistecche che Filippo stava preparando. Dopotutto, dopo una giornata intensa, se lo meritava.
-Non saprei- mormorò Filippo, alzando le spalle – Forse un po’ troppo giovane?-.
Stavolta Giulia si girò verso di lui, un sopracciglio aggrottato e il cucchiaio ora vuoto fermo a mezz’aria.
-Perché, quanti anni ha?- chiese ancora, ora un po’ curiosa.
Osservò Filippo fare attenzione alla cottura delle bistecche, continuando a darle le spalle in favore del fornello:
-Credo sia del ’96- fece, non troppo convinto.
Giulia trattenne a stento una risata:
-Ha solo un anno meno di me- gli fece notare, abbassando lo sguardo sul piatto di Beatrice – Quindi stai dicendo che anche io sono molto giovane, vero?-.
Con sua somma gioia, sentì Filippo ridere.
-Certo, mi sembra ovvio-.
Era da un po’ di tempo che quel genere di conversazioni – leggere, fatte di risate e parole non troppo ragionate- si erano fatte rare. Giulia sorrise allegramente, quando tornò a girarsi verso la figlia, seduta sul suo seggiolone di fronte a lei: per una volta le sembrò che il buonumore di un tempo fosse tornato ad abitare anche nel loro appartamento.
Dopo l’ultimo boccone di Beatrice Giulia poté finalmente alzarsi, andando verso il lavandino per risciacquare il cucchiaio e il piatto usati. Sentì la propria pancia brontolare non appena inspirò il profumo emanato dalla carne che si stava cucinando.
-Comunque non importa l’età, mi interessa che lavori bene- Filippo alzò lo sguardo su di lei, anche se brevemente. Per una volta sembrava davvero rilassato, e la cosa non poté che far sentire anche Giulia particolarmente di buonumore.
-Dalle almeno il tempo di ambientarsi, poi potrai giudicarla- gli disse, dando un’ultima passata di spugna al piatto; richiuse il rubinetto subito dopo, ma fermandosi accanto a Filippo. Lo sentì ridacchiare debolmente, divertito:
-Sì, mamma- la prese in giro, guadagnandosi una pacca sulla spalla da parte di Giulia – Magari la prossima volta che passi te la presento. Non credo sia qui da molto, probabilmente conosce ancora poche persone-.
Era una proposta semplice, magari solamente buttata lì per parlare, ma Giulia si sentì ugualmente felice e rilassata come non si sentiva da tempo.
Sorrise a Filippo, prima di allungarsi verso di lui e lasciargli un veloce bacio a stampo all’angolo della bocca:
-Volentieri-.
 
*
 
It’s alright, even if it’s not us
Even if sadness erases me
Even if there are clouds
Even if I’m in an endless dream
Even if I’m endlessly crumpled
Even if my wings are torn
Even if some day, I’m not me anymore
It’s alright, only I am my own salvation
I won’t ever die in this walk
How you doin’? Im fine
My sky is clear
All pain, say goodbye
Goodbye

 
-E anche questo mi sembra tu lo sappia piuttosto bene-.
Alessio voltò pagina del pesante libro che teneva tra le mani, corrugando la fronte per la concentrazione che ci stava mettendo nello scovare qualche altro argomento con cui continuare la sua interrogazione. Pietro rimase a fissarlo, un sorrisetto divertito che gli increspava le labbra.
-Potrei sempre dimenticarmi tutto di colpo all’orale- mormorò, con cupa ironia – Sempre se ci arrivo-.
Allontanò da sé la tazzina di caffè ormai vuota, accarezzando l’idea di ordinare qualcos’altro di lì a poco. A quell’ora del pomeriggio, a metà Ottobre, il bar dove avevano preso posto lui ed Alessio più di un’ora prima non era troppo affollato: era il posto giusto dove studiare e ripassare, ordinando quel che preferivano.
-Ci arrivi, ci arrivi- lo corresse subito il biondo, lanciandogli un’occhiata di rimprovero – Sicuro di voler andare a Roma da solo?-.
Pietro annuì quasi subito, lasciandosi sfuggire un sorriso incerto:
-Spero solo di non perdermi, ma alla fine dei conti sono pochi giorni. Me la caverò-.
Quello di perdersi per Roma e non trovare la sede dove si sarebbero tenuti gli scritti – e, se fosse avvenuto il miracolo, anche gli orali- per l’esame di Stato da giornalista professionista era probabilmente la cosa che Pietro temeva di meno. Avrebbe anche potuto imparare a memoria tutto il manuale da studiare entro Dicembre, ma si sarebbe sentito insicuro fino all’ultimo secondo. Era quello che lo faceva stare sveglio la notte: la consapevolezza di voler raggiungere quel risultato, ma non essere affatto sicuro di riuscirci.
Alessio gli lanciò un’occhiata scettica, ma sembrò convincersi per non insistere oltre:
-Se lo dici tu, mi fiderò- mormorò, abbassando gli occhi di nuovo sul libro, sfogliando ancora qualche pagina.
-Come sei malfidente- Pietro rise appena, vagamente divertito dall’apprensione a tratti eccessiva che Alessio stava dimostrando nei suoi confronti.
Non era la prima volta che capitava nell’ultimo mese: da quando Pietro aveva deciso di tentare di passare l’esame per diventare finalmente un giornalista professionista, erano state tante le occasioni in cui Alessio si era offerto di dargli una mano per studiare gli argomenti probabili che ci sarebbero stati agli esami. Non era più così strano trovarsi da Pietro, quando entrambi tornavano dal lavoro, mangiare qualcosa insieme e poi ripassare per un paio d’ore. Era diventata una sorta di routine alla quale Pietro cominciava ad abituarsi, e dalla quale sarebbe stato difficile tornare allo stato precedente, una volta finiti gli esami. Casa sua era diventata molto più silenziosa e molto più vuota da quando Giada era andata a vivere altrove con i bambini, ormai già tre settimane prima, e la presenza di Alessio alleggeriva un po’ quella sensazione di solitudine che ancora aleggiava.
Ed era diventato normale anche intercettare gli sguardi d’apprensione che Alessio gli lanciava in svariati momenti, soprattutto quando credeva di non essere visto.
Alessio richiuse il libro lentamente, appoggiandolo sulla superficie del tavolo e tenendo gli occhi abbassati. Rilasciò un sospiro profondo, prima di schiarirsi la gola:
-È che … - si interruppe quasi subito, lanciando a Pietro una veloce occhiata esitante – A volte mi fai preoccupare-.
Pietro sgranò gli occhi, non tanto per la confessione, quanto per il fatto che Alessio avesse finalmente deciso di dirglielo esplicitamente.
-Oddio, suona così male detto così- Alessio scosse il capo con desolazione, come se si fosse ritrovato ad essere deluso da se stesso e dalla sua scelta di parole.
Pietro fu più veloce di lui, non lasciandogli il tempo di aggiungere altro:
-Ho capito cosa intendi- mormorò, sporgendosi appena verso l’altro – Ma sto bene ora. O almeno, paradossalmente mi sento meglio-.
Aveva capito perfettamente su cosa stesse andando a parare l’altro, ma non voleva essere lui il primo a tirare in ballo il discorso che, molto probabilmente, Alessio stesso avrebbe esplicitato di lì a poco. Era nell’aria, d’altro canto: le occhiate piene di preoccupazione che aveva cominciato a ricevere erano arrivate tutte dopo la notte di Settembre in cui Alessio era rimasto con lui – dopo la lettera.
Aspettò con calma una qualche risposta dell’altro, senza alcuna fretta o ansia: a Pietro sembrò quasi incredibile la tranquillità con cui stava vivendo nell’ultimo mese e mezzo.
-È che … - sospirò di nuovo, aspettando qualche secondo prima di alzare il viso e puntare lo sguardo su Pietro – Non hai mai parlato della lettera di Fernando, e mi stavo chiedendo solo se fosse davvero tutto a posto-.
Pietro non rimase affatto sorpreso: era esattamente quello che si aspettava che Alessio dicesse. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento di parlarne, ed in fondo andava bene così: Alessio non gli aveva mai fatto domande in proposito, come se quella lettera e la notte in cui Pietro l’aveva letta non fossero mai davvero esistite.
Però esistevano entrambe, nonostante il silenzio, e c’erano anche gli sguardi d’apprensione di Alessio, e probabilmente anche il bisogno di avere qualche rassicurazione. Pietro si ritrovò ad essere contento del fatto che, nonostante tutto, Alessio non avesse insistito nemmeno una volta per farlo parlare contro la sua volontà.
Aveva aspettato, fino al momento in cui sembrava non essere più riuscito a tenerselo più dentro.
-Credo che per quanto abbia fatto male leggerla mi abbia dato più risposte di quel che avrei pensato-.
Pietro abbassò gli occhi per qualche secondo, cercando di trovare le parole giuste per riuscire a spiegarsi al meglio. Era quasi sicuro del fatto che Alessio gli avrebbe creduto poco, o solo in parte: poteva scambiare quello più come un tentativo di fargli credere stesse andando tutto bene veramente, più che una constatazione della verità.
Per un attimo Pietro ripensò alla notte in cui aveva finalmente letto le parole che Fernando gli aveva lasciato, così crude e così vere da lacerargli il cuore. Era vero, era stato difficile venire a patti con la realtà delle cose nei giorni che erano seguiti a quella sera: era stato difficile metabolizzare tutto, capire tante situazioni che Fernando gli aveva tenuto nascoste.
Ma era anche come se, finalmente, tutti i pezzi del puzzle fossero andati nel giusto posto, incastrandosi tra loro armoniosamente: preferiva sapere la verità e capire cosa fosse accaduto, piuttosto che rimanere ancora all’oscuro di tutto e continuare a porsi sempre le stesse domande.
Leggere quella lettera era stato come venire accoltellato, passare un tempo in agonia nell’attesa della guarigione, e finalmente tornare a respirare a pieni polmoni.
-E mi ha aiutato- disse ancora Pietro, tornando con gli occhi su Alessio, di fronte a lui – Non che cancelli le cose brutte che sono successe, ma … Mi sento più in pace. È strano da dire, ma è così-.
Alessio lo guardò confuso per qualche secondo, prima di annuire lentamente. Sembrava ancora scettico, ma non disse comunque nulla.
Pietro si lasciò sfuggire un sorriso di sottecchi: era sicuro che, in qualunque luogo fosse ora Fernando, sarebbe stato felice di sentirlo parlare così.
-Te ne parlerò meglio in un altro momento- promise – Ma adesso è ora di voltare pagina, e direi che questo esame è capitato al momento giusto per farlo-.
Allungò le mani per prendere il libro pesante che Alessio teneva ancora tra le dita, mettendosi a sfogliarlo. Voleva solo trovare qualche altro argomento da ripassare, qualcosa di abbastanza ostico per il quale l’aiuto di Alessio sarebbe potuto tornare utile.
Si sentì osservato, mentre continuava a girare le pagine del manuale, gli occhi abbassati su di esse. Aspettò che fosse Alessio a parlare, senza cercare di mettergli fretta, curioso di sentire cosa avrebbe detto dopo le sue affermazioni.
Quando lo sentì sospirare rassegnato, Pietro si costrinse ad alzare il viso in direzione dell’altro, incuriosito.
-Hai proprio voglia di diventare un imbratta giornali, eh?- Alessio lo disse scuotendo il capo teatralmente, come se la sola idea che Pietro potesse diventare un giornalista fosse la tragedia più grande.
Pietro si allungò di nuovo verso di lui, lasciandogli uno schiaffo leggero sul braccio:
-Non portare sfiga, ancora non ho manco passato lo scritto- borbottò, fingendosi offeso. Fece fatica a nascondere il sorriso che premeva per nascergli sulle labbra: era una sensazione che non provava da tempo, che gli era mancata e che aveva deciso di abbracciare con serenità.
 
I'm feeling just fine, fine, fine
I'll yell it out myself
Casting a spell
On this repeating nightmare
I’m feeling just fine, fine, fine
I’ll keep telling myself
Even if I fall down again
I’m fine

I’m fine
 
*
 
Accelerò il passo, controllando ancora una volta l’ora sul display del cellulare e rendendosi conto, inevitabilmente, che era ancora in ritardo.
Giulia sospirò pesantemente, sentendosi accaldata nonostante quella sera di metà Ottobre piovesse e ci fosse particolarmente freddo. Arrivò all’entrata del Dipartimento di scienze ambientali, informatica e statistica sentendosi distrutta: dopo venti minuti a piedi, dalla stazione fino alla sua meta, con quel tempo e a correre per il ritardo si sentiva sul punto di finire accasciata a terra da un momento all’altro.
Si ripromise, alla prossima cena fuori casa, di tenere per sé l’auto e far andare Filippo in treno al lavoro.
Riprese fiato dopo alcuni minuti, prima di avviarsi con passo più deciso verso l’ala dove sapeva ci fossero gli uffici dei ricercatori. Non era mai stata molte volte in quel posto, ma riusciva ad orientarsi a sufficienza da non perdersi.
Dovette fare meno strada del previsto: appena girato l’angolo del corridoio che avrebbe dovuto percorrere per raggiungere l’ufficio di Filippo, lo vide già lì, a pochi metri da lei.
-Filippo!-.
Lo vide voltarsi nella sua direzione non appena lo chiamò. Giulia rallentò il passo, approfittandone per recuperare ancora un po’ di fiato e risistemarsi la borsa sulla spalla, dopo che le era scivolata quasi fino al gomito.
-Ehi!- Filippo ci mise solo qualche secondo per andarle incontro, camminando a passi lunghi – Stai bene? Hai una faccia … -.
Giulia si lasciò sfuggire un sorriso imbarazzato:
-Ho un po’ corso per venire qui. Le gemelle non volevano lasciarmi andare- spiegò, alzando le spalle.
Per permettersi una serata fuori da soli, una volta ogni tanto, era sempre un po’ un terno al lotto: Giulia non sapeva mai se al momento della separazione Caterina e Beatrice sarebbero state tranquille o sarebbero scoppiate a piangere.
Quella sera non le era servito nemmeno arrivare alla porta d’ingresso di Alessio ed Alice per scoprirlo: nel momento stesso in cui le aveva salutate, prima di uscire di nuovo, erano scoppiate in un pianto talmente disperato che a loro si erano uniti anche Christian e la piccola Federica. Giulia si era sentita così in colpa per lasciare quel caos ad Alessio ed Alice che aveva quasi accarezzato l’idea di non andarsene affatto.
-Erano agitate?- le chiese Filippo, la fronte aggrottata e l’aria vagamente apprensiva.
-Un po’, ma si tranquillizzeranno- cercò di rassicurarlo Giulia, cercando di rasserenare allo stesso tempo anche se stessa.
Filippo sembrò un po’ più calmo dopo quell’affermazione:
-Speriamo- disse, sospirando profondamente – Lo sai che certe … -.
-Stai andando?-.
Giulia diresse lo sguardo nella direzione da cui proveniva la voce femminile, e a lei sconosciuta, che aveva appena interrotto Filippo. A pochi passi da loro, poco più indietro, vi era una giovane ragazza bionda, dall’aria vagamente nordica, che Giulia era sicura di non aver mai visto. Non aveva una conoscenza approfondita dei colleghi di Filippo – ne conosceva pochi e solo superficialmente-, ma era sicura che lei fosse tra i pochissimi che non aveva mai incontrato prima.
Filippo, invece, doveva conoscerla abbastanza bene per non arrabbiarsi di quell’intromissione improvvisa: si girò verso la bionda, con un sorriso di cortesia stampato in viso:
-Sì, sto uscendo a cena. A proposito … - disse, interrompendosi un attimo e spostando velocemente lo sguardo da lei a Giulia – Questa è mia moglie Giulia. Lei è Linda, la nuova arrivata di cui ti ho accennato-.
Linda si avvicinò sorridendo, la mano destra già protesa verso Giulia quando ancora non erano sufficientemente vicine.
-Oh sì, giusto, ricordo- Giulia le strinse la mano, cordialmente – Molto piacere!-.
“Quindi è di lei che stava parlando Filippo settimane fa”.
Aveva effettivamente un’aria molto giovane, come le aveva anticipato lui: dimostrava anche meno anni di quelli che aveva. Giulia la trovò particolarmente avvenente, nel fisico asciutto e alto, vestita forse un po’ troppo elegantemente per il posto in cui si trovava.
-Piacere mio- Linda le riservò uno sguardo dolce, prima di indicare Giulia – Bel vestito, ti sta davvero bene-.
Per un attimo Giulia non ricordò nemmeno di essersi aperta il cappotto per non soffocare nel caldo, non appena aveva messo piede nel dipartimento. Si sentì arrossire appena, sotto l’attenzione dell’altra e di Filippo.
-Grazie- mormorò, lievemente in imbarazzo, abbassando lei stessa lo sguardo sul suo maglione lungo color verde scuro. Cercò di farsi venire in mente qualcosa di carino da dire per non sembrare scortese, pensando freneticamente mentre rialzava il viso.
-Filippo mi ha detto che ti sei appena trasferita da Torino. Come ti trovi qui?- chiese, sperando di non sembrare troppo invadente. Si chiese se fosse stata una buona mossa farle sapere che Filippo aveva parlato di lei con qualcun altro, ma cercò di allontanare quel dubbio.
-Bene! Ho un appartamento qui a Mestre, a due passi dal dipartimento- Linda continuò a sorridere in maniera quasi entusiasta – Per ora sembra iniziata nel modo giusto-.
Sembrava essere una ragazza dolce e con i piedi per terra, si ritrovò a pensare Giulia, a differenza di altri colleghi di Filippo che aveva conosciuto. Forse, per una buona volta, ne avrebbe preso almeno una in simpatia.
-Ti abituerai, credo sia più facile vivere qui piuttosto che a Venezia- commentò di rimando, e Linda annuì subito:
-Meno cambiamenti drastici, in effetti, ma ci sono abituata: passare dalla montagna alla città è stato più complicato-.
Giulia cercò di ricordare se Filippo avesse fatto riferimento al posto da cui proveniva Linda, ma pur sforzandosi non credeva che gliene avesse mai parlato. Gli lanciò una rapida occhiata: sembrava quasi sorpreso per la conversazione amichevole che stava nascendo tra loro due, ma non sembrava nemmeno interessato ad interromperla. Si stava limitando a guardarle in silenzio, forse troppo cortese per ricordare a Giulia che erano già in ritardo e li stava aspettando un tavolo prenotato ad un ristorante di Padova, e che per non arrivare troppo tardi avrebbero fatto meglio a correre verso l’auto il prima possibile.
-Di dove sei?- le chiese infine, incuriosita.
Linda abbassò gli occhi per un attimo, continuando comunque a sorridere nonostante la leggera ombra d’imbarazzo:
-Di un paesino sperduto tra le montagne del Trentino- ammise, annuendo – Decisamente diverso da Torino o da Venezia-.
-Immagino, però ti capisco: non dico di essere cresciuta tra le montagne, ma anche il mio era un paesino sperduto- rise appena Giulia, sentendosi davvero vicina all’altra donna per quel seppur piccolo particolare: ripensò per un attimo a Borgovento, a quanti anni fossero già passati da quando non viveva più lì e quanto tantissime altre cose erano cambiate da allora.
“All’epoca ero ancora una ragazzina che si preoccupava solo della scuola”.
Linda rise a sua volta, più distesa:
-Allora capisci bene la sensazione-.
Con la coda dell’occhio Giulia notò Filippo controllare l’ora dal suo cellulare; non la stupì affatto quando, dopo appena qualche secondo, lo sentì schiarirsi la gola per attirare la sua attenzione.
-Bene, direi che è ora di andare, prima di arrivare al ristorante troppo tardi- le disse, rivolgendo subito dopo un sorriso di scuse a Linda. Giulia annuì in accordo: rimanere a parlare del più e del meno era piacevole, ma non quando aveva un impegno già fissato da tempo e che non aveva minimamente intenzione di saltare.
Linda sembrò capire subito l’antifona: sorrise più ampiamente, facendo un passo indietro.
-Passate una buona serata- augurò loro, salutandoli con la mano.
-Anche tu- Giulia le sorrise di rimando. Anche Filippo si voltò un’ultima volta verso di lei:
-Ci vediamo lunedì!- la salutò velocemente.
Giulia allungò una mano verso quella di Filippo, intrecciando le loro dita, prima di avviarsi di nuovo verso l’uscita, la prospettiva di passare una serata insieme da soli che, finalmente, sembrava renderli entusiasti come in tempi per lei troppo lontani.
 
*
 
And I just can't keep livin' this way
So startin' today
I'm breakin' out of this cage
I'm standin' up, I'ma face my demons
I'm mannin' up, I'ma hold my ground
I've had enough, now I’m so fed up
Time to put my life back together right now
 
Accelerò il passo, infreddolito e affamato come non mai. L’unica cosa che gli interessava, in quel momento, era arrivare a casa il prima possibile, cambiarsi in abiti più comodi, mettere qualcosa sotto i denti e prendersi il resto della serata per rilassarsi.
Pietro si strinse di più la sciarpa attorno al collo, un brivido di gelo che gli scorse giù per la schiena, infastidendolo ancor di più. Era già calata la sera su Venezia: un’altra giornata di lavoro era passata.
Camminò velocemente lungo una calle poco illuminata, arrivando ad una piazzetta in quel momento già poco affollata. Non gli serviva nemmeno più alzare lo sguardo per riconoscere il percorso da fare, seguito già così tante volte da essere tracciato perfettamente nella sua memoria.
Sospirò, troppo stanco per accelerare il passo ed arrivare prima a casa: sentiva le gambe doloranti, e sperò fortemente che non fosse un qualche sintomo di un’influenza arrivata un po’ troppo in anticipo. L’ultima cosa che poteva permettersi era ammalarsi: non aveva alcuna intenzione di saltare il weekend in cui avrebbe avuto un po’ di tempo per passare da Giada e rivedere Giacomo e Giorgio, né poteva saltare giorni di studio.
Affondò ancora un po’ le mani nelle tasche della giacca pesante, mentre ripensava all’ultima volta in cui Alessio gli aveva dato una mano a ripassare: a Pietro era sembrato quasi di tornare ai tempi dell’università, in cui studiavano le stesse cose dagli stessi libri, troppo spesso insieme per studiare propriamente e con la concentrazione giusta.
“Ero preso da ben altro, quando studiavamo insieme all’epoca”.
Pietro si ritrovò quasi a sbuffare di sé, nel riportare alla mente certi ricordi così lontani. Si ritrovò ad ammettere che era decisamente meglio la situazione in cui si trovava ora: la compagnia e l’aiuto di Alessio erano piacevoli ed utili, forse ancor di più senza le distrazioni di un tempo.
-Volantino?-.
Pietro si bloccò di colpo sussultando, rischiando di scivolare malamente. Alzò gli occhi un attimo dopo, ritrovandosi di fronte ad una mano guantata e sconosciuta che teneva tra le dita un foglio piuttosto colorato – fin troppo colorato. Seguì la linea del braccio alzato quasi all’altezza del suo viso, arrivando alla faccia altrettanto sconosciuta di un ragazzo che non doveva avere più di vent’anni, lasciata solo in parte scoperta dalla sciarpa e dal berretto.
-Per cosa?- farfugliò Pietro, ancora sorpreso per l’interruzione. Non si era reso conto del tizio che stava facendo volantinaggio nella piazza: non aveva nemmeno alzato il viso nel camminare, né si era concentrato sui suoni attorno a lui. Doveva essere stato facile per l’altro intercettarlo e fermarlo apposta.
Il ragazzo gli sorrise affabile, facendo pentire quasi subito Pietro per la sua domanda:
-Concerto di Immanuel Casto al Celebrità- chiosò, mostrando meglio il volantino a Pietro – Non puoi assolutamente perdertelo, è un evento fottutissimamente incredibile-.
Pietro allungò la mano per afferrare il volantino che l’altro gli stava ancora porgendo, acuendo meglio lo sguardo per leggere: non aveva idea di chi fosse il cantante appena citato, né aveva mai sentito di quel locale prima di quel momento, ma l’uso ripetuto di colori vivaci e di bandiere arcobaleno nella grafica gli fece sorgere un dubbio crucciale.
-Ma … - Pietro si morse il labbro, alzando lo sguardo incerto verso il ragazzo e sentendosi un idiota per la domanda che stava per porgli – È un locale gay?-.
Se possibile, il sorriso dell’altro divenne ancora più ampio:
-LGBTQA+, per la precisione. Nessuno escluso, nel 2021 bisogna essere inclusivi- gli disse, annuendo al ritmo delle proprie parole.
Pietro corrugò la fronte, sentendosi terribilmente a disagio:
-Dovrei essere interessato?- replicò, molto meno minaccioso e molto più esitante di quanto avrebbe voluto essere.
L’occhiata che gli lanciò il tizio – quella tipica di chi era convinto di saperla lunga- gli fece intuire fin troppo bene di aver posto la domanda sbagliata.
-Secondo me sì- fece, particolarmente divertito di fronte al rossore improvviso di Pietro – Tienilo, magari ti torna utile-.
Prima che Pietro riuscisse ad articolare una qualsiasi risposta, la mascella bloccata e la bocca mezza aperta così come gli occhi sgranati, l’altro gli lanciò un ultimo sorriso divertito – a tratti impertinente-, prima di allontanarsi e raggiungere qualche altro passante.
Pietro rimase immobile ancora per un po’, paralizzato e cercando di processare appieno le parole che il ragazzo gli aveva rivolto.
“Ha insinuato che io sia ... ?”.
Sospirò, abbassando per un attimo il capo. Forse non aveva proprio pensato di lui come un uomo gay, ma di sicuro facente parte della comunità.
Si scoprì sorpreso – piacevolmente sorpreso- di non sentirsi poi così infastidito o a disagio al pensiero che qualcuno potesse averlo accostato alla sigla LGBT. In fin dei conti era anche quello un passo avanti, un passo per smettere di nascondersi e cercare inutili vie di fuga.
Pietro alzò la mano con cui teneva ancora stretto il volantino: era un evento che si sarebbe tenuto due giorni dopo. Il giorno in cui sarebbe andato nella nuova casa di Giada per passare un po’ di tempo con i suoi figli.
Si ritrovò a piegare ordinatamente il volantino, infilandolo nella tasca del cappotto.
Riprese a camminare, ripensando alle parole del ragazzo dei volantini: forse, in fondo, aveva ragione lui. Magari non avrebbe messo piede in quel locale quel weekend, ma l’idea di farlo in futuro non gli suonava poi così stonata come sarebbe stato anche solo sei mesi prima.








[1] BTS - "I'm fine”
[2] Eminem - "Not afraid"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Questo capitolo più breve (e, se vogliamo, di passaggio) inizia con un focus su Filippo, direttamente dal suo posto di lavoro. Conosciamo, infatti, una nuova collega appena arrivata, di cui parla anche con Giulia... E che, lei stessa, qualche tempo dopo, conosce a sua volta. Nuova amicizia in vista? Chissà quale sarà il ruolo di questo nuovo personaggio che abbiamo conosciuto in questo capitolo!
Ma Filippo e Giulia non sono i soli a fare la loro comparsa in questo aggiornamento, e come si suol dire: gli amici si vedono nel momento del bisogno! Alessio, infatti, si dimostra più che disponibile nell'aiutare Pietro con la preparazione del suo esame di Stato per diventare poi giornalista. Un'esame che, immaginiamo, comporti non poche ansie! 😖 Dietro la scelta di questo passo, però, possiamo dirlo, c'è la volontà di Pietro di dare una svolta alla sua vita, di cambiare il lavoro e inseguire, per una volta, i propri desideri e i propri sogni!
Sogni che non si limitano solo al campo lavorativo … Nel finale, mentre se ne sta tornando a casa dopo una giornata di lavoro, Pietro viene avvicinato da un ragazzo che sta facendo volantinaggio ... e che volantino gli ha lasciato! Secondo voi tornerà utile in futuro, visto che alla fine Pietro se l'è tenuto?
Intanto vi diamo appuntamento per mercoledì 20 settembre con un nuovo capitolo!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Ballad of the lonely hearts ***


CAPITOLO 11 - BALLAD OF THE LONELY HEARTS

 




“Va tutto bene”.
Aveva perso il conto delle volte in cui se l’era ripetuto nelle ultime settimane, un tentativo di autoconvincimento che forse non stava funzionando come dovuto.
Giulia lanciò occhiate guardinghe verso la camera da letto, dove Filippo si era rinchiuso già da una decina di minuti, in silenzio.
Si sforzò di lasciar perdere, puntando invece gli occhi in basso, sul tappeto colorato che copriva gran parte del pavimento del salotto, e dove se ne stavano Caterina e Beatrice, distratte dagli innumerevoli giochi sparsi attorno a loro. Osservò i loro sorrisi e ascoltò le loro risate allegre, i loro movimenti ancora un po’ impacciati: si ritrovò quasi ad invidiare la loro non consapevolezza derivata dal loro essere ancora troppo piccole per capire appieno.
Rialzò gli occhi pochi attimi dopo, portandosi una mano davanti alla bocca e cercando almeno un motivo per trattenersi dall’alzarsi e andare a controllare cosa stesse facendo Filippo ancora in camera.
“Va tutto bene” pensò ancora una volta, sempre meno convinta.
Aveva davvero pensato che le cose fossero decisamente migliorate negli ultimi mesi: Settembre ed Ottobre erano stati un po’ come essere tornati ai giorni d’oro, quelli in cui non si stancavano mai di stare in compagnia l’uno dell’altra, quelli in cui i litigi erano una rarità e non la regola.
Era bastato poco per spezzare quella sorta di tranquillità di vetro, e tornare all’assetto precedente – quello a cui Giulia faticava ancora ad abituarsi.
Le balenò per la mente il ricordo di una mattina qualsiasi di una settimana prima, la mattina in cui tutte le sue speranze si era frantumate sotto le grida trattenute sia da lei che da Filippo. Non ricordava nemmeno più il motivo per cui avevano litigato, tanto doveva essere stato banale.
Ricordava però la porta che Filippo aveva sbattuto dietro di sé quando poco dopo era uscito per andare al lavoro, e l’aria tesa che era rimasta anche la sera, quando entrambi erano rincasati.
Anche se in un paio di giorni il clima si era ridisteso, Giulia avvertiva ancora la sensazione di precarietà nell’aria: era come se qualcosa non stesse andando ancora, qualcosa che le sfuggiva e che non avrebbe saputo dire.
Sapeva solo che Filippo era tornato ad essere tranquillo, ma in maniera diversa. Continuare a ripetersi che, invece, stava andando tutto normalmente, non la stava affatto aiutando a convincersene per davvero.
Proprio quando si decise a riabbassare gli occhi e badare un po’ di più alle sue figlie – il senso di colpa sempre più forte a chiuderle la bocca dello stomaco-, Filippo uscì finalmente dalla stanza da letto.
Giulia tornò subito con lo sguardo su di lui: si era cambiato con una tuta pulita, e teneva in mano il borsone da palestra che usava sempre per andarci. Erano un paio di mesi che aveva iniziato a frequentarla con Alessio, e Giulia trovava che avesse avuto un buon effetto: Filippo tornava a casa decisamente più disteso, dopo aver lasciato andare lo stress allenandosi un paio d’ore.
Nonostante l’evidenza sulle intenzioni di Filippo, lo guardò comunque con fare confuso:
-Dove vai?- gli chiese, a mezza voce.
Sperò di non sentire la risposta che già si aspettava.
-In palestra- Filippo alzò gli occhi su di lei, poco prima di lasciare il borsone in un angolo della sala ed andare verso l’ingresso. Se ne tornò indietro poco dopo, un paio di scarpe in mano; andò a sedersi su una delle poltrone del salotto, chinandosi per poterle infilare.
-Ma sei andato anche l’altra sera- obiettò Giulia, cercando di non far trasparire troppo il proprio dissenso per non far scoppiare un’altra lite.
Beatrice si avvicinò ad una scarpa, iniziando a giocherellare con uno dei lacci ancora sciolti: Filippo le allontanò delicatamente la mano, sorridendole – un sorriso che Giulia trovò quasi forzato.
-Sì, ma penso mi farà bene sfogare un po’ di stress- mormorò infine, dopo aver allacciato anche la seconda scarpa.
Giulia trattenne a stento uno sbuffo: erano appena le cinque del pomeriggio, nell’unico giorno della settimana in cui Filippo doveva rimanere in ufficio solo la mattina. Aveva sperato, almeno per quella volta, di non vederlo fuggire lontano da quella casa e da lei.
-Viene anche Alessio?- gli chiese con tono vago.
Filippo si alzò dalla poltrona, guardandola fisso per qualche secondo, prima di annuire debolmente:
-Sì, gli ho chiesto un’ora fa se era libero-.
Parve quasi esitante nel risponderle, ma Giulia ci fece caso solo per pochi attimi. Preferì rannicchiarsi sul divano, il groppo in gola che le stava impedendo di rispondere a voce. Si limitò ad annuire a sua volta, lo sguardo diretto altrove.
Anche se non poteva vederlo dritto in faccia, riusciva a percepire su di sé tutto il peso dello sguardo che Filippo le stava rivolgendo. Lo sentì schiarirsi la gola pochi attimi dopo, con vaga incertezza.
-Che c’è?-.
Giulia sospirò a fondo, un leggero senso di sconfitta a renderle il petto pesante. Si costrinse a voltarsi verso Filippo, cercando di trattenere la rabbia che cominciava a montarle dentro:
-No, niente- mormorò, mordendosi il labbro nervosamente – È che stasera avevamo deciso di prenderci una serata tranquilla e magari guardare un film dopo aver messo le gemelle a letto-.
Forse Filippo se ne era scordato, ma lei no. Continuavano a tornarle in mente le parole che le aveva rivolto due giorni prima, quando a cena le aveva sorriso e le aveva assicurato che, nonostante il periodo stressante, per quel giovedì sera avrebbero potuto cenare con calma, e prendersi un’intera serata di relax.
Giulia ci aveva creduto così tanto che ora, alla realizzazione che ancora una volta Filippo sembrava essersene fregato, non riusciva nemmeno ad immaginare come sarebbe stato passare quella serata – quella stessa serata che doveva essere loro- da sola con le gemelle.
Non provava nemmeno più la voglia di piangere.
-Lo faremo domani- Filippo le si avvicinò, posandole una mano sul capo, accarezzandole i capelli. Il sorriso colpevole che le stava rivolgendo non alleviò la rabbia e la delusione di Giulia, nemmeno per un secondo.
Non si aspettava di vederlo cambiare idea all’ultimo: quello era un gesto che apparteneva al vecchio Filippo – quello con cui aveva condiviso anni di vita, quello che aveva sposato, quello con cui aveva deciso di dare vita ad altri due esseri umani-, ma non a quello che le stava di fronte ora, schivo e stanco e distante come non era mai stato.
Lo vide allontanarsi verso il borsone, controllare qualcosa all’interno e richiudere la cerniera subito dopo, dandole le spalle.
-Lunedì prossimo è il mio compleanno- Giulia lo disse con nonchalance, ma dentro di sé cominciava già a temere di essersi avventurata su quel terreno – Lo ricordi, vero?-.
Filippo tornò verso il centro del salotto, abbassandosi per poter salutare Caterina e Beatrice; prima di allungarsi verso una di loro, si girò ancora una volta verso Giulia, stavolta con un sorriso più convinto:
-Certo che me lo ricordo, Giulia- la rassicurò.
Giulia annuì di nuovo, privata di ogni parola che avrebbe voluto invece dire. Osservò ancora Filippo mentre si allungava prima sulla testa castana di Caterina, per poi spostarsi a quella più chiara di Beatrice, lasciando ad entrambe un bacio sui capelli ed un saluto sussurrato.
Si rialzò un po’ a fatica, gli occhi stavolta puntati su Giulia:
-E prima che tu me lo domandi: no, non ho preso impegni per quella sera- le disse, con un tono che probabilmente voleva essere confortante, ma che per Giulia lo fu solo in parte. Le risuonò più come essere obbligato a non prendere impegni per non far scoppiare un altro litigio, più che un vero desiderio di essere insieme.
Si trattenne anche stavolta, seguendo con sguardo sconfitto Filippo che raccoglieva da terra il borsone e si avviava verso l’ingresso per infilarsi una giacca pesante ed uscire. Giusto pochi secondi prima che sparisse dal suo campo visivo si voltò ancora una volta verso di lei:
-Senti, ci vediamo dopo- le disse, con lo stesso sorriso di muta colpevolezza sulle labbra – Non cucinare nulla, mi arrangio io quando torno. Se sei stanca non aspettarmi-.
Giulia mormorò un ok a malapena udibile, ma sufficiente per far sì che Filippo se ne andasse una volta per tutte.
Abbassò lo sguardo sulle figlie, ancora intente a giocare con il sorriso sulle labbra: non riuscì nemmeno a godersi fino in fondo quella scena tenera, né a sentirsi coinvolta appieno.
“Non va tutto bene”.
 
*
 
Si sedette con movimenti lenti, cercando di fare il meno rumore possibile per non svegliare Federica, appena caduta addormentata dopo lunghi minuti di pianto. Alessio se la sistemò meglio contro il petto, sorreggendole la nuca e aiutandola a trovare una posizione confortevole: tirò un sospiro di sollievo solo quando si rese conto di essere riuscito a sistemarsi comodamente sul divano del salotto e aver sistemato anche Federica, il tutto senza nemmeno rischiare di vanificare tutto il lavoro fatto per farla addormentare.
Tenne gli occhi bassi, sulla testa di capelli biondi di sua figlia, appoggiata contro di lui. Si rese conto di star sorridendo in pace, mentre le accarezzava delicatamente il capo, facendo attenzione e muovendo la mano in gesti regolari.
Sperò che Christian non si svegliasse proprio in quel momento: capitava spesso, nelle ultime settimane, che le sue nottate fossero disturbate da brutti sogni. Forse era solo il risultato di un periodo in cui, nonostante il bene che dimostrava di volerle, Christian soffriva particolarmente di gelosia per tutte le attenzioni rivolte alla sorella. Era un periodo che sarebbe passato, Alessio ne era perfettamente consapevole, ma rimaneva sempre difficile riuscire a bilanciare le attenzioni verso entrambi quando uno dei due bambini era una neonata di nemmeno sei mesi.
Cercò di non pensare al rischio che Christian si svegliasse e venisse a cercarlo proprio in salotto, ritrovandolo lì con Federica; tirò fuori a fatica il cellulare dalla tasca dei pantaloni della tuta, l’unico modo che aveva per poter passare un po’ di tempo senza morire di noia.
C’era un messaggio che Caterina gli aveva mandato mezz’ora prima e che ancora non aveva letto; lo aprì in un secondo, ritrovandosi a sorridere tra sé e sé quando si rese conto che non era un messaggio scritto, ma una foto: Caterina girata di fianco, il pancione ancora non troppo sporgente ma già visibile quando non c’erano strati di vestiti a nasconderlo.
Ripensò brevemente al momento in cui lei e Nicola gli avevano dato la notizia, rossi in viso per le risate di gioia trattenute, qualche settimana prima: Alessio ricordava solo di averli guardati in silenzio per un lungo minuto, chiedendosi se fosse tutto uno scherzo o se fossero davvero seri.
Lasciò il cellulare da parte, prendendo nota mentalmente di risponderle più tardi, dopo aver rimesso Federica nella sua culla. Era contento che Caterina che Nicola sembrassero più sereni, al contrario della prima gravidanza: anche se non l’avevano detto esplicitamente, riusciva a vedere la loro gioia in ogni parola spesa nel parlare del piccolo che aspettavano, e nei gesti che compivano – come il mandare foto della pancia sempre più visibile.
In fin dei conti, si ritrovò a pensare, più o meno era andata così anche per lui: forse per le circostanze in cui era nata, forse perché la seconda volta sai già a cosa vai incontro, con Federica era stato decisamente più facile che con Christian. In un certo senso si era ritrovato ad essere già abituato ad un ruolo che, prima dei suoi figli, aveva persino dubitato potesse mai appartenergli.
Lasciò da parte quei pensieri quando, qualche secondo dopo, udì dei passi felpati lungo il corridoio. Era troppo buio per riuscire a capire se fosse davvero Christian come stava temendo, ma in qualche attimo i timori di Alessio si dissolsero.
Alice comparve sulla soglia del salotto, vestita di una semplice camicia da notte sotto la vestaglia. Alla tenue luce della lampadina accesa in un angolo della stanza, ad Alessio parve di scorgere un’ombra di stanchezza sulla faccia dell’altra.
-Si è addormentata?- Alice parlò sottovoce, le mani che stringevano la vestaglia per tenerla chiusa il più possibile per non prendere troppo freddo.
-Sì, poco fa- le rispose Alessio, a voce talmente bassa che si chiese se Alice l’avrebbe udito.
Per un po’ nessuno dei due disse nulla; Alessio non riuscì a decifrare l’espressione che Alice doveva avere in viso, nascosta dalla penombra del salotto.
Passarono pochi minuti, prima che Alice spezzasse di nuovo il silenzio:
-Ti disturbo se mi metto qui per un po’?- disse, camminando lentamente verso il divano prima ancora di avere una risposta, come se si aspettasse già che Alessio non glielo avrebbe negato.
-No, ovvio- fece lui, con naturalezza e di nuovo a voce bassissima – Ma parla piano, che se si risveglia potrei anche prendermi male-.
Alice rise appena, ed era esattamente l’effetto in cui Alessio aveva sperato: non era stato sicuro di aver trasmesso l’ironia nella sua voce fino a quando non aveva avuto la reazione divertita dell’altra.
-Bisbiglierò a malapena- sussurrò Alice, faticando a smorzare la propria risata, l’accento inglese particolarmente accentuato dalla stanchezza che doveva provare.
Alessio la seguì nel ridere, sperando che il movimento del suo petto non svegliasse Federica. Lasciò cadere il capo all’indietro, fino a quando non trovò lo schienale morbido del divano. Ci si appoggiò chiudendo gli occhi, sognando il momento in cui sarebbe potuto andare finalmente a stendersi a letto per il meritato riposo.
-Ricordo male o domani esci con Sergio?- buttò lì la domanda con nonchalance, sapendo però che Alice sarebbe arrossita inevitabilmente. Succedeva ogni volta – ogni rara volta- che uno di loro nominava l’uomo: era una reazione che faceva ridere Alessio ogni volta, a tratti sorpreso per l’imbarazzo che investiva Alice quando veniva nominata la persona di cui era innamorata.
La sentì sospirare pesantemente, schioccando le labbra:
-Me l’aveva proposto, ma non ho ancora deciso … - iniziò a dire, esitante – Probabilmente non andrò-.
Alessio riaprì gli occhi di scatto, spalancandoli nella sua direzione:
-Perché no?-.
Era stupito dall’affermazione di Alice, e non aveva alcuna intenzione di nasconderlo. Si voltò verso di lei, e nonostante l’oscurità della stanza, riuscì a distinguere i contorni delle labbra dell’altra piegati un sorriso più malinconico di quel che si sarebbe aspettato.
-Vorresti rimanere da solo a casa con due bambini piccoli?- gli chiese esitante, il capo poggiato a sua volta sullo schienale del divano.
Alessio sapeva perfettamente da dove provenisse quel dubbio: in fin dei conti Alice doveva ricordare ancora bene quanto difficili erano stati i mesi prima e dopo la nascita di Christian. Forse, almeno in parte, temeva che lo stesso potesse ripetersi anche con Federica, nonostante le cose stessero andando in maniera completamente diversa. Non riusciva a incolparla per quell’insicurezza.
-È solo per una sera- mormorò a mezza voce – Credo sopravvivrò-.
Aveva cercato di dirlo nel modo più leggero che gli era stato possibile, sperando di far capire ad Alice che, se uscire era ciò che voleva, non sarebbe stato un problema.
Quando la sentì sospirare a fondo, però, Alessio ebbe l’impressione che non fosse ancora convinta.
-Sì, ma … - Alice lasciò cadere la frase, senza continuarla. Si strinse le gambe contro il busto, raggomitolandosi sul divano in una posizione che la faceva sembrare minuscola. Alessio la guardò più preoccupato di quel che avrebbe immaginato:
-Ma?- cercò di incalzarla. Quando dopo alcuni secondi Alice non aveva ancora aperto bocca, proseguì di nuovo:
-Ascolta, te l’ho già detto: non c’è niente di male a rifarsi una vita-.
Sospirò a sua volta a fondo, sperando di aver trovato le parole più giuste per esprimere ciò che voleva trasmetterle.
Sapeva cosa ronzava per la mente di Alice da sei mesi – ne avevano parlato a lungo, dopo la nascita di Federica, quando un po’ alla volta avevano ritrovato un equilibrio tra di loro che era mancato per mesi-, e sapeva anche quanto le potesse bastare anche solo un’ultima spinta per uscire dal guscio in cui si era barricata.
-Non stiamo più insieme da un anno, e dovresti davvero almeno provare ad uscire con lui- sussurrò ancora, puntando gli occhi sulla figura di Alice.
Sperò di farle capire che non si sarebbe risentito dal vederla uscire con qualcun altro. Sapeva perfettamente, esattamente come lei, che tra loro le cose erano finite da fin troppo tempo: non sarebbe servito a nulla lasciarsi andare ad una qualche gelosia che non aveva ragione d’esistere.
-Ho paura che sia un errore-.
Alice abbassò il capo subito dopo aver sussurrato con incertezza quelle parole. Le aveva dette con la voce tremante, quasi sembrasse le fosse costato molto dirle ad alta voce.
-A me sembra che ci tenga- mormorò Alessio.
“Dovresti ricordare che Sergio non è me”.
Si morse il labbro inferiore, tenendo per sé quell’ultima considerazione. Prima o poi l’avrebbe realizzato anche Alice, o forse l’aveva anche già fatto e doveva solo avere il coraggio di ammetterlo a se stessa.
-Non ti darebbe fastidio pensare che preferisca uscire con un altro uomo, lasciando te da solo a casa con i bambini?- gli chiese ancora con la stessa esitazione nella voce.
L’Alice che ora aveva di fronte gli ricordava la stessa tornata a casa dopo essersi ripresa dal parto tragico di sei mesi prima: esitante sul come porsi nei suoi confronti, vulnerabile, ed ancora incerta su come sarebbero state le cose da quel momento in poi.
Alessio pensò che comportarsi come all’epoca – con garbo, una delicatezza che aveva ritrovato in sé sepolta chissà dove e riscoperta dopo troppo tempo- fosse l’unico modo per renderla meno spaventata.
-No, sul serio. Dovresti accettare-.
Tenendo il capo di Federica con una mano, cercò di raggiungere Alice con quella libera: riuscì ad appoggiarla sul suo ginocchio, ed anche se poteva apparire un gesto improvviso ed insolito, non la scostò.
-Non ha senso pensare di dover rimanere single a vita solo perché sei già una madre, o perché con me è andata male- sussurrò ancora, sorridendo nonostante sapesse che Alice l’avrebbe potuto a malapena notare – Meriti che qualcuno ti sappia apprezzare meglio di quanto abbia fatto io finora-.
Quasi si sorprese di sentirsi dire quelle parole a voce alta. Era passato poco più di anno da quando si erano lasciati, da quando Alice gli aveva detto di essersi innamorata di un altro, ed era sempre strano pensare che la persona di un anno prima – piena di astio e timori- sembrava così lontana dal se stesso di quel momento.
Alessio sorrise ancora, stavolta anche per sé.
-Quindi fatti un favore, ed accetta di uscire con lui- concluse con tono perentorio. Ebbe l’effetto voluto: sentì Alice ridere piano, con sincerità.
-Ci penserò- mormorò lei di rimando. Anche se era solo una sua sensazione, Alessio credette di sentirla più rincuorata.
-Non devi pensare, devi accettare- la corresse prontamente, trattenendo a stento una risata.
Passò qualche secondo di silenzio, prima di avvertire il calore delle dita di Alice stringersi intorno al suo palmo, ancora appoggiato sul suo ginocchio.
-Grazie per il supporto- Alice sospirò a fondo, ed anche se non poteva vederla bene, Alessio sapeva che stava sorridendo a sua volta – Mi mancavano queste chiacchierate-.
Alessio annuì piano, conscio di quanto fosse lo stesso per lui.
Forse non erano mai funzionati davvero come amanti, e tantomeno sarebbero potuti funzionare in futuro in quel ruolo – ma essere amico di Alice, una spalla su cui potersi appoggiare nelle difficoltà, era uno scenario che da un po’ di tempo gli riusciva facile immaginare.
-Anche a me-.
 
*
 
Things get damaged, things get broken
I thought we'd manage
But words left unspoken left us so brittle
There was so little left to give

 
Quasi non si accorse di essere rimasto a ticchettare nervosamente con il piede a terra per diversi minuti, la sottile sensazione d’ansia che cominciava a scorrergli nelle vene.
Pietro lasciò vagare per un po’ il proprio sguardo sulla gente che, in continuazione, entrava ed usciva dalla stazione di Santa Lucia. Per essere martedì pomeriggio il movimento di persone era frenetico, quasi caotico.
Gli venne l’improvvisa voglia di fumare una sigaretta, l’ultima che avrebbe potuto fumare prima di quasi quattro ore di viaggio fino a Roma, ma si trattenne: ormai dovevano mancare pochi minuti all’arrivo di Giada con i bambini.
Si guardò intorno ancora una volta, in attesa, sperando di dover attendere ancora poco. Anche se il buio non era ancora calato, cominciava a fare freddo.
Gli ci vollero solo pochi altri attimi prima di individuare coloro che stava aspettando: vide Giada dalla distanza, quando ancora mancavano diversi metri per raggiungerlo. Pietro non perse tempo, decidendo di andarle incontro: trascinò con sé il piccolo trolley con cui sarebbe dovuto partire, scendendo le gradinate davanti alla stazione.
Giada sembrava non essersi ancora accorta della sua presenza sempre più vicina, troppo intenta a dire qualcosa all’indirizzo di Giacomo – aggrappato saldamente al manubrio del passeggino di Giorgio-, il viso abbassato sul figlio primogenito e il passo lento.
A Pietro bastarono pochi lunghi passi per arrivare di fronte a lei, ma prima che potesse anche solo accennare a dire qualcosa, fu Giacomo a precederlo: gli rivolse un sorriso ancora perlopiù sdentato, ignorando quel che gli stava dicendo sua madre per esclamare un “Ciao, papà!” nella direzione di Pietro.
Giada alzò a sua volta il viso un attimo dopo, lanciandogli un cenno di saluto dopo essersi accorta di lui a pochi metri di distanza.
Quando Pietro annullò del tutto lo spazio, non attese oltre prima di chinarsi di fronte al passeggino, per essere alla stessa altezza dei figli. Giacomo si sfilò velocemente da Giada, correndo con passi ancora vagamente incerti verso Pietro, finendo dritto tra le sue braccia.
-Ciao, piccoli- Pietro allungò una mano verso il viso addormentato di Giorgio, avvolto nel cappottino e ben coperto da un’ulteriore coperta di lana – Come state?-.
Giacomo alzò il viso verso di lui, ancora sorridente:
-Bene!- disse, con una pronuncia piuttosto precisa. Stava facendo progressi incredibili nell’imparare a parlare, Pietro se ne stava rendendo conto sempre di più: nonostante non avesse ancora tre anni, riusciva ad esprimersi molto meglio e con molte più parole imparate rispetto a molti suoi coetanei.
Pietro si ritrovò a pensare, con una certa soddisfazione, che se Giacomo avesse continuato a mostrare quella sorta di talento un giorno avrebbe anche potuto seguire le sue orme.
-Bene? Sì?- replicò in risposta al figlio, scompigliandoli i capelli castani e facendolo ridere. Pietro sollevò il viso verso Giada: era rimasta in silenzio fino a quel momento, forse tenendosi un po’ in disparte per non rovinare quel momento di saluto tra lui e i bambini. Sembrava stanca, a giudicare dalle occhiaie violacee, ma mostrava sempre la stessa attenzione nell’aspetto, con i capelli biondi sempre curati e gli occhi truccati leggermente.
-Tu come stai?- le chiese, risollevandosi e tenendo una mano di Giacomo.
Giada gli rivolse un sorriso scettico:
-Non c’è male, direi- rispose, forse minimizzando – Almeno essere in maternità vuol dire avere il tempo di sistemare la casa mentre loro dormono-.
Pietro annuì, comprensivo: Giada si era trasferita da pochi mesi, nella stessa zona in cui viveva prima della loro convivenza, ma faticava ancora a trovare il tempo per assemblare mobili e arredare come avrebbe voluto. D’altra parte, non dubitava fosse piuttosto difficile organizzare il proprio tempo con due bambini piccoli a cui badare.
-Hai bisogno di aiuto per qualcosa?- le chiese, gentilmente. Anche se ogni weekend era lui a tenere Giacomo e Giorgio, il dubbio che a Giada servisse comunque una mano non si era mai del tutto dissipato.
Lei ricambiò lo sguardo per qualche secondo rimanendo in silenzio, prima di scuotere debolmente il capo:
-No, credo di potercela fare-.
C’era forse un po’ di orgoglio nella sua voce, come a voler sottintendere che fosse in grado di cavarsela benissimo da sola. Pietro era sicuro che Giada sarebbe sempre riuscita a badare a se stessa e ai bambini nel modo migliore, ma non poté fare a meno di chiedersi se il suo diniego fosse in qualche modo dovuto più al non voler apparire debole, che non alla mancanza di bisogno di aiuto effettivo.
Decise che non valeva la pena insistere oltre.
-Nel caso ti servisse lo sai che puoi chiamarmi- le ricordò, cercando di sorriderle.
Anche se a volte avvertiva tensione tra loro, Pietro era sicuro che le cose tra lui e Giada si stessero davvero risollevando. Non sarebbero mai tornate come prima – e non riusciva a non pensare che fosse un bene per entrambi-, ma perlomeno riuscivano a parlare quasi amichevolmente. Erano sforzi che stavano facendo principalmente per Giacomo e Giorgio, per dar loro una sorta di quotidiana serenità che non facesse troppo pesare il grande cambiamento che c’era già stato.
C’erano volte in cui vedeva qualcosa di diverso in Giacomo, da quando non vivevano più insieme. Era forse un velo di malinconia a cui nemmeno lui riusciva a dare ancora un significato profondo, per l’età ancora troppo giovane e la mancanza di situazioni con cui confrontare quel dolore. Eppure c’era, e Pietro non aveva fatto altro che ripromettersi di fare in modo di ridurlo al minimo, restando presente il più possibile.
 
Angels with silver wings
Shouldn't know suffering
I wish I could take the pain for you
 
-Grazie. Lo terrò a mente- la voce calma di Giada interruppe quel flusso di pensieri che avevano cominciato a riempirgli la mente – Sei agitato?-.
Doveva aver scambiato la sua espressione seria per ansia riguardo l’esame di Stato. Pietro scrollò le spalle:
-Ancora no- cercò di tranquillizzarla, anche se in realtà un po’ di agitazione l’aveva eccome – Spero solo di non perdermi per Roma-.
Lo disse quasi ridendo, forse conscio fino in fondo solo in quel momento del viaggio che era in procinto di intraprendere. Non aveva mai messo piede a Roma, anche se era sempre stato curioso di visitarla, prima o poi; di certo non avrebbe mai pensato di andarci per la prima volta per qualcosa legato ad un possibile futuro lavoro. Si era ripromesso, nei giorni precedenti, di andarsene in giro per la città il più possibile, nel poco tempo libero che avrebbe avuto nei giorni in cui si sarebbe fermato.
Giada gli lanciò un sorriso appena accennato, vagamente imbarazzato:
-Ce la puoi fare. Cerca di non perdere la concentrazione-.
-Spero di no- mormorò Pietro in risposta.
Ripensò, per un attimo, a tutti i pomeriggi e le sere passate a studiare, a volte da solo ed altre con Alessio. C’erano stati momenti in cui si era chiesto se davvero potesse valer la pena fare quel salto nel vuoto, se cambiare lavoro a ventisette anni non fosse troppo rischioso.
Non aveva mai espresso a voce alta quei timori, troppo impaurito dal renderli troppo reali, ma in alcuni momenti era come se persino Alessio riuscisse a leggerglieli in faccia. Non era mai rimasto stupito dai suoi incoraggiamenti nel seguire quello che era il lavoro che avrebbe voluto fare per il resto della vita.
-Torni a fine settimana, vero?-.
Pietro sussultò appena, riscosso dalla voce di Giada che lo aveva appena riportato alla realtà. Sentì Giacomo aggrapparsi ancor più saldamente alla sua gamba, quasi avesse intuito la sua imminente partenza per qualche giorno.
-Sì, sabato mattina- confermò Pietro, con voce incerta – Se tutto va bene-.
Pietro si morse il labbro inferiore, un po’ in imbarazzo: non era sua intenzione far trasparire la sua agitazione in quel momento, non con Giada e i bambini lì con lui, ma non ci era riuscito.
Quei pochi giorni che avrebbe passato a Roma potevano cambiargli la vita, in modo fin troppo letterale: era fin troppo certo che nulla sarebbe potuto andar bene fino in fondo, nonostante tutti gli sforzi compiuti.
Alzò gli occhi quando avvertì la mano di Giada essersi posata sulla sua spalla. Per un attimo rimase immobile, sorpreso: non ricordava nemmeno quando era stata l’ultima volta che c’era stato un contatto fisico tra di loro, anche casuale. Giada gli si era avvicinata giusto quel che bastava per allungare il braccio; gli rivolse un altro sorriso leggero, prima di allontanarsi di nuovo.
-Andrà tutto bene- mormorò, incoraggiante.
Pietro annuì, già meno imbarazzato rispetto a qualche secondo prima: forse, in fondo, le cose stavano pian piano tornando ad andare per il verso giusto.
Prima di poter dire qualsiasi cosa, fu di nuovo Giada a parlare:
-In effetti se non hai nulla da fare nel prossimo weekend, potresti venire a darmi una mano per montare un armadio. Così puoi vedere anche i bambini- gli propose, con semplicità.
Stavolta anche Pietro si ritrovò a sorridere, senza pensarci oltre:
-Va bene-.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappotto, sospirando pesantemente: non mancava molto alla partenza. Doveva cominciare ad avviarsi alla stazione e al binario, prima di rischiare di fare troppo tardi.
-Ora devo andare, il treno parte tra poco- annunciò con la voce carica di agitazione, riponendo il cellulare e sentendo già il proprio cuore stringersi all’idea di salutare Giacomo e Giorgio.
-Meglio che tu non lo perda- convenne Giada, annuendo.
Pietro non perse altro tempo: piegò ancora le gambe, tornando all’altezza di Giacomo, in piedi ora di fronte a lui, e a quella di Giorgio, ancora piuttosto assonnato nel passeggino. Allungò un braccio verso il suo figlio più piccolo, arrivando a stringergli una mano tra le sue dita; Giacomo, invece, agì di sua volontà, fiondandosi ad abbracciarlo di nuovo, intuendo che il momento dei saluti era giunto.
-Fate i bravi con la mamma, ok?- Pietro lo mormorò a bassa voce, stringendo il corpo delicato e ancora minuscolo di suo figlio – Ci vediamo presto-.
Era una promessa alla quale teneva più di qualsiasi altra cosa: per un attimo non pensò nemmeno più a Roma, all’esame per diventare giornalista, a nient’altro se non al giorno in cui, in quella stessa settimana, avrebbe potuto rivederli e abbracciarli ancora.
 
I pray you learn to trust
Have faith in both of us
And keep room in your hearts for two*







 
*il copyright della canzone (Depeche Mode - "Precious") appartiene esclusivamente al cantante e ai suoi autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Con un salto temporale di qualche settimana arriviamo al capitolo 11, con un inizio tutto incentrata su Giulia e Filippo: l'atmosfera in casa Pagano-Barbieri non sembra essere del tutto rilassata... Giulia, infatti, sebbene cerchi di convincersi del contrario, ha una sensazione d'inquietudine. Che sia solo una sua impressione o Filippo sta davvero nascondendo qualcosa?
Nel focus successivo, invece,  indaghiamo più da vicino le dinamiche di Alessio e Alice. I due, con toni civili e amichevoli, parlano della possibilità di Alice di approfondire la conoscenza di Sergio. Alessio, a tal proposito, non pone alcun ostacolo, ostacolo che nasce invece da Alice stessa, che un po'si sente in colpa verso l'amico e padre dei suoi figli. Alla fine Alice si farà convincere ed accetterà questo appuntamento, o Sergio si beccherà un bel due di picche?
L'ultima scena del capitolo vede poi protagonisti Pietro e la sua famiglia: Giada, infatti, lo ha raggiunto con i loro figli per salutarlo in vista della partenza per Roma. Insomma, sembra che nonostante momenti parecchio tesi e momenti di certo non facili, sia Pietro che Giada sono disposti a cercare di andare il più d'accordo possibile per il bene dei loro bambini. Non possiamo far altro che sperare per loro che le cose continuino a funzionare, perchè ovviamente il bene dei più piccoli viene al primo posto!
Concludiamo così anche questo capitolo di passaggio, che ci ha dato alcuni scorci sulla vita dei nostri protagonisti ... Rimarrà tutto ancora così calmo anche nei prossimi aggiornamenti? Chissà!
Ci rivediamo mercoledì 4 ottobre con un nuovo appuntamento :)
Kiara & Greyjoy
 
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Hurricane ***


CAPITOLO 12 - HURRICANE

 

 
Crash, crash, burn, let it all burn
This hurricane's chasing us all underground [1]

 
 
Sospirò seccato quando si rese conto che non era arrivato alcun messaggio di risposta. Nicola scosse appena il capo, rimettendo il cellulare nella tasca della giacca pesante, chiedendosi per l’ennesima volta dove fosse finito Filippo.
Rimase fermo qualche secondo, indeciso sul da farsi: in ufficio aveva finito prima del previsto, ed avviarsi subito al locale dove si sarebbero dovuti incontrare per cenare e passare un po’ di ore di svago sarebbe significato essere fin troppo in anticipo sulla tabella di marcia. Non aveva alcuna intenzione di aspettare più di un’ora da solo con le mani in mano, senza nemmeno una conferma da parte di Filippo sulla sua puntualità.
Nicola sospirò ancora pesantemente, prima di aprire finalmente la portiera dell’auto e sistemarsi sul sedile del guidatore. Erano quasi le sei e mezza, e gli ci sarebbero voluti meno di dieci minuti per girare per le strade di Mestre e raggiungere il Dipartimento di scienze ambientali, informatica e statistica; avrebbe potuto sempre raggiungere Filippo in ufficio, ed aspettare quei pochi minuti che sarebbero rimasti fino alla fine del suo turno.
Guidò con calma, senza la fretta tipica di chi era in ritardo o con i tempi stretti. Arrivò a parcheggiare vicino al Dipartimento in pochi minuti, le strade a quell’ora della sera ancora prevalentemente deserte.
Rimase in auto qualche minuto in più, recuperando il cellulare e controllando l’arrivo di messaggi: Filippo latitava ancora, il messaggio che gli aveva inviato Nicola ancora da visualizzare. Sbuffò di nuovo, rassegnandosi all’idea che gli avrebbe fatto una sorpresa comparendo direttamente nel suo ufficio, di lì a poco.
Uscì dalla chat di Filippo, leggendo appena più in basso il nome di Caterina su un’altra: almeno lei non aveva tardato a rispondergli, quando poco prima di uscire dal lavoro le aveva chiesto se stesse bene. Per un attimo si sentì in colpa per non essere rimasto a casa con lei e Francesco; aveva accettato di uscire quella sera solo perché Filippo aveva insistito a lungo, ricordandogli quanto fosse passato dall’ultima volta in cui avevano bevuto qualcosa insieme solo loro due. Cominciava quasi a pentirsene, visto che colui che aveva proposto quell’uscita era anche la stessa persona che ora lo stava ignorando del tutto.
Tornò a pensare a Caterina, al suo pancione sempre più visibile sotto i vestiti invernali. Avevano scoperto da poco che stavano aspettando una bambina: una notizia che stavano ancora aspettando di dare a Francesco, forse un po’ troppo speranzoso di avere invece un fratello. Cercò invece di allontanare il pensiero di alcuni esami più approfonditi che Caterina avrebbe dovuto fare di lì a pochi giorni, come l’amniocentesi che lo stava facendo sentire più in ansia di quel che avrebbe voluto. Sperava solo che non ci fosse null’altro da scoprire, nulla di negativo o di dannoso per lei e per la bambina che avrebbero avuto.
Decise di distrarsi scendendo infine dall’auto, dirigendosi a passo sicuro verso l’entrata del Dipartimento. Non era stato spesso lì, non di recente, ma ricordava abbastanza bene quale fosse la strada da seguire per arrivare all’ufficio di Filippo.
C’era poca gente in giro per i corridoi, illuminati dalla luce bianca delle lampade al neon che scendevano dal soffitto, in netto contrasto con l’oscurità della sera che si intravedeva fuori dalle grandi finestre. Nicola continuò ad avanzare con passo sicuro, rimanendo fermo per qualche attimo in più ad un bivio, l’esitazione che lo aveva bloccato nel dubbio di aver preso la giusta strada.
Quando riconobbe il corridoio dove si trovava l’ufficio di Filippo tirò un sospiro di sollievo, rallentando il passo. Mancavano pochi metri alla porta verso cui si stava dirigendo.
In quel corridoio c’era ancora meno gente e ancor più silenzio delle altre aree dell’edificio. Sembrava quasi che la maggior parte dei ricercatori avesse già lasciato gli uffici, quando le sei erano passate da poco.
Arrivò di fronte alla porta in alcuni secondi, chiedendosi se, essendo già chiusa, non indicasse l’assenza di Filippo. Avvicinò il volto alla porta, la fronte corrugata in dubbio: gli era parso di captare dei rumori, forse delle voci soffocate provenire dall’interno della stanza. Non riuscì a distinguere la voce di Filippo, anche se non c’erano dubbi che quello fosse proprio il suo ufficio: la targhetta appesa alla porta, recante il suo nome, era una certezza più di qualsiasi altra cosa.
Nicola rimase incerto sul da farsi: gli sarebbe bastato bussare ed aspettare una qualche risposta per poter entrare e scoprire se Filippo era ancora lì, o se ci fosse qualcun altro lì dentro.
Fu piuttosto improvviso, qualche secondo dopo, quando dall’interno udì provenire un ansimo piuttosto sonoro, la voce inequivocabilmente di Filippo. Nicola si ritrovò a sgranare gli occhi: per quel che ne sapeva, sarebbe potuto essere un ansimare per il dolore, forse dovuto ad un qualche incidente.
Raggiunse la maniglia d’istinto, senza pensarci troppo su, un gesto talmente inconsueto per lui che quasi si sorprese della velocità con cui si era ritrovato ad agire.
Quando aprì la porta, osservando la scena che gli si stava presentando davanti con occhi increduli, lo stomaco sottosopra e la nausea che cominciava a salire, seppe che, ancora una volta, il suo istinto aveva sbagliato.
 
*
 
-Hai perso completamente il senno-.
Non riusciva a ricordare un precedente in cui Nicola l’aveva osservato con quello sguardo pieno di disprezzo, come se davanti agli occhi non ci fosse un amico che conosceva dall’infanzia, ma la persona che più lo disgustava al mondo. Specchiarsi nelle iridi azzurre di Nicola, fredde e colleriche, era come rivedere un’immagine ripugnante di sé.
-Ma chi cazzo credi di essere?-.
La voce di Nicola era bassa, controllata, ma non fino al punto da non lasciare trasparire almeno in parte la rabbia che doveva animarlo in quel momento. Filippo si morse il labbro inferiore, chiedendosi quando sarebbe finita quella tortura.
-Un ragazzino in tempesta ormonale? Un adolescente che si può permettere di fare queste cazzate?- Nicola lo guardò fisso come se si aspettasse una risposta, che però non venne – No, sei un uomo adulto, sposato e con due figlie-.
“Come se non me lo ricordassi già da solo”.
Abbassò lo sguardo, sperando che Nicola avesse finito di parlargli in quel modo. Ora che ci pensava, forse, non era mai davvero capitato di sentirlo rivolgergli parole tanto dure: non ce n’era mai stato bisogno, in tutti quegli anni che si conoscevano. Ora, invece, Nicola lo stava guardando come se facesse persino fatica a sopportare la sua sola presenza.
-Non credevo potessi essere così squallido- lo sentì sibilare, la voce atona che rendeva ancor più taglienti le parole.
Filippo si lasciò sfuggire un sospiro profondo, prima di tornare ad alzare il capo:
-Hai finito?- gli chiese, quasi sperando di fargli pena per convincerlo a lasciar perdere.
Nicola lo guardò con gelo, molto più freddamente di come non aveva mai fatto. Per un attimo Filippo provò quasi paura di quello che considerava da sempre il suo migliore amico: temeva, almeno in parte, di sentirgli dire altri rimproveri affilati come quelli di pochi secondi prima, e temeva anche di non poterne reggere altri.
Non che si aspettasse niente di diverso dopo quello che era successo; era solo piuttosto scosso da quella versione inedita di Nicola, un Nicola che doveva sentirsi in un certo senso tradito a sua volta da quel che gli si era presentato davanti agli occhi.
-In realtà no, ma se ti dicessi tutto quello che penso potresti anche rischiare di sentirti un minimo in colpa-.
Il sarcasmo che aveva venato la voce e le parole di Nicola non aiutò a diminuirne il peso. Non aveva minimamente alzato la voce, cosa che sarebbe passata inosservata dai passanti che ogni tanto li affiancavano in quella strada di Mestre.
-E immagino che non sia qualcosa che vuoi affrontare, non ancora- Nicola proseguì tenendolo ancora fissato con occhi che esprimevano solo rabbia e disprezzo – Altrimenti ti saresti già fermato, qualunque cazzata tu stia facendo-.
Filippo si strinse nelle spalle, cercando di reprimere la voglia di urlare. Era ovvio che Nicola non capiva, che non avrebbe mai capito neanche se avesse provato a spiegarglielo.
Era lo stesso motivo per cui, quasi un mese prima, si era rifiutato da andare da lui o qualsiasi altro dei suoi amici per sfogarsi e liberarsi dei pesi che si sentiva addosso costantemente.
-Non è come pensi tu- mormorò, la sua voce che si perdeva nel paesaggio gelido e buio della strada ormai semideserta – Non sai niente di cosa sta succedendo-.
 


-Non è possibile-.
Anche se non lo stava guardando, sapeva che invece Giulia lo stava facendo, trattenendo a stento la rabbia – la delusione. Era qualcosa a cui si era abituato, anche se in momenti come quello faceva ancora fatica a credere che quello sguardo fosse diretto proprio a lui.
Aveva vissuto per anni con la convinzione che non avrebbe mai visto Giulia osservarlo in quel modo, ma ora che stava succedendo da quasi due anni doveva arrendersi alla realtà. In fin dei conti doveva aspettarselo: neppure loro erano tanto speciali da evitare quel tunnel di delusioni reciproche in cui sprofondavano sempre di più.
-Perché no?- gli chiese ancora Giulia, la voce alterata, anche se aveva cercato di non alzare la voce.
Filippo continuò a bere il suo caffè a fatica, la gola chiusa per il nervoso, le spalle girate verso Giulia per non mostrarle quanto avrebbe voluto essere altrove in quel momento.
-Perché oggi esco prima dal lavoro, e vorrei andare in palestra- mormorò, rendendosi conto che, in fondo, non era davvero quello il motivo per cui ora si stava arrabbiando con lei – Mi sono preso un impegno con Alessio, e vorrei avere almeno due ore libere per me-.
Appoggiò la tazzina con forza sul tavolo della cucina, girandosi finalmente verso Giulia. Era in un angolo della stanza, le braccia incrociate contro il petto, sopra il pigiama che indossava ancora, e il viso che conservava ancora un po’ l’aria frastornata per l’essersi svegliata da poco. Lo stava guardando esattamente come Filippo si aspettava: con la delusione negli occhi.
-Quindi Alessio è più importante delle tue figlie?- gli chiese ancora, con una punta di sarcasmo che non si curò di nascondere.
Filippo rimase in silenzio per qualche secondo, prima di parlare lentamente, cercando di non essere lui quello che sarebbe finito ad alzare la voce:
-Non ho detto questo- sillabò, con risentimento – Ma eravamo rimasti d’accordo diversamente, e sai quanto ho bisogno di staccare almeno per un paio d’ore alla settimana. Oggi toccava a te andarle a prendere all’asilo, non il contrario-.
-I piani possono cambiare nella vita- Giulia gli parlò duramente, quasi con gelo – Non ti costa nulla andarle a prendere, portarle a casa e poi uscire di nuovo per andare in palestra. Arriverei in contemporanea a voi, così non dovresti nemmeno tardare-.
Non ricordava nemmeno il motivo per cui i piani erano cambiati, e non gliene importava nemmeno.
Lasciò andare un sospiro pesante, tutt’altro che pronto alla prospettiva di continuare oltre quel litigio. Erano appena le sette e mezza della mattina, e l’ultima cosa che voleva era discutere ancora con Giulia, sapendo benissimo di non poterla avere vinta.
-Ottimo- disse infine, con sarcasmo nella voce – Visto che hai già tutto pianificato facciamo come dici tu-.
L’espressione che lei gli rivolse gli fece capire che aveva intuito benissimo l’ironia amara con cui aveva accettato quelle condizioni. Il suo viso si indurì impercettibilmente, le gote arrossate probabilmente per la rabbia.
-Potresti sempre allenarti qui a casa, se proprio lo ritieni necessario- Giulia glielo disse con altrettanto sarcasmo, in un chiaro tentativo di ferirlo – Magari così risparmieremmo dei soldi che ci servirebbero per altre spese più importanti-.
Filippo deglutì a fatica, sentendosi quasi esplodere. Non riuscì ad articolare una parola, limitandosi a voltarle le spalle e uscirsene dalla cucina, con tutta l’intenzione di andarsene al lavoro il prima possibile.
Sbattè la porta del bagno dietro di sé con forza, incurante del fatto che il tonfo avrebbe svegliato le gemelle prima del previsto. Fece sospiri profondi, combattendo contro la voglia di urlare, le mani strette intorno alla ceramica bianca del lavandino.
Si sentiva livido, ferito e incompreso come mai prima nella sua vita.
Si chiese dov’erano finiti la Giulia e il Filippo di un tempo, quelli a cui bastava uno sguardo per capire al volo ciò che passava nella testa dell’altro. In quel momento non sarebbe riuscito a capire ciò che doveva aver spinto Giulia a parlargli così nemmeno dopo averne discusso per ore intere.
Forse erano solo cambiati troppo, dopo anni passati a stare insieme, senza nemmeno curarsi di accorgersene.
“I piani possono cambiare nella vita”.
I loro erano cambiati eccome, in un attimo che Filippo non aveva nemmeno percepito.


 
Nicola lo guardò come se avesse appena detto la cosa più assurda di sempre:
-Per favore, non usare anche tu queste scuse del cazzo-.
Filippo scostò di nuovo lo sguardo, perdendolo in una direzione qualsiasi. Faceva freddo, quella sera, e si sentiva ancor più infreddolito a rimanere lì, fermo in una strada semideserta poco distante dal Dipartimento. Si sentiva gelato al pensiero di come sarebbe dovuta essere quella serata: una comune uscita con il suo migliore amico, da soli in un bar qualsiasi, una delle poche occasioni per sentirsi meno schiacciare dal senso di oppressione che non lo abbandonava mai.
Non era andata decisamente come aveva pianificato.
Si chiese quali erano state le coincidenze che avevano fatto sì che Nicola decidesse di raggiungerlo in ufficio, ancora inconsapevole che l’avrebbe trovato con Linda, il lavoro dimenticato già da almeno una decina di minuti.
-Ho visto perfettamente cosa stava succedendo, Filippo- Nicola gli si piantò davanti, gli occhi che avevano assunto una strana malinconia, quasi a farlo sembrare ferito più che irato – Non sono cieco, e neanche stupido. Non si poteva equivocare quello che ho visto-.
Aveva ragione, e Filippo sapeva che se i ruoli fossero stati invertiti anche lui avrebbe detto le stesse identiche parole: non si poteva equivocare quel che si era presentato agli occhi di Nicola, quando aveva aperto la porta del suo ufficio. Forse fu per quello che non cercò neppure di negare.
L’immagine dell’espressione inorridita e sorpresa – nella maniera più negativa possibile- che Nicola aveva assunto non appena la porta si era aperta era ancora stampata sulle sue retine.
Non ricordava altro, non così bene. Sapeva per istinto che Nicola doveva aver notato la vicinanza – troppo intima- tra lui e Linda, così come i loro visi accaldati e la mano di lei che in quel momento era ancora sparita sotto il suo maglione.
Negare sarebbe stato inutile così come cercare di calmare Nicola.
-Da quanto va avanti?-.


 
Trattenne a stento la voglia di tirare un pugno contro lo schermo del pc, troppo innervosito per essere sufficientemente paziente.
Filippo sbuffò sonoramente, le mani artigliate ai ricci corti e castani in un gesto di pura rabbia. Avrebbe urlato volentieri se non fosse stato per il fatto di essere chiuso in ufficio, come ogni mattina.
L’arrabbiatura per il litigio con Giulia non era ancora calata, anche se erano già passate un paio di ore. Continuava a risentire la sua voce nella mente, tutte le parole ostili che gli aveva rivolto senza nemmeno preoccuparsi di non ferirlo. Era difficile rivedere in lei la stessa Giulia che l’aveva sempre sostenuto in ogni momento, nonostante tutto.
Dopo la loro lite era uscito di casa in fretta e furia, talmente veloce da non fermarsi neppure a lasciare un bacio sulla fronte a Caterina e Beatrice, come faceva ogni mattina prima di andarsene. L’unico lato positivo era che così facendo non aveva rischiato di incrociare Giulia di nuovo.
Ora si ritrovava di nuovo lì, nel suo ufficio che fortunatamente non condivideva con nessuno degli altri ricercatori, incapace persino di concentrarsi e sul punto di urlare addosso ad un computer che ci stava mettendo troppo ad accendersi.
L’improvviso bussare alla porta chiusa dell’ufficio lo fece sobbalzare appena: per qualche secondo ebbe la tentazione di non rispondere neppure, piuttosto votato all’evitare qualsiasi contatto con gli altri colleghi. Il senso di responsabilità, però, lo fece rinsavire: poteva pur sempre essere qualcosa di importante.
-Avanti- disse, alzando la voce a sufficienza per farsi sentire al di là della porta. Si girò appena in tempo per vedere Linda spuntare dalla porta ora semiaperta, uno sguardo interrogativo dipinto in faccia come a chiedergli se potesse entrare sul serio.
-Posso?- gli chiese infine, aprendo un po’ di più la porta – Non vorrei disturbarti-.
Filippo rimase interdetto per qualche secondo, scostando lo sguardo. Non aveva alcuna voglia di parlare, con nessuno, ma a giudicare dalla pila di documenti che Linda stringeva tra le mani doveva essere venuta fin lì unicamente per qualcosa legato al lavoro. E poi, in fin dei conti, era ingiusto sfogare su di lei la rabbia repressa: era sempre stata gentile e amichevole con lui, anche se a volte si era ritrovato a ricordarle più volte che fosse sposato – ma sempre mantenendo un tono amichevole, scherzoso.
No, non aveva alcun motivo per prendersela con Linda.


 
Filippo si coprì gli occhi, tutt’altro che pronto all’interrogatorio che sapeva sarebbe iniziato da quella domanda:
-Nicola … -.
-Rispondimi-.
Non c’erano tentennamenti nella sua voce, segno che ogni supplica a lasciar perdere non avrebbe funzionato. Filippo sospirò a fondo, mordendosi il labbro inferiore.
-Meno di un mese- ammise con amarezza, sentendosi un idiota.
Nicola non perse nemmeno tempo a commentare:
-Lei chi è?- gli chiese con lo stesso tono sbrigativo, gelido, come se persino domandarglielo potesse essere scomodo quanto altrettanto necessario.
Per un attimo Filippo pensò di mentirgli. Di certo Nicola non avrebbe potuto capirlo, non subito almeno.
Ci rinunciò quasi all’istante, perché il pensiero di peggiorare le cose – come se la situazione non fosse già precipitata- lo spaventava ancor di più di dire la verità.
-Una collega arrivata da poco- mormorò con gli occhi rivolti all’asfalto ormai quasi ghiacciato sotto le sue scarpe – Non la conosco nemmeno bene-.
Si sentì di nuovo un imbecille a quell’ennesima ammissione.
-Il suo corpo lo conosci approfonditamente, invece- Nicola glielo disse con aspra ironia: anche se era rimasto fermo sul posto, le mani infilate nelle tasche ampie del cappotto pesante, Filippo si sentì colpito come se avesse appena ricevuto un pugno in pieno viso.
-L’ho baciata solo un’altra volta prima di stasera-.
Non stava mentendo per rendersi più innocente ai suoi occhi, ma lo sguardo furioso che gli rivolse Nicola gli fece capire che non gli credeva.
-Non capisco nemmeno se tu stia dicendo il vero o no- Nicola stavolta gli puntò un dito addosso, con aria minacciosa – Non farmi passare per un idiota. Ci sei andato a letto?-.


 
-Non preoccuparti, vieni pure- le disse infine, alzandosi dalla sedia ed andandole incontro – Hai dei documenti per me?-.
-In realtà nulla di urgente- spiegò Linda, richiudendo la porta dietro di sé – Ma visto che per il momento non ho nient’altro da fare, ho pensato di portarteli e farteli firmare-.
Filippo annuì, aspettando che lo raggiungesse. Non aveva idea di che documenti fossero, e in tutt’altra situazione di certo si sarebbe soffermato almeno a dare un’occhiata a quel che stava firmando. In quel momento, invece, non gli importava nemmeno molto di apparire un’irresponsabile a non controllare nemmeno prima di lasciare la sua firma.
Prese i fogli dalle mani di Linda, tornando alla scrivania ed abbassandosi per appoggiarvisi. Prese la prima penna che trovò sottomano per tracciare veloci firme su tutti gli spazi vuoti che andavano riempiti con le lettere del suo nome.
-Ecco qui- mormorò dopo nemmeno un minuto, sistemando i documenti e allungandoli a Linda perfettamente allineati tra loro.
Lei li prese lentamente, lo sguardo fisso su di lui come era stato per tutto il tempo che aveva impiegato per le firme. Non gli era servito girarsi ed accorgersene per saperlo: aveva ancora addosso la sensazione dello sguardo indagatore di Linda, più intenso del solito.
-Stai bene?- gli chiese dopo qualche attimo, a tratti esitante – Mi sembri un po’ sottotono-.
Anche in quel momento Filippo si ritrovò di fronte ad un bivio, senza sapere quale strada percorrere: sarebbe stato estremamente facile dirle che in realtà stava benissimo, che non c’era nulla che non andava. E dall’altra parte c’era il sentiero più impervio, quello in cui poteva cercare di spiegare che in realtà gli stava crollando tutto addosso, quello in cui, forse, avrebbe potuto sfogarsi con qualcuno senza il timore di vedere l’altra parte schierarsi con Giulia a prescindere.
Era la strada più difficile, forse anche quella meno giusta, ma per un attimo ebbe l’istinto di seguirla.
-Ho litigato con Giulia stamattina-.
Non sapeva nemmeno perché l’aveva confessato proprio a Linda. Avevano parlato molte volte, da quando era arrivata, ma mai in profondità su faccende così private: forse un tempo Filippo si sarebbe lasciato andare liberamente nel parlare della sua famiglia, ma che senso aveva farlo ora, quando si sarebbe solo soffermato sui lati negativi?
Il lavoro era l’unico verso spazio dove poteva lasciare Giulia fuori, dove non doveva per forza pensare a lei o parlarne come sarebbe successo con uno qualsiasi dei suoi amici.
Eppure, con Linda lì di fronte, non era riuscito più a mantenere quel distacco fino ad allora mai venuto meno.
-Mi dispiace- mormorò lei, con voce bassa – Succede spesso?-.
Filippo si ritrovò ad annuire ancora prima di formulare una risposta nella sua testa:
-Da quando sono nate le bambine sì- ammise a malincuore – Forse siamo cambiati troppo-.
Non aveva idea di cosa si fosse spezzato, quando o come mai. Sapeva solo che ora persino i contatti fisici, una volta così abituali e quotidiani, si facevano sempre più rari.
E non era solo il corpo ad allontanarsi, lo era anche la mente: cominciava quasi ad immaginarsi uno scenario in cui i litigi con Giulia sarebbero solo peggiorati, allontanandoli sempre di più.
Forse un giorno li avrebbero allontanati definitivamente.
Serrò gli occhi di colpo, a quell’idea.
-È che certe volte credo che non mi capisca più-.
Sospirò a fondo, consapevole che la voce aveva cominciato a tremargli.
-E io non capisco più lei-.
Si passò una mano sul viso, sperando che Linda, pur così vicina, non notasse gli occhi lucidi.
-Siamo distanti anche nei momenti in cui andiamo d’accordo- continuò ancora, con esitazione – Non è più come un tempo-.
Non si mosse quando sentì una mano di Linda posarglisi su una spalla, dopo aver lasciato i documenti che teneva in mano sulla scrivania.
-Lo capisco. Quando non ti senti più capito dalla persona che hai sposato è dura- sussurrò lei, continuando a massaggiargli la spalla con gesti lenti e rassicuranti – Pensi al peggio-.
Filippo alzò il viso verso di lei, confuso:
-Al peggio?-.
Linda annuì prontamente:
-Al divorzio- specificò. Filippo si sentì sbiancare, anche se non poteva dirsi sorpreso.
-Che però, per quanto doloroso potrebbe essere, ti potrebbe dare tante altre nuove possibilità-.
La voce di Linda gli parve meno sicura di prima, forse come mai gli era capitato di sentirla porsi nei suoi confronti.
Filippo tornò a guardarla in attesa, disorientato su dove stesse andando a parare.
Gli occhi verdi di Linda erano totalmente diversi da quelli di Giulia: erano più chiari, quasi algidi, ed anche se in quel momento gli parvero più scuri del solito, rimanevano comunque così differenti dagli occhi verdi che incrociava ogni giorno a casa, da anni.
Quella diversità lo fece sentire più sereno, perché era esattamente quello che stava cercando in quel momento: qualcosa che non gli ricordasse Giulia.
-Tipo?-.
Aveva pronunciato talmente piano quella parola che si era avvicinato impercettibilmente a Linda per riuscire a farsi udire meglio – era quello il motivo per cui le era andato incontro, cercò di convincersi, l’unico motivo per cui avrebbe voluto avere Linda così vicina.
Riusciva a sentire il profumo fresco e fruttato che doveva essersi spruzzata quella mattina prima di uscire di casa; lo inspirò a fondo, quasi drogandosene.
-Tipo trovare qualcun altro che ti capisca meglio-.
Era esattamente quello che cercava, e non lo stupì affatto sapere che Linda sembrava essere perfettamente consapevole di quel che gli stava passando in testa. Sembrava essere lì proprio per lui, al momento giusto, a dargli quel conforto che in Giulia sapeva non avrebbe trovato – non in quei giorni.
La vide avvicinarsi a lui, inesorabilmente, e la lasciò fare. Non si sottrasse al bacio a stampo che lei gli diede, e non ci pensò oltre, chiudendo la razionalità fuori dalla sua mente.


 
-Non è successo- disse, a mezza voce – Anche se … -.
“Forse prima o poi sarebbe successo eccome”.
Anche se non lo disse ad alta voce, Nicola sembrò intuirlo lo stesso.
-Ma cazzo, perché?- Nicola faticò a trattenersi dall’urlare, mentre gli si avvicinava a passi veloci, i suoi occhi azzurri che sembravano essere di un colore più scuro per quanto era grande la rabbia che li stava animando – Quasi non ti riconosco-.
Filippo non si sorprese affatto di sentirglielo dire. In fin dei conti era la stessa cosa che si era ripetuto per tutto quell’ultimo mese: il cambiamento che era avvenuto c’era stato eccome, ed ora era visibile anche ad occhi che non erano solo i suoi.
-Un tempo non avresti mai fatto una cosa del genere a Giulia- Nicola lo disse in un sibilo appena udibile nell’aria fredda della notte, la voglia di urlare che sembrava già essersi dissipata – Perché adesso sì?-.
Filippo non riuscì quasi a trattenere uno sbuffo amaro.
Nicola non avrebbe capito, nessuno dei suoi amici avrebbe mai capito.
Forse nemmeno Giulia lo avrebbe fatto, ma nel suo caso avrebbe perlomeno potuto comprendere lo sgomento e il non poter essere oggettiva in una situazione che la riguardava in prima persona.
Ma persino Nicola, quello che forse più di tutti avrebbe potuto guardare a tutto con occhio più critico, non gli stava dando alcun segno di poter almeno provare a mettersi nei suoi panni.
Sapeva già che rispondere non avrebbe cambiato assolutamente nulla in quel loro litigio che stava avvenendo sul bordo di un marciapiede anonimo, in una serata gelida di Dicembre.
-Tu non sai quanto male vanno le cose a casa-.
Filippo non cercò di nascondere la nota d’isteria che aveva venato le sue parole:
-Litighiamo un sacco, sono sempre stressato, e il fatto che le bambine siano ancora piccole non aiuta- mormorò, sempre più innervosito – E neanche Giulia è molto comprensiva-.
Nicola lo guardò con repulsione:
-Quindi è colpa di tua moglie e delle tue figlie se sei un traditore schifoso-.
Anche se in fondo sapeva che un po’ se lo stava meritando, e che forse Nicola stava solo cercando di farlo ragionare e rendergli più evidenti i punti fallaci delle sue giustificazioni, stavolta fu Filippo a guardarlo con rabbia profonda:
-Non mi parlare così!- gli urlò addosso, fregandosene del tutto che fossero in un posto pubblico e che i pochi passanti nei loro pressi si erano girati tutti all’unisono nella loro direzione.
Avrebbe voluto scaricare la sua frustrazione con ben più di un unico grido: avrebbe voluto prendere a pugni qualcosa, fino a spaccare la pelle delle mani e lasciare sanguinare le nocche.
Odiava aver avuto ragione su come sarebbe stato nello sfogarsi con qualcuno: Nicola non stava capendo. Nessuno probabilmente lo avrebbe fatto, così come nessuno avrebbe provato a voler mettersi nei suoi panni anche solo per un minuto.
-E invece sì-.
Nicola non era arretrato di fronte allo scatto d’ira che aveva avuto, né sembrava particolarmente impressionato.
-Sei il mio migliore amico, e proprio per questo te lo dico chiaro e tondo: fai schifo-.
Nicola lo guardò in un modo che fece pensare a Filippo che, tra loro due, fosse proprio lui quello più ferito dalla situazione. C’era dolore nel suo sguardo, mescolato alla rabbia tipica di chi stava provando una delusione troppo grande persino da spiegare.
-Piuttosto che parlare con Giulia e chiarirvi hai preferito buttarti su una che conosci a malapena- per la prima volta da quando aveva avuto inizio quel litigio, la voce di Nicola apparve stentata – Il Filippo che conoscevo io non l’avrebbe mai fatto-.
“No, non lo avrebbe fatto”.
Filippo sentì gli occhi inumidirsi, e non riuscì nemmeno a capire a cosa esattamente fosse dovuto.
“Ma non sono più quella persona”.
-Si cambia nella vita- mormorò a mezza voce, le braccia lasciate cadere senza energia lungo i fianchi – Se succedono cose che non riesci ad affrontare … E poi proprio tu parli, tu che te ne sei andato di casa quando Caterina ti aveva detto che era incinta-.
Si odiò per quel tentativo di trascinare anche Nicola nel tunnel buio in cui stava cadendo, ma non provò a negoziare le parole appena pronunciate. Ferirlo almeno un po’, farlo sentire in colpa esattamente come si stava sentendo lui in quel momento, e ricordargli che non era sempre stato perfetto era in un qualche modo l’unica cosa che gli era venuta in mente per non sentirsi schiacciare del tutto.
Nicola rimase in silenzio basito per diversi secondi, gli occhi sgranati in amara sorpresa. Non doveva essersi aspettato un simile colpo.
-Ero più giovane quando è successo, e me ne sono andato per due giorni- sibilò di rimando dopo quelli che a Filippo sembrarono minuti infiniti – E sì, sono stato un codardo, però poi ho affrontato le mie paure. Tu che stai facendo, oltre che a scappare?-.
“Sto provando a sopravvivere”.
Filippo si ritrovò ad abbassare gli occhi, l’idea di dare voce a quelle parole che sembrava troppo grande, e troppo difficile da realizzare.
C’era silenzio, mentre nessuno di loro parlava. Il rombo del motore di qualche auto che passava e il rimbombo delle scarpe dei passanti erano le uniche cose che frenavano Filippo dal credere che il tempo si fosse davvero fermato, ghiacciato in quell’istante preciso.
Forse non avrebbe mai scordato quella notte: doveva essere una serata fatta d’allegria, qualche ora passata con l’amico di una vita, e invece si era trasformata in un litigio feroce fatto su un marciapiede nella periferia mestrina. Tutto molto squallido.
Alzò gli occhi da terra solo quando avvertì la presenza di Nicola di fronte a sé, a meno di un metro di distanza. Lo vide provato, quando ne osservò il viso, provato in una maniera che non riusciva ad attribuire a nessun’altra occasione.
-Io ti voglio bene, però anche Giulia è mia amica- Nicola parlò di nuovo con voce spezzata – Devi dirglielo. Della tua tresca appena iniziata e di tutto il resto-.
Filippo non ebbe nemmeno la forza di spalancare gli occhi dall’orrore di un simile scenario:
-Non posso- mormorò strozzato – Saperlo la distruggerebbe-.


 
Avvertì la vibrazione del suo cellulare con distrazione, deciso ad ignorarlo ancora per un po’.
Filippo sospirò pesantemente, mentre si rimetteva a sedere alla sua scrivania, ancora stordito e incredulo per ciò che era appena accaduto.
Linda se ne era andata qualche minuto prima, giusto il tempo di guardarlo compiaciuta e dirgli che uno dei prossimi giorni sarebbero potuti uscire insieme. Filippo non era nemmeno riuscito a rispondere: si era limitato ad osservarla mentre recuperava i documenti che gli aveva fatto firmare. Si era avviata alla porta lanciandogli un sorriso tipico di chi sapeva che quella non sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero baciati.
Filippo aveva preferito non farci caso, anche se in fondo aveva la sensazione che Linda sapesse, e che sarebbe andata esattamente così: era difficile rinunciare alla sensazione di euforia e passione che il contatto con qualcun altro riusciva a dare, quasi a cancellare ogni problema esistente anche se solo per pochi secondi.
Ora che era tutto finito la razionalità stava tornando a poco a poco, per ricordargli che non sarebbe potuto tornare indietro e cancellare quel che era successo, impedirsi di baciare Linda e non fermarsi.
Si passò una mano tra i ricci in disordine. Quando si sedette alla scrivania sentì la stanchezza sobbarcarlo, tutta di colpo.
Il display del cellulare, tornato silenzioso, era appena tornato in modalità di blocco. Filippo si decise a controllare se qualcuno l’aveva chiamato o semplicemente mandato un messaggio con un altro sospiro profondo, deciso a fare qualsiasi cosa per allontanare almeno per un po’ il senso pesante della colpa che cominciava a raggiungerlo.
Quando accese il display vide la notifica di un messaggio da parte di Giulia, arrivato solo qualche minuto prima:
«Mi dispiace per stamattina, sul serio. Ho detto delle cose che non penso, e che non avrei dovuto dirti. Sono stata stronza. Perdonami». 
Rimase immobile con gli occhi fissi su quelle parole, senza avere la capacità di reagire in alcun modo.
C’era un sottile velo d’ironia nel leggere Giulia chiedergli perdono, quando l’aveva tradita poco prima.


 
Nicola gli restituì uno sguardo duro:
-Sono piuttosto sicuro che tra voi due saresti tu quello ad uscirne peggio-.
Anche se non ne era del tutto certo, filippo sapeva che poteva avere ragione. Era sempre stata Giulia quella più forte tra loro due: era sempre stata lei ad incoraggiarlo, lei a non crollare mai neanche quando il fondo era in vista. Temeva di scoprire di essere davvero lui quello ad essere sull’orlo di perdere tutto.
-Comunque non mi interessa: glielo dirai tu, o glielo dico io- Nicola non attese una sua risposta, continuando a parlare con la stessa determinazione – Giuro che lo faccio-.
Filippo sentì di nuovo gli occhi riempirsi di lacrime, senza poter distinguere se fosse più per la disperazione, la paura, la rabbia o tutto insieme.
-Perché mi stai facendo questo?-.
-Perché stai distruggendo tutto quello che avete costruito per anni!- alzò la voce Nicola, gesticolando nervosamente. Sembrava di nuovo irato come all’inizio del loro litigio, quando ancora non sapeva nulla di quello che stava succedendo e l’unico sentimento al quale era riuscito ad aggrapparsi era il dolore.
-E Giulia deve almeno sapere chi si ritrova a fianco ora- sussurrò ancora, facendo un passo indietro – Ti do tempo una settimana per parlarle, poi scoprirai a tuo rischio e pericolo cosa succederà se non lo farai-.
Filippo rimase immobile sul posto, incapace di muoversi mentre teneva gli occhi incollati sulla figura di Nicola, guardandolo allontanarsi sempre di più.
Era sicuro che quell’incapacità di muoversi gli sarebbe rimasta addosso per molto, schiacciato a terra dal peso delle parole di Nicola e dalla sensazione di non avere la minima idea di cosa fare.
 
Was it you who changed? Or was it me?
I hate this flowing time, it's us who changed
Hey, I hate you, hey, I don't like you
Hey, even as I say these words, I miss you [2]
 
*
 
I got angry and cursed at you
There's no way the you who were my only friend can return

And you became a monster
The you I used to know is gone and the me you used to know is gone
I know it's not just because of time that we changed
The me you knew is gone and the you I knew is gone
It's not just because of time that we changed and I feel so empty
 
-Odio questo posto-.
Anche Nicola lo odiava, quell’odore troppo intenso di disinfettante che aleggiava costantemente nell’aria, così come odiava quegli ambienti dall’aspetto asettico e neutro, quasi ostile. Non aveva messo piede spesso in ospedale negli ultimi anni, ma si sarebbe volentieri risparmiato anche la visita di quel giorno.
Capiva perfettamente come mai Caterina si fosse lasciata sfuggire quelle parole: odiava anche lui essere lì, ed odiava ancor di più essere lì per un’amniocentesi che avrebbe potuto portare buone come cattive notizie.
-Vedrai che ce la caveremo in fretta- mormorò, passandole un braccio intorno alle spalle, avvicinandola a sé. Caterina lasciò andare un sospiro pesante, il capo appoggiato contro il petto di Nicola; sembrava più impaurita ed agitata di quanto aveva lasciato trasparire nei giorni seguenti.
Era stato così più o meno per tutti i giorni da quando avevano avuti i risultati del bitest: quando la ginecologa aveva consigliato loro di prenotare un’amniocentesi d’urgenza, però, li aveva almeno in parte rassicurati dicendo che poteva essere semplicemente un errore. D’altro canto, il bitest era un esame basato sulla statistica, nulla che desse la certezza definitiva che la loro bambina non fosse sana.
L’unica cosa certa era che Nicola aveva iniziato a odiare la statistica a partire da quel giorno.
-Dovremo comunque restare qui per un po’ di tempo per vedere se è tutto a posto- gli ricordò Caterina a mezza voce – Spero che Francesco non si arrabbi troppo-.
-No, starà bene. Si diverte sempre con Pietro, è praticamente il suo zio preferito- cercò di rassicurarla di nuovo, con convinzione.
Si sentì sollevato quando avvertì Caterina ridere piano:
-Se ti sentisse Giulia … -.
-Lei è la sua zia preferita- sussurrò Nicola, cercando di ignorare la stretta al cuore che percepì non appena udito il nome di Giulia.
Erano passati a malapena tre giorni dalla sua discussione con Filippo – dal momento in cui aveva visto Filippo avvinghiato ad un’altra che non fosse Giulia-, e non ne aveva fatto parola con nessuno. Far agitare Caterina nel suo stato già delicato sarebbe stata l’idea peggiore, e parlare con Giulia per ora non era il caso. Forse, in fondo, sperava solo che fosse Filippo a farlo, senza doverlo costringere al ruolo di portatore di brutte notizie.
“Sempre se deciderà di essere finalmente onesto con lei”.
Sospirò a fondo, ancora incredulo per quello che aveva visto e sentito quella sera di tre giorni prima. Si sentiva distrutto e disorientato come se si fosse ritrovato nell’occhio di un tornado, senza più riferimenti ed in balia unicamente di raffiche di vento troppo forti per essere fermate in qualche modo.
Aveva sperato di aver dato a Filippo l’impressione di avere la situazione in mano, ma la verità era che le redini, in quella situazione, mancavano del tutto.
-Diciamo che tutti sono i suoi zii preferiti, fino a quando lo riempiono di regali- la voce soffice di Caterina lo distrasse da quei pensieri, spingendolo ad abbassare gli occhi su di lei – Chissà se sarà tanto geloso di Viola quando nascerà-.
Stavolta Nicola non dovette faticare nel lasciare che un sorriso sincero gli nascesse sulle labbra. Erano passati solo due giorni – da quando finalmente avevano dato la notizia a Francesco che avrebbe avuto una sorella- dal momento in cui avevano deciso quale sarebbe stato il nome, scelto tra tutte le opzioni che sia lui che Caterina avevano scritto su un foglietto di un bloc notes.
Era una cosa così recente che per Nicola era ancora strano chiamarla Viola; invidiava la facilità con cui Caterina aveva preso a chiamarla per nome, lo stesso nome che aveva ricevuto consensi anche da Francesco.
In quel momento l’unico pensiero che davvero gli importava, al di là del casino di Filippo e del dolore che provava per Giulia, era solo sapere che Viola, la loro Viola, sarebbe stata bene.
-Forse un po’- mormorò piano, alzando una mano e portandola ai capelli di Caterina, accarezzandoglieli piano – È normale per i bambini piccoli … L’arrivo di un neonato è un bel cambiamento. Ma sono sicuro che andrà tutto bene-.
-Speriamo che stia bene anche lei- sentì sussurrare Caterina, la voce così bassa da essere a malapena udibile.
-Certo che sta bene- Nicola cercò di non far trasparire alcuna incertezza nella sua voce. Stava cercando di tranquillizzarla, e di calmarsi a sua volta, ma era anche un’affermazione a cui voleva credere e a cui voleva aggrapparsi con tutte le sue forze.
-Dobbiamo solo fare questo controllo per esserne sicuri, ma sta bene- disse ancora, continuando a intrecciare le proprie dita tra i ricci scuri di Caterina, nel trambusto di quella sala d’aspetto del reparto d’ospedale – Ne sono certo-.
 
*
 
Esalò un respiro profondo, a fatica, mentre si rigirava piano nel letto, le coperte pesanti che le rendevano i movimenti più lenti ed impacciati.
Caterina si voltò verso la finestra, le persiane ancora abbassate ma che lasciavano intravedere dei raggi di sole attraverso le fessure; doveva già essere mattinata inoltrata in quel sabato che la stava lasciando disorientata e ancora dolorante.
Allungò il braccio verso il proprio comodino, cercando a tastoni il cellulare. Lo trovò in pochi secondi, sbloccando il display per potervi leggere l’ora: erano passate le nove da pochi minuti, ed anche se non doveva certo andare al lavoro quel giorno, era comunque ora di alzarsi.
Strinse i denti nel tentativo di mettersi seduta, il pancione che le rendeva i movimenti meno pratici. Rimase in quella posizione per diversi secondi, tentando di ignorare la schiena dolorante e le contrazioni deboli che continuava ad avvertire dal giorno prima.
Caterina si alzò piano, il buonumore che aveva sperato di avere al risveglio di quella mattina che sembrava più lontano che mai.
Quando la sera prima era andata a dormire aveva sperato di svegliarsi e stare meglio. In fin dei conti qualche contrazione debole non era poi così rara in una gravidanza – non dopo un esame così invasivo come l’amniocentesi. Si era aggrappata a quella speranza augurandosi che il giorno dopo le sue paure fossero già sparite.
Nicola e Francesco erano già svegli: li ritrovò in cucina, seduti al tavolo a parlare sottovoce di qualcosa che Caterina non riuscì a cogliere. Si voltarono verso di lei non appena udirono i suoi passi mentre entrava nella stanza, un sorriso assonnato rivolto ad entrambi.
-Buongiorno- mormorò, reprimendo uno sbadiglio e un ansimo di dolore ad una fitta un po’ più forte delle altre.
-Ciao, mamma- mormorò di rimando Francesco, senza nemmeno alzare gli occhi dai biscotti che aveva sul piatto davanti a sé sul tavolo, già impegnato, nonostante l’aria assonnata, a tenerne uno già sgranocchiato in mano.
Nicola, invece, si girò verso di lei all’istante, lo sguardo vagamente apprensivo:
-Ehi, ciao- le disse, allungando una mano verso di lei per accarezzandole piano prima il viso e poi il pancione – Come ti senti?-.
Caterina esitò per alcuni secondi: sapeva perfettamente che non era una domanda casuale. Non aveva alcun dubbio che Nicola ricordasse perfettamente quando la sera prima gli aveva detto delle fitte leggere, e forse non gli era sfuggito nemmeno il moto di dolore che le era scappato pochi secondi prima nel sedersi.
Non era uno stupido né un ingenuo, nonostante lo avesse visto parecchio distratto negli ultimi giorni.
-Come se mi fosse passato sopra un trattore- ammise con un lungo sospiro. Non aveva nemmeno fame: il solo pensiero di mettere sotto i denti qualcosa le faceva venire la nausea, ed era sicura che se ci avesse provato sarebbe finita con il vomitare tutto.
Tenne gli occhi fissi su Francesco, ignaro di quel che lei – e con tutta probabilità anche Nicola- stava pensando in quel momento. Portò una mano in automatico alla pancia, massaggiandola e sperando di ricevere in risposta uno dei calci che Viola le rifilava fin troppo spesso.
Non ebbe così tanta fortuna. Sperò solamente che fosse perché la bambina stava dormendo.
-Non è che forse dovremmo andare a fare una visita di controllo?- Nicola tornò a parlare con incertezza, a bassa voce, come se Francesco non potesse sentirli comunque a quella minima distanza – Giusto per toglierci il dubbio-.
Caterina si morse il labbro, l’ansia che cominciava far capolino al solo pensiero di dover andare ancora in ospedale nel giro di pochi giorni, e ricevere brutte notizie.
-Magari aspettiamo e vediamo come va oggi- tentò, abbassando lo sguardo – Forse ero semplicemente stesa male a letto-.
Cercò di ignorare del tutto il fatto che, dentro di sé, nemmeno lei riusciva a credere alle sue stesse parole.
Calò il silenzio per pochi secondi, interrotto solo dallo sgranocchiare lento di Francesco; quando avvertì Nicola sospirare a fondo, Caterina ebbe la tentazione di girarsi verso di lui: anche se Nicola stava cercando di non darlo a vedere troppo, riusciva a notare tutta la tensione che aveva in corpo dai tratti tesi del viso e dallo sguardo rabbuiato.
-Per sicurezza però scrivo a Pietro, per chiedergli se nel caso può passare a prendere Francesco- mormorò alla fine, senza troppa convinzione.
Caterina annuì, senza riuscire ad opporsi a quella decisione:
-Va bene-.
Si ritrovò a sperare, forse per la prima volta, di non dover vedere Pietro in quella giornata.
 


-Dovremmo andare in ospedale-.
Il viso tirato e pallido di Nicola entrò nella sua visuale in pochi secondi. Vederlo in quello stato – teso, visibilmente spaventato anche se stava cercando di tenere in mano la situazione più che poteva- bastò per farle pensare al peggio.
Caterina sospirò a fondo, sperando – illudendosi- che potesse bastare quello per provare meno dolore. Non servì a nulla, se non per qualche breve attimo che precedeva la contrazione successiva.
“C’è qualcosa che non va”.
Anche se non voleva ancora ammetterlo nemmeno a se stessa, c’erano fin troppe cose che non stavano andando nel verso giusto.
Era quasi sera, ormai, e il sole del pomeriggio aveva già lasciato posto al cielo scuro. Il buio fuori dalla finestra del salotto la faceva sentire ancor più persa, come se bastasse già solo pensare a quello per sentirsi in agitazione.
Cercò di sistemarsi meglio sul divano, senza grandi risultati. Si morse il labbro inferiore, cercando di ignorare il dolore delle contrazioni sempre più forti – della stessa intensità che, ricordava fin troppo bene, avevano preceduto di alcune ore la nascita di Francesco.
Erano rimaste poche cose che riusciva a spiegarsi, e quelle fitte così tremende, che non le lasciavano scampo, non erano tra queste.
Non lo era nemmeno la febbre che le era cresciuta durante il corso della giornata. Aveva iniziato ad accusarne i sintomi tipici dopo l’ora di pranzo, ma Nicola era riuscito a convincerla a misurarsela solo un’ora prima. Era stato anche il momento in cui Nicola aveva deciso di chiamare Pietro: forse non voleva far vedere a Francesco la situazione in cui si trovavano, forse lo aveva fatto per poterle dare tutte le attenzioni del caso. Caterina non sapeva quale fosse il motivo tra questi, e non glielo aveva chiesto. Non aveva avuto nemmeno la forza di opporsi al far venire Pietro per prendere Francesco e portarlo a casa sua, e non era riuscita nemmeno a dire qualcosa quando, arrivato da poco in casa, aveva visto lo sguardo terrorizzato e pieno d’apprensione che le aveva rivolto.
Era stato l’ennesimo segno che qualcosa stava andando nel verso sbagliato.
-Non so cosa stia succedendo- mormorò a corto di fiato, le ciocche di capelli che cominciavano ad appiccicarsi sulla sua fronte sudata.
Nicola smise di camminare in tondo per la stanza all’istante, accucciandosi di fianco a lei, le ginocchia poggiate sul pavimento del salotto e le mani che erano andate subito a scostarle i capelli dal viso.
-Vedrai che ti visiteranno e ci diranno tutto- cercò di rassicurarla, con una dolcezza che raramente Caterina gli aveva visto usare – Però devi cercare di stare più tranquilla possibile. Ti prego-.
Caterina si ritrovò ad annuire inconsciamente, senza davvero interiorizzare quel che Nicola le aveva appena detto. Lo seguì con lo sguardo mentre si rialzava, afferrando dal tavolino davanti al divano il cellulare. Continuò a guardarlo anche mentre si allontanava, digitando un numero di telefono prima di portare il cellulare all’orecchio.
La fatica di sopportare l’ennesima contrazione dolorosa le impedì di concentrarsi sulla voce di Nicola, ormai sparito in cucina. Doveva aver appena chiamato l’idro-ambulanza, allontanatosi nella speranza che non farsi udire nello spiegare la situazione poteva tenerla meno in ansia.
Caterina quasi scoppiò a ridere al pensiero: l’unica cosa che sentiva addosso, in quelle ore, era la paura. Paura di non sapeva nemmeno lei cosa, o forse di qualcosa a cui temeva perfino dare un nome.
Chiuse gli occhi, affidandosi solo ai suoi sensi, il corpo che tirava dolorante e la testa che le pulsava freneticamente, come se dovesse scoppiare da un momento all’altro. Avvertì anche i passi sempre più vicini di Nicola, affrettandosi verso di lei.
Quando Caterina alzò appena le palpebre, quel che le poteva bastare per osservare il viso dell’altro a pochi centimetri dal suo, di nuovo nella posizione scomoda di prima, le venne voglia di tornare a chiudere gli occhi e non badare più a nulla. Anche se la vista era sfocata per le lacrime trattenute e il mal di testa sempre più forte, riusciva a distinguere gli occhi lucidi di Nicola poco distanti da lei, mentre la osservava con un sorriso che sembrava più sul punto di trasformarsi in un grido di disperazione.
-Tra poco arrivano- le sussurrò, accarezzandole la testa e continuando a spostarle i capelli dal volto – E andremo in ospedale, e andrà tutto bene-.
In quel momento, se solo fosse stata più lucida e meno terrorizzata, Caterina sapeva che avrebbe notato la poca convinzione che Nicola stesso aveva nella voce.
Nello stato in cui si trovava, dove ogni speranza era un appiglio a cui aggrapparsi con tutte le forze, cercò di credere sul serio che sarebbe andato tutto bene.
-Promettimi che starà bene- mormorò di rimando, pochi secondi prima che arrivasse un’altra contrazione, più forte e prolungata delle precedenti. Non riuscì a trattenere un gemito di dolore, né le lacrime. Sentì il viso venire bagnato dal pianto che era riuscita a trattenere fino a quel momento, la sensazione calda del tutto simile a quella che avvertì subito dopo nel basso ventre, lungo le cosce, sotto i vestiti.
Nicola doveva aver notato che qualcosa non andava, perché aveva scostato lo sguardo quasi nell’immediato, seguendo la curva del pancione e arrivando alle gambe.
Qualsiasi cosa che doveva aver visto, lo spinse a prenderle una mano tra le sue, stringendola con forza spasmodica. Non si curò nemmeno più di nascondere le sue stesse lacrime, mentre tornava a guardarla, con lo stesso intento di rassicurarla fino in fondo.
-Andrà tutto bene-.
 

 




[1] Thirty Seconds to Mars - "Hurricane"
[2] Agust D - "Dear my friend"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e  autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Dopo ben due capitolo tranquilli doveva arrivare il momento drama, no?🤣
Nella prima parte di questo capitolo scopriamo a tutti gli effetti cosa c’era dietro il comportamento di Filippo dell’ultimo mese: attraverso un flashback, infatti, vediamo che effettivamente  tra Filippo e Linda c'è stato un avvicinamento... Anche troppo esagerato 😨
Tra i due, infatti, è scattato il bacio, e sembrerebbe anche più di uno dato che è proprio questo che Nicola stesso ha visto entrando inaspettatamente nell’ufficio dell’amico. Come agirà Filippo? Racconterà tutto a Giulia, sotto la minaccia che sia Nicola a farlo?
Capitolo iniziato male… e finito anche peggio. 
La situazione che stanno vivendo Caterina e Nicola, infatti, non sembra delle più rosee: pur essendo a circa metà della gravidanza, Caterina sembra già essere vittima di contrazioni, cosa di certo non ottimale. La vediamo presa dal panico, esattamente come Nicola, e decisamente preoccupata per Viola. 
Non ci resta che scoprire nel prossimo capitolo cosa succederà ... Quindi vi diamo appuntamento a mercoledì 18 ottobre con il capitolo 13!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Hope is a dangerous thing ***


CAPITOLO 13 - HOPE IS A DANGEROUS THING

 
 
We had love so strong, my heart couldn’t take it
You took it in your hands and resuscitated
You said, me and you against the world
You said, you and me forever girl
I felt every cell fall in love with you but
I watched you slip, slip away, no explanation
You, on your phone, your laptop, your PlayStation
 
-Ogni tanto potresti farla anche tu la lavatrice- borbottò con rabbia mal trattenuta – Di sicuro non ti si sciuperebbero le mani prendere i vestiti e metterli a lavare-.
Giulia sbuffò sonoramente, talmente innervosita da non badare nemmeno al fatto che le gemelle si erano appena addormentate. Sperò di non averle svegliate, anche se il bagno, con la porta rigorosamente aperta, dava proprio di fronte alla cameretta delle bambine.
-Se non ricordo male l’ultima volta l’ho fatta io- la voce di Filippo le arrivò lontana, probabilmente dal salotto, l’ultimo posto in cui l’aveva visto.
-Ricordi male- mormorò Giulia, stringendo i denti – Decisamente male-.
La cesta dei vestiti da lavare ormai era piena fino all’orlo. Buttarsi sul fare l’ennesima lavatrice in pochi giorni era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare a quell’ora della sera.
Non poteva nemmeno sperare in un aiuto da Filippo, a quanto pare troppo occupato a fare zapping seduto comodamente sul divano – forse troppo provato dallo sforzo di aver messo a letto le sue figlie, si ritrovò a pensare con amaro sarcasmo Giulia. Cercò di reprimere la voglia di urlare.
Si trattenne solo al pensiero delle bambine, soprattutto per Beatrice: non era il caso di spaventarla o di svegliarla all’improvviso, soprattutto quando era nel bel mezzo di una brutta influenza.
Si sedette sul pavimento del bagno, le gambe ormai vacillanti sotto il peso della stanchezza di una lunga giornata di lavoro. L’unica cosa che la stava spingendo a muoversi era che, non appena finito, si sarebbe potuta buttare a letto e dormire il più possibile.
Prese a piene mani una prima manciata di abiti, poggiandoli accanto a sé per smistarli. Era un lavoro automatico – i capi bianchi tenuti da parte, tutti gli altri in un altro mucchio, pronti per essere rimessi nella cesta in attesa del loro turno di lavaggio-, che faceva ormai senza pensare. Avrebbe preferito di gran lunga qualcosa che le tenesse impegnata la mente, che non facesse riemergere ad ogni secondo le preoccupazioni per la salute di Beatrice o la rabbia che stava provando in quei giorni verso Filippo.
E poi c’era anche Caterina, che non aveva ancora risposto al messaggio che le aveva mandato quella mattina, e che non aveva nemmeno risposto alle telefonate che Giulia aveva provato a fare in pausa pranzo. Non se ne era meravigliata, con amarezza: sapeva che l’unico modo per starle accanto, in quel periodo, era solamente andare da lei di persona.
Prese mentalmente nota di chiedere ad Alessio, magari con un messaggio prima di andare a dormire, se fosse libero quel weekend per andarla a trovare; avrebbero sempre potuto provare a distrarla un po’, anche solo per qualche ora, o almeno scoprire in che stato si trovava ancora.
Giulia esalò un lungo sospiro, schiacciata sotto il peso di tutti quei problemi.
“Non ne va bene una”.
Era un pensiero che non riusciva a togliersi dalla testa da più di un mese.
Infilò le mani di nuovo nella cesta, recuperando i vestiti rimasti sul fondo, e cominciando a smistarli di nuovo. Mancava poco, solo qualche altro capo bianco da buttare in lavatrice, e poi sarebbe stata libera di andarsene a letto e smettere di pensare a tutto ciò che stava andando a rotoli nella sua vita e in quella di chi le era accanto.
Mise da parte, sopra al resto dei capi bianchi già trovati, un paio di calzini, un body delle gemelle, e un’altra canotta. Si rimise in piedi, ricordandosi che avrebbe fatto bene a controllare che non ci fossero capi da lavare riposti erroneamente nell’armadio; con gambe malferme per la stanchezza si diresse verso la camera da letto, fermandosi davanti all’armadio alto e lungo tutto la parete di fondo della stanza. Aprì prima le sue ante, setacciando velocemente i suoi abiti: tirò fuori solo un maglione che aveva già utilizzato alcune volte e a cui serviva una lavata, e un paio di felpe. Passò alla zona che usava Filippo per tenere i suoi vestiti, compiendo le stesse identiche azioni. Ne tirò fuori un pullover, e poi si avvicinò al gruppo di camicie appese all’estremità dell’interno dell’armadio. Odiava sempre quando veniva il tempo di lavare varie camicie, accumulatesi nel giro di diversi settimane: stirarle era sempre un compito che detestava, ma che evitava di lasciar fare a Filippo perché, inevitabilmente, avrebbe rischiato di farle finire bruciate.
Ricordava quali dovevano essere buttate in lavatrice, e cominciò a tirarle fuori una alla volta, buttandole sul letto insieme a tutti gli altri capi già individuati. Allungò le mani verso la seconda camicia bianca che rimaneva da mettere a lavare, in un gesto automatico e fatto senza nemmeno pensarci. Giulia si bloccò non appena la prese in mano, ritrovandosi ad osservare una macchia di colore sul colletto che dava all’occhio, circondata dal resto del tessuto candido ed immacolato. Cercò di piegare alla bell’e meglio la camicia, e quando lo fece se ne pentì quasi subito dopo.
Quando si rese conto cosa fosse la macchia colorata che tanto aveva attirato il suo sguardo, Giulia rimase immobile per quelli che le sembrarono lunghi secondi interminabili.
In camera c’era già silenzio, ma in quel momento le parve persino frastornante. Un silenzio troppo profondo che la rendeva inquieta, ed un timore che le stava impedendo di avvicinare maggiormente al viso la camicia, per capire davvero se quella macchia era ciò che credeva.
Respirò a fondo, cercando di calmare i battiti del cuore accelerati, il respiro reso irregolare dalla paura che le si era insinuata addosso come un’ombra che aleggiava sopra di lei, dietro di lei.
“Non può essere”.
Le servì una buona dose di coraggio per riprendere la camicia tra le mani. Cercò di restare lucida, mentre tirava il colletto al meglio possibile, studiando la macchia che ne aveva sporcato il candore.
Era una traccia di rossetto, una sfumatura di marrone piuttosto intenso che virava quasi al prugna, un colore che lei non possedeva e che non aveva mai indossato.
Ed era lì, sul colletto bianco della camicia di Filippo, in una traccia inevitabilmente visibile.
“Lo è”.
 


La stanchezza che si era sentita addosso fino a mezz’ora prima se ne era andata di colpo, come se in realtà non ci fosse mai stata.
Aveva agito come un automa per tutto il tempo: aveva messo tutto in lavatrice – tenendo da parte quella camicia, rimettendola nell’angolo di armadio dove l’aveva trovata-, era andata in cucina a bere un bicchiere d’acqua, e aveva salutato Filippo dicendogli che se ne stava andando a dormire.
Sotto le coperte, però, non stava dormendo affatto. Aveva scritto ad Alessio, come si era ripromessa di fare, e poi aveva cominciato a riflettere. Aveva cercato di ricordare.
I giorni di quell’ultima settimana erano stati giorni infernali, giorni che avrebbe voluto dimenticare il prima possibile, e di cui invece ricordava straordinariamente ogni minimo dettaglio, persino i più insignificanti.
Per sua sfortuna, ricordava piuttosto bene un po’ tutti i capi che Filippo usava più spesso per andare al lavoro. Erano passate diverse settimane da quando l’aveva visto indossare quella camicia bianca; doveva essere passato almeno un mese o poco meno. Molte settimane durante le quali non l’aveva più riutilizzata, senza però nemmeno metterla nella cesta dei capi da lavare, limitandosi a tenerla in un angolo dell’armadio.
Si stese sul letto, chiudendo gli occhi nonostante la luce nella stanza fosse già spenta da diversi minuti. C’era un’oscurità pesante intorno a lei, non solo esternamente, ma anche e soprattutto tra i suoi pensieri.
L’ultima volta che gliel’aveva visto indosso corrispondeva al periodo in cui Beatrice era stata male la prima volta, il Dicembre scorso.
Ricordava che le cose erano cominciate ad andar male subito un lunedì mattina di inizio mese, come nel peggiore dei cliché legati ai giorni della settimana. Come nel più classico dei casi, il suo lunedì era stato il più tragico possibile: Beatrice con la febbre altra, pianti infiniti accompagnati dalla tosse ed un colorito che virava più al grigio. Era iniziata la mattina presto, ancor prima delle sei, per continuare fino alla sera senza alcun cambiamento.
Giulia si era presa persino dei giorni di ferie per non dover uscire di casa, e ricordava anche lo sguardo scettico che Filippo le aveva lanciato quando aveva preso quella decisione.
Ricordava poi, il martedì mattina, il suo minimizzare delle condizioni di Beatrice. Giulia era rimasta così scioccata da quella sua reazione da non aver avuto nemmeno parole per esprimere quanto pericoloso, oltre che idiota, fosse quel suo comportamento.
Era con quello spirito che il giorno seguente aveva portato la bambina dal dottore. Si era già pentita di aver aspettato due giorni interi, con il rischio di aver solo peggiorato le cose. Le ipotesi peggiori le erano passate per la testa per ore interminabili – poteva essere una normale influenza come una polmonite, o un’infezione alle adenoidi come ne aveva sofferto lei stessa da piccola-, senza alcuna forza per fermare i suoi stessi pensieri.
Ricordava con lucidità estrema di aver pensato a Caterina, in quel momento, all’amica di una vita che più di un mese prima doveva essersi trovata in un panico simile al suo. Quel pensiero l’aveva resa ancor più inquieta.
Quando erano finalmente tornate a casa con una cura adatta per quell’influenza – nulla di così grave come poteva apparire, almeno a giudicare dalle parole della pediatra-, Giulia si era sentita sollevata ed arrabbiata allo stesso tempo. Era rientrata a casa trovando Filippo da solo con l’altra bambina, e non aveva aspettato nemmeno che le chiedesse com’era andata la visita prima di iniziare a sfogarsi.
Giulia si rigirò nel letto, ancora a disagio a ripensare a quel litigio. Lei e Filippo non avevano più litigato dallo scorso Novembre, e forse era passato ancor più tempo da quando avevano litigato a quella maniera. Era stato a tratti selvaggio, animalesco per le grida che non era riuscita a trattenere.
Non le era nemmeno più importato che, in fin dei conti, a Beatrice non sarebbe successo nulla di grave; erano le parole di Filippo che le ronzavano ancora nella mente – quelle che le aveva detto per convincerla che non c’era davvero bisogno di andare a farla visitare dalla pediatra, quelle con cui aveva sottinteso che era troppo apprensiva, troppo soffocante-, nient’altro.
Era stata una giornata terribile, forse una delle più brutte dell’anno appena passato.
E poi era arrivato il giovedì di quella settimana infernale, e Giulia ricordava ancora perfettamente di aver visto Filippo, la mattina di quel giorno, uscire con la camicia bianca incriminata.
Ricordava anche che la sera, dopo la consueta capatina in palestra come ogni settimana, era rientrato direttamente con la tuta, non più con i vestiti con i quali la mattina era andato in ufficio. Doveva aver rimesso  la camicia nell’armadio quella sera, si ritrovò ad ipotizzare, forse cercando di nasconderla tra gli altri abiti. Non era stata nemmeno un’accortezza molto utile, obiettò tra sé e sé Giulia: in fin dei conti avrebbe potuto lavarla lui stesso. Poteva aspettarsi che l’avrebbe trovata lei per prima.
Sbuffò sonoramente, la mente in subbuglio completo, pensieri che non riusciva nemmeno a formulare nel sicuro spazio della sua mente.
Era tutto troppo, troppo anche solo da poter ipotizzare.
L’unica cosa che sapeva era che un mese prima Filippo era andato in ufficio con quella camicia bianca addosso, ed era tornato con la stessa camicia bianca celata alla sua vista, il colletto sporco di un rossetto con cui Giulia non avrebbe mai potuto macchiarla, e non aveva più indossato quella stessa camicia. 
Stava cercando di allontanare tutti quei pensieri, ma sapeva che non ce l’avrebbe fatta ancora a lungo. Sentiva il dubbio insinuarsi pian piano in lei, intrappolandola e avvolgendola inevitabilmente, e sapeva già che qualsiasi suo sforzo sarebbe stato inutile per cercare di scapparvi.
 
You hurt my pride, part of me died, but all of that’s ego
And the house we lived in had no doors, and it had no windows
You said, “I’m hanging with the boys”
You said, “Working late to pay our bills”
But I found lipstick on your collar, wasn’t my colour [1]
 
*
 
One day when this cheer dies down, stay, hey
Stay by my side
For eternity, keep staying here, stay, hey
 
-Fatemi un po’ di spazio, sto per cadere- si lamentò Alessio, effettivamente fin troppo vicino al bordo del letto. Dall’altro capo del materasso, lo sbuffo di Giulia non si fece attendere:
-Lo sai, vero, che se vado un po’ più in là sarò io quella a cadere?- replicò, con tono perentorio – Sii un po’ cavaliere e sacrificati-.
Caterina si trattenne a stento dalla voglia di scuotere visibilmente il capo, basita per quel loro battibeccare come una vecchia coppia sposata.
-Non litigate- li redarguì con un lungo sospiro – Sembrate due bambini dell’asilo-.
Caterina strinse le labbra per impedirsi di lasciarsi andare a qualche imprecazione. Le servirono alcuni secondi per tornare alla calma placida – o totale indifferenza verso qualsiasi cosa le accadesse intorno, a seconda dei punti di vista- che le era necessaria per continuare a vivere quel pomeriggio.
Non serviva un genio per capire come mai, nemmeno mezz’ora prima, al suono del campanello si era ritrovata Giulia ed Alessio davanti alla porta di casa sua. Non riusciva nemmeno ad essere arrabbiata con loro fino in fondo, perché sapeva che, se i ruoli fossero stati scambiati, lei avrebbe fatto esattamente lo stesso. Li aveva lasciati entrare, nonostante la voglia di rimanere sola e continuare a piangere, come accadeva ogni singolo giorno da un mese e mezzo.
-Forse dovreste prendere un letto più grande- mugugnò Alessio, alzandosi appena per osservare meglio le misure del materasso. Erano finiti tutti e tre distesi sul letto matrimoniale della stanza che lei condivideva con Nicola, Caterina schiacciata al centro tra i corpi di Alessio e Giulia, e con nessuna via di fuga.
Le ricordava un qualche pigiama party del tempo della scuola, restandosene lì sdraiata in mezzo a loro due con l’unico scopo di perdere tempo non facendo assolutamente nulla che non fosse parlare frivolamente di qualsiasi cosa. Era felice che, in quel pomeriggio di domenica, Nicola avesse deciso di uscire con Francesco per una passeggiata: era sicura che, se fosse stato lì a guardarli e ad ascoltarli, non avrebbe più smesso di ridere o prenderli in giro.
-Tecnicamente ci dobbiamo stare solo io e Nicola qui- gli ricordò Caterina, girandosi verso di lui con un sopracciglio alzato.
-Appunto- la voce di Giulia si sentì forte e chiara – Volevi fare il terzo incomodo come al liceo?-.
Alessio fece ricadere la testa contro il materasso, gli occhi chiusi e il viso contratto in un’espressione esausta:
-Non facevo il terzo incomodo- mormorò, rigirandosi nel letto – E poi … -.
Non fece in tempo ad aggiungere altro: si era mosso troppo vicino all’orlo, finendo inevitabilmente per perdere l’equilibrio e ricadendo indietro, verso il pavimento. Caterina non rise, ma non riuscì a non trattenere un sorriso vagamente divertito – forse il primo in troppo tempo.
Giulia, invece, non si era curata troppo di trattenersi: era scoppiata a ridere inevitabilmente, completamente stesa sul materasso, con una mano a coprirsi la bocca e l’altra sulla pancia dolorante.
Alessio riemerse pian piano qualche secondo dopo:
-Cazzo, che botta- bofonchiò, gli occhi semichiusi per il dolore che doveva avere alla schiena. Si appoggiò con i gomiti all’orlo del materasso, restando immobile in quella posizione per diversi secondi.
-Sei ancora intero?- Caterina si sporse appena verso di lui, rincuorata però nel vederlo alzarsi in piedi senza bisogno d’aiuto.
-Più o meno- mormorò lui.
Alessio si alzò traballando un po’, i vestiti stropicciati e mal messi a causa della caduta. Si tirò giù il maglione, finito a scoprirgli una striscia di pelle, prima di coricarsi di nuovo accanto a Caterina. Sbuffò appena, il viso contratto in una smorfia di dolore, quando con la schiena toccò la superficie del materasso.
-Ok, proviamo a stringerci- fece Giulia, spostandosi di qualche centimetro. Prese la mano di Caterina per aiutarla a muoversi di lato, facendo attenzione a non strattonarla.
Quando furono di nuovo immobili, Caterina riaggiustò la posizione: starsene in mezzo a due persone, in un letto che di certo non prevedeva la presenza di tre, la faceva sentire lievemente claustrofobica. Temeva sempre di dare gomitate ad Alessio o Giulia con il minimo movimento, o di non avere sufficiente spazio per muoversi se uno dei due si fosse spostato ulteriormente vero l’interno del letto.
Non disse comunque nulla: sapeva che erano lì per lei, per distrarla e cercare di farle passare un pomeriggio spensierato senza lasciarla in una casa vuota. Era ciò che stavano facendo da più di un mese, talvolta anche con la presenza aggiuntiva di Pietro, quando poteva.
Stare accanto sia a lei che a Nicola, ma soprattutto a lei.
Sovrappensiero si passò una mano sul grembo, in un gesto automatico che ancora non era riuscita a cancellare dalla sua mente dopo tutto quel tempo. Scostò velocemente la mano, quando arrivò alla piattezza della sua pancia – un ricordo troppo vivido di tutto quello che era successo, qualcosa che era presente sempre con lei e che le veniva ricordato ogni volta che si toccava o che si guardava allo specchio.
Sperò che né Giulia né Alessio avessero notato quel movimento repentino, ma non ebbe il coraggio di accertarsene spostando lo sguardo su di loro: sapeva che, se avesse piegato il capo, le lacrime formatesi agli angoli degli occhi sarebbero inevitabilmente cadute rigandole le guance, e rendendo il tutto fin troppo palpabile.
“Non devo pensarci”.
Era paradossale come, ogni volta, ripeterselo non facesse altro che contribuire a ricordarle ancor di più tutto quello che era successo.
-Ho una domanda- Giulia interruppe quel silenzio in maniera provvidenziale, forse captando qualcosa – Ho visto male io, o hai un nuovo tatuaggio?-.
Era una domanda ovviamente rivolta ad Alessio, e Caterina cercò di prestare il più attenzione possibile a quella nuova conversazione, non tanto per reale interesse, ma per non pensare a tutti i demoni che abitavano nella sua mente in quei giorni.
-Te ne sei accorta solo dopo un mese che l’ho fatto, eh- fece Alessio, piccato. Caterina ci aveva fatto a malapena caso, quando l’aveva visto rimettersi a posto i vestiti nemmeno due minuti prima: aveva solo intravisto dei segni simili a lettere sulla zona del fianco destro, coperte dai jeans, senza però fare il collegamento ad un tatuaggio fatto da poco. 
-Beh non ho accesso alla tua zona sotto i vestiti, fino a prova contraria- replicò prontamente Giulia, con un velo di sarcasmo nella voce – Al contrario di qualcun altro, che sicuramente apprezzerà molto il nuovo tatuaggio sexy-.
Alessio sembrò essere preso totalmente contropiede:
-Di chi?-.
Si alzò sui gomiti, puntati contro il materasso mentre sostenevano il peso delle spalle; in quel momento aveva un’espressione talmente aggrottata e buffa che Caterina si sentì sinceramente divertita.
-Oh avanti, abbiamo notato tutti che tu e Pietro siete sempre insieme negli ultimi mesi- Giulia non perse alcun momento per sganciare la bomba – Sempre insieme-.
Anche lei aveva cambiato posizione, stesa di fianco e con la testa tenuta sollevata dal braccio destro, ed un perfetto sorriso malizioso stampato in viso.
Quando si girò di nuovo verso di lui, Caterina non si stupì affatto di ritrovare Alessio completamente arrossito in viso.
-E allora?- replicò lui, sulla difensiva.
Caterina si morse il labbro inferiore:
-Credo stia alludendo a qualcosa-.
Stavolta lo sguardo di Alessio emanò solamente esasperazione:
-Non mi pare che Pietro abbia mai detto che gli piacciono gli uomini-.
“Ma non ha nemmeno mai detto il contrario” si ritrovò a pensare Caterina, senza però dirlo ad alta voce. Era palese che Alessio fosse a disagio in quel momento a parlarne, ma le sembrò anche di cogliere, oltre a quello, anche una quasi impercettibile vena di rassegnazione.
-Ho ancora qualche dubbio in merito- replicò Giulia, prontamente – Comunque non puoi negare che vi siete riavvicinati molto-.
Alessio rivolse il proprio sguardo al soffitto, sospirando profondamente:
-Sì, ma non in quel senso. Gli ho solo dato una mano per l’esame di Stato-.
Lo aveva detto con voce particolarmente bassa, in quello che fu poco più di un sussurro. Caterina lo guardò stranita per alcuni secondi: non ricordava di aver mai sentito Alessio parlare in quel modo di Pietro e di quel che li legava. Non seppe definirlo fino in fondo: era come se stesse disperatamente aggrappandosi alla razionalità, piuttosto che lasciarsi travolgere dalle insinuazioni di Giulia, ma che una minima parte di lui si stesse comunque rifiutando di farlo.
Fu strano pensarlo: non aveva mai davvero pensato, al di là degli scherzi e delle battute, che Alessio potesse iniziare a provare qualcosa per qualcuno come Pietro. C’erano stati momenti in cui aveva percepito qualcosa di insolito tra loro – Caterina era sicura di ricordare almeno un paio di episodi del genere-, ma non si era mai soffermata a pensare che potesse davvero realizzarsi qualcosa di simile. Come Alessio ne stava parlando in quel frangente, però, le fece venire più di un dubbio.
-Però ora che l’ha passato non lo devi più aiutare, eppure sei comunque sempre a casa sua- si ritrovò a riflettere ad alta voce. Era un’altra cosa che aveva notato nei mesi passati, la frequente presenza di Alessio da Pietro. Non le era difficile capire come mai Alessio volesse passare più tempo possibile fuori casa – nonostante il loro riconciliarsi come amici, lui ed Alice erano comunque dei separati in casa a tutti gli effetti-, ma si ritrovò a pensare che poteva esserci anche più di un motivo dietro.
Alessio sbuffò sonoramente, sbattendo una mano sul materasso, seppur senza troppa convinzione:
-Ma vi siete coalizzate?- sbottò, gli occhi azzurri innervositi posati su entrambe – E comunque dovreste sapere come finiscono le storie tra un uomo non etero ed uno etero: è sempre il primo a finire male-.
C’era stata un po’ d’insicurezza nelle sue ultime parole, ma Caterina preferì non ribattere alcunché. Era piuttosto sicura che ci avrebbe pensato Giulia a farlo.
-Ah, quindi stai ammettendo che qualcosa c’è?- lo provocò ancora Giulia, con voce maliziosa.
Alessio si girò di nuovo verso di lei, guardandola malamente:
-No, era solo un esempio per dirvi di stare zitte-.
Caterina lasciò andare un mezzo sorriso – una vittoria, dopo più di un mese di pura agonia.
Giulia sbuffò rumorosamente, annoiata:
-Sei permaloso-.
-Sono realista-.
“È il momento di intervenire”.
-Non battibeccate- li redarguì di nuovo, come se stesse badando a due bambini dell’asilo piuttosto che essere in compagnia di due adulti ormai vicini alla trentina.
Per un attimo si perse nei suoi pensieri, alle immagini che si erano formate nella sua mente ancora mesi prima: ripensò a quando aveva provato ad immaginare Francesco e Viola cresciuti di qualche anno, quando sarebbero entrati entrambi nell’età in cui i capricci fanno parte della routine quotidiana. Avrebbero bisticciato anche loro, un po’ come stavano facendo Giulia ed Alessio in quel momento, e forse allo stesso modo sarebbe toccato sempre a lei cercare di calmare le acque.
Sentì il cuore perdere un battito nel ricordare che, ormai, quelle immagini sarebbero rimaste per sempre unicamente dei pensieri, fantasie che non avrebbero mai preso vita nella realtà.
-Non è colpa mia se insinuate cose- si lamentò di nuovo Alessio, scuotendo il capo rassegnato. Caterina approfittò di quel loro momento di distrazione per passarsi una mano sul viso, cercando di cancellare le lacrime che le si erano formate nuovamente agli angoli degli occhi. Era incredibile come, ancora dopo tutte quelle settimane, si sentisse triste nei momenti più disparati.
-Sei un po’ stressato o sbaglio?- Giulia non sembrava voler mollare l’osso – Andare in palestra non sta avendo molti risultati, da quel punto di vista-.
Ci fu un attimo di completo silenzio durante il quale Caterina ebbe una strana sensazione. Non era uno di quei silenzi rilassati, quelli passati in compagnia di persone troppo intime per far sì che calasse l’imbarazzo: era come se fossero attimi gravidi di qualcosa, un peso che si stava avvicinando sopra di loro prima ancora che se ne rendessero conto appieno. Caterina non avrebbe nemmeno saputo spiegare da dove derivava quel sentore, dopo delle parole così casuali di Giulia.
-In realtà non ci vado da un po’ di mesi-.
Alessio l’aveva mormorato con fare confuso, come se non si fosse aspettato una risposta simile da Giulia. Quando Caterina si girò verso di lei, le sembrò di vedere la stessa espressione di Alessio stampata sul suo viso, con l’unica differenza sul biancore che la pelle di Giulia stava assumendo sempre di più.
-In che senso?- sussurrò lei, mettendosi a sedere, le gambe incrociate e lo sguardo rivolto unicamente ad Alessio.
-Credo nell’unico senso che esiste: sto lavorando parecchio, e quando torno a casa la sera non ho molta voglia di prendere e andarmene in palestra- anche lui si era messo a sedere in una posizione speculare a Giulia, perplesso – Quindi non vado da circa fine ottobre-.
C’era davvero qualcosa di strano, e Caterina non riuscì a reprimere il sesto senso che le stava dicendo che qualcosa era appena accaduto, qualcosa di grosso che però non riusciva a riconoscere tra quelle informazioni appena ascoltate.
Alessio scosse il capo, guardando Giulia con la fronte aggrottata:
-Ma perché? Mi sembri strana-.
Giulia era cerea in volto, molto più silenziosa e controllata di quanto non lo era fino a pochi minuti prima. Era ovvio che c’era qualcosa che non quadrava, ma Caterina non aveva idea da cosa potesse dipendere.
-No, è che … - Giulia si interruppe subito, mordendosi il labbro inferiore nervosamente, parlando con voce incerta e a malapena udibile – Filippo non mi ha mai detto che tu avevi smesso di andare con lui-.
Alessio, se possibile, la guardò ancora più confuso:
-Davvero? Strano. Mi sembra di ricordare che mi avesse detto che ti aveva avvisata-.
-In che senso non te l’ha mai detto?- Caterina si costrinse a mettersi a sedere a sua volta. Cercò di ignorare la facilità con cui compì quel gesto, che le sarebbe stato impossibile fino ad un mese e mezzo prima – e che lo sarebbe stato ancor di più se le cose fossero andate diversamente.
Giulia sembrava in preda all’indecisione. L’allegria che sembrava averla pervasa fino a qualche momento prima era del tutto scomparsa, come se non fosse mai esistita. C’erano solo esitazione e disorientamento che trasparivano dalla sua espressione rabbuiata e crucciata, gli occhi timorosi abbassati.
Il cambiamento era stato così repentino da risultare a tratti spaventoso.
-Continua ad andare in palestra, ma non mi ha mai detto che ci stava andando da solo- disse semplicemente, continuando a torturarsi il labbro inferiore con i denti. Aveva lo sguardo perso davanti a sé, e Caterina, per quanto si rendesse conto che le cose tra lei e Filippo non fossero più così rosee come un tempo, faticava a capire cosa potesse passarle per la testa in quel momento.
-Forse si è dimenticato di dirtelo- cercò di dire Alessio, rassicurante – Non è una cosa così importante-.
Di certo non sarebbe stato importante per qualcun altro, ma Caterina ebbe l’impressione che per Giulia, invece, fosse un dettaglio fondamentale. Non poteva che essere altrimenti, visto l’ombra di paura che l’aveva fatta sbiancare in volto.
La osservò mentre alzava esitante gli occhi verso Alessio:
-Non credi lo sia?-.
Alessio la guardò a sua volta con confusione, come se lui stesso si stesse domandando cosa stesse succedendo:
-Perché dovrebbe?- replicò, con tono razionale e paziente – Non è nulla di che, stai tranquilla. Gli sarà passato di mente-.
L’espressione di Giulia, contratta e vacua, non era quella di chi era davvero convinto che si trattasse di una semplice dimenticanza.
Caterina le si fece impercettibilmente vicino:
-C’è qualcosa che non va?-.
Era una domanda retorica, perché sapeva benissimo – e lo avrebbe saputo anche se Giulia non le avesse mai accennato nulla- che le cose con Filippo erano sempre un continuo di periodi alti e bassi. Ma in quel momento era diverso: c’era qualcosa che indicava un disagio interiore di Giulia che andava ben oltre quella situazione che si protraeva ormai da anni.
-Non lo so- Giulia parlò in poco più di un sussurro – Forse sono io che … -.
Non continuò a parlare, gli occhi ora di nuovo abbassati. Caterina si trattenne a stento dallo spronarla a continuare, a confidarsi con loro; evitò di farlo solo perché, lo sapeva, insistere non sarebbe servito a nulla, né avrebbe portato a qualcosa di buono.
Accantonò qualsiasi speranza di sentirla parlare quando Giulia, dopo quasi un minuto di silenzio, sospirò a fondo con fare rassegnato:
-Comunque non è importante, non è nulla di che-.
C’era una contraddizione evidente tra le sue parole e il suo comportamento, e per un attimo Caterina si sentì innervosita: era per lei che Giulia stava evitando di confidarsi? Era per non caricarla di ulteriori pesi? Era un tentativo di eccessiva attenzione verso la sua sensibilità che si stava tenendo tutto dentro, qualsiasi cosa fosse?
Sbuffò rumorosamente, incapace di trattenersi oltre:
-Lo so che siete qui per me, e vi ringrazio per questo, ma solo perché sono in una situazione di merda allora non significa che non possiate esserne in una simile anche voi- iniziò a dire, rossa in viso per la rabbia e la frenesia con cui parlò – Se c’è qualcosa che non va, potete dirmelo. Posso sopportarlo, anche se sto già male per quel che è successo a me-.
Calò un silenzio pesante nella stanza, non appena finì di parlare. Le ci volle qualche attimo per realizzare che, inaspettatamente, aveva ammesso più di qualcosa che si era tenuta dentro fino a quel momento.
Le venne voglia di scappare, uscire da quella stanza e correre il più lontano possibile da Giulia ed Alessio, la voglia di piangere che stava tornando e che si stava facendo sempre più forte.
Ma Caterina non si mosse: rimase immobile seduta sul letto, senza il coraggio di alzare il viso e voltarsi verso uno dei due, o di dire qualcosa.
-Credo sia la prima volta che dici come stai da quando è successo-.
La voce di Alessio era stata a malapena udibile, ma nella stanza regnava una tranquillità così assoluta che nulla avrebbe impedito l’udire le sue parole.
Caterina si ritrovò a sbuffare amaramente:
-Da quando ho avuto l’aborto?-.
“Da quando ho perso Viola”.
Scosse il capo, annuendo:
-Sì, beh … Non è un ricordo piacevole. C’è un perché se non ne parlo-.
Caterina non ebbe il coraggio di guardare né Alessio né Giulia neanche in quel momento. Era abbastanza sicura che da lei non avrebbe ricevuto subito una qualche risposta – forse ancora troppo riflessiva su Filippo, su ciò che era diventata la loro relazione, sulla fragilità che vi stava ormai alla base-, ma sapeva che accanto a lei Alessio stava solo aspettando di trovare le parole migliori per parlare. Si sentiva il suo sguardo addosso, e ne ebbe paura: non erano sguardi di pietà che le servivano. Di quelli ne aveva ricevuti fin troppi, prima in ospedale, poi dai suoi genitori quando avevano saputo, e poi da Nicola. Non voleva che anche i suoi amici la guardassero in quel modo.
-Non intendevo che ne dovessi parlare prima-.
Alessio parlò con delicatezza, così rara in lui negli ultimi anni.
-Non c’è nulla di male a prendersi tempo per elaborare e superare un lutto-.
Un lutto.
Anche se non ci si era mai riferita in quei termini, Caterina sapeva che lo era: era un lutto. La perdita di quella che sarebbe stata la sua seconda figlia, la bambina che teneva in grembo e che per qualche errore nell’amniocentesi ora non c’era più.
La perdita di Viola le aveva lasciato un vuoto fisico, perché non era più in lei, non poteva più toccare il pancione; e poi era mancata in tutto il resto, nei suoi sogni, nelle sue immagini del futuro, anche nella sua mente. Era sfumata via come se non fosse mai davvero esistita.
Ed era di quel vuoto che non voleva parlare. Era qualcosa di troppo intimo, di troppo doloroso, per parlarne.
-Non credo di aver superato ancora nulla- disse invece, sperando che la sua voce atona bastasse come monito.
Si coricò di nuovo sul letto, tenendo gli occhi fissi al soffitto. Era più facile far finta di essere lì da sola, accompagnata solo dalle sue stesse ferite, che non ricordarsi della presenza di Alessio e Giulia.
Era sempre più facile tenersi tutto dentro e non cercare di parlare, che non rischiare di risultare patetica nel suo dolore.
C’era una parte di lei, però, che avrebbe voluto alzarsi e stringerli entrambi: sentirli per capire e ricordarsi che c’erano, e che anche se non avevano passato quel che aveva passato lei e che quindi non potevano capire fino in fondo, erano lì in ogni caso.
Sentì di nuovo gli occhi farsi lucidi, ma non si mosse, né disse nulla.
Tenne lo sguardo fisso al soffitto anche quando percepì la mano di Giulia posarsi piano sulla sua spalla, cullarla dolcemente come avrebbe fatto una madre con una figlia, o una sorella con un’altra sorella.
-Non c’è una data di scadenza per farlo-.
La sua voce era diversa da tutte le altre volte in cui l’aveva consolata in tutti quegli anni passati insieme. Era una voce piena di dolore, un dolore diverso dal suo ma che rimaneva sempre dolore.
-Hai Nicola, hai Francesco. Hai anche noi, lo sai-.
Caterina lo sapeva, in fondo, anche se continuava a sentirsi sola.
Giulia le si accoccolò di fianco, stesa specularmente a lei, e lo stesso fece anche Alessio qualche secondo dopo. Erano tornati stesi tutti e tre, esattamente come lo erano quando erano appena arrivati lì.
-Verranno giorni migliori- mormorò Alessio, a malapena udibile.
Non ne era così sicura, ma Caterina non ribatté: era l’unica speranza a cui poteva aggrapparsi, l’unica che le rimaneva e che le era tornata tra le mani, dopo averla persa in una notte di Dicembre.
 
I know everything about you
We gotta trust each other
Never forget
More than the plain “thank you”
You and me
Decided not to fight tomorrow for real [2]
 
*
 
Don't ask if I'm happy, you know that I'm not
But at best, I can say I'm not sad
'Cause hope is a dangerous thing for a woman like me to have
Hope is a dangerous thing for a woman like me to have
 
Sembravano passate intere giornate da quando Giulia e Alessio se ne erano andati, lasciando che le loro voci non riempissero più quella stanza chiusa.
Caterina, invece, non se ne era andata.
Era rimasta nella stessa stanza da letto dove era rimasta con loro per un altro paio d’ore, sullo stesso letto dove tutti e tre erano rimasti sdraiati in silenzio, un muto abbraccio che si era sciolto solo dopo molto.
Ormai ci aveva fatto l’abitudine a rimanere lì per ore da sola: passava così tutte le sere, indipendentemente dagli sforzi di Nicola per cercare di convincerla ad unirsi a lui e Francesco nel salotto dell’appartamento. Erano passate alcune settimane da quando Nicola aveva smesso di cercare argomentazioni sempre più articolate per spingerla a non rimanere lì: doveva essersi convinto che nulla avrebbe funzionato. Non aveva mai smesso, però, di chiederle ogni sera cosa avrebbe fatto dopo cena – l’unico momento che Caterina concedeva al rimanere in compagnia sua e di loro figlio-, forse nella speranza di sentirsi dire, una volta per tutte, parole diverse dal “Vado a stendermi a letto” che Caterina gli rivolgeva quotidianamente.
Era un silenzio ormai famigliare, quello che la circondava durante le ore che passava chiusa in quella stanza, isolandosi volontariamente dal resto della casa e dei suoi abitanti.
Sapeva che non era facile per Nicola vederla starsene lì così a lungo, così come sapeva che anche Francesco, pur non potendo ancora comprendere a fondo quel che succedeva, sentiva che qualcosa era cambiato. Che qualcosa si era spezzato.
Stesa su quel letto non poteva far altro che affrontare i propri fantasmi, oltre alla consapevolezza di essere causa di altro dolore per qualcun altro. Come in un loop infinito incapace di essere interrotto.
“Non credo di aver superato ancora nulla”.
Era stato difficile lasciarsi andare a quella confessione, ripensò mentre si raggomitolava in mezzo alle coperte pesanti, nella luce soffusa che la lampada sul suo comodino rilasciava.
Erano parole che, fino a quel giorno, aveva intuito ma che non aveva mai detto a voce a qualcuno. Dirlo era diverso che tenerselo dentro: era un punto fermo che non lasciava più scampo, qualcosa che ormai era stato pronunciato e che non poteva più essere cancellato. Era qualcosa che aveva detto a qualcun altro che non era se stessa, ammettendolo per la prima volta da quando tutto era successo.
Chiuse gli occhi, come se bastasse quel semplice gesto per cancellare ricordi che la accompagnavano ogni minuto di ogni singolo giorno.
Per quanto si era sforzata di dimenticare tutto – come se poi fosse davvero possibile cancellare la propria memoria su proprio desiderio- c’erano sempre alcuni particolari, sempre gli stessi, a tornarle ciclicamente in mente, come una litania ripetuta.
Ricordava il sangue che le aveva sporcato i vestiti e la pelle delle cosce. Ne ricordava anche l’odore, l’odore penetrante e ferroso, e ne ricordava la viscosità appiccicosa, il macchiare veloce che non lasciava scampo a nulla.
Ricordava le contrazioni così simili a quelle provate quando era nato Francesco, ma che stavolta avevano rappresentato solo un segno di perdita.
E ricordava, più di tutto, lo sguardo di Nicola.
Ne ricordava ogni singola sfumatura, come era passato dalla paura, alla disperazione, ed infine alla muta rassegnazione.
Con le parole aveva cercato di confortarla ogni secondo, ma erano stati gli occhi che le avevano fatto capire come sarebbe veramente andata.
Del resto – la corsa in ospedale, la visita ginecologica, il responso ormai fin troppo chiaro- ricordava poco. Ricordava solo che era stato difficile partorire Viola, perché da lei non arrivava già alcuno stimolo vitale che la aiutasse ad uscire.
Ricordava meglio che in quei minuti aveva cercato di non pensare a nulla. Aveva cercato di vedere il meno possibile, come se non vedere il corpo ormai esanime di sua figlia potesse preservare le immagini che di lei si erano formate nella sua mente nei mesi della gravidanza.
Non era rimasto più nulla, se non il sangue, il sudore e le lacrime, e il vuoto che era venuto subito dopo.
Non ricordava nemmeno qual era stata la causa che aveva portato a quell’aborto spontaneo, e ricordarla non le interessava nemmeno più.
Era stata una discesa verso il basso così veloce, e così inaspettata, che Caterina faticava ancora a decifrarne le circostanze. Sapeva solo che l’unico risultato che aveva avuto, oltre ad aver perso Viola, era stato quello di passare intere ore a tenersi a debita distanza da Nicola e Francesco.
Era per quello che era stato strano sentirsi dire qualcosa riferito a quel che stava passando. Si era così tanto abituata a tenersi tutto dentro, a non lasciar trapelare nulla a nessuno, che non poteva fare a meno di pensare e ripensare a quel momento.
“Non c’è nulla di male a prendersi tempo per elaborare e superare un lutto”.
La voce di Alessio le risuonò nella mente, quasi come se fosse ancora lì, accanto a lei, a ripeterglielo ancora ed ancora.
Una parte di lei sapeva che, in fondo, quel tempo dedicato a se stessa un giorno sarebbe servito. Che tutta la sofferenza di quel mese e mezzo pian piano sarebbe stata meno tagliente, e che il dolore che ora provava – che provava anche Nicola- sarebbe servito a ricordarle di quanto la vita era imprevedibile.
Ma era la speranza stessa di arrivare un giorno a poter dire di stare bene che le mancava.
Ricordava quanta speranza aveva avuto il giorno in cui aveva perso Viola – speranza che le cose si potessero risolvere, speranza di poter uscire dall’ospedale con ancora sua figlia in grembo, speranza di non dover affrontare il dopo con la consapevolezza di non aver potuto fare nulla per salvarla-, e ricordava anche quanto quella speranza si era dissolta nel giro di ore.
Non voleva di nuovo sperare in qualcosa che poteva avvenire in un tempo così lontano come non avvenire del tutto.
Forse, si ritrovò a pensare, la speranza non sarebbe mai bastata da sola, se il primo passo non fosse arrivato proprio da lei.
Non aveva nemmeno idea se di farlo ne aveva davvero il coraggio: restarsene nel proprio dolore era più facile che cercare conforto ed aiuto da qualcun altro, perché il suo era un dolore a lei conosciuto, qualcosa a cui ormai si era lasciata andare e a cui si era abituata. In un certo senso, le parole di Giulia di quel pomeriggio – “Non c’è una data di scadenza per farlo”- l’avevano fatta sentire meno strana, più libera di vivere la sua sofferenza senza doversene sentire in colpa.
Sapeva, in fondo, che non poteva cristallizzarsi su quel dolore e continuare a guardare indietro, senza andare avanti. Doveva farlo per se stessa, prima di qualunque altro motivo.
“Verranno giorni migliori” le aveva detto Alessio, e Caterina sapeva che era così. Un giorno, nel futuro, avrebbe ripensato a quelle notti passate nella solitudine della sua stanza da letto, chiedendosi come mai fosse rimasta così sull’orlo del baratro per tanto tempo.
Era il come arrivarci, a quei giorni migliori, il vero quesito. Dimenticare Viola non sarebbe mai potuto succedere, in nessun modo, ma il suo ricordo poteva diventare meno doloroso – in un qualche modo che ancora non le era chiaro.
“Hai Nicola, hai Francesco”.
Caterina abbassò le palpebre, sentendo pungere le lacrime accumulatesi agli angoli degli occhi.
Le mancavano Nicola e Francesco: le mancavano i momenti passati insieme, anche i più banali. Ed era strano sentire la mancanza di qualcuno che viveva sotto lo stesso tetto, ma era una mancanza malinconica derivata unicamente dalla sua incapacità di essere davvero con loro, mentalmente e – in quelle sere solitarie- anche fisicamente.
“È con loro che dovrei essere, non qui da sola”.
Non si era mai chiesta, prima di quel momento, se isolarsi volontariamente fosse stata la scelta migliore. L’aveva fatto senza pensare alle implicazioni, perché essere da sola l’aveva fatta sentire al sicuro, capita senza dover parlare a qualcuno di quel che stava provando.
Era forse stato un errore cercare di tenere fuori chiunque dai suoi pensieri? Forse non all’inizio, ma si rendeva conto poco a poco quanto cominciasse a pesarle quella condizione.
Forse, in fondo, dare una prima svolta era più semplice di quel che pensava: smettere di rinchiudersi dentro se stessa.
Sarebbe potuto bastare alzarsi da quel letto, camminare fino a raggiungere il salotto dove probabilmente c’erano ancora sia Nicola che Francesco. E sapeva che Nicola, prima o poi, le avrebbe chiesto cos’era cambiato tanto da spingerla ad uscire dal suo guscio, ma sperava solo di poter trovare una risposta a quella domanda prima che le venisse posta.
Scostò con mani insicure le coperte sotto le quali era rimasta fino a quel momento. Non si mosse subito: c’era ancora una parte di lei che le sussurrava di non andare, che Nicola e Francesco se la sarebbero cavata anche senza di lei.
Ma era lei ad aver bisogno della loro presenza, in quel momento. Era lei che aveva bisogno di vedere e stare con la sua famiglia – la sua famiglia che rimaneva tale pur senza Viola-, più di qualsiasi altra cosa.
 
There's a new revolution, a loud evolution that I saw
Born of confusion and quiet collusion of which mostly I've known
A modern day woman with a weak constitution, 'cause I've got
Monsters still under my bed that I could never fight off
A gatekeeper carelessly dropping the keys on my nights off
 
Il primo passo fu quello più difficile. Le sembrò quasi di sentirsi disorientata nel ritrovarsi in piedi, anziché ancora stesa a letto come qualsiasi altra sera precedente. Si mosse lentamente, per minuti che le parvero ore, verso la porta. Ne abbassò la maniglia chiedendosi ancora se ne potesse valere la pena.
Cercò di ignorare quella domanda, mentre finalmente apriva la porta della camera per uscire in corridoio. Udiva alcune voci provenienti dalla tv accesa del salotto, ma non vi si soffermò attentamente, seguendone invece il rimbombo. Si ritrovò sulla soglia del piccolo salotto dell’appartamento prima di quanto si sarebbe aspettata: c’era la luce spenta, e sia Nicola che Francesco stavano seguendo attentamente quel che stava succedendo nel film che stavano dando sul canale dove era puntata la televisione.
Caterina si ritrovò a sorridere impercettibilmente nell’osservare Francesco avvinghiato a Nicola, il capo abbandonato sul petto di suo padre, usato un po’ a mo’ di cuscino. 
Nessuno dei due si era ancora accorto della sua presenza all’altro capo della stanza, troppo intenti a guardare il film – o a far finta di guardarlo, con il pensiero invece altrove.
Caterina rimase ferma in quella posizione per un tempo che non riuscì a quantificare. Riusciva soltanto a tenere lo sguardo su Nicola e Francesco – sulla sua famiglia-, ad osservarli da lontano.
C’era una parte di lei che le stava facendo notare quanto, nel quadro famigliare che le si stava presentando davanti, mancasse un componente.
Si rese conto, in un attimo di consapevolezza, che non era Viola – la sua Viola, una parte di sé che se ne era andata per sempre, che però avrebbe continuato a ricordare- a mancare, ma lei stessa.
Era lei che avrebbe dovuto prendere posto su quel divano, accanto a Nicola e Francesco. E questo perché, per quanto ancora le risultasse difficile anche solo pensarci, era solo insieme a loro che avrebbe potuto definitivamente andare avanti.
“Hai Nicola, hai Francesco”.
Annuì tra sé e sé: Giulia aveva ragione. Il primo passo doveva venire da lei, ma non doveva tagliare fuori loro due, o far finta di non aver bisogno della loro presenza.
Prima che potesse decidere di muovere qualche passo, vide Nicola girarsi lentamente nella sua direzione, forse sentitosi troppo osservato. Per i primi secondi strizzò gli occhi come se non ci vedesse bene, ma dovette rendersi conto ben presto che la sua non era un’allucinazione: non sgranò gli occhi, né reagì in maniera esplicita, ma Caterina sapeva che era sorpreso. Lo riusciva a percepire anche così, pur con le sole luci della tv accesa ad illuminare il volto di Nicola.
La tenne fissata per lunghi secondi, in silenzio, forse speranzoso che fosse lei a parlare. Quando dopo almeno un minuto nessuno di loro aveva ancora detto nulla, Nicola si schiarì la gola:
-Vuoi venire a vedere anche tu High School Musical?-.
Caterina rimase disorientata per alcuni attimi. Non si era aspettata una domanda così.
Pur nella confusione di essere stata presa contropiede, si ritrovò ad annuire.
Camminare fino al divano fu più facile di quel che si era aspettata: Nicola non disse nulla, nessuna domanda sul suo improvviso comparire lì. Sembrava una comune serata, un normale post cena passato in salotto per un paio d’ore prima di avviarsi a dormire.
Era tutto come se nulla fosse successo, una sorta di normalità cristallizzata che Caterina non sperimentava da tempo.
Si lasciò sprofondare tra i cuscini morbidi del divano, all’estremo opposto di Nicola; non passò nemmeno un secondo dal momento in cui aveva preso posto a quello in cui Francesco si era girato verso di lei. Era sorridente, forse persino lui consapevole – nella sua innocenza da bambino di appena quattro anni- della piega inaspettata che quella serata stava prendendo.
-Mamma- la chiamò, spostandosi sul divano ed avvicinandosi maggiormente a lei – L’hai già visto?-.
Caterina alzò gli occhi verso il televisore: erano immagini che conosceva, che associava a tempi passati, a quando ancora era immersa nell’infanzia a sua volta.
Si ritrovò ad annuire sorridendo.
-È un film di quando ero bambina- gli disse a mezza voce, allungando una mano per scostargli una ciocca di capelli biondi dal viso – Ha quasi vent’anni-.
-Quindi è vecchio- le rispose Francesco, allargando gli occhi per la sorpresa.
Nicola, rimasto in silenzio fino a quel momento, si voltò verso il bambino, guardandolo fintamente offeso:
-Quindi siamo vecchi anche noi?- domandò con fare fintamente minaccioso. Si avventò su Francesco facendogli il solletico sulla pancia, facendolo ridere a crepapelle e contorcere sul divano nel tentativo di sottrarsi alle sue mani.
Caterina si portò le gambe piegate contro il busto, tenendole strette a sé con un braccio; era un momento così normale, quello che stava osservando. Sembrava una qualsiasi serata passata insieme davanti alla tv, come se nulla fosse mai cambiato.
Nicola ebbe pietà di Francesco qualche secondo dopo: lo lasciò sgusciare dalla sua presa, ridendo ancora mentre lo guardava strisciare velocemente verso Caterina, come se accanto a lei potesse sentirsi più al sicuro.
Si rimise seduto composto a sua volta, indicando la tv e rivolgendo a Francesco uno sguardo d’intesa:
-Sta per iniziare un’altra canzone- gli disse, con un cenno – Ascoltala bene-.
Francesco si rizzò subito con la schiena dritta, tornando a seguire il film con attenzione. Fu in quel momento di ilarità che Nicola portò di nuovo gli occhi su Caterina:
-Ti unisci al nostro coro?-.
Per un attimo rimase perplessa. Forse non poteva aspettarsi domande diverse da quelle, non mentre Francesco era lì con loro, ma aveva come l’impressione che Nicola non gliene avrebbe fatte nemmeno dopo. Sembrava già aver capito cosa l’avesse spinta a raggiungerli, e non sembrava nemmeno intenzionato a riportare a galla l’argomento.
Si schiarì la gola, consapevole di dover ancora rispondere:
-Non mi ricordo bene le parole- mormorò, rassegnata.
Il sorriso che le rivolse Nicola la rese più serena: non era il solito sorriso pieno di preoccupazione che le aveva rivolto praticamente ogni giorno dopo l’aborto spontaneo, né il sorriso insicuro e pieno di dolore che invece rivolgeva a Francesco.
Era un sorriso calmo, forse in parte persino gioioso.
-Non importa- le disse, allungandole una mano – Basta cantare insieme-.
Caterina si ritrovò a pensare, mentre allungava a sua volta una mano e stringeva le dita di Nicola tra le sue, che forse era valsa la pena uscire da quella stanza.
Che forse, nonostante il cammino ancora lungo, non tutta la speranza se ne era andata.
 
They write that I'm happy, they know that I'm not
But at best, you can see I'm not sad
But hope is a dangerous thing for a woman like me to have
Hope is a dangerous thing for a woman like me to have

Hope is a dangerous thing for a woman like me to have
But I have it
Yeah, I have it
Yeah, I have it
I have [3]




 
[1] Sia – “Confetti”
[2] BTS - "Friends"
[3] Lana Del Rey - "Hope is a dangerous thing for a woman like me to have (but I have it)"
il copyright delle canzone appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.

NOTE DELLE AUTRICI
Sono poche le parole adatte a commentare quanto letto in questo primo appuntamento del capitolo 13. Purtroppo per noi, autrici e lettori, ma soprattutto per Giulia, i peggiori sospetti, che tanto hanno tormentato la nostra protagonista negli ultimi tempi e che, con il passare dei capitoli, si sono fatti più evidenti, fino a diventare concreti oggi.
Quella macchia, come un pugno nello stomaco, ha messo nero su bianco quello che per Giulia è decisamente, nel bene ma decisamente nel male, un punto di svolta. Come si evolveranno ora le dinamiche familiari tra Giulia e Filippo? Ci sarà un confronto tra i due? E che ruolo avrà, in tutto questo, Nicola?
Nella parte successiva, invece, abbiamo la conferma di cosa è successo a Caterina alla fine dello scorso capitolo: alla fine ha davvero avuto un aborto spontaneo, perdendo Viola 😔 Le conseguenze del trauma si fanno ancora vedere dopo un mese, e proprio per questo motivo Giulia e Alessio si trovano con lei, cercando di distrarla e starle accanto.
Ma è proprio in questa occasione che Alessio dice qualcosa di sospetto che non fa altro che alimentare i sospetti di Giulia, che crescono sempre di più, pur decidendo di tenerli ancora per sè, il pomeriggio si chiude con la promessa sua e di Alessio di esserci per Caterina.
Ed è proprio su di lei che ci concentriamo nel finale dell'aggiornamento: l'aver parlato con Giulia e Alessio sembra aver giovato almeno in parte a Caterina ... Certamente le cose non si risolveranno da sole e in tempi brevi, ma ha almeno deciso di fare un primo passo tornando a passare un po' di tempo con Nicola e Francesco.
Cosa accadrà nel prossimo capitolo?
Per scoprirlo ci troverete qui mercoledì 1° novembre!
Kiara & Greyjoy


 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - In mille pezzi ***


CAPITOLO 14 - IN MILLE PEZZI


 
Cieca la gente intorno a te
No, non conosce la tua solitudine [1]
 
Era un’oscurità famigliare quella in cui si trovava immersa, la stessa in cui era lentamente affondata, un centimetro in più ogni giorno di quella settimana.
Giulia si rigirò nel letto, facendo attenzione al respiro regolare di Filippo, steso accanto a lei: stava dormendo nel modo più rilassato possibile, come se non ci fosse alcun pensiero a tormentarlo e a tenerlo sveglio.
Non poteva dire lo stesso per se stessa.
Era da diverse notti che faticava a dormire, impiegando ore anche solo ad addormentarsi. Era la sua ansia a tenerla sveglia, l’ansia di arrivare al giovedì della settimana successiva, solo per poter scoprire qualcos’altro che riguardasse Filippo e le sue uscite in palestra.
Aspettava quella notte da sette giorni precisi.
Non si era soffermata ogni secondo sull’attesa del giovedì successivo, ma ora che ci era arrivata non poteva fare a meno di pensarci in continuazione. Ora che Filippo stava dormendo poteva agire un po’ più in libertà – non meno angosciata da ciò che avrebbe potuto scoprire, ma meno timorosa di farsi beccare da lui.
Si voltò verso il comodino, cercando nel buio il proprio cellulare: ne accese il display solo per vedere velocemente che ore fossero. Era da poco passata la mezzanotte, e in casa non c’era alcun rumore: stavano tutti dormendo inconsapevoli che lei, invece, stava solo aspettando che passasse qualche altro attimo prima di scostare le coperte ed avviarsi verso la sacca che Filippo usava per andare in palestra.
Aspettò qualche altro secondo, prima di muoversi. Nonostante la quasi totale oscurità della camera, riusciva a distinguere vagamente i contorni del corpo addormentato di Filippo: era girato verso di lei, steso su un fianco, perso nel sonno profondo della notte.
“Dimmi che non mi stai nascondendo niente”.
Giulia si ritrovò a mordersi il labbro, per un attimo indecisa se agire o meno.
“Ti prego”.
Era dal weekend appena passato che non faceva che ripetersi in mente le parole che le aveva detto Alessio. Aveva cercato mille ragioni per spiegare come mai Filippo non le avesse detto nulla su quel cambio di programma avvenuto da mesi, ma non era riuscita mai a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa non tornasse.
In quel momento, l’ultimo per cambiare idea e lasciar perdere, stava quasi sperando di trovare un motivo che la illuminasse e la spingesse a fidarsi.
Ma poi ricordò la camicia – quella sporca di rossetto, quella che con tutta probabilità Filippo aveva cercato di nasconderle-, e tutti i possibili motivi che potevano spingerla a rimanere si dissolsero così come erano venuti.
Scostò le coperte cercando di fare meno rumore possibile, e spostando le gambe fuori dal bordo del letto.
Trattenne persino il fiato, mentre si alzava con movimenti estremamente lenti. Quando riuscì a mettersi in piedi si prese qualche secondo per ascoltare il respiro di Filippo: era ancora regolare e profondo, segno che stava ancora dormendo.
Arrivare alla porta lasciata socchiusa fu un po’ più facile: camminò a piedi scalzi silenziosamente, aprendola e socchiudendola di nuovo dietro di sé.
In meno di due minuti era già arrivata al piccolo sgabuzzino, di fronte alla cucina, dove Filippo riponeva sempre il borsone che usava per la palestra. Ritrovarselo davanti, alla sua totale mercé, le fece girare la testa.
Non aveva idea di cosa avrebbe potuto trovare; non sapeva nemmeno se avrebbe potuto trovare qualcosa che le desse qualche indizio.
Rimase ferma a fissarlo per svariati secondi, incapace di alzare il braccio per aprirne almeno la zip.
Aveva paura, non poteva negarlo: era passata una settimana esatta da quando aveva scoperto la camicia sporca di rossetto, ed ancora meno da quando Alessio le aveva detto di aver smesso di frequentare la palestra con Filippo. Anche se si sforzava di avere fiducia – un po’ di speranza di starsi sbagliando-, non riusciva a zittire del tutto i timori peggiori che le affioravano in mente.
Con un sospiro profondo, e il cuore che batteva forte, si decise ad agire. Non aveva molto tempo, e non poteva rischiare che Filippo si svegliasse improvvisamente e la trovasse lì; sapeva che, se fosse successo, ogni suo tentativo di scoprire qualcosa sarebbe andato inevitabilmente in fumo.
Aprì la zip con lentezza infinita, cercando di non fare troppo rumore.
Giulia si ritrovò inconsapevolmente a trattenere il fiato, mentre dava una prima occhiata all’interno della sacca: c’era la borraccia, ora vuota, che Filippo usava sempre per bere, e sul fondo un asciugamano di scorta ed ancora pulito. A prima vista non sembrava esserci altro: anche se era rientrato tardi, ed aveva avuto poco tempo per cenare prima di passare un’ora davanti alla tv ed andarsene a dormire, Filippo si era preso tempo per buttare nella cesta dei panni da lavare tutto quello che aveva usato. Per un attimo Giulia fu tentata di lasciar perdere e andare invece a controllare proprio là, se ci fosse qualche altro capo sporco di rossetto come la camicia della settimana prima; rimase indecisa sul da farsi per qualche attimo, prima di decidere di dare un’ultima occhiata più approfondita all’interno della borsa, e poi al limite cercare altrove.
Allungò le mani all’interno, spostando delicatamente l’asciugamano per vedere se c’era qualcosa sotto. Non trovò nulla, a parte il fondo della borsa, completamente spoglio. Spostò anche la borraccia, avendo così migliore visuale su due piccole tasche interne di cui non si era accorta fino a quel momento.
Sentì il cuore batterle ancora più forte, come se prima ancora di razionalizzarla, la sensazione d’ansia si fosse acuita per qualche motivo.
Le ci volle un altro sospiro profondo prima di aprire la zip della prima tasca interna. Vi tirò fuori un pacchetto di fazzoletti, per metà già usati.
Per un attimo si sentì un po’ meno agitata, ma la stessa sensazione tornò forte quando fu il turno della seconda tasca. Le servì qualche altro secondo per aprirla ed infilarvi la mano all’interno, le dita che si scontrarono quasi subito con qualcosa dalla forma quadrata.
Quando Giulia la estrasse rimase totalmente immobile per quelli che le sembrarono minuti interminabili. Era come se tutto si fosse appena fermato, nel silenzio completo di una casa dormiente, illuminata unicamente dalla lampadina asettica dello sgabuzzino.
Trovava ironico, si ritrovò a pensare, quanto non si sarebbe mai aspettata di sentirsi così spaventata – ed irata, totalmente e irrimediabilmente irata- verso una semplicissima confezione di preservativi.
 


Aveva perso la cognizione del tempo, standosene seduta sul divano del salotto, la stanza illuminata unicamente dalla luce lunare che entrava dalla finestra.
Era tutto scuro, un po’ come si sentiva lei dentro, immersa nel vuoto nero in cui le sembrava di essere scivolata.
Giulia non riuscì a spostare gli occhi dalla scatola di preservativi nemmeno in quel momento, anche se il secondo prima aveva promesso a se stessa di farlo. Era più forte di lei: era come se una forza magnetica la costringesse a puntare lo sguardo lì, sul tavolino di fronte al divano dove l’aveva appoggiata, senza che lei riuscisse a scostare lo sguardo.
C’era un silenzio inquietante nella casa. Riusciva ad udire in lontananza il respiro regolare di Filippo, che ancora dormiva, ignaro di quel che era appena successo e di quel che stava accadendo nella testa di Giulia.
Si era spinta, senza capire bene con quale forza di volontà, persino ad appurare se la scatola fosse nuova: la confezione era intatta, mai aperta e quindi mai utilizzata. Nulla le dava la certezza, però, che fosse la prima e l’unica ad essere mai stata acquistata da Filippo.
L’unica certezza che aveva era che non era con lei che Filippo doveva aver avuto intenzione di usarli. Non ricordava nemmeno quando doveva essere stata l’ultima volta in cui erano andati oltre qualche bacio.
Sospirò a fondo, le braccia strette attorno al proprio corpo, le gambe incrociate sul bordo del divano.
Non aveva mai pensato di potersi sentire così vuota, né aveva nemmeno mai creduto possibile che la causa del suo sentirsi così potesse essere proprio Filippo.
Lo stesso Filippo che conosceva da quando aveva quindici anni – la persona che meno di quattro anni prima le aveva chiesto di sposarlo, la stessa persona con cui aveva avuto due figlie-, e con cui pensava di passare il resto della vita.
Era incredibile, e dolorosamente ironico, quanto le cose potessero essere caduche, pronte a prendere strade sconosciute in un battito di ciglia.
Rimase ad ascoltare ancora il respiro lontano di Filippo, chiedendosi cosa la stesse trattenendo dall’andare a svegliarlo e porgli tutte le domande senza risposta che le erano nate nella mente nell’ultima mezz’ora.
“Ammetterebbe subito che mi ha tradita?”.
Giulia sentì crescere l’impellente bisogno di piangere e urlare allo stesso tempo. Anche solo pensarlo, pensare che fosse possibile ed immaginarsi Filippo con un’altra, era come una coltellata in pieno petto, data con crudeltà e senza alcun pentimento.
Fu davvero sul punto di alzarsi da quel divano e dirigersi in camera da letto per svegliarlo, ma la razionalità le venne in aiuto prima che riuscisse a muovere anche un solo muscolo.
Non le sarebbe servito a nulla affrontarlo così, sul momento, senza nemmeno aver dato prima un ordine ai propri pensieri e alle domande che le riempivano la testa: Filippo avrebbe potuto ingannarla più facilmente di quel che poteva pensare, e lei si sarebbe fatta andar bene qualsiasi risposta che negasse anche solo la più piccola bugia da parte sua.
Era la speranza di essersi sbagliata quella che l’avrebbe fregata, e arrivata a quel punto non poteva permetterselo più: cominciava a realizzare che sarebbe stato meglio avere una verità che l’avrebbe distrutta, piuttosto che altre menzogne.
Giulia non si mosse da quel divano. Si sarebbe presa tutta la giornata, fino all’indomani sera, per pensare a come affrontare l’argomento: fino a quel momento, Filippo non avrebbe saputo che lei sapeva.
Era l’unico modo che le rimaneva per avere, finalmente, un po’ di risposte.
 
Togli via le mani dai tuoi occhi liquidi
E vedrai gli occhi del mondo chiudersi
Per non vedere tutta questa oscurità
 
*
 
Suonò il campanello con ansia, quasi non si aspettasse di trovare nessuno in casa. I dubbi di Giulia trovarono risposta qualche secondo dopo, quando sentì la porta scattare, venendo aperta in una fessura minima che serviva a Caterina, dall’altra parte, per capire chi fosse.
-Non mi aspettavo fossi tu- aprì maggiormente la porta un attimo dopo, occhieggiando confusa prima Giulia, e poi le due gemelle che teneva per mano.
Giulia annuì:
-Lo so che non ti ho avvisato prima, ma avrei bisogno di un favore-.
Caterina si fece da parte, lasciando la porta aperta davanti a lei, facendole un cenno verso l’interno dell’appartamento:
-Ne parliamo dentro?- chiese.
Giulia non se lo fece ripetere due volte: guidò le figlie oltre la soglia, girandosi verso l’amica brevemente:
-In realtà mi tratterrò poco- mormorò, sperando che la voce non le risultasse tremante – Giusto il tempo per capire se posso chiederti questo favore o meno-.
Caterina la guardò ancora più confusa, senza però dire nulla. Richiuse la porta d’ingresso non appena furono entrate tutte, camminando verso il salotto dell’appartamento. Sul tappeto al centro della stanza, tra il divano e lo scaffale appoggiato alla parete opposta, Francesco era seduto a terra, intento a giocare.
-Andate dal vostro amico- Giulia si chinò per essere all’altezza delle sue figlie, già più sorridenti dopo aver visto l’altro, e per sfilare loro gli zainetti leggeri che tenevano sulle spalle. Non spesero nemmeno un secondo per risponderle, prima di allontanarsi ed esclamare vari saluti nella direzione di Francesco, colto totalmente alla sprovvista dal loro arrivo.
Posò gli zaini in un angolo della stanza, prima di tornare a voltarsi verso Caterina: l’aveva osservata per tutto il tempo in completo silenzio, le braccia incrociate contro il petto e lo sguardo corrucciato.
-Che succede?- le chiese, quasi ad intuire il fatto che Giulia stesse aspettando che dicesse qualcosa – Mi sembri un po’ agitata-.
Giulia fu quasi sul punto di sbuffare sonoramente.
“Fosse solo quello”.
Si trattenne solo per la consapevolezza di non voler ancora dire nulla a Caterina. Non voleva trascinarla anche nei suoi problemi, quando ne aveva già parecchi da risolvere all’interno della sua famiglia, e in fondo una parte di lei sperava ancora di sbagliarsi su quella storia. C’era ancora una minima speranza che ancora resisteva, e che le diceva di non dare nulla per scontato.
-Solo una giornata dura al lavoro- liquidò la domanda semplicemente.
Sapeva di non star risultando particolarmente convincente – la mancanza di una qualsiasi emozione doveva essere troppo evidente-, ma non aggiunse comunque altro al riguardo.
-Ti volevo chiedere se potevi tenermi le bambine per stasera-.
Giulia si schiarì la voce, cercando di ignorare lo sguardo ancor più disorientato di Caterina al sentirle pronunciare quelle parole.
-Solo per stasera, poi domani mattina le recupererei per portarle all’asilo-.
Il silenzio che calò la fece sentire più a disagio di quanto si sarebbe aspettata. Caterina la stava ancora guardando con la stessa espressione confusa con la quale l’aveva accolta, probabilmente soffocando ancor più domande dopo aver scoperto il motivo del suo arrivo lì.
Giulia si ritrovò solamente a sperare che non insistesse troppo nel chiederle cosa le stesse capitando.
-Non credo ci siano problemi- disse infine Caterina, dopo attimi apparentemente interminabili – Ma come mai? È successo qualcosa?-.
Giulia scosse debolmente il capo:
-È solo che … -.
Non riuscì a concludere la frase, distratta dall’improvviso e totalmente inaspettato arrivo di Nicola. Era convinta che Caterina, a quell’ora della sera, fosse ancora a casa da sola, ma doveva essersi sbagliata fin dal principio: a giudicare dalla tuta che indossava, Nicola non sembrava affatto appena tornato a casa dall’ufficio. Si chiese, inevitabilmente, se avesse già ascoltato qualche stralcio della loro conversazione, o se fosse giunto lì solo per pura casualità.
La salutò subito, con un cenno del capo:
-Oh, ciao Giulia. Non credevo fossi tu ad aver suonato-.
-Ero io con le gemelle- Giulia replicò di nuovo, sentendosi vagamente stupida per non essere riuscita a rispondere in modo un po’ meno ovvio. Nicola le raggiunse in pochi passi, proprio nel momento in cui Caterina si era girata nella sua direzione:
-Mi ha appena chiesto se possiamo tenergliele per la notte- disse, facendo un cenno con il capo nella direzione delle due bambine, inconsapevoli e totalmente distratte nel giocare con Francesco a pochi metri da loro.
Giulia immaginò che Nicola dovette sentirsi preso contropiede allo stesso modo in cui si era sentita Caterina, ma lo dette decisamente meno a vedere. Non vide tracce di sorpresa solcargli il viso, né allarmismo: si limitò a guardarla, annuendo tra sé e sé.
-Sì, certo che possiamo- le disse, con tranquillità – C’è qualche problema a casa?-.
Stavolta Giulia si sentì meno impreparata: gli attimi in cui Nicola era comparso e le aveva raggiunte, le erano stati preziosi per decidere cosa raccontare a quella possibile domanda.
-Devo solo parlare con Filippo. E vorrei farlo senza le bambine intorno-.
Nessun dettaglio che lasciasse trasparire più del dovuto, nessuna intonazione particolare che potesse far presagire qualcosa in positivo o in negativo, ma il volto di Nicola si fece ugualmente cereo e teso come se gli avesse appena dato la notizia peggiore che potesse aspettarsi.
Per un attimo Giulia si chiese se se lo stesse solamente immaginando, o se Nicola si fosse davvero turbato dalle sue parole.
-È qualcosa di grave?- fu Caterina a parlare di nuovo, accigliata. Doveva ricordare di quel che avevano parlato insieme ad Alessio nemmeno una settimana prima: per un attimo Giulia temette di aver lasciato capire troppe cose.
Scosse le spalle, scuotendo allo stesso modo anche il capo:
-Non lo so. Per ora non vorrei sbilanciarmi troppo-.
L’apprensione sul viso di Caterina non sparì nemmeno in parte:
-Queste sì che sono belle premesse- commentò debolmente, visibilmente amareggiata.
“E non sai nemmeno tutto il resto”.
Giulia si morse il labbro inferiore, impedendosi di commentare o aggiungere altro: sapeva che ne avrebbe parlato a Caterina, qualsiasi sarebbe stato il responso di quella sera, ma non era quello il momento.
-Magari vi dirò di più quando avrò più certezze anche io- sospirò, lo sguardo di Nicola ancora fisso su di lei, il viso ancora pallido.
Decise di non fare domande, anche se quel particolare difficilmente se lo sarebbe scordato: erano sempre poche le volte in cui Nicola appariva evidentemente turbato, ed era sempre per qualche motivo preciso.
Distolse lo sguardo, puntandolo invece su Caterina, schiarendosi la voce:
-Devo andare ora- iniziò a dire, indicando poi gli zainetti con i quali le gemelle erano arrivate – Negli zaini delle bambine trovate tutto. Sia il pigiama che lo spazzolino, qualsiasi cosa possa servire per stasera-.
Caterina annuì, l’unica che sembrava averle dato davvero ascolto: Nicola era rimasto in totale silenzio, lo sguardo perso come la mente che sembrava essere totalmente altrove.
-Grazie ancora- si ritrovò a mormorare di nuovo Giulia, in un tentativo di ritardare ancora di pochi secondi il momento in cui avrebbe dovuto salutare le sue figlie.
Non aveva nemmeno idea se, quando sarebbero tornate a casa, avrebbero trovato i loro genitori ancora uniti come prima.
Caterina le si accostò, lo sguardo grave e l’espressione che tradiva ansia:
-Detto tra noi, mi stai facendo preoccupare-.
Giulia non riuscì a reprimere del tutto il sospiro appesantito che le sfuggì dalle labbra:
-Non potresti esserlo più di quanto lo sono io-.

 
 *
 
Love you so bad, love you so bad
Mold a pretty lie for you
Love it’s so mad, love it’s so mad
Try to erase myself and make me your doll
Love you so bad, love you so bad
Mold a pretty lie for you
Love it’s so mad, love it’s so mad
Try to erase myself and make me your doll [2]
 
 
Appena messo piede in casa, la prima cosa ad accoglierla fu il silenzio. C’era un silenzio insolito, innaturale: l’appartamento non era animato dalle parole pronunciate ancora con qualche difficoltà da Caterina e Beatrice, non c’era la tv accesa della cucina che accompagnava lei e Filippo mentre preparavano la cena. Era un’atmosfera a tratti spettrale, che non fece altro che farla sentire ancora più vuota.
Giulia richiuse dietro di sé la porta d’ingresso, rimanendo ferma sulla soglia ancora per qualche secondo, il tempo che sarebbe servito a Filippo per avvertire la porta chiudersi e rendersi conto che era tornata a casa.
Come aveva previsto, lo vide sbucare fuori nel corridoio che dava anche sull’ingresso qualche attimo dopo: si era già cambiato con la tuta che usava di solito a casa, segno che doveva essere tornato dal lavoro già da un po’.
“Niente straordinari, stasera”.
-Giulia, finalmente!- Filippo l’accolse con tono che nascondeva un po’ d’apprensione – Sono tornato e non ti ho trovata in casa. Mi sono spaventato!-.
Mosse qualche passo verso di lei, il viso ancora visibilmente tirato per il nervosismo:
-Ti ho chiamato mille volte, ma non hai nemmeno risposto-.
-Ero occupata-.
Giulia posò con indifferenza la borsa sul mobile nell’ingresso, in attesa della prossima domanda di Filippo. Immaginava già quale potesse essere, ma non aveva alcuna intenzione di parlare più del dovuto: sentiva già la nausea salirle al solo provare a guardarlo.
-Dove sono le bambine?- Filippo la stava guardando confuso, a tratti paranoico.
-Da Caterina e Nicola- Giulia camminò verso la cucina, senza nemmeno badare se la stesse seguendo o meno – Staranno da loro per la notte-.
Anche se Filippo era dietro di lei, non faticò ad immaginare la sua espressione ora ancor più confusa di prima. Doveva aver capito che c’era qualcosa di diverso nell’aria, ma Giulia era piuttosto certa che non avesse alcun sospetto di cosa esattamente stava per succedere.
Filippo la seguì passo dopo passo, lasciandosi sfuggire un gemito sorpreso:
-Perché? E perché non mi hai detto nulla?-.
Arrivarono in cucina pochi passi dopo, e quando finalmente Giulia si voltò verso di lui, Filippo le si bloccò di fronte, a pochi metri, lo sguardo incerto e interrogativo.
-Dobbiamo parlare-.
Riuscì ad osservare il cambio d’espressione di Filippo in ogni sua sfumatura, dall’irrigidimento dei lineamenti, all’implicita paura che si era aggiunta al disorientamento di prima. Per un attimo Giulia dovette controllare la rabbia:
-E almeno se loro non sono qui potrò urlare senza aver paura di spaventarle-.
Il silenzio che calò era più pesante di quanto lei stessa si sarebbe immaginata. Ora riusciva a leggere tutto il panico che Filippo doveva provare il quell’esatto momento, passato a chiedersi cosa stava succedendo.
-Che stai dicendo?- le chiese in un filo di voce, a malapena udibile.
“Questo dovresti spiegarmelo tu”.
Giulia lo guardò con indifferenza che sfociava nel gelo:
-Non c’è niente che devi dirmi?-.
La guardò ancor più confuso:
-Di che tipo?-.
-Non lo so, di qualsiasi tipo-.
Filippo era cereo in viso, come se sapesse, in fondo, dove Giulia voleva arrivare. Era sicura che se lo sentisse, che fosse perfettamente a conoscenza che lei sapeva: non gli aveva mai visto uno sguardo così atterrito, così sul filo del terrore.
Nonostante ciò, scosse di nuovo il capo in diniego:
-Non mi sembra-.
Giulia sentì la rabbia montarle, ma non lasciò scappare alcun indizio di ciò mentre domandava ancora:
-Non c’è niente che devi dirmi?-.
Filippo non abbassò lo sguardo nemmeno un secondo, nonostante apparisse teso: sembrava del tutto intenzionato a non cedere, nemmeno all’ennesima domanda.
-No- rispose ancora, in un filo di voce.
Era prevedibile, si ritrovò a pensare Giulia: poteva ancora giocarsela, quando ancora non c’erano prove a suo carico, provare a convincerla e salvarsi. Ed in fondo era ciò che anche lei sperava: sentirgli dire che non c’era nulla che doveva sapere, nulla che era successo, e nulla che li stesse per portare sulla via della rovina.
Non arretrò, però. Forse non era pronta al dolore che l’avrebbe invasa nel vedere tutte le sue speranze sfumare, ma la sincerità la doveva prima di tutto a se stessa, e poi alle sue figlie. Non poteva lasciar perdere.
Senza dire nulla superò Filippo, uscì dalla cucina e andò dritta in camera da letto, diretta al suo comodino. Al terzo cassetto, quello più in basso, sotto diverse scartoffie, tirò fuori la confezione di preservativi trovati la sera precedente. La prese in mano cercando di trattenersi dal schiacciarla e distruggerla, almeno fino a quando le sarebbe servita, e tornò di nuovo in cucina. Filippo non si era mosso: si era voltato nella sua direzione con sguardo ancor più disorientato, ma senza nemmeno domandarle cosa fosse andata a cercare.
La risposta, in ogni caso, l’avrebbe avuta dopo nemmeno un secondo: Giulia scaraventò sulla tavola la confezione di preservativi, seguendo gli occhi di Filippo che vi si posavano sopra.
Se possibile, lo vide impallidire ancor di più.
-Non c’è davvero niente che devi dirmi?- ripeté ancora, atona.
Ogni traccia di colore era svanita dal viso di Filippo, talmente cereo che Giulia non si sarebbe stupita affatto di vederlo svenire da un momento all’altro. Non articolò nemmeno una parola, gli occhi incollati all’unico oggetto presente sul tavolo della cucina, sprofondato in un silenzio catatonico da cui non sembrava voler uscire.
Giulia si avvicinò di qualche passo, stavolta non cercando nemmeno di nascondere tutta l’ira che si sentiva dentro:
-Ti prego, non dirmi che non sono tuoi, perché tentare di negare mi farebbe solo incazzare ancor più di quanto già non sono- sibilò a denti stretti, le braccia incrociate contro il petto per impedirsi di artigliare le spalle di Filippo e scuoterlo fino a spingerlo a parlare.
Continuò a rimanere in silenzio per un altro minuto, e Giulia percepiva già la propria pazienza venire sempre meno. Gli si avvicinò ulteriormente, una distanza talmente minima che in una qualsiasi altra situazione – una delle tante in cui si erano trovati da quando stavano insieme-, sarebbe stato estremamente facile avvicinare il proprio viso a quello di Filippo e baciarlo. In quel momento, invece, l’unica tentazione che aveva era quella di schiaffeggiarlo.
-Visto che non hai niente da dirmi, allora sono io che ho una domanda per te- disse ancora, sforzandosi di non far tremare la voce – Perché?-.
Anche se Filippo non le aveva dato alcuna risposta a voce, quel suo rifiutarsi di parlare era una conferma in sé. Giulia sentì i propri occhi farsi lucidi, incontrollabilmente.
Avrebbe preferito non scoppiare a piangere, non soccombere già al dolore che sapeva l’avrebbe attesa non appena avrebbe finito di parlare – di urlare- con Filippo.
Era difficile, però, cercare di controllare le emozioni standogli di fronte, realizzando a poco a poco che sì, suo marito l’aveva effettivamente tradita con qualcun'altra.
-Perché avrai avuto pur una ragione per farlo. Per andare con un’altra-.
Sentì la propria voce cedere sempre di più, mentre tratteneva a stento le grida di fronte al viso immobile di Filippo.
-Per tradirmi, e smetterla di pensare a tua moglie e alle tue figlie senza neanche un minimo di rimorso- continuò ancora, senza riuscire più a fermarsi.
Filippo non le rispose neanche in quel momento.
-Perché?-.
Sapeva già che Filippo non le avrebbe mai risposto. L’aveva capito: bastava guardarlo in viso, vederlo così immobile, atterrito dalla paura e dalla sorpresa, ed era tutto così evidente che forse non serviva neanche sentirlo parlare.
Ma voleva avere quella risposta. Voleva averla perché, in fondo, gliela doveva: gliela doveva dopo tutti quegli anni insieme, dopo tutte le difficoltà, e anche dopo tutti i momenti belli.
Quando si rese conto definitivamente che Filippo non avrebbe aperto bocca, Giulia tuonò con un pugno sulla tavola. Non sentì nemmeno il dolore, troppo furiosa.
-Rispondimi, cazzo!-.
Urlò forte come si era prospettata di fare sin da quando aveva lasciato le sue figlie da Caterina e Nicola. Urlò talmente forte da sentire la gola dolerle, un po’ come le dita della mano ammaccata.
Di fronte a quell’esplosione di rabbia Filippo sobbalzò come se si fosse trovato in trance fino a quel momento. Aveva gli occhi lucidi, notò Giulia, ma non provò alcuna pietà.
-Giulia, io … - Filippo tentò di farfugliare, senza però arrivare ad alcuna conclusione.
-Non ti sentivi abbastanza amato? Abbastanza desiderato?-.
Giulia lo spinse, colpendolo forte alla spalla, allontanandolo da sé come se Filippo non avesse posto alcuna resistenza.
-E la tua soluzione, anziché parlarne come una persona matura, è stata scoparti un’altra?- continuò ancora, gridando con rabbia.
Filippo scosse il capo febbrilmente:
-Non è così-.
Sembrava provato, sull’orlo delle lacrime, e per quanto Giulia avrebbe voluto imitarlo – piangere a dirotto fino a non riuscire nemmeno più a produrre lacrime, lasciandosi andare alla disperazione- non se lo permise. Sentiva gli occhi farsi sempre più lucidi, ma si sforzò di non far cadere nemmeno una lacrima a rigarle il viso.
-E allora com’è, Filippo?- gli chiese, con voce inevitabilmente spezzata – Spiegamelo tu, perché io sto provando anche a comprendere, ma non ci riesco-.
Lo guardò ancora una volta, ma l’immagine del volto dell’uomo che si trovava di fronte era come quella di uno sconosciuto che non aveva mai visto prima, né che conosceva.
-Non ci riesco-.
Forse anche per Filippo doveva essere così: guardarla così piena di rancore e di rabbia doveva essere qualcosa di così totalmente nuovo per lui da fargli pensare che anche lei, in un modo o nell’altro, era cambiata.
E Giulia era sicura, in fondo, che sarebbe successo: non credeva sarebbe potuta mai rimanere la stessa, al pensiero di quel che era successo.
Si era spezzato qualcosa che difficilmente sarebbe tornato ad essere integro.
 
You say I’m unfamiliar, changed into the one you used to like
You say I’m not myself which you knew well
No? What do you mean no? I’m blind
Love? What the heck is love? It’s all fake love
 
Filippo si passò una mano sugli occhi, guardandola implorante:
-Ho fatto una cazzata-.
Giulia non riuscì a trattenere uno sbuffo sonoro, pieno d’amarezza:
-Non ti credo-.
Fece un passo indietro, improvvisamente disgustata dalla troppa vicinanza che c’era tra di loro.
-Le cazzate si fanno involontariamente, non ti porti a letto un’altra per incidente- parlò ancora, con foga –  Lo fai perché lo vuoi, perché per qualche ragione ti va bene così, perché non te ne frega nulla delle conseguenze.
Neanche se c’è una famiglia di mezzo!-.
Pensò, per una frazione di secondo, a Caterina e Beatrice, totalmente inconsapevoli di quel che stava succedendo ai loro genitori. L’avrebbero sentito che qualcosa non andava, quando sarebbero tornate a casa? Avrebbero avuto il sentore, pur non potendo comprendere fino in fondo, che da quel momento in avanti tutto sarebbe stato diverso?
-Non pensi alle tue figlie? Io posso anche farcela, non sono dipendente da te e mai lo sarò, ma loro?- Giulia lo investì di nuovo di parole urlate – Che razza di padre sei? Che razza di persona sei?-.
“Una persona diversa di quella che ho sposato”.
Filippo sembrava essere sul punto di mettersi a singhiozzare, ma dalla sua bocca Giulia non sentì provenire nemmeno un fremito. Aveva lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé, totalmente perso, e per un attimo le ricordò un bambino disorientato, che necessitava di protezione e di essere consolato.
Ma quelle lacrime erano solo il risultato dello stesso male che aveva causato lui per primo: era finito il tempo delle parole rassicuranti.
-Non ci sono andato a letto. E tanto è già finita, non è mai stato nulla di serio-.
Filippo aveva parlato talmente piano che Giulia riuscì a stento a sentirlo. Si sentì rabbrividire, di disgusto e di dolore allo stesso tempo.
Non si era aspettata di sentirgli dire un dettaglio del genere, un po’ perché era solo l’ennesima prova che avesse avuto una storia con un’altra, un po’ perché fino a quel momento non le aveva detto nulla che non avesse già intuito.
-Ah no?- Giulia non tentò nemmeno di nascondere l’amara ironia presente nella sua voce, mentre indicava la confezione di preservativi – E allora quelli a cosa ti servivano? Perché di certo non volevi usarli con me-.
Filippo non tentò nemmeno di negare quell’ultimo dettaglio:
-Era solo per … Per sicurezza. Nel caso … -.
“Nel caso lei volesse andare a letto con te”.
-Ma non lo avrei fatto davvero. Non ho mai preso seriamente in considerazione quell’idea-.
Avrebbe voluto credergli, ma non ci riuscì.
-Da quanto andava avanti?-.
Filippo non alzò gli occhi verso di lei nemmeno in quel momento:
-Da Novembre-.
Giulia si sentì mancare la terra sotto i piedi.
Cercò di riportare alla mente quel periodo, un qualche evento che potesse ricollegare a qualche stranezza di Filippo. L’unica cosa che le venne in mente era un litigo che avevano avuto in quel mese, una lite di cui non ricordava nemmeno l’oggetto di discussione.
Era forse stato quello l’evento scatenante? O era venuto comunque dopo? Ma, in fondo, c’era stato davvero qualcosa che l’aveva fatto scattare in quella maniera, spedendolo tra le braccia di un’altra donna?
Sentì la nausea salire ancora al solo pensarci.
-Ma ci siamo solo baciati e non è mai successo altro, e pochissime volte. Devi credermi!- Filippo lo disse con disperazione, quasi urlando, dimenticando di colpo l’esitante vergogna con cui le si era rivolto fino a quel momento. Sembrava terrorizzato dalla reazione che poteva avere, e forse aveva aggiunto quel dettaglio proprio per calmarla, ma ebbe l’effetto opposto.
-Non me ne frega un cazzo che siano stati solo baci o anche altro!- Giulia urlò con rabbia, ormai dimenticando anche le lacrime che minacciavano di caderle dagli occhi e rigarle il viso – L’hai comunque fatto, e non scartavi nemmeno l’idea di andare oltre!-.
Cercò di non immaginarsi ancora quegli incontri – dove avvenivano, quando, con chi-, anche se sapeva che, non appena sarebbe finita quella discussione, quei pensieri l’avrebbero perseguitata. La sola idea di dover immaginare Filippo in intimità con un’altra donna che non fosse lei, per poi tornare a casa come se niente fosse, le stava facendo venir voglia di piangere e vomitare.
Si passò una mano sul viso, nel tentativo di cancellare le lacrime che infine le avevano rigato la pelle arrossata per il troppo urlare.
“Non dovrei piangere per lui” si ripeté, “Non ne vale la pena. Non più”.
-E per quel che mi riguarda, può finire anche questa, di storia-.
Giulia stessa si sorprese delle sue parole.
Non si era soffermata su quel punto – cosa fare della loro relazione- nelle ventiquattr’ore precedenti. Non aveva pensato al dopo – come se un dopo non esistesse affatto-, e forse la risposta stava proprio lì: come poteva pensare di stare ancora insieme ad una persona che aveva appena distrutto tutto quello che avevano costruito in più di dieci anni?
Filippo non sembrò capire subito. Nei primi secondi continuò a guardarla confuso, la fronte aggrottata, come se Giulia gli avesse appena parlato in una qualche lingua straniera.
Poi aveva pian piano realizzato, ed aveva sgranato gli occhi, uno sguardo di terrore a riempirne le iridi.
-Cosa?- mormorò in un filo di voce.
Giulia non ripeté: lo guardò duramente, l’espressione vuota perché ormai si sentiva stanca persino a gridargli addosso. Mosse il primo passo per uscire dalla cucina, sicura che sarebbe bastato quel gesto a fargli capire che era finita – la discussione e anche il loro matrimonio.
-No, Giulia … - Filippo la afferrò delicatamente ad un polso, quando gli si ritrovò vicina per superarlo – Ti prego, aspetta un attimo … -.
-Non provare ad avvicinarti a me!-.
Giulia si divincolò con facilità, sibilando e spaventandolo forse più che se avesse urlato di nuovo. Osservò Filippo arretrare come un animale in gabbia che vuole sfuggire alle mani del suo carceriere; abbassò anche gli occhi, singhiozzando sommessamente.
-Non ti caccio di casa subito solo per le bambine- continuò ancora Giulia, ormai sulla soglia della cucina. Fece per proseguire subito, ma ci ripensò per un attimo: si voltò indietro, gli occhi ancora su Filippo.
-Da stasera dormi sul divano- mormorò, senza alcuna inflessione nella voce – E spera che ci incroceremo per casa il meno possibile-.
Non si aspettò alcuna risposta da Filippo, e non fu affatto sorpresa che, in effetti, non le rivolse nemmeno un cenno. Sembrava troppo impegnato a continuare a piangere, con il capo chino e le mani strette attorno ai suoi fianchi, come se stesse cercando di abbracciare se stesso.
Non riuscì a riconoscere suo marito nell’immagine dell’uomo che aveva di fronte a sé.
 
For you, I could pretend like I was happy when I was sad
For you, I could pretend like I was strong when I was hurt

I wish love was perfect as love itself
I wish all my weaknesses could be hidden
I grew a flower that can’t be bloomed in a dream that can’t come true
 
*
 
La casa dove era cresciuta non era cambiata molto da quando l’aveva lasciata a diciannove anni, pronta a vivere a Venezia la vita che aveva sperato di potersi costruire.
Giulia guardò oltre la finestra del salotto dell’abitazione, la stessa dalla quale, da adolescente, scorgeva Filippo ogni volta che arrivava lì per qualche pranzo o cena ai quali i suoi genitori l’avevano invitato.
Quella era forse l’unica cosa ad essere davvero cambiata: stavolta Filippo non era lì con lei, né sarebbe arrivato in un secondo momento.
Probabilmente non ci sarebbero stati altri pranzi o cene ai quali invitarlo. Dubitava fortemente che Anita e Carlo, quando prima o poi si sarebbe fatta coraggio per spiegare come mai il suo matrimonio era naufragato, avrebbero voluto vederlo ancora senza odiarlo.
Avrebbe voluto odiarlo anche lei, perché almeno così sarebbe stato più facile sopportare la sua assenza.
Avrebbe voluto odiarlo perché, così, avrebbe finalmente smesso di sentirne la mancanza. Poteva girarsi in ogni angolo della casa e rivedere davanti ai propri occhi spezzoni e ricordi di lei e Filippo negli anni passati insieme. Trovarsi in quella casa era a tratti più doloroso che vivere nell’appartamento di Venezia, perché era lì, a Borgovento, dove aveva avuto tutto inizio: tra quei muri poteva ancora respirare i ricordi delle radici del suo rapporto con Filippo, tutto ciò che era successo durante la loro crescita e che, nel bene e nel male, li aveva influenzati fino a vederli diventare ciò che erano ora.
“Una coppia sfasciata ormai al capolinea”.
Giulia sospirò a fondo, la schiena aderente allo schienale del divano dove se ne stava seduta, da sola.
Non era stato facile eludere le domande che i suoi genitori, sua sorella e suo cognato le avevano posto sull’assenza di Filippo. Aveva provato ad inventarsi una scusa nelle quasi due ore di treno che le erano servite per arrivare da Venezia, ma tutto ciò a cui era approdata era stato giustificare la sua mancata venuta per alcuni impegni di lavoro. Non aveva aggiunto altro, e forse nessuno le aveva domandato qualcos’altro dopo aver notato l’espressione distaccata e distrutta che le aleggiava ancora in viso dal giorno prima.
-Vieni?-.
Il silenzio era stato spezzato all’improvviso dalla voce di Ilaria. Giulia sobbalzò, girandosi di scatto verso la soglia della porta, osservando sua sorella lì in piedi, mentre ricambiava il suo sguardo con fare interrogativo.
Giulia non si era minimamente accorta del suo arrivo, troppo rapita da pensieri che le si stavano accumulando nella mente dai due giorni precedenti.
-È pronta la cena- aggiunse subito Ilaria, senza aspettare una risposta prima di tornare verso la cucina. Giulia rimase immobile, sentendosi come incapace di alzarsi.
Si chiese, per l’ennesima volta, se fosse stata una mossa giusta venire fino a Borgovento in quelle condizioni, visibilmente provata e con solo un mucchio di bugie da rifilare alla sua famiglia per non dire ancora nulla su quel che stava davvero succedendo tra lei e Filippo.
Ma sì, in fin dei conti stare lì non poteva che essere peggio di passare l’intero weekend tra le stesse mura con lui, guardarlo e ripensare ogni volta alla sua ammissione di averla tradita.
Le serviva del tempo, tempo lontano da lui, e per quanto male potesse fare, persino la casa in cui era cresciuta poteva fare al caso suo.
 


-Che bello diventare più vecchi facendosi salire la glicemia- esclamò Ettore non appena Anita ebbe messo in tavola la torta che chiudeva la cena di festeggiamento per il suo compleanno. Era una sacher, grondante di cioccolato e dall’aria squisita. In una qualsiasi altra situazione Giulia ci si sarebbe fiondata all’istante, ma durante quella cena aveva mangiato a malapena, e già non si sentiva più affamata.
Probabilmente non sarebbe riuscita nemmeno a finire la fetta di torta che le sarebbe toccata.
-Se a te non va, dammi anche la tua fetta- scherzò Ilaria, girandosi verso il compagno brevemente, prima di tornare ad imboccare Davide, seduto sul seggiolone, che a due anni ormai riusciva ad articolare molte parole e che si stava distraendo in continuazione dal mangiare per pronunciare – più o meno correttamente- brevi frasi a volte nonsense.
Giulia continuò a rimanere in silenzio, lo sguardo abbassato sul ricamo stretto della tovaglia che copriva la superficie del tavolo, in attesa che sua madre le passasse il piatto con la fetta di torta che le sarebbe toccata.
Si era sforzata di apparire allegra come al solito, almeno a tavola. Ci aveva davvero provato, ma i suoi tentativi non era stati altro che mediocri: ad ogni secondo ricordava come Filippo, ogni volta che i suoi genitori li invitavano durante qualche weekend, le si sedeva sempre a fianco. La sedia occupata da lui era rimasta sempre la stessa, sin dalla prima cena a cui aveva preso parte in quella casa, quando per la prima volta l’aveva introdotto alla sua famiglia.
Ora la sedia accanto a lei era inesorabilmente vuota, e quella mancanza era resa ancor più pesante da quella delle figlie. Era stato difficile decidere di lasciarle a casa, ma non aveva avuto altra scelta: se voleva prendersi del tempo per se stessa, unicamente per riflettere, doveva essere sola. Non poteva fare altro che pensare che già l’indomani pomeriggio avrebbe preso un altro treno per Venezia, e che le avrebbe riviste – loro, così come Filippo.
-Ma come mai non hai portato anche Caterina e Beatrice?-.
Fu di nuovo la voce di Ilaria a distrarla, proprio nel momento in cui Anita stava posando davanti a Giulia il piattino con un pezzo di sacher per lei.
-Si sarebbero fatte compagnia con Davide- disse ancora sua sorella, con aria vaga.
Giulia alzò le spalle, afferrando il cucchiaino ma ancora incerta se affondarlo nella torta:
-Sono state un po’ capricciose negli ultimi giorni- mormorò, cercando di restare impassibile e ignorare la stretta al cuore che quella bugia le provocò – Preferivano restare a casa-.
Ilaria la guardò con la fronte corrugata:
-Con Filippo?-.
-Sì- confermò Giulia, incerta. Per un attimo non capì cosa potesse rendere sua sorella così dubbiosa, ma sua madre fece chiarezza un attimo dopo:
-Ma non aveva impegni di lavoro?-.
Giulia cercò di ragionare in fretta: era sicura che qualche falla nella sua bugia ci sarebbe stata, ma aveva sperato che nessuno se ne accorgesse, o che perlomeno non glielo facesse notare.
-Non tutto il giorno- mormorò, gesticolando appena, nervosamente – Nel pomeriggio saranno state da Alessio o da Caterina-.
-Ma che doveva fare per lavoro di sabato?- rincarò la dose Ettore, nemmeno dopo un secondo che ebbe finito di parlare. Giulia cominciò a sentirsi messa alle strette:
-Non gliel’ho chiesto, mi ha solo detto che aveva alcuni arretrati- disse piuttosto seccamente, ad un passo dal non riuscire più a controllare la propria voce e il proprio temperamento.
Ettore non sembrò nemmeno farci caso:
-No, è che è un po’ strano che lo facciano lavorare in un giorno fes … -.
-Gli andava bene così, ok? A me anche-.
Quando Giulia sbottò rimasero tutti immobili, evidentemente sorpresi da quello scoppio di rabbia. Glielo poteva leggere in faccia a tutti – a sua madre, suo padre, sua sorella e pure suo cognato-, come se l’ultima cosa che si potessero aspettare dopo tutte quelle domande fosse un attacco di nervosismo del genere.
Il silenzio che calò subito dopo fu quanto di più irritante e straniante Giulia si ritrovò a vivere. Anche se si sentiva gli occhi di tutti addosso, non si soffermò su nessuno di loro, preferendo invece abbassare di nuovo gli occhi sul suo piatto. Non aveva ancora sfiorato la sua fetta di torta, ed ora che sentiva la bocca dello stomaco definitivamente chiusa, dubitava che ne avrebbe mangiato anche solo una briciola.
-Giulia, ma stai bene?- la voce di sua sorella le parve allo stesso tempo spaventata ed in apprensione.
Era difficile non urlare che no, non stava affatto bene, che il suo matrimonio stava andando in malora, e che di fatto solo il giorno prima aveva lasciato la persona con cui stava da quando aveva quindici anni.
Ma non era quello il momento per dirlo, né lo sarebbe stato per un po’ di tempo.
-Sì, sto bene- mormorò Giulia a denti stretti – Starei meglio se non continuaste ad insistere come se il fatto che non sia venuto sia fuori dal mondo. Poteva capitare qualsiasi sabato. È capitato oggi. Fine della storia-.
-Stai calma- intervenne Carlo, senza nascondere la propria sorpresa, dipinta in viso e negli occhi spalancati – Ci preoccupavamo solo per lui-.
“Ci preoccupavamo solo per lui”.
Giulia dovette trattenersi molto per non imprecare a gran voce.
Intuiva che quelle parole di suo padre non le avrebbe assolutamente udite se avesse raccontato loro il vero motivo per cui Filippo non c’era, ma quella consapevolezza non cambiava la rabbia che stava provando in quel momento. Anche solo pensare che potesse essere Filippo quello ad essere in difficoltà – o almeno ad esserlo più di lei- le faceva venire la nausea.
Sbuffò a mezza voce:
-Sta bene. Benone, direi-.
Si rigirò per l’ennesima volta il cucchiaino tra le dita, senza decidersi ad affondarlo nella sofficità della torta. Non aveva più fame, ma solo voglia di alzarsi da lì ed andarsene nella sua vecchia stanza dove finalmente sarebbe potuta restare sola ed in pace.
Silenzio.
Era tutto ciò che chiedeva. Il silenzio non l’avrebbe giudicata, né le avrebbe fatto domande su argomenti di cui non voleva palesemente parlare.
-Non si direbbe di te- sentì Ettore commentare mormorando appena. Forse non aveva avuto del tutto l’intenzione di farsi sentire da lei, ma Giulia non evitò di rispondergli indietro:
-Sto bene anche io, e l’ho già detto-.
Prese un respiro profondo, sentendosi sull’orlo delle lacrime di nuovo. Le stava capitando fin troppo spesso negli ultimi giorni, sia per la disperazione che per la rabbia immensa che covava dentro.
-Non intendo ripeterlo ancora-.
 
*
 
Si, lo ammetto, un po' ti penso
Ma mi scanso
Non mi tocchi più [3]
 
Vigeva il silenzio assoluto nella sua camera, oltre la porta che si era chiusa alle spalle poco prima, quando finalmente i suoi genitori erano andati a dormire così come sua sorella e suo cognato con il piccolo Davide.
Era un silenzio che Giulia aveva agognato da quando era arrivata lì, o forse ancora prima – forse da quando aveva affrontato Filippo la sera prima.
Aveva deciso di lasciare alzata la persiana della finestra per avere almeno un po’ di luce lunare ad illuminare quella che altrimenti sarebbe stata una stanza completamente avvolta nell’oscurità.
Non aveva nemmeno avuto la forza di girarsi verso il comodino per accendere la lampada che vi era poggiata sopra; si era limitata a sdraiarsi a letto, supina, gli occhi rivolti al soffitto.
Era sicura che tutta la sua famiglia si fosse resa conto che qualcosa non andava. Immaginava non potesse essere difficile, non dopo l’irritazione che aveva mostrato durante la cena.
Doveva essere stato lo stesso per Caterina, quando quella mattina stessa aveva riportato a casa le gemelle, poco prima che Giulia uscisse a sua volta per raggiungere la stazione. Non le aveva chiesto nulla, ma Giulia aveva capito che doveva sospettare qualcosa: era troppo respirabile l’aria tesa che girava intorno a lei e a Filippo, comparso per pochi secondi giusto per salutarla.
Giulia si ritrovò a sospirare pesantemente, la stanchezza mentale che cominciava a sovrastarla.
Prima o poi avrebbe dovuto spiegare cos’era successo. Ed era quasi paradossale pensare che quella, tra tutto quel che era accaduto e che ancora doveva avvenire, era forse tra le cose più semplici da fare. Forse vedere le reazioni sarebbe stato più arduo, perché nonostante tutto trovava ancora difficile l’idea di sentir Filippo essere chiamato nei peggiori modi possibili. Era qualcosa che si sarebbe meritato senza ombra di dubbio, ma non poteva impedire a se stessa di soffrirci anche solo ad immaginarselo.
Lasciò andare un sospiro lungo, come se fino a quel momento avesse trattenuto il fiato. Era la stessa sensazione di essere sottacqua, e dover riempire i propri polmoni per non dover essere in carenza d’ossigeno fino a quando non sarebbe potuta risalire in superficie. Si sentiva esattamente così al pensiero di non avere più Filippo al suo fianco.
“Perché siamo arrivati a questo punto?”.
Si rese conto di quanto era stato inutile quella sottospecie di dialogo che aveva provato ad instaurare con lui il giorno prima, quando gli aveva fatto sapere che ormai non c’era più nulla da nascondere.
Odiava profondamente il fatto che Filippo non le avesse dato alcuna risposta a cui aggrapparsi, nemmeno una.
Forse, si ritrovò a pensare con una minima speranza, sarebbe riuscita a scoprirne di più nelle settimane seguenti. Non aveva intenzione di parlargli ancora come il giorno prima – non si meritava il diritto di una vera e propria conversazione-, ma avrebbero dovuto cercare di convivere perlomeno civilmente fino a quando non avrebbero preso decisioni più drastiche.
Giulia chiuse gli occhi, quasi a volersi impedire di immaginarsi cosa sarebbe significato vivere sotto lo stesso tetto con Filippo da quel momento in poi. Era stata una decisione forse avventata quella di non cacciarlo subito, ma in quella situazione non vi era invischiata solo lei: c’erano anche le bambine a cui pensare, e per quanto fossero ancora troppo piccole per comprendere appieno quel che stava succedendo, era sicura che l’assenza del padre avrebbe pesato eccome. Probabilmente si sarebbe ritrovata a dover rispondere a domande per cui non aveva risposte sufficienti.
“Prima o poi dovremo prendere strade diverse, però”.
Sentì gli occhi farsi lucidi d’un tratto. Si sentiva protetta, nel buio della sua camera di bambina e adolescente, lontana da occhi che avrebbero potuto giudicarla o chiederle il motivo per cui stava piangendo.
Non c’era nessuno a farle domande lì, nessuno che potesse dirle di aver sbagliato tutto e di star ancora continuando a sbagliare.
Non cercò di nascondere le lacrime, mentre le rigavano il viso, silenziose e nascoste dalla mancanza di luce sufficiente per renderle visibili.
Non ricordava un momento in cui si era sentita altrettanto distrutta, altrettanto disorientata e sola. Era una sensazione che, ne era sicura, sarebbe perdurata a lungo, anche quando avrebbe finalmente detto tutto alla sua famiglia e ai suoi amici. Non dubitava che le avrebbero dato sostegno, ma non sarebbe mai stato come ritrovarsi al suo posto: senza più la persona che amava da dodici anni, senza più una famiglia unita, senza più il punto di riferimento a cui aveva sempre guardato nei momenti di difficoltà.
Era doloroso anche solo pensare che, nonostante tutto, non aveva smesso di amare Filippo neanche un po’.
 
La notte fonda e la luna piena
Ci offrivano da dono solo l'atmosfera
Ma l'amavo e l'amo ancora
Ogni dettaglio è aria che mi manca
E se sto così, sarà la primavera
Ma non regge più la scusa, no no
 
C’era stato un momento, unico e inevitabile, che li aveva portati a quel punto? O era stato un insieme di cose che li aveva portati alla loro stessa rovina, senza che neanche se ne accorgessero?
A Giulia sarebbe piaciuto avere delle risposte a quelle domande, anche se sapeva che, in cuor suo, conoscerle non avrebbe fatto altro che farla sentire ancor più miserabile.
Doveva esserci stato sicuramente qualcosa per spingere Filippo a comportarsi in quella maniera. Era perfettamente consapevole che, da quando erano nate le gemelle, il loro rapporto aveva subito mutamenti che non sempre erano stati in grado di fronteggiare al meglio. Non ricordava un periodo in cui avevano litigato così spesso come quello che corrispondeva agli ultimi tre anni.
C’erano stati giorni e settimane difficili, era vero, ma era altrettanto vero che non potevano essere una giustificazione per Filippo. Non poteva concederglielo, rifletté Giulia: anche lei, esattamente come lui, aveva vissuto quelle giornate piene di liti, ma non si era fiondata tra le braccia di qualcun altro, tradendo suo marito e tutto ciò che avevano condiviso e costruito insieme per anni.
Quel pensiero le fece aumentare la rabbia a dismisura. Odiava anche il fatto che Filippo non avesse voluto dirle nulla su chi fosse la donna con cui l’aveva tradita, come se ormai fosse un dettaglio senza più alcuna importanza. Non aveva alcuna idea, non una precisa, di chi potesse celarsi dietro: per quanto ci avesse riflettuto durante il tragitto in treno di quella mattina, Giulia non era riuscita a farsi venire in mente molti nomi che avrebbe potuto sospettare. Non conosceva molte colleghe di lavoro di Filippo, e ricordava solo l’ultima arrivata – Linda, se non sbagliava-, e al di fuori di quell’ambiente le idee erano ancora più scarse.
Forse non avrebbe mai scoperto quel particolare, e sarebbe rimasta a domandarselo in eterno. Forse, con il passare degli anni, se ne sarebbe persino dimenticata.
L’oblio era qualcosa a cui anelava ardentemente, in quel momento.
Dimenticarsi di tutto, di Filippo e del suo tradimento, delle difficoltà che avrebbe aggiunto a quelle già esistenti. Ma dimenticare era un lusso che non si poteva permettere subito, non quando ancora troppe domande le rendevano difficile anche solo concentrarsi su qualcos’altro.
Erano domande che corrispondevano a singoli pezzi di un puzzle che prima o poi sarebbe riuscita a ricomporre, e che forse un giorno le avrebbe permesso di capire meglio tutto ciò che stava vivendo – capire, non accettare. Pezzi che per ora le mancavano quasi completamente, pezzi divisi tra loro un po’ come si sentiva lei stessa.
Un po’ come tutto era caduto a pezzi.
 
Scusa, sai, non ti vorrei mai disturbare
Ma vuoi dirmi come questo può finire?
Non me lo so spiegare
Io non me lo so spiegare




 
[1] Lost - "In mille pezzi"
[2] BTS - "Fake love"
[3] Tiziano Ferro - "Non me lo so spiegare"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente alle rispettive band/cantanti e autori.

NOTE DELLE AUTRICI
Agatha Christie diceva: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova».
Ebbene, possiamo dire che alla fine Giulia sembra aver raccolto una prova piuttosto forte: il primo indizio è, senza dubbio, la macchia trovata casualmente da Giulia sulla camicia di Filippo, ormai non più così limpida.
Il secondo indizio è stato scoperto un po' meno casualmente: una confezione di preservativi che la giovane donna, da tempo, non era solita usare con il marito... quindi Filippo aveva intenzione di usarli o li ha usati con qualcun'altro.

Ma se sommiamo anche tutti i comportamenti strani di Filippo dei mesi scorsi, confermati nello scorso capitolo da Alessio (con il biondo che ha ammesso di non essere andato in palestra da diversi mesi), possiamo certamente parlare di una prova!
Ed è con questa consapevolezza che Giulia prima porta le bambine da Caterina e Nicola, e poi affronta Filippo. Tra i due è stata sicuramente Giulia a parlare di più... E purtroppo l'epilogo del loro confronto era prevedibile: dopo molti anni insieme, è arrivata la separazione anche per loro.
Cosa succederà ora? Sarà qualcosa di definitivo o in un modo o nell'altro riusciranno a superare questo momento difficile? E che reazione avrà la  famiglia di Giulia quando saprà la verità, così come gli amici?
Ci rivediamo mercoledì 15 novembre con un nuovo capitolo!
Kiara & Greyjoy
 
 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Euphoria ***


CAPITOLO 15 - EUPHORIA



 

Guardò sconsolato fuori dalla finestra, chiedendosi per l’ennesima volta durante quella giornata – durante tutte le ultime tre giornate- quando la pioggia avrebbe cominciato a calare. Pietro sospirò affranto, la stanchezza che si trascinava ogni volta dopo il lavoro che lo spingeva a voler stendersi sul divano del salotto e sprofondarvi, magari pure dormirci nonostante non fosse ancora ora di cena.
Si passò le mani sul viso, decidendo di indulgere in quella tentazione e sedersi per qualche minuto sul bordo del divano. Era rientrato da poco, appena venti minuti che gli erano bastati per una doccia veloce e, finalmente, cambiarsi gli abiti ed infilarsi in una felpa e pantaloni della tuta decisamente più comodi.
Rimase in ascolto della pioggia che continuava a picchiare e scivolare lungo i vetri delle finestre del salotto, in un’atmosfera così tipicamente invernale che Pietro, pur non avendo freddo, sentì la propria schiena rabbrividire debolmente.
“Sarà qui a momenti, ormai” si ritrovò a soppesare, pur senza controllare l’ora dal cellulare, “E sarà zuppo di pioggia”.
Sobbalzò sorpreso quando, in un tempismo perfetto, udì il campanello risuonare tra le pareti dell’appartamento. Pietro si alzò quasi nell’immediato, non perdendo nemmeno tempo con il citofono e premendo invece il pulsante che avrebbe aperto il portone del palazzo. Si accostò alla porta, aprendola già in anticipo, rimanendo ad aspettare.
Passarono un paio di minuti prima di poter distinguere il rimbombo di passi lungo la tromba delle scale, e ne passò solo un altro prima che a quello si aggiungesse la vista della figura di Alessio, stretto in un cappotto dall’aria piuttosto pesante e con i capelli leggermente umidi. Teneva un ombrello nella mano destra, grondante di gocce d’acqua e che stava bagnando la pavimentazione degli scalini.
-Sei sopravvissuto al temporale fuori o è il tuo fantasma che vedo?-.
Pietro si lasciò scivolare un ghigno vagamente perfido sulle labbra, trattenendosi a stento dal ridere non appena vide Alessio alzare il viso nella sua direzione, dopo aver fatto gli ultimi scalini che lo separavano dal pianerottolo.
-Sei un medium, per caso?- gli rispose subito, alzando un sopracciglio.
-Non credo-.
-Allora non sono affogato- Alessio gli lanciò il sorriso più esageratamente finto possibile, avendo come unico risultato la risata divertita di Pietro finalmente sfuggita dalle labbra.
Anche se non era annegato nella pioggia costante che investiva Venezia da giorni – e che aveva fatto allagare ben più di qualche calle-, Alessio aveva comunque tutto l’aspetto di qualcuno che si era appena fatto una lunga passeggiata sotto un bel po’ di pioggia. Ora che lo aveva di fronte, praticamente davanti alla soglia di casa sua, Pietro poteva notare che anche i vestiti alle estremità erano leggermente umidi. Le scarpe avevano avuto la peggio, quasi quanto l’ombrello ed i suoi capelli.
-Entra, dai- gli mormorò, scostandosi per poterlo far passare – Ti darò un asciugamano per sistemarti i capelli, o finisce che ti ammali-.
Fece subito per avviarsi verso il bagno, ma si fermò all’istante non appena avvertì Alessio posargli i propri polpastrelli all’altezza del petto.
-Aspetta- gli disse, scostandosi il cappotto per recuperare qualcosa messo al riparo sotto – Devo darti il tuo regalo-.
Pietro non riuscì a fare a meno di alzare le sopracciglia, in un’espressione di pura sorpresa:
-Addirittura?- chiese incredulo.
Alessio si lasciò sfuggire un ghigno soddisfatto:
-Ero ispirato quest’anno, così ti ho preso qualcosa-.
Gli porse un pacchetto ricoperto da carta regalo di un sobrio blu notte, adornato unicamente da un fiocco dorato che risaltava nel contrasto della sua sfumatura brillante contro la profondità del blu. Pietro lo prese tra le mani, studiandone la forma e il peso: poteva azzardare che fosse un libro, anche se con Alessio non poteva mai dirsi troppo sicuro delle apparenze. E poi, anche se fosse stato davvero solo un libro, di certo qualche sorpresa poteva arrivare dal titolo scelto.
-Devo anche rifarti gli auguri, o va ancora bene il messaggio che ti ho mandato ieri?- la voce di Alessio lo distrasse, allontanandolo dalle sue supposizioni e costringendolo ad alzare di nuovo il viso, incontrando il sorriso dell’altro.
-Andrà bene quello- Pietro scosse lentamente il capo, ricordando vagamente il messaggio che Alessio gli aveva inviato il giorno prima, qualcosa che faceva riferimento al suo invecchiare sempre di più – Comunque grazie. Però prima di scartarlo ti vado a prendere l’asciugamano-.
Lasciò Alessio nel salotto, insieme al regalo posato sul tavolino, prima di avviarsi a passi lunghi verso il bagno, dove prese un asciugamano pulito da uno dei cassetti del mobile sotto il lavandino. Quando tornò trovò l’altro che aveva già preso posto sul divano, passandosi lentamente le mani sulle braccia. Doveva aver freddo, con i capelli così umidi; Pietro provò quasi un moto di tenerezza nell’osservarlo, all’apparenza così innocente e indifeso. Erano entrambi aggettivi che aveva smesso di associare ad Alessio da molto, ma non riuscì a non vederlo in quel modo mentre lo osservava rintanato sul suo divano, con i capelli appiccicati alla nuca e alla fronte, e al leggero broncio che gli si era disegnato sulle labbra.
Gli si avvicinò in silenzio, allungandogli l’asciugamano. Alessio lo prese lasciandogli un sorriso, senza perdere tempo ed iniziando a frizionare i capelli velocemente.
-Ora puoi vedere che c’è lì dentro- si interruppe dopo poco, non appena Pietro prese posto a sua volta accanto a lui. Osservò il pacco, quella carta bluastra impreziosita dal fiocco dorato.
-Non so se essere più curioso o più preoccupato- ammise con ironia, ridendo piano.
Alessio non disse nulla, limitandosi a ridere piano e a guardarlo con aspettativa. Pietro allungò una mano verso il pacchetto, rigirandoselo un’ultima volta tra le dita prima di afferrare un lembo della carta blu per cercare di aprirla senza strapparla troppo.
Aveva l’impressione, ancor prima di scoprire effettivamente cosa Alessio gli avesse regalato, di aver indovinato: la forma era quella di un libro, non c’erano dubbi. Quando riuscì finalmente ad estrarre il suo regalo dalla carta senza distruggerla, con movimenti delicati, per poco non si sentì mancare sul posto.
-Tu sei pazzo!- esclamò, non trattenendosi dall’alzare la voce per la foga.
L’espressione di attesa di Alessio venne subito sostituita da una di compiacimento:
-Ah, ora si dice così per ringraziare?-.
In quel momento tutti i commenti che si era preparato in anticipo scomparvero totalmente, rimanendo silenti e rinchiusi nella mente di Pietro. Era effettivamente un libro, come auspicato, ma un libro che di certo non veniva regalato a chiunque tutti i giorni: ne tracciò con i polpastrelli la copertina rigida ed in tela beige, rendendosi conto anche solo così di quanto potesse valere quella copia di Gita al faro. Era evidentemente una copia da collezione, forse una prima edizione italiana, e quando sfogliò la prima pagina giusto per controllare se le sue supposizioni fossero fondate, rimase per qualche secondo sbigottito nel leggere che la data di stampa risaliva al 1934.
Sentì la testa girare al solo pensiero di quanto Alessio potesse aver speso per averla, e pur non essendo stato lui a chiedergli un regalo simile, non riuscì a non sentirsi ugualmente in colpa.
-No, sul serio, sei fuori di testa- Pietro riprese a parlare dopo essersi inumidito le labbra, secche per l’emozione – Quanto hai speso?-.
-È un regalo, non posso dirtelo!- Alessio lo guardò con gli occhi spalancati, ma il divertimento che gli aveva provocato quella domanda era riconoscibile nella voce – Posso solo dirti che se te l’ho preso, era perché evidentemente potevo permettermelo. Quindi non prenderti male-.
Pietro annuì, anche se ormai era troppo tardi per evitare la sensazione di essere tremendamente in debito. Non era un esperto di libri d’antiquariato o da collezione, ma poteva benissimo intuire che un acquisto del genere sarebbe potuto pesare un bel po’ sul portafoglio. Preferì non insistere a chiedere: era molto probabile che, nello scoprire la cifra esatta, si sarebbe ritrovato a pregare Alessio di riprenderlo e farsi dare indietro i soldi spesi.
Si limitò ad osservare di nuovo il libro, stringendolo con reverenza tra le mani, un groppo in gola che cominciava a formarsi.
-È fantastico, sul serio-.
Si voltò verso Alessio, sperando di riuscire a trattenere le lacrime.
-Grazie. Anche se rimani pazzo-.
Alessio non cercò di negare:
-Un pazzo piuttosto affamato. Che hai in casa da mangiare?-.
-Credo nulla in particolare, a parte un paio di pizze surgelate- replicò Pietro, fermandosi nel cercare di ricordare se fosse vero. Non aveva preparato nulla nel weekend in vista della settimana, e si ritrovava ora, in quel lunedì sera, a non aver altro da offrire.
-Mangiamo quelle?-.
Pietro si ritrovò a ridere di fronte all’entusiasmo di Alessio:
-Mangiamo quelle-.
 


Era un’atmosfera piuttosto casalinga, quella che stava respirando in quel momento nella cucina del suo appartamento. Pietro si stava ritrovando a riportare alla mente ricordi di quando lui ed Alessio erano ancora universitari e coinquilini, quando alla sera condividevano quasi sempre il momento della cena insieme. Era una sensazione simile e diversa allo stesso tempo, con un’intimità differente da quei tempi andati: ora erano lì insieme solo per quella sera, per festeggiare – seppur in ritardo di un giorno- il suo ventottesimo compleanno.
Quasi si mise a ridere al pensiero che, un anno prima, non avrebbe mai scommesso di passarlo in quella maniera, a casa sua con la sola compagnia di Alessio. Erano bastati solo trecentosessantacinque giorni per far sì che quasi ogni cosa nella sua vita fosse cambiata totalmente: Giada non era più lì e Giacomo nemmeno, ed ora anche Giorgio, non più nel ventre di sua madre, viveva altrove. Aveva cambiato lavoro, prendendo definitivamente posto alla redazione de Il Mattino di Venezia, dove aveva iniziato, e con Alessio il rapporto sembrava non solo essersi sanificato, ma addirittura migliorato.
Non c’era il resto del gruppo, intorno alla tavola, e nemmeno Fernando era presente – ormai vivo solo nei suoi ricordi e nella sua memoria. Si lasciò sfuggire inconsapevolmente un sorriso malinconico mentre ripensava a quel che gli avrebbe detto se fosse stato lì – “Goditi i ventotto anni, che ormai la vecchiaia sta avanzando sempre di più”.
-Che c’è?-.
La voce di Alessio lo riportò al presente, spezzando il silenzio che era calato da quando, dopo che le pizze erano state pronte, avevano iniziato a mangiare seduti l’uno di fronte all’altro. Doveva aver intercettato il velo di tristezza che gli si era dipinto brevemente in volto, domandandosi a cosa fosse dovuto.
-No, niente- Pietro scosse il capo, deciso a non rovinare l’aria di festa e di serenità che si era creata – Stavo ripensando ad alcune cose-.
Alessio sembrò volersi far bastare quella risposta:
-Non dirmi che sei ancora scioccato per il mio regalo- mormorò ironico, con un ghigno sulle labbra.
-Beh, un po’ sì- rise Pietro, già lasciando da parte i pensieri di poco prima – Spero che per il tuo compleanno non ti offenderai se ti prenderò qualcosa di molto più economico-.
Sapeva perfettamente che ad Alessio non sarebbe importato nulla del costo del regalo, ma lo disse in ogni caso; per quanto gli sarebbe piaciuto ricambiare, dubitava fortemente che il suo stipendio avrebbe mai raggiunto vette sufficientemente alte da potersi permettere certe spese solo per un dono.
Alessio alzò le spalle con nonchalance:
-I regali non mi interessano, quindi puoi benissimo anche non prendermi nulla-.
Pietro si lasciò andare teatralmente ad un respiro di sollievo. Pur avendo lo sguardo abbassato sulla sua pizza, intento a scegliere la prossima fetta da mangiare, udì la risata di Alessio seguire subito quella sua reazione.
Passarono alcuni attimi prima che Alessio parlasse di nuovo:
-Giada e i bambini che ti hanno regalato?- gli chiese, con tono casuale.
Pietro cercò di far mente locale sulla giornata precedente, quella del suo compleanno: aveva passato praticamente tutta la giornata, compreso il pranzo e la cena, da Giada per poter stare un po’ con Giacomo e Giorgio. Alla fine erano stati più loro due a festeggiare al posto suo, ma non poteva lamentarsi: preferiva di gran lunga vederli ridere allegri, divertiti nel fregargli le fette di torta che sarebbero toccate a lui. Passare così tante ore con i suoi figli, dopo un’intera settimana senza vederli, era di per sé da potersi considerare un regalo ineguagliabile.
-Un maglione- ricordò, annuendo tra sé e sé. L’aveva sicuramente scelto Giada, e in fondo non era stata una scelta infelice: poteva sempre essere utile avere qualcosa in più da indossare, specialmente in inverno.
Alessio lo guardò di nuovo con un ghigno malizioso:
-Sexy?-.
Pietro smise di masticare per qualche secondo: era davvero contento di trovare Alessio così di buon umore – a tratti giocoso, osava pensare-, perché non succedeva da tempo, ma in quel momento rischiava solo di farlo arrossire più del dovuto.
-Potevi pensarci tu a quello- replicò con così tanta serietà da risultare comico.
-Lo annoto come possibile regalo per Natale. O per il tuo prossimo compleanno-.
Pietro si pentì delle sue parole non appena Alessio ebbe finito di parlare. Temette quel che avrebbe potuto aggiungere quando lo vide aprire nuovamente bocca, dopo aver mandato giù un altro boccone di pizza:
-A proposito del mio compleanno … In quei giorni potrei non essere nemmeno qui-.
-A Venezia, intendi?-.
Alessio scosse il capo:
-In Italia, a dire il vero-.
Stavolta anche Pietro si fermò, corrugando la fronte per la curiosità, ma non gli servì neppure formulare la domanda: Alessio sembrò avergli letto il pensiero.
-Nella prima settimana di Aprile ci sarà una convention piuttosto interessante su alcune novità nel campo della cyber security. Mi hanno proposto di parteciparvi, visto che è anche la mia area di lavoro-.
-E dove sarà?- chiese ancora, sempre più curioso. La breve pausa che ne seguì lasciò Pietro sulle spine, lasciandolo a chiedersi in quale parte del mondo dovesse andare Alessio.
Lo scoprì un secondo dopo, quando l’altro si decise a parlare:
-Los Angeles-.
Pietro ringraziò se stesso per aver atteso di continuare a mangiare, perché in caso contrario si sarebbe sicuramente strozzato.
-Cosa? Negli Stati Uniti?- ripeté incredulo, gli occhi sgranati – Visto che ti hanno invitato ti pagano il viaggio, vero?-.
-All’incirca, sì- Alessio annuì, ridacchiando tra sé per la reazione appena ricevuta – Ho due posti prenotati, ma il mio dipendente con cui sarei dovuto andare sembra abbia troppa paura di prendere l’aereo per tutte quelle ore-.
-Quindi andrai da solo?-.
Pietro lo vide annuire di nuovo:
-È probabile-.
Per un po’ Alessio rimase di nuovo in silenzio, prima di lanciargli un’occhiata di sottecchi, talmente veloce che per un attimo Pietro temette di essersela immaginata. Credendo che il discorso fosse finito lì, tornò a rivolgere le sue attenzioni a quel che rimaneva della sua pizza: aveva ancora fame, una fame che di certo quelle ultime fette non avrebbero saziato del tutto.
-Anche se … -.
Pietro alzò gli occhi verso Alessio, una muta domanda nella sua espressione curiosa. Osservò il sopracciglio alzato di Alessio, la fronte aggrottata come se stesse riflettendo spasmodicamente su qualcosa.
Schioccò sonoramente la lingua, stavolta tornando a guardarlo apertamente:
-Tu non ti occupi di nuove tecnologie in redazione?-.
Pietro annuì, lasciando perdere la fetta di pizza che ancora aveva tra le dita:
-Sì, di solito sì-.
Al direttore era sembrata una buona idea piazzarlo in un campo che aveva a che fare con il suo vecchio lavoro: alla fine, aveva dovuto ammettere Pietro, le sue conoscenze pregresse erano davvero di aiuto nel dover riportare in modo più approfondito alcune notizie del mondo del progresso informatico e tecnologico.
-Potresti proporre al tuo caporedattore un pezzo sugli eventi della convention- Alessio buttò lì quelle parole con la miglior nonchalance, come se gli avesse appena chiesto cosa c’era per dolce a cena – Sarebbe una cosa piuttosto esclusiva-.
L’unica cosa che riuscì a fare Pietro, oltre a spalancare gli occhi e mollare definitivamente la pizza sul piatto, fu quella di stentare a credere a quel che aveva appena udito.
-Mi stai proponendo di venire con te? A Los Angeles?-.
Tutto ciò che ebbe in risposta, prima di qualsiasi altra parola, fu un sorriso scaltro di Alessio. Un sorriso che lasciava spazio a ben poche altre interpretazioni.
-Credo di sì-.
Alessio si sporse di più verso di lui, lo stesso sguardo di chi sapeva perfettamente di aver appena lanciato una bomba che difficilmente sarebbe stata ignorata.
-Che dici?- gli disse ancora, e per un attimo Pietro ebbe l’impressione che, se fosse stato in piedi, le gambe gli sarebbero mancate all’istante – Non vuoi andare alla scoperta dell’America?-.
 
*
 
It's my life
It's now or never
I ain't gonna live forever
I just want to live while I'm alive
 
Imprecò sottovoce, mentre richiudeva l’ennesimo cassetto della scrivania che occupava un angolo della stanza da letto, innervosito per non aver ancora trovato ciò che cercava.
Pietro sospirò a fondo, cercando di ricordare: aveva sicuramente una copia del contratto d’affitto dell’appartamento da qualche parte in casa, il problema era capire dove. Aveva iniziato da poco la ricerca, mettendocisi subito dopo cena, in quel giovedì sera in cui non aveva altro da fare.
Ricerca che, se non si fosse conclusa a breve, lo avrebbe fatto solamente finire ad andare a dormire con l’ansia, all’idea di aver perso quella maledetta copia, e con il nervoso, per aver dovuto aprire tutti i cassetti di tutti i mobili per rintracciarla.
Si mise il cuore in pace, pensando che, prima o poi, sarebbe venuta fuori. Aprì un secondo cassetto della scrivania, rovistandovi dentro ma capendo ben presto che non l’avrebbe trovata nemmeno lì, di certo non in mezzo a vecchi documenti di visite mediche più o meno recenti. Richiuse il cassetto con un gesto secco, passandosi una mano tra i capelli; cercò di reprimere l’ennesima imprecazione, pur sapendo che, in una casa deserta come la sua, nessun altro al di fuori di se stesso avrebbe potuto sentirlo.
Quando si decise a tuffarsi nel terzo cassetto avvertì la sensazione che sarebbe stato un altro tentativo a vuoto. C’erano scartoffie di ogni genere lì dentro – quasi si sorprese di come, inaspettatamente, fosse in pieno disordine-, ma di certo non c’era la copia del contratto. Fu sul punto di lasciar perdere anche quel cassetto, ma prima di richiuderlo l’occhio gli cadde su un angolo di foglio di colore viola: qualcosa che avrebbe richiamato l’attenzione di chiunque, in mezzo a quella massa di carte bianche ed anonime.
Pietro allungò una mano, afferrandone il lembo visibile e tirandolo fuori dal cumulo sotto cui si trovava: per un attimo corrugò la fronte, ma gli bastò poco per ricordare cosa fosse la cosa che aveva in mano.
Non era un foglio qualsiasi, ma un volantino. Il volantino del Celebrità, decorato con i colori dell’arcobaleno in pieno contrasto con lo sfondo viola.
Pietro se lo rigirò tra le mani: ricordava ancora abbastanza bene la sera autunnale in cui un tizio che distribuiva quei volantini gli aveva praticamente messo in mano quello che ora stava guardando. E ricordava anche – fin troppo bene, meglio di quel che gli sarebbe piaciuto ammettere- che genere di locale fosse il Celebrità. Non che fosse difficile intuirlo, dato l’enorme uso di arcobaleni nella grafica del volantino.
Non ricordava, però, il motivo per cui lo aveva conservato. Forse perché, in fondo, avrebbe sempre potuto avere una sua utilità.
Per un attimo ebbe la tentazione di buttarlo nel cestino accanto alla scrivania, ma si fermò. Negli ultimi mesi c’erano state troppe cose a cui pensare – trovare un equilibrio con Giada e i bambini, l’esame di Stato da preparare, rassegnare le dimissioni in ufficio e stabilirsi definitivamente in redazione-, decisamente troppe per anche solo prendere in considerazione l’idea di distrarsi.
Di distrarsi e provare nuove cose.
Ora, però, le cose erano cambiate. Si erano assestate, e se magari qualcosa poteva ancora migliorare, Pietro doveva ammettere che non poteva lamentarsi. La sua vita aveva preso una piega di quotidiana monotonia che gli era mancata: per quanto noiosa potesse essere, aveva bisogno di sentire quella tranquillità a cui era riuscito ad arrivare dopo anni di fatica.
Forse, in fondo, era arrivato il momento anche per il prossimo passo.
Si mise seduto sul pavimento, mordendosi il labbro inferiore. Ripensò a Fernando, come gli capitava spesso, quasi ogni giorno, anche solo per pochi minuti.
Fernando di sicuro avrebbe saputo dirgli cosa fare: lo avrebbe incoraggiato ad uscire dal guscio, a fare lo step successivo dopo aver preso coscienza di se stesso ed averlo detto almeno a Giada. Sì, Fernando lo avrebbe di sicuro spronato ad uscire in qualche locale, magari anche conoscere qualcuno; riusciva quasi a sentirlo, parlargli con euforico entusiasmo di quante possibilità avesse davanti a sé.
Pietro lasciò che le proprie labbra si piegassero in un sorriso malinconico. Se Fernando fosse stato lì con lui di sicuro si sarebbe offerto di accompagnarlo, di fargli da guida, ma ora era un compito che doveva affidare a se stesso. Doveva essere la sua stessa guida, e forse quello era il momento propizio per farlo.
Forse ritrovare quel volantino proprio in quel momento era un segno del destino, più che una semplice coincidenza. Gli piaceva pensarla così, come gli avrebbe detto Fernando.
Forse era ora di smettere di tenere la propria vita in standby e cominciare a viverla sul serio. Magari anche facendo esperienze sbagliate, ma di sicuro passando per altre che sarebbero state giuste.
Magari il Celebrità non era proprio il posto più adatto a lui, ma era un inizio, che poteva anche riservare delle sorprese. 
L’importante era provare. Doveva iniziare a farlo, e per la prima volta provò la genuina voglia di mettersi alla prova.

 
“Morire non è nulla; tremendo è non vivere” - Victor Hugo
 
I just want to live while I'm alive
It's my life [1]
 
*
 
This is getting heavy, can you hear the bass boom? I'm ready
Life is sweet as honey, yeah, this beat cha-ching like money
Disco overload, I'm into that, I'm good to go
I'm diamond, you know I glow up
Hey, so let's go
 
Forse era troppo vecchio per quel genere di cose.
Pietro sbuffò sonoramente, passandosi le mani sul viso in un gesto di pura frustrazione.
Sarebbe sembrato un venerdì sera qualunque, se non fosse stato per il fatto che aveva cenato particolarmente presto – praticamente appena rientrato dal lavoro- e che, anziché riposarsi un po’ sul divano davanti alla tv o al pc per guardare in streaming qualche serie, si trovava invece di fronte all’armadio spalancato. Non ricordava da quanto tempo fosse lì, a struggersi nello scegliere qualcosa da indossare – qualcosa di adatto ad un locale come il Celebrità, qualcosa che non lo facesse sembrare né troppo in tiro ma nemmeno sciatto.
Inspirò profondamente: sì, forse era un po’ fuori dal target di un locale simile, probabilmente avrebbe alzato un po’ la media d’età dei frequentatori, ma aveva tutte le possibilità per presentarsi al meglio. Cercò di ripeterselo come un mantra, consolandosi con il fatto che, in fin dei conti, non doveva rimorchiare nessuno: poteva vestirsi decentemente anche solo per andare a dare un’occhiata di perlustrazione.
Tornò a concentrarsi su ciò che aveva davanti, allungando una mano per separare alcune camicie dal resto degli abiti appesi. Ne scelse alcune e,  afferrati gli appendini, le buttò in bella vista sul materasso. Non poteva certo contare sulla varietà di colori e toni – erano tutte perlopiù scure, dal blu al nero, persino una vinaccia che aveva dimenticato di avere-, ma ce n’erano almeno un paio che potevano fare al caso suo.
Non indossava camice così eleganti da troppo tempo. Di certo nell’ultimo anno non aveva avuto occasioni per usarle, ed era pronto a scommettere che fosse passato anche più di un anno dall’ultima occasione utile, che nemmeno ricordava.
Guardò a lungo la camicia indaco che aveva posato ad una estremità del letto, sentendosi spinto dopo poco a sollevarla. La tenne appoggiata contro il proprio busto, mentre si avviava davanti allo specchio accanto all’armadio: la fantasia paisley la rendeva meno monotona che se fosse stata in tinta unita, ma nemmeno troppo estrosa da dare nell’occhio. Era ciò che faceva per lui.
Sorrise tra sé e sé, un po’ più sollevato: forse non sarebbe sembrato ridicolo in quel locale che si prospettava pieno di gente più giovane di lui, più giovane e meno spaesata di come si sarebbe sentito lui.
 


Erano da poco passate le nove. Fuori non sembrava ci fosse pericolo di pioggia, anche se portare un ombrello non doveva essere una precauzione esagerata.
Pietro si guardò intorno, in piedi al centro del salotto, chiedendosi cos’altro gli sarebbe potuto servire. Ormai l’ora adatta per uscire era arrivata: sarebbe uscito in tranquillità, avrebbe camminato per le calli fino al Tronchetto dove avrebbe recuperato l’auto. E poi sarebbe finalmente partito, in direzione di Mestre, verso qualcosa di così ignoto che non sapeva nemmeno cosa si sarebbe potuto aspettare.
“È solo un locale”.
Sospirò affannosamente, cercando di restare con la mente lucida e non lasciarsi sopraffare dall’agitazione. Aveva già preparato tutto: il portafoglio in una delle tasche dei jeans neri, l’ombrello già pronto, il cappotto che lo attendeva vicino alla porta d’ingresso. Era ora di andare.
“Andrà tutto bene”.
Arrivò di fronte alla porta d’ingresso, afferrando il cappotto dall’attaccapanni per infilarselo. Si sentiva teso come una corda di violino, per quanto gli sarebbe piaciuto negarlo. Ma era una tensione in qualche modo positiva, come se tutti i timori e le paure che ancora aveva fossero comunque meno forti dell’euforia che si sentiva addosso.
Euforia. Quella era la parola giusta: era la sensazione prevalente che gli scorreva nelle vene in quel momento.
Non aveva idea di cosa dovesse aspettarsi da quella sua prima sortita in un locale apertamente LGBTQA, ma l’avrebbe scoperto presto – era una sensazione così strana al pensiero che, un anno prima, ancora si torturava al pensiero che, prima o poi, avrebbe dovuto fare coming out con Giada.
Era acqua passata, ormai. Poteva ancora avere qualche dubbio, ma poteva dirsi pronto ad affrontare quel che lo aspettava.
La serata era sua, ed era del tutto intenzionato a viversela fino in fondo.
 
'Cause I, I, I'm in the stars tonight
So watch me bring the fire and set the night alight
Shining through the city with a little funk and soul
So I'ma light it up like dynamite [2]
 
*
 
I don’t know what this emotion is
If this place is also inside a dream
This dream is a blue mirage in the desert
A priori deep inside of me
I’m so happy, I can’t breathe
My surroundings are getting more and more transparent [3]
 
Caos era la parola che meglio avrebbe descritto ciò che si trovava intorno a lui.
Pietro arrivò finalmente al bancone, unica isola di salvezza alla quale aggrapparsi per non lasciarsi trascinare dalla corrente di gente che affollava il Celebrità a quell’ora della sera inoltrata.
Non si aspettava che fosse un posto vuoto, ma non si era aspettato nemmeno tutta la quantità di gente che ci si trovava, tanto da essere stato costretto a fare la fila per entrare.
Il Celebrità somigliava più ad una discoteca – o ad un night club, per certi versi- che ad un normale bar. Quando Pietro, un’ora prima, aveva parcheggiato l’auto nelle vicinanze, dopo aver seguito le indicazioni del navigatore del suo cellulare, non aveva faticato ad individuare il posto: l’insegna a led azzurri era visibile a metri di distanza, talmente luminosa da essere facilmente notata nell’oscurità della sera. Aveva avuto più di qualche dubbio, mentre si avvicinava per mettersi in fila, ma dopo qualche minuto di osservazione era giunto alla conclusione che c’era un’eterogeneità incredibile tra le persone che lo circondavano: si andava da ragazzi che dovevano essere poco più che maggiorenni, ad altri decisamente più maturi di lui. Ragazzi e ragazze vestiti con colori sgargianti, altri in abiti succinti – e fin troppo leggeri per la temperatura invernale-, altri meno appariscenti esattamente come lui. Si era rilassato nel rendersi conto che, in quella fiumana così differente per età, interessi e aspetto, lui doveva risultare anonimo quanto tanti altri. Era quel che cercava: anonimità per poter osservare, poter abituarsi anche solo alla sensazione di tanta libertà.
Non aveva dovuto attendere troppo per entrare, e lasciare il cappotto nel guardaroba all’entrata del locale; quando aveva messo piede all’interno si era sentito bombardare le orecchie dalla musica ad alto volume, e dalle luci soffuse che illuminavano di poco i tavolini e il lungo bancone viola. C’era davvero un sacco di gente: non era riuscito a individuare nemmeno un tavolino libero, e c’erano tantissimi altri che avevano preferito rimanere direttamente in piedi, al bancone o agli angoli del locale.
Aveva fatto appena in tempo ad ordinare un cocktail e iniziare a muoversi lentamente per studiare meglio l’ambiente, prima che il primo ragazzo che ci aveva provato con lui gli si avvicinasse. Pietro non aveva idea della faccia che poteva avergli rivolto alla realizzazione del motivo per cui gli si era avvicinato, ma aveva ringraziato comunque la semioscurità presente.
Si era allontanato con la prima scusa venutagli in mente prima ancora che il ragazzo gli si presentasse, ma non era passato troppo tempo prima che qualcun altro gli si avvicinasse. Era successo dalle parti vicino all’entrata, e stavolta l’altro aveva fatto in tempo a dirgli il suo nome – Alessio, come se l’ironia non fosse sufficiente già nel farlo somigliare anche nell’aspetto all’Alessio che Pietro conosceva fin troppo bene-, prima che Pietro riuscisse a svincolarsi con la stessa scusa di prima.
Ora che era al bancone, ancora vagamente sconvolto con la facilità con cui era stato puntato già due volte, si sentiva un po’ meno vulnerabile: lì intorno c’erano prevalentemente gruppi di amici, e decisamente meno gente sola. E poi poteva sempre ordinare un altro drink, bisognoso d’alcool com’era in quel momento.
Si era seduto ad uno dei pochi sgabelli rimasti liberi, sentendosi la testa girare non tanto per il primo cocktail che aveva già finito, o per la musica ad alto volume, quanto per tutte le sensazioni che si sentiva agitare dentro.
Forse non aveva reagito troppo bene al provarci altrui, ma dall’altra parte si sentiva bene: era qualcosa che non aveva mai pensato possibile, sapere di avere la concreta possibilità di rimettersi in gioco. O conoscere qualcuno – magari anche uscirci, se si fosse deciso a non scappare per la terza volta.
Si dette dello stupido per essersi tenuto tutto dentro per tutti quegli anni. Forse la sua vita sarebbe stata più solitaria – di certo senza Giacomo e Giorgio-, ma sarebbe anche stata enormemente diversa. Di certo meno falsa.
Non fece in tempo ad aprir bocca per ordinare che avvertì la presenza vicina – forse troppo vicina, per essere una semplice coincidenza- di qualcun altro. Quando alzò il viso, con lentezza atroce, si ritrovò a faccia a faccia con un altro ragazzo, forse un paio d’anni più giovane o suo coetaneo, che gli ammiccò subito.
-Ti va se ti offro qualcosa?-.
Pietro si sentì di nuovo le guance bruciare; deglutì a fatica, ancor più in imbarazzo delle volte precedenti.
-Scusa, ma non sono interessato- glielo disse con fare serio, forse un po’ troppo con ostilità, ma con sufficiente fermezza da far capire all’altro – qualsiasi fossero le sue intenzioni con quella manovra appena fatta- che di certo non era interessato in quel senso.
L’unica fortuna fu che l’altro non sembrò voler insistere: lo guardò deluso per qualche secondo, prima di scuotere il capo debolmente ed allontanarsi.
Sentì la testa girare ancora un po’, ancora vagamente a disagio. Non aveva calcolato troppo il fatto che più di qualcuno avrebbe potuto anche provare ad abbordarlo.
Per un attimo si ritrovò a ripensare ancora a Fernando, alle prime due volte che si erano incontrati: in un certo senso anche lui si era fatto avanti, allo stesso modo dei tre ragazzi di quella serata, ma paradossalmente con lui le cose erano state più naturali. Forse era solo questione di feeling: iniziare a parlare con il primo sconosciuto, affascinante o meno, non era la stessa cosa che parlare con qualcuno con cui si percepiva un legame che andava oltre le parole.
Si sentì terribilmente solo, in quel momento e su quello sgabello, nel ripensare a Fernando. Solo e disorientato, e con un bisogno incredibile di una boccata d’aria fresca.
-Prima volta?-.
Pietro aspettò qualche secondo, prima di alzare di nuovo il viso e rendersi conto che quella domanda gli era stata rivolta dal ragazzo seduto sullo sgabello di fianco.
-Cosa, scusa?-.
L’osservò girarsi completamente di fronte a lui, un gomito piegato sul bancone e un ghigno furbo, divertito, stampato bene in vista sulle labbra:
-È la prima volta che vieni qua, no? Si capisce subito-.
Nonostante le luci soffuse, ora che lo poteva vedere meglio in viso, Pietro si accorse che doveva essere decisamente più giovane di lui.
Evitò di rispondere, troppo in imbarazzo e troppo in difficoltà di fronte all’evidenza della sua inesperienza. Non aveva idea da cosa l’altro potesse averlo intuito: forse era l’espressione confusa, o forse qualcos’altro che continuava a sfuggirgli. Rimaneva solo il fatto che il ragazzo ci aveva visto giusto, fin troppo.
Doveva essere bravo a leggere le persone, perché passarono solo pochi attimi prima che il suo ghigno si trasformasse in un sorriso gentile, quasi confortante.
-Daje, il prossimo giro te lo offro io- esclamò, dando una manata leggera sulla superficie liscia e fredda del bancone.
Pietro lo guardò sgranando gli occhi:
-Veramente ho appena detto che … -.
-Che non sei interessato- lo interruppe subito l’altro – Nun ce sto provando, ti sto solo dando una mano. Fa finta di essere con me e sei a posto, non verranno a provarci ancora-.
Pietro rimase per qualche attimo interdetto, frastornato dalle tante parole appena ascoltate, comprese a fatica per la musica che gli rimbombava nelle orecchie e per l’accento così spiccatamente romano che l’altro sfoggiava. Cercò di capire quali potessero essere davvero le sue intenzioni: era sincero? Non che avrebbe faticato a togliersi di torno anche lui, nel caso avesse capito che lo stava prendendo in giro.
Eppure c’era qualcosa nel sorriso del ragazzo, di cui Pietro neanche conosceva il nome, che gli diceva che poteva fidarsi.
-Ne sei sicuro?- gli chiese, suonando un po’ troppo incerto per i suoi gusti.
L’osservò mentre alzava le spalle:
-Mica ho tutte le certezza de ‘sto mondo, per chi mi hai preso? Ma tanto vale provacce- gli rispose ridendo, sporgendosi verso di lui per farsi sentire – Al massimo te sei fatto offrì qualcosa da bere-.
-In realtà preferirei uscire a prendere una boccata d’aria. Si soffoca un po’ qua dentro- Pietro lo disse istintivamente, buttandosi del tutto senza nemmeno pensare. Non aveva idea se quel che aveva appena detto suonasse più come un invito plurale che un’affermazione su se stesso, ma il suo dubbio venne spazzato via dall’altro subito dopo:
-Ce sta, daje- fece, scendendo dallo sgabello – Vieni o no?-.
Per qualche secondo Pietro rimase immobile. Fu, ancora senza pensarci, dopo quelli che a lui parvero attimi interminabili che iniziò a muovere le gambe, scendendo a sua volta dallo sgabello.
Non aveva la più pallida idea di cosa poteva attenderlo.
 


-Ma levame ‘na curiosità-.
Pietro strinse impercettibilmente più forte i polpastrelli attorno alla sigaretta, chiedendosi cosa potesse mai ronzare nella testa del rosso – o del roscio, visto la sua più che evidente provenienza romana.
Fuori dal Celebrità c’erano altri fumatori, e altre persone che erano semplicemente lì a parlare senza dover urlare per farsi capire con la musica assordante in sottofondo. Altri ancora tenevano qualche drink in mano, e Pietro si ritrovò ad invidiarli: per quanto la sigaretta lo stesse rilassando, l’alcool avrebbe fatto ancor più effetto.
Alla luce di un lampione vicino, era finalmente riuscito a dare un’occhiata al suo nuovo compagno d’avventure di cui ignorava ancora il nome. Ora che c’era maggior luce, poteva dirsi sicuro del fatto che fosse più giovane di lui, probabilmente in età da università, e che fosse probabilmente la persona più colorata che avesse mai incontrato: avrebbe avuto un aspetto quantomeno ordinario, limitandosi ai capelli rossicci e mossi che incorniciavano il viso ovale, ma era tutto il resto a renderlo tutt’altro che consueto. Pietro dubitava di aver mai visto un altro ragazzo vestito con altrettanti colori sgargianti – dal giallo fluo della maglietta che si intravedeva sotto il cappotto, al viola dei pantaloni attillati- e, soprattutto, di averne visto uno truccato quanto lui. Con un’occhiata più approfondita, data con discrezione, aveva comunque dovuto ammettere che l’ombretto che sfoggiava – una sfumatura sul dorato, luminoso e decisamente vistoso- risaltava bene le iridi verdi. Per un attimo pensò quasi che gli ricordasse Giulia, anche se nemmeno lei poteva vantare un armadio così variopinto.
Era un tipo curioso, strambo come non mai per i suoi standard, ma aveva ancora la sensazione di potersi fidare di lui.
-Ma lo sai che tipo di posto è questo o ce sei finito per caso?- proseguì a parlare, senza aspettare che Pietro gli facesse qualche cenno. C’era un sottotono divertito nella sua voce, ma c’era perlopiù curiosità sincera.
Pietro scrollò le spalle, sentendosi arrossire e ricordandosi che, purtroppo, ora non c’era più la luce soffusa dell’interno del locale a venirgli in aiuto.
-Intendi un locale per non etero?-.
Si sentì vagamente idiota ad usare quella definizione, ma l’altro sembrò non farci troppo caso: rise appena, tirando fuori una mano dalle tasche del cappotto ed alzandola a mezz’aria.
-Gli etero ce stanno, mica gli è vietato di venirci … Solo che sono in netta minoranza- spiegò, con semplicità – Quindi devo supporre che tu sappia dove sei finito, dalla tua risposta-.
-Lo so. Ci sono venuto apposta- mormorò Pietro, dopo aver portato di nuovo la sigaretta alle labbra ed aver espirato il fumo. Anche se si sentiva in imbarazzo ad ammetterlo a qualcuno – uno sconosciuto di cui nemmeno sapeva il nome-, aveva l’impressione che dall’altro non sarebbero arrivati giudizi affrettati. Doveva ancora capire da cosa derivasse quella fiducia che si sentiva di poter riporre in lui.
-Non si direbbe dalla tua faccia- commentò divertito il rosso.
Pietro si ritrovò di nuovo ad arrossire, inevitabilmente:
-È la prima volta che vengo- ammise di nuovo, il viso abbassato a guardare la punta delle sue scarpe come se fossero la cosa più interessante – Ma questo l’avevi già capito-.
-Non che ce voglia un genio. Hai ‘na faccia-.
Pietro alzò appena gli occhi giusto in tempo per vedere l’altro indicargli il suo stesso viso: era sicuro che, se avesse avuto uno specchio a portata di mano, glielo avrebbe allungato per fargli vedere quanto lasciava trasparire lo sgomento che gli si doveva leggere in faccia.
-Credevo davvero ti fossi perso. O che lo avresti detto … È una scusa che si usa spesso per non ammettere di essere finito nella gay street di turno- disse ancora, ignorando – o non accorgendosene- del tutto l’occhiata confusa che Pietro gli rivolse subito.
-Questa è la gay street?-.
Era sicuro di non averne mai sentito parlare, nemmeno da Fernando. Sapeva che nelle grandi città c’erano zone con soli locali come il Celebrità, ma dubitava ardentemente che una realtà simile potesse esserci anche da quelle parti. Senza contare che la zona di Mestre in cui si trovavano gli pareva più popolata da negozi chiusi e palazzoni tipici delle zone periferiche.
Il rosso gesticolò appena, schiarendosi la voce:
-Beh, no, non esattamente, ma non è che a Mestre ci siano tanti altri posti così … -.
-Colorati?- lo interruppe Pietro, con sarcasmo evidente – Poco etero?-.
L’occhiataccia che si guadagnò lo fece ridere sinceramente. Era la prima risata della serata: un vero e proprio trionfo, se ripensava anche solo all’agitazione con la quale era uscito di casa.
-Invece de pijà pe’ culo, potresti ringraziarmi che ti ho salvato dalle grinfie di tutti i twinks che ci stanno là dentro- lo rimbrottò l’altro, scuotendo il capo e piegando le braccia contro il petto – Ti si stavano proprio buttando addosso, cazzo-.
-Grazie-.
Pietro decise di non approfondire l’argomento – chi aveva mai sentito parlare di twinks?-, ancora troppo disorientato di fronte alle troppe informazioni nuove con cui lo stava bersagliando il rosso.
“Glielo posso sempre chiedere più tardi”.
Ora c’era qualcos’altro che gli premeva sapere.
-Com’è che ti chiami?-.
Gli sembrava quasi incredibile aver parlato tutto quel tempo con lui senza aver in mente nemmeno un nome da associargli. L’altro non sembrava sorpreso: gli sorrise appena, subito dopo quella domanda.
-Martino. Te sei?-.
-Pietro- gli rispose, allungando la mano destra per stringere quella che Martino gli stava già porgendo.
-Pietro? Ti si addice-.
Anche Martino gli si addiceva, si ritrovò a pensare Pietro. Non era un nome comune, non tra i suoi coetanei e tantomeno doveva esserlo tra i ragazzi più giovani di lui, ed in qualche modo rispecchiava anche per quell’aspetto la non ordinarietà che lasciava trasparire in qualsiasi modo.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, prima che fosse di nuovo Martino a parlare:
-Levame ‘na curiosità: ma quanti anni hai?-.
Pietro fece l’ultimo tiro con la sigaretta, prima di buttarla nel cestino poco distante da loro, accanto all’entrata del locale.
-Ti sembro vecchio?- gli chiese, fingendosi offeso. Aveva la sensazione che Martino sarebbe stato al gioco e che non si sarebbe affatto sentito intimorito, ed ebbe perfettamente ragione: lo vide ghignare piano, divertito.
-No, ma più vecchio di me lo sei sicuro-.
“Il ragazzino sa di aver ragione”.
-Ne ho ventotto- ammise Pietro, forse un po’ imbarazzo nel dire ad alta voce, così apertamente, di essere ormai più vicino ai trenta che ai venti – Tu?-.
-Ventiquattro. Sono un ’98-.
Si sentì in parte sollevato nell’apprendere che avevano solo quattro anni di differenza. Rimase anche sorpreso: per quanto fisicamente Martino non apparisse poi così più piccolo di lui, più basso probabilmente solo di alcuni centimetri, a guardarlo in faccia gli avrebbe dato decisamente meno anni di quelli che aveva.
-Di Roma?- azzardò a chiedere ancora, scommettendo di conoscere già la risposta.
Martino rise di nuovo:
-Se sente, eh?-.
-Giusto un po’- Pietro si trattenne a stento dal correggersi per dirgli che era così evidente che sembrava avesse un etichetta con stampato “Roma” in fronte – Però mi piace l’accento romano, in genere-.
Si morse il labbro inferiore un secondo dopo aver pronunciato quelle parole, arrossendo subito nel rendersi conto che quell’ultimo dettaglio suonava più come un tentativo di provarci. Gli servirono alcuni secondi prima di riuscire a trovare il coraggio per alzare il viso verso Martino: lo trovò con lo stesso ghigno divertito, a tratti malizioso, di prima.
-Qualcuno qui ha dei kink-.
Pietro desiderò ardentemente scavarsi una buca nel terreno, e sparirvi dentro il prima possibile.
-Ma un’altra cosa- riprese Martino, come se nulla fosse – È la prima volta che vieni qui, o che vai in un posto … Per non etero?-.
Pietro si sentì vagamente sollevato da quel cambio di argomento, anche se la domanda non era esattamente tra quelle a cui avrebbe risposto più volentieri. Per un attimo pensò seriamente di mentire, ma aveva l’impressione che, in un modo o nell’altro, Martino potesse già sospettare la reale risposta.
Si chiese cosa avrebbe potuto pensare di lui dopo una confidenza del genere: era forse un po’ tardi per iniziare a provare cose nuove? Sarebbe sembrato solamente fuori posto? Forse lo avrebbe trovato anche un po’ patetico.
Ma, in fin dei conti, Martino era uno sconosciuto che molto probabilmente non avrebbe più rivisto dopo quella sera. Non aveva nulla da perdere ad essere sincero con lui.
-La seconda, direi- biascicò a mezza voce, soffocando a stento il bisogno di accendersi un’altra sigaretta.
Osservò Martino annuire:
-Deciso di provare nuove avventure?-.
Non c’era derisione o ironia nel suo tono di voce, solo sincera curiosità.
-Provare a non vergognarmi, più che altro-.
Pietro se lo lasciò sfuggire prima ancora di riflettere.
“Ora sì che mi serve un’altra sigaretta”.
Martino alzò un sopracciglio, con espressione confusa.
“O dell’alcool. Qualcosa di molto alcolico”.
-È un discorso complicato- si sforzò di mormorare, dirigendo lo sguardo altrove.
Non aveva idea di dove sarebbe andata a parare quella conversazione dopo quella mezza confidenza. Si sentì vulnerabile, molto più di quello che avrebbe voluto, e per quanto ci fosse la reale possibilità di non rivedere mai più Martino dopo quella serata, temeva comunque di avergli dato una brutta impressione con quelle sue ultime parole. Forse aveva lasciato intendere più del necessario, e decisamente di più di quanto sarebbe stato meglio dire.
Da Martino non era ancora arrivato alcun commento, e quel silenzio cominciava ad innervosirlo – e a spaventarlo, per quanto odiasse ammetterlo.
Si trovò quasi sul punto di dire qualcosa – qualsiasi cosa che potesse cavarlo da quell’impiccio e dargli una scusa per andarsene-, quando udì Martino sospirare a fondo.
-L’omofobia interiorizzata è ‘na brutta bestia- mormorò amareggiato, con una serietà che Pietro non gli aveva ancora visto in tutto il tempo in cui avevano parlato.
Quando alzò finalmente gli occhi, rimase sorpreso nel vedere Martino sorridergli. Non era un sorriso allegro, né tantomeno irriverente come i precedenti, ma uno venato di malinconia – la stessa che poteva ritrovare nell’espressione e nello sguardo. Era un sorriso che, nonostante tutto, un po’ lo rincuorò e che gli fece presupporre che, anche se probabilmente per motivi diversi, Martino lo stava comprendendo alla perfezione. Non lo stava giudicando, quanto dicendogli, pur non a parole, che capiva quel che aveva cercato di dire.
Senza nemmeno accorgersene subito, Pietro ricambiò il sorriso. Forse anche il suo aveva lo stesso velo di tacita malinconia, e forse anche dell’insicurezza che rendeva quel sorriso meno vivace, ma c’era anche una nota di gratitudine nascosta dietro le prime due. Per un attimo l’atmosfera non si fece più così pesante come poco prima, nonostante l’implicita comunanza di esperienze negative che li legava.
Pietro dimenticò della sigaretta che avrebbe voluto fumare fino a poco prima. Poteva andare bene anche parlare, continuare a parlare con Martino e vedere cos’altro aveva da offrire quella serata che, per certo, stava andando in modo totalmente diverso dagli scenari infiniti che si era immaginato prima di uscire di casa.
-Ho una domanda per te, visto che sei decisamente più esperto di me- Pietro iniziò con tono vago, un po’ con l’intento di cambiare argomento, un po’ con quello di ravvivare di nuovo la conversazione e non continuare con quel silenzio – Cos’è un twink?-.
La risposta di Martino fu esattamente quella che si aspettava: una risata sommessa, mentre scuoteva il capo con fare rassegnato:
-Tesoro, le basi proprio-.
A quelle parole Pietro rise a sua volta, arrossendo appena a quel tesoro detto con così tanta scioltezza.
Martino gli si avvicinò di colpo, posandogli una mano su una spalla:
-Facciamo una cosa, tanto ormai ho capito che te devo prenne sotto la mia ala protettiva- gli disse, guardandolo con eccessiva serietà per quel che gli stava mormorando – Torniamo dentro, ti offro qualcosa, e ce ne torniamo qua a parlare un po’-.
Pietro lo guardò per qualche attimo in silenzio, l’ultima traccia di insicurezza da scacciare del tutto:
-Solo parlare?-.
Il sorriso di Martino lo rassicurò ancor prima di udire qualsiasi parola. Era una strana sensazione, quella certezza di potersi fidare di quello che era ancora, in un certo senso, uno sconosciuto.
Gli ricordava un po’ la stessa sensazione che aveva avuto a suo tempo con Fernando, seppure tra lui e Martino ci fosse una differenza di carattere e di modi così palpabile che sarebbe stato difficile poter fare altri paragoni tra di loro.
-Solo parlare- gli disse, alzando poi un sopracciglio – Non sono così stronzo da provacce se vedo che l’altra parte è in difficoltà-.
Pietro sospirò a fondo, senza sentire il bisogno di doverlo correggere per dirgli che non era davvero in difficoltà. Martino sembrava riuscire a leggerlo con facilità estrema, come se in realtà non si conoscessero da così poco, ma da tutta una vita.
-Offri tu, vero?-.
Si ritrovò a soffocare una risata di fronte al sospiro teatralmente appesantito che Martino gli rivolse in risposta, mentre cominciavano a camminare fianco a fianco verso l’ingresso del locale.
-Per stavolta sì. Alla prossima tocca a te, eh. Guarda che me lo segno-.
Pietro rise di nuovo, sentendosi leggero per la prima volta in quella serata. Oltrepassò di nuovo la soglia del Celebrità con il battito meno accelerato, stavolta, un po’ come se quel luogo gli appartenesse da sempre e non lo spaventasse più così tanto.
 
 Often the humble kind but he can’t deny
He was born to blow your mind
Or something along those lines tonight

Tell him what you want and
Baby, he can find you anything you need
Tell him what you’re needing
Oh-oh-oh, oh-oh, oh-oh, oh-oh
Come on, miracle aligner, go and get ‘em, tiger [4]




 
[1] Bon Jovi - "It's my life"
[2] BTS - "Dynamite"
[3] BTS - "Euphoria"
[4] The Last Shadow Puppets - "Miracle Aligner"
Il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente alle rispettive band e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Il tono di questo aggiornamento è decisamente diverso e più leggero rispetto a come ci siamo lasciati con il capitolo precedente: ritroviamo, nelle prime scene, Alessio e Pietro in occasione del compleanno di quest'ultimo. E quale scusa migliore per Alessio per far visita all'amico e fargli un regalo inaspettato (chissà, magari è una proposta implicita per diventare lo sugar daddy di Pietro 😂)?
I due passano la serata insieme, e finiscono a parlare anche del futuro compleanno di Alessio, che potrebbe passarlo lontano dall’Italia a causa di un possibile viaggio di lavoro negli States.  Quale migliore occasione per invitare, con un effetto sorpresa da Oscar, il buon Pietro ad unirsi a lui? Lo farà veramente, oppure no? Se sì, assisteremo in diretta al loro viaggio in qualche capitolo futuro? Chissà!
Cambia poi la scena, ma il buon Pietro rimane a farci compagnia. E così, direttamente da qualche universo parallelo, riappare un volantino che era andato perduto, un volantino che lo spinge ad uscire dalla sua comfort zone.  Ed è così che il nostro Pietro si ritrova al Celebrità! Il primo impatto è stato di certo un po' disorientante, ma in mezzo al caos del locale qualcuno gli è venuto in aiuto, ed è qua che facciamo anche noi come Pietro la conoscenza di Martino (e sì, se notate riferimenti più o meno espliciti in onore di Martino Rametta di Skam Italia sappiate che è del tutto voluto ... E se non sapete di cosa stiamo parlando, andate subito a recuperare questa serie tv!).
Secondo voi, dopo questo primo incontro, i due si rivedranno nuovamente in un futuro più o meno prossimo? Magari diventeranno anche amici?
Ma soprattutto... che prima impressione vi ha dato questa new entry? Positiva o negativa? Vi sembra simpatico? Vorreste rivederlo?
Diteci tutte le vostri opinioni!
E dato il palese accento romano di Martino, cogliamo l'occasione per specificare che, non essendo romane, la possibilità di errori nella messa per iscritto di tale accetto è altamente quotata! Quindi se qualcuno ci legge dalla capitale e vuole darci consigli, questi saranno ben accetti!🙌🏻
Nel frattempo, vi diamo appuntamento a venerdì con un nuovo capitolo!
Kiara & Greyjoy
 
 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - Like I never loved you at all ***


CAPITOLO 16 - LIKE I NEVER LOVED YOU AT ALL



 
-Ho come l’impressione che ci sia qualcosa che non va-.
La voce di Caterina era stata appena udibile, il suo sussurro coperto quasi del tutto dallo scrosciare continuo della pioggia contro i vetri delle finestre del salotto. Giulia evitò di guardarla – ancora per un po’, per gli ultimi attimi prima di immergersi in una conversazione che sarebbe stata difficile, complicata e lunga.
Sarebbe potuta essere una domenica sera invernale qualsiasi, quella: capitava spesso che lei e Filippo andassero da Caterina e Nicola – o il contrario, altrettanto spesso- per passare una serata insieme a cena. Erano sempre state serate divertenti, leggere, serate in cui osservavano rapiti i loro figli legare sempre di più, in un modo genuino quanto era stato per loro in età adolescenziale. Erano serate di chiacchiere e risate, cene accompagnate da pizze ordinate sempre in posti diversi, e aperitivi improvvisati all’ultimo.
Non c’era più traccia di tutto ciò da un tempo che a Giulia pareva immemore.
Le piaceva pensare che si trovava lì un po’ per riportare in vita quella tradizione che l’aveva fatta sentire felice per diverso tempo, e non perché stava scappando dall’aria pesante che avrebbe respirato restando a casa, o perché si era decisa finalmente a parlare con qualcuno della situazione con Filippo.
Forse aveva scelto di farlo proprio in quella serata per sfuggire al pensiero che l’indomani sarebbe stato il terzo compleanno delle sue figlie, e sarebbe stata probabilmente la giornata più difficile che l’avrebbe attesa in quel mese – quasi le sembrava incredibile di dover descrivere a quel modo l’idea di passare a stretto contatto con Filippo una giornata intera. Nemmeno il pensiero di doverlo fare per Beatrice e Caterina, per renderle felici e serene per quanto possibile, la rendeva meno inquieta.
Giulia si mosse appena sul bordo del divano, torturandosi le mani tenute in grembo. Erano le dieci passate, e a parte le loro voci non si udivano altri rumori nel resto dell’appartamento. Francesco era andato a dormire da poco, ed ora erano rimasti solo lei, Caterina e Nicola nel piccolo salotto dell’abitazione.
C’era un silenzio snervante che rendeva Giulia ancor più nervosa di quel che già si sentiva, e di come si era sentita per tutta la durata della cena.
-Vi devo dire una cosa-.
Alzò lo sguardo a fatica. Caterina la stava ancora osservando con occhi preoccupati, a tratti spaventati da quel che avrebbe potuto ascoltare, seduta nervosamente sulla poltrona accanto al divano. Nicola, invece, era più defilato, standosene in piedi a pochi passi dalla libreria della parete opposta. Sarebbe potuto anche sembrare relativamente calmo, ma Giulia sapeva che la posa rigida in cui si trovava, con le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni della tuta e lo sguardo attento, tradiva nervosismo allo stesso modo che poteva valere per lei.
-A tutti e due- specificò con voce un po’ più ferma – Voglio che lo sappiate non tanto perché ho bisogno di consigli, ma perché penso sia giusto dirvelo senza tenervelo nascosto ancora-.
Si chiese, per un attimo, se quelle stesse parole le avrebbe usate anche con la sua famiglia, il weekend seguente. Forse non avrebbe nemmeno fatto in tempo a pronunciarle, prima di scoppiare a piangere per la tensione. Si domandò anche se avrebbe avuto il coraggio per dirlo anche ad Alessio. E a Pietro, e ad Alice … Tutte persone che considerava sufficientemente vicine per informarle di ciò che stava passando.
Di certo, al posto suo, Filippo non si stava ponendo il quesito. Dubitava ardentemente che avesse anche solo preso in considerazione l’idea di chiarire la situazione a qualcuno dei loro amici.
-Di che stai parlando?- domandò Nicola, con espressione vuota.
Per un attimo Giulia si sorprese a non trovarlo troppo incuriosito, ma allontanò subito dopo quel pensiero per cercare di tornare a concentrarsi su quel che doveva dire.
-Di me e Filippo-.
Ci fu un attimo in cui sentì la propria voce tremare, e venire a mancare del tutto. Pensò di non riuscire nemmeno a dirlo a voce, perché dirlo a Caterina e Nicola avrebbe reso il tutto solo più reale e più doloroso.
Era un’agonia che, però, sarebbe destinata solo a continuare se avrebbe proseguito nel rimandare quel momento. Tenne lo sguardo abbassato ancora, incapace di guardare in faccia Caterina e Nicola nell’attimo in cui avrebbe parlato.
-Ci siamo lasciati-.
Il silenzio che ne seguì le fece presupporre che dovevano essere rimasti talmente scioccati da non riuscire a dire più nulla.
Sospirò a fondo: in fondo li capiva, anche lei sarebbe rimasta di sasso se qualcuno le avesse detto che, nell’inverno del 2022, la storia tra lei e Filippo sarebbe finita in un modo così meschino.
-A dire il vero l’ho lasciato io- aggiunse in poco più di un sussurro.
Avvertì il lato sinistro del divano abbassarsi, e quando mosse appena il capo non si stupì affatto di notare che Caterina si era avvicinata  a lei. Rimase lì accanto, ed alzando lo sguardo su di lei, Giulia notò quanto era rabbuiata la sua espressione.
-Dio … Non avevo il coraggio di chiedertelo, ma avevo questa sensazione e … - Caterina si morse il labbro inferiore, scuotendo il capo – Mi dispiace. Ti va di raccontarci quel che è successo?-.
Giulia alzò le spalle, con rassegnazione:
-In realtà non c’è molto da dire-.
Non aveva avuto l’intenzione di dire tutto, ma ora che si trovava lì, capì che aveva bisogno di dirlo almeno a qualcuno. Di certo non sarebbe entrata in quei particolari con i suoi genitori o sua sorella, ma almeno a Caterina e Nicola, che conoscevano altrettanto bene anche Filippo, sentiva di poterlo dire.
-Aveva iniziato a vedersi con un’altra … Aveva un’amante, che dice di aver già lasciato- si passò una mano sul viso, sistemandosi meglio gli occhiali che le erano scivolati troppo in basso – Non so chi sia lei … Non me l’ha voluto dire. Anzi, se vogliamo essere precisi, non ha voluto praticamente dirmi nulla-.
-Che coglione!-.
Stavolta la reazione di Caterina non fu flebile e pacata come la precedente. Aveva sbuffato sonoramente, con veemenza e con una venatura di rancore. In qualsiasi altra occasione Giulia si sarebbe sentita offesa in prima persona nel sentire qualcuno parlare di Filippo in quel modo, ma stavolta non poteva fare altro che condividere, pur rimanendo in silenzio.
-Si è rincretinito completamente- borbottò ancora Caterina, scuotendo il capo incredula.
“No” avrebbe voluto dirle Giulia, “Probabilmente era fin troppo consapevole di quel che stava facendo”.
Per un po’ nessuno disse nulla. Era di nuovo calato quel silenzio carico di qualcosa che Giulia cominciava a detestare. Perlomeno non aveva visto pena negli occhi di Caterina: era ciò di cui aveva più paura, vedere chiunque guardarla con pietà per qualcosa che non era dipeso da lei.
-Mi ricordo che a Gennaio avevi chiesto ad Alessio una cosa riguardo Filippo- Caterina lo mormorò dopo attimi che a Giulia parvero durare quanto anni interi – Avevi già dei sospetti all’epoca? Era per quello che glielo hai chiesto?-.
Giulia annuì, ricordando quel pomeriggio all’istante – un po’ come ricordò anche il senso di smarrimento e di ansia che aveva provato.
-Sì, era per capire se Filippo mi stesse davvero tradendo, anche se ormai ne avevo già praticamente la certezza-.
Caterina la guardò confusa per qualche secondo, e Giulia non riuscì a trattenersi dal sospirare profondamente. Tanto valeva dire tutto, arrivati a quel punto.
-Avevo trovato dei preservativi, che non usava certo con me, nella borsa della palestra- confessò con voce così atona che nemmeno lei si sarebbe aspettata, non nel ricordare quei dettagli – Direi che bastavano quelli per esserne sicuri, però non volevo crederci. Lui dice che comunque con lei non sia mai andato oltre qualche bacio … Ma non so se riesco a fidarmi-.
Osservò Caterina sgranare gli occhi nell’immediato, quasi esageratamente, in un’espressione talmente attonita che rischiava di sfociare nel comico. Giulia le sarebbe scoppiata a ridere in faccia in una qualsiasi altra occasione, ma non in quella. Non quando avrebbe solamente voluto chiudere gli occhi e dormire per anni per poter dimenticare il dolore che aveva dentro.
-Ma quanto è stupido-.
Caterina continuò a scuotere il capo incredula, quasi stentasse ancora a credere a ciò che aveva appena sentito. Probabilmente, si ritrovò a pensare Giulia, anche lei avrebbe faticato a ritenere incredibile un gesto così ingenuo per qualcosa da tenere così nascosto.
Si lasciò scivolare sullo schienale del divano, desiderano venire inglobata in esso il prima possibile. Percepì una mano di Caterina posarsi sulla sua spalla, in una presa così delicata da essere quasi una carezza velata.
-Non è colpa tua- le disse ancora, con voce gentile – È Filippo che non avrebbe dovuto finire così in basso … Tu non hai colpe-.
Giulia ne era conscia, ma non sarebbe bastata quella consapevolezza a farla sentire meno male.
-Lo so, ma mi sento comunque una merda-.
Non disse nient’altro, aspettandosi che le domande da parte di Caterina non dovevano essere finite. Immaginava che anche per lei dovesse essere uno shock: era con lei quando aveva conosciuto Filippo la prima volta, quando addirittura si erano rivolti le prime parole. L’aveva consigliata quando si era sentita sempre più innamorata, ed era sempre stata lì anche quando lei e Filippo avevano avuto i loro bassi, tra tanti alti. Non faticava a comprendere quanto anche lei potesse essere scossa dalla loro rottura – scossa in maniera totalmente diversa, ma ugualmente ed innegabilmente scombussolata.
-Hai intenzione di chiedere il divorzio?-.
A quella domanda Giulia rimase ammutolita, perché anche solo pensare a quella parola – divorzio, qualcosa che pensava non avrebbe mai preso in considerazione in vita sua- che ora pendeva sopra la sua testa le dava la nausea.
Cominciò a torturarsi le mani, come se quell’unico gesto potesse bastare per farle prendere tempo, rimandare il momento di rispondere ad una domanda che nemmeno lei si era ancora posta.
-Non lo so, ancora non sono riuscita a pensarci razionalmente-.
Tenne ancora lo sguardo abbassato, una sensazione di infinita tristezza che l’attraversò proprio in quel momento.
Per un attimo ripensò al giorno del suo matrimonio, al giorno in cui lei e Filippo si erano sposati davanti alle loro famiglie e ai loro amici. Ricordava ancora com’era la sensazione di indossare il vestito da sposa, l’emozione che aveva provato nello specchiarsi appena indossato. Ricordava anche quanto le aveva fatto strano il pensiero di indossarlo con il pancione già visibile, quando le gemelle ancora non erano nate.
Ricordava che si era sentita felice come non mai quel giorno, talmente tanto da essere disorientata. Ora persino il ricordo di quel giorno era macchiato e reso meno luminoso da quel che stava succedendo nella sua vita, come se le azioni recenti di Filippo avessero inevitabilmente rovinato anche tutte quelle che avevano preceduto il loro punto di rottura.
“Non è forse questo che si inizia a pensare quando si avvicina il momento di chiedere il divorzio?”.
Sospirò a fondo, chiudendo gli occhi e portandosi una mano a coprirli ulteriormente.
-Devo ancora dirlo alla mia famiglia, a tutti … - iniziò a mormorare, con voce che rasentava l’esasperazione, e la disperazione – So solo che per ora non riesco neanche a guardarlo in faccia. L’ho fatto rimanere a casa solo per le bambine, ‘che si godano almeno questi ultimi tempi tutti insieme a casa-.
-Non pensi che faccia più male vedervi insieme, ma sul piede di guerra?- anche se non poteva vederla in viso, Giulia avvertì l’ombra del dubbio nella voce di Caterina.
Era un dubbio pertinente, che lei stessa si era posta, e che si sarebbe domandata allo stesso modo se si fosse ritrovata ad assistere ad una situazione del genere dall’esterno.
-In realtà la cosa è parecchio civile. Molto più di quanto mi aspettavo- ammise con voce a malapena udibile – Semplicemente non gli parlo se non quando è necessario-.
Evitò di sottolineare troppo i tentativi che Filippo aveva fatto, e continuava a fare, di avvicinarsi a lei. Non erano esagerati, né era mai dovuta arrivare a certi livelli per dirgli di smetterla, ma erano visibili. Era forse il senso di colpa che si era palesato tardi – troppo tardi-, e che a Giulia non bastava più.
-In fin dei conti non è poi così tanto diverso da com’era diventato già nei mesi scorsi-.
Avrebbe dovuto rendersi conto prima della deriva verso cui stavano andando?
Forse i segni della loro disfatta c’erano, ma lei li aveva volutamente ignorati, o minimizzati. Forse era già scritto da mesi – o forse anche da anni- che la fine che lei e Filippo avrebbero fatto era solo quella: dividersi per prendere strade separate.
Al solo pensiero di non vederlo più ogni giorno come nella quotidianità che si erano costruiti durante gli ultimi anni, pensarlo a vivere in un’altra casa, lontano da lei, Giulia si ritrovò a non riuscire più a trattenere un singhiozzo.
-Non riesco a credere che abbia fatto una cosa del genere. È cambiato così tanto-.
Lasciò che le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento le scendessero lungo le guance, rigandole il viso.
-Mi sembra quasi di odiarlo, in certi momenti-.
“E chi avrebbe mai immaginato di arrivare quasi ad odiare proprio Filippo”.
Caterina le strinse un braccio attorno alle spalle, cullandola piano:
-Credo sia naturale sentirsi così. Penso mi sentirei allo stesso modo-.
Giulia singhiozzò ancora, non curandosi nemmeno di non essere troppo rumorosa. Non aveva pianto con quella intensità nemmeno quando aveva iniziato ad avere i primi sospetti e le prime certezze che Filippo l’aveva tradita, non l’aveva fatto nemmeno dopo avergli parlato – e averlo lasciato.
Dovettero passare diversi minuti prima di riuscire a smettere di piangere con quella violenza. Quando cominciò a piangere silenziosamente, con il viso ormai umido e gli occhi che le bruciavano dietro le lenti degli occhiali, Caterina era ancora lì, accanto a lei a passarle una mano sulla spalla in gesti circolari e rassicuranti.
-Giulia-.
Per un attimo si sentì stranita nell’avvertire la voce di Nicola. Si era persino scordata fosse lì con loro: non aveva detto una parola da quando lei aveva iniziato a parlare, quasi si fosse tenuto nell’ombra volontariamente.
Alzò gli occhi su di lui, trovandolo in piedi, a qualche metro dal divano dove lei e Caterina si trovavano ancora, con il viso così tirato e così cereo che per un attimo Giulia temette stesse per svenire.
-Devo dirti una cosa-.
Giulia sbatté gli occhi un paio di volte, lasciando che le ultime lacrime impigliatesi tra le ciglia scivolassero sulle sue guance umide. Si girò verso Caterina: anche lei aveva un’espressione confusa, segno che non era a conoscenza di ciò che Nicola voleva dirle.
Tornando con gli occhi su di lui, ne ebbe ancor più la certezza: non capitava spesso di vedere Nicola nervoso, ed era ancora più raro vederlo così tanto nervoso. Sembrava sul punto di scoppiare, e Giulia non riuscì a non sentirsi agitata a sua volta.
-Ti prego, non ti arrabbiare quando te la dirò- disse ancora lui, in un modo che sembrò quasi stesse supplicando. Giulia avvertì l’ombra di un brutto presentimento farsi strada in lei.
-Ma che stai dicendo?- proruppe Caterina, un sopracciglio alzato e la fronte solcata da diverse rughe.
Giulia prese un sospiro profondo, stanca:
-Dimmela e basta, Nicola. Sono stanca di segreti vari-.
Aveva l’impressione che non sarebbe stato qualcosa di piacevole, quello che avrebbe ascoltato, ma ormai non avrebbe cambiato nulla: si sentiva già pessimamente, di certo niente avrebbe peggiorato ancor più la situazione attuale.
Nicola prese un respiro profondo, distogliendo lo sguardo. Anche se era a distanza di qualche metro da loro, a Giulia parve di vedergli le mani tremare, un secondo prima che le nascondesse dietro la schiena.
-A Dicembre, una sera in cui io e Filippo dovevamo vederci per uscire, l’ho sorpreso … - la voce di Nicola andò a sfumarsi  nel silenzio pesante della stanza. Alzò gli occhi solo in quel momento, uno sguardo colpevole che gli attraversava le iridi azzurre rese più scure dall’agitazione.
-Sapevo che aveva un’amante da quella sera-.
Per un lungo attimo Giulia non riuscì nemmeno a comprendere ciò che aveva sentito, troppa era la sorpresa e la confusione che si sentì improvvisamente addosso.
-Cosa?- Caterina si alzò fulminea dal divano, continuando ad osservare Nicola con occhi sgranati. Solo in quel momento, anche Giulia sentì il bisogno di alzarsi a sua volta, la realizzazione che la stava colpendo e la rabbia che, pian piano, sembrava persino in grado di superare il dolore di poco prima.
-Lo sapevi da tutto questo tempo e non me l’hai detto?- sibilò, trattenendosi a stento dall’alzare la voce.
Nicola annuì debolmente:
-Gli ho detto che doveva farlo lui, dirti tutto ed in fretta, altrimenti l’avrei fatto io- cercò di spiegare, la voce visibilmente insicura – Ma poi nei giorni successivi Caterina ha avuto l’aborto, e … Non ci ho più pensato-.
Giulia sentì la voglia irrefrenabile di sbattere i propri pugni al muro, ma rimase immobile, guardando Nicola con ira:
-Ma lo sapevi, cazzo!- gli gridò addosso, incapace di trattenersi oltre.
Sentì di nuovo le lacrime iniziare a fluire dagli occhi alle gote del viso, ma stavolta non erano segno di profonda malinconia e solitudine: erano piene di rabbia, la stessa che aveva cercato di urlare addosso a Nicola pochi secondi prima.
Si girò, voltando le spalle a lei e potendo solo udire le voci sua e di Caterina – in modo ovattato, come se provenissero da molto distante, e non dalla stessa stanza in cui si trovava lei-, senza vederli in volto.
-Perché lo hai tenuto nascosto fino ad adesso?- Caterina non aveva ancora abbandonato il proprio stupore, venato anche da un nervosismo piuttosto evidente. Aveva evitato di gridare come aveva fatto Giulia, forse per non rischiare di svegliare una volta per tutte Francesco, ma non sembrava affatto meno irata.
-Non ci ho pensato- farfugliò lui, in un modo così vulnerabile che a Giulia fece quasi pena – E poi avevamo già problemi da risolvere tra di noi-.
Caterina sbuffò:
-Sì, ma ora la situazione è ancora peggiore, e tu non hai fatto niente per migliorarla-.
Per un attimo tacquero tutti, e Giulia continuò a piangere in silenzio, rossa in viso per l’irritazione che sentiva in corpo e per il senso di tradimento – già il secondo in un mese- a cui ancora non si era abituata.
-Non credo che andarle a dire che suo marito la tradiva avrebbe migliorato comunque le cose- mormorò ancora Nicola, sconfitto.
Era probabilmente vero, e Giulia sapeva che in un successivo momento di lucidità avrebbe capito che saperlo da Nicola sarebbe stato forse anche peggio che scoprirlo direttamente da Filippo. In quel momento, però, non riusciva a non avercela anche con lui: si era in qualche modo reso complice, pur non volendolo, e questo la stava facendo impazzire dalla rabbia.
Si passò velocemente una mano sul viso, fregandosene se così sarebbe parso ancora più arrossato. Aveva solo voglia di andarsene di lì, le cose che avevano già preso una piega ben peggiore di quel che si era prospettata. Quando si girò, non si sorprese di vedere Caterina con lo sguardo perso nel vuoto, le braccia incrociate contro il petto, e un Nicola con gli occhi abbassati esattamente come le braccia che gli scendevano lungo i fianchi, inermi. Erano entrambi specchio delle emozioni che dovevano star provando.
-È meglio che vada- mormorò con voce ferma, per quanto le fosse possibile.
Anche se lo aveva detto con voce a malapena udibile, Caterina alzò subito il viso in preda al panico:
-Aspetta … -.
-No, sul serio- Giulia la interruppe prima che potesse proseguire, lanciando un’occhiata veloce nella direzione di Nicola – Sono incazzata nera con lui, e rischierei solo di dire cose che non penso davvero-.
Recuperò la borsa che aveva lasciato ai piedi del divano, sotto lo sguardo apprensivo che Caterina le stava rivolgendo in silenzio. Si ritrovò a ringraziarla mentalmente per non aver cercato di convincerla a rimanere: sapeva che, se fosse successo, probabilmente sarebbe scoppiata definitivamente.
-Mi dispiace, Giulia. Non intendevo farti un torto-.
La voce di Nicola la raggiunse in poco più di un sussurro, quasi non fosse del tutto sicuro di volerle far ascoltare quelle parole. Immaginava fossero sincere, ma in quel momento, delle scuse, non se ne sarebbe fatta niente.
-Avresti potuto parlare e non l’hai fatto- gli disse, fermandosi di fronte a lui un’ultima volta – Ormai è tardi-.
Prima che Nicola o Caterina potessero aggiungere altro si avviò verso la porta d’ingresso, senza voltarsi indietro.
 
*
 
Si era alzato vento nel lasso di tempo che aveva impiegato da casa al palazzo dove vivevano – inaspettatamente ancora insieme- Giulia e Filippo. A quell’ora della sera non era nulla di cui sorprendersi, ponderò Nicola: era fine Febbraio, c’era un clima rigido come ogni inverno che si rispettasse, e poteva già dirsi fortunato che non stesse anche piovendo.
Cercò di reprimere uno sbadiglio, la stanchezza che cominciava ad avere la meglio su di lui dopo una giornata passata al lavoro. Non aveva avuto molto tempo per riposare: era riuscito giusto a tornare a casa, cenare velocemente e farsi una doccia, prima di uscire di nuovo sotto lo sguardo ancora rimproverante di Caterina.
Attese che il portone del palazzo si aprisse spostando il peso del suo corpo da un piede all’altro, sfregandosi le mani, coperte dai guanti, tra di loro per creare maggior calore. Era un cielo davvero buio, quello che stava facendo sprofondare Venezia e le sue calli nella notte di mercoledì, e ringraziò mentalmente che bastasse la luce del lampione lì vicino a non rendere del tutto indistinguibile l’ambiente che lo circondava.
Il flusso dei suoi pensieri si interruppe qualche secondo dopo, quando finalmente udì lo scattare del portone d’ingresso: si girò subito, giusto in tempo per veder il viso di Giulia sbucare fuori da dietro la porta, cerea in viso.
Prima ancora che potesse salutarla, gli fece cenno verso l’interno:
-Vieni dentro. Se restiamo a parlare lì fuori ci congeleremo-.
Nicola annuì, seguendola all’interno, nell’androne del palazzo. Non c’era molto più caldo in quella zona, ma almeno non sarebbero stati alla mercé del vento che aveva iniziato ad alzarsi.
Giulia si mosse ancora di qualche passo, arrivando di fronte alla rampa di scale che portava ai piani superiori. Nicola si chiese se avesse detto a Filippo come mai era uscita di casa: doveva essere evidente, dato che indossava unicamente una felpa e un paio di pantaloni della tuta, che non era davvero uscita dal palazzo, ma di certo doveva essersi chiesto cosa doveva fare a quell’ora della sera. Dubitava che Giulia gli avesse davvero detto che doveva parlare con lui.
La osservò fermarsi con le braccia incrociate, ora fronteggiandolo in palese attesa. Erano passati alcuni giorni dall’ultima volta che si erano visti – dalla sera in cui le aveva detto tutto, e dalla sera in cui lei gli aveva urlato addosso per la prima volta in vita loro. Era stato un momento parecchio traumatico, si era ritrovato a pensare Nicola diverse volte nelle ultime giornate: era difficile vedere una persona naturalmente vivace e solare com’era Giulia in quello stato, così nervosa e piena di rancore. Non che avesse torto ad essere così.
-Sono contento che tu abbia voluto vedermi- Nicola si schiarì la voce con lieve imbarazzo, senza ben sapere da dove iniziare. C’erano cose, tante, che voleva dirle e di cui non aveva avuto modo di parlare la scorsa domenica; saper spiegarsi, però, e capire da cosa cominciare, non era la cosa più facile.
-Sono ancora un po’ arrabbiata con te, in ogni caso- Giulia sembrò del tutto intenzionata a ridimensionare le sue speranze di riappacificazione – Ma un po’ meno rispetto a domenica. Ho riflettuto su alcune cose-.
Nicola la guardò disorientato:
-Per esempio?-.
Giulia andò a sedersi ad uno degli scalini poco dietro di lei, le mani giunte tra loro con i polsi appoggiati sulle ginocchia piegate. Sembrava in profonda riflessione, e anche se sembrava davvero ancora in parte arrabbiata con lui, dall’altra sembrava aver riflettuto molto agli ultimi eventi.
-Capisco perché tu non ci abbia più pensato. Ho visto anche io come era ridotta Caterina tra Dicembre e Gennaio- Giulia alzò lo sguardo per dirlo, gli occhi verdi che gli restituivano uno sguardo grave – E poi … Era Filippo che doveva dirmelo. O ancor meglio, non tradirmi con qualcun’altra-.
Nicola si ritrovò ad annuire. Erano cambiate così tante cose, negli ultimi mesi, che quasi stentava a crederci, e tante altre sarebbero state diverse se Filippo avesse agito diversamente.
Se non avesse perso la testa a quel modo di certo non avrebbe passato gli ultimi giorni con gli sguardi delusi di Caterina a bruciargli la pelle, o con la consapevolezza di essere anche lui in qualche modo colpevole nei confronti di Giulia. E di certo, se nulla fosse mai successo, in quel momento non si sarebbe trovato nell’ingresso freddo di un palazzo, alle nove passate di sera, per cercare di scusarsi.
-Non gli parlo praticamente da quella sera- rivelò a Giulia con un filo di voce, amareggiato – È che … È stato uno shock anche per me. Non credevo l’avrebbe mai fatto-.
-Negli ultimi anni è cambiato molto- Giulia sospirò pesantemente per diversi secondi, lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé – È cambiato il nostro rapporto-.
Nicola sapeva anche quello, anche se da Filippo non aveva avuto alcuna confidenza – almeno fino a quella maledetta sera di Dicembre. Ma era stato facile intravedere, anche da esterno, che qualcosa si era come spezzato tra lui e Giulia, anche se non avrebbe saputo dire esattamente quando era successo. Era accaduto, però, in maniera più che evidente, ormai.
-Sì, ma se proprio andava così male avrebbe fatto meglio a parlartene, piuttosto che andare da un’altra- ragionò a voce alta – Gliel’ho detto anche io. Credo di averlo anche insultato-.
Quasi rise alle sue stesse ultime parole. C’era stato un tempo, forse quando erano bambini alle scuole elementari, in cui lui e Filippo si erano insultati spesso, per scherzo e per provare quel senso di ribellione tipico di quell’età. Era stato totalmente diverso da come era stato prenderlo a male parole quella sera: aveva provato solo repulsione, in quegli istanti. Nessuna voglia di scherzare, né di giocare.
-Hai fatto bene-.
Giulia rise tra sé e sé, come se la cosa le desse un po’ di sollievo. Si rifece seria poco dopo, quando alzò nuovamente lo sguardo su Nicola:
-Posso farti una domanda?-.
C’era evidente esitazione nella sua voce, ma Nicola non tentennò ad annuire:
-Sì, certo-.
Per un attimo temette che Giulia avesse cambiato idea: aveva distolto nuovamente lo sguardo, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore e tenendo strette le mani tra loro, in profondo silenzio, assorta in chissà quali pensieri. Doveva essere una domanda che doveva costarle molto porre, e per un secondo anche Nicola si ritrovò a sperare che avesse cambiato idea e non volesse più chiedergli nulla. Aveva paura della risposta che avrebbe potuto ritrovarsi a darle.
Quando dopo qualche altro attimo Giulia alzò di nuovo il viso nella sua direzione, sentì il cuore iniziare a battere più velocemente.
-Sai chi è la persona con cui dice di essersi baciato?-.
Nicola si sentì spiazzato, anche se solo in parte. Immaginava che Filippo non le avesse detto molto – forse addirittura nulla di rilevante-, ma si chiese se fosse davvero compito suo parlarle di una cosa del genere.
Sospirò a fondo, combattuto. Si rese conto che già una volta le aveva nascosto qualcosa di importante: non poteva rifiutarle anche quella richiesta – anche se poteva significare scegliere chi sostenere tra Filippo e Giulia.
-Non so il nome- iniziò a dire, cercando di ricordare più dettagli possibili da quella sera di due mesi prima, in cui aveva scoperto Filippo inequivocabilmente in atteggiamenti intimi con qualcuno che non era sua moglie – Mi sembra di non averglielo chiesto … Ma è una sua collega. Almeno da quel che mi aveva detto-.
Osservò lo sguardo di Giulia farsi meno esitante, a tratti meno confuso. Era come se fosse scattato qualcosa in lei, e Nicola non seppe ritenere se fosse una cosa positiva o meno.
-L’hai vista?- gli chiese ancora.
-Vagamente- Nicola lasciò andare un sospiro lungo, dopo essersi reso conto di aver trattenuto il respiro in attesa di una reazione visibile di Giulia – Non me la ricordo molto, anche perché era la prima volta che la vedevo-.
Si sentì in pace con se stesso, perché non le stava mentendo nonostante i pochi particolari. E si sentiva anche vagamente inutile, perché davvero ricordava ormai troppo poco per poterle dare risposte più precise.
Giulia annuì ancora:
-Ti ricordi il colore di capelli?-.
Nicola aggrottò la fronte, scuotendo appena il capo:
-Forse biondi- mormorò, in parte incerto.
Dopo quella domanda, ebbe la netta sensazione che Giulia dovesse avere qualche idea di chi stavano parlando. Non avrebbe saputo spiegare diversamente quella domanda così mirata, come se sapesse già e le servisse solo un’ultima conferma.
-Pensi di conoscerla?-.
-Forse- Giulia non si sbilanciò oltre – Ma non ho intenzione di chiederlo di nuovo a Filippo, tanto non mi direbbe nulla-.
Nicola si chiese se quella volontà di Filippo fosse solo per proteggerla, in un certo senso. Renderla meno consapevole di quel che era successo per ferirla meno di quel che già doveva sentirsi Giulia.
Non riusciva a non pensare, però, al fatto che se non voleva ferirla avrebbe dovuto fermarsi ben prima, magari non tradirla affatto. Era esattamente quel pensiero che gli fece provare di nuovo la rabbia che aveva provato quella sera di Dicembre. Era stata un’ira cieca che era durata poco, ma solo perché era stata sostituita dopo poco dal dolore cieco di vedere Caterina avere l’aborto spontaneo – e vederla poi distante come un fantasma.
Era una situazione assurda. 
-Mi dispiace davvero, Giulia-.
Si sedette accanto a lei sugli scalini, certo che non avrebbe ricevuto un rifiuto. Forse Giulia era in parte ancora arrabbiata anche con lui, ma sembrava che la cosa si fosse decisamente ridimensionata dopo quella conversazione.
Ora c’era solo dolore: quello di lei, e il suo, nel vederla ridotta in quello stato. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a perdonare Filippo, e poteva dirsi persino fortunato di non essere al posto di Giulia. 
-Sia per Filippo che per non avertelo detto- mormorò ancora Nicola, sinceramente. 
Giulia annuì, le mani ancora giunte in grembo:
-Lo so. È andata così ormai … Ed è solo colpa sua-.
Era vero, anche se Nicola continuava a sentirsi ancora in parte responsabile. 
Si chiese se le cose sarebbero mai tornate alla normalità, come prima di quel caos: per quanto gli sarebbe piaciuto, per una volta, potersi dare una risposta ottimista, sapeva che non sarebbe mai potuto essere così. 
 
*
 
Giulia tenne stretto il volante, gli occhi ben incollati sulla strada davanti a sé. Era consapevole che le altre auto che la stavano affiancando lungo la superstrada dovevano credere che stesse avendo qualche problema – unica possibile ragione per spiegare come mai si stava muovendo così piano-, ma cercò di non badare troppo ai possibili giudizi altrui. Non ricordava nemmeno quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva guidato. Probabilmente interi anni, perché a Venezia non ne aveva bisogno per spostarsi, e le ultime volte che era tornata a Borgovento aveva sempre usato il treno. Era insolito per lei prendere in mano una macchina, così tanto che non poteva fare a meno di sentirsi tremendamente insicura alla guida.
Occhieggiò al cartello che segnalava l’uscita imminente per Torre San Donato; mise fuori la freccia destra, pronta a virare nella corsia per uscire dalla superstrada, finalmente sollevata dal lasciare quella strada dove troppe auto andavano a velocità quasi folli.
C’era un cielo grigio quel sabato, anche se non sembrava minacciare pioggia. Rispecchiava appieno il suo umore, che da quella mattina non era affatto migliorato – forse, addirittura, era anche peggiorato. Non poteva esserci altra spiegazione per sentirsi persino spinta a prendere in prestito l’auto di suo padre, per uscire di casa e lasciarsi tutto alle spalle.
Si fermò ad un incrocio, e tornò a schiacciare leggermente sull’acceleratore solo dopo essersi resa conto che per strada non c’era nessuno. Si sentiva fortunata del fatto che, per pura coincidenza, anche Caterina e Nicola si trovassero da quelle parti proprio in quei giorni – per motivi totalmente diversi, ma sempre tornati a casa dalle famiglie. Si era ritrovata ad invidiarli, nel pensarli perlomeno sereni nel far ritorno a Torre San Donato con Francesco, una normalissima visita dai rispettivi genitori senza troppe implicazioni nascoste.
Almeno, andarli a trovare a sua volta, era stata un’ottima via di fuga quando ne aveva avuto bisogno. Per lei non c’erano state visite famigliari, solo un ritorno nella casa dove era cresciuta per raccontare, dopo troppo tempo passato a ricevere sguardi confusi e apprensivi, come mai Filippo non si sarebbe più fatto vedere lì.
Anche in quel momento, mentre guidava e teneva gli occhi ben piantati sulla strada per conservare la maggior concentrazione possibile, riusciva a figurarsi nella mente gli sguardi scioccati che aveva ricevuto da sua madre, suo padre, Ilaria e Ettore. Non era nemmeno entrata nei dettagli come aveva fatto con Caterina e Nicola, e già così non aveva potuto fare a meno di notare l’orrore dipinto sui loro visi.
Le era bastato quello per farle venire voglia di scappare.
Giulia sospirò a fondo, calcolando che per arrivare a casa di Caterina mancavano al massimo cinque minuti. Quando le aveva telefonato, poco prima di pranzo, non le aveva spiegato esattamente come mai le avesse chiesto se poteva raggiungerli, e Caterina non le aveva fatto troppe domande: si era limitata a venirle incontro, forse immaginando lei stessa il motivo di quella richiesta. E per quanto ancora un po’ di rabbia ci fosse verso Nicola – anche se ormai quasi silente del tutto-, Giulia non ci aveva pensato due volte a prendere l’auto di suo padre ed andare non appena finito di mangiare il minimo indispensabile. 
Percorse quel che le rimaneva della strada da fare in un umore che variava dalla noia alla disperazione. Probabilmente si sarebbe lasciata andare alle lacrime, se non fosse stato che sarebbe dovuta scendere dall’auto di lì a poco.
Imboccò la strada che ricordava portasse all’abitazione dei genitori di Caterina. Osservò l’asfalto sconnesso e il paesaggio rurale che circondava il quartiere di case alla periferia di Torre San Donato, un sentimento di nostalgia e ricordi che la stavano assalendo. Era passato molto tempo dall’ultima volta che era passata per di lì: c’erano ormai pochi motivi a spingerla a Torre San Donato, quando sia lei che Caterina ormai si erano stabilite a Venezia da anni.
Parcheggiò l’auto davanti al cancello che delimitava il giardino, da dove era visibile l’abitazione dai muri gialli che era la sua meta. L’aveva riconosciuta senza problemi, nonostante il tempo trascorso; era un po’ come se gli anni non fossero davvero passati. La casa le sembrava uguale a come l’aveva vista l’ultima volta da poco più che adolescente, e per un momento la malinconia si fece così forte che dovette prendersi davvero un po’ di tempo per calmarsi. Erano stati anni tutto sommato felici, quelli che legava a quella casa; anni in cui i problemi della vita vera erano ancora lontani, anni in cui Filippo era ancora al suo fianco.
Erano anni che ora le mancavano, e la cui spensieratezza sembrava solo un ricordo irraggiungibile.
Giulia attese una decina di minuti prima di agire. Si girò verso il sedile del passeggero, ora occupato solo dalla sua borsa, frugandovi dentro per trovare il cellulare. Era già sul punto di digitare un messaggio per Caterina per avvisarla che era arrivata, quando si bloccò, incuriosita dall’auto che si era appena parcheggiata davanti alla sua.
Non fece molta fatica a riconoscere la persona alla guida: anche per lui era un po’ come se gli anni fossero passati solo relativamente, e nonostante i capelli decisamente più ingrigiti, Giulia avrebbe riconosciuto Lorenzo ovunque.
Per un attimo credette di aver visto male, ma c’erano pochi dubbi sul fatto che fosse lui. Non ricordava però che Caterina le avesse accennato alla sua presenza per quella giornata; sapeva solo che era insolito vedere Lorenzo tornare a Torre San Donato, e forse anche per quel motivo si ritrovò ad essere ancor più sorpresa nell’incrociarlo così, totalmente per caso.
Doveva averla riconosciuta anche lui, perché quando lo vide scendere dall’auto le stava già sorridendo, in attesa che anche lei uscisse. Giulia sospirò a fondo: in fin dei conti fare due chiacchiere di convenienza con qualcuno che non vedeva da alcuni anni l’avrebbe aiutata a distrarsi.
Afferrò la borsa, e scese a sua volta, muovendo la mano in un gesto di saluto.
-Giulia- Lorenzo le fece un cenno di rimando – Non pensavo di vederti proprio qui e proprio oggi-.
-Ciao- gli si avvicinò ancora, sentendosi un po’ in soggezione di fronte alla figura alta dell’altro – A dire il vero nemmeno io, Caterina non mi aveva detto che eri da queste parti anche tu-.
Lorenzo scrollò le spalle:
-È stata una cosa abbastanza improvvisata- fece con voce lieve – E tu? Come mai da queste parti?-.
Giulia cercò di non dare a vedere il proprio disagio a quella domanda. Non aveva la minima intenzione di entrare nei particolari, per i più disparati motivi – perché non vedeva Lorenzo da tre anni e non le sembrava il caso raccontargli tutte le sue disgrazie nel giro di un minuto, e perché, in fondo, non avrebbe voluto parlarne con nessuno.
-Ero a casa dai miei, ma volevo uscire da qualche parte- disse vagamente, senza accennare minimamente al motivo di quel suo bisogno di uscire, né alla ragione per cui si trovava dai suoi genitori come spesso era accaduto nell’ultimo mese – Sono venuta qui, visto che sapevo che Caterina e Nicola ci saranno per questo weekend-.
-Sei qui con Filippo?- le chiese Lorenzo, forse non accorgendosi del tutto dell’espressione tetra che Giulia doveva avere assunto al sentirlo nominare. Cercò di controllarsi meglio che poteva.
-In realtà sono da sola-.
Vide una fugace ombra di sorpresa negli occhi di Lorenzo, che probabilmente aveva dato per scontato ci fosse anche lui. Immaginava potesse suonare strano il dire di essere lì da sola, senza Filippo e senza le sue figlie, e quasi si ritrovò curiosa nell’immaginare quale sarebbe potuta essere la sua reazione se gli avesse detto che suo marito e le gemelle erano a casa, a Venezia, e che lei invece era lì perché non poteva sopportare di passare troppo tempo in sua compagnia.
-Oh, capisco- Lorenzo non indagò oltre, scrollando le spalle – Come stai?-.
“Questa conversazione sta diventando un disastro”.
-Prossima domanda?- Giulia lo disse con così tanta spontaneità che quasi si meravigliò lei stessa per averlo detto sul serio. Fu altrettanto naturale ritrovarsi a ridere piano, sommessamente, specchio della stessa risata di Lorenzo. Fu un momento strano ed inaspettato quanto liberatorio.
Le sembrò di essere tornata adolescente, a prima che lui le confessasse dei suoi sentimenti per lei, quando ancora parlare tra di loro non era così raro.
-No, aspetta, ne ho io una per te- Giulia aggiunse, non appena riuscì a riprendersi e smettere di ridere – Tu come stai?-.
Lorenzo la guardò di nuovo divertito, probabilmente sull’orlo di un’altra risata.
-Lo so, non ho molta fantasia oggi-.
Le sorrise ancora, scuotendo debolmente il capo:
-Sto bene, direi. Niente male-.
Giulia annuì, sentendosi sinceramente contenta per lui. Almeno uno tra loro se la stava passando bene.
-Mi fa piacere- gli disse, sforzandosi di sorridergli di rimando – Era da un po’ che non ci incrociavamo-.
Era un’osservazione che aveva fatto più per riempire il vuoto che si sarebbe potuto creare, la mancanza di idee per continuare quella conversazione che cominciava a farsi sentire. Forse era giunto il tempo semplicemente di suonare il campanello ed entrare, ma non prima che Lorenzo le rispondesse.
-Già. È che non ho mai tempo per passare per Venezia, mentre Torre San Donato mi è più facile da raggiungere- commentò con voce vagamente incerta. Giulia aveva una mezza idea che il motivo fosse un altro – forse i rapporti non del tutto facili con Nicola, e di conseguenza anche con Caterina-, ma non disse nulla. Forse, se si trovava lì anche lui quel giorno, qualcosa doveva essere migliorato nel frattempo. Non ricordava che Caterina le avesse parlato di Lorenzo negli ultimi tempi, ma era altrettanto vero che, nell’ultimo anno, erano successe talmente tante cose che poteva anche essersi scordata di tenerla aggiornata sui suoi rapporti con lui.
-Allora magari ci beccheremo più spesso- gli rispose, sentendosi inaspettatamente a suo agio nel farglielo sapere – Ultimamente nei weekend sono spesso dai miei-.
Si rese conto di essersi lasciata sfuggire un po’ troppo quando Lorenzo le lanciò di nuovo un’occhiata sorpresa, oltre che confusa.
-Come mai?-.
Giulia cercò di mantenere la calma apparente che aveva finto anche qualche minuto prima. Era sicura che Lorenzo non avrebbe certo preso le difese di Filippo, qualora fosse stata sincera con lui, ma non aveva importanza: non ne avrebbe voluto parlare in ogni caso. Non così, per strada e con una persona che non vedeva da quasi tre anni.
-Lunga storia-.
Si lasciò andare alla tentazione di distogliere lo sguardo, anche solo per pochi secondi.
-Diciamo che è un periodo in cui ho bisogno di cambiare un po’ aria-.
La voglia di piangere tornò ad essere forte, ma cercò di reprimere il bisogno di lasciarcisi andare. Se fosse successo poi sarebbe stato solo peggio, perché Lorenzo si sarebbe chiesto cosa avesse detto di sbagliato, e lei avrebbe solamente dovuto spiegare ulteriormente, ed era ciò che più voleva evitare in quel momento.
Forse i suoi occhi stavano parlando più di quanto si sarebbe aspettata, perché Lorenzo sembrò lasciare perdere quel discorso senza ulteriori indugi.
-Perché non passi per Padova una volta?-.
Giulia per un attimo stentò a credere di averlo udito per davvero. Lorenzo non l’aveva mai invitata a passare da casa sua, e per un attimo si sentì presa talmente contropiede da non riuscire a formulare alcun pensiero.
-Possiamo prenderci un caffè da qualche parte un pomeriggio, parlare un po’- si affrettò ad aggiungere lui, in tono cordiale.
Per un attimo Giulia fu sul punto di declinare – l’avrebbe fatto senza esitazione, fino a tre anni prima-, ma si fermò.
C’era davvero un qualche motivo che potesse frenarla? Non ne vedeva più alcuno, perché in fondo erano passati anni, praticamente un decennio, da quando Lorenzo le si era dichiarato, e perché tanto, anche in quel caso, Filippo non era più nel quadro.
E poi era solo un caffè. Poteva essere un modo per variare quei suoi weekend tristi che passava quasi sempre fuori casa per evitare Filippo, svagarsi senza per forza ricevere occhiate di pietà.
Non poteva dire di poterselo aspettare – ma d’altro canto aveva imparato piuttosto bene, negli ultimi tempi, che nella vita non si può mai essere certi di nulla-, ma anche se l’occasione di dimenticare anche solo per un paio d’ore la sua vita in catafascio stava venendo da Lorenzo, non le importava. Non più.
-Mi farebbe piacere-.
 
*
 
Every time I see you, my heart gets dangerous
Every time I see you, it gets more dangerous
Oh baby no hey
Oh baby no hey
You’re too dangerous to live in this world [1]
 
-Muovi quel culo, daje!-.
Martino si era sgolato a pieni polmoni per riuscire a farsi sentire nonostante la musica sparata a palla. E non appena aveva capito quel che gli aveva urlato, Pietro non era riuscito a non scoppiare a ridere. Si sarebbe volentieri accasciato a terra per le risate quando aveva osservato l’altro, nella luce soffusa del Celebrità, dargli una dimostrazione pratica di quel che gli aveva appena suggerito.
Anche se i movimenti di Martino erano volutamente esagerati, Pietro non li stava trovando poi così fuori luogo: si posavano bene con la canzone spudoratamente pop su cui stavano ballando, insieme a metà locale.
Non cercò di imitarlo, però: si sentiva già leggermente fuori luogo per essere, a tutti gli effetti, uno tra i più vecchi lì dentro – pur non avendo nemmeno raggiunto la trentina. Non riusciva nemmeno ad immaginare l’imbarazzo che si sarebbe sentito addosso nel lanciarsi in balli sfacciati come quelli di Martino.
C’era ancora un po’ di disagio, nonostante fosse ormai la quarta volta che entrava lì dentro, ma c’era anche un senso di liberazione che non poteva più ignorare. Era estremamente liberatorio non dover portare una maschera, non lì e per nessun motivo particolare.
Era una sensazione alla quale, Pietro ne era ormai sicuro, si stava abituando, e di cui si sarebbe intossicato. Era qualcosa di cui non avrebbe più saputo fare a meno, e forse era proprio quello che voleva dire essere se stesso: non dover fingere.
Anche se non iniziò a imitare i movimenti di Martino, si lasciò più andare nel ballo. Per una volta, in mezzo a tutta quella gente, se ne fregò di tutto e non fece altro che ascoltare la musica, osservare Martino di rimando e specchiarsi nel sorriso che gli stava rivolgendo.
 
Your voice is all I can hear
All I can hear it’s the music to my ears [2]
 
*
 
Get back, get back to town
These city lights gonna bring us home tonight
'Cause we knew the colour of gold
So long ago, it’s a story to be told
 
Mestre a quell’ora di notte era pressoché deserta, in un contrasto così visibile con il Celebrità che Pietro rimase quasi disorientato nel ritrovarsi ora in vie libere, senza nessun altro oltre a Martino in sua compagnia. Era l’una di notte di sabato sera, eppure chiunque in quella città sembrava già essere andato a dormire. Rimpianse un po’ le calli di Venezia, dove quasi sicuramente avrebbero ritrovato, almeno nelle zone più alla moda, decisamente molta più gente che, come loro, aveva optato per il camminare come prosieguo della serata.
Inspirò a pieni polmoni, riempiendoseli di aria fredda. Aveva appena finito di fumare con pigrizia l’ultima sigaretta che gli rimaneva nel pacchetto comprato a inizio settimana, ed ora che aveva la gola un po’ secca avrebbe bevuto volentieri un altro drink – rischiando, molto probabilmente, una mezza sbronza e un brutto risveglio la mattina seguente. Erano, però, già lontani dal Celebrità, e la via che stavano percorrendo non era illuminata da nessun bar ancora aperto.
-Ripetimi perché volevi camminare da queste parti- bofonchiò Pietro, girandosi verso Martino con sguardo pieno di sarcasmo – Mestre di notte è dannatamente deprimente-.
Martino non cedette alla sua provocazione:
-Dopo un caos come quello che ce stava al Celebrità, ce voleva un po’ de calma-.
Un angolo della bocca di Pietro si alzò in un sorriso automatico. Cominciava ad abituarsi al marcato accento romano dell’altro – ed anche al suo stile decisamente appariscente. Quella sera Martino aveva deciso di sfoggiare un look quasi total blu elettrico. Non aveva tralasciato nemmeno il trucco, con gli occhi contornati da ombretti di diverse sfumature di blu e argento. Aveva destrezza, doveva ammettere Pietro, ed anche parecchia fantasia; per quel sabato aveva osato addirittura un rossetto color prugna, totalmente a suo agio e nel suo elemento.
Continuarono a camminare senza una meta precisa, lungo strade dove a malapena passava un’auto i cui fanali li rischiarava per i pochi secondi in cui li incrociava. Pietro non ne era affatto stupito: nella zona in cui si trovavano ora c’erano perlopiù aziende e uffici, di certo nulla che potesse essere aperto a quell’ora della notte. Era un’area della città che conosceva bene – o che, almeno, conosceva bene qualche anno fa. Non si stupì affatto di ritrovarsi di fronte, dopo alcuni passi, alla sede dell’università in cui lui, Alessio e Nicola avevano passato quasi ogni giorno per cinque anni, e dove tuttora Filippo continuava a lavorare come ricercatore.
-Che c’hai?-.
La voce di Martino gli arrivò lontana, mentre nella mente tornavano a fluire ricordi di una vita passata. Non erano tutti ricordi positivi o a cui si ritrovava a pensare con nostalgico rimpianto, ma erano comunque ricordi legati a quei luoghi. Ce n’erano fin troppi.
-Quando andavo all’università avevo sempre lezione in questa sede- Pietro gli rispose a mezza voce, dopo quasi un minuto di silenzio – Pare sia passata un’eternità-.
-Forse perché è passata un’eternità-.
 Pietro si girò per dare un pugno leggero alla spalla di Martino, facendolo ridere. Dopo tre volte che s’incontravano, cominciava ad abituarsi pian piano al suo sarcasmo, e alle sue battute sulla loro differenza d’età. Era convinto che a Martino non facesse alcuna differenza sapere che fosse più vecchio di lui, ma non sprecava comunque ogni occasione buona per ricordargli che, a confronto dei suoi ventiquattro anni, Pietro era ormai irrimediabilmente vecchio.
 -Come mai te ne sei andato da Roma?-.
Pietro era consapevole di aver posto quella domanda a bruciapelo, completamente inaspettata. Forse aveva lasciato Martino vagamente scosso e impreparato, ma quando si girò verso di lui, mentre continuavano a camminare sul marciapiede deserto, era un sorriso ironico quello che aveva stampato sulle labbra.
-Per studià, no? -.
Pietro rise appena, ma non demorse:
-Sono piuttosto sicuro che ci siano buone facoltà di architettura anche là, senza dover per forza spostarsi di mezza Italia- obiettò, chiedendosi se Martino si sarebbe chiuso in sé piuttosto che rispondere ad una domanda che, evidentemente, nascondeva molto di più – Se fossi nato a Roma non mi sarei trasferito mai-.
Pietro se l’era chiesto sin da quando, durante la seconda volta in cui si erano rivisti qualche settimana prima, Martino gli aveva spiegato di essere uno studente di architettura alla IUAV. Era fuori corso – leggermente, come si era premurato di precisare-, con gli esami finiti e con una tesi ancora da scrivere. Era a Venezia da cinque anni, da quando si era iscritto all’università, ma non si era spinto a spiegare troppo oltre. Era come se avesse preferito attenersi ai fatti generali, piuttosto che soffermarsi su certi dettagli che, però, Pietro sospettava potessero essere più incisivi.
-Lo stai dicendo solo perché non sai come vanno le cose là, in certe zone-.
Martino stava ancora sorridendo, ma ora il suo sorriso aveva preso una piega più seria, a tratti triste. C’era malinconia dipinta sul suo volto, qualcosa che Pietro non aveva mai avvertito in tutte le volte in cui l’aveva incontrato. Martino era sempre solare e divertente, pieno di energie e di vita anche nelle giornate peggiori: fu strano notare quel velo melanconico che aveva accompagnato quelle parole che si portavano dietro tantissimi significati impliciti.
Pietro scalciò via un sasso con la punta delle scarpe, preferendo guardare a terra che continuare a osservare quel sorriso disilluso.
-Beh, so che certi quartieri sono più difficili di altri- mormorò, ora con un certo imbarazzo. Si rese conto di aver parlato forse a sproposito: non sapeva molto, se non nulla, della vita di Martino a Roma. Ne sapeva già poco di quella passata a Venezia, figurarsi una vita che sembrava essere chiusa da anni.
Martino sbuffò piano, lo stesso sarcasmo amaro a venargli la voce:
-Ecco, io so’ nato in uno di quelli difficili-.
Pietro non disse nulla. Stavolta non volle forzarlo, sentendosi già in colpa per averlo fatto poco prima.
-A Centocelle non è che l’ambiente sia proprio gay friendly- proseguì Martino dopo alcuni attimi di silenzio – Me ne so’ preso parecchie de botte, soprattutto quando qualcuno ha capito da che sponda stavo-.
“Forse sarebbe stato lo stesso anche per me”.
Pietro cercò di allontanare da sé quel pensiero. Non si era mai soffermato a pensare troppo su quante cose sarebbero state diverse se avesse potuto avere consapevolezza di se stesso già in adolescenza.
Probabilmente la sua vita al liceo sarebbe stata più difficile, avrebbe avuto meno popolarità, decisamente meno amici … Di questo ne era sicuro perché ricordava che, più di dieci anni prima, la discriminazione e l’omofobia erano ancora peggiori di quelle odierne.
Si girò verso Martino, ora in silenzio e con lo sguardo perso davanti a sé, forse perso anche in ricordi legati a ciò che aveva appena raccontato. Quasi senza accorgersene, Pietro allungò una mano verso il suo viso, sfiorandone lo zigomo sinistro con due polpastrelli, in un tocco così leggero che si sorprese nel notare Martino girarsi verso di lui.
-Te la sei fatta in una di quelle risse?- gli chiese, sfiorando ancora una volta la cicatrice che Martino aveva proprio lì, sul punto appena toccato. Pietro ricordava di averla notata durante il loro secondo o terzo incontro: era una cicatrice piccola, a malapena visibile se non da vicino, ma non aveva potuto frenarsi dal chiedersi come avesse potuto procurarsela.
-Sì, in una delle tante- ammise Martino, alzando le spalle, prima di lasciarsi andare ad un sorriso vagamente canzonatorio – Volevo cambià aria, comunque … Per questo sono venuto qui. Non è male, anche se voi veneti siete un po’ razzistelli e pure un po’ freddini-.
Pietro rise piano:
-Non siamo tutti così, però-.
“Io non sono così”.
-No. Diciamo che qua più che le risse ho ricevuto occhiatacce, qualche offesa- iniziò ad elencare Martino, passandosi una mano tra i ricci rossi – Tanta gente che m’ha dato del frocio-.
Pietro si ritrovò ad annuire, il sorriso che si congelava pian piano.
-È per questo che hai deciso di fare coming out solo ora?-.
Di fronte alla domanda di Martino, si ritrovò senza una risposta precisa. Sarebbe stato semplice, almeno in parte, rispondergli che sì, non aveva mai trovato il coraggio di ammettere a se stesso di essere gay per paura delle conseguenze negative. E in un certo senso non avrebbe nemmeno mentito, perché era da quando aveva deciso di mettere piede al Celebrità la prima volta che si domandava quando sarebbe successo – quando sarebbe arrivato il primo insulto, il primo finocchio urlato, le prime occhiate malevole, le prime minacce-, quando avrebbe iniziato a subire il trattamento che sembrava dedicato a chiunque non rientrasse nella sicura classe dell’eterosessualità e dell’essere cisgender.
Sarebbe stato più semplice e più veloce, e sincero per certi versi, ma non sarebbe stato tutto. E per una volta in vita sua voleva essere sincero con qualcuno sin da subito.
-È un po’ più complicato di così-.
Anche se non poteva vederlo ora, sapeva che Martino lo stava guardando confuso:
-Del tipo?-.
Pietro si morse il labbro inferiore, agitato. L’ultima volta che ne aveva parlato era stato con Fernando, anni prima, senza mai più farne parola con nessun altro.
Ora c’era Martino ad affiancarlo, con i suoi ventiquattro anni e il suo spirito libero, la voglia di essere se stesso senza nascondersi mai. Si chiese se l’avrebbe giudicato, almeno un po’, per quello che gli avrebbe raccontato di lì a pochi attimi.
Ma poi ricordò la prima sera al Celebrità, quando era stato proprio Martino a rappresentare un’ancora di salvataggio, una bussola per guidarlo in quell’ambiente così sconosciuto. Martino non l’aveva giudicato allora, né in qualsiasi altra occasione, desideroso solo di ascoltarlo.
Sentiva che poteva fidarsi, che anche se si conoscevano da poco la sua presenza nella sua vita era già importante, e quella consapevolezza lo spinse a parlare senza morire dalla paura.
-Mi ci son voluti anni anche solo per ammetterlo a me stesso-.
Lo mormorò a mezza voce, consapevole che Martino, questo, doveva già saperlo.
-E nel frattempo stavo già con la mia ex- proseguì a raccontare, nel silenzio della notte – Poi quando stavo per lasciarla, ha scoperto di essere incinta-.
-Cazzo, che tempismo-.
-Già- Pietro quasi rise al commento sommesso di Martino, perché erano esattamente le parole giuste per descrivere ciò che gli aveva appena detto – Quindi siamo rimasti insieme, e abbiamo avuto anche un altro figlio-.
-E poi che è successo per farti cambiare idea così de botto?-.
Pietro avrebbe voluto poter fumare un’altra sigaretta, ma ricordava che aveva già fumato l’ultima poco prima.
“Fernando. È successo Fernando”.
Si morse di nuovo il labbro.
Non era ancora il momento per aprire quel capitolo. Non era il momento nemmeno per raccontare ciò che aveva provato per Alessio, né tantomeno per lasciarsi andare a ciò che era successo solo un anno prima.
Il momento sarebbe arrivato, ma non quella notte.
-Sono arrivato al limite della sopportazione, credo- disse incerto, la voce che gli tremava un po’ – Alla fine la stanchezza di fingere ha superato la paura-.
Erano arrivati ben oltre il campus universitario, in una strada ugualmente deserta e buia, desolata un po’ come si sentiva Pietro in quel momento. Non si accorse nemmeno di essersi fermato dal camminare fino a quando non vide Martino arrivargli di fronte, mentre lo guardava con espressione grave.
-Capita a molti-.
Gli portò una mano al viso, accarezzandogli una guancia con delicatezza.
-Non ti devi vergognare. Magari non hai avuto il percorso più lineare e più semplice, ma è diverso per tutti- mormorò, stavolta con una serietà che Pietro quasi faticò a riconoscerlo – Non c’è un modo giusto o sbagliato per arrivare ad accettarsi per quello che si è-.
Pietro non riuscì a trattenere un sorriso malinconico:
-A meno che tu non ferisca persone che non c’entrano nulla. Io l’ho fatto-.
Si ritrovò a ricordare lo sgomento con cui Giada aveva accolto il suo coming out, tutto ciò che ne era conseguito. A distanza di un anno riusciva a comprendere ancora meglio come poteva essersi sentita sul momento, a scoprire qualcosa che avrebbe innegabilmente cambiato non solo la sua vita e quella di Pietro, ma anche quella di Giacomo e Giorgio.
Non gliel’aveva mai detto a voce, ma le era grato per essere riuscita, in un qualche modo, ad andare oltre e lasciare da parte il rimpianto e la rabbia per accettare quella che era la realtà delle cose.
-Sì, ma credo sia un po’ più complicato di così, no?-.
Martino lasciò cadere la mano che aveva tenuto sul viso di Pietro fino a quel momento, spostandola invece più in basso, su una spalla.
-La tua ex ce l’ha ancora con te?-.
-In realtà non credo- ammise Pietro, sentendosi già meno soffocato dai ricordi – Siamo in buoni rapporti da un po’. Cerchiamo di mantenerli per i bambini-.
-Cosa buona e sensata- gli sorrise Martino.
Pietro annuì in accordo, abbassando però gli occhi. Martino l’aveva fatta semplice, forse troppo, ma gli sarebbe piaciuto, prima o poi, riuscire a vederla così a sua volta.
Riuscire a perdonarsi e farsi perdonare da tutte le persone che, nella sua ricerca di se stesso, aveva inevitabilmente ferito.
-Comunque lo sanno ancora in pochi-.
Se lo lasciò sfuggire sottovoce, quasi si vergognasse di doverlo ammettere. Si sentiva in soggezione di fronte a Martino, che non nascondeva mai ciò che voleva o ciò che gli piaceva; si chiese quanto gli ci sarebbe voluto, se mai ci fosse riuscito, a raggiungere un livello di scioltezza come il suo.
Alzò appena lo sguardo per osservare l’altro con un sopracciglio alzato:
-Quanti pochi?-.
Pietro spostò il proprio peso da un piede all’altro:
-Contando anche te … -.
Martino, insieme a Giada, insieme ad Alberto.
Insieme a Fernando.
-Quattro persone-.
Sentì l’altro tirare un fischio, e quando si decise ad alzare definitivamente il volto, vide Martino fare un’espressione esageratamente impressionata.
-Mecojoni!-.
Pietro non riuscì a non ridere, non di fronte a quella affettuosa presa in giro. Martino gli lasciò un paio di pacche leggere sulla spalla, prima di alzare le mani con fare condiscendente:
-Vabbè, arriverà il tempo in cui lo dirai senza manco star lì a pensacce troppo, fidate-.
“Prima o poi”, pensò Pietro, senza trovare la forza di ribattere “Prima o poi arriverà anche quel tempo”.
 


L’odore di kebab gli riempiva ancora le narici, nonostante si fossero allontanati già parecchio dal negozietto ancora aperto che avevano trovato lungo una delle strade principali di Mestre. Avevano camminato per un po’, allontanandosi di nuovo dal campus universitario, ed era stato in quel momento che Martino aveva lamentato una certa fame.
-Non so come tu faccia a mangiare quella roba a quest’ora- commentò a mezza voce Pietro, osservando Martino imboccare anche l’ultimo pezzo di kebab rimasto. Aveva un’aria così soddisfatta che, nonostante tutto, un po’ lo invidiò. Non si era azzardato ad imitarlo, però, conscio che il suo stomaco non avrebbe retto un pasto del genere a quell’ora.
-Lo spuntino di mezzanotte ci sta sempre- Martino alzò le spalle, ripulendosi la bocca con il tovagliolo che gli era stato dato, prima di buttarlo in un cestino di passaggio.
-Mezzanotte?- Pietro rise sotto i baffi – Sono le due-.
Ricevette un’espressione esasperata che lo fece ancor più ridere.
-Non rompe’ er cazzo, cammina va’-.
Era quello che stava cercando di fare Pietro, fermato solo dalle proprie risate che risuonavano nell’aria fredda della notte. Nemmeno in una zona centrale come quella dove si trovavano ora c’era anima viva in giro: era un panorama piuttosto desolato, quello del corso con i marciapiedi ornati da alti alberi, le cui chiome oscurava la vista degli edifici più alti che li circondavano su entrambi i lati della strada.
L’atmosfera si era di nuovo rilassata, dopo che si erano allontanati dal campus universitario. Martino non aveva fatto altre domande, e Pietro non aveva aggiunto altro. Sentiva che per il momento poteva andar bene così, con qualche rivelazione già fatta – e che non sembravano aver particolarmente turbato Martino-, e molte altre che forse, prima o poi, si sarebbe sentito di fare.
Era un’atmosfera, quella che stava respirando, che lo faceva sentire più giovane e meno adulto, come se avesse ancora il tempo necessario per potersi prendere quelle nottate scanzonate, vagando per vie deserte e senza sentir il bisogno di correre a casa nonostante l’ora tarda.
 
Let me run with you
Let me run with you, my friend
Let me be with you
Running through the wild again
Let me run with you
Let me run with you, my friend
Let me be with you
Running through the wild again
 
-Era bono, però- mormorò ancora Martino, i capelli rossi resi ancor più fiammeggianti dopo essere passato sotto il raggio di luce di un lampione acceso. Era stato in quel momento, quel breve lasso di tempo in cui erano riemersi dall’oscurità, che Pietro aveva dovuto soffocare un’altra risata nel notare la rimanenza di quella che doveva essere salsa yogurt al lato della bocca dell’altro.
Lo bloccò afferrandolo per un polso, prima di portare l’indice ad indicargli la guancia ancora sporca.
-Te lo sei sparso per tutta la faccia-.
Gli si era avvicinato senza pensarci troppo. La vicinanza fisica di Martino non lo metteva a disagio come si era aspettato la sera in cui l’aveva conosciuto, quando si erano scambiati solo poche parole prima di uscire a parlare appena fuori dal Celebrità. Era strano pensare che quella prossimità, invece, non lo spingeva a riallontanarsi subito, né a sentirsi in imbarazzo.
Forse era perché tra di loro si era già creata una connessione che a Pietro era parsa sin da subito naturale, come se fossero sempre stati destinati a incrociare le loro vie.
-Cazzo, dove?- Martino si passò una mano sulle labbra, non centrando però il punto giusto all’angolo della bocca – Damme ‘na mano-.
Pietro gli si avvicinò ancor di più, perché nel punto in cui si erano fermati anche la luce del lampione appena superato era fioca. Non dovette abbassarsi più di tanto – Martino era abbastanza alto, solo un paio di centimetri meno di lui-, e portò subito una mano alla bocca dell’altro.
Non si accorse di quanto poco distanti erano i loro visi fino a quando, pulito tutto, non alzò gli occhi per ritrovarsi faccia a faccia con quelli verdi di Martino, pieno di una luce che non aveva ancora visto animargli le iridi chiare.
Contro ogni sua supposizione, non sentì neanche in quel momento il bisogno di restaurare un po’ di lontananza. Si limitò a rialzare il viso, continuando a fissare quello di Martino, in attesa.
-Senti, ma … -.
Martino gli parve esitante, così inaspettatamente incerto. Fu una visione insolita, e Pietro quasi scoppiò a ridere nel rendersi conto che, incredibilmente, tra loro due era Martino quello che era rimasto più sorpreso da quella situazione.
-Hai mai baciato uno?- gli chiese infine, dopo essersi inumidito le labbra – Intendo un uomo-.
Pietro si strinse impercettibilmente nelle spalle, la mente piena di ricordi.
Ricordò un locale rumoroso e la musica in sottofondo che l’aveva accompagnato mentre Alessio lo baciava, e ricordò anche l’ultimo bacio con cui lo aveva salutato Fernando, in un saluto che all’epoca Pietro ancora non aveva capito avesse il sapore di un addio.
-Sì, un paio di ragazzi- mormorò, sentendosi così strano nel ridurre così due delle persone più importanti della sua vita.
“Ci sarà il tempo per raccontare” si disse tra sé e sé, “Ma non stanotte”.
-Ed è passato tanto tempo dall’ultima volta?-.
Martino sembrava ancora nervoso, e a Pietro sembrò di percepire quasi elettricità nell’aria. C’era intorno e tra di loro, come se da un momento all’altro potesse succedere qualcosa che nessuno di loro due si stava davvero aspettando.
-Un anno. È complicato da spiegare-.
Appena finito di parlare, seppe in anticipo che Martino avrebbe riso appena a quel suo tornare nel descrivere tutto come complicato.
Successe esattamente così.
-Lo dici spesso che è … -.
Martino s’interruppe subito, e Pietro gliene fu grato, perché sarebbe stato strano baciare qualcuno che ancora non smetteva di parlare. Martino, invece, contro ogni previsione, aveva serrato la bocca, ma non in maniera rigida; era semplicemente rimasto in silenzio, dando il permesso a Pietro di baciarlo a stampo, in un primo contatto semplice e naturale – un po’ come avevano iniziato a conoscersi.
Pietro si staccò pochi secondi dopo, rimanendo comunque a pochi centimetri dall’altro. Si sentì euforico, una sensazione diversa da tutte le altre volte che aveva baciato qualcuno.
Era diverso dal languore malinconico con cui aveva baciato Fernando, ed era diverso dalla passione e dal desiderio represso che aveva provato verso Alessio. Era una sensazione forse meno forte, ma presente ugualmente, e che gli stava facendo battere il cuore più veloce, facendolo sentire più leggero.
-Ero convinto che non avresti mai preso l’iniziativa- fu la prima cosa che gli disse Martino, facendolo sorridere.
-Anche io lo credevo-.
Era convinto che non sarebbe mai riuscito a baciare qualcuno – un uomo- di nuovo, e di certo non credeva sarebbe successo così presto. Ma in quel momento, lì nel buio della notte lungo una strada alberata di Mestre, trovò giusto farlo.
Si sentiva a suo agio come non avrebbe mai pensato di potersi sentire, e si chiese cosa diavolo si fosse perso in tutti quegli anni di negazioni e difficoltà nell’accettarsi. Forse era arrivato il momento di scoprirlo.
Martino lo guardò esitante:
-T’è dispiaciuto?-.
Pietro scosse il capo:
-No, non credo-.
Continuava a sorridere, in un tentativo di tranquillizzare anche l’altro. Sembrò funzionare, perché Martino sembrò meno incerto nel trattenere il suo stesso sorriso di sfida:
-Te serve un secondo tentativo per capire?-.
Stavolta fu Martino ad annullare le distanze, dopo un secondo di ultima incertezza durante il quale, però, Pietro non lo aveva fermato.
Fu di nuovo un bacio a stampo – più naturale, più studiato, e meno improvviso-, meno fulmineo del precedente, e Pietro quasi si meravigliò di se stesso nel non sentirsi a disagio all’idea di baciare un ragazzo in un luogo così pubblico, dove anche qualcun altro che passava di lì a quell’ora avrebbe potuto vederli.
Quando Martino si allontanò a corto di fiato stava ancora sorridendo, ma con il sorriso che si stava trasformando a poco a poco in un ghigno divertito.
-Vedi che sei più coraggioso di quel che credi?-.
Pietro alzò un sopracciglio.
-Ce vole coraggio a baciare uno che s’è appena magnato un kebab-.
La risata a cui si lasciò andare subito fu una delle più liberatorie di tutta la sua vita.
“Forse mi sono stancato di avere paura”.
 
It’s almost like we go
Dance with desire then we go playing with fire
Then we go into the wild again
It’s almost like we go
Dance with desire then we go playing with fire
Then we go into the wild again
 
*
 
Piazza dei Signori era gremita di gente a quell’ora di domenica pomeriggio. Nonostante il freddo, però, era una bella giornata soleggiata, ed era piacevole rimanere sotto i raggi del sole a scaldarsi. Giulia era contenta di aver scelto proprio quel tavolino, colpito dal sole: non era abbagliante come nei periodi estivi, ma non era nemmeno così debole come nel pieno dell’inverno, e bastava quel tanto per non farla sentire infreddolita.
-Ecco qui le vostre ordinazioni-.
Giulia si girò appena in tempo per notare la giovane cameriera che si era accostata al tavolo, Lorenzo seduto di fronte a lei ed in uguale attesa di poter avere il suo caffè caldo tra le mani. La cameriera posò le tazzine fumanti sulla superficie liscia del tavolino, prima di allontanarsi con un sorriso di cortesia ai ringraziamenti di entrambi. Giulia non attese oltre prima di tuffarsi sul suo cappuccino: nonostante si stesse bene fuori, almeno in quella giornata, avere qualcosa di caldo da bere era ancora meglio.
-Sembra quasi che non bevessi cappuccino da una vita- la prese in giro Lorenzo, ridendo sommessamente mentre la osservava bere un lungo sorso. Giulia non badò neanche al leggero bruciore che le causò la scottatura alla lingua non appena bevette il liquido caldo.
-In effetti è passato un po’ dall’ultima volta- confessò, rimettendo giù la tazzina, costringendosi a non finirlo subito – Non vado spesso fuori per bar. E a casa ho tempo solo per caffè veloci-.
-Immagino che le bambine portino via molto tempo- commentò Lorenzo in risposta, mentre zuccherava il suo caffè macchiato.
“Anche evitare Filippo porta via molto tempo”.
Giulia si costrinse a non lasciar andare quelle parole che aveva sulla punta della lingua. Fino a quel momento, da quando si erano incontrati fuori dalla stazione, dove lei era arrivata in treno, la conversazione con Lorenzo era andata bene. Era stato un po’ un aggiornarsi su come erano andati gli ultimi tre anni, e Giulia, per la prima volta in un mese, era riuscita davvero a concentrarsi e ad ascoltare ciò che Lorenzo le aveva raccontato. Non si era aspettata potesse succedere proprio con lui, perché l’idea di poterlo rivedere in un frangente simile non le aveva nemmeno sfiorato la mente, e poi perché era consapevole che, fino a qualche mese prima, non avrebbe nemmeno mai accettato di vederlo da sola, all’insaputa di chiunque – anche di Caterina.
Era stata una piacevole sorpresa, tolto solo il fatto che aveva fatto ben attenzione a non fare alcun riferimento a Filippo. Era l’unica libertà che non si era data, ed ora che Lorenzo aveva tirato in ballo le gemelle, si sentì di nuovo in territorio pericoloso.
-Sono impegnative, sì- ammise, dopo essersi presa dei secondi di tempo per bere un altro sorso di cappuccino – Però ti ripagano con moltissimo altro-.
Lo disse sorridendo, riportando alla mente i visi rattristati di Caterina e Beatrice quando era uscita di casa anche quel pomeriggio. Erano ancora piccole, per tantissime cose ancora inconsapevoli di quel che accadeva intorno a loro, ma cominciava a pensare che dovessero essersi accorte che qualcosa era cambiato. Probabilmente, pensò Giulia con una punta di amara ironia, dovevano essere soprese anche dal fatto di passare così tanto tempo da sole con Filippo.
Tempo che avrebbe impiegato volentieri lei con loro, ma non in quel momento. Sentiva di aver bisogno di più spazio per se stessa, per pensare, per cercare di far ordine nella sua mente.
-Ti credo sulla parola-.
Lorenzo rise debolmente, un po’ a disagio:
-In realtà io non sono del tutto sicuro di volere figli-.
-No?- fece Giulia sorpresa, anche se non poteva dire di sentirsi realmente stupita – Beh, è una scelta lecita-.
Lorenzo scrollò le spalle:
-Non tutti sono tagliati per essere genitori-.
“Un po’ come non tutti sono tagliati per fare i mariti”.
-Tu e Filippo invece probabilmente sì- proseguì ancora Lorenzo, rigirandosi la tazzina tra le mani – Mi sembra ve la caviate bene-.
-Con le bambine?-.
Lorenzo si portò la tazzina alle labbra subito dopo, quasi avesse voluto smettere di pensare a quel che aveva appena detto, o ritardare a sufficienza il momento in cui avrebbe dovuto rispondere. Passò quasi un minuto prima che annuisse, dopo aver finito di bere il suo caffè in pochi sorsi.
-E anche tra di voi, no?- lo disse ridendo senza molto divertimento – State insieme da quanto, dieci anni?-.
-Sarebbero stati undici-.
Giulia lo disse quasi senza pensarci. Non si era nemmeno resa conto, non subito, di averlo detto ad alta voce senza limitarsi a pensarlo e basta.
Abbassò subito gli occhi, consapevole che quella appena imboccata era una via senza ritorno, perché era impossibile che, a una così breve distanza, Lorenzo non avesse udito il suo commento. Non ebbe però il coraggio di guardarlo in viso, troppo spaventata dal probabile cambio d’espressione. Doveva essere confuso, forse si stava anche chiedendo se aveva sentito bene.
-Sarebbero stati?- lo ascoltò mentre ripeteva quell’unico pezzo della sua frase che lasciava dubbi. Era quel condizionale al passato che lasciava trasparire tutto, senza il bisogno di dover aggiungere molto altro.
Era al passato semplicemente perché, inevitabilmente, anche tutto ciò che aveva condiviso con Filippo era recluso nel passato.
 
Where, where are the stars?
The ones that we used to call ours
Can't imagine it now
We used to laugh till we fell down
The secrets we had are now in the past
From something to nothing, tell me [3]
 
-Non stiamo più insieme-.
Sospirò lentamente, stavolta, per calmarsi e trattenere l’istinto che l’avrebbe guidata lontana da lì. Sarebbe stato più facile alzarsi e correre lontano da Lorenzo e chiunque altro, ma restò immobile.
Era consapevole che Lorenzo doveva starla a guardare in preda allo shock della notizia, forse chiedendosi se aveva udito bene ciò che Giulia aveva appena detto.
Quando si fece abbastanza coraggio per alzare il viso, dopo interminabili secondi, trovò gli occhi verdi di Lorenzo su di sé, esattamente come si era aspettata. L’espressione che vi leggeva, però, era enigmatica, indecifrabile come spesso le era accaduto con lui.
-Dici sul serio?- le chiese con serietà.
Giulia si ritrovò ad annuire.
Non riusciva a capire se la sua fosse più sorpresa o chissà che altro. Di sicuro non doveva esserselo aspettato.
-Mi dispiace, Giulia-.
Posò i gomiti sul tavolino, continuando a guardarla senza esitare, scuotendo appena il capo.
-È che  … - si schiarì la voce, guadagnando così qualche secondo – Beh, mi eri sembrata un po’ giù di morale la settimana scorsa. Mi ero domandato se era successo qualcosa-.
Giulia annuì ancora: si era aspettata un commento del genere e, anzi, si era persino stupita che non avesse ancora fatto alcun riferimento al loro precedente incontro. Non le era difficile credere che Lorenzo dovesse aver notato qualcosa, perché lei per prima era convinta di aver lasciato trasparire fin troppo. E poi aveva accettato quell’invito a Padova senza indugi, come se non avesse avuto una famiglia a cui badare a casa, come se non fosse a conoscenza del disagio che provava Filippo quando Lorenzo era nei paraggi.
-Sono successe un po’ di cose, ultimamente-.
All’improvviso provò una gran secchezza in gola e alle labbra, ma non provò a bere il resto del cappuccino che, probabilmente, si stava ormai raffreddando. Le era passata la voglia nell’istante in cui, in maniera del tutto incontrollata, si era lasciata andare a quella confidenza.
Non aveva nemmeno idea del perché lo avesse detto proprio a Lorenzo e proprio in quel momento; ma l’aveva fatto, e ormai non c’era modo per tornare a qualche minuto prima, bloccarsi in tempo prima di lasciarsi sfuggire quel segreto che, al momento, conoscevano ancora in pochi.
-È tutto molto fresco, e devo ancora processare quel che è successo- mormorò ancora, le mani affondate nelle tasche del cappotto.
Lorenzo non distolse lo sguardo neanche in quel momento, la fronte aggrottata:
-Scusa se te lo chiedo, ma è accaduto qualcosa di grave?-.
Giulia alzò le spalle:
-In un certo senso-.
Quasi si ritrovò a ridere alle sue stesse parole, perché sembrava una cosa così amaramente ironica minimizzare con così tanta semplicità, quando le ferite che si portava dietro erano così profonde che dubitava si sarebbero mai rimarginate. 
Lorenzo sembrò intuirlo, perché non staccò nemmeno allora lo sguardo da lei, la stessa espressione grave che le aveva rivolto per tutto il tempo. Si stava chiedendo cosa fosse successo di preciso, Giulia glielo leggeva in faccia: forse aveva addirittura sfiorato la risposta giusta, ma probabilmente l’aveva anche scartata.
Per un attimo si chiese come avrebbe reagito se glielo avesse detto sul serio. Si sarebbe sentito dispiaciuto per lei, ma anche sollevato nel vederla finalmente lontana da Filippo?
Scacciò quel pensiero: forse Lorenzo l’aveva invidiato a lungo, ma non poteva essere così meschino ed egoista per poter pensare sul serio una cosa del genere.
Sentiva di poterglielo dire, almeno quello. Forse Lorenzo non era tra le persone con cui aveva condiviso di più o con cui aveva più confidenza, ma sentiva che almeno ciò che era successo, a grandi linee, glielo poteva raccontare.
-Mi ha tradita-.
Sospirò a fondo, sentendosi di nuovo la gola e la bocca secche, come ogni volta che si era ritrovata a dirlo ad alta voce a qualcun altro. Si sentiva meno nervosa, però, rispetto a quando l’aveva raccontato a Caterina e Nicola, o ai suoi genitori e sua sorella, forse perché sapeva che Lorenzo non avrebbe mostrato una reazione drammatica quanto loro. Forse era esattamente ciò che le serviva: qualcuno che all’apprendere della notizia non si addolorasse a tal punto da farla sentire ancora peggio, come se fosse lei stessa la colpevole di così tanta sofferenza.
-L’ho scoperto praticamente per caso- aggiunse qualche secondo dopo, per rompere il silenzio che Lorenzo le stava rivolgendo.
Lo osservò annuire, stavolta abbassando gli occhi:
-Non deve essere facile-.
Non lo era, si ritrovò a pensare Giulia. Non lo era per così tanti motivi che non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare a elencarli.
E lo era soprattutto perché non si era mai ritrovata a pensare così tanto al passato come in quel periodo, lo stesso passato che avrebbe voluto chiudere a chiave in un cassetto per riaprirlo solo quando avrebbe fatto meno male. Ma era sempre lì, con i ricordi pronti per farle tornare in mente tutto ciò che aveva costruito con Filippo nel corso degli anni.
-Non lo è-.
 
Now you're so far away
And I see our star is fading
One too many times
Guess it just got tired of waiting round
The nights that we thought, if these walls could talk
From something to nothing, tell me
 
Giulia strinse le mani a pugno, sentendo l’ennesima fitta trapassarla. Si era ritrovata spesso a ricordare particolari della sua relazione con Filippo, dettagli scollegati dai grandi eventi che li avevano segnati. Ricordava com’era svegliarsi con lui accanto ogni giorno, ritrovandolo scarmigliato e con la bocca semiaperta in pose che la facevano ridere fino a svegliarlo. O le volte in cui l’aveva sorpreso fare strane espressioni alle gemelle, le poche volte in cui aveva giocato davvero con loro; ricordava che avevano spesso parlato, durante la gravidanza, di come sarebbe stato una volta che fossero cresciute. E ricordava anche quanto avevano fantasticato, ritrovandosi in quelle situazioni in modi totalmente inaspettati, per lungo tempo di avere una famiglia, quando ancora erano semplici studenti prima al liceo e poi all’università
C’erano così tanti sogni racchiusi in quelle memorie che faticava a riportarli tutti alla mente. E faticava ancor di più a credere che, in fin dei conti, la maggior parte di essi erano rimasti semplici sogni, progetti che ora apparivano irrealizzabili – un niente, come avrebbe definito ora lei e Filippo.
-Credevo che sarebbe stato più il dolore di vederlo andare da qualcun'altra, ma paradossalmente fa più male sapere che è tutto finito- Giulia sentì di nuovo gli occhi farsi lucidi, una sensazione a cui ormai si era abituata suo malgrado – Forse sono esagerata io che me la prendo per qualche bacio dato ad un’altra. Ma lo sento come un tradimento lo stesso … E sento che forse non tornerà mai più ad essere come prima. In nessun caso-.
Si chiese se potesse essere lo stesso per Filippo, se si era domandato almeno una volta come sarebbe proseguita tra loro, se si fosse reso conto fino in fondo come aveva rovinato tutto.
Era una domanda che le era sorta solo in quel momento, e che probabilmente non gli avrebbe mai posto. 
 
Oh, is it only me now that's thinking of
What we had and what we were
Did you ever care
Baby, was I ever there?
 
Lorenzo sembrò avvertire il suo disagio, perché il volto gli si addolcì. Era una cosa al limite dell’impercettibile, ma Giulia fu sicura che fosse così.
-Ed ora come siete rimasti?- le chiese ancora, con voce più delicata.
Era una domanda alla quale Giulia non sapeva rispondere, perché nemmeno lei sapeva con precisione come erano rimasti lei e Filippo. Non c’era mai stata l’opportunità per parlarne davvero, perché lei per prima rifuggiva qualsiasi occasione che potesse portarli a parlare tra loro.
-Siamo praticamente separati in casa- rispose semplicemente – Per ora siamo a questo punto-.
“Un punto che non durerà per sempre”.
Nel pensarlo non seppe se a prevalere fosse il sollievo o la paura. Sarebbe stato più semplice vivere in case separate, ma la sola idea la fece sentire totalmente disorientata.
Lorenzo si passò una mano sul viso, sollevando gli occhiali dagli occhi per qualche secondo.
-Cazzo. Mi spiace, Giulia- mormorò dopo qualche attimo – Non credevo che Filippo fosse una persona del genere-.
-Non lo era, ma nella vita si cambia-.
Giulia si strinse nelle spalle, gli occhi abbassati.
-Difficile che si rimanga sempre gli stessi-.
“Come sono cambiata io?”
Era una domanda che non si era mai posta.
Come mi vede Filippo ora? Forse è stato lui per primo a vedermi diversa dalla Giulia che conosceva”.
Forse non era davvero solo lui ad essere cambiato.
Forse anche lei era diventata una persona diversa, totalmente differente, senza nemmeno rendersene conto appieno. Si chiese come la potesse vedere lui attraverso i suoi occhi, se con la stessa nostalgia e lo stesso rimpianto con cui lei lo aveva osservato nei mesi passati, sensazioni ora sostituite dal senso di tradimento e rancore.
Era così immersa nei propri pensieri che aveva registrato a malapena Lorenzo parlare ancora, ma aveva udito fatalmente la domanda che le pose, con voce esitante:
-Ma lo ami ancora?-.
Giulia si sentì raggelare, incapace anche solo di pensare ad una risposta sensata da dare. Gli occhi di Lorenzo la scrutavano con uno sguardo che per lei era indecifrabile: un misto di aspettativa e paura che le fece supporre che stesse sperando in una determinata risposta.
Poteva essere solo suggestione, frutto del risultato di quel che era successo tra loro anni fa, o forse si aspettava davvero una risposta negativa.
Giulia, però, la risposta non riusciva a dargliela. Sarebbe stato come parlare di qualcosa di troppo intimo con un totale sconosciuto, o qualcosa di estremamente doloroso con una persona non sufficientemente delicata per comprenderne ogni sfumatura.
Sarebbe stato facile e difficile allo stesso tempo cercare di spiegare che sentiva di amare ancora e di non amare più Filippo – amarlo perché era l’uomo di cui era sempre stata innamorata e di cui lo era tuttora, ed allo stesso tempo sentirsi come se il tradimento ricevuto avesse potuto cancellare tutto. Far sì che le sembrasse quasi di non averlo mai amato sul serio, tanta era la rabbia.
Sarebbe stato come mettersi a nudo completamente, e non era sicura di volerlo fare con Lorenzo, e in quel momento.
-Posso portarvi qualcos’altro?-.
Giulia si riscosse pochi secondi dopo aver udito la voce della cameriera che li aveva serviti una decina di minuti prima. Alzò il viso verso di lei, ringraziandola mentalmente per aver infranto quel lungo attimo di incerto imbarazzo, scontrandosi con il cordiale sorriso che stava rivolgendo sia a lei che a Lorenzo.
-No, grazie- rispose lui, precedendola di poco – Siamo a posto così-.
Giulia rimase in silenzio per il resto del poco tempo in cui la cameriera rimase lì, prima di allontanarsi con un sorriso di commiato. Lei e Lorenzo furono di nuovo soli come se nulla fosse successo, ma in maniera differente: in un modo o nell’altro l’atmosfera precedente all’interruzione si era conclusa.
-Che ne dici se cominciamo ad avviarci verso la stazione?- Giulia attese solo qualche secondo per parlare con voce più casuale possibile – Non manca moltissimo alla partenza del mio treno-.
Non aveva davvero idea di che ore fossero, ed aveva l’impressione che in realtà fosse ancora presto per il suo treno, ma avvertiva il bisogno di restare sola e di allontanarsi da quel bar. Non aveva nemmeno finito il suo cappuccino, che ormai doveva essere freddo, ma non le importava neanche di quello.
Lorenzo le rivolse un sorriso un po’ tirato:
-Va benissimo-.
Il cammino verso la stazione fu perlopiù silenzioso. Camminarono affiancati pronunciando poche parole che, ormai a pochi metri da una delle entrate della stazione, Giulia aveva già scordato.
Si fermarono lì, al centro del piazzale, l’uno di fronte all’altra come erano rimasti seduti al tavolino che avevano lasciato poco prima in Piazza dei Signori. Non si sentì a disagio, notò Giulia: era una sensazione che, inaspettatamente, era mancata in quella giornata – forse perché aveva smesso di sentirsi in colpa verso Filippo, nel parlare con Lorenzo. Non c’era più niente che potesse fermarla dal vederlo, né nessuno che potesse farle notare come lui avrebbe potuto interpretare il suo accettare quell’invito.
-Stavo pensando … - proruppe finalmente Lorenzo, gesticolando nervosamente – Mi farebbe davvero piacere se ripetessimo questa cosa. Del vederci, intendo. Magari ti aiuterebbe a voltare pagina-.
Giulia annuì, e per quanto si sentisse stranita al pensare di voltare pagina di già, Lorenzo non aveva torto: era quello che avrebbe dovuto fare, almeno in parte. Non poteva lasciarsi divorare unicamente dal dolore e dalla rabbia, perché avrebbe rischiato solo di inaridirsi e pensare alla propria vita con negatività.
Forse era quello che stava tentando di fare – o che aveva già iniziato a fare- Filippo. Voltare pagina e andare avanti, lasciarsi alle spalle più di dieci anni passati insieme.
Quel pensiero la fece sentir peggio di quel che si sarebbe aspettata.
-Mi ha aiutata a distrarmi, in effetti-.
“Almeno in parte”.
Giulia decise di non ritrattare ciò che aveva appena detto: a parte la loro conversazione al bar, era stata una giornata piacevole. E forse non avrebbe mai detto che era proprio Lorenzo la persona di cui aveva bisogno in quel momento, ma era l’unica persona che le si era presentata di fronte e di cui aveva accettato l’invito senza pensarci troppo. In fin dei conti anche loro si conoscevano da anni: poteva essere l’occasione giusta per ricominciare e ritrovare un’amicizia.
-Magari la prossima volta decido io dove andare- aggiunse infine, cercando di sorridere.
Lorenzo le sorrise di rimando immediatamente:
-Un buon compromesso, direi-.
Giulia annuì, ritrovandosi mentalmente d’accordo. Forse doveva solo decidersi a prendere la vita senza troppo impegno – l’ultima volta che l’aveva fatto era finita con il cuore spezzato e tutti i suoi progetti stravolti, cancellati in un vuoto pieno solo di ricordi.
Era come aver perso l’orientamento da settimane, e per la prima volta ritrovare un segno che le indicasse una nuova strada altrettanto percorribile. Seguire questa nuova, magari per un po’ soltanto, non avrebbe potuto farle che bene.
 
How did we lose our way?
It's hard to remember
All that we shared
Now we both have separate lives
From lovers to strangers, now alone
Tell me, how did we lose our way?
It's hard to remember
All that we shared
Now we both have separate lives
From lovers to strangers, now alone
There's no one catching my fall
No one to hear my call
It's like I never loved you at all





 
[1] BTS - "Dimple"
[2] Take That - "Into the wild"
[3] Take That - "Like I never loved you at all"
Il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente alle rispettive band e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Quello che si suol dire “un capitolo pregno di cose”!
Ma andiamo con ordine: iniziamo con il seguire Giulia, che dopo alcune settimane dalla sua separazione da Filippo, troviamo alle prese con il darne notizia a Caterina e Nicola. Ed è qua che Giulia stessa ha una sorpresa inaspettata, ovvero il scoprire che Nicola sapeva già dei sotterfugi di Filippo. Per ovvie ragioni la nostra protagonista non l'ha presa proprio bene in un primo momento, anche se poi i due sono riusciti a chiarirsi.
Passano i giorni e qualche weekend dopo vediamo sempre Giulia dirigersi verso Torre San Donato, direzione casa dei genitori di Caterina, e … Long time no see, Lorenzo 
👀 è proprio in lui la prima persona in cui Giulia incappa una volta arrivata a destinazione, in maniera del tutto inaspettata. Una conversazione amichevole che si prolunga anche in un secondo incontro, che in realtà prende una piega non del tutto voluta da Giulia, che finisce per confidarsi con Lorenzo riguardo la sua rottura con Filippo e i sentimento derivanti da questo. E alla fine, c'è la promessa di un nuovo “appuntamento”: che quella tra Giulia e Lorenzo sia un'amicizia ritrovata che servirà alla nostra protagonista per voltare pagina?
Ma veniamo alla parte centrale del capitolo: ritroviamo Pietro … e di nuovo Martino! Tra una passeggiata e un kebab, tra un "é complicato" e l'altro... Ecco lì, il colpo di scena che non aspettavate! Qualcuno, forse, dopo il primo incontro di Pietro con Martino, e poi con il proseguire di questo secondo incontro tra i due, potrebbe aver pensato che, prima o poi, qualcosa sarebbe successo! Insomma... Diteci la vostra su questa strana "coppia"!
Nel frattempo noi vi diamo appuntamento per mercoledì 13 dicembre per il capitolo 17!
Kiara & Greyjoy

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - Per dimenticare ***


CAPITOLO 17 - PER DIMENTICARE



 
L’ultima cosa che avrebbe detto era poterla vedere lì, camminare lentamente mentre si guardava attorno, studiare i particolari del salotto dove si trovavano, forse un po’ persa e sorpresa lei stessa.
Lorenzo rimase in silenzio mentre osservava Giulia, in piedi con un bicchiere d’acqua in mano bevuto per metà. Non sembrava a disagio, almeno non del tutto – o forse era tutta apparenza, anche se non era mai stata capace di fingere bene.
-Hai intenzione di prendere altri mobili da mettere qui?-.
Giulia si era fermata davanti alla parete ancora vuota del salotto, occupata unicamente da una tv sopra ad un tavolino di vetro. Era un’immagine quasi poetica, vederla stagliarsi contro la parete bianca, unica figura ad occuparla, quasi si trattasse di un disegno dipinto sul muro.
-Per ora non ci penso- le rispose Lorenzo, alzando le spalle – Ho tempo per comprarne altri, ma per ora non mi servirebbero-.
Era stata la risposta che le aveva dato anche in altri momenti mentre le faceva visitare la casa dove si era trasferito solo da qualche settimana, ancora un po’ in disordine in alcune zone e spoglia in altre. Giulia gli aveva persino chiesto se gli sarebbe servita una mano per sistemare, ma aveva rifiutato gentilmente per non doverla fare lavorare anche nel weekend. Se la sarebbe cavata da solo, come sempre.
La osservò girarsi verso di lui, un sorriso vagamente divertito – e vagamente tirato- disegnato sulle labbra:
-Sei piuttosto minimalista-.
Lorenzo rise piano, la voce bassa che risuonò in modo gutturale:
-Esserlo ha i suoi lati positivi-.
Fece qualche passo verso di lei, senza però avvicinarsi troppo. Voleva che fosse Giulia ad avvicinarsi, a desiderare la sua presenza accanto a lei, senza imporsi prima del tempo. Era evidente che fosse almeno un po’ più a disagio di quanto non lo era stata quando si erano incontrati la prima volta in un bar di Padova: ora lì non erano più in territorio neutrale. Erano a casa sua, tra le sue cose e le sue pareti, in un’area ben definita. Era ben diverso che incontrarsi in pubblico, mischiati tra la gente.
-Sa che sei qui?-.
Non ci fu affatto bisogno di specificare a chi si stesse riferendo. Giulia scrollò le spalle, lo sguardo abbassato.
-Non gli dico mai dove sono di preciso- rispose dopo qualche secondo di silenzio – Sa che sono a Padova, nel caso mi succedesse qualcosa, ma non sa che sono con te-.
“Come c’era da aspettarsi”.
Per un attimo Lorenzo si chiese se quel nascondere le cose a Filippo fosse un tentativo di distaccarsene o una specie di dispetto. L’unica certezza che aveva era però che sicuramente Giulia non avesse mai proferito parola dei loro ultimi incontri; andavano avanti da tre settimane, ma anche se non lo aveva mai detto esplicitamente, era sicuro che lei non ne avesse fatto parola con nessuno.
Era altrettanto certo che, se fosse successo, non avrebbe saputo chi tra sua sorella o Filippo stesso lo avrebbero raggiunto prima per fargli un discorsetto.
-Prima o poi glielo dirai?- le chiese ancora, andando a sedersi sul bordo del divano.
-Forse- tergiversò Giulia, rimanendo in piedi di fronte a lui – Ho molte cose a cui pensare, ora come ora-.
-Anche al divorzio?-.
Era stata una domanda a bruciapelo, ma Lorenzo decise di non ritrattare.
Osservò Giulia in silenzio, mentre ne seguiva i movimenti, fino a sedersi accanto a lui sul divano. Aveva ipotizzato che avrebbe tenuto maggior distanza da lui, e invece si era tenuta più vicina, quasi non temesse un loro possibile contatto.
-No, a quello non ho ancora pensato-.
Giulia strinse ancor di più tra le mani il bicchiere d’acqua, prima di decidere di berne un altro lungo sorso. Teneva ancora lo sguardo abbassato, come se fosse distante, assente.
-È difficile pensarci, per quanto ce l’abbia con Filippo- mormorò ancora, con voce atona – Sarà qualcosa a cui dovrò pensare, prima o poi, ne sono consapevole. Ne dovremo parlare insieme io e lui-.
“Insieme io e lui”.
Senza nemmeno rendersene del tutto conto, Lorenzo strinse una mano a pugno, irrigidendosi. Era strano come, in maniera forse del tutto inconscia, Giulia si riferisse a lei e Filippo ancora come un noi. Come un insieme. Come se stessero ancora insieme.
Doveva essere la forza dell’abitudine, o forse il fatto che, nonostante la rabbia che diceva di provare nei suoi confronti, i sentimenti negativi non bastavano a cancellare anche gli altri, come l’amore che doveva aver provato – o provare- per lui.
Quando alzò di nuovo gli occhi su di lei, qualche attimo dopo, si rese conto che Giulia lo stava già osservando. Doveva aver notato almeno in parte la sua rigidità, perché cercò di sorridergli conciliante:
-Te ne parlerò quando avrò le idee più chiare-.
Lorenzo non sapeva se le avrebbe mai avute, le idee chiare. Forse nemmeno Giulia se ne rendeva conto fino in fondo, ma per quanto apparisse convinta nella sua rabbia verso Filippo, sembrava esserlo solo a parole.
C’era un dolore diverso dalla cieca furia che la stava muovendo, qualcosa di più difficile da comprendere e descrivere. Sembrava decisa a voler allontanarsi da lui, e forse accettare tutti quei suoi inviti, trovarsi insieme, erano una prova di quel che stava cercando di fare; ma lo erano fino ad un certo punto, perché Giulia sembrava sempre coinvolta a metà.
Era lì con lui fisicamente, ma la sua mente era lontana.
-Posso dirti una cosa?-.
Giulia annuì subito, senza nemmeno preoccuparsi di cosa le stesse per dire.
-Quando vi ho visti insieme, il giorno del vostro matrimonio, non credevo vi sareste mai lasciati- Lorenzo si umettò le labbra, scostando lo sguardo da lei – Eppure … Non lo so, le cose cambiano anche quando ci si ama molto-.
Non aveva idea nemmeno lui del perché gli fosse tornato in mente quel giorno. Forse perché, ora come ora, il suo stesso ricordo era in pieno contrasto con ciò che stava vedendo: Giulia a casa sua, lontana da Filippo.
-Quel giorno pensavo non saresti nemmeno venuto-.
Lorenzo annuì: ricordava piuttosto bene che anche lui stesso era stato convinto che non si sarebbe presentato, almeno fino al giorno prima del matrimonio.
-È stata una decisione presa all’ultimo-.
Ora che si era girato verso Giulia, poteva vedere la sua espressione incuriosita, colma di domande che probabilmente si era tenuta dentro per anni.
-Perché?-.
“Perché?”.
Lorenzo sospirò profondamente, rimanendo in silenzio per qualche secondo.
 


Era stato inaspettato.
Del tutto inaspettato, se doveva essere sincero.
Si rigirò tra le mani l’invito di matrimonio, studiandone i più piccoli dettagli: al centro del biglietto bianco, di cartoncino lucido, erano evidenti in bella vista i nomi “Giulia e Filippo”, seguiti poco più sotto da una data – il 25 Agosto- e Verona, dove a quanto pare si sarebbero sposati.
Non era l’invito vero e proprio a meravigliarlo – c’era da aspettarselo che prima o poi sarebbero finiti per sposarsi, non aveva mai avuto dubbi sul fatto che avrebbero compiuto anche quel passo-, quanto il fatto che l’avessero inviato.
Doveva essere stata un’idea di Giulia; dubitava fortemente che Filippo avrebbe mai invitato qualcuno di cui era sempre stato geloso.
Lorenzo annuì tra sé e sé, osservando ancora le diciture riportate sul cartoncino.
 
Allora quindi è vero, è vero che ti sposerai
Ti faccio tanti, tanti cari auguri e se non vengo capirai
E se la scelta è questa, è giusta, lo sai solo tu
È lui l'uomo perfetto che volevi e che non vuoi cambiare più
 
“Giulia e Filippo”.
Era una fine prevedibile, no?
Qualcosa che avrebbe dovuto aspettarsi da anni, forse anche dall’inizio.
Si mosse verso la cucina, allontanandosi dall’ingresso dove si era fermato per scartare la busta dell’invito, dopo averlo recuperato dalla cassetta della posta. Arrivò di fronte al ripiano della cucina, cercando con lo sguardo l’oggetto che era il suo obiettivo.
Lo individuò pochi secondi dopo, afferrandolo tra le mani. Fece scattare l’accendino che teneva di scorta, utile proprio per operazioni del genere: togliere di mezzo ricordi non proprio piacevoli.
D’altro canto, a che gli sarebbe mai potuto servire un invito del genere? Non ci teneva molto ad andare ad assistere Giulia mentre sposava una persona che non se la meritava davvero.
Accostò uno degli angoli del cartoncino alla fiamma scaturita dall’accendino. Pochi millimetri e sarebbero entrati in contatto.
 
E forse partirò per dimenticare, per dimenticarti
E forse partirò per dimenticare, per dimenticarmi
Di te, di te, di te
 
Lo rilesse un’ultima volta, forse memorizzando un po’ troppo bene la data e il luogo dove il ricevimento si sarebbe tenuto. Ma avrebbe fatto in tempo a dimenticarsene, ne era sicuro.
Osservò l’angolo che aveva avvicinato alla fiamma diventare arancione e poi nero, sempre più nero a mano a mano che il fuoco avanzava. Lasciò andare quel che restava del cartoncino nel lavandino, rimanendo a guardarne i resti che diventavano cenere.
Un po’ come sperava sarebbe diventato il ricordo di Giulia.
 
E grazie per l'invito, ma proprio non ce la farò
Ho proprio tanti, tanti, troppi impegni e credo forse partirò
Se avessi più coraggio, quello che io ti direi
Che quell'uomo perfetto, che volevi tu, non l'hai capito mai*
 


-Tante cose, tanti impegni-.
Lorenzo si morse il labbro inferiore, supponendo di non essere risultato molto credibile. Anche se magari era stato tutt’altro che convincente, Giulia non gli chiese comunque nulla di più.
E fu un bene, perché se gli avesse domandato cosa gli avesse fatto cambiare idea fino a portarlo a presentarsi al ricevimento del matrimonio, o come si era sentito nel vederla così perfetta e raggiante quel giorno, non avrebbe assolutamente saputo risponderle.
Ricordava solo che, ad un certo punto, pochi giorni prima della data prevista, si era sentito non più così ostile all’idea di presentarsi laggiù. In fin dei conti lui era stato uno dei primi ad aver dato una mano a Giulia proprio con Filippo: per una minima parte c’entrava anche lui in quel matrimonio, e non era stato nemmeno del tutto sicuro di non voler condividere con Giulia un giorno che, almeno per lei, sarebbe stato indimenticabile.
Indimenticabile lo era stato sicuramente, ma dubitava che ora come ora lei lo ricordasse con lo stesso affetto ed attaccamento.
-Però almeno ho potuto vedere quanto eri bella quel giorno- sussurrò sovrappensiero, quasi più a se stesso che a lei – Ricordo che abbiamo anche ballato insieme-.
Giulia rise appena, con aria nostalgica:
-Lo ricordo-.
Lui lo ricordava bene. Ricordava che quello era anche stato il momento in cui Giulia gli aveva rivelato che era incinta – probabilmente una ragione in più ad averla convinta per il matrimonio.
Era stato forse il momento in cui il cambiamento in lei, da giovane ragazza a donna, era stato più palpabile. Non aveva più rivisto davanti a sé la ragazza liceale insicura e spaventata che conosceva, ma aveva incontrato una donna che ormai aveva determinate esperienze nella vita. E non poteva negare a se stesso che quella versione più matura di Giulia lo aveva intrigato ancor di più.
E continuava a piacergli anche la versione che si trovava davanti adesso, quella stessa donna ferita e traumatizzata. Nonostante le ferite e le contraddizioni apparenti, sapeva che era forte. Doveva solo ricordarsene anche lei, per una buona volta.
-Ricordo bene quel giorno, anche se ormai sembra essere passato un secolo e le cose sono così diverse ora- la ascoltò mormorare, lo sguardo di lei perso davanti a sé – Non è più lo stesso di allora-.
Era una frase che avrebbe per sempre racchiuso due significati per Lorenzo, e sapeva che non sarebbe mai riuscito a capire a quali dei due Giulia si stesse riferendo: erano i tempi ad essere cambiati o era Filippo?
Forse erano entrambe le cose, o forse potevano essercene ancora di più racchiuse in quelle parole.


 
C’erano solo i rumori della televisione accesa a riempire il silenzio del salotto.
Lorenzo lanciò un’occhiata verso la finestra: stava iniziando ormai a fare buio, nel tardo pomeriggio di metà Marzo. Anche se Giulia non gli aveva specificato a che ora avrebbe dovuto prendere il treno, era piuttosto sicuro che mancasse poco all’ora in cui gli avrebbe chiesto di accompagnarla alla stazione.
Distolse l’attenzione dalla finestra pochi secondi dopo, tornando a cercare di concentrarsi sul film che si erano messi a guardare un’ora prima, quando si erano ritrovati entrambi seduti sul divano senza sapere bene come riempire il tempo.
Dopo la loro conversazione Giulia gli era parsa vagamente tesa, forse troppo condizionata dall’aver parlato di divorzi e matrimoni. Gli era sembrata una buona idea proporle di vedere qualcosa, per tranquillizzarla e magari distrarla, e lei aveva accettato di buon grado.
Non si erano più detti molto, a parte alcuni commenti sul film. La verità era che si era ritrovato distratto più di una volta, girandosi appena per lanciarle occhiate fugaci. Forse Giulia se ne era persino accorta, ma non aveva detto nulla. Aveva continuato a tenere gli occhi fissi sullo schermo della tv, e non si era nemmeno allontanata da lui; c’erano pochi centimetri a separarli su quel divano, pochi centimetri che assicuravano comunque sfioramenti e scambio di calore.
Si sarebbe potuta definire una situazione quasi intima.
L’impulso di girarsi lievemente verso di lei ancora una volta fu più difficile da combattere di quel che avrebbe creduto; forse Giulia se ne era davvero resa conto, di quei tentativi di rubare attimi da ricordare, ma non sembrava volerlo fermare. Sarebbero stati solo pochi brevi attimi, giusto per ricordarsi di quella giornata, del fatto che lei era lì con lui, a casa sua – lontana da Filippo.
Quando si girò leggermente verso di lei, in maniera quasi impercettibile, non si sarebbe del tutto aspettato di veder Giulia voltarsi a sua volta. Non cercò di scostare lo sguardo, né di negare che era stato lui per primo a dare il via a quegli sguardi rubati.
E la osservò mentre nemmeno lei abbassava gli occhi, mantenendo invece quel contatto vivo, quasi elettrico. Era uno sguardo indecifrabile, quello di Giulia, occhi verdi simili ai suoi che nascondevano probabilmente molto più di quel che lasciavano trasparire sulla superficie.
Rimasero a guardarsi in silenzio per quelli che a Lorenzo parvero minuti interi, il film in sottofondo ormai dimenticato. Fu allora che decise di parlare:
-Se ti baciassi ora, che faresti?-.
Si era aspettato di leggere sorpresa sul volto di Giulia, forse anche insicurezza, ma se stava provando l’una o l’altra, o entrambe, Lorenzo non riuscì a capirlo.
-Non lo so- rispose lei, in un filo di voce.
Era abbastanza per fargli decidere di farglielo scoprire.
Lorenzo si avvicinò lentamente, lasciandole il tempo di scostarsi o di dirgli di no nel caso avesse voluto. Non ci fu nessuna delle due cose, e Giulia rimase ferma in attesa.
Fu un bacio impacciato, il primo bacio che c’era stato tra di loro. Giulia rimase ancora immobile per qualche secondo, ed anche se Lorenzo aveva chiuso gli occhi per vivere appieno la sensazione delle loro labbra a contatto, sapeva che era combattuta.
Doveva essere un conflitto interno non facile, ma che vide vincitrice la parte che le diceva di lasciarsi andare: dopo qualche secondo rispose infine al bacio, lo approfondì lei stessa, e gli passò un braccio attorno al collo.
Per un attimo Lorenzo si chiese se Giulia stava baciando davvero lui o una proiezione di Filippo, un sostituto con cui fingere fosse ancora con lui.
Non badò a cercare una risposta.
Non quando finalmente era lui che aveva Giulia tra le braccia.
 
*
 
«Sei a casa tua?».
Pietro acuì lo sguardo, cercando di mettere a fuoco le parole del messaggio che aveva appena ricevuto. Non aveva idea del perché Martino avrebbe dovuto fargli quella domanda di giovedì sera, quando era piuttosto logico di per sé che doveva trovarsi a casa.
Digitò velocemente una risposta affermativa, aspettando già con il cellulare in mano un’eventuale risposta dall’altro. Martino era sempre veloce nello scrivere messaggi, ed ancor di più a rispondere se aveva una conversazione attiva: sembrava non poter avere nessun altro pensiero al di fuori di quello, in quei momenti.
Come si era prospettato Pietro, una notifica di un nuovo messaggio lampeggiò nemmeno trenta secondi dopo.
«E sei da solo? Zero impegni?».
Pietro corrugò la fronte ancor di più, rispondendogli di nuovo con un altro sì. Fu tentato di aggiungere una domanda la cui risposta spiegasse a cosa diavolo stesse puntando l’altro, ma si tenne la curiosità per vedere se sarebbe stato Martino stesso a rivelarsi.
Non ricevette alcun altro messaggio dopo quello inviato. Dopo un minuto si decise a riporre il cellulare in un angolo del divano, ristendendovisi di fianco per guardare meglio lo schermo della televisione accesa. Era un noioso giovedì sera, tale e quale al resto della settimana; era rientrato a casa dal lavoro, si era fatto una doccia e cenato come sempre, ritagliandosi poi un po’ di tempo per videochiamare Giada e vedere – almeno virtualmente- Giacomo e Giorgio. Li avrebbe visti direttamente nel weekend, che avrebbero passato lì da lui, ma fino ad allora non sarebbe comunque riuscito a desistere dal fare quelle videochiamate consolatorie.
Erano una quindicina di minuti che si era infine steso sul divano del salotto, deciso a prendersi un po’ di tempo per rilassarsi prima di andare a dormire. Non erano nemmeno le nove, ma già sentiva il suo corpo rilasciare tutta la tensione della giornata lavorativa per arrivare alla stanchezza tipica di quei momenti.
Dovevano essere passati almeno dieci minuti dall’ultimo messaggio ricevuto da Martino, e nel momento in cui stava per trattenere a stento un sonoro sbadiglio, udì il campanello di casa suonare.
Pietro si bloccò all’istante con gli occhi spalancati, la fronte aggrottata in una muta domanda. Rimase steso sul divano ancora qualche secondo, prima di realizzare che il suono del citofono non era stato un sogno ad occhi aperti; si chiese chi diavolo potesse essere a quell’ora della sera, quando era sicuro di non star aspettando nessuno e di non avere alcun impegno preso.
Per un attimo la sua mente balenò ad Alessio: che fosse venuto da lui senza avvisarlo? Forse aveva deciso di uscire dopo cena, accorgendosi però che fuori faceva troppo freddo per rimanere all’aperto troppo tempo. Poteva essersi ritrovato nelle vicinanze ed aver deciso di passare a dargli un saluto.
Pietro si alzò lentamente pensando che quell’ipotesi poteva funzionare. Non gli veniva nessun altro in mente oltre a lui – e in fondo, pur senza ammetterlo, forse un po’ ci sperava lui stesso. Erano passate almeno due settimane dall’ultima volta che si erano visti, causa impegni personali e di lavoro che li aveva costretti a rimandare qualsiasi progetto. Pietro si sentì un po’ colpevole al pensiero, perché negli ultimi weekend si era impegnato ad andare spesso al Celebrità, cercare di ambientarsi il più possibile e sentirsi sempre meno fuori posto.
Arrivò alla cornetta del citofono in pochi passi, e quando la sollevò con un “Sì?” gentile, quasi credette di star impazzendo nel riconoscere una voce maschile che, però, non era di Alessio.
-Oh, me fai salì?- Martino non si premurò nemmeno di dire chi era – Me sto a ghiaccià qui fori-.
Pietro non ebbe nemmeno la forza di ribattere per la sorpresa di cui era rimasto vittima. Si limitò a schiacciare il tasto per aprire il portone del palazzo, rimettere la cornetta al suo posto e poi girarsi verso la porta d’ingresso. La aprì piazzandosi sulla soglia, in attesa.
Martino e la sua chioma ramata arrivarono in vista un minuto dopo, un sorriso spudorato già stampato in faccia. Per un attimo Pietro dimenticò quasi lo stupore del ritrovarselo lì a casa a favore di quello provato nel vederlo senza un filo di trucco.
-Ma che cazzo ci fai qui?- gli chiese, prima ancora di salutarlo.
Martino gli arrivò di fronte con il fiato un po’ affaticato per le scalinate appena fatte:
-Ero ad una cena con amici poco distante da qua- disse, alzando lo spalle – Già che c’ero ho deciso di fare un salto, sia mai che stai qui, tutto solo come un cane a cazzeggià-.
Pietro scosse il capo, incredulo solo in parte. Quando aveva indicato a Martino dove abitava, una settimana prima, era sicuro che quell’informazione non se la sarebbe scordata nemmeno per sogno, e che con ogni probabilità sarebbe capitato di ritrovarselo tra capo e collo senza alcun preavviso – e ci aveva evidentemente azzeccato.
-Mi stavo riposando, visto che domani lavoro- obiettò con un sopracciglio alzato, scansandosi quel che bastava per farlo entrare – Al contrario di qualcun altro-.
Richiudendo la porta d’ingresso, si sentì lo sguardo torvo di Martino addosso:
-Oh, guarda che scrivere la tesi è un lavoro. Un lavoro der cazzo, tra l’altro-.
Pietro trattenne a stento una risata:
-Ma lo devi fare, se vuoi laurearti-.
Ai tempi del dover scrivere la tesi, non ricordava di aver avuto una vita particolarmente intensa quanto quella di Martino, né di aver avuto tutta quell’energia per andarsene fuori la sera a far baldoria con gli amici quasi tutti i giorni.
Si trattenne però dal fargli notare che forse era quello il motivo per cui era fuoricorso, seppur di poco. Era sicuro che a quell’osservazione si sarebbe beccato qualche insulto in romanesco e che difficilmente sarebbe riuscito a tradurre.
-Sì, per poi diventà disoccupato proprio a tempo pieno- sbuffò sonoramente Martino, avviandosi verso il salotto come se fosse a casa sua.
-Come sei tragico-.
Pietro lo osservò girarsi verso di lui con un sorriso serafico:
-E io che ero certo avessi già capito fossi una drama queen-.
 


-Tu stai barando-.
Pietro guardò ancora una volta le carte che teneva in mano, rendendosi conto che Martino stava definitivamente o barando o avendo una fortuna infinita.
Erano alla terza partita di Uno, ed era dalla prima che aveva cominciato a pentirsi di avergli proposto quel gioco dopo aver ritrovato il mazzo di carte in un cassetto del mobile sotto la televisione.
Era quasi anacronistico, a ventotto anni compiuti, ritrovarsi ad innervosirsi come non mai per delle partite ad Uno perse una in fila all’altra.
-Tu stai decisamente barando- ripeté ancora, sbuffando sonoramente. Si rassegnò, dopo un’ultima occhiata alle sue carte: non ce n’era nessuna che potesse garantirgli il successo per quel turno. Si limitò a pescarne una dal mazzo, tirando un sospiro di sollievo nel rendersi conto che l’uno rosso della carta era compatibile con l’uno blu sopra a tutte le carte finora estratte.
-Se sei sfigato non è colpa mia-.
Martino lo stava guardando con il sorriso più pacifico possibile, probabilmente consapevole che avrebbe vinto di nuovo senza fare troppa fatica. Gli rimanevano solo tre carte in mano, decisamente un vantaggio da non sottovalutare contro la decina che Pietro stava faticando a tenere, senza rischiare di farle cadere.
Risolsero la questione qualche mano più tardi, con Martino senza carte in mano e di nuovo trionfante.
-Ammetto che un po’ sculato lo so’ stato, ma te sei proprio ‘na pippa, eh- commentò tra le risate, osservando Pietro che aveva appena lanciato le ultime carte rimanenti sul tavolino del salotto.
Si buttò indietro contro lo schienale del divano, passandosi le mani sulla faccia:
-Facciamo una pausa, va’- borbottò, cercando di nascondere la poca sportività con cui stava prendendo tutte quelle sconfitte – E non chiamarmi pippa, che posso sempre buttarti fuori da casa mia-.
-Me stai a minaccià?- lo incalzò Martino, con aria di sfida.
Aveva un’aria quasi infantile, visto da quella prospettiva, seduto a gambe incrociate sopra il tappeto che copriva il pavimento del salotto, i ricci rossi a cadergli disordinatamente sulla fronte e gli occhi verdi pieni di divertimento. Era un’immagine tenera, totalmente contrapposta a ricordi lascivi che Pietro aveva dei baci che avevano cominciato a scambiarsi quando si vedevano, senza chiedersene troppo i motivi.
-Può darsi-.
Martino rise ancora, mentre si alzava in piedi per andare a raggiungerlo sul divano. Pietro fece appena in tempo a recuperare il telecomando abbandonato lì accanto, prima che Martino si lasciasse cadere proprio in quel punto.
Non erano nemmeno le dieci di sera, la televisione che aveva continuato a rimanere accesa ed ignorata durante la loro sessione di gioco. Era rimasta su un canale all news, e Pietro non ci mise più che qualche secondo per iniziare a fare zapping, alla ricerca di qualcosa di più interessante.
-Oh, lascia lì!-.
Martino gli posò persino una mano sul polso per rafforzare le sue parole, quasi temesse che Pietro potesse cambiare canale a tradimento. Erano su uno dei canali di cinema, e sebbene il film che stavano mandando in quel momento sembrava già iniziato, Martino aveva negli occhi uno sguardo pieno d’entusiasmo che convinse anche Pietro a non andare avanti con il suo zapping.
-È bello sto film- commentò Martino, incrociando le gambe sopra il divano – Mai visto?-.
Pietro annuì, riconoscendo nella scena che stava passando in quel momento – una sequenza di Brad Pitt, impegnato a guidare per le strade di Hollywood con Bring a little lovin’ in sottofondo a dare maggior vita al tutto-, forse una delle più iconiche del ritratto losangelino degli anni ’60 che era Once upon a time in Hollywood.
-Sì, un paio di volte-.
Per un attimo si chiese se anche lui avrebbe attraversato quelle stesse strade di Los Angeles, quando sarebbe partito qualche settimana dopo. Non ci si era ancora soffermato con il pensiero, prima di quel momento, forse ancora rendendosi poco conto di ciò che lo stava aspettando.
-Sembra che andrò a Los Angeles il prossimo mese-.
Pietro lo disse quasi senza pensarci, come se stesse parlando più a se stesso che a Martino. Quando però calò il silenzio, e si girò verso l’altro, lo trovò a fissarlo con occhi sgranati ed increduli.
-Ma che davero?-.
Si ritrovò a ridere di fronte alla sincera sorpresa dell’altro. Annuì prima ancora di decidere cosa dirgli.
-Sì, davvero. Me l’ha proposto un mio amico- spiegò, schiarendosi la voce – Lui ci va per lavoro, e mi ha chiesto se volevo accompagnarlo-.
Martino alzò un sopracciglio, guardandolo con fare dubbioso:
-Ah, un amico- ripeté, con tono allusivo – Ma amico amico, o un amico particolare?-.
Non era una domanda proveniente da una persona gelosa, e questo Pietro riuscì ad intuirlo facilmente: era curiosità quella che aveva spinto Martino a chiederglielo, forse perché era la prima volta che gli nominava qualcuno dei suoi amici.
Cercò di apparire sciolto, sperando di non arrossire: era difficile inscatolare Alessio e tutto ciò che rappresentava nella sola parola di amico, ma poteva perlomeno pensare che fosse uno dei tanti aggettivi con cui poterlo descrivere.
-Un amico- confermò, a mezza voce – Ci conosciamo da quando eravamo ragazzini al liceo-.
Martino fischiò sonoramente:
-Un bel po’ di tempo-.
“Fosse solo questione di tempo”.
Pietro si limitò ad annuire in silenzio.
Non era stata del tutto sua intenzione finire per parlare di Alessio. Non quella sera, almeno, e non in quel modo. Non si era davvero chiesto se ne avrebbe mai parlato a Martino – senza nascondergli cos’altro fosse per lui Alessio-, ma in quel momento capì di non essere affatto pronto per farlo.
-Deve aver un buon lavoro per andare pure negli States- continuò l’altro, come se niente fosse. Non doveva ancora aver percepito il suo disagio, o forse stava solo cercando di spingerlo a parlare per poterlo comprendere. 
Pietro si ritrovò ad alzare le spalle:
-Direi che non se la passa male. Ma se lo merita, il suo lavoro se l’è sudato-.
-Tipo ambizioso?-.
Annuì di nuovo, trovando quasi ironico definire Alessio solamente ambizioso. La sua era un’ambizione che era sfociata in puro egoismo per tantissimo tempo, ma preferì tacere quel dettaglio.
-Molto- disse ancora, lasciandosi sfuggire un sorriso malinconico – È quel tipo di persona che se si fissa su una cosa prima o poi ci arriverà. Senza l’aiuto di nessuno-.
-Sembra quasi che l’ammiri- mormorò Martino, osservandolo attentamente.
Pietro non si sarebbe definito con quell’aggettivo, non esattamente, ma preferì non correggerlo:
-Diciamo che avrebbe fatto bene anche a me essere così determinato- sussurrò, abbassando per qualche secondo lo sguardo – Anche se a volte la sua ambizione l’ha reso un po’ cieco su altre cose-.
-Tipo?-.
Pietro si morse il labbro inferiore, consapevole di essersi lasciato sfuggire un po’ troppo. Era spesso così con Martino: gli risultava così facile confidarsi, così naturale, che si accorgeva solo dopo di non essere del tutto volenteroso di affrontare certe parti della sua vita, certe cose che persino lui stesso, nel segreto della sua mente, faticava a processare.
Alessio era una di quelle cose. Lo sarebbe sempre stato, per quanto ritrovato potesse essere il loro rapporto.
-È un po’ lunga da spiegare-.
Sapeva, pur avendo scostato lo sguardo, che Martino lo stava osservando. Non stava dicendo nulla, limitandosi a rimanere in silenzio, forse intuendo ci fosse molto altro dietro a quelle poche parole.
Per un attimo Pietro temette di essere sembrato troppo negativo nel delineare l’immagine di Alessio. Non aveva idea se lui e Martino si sarebbero mai incontrati, ma l’ultima cosa che voleva era farlo passare per qualcuno da cui prendere le distanze.
-Comunque è una brava persona- si affrettò ad aggiungere, passandosi la lingua sulle labbra insecchite per inumidirle –  È dolce a modo suo. Mi ha aiutato per un sacco di cose da quando ci conosciamo-.
Quando si voltò verso Martino lo vide annuire di fuggita, segno che lo stava ascoltando – che lo stava spronando a proseguire.
-Mi ha dato una mano enorme anche per preparare l’esame per diventare giornalista professionista- Pietro fu consapevole di non essere riuscito a trattenere il mezzo sorriso che gli piegò le labbra – Non so se l’avrei passato se non mi avesse aiutato a studiare e ripassare-.
Era fin troppo semplicistico quel modo di parlare di Alessio, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito fino in fondo a trovare le parole adatte per farlo.
E forse se ne stava rendendo conto anche Martino, se la sua espressione riflessiva e incuriosita poteva esserne indice.
-Gli voglio bene-.
Pietro lo disse con convinzione. Era ciò che provava davvero – voleva bene ad Alessio-, per quanto, per un lungo attimo, provò la sensazione che quelle parole fossero un po’ troppo strette.
-E so che lui ne vuole a me-.
“Solo in un modo diverso da come gliene ho voluto e come gliene voglio io”.
Aveva sussurrato quelle parole come se si fosse ritrovato insicuro nel pronunciarle. Forse era un’insicurezza dovuta alla consapevolezza che le stesse parole dette per lui e per Alessio avevano significati e sfumature infinitamente diversi.
-Interessante- la voce di Martino interruppe il silenzio che si era creato per qualche secondo – È il primo amico di cui parli da quando ci conosciamo-.
Pietro annuì, gli occhi scuri persi nel vuoto davanti a sé.
-Forse perché nel bene e nel male è il più importante per me-.
Anche se non poteva vederlo in viso, e non poteva nemmeno sapere cosa stesse pensando, ebbe la sensazione netta che a quelle parole Martino avesse capito definitivamente cosa aveva sottinteso per tutto quel tempo.
 
*
 
Sorseggiò un altro po’ di vino dal calice, prima di posarlo di nuovo sul tavolino di vetro, facendo attenzione a non farlo tintinnare troppo nel momento di appoggiarlo.
Pietro lanciò un’occhiata concentrata sulla scacchiera, rendendosi conto che l’alcool non lo stava aiutando molto a dargli spunti di strategia. A Martino bastavano solo poche altre mosse – o forse anche solo una ancora- prima di poter dichiarare scacco matto.
Cosa che fece il secondo dopo, con un sorriso trionfante che faceva presupporre l’ennesimo commento sulla sua superiorità in qualsiasi gioco.
-Te l’ho già detto, ma te lo ripeto: sei proprio ‘na pippa-.
“Come volevasi dimostrare”.
Pietro lo guardò malamente, sbuffando:
-Non ci giocavo da tipo dieci anni-.
Aveva perso la cognizione del tempo, ormai. Di certo avevano impiegato un po’ per concludere quella disastrosa – almeno per lui- partita a scacchi. Era stata un’idea di Martino, non appena aveva saputo che Pietro teneva ancora una scacchiera in casa. Avevano iniziato a giocarci non molto tempo dopo da quando si erano seduti entrambi sul divano; Martino aveva insistito così tanto che Pietro non aveva avuto cuore per dirgli di no.
Ora che però l’ennesima sconfitta gli stava bruciando, cominciava seriamente a pentirsene.
-So’ tutte scuse, tutte scuse- Martino, sedutogli accanto, rise divertito – Ammetti che sono più bravo di te nel giocare e basta-.
Pietro scosse il capo, la seccatura della sconfitta attutita dal sorriso allegro dell’altro:
-Se sei fortunato nel gioco, sei sfortunato in amore?-.
Si morse il labbro inferiore subito dopo aver fatto quella domanda, chiedendosi se aveva osato troppo. Martino non aveva ancora fatto alcun riferimento a possibili ex fidanzati, né a storie particolari di innamoramenti passati. Non aveva idea se quello potesse essere un argomento delicato o meno.
Sospirò profondamente, consapevole che il vino lo stava facendo diventare un po’ troppo spavaldo. Poteva essere una cosa positiva come una negativa, esattamente come nel caso appena accaduto.
Girandosi verso Martino, però, non lo trovò particolarmente sconvolto: lo stava invece guardando con un ghigno malizioso, il labbro inferiore catturato tra i denti.
-Tu invece sei fortunato?-.
A Pietro bastò pensare ad Alessio per avere la risposta pronta:
-Non direi-.
Lo disse sorridendo, seppur con una nota di velata malinconia che però Martino sembrò non cogliere. Forse anche nel suo caso l’alcool aveva leggermente annebbiato la ragione, rendendolo un po’ più cieco a quelle sfumature dello sguardo di Pietro che, ne era sicuro, in altre occasioni avrebbe colto subito, soprattutto dalla distanza ravvicinata a cui si trovavano.
Martino si sporse appena verso di lui, sorridendogli di rimando con maliziosità:
-Forse un po’ lo stai diventando-.
L’alcool doveva avergli annebbiato anche i riflessi, perché nel muoversi e annullare la poca distanza che rimaneva tra loro, andò a sbattere con il ginocchio destro contro alcune pedine. Pietro trattenne il fiato per alcuni secondi, osservandole cadere pericolosamente vicino ai due calici di vino che ancora non avevano finito.
-Cazzo, c’è mancato poco- Martino si era girato a sua volta, posando una mano sulla gamba di Pietro per bilanciarsi.
Nonostante il fiato appena trattenuto, Pietro iniziò a ridere, sinceramente divertito dall’espressione piena di panico dell’altro.
-Appunto, spostiamoci prima che mi sporchi il tappeto-.
Se lo trascinò addosso di peso, guidandolo più che poteva per districare entrambi dallo stretto spazio che divideva il tavolino dal divano senza fare altri danni. 
Avvertì il calore del respiro di Martino contro il collo, ancora appiccicato a lui mentre finalmente riuscivano a mettersi in piedi, a pochi metri da dove si trovavano – ma ad una distanza di sicurezza dal vino che rischiava di finire versato ovunque.
-Ah, mo’ ti preoccupi per il tappeto?-.
Quando abbassò di poco lo sguardo per poterlo osservare in viso, ritrovò la stessa espressione che Martino aveva la sera del loro primo bacio.
Erano passate un po’ di settimane da quel momento – e c’erano stati altri baci, altri scambi che Pietro aveva accettato con fervore, con naturalezza, con una sensazione di liberazione a cui si stava assuefacendo.
C’era elettricità tra di loro, tra i loro corpi. Era un’energia che aveva percepito sempre più materialmente nel tempo in cui erano rimasti seduti uno accanto all’altro, sfiorandosi a volte per sbaglio ed altre volte in maniera più calibrata, quasi a voler implicitamente alimentare quella tensione che stava crescendo.
Ora che erano in piedi, e che ancora stava tenendo Martino davanti a sé – contro di sé- riusciva ad avvertire quell’elettricità ancor di più.
-Sta zitto- gli intimò, non riuscendo però ad apparire convincente.
Martino rise ancora, in un modo così naturale che Pietro non pensò nemmeno per un attimo che potesse sentirsi a disagio, o che volesse interrompere quel loro contatto. Era una cosa nuova, mai successa nelle volte precedenti in cui si erano baciati di nuovo, ma era qualcosa che, si ritrovò a pensare, nemmeno lui voleva finisse.
-Potrei dire una cosa molto cliché, ma … -.
Martino non riuscì a concludere la sua frase, perché Pietro mise in pratica – o almeno così presupponeva- ciò che era stato sul punto di dire. Aveva annullato completamente le distanze, baciandolo in maniera quasi timida, almeno per i primi secondi.
Perse la cognizione del tempo e dello spazio in pochi secondi, quando il bacio si fece più profondo, più coinvolgente, le braccia di Martino che ora erano passate dietro al suo collo per attirarlo ancora di più verso di sé.
Pietro si allontanò di pochi centimetri poco dopo, a corto di fiato. Sapeva che doveva essere rosso in viso e con le labbra lucide e gonfie esattamente come Martino.
-Andiamo di là-.
Per qualche secondo ci fu solo silenzio, interrotto solo dal loro respiro affannato. Furono in quegli attimi di silenzio che Pietro prese reale coscienza di quel che aveva appena detto – di quello che le sue stesse parole stavano sottintendendo.
Non si era aspettato di dirlo a voce – forse nemmeno di pensarlo-, ma l’aveva fatto ed ora che riascoltava nella sua mente ciò che aveva appena detto, gli sembravano parole naturali, come se la sua amicizia con Martino non potesse sfociare in nessun altro modo se non quello.
Si sorprese nel rendersi conto che non provava alcun istinto di fermarsi, né di correggersi, né di fare nessun altra cosa che potesse far passare l’idea che se ne fosse già pentito.
Gli occhi di Martino si erano fatti di un verde scuro, una sfumatura intensa che non gli aveva mai visto. Era sorpreso, Pietro lo poteva percepire, ma non aveva allentato la presa né aveva provato ad allontanarsi. Lo osservò umettarsi le labbra, prima di lasciarsi andare ad un sorriso malizioso:
-Non ero venuto qua aspettandomi un risvolto simile, ma non so’ tipo da lamentamme-.
Neanche Pietro se ne stava lamentando. Si sentì impacciato mentre trascinava Martino lungo il corridoio, sempre più lontani dal salotto e più vicini alla camera da letto.
Non si fermò nemmeno ad accendere le luci. Forse le avrebbe accese più tardi, o forse avrebbe continuato a preferire quel velo d’oscurità che poteva celare le sue gote arrossate, e la sua espressione interrogativa nei momenti di vuoto.
Era da tempo che non gli capitava una situazione simile, e per quanto la desiderasse – per quanto stesse riuscendo a mettere da parte tutti i tabù e le recinzioni che si era autoimposto negli anni-, si sentiva altrettanto arrugginito. Sperava che, in un qualche modo, Martino non se ne rendesse troppo conto.
Lo stava baciando con trasporto, senza fermarsi, nemmeno quando guidato da Pietro arrivarono ai bordi del letto.
Solo in quel momento, resosi conto di quanto reale stava diventando quello scenario che fino ad allora aveva solo sporadicamente immaginato, Pietro si staccò da lui. Ansimò per la mancanza d’aria, per la testa che girava ed il cuore che batteva a mille, ma non staccò le mani dal corpo di Martino.
-Non l’ho mai fatto con un altro uomo-.
Aveva sperato di dirlo il più veloce possibile, ma invece quel che gli uscì fu una frase piena di lentezza, come se avesse studiato a fondo ogni parola prima di pronunciarla.
Avvertì Martino prendergli il viso tra le mani, dolcemente:
-C’è una prima volta per tutto, no?-.
“Certo che c’è”.
Non lo disse ad alta voce, però. Pietro si avvicinò di nuovo, sfiorando le labbra dell’altro con più lentezza rispetto a prima. Fu quasi strano assaporare quel lento incontro dopo averlo baciato con fervore fino a qualche attimo prima, senza quasi nemmeno riuscire ad orientarsi per la distrazione che Martino rappresentava.
Si lasciò guidare mentre Martino si sedeva sul bordo del letto, spingendolo ad imitarlo. Le mani di Martino scesero lungo il collo e le spalle, accarezzando la pelle ancora coperta dai vestiti, in gesti sicuri. Anche Pietro avvertì l’impulso di portare le proprie mani sull’altro, sfiorandogli i fianchi e scostando appena l’orlo del maglione, incontrando in poco tempo la pelle calda.
-Vuoi fermarti?-.
Stavolta era stato Martino a scostarsi, le sue mani ancora sulle spalle di Pietro. La sua voce era risultata meno giocosa di prima, più seria – forse seria come non l’aveva mai sentita.
Per qualche secondo Pietro tacque. Ricordò quando si era ritrovato nella stessa situazione con Fernando, e anche quando stava oltrepassando quel limite con Alessio – la notte di quel maledetto bacio che li aveva portati lontani, più che vicini.
In entrambi i casi c’era stato qualcosa di meno, qualcosa che gli aveva impedito di sentirsi libero fino in fondo. Si ritrovò consapevole che stavolta era totalmente diverso: non c’erano Giada, Alice e i sensi di colpa a poterlo fermare, e nemmeno più la vergogna e il rifiuto per se stesso con cui aveva convissuto troppo a lungo. C’era solo voglia di rivalsa, ora, voglia di viversela senza troppi pensieri.
Scosse la testa ancor prima di rispondere:
-No-.
Seppur al buio, riuscì a notare i contorni del sorriso che Martino gli stava rivolgendo.
-E allora non fermiamoci-
 
*
 
C’era un’aria rilassata tra le quattro pareti della stanza da letto.
Era una sensazione che non si sarebbe del tutto aspettato, si ritrovò a ponderare Pietro. Era un rilassamento che comprendeva mille altre sfumature – euforia, incredulità, anche felicità per aver superato quell’ultimo tabù, quel passo che si era ritrovato a sognare di compiere con Alessio e che per poco non aveva oltrepassato con Fernando.
Non era successo con nessuno di loro due, ma era un dettaglio su cui, almeno al momento, credeva di poter soprassedere.
Stese un po’ di più le gambe, ingrovigliate tra le coperte pesanti e le lenzuola sfatte, la schiena appoggiata contro la testiera del letto. Si sentiva le membra pesanti, come se avesse corso per chilometri, appiccicoso di sudore e fluidi corporei.
Nella fioca luce lunare che entrava dai vetri della finestra, riusciva a distinguere le forme del corpo di Martino, disteso di fianco a lui, i capelli rossi scompigliati, la nudità coperta solo da un lenzuolo – per un attimo Pietro si chiese come facesse a non avere freddo.
-Ammettilo, t’ho svortato la serata-.
Pietro rise, anche se la sua intenzione era stata quella di apparire almeno in parte offeso:
-La smetti di tirartela? Ad una certa rischia di rompersi-.
Anche Martino rise, il suono cristallino della sua risata che riempì la stanza per diversi secondi.
-Tanto lo so che t’è piaciuta l’esperienza-.
Pietro non rispose. Sapeva che non ce n’era affatto bisogno, e che Martino avrebbe capito il perché del suo silenzio.
Sorrise tra sé e sé, in maniera impercettibile, forse addirittura impossibile da notare nel buio della nottata.
Stentava ancora un po’ a credere fosse successo davvero, ma la realtà attorno a sé lasciava pochi dubbi. Poteva toccare con mano le conseguenze a cui aveva portato la sua proposta di spostarsi in camera da letto – era difficile non notare Martino così spoglio, o fare finta di non ricordare com’era stato poco prima.
Lo sentì muoversi accanto a lui, sedersi a sua volta. Anche se poteva notare poco l’espressione del suo viso, avvertì lo sguardo di Martino su di sé, sfiorargli le spalle e il petto nudi.
-Ok, mo’ te faccio una domanda davvero seria: tutto ok?- Martino gli sfiorò il braccio con una mano, delicatamente – Non è che sei rimasto traumatizzato o cose così, vero?-.
Stavolta Pietro rise di gusto:
-No, non direi-.
Rise ancora, e rise con sincerità. Rise ancor di più al pensiero che, a ritrovarsi in una situazione simile anche solo un anno prima, sarebbe rimasto scioccato eccome.
-È stato bello-.
Lo disse con un filo di voce, quasi si vergognasse – e si ritrovò davvero ad imbarazzarsi, nel ricordare ciò che lui e Martino erano stati in grado di fare e dirsi fino a un quarto d’ora prima.
Per un attimo pensò a come sarebbe stato raccontarlo a Fernando, dirgli che finalmente si era spogliato anche di tutte le sue paure e delle sue insicurezze. Sapeva che gli avrebbe sorriso felice, e forse – ovunque fosse- lo stava facendo sul serio. Quasi gli sembrò di sentire la sua voce dirgli che, finalmente, non aveva rinunciato ad una sana scopata con un ragazzo per paura di sentirsi troppo gay.
-Non così tanto diverso dal farlo con una donna-.
Stavolta fu Martino a ridere, senza alcun nervosismo nella voce come invece c’era stato poco prima. Sembrava tranquillo ora che aveva avuto la conferma che era tutto a posto.
-Su questo punto nun te lo posso assicurà, ma se lo dici tu mi fido- replicò, lasciandosi scivolare indietro, contro la testiera, mentre riprendeva fiato.
Per un po’ nessuno di loro due disse nulla, ma il silenzio che era calato, si ritrovò a pensare Pietro, non era fastidioso come si sarebbe aspettato. Era un silenzio naturale, come se fosse addirittura necessario, come se servisse ad entrambi per riordinare i pensieri, ripercorrere ricordi recenti, pensare a quel che sarebbe potuto venire dopo.
Di nuovo Pietro si stupì di quanto calmo si sentiva. Non aveva preoccupazioni, nulla che lo facesse sentire con l’ansia a bloccargli la bocca dello stomaco, nessun groppo in gola a rendergli difficile modulare le parole. Non ricordava l’ultima volta che si era sentito così. Forse non c’era mai stato un altro momento simile.
-Lo sai che non dobbiamo per forza mettere etichette su questa cosa che abbiamo avuto, vero?-.
La voce di Martino parve poco più di un sussurro, come se fosse davvero esitante, come se stesse cercando di ponderare ogni singola parola. Si schiarì la gola prima di aggiungere:
-Possiamo essere amici che ogni tanto, se capita, condividono anche altro oltre ad uscire e cazzeggiare insieme-.
Pietro annuì, rendendosi conto solo qualche secondo dopo che probabilmente Martino non poteva vederlo:
-A me va bene così-.
Si girò meglio verso di lui, sorridendo nella quasi totale oscurità della stanza. Forse Martino non poteva vederlo bene in volto, ma sperava che potesse percepire il suo sorriso attraverso la sua voce.
-Non credo sarei riuscito a fidarmi così di qualcun altro-.
“Non credevo sarei riuscito a fidarmi ancora di qualcuno che non fosse Fernando”.
Sentì un groppo alla gola che gli impedì di aggiungere qualsiasi altra parola, nonostante in quel momento avesse la mente piena di pensieri. Quando avvertì una mano di Martino sulla sua spalla, prese un respiro profondo e decise definitivamente di rimanere in silenzio.
Capì che non c’era nient’altro da aggiungere: bastavano quelle parole appena pronunciate.
-Sono contento che ti senta a tuo agio, sul serio-.
La voce di Martino si era fatta dolce, in un modo che a Pietro ricordò il loro primo incontro, quando l’aveva guidato e fatto sentire meno solo in mezzo ad un posto che, per lui, in quella serata, equivaleva ad una foresta sconosciuta e in cui si sarebbe perso fin troppo facilmente.
Non dissero nient’altro ancora per qualche minuto, prima che Martino facesse schioccare sonoramente le labbra:
-Quindi non escludi di ripetere l’esperienza?-.
Si era fatto di nuovo sfacciato, evidentemente sul punto di scoppiare a ridere alle sue stesse parole. Pietro, al contrario suo, non seppe trattenersi.
-No, non direi che lo escludo- ammise, tra le risate leggere.
Avvertì Martino fare un verso d’esclamazione, esagerato e teatrale quanto evidentemente finto:
-Allora t’è piaciuto pe’ davero, oh!-.
Pietro non ci pensò due volte prima di sfilarsi il cuscino che aveva sotto la schiena, e buttarlo addosso all’altro:
-Piantala-.
Ascoltò la risata cristallina di Martino riempire la stanza. Un suono che, ne era sicuro, avrebbe associato per sempre a quella libertà che, finalmente, era diventata anche sua.
 
*
 
Quello spazio e quelle pareti vuote stavano diventando sempre più famigliari.
Un po’ il contrario di quello che, invece, stava accadendo in quella che aveva sempre definito casa sua, e da cui si era dovuta allontanare quel giorno prima di cedere ai ricordi.
Stavolta da Lorenzo si era fatta versare direttamente qualcosa di alcolico, un vino rosso che in realtà non le piaceva nemmeno troppo, ma che le rendeva la testa leggera e vuota – l’effetto che aveva sperato di ottenere. Non importava il sapore leggermente amaro che le lasciava sulle labbra ed in bocca: l’importante era non ricordare.
Continuò a ticchettare il piede a terra, seduta sullo stesso divano dove, otto giorni prima, Lorenzo l’aveva baciata la prima volta.
Forse era stato proprio quel gesto a rompere quella pellicola di imbarazzo che si era sentita addosso le prime volte che si erano incontrati. Era sempre mancato qualcosa, nonostante si fosse aperta più con lui che con chiunque altro, ma le cose erano cambiate.
Era cambiato il suo modo di comportarsi attorno a lui, e ne stava avendo la prova quella domenica pomeriggio, dopo aver passato una settimana senza vederlo. Non le sembrava più di dover camminare in punta di piedi in sua presenza, di essere cauta; era come se quel bacio le avesse tolto di dosso il torpore in cui era caduta da quando aveva scoperto che Filippo l’aveva tradita. Una scoperta avvenuta esattamente due mesi prima.
Quando lo ricordò, per l’ennesima volta da quando aveva aperto gli occhi quella mattina, si portò di nuovo il calice alle labbra per bere un generoso sorso di vino.
-È una sensazione mia o sei nervosa?-.
Giulia si ritrovò ad abbassare il calice solo nel sentire la voce di Lorenzo rivolgerle quella domanda. Era sicura che il vino le avesse tinto le labbra ancor più di rosso, e che l’occhiata breve che Lorenzo le aveva lanciato proprio lì fosse indice di quanto fosse tentato di baciarla ancora. Non l’aveva ancora fatto, neanche quando era venuto a prenderla al binario dove si era fermato il suo treno. Si erano salutati come sempre, come se nulla fosse successo – quando invece era successo tutto.
-Lo sono-.
Sbuffò sonoramente, incapace di trattenersi oltre nella sua frustrazione:
-Oggi sono due mesi- mormorò ancora, con voce a malapena udibile.
Lorenzo alzò un sopracciglio:
-Da cosa?-.
Giulia si costrinse a non bere ancora. Sentiva già la testa girare per la fretta con cui aveva bevuto e per averlo fatto praticamente a stomaco vuoto.
Era una sensazione che le ricordava quella provata la notte di due mesi prima, quando di nascosto aveva cercato nella sacca da palestra di Filippo per cercare qualcosa che all’epoca nemmeno lei sapeva cosa.
Aveva iniziato quel nuovo periodo della sua vita con la testa che le girava ed uno squarcio di dolore aperto in pieno petto, in un arco di tempo che le sembrava essere molto più lungo di quel che in realtà era. Erano passati solo due mesi, ma le sembravano già due eternità.
-Da quando ho scoperto che Filippo mi tradiva-.
Stavolta non riuscì a reprimere l’impulso di bere. Mandò giù le ultime dita di vino rimaste, posando poi il calice ormai vuoto sul tavolino da caffè a pochi metri dal divano. Non si girò nemmeno a guardare Lorenzo: forse cominciava a sopportare poco il suo continuare a parlare di Filippo. Anche se era stata questione di secondi, ricordava come una settimana prima l’avesse notato irrigidirsi mentre l’ascoltava, mentre gli diceva che ancora non aveva idea se e quando chiedere il divorzio.
A quel pensiero, ricordando quella questione ancora aperta, sentì il bisogno di altro alcool. Non lo chiese, però, né disse altro.
-Ti ricordi la data?- le chiese dopo alcuni secondo Lorenzo, una vaga vena di sorpresa a riempirgli la voce.
Giulia sbuffò di nuovo, continuando a non rivolgergli lo sguardo:
-Purtroppo per me ricordo tutto, anche se non vorrei-.
Sospirò pesantemente, consapevole della sincerità di quelle parole.
Avrebbe potuto raccontare quella notte di due mesi prima in ogni singolo dettaglio, e avrebbe potuto farlo anche nel riportare a parole com’era stato parlare con Filippo il giorno dopo.
L’unica cosa che avrebbe voluto avere ancora con sé erano i ricordi felici della loro vita insieme, ma nemmeno quelli erano potuti scampare alla lordura portata dagli ultimi eventi.
-Vorrei solo dimenticarmene, anche solo per poco- sussurrò con voce a malapena udibile.
Percepì una mano di Lorenzo sulla propria spalla, mentre la muoveva per accarezzarla in un gesto di vicinanza:
-Mi dispiace- le disse.
Avrebbe voluto sentirsi dire quelle parole da qualcun altro, in quella giornata, ma la verità era che lei e Filippo quel giorno non si erano ancora scambiati nemmeno una parola. L’aveva evitato più del solito, con ogni sua energia, consapevole che sarebbe stata troppo dura vederlo proprio in quella data.
-È solo che odio questa sensazione-.
“Questa sensazione di sporco”.
Quando avvertì l’altra mano di Lorenzo sulla sua guancia, calda contro la sua pelle, non oppose resistenza e ne seguì il movimento, girandosi verso di lui mentre veniva guidata dal movimento fluido della sua mano.
Capì che l’avrebbe baciata nel momento stesso in cui incrociò le sue iridi verdi: la stava guardando con desiderio, per niente nascosto.
Lo lasciò avvicinarsi, e avvertì le labbra di lui posarsi di nuovo sulle sue. Fu una sensazione simile a quella che l’aveva investita otto giorni prima, anche se diversa nella poca sorpresa. Stavolta si era aspettata che succedesse, e ne aveva accettato l’idea già ben prima che quel momento arrivasse.
Non si era posta domande sul loro primo bacio – ne aveva già troppe, senza aggiungerne altre alle quali, in ogni caso, non avrebbe saputo rispondere con precisione-, e non se ne pose nemmeno ora. Lasciò che Lorenzo la baciasse, con trasporto crescente, e fu lei stessa a decidere di approfondire il bacio.
Si allontanarono di poco, ansimanti, un paio di minuti dopo.
-Va meglio così?- Lorenzo le chiese in un filo di voce.
Giulia non rispose nemmeno. Si limitò ad avvicinarsi di nuovo, mordendogli appena il labbro inferiore prima di baciarlo di nuovo.
Erano mesi che non baciava qualcuno, mesi che non baciava qualcuno in quella maniera così famelica. Cercò di allontanare il pensiero che non fosse Filippo la persona che stava baciando: era facile non pensarci mentre teneva gli occhi chiusi, ma era difficile non rendersene conto con la barba di Lorenzo che le pizzicava la pelle, procurandole prurito e arrossandola.
Tenne gli occhi chiusi anche quando Lorenzo fece per sollevarla dal divano, spingendola a mettersi in piedi. Il percorso dal salotto a quella che doveva essere la camera da letto fu breve, o almeno fu così che Giulia lo percepì. Un cammino che durò pochi secondi, pochi passi, una distanza risibile che volò in una manciata di attimi.
Nel toccare il materasso, lasciandosi andare e stendendovisi sopra, ebbe solo un momento di esitazione.
Ce l’aveva avuto anche Filippo, quando aveva baciato un’altra per la prima volta? Ne aveva mai avuto coscienza, in una qualsiasi delle volte in cui l’aveva consapevolmente ferita alle spalle?
Ricordò solo in un secondo momento che per lei era diverso. Che non doveva più nulla a Filippo già da due mesi, che non gli doveva più alcuna fedeltà perché, semplicemente, non c’era più un loro insieme.
Non fermò Lorenzo, e non fermò nemmeno se stessa.
 


C’era una strana calma che aleggiava intorno a loro, così contraddittoria e che contrastava molto quel che era successo solo poco prima.
Giulia si strinse nelle spalle, immergendosi un po’ di più nelle coperte che le coprivano il corpo nudo.
Si guardò intorno, non riconoscendo la sua stanza nel suo appartamento; la stessa sensazione che provò nel girarsi e intravedere il viso di Lorenzo, addormentato sopra il cuscino, a pochi centimetri da lei.
Non aveva idea di che ore fossero, né aveva idea di quanto avesse dormito. Sapeva solo che la spossatezza aveva avuto la meglio su di lei, e si era lasciata andare al sonno almeno per un po’. Doveva essere stato lo stesso per Lorenzo, che ora giaceva ancora con gli occhi chiusi e il respiro regolare.
Giulia richiuse gli occhi per qualche secondo.
Poteva immaginare di essere ancora nella sua stanza da letto – quella sua e di Filippo-, tenendo le palpebre abbassate. Era più facile riuscire a ricreare scenari famigliari nel buio delle sue palpebre calate, ma era anche più facile ricordare.
Tenendo gli occhi chiusi avrebbe potuto quasi fare finta che fosse stato Filippo a toccarla fino a poco prima, che fosse lui l’uomo addormentato accanto a lei. Era un pensiero che la faceva sentire meno colpevole, una sensazione che stava odiando perché non aveva alcun motivo per sentirsi così.
Era stato più difficile, invece, soprassedere sui gesti così diversi che invece aveva compiuto Lorenzo: erano diverse le mani, più grandi e nodose, che le avevano fatto scivolare i vestiti dal corpo, che l’avevano toccata e accarezzata. Erano diverse persino nei gesti, più veloci e frettolosi, a tratti voraci, così contrastanti con quelli di Filippo, che ricordava dolci.
Filippo era sempre stato dolce, anche nei momenti di passione più alta – ma era stato lui a far finire tutto, lui a preferire qualcun altro a lei.
C’era un corpo meno giovane, meno affilato, nel letto con lei – un corpo che avrebbe potuto avere anche Filippo tra un po’ di anni, quando avrebbe avuto la stessa età di Lorenzo in quel momento.
Era stato diverso perché era stata con una persona diversa per la prima volta nella sua vita, e forse era esattamente ciò che aveva cercato fino a quel momento: un’opportunità per sentirsi ancora desiderata, per avere una rivalsa, per non sentirsi più legata a Filippo con un doppio filo.
Lorenzo le aveva dato quella possibilità, e lei se l’era presa.
Giulia sospirò pesantemente, il pentimento che strisciava piano in un angolo remoto della sua mente, sotto i pensieri che le dicevano che non aveva sbagliato a fare nulla, che era suo diritto frequentare qualcun altro dopo un matrimonio fallito.
Non era l’unica strada che aveva per dimenticare, ma era quella più breve, quella che non doveva percorrere per forza da sola.
Mise a tacere anche l’ultima voce che le diceva di andarsene.
 
 





*il copyright della canzone (Zero Assoluto - "Per dimenticare") appartiene esclusivamente alla band e ai suoi autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Alla fine qualcosa è successo 👀 nuovi incontri tra Lorenzo e Giulia, tra cui scatta il bacio e non solo … Ve l'aspettavate? Siete contenti di questa svolta? Fate il tifo per Lorenzo?😂 In qualsiasi caso, di certo qualche conseguenza ci sarà... Staremo a vedere cosa succederà!
Nelle scene successive, invece, ritroviamo Pietro e Martino di nuovo insieme, come spesso capita ultimamente... E anche per loro c’è una svolta non indifferente! Di certo il loro legame ha visto una certa evoluzione, anche se, per dirla con le parole del nostro romano preferito, rimaniamo comunque nel campo dell'amicizia e non dei sentimenti romantici. Ma la cosa sembra andare bene ad entrambi, e quindi chissà ... Vedremo cosa riserverà loro il futuro!
Nel frattempo vi diamo appuntamento a mercoledì 27 con l'inizio di un nuovo capitolo ... Che ci accompagnerà per un po' di tempo! 👀
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - God bless America (Pt. 1) ***


Prima di lasciarvi al capitolo volevamo avvisarvi che il programma di pubblicazione subirà una piccola modifica: oltre a oggi, pubblicheremo anche mercoledì 3 e mercoledì 10 gennaio (iniziamo il 2024 con il botto lol) 😊 
 

CAPITOLO 18 - GOD BLESS AMERICA (PT. 1)

 


Controllò per l’ennesima volta l’ora, nervosamente, consapevole di averla già guardata nemmeno due minuti prima.
Pietro cercò di calmarsi almeno in parte prendendo un altro respiro profondo, non riuscendo però ad interrompere il ticchettio del suo piede contro la pavimentazione dell’interno della stazione di Venezia.
Si chiese se sarebbe stato in grado di individuare Alessio in mezzo alla folla del martedì mattina, o se sarebbe stato l’altro ad avere difficoltà a trovarlo nel marasma di persone che si stavano avviando ai binari per recarsi al lavoro, all’università, o chissà in quali altri posti che Pietro non riusciva a farsi venire in mente in quel momento.
Il sole era sorto da poco, e sebbene quei primi giorni di Aprile avessero regalato giornate primaverili davvero calde, in quella mattinata Pietro stava faticando a non cedere al freddo che si sentiva addosso. Doveva essere una strana combinazione di temperatura bassa tipica della mattina prima delle otto, e un’agitazione positiva – che avrebbe quasi potuto definire euforia- che si sentiva addosso.
Era sul punto di riprendere in mano per l’ennesima volta il cellulare, quando avvertì una mano sulla sua spalla. Quasi sussultò, ma girandosi si accorse che, finalmente, ogni sua incertezza sul riuscire a raggiungere Alessio si era dissolta: era stato lui a trovarlo per primo.
-Ti stavo cercando- Alessio gli sorrise stancamente, le occhiaie sotto le palpebre che indicavano una notte in cui doveva aver dormito davvero poco.
-Anche io- rise Pietro, prima di fare un cenno verso il suo viso – Hai fatto baldoria stanotte? Mi sono perso qualcosa?-.
Si pentì un po’ di quella provocazione, perché era abbastanza sicuro che, al massimo, sarebbe dovuto essere Alessio a fargli una domanda del genere.
-Magari- lo ascoltò sbuffare – Non sono riuscito a dormire molto. Troppa ansia-.
-Sei così tanto felice di iniziare questa avventura con me da non riuscire nemmeno a chiudere occhio?- Pietro gli lanciò l’ennesimo sorriso malizioso.
Alessio lo guardò torvo:
-È per la paura del viaggio in aereo, idiota-.
Pietro si ritrovò a ridere, finalmente sciogliendo il nodo d’agitazione che gli aveva quasi impedito di trangugiare qualcosa a colazione. Se lo poteva concedere, però, di essere così ansioso: non capitava tutti i giorni di partire per gli Stati Uniti.
Alessio sospirò, lanciando un’occhiata alle loro valigie ferme, prima di rialzare lo sguardo:
-Meglio se ci avviamo al binario. Dovrebbe essere il tre-.
Pietro annuì. Forse per la prima volta da quando si era svegliato quella mattina, stava cominciando ad avere coscienza di ciò che li stava aspettando per quella giornata – e per quelle seguenti.
-Stiamo proprio per partire, eh?-.
L’aveva detto con voce poco più che sussurrata, talmente tanto che non credeva nemmeno che Alessio l’avesse udito. Invece lo vide girarsi ancora una volta verso di lui, con una mano sul manico della propria valigia, pronto ad incamminarsi verso il treno che li attendeva e che li avrebbe portati a Milano.
-Ci puoi scommettere-.
Pietro prese l’ennesimo respiro profondo che, lo sapeva, non sarebbe stato certo l’ultimo di quella giornata.
Il viaggio verso Los Angeles non era nemmeno iniziato.
 
*
 
All my life
I was never there just a ghost, running scared
Here our dreams aren't made, they're won
 
-Sono stanco morto-.
La voce di Alessio era stata poco più di un sussurro, ma Pietro l’aveva percepita come se gli avesse appena urlato nelle orecchie. Forse era proprio quella la stanchezza vera: non riuscire a sopportare nemmeno il rumore più impercettibile, e desiderare solo di potersi fermare per dormire.
Ciondolò con poca forza verso l’ascensore, premendo sul tasto per farlo scendere al pianterreno dell’hotel. Erano arrivati da poco, giusto il tempo di fare il check-in e ritirare le chiavi delle stanze, un passaggio a cui si era dedicato interamente Alessio. Pietro si era limitato ad osservarlo qualche metro più in là, con le valigie lì accanto, incapace anche solo di comprendere una sola parola d’inglese per la troppa stanchezza che si sentiva addosso.
Erano atterrati all’aeroporto di Los Angeles poco dopo la mezzanotte, dopo un viaggio che gli era parso lungo un’eternità, e con una confusione sugli orari e sulle date con cui immaginava già avrebbe faticato pure nei giorni seguenti.
Il viaggio in treno da Venezia a Milano era stata forse la tratta più serena, sebbene si fosse sentito animato dall’euforia per diverso tempo, e lo stesso poteva dirsi del secondo viaggio in treno con cui dalla stazione Centrale erano giunti a Malpensa. Poi, poco prima delle cinque del pomeriggio, il loro aereo aveva staccato le ruote dalla pista – e Alessio gli aveva stritolato talmente tanto il braccio destro che Pietro aveva seriamente temuto che glielo avrebbe staccato.
Quasi rise a quel ricordo, ma lo fece solo mentalmente. Ora che era passato, che si erano lasciati il viaggio in aereo alle spalle, poteva affermare con certezza che Alessio non aveva avuto tutti i torti a non dormire la notte per l’ansia di stare su quell’aereo. Le quasi nove ore che li avevano separati fino al JFK di New York erano passate così lentamente, e in così tanta agonia, che Pietro aveva seriamente temuto che non avrebbero mai più toccato terra. Era difficile mantenere i nervi saldi quando dovevi passare tutte quelle ore in uno spazio così ristretto, facendo sempre le stesse cose – mangiare, dormire, al massimo guardarti qualche film- senza la possibilità di fare nient’altro.
Quando finalmente avevano dovuto passare un paio d’ore in aeroporto ad aspettare il secondo aereo, quello per la California – altre sei ore e mezza di volo-, si era semplicemente sentito felice di poter farsi una passeggiata di più di cento metri.
-Cerca di resistere, manca poco- borbottò Pietro, in attesa dell’ascensore. Ringraziava chiunque avesse deciso di cominciare gli appuntamenti di quella convention solo il giorno dopo: avrebbero avuto almeno un po’ di tempo per provare a riprendersi dal jet-lag.
Si voltò verso Alessio, osservandone le occhiaie ancora più visibili, il viso pallido e le lentiggini che in compenso erano più distinguibili, i capelli biondi piuttosto disordinati. Chissà che doveva aver pensato l’autista uber che li aveva prelevati all’aeroporto per portarli fino a lì.
-Quali sono le nostre stanze?- gli chiese, rendendosi conto che non lo aveva ancora fatto, e che ormai mancavano pochi minuti al raggiungerle.
Alessio lo guardò pensieroso per qualche secondo, prima di tirar fuori una carta magnetica – probabilmente ciò con cui avrebbero aperto la porta della stanza- per leggerci su qualcosa.
-La 136- disse infine. Pietro aspettò qualche secondo, ma Alessio non sembrava dover aggiungere altro.
-E la mia?-.
Passarono alcuni attimi carichi d’aspettativa, durante i quali Pietro si chiese quale disgrazia fosse mai accaduta. Alessio non aveva mutato la sua espressione, guardandolo anzi come se la risposta fosse piuttosto ovvia:
-C’è solo questa-.
Con fatica, per la stanchezza che si sentiva addosso e perché ormai ragionare gli stava risultando difficile, Pietro credette di arrivare alla conclusione definitiva:
-Siamo nella stessa stanza?-.
Non ricordava che Alessio avesse mai parlato della sistemazione in hotel. Avevano organizzato varie cose, nei mesi che li avevano separati da quel viaggio, ma anche in quel momento di offuscamento mentale Pietro non ricordava nessun momento in cui avevano parlato delle stanze d’hotel.
Forse aveva dato per scontato una cosa che, invece, non lo era affatto.
-Sì, ne ho confermato solo una- disse infine Alessio, nel momento stesso in cui l’ascensore giunse finalmente al pianterreno – Tranquillo, abbiamo letti separati-.
Pietro poté nascondere la sua incredulità impegnandosi nel recuperare la sua valigia e trascinarla all’interno dell’ascensore, un secondo dopo che le porte si furono aperte. Alessio lo seguì in silenzio, non sprecando tempo per premere il pulsante del loro piano.
Pietro non riuscì più a trattenersi:
-Come mai questa scelta?-.
Quando Alessio si voltò verso di lui, vagamente allarmato, si chiese se era forse suonato troppo polemico.
-Voglio dire … - aggiunse frettolosamente, passandosi la lingua sulle labbra secche – Qualcuno potrebbe pensare male-.
Si dette mentalmente dell’idiota, perché non era propriamente quello che avrebbe voluto dire. Era ancora troppo sorpreso – e troppo assonnato- per pensare razionalmente a ciò cui stavano andando incontro.
-Siamo nel 2022, chi se ne fotte se qualcuno è rimasto al Medioevo-.
Alessio sbuffò sonoramente, prima di tornare a guardarlo, stavolta più serio:
-Per te è un problema?-.
No, certo che non lo era.
Ma Pietro ricordava, molto meglio di quanto avrebbe voluto, cosa era significato ogni volta avere Alessio accanto a lui in uno spazio ristretto come poteva esserlo una camera d’hotel.
Cercò solo di allontanare i ricordi pensando che, in realtà, nell’ultimo anno era capitato almeno un paio di volte che si ritrovassero a dormire insieme addirittura nello stesso letto, senza imbarazzo di sorta. Doveva aggrapparsi a quella consapevolezza: anche quella volta sarebbe stata esattamente come le ultime.
-No, ero solo curioso di sapere come mai hai preferito così-.
Quella risposta sembrò bastare ad Alessio.
-La partecipazione al congresso dava già a disposizione una camera, ma una seconda avremmo dovuto pagarla noi- spiegò, con una scrollata di spalle – E poi così almeno siamo insieme, senza dover magari girare metà hotel per trovarci-.
Aveva senso, ammise Pietro. Nessuna implicazione strana, solo fattori oggettivi.
Alessio rimase in silenzio qualche attimo, prima che un ghigno canzonatorio gli si disegnasse sulle labbra:
-E poi ti ho salvato dal dover parlare inglese. Puoi affidarti direttamente a me-.
Pietro sbuffò ancor più forte, gli occhi sgranati, fintamente offeso:
-Ehi, parlo benissimo l’inglese-.
Arrivarono al piano di destinazione proprio in quel momento, ma anche mentre si accingevano ad uscire e a trascinarsi dietro le valigie Pietro riuscì ad udire l’altro ridacchiare sommessamente.
-Fammi un esempio di come ordineresti la colazione in camera- Alessio si girò verso di lui con aria di sfida, mentre percorrevano il corridoio, cercando il numero della loro camera.
Pietro non provò nemmeno a sforzarsi di pensare. Era troppo faticoso persino quello, e subire l’onta della sconfitta, in quelle condizioni, non era certo la cosa peggiore.
Osservò il sorriso trionfante di Alessio:
-Appunto-.
Pietro scosse la testa, lasciandosi sfuggire un sospiro lungo.
-Tanto non ordineremo mai la colazione in camera-.
 
*
 
La luce del sole lo fece svegliare poco alla volta, in un risveglio meno brusco di come sarebbe stato se si fossero ricordati di mettere una sveglia. Evidentemente si erano dimenticati anche di abbassare la tendina automatica alle finestre.
Alessio sbatté le palpebre un paio di volte, riuscendo finalmente ad abituarsi al chiarore della mattina – era mattina, poi? Gli sembrava di avere la stessa stanchezza di quando se ne andava a dormire alle undici di sera.
-Buongiorno-.
Gli ci volle qualche altro attimo per riuscire a mettere a fuoco l’ambiente circostante, ma quando ci riuscì individuò finalmente Pietro, seguendo solo in parte la direzione da cui era provenuta la sua voce. Gli bastò girare il viso verso sinistra, ritrovandolo seduto sul suo letto, quello più vicino alla grande parete vetrata.
-Ciao- bofonchiò Alessio, a fatica – Che ore sono?-.
Pietro lo guardò con un ghigno astuto:
-Non ci crederai mai, ma mancano pochi minuti a mezzogiorno-.
Alessio se ne sorprese solo in parte: erano andati a dormire parecchio tardi, alle prime ore del mattino, e in fin dei conti non erano poi così tante ore di sonno. Quel che lo stupiva era che fossero riusciti a dormire nonostante il jet-lag ed il fatto che, se fossero stati in Italia, l’ora di cena sarebbe passata da poco.
-Ti sei riposato?- gli chiese Pietro, guardandolo sorridente dalla sua posizione, seduto a gambe incrociate in mezzo al materasso. Era già vestito con una tuta, segno che doveva essersi svegliato già da un po’.
Alessio si lasciò sfuggire uno sbadiglio:
-Abbastanza-.
-E come ci si sente ad essere appena diventato ventinovenne?-.
Il ghigno di Pietro si fece ancora più ampio quando Alessio sgranò gli occhi in realizzazione.
-È il tuo compleanno- lo ascoltò spiegare – Qua lo è ancora per tutto il resto della giornata, in Italia mancherebbero poche ore alla mezzanotte del giorno dopo-.
-Me ne ero scordato- ammise Alessio a mezza voce, rotolando sul materasso, fino a finire supino, gli occhi che incontravano il biancore del soffitto della stanza. Era così disorientato dal cambio di fuso orario che, se non fosse stato per Pietro, difficilmente si sarebbe reso conto di che giorno fosse.
-Anche io stanotte. Ma quando mi sono svegliato poco fa ho controllato che data è-.
La voce di Pietro si era fatta più vicina, e alzando il viso Alessio non si meravigliò troppo nel vederlo ora alzato dal letto. Lo osservò mentre muoveva pochi passi, quelli che bastavano per arrivare alla sponda del suo letto e sedersi sul bordo, nello spazio lasciato libero.
-E quindi buon compleanno- gli sorrise ancora, prima di rivolgergli un altro sguardo canzonatorio – Ormai stai diventando anziano-.
Come prima risposta ricevette un pugno leggero su una coscia, che lo fece ridere sotto i baffi.
-Dillo un’altra volta, e ti mostro quanto anziano sto diventando-.
Pietro rise ancora di più, e bastò il suono della sua risata per far passare ad Alessio qualsiasi sfumatura di permalosità che poteva aver presentato qualche secondo prima. Ascoltare la risata di Pietro era una cosa così famigliare che, seppur trovandosi dall’altra parte del mondo, non gli sembrò di essersi mai spostato affatto.
Ed era un suono che, fortunatamente, stava ricominciando a fargli ascoltare sempre più spesso. Alessio gliene era grato, e ne era anche sollevato.
-Dovremmo festeggiare- Pietro interruppe i suoi pensieri all’improvviso, dopo alcuni secondi – Magari andarcene da qualche parte stasera-.
-Tu hai qualche idea? Perché io no-.
Lo sguardo illuminatosi dell’altro gli fece supporre che sì, Pietro doveva avere effettivamente qualche proposta.
-Forse ne ho una-.
 


Los Angeles era caotica come si era aspettato dal primo momento in cui erano usciti dall’aeroporto, scorrendo tra le vie ancora piene di luci in piena notte e ancora vivide; vederla di giorno era, se possibile, ancora più confusionario.
Alessio faticava ancora a credere a come avessero fatto, senza un navigatore e girando a caso, a trovare un supermercato senza nemmeno dover camminare troppo distante dalla zona del loro hotel. Forse era stato il sesto senso di Pietro o il suo vago senso dell’orientamento, ma avevano tirato entrambi un sospiro di sollievo quando erano capitati davanti ad un Target pronto per loro e la spesa che li attendeva.
Un sospiro di sollievo che non tirarono affatto quando misero piede all’interno di quello che, più che un supermercato, sembrava un centro commerciale ad un unico piano.
-Ci perderemo, qua dentro- esalò Alessio.
Avevano percorso appena un metro dalle porte automatiche a vetri dell’entrata, e la verità era lì di fronte a loro, inequivocabile: le corsie erano lunghe in maniera quasi esagerata. Era anche piuttosto sicuro, acuendo lo sguardo, di aver notato un quantomeno immenso reparto di abiti che, più che un supermercato, gli ricordava un grande magazzino con articoli in svendita.
Pietro si guardò intorno con la stessa espressione persa:
-In effetti forse una mappa sarebbe utile-.
Alessio ebbe il dubbio che, anche con quella, molto probabilmente ci avrebbero impiegato mezza giornata anche solo per decidere cosa comprare da tutti quegli infiniti scaffali.
Era primo pomeriggio, avevano appena pranzato in hotel e avevano un sacco di ore da occupare, senza camminate troppo impegnative che avrebbero solo peggiorato la loro stanchezza da jet-lag: il tempo da passare lì dentro non mancava.
-Mi sa che dovremo andare a sentimento- dichiarò infine, con aria solenne, annuendo gravemente di fronte al loro destino – Ci metteremo probabilmente delle ore, ma tanto per oggi non abbiamo molto da fare-.


 
Si guardò intorno per l’ennesima volta, l’ennesimo scaffale infinito e da cui traboccavano prodotti di ogni genere, e la testa che ormai gli girava come non mai.
Alessio tirò un altro sospiro profondo, acuendo lo sguardo per riuscire a capire se le cose contenute nei sacchetti che aveva davanti a sé potevano essere commestibili o meno. Giunse alla conclusione che, anche se lo erano, avevano un aspetto troppo orribile anche solo per pensare di avvicinarsele alla bocca.
Aveva perso la cognizione del tempo che lui e Pietro avevano già passato lì dentro. Dopo i primi attimi di spiazzamento si erano decisi a prendere un carrello e buttarsi nell’avventura, per racimolare qualche scorta di cibo e acqua che sarebbero servite nei giorni seguenti.
C’era davvero una marea di cose stipate sugli scaffali, così tante che si erano fermati davvero troppe volte – per decidere cosa comprare o per semplice curiosità- ed avevano sprecato altrettanto tempo.
Ora che il carrello era mezzo pieno – cosa che li avrebbe di certo portati ad avere il portafogli mezzo vuoto, si ritrovò a pensare Alessio con una nota di disperazione-, poteva augurarsi che l’ora di andarsene stesse arrivando. Sempre se sarebbero riusciti a trovare le casse e l’uscita in mezzo a quel labirinto.
Si girò in avanti, spostando quasi a fatica il carrello, guardandosi intorno fino a quando non riuscì ad individuare Pietro: era poco più avanti, fermo ed intendo ad osservare qualcosa che, dalla distanza in cui si trovava, Alessio non riusciva a distinguere.
Quando gli si avvicinò a sufficienza, e notò che era cominciato il reparto decorazioni per alimentari, credette di intuire cosa avesse catturato l’attenzione dell’altro.
Gli si accostò a fianco, ma prima ancora di domandargli cosa stesse facendo, fu lui a togliergli qualsiasi dubbio: indicò la serie di candele a forma di numero che se ne stavano in una delle file più in alto dello scaffale, in bella vista e in una quantità apparentemente infinita.
-Stavo pensando che dovremmo prenderle- Pietro si girò verso di lui con un ghigno divertito – È l’occasione giusta-.
Alessio non seppe se sentirsi più lusingato per quell’attenzione, o più preso in giro:
-Sei serio? Le candeline?-.
Nonostante l’evidente intenzione provocatoria di Pietro, si ritrovò comunque a ridere.
-Non sono troppo anziano per quelle?- lo provocò a sua volta, alzando un sopracciglio, in attesa.
Pietro lo guardò trattenendosi a stento dal reprimere una risata; gli ci vollero alcuni secondi prima di riuscire a parlare senza rischiare di interrompersi per ridere.
-Non importa l’età, bisogna pur festeggiare- gli disse, annuendo alle sue stesse parole – E poi vuoi non farlo mentre siamo a Los Angeles? Quando mai ci ricapiterà un’occasione del genere?-.
“Forse mai” si ritrovò a pensare Alessio.
Non riuscì a capire, però, se il suo pensiero fosse più riferito a quel che aveva detto Pietro, o al festeggiare da solo con la sua sola compagnia.
Scosse il capo, ignorando quella domanda a cui, al momento, non voleva dare risposta.
 
*
 
The silver of a lake at night
The hills of Hollywood on fire
A boulevard of hope and dreams
Streets made of desire
 
Il sole stava lentamente per tramontare, la sera californiana che si stava avvicinando minuto dopo minuto, il cielo terso che rifletteva le mille luci di Los Angeles.
“La città che non dorme mai”.
Sarebbe stato un modo efficace per descriverla in uno dei suoi articoli, si ritrovò a pensare Pietro, lo sguardo fisso verso le vetrate da cui entravano gli ultimi raggi di sole della sera. Sarebbe anche potuta calare la notte per una giornata intera, ma era sicuro che nessuno a Los Angeles si sarebbe fermato, né che le luci dei suoi locali e delle sue strade infinitamente lunghe venissero a mancare.
La folla che popolava la città la si poteva notare anche lì, negli spazi interni di un In-N-Out che distava poco dal Target dove, due ore prima, lui ed Alessio avevano perso quasi tre ore ad orientarsi e comprare cibo vagamente commestibile. Avevano portato le borse ricolme nella stanza d’hotel, ed erano riusciti persino a darsi una sistemata prima di uscire di nuovo, alla ricerca di un posto dove cenare. Ed anche se ora non erano nemmeno le otto della sera, Pietro cominciava a sentire la tipica spossatezza di quando i ritmi del sonno erano stati spezzati, bisognosi di un nuovo orologio biologico a cui abituarsi.
Aveva cercato di combattere quella stanchezza perché per nessun motivo al mondo avrebbe voluto perdersi la Los Angeles serale, tinta d’arancione e con i grattacieli che si stagliavano contro il cielo, riflettenti le ultime scie di sole come se stessero prendendo fuoco. E poi era curioso di vedere un locale simil diner, con le poltroncine rosse e quel bianco abbagliante del resto dell’arredamento che spiccava così tanto.
Avevano trovato un tavolo per il rotto della cuffia, subito dopo aver fatto le loro ordinazioni al banco. Ora che se ne stava seduto di fronte al suo hamburger – così americano nell’aspetto, un po’ come quelli che facevano sempre vedere nei film-, che aveva scelto volutamente enorme, proporzionale alla fame che sentiva, poteva dirsi pienamente soddisfatto della serata che era appena iniziata.
-Sei sicuro che lo finirai tutto?-.
Pietro scostò lo sguardo dalle vetrate, portandolo su Alessio e sulla sua espressione perplessa: stava adocchiando il suo panino di 3 piani, e alle patatine che lo contornavano. Alessio ci era andato decisamente più cauto di lui, con una sola bistecca schiacciata tra la lattuga, i pomodori e le salse; Pietro non si stupì di vederlo così interdetto.
-Ho parecchia fame- disse, alzando le spalle – Le patatine ce le possiamo dividere, però-.
Alessio annuì, pensieroso:
-Ci sto-.
Prima che potessero iniziare Pietro si affrettò a recuperare le candeline – un due ed un nove violacei, l’unico colore decente rimasto per quei numeri-, tenute al sicuro nella tasca posteriore dei jeans fino a poco prima di sedersi. Le posizionò in cima al panino di Alessio, sotto i suoi occhi attenti ed incuriositi, affondandole nel pane; recuperò l’accendino che teneva nel pacchetto già iniziato di sigarette, accendendole in meno di qualche secondo. Le osservò compiaciuto, la fiamma debole che ancora non aveva iniziato a sciogliere la cera.
-Dovresti soffiarci sopra- incalzò Alessio, sorridendogli.
Lo osservò pensarci su qualche altro secondo, prima di sporgersi verso le candele e soffiare sopra le fiammelle, lasciando lo stoppino annerito e esalante le ultime deboli scie di fumo.
-Hai espresso un desiderio?-.
Pietro lo domandò prima ancora di pensare che forse erano troppo grandi, troppo adulti per credere ancora a quelle cose. Eppure, nonostante quella consapevolezza, non riuscì a trattenersi dal domandarsi cosa Alessio avrebbe mai potuto desiderare.  C’erano così tante risposte possibili, e allo stesso tempo così poche, almeno conoscendolo, che non credeva avrebbe mai potuto indovinare.
-Non posso dirtelo-.
Alessio alzò gli occhi su di lui, le iridi azzurre che lo guardavano con intensità.
-Altrimenti non si realizza-.
“Non ha tutti i torti”.
Pietro si limitò ad annuire, senza alcuna intenzione di insistere:
-Ora sei ufficialmente quasi trentenne- lo provocò invece, guadagnandosi uno sguardo inceneritore dall’altro:
-Sta calmo. Manca ancora un anno esatto per quello-.
Chissà dove sarebbero stati quello stesso giorno a distanza di un anno, si ritrovò a chiedersi Pietro. Sarebbero stati ancora insieme, in quel loro ritrovato rapporto che, come non mai, era tornato a farlo sentire dannatamente bene?
Non aveva una risposta a quella domanda, ma poteva ripromettersi di fare in modo che anche l’anno successivo, quando Alessio avrebbe compiuto trent’anni, sarebbero stati in un qualsiasi altro posto del globo, ma insieme.
 


-Sei del tutto convinto di buttarti a capofitto a mangiarlo, senza prima studiare una strategia per non farti finire mezzo panino sulla maglietta?-.
Pietro alzò vagamente gli occhi verso il viso di Alessio, così scettico che a momenti persino lui cominciò a dubitare di sé. Allontanò le incertezze un attimo dopo, scuotendo il capo divertito:
-Davvero vorresti mangiarti un hamburger pensando ad una strategia?- replicò, alzando un sopracciglio.
Avevano riposto le candele, ormai inutili, da parte qualche minuto prima; ora che era venuto il momento di iniziare a cenare, Pietro cominciava a prendere coscienza dell’enormità dell’hamburger che lo stava attendendo. Non sarebbe stato un compito facile mangiarlo, ma era sufficientemente sicuro di potersela cavare senza troppi problemi. Non sarebbe certo stato un hamburger a farlo andare in crisi.
-Ci tengo ad avere vestiti puliti- borbottò Alessio, prendendo un piccolo morso del suo panino.
-Non mi sporcherò nemmeno le mani, fidati-.
Pietro sperò ardentemente di non doversi pentire troppo presto di quelle sue parole, soprattutto dopo aver notato lo sguardo di sfida che Alessio gli aveva appena lanciato.
-Scommettiamo?-
Non poteva tirarsi indietro, non più. Lanciò all’altro l’espressione più spavalda possibile, sperando solo di apparire abbastanza convincente:
-Con piacere-.
Il suo essere sfrontato durò fin troppo poco, almeno fino al terzo morso: fu quando addentò di nuovo quel regno di carne, lattuga e salse che, qualche secondo dopo, avvertì la risata leggera di Alessio e qualcosa che gli stava inevitabilmente colando lungo il polso – e probabilmente anche sui vestiti.
Quando mise giù l’hamburger per capire l’entità del danno, Pietro si sentì quasi mancare nel rendersi conto della macchia piuttosto visibile che si era formata sulla sua maglietta, causata da un pezzo d’insalata infarcito di salsa.
La risata di Alessio si fece, se possibile, ancor più forte.
-Lo trovi così divertente?- Pietro sbottò sibilando a denti stretti, comunque più infastidito con se stesso che con Alessio.
-Sì, hai appena perso la scommessa- lo ascoltò parlare a fatica, senza fiato per le risate – Del tutto-.
“Dovevo saperlo che ha sempre ragione”.
-E anche la maglietta- ammise in un soffio di voce. Sarebbe servito davvero a poco cercare di togliere via tutto con solo delle salviette: l’insalata era facile da spostare, ma la salsa sembrava aver fatto molti più danni del dovuto.
-Te l’avevo … -.
Pietro interruppe Alessio prima che potesse finire:
-Non dire “te l’avevo detto”-.
Quando qualche secondo dopo rialzò gli occhi su di lui, lo osservò guardarlo piuttosto compiaciuto:
-Non dirò altro-.


 
Non dovettero camminare molto per trovare ciò che stavano cercando.
-Questo è ancora aperto- Alessio gli posò una mano su una spalla per bloccarlo, indicandogli subito dopo un negozietto dall’architettura vagamente ispanica ad un angolo della strada che stavano percorrendo. Non si erano allontanati molto dall’In-N-Out dove avevano cenato, e di ciò Pietro non poteva che dirsi felice: difficilmente se la sarebbe sentita di farsi qualche altro metro a piedi con addosso quella maglietta in quello stato orrendo.
-Proviamo ad andare a vedere- acconsentì dopo qualche secondo – Tanto mi basta una maglietta qualsiasi-.
Anche se Alessio, dopo aver smesso di ridere ed aver constatato la natura dello stato attuale della sua t-shirt, l’aveva rassicurato che nessuno ci avrebbe dato troppo peso, Pietro si era ripromesso di cercare un negozio di abbigliamento ancora aperto non appena avessero finito di mangiare e si fossero alzati dal tavolo. Aveva mantenuto fede al suo proposito, ed ora che sembravano anche aver trovato un negozio dove poter comprare una maglietta qualsiasi – ma pulita, al contrario di quella che aveva addosso-, sentiva di poter tirare un sospiro di sollievo. Perlomeno avrebbero potuto passeggiare un po’ nei dintorni senza dare nell’occhio.
Percorsero i metri che li separavano dal negozio, e vi entrarono senza nemmeno dare un’occhiata alla vetrina. Fu forse per quel motivo che Pietro non si sentì affatto pronto per quello che vi trovò all’interno.
Quando si fermarono poco oltre la soglia, all’interno della piccola bottega dove già c’erano altri clienti – turisti, dati gli zaini e le macchine fotografiche che molti tenevano in mano-, Pietro si sentì vagamente inorridire di fronte ai colori accesi delle camicie hawaiane che riempivano gli scaffali e gli appendini.
Si avvicinò alla prima fila di camicie alla sua destra, constatando che la sua prima impressione – quella di essere entrato in un posto che non vendeva semplici camicie hawaiane, ma camicie hawaiane eccessivamente eccentriche-, si stava rivelando sempre più fondata.
Non avrebbe saputo descrivere in nessun altra maniera, se non definendola trash, la camicia sull’azzurrino con una trama ad ananas che gli si stava stagliando davanti agli occhi, in bella vista. Quella successiva, di tessuto giallo ocra e con foglie di palma fucsia, non lo stava rendendo meno inquieto.
-Non dirmi che hanno solo queste- esalò con voce a malapena udibile.
“Devo indossarla solo per un’ora al massimo” cercò di dire a se stesso, “E poi fare finta di non aver mai speso soldi per una cosa del genere”.
Fece qualche altro passo, cercando con lo sguardo Alessio: sembrava essersi dileguato, forse incuriosito da qualcosa. Non dovette faticare a individuarlo, perché meno di un minuto dopo lo vide spuntare fuori da dietro una pila di camicie piegate su un mobile d’esposizione, tenendone in mano una che per un attimo gli fece mancare il fiato dalla bruttezza.
Il ghigno di perfidia con il quale Alessio lo stava raggiungendo gli fece immaginare il peggio.
-Devi scegliere questa-.
Pietro non ebbe più alcun dubbio che Alessio, in quel momento, fosse effettivamente mosso dalla più cieca malvagità. Cercò di ricordare se gli aveva fatto qualche torto negli ultimi giorni che potesse giustificare quella ricerca di vendetta, ma non gli venne nulla in mente. Non solo era un atto deliberato, ma sembrava mosso semplicemente dalla voglia di ridergli dietro.
-Ti prego, provatela- disse ancora, rosso in viso per trattenere una risata.
Pietro lo guardò il più malamente possibile:
-Sul serio mi vuoi far andare in giro con questa cosa?-.
Portò in alto una mano per indicare la camicia, un orrendo binomio di tessuto leopardato con una trama che presentava delle banane e dei fiori rosa tropicali che, in quel contesto, non avevano alcun senso. Un totale spreco di stoffa, oltre che un obbrobrio per i suoi poveri occhi.
-Tanto a te sta bene tutto- Alessio lo liquidò semplicemente così, lasciando Pietro interdetto e confuso da quella specie di complimento che in realtà non doveva essere proprio un complimento – Provala-.
Con un lungo sospiro, e maledicendolo silenziosamente per diversi attimi, Pietro guardò Alessio un’ultima volta prima di strappargli dalle mani quella insensata camicia hawaiana.
Ignorò del tutto le sue risate ormai mal trattenute, individuando invece i camerini. Ci si infilò chiedendosi se, in fin dei conti, non sarebbe stato meglio uscirsene da quel negozio con ancora addosso la maglietta macchiata.
In pochi secondi, dopo essersi cambiato, si ritrovò a pensare che , era decisamente meglio andarsene in giro per la città con gli abiti zozzi.
Quando scostò la tenda si ritrovò subito Alessio di fronte, le bracci piegate contro il petto in attesa.
-Hai proprio il gusto dell’orrido, sappilo-.
Non appena udì la sua voce, Alessio si voltò verso di lui. Mezzo secondo dopo stava già ridendo a più non posso, guadagnandosi qualche occhiata stranita da altri clienti fermi nei paraggi degli altri camerini.
Passarono ancora diversi secondi prima che potesse recuperare fiato sufficiente per parlare:
-Immaginavo saresti stato sexy con quella addosso, ma non così tanto-.
Pietro si bloccò all’istante, dimenticandosi ciò che stava per dire fino ad un secondo prima. Cercò di ignorare il rossore che doveva essergli salito in viso, ma ci riuscì solo in parte.
Era difficile non pensarci con Alessio davanti, mentre lo osservava attentamente, con un sorriso canzonatorio stampato sulle labbra che però contrastava con lo sguardo.
Erano occhi che lo stavano guardando con curiosità, e per un attimo Pietro credette di star immaginandosi tutto sul serio.
“Sta solo scherzando”.
-Se non fossimo già nella stessa camera, ti inviterei nella mia-.
Con quelle ultime parole Alessio gli lanciò un’ultima lunga occhiata, voltandosi e camminando verso il resto del negozio. Doveva aver deciso di lasciare a lui la scelta definitiva se comprare o meno quella specie di camicia che aveva addosso.
Pietro non riuscì a muovere nemmeno un muscolo per i primi attimi, ancora incredulo.
Non ricordava l’ultima volta in cui Alessio aveva scherzato a quel modo. Sapeva solo che l’aveva appena fatto, dopo un tempo imprecisato, e sapeva anche che la sua prima reazione era stata qualcosa che non si sarebbe aspettato di vivere ancora.
Si passò la lingua sulle labbra secche, ancora confuso e preso in contropiede, mentre se ne tornava nel camerino per recuperare la sua maglietta.
 
*
 
Non si era del tutto aspettato di vedere con i propri occhi un posto così leggendario e famoso come Beverly Hills, ma ora che lo stava facendo poteva dire con assoluta certezza fosse effettivamente identica agli scorci che si vedevano sempre nelle foto o nei film al cinema.
Il cielo si stava colorando sempre più delle sfumature del tramonto, riflesse dalle vetrate degli edifici che costeggiavano la strada principale. Era un sole ancora accecante, mitigato solo dalle foglie delle palme che ondeggiavano alla brezza leggera che si era alzata da qualche minuto.
-Secondo te quanto sono ricchi i tizi che vivono da queste parti?-.
Pietro si lasciò sfuggire quella domanda quasi sovrappensiero, immaginando già la risposta. Non era difficile capirlo, non quando per strada si vedevano quasi solamente auto di lusso e sportive che bastavano già come indicazione che si trovassero in un quartiere notoriamente benestante. E poi c’erano i negozi – brand famosi e di certo non economici, griffe d’alta moda e chissà cos’altro-, oltre alle abitazioni. In alcune zone compariva uno stile latino, a tratti spagnoleggiante, degli edifici, che però non faceva altro che dare ancor di più un’aria di esclusività.
Era una zona che contrastava parecchio con gli stabili del campus della UCLA dove erano stati quella mattina, per l’inizio della convention sulla cyber security. Il posto in cui lui ed Alessio avevano passato tutte le ore della mattinata sembrava più una chiesa romanica, piuttosto fuori dal tempo e totalmente sconnessa con il resto della città che la circondava.
-Non lo so, ma credo molto-.
La voce pensierosa di Alessio lo riportò alla realtà, dopo quei lunghi secondi in cui la sua domanda sembrava essere caduta nel vuoto.
-Di sicuro molto più di noi-.
Pietro lo guardò con finta sorpresa:
-E pensare che tu stai facendo una fortuna da quando ti sei messo in proprio-.
-Non direi- Alessio scosse il capo – Semplicemente sto attento a non spendere più del dovuto-.
Era un’affermazione un po’ troppo umile per come era la realtà, si ritrovò a pensare Pietro. Ricordava ancora il regalo di compleanno che Alessio aveva insistito che accettasse, e ricordava ancora quante volte si era domandato quanto avesse potuto spendere per un semplice regalo di compleanno.
E poi era riuscito persino ad accaparrarsi un invito per quella convention a Los Angeles, tra un sacco di altri imprenditori del digitale che di certo non era novellini. Per quanto Alessio ci tenesse a non darsi troppe arie, Pietro aveva cominciato a farsi l’idea che la sua azienda stesse andando pure meglio delle sue aspettative.
Continuarono a camminare ancora per un po’, sebbene cominciasse a provare un po’ di stanchezza. Era stata una lunga giornata, nonostante il primo giorno di convention fosse consistito unicamente in una presentazione generale del programma della settimana; Pietro aveva passato quelle ore cercando di prendere più spunti possibili per gli articoli che avrebbe dovuto scriverci su, lottando contro il sonno che ancora si portava dietro dal cambio di fuso orario.
E ora, in quel fine pomeriggio privo di altri impegni, mentre si ritrovavano a vagare senza una meta precisa per Beverly Hills, sentiva ancor di più tutta la stanchezza del proprio corpo. Doveva essere lo stesso per Alessio, le cui occhiaie sotto gli occhi si erano fatte più profonde.
-Se avessi un po’ più soldi ne approfitterei per andare a fare un salto al Coachella- buttò lì Pietro, senza sapere bene dove quella conversazione sarebbe andata a finire. Forse erano davvero troppo assonnati per riuscire a portare avanti dialoghi con un filo logico.
Cominciava a dubitare avrebbero avuto l’energia anche solo per cenare.
-Al Coachella?-.
Alessio gli aveva rivolto quella domanda con un filo di sorpresa, e qualcos’altro che Pietro pensò fosse simile alla repulsione. Si girò verso di lui confuso: forse il suo cervello gli stava giocando strani scherzi, ed aveva semplicemente capito male.
-Sì. Presente il festival musicale?- rispose, fermandosi ad un incrocio – Quest’anno lo fanno in questi giorni-.
-Sì, lo so cos’è- replicò Alessio, senza però cambiare espressione.
Attesero che il semaforo si facesse verde, prima di attraversare sulle strisce per raggiungere l’altra sponda della strada.
-Però è un po’ fuori mano da qui- mormorò Pietro, incerto.
Alessio sbuffò debolmente, scuotendo il capo:
-Non ci sarei andato lo stesso neanche fosse stato a cinque minuti dal nostro hotel-.
Stavolta la curiosità si fece troppo forte per lasciar perdere quella conversazione. Pietro si morse il labbro inferiore, prima di domandare:
-Perché?-.
Ci vollero alcuni secondi prima che Alessio si decidesse a parlare. Fu mentre costeggiavano un piccolo piazzale che precedeva un’area verde, con al centro una fontana su un pavimento di piastrelle rossastre, che Alessio si fermò del tutto, costringendo Pietro stesso a fermarglisi di fronte.
-Circolavano voci che il suo proprietario finanziasse associazioni omofobe-.
Sembrava piuttosto serio, e anche piuttosto amareggiato, o almeno quella fu la sensazione che ebbe Pietro nell’osservarlo. E si sentiva allo stesso modo, ora che la notizia l’aveva colpito in pieno petto come se fosse appena andato a sbattere contro qualcosa.
-Davvero?-.
Alessio annuì:
-Già-.
Pietro si guardò in giro lievemente a disagio, sentendosi vagamente in colpa per l’entusiasmo che aveva mostrato per qualcosa che, evidentemente, lasciava Alessio piuttosto combattuto. Ma nella sorpresa di apprendere quella notizia, c’era qualcos’altro che lo rendeva ancor più stupito: non si era del tutto aspettato che un’informazione del genere l’avrebbe ricavata proprio da Alessio – lo stesso Alessio che difficilmente parlava apertamente del suo appartenere ad una parte della comunità LGBTQA, e che allo stesso tempo non lo nascondeva quando era il momento di dire le cose come stavano. Doveva essere una cosa che l’aveva ferito, per ricordarsene così chiaramente.
-Non lo sapevo- mormorò infine. Avrebbe voluto esternare la sua stessa amarezza, perché in fin dei conti era una cosa che riguardava lui stesso in prima persona, ma si trattenne. Non era ancora venuto il momento per dirlo ad Alessio, né ancora si sentiva sufficientemente sicuro per intraprendere la serie di coming out che lo avrebbe atteso, prima o poi, con lui come con il resto dei suoi amici.
-Ora lo sai- Alessio gli rivolse un sorriso esitante, scuotendo debolmente il capo – Se posso preferisco non andarmene in un posto finanziato da qualcuno che mi reputerebbe un abominio-.
“A chi lo dici”.
Era sicuro che, se Martino fosse stato lì con loro, avrebbe probabilmente abbracciato – o forse anche direttamente baciato- Alessio per dimostrargli quanto visceralmente si sentiva d’accordo con lui.
E forse, per quanto quel festival occupasse ancora un posto nella sua curiosità, valeva anche per lui stesso.
-Neanche io-.
 
*
 
Si coprì gli occhi per non rimanere accecato dalla luce del sole del tardo pomeriggio. Lasciò vagare lo sguardo lontano, lungo Hollywood Boulevard, seguendo il percorso del marciapiede lastricato, e sentendosi un po’ come un ragazzino di fronte a qualcosa che aveva sempre sognato di poter vedere con i suoi occhi.
-Secondo te quante stelle ci sono?- Pietro gli si accostò, e quando Alessio si voltò verso di lui notò nella sua espressione la stessa scintilla d’entusiasmo che provava dentro di sé.
Sapeva che Pietro doveva essere curioso quanto lui: il cinema era una loro passione comune, e trovarsi a percorrere la Walk of Fame di Hollywood era un’altra delle cose che non capitava tutti i giorni.
Stava succedendo piuttosto spesso, in quelle ultime giornate, di trovarsi di fronte a paesaggi e vedute che Alessio non avrebbe mai creduto di poter osservare con i propri occhi. Stava cominciando a farci l’abitudine, anche se la sorpresa e lo stupore non stavano affatto diminuendo.
-Credo ce ne siano più di duemila- disse, cercando di ricordare quel che c’era scritto su una pagina web dedicata al turismo losangelino, letta mentre erano sull’uber che li aveva portati nelle vicinanze della Walk of Fame.
Era l’unica visita che potevano permettersi per quella giornata, oltre ad una sosta veloce all’Osservatorio Griffith, ed era stato quasi miracoloso potessero permettersele, data la stanchezza che gravava sulle loro spalle dopo ore ed ore passate alla convention sin dalla mattina presto. La fatica e il risicato tempo libero rimasto erano stati i motivi per cui non erano riusciti ad andare da nessuna parte il giorno prima: erano riusciti a tornare all’hotel e ordinare il servizio in camera per cenare, prima di crollare a dormire poco dopo.
-Cazzo-.
Alessio avvertì Pietro mormorare ancora, piuttosto impressionato. Avanzarono di qualche metro, gli occhi tenuti a terra come incatenati al suolo, leggendo i nomi delle stelle che stavano superando poco a poco.
-Mi pare di star sognando ad occhi aperti- disse ancora Pietro.
Alessio rise appena:
-E invece non è un’allucinazione-.
Si concesse di alzare lo sguardo dopo diversi minuti in cui avevano potuto rischiare di andare addosso a chiunque, troppo presi a osservare la Walk of Fame sotto i loro piedi per accorgersi di chi avevano intorno. Il marciapiede non doveva essere lungo più di qualche chilometro, ma dubitava che alla velocità a cui stavano andando si sarebbero potuti permettere di percorrerlo tutto per intero. L’ora in cui il sole sarebbe tramontato non era poi così lontana, e dovevano anche tener conto del tempo che sarebbe servito per arrivare all’Osservatorio.
-Dai, camminiamo ancora un po’, vediamo quante stelle riconosciamo- propose infine, guadagnandosi un cenno affermativo del capo da parte di Pietro.
Proseguirono per diversi metri, avanzando più lentamente di quel che Alessio aveva preventivato. La curiosità vinceva su qualsiasi altra cosa, persino sulla fretta e sulla paura di poter perdere il momento preciso del tramonto, ma nessuno di loro disse all’altro di accelerare. Andava bene così.
-C’è anche quella di John Travolta?-.
Dopo diversi minuti di silenzio concentrato, quella era la prima volta che Alessio tornava a parlare. Lo fece accostandosi alla suddetta stella, osservandola, e percependo Pietro avvicinarsi a lui a sua volta. Alessio si ritrovò a rialzare gli occhi proprio in quel momento, accorgendosi del sogghigno divertito dell’altro.
-Beh, mi pare il minimo- disse, prima di schiarirsi la voce – “Summer loving happened so fast” … -.
Alessio non fece nulla per reprimere la risata che gli venne naturale mentre lo ascoltava canticchiare, ad alta voce come se non gliene importasse nulla di trovarsi in mezzo ad un marciapiede pieno di turisti e gente del posto.
-O com’era nell’altro film … Così?-.
La risata che uscì ad Alessio fu impossibile da trattenere, perché veder Pietro imitare la coreografia di Staying Alive, in piena Los Angeles, era di sicuro qualcosa che non avrebbe scordato facilmente. Rise così tanto da sentire gli occhi riempirsi di lacrime, ma non fece nulla per fermarsi, né gli importò degli sguardi sempre più incuriositi di chi stava intorno a loro.
Per un attimo si chiese se Pietro stesse facendo l’idiota, in modo così disinvolto, per il puro gusto di farlo ridere. Era un sospetto che si stava portando dietro perché, da quando avevano lasciato la convention ed Alessio aveva ripetuto un paio di volte di sentirsi particolarmente stanco ma di non voler rinunciare ai programmi che avevano per il resto della giornata, Pietro aveva preso ad essere più premuroso e più vivace per rallegrarlo.
Doveva ammettere che, nonostante le probabili occhiatacce che si stava guadagnando da chi stava camminando intorno a loro, ci stava riuscendo bene.
-Diciamo che preferisco ricordarlo in film tipo Pulp Fiction- disse, con vago tono di sfida, ma sorridendo ancora.
Pietro lo guardò con delusione esagerata, scuotendo la testa:
-Che gusti monotoni-.
-Almeno ho conservato un po’ di dignità e non mi son messo a ballare in mezzo ad una strada- Alessio si morse inconsapevolmente il labbro inferiore – Hai appena perso tutto il fascino che avevi acquisito con quella meraviglia di camicia dell’altro giorno-.
Forse fu solo una sua impressione, ma gli parve quasi di notare le gote di Pietro arrossarsi, mentre il silenzio calato lo spingeva a tornare a camminare, proseguendo per il resto della Walk of Fame che li attendeva ancora.
 


Strizzò gli occhi, aspettando che si abituassero alla luce aranciata del sole ormai sul filo dell’orizzonte, pronto a lasciar posto alla sera.
Pietro sbatté le palpebre un paio di volte, pentendosi di non essersi portato dietro un paio di occhiali da sole che, di sicuro, gli avrebbero reso la vita più facile in quell’intento.
Il tramonto era un momento in divenire così fugace che bastò aspettare pochi minuti prima che il sole si abbassasse sufficientemente per smettere di accecarlo, lasciando però ancora abbastanza luce per poter ammirare il paesaggio che si stagliava davanti a lui.
“È incredibile”.
Cominciava a capire come mai l’Osservatorio Griffith fosse così popolato in quel preciso momento della giornata: il punto preciso in cui si trovava la Hollywood Sign, sul Monte Lee, sembrava distante solo pochi metri, perfettamente visibile e ammirabile, svettante nel cielo che si stava tingendo di arancione e blu chiaro.
Fu forse quella vista che gli fece realizzare, per davvero e per la prima volta, dove si trovava.
Non era servito andare in cerca di incredibili luoghi pieni di storia per rendersene conto: era bastato un tramonto che probabilmente avrebbe ricordato per il resto della sua vita, in quella sfumatura particolare che aveva notato solo in quella parte del globo.
Qualcosa gli faceva presupporre che avrebbe ricordato Los Angeles per sempre, nel bene e nel male.
Esitante, mosse lo sguardo lontano da quella vista, ancora stampata sulle sue iridi, trovando a qualche metro da sé un Alessio altrettanto concentrato. Forse non si era nemmeno accorto che, nell’estasi della visione, gli si era formato un sorriso sulle labbra.
Lo osservò da distante, senza dirgli nulla, senza pentirsi del tutto di essersi perso ulteriori sfumature nel tramontare del sole che erano andati ad ammirare all’osservatorio.
Si sentì stranamente in pace, in quel momento, nell’osservarlo di profilo con il volto rivolto verso i grattacieli e le colline di Los Angeles, con quel sorriso che aveva sempre trovato così bello – così famigliare.
Forse, si ritrovò a pensare, non era del tutto una casualità che fosse proprio Alessio ad essere lì con lui in quel momento.
Destino o coincidenza, si sentì pieno di una felicità e di una leggerezza che non provava da tantissimo tempo.
 
Lost in the city of angels
Down in the comfort of strangers
I found myself in the fire burned hills
In the land of a billion lights
One life, one love, live
One life, one love, live
One life, one love, live
One life, one love, live
The city of angels*





 
*il copyright della canzone (Thirty Seconds To Mars - "City of angels") appartiene esclusivamente alla band e ai suoi autori
 
NOTE DELLE AUTRICI
E si va negli States!
Alessio e Pietro sono finalmente giunti oltreoceano e quindi... Che questa luuuuunga avventura abbia inizio. Tutto ha inizio dalla partenza in quel di Venezia, per spostarci poi a Los Angeles e, tra supermercati che sembrano più enormi centri commerciali e disastri culinari nei fast food americani, la prima giornata a Los Angeles si chiude così per il nostro duo. Alla fine in un modo o nell'altro il compleanno di Alessio è stato festeggiato ... Con il grande sacrificio dei vestiti di Pietro 😂
Ovviamente le loro avventure non si sono fermate lì, e come vediamo hanno già visitato alcune zone della metropoli… E questo primo aggiornamento non poteva che chiudersi con un panorama piuttosto suggestivo. Ma siamo solo all’inizio… Cosa ci riserverà questo capitolo americano? 
Ma prima di chiudere, un consiglio: per la lettura di questo capitolo munitevi di cuffie e ascoltatevi la playlist più americana possibile, per entrare nella giusta atmosfera :)
A mercoledì prossimo, e sperando abbiate passato un buon Natale, vi auguriamo un felice anno nuovo! Il 2024 riserverà parecchie sorprese!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 20
*** Capitolo 18 - God bless America (Pt. 2) ***


CAPITOLO 18 - GOD BLESS AMERICA (PT. 2)


 
Whatever’s on tonight, I just wanna party with you
Topanga's hot tonight, I’m taking off my bathing suit
You make me feel like
There's something that I never knew I wanted

We play the Eagles down in Malibu and I want it
 
Si sedettero all’ombra di un grande albero che costeggiava il marciapiede che confinava con la spiaggia, trovando delle panchine libere dove potersi fermare. Pietro chiuse gli occhi, sentendo le gambe piegarsi doloranti, i muscoli tirati e messi alla prova per tutto il giorno finalmente messi a riposo per un po’.
Stava calando la sera, anche se il sole pomeridiano che li aveva accompagnati per tutta quella domenica riusciva ancora a riscaldare e ad abbronzare; Pietro era piuttosto sicuro che da Los Angeles sia lui che Alessio se ne sarebbero andati un po’ meno pallidi di quando erano arrivati.
-Sono stanco morto- si lasciò sfuggire, in poco più di un sussurro – Non credo di sentire più le gambe-.
Avevano camminato davvero tanto quel giorno, sin dalla mattina. Anche se per la giornata le attività alla convention erano sospese, lui ed Alessio si erano svegliati presto comunque. Erano usciti dall’hotel dopo aver fatto colazione, avevano trovato un’agenzia di noleggio auto poco distante, e da lì era partito il programma che avevano pensato per trascorrere quella domenica altrimenti senza impegni. Avevano guidato molto, ma si erano mossi ancor di più a piedi, spostandosi prima verso le colline a nord di Los Angeles, e poi nel pomeriggio in direzione di Malibu fino a dove si trovavano ora, nei dintorni di Topanga Beach.
-E dobbiamo ancora tornare- sospirò Alessio, seduto di fianco a lui, ugualmente rosso in faccia, sudaticcio e probabilmente dolorante – Posso guidare io stavolta-.
Pietro annuì in assenso, piuttosto sollevato di essersi risparmiato almeno una mezz’ora di guida, tra le strade caotiche losangeline.
-Però ne è valsa la pena di guidare così tanto- soppesò ad alta voce, quasi più rivolto a se stesso che ad Alessio – Sembrava di stare in un qualche film oggi-.
Aveva avuto quell’impressione forse perché l’intera zona di Mulholland Drive era famosa proprio per il film omonimo. Era una meta che aveva proposto lui stesso, e per cui aveva insistito fino a quando Alessio non aveva ceduto fino a farla diventare meta del viaggio iniziato quella mattina, e non se ne era pentito affatto. Poteva essere una semplice strada, ma donava una vista sulla città niente male ed era stato elettrizzante camminarvi, come se fosse stato lui stesso il protagonista di un film così famoso e che guardava sempre volentieri.
-Solo oggi?- Alessio lo guardò con scetticismo – Non ti ricordi dove siamo stati ieri?-.
Pietro rise appena:
-Sì, ma Hollywood mi sa più di meta turistica-.
La città gli piaceva, ma forse quella giornata era stata addirittura migliore delle precedenti. Quando erano arrivati nei dintorni di Topanga nel pomeriggio, Pietro non aveva provato nostalgia del caos e dello splendore a tratti istrionico dei luoghi più significativi di Los Angeles. Avevano camminato dal Topanga Canyon, dove avevano lasciato l’auto noleggiata, ed erano poi giunti alla spiaggia.
-Qua è diverso- mormorò ancora, lo sguardo perso lungo la spiaggia dorata – Sembra di essere proprio in uno dei film che hanno girato da queste parti. Soprattutto a Mulholland Drive-.
-Non sono del tutto sicuro che mi piacerebbe essere in un film Lynch-.
-Potrei anche darti ragione-.
Risero entrambi, stanchi per quanto quella giornata era stata lunga, e ugualmente felici per quel che avevano visto.
Quando il silenzio calò, Pietro l’abbracciò come se ne avesse avuto bisogno già da tempo – per riposare, per pensare, per ricordare. Lasciò che il suo sguardo vagasse lontano, fino alle acque dell’oceano che bagnavano le coste californiane; se solo la temperatura fosse stata un po’ più alta, anche solo di poco, sarebbe stato molto tentato dal lasciare i propri vestiti lì e correre lungo la sabbia fino a raggiungere l’acqua, buttarcisi dentro e farsi un bagno direttamente lì vicino alla riva, dove poteva toccare e non farsi prendere dalla fobia che aveva sempre quando pensava alle acque profonde degli oceani e dei mari.
Il vibrare di un cellulare lo riportò alla realtà in meno di un secondo. Ebbe il dubbio che fosse il suo telefono per pochi secondi, quando Alessio tirò fuori il suo dalla tasca dei jeans e iniziò a leggere quello che doveva essere il messaggio appena arrivato.
Gli ci vollero pochi attimi prima che iniziasse a scuotere la testa, con un ghigno stampato in faccia.
-Lo sapevo che prima o poi Giulia si sarebbe fatta viva mentre eravamo qua-.
Pietro si voltò maggiormente verso di lui, ora incuriosito:
-Che ha scritto?-.
-Mi ha chiesto come sta proseguendo il viaggio- rispose Alessio, prima di rivolgergli uno sguardo piuttosto allusivo– E se ce lo stiamo godendo-.
-Il doppio senso era voluto?-.
Non c’era davvero bisogno di chiederlo, perché gli era bastata quell’espressione così evocativa di Alessio per capire di avere già la risposta.
-Visto l’emoji con cui concludeva la domanda, direi proprio di sì- Alessio si mise a ridere con leggerezza, senza davvero essersela presa – Sono molto tentato di provocarla di rimando e scriverle che ce la stiamo godendo eccome-.
Pietro sperò di non arrossire terribilmente a quelle parole, chiedendosi però da quando Alessio aveva cominciato ad essere così a suo agio a quelle allusioni che Giulia aveva sempre rivolto a entrambi. Era qualcosa di nuovo, inaspettato, e che lo destabilizzava molto più di quanto non gli sarebbe piaciuto ammettere.
-Ci crederebbe- si limitò a dire, a mezza voce.
-Lo so-.
Cercò di pensare velocemente a qualcosa per cambiare discorso, sentendosi improvvisamente molto più a disagio di quel che si sarebbe aspettato. La cosa che gli passò per la mente non era improvvisata, e pensare a Giulia in quel momento non aveva fatto altro che riportarla a galla.
-A te non sembra un po’ strana?- chiese ad Alessio, dopo alcuni attimi – Giulia, intendo-.
-Strana come?-.
Pietro alzò le spalle, cercando di tradurre in parole le sensazioni che aveva provato tutte le – poche- volte che, negli ultimi mesi, l’aveva incontrata.
-Non so … Assente? Triste?- scosse il capo, non abbastanza convinto – Mi sembra lo sia anche Filippo-.
Non credeva sarebbe mai riuscito a spiegarsi, non senza avere l’immagine precisa di come gli era parso il volto di Giulia l’ultima volta che l’aveva vista, ormai parecchie settimane prima.
Non era stato il pallore del viso, o gli occhi cerchiati da occhiaie scure come se fossero notti intere che passava senza dormire, e in fin dei conti non era stata nemmeno l’espressione vagamente cupa a spaventarlo – d’altro canto non erano stati mesi facili, i primi di quell’anno. Era stato il sorriso che gli aveva rivolto prima di salutarlo: un sorriso totalmente vuoto, che non aveva raggiunto gli occhi che si erano mantenuti distaccati quanto prima.
Filippo, d’altro canto, quando si erano ritrovati da soli nell’appartamento di Pietro più o meno nello stesso periodo, per poco tempo, non aveva nemmeno provato ad apparire sereno.
-Li hai visti ultimamente?- la voce di Alessio lo riportò alla realtà, i visi di Giulia e Filippo che stavano tornando pian piano a perdersi nei meandri dei ricordi.
-Credo sia passato un mese dall’ultima volta che ho visto Giulia- rispose, senza ricordare né l’occasione né il periodo specifico, se non quel particolare del suo sorriso spento – Filippo l’ho visto un paio di settimane fa-.
Alessio annuì, mugugnando appena. Passarono alcuni secondi prima che si decidesse a parlare di nuovo:
-Non ricordo neanche quando è stata l’ultima volta che li ho visti entrambi, e abitiamo in due palazzi vicini-.
-E non ti sembra strano che siano spariti così?-.
Alessio si girò verso di lui, dando un’alzata di spalle:
-Un po’ sì. Magari sono impegnati-.
Dal tono incerto in cui lo disse, Pietro intuì che nemmeno lui era molto convinto delle sue stesse parole.
-È che … -.
“Sembrano un po’ me e te quando non ci parlavamo”.
 Pietro si morse il labbro inferiore, una fitta al cuore che faticò ad ignorare.
-Non so, ho avuto una strana sensazione con entrambi quando li ho visti- mormorò infine, a mezza voce.
Tornò a osservare Alessio, pensieroso, in silenzio e intento ad ascoltarlo. Avrebbe voluto sapere che gli stava passando per la testa in quel momento, sapere se anche lui aveva avuto il suo stesso pensiero e se anche lui lo stesse tenendo per sé, impaurito di riportare al presente quel periodo.
O forse Alessio non ci stava pensando, forse non gli era venuto automatico compiere quel parallelismo. Forse, in fin dei conti, erano davvero situazioni troppo diverse per essere comparate.
-Come se si stessero tenendo dentro qualcosa-.
Pietro scostò lo sguardo dopo aver pronunciato quelle parole. Anche se nessuno di loro aveva detto qualcosa se non in riferimento a Giulia e Filippo, stava davvero provando la sensazione che ci fossero fin troppe cose non dette.
Forse era solo una sua impressione, ma non riusciva a scrollarsela di dosso.
-Magari stanno avendo un momento difficile-.
Alessio lo disse sospirando appena, stancamente.
-Io e te ne siamo parecchio esperti-.
Fu come un fulmine a ciel sereno, o almeno Pietro ne ebbe la stessa percezione.
Non si era davvero immaginato di sentirsi così – così sul filo del rasoio, così pieno di dolore- nel rendersi conto che, effettivamente, non era stato l’unico ad averci pensato. Sentirlo dire da Alessio fu una consapevolezza strana.
Quando ebbe la forza di girarsi verso di lui, dopo diversi momenti di silenzio, lo trovò già a guardarlo, con un esitante sorriso malinconico dipinto in viso.
-Però poi è sempre passato, no?-.
“Altrimenti non saremmo qui insieme a parlarne dall’altra parte del mondo”.
Ebbe il fulgido dubbio che forse, con quelle parole, era tornato a riferirsi a Giulia e a Filippo, ma qualcosa gli diceva che non era così.
Non fece in tempo nemmeno a prendere in considerazione l’idea di domandarglielo: Alessio si alzò dopo poco, guardandolo ancora con quello stesso sorriso triste.
-Meglio se cominciamo ad avviarci verso l’hotel- disse, lisciando le pieghe che si erano formate sui pantaloncini che indossava – Domani ci attende una giornata parecchio lunga-.
Pietro si limitò ad annuire, senza dire nulla.
Forse perché, in fondo, non c’era nient’altro da dire, non in quel momento.

 
It's you‚ all the roads lead to you
Everything I want and do, all the things that I say
It's true, all the roads lead to you
Like the 405 I drive through
Every night and every day
I see you for who you really are [1]
 
*
 
Girò la manopola della doccia, il getto dell’acqua che usciva dal soffione che si indebolì fino a smettere di scendere. Pietro si passò lentamente le mani sul viso ancora umido, scostandosi le ciocche di capelli bagnati che nel farsi la doccia gli erano finiti inevitabilmente davanti agli occhi.
Aprì l’anta scorrevole, allungando un braccio per afferrare uno dei due asciugamani che aveva già preparato sul bordo del lavandino lì vicino. Si tamponò la pelle della schiena e delle braccia, prima di legarselo in vita, uscendo poi dalla doccia. Prese l’altro asciugamano per cercare di asciugare un po’ i capelli, o almeno renderli un po’ meno umidi, prima di lasciarselo cadere sulle spalle e uscire dal bagno.
La doccia che si era fatto non appena lui e Alessio erano tornati dall’ennesima giornata di convention, finita quando ormai era tardo pomeriggio, era stata sufficientemente ristoratrice. Magari non si sentiva proprio in forma – e probabilmente non ci si sarebbe mai sentito senza una lunga dormita-, ma perlomeno l’acqua calda aveva aiutato a rilassare i muscoli delle spalle e del collo, alleviando almeno un po’ il mal di testa che la loro rigidità aveva causato.
Avrebbe continuato ad asciugarsi i capelli sedendosi sul suo letto, riposandosi tranquillamente, approfittando del fatto che c’era ancora abbastanza caldo da non rischiare di prendersi un malanno per non essersi rivestito subito.
Mosse qualche passo fuori dal bagno, verso il resto della camera, e fu dopo qualche secondo che si ritrovò a bloccarsi, preso in contropiede.
-Oh- Pietro si schiarì la voce per far sapere ad Alessio, girato di spalle, della sua presenza – Non pensavo fossi ancora qui-.
Lo osservò girarsi lentamente, ancora inconsapevole di come l’avrebbe trovato vestito – o non vestito-, sentendosi già arrossire ancor prima di riuscire a vederne il volto.
-Sì, in realtà … - Alessio iniziò a parlare mentre si voltava, ma quando si ritrovò con il viso ora rivolto a Pietro, fu come se la voce gli fosse morta in gola.
Ci vollero diversi secondi prima che decidesse di schiarirsi la voce e riprovare a parlare.
-In realtà sono già rientrato- mormorò stentatamente.
Pietro annuì, piuttosto indeciso sul da farsi. Era convinto di trovare la stanza vuota, ricordando perfettamente che Alessio, poco prima che si rinchiudesse in bagno per la sua doccia, l’aveva avvertito che sarebbe andato in cerca di un distributore automatico – a quanto pareva gli era salita un’irrefrenabile voglia di coca cola, che però non avevano in camera-, e che si sarebbe sgranchito un po’ le gambe camminando un po’ per l’hotel. Pietro ricordava ancora come l’aveva preso in giro per quell’ultimo dettaglio.
Non aveva calcolato di vederlo già di ritorno, perché in quel caso di certo non se ne sarebbe andato in giro mezzo nudo. Ora che però era uscito così dal bagno, tanto valeva far finta di aver sufficiente confidenza e di non essersene affatto pentito.
-Trovato quel che cercavi?- glielo domandò con voce molto più roca di quel che aveva sperato. Decise che era rimasto già troppo immobile per poter fingere naturalezza, e quindi iniziò a camminare verso il suo letto – definitivamente e innegabilmente più vicino a dove si trovava Alessio in quel momento.
Scostò lo sguardo dall’altro, anche se una parte di lui era curiosa di scoprire come avrebbe reagito a quella vicinanza.
-Sì, tutto a posto- lo sentì gracchiare a mezza voce.
Pietro si sedette sul bordo del suo letto, oltrepassando Alessio. Forse era stata solo una sua sensazione, ma si era sentito il suo sguardo addosso per tutti i secondi che gli erano serviti per arrivare alla sua meta.
Iniziò a frizionare i capelli con l’asciugamano che teneva appoggiato sopra la spalla, cercando di fingere ancora tutta la naturalezza possibile, ma era difficile anche solo provarci in quel silenzio evidentemente pieno d’imbarazzo.
-Hai già in mente un posto dove andare a cenare?- chiese ad un certo punto, per spezzare l’atmosfera. Quando si voltò, però, quasi si pentì di averlo fatto sul serio.
“Stava davvero … ?”.
-Eh?- Alessio non aveva evidentemente ascoltato nulla di quel che aveva detto, troppo impegnato a scostare lo sguardo comunque troppo in ritardo per non farsi beccare.
Per un attimo Pietro rimase interdetto: non era certo la prima volta che Alessio lo vedeva a torso nudo, e con tutta probabilità non sarebbe nemmeno stata l’ultima.
C’era qualcosa di diverso, però, forse nel rossore che gli ricopriva le gote e che metteva in evidenza le lentiggini sul naso, ed anche nel modo in cui aveva reagito nel vederlo così.
Pietro si sforzò di non pensarci troppo, scuotendo appena il capo.
-Dicevo: hai già in mente un posto dove andare a cenare?-.
Alessio, se possibile, arrossì in maniera ancor più evidente.
-Ah- farfugliò, prima di sedersi a sua volta sul suo letto, le gambe incrociate e lo sguardo stavolta lontano da lui – No, tu hai qualche idea?-.
-C’è un Taco Bell non troppo distante da qui- Pietro lo disse con noncuranza, fermandosi qualche secondo dall’asciugarsi i capelli – Se usciamo tra poco, dovremmo arrivarci ad un’ora decente-.
Alessio annuì, abbassando gli occhi sul suo cellulare che aveva lasciato sul materasso.
-Poi dovremmo rientrare abbastanza presto, dovrei finire un pezzo che devo inviare entro stasera-.
Anche se non se l’era del tutto aspettato, con la coda dell’occhio Pietro lo vide alzare di nuovo il viso, lasciar vagare per un po’ gli occhi su di lui, prima di schiarirsi di nuovo la voce:
-Va bene, nessun problema-.
Tornò ad abbassare lo sguardo sullo schermo del cellulare, come se si trovasse da solo nella stanza.
Per un folle attimo, Pietro si ritrovò a desiderare che alzasse di nuovo il viso e lo guardasse nello stesso modo con cui l’aveva osservato fino a pochi minuti prima. Si era sentito in imbarazzo alla consapevolezza degli occhi di Alessio sul suo corpo seminudo, ma c’era anche altro – qualcosa che lo spingeva a sperare che succedesse di nuovo, più a lungo.
Avrebbe voluto rivedere il rossore diffuso sulle gote altrimenti pallide di Alessio, vederne gli occhi spostarsi sulle curve e i muscoli del suo corpo, cercando di non farsi vedere da lui e continuando a scorrere lo sguardo sulla sua schiena nuda.
Pietro si riscosse qualche secondo dopo, a tratti sorpreso persino da se stesso.
“Che idea stupida”.
Si alzò subito dopo dal letto, voltandosi distrattamente verso Alessio:
-Allora vado a vestirmi- annunciò senza troppo entusiasmo.
Lo osservò annuire con gli occhi ancora rivolti altrove, e non certo su di lui:
-Perfetto-.
Pietro si mosse verso l’armadio della stanza senza aggiungere altro, aprendo l’anta dove aveva riposto quasi tutti gli abiti portati per il viaggio. Ne tirò fuori una maglietta e un paio di jeans a caso, i primi che aveva trovato, avviandosi verso il bagno con fare indispettito senza sapere bene come spiegarlo. 
 
*
 
Era incredibile come il flusso di gente a Los Angeles fosse tale e quale sia dentro gli edifici che lungo le strade. C’era invariabilmente sempre una gran folla che faceva sentire Pietro sull’orlo del soffocamento, molto peggio di quando nei casi più sfortunati si ritrovava a dover camminare per Venezia durante i giorni di Carnevale. Era qualcosa che si aspettava sempre, in quel caso, ma non aveva ancora cominciato davvero a mettere in conto l’idea che sembrasse che l’intera popolazione losangelina si riversasse costantemente in ogni angolo della città ogni singolo giorno.
Il Beverly Center era altrettanto affollato, persino a quell’ora del pomeriggio, quando la gran parte delle persone doveva ancora essere al lavoro. Pietro non se lo spiegava, ma ormai cominciava a rinunciare a cercarci una logica.
L’idea di cercare dei souvenir in quel centro commerciale enorme – vasto un po’ come qualsiasi cosa che gli americani costruivano- era stata di Alessio, anche se lui non aveva avuto alcuna rimostranza. Doveva fare delle compere anche lui, d’altro canto.
Era quello il motivo principale che l’aveva portato nella zona dedicata al make up in un negozio enorme, di cui ancora non aveva capito bene l’area di commercio – vestiti? Beauty? Magari entrambe le cose-, e in cui aveva perso Alessio dopo pochi secondi. Sperava solo fossero in grado di ritrovarsi senza dover passare ore a rincorrersi.
Guardò con sguardo attento lo scaffale dove erano in mostra diverse palette. Erano tante, di diverse nuances e sfumature, alcune con packaging davvero esagerati, e si chiese, con una punta di disperazione, se sarebbe mai riuscito a trovare in quella baraonda quella che Martino gli aveva chiesto di comprargli.
Si avvicinò maggiormente, acuendo lo sguardo: ce n’era davvero una vastità incredibile, quasi disorientante per uno che, come lui, di make up non sapeva assolutamente niente.
Cercò il cellulare nella tasca dei jeans, recuperandolo dopo pochi secondi e sbloccandolo subito, andando dritto nella chat di messaggi con Martino. Scorse un po’ in su, fino a quando non trovò l’immagine che l’altro gli aveva girato della palette che gli aveva chiesto di cercare: era una piuttosto grande, quindi altrettanto vistosa, di un’arancione pastello e con il nome It’s a mood stampato in bella vista. Non doveva essere troppo difficile da individuare, almeno per le dimensioni e il nome ben leggibile.
Scorse un po’ di palette prima di arrivare finalmente a trovarla. Dovevano esserci voluti un po’ di minuti per riuscirci, e Pietro si sentì incredibilmente soddisfatto di sé quando poté allungare una mano per prenderne una dalla fila di palette tutte uguali piazzate a metà di uno scaffale.
Martino gli doveva decisamente un favore.
-E quella per chi è?-.
Pietro sobbalzò visibilmente, quasi facendosi sfuggire la palette – già piuttosto ingombrante- a terra. Quando si riprese la tenne ancor più salda tra le mani, mentre si girava di lato, quasi trasalendo nuovamente nel ritrovare il viso di Alessio pericolosamente vicino al suo.
-Scusa, domanda spontanea- disse ancora lui, soffocando a stento una risata per l’evidente reazione che aveva avuto la sua comparsa improvvisa – Non mi sembri grande amante del make up-.
Pietro deglutì: aveva sperato ardentemente di non dover proprio arrivare a quella conversazione.
-È un souvenir- si affrettò a dire, già consapevole di star arrossendo – Per un amico-.
La fronte di Alessio si piegò in varie rughe di confusione.
-Un collega-.
-Di lavoro?- chiese Alessio, un sopracciglio alzato.
Pietro non ci pensò due volte a cogliere la palla al balzo:
-Sì, esatto-.
Si sentì un po’ colpevole per quella bugia appena rifilata. Era sicuro che prima o poi ci sarebbe stata occasione per parlare ad Alessio di Martino, magari anche di farli conoscere, ma sentiva che non era quello il momento migliore. Non ancora.
-E credi che potrebbe piacergli una palette?-.
A quella domanda, perlomeno, aveva già la risposta, e non doveva nemmeno pensarne una falsa:
-Beh, me l’ha espressamente richiesta, quindi … -.
-Allora direi che vai sul sicuro- Alessio ridacchiò tra sé e sé, allegramente – D’altro canto c’è chi vuole dei magneti da attaccare al frigorifero, e chi vuole una palette di Colourpop-.
-Ognuno ha i suoi gusti- convenne Pietro, sommessamente.
-Infatti-.
Alessio fece per allontanarsi, ma non fu così veloce da evitare, dopo qualche secondo di realizzazione, lo sguardo incuriosito e stupito allo stesso tempo di Pietro:
-Aspetta, ma conosci già il brand?-.
La prima risposta che ricevette fu una risata vagamente imbarazzata.
-Non fare domande-.
Pietro convenne, tra sé e sé, che forse era proprio meglio non farne.
 
*
 
I miss Long Beach and I miss you, babe
I miss dancing with you the most of all
I miss the bar where the Beach Boys would go
Dennis' last stop before Kokomo
Those nights were on fire
We couldn't get higher
We didn't know that we had it all
But nobody warns you before the fall [2]
 
La sfumatura del cielo si stava facendo sempre più aranciata, sempre più intensa mentre il sole calava all’orizzonte, con il blu della sera già in vista a creare il netto contrasto con la metà solcata dai colori caldi del tramonto.
Pietro lasciò che i piedi affondassero nella sabbia fine, mentre era fermo in piedi con lo sguardo rivolto all’oceano e al sole sempre più basso all’orizzonte. Stava tenendo in mano le scarpe che si era tolto almeno un’ora prima, preferendo camminare con la pelle libera e a diretto contatto con la spiaggia, come se fosse una qualsiasi giornata estiva anziché un pomeriggio di neanche metà Aprile.
-È stata una bella passeggiata, eh?-.
Anche se non si era girato nella sua direzione, Pietro sapeva che Alessio era in piedi accanto a lui. La sua voce gli era giunta dalla breve distanza, e poteva immaginare senza problemi il sorriso con cui gli si era rivolto.
Avevano vagato per tutto il pomeriggio, prima dalle parti di Marina del Rey e poi verso nord, attraversando Venice e la sua area così vivace, colorata, piena di vita. Avevano costeggiato l’oceano per tutto il tempo, fino alla spiaggia di Santa Monica. Anche se la breve visita che avevano fatto al Santa Monica Pier era stata piacevole, Pietro preferiva essere tornato sulla sabbia, a piedi scalzi e con il sole che stava velocemente lasciando posto alle tinte scure del cielo della sera.
Era stato un percorso forse semplice, se paragonato anche solo ad esempio alla loro visita del giorno prima agli Universal Studios, ma non gli importava. Era contento di poter vedere l’oceano così da vicino, ancor di più di quanto non lo avesse visto a Topanga, pur senza toccarne le acque gelide. L’infrangersi a riva delle onde aveva accompagnato lui ed Alessio per tutto il tragitto, senza abbandonarli mai nonostante il chiacchiericcio della gente attorno a loro.
-Ci abbiamo messo così tanto che tra poco sarà notte- rise Pietro, con contentezza. Immaginava che prima o poi sarebbero dovuti tornare al caos del centro città, anche solo per trovare un posto per cenare, ma non aveva voglia di pensarci. Voleva restare lì per un po’, senza dover pensare al pendente impegno che lo attendeva all’hotel, cioè quello di dover scrivere un altro pezzo che poi avrebbe dovuto inviare al giornale.
C’era tempo per pensarci. Ora voleva solo godersi un po’ di aria salmastra.
-In realtà non credo che abbiamo camminato per più di due ore- lo corresse Alessio, senza troppa convinzione – Forse un’ora e mezza-.
Pietro fece qualche passo in avanti, verso una zona della spiaggia dove non c’era troppa gente. Si sedette sopra la sabbia, aspettando che Alessio lo raggiungesse e lo imitasse.
Dovette aspettare a malapena un minuto per vederlo sedersi alla sua sinistra, con lo sguardo altrettanto perso verso la vastità marina che si presentava davanti a loro.
-Ti va se restiamo un po’ qui?- chiese Pietro, dopo qualche secondo – Volevo vedere l’oceano di sera-.
Notò con la coda dell’occhio Alessio voltarsi verso di lui, un sorriso dolce a disegnarli le labbra:
-Possiamo restare qui fin che vuoi-.
 


-Era da tanto che non vedevo il mare di notte-.
Pietro si lasciò andare ad una risata gutturale, girandosi verso Alessio e già pronto a correggerlo:
-Di sicuro è la prima volta che vedi l’oceano di notte-.
In tutta risposta anche Alessio si mise a ridere, ora consapevole dell’errore appena commesso.
Avevano perso entrambi la cognizione del tempo, di questo Pietro ne era sicuro. Ed era altrettanto sicuro che a nessuno di loro importasse davvero; era piuttosto probabile che se ne sarebbero andati a cena molto più tardi del solito, nel primo diner che avrebbero trovato, e che poi sarebbero anche rientrati in hotel molto più tardi rispetto al previsto. Lavorare fino a notte fonda per rimanere in riva all’oceano ancora un po’ era un compromesso che per Pietro poteva funzionare.
Non ricordava un altro momento in cui si era sentito così sereno come quello in cui si trovavano ora, mentre le luci della città davano loro la possibilità di non cadere nella completa oscurità, e di distinguere le sfumature scure delle acque dell’oceano.
Non c’era silenzio completo – non erano nemmeno del tutto soli, con molte altre persone che stavano ancora passeggiando o che li stavano imitando seduti sulla sabbia-, non in una città come Los Angeles, ma a Pietro andava bene.
Voleva rimanere in quella bolla di tranquillità il più a lungo possibile.
-Il mare di notte l’avevamo visto in Puglia, ti ricordi?-.
Se l’era lasciato sfuggire con naturalezza, un po’ come era stato fino a quel momento. Lui e Alessio avevano parlato di tutto e di niente, senza mai fermarsi, tra risate e momenti di silenzio che non era mai diventato imbarazzato. Ed era da un po’ che ci stava pensando, che gli era tornata in mente l’ultima volta che si era trovato su una spiaggia quando il sole era già calato, e gli sembrò una coincidenza curiosa che Alessio fosse di nuovo lì con lui, come era accaduto nove anni prima.
-Certo che mi ricordo- Alessio si lasciò andare ad un sospiro nostalgico – La nostra prima vacanza insieme-.
“Ed anche l’ultima che ci sia mai stata” si ritrovò a pensare Pietro, ma non lo espresse a voce.
-Eravamo dei cazzoni a malapena maggiorenni- mormorò ancora Alessio, con voce a malapena udibile.
-Ora siamo dei cazzoni quasi trentenni- rise debolmente Pietro – E non abbiamo nemmeno un falò acceso-.
-E neanche una chitarra-.
Pietro si ritrovò a ridere di nuovo:
-E il resto della ciurma-.
-Almeno possiamo stare in tranquillità- puntualizzò Alessio, anche se dalla fugace malinconia che gli aveva velato lo sguardo Pietro intuì che, in realtà, doveva mancargli la compagnia degli altri.
“Quando è stata l’ultima volta che ci siamo visti tutti insieme?”.
Pietro non seppe rispondersi. Era dall’inizio dell’anno – ma forse anche prima, ora che ci rifletteva- che era successo di tutto, e tante altre cose a lui ancora oscure. Non era poi così strano che in fin dei conti non fossero riusciti a vedersi tutti e sei insieme fino a quel momento: tra figli, lavoro e gli impegni della vita quotidiana, non riusciva a incolpare né Caterina né Nicola per non aver voglia di partecipare alla vita mondana, non dopo l’aborto spontaneo. E poi c’erano Giulia e Filippo, così sfuggevoli e così strani che era palese fosse successo qualcosa, anche se non l’avevano detto.
E non poteva non tirare dentro anche se stesso, perché era dalla prima sera che aveva messo piede al Celebrità che aveva preferito passare le sue serate là, in compagnia di Martino, piuttosto che in altro modo. Alessio era la sua unica eccezione, l’unica persona del loro gruppo di amici che aveva sempre visto spesso, e la cui presenza era rimasta una routine alla quale difficilmente avrebbe voluto rinunciare.
Mentre lo pensava si girò verso di lui, seguendone il profilo del viso. Era di nuovo perso con lo sguardo chissà dove, rapito da ciò da cui erano circondati.
-È davvero bello qui-.
Alessio lo mormorò quasi si fosse reso conto degli occhi di Pietro su di sé. Ci vollero alcuni secondi prima che si girasse a sua volta verso di lui: Pietro lo vide inaspettatamente teso, la fronte corrugata e lo sguardo fuggente mentre si mordeva il labbro.
Attese che dicesse qualcosa, evidentemente combattuto se rinunciarvi o farsi avanti.
-Posso dirti una cosa?-.
Per un attimo Pietro temette il peggio, ma riuscì ad allontanare i dubbi:
-Certo-.
Alessio lo guardò a lungo, in silenzio, gli occhi azzurri che stavolta non stavano cercando vie di fughe per evitare il contatto.
-Sono contento di essere qui con te-.
Pietro avvertì il proprio cuore perdere un battito. Era stata una cosa fugace, durata un singolo momento, ma sarebbe stato stupido non ammettere che lo aveva percepito.
Si voltò meglio verso Alessio, senza sapere bene cosa dire.
Sarebbe bastato dirgli che anche lui si sentiva così? Che nonostante la mole di lavoro che aveva ogni sera, le mattinate pesanti passate alla convention e i momenti in cui la sua testa era così incasinata con l’inglese da non riuscire nemmeno più a formulare un pensiero in italiano corretto, era davvero felice di essere lì?
Non fece in tempo a dire nessuna di queste cose, solo a pensarle, perché Alessio scostò di nuovo lo sguardo come se si fosse appena bruciato su una superficie incandescente, sospirando a pieni polmoni.
-Quando ti avevo proposto il viaggio non ero del tutto sicuro che avresti accettato-.
Pietro si ritrovò a corrugare la fronte, preso contropiede:
-Come mai?-.
Alessio continuò a tenere lo sguardo rivolto altrove, torturandosi le mani in grembo, in evidente difficoltà. Forse si era pentito di essersi lanciato in una conversazione che Pietro aveva la sensazione non sarebbe finita con un paio di parole.
-Per un sacco di motivi-.
Alessio lo mormorò con voce incerta, e Pietro lo prese come un segnale che aveva bisogno di tempo, e non cercò di incalzarlo.
-Avevi appena cambiato lavoro e magari non potevi combinare la cosa, e poi magari non ti andava di allontanarti dall’Italia per due settimane intere, lontano dai bambini- Alessio alzò le spalle, prima di lanciargli una veloce occhiata, con sguardo mesto – Forse non ti andava di passare due settimane, lontano da casa, e solo con me-.
Prima ancora che potesse anche solo processare le parole che Alessio gli aveva detto, men che meno ragionarci sopra, Pietro si affrettò ad aprire bocca:
-Non è così-.
Scorse il viso di Alessio, l’espressione ancora esitante come se non fosse del tutto convinto della sua rassicurazione.
Forse perché, si ritrovò a pensare, aveva buoni motivi per non esserlo.
Pietro sospirò pesantemente, e stavolta fu lui a scostare lo sguardo altrove: non si era aspettato di affrontare quell’argomento proprio in quel momento. Non mentre erano a Los Angeles, non in una giornata in cui era stato tutto perfetto e che rischiava di finire in una conversazione troppo delicata e su cui avrebbe dovuto spiegarsi al meglio.
Ebbe paura, ma forse era semplicemente arrivato il momento di affrontare anche quel lato della loro relazione, l’elefante nella stanza che c’era da anni, e che non se ne sarebbe mai andato se non affrontato.
-Ci sono stati tempi in cui forse ti avrei detto di no, è vero-.
Dirlo a voce alta, dopo tutto quel tempo, fu terribile e liberatorio allo stesso tempo. Alzò gli occhi su Alessio, muovendosi sulla sabbia per avvicinarsi a lui.
-Però non è più così-.
Sperò che ad Alessio bastassero quelle parole. Era tutto racchiudibile lì dentro, sia il passato che il presente. E forse il passato era più pesante di quel che stava facendo passare, ma ebbe l’impressione che per quello non era ancora venuto il tempo giusto.
-Lo so che ci sono stati periodi in cui non volevi avvicinarti- Alessio lo ammise con voce spenta – Non ne abbiamo mai parlato tra noi, però lo sentivo-.
Pietro annuì impercettibilmente.
C’erano state così tante cose a distanziarli negli anni che era sicuro di non ricordarle nemmeno tutte. C’erano state prima Alice e poi Giada, la cui presenza cozzava così dolorosamente con ciò che aveva provato.
C’era stata la scoperta della sua sessualità, e poi Fernando.
C’era stata la notte della laurea di Caterina, ed il bacio che Alessio sembrava non aver mai ricordato – o che aveva sempre ignorato consapevolmente.
C’era stato l’amore che aveva provato verso di lui, in ogni forma possibile, quello provato per un amico e quello che rappresentava ben di più.
Era facile capire cosa li avesse portati distanti – troppe cose da sopportare, così tante che era logico fosse accaduto-, ma gli era altrettanto chiaro come mai fossero sempre tornati a incontrarsi di nuovo.
Era qualcosa che non sapeva spiegare, che andava oltre la sua comprensione, ma che c’era, ed era evidente.
Alessio si morse il labbro inferiore, scuotendo appena il capo:
-E non sapevo che fare … E alla fine non facevo mai niente-.
Pietro annuì, un po’ sorpreso da quell’ammissione di Alessio. Non si era aspettato che lo dicesse – forse non si aspettava nemmeno che se ne fosse reso conto e che lo avesse fatto consapevolmente.
“Ma alla fine non ho mai fatto nulla nemmeno io per migliorare le cose”.
Il caos di Los Angeles impediva che tra loro calasse il silenzio completo della sera. Alle spalle di Pietro la città era ancora viva, vivida nelle sue mille luci e nelle persone che la abitavano, e un po’ di quella vividezza arrivava fino a lì, illuminando anche se di poco il viso di Alessio e il suo.
Quando Alessio parlò di nuovo, lo vide con la coda dell’occhio girarsi verso di lui, stavolta con un sorriso malinconico sulle labbra.
-Però sono contento che le cose siano migliorate proprio prima che perdessi Fernando-.
Alessio chiuse gli occhi per qualche secondo, come se il peso delle sue stesse parole fosse troppo anche per lui.
-Se non ci fossi stato in quel periodo non credo me lo sarei mai perdonato-.
“Ma non è successo”, pensò Pietro, ed era felice di poterlo dire.
Non aveva nemmeno idea di come sarebbe stato senza Alessio accanto, e in fondo non voleva neanche pensarci. Avere Alessio di nuovo lì con lui era stato uno degli ultimi regali che Fernando gli aveva donato, forse inconsapevolmente, ma di cui gli era ancora grato.
-Anche io sono contento-.
Alessio gli sorrise più apertamente, e fu un sorriso che raggiungeva anche gli occhi. Non era un sorriso semplicemente di circostanza, era una manifestazione che anche lui era felice che le cose fossero andate così. Che nonostante le difficoltà in un modo o nell’altro ce l’avevano fatta a superarle.
Che in un modo o nell’altro non aveva mai smesso di sperare di non dover rinunciare a quel che avevano.
“E cos’è che abbiamo ora?”.
Porsi quella domanda, in maniera così istintiva e così inaspettata, destabilizzò Pietro più di quanto si sarebbe aspettato. Forse perché era da un po’ di anni che aveva smesso di domandarselo.
C’era però una serenità che non poteva altrettanto negare, come se fosse in grado di accettare qualsiasi risposta potesse rispondere a quella sua domanda.
 
On my pillow
Can't get me tired
Sharing my fragile truth
That I still hope the door is open
’Cause the window

Opened one time with you and me
Now my forever's falling down
Wondering if you'd want me now
 
Si passò la lingua sulle labbra secche, abbassando per qualche secondo gli occhi.
-È stata dura l’anno scorso. Lo è ancora, in certi momenti- ammise a mezza voce, cercando di ignorare almeno per il momento i suoi stessi interrogativi – Però in un modo o nell’altro riesco a pensare che ovunque sia, ora sta bene. E probabilmente sa che anche io me la sto passando meglio-.
Non c’era dolore nella sua voce. Non ce n’era perché aveva imparato a conviverci, a capire che in fondo era più bello ricordare Fernando con un sorriso nostalgico piuttosto che con gli occhi velati di lacrime.
La nostalgia, quella sì, c’era sempre, ed era sicuro che ci sarebbe sempre stata.
Era simile alla malinconia che leggeva ora nelle iridi chiare di Alessio, che lo stavano scrutando piano, con empatia, come se la mancanza che stava provando Pietro la sentisse un po’ come se fosse anche sua.
-Sono sicuro che lo sa-.
Anche se non si stavano toccando, solo le loro ginocchia che si stavano sfiorando per la poca distanza a cui si trovavano, Pietro si sentì comunque protetto dall’abbraccio che lo sguardo dolce e apprensivo di Alessio gli stava facendo provare. Non era fisicamente lì ad attirarlo a sé tra le sue braccia, ma era come se lo stesse facendo davvero, guardandolo in un modo che Pietro non ricordava di avergli visto mai fare.
Si voltò verso l’oceano, perdendosi nelle sfumature oscure della notte. Cominciava a fare freddo, e cominciava anche ad avere fame, ma non era ancora pronto ad alzarsi da lì.
Non dissero nulla per quelli che gli parvero minuti infiniti, almeno fino a quando Pietro non avvertì l’avventata curiosità di porre ad Alessio la domanda che gli stava ronzando in testa:
-E con Alice come procede?- chiese con aria vaga – È da un po’ che non ne parli-.
Alessio sbuffò piano, rilassato:
-In realtà non c’è molto altro da dire- rise appena tra sé e sé – Andiamo d’accordo, per quanto possano andare d’accordo due ex che per vari motivi vivono ancora nella stessa casa-.
Pietro rise a sua volta, trattenendosi a stento dal fargli presente che di sicuro se la stavano cavando meglio di quanto non avessero mai fatto lui e Giada nei pochi mesi in cui erano rimasti sotto lo stesso tetto dopo il suo coming out e conseguente rottura tra loro. Da quando si erano riappacificati, lui ed Alice, Alessio gli era sempre parso piuttosto sereno, almeno da quel lato; la sua mancanza di lamentele era un chiaro sintomo che, in fin dei conti, stavano facendo quadrare le cose. Lo stavano facendo per i bambini, o forse anche perché stavano davvero meglio come amici che come compagni, ma il risultato, supponeva Pietro, doveva essere comunque molto buono.
-Però sono contento per lei- disse ancora Alessio, riflessivo – Ora che sta con Sergio si vede lontano un miglio che è molto più serena. Più felice-.
A Pietro parve quasi che Alessio avesse omesso la parte finale della frase, come se avesse in realtà pensato “più felice senza di me”. Non doveva esserne addolorato, però: era sicuro che Alessio doveva sentirsi piuttosto sollevato dal fatto che Alice si stesse rifacendo una vita, che non fosse rimasta aggrappata al passato.
Pietro un po’ la invidiava. Ci era riuscita molto più velocemente di quanto non sarebbe mai riuscito a fare lui in una situazione analoga, continuando a vivere senza guardarsi indietro.
Forse, più che invidia, c’era più ammirazione.
-Ha trovato qualcuno che sa apprezzarla fino in fondo-.
Alessio continuò a parlare, con sguardo consapevole e grave.
-Io non ci sono mai riuscito, e lo avremmo dovuto ammettere entrambi molti anni fa-.
-Potrei dire lo stesso per me e Giada- mormorò sottovoce Pietro, il ricordo della sera in cui aveva fatto coming out che ritornava a galla nuovamente – Diciamo che l’importante è rendersene conto ad un certo punto-.
“E mi ci sono voluti anni per rendermi conto di un sacco di cose” pensò ancora. Giada era stata solo la punta dell’iceberg, né la prima né molto probabilmente l’ultima cosa su cui si era reso conto di aver sbagliato.
Lasciò vagare lo sguardo su Alessio per qualche secondo, una domanda sulla punta della lingua che era ancora esitante sul porre. Quando calò di nuovo il silenzio troppo a lungo, si decise a non fare il codardo:
-Non hai conosciuto nessuno con cui vorresti uscire?-.
Evidentemente la sua domanda non era del tutto prevedibile, perché vide Alessio girarsi verso di lui di scatto con occhi sgranati:
-Che?-.
Di fronte a quell’espressione stupefatta, Pietro si mise inevitabilmente a ridere. Smise qualche attimo dopo, quando si rese conto che Alessio non sembrava particolarmente divertito.
Ebbe il timore di scoprire che, in realtà, come risposta a quella domanda poteva esserci molto di più di quello che aveva ipotizzato; si pentì immediatamente, in una sorta di panico che non comprese appieno.
-No, non direi- disse infine Alessio, con un filo di voce come se non fosse del tutto convinto nemmeno delle sue stesse parole – Non è che esca molto, ultimamente-.
Qualche attimo di silenzio, e per un secondo Pietro ebbe la sensazione di vederlo arrossire:
-Praticamente esco solo con te. Il più delle volte, almeno-.
Pietro gli sorrise, con tenerezza:
-Ed è qualcosa di negativo?-.
Stavolta era abbastanza sicuro di quel che avrebbe risposto Alessio. Si era sentito sollevato quando gli aveva detto che non stava vedendo nessuno, che non c’era nessuno all’orizzonte – che usciva solo con lui-, e per un breve attimo si sentì in colpa. In fin dei conti Alessio aveva tutto il diritto di trovare qualcuno con cui condividere la vita, ma l’idea che ci potesse già essere qualcun altro lo aveva fatto sentire in un modo che nemmeno lui sarebbe stato in grado di pensare. In un modo a cui non voleva pensare.
Alessio lo guardò a lungo, intensamente, prima di rispondere:
-Perché dovrebbe esserlo?-.
Pietro si sforzò di non vedere troppo oltre quella che poteva essere a tutti gli effetti una semplice domanda, una domanda che aveva un unico significato.
Si sforzò davvero di farlo, anche se c’era qualcosa negli occhi azzurri di Alessio, qualcosa di insolito, una scintilla che non aveva mai scorto prima, che gli faceva supporre che non fosse una domanda semplicemente sul perché poteva esserci un lato negativo sul loro vedersi spesso.
“Perché dovrebbe esserlo?”, pensò, come se Alessio si fosse rivolto più all’idea che in effetti era lui la persona con cui stava uscendo, la persona con cui avrebbe voluto uscire in altro modo oltre a quello amichevole.
Era sicuro che, in un qualsiasi altro momento della sua vita, precedente a quella sera, Pietro avrebbe reagito a quella possibilità impazzendo – se di gioia o di paura, o magari entrambe, nemmeno lui lo sapeva.
In quell’attimo, però, con le iridi chiare di Alessio ancora su di sé, con lo scroscio e lo sciabordio delle onde dell’oceano a cullarli come se fossero sopra ad una barca, con la sabbia ormai fredda sotto il suo corpo, e con le luci di Los Angeles a rendere il tutto meno buio, non si sentì né l’una né l’altra.
Si sentiva solo sereno, come appena svegliatosi da un lungo sonno ristoratore.
-Non lo so-.
Si era sforzato di parlare normalmente, ma sentì la propria voce più roca di quel che si sarebbe aspettato.
-Magari preferiresti trovare qualcuno di cui poterti innamorare-.
Alessio continuò a guardarlo in attesa, quasi senza battere ciglio.
-Qualcuno che ameresti e che ti amerebbe-.
Prima ancora che dicesse qualcosa, ci fu un breve allungare delle labbra di Alessio – come poco prima che si aprissero in un sorriso soffice, quasi nostalgico- che però non arrivò mai ad essere un vero sorriso, e per un attimo a Pietro parve quasi di vedere tutti i pezzi del puzzle rimettersi a posto.
“Forse non serve che tu vada in cerca tanto distante per trovare quel qualcuno”.
 
How could I know
One day, I’d wake up feeling more
But I had already reached the shore
Guess we were ships in the night, night, night
We were ships in the night, night, night
 
-Non è che devo per forza conoscere gente nuova per trovare quella persona- mormorò infine Alessio, continuando a guardarlo – A volte basta guardarsi intorno per scoprire che avevi già quella persona vicino a te-.
Quando Alessio si decise finalmente a interrompere quel contatto visivo prolungato, Pietro ne sentì tutta la sua mancanza – anche se per un attimo aveva quasi creduto che si sarebbe girato verso di lui maggiormente, quasi per avvicinarsi di più.
“Me lo sto immaginando?”.
-In ogni caso mi va bene così- la voce di Alessio suonò più esitante, in un soffio a malapena udibile – Mi piacciono i nostri incontri-.
Fu di nuovo come se suonasse diversamente, oltre che nel suo significato letterale – come se quelle parole sottintendessero che gli piaceva passare il tempo con lui, in qualsiasi modo fosse-, e Pietro si chiese davvero se era tutto frutto della sua stessa immaginazione, o se Alessio stava cercando di dirgli qualcosa.
 
I'm wondering, are you my best friend?
Feels like a river's rushing through my mind
I wanna ask you if this is all just in my head
My heart is pounding tonight, I wonder
If you are too good to be true
And would it be alright if I
Pulled you closer
 
-Il fatto è che … -.
La voce di Alessio morì persa tra le onde dell’oceano, negli schiamazzi delle altre persone che come loro stavano lì in spiaggia, nel traffico losangelino della sera che stava virando alla notte e che per nessun motivo si sarebbe mai fermato.
Sembrò dovesse accumulare sufficiente coraggio per dire quello che stava per pronunciare, sufficiente coraggio per tornare a voltarsi verso Pietro, stavolta senza nascondere il sorriso incerto disegnato sulle sue labbra.
-Sto bene con te-.
Stavolta Pietro fu sicuro che non si fosse immaginato Alessio sporgersi un po’, ma fu solo per un brevissimo attimo, che di sicuro gli sarebbe sfuggito se non avesse tenuto gli occhi su di lui per tutto il tempo.
-A volte sto così bene con te che la cosa un po’ mi spaventa-.
Era vero, e Pietro lo capiva. Lo comprendeva fin troppo bene, ma allo stesso tempo ricordò della sensazione di serenità che aveva provato pochi minuti prima.
Ed era ancora lì, a cullarlo su quella spiaggia tra le sue braccia, sussurrandogli che stavolta non c’era nulla da aver paura, che le cose erano totalmente diverse, che era al sicuro.
E che difficilmente si sarebbe mai dimenticato di quella serata in riva all’oceano californiano.
-Anche a me-.

 
How could I know
One day, I'd wake up feeling more
But I had already reached the shore
Guess we were ships in the night, night, night
We were ships in the night, night, night [3]
 
*
 
If you come back to America, just hit me up
'Cause this is crazy love, I'll catch you on the flip side
If you come back to California, you should just hit me up
We'll do whatever you want, travel wherever how far
We'll hit up all the old places
We'll have a party, we'll dance 'til dawn
I'll pick up all of your Vogues and all of your Rolling Stones
Your favorite liquor off the top shelf
I'll throw a party all night long [4]
 
Anche se non erano all’ultimo piano dell’hotel, o ad uno degli ultimi, il panorama visibile dal piccolo terrazzo della loro camera era ugualmente invidiabile. Non quanto lo era stato quello che avevano ammirato dall’osservatorio Griffith, ma era comunque qualcosa che Pietro, ne era sicuro, non avrebbe potuto vedere ovunque.
La città degli angeli sembrava non andare a dormire mai, nemmeno in piena notte. Ed era notte, l’una ormai passata, ed era un po’ come se non lo fosse. Pietro non sarebbe riuscito a capirlo, se non fosse stato per il cielo notturno, il nero solcato da qualche stella resa invisibile dalle luci della città.
Era una città piena di vita, forse anche troppa per certi versi, ma era bello vedere le differenze con Venezia, dove sarebbero tornati nel giro di una giornata.
Pietro rabbrividì, rendendosi conto forse solo in quel momento che anche se erano in California c’era freddo a quell’ora di notte, in Aprile, e rendendosi anche conto che avrebbe dovuto dormire per quelle poche ore che restavano. Alessio era stato irremovibile, ed aveva puntato la sveglia alle quattro e mezza – per ogni evenienza e possibile imprevisto, come aveva precisato-, l’ora assurda in cui si sarebbero dovuti svegliare per prepararsi e recarsi all’aeroporto.
Pietro non aveva voglia di dormire, forse in un tentativo di allungare i minuti che restavano. Se avesse dormito la sveglia sarebbe arrivata molto prima, troppo presto, e non si sentiva ancora pronto a lasciar andare quel posto.
Voleva cercare di cogliere ancora un po’ le luci di Los Angeles, per poterle ricordare un po’ più a lungo, evitare che la sua memoria le rendesse opache e confuse in breve tempo.
E sapeva che quello che avevano visto lui ed Alessio in quei giorni era solo il lato patinato, il lato migliore degli Stati Uniti, altrimenti allo sbando in ogni dove e in ogni ambito, ma forse gli andava bene così. Non era venuto lì per quello, anche se non ne dimenticava la presenza.
Si strinse le mani attorno alla vita, nel tentativo di tenersi al caldo. Istintivamente si mosse, girandosi verso l’interno della stanza. La figura di Alessio era nascosta tra le ombre, e sotto le lenzuola del suo letto, addormentato e inconsapevole di essere l’unico che lo stava facendo – Pietro era sicuro che se ne sarebbe accorto in aereo, quando lo avrebbe guardato e avrebbe notato le sue occhiaie e la sua faccia tirata, assonnata per tutte le ore che aveva perso senza dormire nel tentativo inutile di frenare il tempo.
Si voltò un’ultima volta verso la città, gli occhi velati appena.
La convention si era conclusa quella sera, un’ultima tornata di interventi e poi un buffet per la fine di tutto. Erano tornati in hotel troppo tardi e troppo stanchi per andarsene in giro, già sobbarcati dall’impegno di dover rifare le valigie e, almeno per Pietro, scrivere l’ultimo pezzo da mandare al giornale.
Non aveva potuto scrivere quel che avrebbe voluto – perdersi nei dettagli della memoria su quel che aveva visto in quei giorni, più che ascoltato-, e a quel punto avrebbe tenuto quei ricordi per sé.
Los Angeles sarebbe rimasta così per sempre, stampata nella sua memoria.
Accesa, caotica, vivida.
Piena di risposte a domande che non si era nemmeno reso conto di essere tornato a porsi.
Gli sarebbe mancata, forse per sempre.








[1] Lana Del Rey - "Next best American record"
[2] Lana Del Rey - "The Greatest"
[3] V - "Sweet Night"
[4] Lana Del Rey - "California"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
In questo secondo aggiornamento americano, il clima e le tematiche variano, dalle conversazioni più spensierate ad altre più impegnate.
Non potevano inoltre mancare, seppur solamente via messaggio, le frecciatine di Giulia alla coppietta oltreoceano. Pietro e Alessio, infatti, sapevano che quel momento sarebbe giunto, prima o poi 🤣 Ma se da un lato i due vorrebbero darle corda per vedere fin dove l'immaginazione dell'amica sia in grado di spingersi, entrambi confessano di aver notato un comportamento diverso nella ragazza, più taciturna e sfuggente negli ultimi tempi.
Il viaggio prosegue, passando anche per l'acquisto di souvenir assolutamente fondamentali (chi è appassionato di make up conosce benissimo la tristezza di non poter acquistare certi brand e prodotti qui in Europa D: )... E infine, durante la serata, ritroviamo Alessio e Pietro lungo le spiagge losangeline.
All'inizio l'atmosfera che Pietro e Alessio respirano, forse ispirati dal mar... Pardon, oceano, ha sfumature malinconiche, e i tuffi nel passato non si fanno attendere. E così è un attimo attraversare, seppur velocemente, gli alti e i bassi che il loro rapporto ha avuto, tutti eventi che li hanno portati dove sono ora.
La conversazione, poi, si sposta sulle relazioni dei due con Giada e Alice: entrambe non si sono concluse nei migliori dei modi, ma i rapporti con le due donne, alla fine, sono rimasti buoni. Insomma, una conferma della correttezza della scelta presa da entrambi. 
Alessio, però, non perde l'occasione per confermare all'amico che la scelta di farsi accompagnare proprio da lui in questo viaggio è stata la scelta giusta... E la tarantella nello stomaco di Pietro continua senza sosta!  A questa si aggiungono poi anche i dubbi del moro circa i sentimenti che prova per l'amico e, al tempo stesso, circa quelli di Alessio per lui. Insomma... Una bella situazione movimentata!
E così, in questo terzo giorno dell'anno, il viaggio oltreoceano sembra essere giunto a conclusione, ma il capitolo è ben lontano dalla fine. Cos'altro succederà nei prossimi aggiornamenti?
A mercoledì 10 gennaio per l’ultima parte di questo capitolo davvero infinito!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 21
*** Capitolo 18 - God bless America (Pt. 3) ***


CAPITOLO 18 - GOD BLESS AMERICA (PT. 3)

 


Le giornate calde della California erano già un lontano ricordo, ed erano passate solo poco più di sei ore da quando l’avevano lasciata.
New York li aveva accolti con una tempesta a tratti epocale, o almeno era quella la prima impressione che ebbe Pietro mentre erano al JFK, quasi un paio d’ore dopo essere atterrati dall’aereo con cui avevano viaggiato da Los Angeles
Ne mancavano ancora altre cinque prima della partenza del loro volo per Malpensa, cinque lunghe ore fino alle dieci della sera, ma a giudicare da quanto violento stava diventando il temporale minuto dopo minuto, Pietro cominciava ad avere una sensazione strana.
-Dici che ci faranno partire?-.
Non era riuscito a trattenere oltre la domanda. Lui ed Alessio avevano preso posto ad un tavolino di uno dei tanti bar dell’aeroporto, sempre più affollato. Avevano già cominciato a ritardare e cancellare alcuni voli, e anche se mancavano ancora cinque ore al loro, Pietro lo vedeva sempre più come un miraggio.
Alessio scosse il capo, alzando gli occhi dallo schermo del suo cellulare:
-Non lo so- mormorò, con voce piuttosto spenta – Stavo controllando le previsioni del meteo, e non sono buone. Non fino a dopodomani-.
Pietro sgranò gli occhi all’istante:
-Dopodomani?- gracchiò, incredulo – Non dirmi che stiamo beccando un uragano o qualcosa del genere-.
-Non credo, o avrebbero già diramato l’allerta- lo rassicurò Alessio, e a quelle parole Pietro si rilassò comunque un po’ – Però pare continuerà con questa tempesta e vento forte ancora per diverso tempo. E onestamente non so quanto mi sentirei sicuro su un aereo che deve decollare con un tempo del genere-.
“Su questo non ha tutti i torti” ammise Pietro.
Annuì silenziosamente, senza avere idea di cosa dire. Aveva pianificato di essere già a Venezia per il weekend, in modo da poter rivedere Giacomo e Giorgio dopo più di una settimana di assenza, ma era evidente che qualcuno nei piani alti aveva voglia di rovinargli i progetti.
-Diciamo che fino a quando non ci cancellano il volo forse c’è ancora qualche speranza- disse ancora Alessio, che però aveva già un’espressione piuttosto rassegnata – Però forse è meglio se diamo un’occhiata per qualche hotel in giro. Dovremmo pagarcelo di tasca nostra, stavolta-.
Pietro annuì di nuovo, impotente di fronte alla situazione in cui si trovavano. L’unica speranza che gli era rimasta era che quel maledetto temporale si spegnesse pian piano, in tempo per il loro volo.


 
Altre due ore dopo non solo la tempesta non era finita – a dirla tutta era pure peggiorata-, ma il volo per Malpensa era stato ufficialmente cancellato. Le condizioni erano troppo instabili per pensare di far partire un qualsiasi aereo per qualsiasi meta, almeno per le prossime ventiquattr’ore.
Pietro guardò ancora una volta il tabellone digitale dove erano riportati tutti i voli che sarebbero dovuti partire quella sera dal JFK. Non ne era rimasto nessuno che non riportasse la dicitura cancelled di fianco all’aeroporto di destinazione.
-Direi che è ora di prenotare da qualche parte, se non vogliamo passare la notte qui- annunciò Alessio, in piedi di fianco a lui, lo sguardo alzato verso lo schermo allo stesso modo.
Ed aveva ragione, pensò Pietro stancamente, perché restare in aeroporto sarebbe stato del tutto impossibile: c’era il caos, troppa gente ammassata che, esattamente come loro due, stava vagando portandosi appresso valigie pesanti in attesa di qualche notizia certa. Ora che ce n’erano, quando ormai era calato il buio della sera, Pietro credeva comunque che l’aeroporto non si sarebbe tranquillizzato molto di più.
Desiderava solo allontanarsi da quel posto il prima possibile.
-Avevi trovato qualcosa?-.
Pietro si girò verso l’altro con una punta di speranza. Nelle ultime due ore aveva osservato Alessio smanettare con il suo portatile, tirato fuori dallo zaino quando erano ancora seduti allo stesso tavolino del bar di prima – dovevano averci passato quasi quattro ore, seduti lì con le speranze sempre più basse di veder il loro aereo partire-, sentendosi un po’ inutile. Glielo aveva anche mormorato, ad un certo punto, con imbarazzo e con tono di scuse, ma Alessio si era limitato a sorridergli e a dirgli che oltre ad ordinare qualcosa di caldo da bere ed attendere non c’era molto altro che potesse fare.
Alessio aspettò che si allontanassero da quella zona per rispondergli:
-So solo che gli hotel vicino all’aeroporto sono già tutti pieni-.
Pietro credette di star sbiancando a vista d’occhio, visto l’espressione piuttosto apprensiva che l’altro gli stava rivolgendo.
-Mi sa che avevano già iniziato a rimandare alcuni voli prima ancora che atterrassimo noi- si affrettò ad aggiungere Alessio – Molta gente era già corsa ai ripari. Sono stati previdenti-.
“Più previdenti di noi”.
-Quindi che facciamo?- chiese Pietro.
Si bloccò, fermo in piedi davanti ad Alessio. Non ne poteva più di stare seduto, ma in quel momento di disorientamento sentì le proprie gambe farsi molli – che diavolo potevano fare, dispersi a New York, di sera, senza sapere nulla nemmeno di ciò che li attendeva domani?.
-Ho cercato anche nelle altre zone della città- Alessio sembrò percepire il suo stato d’agitazione, e quasi d’impulso gli prese una mano stringendola nella sua. Pietro non si oppose al gesto, accogliendolo anzi con sollievo: in una situazione del genere gli serviva percepire la presenza di qualcuno di cui si fidava. Quasi senza rendersene conto ricambiò la stretta delle dita di Alessio, lasciando che il suo pollice tracciasse lenti percorsi sul lato del dorso della mano che stringeva.
-Se non vogliamo spendere un patrimonio, ma non finire neanche in una catapecchia, ci sono un paio di posti decenti a Manhattan- Alessio continuò a parlare, con praticità mista a dolcezza. Con l’altra mano, ora libera dopo aver lasciato andare il manico della sua valigia da stiva, frugò nella tasca della giacca, tirandone fuori il cellulare. Pietro lo osservò digitare qualcosa e scrollare, fino a fermarsi su qualcosa che gli fece vedere subito dopo aver girato il cellulare nella sua direzione.
-Tipo questo, a East Harlem-.
Pietro acuì lo sguardo: Alessio era in una pagina di un sito di B&B, con il nome del posto e alcune foto già visibili senza dover scrollare più in giù la pagina. Si sentiva talmente stanco e demoralizzato che non riuscì nemmeno a concentrarsi su quelle.
-Hanno ancora posto, vero?- chiese invece, sentendosi un po’ stupido: era piuttosto ovvio che Alessio avesse controllato, prima di mostrarglielo.
-Sì. Anche se … - Alessio fece una pausa, tornando a girare il cellulare nella sua direzione. Pietro lo osservò corrugare la fronte, con incertezza, domandandosi quale fosse il problema.
Qualche secondo dopo, con voce altrettanto esitante, Alessio tornò a parlare:
-Credo che l’opzione più economica sia questa- si morse il labbro inferiore, lanciando a Pietro una veloce occhiata – Una camera con letto matrimoniale-.
Era evidente che fosse a disagio per il fatto di temere la reazione di Pietro a quella rivelazione, ma in quella situazione non gliene poteva importare di meno. Avrebbe dormito anche sul pavimento.
-Non importa- disse subito, senza ripensamenti – Piuttosto che restare qui, prenotiamo questa stanza-.
Alessio lo guardò ancora non del tutto quieto:
-Sei sicuro?-.
Pietro annuì con vigore:
-Sì, certo. Tu lo sei?-.
Alessio annuì di rimando, dopo un paio di secondi di completa immobilità.
-Sì- disse con un filo di voce – Allora provo a chiamarli e sentire che dicono-.
Senza aspettare una risposta da Pietro, si allontanò di qualche passo, il cellulare in mano mentre faceva partire la chiamata e poi accostandoselo all’orecchio. Pietro non riuscì più a vederlo in viso, osservandolo girarsi di spalle sovrappensiero, forse troppo preso dalla chiamata, forse ancora in attesa che dall’altra parte della linea gli rispondessero.
Si sentì solo, privato del contatto tranquillizzante della mano di Alessio che stringeva la sua, ma si sentì anche un po’ più fiducioso: forse non avrebbero passato la notte allo sbando completo.
Ci vollero un altro po’ di minuti prima che Alessio tornasse, stavolta con il volto decisamente più rilassato.
-Tutto a posto- gli annunciò, sorridendo – Abbiamo una camera per stasera, ed eventualmente anche domani se dovessero ancora sospendere i voli-.
-Ottimo- Pietro dovette seriamente trattenersi a stento dall’abbracciarlo e sussurrargli che gli avrebbe costruito una statua per la sua opera di ricerca di B&B risultata così di successo – Come ci arriviamo a East Harlem?-.
-Treno e poi metro-.
Sembrava facile, detta così. Non aveva idea nemmeno di dove fosse East Harlem, una nebulosa zona di Manhattan tanto quanto qualsiasi altra, ma non importava. Era sicuro che Alessio sapesse già dove andare.
Si sarebbe affidato a lui.
-Perfetto. Buttiamoci in questa avventura-.
 
*
 
I miss New York and I miss the music
Me and my friends‚ we miss rock 'n' roll
I want shit to feel just like it used to
When‚ baby, I was doing nothin' the most of all

The culture is lit, and if this is it‚ I had a ball
I guess that I'm burned out after all [1]
 
New York era incredibilmente diversa da Los Angeles.
Era stato il primo pensiero di Pietro quando lui ed Alessio erano usciti dalla metro dopo circa un’ora di viaggio, per tornare all’aria aperta alla ricerca del loro B&B. Ed era un pensiero che continuava ad essere fisso anche in quella giornata, la seconda di tempesta torrenziale che aveva avuto come unico risultato quello di far slittare ancora di un giorno tutti i voli da e per New York. Se ci fossero stati dei miglioramenti sarebbero potuti partire l’indomani, con un volo alla stessa ora come quello con cui sarebbero dovuti partire la sera precedente.
I grattacieli della città erano più claustrofobici di quanto non erano quelli losangelini. Erano imponenti, immense strutture di vetro e cemento che lo guardavano dall’alto, facendolo sentire minuscolo.
New York aveva un’atmosfera multiculturale come l’aveva Los Angeles, ma era differente – meno latina, meno immersa nei colori caldi, meno accesa-, quasi all’opposto. Ed era altrettanto caotica, di quello Pietro era sicuro: aveva attraversato diverse strade quel giorno, ed aveva rischiato di farsi prendere sotto da qualche taxi troppo frettoloso almeno un paio di volte, sotto lo sguardo pieno di panico di Alessio.
Nonostante il temporale che impazzava avevano deciso di rendere quel giorno in più a New York produttivo: visitare il Museum of Modern Art sarebbe stato comunque più interessante che passare tutta la giornata chiusi nella minuscola camera del B&B che avevano prenotato, dove c’era a malapena posto per un bagno ancor più piccolo e il letto matrimoniale dove si erano addormentati la sera prima, esausti per il trambusto della giornata e per il jet lag accumulato dal viaggio da Los Angeles.
C’era poca gente al MoMA, i turisti fermati dal meteo tremendo e che, probabilmente sicuri di aver più tempo di quanto non ne avessero lui ed Alessio, dovevano aver deciso di rimandare la visita culturale della giornata.
Forse era stata una fortuna, perché quando mai sarebbe ricapitato di poter camminare lungo i corridoi e le sale di quel museo senza la calca della gente intorno, potersi prendere il proprio tempo davanti ai quadri e alle opere esposte?
Pietro si mosse con sguardo attento, staccandosi da Neve sciolta a Fontainblue di Cézanne, guardandosi intorno e scorgendo la figura di Alessio poco più avanti, di fronte ad un altro dipinto. Aveva la fronte corrugata, e lo sguardo perplesso.
Quando gli si fece vicino, Pietro si allungò verso la piccola targa sul muro accanto al quadro per leggerne le informazioni riportate.
-Compleanno- lesse il titolo, alzando lo sguardo verso Alessio – Beh, è in tema. Anche se dal tuo compleanno è già passata una settimana-.
Alessio non sembrò cogliere la battuta, continuando a mostrare quell’espressione sofferente. Fece un cenno con il capo rivolto al quadro, prima di tornare a voltarsi verso Pietro:
-È un po’ inquietante-.
Pietro non riuscì a trattenere una risata leggera:
-Perché?-.
-Mah … Non lo so- Alessio alzò le spalle, scuotendo appena il capo mentre osservava ancora il quadro con la stessa espressione contratta – Forse sono i colori ad essere troppo sul grigio. O è la posizione dei personaggi ritratti-.
-Se non ricordo male quella ritratta lì dovrebbe essere la moglie di Chagall- disse Pietro, con sguardo perso, nel tentativo di ricordare qualcosa di più preciso – E quello sospeso in aria è, per l’appunto, Chagall che vuole baciarla-.
Alessio lo guardò con occhi spalancati e scettici:
-In quell’angolazione?-.
-Sì, tipo così … - Pietro si mosse prima ancora di pensare, portandosi alle spalle di Alessio e cercando di alzarsi sulle punte dei piedi, aumentando la loro differenza di altezza già presente. Quando si sporse in avanti, in un’angolazione che poteva richiamare solo lontanamente quella dei protagonisti del quadro, si rese conto che era molto, decisamente troppo, vicino al viso di Alessio.
Si ritrasse un secondo dopo, schiarendosi la gola a disagio.
-Beh, hai capito-.
Per un po’ non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo per studiare il viso dell’altro. Se ne rimase in silenzio, un po’ in disparte, puntando gli occhi unicamente sul quadro.
“Che cazzo mi è venuto in mente?”.
-Come fai a sapere tutte queste cose?-.
Pietro sobbalzò appena, quasi credendo di essersi sognato quella domanda. Quando si girò, dubbioso, Alessio lo stava ancora guardando in attesa.
-Non era male studiare storia dell’arte al liceo- si ritrovò a bofonchiare Pietro, consapevole di star arrossendo.
-Io non l’ho mai studiata- Alessio rise appena, vagamente in imbarazzo – Mi sento piuttosto ignorante su questo momento-.
-Nulla ti vieta di approfondirla se vorrai- Pietro lo disse con voce un po’ più convinta – E poi anche io sono molto ignorante su tantissime altre cose-.
Proseguirono la visita con calma, senza alcuna fretta di dover correre verso qualche altra meta, e senza che Pietro tentasse di nuovo di imitare qualche altra posa di un qualsiasi altro quadro.
 
*
 
-Cazzo. Non ci voleva-.
L’ombrello che li aveva riparati fino a quel momento era andato fuori uso nel giro di pochissimi secondi, quando una folata di vento particolarmente improvvisa e violenta aveva fatto girare le stecche, esponendo sia lui che Alessio alla pioggia battente.
Si erano rifugiati in pochi secondi in cima alle scalinate di uno dei palazzi della via, l’ingresso rientrante che lasciava loro un po’ di spazio per avere la testa al riparo. Alessio teneva ancora l’ombrello ormai rotto tra le mani, facendo ancora qualche tentativo per rimetterlo in sesto. Pietro dubitava ci sarebbe riuscito.
-Non ora di certo- mormorò, piuttosto sconsolato.
Alessio sospirò veementemente, rialzando il capo e guardandosi intorno con cipiglio innervosito.
-Che facciamo?- chiese subito dopo – Aspettiamo che passi?-.
Pietro non aveva idea per quanto tempo avrebbe piovuto ancora. Sapeva solo che al MoMA avevano trascorso almeno tre ore, e quando quindici minuti prima erano usciti, pioveva esattamente con la stessa intensità di quando erano entrati.
-Va avanti così da ieri, dubito smetterà di piovere nei prossimi cinque minuti per farci un favore- disse infine, scrollando le spalle. Si sentiva infreddolito e con i capelli umidi, stanco di quella maledetta pioggia.
-Quindi?- Alessio ripeté di nuovo, stavolta con tono esasperato – Corriamo alla prima fermata della metro? Fermiamo un taxi?-.
Erano entrambe opzioni che non erano del tutto fattibili. Pietro non aveva idea di quanto distasse la metro dal punto in cui erano, e fermare un taxi equivaleva comunque a restare sul ciglio del marciapiede per rendersi visibili, e sarebbero potuti passare interi minuti prima che qualcuno si fermasse. Interi minuti sotto la pioggia.
Si sporse appena per guardarsi intorno: erano in una strada piuttosto ampia, una zona nevralgica di Manhattan, piena di negozi. Acuì lo sguardo, individuando un locale che avrebbe potuto ospitarli per un po’ di ore, nella speranza che nel frattempo la pioggia calasse o smettesse di scendere.
-Là c’è una specie di pub, credo. Potremmo entrare- lo indicò ad Alessio con il braccio – Dobbiamo comunque cenare-.
Alessio si sporse a sua volta, seguendo con lo sguardo il luogo che Pietro gli stava indicando. Era proprio davanti a loro, dall’altra parte della strada. Avrebbero dovuto attraversarla, ma correndo potevano farcela in poco tempo.
Alessio sembrava pensarla allo stesso modo:
-Va bene, basta che non restiamo qui fuori per molto ancora-.
 


-Sembra di stare proprio in uno di quei vecchi pub americani-.
Pietro avrebbe dato ragione ad Alessio in toto, anche se più che pub l’avrebbe definito più puntualmente saloon. Se la loro prima cena passata ad In-N-Out gli aveva dato la sensazione di essere tornato indietro nel tempo, in uno dei tipici diner anni Cinquanta, lì dentro si aveva una sensazione simile ma diversa. Le panche e i tavoli in legno, spartani ma funzionali nell’atmosfera, esattamente come il lungo bancone dove c’erano diverse persone sedute sugli alti sgabelli, gli davano davvero l’impressione di aver appena messo piede in un vecchio saloon dei tempi della corsa all’oro.
L’unica cosa a ricordargli che in realtà erano nella New York del ventunesimo secolo era la band che stava suonando su una piattaforma in fondo al locale, con strumenti fin troppo nuovi e moderni per poter essere scambiati per strumenti di decenni prima.
-Dove mangi hamburger enormi, ti riempi lo stomaco di patatine fritte, e ti ascolti un po’ di musica country?- rincarò la dose Pietro, ridendo dall’altra parte del loro tavolo, facendo ridere Alessio a sua volta.
-Con la sola differenza che questa non è musica country, ma soul- lo corresse lui, con gentilezza. Aveva ragione, si rese conto Pietro, che ancora non aveva prestato troppa attenzione alla musica dal vivo. Tra le luci soffuse e giallognole del pub c’era più un’atmosfera jazz che altro.
Annuì, guardandosi ancora una volta intorno. Gli piaceva quel posto, in fin dei conti.
-Ma il concetto non cambia molto-.
-Già- convenne Alessio, afferrando finalmente il menu ed iniziando a sfogliarlo – Cibo spazzatura e buona musica dal vivo … Tutto perfettamente bilanciato-.
Pietro lo guardò fintamente stupito:
-Perfettamente bilanciato? Chi cazzo sei, Thanos*?-.
Sapeva che Alessio avrebbe capito la battuta, ed infatti lo ascoltò ridere nemmeno un attimo dopo. Rise anche lui, sentendosi leggero. Si lasciò cullare per pochi secondi dalla musica, rendendosi conto che in effetti neanche quella non era affatto male. Si sentì trascinato un po’ come stava succedendo per le poche persone, a coppie o da soli, che in piedi in fondo al locale stavano ballando sulle note che riempivano l’ambiente.
In un qualche modo tutto quello scenario si sposava bene con il posto, con l’umore di quella serata, forse addirittura anche con New York stessa.
 
What you been up to, my baby?
Haven't seen you 'round here lately
All of the guys tell me lies, but you don't
You just crack another beer
And pretend that you're still here
This is how to disappear
This is how to disappear
 
Si decise di sfogliare il menu a sua volta, ormai affamato. Allungò una mano verso l’altro menu rimasto al loro tavolo, rendendosi conto che era esattamente come aveva previsto lui stesso: la lista di hamburger era infinita, anche se, come scoprì sfogliando qualche altra pagina, era accompagnata anche da qualche altro piatto. In qualsiasi caso sapeva già che la digestione che lo aspettava quella sera sarebbe stata tutto fuorché facile e veloce.
-Fa strano che ormai stiamo per ripartire-.
“Puoi dirlo forte”.
-Ti eri abituato allo stile americano?- gli chiese scherzosamente Pietro, sperando di non far trasparire troppo i reali sentimenti che stava provando al pensiero che quella, probabilmente, sarebbe davvero potuta essere la loro ultima sera in terra statunitense.
Sentì un vuoto tremendo all’altezza del petto, non perché non desiderasse tornare in Italia, ma perché l’atmosfera di spensieratezza alla quale si era abituato sarebbe stata qualcosa che gli sarebbe mancata.
-Un po’- ammise Alessio, con un mezzo sorriso distante – Anche se non invidio molto chi ci rimarrà a vivere. Non credo faccia molto per me come posto, in realtà. Non sul lungo termine-.
-È stata una bella avventura, però-.
Forse, si ritrovò a pensare Pietro, era stata anche più di una semplice avventura.
Rimase però in silenzio, gli occhi abbassati sul suo menu, occhi che però non stavano più leggendo nessuna delle parole stampate, né stavano osservando alcuna delle figure sulle pagine.
Avrebbe seriamente avuto bisogno di qualcosa di alcolico per riuscire a sopportare la malinconia che sembrava star influenzando anche Alessio, oltre che anche lui stesso.
-Già-.
 
I know he's in over his head
But I love that man like nobody can
He moves mountains and pounds them to ground again
I watched the guys getting high as they fight
For the things that they hold dear
To forget the things they fear
This is how to disappear
This is how to disappear
 
Passarono alcuni minuti in silenzio, silenzio relativo e che Pietro occupò perlopiù prestando unicamente attenzione alla band e alle melodie che stava ancora suonando. Arrivò anche un cameriere per prendere le loro ordinazioni, e quando se ne andò fu allora che Alessio si schiarì la gola, con fare casuale:
-Immagino abbiano già cominciato a pubblicare i tuoi articoli, giusto?-.
Pietro annuì subito, prima ancora di parlare:
-Sì, li hanno pubblicati man mano che li scrivevo- disse, prima di arrossire per il dettaglio che stava per aggiungere – Sembra siano piaciuti-.
Lo disse a mezza voce, forse nemmeno troppo udibile, ma ebbe la certezza che Alessio aveva perfettamente capito ciò che aveva appena detto quando sorrise, gli occhi abbassati altrove, in maniera morbida e a tratti dolce che fece pensare a Pietro che tra loro fosse Alessio quello ad essere più soddisfatto di quell’aspetto.
-La cosa non mi sorprende- commentò infine, muovendosi appena sulla panca dove sedeva.
Quasi senza pensarci, Pietro si buttò sulla domanda che gli era ronzata in testa non solo per tutta la settimana passata a Los Angeles, ma da mesi, da quando aveva iniziato a lavorare al giornale:
-Leggi i miei articoli, per caso?-.
Forse non gli aveva mai posto quella domanda perché non aveva idea di come avrebbe potuto reagire sia ad una risposta affermativa che ad una negativa. In quel momento, però, la curiosità e la voglia di sapere avevano preso il sopravvento sopra qualunque altro timore.
Alessio tacque per qualche secondo, e Pietro ebbe l’impressione che fosse lui, stavolta, a star arrossendo.
-Beh … A volte capita che passi davanti a qualche edicola, o per Venezia o a Piove di Sacco- iniziò a dire, esitante – E quindi … -.
Pietro completò per lui, un po’ spiazzato:
-E quindi li leggi-.
Alessio non lo negò.
-Non credevo lo facessi-.
Pietro abbassò lo sguardo, e fu quasi sollevato quando, un momento dopo, il cameriere che aveva preso le loro ordinazioni arrivò con i loro hamburger fumanti e le birre, sopra ad un vassoio così colmo e così probabilmente pesante che Pietro quasi si stupì di vederlo volteggiare per il pub senza alcun problema nel tenerlo in equilibrio.
Si sentì sollevato nel dover tardare, anche se magari di poco, l’avanzare di quella conversazione. Forse, rifletté tra sé e sé, non era stato del tutto pronto a sentirsi dire da Alessio stesso che leggeva i suoi articoli, quando fino ad un attimo prima si cullava nel dubbio che nessuno dei suoi amici – tantomeno proprio Alessio- avesse anche solo il tempo materiale di recuperare un quotidiano cittadino e mettersi a spulciarlo per trovare i suoi pezzi. 
Non poté proseguire con la sua analisi sulle implicazioni di quella informazione perché Alessio, prima ancora di mordere il suo hamburger, gli si rivolse di nuovo:
-Perché ti fa così strano?-.
Aveva riso debolmente subito dopo quella sua domanda, forse per rendere meno evidente la sua malcelata agitazione.
Pietro alzò le spalle, senza sapere bene cosa dire e puntando sulla prima cosa che gli venne in mente:
-Mi fa strano che ti metti a leggere il quotidiano in formato cartaceo quando non lo fa quasi più nessuno- farfugliò, sperando di risultare convincente – Puoi anche leggere la versione digitale-.
Fu un tentativo migliore che dirgli che si sentiva terribilmente in soggezione al solo pensiero di sapere Alessio a leggere i suoi pezzi. Quello se lo sarebbe tenuto per sé, ancora per un altro po’.
-Leggerò dal sito quelli che hai scritto in questi giorni- borbottò Alessio, le spalle un po’ più rilassate rispetto a pochi attimi prima – È l’unico modo che ho per recuperarli-.
-Potevi chiedermi di leggerli in anteprima- disse istintivamente Pietro, consapevole che l’aveva detto in quel momento solo perché, ormai, non era più una cosa realizzabile. C’era solo una cosa che lo metteva più in soggezione di Alessio che leggeva quel che scriveva, ed era Alessio che leggeva quel che scriveva con lui nella stessa stanza, ad osservare ogni più piccola reazione della sua espressione nell’avanzare della lettura.
Alessio stavolta rise di gusto, e per un attimo Pietro si chiese se fosse più consapevole di quanto sospettasse del fatto che non gliel’aveva mai proposto per un determinato motivo.
-È più bello vederli pubblicati-.
Stavolta alzò lo sguardo su Pietro per dirlo, con un sorriso leggero:
-Hai fatto strada, ormai-.
“Sembra che l’abbiamo fatta entrambi”.
Pietro ricambiò il sorriso:
-Così pare-.
 
 Now it's been years since I left New York
I've got a kid and two cats in the yard
The California sun and the movie stars
I watch the skies getting light as I write
As I think about those years
As I whisper in your ear
I'm always going to be right here
No one's going anywhere [2]
 
Pietro addentò il suo hamburger un po’ meno in imbarazzo di prima.
Forse prima o poi si sarebbe abituato all’idea di Alessio impegnato a leggere i suoi articoli – riusciva quasi ad immaginarselo, fermo davanti ad un’edicola di Venezia mentre iniziava a sfogliare il giornale, sapendo che scorrendone le pagine avrebbe trovato quel che cercava-, ma al momento preferiva quasi non pensarci. Avrebbe metabolizzato la cosa, pian piano.
-Ti ricordi quando avevamo parlato in quale facoltà volevamo iscriverci, dopo la mia maturità?- gli venne da chiedergli, dopo un po’ di silenzio. Prima ancora che Alessio rispondesse, Pietro sapeva già cosa potersi aspettare.
-Me lo ricordo- disse Alessio dopo aver mandato giù un morso del suo panino, confermando il sospetto di Pietro – Mi ricordo che non ero molto d’accordo sul fatto che stessi accantonando le tue vere aspirazioni-.
Pietro annuì:
-Già-.
Ricordava bene, come se fosse ieri, quanto Alessio avesse insistito sul lasciar perdere la convenienza e studiare ciò che gli piaceva – e da chi altro sarebbe potuta venire una simile predica, se non da lui?. Ora che erano passati anni si rendeva conto che, in fondo, Alessio ci aveva sempre visto più in là di quanto non avesse fatto lui stesso all’epoca. Era come se un cerchio si fosse finalmente chiuso, come se fosse finalmente giunto a capire.
-Chissà come sarebbe stato se avessi seguito subito quella strada-.
Pietro lasciò andare quelle parole a mezza voce.
Non si era mai soffermato a riflettere, a pensare a come sarebbero state le cose se fosse stato uno studente di Lettere. Niente lezioni con Alessio e Nicola, niente Giada – che probabilmente sarebbe stata sostituita con qualche altra ragazza con la quale essere infelice, e da rendere altrettanto infelice-, magari la strada nel giornalismo spianata poco dopo la laurea.
Sarebbe stato tutto molto diverso, quella era l’unica certezza.
-Non lo so- Alessio posò quel che rimaneva del suo hamburger sul piatto, guardando Pietro con aria riflessiva – So solo che di sicuro tutto quello che hai vissuto finora ti ha aiutato ad arrivare dove sei adesso. In fin dei conti non è andata male-.
Pietro si limitò ad annuire.
“Forse doveva semplicemente andare così”.
Morse di nuovo l’hamburger, nonostante la fame se ne fosse in parte andata.
“Dovevano avvenire tutti gli eventi che mi hanno portato ad essere quel che sono oggi”.
-Eravamo in una pizzeria di Borgo Padano quando ne abbiamo parlato, vero?-.
Pietro quasi sobbalzò, troppo preso dai suoi stessi pensieri, alla domanda successiva di Alessio. Cercò di non darlo a vedere, schiarendosi la voce:
-Oh sì, se non ricordo male mi ci avevi trascinato tu- replicò velocemente, prima di lanciargli un’occhiataccia – Per il karaoke-.
Si aspettò di vedere Alessio scoppiare a ridere, ed infatti non tardò a farlo.
-Non è che volessi cantare al karaoke, c’era la possibilità- lo corresse lui, senza però nascondere il ghigno che gli si stendeva sulle labbra.
Pietro sbuffò teatralmente:
-Non a caso poi siamo finiti a fare un’enorme figuraccia davanti a tutta la pizzeria-.
-Non abbiamo cantato così male- protestò subito Alessio, con fare contrariato.
Pietro non cedette neanche un po’:
-La tua memoria ormai è offuscata-.
Alessio rise di nuovo. Sembrava essersi rilassato anche lui rispetto a prima, decisamente molto più a suo agio. Morse un’altra volta il suo hamburger, ormai quasi finito, e aspettò qualche attimo prima di parlare ancora:
-Guarda il lato positivo: stasera niente karaoke-.
Pietro l’avvertì come un campanello d’allarme immediatamente.
-Ma?- lo incalzò, il sopracciglio alzato mentre guardava con sospetto l’altro dall’altra parte del tavolo.
Alessio lo guardò fintamente sulla difensiva:
-C’era un ma sottinteso nella mia frase?-.
-C’è sempre un ma sottinteso-.
-Ok, alzo le mani- Alessio lo fece davvero, dopo essersi infilato in bocca l’ultimo boccone del suo hamburger. Rimise giù le braccia ridendo tra sé e sé, lo sguardo altrove, e forse era solo un’impressione, ma Pietro aveva la sensazione che gli stesse davvero ronzando qualcosa in testa. Forse non aveva ancora raccolto il coraggio sufficiente per esprimerla a voce, qualunque cosa fosse.
Riuscì a finire anche lui la sua cena, nel tempo che evidentemente servì ad Alessio per arrossire e decidersi a parlare.
-Ma … - iniziò a dire, con la punta di sarcasmo che svaniva un po’ alla volta per lasciar posto ad un tono più timido – C’è la musica dal vivo, e la gente sta ballando-.
Pietro lo guardò confuso:
-Tu che vuoi andare a ballare?- disse, prima di ridere piano – È un invito?-.
Lo aveva detto ironicamente, senza crederci troppo, e fu per quel motivo che non fu affatto pronto per quel che accadde subito dopo.
Vide Alessio alzarsi, restare di fronte a lui, mentre gli tendeva una mano in attesa che Pietro la stringesse nella sua e lo seguisse.
-Potrebbe-.
“Oh”.
Pietro non riuscì a pensare nient’altro.
Non c’era più nessuna parola, solo qualcosa che si stava muovendo dentro di sé e che non riusciva a riconoscere – o che non voleva ammettere di riconoscere.
Alessio lo guardò più dolcemente, senza smettere di tendergli la mano:
-In teoria è la nostra ultima notte negli Stati Uniti. Possiamo fare qualcosa di pazzo-.
Quelle parole lo riscossero, almeno in parte. Si schiarì la voce, rimanendo ancora seduto.
-Davvero la cosa più pazza per te è ballare in un pub?-.
Si rese conto di averlo detto un po’ troppo bruscamente, ma Alessio non sembrò farci caso:
-Ho una vita monotona-.
Pietro spostò lo sguardo meccanicamente dalla mano tesa al viso speranzoso di Alessio. C’erano solo pochi secondi di tempo a separarlo dall’afferrare quella stessa mano, stringerla nella sua e alzarsi a sua volta, seguire Alessio dove voleva portarlo.
Doveva solo capire se era disposto a farlo.
E c’era qualcosa negli occhi azzurri di Alessio, qualcosa che non riusciva a cogliere e definire, che gli stava dicendo di farlo, che ne sarebbe valsa la pena. Ed in fondo si trattava solo di ballare – di nient’altro, no?.
Poteva farlo.
Forse voleva farlo.
-E va bene-.
Pietro prese un respiro profondo, prima di alzare il braccio e allungare la sua mano verso quella di Alessio. Le sue dita e il suo palmo erano caldi, molto di più di quanto non erano le sue mani. Trovò conforto e rifugio in quel calore della mano di Alessio, mentre si decideva ad alzarsi dalla sua panca.
-Rendiamola un po’ meno monotona- mormorò ancora, facendo ridere di sottecchi l’altro.
Alessio lo trascinò senza dire una parola, camminando con sicurezza verso la zona dove c’erano tutte le altre persone intente a ballare, davanti alla piattaforma dove suonava la band.
Era appena iniziata una canzone lenta, accompagnata dal pianoforte, e Pietro ebbe qualche dubbio – più di qualche incertezza- su come Alessio intendesse ballare su una base simile.
Fu proprio Alessio a togliergli qualsiasi esitazione, quando fece esattamente quello che stava facendo chiunque si fosse deciso ad alzarsi dai tavoli e venire lì: gli si piantò di fronte, allungando entrambe le mani sulle spalle di Pietro. Lo guardò alzando le sopracciglia, in un muto incitamento a fare quel che doveva fare lui; Pietro sperò di non arrossire eccessivamente mentre portava entrambe le mani sui fianchi dell’altro, stringendo a malapena, sfiorandolo con delicatezza quasi temesse di fargli male.
Aveva così tante domande, in quel momento, a ronzargli in testa, che riusciva a malapena a mantenere contatto con la realtà.
Cercò di concentrarsi solo su Alessio.
Sulle sue mani attorno alla sua vita, e sulle sue che teneva appoggiate sulle spalle.
Gli ci volle un po’ più di coraggio per guardarlo negli occhi, e quando alzò il viso si accorse che Alessio lo stava già facendo. Lo stava già guardando, con un’espressione che Pietro, di nuovo, non riuscì a decifrare.
 
Do you want me or do you not?
I heard one thing, now I'm hearing another
Dropped a pin to my parking spot
The bar was hot, it's 2 AM, it feels like summer
Happiness is a butterfly
Try to catch it, like, every night
It escapes from my hands into moonlight
 
Era facile perdersi nei suoi occhi azzurri, così facile che per un attimo gli sembrò quasi che ci fossero solo loro due lì dentro, senza nessun altro attorno.
Sarebbe stato più facile, e meno imbarazzante quando vide di striscio più di qualcuno, non troppo distante da loro, che li guardava. Non con sguardo d’odio come si sarebbe aspettato, più con espressione neutrale, ma li stavano comunque guardando e quella sensazione lo fece sentire strano.
-Alcuni ci stanno fissando- mormorò.
In tutta risposta, Alessio alzò le spalle:
-Lascia che fissino-.
Fu una frase semplice, concisa, che però racchiudeva in sé tutto ciò che Pietro voleva – e di cui aveva bisogno- sentirsi dire.
Gli dette un po’ di coraggio, quella dose di sfacciataggine e di normalità che gli serviva per fregarsene. Anche se non erano sguardi d’odio, come si sarebbe potuto aspettare, erano pur sempre occhiate, occhi di sconosciuti che non voleva sentirsi addosso.
Alessio lo riportò alla realtà stringendo un po’ di più le mani sulle sue spalle, guidandolo piano nel muoversi al ritmo lento della musica.
E anche se si sentiva ancora un po’ a disagio, pur ripetendosi che non c’era nulla per cui si doveva sentire così – quasi gli parve di sentire la voce sia di Fernando che di Martino dirglielo-, fece quel che Alessio gli aveva appena detto: lasciò che quelli intorno a loro guardassero.
Forse era quella la chiave di tutto per sentirsi felice, anche con poco: non badare a nessun altro, se non a quello che stava accadendo a lui.
 
Happiness is a butterfly
We should catch it while dancing
I lose myself in the music, baby
Every day is a lullaby
Try to catch it like lightning
I sing it into my music, I'm crazy
 
-Sarà strano tornare alla normalità-.
Alessio parlò così piano che Pietro era sicuro che, se fossero stati più lontani, anche solo di poco, non sarebbe mai riuscito a sentirlo. L’aveva detto forse come un pensiero ad alta voce, non per forza rivolto a Pietro, ma ormai l’aveva ascoltato e gli fece quasi ridere vedere Alessio in quell’inaspettato accesso di malinconia.
-Non hai voglia di tornare in Italia?-.
Alessio scosse il capo, gli occhi azzurri che lo guardavano di rimando:
-Forse non ho voglia di tornare alla vita di tutti i giorni-.
Sospirò, le mani che si facevano un po’ più strette sulle spalle di Pietro, quasi stesse cercando di aggrapparvisi. Pietro si rese conto solo in un secondo momento di star facendo lo stesso, le mani posate che saggiavano la curva dei fianchi di Alessio sopra al maglione pesante che indossava.
-Avrò sempre bei ricordi di questo viaggio- mormorò Alessio ancora una volta, dopo alcuni secondi, con voce a tratti spezzata – Mi mancherà tutto questo-.
Pietro non disse nulla. Non ce n’era bisogno: sapeva, in un certo senso, che Alessio era perfettamente consapevole che le stesse identiche parole stavano ronzando silenti anche nella sua testa.
 
If he's a serial killer, then what's the worst
That can happen to a girl who's already hurt?
I'm already hurt
If he's as bad as they say, then I guess I'm cursed
Looking into his eyes, I think he's already hurt
He's already hurt
 
-Los Angeles e New York rimarranno sempre qui- disse, in un tentativo di consolare non solo Alessio, ma anche se stesso – Potremmo sempre scappare via e tornarci-.
Lo aveva detto con leggerezza, quasi senza darci peso, ma quelle ultime parole fecero tornare il sorriso sulle labbra di Alessio, ed anche una breve risata.
-Mi stai proponendo una fuga?-.
-Potrebbe essere-.
Pietro non si stupì nemmeno troppo di essere serio mentre lo diceva.
Non se ne sorprese, e non si chiese cos’altro potesse nascondere tutto quello che aveva pensato in quegli ultimi giorni. Sarebbero stati pensieri che lo avrebbero accompagnato nelle settimane a venire, di questo ne era sicuro, ma non quella notte.
-Intanto godiamoci questa ultima sera-.
-Ultima sera per stavolta- lo corresse Alessio.
Quella notte c’era spazio solo per ballare, in uno sperduto pub di New York, tenendo Alessio più stretto a sé di quanto mai avrebbe creduto, sentendosi in pace.
Sapeva in fondo che, con chiunque altro al posto di Alessio, non sarebbe mai stata la stessa cosa.

 
I said, "Don't be a jerk, don't call me a taxi"
Sitting in your sweatshirt, crying in the backseat
I just wanna dance with you

Hollywood and Vine, Black Rabbit in the alley
I just wanna hold you tight down the avenue
I just wanna dance with you
I just wanna dance with you
Baby, I just wanna dance
With you
Baby, I just wanna dance
With you [3]
 
*
 
Take me as I am, take me, baby, in stride
Only you can save me tonight
There's nowhere to run, nowhere to hide
You let me in, don't leave me out, or leave me dry
Even when I'm alone, I'm not lonely
I hear the sweetest melodies
On the fire escapes of the city
Sounds like I am free
 
Si era alzato vento, più simile ad una brezza primaverile che alle ventate violente che avevano accompagnato la pioggia torrenziale degli ultimi due giorni.
Pietro preferiva di gran lunga la New York che quella domenica si era risvegliata con il sole. Seppur coperto ancora da qualche nuvola, aveva finalmente fatto capolino, il temporale giunto al termine nel corso della nottata.
Era stata una vera fortuna, non solo perché così quella sera lui ed Alessio avrebbero potuto finalmente prendere l’aereo che li avrebbe riportati in Europa, ma anche perché per usare quelle ultime ore che rimaneva loro a New York il sole era ciò che più serviva. Dubitava sarebbero mai riusciti a vedere così nitidamente la Statua della Libertà ergersi contro il cielo, mentre camminavano lungo la sponda del Liberty State Park.
-È enorme-.
Fu la prima cosa che Pietro disse quando ebbe finalmente distinto la forma della statua all’orizzonte. Si era aspettato di formulare qualche commento profondo, magari incentrato sul simbolismo che aveva nella storia dei tantissimi emigrati giunti per la prima volta negli Stati Uniti, ma invece se ne era uscito così, tutti gli altri pensieri annullati per la troppa concentrazione che ci stava mettendo nel guardarla da distante.
Udì Alessio ridere, e non poté nemmeno dargli torto.
-Te l’aspettavi più piccola?- lo sentì chiedergli.
Pietro alzò le spalle, camminando ancora un po’:
-Non lo so- ammise.
Lui ed Alessio avevano già camminato per un bel po’, arrivando alla punta estrema del Liberty State Park, dalla cui sponda est era visibile l’isolotto dove se ne stava la Statua della Libertà. Era scomodo dover camminare con le valigie e gli zaini, ma non avevano avuto molta altra scelta: o così, o passare in maniera del tutto anonima le ultime ore che li separavano dall’avvio verso il JFK.
Era stato scomodo soprattutto quando, usciti dal loro B&B per l’ultima volta, si erano ritrovati a camminare per la 5th Avenue senza sapere – e senza nemmeno ricordarsi- che quella domenica era Pasqua, e che come ogni Pasqua a New York si stava tenendo la Easter Parade. Si erano ritrovati in mezzo ad una massa di gente che sfilava lungo la strada più famosa della città, e che indossava sgargianti e bizzarri capelli. Era stato uno spettacolo peculiare, si era ritrovato a pensare Pietro, ma che metteva allegria con tutti i colori che vi erano nella folla. Era stato un modo vivace di lasciare Manhattan, e Pietro ne aveva fatto tesoro, tenendo gli occhi fissi sulla sfilata fino all’ultimo secondo utile prima di scendere sottoterra verso la metropolitana.
 
Take me as I am, don't see me for what I'm not
Only you can hear me tonight
Keep your light on, babe, I might be standin' outside
You let me in, don't leave me out, or leave me dry
Even walkin' alone, I'm not worried
I feel your arms all around me
In the air on the streets of the city
Feels like I am free
 
-Facciamoci una foto-.
Alessio lo distrasse dai suoi ricordi delle ultime due ore trascinandolo verso il parapetto che delimitava quella strada che costeggiava l’oceano. Aveva già mollato la sua valigia a un paio di metri di distanza, e Pietro lo imitò, lasciandosi trascinare da lui senza opporre alcuna resistenza.
Si appoggiarono con la schiena alla ringhiera, in un tentativo di far vedere il più possibile la Statua della Libertà alle loro spalle. Fu un po’ più problematico trovare un’inquadratura che li convincesse, e che non la facesse scomparire dietro di loro: Alessio posizionò il suo cellulare in varie angolazioni, prima di fermarsi su una che rendeva giustizia sia alle loro facce – un po’ stravolte per tutti i viaggi degli ultimi due giorni-, e anche al panorama che si poteva osservare oltre le loro teste.
-Un selfie … - Alessio lo mormorò mentre era concentrato, tenendo il cellulare saldamente in mano. Pietro cercò di sorridere rivolto allo schermo, e per un attimo il sorriso venne meno, colto di sorpresa quando Alessio si sporse indietro verso di lui, abbassandosi appena e incastrandosi nello spazio tra la sua spalla e il collo. Fu un secondo, un lungo secondo durante il quale Pietro sperò di non apparire rosso in viso nella foto che stava scattando.
Quando un paio di attimi dopo Alessio aveva già premuto varie volte il tasto per far scattare le foto, tornò a mantenere un po’ la distanza, ma solo per guardarsi intorno.
-E ora ci vorrebbe qualcuno che ci aiuti a farci una foto decente- lo sentì mormorare, come se stesse parlando tra sé e sé. Prima ancora che Pietro potesse suggerirgli qualcosa, quasi tentato di dirgli di lasciare perdere e che bastavano le foto che avevano appena fatto, Alessio scattò in avanti. Si diresse verso una donna sulla cinquantina e dai tratti latini che, insieme a quello che Pietro presumeva fosse il marito, a pochi metri da loro era intenta a sua volta a cercare di imprimere su foto attimi di quel primo pomeriggio.
Li osservò scambiarsi poche parole, qualche sorriso di cortesia, e prima ancora di poter formulare qualche ipotesi se la trattativa fosse andata a buon fine, vide Alessio porgerle il suo cellulare e tornare verso di lui subito dopo.
-Pronto a metterti in posa?- gli domandò, prima di accostarglisi.
-Più che mai- rispose Pietro, ironico. Alessio non disse nient’altro: si limitò a passargli un braccio intorno ai fianchi, le loro spalle che si sfioravano – così come i fianchi, le ginocchia, e a quel punto Pietro smise di darci troppo peso e attenzione-, gli sguardi rivolti verso la signora che gentilmente stava scattando almeno una decina di foto prima di dire loro che potevano tornare a muoversi senza rimanere più immobili per la posa.
Stavolta fu lei a muoversi verso di loro, allungando il braccio verso Alessio per restituirgli il suo cellulare.
-Thank you- la ringraziò subito lui, cortese.
-Your welcome- rispose lei, con un marcato accento ispanico – You and your boyfriend are a really  beautiful couple-.
Fu tutto ciò che disse prima di fare loro un ultimo cenno di saluto con il capo prima di tornare verso il marito, e bastò a Pietro per lasciarlo totalmente spiazzato. Non credeva sarebbe riuscito a spiccicare parola neanche se fosse rimasta un altro po’ a cercare di conversare con loro.
-Ha detto veramente quel che ho capito o … - si lasciò sfuggire, senza però avere il coraggio di concludere ciò che stava dicendo.
-Credo proprio di sì- tagliò corto Alessio. Quando Pietro si voltò verso di lui, lo vide arrossito come non mai, lo sguardo abbassato verso lo schermo del suo cellulare, forse intento a guardare le foto che la signora aveva appena scattato loro, o forse intento a fare finta di farlo solo per evitare gli occhi di Pietro.
Rimase con il dubbio fino a quando non lo vide rialzare il viso:
-Sarà meglio che ci avviamo verso la metro ora- disse, con voce priva di entusiasmo – Ci vorrà del tempo per arrivare in aeroporto-.
-Sì, in effetti meglio non rischiare di arrivare tardi-.
Pietro rimase fermo anche quando Alessio aveva già mosso qualche passo verso il punto in cui avevano lasciato le loro valigie.
-Arrivo tra un secondo- gli disse in fretta. Osservò Alessio annuire, rivolgendogli un timido sorriso, consapevole che ormai il loro tempo lì era giunto agli sgoccioli.
Si mosse un’ultima volta verso il parapetto, senza però arrivare a toccarlo. Lasciò vagare lo sguardo verso le acque fredde dell’oceano, la sagoma della Statua della Libertà che contrastava contro l’azzurro pallido del cielo.
E un po’ si sentì libero anche lui, un po’ come ciò che quella statua stava lì a simboleggiare, e si sentì anche malinconico, ricordi di quelle giornate che avrebbe tenuto dentro di sé per sempre.
Lasciò vagare un’ultima volta lo sguardo, e poi si girò, sorridendo tra sé e sé.
 
God bless America, and all the beautiful people in it
May they stand proud and strong like Lady Liberty shinin' all night long
God bless America, and all the beautiful people in it
And all the beautiful people in it [4]






 
* Per essere precisi la quote precisa di Thanos è "Perfettamente bilanciato, come tutto dovrebbe essere", ed è ovviamente tratta dal film "Avengers - Infinity War" (che i nostri protagonisti, essendo fan dell'MCU, avranno sicuramente guardato 😂)
 
[1] Lana Del Rey - "The Greatest"
[2] Lana Del Rey - "How to disappear"
[3] Lana Del Rey - "Happiness is a butterfly"
[4] Lana Del Rey - "God Bless America"
 
Il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente alla cantante e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Quando il maltempo decide di mettersi in mezzo e, di conseguenza, cambiare pure i programmi di Alessio e Pietro! 
Il ritorno in Italia è stato rimandato di qualche giorno, perchè proprio a New York, dove avrebbero dovuto fare il cambio con l'aereo che li avrebbe riportati a casa, sono inevitabilmente rimasti bloccati.
Sebbene il meteo non sia proprio ottimale, nemmeno per girare a piedi, i nostri due eroi non hanno rinunciato a qualche visita newyorkese, finendo dritti dritti al MoMA, e poi a trovare riparo in un pub.
Tra un po' di malinconia di entrambi per il viaggio che ormai sta volgendo al termine, lo stupore di Pietro nello scoprire che Alessio legge i suoi articoli e ricordi vari, e con questa atmosfera intima data dalla presenza della musica dal vivo e altre persone già impegnate a ballare, perché privarsi di un lento insieme? Almeno questo è quello che deve aver pensato Alessio quando ha preso l'iniziativa e ha invitato Pietro!
Quale è stato il vostro momento preferito di questo viaggio?

Dal prossimo capitolo torneremo a Venezia... cosa ci riserverà il futuro? Ma soprattutto: secondo voi come si evolverà, dopo quest'avventura, il rapporto tra  Pietro e Alessio? Si rafforzerà o resterà uguale?
Lo scopriremo mercoledì 24 gennaio!
Kiara & Greyjoy
 
 

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Capitolo 22
*** Capitolo 19 - Blue side ***


TW: Slur omofobi (solo in un breve passaggio, ma siate consapevol* che ci sono)
 

CAPITOLO 19 - BLUE SIDE




 
Who would've thought that you could hurt me?
The way you've done it
So deliberate, so determined
And since you have been gone
I bite my nails for days and hours
And question my own questions on and on
So tell me now, tell me now
Why you're so far away
When I'm still so close
 
-Ti stanno bene i capelli-.
Giulia se li toccò di riflesso, arricciandosi attorno al dito una ciocca che le ricadeva morbida sulle spalle.
-Grazie- rispose semplicemente. Si era aspettata che prima o poi Ilaria le avrebbe detto qualcosa a riguardo: era difficile passare inosservati, soprattutto dopo aver tinto di un rosso piuttosto acceso capelli che erano sempre stati castani.
-Come mai hai deciso di tingerli?- le chiese ancora sua sorella, sfogliando pigramente il menu, imitando Giulia che, in realtà, aveva già deciso cosa ordinare.
Alzò le spalle, vaga, stavolta senza alzare gli occhi verso Ilaria, seduta di fronte a lei.
-Avevo voglia di cambiare- disse dopo qualche attimo – Vedere come sarei stata con un altro colore-.
-Ti fanno molto diversa-.
Giulia tenne ancora gli occhi abbassati.
“Forse sono anche una persona diversa”.
Era stato il suo primo pensiero quando si era specchiata dopo aver lavato via la tinta ed aver asciugato i capelli con il phon per fare più in fretta. Si era vista riflessa, e per i primi momenti non si era riconosciuta: era come vedere una persona con il suo stesso viso, gli stessi lineamenti, ma completamente diversa sotto quella maschera esterna.
Forse i capelli erano solo il sintomo più visibile di quella nuova persona.
Sospirò piano, e quando si decise ad alzare a malapena lo sguardo, si accorse che Ilaria la stava già fissando.
-Però stai bene- disse ancora, prima di distogliere gli occhi.
-È stata una decisione impulsiva- ammise Giulia – Però piacciono anche a me-.
Forse, si ritrovò a considerare, era stata una decisione meno impulsiva di quanto le piacesse pensare.
Si era ritrovata davanti allo scaffale pieno di tinte al supermercato una settimana prima, ed era stato in quel momento che l’idea l’aveva colta. Se voleva tagliare del tutto i ponti con la Giulia di un tempo, perché non farlo anche fisicamente?
Il rosso le stava bene. Le donava. La faceva sentire più sicura.
Ed era un cambiamento che era piaciuto anche a Lorenzo – molto più di Filippo, che la prima volta che l’aveva vista girare per casa così era rimasto immobile con gli occhi sgranati, e d’altro canto era lo stesso Filippo che le aveva sempre detto come il suo colore naturale, quel castano abbastanza chiaro e nocciola, la rappresentasse appieno.
Era stato in quel momento preciso che si era sentita ancor più soddisfatta della sua opera.
-Anche venire a pranzare fuori è stata una decisione impulsiva- sospirò Ilaria, che sembrava ancora piuttosto indecisa su cosa ordinare per pranzo.
Giulia ridacchiò: anche quella era stata una sua idea. Era arrivata in treno a Verona quella mattina piena d’entusiasmo alla prospettiva di pranzare fuori con sua sorella, loro due da sole dopo tantissimo tempo che non facevano una cosa simile, colma di un’allegria che per una volta dopo molto tempo era sincera e non forzata.
-Per una volta possiamo lasciare i rispettivi figli ai rispettivi padri e prenderci un po’ di tempo per noi, no?-.
Ilaria sbuffò sonoramente:
-Non so chi troverò più incasinato quando tornerò a casa, tra Ettore e Davide-.
Era un’atmosfera leggera, e Giulia per quell’ultima domenica di Maggio si era prefissata solo una cosa: godersela fino in fondo senza pensare a nient’altro.
-Pensa quando avrete il secondo-.
Rise ancor più forte quando sua sorella la guardò malissimo:
-Non portare sfiga, eh-.
 


-Dovremo tornare in questo posto prima o poi- commentò Giulia, mentre affondava il cucchiaino nel tiramisù che aveva ordinato poco prima, il dolce di chiusura del pranzo consumato – Cucinano bene-.
-Sì, decisamente- replicò Ilaria. Lei, invece, aveva ordinato una fetta di strudel di mele.
-Magari anche con Ettore, Davide, le gemelle … -.
“Ma non Filippo”.
-Già. Tutti insieme- mormorò a mezza voce Giulia, lo sguardo perso e la voce che era sfumata nel silenzio. Non c’era bisogno di esprimere ad alta voce quel che le stava passando per la testa: quell’assenza, la mancanza del nome di Filippo racchiuso nell’insieme delle loro famiglie, diceva molto più di quanto non avrebbe dovuto.
Era un vuoto più pesante della presenza.
-E con Filippo?-.
Giulia quasi sobbalzò nel rendersi conto che sua sorella l’aveva appena nominato, quasi le avesse letto la mente.
-Come sta andando con lui?-.
Anche se non aveva alzato lo sguardo su di lei, Giulia percepiva il peso degli occhi di Ilaria sulla sua figura. Si sentiva studiata, osservata, come se stesse aspettando il minimo segnale che potesse far intendere la sincerità di quella che sarebbe stata la sua risposta. Rimase immobile, il cucchiaino a mezz’aria, il tiramisù che vi era sopra ancora intatto.
-Come dovrebbe andare … - sospirò, già stanca di quella conversazione – Va come sempre-.
Non va, come sempre”.
Ilaria la guardò cautamente:
-Non gli parli?-.
-Solo quando è strettamente necessario- rispose seccamente Giulia. Si sentì in colpa subito dopo per essere stata così brusca con sua sorella, ma una parte di lei le stava facendo credere di essere nella ragione: Ilaria poteva immaginare che quello non fosse il momento più adatto per chiederle di Filippo, o che non avesse affatto voglia di parlare di lui.
Sperò ardentemente che Ilaria lo capisse e non insistesse, ma le speranze di Giulia sembrarono vane.
-Hai pensato se chiedere il divorzio?-.
Giulia cercò di fare finta di nulla, ma era difficile agire come se niente fosse quando era l’ennesima domanda del genere che le veniva rivolta.
-Ci sto ancora pensando- borbottò, mangiando più in fretta per finire più velocemente quel che rimaneva della sua porzione di tiramisù. Forse se avesse chiesto il conto e fosse venuto finalmente il momento di alzarsi ed uscire dal ristorante, sua sorella si sarebbe distratta a sufficienza per non farsi venire in mente altre domande riguardanti Filippo.
-Ok- mormorò Ilaria, quasi sovrappensiero, prima di tornare ad alzare la voce – Beh, dovrete parlare di questo, visto che vi riguarda entrambi. E riguarda anche le bambine-.
Giulia si strinse nelle spalle, accusando il colpo causato dal tono improvvisamente brusco di Ilaria.
-Lo stai dicendo come se fosse una cosa orrenda-.
Ilaria la guardò a tratti stupita per alcuni secondi, prima di scuotere il capo:
-Non è vero-.
Sospirò profondamente, lasciando il cucchiaino sul bordo del piatto, facendolo tintinnare sulla ceramica.
-Se credi che divorziare e prendere strade diverse sia la soluzione migliore per tutti, dovresti farlo-.
-Credo lo sia, ma ci sto andando con calma- tagliò corto Giulia.
“E non c’è bisogno che qualcuno mi dica cosa fare”.
Si ritrovò anche lei a mollare il suo cucchiaino, ormai le ultime scie di fame che la stavano abbandonando. Aveva lo stomaco chiuso ora, la gola bloccata dal groppo che le impediva di parlare con la fermezza con cui avrebbe voluto dire ad Ilaria di smetterla di ricordarle quella che sarebbe stata la fine tra lei e Filippo.
“Come se non lo capissi da sola”.
 
I tried so hard to be attentive
To all you wanted
Always supportive, always patient
What did I do wrong?
Been wondering for days and hours
It's clear, it isn't here where you belong
 
-È che … - cercò di dire, lo sguardo altrove – Ho un sacco di cose a cui pensare già-.
Ilaria la guardò come se fosse sul punto di chiederle “Che tipo di cose?”, ma non lo fece. Annuì e basta, in silenzio, senza chiederle altro sebbene fosse evidente che avrebbe voluto farle mille altre domande.
Anche Giulia tacque. Stringeva il cucchiaino tra le dita, sentendolo scivolare sulla pelle, freddo come era ora l’atmosfera al loro tavolo.
Si era immaginata quella giornata in tutt’altro modo. Un pranzo tranquillo, rilassato, un’occasione per non pensare a tutto ciò a cui invece doveva pensare ogni singolo istante di ogni giorno.
Si era immaginata una giornata in cui poteva non pensare a Filippo, a casa per l’ennesimo weekend da solo con le gemelle, e a cui aveva rivolto a malapena una parola prima di uscire per prendere il treno – treno che, per una volta, per lei non si era fermato a Padova.
In quell’istante, quando il suo pensiero si fermò su Lorenzo, Giulia trasse un profondo respiro. Anche non essere con lui durante il weekend era ormai inusuale: casa sua stava diventando una tappa fissa, un luogo stranamente famigliare – come lo stava diventando Lorenzo stesso.
Alzò furtivamente gli occhi su Ilaria: non la stava più fissando, ed era tornata a finire il suo strudel senza aggiungere altro. Ora era Giulia ad osservarla in silenzio, a chiedersi se forse quella fosse l’occasione giusta per dirle di Lorenzo.
Era qualcosa che aveva in mente da tempo. Le serviva dirlo a qualcuno, almeno ad una persona prima di decidersi di dare la notizia a Caterina; doveva dirlo per vedere quale sarebbe stata la reazione, cosa le sarebbe stato detto, e di certo quella persona non poteva essere Filippo.
Ma sua sorella era lì, e sebbene in quegli ultimi minuti la situazione fosse precipitata, Ilaria era pur sempre una persona di cui si fidava.
E poi, forse, dirle quello che stava accadendo nella sua vita negli ultimi mesi le avrebbe fatto capire meglio come stavano realmente le cose, senza doverle fare un interrogatorio ogni volta che si vedevano.
Si schiarì la voce, il cuore che le batteva forte ma decisa ad andare fino in fondo.
-E mi sto frequentando con qualcuno da un po’-.
Lo disse come se non avessero mai interrotto la conversazione di qualche minuto prima, ma il suo tono fintamente casuale non bastò per non far alzare di scatto la testa ad Ilaria. La fissò dapprima con occhi sgranati, prima di guardarla con semplice stupore.
-Oh. Non me l’aspettavo- farfugliò, presa totalmente in contropiede, rendendo quanto più visibile che non si era aspettata per niente quella confessione – Lo conosco?-.
-In un certo senso- mormorò Giulia – È Lorenzo. Il fratello di Caterina-.
Si era mantenuta sulle informazioni generiche, su dettagli che era sicura Ilaria si sarebbe più o meno ricordata, ma si era aspettata del tutto il suo strabuzzare gli occhi, come se avesse appena ascoltato un’assurdità. Cercò di riprendersi subito, alzando le sopracciglia e tornando seria subito dopo, provando a fingere sorpresa ma non incredulità.
-Caterina lo sa?- le chiese, e Giulia di nuovo non si stupì che quella fosse la prima domanda ad esserle stata posta.
-Non ancora- ammise, a mezza voce – Glielo dirò presto-.
Ilaria annuì, cercando di sorriderle:
-E com’è con lui?-.
Non era convinta, ed era evidente. Giulia non riuscì a capire se potesse essere una cosa temporanea dovuta all’imprevedibilità della notizia, o qualcosa di più profondo – forse la stranezza di vederla accanto a qualcuno che non era Filippo.
Cercò di accantonare quel pensiero, cercò anche di distogliere il ricordo da Filippo stesso, concentrandosi su Lorenzo. Era di lui che stava parlando ora, e avrebbe perlomeno dovuto sembrare convinta lei per prima per poter convincere anche gli altri della loro relazione.
-Non è male. È ancora tutto nuovo- Giulia sospirò, rendendosi conto che forse era stata troppo sincera, più di quanto avrebbe voluto – Forse non diventerà neanche qualcosa di serio, visto che tecnicamente sono ancora sposata-.
-Ma hai detto che stai pensando al divorzio- le fece notare Ilaria.
Giulia alzò le spalle, scrollandole subito dopo:
-Sì, diciamo che anche Lorenzo mi dice che farei meglio a chiederlo. Che con Filippo è finita, e che non ha senso continuare così-.
Ebbe la sensazione di aver appena detto qualcosa di sbagliato quando finì di pronunciare l’ultima parola. Era stata un’impressione sottile, quasi invisibile, ma aveva visto la fronte di sua sorella aggrottarsi per una frazione di secondo, i suoi occhi farsi più guardinghi.
-Aspetta-.
Ilaria si sporse maggiormente verso di lei. Ormai aveva rinunciato a sua volta a finire il suo dolce.
-Ne hai parlato prima con lui?-.
Più che essere ferita per quella nuova consapevolezza, Giulia la percepì come preoccupata. Non riuscì a capire se le sue sensazioni potessero essere fondate o se si stava solo immaginando tutto.
-Beh, lo riguarda, in un certo senso- farfugliò senza convinzione.
Il silenzio che seguì non la incoraggiò per niente. Arrischiò un’occhiata verso Ilaria, e ciò che vide le confermò la sensazione di freddezza che stava provando.
Sua sorella la stava guardando intensamente, come se stesse cercando di capire qualcosa, o come se già l’avesse capito e stesse provando a cogliere qualcosa che confermasse i suoi sospetti. Giulia la guardò di rimando sentendosi piccola, come se fossero tornate a vent’anni prima, quando lei era solo una bambina che dalla sua prospettiva ammirava la sorella adulta di undici anni più grande.
Stavolta però non c’era ammirazione ad animarla, solo timore per quello che Ilaria stava per dirle.
-Giulia, non è che ci stai pensando perché in un qualche modo ti sta mettendo sotto pressione?- iniziò lei, lentamente, continuando a guardarla fissa – Ti sta mettendo fretta per chiedere il divorzio?-.
Giulia scrollò il capo troppo velocemente:
-Non ho detto questo-.
In fin dei conti era vero, Lorenzo non le chiedeva del divorzio. Non ogni volta che si vedevano, perlomeno. Erano andati spesso in argomento negli ultimi due mesi, ma le sembrava una cosa naturale dato che avevano iniziato a frequentarsi.
-Ho solo detto che ne abbiamo parlato, e che Lorenzo crede che sia giusto così- proseguì, cercando di apparire convinta – Non ho mai detto che è stato lui a mettermi l’idea in testa-.
-Bene. Spero che tu ci stia pensando perché effettivamente è una delle opzioni possibilmente percorribili, e non perché il primo tizio che passa cerca di convincerti a divorziare- replicò Ilaria, seccamente.
Giulia ignorò il fatto che l’avesse definito come il primo che passava, nonostante la punta di fastidio che provò:
-Ci starei pensando a prescindere da Lorenzo- ribatté, nervosamente –  Onestamente non so se riuscirò mai a vedere Filippo nello stesso modo di prima-.
-Ed è totalmente lecito-.
Ilaria sospirò profondamente, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.
-È che sto cercando di dirti di non lasciarti influenzare, sia da chi ti dice che devi assolutamente divorziare il prima possibile, sia da chi pensa che non dovresti neanche prenderlo in considerazione- disse ancora, stavolta meno duramente.
Abbassò lo sguardo, e Giulia ne fu grata: si sentì scivolare di dosso il peso degli occhi di sua sorella, il giudizio intrinseco che vi aveva letto, e sentì l’enorme bisogno di uscire da lì il prima possibile.
-Quindi Lorenzo non ti sta mettendo fretta, giusto?-.
Giulia scosse di nuovo il capo:
-No, non direi-.
Ilaria annuì di nuovo, e Giulia fu sicura che non fosse ancora convinta. C’era ancora il dubbio ad aleggiare nella sua espressione, e probabilmente non se ne sarebbe andato per molto tempo.
La considerava ancora una bambina che non sapeva badare a se stessa? Considerava Lorenzo un predatore che era balzato sulla sua preda?
Sembrava di sì, e l’idea di essere vista così vulnerabile, così manipolabile, le fece salire la bile.
-Quando me lo presenti?- le chiese ancora Ilaria, con fare più casuale.
Giulia non abboccò:
-Sul serio me lo stai domandando?-.
-Vorrei provare a farmi un’idea di com’è- Ilaria alzò le spalle, sospirando ancora una volta – Perché ora come ora non sono molto convinta che stia pensando primariamente al tuo bene-.
La ferita che provò Giulia all’altezza del petto fu molto più tremenda da sopportare di quanto si sarebbe aspettata. Non si era prospettata di veder accolta la notizia di Lorenzo con celebrazioni e congratulazioni, non si era aspettata nulla di particolare, ma nemmeno quello.
Dovette lottare per trattenere le lacrime che le bruciavano agli angoli degli occhi, ormai abituata a quella sensazione, ed altrettanto abituata a reprimerla a forza.
-Non sai neanche chi è- mormorò con voce spezzata – Come fai a dirlo?-.
Non guardò in faccia sua sorella, stavolta, né era davvero interessata alla risposta, ma ascoltò lo stesso quando Ilaria si schiarì la voce e parlò:
-Probabilmente mi sbaglio e lo sto giudicando male, però … - si prese qualche secondo di silenzio, la tensione evidente nella sua voce – Non lo so, ti vedo diversa-.
“Lo sono”.
Stavolta Giulia alzò il viso, impassibile.
“Solo che non sono diversa come vorreste tutti voi”.
-Per quello dovresti dare la colpa ad un altro, non credi?-.
Sua sorella non rispose.
 
You don't even know the meaning of the words "I'm sorry"
You said you would love me until you die
And as far as I know you're still alive, baby
You don't even know the meaning of the words "I'm sorry"
I'm starting to believe it should be illegal
To deceive a woman's heart [1]
 
*
 
Si passò una mano sul viso, rendendosi conto che stava sudando dannatamente tanto. Non che fosse una cosa imprevedibile: quei primi giorni di Giugno erano stati un continuo di temperature troppo alte per essere considerate sopportabili, con un sole talmente pieno che Pietro era sicuro mancasse ormai poco al suo corpo per squagliarsi sull’asfalto. Un po’ come stava succedendo al cono gelato che Martino stava tenendo in mano.
-Non m’abituerò mai a ‘sta umidità che c’è qua- lo sentì brontolare, mentre il centro di Mestre si apriva davanti a loro – Me sto a squaglià, te lo giuro-.
-Pure io, se è per quello- concordò Pietro, continuando però a camminare.
Nonostante fosse primo pomeriggio, Mestre era quasi del tutto deserta: era sicuro che molte persone avessero preferito rimanere in casa, magari aspettando le ore serali più fresche per uscire, e che moltissime altre avessero approfittato del weekend lungo del 2 Giugno per andarsene al mare. E facevano bene, pensò Pietro, perché con delle giornate del genere e con un caldo come quello l’unica cosa sensata era andarsene a non far nulla in spiaggia.
Si ritrovò ad invidiare profondamente tutti coloro che erano stati decisamente più previdenti di lui e Martino.
Svoltarono arrivando nella piazza – Pietro l’aveva sempre trovata più simile ad una larga strada che ad una piazza, forse perché mancante della classica pianta quadrata-, dove, almeno lì, un po’ di popolazione era concentrata. Molti seduti ai bar, altri nei negozi climatizzati, ed altri ancora, perlopiù ragazzini, ammassati in piedi ed in gruppi sparsi qua e là. Il tipico ritratto di una qualsiasi piazza italiana in una qualsiasi giornata di fine primavera.
Pietro si distrasse nell’udire Martino imprecare sottovoce. Quando si voltò verso di lui, lo trovò a lottare contro il suo stesso gelato, che da un lato stava colando inesorabilmente lungo il cono di cialda, con gocce che sarebbero finite a sporcargli la mano.
Riuscì ad arginare il caos che stava facendo solo all’ultimo, leccando il gelato colato in fretta e furia, ma finendo inevitabilmente per sporcarsi gli angoli della bocca.
-Hai un po’ di gelato qua- gli disse per avvertirlo.
Martino aggrottò la fronte:
-Dove?-.
-Qua- Pietro gli indicò l’angolo della bocca ancora lievemente sporco di gelato – Sta fermo un attimo-.
Martino roteò gli occhi – truccati anche quel giorno, di colori sgargianti e accesi che Pietro trovava piuttosto adatti al clima della giornata-, ma si fermò un attimo dopo, restando immobile mentre gli si avvicinava di più al viso. Gli passò il pollice all’angolo delle labbra un paio di volte, guardandolo infine con soddisfazione nel vedere che il gelato era venuto via.
-Ecco fatto. Non serviva che ti dimenassi così tanto-.
Martino scosse il capo, esageratamente quanto fintamente seccato:
-E io che pensavo mi avresti ripulito in altre maniere-.
-Tipo?-.
Fingere di non aver capito cosa intendesse non sembrò giocare a suo favore, perché in tutta risposta Martino lo osservò maliziosamente, senza curarsi affatto che fossero in mezzo ad un sacco di altra gente.
-Eddaje, usa un po’ de fantasia-.
Non ce ne voleva molta, di fantasia, non per capire quel che aveva in mente. Pietro si sporse in avanti, cercando di non soffermarsi a pensare a tutte le persone che erano intorno a loro e che avrebbero potuto vederli; gli lasciò un bacio a fior di labbra, così veloce che probabilmente Martino non se n’era quasi accorto. Era un bacio totalmente differente da quelli che si scambiavano di solito, quando erano in posti più isolati o tra i muri dell’appartamento di Pietro. Erano baci a cui si era abituato, e che non cambiavano la natura amichevole del loro rapporto, senza confini né etichette.
Furono pochi secondi di tranquillità, prima ancora che riprendessero a camminare, quando Pietro ebbe la netta sensazione di essere osservato un po’ troppo da vicino.
-A froci!-.
Quando Pietro si ritrovò ad alzare lo sguardo non faticò ad individuare la fonte di quel richiamo offensivo: c’erano un paio di ragazzi che non dovevano essere troppo più giovani di Martino, che li stavano squadrando da capo a piedi con espressioni disgustate.
Prima che la rabbia, Pietro avvertì la paura.
-Andatevene a casa vostra!-.
-Nun ce rompe’ er cazzo!- Martino aveva fatto due passi avanti, tenendo sempre il cono del gelato in mano ma ignorandolo del tutto, e Pietro quasi si chiese se fosse diventato pazzo a rispondere così a tono senza farsi problemi, con il rischio di farsi pestare.
“Forse dovrei fermarlo”.
Era il panico a parlare – perché in qualsiasi altra situazione sarebbe stato più razionale pensare di fermare chi li aveva appena aggrediti, non Martino che non stava facendo altro che difendersi-, ma a Pietro a poco a poco sembrò di star affondando sempre più sul fondo di un mare di paura.
Si ritrovava immobile, impossibilitato a fare qualsiasi cosa, se non rimanere lì fermo, a subire.
Riuscì a cogliere solo qualche parola dell’alterco che si stava venendo a creare – qualche altro insulto rivolto agli occhi truccati di Martino, probabilmente anche qualche parola tutt’altro che gentile dedicata anche a lui stesso-, ma nient’altro. Osservò tutto come se fosse uno spettatore esterno, con le gambe troppo molli per essere spostate e la lingua appiccicata al palato.
Fu solo quando osservò i due allontanarsi sempre di più fino a scomparire dal suo campo visivo, ormai lontani e non più un pericolo, che Pietro si rese conto di aver a malapena respirato per tutti i lunghi minuti in cui erano rimasti lì.
Sbatté le palpebre un paio di volte, e la realtà sembrò tornare viva, come se fosse rimasta in pausa e silenziosa fino a quel momento.
Cercò Martino con lo sguardo, e quando lo individuò lo vide livido di rabbia, ma non trovò traccia di paura nella sua espressione tesa. Era furioso, quello era evidente, ma non spaventato.
Pietro si ritrovò ad invidiarlo, e a chiedersi come poteva sentirsi così.
-Forse è meglio se ci allontaniamo- mormorò con un filo di voce.
Martino fece una smorfia:
-Forse è meglio se s’allontanano loro-.
Sbuffò sonoramente, e in un moto di rabbia mal trattenuta morse la cialda del suo gelato, quasi animalescamente.
-Se s’avvicinano di nuovo je spacco er culo- Pietro lo sentì borbottare ancora – Magari scoprono che gli piace pure-.
-Dai- Pietro lo ignorò, spingendolo per un gomito per invitarlo a camminare. Voleva solo allontanarsi da quel posto il prima possibile, far perdere le loro tracce a quei due che li avevano insultati, evitare che si ripetesse la stessa cosa con qualcun altro.
Tentare di regolarizzare il respiro gli fu più difficile del previsto.
Forse era il caldo soffocante che avvertiva, l’umidità che lo faceva sudare, e il continuare a camminare che invece avrebbe dovuto interrompere almeno per qualche minuto, ma in qualsiasi caso riusciva solo a sentire il proprio cuore battere ancora all’impazzata e il respiro corto, troppo veloce.
Percorsero tutta la piazza in rigoroso silenzio, mentre Martino finiva il suo gelato. Pietro sapeva che lo stava guardando; magari non in continuazione, ma percepiva il peso dello sguardo dell’altro su di sé, forse per assicurarsi che non svenisse da un momento all’altro.
Fu quando avevano quasi raggiunto l’estremità opposta della piazza che Martino si decise a parlare:
-Te sei preso male per quei coglioni?-.
Era talmente evidente che non c’era davvero bisogno di rispondere.
-Tu no?- replicò Pietro.
Avevano cominciato a rallentare, a camminare meno speditamente. Pietro ne fu silenziosamente grato, e sperò che Martino continuasse a parlare: lo preferiva di gran lunga al silenzio pieno d’agitazione che si erano appena lasciati alle spalle.
-C’ho fatto er callo, ormai- lo sentì dire, con amarezza – Non me ne fotte niente di quel che pensano-.
Pietro si voltò verso di lui e, per la prima volta da quando lo conosceva, trovò un’affinità incredibile tra Martino e Fernando. Non erano simili in quasi nulla, ma in quello – nel non avere paura di essere chi erano- erano così uguali che per un attimo a Pietro sembrò di vedere Fernando al posto di Martino.
Gli si strinse il cuore a quel pensiero.
-Beh, io non ci sono abituato per niente- ammise a mezza voce.
-Ne ho viste di peggio, credimi- Martino allungò una mano verso di lui, accarezzandogli per pochi attimi la spalla – Tipo ogni volta che vado a manifestare-.
-Tipo al Pride?-.
-Non solo quello-.
Pietro aggrottò la fronte in confusione, ma prima ancora che potesse anche solo pensare di domandare qualcosa, Martino lo precedette:
-Aspè- alzò una mano, quasi volesse frenarlo letteralmente – Non dirmi che non t’ho mai detto che sono un attivista-.
“Attivista?”.
Pietro scosse lentamente il capo:
-No?-.
-Oh cazzo, ero convinto di sì- Martino aveva sgranato gli occhi per la sorpresa, appena prima di coprirsi la bocca con una mano come se avesse appena combinato il più gran casino di sempre – Beh, mo’ lo sai-.
Pietro non era esattamente sicuro di conoscere cosa sapeva ora. Aveva così tante domande che gli frullavano in testa che non aveva la minima idea da quale partire.
Decise di iniziare dalla più ovvia, anche se forse non la più semplice:
-Ma attivista in che senso?-.
Ripresero a camminare un po’ meno adagio, imboccando una strada meno affollata di quanto non lo era la piazza che si erano appena lasciati alle spalle.
-Nel senso che frequento un centro LGBTQA a Venezia … Organizzo cose. Tipo le manifestazioni, riunioni, corsi- Martino gesticolò freneticamente con le mani, mentre continuava a spiegare – Cose così. Un sacco di cose diverse, in realtà. Non è un lavoro da poco-.
Pietro rimase ammutolito. Non sapeva se potersi definire effettivamente sorpreso nello scoprire quel lato della vita di Martino: da quando lo conosceva non ne aveva mai fatto cenno, anche se capiva da molte cose come fosse parecchio preparato – non solo a livello di esperienze personali, ma di teoria e studi veri e propri- su quel che girava attorno al tema queer. E forse aveva anche accennato a qualche riunione su vari temi, qualche manifestazione a cui aveva partecipato, ma mai gli era venuto il sospetto che Martino non fosse solo partecipante ma anche organizzatore.
Con una punta di vergogna si rese conto che non si era mai nemmeno informato della presenza di centri simili in quelle zone.
-Non ne avevo idea ne facessi parte-.
-Ora lo sai- Martino gli sorrise, segno evidente che stava prendendo quella conversazione in assoluta tranquillità – Dovresti fare un giro, prima o poi. Secondo me te piacerebbe. Ti farei conoscere anche un sacco di gente-.
-Prima o poi- ripeté vago Pietro, a mezza voce. Non aveva avuto il cuore di rispondere un secco no, anche se era stato il suo primo istinto.
Si era frenato sia per non deludere Martino, ma anche per poter dare tempo a se stesso per pensarci meglio. Se in quel momento aveva ancora stampate nella mente le immagini dell’aggressione di neanche dieci minuti prima, che gli impedivano di riflettere del tutto lucidamente, ciò non significava che non avrebbe fatto bene a ripensarci in un momento più tranquillo. In fondo, in quegli ultimi mesi, aveva imparato una cosa: fare piccoli passi, ma non imporsi paletti a prescindere solo per paura.
Martino sembrò capirlo, e rise piano:
-Tipo domenica?- lo incalzò, pur lasciando trapelare una vena di ironia nella voce. Lo stava evidentemente prendendo in giro, anche se Pietro era piuttosto sicuro che un sottile filo di speranza ci fosse comunque.
In qualsiasi caso, stavolta scosse il capo subito:
-Anche volendo non potrei. Ho già un impegno-.
-Oh, vai dai tuoi figli?- gli chiese Martino.
-Anche- Pietro si strinse nelle spalle, già aspettandosi parecchie domande da parte dell’altro non appena avrebbe aggiunto il resto – Però poi dovrei vedere un amico. Quello con cui sono andato a Los Angeles-.
Fece finta di nulla, ma vide subito il guizzo che fece il sopracciglio di Martino, alto sulla fronte mentre lo osservava con attenzione, un mezzo sorriso che gli si stava dipingendo sulle labbra:
-Alessio, giusto?-.
-Sì- annuì Pietro, per nulla sorpreso che Martino ormai ricordasse il nome. Erano bastati i suoi racconti sul viaggio negli Stati Uniti per farglielo ricordare a sufficienza, anche se aveva l’impressione che non fosse solo per quel motivo che ormai aveva il nome di Alessio stampato nella memoria.
Fu proprio ripensando alle settimane seguite al ritorno in Italia, ai momenti infiniti in cui aveva torturato Martino con le mille impressioni che aveva avuto di Los Angeles e New York, che si ricordò improvvisamente di una cosa:
-Visto che fai l’attivista… - iniziò a dire, già catturando l’attenzione dell’altro – Lo sapevi anche tu del casino successo con il proprietario del Coachella?-.
-Sì. Ma lo sa anche chi non fa parte della comunità- Martino rise divertito non appena vide la faccia inespressiva di Pietro – Mi sa che eri rimasto solo tu a non saperlo-.
Pietro sbuffò sonoramente:
-Beh, ci sono rimasto male, ok? Sono ancora sotto shock-.
Martino rise ancora, piuttosto divertito. Per qualche secondo, quando la sua risata era già scemata, non disse nulla; continuarono a camminare, nelle poche zone d’ombra che la strada donava loro. Pietro per qualche attimo si pentì di non aver proposito di fermarsi nella piazza, anche se il pensiero che i due omofobi avrebbero potuto rincarare la dose, se lui e Martino si fossero trattenuti lì oltre il tempo necessario, ancora gli ronzava in testa.
-Te l’ha data Alessio la notizia?-.
Per un secondo Pietro credette di essersi solo immaginato la domanda, troppo distratto nei suoi pensieri per rendersi conto che Martino era girato verso di lui, in attesa evidente di una risposta.
-Sì, quando eravamo a Los Angeles- ammise.
-Prima o poi me lo devi presentare. So’ curioso- Martino lo disse con un sorriso e con un tono piuttosto allegro – Ho l’impressione che mi starà simpatico-.
Pietro fu enormemente grato per il fatto che in quel momento non avesse nulla da bere a portata di mano: era sicuro che se l’avesse sentito mentre stava sorseggiando qualcosa, avrebbe sputato tutto o finito per soffocarsi.
Non seppe bene come prendere quelle parole di Martino, e tutto quello che gli riuscì di fare fu arrossire in maniera fin troppo evidente e pensare a qualcosa, qualsiasi cosa, con cui rispondere.
-Non credo esistano due persone più diverse di voi due- farfugliò, rendendosi conto solo dopo che quel tentativo di fargli cambiare idea non era molto funzionale.
-E che vordì? Anche io e te siamo parecchio diversi, eppure … - Martino gli tirò una pacca amichevole sulla spalla, ridendo appena – Ma Alessio è … -.
-Non è etero-.
Pietro lo aveva interrotto ancora prima di scoprire quale fosse la domanda che Martino gli stava ponendo, ma ormai era in ballo e nonostante il suo viso sempre più in fiamme, cercò di proseguire:
-Cioè … Gli piacciono anche gli uomini- gracchiò, consapevole dello sguardo avveduto che Martino gli stava rivolgendo, e che lo confondeva – Non so come si definisca, non ha mai usato un’etichetta specifica, però ecco … È aperto a tutto-.
“Tranne che a me, forse”.
Sperò che Martino non gli domandasse come mai non avesse mai pensato di fare coming out con Alessio, visto la sua probabile maggior comprensione. Sperò di non sentirgli fare quella domanda perché la risposta sarebbe stata troppo lunga, troppo dolorosa, e troppo articolata anche solo per essere pensata.
Per sua fortuna, Martino non glielo chiese:
-Grazie per l’informazione, anche se non era esattamente quello che te stavo per dommandà- disse, ridendo di nuovo – Stavo per chiederti se è tuo coetaneo-.
Pietro ebbe la seria tentazione di buttarsi in mezzo alla strada e aspettare la prima auto che avrebbe potuto tirarlo sotto.
-Ha un anno più di me- mormorò, scostando lo sguardo.
Sapeva che Martino si stava trattenendo a stento dal ridergli di nuovo in faccia: non c’era bisogno di guardarlo per capirlo.
-Quindi siete coetanei-.
Pietro si limitò ad annuire, pregando che quella conversazione finisse il prima possibile.
-Attenderò con ansia il giorno in cui me lo farai conoscere-.
E sebbene a Martino avesse raccontato solo l’essenziale di Alessio – forse solo qualche dettaglio in più per quanto successo durante il viaggio di Aprile-, Pietro ebbe la netta sensazione che Martino avesse intuito ben di più di quanto stesse facendo trapelare – o di quanto lui stesso aveva sperato.
 
*
 
Ed evitare di squagliarmi sotto il sole
Ed evitare di guardarti come un pazzo
Come un pazzo che ti vuole
Completamente
Completamente
 
-Era ovvio che c’era qualcosa che non andava-.
Le parole di Alessio si persero nella brezza leggera che si era alzata da un po’, e che rendeva più sopportabile il sole pieno del pomeriggio di quella domenica.
C’era il mormorio delle onde del mare a riempire il silenzio che Pietro aveva lasciato che si creasse, ancora troppo stordito per saper cosa poter dire.
Teneva gli occhi fissi davanti a sé, persi tra le acque del mare Adriatico, ma era come se ci fosse il vuoto a restituirgli lo sguardo.
-Sì, ma dal pensare a qualcosa che non va a questo … - mormorò, il groppo in gola che gli rendeva difficile il parlare anche a così bassa voce – Mi sembra impossibile-.
Anche se non poteva vederlo, non mentre non lo stava guardando, ebbe la percezione che Alessio stesse annuendo.
-Un po’-.
Era curioso il fatto che due mesi prima avessero parlato di Giulia e Filippo sempre nei paraggi di una spiaggia. Solo che allora lui ed Alessio erano dall’altra parte del mondo, a vivere in un fuso orario diverso e in una città differente, e davanti a loro si estendeva l’oceano Pacifico. Ora invece erano dalle parti del lido di Venezia, in un luogo ben più famigliare, e con una sensazione di vuoto molto più pesante di quella che aveva provato allora.
-Stavano insieme dal liceo-.
Pietro scosse la testa, quasi incredulo di fronte alla sua stessa affermazione che non era riuscito a trattenere oltre.
-Mi ricordo ancora il giorno in cui si sono messi insieme. E ora … - gli venne quasi da piangere, e di sicuro non si sarebbe mai aspettato, in una giornata di Giugno nel futuro, una reazione del genere nel giorno che aveva appena ricordato – Se si son mollati loro non ho idea di chi resisterà mai-.
“Probabilmente nessuno”.
Non lo avrebbe mai ammesso, non a voce alta – anche se ormai si trovava molto vicino al farlo-, ma sapere che tra Giulia e Filippo era finita era un po’ come arrivare a scoprire che il vero amore non esisteva.
Quando quella mattina a casa di Caterina e Nicola avevano trovato anche Giulia con le gemelle – ma non Filippo- era già parso strano, insolito. Doveva essere un semplice pranzo insieme, dopo mesi e mesi in cui si erano visti poco e niente, ma Pietro aveva avvertito l’aria pesante non appena era entrato. Gli era bastato guardare il viso pallido di Giulia, i suoi capelli ora rossi e gli occhi spenti per capire che qualcosa era definitivamente cambiato. Era un’impressione che si trascinava da Aprile, forse anche prima, ma in quel momento, pur senza che lei dicesse una parola, ne aveva avuto la certezza.
E poi, quando il pranzo era arrivato alla sua naturale fine, tra lunghi silenzi e poche risate forzate, erano arrivate le fatidiche parole: “io e Filippo ci siamo lasciati”.
In una qualsiasi altra situazione Pietro si sarebbe messo a ridere, sicuro che quello fosse uno scherzo. Guardandosi attorno, però, incrociando lo sguardo triste di Caterina e Nicola – quanto di più evidente per intuire che lo sapessero già-, e gli occhi vuoti di Giulia, aveva capito che era così. Era così e basta.
Si era ritrovato a chiederle cosa fosse successo ancora prima di rendersene pienamente conto, e quando l’aveva fatto poi si era pentito subito. Non aveva idea se Giulia avrebbe voluto dare altre spiegazioni, e lì per lì non gli era sembrata sul punto di volerle dare. Poi però aveva evidentemente deciso di farlo, e ascoltarle era stato anche peggio di prima.
Lo shock non gli aveva comunque impedito di telefonare a Filippo subito dopo essere uscito dall’appartamento, ed avere solo un’ulteriore conferma che era tutto vero, e non solo un incubo troppo realistico.
-Io e te abbiamo già perso la scommessa da tempo- mormorò piuttosto amaramente Alessio, sospirando a fondo.
Pur tutt’altro che divertito dalla piega che stava prendendo quella conversazione, Pietro rincarò la dose:
-Beh, ad essere precisi Nicola e Caterina si sono lasciati anche prima-.
-Ma ora stanno ancora insieme-.
“E spero solo che continuino a farlo ancora per molto”.
Rimase in silenzio, ascoltando l’infrangersi delle onde a riva, il chiacchiericcio delle altre persone che avevano deciso di passare quella giornata al mare. Anche per lui ed Alessio quello doveva essere un pomeriggio di svago, una delle tante uscite al mare che erano diventate  un’abitudine dopo essere tornati da Los Angeles, ma che si stava trasformando in qualcosa di decisamente più tetro. Un po’ come era diventato il suo umore dopo quel dannato pranzo.
-Non credevo che Filippo sarebbe stato in grado di ferirla così-.
Non riuscì più a trattenersi dal dirlo. Era da ore che continuava a pensarci, ad arrovellarsi su come fosse potuto accadere. E sebbene quello di Filippo potesse sembrare un tradimento meno grave, non compiuto completamente, poteva benissimo comprendere come doveva sentirsi Giulia, e come mai avesse deciso di lasciarlo. E, inevitabilmente, non riusciva a biasimare nemmeno Filippo: non lo avrebbe mai giustificato, né gli avrebbe dato ragione, ma non poteva giudicarlo. Non quando lui per primo aveva tradito Giada troppe volte in modi diversi.
“Gli parlerò” pensò, in un attimo di slancio emotivo, “Anche se ha sbagliato, rimane amico mio anche lui”. 
-È cambiato molto, in questi ultimi anni- sussurrò Alessio – Forse … Non lo so, in certi momenti della vita si fanno solo cazzate, e ci si rende conto troppo tardi che non c’è più modo di rimediare. Mi chiedo come abbiamo fatto a non vederlo prima nemmeno noi-.
Pietro avvertì il nodo in gola farsi ancora più pressante:
-Magari se fossimo stati più presenti … -.
Anche se non aveva ancora trovato il coraggio di voltarsi verso di lui, sapeva che ora invece Alessio lo stava facendo e che lo stava guardando. Percepiva il peso del suo sguardo addosso, e si chiese se anche lui provava lo stesso senso di colpa.
-Credo che se ce l’hanno detto ora era proprio perché avevano bisogno di stare per conto loro- Alessio lo mormorò con voce a malapena udibile, e Pietro non capì se lo stava dicendo a lui o più a se stesso.
-Avevano bisogno di silenzio-.
“Ma nel silenzio rischi di rimanere solo troppo a lungo”.
Pietro non disse ancora nulla, lo sguardo ormai abbassato sulle sue stesse gambe incrociate sopra la sabbia calda, i granelli che si stavano infiltrando tra le pieghe dei suoi pantaloncini.
-Un po’ li capisco- disse ancora Alessio, con voce più grave – Anche io e Alice quando ci siamo lasciati non lo abbiamo detto a nessuno per mesi-.
Pietro annuì:
-Lo ricordo-.
Lo ricordava davvero, ma aveva la percezione che fosse una situazione simile ma diversa. Lui ed Alice vivevano ancora sotto lo stesso tetto, pur conducendo ormai vite diverse. Vite unite solamente dalla presenza al mondo di Christian e Federica, e di un legame che ormai era passato e che si era inevitabilmente tramutato in altro che, nonostante i momenti di tensione passati, era resistito per amicizia e affetto.
Potevano dire lo stesso Giulia e Filippo? Pietro non ne aveva idea. Aveva l’impressione che ora, in quel momento, non fosse così anche per loro.
Si chiese cosa ne sarebbe stato delle figlie, di Caterina e Beatrice – ancora così piccole e inconsapevoli-, e quel dettaglio lo fece stare anche peggio.
Per un attimo pensò anche a Giacomo e a Giorgio, a cui in realtà pensava in ogni attimo libero, e desiderò averli lì accanto. Li aveva visti anche il giorno prima, ed aveva passato con loro a casa di Giada l’intera giornata, ma avvertì comunque un vuoto causato dalla loro mancanza che lo fece sentire in colpa.
“Forse dovrei essere con loro anche ora”.
Fu un pensiero fugace, che però, per quanto potesse essere vero, era anche falso. Forse perché, in fondo, non sentiva di essere in errore nel trovarsi solo con Alessio.
-Non sentirti in colpa-.
Pietro quasi sobbalzò, un po’ per l’improvvisa fine del silenzio, un po’ perché gli parve quasi che Alessio gli avesse appena letto la mente.
-Evidentemente non erano ancora pronti per affrontare le nostre reazioni-.
Era probabile che Alessio avesse ragione, e che a Giulia fosse servito del tempo per metabolizzare la cosa, e che a Filippo ancora non bastasse quel che era già passato, ma il groppo in gola non accennava ad andarsene.
-Mi dispiace un sacco, però- si sforzò a dire, prima di scuotere il capo e lasciarsi andare ad una breve risata priva di divertimento – E pensare che ai tempi del liceo detestavo vederli insieme-.
Rise di se stesso, e si sarebbe messo a ridere ancor di più se avesse potuto rivelare quale era il motivo dell’ostilità che aveva riservato a Giulia in quei tempi. Avrebbe pagato oro per vedere l’espressione di Alessio – ma anche di Filippo e Giulia stessi, così come di Caterina e Nicola- nel momento in cui avrebbe confessato che da adolescente doveva aver sviluppato una gran bella cotta per Filippo, senza all’epoca rendersene pienamente conto.
Rimase in silenzio, però, anche se era abbastanza sicuro che, prima o poi, sarebbe venuto il tempo per poter raccontare anche di quegli aneddoti senza alcun imbarazzo.
-Sono cambiate un sacco di cose in questi anni- disse ancora Alessio, a mezza voce – Sta andando tutto a catafascio, però io e te resisteremo-.
Stavolta Pietro non si trattenne dal voltarsi. Tenne gli occhi fissi su Alessio, nel silenzio che aveva lasciato che si creasse, chiedendosi del significato dietro quelle parole – ce n’era uno? O stava cercando troppo a fondo dove non c’era nulla?.
Lo tenne osservato nella sua canotta bianca e nei pantaloni corti che gli fasciavano le gambe piegate, ne osservò i tatuaggi che non erano coperti dai vestiti, i capelli che sotto il sole estivo prendevano sempre una sfumatura di biondo più chiara. Lo guardò forse un po’ troppo a lungo, domandandosi cosa poteva aspettarsi da quel pomeriggio al mare – una scampagnata organizzata ben prima di avere la notizia della rottura di Giulia e Filippo-, che per qualche attimo, subito dopo quel pranzo disastroso, aveva pensato addirittura di rimandare, ma che invece continuava ad avere senso.
Si riscosse quando si rese conto che ora anche Alessio lo stava fissando, senza però scomporsi affatto.
-Fossi in te non l’avrei detto troppo ad alta voce, visto l’andazzo- biascicò Pietro, scuotendo appena il capo.
-Bisogna pensare positivamente per richiamare la fortuna- replicò Alessio – Quindi pensiamo al miglior futuro possibile-.
Non era solo questione di fortuna, e Pietro era piuttosto sicuro che gli stesse ronzando altro in testa. Glielo leggeva in faccia, nell’espressione ora vagamente malinconica degli occhi chiari, nelle rughe che gli si erano create sulla fronte vagamente lentigginosa – altra cosa per cui doveva ringraziare il clima caldo e il sole di fine primavera.
Fu Alessio stesso a scostare lo sguardo stavolta, rivolgendolo al mare rispecchiando ciò che aveva fatto Pietro fino a poco prima.
-Abbiamo già rischiato di perderci varie volte, però non è mai successo definitivamente- la voce di Alessio risuonò molto meno insicura di quel che Pietro si sarebbe aspettato – Secondo me non succederà-.
Pietro si strinse nelle spalle. Non avrebbe voluto sbilanciarsi, e fu quasi sul punto anche di dirlo a voce, ma la sicurezza con la quale Alessio aveva parlato lo lasciava interdetto. Era una certezza frutto di ciò che si erano detti a Los Angeles, sulla spiaggia che dava sull’oceano una delle ultime sere che avevano passato laggiù? O era dovuta ad altro, qualcosa che a Pietro continuava a sfuggire?
Di tutti i suoi dubbi, non ne fece parola alcuna.
-Forse- mormorò – Forse no-.
 
Non trovo sonno
Non trovo pace
Sento che il cuore va più veloce
Solo così sto tanto bene
Completamente [2]
 
Tornò ad osservare il mare, calmo e assediato dai bagnanti, famiglie con bambini e ragazzi più giovani che si erano immersi nell’acqua in quella calda giornata di inizio Giugno.
-Se la caveranno-.
Avvertì la spalla di Alessio sfiorare la sua, un po’ come fece la sua voce nel parlare.
-E lo dico sia per Caterina e Nicola che per Giulia e Filippo- proseguì ancora – Magari non è il periodo migliore per tutti, ma ci saremo l’uno per l’altro-.
-Fa un po’ strano sentirtelo dire-.
Pietro si morse il labbro inferiore, consapevole di non essere riuscito a trattenere quel commento che poteva apparire fin troppo pungente. E forse in parte lo era, ma lo era verso una parte di Alessio che sembrava appartenere solo al passato.
-Non prenderla come un’offesa, ma … - si schiarì la gola, e quando si girò verso l’altro un po’ si sentì meno teso nel rendersi conto che Alessio non sembrava particolarmente spiaciuto per quel che gli aveva appena detto – Non so, fino a poco tempo fa sembravi più concentrato sulla tua carriera che su tutto il resto-.
Era sicuro che, se gli avesse rivolto un’osservazione del genere anche solo un anno e mezzo prima, Alessio non avrebbe reagito bene. E forse non gliel’avrebbe confessato lui per primo, tenendosi tutto per sé – risentimento compreso-, come spesso era successo quando erano stati più giovani.
Alessio però non sembrò arrabbiato, solo più consapevole:
-Credo fosse così-.
Pietro lo osservò abbassare gli occhi, vagamente pentito per avergli detto quelle parole forse un po’ troppo schiettamente.
-È uno dei motivi per cui con Alice non ha funzionato, oltre al fatto che … Beh, in realtà se dovessi guardare ai sentimenti, forse non saremmo mai dovuti neanche stare insieme- Alessio lo disse con naturalezza, come se ormai fosse un fatto risaputo, ma Pietro non riuscì comunque a non guardarlo con occhi sgranati – Ma ora che ho raggiunto la posizione in cui ho sempre desiderato essere, sento il bisogno di mollare un po’-.
Alessio si torturò le mani, lo sguardo ancora rivolto altrove, anche se Pietro era sicuro si sentisse osservato, studiato sotto i suoi occhi.
-Amo il mio lavoro, però … - sospirò ancora, forse prendendo coraggio per girarsi lentamente e incrociare gli occhi di Pietro – Forse sto cominciando ad accorgermi che c’è anche altro attorno a me-.
Era sincero, e forse ancora un po’ spaesato per quella nuova consapevolezza. Ma lo pensava davvero, e Pietro lo capì subito, non appena ne vide l’espressione seria.
Avrebbe voluto fargli mille domande, ma toccava ad Alessio parlare, dirgli quel che pensava, senza che Pietro lo forzasse in un momento in cui evidentemente stava confidando qualcosa che si stava tenendo dentro da un po’.
-Non voglio fare la stessa fine di mio padre. Non voglio essere distrutto dalla mia stessa ambizione, e distruggere chi mi sta vicino- la voce di Alessio si fece più incerta, ma solo per pochi attimi – Ho già rischiato che succedesse, e non voglio più essere a quel punto-.
Pietro non poté fare a meno di chiedersi se era compreso anche lui nelle persone con cui Alessio credeva di aver distrutto tutto. E forse era così, una volta lo era, prima che riuscissero a ricostruire di nuovo tutto.
Non glielo chiese, però, nemmeno quello: si limitò a dargli una spallata leggera, burlona, in un tentativo di farlo sorridere. C’era già stata troppa tristezza, e quella era una giornata troppo bella e troppo calda per pensare solo alle cose negative che la vita aveva presentato loro.
E detestava vedere quell’espressione abbacchiata sul viso di Alessio, vedergli gli occhi azzurri velati di senso di colpa per qualcosa che ormai era passato, e che in un modo o nell’altro avevano già affrontato.
-Però se dovessi organizzare altri viaggi per convention in giro per il mondo … - Pietro non nascose l’ironia nella propria voce, e finalmente avvertì Alessio ridere sommessamente, con sincerità. Sorrise anche lui, pensando che era riuscito a donargli un po’ di leggerezza.
-Ti avviserò-.
Pietro sbuffò teatralmente:
-Quindi sono stato un buon accompagnatore negli Stati Uniti, eh?-.
-Il migliore- rincarò Alessio, e forse era solo il caldo e il fatto che erano sotto il sole a rendergli la pelle del viso più rossa, ma Pietro era quasi del tutto sicuro che non fosse stata di quella sfumatura fino a un secondo prima.
Si sentì anche lui più leggero, forse per la prima volta da quella mattina.
-Ne ero sicuro-.
 


-Ti ricordi quando hai iniziato ad aver paura dell’acqua?-.
Sembrava una domanda casuale, dettata dalla curiosità, e probabilmente era esattamente così: Pietro non ricordava un altro momento in cui Alessio gli aveva posto una domanda del genere.
Alzò le spalle, senza sapere bene cosa rispondere, lo sguardo perso tra le pieghe del mare che si estendeva per chilometri e chilometri, apparentemente senza fine.
-Non lo ricordo di preciso, credo fossi piccolo-.
Pietro acuì lo sguardo, come se quello stesso gesto potesse permettergli di ricordare meglio il passato, ricollegare quella fobia che lo accompagnava da gran parte della sua vita ad un trauma preciso che aveva vissuto, e che l’aveva segnato per sempre.
-Forse è stato quando una volta in spiaggia sono scappato dai miei per andare a fare il bagno, ma eravamo in un punto in cui il mare era piuttosto fondo già vicino alla riva- raccontò, immagini dai contorni sfocati di un tempo che apparteneva alla sua infanzia – Mi sa che sono quasi annegato, quella volta-.
Anche in quel momento lui ed Alessio erano in mare, a un paio di metri dal bagnasciuga – il mare che stavolta era così poco profondo che gli arrivava a malapena poco sopra le caviglie. Si sentiva tranquillo, solo perché sapeva di avere i piedi ben saldi nella sabbia bagnata, e che di certo, anche cadendo, non sarebbe mai potuto annegare come aveva rischiato almeno vent’anni prima.
La presenza di Alessio gli dava comunque maggior sicurezza. Era piuttosto sicuro che, se fosse stato da solo, non si sarebbe neanche avventurato a bagnare i piedi nella maniera in cui stavano facendo. In quel caso, invece, era stato lui stesso a proporre all’altro di andare fin lì, a un paio di metri dalla riva giusto per mettere a mollo i piedi e dare sollievo alla pelle che cominciava a scottare troppo; il sole cominciava a farsi più aranciato, meno forte di quando erano arrivati lì un’ora prima, ma il caldo non si stava attenuando affatto, e nemmeno la temperatura a tratti fastidiosa della sabbia.
Alessio l’aveva seguito con un sorriso, forse un po’ incerto per la richiesta insolita di Pietro. Non aveva provato a fargli cambiare idea, però: si era limitato ad affiancarlo, probabilmente aspettandosi che non si sarebbero allontanati molto. Avevano lasciato le loro cose nel punto in cui erano rimasti seduti a parlare di Giulia e Filippo, di loro e della nuova vita che Alessio si prospettava davanti; Alessio si era sfilato anche la canotta che aveva tenuto addosso fino a quel momento, rimanendo solo in pantaloncini. Pietro si era ritrovato con lo sguardo sulle sue spalle screziate dalle lentiggini già troppe volte, molte più di quanto potesse permettersi di ammettere.
-Dio … - Alessio lo guardò con fare impressionato – Meno male che ti hanno recuperato-.
Pietro sbuffò appena:
-Già, però il trauma deve essere rimasto-.
Stavolta distolse gli occhi dal resto del mare. Provava invidia per le persone che potevano permettersi di nuotare a largo senza aver paura di non emergere mai più. Era un lusso che non si era mai potuto permettere, anche per il fatto che la sua stessa paura gli aveva sempre impedito di imparare a nuotare anche ai livelli più basici.
-In realtà mi fanno paura solo le acque profonde- mormorò ancora – Dove non riesco a toccare-.
-E non hai mai imparato a nuotare, o ricordo male?- gli chiese ancora Alessio.
-Ricordi bene-.
Alessio annuì, pensieroso. Forse inconsapevolmente, influenzato da quell’ultimo racconto, gli si fece più vicino. Pietro prese in considerazione l’idea di fargli sapere che difficilmente si sarebbe annegato in un punto in cui l’acqua non superava i venti centimetri, ma poi cambiò idea. Osservò Alessio, di fronte a sé, meno di un metro di distanza a dividerli, e non riuscì a reprimere la consapevolezza che avrebbe voluto anche averlo più vicino di così.
-Un po’ mi pento di non aver messo piede nell’oceano- si lasciò sfuggire in poco più di un sussurro – Chissà quando ricapiterà di tornare sulle coste della California-.
“Forse ho perso l’occasione della vita”.
Pietro sospirò. Era possibile provare così tanto la mancanza di qualcosa che aveva solo ammirato da distante, senza mai arrivare a toccare per la paura che quella cosa stessa gli procurava?
Era l’eterno conflitto tra l’attrazione e il terrore, una guerra in cui il secondo aveva vinto.
Avvertì la mano di Alessio sulla sua spalla. Trasalì per un attimo, avvertendo l’impronta delle sue dita stamparsi su di sé.
Quando Pietro si voltò meglio verso di lui, Alessio gli stava rivolgendo un sorriso confortante:
-Se ti fa paura, forse è stato meglio così- gli disse, con voce addolcita – Piuttosto che conservarne un brutto ricordo, meglio essersi limitati a guardarlo da distante-.
“Meglio conservarne un brutto ricordo, o non averne ricordo affatto?”.
Pietro tacque per quelli che gli parvero lunghi secondi.
Gli occhi azzurri di Alessio gli ricordavano le acque dell’oceano. Non per il colore, quello delle sue iridi era un azzurro troppo chiaro per poter richiamare le acque profonde e scure del Pacifico; era la profondità che scorgeva nei suoi occhi che gli ricordava l’oceano.
E glielo ricordavano anche per la stessa attrazione e la stessa paura che provava ogni volta di fronte ad un mare, un oceano, una qualsiasi distesa d’acqua in cui, se avesse provato a mettervi piede, sarebbe stato attirato verso il fondale senza scampo, atrofizzandolo nella sua paura di non riuscire a sopravvivere.
Alessio aveva presentato lo stesso pericolo, un tempo. L’aveva fatto sentire sull’orlo del baratro, sul punto di affogare.
Guardando quegli occhi, per la prima volta dopo anni, non provò più lo stesso timore che poteva aver sentito anni prima. Erano occhi che ora lo vedevano.
E forse era quella la differenza più grande di cui Pietro prese consapevolezza in quel momento: nell’oceano non aveva messo piede perché non si era sentito pronto a correre il rischio. Ma gli occhi di Alessio potevano anche essere del colore dell’oceano, ma non erano più qualcosa che lo bloccava.
Lo stavano attirando a sé, di nuovo, ma stavolta conosceva la maniera migliore per tuffarvici dentro senza la paura di annegarvi.
Forse sarebbe andata male comunque, ma non provarci equivaleva allo stesso modo ad arrendersi prima ancora di iniziare.
-Però a volte bisogna affrontare le proprie paure-.
Pietro si rese conto di averlo detto più a se stesso che non ad Alessio, pur continuando a guardarlo e a mantenere il contatto visivo.
-Forse dovrei cominciare a lavorare su questa mia fobia-.
Alessio sembrò per un attimo confuso, ma il suo sorriso non vacillò nemmeno un secondo:
-Se credi che possa essere una buona idea, dovresti farlo-.
Tornarono verso la riva in un tacito accordo, senza il bisogno di aggiungere nulla. Pietro avvertì i granelli di sabbia appiccicarsi immediatamente ai suoi piedi bagnati, e ne detestò la sensazione, ma non riuscì a non sentirsi meno leggero dopo aver preso coscienza di qualcosa che, molto probabilmente, celava dentro di sé già dal viaggio a Los Angeles.
Dopo essersi sfilato dalla tasca posteriore dei pantaloni il pacchetto di sigarette, si sedette sull’asciugamano che aveva portato con sé da casa, e che si era premurato di stendere prima di quella breve parentesi in acqua.
Alessio gli si affiancò, senza dire nulla, e Pietro non riuscì a fare a meno di chiedersi cosa potesse passargli per la mente in quel momento. Sarebbe rimasta per sempre una domanda senza risposta, ma si perse ugualmente nello studiare i tratti rilassati del suo viso, le lentiggini sul naso che ora, con i giorni di sole caldo, erano comparse anche sulla fronte e sulle guance. Avrebbe voluto posare le labbra su ognuna di quelle efelidi, sul neo vicino alla bocca, sulle palpebre chiuse, ovunque sulla pelle del suo viso.
Prese una sigaretta dal pacchetto, insieme all’accendino, e se la portò alle labbra prima di accenderla. Lasciò andare una boccata di fumo, e fu sul punto di chiedere ad Alessio se gli dava fastidio l’odore. Si sarebbe spostato subito se gli avesse detto di sì, senza alcuna remora.
Non fece in tempo a dire nulla: si bloccò perplesso quando lo vide girarsi verso di lui, sfilargli dalle dita e dalle labbra la sigaretta e portarsela alla bocca, inspirando e poi buttando fuori il fumo.
Forse si era trattenuto dal baciargli il volto, ma Alessio aveva comunque dato vita ad un bacio indiretto, il filtro della sigaretta che aveva toccato le labbra di entrambi nel giro di pochi attimi.
-Da quand’è che fumi?- gli chiese Pietro, un sopracciglio alzato e la voce più roca di quel che si era aspettato.
Alessio rise piano:
-Da mai- gli ripassò la sigaretta, rosso in viso – Volevo solo fare un tiro-.
Pietro scosse il capo, fingendosi sconcertato, ma sentiva la risata che stava trattenendo a stento farsi sempre più spazio dentro di lui.
Non aveva immaginato quella giornata finire a quel modo, con l’ammissione che stavolta era così facile, e così naturale, rendersi conto di essere di nuovo innamorato di Alessio.
 
It hurts to love you, but I still love you
It's just the way I feel
And I'd be lying, if I kept hiding
The fact that I can't deal
And that I've been dying
For something real
That I've been dying
For something real [3]

 
 
[1] Shakira - "Illegal"
[2] The Giornalisti - "Completamente"
[3] Lana Del Rey - "13 Beaches"
* il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Quello delle sorelle Pagano è sicuramente un duo poco trattato su queste pagine, soprattutto se prese singolarmente, senza la presenza di altri membri della famiglia, ma questo nuovo capitolo ci ha permesso di vederle interagire più da vicino.
E così, da 0 a 100, veniamo "tuffati" dentro a un dialogo ricco di spunti di riflessione. Giulia, infatti, coglie l'occasione di questo incontro per raccontare della possibilità, più o meno vicina e concreta, di chiedere il divorzio da Filippo.
Ma le notizie, si sa, non viaggiano mai da sole. Subito dopo, infatti, Giulia decide di lanciare la bomba raccontando di Lorenzo a Ilaria... Ma quest'ultima sembra tutto fuorché convinta.
E voi, come la pensate? Siete d'accordo con Ilaria e pensate che Lorenzo stia un po' manipolando Giulia, oppure siete più fiduciosi e meno sospettosi verso di lui?

E dopo una prima scena in quel di Verona, torniamo ora nelle lande veneziane ... O meglio, mestrine, con Pietro e Martino. Il loro pomeriggio non è iniziato nel migliore dei modi, a causa di alcuni tipi evidentemente rimasti al Medioevo in fatto di mentalità ... A cui, giustamente Martino ha risposto con prontezza.
E proprio in questo capitolo scopriamo qualcosa di più su Martino, oltre al fatto che è davvero curioso di conoscere Alessio. Possiamo solo immaginare quanto Pietro abbia parlato di lui 🤣
Ed è nella scena finale che ritroviamo con Pietro proprio Alessio, finalmente di nuovo a Venezia … E non con liete novelle: attraverso i loro occhi e le loro riflessioni, infatti, riviviamo il pranzo tenutosi nelle ore precedenti a casa di Nicola e Caterina durante il quale Giulia ha sganciato ufficialmente la bomba tra i suoi amici! L'assenza di Filippo al pranzo doveva essere già un campanello d'allarme e, in effetti, per Pietro e Alessio così è stato.
E così, trasportati dai pensieri, i due riflettono sull'accaduto. E' vero, non è la prima volta che una coppia di loro amici scoppia, ma ogni volta fa male
E infine …  Beh, che dire... Era nell'aria che Pietro stesse ricominciando a provare un certo sentimento per un certo qualcuno, e qua ne abbiamo la conferma!
Il suo rapporto con Alessio, dopo diversi alti e bassi, sembra aver raggiunto un equilibrio tale che, inevitabilmente, ha portato anche al risveglio di certi sentimenti.
L'ultima volta che Pietro è stato innamorato di lui non è finita molto bene... Ma sarà così anche stavolta? D'altra parte stavolta molte cose sono diverse: Pietro ha cominciato ad accettarsi e Alessio ha capito che nella sua vita puó esserci altro oltre al lavoro... Oltre al fatto che sono entrambi single.
Ci rivediamo mercoledì 7 febbraio con un nuovo capitolo!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 20 - Wawing goodbye ***


CAPITOLO 20 - WAWING GOODBYE


 

“Andarsene non significa andare avanti”.
 

Those nights were on fire
We couldn't get higher
We didn't know that we had it all
But nobody warns you before the fall [1]
 
C’era solo silenzio attorno a lui.
Era un silenzio innaturale, atipico per una serata di metà Luglio così afosa e così soleggiata come lo era quella. Nonostante fosse giovedì, si era aspettato di udire il chiacchiericcio delle persone per le calli non appena si era deciso ad aprire le finestre del salotto, per far arieggiare un po’ la stanza ora che il sole stava tramontando. Ma c’era solo silenzio. O forse era lui che non riusciva ad udire nient’altro se non il rumore dei suoi pensieri.
Filippo tenne gli occhi fissi al soffitto, le mani impegnate però a tenere in equilibrio Beatrice, che sembrava essersi addormentata sopra il suo petto. Caterina gli era stesa di fianco, e le teneva una mano sulla schiena per impedirle di cadere accidentalmente giù dal divano nel caso si fosse agitata nel sonno.
Avrebbe voluto riuscire a dormire anche lui così serenamente come stavano facendo loro, ma in verità erano mesi che riusciva a stento a chiudere occhio durante la notte. Forse era perché quel divano, in fin dei conti, non era proprio il giaciglio migliore che potesse esistere.
Anche dalla camera da letto – quella che una volta era sua e di Giulia, la loro camera da letto, e che ora era di Giulia e basta- non riusciva a recepire alcun rumore. C’era però la luce accesa: riusciva a scorgere la mezzaluna di luce riflessa sul pavimento del corridoio, segno che c’era qualche possibilità che Giulia fosse ancora sveglia.
Sarebbe stato più strano il contrario, d’altro canto: erano passate le nove da poco. Avevano finito di cenare da appena mezz’ora, e fuori il sole ancora non era calato del tutto. Sarebbe stata la serata ideale per fare una breve passeggiata fuori prima di tornare e mettere a letto le gemelle, e ritagliarsi un po’ di tempo per loro da soli. Magari seduti sul divano davanti ad un film che avrebbero lasciato a metà perché la stanchezza avrebbe cominciato a farsi sentire, e perché il giorno dopo la sveglia sarebbe suonata troppo presto.
Sarebbe stato quello che avrebbero potuto fare se fossero stati ancora una famiglia unita, e non mille pezzi di un vaso caduto a terra e frantumatosi in resti non più ricomponibili.
Guardò ancora a lungo la mezzaluna che la luce della lampada in camera da letto rifletteva. Giulia era a pochi metri da lui, ma sembrava ci fosse un muro invalicabile tra loro.
E non aveva nessun altro da incolpare se non se stesso.
Non poteva darle torto se non aveva voglia di passare del tempo con lui, o di guardarlo, o di parlargli. Di dormire insieme nello stesso letto. Di sfiorarlo, anche solo con lo sguardo.
Era solo colpa sua.
Si domandò se fosse possibile provare la mancanza di una persona che viveva ancora sotto lo stesso tetto, ad una camera di distanza. Doveva esserlo, perché a lui mancava Giulia in un modo così doloroso che non avrebbe neanche creduto possibile.
Si chiese se anche per lei doveva essere lo stesso, anche se solo in parte.
Forse era proprio per combattere quella mancanza, e quell’assenza di voglia di stargli attorno, che la vedeva andarsene ogni weekend, quando l’impedimento del lavoro non c’era ed era libera di far quel che voleva.
Si era chiesto a lungo dove andasse ogni volta, ma si era sempre fermato dal chiederglielo. C’erano piccoli dettagli di cui probabilmente Giulia neanche si rendeva conto che però gli facevano supporre non andasse sempre dai suoi genitori, o da sua sorella, o da uno qualsiasi dei loro amici. Piccoli gesti che gli facevano pensare ci potesse essere qualcuno, qualcun altro con cui si vedeva, e al solo pensiero si sentiva ribollire ogni volta. Non aveva alcun diritto di farlo, Filippo ne era consapevole. Forse era anche per quel motivo che non aveva mai trovato il coraggio di chiederle una qualche conferma.
Poteva solo limitarsi a guardarla da distante, con i suoi capelli rossi a cui, dopo più di un mese, ancora non si era abituato.
Le mancava in maniera viscerale, ma non poteva chiederle di sopportare la sua vicinanza. Era stato lui a creare quel casino, ed era giusto che fosse lui a subirne le maggiori conseguenze.
Filippo sospirò sconfitto, la distanza da Giulia che lo opprimeva sempre di più senza alcun rimedio.
“Dovrei cercare di parlarle”.
Non ci aveva mai provato in tutti quei mesi, forse perché qualcosa dentro di lui gli diceva che Giulia non l’avrebbe ascoltato o, ancor peggio, non gli avrebbe neanche lasciato il tempo di avvicinarsi. In fondo era per quel motivo che ormai lei passava meno tempo possibile in quella casa: era l’unico modo per evitare qualsiasi occasione di parlare.
La poteva capire. Probabilmente se i ruoli fossero stati invertiti, lui avrebbe agito allo stesso modo.
Ma Giulia, quella sera, era lì a pochi metri da lui, probabilmente stesa a letto in attesa che il sonno la cogliesse. Avrebbe potuto dirle finalmente tutto ciò che si stava tenendo dentro da mesi, magari renderle anche le cose più semplici dicendole che, se voleva, se ne sarebbe andato. Gli avrebbe spezzato ancor di più il cuore ricevere una risposta affermativa, ma non c’era altro da fare. Toccava a lui pagar pegno, non a lei.
Avrebbe potuto prendere le bambine e metterle nella loro camera, e poi proseguire il suo cammino verso la stanza da letto, la loro vecchia stanza da letto.
E poi non aveva idea di cosa sarebbe potuto succedere. Non aveva idea se sarebbe riuscito a far uscire le parole che gli riempivano la testa, o se Giulia le avrebbe ascoltate.
Era da tempo che doveva fare un tentativo. Quella sera era, molto semplicemente, solo una delle tante in cui sembrava star trovando un po’ più coraggio del solito.
 
Ho perso le parole
Eppure ce le avevo qua un attimo fa
Dovevo dire cose
Cose che sai
Che ti dovevo
Che ti dovrei

Ho perso le parole
Può darsi che abbia perso solo le mie bugie
Si son nascoste bene
Forse però
Semplicemente
Non eran mie [2]
 
*
 
Two hearts, one past
I was your lover
Cruel words broke us
You became another
 
Avrebbe fatto meglio ad andare a dormire, piuttosto che star lì a perdere tempo – ed ore di sonno- facendo finta di leggere quando invece rimuginava sempre sulle solite cose.
Giulia fu quasi sul punto di chiudere il libro che aveva in mano. Glielo aveva prestato Caterina, e forse era proprio quel particolare che non le permetteva di togliersi l’amica dalla mente.
Doveva parlarle.
Sospirò a fondo, la mente nel caos che non le permetteva di trovare alcuna soluzione.
Era passato più di un mese da quando aveva parlato di Lorenzo a Ilaria. Ed era più di un mese che doveva parlarne anche a Caterina. Aveva perso il conto delle occasioni che si era ritrovata davanti e nelle quali avrebbe potuto parlarle, senza tuttavia farcela.
Era scoraggiante, soprattutto dopo aver rifiutato l’offerta di Lorenzo di dirlo insieme – Giulia non ci aveva pensato neanche un minuto, imbarazzata alla sola idea di presentarsi alla porta di Caterina direttamente con lui per dirle “Ehi, lo sai che io e tuo fratello stiamo insieme?”.
Era una cosa che doveva risolvere da sola. Solamente, non sapeva come.
-Ti disturbo?-.
Giulia sobbalzò visibilmente, il libro che si richiuse per sbaglio e che le scivolò accanto, sul letto. Quando alzò gli occhi si ritrovò a squadrare sorpresa il viso esitante di Filippo, fermo sulla soglia della camera. Non l’aveva nemmeno sentito arrivare, tanto era rimasta concentrata nei suoi pensieri e nella sua disperazione per l’incapacità di parlare a Caterina.
Cercò di riprendere contegno nel giro di qualche secondo:
-Non stavo ancora dormendo, quindi … - rispose, piuttosto freddamente.
Era forse la prima volta che vedeva Filippo comparire così all’improvviso in quella che era stata la loro camera da letto. Solitamente nel dopocena, nelle poche ore che li separava dall’andare a dormire, non capitava quasi mai di incrociarsi – tanto meno di parlare. Era difficile gestire le gemelle, che avrebbero preferito di gran lunga giocare e passare del tempo con loro, ma per Giulia era impossibile accontentarle in quello: era già abbastanza doloroso cenare con Filippo vicino come se niente fosse, in silenzio come due sconosciuti.
Ritrovarselo lì era una novità, e non credeva potesse essere positiva.
Filippo sospirò, le mani nelle tasche dei pantaloni sportivi che indossava sempre a casa. Sembrava a disagio, ma forse più spaventato. Giulia non gli chiese nulla, lasciando che fosse lui a parlare per primo.
-Lo so che non vorresti vedermi qui adesso, ma … -.
“Hai proprio ragione” pensò Giulia, nervosamente, “Non vorrei vederti qui”.
Filippo sembrò tentennare, lo sguardo abbassato, prima di prendere coraggio e tornare a guardarla:
-Giulia, forse dovremmo parlare-.
Quella era la proposta più ridicola con cui se ne sarebbe potuto uscire.
-Hai ritrovato la lingua improvvisamente?- sbuffò Giulia.
Non le importò di essere stata brusca e insensibile. Poteva averlo ferito, ma in quel momento non riuscì a provare alcun senso di colpa.
Filippo la osservò con sguardo abbattuto:
-Forse ero solo troppo codardo per venire da te a parlarti-.
-Sei codardo, ma lo sei stato per un altro motivo-.
Giulia lo guardò duramente. Non c’era bisogno che entrasse ancor più nello specifico: era sicura che Filippo avesse già capito. Glielo leggeva nelle iridi castane che avevano perso la loro luce vivace, quegli stessi occhi che lei cercava ogni volta che aveva bisogno di sapere che non era sola. Ora erano soli entrambi, irrimediabilmente.
-Forse per stasera smetterò di esserlo- Filippo lo disse in un sussurro poco più che udibile – Me lo lascerai fare?-.
Per diversi secondi Giulia non disse nulla, in bilico tra la voglia di dirgli di lasciarla sola e che non aveva alcuna voglia di starlo ad ascoltare, e quella parte di lei consapevole che prima o poi quel momento avrebbe dovuto affrontarlo. Stava scappando alla stessa maniera da Caterina, e da ancor più tempo da Filippo: doveva fermarsi, ad un certo punto.
Lo guardò a lungo, chiedendosi se sarebbe vacillata, se le forze per ascoltarlo sarebbero venute meno, ma non poteva neanche più continuare a rimandare.
-Di cosa devi parlarmi?-.
Filippo rimase immobile in piedi, gli occhi sempre vuoti:
-Di noi due. Di questa situazione-.
Era stupita che fosse stato Filippo il primo a decidere di parlarne. Non l’aveva mai sfiorata il dubbio che tra loro sarebbe potuta non essere lei a farlo, forse perché aveva sempre avuto l’impressione che quella situazione d’incertezza a Filippo potesse andare bene.
Eppure eccolo lì, arrivato a chiederle cosa ne sarebbe stato di loro.
Fu difficile ignorare la stretta al cuore che la prese a quella consapevolezza.
-Lo so che l’ho causata io, ne sono totalmente consapevole. Non hai alcuna colpa in questo- Filippo parlò ancora, un po’ più convinto – E capisco anche perché tu non voglia passare troppo tempo più del dovuto qui a casa. Avrei voluto parlarti con più calma, magari nel weekend, ma so che non rimarresti qui. Non so perché ho preso coraggio proprio stasera-.
Giulia ebbe la sensazione che avrebbe voluto chiederle di più su quelle sue fughe – era una sensazione ricorrente, forse dovuta al modo in cui la guardava Filippo ogni volta che la vedeva uscire e ogni volta che tornava-, chiederle se si vedeva con qualcuno, ma lui non aggiunse altro su quello.
-Lo so che questa situazione ti sta stretta-.
-Devi ringraziare te stesso per questo- sibilò Giulia.
Vide Filippo abbassare gli occhi, annuire quasi impercettibilmente:
-È vero- ammise, a mezza voce – È che … Hai pensato a come poterla risolvere? Non credo potremmo continuare così per sempre-.
“Quindi è proprio di questo di cui parleremo”.
Sarebbe stata una risposta facile, soppesò Giulia: le sarebbe bastato dirgli che ormai l’unica strada da prendere era quella della separazione, ma per qualche motivo, su cui preferì non soffermarsi troppo, la voce le venne come a mancare.
Quasi sperò che una delle gemelle si svegliasse, che uno strillo provenisse dalla loro camera. Sarebbe stata un’ottima ragione per doversene andare da lì e non affrontare quella discussione che la stava per divorare.
Ma il silenzio era assordante, nessuna tra Caterina e Beatrice sembrava essere sul punto di svegliarsi, né che qualunque altra cosa potesse accadere. C’erano solo lei e Filippo, e forse era così che doveva andare.
-Lo sai già qual è l’unica soluzione per risolverla-.
Giulia si cavò a forza quelle parole dalla bocca, lo sguardo stavolta meno determinato, abbassato giusto il poco che le permetteva di non incrociare gli occhi castani di Filippo.
-Penso che dovremmo pensare alla separazione-.
Si era immaginata molte volte, negli ultimi mesi, quel momento. Aveva sempre pensato che quando avrebbe comunicato a Filippo il suo volere sarebbe stata forte, quasi indifferente, che non le sarebbe importato della probabile espressione di sofferenza che gli avrebbe visto in viso.
In quel momento, invece, sapeva che la sua stessa faccia poteva apparire impassibile, ma dentro di lei si stava sentendo morire ogni secondo di più.
Filippo non disse nulla per diversi secondi: sembrava che, in fin dei conti, non fosse per niente sorpreso.
-Ci hai già riflettuto?- le chiese infine.
-Sono un po’ di mesi che ci penso- ammise Giulia.
Era la strada giusta da prendere, si ripeté. Aveva ragione Lorenzo ogni volta che le diceva che era del tutto deleterio portare avanti un matrimonio a quelle condizioni.
-Hai ragione nel dire che la situazione mi sta stretta- Giulia iniziò a parlare quasi non rendendosene conto, spinta dall’istinto, dall’improvvisa voglia di parlare – Questa casa mi sta stretta. E lo è perché ci sei anche tu qui-.
Sapeva che aveva ferito Filippo con le sue parole, ma era solo la più piccola delle vendette che avrebbe mai potuto avere nei suoi confronti.
-Non è possibile viverla serenamente, non quando ci parliamo lo stretto necessario per poi evitarci il resto del tempo, sempre in tensione costante- Giulia alzò appena gli occhi, incrociando i suoi – Lo sentirai anche tu quel che provo anche io-.
Filippo annuì:
-Forse in maniera un po’ diversa, ma sì- sospirò a fondo, la voce contratta – E non penso faccia bene neanche alle bambine-.
-Non credo. E dobbiamo pensare prima a loro che a noi- concordò Giulia, prima di guardarlo con più esitazione – Se ti chiedessi la separazione me al concederesti?-.
Era un dubbio che si portava dietro da tempo, anche se poteva aspettarsi quale sarebbe stata la risposta che avrebbe ricevuto. Forse si salvava ancora una parte di Filippo non danneggiata dall’egoismo, quella parte di lui ragionevole e generosa che glielo aveva fatto amare – e che la spingeva ad amarlo ancora, nonostante tutto.
-Non potrei fare altro, anche se mi sento morire al solo pensiero- Filippo lo disse con voce a malapena udibile – Non posso costringerti in una situazione simile-.
 
Poor you, so sad
Well I think it's time now
You’re too crying feel so bad
But can I lie down?
 
-Ormai che senso ha ancora questo matrimonio?- Giulia glielo chiese con sincerità, sul serio curiosa di sapere quale sarebbe stata la risposta che avrebbe ricevuto. Non la sorprese vedere Filippo rimanere in silenzio, gli occhi nocciola drenati di ogni energia.
-L’hai distrutto con le tue stesse mani, Filippo-.
-Lo so-.
Quel suo non provare nemmeno a difendersi le fece quasi rabbia, forse perché rendeva ancor più evidente come fosse sempre stato consapevole di cosa avrebbero causato le sue azioni. Le venne di nuovo voglia di andarsene da quella stanza che la soffocava con i ricordi racchiusi, e che la soffocava anche con la presenza di Filippo. Le sue membra, però, sembravano essere troppo pesanti, il suo stesso corpo che non le rispondeva e non si muoveva da quel letto.
-Però intanto … - Filippo si schiarì la gola – Vuoi che me ne vada? Da questa casa, intendo. Se preferisci rimanerci tu con le bambine, per me va bene-.
Giulia soppesò per un po’ la sua risposta. Se avesse potuto scegliere senza alcun impedimento, l’ideale per lei sarebbe stato andarsene. Scegliersi una nuova casa con le gemelle, ricominciare da tutt’altra parte dove non sarebbe rimasta ancorata a memorie di una vita passata.
Razionalmente sapeva che non sarebbe stato possibile nell’immediato, e che la proposta di Filippo era la più fattibile, forse non in pochi mesi, ma almeno entro un anno.
-Non sono così crudele da cacciarti fuori facendoti finire sotto un ponte, senza sapere dove andare- iniziò a dire, cercando di mantenere la voce ferma – Ma forse dovresti cominciare a cercarti un altro posto-.
“Un posto lontano da qui”.
 Sarebbe riuscita ad immaginarsi quell’appartamento spoglio della presenza di Filippo?
“Un posto lontano da me”.
Giulia avvertì la gola bruciarle, lacrime che avrebbe voluto lasciar andare ma che invece si sforzava di trattenere.
 
Feel my heart break
Feel my heart break
Feel my heart break
As I walk away
 
-Capisco. Proverò ad informarmi e a vedere quando potermi trasferire- Filippo sembrò accettare quella sua decisione con stoicismo, senza nulla da obiettare un po’ come se si fosse già preparato a quell’eventualità – Per la separazione … -.
Prima che potesse aggiungere altro, Giulia lo interruppe:
-Ne parleremo meglio un altro giorno, magari con un avvocato-.
Filippo annuì:
-Giusto. Ha senso-.
Giulia capì che la conversazione era finita nel momento stesso in cui Filippo aveva pronunciato quelle ultime parole quasi sovrappensiero, in maniera a malapena udibile. Era sicura che l’avrebbe visto girarsi ed andarsene in silenzio così come era venuto, senza aggiungere altro, e che non ci sarebbero state altre occasioni simili nei giorni seguenti. Era la prima volta da mesi che si parlavano per più di un paio di minuti, e qualcosa le diceva che sarebbe stata anche l’ultima per ancora diverso tempo.
Provò una fitta di dolore al pensiero, una sensazione che le fece più male del solito.
Era già pronta a rimettersi stesa sul letto, magari fingendo di riprendere il libro di Caterina e leggere – cosa che non sarebbe di sicuro più riuscita a fare dopo quegli ultimi dieci minuti-, ma con la coda dell’occhio si accorse che Filippo era ancora lì, sulla soglia della camera a guardarla con occhi lucidi.
Si bloccò all’istante, alzando gli occhi su di lui.
-Giulia … -.
Filippo non si era mosso dal punto in cui era rimasto in piedi per tutto il tempo, ma stavolta non stava facendo nulla per nascondere la sofferenza che gli deformava i lineamenti del viso.
-Lo so che questo non cambierà quel che ho fatto, ma mi dispiace-.
Giulia rimase in silenzio, convinta che se avesse parlato non sarebbe più riuscita a trattenersi.
-Non te l’ho mai detto abbastanza, ma mi dispiace davvero- Filippo parlò ancora con voce tremante, sul punto di lasciarsi andare al pianto – Credo che sia l’errore più grande che abbia fatto in tutta la mia vita, ma non posso tornare indietro per cambiare le cose, né posso fare finta di niente. Lo so che mi merito tutto il silenzio che mi hai riservato, e mi merito anche di perderti. È stata colpa mia. È stata colpa mia, ma continuare a ripeterlo non sistemerà le cose. Mi trascinerò dietro questa colpevolezza e basta-.
Giulia continuò a fissarlo, in silenzio, sperando che tutto finisse il prima possibile.
Era difficile combattere contro il voler alzarsi ed andare da lui – ad abbracciarlo, o ad asciugargli le lacrime, o a prenderlo a schiaffi e ad urlargli che aveva proprio ragione nel dire che era tutta colpa sua-, ed era altrettanto difficile venire a patti con quelle emozioni che la sua rabbia cercava ancora di soffocare.
Filippo la guardò ancora, le lacrime che gli rigavano il volto:
-Non ti sto chiedendo di perdonarmi. Se lo vorrai fare, lo farai senza che te lo dica io-.
“Dovrai lottare molto, se lo desideri davvero”.
Giulia avvertì i propri occhi farsi lucidi, permettendosi, seppur per pochi secondi, di apparire vulnerabile a sua volta:
-Non so se ci riuscirò mai-.
Si chiese se Filippo avrebbe davvero voluto mettersi d’impegno per riparare le cose. Si chiese se esistesse un modo per ripararle. Esisteva un modo per vivere costantemente oscillando tra la voglia di andarsene e quella di restare?
-Aspetterò quel giorno, se arriverà-.
Stavolta Filippo scivolò via per davvero. Giulia lo vide andarsene, sparire dalla sua vista in un secondo, chiedendosi se sarebbe stato così per sempre – un addio continuo e inevitabile-, o se prima o poi avrebbe trovato un modo per tornare e rimanere a fianco a lei.
 
So one hand is holding yours while
The other is waving goodbye
I love you, but it's your turn to fight
But one hand is holding yours while
The other is waving goodbye
I love you, but it's your turn to cry
It's your turn to cry
It's your turn to fight [3]
 
*
 
“La verità non cambia nulla di ciò che proviamo per gli altri. È la grande tragedia dei sentimenti” - Joel Dicker
 

-Questa ti starebbe bene-.
Caterina le indicò la maglietta colorata che indossava uno dei manichini in vetrina del negozio a cui si erano appena fermate davanti. Giulia le diede un’occhiata: sì, probabilmente le sarebbe stata bene, ma la sua attuale voglia di fare shopping era sotto i piedi. Non aveva alcun motivo per voler andare dentro, chiedere di poterla provare e magari comprarla.
-Non lo so, non mi convince molto- mormorò Giulia, in difficoltà.
Era tardo pomeriggio, e nonostante il sole stesse lentamente calando l’afa di metà Luglio continuava a sentirsi terribilmente. Giulia aveva dubitato sin da subito che andarsene in giro per Venezia con quel caldo per tutto il pomeriggio potesse essere una buona idea, ma aveva ceduto senza che Caterina dovesse insistere tanto. Era passato tempo dall’ultima volta che si erano trovate un sabato pomeriggio insieme – uno dei rari sabati in cui non vedeva Lorenzo a Padova-, un’occasione di spensieratezza che a Giulia, in fin dei conti, mancava.
Ed era anche l’occasione giusta in cui, se avesse trovato il coraggio, avrebbe potuto provare a parlare sul serio a Caterina. Sperava solo di non ritrovarsela ad urlare davanti a tutti i turisti e veneziani che stavano affollando le calli a quell’ora della giornata.
-Sai cosa ci starebbe?- Caterina le lanciò un’occhiata obliqua – Un bel gelato. Sto crepando dal caldo-.
-O uno spritz. Per ubriacarci- rincarò la dose Giulia.
“Per ubriacarci e darmi la forza necessaria nel caso andasse male”.
Qualcosa le diceva che poteva avere fiducia. Probabilmente Caterina non avrebbe preso la notizia di lei che frequentava suo fratello senza battere ciglio, ma aveva la sensazione che non avrebbe neanche avuto reazioni tragiche. O forse se lo sentiva perché si era convinta a tal punto di questo che ora si cullava in quella che era tutt’altro che una certezza.
-Ehi, mi stai rubando il ruolo- Caterina le diede una leggera gomitata, ridendo – Sono io quella drammatica tra le due, ricordi?-.
Giulia rise a sua volta, nonostante tutto:
-Mi sa che ho cominciato a farti concorrenza-.
-Avresti le tue ragioni-.
Le avevano entrambe, rifletté Giulia. Era contenta e sollevata, però, nel constatare che con il passare dei mesi Caterina sembrava perlomeno essersi un po’ ripresa. C’erano momenti in cui ancora il suo sguardo si velava di triste malinconia, lunghi attimi di silenzio in cui Giulia osservava i suoi occhi perdersi nel vuoto rivolti a chissà quale ricordo, ma era comprensibile. Riusciva a vederla più serena, nonostante quelle occasioni di malcelata mancanza, maggiormente in grado di affrontare l’argomento della perdita di Viola senza crollare.
Era un po’ un’impressione che vedeva riflessa anche in Nicola e Francesco, le poche volte che in quei mesi era riuscita a incontrarli, come se il benessere di Caterina avesse giovato di conseguenza anche a loro.
Si chiese, mentre Caterina le indicava un tavolino di un bar all’aperto dove avrebbero potuto sedersi – per prendere rispettivamente il gelato e lo spritz che desideravano-, se valeva lo stesso anche per le sue figlie. Era difficile cogliere qualche cambiamento profondo in bambine di tre anni e mezzo, capire se fossero in qualche modo influenzate dai turbamenti che Giulia si sentiva addosso nonostante con loro cercasse sempre di approcciarsi nel modo più allegro possibile.
Si sedettero poco dopo, Giulia ancora in silenzio. Inaspettatamente cominciava a provare la pressione che il non riuscire a parlare con Caterina le stava provocando: si sentiva quasi di stare ad ingannarla, nel continuare a vedere suo fratello senza dirle nulla.
Forse un momento adatto per darle quella notizia non ci sarebbe mai stato. Non esisteva l’attimo perfetto. Doveva solo provarci, sperare che andasse tutto bene, che Caterina perlomeno la comprendesse senza dover per forza condividere le sue scelte.
Quando si schiarì la gola, Giulia non si sorprese affatto di sentirsela estremamente secca.
-Ti devo anche parlare di una cosa-.
-Cosa?- Caterina alzò le sopracciglia, interrogativa.
“Faccio ancora in tempo a non dirglielo”.
Giulia cercò di ignorare quel dubbio che le si era insinuato. Era lì per un motivo, e non poteva continuare a scappare così dalle sue stesse azioni.
Strinse le mani a pugno, sotto il tavolo, sentendo le labbra farsi sempre più secche per l’agitazione.
-Mi vedo con qualcuno- farfugliò.
Era una verità anche quella, in fin dei conti, anche se aveva preferito partire dalla parte meno complicata.
Caterina non la guardò sorpresa, e questo fece presagire a Giulia che qualcosa doveva aver già intuito:
-Ma dai!- Caterina alzò un sopracciglio, un mezzo sorriso malizioso – Si era capito, visto che nei weekend sparisci sempre chissà dove-.
Giulia si morse il labbro inferiore: era così evidente? Si chiese se anche Filippo doveva aver fatto quel collegamento, ma scrollò le spalle tra sé e sé. Non doveva più rendergli conto di cose del genere, ormai.
-Mi vuoi anche dire chi è?-.
Caterina la stava ancora guardando in attesa, a tratti divertita – Giulia non poté fare a meno di pensare che di lì a pochi minuti non avrebbe più visto quel ghigno stampato sulle sue labbra.
Si schiarì la gola, rendendosi conto che stava arrossendo:
-In realtà lo conosci-.
Anche quella era una mezza verità, un indizio che sperava potesse condurre Caterina a capire senza che dovesse dirlo esplicitamente lei. Era una mossa un po’ da codardi, ma Giulia dovette ammettere che in quel momento si sentiva tutto tranne che coraggiosa.
Osservò l’amica aggrottare un po’ la fronte, prima di ridere sommessamente:
-Oddio, non dirmi che tu e Alessio … -.
Nonostante la tensione accumulata, a quella palese presa in giro Giulia dovette trattenersi dal ridere.
-Farò finta di non aver sentito- mormorò, roteando gli occhi al cielo.
Per tutta risposta Caterina rise ancora più forte.
-Eddai, non sarebbe male come scelta-.
Giulia arricciò il naso non appena provò ad immaginare se stessa baciare Alessio: forse non erano fratelli di sangue, ma il livello di affetto raggiunto era quasi del tutto equiparabile a quello provato per un fratello vero e proprio.
-Sì, ma mi sembrerebbe più un incesto che altro-.
-Allora chi è?-.
Caterina stava ancora sorridendo, ma dopo i momenti scherzosi appena passati era ovvio che ora si stava facendo più curiosa, più seria. E non c’erano molte risposte che Giulia avrebbe potuto darle per replicare a quella domanda, se non una sola.
Poteva solo sperare che non andasse così male come si stava prospettando.
-Lorenzo-.
Lo disse a così bassa voce che temette – sperò- che Caterina non l’avesse sentita. Arrischiò uno sguardo verso di lei, e capì subito che non aveva sussurrato sufficientemente a bassa voce per non farle capire quale era stata la sua risposta.
-Lorenzo?- Caterina ripeté il nome con sguardo confuso, come se le stesse sfuggendo qualcosa, probabilmente andando alla ricerca nella sua memoria di una faccia che corrispondesse a quel nome – Ma Lorenzo … -.
Giulia trattenne il fiato.
-Mio fratello?-.
Gli occhi di Caterina si erano dilatati, l’espressione di confusione sparita in favore di una tra l’incredulo e lo stranito. Giulia annuì abbassando lo sguardo, incapace di mantenere il contatto.
Si azzardò solo per qualche secondo a rialzarlo fugacemente, scontrandosi con la fronte incredibilmente corrugata e gli occhi sgranati all’inverosimile di Caterina, che doveva aver preso il suo silenzio come una totale ammissione.
-Stai scherzando?-.
Più che rabbia e adiramento, nella voce dell’amica c’era un tale stupore che faceva pensare stesse cercando in ogni modo di convincersi di aver capito male.
Giulia sospirò piano, il cuore pesante che le martellava in petto:
-No. Ci siamo rivisti per caso a Febbraio quando sono venuta a casa dei tuoi genitori per vedere te, Nicola e Francesco- iniziò, parlando molto più velocemente quasi stesse tentando di non farsi capire comunque – Ci siamo incrociati fuori, quando siamo arrivati. E abbiamo deciso di uscire a bere qualcosa, e poi abbiamo continuato a vederci, e … Ed è andata avanti-.
Era estremamente semplicistico spiegarla così, se ne rendeva conto e trovava che poteva essere difficile per Caterina poter mettersi nei suoi panni con così pochi elementi, ma non trovò la forza di aggiungere nient’altro. Aspettava solo di sentirle dire qualcosa, qualsiasi cosa – anche un rifiuto totale-, piuttosto che quel lungo silenzio.
Giulia attese, ma Caterina stava tenendo solo lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé, come se stesse intrattenendo una lunga conversazione con se stessa.


 
Erano passati dieci minuti, dieci minuti di tortura del silenzio a cui Giulia non sarebbe resistita ancora a lungo. Caterina aveva taciuto anche quando era passata una cameriera al loro tavolino per prendere le loro ordinazioni – Giulia si era presa l’onere di ordinare per entrambe, e in qualsiasi caso Caterina non si era lamentata della sua scelta per il suo gelato.
Ormai cominciava ad avere i nervi così tanto a fior di pelle che non le interessava nemmeno più di finire vittima di un rimprovero in pubblica piazza: doveva sapere e basta.
-Vuoi dirmi qualcosa?- esalò Giulia, torturandosi le mani.
Caterina sobbalzò, come se fosse stata catapultata fuori dallo stato di trance in cui si era ritrovata. Spostò gli occhi su Giulia, l’espressione incerta visibile sul suo volto:
-Stavo pensando. O meglio, chiedendomi una cosa-.
Giulia esitò solo un secondo prima di replicare:
-Cosa?-.
Caterina sospirò, scuotendo appena il capo con incredulità:
-Perché lui?-.
Prima che Giulia potesse dire qualsiasi cosa, o anche solo pensarla, alzò una mano per frenarla:
-Nel senso: non perché mio fratello, ma perché proprio una persona come lui?-.
In un attimo tutti i pezzi sembrarono trovare il loro posto, e Giulia si rese conto che aveva guardato al silenzio di Caterina dalla prospettiva sbagliata.
Non era contrariata perché tra tutti stesse frequentando suo fratello, ma perché era Lorenzo come persona ad essere la sua fonte di confusione.
-Non è così male- farfugliò Giulia, a mezza voce.
-Beh, certo, non è un maniaco o un omicida, ma sa essere stronzo- Caterina alzò le spalle, guardandola con scetticismo – Non riesco ad immaginarvi insieme. Soprattutto dopo i vostri trascorsi mai avrei creduto che avresti ceduto alle sue avances-.
“Nemmeno io”.
-Non credo che la situazione di prima fosse paragonabile a ora- rifletté a mezza voce Giulia – Prima stavo con Filippo, ed eravamo felici, mentre adesso … Lo sai-.
“Ora non c’è neanche più un noi”.
Cercò di allontanare subito il pensiero di Filippo, la malinconia che si era portata appresso dalla sera in cui avevano parlato della separazione pronta a soffocarla ad ogni cedimento.
Osservò Caterina annuire, ma notò anche che la sua espressione scettica ancora non se ne stava andando:
-Certo, ma tu sei sempre tu, e mio fratello è sempre mio fratello- scosse di nuovo il capo – Non sono del tutto sicura che sia la persona più adatta a te-.
Giulia annuì a sua volta: comprendeva come mai Caterina la pensasse così. In parte lo pensava anche lei, e ne era stata convinta per anni. Gli ultimi mesi però le avevano dato un’impressione un po’ diversa, come se forse lei e Lorenzo non fossero poi così distanti e inconciliabili come le era sempre sembrato. Poteva essere un’illusione dovuta al suo stato d’animo, alla speranza di ritrovare in qualcun altro ciò che aveva avuto con Filippo, ma poteva anche essere una sensazione fondata.
-Non è detto che la cosa sarà così duratura. Magari ci accorgeremo davvero di essere troppo incompatibili e ci separeremo- mormorò, con una scrollata di spalle – Non la sto prendendo troppo seriamente, la sto solo vivendo al momento-.
“Chissà se la sta vivendo così anche Lorenzo”.
-Sarà come dici tu. Fai attenzione comunque, però- Caterina non sembrava interessata ad andare oltre quelle parole, e Giulia ne fu sia sollevata che incuriosita: si era preparata al peggio, ma tra Ilaria e Caterina sembrava che fosse stata la prima ad averla presa male per davvero. Caterina le sembrava poco convinta – se non addirittura per nulla-, e piuttosto incerta, ma al posto suo Giulia credeva che si sarebbe sentita allo stesso modo.
-Magari farò un discorsetto anche a mio fratello- la sentì aggiungere, stavolta con voce venata di sarcasmo.
Giulia lo prese come un segnale di distensione, il momento più complicato di quella conversazione già passato.
-Ti prego, no- esalò, sentendosi però leggera quando l’altra rise sommessamente in risposta.
Forse poteva sopportare l’idea di Caterina che parlava da sola con Lorenzo della loro relazione, se questo poteva semplificare le cose.
-Pensavo l’avresti presa molto peggio- confessò dopo qualche attimo di silenzio.
Caterina la guardò incuriosita:
-Tipo che mi sarei scandalizzata? Che avrei urlato?-.
-No, ma che forse ti saresti incazzata-.
-Sono più perplessa che altro. Diciamo che al momento sospenderò il mio giudizio su voi due, però … - Caterina si morse il labbro inferiore, pensierosa – Se devo essere sincera non riesco a pensare a voi due insieme. Siete così diversi … O forse è perché ancora fatico a credere che tu e Filippo vi siate lasciati-.
“Anche io a volte faccio fatica a crederlo”.
Giulia abbassò per qualche secondo lo sguardo. A lei sembrava impossibile che quella fosse la sua realtà, soprattutto nei momenti in cui provava la tremenda mancanza di Filippo. Erano sempre attimi in cui si detestava, perché era un sentimento che non voleva provare, non quando era ancora così adirata con lui, ma  che non poteva nemmeno negare.
Sospirò profondamente, le parole che premevano per uscire:
-A proposito di questo … -.
Si dovette bloccare, la cameriera che tornò proprio in quel momento per lasciare le ordinazioni fatte poco prima. Giulia non esitò un attimo a prendere un sorso del suo spritz fresco, lasciando che finalmente la sua gola non fosse completamente secca per l’ansia.
Si prese solo quegli attimi prima di proseguire:
-Abbiamo parlato della separazione, l’altro ieri-.
Caterina attese prima di iniziare a mangiare la coppetta di gelato che Giulia aveva scelto per lei, ricambiando con uno sguardo grave:
-Davvero?-.
-Sì. Certo, la notizia sarebbe di per sé che abbiamo parlato, e che Filippo ha fatto il primo passo … - Giulia si sentì sconfortata nel rendersi conto di come ormai si erano ridotti – Però sì, abbiamo parlato di quello-.
-Che ha detto?-.
-Che me la concederà se gliela chiederò. Ed è quella l’intenzione-.
Giulia lo disse forse con meno convinzione di quel che pensava e sperava, ma non esitò nel proseguire:
-Ma ne parleremo meglio con degli avvocati-.
Cercò di rimanere impassibile, nonostante il sapore di quelle ultime parole fosse estremamente amaro. Aveva ancora stampata sulle retine l’espressione afflitta che Filippo aveva mantenuto per gran parte della conversazione – le lacrime che gli avevano rigato le guance alla fine.
-Gli hai anche detto di andare a vivere altrove?-.
Giulia cercò di ignorare il groppo in gola che sentiva:
-Sì, gli ho detto che farebbe meglio a cercare un posto-.
-Mi sembra una cosa logica. Ormai non c’era altro modo- soppesò Caterina, rigirandosi tra le mani il cucchiaino ancora non usato, il gelato che cominciava a sciogliersi – D’altro canto non so come facciano Alessio ed Alice a vivere ancora sotto lo stesso tetto-.
“Io e Filippo non siamo loro”.
Giulia sospirò. Se l’era chiesto diverse volte se tra lei e Filippo sarebbe potuta funzionare in un modo simile, ma era giunta alla conclusione che era impossibile: Alice non guardava con astio Alessio ogni volta che lo incrociava, né capitava il contrario. Non c’erano stati motivi così gravi alla base della loro separazione, e forse era anche per questo che ora avevano ricostruito il loro rapporto in un modo diverso che permetteva loro di poter vivere ancora nella stessa casa, crescere i figli insieme almeno fino a quando uno dei due non avrebbe voluto andare a vivere altrove. Giulia li invidiava, anche se le costava ammetterlo.
-Almeno loro hanno un rapporto civile e hanno raggiunto un equilibrio. Non si può dire lo stesso per me e Filippo- disse a mezza voce – Non ora, almeno-.
-Gli hai detto di mio fratello?-.
La sola idea fece rabbrividire Giulia:
-No. Non so se lo farò-.
Per un po’ Caterina non disse nulla, e nemmeno Giulia aprì bocca. Si limitò a bere lentamente il suo spritz, lanciando occhiate di sottecchi all’altra che, finalmente, aveva iniziato a mangiare il suo gelato. Si chiese cosa potesse passarle per la testa, se aveva notato il suo stato d’animo tormentato nel parlare di Filippo o la sua esitazione nel dirle di Lorenzo. Probabilmente aveva notato entrambe le cose, ma Caterina sembrava intenzionata a non proseguire quella conversazione.
Passarono diversi minuti prima che Giulia la sentisse sospirare profondamente:
-E fu così che dovetti abituarmi all’idea di considerarti mia cognata-.
Nonostante ciò che sottintendeva la frase, Giulia sorrise divertita:
-Non eri tu che dicevi che non siamo adatti l’uno all’altra?-.
-Sì, ma visto che nella vita non si sa mai non scarto nessuna opzione- Caterina alzò le spalle, così come un sopracciglio – Cognata-.
La risata che le provocò quella specie di scherzo era probabilmente la cosa che più serviva a Giulia in quel momento.
-Piantala-.
 
*
 
Non sapeva ancora se quella che stava per fare era la cosa giusta. Nicola continuò a camminare verso l’entrata del parco, una mano sepolta nella tasca dei jeans e l’altra che avvolgeva la mano più piccola di Francesco.
-Eccoci- lo sentì mormorare deliziato, come se gli avessero appena offerto una fetta della sua torta preferita. Francesco era così entusiasta ogni volta che c’era l’opportunità di passare qualche ora al parco dove di solito andava anche Alessio con Christian e Federica: c’era una zona tutta dedicata ai bambini, con scivoli e altalene e altri giochi dove potevano sfogarsi e giocare.
Stavolta, però, non era Alessio la persona che Nicola stava cercando di individuare, scandagliando lo spazio dopo aver varcato l’entrata del parco.
Filippo se ne stava in piedi, a poca distanza da uno degli scivoli, probabilmente intento a tenere d’occhio Caterina e Beatrice. Nicola non faticò a trovare anche loro, nonostante la moltitudine di bambini di diverse età che affollavano l’aera giochi a quell’ora del pomeriggio.
Tirò un sospiro profondo, ancora incerto se fosse il caso di proseguire o se fosse il caso di tornare indietro, nonostante le proteste che Francesco gli avrebbe sicuramente mosso.
“Eppure non potrò continuare a evitarlo per sempre”.
Se, come gli aveva raccontato Caterina un paio di settimane prima, pure Giulia era riuscita a conversarci in maniera civile, poteva farcela anche lui.
Si chinò all’altezza di Francesco, sorridendogli nonostante la tensione che provava:
-Vai a giocare con Caterina e Beatrice, ok? Io resto qui vicino-.
-Va bene, papà- rispose Francesco, accondiscendente e già sul punto di mettersi a correre per raggiungere le amiche. Nicola gli posò un veloce bacio sui capelli biondi, prima di lasciarlo andare. Lo osservò allontanarsi di pochi metri, raggiungere le due gemelle ai piedi dello scivolo dove si trovavano, e poi unirsi ai loro giochi.
Anche lui avrebbe dovuto fare lo stesso con Filippo – o magari sarebbe stato lui a raggiungerlo, una volta accortosi del suo arrivo?-, nonostante navigasse ancora nell’incertezza. Non lo vedeva da un po’ di tempo, ma non era cambiato molto nell’aspetto: aveva forse l’aria un po’ stravolta e trascurata, con occhiaie evidenti sotto gli occhi e i capelli un po’ più lunghi di come li ricordava, ma senza sostanziali differenze. Era sempre Filippo, sempre l’amico di una vita.
“Inutile stare qui a girarci attorno”.
Prese un respiro profondo e poi si avviò nella sua direzione. Filippo doveva aver notato Francesco, ora con le gemelle, e quindi aver intuito del suo arrivo, ma non si era ancora voltato nella sua direzione, come se stesse attendendo che fosse lui per primo a palesarsi.
-Ehi-.
Nicola lo disse a mezza voce, quando gli fu a poco più di un metro di distanza. Temette che quella specie di saluto si sarebbe perso tra le urla e le voci dei bambini che stavano giocando, o tra le chiacchiere degli adulti che come loro due stavano osservando e aspettando i rispettivi figli, ma Filippo si girò verso di lui dopo appena un paio di secondi.
-Ciao- gli disse, con un mezzo sorriso a tratti malinconico – Cominciavo a pensare non saresti venuto-.
-A dire il vero sono rimasto incerto fino all’ultimo- ammise Nicola.
-Lo immagino. Devo essere stato un po’ troppo insistente, se alla fine sei qui- disse Filippo, a mezza voce.
Filippo aveva dovuto fare più di un tentativo per convincerlo a quell’incontro. Quando qualche settimana prima Nicola si era ritrovato a ricevere un suo messaggio, si era ritrovato sorpreso: Filippo si era fatto sentire poco in quei mesi, e solo in occasioni specifiche, forse fin troppo memore di come si erano separati l’ultima volta in cui si erano visti. Aveva provato a chiedergli di parlare un’altra volta soltanto, poco prima del compleanno di Nicola; quella volta non era riuscito a decidersi, in dissidio tra il volere ascoltare cosa avesse da dirgli, in nome della loro amicizia ultra ventennale, e l’arrabbiatura che ancora non era passata.
Stavolta non era stato molto diverso: quando si era ritrovato a leggere il messaggio con cui Filippo gli chiedeva se avrebbero potuto incontrarsi e parlare, Nicola si era ritrovato indeciso allo stesso modo. Doveva essere cambiato qualcosa in Filippo, però, a giudicare dal fatto che non aveva demorso.
Anche in quel momento in cui, finalmente, Nicola si trovava lì, di fianco a lui, c’era ancora lo stesso sentimento d’incertezza. Sapeva che Filippo se la stava passando male, e che anche lui aveva bisogno di qualcuno accanto a sostenerlo, ma non poteva nemmeno dimenticare che era stato Filippo stesso la causa del suo male.
-Forse volevo sapere cosa avevi da dirmi-.
Nicola gli lanciò solo una rapida occhiata: Filippo gli appariva intimidito, un atteggiamento estremamente diverso da quello che aveva assunto l’ultima volta che si erano visti, più di sei mesi prima.
-Volevo parlarti di un po’ di cose-.
-Hai iniziato a farlo un po’ con tutti. Parlare, intendo- Nicola scorse l’espressione vagamente confusa dell’altro – Alessio mi ha detto che vi siete visti, voi due e Pietro, un po’ di settimane fa-.
Filippo annuì subito:
-È vero. Abbiamo parlato un po’ degli ultimi eventi-.
Alessio era stato un po’ più generoso con i dettagli, ma Nicola si era già aspettato che non lo sarebbe stato altrettanto Filippo. Non sembrava voler soffermarsi su altre cose che non fossero la conversazione che, a quanto pareva, aveva in serbo per lui da tempo.
-E hai parlato con Giulia- aggiunse Nicola.
-Era il minimo-.
Filippo si strinse nelle spalle.
-Ma volevo parlare anche con te. L’ultima volta che ci siamo visti … - la voce gli si spezzò fino ad arrivare ad un silenzio imbarazzato – Non è andata molto bene-.
Nicola si ritrovò a sbuffare con sarcasmo:
-È un eufemismo-.
Anche Filippo rise debolmente, una risata del tutto priva di divertimento.
-Sono successe talmente tante cose da allora- Nicola lo udì mormorare, e fu in quel momento che Filippo si girò del tutto verso di lui – Mi dispiace per quello che è successo a te e Caterina. Per la bambina, intendo-.
C’era un’ombra di dolore a contrargli il viso, mista a vergogna.
-Avrei voluto dirtelo di persona allora, ma non sapevo se ti avrebbe fatto piacere vedermi-.
Nicola si ritrovò ad annuire senza sapere bene cosa rispondere. Il solo ricordare quel periodo faceva ancora male, ma era consapevole che, prima o poi, avrebbero parlato anche di quello. Ricordava quando Filippo gli aveva scritto, evidentemente dopo aver saputo dell’aborto spontaneo. Si sentiva così distrutto e annientato dal dolore che si era dimenticato persino l’arrabbiatura nei suoi confronti, o quel che si erano detti l’ultima volta che si erano visti, ma sapeva che se si fossero incontrati di persona il sentimento sarebbe stato molto diverso.
-Forse è stato meglio così- ammise Nicola – Non è stato un periodo facile-.
-Per niente-.
Filippo sospirò a fondo, tornando a dirigere lo sguardo altrove. Nicola fece lo stesso: gli ci vollero pochi secondi per tornare ad individuare Francesco e le gemelle, ora impegnati alle altalene. Stavano ridendo, le guance rosse per il caldo e il movimento, svagati e spensierati come era giusto che fossero alla loro età.
-Non riesco a fare a meno di pensare che sia tutta colpa mia-.
Filippo riprese a parlare, la voce vagamente tremante.
-Per il fatto che non ci vediamo più tutti insieme come una volta. Per quello che ho fatto a Giulia. Per non averti dato retta- disse ancora – Mi dispiace. Vorrei poter tornare a quella sera, e ascoltarti sul serio … Avevi ragione su tutto-.
“Lo so”.
Nicola non riuscì a dire nulla, il petto che gli sembrava stretto in una morsa.
-Anzi, vorrei tornare anche più indietro. A prima di … - Filippo si schiarì la voce – Di ferire Giulia. Mi sarei dovuto comportare in modo così differente-.
-Già, avresti dovuto- esalò Nicola, con un filo di voce.
Aveva ripensato alla sera in cui aveva scoperto Filippo baciare un’altra che non fosse Giulia innumerevoli volte, ripercorrendone ogni momento fino alle parole che si erano detti. Faceva ancora male, e anche rabbia, ma ormai era sopravvenuta anche una sensazione di rassegnazione. Quel che era stato era stato: non si poteva cancellare, né tornare indietro per cambiare le cose.
-Perché non sei venuto da me a dirmi che avevi così tanti problemi?- Nicola d’un tratto si girò verso Filippo, affrontandolo – O se non da me, da qualcun altro. Pietro di sicuro ti avrebbe dato una mano esattamente come avrei fatto io. Ti avrebbe detto anche lui che ne avresti dovuto parlare con Giulia, da adulto-.
Ricordò quando, una volta scoperto che Caterina era incinta di Francesco, se ne era andato di casa totalmente stordito. Aveva trovato rifugio a casa di Alessio, e soprattutto in lui: non aveva giustificato la sua fuga, ma parlarne insieme gli aveva fatto capire che doveva rimediare a quell’errore il prima possibile. Capire cosa voleva sul serio.
“Se solo Filippo avesse fatto lo stesso, avrei potuto aiutarlo”.
Lo osservò stringersi nelle spalle e abbassare lo sguardo a terra.
-Avrei dovuto. Invece ho fatto la cosa più stupida possibile-.
Filippo si passò una mano sul viso, forse per cancellare lacrime che rischiavano di rigargli il viso.
-Non so se mi perdonerà mai-.
Non c’era bisogno di specificare a chi si riferisse. Nicola lo guardò provando pena per lui, inaspettatamente.
-Non lo so- disse con onestà – Ma di certo se vorrai cercare di farlo, dovrai metterti d’impegno-.
“E forse nemmeno quello basterà”.
Tornò a prendere posto a fianco di Filippo, lanciando una lunga occhiata in direzione di Francesco, Caterina e Beatrice, inconsapevoli della conversazione che stava avvenendo tra i loro genitori.
-Glielo avresti detto sul serio?-.
Filippo aveva spezzato il silenzio che era andato creandosi, con voce esitante.
-Avresti detto a Giulia cos’avevi visto quella sera, se poi Caterina non avesse perso la bambina e fosse successo tutto quel casino?-.
Nicola non ricordava nemmeno più quali erano state le sue intenzioni allora.
-Non lo so. Non lo ricordo più, ormai-.
“Niente è andato come previsto”.
Sospirò a fondo, voltandosi verso Filippo ancora una volta:
-Ma di certo non potevo restare a guardare mentre tu distruggevi tutto. Mentre ti distruggevi-.
Quelle parole sembrarono colpirlo in particolar modo. Osservò il volto di Filippo rabbuiarsi, diventare più cereo nonostante il caldo di fine Luglio.
-Lo so che sono stato duro con te, ma te lo meritavi. E non ti ho voluto parlare per tutti questi mesi perché non sapevo cosa ti avrei detto, o come comportarmi- disse ancora Nicola – E forse in parte ancora non ti ho del tutto perdonato nemmeno io, ma sei il mio migliore amico-.
C’era un’ombra di speranza, ora, nello sguardo che Filippo gli stava rivolgendo. Forse la speranza che, in un modo o nell’altro, potessero trovare rimedio a tutti quei mesi passati in silenzio.
-Non posso fare finta di niente e non dirti che hai sbagliato, anche perché anche Giulia è mia amica, ma allo stesso tempo … - Nicola si morse il labbro inferiore, scuotendo debolmente il capo – Mi dispiace per te-.
Filippo si lasciò andare ad un sorriso carico di malinconia:
-Lo so-.
Gli si avvicinò di qualche passo, ancora con quel sorriso disegnato sulle labbra.
-Mi sei mancato-.
-Anche tu- ammise Nicola – Anche se un po’ mi fai ancora incazzare-.
-Immagino- Filippo rise debolmente – Credo che mi impegnerò per farmi perdonare anche da te, se me ne darai la possibilità-.
Passarono alcuni secondi prima che Nicola annuisse. Aveva ripensato diverse volte a come sarebbe stato ricucire il rapporto con Filippo, se ci sarebbe riuscito. Arrivato a quel punto, forse non gli rimaneva che aspettare e vedere.
-Dovrai giocartela bene-.
 
*
 
Non ricordava neanche in che zona di Venezia fossero. Ad essere onesti, non ricordava neanche il nome della piazzetta su cui si affacciava il bar dove Martino lo aveva trascinato, e in fondo andava bene così: un po’ di mistero non faceva mai male, anche se temeva avrebbe dovuto affidarsi a Google Maps per ritrovare la strada di casa in mezzo al dedalo di calli.
La sera veneziana era calda come ci si prospettava dai primi giorni di Agosto. Pietro aveva trovato ristoro e sollievo solo nel prosecco fresco che stava bevendo lentamente – e preceduto da uno spritz e qualcos’altro che non ricordava già più. L’alcool cominciava a fargli girare la testa, ma poteva permetterselo in un venerdì sera ritagliato apposta per lo svago tra amici. Di lì a poco si sarebbe anche acceso una sigaretta, e si sarebbe sentito del tutto in pace.
-Sto pensando che potrei fatte conosce qualche amico mio-.
La voce di Martino era parsa del tutto vaga, quasi avesse appena parlato della lista della spesa che lo attendeva da fare l’indomani. Pietro, invece, si ritrovò a strabuzzare gli occhi:
-Perché dovresti farmi conoscere qualche tuo amico?- gli chiese subito, guardingo – Per amicizia o … -.
-Potrebbe esse anche pe’ amicizia, o pe’ qualcos’altro- il sorriso malizioso che gli rivolse Martino non lasciava aperta la questione a dubbi – Magari te se riaccende l’interesse-.
Forse era l’alcool, forse era già più ubriaco di quel che pensava, ma Pietro continuava a credere che Martino stesse parlando per enigmi.
-Che vuoi dire?-.
Mandò giù un generoso sorso di prosecco ghiacciato, rilevando che purtroppo nel suo calice ne rimaneva meno di quanto avrebbe voluto. Doveva centellinarlo, a meno che non preferisse alzarsi per andarne ad ordinare dell’altro. Poteva essere un buon diversivo, nel caso quella conversazione si fosse fatta più complicata di quel che già era.
Martino rise piano: sembrava palesemente a suo agio, e Pietro un po’ lo detestò per il modo sciolto con cui parlava di ogni cosa.
-Nun te la prenne, ma è da un po’ che ho notato qualche cambiamento- gli disse, senza smettere di sorridergli sornione.
Pietro si accigliò, continuando a non capire:
-Tipo?-.
Arrivati a quel punto, era convinto che Martino fosse sul punto di scoppiargli a ridere in faccia nel modo più fragoroso possibile.
Appoggiò i gomiti sul tavolino di finto legno dove si erano seduti una mezz’ora prima, sbattendo le ciglia – ciglia rigorosamente finte ed estremamente lunghe, folte come quelle di un cerbiatto- in maniera innocente.
-Te la ricordi l’ultima volta che l’abbiamo fatto?-.
Pietro ringraziò se stesso per aver deciso di bere qualche secondo prima. Era sicuro che se lo avesse fatto in quel momento, nel sentirsi porre quella domanda, metà prosecco sarebbe finito sputato sul tavolo.
Martino arcuò un sopracciglio, continuando a sorridergli mentre attendeva una risposta che non arrivava. Pietro deglutì: riusciva a capire dalla sua espressione e dai gesti che Martino non glielo stava chiedendo perché era in un qualche modo indispettito. C’era dell’altro, ma ancora non era riuscito a capire cosa.
Anche se avesse avuto la mente più lucida, in qualsiasi caso, non avrebbe saputo rispondere. Forse erano passate due settimane dall’ultima volta che avevano fatto sesso, o forse anche tre.
Gli venne il dubbio che potesse essere anche passato un mese. Un mese abbondante.
-L’ultima volta che m’hai baciato?- lo incalzò di nuovo Martino.
Pietro sbuffò:
-Non capisco dove tu voglia arrivare-.
Era vero, anche se cominciava ad avere un sospetto, e se fosse risultato essere fondato, non aveva idea di come avrebbe preso il prosieguo di quella conversazione.
Martino si rimise comodo contro lo schienale della sua sedia. Al contrario di Pietro, lui sembrava ancora totalmente a suo agio: non aveva smesso di sorridere, segno che, nonostante tutto, non c’era nulla di cui preoccuparsi. Paradossalmente era proprio quella sua aria serena che rendeva Pietro ancor più nervoso.
-È passato un po’ de tempo per entrambe le cose, e mi stavo chiedendo se magari non eri più interessato da quel lato- Martino parlò finalmente dopo un po’ di attimi passati in silenzio, una mano che andò a scostare una ciocca di capelli ramati – Non prenderti male, eh: non esco con te per scopare e basta. Se preferisci togliere quella parte che c’è tra noi, a me sta bene-.
Pietro si limitò ad annuire, consapevole di star arrossendo. Doveva ammettere che Martino aveva ragione, anche se se ne rendeva pienamente conto solo in quel momento. Il lato fisico del loro legame c’era da mesi, ma Pietro quasi non aveva posto attenzione al fatto che, lentamente o meno, così come era venuto era anche sparito.
Si strinse nelle spalle, piuttosto insicuro su come poterlo spiegare, ma Martino lo precedette:
-Ma mi chiedevo solo se magari t’andava de conosce qualcun altro… - disse ancora, prima di piegare la testa di lato e lanciargli di nuovo quel suo sorriso sornione che sottintendeva ben altro – O se magari già ce sta-.
“Lo sa”.
Non aveva idea di come Martino potesse averlo intuito – forse aveva sul serio la capacità di leggergli il pensiero-, ma Pietro sapeva che lui sapeva.
Non aveva alcun dubbio in merito.
-Secondo te qual è delle due?- gli chiese, prendendosi ancora qualche secondo di tempo prima di cadere ancor di più nella trappola che Martino gli aveva teso.
-La seconda-.
“Come volevasi dimostrare”.
Pietro si schiarì la gola, desiderando davvero altro alcool:
-Non faccio nulla con nessun altro- chiarì, prima di ammettere qualsiasi altra cosa.
-Però?- lo incalzò Martino.
-Però … -.
Pietro sbuffò. Gli sarebbe servito molto più alcool nel corpo per riuscire ad affrontare quell’argomento. E forse non era nemmeno del tutto sicuro di essere pronto a farlo, ma qualcosa gli diceva che doveva solo buttarsi e che Martino, in qualsiasi caso, sarebbe stata una buona spalla a cui aggrapparsi.
E poi aveva bisogno di consigli, consigli veri. E per quanto Martino potesse apparire stravagante e poco serio, in realtà sapeva far funzionare più che ottimamente il cervello quando si trattava di situazioni delicate.
-È una storia lunga- mormorò, quasi a volerlo mettere in guardia per quello che poteva aspettarlo.
Per tutta risposta, Martino rise apertamente:
-Nun è che c’abbiamo ‘n cazzo da fare, tanto-.
Anche quello era vero, ammise tra sé e sé Pietro.
Il suo sguardo vagò lontano da Martino, tra le luci dei lampioni accesi della piazza, dai neon dei nomi degli altri due bar che si affacciavano su quel quadrilatero di tranquillità veneziano. Rimase in ascolto delle chiacchiere e delle voci delle altre persone sedute agli altri tavoli, senza però soffermarsi a coglierne le parole.
Il cielo si era imbrunito solo da poco, quando ormai si avvicinavano le dieci della sera.
Poteva essere un buon momento per volgere il pensiero ad una persona che non era fisicamente lì, ma che in un modo o nell’altro era sempre nei suoi pensieri. Si lasciò scivolare in un sorriso, inconsapevolmente, ma fu in quel momento che capì che era anche il momento di parlare.
-Credo di essermi innamorato-.
Si sentì sereno nel dirlo, come mai credeva potesse accadere.
-No, non credo- Pietro si costrinse a correggersi subito, perché se doveva essere sincero con Martino, tanto valeva esserlo anche con se stesso – Mi sono innamorato-.
Stavolta riportò gli occhi sul viso di Martino. Lo trovò a sorridergli in un modo così onesto e felice che, anche se non gli stava ancora dicendo niente, sapeva che dentro di sé era contento per lui.
Pietro si strinse nelle spalle:
-Di nuovo-.
“Ma stavolta è diverso”.
-Anvedi a Piè!- Martino finì di rimanere in silenzio, sporgendosi verso di lui sopra il tavolo per mollargli una pacca sulla spalla – Mo’ me devi dì tutto. Tutto-.
Aveva saputo sin dall’inizio in cosa si sarebbe ficcato nel rivelare quella cosa a Martino, e che saziare la sua curiosità non sarebbe stato semplice, ma si sorprese nel rendersi conto che non solo era disposto a farlo, a tratti ne era pure elettrizzato.
-Che vuoi sapere?- gli chiese con un sospiro profondo, facendo finta di essere un po’ seccato per non dare troppa soddisfazione all’altro.
-Beh, intanto chi è il fortunato- Martino lo guardò di nuovo con un sorrisetto malizioso – Anche se ho una mia teoria-.
-Non voglio saperla- borbottò Pietro, piccato.
Era quasi del tutto sicuro che Martino non facesse rientrare se stesso in quella teoria – anche se c’era una piccola percentuale di probabilità che potesse prenderlo in giro in quel modo-, ma in parte sarebbe stato meglio così che vederlo azzeccare la possibile risposta.
-E allora dimmelo tu chi è- lo incalzò di nuovo, sfarfallando le lunghe ciglia. Sembrava elettrizzato, curioso e allegro. Pietro quasi sospettò che credesse di trovarsi al centro di una delle tante serie tv di cui parlava a ruota libera in continuazione, nel momento topico di una rivelazione che avrebbe cambiato le carte in tavola.
E in un certo senso era proprio così, perché era piuttosto convinto che ammettere ciò che si stava tenendo dentro da un mese avrebbe cambiato un bel po’ di cose.
Pietro sospirò a fondo, buttando giù in un unico lungo sorso quel che rimaneva del suo prosecco. Rimise il calice sul tavolino con un tonfo sordo, sperando che la sua mente ovattata dall’alcool reagisse con meno panico a ciò a cui stava per dare inizio.
-Alessio-.
Pietro lo aveva sussurrato a voce davvero bassa, e quando dopo aver pronunciato quel nome seguì solo silenzio, quasi temette che Martino non l’avesse sentito. Aveva tenuto abbassati gli occhi fino a quel momento, e si costrinse ad azzardare ad alzare il viso, timoroso: si ritrovò davanti il ghigno sardonico dell’altro, che era forse l’ultima delle reazioni che si era aspettato.
-Ma dai, non si era assolutamente capito-.
Di fronte ai suoi occhi improvvisamente sgranati, Martino scoppiò a ridere fragorosamente. Pietro non si stupì quando qualcuno ai tavolini vicini si girò nella loro direzione con fare confuso, ma non aveva tempo per star dietro anche al disorientamento altrui.
-L’avevi capito?- farfugliò con voce acuta, la fronte aggrottata e la voce piena d’ansia.
Martino lo guardò quasi incredulo:
-Da mesi, tipo?- rispose semplicemente, facendo sprofondare Pietro – Te si legge in faccia. Ce l’hai scritto a caratteri cubitali sulla fronte, proprio qua: “Alessio, fammi tuo”-.
Pietro non perse tempo, e nonostante il rossore che gli bruciava le guance, stavolta fu lui a sporgersi sopra il tavolo e tirargli una pacca sulla spalla. Sperò si avergli fatto almeno un po’ male.
-Ma smettila!- quasi strillò, sentendosi in imbarazzo come un ragazzino delle medie che confessava all’amico la sua prima cotta della vita – Si nota così tanto?-.
Per un attimo si sentì abbracciare dal panico. Se Martino l’aveva capito solo dal modo in cui a volte gli aveva parlato di Alessio, senza nemmeno mai vederli interagire, non osava pensare quanto potesse essere palese per chi li conosceva bene entrambi. Quasi ringraziò il fatto che Caterina, Nicola, Giulia e Filippo fossero tutti occupati in ben altre cose, e che di certo in quel periodo non stavano badando alla vita amorosa né di Alessio né sua.
-Abbastanza, direi- Martino rise ancora, rosso in viso per il troppo ridere – Ero sicuro che alla mia proposta de conosce altra gente avresti risposto di no. Non per me, ma per lui-.
In fondo aveva ragione, ponderò Pietro. Forse gli avrebbe comunque detto di no, e forse se non avesse ammesso a se stesso quel che provava, non sarebbero nemmeno finiti gli incontri più fisici che aveva con Martino, ma non poteva negare che più acquisiva consapevolezza di quel che sentiva ancora per Alessio, più gli era passata la voglia di fare qualsiasi cosa con chiunque altro non fosse lui.
L’unico problema era che non era proprio del tutto sicuro che Alessio potesse essere dello stesso parere.
-Tanto non è così semplice- si lasciò sfuggire, a mezza voce.
-Hai detto che te sei innamorato di nuovo- iniziò Martino, vago – In che senso?-.
Pietro sospirò di nuovo. Non si era preparato a quella parte, né credeva sarebbe mai stato preparato, ma forse aveva sufficiente alcool in corpo per riuscire a parlarne senza sprofondare troppo.
-Ero già stato innamorato di lui. Anni fa, ai tempi dell’università- ammise, lo sguardo rivolto altrove – O forse è iniziata anche prima, quando eravamo al liceo … Non lo so-.
-Ti va di raccontarmelo meglio?-.
Gli venne in mente quando l’aveva raccontato a qualcuno la prima volta. Era stato con Alberto, il suo vecchio amico del liceo che ormai non vedeva da anni. La seconda volta la ricordava forse ancor meglio della prima, e d’altro canto non credeva si sarebbe mai potuto dimenticare qualcosa legato così strettamente a Fernando. Anche lui, come Martino, aveva saputo leggere Pietro senza che lui dovesse dire niente. Aveva capito di lui e di Alessio così in fretta e in modo così naturale che all’epoca l’aveva fatto finire nel panico.
Con Martino, perlomeno, era stato tutto molto più tranquillo. Quasi voluto.
Era una situazione diversa. Lui era diverso, era cresciuto, e lo era anche Alessio.
Stavolta non aveva nulla da tenersi dentro a forza, per nascondere se stesso e ciò che provava. Fu per quello che iniziò a raccontare tutto a Martino trovando le parole a poco a poco, con i ricordi che gli invadevano la mente e che lo riportavano ad anni bui che ora sentiva lontanissimi da sé.
Gli raccontò tutto.
Quando finì si sentì svuotato, ma non in senso negativo. Era come sentirsi un libro ed essere stato appena letto da cima a fondo.
Si sentiva la gola talmente secca che si chiese per quanto tempo doveva aver parlato.
-Ammazza oh, quanta drammaticità- Martino lo disse quasi tra sé e sé, impressionato – Però non eri evidentemente pronto neanche te, eh. Non so quanto sareste durati, se per qualche miracolo vi foste messi insieme all’epoca. Magari ‘na settimana-.
Pietro lo guardò scettico:
-Quanto ottimismo-.
Era consapevole, però, che Martino non aveva tutti i torti, e che probabilmente ci aveva visto piuttosto bene. Per quanto anni prima aveva sperato che le cose tra lui e Alessio potessero andare diversamente, era stata una speranza utopistica. Lui doveva ancora affrontare e capire se stesso, e dubitava che Alessio, così proiettato nell’iniziare la carriera tanto desiderata, sarebbe potuto essere un sostegno sufficiente per un processo del genere.
-Da quel che m’hai detto avete avuto diversi tira e molla già come amici- proseguì Martino, stavolta più serio – Figurati in una relazione più complicata che cazzo potevate combinare-.
“Probabilmente ora non ci parleremmo da anni”.
Martino annuì, guardandolo intensamente:
-Però me pari più tranquillo, adesso-.
-Sembrerebbe esserlo anche lui- mormorò Pietro di rimando.
Aveva pensato a lungo a quel che gli aveva detto Alessio quel giorno al mare, quando lui si era reso conto ed aveva pienamente accettato i suoi sentimenti. Stavolta era disposto a lasciar posto nella sua vita anche ad altro che non fosse il lavoro e l’ambizione … Ma era un posto che poteva occupare anche lui?
Non credeva che Alessio si stesse frequentando con qualcuno. Gli aveva detto di no a Los Angeles, e dubitava che qualcosa fosse cambiato in quei mesi. Ma non poteva nemmeno essere del tutto sicuro che non gli avesse mentito.
Sì, le cose erano diverse e più tranquille, però rimaneva sempre il dubbio che Alessio provasse lo stesso che provava lui. Su quello non poteva certo costringerlo.
-Ma poi, spiegami sta cosa … - Martino lo distrasse dalle sue elucubrazioni, la fronte aggrottata in confusione – Vi siete già baciati, no?-.
Pietro annuì ancora prima di rispondere, percependo di nuovo un brivido lungo la schiena – come la prima volta che l’aveva raccontato, diversi minuti prima- al ricordo della sera in cui avevano festeggiato Caterina appena laureatasi alla triennale.
-Sì, ma ormai sono piuttosto convinto che davvero non se lo ricordi- sospirò, gli occhi abbassati – O gli sarebbe venuto il dubbio che non sono esattamente etero-.
Cercò di non soffermarsi troppo sul ricordo di quel bacio, anche se gli risultò difficile. Potevano essere passati anni interi da quel momento, ma riusciva ancora a riportare alla mente ogni più piccolo dettaglio di quel momento – la luce soffusa, la musica che gli riempiva le orecchie, i sospiri e le labbra di Alessio. Il fatto che, se non fossero stati interrotti, probabilmente non si sarebbero fermati ai baci.
-Questa sì che è sfiga-.
Martino aveva ancora la stessa espressione contratta di prima, come se stesse cercando di elaborare qualcosa che ancora gli sfuggiva:
-Quindi dovresti fare coming out anche con lui-.
Pietro annuì:
-In pratica devo partire da zero-.
Lo disse con ironia, ma stava solo nascondendo una certa sconsolatezza che probabilmente Martino riuscì a recepire comunque: lo guardò con fare comprensivo, un sorriso dolce che sottintendeva parole di incoraggiamento.
-Non so che fare, in realtà. Anche se stavolta sono più tranquillo, non so comunque da dove partire- Pietro buttò fuori l’aria in uno sbuffo rassegnato – Anche se ora siamo entrambi single, rimane sempre il fatto che è mio amico, e se non mi ricambiasse … -.
Si bloccò per diversi secondi, perché anche solo immaginare quello scenario gli mozzava il respiro.
-Beh, inutile dire che lo perderei di sicuro-.
“E stavolta per davvero e definitivamente”.
Gli venne quasi voglia di piangere istericamente. Conosceva già la sensazione di tenere a distanza Alessio, e in nessuno dei casi poteva affermare di aver passato quei periodi in pace, né con se stesso né con lui. Ma se avesse rischiato tutto – e dichiararsi ad Alessio e venire rifiutato era davvero rischiare grosso-, stavolta non ci sarebbero stati modi di riparare. Ci sarebbe stato troppo imbarazzo per restare amici, troppa imparità tra i sentimenti provati, troppe cose che avrebbero incrinato il loro rapporto.
E poi non poteva neanche escludere del tutto che Alessio potesse incontrare qualcuno e iniziare a frequentarlo nel periodo che gli sarebbe servito per decidersi a fare qualche passo, a ponderare la situazione. A quel punto sarebbe stato Pietro stesso ad allontanarsi, probabilmente. E che scusa avrebbe potuto offrirgli, se Alessio gli avesse chiesto spiegazioni? Non poteva certo dirgli “Scusa, ma sono innamorato di te e mi sento troppo miserabile per vederti con qualcun altro”. Avrebbe dovuto mettere la felicità di Alessio prima della sua, ma senza poter perdere del tutto la testa.
E poi avrebbe rovinato anche il loro gruppo. Detestava anche solo l’idea di dare ancora più pensieri a Giulia, Filippo, Nicola e Caterina, più di quanti non ne avessero già.
La mano di Martino lo riportò alla realtà del tavolo del bar di Venezia dove erano seduti ormai da più di un’ora. Alzò lo sguardo per vederlo sportosi sopra il tavolo, il braccio allungato per poter posare la mano sopra la sua. Martino gliela strinse appena, e Pietro non poté fare a meno di ricambiare la stretta.
-Pensa ad una cosa alla volta, intanto. Non partire così pessimista-.
Forse sarebbero state parole che gli avrebbe detto anche Fernando, se al posto di Martino ci fosse stato lui. O forse gli avrebbe detto di non pensare più a niente e di buttarsi e basta, che aspettare ed andare cauti serviva solo a bruciarsi le mille possibilità che poteva avere davanti a sé.
In questo, solo in parte, Martino era un po’ diverso: era sì appassionato e vivace, ma non disdegnava la calma quando pensava potesse dare maggiori frutti.
-Ho ‘na mezza idea-.
Martino gli teneva ancora la mano da sopra il tavolo, ma ora la sua espressione confortante era rimpiazzata da una pensierosa.
Pietro fu preso dalla curiosità:
-Sentiamo-.
Martino lo guardò seriamente, segno che non stava per sparare qualche strano piano più giocoso che altro. Stava davvero pensando a qualcosa di possibile da attuare, si rese conto Pietro.
-Lo so che non te senti ancora del tutto sicuro, ma comincio a pensare che dovresti seriamente pensare di fare coming out con i tuoi amici- iniziò a dire, con cautela – M’hai sempre detto che secondo te la prenderebbero con serenità, no?-.
A quella domanda, la prima cosa che gli venne in mente fu Giulia. La Giulia adolescente che credeva di vedere qualcosa tra lui ed Alessio – probabilmente, pur scherzando, l’aveva capito prima di tutti, sebbene si fosse beccata una quantità di occhiatacce incredibilmente alta-, la stessa Giulia che ogni tanto anche ora continuava a stuzzicarlo sull’argomento. Un po’ come Caterina, anche se in minor misura.
-Penso di sì. Con Alessio o con qualsiasi altra persona della comunità che conoscono non hanno mai avuto alcun problema- disse velocemente, rendendosi conto che la faccenda non si limitava solo a quello – Ma anche in generale-.
Era piuttosto sicuro che avrebbero accolto il suo coming out con assoluta serenità, come se avesse appena comunicato loro di aver bevuto un bicchiere d’acqua a pranzo. D’altro canto, rifletté, quando mai avevano battuto ciglio con Alessio, che non aveva mai negato la sua sessualità? Dubitava fortemente avrebbero avuto mai qualcosa da ridire su di lui. Erano sempre state persone contro quel genere di discriminazioni, e pensava che, seppur in maniera più silente, valesse anche per Nicola e Filippo.
Gli tornarono in mente gli occhi verdi di Giulia pieni di lacrime e il viso avvilito di Filippo al funerale di Fernando. Lo avevano conosciuto anche loro, e lo avevano pianto insieme a Pietro. Non lo avrebbero mai fatto se lo avessero considerato un abominio contro natura – un po’ come avevano fatto i genitori stessi di Fernando, d’altro canto.
E poi Alessio – aveva davvero senso chiedersi come avrebbe potuto reagire lui? Forse sarebbe stato sorpreso, ma nulla più di quello. O forse si sarebbe dovuto abituare di nuovo alle nuove e fiammanti frecciatine che Giulia avrebbe riservato ad entrambi, e stavolta fondate anche sulla pura verità.
A quel pensiero, Pietro si convinse che non sarebbe più riuscito a non arrossire palesemente di fronte alle punzecchiature di Giulia.
-Perché c’hai quella faccia?- Martino glielo chiese con un sopracciglio alzato, curioso. Doveva avergli letto l’ombra di terrore che gli aveva appena inondato il viso nell’immaginarsi Giulia mentre gli avrebbe gridato che aveva sempre saputo di aver ragione. E glielo doveva riconoscere: in effetti, almeno da quel punto di vista, ci aveva visto molto lungo. In anticipo di più di dieci anni.
-Stavo pensando ai salti di gioia che farà Giulia al mio coming out. Continuerà a dirmi “Lo sapevo” per il resto della nostra vita- esalò, senza però riuscire a trattenersi dal lasciarsi andare ad una risata leggera.
-Almeno sai che avresti il suo appoggio- Martino glielo disse con un tono meno allegro di prima – Dovrebbe essere la normalità per tutti, ma sappiamo che purtroppo ancora non lo è, quindi ritieniti fortunato che i tuoi amici più stretti continuerebbero a parlarti e a volerti bene come sempre anche dopo aver scoperto che sei gay-.
Pietro questo lo sapeva. Sapeva che doveva ritenersi fortunato. Probabilmente anche la sua famiglia, quando avrebbe deciso di parlare con i suoi genitori e i suoi fratelli, non avrebbe avuto alcuna reazione negativa. Era fortunato, e quel pensiero gli fece salire la bile alla gola. Non avrebbe dovuto essere questione di fortuna o sfortuna, ed in realtà non sarebbe dovuta neanche essere una faccenda cruciale, quella del coming out. Sarebbe dovuta essere semplicemente la normalità, ma era proprio la mancanza di essa che l’aveva spinto a non accettare se stesso per anni interi.
Probabilmente avrebbe spiegato la sua storia in quella maniera anche a Giacomo e a Giorgio, quando sarebbero stati grandi a sufficienza per riuscire a capire appieno ciò che avrebbe voluto raccontare loro.
Sospirò a fondo, immaginandosi come sarebbe stato fare coming out. Sarebbe stato di sicuro diverso dalle sue esperienze fatte finora: molto meno pieno di vergogna come con Alberto, molto meno complicato che con Giada. Ma sentiva che ancora c’era timore dentro di sé, sebbene fosse stato mitigato un bel po’ nel corso degli ultimi mesi.
Aveva paura. Non dei suoi amici o della sua famiglia, ma di sé. Aveva paura di non riuscire ad affrontare tutto con la giusta dose di sicurezza che gli sarebbe servita.
Forse, nel giro di qualche mese, sarebbe riuscito ad accumularla, ma al momento gli sembrava solo un miraggio.
Alzò gli occhi verso Martino, che in quel momento stava giocherellando con un eyeliner che doveva aver trovato in una tasca dei suoi jeans – ormai Pietro ci aveva fatto l’abitudine a trovarlo, nei momenti più disparati, con qualche aggeggio della sua collezione make up in mano.
-Comunque fare coming out ti permetterebbe de scoprì anche la reazione di Alessio- lo ascoltò dire, quasi distrattamente.
-Non credo si metterà a flirtare apertamente con me neanche se dovesse essere innamorato alla follia- borbottò Pietro.
Era abbastanza sicuro della sua affermazione, anche se non poteva negare a se stesso una certa curiosità nello scoprire come sarebbe stato essere corteggiato da Alessio. Quel pensiero lo intrigò più del previsto.
-Questo lo vedremo- Martino rise appena, puntandogli addosso l’eyeliner con fare spavaldo – Fa questo passo e poi, se vedi che la situazione lo permette … Perché non dirgli chiaramente quello che provi?-.
Pietro tacque, gli occhi abbassati sulla superficie di legno lucido del tavolino, dove erano riflesse le luci dei lampioni accesi della piazza.
Tacque per quelli che gli parvero minuti infiniti, minuti pesanti. E tacque anche ogni pensiero nella sua mente, perché non c’era una vera risposta che poteva dare a Martino, e nemmeno a se stesso.
Tacque perché dire ad Alessio tutto sarebbe stata la cosa più semplice. Ed era anche quella che più tra tutte poteva portarlo alla rovina.
-Ho paura di perderlo per davvero, stavolta-.
Non era sicuro che Martino lo avesse udito. Lo aveva detto talmente piano che il suo sussurro poteva benissimo essersi perso nell’aria umida e afosa di quella sera d’Agosto.
Forse aveva parlato così piano perché si era rivolto più a se stesso che non a Martino. Un promemoria di ciò che c’era in ballo.
-Se non ti ricambia magari subito non sarà semplice, ma siete adulti- Martino aveva evidentemente sentito, perché gli rispose con voce ferma qualche secondo dopo – Potete risolverla-.
La stava facendo troppo facile, rifletté Pietro.
Ripensò a quello che gli aveva detto Alessio un mese prima, in riva al mare.
“Sta andando tutto a catafascio, però io e te resisteremo”.
Si chiese se lo pensasse davvero, o se in quel momento glielo avesse detto solo per consolarlo dopo le brutte notizie che Giulia aveva portato.
Lui, però, avrebbe voluto davvero aggrapparsi alla certezza che Alessio credesse in ciò che gli aveva detto. Voleva credere anche lui che sarebbero resistiti. Il problema era che aggrapparsi a quella speranza lo avrebbe portato anche sul baratro della delusione cocente se si fosse rivelata solo l’ennesima illusione.
“Io e te resisteremo”.
-E se dovesse funzionare?-.
Se il rifiuto lo terrorizzava, non poteva nemmeno dire che anche l’altra opzione non lo lasciasse del tutto tranquillo.
-Che cazzo de domanda è?- Martino scoppiò a ridere dopo un lungo secondo in cui lo aveva guardato come se avesse appena detto la scempiaggine più grande della storia – Se funziona non solo m’inviti al vostro matrimonio, ma mi chiedi pure de farte da testimone. Visto che il guru qui presente ti ha appena dato consigli su come conquistare il tuo amato-.
Pietro rise sommessamente: l’unica cosa certa era che Martino correva piuttosto veloce.
-Non so se riuscirò a sopportarti ancora a lungo- lo prese in giro, debolmente.
Lasciò che la sua mente provasse ad immaginare come sarebbe potuta essere se però fosse stato nel giusto: come sarebbe stato tornare a casa e trovarvi Alessio ad aspettarlo? Trovarlo a salutarlo dandogli un bacio, poterlo stringere a sé mentre andavano a dormire, senza aver la paura di perderlo? 
Avrebbe desiderato che tutto ciò fosse già realtà.
-Te conviene- Martino gli puntò di nuovo addosso l’eyeliner, stavolta in maniera minacciosa – Niente guru, niente consigli amorosi-.
-Va bene, va bene- Pietro alzò le mani innocente, prestandosi al gioco prima di farsi di nuovo serio – Allora … Ci penserò-.
Stavolta non lo disse con la sensazione che non ci avrebbe pensato affatto. Stavolta era diverso, stavolta non voleva lasciare perdere senza nemmeno provare a giocare qualche carta. Se le prime mosse non avessero funzionato, si sarebbe fermato prima di rovinare definitivamente le cose con Alessio.
-Ricordati dell’invito, eh-.
Pietro sbuffò sonoramente:
-Prima dammi il tempo almeno di convincerlo ad iniziare una relazione con me-.
L’occhiata maliziosa che gli lanciò Martino non gli fece presupporre nulla di buono:
-Avrei un suggerimento anche per quello. Hai molti modi per poter essere convincente-.
Sapeva che era una battuta – anche se probabilmente Martino si sarebbe premurato di farglieli sapere tutti, i modi che aveva in mente-, ma Pietro ci sperò davvero. Per la prima volta da quando conosceva Alessio, vedeva sul serio una quieta fiamma di speranza.
 
Tu dimmi se ormai qualcosa di noi c'è ancora
Dentro agli occhi tuoi
Oh no, gli occhi tuoi

E ritorno da te perchè ancora ti voglio
E ritorno da te contro il vento che c'è
Io ritorno perchè ho bisogno di te, ho bisogno di te [4]



 


[1] Lana Del Rey - "The greatest"
[2] Ligabue - "Ho perso le parole"
[3] Sia - "Wawing goodbye"
[4] Laura Pausini - "E ritorno da te"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Nuovo capitolo e nuova "fase" del rapporto tra Giulia e Filippo che sembra aver inizio. Filippo, racimolando tutto il coraggio che aveva a disposizione, è riuscito finalmente a parlare con Giulia della situazione venutasi a creare tra loro. La separazione, ormai, più che una possibilità sembra una strada ormai spianata, i cui dettagli potranno essere delineati solo da un avvocato. Anche il trasloco di Filippo, seppur non imminente per ovvi motivi logistici, è stato messo in conto. Alle riflessioni sul loro futuro si aggiungono anche le scuse di Filippo... Scuse sincere, quello non possiamo negarlo, ma che non cambieranno sicuramente quanto precedentemente commesso.
Scuse che da parte sua arrivano anche a qualcun altro: lui e Nicola, che non interagivano da quasi 10 capitoli, finalmente si ritrovano anche se solo per un breve incontro. Ovviamente una breve chiacchierata, visti i pregressi e le motivazioni che hanno portato al loro allontanamento, non basterà per riparare il legame che si è incrinato, ma pezzo dopo pezzo, dialogo dopo dialogo, forse Filippo può avere qualche speranza.
Anche Giulia ha il suo bel da fare con le notizie, come quella da dare a Caterina. Ed è così che, in un pomeriggio estivo apparentemente dedicato solo allo shopping, Giulia sgancia la bomba sulla sua relazione con Lorenzo anche con lei. Ed è infatti questo l'argomento principale della loro conversazione: di certo Caterina non se lo aspettava, come testimonia la sua prima reazione di puro shock, ma possiamo dire che tutto sommato l'ha presa piuttosto sportivamente!
Passiamo infine all’ultima coppia di amici, quella composta da Pietro e Martino. Ciò che salta subito all'occhio è che il rapporto tra i due, negli ultimi tempi, sembra aver subito un cambiamento: tra i due torna ad esserci solo amicizia, mentre la componente fisica sembra esser venuta meno da un po' di tempo. Non ci è voluto molto a capire anche il perchè: Pietro ammette infatti di essere innamorato di qualcuno, e Martino ha pure già capito di chi 🤣
Di certo parlarne con qualcuno è servito a Pietro sotto diversi punti di vista: si è aperto del tutto con Martino, sia sui trascorsi con Alessio sia su ciò che significa esserne di nuovo innamorato adesso, con una situazione molto diversa da quella di anni prima. E di certo ne ha guadagnato qualche consiglio prezioso ... Ma resterà da vedere se deciderà di seguirli!
Secondo voi Martino ha ragione? Seguireste anche voi il suo consiglio? Pensate che Pietro lo farà?
Lo scopriremo solo proseguendo! Perciò vi diamo appuntamento a mercoledì 21 febbraio con un nuovo capitolo :)
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 24
*** Capitolo 21 - Ocean eyes ***


 CAPITOLO 21 - OCEAN EYES



 

Gli schiamazzi dei bambini le riempivano le orecchie, continuando a distrarla. Parco Savorgnan era sempre molto frequentato a quell’ora del pomeriggio – da piccoli ugualmente come dai loro genitori che li accompagnavano.
Caterina si sistemò meglio sulla panchina, stiracchiandosi pigramente e acuendo lo sguardo mentre seguiva i movimenti di Francesco: stava giocando sugli scivoli, scambiandosi parole con altri bambini che dovevano avere circa la sua età. Era quasi incredibile vedere quanto Francesco fosse portato per parlare con chiunque: ogni volta che lo vedeva interagire con bambini che non conosceva, iniziando a chiacchierare come se nulla fosse e con nessuna timidezza, Caterina si ritrovava sorpresa. Non aveva ereditato l’introversione sua e di Nicola, e continuava a chiedersi da chi diavolo avesse preso quel lato caratteriale così assente in entrambi loro due.
-A Francesco dispiacerà dover dire addio ai suoi nuovi amici- pensò ad alta voce, mentre controllava l’ora sul display del telefono – Tra poco dobbiamo andare-.
Nicola si limitò ad annuire, seduto di fianco a lei su quella panchina scomoda dove erano rimasti fermi per ormai quasi un’ora. Il sole avrebbe cominciato a calare tra non molto, come ogni pomeriggio inoltrato di fine Ottobre, ed avrebbe segnato anche l’ora di tornare a casa e proseguire quel sabato tra le mura casalinghe.
-Dove sta andando Francesco?-.
Caterina si raddrizzò subito, in contemporanea a Nicola, non appena aveva udito la sua domanda. Riportò gli occhi verso gli scivoli dove Francesco era rimasto fino a pochissimi secondi prima, ritrovandolo a pochi metri di distanza. Lo vide passeggiare con calma con un altro bambino accanto, che doveva avere la sua età o un anno di meno.
-Sta seguendo quel bambino- Caterina lo indicò a Nicola stendendo il braccio – Forse è il caso di avvicinarci-.
Non era dell’altro bambino che non si fidava – poteva essere lui stesso inconsapevole, di certo troppo piccolo per capire il concetto di esca-, ma di chi poteva eventualmente usare la sua presenza per scopi ben diversi da quelli che avevano i genitori presenti in quel parco. Si stava quasi per alzare, ma Nicola le mise una mano sul polso:
-Aspetta-.
Caterina lo guardò stranita, quasi adirata per quel suo tentennare, ma Nicola non spostò lo sguardo da Francesco.
-Stanno andando dai genitori- le disse dopo qualche secondo, rilassandosi di più. Caterina non abbassò la guardia, ma prima di muoversi tornò a osservare ciò che stava succedendo: effettivamente Francesco e l’altro bambino non erano andati affatto distanti, fermi entrambi davanti ad una coppia giovane, un ragazzo che doveva avere la stessa età sua o di Nicola, così come la bella donna con i capelli coperti da un velo rosa che ne risaltava la carnagione scura.
E poi c’era la carrozzina in cui dormiva un neonato, probabilmente il fratello o la sorella del bambino con cui Francesco aveva stretto amicizia. Doveva essere stato attirato dalla curiosità proprio dalla carrozzina o, ancor meglio, da chi ci dormiva dentro.
Caterina si ritrovò a sospirare:
-A quanto è quotato che Francesco quando tornerà ci chiederà di dargli un fratellino o una sorellina?-.
Lo disse scherzando, ma si rese conto che il tono sarcastico non le era risultato così convincente come aveva sperato. Da Nicola, poi, ricevette solo silenzio.
Si rimise meglio a sedere, pentitasi di aver appena detto quelle parole. La scusa di tener sott’occhio Francesco le dava occasione per non dover incrociare lo sguardo di Nicola.
-Ci hai mai pensato?-.
Quando lui finalmente parlò, doveva essere passato almeno un minuto.
-Di riprovarci, intendo … - Nicola parlò ancora, a mezza voce – Dopo Viola-.
“Dopo Viola”.
Esisteva un prima e un dopo Viola?
Caterina si strinse nelle spalle, d’un tratto rigida. Non voleva pensare alla bambina che aveva perso come una semplice data, come ad un evento che poteva scandire la sua vita in un prima e in un dopo.
Cercò di concentrarsi solo sulla domanda che le aveva appena posto Nicola, ma il dolore che sentiva all’altezza del petto la stava ostacolando.
-No. Non ancora-.
Si morse il labbro, esitante. Era consapevole che quella era una risposta incompleta, che per quanto sincera potesse essere non era allo stesso modo onesta riguardo tutto ciò che aveva pensato in quei nove mesi.
Ed era altrettanto consapevole che, se avesse continuato, probabilmente ciò che avrebbe aggiunto non avrebbe confortato Nicola.
Ma forse era proprio la sincerità, quella più totale e trasparente, ciò di cui lui aveva bisogno in quel momento. Un po’ come ne aveva bisogno lei stessa.
Sospirò, lo sguardo perso nella direzione di Francesco, che stava sorridendo allegro ai due bambini – al suo coetaneo ma anche al più piccolo, che probabilmente aveva solo qualche mese di vita-, inconsapevole che a qualche metro di distanza lei e Nicola stavano per affrontare una conversazione complicata ed inaspettata.
-Forse non capiterà mai più. Non ne ho idea-.
Nonostante la durezza delle parole, Caterina sentì un peso togliersi dalle sue spalle.
Si era aspettata quella domanda di Nicola. Se l’era aspettata per tantissimo tempo, talmente tanto che ad un certo punto aveva quasi creduto che non sarebbe più arrivata – e invece eccola lì, dopo mesi e mesi di silenzio, a coglierla comunque impreparata.
Non si era invece aspettata di vedersela porre in un qualsiasi sabato pomeriggio, al parco dove portavano Francesco a giocare, in un momento simile a così tanti altri da risultare quasi banale.
Non girò gli occhi verso Nicola neanche in quel momento: le bastava conoscerlo per sapere che ci era rimasto male, nonostante si potesse aspettare una risposta simile.
-Lo so che è stato difficile, lo è stato anche per me … - lo avvertì muoversi sulla panchina, ma ancora non si decise a sfiorarla – Ma davvero non vorresti ritentare?-.
-Forse per te non è stato così difficile come dici- Caterina sbottò in un lampo di rabbia improvvisa, ma le bastò qualche secondo per rendersi conto che quella di Nicola non era davvero un’accusa nei suoi confronti.
Gliel’aveva chiesto con calma, senza forzare la mano, anche se aveva scelto forse le parole sbagliate.
Stavolta si decise a voltarsi verso di lui, a osservarne gli occhi azzurri pieni di pentimento.
-Scusa-.
Caterina sospirò profondamente, scuotendo appena il capo:
-Però per te è stato diverso- mormorò – Non l’hai sentita morire mentre era dentro di te-.
Seppe che Nicola non le portava alcun rancore nel momento stesso in cui lui le prese una mano, stringendola nella sua.
-No, però ho avuto paura di perdere anche te senza poter fare nulla per impedire che accadesse-.
Caterina rimase in silenzio, consapevole che Nicola stava dicendo la verità. Ricordava tutto in maniera offuscata, come se una nebbia affollasse i contorni del ricordo della notte in cui tutto era successo, ma il viso di Nicola in quegli istanti le era rimasto impresso a fuoco. Rivedeva la sua espressione colma di terrore e gli occhi velati di lacrime, e ricordava anche la sua voce tesa come una corda di violino, pronta a spezzarsi in qualsiasi instante. Erano stati minuti tragici anche per quello – perché entrambi si erano ritrovati, seppur in modi diversi, sul filo del rasoio, ed erano stati incapaci di raggiungersi in tempo prima di cadere.
Anche se da quella caduta si erano pian piano ripresi, il dolore del tonfo Caterina se lo sentiva ancora addosso. Se lo sarebbe sempre sentito addosso, come una seconda pelle.
-Non è che un altro figlio potrà sostituirla o cancellare quel che è successo-.
Non lo disse con veemenza o con amarezza, ma con voce piatta, come fosse una semplice constatazione. Stavolta però avvertì il braccio di Nicola intorno alle sue spalle, e la verità le fece un po’ meno male del solito.
-Certo che no. Non voglio dimenticarla- c’era un velo di tristezza nel modo in cui Nicola le parlò, a bassa voce – Ma non voglio neanche arrendermi-.
“Io non so se mi sono già arresa”.
Caterina si lasciò cullare per un po’ da quella specie di abbraccio nel quale Nicola l’aveva avvolta. Si sentiva al sicuro lì, meno sola e meno esposta a tutti i ricordi dolorosi che quella conversazione stava riportando a galla. Era sicura che sarebbero tornati sull’argomento ancora, magari dopo alcuni giorni, e forse per allora si sarebbe ritrovata più pronta ad affrontarla, ma in quel momento si rese conto che non lo era affatto.
Lasciò che il suo capo trovasse l’incavo del collo di Nicola, e vi si appoggiò, chiudendo gli occhi per alcuni secondi:
- Magari tu sei più pronto di me. Io non lo sono- mormorò, tenendo ancora le palpebre abbassate per pochi altri attimi – Forse … -.
-Forse?-.
Caterina si morse il labbro inferiore, esitante. Era da un po’ di tempo che desiderava dire a Nicola ciò che le stava passando per la mente in quel momento, ma non aveva mai trovato l’occasione migliore per farlo.
Paradossalmente la sensazione di difficoltà che si sentiva addosso le aveva ricordato di parlargliene.
-Credo che forse mi farebbe bene parlarne con uno specialista- spiegò, la voce tesa perché non aveva idea di come avrebbe potuto reagire Nicola a quella notizia – Con uno psicologo-.
Passarono diversi secondi di quiete, prima che Nicola abbassasse gli occhi su di lei:
-Non me l’hai mai detto-.
Non sembrava del tutto sorpreso, o almeno quella fu l’impressione che ebbe Caterina.
-Perché non ne ero molto sicura, ma è da un po’ che comincio a credere che potrebbe aiutarmi di più ad elaborare quel che è successo-.
Non ricordava il momento in cui aveva cominciato a pensarlo, sapeva solo che erano già passati dei mesi. Prima che potesse aggiungere altro, o alzare il viso verso Nicola per osservarne l’espressione, lui la strinse un po’ di più a sé, iniziando ad accarezzarle i capelli con la mano libera.
-Se pensi che possa farti bene e che sia quel che ti serve, devi assolutamente farlo-.
Il sostegno di Nicola era la cosa in cui sperava di più: averne la conferma, ed averlo del tutto, la fece sentire un po’ meno vulnerabile.
-Proverò ad informarmi da chi andare-.
Anche se non riusciva a vederlo in faccia, Caterina seppe che Nicola le stava sorridendo dolcemente:
-Possiamo farlo insieme, se ti va-.
Caterina si staccò appena da lui, lo spazio sufficiente per poterlo guardare in viso. Quella conversazione aveva preso una piega inaspettata, ma ne era felice.
-Mi va-.
Si avvicinò di nuovo a Nicola giusto il tempo per stampargli un veloce bacio sulle labbra, il cuore un po’ più leggero rispetto a prima. Fece appena in tempo a sorridergli di rimando, prima di scorgere con la coda dell’occhio la figura minuta di Francesco correre verso di loro.
-Francesco sta tornando- disse, indicando con un cenno del capo la direzione in cui suo figlio stava accorrendo. Per una buona volta non sarebbe toccato a uno tra lei e Nicola doverlo richiamare fino allo sfinimento per convincerlo che era ora di tornare a casa.
In pochi secondi Francesco giunse davanti a loro, i capelli biondi scarmigliati con alcune ciocche che gli finivano davanti agli occhi castani, le gote arrossate per le ore passate a giocare.
-Ciao- li salutò, aggrappandosi alle ginocchia di Nicola, che non esitò a passargli le mani sotto le ascelle e a sollevarlo di peso per metterselo seduto sulle gambe. Francesco poteva avere ormai quattro anni e mezzo, e crescere ogni giorno di più, ma Caterina era convinta che Nicola non si sarebbe mai tirato indietro dal prenderselo in braccio e abbracciarlo stretto.
-Ehi, pulcino- gli disse lui, con dolcezza mentre gli passava le dita tra i capelli dorati – Ti sei divertito oggi?-.
Francesco annuì, le labbra stese in un sorriso. Nicola gli lasciò un’ultima carezza sulle guance paffute:
-Sei stanco ora? Andiamo a casa?-.
Prima ancora che Francesco potesse rispondere – anche se si limitò ad annuire di nuovo, qualche attimo dopo-, Caterina sapeva che non sarebbero rimasti ancora a lungo lì. E forse era meglio così, allontanarsi da quella panchina e tornare a casa lasciandosi alle spalle quella conversazione avuta in quel luogo, ma con una consapevolezza in più.
Nicola si girò verso di lei in quell’istante, quasi le avesse letto la mente, sorridendole e allungando una mano verso la sua. Caterina lasciò che intrecciasse le loro dita, il silenzio che ora era meno pesante.
-Andiamo, allora-.
 
*
 
Secrets I have held in my heart
Are harder to hide than I thought
Maybe I just wanna be yours
I wanna be yours
I wanna be yours
Wanna be yours
Wanna be yours
Wanna be yours [1]
 
“Andrà tutto bene”.
Un po’ si sentiva patetico mentre continuava a ripeterselo, in un laconico ed alquanto inutile tentativo di calmarsi.
Sarebbe andato tutto bene perché non sarebbe stata una cosa poi tanto diversa dal solito – non certo un primo appuntamento, o una cena galante, o la promessa di una notte di passione-, e poi non sarebbero neanche stati davvero soli. Pietro aveva perso il conto delle volte in cui aveva cercato di ricordare a se stesso che quella serata non sarebbe stata differente da molte altre passate con Alessio o, ancor meglio, da Alessio.
“Andrà tutto bene”.
Sarebbe semplicemente andato lì, avrebbe aspettato che Alice uscisse per incontrarsi con il suo fidanzato – o magari sarebbe arrivato quando lei già se ne era andata-, e poi con Alessio avrebbe preparato la cena per Christian e Federica, li avrebbero messi a letto, e poi avrebbero preparato una cena per loro due. E poi restava solo il dubbio del post cena, quando Alessio avrebbe avuto due opzioni: farlo rimanere lì un altro paio d’ore, o ringraziarlo dell’aiuto e della compagnia e gentilmente metterlo alla porta.
Ma anche se avesse puntato alla prima opzione – quella di rimanere in casa con la sola compagnia l’uno dell’altro, mentre i bambini dormivano ed Alice passava una serata altrettanto proficua-, Pietro sapeva che sarebbe stata semplicemente quella: una serata tra amici.
Una cosa che facevano da anni, che avevano ripreso a fare piuttosto regolarmente da più di un anno. Nulla di insolito, nulla di strano, nulla che facesse presupporre niente di più.
Pietro sospirò ancora mentre si guardava per l’ennesima volta allo specchio, quando all’ora di uscire per raggiungere casa di Alessio ormai mancavano pochi minuti. Forse era stata solo una sua impressione, ma inconsciamente era come se avesse cercato di fare più attenzione ai dettagli – scegliere i vestiti che gli stavano meglio, pettinarsi i capelli in modo che i pochi fili bianchi che ormai si vedevano non fossero così tanto visibili. Ed era forse anche per quello stesso motivo che ora si trovava ancora davanti a quello specchio, nel chiedersi come l’avrebbe visto Alessio – o se non l’avrebbe guardato affatto.
Non poteva permettersi quei pensieri, che erano più azzardi che altro. Non poteva permetterselo, non fino a quando la voce di Martino che ancora gli ronzava in testa da mesi gli ricordava che prima avrebbe fatto bene a fare coming out, e solo dopo provare a giocarsela.
E stavolta doveva giocarsela bene.
Era difficile trattenersi, ma doveva farlo.
E lo avrebbe fatto anche quella sera, e sarebbe andato tutto bene davvero.
 
*
 
Sun in my eyes, navy blue skies
You are the reason I can survive
We'll turn off the phones to just be alone
We'll draw the curtains and never leave home
I had a nightmare
But now that I'm not scared
This is how you fall in love
Let go and I'll hold you up
So pull me tight and close your eyes
Oh, my love, side to side [2]
 
-Ancora un boccone, dai-.
Alessio si sporse un po’ verso Federica, seduta sul seggiolone, allungandole verso la bocca un cucchiaio con gli ultimi rimasugli di yogurt bianco. Pietro, mentre teneva Christian in braccio, li stava osservando ridendo sotto i baffi, divertito dalle espressioni strane che Alessio faceva come se potessero servire a invogliare maggiormente la figlia a finire di cenare. Sgranava gli occhi azzurri all’inverosimile, in un modo comico che stava funzionando più su di lui che su Federica.
-Ecco, abbiamo finito- Alessio alzò le braccia vittorioso, non appena Federica ebbe finito anche l’ultimo cucchiaio di yogurt. Lasciò il barattolo vuoto sul tavolo, il cucchiaio usato lasciato lì dentro distrattamente.
Pietro rise sommessamente di nuovo, cercando di non disturbare Christian che aveva lasciato che la testa si appoggiasse al suo petto: se non stava già dormendo, poco ci mancava. Erano passati diversi minuti dall’ultima volta che aveva parlato, e già in quel momento Pietro aveva avuto l’impressione che la sua voce nascondesse già una certa vena di sonnolenza.
Azzardò ad abbassare un attimo il capo, verso il bambino, notandone le palpebre chiuse e il respiro regolare.
-Christian mi sa che si è già addormentato- disse a mezza voce.
Alessio alzò subito gli occhi verso di loro, per nulla sorpreso:
-Tutto nella norma- mormorò in rimando – Si stanca un sacco all’asilo durante la giornata e poi si addormenta subito dopo aver mangiato la sera-.
Era un po’ quello che succedeva anche a Giacomo e a Giorgio, che nonostante avesse solo poco più di un anno ormai passava già da mesi le sue giornate all’asilo nido con il fratello. Giada gli raccontava sempre di come tornassero sempre a casa stanchissimi, quando alla sera le telefonava per sapere se stessero bene, dopo aver passato la giornata a giocare con gli altri bambini.
Alessio si alzò dalla sedia su cui era rimasto seduto fino a quel momento, accingendosi a mettere un po’ in ordine la cucina.
-Tra poco li mettiamo a dormire entrambi- disse ancora, mentre dava le spalle a Pietro per avvicinarsi al lavandino – Federica lo seguirà tra non molto-.
-Potrei quasi dire “meno male”, visto che sta venendo fame anche a me-.
Il sorriso che gli rivolse Alessio, giratosi nella sua direzione, lo fece quasi arrossire:
-Sta tranquillo, tra poco sarai sfamato anche tu-.
 


C’era qualcosa di intrinsecamente famigliare nel gesto di preparare la tavola insieme, in attesa della cena.
Pietro non riusciva a fare a meno di pensarlo, mentre finiva di posare le forchette e i coltelli sopra i tovaglioli, a fianco dei piatti che forse non avrebbero nemmeno usato. I bicchieri erano già riempiti, la birra che Alessio aveva aperto che li riempiva e li faceva apparire ambrati attraverso il vetro.
Era così facile pensare che sarebbe potuto essere sempre così, ogni sera a quel modo per molti anni a venire, che era al limite del pericoloso. Sognare era semplice, ma ricordarsi che prima di arrivarci bisognava anche agire nella realtà rendeva tutto più astratto.
Pietro si guardò intorno: quello che stavano facendo ora non gli sembrava solo qualche sprazzo del futuro, ma era anche un tuffo nel passato. Erano state tante le serate passate insieme a preparare la cena, o ad aspettare in compagnia che qualcuno suonasse alla loro porta per consegnare ciò che avevano ordinato. Ora quella che era stata la loro casa condivisa per i primi anni d’università era solo casa di Pietro, e quella in cui si trovava ora era l’appartamento in cui Alessio era venuto a vivere con Alice – in cui viveva ancora con Alice.
Era una situazione totalmente diversa rispetto a due anni prima, però. Perché Alice non era lì, ed era uscita ancora prima che Pietro arrivasse, per passare una serata con Sergio. Si stava rifacendo una vita anche lei, pian piano, ed era sinceramente felice per lei. Sperava che stavolta potesse davvero trovare ciò che cercava. E non poteva fare a meno di pensare se anche Alessio, un giorno, avrebbe deciso di fare lo stesso.
-Hai già un’idea su cosa ordinare?-.
Quando si voltò nella direzione della sua voce, Pietro si ritrovò Alessio molto più vicino di quel che si aspettava. Non si era accorto che gli si era avvicinato, fino ad arrivare dietro di lui, quasi a toccargli la schiena. Alzò lo sguardo a sufficienza per incrociarne gli occhi, azzurri e limpidi, e gli sembrò di tuffarcisi dentro ancora una volta – lo stesso oceano azzurro in cui nuotava ancora e ancora, senza perdersi.
 
I've been watchin' you for some time
Can't stop starin' at those ocean eyes
Burning cities and napalm skies
Fifteen flares inside those ocean eyes
Your ocean eyes [3]
 
Pietro si riscosse a malapena, avvertendo le guance imporporarsi appena.
-Andrei sul classico- mormorò, girandosi per ritrovarsi faccia a faccia con Alessio – Magari una pizza-.
Lo vide ridere sommessamente, socchiudere gli occhi come faceva sempre quando rideva.
-Sempre tradizionalista, eh- lo prese in giro, e Pietro non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
Sarebbe stato difficile trattenersi dalla voglia di volerlo baciare, si rese conto. Ne aveva voglia in continuazione, ogni volta che lo vedeva, ma quella sera, non appena l’aveva visto mentre gli apriva la porta d’ingresso, quella sensazione era stata trascinante.
“Ma non posso farlo” si ripeté, ammonendosi, “Non così”.
Era stato consapevole sin da subito che quella sera sarebbe stata difficile da affrontare, una volta che Federica e Christian fossero stati fuori dal quadro. E ora che si erano addormentati nella loro stanza in fondo al corridoio, sconfitti dal sonno e dalla stanchezza della giornata, sapeva che il momento più arduo era ormai alle porte.
Ma doveva resistere, fare le cose con ordine e giocarsele bene – nonostante fosse difficile non chiedersi cosa nascondessero gli occhi azzurri di Alessio quando lo guardava in un modo che Pietro non riusciva a decifrare.
 
No fair
You really know how to make me cry
When you give me those ocean eyes
I'm scared
I've never fallen from quite this high
Fallin' into your ocean eyes
Those ocean eyes
 
*
 
-Come fai a preferire il sushi alla pizza non lo capirò mai-.
Pietro si fermò ad osservare Alessio mentre tirava fuori uno dopo l’altro i contenitori di plastica nera e trasparente dalla borsa che il corriere gli aveva lasciato pochi minuti prima. Li stava mettendo più o meno in ordine sopra la tavola – prima degli involtini alle verdure accompagnati dalle chele di granchio fritte, poi era stata la volta dei nigiri, ed ora stavano arrivando gli uramaki e gli hossomaki, come Alessio ci teneva a fargli sapere-, sotto agli occhi attenti di Pietro. Lui si era limitato a prendere dalle mani del corriere il suo cartone con dentro la pizza calda che aveva deciso di ordinare, e che avrebbe già cominciato a mangiare volentieri se non fosse stata per la sua ostinazione nell’aspettare che anche Alessio fosse pronto a sedersi.
-Non è vero che lo preferisco-.
Alessio spostò la sportina con un sospiro, finalmente sedendosi a sua volta, e continuando a lanciare occhiate sporadiche a Pietro.
-Non sempre. Stasera sì, però- aggiunse, prima di sporgersi verso di lui così improvvisamente che Pietro fu sul punto di sobbalzare – Potrei barattare una fetta della tua pizza con un uramaki-.
“Ecco dove stava l’inganno”.
Pietro scosse teatralmente il capo:
-Scordatelo, non cederò mai-.
Era serio, anche se forse doveva ammettere che gli uramaki – o come diavolo si chiamavano- non avevano un aspetto malvagio. Non era mai stato particolarmente interessato al cibo giapponese, ma forse cominciava ad esserne almeno un po’ incuriosito.
-Come sei crudele- Alessio sbuffò a mezza voce, recuperando le bacchette e staccandole con un movimento deciso.
Ci fu un attimo di silenzio durante il quale il suo mutamento fu evidente, nonostante la repentinità con cui avvenne. Pietro lo colse nello sguardo abbassato, Alessio che si impegnava nell’intingere nella salsa di soia il primo nigiri che gli era capitato sottomano – ma sempre continuando ad evitare il suo sguardo.
Pietro decise di non invadere il suo silenzio. Non aveva idea a cosa potesse essere dovuta quell’esitazione, ma decise di attendere. E Alessio parlò dopo almeno un minuto, gli occhi azzurri sempre rivolti altrove:
-Era da un po’ che non ti fermavi qua a cena, vero?-.
-Forse un mese. Qualcosa del genere-.
Pietro credeva fosse un po’ più di un mese, ma la memoria non gli venne in soccorso. In qualsiasi caso ignorò quel dubbio, per soffermarsi invece sul sorriso amaro che Alessio aveva ora dipinto in viso.
-Un po’ mi sento in colpa ad averti chiesto di venire-.
Prima ancora di cercare di capire dove volesse andare a parare, Pietro parlò di nuovo:
-Perché?-.
Alessio sembrò soppesare per diversi secondi le parole che avrebbe dovuto usare in risposta. Teneva strette tra le dita le bacchette, il nigiri intinto nella soia incastrato tra di esse e sul punto di ricadere sul piatto ancora immacolato.
-Perché se non fossi stato qui, magari saresti potuto andare da Giada e stare con Giacomo e Giorgio- disse, a mezza voce, gli occhi ancora abbassati – Già non li vedi spesso … -.
Prima ancora che potesse finire, Pietro scosse il capo:
-Giada aveva un po’ da fare stasera, quindi non sarei comunque andato- disse subito, rimandando il primo morso alla fetta di pizza che teneva in mano – Ci andrò domani, e anche domenica. E magari anche un’altra sera infrasettimanale, visto che questo venerdì è saltato-.
Non stava mentendo, e sperò che la sua convinzione e la sincerità fossero palesi anche ad Alessio. E poi, anche se Giada non avesse avuto impegni, avrebbe comunque cercato di essere lì per dargli una mano.
-Se ti ho detto di sì era perché potevo-.
Alessio annuì, il viso che stava già riprendendo un po’ di colore:
-Ti ricambierò il favore, prima o poi. Se hai bisogno di qualcuno che guardi Giacomo e Giorgio quando stanno da te-.
Pietro rise sommessamente:
-Me lo terrò a mente-.
-Suona più come una minaccia che altro- lo prese in giro Alessio. Sembrava essere tornato a suo agio ora, il sorriso divertito che gli piegava all’insù le labbra, mentre continuava ad afferrare con le bacchette un pezzo di sushi alla volta.
-Magari lo è-.
Pietro aveva quasi finito di mangiare la sua prima fetta di pizza, quando avvertì il ginocchio di Alessio sfiorare il suo sotto la tavola. Un contatto probabilmente casuale, ma anche quando il toccarsi delle loro ginocchia ebbe fine poteva percepire il calore della sua pelle, le loro gambe ugualmente vicine.
-Però sono serio, se hai bisogno di una mano puoi chiamarmi- la voce di Alessio stavolta risultò tranquilla, rassicurante mentre glielo ripeteva.
-Lo so- Pietro combatté contro la tentazione di allungare una mano verso una di Alessio, intrecciarne le dita e stringerle tra le sue – Ma stasera serviva a te, e sono qui-.
“Sarò sempre qui, se lo vorrai”.
Osservò Alessio guardarlo di rimando con quei suoi occhi azzurri – lo stesso colore che avevano ereditato sia Christian che Federica-, che sembravano quasi poter leggere ciò che stava pensando oltre a quel che gli aveva appena detto.
-Anche se in questo momento vorrei disconoscerti per aver preferito il sushi alla pizza-.
A quelle parole, Alessio scoppiò a ridere all’istante:
-Mi adori troppo, quindi non lo faresti mai-.
“No”.
Pietro trovò difficile fingere indifferenza – non in senso negativo, solo come se quelle parole non gli stessero facendo l’effetto che invece avevano-, provare a non dare ad Alessio qualche dubbio che stava prendendo quella sua innocua provocazione come qualcosa di più.
Ma aveva ragione, anche se forse non se ne rendeva conto fino in fondo, ed in ogni senso, nemmeno lui.
“Non lo farei mai”.
Il sorriso che rivolse ad Alessio non fu né rilassato né sincero. Fu sicuro che anche lui lo avesse percepito, forse perché era un sorriso così falso e forzato che non aveva raggiunto neanche lontanamente i suoi occhi, ma Alessio non gli disse nulla. Si limitò a sorridergli di rimando, ma il suo era un sorriso vero – uno di quelli che gli illuminavano gli occhi e che facevano intravedere delle fossette, uno di quei sorrisi divertiti ed allegri e spensierati che Pietro avrebbe sempre voluto vedere sul suo viso.
Era un sorriso che nell’ultimo anno aveva preso sempre più posto sulle sue labbra, e Pietro non era mai riuscito a dirgli quanto lo facesse sentire bene saperlo sorridente nel modo più sincero possibile.
E non era nemmeno l’unica cosa che non gli aveva mai detto.
 
It’s my fate
Don’t smile to me
Light on me
Because I can’t get closer to you
There’s no name you can call me
You know that I can’t
Show you me
Give you me
I can’t show you a ruined part of myself
Once again I put a mask on and go to see you
But I still want you [4]
 
-Già- mormorò a voce così bassa che fu quasi del tutto sicuro che Alessio non lo avesse nemmeno udito.
Abbassò gli occhi l’attimo dopo, puntandoli sulla sua pizza. La fame era del tutto passata, ma si sforzò di continuare a mangiare: sarebbe stato da stupidi lasciare che certi istinti – come quello di dire tutto ad Alessio in quel preciso istante- influenzassero una serata che, fino a quel momento, era stata perfetta.
“Fa questo passo e poi, se vedi che la situazione lo permette … Perché non dirgli chiaramente quello che provi?”.
Per la prima volta da quando ne avevano parlato due mesi prima, Pietro si ritrovò a dubitare delle parole di Martino.
Perché diavolo doveva aspettare?
Perché fare le cose in quell’ordine, quando Alessio era già lì, solo con lui, e avrebbe potuto dirgli tutto e togliersi il peso del dubbio?
Forse sarebbe stato più facile di quel che aveva sempre pensato. Gli sarebbe bastato alzare gli occhi, girarsi verso di lui e dirgli che doveva parlargli di una cosa. Ed Alessio lo avrebbe ascoltato, avrebbe atteso con pazienza anche se molto probabilmente sarebbe stato molto tentato di chiedergli cosa doveva dirgli.
E Pietro finalmente glielo avrebbe detto.
“Sono innamorato di te”.
-È buona la pizza?-.
Pietro si riscosse a fatica dall’immagine che la sua mente aveva creato. Anche nella realtà Alessio lo stava guardando, ma era stato lui stesso a parlare per primo. Stavolta Pietro vi lesse confusione nella sua espressione, forse spaesato per l’improvviso silenzio che si era creato.
Pietro deglutì a fatica, la gola chiusa.
Avrebbe potuto parlare in quel momento, prendere quella chance che Alessio gli aveva offerto e dirglielo.
“Ma lo perderei”.
Non capì subito da dove venne quel nuovo pensiero, così opposto ai precedenti.
Seppe solo che il coraggio che lo aveva animato fino ad un attimo prima scomparve così come era apparso, all’improvviso, frenato dal timore dell’ignoto.
Alzò gli occhi per un attimo fugace per incrociare quelli in attesa di Alessio.
-Sì, ottima-.
 
Bloomed in a garden of loneliness
A flower that resembles you
I wanted to give it to you
After I take off this foolish mask
But I know
I can't do that forever
I have to hide
Because I'm a monster
 
E se anche ci fosse stato un ultimo rimasuglio dell’istinto che lo aveva quasi spinto a varcare la linea sottile della sincerità, tutto sfumò definitivamente nel momento stesso in cui suonò di nuovo il campanello. Alessio scambiò con lui un’occhiata confusa, prima di alzarsi dalla sua sedia:
-Vado a vedere chi è- borbottò, impacciato mentre cominciava già ad allontanarsi – Non ho idea di chi possa essere, visto che non aspetto nessuno-.
Pietro rimase inerme lì seduto, lo sguardo a vagare nel vuoto, la pizza quasi del tutto dimenticata come l’appetito.
Forse era destino che dovesse andare così, che anche quel momento dovesse sfumare e risultare inutile. Il campanello era suonato nel momento stesso in cui si era ritrovato ad accarezzare l’idea di dichiararsi ad Alessio, dirgli cosa provava una volta per tutte. Una coincidenza che sembrava più un segno.
Forse doveva semplicemente accettare che non sarebbe stata quella la sera in cui avrebbe scoperto come avrebbe reagito Alessio a quella notizia.
Attese il ritorno dell’altro con apatia. Passarono a malapena un paio di minuti prima che Pietro udisse la porta d’ingresso venire richiusa, e i passi affrettati di Alessio tornare verso la cucina.
-Avevano sbagliato appartamento- spiegò subito, non appena entrò nella stanza – Mi sembrava strano, in effetti-.
Pietro trovò profondamente ironico che fosse stato un errore di qualche sconosciuto a frenarlo dal commetterne forse uno a sua volta.
“E se non fosse stato un errore?”.
Sapeva che Martino gli avrebbe detto che lo sarebbe stato, ma Martino non era lì, e Martino non poteva sapere fino in fondo come stavano le cose. Poteva sbagliarsi anche lui.
La confusione che si ritrovò in testa lo spinse solamente ad alzarsi a sua volta, nello stesso momento in cui Alessio invece si sedeva di nuovo.
-Devo andare un attimo in bagno- gli disse, sbrigativamente.
Alessio gli lanciò l’ennesima occhiata disorientata:
-Tutto ok?-.
“Per niente”.
-Sì, ci metto poco-.
-Va bene- Pietro lo udì sussurrare con poca convinzione, ma Alessio non gli chiese nient’altro.
Si lasciò alle spalle la cucina, e con essa Alessio, percorrendo a grandi falcate il corridoio che lo avrebbe portato al bagno. Cercò di rallentare il proprio passo e renderlo più leggero solo quando passò davanti alla stanza di Christian e Federica, per non rischiare di svegliarli.
Entrò nel bagno nel giro di pochi secondi, chiudendo la porta alle sue spalle e fiondandosi subito dopo al lavandino. Fece uscire l’acqua tiepida, riempiendosene le mani tenute a coppa sotto il getto d’acqua del rubinetto, e portandosele al viso.
Arrischiò solo un’occhiata verso lo specchio, impaurito di quel che avrebbe potuto scorgere. Il riflesso che vi vide, fugacemente, era l’immagine di un uomo prigioniero di se stesso. Un po’ meno di quello che era stato per gran parte della sua vita, ma non ancora del tutto libero.
Non aveva idea se Alessio guardandolo avesse avuto l’impressione di vedere le sue sbarre dentro le quali gridava. Sapeva solo che probabilmente aveva intuito qualcosa, ma non aveva ancora visto tutto.
E forse sarebbe stato meglio che non continuasse a vedere, almeno per un altro po’.
Pietro se ne rese conto con una stretta al cuore, un grido soffocato di dolore e insoddisfazione.
Allungò una mano per girare la manopola del rubinetto, interrompendo il flusso d’acqua che ne usciva. Stavolta non cercò di evitare lo specchio: il suo volto gli appariva infinitamente stanco
Non poteva tornare da Alessio con quell’espressione in viso. Doveva sforzarsi di apparire tranquillo, almeno per quella sera che non voleva rovinare.
Si sforzò di provare a sorridere, o almeno di dare una parvenza di rilassatezza che in realtà non gli apparteneva. Fingeva da una vita intera, fingere anche quello per poche altre ore era uno sforzo infinitesimale.
Quando abbassò la maniglia della porta e solcò la soglia del bagno, pronto a tornare verso la cucina, aveva di nuovo la maschera addosso che nascondeva tutto il tormento che si stava muovendo dentro di lui.
 
I am afraid
I am shattered
I’m so afraid
That you will leave me again in the end
Once again I put on a mask and go to see you
The only thing I can do
In the garden
In this world
Is to bloom a pretty flower that resembles you
And to breathe as the me that you know
But I still want you
I still want you
 
Il percorso a ritroso fu più lento e più lungo, e Pietro si domandò cosa mai avrebbe potuto chiedergli Alessio quando l’avrebbe visto tornare. Avrebbe notato il suo pallore? O il fatto che si stesse sforzando di apparire normale? Forse avrebbe notato entrambe le cose, ma non gli avrebbe comunque domandato nulla.
Pietro varcò la soglia della cucina con quel dubbio che gli ronzava ancora in testa. Quando avvertì i suoi passi, Alessio si girò brevemente verso di lui, ma aspettò che Pietro si risedesse prima di fare qualunque cosa. E quello che fece, Pietro non se l’era aspettato del tutto.
Aveva appena toccato la superficie della sedia, già pronto a scusarsi per quella sua fuga improvvisa in bagno, quando Alessio, senza dirgli nulla, allungò verso il suo viso le bacchette che tenevano strette un uramaki.
Pietro spostò confuso lo sguardo dal pezzo di sushi al volto di Alessio, trovandolo sorridente – un pizzico di aria di sfida a vivacizzarlo.
-Assaggialo- glielo disse come se niente fosse, come se Pietro non fosse mancato dalla stanza fino a pochi secondi prima.
Forse era la sua occasione per voltare pagina e sperare che Alessio non gli chiedesse spiegazioni.
-Se me lo fai assaggiare poi vorrai una fetta della mia pizza?- Pietro stette al gioco, e si sorprese nel rendersi conto che gli venne più facile del previsto. Forse fu grazie al sorriso da canaglia che Alessio gli rivolse in risposta.
-Può darsi-.
Nonostante lo stesse palesemente ricattando giocosamente, e nonostante i demoni che Pietro sentiva ancora lottare dentro di sé, lo trovò comunque adorabile.
-Sei terribile- ridacchiò sommessamente, scuotendo appena il capo.
-Poteva andarti peggio. È uno scambio equo- Alessio lo guardò con un sopracciglio alzato, muovendo le bacchette più vicine alla sua bocca. Fu un invito più che sufficiente a farlo avvicinare a sufficienza per poter mangiare l’uramaki, rischiando comunque di farselo cadere.
-Ti piace?-.
Alessio lo stava guardando con aspettativa, come se stesse sperando sinceramente che a Pietro potesse piacere. E gli piaceva, si ritrovò ad ammettere, anche se faticava a riconoscere e a discernere gli ingredienti e i loro gusti individuali. Lasciò Alessio in attesa un altro po’, prima di stuzzicarlo di nuovo:
-Mangiabile-.
Si ritrovò le bacchette puntate addosso con fare accusatorio.
-Non ci credo neanche morto che è solo mangiabile- Alessio lo guardò con gli occhi spalancati, incredulo, prima di spostare le sue bacchette più in basso ad indicare la pizza – E ora paga pegno-.
Pietro lo lasciò fare, senza nemmeno protestare. Gli mise più vicino persino il cartone della pizza, guardandolo mentre si sceglieva una fetta da rubargli.
-Ripeto: sei terribile-.
Non lo pensava davvero – non lo avrebbe mai pensato. Se avesse potuto scegliere avrebbe voluto passare ogni singola cena di ogni singola sera in quel modo.
Era una possibilità che si era precluso per tanti anni, per i più svariati motivi, e a cui inevitabilmente aveva rinunciato ancora una volta – almeno per un altro po’.
 
Maybe back then
A little
Just this much
If I had the courage to stand before you
Would everything be different now
 
Alessio gli lanciò un’occhiata soddisfatta, mentre lasciava le bacchette sul tovagliolo per dedicarsi alla pizza.
-Ti piaccio anche per questo-.
Era una frase del tutto innocente, detta per scherzare, ma Pietro vi trovò un fondo di verità. C’era solo qualcosa che stonava in quel che Alessio aveva detto.
“Ti amo anche per questo”.

 
I'm crying
That’s disappeared
That’s fallen
Left alone in this sandcastle
Looking at this broken mask
And I still want you
But I still want you
But I still want you
And I still want you
 
*
 
"What's easy is right", my mother's advice
You are the reason I never think twice
Wherever we go, what glitters is gold
You'll be my best friend until we grow old [2]
 
Alessio stava faticando a tenere gli occhi aperti. Non erano ancora arrivati a metà di Animali Notturni, ma sentiva che il sonno stava per prendere il sopravvento – e prima o poi avrebbe avuto la meglio. Non era colpa del film, che per quel che aveva seguito gli sembrava interessante e particolare, né si stava annoiando in generale. Doveva essere semplicemente la stanchezza accumulata durante la settimana che ora tornava per fargli pagare pegno, e ricordargli che ormai a ventinove anni non poteva più fare le ore piccole senza conseguenze.
E poi la morbidezza del divano era invitante, così come il buio del salotto interrotto solo dai colori cupi delle immagini del film, e il calore che il corpo di Pietro emanava. Alessio si chiese se potesse trovare scomoda quella posizione in cui si trovavano, abbarbicati senza una ragione in particolare in un’unica metà del divano, ma Pietro non aveva fatto alcun cenno né gli aveva chiesto di spostarsi – non gli aveva neanche chiesto il motivo per cui Alessio avesse deciso di piazzarsi lì, ed era un bene perché non avrebbe saputo cosa dirgli nemmeno lui. Forse avrebbe potuto spiegargli che la sua spalla come poggiatesta si stava rivelando particolarmente confortevole.
Pietro, però, gli sembrava abbastanza a suo agio per non soffermarsi su quel dettaglio. O almeno, era meno a disagio di quanto non lo fosse stato durante la cena, in un momento che Alessio, con la mente annebbiata dal sonno, cominciava a faticare a ricordare. Sapeva solo che c’erano stati dei minuti, poco prima che Pietro se ne andasse in bagno, in cui aveva avuto l’impressione stesse per succedere qualcosa – che puntualmente non era avvenuta. Doveva essere stata solo una sua sensazione erronea, anche se doveva ammettere che nemmeno lui aveva avuto il coraggio di chiedere a Pietro se davvero stesse andando tutto bene.
Doveva andare bene così ora, perché non avvertiva alcuna tensione nel suo corpo. Era rilassato contro il suo, ed era stato anche il cullare derivante dal respiro regolare di Pietro a farlo assonnare.
Sarebbe potuta essere una sera qualsiasi, un momento così casalingo e quotidiano che Alessio faticava a spiegarsi. Il sonno gli venne in aiuto, e gli evitò di dover cercare una qualsiasi spiegazione a quella cosa – o al fatto che lui stesso ne era stato l’artefice.
Il corpo di Pietro era famigliare, caldo ed accogliente, e non aveva voglia di staccarsene. Quando avvertì le palpebre farsi sempre più pesanti, fino a chiudersi, non cercò di combattere il sonno che ormai aveva vinto su di lui. Si strinse inconsciamente un po’ di più a Pietro, cercando con il capo l’incavo tra il collo e la spalla per cercare un appoggio ancora più confortevole.
Si addormentò pochi secondi dopo, con il profumo della pelle di Pietro nelle narici.
 
*
 
-Hai ancora nausea?-.
Giulia annuì lentamente, mentre si stendeva nuovamente sul divano, cercando di ignorare la testa che le pulsava e il sapore acido e disgustoso che aveva in bocca.
Sentiva lo sguardo di Lorenzo dardeggiare su di lei, ma cercò di ignorare anche quella sensazione. Avrebbe voluto essere invisibile, in quel momento, sparire ed essere inglobata nel divano per non dover più sopportare quegli occhi che la stavano osservando in silenzio.
Sospirò pesantemente, odiando profondamente il senso di nausea che la stava tormentando da un paio di giorni, insieme al mal di testa e all’indolenzimento in tutto il corpo. Sembrava avesse appena percorso a piedi un’intera montagna, quando invece aveva passato le ultime giornate a fare la spola dal letto al bagno, che fosse a casa a Venezia o da Lorenzo, come quel mercoledì.
Forse decidere di prendersi un giorno di ferie per festeggiare il suo compleanno – o meglio, il giorno dopo quello del suo compleanno- le sarebbe dovuto servire più per restarsene a casa a riposare, piuttosto che andare fino a Padova in quelle condizioni.
-Forse dovresti prendere qualcosa- parlò ancora Lorenzo, che se ne stava ostinatamente in piedi davanti al divano nel suo salotto – Dovrei avere delle pastiglie che fanno al caso tuo-.
Giulia annuì, senza lasciar trasparire la sua rassegnazione:
-Sì, forse con una andrà meglio-.
Non disse nient’altro a Lorenzo, non prima che lui sparisse chissà in che angolo della casa per recuperarle il blister di pastiglie che le aveva appena suggerito. E Giulia non fece nulla per fermarlo, anche se cominciava seriamente a pensare che non sarebbe mai bastata solo una pastiglia contro la nausea a farla stare meglio.
Tacque, tenendosi ogni dubbio – che stavano diventando sempre più certezza- per se stessa.
Non c’era bisogno che Lorenzo sapesse, non subito.
Ascoltò i suoi passi farsi sempre più vicino dopo alcuni minuti d’assenza. Quando comparve nel suo campo visivo stava tenendo in una mano una pastiglia bianca piuttosto piccola e un bicchiere d’acqua nell’altra.
-Ecco- le mormorò, porgendole entrambe le cose, una alla volta.
Giulia buttò giù il medicinale con un sorso veloce d’acqua, sperando perlomeno di non dover vomitare ancora per quella giornata.
-Grazie- borbottò, rimettendosi completamente stesa – Deve essermisi fermata la digestione, qualcosa del genere … Ogni tanto mi capita-.
L’unico problema era che ormai, dopo alcuni giorni, era piuttosto sicura che non potesse essere sempre la digestione. Ma Lorenzo non sapeva di ieri e del giorno prima ancora, e non c’era bisogno che lo sapesse in quel momento.
-Certo, sarà sicuramente per quel motivo- le disse, sorridendole incoraggiante – Forse dovresti riposare prima di prendere il treno-.
Giulia annuì:
-Potrebbe aiutare anche bere qualcosa di caldo-.
-Vado a farti una tisana- Lorenzo non perse tempo, e Giulia quasi rimase stupita nel vederlo così premuroso – Tu stenditi qui e poi te la porto-.
Giulia fece esattamente come le aveva detto. Rimase stesa lì, chiedendosi per l’ennesima volta da quando aveva avuto il primo giorno di ritardo se le sarebbe convenuto decidersi a comprare un test di gravidanza.
 
*
 
Quella di essersi fregata con le sue stesse mani era una sensazione di gran lunga più sgradevole della nausea che l’accompagnava gran parte del giorno – e a una settimana da quando era comparsa, già la stava odiando profondamente.
Sospirò tenendo una mano sulla fronte, gli occhi chiusi per la stanchezza, sia fisica che mentale. Era stata dura al lavoro, e quel venerdì sera era ancora ben lontano dal finire: doveva solo trovare la forza psicologica per uscire di nuovo di casa e andarsene a far la spesa, ed era una cosa che non poteva in alcun modo evitare, non se non voleva morire di fame.
“Magari è solo lo stress”.
Giulia non aveva alcun dubbio di essere stressata in quei giorni. L’unico dubbio era se fosse venuto prima lo stress, e che ora il suo corpo stesse reagendo a quello, o fosse venuto prima il ritardo e poi lo stress che il suo ciclo mancato le stava procurando.
Era consapevole che se fossero passati altri giorni in quello stato avrebbe dovuto agire, ed era altrettanto consapevole che in quel momento non aveva alcuna voglia di parlarne con qualcuno. A che sarebbe servito rendere tutto ancor più reale di quanto già non fosse?
Per un attimo pensò a Caterina, la sua migliore amica, che però in quel frangente aveva anche il difetto di essere la sorella di Lorenzo. Giulia non aveva alcun dubbio che di certo non sarebbe andata a dire al fratello dei suoi sospetti, ma cosa serviva farla agitare prima di avere qualche certezza? Sarebbe servito solo a farla sentire ancor più tesa, in un periodo come quello in cui stava iniziando a muoversi per vedere uno psicologo. No, non poteva dirglielo. Non così.
Giulia si decise ad alzarsi dal divano del salotto: avrebbe fatto meglio ad andare, prima di incrociare Filippo nel rientrare con le gemelle, dopo esserle andato a prendere all’asilo.
Fece appena in tempo a recuperare il cellulare abbandonato sul tavolino di fronte al divano, prima di udire la chiave girare nella serratura della porta d’ingresso, e la serratura scattare subito dopo. Quando Giulia fu in piedi era già pronta ad accogliere Caterina e Beatrice con un abbraccio – e ad ignorare l’evidente anticipo con cui Filippo era arrivato a casa.
Fu proprio lui ad entrare, subito seguito dalle bambine, quel giorno vestite in colori vivaci e con i capelli scarmigliati, reduci dalla passeggiata tra le calli di Venezia.
-Oh, ciao- Filippo fu il primo a salutarla, mentre richiudeva la porta ed aiutava le gemelle a togliere dalle spalle gli zainetti che usavano per le loro giornate all’asilo.
-Ciao- lo salutò di rimando Giulia, prima di chinarsi appena in tempo prima che Caterina e Beatrice le arrivassero addosso – Ehi, piccole! Com’è andata all’asilo? Vi siete divertite?-.
Accarezzò ad entrambe i capelli, osservandole e notando quanto sempre di più stessero presentando lineamenti diversi. Caterina era un po’ la versione femminile e ancora bambina di Filippo, ma Beatrice aveva preso soprattutto da lei i tratti del viso. Entrambe avevano ereditato i suoi occhi verdi, e Giulia cercò di non pensare a quanto probabile sarebbe stato che li avrebbe ereditati anche il probabile figlio che aspettava da Lorenzo.
-Sì- le bambine risposero timidamente, probabilmente stanche dalla lunga giornata.
-Avete fame?- chiese ancora Giulia, rimettendosi in piedi – Andate a mangiare uno yogurt con papà. Io torno subito-.
Le guardò avviarsi insieme verso la cucina, il cuore che un po’ le si strinse nel rendersi conto quanto già fossero cresciute in così pochi anni.
-Stavi uscendo?-.
Mentre era distratta Filippo le si era avvicinato, ma Giulia non provò il bisogno di allontanarsi da lui come lo avrebbe provato mesi prima. Per quanto destabilizzante fosse stata la loro conversazione sulla separazione a Luglio, in un certo senso era stata un apripista per una nuova fase. Le era ancora difficile ammetterlo, ma provava molta meno rabbia nei suoi confronti rispetto a prima.
-C’è la spesa da fare- rispose semplicemente.
-Posso andare io, se vuoi-.
L’offerta di Filippo la tentò, ma aveva bisogno di stare da sola per pensare, e per quanto le dispiacesse l’idea di perdere ore preziose per stare con le sue figlie, Giulia era consapevole che non avrebbe potuto trovare quella tranquillità che le serviva restando lì.
Scosse il capo, ormai decisa:
-No, va bene così-.
Filippo la guardò scettico:
-Sicura? È che … -.
Si bloccò esitante, mordendosi il labbro inferiore come se fosse totalmente indeciso se dire o meno ciò che stava pensando.
-Cosa?- Giulia lo incalzò, un sopracciglio alzato in attesa.
Passarono altri secondi prima che Filippo si decidesse a parlare, ancora con quella nota d’insicurezza:
-Mi sembri piuttosto pallida- mormorò, alzando lo sguardo su di lei dopo averlo tenuto basso fino a quel momento – Ho sentito che vomitavi stamattina-.
“Cazzo”.
Giulia fu sicura di essere sbiancata ulteriormente. Si chiese quanto potesse aver intuito Filippo, ma se l’aveva sentita solo quella mattina poteva benissimo rifilargli qualche altra scusa esattamente come a Lorenzo.
-Sicura di star bene?- le chiese ancora, con apprensione.
Giulia scrollò le spalle:
-Sarà un’influenza stagionale, nulla di che- disse, cercando di risultare persuasiva – Sto bene, davvero-.
Filippo annuì, anche se non sembrava del tutto convinto di ciò che gli aveva appena detto. Dopo un paio di secondi sospirò, preoccupato:
-Però se inizi a sentirti poco bene torna a casa, per favore. La spesa posso farla io domani mattina-.
Era sinceramente in pensiero per lei, questo Giulia lo capiva, ma preferì ignorare il tuffo che fece il suo cuore nel rendersene conto.
-Ok- mormorò – Provo ad andare ora-.
Si avviò alla porta alla velocità della luce, sentendosi ancora lo sguardo di Filippo addosso, mentre la seguiva con gli occhi.
 
*
 
Cercò di camminare il più velocemente possibile, ma il peso delle due borse che teneva in mano e la stanchezza – della giornata, della settimana, dell’ansia a cui era sottoposta- la rallentavano inevitabilmente. Giulia un po’ si era pentita di non aver accettato l’offerta di Filippo di andare al suo posto, ma ormai mancava poco per arrivare a destinazione. Era praticamente arrivata, il portone del suo palazzo già visibile ad alcuni metri di distanza, quando si decise ad accelerare per davvero il passo. Un ultimo sforzo per poi finalmente potersi riposare.
Fu un peccato che in una frazione di secondo percepì scivolarle dalla presa un manico della borsa che teneva tra le dita della mano sinistra. Giulia abbassò il capo quasi in tempo per vederla cadere a terra con tutto il suo contenuto.
-Attenta!-.
Giulia sobbalzò quando, giusto un secondo prima che la tragedia avvenisse, riconobbe le mani di qualcun altro arrivare alla borsa per bloccarne la caduta. E se non le fosse bastato riconoscere la voce maschile che le aveva appena urlato, di certo avrebbe riconosciuto la persona in questione dalla testa di capelli biondo scuro.
-Oddio, sei tu- Giulia esalò, il cuore che cominciava a battere di nuovo ad un ritmo normale, dopo un primo sobbalzo per l’improvviso accadere degli eventi – Quasi non ti riconoscevo-.
Alessio si alzò lentamente, dopo averla aiutata a posare delicatamente la borsa sul marciapiede. Era stretto nella sua giacca pesante, e Giulia intuì che doveva essere appena tornato da Piove di Sacco, diretto anche lui verso casa, nel palazzo di fianco al suo.
-Non mi stupirebbe, visto che non ci vediamo da giorni- commentò lui, con un sopracciglio alzato.
-Hai sentito la mia mancanza, Raggio di sole?-.
Alessio alzò gli occhi al cielo:
-Ovvio-.
C’era sarcasmo nella sua voce, ma Giulia vi riconobbe anche una nota di sincerità. Se era cambiato qualcosa in Alessio, negli ultimi due anni, era forse la sua capacità di saper esprimere un po’ meglio il suo affetto.
-Ti serve una mano con quelle sporte?- le chiese subito dopo, indicandole con un dito.
Giulia scosse il capo:
-No, tranquillo. Ce la faccio-.
-Sicura?-.
-Sì, non ti preoccupare- disse, con uno sbuffo sarcastico – Ultimamente mi chiedete tutti se sto bene-.
Si accorse subito che a quella che voleva essere una semplice battuta, per quanto vera, Alessio stavolta non rise né si comportò di conseguenza. La guardò invece confuso, forse addirittura inquieto.
-In effetti sei un po’ strana-.
Fu quasi impercettibile il cambiamento in Giulia, ma lei credette di non essere del tutto riuscita a non darlo a vedere:
-Strana in che senso?- chiese cautamente.
Alessio la guardò in silenzio per quasi un minuto, prima di prendere parola:
-Non lo so. Mi sembri quasi malaticcia, senza offesa- disse, con un mezzo sorriso di scuse – E … -.
Si bloccò, e per un attimo Giulia ebbe l’impressione che, senza volerlo e senza nemmeno saperlo, Alessio avesse già capito tutto.
Si chiese quanto fosse in realtà evidente che qualcosa in lei non andava.
-Sembra quasi tu abbia qualcosa per la testa-.
Era esattamente così, ma le fu facile arginare quelle parole:
-Ho fin troppe cose per la testa, da mesi-.
-Lo so, non intendevo quello- Alessio si morse il labbro, indeciso, facendo un passo avanti verso di lei – Ma mi sembri comunque strana rispetto al solito-.
Giulia lasciò che gli occhi azzurri di lui la studiassero. Si sentì vulnerabile sotto quello sguardo fatto di apprensione e confusione, e per un attimo si chiese se forse non valeva la pena sfogarsi con qualcuno sui suoi dubbi.
Alessio non era Filippo, e non era Caterina, ma non era nemmeno Ilaria. Sua sorella non avrebbe reagito affatto bene, né tranquillamente, se le avesse detto che credeva di essere incinta – di aspettare un figlio da Lorenzo, che era la stessa persona che non l’aveva mai convinta appieno. Ed era una reazione simile a quella che avrebbe avuto molto probabilmente anche Caterina, seppur in modo differente.
E Filippo era una cosa totalmente a sé, qualcuno a cui non avrebbe di certo potuto dirlo. Le fece quasi strano pensare che non fosse lui la persona destinata a ricevere quella notizia.
-Forse … -.
Deglutì, esitante per la prima volta dall’inizio di quella conversazione. Alessio le era amico, ed era sicura che se gli avesse detto di tenere per sé quel segreto lo avrebbe fatto. Avrebbe avuto una spalla su cui piangere e sfogarsi di ogni paura, ma era altrettanto vero che quella era una faccenda che riguardava solo e soltanto lei. E Lorenzo.
Non poteva permettersi la debolezza a cui avrebbe tanto voluto lasciarsi andare, per una buona volta in quegli ultimi dieci mesi.
Stavolta fu lei a guardare Alessio con un sorriso di scuse. Ne incrociò gli occhi chiari, e per un attimo si sentì in colpa per non essere riuscita ad aprirsi nemmeno con lui.
-No, niente. Non è nulla- mormorò a mezza voce – Solo un po’ di stanchezza-.
Lui sembrò capire subito l’antifona, perché non insistette:
-Forse ne dovresti parlare a qualcuno. Di questa stanchezza, intendo-.
“A Lorenzo”.
Giulia annuì, la voglia di piangere che per la prima volta da quando aveva iniziato a sospettare del suo stato era presente in maniera incontrollabile.
“Ma prima devo farlo accettare a me stessa”.
-Forse sì-.
Quando Alessio si mosse verso di lei temette quasi che stesse per abbracciarla – e sarebbe stata una cosa che avrebbe voluto ma che l’avrebbe anche messa in difficoltà, perché sapeva che non sarebbe riuscita a non piangere-, ma quando lo vide allungare una mano per prenderle una delle sporte capì che, in realtà, le stava dando un altro tipo di conforto.
-Dai, ti dò una mano a salire. Dà qua-.
Forse fu in quell’istante che si rese conto come mai la sua stranezza era così visibile a chi la conosceva. In un qualsiasi altro momento non avrebbe perso tempo a prendere affettuosamente in giro Alessio – che d’altro canto era il suo Raggio di sole, uno dei suoi migliori amici di sempre, praticamente un fratello-, ma in quel frangente non riuscì a dire nulla. Si limitò solo a lasciarlo fare, e a seguirlo in silenzio.
 
*
 
Quel martedì pomeriggio pioveva. Giulia era piuttosto felice di non dover accompagnare qualche gruppo di turisti per la città, almeno per quella giornata: si sarebbe sicuramente beccata un qualche malanno, nel girare per Venezia con quel tempo.
Si fermò ad osservare i vetri rigati di pioggia del suo ufficio per diversi minuti, prima di rendersi conto che il momento era venuto. Alle altre scrivanie non era rimasto più nessuno, tutti intenzionati a non perdersi neanche un attimo della pausa pranzo.
Avrebbe seguito i suoi colleghi volentieri nell’area comune, scambiare qualche chiacchiera e qualche lamentela sul lavoro, ma non sarebbe stata quella la giornata in cui avrebbe potuto farlo.
Scostò lo sguardo dalle finestre a fatica, dirigendolo invece verso la sua borsa, che teneva a terra accanto alla sua sedia. Si allungò per rovistarvi dentro, fino a quando non trovò la scatola del test di gravidanza che aveva comprato il giorno prima, alla mattina, quando era sulla strada dell’ufficio. Il giorno prima non aveva avuto il coraggio per usarlo: l’aveva sprecato già tutto per decidersi di entrare in una farmacia e acquistarlo.
Ma quel giorno doveva farlo. Non poteva più rimandare.
E sapeva, mentre si alzava lentamente dalla sua sedia per percorrere il corridoio dal suo ufficio fino al bagno, che quel martedì 6 Dicembre sarebbe stata in qualsiasi caso una giornata che non avrebbe dimenticato facilmente.
Non trovò nessuno in quel bagno, come aveva previsto. Avrebbe avuto solo i suoi pensieri e le sue paure a tenerle compagnia, si ritrovò a pensare mentre si decideva ad aprire la scatola del test.
Anche se erano passati anni da quando ne aveva fatto uno, Giulia ricordava ancora tutte le istruzioni a memoria. Pochi minuti, e avrebbe avuto la risposta – o un gran spavento, o qualcosa che le avrebbe cambiato la vita, di nuovo.
Quando arrivò il momento dell’attesa, se ne rimase con la schiena appoggiata al muro, il test abbandonato sul bordo di uno dei lavandini. Un paio di minuti da aspettare, e avrebbe scoperto tutto.
“Ti prego”.
Giulia controllò ogni secondo dei minuti che doveva aspettare dall’orologio del suo cellulare. E nonostante fosse rimasta convinta che non avrebbe avuto coraggio sufficiente per avvicinarsi subito, in realtà lo fece. Non aspettò altro tempo per capire cosa le sarebbe toccato vivere: arrivò al test di gravidanza in pochi passi, e prima ancora di poter pensare a qualsiasi cosa vi lesse la risposta che cercava.
Sospirò pesantemente.






 
[1] Arctic Monkeys - "I wanna be yours"
[2] Chelsea Cutler e Jeremy Zucker - "This is how you fall in love"
[3] Billie Eilish - "Ocean eyes"
[4] BTS - "The truth untold"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Rieccoci qui con un altro capitolo bello denso, in cui compaiono tutti i nostri sei protagonisti. I primi sono Nicola e Caterina, fermi a riflettere su quanto avvenuto con Viola. È evidente che gli effetti della gravidanza finita male si fanno ancora sentire nella coppia, in particolar modo in Caterina. Quest'ultima, però, arriva a una nuova consapevolezza: è giunta l'ora di andare in terapia per cercare di elaborare meglio il lutto che l'ha colpita e Nicola è pronto a sostenerla.
È poi la volta di Alessio e Pietro, quest’ultimo piuttosto preso dai ritrovati sentimenti decisamente molto romantici nei confronti dell’altro. Ed è proprio durante una serata a casa di Alessio, in questa atmosfera molto intima e famigliare, che Pietro viene colto da certe tentazioni ... Come dichiararsi senza troppi giri di parole al suo amato! Le sue intenzioni, però, e forse per fortuna, vengono interrotte dal campanello che viene suonato per sbaglio da qualcuno … E fu così che Pietro in questa "gioiosa" occasione, divenne certamente diventato l'emblema del "preso male" 😂 La possibilità che Alessio lo possa ricambiare si palesa pian piano, ma di certezze all'orizzonte ancora nemmeno l'ombra.
Per capire dunque la natura dei sentimenti di Alessio per Pietro ci vorrà ancora tempo, ma nel frattempo perché non cogliere l'occasione per dire, una volta per tutte, come reagireste di fronte a una possibile dichiarazione di Alessio?

E infine Giulia … Le cose per lei iniziano a prendere una piega interessante, o tragica, a seconda dei punti di vista 😂
Giulia a quanto pare non se la sta passando bene con la salute, cosa di cui si accorgono a turno Lorenzo, Filippo e pure Alessio. E proprio con quest'ultimo per un attimo Giulia ha la tentazione di confidarsi sul suo timore di essere incinta. È proprio con le conseguenze di questo sospetto che ritroviamo la nostra protagonista alla fine di questo capitolo, alle prese con un test di gravidanza. Risulterà positivo o negativo?

Magari lo scopriremo già nel prossimo capitolo, quindi mercoledì 6 marzo!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 25
*** Capitolo 22 - Cruel world ***


CAPITOLO 22 - CRUEL WORLD

 

 
Julie, what's your problem?
Won't you tell me what's going on?
'Cause there's a dark cloud hanging over you
You've been down, down, down for too long [1]
 
Non aveva smesso di piovere nemmeno per un giorno da quel martedì. Ora che sabato era arrivato le gocce di pioggia continuavano a scendere, a rigare il finestrino del treno che da Venezia la stava portando a Padova.
Ormai si era abituata a percorrere quella tratta. Le fermate alle stazioni intermedie a Giulia erano famigliari: avrebbe potuto recitarle tutte a memoria, in una cantilena meccanica e statica che forse avrebbe potuto distrarla, se non tranquillizzarla. Certe cose rimanevano sempre le stesse, in un ultimo appiglio al mondo conosciuto.
Giulia tenne lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, al secondo piano del regionale su cui era salita pochi minuti prima. Aveva ancora addosso la sensazione dello sguardo di Filippo di quando era uscita di casa, furtivamente come se fosse stata una ladra. L’aveva guardata come se fosse stata trasparente, come se nulla potesse frenarlo dal capire che c’era qualcosa che la tormentava. Anche quello non era cambiato, in fin dei conti: nonostante tutto, e nonostante ci fossero stati momenti in cui non ne era stato all’altezza, Filippo era ancora la persona che la capiva meglio di tutte. Riusciva sempre a percepire ogni più piccolo cambiamento in lei, da una parola pronunciata o da un gesto di cui Giulia neanche si rendeva conto.
Se ne era accorto in quegli ultimi giorni. Non le aveva chiesto nulla, ma Giulia sapeva che Filippo sapeva. Non sapeva cosa esattamente la turbasse, ma sapeva che c’era qualcosa.
“Prima o poi dovrò dirlo anche a lui”.
Ma stavolta non sarebbe stato Filippo il primo a saperlo.
Quasi impercettibilmente Giulia posò una mano sul ventre. Aveva avuto molto a cui pensare in quegli ultimi giorni, talmente tanto che ogni sera si era ritrovata a stendersi a letto con la testa che le doleva. E le nausee, sempre più presenti, non avevano alleviato quel peso che si stava portando addosso.
Le stava venendo da vomitare anche in quel momento, se per l’ansia e la paura o per la gravidanza non riusciva a capirlo. Forse per entrambe le cose.
Per un attimo le balenò di fronte agli occhi l’espressione di Filippo quando gli aveva detto che era incinta la prima volta. Le venne da sorridere quando ricordò di come era svenuto, e anche di come, nonostante le paure iniziali, una cosa li accomunasse: la felicità. Si erano ritrovati spaesati e confusi, ma Giulia non aveva mai davvero temuto che Filippo le avrebbe voltato le spalle.
E dubitava che l’avrebbe fatto anche questa volta, nonostante fosse palese che il padre fosse qualcun altro. Forse Filippo si sarebbe ritrovato ad invidiare Lorenzo – forse anche ad odiarlo-, ma Giulia aveva l’impressione che a lei non avrebbe voltato le spalle. Non di nuovo.
Era Lorenzo che la lasciava confusa.
Lorenzo non riusciva ad inquadrarlo, non riusciva minimamente ad immaginare quale sarebbe stata la sua reazione in quella giornata. Lo avrebbe scoperto presto, in qualsiasi caso.
“E se dovesse andare male …”.
Giulia cercò di ignorare quel pensiero, anche se non poté fare molto contro la lacrima che si era ribellata alla sua volontà e le era scesa lungo la guancia.
Avrebbe affrontato le cose poco per volta, e non poteva dare nulla per scontato su Lorenzo.
Forse doveva avere un po’ di fiducia, e se non in lui, almeno in se stessa.
 
Why, why, why do you cry, cry, cry?
You should know by now that the sun comes out for you
Why, why, why do you cry, cry, cry?
You should know by now that the sun comes out for you
That the sun comes out for you
 
*
 
-Oggi stai meglio?-.
Non c’era da meravigliarsi che Lorenzo le ponesse quella domanda, ma era altrettanto vero che Giulia stentò a credere che non riuscisse ad intuire la risposta anche senza domandarglielo.
Si era specchiata di sfuggita nel grande specchio a muro nell’ingresso della casa, non appena lei e Lorenzo erano entrati. Giulia si era rivista così pallida e sciupata, quasi malaticcia, da non credere potesse essere possibile rispondere in altro modo.
Ma si strinse nelle spalle, la schiena che toccava lo schienale della sedia su cui era seduta al tavolo della cucina, e si sforzò di sorridere.
-Un po’- mentì.
Lorenzo, in piedi dietro di lei, le strinse una spalla con fare affettuoso, prima di tornare ad armeggiare con i fornelli. Avevano deciso di preparare una cioccolata calda – in una giornata così uggiosa era forse la cosa più adatta che potessero fare.
-Non sono io che ti faccio stare male, vero?- Lorenzo glielo chiese ironicamente, ma Giulia non riuscì a ridere, né a prenderla come una vera battuta.
In fondo, in un certo senso, era davvero così.
Si rese conto di essere rimasta in silenzio troppo a lungo e troppo stranamente, ma quando fece per parlare Lorenzo la precedette:
-Ho detto qualcosa che non va?-.
Giulia scosse il capo:
-No, è che … -.
La voce le morì in gola. A che serviva cercare di imbastire quel teatrino, se tanto era andata fin lì per dirgli la verità?
Forse doveva solo fare come quando si toglie un cerotto incollato alla pelle: dare uno strappo brusco, sopportare il momento doloroso che però sarebbe sparito presto.
Lorenzo aveva tutto il diritto di sapere, e rimandare non le sarebbe servito a nulla. Solo a rimuginarci sopra ancor di più.
Si schiarì la gola, ma le sembrò di avere della carta vetrata a renderle difficile persino quel gesto.
-Dovresti sederti-.
Anche se non poteva vederlo in faccia, seppe subito che Lorenzo si era girato verso di lei all’istante.
-Perché?-.
C’era cautela nella sua voce, come se avesse già intuito – dalla voce seria e stentata di Giulia, dalla sua rigidità con cui se ne stava seduta, dalla sua espressione esangue- che qualcosa stava per succedere. Forse non ne poteva immaginare la gravità, ma doveva sospettare che quella richiesta appena ricevuta non potesse essere casuale.
Giulia si fece coraggio nel girarsi verso di lui, cercare di convincerlo con lo sguardo. Rivide nelle iridi di Lorenzo una sorta di ostilità che gli leggeva solo nei momenti in cui c’era qualche riferimento a Filippo, alla sua vita precedente con lui.
Cercò di scacciare via la sensazione di paura che la ammantò quando se ne accorse.
-Perché devo parlarti di una cosa, e forse è meglio se ti siedi- gli disse, cercando di parlare con voce più calma. Non riuscì a capire se ci era riuscita, perché Lorenzo non sembrò affatto più rilassato:
-Mi devo preoccupare così tanto?- le chiese con ironia che a Giulia risuonò totalmente finta.
Anche se Giulia non rispose, fece finalmente come gli aveva chiesto. Spense i fornelli, la cioccolata ormai probabilmente pronta e che lasciava il suo profumo riempire la cucina, e si spinse verso la sedia dall’altra parte del tavolo. Si sedette di fronte a lei, le mani giunte sopra al tavolo, in attesa.
-Ecco … -.
Si schiarì di nuovo la gola. Aveva fatto mille prove per quel momento, a casa, persino in ufficio nei momenti di pausa e quando non era sotterrata dal troppo lavoro. Nella sua mente erano racchiusi mille tentativi diversi, e nemmeno uno tra quelli l’aveva convinta davvero.
Semplicemente avrebbe dovuto affidarsi all’istinto, sperare che potesse andare tutto bene – fidarsi di Lorenzo. Fidarsi di lui dopo aver lasciato Filippo non era stato così difficile, ma non riusciva a capire come mai, allora, in quel momento fidarsi le stava richiedendo uno sforzo enorme.
Sentiva su di sé gli occhi verdi di Lorenzo, e capì che non poteva rimandare ancora a lungo il momento. Sospirò a fondo, cercando di ritrovare un filo di voce per parlare:
-Credo di aver capito perché sono stata male la scorsa settimana. E anche i giorni successivi- mormorò, a mezza voce – E oggi-.
Lorenzo corrugò la fronte:
-Che cos’hai?-.
I suoi occhi indugiarono su Giulia in un modo che lei non seppe come definire. Vi leggeva preoccupazione e paura, ma anche sospetto e dubbio. Quella sensazione la fece frenare per un attimo, esitare per un lunghissimo secondo facendole pensare se quella fosse davvero una buona idea.
“Ma non posso tenerglielo nascosto in qualsiasi caso”.
Mentire sarebbe equivalso a tenere nascosto qualcosa che riguardava anche Lorenzo in prima persona. Si sarebbe sentita orribilmente se lo avesse fatto. L’agitazione la stava mangiando viva, ma non poteva non dirglielo.
Giulia prese un sospiro profondo, contò fino a tre tra sé e sé, e poi aprì bocca lentamente:
-Sono incinta-.
Per i primi secondi ci fu solo silenzio, e lo sguardo indecifrabile di Lorenzo che le fece venire la pelle d’oca senza un reale motivo. Poi, senza alcun preavviso, Lorenzo scoppiò a ridere.
Giulia si sentì raggelare.
-Cosa?- Lorenzo glielo chiese con fare più incredulo che derisorio. Forse era una sorpresa talmente grande che stentava persino a crederle, soppesò Giulia. Ripeterlo, però, fu tutt’altro che semplice.
-Ho detto che sono incinta-.
La risata di Lorenzo non traballò neanche così:
-È uno scherzo, vero?- le disse ancora, scuotendo il capo divertito – Quasi ci cascavo. Sei così seria, piuttosto credibile-.
In quel momento Giulia si sentì così a disagio che prese in considerazione l’idea di confermargli lo scherzo, rifilargli una scusa e poi andarsene. Ma si costrinse a rimanere lì, a guardarlo con occhi più freddi di quel che si era immaginata.
-Non è uno scherzo-.
Dovette cambiare qualcosa in Lorenzo, perché stavolta la risata gli si congelò in viso. Le labbra tornarono pian piano ad una linea retta, senza alcuna allegria, e stavolta Giulia fu sicura che le stava credendo.
-Ho fatto il test pochi giorni fa- aggiunse, con voce grave.
Lorenzo si alzò di scatto, una mano sul viso e l’altra lungo il fianco, molle. Gli occhi non erano più puntati su Giulia, ma nel vuoto, mentre prendeva a camminare nello spazio vuoto della cucina. Era completamente cambiato nel giro di pochi minuti, e non seppe come interpretare tutto ciò.
-Ma i test possono dare esiti sbagliati, no?- le disse d’un tratto, con una certa urgenza – Succede un sacco di volte-.
Giulia abbassò le spalle, scoraggiata. Non si era aspettata entusiasmo o contentezza, ma nemmeno ciò che stava succedendo. Lorenzo non le stava nemmeno chiedendo come si sentisse, totalmente concentrato sul darle della bugiarda.
-Possono dare falsi negativi, ma falsi positivi … - sentì la voce morirle in gola, ma si sforzò di continuare –  È raro succeda-.
Parlò meccanicamente, senza alcuna intonazione nella voce. Giulia si sentiva solo stanca: incredibilmente stanca di dover far fronte a tutte le persone che la stavano rifiutando, e di tutte le persone sbagliate che aveva incontrato nella sua vita.
Lorenzo non accennò a calmarsi:
-Ti stai sbagliando- replicò, con lo stesso fervore di prima – Raro non vuol dire mai-.
-Lorenzo … - provò Giulia, ma tutto quello che ottenne fu farlo fermare di fronte a lei, il tavolo a dividerli. Si sorprese nell’ammettere a se stessa che preferiva avere qualcosa a tenerli separati.
-Sei davvero incinta?-.
Quella di Lorenzo le parve più una domanda da terzo grado che non una richiesta di conferma di ciò che Giulia gli aveva appena comunicato. Non c’era comprensione nella sua voce.
-Sì- Giulia si strinse nelle spalle, infreddolita come se le fosse appena calato addosso il gelo – Credo proprio di sì-.
-E me lo stai dicendo perché credi sia mio?-.
“Forse è solo spaventato” cercò di convincersi Giulia, “È naturale esserlo. Lo sono anche io”.
Stava provando a ritrovare della paura nelle iridi verdi di Lorenzo – la stessa paura, o almeno una molto simile, a quella che lei stessa aveva provato qualche giorno prima di fronte al test positivo. Ma più si sforzava di distinguerla, più ci vedeva solo una diffidenza ed un’ostilità che non ricordava le avesse mai rivolto. Non in quella maniera, non così esplicita.
Lo sguardo che aveva ora le ricordava un po’ quello che aveva avuto quando era comparso al suo matrimonio con Filippo, quando le aveva chiesto se era davvero convinta della scelta che aveva appena preso. E le ricordava anche quello che aveva nei momenti in cui parlavano del suo matrimonio incrinato, nei momenti d’indecisione su tutto ciò che lo riguardava.
-È tuo- ripeté, glissando il fastidio che le aveva provocato l’ennesimo sottile tentativo di Lorenzo di farla passare come una bugiarda – Non può essere di nessun altro-.
Il volto di Lorenzo non si addolcì affatto:
-Questo lo sai solo tu-.
Giulia credette di aver capito male per i primi secondi. Le parole che le aveva appena sputato addosso Lorenzo le risuonavano continuamente in testa, ma aveva comunque pensato di aver inteso male.
Si rese conto, sentendosi gelare ancor di più, che non si era sbagliata affatto.
La nausea le arrivò alla gola, ma non era più quella provocata dalla gravidanza.
-Ma che stai dicendo?- sussurrò esterrefatta, in un filo di voce.
Si sentì sporca. Sporca per come stava venendo trattata, per come Lorenzo stava reagendo – perché poteva non essere la notizia migliore del mondo, soprattutto in quel frangente, ma lui non aveva alcuna ragione per offenderla a quel modo.
Lorenzo alzò le spalle, guardandola duramente:
-Dico solo che io ho sempre fatto attenzione- disse, una vena di sarcasmo nella voce – Quindi o tu stai mentendo, o forse non sei stata altrettanta attenta anche tu-.
“Ovviamente è solo colpa mia”.
Si trattenne dal dirlo a voce, piuttosto consapevole che ribattere con altrettanta ironia amara non avrebbe giovato. Si morse il labbro per non lasciarselo sfuggire.
-Non che ora cambi le cose- commentò semplicemente, invece.
-Le cambia eccome-.
Lorenzo le puntò contro un dito accusatore, come se la stesse per condannare definitivamente.
-La responsabilità è solo tua. Io non c’entro niente-.
Giulia si rese conto che ciò che stava muovendo Lorenzo non era paura, o almeno non propriamente e non solo. Era qualcos’altro, più simile alla voglia di lavarsene le mani.
-È anche tuo in qualsiasi caso-.
L’attimo dopo vide Lorenzo farsi rosso in volto, e il cuore prese a batterle all’impazzata prima ancora che dicesse qualsiasi cosa.
-Ma pensi davvero che voglia un figlio?-.
Non aveva mai sentito Lorenzo alzare la voce, ed ora che ne aveva esperienza trovò la cosa piuttosto spaventosa. Era strano vederlo così agitato, così furioso da riuscire a malapena a non renderlo evidente. Giulia aveva sottovalutato i primi segnali, ma non credeva neanche possibile potesse essere così arrabbiato – eppure lo era.
-Intendi ora?- provò a dire, non credendo nemmeno lei alle sue stesse parole – Lo so che stiamo insieme da poco … -.
-Forse non ne avrò mai interesse. Di certo ora non sono pronto- Lorenzo la interruppe, non urlando quanto prima, ma nemmeno mostrando più comprensione – Ho ancora un sacco di cose da fare, e di certo tra queste non rientra il badare ad un bambino-.
-Va bene-.
Giulia si ritrovò a dirlo senza nemmeno sapere bene cosa intendesse lei stessa, ma ripeté comunque:
-Bene-.
“Devo andarmene da qui”.
Nonostante quel pensiero, quella tentazione sempre più forte, rimase ancora seduta. Tanto valeva dire tutto in quel momento, farla finita, e poi andarsene per sempre. Dubitava avrebbe retto una seconda occasione del genere.
Prima che potesse accennare a qualsiasi cosa, Lorenzo le puntò di nuovo un dito addosso:
-Però c’è una soluzione-.
La sua voce sembrava un po’ meno intrisa di quella rabbia feroce di prima, ma Giulia rimase cauta: aveva uno sguardo a tratti febbrile che la spaventò ancor di più dell’averlo sentito urlare.
Cercò di ritrovare la voce, a fatica:
-Ovvero?-.
“Non voglio saperlo”.
C’era l’ultima speranza che Lorenzo le proponesse qualcosa di fattibile, qualcosa che avrebbe potuto davvero accettare, qualcosa che li portasse ad un punto d’incontro. Era una speranza flebile a cui Giulia si aggrappò con tutta se stessa.
Ma c’era una parte di sé, una parte della sua mente, che le stava ripetendo che dopo quel che le aveva già detto era finito il tempo di fidarsi, e che Lorenzo, alla fine dei conti, non si era affatto dimostrato la persona che aveva cercato di convincerla fosse.
“Non voglio saperlo”.
-Puoi sempre abortire. C’è tempo-.
La naturalezza e la semplicità con cui Lorenzo lo disse, come se stesse parlando del meteo, o di quanto poco avesse dormito quella notte, furono quasi più dolorose da accettare del significato racchiuso in quelle parole.
Giulia si sentì come se l’avessero appena colpita con una pietra alla testa.
-Lo so che c’è tempo- disse con voce malferma, consapevole che era vero e che lo sapeva bene perché lei stessa aveva pensato a quell’opzione – E forse in altre circostanze lo farei, ma non me la sento. Non è la soluzione adatta a me-.
O almeno così credeva. Al momento. Erano passati troppi pochi giorni per pensare ad ogni eventualità, ma finora non aveva creduto di dover arrivare a quel punto.
Il volto di Lorenzo rimase di pietra, incrinato all’altezza degli occhi che, quando Giulia li incrociò, le fecero provare una vera sensazione di paura.
-E a me non ci pensi?-.
Avrebbe preferito sentirlo urlare, piuttosto che udire quel sussurro a malapena udibile, come il segnale d’attacco di un predatore che non intende dare alcuno scampo alla sua vittima.
Giulia prese un sospirò profondo, il cuore che le batteva quasi fuori dal petto:
-Se non vuoi prenderti responsabilità onestamente mi può andare bene anche così, ma non puoi chiedermi di abortire se non voglio farlo-.
Forse di lì ad una settimana avrebbe anche potuto cambiare idea, rendersi conto che portare avanti quella gravidanza le era impraticabile. Ma sarebbe stata lei a decidere, per sé e per il suo corpo.
E a quel punto non le importava nemmeno più considerare l’idea di avere ancora Lorenzo accanto per tutte quelle decisioni.
Lo osservò alzare un sopracciglio, quasi sorpreso:
-Hai detto che è anche mio, no?- le chiese, retoricamente, senza attendere alcuna risposta – Quindi posso dire la mia in merito. E io non voglio avere figli-.
-Puoi non riconoscerlo. Non voglio che ti senta in obbligo … -.
-Devi abortire, Giulia- Lorenzo la interruppe con una voce così irriconoscibile che Giulia si chiese se fosse davvero lo stesso Lorenzo che aveva conosciuto da ragazzina, che conosceva da undici anni – È l’unica soluzione che accetto-.
Calò il silenzio.
Sembrava non ci fosse nient’altro intorno a lei, solo l’aria ferma e la pioggia che fuori dalle finestre continuava a scendere. A Giulia sembrava come di star fluttuando, senza peso, lontano da lì.
Ma gli occhi verdi e spietati di Lorenzo la tenevano ancorata. Ne sentiva la pesantezza addosso, la paura che il suo sguardo così fermo le stava incutendo.
Forse non era la prima volta che la guardava così, ma era la prima volta che lei se ne accorgeva.
-Non voglio farlo-.
Lo disse senza nemmeno rendersene conto, le labbra che si erano mosse quasi in automatico, come se il suo cervello avesse deciso di staccarsi dalla sua anima e prendere il comando.
Fu subito evidente che a Lorenzo quella risposta non piacque:
-Ma lo farai- le disse ancora con quella voce sibilante – Credi che sia come Filippo? Soggiogato sempre ai tuoi bisogni? Se le cose si fanno in due, anche io ho diritto a dire la mia. E voglio che tu abortisca-.
Non c’era via d’uscita.
Non sarebbe mai uscita di lì con i suoi pensieri intatti, se fosse rimasta ancora ferma.
Giulia non si rese nemmeno conto di poter essere così veloce ed agile come lo fu nella realtà: si era alzata di scatto dalla sedia, come se di colpo fosse uscita dalla trance in cui era piombata e rimasta troppo a lungo, e prima ancora che Lorenzo potesse anche solo decidere di fare il giro del tavolo per raggiungerla, lei era già vicina alla soglia della stanza, a guardarlo con occhi sgranati e offuscati dalle prime lacrime.
-Non posso- gli disse, ed ebbe l’impressione che quelle sarebbero state le ultime parole che gli avrebbe rivolto.
-Giulia!-.
Non aveva perso secondi per osservarlo ancora, né per fermarsi quando l’aveva chiamata: Giulia corse alla porta d’ingresso, prese al volo dall’attaccapanni il suo cappotto e la borsa, e aprì la porta per uscire. Non avvertì i passi di Lorenzo, e forse, si ritrovò a pensare, nemmeno si stava preoccupando di seguirla davvero.
-Giulia!-.
Quando si richiuse la porta d’ingresso alle spalle, Giulia non rallentò. Lo fece solo quando fu uscita dall’edificio, attraversato il cortile del condominio e messo tra lei e Lorenzo anche il cancello che lo delimitava.
Non aveva ancora aperto l’ombrello che teneva in borsa, e bastarono quei pochi secondi all’aperto per essere fradicia, e non sapeva ancora come avrebbe potuto raggiungere la stazione di Padova senza l’ausilio dell’auto di Lorenzo, ma inspirò a pieni polmoni l’aria aperta e si sentì già un po’ più calma.
Era una sensazione destinata a finire a breve, ne era consapevole, ma ne fece tesoro e si diresse il più lontano possibile da quel posto senza indugiare un attimo di più.
 
*
 
Forse aveva senso pensare di essere arrivata lì. Non che ci avesse particolarmente riflettuto, guidata dalla paura, dalla stanchezza e dal freddo com’era, ma aveva senso. Era una scelta forse addirittura logica.
La porta dell’appartamento di Caterina e Nicola era chiusa davanti a lei, statica ed immobile. Le sarebbe bastato un secondo a malapena per alzare il braccio e suonare il campanello, annunciare così il suo arrivo senza alcun preavviso e probabilmente scombinare del tutto qualsiasi programma avessero per quel sabato sera.
In un qualsiasi altro momento si sarebbe sentita in colpa anche solo per quel pensiero, ma quello non era un momento normale – e Giulia stava tremando troppo, non sapeva se per il terrore che ancora l’animava o se per i vestiti fradici che aveva addosso-, per poter pensare razionalmente. Alzò il braccio l’attimo dopo, e premette il polpastrello sul campanello, facendovi pressione a sufficienza per suonarlo.
“E se non sono in casa?”.
 Durante il viaggio in treno non aveva pensato a quell’evenienza. Aveva solo raccolto le energie necessarie per capire che non sarebbe mai potuta tornare a casa sua, non in quello stato. Non aveva la forza sufficiente per affrontare Filippo e le domande che di sicuro le avrebbe posto, allarmato nel vederla rientrare in quello stato. Era stato già sufficientemente difficile pensare a cosa scrivergli nel messaggio che gli aveva inviato per avvertirlo che non sarebbe rientrata, che avrebbe passato la notte da Caterina e Nicola. Ma ora che ci pensava non aveva idea nemmeno se avrebbero potuto ospitarla.
E c’erano sempre Pietro o Alessio a cui poter chiedere aiuto, e nel peggiore dei casi sarebbero stati loro a cui si sarebbe rivolta, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Con loro non avrebbe potuto parlare di quel che era successo, ma con Caterina sì. Ed era esattamente quel che voleva fare – quello di cui aveva bisogno.
In un giorno in cui il mondo aveva riversato su di lei tutto il peso della sua crudeltà, era di qualcuno di cui fidarsi e a cui poter parlare senza freni ciò di cui necessitava. E forse Caterina ne sarebbe uscita altrettanto sconcertata, forse anche traumatizzata, ma in qualsiasi caso prima o poi l’avrebbe scoperto. Ed era meglio prima che poi.
Giulia si strinse nelle spalle, cercando calore dove non avrebbe certo potuto trovarlo – non nei suoi vestiti bagnati. Si sarebbe di sicuro beccata un raffreddore o forse anche peggio, continuando a restare così.
I suoi pensieri trovarono un singolo momento di pausa quando, finalmente, la serratura della porta d’ingresso scattò dall’interno. Caterina e Nicola – o anche solo uno di loro- erano evidentemente in casa.
Fu una frazione di secondo quella che ci volle nell’attesa che la porta si aprisse di poco, poi abbastanza da far comparire il viso di Caterina. A Giulia parve quasi di osservare la sua espressione cambiare al rallentatore: per prima c’era stata la sorpresa, poi la stessa si era venata di turbamento quando gli occhi di Caterina avevano studiato meglio come doveva apparire la figura di Giulia. E poi era arrivata, inevitabilmente l’agitazione. Fu a quel punto che Caterina spalancò la porta d’ingresso di scatto, facendo un passo avanti per afferrare Giulia per le spalle.
-Giulia! Ma che succede?- Caterina la guardò da capo a piedi, quasi non riuscisse a capacitarsi di ritrovarsela di fronte in quelle condizioni – Sei fradicia-.
“E quello è decisamente il problema minore”.
Pur con il groppo in gola e gli occhi che stavano tornando a farsi lucidi, Giulia si sforzò di parlare:
-Posso entrare?-.
Quella domanda sembrò riscuotere Caterina dallo stato di stupore incredulo in cui era caduta:
-Sì, certo. Vieni- la trascinò gentilmente all’interno dell’appartamento, richiudendo subito la porta alle loro spalle – Ti prendo un asciugamano-.
Avevano fatto pochi passi verso l’interno, quando ancora non avevano raggiunto nemmeno la cucina, e l’idea di rimanere ancora sola fece impazzire di paura Giulia ancor più della consapevolezza di ciò che avrebbe dovuto raccontare.
-No, aspetta-.
Fu un gesto istintivo quello di afferrare il polso di Caterina per impedirle di allontanarsi, ma anche quando si rese conto di averlo fatto non mollò la presa.
-Ti devo dire una cosa- farfugliò in fretta, quasi mangiandosi le parole.
Era evidente dal suo viso rabbuiato che Caterina fosse a sua volta spaventata, angustiata, ma la sua voce rimase gentile quando parlò di nuovo:
-Ci metto un attimo. Se resti ancora così rischi di prenderti un malanno-.
Era un ragionamento del tutto sensato, coerente, ma in quel momento Giulia non si sentiva né ragionevole né coerente.
-Intanto vai a sederti in cucina-.
Forse fu il modo in cui Caterina glielo disse – posando a sua volta una sua mano su quella con cui Giulia le cingeva ancora il polso-, in modo paziente e calmo, che convinse Giulia a farlo.
“Tornerà e ne parleremo” pensò, mentre lasciava andare il polso di Caterina, e dopo qualche secondo la osservava allontanarsi velocemente verso il bagno, “Le dirò tutto. Le devo dire tutto”.
Giulia camminò meccanicamente verso la cucina. Le sembrò di udire dei rumori provenire dal salotto – forse era Francesco che giocava, dato che non udì la voce di Nicola-, ma il resto dell’appartamento era silenzioso. Accese la luce della cucina e andò verso le sedie attorno al tavolo, scostandone una per sedersi. Si sentiva ancora tremare, nonostante nella casa ci fosse decisamente più caldo che fuori.
I passi di Caterina si fecero sempre più udibili dopo un minuto appena. Doveva aver cercato un asciugamano pulito in fretta e furia per tornare lì il prima possibile.
-Ecco- le disse non appena arrivò ad affiancarla, porgendoglielo – Asciugati un po’-.
-Grazie- sussurrò Giulia, prendendo l’asciugamano di spugna tra le mani, passandoselo subito sui capelli umidi – È successo un casino-.
-Con Filippo?- le chiese Caterina. Era ovvio che pensasse a lui prima di chiunque altro, e forse sarebbe stato di gran lunga più facile parlare con lei di lui, ma Giulia dovette scuotere il capo in diniego.
In altre circostanze avrebbe dovuto recuperare coraggio sufficiente per dire la verità, ma in quella situazione il terrore e il vuoto che si sentiva dentro erano troppo grandi, troppo complicati da gestire, per poter pensare di cercare parole più delicate.
-Con Lorenzo- mormorò, sentendo già le lacrime affiorarle agli occhi – Ero da lui, prima. Dovevo dirgli una cosa-.
Si voltò verso Caterina. Aveva immaginato che nel momento in cui avrebbe dovuto confessarle ciò che aveva scoperto qualche giorno prima avrebbe faticato a guardarla in faccia, ad incrociarne gli occhi. Ma la realtà era che stava cercando il suo sguardo, forse per trovare nei suoi occhi una qualsiasi sorta di rassicurazione che, nonostante tutto, le cose sarebbero migliorate.
-Non so come la prenderai, ma devo dirtelo. Almeno a te-.
-Sta tranquilla- Caterina cercò di sorriderle, anche se era evidente che sembrava ancor più in ansia di prima, dopo aver scoperto che c’entrava Lorenzo – Non succederà niente-.
Solo poche ore prima Giulia si trovava in un altro appartamento, in un’altra cucina, seduta ad un tavolo come lo era ora. Ed aveva Lorenzo davanti a sé, mentre stavolta c’era sua sorella ad ascoltarla – la sua migliore amica da una vita-, e l’unica cosa in cui sperava era un finale diverso.
-Sono incinta-.
Osservò gli occhi di Caterina farsi sgranati nell’immediato, senza però dire nulla.
-L’ho scoperto qualche giorno fa. Non so neanche come sia successo, però lo sono- Giulia non le dette il tempo di digerire la notizia, continuando a parlare in fretta, mangiandosi le parole – E sono andata a Padova per dirlo a Lorenzo oggi, ma … -.
Stavolta non ce la fece a trattenere il singhiozzo che le squassò il corpo mentre ripercorreva con la mente gli ultimi eventi.
Pianse per alcuni minuti, senza freni, i singhiozzi udibili probabilmente anche nel resto dell’appartamento, accompagnati dal silenzio scioccato di Caterina. Giulia aveva azzardato un paio di volte a guardarla: non era rabbia ciò che leggeva sul suo viso, quanto puro shock. Sembrava le avesse dato la notizia più difficile a cui credere di sempre.
Giulia cercò di calmarsi, ma le fu arduo: si fece più silenziosa a sua volta, ma le lacrime ancora scendevano dai suoi occhi, ed aveva smesso persino di asciugarsi i capelli per portarsi invece le mani al viso.
Fu in quel momento che avvertì Caterina farsi più vicina, e quando alzò lo sguardo nella sua direzione, la vide osservarla con pura apprensione:
-Sei incinta?- le chiese, in un filo di voce – Hai fatto il test?-.
Giulia annuì semplicemente.
-Cazzo-.
Caterina si mise una mano sulla fronte, per qualche attimo il suo sguardo finì perso nel vuoto di fronte a sé. Sospirò profondamente prima di tornare a voltarsi verso Giulia:
-Che ti ha detto?-.
Quella era la domanda più difficile di tutte, ma Giulia sapeva che sarebbe arrivata. Era venuta lì per quel motivo, per ciò che Lorenzo le aveva detto.
Dirlo a Caterina, però, da una parte le sembrava ingiusto: come avrebbe guardato suo fratello da quel momento in poi? L’avrebbe detestato? Avrebbe cercato di prendere le parti di entrambi per farli giungere ad un punto d’incontro?
Non voleva pensare che avrebbe odiato lei, tra loro due. Era una paura irrazionale, che Giulia non avrebbe avuto in una situazione di maggior lucidità, ma si rese conto che un secondo rifiuto nella stessa giornata avrebbe fatto troppo male. Eppure doveva rischiare, perché lasciare all’oscuro Caterina sarebbe stato altrettanto scorretto.
-Non lo vuole- gracchiò, con voce roca e spezzata – Mi ha detto che devo abortire. Che è l’unica soluzione che accetterà-.
Caterina la osservò agghiacciata, senza dire nulla.
-Ma non so se voglio farlo, non credo- aggiunse Giulia – È una mia scelta se abortire o no-.
-Certo che lo è- stavolta Caterina non esitò a parlare – Devi essere tu a decidere, e andrà bene sia se vorrai tenerlo sia se vorrai interrompere la gravidanza-.
Si interruppe come se fosse indecisa se dire qualcos’altro, e Giulia si chiese cosa le stesse passando per la testa in quel momento.
-È solo che … - Caterina scosse il capo, incredula – È un po’ uno shock saperlo. Non mi aspettavo una cosa del genere-.
-Anche per me- ammise Giulia a mezza voce.
-Però forse è ancora più uno shock sapere che mio fratello abbia reagito così-.
Non era difficile credere che Caterina stesse dicendo la verità: appariva sconvolta, forse come Giulia non l’aveva mai vista. Doveva essere dura anche per lei venire a sapere di quella situazione tutt’altro che semplice.
Caterina sospirò a fondo, torturandosi le mani:
-Ma che hai fatto dopo che te l’ha detto?-.
-Sono praticamente scappata da casa sua- Giulia non esitò a rispondere, i ricordi delle ore precedenti che si mescolavano alla desolazione che sentiva dentro di sé – E pioveva, e non sapevo come tornare alla stazione… Ho aspettato un autobus e ci sono arrivata, per fortuna. È stato orribile lo stesso, però-.
-E sei venuta direttamente qui- concluse per lei Caterina.
-Non posso tornare a casa- Giulia lo disse di getto, ancora prima di pensare alle implicazioni delle sue parole – Filippo … -.
-Già-.
Osservò Caterina annuire, in silenzio per alcuni secondi, in attesa che dicesse qualcos’altro. Passò quasi un minuto prima che si decidesse a tornare con gli occhi su Giulia, l’espressione più determinata rispetto a prima:
-Puoi rimanere qui, se vuoi, per stasera-.
Caterina la guardò in attesa, ma Giulia aveva esaurito le parole, ed anche le energie. Sapeva solo che, per come era iniziata quella giornata, forse poteva finire un po’ meno peggio.
-Nicola si sta facendo una doccia, e Francesco è di là in salotto- proseguì Caterina – Cercherò una qualche scusa per spiegare come mai resti qui stasera. Almeno a cena non faranno troppe domande-.
“Di certo non ne faranno quante ne farà Filippo quando tornerò a casa domani”.
Non aveva idea di cosa si sarebbe potuta inventare Caterina, né aveva suggerimenti da darle, ma sapeva che si poteva fidare.
-Va bene-.
Ci fu un lungo attimo di silenzio durante il quale Caterina si era alzata dalla sedia, risistemandole l’asciugamano che le era scivolato sulle spalle come a ricordarle che aveva ancora i capelli troppo umidi. A Giulia sembrò quasi di uscire da uno stato di trance dopo quel tocco.
Riportò le mani all’asciugamano, tornando a frizionare le ciocche.
-Se vuoi posso provare a parlare con Lorenzo nei prossimi giorni-.
Quelle parole, invece, Giulia non se le era aspettate per niente. Si girò lentamente verso Caterina, immobilizzandosi nei gesti, alzando gli occhi verso di lei: appariva seria in volto, rabbuiata e preoccupata, ma dalla sua voce era facile intuire che fosse piuttosto sicura di quel che diceva.
-Lo faresti?- le chiese Giulia, senza ben capire lei stessa se fosse più una domanda sorpresa o una speranzosa.
“Speranza di cosa, poi?”.
Forse Caterina poteva anche provarci, ma qualcosa le diceva di non farsi troppe aspettative. Non dopo quella giornata.
Caterina sembrava pensarla uguale, d’altro canto:
-Non so quanto mi ascolterebbe, ma tentar non nuoce- disse, posandole una mano su una spalla – Magari gli serve un po’ di tempo per digerire la notizia-.
“Un po’ come serve a te, come serve a me, e come servirà a Filippo”.
Sapeva che il velato scetticismo con cui Caterina le aveva rivolto quell’ultima frase era giustificato, ma non voleva nemmeno perdere anche l’ultimo briciolo di speranza che Lorenzo, perlomeno, non finisse per odiare lei e il figlio in arrivo.
Forse valeva la pena tentare.
 
*
 
E cosa mi lasci di te?
E di me tu cosa prendi?
Scegli una canzone, scegli il mio silenzio
Scelgo di non rivederti [2]
 
“Non hai avuto nemmeno un secondo di dubbio?”.
Ci sono parole che anche dopo anni tornano a perseguitarti, assumendo una luce così diversa dall’originale da sembrare quasi visibili per la prima volta.
Giulia lasciò andare un lungo sospiro, tirandosi su le coperte fin sotto al mento. Il salotto era buio e illuminato a malapena dalla luce debole dei lampioni all’esterno, che filtrava dalle finestre. Aveva preferito non abbassare le persiane, anche se Nicola si era premurato di chiederle se preferisse il buio completo per riposare – oltre a mille altre cose per darle il massimo del conforto. Ma Giulia stava bene così, stesa e avvolta nelle coperte che Caterina le aveva portato e sistemato sul divano letto – quello che sarebbe stato il posto in cui avrebbe dormito per quella sera.
Dopo una doccia calda ed una cena perlomeno ricca, sebbene in parte taciturna, Giulia si sentiva un po’ meglio. Dal lato fisico sicuramente era così.
Ma c’era una voce dentro di lei, la voce appartenente ad un ricordo, che continuava a tartassarla, a non lasciarla in pace. Era stato così sin da dopo la conversazione avuta con Caterina, sia negli attimi di solitudine che in quelli passati in compagnia.
Era riuscita ad ignorarla in parte prima e durante la cena, quando Nicola si era reso conto della sua presenza in casa – guardandola da capo a piedi, probabilmente chiedendosi cosa potesse essere successo di così grave da spingerla ad uscire sotto la pioggia riducendosi a quel modo-, e quando poi Caterina gli aveva detto che sarebbe rimasta lì anche per la notte. Giulia si era sentita estremamente sollevata quando Caterina aveva preso in mano la situazione, dicendo solo vagamente che non se la sentiva di rientrare a casa. Lei non aveva dovuto aggiungere nulla per far sì che Nicola non chiedesse null’altro.
E poi, dopo la cena, ci aveva pensato anche Francesco a distrarla, invitandola a giocare con lui sul pavimento del salotto. Giulia aveva accettato, nonostante le fitte che provava ogni volta che lo osservava, ricordandosi di ciò che avrebbe dovuto rivivere nei mesi che la attendevano.
Ma ora che era di nuovo da sola, nel buio del salotto quando erano le dieci appena passate, non aveva più scampo. Francesco era crollato per il sonno mezz’ora prima, ed anche lei aveva ceduto alla stanchezza del suo fisico.
E stava cedendo anche ai ricordi.
“Nemmeno per un attimo ti sei domandata di aver fatto la cosa migliore per te?”.
Le parole che Lorenzo le aveva rivolto la sera del suo matrimonio erano cristalline come se le avesse appena pronunciate. Come se gliele avesse sputate in faccia quel giorno stesso.
Giulia sbuffò tra sé e sé: era quando lo aveva baciato la prima volta che si sarebbe dovuta porre quelle domande, non quando aveva sposato Filippo. Sposare lui non era mai stato qualcosa di cui si era pentita, nemmeno dopo l’ultimo anno.
Si pentiva di aver ceduto a Lorenzo, di aver creduto di poter trovare una spalla su cui sorreggersi nel momento più difficile della sua vita.
L’aveva ingannata nel modo più meschino che potesse esistere, e la cosa ancor peggiore era che a subirne le conseguenze sarebbe stata unicamente lei.
Caterina avrebbe potuto tentare quanto voleva a parlargli, ma in cuor suo Giulia sapeva che non sarebbe servito a niente. Lorenzo aveva già deciso.
Provò un moto di rabbia nel ripensare ancora una volta a come fosse stato lui stesso ad insinuare che il suo matrimonio con Filippo potesse non essere la scelta giusta. Forse le cose non erano andate a finire nel modo sperato, ma Filippo l’aveva resa felice per anni interi. Di certo non le aveva voltato le spalle al primo ostacolo che si era presentato.
Ma Lorenzo se ne era solo approfittato, ora lo capiva chiaramente: aveva aspettato di vederla vulnerabile e debole per avvicinarsi di nuovo a lei, e stavolta averla per sé. Era stato solo un gioco di possesso, che nulla aveva a che vedere con l’amore.
Non c’era mai stata nemmeno una briciola dell’amore che c’era stato con Filippo.
E fu proprio su Filippo che calò il suo pensiero. S’immaginò come sarebbe stato l’indomani, nel tornare a casa probabilmente con la tempesta di disperazione che provava dipinta in viso. Le avrebbe chiesto qualcosa? Avrebbe provato ad avvicinarsi a lei?
In qualsiasi caso, Giulia sapeva che avrebbe dovuto parlargli. Presto o tardi avrebbe dovuto farlo, anche se ancora non aveva idea del come, o quale sarebbe stata la sua reazione.
Fece per chiudere gli occhi, in un tentativo di smettere di pensare a quello che l’attendeva, ma i passi di Caterina e Nicola al di là della porta scorrevole chiusa che delimitava il salotto la distrassero, le loro voci sussurrate che la misero in guarda.
Dovevano star avviandosi anche loro verso la camera da letto, passando per forza davanti a dove si trovava lei.
-Ma davvero sta bene?-.
Era stato Nicola a domandarlo, e Giulia non ebbe alcun dubbio sulla persona a cui si stava riferendo. Aveva parlato a bassa voce, forse pensando che lei stesse dormendo e non volendola disturbare, o forse nel tentativo di non farsi udire.
Caterina ci mise qualche secondo a rispondere:
-Ha avuto qualche problema, per quello è venuta qua-.
Si era tenuta nuovamente vaga, e Giulia la ringraziò mentalmente ancora una volta.
-Con Filippo?-.
-Non credo di potertelo dire- la voce di Caterina si fece più distante, ma era ancora a malapena udibile – Però fidati di me. Ho la situazione sotto controllo-.
A quella frase Giulia sorrise ironica. Stavolta Caterina aveva chiaramente mentito, ma una parte di lei volle sperare che avesse comunque in parte ragione.
-Aveva un’aria stravolta- disse ancora una volta Nicola.
-Non è stata una giornata facile, per nessuno-.
La luce del corridoio venne spenta, ed anche la mezza luna luminosa che si intravedeva da sotto la porta del salotto sparì.
-Ma domani forse andrà meglio-.
Un tempo anche Giulia l’avrebbe pensato, l’avrebbe detto. Ma un tempo non era quella giornata. Non riusciva a pensarlo, non quando si sentiva così sola nel mondo crudele in cui si ritrovava catapultata, in cui era intrappolata senza riuscire a vedere alcuna via di fuga.
 




 
[1] Take That - "Julie"
[2] Tiziano Ferro - "Accetto miracoli"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Che dire... Di male in peggio 🙈
Non ci è voluto molto per scoprire l'esito del test fatto da Giulia alla fine dello scorso capitolo. Un esito che lascia senza fiato un' po' tutti: noi autrici, probabilmente anche voi, e sicuramente anche Giulia.
Ma se questa nuova gravidanza toglie ogni certezza, il coraggio di affrontare le cose Giulia non l'ha perso.
E così, con comunque non poche paure, si reca da Lorenzo per dargli la "lieta" notizia. Peccato che Lorenzo non abbia proprio preso bene la notizia, e in in questo aggiornamento lo vediamo ben più che solo poco contento, ma anche mostrandosi con un comportamento a tratti abusivo.
Fortunatamente Giulia è riuscita a tirarsi fuori da quella situazione e tornare a Venezia... Dove, peró, non torna a casa sua, ma a casa di Caterina e Nicola.

Alla fine, in men che non si dica, Giulia ha vuotato il sacco con l'amica e, che dire... First reaction: shock!!! 
Lo stupore è enorme ma, nonostante ciò, Caterina si dimostra super disponibile a parlare con il fratello di questa situazione alquanto delicata, il primo gesto da brava zietta insomma!
Ma soprattutto, le cose si risolveranno davvero per il meglio come auspica Caterina? Vedremo a breve il confronto tra i fratelli Maccaferri? E Giulia deciderà di tenere il bambino oppure no?
Mille dubbi aleggiano dopo la fine di questo capitolo, quindi non resta che tornare mercoledì 20 marzo con un nuovo capitolo per trovare qualche risposta!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 26
*** Capitolo 23 - You never walk alone ***


CAPITOLO 23 - YOU NEVER WALK ALONE



 

Non sarebbe stata una bella giornata.
Non era colpa della pioggia che continuava a scendere su Venezia, ingrossando i canali e facendo rischiare l’acqua alta. Non era nemmeno colpa del fatto che fosse in pensiero per Nicola e Francesco, fuori in giro da qualche parte.
E forse non sarebbe dipeso nemmeno da Lorenzo, che per quanto ne sapeva, poteva anche aver avuto tempo sufficiente per ravvedersi e ragionare meglio sulla situazione.
Forse era solo una sensazione che alla fine si sarebbe rivelata del tutto infondata, ma Caterina sapeva che quella non sarebbe stata una bella giornata.
Tenne lo sguardo rivolto verso la finestra della cucina, i vetri rigati di pioggia, il paesaggio frastagliato dalle scie che le goccioline si lasciavano dietro nel loro lento declino verso il basso. Era seduta alla stessa sedia dove una settimana esatta prima se ne stava Giulia, quando le aveva detto di essere incinta. Quando le aveva detto quale era stata la reazione di Lorenzo.
Ora c’era lei seduta al suo posto, con la stessa paura del sabato precedente.
Si rifiutò di controllare di nuovo l’ora, consapevole di averlo già fatto troppe volte, solo uno dei tanti segni dell’ansia che la attanagliava. Lorenzo sarebbe arrivato a momenti – se mai non avesse cambiato idea sul suo invito lì a casa.
Non aveva idea se suo fratello si aspettasse qualcosa di preciso. Forse aveva fatto due più due, capito che l’averlo invitato lì pochi giorni dopo il brutto litigio con Giulia non fosse affatto casuale. E se era quella l’ipotesi corretta, cosa si aspettava da lei?
Caterina non ne aveva idea.
C’erano così tante cose su cui ancora non aveva alcuna opinione che nemmeno lei avrebbe saputo quantificarle. Forse quella che la sua migliore amica stesse aspettando un figlio da suo fratello era quella che la lasciava più stranita in assoluto.
“Sembra una pazzia”.
Lo sembrava, o forse lo era del tutto. Le era sempre sembrato strano, come se qualcosa fosse fuori posto, vedere Giulia con suo fratello dopo una vita passata con Filippo – anche se non poteva escludere che fosse proprio quel particolare ad averle reso difficile abituarsi a quel nuovo scenario-, ma quello … Quello era diverso. Era qualcosa che non sarebbe mai più potuto cambiare.
Qualcosa a cui doveva di certo abituarsi, anche solo a pensarci, ma a cui perlomeno non aveva reagito allo stesso modo di Lorenzo. Caterina era sicura che alla fine le cose avrebbero preso una piega di normalità, ma sarebbe toccato a lei quel giorno stesso scoprire se suo fratello aveva cominciato a pensarla allo stesso modo.
Aveva speranza, ma c’era sempre qualcosa – il timore sottile del fallimento- che stonava. Un po’ come quel silenzio teso che aleggiava in casa sua in quel momento.
Il campanello suonò qualche secondo dopo, squarciando l’aria e facendola sobbalzare debolmente sulla sedia. Le ci vollero alcuni attimi per scuotersi e realizzare che si sarebbe dovuta alzare, andare ad aprire quello che con tutta probabilità era Lorenzo.
Caterina si alzò con lentezza, come se il suo corpo fosse affaticato, come se stesse opponendo resistenza ai movimenti che doveva compiere per arrivare alla porta d’ingresso.
Ci arrivò lo stesso, forse in meno tempo di quel che sperava. Aprì la porta con cautela, senza sapere cosa potersi aspettare dall’altra parte. Quando la aprì a sufficienza per intravedere il volto di suo fratello, non venne colpita da alcun senso di sorpresa: aveva un’espressione tetra, e le parve invecchiato di dieci anni.
-Ciao- lo salutò senza alcuna inflessione nella voce, aprendo la porta per farlo entrare.
-Ciao- Lorenzo varcò la soglia dedicandole solo una veloce occhiata – C’era traffico in autostrada, per quello ci ho messo più del previsto-.
-Non fa niente. Non me n’ero neanche accorta-.
Caterina gli fece strada verso il salotto. La pioggia continuava a battere contro i vetri, unico rumore ad accompagnarla oltre a quello dei loro passi sul pavimento.
-Vuoi bere qualcosa?- gli chiese, più per riempire il silenzio che non per reale cortesia.
-No-.
Lorenzo non parve invogliato a sedersi da nessuna parte. Si era palesemente prefissato di rimanere in piedi di fronte a lei, come se desse per scontato che sarebbe rimasto poco. Di certo non dava l’impressione di disponibilità all’ascolto.
Caterina rimase in piedi a sua volta, a qualche metro di distanza, guardandolo in attesa.
-Dovevi parlarmi, quindi-.
Caterina annuì impercettibilmente:
-Sì, direi di sì-.
“E sai benissimo anche di cosa”.
Lorenzo non disse nulla, quindi toccò di nuovo a lei parlare:
-Non ha molto senso girarci intorno, quindi forse è meglio andare subito al punto- iniziò, le braccia incrociate contro il petto e il cuore che le batteva forte per l’agitazione, anche se cercava di non darlo a vedere – Giulia mi ha raccontato quel che è successo-.
Lorenzo non batté ciglio, rimanendo inespressivo:
-Mi aspettavo mi avessi chiesto di vedermi per quello- sbuffò appena – Altrimenti non ti saresti mai fatta viva-.
“Un po’ come te”.
Cercò di ignorare quella frecciatina, alzando le spalle:
-Non siamo qui per parlare di questo-.
-Allora dimmi quel che mi devi dire-.
Lorenzo le era parso più brusco rispetto a prima, ma non aveva alzato la voce. Caterina cercò di interpretarlo come un segno che, forse, almeno in parte qualcosa avrebbe ascoltato.
-Forse hai un po’ esagerato con lei, non credi?- cercò di dirlo con calma, senza esagerare il tono di rimprovero – Capisco possa essere uno shock, ma da lì a trattarla in quel modo … -.
-Come l’avrei trattata?- Lorenzo la interruppe di scatto, con una veemenza che fece quasi indietreggiare di un passo Caterina. Aveva un sopracciglio arcuato, come se stesse sul serio aspettando una risposta.
Caterina tentennò, forse per la prima volta da quando suo fratello era arrivato lì. C’era una strana sensazione che la stava sopraffacendo, simile alla paura.
-Un po’ troppo bruscamente?- tentò, schiarendosi la gola – Guarda che anche lei è nei casini, non solo tu-.
Lorenzo non sembrò per niente impressionato.
-Non voglio sapere come sia potuto succedere, ma riguarda entrambi- Caterina proseguì con un po’ più di fermezza – Non puoi solo urlarle addosso che deve abortire e basta-.
Il cambio d’atteggiamento fu così repentino che se fosse stato un po’ più nascosto e invisibile all’occhio, Caterina non se ne sarebbe nemmeno accorta.
Quando aveva finito di parlare, però, lo sguardo che Lorenzo le aveva rivolto non lasciava alcun dubbio: non sarebbe stato così distaccato da quel momento in poi, come invece si era mantenuto fino a lì.
C’era qualcosa ora, nei suoi occhi – una vividezza rabbiosa che faceva brillare il verde dell’iride- che la fece indietreggiare per davvero, stavolta, almeno di un passo.
-Ma se riguarda entrambi, come hai appena detto, ho il diritto anch’io di dire la mia- Lorenzo alzò la voce, anche se non arrivò ad urlare nel vero e proprio senso della parola.
La rabbia che provò anche Caterina nei suoi confronti non la fece desistere:
-Ma non puoi minacciarla o costringerla- ribadì, alzando a sua volta la voce – Potete arrivare ad un altro accordo senza arrivare al punto in cui devi forzarla a fare qualcosa contro la sua volontà-.
Non aveva idea se Giulia glielo avesse già fatto presente o meno, e un po’ si pentì di aver parlato per lei, ma le sembrava l’unico modo per ritornare nella carreggiata della calma irrequietezza su cui si era mantenuta quella conversazione da quando era iniziata.
Il volto di suo fratello si fece rosso, tutt’altro che calmo:
-E alla mia volontà chi ci pensa, eh?- stavolta le urlò addosso per davvero – Poteva pensarci Giulia a tutelarsi meglio per evitare una gravidanza, che di certo non vuole neanche lei-.
“E tu non ci hai certo pensato” pensò amaramente Caterina.
Non disse niente, però, nel momento in cui Lorenzo fece un passo nella sua direzione.
-È solo colpa sua se ora ci troviamo in questo casino, ma a voi due non importa niente di quel che voglio io, no? L’importante è che subisca e che stia anche in silenzio!- Lorenzo gesticolava maniacalmente, ormai gridando senza controllo – Sarai contenta che sia successo tutto questo e che ora stia facendo la parte del cattivo, eh?-.
Fu così veloce, di nuovo, che Caterina quasi non si accorse dell’improvvisa vicinanza di suo fratello. Ma se ne rese conto quando avvertì una sua mano premerle sulla spalla, dandole una spinta non sufficientemente violenta per spostarla, ma che la ferì ugualmente.
La rabbia lasciò il posto alla paura, in una sensazione del tutto nuova. Poteva non andare d’accordo con suo fratello, ma non aveva mai provato in sua presenza il panico che stava provando ora, acuito dal fatto di essere da sola con lui, e fisicamente impossibilitata ad impedirgli di farle molto di peggio di una semplice spinta.
Indietreggiò di nuovo, ma i suoi piedi non la ressero a lungo. Inciampò su se stessa, cadendo malamente a terra, evitando di poco il divano dietro di lei. Quando alzò gli occhi verso l’alto, Lorenzo torreggiava su di lei, minacciosamente, e Caterina per lunghi secondi temette davvero che l’avrebbe colpita, stavolta non limitandosi.
“Ti prego”.
Avrebbe voluto dirlo, ma non riuscì a far uscire nulla dalla sua bocca.
Nel panico terrorizzante in cui si trovava, con il corpo immobilizzato e il cuore che le batteva in maniera così assordante da farle temere potesse scoppiare, riuscì solo ad avvertire in maniera distante la porta d’ingresso aprirsi.
Fu quasi come assistere ad una propria allucinazione, con la sola differenza che dentro di sé era consapevole che i passi di Nicola e Francesco, appena rientrati, non erano solo una sua impressione. Anche Lorenzo si era voltato nella direzione dell’ingresso, non appena le loro voci si fecero più distinte.
-Ehi, siamo a … -.
Nicola era appena comparso nel campo visivo di Caterina, con ancora il cappotto addosso, ma con le ciabatte già ai piedi. Teneva Francesco per mano, e lo tenne ancora più fermo quando con lo sguardo sembrò come scannerizzare ciò che stava accadendo in quel salotto.
Caterina si sentì raggelare.
-Ma che sta succedendo?-.
Lorenzo non rispose, limitandosi a muovere qualche passo lontano da lei, e Caterina, nonostante il dolore alla schiena che le rese difficile il movimento, cercò di far forza su un gomito per alzarsi almeno un po’.
-Nicola … -.
Prima che potesse aggiungere altro, lo osservò chinarsi su Francesco, silenzioso come se avesse intuito da solo che qualcosa non andava, e poi spingerlo gentilmente con una mano dietro la schiena:
-Va in camera tua, subito- gli mormorò, e Francesco non protestò mentre si incamminava lanciando dietro le spalle un ultimo sguardo ai suoi genitori e a suo zio – E tu … -.
Nicola si avvicinò così velocemente che Caterina temette che Lorenzo potesse essere tentato di colpirlo – un desiderio che di sicuro si teneva dentro da anni. Ma quando Nicola gli fu addosso, Lorenzo alzò le mani per difendersi:
-Non è successo niente, è solo caduta- cercò di dire, ma Nicola lo interruppe subito con forza:
-Pensi anche che ci creda?- gli gridò addosso, rabbioso – Esci subito da casa nostra!-.
Lo afferrò per una spalla, e per quanto fosse decisamente meno piantato di Lorenzo fisicamente, Nicola riuscì comunque a trascinarlo vero l’ingresso.
-Esci, cazzo!- gli urlò ancora, in un modo così irato che Caterina non ricordava di averlo visto mai – Giuro che qua dentro non ci rimetti mai più piede-.
Caterina udì la serratura della porta d’ingresso scattare, alcuni passi frettolosi, e di nuovo la porta chiudersi con un tonfo violento qualche secondo dopo. Suo fratello era uscito così velocemente che quasi le venne difficile credere che fosse stato lì fino a un minuto prima.
La preoccupazione che aveva dipinta in faccia Nicola, però, era un buon indizio per credere che tutto quello che era accaduto poco prima non fosse stato solo un sogno – o un incubo-: tornò indietro subito, a grandi falcate, chinandosi su di lei con gli occhi azzurri sgranati per la paura.
Prima che potesse dire qualsiasi cosa, Caterina tentò di nuovo di sollevarsi, ma fallì miseramente.
-Aspetta, ti do una mano- Nicola le allungò una mano, che Caterina strinse subito. Le passò l’altro braccio dietro la schiena, riuscendo finalmente a rimetterla in piedi, e accompagnandola fino al divano. Caterina vi si sedette con un lungo sospiro.
-Stai bene?-.
Nicola le si sedette subito accanto, scostandole i capelli che le erano finiti davanti al viso.
-Sì, sto bene- rispose lei, per rassicurarlo.
“Per quanto possa stare bene dopo una conversazione del genere”.
-Ma che è successo?- Nicola era evidentemente scosso – Si può sapere che cazzo aveva in mente?-.
-I toni si sono un po’ scaldati-.
Caterina non riuscì a dire altro, non subito. Aveva ancora la mente piena delle urla di Lorenzo, e del panico che l’aveva assalita quando le si era avvicinato. Che altro sarebbe successo se Nicola non fosse rientrato proprio in quel momento?
Non volle darsi una risposta.
Oltre all’onta del fallimento per non essere riuscita a farlo ragionare, e fallendo così anche il trovare un aiuto per Giulia, si sentiva così umiliata anche solo dal senso di impotenza che aveva provato.
Suo fratello l’aveva fatta sentire debole ed inerme a casa sua. L’aveva fatta sentire minacciata e in totale balia della sua rabbia.
Cominciava a capire come mai Giulia fosse arrivata così scossa proprio lì, la settimana prima.
Ed ora sarebbe toccato invece a lei spiegare a Nicola cosa stava succedendo.
-È una lunga storia-.
 
*
 
Nonostante la nausea e il bisogno di correre verso il bagno, stavolta Giulia non riuscì ad alzarsi subito dal letto.
Premette le palpebre chiuse, cercando di concentrarsi nell’ignorare il suo malessere sempre più presente. La nausea nell’ultima settimana era peggiorata, e di molto. Non aveva dubbi che fosse un mix tra le prime settimane della gravidanza e lo stress che non l’aveva abbandonata nemmeno un minuto. L’agitazione non aveva fatto altro che crescere durante quella giornata, sapendo che Caterina avrebbe provato a parlare con Lorenzo.
Aprì gli occhi solo per allungare una mano verso il suo cellulare, abbandonato poco distante da lei sul materasso. Quando sbloccò il display, però, non scorse alcun nuovo messaggio, neanche una chiamata che magari si era persa in una delle sue tante fughe verso il bagno. Niente di niente. Silenzio completo.
“Si sarà presentato a casa sua, almeno?” si chiese, “O avrà ignorato persino sua sorella?”.
Non aveva idea di cosa avrebbe fatto Lorenzo. Sapeva solo che Caterina non avrebbe desistito facilmente, perché nonostante la situazione non fosse facile nemmeno per lei, le aveva promesso che l’avrebbe aiutata. Giulia era sicura che avrebbe mantenuto la parola.
Al momento, però, non aveva alcuna notizia di come stesse andando, se mai Lorenzo avesse deciso di vedere sua sorella. Forse non si era direttamente presentato.
“Ma Caterina me lo avrebbe fatto sapere, se non fosse andato”.
Forse quel silenzio era dovuto a qualcosa che era accaduto.
Giulia cercò di non essere così pessimista: magari stavano ancora parlando. Caterina di sicuro le avrebbe fatto sapere qualcosa non appena ne avesse avuto possibilità, e forse non lo aveva fatto finora perché ne era stata impossibilitata.
Non per forza doveva essere successo qualcosa di brutto – non aveva alcun motivo per pensarlo davvero.
Giulia alzò gli occhi verso il soffitto della stanza: era da quando si era svegliata quella mattina che provava una sensazione negativa. Era come se qualcuno continuasse a sussurrarle ad un orecchio che qualcosa – di certo non qualcosa di buono- sarebbe accaduto quel giorno.
Lanciò un’ultima occhiata verso il suo cellulare, ma lo vide ancora inerme e silenzioso esattamente come un minuto prima. Non era cambiato niente.
La sua nausea, invece, era peggiorata. Non poteva più rimandare il suo ennesimo viaggio verso il bagno, non con lo stomaco così sottosopra come lo aveva in quel momento.
Quando fece per alzarsi le girò la testa. Aspettò qualche secondo per riprovarci: stavolta era più stabile, ma la testa continuava ad essere leggera, e il suo corpo terribilmente debole.
Preferì sorreggersi al muro per arrivare alla porta, e fece lo stesso anche quando uscì in corridoio. Il bagno le sembrava così dannatamente distante, in quel momento, impossibile da raggiungere.
Dovette fermarsi dopo pochi passi, la testa che le girava troppo e la vista che per qualche secondo si era annebbiata.
-Giulia?-.
Dovette tenere le mani sul muro per rischiare di non cadere, e concentrata com’era su quel movimento quasi non si accorse dei passi che si avvicinavano alle sue spalle.
Filippo le arrivò di fianco, e anche se Giulia stava tenendo gli occhi socchiusi, sapeva che la stava guardando con apprensione – esattamente come aveva fatto la domenica di una settimana prima, e tutte le altre sere a seguire, quasi intuendo che qualcosa non andava solo dai suoi silenzi e da ciò che non aveva detto.
-Giulia?- Filippo la chiamò ancora, facendosi più vicino – Che hai?-.
-Solo un po’ di nausea- rispose lei, perché tanto era sicura che l’avesse sentita vomitare almeno una delle tante volte in quella giornata – E un po’ di debolezza. Niente di che-.
Niente di che, ma non riusciva ad andare avanti. La vista si stava facendo offuscata, e cominciò ad avere paura. Sperò che Caterina e Beatrice fossero rimaste in salotto a giocare, senza doverla vedere in quello stato e spaventarsi a loro volta.
-Vuoi che ti dia una mano?- Filippo le posò delicatamente una mano su una spalla, quasi esitante, ma Giulia non trovò fastidioso quel contatto e non si ritrasse.
-Ce la faccio- mormorò, ma non appena pronunciate quelle parole riuscì solo a fare un altro passo prima di sentire i propri sensi venire sempre meno.
Forse la pressione era troppo bassa, forse la stanchezza fisica la stava sopraffacendo, forse lo stress e l’agitazione stavano facendo il resto.
Seppe solo che il mondo attorno a lei si stava facendo sempre più buio, mentre sveniva, avvertendo solo di sfuggita le urla allarmate di Filippo e le sue mani che le evitavano una rovinosa caduta a terra.
 
*
 
-Giulia non risponde-.
Caterina rimise il cellulare sul tavolo, buttando fuori un lungo sospiro quasi avesse trattenuto il fiato per tutto il tempo in cui aveva ascoltato gli squilli, sperando che dall’altra parte Giulia rispondesse. Non c’era stata nessuna risposta.
Forse, data l’ora, stava cenando, o forse si stava riposando, o forse semplicemente non aveva voglia di prestare attenzione al telefono – anche se doveva essere parecchio in ansia, in attesa di avere notizie su come era andata con Lorenzo.
Nicola sembrò quasi leggerle nel pensiero, quando sbuffò sonoramente:
-Forse non ha il coraggio di scoprire com’è finita con quello stronzo di tuo fratello-.
Aveva una faccia stravolta, come poche volte l’aveva avuta in vita sua. Caterina lo trovava somigliante ad un’ameba, arenato com’era sulla sedia al tavolo della cucina, di fronte a lei, con i capelli scomposti e gli occhi azzurri contornati da rughe di stanchezza.
-O forse ha altro da fare- sospirò di nuovo Caterina – Quando avrà tempo mi richiamerà-.
Aveva una strana sensazione, ma era piuttosto sicura fosse solo dovuta a tutto ciò che aveva vissuto un’ora prima. Nulla di strano che si sentisse ancora scossa.
Un po’ lo era anche Nicola, glielo leggeva in faccia: aveva dovuto badare sia a lei che a Francesco, che pur essendo ancora troppo piccolo per comprendere a fondo certe dinamiche, aveva comunque intuito che qualcosa fosse successo. Li aveva raggiunti nel salotto poco dopo che Lorenzo se n’era andato, contravvenendo a ciò che gli aveva raccomandato Nicola, ma troppo spaventato per ascoltarlo. Si era agitato così tanto che si era addormentato stravolto sul divano, dopo che Caterina aveva cercato al meglio di calmarlo ancora un po’.
-Non ci posso credere, comunque-.
La voce di Nicola risultò ancora piena del misto di sorpresa e shock con cui aveva accolto tutto ciò che gli aveva raccontato Caterina.
-Sulla loro relazione o sul fatto che ora è incinta?-.
-Entrambe le cose- Nicola alzò gli occhi su di lei, le mani tra i capelli con fare disperato, decisamente poco da lui – E tu lo sapevi! Perché non me l’hai detto prima, almeno che stavano insieme?-.
-Perché non credo volesse farlo sapere a troppa gente- rispose semplicemente Caterina, pur con una punta di colpa – E poi magari per sbaglio poteva sfuggirti qualcosa con Filippo, ora che avete ripreso a parlarvi-.
-Quindi ero inaffidabile-.
Caterina fu sul punto di dirgli di sì solo per il troppo nervoso accumulato.
-No, è che semplicemente era una situazione con cui andarci cauti- borbottò, passandosi una mano sul viso – E anche così è finita male lo stesso-.
Per un po’ di tempo, forse qualche minuto, nessuno di loro disse nulla. La pioggia all’esterno continuava a scendere, meno fitta rispetto a prima. Ora che il buio era completamente calato, però, dalla finestra non erano più distinguibili le venature di grigio del cielo plumbeo, né le gocce che continuavano a cadere.
Era una serata spettrale, in qualsiasi senso possibile.
-Adesso che farà?-.
Non c’era bisogno che Nicola specificasse a chi si stava riferendo.
-Non ne ho idea-.
Caterina gli rispose sinceramente: Giulia aveva avuto un’altra settimana per riflettere, ma ancora non aveva detto un’altra parola riguardo la sua gravidanza. Di certo non ne aveva detto nulla a Filippo, né a nessun altro. Doveva trovarsi in un limbo d’indecisione non facile da districare.
-Credo voglia proseguire la gravidanza, ma può ancora cambiare idea. Deciderà lei- sussurrò, dopo alcuni secondi – Tanto Lorenzo è comunque fuori dai giochi-.
“E forse sarà meglio così per tutti”.
Dopo quel giorno ne era ancor più convinta.
-Credevo davvero ti avesse fatto del male-.
D’un tratto la voce di Nicola si era fatta vulnerabile. Era la prima volta che appariva così, da quando Caterina l’aveva visto rientrare in casa e cacciare Lorenzo con una furia che non gli aveva mai visto addosso.
Lo guardò per qualche secondo: aveva gli occhi lucidi, colmi di paura come se stesse rivivendo quel momento.
-Quando sono entrato e ti ho vista a terra con lui di fronte … - si passò la lingua sulle labbra, gli occhi abbassati – Pensavo davvero ti avesse messo le mani addosso-.
-Tecnicamente lo ha fatto- Caterina ricordò la spinta che le aveva dato – Solo che sono caduta per aver inciampato-.
Allungò una mano sopra al tavolo, fino a quando non raggiunse quella di Nicola. La posò sopra la sua, stringendola appena.
-Non so come sarebbe finita se non fossi arrivato tu, però-.
Nicola sembrò ravvivato, meno intrappolato nei ricordi del recente passato, e ricambiò la stretta subito.
-Ha chiuso con Giulia, ma ha chiuso anche con te- annunciò, stavolta con voce ferma – È giunto il tempo che si arrangi-.
-Già- annuì Caterina – Non credo vorrò rivederlo molto presto-.
Sperò solo che lo stesso potesse valere per Giulia.
 
*
 
-Ma dovevi proprio fumà? Fa un freddo boia, li mortacci tua-.
Pietro rise sotto i baffi, tenendo stretta la sigaretta tra le dita. Martino era visibilmente infreddolito, ma il suo essere impegnato nello stringersi nel cappotto pesante non lo fermò dal guardarlo malissimo.
-Nessuno ti impedisce di andare avanti ed entrare- gli fece notare Pietro, facendo un altro tiro con la sigaretta. L’aveva appena accesa, a pochi metri dall’entrata del Celebrità. All’infuori di loro due, poche altre persone avevano deciso di affrontare la notte invernale di Mestre: qualcuno che fumava a sua volta, altri che tenevano già in mano bicchieri pieni di alcool.
Martino arcuò le sopracciglia, continuando a guardarlo malamente:
-Sì, e poi me spieghi tu come ce ritroviamo in mezzo a tutto quer casino, ve’?- sbuffò, scuotendo appena il capo – Vedi che poi se entri da solo e qualcuno ce prova con te vai in crisi de novo, come la prima volta che ce siamo incontrati-.
-Magari stavolta flirterei anch’io- Pietro era perfettamente consapevole di star mentendo solo per provocare l’altro, ma rise comunque alla faccia poco impressionata di Martino.
-Sì, credemoce-.
Pietro rise, rimanendosene in silenzio. Doveva ammettere a se stesso che forse un po’ di ragione Martino ce l’aveva ancora. Non aveva idea di come avrebbe potuto rigettare le avances di qualcuno senza apparire troppo sgradevole e senza farsi prendere dal senso di colpa, ma perlomeno stavolta, ne era quasi del tutto sicuro, almeno non sarebbe finito nel panico più nero.
Nonostante le sue proteste, Martino non si mosse da dove si era piantato. Teneva le braccia incrociate contro il petto e il cappuccio del cappotto a coprirgli la testa di ricci rossi, e nonostante l’aria piuttosto seccata per l’attesa, non disse altro in protesta.
“Proprio un santo” si ritrovò a pensare ironicamente Pietro.
Ci vollero ancora alcuni minuti prima che la sigaretta giungesse alla sua fine, e Pietro scaraventasse il mozzicone nel cestino che si trovava a pochi metri di distanza, lungo il marciapiede.
-Ora possiamo andare- annunciò, provocando uno sbuffo di gioia in Martino.
-Era ora- commentò, scuotendo il capo – Che sto trucco spaziale che me so’ fatto stasera nun era certo pe’ farlo vedè ai sassi-.
Pietro rise, mentre lo seguiva verso l’entrata del Celebrità. Martino aveva già aperto la porta, quando Pietro provò l’impulso di girarsi indietro.
Non era rimasto praticamente più nessuno fuori, solo qualche auto parcheggiata a poca distanza, ma la sensazione di essere osservato non se ne andò fino a quando, pochi secondi dopo, decise di ignorarla.
Entrò dietro a Martino, dimenticandosi di quell’impressione nel giro di pochi minuti.
 
*
 
La prima cosa che notò, ancor prima di aprire gli occhi, fu l’intenso odore di disinfettante e medicinali.
Arricciò il naso, trovandolo troppo pungente e fastidioso, ma fu proprio quella sensazione ad aiutarla ad uscire ancor di più dallo stato di sonnolenza che aveva addosso.
Giulia sbatté le palpebre un paio di volte prima di riuscire ad aprire del tutto gli occhi. Quando ci riuscì rimase abbagliata dalla luce del sole che filtrava dalle finestre. Rimase accecata per qualche secondo prima di abituarsi a tutta quella luminosità.
L’attimo dopo si rese conto che c’era qualcosa che non andava.
L’ultimo ricordo che aveva risaliva a quando fuori c’era buio, con la pioggia che rigava le finestre. Con quella consapevolezza spalancò gli occhi, e si rese conto della seconda cosa che non andava: non era a casa sua.
Quella in cui si trovava era inconfondibilmente una stanza d’ospedale.
Ora che se ne rendeva conto aveva anche l’ago di una flebo piantato nel gomito, e il monitor accanto al suo letto era acceso, in perenne controllo, un bip regolare che riempiva il silenzio della stanza.
Quando Giulia si voltò dall’altra parte si sentì un po’ meno spaesata, ma allo stesso tempo timorosa: Filippo era seduto su una sedia accanto al letto, delle profonde occhiaie scure a cerchiargli gli occhi e uno sguardo particolarmente grave. Sembrava piuttosto turbato, ma per spiegarlo bastava pensare che si trovavano in ospedale, non certo in un luogo qualsiasi.
Filippo non sembrava ancora essersi accorto che si era appena svegliata. Giulia provò a schiarirsi la gola per attirare la sua attenzione, e sembrò funzionare subito: lo vide alzare immediatamente lo sguardo su di lei, sorpreso.
-Ti sei svegliata-.
Filippo aveva parlato con voce roca, come se non avesse parlato per ore e ore, e come se avesse pianto. Non c’era traccia di lacrime ora negli occhi, ma la pelle arrossata e stanca intorno non lasciava alcuna certezza.
-Giusto ora- mormorò Giulia, a mezza voce.
Filippo si fece un po’ più vicino, trascinandosi dietro la sedia:
-Come ti senti?-.
Giulia alzò le spalle:
-Come se un trattore mi fosse appena passato sopra-.
-Non mi è difficile crederlo-.
Quella continua serietà nell’espressione di Filippo non l’aiutò a sentirsi meno agitata. Sembrava sempre sul punto di dirle qualcosa, ma senza arrivare al dunque.
E forse lei stessa avrebbe dovuto parlare con un medico il prima possibile, per spiegare al meglio la situazione in cui si trovava – incinta, a quante settimane nemmeno lei lo sapeva ancora, e non lo avrebbe saputo ancora per qualche giorno fino all’appuntamento con la ginecologa-, per sapere cos’era successo.
Ma per il momento non le sembrava possibile muoversi, sia per i macchinari che la tenevano sotto controllo, sia perché dubitava che il suo corpo ce l’avrebbe fatta: si sentiva stanca anche solo rimanendo sdraiata. Filippo, però, era lì, e sembrava decisamente sapere qualcosa.
-Perché siamo qui?- gli chiese Giulia, con un filo di voce – Cos’è successo?-.
Filippo rimase in silenzio per diversi secondi, lo sguardo ora diretto altrove lontano da lei. Giulia lo osservò mordersi nervosamente il labbro, le mani giunte e posate su un angolo del suo letto.
-Molte cose, direi-.
Sospirò pesantemente, passandosi una mano tra i capelli, e Giulia ebbe la sicurezza che le stava davvero nascondendo qualcosa, almeno per il momento.
-Sei svenuta ieri sera- Filippo riprese a parlare, tornando a guardarla – Non riprendevi i sensi, quindi ho chiamato l’idro-ambulanza, e quando sono arrivati hanno preferito portarti qui per vedere se ti riprendevi e per fare qualche controllo del caso-.
A quella notizia a Giulia venne in mente qualcos’altro:
-Ma le bambine?- domandò perplessa. Era evidente che non fossero lì in ospedale.
-Sono venute qui anche loro stanotte, quando ti hanno ricoverata. Non sapevo a chi lasciarle- le spiegò Filippo – Effettivamente potevo chiedere ad Alessio ed Alice, ma sul momento non ci ho pensato. Stamattina ho chiamato tua madre, e adesso sono a casa con lei-.
-Quindi mia madre è qui a Venezia-.
Giulia non seppe se sentirsi rincuorata o ancor più spaventata all’idea di dover spiegare – o perlomeno giustificare con una qualche bugia- quel suo ricovero.
-Sì, ma non le ho ancora detto niente. Le ho solo detto che hai avuto un piccolo incidente che era meglio tenere sotto controllo- replicò Filippo.
-Ed è vero?-.
Giulia non era del tutto sicura di voler sentire la risposta che le avrebbe dato Filippo. Sembrava turbato, ormai non aveva più alcun dubbio, ed era piuttosto sicura che dopo aver ascoltato ciò che aveva da dire, lo sarebbe stata anche lei.
-Sì, direi di sì. Eri disidratata e molto debole, e hai avuto un calo di pressione-.
Stavolta Filippo abbassò di nuovo il viso, e fu evidente che gli ci volle un po’ più di forza per aggiungere ciò che doveva seguire.
-Cose che possono capitare in gravidanza-.
“Oh no”.
A Giulia sembrò come se il tempo si fosse appena congelato, ritirato su se stesso e incapace di andare avanti.
Dovette rendersene conto anche Filippo, che ora la guardava agitato, lo sguardo contratto come a chiedersi se avesse fatto bene o meno a dire ciò che aveva appena pronunciato. E forse a quella domanda nemmeno Giulia avrebbe saputo rispondere, perché non avrebbe saputo dire se era meglio scoprire in un singolo attimo che Filippo sapeva, o scoprirlo pian piano, magari anche dopo giorni passati nell’ignoranza di essere stata scoperta.
Ma ormai era successo, e Filippo sapeva già tutto. Giulia si sentì crollare, per il panico e anche per la paura di ciò che qualcun altro poteva avergli riferito.
-Te l’hanno detto-.
Non riuscì nemmeno a distogliere lo sguardo da lui, gli occhi che si facevano lucidi non sapeva neanche lei se più per la paura di ciò che sarebbe seguito, o più per il dolore – tutto ciò che si era tenuta dentro per una settimana intera.
-Cazzo, Filippo … -.
-Non è che l’hanno fatto apposta- Filippo si affrettò a interromperla, con voce sorprendentemente rassicurante e calma – Non siamo ancora ufficialmente separati, quindi davano per scontato che sapessi già tutto in quanto ancora tuo marito-.
“Credono che sia tuo”.
Giulia non dette voce a quelle parole, così come non lo aveva fatto Filippo stesso. Ma era quello il concetto taciuto: avevano pensato che fosse lui il padre, quando non lo era. Giulia non volle neanche provare ad immaginare la confusione che doveva aver provato Filippo in quel momento, oltre a molte altre cose che accompagnavano l’implicazione che nella sua vita ci fosse a tutti gli effetti qualcun altro che non era più lui.
-Certo, lì per lì quando la dottoressa mi ha spiegato della gravidanza e dei problemi che si è portata con sé non stavo capendo … Ma ho tenuto il gioco- Filippo parlò arrovellandosi le mani, nervosamente – Mi importava solo sapere che stavi bene, in fin dei conti-.
Era evidente che era ferito, e che probabilmente avrebbe voluto chiederle qualcosa di più, ma qualcosa le diceva che non lo avrebbe fatto. Forse il vecchio Filippo, invece, lo avrebbe fatto eccome, ma non la persona che era in quel momento.
In un modo o nell’altro, quella sensazione la fece sentire anche peggio, e non fece nulla per fermare le lacrime che cominciarono a rigarle il viso.
-Non avresti dovuto scoprirlo così-.
Filippo sospirò appena, un mezzo sorriso malinconico dipinto sulle labbra:
-Lo so-.
 
You're giving me a million reasons to let you go
You're giving me a million reasons to quit the show

You're givin' me a million reasons
Give me a million reasons
Givin' me a million reasons
About a million reasons

 
-Volevo dirtelo-.
Giulia lo disse tra le lacrime, ma si sforzò di essere sufficientemente chiara.
-Volevo parlarti, ma questa settimana è stata un inferno-.
“Ed ero sola, e non sapevo a chi chiedere aiuto”.
Non si accorse subito che Filippo si era avvicinato ulteriormente. Lo aveva fatto mentre lei aveva tenuto gli occhi chiusi, in un ultimo tentativo di non rendere visibili tutte le altre lacrime che rischiavano di seguire quelle che già le avevano inumidito le guance. Quando rialzò le palpebre ritrovò Filippo che aveva abbandonato definitivamente la sedia su cui era rimasto fino a qualche secondo prima, e l’aveva raggiunta sul letto, sistemandosi di lato dove non l’avrebbe disturbata.
Non le era mai stato così vicino da mesi, e in un’altra situazione Giulia l’avrebbe trovato strano, e forse avrebbe rifiutato del tutto quella vicinanza, ma ora non solo non la infastidiva, ma la trovava anche confortante.
-Ho notato certe stranezze, ma non sapevo se potevo chiedere- le disse a mezza voce, dopo un po’.
Giulia annuì, tutt’altro che sorpresa:
-È successo un casino-.
Filippo si chinò su di lei, il viso contratto in un’espressione grave:
-Vuoi parlarmene?-.
Fu strano sentirselo chiedere. Aveva provato ad immaginarsi, nei giorni scorsi, come avrebbe potuto dire a Filippo cosa stava succedendo nella sua vita – dirglielo come si parla ad una persona da cui ormai ci si è allontanati e non si è più in totale confidenza. Si era immaginata mille modi diversi in cui avrebbe potuto iniziare, e anche mille modi diversi in cui Filippo avrebbe potuto reagire quando lei avrebbe finito di dirgli tutto, ma in nessuno degli scenari ipotetici di quella conversazione prevedeva che fosse Filippo a chiederle se voleva raccontargli tutto.
Doveva essere consapevole che avrebbe fatto male, che sarebbe stato tutt’altro che semplice, ma Giulia lo vide comunque determinato a volerla ascoltare.
 
Head stuck in a cycle, I look off and I stare
It's like that I've stopped breathing, but completely aware

'Cause you're giving me a million reasons
Give me a million reasons
Givin' me a million reasons
About a million reasons
 
-Sì- rispose in poco più di un sussurro – Anche se non è facile-.
Si mise seduta un po’ più dritta, un po’ per prendere tempo e un po’ per mettersi in una posizione migliore per la sua schiena dolente.
Sospirò a fondo, cercando le parole. Le sembrò di essere tornata ad una settimana prima, quando era andata a casa di Lorenzo per dirgli che era incinta, con la sola – enorme- differenza che stavolta non aveva paura.
-Mi stavo vedendo con una persona. Da un po’ di mesi- confessò, faticando a non abbassare lo sguardo – Non è che fosse qualcosa di serio, ma ci frequentavamo-.
“Era davvero questo?”.
Non si era mai soffermata molto a pensare a ciò che aveva con Lorenzo. Forse non aveva voluto perché non ci aveva mai davvero visto un futuro.
Ora le sembrava strano cercare di dare una definizione, un confine entro il quale si erano mossi.
-Avevo qualche sospetto, visto che te ne andavi ogni weekend- ammise Filippo – Però erano affari tuoi, e non era giusto che ti chiedessi qualcosa-.
Prima ancora che Giulia potesse prendere in considerazione quale sarebbe stata la sua reazione, dette il colpo:
-È Lorenzo-.
Per la seconda volta in pochi minuti le sembrò che il tempo rallentasse fino a fermarsi. Osservò con attenzione chirurgica le più varie espressioni alternarsi sul viso di Filippo: c’era sorpresa, incredulità, fino ad arrivare alla confusione completa.
-Lorenzo?-.
-Sì-.
Ora non c’era nient’altro se non lo shock, e forse, se non se lo stava immaginando, anche la gelosia.
-Cazzo- borbottò Filippo, gli occhi sgranati e il volto cereo, mentre si passava una mano sulla fronte.
Giulia si passò la lingua sulle labbra secche, consapevole che a Filippo sarebbe servito qualche minuto per metabolizzare la cosa.
-La gravidanza non è voluta- si costrinse a proseguire, perché ora che aveva iniziato non aveva intenzione di fermarsi, neanche sapendo quanto sarebbe stato arduo – Non so bene neanche io come sia successo, ma sono incinta. Lo so da poco anche io. Gliel’ho detto sabato scorso, e l’unica cosa che è stato capace di dire è che non lo vuole, e che dovrei abortire-.
Lo disse tutto d’un fiato, così veloce che quasi si chiese se era risultata comprensibile o se era finita per mangiarsi le parole. Filippo però aveva di nuovo cambiato espressione, ed ora la furia era visibile nei suoi occhi e nella mascella serrata.
-Quel grandissimo bastardo … - imprecò a denti digrignati.
Prima che potesse chiederle cos’altro potesse essere successo, Giulia riprese a raccontare:
-Me ne sono andata via, e sono andata da Caterina. Per quello non sono rientrata a casa. Mi avresti visto in uno stato … - ammise, a mezza voce – Mi avresti sicuramente chiesto cos’era successo, ma non ce l’avrei fatta a dirti tutto. Però l’ho raccontato a Caterina, e lei ha deciso di parlargli. Dovevano vedersi ieri, ma non ho avuto più notizie, e me lo sento che è andata male-.
Non ne aveva davvero la sicurezza, questo lo sapeva, ma non poteva fare a meno di provare la stessa sensazione negativa che aveva avuto per tutto il giorno precedente. Si chiese dove fosse finito il suo cellulare: avrebbe trovato qualche chiamata a vuoto da Caterina? Un suo messaggio in cui le diceva sommariamente cosa si erano detti? O magari aspettava di vederla dal vivo per farlo?
Forse non sapeva nemmeno che ora si trovava in ospedale. C’erano così tante domande senza risposta che Giulia si sentì girare la testa.
Cercò di non pensare alla possibilità di prendere in mano il suo cellulare e trovare una qualche telefonata o un messaggio da Lorenzo. A quell’evenienza si sentiva davvero mancare per la paura e la rabbia.
-A lui non gliene importa niente-.
Sentì di nuovo gli occhi farsi lucidi, stavolta per il nervoso e l’ira, l’abbandono che aveva subito e che le aveva ricordato ancora una volta cosa volesse dire essere sola.
-Mi ha solo manipolata per avermi, come un fottuto trofeo, perché è evidentemente ossessionato da me- sbottò, la voce incrinata dalla nuova ondata di pianto – Ma con un bambino cambia tutto. E forse è meglio che abbia deciso di non esserci-.
-Giulia, mi dispiace. Davvero-.
Filippo mosse una mano, fino a portarla accanto alla sua. Non la sfiorò, forse timoroso che lei non volesse essere toccata, e si limitò a lasciarla lì vicino.
-Non te lo meritavi-.
Prima che potesse frenarsi, Giulia parlò:
-Non mi odi?-.
Stavolta Filippo tornò a guardarla semplicemente disorientato:
-Per cosa?-.
“Per lo stesso motivo per cui ti ho odiato io”.
Era consapevole che non era la stessa identica situazione, ma il confine era molto labile. Non lo aveva tradito a sua volta, ma c’erano troppe implicazioni di mezzo nel pensare che, tra tutti, era stata proprio con Lorenzo.
-Per essere stata con lui. Per essere incinta di lui-.
-Non è facile pensarlo, lo ammetto. Però non posso biasimarti, non dopo il casino che ho creato io- Filippo sospirò piano, prima di sorriderle timidamente, il viso stanco per gli eventi della notte – Quindi è ok. Troveremo una soluzione-.
“Troveremo”.
Poteva essere stato un errore, una disattenzione, ma Giulia volle credere che Filippo intendesse davvero un noi nelle sue parole. Era la prima volta che ci sperava da quasi un anno.
 
And if you say something that you might even mean
It's hard to even fathom which parts I should believe

'Cause you're giving me a million reasons
Give me a million reasons
Givin' me a million reasons
About a million reasons
 
Forse fu anche quella sensazione – nuova e famigliare allo stesso tempo- a spingerla a continuare a parlare, a farla sentire a suo agio per poter dire tutto ciò che le passava per la mente.
-Ho paura di lui- disse con voce sommessa – Ho paura che si presenti sotto casa per costringermi a fare qualcosa che non voglio-.
Ci aveva ripensato mille volte in quei giorni. Lorenzo sapeva dove abitava, e per quanto sapesse che Filippo ancora viveva nella stessa casa, poteva anche non essere affatto intimorito da lui. Poteva raggiungerla sotto casa e continuare a minacciarla.
Il non sentirsi sicura nemmeno a casa sua era una sensazione che le dava la nausea.
-Se ci prova lo butto dentro al primo canale che trovo- Filippo lo disse ridendo, ma con una nota di serietà nella voce che Giulia non ebbe difficoltà a riconoscere – Non ti succederà niente, Giulia. Se prova ad avvicinarsi lo ammazzo sul serio-.
Forse non lo avrebbe ucciso, ma Giulia credette davvero alla promessa di Filippo di aiutarla.
Un po’ le fece credere che sarebbe potuto rimanere al suo fianco ancora per un po’, nonostante tutto quello che si erano appena lasciati alle spalle.
Quel pensiero la portò ad un altro ancora, e prima ancora di ponderare le conseguenze e le implicazioni che ciò che voleva chiedergli avrebbe portato, parlò d’istinto, senza freni:
-Secondo te è possibile rimandare il tuo trasloco?-.
Vide l’espressione di Filippo farsi incredula. Non aveva idea di quale sarebbe potuta essere la sua risposta – non quando le sue cose erano per la maggior parte già stipate in scatoloni e valigie, e quando la data di trasloco ad un altro appartamento, poco distante dal loro, era ormai già nota-, ma Giulia, per la prima volta da troppo tempo, si ritrovò a sperare.
-Non so se riesco a rimanere a casa da sola- ammise a mezza voce – Non ora-.
“Ho paura che Lorenzo possa presentarsi sotto casa e farmi del male”.
Stavolta Filippo non la guardava più con sorpresa, ma con comprensione.
“Mi hanno già ricoverata una volta, cosa succederebbe se dovessi ancora stare male e nessuno potesse badare alle bambine?”.
Lo osservò mentre annuiva tra sé e sé, soppesando una risposta che a lei era ancora ignota.
“Forse c’è una parte di me che ancora si fida di te più di chiunque altro”.
Si chiese se, un giorno, quella parte avrebbe potuto occupare anche le altre parti di se stessa.
Al momento, però, l’unico ad avere una risposta sembrava essere Filippo:
-Posso annullarlo- le sorrise di nuovo timidamente, come se temesse di sembrare troppo entusiasta – Non avevo ancora firmato nulla, di fatto. Se vuoi che rimanga a casa, io ci rimango-.
Sembrava aspettare di nuovo una sua conferma, come se anche il minimo non convincimento di Giulia potesse cambiare completamente il suo destino.
E Giulia trovò piuttosto sarcastico, un’ironia della sorte alla quale non poteva sfuggire, che mesi prima fosse stata lei a chiedergli di andarsene, ed ora fosse sempre lei a chiedergli di non andare via.
-Rimani-.
Stavolta fu lei a muovere la mano verso quella di Filippo. Non la posò sulla sua, ma si limitò a sfiorarla, e fu sufficiente quel contatto una volta così naturale a farla sentire un po’ più al sicuro.
-Almeno per un po’-.
 
Baby I'm bleedin', bleedin'
Stay
Can't you give me what I'm needin', needin'
Every heartbreak makes it hard to keep the faith

But baby, I just need one good one
Good one, good one, good one, good one, good one
 
Quell’“almeno un po’” non aveva confini temporali, quasi fosse una richiesta ben diversa da quella che poteva sembrare, ma a quel pensiero Giulia non avvertì l’urgenza di specificare alcunché.
Forse era lei per prima ad aver finalmente trovato un momento per smettere di andarsene.
Filippo la guardò per diversi secondi senza dire nulla, prima di prendere la sua mano nella sua:
-Non mi muovo-.
Fu un contatto breve, perché pochi secondi dopo lasciò già la sua mano, tornando a tenerla comunque vicina, ma era bastato quel breve lasso di tempo per far sentire Giulia in un modo in cui non si sentiva da tantissimo tempo.
Il silenzio venne interrotto dalla risata sommessa di Filippo:
-Preparati ad un giro di telefonate e di visite- le disse, finalmente con una nota di leggero divertimento nella voce – Tua madre vorrà sicuramente venire a vederti in giornata, e penso che tua sorella ti chiamerà non appena scoprirà che sei sveglia-.
-Devo solo inventarmi qualche scusa da rifilare loro, almeno per il momento- sbuffò Giulia.
“Ma ci penserò dopo”.
-Possiamo pensarci insieme- Filippo sembrò leggerle nella mente – Che dici di una bella intossicazione alimentare?-.
La risata a cui si lasciò andare Giulia era la più sincera da molti mesi a quella parte. Si sentì leggera per davvero, senza sforzarsi di farlo, in una situazione tutt’altro che leggera.
Ma forse era quello che significava smettere di essere soli dopo troppo tempo.
 
When I bow down to pray
I try to make the worst seem better
Lord, show me the way

To cut through all his worn out leather
I've got a hundred million reasons to walk away
But baby, I just need one good one, good one
Tell me that you'll be the good one, good one
Baby, I just need one good one to stay [1]
 
*
 
-Stasera non sono molto calmi, eh?-.
Pietro lo disse sorridendo, anche se un po’ temeva la sua stessa impressione, ovvero che per quella sera né Christian né Federica si sarebbero convinti a mettersi a dormire. Un dubbio più che legittimo, visto le proteste del bambino più grande e i pianti della sorella minore che si erano prolungati fino a pochi minuti prima.
Alessio lo guardò tetro, con aria stravolta:
-No, sarà un bel problema metterli a letto-.
-Ce la potete fare- la figura longilinea di Alice scivolò proprio in quel momento nel corridoio dell’appartamento, uscita dal bagno un secondo prima – Ho fiducia in voi-.
-Tu esci tra poco?- le chiese distrattamente Alessio, cercando di cullare alla bell’e meglio Federica tra le braccia, le guance rossissime per lo sforzo dei pianti di protesta che si erano interrotti da pochi secondi. Christian era già scomparso alla vista, rifugiatosi nella sua camera, ma continuando a sua volta a piangere e ad affermare di non avere sonno.
-In a few minutes- Alice si abbassò per lasciare un bacio sui capelli biondi della figlia, ma fu il gesto più sbagliato possibile: Federica ricominciò il suo pianto l’attimo dopo, riempiendo il corridoio dell’appartamento di nuovi strilli.
Per quanto gli mancasse avere nella sua quotidianità Giacomo e Giorgio, Pietro doveva ammettere che si riteneva piuttosto fortunato nell’evitarsi per diversi giorni a settimana quel tipo di pianti cava timpani.
Osservò Alessio roteare gli occhi al cielo, esasperato:
-Ecco, e ti pareva-.
Prima che chiunque potesse aggiungere altro, sparì con Federica nella camera dove già c’era Christian ad aspettarli. A Pietro non rimase che osservare la schiena di Alessio sparire dietro l’angolo della porta, domandandosi se ne sarebbe uscito vincitore o se i bambini non avrebbero ceduto al sonno entro poco.
-Un po’ mi spiace dovervi lasciare nei casini-.
Pietro si girò verso Alice: aveva uno sguardo vagamente malinconico, ma a tratti anche un po’ divertito. Si ritrovò a pensare anche che fosse particolarmente bella quella sera, il vestito verde che le donava particolarmente e che si sposava bene con i suoi capelli rossi, e con gli occhi leggermente truccati.
Non aveva idea se fosse rimasta d’accordo con Sergio nell’aspettarlo lì, direttamente alla porta di casa, o se si sarebbero incontrati in un posto a metà strada. Sapeva solo che quella era una delle ultime sere prima di Natale in cui si sarebbero ritagliati un po’ di tempo insieme, da soli – e l’assenza di Alice era, d’altro canto, anche il motivo per cui lui si trovava lì, a dare una mano ad Alessio con i bambini. Sembrava che anche per loro quella sarebbe stata l’ultima sera prima di Natale da passare insieme.
“Ma come amici”.
-Ce la caveremo- la rassicurò Pietro con un sorriso sincero – Tanto ormai siamo tutti esperti in bambini piccoli e scalmanati-.
-True- rise Alice – Come stanno Giacomo e Giorgio?-.
Pietro rise a sua volta nel pensare ai suoi figli:
-Stanno bene. Si divertono parecchio all’asilo. E crescono troppo velocemente-.
-Sentimento comune a tutti i genitori-.
Per alcuni secondi si limitarono al silenzio, relativo solo ai pochi metri di corridoio che lui ed Alice stavano condividendo. A poca distanza era facile udire la voce di Alessio, apparentemente calma, che cercava di suonare sufficientemente convincente per indurre al sonno Christian e Federica. Le loro proteste si erano fatte meno udibili, segno che almeno uno di loro stava realmente cedendo alla stanchezza.
Fu in quei momenti di tranquillità monotona che Pietro avvertì Alice avvicinarsi a lui con passi fluidi, e quando si voltò verso di lei per averne la conferma la ritrovò di fronte a sé, con dipinta in viso un’espressione tutt’altro che calma. Era evidentemente esitante riguardo qualcosa, da dire o fare, mentre si mordicchiava il labbro inferiore, uno sguardo di scuse negli occhi.
Non riuscì a capire che stava succedendo.
-Pietro, devo dirti una cosa-.
Quelle prime parole che Alice gli rivolse a bassa voce lo fecero sentire ancora più perplesso.
-Ero molto indecisa se dirtela o no, ma credo che dovresti saperlo-.
-Di che parli?- le chiese frettolosamente Pietro, la fronte corrugata.
Non aveva idea a cosa potesse riferirsi Alice. Riguardava qualcosa su di lei? Su di lei ed Alessio?
Quell’ultima ipotesi un po’ gli strinse la bocca dello stomaco.
Alice lo guardò di nuovo come se fosse sul punto di scusarsi di qualcosa. Sospirò a fondo, scuotendo il capo, prima di tornare a guardarlo:
-Lo scorso sabato ero con Sergio a Mestre. In giro, senza una meta precisa- iniziò a parlare, l’accento inglese che si faceva sentire molto più del solito – Abbiamo parcheggiato lungo una via che non conoscevamo-.
Pietro sentiva che continuava a sfuggirgli qualcosa, anche se al sentire nominare Mestre e il sabato precedente ebbe una sensazione strana. Se non ricordava male anche lui si trovava là, probabilmente con Martino.
Ma Alice doveva riferirsi a qualcos’altro.
L’occhiata colpevole che gli lanciò nuovamente lei, però, gli fece supporre che qualcosa doveva essere andato storto.
-Davanti ad un gay bar-.
La realizzazione lo colpì come un pugno in faccia.
“Cazzo”.
-Ti ho visto per caso mentre entravi, e … - Alice dovette leggergli in faccia il panico che lo stava animando, perché gli posò una mano su un braccio – You don’t have to worry, non l’ho detto a nessuno e non ne ho l’intenzione-.
Pietro sentiva ancora il respiro accelerato e i battiti del cuore irregolari per l’agitazione, la paura di essere stato scoperto da qualcuno che conosceva che però non conosceva il suo segreto. Quelle ultime parole di Alice, però, lo fecero sentire un po’ più calmo: l’aveva visto con Martino al Celebrità, probabilmente aveva fatto due più due, ma non era intenzionata a causargli alcun danno.
E d’altro canto era Alice quella che l’aveva visto. Razionalmente Pietro sapeva che con lei era al sicuro, che era una persona onesta e buona e che non avrebbe mai fatto nulla per recargli danno, ma la razionalità non esisteva, non quando stava prendendo consapevolezza di essere stato scoperto.
Alice non ritirò la mano: continuava a tenerla posata sul suo braccio, come un gesto per dargli sicurezza, e a guardarlo.
-Già mi sento un po’ in colpa per quel che è successo, anche se è stato del tutto casuale- gli disse ancora – Per questo volevo dirtelo-.
Pietro non riuscì comunque a dire nient’altro:
-Cazzo- imprecò, stavolta a voce. Se ne rese conto un secondo dopo, scuotendo subito il capo:
-No, dico, non è colpa tua. È stata una coincidenza-.
“Una coincidenza del cazzo, però”.
Cercò di calmarsi. Era evidente che Alice si sentisse davvero colpevole, per qualcosa che, a detta sua – e Pietro tendeva comunque a crederle, nonostante tutto- non aveva né cercato né fatto in modo che avvenisse.
-Esatto. Davvero, non hai niente da temere con me, Pietro- Alice parlò con tono rassicurante e sincero, gli occhi verdi che lo fissavano con intensità – Non mi devi spiegazioni. Della tua vita puoi fare quel che vuoi-.
In un modo o nell’altro, quell’ultima frase riuscì a tranquillizzarlo davvero, almeno in parte. Si sentì sollevato dal fatto che Alice non gli avesse chiesto niente, ma provò comunque il bisogno di darle almeno una spiegazione parziale. Ma che dirle? Che era lì per vedere un amico? Che non si era accorto che fosse un locale gay?
Quell’ultima ipotesi gli fece storcere il naso. Non aveva pianificato un coming out con Alice, non in quel momento, ma l’ipotesi di rinnegare il Celebrità – e tutto ciò che veniva insieme- gli stava lasciando un vuoto dentro.
-Già- iniziò, ancora senza una minima idea di come giustificare la sua presenza laggiù – Ecco, è che … -.
-Forse ora si è calmata-.
Non si era accorto dei passi di Alessio, né che finalmente, in effetti, non c’erano più pianti nella stanza accanto. Christian e Federica dovevano essersi addormentati, ed Alessio era tornato indietro – da quanto tempo, Pietro non ne aveva idea.
Non doveva aver ascoltato molto, però, a giudicare dallo sguardo confuso che lanciò sia a lui che ad Alice.
-Tutto bene?- chiese Alessio, un sopracciglio alzato – Avete delle facce strane-.
Pietro immaginò che dovevano sembrare sospetti, così vicini e rimasti silenziosi non appena Alessio si era avvicinato. Fu Alice a parlare per prima, lanciandogli un sorriso di circostanza, e visibilmente forzato:
-Stavamo solo condividendo pensieri da genitori sempre in ansia-.
Pietro annuì a sua volta:
-Già-.
Incrociò le braccia contro il petto, osservando il viso di Alessio: era evidente che non se l’era bevuta, e che continuava a dubitare di ciò che era successo in quel corridoio, ma non fece altre domande. Pietro sperò quasi che ne facesse, perché quel silenzio stava cominciando a farsi fin troppo pesante.
-I really have to go- dopo qualche attimo fu di nuovo Alice a prendere parola, facendo finta di essersi appena ricordata di avere un impegno – Passate una buona serata-.
Non attese altro tempo prima di fare qualche passo indietro, lungo il corridoio, verso l’ingresso per recuperare il cappotto e infilarsi le scarpe.
-Anche voi- la salutò di rimando Alessio, accostatosi a Pietro. Non disse nulla fino a quando non scattò la porta dell’appartamento, Alice che se l’era chiusa alle spalle dopo aver preso le ultime cose che le servivano per uscire.
-Sicuro di stare bene?- quando Alessio glielo domandò, Pietro aspettò qualche secondo prima di girarsi verso di lui, poco sicuro della sua stessa espressione – Sei pallidissimo-.
Pietro non ne dubitava affatto, ma non poteva nemmeno spiegargli a cosa era dovuta la sua tensione.
-Sì, ho solo un po’ di freddo-.
In tutta risposta ricevette un buffetto su una spalla, Alessio che stavolta gli sorrise, più nessuna traccia di dubbio sul suo viso:
-Vado a prendere un’altra coperta da usare mentre stiamo sul divano-.
Pietro era sicuro che, qualunque sarebbe stato il film che avrebbero deciso di guardare quella sera, non sarebbe riuscito a concentrarcisi nemmeno un secondo.
 
*
 
La musica jazz non era mai stata particolarmente nelle sue corde, ma quella sera la stava trovando piacevole. Forse era tutta l’atmosfera a renderla più interessante, perché in quel bar, in un angolo deserto di Venezia, con le vetrate oscurate per la sera già arrivata e le luci soffuse, Pietro non sarebbe riuscito ad immaginarsi nessun altro tipo di musica da ascoltare in sottofondo. Il jazz si sposava bene con l’insieme, e perlomeno lo stava aiutando a calmarsi. Cosa fondamentale per quello che lo stava attendendo.
Si rigirò il cellulare tra le mani ancora una volta, guardando l’ora: mancavano cinque minuti alle sette, l’ora in cui si sarebbero dovuti incontrare.
“Non è ancora definibile ritardo” ricordò a se stesso, “Non puoi rimproverarla per non essere arrivata in anticipo quanto te”.
Non c’era molta gente nel bar. Probabilmente i tavolini sarebbero stati occupati per la maggior parte solo dopocena. O magari tutti erano troppo impegnati a organizzare qualche festa di Capodanno in anticipo di un giorno, e nessun altro si sarebbe presentato per quella sera.
Forse solo Alice sarebbe arrivata.
Pietro le aveva scritto a Santo Stefano, in un impulso d’ansia, perché quella situazione di stallo era ben peggiore che dare finalmente una definizione ben precisa a quel che Alice aveva visto la sera in cui, inconsapevolmente, si erano incrociati a Mestre.
Gli ci erano voluti tre giorni interi per arrivare a quella conclusione, ma alla fine ci era riuscito. Non aveva idea se avrebbe avuto altrettanto coraggio nel parlarle apertamente faccia a faccia, però.
Per messaggio era stato più facile: le aveva risposto per ricambiare gli auguri di Natale, e poi si era buttato qualche minuto più tardi, chiedendole se poteva vederla per parlarle. Non aveva specificato di cosa, ma Alice probabilmente aveva capito e non aveva battuto ciglio. Aveva deciso lei il posto e l’ora, e a Pietro non sorprendeva che avesse scelto proprio quel posto. Era decisamente nello stile di Alice: tranquillo, discreto, con tutto sommato della buona musica.
Non mancava neanche il menu degli alcolici, ma stavolta si era costretto a puntare su un misero bicchiere d’acqua. Doveva essere lucido, completamente concentrato, per quel che doveva dirle.
Fu mentre prendeva un altro sorso dal suo bicchiere che scorse con la coda dell’occhio la porta del bar aprirsi, e riconobbe subito Alice. Anche lei dovette individuarlo all’istante, perché si diresse a passo sicuro verso il tavolino che Pietro aveva occupato, proprio accanto ad una delle vetrate che davano sulla calle di fronte.
-Hi- Alice lo salutò sorridente, accingendosi a sederglisi di fronte – Hai avuto difficoltà a trovare il posto?-.
-No, quasi per niente- ammise Pietro, salutandola con un gesto della mano.
“Il che è un miracolo, visto che siamo a Venezia”.
-Meglio così, o mi sarei sentita in colpa- ironizzò Alice, mentre si toglieva la sciarpa e si sfilava il cappotto, per lasciarli posati sullo schienale della sedia. Non sembrava per niente in ansia, al contrario di quanto si sentiva Pietro.
-Non sapevo se avresti detto di sì a questa cosa- ammise a mezza voce, guardando Alice di rimando. La vide contraccambiare l’occhiata con fare sorpreso:
-Why not? È da un po’ di tempo che non passiamo una serata da soli-.
Era ovvio che stesse cercando di fare il possibile per metterlo a suo agio, decisamente aspettandosi quel che stava per accadere, e Pietro le fu grato anche se non servì molto a calmarlo.
-Già-.
Rigirò il bicchiere d’acqua tra le mani, in un mero quanto inutile tentativo di prendere tempo. Sapeva che Alice era in attesa che prendesse di nuovo lui la parola, e sapeva anche che lo stava osservando. Si sentiva il suo sguardo addosso, paziente nel silenzio tra loro due.
Si chiese se avesse detto ad Alessio dove stesse andando, quando era uscita di casa. Magari aveva semplicemente accampato qualche scusa, forse aveva detto che doveva vedersi con Sergio. O forse non gli aveva detto niente. Qualcosa gli diceva che non gli avesse detto che era lui la persona che doveva vedere, in qualsiasi caso.
Prese un sospiro profondo: il tempo stava passando, e forse più ritardava il momento, più rendeva difficile dirlo e basta.
-È che … - Pietro si schiarì la gola, tenendo gli occhi abbassati – Lo so che non mi hai chiesto alcuna spiegazione e che non ne vuoi, però volevo parlarti di quel sabato. Di quando mi hai visto-.
Quando alzò a malapena il viso, vide Alice guardarlo con espressione seria:
-Lo sai che non sei costretto-.
-Lo so-.
E Pietro lo sapeva davvero, perché in fondo di Alice si fidava. Poteva averla ardentemente invidiata, anni addietro, sperato di essere al suo posto, ed essere anche stato geloso qualche volta, ma l’aveva sempre vista come un’amica. Come una persona affidabile.
E sapeva che lo era stata anche in quell’ultima settimana. Non si era comportata diversamente, né gli aveva dato l’impressione di volerlo evitare, né nient’altro di diverso dal solito. Martino avrebbe commentato la cosa dicendo che doveva essere la normalità, ma Pietro non riusciva ancora ad entrare del tutto in quell’ottica.
Alice, in ogni caso, si era comportata da amica, e non aveva fatto nulla per tradire la sua fiducia. E forse poteva aver fatto coming out già con un paio di persone, ma quello sarebbe stato il vero banco di prova.
Un po’ gli fece strano pensare che sarebbe stata Alice ad ascoltarlo, tra tutti, ma in fondo andava bene così. Doveva essere destino che fosse lei.
-Lo so- ripeté con più convinzione – Ma voglio farlo-.
Alice annuì subito, senza dire nulla. Ora era meno calma di prima, ma Pietro non l’avrebbe definita agitata. Era più emozionata. Come se si rendesse conto lei stessa, prima ancora di viverlo, dell’importanza che avrebbe rivestito quel momento.
“Andrà bene”.
Pietro non riuscì a capire da dove arrivasse quell’improvvisa ondata di ottimismo, ma preferì non lasciarla scappare. Gli sembrò di non essere solo, in quel momento.
Sospirò di nuovo, stavolta alzando il capo per guardare Alice dritta negli occhi:
-Mi hai visto entrare un in gay bar perché è quel che sono-.
Pietro sentì la propria voce tremare, ma fu solo un attimo fugace.
-Sono gay-.
Alice non disse ancora niente, ma ora gli stava sorridendo. Pietro si costrinse a non gridare per il panico e l’euforia che si sentiva addosso allo stesso tempo.
-E sei una delle prime persone a saperlo- ammise, a bassa voce.
Incredibilmente fu quella cosa a scomporre Alice dal suo silenzio, facendole aggrottare la fronte per lo stupore:
-Davvero?-.
Pietro annuì:
-Sei tipo la quinta persona in assoluto, se non sbaglio-.
“E ne dovranno seguire almeno altre cinque” si ritrovò a pensare. E poi, prima o dopo, avrebbe anche trovato il coraggio per parlarne ai suoi genitori, ai suoi fratelli … Un giorno anche ai suoi figli. Ma ci voleva un passo per volta, sempre se l’ansia non sarebbe stata troppa nelle prossime volte in cui sarebbe capitato.
Per alcuni secondi Alice non disse niente, ma gli sorrise in un modo che bastò per fargli capire che era felice. Non per sé, ma per lui.
-Mi sento molto onorata- quando parlò, dopo altri secondi, Alice aveva la voce un po’ rotta dall’emozione, e l’accento inglese aveva reso le parole un po’ più incerte.
Pietro non era del tutto certo di essersi aspettato una reazione del genere – qualcosa che andava ben oltre l’aver preso semplicemente nota del suo coming out-, e non seppe come comportarsi. Con Giada era stato disastroso, complicato in un modo che però si era del tutto aspettato. Era stato difficile anche con Fernando e Alberto, perché all’epoca ancora era nella fase in cui si odiava il più delle volte. Con Martino non era stato neanche un vero e proprio coming out: era tutto piuttosto intuibile da quando aveva messo piede per la prima volta al Celebrità.
Con Alice era diverso, forse perché lei gli stava mostrando una reazione differente dalle altre.
Quando la vide allungare una mano verso di lui, posandola sul dorso della sua, lo trovò un puro e semplice gesto di amicizia e di vicinanza.
-Pietro, I’m so proud of you- Alice glielo sussurrò a mezza voce – Dovresti esserlo anche tu-.
Anche se avrebbe un po’ faticato ad ammetterlo, Pietro sentì gli occhi farsi lucidi per davvero in quel momento.
 
Sometimes we may get tired or sick
That’s okay, I am by your side
If you and I are together
We can smile
 
Avrebbe voluto dirle che ci stava provando da anni – non solo ad essere fiero di se stesso, ma perlomeno a non vergognarsi. E forse, un po’ alla volta, stava iniziando davvero a riuscirci, e forse sarebbe stato anche grazie alle parole di Alice.
-Non ti fa strano?- le chiese, in un momento istintivo, con la voce un po’ roca – Voglio dire … Mi hai sempre visto con Giada-.
-No, non mi fa strano. Magari te ne sei reso conto tardi, magari non volevi ammetterlo- Alice scosse il capo, dandogli un’ultima stretta alla mano prima di allontanarla un po’ – Avrai avuto le tue ragioni. Ma stasera ti stai aprendo su una parte di te che sono sicura sia molto importante. Sono contenta che ti fidi abbastanza per dirmelo-.
-Non è stato facile- ammise Pietro, e per un attimo tanti ricordi tornarono alla mente – C’è stato un amico, che ho conosciuto in quel locale dove mi hai visto, che mi ha dato una mano. Ma non è stato comunque semplice per tanto tempo-.
“E con lui anche qualcun altro”.
Sapeva che, quando avrebbe raccontato a Martino di quella sera, sarebbe stato altrettanto felice di sapere che era andata bene, che glielo aveva detto che ormai era tempo di lasciarsi andare senza troppi pensieri.
E s’immaginò anche Fernando, lì di fianco a lui, sorridente allo stesso modo. Era merito soprattutto suo se ora si trovava lì con Alice, a parlarle di sé senza provare quella vergogna che lo aveva accompagnato per anni, gli anni più bui della sua vita, e forse Fernando non era fisicamente lì con lui, ma sentiva la sua presenza, sentiva la felicità che avrebbero provato insieme.
Anche Alice gli stava sorridendo, forse felice in una maniera diversa, ma non meno sincera:
-Ce l’hai fatta ora. Questo è l’importante-.
Stavolta Pietro ricambiò il sorriso.
 
These wings sprouted from my pain
But these wings are going towards the light
Even if it's tiring and painful, I will fly if I can
Will you hold my hand
So that I won’t be afraid anymore?
If you and I are together
I can smile
 
Per un attimo si chiese se quella conversazione – o almeno quella parte fondamentale- potesse dirsi conclusa. Ma passarono alcuni attimi, durante i quali Pietro si era lasciato un po’ più andare nell’ascolto della musica jazz che ancora risuonava in sottofondo nel locale, in cui Alice sembrò essere presa da un dubbio. Non era un’impressione di cui Pietro era sicuro, ma l’aveva vista corrugare la fronte per una frazione di secondo, come se stesse avendo un conflitto con se stessa. Stava forse esitando a fargli domande che avrebbero potuto sembrare imbarazzanti?
Pietro fu quasi sul punto di dirle che poteva chiedergli altre delucidazioni se qualcosa non le era chiaro – probabilmente pentendosene subito dopo-, ma stavolta Alice non si fece attendere:
-You know … Ho sempre avuto una sensazione su di te-.
Era ancora visibilmente esitante, gli occhi abbassati, e Pietro si domandò dove stesse andando a parare. Alice sospirò a fondo, prima di proseguire:
-Anni fa avevo il dubbio che tra te e Alessio potesse esserci qualcosa, ma ho sempre lasciato perdere- lo disse velocemente, un po’ a disagio, e Pietro un po’ si sentì sbiancare in viso – Non sarebbe stato carino chiedere, e poi potevano essere solo mie impressioni del tutto sbagliate-.
“Era così evidente?”.
Ricordava che anche Fernando l’aveva capito al volo, quando ancora lo conosceva del tutto superficialmente, quindi forse non era poi così strano che Alice potesse aver avuto quel dubbio. Era una persona attenta, osservatrice: di sicuro doveva aver notato qualcosa in tutti quegli anni. Non gli era mai sorta quell’incertezza, ma ora ne aveva direttamente la conferma definitiva.
Negare non sarebbe servito a niente.
-Non lo erano- ammise, arrossendo terribilmente –  Cioè … Non posso parlare per Alessio. Lui è sempre stato un mistero. Però posso parlare per me-.
Non seppe come prendere il fatto che Alice non sembrasse affatto sorpresa, quasi se lo aspettasse del tutto.
-Ne eri innamorato?-.
A quanto pareva quella era la serata delle confessioni.
Pietro sospirò a fondo, prendendone consapevolezza: ormai non poteva più negare, né riusciva a vedere il senso di continuare a fingere.
-Molto. Però poi ho preferito allontanarmi-.
Non cercò di far trasparire nella sua voce una sorta d’accusa nei confronti di Alice. Si era allontanato da Alessio anche per la sua presenza, ma era stata solo una minima parte del tutto.
-Ora le cose vanno meglio- aggiunse – Soprattutto con me stesso. E anche con lui-.
-E quindi … - lo incalzò lei.
Pietro alzò le spalle, rassegnato:
-Mi sono innamorato. Di nuovo-.
Quando avrebbe raccontato a Martino quella parte di conversazione – dove aveva ammesso senza giri di parole alla ex dell’uomo che amava di esserne stato innamorato per anni, e di esserlo tutt’ora- sapeva già che gli avrebbe riso in faccia accusandolo di starselo inventando. A ruoli inversi, Pietro avrebbe sicuramente reagito così.
Ma Alice non sembrava averla presa male. Non sembrava nemmeno turbata. Forse aveva capito tutto così tanto tempo fa che ormai aveva interiorizzato tutto a sufficienza.
-È una bella cosa, no? Però fa anche paura. Lo comprendo bene, lo sto vivendo con Sergio- disse lei, d’un tratto un sorriso malinconico e spento ad adornarle le labbra – I love him, but … -.
“Ma è sempre un casino” avrebbe voluto dire Pietro, ma tutto quello che riuscì a fare fu lasciarsi andare ad un sospiro profondo. Capiva fin troppo bene quello che stava intendendo Alice.
-Non riesco nemmeno a trovare il coraggio per chiedergli di andare a vivere insieme- mormorò lei, con voce distante.
Pietro si era chiesto più di una volta che ci facesse ancora nella stessa casa con Alessio: poteva capire lo facessero per i bambini, che erano ancora molto piccoli, ma con la presenza di Sergio la questione si faceva più complicata. Ora cominciava a capire cosa la stesse frenando così tanto: la paura di rimanere ancora ferita.
Non riuscì a darle torto.
-Non devi sentirti in colpa- le disse – Sono sicuro che ti ama e che sa perfettamente che ti ci vuole tempo. Ti aspetterà-.
 
This road may be long and rough but
Will you stay with me?
We may fall and sometimes get hurt but
Will you stay with me?
 
Volle credere che lo stesso potesse valere anche per se stesso. Che magari Alessio ci sarebbe stato per lui quando finalmente avrebbe deciso di prendere la situazione in mano, anche se, doveva ammetterlo, la loro situazione era, se possibile, ancor più complicata.
Fu pensare ad Alessio che gli fece venire in mente qualcosa:
-Non ti dà fastidio?- chiese a bruciapelo, guadagnandosi un’occhiata confusa da Alice – Che provi qualcosa per Alessio?-.
Un po’ si sentiva come quelle persone che decidono di frequentare volontariamente un ex di un amico. Forse lui ed Alice si erano un po’ persi di vista, ma la considerava ugualmente un’amica, e il senso di colpa c’era eccome.
Ma lei scosse il capo all’istante, con tranquillità:
-No. Ormai lo considero semplicemente in modo fraterno- Pietro la ascoltò mentre parlava lentamente, ponderando le parole – È il padre dei miei figli e gli vorrò sempre bene, ma l’amore che provavo per lui è finito da tempo. Ho trovato qualcuno che mi ama davvero, meglio di quanto non avrebbe mai fatto lui-.
Pietro si limitò ad annuire. Era ovvio dal modo in cui l’aveva detto che, seppur in minima parte, Alice ancora doveva essere ferita da come era finita con Alessio. Non doveva essere un dolore che le portava ancora rabbia – non poteva esserlo di certo, non quando li vedeva così pacati tra loro-, ma di sicuro più di qualche rimpianto. Un po’ la capiva: c’era stato un tempo in cui lui si era sentito in un modo molto simile ogni volta che pensava ad Alessio.
Alice tornò ad alzare lo sguardo dopo alcuni secondi, scostandosi dal viso una ciocca di capelli rossi che le era finita davanti agli occhi. Osservò Pietro in silenzio per un po’, prima di tornare a parlare:
-Però credo che da qualche parte ci sia una persona che saprà amare davvero-.
Pietro non fece nient’altro se non annuire passivamente:
-Probabilmente-.
“Ma potrei benissimo non essere io”.
Non poteva permettersi quella presunzione.
Non era più un ragazzino illuso, né qualcuno che poteva pretendere di imporre i propri sentimenti su Alessio.
Ma non poté nemmeno negare a se stesso una fitta all’altezza del petto al pensiero che, effettivamente, potesse esserci qualcun altro al mondo che potesse rendere Alessio più felice di quanto non avrebbe mai potuto fare lui.
-Dovresti provarci-.
Pietro alzò di scatto lo sguardo verso Alice, gli occhi sgranati nel chiedersi se l’avesse sentita davvero dire quelle parole, o se fosse stata solo un’allucinazione sonora.
Ma Alice gli stava sorridendo timidamente, come se si rendesse conto lei stessa dello shock che gli aveva appena causato.
-A parlargli, dico- aggiunse, con voce gentile – Non ti assicuro che possa ricambiarti, e non voglio illuderti inutilmente, però … -.
-Però?-.
Alice scosse appena il capo:
-È una sensazione anche questa, quindi nulla di provato-.
E poi lo guardò come se stesse cercando di comunicargli qualcosa che andava oltre le parole, come se le risultasse difficile potersi esprimere semplicemente a voce.
-Ma ti guarda sempre in un modo in cui non l’ho mai visto guardare nessun altro-.
Era sottinteso che intendesse “neanche me”, ma non lo disse.
E Pietro non poté fare a meno di chiedersi se gli sguardi che aveva visto Alice in Alessio fossero gli stessi sguardi che poteva aver visto in lui. Era una domanda che avrebbe voluto porle, ma la risposta poteva essere troppo pericolosa, sia che fosse stata affermativa che il suo contrario.
-Credo che ne avrò conferma solo se avrò abbastanza coraggio per farmi avanti- disse, ridendo ironicamente perché il solo pensiero di poter arrivare ad un punto simile lo terrorizzava – Per ora devo ancora trovarne per fare coming out-.
“E chissà che dirà in quel momento”.
Non credeva davvero che Alessio avrebbe preso in un qualche modo le distanze quando avrebbe saputo. Sarebbe stato un controsenso unico, illogico, ma sapere avrebbe cambiato le cose, la sua consapevolezza.
-Lo farai quando ti sentirai pronto. Ma vedrai che andrà bene- Alice gli sorrise apertamente stavolta, con affetto sincero, con vicinanza – Sai che sei hai bisogno di una mano, per qualsiasi cosa, non sei solo-.
Pietro le sorrise di rimando.
Lo sapeva, certo che lo sapeva.
Era stato solo a lungo, a vagare senza una meta. Ma ora non era solo, non più da tempo, non nel percorso che stava compiendo.
 
I never walk alone
If you and I are together, we can smile
You never walk alone
If you and I are together, we can smile
If you and I are together, we can smile [2]






 
[1] Lady Gaga - "Million reasons"
[2] BTS - "You never walk alone"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Dopo alcuni giorni dagli eventi del capitolo precedenti, ritroviamo qui i nostri protagonisti a cercare di gestirne le conseguenze. La prima a provare a farlo è Caterina, che si è assunta l'onere di provare a far ragionare il fratello o, perlomeno, cercare di trovare un punto d'incontro. Un tentativo che però si rivela inutile e, anzi, finisce con Nicola che caccia di casa Lorenzo dopo aver creduto che Caterina abbia subito qualche tipo di violenza.
E mentre Caterina racconta tutto a Nicola, senza più segreti, in una zona poco distante di Venezia ritroviamo anche Giulia ... Che a quanto pare sta avendo qualche problema di salute, di cui scopriamo la natura poco più tardi.
Purtroppo per Giulia, però, la piccola "deviazione" all’ospedale ha fatto sì che i medici rivelassero, seppur involontariamente, la sua gravidanza a Filippo. Lo shock iniziale di Filippo, però, è destinato a crescere poco a poco nel corso del dialogo, quando scopre che quella gravidanza inattesa fosse il frutto della relazione tra Giulia e Lorenzo, quel Lorenzo, e che, in aggiunta, l'uomo non ne vuole sapere nulla.
Filippo, nonostante tutto, non si tira indietro e promette di rimanere vicino a Giulia, anche quanto la stessa gli chiede di rimanere ancora a casa con lei e le bimbe e rimandare il trasloco. Come si evolveranno ora le cose tra i due? Ci sarà un lento riavvicinamento o sarà solo una parentesi momentanea? E Giulia, alla fine, cosa deciderà di fare con questa gravidanza?
Dopo aver seguito Giulia e Filippo, sul finale torniamo a concentrarci su Pietro... Ed un mistero è stato svelato 👀 La sensazione di essere osservato da qualcuno la settimana precedente, mentre era con Martino al Celebrità, era in effetti fondata, e la persona ad averlo visto è proprio Alice.
Ed è proprio con lei che Pietro, per risolvere la situazione ed essere onesto, fa coming out. Il primo di una lunga serie? Questo lo scopriremo!
Ci rivediamo con il capitolo successivo mercoledì 3 aprile!

Kiara & Greyjoy
 
PS: e nel frattempo vi auguriamo una buona Pasqua!:)

 
 

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Capitolo 27
*** Capitolo 24 - This is me ***


CAPITOLO 24 - THIS IS ME



 
Ma tu chi sei
Che cosa vuoi
E come mai mi pensi
Non sono io
Nemmeno lei
Ma i cieli sono immensi [1]
 
Scrollare le foto nella galleria del suo cellulare non era mai stato così doloroso prima. Ma prima era tutto diverso, e in quel dopo non sembrava esserci spazio per la serenità.
Almeno non per lei.
Giulia tirò su con il naso, le lacrime silenziose che le rigavano il viso ma che non aveva nemmeno tentato di frenare. Sarebbe stato inutile, comunque.
Le foto che le erano passate davanti agli occhi appartenevano ad anni passati. Avrebbe potuto cominciare anche con foto risalenti a dieci anni prima, ma Filippo sarebbe stato ugualmente presente.
Lei con lui.
C’era sempre almeno una foto di lui per ogni mese di ogni anno per gli ultimi undici anni. Era il suo punto fermo, ciò che nel tempo non cambiava mai. Potevano esistere mille variabili, ma Filippo c’era sempre stato – e forse non ci sarebbe stato più, d’ora in avanti.
Si chiese se anche lei aveva foto di Filippo, foto scattate con lui in momenti particolari, o semplici scatti rubati mentre era distratto nel fare qualcos’altro. Un moto di rabbia le squarciò il petto nell’immaginarsi una scena simile, fin troppo simile a qualcosa che aveva vissuto lei in prima persona.
Si era sempre divertita a fotografare Filippo a tradimento, immortalarlo quando lui neanche se ne accorgeva, fermando nel tempo attimi di naturalezza tale che non sarebbe mai stata replicabile con foto programmate, decise a tavolino. Erano quelle a cui era più affezionata, e il solo pensiero che qualcun altro potesse condividere con lei quella sorta di privilegio la faceva sentire senza più fiato nei polmoni.
Si chiese se anche Filippo in quel momento, mentre era steso sul divano letto nel salotto – di quella che prima o poi avrebbe smesso di essere la loro casa-, stava riguardando loro vecchie foto. Una parte di lei sperava che fossero foto di loro – di Giulia e Filippo-, e non foto con Linda. Forse sperava che non ne esistessero proprio, di quel genere.
In cuor suo sapeva che quella speranza c’era, e ci sarebbe sempre stata. Durante il giorno era più semplice soffocarla, ma alla notte diventava vulnerabile, meno attenta. Era più facile ammettere che l’amore che provava per lui poteva cambiare, ma non se ne sarebbe mai andato del tutto.
Nemmeno se non avrebbe mai più scattato foto a Filippo.
 


Camminò lentamente verso la camera, di ritorno dal bagno, la mente ancora intontita dal sonno e dal sogno che aveva fatto. Più un ricordo che un sogno, si ritrovò a correggersi tra sé e sé Giulia, mentre finalmente raggiungeva la soglia della stanza da letto.
Il sole del mattino illuminava la stanza. Sarebbe stata una bella giornata invernale, quella, ne era sicura: dalla finestra intravedeva un bel cielo terso, senza nuvole, un giorno pieno di luce e forse nemmeno troppo freddo.
Il silenzio regnava ancora nell’appartamento, forse perché le gemelle stavano ancora dormendo. A quel pensiero si ritrovò ad invidiarle profondamente: aveva dormito malissimo quella notte, il sonno agitato e leggero, tant’è che alle sei era già sveglia, e tutti i tentativi di riaddormentarsi erano stati inutili.
Ora si ritrovava con dolori per tutta la schiena, lungo le gambe, e la generale sensazione di essere un rottame. Quando fece per distendersi di nuovo a letto, per pensare con calma a cosa l’aspettava durante quella domenica di metà Febbraio, le fitte che le partirono dalle spalle e poi su per il collo le fecero chiudere gli occhi per qualche secondo. Detestava i dolori cervicali con tutta se stessa.
Gemette per il dolore ancora una volta, stavolta per la schiena acciaccata, mentre cercava pian piano una posizione che non le dolesse troppo. Non era facile muoversi già di per sé, e il grembo sempre più evidente non le semplificava le cose.
Ci fu un leggero bussare che avvertì qualche attimo dopo, e quando alzò gli occhi alla porta aperta non si sorprese di trovare Filippo sulla soglia: doveva essere stato mattiniero anche lui, ma anche piuttosto silenzioso. Giulia non si era minimamente accorta di non essere l’unica sveglia in casa.
-Tutto ok?- Filippo glielo chiese a mezza voce, per non svegliare le bambine, ma con un sottotono allarmato che a Giulia non sfuggì. Doveva aver udito i suoi lamenti di poco prima.
-Sì, ho solo la schiena rigidissima- spiegò, buttando fuori un sospiro esasperato – E non parliamo dei piedi gonfi-.
Era stata un’impresa mettersi le ciabatte per andare in bagno – urgenze della sua vescica costantemente premuta dal peso del bambino.
“Le vere gioie della gravidanza, oh sì”.
-Vuoi un massaggio?- Filippo fece un passo avanti, sorridendole – Se mi ci metto sono davvero bravo-.
Giulia fece finta di pensarci qualche secondo, ma in realtà aveva bisogno di una soluzione quanto prima – qualsiasi soluzione.
Lo guardò minacciosa per qualche secondo, puntandogli un dito contro:
-Se mi blocchi la schiena ancor di più salti il pranzo-.
Filippo non sembrò affatto scoraggiato: rise sommessamente, camminando verso il letto.
-Accetto il rischio, ma non succederà-.
Giulia cercò di mettersi a sedere, lasciandogli spazio tra sé e la testiera. Filippo scostò il cuscino prima di prendere posto a sua volta sul materasso, allungando lentamente le mani verso Giulia.
Era qualcosa a cui lei si stava riabituando pian piano – quel contatto fisico che era mancato per un anno intero. Giulia percepì la pressione dapprima leggera dei polpastrelli di Filippo su di sé. C’era il tessuto del suo pigiama a fare da barriera tra le loro pelli, ma avvertì comunque un brivido lungo la schiena.
-Fa male qui?-.
Filippo aveva appena raggiunto un nodo di muscoli sulla sua scapola sinistra, e non appena premette con più convinzione Giulia sussultò per il dolore.
-Sì- esclamò, lasciandosi andare ad un altro lamento – Oddio, proprio lì-.
-In effetti hai davvero i muscoli molto rigidi- ponderò Filippo, e anche se non poteva vederlo Giulia era sicura che l’avesse detto tenendo la fronte aggrottata – Hai dormito bene stanotte?-.
Giulia assunse un’espressione confusa:
-Perché me lo chiedi?-.
Filippo sbuffò appena:
-Magari è dovuto a quello. Sai, una posizione strana, o insolita … -.
Giulia si morse il labbro inferiore per qualche istante, sia per silenziare i possibili gemiti di dolore mentre Filippo continuava cautamente il massaggio, sia per l’indecisione che la stava attanagliando. Si schiarì la gola dopo poco, prima di parlare:
-Credo di essermi un po’ agitata- disse vaga.
-Per qualche motivo particolare?-.
Era probabile che Filippo si stesse riferendo a qualche possibile disturbo causato dalla gravidanza. Doveva ricordarsi dei mesi in cui era incinta di Caterina e Beatrice: in quel periodo aveva avuto il sonno particolarmente turbolento, sia per i loro movimenti nella sua pancia – non sempre propriamente piacevoli e sopportabili-, sia per tutta la serie di disturbi che gli ormoni potevano provocare.
Ma stavolta non era quello il problema.
-Stavo sognando- ammise Giulia dopo qualche altro attimo di esitazione – Ricordando, in realtà. Qualcosa legato allo scorso anno-.
Si era mantenuta imprecisa anche se in realtà ricordava abbastanza bene ciò che aveva sognato, e anche l’episodio accaduto nella realtà. Doveva essere passato un anno quasi preciso da quel giorno, una banalissima giornata di Febbraio dell’anno prima in cui si era ritrovata sconfitta dallo sconforto e dalla tristezza per tutto ciò che stava succedendo nella sua vita.
-Vuoi parlarne?-.
La domanda di Filippo cadde nel vuoto per un po’ di tempo, prima che Giulia alzasse le spalle:
-Non ne vale la pena-.
“Abbiamo già detto tutto quel che c’era da dire in merito”.
Filippo non si fermò dal toccarla, anche se avvertì il suo essere più tentennante. Era come se le stesse chiedendo tacitamente se poteva continuare o no, e Giulia non si sottrasse al contatto.
-A volte sembra che il dolore non mi lasci in pace nemmeno mentre dormo- si lasciò sfuggire dopo diversi minuti di silenzio – Ma in realtà va meglio, ora. Molto meglio-.
Filippo sembrò meno teso:
-Dici in generale?-.
-Anche-.
Quando Filippo si alzò per cambiare posizione sul letto, sedendosi di fronte a lei per cominciare a massaggiarle anche i piedi, Giulia si sentì per un attimo sotto pressione. Era difficile, a volte, esternare con Filippo tutto ciò che le passava per la mente, ma era qualcosa a cui si stava sforzando di riabituarsi.
Si erano promessi di parlarsi per davvero, stavolta: aveva intenzione di non sottrarsi a quel giuramento.
-Ormai Lorenzo ha fatto capire che non vuole avere nulla a che fare con noi, e forse è decisamente meglio così … - Giulia sospirò, lo sguardo perso in un punto indefinito davanti a sé – Però mi sto riabituando a te, qui a casa. Prima era come se vivessimo comunque in due posti differenti … Ora è un po’ come prima-.
“Come prima, ma diverso”.
Era stata del tutto sincera mentre lo diceva.
Ripercorse velocemente con la memoria gli ultimi mesi, ritrovando nei suoi ricordi prove di ciò che aveva appena affermato.
Era stato caotico quando Filippo aveva annullato il suo imminente trasferimento, ed era stato complicato tornare a vivere ufficialmente tutti insieme come prima. Era come se all’improvviso il muro che li aveva divisi fosse crollato fin nelle fondamenta, e Giulia si era dovuta riabituare a tutto ciò che era mancato per quasi un anno intero.
Non era stato facile farlo soprattutto quando, allo stesso tempo, aveva dovuto anche far fronte ad una gravidanza inaspettata, alla paura che Lorenzo potesse ricomparire – cosa che, invece, non era successa- e farle del male, alla paura che tutto non potesse più funzionare.
A distanza di due mesi poteva dire che, nonostante le premesse, le cose erano andate tutto sommato bene.
Stavolta non evitò il contatto visivo con Filippo: cercò i suoi occhi, e li trovò proprio nel momento in cui anche lui aveva alzato il viso nella sua direzione, smettendo con il massaggio e concentrandosi unicamente su di lei.
-Non credo che dimenticherò mai del tutto quel che è successo l’anno scorso, Filippo. È una ferita troppo grande per essere sepolta nella memoria- Giulia parlò a mezza voce, ma con determinazione – Però … -.
-Lo so, e non mi aspetto che tu lo faccia-.
Con suo stupore, prima che potesse anche solo entrare nel vivo di quel che voleva dire, Filippo l’aveva interrotta. La guardava intensamente, in un’espressione di dolore misto a colpevolezza, mischiati a qualcosa che ricordava a Giulia la rivalsa.
-Non saremo mai più gli stessi dopo l’anno scorso- disse ancora Filippo, con voce che non incespicava – Ma farebbe strano pensare che nonostante tutto potremmo cercare di capire come potrebbero andare le cose ora, con una diversa consapevolezza?-.
Era palese che non avesse ancora finito di dire la sua, ma la tentazione che ebbe Giulia di dirgli che si era domandata la stessa cosa negli ultimi due mesi fu davvero forte.
-L’anno scorso, ad un certo punto, ho pensato davvero che sarebbe stato meglio per entrambi se avessimo preso strade separate, ma negli ultimi mesi … - Filippo stavolta parve più incerto, ma di un’esitazione che sembrava più provenire dalla paura che non dal dubbio – Non sono rimasto solo per darti una mano. Ovviamente la tua salute, e quella del bambino, viene prima di tutto, ma non è il solo motivo per cui sono rimasto e per cui voglio rimanere.-.
Giulia avvertì il proprio respiro farsi più veloce, il battito del cuore accelerato. Non si sentiva così agitata da un bel po’ di tempo, perché quella era un’agitazione ben diversa da quella che aveva provato nell’ultimo anno. Non era l’ansia dovuta alla paura che aveva avuto quando aveva scoperto di essere incinta, o quando aveva varcato la soglia di casa di Lorenzo per dargli la notizia.
E poteva essere una sensazione fisicamente simile a quella che provava negli attimi di rabbia verso Filippo stesso, così comuni un anno prima, ma non era nemmeno lontanamente paragonabile ad ora.
“Dillo e basta”.
Era agitata per l’aspettativa, perché dentro di sé aveva atteso quel momento ogni giorno, e perché quegli ultimi due mesi erano stati il periodo in cui si era pian piano rialzata dal torpore apatico in cui era caduta da troppo tempo.
-Ti amo ancora-.
Filippo lo disse con voce così sommessa, come se avesse la gola chiusa, che se non fosse stato per il completo silenzio in cui si trovavano Giulia non sarebbe riuscita ad udirlo nemmeno da quella misera distanza.
-Forse in maniera diversa. Meno trasognata- Filippo lo disse con un mezzo sorriso malinconico – Però ti amo ancora-.
Quando Giulia si sporse per prendergli il viso tra le mani lo vide trasalire per la sorpresa.
-Stavo per dire, prima che mi interrompessi, che anche tra di noi le cose sono migliori. E … -.
Giulia si morse il labbro inferiore.
Ci sarebbero state molte cose che avrebbe voluto dirgli – o forse solo una che le racchiudeva tutte-, ma si rese conto che per lei non era ancora arrivato il momento giusto per dirle.
“Ma arriverà”.
Nel frattempo, però, poteva partire da quelle più semplici.
-Non vuoi più la separazione, vero?-.
Filippo la guardò con occhi sgranati per i primi secondi, prima di scuotere debolmente il capo. Giulia gli sorrise:
-Nemmeno io-.
Era stato un lento avvicinarsi. Sarebbe stato del tutto errato affermare che si erano ritrovati così vicini solo negli ultimi minuti. La verità era che la distanza si era accorciata sempre di più ogni giorno, fino a quando non le era più sembrato sbagliato essere lì di fronte a lui, a farsi toccare e a toccarlo di rimando.
Erano state tante cose – Filippo che aveva dimostrato davvero di volerci essere, di volerla aiutare, che non gli importasse della relazione con Lorenzo, che in realtà fosse già affezionato al bambino che stava portando in grembo, che ci tenesse sul serio-, e anche se le ferite non si sarebbero mai del tutto rimarginate, era una sua scelta anche quella di dare una seconda chance dopo aver avuto la prova che poteva essere una possibilità.
Quando si ritrovò a baciare Filippo, dopo più di un anno dall’ultima volta, le parve un po’ come se fosse un loro secondo primo bacio. Erano sensazioni che ricordava, ma erano allo stesso tempo anche nuove, diverse.
Fu un bacio breve, decisamente differente da certi che erano stati abituati a scambiarsi, ma bastò.
-Non credo di essere pronta a ricominciare nel vero senso della parola, non subito- Giulia glielo sussurrò a pochi centimetri dal suo viso, sentendosi molto più vulnerabile di quel che si sarebbe aspettata. Fu una sensazione che la abbandonò non appena Filippo le sorrise di rimando.
-Prendiamocela con calma. Nessuna fretta di fare nulla-.
A Giulia sembrò un giusto compromesso.
 
Sembra quasi la felicità
Sembra quasi l'anima che va
Sogno che si mischia alla realtà
Puoi scambiarla per tristezza ma
E' solo l'anima che sa
Che anche il dolore passerà [2]
 
“Forever isn’t for everyone
Is forever for you?”
 
*
 
Quasi trent'anni per amarci proprio troppo
La vita senza avvisare poi ci piovve addosso
Diglielo in faccia a voce alta di ricordare quanto eravamo belli
E di aspettare perché potremmo ritornare [3]
 
I bambini stavano facendo più disordine del dovuto – ma era un risultato che Giulia si era del tutto aspettata, durante quel pranzo collettivo.
Osservò le sue figlie giocare con Davide, il cugino che non vedevano così spesso quanto avrebbero voluto, ma che ogni volta in cui si trovavano insieme si aggregava a loro per fare le peggio marachelle.
“Chissà se saremmo state così anche io ed Ilaria, se non fossimo nate a così tanti anni di distanza l’una dall’altra” si ritrovò a domandarsi Giulia, mentre osservava i bambini cercare di colpirsi a vicenda con il purè che avevano sul piatto. Si sentiva stranamente calma, mentre erano rispettivamente Ilaria e Filippo a cercare di dissuaderli – senza troppi risultati.
-Ma come li avete educati, questi bambini?- sbuffò Anita, che stava osservando inerte i tre nipoti che pian piano distruggevano la tavolata e il pranzo che aveva preparato. Ritrovarsi a Borgovento era sempre un po’ come incontrare il proprio passato e il presente insieme: Giulia ricordava quei pranzi della domenica tutti riuniti, i suoi genitori e sua sorella, ed ora erano ancora loro ma con l’aggiunta di Filippo, Ettore, Caterina, Beatrice e Davide.
Una tavolata che si era ingrandita un bel po’.
-Mamma, sono bambini piccoli- rispose Ilaria, cercando di far rimettere seduto composto il suo quasi treenne, che però non accennava a smettere di ribellarsi – È normale che giochino così-.
-Sembrano dei demoni- fu il nuovo commento di Anita, che scosse il capo con aria rassegnata.
Carlo intervenne con tono bonario:
-Lasciali fare, poi sistemeremo-.
Il momento di silenzio – riservato solo agli adulti, perché i bambini non stavano affatto desistendo- lasciò Giulia da sola con la sua ansia interiore. Si era ripetuta mille volte di restare calma in quella giornata, che sarebbe andato tutto bene, che Filippo era finalmente lì con lei – e, strano a dirsi, non avevano ricevuto troppe domande in merito, fino a quel momento-, e che non c’era alcun motivo per agitarsi.
Ma di fatto il suo stomaco era chiuso, la fame scomparsa, e ora nemmeno più i giochi delle sue figlie e di suo nipote riuscivano a distrarla da quell’atmosfera da momento decisivo.
-Giulia, tu non finisci?-.
La voce di Ettore la fece sussultare debolmente. Non si era accorta di essersi astratta così tanto da aver la forchetta in mano ma completamente inutilizzata, il resto della sua pasta lasciata nel piatto e ignorata a favore dei suoi pensieri.
-Sì, sì- Giulia scosse il capo, imbarazzata – Mi ero distratta-.
-Sei distratta da quando sei arrivata- le fece notare sua sorella, con una punta di sospetto nella voce. Era da quando Giulia era entrata in casa dei suoi genitori che Ilaria la osservava con cipiglio dubbioso: era come se avesse captato qualcosa di insolito, e Giulia si era stretta un po’ di più nei suoi vestiti pesanti e larghi che nascondevano la pancia già un po’ visibile della gravidanza.
-Un po’ di stanchezza- intervenne Filippo – Le gemelle sono state un po’ capricciose negli ultimi giorni-.
Non era vero, e la stanchezza c’era ma era dovuta a tutt’altra cosa.
Fu in quel momento, prima ancora di pensare, che Giulia proruppe nelle parole che avrebbero cambiato il corso di quel pranzo in famiglia:
-Vi dobbiamo dire una cosa-.
Era una conversazione che aveva già affrontato, una settimana prima, ma con persone diverse e con reazioni che sarebbero state sicuramente diverse. Giulia cercò però di consolarsi nel ricordo che, in fin dei conti, parlare con i suoi amici non era stato così traumatico come aveva sospettato. Forse sarebbe stato lo stesso con la sua famiglia.
 


-Sicura di stare bene? Sei piuttosto pallida- Pietro la stava studiando attentamente, con la fronte aggrottata come a domandarsi cosa ci fosse dietro l’aspetto un po’ malaticcio di Giulia – Meglio che ti siedi prima di svenire di nuovo-.
-Quanto sei galante- gli rispose Giulia, la voce trasudante di ironia.
Nonostante il sarcasmo, però, fece esattamente come le aveva suggerito Pietro: si sedette sul primo posto libero che trovò, un angolo del divano sopravvissuto al caos generato dai bambini nel salotto.
Gestire la festa di compleanno di bambini che si aggiravano tra i cinque e i due anni non era per niente semplice, e se ne stava accorgendo proprio in quel momento. Anche se oltre a lei erano presenti anche Filippo, Pietro, Alessio, Caterina e Nicola era comunque piuttosto difficile sfuggire agli strilli felici dei più piccoli. Era stata un’idea di Giulia organizzare quella festicciola per il quarto compleanno di Caterina e Beatrice e, nonostante tutto, vederle felici mentre giocavano e correvano in giro per la casa con Francesco, Christian, Federica, Giacomo e Giorgio valeva molto di più di tutto il resto. Persino della sua fatica dovuta alla gravidanza.
Fu quell’ultimo pensiero a rimanerle in testa. I bambini erano tutti distratti, seduti sul pavimento del salotto intenti a giocare a Labirinto – o, almeno, i più grandi stavano giocando, con gli altri ad osservarli-, ma erano i suoi amici ora ad interessarle.
Poteva essere l’occasione giusta per averli lì tutti riuniti, e metterli al corrente di alcune cose.
-Potete rimanere un attimo qui?- disse, lanciando un’occhiata a Filippo come a volergli dire di affiancarla, restarle accanto – Vi dovremmo dire una cosa-.


 
Si sentì gli occhi di tutti puntati addosso. Persino i bambini si erano un po’ quietati, forse percependo il cambio d’atmosfera che era appena avvenuto. Li osservò con la coda dell’occhio, in parte tranquilla sapendo che non avrebbe detto nulla che le sue figlie non sapessero già: spiegare una gravidanza a due bambine di quattro anni era decisamente diverso che dare la notizia a degli adulti, ma Giulia era sicura che avessero capito ugualmente.
-Ecco … - iniziò a dire, schiarendosi la voce – A Dicembre sono successe un po’ di cose-.
-Ce ne siamo accorti- fece Anita, che sembrava forse la più agitata tra tutti.
Ettore fu più diplomatico:
-Vuoi spiegarci meglio come mai sei finita in ospedale?-.
Giulia annuì:
-In un certo senso- disse, gesticolando e poi decidendo di costringersi a fermarsi, posando le mani sulle proprie gambe – Dicevo … Sono successe un po’ di cose, ma in realtà è una storia molto più lunga-.
“E voi ne saprete comunque solo una minima parte”.
Prese un sospiro profondo, il cuore che ora aveva cominciato a batterle velocemente. L’attimo dopo avvertì una mano di Filippo intrecciarsi alle sue, in un tacito moto d’incoraggiamento.
-Il fatto è che sono incinta-.
Per un lungo attimo nessuno disse nulla. I bambini si erano definitivamente calmati, e neppure loro stavano parlando.
Quando Giulia azzardò a dare un’occhiata al resto della tavolata non si stupì affatto di trovare tutti con occhi sbarrati.
-Cosa?- il primo a parlare fu Carlo, in poco più che un sussurro strozzato.
Ma prima che Giulia potesse dire qualcosa, fu Ilaria a farlo:
-Avevo il mezzo sospetto che fosse quello il motivo per il quale eri stata ricoverata-.
L’occhiata che si scambiò con sua sorella fu molto più carica di significato di quel che avrebbero potuto intuire gli altri osservandole dall’esterno. Era sicura che Ilaria avesse intuito molto più degli altri, sapendo di Lorenzo. Giulia era sicura che la loro conversazione sarebbe proseguita in un secondo momento, e in un luogo più appartato, dove avrebbero potuto parlare loro due da sole e in pace.
-Non era successo nulla di particolarmente grave, in realtà- si sforzò di dire – Sono svenuta per il troppo stress e per un calo di pressione, ma la gravidanza procede bene. Stiamo bene entrambi-.


 
-Cosa?-.
Il primo a parlare, con voce piuttosto alta per poter sovrastare le voci eccitate dei bambini a qualche metro di distanza, fu Pietro. Aveva gli occhi sgranati per la sorpresa, lo stupore incredibile con cui aveva accolto la notizia della gravidanza di Giulia.
Non che per Alessio, l’unica altra persona oltre a lui ancora all’oscuro di tutto, fosse molto diverso:
-Ma … - iniziò a dire, spostando lo sguardo interrogativo da Giulia a Filippo – Scusate, ma non eravate sul punto di separarvi?-.
Erano già arrivati al tasto dolente della conversazione, ma Giulia si era più o meno preparata psicologicamente ad affrontarlo. Con Filippo ne avevano parlato diverse volte negli ultimi giorni, ed ora che si erano chiariti e riavvicinati, era anche il momento giusto per parlarne ad Alessio e Pietro.
-Non è di Filippo- si ritrovò a dire, ugualmente provando una stretta al cuore nonostante non si sentisse così ansiosa come aveva prospettato – Ho frequentato il fratello di Caterina per diversi mesi l’anno scorso. Ed è successo questo-.
Subito gli sguardi attoniti di Pietro ed Alessio si mossero verso Caterina, che si ritrovò ad allargare le braccia con fare rassegnato:
-Non guardatemi così stupiti. Sono così calma perché lo sapevo già-.
-Anche io. Ovviamente- disse Filippo.
Nicola si ritrovò a sospirare a fondo:
-Io l’ho scoperto quando quel bastardo è venuto a casa nostra per minacciare sua sorella-.
Giulia annuì. Quando era venuta a saperlo da Caterina – diverse settimane dopo il suo ricovero- aveva preso la notizia nel modo peggiore possibile: piangendo a dirotto per un giorno intero, preda della paura. A Filippo e Caterina erano servite diverse ore per tentare di calmarla.
-Ha minacciato anche me- mormorò, a mezza voce – Non vuole il bambino-.
-Cosa?- Alessio stavolta aveva un’espressione feroce stampata in viso – L’hai denunciato, vero?-.
Giulia scosse il capo:
-No, anche se adesso un po’ me ne pento. Ma mi basta che non si sia più fatto vedere, ora come ora-.


 
-Ma quindi … - Anita si era ripresa, ma lo sguardo che passò tra Giulia e Filippo fece presupporre che la vera domanda riguardasse più loro due, che non la gravidanza in sé.
-Non è questo il punto- Giulia liquidò in fretta quella questione. Non era passato nemmeno un mese da quando lei e Filippo avevano deciso di riprovarci: era troppo presto per poter dire qualcosa di ufficiale a chiunque.
-Oggi volevamo darvi la notizia- le venne in aiuto Filippo.
Strinse un po’ più forte la mano di Giulia, nascoste sotto al tavolo dalla vista degli altri. In un certo senso fu proprio quel gesto a darle un po’ più di coraggio, quel che le serviva per non scappare via di fronte agli occhi indagatori dei suoi genitori.
-Sono cambiate molte cose negli ultimi mesi e probabilmente ne cambieranno ancora nei prossimi- si ritrovò a mormorare.
Sua madre la guardò stranita:
-Ma vi separate lo stesso?-.
-Abbiamo accantonato l’idea- ammise Giulia, senza però entrare nei particolari – Ma stiamo prendendo le cose con calma-.
Filippo annuì, in accordo:
-Intanto pensiamo alla gravidanza-.


 
 -E voi due, ora?-.
Pietro lo domandò con sincera curiosità nella voce. Avevano passato gli ultimi minuti a sviscerare la questione riguardante Lorenzo, ed era inevitabile che ora si passasse a quella. Giulia se l’era del tutto aspettato, già da quando era corsa voce che Filippo non si sarebbe più traferito altrove.
-Voglio dire, fino a Dicembre stavate andando ad abitare in due case diverse- si affrettò ad aggiungere Pietro – Erano mesi che mi chiedevo se vi foste riconciliati all’improvviso-.
-Più o meno è andata così- replicò Filippo, semplicemente – Niente più separazione. Ci riproveremo … E ci saremo noi per il piccolo che nascerà-.
Era rimasto in piedi fino a quel momento, tenendosi vicino al divano dove Giulia era ancora seduta. Ora, invece, si mosse nella sua direzione, andando a sedersi accanto a lei.
Le lanciò un sorriso che fece sentire Giulia al sicuro.
-È fortunato che avrà un sacco di zii e zie e cugini acquisiti che gli vorranno bene, e anche due sorelle- Filippo parlò con dolcezza – E due persone che lo cresceranno e lo ameranno moltissimo-.
Giulia avvertì i propri occhi farsi lucidi, ma non smise di sorridere di rimando a Filippo.


 
Con una rapida occhiata Giulia osservò di nuovo le facce che aveva intorno. Anita e Carlo sembravano ancora pochi convinti, ma di contro sua sorella e Ettore apparivano più tranquilli. Di certo avrebbero ripreso quella conversazione di nuovo, quando le cose con Filippo avrebbero assunto un contorno più definito – e un mese non sarebbe certo bastato per quello.
-Speriamo bene- sospirò infine Anita.
-Dai su, che le cose potrebbero andare molto peggio di così- Ettore fu il primo a sorridere, dopo diversi minuti pieni di tensione – Se siete felici voi, lo siamo anche noi-.
Forse non erano ancora arrivati a quello stadio, rifletté Giulia, ma ora potevano lavorarci su.


 
-Non ero pronto ad avere così tante notizie stasera- sbuffò Alessio, che si passò una mano sul viso come se fosse davvero esasperato da quel che aveva sentito.
Giulia gli scoppiò a ridere in faccia.
-E chi è mai pronto?- gli chiese, mentre si alzava, le forze finalmente recuperate – Su, Raggio di sole: non vi abbiamo dato brutte notizie. In fin dei conti non è andata così male-.
E lo pensava davvero: c’erano un sacco di cose che nell’ultimo anno erano andate storte, ma forse per la prima volta dopo troppo tempo la fortuna cominciava a girare nel verso giusto.
 
*
 
-Attenti a non correre troppo!-.
Pietro accelerò il passo a sua volta, riuscendo a stare dietro a Giacomo e a Giorgio senza problemi. Aveva decisamente le gambe più lunghe di entrambi, e sarebbe stato così ancora per un po’ di anni.
Li osservò mentre correvano verso l’entrata dell’appartamento, la porta d’ingresso già spalancata da Giada, piuttosto consapevole che, come sempre, i due bambini si sarebbero messi a correre a perdifiato appena avrebbero intravisto il corridoio del secondo piano.
-Dovete smetterla di correre così forte!- Giada lo disse con voce ferma, probabilmente indecisa se rimproverarli subito o aspettare un paio di minuti – Prima o poi finirete per cadere e farvi male-.
Ovviamente non venne ascoltata. Le risate di Giacomo e Giorgio riempivano l’aria molto di più delle voci di Pietro e Giada, uno allarmato e l’altra più spazientita che altro. Si infilarono nello spazio della porta, in movimenti incredibilmente precisi per bambini di rispettivamente tre anni e mezzo e uno e mezzo.
Stavolta Pietro non li seguì, non oltre la soglia. Osservò le loro teste castane sparire verso il salotto, senza avere nemmeno il tempo di salutarli decentemente – forse aveva ancora qualche minuto di tempo, prima di dover riprendere il cammino verso la sua, di casa.
-Sono un bel po’ carichi di energia- commentò Giada, ancora voltata nella direzione in cui i suoi figli erano appena scomparsi – Pensavo sarebbero tornati più stanchi-.
-Lo pensavo anche io- ammise Pietro. Era stato un lungo pomeriggio, quello che avevano appena passato insieme loro tre: aveva pranzato lì da Giada, prima di uscire da solo con Giacomo e Giorgio. Avevano fatto una lunga passeggiata per Venezia, fortunati com’erano stati per aver trovato una giornata così soleggiata.
Era stata una giornata lunga, intensa, e piuttosto impegnativa.
“E non è ancora neanche lontanamente finita”.
-Entra, dai- Giada lo invitò dentro l’appartamento come faceva sempre, ogni volta che era Pietro ad uscire da solo con i bambini. Poteva trattarsi anche solo di cinque minuti, giusto il tempo degli ultimi saluti fino al weekend successivo, ma lui accettava sempre. D’altro canto le cose pian piano erano migliorate: quei cinque minuti erano una delle tante dimostrazioni.
Ma stavolta dovette scuotere il capo, conscio che il tempo stringeva.
-Non posso- le disse, con espressione di scuse – Ho i tempi un po’ stretti. Devo passare da casa prima di uscire di nuovo. Con gli altri-.
Non c’era bisogno che specificasse chi intendeva. Giada sapeva perfettamente, senza ulteriori dettagli, che così dicendo comprendeva gli amici di una vita.
Lo disse con una vena di agitazione nella voce. Quella sera non sarebbe stata una sera come le altre, perché stavolta sarebbe toccato a lui parlare di qualcosa che riguardava se stesso a Filippo, Giulia, Nicola, Caterina e Alessio.
-Oh, serata collettiva?-.
Pietro annuì alla domanda di Giada:
-Sembra di sì, dopo un po’ di tempo siamo riusciti ad organizzarci tutti insieme- spiegò, la voce che gli tremava appena, esitante nell’aggiungere quell’ultimo dettaglio che premeva per uscirgli dalla bocca.
Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire Giada nel dirle quel che aveva in progetto per quella sera. Forse l’avrebbe presa male, ricordando la sera in cui aveva detto la stessa cosa a lei. O forse era passato sufficiente tempo per risanare certe ferite che dovevano averle fatto male per un bel po’.
In qualsiasi caso, forse, doveva solo smetterla di pensare troppo – soprattutto di cosa potevano pensare di lui gli altri- e agire di più per sé.
Prese un sospiro profondo, e in un attimo fatto di puro istinto disse:
-Stasera ho intenzione di fare coming out con loro-.
Osservò l’espressione tutto sommato tranquilla di Giada passare ad una di completa sorpresa. Non che gli fosse difficile immaginare che potesse esserlo: aveva del tutto previsto una reazione simile.
E forse, in parte, sorpreso lo era anche lui.
-Davvero?- gli chiese lei subito.
Pietro annuì:
-Credo sia arrivato il momento-.
Era stata la stessa cosa che aveva detto a Martino una settimana prima, quando gli aveva annunciato che per quel sabato non si sarebbero visti perché doveva incontrare i suoi amici – non solo per passare una serata tranquilla in loro compagnia, per una volta senza figli di mezzo, ma anche proprio per dare loro quella notizia. Un po’ come era successo con Alice a Dicembre, anche Martino gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene.
“Speriamo abbiano ragione”.
-Ero convinta lo sapessero già- disse Giada, sommessamente come se stesse pensando, cercando di ricordare qualcosa che potesse confermare quella sua impressione.
-No, non lo sanno- Pietro stavolta dovette scuotere la testa – Non ero ancora pronto-.
-E ora lo sei-.
Quella di Giada non era una domanda, come se avesse preferito completare per lui quella frase. Ma aveva ragione, si rese conto Pietro: era davvero giunto il momento giusto. O almeno così credeva, così gli aveva fatto credere Martino, e lo stesso valeva per Alice.
In qualsiasi caso lo avrebbe scoperto tra non molte ore.
-Sono piuttosto sicura che andrà tutto bene- Giada gli lanciò un mezzo sorriso – Saranno contenti che tu decida di aprirti con loro-.
Non sembrava a disagio nel parlare di quell’argomento. Non c’erano state altre occasioni per sviscerarlo, né Pietro ci aveva mai provato prima di quel giorno, fin troppo conscio di come era andato il suo coming out con lei. Era una piacevole sorpresa ritrovarla piuttosto serena, a tratti quasi incoraggiante.
Forse le cose stavano davvero cambiando.
-È quello che spero-.
-Ti vogliono bene- Giada lo guardò come se si fosse appena dimenticato una cosa ovvia – E sono anche persone intelligenti, dopotutto-.
Dall’atmosfera leggermente piena d’ansia dell’inizio ora a Pietro sembrò quasi una conversazione del più e del meno.
-Dopotutto?- ripeté ironico, un sopracciglio alzato e la risata mal trattenuta mentre osservava Giada roteare gli occhi al cielo.
-Non avevi detto di essere di fretta?-.
Stavolta Pietro rise sul serio.
-Ora vado- la rassicurò, facendo un passo indietro come a dimostrare le sue stesse parole – Dai un bacio ai bambini da parte mia-.
-Va bene- Giada lo tenne osservato ancora qualche secondo, una mano già alla maniglia della porta d’ingresso, pronta a chiuderla – Buona fortuna per dopo-.
Anche se non lo disse a voce, Pietro si ritrovò a pensare che ne avrebbe avuto davvero bisogno.
 
*
 
-Qualcuno mi porti il mio cocktail-.
Pietro si voltò verso Caterina, seduta alla sua sinistra: aveva un’aria piuttosto disperata, il capo appoggiato sulla spalla di Nicola, che la affiancava da quel lato del tavolo, e lo sguardo fisso davanti a sé.
Pareva una scena piuttosto comica, e si sarebbe sicuramente messo a ridere nell’osservarla, se solo non fosse stato troppo agitato anche solo per provare qualsiasi altra emozione.
-Hai così tanta voglia di bere?- le chiese invece, incrociando le braccia sopra il tavolo.
Caterina alzò le spalle:
-È da troppo tempo che non bevo qualcosa di vagamente alcolico- borbottò – Stasera ho voglia di spassarmela, per una buona volta-.
Pietro la guardò perplesso, ma preferì non dire nulla che potesse spezzare i suoi sogni di gloria. Sembrava che dovesse muoversi a fare coming out, perché di certo l’idea di farlo con qualcuno di ubriaco al loro tavolo non doveva essere la migliore in assoluto.
Perlomeno non c’era la confusione che ci sarebbe stata se ci fossero stati anche i bambini: a quanto pareva, Nicola e Caterina avevano lasciato Francesco alle cure di Alice, per una serata in compagnia di Christian e Federica. E non era andata poi male neanche alle gemelle di Giulia e Filippo, che erano rimaste a casa in compagnia degli zii materni e del cugino, in visita a Venezia per un po’ di giorni.
Era anche per quel motivo che aveva deciso che quella sarebbe stata la sera giusta per il suo coming out. Non aveva idea quando si sarebbe ripresentata un’occasione del genere, con il loro gruppo tutto riunito senza le distrazioni che sicuramente derivavano dai figli presenti.
-Ecco qua-.
La voce di Filippo lo fece voltare, stavolta alla sua destra, proprio nel momento in cui lui e Giulia erano finalmente giunti di ritorno. Tenevano in mano due bicchieri a testa – le loro ordinazioni più quelle di Nicola e Caterina.
-Oh, finalmente- Caterina non attese che pochi secondi prima di allungare le mani verso il calice che le stava allungando Giulia, gli occhi riaccesisi di entusiasmo.
-Sembra che tu non beva nulla da secoli- commentò Nicola, che aveva preso ciò che gli stava allungando Filippo con molta più calma e pacatezza.
-Posso voler essere felice di una serata un po’ più leggera rispetto alle solite?- replicò sulla difensiva Caterina.
“Non sarei poi tanto sicuro che sarà più leggera del solito” si ritrovò a pensare Pietro.
-Almeno voi vi potete permettere qualcosa di non analcolico- sbuffò Giulia, che si stava sedendo lentamente, una mano posata sul grembo che cominciava a farsi evidente sotto il maglione pesante – Io non potrò ancora per un bel po’ di tempo-.
-Berremo anche per te, non preoccuparti- la prese bonariamente in giro Filippo, che si guadagnò un’occhiataccia da parte di lei.
Era ancora un po’ strano vederli di nuovo così complici, ammise Pietro. Ma ne erano successe talmente tante, ormai, che in realtà non avrebbe dovuto sentirsi stupito affatto. Era strano, ma bello: sembravano sulla strada giusta per sistemare le cose tra loro, e di certo quello non poteva che essere un bene, soprattutto nello stato in cui si trovava Giulia.
Pietro lanciò loro un’ultima occhiata, prima di girarsi leggermente verso il bancone in fondo alla sala del bar, alla ricerca di una testa bionda piuttosto famigliare. Immaginava che con Alessio sarebbe arrivato anche il suo drink – non che gli importasse particolarmente molto di quello, al contrario di Caterina.
Quando però gli sembrò finalmente di individuarlo, in mezzo alla calca di gente che stava ordinando ed altri che stavano direttamente consumando lì le loro bevande, il sorriso nervoso che aveva stampato sulle labbra si congelò all’istante.
Era stato davvero convinto che l’ansia gli avrebbe impedito di provare qualsiasi altra emozione quella sera, ma invece la punta di gelosia che avvertì in quel momento lo smentì in pieno.
Alessio era al bancone, già con un calice in mano – probabilmente il prosecco di Pietro-, e in attesa della sua ordinazione. Sarebbe stato uno scenario del tutto normale, se non fosse stato per la presenza di fianco a lui: un uomo apparentemente coetaneo – piuttosto attraente, dovette ammettere Pietro con una certa riluttanza-, un po’ troppo vicino e un po’ troppo sorridente in direzione di Alessio. Stavano anche evidentemente parlando, e Pietro dovette frenarsi per diversi secondi per non alzarsi e spegnere la sua curiosità andando direttamente ad ascoltare.
Si costrinse a rimanere seduto lì, cercando di fare finta di nulla, probabilmente riuscendoci molto male. Cercò di ascoltare la conversazione che si era appena avviata tra Giulia, Caterina, Filippo e Nicola, ma con gli occhi rimase incollato su Alessio, e al tizio che con tutta evidenza ci stava provando spudoratamente.
Ci vollero almeno un altro paio di minuti prima che Alessio ricevesse anche il suo ordine, potendosene andare dalla zona del bancone – ed appiedare l’altro. O almeno, così sperava Pietro.
“E se gli ha chiesto il suo numero?” si ritrovò a pensare, “E se Alessio glielo ha dato?”.
Non che in quel caso avrebbe potuto farci molto: non stava certo a lui stabilire chi potesse frequentare Alessio, anche se solo per una notte o per il resto della vita.
Virò lo sguardo altrove, ma Alessio non ci impiegò molto a raggiungere il loro tavolo. Con la coda dell’occhio, Pietro lo vide arrivare a passo lento, stando attendo a non spandere, dirigendosi prima verso di lui che non al suo posto, all’altra estremità del tavolo.
-Scusa se ci ho messo un po’- fu la prima cosa che Alessio gli disse non appena fu abbastanza vicino per farsi sentire da Pietro – C’era un casino di altra gente in fila a ordinare-.
-E qualcuno sembra averne anche approfittato- commentò Giulia sibillina. A quanto pareva Pietro non era stato l’unico ad essersi accorto del flirt che Alessio aveva appena ricevuto.
-Ti riferisci a quel tipo?- Alessio fece una smorfia, mentre faceva il giro del tavolo per andarsi a sedere al suo posto – Anzi, a Edoardo. Si è pure presentato-.
-E basta?- fece Caterina – Non ti ha offerto da bere?-.
Alessio si sedette sospirando a fondo, come se non ci tenesse troppo a proseguire ancora con quella conversazione:
-Sì, e mi ha anche detto un paio di altre cose-.
Pietro poté immaginarne un paio, ma non disse niente. Giulia, invece, non riuscì a trattenere una risata maliziosa. Fu proprio a lei che Alessio rivolse un’occhiataccia:
-Non domandarmi cosa, non te lo dirò mai-.
In tutta risposta, lei gli fece una linguaccia:
-Come sei pudico-.
-Vuole solo fare un po’ il misterioso- replicò Nicola, che però aveva un sorriso piuttosto divertito stampato in faccia.
-O magari ti sta prendendo un po’ in giro- Filippo si rivolse a Giulia, come a volerla consolare da quella mancanza di gossip che Alessio stesso aveva appena impedito.
-Magari entrambe le cose- disse lui, alzando le spalle.
Sembrava un po’ a disagio, ora, come se davvero volesse cambiar argomento il prima possibile – come se volesse dimenticare il prima possibile delle avances ricevute da quel tale.
Pietro non poteva che concordare: più ripensava alla scena, più sentiva la nausea crescere. Anche se, doveva ammettere, non sarebbe mai stata quanta quella che sentiva all’idea di quel che sarebbe venuto di lì a poco.
 


-Sta scalciando un po’ troppo-.
Giulia lo disse strizzando gli occhi, probabilmente dolorante nel punto del grembo su cui stava tenendo entrambe le mani.
Erano passate almeno un paio d’ore da quando erano arrivati in quel locale, ma era la prima volta che Pietro la vedeva un po’ in crisi per quelli che dovevano essere i primi calci del bambino. Forse era una sensazione a cui doveva ancora tornare ad abituarsi.
-È agitato- commentò Filippo, posando una mano a sua volta accanto a quelle di Giulia. Stava sorridendo, però, come se anelasse il poter percepire i movimenti del bambino nel grembo.
-Che poi è confermato che è un maschio?- chiese Caterina, d’un tratto incuriosita.
Giulia annuì, il volto un po’ meno contratto dal dolore:
-Sembrerebbe di sì dall’ultima ecografia-.
Anche Alessio stava rivolgendo gli occhi al suo pancione, Pietro se ne rese conto quando spostò lo sguardo su di lui. Non stava dicendo nulla, limitandosi ad osservare in silenzio, perso in pensieri a lui celati.
-Volete qualcos’altro?- Nicola interruppe l’atmosfera di calma che si era creata in pochi secondi, alzandosi rumorosamente dalla sua sedia – Sto andando a ordinare-.
Prima ancora di poter mettere insieme i propri pensieri, Pietro si ritrovò a parlare:
-In realtà … -.
“E ora?”.
Vide Nicola – e anche tutti gli altri- girarsi verso di lui in attesa che concludesse ciò che aveva iniziato a dire, ma Pietro tacque inevitabilmente.
Era da almeno un’ora che ripeteva a se stesso che tra poco sarebbe arrivato il momento ideale per iniziare a parlare. Ma aveva sempre rimandato, l’ansia che gli impediva di prendere parola una volta per tutte, e non si stava rendendo conto del tutto di cosa lo avesse spinto a fermare Nicola proprio in quel momento.
Si sentiva gli occhi di tutti addosso, e fu come fare una prova di come sarebbe stato quando avrebbe fatto coming out sul serio, quando tutta l’attenzione sarebbe stata irrimediabilmente su di lui.
“Dì qualcosa, cazzo”.
Ma quelli erano gli amici di una vita. Gli amici che l’avevano visto al massimo e al minimo, che l’avevano visto nelle condizioni peggiori e in quelle migliori.
E non se ne erano mai andati, nemmeno dopo tutto quel tempo.
Era inutile continuare a rimandare qualcosa che, in fondo, non vedeva l’ora di dire anche solo per togliersene il peso dalle spalle.
Si schiarì la gola, consapevole di star arrossendo, ma cercando di non tradirsi con la voce tremante:
-Non è che potresti aspettare qualche secondo prima di andare?-.
Nicola aggrottò la fronte:
-Come mai?-.
“Ci siamo”.
Pietro si passò la lingua sulle labbra secche. Si sentiva gli sguardi di tutti ancora addosso, ma cercò di non farci troppo caso: forse così sarebbe stato più semplice parlare.
-Dovrei dirvi una cosa- mormorò, la sua voce che rischiava di perdersi tra le note della canzone che la radio accesa nel locale stava passando.
Caterina fu la prima a parlare, subito dopo:
-Ci dobbiamo preoccupare?-.
Lo aveva detto scherzando, ma con una evidente vena preoccupata – forse un po’ troppo influenzata da tutte le volte che, nell’ultimo anno, quella frase era stata seguita da brutte notizie.
Ma per quella sera non ce ne sarebbero state, o almeno così Pietro sperava che la vedessero anche loro.
-Non credo- disse inizialmente incerto, prima di prendere un respiro profondo e proseguire –  No, non dovete preoccuparvi-.
Quando si ritrovò ad alzare gli occhi, fu istintivo cercare per primi quelli di Alessio. Era rimasto in silenzio fino a quel momento, ma quando si rese conto dello sguardo di Pietro alla ricerca del suo, fu un sorriso incoraggiante che gli rivolse.
-Ehi, sta tranquillo- Alessio era dall’altra parte del tavolo, esattamente all’estremità opposta, ma gli parlò come se gli fosse di fianco pronto a sussurrarglielo – Qualunque cosa sia siamo qui-.
“E ci rimarrete?”.
Qualcosa gli diceva che era ora di scoprirlo – e qualcos’altro ancora gli diceva di sì.
Nicola si era seduto di nuovo, ed esattamente come tutti gli altri lo stava guardando in attesa ma in silenzio.
Pietro li guardò uno ad uno per diversi secondi, prima di cercare di regolarizzare il proprio respiro.
-È che fa un po’ strano essere arrivato a stasera per dirlo. Per dirvelo- cominciò, quasi faticando a trovare le parole, come fossero intrappolate in un groviglio che difficilmente avrebbe districato – Mi sono ripetuto tra me e me il discorso che vi avrei fatto non so neanche quante volte, ma adesso nemmeno lo ricordo-.
Sotto al tavolo, lontano dalla vista di chiunque, teneva le mani giunte, le dita di una che stringevano quelle dell’altra. Non si era sentito così nervoso nemmeno quando aveva parlato ad Alice.
Era una sensazione diversa anche rispetto a quella che l’aveva smosso quando l’aveva detto a Giada. Con lei c’era stato il dolore a scuoterlo.
Stasera era diverso: non c’era dolore, solo voglia di aprirsi. Di farsi vedere per quello che era.
-Forse ci penso da anni, in realtà- confessò a mezza voce – Ma non credo ci sia un modo oggettivamente giusto per dirlo, quindi lo dirò e basta-.
Prese un sospiro profondo, stavolta, e non riuscì a non abbassare gli occhi.
-Non avete idea di quante volte mi sia immaginato questo momento-.
“Così tante volte e così tanti scenari di voi che mi voltavate le spalle”.
Cercò di allontanare quei ricordi. Erano immagini dettate dalla paura.
E non voleva dire che non avesse paura anche in quel momento, ma era una paura diversa. Aveva ancora la sensazione che nessuno di loro se ne sarebbe andato.
-Il momento in cui vi avrei detto quel che è stato il mio più grande segreto per tutta la vita, e anche quello per cui mi vergognavo di più in assoluto-.
Sentì un groppo in gola formarsi a quelle parole – a quei ricordi-, ma respirò ancora, ed ancora una volta, fino a quando non fu sicuro di esserseli lasciati alle spalle tutti quanti.
 
I am not a stranger to the dark
"Hideaway," they say
"'Cause we don't want your broken parts"
I've learned to be ashamed of all my scars
"Runaway," they say
"No one'll love you as you are" [4]
 
Chi gli stava intorno doveva aver capito l’importanza del momento. Pietro non riuscì però a interpretare le espressioni dei suoi amici: c’era chi, come Caterina, Nicola e Filippo, non lasciava trasparire alcuna emozione, né di apprensione né di curiosità. Erano in semplice attesa, di qualunque cosa stesse per avvenire. E poi c’era Giulia, che teneva la fronte aggrottata, se per i calci del bambino o per lo sforzo che stava facendo per comprendere cosa volesse dire Pietro non lo sapeva.
Alessio era quello che lasciava trasparire meno in assoluto ciò che gli stava passando per la testa. E fu proprio lui che Pietro cercò di nuovo, e anche se stavolta non gli sorrise trovò qualcosa nei suoi occhi che gli fece capire che lo stava ascoltando, che era lì e che ci sarebbe rimasto.
Le parole stavolta vennero a Pietro con naturalezza:
-Però se sono qui a parlarvene stasera è solo perché finalmente ho capito-.
 
But I won't let them break me down to dust
I know that there's a place for us

For we are glorious
 
Si era immaginato sempre quegli ultimi secondi prima del suo coming out come momenti pieni di tensione. Di disagio, a tratti. Attimi in cui avrebbe preferito nascondersi altrove piuttosto che doverli vivere.
Si stava rendendo conto che si era sempre sbagliato: non sentiva il bisogno di scappare e nascondersi, anche perché era ciò che aveva fatto per troppo tempo, e quello era il momento di spezzare quella fuga continua una volta per tutte.
Era il momento di gettare a terra la maschera, ma non si sentiva nemmeno teso come all’inizio. Sapeva cosa dire, e forse non sarebbe riuscito a dirlo al meglio possibile, ma ci avrebbe provato. E sarebbe andato bene ugualmente.
-Ho capito che non c’è niente di sbagliato in me, che non sono io che dovrei sentirmi inadeguato, o non accettarmi per quello che sono- disse con una convinzione che non avrebbe creduto possibile nemmeno un anno prima – E ci sarebbero mille altre cose da dire, ma magari quelle ce le terremo per un’altra volta, o finiremmo per restare qui fino a domattina-.
Si concesse una risata sommessa, vagamente nervosa, e forse fu quello il segnale che fece distendere anche i nervi agli altri. Si arrischiò ad un’altra veloce occhiata, e probabilmente fu proprio quel gesto a donargli la calma necessaria per proseguire.
-Sono gay-.
Sentì le spalle rilassarsi, il peso che finalmente se ne andava completamente, anche nell’ultima parte che rimaneva a gravargli sulla schiena.
-Ho ignorato questa parte di me per così tanto tempo che ad un certo punto pensavo quasi di essere riuscito a cancellarla, ma non era vero- disse ancora, e stavolta non riuscì del tutto a ignorare il groppo in gola che avvertì a quelle parole – Ci sono solo stato peggio, e non avrei mai dovuto farlo. Perché è quello che sono. Sono gay. Ma rimane pur sempre solo una delle parti che già conoscete di me, perché alla fine sono sempre io. Sono sempre Pietro-.
Con gli occhi lucidi arrischiò un sorriso, passando lo sguardo su ognuno di loro.
-E ora sapete che sono anche gay-.
“È così che ci si sente?”.
 Non aveva idea di come si sentivano gli altri dopo il coming out. Magari qualcuno era più terrorizzato di prima. Anche lui era stato convinto per lunghissimo tempo che sarebbe andata così, se mai un giorno avesse trovato sufficiente coraggio per arrivare a quel punto.
La verità era che si sentiva terribilmente bene.
 
When the sharpest words wanna cut me down
I'm gonna send a flood, gonna drown them out

I am brave, I am bruised
I am who I'm meant to be, this is me
 
Passò qualche secondo – qualche lungo secondo in cui gli sorse il dubbio che, forse, non sarebbe andata liscia come sperava e come si aspettava-, prima che qualcuno degli altri parlasse. Forse stavano attendendo di capire se il suo monologo fosse realmente concluso, ma poi ci pensò Giulia a togliere ogni incertezza: quando gli fece un breve applauso, Pietro si voltò nella sua direzione, e la vide sorridere apertamente, gli occhi illuminati.
-Se riuscissi ad alzarmi da questa sedia verrei ad abbracciarti- gli disse subito dopo, cercando di sporgersi dalla sua sedia sopra il tavolo, ma comunque troppo distante da Pietro.
Lui si ritrovò a ridere senza nemmeno rendersene conto.
-Va bene lo stesso, farò finta che tu l’abbia fatto-.
-Davvero pensavi che l’avremmo presa male?-.
Stavolta era stata Caterina a parlare. Pietro si rese conto che anche se non stava piangendo, aveva comunque gli occhi velati di commozione. Gli mollò una pacca sul braccio, con fare scherzoso.
-Sei un idiota- sbuffò, però con una vena di ironia.
Pietro sorrise anche a lei, prima di spostare lo sguardo un po’ più in là, su Nicola. Lui lo stava già guardando, con rilassatezza:
-Beh, posso dire di essere un po’ sorpreso?- iniziò a dire, gesticolando appena, segno che in realtà era più agitato di quello che dava a vedere – Però questo non vuole assolutamente dire che sia qualcosa di negativo. Penso di poter parlare a nome di tutti dicendo che per noi questo non cambia niente-.
-No, affatto- gli dette ragione Filippo, che posò una mano su una di Pietro, stringendola appena – Neanche io me l’aspettavo, ad essere sincero, ma va bene così. Sono solo contento che tu abbia deciso di volercelo dire-.
-E che ora ti senta a tuo agio- aggiunse Caterina.
Pietro non seppe bene cos’altro dire. Forse aveva semplicemente finito le parole, ma non gli sguardi di riconoscenza.
Giulia prese il suo calice – pieno di qualcosa di analcolico che Pietro già non ricordava più-, elevandolo in aria, sopra le loro teste:
-Propongo un brindisi- disse, con voce stridula – Oddio, sono così contenta!-.
Filippo scoppiò a ridere sguaiatamente, ma ciò non gli impedì di sporgersi verso Pietro:
-Adesso sì che non potrai più evitare le sue battute su ogni ragazzo figo che incrocerai-.
Incredibile ma vero, a Pietro andava bene persino quel dettaglio, ma fece ugualmente finta di non poterne già più alla sola idea:
-Cazzo, non ci avevo pensato-.
Fu mentre prendeva anche il suo bicchiere, che Pietro riportò gli occhi sulla persona che gli stava di fronte. Alessio non aveva ancora detto nulla, limitandosi ad un silenzio lungo e a tratti frastornante, ma quando Pietro lo guardò lo vide sorridere.
Passarono pochi secondi prima che Alessio si rendesse conto che lo stava guardando, e quando ricambiò lo sguardo, l’espressione che gli rivolse rimase per Pietro totalmente enigmatica.
Non rimase troppo a rifletterci, non in quel momento, non quando si sentiva davvero, e finalmente, libero da ogni catena.
 
Look out 'cause here I come
And I'm marching on to the beat I drum
I'm not scared to be seen
I make no apologies, this is me
 
*
 
Martino gli aveva sempre detto che un coming out non avrebbe dovuto sconvolgere nessuno. L’ideale sarebbe stato dire a chiunque “Ehi, sono gay!” e poi continuare come se nulla di strano fosse stato detto.
Pietro rifletté, mentre si accendeva la sigaretta, che era praticamente ciò che era successo quella sera: al loro tavolo avevano parlato di mille cose diverse prima del suo coming out, poi c’era stato quel momento in cui si era confidato a cuore aperto forse per la prima volta in tantissimo tempo, e poi erano tornati alla conversazione di prima come se nulla davvero fosse cambiato. Sapeva che tutti loro avevano capito, ma Nicola aveva detto bene: sapere che era gay non avrebbe cambiato il loro rapporto o il loro modo di porsi nei suoi confronti.
Fece un tiro con la sigaretta, avvertendo tutta la tensione che aveva accumulato quel giorno e i precedenti lasciare il suo corpo. Era uscito un paio di minuti prima per fumare, prendersi qualche attimo di pace e di solitudine per razionalizzare tutto ciò che era successo fino a quel momento.
Non era solo lì fuori – più di qualcuno lo stava imitando, sigarette in mano e nuvole di fumo che si intravedevano nel buio della notte-, ma stava respirando un’atmosfera di calma di cui prima si era dovuto privare. Era piuttosto probabile che fosse dovuto al peso che si era tolto dal petto dopo tutto quegli anni.
Non si voltò quando avvertì la porta d’ingresso del bar aprirsi, a pochi metri da lui: dava per scontato fosse qualcun altro venuto a prendersi una pausa per fumare, o per una boccata d’aria fresca dopo ore passate nel calore a tratti soffocante del locale. Quando però percepì una presenza accanto a lui, un po’ troppo vicina, Pietro si girò d’istinto: non trasalì solo perché riconobbe all’istante il viso di Alessio.
-Ti posso fare un po’ di compagnia?- gli chiese subito lui.
Pietro annuì:
-Certo-.
Non poteva dirsi troppo stupito di vederlo lì, perché era da dopo il coming out che aveva l’impressione che Alessio avrebbe tentato di avvicinarglisi in un momento in cui sarebbero stati da soli. Forse lo conosceva troppo bene per non poter prevedere le sue mosse.
Ed era lì, ora, di fronte a lui con le mani strette nelle tasche del cappotto, a guardarlo mentre Pietro faceva l’ennesimo tiro con la sigaretta, voltando il viso per non fargli arrivare il fumo in faccia.
-Lo so che prima sono stato un po’ silenzioso, ma non pensare male- fu di nuovo Alessio a parlare, dopo qualche secondo di silenzio – È che preferivo parlarti da solo-.
-Lo immaginavo- ammise Pietro – È molto da te questa cosa-.
Alessio fece una risata sommessa:
-Già-.
Non sembrava teso, né nient’altro che potesse far presupporre qualcosa di negativo in arrivo. Pietro rimase in silenzio, in attesa, lasciando che fosse lui stavolta a parlare.
Alessio, però, non parlò subito. Si limitò di nuovo ad osservarlo, per secondi che a Pietro parvero troppo lunghi – carichi di curiosità-, con i suoi occhi azzurri che non lasciavano trasparire nulla. Forse Pietro non era sorpreso di vederlo lì, ma di sicuro sarebbe stata una sorpresa ciò che aveva da dire Alessio
Lo sentì sospirare a fondo, dopo qualche altro attimo, come se Alessio si fosse finalmente preparato a parlare:
-Lo so che non è sempre facile accettarci per ogni nostro lato. Però stasera è stato un bel passo avanti- gli disse, stavolta con un sorriso meno trattenuto – Dovresti essere molto fiero di te stesso-.
Pietro non poté non ammettere di essere molto sollevato.
-Un po’ comincio ad esserlo, credo-.
-Da quanto … - Alessio si passò la lingua sulle labbra, esitante – Da quanto hai capito di essere gay?-.
Era una domanda difficile a cui rispondere, ma Pietro capiva perché gliela stesse ponendo. Forse stava giungendo a conclusioni che, però, era ancora troppo presto per poterle affrontare.
-Un bel po’ di tempo- tergiversò Pietro – Più o meno da quando ho iniziato a frequentare Giada-.
Un po’ si sentì in colpa per quella mezza bugia, ma non poteva dire ad Alessio che, in realtà, i primi sospetti li aveva avuti ben prima di Giada – e a causa sua. Non era quello il momento per dirlo.
Fece un altro tiro di sigaretta, prima di aggiungere qualcosa:
-È per questo che l’ho lasciata, due anni fa. Ero arrivato ad un punto in cui non potevo più ingannarla e stare con lei-.
Alessio lo guardò con occhi stupiti:
-Quindi lei lo sa già-.
Pietro annuì, buttando fuori una boccata di fumo.
-Come ha reagito?-.
A quella domanda di Alessio un po’ gli venne da ridere, ma si rese conto che sarebbe stata una risata piuttosto amara.
-Piuttosto male, all’inizio- ammise, senza giri di parole – Non che possa darle del tutto torto … Il mio coming out con lei, mentre era incinta, ha reso decisamente tutto più difficile-.
“E Fernando era appena morto”.
Non si era mai ritrovato a ripensare attentamente a quella sera. Quella era la prima volta che accadeva, e non fu una bella sensazione ricordare il viso sconvolto di Giada, la sua rabbia, e il senso di vuoto che Pietro aveva avvertito – per la paura di quel passo, per il dolore che provava per Fernando, per tutto il resto.
Ricordava anche, però, il primo sentore di liberazione che aveva provato subito dopo, soffocato in parte da tutto ciò che in quel periodo stava andando male.
Alessio sbuffò piano:
-Non sono molto sorpreso-.
-Però ora va meglio- replicò Pietro – Credo cominci a comprendere meglio tutta la situazione, ora che è passato un po’ di tempo-.
-Il tempo aiuta ad essere più obiettivi, in effetti- Alessio abbassò lo sguardo per qualche secondo, sospirando a fondo.
Per un po’ nessuno di loro disse nulla. Pietro lo trovò un silenzio sereno, non uno di quelli che mettono in imbarazzo: si sentiva sufficientemente a suo agio in presenza dell’altro da non avvertire il bisogno di riempire quei vuoti, come se bastasse anche solo la sua presenza come sostitutivo delle parole.
Aveva quasi finito la sigaretta quando Alessio si schiarì la gola:
-Posso farti una domanda?-.
Non c’era abbastanza luce per poterlo dire con certezza, ma Pietro ebbe l’impressione che fosse un po’ arrossito.
-Mi devo preoccupare del tipo di domanda?- lo punzecchiò, ma Alessio non sembrò sciogliersi.
-No, è che … - fece schioccare la lingua, quasi fosse annoiato dalla sua stessa esitazione – Mi stavo chiedendo una cosa-.
Sembrava ancora piuttosto indeciso se desistere o meno, ma dopo qualche secondo parlò di nuovo:
-Hai … - Alessio si bloccò di nuovo, prima di prendere un lungo respiro – Voglio dire, ti sei già frequentato con qualcuno? Con un uomo?-.
“Oh cazzo”.
Pietro sperò ardentemente che neanche Alessio riuscisse a distinguere il colore paonazzo che doveva esserci sul suo viso in quell’istante. Per un attimo i volti di Fernando e di Martino gli balenarono in testa, ma no, non poteva dirglielo così. Quella sarebbe stata una conversazione troppo lunga – e troppo imbarazzante-, e quella era stata una serata già abbastanza complicata.
-Veramente … - iniziò a dire, senza ancora avere una minima idea di come rispondere, ma si interruppe non appena si accorse di una figura che si stava avvicinando a loro, alle spalle di Alessio.
-Ah, ci si rivede-.
Pietro non l’aveva visto propriamente in viso la prima volta – era voltato di tre quarti e di fronte al bancone, troppo distante per coglierne i dettagli-, ma gli bastò la faccia esasperata che fece Alessio quando si voltò a sua volta verso il nuovo arrivato per capire chi fosse.
-Sei ancora dell’idea di non volermi dare una chance?- il tizio – Edoardo, come ricordò Pietro dopo qualche secondo, con un’ondata di nausea-, si era avvicinato ad Alessio in pochi passi, con un sorriso malizioso e sornione stampato in viso. Era parecchio alto – persino più di Pietro stesso-, e Alessio dovette alzare il volto per poterlo inquadrare per bene.
-Mi spiace, ma sono ancora non interessato- gli disse, mantenendo un tono tuttavia cortese, ai limiti del formale, quasi stesse declinando un’offerta di lavoro e non qualcuno che lo stava annoiando con i suoi flirt non richiesti.
Per un attimo la delusione si dipinse sul viso di Edoardo – Pietro giudicò che dovesse avere qualche anno in più, forse sui trentacinque anni, con la barba folta e scura quanto i capelli lunghi e ricci-, ma il ghigno tornò subito dopo, anche se meno convinto quando posò gli occhi oltre le spalle di Alessio, direttamente su Pietro.
-Vedo che però hai trovato compagnia- commentò, studiandolo – Non male, ma io sarei stato meglio-.
Pietro trattenne a stento uno sbuffo divertito.
“Se ne sei convinto tu”.
Alessio gli si fece più vicino, quasi a sfiorarlo. Pietro non seppe interpretare quel gesto – se fosse stato qualcosa di inconscio, per sentirsi meno vulnerabile, o qualcosa di calcolato per convincere ancora di più Edoardo che avesse già trovato compagnia, non ne aveva idea.
-A me va bene anche così- Alessio tagliò corto, prima di voltarsi di nuovo verso Pietro, dando un finale a quella conversazione surreale. Edoardo sembrò capire l’antifona, e con un’ultima risata amara Pietro lo osservò allontanarsi, sparire esattamente come era comparso, ma stavolta allontanandosi definitivamente dalla zona del bar.
Alessio, però, non ripristinò la distanza che c’era tra loro prima del suo arrivo. Ora che si era di nuovo girato verso di lui, Pietro si rese conto che l’aveva terribilmente vicino. Se solo ci fosse stata un po’ più luce avrebbe potuto provare a contare le sue lentiggini sul naso.
-Pensavo e speravo se ne fosse andato- sospirò Alessio, roteando gli occhi al cielo.
-A quanto pare no- Pietro gli lanciò un sorriso dispiaciuto – Vuoi rientrare?-.
Sapeva che Edoardo se ne era andato, e che molto probabilmente non si sarebbe rivisto, ma ormai l’atmosfera lì fuori era del tutto rovinata.
Alessio annuì subito:
-Meglio, non vorrei cambiasse idea e tornasse indietro-.
 
*
 
Non era mai stato in quel parco, almeno da quel che ricordava. Alessio cercò di far spazio ai ricordi, mentre camminava seguendo Pietro, ma nella sua memoria quel posto non trovò alcun riscontro.
“C’è sempre una prima volta per tutto”.
Era un luogo insolito dove vedersi, il parco delle Rimembranze, almeno per loro due: nell’ultimo anno era capitato spesso per lui di fermarsi a casa di Pietro – quello che ai tempi dell’università era stato anche suo, in un certo senso-, o che Pietro venisse da lui per dargli una mano con i bambini in sere in cui Alice mancava. Ed era capitato anche di uscire insieme, magari per bere qualcosa o per una semplice passeggiata, ma non si erano mai ritrovati a camminare per quella zona di Venezia.
-Non è male qui- commentò a voce, mentre continuava a guardarsi intorno. Poteva essere un parco come un altro – pieno di alberi, di altre persone che camminavano o correvano, degli schiamazzi dei bambini, di coppie sedute alle panchine, di amici che parlavano animosamente-, ma era piuttosto sicuro che altrove non avrebbe potuto dare una lunga occhiata verso la laguna e al sole che stava pian piano tramontando. Le giornate stavano cominciando ad allungarsi, ma non ancora a sufficienza per arrivare alla sera con ancora la luce solare.
-Non ci sei mai venuto prima?- gli chiese Pietro, voltandosi indietro verso di lui.
-No- ammise Alessio, con una punta di rammarico – Tu sì?-.
A quella domanda Pietro non rispose. Non subito, almeno.
Continuò a camminare fino a quando non raggiunse una panchina, una delle poche libere, aspettando che Alessio lo raggiungesse prima di sedersi.
C’era un’atmosfera strana, si ritrovò a pensare Alessio, come se fosse carica d’attesa. Non aveva idea di cosa potesse aspettarlo, o se fosse qualcosa direttamente legato al coming out che Pietro aveva fatto sei giorni prima.
Forse doveva solo avere pazienza per scoprirlo.
Pietro non si girò verso di lui quando iniziò a parlare: tenne lo sguardo dritto davanti a sé, perso nell’orizzonte che avevano di fronte, i raggi aranciati del sole che stava scendendo che si riflettevano sulle acque della laguna.
-Io sì, ci sono già stato-.
Pietro sospirò a fondo, come se stesse facendo d’un tratto fatica a parlare.
-Solo una volta, in realtà- aggiunse dopo qualche secondo – Esattamente due anni fa. È il posto in cui ho visto Fernando per l’ultima volta, pochi giorni prima che se ne andasse-.
Alessio era stato sul punto di chiedergli, sia per cortesia che per curiosità, in quale altra occasione fosse stato in quel parco. Era evidente, ancora prima di sapere la risposta, che fosse un ricordo legato ad un evento particolare.
Ora capiva.
Si schiarì la gola, gli occhi che dardeggiavano sulla figura di Pietro:
-Sei sicuro di volere rimanere qui?-.
Era forse una domanda stupida, perché in fin dei conti non si erano ritrovati lì per caso. Pietro gli aveva proposto quell’uscita pomeridiana un paio di giorni prima, e quando era passato a prenderlo sotto casa, mezz’ora prima, era stato lui a fare strada. Alessio si era lasciato guidare, senza troppi pensieri, anche se aveva percepito da subito un’atmosfera diversa dal solito. Si era chiesto se potesse essere un po’ d’imbarazzo dovuto al post coming out – e sarebbe stato pronto a fargli capire che non c’era assolutamente bisogno di sentirsi a quel modo, men che meno con lui-, ma ora capiva.
-Sì, non ho scelto questo posto a caso. È che ti volevo parlare di una cosa- Pietro, stavolta, non evitò ancora il suo sguardo, e si voltò verso di lui – Ti ricordi quando, due anni fa, dopo il funerale, ero venuto da te per farti gli auguri di compleanno?-.
Alessio annuì: lo ricordava fin troppo bene. Ricordava anche le occhiaie scure sotto gli occhi di Pietro, i cerchi rossi intorno agli occhi, l’aria stravolta e il suo senso di colpa per non essergli stato sufficientemente accanto.
-Sì. Me li avevi fatti in ritardo- disse, prima di darsi mentalmente dell’idiota – Non che fosse un problema-.
Si morse il labbro inferiore, scuotendo appena il capo per quella pessima frase che gli era appena uscita.
Come se poi all’epoca gli fosse importato degli auguri di compleanno.
Pietro, però, rise sommessamente:
-È vero, ero arrivato tardi-.
Passarono alcuni secondi prima che parlasse di nuovo, stavolta più seriamente:
-Mi avevi detto che se avessi avuto bisogno di parlare con qualcuno tu ci saresti stato-.
-Me lo ricordo- Alessio gli si fece impercettibilmente più vicino – Vale ancora come promessa-.
Non era del tutto sicuro di cosa volesse parlargli Pietro, a proposito di Fernando. C’erano stati momenti, in quei due anni, in cui Alessio aveva avuto l’impressione che Pietro avrebbe voluto parlarne, ma non l’aveva mai fatto. Nemmeno dopo la sera in cui aveva letto la lettera che Fernando gli aveva lasciato.
Alessio aveva solo potuto rispettare il suo silenzio, facendosi domande a cui non aveva potuto trovare risposta.
-Credo sia arrivato quel momento-.
Pietro si stava stringendo le mani in grembo, sopra il cappotto. Era nervoso, nonostante l’apparenza calma, Alessio ne era sicuro. Forse lo conosceva troppo bene per non poterne rendersene conto.
-Forse perché finalmente posso essere sincero su tutto-.
Quasi senza pensarci Alessio allungò una mano verso di lui. Fu sul punto di posarla sopra il dorso della sua, o magari di prendere tra le sue dita entrambe le mani di Pietro, ma all’ultimo preferì posarla invece sulla sua spalla.
-Non devi farlo per forza- gli mormorò.
-Lo so- Pietro alzò il viso al cielo – Ma voglio farlo-.
Doveva star rivivendo un po’ la sensazione che l’aveva portato al suo coming out, ponderò Alessio. O, almeno, quella era la sua impressione: Pietro sembrava determinato, come se sentisse dentro di sé che era arrivato il momento giusto. Doveva essergli servito diverso tempo per accumulare la forza necessaria per parlare anche di Fernando, a pochi giorni di distanza dal coming out.
-Fernando è stato una delle prime persone a sapere di me. Che fossi gay- Pietro iniziò finalmente a parlare, evitando ancora lo sguardo di Alessio – In realtà la prima è Alberto, forse te lo ricordi vagamente dalla nostra vacanza in Puglia-.
Alessio annuì quando Pietro gli lanciò un’occhiata fugace. Se lo ricordava eccome Alberto: Alessio dovette reprimere un ghigno divertito nel ricordare certe situazioni imbarazzanti che si era ritrovato a vivere proprio con Pietro durante quella vacanza, e di cui Alberto era stato diretto testimone.
-Con Alberto non era stato facile parlare, forse perché ero ancora terrorizzato che mi potesse giudicare nonostante fossi suo amico … Anche con Fernando lo ero, ma in maniera diversa- Pietro aveva preso a gesticolare, forse per il nervosismo e l’ansia – Perché sapevo che anche lui era gay, e quindi di certo non mi avrebbe voltato le spalle, però ammetterlo di fronte a qualcun altro che viveva la mia stessa situazione … Non lo so, era quasi più destabilizzante-.
 
Why did I want to hide my precious self like this?
What was I so afraid of?
Why did I hide my true self?

I may be a bit blunt, I may lack some things
I may not have that shy glow around me
But this is me [5]
 
“Ma può essere anche confortante”.
Alessio tacque, però. Quella non era la sua storia, e ci sarebbe stata sicuramente qualche altra occasione per parlarne, ma ora era Pietro che stava parlando. E per quanto poteva essere sempre difficile affrontare una conversazione del genere, per Pietro sarebbe rimasto.
-Quando glielo hai detto?- gli chiese.
Pietro alzò le spalle, la fronte aggrottata:
-Doveva essere l’inizio del 2018. Mi aveva invitato da lui, e io ero andato- disse, prima di arrossire e abbassare la voce – E mi ha baciato. È stata la prima volta che mi ha baciato-.
Alessio rimase intontito per qualche secondo, una strana sensazione che si stava facendo spazio in lui. Cercò di ignorarla, qualsiasi cosa fosse, ma non riuscì a ignorare anche la sua immaginazione.
Aveva sempre pensato che Fernando potesse avere interesse in Pietro, ma non si era mai soffermato a pensare che potesse essere in un qualche modo ricambiato.
Sapere che c’era stato qualcosa tra di loro lo lasciò stranito, in un modo che non seppe interpretare.
-Non ne avevo idea- commentò con voce malferma.
Non riuscì a capire se Pietro dovesse aver percepito il suo disagio e aver deciso di ignorarlo, o se non ci avesse fatto caso. Quando riprese a parlare era ugualmente nervoso:
-Già. Fa strano pensarlo, perché in realtà l’ho sempre considerato come un amico. Un fratello-.
Alessio annuì tra sé e sé. Quello non era difficile da pensare, invece. L’aveva persino intuito, ad un certo punto, e forse la prova maggiore era stata vedere Pietro completamente distrutto dopo la sua morte.
S’immaginò un giovane Pietro in difficoltà nel capire se stesso, intrappolato in una relazione che probabilmente lo metteva ancor più a disagio, alla ricerca disperata di comprendersi e di trovare qualcuno che potesse aiutarlo. Fernando doveva essere stato un aiuto prezioso, più di quanto sarebbe stato chiunque altro.
-Non ci siamo avvicinati per il sesso o qualcosa di simile … C’era affetto tra di noi. Del tipo più puro- Pietro lo disse sorridendo, con malinconia – Per lui c’era anche altro, ma non mi ha mai fatto pesare la condizione diversa di quel che provavamo. Gli volevo bene-.
-Si capisce da come ne parli- mormorò Alessio, con sincerità – Gli vuoi ancora bene-.
Pietro sbuffò piano:
-Come non potrei? Non so se ce l’avrei fatta se non ci fosse stato lui-.
Alessio si chiese se si era mai posto il dubbio di andare a parlare con lui, prima ancora che con Fernando. Era una domanda egoista? Dettata dalla gelosia che ancora in parte provava?
Era probabile, ma non riuscì ad evitare il peso che provò al petto.
-Mi ha aiutato anche nei momenti in cui avrebbe potuto benissimo voltarmi le spalle e andarsene. Ma non l’ha mai fatto. C’è stato fino all’ultimo- Pietro parlò a mezza voce, come se stesse parlando più a se stesso ora – Forse aveva paura che sarei stato io ad andarmene. Forse è per quello che non mi aveva detto dell’HIV e poi dell’AIDS-.
-Credo che la depressione abbia giocato un ruolo troppo importante, Pietro- Alessio gli si fece un po’ più vicino, e le loro braccia ormai si sfioravano – Non puoi sapere come sarebbero andate le cose se non ci fosse stata quella variabile. Magari te l’avrebbe detto-.
-Forse. Ma non potremmo comunque saperlo, no?- soppesò Pietro – All’inizio ero furioso per questa cosa. Però in fondo capisco anche che abbia voluto proteggermi, oltre che essere fenato probabilmente per la depressione-.
Rimase in silenzio per un po’ dopo quelle parole, sotto gli occhi di Alessio. Aveva provato ammirazione una settimana prima, quando Pietro aveva finalmente deciso di aprirsi con lui e gli altri, ma ora riusciva forse per la prima volta a capire fino in fondo cosa doveva aver passato per tutto quel tempo.
E capì anche cosa doveva aver vissuto Fernando.
Osservò Pietro stringere i pugni, quasi fosse in preda al dolore lui stesso:
-Non sarebbe dovuto morire da solo, però. Quello non sarebbe dovuto succedere-.
“No, probabilmente no”.
-Non so che dire. Credo che se provassi a dire qualsiasi cosa sarebbe fuori luogo e inutile- disse Alessio, voltandosi verso Pietro rivolgendogli un sorriso a tratti dispiaciuto – Però sono sicuro che non ti abbia portato rancore nemmeno per un attimo. E non dovresti farlo nemmeno tu-.
Pietro annuì qualche secondo dopo:
-Adesso va un po’ meglio. Il tempo non cancella i ricordi, però li rende più sopportabili-.
Alessio gli avrebbe dato ragione, ma rimase in silenzio. Gli posò una mano su una gamba, delicatamente per dare il tempo e il modo a Pietro di scostarla se il contatto l’avesse infastidito – ma non lo fece. Si voltò invece verso di lui, finalmente recuperando il contatto visivo che aveva evitato per gran parte della loro conversazione.
-Sei una bella persona, Pietro. Fernando lo sapeva- Alessio stavolta gli sorrise davvero, senza tracce di tristezza – Lo sa-.
“E lo so anche io”.
-Ti va di rimanere ancora un po’ qui?- Pietro lo mormorò con voce a malapena udibile.
Alessio alzò le spalle:
-Perché no?-.
Staccò gli occhi da Pietro solo quando lo vide fare lo stesso, puntando gli occhi davanti a sé. Alessio lo imitò: il tramonto stava arrivando, il cielo che si tingeva sempre più di rosso e di arancione, i toni caldi che li circondavano come in un abbraccio.
Quando Alessio si accoccolò contro Pietro, lasciando che il suo capo scivolasse nell’incavo tra il collo e la spalla, avvertì il corpo di Pietro lasciarsi andare al contatto. Si lasciò cullare dal suo respiro regolare, dal suo profumo famigliare, e dalla vicinanza che in quel momento, ne era sicuro, stava cercando anche lui.
-Grazie per avermelo detto-.
Anche se non poteva vederlo in faccia, Alessio era sicuro che Pietro stesse sorridendo.
-Grazie per avermi ascoltato-.
 
My arms, my legs, my heart, my soul
I wanna love in this world
Shining me, precious soul of mine
I finally realized so I love me
Not so perfect but so beautiful
I'm the one I should love
 
*
 
“Credo ci siano persone che ti aiutano a diventare la persona che sei, e non puoi che essergli grato anche se non faranno parte della tua vita per sempre” - Bojack Horseman


Il sole era quasi completamente calato, ma Pietro avrebbe saputo riconoscere il percorso da compiere anche nel buio pesto. Ormai conosceva fin troppo bene i sentierini di sassi bianchi che si diramavano per tutto il cimitero di San Michele.
Mancava mezz’ora all’orario di chiusura, ma quello sarebbe stato un tempo più che sufficiente per quello che era venuto a fare. Con una mano teneva stretto un bel bouquet di fiori che aveva comprato prima di salire sul traghetto per arrivare fino a lì, i gigli bianchi che risaltavano in quella luce che dall’arancione stava virando al blu serale.
Non dovette camminare ancora a lungo prima di arrivare alla sua meta. Accanto alla lapide dove si era fermato di fronte non c’erano fiori ormai appassiti da buttare, segno che prima di lui doveva essere passata un’altra persona non tanto tempo prima. Forse Giulia, forse qualcun altro ancora.
Pietro sorrise malinconicamente nel leggere le lettere dorate che formavano il nome di Fernando. Era un gesto che faceva ogni volta che arrivava lì, ma che aveva preso l’abitudine di compiere solo da un anno.
Si chinò per posarvi i fiori davanti, sistemarli in modo che i petali fossero bene aperti, ma che non andassero a coprire la foto di Fernando che c’era accanto al suo nome. Pietro si fermò ad osservarla, come faceva sempre: Fernando lì sorrideva apertamente, con i suoi occhi castani allegri e i capelli ribelli ad incorniciargli il viso, giovane come sarebbe sempre stato.
-Avevi ragione-.
Pietro lo disse ad alta voce, nel silenzio che lo circondava. 
All’inizio, le prime volte, gli aveva fatto strano provare a parlare ad alta voce sapendo che non avrebbe ricevuto nessuna risposta. Aveva paura di farsi udire da qualcun altro venuto a visitare le altre tombe, o di sentirsi troppo stupido per riuscirci. 
Si era abituato, ormai, al disagio che si poteva provare nell’avere nelle vicinanze qualche sconosciuto a cui le sue parole non erano rivolte, e anche il senso di stupidità verso se stesso era venuto meno.
Quella sera, però, era da solo lì intorno. E aveva qualcosa da dire, e forse Fernando non gli avrebbe mai più risposto come poteva fare un tempo, ma ogni volta che se ne andava da quel posto aveva come l’impressione di aver comunque ricevuto una risposta – solo in maniera meno convenzionale.
Si rimise dritto mentre continuava a guardare il viso di Fernando nella foto, sorridendo ancora:
-Ma questo lo sapevi già, no?-.
Fernando a quella sua domanda retorica avrebbe sicuramente riso sotto i baffi. Magari l’avrebbe anche preso in giro con qualche nomignolo ironico in spagnolo.
-Hai sempre saputo che ce l’avrei fatta. Che sarei uscito dall’armadio- Pietro sorrise più apertamente al ricordo di quella frase, a Fernando che gli intimava di “rompere quell’armadio” – Sono piuttosto sicuro che ti sia goduto per bene la scena con una certa soddisfazione-.
 
Like a passerby who comforted and told me
It isn’t that easy to forget a memory worth a handspan
Even as time passes
I’m still held back in the place where
We dance under the orange sun [6]
 
Gli sembrò quasi di udire la risata divertita – ma anche soddisfatta- di Fernando nelle orecchie. Era un ricordo così vivido che per un attimo credette davvero di poterla ascoltare un’ultima volta ancora.
-Fa strano pensare che finalmente sia arrivato il giorno in cui non devo più nascondermi, però è anche bello. Molto più bello di quanto non avrei mai creduto. Sono contento di averlo fatto, di aver trovato il coraggio- Pietro prese un profondo respiro.
Sentì gli occhi pizzicare, ma ricacciò indietro le lacrime.
“Niente più lacrime”.
Sapeva che Fernando glielo avrebbe detto. 
“Non è tempo di piangere questo, solo di sorridere”.
Pietro gli avrebbe dato ragione, una volta tanto.
-Se non avessi incontrato certe persone nella mia vita probabilmente non sarei mai arrivato al coming out di una settimana fa- stavolta lo sussurrò, la voce a malapena udibile – Ma se non avessi incontrato te di certo non lo avrei mai fatto-.
 
Together with no shadow below us
No separation was meant to be
Let’s meet at the memory that was once beautiful
 
Gli piaceva pensare che, ovunque fosse, Fernando lo sapesse già. Fosse consapevole di quanto gli doveva. 
Lo immaginò mentre gli dava una pacca amichevole su una spalla, intimandogli di smetterla con quelle frasi sdolcinate, e che se ce l’aveva fatta era solo per merito suo.
E Pietro lo avrebbe corretto di nuovo, perché se ora stava finalmente vivendo la sua vita era davvero anche per merito di Fernando.
-Mi manchi ogni giorno-.
C’era un sorriso, stavolta, sulle sue labbra mentre lo diceva. E non c’erano più lacrime a rigargli il viso, niente più dolore opprimente al petto.
C’era solo l’affetto che non avrebbe mai smesso di esserci.
-Però lo so che ci sei. Ci sei sempre-.
Pietro si chinò ancora una volta, allungando un braccio per poter lasciare una carezza sulla foto. Ne toccò il vetro che la proteggeva, ma in un modo o nell’altro fu comunque un modo per poterlo toccare ancora una volta.
-So che vorresti avere qualche altro dettaglio più succoso, ma credo che mi terrò gli aneddoti per il giorno in cui ci rivedremo- disse ancora, mentre si rialzava. 
“E ci rivedremo davvero, prima o poi”.
Nell’ultima luce aranciata del tramonto, quando il sole stava per calare definitivamente, osservò ancora per qualche secondo il sorriso che Fernando aveva nella foto. Gliene rivolse un altro a sua volta, un sorriso che forse non era mai riuscito a compiere allo stesso modo in quel cimitero, prima di quel giorno.
-Ci si rivede, amico mio-.

We lay down face to face
And share stories that aren’t sad
Say goodbye to sad endings
I’ll meet you forever in this memory






 
[1] Patty Pravo - "Cieli immensi"
[2] Luca Carboni – “Malinconia”
[3] Tiziano Ferro – “Potremmo ritornare”
[4] The Greatest Showman Ensemble - "This is me"
[5] BTS - "Epiphany"
[6] IU feat. Suga - "Eight"
*il copyright delle canzoni appartiene esclusivamente ai rispettivi cantanti e autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Proseguiamo con questo capitolo, ambientato alcuni mesi dopo dagli ultimi eventi del 23, in compagnia di Giulia e Filippo ... Stanno cercando di riprendersi, Giulia in particolare, e di risanare il loro rapporto. Filippo ama ancora Giulia! E visto come sono andate le cose in questa prima scena, dalla dichiarata voglia di accantonare la questione "separazione" e il bacio scambiato tra i due, sembrano essere sulla buona strada.
Quello tra Giulia e Filippo è stato in bacio dalle sensazioni conosciute ma anche nuove, come è nuovo il futuro che li attende. Prima sfida di questo futuro: essere sinceri con tutti quanto prima! Ed è così che, nel giro di una settimana, i due si sono dati alla pazza gioia a suon di rivelazioni, con gli amici di una vita prima e con la famiglia di lei poi. Le reazioni sono variopinte e variegate, ma un pensiero accomuna tutti: l'importante è che Giulia e Filippo siano felici.
Ma le rivelazioni non sembrano essere finite per questo capitolo: dopo anni di conflitti personali e momenti bui, Pietro ha fatto coming out con il suo gruppo di amici. Di certo un evento storico, calcolando quanto tempo gli è servito per compiere questo suo personale percorso e decidere di mettersi completamente a nudo di fronte ai suoi amici più stretti. E Giada aveva ragione sulle loro possibili reazioni: c'è chi è stato un po' meno sorpreso e chi invece proprio non se l'aspettava, ma da parte di tutti ovviamente c'è stato un sentimento di vicinanza, contenti che finalmente Pietro si sia sentito sufficientemente a suo agio per parlare apertamente del suo orientamento. 
E alla fine, dopo qualche giorno dal suo coming out ufficiale, Pietro ha raccontato ad Alessio diverse cose su quello che era davvero il suo legame con Fernando. Ed è proprio da lui, di fronte alla sua tomba, che si conclude questo capitolo, dove Pietro racconta degli ultimi avvenimenti finalmente con un sorriso stampato in viso.
Insomma, questo capitolo sancisce diversi cambiamenti... Cos'altro succederà nei prossimi?
Inizieremo a scoprirlo mercoledí 17 aprile!
Kiara & Greyjoy
 

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Capitolo 28
*** Capitolo 25 - Stay ***


CAPITOLO 25 - STAY


 
 
I gently cast a spell
My heart beats louder than ever
We're always in this moment
Together, wherever
Wherever
 
-Sta crescendo parecchio- la voce di Filippo le parve poco più di un sussurro, dolce e intimo – E piuttosto bene, direi-.
Giulia sorrise tra sé, guardandolo mentre era piegato per far sì che il suo viso fosse alla stessa altezza del suo pancione, ormai più che evidente sotto la maglietta leggera che il caldo di metà Maggio le permetteva di indossare.
-Meglio così, no?- replicò lei, continuando a camminare lentamente, il sole che ormai si apprestava a tramontare, tingendo sempre più d’arancio e rosso il cielo.
Avevano un’ultima tappa da fare, fino a casa di Caterina e Nicola per recuperare le gemelle. Avevano chiesto a loro se potevano tenerle quel pomeriggio, mentre lei e Filippo erano impegnati con una delle tante visite ed ecografie tipiche della gravidanza. Giulia non vedeva l’ora di vederle e mostrare loro le nuove foto del fratello – forse non si rendevano ancora conto che di lì a pochi mesi sarebbe nato, ma Giulia era sempre piena di gioia nel vedere Caterina e Beatrice così eccitate ogni volta che mostrava loro i risultati delle ecografie.
“È sano come un pesce” aveva detto loro la ginecologa, alla fine della visita, dopo aver controllato anche delle analisi che Giulia aveva fatto la settimana prima.
Tutto andava alla grande.
“Chissà se si sarà mai domandato come stiamo”.
Giulia cercò di allontanare quel pensiero. Non voleva che il ricordo di Lorenzo la rendesse triste in una giornata simile, in cui stava andando tutto bene.
Strinse un po’ di più la mano di Filippo, mentre continuavano a camminare, conscia che allontanare certi pensieri fosse più facile a dirsi che a farsi.
Non era la prima volta che si soffermava a pensarci, a chiedersi se Lorenzo avesse mai avuto qualche moto di curiosità, qualche intenzione di sapere come stesse lei o il figlio che portava in grembo.
Forse non gli interessava. Il silenzio mai spezzato, d’altro canto, poteva essere un segno inequivocabile del suo disinteresse totale.
O forse si poneva domande, alle quali però preferiva non dare risposta.
Lorenzo aveva quel privilegio: poteva avere mille dubbi, e lasciarli ugualmente insoluti. Un beneficio che lei non aveva.
Aveva ancora così tanti interrogativi a ronzarle per la mente che a volte, alla notte, faticava a prendere sonno. Il futuro la spaventava, nonostante la sensazione che potesse essere migliore di quel che si era immaginata mesi prima.
Ma per quella giornata alcune domande avrebbero atteso ancora un po’.
 
*
 
Si strinse nelle spalle, uno sparuto brivido di freddo che le percorse la schiena.
Aveva iniziato a piovere da poco, solo qualche minuto dopo che erano rientrati in casa. Una pioggia leggera, quella tipica pioggia sottile della tarda primavera, ma che bastava a far scendere le temperature a sufficienza per ricordare quelle di fine inverno.
Giulia si sentiva fredda anche per altri motivi – l’agitazione e lo stress di certo non aiutavano-, ma cercò di non darlo a vedere.
Il silenzio dell’appartamento la lasciava frastornata. Avrebbe preferito che le sue figlie non fossero all’asilo, ma lì a giocare in salotto: avrebbero di sicuro reso più vitale quell’ambiente, elettrico invece per tutti i pensieri che le vorticavano per la mente. Si era tenuta la mente il più libera possibile durante il weekend, ma il lunedì aveva richiamato a sé tutte le responsabilità e le decisioni che l’attendevano.
-Mi sembra una situazione piuttosto chiara, non credi?-.
Filippo le pose quella domanda mentre si sedeva accanto a lei sul divano, allungandole una tazza colma di tisana calda che le aveva appena preparato in cucina. Ci era voluto poco, e l’aveva fatto subito, prima ancora di cambiarsi d’abito dopo che erano rientrati a casa. Aveva ancora la camicia e i pantaloni vagamente eleganti che aveva usato per l’appuntamento che avevano fissato con un avvocato, e Giulia quasi si mise a ridere di nuovo nel notare il loro contrasto evidente: lei, in maniera totalmente opposta a Filippo, aveva decisamente puntato sulla comodità. Ma, d’altro canto, la gravidanza era un’ottima ragione per scegliere una tuta piuttosto che altri vestiti che l’avrebbero solo fatta sentire più a disagio con il suo corpo cambiato.
Ripensò brevemente all’incontro avvenuto meno di un’ora prima, a quel che avevano raccontato, e a quello che l’avvocato aveva detto loro. Aveva ragione Filippo: nonostante tutto, in verità era una situazione piuttosto chiara.
-Sì- annuì Giulia, mentre afferrava la tazza che Filippo le porgeva – Non credo che Lorenzo si rifarà mai vivo, quindi … -.
Quello era un pensiero che la lasciava ancora piuttosto combattuta. Era alquanto ovvio che Lorenzo non volesse avere nulla a che fare con il figlio che lei stava aspettando, e probabilmente per come erano andate le cose era meglio così. Allo stesso tempo, però, non riusciva a farsene una ragione fino in fondo.
“Forse sono troppo poco obiettiva”.
-Beh, non penso proprio abbia alcuna intenzione di riconoscerlo- proseguì ancora, con voce distante – Non mi aspetto di trovarlo fuori dalla sala parto, sempre che venga a sapere quando partorirò-.
Aveva detto chiaro e tondo all’avvocato che, date le circostanze, preferiva avere Lorenzo fuori da ogni questione. Preferiva di gran lunga non coinvolgerlo in un possibile riconoscimento, perché ragionevolmente Lorenzo aveva dimostrato solo ostilità nei suoi confronti. Del lato emotivo, in quel caso, era meglio non tenerne conto.
-Se si azzarda ad avvicinarsi è la volta buona che gli metto le mani addosso- mormorò Filippo a denti stretti, quasi lo stesse dicendo proprio al diretto interessato – Non devi preoccuparti per Lorenzo. Non si avvicinerà più né a te né al bambino-.
Le passò un braccio sulle spalle, lasciandole poi un bacio sui capelli. Giulia doveva ancora farci l’abitudine a quei piccoli gesti d’affetto, anche se pian piano stavano tornando ad essere normali tra loro, insieme ad altre cose. Dovevano ancora raggiungere altri stadi, ma pian piano ci sarebbero arrivati.
Per un po’ nessuno di loro disse nulla. Giulia continuò a bere la sua tisana, cullandosi nel contatto con il corpo di Filippo accanto al suo, sentendosi al sicuro: era piuttosto sicura che, in un modo o nell’altro, sarebbe riuscita ad affrontare anche da sola un eventuale ritorno di Lorenzo, ma con Filippo accanto si sentiva più quieta.
-E a proposito del bambino … -.
Filippo iniziò a parlare con voce esitante, e quando Giulia si voltò verso di lui lo vide mordersi il labbro inferiore, visibilmente agitato.
-C’è una cosa a cui stavo pensando già da prima che andassimo dall’avvocato. Riguardo il riconoscimento-.
Giulia aggrottò la fronte:
-Cosa?-.
Non aveva idea di cosa stesse per dirle Filippo, ed ora anche lei si sentiva un po’ agitata come lui. Ma la stretta di Filippo si fece più convinta, e la guardò in viso mentre si accingeva a parlare, dopo aver preso un respiro profondo.
-Voglio riconoscerlo-.
Filippo sembrava ancora in ansia, ma stavolta parlò con voce chiara e convinta, e Giulia sgranò gli occhi.
-Cioè, se tu sei d’accordo, ovviamente- aggiunse frettolosamente lui, subito dopo – È che … Forse non sarà mio biologicamente parlando, ma sinceramente non ci penso nemmeno a questo lato. Non mi interessa che abbia il mio sangue o meno. Sono venuto a tutte le visite, l’ho visto alle ecografie, lo sento scalciare, vedo ogni giorno quanto cresce … Non riesco a percepirlo come il figlio di qualcun altro-.
Filippo aveva parlato con voce febbrile, come se mille pensieri gli ronzassero in testa e provasse il bisogno di esprimerli tutti il prima possibile. Giulia si sentì ubriaca delle sue parole, e di un’emozione che poteva definire a metà tra la felicità, l’incredulità, e la paura.
Prima che potesse trovare anche solo una risposta da dargli, Filippo prese tra le mani il suo viso, con delicatezza:
-E poi è tuo. Basta già solo questo per farmi volere bene anche a lui-.
Giulia sentì gli occhi farsi lucidi per la commozione:
-Davvero pensi di volerlo riconoscere tu?-.
Non se lo era aspettata del tutto, anche se doveva ammettere che a volte quel pensiero l’aveva sfiorata. Era vero che il padre biologico sarebbe sempre stato Lorenzo, ma lui non c’era mai stato né per lei né per il bambino – e probabilmente sarebbe sempre stato così.
Filippo le sorrise, l’ansia che sembrava essere scomparsa:
-Se sei d’accordo anche tu, sì- le disse dolcemente – L’hai sentito, l’avvocato: sarebbe la soluzione più logica. E d’altro canto siamo ancora sposati, anche se stavamo per firmare le carte per la separazione mesi fa-.
Le accarezzò ancora le guance con i polpastrelli, e se alcune lacrime rigarono le guance di Giulia lei non se ne accorse fino a quando non lo avvertì asciugargliele.
-Voglio restarti accanto, te l’ho detto- Filippo lo disse a mezza voce, quasi temesse che qualcuno oltre a lei potesse udirlo – Questo comprende anche voler restare accanto alle bambine e al piccolo che nascerà-.
-Avevo un po’ paura di come avresti potuto vederlo- confessò Giulia, memore della promessa che si erano fatti di non tenersi nascosto più nulla – Mi solleva sapere che per te non sia diverso da Caterina e Beatrice-.
-Non lo è-.
Si avvicinò per lasciarle un bacio, stavolta sulle labbra, prima di staccarsi da lei pochi centimetri continuando a sorriderle:
-A dire il vero non vedo l’ora che nasca per conoscerlo- il sorriso si trasformò in una risata gioiosa – Finalmente avrò un altro uomo in famiglia a cui chiedere aiuto in mezzo a tre donne-.
-Scemo!- Giulia lo colpì piano ad una spalla, tenendo la tazza con una mano sola, ma stava ridendo anche lei – Sarete comunque in minoranza-.
Risero insieme ancora per qualche secondo, le difficoltà che sembravano dissiparsi almeno per quel momento. Giulia credeva che avrebbe ricordato quel momento di raggiante gioia per moltissimo tempo, come il giorno in cui, forse inconsciamente, aveva finalmente capito che Filippo sarebbe davvero rimasto – e che anche lei avrebbe fatto lo stesso.
 
Wherever you are
I know you always stay*
 
*
 
Dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di riuscire a riabituarsi alle luci stroboscopiche del Celebrità. Pietro si rese conto che quel posto gli era mancato: nelle ultime settimane non era riuscito a metterci piede nemmeno una volta, ed ora che era tornato percepiva quella contentezza per essere finalmente di ritorno in un luogo che per lui rappresentava la serenità.
Cercò di seguire la figura di Martino mentre si facevano largo tra la folla per raggiungere il bancone e ordinare qualcosa. C’era un sacco di gente, molta più del solito, ma quel particolare poteva forse imputarlo alle serate speciali dedicate al Pride che ci sarebbero state per tutto il mese di Giugno.
Quando arrivarono finalmente nei pressi del bancone, dove la calca di certo non diminuiva, Martino si girò verso di lui:
-Che te prendi?-.
-Non ho ancora deciso- replicò Pietro, facendosi un po’ più vicino a lui per riuscire a sentirlo e farsi udire meglio – C’è un po’ di gente stasera-.
-È il mese del Pride, che te aspettavi?- Martino rise – La gente ha voglia di festeggiare almeno un mese all’anno-.
Di sicuro ce l’aveva anche Martino, quella voglia di festeggiare. Quella sera aveva rispolverato i capi d’abbigliamento più colorati del suo intero armadio – e l’armadio di Martino conteneva, con ogni probabilità, ogni tonalità di colore possibile-, e il make up non era da meno: aveva sfumato diversi ombretti nei colori della bandiera gay, e aveva calcato la mano con l’illuminante sulle gote. Era sfavillante.
Proseguirono ancora un po’, fino a quando non trovarono un punto un po’ meno affollato, con due sgabelli liberi.
-A proposito de Pride … - iniziò a dire Martino, una volta seduti – Sabato prossimo ce starebbe la sfilata a Padova-.
“Lo so” avrebbe voluto dirgli Pietro, ma si trattenne. Non era del tutto sicuro di voler provare a spiegare a Martino, in mezzo a tutto quel baccano assordante, che si era interessato alla cosa solo per gusto di informazione, ma che – almeno al momento- non aveva ancora sfiorato l’idea di prendervi parte.
Cercò di sviare subito il discorso da sé:
-Tu ci vai, ovviamente-.
-Ovviamente- Martino aprì le braccia con fare ovvio, e con un sorriso immenso stampato sulle labbra – Te? Vuoi fare un salto?-.
Pietro si dette dell’idiota mentalmente: era ovvio che Martino glielo avrebbe domandato comunque.
-Non lo so- fece, timidamente – Forse vado dai bambini-.
Non era una bugia, tutt’altro, ma era anche vero che se avesse saltato quel sabato di sicuro Giada non avrebbe avuto nulla in contrario nell’ospitarlo un qualche altro giorno. Ma doveva ancora arrivare al livello in cui si sarebbe sentito del tutto a suo agio anche ad un Pride, e quindi non aggiunse nient’altro.
Martino alzò le spalle:
-Peccato, potevi portacce Alessio-.
A quella frase Pietro ringraziò di non star bevendo nulla, o si sarebbe sicuramente strozzato.
-Che?-.
Martino lo guardò maliziosamente:
-Massì, che c’è de male?- gli disse, con tutta la tranquillità del mondo – Siete entrambi appartenenti alla comunità, quindi avete ogni motivo pe’ venicce-.
Pietro dovette ammettere che, in fin dei conti, il ragionamento non faceva una piega.
-Adesso che sei out potevi invitarlo- proseguì Martino, dandogli una gomitata su un fianco – Magari era la volta buona che concludevi-.
Pietro lo guardò con tutto lo scetticismo che gli era possibile:
-Come no-.
La sua mente, però, stava già viaggiando, creando uno scenario simile a quello prospettato da Martino – magari non nella parte finale, ma in tutto il resto sì. Forse Alessio lo avrebbe anche accompagnato, se glielo avesse chiesto. Avrebbero camminato per Padova senza sentirsi in difetto, in mezzo a tantissime altre persone che condividevano con loro qualcosa, per un pomeriggio intero.
Ma per invitarlo gli sarebbe servita già una bella dose di coraggio … Non osava neanche immaginare cosa gli sarebbe servito per flirtare – figuriamoci baciare- con Alessio.
-Embè, guarda che il Pride ispira un sacco- proseguì ancora Martino – Ci andavate, sfilavate, e vedevi come concludevate la sera stessa-.
Pietro non disse nulla. Martino era sempre stato un po’ troppo ottimista, al contrario suo, anche se doveva ammettere che il più delle volte ci vedeva davvero lungo.
Sperò che un barista si presentasse nella loro zona del bancone il prima possibile, perché doveva affogare quei dubbi e quei pensieri in qualcosa da bere il prima possibile.
-Che poi me li dovrai presentà i tuoi amici, prima o poi- udì Martino parlare – Ormai son curioso di conoscerli sul serio, dopo tutto il parlare che fai di loro-.
Pietro alzò le spalle:
-Magari prima o poi capiterà. Se prometti di tenere la bocca chiusa con Alessio-.
Cercò di ricreare uno scenario simile: gli amici di una vita che conoscevano Martino. Alessio che conosceva Martino. Era un evento che poteva andare solo in due modi: o molto bene o malissimo. Nessuna via di mezzo possibile.
-Senti, io intanto sarei bravissimo a buttare qualcosina qua e là pe’ fargli capire un po’ di cose- Martino gli fece l’occhiolino – Dovresti sfruttare questa mia capacità da mediatore, altroché tenere la bocca chiusa-.
-Certo, come minimo andresti da lui a chiedergli se gli andrebbe di passare la notte con me- gli fece notare Pietro con ironia, piuttosto convinto che di ironico in realtà non ci fosse nulla: era del tutto sicuro che sarebbe andata proprio così. Magari Martino non lo avrebbe chiesto in maniera del tutto esplicita, ma in un modo o nell’altro l’avrebbe sottinteso.
Martino, di tutta risposta, gli sorrise candidamente:
-Nah, gli chiederei se sarebbe disposto a concederti almeno un primo appuntamento. Secondo me te … -.
Pietro lo vide sussultare per la sorpresa quando, del tutto inavvertitamente, gli si era avvicinato un altro ragazzo, sbattendogli una mano su una spalla come se lo conoscesse da sempre. Pietro non si era nemmeno accorto del suo avvicinarsi, troppo concentrato nel cercare di udire le parole di Martino, e ostacolato dalle luci che non aiutavano certo a vederci bene.
Non fece in tempo a domandarsi chi fosse il nuovo arrivato, che fu proprio lui a chiarirlo, mentre si rivolgeva a Martino:
-Ciao, coinquilino- disse lo sconosciuto, dopo che Martino si era voltato verso di lui – Ci si rivede anche qui-.
Era evidente che si conoscessero, ponderò Pietro: dopo che Martino l’aveva visto in viso si era notevolmente rilassato, come se dopo lo spavento iniziale per essere toccato senza preavviso si fosse tranquillizzato all’istante, nello scoprire che, in fin dei conti, non era il primo venuto.
-Ciao anche a te, Trevisan- gli rispose, con un’occhiata vagamente annoiata, piuttosto contrastante con il sorriso malizioso che l’altro, il suo coinquilino, gli stava riservando.
Pietro cercò di fare mente locale, ma non ricordava che Martino gli avesse mai parlato delle altre persone con cui condivideva l’appartamento a Mestre, e se l’aveva fatto erano state evidentemente osservazioni di poco conto.
Smise di pensarci quando notò lo sguardo dell’altro vagare sulla sua figura, uno sguardo piuttosto poco fraintendibile nelle iridi.
-Già trovato compagnia?- disse il ragazzo, rivolgendosi a Martino ma allo stesso tempo senza staccare gli occhi da Pietro – Non è affatto male-.
Lo aveva detto passandosi la lingua sulle labbra, e Pietro si sentì quasi messo a nudo dai suoi occhi. Dentro al Celebrità non riusciva a distinguerne benissimo i lineamenti, ma ad occhio e croce doveva avere all’incirca l’età di Martino. Era anche un po’ più basso di lui, e con capelli molto scuri che gli incorniciavano il viso allungato.
-Sono solo un amico- bofonchiò Pietro, preso totalmente alla sprovvista da quel flirting per niente sottinteso.
-Davvero?- fece l’altro, alzando le sopracciglia con aria sorpresa, e allungandogli la mano destra qualche secondo dopo – Piacere, Dario-.
-Pietro-.
Gli strinse la mano per pochi secondi, e gli parve quasi che persino la stretta di Dario fosse lasciva e languida come la sua espressione.
-Pietro … - lo sentì ripetere – Ti si addice-.
Martino sbuffò sonoramente, scuotendo il capo e roteando gli occhi al cielo. Doveva aver visto mille altre volte il suo coinquilino provarci con qualcuno a quel modo.
Dario non si fece distrarre:
-Hai qualcosa in programma per stasera, Pietro?- gli chiese, avvicinandoglisi in un movimento fluido e veloce, ed ora che lo aveva vicino Pietro notò che doveva avere gli occhi chiari, verdi o azzurri – Perché se non ce l’hai, posso proporti qualcosa io … -.
Pietro aveva una mezza idea di cosa gli avrebbe proposto, e per un mezzo secondo ebbe quasi la tentazione di accettare per vedere se Dario avrebbe davvero mantenuto quell’aura da predatore che aveva in quel momento. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, però, Martino si mise di nuovo in mezzo:
-Alt, fermo qua- esclamò, tirandosi nuovamente in piedi e prendendo per un braccio Dario per trascinarlo qualche passo più indietro – Stavamo parlando, e dobbiamo ancora finire. Vai a far cadere ai tuoi piedi qualcun altro-.
Dario non sembrò affatto turbato, lanciandogli invece un ghigno beffardo:
-Geloso?-.
Martino non demorse: ricambiò con un sorriso altrettanto malizioso.
-No, è che c’abbiamo da fa’-.
Pietro osservò quel siparietto piuttosto divertito. Non aveva la minima idea del rapporto che potesse intercorrere tra i due coinquilini, ma di certo c’era un po’ di aria di sfida. Non del tutto malevola, ma c’era comunque competizione.
Dario sospirò sconsolato, in maniera teatrale, prima di girarsi ancora una volta verso Pietro:
-Come non detto. Sarà per la prossima volta- disse semplicemente. E poi, come era comparso, se ne andò, non prima però di passargli di fianco e lanciandogli un bacio nell’aria.
-E quando rientri a casa non fare troppo casino, eh!- gli urlò dietro Martino per riuscire a farsi sentire, quando ormai Dario era quasi fuori dal loro raggio. Probabilmente non lo riuscì a sentire.
-Sempre se rientra- bofonchiò tra sé e sé Martino, scuotendo il capo. Si rimise a sedere come se nulla fosse stato, i gomiti appoggiati sul bancone e gli occhi che si spostavano in cerca di un barman.
-Ho capito male o è il tuo coinquilino?- gli chiese Pietro, pur aspettandosi già quale sarebbe stata la risposta, piuttosto ovvia.
-Il mio coinquilino in persona-.
-Non sei stato un po’ troppo brusco?- gli chiese ancora – Voglio dire, potevo farcela da solo a dirgli che non ero interessato-.
Lo disse anche se una minima parte di sé gli fece venire qualche dubbio, perché Dario nonostante tutto non gli era sembrato affatto male, e il sesso gli mancava. E Alessio, in qualsiasi caso, era distante esattamente quanto prima del suo coming out. Una notte un po’ diversa dal solito non avrebbe cambiato granché le cose.
-Forse sarebbe riuscito a farti cambiare idea, e non so quanto sarebbe stata una buona cosa- Martino parlò dopo diversi secondi di silenzio, finalmente voltandosi verso di lui – Non fraintendere, non è una cattiva persona. Ma è un po’ ambiguo, certe volte … Non è né carne né pesce. E poi comunque avrebbe cercato solo un’avventura di una notte da te. Non credo gli interessino le relazioni serie-.
Pietro alzò le spalle:
-Neanche io avrei voluto qualcosa di serio. Non con lui, almeno- ammise.
Quasi come avesse ricevuto un colpo di genio, gli occhi di Martino tornarono a brillare di vivacità:
-Daje, a proposito … - iniziò a dire, sghignazzando ancor prima di finire di parlare – Quando m’hai detto che me lo presenti Alessio?-.
Pietro un po’ rimpianse che Dario se ne fosse già andato chissà dove.
 
*
 
Si passò una mano sul viso, il sudore appiccicato alla pelle che cominciava seriamente a dargli fastidio. Pietro detestava parecchio l’umidità e l’afa che si cominciava a respirare a Venezia quando non era ancora piena estate. L’unico lato positivo era che era facile trovare ristoro nell’ombra proiettata dai palazzi sulle calli, evitandogli di dover camminare proprio sotto il sole della sera.
-Dimmi almeno che ne varrà la pena- brontolò rivolto a Martino, che gli stava camminando a fianco. Per una volta aveva scelto un outfit piuttosto sobrio – fin troppo per lui, tanto che Pietro aveva quasi stentato a riconoscerlo quando se l’era ritrovato davanti la porta di casa sua, poco prima-, e niente make up sul viso. Qualcosa gli faceva supporre che si fosse dovuto preparare in fretta e furia, rinunciando al suo stile appariscente.
-Se me stai chiedendo se è un film decente, me sa che lo scopriremo solo dopo- Martino lo disse con sarcasmo evidente, per niente preoccupato dai possibili risvolti.
-Comincio a pensare che ci fosse un motivo se nessuno voleva venire con te-.
Pietro se lo stava cominciando a chiedere sul serio come mai, tra tutti gli amici che Martino sembrava avere, nessuno aveva accettato la sua proposta di andare a vedere il film – di cui Pietro nemmeno ricordava il titolo- di un qualche regista coreano che usciva quella sera nei cinema. Era probabile che nessuno si fosse fatto ingannare dagli occhi dolci e innocenti con cui Martino aveva invece convinto lui.
Iniziava anche a pentirsi del cinema dove si stavano dirigendo, perché la zona in cui stavano camminando ora era quella dove si trovava casa di Alessio, oltre che a quella di Giulia e Filippo. Era un’ora in cui Pietro non si sarebbe aspettato di trovarli in giro, probabilmente ancora di ritorno dopo aver staccato dal lavoro, ma si sarebbe sentito tranquillo solo una volta arrivati a destinazione.
-Lo vedremo, lo vedremo- gli rispose Martino – Magari poi sei tu che uscirai dal cinema tutto esaltato-.
Pietro fece per rispondere, ma qualcun altro parlò al posto suo, e con enorme terrore ebbe solo qualche secondo per rendersi conto che non era stato Martino a interromperlo.
-Pietro!-.
Sarebbe potuto essere un altro Pietro la persona appena chiamata, ma dubitava che una simile coincidenza potesse accadere sul serio. E poi, manco a dirlo, quella che aveva appena udito era una voce che conosceva fin troppo bene. E della persona che aveva sperato fino all’ultimo di non incrociare proprio in quel momento.
Quando si voltò non poté nemmeno dirsi stupito di riconoscere subito Alessio. Era davanti al portone del suo palazzo, che Pietro e Martino avevano superato da qualche metro – segno che Alessio doveva aver camminato dietro di loro per un po’ di minuti prima di riconoscerlo.
Pietro non ebbe altra scelta che avvicinarsi di nuovo a lui, sperare di non apparire troppo agitato, e soprattutto augurarsi che Martino tenesse la bocca chiusa. Quella era la cosa su cui era più insicuro, perché era piuttosto certo che non appena si sarebbe reso conto di chi avevano incrociato non si sarebbe più trattenuto dall’entusiasmo.
-Ehi- Pietro lo salutò con finta indifferenza – Sei già rientrato dal lavoro?-.
“L’unica volta in cui non dovevi tornare in anticipo a casa”.
Alessio aveva l’aria un po’ stanca, ma Pietro dovette ammettere a se stesso che la camicia bianca che indossava, con le maniche arrotolate fino al gomito, gli stava davvero bene. Fin troppo.
E quei pantaloni scuri e attillati che gli fasciavano le gambe e …
-Sì, è stata una giornata tranquilla oggi- Alessio interruppe il suo flusso di pensieri, lanciandogli un sorrisetto divertito – E comunque anche tu evidentemente non ti stai trattenendo in redazione per gli straordinari-.
Pietro non stava guardando Martino, ma percepiva la sua presenza a pochi passi da lui, un po’ più indietro. Sembrava essersi tenuto in disparte, ma era impossibile continuare a fare finta di nulla, come se Alessio non stesse dirigendo lo sguardo proprio su di lui prima di tornare a guardare Pietro.
-Già- fece lui, sentendo già l’imbarazzo crescere – Stavo accompagnando un amico a vedere un film-.
Sperò che Alessio non fraintendesse quella definizione che aveva dato di Martino.
“Ci manca solo che creda che sto pure frequentando qualcuno, e poi mi sono giocato qualsiasi chance”.
Non passarono che pochi attimi prima che Martino si facesse avanti, molto meno baldanzoso del solito, ma ugualmente sciolto. Tese una mano verso Alessio con un sorriso affabile stampato in viso:
-Martino, piacere-.
-Alessio- gli rispose, con un sorriso di cortesia misto a curiosità, stringendogli brevemente la mano.
Quel che preoccupò Pietro – molto più della situazione paradossale alla quale stava assistendo, con due mondi che si stavano finalmente incontrando- fu l’espressione di totale sorpresa ed ardente consapevolezza che si dipinse sul viso di Martino non appena Alessio aveva detto il suo nome.
-Ah, quell’Alessio- Martino non riuscì a trattenersi nemmeno per un minuto, girandosi verso Pietro per tirargli una gomitata, prima di tornare a rivolgersi ad un Alessio con gli occhi sgranati – Ho sentito molto parlare di te-.
Pietro dovette faticare parecchio per trattenersi dal saltargli addosso e strozzarlo subito.
Alessio si rivolse direttamente a lui, con occhi stupiti:
-Non sono proprio sicuro di voler sapere cosa dici in giro di me-.
“Solo che sono innamorato perso”.
Sperò che non glielo dicesse Martino.
-Chiedi e ti sarà rivelato- lo sentì dire invece, e sebbene non fosse esattamente l’idea che aveva Pietro di risposta senza doppi significati, era comunque una risposta più semplice di quella che aveva pensato lui stesso. Martino rimaneva comunque non affidabile, ed era decisamente giunta l’ora di andarsene.
-Non eravamo in ritardo?- gli chiese, ben consapevole di star arrossendo.
-Embè, un attimo- il sorriso astuto di Martino non lo rassicurò affatto – Ho appena incontrato qualcuno di cui parli sempre. Ora sono curioso-.
“Cazzo”.
Ma prima che potesse anche solo trascinare platealmente Martino il più distante possibile da Alessio, lo osservò mentre gli si rivolgeva nuovamente, con imbarazzo alcuno, come se fosse un vecchio amico che conosceva da una vita intera:
-Non è che sei libero venerdì sera?-.
Fu una domanda talmente improvvisa che Pietro sgranò gli occhi, ed Alessio li strabuzzò.
-Cosa?-.
Martino lo guardò con carisma:
-Noi pensavamo di andare a bere qualcosa da qualche parte, però in due è un po’ un mortorio-.
Non era affatto vero che avessero organizzato una cosa simile quel venerdì sera, ed era evidente che Martino si fosse fatto venire in mente quell’idea su due piedi, solo per avere una scusa per avere Alessio a portata di mano. Pietro aveva davvero voglia di farlo finire all’altro mondo.
-Vieni con noi, no?-.
-Non sentirti in obbligo- Pietro lo disse velocemente, sperando che Alessio mangiasse la foglia. Il risultato, però, fu l’esatto contrario.
-No?- Alessio lo guardò sospettoso, e forse Pietro l’aveva decisamente sottovalutato – Però in effetti venerdì sera non ho niente da fare-.
Pietro quasi pensò che si fossero alleati telepaticamente contro di lui.
-Fatta!- Martino esultò quasi come avesse appena vinto qualche medaglia d’oro – Così me piaci-.
L’unico pensiero che riuscì a formulare Pietro in quel momento, sotto lo sguardo indecifrabile di Alessio e quello trionfante di Martino, fu che era inevitabilmente, incredibilmente, assolutamente fottuto.
 
*
 
Non c’era dubbio alcuno che fosse lui il primo ad essere arrivato a destinazione. Pietro si guardò attorno ancora una volta, ma sapeva già che non avrebbe trovato né Martino e – gli faceva ancora così strano anche solo pensarlo, figurarsi viverlo- né Alessio.
Almeno il posto in cui stare per quella sera aveva potuto deciderlo lui, scrivendo ad entrambi l’ora e di incontrarsi davanti all’entrata del locale. Pietro era andato sul sicuro: la scelta era ricaduta sul bar dove lui ed Alice avevano parlato sei mesi prima, e dove era già tornato un altro paio di volte. Gli era rimasta impressa l’atmosfera soffusa e calma di quel luogo, la musica jazz in sottofondo che di certo dava un tocco in più. Era piuttosto sicuro che Alessio l’avrebbe apprezzato, e anche Martino vi avrebbe trovato dei lati positivi.
E ora che lui era arrivato non gli rimaneva altro che aspettare.
Tirò fuori nervosamente dalla tasca dei pantaloni il cellulare, ma nessun messaggio gli era arrivato. In compenso, però, si rese conto di essere davvero troppo in anticipo per poter dire che fossero Alessio e Martino ad essere in ritardo. L’agitazione aveva avuto il suo grande ruolo nel farlo uscire di casa un’ora prima dell’orario stabilito per il ritrovo.
Per un attimo provò ad immaginare come sarebbe stato se, oltre a loro due, avesse dovuto attendere anche Filippo e Nicola. Aveva provato a convincerli ad unirsi – omettendo il vero motivo per il quale avrebbe voluto averli lì, ovvero cercare di attenuare i guai che Martino avrebbe sicuramente causato-, ma le risposte erano state altamente deludenti: se aveva potuto giustificare Filippo per aver rifiutato per rimanere a casa con Giulia e le figlie, un po’ aveva ancora il nervoso per Nicola. Lui, in maniera estremamente chiara e candida come se fosse la cosa più naturale del mondo, non aveva nemmeno provato ad inventarsi una scusa per non esserci: gli aveva direttamente detto che non aveva voglia di uscire.
Spostò il proprio peso da una gamba all’altra ancora per qualche minuto, l’ansia che lo attanagliava alla bocca dello stomaco tanto che sentiva la nausea farsi strada. Fu quando stava per ricontrollare nuovamente l’ora sul cellulare che intravide, con la coda dell’occhio, una figura famigliare che si stava avvicinando a lui.
-Ehi- prima che potesse essere Pietro a dire qualcosa, fu Alessio a salutarlo, quando arrivò ad affiancarlo dopo pochi secondi – Sei qui da tanto?-.
Pietro avvertì il profumo che doveva essersi spruzzato addosso, ancor prima di poterlo osservare per bene. Alessio sembrava essersi tirato a lucido, e per qualche secondo, con quella consapevolezza, Pietro trovò difficile anche solo mettere insieme due parole.
-No, non esattamente- gracchiò a fatica.
Alessio sembrò non farci caso:
-Il tuo amico?-.
-Deve ancora arrivare-.
Di nuovo, per l’ennesima volta in quei due giorni che avevano preceduto quella serata, Pietro non poté fare a meno di chiedersi come mai Alessio avesse accettato la proposta di uscire di un perfetto sconosciuto. Non sarebbero certo stati soli lui e Martino, e Pietro era un tramite che di certo non aveva ignorato, ma continuava a sfuggirgli la ragione che l’aveva spinto a venire.
Quel dubbio lasciò pian piano spazio ad altro, mentre studiava meglio Alessio. Aveva sicuramente valutato accuratamente come vestirsi, su quello Pietro non aveva alcuna incertezza: la camicia blu gli risaltava il colore degli occhi, e di certo anche le gambe erano ben evidenziate dai pantaloni scuri che aveva abbinato, non eccessivamente aderenti ma che non lasciavano nemmeno troppo alla fantasia. Aveva persino messo un orecchino d’argento al lobo sinistro.
Era incredibilmente attraente, e Pietro arrossì non appena si rese conto che ora Alessio lo stava fissando di rimando, con un sopracciglio alzato.
-Stai … - bofonchiò di nuovo, improvvisando e cercando di schiarirsi la voce – Bene. La camicia ti sta bene-.
-Grazie- Alessio arrossì a sua volta – È nuova, anche se in realtà l’ho comprata un po’ di mesi fa. Ma è la prima volta che la indosso-.
“Hai scelto la serata giusta”.
Pietro annuì, senza sapere bene cosa dire. Era una delle rare volte in cui si trovava davvero senza parole in compagnia di Alessio, ma si rese conto che quegli strani silenzi pieni di tensione stavano aumentando da dopo il suo coming out.
Non era una tensione negativa, tutt’altro, ma non avrebbe saputo bene come poterla descrivere. Una tensione che provava ogni volta che Alessio lo teneva osservato, soprattutto nei momenti in cui credeva che Pietro non se ne sarebbe accorto. In quel momento, invece, non stava affatto nascondendo la lunga occhiata che gli stava riservando.
-Anche tu stai bene, comunque- gli disse dopo un po’, con un mezzo sorriso – Il nero ti dona sempre-.
-Ho messo la prima cosa che mi è capitata sotto tiro- minimizzò Pietro, anche se non era del tutto vero. Alessio aveva sicuramente posto attenzione al suo abbigliamento, ma pure lui non era stato da meno.
Lo ascoltò ridere, e Pietro si sentì debole già così, già solo udendo il suono cristallino della sua risata.
-La fortuna di essere belli in partenza- fu il commento di Alessio qualche secondo dopo.
Pietro ebbe la netta sensazione di essere diventato completamente rosso in viso – e cercò di non fare caso, di nuovo, al fatto che quel genere di complimenti e osservazioni erano in un qualche modo più presenti negli ultimi mesi.
Un po’ gli venne da ridere – per non piangere direttamente- al pensiero di come sarebbe stato di lì a poco, quando li avrebbe raggiunti Martino, e quegli scambi sarebbero stati testimoniati da lui in persona. Già lo sentiva fargli un intero resoconto la prima volta che si sarebbero visti da soli dopo quella serata.
-Ti è caduta una ciglia-.
La voce di Alessio lo distrasse ancora una volta da quei pensieri. Gli stava puntando un dito nella direzione del viso in cui doveva essere finita la ciglia incriminata, ma Pietro, pur portandosi una mano sulla guancia indicata, non sembrò individuarla.
-Dove?- gli chiese.
-Aspetta-.
Prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa, Alessio prese in mano la situazione: si girò completamente verso di lui, avvicinandoglisi, e allungando in paio di dita verso il suo viso.
-Sta fermo- gli mormorò, la voce a malapena udibile, e Pietro che sarebbe rimasto immobile in qualsiasi caso, la distanza tra loro davvero annullata. Avvertì i polpastrelli di Alessio accarezzargli la guancia, poco sotto l’occhio destro, e ne inspirò anche il profumo, molto più forte ora che lui gli era ancor più vicino, e avvertì sulla sua pelle anche il suo respiro caldo.
-Eccola-.
Anche se Alessio l’aveva appena detto, e aveva spostato anche le proprie dita, non si era fatto indietro. Erano ancora a meno di venti centimetri di distanza, e Pietro rimase imbambolato così. Gli sarebbe bastato così poco allungarsi per baciarlo: meno di tre secondi, la distanza di un respiro, e avrebbe scoperto se Alessio lo avrebbe ricambiato o meno.
La cosa che lo sorprese, sebbene non avesse alcuna certezza che non fosse solo una sua impressione ma qualcosa di concreto, era che Alessio gli sembrava del tutto non intenzionato a scostarsi.
-Bonsoir-.
Quando Pietro udì quella voce iniziò a sudare freddo. Non aveva calcolato di farsi beccare da Martino in quello stato, ma era ciò che era appena successo: si voltò lentamente, e davanti a sé vi trovò proprio Martino in persona, che stava visibilmente ridendo sotto i baffi, con una punta di malizia mista a divertimento puro nello sguardo.
-Ho interrotto qualcosa?- chiese subito dopo, senza nemmeno dar il tempo a lui ed Alessio di salutarlo di rimando.
E Pietro, stavolta, fu altrettanto svelto:
-No- disse con voce ferma, forse un po’ troppo brusco, prima di tirare un lungo sospiro – Entriamo, va’-.
Anche se dette loro le spalle subito dopo, diretto all’ingresso del locale, Pietro fu sicuro di tre cose: che Alessio aveva piantato gli occhi sulla sua schiena, che Martino stava ancora sghignazzando, e che non c’erano premesse a fargli credere che durante quella serata non sarebbe successo un autentico casino. 
 
*
 
-Davvero bono, ‘sto cocktail- Martino si rigirò il lungo bicchiere trasparente tra le mani, quasi a studiare ogni sfumatura del liquido, prima di alzare gli occhi su Pietro – Com’è che l’hai trovato sto posto?-.
-C’ero già stato mesi fa- rispose vagamente lui, che ancora non aveva toccato la sua birra. Doveva ancora realizzare del tutto la situazione in cui si trovava, prima di poter bere anche solo un goccio d’alcool.
Le loro ordinazioni erano arrivate da un paio di minuti, un tempo decisamente più ristretto rispetto a quello che ci era voluto loro per decidere cosa prendere e poi aspettare dopo che la cameriera si era allontanata dal loro tavolo.
-Ce li hai diciotto anni, vero?- Alessio lo chiese guardando Martino con occhio critico, come se quel dubbio gli fosse appena sorto. In effetti, pensò Pietro, poteva essere legittimo: sotto il disegno intricato del trucco il viso di Martino appariva ancora molto giovanile, come se fosse appena uscito dall’adolescenza.
-Li porto alla grande, ve’?- replicò il diretto interessato, con un sorriso compiaciuto – Comunque certo, ne ho venticinque-.
Alessio sembrò tirare un sospiro di sollievo tra sé e sé. Era stata una delle tante interazioni tra loro due a cui Pietro aveva assistito negli ultimi venti minuti, da quando erano entrati ed avevano presto posto a quel tavolino rotondo a metà sala. Il bar a quell’ora non era ancora così pieno come probabilmente sarebbe stato di lì a un’ora, e la musica ancora proveniva unicamente dalla radio e non dal vivo come sarebbe accaduto più tardi: non serviva alzare la voce per parlare, e a Martino non serviva certo sforzarsi per trovare qualcosa da dire ad ogni secondo.
A Pietro non era rimasto che guardare la scena più improbabile che gli si prospettava davanti in quel momento: Alessio che chiacchierava con Martino, del più e del meno, scambiandosi quelle informazioni iniziali che finiscono sempre per essere dette ai primi incontri tanto per spezzare il ghiaccio, il tutto con molta più naturalezza di quel che si sarebbe aspettato.
-Me so’ persino laureato a marzo, cosa da non credere-.
Alessio alzò un sopracciglio, mentre finiva di sorseggiare il suo Cosmopolitan:
-In cosa?-.
-Architettura- rispose prontamente Martino. Per quella sera non si era minimamente trattenuto con il make up – c’erano sfumature d’oro e viola sulle sue palpebre, ed anche una scia d’illuminante sugli zigomi-, ma Alessio non aveva battuto ciglio neanche per i primi secondi in cui l’aveva sicuramente notato.
-Non mi era ancora capitato di trovare un romano in giro per Venezia- commentò Alessio con leggerezza, dopo qualche secondo di silenzio.
-Ce sta sempre ‘na prima volta per tutto, no?- rise sommessamente Martino – Voi due invece siete andati alla stessa facoltà-.
Non era una domanda, per niente, e Alessio stava ascoltando troppo attentamente per non rendersene conto. Pietro lo vide voltarsi verso di lui con un sorriso indecifrabile sulle labbra, prima di tornare a rivolgersi a Martino:
-Che altro ti ha detto di me?-.
Il battito del cuore di Pietro accelerò all’istante, perché quella era la domanda perfetta per Martino per lanciare qualche amo decisamente di troppo.
E lo sguardo a tratti beffardo di Martino gli fece temere parecchio il momento in cui aprì bocca:
-Oh, sapessi … - cantilenò, con fare fintamente innocente – Diverse cose. Mi stavi già simpatico prima, però devo dire che dal vivo è ‘nartra cosa-.
Pietro roteò gli occhi al cielo, prima di dire direttamente ad Alessio:
-Non gli ho detto nulla di che-.
Era una bugia spudorata, e ne era perfettamente consapevole, ma doveva cercare di fare qualcosa per salvare almeno un po’ la faccia.
Alessio sembrò crederci – o almeno fu quello che presunse Pietro nel vederlo silenzioso-, ma non gli sfuggì lo sguardo piuttosto divertito di Martino. Lo guardò il più malamente possibile, come già ad anticipargli tutti gli epiteti poco carini che gli avrebbe rivolto alla prima occasione in cui sarebbero stati soli.
-Ma com’è che vi siete conosciuti?-.
Il silenzio era durato troppo poco, perché Alessio era tornato a parlare, ponendo di nuovo una delle domande peggiori che gli potessero venire in mente. Pietro sbiancò all’istante.
-Siamo … - iniziò a dire, balbettando perché non gli stava venendo in mente nulla di convincente – Colleghi-.
Ma prima che potesse spiegare meglio quella nuova bugia, Martino lo interruppe:
-In un locale gay-.
Pietro prese in seria considerazione l’idea di andare a cercare una pala e sotterrarsi direttamente appena fuori dal bar.
Non ebbe nemmeno il coraggio di alzare gli occhi su Alessio, anche se non lo udì commentare in alcun modo.
-Il Celebrità, presente? Sta a Mestre- sciorinò Martino, del tutto a suo agio – Discreto come posto, si beve bene, se hai culo incontri anche qualcuno non troppo male… -.
-Siamo solo amici- disse Pietro, con voce ferma.
C’era qualcosa in lui che lo spingeva tremendamente a voler spazzare via ogni sospetto che Alessio potesse avere su di lui e Martino. L’ultima cosa che voleva era che credesse che stessero insieme, che lui fosse impegnato con qualcuno.
Non si era ancora voltato verso Alessio, ma sentiva il peso del suo sguardo addosso.
Martino, invece, accolse quella sua precisazione con una certa nonchalance:
-Meglio specificare, eh?- gli disse, con un sorriso eloquente.
Pietro scostò lo sguardo, ponendolo finalmente su Alessio, che sospirò, la fronte corrugata:
-Non ho presente il posto- ammise – Non ho mai frequentato gay bar, in effetti-.
-Beh, potresti venicce, allora- Martino colse subito la palla al balzo – C’è … -.
-Una prima volta per tutto- concluse per lui Alessio, con un mezzo sorriso.
-Esatto-.
Pietro si sarebbe aspettato qualche altro commento tra di loro, ma quel che fece Alessio un po’ lo colse di sorpresa: lo vide girarsi nella sua direzione, con lo stesso mezzo sorriso un po’ enigmatico, e con gli occhi azzurri che lo tenevano fisso.
-Non mi hai mai invitato-.
-Non pensavo fossi interessato- mormorò Pietro, ancora spiazzato.
Avvertì Martino tirargli una gomitata sul braccio, con fare giocoso.
-Forse lo è-.
Pietro lo ignorò del tutto, continuando a rivolgersi ad Alessio con fare esitante:
-Non ci hai mai messo piede, d’altro canto-.
Alessio alzò le spalle:
-Forse dovrei fare nuove esperienze-.
Pietro se lo immaginò durante un sabato sera qualsiasi, al Celebrità, con la camicia che portava quella stessa serata addosso, la pelle leggermente sudata per il caldo, e il sorriso che gli rivolgeva ogni volta. Forse sarebbe stata la volta buona che non si sarebbe trattenuto dal baciarlo.
-Che carini che siete. Vi punzecchiate come una vecchia coppia sposata-.
Quando si voltò lentamente verso Martino, le immagini appena create dalla sua mente che svanivano per lasciar di nuovo posto alla realtà, Pietro provò davvero una gran voglia di strozzarlo.
In compenso, Martino lo guardò con ancor più divertimento negli occhi verdi:
-Sareste davvero una gran bella coppietta-.
Si chiese, in un momento di totale astrazione, se Martino gli ricordava così tanto la possibile versione maschile di Giulia anche prima di quella sera.
 


-Un altro giro?-.
Martino li guardò entrambi con sguardo interrogativo, gli occhi già più lucidi rispetto a prima. Era sempre piuttosto resistente all’alcool, ma Pietro sapeva che quello era il primo segno che lo avrebbe portato ad essere almeno un po’ brillo.
Alessio fu il primo a scuotere il capo:
-Se bevo ancora qualcos’altro finisco per non arrivare a casa intero-.
Era passata circa un’altra ora da quella prima mezz’ora stentata in cui Pietro era rimasto in attesa di scoprire le mosse di Martino. Nel bar avevano cominciato a suonare dal vivo – una band jazz di tre componenti, sui quali le luci, altrimenti soffuse nel resto del locale, erano puntate per renderli visibili al pubblico-, e al loro tavolo le cose avevano raggiunto un certo equilibrio. Pietro era quasi sicuro del fatto che, in realtà, Alessio avesse preso in simpatia Martino: lo reputava sufficientemente a suo agio nel parlargli, e non evitava mai la conversazione con lui.
Non era stato del tutto sicuro che potessero essere personalità compatibili, ma a quanto pareva era stato fin troppo pessimista.
-Se vuoi poi ti accompagno- disse rivolto ad Alessio – O puoi fermarti da me. Abito più vicino-.
Si era fidato troppo di Martino – o forse l’alcool cominciava a togliere ogni freno che si era posto in quell’ultima ora-, evidentemente, perché il fischio che partì da lui dopo le sue parole non poteva essere casuale.
-Che cavaliere. Fossi in te accetterei la proposta-.
Pietro ignorò quell’ennesimo commento che, però, fece sorridere sotto i baffi Alessio.
-Vediamo quanto bene camminerò- replicò quest’ultimo, allungandosi verso il tavolo per potersi appoggiare con entrambi i gomiti.
Pietro non insistette. Non aveva avuto alcun secondo fine nel proporre ad Alessio di fermarsi da lui, se non quello di facilitargli al meglio il ritorno a casa, ma se Alessio pensava di farcela a camminare non poteva certo impedirglielo.
Il secondo fischio che fece partire Martino, stavolta, non era rivolto a loro due: quando Pietro si voltò, già sulla difensiva e pronto a farlo tacere, lo vide girato verso la bassa pedana dove stava la band.
-Ehi, ma il batterista è veramente bono- Martino commentò con un’espressione davvero colpita – Un bono da paura-.
-Non è male, ma non è il mio tipo-.
Con un sopracciglio alzato e qualcosa che gli si rimescolava dentro che sembrava molto gelosia, Pietro si girò a guardare Alessio: l’aveva detto con totale noncuranza, come se stesse commentando il nuovo copriletto comprato all’Ikea.
-Da quand’è che hai un tipo?- gli chiese, più acidamente di quanto si aspettasse.
Alessio alzò le spalle:
-È una frase fatta, Pietro- iniziò a dire, vagamente esitante – Era per dire che per quanto possa essere carino, non mi attrae-.
Martino non si tenne fuori nemmeno da quella conversazione che, fosse stato per Pietro, sarebbe finita anche solo così:
-E se dovessi immaginare il tuo tipo ideale come sarebbe?-.
Alessio lo guardò con occhi sgranati, forse non aspettandosi del tutto una domanda simile. Per un attimo fugace spostò gli occhi su Pietro, ma il secondo dopo erano già tornati su Martino, con la stessa espressione di sorpresa.
-Non lo so, non ci ho mai pensato- Alessio stava farfugliando, per la prima volta in tutta la serata. Pietro era piuttosto certo che, se solo le luci fossero state più luminose e non li avessero lasciati nella penombra, avrebbe visto Alessio completamente rosso in viso.
-Forse … -.
Alessio sembrava star pensando davvero ad una risposta da dare, e stavolta fu Pietro ad essere preso contropiede. Non si era aspettato che provasse davvero a rispondere ad una domanda così idiota, che Martino gli aveva posto sicuramente per lanciare l’ennesima frecciatina ad entrambi.
-Boh, forse preferisco i mori. Occhi scuri- Alessio rise nervosamente, stringendosi nelle spalle. Anche Martino rise sommessamente, ma l’occhiata che Pietro si vide lanciare non passò inosservata.
Alessio rimase in silenzio per qualche secondo, lo sguardo vacuo, prima di tornare con gli occhi su Martino, ancora esitante ma forse più sincero:
-In realtà non mi interessa molto dell’aspetto esteriore- si interruppe come se stesse riflettendo ancora, sospirando – Credo che vorrei solo qualcuno che mi vedesse per quel che sono. Qualcuno di gentile, premuroso, che mi faccia riflettere anche su me stesso … Che prima ancora di essere il mio amante sia mio amico-.
Pietro si era ritrovato inconsciamente ad abbassare gli occhi per tutto il tempo – erano stati pochi secondi, a malapena un minuto, ma a lui era sembrata un’eternità intera- che Alessio aveva parlato. Aveva preferito chiedersi se, per caso, i suoi occhi si fossero soffermati su di lui mentre Alessio diceva quelle parole, piuttosto che avere la certezza che non fosse successo. Che non fossero parole destinate a lui.
Quando si forzò a rialzare il volto, dopo altri attimi di silenzio, si girò prima verso Martino: non lo stava guardando di rimando, e il suo sguardo era concentrato unicamente su Alessio.
Fu proprio Martino a parlare per primo:
-Ah, mi ricorda un po’ il nostro Pietro, questa descrizione-.
L’imbarazzo che Pietro avvertì fu così tanto che si alzò di scatto, cercando di apparire tranquillo quando in realtà era tutt’altro:
-Vado a prendere da bere- borbottò soltanto, non curandosi di aspettare qualche altra risposta prima di allontanarsi.
L’unico dubbio che gli rodeva il cervello era come mai Alessio non avesse negato – o se lo stesse facendo proprio in quel momento, quando lui già se ne era andato, e ad ascoltarlo era rimasto solo Martino.
 
*
 
Venezia era immobile e oscura a quell’ora della notte, ferma nel tempo.
Non avevano incrociato molta gente lungo il loro cammino, e ad Alessio andava bene così: gli stava piacendo quel silenzio che si era creato tra lui e Pietro da un po’ di minuti, forse perché non era un silenzio che pesava, né qualcosa che poteva apparire innaturale. Si sentiva a suo agio anche così con lui, consapevole solo che Pietro stava continuando a camminargli a fianco, le loro braccia e le spalle che ogni tanto si sfioravano accidentalmente.
Erano quei contatti fugaci e fortuiti che riempivano il loro silenzio, e ad Alessio bastava.
-Ti avrei ospitato senza problemi, lo sai?-.
La voce di Pietro spezzò il silenzio quando ormai erano in vista del palazzo dove si trovava l’appartamento di Alessio. Non mancavano più di duecento metri prima di arrivare di fronte al massiccio portone dove si sarebbe fermato, e da dove Pietro sarebbe ripartito per tornare a casa sua.
-Lo so, ma sto bene. Non sono neanche brillo- Alessio lo disse con convinzione, e in fondo stava dicendo davvero la verità. Non aveva bevuto molto, forse perché quella sera si era concentrato su altro, e aveva lasciato che la sua attenzione fosse catturata dai dettagli che poteva cogliere solo da lucido.
-Sai, non ero molto convinto della serata, però in realtà è stata … - lasciò cadere la frase, alla ricerca di un aggettivo che potesse concluderla al meglio.
-Piacevole?- suggerì Pietro.
Alessio preferì correggerlo:
-Interessante-.
Ancora qualche passo, nel silenzio della notte, nel caldo di Giugno che si attenuava solo in quelle ore notturne.
-Martino è simpatico-.
Era di nuovo la verità, qualcosa di cui Alessio non era stato sicuro per molto tempo. Però ora poteva dirlo con una certa onestà, e la cosa lo sorprese ancora, come la prima volta che si era reso conto, solo qualche ora prima, che effettivamente Martino gli piaceva.
Era stata una sensazione strana, quasi combattuta, e nemmeno lui era riuscito a capire l’origine di quella confusione.
Pietro rise sommessamente:
-È un personaggio-.
-Già-.
Arrivarono davanti al portone che Alessio non si era ancora deciso a porgli una domanda che gli ronzava in testa ormai da ore. Forse non si era ancora arrischiato a farla perché non era ancora del tutto convinto di voler sapere la risposta, ma la curiosità – e il bisogno di sapere- si stava facendo troppo presente per essere ancora soffocata.
Fu con un sospiro pieno di stanchezza verso se stesso e la sua indecisione che, finalmente, si decise a parlare:
-Era per lui la palette che avevi comprato l’anno scorso a Los Angeles, vero?-.
Ci aveva pensato e ripensato, e se nei primi minuti quell’ipotesi gli era parsa troppo stentata, ora Alessio cominciava a crederci sul serio. E la reazione di Pietro, il suo voltarsi di scatto verso di lui, gli rispose ancora prima che dicesse anche solo una parola.
-Come fai a ricordartene?-.
Alessio non seppe bene come reagire agli occhi sgranati e stupiti dell’altro, e tantomeno alle implicazioni di quella sua sottintesa conferma.
-Mi è venuto in mente quando l’ho visto- ammise.
Martino si era presentato con un trucco piuttosto visibile, e il fatto che Pietro non avesse battuto ciglio gli aveva fatto supporre che fosse una cosa abitudinaria, per lui, truccarsi. Alessio si era ritrovato a fissare le palpebre di Martino non perché ci trovasse qualcosa di male o di strano – doveva anche ammettere che stava bene, e che aveva talento-, ma perché il ricordo di quel regalo di Pietro gli era improvvisamente tornato in mente. Ed aveva realizzato, con una punta di disorientamento, che non sapeva bene come reagire a tutto ciò.
Doveva star lasciando trasparire tutto quel tumulto di sensazioni, perché Pietro prese a guardarlo con viso serio, a tratti rabbuiato:
-Perché hai accettato di uscire con noi stasera?-.
Glielo chiese con sincera curiosità, si rese conto Alessio. Anche per lui quella doveva essere stata una domanda tenuta taciuta a lungo.
-Non sapevi neanche chi fosse quando te l’ha chiesto-.
“E infatti ho pensato di tutto”.
Alessio scrollò le spalle a disagio. Non era del tutto sicuro di voler dire a Pietro quella che era stata la sua reale impressione su Martino per i due giorni che avevano preceduto quella serata insieme – e che si era rafforzata ancora di più quando aveva fatto il collegamento tra lui e il regalo di Pietro-, cioè che Martino non fosse solo un amico ma qualcosa di ben di più.
Il pensiero che si frequentassero lo aveva lasciato disorientato – destabilizzato sarebbe stato un aggettivo migliore- molto più di quanto Alessio fosse in grado di voler ammettere anche a se stesso.
Martino gli era davvero simpatico, ma immaginarselo con Pietro – come coppia- gli aveva lasciato un retrogusto amaro che faticava ad accettare.
-Ero curioso, forse- mormorò, forse non risultando del tutto credibile. Però non ritrattò, né aggiunse altro, lasciando a Pietro il compito di trarre le sue conclusioni da quelle sue poche parole.
-È solo un amico-.
Di nuovo quel chiarire il loro rapporto, di nuovo Pietro che lo guardava dritto in faccia come a volergli ricordare che non era legato a nessuno.
-Un amico che mi ha aiutato molto nell’ultimo anno, con la questione coming out … - disse ancora, scuotendo appena il capo – Ma solo un amico-.
-L’hai già detto-.
Pietro lo guardò con un mezzo sorriso che Alessio preferì non interpretare:
-Non mi sembravi molto convinto-.
Alessio tacque sulla difensiva, ma ormai sapeva che Pietro lo leggeva molto meglio di chiunque altro, almeno in certe situazioni. E quella era a tutti gli effetti una di quelle.
-Non ho detto nulla in proposito, Pietro- replicò, stringendosi nelle spalle – E comunque sei libero di fare quel che vuoi-.
Ed era vero, si ripeté tra sé e sé: Pietro era single, aveva fatto coming out e poteva accadere in qualsiasi momento che potesse trovare un uomo che potesse farlo innamorare e renderlo felice. Alessio ne era consapevole, e se una parte di sé ne sarebbe stata contenta, l’altra era la stessa che aveva preso la possibilità che Martino potesse essere quella persona non con l’entusiasmo che si sarebbe aspettato.
“Dovrei solo smetterla di ragionare troppo su queste cose”.
Per un attimo, però, ebbe il fugace presentimento che, prima o poi, sarebbe giunto il momento di una riflessione più profonda su tutto quello che si rimestava dentro di lui – che Pietro si portava con sé, inevitabilmente.
-Sì, ma Martino non mi interessa in quel senso- Pietro si fece avanti di un passo, gli occhi più addolciti rispetto a prima. Il suo viso era in penombra, il lampione acceso alle sue spalle che non bastava a rischiarargli i tratti del viso, ma Alessio riconobbe l’espressione meno tesa – forse riuscì a farlo perché conosceva il viso di Pietro a memoria.
-Ho capito-.
Tirò fuori le chiavi di casa dalla tasca dei jeans, e se le rigirò tra le mani goffamente, indeciso su cos’altro dire. Forse era semplicemente giunto il momento di rientrare.
-Grazie per avermi accompagnato- disse con sincerità – Mi sono divertito stasera-.
-Potremmo rifarlo presto- buttò lì Pietro, alzando le spalle – Anche solo noi due-.
Per quanto Martino potesse piacergli, Alessio gradì di gran lunga di più quell’ultima proposta. Sorrise a Pietro in maniera molto più rilassata di quanto non avesse fatto in tutto il resto della sera:
-È un’idea-.
 
 

 


 
*il copyright della canzone (BTS - "Stay") appartiene esclusivamente alla band e ai suoi autori.
 
NOTE DELLE AUTRICI
Nuovo aggiornamento, nuovo capitolo.... E con esso anche un aggiornamento dell'evoluzione della gravidanza di Giulia. Il piccoletto, come l'ecografia di controllo ha confermato, cresce sano e forte, e ora sembra anche avere una figura paterna pronta non solo a crescerlo con amore, ma anche a riconoscerlo. La stessa Giulia non lo dava per scontato ma noi, insieme a lei, non possiamo che esserne felici! E, per la gioia di Filippo il rapporto femmine-maschi in casa Barbieri-Pagano si assottiglia sempre più!
Cambia poi la scena e i riflettori questa volta vengono puntati dritti dritti su Pietro e Martino. I riferimenti al Pride non mancano, così come le frecciatine di Martino all'amico riguardanti Alessio, con somma delizia del moro. E abbiamo anche l'incontro, seppur fugace, di Pietro con Dario, il coinquilino di Martino. Sarà un incontro sporadico o ritornerà su queste pagine?
E poi abbiamo avuto anche la risposta sul fatidico incontro tra Martino e Alessio: alla fine Martino è stato accontentato prima del previsto, per sua immensa gioia (e con immenso terrore di Pietro), e sono bastati pochi minuti a Martino per creare già una situazione alquanto interessante!
Ed è così che abbiamo avuto una serata a tre con questo trio inedito. Alla fine Pietro non ha dovuto sudare troppo, e a parte qualche frecciatina e domande un po' a trabocchetto da parte di Martino, tutto è andato liscio ... E Alessio l'ha preso pure in simpatia, anche se probabilmente traspare un po' di gelosia malcelata!
Che Martino sia riuscito a mettergli la pulce nell'orecchio? 
Ma soprattutto ... Vorreste rivedere questi tre tutti insieme?😂
In ogni caso ci rivediamo mercoledì 1°maggio con un nuovo capitolo!
Kiara & Greyjoy

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