Angeli di carta di giornale

di Milly_Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno in città ***
Capitolo 2: *** Segreti di famiglia ***
Capitolo 3: *** Proposta di collaborazione ***
Capitolo 4: *** Terzo incomodo ***
Capitolo 5: *** Occhi Viola ***
Capitolo 6: *** Maschere ***
Capitolo 7: *** Matrimonio imminente ***
Capitolo 8: *** Carolina ***
Capitolo 9: *** Confidenze ***
Capitolo 10: *** Violazione di domicilio ***
Capitolo 11: *** Segreti svelati ***
Capitolo 12: *** Irruzioni e cadaveri ***
Capitolo 13: *** Doppie vite ***
Capitolo 14: *** Alla luce del sole ***
Capitolo 15: *** Egocentrismo ***
Capitolo 16: *** Una visita inattesa ***
Capitolo 17: *** Allucinazioni e deliri ***
Capitolo 18: *** Rivelazioni ***
Capitolo 19: *** Tuta fucsia ***
Capitolo 20: *** Questioni in sospeso ***
Capitolo 21: *** L'accusa improbabile ***
Capitolo 22: *** Alfredo Vitale ***
Capitolo 23: *** Rossini e Carletti ***
Capitolo 24: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Ritorno in città ***


RITORNO IN CITTÀ

Erano le undici in punto del mattino quando Enrico entrò in retromarcia nel parcheggio a lisca di pesce riservato ai dipendenti. Mancavano ancora diversi giorni prima della sua entrata in servizio, ma sapeva che non ci sarebbero stati problemi se avesse lasciato lì l'auto. Spense il motore e stava per fare lo stesso anche con la radio, quando la voce della conduttrice lo fece esitare. Aveva scelto un canale a caso, sperando che passasse musica senza troppe interruzioni. Gli era andata abbastanza bene, gli interventi parlati erano pochi, ma gli argomenti non erano mai molto leggeri. Aveva ascoltato solo distrattamente, mentre era alla guida, ma in quel momento poté udire con chiarezza parole che, per qualche motivo, lo fecero raggelare.
«...Scomparve esattamente ventidue anni fa e i suoi resti vennero ritrovati ben diciotto anni più tardi, durante uno scavo avvenuto per la costruzione di un nuovo impianto sportivo. Non è mai stata fatta luce sul mistero della sua morte e ancora oggi non si sa chi sia l'assassino di Alfredo Vitale. Trentotto anni al momento della scomparsa, con precedenti penali per la brutale aggressione ai danni di una ex fidanzata, la vittima lavorava da pochi mesi in un negozio di frutta e verdura. Non aveva contatti con familiari o parenti, né aveva frequentazioni in città. Per molti anni la sua sparizione venne considerata un allontanamento volontario. Non...»
Enrico spense la radio. Non aveva idea di chi fosse Alfredo Vitale, ma ogni volta in cui lo sentiva menzionare, quel nome gli rievocava vecchi ricordi. Era sicuro di averlo sentito citare, in un passato ormai lontano, da persone vicine a lui, forse da suo padre. In più anche quest'ultimo già da tempo se n'era andato senza lasciare tracce, se non qualche telefonata disturbata in cui non aveva mai voluto dirgli dove si trovasse: un caso di vero allontanamento volontario. Per lungo tempo Enrico aveva atteso che tornasse, ma non era mai accaduto. Dove fosse e con quale denaro vivesse, permaneva un grande mistero.
Scese dall'auto e chiuse a chiave le portiere, sperando che nessuno decidesse di spaccare un vetro per portare via l'autoradio estraibile, infine si diresse verso l'entrata. Alla reception, una giovane donna dai lunghi capelli neri raccolti in una coda stava parlando al telefono. Enrico attese, con pazienza, che terminasse. Senza alzare lo sguardo verso di lui, la donna lo salutò mentre riagganciava il ricevitore.
Enrico la guardò meglio e rimase spiazzato.
«Carolina?»
La receptionist alzò gli occhi e parve più sorpresa di lui, mentre balbettava: «E-Enrico?»
«In persona.» Enrico sorrise. «Non sapevo lavorassi qui. Immaginavo che tua madre fosse ormai andata in pensione, ma non pensavo che tu fossi finita qui.»
Carolina sospirò.
«Anch'io non pensavo che sarei finita qui, però lo stipendio è buono e mi trattano bene perché mamma andava d'accordo con tutti. Ho sentito dire che presto inizierai a lavorare qui anche tu, al ristorante, al posto dell'attuale direttore di sala.»
«Le voci girano molto in fretta.»
«Mi fa piacere.»
Enrico cercò di mostrarsi entusiasta.
«Fa piacere anche a me.»
«Comunque anch'io sono rimasta sorpresa, quando l'ho saputo» ammise Carolina. «Credevo avessi un buon lavoro, lontano da qui, e...»
Si interruppe, come se non sapesse cos'altro dire. Enrico puntualizzò: «Dubito che qualcuno abbia un ricordo positivo di mio padre, ormai, quindi non avrò la tua stessa fortuna, ma non importa. Io non sono mio padre, né ho più un vero e proprio rapporto con lui.» Diede un'occhiata all'orologio. «Scusami, ma devo andare. L'appuntamento ce l'ho tra cinque minuti.»
«Devi andare dal signor Carletti? Vuoi che ti accompagni?»
«No, conosco la strada.»
«È stato un piacere rivederti.»
«Anche per me, comunque sarò di ritorno dopo avere parlato con Carletti. Così, almeno, se hai qualche minuto libero,  possiamo parlare un po'.»
Carolina sorrise, lasciandolo andare via. Enrico non riusciva a credere di essere stato così fortunato. Non aveva la benché minima idea che la ragazza lavorasse alla reception dell'albergo, fino a quella mattina, e ovviamente gli faceva molto piacere: Carolina era una delle poche ragioni per la quale talvolta aveva rimpianto la sua città natale. Non la vedeva da almeno quattro anni - ma, in generale, anche nel decennio precedente, non l'aveva incontrata di frequente - e non aveva problemi ad ammettere quanto gli fosse mancata.
L'incontro con il direttore dell'albergo non gli portò via molto tempo. Carletti non sembrava avere pregiudizi nei suoi confronti, nonostante i trascorsi di suo padre, e lo informò che più di una volta il compianto Roberto Gottardi gli aveva parlato bene di lui.
«Non solo lui» ci tenne a chiarire. «Anche il signor Vincenzo è stato favorevole fin da subito.»
Enrico avrebbe voluto chiedergli fino a che punto Vincenzo Gottardi fosse coinvolto nella gestione dell'albergo, ma non gli parve il caso. Del resto di lì a poco avrebbe raggiunto Carolina e, con un po' di fortuna, sarebbe riuscito a estorcerle qualche preziosa informazione.
La receptionist era di nuovo al telefono, ma Enrico attese con pazienza che fosse libera. Stavolta Carolina si accorse dubito della sua presenza e lo accolse con un sorriso.
«Tutto bene?»
«Non mi posso lamentare.»
«Mi fa piacere.»
«Anche a me.» Enrico rimase in silenzio qualche istante, un po' come per fingersi pensieroso. «Alla fine ho un po' stravolto la mia vita per questo lavoro, meglio iniziare con il piede giusto.»
Carolina non fece domande, si limitò a osservare: «Vedrai che andrà tutto bene.»
A Enrico non sfuggì il suo apparente disinteresse per la vicenda scabrosa che tutti conoscevano, ma non avrebbe saputo dire per quale ragione Carolina evitasse l'argomento. Se avesse dovuto fare un'ipotesi, avrebbe optato per la volontà di non metterlo in imbarazzo. Se solo avesse saputo che Enrico non era affatto imbarazzato...
Chiaramente non poteva esporsi, quindi le domandò: «Fino a che ora lavori stasera?»
«Fino alle sette, ho iniziato da neanche un'ora. Perché?»
«Ti va di cenare insieme?»
Carolina lo guardò storto.
«Che intenzioni hai?»
«Non sono un maniaco, se è questo che temi» scherzò Enrico. «È solo una cena, andiamo dove vuoi tu. Abbiamo tante cose di cui parlare.»
«Se lo dici tu.»
«Lo dico e lo ribadisco. Non sei curiosa di sapere che cos'ho fatto in tutti questi anni?»
«Non ti sei né fidanzato né sposato» azzardò Carolina, «Altrimenti ci sarebbe una donna piuttosto insoddisfatta della tua decisione di invitarmi a cena.»
«Potresti avere ragione» convenne Enrico, «Ma dovrai attendere stasera per scoprirlo. Ci stai?»
«Andiamo alla Vela Bianca. Ci troviamo là alle otto. Può andare bene per te?»
Enrico si affrettò a confermare e a congedarsi da Carolina prima che cambiasse idea. Dopo sarebbe stato troppo tardi, non avrebbe avuto mezzo di avvertirlo: non aveva il suo numero ed essendosi trasferito da poco non sarebbe comparso nell'elenco telefonico prima dell'anno successivo.
Non aveva la più pallida idea di che posto fosse la Vela Bianca, ma non sarebbe stato difficile scoprirlo. Prima ancora che la mattinata fosse terminata, venne a sapere che si trattava di una pizzeria del centro, un locale piuttosto informale e dal listino prezzi abbastanza economico. Giunta la sera, si recò puntuale all'appuntamento. Si guardò intorno, ma Carolina non c'era. Non fu comunque necessario attendere molto: di lì a pochi minuti la vide scendere da una Panda rossa nuova di zecca. Portava un abito blu lungo fino al ginocchio che non le stava male, anche se Enrico doveva ammettere di averla trovata ancora più sexy con l'elegante uniforme da receptionist.
Lo raggiunse ed entrarono. Si sedettero a un tavolo e, mentre consultvano il menù, Enrico decise che era il momento di passare all'azione.
«Avevi ragione.»
«Su cosa?»
«Non sono né sposato né fidanzato. Immagino nemmeno tu.»
Carolina annuì.
«Più o meno. Voglio dire, sposata no e fidanzata nemmeno, ma non sono nemmeno del tutto libera.»
«In che senso?»
«Nel senso che non tutte le relazioni sono facili.»
«Stai con qualcuno?»
«Una specie.»
«E come mai adesso sei qui con me, invece che con lui?»
Carolina alzò le spalle, fingendo indifferenza.
«Sono qui, questo dovrebbe bastare. E poi si tratta solo di una cena tra vecchi amici.»
Enrico ipotizzò che Carolina fosse l'amante di un uomo sposato, oppure comunque già impegnato in una relazione ufficiale. Non era opportuno fare altre domande, sarebbe stato ben poco civile. In più, era un altro l'argomento che lo interessava maggiormente.
«Vincenzo Gottardi adesso fa qualcosa all'albergo?»
«Lavora insieme a Carletti.»
«Viene spesso?»
«Quasi ogni giorno.»
«Come si comporta?»
«Normalmente.»
Enrico osservò: «Mi sembra un po' generica come risposta. È come suo padre?»
«In realtà no» rispose Carolina. «Mi sembra molto diverso. Non si possono confrontare. Io, comunque, non ci ho molto a che fare. Tu non lo vedi da molto?»
«Non ho più avuto contatti con la famiglia Gottardi al suo completo fin da quando mio padre è stato licenziato» chiarì Enrico. «Ero intenzionato a chiudere definitivamente con il passato, non pensavo che le circostanze mi avrebbero riportato qui.»
«Capisco.»
«Non so quanto tu possa comprendere la mia situazione, ma apprezzo lo sforzo.»
Carolina fece un sorriso esitante.
«Tu sai con esattezza... voglio dire, tuo padre ti ha raccontato cosa sia successo davvero?»
«Roberto Gottardi si è liberato di lui dopo tanti anni di onorato servizio, evidentemente pensava che i suoi vecchi collaboratori fossero ormai sorpassati e che mio padre fosse il più sorpassato di tutti. Pazienza, la vita continua. Certo, mio padre c'è rimasto molto male, non si aspettava di essere messo da parte di punto in bianco.»
«Posso immaginarlo.»
«Tua madre, invece? È andata in pensione?»
«Più o meno.»
Enrico spalancò gli occhi ed esclamò: «Non mi dire che è stata licenziata anche lei!»
«Oh, no, diciamo che ha scelto di lasciare il lavoro e ha chiesto al signor Gottardi di assumermi al suo posto.» Carolina ridacchiò, imbarazzata. «Detto così, suona davvero male, lo ammetto. In realtà sono stata presa in prova, non ho avuto la strada spianata. Poi sono stata confermata, perché la prova è andata bene.»
Enrico la rassicurò: «Non mi devi delle spiegazioni. Carletti non avrebbe nemmeno mai saputo della mia esistenza, se mio padre non avesse lavorato all'albergo per così tanti anni. Diciamo che ciascuno ha le sue ombre.»
«Essere figlio di tuo padre è un'ombra, per te?»
«Diciamo che sono convinto che gli siano state rivolte delle accuse false.»
«Accuse?» ripeté Carolina. «Non hai detto che è stato licenziato perché non si adattava bene alle modernità?»
«Mio padre è stato licenziato con una scusa banale» replicò Enrico, rimanendo sul vago. «Diciamo che voglio riabilitare il suo nome.»
Una cameriera si avvicinò per prendere le ordinazioni, interrompendo il loro discorso. Carolina chiese una pizza al prosciutto cotto e una lattina di Coca Cola. Enrico, che non aveva prestato la benché minima attenzione al menù che aveva davanti, disse distrattamente: «Lo stesso anche per me.» Guardò la cameriera annotare la sua ordinazione e poi allontanarsi. Non sapeva se Carolina si aspettasse di riprendere la conversazione da dove l'avevano lasciata in sospeso, ma era molto probabile. Doveva cercare di limitare i danni, quindi si inventò una storia verosimile.
«Sai come funziona, le voci girano e non sempre sono attendibili. Quando mio padre ha lasciato l'albergo, sono circolati dei pettegolezzi sul suo conto. C'era chi diceva che avesse rubato dei soldi e che, di conseguenza, Gottardi l'avesse licenziato per quella ragione. Ho accettato l'offerta di Carletti proprio per questo, per dimostrare che, se sono venuti a cercare me, allora mio padre non ha mai fatto niente contro di loro.»
Carolina parve colpita in positivo da quella spiegazione.
«Hai delle ragioni molto nobili.»
«Grazie, ma da sole non portano a molto. Diciamo che voglio che tutti conoscano la verità su mio padre.»
Inaspettatamente, Carolina abbassò lo sguardo.
«Sei davvero convinto che la verità sia sempre la strada migliore?»
«Per chi non ha niente da nascondere, sì» rispose Enrico. Proprio in quel momento la cameriera fu di ritorno con le loro bibite. Attese che tornasse ad allontanarsi, prima di esortare Carolina a mettere da parte i loro discorsi sul passato. «Quello che è successo a mio padre, comunque, non ha niente a che vedere con noi e con la nostra serata. Cosa mi racconti di bello?»
«Niente di particolare.»
«Il tuo uomo? Sei sicura che non abbia niente contro la nostra cena insieme?» Enrico si era ripromesso di non fare domande sul presunto amante, ma era un buon modo per distogliere l'attenzione di Carolina dalle vicende passate. «Non voglio che tu abbia dei problemi per colpa mia.»
«Non ci saranno problemi» mise in chiaro Carolina. «Il mio uomo può offrirmi poco, per il momento, e non ci sono grandi speranze di cambiamento per il futuro. Non è nella posizione di potere dire alcunché contro le mie amicizie, né di chiedermi di rendergli conto di come trascorro il mio tempo libero.»
Enrico non disse nulla, ma gli venne spontaneo considerare che una simile relazione non doveva avere una vita molto facile. Chissà, magari avrebbe avuto una possibilità con Carolina, la quale peraltro gli parve sollevata nel non dovergli dare spiegazioni.
Il resto della serata proseguì senza intoppi. Enrico si comportò come un normale vecchio amico, senza ulteriori accenni al passato o alla vita sentimentale. Fu abbastanza certo che Carolina non si sentisse a disagio con lui e valutò che esistesse la concreta possibilità di frequentarla, almeno in amicizia.
Divisero il conto a metà e, dopo avere pagato, uscirono dalla pizzeria e si diressero ciascuno verso la propria auto. Enrico si mise al volante e accese la radio. Fu più fortunato rispetto a quella mattina: durante il percorso che lo separava da casa fu trasmessa soltanto musica, nessun intervento dallo studio, se non per annunciare i titoli delle canzoni. Alfredo Vitale e la sua misteriosa scomparsa erano solo un ricordo lontano, che avrebbe desiderato rimuovere dalla propria mente.
Giunse a destinazione. Quando era tornato in città si era trasferito in un bilocale in affitto, situato in un condominio a due piani. Entrò in cortile con l'auto e la parcheggiò in uno dei posti disponibili. Scese e si diresse verso lo stabile. Aprì la porta, salì le scale verso il primo piano e poi penetrò nell'appartamento. Quando accese la luce si sentì spaesato, come se non si sentisse davvero a casa sua. Era una sensazione assurda: fin da quando aveva vent'anni, non era mai rimasto molto a lungo nello stesso luogo. Si era adattato a tante situazioni diverse, cambiando città ogni volta in cui cambiava occupazione o trascorrendo mesi in località di villeggiatura - considerate tali dai clienti, per lui erano località di lavoro - ai tempi in cui accettava ancora impieghi stagionali.
Trasferirsi di nuovo nel suo luogo di nascita aveva un sapore diverso. Qualcosa, dentro di lui, lo invocava di far sì che non si trattasse solo di una sistemazione passeggera. Aveva passato sedici anni a spostarsi da una regione all'altra, stabilendosi per breve tempo un po' ovunque in giro per l'Italia. Quel tempo, ormai, era finito.
Richiuse la porta immaginando di trascorrere il resto della propria vita in quell'appartamento, magari insieme a Carolina. Fu un sogno fugace, della durata di pochi istanti. La sua vecchia amica gli piaceva, ma non era certo di essere fatto per la vita di coppia. Aveva avuto qualche relazione stabile, in passato, ma non aveva mai fatto il salto di qualità. A trentasei anni si ritrovava celibe e non si sentiva addosso la fretta di rimediare.
Si tolse il giubbotto, lo gettò distrattamente su una poltrona e andò in bagno a lavarsi i denti. Mentre l'acqua scorreva giù per il lavandino, tornò alla realtà. Aveva una missione da compiere e doveva evitare le distrazioni. Non poteva permettersi di abbassare la guardia: Roberto Gottardi e il direttore Carletti avevano rovinato suo padre e non c'era dubbio che l'unico superstite potesse fargli fare da un momento all'altro la stessa fine, se l'avesse ritenuto necessario.
Restava solo da scoprire quale fosse il ruolo di Vincenzo, la pedina più difficile da collocare, e poi agire di conseguenza. Enrico sputò il dentifricio e di sciacquò la bocca ripetendosi che, alla fine, ciascun tassello sarebbe stato collocato al proprio posto.

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Capitolo 2
*** Segreti di famiglia ***


SEGRETI DI FAMIGLIA

Carolina era più piccola di Enrico, aveva solo sette anni. Di solito i bambini di quell'età lo annoiavano, ma la figlia della signora della reception non era come loro. Certo, Enrico non la frequentava di sua spontanea volontà, ma da quando sua madre non c'era più, spesso veniva affidato alla signora della porta accanto, la nonna di Carolina, appunto. Lavorava a casa come sarta e la regola aurea, tra quelle mura, era quella di non fare troppi danni e non necessitare di continua sorveglianza.
Carolina era una bambina tranquilla, che spesso stava seduta al tavolo della cucina a disegnare qualcosa sui suoi quaderni, un po' persa nel proprio mondo. Enrico ne approfittava per fare i compiti, non perché fosse uno studente tanto motivato, quanto piuttosto perché suo padre non mancava mai di chiedergli se li avesse fatti, quando la sera tardi tornava dal lavoro e lo veniva a prendere. Si era accorto già da molto tempo che la strada più facile era dedicare allo studio il tempo sufficiente ad avere un rendimento di buon livello, per evitare le lunghe prediche a cui erano sottoposti molti suoi compagni di scuola.
Enrico diede un'ultima occhiata al quaderno di geometria, rileggendo la soluzione che aveva dato al problema. Stava per chiuderlo, quando si accorse che Carolina, trafficando con uno dei quotidiani vecchi che spesso sua nonna lasciava in giro, aveva sospeso per un attimo la propria attività e lo stava fissando.
Fu Enrico il primo a parlare. Con un sorriso, le domandò: «Cosa fai?»
Anche Carolina sorrise, ma non rispose. Gli chiese, piuttosto: «Cosa fai tu?»
Enrico fu tentato di darle una lunga spiegazione a proposito di come avesse calcolato l'area di un triangolo rettangolo inscritto in una circonferenza, chiedendosi quale applicazione pratica ciò avesse nella vita quotidiana, ma si rese conto che non era quanto la sua piccola amica voleva sapere.
«Cose di scuola.»
Carolina iniziò a ripiegare una pagina di giornale, poi a tracciare qualche linea con una matita.
«Tu, invece?» volle sapere Enrico. «Tu cosa fai?» Quando la bambina prese in mano un paio di forbici, realizzò: «Stai ritagliando una catena di omini, vero?»
Carolina scosse la testa.
«No, non sono omini.»
«Donnine, allora» realizzò Enrico. «Una catena di donnine in girotondo.»
«No» insisté Carolina.
«Cosa, allora?»
«Aspetta e vedrai.»
Enrico attese, senza grosse aspettative. Era ormai cresciuto per quelle trovate, cercava solo di essere gentile con Carolina. La bambina si era sempre comportata bene con lui, invece di tormentarlo in maniera assillante come facevano certi fratelli o sorelle minori dei suoi compagni di scuola, sempre giustificati dai genitori perché erano piccoli e in quanto tali dovecano essere sopportati a oltranza. La figlia della signora della reception era diversa e gli sembrava doveroso trattarla come meritava.
Dopo avere lavorato brevemente con le forbici, Carolina osservò: «Ecco, ho finito.»
Iniziò ad aprire quello che rimaneva del foglio di giornale. Non erano omini e, per quanto sembrassero indossare un abito lungo fino ai piedi, non erano nemmeno donnine. Erano uniti gli uni agli altri non da braccia, ma da forme che ricordavano delle ali.
«Sono angeli?» chiese Enrico.
Carolina annuì.
«Sì, sono angeli, come la tua mamma.»
Enrico si irrigidì, ma riuscì comunque a dire qualcosa di appropriato, o almeno, che gli apparisse tale.
«Come la mia mamma e come il tuo papà.»
Lo sguardo di totale stupore che vide comparire sul volto di Carolina gli fece capire di essersi sbagliato. Aveva sempre creduto che il padre della bambina fosse morto, ma apparentemente non era così.
«Papà è solo andato via» rispose Carolina, «Quando non ero ancora nata.»
«Oh, non lo sapevo.»
«Non importa. Ti manca tua madre?»
Enrico annuì.
«Sì, tanto. E a te? Ti manca tuo padre?»
«N-no.» Carolina esitò. «Non lo so. Non lo conosco.»
Enrico sorrise, cercando di rassicurarla. La catena di angeli giaceva sul tavolo e la bambina stava ripiegando il vecchio giornale.
Rimasero in silenzio entrambi a lungo, poi Carolina osservò: «Ho già una mamma e una nonna. Non mi serve anche un papà.»
Probabilmente per lei le cose funzionavano così. Non poteva sentire la mancanza di una persona che non c'era mai stata.
«Hai ragione» rispose Enrico, proprio mentre la nonna di Carolina entrava in cucina.
Vide che erano seduti composti e che la stanza non era in disordine, quindi parve piuttosto compiaciuta. Indicò la sveglia sulla credenza e disse a Carolina: «Tra poco torna tua madre, è ora di preparare la cena.»
Enrico e Carolina si scambiarono uno sguardo. Le parole della nonna erano piuttosto chiare: era giunto il momento di apparecchiare la tavola, quindi dovevano liberarla. Enrico spostò il quaderno di geometria e poi aiutò Carolina a togliere di mezzo il giornale. Il loro pomeriggio era finito, ma ce ne sarebbero stati molti altri.
 

Enrico posò il portaritratti sulla mensola. Era da tempo che quella vecchia fotografia che lo ritraeva insieme a Carolina, durante la loro infanzia, non vedeva la luce. Negli ultimi appartamenti nei quali era vissuto era sempre rimasta chiusa insieme alla propria cornice in uno degli scatoloni che per anni aveva portato da un posto all'altro.
Non sapeva perché avesse deciso di esporla. Dopo la loro cena insieme, si erano limitati a scambiarsi qualche parola quando si incontravano al lavoro. Enrico aveva iniziato da pochi giorni e non gli era ancora capitato di vedere Vincenzo. Se era giusto quanto aveva sentito dire da Carletti, il giovane Gottardi era partito per una vacanza insieme alla fidanzata, che di lì a qualche mese sarebbe divenuta sua moglie. Con Carolina, non era più accaduto che venisse menzionato.
Sistemata la foto, Enrico uscì a fare due passi. Era sera tardi, ormai, ma già da tempo si era abituato ad avere orari ben diversi dalla quasi totalità delle altre persone, quelle che lavoravano dalle otto alle diciassette o dalle nove alle diciotto.
La maggior parte delle tapparelle erano già abbassate e le finestre dalle quali si intravedevano luci accese non erano più tante. Lungo la strada, passavano già poche auto. Di giorno non faceva più molto freddo, ma la sera le temperature si abbassavano ancora parecchio. La giacca che aveva indossato non era abbastanza pesante. Dopo qualche centinaio di metri fu tentato di tornare indietro, ma vide che il bar che frequentava da ragazzo era ancora aperto.
Non vi era ancora tornato, dopo il suo ritorno, ma tanto valeva andare a dare un'occhiata.
Era appena entrato quando una voce femminile puntualizzò: «Chiudiamo alle undici.»
In effetti quell'orario era già passato da oltre quaranta minuti, le sedie erano tutte appoggiate sui tavoli e la persona che aveva parlato stava lavando il pavimento.
«Scusa» disse Enrico, sorridendo. «In ogni caso è un piacere rivederti. Anche se, secondo me, stavi meglio rossa.»
«Enrico!» esclamò Olimpia, sua ex compagna di scuola alle elementari e alle medie, nonché figlia dei titolari del bar. «Che cosa ci fai qui? Non ti avevo riconosciuto.»
Enrico ribatté: «E tu cosa ci fai con quei capelli biondo cenere?»
Olimpia chiarì: «Ho cambiato tinta, il rosso fuoco mi aveva stancata, e non è successo da poco. Da quanto tempo non ci vediamo? Saranno passati sei o sette anni come minimo.»
Enrico annuì.
«Sette, forse anche otto. È un vero peccato che tu mi stia mandando via.»
«Puoi restare.»
«Sei sicura che non disturbo?»
Olimpia gli indicò un lato del locale.
«Là il pavimento è già asciutto. Puoi andare a sederti, se vuoi.»
«Non importa, posso restare in piedi.»
«Sarai pur capace di tirare giù una sedia.»
«Va bene, va bene, come vuoi.» Enrico andò verso un tavolino e ne prese giù una sulla quale si accomodò. «Mi parli un po' di te o vuoi che io ti parli di me?»
«Puoi parlare prima tu» suggerì Olimpia. «La tua vita è stata sicuramente più movimentata della mia.»
Enrico si preparò a fare diverse omissioni, poi la informò: «Ho cambiato tanti posti e tanti lavori. Sono stato perfino in un ristorante di uno chef stellato. Però non mi piaceva, non mi è mai andata giù l'idea di far pagare cifre spropositate per porzioni piccolissime a gente maledettamente raffinata o desiderosa di sembrarlo. Non era la mia strada.»
«Ti sei fidanzato?»
«No.»
Olimpia ridacchiò.
«Sei sempre stato uno spirito libero!»
«Anche tu.»
La barista sbuffò.
«Magari avessi continuato a esserlo!»
Enrico azzardò: «Hai incontrato il principe azzurro, ma rimpiangi la tua vecchia vita?»
«Forse era lui a rimpiangerla» replicò Olimpia. «Non eravamo sposati nemmeno da un anno quando mi ha lasciata.»
«Mi dispiace.»
«A me no, è andata meglio così. Preferisco non avere più un marito piuttosto che essere intrappolata in un matrimonio infelice.»
«I tuoi genitori lavorano ancora qui al bar?»
«Sì, per fortuna non tocca sempre a me il turno della sera. A proposito di genitori, tuo padre come sta? So che non abita più da queste parti, né lavora più all'albergo.»
Enrico preferì rimanere vago.
«Adesso ci lavoro io.»
Olimpia lo guardò con gli occhi spalancati.
«Sul serio?!»
«La cosa ti turba?»
Olimpia scosse la testa.
«No, ma ho sentito dire che tuo padre non fosse rimasto in buoni rapporti con Roberto Gottardi.» Posò lo spazzolone accanto al secchio e si diresse verso Enrico. Prese una sedia e si accomodò di fronte a lui. «Non so con esattezza cosa sia successo, ma circolano molte voci in proposito.»
«E tu ascolti le voci?»
«Il cliente ha sempre ragione, dicono. E se il cliente decide di fare un monologo nel mio bar a proposito di tuo padre che non lavora più nell'albergo di Gottardi, ho il dovere morale di starlo a sentire con aria accondiscendente.»
«Capisco.»
«Immagino, comunque, che a quel gran figo di Vincenzo Gottardi non importi nulla di quello che succedeva tra suo padre e i vecchi dipendenti» ipotizzò Olimpia. «È per questo che ti ha assunto?»
«Sono stato assunto dal direttore, non da Vincenzo personalmente» puntualizzò Enrico, «Ma soprattutto non pensavo avesse fatto colpo su di te. Un gran figo, hai detto, o sbaglio?»
«Non sbagli. Ti confesso che ho sempre avuto un debole per lui, fin dalla prima volta in cui l'ho visto insieme a te. Ha due occhi bellissimi, così azzurri... che poi, azzurro è generico, come colore. I suoi occhi sembrano viola.»
«Stiamo parlando di Vincenzo Gottardi o di Elizabeth Taylor?»
«Stiamo parlando di Vincenzo Gottardi. A proposito, è impegnato o è libero? Perché se fosse libero, uno come lui me lo farei più che volentieri!»
Enrico non si stupì delle parole di Olimpia. Non si aspettava che fosse attratta da Vincenzo, ma era esattamente il modo in cui aveva sempre parlato degli uomini che le interessavano.
Avrebbe dovuto replicare, ma non lo fece, perché un'idea malsana gli stava balenando in testa. A Olimpia non passò inosservata la sua esitazione.
«Sei sconvolto?»
«No, figurati.»
«Lo so, non parlo come dovrebbe parlare una donna di trentasei anni al cospetto di un vecchio amico.»
«Proprio perché sei al cospetto di un vecchio amico è giusto che tu non ti trattenga.» Enrico rise. «Sai, mi fa piacere sapere che dopo tutti questi anni non è cambiato niente.»
Olimpia gli strizzò un occhio.
«E non cambierà. Voglio dire, io e te siamo sempre stati amici e amici rimaniamo.»
«Guarda che non ho intenzione di provarci con te» puntualizzò Enrico. «Anzi, magari posso darti una mano con Vincenzo, se vuoi.»
«Tu e Vincenzo siete ancora amici?»
«Siamo due completi estranei, in realtà.»
«E come pensi di farci incontrare?»
«Mi verrà un'idea.»
Olimpia ridacchiò.
«Dai, smettiamola di dire cazzate. Sai meglio di me che io e Vincenzo non ci vedremo e che i suoi occhi viola - non guardarmi così, a me sembrano davvero viola - resteranno solo una fantasia adolescenziale.»
Enrico chiarì: «Guarda che non sto scherzando. L'hai detto tu stessa che uno come Gottardi te lo faresti volentieri. Non è necessario che vai fino in fondo, se non vuoi. Però, se sei d'accordo, posso fare in modo di farvi incontrare. Devi lasciarmi un po' di tempo. Te l'ho detto, io e Vincenzo non ci vediamo e non ci parliamo da tanti anni, non l'ho nemmeno mai incontrato, da quando sono tornato.» Omise il dettaglio a proposito della presunta vacanza per la quale era partito con la futura moglie. «In un modo o nell'altro posso cavarmela, se è questo che vuoi.»
Olimpia lo fissò con fermezza.
«Cos'hai in mente?»
«Niente.»
«Non dirmi cazzate, che sai che non ci casco. E sai anche che, quando non mi dici le cose come stanno, mi fai salire la voglia di prenderti a calci nel culo. Cosa vuoi che faccia con Gottardi?» Per qualche istante rimase in silenzio, ma prima che Enrico potesse replicare, ci tenne a fare una precisazione. «Quando ti chiedo cosa vuoi che faccia, non ti sto chiedendo se devo averci un rapporto completo o fermarmi ai preliminari, che sia chiaro. Voglio che mi spieghi per filo e per segno perché vuoi che mi avvicini a Vincenzo.»
Enrico si arrese. Sapeva di potersi fidare di Olimpia.
«Io e la famiglia Gottardi abbiamo un conto in sospeso. Il padre di Vincenzo ha licenziato mio padre e circolano brutte voci sul suo conto. Non ha fatto nessuna delle cose di cui è stato accusato. Non ha sottratto denaro alle casse dell'albergo. Non...»
Olimpia lo interruppe: «Dicono che sia partito, che viva all'estero, adesso. Nessuno sa esattamente dove, ma sembra che se ne sia andato insieme alla donna con cui stava insieme in segreto. Dicono che abbia nascosto dei soldi in un conto in banca di un paese straniero.»
«Dicono, dicono, dicono. Hai mai spiegato ai tuoi clienti che potrebbero parlare di politica o di calcio come fanno le persone normali, invece di impicciarsi nei fatti di mio padre?» replicò Enrico. «E comunque mio padre non stava con nessuna donna. Voglio dire, avrà avuto qualche storia dopo la morte di mia madre, ma non ha mai parlato di una fidanzata. Di sicuro non si è portato nessuna in un paese straniero non meglio specificato in cui vive con i soldi sottratti a Roberto Gottardi. Sono un mucchio di stronzate.»
«Non dubito che, se chiedessi ai miei clienti di parlare di politica o di calcio invece che di tuo padre, ti renderei molto felice» precisò Olimpia, «Ma finirebbero semplicemente per cambiare bar, se vietassi certi argomenti. Io perderei dei clienti e loro continuerebbero i loro pettegolezzi.»
«Credi alle loro storie?»
«So di non sapere. È per questo che ti ho chiesto di tuo padre, per sentire la verità da te.»
Enrico ammise: «Non so dove sia, ma ha versato i contributi allo Stato per trentacinque anni.»
«E quindi?»
«Quindi è in pensione. Ha una fonte di reddito con cui vivere senza rubare.»
Olimpia era palesemente curiosa.
«È vero che sta all'estero?»
«Quale parte di "non so dove sia" non ti è chiara?»
«Perdonami, ma mi pare una vicenda molto strana.»
Enrico convenne: «Sì, hai ragione, è una vicenda strana. Però non ha rubato niente, Roberto Gottardi l'ha incastrato per non so quale motivo. È per questo che ti ho proposto di avvicinarti a Vincenzo. Vorrei che, in modo da non destare sospetti, tu gli parlassi di mio padre e cercassi di capire cosa nasconde.»
Temeva un rifiuto, ma Olimpia gli parve ben disposta ad accettare la proposta, quando gli chiese, interessata all'aspetto materiale: «Cosa me ne verrebbe in cambio?»
«Un paio di occhi viola. E con questo non voglio dire che siano davvero viola.»
«Va bene, però lascia che ti faccia un'ultima domanda.»
«Su Vincenzo?»
«No, su tuo padre.»
Enrico sbuffò.
«Se proprio non puoi farne a meno.»
«Credimi, Enrico, non voglio sembrarti irritante, solo che questa storia è degna di una soap opera» ribatté Olimpia. «Ho sentito dire perfino che la donna con cui tuo padre è scappato, in gioventù frequentasse quell'ex carcerato che poi fu ucciso.»
«Mio padre non è scappato e non c'è nessuna donna» replicò Enrico, «Quindi questa donna non aveva frequentazioni con carcerati morti ammazzati. A proposito, sei sicura che ti sembri una soap opera? A me pare più un thriller di bassa qualità. Certo che i pettegoli non sanno più cosa inventarsi. Mandare in pensione la gente a cinquant'anni è proprio una brutta idea! Uomini che potrebbero ancora rendersi utili trascorrono le loro giornate a parlare di storie insensate al bar! Ex carcerati senza un'identità ben precisa uccisi? Che assurdità!»
«Parla piano, che i nostri governanti potrebbero sentirti e decidere di alzare l'età pensionabile, e poi saremmo noi a pagarne le conseguenze» borbottò Olimpia. «Comunque quello là un'identità precisa ce l'aveva. Ne hanno parlato anche in TV, più di una volta. Vitali, si chiamava, o qualcosa del genere.»
Il cuore di Enrico perse un battito.
«Vuoi dire Alfredo Vitale?»
Olimpia non si accorse che quel nome aveva risvegliato in lui strane sensazioni e si limitò a rispondere: «Sì, penso di sì. Ne hai sentito parlare anche tu?»
«Sì. Voglio dire, alla radio, non c'entra un cazzo con la presunta donna di mio padre. Non ce l'ha nemmeno, una donna.» Enrico ne era convinto, anche se era certo di avere già udito quel nome, in tempi non sospetti. «Quando una storia è poco chiara, la gente non fa altro che inventare particolari. Chissà come avranno fatto ad arrivare a quel Vitale? Secondo me rimarrà un mistero senza spiegazioni. Però qualcosa lo devo spiegare, ed è che Roberto Gottardi ha inventato un sacco di falsità per screditare mio padre. A te l'onore di scoprire la verità da Occhi Viola, usando qualunque mezzo.»
Olimpia fece una mezza risata.
«Occhi Viola, bel soprannome. Da oggi lo chiamerò sempre così.»
Si salutarono pochi minuti dopo, con l'intento di delineare un piano d'azione nel prossimo futuro. Enrico tornò a casa, scosso dai brividi. Non avrebbe saputo dire se fosse a causa del freddo di quella serata o a della "visita" inaspettata che Alfredo Vitale e la sua scomparsa gli avevano appena fatto.

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Capitolo 3
*** Proposta di collaborazione ***


PROPOSTA DI COLLABORAZIONE

Dalla finestra filtrava una luce fioca. C'era un lampione proprio là davanti, sulla strada altrimenti buia che arrivava fino alle ultime case isolate. Erano soli, isolati dal resto del mondo, ma a Giuseppe venne un terribile sospetto: era stata una bella serata, ma doveva essere ormai ora di mettervi fine. Scattò ad accendere la luce e, guardando la sveglia, esclamò: «Oh, cazzo, è tardissimo!»
Distesa accanto a lui, completamente nuda, Giovanna sobbalzò.
«Che ore sono?»
«Le undici e quaranta.»
«Merda.»
Erano entrambi adulti, e non da poco, ma sapevano di dovere rendere conto ad altri di quello che facevano. Non c'era da stupirsi che Giovanna si fosse lasciata andare a un'espressione che di rado trovava spazio sulla sua bocca.
A Giuseppe venne da sorridere.
«Da quando le donne educate come te dicono queste parole?»
«Non prendermi in giro» gli intimò Giovanna. «Sai benissimo che non possiamo fare quello che vogliamo.» Si alzò e iniziò a raccattare i propri indumenti sparsi sul pavimento. «Fatti venire in mente una scusa valida per spiegare dov'eravamo fino a questo momento.»
«Al lavoro.»
«È una scusa che puoi usare tu.»
«Stavamo cenando con i colleghi. Non ci siamo accorti che era così tardi, quindi non abbiamo avvisato.»
Giovanna parve accettare quella versione dei fatti, o almeno non contestò, mentre si rivestiva. Si stava già infilando la sottoveste e trafficava con le calze. Giuseppe si perse a contemplarla, mentre un pensiero che avrebbe fatto meglio a evitare gli si affacciava alla mente.
«Dovremmo stare insieme alla luce del sole.»
Giovanna si girò di scatto la guardarlo.
«Che razza di idea è questa?! E comunque faresti meglio a rimetterti le mutande, prima di pensare alla luce del sole.»
Giuseppe obbedì, ma la mezza proposta che le aveva appena esposto lo allettava come non mai.
«Siamo adulti e siamo entrambi liberi.»
«Io sono sempre stata libera, mentre tu avevi una moglie.»
«Infatti sono rimasto accanto a mia moglie fino al suo ultimo giorno» chiarì Giuseppe. «Però io sono ancora vivo e voglio stare con te. È giusto che tutti lo sappiano.»
«Non adesso.»
«È per quel bastardo che ha tentato di ucciderti, vero?»
Giovanna finì di tirarsi su le calze, mentre Giuseppe si infilava i pantaloni.
«È stato scarcerato.»
«Come lo sai?»
«Mi ha avvertita mia sorella.»
«Hai paura che ti trovi?»
«Spero non mi stia cercando, non sa dove sono. E comunque non c'entra niente con noi due. È che tutti penserebbero che io e te stavamo già insieme anche prima.»
«E ti interessa così tanto quello che dice la gente?»
Giovanna puntualizzò: «Siamo sempre stati così attenti, sarebbe ridicolo mandare tutto all'aria. Prima o poi succederà, tutti lo sapranno, ma non adesso. Lasciamo passare un po' di tempo, poi inizieremo a frequentarci in pubblico, inizialmente in amicizia, per far credere che tra noi stia nascendo qualcosa.»
Finirono di rivestirsi in silenzio. Giuseppe non contestò le parole di Giovanna: avevano molto senso. Erano stati amanti, in passato, e subito dopo la perdita della moglie Giuseppe era tornato tra le sue braccia senza esitare. Naturalmente non era opportuno che la verità venisse alla luce. Sarebbe stato molto più sensato, dato che fino a quel momento si erano sempre spacciati per semplici conoscenti, far credere di essersi avvicinati soltanto in un secondo momento. Giovanna aveva ragione, l'unica possibilità di uscire allo scoperto, un giorno, era non lasciare intendere di essersi nascosti fino a quel momento. Avrebbero dovuto recitare una parte, ma non sarebbe stato pesante tanto quanto dovere nascondere ogni singolo aspetto della loro relazione.
Solo mentre uscivano dalla stanza, Giovanna riprese a parlare: «Mi dispiace, davvero. So che vorresti qualcosa di più da me.»
Giuseppe scosse la testa.
«No, a me basta quello che c'è tra di noi adesso. Ho sempre saputo che sarebbe stato difficile... e non certo per causa tua.»
Giovanna sorrise.
«Non dire assurdità. In confronto a quello che ho fatto io...»
Giuseppe la interruppe: «Smettila di darti delle colpe che non hai. Quell'uomo ti ha fatto del male, ha cercato di ammazzarti e per nasconderti da lui hai dovuto cambiare città e prendere il cognome di tua madre.»
«Lo so, non è colpa mia» ammise Giovanna, «Ma sono stata io a non accorgermi di chi era davvero finché non è stato troppo tardi. Ho rischiato di mettere in pericolo anche altre persone, addirittura mia madre ha mollato tutto per seguirmi e non lasciarmi da sola. Ho rischiato di morire una volta e potrebbe accadere di nuovo. Non so che agganci abbia, non so se qualcuno mi stia tenendo d'occhio. Magari, mentre penso di essermene liberata, Alfredo sa perfettamente dove sono. La verità è che ho paura, una paura atroce. Non sono da sola. Ho paura anche per loro... e per te.»
Giuseppe non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto baciarla, ma non era solito a slanci di affetto. Tra loro non c'erano grandi contatti, a parte quelli di natura erotica. Si limitò a guardarla negli occhi, cercando di rassicurarla.
«Non ti troverà.»
«E se dovesse accadere?»
«Sei sempre stata più forte di lui.»
«È stata solo fortuna.» Giovanna si girò, sfuggendo al suo sguardo. Giuseppe si aspettava che cambiasse argomento e infatti fu quello che successe. «Andiamo. Devi andare a prendere Enrico. Potrebbe insospettirsi.»
«Ma no, figurati. Ha solo dodici anni, non è così malizioso.»
«I ragazzini sono tutti maliziosi.»
«Su quello che li riguarda da vicino. Figurati se Enrico ha dei sospetti su noi due!»
Quell'idea lo divertiva e, per fortuna, fu sufficiente per allentare la tensione. Giuseppe e Giovanna riuscirono a vivere qualche istante di serenità, nella speranza che potesse durare. Uscirono e salirono in macchina. Giuseppe fece ciò che doveva fare e appena dieci minuti più tardi rincasò insieme al figlio.
Enrico era abituato a quegli orari, ma Giuseppe gli ricordò che l'indomani era un giorno di scuola e che doveva subito prepararsi per andare a letto. Il ragazzino fece ciò che gli aveva ordinato e, come solito, non fece domande. Sembrava chiuso in un mondo tutto suo e Giuseppe non avrebbe saputo dire se fosse un bene o un male. Ogni tanto si chiedeva se ci fosse da preoccuparsi, se Enrico stesse reagendo in maniera normale alla prematura scomparsa della madre. Si domandava se lo stesse trascurando troppo, se suo figlio avesse bisogno di qualcosa che non gli stava dando.
Non riuscì a darsi risposta, ma dentro di lui continuò a crescere il sospetto che non fosse Enrico quello che viveva sospeso tra passato e presente. Giuseppe si sentiva colpevole, sia per non avere amato abbastanza la defunta moglie - non abbastanza per esserle sempre fedele quando ancora era in vita, almeno - sia per non essere certo di potere amare sinceramente almeno colei che in passato era stata la sua amante. A volte arrivava a chiedersi come avesse fatto a commettere così tanti errori, salvo poi, soltanto alla fine, rendersi conto che Giovanna non era mai stata un errore. 

Rivedere Olimpia non fu un'impresa semplice per Enrico. Gli capitò diverse volte di recarsi al bar e non trovarla e preferì non chiedere né a suo padre né a sua madre quali fossero i suoi orari, in quei giorni. L'incontro avvenne una sera tardi, a quasi due settimane di distanza dalla prima volta. Olimpia aveva già finito di lavare i pavimenti e stava per chiudere, quando Enrico entrò, temendo di essere cacciato.
«Scusa» esordì. «Non ce l'ho fatta ad arrivare prima.»
Olimpia non parve troppo dispiaciuta della sua presenza.
«Come sta andando il lavoro?»
«Bene, grazie.»
Olimpia ridacchiò.
«L'hai già incontrato, Occhi Viola?»
Enrico annuì.
«È tornato sabato scorso. Ci siamo incrociati all'albergo e non siamo riusciti a evitarci.»
Olimpia lo invitò a sedersi, facendo lo stesso.
«Voglio sapere tutto... anche se, ovviamente, l'altra volta abbiamo detto un sacco di cazzate. Non voglio che mi programmi un incontro con Occhi Viola, sia chiaro. Si dicono tante cose assurde e...»
Prendendo posto al tavolo, Enrico la interruppe: «Non abbiamo detto niente di assurdo. Comunque, lasciami spiegare. Come ti ho già detto, io e Vincenzo non avevamo più contatti da quando è capitata la storia di mio padre. Io non ho più cercato lui e Vincenzo non ha più cercato me. Prima, di tanto in tanto, continuavamo a sentirci, dopo ho voluto allontanarmi totalmente dalla famiglia Gottardi. Vincenzo deve avere preso una decisione simile. Non abbiamo parlato di questo. Non abbiamo quasi parlato, in generale. Mi ha detto solo che era contento che Carletti mi avesse assunto e anche che io, inizialmente, avessi preso in considerazione di lavorare per loro invece di rifiutare subito. Non sarebbe successo altro, se non ci avessi pensato io. Ovviamente non volevo dare nell'occhio. Qualche giorno fa ho avuto con lui quella che potrei definire una conversazione quasi normale. Non ha mai sospettato che avessi un secondo fine, ne sono sicuro.»
Olimpia aggrottò le sopracciglia.
«Un secondo fine, dici. Quale secondo fine?»
Enrico chiarì: «Non dicevo per dire, l'altra volta. Vorrei davvero che tu cercassi di avvicinarti a Vincenzo. Non sa che ci siamo rivisti e, a meno che tu non l'abbia raccontato in giro, nessun altro lo sa. Sa che ci conosciamo e che un tempo eravamo amici, ma sono stato lontano per tanti anni e sicuramente penserà che non siamo rimasti in contatto.»
«È proprio così» gli ricordò Olimpia. «Non eravamo in contatto.»
A Enrico non sfuggì il tono di rimprovero della sua voce, ma non era andato da lei per fare polemica a proposito del fatto di essere letteralmente sparito nel nulla. Puntualizzò, quindi: «È proprio questo che dobbiamo sfruttare a nostro vantaggio.»
Olimpia gli parve un po' riluttante, quando gli chiese: «Cosa devo fare?»
«Al sabato e alla domenica, l'albergo fa anche servizio ristorante, sia a pranzo sia a cena» le spiegò Enrico. «Dal mercoledì al venerdì è aperto solo alla sera, al grande pubblico. Gli altri giorni il servizio è riservato solo a chi ha una camera in affitto. In quei giorni, a meno che non ci siano grosse comitive - professionisti che vengono in città per dei convegni, o roba del genere - Vincenzo passa all'albergo soltanto alla sera.»
Olimpia non trovò molto illuminante quel racconto.
«E quindi? Perché sapere tutto ciò dovrebbe essermi utile in qualche modo?»
«Lasciami finire.»
«Oh, forse ho capito. Sai per caso dove va gli altri giorni?»
«Non te lo so dire con esattezza, ma in tarda mattinata va spesso a fare jogging nel parco della zona fiera ovest.»
«Oh, no!»
Quell'esclamazione contrariata sorprese Enrico, che immediatamente le domandò: «Qualcosa ti turba?»
«Al momento non ancora» ribatté Olimpia, «Ma so cosa stai per chiedermi. Vuoi che ci vada anch'io, che mi spacci per un'appassionata della corsa e che mi avvicini in qualche modo. Non se ne parla. Dopo pochi metri avrei già il fiatone.»
«Non sei obbligata a correre davvero» precisò Enrico. «Quello che conta è che tu sia credibile in quel ruolo, che Vincenzo non sospetti che stai appostata là solo per lui. Pensi di potercela fare?»
«Non mi piace questa idea.»
«Però ti piacciono gli occhi viola di Vincenzo.»
Olimpia ridacchiò.
«Quando ti fa comodo, ammetti che ha gli occhi viola?»
«Vincenzo non ha gli occhi viola, me ne sono accertato in questi giorni» rispose Enrico, «E comunque questo non ha importanza. Te la senti di fare quello che avevamo progettato?»
«Sì.»
Enrico rise.
«Non so mai cosa pensare, con te. Prima sembra che tu voglia tirarti indietro, poi all'improvviso accetti... sei difficile da capire, sai?»
«Non voglio essere capita» replicò Olimpia. «Sono solo stanca di sentire gente che parla di politica e di calcio, come dici tu,  oppure di pettegolezzi. Non fraintendermi, non ho niente contro i miei clienti, ma le loro chiacchiere rischiano spesso di diventare la mia più grande emozione. Ho voglia di fare nuove esperienze, se così si può dire.»
«E la tua "nuova esperienza" sarebbe avvicinare Vincenzo Gottardi?»
«Io non sono come te, che sei stato ovunque e hai conosciuto un sacco di gente. Per me parlare con Occhi Viola sarebbe già un buon modo per spezzare la monotonia.» Dopo una lieve esitazione, Olimpia gli scoccò un'occhiata di fuoco. «Posso immaginare che tu voglia chiedermi perché non ho mai fatto niente per cambiare le cose, dando per scontato che il tuo modo di vivere sia stato migliore del mio. Ammetto che non so cos'avrei fatto, se io e i miei genitori non avessimo avuto il bar. Però ce l'abbiamo e mi sono adattata alla vita che sembrava già scritta per me.»
Enrico obiettò: «Veramente non ho detto niente. Non giudico quello che hai fatto tu solo perché io, a un certo punto, me ne sono andato. Ciascuno fa le proprie scelte e a volte non sono scelte. Non c'è per forza qualcosa di giusto o di sbagliato. Se "Occhi Viola" è la svolta che vuoi per te, allora non posso fare altro che esserne felice, perché le tue esigenze vengono incontro alle mie. Almeno non dovrò darti niente in cambio.»
«Non ho mai preteso qualcosa.»
«Lo so, ma è sempre meglio essere chiari. Te lo ripeto, per me è qualcosa di molto importante.»
Olimpia annuì.
«Sì, me l'hai detto, e spero di poterti aiutare. Non sono sicura, però, di potere davvero ottenere qualcosa. E se Occhi Viola non sapesse niente?»
Enrico non voleva nemmeno prendere in considerazione quella possibilità.
«Vincenzo è il figlio di Roberto Gottardi, deve per forza sapere.»
Olimpia replicò: «Non sempre essere figli di qualcuno basta. Tu, per esempio, sei sicuro di conoscere tutta la verità su tuo padre? Non sulla sua vita di oggi, su quello che faceva esattamente quando abitava ancora qui.»
Enrico si irrigidì.
«Mi stai dicendo che mio padre potrebbe essere colpevole di ciò di cui lo accusano?»
«Non voglio entrare nel merito delle presunte accuse nei suoi confronti, ma comunque da qualcosa devono essere nate.»
«Quindi per te la possibilità che Gottardi volesse incastrarlo o sbarazzarsi di lui non esiste?»
«Non hai capito. O tuo padre ha commesso degli illeciti, oppure Roberto Gottardi ha fatto credere che fosse andata così. Le chiacchiere non sono nate dal nulla: o ha fatto qualcosa di male, oppure qualcuno ha voluto che lo si credesse.»
«Non è proprio la stessa cosa.»
Olimpia sospirò.
«Continui a non capire. Quello che voglio dire è semplicemente che i pettegolezzi non nascono dal nulla: o hanno un fondamento, oppure qualcuno ha fatto in modo che nascessero quegli specifici pettegolezzi. Nel caso delle ragioni che hanno portato al suo licenziamento è plausibile che ci sia dietro qualcuno. Non vedo, però, perché i pettegolezzi su una sua presunta relazione con una donna che sarebbe andata via con lui dovrebbero essere stati inventati. Se dovessi spargere ad arte delle voci per diffamare qualcuno, direi qualcosa di diffamante. Non ci sarebbe nulla di scandaloso se tuo padre si fosse messo insieme a quella fantomatica donna.»
Enrico comprese il suo ragionamento.
«Essenzialmente pensi che, se si parla del fatto che mio padre abbia una compagna, allora debba esserci qualcosa di vero. E che, di conseguenza, me l'abbia tenuto nascosto.»
«Non solo a te» puntualizzò Olimpia, «Ma non era questo il senso del mio discorso. Volevo solo dire che non possiamo essere sicuri di conoscere al cento per cento i nostri familiari. Proprio come a noi capita di mentire ai nostri genitori, i nostri genitori mentono a noi. Tu potresti non sapere nulla della vita privata di tuo padre e Occhi Viola potrebbe non sapere tutto sulle questioni di lavoro di Roberto Gottardi.»
«Non è detto che sia un successo, ti ho chiesto di provare a trovare delle risposte, non che devi inventartele per forza se non ci sono» mise in chiaro Enrico. «In ogni caso, venendo a mio padre, perché avrebbe dovuto nascondere una relazione? È molto più probabile che questa relazione non ci sia, o che sia qualcosa di poco importante, di conseguenza che nessuna donna sia partita insieme a lui.»
«Non è detto che sia partita insieme a lui, potrebbe averlo raggiunto in un secondo momento. Oppure potrebbe essere stato tuo padre a raggiungere lei.»
«Stai lavorando di fantasia.»
«Forse. Però l'altra sera, in seconda serata, ho visto un programma in cui parlavano di cronaca. Uno degli argomenti è stato l'omicidio di Alfredo Vitale. Hai mai sentito parlare di lui? Intendo, non al telegiornale o sui quotidiani.»
«No.»
Solo troppo tardi si rese conto di avere mentito, ma Olimpia non sospettò di nulla.
«Pensa, quel tale è rimasto sepolto per così tanti anni, mentre tutti erano convinti che se ne fosse andato e avesse fatto perdere le proprie tracce. Nessuno sembrava cercarlo davvero... certo, era un delinquente e aveva tentato di uccidere una sua ex fidanzata giovanile, ma è comunque molto triste essere ammazzato e sapere che a nessuno importa un cazzo.»
«Dopo che l'hanno ammazzato era morto» ribatté Enrico, «E non sapeva che a nessuno importasse di lui.»
«Dai, non fare il pignolo, hai capito cosa intendo. Comunque, davvero non ne sai niente di questa donna?»
«No, non ne so niente, te lo ripeto. Se hai sentito qualcuno che ne parlava, perché non gli chiedi chiarimenti? Magari sa anche darti un nome.»
Olimpia lo informò: «L'ho già fatto. Purtroppo quel tizio non sapeva granché. Pare che una sua parente gliene avesse parlato, in passato, ma non gli ha detto chi fosse questa donna. Se quel Vitale aveva cercato di ammazzarla, in passato, può darsi che tenesse un profilo basso proprio per evitare problemi.»
Enrico suggerì: «Quel tale potrebbe chiedere alla sua parente se ne sa qualcosa di più.»
Olimpia scosse la testa.
«Gliel'avevo proposto anch'io, ma è troppo tardi. Ha avuto un infarto un anno e mezzo fa. È morta sul colpo. Aveva solo settantadue anni ed era in perfetta salute, fino a quel momento. Era astemia, non fumava, non...»
Enrico la interruppe: «Non mi interessa se la buonanima fumasse. Non c'è più niente che possiamo scoprire, ormai.»
«Quindi ti stai convincendo che ci sia qualcosa da scoprire» osservò Olimpia. «È la prima volta che ti sento ammettere che forse questa donna potrebbe esistere.»
«Non ho detto questo» mise in chiaro Enrico, cercando di non svelarsi troppo. «Non penso che mio padre mi abbia tenuto nascosto qualcosa di così importante come una relazione o addirittura una specie di fuga d'amore con una donna. Però, se si fa il nome di questo Alfredo Vitale, ci deve essere una ragione, come hai detto tu. Vista la... mhm... storia personale turbolenta, se così si può dire, di questo individuo, mi incuriosisce che si parli di lui e di mio padre nella stessa frase. Vorrei saperne di più, ma non ho mezzo di mettermi in contatto con mio padre. Non ha nemmeno il mio attuale numero di telefono, anche se sa che sono tornato e in un modo o nell'altro potrebbe procurarselo. Dovrei aspettare comunque una sua chiamata e non penso mi darebbe spiegazioni.»
«Ti aiuterò» gli propose Olimpia. «Farò altre domande, tanto i clienti non ci fanno caso. Anzi, impazziscono dal desiderio di impicciarsi nei fatti degli altri, ne saranno felici.»
«Mi stai proponendo una collaborazione segreta?»
«Proprio così. E, secondo me, sarebbe meglio smettere di incontrarci al bar. Se mi lasci il tuo numero e il tuo indirizzo di casa, possiamo organizzarci meglio... e no, non devi spaventarti, non ci voglio provare con te.» Olimpia rise. «Dopotutto potrei puntare a Occhi Viola!»
Ancora una volta, Enrico ritenne saggio non parlarle dell'esistenza di una fidanzata con la quale Vicenzo Gottardi si sarebbe sposato entro pochi mesi. Non sapeva come l'avrebbe presa Olimpia e non voleva che lo scoprisse prima del tempo.

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Capitolo 4
*** Terzo incomodo ***


TERZO INCOMODO

Carolina sorrideva ed Enrico adorava vederla sorridere, ma gli venne spontaneo domandarsi se fosse lui a stimolare quella reazione o la consapevolezza che di lì a pochi minuti avrebbe potuto andare a casa. Era raro che facesse turni serali e c'era da scommettere che per lei fosse tutt'altro che piacevole, ma Enrico era ben contento di ritrovarla ancora lì prima di andare via.
La receptionist rispose indirettamente ai suoi dubbi interiori.
«Manca poco, anzi, pochissimo.»
«Desideri tornare a casa subito, immagino» azzardò Enrico.
«Desidero che questa giornata di lavoro finisca il prima possibile» ribatté Carolina. «Spero di avere qualcosa di pronto, a casa, senza dovere cucinare. Mi andrebbe bene pure una scatoletta di tonno, anche se non mi piace molto.»
Quelle parole erano musica per le orecchie di Enrico.
«Credo di avere una soluzione.»
Carolina lo guardò storto.
«Potrebbe non piacermi.»
Enrico ridacchiò.
«Non capisco perché tu sia sempre prevenuta, quando si tratta delle mie proposte. In realtà ero qui per ricordarti che alla fine della serata mi spetta la cena gratis e volevo proporti di aggregarti a me.»
«Mi stai invitando a venire con te nelle torbide cucine di questo albergo, invece di andare a casa?»
«Posso procurarti un piatto di tagliatelle al ragù. Se preferisci una scatoletta di tonno, comunque, puoi andartene. E comunque le cucine sono tutt'altro che torbide.»
«Sei sicuro che nessuno avrà nulla da ridire?»
«Ne sono certo. Al massimo qualcuno dei cuochi potrebbe provare a metterti in pentola.»
Carolina rise.
«Dai, non fare l'idiota!»
Enrico fece per allontanarsi.
«Ti aspetto tra cinque minuti. Se qualcuno fa delle storie, digli che ti ho chiamata io. E segnati il suo nome, così lo metto nella lista nera!»
«Va bene.»
La risposta di Carolina gli accelerò il battito cardiaco. Avrebbe fatto meglio a calmarsi, ma non era facile. Aveva incontrato tante donne, nel corso degli anni, e con qualcuna ci era anche andato a letto ripetute volte, ma nessuna gli era mai piaciuta come Carolina. Non che avesse pensato a lei tanto di frequente, quando era lontano, ma ritrovarsela davanti quasi tutti i giorni gli faceva un effetto molto diverso. Avrebbe voluto farglielo capire, ma non era certo che i tempi fossero maturi. Anzi, da parte sua, Carolina continuava ad accennare alla sua relazione con un uomo già impegnato. Enrico aveva preferito non fare indagini in proposito, anche se aveva valutato - per scartarla già sul nascere - la possibilità di parlarne con Olimpia. Era improbabile che conoscesse Carolina o che qualcuno dei clienti del bar le parlasse di lei, ma soprattutto era certo che sarebbero finiti a discutere degli argomenti che la sua amica barista prediligeva.
Le interessava il mistero di Alfredo Vitale, non perché i casi di cronaca le suscitassero qualche genere di curiosità, quanto piuttosto perché avrebbe voluto saperne di più sulla donna misteriosa. Qualche sera prima, quando Enrico era andato da lei per riferirle della passione per il jogging di "Occhi Viola", Olimpia aveva tirato fuori l'argomento praticamente dal nulla, un po' come se le bastasse sentire menzionare Giuseppe Bianchi per pensare a quel delinquente trovato morto a tanti anni dalla scomparsa, senza che ci fosse il minimo collegamento tra di loro.
Enrico si diresse verso la cucina e andò a liberare un po' di spazio su uno dei tavoli che veniva usato come piano di lavoro. Una donna di mezza età che da anni svolgeva il ruolo di aiutocuoca gli domandò se volesse cenare insieme a lei.
Enrico scosse la testa.
«Mi dispiace, ma ho chiesto a Carolina della reception di raggiungermi.»
L'aiutocuoca fece un radioso sorriso.
«Ottima idea! Hai fatto benissimo, mi terrò ovviamente a debita distanza!»
Ci mancava che aggiungesse "avete la mia benedizione" e non avrebbe potuto essere più esplicita. Enrico la guardò con occhi pieni di gratitudine e iniziò ad attendere con ancora più ansia l'arrivo di Carolina: quella sera non aveva la minima intenzione di lasciarsi rovinare la serata dai brutti pensieri a proposito del passato.
Ci volle un po' prima che Carolina arrivasse. Quando la vide entrare, Enrico si accorse che l'aiutocuoca diceva qualcosa a un'altra donna. La receptionist, nel frattempo, si guardava intorno. Enrico le fece un cenno con la mano, per farsi notare.
Carolina rispose al cenno, poi si diresse verso il tavolo, sul quale erano già presenti i due piatti di tagliatelle che Enrico si era procurato.
Il commento di Carolina fu piuttosto diretto: «Hai ragione, sembrano molto più invitanti della scatoletta di tonno a cui avevo pensato. Sempre ammesso che in casa io abbia davvero del tonno in scatola, cosa di cui non sono affatto sicura.»
Si sedette di fronte a Enrico, il quale immaginò che stesse iniziando la sua più bella serata degli ultimi tempi, la più bella da quando era uscito con Carolina, quantomeno. Fu un pensiero che non durò molto a lungo, purtroppo furono ben presto raggiunti da un terzo incomodo.
Enrico si chiese subito che cosa ci facesse Vincenzo Gottardi in giro per le cucine a quell'ora e come mai non se ne fosse ancora andato a casa, ma era la domanda sbagliata: sarebbe stato più corretto interrogarsi sul perché stesse venendo proprio verso il loro tavolo.
Lo fissò senza dire niente. Carolina se ne accorse e si girò in quella direzione.
«B-buonasera signor Gottardi!» Sembrava esitare. «N-non...»
Non era chiaro cosa volesse dire, ma quella negazione balbettata passò in secondo piano quando Vincenzo chiese: «Posso unirmi a voi?»
Enrico guardò Carolina e la vide farsi piuttosto rigida. Era palesemente in imbarazzo, ma non c'era da stupirsi: di certo non si aspettava che il titolare dell'albergo proponesse di sedersi al loro tavolo.
Vincenzo, frattanto, sembrava ancora aspettarsi una risposta. Dal momento che nessuno diceva nulla, si ritenne autorizzato a fare ciò che gli passava per la testa - d'altronde Enrico e Carolina potevano forse dirgli di no?
«Vado a procurarmi un piatto di pasta poi vi raggiungo» annunciò, prima di allontanarsi e lasciare Enrico per qualche istante da solo con Carolina.
I due si fissarono a vicenda, all'inizio senza parlare. Enrico comprese che rompere il silenzio era compito suo.
«Mi dispiace.»
«Di cosa?»
«Non pensavo che Vincenzo fosse qui.»
«Non importa.»
«Ne sei certa?»
«Sì, ovvio. Tu e il signor Gottardi vi conoscete da tempo. Eravate amici, una volta. È normale che ti abbia chiesto se potete cenare insieme.»
«Non troppo normale» obiettò Enrico, con prontezza. «Va beh, eccolo che torna. Cerchiamo di non...»
Anche le sue parole giunsero a una brusca interruzione: Vincenzo Gottardi si stava sedendo all'estremità del tavolo, tra di loro.
«Non vi disturbo, vero?»
Carolina scosse la testa.
«No, si figuri, signor Gottardi. Forse sono io che non dovrei essere qui.»
Vincenzo osservò: «Mi sembra di averti detto che, quando non siamo davanti ai clienti, puoi chiamarmi per nome e darmi del tu.»
Carolina abbassò lo sguardo sul piatto, prendendo in mano la forchetta.
«Non mi viene così spontaneo.»
«Cerca di riuscirci» la esortò Vincenzo. «Prova a immaginare che questo sia un raduno tra vecchi amici.»
Carolina replicò, con tono apatico: «Noi non siamo vecchi amici. Non ci conoscevamo nemmeno, una volta.»
«Tu, comunque, chiamami Vincenzo.»
«Ci proverò.»
Enrico non riusciva a inquadrare bene il tono di Carolina. Non sembrava propriamente disturbata dalla presenza del giovane Gottardi a tavola con loro, ma al contempo non dava l'impressione di sentirsi a proprio agio. Forse era normale: Vincenzo era il suo datore di lavoro e fino a quel momento non aveva mai avuto con lui null'altro che un rapporto puramente professionale. Ciò che per certi versi non era normale era che a causa di Vincenzo tutti i suoi piani fossero saltati. Non che avesse in mente molto, ma almeno trascorrere una mezz'oretta insieme alla ragazza dei suoi sogni, se così poteva definirla... Invece, diversamente dalle aiutocuoche, i titolari di alberghi non sembravano avere l'accortezza di farsi da parte quando erano di troppo.
Enrico si rassegnò. Non rimaneva molto di positivo, se non le tagliatelle al ragù, quindi tanto valeva almeno occuparsi dell'unico aspetto piacevole rimasto. Non disse molto, parlò solo se interpellato e, in ogni caso, dato che Carolina non spiccicava parola, si trattò solo di rispondere alle domande di Vincenzo, che sembrava molto interessato a chiedergli dei luoghi nei quali aveva vissuto negli ultimi anni.
L'atmosfera sembrava tesa, anche se non vi erano ragioni per cui tutti e tre non potessero rilassarsi, quella sera. A Enrico sembrava che tante cose non dette rendessero l'aria fin troppo pesante... cose non dette, oppure l'enigmatica Carolina, che si comportava come se non fosse lì, seduta insieme a loro.
Fu la prima ad alzarsi.
«Si è fatto tardi, è meglio che vada.»
Vincenzo accennò un sorriso.
«Ti chiederei se vuoi un passaggio, ma tu hai una macchina e io, in questo momento, sono a piedi.»
«Come mai?» intervenne Enrico. «Ti sei convertito a qualche setta che pensa che le automobili siano il male?»
Vincenzo spalancò gli occhi, ridendo.
«Che cazzo dici? Comunque no, solo che ho dovuto portarla dal meccanico. Andrò a prenderla domani mattina. Ho l'impressione di dovere chiamare un taxi, se non voglio farmi quattro chilometri a piedi.» Guardò Carolina. «Certo, la cosa più semplice sarebbe chiedere un passaggio a te, ma non mi permetterei mai.»
«Infatti non c'è bisogno che tu chieda un passaggio a lei» replicò Enrico. «Ti posso accompagnare io, se hai detto la verità sui chilometri. Sono solo quattro?»
«Quattro chilometri e duecento metri» chiarì Vincenzo. «Mi accompagni tu, quindi?»
«Non c'è problema.»
«Grazie.»
Carolina, nel frattempo, sembrava desiderosa di andarsene. Non appena Enrico e Vincenzo rimasero in silenzio, infatti, ne approfittò per salutarli e fuggire via, senza dare loro il tempo di replicare. L'aiutocuoca di mezza età di prima, frattanto, scuoteva la testa borbottando qualcosa con la collega. Enrico ebbe la certezza che stesse parlando di lui e Carolina. Fece un sospiro, sperando che la serata finisse presto. Per fortuna non ci fu bisogno di aspettare molto: Vincenzo sembrava desideroso di andare via.
Uscirono ed Enrico si diresse nel parcheggio, seguito dal figlio di Roberto Gottardi. Salirono in macchina e, per una volta, Enrico non accese la radio. Durante il tragitto, Vincenzo si limitò a indicargli la strada. Quando arrivarono, Enrico accostò. Si aspettava che Vincenzo scendesse subito, ma non fu così. Finalmente Gottardi parve rendersi conto di essere stato di troppo, quella sera.
«Per caso ho interrotto qualcosa, prima?»
«Interrotto...?» Enrico fece finta di non capire. «Di cosa parli?»
«State insieme, tu e Carolina?»
«No, come ti viene in mente? È da poche settimane che sono tornato in città.»
«E poche settimane non sono sufficienti per trovare una fidanzata?»
«Non per me.»
«Scusa, non volevo sembrare invadente» chiarì Vincenzo. «Vi ho visti affiatati, a volte, e mi è venuto spontaneo farti questa domanda.»
Enrico non riuscì a trattenersi.
«Se pensavi che tra me e Carolina ci fosse del tenero, perché hai deciso di venire a sederti insieme a noi?»
«In realtà, quando ho iniziato a sospettarlo, mi ero già seduto» puntualizzò Vincenzo. «Ormai era troppo tardi per tornare indietro. E poi, se dici che tra te e lei non c'è niente, è inutile parlarne.»
Aveva ragione, era inutile parlarne, quindi Enrico decise di mettere definitivamente fine alle ipotesi dell'altro: «Ho imparato per esperienza che è meglio non mescolare la vita privata con il lavoro. Non sempre sono stato in grado di avere un'esistenza tranquilla, ma credo sia arrivato il momento di mettere la testa a posto.»
Vincenzo parve divertito, mentre replicava: «Detto così, sembra che tu sia pieno di segreti. Cos'hai combinato in tutti questi anni?»
«Ho spezzato cuori di giovani sprovvedute che pensavano sarei rimasto accanto a loro vita natural durante, per poi scoprire che non sarebbe andata così e che avrei cambiato città un'altra volta. O magari che sarei andato a lavorare su una nave da crociera. L'ho fatto solo per soldi, lo ammetto: preferisco di gran lunga la terraferma.»
«Chissà quanti figli avrai sparso in gran segreto per l'Italia, o forse per il mondo!»
Enrico si irrigidì. Preferì non commentare quella battuta e, piuttosto, chiedere a Vincenzo: «Tu, invece? È vero che ti sposi?»
«Sì.»
Enrico si aspettava entusiasmo, non certo un monosillabo.
«Quando?»
«Presto.»
Ancora una volta, sembrava che Vincenzo volesse liquidare la questione il prima possibile. Era strano, molto strano. Tutto sembrava, tranne un uomo desideroso di unirsi in matrimonio.
Enrico finse di non averci fatto caso e gli domandò: «Come di chiama la futura signora Gottardi?»
«Paola.»
«Cosa fa nella vita?»
«Ha un atelier di abiti da sposa. O meglio, sua madre ha un atelier di abiti da sposa e Paola lavora con lei.» Vincenzo aprì la portiera. «Meglio che vada. Ti ho già fatto perdere abbastanza tempo. Ti ringrazio per il passaggio e spero di non averne più bisogno nei prossimi giorni. Spero che domani mattina la mia macchina sia pronta.»
«Quindi niente jogging?»
«Chi lo sa. Prima vado a prendere la macchina, poi vediamo. Perché me lo chiedi, vuoi venire con me?»
Enrico si affrettò a rifiutare: «Assolutamente no. Correre non fa per me. Buon divertimento.»
Vincenzo scese dall'auto, salutandolo. Enrico lo guardò dirigersi verso una porzione di casa con ingresso indipendente. Non era brutta come abitazione, ma dava l'impressione di essere uno di quei posti in cui c'erano garage o magazzini da adibire a lavanderia ben più grandi delle stanze.
Guardò Vincenzo entrare, richiudendo il cancello alle proprie spalle. Lo vide andare verso la porta e poi entrare in casa. A quel punto avrebbe dovuto allontanarsi, ma non lo fece. Spense il motore e scese a propria volta dalla macchina. Le tapparelle sembravano tutte chiuse, le possibilità che Vincenzo lo vedesse erano molto basse. Si diresse quindi verso l'abitazione, andando a curiosare senza avere le idee ben chiare. Non aveva idea di cosa stesse cercando, di che cosa pensasse di vedere: se Vincenzo Gottardi nascondeva cadaveri, si guardava bene dal tenerli esposti nel proprio cortile.
Enrico fece dietrofront e tornò alla macchina. Per un attimo valutò la possibilità di andare a controllare se Olimpia fosse al bar, ma lasciò perdere. Avevano degli accordi ben precisi ed era meglio rispettarli, se voleva avere la speranza di concludere qualcosa.
Salì a bordo e accese il motore ricordando che cosa si era imposto quella sera stessa: dedicare il proprio tempo a Carolina, senza pensare a Olimpia, a suo padre, alle ragioni del suo licenziamento, alla fantomatica donna con cui si diceva se ne fosse andato e, soprattutto, senza interrogarsi sul ruolo di Alfredo Vitale, ruolo del tutto marginale e teorico, dal momento che di quell'uomo non era rimasto che un mucchietto di ossa.
Accese la radio. Trasmetteva una canzone d'amore melensa e sdolcinata. Non era esattamente il suo genere, ma gli fece pensare a Carolina, per quanto il concetto di amore fosse ben diverso da quello che sentiva nei confronti della sua vecchia amica. Non che, di per sé, il concetto stesso di amore fosse molto facile da definire. I film - e spesso anche la vita reale - abbondavano di gente che non faceva altro che mettersi in bocca quel termine. Enrico non riusciva a capirli. La sua idea era che l'unione tra due persone fosse basata su elementi concreti, non su parole e concetti astratti.
"Non che io abbia molta voce in capitolo, ma almeno a livello di teoria penso di potere dire la mia."
Era consapevole di avere combinato fin troppi danni, in passato, ai quali difficilmente avrebbe potuto porre rimedio, ma almeno era sempre stato ancorato alla realtà. La situazione non sarebbe cambiata, nemmeno se fosse riuscito ad avere una possibilità con Carolina. La possibilità, comunque, non sarebbe piovuta dal cielo quella sera facendo sì che la receptionist provasse un'improvvisa attrazione nei suoi confronti, quindi tanto valeva liberarsi la mente.
La canzone melensa e sdolcinata terminò, lasciando il posto a un'altra ancora peggiore. Enrico cambiò stazione e si mise in strada, iniziando a guidare fino a casa. Non ci volle molto per arrivare, non abitava tanto lontano da Vincenzo. Parcheggiò in cortile, come al solito. Quando scese dalla macchina, per la prima volta nella serata, realizzò che non faceva più tanto freddo, la sera. Pochi istanti più tardi entrò nel proprio appartamento riflettendo sulla totale inutilità di quella considerazione. Forse un giorno sarebbe diventato uno di quei tipi che facevano continuamente commenti sul tempo, ma non era il momento: per l'immediato aveva altri piani, seppure tutt'altro che definiti. La verità era che non sapeva più quale fosse il suo vero posto nel mondo. Era tornato e gli sarebbe piaciuto rimanere, ma al contempo si sentiva in obbligo di sbrogliare il mistero legato all'allontanamento di suo padre. Se avesse capito cos'era successo all'albergo, forse avrebbe potuto comprendere anche perché se ne fosse andato e che cosa gli stesse nascondendo.

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Capitolo 5
*** Occhi Viola ***


OCCHI VIOLA

Stava ormai scendendo la sera, ma Roberto non sembrava infastidito dalla luce ormai scarsa. Non pensava minimamente ad alzarsi per premere l'interruttore e continuava a leggere le carte che aveva sulla scrivania con la sua aria imperturbabile.
Avevano dovuto lasciare in sospeso una conversazione importante, una mezz'oretta prima, e Giuseppe sentiva il bisogno di arrivare a una conclusione. Quello di cui avevano discusso non era un affare che potesse essere rimandato e lo sapevano entrambi.
Non bussò sullo stipite, né chiese a Roberto il permesso di entrare prima di varcare la soglia. Si diresse verso di lui, afferrò una sedia e gli si sedette di fronte. Gottardi distolse lo sguardo dai fogli che stava leggendo e lo fissò senza dire una parola. Attendere non servì a nulla, il titolare rimaneva in silenzio.
«Allora?» lo esortò Giuseppe. «Cos'altro vuoi sapere?»
«Non so» rispose Roberto, con un tono che appariva quasi sprezzante. «Cosa mi vuoi raccontare?»
«Non c'è niente da raccontare.»
«Partiamo male, se è tutto quello che hai da dire. Avete fatto qualcosa, quella sera. Era la sera della festa in centro. Ve ne siete andati con una scusa ben prima dei fuochi d'artificio.»
Giuseppe trovava assurdo che allontanarsi prima di uno spettacolo pirotecnico potesse apparire sospetto. In un altro momento l'avrebbe detto chiaro e tondo, ma sapeva di non potere perdere tempo, quando si sentiva addosso un giudizio tanto affrettato quanto assurdo.
«Siamo andati ad appartarci su una strada fuori dal centro abitato, in macchina.»
«E cos'avete fatto?»
«Secondo te?»
«Non so, dimmelo tu.» Roberto lo fissò con fermezza. «Se avete fatto un casino, me lo devi dire.»
«Abbiamo fatto sesso, niente di più» replicò Giuseppe. «Non avevamo la più pallida idea che...» Si interruppe. «Non mi dire che credi che siamo stati noi a...» Si fermò ancora una volta. «Come ti viene in mente? Da quanto tempo mi conosci? Lo sai che...»
Non riusciva a completare una sola frase. La domanda che gli aveva posto Roberto Gottardi quel pomeriggio, in tono serio, l'aveva spiazzato al punto da non riconoscere più l'uomo che aveva di fronte. Anche Roberto, se aveva certi sospetti su di lui, doveva provare la stessa sensazione, e da un momento all'altro erano diventati due estranei.
«No, Giuseppe, non so più niente. Sei strano, ultimamente... e anche lei. Non so cos'abbiate fatto, ma...»
Giuseppe non lo lasciò finire.
«Non abbiamo fatto niente, in che lingua te lo devo dire?! Come puoi anche solo pensarlo? Tutto questo non ha senso, ma se lo pensi tu, puoi anche solo immaginare a che rischio siamo esposti. Proprio adesso, che ci eravamo appena ritrovati...»
Roberto azzardò: «Vi siete appena ritrovati, oppure siete sempre stati insieme di nascosto?»
«Non dire cazzate» replicò Giuseppe. «Sai benissimo che ci siamo lasciati poco dopo quella sera, quando abbiamo capito che non potevamo stare insieme alla luce del sole. Avevamo paura che potesse succedere qualcosa e abbiamo preferito andare avanti ciascuno per la propria strada. C'è stato un certo tira e molla, tra di noi, nel corso degli anni, ma non c'è mai stato niente di più di quello che già sai.»
Era chiaro che Roberto non voleva discutere di quell'argomento, dal momento che si affrettò a cambiare discorso.
«Dovreste andarvene.»
«Dove?»
«Non lo so, ma lontano da qui. Nessuno sa di voi, a parte me. Vi allontanerete uno alla volta, prima uno poi l'altra.»
«Qualcuno potrebbe capire.»
Roberto abbassò lo sguardo sulle carte. Girò addirittura una pagina, come se fosse di nuovo concentrato sul lavoro. Non era così, aveva qualcosa in mente.
«Fino a che punto saresti disposto a spingerti per nascondere quello che c'è tra te e lei?»
«Non voglio nascondermi, né lo vuole lei» puntualizzò Giuseppe. «Sai benissimo che abbiamo sempre avuto le nostre buone ragioni.»
«Ascolta quello che ho da dirti, ma prima chiudi la porta.»
«Non c'è nessuno in corridoio.»
«Come vuoi.»
Giuseppe rimase in attesa che Roberto aggiungesse qualcosa, ma non accadde. Fu necessario esortarlo: «Allora? Cosa devi dirmi?»
«Immaginiamo che tu abbia commesso qualche illecito e che io ti faccia una proposta conveniente per entrambi. Hai lavorato abbastanza anni da potere andare in pensione. In più potrei darti dei soldi per andartene: una sorta di accordo.»
«Stai dicendo che, ufficialmente, io mi sono intascato del denaro non di mia proprietà e che tu, invece di denunciarmi, ti limiti a licenziarmi e a staccare un assegno a mio nome per tapparmi la bocca, perché anch'io so dei segreti scottanti su di te? Che non...»
Giuseppe si interruppe. Aveva udito dei passi. Lasciare la porta aperta era stata una pessima idea: Vincenzo Gottardi era appena entrato e spostava lo sguardo, fissando prima lui, poi il padre.
Quest'ultimo lo pregò: «Lasciaci soli. Stavamo parlando di una questione piuttosto seria.»
Vincenzo non disse nulla, ma nemmeno accennò a uscire.
Roberto ribadì: «Lasciaci soli, Vincenzo.» Stavolta il giovane Gottardi si allontanò. «Giuseppe, per cortesia, chiudi la porta. Avrai capito anche tu che è la cosa migliore da fare.»
Era un po' come chiudere il recinto dopo che i cavalli erano scappati, ma tanto valeva obbedire. Parlarono ancora, per qualche minuto. L'idea di Roberto non lo entusiasmava nel vero senso della parola, ma non era un'ipotesi da scartare. Quando uscì, Giuseppe era quasi convinto.
Imboccò il corridoio, diretto verso le scale che conducevano al piano di sotto. Aveva appena raggiunto la rampa, quando trovò Vincenzo Gottardi ad attenderlo. Il figlio di Roberto lo fissava con occhi gelidi.
«Che cazzo hai fatto?» volle sapere.
Per un attimo Giuseppe pensò potesse riferirsi al sospetto di Roberto, ma si rese conto ben presto che era impossibile. Non avevano fatto nomi, né erano stati espliciti abbastanza affinché qualcuno, origliando, potesse avere inteso qualcosa. Era molto più probabile che Vincenzo fosse appena arrivato, quando era entrato nella stanza, e avesse udito soltanto le ultime parole.
«Nulla che ti riguardi» replicò, senza farsi intimidire. Doveva recitare una parte, ormai, sarebbe stato meglio per tutti. «Tuo padre ti aveva chiesto di andare via, è chiaro che non voleva che tu fossi coinvolto.»
«Quanto hai rubato?» insisté Vincenzo. «Per quanto tempo l'hai fatto, prima di essere scoperto?»
«Non intendo rispondere a questa domanda» chiarì Giuseppe, «Né ad altre tue domande. Non ho niente da dirti.»
«Non tirare troppo la corda, Bianchi. Se scoprirò che hai fatto dei danni, convincerò mio padre a fartela pagare.»
«Se non sbaglio, tuo padre ti ha mandato a gestire quel suo localetto di basso rango sulla riviera. Mi sembra un segnale chiaro: non ti ha mai voluto intorno. Se ci tieni così tanto a lui, perché non provi a rispettare le sue volontà? Stai lontano dall'albergo e dai suoi affari.»
«Tu non sei nessuno per dirmi quello che devo o non devo fare.»
«Forse non sarò nessuno, ma anche tu non sei nessuno, qui dentro. Sei solo una zavorra che Roberto ha sempre cercato di scaricare altrove. Quando eri ragazzino, ti ha mandato a vivere con tua madre tenendoti il più lontano possibile, senza preoccuparsi del fatto che volesse portarti fuori città, quando sei cresciuto ha fatto ogni cosa per liberarsi di te, al punto da arrivare ad aprire quel pub per tenerti a cento chilometri di distanza. Essere figlio di Roberto non ti permetterà di dettare legge qui dentro.»
Vincenzo puntualizzò: «Non ho mai voluto dettare legge. Però i ladri mi stanno sulle palle, specie se si nascondono dietro l'aria di persone rispettabili.»
Giuseppe sapeva di non potere replicare. Doveva lasciare che Vincenzo pensasse che quella che aveva sentito fosse un'accusa e non una storia costruita ad arte. Nessuno doveva sapere che lui e Giovanna avevano una relazione. Avrebbero dovuto andarsene, in un luogo lontano, in cui nessuno li conosceva. Allora, per la prima volta, sarebbero stati davvero liberi.
 

Vincenzo si era seduto a terra e occasionalmente alzava lo sguardo a controllare se la donna che sembrava tenerlo d'occhio fosse ancora lì. Non la conosceva, ma non sembrava essere lì per caso. Cercò di passare in rassegna tutte le persone che potevano somigliarle, tra le sue vecchie conoscenze, ma quella tizia con la tuta fucsia e i capelli biondi raccolti in una coda in cima alla testa, che non aveva per niente l'aria della sportiva, non gli ricordava nessuno nello specifico. Cosa volesse da lui era un totale mistero, ma i misteri non gli piacevano particolarmente, pertanto si alzò, controllò in fretta di non avere erba secca o foglie attaccate ai pantaloni e si diresse verso di lei, che non parve turbata.
Solo quando furono a meno di un metro di distanza, Vincenzo le chiese: «Sei qui per me?»
«No.» La donna parve divertita. «Cosa te lo fa pensare?»
«Ti sei appostata lì come un falco e...» Vincenzo abbassò lo sguardo sulla sua tuta. «In realtà vestita così sembri più un pappagallo sudamericano, ma non fa niente. Comunque è da un po' che mi tieni d'occhio e non mi pare che ci conosciamo.»
La donna gli tese la mano.
«Olimpia Ruggeri, piacere.»
Vincenzo gliela strinse, ripetendo: «Sei venuta qui per me? Ho visto come mi fissavi.»
«In realtà no, non sono qui per te» rispose Olimpia, «Però ammetto che ti stavo fissando.»
«Non so se esserne spaventato oppure lusingato.»
«Non sono una killer che vuole prima adescarti e poi ucciderti.»
«Lo spero bene. Adesso, però, credo dovresti spiegarmi perché mi tenevi d'occhio così attentamente.»
Olimpia chiarì: «Mi ricordi qualcuno che ho visto qualche volta molto tempo fa, insieme a un mio amico d'infanzia. Mi sono detta che magari lo conosci, io non lo vedo da una vita. A proposito, non mi hai ancora detto come ti chiami.»
«Vincenzo. Vincenzo Gottardi.»
«Non ricordo il nome di quel tale, ma potresti essere tu. Conosci Enrico Bianchi?»
Vincenzo annuì.
«Sì, da decenni.»
«Io non lo vedo da un secolo» lo informò Olimpia. «So che è andato a lavorare lontano da qui, ma nessuno ha mai saputo dirmi con esattezza dove. Sembra abbia cambiato diversi posti, in realtà. C'è chi dice che abbia lavorato in un ristorante al mare, chi invece racconta che si sia trasferito da qualche parte al sud. Altri dicono in qualche località di montagna dell'estremo nord, mentre ho sentito dire anche che si sia trasferito all'estero. Eravamo molto amici, ai tempi delle scuole. Siamo stati anche compagni di banco in seconda media. Quando ti ho visto, mi è venuto da pensare a lui. Chissà che fine ha fatto.»
«So perfettamente che fine ha fatto Enrico» la informò Vincenzo. «Se vuoi, posso dirgli che lo stai cercando e che vorresti rivederlo.»
Olimpia sorrise.
«Sì, grazie, se non ti scoccia! Enrico saprà sicuramente dove trovarmi.»
A Vincenzo sembrava strano, ma ritenne plausibile che Olimpia abitasse ancora nella stessa casa di vent'anni prima. Ciò che non tornava era che non gli avesse ancora chiesto dove e quando l'avesse rivisto. In linea teorica, basandosi su ciò che lei stessa aveva affermato, non avrebbe dovuto avere la più pallida idea del ritorno in città di Enrico. Si aspettava che se ne rendesse conto anche lei stessa e che gli facesse qualche domanda in proposito, ma continuò a non accadere, un po' come se Olimpia stesse recitando una parte.
Avrebbe fatto meglio ad andare via, a dimenticarsi di lei e, se fosse capitata l'occasione, magari informare davvero Enrico del fatto che quella donna desiderasse vederlo, ma la puzza da bruciato che sentiva era talmente tanta da non poterla ignorare. Decise di fermarsi, di fare qualche domanda all'ex compagna di scuola di Enrico, per cercare di capire cosa le passasse per la testa.
«Come fai a ricordarti così bene di me?»
Olimpia riprese a fissarlo.
«Hai gli occhi viola.»
«Come, prego?»
«Mi ricordo il colore dei tuoi occhi.»
«Che io ho sempre visto come azzurri. Non esistono gli occhi viola, o almeno non credo.»
Olimpia ridacchiò.
«Forse sono io che non conosco i colori.»
«Molto probabile.»
«Però, detto questo, i tuoi occhi me li ricordo. Mi sono rimasti molto impressi, forse proprio perché a me sembrano viola. Così, quando ti ho visto, mi sono ricordata di te.»
«Devi avere una vista davvero supersonica se hai notato i miei "occhi viola" quando eri distante un bel po' di metri» ribatté Vincenzo.
«In realtà non è andata proprio così» puntualizzò Olimpia. «Ti ho visto e mi sono detta: "quel tizio sembra l'amico di Enrico con gli occhi viola". Avrei voluto venire a chiederti se eri davvero tu, ma mi sentivo troppo sfacciata. Per fortuna ti sei accorto di me e sei stato tu ad avvicinarti.»
«Già, per fortuna...»
«Cosa vuoi dire?»
«Niente.»
«Scusami se ti ho disturbato, non era mia intenzione. Anzi, magari me ne vado e ti lascio solo.»
Olimpia fece per voltargli le spalle, ma Vincenzo la trattenne.
«Eravate solo amici, tu ed Enrico?»
«Sì, perché?»
«No, niente. Mi sembri molto interessata a lui.»
«Non sono una sua ex con cui si è lasciato in cattivi rapporti» precisò Olimpia. «Io ed Enrico non siamo mai stati insieme. O per meglio dire, non dopo avere raggiunto l'età della ragione. Era il mio fidanzatino alle elementari e alle medie ci siamo rimessi insieme per breve periodo. A tredici anni gli ho dato il mio primo bacio, ma è qualcosa che abbiamo superato entrambi ben più di vent'anni fa.» Sorrise. «A proposito, sai per caso se almeno Enrico è riuscito a trovare l'anima gemella? Io purtroppo non ho avuto questa fortuna, mi sono sposata, ma è andata male.»
«Mi dispiace per te.» Ancora una volta Vincenzo fu tentato di andarsene, ma decise di resistere ancora un po'. «Ti va di sederci? Dovrebbe esserci una panchina qui, poco lontano.»
Olimpia accettò. Gli raccontò di sé - i suoi genitori erano titolari di un bar e lavorava con loro - e gli chiese di lui. Fu Vincenzo, quando le parlò dell'albergo che aveva ereditato da suo padre, a informarla che Enrico fosse uno dei suoi dipendenti. Olimpia non gli parve molto stupita, né gli fece molte domande in proposito, si limitò a pregarlo di nuovo di salutarlo da parte sua.
Ancora una volta Vincenzo ebbe l'impressione che fosse già a conoscenza di certi dettagli e che cercasse qualcosa da lui, e ovviamente non i suoi occhi "viola" o la possibilità di rivedere il vecchio amico, con il quale era probabile che già si frequentasse. Lasciarla andare via avrebbe significato non scoprire mai cosa volesse da lui, specie se non ci fosse stata la possibilità di incontrarla.
«Vieni spesso qui?» le chiese.
«Ogni tanto» rispose Olimpia, sembrando ben poco credibile.
Non restava altro che una soluzione, ovvero chiederle il nome del suo bar e dove si trovasse. Olimpia glielo disse e si spinse oltre, invitandolo ad andare a trovarla. Vincenzo era sempre più convinto: i suoi occhi erano stati soltanto una scusa per fare conversazione con lui, per conoscerlo.
Al contempo, per assicurarsi almeno la speranza di rivederlo, cercava di apparire rassicurante: «Non preoccuparti, non sono una pazza ossessionata da te. E, se la cosa ti preoccupa, non voglio trovarmi un uomo a tutti i costi, ne ho avuto abbastanza di mio marito. Quindi, se hai una fidanzata, non farò nulla per mettermi tra voi.»
Vincenzo non sapeva se ridere o trattenersi per non apparire scortese. Che razza di discorsi faceva quella donna? Certo, se aveva un bar ed era abituata a vedere gente di ogni tipo, doveva essere abituata ad avere a che fare con almeno qualche occasionale soggetto bizzarro, quindi dire cose strampalate poteva essere un'abitudine, per lei, ma non c'era motivo di farlo in sua presenza.
Optò per una battuta: «Ammetto che i miei occhi viola possano affascinare, ma non ho mai pensato che tutte le donne che incontro vogliano saltarmi addosso. Questo pensiero non mi aveva nemmeno sfiorato.»
«Ma una fidanzata ce l'hai?»
Vincenzo sospirò.
«Se proprio lo vuoi sapere, diversamente da Enrico, io ho trovato l'amore della mia vita, anche se la situazione non è semplice quanto vorrei.»
Preferì non aggiungere altro, e peraltro gli venne da pensare che, quando la stessa Olimpia gli aveva chiesto delucidazioni sulla vita sentimentale di Enrico, non si era nemmeno accorta del fatto che non le avesse dato risposta. Doveva sapere anche che era single, a meno che, addirittura, non avesse una storia proprio con lei. Nemmeno quell'ipotesi l'avrebbe sorpreso più di tanto.
«Sei fortunato» osservò Olimpia. «O almeno, lo spero per te. Anch'io mi ritenevo fortunata, prima che mio marito mi lasciasse.» Sospirò. «Pazienza, è andata così. Mi auguro che tu e la persona che ami possiate stare insieme per tutta la vita.»
Vincenzo abbassò lo sguardo.
«Lo spero anch'io.»
Olimpia si alzò in piedi.
«Si sta facendo tardi, è meglio che vada. Ti aspetto al bar, se vorrai venire.»
Vincenzo annuì.
«Magari farò un giro, uno di questi giorni.»
«Verrai sul serio?»
«Perché no? È solo un bar. Penso di non correre pericoli.»
«Puoi stare sicuro, con me» ribatté Olimpia. «Ammetto di potere sembrare strana, ma sono innocua.»
Furono le ultime parole che si scambiarono, prima che la misteriosa amica d'infanzia di Enrico se ne andasse. Vincenzo la guardò allontanarsi, con una certezza: sarebbe andato da lei. Enrico era il figlio di Giuseppe Bianchi e Olimpia aveva qualche genere di rapporto con lui. Era improbabile che avesse a che vedere con la storia del licenziamento di Giuseppe, ma non poteva escluderlo a priori. Era da tenere d'occhio.

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Capitolo 6
*** Maschere ***


MASCHERE

Quando il campanello suonò, non era ancora buio. Di solito Giovanna attendeva sempre la sera, nel tentativo di non farsi notare. Inoltre si recava da lui in bicicletta, affinché nessuno riconoscesse la sua auto. A Giuseppe, in qualche occasione, era sembrato che il suo comportamento fosse ossessivo, ma aveva sempre compreso le sue ragioni. Un uomo aveva tentato di ucciderla, in passato, e per quanto non ricordasse quasi nulla di quel tragico evento, era sempre stata terrorizzata dall'idea che Alfredo Vitale potesse ricomparire nella sua vita.
Giuseppe aprì la porta e attese che salisse. Quando la accolse, vide per l'ennesima volta un volto in apparenza imperturbabile, ma che nascondeva ben altro. Non sapeva cosa dire, non voleva chiederle spiegazioni per la sua presenza. Si limitò a osservare: «Sei arrivata presto.»
«Anche tu sei venuto a casa presto, oggi» replicò Giovanna. «Cos'è successo?»
«È successo che la nostra vita non sarà mai più come prima e lo sappiamo entrambi.»
Giovanna richiuse la porta.
«Parla piano, qualcuno potrebbe sentirci.»
Giuseppe non replicò. Le mise subito davanti la proposta che Roberto gli aveva fatto.
«Lascerò l'albergo e me ne andrò. Potrai raggiungermi quando vuoi.»
Si aspettava che Giovanna gli chiedesse se era pazzo, oppure che protestasse in qualche modo. Dopotutto era rimasta quando credeva che Vitale fosse ancora vivo. Non accadde nulla di tutto ciò. Anzi, rispose, in tono pacato: «Forse dovremmo farlo, prima che sia troppo tardi.»
Giuseppe ricordò le parole di Roberto.
«Per caso temi che possano venire a cercarci? Che possano sospettare di noi?»
Giovanna scosse la testa.
«No, non ho mai più avuto nulla a che fare con Alfredo, dopo l'aggressione. Anche quando è stato scarcerato, o non mi ha mai trovata, oppure non mi ha nemmeno cercata. D'altronde perché avrebbe dovuto? Era più legittimo pensare che volesse guardare avanti.»
«Era un criminale, non possiamo sapere cosa potesse passargli per la testa.»
Giovanna si diresse verso la cucina, senza parlare. Rimase in silenzio anche quando prese un bicchiere e lo riempì sotto al rubinetto del lavello. Bevve un sorso d'acqua, scostando una sedia e accomodandosi.
«Alfredo era un poco di buono e aveva avuto dei brutti comportamenti, nei confronti miei e di altri» ammise Giovanna, appoggiando il bicchiere sul tavolo, «Ma me lo sono chiesta tante volte, perché avrebbe dovuto cercare di uccidermi? Ogni tanto veniva a chiedermi dei soldi in prestito e qualcosa glielo davo sempre, nonostante non mi abbia mai restituito neanche mille lire. Mi faceva pena e lo sapeva. Non gli conveniva cercare di ammazzarmi.»
«Eppure l'ha fatto. Va bene, adesso è morto, ma non per questo devi per forza parlarne bene.»
«Non ne sto parlando bene. Era un delinquente comune, di solito cercava di non infilarsi mai in situazioni troppo complicate. Come si è ritrovato a cercare di uccidermi? E a farsi uccidere e seppellire in quello che ai tempi era un terreno abbandonato? Non me lo spiego. Lo so, mi dirai che non è necessario trovare delle spiegazioni, ma è da qualche tempo che non riesco a togliermi dalla testa il pensiero che possa non essere stato lui.»
«E chi, allora?»
«Non lo so. Ci furono un paio di testimoni che affermarono di avere visto un uomo che somigliava ad Alfredo avvicinarsi a casa mia e quelle accuse bastarono per incriminarlo. Io, da parte mia, non ricordavo niente, quindi non potevo né confermare né smentire. Però me lo sono chiesta tante volte: e se fosse stato qualcun altro? Qualcuno che può essere stato scambiato per lui e che magari è ancora vivo?»
Giuseppe azzardò: «Stai pensando che qualcuno ti abbia aggredita per far cadere i sospetti su Vitale, che di conseguenza è finito in carcere? E che, quando Vitale è uscito, se ne sia liberato definitivamente uccidendolo e occultando il suo cadavere?»
Giovanna ammise: «Non mi sembra un'idea da scartare. Faceva affari con gente losca, non mi stupirebbe se qualcuno potesse avere avuto una simile... idea, se così vogliamo chiamarla.»
Aveva senso, realizzò Giuseppe. Non era solo il delirio di una donna che si rifiutava di credere che un uomo che aveva amato molto tempo prima le avesse deliberatamente fatto del male, c'era qualcosa di più. In fondo Giuseppe non aveva mai conosciuto Alfredo, non poteva giudicare se fosse un potenziale assassino. Giovanna ci aveva avuto a che fare, anche se forse ai tempi della loro relazione aveva spesso chiuso gli occhi per non vedere.
«Sospetti di qualcuno?»
«No.»
«Però, se ha colpito te per arrivare a sbarazzarsi di Vitale, non dovrebbe più essere un pericolo.»
«Non dovrebbe» confermò Giovanna, «Ma non sono tranquilla.»
Giuseppe si sedette accanto a lei.
«Andiamocene. Andiamo via, senza dire a nessuno dove.»
Giovanna abbassò lo sguardo.
«Nemmeno a mia figlia?»
Mia figlia.
Mia.
Un semplice pronome colpì Giuseppe come una coltellata, per l'ennesima volta. Non aveva mai avuto il coraggio di affrontare Giovanna, di spingerla a confessare.
La ragazza, secondo la versione ufficiale, era stata concepita circa un mese dopo quella prima - e, nei loro piani, ultima - notte insieme. Ai vecchi tempi, ormai vecchissimi, quando la moglie di Giuseppe era ancora in vita, Giovanna aveva sempre affermato con decisione che la figlia era il frutto di una relazione occasionale con un altro uomo incontrato qualche settimana dopo.
"Cosa credi, di essere stato l'unico?" gli aveva ripetuto, più di una volta.
All'inizio Giuseppe le credeva, o forse era la soluzione più semplice, che gli avrebbe consentito di non mandare a monte il proprio matrimonio. Non avrebbe saputo dire, con esattezza, quando aveva iniziato a sospettare che quella storia fosse falsa, fabbricata ad arte da Giovanna per non costringerlo a fare mosse avventate.
La sua compagna, frattanto, non si era dimenticata della propria domanda. Attendeva ancora una risposta: «Non posso parlarne nemmeno con lei?»
«Se senti di doverlo fare, puoi dirglielo» replicò Giuseppe, «A condizione che sia capace di tenersi tutto per sé.»
Giovanna annuì.
«Per mia figlia garantisco io.»
Era quello il momento, fu una decisione d'impulso. Le chiese: «È anche mia figlia, vero?»
Giovanna alzò lo sguardo di scatto. Scuotendo la testa, esclamò: «Non sai quello che dici.»
«Lo so molto meglio di quanto tu creda, me lo sento dentro» insisté Giuseppe. «Posso capire le ragioni per cui non me l'hai mai detto, ma non credi sia arrivato il momento di togliersi la maschera?»
«Non ho mai indossato maschere» replicò Giovanna. «Il nostro amore è venuto molti anni dopo di lei.»
Giuseppe sospirò.
«Vuoi proprio continuare a mentire anche adesso? Ora che stiamo pensando di passare davvero il resto della nostra vita insieme?»
«Il nostro problema, forse, è proprio questo: vogliamo scappare insieme, perché abbiamo paura che qualcosa che non dipende da noi possa provocarci dei grossi problemi. Vogliamo scappare e non ce la sentiamo di farlo da soli. Non abbiamo mai fatto nulla per cercare di essere una vera coppia.»
Giovanna aveva ragione. Per tantissimi anni si erano inventati scuse, avevano cercato mille ragioni per rimanere sempre nell'ombra. Ciascuno dei due aveva cercato di proteggersi come meglio poteva, mettendo in piedi castelli di carte che difficilmente sarebbero crollati.
Non c'era motivo di negare, tutto ciò che Giuseppe poteva fare era cercare di richiamare Giovanna al buonsenso.
«Se è figlia mia, ho diritto di saperlo.»
«Se ti dicessi che lo è, cosa cambierebbe?»
«Tante cose, credo.»
«Resterebbe soltanto una ragazza che ti vede come un semplice conoscente.»
«E se Enrico dovesse tornare, dopo che ce ne saremmo andati?»
Quella domanda spiazzò Giovanna, che non comprese cosa Giuseppe stesse sottintendendo.
«Enrico?»
«Sì, mio figlio. Se n'è andato molto tempo fa, è vero, ma quando viene a trovarmi spesso mi fa capire che un giorno potrebbe prendere in considerazione l'idea di tornare a vivere in città. Potrebbe decidere di rivedere le persone che frequentava una volta e...»
Giovanna lo interruppe: «Ho capito quello che vuoi dire. Devi ammettere, però, che è una possibilità piuttosto remota.»
«Sarà anche una possibilità remota, ma esiste. Devi dirmelo... o almeno, devi dirlo a lei.»
Giovanna non fece nient'altro che annuire.
«Non devi preoccuparti per questo.»
Giuseppe insisté: «Per caso è un'ammissione?»
Giovanna non rispose, ma non servivano parole.
«Avresti dovuto dirmelo molto tempo fa» affermò Giuseppe, con freddezza. «Magari sarebbe andato tutto molto diversamente.»
Giovanna riprese il bicchiere e lo svuotò tutto d'un fiato, prima di tornare a posarlo sul tavolo.
«Tra me e te non c'è mai stata una relazione normale.»
«Avremmo potuto provarci.»
«Non volevo che succedesse per lei. C'eravamo io e te, prima che arrivasse lei. Ci siamo sempre stati, in un modo o nell'altro. Non volevo usarla per incatenarti a me e alla mia vita disastrata.»
«La tua vita è molto meno disastrata di quanto tu creda. E poi, in ogni caso, nella mia vita ci sei sempre stata tu, fin da quella notte. È stato allora che ho capito che ti avrei amata fino alla fine dei miei giorni.»
Giovanna non rispose. Si fissarono a vicenda, per una quantità di tempo che a Giuseppe parve infinita. Era sempre stato così, tra di loro: momenti vissuti insieme, portandosi ciascuno i propri segreti, a volte pesanti come macigni. Non riusciva a fargliene una colpa, se aveva agito a quella maniera. Forse, inconsciamente, le aveva sempre fatto credere che la loro relazione fosse un problema. Aveva un solo modo per voltare pagina: pianificare con lei un futuro insieme.

Esistevano poche certezze nella vita e una di queste era che Enrico fosse palesemente attratto da Carolina. Ogni volta in cui passava davanti alla reception, trovava sempre una scusa per fermarsi qualche minuto. Parlava con lei e la ascoltava con sguardo sognante al punto tale che Vincenzo, pur non ritenendosi un acuto osservatore, non aveva potuto non notarlo.
Carolina sembrava non accorgersi di nulla, oppure faceva finta. Quello che era certo era che non ricambiava le attenzioni di Enrico, per lei era soltanto un vecchio amico. Vincenzo iniziava a chiedersi se per Enrico fosse sufficiente per intraprendere una relazione altrove, se nonostante la sua infatuazione per l'amica ci fosse un'altra donna, nella sua vita. Non gli sarebbe interessato, ovviamente, se la donna in questione non fosse stata la barista dalla tuta fucsia con la quale aveva fatto conversazione quella mattina.
Per qualche ora, Vincenzo non aveva pensato a lei. Aveva pranzato insieme a Paola, la quale non aveva fatto altro che parlare, parlare e parlare del matrimonio che sarebbe stato celebrato di lì a qualche settimana. Appariva molto entusiasta, fin troppo, e lo rimproverava spesso perché non si dimostrava altrettanto euforico. Era successo anche quel giorno e Vincenzo aveva dovuto spiegarle che l'organizzazione dell'evento era comunque stressante e che non vedeva l'ora che tutto fosse finito. Aveva usato esattamente quei termini e a Paola, grazie al cielo, non erano sembrati inappropriati. O almeno, non aveva avuto niente da ridire, pertanto a Vincenzo piaceva pensare che non ne fosse stata infastidita.
Si tolse dalla testa quei momenti, a loro volta lontani ormai di ore, e si diresse verso la reception. Enrico si stava già allontanando e non si era accorto di lui. L'avrebbe inseguito senza fermarsi, e cercando di non dare nell'occhio, se Carolina non l'avesse, di fatto, costretto a trattenersi, seppure solo per qualche istante, salutandolo.
«Buon pomeriggio, signor Gottardi.»
Vincenzo accennò un sorriso.
«Buon pomeriggio, Carolina. Mi scusi, ma vado di fretta.»
Anche Carolina sorrise.
«Vada pure.»
Quel breve scambio di battute fu sufficiente per riempire Vincenzo di motivazione. Aveva da fare, doveva assolutamente cercare di mettere in trappola Enrico. Si affrettò per raggiungerlo, senza che l'altro si accorgesse di nulla. Lo fece sussultare per la sorpresa, quando gli posò una mano su una spalla.
Enrico si girò lentamente.
«Ah, sei tu, non ti avevo sentito.»
«Disturbo?»
«No, certo che no.»
«Ti posso parlare un momento?»
«Sì, certo.»
Vincenzo chiarì: «Non qui, nel mio ufficio.»
Enrico aggrottò le sopracciglia.
«C'è qualche problema?»
«No, c'è solo una cosa di cui dovrei parlarti e vorrei che fossimo soli. A meno che non sia un problema per te, non ci sono assolutamente problemi.»
«No, figurati, quale problema?»
Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Si avviò ed Enrico lo seguì. Solo entrando, Vincenzo si rese conto del disordine che regnava sulla sua scrivania. L'altro non parve farci caso. Rimase in piedi - quindi Vincenzo fece lo stesso - poi andò verso la finestra e si mise a guardare fuori.
«Allora?» volle sapere. «Di cosa devi parlarmi?»
«Olimpia Ruggeri» disse Vincenzo. «La conosci?»
«Sì, perché?»
«La conosci bene?»
«Abbastanza da considerarla la mia prima ragazza, se valgono anche le storie tra bambini.»
«E la vedi spesso?»
Enrico si girò a guardarlo.
«No, certo che no. Eravamo amici da ragazzini, non so che fine abbia fatto.»
«Ha un bar insieme ai suoi genitori.»
«Buono a sapersi.»
«È stata sposata, ma adesso è separata dal marito. Magari potresti avere qualche possibilità con lei.»
Enrico scosse la testa.
«No, grazie, non voglio trovarmi una fidanzata. C'è solo una donna per cui farei volentieri un'eccezione.»
Vincenzo non aveva dubbi su chi fosse, ma finse di non averlo capito.
«Quella donna non è Olimpia, quindi?»
«No. Posso andare, adesso?»
Così come la Ruggeri non aveva fatto grandi domande a Vincenzo quando parlavano di Enrico, quella mattina, Enrico stava facendo lo stesso. Era possibile che non gli passasse nemmeno per la testa l'idea di chiedergli perché fosse così tanto interessato? Glielo disse, cercando di studiare la sua reazione. Tutto ciò che ottenne fu Enrico che affermava di essere meravigliato dalla passione di Olimpia per l'attività fisica, visto che non era mai stata una grande sportiva.
Vincenzo decise di scoprire almeno qualche carta: «Secondo me non era nel parco per correre. Ho avuto l'impressione che fosse là per me. Hai qualche idea del perché?»
«Dovrei?» obiettò Enrico. «Come ti ho detto, ci frequentavamo quando eravamo ragazzini. Non so se potrebbe mettersi a pedinarti e perché. Però l'hai detto tu stesso, adesso è libera. Magari le piaci.»
«Non ricordo di averla mai vista prima di stamattina.»
«Magari non era là proprio per te. Forse sperava di conoscere qualche uomo e, per caso, sei capitato tu. In fondo un tempo avevi un discreto successo con le ragazze.»
«Anche adesso» scappò detto a Vincenzo, con voce fin troppo tagliente.
«Sì, so che ti devi sposare» puntualizzò Enrico.
Vincenzo lo ignorò, anche perché non aveva alcun desiderio di mettersi a parlare di Paola.
Non ricevendo risposta, Enrico azzardò: «Adesso andrei, se non devi dirmi nient'altro.»
Vincenzo scosse la testa.
«No, nient'altro.»
Enrico non se lo fece ripetere due volte e si diresse verso la porta.
Vincenzo lo pregò: «Per cortesia, chiudi quando esci.»
L'altro eseguì senza dire una parola, lasciandolo solo. Vincenzo andò a sedersi alla scrivania. Doveva togliersi dalla testa Olimpia, perché aveva questioni più importanti di cui occuparsi. Guardò l'orologio che aveva al polso. Il direttore Carletti l'avrebbe raggiunto di lì a venti minuti.

 

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Capitolo 7
*** Matrimonio imminente ***


MATRIMONIO IMMINENTE

La porta si spalancò all'improvviso. Vincenzo alzò gli occhi, aspettandosi di assistere alla comparsa di Carletti, ma non fu così. Si ritrovò a fissare Paola che, dopo avere varcato la soglia, rimase immobile, nel suo completo con giacca e pantaloni beige. Non si aspettava di ricevere una sua visita e, anzi, capitava molto raramente che si presentasse in albergo. Quando accadeva, tuttavia, le era permesso di circolare liberamente e di andarlo a cercare ovunque volesse. Per quanto Vincenzo non impazzisse all'idea - d'altronde non gli era mai passato per la testa di fare delle improvvisate a Paola all'atelier che gestiva insieme alla madre - non aveva mai trovato alcuna scusa valida per chiedere al personale di bloccarla.
«A cosa devo l'onore di questa visita, se non sono indiscreto?»
Paola accennò una lieve risatina.
«Sono passata a controllare che tu non ti fossi appartato con l'amante.»
Vincenzo non trovò divertente quella battuta, ma non lo diede a vedere e scherzò: «Credi che sarei così sprovveduto da portarmi l'amante al lavoro?»
Paola gli strizzò un occhio.
«Magari te la fai con una delle dipendenti.»
Vincenzo preferì non commentare. In altri momenti avrebbe citato casi nei quali unire la vita sentimentale e il lavoro era stato deleterio, ma le circostanze che avevano portato Paola a raggiungerlo andavano chiarite.
«Parlando seriamente, come mai sei qui? È successo qualcosa?»
Paola scosse la testa.
«No, tutto bene, avevo solo voglia di vederti e sono sicura che stasera andrai a casa tardissimo. Domani devo essere puntuale all'atelier, a una certa ora devo andare a letto. Ho un appuntamento con una cliente importante che vuole essere seguita solo da me. Forse pensa che mia madre sia troppo in là con gli anni per intendersene di trend attuali in fatto di abiti da sposa.»
Stranamente, Vincenzo si rese conto di non trovare irritante il sentire parlare del futuro matrimonio di una cliente. Forse era dovuto al fatto che l'evento non lo riguardasse. Decise, tuttavia, di informare Paola: «Tra pochi minuti devo vedere Carletti.»
Era un modo carino per riferirle di avere una questione di lavoro urgente della quale occuparsi, ma Paola non ne fu minimamente turbata. Si limitò a replicare: «Lo so.»
Non era ciò che Vincenzo sperava di sentire.
«Te ne ha parlato tuo padre?»
«Già.»
«E cos'altro ti ha detto?»
«In poche parole, si rende conto di metterti in difficoltà, ma non ha molte alternative: o gli rendi i soldi che in passato ha prestato a tuo padre, naturalmente non subito, o gli vendi una quota.»
Vincenzo annuì.
«Non preoccuparti, ci parlo io con tuo padre. Vedrai che troveremo un accordo.»
Paola abbassò lo sguardo.
«Lo spero.» Diede una spinta alla porta, facendola chiudere, e avanzò verso la scrivania alla quale Vincenzo era seduto. «Sono certa che tutto si sistemerà. D'altronde state per diventare parenti...»
Quelle parole colpirono Vincenzo come una coltellata. La data del matrimonio era giorno dopo giorno più vicina, facendolo sentire sempre più in trappola. L'idea di diventare il genero di Damiano Rossini non era allettante, al netto del fatto che fosse l'unico modo per non dovere saldare nell'immediato l'ingente debito nei suoi confronti.
Con un balzo, Paola si sedette sul bordo della scrivania.
«Non vedo l'ora.»
«Che io diventi parente di tuo padre?»
«Che tu diventi mio marito.»
Vincenzo non replicò.
Paola lo rimproverò: «Non mi aspetto che tu mi dica che fai il conto alla rovescia nell'attesa del giorno in cui diventerò tua moglie, ma almeno mi aspetto un po' di entusiasmo.»
Vincenzo sorrise.
«È da un anno che non parliamo d'altro: la cerimonia, gli addobbi della chiesa, gli invitati, il corso prematrimoniale, il prete che ci ricorda che, comunque vada tra di noi, davanti a Dio saremo marito e moglie fino alla morte...»
Paola ridacchiò.
«Non mi dire che pensi già al giorno in cui finiremo per divorziare. Oppure che ti interessi davvero il parere della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio cattolico.»
«Non penso a niente, se non al fatto che perfino il prete mi sta con il fiato sul collo a mettermi ansia, come se non bastasse tutto il resto.» Vincenzo sospirò. «Sai quale sarebbe la cosa più bella? Se una mattina mi svegliassi e mi ritrovassi di colpo già sposato. Del resto lo sai, ti ho sempre detto che avrei preferito una cerimonia sobria, per pochi intimi, invece di una baracconata.»
«Sono d'accordo con te, ma il matrimonio lo paga mio padre, quindi il minimo che possiamo fare è venire incontro ai suoi desideri, specie considerato che gli devi un sacco di soldi.»
«Non so se la tua schiettezza mi piaccia, oppure mi spaventi.»
«Vedrai, sarà meravigliosa la tua vita insieme a me.»
«Mi auguro, almeno, che non sia troppo terribile, né per me né per te.»
Paola sbuffò.
«Non mi dire che stai iniziando a pentirti della nostra decisione.»
«No, non me ne sono pentito» chiarì Vincenzo, «Ma abbiamo fatto presto a convincerci che sarebbe andato tutto bene.» Si alzò in piedi, fece il giro della scrivania e si mise di fronte a Paola. Guardandola negli occhi, le chiese: «Pensi davvero che ne saremo capaci? Che riusciremo a portare avanti questa recita e che non ci verrà mai voglia di scappare a gambe levate?»
«Sono tante le situazioni da cui vorremmo scappare» replicò Paola, «Ma il segreto è affrontarle. Ne abbiamo parlato tanto, ormai è tutto deciso. Le mie clienti mi chiedono da anni quando ho intenzione di trovarmi un marito. L'idea di mettersi nelle mani di una donna non sposata le turba. Da quando siamo fidanzati ufficialmente, ho conquistato una maggiore credibilità. Quindi no, io non ho voglia di scappare, e non conviene neanche a te: a me serve un marito, a te serve un modo per non perdere il controllo dell'albergo. Mi pare uno scambio equo. Magari potrebbe uscirne fuori anche un piccolo erede, giusto per apparire più credibili. Vedrai, sarà più facile di quanto tu creda.»
Vincenzo borbottò: «Sarà solo un gran casino.»
Paola scese dalla scrivania. Guardandolo negli occhi, ribatté: «Ce la caveremo. Ho fiducia in me stessa e dovresti iniziare ad averne anche tu.»
«Fiducia in me stesso o fiducia in te?»
«Entrambe le cose.» Paola si diresse verso la porta. «Ti lascio alla tua riunione con Carletti... oppure all'incontro con l'amante. Perché no, non me la bevo, secondo me hai qualcuna qui al lavoro. E comunque non ci sarebbe niente di male, lo sai che non trovo niente di sconveniente nelle relazioni con le dipendenti.»
«La tua sarta cosa ne pensa della tua decisione di sposarti?»
«Anche lei ha dovuto sposarsi, in passato, anche se per ragioni diverse dalle mie. Era molto giovane, la sua famiglia era molto retrograda e non l'avrebbe mai accettata per quello che è veramente. In più, con il marito doveva proprio starci insieme, non era un matrimonio finto. L'idea che io mi sposi non la fa impazzire, ovviamente, ma sa che gli uomini non mi interessano. Piuttosto sei tu quello che potrebbe avere dei problemi. La tua amante cosa ne dice del nostro matrimonio?»
«Tu pensa alla tua donna, io penso alla mia.»
«Sei stato il primo a fare domande.»
Vincenzo fu costretto ad ammettere che Paola aveva ragione.
«Va bene, hai vinto tu, però adesso lasciami solo. È vero che devo incontrare Carletti.» Guardò l'orologio. «Dovrebbe essere qui a minuti.»
Paola non oppose resistenza. Vincenzo la guardò andare via, cercando di rassicurarsi. Avevano pianificato tutto nei minimi dettagli e si erano più volte ripromessi di cercare di darsi fastidio a vicenda il meno possibile. Non condivideva le ragioni di Paola - a suo parere il volere mascherare la propria sessualità era un errore di cui si sarebbe pentita amaramente, specie considerando che lo faceva perché le clienti si aspettavano che ad assisterle fosse una donna eterosessuale e possibilmente sposata - ma non era nella situazione di potersi prendere il lusso di giudicare le azioni altrui. Non si stava comportando meglio, anzi, stava rinunciando a vivere a pieno la propria vita perché il matrimonio con Paola era la soluzione migliore per le casse dell'albergo.
Fu l'arrivo del direttore a distoglierlo, almeno in parte, da quei pensieri. Non troppo, però: uno degli argomenti all'ordine del giorno riguardava il prestito da parte del signor Rossini, che scalpitava per rientrare in possesso del proprio capitale. Vincenzo lo rassicurò in proposito: avrebbe incontrato il futuro suocero nei giorni seguenti e avrebbe cercato di tenerlo buono ancora per un po', magari mettendosi a vaneggiare qualcosa sul fatto che il matrimonio con Paola fosse lo scopo ultimo della sua vita. Carletti non parve molto preoccupato, il che fu un bene. Vincenzo non si sentiva pronto per una discussione della durata infinita, l'idea di cavarsela senza troppa insistenza non gli dispiaceva: per quel giorno, ormai, aveva già dato. Informò il direttore di un mal di testa immaginario, ma funzionale per affermare che, se non gli fosse passato, di lì a un po' sarebbe andato a casa.
«Tanto sai come comportarti in mia assenza» aggiunse, guadagnandosi un'occhiata carica di ammirazione da parte di Carletti.
Il direttore borbottò qualcosa, senza sembrare troppo dispiaciuto della sua potenziale assenza. Uscì dall'ufficio e poco dopo Vincenzo fece la stessa cosa, andando a fare un giro alla reception per verificare se Enrico fosse riuscito a trovare un'altra scusa per andare a fare visita a Carolina.
Non si sorprese particolarmente di vederlo apparire al cospetto della receptionist e scambiare qualche parola con lei prima di allontanarsi. Attese che se ne andasse, poi si avvicinò a sua volta a Carolina.
«Tutto bene?»
La receptionist alzò lo sguardo.
«Sì, certo, tutto bene.»
«Spero che Enrico non stia dando problemi.»
«Oh, no, affatto, perché dovrebbe?»
«Sta sempre qui.»
«Solo quando ha qualche minuto libero» chiarì Carolina. «Non stiamo sottraendo tempo al lavoro, né io né lui.»
Vincenzo sorrise.
«Non l'ho mai dubitato.» Le voltò le spalle mormorando: «Buona serata.»
«Buona serata» ripeté Carolina, mentre Vincenzo si allontanava.
Uscì dallo stabile e si diresse nel parcheggio. Salì in macchina e, per quanto tentato di fare una visita al bar da Olimpia, si diresse verso casa. Il cancello era accostato, cosa che lo sorprese. Lo richiuse, una volta entrato, e si diresse verso la porta di casa.
Aprì, varcò la soglia e si rese conto di non essere solo.
«Mamma?!» esclamò spalancando gli occhi. «Cosa ci fai qui?»
«Visita di cortesia.»
«Come sei entrata?»
«Mi ha fatto entrare la vecchia che ti pulisce casa.»
Vincenzo spalancò gli occhi.
«La... vecchia?»
«Non mi ricordo il suo nome» rispose sua madre. «Anzi, non gliel'ho nemmeno chiesto. Parlo della tua governante.»
«Lo sospettavo» ribatté Vincenzo. «Comunque Luciana è più giovane di te, ha solo cinquantasette anni.»
«Gliene davo molti di più.»
A Vincenzo non interessava tanto approfondire quel discorso, piuttosto avrebbe desiderato scoprire le vere ragioni per cui sua madre era tornata in città.
«Perché non mi hai detto niente? Da quanto tempo sei qui?»
Comprese che non si trattava della semplice volontà di andarlo a trovare quando sua madre obiettò: «Non mi sembra il caso di parlarne qui. Togliti almeno la giacca e andiamo a sederci in soggiorno.»
Vincenzo non obiettò, d'altronde era la cosa più normale da fare. Un paio di minuti più tardi, dopo avere preso posto, osservò: «Di solito torno molto più tardi. È un'eccezione che io sia qui adesso. Se non fossi venuto a casa in anticipo, avresti dovuto attendermi molto a lungo.»
«Avrei aspettato. Mia cugina, che mi sta ospitando, sa che c'era il rischio che arrivassi a casa tardi, stasera. Volevo parlarti.»
«Di cosa?»
«Dei Rossini.»
«Se vuoi conoscere qualche dettaglio sulla cerimonia» ribatté Vincenzo, «Faresti meglio a chiedere alla mia futura consorte. Io non sto seguendo molto, come puoi immaginare.»
«Non so cosa immaginare, in realtà» replicò sua madre. «Ho parlato al telefono con la tua futura suocera, qualche giorno fa. È preoccupata. So che devi dei soldi alla famiglia di Paola. Hai bisogno di aiuto?»
Vincenzo valutò di dirle la verità.
"Sai, in realtà io e Paola ci siamo messi insieme per convenienza. Io ho bisogno di diventare parente dell'uomo che potrebbe impossessarsi dell'attività che ho ereditato da mio padre. Paola invece è lesbica e vuole nasconderlo, non tanto perché tema il giudizio di una società ancora troppo chiusa e all'antica o della sua famiglia, ma perché è convinta che le sue clienti - donne che intendono sposarsi con uomini - non la considererebbero capace di empatizzare con loro e comprendere i loro desideri. È una situazione pesante, dato che sono innamorato di un'altra donna con la quale mi frequento di nascosto, ma cercheremo di adattarci. Quindi sì, se potessi liquidare Rossini, probabilmente potrei essere libero di non sposarmi e vivere la mia vita come voglio. Puoi comprarla tu, una quota dell'albergo, anche se so che detesti quel posto, perché ti ricorda il tuo matrimonio infelice con papà. Però adesso papà è sepolto accanto ai nonni, quindi il passato non ti tormenterà in alcun modo."
Sarebbe stato troppo bello potersi liberare del peso che aveva dentro, ma sentiva di non poterlo fare. Sua madre, nel frattempo, insisteva: «Hai bisogno di qualcosa?»
Vincenzo scosse la testa.
«No, me la posso cavare anche da solo.»
«Sicuro?»
«Sì che sono sicuro. Ho quasi trentacinque anni, non sono più un bambino. Si sistemerà tutto.»
«Voglio fidarmi, ma ti prego di non fare sciocchezze. Non farti portare via ciò che ti appartiene e non fidarti delle persone sbagliate. Ci ha già pensato tuo padre, a suo tempo.»
Vincenzo azzardò: «Parli di Giuseppe Bianchi? O del fatto che io e Giorgio Carletti abbiamo assunto suo figlio Enrico? Non preoccuparti, è direttore di sala al ristorante, non può fare danni.»
Sua madre sospirò.
«Giuseppe Bianchi... chissà cos'ha combinato. Non ho mai creduto che abbia agito contro tuo padre o che si sia intascato dei soldi. Erano altri i tipi inaffidabili di cui si è circondato, ma tu eri bambino, forse non te ne ricordi più. Maurizio Melegari, mi pare si chiamasse, quel tale che amministrava l'attività per suo conto. Penso sia già morto. O almeno, qualche anno fa ho sentito dire che era gravemente malato. Aveva a che fare con della brutta gente. Tuo padre diceva sempre che Maurizio era una brava persona e che aveva salvato Giovanna Riva facendola trasferire qui in città, perché doveva nascondersi da un suo ex fidanzato che aveva tentato di ucciderla. Non so come sia andata e non so che cosa fosse successo esattamente a quella Giovanna. Non mi ricordo nemmeno come fosse quella donna, a onore del vero, so solo che aveva avuto dei seri problemi e che Maurizio l'aveva aiutata a trasferirsi e a trovare un nuovo lavoro. Questo, però, non faceva di lui un santo.» Si alzò in piedi. «Scusami, Vincenzo, ti sto asfissiando con le mie chiacchiere. Sarà meglio che vada.»
Vincenzo le propose: «Possiamo cenare insieme.»
«No, grazie. Non ho voglia di cucinare per te e ancora meno di assaggiare qualcuno dei tuoi piatti "prelibati", a meno che le tue doti di cuoco non siano migliorate negli ultimi tempi.»
«Mi dispiace, ma di solito mangio qualcosa prima di venire a casa dal lavoro, quindi non mi capita tanto spesso di mettermi ai fornelli, diciamo pure quasi mai.»
«È un buon motivo per scappare a gambe levate declinando l'offerta. Mi raccomando, se hai bisogno di me chiamami. Sai dove trovarmi.»
Vincenzo annuì.
«Lo farò senz'altro.» Poi, notando il modo in cui lo guardava la madre, puntualizzò: «Lo farò, se mai dovessi avere bisogno di aiuto. Comunque sono sicuro che non succederà. Te l'ho detto, è tutto sotto controllo.»
In verità non era sotto controllo nulla e, anzi, giorno dopo giorno era sempre più lontano da qualsiasi tipo di controllo, ma non voleva far preoccupare sua madre. Era meglio farle credere che tutto andasse a gonfie vele, dopotutto era il destino che aveva scelto insieme a Paola.
La accompagnò alla porta e rimase finalmente da solo, cercando di ricordarsi chi fosse Maurizio Melegari. Quel nome non gli era nuovo, ma del resto doveva averlo senz'altro sentito nominare, quando era bambino. Suo padre aveva avuto diversi collaboratori, che poi si erano defilati per il desiderio di intraprendere altre strade o, nel caso di quelli più anziani, per ritirarsi dalla professione. Ricordarsene uno nello specifico, che peraltro sembrava essere già deceduto, non gli sarebbe stato d'aiuto. Era colpito, piuttosto, dalle parole di sua madre a proposito di Giuseppe Bianchi. Secondo lei era stato incastrato o accusato di azioni che non aveva commesso, ma Vincenzo conosceva la verità: aveva sentito Bianchi che discuteva con suo padre a proposito di un accordo per chiudere la faccenda privatamente e senza denunce. Tutto ciò che gli interessava scoprire era piuttosto quanto Enrico fosse al corrente degli affari loschi di Giuseppe.
Si ricordò dell'intenzione di andare a fare visita a Olimpia. Forse gli conveniva passare per il bar, magari con la scusa di mangiare qualcosa per cena. Non sapeva minimamente se in quel locale esistesse o meno la possibilità di consumare un pasto decente, ma nel peggiore dei casi ci sarebbero stati almeno panini o tramezzini. Non sarebbe stato come cenare nella cucina dell'albergo, come aveva fatto la sera precedente in compagnia di Enrico e Carolina, ma sapeva adattarsi, specie quando era per una giusta causa.

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Capitolo 8
*** Carolina ***


CAROLINA

Enrico guardò l'orologio. Secondo i suoi calcoli, mancavano dodici minuti all'orario in cui Carolina sarebbe andata a casa. Aveva tutto il tempo per raggiungerla e sperare che nessuno mandasse all'aria i suoi piani, almeno quella sera. Non aveva visto Vincenzo Gottardi in giro ormai da ore e gli sembrava di avere sentito qualcuno affermare che fosse andato a casa nel tardo pomeriggio. Meglio così, sarebbe stato sgradevole riaverlo come terzo incomodo. Si diresse quindi verso la reception con la consapevolezza che tutto sarebbe andato bene.
Carolina si accorse subito di lui e lo accolse con un sorriso. Fu sufficiente a riempire il cuore di Enrico, che si rendeva conto di accontentarsi con poco. Sapeva che Carolina l'aveva sempre visto come un amico e che quella realtà sarebbe stata difficile da cambiare, ma non era un pensiero sufficiente a mandarlo in crisi, non quando finalmente poteva trascorrere un po' di tempo con lei.
«Com'è andata la serata?» gli chiese Carolina.
«Diciamo bene» rispose Enrico. «Poi, quando ci sei tu, va sempre bene.»
Carolina ridacchiò.
«Pensa che invece questo è il turno che odio di più. Per fortuna a partire dalla prossima settimana torno a fare il mio solito orario.»
«Quindi alla sera scapperai via alle sette invece che alle dieci?»
«Così pare.»
«E dopo dovrai trovare per forza un modo per riempire il resto della serata...»
Carolina gli strizzò un occhio.
«Non preoccuparti che lo trovo.»
Enrico azzardò: «Quando esci presto dal lavoro, poi incontri quell'uomo già impegnato?»
Carolina abbassò lo sguardo.
«Questo è un argomento di cui preferirei non parlare.»
«Ah, già, immagino che abbia una moglie o una fidanzata ufficiale con cui trascorrere la serata.» Enrico avrebbe voluto smettere di fare allusioni, ma non riusciva a tenere a freno la lingua. «Ne vale la pena?»
«Sì.»
L'affermazione di Carolina era piuttosto tagliente ed era una chiara esortazione a non insistere. Ancora una volta, però, Enrico si lasciò trascinare e affermò: «Secondo me dovresti imporgli di prendere una decisione. Voglio dire, non è che perché ha un'altra lo devi scartare a prescindere, però dovresti mettere in chiaro che vuoi stare insieme a lui alla luce del sole. Se ha un'altra donna, può comunque lasciarla.»
Carolina alzò gli occhi.
«Parli come uno che ha sempre avuto una vita sentimentale facile e che pensa funzioni così per tutti. La verità è che non è sempre così semplice.»
Enrico sospirò.
«Hai ragione, non dovrei essere proprio io a esprimere giudizi, ma non ho potuto farne a meno. Io non sono mai stato con donne già impegnate, anche se non sempre tutto filava liscio. Mi sarei solo complicato la vita ancora di più... e ti assicuro che sono già piuttosto bravo  quando si tratta di complicarmela.»
Carolina parve interessata.
«Cos'hai combinato, in giro per l'Italia?»
«Tanti piccoli casini.»
«Raccontamene uno a tua scelta.»
Enrico avvampò.
«Ho avuto una breve storia con una donna che aveva quindici anni più di me. Era comunque molto giovanile, bellissima e ben tenuta.»
«E non era sposata?»
«Lo era stata, ma era divorziata da molti anni, o quantomeno legalmente separata. Tra noi non ha funzionato. Abbiamo smesso di frequentarci e, qualche tempo dopo, ho conosciuto una ragazza che aveva qualche anno meno di me. Non sapevo che...»
Carolina lo interruppe: «Fammi indovinare, era sua figlia?»
«Sono così prevedibile?»
«È prevedibile la tua storia, e secondo me non è neanche vera» ribatté Carolina. «Hai fatto sicuramente dei danni, ma non volevi raccontarmeli, quindi hai impacchettato in fretta e furia una storiella da propinarmi.»
Carolina non si sbagliava, accusandolo di volere tacere qualcosa di ben più grosso, ma errava nel tacciarlo di mentire sulle sue relazioni con due donne che si erano rivelate madre e figlia. Certo, la prima delle due non aveva solo quindici anni in più di lui, ma ventuno, e non era neanche così follemente bella come l'aveva descritta, ma per il resto tutto corrispondeva al vero.
«Mi dispiace tanto che tu non creda al fatto che due donne della stessa famiglia fossero entrambe affascinate da me, ma ti assicuro che posso piacere a donne di tutte le età» scherzò Enrico. «Per fortuna non ho mai conosciuto la nonna, perché non sono sicuro che avrei apprezzato una corteggiatrice ottantenne.» Si fece più serio, prima di aggiungere: «Madre e figlia non hanno mai saputo niente l'una dell'altra. Solo, quando la figlia mi ha parlato di sua madre, ho capito che si trattava di lei. Ho cercato di defilarmi senza dare nell'occhio. Con questo non intendo dire che l'ho piantata in asso da un giorno all'altro. Semplicemente la stagione estiva stava per finire, il lavoro sarebbe molto calato, quindi ho colto la palla al balzo e ho accettato un'offerta di un mio precedente datore di lavoro, pronto a trasferirmi a più di duecento chilometri di distanza. La figlia non l'ha presa molto male, evidentemente sapeva di potere trovare facilmente un rimpiazzo.»
Carolina osservò: «Ne parli come se non te ne importasse niente.»
«Non è davvero così» obiettò Enrico, «Ma ho sempre saputo che me ne sarei andato e non l'ho mai nascosto. La mia vita, per più di quindici anni, è stata spostarmi da un luogo all'altro, senza rimanere mai fermo abbastanza a lungo da potere pensare a un rapporto stabile. Che cosa c'è di male, in fondo? Non mi sono mai illuso, né ho illuso nessuna delle donne che ho frequentato. È sempre stato chiaro per entrambi che non poteva durare a lungo, in tutte le mie relazioni. Lo accettavamo.»
«Capisco. Non volevo sembrare scortese.»
«Non lo sei stata.»
«E scusa se non ti ho creduto.»
Enrico rise.
«Non fa niente. In fondo, lo ammetto, certe mie storie del passato possono sembrare ben poco credibili, se raccontate.»
Carolina propose: «Dovresti parlarmene. Quella della madre e della figlia non è stata malaccio, ma secondo me hai avuto storie ben più scabrose.»
«Quelle scabrose non le racconto.»
«Dovresti.»
Enrico le strizzò un occhio.
«Non voglio sconvolgere nessuna amica d'infanzia.»
Carolina ribatté: «Sono sicura che a Olimpia racconteresti tutto nel minimo dettaglio.»
Enrico sussultò.
«O-Olimpia?»
«Quella ragazza che era a scuola con te. Si chiamava Olimpia, vero? So che adesso ha un bar, penso insieme ai suoi genitori, o comunque insieme a una coppia di una certa età, non so se sono il padre e la madre, oppure parenti meno stretti.»
Enrico tirò un sospiro di sollievo. Sentirla menzionare l'aveva fatto viaggiare con la mente spingendosi a vaghe spiegazioni surreali di come Carolina fosse venuta a sapere che aveva rivisto Olimpia. In realtà si era semplicemente ricordata della sua esistenza.
«Non vedo Olimpia da molto tempo» mentì, «Comunque il rapporto che avevo con lei era un po' diverso. Tu eri ancora una bambina innocente che ritagliava angeli nelle pagine dei vecchi giornali. Olimpia era una ragazzina della mia età. Passavamo un sacco di tempo insieme, a scuola. Con lei, mi vergognerei di meno del mio passato.»
Carolina obiettò: «Il passato non deve essere necessariamente qualcosa di cui dobbiamo vergognarci. Abbiamo fatto cose che adesso non faremmo, forse, ma non dobbiamo essere troppo severi con noi stessi. Quando parlavo dei casini che avrai sicuramente fatto, non intendevo criticarti. È chiaro che ciascuno ha le proprie idee su come vivere la propria vita e non è detto che le idee degli altri siano sempre sbagliate. Non ho mai voluto giudicarti.»
Enrico la rassicurò: «Non mi sono mai sentito giudicato.»
Era vero, anche perché si guardava bene dal riferirle le vicende più cariche d'ombra del suo passato. Non intendeva certo raccontarle di avere scoperto, a distanza di molti anni, che in un'altra regione d'Italia esisteva un bambino nato da una sua fugace relazione del passato. La madre non gli aveva mai detto niente, almeno finché, quasi per caso, Enrico si era ritrovato di nuovo in quel posto e si erano rivisti. Si era limitata a comunicargli che aveva un figlio e a farglielo vedere da lontano. L'aveva informato di essersi sposata da anni e che il bambino aveva già un uomo che gli faceva da padre, quindi l'aveva invitato a tornarsene in quel nulla in cui era stato tanto a lungo.
Era una storia di cui Enrico non parlava con nessuno ed era convinto a non farlo, almeno finché qualcosa non si fosse sbloccato. In cuore suo, sperava che un giorno quella donna uscita dal suo passato avrebbe cambiato parere, permettendogli di conoscere suo figlio. Non gli aveva detto nemmeno il suo nome, né gli aveva permesso di avvicinarsi a lui.
Pensare a quella vicenda lo incupì e Carolina se ne accorse.
«Va tutto bene?»
«Sì, certo, è tutto a posto» la rassicurò Enrico. «Dopo vieni a cena con me in cucina?»
Carolina non si tirò indietro.
«Sì, volentieri.»
«Oggi saremo soli, Vincenzo è già andato via.»
«Bene.»
«A proposito, ti ho vista un po' a disagio, ieri sera» affermò Enrico. «C'era qualcosa che non andava? Ho fatto qualcosa di sbagliato o era la presenza di Vincenzo a farti quell'effetto?»
Carolina rispose, con schiettezza: «Io e il figlio del povero Roberto Gottardi ci conosciamo a malapena. Penso di non piacergli. Dopotutto sono stata assunta da suo padre dopo che mia madre ha smesso di lavorare. Ho l'impressione che non approvi.»
«Ti ha mai dato ragione di pensarlo o è una sensazione tua?»
«Forse è solo una sensazione mia... ma non farci caso, ogni tanto mi faccio dei film e vedo cose che vanno oltre la realtà. Probabilmente per il giovane Gottardi sono solo una tizia qualsiasi che lavora alla reception.»
«A me non ha dato questa impressione. Certo, vi ho visti insieme soltanto ieri sera a cena, quindi mi pare poco per valutare. Vi vedete spesso?»
«No.»
Enrico le riferì: «Una delle cameriere mi ha detto che, la settimana scorsa, si ricorda di avere sentito Vincenzo che ti convocava nel suo ufficio. Si è fatta l'idea che fosse successo qualcosa, che ci fosse stato qualche problema.»
«Oh...» Carolina strabuzzò gli occhi, prima di esclamare: «Vedo che non sono la sola a farsi dei film! Gottardi voleva solo...» Si interruppe. «Voleva solo...» Ancora un'esitazione, poi finalmente completò la frase: «...chiedermi se per me era un problema fare questo turno, questa settimana. Di solito il mio orario è fisso, a parte situazioni di necessità. Voleva assicurarsi che io riuscissi a organizzarmi, tutto qui. Sono sempre arrivata puntuale, quindi non ci sono stati problemi, puoi riferirlo a quella cameriera, se vuole conoscere l'intera storia.»
Enrico ebbe l'impressione che ci fosse di più, ma preferì non insistere. Se era accaduto qualcosa al lavoro, Carolina aveva il diritto di non parlargliele. Valutò che fosse arrivato il momento giusto per allontanarsi e invitò la receptionist a raggiungerlo in cucina alla fine del turno.
«Vale sempre quello che ho detto ieri: se qualcuno cerca di fermarti digli che sono stato io a chiamarti.»
«Cos'è rimasto stasera? Le tagliatelle di ieri erano fantastiche.»
«Sinceramente non lo so, ma vedrai che non moriremo di fame. Mi raccomando, fai presto.»
«Fino alle dieci devo rimanere qui.» Carolina guardò l'orologio. «Vedo comunque che mancano pochi minuti, quindi non dovrai aspettarmi molto a lungo.»
Lo raggiunse effettivamente poco dopo, ma la cena non andò come Enrico aveva sperato. Non avrebbe saputo ipotizzarne la ragione, ma Carolina era divenuta all'improvviso molto silenziosa. Avrebbe voluto insistere, cercare di capirne qualcosa di più, ma si rese conto che avrebbe potuto essere frainteso o addirittura messo a tacere. Valutò la possibilità che fosse stato il loro discorso su Vincenzo Gottardi a rovinare tutto, ma non vi era nulla né a sostegno né contro quell'ipotesi. Non si sarebbe comunque sorpreso se ci fosse stata effettivamente qualche grana dovuta al figlio del vecchio titolare. Non gli sembrava il tipo di persona propensa a intromettersi, fintanto che l'attività procedeva senza intoppi, ma doveva esservi una ragione se Carolina temeva di non essere nelle sue grazie.
Quando finirono il pasto, la sua amica d'infanzia espresse il desiderio di andarsene subito ed Enrico ebbe appena il tempo di salutarla, prima di vederla allontanarsi in gran fretta. Decise che la soluzione migliore fosse quella di non restare ulteriormente in cucina. Aveva notato qualche occhiata curiosa e voleva evitare che autori e autrici di tali sguardi gli ponessero domande indesiderate. In più, non era ancora tardissimo: se fosse andato subito a casa, avrebbe fatto in tempo a prepararsi per andare a fare due passi fuori, cosa che sarebbe stata sempre più difficile andando verso la fine della settimana.
Circa quaranta minuti più tardi stava riflettendo su un dubbio esistenziale: doveva uscire con il giubbotto oppure senza? Nella fretta, rincasando, non aveva prestato molta attenzione alla temperatura.
Decise di fare senza, tornò ad andare fuori, realizzò che non faceva affatto freddo, poi valutò il da farsi. Il suo accordo con Olimpia prevedeva di non andare a vedere se fosse al bar, quindi procedere in quella direzione non doveva essere un'idea molto saggia.
Le sue brevi riflessioni giunsero presto a una conclusione quando una persona attirò la sua attenzione e gli chiese: «Enrico Bianchi, vero?»
Enrico si girò. Vide una donna sulla trentina, che non aveva mai incontrato prima. Era vestita con una certa eleganza e aveva i capelli di colore castano ramato tagliati a caschetto.
«Ci conosciamo?»
«Temo di no.»
«Eppure sa il mio nome. Posso chiederle come mai?»
«Possiamo darci del tu» suggerì la donna. «Mi chiamo Paola Rossini e sono la futura moglie di Vincenzo Gottardi.»
«Oh.» Enrico si rendeva conto che quel monosillabo non significava nulla, ma non sapeva cos'altro dire. Si sforzò di mettere insieme una frase sensata e alla fine riuscì a formularne una. «Posso chiederle...chiederti come mai sei qui? Come fai a sapere dove abito?»
Paola sorrise.
«Diciamo che, quando mi interessa scoprire qualcosa, mi ci metto d'impegno. Non è stato tanto difficile.»
«Hai risposto soltanto a una delle domande che ti ho fatto» precisò Enrico. «Cosa posso fare per te?»
«Abiti qui, vero?» Paola gli indicò la palazzina dalla quale era appena uscito. «Possiamo entrare?»
«Di solito non faccio entrare in casa le fidanzate dei miei datori di lavoro» ribatté Enrico, che in realtà in passato l'aveva fatto, anche se non si era rivelata una grande idea. «Per te, comunque, posso fare un'eccezione. Non per altro, ma credo sia l'unica possibilità che ho di scoprire come mai tu ti sia presentata sotto casa mia in tarda serata.»
«La cosa ti preoccupa?»
«Per niente, ma non ne comprendo il motivo. È Vincenzo che ti manda da me?»
«No, sono io che ho scelto di venire a parlarti, penserà che sia già andata a letto, a quest'ora.» Paola tornò a indicare il palazzo. «Possiamo avviarci?»
Enrico prese fuori le chiavi dalla tasca dei pantaloni e iniziò a dirigersi verso casa, seguito dalla donna. Entrarono insieme e, nel frattempo, mise in chiaro: «Non ho avuto molto tempo di riordinare, quindi non aspettarti niente di che.» Paola non disse nulla. Si limitò a seguirlo. Enrico la portò in cucina. «Tutto sommato qua non c'è molto disordine.»
Paola scostò una sedia e si accomodò.
«Non è mia abitudine fare queste improvvisate» mise in chiaro, «Ma c'è un motivo per cui sono qui. Non ti riguarda nello specifico in prima persona, ma vorrei sentire il tuo parere. Si tratta di tuo padre.»
Enrico si irrigidì.
«Dove vuoi arrivare?»
«Siediti» lo esortò Paola. «Ho sentito tante dicerie su di lui, ma non credo molto alle chiacchiere. Vincenzo è sicuro che Giuseppe Bianchi abbia fatto qualcosa di male, dice che sentì lui e suo padre che ne discutevano. Roberto Gottardi propose un accordo a Bianchi per andarsene, anche se poi si rifiutò di commentare la vicenda con il figlio.»
«Quindi sei venuta da me per dirmi che sei convinta che mio padre si sia intascato dei soldi che non gli spettavano.» Enrico si sedette. «Sono in tanti, che ne sono convinti. Nessuno, però, si è mai scomodato di venire a casa mia per parlarmene. Nemmeno Vincenzo ha mai accennato a mio padre in mia presenza.»
«Io non conosco tuo padre, ma conosco Vincenzo. Non vedo perché dovrebbe inventarsi storie su tuo padre, se non fossero vere. Credo abbia davvero sentito quanto sostiene. Però tu conoscevi tuo padre. A te sembra possibile? Che atteggiamento aveva nei confronti della famiglia Gottardi e dell'albergo?»
«Mio padre e Roberto Gottardi erano amici. Il lavoro all'albergo era tutto per lui. Mi rendo conto che tu voglia fidarti ciecamente di quello che ti ha riferito Vincenzo, ma io non posso credere che mio padre abbia fatto qualcosa di male. Penso che sia stato incastrato, non so se da Gottardi o da qualcun altro.»
«Comunque sia andata, ho una brutta sensazione. Penso che Gottardi abbia lavorato con persone poco affidabili, in certi momenti. Non mi stupirebbe se tuo padre fosse stato solo una pedina. Se sono qui è per sentire un tuo parere sulla gente che lavora insieme a Vincenzo. Ho paura che qualcuno potrebbe tramare contro di lui.»
«Ti riferisci a Giorgio Carletti?»
«Oh, no.» Paola parve divertita da quell'ipotesi. «Carletti c'era già da anni, lo conosco. Di lui posso fidarmi.»
«Allora puoi fidarti di tutti» replicò Enrico. «A parte Vincenzo e Carletti, nessuno ha potere decisionale, là dentro. A meno che non ci sia un burattinaio che agisce nel silenzio, è tutto a posto.»
Paola si alzò all'improvviso.
«Hai ragione, scusami se mi sono precipitata qui. Mi accompagni alla porta? Non sono sicura di ricordare la strada.»
«Sì, certo.»
Uscirono insieme dalla cucina. Nell'ingresso, Enrico la condusse alla porta. Aveva già aperto, quando Paola gli chiese: «Conosci una receptionist che si chiama Carolina?»
Enrico annuì.
«Sì, perché?»
Paola fu piuttosto evasiva.
«Cosa ne pensi di lei?»
«È una mia amica d'infanzia» rispose Enrico. «Quando morì mia madre, mentre mio padre era al lavoro fino a sera, sua nonna si occupava di me. Passavamo un sacco di tempo insieme.»
«Come amici o come qualcosa di più?»
«Eravamo bambini. Io ero alle medie, mentre Carolina era alle elementari.» Enrico sorrise. «Avevo una fidanzatina, a quei tempi, ma era una della mia età. Carolina ha sei anni di meno. E tu non mi hai ancora spiegato perché vuoi sapere che cosa ne penso di lei. Accoglie i clienti e risponde al telefono. Anche sua madre faceva lo stesso lavoro, prima di lei. Se hai paura che nasconda qualcosa di losco, di sicuro non è niente che possa compromettere l'attività del tuo fidanzato. È una semplice dipendente.»
Paola osservò: «Devi tenerci molto a lei, se parti subito in quarta per difenderla. Non ho mai pensato nulla di male, contro di lei. Anzi, mi sembra una persona molto gentile e disponibile.»
«Sì, ci tengo a Carolina» confermò Enrico, «Anche se siamo solo amici. Non penso di doverti rendere conto del nostro rapporto.»
«No, assolutamente.» Paola varcò la soglia, fermandosi un momento sul pianerottolo. «Scusami se sono stata inopportuna.»
«Di niente.»
Finalmente Enrico la guardò andare via, realizzando che non gli aveva spiegato il perché Carolina le interessasse così tanto. Decise che non aveva importanza. Tutto ciò che desiderava era dimenticarsi della visita della futura signora Gottardi.

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Capitolo 9
*** Confidenze ***


CONFIDENZE

Era domenica sera, o piuttosto, quasi la notte tra domenica e lunedì. Era tardi, ma Olimpia perdeva un sacco di tempo a guardarsi intorno, come se fosse ammaliata da quella stanza. Enrico la riportò alla realtà: «È solo casa mia, non è la reggia di Versailles. E, se devo essere sincero, non mi pare così meravigliosa.»
«Questo soggiorno non è affatto male.» Olimpia si avvicinò al portaritratti con la forografia di Enrico e Carolina bambini. «Chi sono questi? Tu e chi?»
«Perché non ti siedi?» la esortò Enrico. «Non sei stata in piedi abbastanza, durante tutta la giornata?»
«Anche durante la serata» ribatté Olimpia, prendendo posto sul divano. «Era domenica, quindi oggi erano tutti particolarmente su di giri. Non fraintendermi, molti clienti sono in pensione, quindi per loro non cambia molto, ma la domenica ha le sue problematiche specifiche.»
Enrico si accomodò accanto a lei.
«Gente che discute di partite di calcio più del solito?»
«Anche. Però prima devo sorbirmi clienti che fanno invettive anticlericali contro la gente che alla domenica mattina va a messa invece che venire al bar. Poi è il turno di quelli che vengono al bar dopo essere stati in chiesa, che fanno invettive bigotte contro quelli che la domenica mattina non vanno a messa ma al bar. Poi iniziano le discussioni su quello che mangeranno a pranzo, quando si degneranno di andare a casa. Infine...» Olimpia si interruppe. «Scusa, sto divagando. La bambina della foto chi è?»
«Carolina.»
«Gli occhi ti si illuminano quando parli di lei.»
«Ma se nemmeno mi stai guardando negli occhi!»
«L'ho detto proprio per metterti alla prova. Non hai negato. Hai solo osservato che non potevo vederlo.»
Enrico sbuffò.
«Sì, va bene, Carolina mi piace un sacco e spero di avere una possibilità con lei. Purtroppo non sarà facile. Mi vede solo come un amico d'infanzia, non riesco a capire se si sia accorta di piacermi oppure no.»
Olimpia gli suggerì: «Chiedile se vuole uscire con te.»
«Non è così semplice come credi, visto che abbiamo un giorno libero alla settimana ciascuno e non è mai lo stesso giorno per entrambi.»
«In effetti deve essere un casino. Però non penso sia quello a trattenerti. In un modo o nell'altro potreste organizzarvi.»
Enrico ammise: «Non lo so, non so se sono pronto per questo passo. Dopotutto è da poco che ci vediamo e mi ha fatto capire di avere una mezza relazione. Cosa dovrei dirle? Che è sprecata nel ruolo di amante e che dovrebbe mettersi insieme a me? Come minimo penserebbe che abbia qualche rotella fuori posto. Non voglio sembrarle un pazzo ossessivo, mi perderei ogni possibilità futura. Non che ci siano tante possibilità future, lo ammetto, ma non voglio darmi la zappa sui piedi da solo.»
«Ti capisco.»
«Io, invece, non capisco perché stiamo parlando di Carolina. Sei venuta qui per raccontarmi della tua frequentazione con "Occhi Viola" o sbaglio?»
Olimpia ridacchiò.
«Penso sia un po' fuori luogo definirla una frequentazione.»
«Vi siete visti più volte.»
«La prima è stata al parco. Ti ho già detto al telefono com'è andata. Gli sono rimasta impressa. Non so, o gli sono sembrata troppo sospetta, oppure gli sono piaciuta particolarmente. Propenderei più per la prima possibilità, specie considerato che si deve sposare.»
Enrico avvampò.
«Hai scoperto di Paola, quindi?»
«Non mi ha detto il nome della futura moglie. Perché, lo sapevi anche tu?»
«Sì.»
«E non mi hai detto nulla perché pensavi che altrimenti avrei desistito.»
«No, non...»
Olimpia lo interruppe prima che potesse finire la frase.
«Non negare. Hai pensato che, se avessi creduto fosse libero, sarei stata più invogliata a incontrarlo. Comunque non è un problema, Occhi Viola mi attizza anche da ufficialmente fidanzato. Se si facesse avanti, un pensiero ce lo farei. Purtroppo sembra molto preso da questa futura moglie, come ho avuto modo di scoprire. Però sto andando troppo avanti, dobbiamo tornare al nostro primo incontro.»
Enrico precisò: «Mi hai già spiegato per telefono come sia andata. Parlami degli altri incontri, piuttosto.»
«L'ho rivisto quella sera stessa, quando è venuto a cena al bar. Non me lo aspettavo. Purtroppo era presto e c'era ancora un bel po' di gente, quindi ci ho potuto scambiare solo due parole. Gli ho detto, comunque, che mi sarebbe piaciuto approfondire la nostra conoscenza e gli ho chiesto se la mattina dopo sarebbe andato a correre. Mi ha detto che pensava di sì, allora ci sono andata anch'io.»
«A correre?»
«A fare finta di correre. Ho messo una tuta verde brillante. Il giorno precedente ne avevo una fucsia e mi aveva paragonato a un pappagallo sudamericano, così ho deciso di dimostrargli che potevo assumere un colore più simile a quello del piumaggio di quei graziosi pennuti.»
«E ti ha paragonata di nuovo a un volatile esotico?»
«No, mi ha solo chiesto se non sapessi che carnevale è finito da un pezzo.»
«E poi?»
«Poi ci siamo messi a parlare.»
«Di pappagalli o di carnevale?»
«Dell'albergo.» Olimpia si girò a guardare Enrico. «Non mi sono dimenticata dell'incarico che mi hai affidato, sai? Anzi, me ne ricordavo benissimo, anche se gli occhi di Vincenzo erano uno spettacolo senza paragoni. O almeno, è così che sta bene dire, giusto? Perché ammetto che aveva dei pantaloni abbastanza stretti e lo sguardo mi è inevitabilmente caduto sul pacco.»
Enrico puntualizzò: «Questi dettagli non sono necessari. Cos'hai scoperto sull'albergo?»
«Dire che ho scoperto qualcosa è un po' esagerato. Ho cercato di non apparire troppo sospetta, dato che dovevo avergli già fatto una strana impressione. Mi ha raccontato di suo padre, Roberto Gottardi. Circa tre anni fa ha avuto un infarto, poi si è ripreso. Sembrava stesse meglio, ma poco più di un anno fa ne ha avuto un altro. Si è sentito male in albergo, ma non c'era nessuno con lui. È stato soccorso quando ormai non c'era più niente da fare. Per Occhi Viola è stato un duro colpo, non solo per la perdita, ma anche perché si è ritrovato a prendere il suo posto. Certo, a gestire la maggior parte delle attività è un certo Giorgio Carletti, che da anni lavorava al fianco di Roberto Gottardi, ma Vincenzo ha deciso di vendere il locale che aveva sulla riviera e di tornare definitivamente in città.»
«Non c'è molto di nuovo.»
«Sapevi già come fosse morto Roberto Gottardi?»
«No, ma avrei potuto scoprirlo facilmente chiedendo a qualcuno dei colleghi.»
«Ti ho risparmiato una fatica.»
«Non hai scoperto altro?»
Olimpia chiarì: «Era una conversazione informale tra pressoché sconosciuti che si erano incontrati mentre facevano jogging, non un interrogatorio. Ho cercato di farlo parlare, ma mi ha detto un sacco di cose del tutto inutili per le tue "indagini". Del resto non potevo certo dirgli "non mi importa niente di come hai affrontato il lutto e la consapevolezza di dovere succedere a tuo padre, parlami dei loschi affari del padre del mio amico Enrico". Anzi, non gli ho parlato espressamente di te... quella volta, almeno. Siamo ancora al nostro terzo incontro.»
Enrico la esortò: «Parlami di quello che conta davvero.»
Olimpia ribatté: «Non avere fretta. Ci sono tante cose da dire e, dato che mi hai affidato un incarico, vorrei che in cambio almeno ascoltassi le mie confidenze su tutta la vicenda. L'incontro successivo con Occhi Viola è avvenuto la sera tardi, al bar, non quella sera stessa, quella successiva. Mi sembrava un po' sconvolto e mi ha detto, infatti, che aveva avuto una pessima giornata e che non aveva nemmeno potuto vedere la donna che ama. Te lo dico così proprio perché erano le sue esatte parole: "la donna che amo", ho fatto caso che la definiva sempre così. Non ha mai parlato di fidanzata o futura moglie, né l'ha mai menzionata per nome. Gli ho chiesto se si vedano tutti i giorni e mi ha risposto che di solito è così.»
«Aveva avuto una pessima giornata perché non aveva visto la fidanzat-... voglio dire, la donna che ama?»
«No, problemi di lavoro. Non ha voluto aprirsi molto, nonostante gli avessi detto che con me poteva parlarne. D'altronde come dargli torto? Raccontare i propri affari economici a una barista impicciona che conosceva da tre giorni non doveva apparirgli un comportamento molto saggio. Dico affari economici perché ha accennato a un creditore.»
«A quel punto cos'hai fatto?»
«Ho chiuso la porta a chiave, dato che l'orario di chiusura era già passato da un pezzo, e mi sono messa a parlargli della mia vita. Non potevo solo chiedere. Gli ho raccontato del mio matrimonio, di mio marito che mi ha lasciata, di essermi ritrovata di colpo a ricominciare da zero e poi, alla fine, di essermi accorta che era ancora tutto come prima, solo che non avevo più un marito. Gli ho detto che non sono sicura di volere un'altra relazione stabile, ma che sarei pronta a frequentare un altro uomo, se ne incontrassi uno che mi piace davvero e che vuole una storia leggera. Si è limitato a sorridere e a dirmi che è già impegnato, quindi non potevo contare su di lui. Peccato per questa fidanzata guastafeste, magari avremmo potuto fare qualcosa. Gli ho detto che non ci stavo provando con lui, ma non so fino a che punto mi abbia creduta. Mi aspettavo che scappasse a gambe levate, invece no. È tornato a trovarmi ieri sera tardi... ed è stato inaspettato. Mi è sembrato che avesse un disperato bisogno di essere ascoltato, anche se non aveva molto da dire. Ho avuto l'impressione che ci fossero dei problemi tra lui e la "donna che ama". Ne ho approfittato. Ho cercato di baciarlo, ma si è tirato indietro.»
Enrico spalancò gli occhi.
«Che cazzo hai fatto?!»
«Sei per caso geloso? Oppure mi invidi perché tu non hai il coraggio di fare lo stesso con Carolina?»
«Hai rischiato di compromettere tutto. Magari adesso non tornerà più da te.»
Olimpia precisò: «Mi sono scusata. Gli ho detto che non sarebbe successo mai più. E poi, se torna lo stesso, vuole dire che c'è qualcosa di losco.»
Enrico mise in chiaro: «Vuole dire che pensa che tu abbia qualcosa di losco. O io, nel caso abbia capito che sono stato io a sguinzagliarti dietro di lui. Non significa che sia lui a nascondere qualcosa.»
«Uomo di poca fede, non ho detto che la storia finisce con me che tento di baciarlo e con Occhi Viola che se ne va sconvolto» replicò Olimpia. «Non l'ha presa così male, si è solo limitato a ricordarmi che è già impegnato e, di conseguenza, non può lasciarsi andare. Stavolta ha citato i pennuti: ha detto che, se fosse libero, potrebbe andare a caccia di graziose pappagalline colorate, ma che il vero amore gli ha precluso questa possibilità.»
«Tutto questo non mi è di alcuna utilità.»
«Quello che è capitato dopo, però, sì.»
«Ovvero?»
«Ovvero ero nella situazione di dovere cambiare per forza discorso. Ho parlato degli argomenti più disparati, poi ho citato te. Gli ho detto che avevo incontrato tuo padre, qualche volta, da ragazzina, e che ho sentito brutte voci sul suo conto. Ho romanzato un po', gli ho detto di avere sentito che fosse ricercato per essere scappato all'estero con del denaro di proprietà dei Gottardi.»
Enrico la fulminò con lo sguardo.
«È questo che si dice su di lui?»
Olimpia ridacchiò.
«No, certo, ma dovevo inventarmi qualcosa di improponibile, se volevo che, per smentire, mi raccontasse almeno una mezza verità. Ha risposto che non era vero e che Giuseppe Bianchi ha sì cercato di intascarsi qualcosa, ma non è fuggito all'estero per pararsi il culo. C'è stato un accordo: Roberto Gottardi non l'avrebbe denunciato e, anzi, gli avrebbe dato del denaro se avesse accettato di andare via. Gli ho chiesto se ne sia sicuro e mi ha assicurato che li ha sentiti parlare di quel compromesso. Ho insistito, volevo sapere se potesse avere travisato. Ha detto che, a meno che quei due non stessero entrambi recitando una parte, non era possibile. Suo padre, però, non ha mai voluto dargli spiegazioni. Comunque fosse andata, Roberto Gottardi non voleva infangare il nome del suo vecchio collaboratore.»
«Non è possibile» insisté Enrico. «Mio padre è sempre stato una persona onesta.»
«Non so cosa dirti» ammise Olimpia. «Anche Occhi Viola faticava a crederlo, ma era certo di quello che aveva sentito. Non c'era molto che potessi fare...»
«Ti capisco, non preoccuparti.»
Olimpia non aveva ancora finito, infatti proseguì: «Così ho cambiato di nuovo discorso e gli ho chiesto se avesse sentito parlare della vicenda di Alfredo Vitale. Mi ha detto di averlo sentito menzionare, qualche volta, anche dal personale dell'albergo, ma che non sapeva dire altro. Gli sembrava di ricordare che ci fosse qualche pettegolezzo a proposito di una dipendente che, in gioventù, aveva avuto una relazione con lui, ma non vi ha mai prestato molta attenzione. Inoltre sono pettegolezzi risalenti a tanto tempo fa e una sua potenziale fidanzata potrebbe essere anche già andata in pensione. Questo, devi ammetterlo, è interessante.»
«Tu dici?»
«Si narra che tuo padre sia partito insieme all'ex fidanzata di Vitale e Vincenzo ha parlato di un'ex fidanzata di Vitale che lavorava all'albergo. Non significa molto, ma ora sappiamo che non è del tutto assurdo: se davvero una ex di quel tizio lavorava là, allora tuo padre doveva conoscerla.»
«E se Vincenzo ti avesse raccontato un sacco di cazzate?»
«Occhi Viola non era mai venuto al bar prima di questa settimana e di sicuro non frequenta i pettegoli che vengono ogni giorno a prendere il caffè dopo pranzo, approfittandone per raccontarsi i fatti di chiunque. Non può essere un caso se mi ha raccontato di questa donna: o sa che sto cercando di scoprire questa fantomatica persona di cui si parla - ma non vedo perché dovrebbe esserne al corrente - e ha deciso di mentirmi deliberatamente, oppure ha sentito una storia simile a quella che invece ho sentito io.»
Enrico si arrese: «Va bene, è possibile che questa collega di mio padre fidanzata in passato con Vitale esista davvero. Questo, però, non prova nulla. Hai detto tu stessa che i tuoi clienti non fanno altro che chiacchierare e spettegolare. A volte basta poco per convincersi di cose non vere: metti che qualcuno abbia visto mio padre in compagnia di quella donna. Potrebbe avere travisato, pensare che avessero una relazione, indipendentemente dal fatto che fosse vero o no. Metti che anche lei abbia smesso di lavorare più o meno all'epoca in cui è andato via mio padre e che poi non l'abbiano più vista in giro, potrebbero essersi inventati qualsiasi cosa.»
Olimpia insisté: «Dobbiamo scoprire chi è questa donna.»
«Potrebbe non avere niente a che vedere con mio padre» obiettò Enrico.
«In tal caso ce lo dirà» replicò Olimpia. «Non succederà, se prima non la troviamo.»
«Non lo so, non mi pare un grande idea.»
«Non sarebbe comunque così difficile, per te, fare qualche domanda ai colleghi. Non devi necessariamente dire che pensi che quella donna possa essere scappata insieme a tuo padre.»
Enrico si alzò in piedi, sospirando.
«Magari ci penserò.»
«Ti conviene non pensarci troppo a lungo» ribatté Olimpia. «Non vuoi perdere tempo, giusto? Sei tornato in città per scoprire cos'è successo davvero a tuo padre, non per rimanerci, vero?»
«Cosa te lo fa pensare?»
Anche Olimpia si alzò, senza quasi fare rumore. Enrico se la ritrovò di colpo al proprio fianco.
«Tu non hai mai voluto vivere qui. Fin da ragazzino, cercavi la tua strada altrove. Non ho mai capito con esattezza se ti invidiassi per la tua volontà di cambiare la tua vita, oppure se questo tuo atteggiamento mi mettesse tristezza. Il tuo volere sempre cambiare posto mi fa pensare che tu non sia mai riuscito a sentirti felice da nessuna parte.»
Enrico alzò le spalle, con indifferenza.
«A volte un luogo in cui vivere è solo un luogo come tanti altri. Ovunque sia andato, sono sempre riuscito a trovare il mio equilibrio. Quando scoprirò la verità, lo troverò anche qui.»
«Anche senza Carolina?»
«Anche senza Carolina. Non so se verrà mai il momento di dirle esplicitamente che mi piace, ma ti assicuro che ho imparato a cavarmela da solo.» Enrico iniziò a dirigersi verso la porta, sperando che Olimpia lo seguisse. «Si sta facendo tardi, non trovi?»
Olimpia rise.
«Se vuoi che mi tolga di torno, me lo puoi dire con chiarezza.»
«Nulla contro di te» chiarì Enrico, «Ma faremmo meglio ad andare a letto entrambi.»
«Ciascuno nel proprio letto» ribatté Olimpia. «Non oserei mai distoglierti dai tuoi sogni d'amore.» Scherzava, o almeno così parve a Enrico. Senza protestare, accettò la fine della loro tarda serata insieme e si lasciò scortare fino alla porta. Era già sul pianerottolo quando lo salutò con parole sibilline. «Se cambierai idea su Carolina, magari potremmo riparlarne.»

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Capitolo 10
*** Violazione di domicilio ***


VIOLAZIONE DI DOMICILIO

Il fatto che Vincenzo si fosse presentato più volte al bar faceva sentire Olimpia autorizzata ad andarlo a cercare di nuovo al parco. Se "Occhi Viola" l'avesse tacciata di essere troppo ossessiva, avrebbe avuto modo di difendersi facendogli notare il suo stesso comportamento.
Per l'occasione portava di nuovo la tuta fucsia, molto contrastante, in realtà, con i colori che prediligeva di solito. La vicenda in cui Enrico l'aveva coinvolta la stava portando a cambiare le proprie abitudini anche nelle piccole cose. All'inizio, almeno in qualche momento, si era sentita spaventata, ma con il passare del tempo stava iniziando a convincersi che fosse proprio ciò che ci voleva per movimentare la sua vita fin troppo piatta.
L'incontro con Vincenzo aveva stravolto una monotonia alla quale si era abituata, e non avrebbe saputo dire se fosse perché quell'uomo esercitasse davvero su di lei il fascino che aveva sbandierato ai quattro venti in presenza di Enrico. Vincenzo Gottardi le appariva, di fatto, come una persona qualunque, attraverso la quale poteva vivere emozioni che altrimenti le sarebbero state precluse.
Non l'aveva ancora notato, quella mattina  quando se lo ritrovò alle spalle. La fece sobbalzare quando la salutò in tono beffardo: «Buongiorno, pappagallina.»
Superato lo stordimento iniziale, Olimpia si voltò di scatto.
«Non chiamarmi a questo modo.»
«Con quel colore così vistoso, è difficile fare altrimenti.»
«Non sei divertente.»
«Io dico di sì, dato che ti presenti qui con una certa frequenza.»
Olimpia avvampò.
«Non vengo certo per te.»
«Va bene, va bene, non ti devi giustificare, è sempre un piacere vederti» la rassicurò Vincenzo. «Prima di incontrare te ero sempre da solo, almeno adesso ho qualcuno con cui correre.» Sorrise. «Sempre in quell'universo alternativo in cui tu sei qui per questo, ovviamente.»
Olimpia replicò: «Potrei venire qui anche per fare una semplice passeggiata, non credi? E poi, sbaglio o sei stato tu a dirmi che non devo giustificarmi?»
Vincenzo si sedette a terra e la invitò a fare altrettanto. Olimpia guardò riluttante l'erba sulla quale avrebbe dovuto appoggiare il fondoschiena. Non sembrava troppo umida, forse poteva correre quel rischio.
«Hai ragione, non devi giustificarti» affermò Vincenzo, «Così come non devo darti spiegazioni io. Credo, però, che sia arrivato il momento di parlare chiaro. Fin dal primo giorno mi ha incuriosito il tuo comportamento. Se sei qui per me e vuoi arrivare a qualcosa di specifico, forse faresti meglio a essere diretta.»
Olimpia scosse la testa.
«No, non c'è niente di specifico che io voglia.»
«E allora» insisté Vincenzo, «Perché sei di nuovo qui?»
Era arrivato il momento in cui Olimpia avrebbe dovuto ricordargli che era stato lui a raggiungerla sul posto di lavoro, a seguito del loro primo incontro, ma non le parve il caso. Era meglio inventare una risposta plausibile con la quale tenerselo buono.
«La prima volta che ci siamo incontrati, la settimana scorsa, è stato per caso. La verità è che mi è piaciuto parlare con te. Parlo continuamente con un sacco di persone, durante il giorno, ma i discorsi che sento sono sempre i soliti. La verità è che, quando ti senti sola, finisci per aggrapparti a chi può alleviare la tua solitudine. Tu hai accettato di conversare con me, senza dovermi per forza gettare addosso le tue frustrazioni a proposito di tasse, politici deludenti o risultati scadenti di squadre calcistiche. Mi hai fatto scoprire qualcosa di te e hai voluto scoprire qualcosa di me. È per questo che sono tornata, perché mi capita raramente di essere vista come una persona senziente e non come una sorta di robot programmato per ascoltare chiacchiere.»
Vincenzo sospirò.
«Scusa se sono stato un po' prevenuto nei tuoi confronti. Non mi capita tanto spesso di incontrare donne come te.»
«È una critica o un complimento?»
«Nessuna delle due cose, è solo una constatazione: non ci sono altre persone come te, nella mia vita.» Vincenzo si alzò in piedi. «Ora però, una corsa me la farei. O ci sei, oppure ci vediamo prossimamente. Magari passo a trovarti al bar.»
Olimpia sorrise.
«Volentieri. Parlo del bar, naturalmente.»
Non poteva spingersi troppo in là, trattenerlo sarebbe potuto apparire fuori luogo.
Vincenzo sorrise a propria volta, poi si allontanò. Olimpia lo guardò andare via e solo allora notò il mazzo di chiavi sull'erba. Doveva essergli uscito da una delle tasche della felpa.
Era ancora in tempo, naturalmente, per chiamarlo e per farglielo notare, ma le venne da ripensare a un curioso evento del suo passato, quando in terza media aveva rubato le chiavi di casa a Enrico per andare a curiosare da lui mentre lo sapeva a una visita medica dall'altro lato della città. Era stata un'esperienza strana, a seguito di un'azione del tutto fuori luogo, ma assolutamente indimenticabile. 

Olimpia richiuse l'ultimo cassetto, un po' delusa. Non c'era niente di interessante nella stanza di Enrico e, anzi, tutto ciò che aveva visto glielo faceva apparire come molto più infantile di quanto lo credesse. Inoltre si stava facendo tardi, era meglio andare via.
L'avrebbe fatto, se non avesse udito una chiave girare nella toppa. Raggelò, credendo potesse trattarsi di Enrico. Si chiese come giustificare la propria presenza in casa sua, ma fu questione di un attimo. Fu la voce di Giuseppe Bianchi quella che sentì.
«Avanti, entra!»
«No, non mi sembra il caso» gli rispose una donna. «Tuo figlio...»
«Mio figlio non c'è» chiarì Giuseppe. «Aveva una visita e avrà appena preso l'autobus per tornare a casa. Si tratta solo di qualche minuto.»
Olimpia si sentì rassicurata. Se Giuseppe era in dolce compagnia, non sarebbe certo entrato nella stanza del figlio. Inoltre sembrava intenzionato ad andare via in fretta.
Si domandò chi potesse essere la donna con la quale il padre di Enrico si trovava, ma non seppe darsi risposta. Ufficialmente Giuseppe Bianchi non aveva mai avuto una relazione, dopo la morte della moglie, ma Olimpia non era così ingenua da pensare che l'ufficialità coincidesse sempre con la realtà. Che Giuseppe non desiderasse un'altra donna con la quale fare coppia fissa era un dato di fatto e, a maggior ragione, era probabile avesse qualche avventura.
«È carina casa tua» disse la donna.
Giuseppe rise.
«Fa un po' schifo, in realtà.»
«No, dai, è molto meglio della mia.»
«A me casa tua piace, come del resto mi piace tutto quello che ha a che fare con te.»
Olimpia era piuttosto divertita da quelle parole. Per quanto fosse abituata ai film romantici - ogni volta in cui andava al cinema, sceglieva sempre quel genere - trovava certe situazioni piuttosto comiche nella vita reale. Razionalmente sapeva che simili dichiarazioni non se le facevano soltanto le coppie giovanissime o quelle dei film, ma le era difficile non ridere quando le sentiva da persone adulte in carne e ossa.
Giuseppe e la donna si scambiarono qualche parola a bassa voce, che Olimpia non udì, dall'interno della camera di Enrico. Fu l'ospite la prima ad alzare il tono.
«Credo sia meglio andare. Non sarei dovuta venire da te.»
«Ti ho detto che Enrico non tornerà» insisté Giuseppe. «Prendo un attimo una cosa, poi andiamo.»
«Va bene, però fai presto. Dobbiamo andarcene senza farci notare.»
«Stai tranquilla. I vicini di casa non stanno tutto il tempo a farsi i fatti miei. Poi, al massimo, ci vedrebbero scendere le scale insieme. Sanno che ci conosciamo, non stiamo facendo niente di sospetto.»
Olimpia si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere. Per la sua mente di tredicenne era inconcepibile due persone di quell'età dovessero nascondersi. A farla restare seria non fu tanto l'autocontrollo, quanto piuttosto la considerazione che l'eta adulta doveva essere una fregatura, se nemmeno allora si era del tutto liberi di vivere la propria vita privata come più si desiderava.
Ascoltò i due riprendere a borbottare, poi, finalmente, li udì uscire di casa. La luce del giorno era ancora alta, quindi avrebbe potuto cercare di curiosare da una finestra, tentando di rimanere nascosta il più possibile.
Un paio di minuti più tardi, dalla propria postazione vide Giuseppe Bianchi salire in macchina insieme a una donna dai lunghi capelli neri. Li portava raccolti in un'acconciatura che a Olimpia sembrava piuttosto elaborata, ma del resto lei non faceva testo, riuscendo soltanto a fatica a farsi una coda decente.
Sembrava una bella donna e poteva avere sui trentacinque anni o giù di lì. Giuseppe non si sarebbe dovuto vergognare nel farsi vedere insieme a lei, secondo lo spassionato parere di Olimpia, ma il mondo degli adulti si rivelava giorno dopo giorno sempre fin troppo complicato per i suoi standard. Era molto probabile che quei due fossero amanti occasionali.
"Chiederò a Enrico se sa qualcosa di lei" le venne da pensare, ma realizzò subito che non era possibile. "No, mi chiederebbe senz'altro dove ho visto suo padre insieme a quella donna e non mi sembra il caso."
Doveva andare via. Doveva farlo il prima possibile, perché non era alcuna ragione logica per cui dovesse essere in casa Bianchi. Non voleva assolutamente che Enrico la cogliesse sul fatto.
Si diresse verso la porta, controllò dallo spioncino che non vi fosse qualcuno sul pianerottolo, poi uscì, cercando di non fare rumore. Scese le scale con relativa tranquillità: se anche qualcuno di passaggio l'avesse riconosciuta, a quel punto, avrebbe potuto fingere di essersi presentata lì per andare a trovare Enrico, constatando che in casa non c'era nessuno. Non era così inconsueto che il portone d'ingresso rimanesse aperto e la sua presenza all'interno dello stabile sarebbe stata facilmente spiegabile.
Filò comunque tutto ben più liscio di quanto avesse ipotizzato nei suoi film mentali e Olimpia si ritrovò in breve tempo prima in cortile e poi in strada, a chiedersi in che modo restituire le chiavi a Enrico senza destare sospetti. 

Quella volta, tanti anni prima, Olimpia non era stata scoperta. Il padre di Enrico non aveva mai sospettato che ci fosse qualcuno nascosto nella camera del figlio, né Enrico aveva mai notato nulla fuori posto. Gli aveva fatto credere, l'indomani, di avere trovato le sue chiavi a scuola, riconoscendole dal portachiavi. Enrico l'aveva ringraziata, poi non ne avevano parlato mai più.
Chissà come aveva fatto Vincenzo a rientrare senza le chiavi, quel lunedì. In un modo o nell'altro doveva esserci riuscito, dal momento che la sera stessa si era presentato al bar e non aveva minimamente accennato al fatto di averle perse. Olimpia non le aveva menzionate e si era limitata a scambiare con lui qualche parola.
Sembrava che la presunta crisi con la futura moglie - o meglio, con la donna che amava, continuava a definirla in quei termini - non fosse ancora rientrata, tanto che aveva accennato ancora una volta alla discussione che avevano avuto a causa di una persona che si intrometteva nella loro relazione. Non era sembrato molto desideroso di approfondire l'argomento, quindi Olimpia aveva ritenuto inopportuno porgli ulteriori domande in proposito, del resto indagare sulla vita sentimentale di Vincenzo e Paola non aveva mai fatto parte dei piani.
Soltanto quarantotto ore più tardi, senza averlo rivisto e ancora in possesso delle chiavi, decise di agire. Prima di rincasare, chiamò a Enrico dall'apparecchio telefonico del bar, chiedendogli qualche informazione sulle abitudini di "Occhi Viola".
Giunto il giovedì mattina, senza avere informato Enrico delle proprie intenzioni, si recò nei pressi dell'abitazione di Vincenzo Gottardi. Rimase a sorvegliare di nascosto la casa e il cortile, almeno finché non vide "Occhi Viola" salire in macchina e andare via. Non era in tenuta da jogging, quindi si stava senz'altro recando al lavoro. Attese per circa un quarto d'ora, per essere certa che non tornasse indietro, poi si diresse verso il cancello.
Trovò al primo tentativo la chiave che lo apriva. Penetrata nel cortile, si diresse verso la porta d'ingresso, decisa a entrare. Sapeva di essere sul punto di fare una grossa pazzia, ma quell'avventura le trasmetteva entusiasmo. Cercò anche di rassicurarsi: Vincenzo non sarebbe tornato e non sarebbe stata denunciata per violazione di domicilio.
Non aveva idea di cosa potesse trovare o se ci fosse qualcosa che potesse essere utile a Enrico, all'interno di quelle stanze, tutto ciò che notò fin dai primi passi fu un grado di disordine superiore a quello che immaginava, ma entro livelli accettabili: con una rapida ripulita, tutto poteva tornare al proprio posto in tempi brevi.
Nell'ingresso notò inoltre una fotografia incorninciata, che ritraeva Vincenzo in compagnia di una donna in tailleur, con capelli castani dalle sfumature ramate. Doveva trattarsi di Paola, la sua futura consorte.
In cucina non notò molto di interessante, così come in soggiorno. A incuriosirla fu una porta chiusa. Abbassò la maniglia, sperando non ci fosse un giro di chiave. Fu fortunata: l'uscio si aprì e poté sbirciare all'interno. Fortunata, ma non troppo: non trovò nulla di interessante, si trattava soltanto di un piccolo sgabuzzino contenente scope, stracci, un secchio per la pulizia dei pavimenti e un piccolo armadietto che, con tutta probabilità, conteneva detergenti di varia natura.
Il pianterreno non offriva altro, quindi Olimpia si avventurò su dalle scale. La camera da letto di Vincenzo si trovava al piano superiore. Olimpia sorrise, al ricordo di quando, da ragazzina, aveva perlustrato i cassetti di Enrico. Fare lo stesso con quelli di Vincenzo sarebbe stato decisamente più interessante.
Si soffermò più a lungo del dovuto sul primo cassetto del comodino, nel quale trovò sia slip sia boxer. "Bene" si disse, le piacevano gli uomini che non si fissavano con un solo formato di biancheria intima. Fu il cassetto sottostante, tuttavia, quello nel quale fece la scoperta più interessante: fotografie... e non banali.
In esse, Vincenzo era ritratto insieme a una donna che non era Paola. Per qualche strano scherzo del destino, a Olimpia venne da pensare alla presunta amante di Giuseppe Bianchi, tanti anni prima. L'aveva vista di sfuggita, mentre saliva sull'auto, ma il suo aspetto le era rimasto impresso, anche se poi non si era più curata di lei. La persona insieme a Gottardi in quelle foto, per qualche ragione, le ricordava un po' la donna che aveva visto con il padre di Enrico. Quel pensiero, comunque, non aveva la benché minima rilevanza, tutto ciò che importava era essere giunta a un'inattesa conclusione. Ogni volta in cui Vincenzo menzionava, testualmente, la donna che amava, non si riferiva alla futura moglie, quanto piuttosto a colei con cui sembrava avere una relazione clandestina.
Olimpia rimase fin troppo a lungo a osservare le fotografie, prolungando oltremodo la propria presenza a casa di Vincenzo. Doveva assolutamente andare via. Per quanto improbabile che "Occhi Viola" rincasasse, non era sicuro rimanere lì così tanto. Scese al pianoterra e imboccò il corridoio che l'avrebbe portata alla porta d'ingresso. Ben prima di arrivarvi, udì una chiave girare nella serratura.
Trattenne a stento un'imprecazione. Vincenzo era tornato. Doveva nascondersi e sperare che se ne andasse al più presto. Si infilò dentro lo sgabuzzino e si chiuse dentro. Non era possibile che "Occhi Viola" fosse rientrato per pulire casa, almeno di ciò poteva essere relativamente sicura. Ebbe quindi la sensazione di essere in una botte di ferro, anche se si rivelò una cantonata: pochi istanti più tardi, infatti, la porta si spalancò e Olimpia si ritrovò faccia a faccia con una signora attempata che indossava un camice da governante.
Si fissarono reciprocamente, entrambe con occhi spalancati, poi l'altra osservò: «Non è necessario che si nasconda. Mi scusi se sono entrata all'improvviso. Immagino che lei sia un'amica del signor Vincenzo.»
Sembrava imbarazzata. Olimpia realizzò che "Occhi Viola" doveva, almeno occasionalmente, portare a casa donne diverse da Paola. Meglio così, almeno poteva andarsene senza rischiare nulla.
«In effetti sì, sono un'amica di Vincenzo» mentì. «Prima di andare al lavoro, mi aveva pregata di non fermarmi qui. Purtroppo non sono andata via in tempo...» Ridacchiò. «Così mi sono fatta cogliere sul fatto.»
«Non si preoccupi» ribatté la governante. «Solo, non...»
Si interruppe.
Olimpia si chiese se potesse sfruttare la sua sorpresa per estorcerle qualche informazione. Sapeva che era rischioso, ma le era difficile trattenersi.
«Solo, non si aspettava che fossi io?»
«Io non...» La governante esitava. «Non...»
«Non si preoccupi, so di non essere la sola a frequentare Vincenzo nell'anonimato» la rassicurò Olimpia. «Non c'è problema, per me. L'altra ragazza, magari, potrebbe non essere d'accordo, ma non è un affare mio.»
La governante chiarì: «Gli affari privati del signor Vincenzo non mi riguardano.»
Olimpia realizzò che era il momento giusto per andarsene. L'altra donna non si sarebbe sbottonata molto facilmente e ogni istante trascorso in quella casa poteva diventare sempre più pericoloso.
«Ha ragione, mi scusi» disse quindi, prima di congedarsi in gran fretta.
Una volta fuori dalla proprietà di Gottardi tirò un sospiro di sollievo. Era andato tutto bene, o almeno così sperava.

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Capitolo 11
*** Segreti svelati ***


SEGRETI SVELATI

Giovanna appariva assorta e pensierosa, come se quella breve tappa a casa di Giuseppe l'avesse turbata. Rimaneva in silenzio, sul sedile del passeggero, mentre percorrevano la strada che li avrebbe portati al locale nel quale avevano intenzione di trascorrere la serata insieme, lontano abbastanza da avere la relativa certezza di non essere riconosciuti.
Giuseppe avrebbe fatto a meno di farle capire di essersi accorto del suo stato d'animo, se il silenzio tra di loro non stesse diventando quasi insopportabile.
«Va tutto bene?» le chiese. «Da quando siamo in macchina, non hai detto una sola parola.»
«Scusa» mormorò Giovanna. «È solo che...»
Si interruppe. Giuseppe attese che riprendesse, ma non accadde.
«Solo che?» la esortò. «È successo qualcosa?»
Giovanna rimase senza parlare per qualche istante, infine gli domandò: «Sei proprio sicuro che non ci fosse tuo figlio a casa?»
«Sicurissimo.»
«Eppure...»
«Eppure?» volle sapere Giuseppe. «Non mi dire che hai avvertito delle presenze.» Ridacchiò. «In tal caso no, non ci sono leggende su fantasmi infestanti o cose del genere.»
«I fantasmi non mi spaventano» replicò Giovanna, seria. «Piuttosto, quando siamo arrivati in cortile, prima di salire in macchina, ho guardato in su per un attimo e mi è sembrato di vedere una ragazzina alla finestra. Non era un altro piano, né un altro appartamento, sono abbastanza sicura che fosse il tuo.»
Giuseppe rise.
«Enrico è ancora troppo piccolo per portarsi le ragazze a casa.»
«Magari era un'amica.»
«Magari era un'altra finestra.»
«Mhm.»
Giovanna non appariva convinta, quindi Giuseppe insisté: «Ti assicuro che mio figlio oggi pomeriggio è andato a una visita medica e che non poteva essere a casa. Innanzi tutto non è così silenzioso e, se fosse stato in casa insieme a degli amici - o a un'amica - ce ne saremmo accorti. Poi, lo ribadisco, doveva venire a casa con l'autobus, e quella linea allunga di molto il percorso. Ce n'è una che viene direttamente nella nostra zona, ma nel tardo pomeriggio non c'è nemmeno una corsa, quindi ha dovuto scegliere quella alternativa.»
«Va bene, mi fido» si arrese Giovanna. «Avrò sbagliato finestra, però non so, ho comunque avuto l'impressione che quella ragazzina stesse guardando proprio noi.»
«Non ti sei mai affacciata a una finestra per guardare chi passasse?»
«Beh, sì.»
«Allora anche quella ragazzina avrà fatto la stessa cosa.»
«E ci ha visti.»
«Ha visto un uomo e una donna che salivano in macchina, non è niente di così scabroso» chiarì Giuseppe. «Certo, per il momento preferisco che Enrico non sappia nulla di noi, ma...»
Giovanna lo interruppe: «Hai ragione, non c'è niente di cui dobbiamo preoccuparci. Non è successo niente. Scusa, anzi, se ti ho disturbato con queste chiacchiere.»
«Figurati, nessun disturbo.»
«Stai guidando, magari ti ho deconcentrato.»
«Anche se sto guidando, le orecchie ce le ho aperte. Fidati, non c'è nessun problema. Mi dispiace solo che passare per casa mia sia stata una brutta esperienza per te.»
Giovanna minimizzò: «È tutto a posto, non preoccuparti.»
Per quanto continuasse a vederla molto turbata, Giuseppe non disse più nulla. Sperava di potere cambiare discorso, di riuscire a salvare il proseguimento della loro serata.
Proseguì a guidare, stavolta anche lui in silenzio, chiedendosi se Enrico fosse già tornato a casa. Sosteneva di essere ormai troppo grande per andare ogni giorno da Carolina e da sua nonna, di potere restare a casa da solo fino al suo arrivo. All'inizio Giuseppe non era stato molto convinto, ma ultimamente aveva iniziato a concederglielo, almeno qualche volta.
Come a leggergli nella mente, Giovanna gli chiese: «Hai paura di fare tardi, vero? Per Enrico?»
Giuseppe scosse la testa.
«Non più delle altre sere.»
«Quando lavori, però, non pensi costantemente al fatto che tuo figlio potrebbe avere dei sospetti.»
«Diciamo che ho la mente impegnata. Comunque non mi preoccupa solo che possa sospettare qualcosa, è soprattutto l'idea di lasciarlo da solo per così tante ore. Dice che ha già quasi quattordici anni, ma la realtà è che ha solo quasi quattordici anni. Preferirei saperlo mentre aiuta Carolina a fare i compiti piuttosto che a casa da solo. Chissà, magari invita davvero delle ragazzine quando non ci sono io, come hai detto tu.»
«Non ho detto niente di tutto ciò, solo che mi sembrava di averne vista una guardare da una delle vostre finestre, tutto qui. E poi le sue coetanee ormai saranno già a casa, a cena con i loro genitori. Alla fine è normale che Enrico si annoi, insieme a Carolina. Ha bisogno di frequentare gente della sua età, non una bambina più piccola.»
Giuseppe fu costretto ad ammettere che Giovanna aveva ragione. Per quanto la situazione del momento non lo facesse impazzire, era giusto che tutto si evolvesse nel modo più normale.
«Hai ragione. Chissà, magari un giorno, quando saranno adulti, sarà tutto diverso.»
Con la coda dell'occhio, Giuseppe vide Giovanna voltarsi di scatto, mentre gli chiedeva, in tono secco: «Che cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che magari, quando saranno adulti entrambi, mio figlio si metterà insieme a tua figlia.»
«Non dirlo neanche per scherzo.»
«Sì, hai ragione, Enrico potrebbe non essere il migliore dei partiti, ma...»
Giovanna interruppe quelle considerazioni sul nascere.
«Non mi sembra bello fare questi discorsi sui nostri figli. Siamo io e te che stiamo insieme, non dimenticartene.»
«Come potrei?» obiettò Giuseppe. Era un po' sorpreso dal fatto che Giovanna avesse reagito a quel modo di fronte a quella che, da parte sua, era solo un'osservazione innocente. «Se pensi che voglia fare qualcosa per spingerli l'uno tra le braccia dell'altra, in futuro, ti sbagli di grosso. È molto probabile che, quando avranno un'età tale da potere stare insieme, Enrico avrà già una fidanzata.»
«Bene, allora togliti queste sciocchezze dalla testa» gli intimò Giovanna, in tono più accomodante, ma ancora molto deciso. «È solo una fantasia assurda, che non esiste altrove, se non nella tua testa. Godiamoci il presente, invece di pensare a quello che potrebbe succedere quando i nostri figli saranno adulti. Con tutta probabilità, le loro strade si separeranno.»
Giuseppe fu costretto ad ammettere che era molto probabile. Aggiunse: «Mi dispiacerebbe. Sono cresciuti insieme.»
«A volte crescere insieme non significa nulla» obiettò Giovanna. «Io ho dovuto lasciare il mio paese natale molto tempo fa e tagliare i ponti con i miei amici d'infanzia, ma non è stato terribile tanto quanto potrebbe apparire a chi non ha mai dovuto fare certe scelte. Ho incontrato altre persone, alcune delle quali non sanno niente del mio passato... anche se ormai sono più quelli che sanno almeno in parte come sia andata quella storia, rispetto a quelli che non ne sanno niente.»
«Non ti mancano? I tuoi amici d'infanzia, intendo.»
«L'infanzia è spesso sopravvalutata. I miei amici di quei tempi hanno preso la loro strada, così come io ho preso la mia. Ogni tanto ci penso e forse anche loro, di tanto in tanto, pensano a me. La mia vita vera, però, è adesso. Chi sono stata da bambina e da adolescente non ha tutta questa importanza.»
«E speri che per Carolina sia lo stesso?»
«No, certo che no. Mi auguro che non le capiti mai di incontrare persone sbagliate e che non faccia la fine che io stessa ho rischiato di fare. Le auguro solo di essere felice.»
Giuseppe puntualizzò: «Carolina mi sembra una bambina felice.»
«Non lo metto in dubbio» rispose Giovanna, «Ma le auguro un futuro ancora migliore. In fondo quando siamo piccoli la vita ci sembra perfetta. È quando iniziamo a crescere che spesso non è più così, per questo spero che Carolina un giorno sia una donna felice. Non è detto, però, che debba essere felice proprio qui o che debba esserlo per via di un fidanzamento. Non voglio fare discorsi banali, tipo che l'amore non è tutto o qualche altra frase fatta. Io stessa ho fatto un sacco di sciocchezze per amore, lo sai bene. Mi auguro solo che Carolina sappia scegliere gli uomini meglio di me... e, sia chiaro, non parlo di te. Anzi, mi stupisco di me stessa. Quando ho conosciuto te, sono finalmente riuscita a combinare qualcosa di sensato e, visto il mio passato, non era per niente scontato.»
Giuseppe non riuscì a non ribattere: «Io, da parte mia, mi auguro che Enrico non diventi un poco di buono. Così non avresti nulla di cui preoccuparti, se per caso, malauguratamente, la mia ipotesi che un giorno possa mettersi insieme a Carolina si trasformasse in realtà.»
Giovanna sospirò.
«Ti prego, non ne parliamo più. Voglio solo trascorrere una bella serata con te... e mi pare che manchi poco, ormai. Siamo quasi arrivati o sbaglio?»
Non sbagliava, ma Giuseppe era piuttosto sorpreso dalla sua decisa presa di posizione contro quella che, di fatto, era stata solo una considerazione innocente. Sembrava che, per Giovanna, una potenziale relazione tra Enrico e Carolina fosse il peggiore dei mali. Fu quella la prima volta in cui gli venne un atroce dubbio. Giovanna aveva sempre asserito che la figlia era stata concepita un mese dopo la loro prima separazione e, di conseguenza, non poteva essere figlia sua.
Domandandosi segretamente se l'amata gli avesse mentito su qualcosa di così grande, che avrebbe potuto cambiare radicalmente la sua vita, Giuseppe fece comunque finta di nulla, affermando: «Hai ragione, pensiamo alla nostra serata. Al massimo due minuti, poi siamo arrivati. Speriamo di trovare parcheggio.» 

Vincenzo sapeva di non doversi esporre troppo: l'albergo pullulava di persone che avevano come massimo obiettivo quello di scoprire i segreti di chi avevano intorno, specie quando si trattava di faccende relative alla vita sentimentale. Non doveva esporsi, ma in certi momenti non poteva farne a meno: se la persona che desiderava vedere preferiva evitarlo, allora doveva premunirsi, in una maniera o nell'altra.
Mandò a chiamare Carolina, come era già accaduto qualche volta, anche se si sforzava di farlo succedere raramente. Non poteva fidarsi davvero di chi aveva intorno, allo stesso modo in cui suo padre avrebbe fatto meglio a non fidarsi, a suo tempo, di Giuseppe Bianchi.
Attese. Non fu necessario aspettare molto a lungo. La fretta con la quale Carolina si presentò nel suo ufficio, spinse Vincenzo a sperare che anche lei fosse desiderosa di vederlo.
Si alzò in piedi e andò ad accoglierla.
«Mi scusi se l'ho interrotta mentre lavorava, signorina Riva, ma devo discutere con lei di una faccenda piuttosto urgente.» Ebbe cura di parlare ad alta voce, per farsi sentire dalla cameriera alla quale aveva chiesto di convocarla, qualora fosse tornata lungo quel corridoio. «Chiuda la porta, per cortesia, quando viene dentro.»
«Buongiorno signor Gottardi» lo salutò Carolina, ugualmente ad alta voce. «Spero che non ci siano dei problemi.»
Chiuse la porta, rimanendo a guardarlo senza dire nulla. Vincenzo prese la chiave, che si era messo in tasca poco prima, e la fece girare nella toppa, tentando di fare meno rumore possibile.
«Che intenzioni hai?» gli domandò Carolina, a bassa voce.
«Non lo so, che intenzioni hai tu, piuttosto?» ribatté Vincenzo. «Pensi di tagliarmi fuori dalla tua vita?»
«Non l'ho mai pensato.»
«Eppure è da giorni che mi stai lontana. Non ne posso più.»
Carolina gli scoccò un'occhiata di fuoco.
«Ti è mai venuto in mente che forse mi hai chiesto qualcosa che non posso darti?»
«Ti ho chiesto di mettere le cose in chiaro con Enrico» replicò Vincenzo. «Gli piaci e non fa nulla per nasconderlo.»
Sperava che lo sguardo di Carolina si addolcisse, ma con quelle parole ottenne l'effetto esattamente opposto. In più la receptionist si preoccupò di ricordargli: «Sei tu quello che tra un mese si sposerà con un'altra persona. Capisci anche tu quanto sia sconveniente, da parte tua, chiedermi di tagliare i ponti con un amico d'infanzia che si è preso una cotta - assolutamente non corrisposta - per me.»
Vincenzo le ricordò: «Non ti ho chiesto nulla del genere. Sei tu che mi hai detto di essere certa che Enrico sia tuo fratello. Diglielo, così almeno si metterà il cuore in pace.»
Carolina scosse la testa.
«Non posso.»
«Nulla te lo vieta.»
«Mia madre non vuole.»
Vincenzo ridacchiò.
«Non sei un po' troppo grande per obbedire ciecamente agli ordini di tua madre?»
«Non fare finta di non capire» replicò Carolina. «Non vuole che si sappia della sua passata relazione con Giuseppe.»
«Passata relazione» ripeté Vincenzo. «Tu sei sicura che quei due non stiano più insieme?»
Carolina abbassò lo sguardo.
«Stai accusando mia madre di qualcosa?»
«No, vorrei solo capire. È da un po' che un sacco di gente si comporta in modo strano: Enrico, la sua amica con la tuta fucsia...»
«Tuta fucsia?»
«Niente, lascia stare. Però, toglimi una curiosità, sai qualcosa a proposito di un certo Alfredo Vitale?»
Carolina sussultò.
«Alfredo Vitale?»
«Sì, quel tizio che ammazzarono molti anni fa e che fu seppellito da qualche parte» chiarì Vincenzo. «I suoi resti sono stati scoperti di recente.»
Carolina non rispose. Scattò verso Vincenzo e si fiondò sulle sue labbra. Gli infilò la lingua in bocca lasciandolo a chiedersi se quello slancio di passione fosse del tutto sincero o se volesse semplicemente metterlo a tacere. La seconda opzione, purtroppo, era più probabile. Qualunque fosse il segreto di Giuseppe Bianchi e Giovanna Riva, Carolina doveva saperne qualcosa. Nonostante tutto, non la respinse. Il desiderio di essere baciato da lei prevaleva su tutto il resto.
La lasciò fare e attese con pazienza. Quando le loro bocche si separarono, fece un tentativo esplicito di estorcerle almeno una mezza verità.
«Tua madre se n'è andata con Bianchi, vero?»
«Non lo so.»
«Non ci credo che sia andata via senza dirti niente.»
«Mia madre non era del posto. Credo sia giustificabile che sia tornata nei luoghi della sua infanzia.»
«Quindi è là che si trova?»
«Sì.»
«Nessuna fuga all'estero con Giuseppe Bianchi?»
«Giuseppe Bianchi non aveva ragioni per fuggire all'estero.»
Vincenzo fu costretto ad ammettere: «In effetti non è mai stato denunciato per quello che ha fatto. Però non mi hai ancora detto se si trova insieme a tua madre. Non ci credo, che tu non lo sappia. Così come ti ha detto che sei figlia di Giuseppe, deve averti detto anche cos'avevano in mente.»
«Perché non parliamo di quello che abbiamo in mente noi, piuttosto?» ribatté Carolina. «Sei libero stasera?»
«Mai stato più libero» rispose Vincenzo, e non certo per il desiderio di scoprirne di più sulla madre di Carolina. Certo, anche quell'aspetto gli interessava, ma erano ben altre le ragioni per cui avrebbe voluto trascorrere la serata insieme a lei. «Vieni da me, dopo il lavoro?»
«Andrai a casa presto?»
«Se vieni da me, sì.»
«Da quando le tue giornate girano intorno a me?»
«Da quando ci sei, anche se non te ne accorgi.» Non era una frase fatta, Vincenzo era sicuro che fosse veramente così. «Lo so, non è questo che speravi per il nostro futuro e sono certo che, se Enrico non fosse il tuo fratellastro, gli avresti già dato una possibilità. Però, davvero, ogni mio pensiero va a te e inizio a temere che tutto possa andare a rotoli.»
«Non andrà a rotoli niente» rispose Carolina, più fredda di quanto Vincenzo avrebbe desiderato. «Hai fatto delle scelte e io ho deciso di rispettarle. Dopotutto non potevo certo chiederti di scegliere tra stare con me alla luce del sole o fare tutto il possibile per salvare l'albergo.»
«A volte quasi mi auguro che tu me lo chieda.»
«Così saresti libero di scegliere l'albergo?»
Vincenzo scosse la testa.
«No, così grazie a te farei quello che non ho il coraggio di fare da solo. Io non...»
Carolina lo interruppe: «Non dire cose di cui potresti pentirti. Non vorrai che ti supplichi di non sposarti con Paola e che magari ti chieda di sposare me.»
Vincenzo avvampò.
«Stai dicendo sul serio?»
Carolina alzò le spalle.
«Purtroppo non posso chiedertelo seriamente.» Si girò a guardare la porta e allungò una mano verso la chiave. «Devo andare, ci vediamo stasera.»
Vincenzo la trattenne afferrandola per un braccio.
«No, ti prego, non andare via.»
Carolina tornò a voltarsi.
«Ti ricordo che sono qui per lavorare e che questa pausa ingiustificata si è trascinata fin troppo a lungo.»
«Non è una pausa ingiustificata» ribatté Vincenzo, lasciando la presa. «Stai assistendo il titolare in una faccenda molto importante.»
«Sì, sto ascoltando le sue chiacchiere.»
«Se vuoi, ti mostro quello che so fare restando in silenzio.» Vincenzo si avvicinò a Carolina, quasi immobilizzandola tra sé e la porta. «Vuoi ancora scappare? O ti arrendi di fronte a un predatore famelico?»
Carolina ridacchiò.
«Sei proprio un cretino.»
Vincenzo iniziò a sbottonarle la camicia bianca dell'uniforme, pronto ad ammirare meglio le sue curve generose. Frattanto puntualizzò: «Sono un cretino che ti desidera e che sta per avere un'erezione.»
Carolina stava per replicare, ma Vincenzo la mise a tacere allungando una mano per slacciarle il reggiseno. L'altra, nel frattempo, scivolava giù, infilandosi dentro la sua gonna. La receptionist non oppose resistenza, anzi, Vincenzo ebbe l'impressione che volesse implicitamente incoraggiarlo.
La accontentò. La mano con la quale trafficava sotto la gonna, la infilò dentro le mutandine di pizzo - un classico, per Carolina, molto orientata a poche ricorrenti tipologie di biancheria.
«Sei tutta bagnata. Lo prendo come un segnale chiaro.»
«Non ce la fai proprio a startene zitto, eh? Almeno parla piano. Ti ricordo che qualcuno potrebbe sentirci.»
«Pensa quando sentiranno come ti faccio gemere.» Vincenzo smise un attimo di parlare per darle un rapido bacio sul collo. «Voglio solo stare con te, non me ne frega niente dell'albergo. Manderò all'aria tutto.»
Sapeva che Carolina non gli avrebbe creduto. Prima che potesse replicare, Vincenzo affondò le dita dentro di lei, arrendendosi all'idea che non fosse il momento adatto per fare piani per il futuro.

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Capitolo 12
*** Irruzioni e cadaveri ***


IRRUZIONI E CADAVERI

La porta, accostata, si spalancò all'improvviso. Vincenzo pensò subito a qualche grana di lavoro, oppure a Carletti venuto a reclamare la sua presenza, ma vide invece Carolina. Non aveva idea del perché fosse tornata, quindi la guardò con aria interrogativa.
«Posso entrare?» chiese la receptionist.
Vincenzo annuì.
«Sì, certo. Qualche problema?»
«C'è una signora che insiste per vederti. Posso farla salire?»
«Mia madre, per caso?»
Carolina scosse la testa.
«Dice che è la tua governante e che ti deve parlare di una faccenda urgente. Ha chiesto se può vederti, oppure se puoi richiamarla.»
Vincenzo non aveva idea del perché Luciana volesse vederlo, ma soprattutto del perché si fosse recata all'albergo. Non era mai successo fino a quel momento.
«Sì, falla salire.»
«Va bene, vado a chiamarla.»
«Accompagnala su, non penso che conosca la strada.»
Carolina annuì, prima di allontanarsi. Pochi minuti più tardi tornò per scortare Luciana, poi si congedò.
La governante entrò con aria esitante e subito si giustificò: «Non volevo disturbarla, ma è successa una cosa di cui devo parlarle.»
«Venga, non c'è problema» la invitò Vincenzo. «È successo qualcosa di grave?»
«No, non di grave, però è capitata una cosa strana.»
«È andata a fuoco la casa?»
«No. Stamattina ho trovato una donna in casa sua.»
Vincenzo spalancò gli occhi.
«Una donna?!»
Luciana sembrava una tiratrice che avesse appena fatto centro, mentre esclamava: «Lo sapevo che non poteva essere una sua amante!»
Vincenzo trattenne a stento una risata.
«Vedo che non si fa problemi a parlare di mie amanti.»
Luciana arrossì violentemente.
«Mi scusi, non volevo sembrare invadente, né affermare che abbia delle amanti. Non...»
Vincenzo la interruppe: «Non si preoccupi. Alla fine lo sa, cosa faccio nella mia vita privata. Nasconderle le cose non è possibile.»
«Se posso permettermi, la ragazza della reception è bellissima, e mi sembra anche piuttosto gentile.»
«Concordo in pieno, ma mi parli di quella donna. Dov'era? Davanti all'ingresso? O era riuscita a entrare nel cortile?»
«Penso che abbia frainteso, signor Gottardi. Non le ho detto che questa donna la stesse aspettando fuori casa, né che fosse entrata nel cortile. Era proprio dentro casa, l'ho trovata nascosta dentro lo sgabuzzino. Non ho idea di quanto tempo abbia passato là dentro. Mi ha detto di essere una sua amica, ma non le ho creduto molto.»
«Infatti non ho invitato amiche a casa mia in mia assenza. Mi potrebbe descrivere questa mia presunta amica?»
Luciana gli parlò di una donna tra i trenta e i quarant'anni, minuta, con i capelli tinti di biondo e una ricrescita castana piuttosto evidente.
Vincenzo non ci mise molto a fare due più due.
«Per caso portava una tuta fucsia?»
«Portava un paio di jeans e una maglietta bianca» rispose Luciana, «Però aveva una felpa fucsia, o qualcosa del genere, legata in cintura.»
«Olimpia.»
«La conosce?»
«Purtroppo.»
«Come ha fatto a entrare in casa?»
Vincenzo azzardò: «La spiegazione più probabile è che mi abbia rubato le chiavi. In effetti le ho perse, qualche giorno fa, e mai ritrovate. Immagino che siano sempre state in suo possesso.»
Luciana volle sapere «È una persona pericolosa?»
Vincenzo rise.
«No, non è per niente pericolosa. Non ho idea di cosa facesse a casa mia, ma non c'è da preoccuparsi. Se n'è andata senza fare storie, dopo?»
«Sì, ma se ha le chiavi, allora potrebbe essere tornata» replicò Luciana. «C'è qualcosa che posso fare?»
«Può tornare a casa sua. Si è disturbata anche troppo per me. La ringrazio per avermi riferito quello che è successo. Non si preoccupi, me la vedo io con Olimpia e con chi l'ha mandata da me.»
«Allora vado, e scusi ancora se sono venuta a disturbare.»
«Nessun disturbo. Adesso, però, vada a casa. Non c'è più niente che possa fare.»
Luciana se ne andò, lasciandolo solo a interrogarsi sulle ragioni per cui Olimpia gli avesse rubato le chiavi e fosse andata a curiosare in casa sua. Non vi erano dubbi sul fatto che fosse proprio lei l'autrice di quell'incursione.
Non era convinto che l'avrebbe scoperto, ma doveva comunque mettere in chiaro con le persone di competenza che non avrebbe più tollerato simili "intromissioni". Non aveva dubbi su chi fosse il burattinaio che aveva messo in piedi quell'assurda sceneggiata.
Andò a cercare Enrico Bianchi e gli fu molto difficile mantenere il controllo. Gli chiese se potessero parlare in disparte e lo invitò a seguirlo. Non lo portò nel proprio ufficio, ma in un'area isolata dell'albergo. Voleva essere certo di essere completamente solo con lui. Attese di arrivare a destinazione, prima di parlare. Quando lo fece, non ebbe mezze misure e andò subito dritto al punto.
«Che cazzo volete da me, tu e la barista impicciona?»
Enrico gli parve spiazzato, mentre ripeteva: «Barista impicciona?»
«Olimpia.»
Enrico annuì.
«Oh, sì, la conosco.»
«Stamattina si è introdotta in casa mia, facendosi cogliere sul fatto dalla governante venuta a fare le pulizie» puntualizzò Vincenzo. «Perché gliel'hai chiesto?»
Enrico lo fissò con gli occhi strabuzzati.
«In che senso Olimpia si è introdotta in casa tua?»
«L'altro giorno mi ha rubato le chiavi e stamattina è venuta da me a mia insaputa» rispose Vincenzo. «Non credo, comunque, di dovertelo spiegare, saprai benissimo anche tu che cosa sia successo, dato che dietro a tutto questo ci sei tu.»
«Sei tale e quale a tuo padre, anche lui saltava a conclusioni affrettate, facendo accuse che non stavano né in cielo né in terra.»
«Se vuoi continuare a credere che Giuseppe sia un santo, fai pure. Devo ammettere che la cosa non mi riguarda: sei suo figlio, ma per me siete due persone diverse. Ciò di cui mi devi rendere conto è quello che fai tu. Cosa speravi di ottenere? Cosa pensi che nasconda in casa mia?»
Enrico chiarì: «Non ho mandato nessuno a casa tua. Con questo non voglio dire che Olimpia non possa esserci venuta di sua spontanea volontà, ma ti assicuro che non è opera mia.»
Vincenzo azzardò: «Quindi stai affermando che tu e Olimpia non vi vedere e che non l'hai mai incontrata da quando sei tornato in città?»
«Mi stai mettendo in bocca delle parole che non ti ho detto» replicò Enrico. «È vero, ho incontrato Olimpia, dopo essere tornato, così come le ho parlato di te e dell'albergo. So che è venuta a vedere se ti incontrava mentre facevi jogging. Ti chiama Occhi Viola, in confidenza. Penso che tu le piaccia.»
«In effetti ha cercato di baciarmi. Però non penso sia esattamente così che stanno le cose. Mi ha fatto un sacco di domande, anche su tuo padre. Sei tu che vuoi scoprire qualcosa su di lui o sbaglio?»
Enrico sospirò.
«Sì, è vero. Voglio scoprire come sia andata. Io non ci credo, che mio padre si sia intascato dei soldi non suoi. Lo conosco, non l'avrebbe mai fatto. Però non avrei mai mandato Olimpia dentro casa tua.»
Vincenzo puntualizzò: «Me l'hai sguinzagliata dietro.»
Enrico ribatté: «Ho chiesto a Olimpia di farti delle domande, tutto qui. Mi sembra legale. Anzi, sei stato tu che sei andato a cercarla al bar, dopo i vostri primi incontri. Non mi sarei mai permesso di suggerirle di rubarti le chiavi ed entrare in casa tua di nascosto. Non mi sarebbe nemmeno mai venuto in mente.»
«E allora perché Olimpia era in casa mia, stamattina?»
«Non lo so.»
«Mi sembra difficile crederlo.»
«Immagino che possa sembrarti difficile, ma ti assicuro che non mi sarebbe mai passato per la testa. Olimpia avrà preso troppo sul serio le mie richieste e avrà deciso di fare qualcosa che non le ho mai suggerito. Mi dispiace molto che sia successo, ma ti assicuro che non doveva andare così, nei miei piani.»
«Anche ammettendo che tu non abbia chiesto a Olimpia di introdursi in casa mia, che cosa pensavi di scoprire?»
«Niente che ti riguardi.»
Vincenzo gli scoccò un'occhiata di fuoco.
«Volevi scoprirlo da me, tramite lei, quindi penso che la cosa più facile sia chiedere direttamente a me. Cosa vuoi sapere? Sono qui per risponderti, non hai bisogno di ricorrere a certi mezzi discutibili.»
Enrico insisté: «Non ho niente da chiederti.»
«Quindi non vuoi sapere di quel giorno in cui ho sentito i nostri padri che discutevano del denaro sottratto?» replicò Vincenzo. «Mi dispiace, non mi sono inventato niente, è tutto vero, li ho sentiti con le mie orecchie. Magari mi dirai che non è possibile, ma non credo ci siano altre spiegazioni. Posso immaginare che non sia bello scoprirlo, per te, ma non posso cambiare la realtà a tuo piacimento. Devi rassegnarti e devi dire a Olimpia di lasciarmi in pace, prima che le venga in mente di combinare qualcosa di grave.»
«Ti ripeto che non sono stato io a suggerire a Olimpia di venire a casa tua a tua insaputa» ripeté Enrico. «Sono dispiaciuto per quello che ha fatto, ma...»
«A proposito» lo interruppe Vincenzo, pur sapendo che Carolina non avrebbe gradito quella confidenza, «Mi è parso di capire che tu voglia scoprire che fine ha fatto tuo padre. È scappato con Giovanna Riva, molto probabilmente.»
Enrico impallidì.
«Mio padre con...»
«Con la madre di Carolina, ma i dettagli non li sa nemmeno lei, quindi non provare a metterla in mezzo. Questo ti ho detto e deve rimanere tra di noi.»
«Come lo sai?»
«Non ha importanza.»
«Per me potrebbe averne.»
«Invece ti assicuro che non ne ha, specie considerato che Carolina non sembra ricambiare quello che provi per lei» tagliò corto Vincenzo. «Perché è palese, non fai altro che girarle intorno.»
«Per avere sulle spalle la gestione di questo posto, ne hai del tempo per impicciarti negli affari degli altri.»
Vincenzo ignorò quella constatazione.
«Ti ho detto quello che so, non ho altro da aggiungere.»
Enrico obiettò: «Invece credo che tu sappia altro. Giovanna stava con Alfredo Vitale, vero?»
«Può darsi, ma non è a me che devi chiederlo. Non ha importanza, comunque. Quell'uomo è morto da decenni.»
«Ma il suo cadavere è stato trovato poco prima che capitasse lo "scandalo" di mio padre.»
«E quindi?»
«Rifletti. Non appena vengono ritrovati i suoi resti, c'è un presunto ammanco all'hotel. Mio padre viene licenziato, ma riceve dei soldi per andare via. Anche Giovanna lascia il lavoro più o meno nello stesso periodo. Tuo padre deve sapere della loro relazione, assumendo che quello che mi hai detto sia vero. Quindi, se pensa che Carolina sia la figlia dell'amante di un ladro, perché la assume?»
«Io e Carletti abbiamo assunto te, che sei figlio dello stesso ladro. Mi dispiace, Enrico, ma la tua fantasia galoppante non può cambiare la realtà. Rassegnati e piantala di arrampicarti sugli specchi in nome di qualcosa che non esiste.»
Vincenzo vide Enrico irrigidirsi, ma non ricevette risposta. Gli voltò le spalle e si allontanò. Quella giornata sarebbe stata ancora lunga, aveva tante cose da fare, ancora. Non voleva più mettersi dei problemi a proposito di deliri su furti e cadaveri. 

Era tardi, ma era meglio così. Carolina doveva essere già a letto e probabilmente anche la madre di Giovanna. I fuochi d'artificio erano terminati già da tempo, quindi nulla doveva avere impedito loro di prendere sonno. Era meglio così, almeno Giuseppe avrebbe potuto accompagnare Giovanna fino a casa, invece di farla scendere dalla macchina all'inizio di quella via buia. Sapeva che a Giovanna non piaceva andarsene in giro a piedi lungo quella strada, nonostante fosse una zona relativamente tranquilla della periferia.
Imboccò la via e, a bassa velocità, si diresse verso l'abitazione dell'amante. Si rese conto di un ostacolo in mezzo alla strada solo poco prima che fosse troppo tardi. Lo evitò per un soffio, mentre Giovanna borbottava: «Cos'è quel...»
Si interruppe. Entrambi dovevano avere notato una sagoma umana, illuminata dai fari dell'automobile. Spalancarono le portiere e scesero nello stesso istante. In un primo momento Giuseppe pensò a una persona che aveva avuto un malore. Non era così. O quantomeno, era chiaro che si trattasse di un uomo con una grossa ferita sulla testa, sporca di sangue già secco.
«È... m-morto?» balbettò Giovanna.
Era morto, Giuseppe non nutriva alcun dubbio, ma non rispose, gli mancava la voce.
Giovanna, invece, ne aveva ancora, dato che gli chiese: «Cosa dobbiamo fare?»
Era una bella domanda, ma Giuseppe non aveva risposta nemmeno per quella. Non gli era mai capitato di ritrovarsi davanti un cadavere con la testa insanguinata gettato sulla strada.
Un urlo soffocato di Giovanna lo fece raggelare. Pronunciò qualcosa di incomprensibile. Con un grosso sforzo, Giuseppe cercò di rassicurarla: «Va tutto bene.»
Ciò che disse Giovanna subito dopo gli fece realizzare una macabra verità: non aveva gridato di fronte alla scoperta di un cadavere qualsiasi, ma per l'identità dello stesso. Pronunciò quel nome con sicurezza: «È Alfredo Vitale.»
Gli istanti che passarono furono molto confusi. Giuseppe non l'aveva mai incontrato di persona, ma ne aveva sentito parlare, non solo da Giovanna, anche da Roberto Gottardi e Maurizio Melegari. Anzi, aveva avuto l'impressione che entrambi avessero avuto a che fare con lui, in passato.
«Dobbiamo trovare un telefono» disse, quando un'idea iniziò a farsi largo nella sua testa.
«Da me» propose Giovanna.
«No, una cabina a gettoni. Ce n'è qualcuna, qua vicino?»
«Cosa vuoi fare?»
«Dobbiamo chiamare Roberto, spiegargli il problema.»
«Il... problema?»
«Vitale. Non possiamo fare finta di niente, se è il bastardo che ha tentato di ucciderti. Qualcuno potrebbe accusarti... accusare noi.»
«E quindi?» volle sapere Giovanna. «Cos'hai in mente?»
«Non ho in mente nulla, ma Roberto riuscirà senz'altro a suggerirmi qualcosa» replicò Giuseppe. «Vai a casa. Fai finta di non avere visto nulla. Quella ferita non se l'è fatta da solo. Ed è sporco di sangue, ma non c'è sangue sulla strada. Chi gli ha spaccato la testa, l'ha portato qui di proposito.»
Giovanna parve opporsi con fermezza a quell'idea: «No.»
«Deve essere andata così» insisté Giuseppe. «Non è possibile che sia una coincidenza.»
«No, non vado a casa, questo volevo dire» chiarì Giovanna. «Non ho idea di cosa tu voglia fare, ma la farò con te. Lascia fuori Roberto, non possiamo fidarci di lui.»
«Lo conosco da anni e mi fido ciecamente di lui» replicò Giuseppe. «Inoltre se la cava meglio di me, in situazioni diciamo difficili. Si inventerà qualcosa. Vai a casa, per favore. Andrà tutto bene, te lo posso garantire. Dimmi solo dove posso trovare un telefono a gettoni.»
Si sentì sollevato, nel riuscire a convincerla. Risalì in macchina, si allontanò e si diresse verso la cabina telefonica. Chiamò Roberto e lo supplicò di raggiungerlo sul posto, affermando che fosse una questione di vita o di morte. L'amico non si oppose, né gli chiese spiegazioni per quella telefonata a ora così tarda. Si presentò sul posto e lo ascoltò con attenzione mentre gli esponeva i fatti.
«Alfredo Vitale, maledetto» mormorò, dando segno di conoscerlo ancora meglio di quanto Giuseppe potesse immaginare. «E così quel bastardo aveva a che fare anche con Giovanna. Sembra tutto fatto apposta.»
A Giuseppe, in quel momento, non interessavano tanto le chiacchiere, ma i fatti. Gli domandò, quindi: «Cosa dobbiamo fare?»
«Penso a tutto io» lo rassicurò Roberto. «Ha cercato di dare problemi da vivo, non gli permetterò di fare danni anche da morto. Vai a casa, risolvo tutto io.»
Era la stessa cosa che Giuseppe aveva detto a Giovanna poco prima. L'unica differenza, tra loro due, era che Roberto sembrava davvero avere le idee chiare
«Stai attento, mi raccomando.»
«Non c'è bisogno che tu me lo dica. Certo, avrei preferito non ritrovarmi a tu per tu con il suo cadavere, ma non permetterò a questo stronzo di darvi dei problemi.»
«Come l'hai conosciuto?»
«È una lunga storia. Derubava i miei clienti, molti anni fa. Penso avesse qualche aggancio dentro l'albergo, anche se non ho mai scoperto chi fosse. Poi, di punto in bianco, sparì. Sentii dire che se n'era andato in un'altra città, ma non sapevo con esattezza dove, finché non finì in carcere per tentato omicidio. Era tornato qui da poco e, per quanto mi riguarda, c'è rimasto abbastanza.»

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Capitolo 13
*** Doppie vite ***


DOPPIE VITE

Quando Occhi Viola entrò nel bar, Olimpia stava guardando proprio verso la porta. L'orologio appeso alla parete segnava le 18,30 passate da pochi minuti e c'era un certo affollamento di clienti: molti lavoratori che, già usciti da fabbriche e uffici, dovevano ancora tornare presso le loro abitazioni. Olimpia non era sola, c'era anche sua madre, che in quel momento stava servendo dei caffè a un gruppetto di donne sulla cinquantina.
Olimpia preferiva i momenti di maggiore tranquillità non perché le permettessero di rallentare un po' il ritmo, quanto piuttosto perché aveva un po' di tempo da dedicare alle "pubbliche relazioni". Seppure trovasse noiosi certi discorsi triti e ritriti, non disdegnava affatto quegli istanti: poteva accadere anche soltanto in un caso su dieci, ma c'era sempre qualcuno che aveva qualcosa di interessante da dire, oppure in grado di cogliere eventuali allusioni.
Il fatto che Vincenzo Gottardi facesse la propria comparsa al bar a quell'ora poteva sconvolgere i suoi piani, anche se al momento non erano ancora molto ben definiti. Olimpia sarebbe stata ben lieta di parlargli di nuovo a tu per tu, se se ne fosse presentata l'occasione, ma quella non era un'occasione: Occhi Viola era andato da lei nei panni di un cliente qualsiasi... o almeno così credeva.
Vincenzo si diresse con decisione verso di lei e rimase a fissarla per qualche istante in silenzio. Olimpia cercò di stemperare l'atmosfera sorridendo, ma Gottardi la guardò con un'espressione fin troppo cupa.
«Qualche problema?» gli chiede.
Forse avrebbe fatto meglio a tapparsi la bocca, dato che Vincenzo ne approfittò per replicare: «Sì, tanti, tutti provocati dalla stessa persona. Quella persona sei tu.»
Forse credeva di poterla colpire, con quelle parole, ma Olimpia non si lasciò intimidire. In tono beffardo, ribatté: «Ti darò anche dei problemi, ma continui sempre a presentarti qui.»
«Io mi presento nel tuo bar, tu entri di nascosto a casa mia» ribatté Vincenzo. «A proposito, hai ancora le mie chiavi. Pensi di restituirmele o devo cambiare serratura? Oppure te ne sei fatta fare una replica per ogni evenienza e mi conviene cambiarla lo stesso?»
Olimpia sospirò. Si era illusa che la governante tacesse, ma era ormai ovvio che non fosse andata così. Doveva avere fornito a Vincenzo una descrizione dettagliata, tanto da permettergli di fare due più due. Non aveva molto senso negare, tanto valeva arrendersi all'evidenza.
«Sì, hai ragione, sono entrata in casa tua.»
«Potrei avere l'onore di sapere come mai?»
«Preferisco informarmi sulle persone con cui ho a che fare.»
«E raccogli informazioni rubando mazzi di chiavi e introducendoti nelle case altrui di nascosto?» Vincenzo aveva alzato la voce di qualche tono, un po' come se volesse essere sentito dalla totalità dei presenti. «È una follia!»
«Parla piano» lo pregò Olimpia.
«Perché? Per caso hai paura che tutti scoprano chi sei veramente?»
«E dovrebbero scoprirlo da te? Non sai niente di me. Sai solo quel poco che ti ho messo davanti agli occhi.»
«Invece so molto di più di quanto tu creda» replicò Vincenzo, con freddezza. «Tu non sei nessuno. Sei solo una bambina cresciuta che se ne va in giro con tute dai colori ridicoli, che segue gli uomini per cui si prende una cotta e che si comporta in maniera ossessiva.»
Olimpia rise, sprezzante.
«Lo vedi? Avevo ragione, non sai niente di me.»
«Illuminami, allora.»
«Non ho una cotta per te. Non preoccuparti, non mi metterò tra te e la tua futura moglie. A quello ci può pensare la donna che ami. La chiami così, giusto?» Dal modo in cui Vincenzo spalancò gli occhi, Olimpia comprese di averlo spiazzato. Attese una sua replica, ma non arrivò, quindi si sentì autorizzata a chiedergli: «Chi è quella gran bella donna con i capelli neri di cui tieni le foto nascoste nel cassetto del comodino?»
Vincenzo parve riacquistare almeno un po' della propria sicurezza.
«Mi stupisce che tu non l'abbia già scoperto da sola.»
«Non l'ho scoperto perché non mi sono messa all'opera. Sai, ho questioni più serie di cui occuparmi.»
«Ti riferisci a questioni professionali oppure all'impicciarti nei cazzi degli altri?» Ancora una volta, Vincenzo riprese ad alzare la voce. Se in precedenza aveva ottenuto il misero risultato di avere solo qualche sguardo fugace rivolto a lui, adesso sembrava avere catalizzato l'attenzione di buona parte dei presenti. Soltanto le cinquantenni servite poco prima dalla madre di Olimpia parevano più concentrate sui loro caffè e sulle loro chiacchiere. «È tutto quello che sai fare, vero? Perché non ti trovi un altro hobby? Se proprio ti resta tanto tempo libero da impiegare in qualche modo, non potresti dedicarti all'uncinetto o al bricolage, come le persone normali?»
Olimpia gli strizzò un occhio.
«Se proprio lo vuoi sapere, me la cavo sia con l'uncinetto sia con il bticolage.»
«Non mi aspettavo niente di diverso da una pazzoide iperattiva come te. Hai altri talenti da illustrarmi?»
«Non mi hai ancora detto chi è la bruna nella foto.»
«Non sono affari tuoi.»
«Sono entrata in casa tua e ho frugato tra i tuoi effetti personali, comprese le tue mutande. Sono già affari miei. O vuoi che mi metta alla ricerca della tua futura consorte - tanto non ci vorrà molto per rintracciarla - e che ne discuta direttamente con lei?»
Dopo quelle parole, Vincenzo parve divertito.
«Ho capito bene? Mi stai minacciando di dire a Paola che tengo in un cassetto delle fotografie di un'altra donna?»
«Hai ragione, non ho molto tra le mani» ammise Olimpia. «Però sono molto brava a rigirare le frittate a mio piacimento, quindi ti assicuro che potrei causare dei problemi seri anche senza avere vere e proprie prove contro di te.»
«Lo vedo che sei brava a rigirare le frittate, hai commesso un reato penale contro la mia proprietà, ma ti comporti come se nulla fosse. Lo sai che potrei denunciarti?»
«So anche che non lo farai.»
«Sei molto sicura di te stessa.»
«Questione di sopravvivenza.»
«Se vuoi sopravvivere ancora a lungo, restituiscimi le mie chiavi e assicurami che non ti farai più vedere a casa mia. Ti chiederei anche di non venire più al parco, ma non penso di poterlo fare. Quello è un luogo pubblico. Ti sarei solo molto grato se evitassi di venire a parlarmi dandomi l'idea di avermi seguito.»
«Non posso restituirti le chiav-...»
Olimpia non riuscì a finire quella frase; fu interrotta da Vincenzo che sbottava: «Come sarebbe a dire che non mi vuoi restituire le chiavi? Che cazzo ti passa per la testa, stupida pappagallina dalle piume fucsia?»
Olimpia avvampò nell'udire risate e commenti borbottati a mezza voce.
«Tutti ci stanno ascoltando, sei contento?» sibilò. «Nessuno si è mai permesso di chiamarmi pappagallina dalle piume fucsia.»
«Stupida sì?»
«Credi di essere divertente?»
Vincenzo chiarì: «Non voglio essere divertente, voglio solo le mie chiavi. Devo fare domanda in carta bollata, oppure pensi di potermele rendere senza inventarti scemenze tipo che non vuoi restituirmele?»
«Non ho mai detto nulla di tutto ciò» puntualizzò Olimpia. «Ho detto solo che mi è impossibile restituirele in questo momento. Non le ho portare con me, ce le ho a casa.»
«Vai a prenderle, allora.»
«Non ci penso nemmeno. Solo perché tu te ne stai in giro a non fare nulla, non significa che io non stia lavorando. Non ho tempo per andare a casa.»
Vincenzo le propose: «Allora dammi le chiavi di casa tua e dimmi dove abiti. Le vado a prendere io e ne approfitto per curiosare tra la tua biancheria. Cosa te ne pare della mia proposta?»
«Penso che tu sia qui senza consumare e che dovrei cacciarti fuori, altro che restituirti le chiavi.» Olimpia fissò Occhi Viola con fermezza. «Se pensi di incantarmi con qualche chiacchiera, ti sbagli di grosso. Quando mi metto in testa qualcosa, nessuno riesce a farmi desistere.»
«E cosa ti saresti messa in testa, esattamente?» le chiese Vincenzo. «Non riesco a capire.»
Olimpia gli spiegò, in tono pacato: «Se ti può consolare, non sono follemente attratta da te, né ti seguo perché hai dei begli occhi. Non fraintendermi, hai davvero dei begli occhi, ma non mi è mai importato niente del colore degli occhi dei miei ex e continuerà a non importarmene niente nemmeno in caso di relazioni future..»
«Anche perché, se posso darti un suggerimento, potresti puntare a personaggi tipo Enrico Bianchi. Non ha una fidanzata e, per quanto ne so, non ha grandi frequentazioni femminili.» Vincenzo si fermò per qualche istante, forse per riflettere. «O devo pensare che tu abbia già puntato a Enrico? Gli ho parlato e mi ha assicurato che non sapeva niente della tua idea di entrare in casa mia, ma del resto potresti averlo fatto senza informarlo, nella speranza di guadagnarti la sua approvazione.»
«Lavori troppo con la fantasia» ribatté Olimpia. «Hai mai pensato che, se faccio qualcosa, la posso fare anche per me stessa?»
«Ci ho pensato eccome, ma non mi viene in mente nessuna ragione valida per cui tu avresti dovuto metterti in testa di entrare nella mia vita come se fossi ossessionata da me. Faresti meglio a smettere di indignarti, se qualcuno pensa che tu agisca in un certo modo perché ti piace il tuo amico d'infanzia: faresti sicuramente più bella figura ad ammettere di volerlo impressionare, piuttosto che lasciando capire che rubi mazzi di chiavi ed entri in casa altrui di nascosto solo perché sei una pazza invasata.»
«Sarò anche una pazza invasata, ma tu e tuo padre non me la raccontate giusta.»
«Ti assicuro che mio padre è morto da tempo e di certo attualmente non dice nulla su nessun argomento di tuo interesse.»
«Tuo padre ha incastrato il padre di Enrico e tu non fai altro che adeguarti alle sue  azioni deplorevoli.»
Vincenzo sbuffò.
«Mi hai stufato, tuta fucsia. Quello che è successo tra mio padre e Giuseppe Bianchi non ti riguarda.»
Olimpia decise di scoprire le carte.
«Invece sì, mi riguarda eccome, non perché sono pazzamente attratta da Enrico e voglio fare colpo su di lui, ma perché le ingiustizie mi fanno incazzare profondamente. Giuseppe Bianchi è una brava persona e non è giusto che sia stato trascinato nel fango da delle accuse infamanti e prive di fondamento. Che prove hai contro di lui?»
Vincenzo le ricordò: «Quando è accaduto quel fatto, io non avevo voce in capitolo nella gestione dell'albergo. Non ci venivo nemmeno, se non occasionalmente e solo per qualche visita di cortesia a mio padre o ai dipendenti che conoscevo da anni. Quello che è successo non è affare mio e gradirei essere lasciato in pace. Cosa pensi che nasconda a casa mia? Prove che scagionano Bianchi da un'accusa che non è mai uscita dal posto di lavoro? Mi dispiace deluderti, ma non c'è niente di tutto ciò.»
«Ci sono solo foto che attestano che hai una doppia vita, quindi devi essere per forza molto bravo a mentire. E, prima che tu mi dica che non ci sono prove, come mai terresti nascoste quelle fotografie, se non ci fosse niente da nascondere?»
«La mia presunta doppia vita non ti riguarda.»
Olimpia azzardò: «Quella donna è Carolina Riva, vero?»
Vincenzo spalancò gli occhi.
«Che cazzo stai dicendo?»
«È Carolina Riva?» insisté Olimpia. «È la tua amante? Ha raccontato a Enrico di avere una relazione segreta con un uomo già impegnato, ma non ha voluto confidargli altri dettagli. Da come me l'ha descritta Enrico, potrebbe somigliare alla donna delle fotografie.»
«Te lo ripeto, devi badare agli affari tuoi.»
«Vorrà dire che verificherò io stessa. Non penso che tu abbia i mezzi per impedirmelo. Mi basterebbe appostarmi davanti all'albergo alla mattina oppure alla sera e aspettare che Carolina passi per entrare o uscire. La fermerei e le chiederei se è lei l'amica di Enrico. Non penso si rifiuterebbe di rispondermi, non ci troverebbe assolutamente niente di equivoco o fuori luogo.» Olimpia continuò a sentire commenti a mezza voce e a vedere gli occhi dei presenti puntati su di lei, ma non si lasciò intimidire. Anzi, iniziava a piacerle l'idea di smascherare Vincenzo Gottardi davanti a un palcoscenico. Non sarebbe stato facile fermarsi e non intendeva farlo, seppure non avesse vere e proprie ragioni personali per agire contro di lui. «Perché lo fai? Perché ti stai per sposare, se nel frattempo te la fai con un'altra donna? Che cosa speri di ottenere? Finiresti solo per vivere nella menzogna. È questo che vuoi per il tuo futuro? E, ammesso che a te stia bene, ti sei mai chiesto cosa succederebbe se la tua futura moglie lo venisse a scoprire? Non ti senti colpevole nei suoi confronti? Non pensi che dovresti prendere una decisione e che la doppia vita che vivi non possa essere una soluzione?»
«L'unica che dovrebbe prendere una decisione sei tu» replicò Vincenzo, «E dovrebbe essere quella di stare lontana da me, dalla mia vita privata e dai deliri su Giuseppe Bianchi. Quell'uomo se n'è andato senza più farsi vedere, non pensi che, se avesse voluto in qualche modo difendersi o dimostrare la propria innocenza l'avrebbe fatto?»
«Non sono deliri, i miei. Se Enrico non si impegna abbastanza, allora voglio dare il mio contributo. Sto facendo domande, le sto facendo da giorni a chiunque mi capiti a tiro. Prima o poi scoprirò che cos'avete fatto al signor Bianchi e non avrò problemi a sputtanare te e il tuo defunto padre.»
«Eccome se sono deliri. Inoltre, se vuoi un consiglio, evita di intrometterti in questioni che non ti riguardano e coinvolgere gente a caso. Potrebbe essere pericoloso.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che, se per te indagare significa intrufolarti a casa d'altri a loro insaputa, potresti rischiare grosso. C'è gente poco raccomandabile in giro, ti conviene fare attenzione.»
Senza aggiungere altro, Vincenzo le voltò le spalle e uscì dal bar. Olimpia si ritrovò da sola con addosso gli sguardi dei clienti e anche quello della madre. Senza più Occhi Viola all'interno del locale, non le faceva molto piacere continuare a ritrovarsi al centro dell'attenzione.
«Piantatela di fissarmi, lo spettacolo è finito» sbottò. «Ringraziate il signor Vincenzo Gottardi, perché quello che è appena capitato è stato per opera sua.»
In molti tornarono alle proprie consumazioni, altri ripresero a giocare a carte o a leggere il giornale. Qualcuno iniziò a parlare a gran voce di argomenti di cronaca, passando per la politica interna e quella estera con la convinzione di essere un grande intenditore.
Un uomo di mezza età sentenziò: «Olimpia, quel tale è troppo snob per te, lascialo perdere.»
Olimpia fece un mezzo sorriso.
«A me, Vincenzo non interessa.»
Due o tre tra i presenti fecero qualche breve battuta, ma poi l'argomento svanì nel nulla, allo stesso modo in cui tendenzialmente, dopo la visione delle partite di calcio alla TV, i dibattiti sulle performance calcistiche terminavano pochi istanti dopo il triplice fischio finale.
Olimpia sperava che la visita di Vincenzo Gottardi appartenesse ormai al passato,  ma non fu così. Non appena la clientela si fu diradata, sua madre si lamentò con lei per la decisione di Occhi Viola di presentarsi al bar a fare polemica. Olimpia non tentò nemmeno di difendersi dalle accuse. Parlare apertamente sarebbe equivalso a confidarle di come fosse maturata la sua convinzione di violare il domicilio di quell'uomo, questione che, in generale, preferiva non approfondire.
Per fortuna, più tardi sua madre andò a casa, lasciandola sola. Purtroppo la situazione non migliorò. Quando ormai anche per Olimpia giunse l'ora di andare via, ricevette una telefonata. Era Enrico, doveva essere appena rincasato dal lavoro. Era chiaramente al corrente di quanto accaduto quella mattina e non ne era per niente entusiasta. Le intimò di non prendere più iniziative insensate e di cercare di non creargli problemi con Gottardi.
Olimpia assicurò a Enrico che non avrebbe combinato altri guai e si affrettò a salutarlo. Non aveva voglia di continuare quel discorso, tutto ciò che desiderava era togliersi dalla testa quello che era successo, almeno per quel poco che restava della serata. Si mise a lavare a terra, certa che non si sarebbe più presentato nessuno. L'orario di chiusura, del resto, era già passato.
Udì dei passi alle sue spalle.
«È già chiuso» disse, senza voltarsi verso il cliente ritardatario.
Non ricevette risposta. Per un attimo le venne il dubbio di essersi confusa, che non ci fosse nessuno dietro di lei. Poco dopo, invece, avvertì un micidiale colpo alla nuca. Non ci volle molto prima che il buio piombasse su di lei.

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Capitolo 14
*** Alla luce del sole ***


ALLA LUCE DEL SOLE

Giovanna indossò la vestaglia sulla camicia da notte e aprì la porta, nonostante l'ora tarda e il non avere invitato nessuno quella serata. Non si stupì affatto nel ritrovarsi a tu per tu con il suo ex fidanzato. Alfredo si presentava da lei almeno occasionalmente, per chiederle di tornare insieme, nonostante avesse messo in chiaro più di una volta di non volerne sapere più niente di lui. Tutto ciò che la meravigliò fu che Vitale non si fosse presentato al suo cospetto con cioccolatini o fiori, spesso rubati da qualche parte. Non si sorprese minimamente, invece, quando iniziò uno dei suoi monologhi sul fatto di essere alla ricerca della propria strada e di desiderare portarsi sulla retta via. 
«Con il tuo aiuto» aggiunse, «Potrei diventare una persona migliore.»
Giovanna ci aveva provato, ad aiutarlo, e non solo una volta. Quando si era resa conto dell'impossibilità di allontanarlo dalla sua vita di espedienti, spesso ai limiti della legalità, aveva deciso di chiudere la loro relazione.
Glielo ricordò: «Ho già sentito questo discorso tante volte, quando stavamo insieme. E sai qual è il problema? Che me lo dici ancora ogni volta in cui ci vediamo. E ci vediamo quando vieni qui a chiedermi soldi. Cosa vuoi?»
Alfredo fece un sorriso innocente.
«Non voglio niente. Non sono qui per chiederti un prestito.»
Giovanna gli scoccò un'occhiataccia.
«Mi è difficile crederlo.»
«Davvero, non sono qui per soldi. È che mi manchi, mi manchi tantissimo.»
«Tu invece no.»
«Non ti credo.»
«Invece faresti bene a credermi. Stavo bene con te, è vero, ma mi illudevo di stare bene. Me ne sono resa conto soltanto dopo, quando ti ho lasciato. Adesso è tutto molto più semplice.»
«Stai con qualcun altro?»
«No.»
«E non senti la mancanza di qualcuno che ti stia accanto?»
Tutto ciò di cui Giovanna sentiva la mancanza era il proprio letto. Non vedeva l'ora di andare a dormire e Alfredo le stava solo facendo perdere tempo.
«Vattene» lo pregò.
Alfredo se ne andò. Giovanna richiuse la porta, senza chiuderla a chiave. Voleva affrettarsi ad andare alla finestra, ad assicurarsi che il suo ex fidanzato si allontanasse. Lo vide avviarsi lungo la strada e diede per scontato che fosse andato via.
Tornò alla porta d'ingresso e fece per infilare la chiave nella toppa. Sentì bussare e, per lo stupore, la lasciò cadere. La porta si aprì mentre si chinava a raccoglierla.
«Alfredo, cos'altro vuoi?»
Non ottenne risposta, ma notò subito le scarpe indossate dall'ospite. Erano diverse da quelle che portava Alfredo pochi minuti prima. Giovanna si rialzò e si ritrovò a tu per tu con un uomo che non aveva mai visto prima.
Si irrigidì mentre gli chiedeva: «E lei chi è? Cosa ci fa a casa mia?»
L'uomo che aveva di fronte le mostrò un sorriso imbarazzato.
«Mi scusi, ho sbagliato porta.»
Giovanna gli scoccò un'occhiata gelida.
«Sta forse affermando di non ricordarsi dove abita?»
«No, sto solo affermando di avere ricevuto un invito da una persona e di avere seguito male le sue istruzioni. Mi scusi davvero.»
«Vada, allora. Non vorrà fare aspettare la sua amante.»
«A-amante?»
«Immagino che fosse un invito di quel tipo.»
Lo sconosciuto continuò a sembrarle in preda all'imbarazzo.
«Ha ragione, è un invito di quel tipo. Non riesco proprio a spiegarmi come sia finito da lei... specie dopo avere visto un uomo uscire da questa porta.»
Nonostante non avesse il dovere di dare spiegazioni sulla propria vita privata a un individuo uscito dal nulla, Giovanna chiarì: «Una visita indesiderata, una grande seccatura.»
L'uomo che aveva aperto la porta di casa sua e accennato a varcare la soglia non commentò. Si limitò a voltarle le spalle, ribadendo: «Mi scusi ancora per il disturbo.»
Pronunciate quelle parole, si allontanò nella notte. Giovanna chiuse la porta a chiave e finalmente andò a dormire. Si addormentò senza più pensare né ad Alfredo né allo sconosciuto che le aveva fatto visita. 

Olimpia era ricoverata da giorni in terapia intensiva. I medici parlavano di presunti segnali incoraggianti, ma era ancora priva di conoscenza e non vi erano effettive certezze sul futuro. In quei giorni era accaduto tutto e il contrario di tutto ed Enrico non era riuscito a stare al passo con le novità. In un primo momento, preoccupato per la sorte dell'amica di vecchia data, non aveva pensato troppo alle vicissitudini delle altre persone che lo circondavano, ma la rassegnazione di fronte all'assenza di cambiamenti nelle condizioni di Olimpia lo stava portando a occuparsi anche di altro.
Si ritagliò qualche momento per rimanere da solo con Carolina. In fondo bastava poco: presentarsi al lavoro in anticipo e approfittarne per fermarsi alla reception da lei.
La Riva fingeva di non sentire tutte le voci sul suo conto. In albergo non si parlava d'altro, quantomeno quando non lo si faceva ad alta voce, ma ci si limitava a qualche sussurro.
Enrico avrebbe fatto a meno di mettersi allo stesso livello di tutti i colleghi, ma si sentiva in dovere di accertarsi di cosa stesse succedendo. Fu quella la ragione per cui, a bruciapelo, le chiese: «Così era Vincenzo il misterioso uomo già impegnato con cui stavi insieme?»
Si aspettava che Carolina abbassasse lo sguardo, oppure che si rifiutasse di rispondere, ma non fu così. La receptionist, in tono piatto, affermò: «Sì, è Vincenzo l'uomo con cui sto insieme.»
Enrico non poté fare a meno di notare l'uso del presente.
«State ancora insieme?»
«Già.»
«Nonostante tutto?»
«Nonostante cosa?» obiettò Carolina. «Anzi, la situazione si è evoluta all'improvviso e adesso tutto potrebbe iniziare ad andare per il verso giusto.»
Enrico le ricordò: «Olimpia è in ospedale ed è in coma. Verso giusto? Non mi pare.»
Carolina mise in chiaro: «Non mi riferivo a quella povera donna. Mi dispiace molto per lei, ma io nemmeno la conosco.»
«Però Vincenzo la conosce e hanno discusso di qualcosa al bar, poche ore prima dell'aggressione.»
«Non c'è bisogno che tu me lo dica, lo so perfettamente. La polizia ha fatto un sacco di domande a Vincenzo, il giorno dopo. Sembra che una banale discussione da bar venga considerata un movente sufficiente per tentare di ammazzare una persona. È per questo che l'ho convinto che doveva dire la verità su di noi. Ho passato tutta la sera e tutta la notte a casa sua, so che non è mai uscito per andare da lei in tarda serata. Difenderlo era il minimo che potessi fare.»
Enrico osservò: «Vincenzo è stato messo di fronte a una scelta difficile. Da un lato, scagionarsi da una potenziale accusa di tentato omicidio, dall'altro rischiare di mandare a monte il suo matrimonio. Nessuna delle due cose può essere fatta a cuore leggero.»
Carolina mormorò, a voce talmente bassa da essere a malapena percettibile: «Non conosci la situazione, ti prego di non commentarla.»
«Allora perché non mi dici tu come stanno le cose, se non vuoi che giudichi senza sapere?» Enrico si rese subito conto di essere stato troppo brusco, quindi cercò di rimediare. «Voglio dire, puoi fidarti di me.»
Si aspettava che Carolina gli intimasse di badare ai propri interessi, oppure che gli rispondesse in malo modo, ma l'amica replicò, con tono cordiale: «Non possiamo parlarne qui. Posso venire da te questa sera, quando finisci di lavorare?»
Enrico non se lo fece ripetere due volte. Accettò, anche se, come al solito, il suo appartamento non brillava esattamente per l'ordine. Sperava di fare in tempo a dare almeno una rapida sistemata al soggiorno.
Il resto delle ore che lo separavano dall'incontro in tarda serata con Carolina fu vissuto in funzione di quel momento. Enrico non aveva altro per la testa e, per quanto l'idea della relazione tra la receptionist e Vincenzo non gli facesse piacere, era convinto che conoscerne le dinamiche l'avrebbe aiutato a raggiungere l'obiettivo finale. D'altronde che garanzie poteva offrirle Gottardi? C'era voluta una grave aggressione ai danni di Olimpia affinché ammettesse pubblicamente di avere una storia con Carolina. Se nessuno avesse colpito brutalmente alla nuca la sventurata barista, verosimilmente Vincenzo sarebbe rimasto accanto a Paola per tutto il resto dei suoi giorni. O almeno, era quanto pensava Enrico. La versione dei fatti che gli raccontò Carolina quella sera differiva, e non di poco, dalla sua ricostruzione.
Dopo un breve e fugace commento sulla fotografia d'infanzia che Enrico teneva esposta nel soggiorno, Carolina si sedette accanto a lui e iniziò a narrargli di come, un anno e mezzo prima, quando da poco Vincenzo aveva preso in mano le redini dell'albergo succedendo a Roberto Gottardi, tra loro fosse nata fin dal primo momento una simpatia reciproca. A Enrico sfuggì un lieve sorriso, ripensando a Olimpia, che senz'altro non avrebbe utilizzato termini così civili e poco altisonanti per descrivere l'inizio di una relazione erotica. Quel sorriso si spense comunque molto in fretta, al pensiero delle condizioni nelle quali si trovava al momento quella povera donna.
Carolina proseguì il proprio racconto, dopo avere supplicato Enrico di tenere per sé quella parte, facendo una digressione a proposito di debiti accumulati da Roberto Gottardi prima della propria morte. In un primo momento Enrico non comprese il nesso tra le due vicende, ma Carolina lo chiarì ben presto: il debito era stato contratto con un certo signor Rossini, che minacciava di prendersi una quota dell'albergo se non fosse stato saldato in tempi molto brevi. Vincenzo, allora, aveva pensato che, se avesse sposato la figlia del creditore, tutto si sarebbe sistemato.
Enrico non riusciva a credere di avere finalmente un argomento con il quale screditarlo davanti agli occhi di Carolina.
«Questo dice molto di lui, non credi?»
«Cosa dovrebbe dire?»
«Ha illuso la povera Paola, si è finto innamorato di lei. Quella poveretta non se lo meritava. Non hai pensato che un giorno potrebbe comportarsi in modo così squallido anche con te?»
«Quella poveretta, come dici tu, considera Vincenzo solo un amico e, per motivi personali, ha deciso di prestarsi a quella sceneggiata» mise in chiaro Carolina. «Non posso dire che mi facesse piacere, ma Vincenzo stava già pensando a una simile possibilità, quando tra di noi le cose si sono fatte più serie. Mi ha chiesto se avessi voluto che si tirasse indietro, ma gli ho detto di no. Non mi interessava stare con lui alla luce del sole, tutto quello che contava, per me, era che potesse essere felice.»
«E sposare Paola Rossini l'avrebbe reso felice?»
«No, ma l'avrebbe reso parente dell'uomo a cui deve un sacco di soldi. Ha fatto di tutto per costruire un buon rapporto con il padre di Paola. Non faceva altro che ripetermi di trovare noiosi i Rossini al gran completo e di essere costretto a invitarli spesso a casa sua, ma che non gli pesava perché pensava alle conseguenze positive della sua scelta.»
«Non riesco a capire come tu abbia potuto accettare di fargli da amante, pur sapendo che stava scegliendo deliberatamente di sposarsi con un'altra persona con la quale ha solo un rapporto di amicizia.»
Carolina sospirò.
«Non devi necessariamente capirmi. Ci tenevo solo a farti sapere la verità, adesso che almeno una parte è venuta a galla..»
Enrico volle sapere: «Cosa succederà adesso?»
Carolina gli spiegò: «Vincenzo non ha voluto che Paola ci andasse di mezzo. L'ha pregata di non raccontare che il loro fidanzamento ufficiale era una montatura e che avrebbe dovuto esserlo anche il loro matrimonio. L'ha pregata di comportarsi come una qualsiasi fidanzata tradita e di essere lei a mettere ufficialmente fine al loro fidanzamento. Paola gli aveva suggerito di fingere un ritorno di fiamma nel giro di poche settimane, ma Vincenzo non ha voluto.»
«Non si sposeranno più?»
«No.»
«Perché?»
«Perché Vincenzo ha appena iniziato ad assaporare la possibilità di stare con me alla luce del sole e non vuole tornare indietro.»
Enrico rimase in silenzio per qualche istante, pensando a come replicare. Non rifletté abbastanza e si ritrovò presto a scomodare i loro genitori.
«Mio padre e tua madre hanno nascosto la loro relazione per anni. Vuoi per caso nasconderti anche tu?»
Carolina sussultò.
«Sai di loro?»
«Non so quando sia iniziata la loro relazione» ammise Enrico, «Ma so che stanno insieme adesso.»
«Te l'ha detto tuo padre?»
«Non importa chi me l'abbia detto, lo so e basta. Non penso sia così bello nascondere la propria vita privata. Vorrei tanto che, almeno tu, prendessi una strada diversa.»
Carolina puntualizzò: «Ho già preso una strada diversa. Adesso sanno tutti che sto con Vincenzo.»
Enrico non si arrese.
«Tutti credono che tu sia un rimpiazzo, adesso che la fidanzata ufficiale l'ha lasciato.»
«Perché dovrebbe importarmi così tanto quello che pensa la gente? Quello che conta è quello che pensiamo io e Vincenzo e, sinceramente, non capisco dove vuoi arrivare.»
«Meriti un uomo migliore di lui.»
Carolina si lasciò andare a una lieve risata.
«Parli come se il mondo fosse pieno di uomini che vorrebbero stare con me.»
Enrico si fece avanti.
«Io vorrei stare con te.»
Carolina si girò di scatto e prese a fissarlo.
«Come, prego?»
Enrico la guardò negli occhi.
«Mi piaci. Sei uno dei pochi motivi per cui sono felice di essere tornato. Non mi va giù l'idea che tu ti faccia rigirare come un burattino da Vincenzo. Poi rischia anche di perdere l'albergo, adesso. Non puoi neanche dire di stare con lui per i suoi soldi.»
«Non sto con lui per i suoi soldi» replicò Carolina, con freddezza. «Ti sembra così assurda l'idea che io voglia stare con lui e che non mi stia affatto facendo rigirare come un burattino? A me, sinceramente, pare più insensata la tua dichiarazione, se così la vogliamo chiamare.»
«Lo ammetto, devo sembrarti un po' strano» convenne Enrico, «Ma sentivo di dovertelo dire.»
«Proprio adesso che sai che sto insieme a Vincenzo?»
«Proprio adesso perché, se non lo facessi, poi sarebbe troppo tardi. Almeno, per il momento, c'è ancora qualche possibilità che tu possa cambiare idea.»
Carolina si alzò in piedi, scuotendo la testa.
«No, non cambierò idea. In più, è quasi mezzanotte, è meglio che vada.»
«Ti accompagno alla porta, allora» le propose Enrico, alzandosi a propria volta. La sua amica non si oppose e si avviarono insieme. Le aprì la porta e, quando era già sul pianerottolo, le chiese: «Adesso cosa succederà tra di noi?»
Carolina alzò le spalle.
«Cosa dovrebbe succedere? Tu mi hai detto che dovrei lasciare Vincenzo e mettermi insieme a te, io ho declinato. Per me non cambia niente.»
«Lo spero» ribatté Enrico. «Ci tengo tanto a te.»
Carolina abbassò lo sguardo.
«Anch'io. Sei stato come un fratello maggiore per me.»
Enrico rispose: «Non è esattamente quello che speravo di sentire da te, ma me lo farò bastare. Spero davvero che tu possa essere felice insieme a Vincenzo, se resterai con lui, e che non sarai costretta a nasconderti di nuovo.»
«A volte chi si nasconde ha fatto quella scelta ben precisa» sentenziò Carolina, prima di andarsene, «E non è detto che sia per forza sbagliata. Mia madre si è nascosta a lungo, ma ha avuto alla luce del sole una relazione ben più infelice.» 

Giovanna uscì dal panificio rischiando di ribaltare il sacchetto che teneva in mano, complice un uomo maldestro che si fiondava sulla porta. C'era un bambino, insieme a lui, che poteva avere quattro o cinque anni, e fu su di lui che, in un primo momento, posò lo sguardo.
«Mi scusi» disse l'uomo, facendo un passo indietro.
Il bambino si fermò, doveva avere capito che il padre non intendeva entrare nel negozio, almeno per il momento.
«Non fa nulla» rispose Giovanna, guardandolo con maggiore attenzione.
Le fu subito chiaro chi fosse e, da come lo vide ridacchiare, comprese che anche lui doveva averla riconosciuta.
«Evidentemente è mio destino fare delle brutte figure in sua presenza.»
Giovanna avvampò. Non sapeva cosa dire. Distolse lo sguardo, abbassando gli occhi sul bambino.
«Ebbene sì, ho famiglia» si giustificò l'uomo, nonostante non gli fossero state chieste delle spiegazioni.
La presenza del figlio, tuttavia, servì ad abbattere il muro dell'imbarazzo. Giovanna tornò ad alzare lo sguardo e affermò: «È un bel bambino, le somiglia un po'. Come si chiama?»
«Si chiama Claudio. Io invece sono Maurizio.»
«Giovanna, piacere di conoscerla. Ora, però, dovrei andare a casa.»
«È a piedi? Le posso dare un passaggio in macchina.» Maurizio accennò a un sorriso. «Ha qualche chilometro da fare.»
«Sono in bicicletta, mi dispiace.»
«Accidenti alle biciclette e a chi le ha inventate, allora! Peccato, mi sarebbe piaciuto fare qualcosa per farmi perdonare. Per poco non le ho ribaltato il pane a terra, per non parlare di quando, la settimana scorsa, è successo il fattaccio.»
Giovanna lo rassicurò: «Tutti possono fare degli errori. Magari, se le riesce, cerchi di essere meno istintivo. E di bussare, quando si presenta a casa di qualcuno.»
Maurizio le suggerì: «Lei chiuda la porta a chiave, invece. L'ha detto lei stessa, quella sera, di avere ricevuto una visita indesiderata.»
«Non si preoccupi, sono in grado di controllare il mio ex fidanzato» affermò Giovanna. «Non è un uomo pericoloso.»
«Lo spero per lei» disse Maurizio. «Mi dispiacerebbe se qualcuno la tormentasse o addirittura le facesse del male. Sembra una donna così gentile. Si merita il meglio e glielo auguro.»

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Capitolo 15
*** Egocentrismo ***


EGOCENTRISMO

Prima di uscire di casa, Enrico lanciò un'occhiata alla fotografia di lui e Carolina da bambini. Sentì le guance incendiarsi al pensiero di quello che le aveva detto la sera precedente. Il fatto che avesse spontaneamente voluto recarsi a casa sua l'aveva riempito di speranze, ma iniziava a rendersi conto dell'unica ragione per cui Carolina aveva scelto la sua abitazione come luogo di confidenze: l'essere al riparo da orecchie indiscrete. All'interno dell'albergo c'erano impiccioni patentati, e non necessariamente quelli che si autoproclamavano tali. Enrico si era illuso, era andato alla ricerca di un significato nascosto, ma il rifiuto di Carolina e le sue parole l'avevano riportato alla realtà: non gli aveva nemmeno detto di considerarlo solo un amico, situazione che un giorno sarebbe potuta mutare, quanto piuttosto di considerarlo come un fratello maggiore, condizione senza via d'uscita.
Uscì e chiuse la porta alle proprie spalle domandandosi cosa sarebbe cambiato, tra lui e Carolina. Per quanto la sua amica non gli sembrasse propensa ai giudizi affrettati, Enrico era realista e si rendeva conto che tutti giudicavano, almeno in minima parte, compresi quelli che affermavano - taluni davvero convinti - di non giudicare mai. Come sarebbe stato rivederla, di lì a poche ore, passando davanti alla reception? Per fortuna c'era ancora molto tempo prima di quel momento, quindi poteva almeno provare a non pensarci, specie considerato che doveva affrontare qualcosa di ben peggiore.
Salì in macchina, diretto verso l'ospedale nel quale Olimpia era ricoverata. Lo faceva di frequente, anche se non tutti i giorni, e si limitava a guardarla, intubata e con gli occhi chiusi, al di là di un vetro. Non era mai entrato nella stanza, perché sapeva di non potere fare niente per lei. C'era chi, in visita alle persone in coma, aveva l'abitudine di parlare loro, credendo di potere essere udito. Enrico non aveva idea di cosa potesse percepire Olimpia, ma dialogare in sua presenza gli sarebbe sembrato come parlare al muro. Non sarebbe stato in grado di portare avanti una conversazione con se stesso.
C'era traffico, quella mattina, e qualche volta gli venne da imprecare in presenza di automobilisti, ciclisti o pedoni che interpretavano in un modo tutto loro il codice della strada. Impiegò ben più del tempo che aveva preventivato e, nei pressi dell'ospedale, cercò a lungo un parcheggio con le righe bianche invece che blu, rimpiangendo i bei vecchi tempi in cui, da ragazzino, se ne andava in giro con l'autobus e, una volta giunto alla fermata e sceso dal mezzo, non aveva più bisogno di metterci un grosso impegno.
Trovato un posto in cui lasciare l'automobile, si avviò verso la propria destinazione. Camminò come un automa lungo i corridoi, diretto verso il reparto di terapia intensiva e verso il vetro attraverso il quale avrebbe potuto vedere Olimpia.
C'era già un uomo, nella postazione alla quale Enrico aveva puntato. Guardava verso l'interno della stanza con aria apparentemente assorta, ma il suo arrivo non gli passò inosservato. Si girò infatti verso di lui e lo scrutò per qualche istante, infine gli domandò: «Lei è un amico di Olimpia?»
Enrico annuì.
«Sì, un amico d'infanzia. Andavamo a scuola insieme.»
«Bianchi?»
«Già.»
«Olimpia mi ha parlato molto di lei, in passato. Non sapevo che fosse qui in città. Credevo si fosse trasferito da molto tempo.»
«Infatti sono tornato a vivere qua da poco» confermò Enrico. «Ho visto Olimpia qualche volta, da quando sono tornato.» Si rese conto, a quel punto, di essere intento a giustificarsi per la propria presenza con un perfetto sconosciuto, quindi gli domandò: «Lei invece chi è? Un parente?»
«Sono l'ex marito di Olimpia.»
«Oh.»
«Mi lasci immaginare, non le ha parlato di me.»
«Mi ha accennato a un matrimonio fallito, ma non ha detto altro.»
«Non ha inventato nulla, quindi.»
Enrico aggrottò la fronte.
«Perché, cos'avrebbe dovuto inventare?»
L'uomo gli confidò: «La mia ex moglie ha sempre avuto una visione tutta sua del mondo. Si comportava spesso in modo strano o improbabile e in certi momenti era una vera e propria - senza offesa - oca svampita. Ho sempre avuto l'impressione che fosse profondamente annoiata dalla sua vita e che cercasse a tutti i costi di evadere la monotonia. La gente comune di solito lo fa leggendo, guardando la televisione o andando al cinema. Olimpia no, aveva la tendenza a costruirsi delle fantasie sul mondo che la circondava. Sospettava di tutto e di tutti, adorava vedere del marcio in ogni cosa e farsi dei film mentali su tutto ciò che le capitava a tiro.»
Enrico obiettò: «Se l'idea la spaventa, non si è inventata niente su di lei, può stare tranquillo. O almeno, non si è inventata niente con me, mi ha appena accennato alla sua esistenza. Non so cos'abbia raccontato ad altri. Come le ho detto, sono tornato da poco dopo molti anni passati in diverse città, quindi è da poco che ho riallacciato i contatti con Olimpia.»
«In diverse città?» Il suo interlocutore parve incuriosito. «Di cosa si occupa? Il fatto che abbia dovuto spostarsi così tanto lascia pensare a qualcosa di importante.»
«Faccio il cameriere, ho lavorato in ristoranti, stabilimenti balneari e alberghi di ogni tipo» rispose Enrico. «Immagino di non essere importante tanto quanto le sono sembrato. Ho scelto deliberatamente di non restare sempre nello stesso posto, non sono stato costretto.»
«E adesso è tornato in pianta stabile?»
«Chi può dirlo?»
«Lavora da queste parti, attualmente?»
«In un albergo qui in città.»
L'ex marito di Olimpia azzardò: «L'albergo di Roberto Gottardi?»
Enrico confermò.
«Già. Come ha fatto a indovinare, se non sono indiscreto?»
«Mi sembra di ricordare che suo padre lavorasse là. Me ne ha parlato Olimpia, quando stavamo insieme. Mi raccontava un sacco di cose sulla sua infanzia e sulla sua adolescenza. Alcune erano addirittura credibili.» Guardò l'orologio che portava al polso. «Mi scusi, ma devo andare. La lascio solo, se vuole andare a fare visita a Olimpia.»
Enrico stava per replicare che non sarebbe entrato nella stanza, ma si fermò e non disse nulla. Non aveva alcuna ragione per riferire a quell'uomo quali fossero le proprie intenzioni. Si limitò a salutarlo con un cenno e a chiedersi quante cose Olimpia avesse raccontato in giro su di lui e sulla sua famiglia.
L'idea che il suo nome fosse associato a primo impatto a quello dei Gottardi non lo faceva impazzire di felicità, ma né lui né suo padre avevano mai fatto nulla affinché non accadesse. La domanda dell'ex marito di Olimpia - gli sovvenne che non si era presentato e che non gli era venuto in mente di chiedergli come si chiamasse - era capitata al momento giusto. Era tornato per restare? E soprattutto, perché? Aveva l'impressione che non ci fosse stato nulla di positivo nel tornare a casa, specie considerato che gli era difficile considerare la propria città natale come una casa.
Ripensò a quanto l'ex coniuge di Olimpia avesse affermato su di lei: era insoddisfatta di una vita banale e cercava conforto nel viaggiare con la fantasia, come se quel modo di essere e di comportarsi potesse aiutarla a vedere un senso nella propria esistenza. Avevano qualcosa in comune, Enrico e Olimpia, avevano solo combattuto la banalità in modi molto diversi: se Olimpia si era sentita ancorata al proprio luogo natio e all'attività di famiglia, Enrico aveva potuto eludere le mura della città d'origine e andare a scoprire da vicino altri luoghi e altre esistenze. Aveva vissuto, seppure per brevi periodi, tante vite diverse, mentre Olimpia aveva dovuto accontentarsi di immaginarle.
Non gli venne difficile comprendere le ragioni per cui la sua amica si era lanciata a capofitto nella sua indagine strampalata nei confronti di "Occhi Viola", né perché avesse iniziato a interessarsi con così tanta fretta alla vicenda di Alfredo Vitale e a tutto ciò che aveva a che fare con l'albergo. Sarebbe stata perfino in grado, realizzò Enrico, di andare a scoprire che fine avesse fatto Maurizio Melegari, un vecchio collaboratore di Roberto Gottardi che sembrava avere lasciato il lavoro molti anni prima. Nessuno sentiva parlare di lui da molto tempo, all'albergo, e c'era addirittura chi vociferava a proposito della sua presunta morte. Non era vecchissimo - poteva avere settant'anni, massimo settantacinque - ma si narrava che fosse stato gravemente malato e che ormai i suoi giorni fossero terminati da tempo.
Enrico si ricordava poco di lui, gli era capitato di incontrarlo qualche volta, da ragazzino, quando se ne andava in giro per l'albergo insieme a Vincenzo. Lo vedevano spesso ronzare intorno a Giovanna Riva, la madre di Carolina, e ciò sembrava divertire non poco Vincenzo, che lo prendeva in giro di nascosto, nella convinzione che ne fosse infatuato, ma destinato a non essere mai corrisposto.
Anche Enrico ricordava di avere riso a quell'idea, istigato da Vincenzo. Chissà cos'avrebbe pensato l'Enrico ragazzino dell'Enrico adulto, se la sera precedente avesse potuto sentirlo mentre si dichiarava a Carolina. Quel pensiero lo fece avvampare e avrebbe tanto desiderato toglierselo dalla testa. Era in ospedale, con Olimpia inerte al di là di una finestra, eppure non riusciva a pensare ad altro se non a se stesso.
Gli venne spontaneo chiederselo, se almeno in altri momenti si fosse mai sforzato di preoccuparsi anche per gli altri, o se fosse stato troppo egocentrico e concentrato sulla propria esistenza. Realizzò che forse era proprio così, che era quella la ragione per cui, a poco a poco, tutti si erano allontanati da lui. Perfino suo padre se n'era andato senza metterlo al corrente né della relazione con la madre di Carolina, né del luogo nel quale si trovava. Gli aveva addirittura fatto credere velatamente di essersi rifugiato all'estero, quando in realtà era molto probabile che vivesse nel borgo del centro Italia nel quale era cresciuta Giovanna.
Si chiese se il suo comportamento, il suo essere sempre sfuggente e poco empatico, fosse la ragione per cui Carolina non ne voleva sapere di lui, se non come "fratello maggiore". Il fatto che stesse con uno come Vincenzo la diceva lunga sul fatto che si accontentasse con poco e che avesse standard piuttosto bassi, o almeno era quella l'idea che Enrico aveva sempre avuto del suo amico d'infanzia. Un tempo Gottardi era un ragazzino goffo, con un ridicolo taglio di capelli a scodella e l'aria da pesce lesso. Enrico si era sempre detto che avrebbe potuto trovarsi una donna soltanto grazie ai soldi e alle attività di famiglia, ma a quanto pareva la situazione era cambiata. Anzi, doveva ammettere che Vincenzo aveva un certo fascino, e non solo per il colore dei suoi occhi che a Olimpia sembrava piacere così tanto.
Tutto era mutato irreparabilmente, nei tre lustri che Enrico aveva passato lontano da lì, tornando solo di tanto in tanto, ma non se n'era mai accorto davvero, e chissà per quanto tempo ancora non vi avrebbe fatto caso, se non fosse arrivato il secco rifiuto di Carolina.
Immerso com'era nelle proprie riflessioni, non si accorse della presenza di qualcuno dietro di lui, fintanto che non sentì una mano che gli si posava su una spalla. Si girò e spalancò gli occhi, nel ritrovarsi faccia a faccia proprio con Vincenzo Gottardi. Non si aspettava di incontrarlo in ospedale e lo fissò a lungo senza dire niente.
Fu Vincenzo a spezzare il silenzio.
«Come sta Tuta Fucsia?»
«Come al solito.»
«Mi dispiace tanto per lei.»
Enrico gli ricordò: «Sei tu che hai avuto una discussione con lei, poche ore prima che venisse aggredita.»
«Era entrata in casa mia di nascosto dopo avermi rubato le chiavi» ribadì Vincenzo. «Avevo tutto il diritto di essere arrabbiato con lei, non credi? Però non le auguravo certo che le capitasse qualcosa di grave. Mi dispiace molto per lei... e anche per te.»
«Per me?»
«Siete grandi amici, no?»
«Sì, siamo amici.»
«Appunto, mi dispiace per te, che una persona a cui vuoi bene sia in queste condizioni. Certe cose non si augurano a nessuno. O almeno, io non le auguro a nessuno, tu non lo so.»
Enrico si irrigidì.
«Cosa vuoi dire?»
«Niente.»
«Mi è difficile crederti.»
«È proprio questo il tuo problema» replicò Vincenzo. «Sei costantemente sospettoso, vedi tutto come un attacco personale. A volte, quando qualcuno dice una cosa, intende proprio quella, senza significati nascosti: ce l'avevo con Olimpia per quello che aveva fatto, quella sera, ma non era sufficiente per desiderare che qualcuno tentasse di ammazzarla. Non so come la pensi tu, ma io la vedo così. È questo  volevo dire, nient'altro.»
«Hai ragione, scusami» borbottò Enrico. «È solo che...»
Si interruppe, non sapeva cosa dire. Per fortuna Vincenzo riprese a parlare, evitandogli di doversi arrampicare sugli specchi.
«Non ci sono novità, vero? Non è stato scoperto il colpevole?»
«Non sono in contatto con i genitori di Olimpia, immagino che loro sarebbero i primi a esserne informati» spiegò Enrico, «Mentre io ne so quanto te. Spero solo che un giorno Olimpia possa risvegliarsi e raccontare quello che è successo, anche se, essendo stata aggredita alle spalle, potrebbe non saperlo nemmeno lei.»
Vincenzo volle sapere: «Com'era? Una volta, intendo. Io ho conosciuto solo un lato di lei, forse quello peggiore.»
Enrico non se la sentì di parlare al passato, nel rispondere: «Olimpia è un po' strana, ma chi non lo è, dopotutto?»
«Già» convenne Vincenzo. «Alla fine spesso finiamo per fare cose che agli altri sembrano assurde o inspiegabili.»
Ancora una volta Enrico si domandò se quelle parole avessero un secondo fine.
«Parli di mio padre, vero?»
«Hai detto tutto tu.»
«Non è difficile capire quello che pensi.»
Vincenzo ribadì: «Sulla storia di tuo padre, ti assicuro che sono convinto soltanto di quello che ho sentito. Che ti piaccia o meno, non posso farci niente. Non lo accuserei di avere rubato del denaro se lui stesso non l'avesse ammesso in mia presenza. Anzi, non gli ho mai rivolto accuse pubbliche, mi limito a fingere che quella storia non sia mai accaduta. Quello che succedeva durante la gestione di mio padre mi riguarda fino a un certo punto.»
Enrico obiettò: «Mi sembra che i suoi debiti ti riguardino eccome.»
«Ma non riguardano te» gli ricordò Vincenzo. «Bada agli affari tuoi. Ti assicuro che tutti i miei dipendenti, tu incluso, saranno regolarmente pagati per il loro lavoro.»
«Da te o da Rossini?»
«Se fossi un lavoratore dipendente, mi importerebbe semplicemente di ricevere il mio stipendio, non di chi fosse il precedente possessore dei soldi che mi vengono corrisposti. Mi rendo conto, tuttavia, che uno come te magari si mette dei problemi ben poco convenzionali.»
Enrico lo guardò storto.
«Uno come me?»
«Uno come te» confermò Vincenzo. «Non ci vuole molto a capire che vivi in un mondo tutto tuo, animato in apparenza dalla volontà di scoprire cosa sia successo con tuo padre, ma in realtà più concentrato sui tuoi scopi personali che non sulla possibilità di riabilitare il suo nome. Cos'hai fatto, di concreto, per lui?»
Enrico avrebbe desiderato replicare, ma vedeva un fondamento di verità nell'accusa che Vincenzo gli stava rivolgendo. Era tornato in città per scoprire la verità, ma tutto ciò che aveva fatto era stato favorire l'incontro tra Olimpia e "Occhi Viola". Aveva messo più impegno nel dichiararsi a Carolina che non nel fare ciò che avrebbe dovuto. Non che Vincenzo potesse esserne a conoscenza... Anzi, sì, ed Enrico lo scoprì qualche istante più tardi dalle sue parole.
«Tutto ciò che ti importa è di screditarmi agli occhi di Carolina. Ti dà fastidio l'idea che la tua amichetta d'infanzia sia innamorata di me, vero? Ci scommetto che non riesci a concepirlo. Mentalmente sei rimasto a quando eravamo ragazzini e tu eri quello più sveglio e più bravo ad allacciare amicizie. Credo che i tempi siano cambiati, anche se preferisci continuare a credere di avere quattordici anni in eterno.»
Ancora una volta, Enrico si trovò nella posizione di non essere in grado di ribattere. Era vero, si era sempre sentito superiore a Vincenzo, a quell'età, perché riusciva a socializzare più facilmente rispetto all'amico e, diversamente da lui, non era mai stato vittima di prese in giro.
L'altro approfittò del suo silenzio per continuare: «Forse eri più sveglio allora, ma adesso non lo sei più di tanto. Continui a vivere nella tua bolla, senza guardarti intorno e senza porti mai delle domande. Davvero credi di potere avere un futuro con Carolina?»
Enrico trovò la forza di replicare: «Sei tu quello che si sta illudendo. Se ci tieni così tanto a lei, perché volevi sposarti con un'altra? Per adesso Carolina è abituata all'idea, ma non credi che un giorno inizierà a chiedersi se valga la pena di stare con uno come te?»
Vincenzo parve divertito dalle sue parole.
«Stai divagando, Enrico. Non hai centrato il punto. Non sto parlando di Carolina e di me, quanto piuttosto di Carolina e di te... ma mi rendo conto che, per svegliarti, devo essere più specifico. Lo sai, no, perché i tuoi genitori si sposarono?»
«Cosa c'entrano i miei genitori?»
«La loro era una storia poco impegnata. Poi arrivasti tu. Se tua madre non fosse rimasta incinta, lei e tuo padre non si sarebbero mai sposati.»
«Può darsi» ammise Enrico, «Ma non vedo che importanza abbia.»
«Non si amavano davvero.»
«È un concetto troppo generico, per i miei gusti. Due persone stanno insieme e sono affiatate, oppure no. "Amore" è una parola da film romantici. E comunque non capisco cosa c'entri tutto questo con me e Carolina.»
Vincenzo rise.
«Davvero non lo capisci? Tuo padre, a un certo punto, ha trovato il grande amore della sua vita, quello "da film", se preferisci definirlo così. Era la madre di Carolina.»
Enrico puntualizzò: «Ormai lo so, che stanno insieme. Non mi stai dicendo nulla di nuovo.»
«Invece non credo che tu abbia capito. Si conobbero intorno al 1960, diversi anni prima della morte di tua madre. E credo che tu sappia che Carolina è nata nel 1961.»
Enrico comprese dove Vincenzo volesse andare a parare.
«Stai dicendo che Carolina potrebbe essere mia sorella?»
Vincenzo scosse la testa.
«No, ti sto dicendo che lo è. Sua madre gliel'ha confermato. So che adesso mi dirai che non è possibile, ma ti consiglio di chiedere direttamente a tuo padre. Sempre ammesso che tu sappia dove rintracciarlo.»
Enrico lo accusò: «Te lo stai inventando per allontanarci.»
«Perché dovrei? Perché temo che Carolina possa preferirti a me?» Vincenzo gli strizzò un occhio. «So che non è così. Non ho paura di perderla soltanto perché tu sei uscito dal nulla e l'hai pregata, così a caso, di lasciarmi e di mettersi insieme a te. Ci vuole ben altro per farmi sentire così insicuro.»
Enrico insisté: «Te lo stai inventando e riuscirò a dimostrarlo. Presto tutti sapranno chi sei veramente.»
Vincenzo ribatté: «Tutti sanno già chi sono veramente, a parte te. Vai a parlare con tuo padre. Chiedigli di spiegarti tutto quello che ti ha taciuto in questi anni. Allora capirai che non sto complottando contro di te.»
«Me lo stai suggerendo solo perché sai che non posso contattarlo.»
«Sai dove si trova, ormai. Prendi uno stradario, mettiti in macchina e fai delle domande alla gente, per scoprire dove abita. Vacci oggi.»
«Oggi devo lavorare. Per prendermi un giorno libero avrei dovuto parlarne con Carletti e...»
Vincenzo gli ricordò: «Il titolare sono io, per ora. Posso fare a meno di te, finché non avrai scoperto come stanno le cose.»
«E poi?» volle sapere Enrico.
«Non lo so, dipende da te» ribatté Vincenzo. «Immagino che verrai a porgermi le tue scuse per queste assurde illazioni. Sarò lieto di accettarle.»

 

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Capitolo 16
*** Una visita inattesa ***


UNA VISITA INATTESA

Dal pianoterra provenivano due voci. Una era quella di Carolina e, per un attimo, Vincenzo non comprese chi ci fosse insieme a lei. Soltanto dopo qualche istante, tuttavia, si accorse che l'altra persona era Paola. Gli venne spontaneo chiedersi cosa ci facesse a casa sua a quell'ora: era ormai mezzanotte passata da pochi minuti. Si domandò inoltre da quanto tempo fosse arrivata: dopo essere tornato a casa, dove Carolina lo stava aspettando, era andato a farsi una doccia e aveva perso la cognizione del tempo.
Per quanto l'idea di scendere al cospetto di una ospite stando in pigiama non lo allettasse, non aveva alcuna intenzione di rimettersi la camicia e i pantaloni, quindi andò giù così com'era.
Trovò Carolina e Paola sedute in soggiorno che conversavano piuttosto amabilmente. Avrebbe voluto chiedere seduta stante all'ex "fidanzata ufficiale" perché fosse lì, ma non gli parve che la sua presenza fosse fastidiosa per Carolina, quindi evitò, decidendo che si sarebbe fatto raccontare da quest'ultima, in seguito, quando fosse arrivata e cosa le avesse detto per farsi aprire la porta.
Carolina, in effetti, gli avrebbe narrato tutto per filo e per segno, iniziando in maniera molto semplice: quando il campanello era suonato, l'aveva ignorato. Dopotutto non sapeva con esattezza come comportarsi in quella situazione, non era a casa propria, anche se Vincenzo le aveva dato un mazzo di chiavi dopo la rottura del fidanzamento con Paola.
Non avrebbe aperto, se l'ex fidanzata ufficiale non avesse insistito, suonando a più riprese. Carolina si era infilata una vestaglia sopra la camicia da notte e aveva aperto la porta, guardando al di fuori. Paola era al di là del cancello e, quando l'aveva vista, l'aveva supplicata: «Ti prego, fammi entrare, devo parlare con Vincenzo.»
«Vincenzo è in bagno» aveva replicato Carolina. «È appena tornato dal lavoro. Le consiglio di passare domani mattina.»
«È urgente» aveva obiettato Paola. «È molto importante, si tratta dell'albergo.»
Carolina si era convinta e l'aveva lasciata entrare. Le aveva chiesto se poteva offrirle qualcosa, ma Paola aveva rifiutato e si era messa a guardare le fotografie appese alle pareti dell'ingresso.
«Vedo che Vincenzo ha fatto presto a mettermi da parte» aveva commentato, nel vedere che la sua non c'era più, mentre in compenso c'erano parecchi scatti incorniciati che lo ritraevano in compagnia di Carolina.
Quest'ultima avrebbe ammesso di essersi sentita molto in imbarazzo, in quel momento, e di avere cercato di giustificarsi in ogni modo, ritrovandosi a balbettare frasi scomposte. Paola aveva riso di gusto e aveva puntualizzato: «A me non interessa Vincenzo. Non è mai stato più di un amico.»
«E allora perché voleva sposarlo?» aveva replicato Carolina.
Si era pentita subito di avere posto una domanda così diretta a Paola, la quale, tuttavia, si era lasciata andare. Le due si erano sedute in soggiorno e c'erano state confidenze che Carolina non si era aspettata. Nei quindici o venti minuti trascorsi ad attendere Vincenzo, Paola aveva riferito a Carolina della relazione con una delle proprie dipendenti e le due si erano ritrovate a passare dal lei al tu. Paola, però, non aveva anticipato nulla a proposito dell'albergo, se non per menzionare di sfuggita Maurizio Melegari, o per meglio dire il figlio e la nuora dell'uomo che un tempo aveva lavorato al fianco di Roberto Gottardi.
Tutto ciò, Vincenzo l'avrebbe scoperto più tardi. Dopo essere uscito dal bagno e sceso al pianterreno si ritrovò con Carolina e Paola che parlavano tra di loro di un abito da sposa che, secondo l'esperta del settore, era di bassa qualità e scelto per l'esigenza di non spendere troppi soldi.
«Non so dove avesse comprato il vestito, ma anche nelle fotografie si vedeva quanto fosse scadente» raccontava Paola. «Non so chi fosse quella donna, ma doveva essere non solo di bassa estrazione sociale, ma anche poco disposta a investire nel giorno più bello della sua vita. Ricordo che era una tipa minuta, con i capelli tinti di un rosso molto acceso. Non so che fine abbia fatto, così come del resto non ho idea di che fine abbia fatto il figlio di Maurizio.»
Vincenzo intervenne nella conversazione, sedendosi accanto a Carolina: «Cos'ha combinato Maurizio Melegari?»
«Niente, parlavo con mio padre, oggi a pranzo, ed è uscito l'argomento» rispose Paola. «È morto, già da alcuni anni, ormai. Mio padre mi ha anche detto in quale cimitero è sepolto, ma non me lo ricordo.»
«E il figlio?»
«Penso che sia ancora vivo.»
«Non era questo che intendevo» ribatté Vincenzo. «Stavi parlando del suo matrimonio. Quando si è sposato?»
«Minimo cinque anni fa» rispose Paola. «Non è una cosa recente. Hai mai visto sua moglie?»
«Non mi ricordo nemmeno che faccia abbia lui» obiettò Vincenzo, «Come faccio a sapere chi è sua moglie?»
«È una donna con i capelli rossi, tinti di una sfumatura molto forte» gli spiegò Paola. «Mi è rimasta impressa nelle foto che avevo visto a suo tempo. Non aveva un'aria molto distinta. Sembrava una sciattona tirata a lucido, ma con un abito da sposa orrendo.»
«Non conosco sciattone tirate a lucido con i capelli tinti di rosso acceso» affermò Vincenzo, «Né ho la più pallida idea del perché tu sia qui a parlarmene a quest'ora della sera. Non devi andare all'atelier, domani mattina?»
«Ti stavo aspettando» chiarì Paola. «Ti devo parlare, e di certo non di spose troppo trasandate per i miei standard. A fine mese devi saldare mio padre.»
«Lo so.»
«Ed è già passato il 20 da qualche giorno.»
«So anche questo.»
Paola si girò a guardare Carolina. Parve un po' imbarazzata nel chiederle: «Non è che potresti lasciarci da soli?»
Vincenzo scosse la testa.
«No, può restare. Non ho segreti per lei.»
In realtà non le aveva nemmeno detto di avere svelato a Enrico della loro parentela, né di sapere benissimo per quale ragione non si fosse presentato al lavoro quel giorno, ma era una vicenda di tutt'altro tenore.
Non ebbe tempo di pensarci molto. Paola lo distolse subito da quelle riflessioni.
«Va bene, come vuoi. Sarò molto chiara e diretta: mio padre ha messo gli occhi sull'albergo molto tempo fa. C'è stato un periodo in cui le cose non andavano molto bene e si è offerto di prestare del denaro a Roberto Gottardi perché sperava in futuro di poterne acquisire una quota. Quando il povero Roberto è morto e sei subentrato tu, ha capito che il suo intento era ancora più facile da realizzare. Per quello ti ho proposto di inscenare il fidanzamento, per darti il tempo di mettere da parte i soldi per saldare quel debito. Adesso, però, le cose sono cambiate. Mio padre pensa che tu mi abbia spezzato il cuore tradendomi con la tua receptionist. Per questo, tra qualche giorno, ti farà una proposta.»
«Entrare in società con me, immagino.»
«No. Ti proporrà di vendergli tutto.»
Vincenzo spalancò gli occhi.
«Vuole comprarsi l'albergo?!»
«No, vuole entrare in società con te per estrometterti a poco a poco, dovendo sborsare molto meno capitale che per comprarselo, quindi ti farà quella proposta sperando che la rifiuti» precisò Paola. «Per questo ti consiglio di accettare. Non per coglierlo di sorpresa, ma proprio per il tuo interesse: perderai comunque l'albergo, prima o poi, tanto vale venderglielo adesso e ritrovarti con qualche centinaio di milioni di lire sul conto corrente, piuttosto che svenderglielo per due soldi quando deciderà di farti fuori.»
«Perché me lo stai dicendo?»
«Perché mio padre adesso pensa che distruggerti sia legittimo, ma è anche colpa mia se sei in questa situazione. Se non avessimo deciso di sposarci per convenienza, quantomeno adesso non ti odierebbe. Vorrebbe ancora impossessarsi della tua attività, ma quantomeno si farebbe qualche scrupolo.»
Carolina intervenne: «Non potreste semplicemente dirgli la verità?»
Paola negò con fermezza.
«Non adesso. Se sapesse che l'ho deliberatamente ingannato, di sicuro non mi parlerebbe delle sue intenzioni. Non posso fare niente per fargli cambiare idea su Vincenzo.» Si rivolse proprio a lui. «Tutto quello che posso fare è suggerirti un modo per cadere in piedi e, se fossi al posto tuo, non ci penserei due volte. D'altronde, da quando ci tieni così tanto a quell'albergo? Finché Roberto non è morto, te ne sei sempre tenuto lontano. Gestivi quel locale al mare... puoi sempre comprarti un posto del genere, con i soldi che guadagnerai della vendita dell'albergo. Puoi portare con te anche Carolina, potresti avviare una nuova attività con lei.»
Vincenzo abbassò lo sguardo.
«Non lo so, ci devo pensare.»
«Ti capisco, ma faresti bene a non pensarci troppo.» Paola si alzò in piedi. «Credo di essermi trattenuta anche troppo. È meglio che vada.»
Vincenzo si affrettò a tirarsi su a propria volta.
«Ti accompagno alla porta.»
«Non è necessario, posso andarci anche da sola» replicò Paola, che se ne andò senza nemmeno dargli il tempo di ribattere, lasciandolo a interrogarsi sul da farsi.
Vincenzo rimase immobile senza dire niente per lunghi istanti, non avrebbe saputo quantificare il tempo. Carolina, a sua volta, rimaneva in silenzio, come se non volesse distoglierlo dalle proprie riflessioni. Quando Vincenzo tornò in sé, si sedette di nuovo accanto a lei e le chiese di spiegargli le esatte circostanze che l'avevano condotta a far entrare Paola. Fu allora che Carolina gli riferì i pezzi che ancora gli mancavano, fino al discorso sulla nuora di Maurizio Melegari, con il suo abito da sposa di poco valore e i suoi capelli tinti di un colore vistoso.
«È incredibile come Paola, a volte, si perda a descrivere dettagli inutili» commentò Vincenzo, a quel punto. «Che cosa me ne frega della moglie del figlio di Maurizio Melegari? A proposito, tu lo conosci?»
«Maurizio?»
«Il figlio.»
«No, non ci ho mai avuto a che fare. Per quanto Maurizio e mia madre si conoscessero bene, non si frequentavano fuori dal lavoro, né aveva rapporti con la sua famiglia. Ho visto il figlio di Melegari, qualche volta, quando ero bambina, ma non venivano a trovarci a casa, né noi andavamo a casa loro. Capitava qualche volta di vedersi per caso, per strada o a qualche evento. Mi pare si chiamasse Claudio, se non ricordo male, ma non saprei neanche dirti di preciso quanti anni avesse. Se devo azzardare una cifra, direi che adesso ne avrà tra trentacinque e quaranta. E ovviamente ti confermo che non conosco sua moglie con i capelli rossi e scarso gusto in fatto di abiti nuziali.» Carolina accennò una lieve risata. «Scarso gusto, oppure scarse disponibilità economiche. Non voglio essere critica nei confronti della tua ex fidanzata, se così la possiamo chiamare, ma mi dà l'impressione di essere una di quelle persone che credono che i soldi nascano sugli alberi e che tutti ne siano coltivatori.»
Vincenzo ammise: «I genitori di Paola sono ricchi sfondati e non credo abbia mai conosciuto altre realtà, a parte quella da cui proviene. Anzi, voglio chiederti scusa se per caso ha detto qualcosa che ti è parso inappropriato.»
Carolina alzò le spalle, con indifferenza.
«Non sono io la sposa squattrinata!»
«Spero non abbia detto altro di fuori luogo.»
«No, te lo assicuro, non ha detto niente di fuori luogo.»
«Comunque mi dispiace che si sia presentata qui a casa mia» mise in chiaro Vincenzo. «Mi dispiace per qualunque cosa tu possa avere pensato.»
Carolina precisò: «Non mi dispiace affatto che ti abbia avvertito dei piani di suo padre. Dovresti preoccuparti di questo e non di quello che posso pensare io se si presenta a casa tua in tarda serata. Alla fine aveva le sue buone ragioni per farlo e tu dovresti smettere di metterti dei problemi per me. Devi prendere una decisione.»
Vincenzo sospirò.
«Mancano ancora parecchi giorni. Adesso sono troppo stanco per pensare... e so che, appena mi sdraierò accanto a te, la stanchezza mi passerà in un colpo solo, ma sarò totalmente incapace di dare peso agli affari.» Le si avvicinò più che poteva e le passò una mano tra i capelli raccolti dietro la nuca. «Anzi, non sono nemmeno sicuro di potere resistere fino al piano di sopra.»
Si aspettava che Carolina si ritraesse, ma si ritrovò assecondato, un po' come se non le importasse davvero che cos'avrebbe scelto o come sarebbe cambiato il suo stesso destino se il padre di Paola - che non doveva averla in simpatia, ritenendola almeno in parte responsabile di avere fatto saltare il matrimonio della figlia - fosse diventato proprietario dell'albergo. Dalla sua prospettiva, tuttavia, doveva avere senso: per Carolina, quello era soltanto un lavoro e avrebbe potuto trovarsene un altro. Per la prima volta, Vincenzo iniziò a pensare che non fosse così terribile non avere altre preoccupazioni se non quella di fare il proprio mestiere e di essere pagati alla fine del mese.
Carolina lo distolse da quella considerazione, suggerendo: «Andiamo di sopra.»
Vincenzo non se lo fece ripetere due volte. Per quanto lo riguardava, Rossini poteva andarsene a quel paese. Tutto ciò che desiderava era finire quella serata avvinghiato alla donna che amava. L'avrebbe fatto, non si sarebbe messo dei problemi per un uomo che pensava di poterlo distruggere.
Carolina lasciò cadere la vestaglia nell'entrare in camera da letto. Vincenzo fu subito su di lei, che rimase nel mezzo, tra lui e la parete. Tutto ciò che gli premeva era diventare con lei una cosa sola, senza pensare all'indomani.
L'indomani arrivò troppo presto e, mentre Carolina si preparava per andare al lavoro, Vincenzo valutò se mettersi in contatto con il signor Rossini o se attendere ancora. Optò per aspettare.
La sua amata, prima di uscire di casa, gli domandò se intendesse andare a fare jogging, quella mattina. Vincenzo rispose di sì, anche se aveva altri programmi. Non voleva nascondere a Carolina le sue effettive intenzioni, ma non desiderava ammorbarla con le disgrazie di una persona che neanche conosceva. Aveva deciso che sarebbe andato di nuovo da Olimpia, anche se tutto ciò che poteva fare era rimanere nell'ombra e sperare che un giorno potesse risvegliarsi senza avere riportato gravi conseguenze permanenti.
Si recò all'ospedale, aspettandosi di ritrovarsi solo. Non fu così, incontrò la madre di "Tuta Fucsia". La riconobbe con facilità, dopo averla già vista al bar. Fu riconosciuto a sua volta, anche se la signora non conosceva il suo nome.
«Lei è il tale che ha accusato mia figlia di avere rubato le sue chiavi di casa, vero?»
«Già.»
La madre di Olimpia avvampò.
«Mi dispiace per quello che è successo.»
Vincenzo accennò un sorriso.
«Non fa niente.»
«Davvero, mi dispiace molto» insisté la donna. «Se ho ben capito, quella sera, Olimpia dovrebbe avere a casa le sue chiavi. Se vuole posso provare a cercarle.»
Vincenzo scosse la testa.
«Me le restituirà Olimpia quando starà meglio.»
La madre della barista sospirò.
«Lo spero.»
«So che dovrei dirle qualche frase fatta, come "so che Olimpia ce la farà, non può andare diversamente", ma non è così. Io non ne so niente delle sue condizioni e di quante possibilità ci siano che si svegli e torni come prima. Posso solo sperare anch'io. La conosco poco e, devo ammetterlo, in certi momenti mi è sembrata un po' strana, ma non posso fare altro che augurarle il meglio.»
La madre di Olimpia si mise a rovistare nella borsa a secchiello che aveva portato con sé. Vincenzo si domandò cosa stesse facendo, ma di lì a poco la vide prendere fuori il portafoglio e aprirlo. Ne estrasse qualcosa, che probabilmente intendeva mostrargli, ma che di fatto tenne rivolto verso di sé. Doveva essere una fotografia.
«Per me Olimpia è ancora quella di una volta, non cambierà mai. Voglio credere che presto sarà di nuovo così, come era un tempo. Non posso pensare che qualcuno volesse farle del male... e, anzi, mi dispiace che lei ci sia andato di mezzo per quella discussione al bar.»
«Non tutto il male viene per nuocere» replicò Vincenzo. «L'importante è non vedere solo i lati negativi, ma cercare nelle avversità qualcosa di buono. Se nessuno avesse fatto il mio nome, non avrei preso certe decisioni, che si sono rivelate giuste.» Indicò la foto che la donna teneva in mano. «Posso vederla?»
«Mi scusi, sono una sbadata, non gliel'ho neanche mostrata. È di qualche anno fa.»
Vincenzo si chiese per un attimo se Olimpia fosse vestita di qualche colore pittoresco, in quello scatto, senza aspettarsi di ritrovarsi di lì a poco a fissare quel vecchio ritratto con gli occhi spalancati. "Tuta Fucsia" portava indumenti di colore piuttosto sobrio, in quella fotografia, ma c'era comunque una nota stonata. Fu difficile tornare in sé, per non destare sospetti. Vincenzo salutò con gentilezza la madre di Olimpia e se ne andò, incerto sul peso da dare a ciò che aveva appena visto.

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Capitolo 17
*** Allucinazioni e deliri ***


ALLUCINAZIONI E DELIRI

Olimpia si diede una fugace occhiata allo specchio. Aveva le occhiaie piuttosto pronunciate e si vedeva alquanto pallida, in uno spiccato contrasto con il colore acceso dei capelli. Forse avrebbe dovuto dormire di più, il suo aspetto ne avrebbe giovato. Oppure avrebbe potuto limitarsi a cambiare il colore della propria tinta. Ci aveva pensato tante volte, ma ormai era affezionata al rosso fuoco.
Si raccolse i capelli in una coda e fece per avviarsi verso la porta, ma una voce la trattenne.
«Aspetta, dove vai?»
Olimpia si girò lentamente. Non aveva sentito Claudio raggiungerla, pensava fosse ancora in soggiorno a guardare il telegiornale.
Doveva essere una domanda retorica, dato che conosceva bene la risposta, ma Olimpia ribadì: «Vado a lavorare, devo dare il cambio a mia madre.»
«Dobbiamo parlare» replicò Claudio, con un tono che non ammetteva repliche. «Devo spiegarti...»
Scuotendo la testa, Olimpia lo interruppe: «No, non devi dirmi niente.»
Certo, era rimasta spiazzata nel sentire le parole uscite la sera precedente dalla bocca di suo suocero, ma erano soltanto le farneticazioni di un malato terminale ormai quasi privo di quello che restava della propria lucidità.
Era assurdo che Claudio si sentisse in dovere di giustificarsi. Eppure suo marito la fissava con sguardo supplichevole, mentre la pregava: «Non farne parola con nessuno, nemmeno con tua madre.»
Olimpia gli ricordò: «Mia madre andrà a casa subito, una volta che sarò al bar. Non ci sarebbe nemmeno il tempo materiale per farlo.»
Gli occhi imploranti di Claudio si fecero di colpo più duri.
«Non ho detto che non gliene devi parlare oggi, ma che non devi farlo mai.»
Sembrava teso, e non c'era da stupirsene viste le condizioni nelle quali si trovava suo padre, ma a Olimpia parve che ci fosse qualcosa di più. Di solito vedeva Claudio come rassegnato alla sorte ormai inevitabile di Maurizio, un po' come se stesse piegando la testa di fronte a un destino avverso. Non era quello lo stato d'animo che scorgeva in lui in quel momento, Claudio sembrava piuttosto desideroso di sconfiggerlo, quel destino che si metteva di traverso.
Cercò di rassicurarlo: «Non preoccuparti, non ne parlerò con mia madre.»
«Né con tua madre né con altri» le impose Claudio.
Olimpia sbuffò.
«Mi hai presa per una cretina?»
«No, ti ho presa per quella che sei» ribatté Claudio. «Lo so che non riesci a tenere a freno la lingua. Tutto quello che succede, lo devi sempre riferire a qualcuno. Quando lavori insieme a tua madre, stai tutto il giorno a spettegolare con lei su qualsiasi cosa. In alternativa parli continuamente con i clienti del bar.»
«Parlare con i clienti è fare esattamente quello che si aspettano da me» mise in chiaro Olimpia. «Mi raccontano un sacco di cose, non sono io quella che tira fuori gli argomenti di conversazione. Non c'è bisogno che tu mi dica che non devo riferire che tuo padre si è messo a vaneggiare a proposito di un tizio che a suo dire avrebbe ucciso con un colpo alla testa. Stava chiaramente raccontando una delle sue allucinazioni. Ho sentito particolari del tutto assurdi: un cadavere lasciato lungo una strada di periferia, vicino alla casa in cui abitava una ex fidanzata di quest'uomo... e per non farsi mancare nulla, quel cadavere sembrava scomparso, un po' come se qualcuno avesse provveduto a sbarazzarsene. È probabile che confonda la realtà con la fantasia. Avrà ricordato la trama di un film dell'orrore, o di uno di quei polizieschi in cui non ci si limita a seguire le indagini senza mai vedere dei morti per più di pochi secondi, e l'avrà scambiata con qualcosa che ha vissuto davvero. Mi dispiace tanto per lui. Da un lato è un bene che non si renda conto di avere i giorni contati e che non uscirà mai vivo dall'ospedale, dall'altro è terribile che si immagini queste cose spaventose.»
Claudio sospirò.
«È terribile per lui, ma potrebbe anche essere imbarazzante se qualcuno lo sentisse. Per fortuna non ha sentito nessuno a parte noi, i medici dicono che è piuttosto silenzioso, di solito.»
Olimpia obiettò: «Essere malati non è una vergogna, non c'è nulla di imbarazzante in tutto questo.»
«Però non dire niente a nessuno» insisté Claudio. «Ti prego, per me è importante. Nessuno deve sapere.»
Olimpia annuì.
«Certo, te l'ho già detto, rimarrà tra noi. Non ne parlerò con nessuno. Cosa credi, che racconti ai miei clienti che mio suocero sta per morire e pensa di essere un assassino? Vengono al bar per svagarsi, non per sentire storie tragiche e fantasie macabre.» Si girò e fece un passo verso la porta. «Devi dirmi altro o posso andare, adesso?»
Sperava che Claudio avesse finito, perché non voleva fare tardi, ma suo marito la raggiunse e le posò con delicatezza una mano su una spalla.
«Promettimelo.»
«Te lo prometto.»
«Posso fidarmi?»
«Certo che puoi fidarti! Perché mi hai sposata, se non ti fidi ciecamente di me?»
Con quelle parole lo spiazzò quel tanto che le bastava per non sentire una replica. Forse, in ogni caso, era meglio non avere risposta. Olimpia se lo chiedeva spesso, perché Claudio avesse deciso di sposarsi con lei. A volte le sembrava fossero due estranei che vivevano nella stessa casa e che avevano una vita sessuale in comune. Se lo faceva bastare, perché non credeva che la vita di coppia potesse davvero offrire molto di più; i film sentimentali mentivano, dopotutto, e lei non era mai stata davvero romantica, dato che, quando li vedeva da ragazzina trovava piuttosto comico che personaggi adulti avessero storie d'amore che sembravano quasi adolescenziali. Se lo faceva bastare, ma aveva la costante sensazione che per Claudio non bastasse.
Allungò una mano verso la maniglia e annunciò: «È meglio che vada, prima che mia madre inizi a chiedersi che fine ho fatto.»
«Buon lavoro» rispose Claudio. «Mi raccomando, ricordati che cosa ti ho detto.»
A Olimpia quella preoccupazione pareva eccessiva, gli aveva già assicurato ben più di una volta che i deliri di Maurizio non sarebbero diventati né affare pubblico, riferendone ai clienti, né affare di famiglia, parlandone con sua madre. Decise comunque di rassicurarlo ancora una volta, almeno per non essere trattenuta di nuovo.
«Me ne ricorderò, stai tranquillo.»
«Mi mancherai.»
Olimpia trattenne a stento le risate e avvampò. Claudio non aveva mai pronunciato quelle stupide assurdità da film d'amore.
«Vado solo a lavorare» ci tenne a ricordargli. «Tornerò tra qualche ora.» 

Il telefono squillò. Vincenzo alzò il ricevitore, credendo fosse Carolina che, dalla reception, gli chiedeva se poteva passargli una chiamata. Era raro, per lui, ricevere telefonate dirette dall'esterno, eppure era una di quelle circostanze. Fu una voce maschile a chiedergli: «Vincenzo, sei tu?»
Sembrava che il suo interlocutore stesse parlando da una cabina telefonica su una strada trafficata, a giudicare dallo sgradevole brusio di sottofondo.
«Sono io, chi parla?»
«Enrico.»
Si erano visti per l'ultima volta la mattina precedente, in ospedale, e Vincenzo l'aveva esortato a mettersi alla ricerca di suo padre e di Giovanna Riva. Dal momento che, come gli aveva suggerito lui, Enrico non si era presentato al lavoro il giorno precedente, doveva averlo preso in parola.
«Cosa vuoi?» gli chiese con freddezza.
«Dobbiamo incontrarci» rispose l'altro.
«Ci vediamo quando torni a lavorare.»
«No, non riesco a tornare oggi, sono ancora per strada. Però non posso aspettare fino a domani. Ho delle cose da riferirti.»
Sinceramente incuriosito, Vincenzo gli domandò: «Hai incontrato tuo padre?»
«Sì.»
«Vive insieme a Giovanna?»
«No.»
«E allora come hai fatto a trovarlo?»
Enrico chiarì: «Abita per conto suo in un monolocale, ufficialmente. È distante solo tre chilometri dall'appartamento in cui abita Giovanna. Per certe loro ragioni hanno preferito evitare di andare ad abitare insieme.»
«Gli affari loro non mi interessano» replicò Vincenzo. «Spero che tu abbia trovato le tue risposte. Ci vediamo domani.»
Riattaccò, senza dare a Enrico la possibilità di ribattere. Immaginava che Giuseppe e Giovanna gli avessero rivelato la verità sulla sua parentela con Carolina. A Vincenzo bastava. La prospettiva che la smettesse di intromettersi nella sua vita di coppia era allettante a sufficienza di non preoccuparsi per altro.
Aveva sottovalutato Enrico. Quando il telefono ricominciò a squillare, giusto il tempo che doveva essergli servito a ricomporre il numero, comprese di non potersi liberare tanto facilmente di lui.
«Cosa vuoi?» rispose, seccato, subito dopo avere alzato la cornetta.
«Vincenzo, dobbiamo parlare» replicò una voce, non disturbata dal traffico e ben diversa da quella di Enrico. «Sono Damiano.»
«Oh.» Vincenzo era spiazzato. «Mi scusi, signor Rossini. Mi dica.»
«Dobbiamo vederci» lo informò l'uomo che per poco non era diventato suo suocero. «Dobbiamo risolvere quella situazione a proposito del debito contratto da Roberto.»
Vincenzo suggerì: «Domani. Ne parlo con Carletti e poi le faccio sapere a che ora possiamo vederci.»
Il padre di Paola non si oppose. Vincenzo lo salutò e mise giù il telefono, sperando non tornasse a squillare. Gli andò male e, in quel caso, fu davvero una nuova telefonata di Enrico. Soltanto dopo averlo constatato, ripeté: «Cosa vuoi?»
«Te l'ho detto, ho bisogno di incontrarti» rispose Enrico. «Sarò di ritorno nel tardo pomeriggio. Ti devo parlare con una certa urgenza.»
«Non ce n'è bisogno» precisò Vincenzo. «Immagino che adesso tu sappia che Carolina è la tua sorellastra.»
«Non è di Carolina che ti devo parlare» obiettò Enrico. «Mio padre mi ha raccontato la storia del suo allontanamento dall'albergo e mi ha spiegato perché è andato via insieme a Giovanna.»
Vincenzo azzardò: «Sarà una scusa che si è inventato per giustificarsi.»
«Non è il tipo di scusa che ci si potrebbe inventare per difendersi da un'accusa di furto» replicò Enrico. «Ti prego, vediamoci, è una cosa seria.»
Di fronte a tanta insistenza, Vincenzo non poté fare altro che arrendersi. Si accordò con Enrico per andare a casa sua quel tardo pomeriggio. Non era comunque l'essere stato pressato così tanto l'unica ragione per accettare di vederlo: doveva ammettere almeno con se stesso che, se c'era un'altra spiegazione alla vicenda del presunto furto da parte di Giuseppe Bianchi, voleva venirne a conoscenza. Ben presto iniziò a sperare che le ore che lo separavano dal loro incontro potessero trascorrere in fretta.
La giornata era ancora piuttosto lunga e, prima di arrivare all'orario in cui avrebbe dovuto presentarsi a casa di Enrico, Vincenzo si ritrovò in varie situazioni che avrebbe preferito evitare, la peggiore delle quali una riunione con Giorgio Carletti. Non gli fu difficile comprendere che il direttore stesso non sarebbe stato molto dispiaciuto di liberarsi di lui. Non gli diede a vedere di essersene accorto, né lo mise al corrente delle proprie intenzioni. Ormai aveva deciso: non si sarebbe lasciato rovinare dal signor Rossini. Il padre di Paola partiva dal presupposto che, per lui, mantenere almeno un minimo di controllo sull'albergo di famiglia fosse fondamentale. Non lo era, Vincenzo ne era certo: se ne era allontanato, in passato, e non sarebbe tornato, se non fosse stato per la morte inaspettata del padre. Avrebbe accettato la grossa somma di denaro che Rossini gli avrebbe offerto e, ne era sicuro, sarebbe stato in grado di coglierlo di sorpresa.
Carletti continuò a recitare la parte del collaboratore fidato che voleva aiutarlo, ma Vincenzo non si sentì nemmeno preso in giro. C'era chi pensava di avere il coltello dalla parte del manico e chi, come lui, non vedeva né lame né coltelli. Tutto ciò che gli dispiacque fu che la loro riunione durasse per un tempo in apparenza infinito, che avrebbe preferito di gran lunga impiegare in qualsiasi altra maniera.
Per fortuna, a poco a poco, le ore finirono per susseguirsi e giunse il momento di andarsene per recarsi a casa di Enrico. Non gli telefonò per accertarsi che fosse già rincasato e che fosse pronto per vederlo, contò sulla speranza che nulla fosse andato storto nel suo viaggio di ritorno e che non fosse necessario attendere più del dovuto.
Enrico era già a casa e lo fece entrare, conducendolo in un soggiorno nel quale a Vincenzo saltò subito all'occhio una fotografia che lo ritraeva bambino in compagnia di Carolina. Non riuscì a trattenersi e osservò: «Questi siete tu e tua sorella da piccoli, immagino.»
Enrico lo ignorò.
«Siediti. Non voglio perdere tempo.»
«Nemmeno io» gli assicurò Vincenzo, «E mi auguro che tu mi abbia fatto venire qui per una ragione valida.» Si accomodò e puntualizzò: «In merito a quello che mi hai anticipato al telefono, il fatto che io sia qui non significa che ti creda. Prima vorrei sentire la tua versione dei fatti.»
Anche Enrico si sedette.
«Non è la mia versione dei fatti.»
«È quella di tuo padre, lo so. Sono curioso di sapere fino a che punto si sia spinto per autoassolversi.»
«Si è spinto al punto di raccontarmi che tuo padre ha aiutato lui e Giovanna a occultare il cadavere di un morto ammazzato, che non avevano ammazzato loro» disse Enrico, a bruciapelo. «Io, se fossi al posto suo, non mi inventerei una storia del genere per nascondere un furto di qualche milione di lire.»
Vincenzo spalancò gli occhi, mentre un brivido gelido attraversava tutto il suo corpo.
«Un... morto ammazzato?»
«Alfredo Vitale. Pare che sia stato tuo padre a seppellirlo.»
«Perché avrebbe dovuto farlo?»
Enrico gli spiegò: «Quell'uomo era stato in carcere per avere tentato di uccidere Giovanna - che comunque ha molti dubbi sulla sua colpevolezza - e in precedenza aveva derubato alcuni clienti dell'albergo, forse con la complicità di qualcuno che ci lavorava dentro.»
A Vincenzo venne spontaneo pronunciare un nome.
«Melegari.»
Enrico si girò a fissarlo.
«Come hai detto?»
«Maurizio Melegari» ripeté Vincenzo. «Mia madre mi ha parlato di lui, qualche tempo fa, secondo lei non era un tipo affidabile e mio padre avrebbe fatto bene a tenerlo alla larga. Se qualcuno, dall'interno, gestiva loschi affari, allora potrebbe trattarsi di lui. Quello che non capisco è da dove sbuchi fuori questo cadavere di Vitale.»
«Scomparve e nessuno seppe più niente di lui per decenni» gli ricordò Enrico. «Qualcuno l'aveva ucciso ed era stato seppellito dove poi è stato rinvenuto pochi anni fa. Mio padre e Giovanna sostengono che furono loro a trovare il suo corpo, vicino a casa di Giovanna, una sera in cui si erano incontrati di nascosto. Chiamarono Roberto per chiedergli aiuto e pensò a tutto lui.»
«Perché avrebbe dovuto?»
«Forse perché, proprio come mio padre e Giovanna, temeva di essere sospettato del delitto. Quando Vitale iniziò a venire considerato scomparso, varie settimane dopo la sua morte, nessuno sapeva con esattezza da dove, esattamente, fosse scomparso. Il suo corpo rimase sotto terra per anni e anni senza uscire allo scoperto, almeno finché ci furono quei lavori, qualche anno fa. Fu allora che mio padre e Giovanna, in accordo con Roberto, decisero di andare via.»
Vincenzo rifletté per qualche istante, cercando di trovare la forza di replicare, di dire a Enrico che erano tutte assurdità e che non poteva essere accaduto niente di tutto ciò, ma non vi riuscì. Se Giuseppe Bianchi aveva raccontato al figlio quella storia, doveva esserci almeno un fondamento di verità.
«Non credo che mio padre abbia occultato quel cadavere» ammise, «Ma se Giuseppe e Giovanna avevano paura di essere ricollegati in qualche modo a Vitale, allora ci sta che mio padre e Giuseppe abbiano inscenato la storia del furto, per giustificare il fatto che avesse lasciato l'albergo e la città. E Olimpia...» Si interruppe, temendo che pronunciare ad alta voce certe parole contribuisse a renderle più vere. Fece un sospiro, prima di decidersi. «Olimpia ha iniziato a impicciarsi in questioni che non la riguardavano. Qualcuno voleva metterla a tacere, ma non c'è riuscito, almeno non definitivamente, per ora.»
Enrico parve seriamente incuriosito.
«Credi che la sua volontà di scoprire qualcosa su mio padre, Giovanna, Alfredo Vitale e l'albergo c'entri con quello che le è successo?»
«Se ti stai preoccupando per te stesso e credi sia colpa tua, puoi stare tranquillo» rispose Vincenzo, secco. «Olimpia non faceva domande solo perché gliel'avevi suggerito tu, se quello che sospetto è corretto. Credo che il figlio di Maurizio Melegari sia il suo ex marito.»

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Capitolo 18
*** Rivelazioni ***


RIVELAZIONI

Olimpia era sola e stava per andare a casa. Aveva già finito di pulire e non vedeva l'ora di andare a prepararsi per andare a dormire: c'era stata una partita di calcio importante quella sera e un gran numero di pensionati l'avevano guardata al bar radunati intorno al televisore, facendo una confusione micidiale ed esclamando improperi nei confronti dei calciatori di entrambe le squadre coinvolte, oltre che dell'arbitro.
Era stata una serata piuttosto stressante, ma Olimpia si rese conto di dovere ancora affrontare lo scoglio peggiore, e se ne accorse nel momento in cui la soglia fu varcata da Claudio, il suo ex marito. Era passato un po' di tempo dall'ultima volta in cui l'aveva visto e non era stata una bella circostanza.
«Cosa vuoi?» gli chiese Olimpia. «Ormai hai già portato via tutto, ma se pensi di avere dimenticato qualcosa puoi venire direttamente a casa.» Era proprio là che si erano incontrati, qualche settimana prima. «Per me non c'è problema, puoi andarci anche quando non ci sono.»
Claudio la fissò per qualche istante in silenzio, prima di confidarle la vera ragione per cui era andato da lei.
«Mio padre è morto.»
Olimpia non ne rimase particolarmente spiazzata. Il signor Melegari riversava già da tempo in condizioni pessime. Preferì non fingere stupore, né attaccarsi a stupide frasi di circostanza.
«Quando è successo?»
«Stamattina.»
«Ha sofferto?»
«Non più di quanto soffrisse quando continuava a tirare avanti» le riferì Claudio. «Almeno adesso potrà finalmente riposare in pace.»
Olimpia abbassò lo sguardo.
«Già, almeno non sarà più tormentato da quelle visioni.»
Claudio le scoccò un'occhiata di fuoco.
«Non parlare di quelle "visioni", come le chiami tu. Sai bene che non voglio che qualcuno lo venga a sapere.»
«Siamo soli» puntualizzò Olimpia. «Cosa credi, che qualcuno mi abbia messo delle cimici nel bar?»
Claudio ignorò quel commento.
«Dimentica quello che è successo.»
Olimpia scosse la testa.
«No, non me lo dimentico. Non posso dimenticarmelo, non dopo che questa storia ha rovinato il nostro matrimonio.»
Claudio replicò: «Non è stata la malattia di mio padre a rovinare il nostro matrimonio, né le sue "visioni", ma proprio non avremmo mai dovuto sposarci, io e te.»
Olimpia lo sapeva, lo sapeva più che bene, ma non intendeva discuterne in quel momento. Sostenne lo sguardo penetrante dell'ex marito e gli domandò: «Perché per te è così importante che rimanga tutto segreto?»
«Perché non è successo niente» replicò Claudio. «Mio padre vaneggiava, quando raccontava la storia dell'omicidio. Non c'è niente di vero. Cosa credi, che abbia davvero ammazzato qualcuno?»
«Oh, no, assolutamente» rispose Olimpia, con decisione. «Sono andata da lui, in ospedale, qualche volta, quando tu eri al lavoro. Ogni tanto, quando era un po' più lucido del solito, ne ha parlato anche con me. Se in certi momenti abbiamo avuto l'impressione che parlasse di una vicenda personale, quando era almeno un po' in sé ne parlava in terza persona.»
«E questo cosa cambia?»
«Cambia tutto.»
«Stava pur sempre vaneggiando.»
Olimpia convenne: «Quando sembrava che tuo padre raccontasse di avere ucciso un uomo, allora sì, lo credevo anch'io. Pensavo fosse una sua fantasia, perché conosco...» Si corresse. «Conoscevo Maurizio e sapevo che era una persona perbene. Non ho mai creduto, nemmeno per un attimo, che potesse avere davvero ammazzato qualcuno.»
«E adesso cosa cambia?» obiettò Claudio.
«Cambia che non avrei mai creduto che Maurizio potesse commettete un omicidio» rispose Olimpia, «Ma non posso escludere che ne sia stato testimone o che abbia in qualche modo scoperto qualcosa da cui avrebbe fatto meglio a stare lontano. Il tuo comportamento mi suggerisce che potrebbe essere andata proprio così.»
«Credi forse che voglia coprire un potenziale assassino solo perché mio padre potrebbe - parlando per assurdo, non osare dire che è un'ammissione - avere detto qualcosa in proposito?»
«Non credo che tu voglia coprire qualcuno, ma che tu abbia paura. Non vuoi che, se c'è un assassino a piede libero, possa mettersi sulle tue tracce.»
Claudio sospirò, alzando gli occhi al soffitto.
«Hai una fantasia smisurata, Olimpia. Dovresti fare la sceneggiatrice. Però, lasciatelo dire, non è per niente bello farsi questo genere di viaggi a proposito di persone vere. In più sono venuto qui per dirti che mio padre se n'è andato per sempre, non è carino da parte tua renderlo il protagonista di una delle tue storie.»
Anche Olimpia fece un sospiro.
«Non ho mai voluto mancare di rispetto a tuo padre. Gli volevo bene. È sempre stato molto gentile con me, si vedeva che era affezionato a me.»
Claudio annuì.
«Sì, gli sei sempre piaciuta. È per questo che mi dispiace se ci siamo lasciati.»
«Solo per questo?»
«No, non è quello che intendevo dire. Lo ripeto, io e te non avremmo mai dovuto sposarci. Sarebbe stato meglio se fossimo riusciti a far funzionare il nostro matrimonio, ma purtroppo non è andata così. Mi dispiace averlo deluso. Sperava che io e te potessimo restare insieme per tutta la vita.»
Olimpia accennò un lieve sorriso, per rassicurarlo.
«Non preoccuparti, lo so anch'io che è meglio che sia finita.»
Era davvero così. Quando Claudio viveva ancora insieme a lei, aveva la costante sensazione che ci fosse una vicinanza solo apparente, tra di loro, e da quando il suo ex marito era andato via tutto le appariva sempre più chiaro. Tante volte aveva preferito minimizzare e si era accontentata: il senso di lontananza reciproca era l'unica ragione che le aveva impedito di essere davvero felice insieme a Claudio, non c'erano mai stati altri grossi problemi tra di loro.
Lo vide voltarle le spalle e andarsene, non prima di assicurarle che le avrebbe comunicato la data e l'ora del funerale, non appena l'agenzia di pompe funebri si fosse messa in contatto con lui. Olimpia lo ringraziò e lo guardò uscire. O almeno, ebbe l'impressione che intendesse uscire. Claudio, tuttavia, si fermò di scatto proprio mentre stava per andare fuori. Si voltò verso di lei e prese a fissarla.
Olimpia azzardò: «Qualcosa non va?»
Fu Claudio, a quel punto, ad accennare un sorriso.
«Stai bene bionda.»
«Oh. Te ne sei accorto?»
«Era impossibile non notare che i tuoi capelli sono diventati molto più sobri» ribatté Claudio. «Avresti potuto farlo prima.»
Olimpia gli strizzò un occhio.
«Non lo sai che noi donne ogni tanto, quando veniamo lasciate, decidiamo di stravolgere il nostro look?»
«Stai forse dicendo che avrei dovuto lasciarti prima?»
«Sei un idiota.»
«E tu una visionaria. Mi raccomando, tieni la bocca chiusa.»
Olimpia sbuffò.
«Sembri un disco rotto! È da settimane che non fai che ripetermelo. Ti ho detto che puoi fidarti. Ti è così difficile convincertene?»
«Ti prego» sussurrò Claudio, prima di andare via. «Per me è importante che non si sappia nulla, credimi.»
Olimpia gli credeva, proprio come credeva che, un giorno o l'altro, avrebbe scoperto il perché. Se davvero Maurizio Melegari sospettava qualcosa su un caso di omicidio e occultamento di cadavere, prima o poi quella vicenda di cronaca avrebbe bussato alla porta. 

Vincenzo non parlò con Carolina del suo incontro con Enrico. La receptionist non lo menzionò, quella sera, così ritenne opportuno comportarsi allo stesso modo. D'altronde non era certo di poterle riferire quantomeno una parte delle confidenze del suo amico d'infanzia, né di volere scoprire quanto ne sapesse Carolina in proposito: era al corrente della relazione tra la madre e Giuseppe Bianchi, così come della località in cui si erano trasferiti, quindi era piuttosto improbabile che fosse del tutto all'oscuro di quella torbida vicenda. Trascorsero una bella serata insieme e non le accennò nemmeno al suo incontro previsto per l'indomani con Rossini.
La mattina seguente, dopo che Carolina era già uscita per andare al lavoro, mentre Vincenzo si preparava per fare visita a Olimpia, ricevette una telefonata proprio da Damiano, per accordarsi sull'orario del loro incontro. Sarebbe stato disponibile nel tardo pomeriggio, con ancora tante ore, quindi, a separarlo da quel momento.
Si recò a fare visita a Olimpia in ospedale, incontrando sua madre e scoprendo da lei notizie positive: la barista aveva finalmente riaperto gli occhi, il giorno precedente. Nella realtà, tuttavia, il risveglio dal coma non avveniva allo stesso modo in cui veniva mostrato nei film e Olimpia non era né lucida abbastanza per potere affrontare una conversazione, né in generale nelle condizioni di potere ricevere visite. I medici, tuttavia, si dicevano piuttosto ottimisti e quella consapevolezza bastò a Vincenzo per sentirsi più sollevato. Per quanto quella donna avesse avuto una presenza del tutto ridotta nella sua vita e fosse stata in prevalenza una seccatura  non vedeva l'ora che stesse meglio.
Uscito dall'ospedale, cercò di togliersi dalla testa quel pensiero e per un po' vi riuscì, ma l'intento fu vanificato mentre era fermo a un semaforo lungo una via del centro: nell'attesa si voltò alla sua destra e gli occhi gli caddero sulla vicina vetrina di un negozio di abbigliamento. Un manichino indossava una tuta estiva di colore fucsia, che immediatamente Vincenzo immaginò addosso a Olimpia. Avrebbe dovuto chiedere a sua madre che taglia portasse, per regalargliene una.
Un clacson che suonava con insistenza alle sue spalle lo riportò alla realtà: il semaforo era diventato verde e, con tutta probabilità, l'automobilista alle sue spalle gli stava lanciando insulti con la stessa frenesia con la quale premeva la mano sul clacson.
Vincenzo ripartì, con probabile sollievo della persona a bordo dell'automobile alle sue spalle, e si recò verso l'atelier di Paola. Sentiva di avere bisogno di confidarsi con lei, per anticiparle di avere preso una decisione. Si immaginò a lungo le parole con le quali le avrebbe annunciato l'intenzione di vendere l'albergo a suo padre, ma le immaginò invano, dal momento che, quando giunse sul posto, non trovò né Paola né sua madre.
Ad accoglierlo fu Sabrina, una delle sarte che, in caso di necessità, accoglieva all'occorrenza la clientela. Lo riconobbe, nonostante si fossero visti poche volte, e subito lo informò: «Paola non c'è, tornerà nel pomeriggio. La signora Rossini, invece, dovrebbe arrivare a breve, ha avuto un contrattempo.»
Anche Vincenzo riconobbe la donna, nonostante l'avesse incontrata poche volte e non le avesse mai rivolto più di un "buongiorno" o un "buonasera", e pensò bene di chiederle: «Sa per caso dov'è Paola? Avrei bisogno di vederla con una certa urgenza.»
Sabrina scosse la testa.
«No, certo che no. Quando Paola ha degli impegni, non mi riferisce certo di cosa si tratti.»
In altri momenti Vincenzo avrebbe accettato la volontà delle due donne di tenere segreta la loro relazione, ma quel giorno aveva fretta di parlare con Paola, quindi si espose.
«So tutto, non c'è bisogno che finga con me. Paola mi ha detto tutto di voi fin dal primo giorno.»
Sabrina lo fissò con aria stralunata.
«Tutto... di noi? Di cosa sta parlando?»
Vincenzo avvampò. Si sentiva in imbarazzo, mentre Sabrina appariva soltanto molto sorpresa.
«Mi scusi, non volevo essere invadente... sa, Paola mi ha parlato della vostra relazione.»
Ancora una volta, Sabrina gli lanciò un'occhiata stranita.
«Guardi, signor Gottardi, non so cosa le abbia raccontato Paola, ma le assicuro che non le interessano le donne.»
«Eppure mi ha parlato di lei, del fatto che sia stata costretta a sposarsi con un uomo, in passato, ma che poi sia riuscita a lasciarlo e...» Vincenzo si interruppe. «Mi scusi, credevo che Paola parlasse di lei, forse si riferiva a un'altra donna che lavora qui.»
«Oh, no.» Sabrina scosse la testa. «Se Paola le ha detto che ho lasciato mio marito e ho una relazione con una donna, non mentiva affatto. Solo, quella donna non è lei. A Paola interessano solo gli uomini, questo glielo posso assicurare. L'ho anche visto, l'uomo con cui sta insieme, è un signore distinto, più vecchio di lei, avrà sui quarantacinque anni, forse cinquanta. Non...»
Vincenzo la interruppe: «E allora perché mi ha raccontato di voi?»
«Non lo so» ammise Sabrina, con schiettezza. «Non ne ho idea. Lavoro per lei, ma non siamo amiche, non ci frequentiamo fuori dal lavoro. Qualche volta mi ha esortata a confidarmi con lei e mi ha espresso la sua vicinanza, ma a quanto pare era solo per appropriarsi della mia storia e fingere che fosse la sua. Sul perché l'abbia fatto non lo so, né sono nella posizione di potermi mettere a fare ipotesi. Lavoro per lei, non mi sembra il caso di...» Esitò. «Immagino non volesse farle sapere della sua relazione con un uomo e che, per deviare i sospetti, le abbia parlato di me.»
Non era una teoria molto plausibile, considerato che tra loro era sempre stato tutto molto chiaro e non c'era mai stata l'idea di trasformare il loro rapporto di facciata in qualcosa di reale. Doveva esserci qualcosa di più, pertanto Vincenzo le domandò: «Chi è quell'uomo?»
«Non ne ho idea.»
«Conosce la sua età, non sa altro di lui?»
Sabrina chiarì: «Come le ho già detto, mi è capitato di vederlo di sfuggita e quella era l'età che dimostrava. Era un uomo ben vestito, con i capelli brizzolati, di media statura... non lo conosco, però, non gli ho nemmeno parlato. Mi sembra che Paola si sia rivolta a lui chiamandolo...» Si fermò un attimo, come a cercare di rievocare un ricordo al quale non aveva mai dato molto peso. «Giorgio, se non sbaglio. Penso si chiami Giorgio.»
Il cuore di Vincenzo perse un battito, ma cercò di mostrarsi impassibile.
«Non si preoccupi, Sabrina, non ha importanza. Mi scusi se sono stato inopportuno.»
La sarta mostrò finalmente un lieve sorriso.
«È tutto a posto, spero lo sia anche per lei.»
«Cosa intende?»
«Potrei avere dei problemi, se rivelasse a Paola che sono stata io a raccontarle certe cose. Cerchi di non mettermi in difficoltà, se può.»
Vincenzo la rassicurò: «Non parlerò a Paola di questa nostra conversazione. Non ho motivo di chiederle delle spiegazioni. Come immagino saprà, non siamo mai stati realmente fidanzat-...» Si interruppe di scatto. «Ma aspetti un attimo, lei lo sapeva già, anche se non è lei ad avere una storia con Paola. Non è un'amica, non è una confidente, eppure era al corrente del suo più grande segreto.» Gli venne molto facile fare due più due. «I Rossini lo sapevano. L'hanno sempre saputo.»
Sabrina parve a disagio.
«Non so cosa dirle, mi dispiace. Non so quale fosse la vostra situazione, so solo quello che sentivo da Paola e dalla signora Rossini. Che il vostro fidanzamento fosse una montatura l'ho sempre saputo, ma non avevo idea delle vostre ragioni, ne mi interessavano.»
«Capisco» convenne Vincenzo, «E mi scusi se l'ho messa in difficoltà. Le chiedo solo una cortesia: come io non dirò nulla a Paola di questa nostra conversazione, lei faccia lo stesso.»
«Va bene. Anzi, è un sollievo per me che anche lei voglia fare finta di nulla.»
Si salutarono così, con quelle parole. Vincenzo uscì e si diresse verso la macchina. Salì a bordo chiedendosi quale fosse, esattamente, il piano dei Rossini. Non si capacitava ancora a pieno di quanto avesse appena scoperto, ma stava già iniziando a fare congetture e considerazioni inevitabili. Paola non gli aveva suggerito di fidanzarsi per finta per aiutarlo, ma per arrivare a un obiettivo, che doveva condividere con suo padre. Non era una stata una sorta di cuscinetto tra di loro, quanto piuttosto una pedina che l'aveva asservito totalmente, senza che se ne rendesse conto, alla volontà di Damiano Rossini, e non erano soli, avevano il sostegno di chi avevano intorno. Vincenzo sapeva che avrebbe dovuto insistere, fare il possibile per mantenere il controllo di ciò che era suo. Eppure sapeva che non l'avrebbe fatto: l'idea che Paola tramasse contro di lui e che avesse una relazione con Giorgio Carletti era un ulteriore incentivo. Avrebbe venduto l'albergo e si sarebbe liberato di loro una volta per tutte.

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Capitolo 19
*** Tuta fucsia ***


TUTA FUCSIA

All'inizio i giorni erano stati tutti uguali: un lento susseguirsi di nulla, in cui l'unica fonte di sollievo, per Olimpia, era stata avere progressivi miglioramenti delle proprie condizioni fisiche. Erano trascorse ormai settimane dalla sera in cui era stata aggredita nel bar e tanto tempo era già scivolato via, ormai, anche dal giorno in cui era stata dimessa dall'ospedale. Si sforzava di non contare i giorni, perché farlo era una continua agonia, per chi come lei forse aveva perduto per sempre la "vita precedente".
Si sentiva come se non le fosse rimasto più nulla. Il percorso di riabilitazione era andato bene, ma l'Olimpia di un tempo sembrava essere scivolata via, insieme a tutto ciò che aveva fatto parte del suo mondo. Aveva dovuto arrendersi, rassegnarsi a tutto ciò che era accaduto in sua assenza, quando era sospesa tra la vita e la morte e poi, in seguito, anche quando aveva riaperto gli occhi, ma poteva fare ben poco di più che, appunto, aprire gli occhi.
Aveva evitato tutti, negli ultimi tempi, perché non se la sentiva di incontrare persone. A parte i suoi genitori, che passavano da lei ogni giorno per sincerarsi delle sue condizioni e per aiutarla quando aveva bisogno - più spesso di quanto avrebbe desiderato - aveva incontrato solo Claudio, in alcune occasioni. Qualche malalingua affermava che c'erano quasi sempre coniugi o ex coniugi dietro i tentativi di omicidio, quindi doveva essere stato lui a colpirla, ma erano solo chiacchiere prive di fondamento. Olimpia aveva sentito persone bisbigliare, ma non dava peso a quelle chiacchiere. Seppure il suo matrimonio con Claudio fosse fallito, sapeva perfettamente che non aveva l'abitudine di sferrare attacchi alle spalle, specie senza ragioni valide. Non avrebbe avuto niente da guadagnare, dalla sua ipotetica morte. Inoltre il caso voleva che la serata dell'aggressione si trovasse insieme ad almeno una decina di persone - inclusa la sua nuova compagna - che avrebbero potuto testimoniare a suo favore.
Olimpia non era sicura che le visite di Claudio fossero un bene, ma non se l'era sentita di rifiutare di vederlo. Parlare con lui, per la prima volta dopo tanto tempo, non era stato così terribile. Per quanto la loro relazione fosse insindacabilmente terminata, non c'erano tensioni tra di loro. Memore, tuttavia, di cosa fosse un tabù per il suo ex marito, si era attivamente impegnata a mantenere il clima disteso, evitando con cura di menzionare i deliri del defunto Maurizio Melegari.
Per settimane si era fatta bastare la presenza dei genitori, le rare visite di Claudio e l'occasionale ascolto di pettegolezzi condominiali, che le erano sempre interessati il giusto, ma avevano una luce nuova, adesso che spesso riguardavano proprio lei.
Quando Olimpia aveva deciso che non le bastava più, aveva cercato sull'elenco telefonico il numero di Vincenzo Gottardi e l'aveva chiamato, per ricordargli che aveva un mazzo di chiavi da rendergli e per ringraziarlo della vistosa tuta fucsia adatta alla stagione estiva che le aveva fatto recapitare tempo prima. Gli aveva chiesto di vedersi e Vincenzo aveva accettato, così, in una giornata che altrimenti sarebbe stata fin troppo vuota, eccola mentre si ritrovava ad aspettare con ansia il suo arrivo.
Quando il campanello suonò, Olimpia si affacciò alla finestra dalla quale si vedeva il portone, per accertarsi dell'identità dell'ospite. Non ce n'era uno solo, erano in due, Vincenzo era venuto da lei portando con sé Enrico. Le venne spontaneo chiedersi se il suo amico d'infanzia fosse a conoscenza del regalo che Vincenzo le aveva fatto e cos'avrebbe pensato nel vederla indossare proprio quella tuta. Non aveva importanza, si disse, anche perché ormai era troppo tardi per cambiarsi.
Aprì e rimase in attesa che i due salissero. Impiegarono mezzo minuto per raggiungerla, ma le parve un secolo. Li accolse sforzandosi di sorridere e fu colta di sorpresa da Vincenzo, che scattò verso di lei e la strinse in un abbraccio. Non era quello che poteva aspettarsi dopo l'ultima volta in cui si erano visti di persona - o quantomeno in cui lei l'aveva visto - ma le parve un comportamento spontaneo.
«Grazie per essere venuti» disse. «Mi fa piacere che siate qui.»
«Grazie a te per avermi invitato» ribatté Enrico, acido. «Spero che tu sia felice che io sia qui.»
Olimpia avvampò. Non sapeva se facesse sul serio, se non essere mai stato esortato a passare da lei lo disturbasse in qualche modo, o se la sua fosse solo una battuta, ma ritenne opportuno giustificarsi: «Io e te ci conosciamo da tanti anni, ti ricordi bene di com'ero. Non ero sicura di sentirmela, di farmi vedere come sono adesso.»
«Cioè con la ricrescita ancora più lunga dell'ultima volta in cui ci siamo incontrati?»
Olimpia sospirò.
«Sarebbe ora di rifare la tinta, in effetti, ma non sono sicura che sia il momento giusto. Non so ancora se rifarla dello stesso colore. Comunque, se ti può consolare, non ho mai voluto escluderti o tagliarti fuori. Vincenzo è la prima persona che invito a casa, da quando sono tornata.»
Vincenzo suggerì: «Magari potresti farmi anche entrare, invece di lasciarmi qui sulla soglia.»
Olimpia ridacchiò.
«Come vedi, sono sempre maldestra come prima.»
«Mi fa piacere. È proprio il tuo essere così maldestra ad attirare come una calamita.»
Enrico gli allungò una gomitata e gli intimò, seppure in tono scherzoso: «Non provarci con lei, che stai per sposarti!»
«Oh, è vero!» esclamò Olimpia. «Mi fa piacere che tu e la tua fidanzata siate ormai giunti al grande momento. Sono felice per te e Paola.»
Vincenzo scosse la testa.
«Non mi sposo con Paola, mi sposo con Carolina.»
Olimpia spalancò gli occhi.
«Quella Carolina?!»
«Non so a chi tu ti stia riferendo, ma immagino di sì.»
«Wow, sono capitate un bel po' di cose, in mia assenza» osservò Olimpia. «Venite dentro, magari mi aggiornate un po' su quello che è successo.» Si rivolse a Enrico. «Tu, inoltre, devi spiegarmi come hai fatto a scoprire che Vincenzo sarebbe venuto a trovarmi e ad autoinvitarti.»
«Non c'è niente di misterioso» mise in chiaro Vincenzo, mentre Olimpia faceva strada a entrambi. «Gliel'ho detto io, che mi avevi invitato. Gli ho chiesto se ti aveva vista di recente e mi ha detto di no. Stavolta non mentiva. Mi ha chiesto se poteva venire anche lui e ho accettato. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere, in fondo vi divertivate a complottare alle mie spalle.»
«Non volevo, mi dispiace.» Olimpia entrò in cucina e si sedette al tavolo, invitando i due uomini a fare altrettanto. «O meglio, lo volevo e adesso mi dispiace averlo voluto.»
Vincenzo osservò: «In effetti, detto così è più credibile.»
Olimpia si irrigidì. C'erano momento in cui "Occhi Viola" aveva il potere di farla sentire in imbarazzo, nonostante non fosse mai stata una persona che si imbarazzava molto facilmente - negli ultimi tempi provava una sensazione simile, ma solo quando si accorgeva di non essere più come gli altri se la ricordavano. Per fortuna Enrico intervenne in sua difesa, o meglio, intervenne cambiando discorso e finì per far cadere quello scambio di battute nel dimenticatoio.
«Sono venuto a cercarti al bar, ma l'ho trovato chiuso» osservò, infatti. «Ho sentito dire che deve cambiare gestione e che riaprirà con dei nuovi titolari.»
Olimpia annuì.
«I miei genitori hanno deciso di vendere.»
Enrico spalancò gli occhi.
«No, perché?!»
«Ormai hanno una certa età, non possono continuare a lavorare all'infinito.»
«E tu?»
Olimpia alzò le spalle.
«Non so cosa farò. Però sono abbastanza felice di non doverci più tornare. Ho rischiato di morire, là dentro, e non ne so nemmeno il motivo.»
Vincenzo volle sapere: «Ricordi qualcosa?»
«Non abbastanza» ammise Olimpia. «Ho delle immagini vaghe, il ricordo ancora più vago di una voce... sono abbastanza sicura di essere stata aggredita da un uomo, che non doveva essere molto giovane. Però non ho idea di chi fosse, né saprei dire con esattezza se ci sia qualcosa di vero o se sia stata solo suggestione. Comunque, tornando al discorso di prima, mi è stato detto che anche tu hai venduto la tua attività.»
«Già.»
«Tu hai chiesto a me cosa farò adesso, quindi mi sembra giusto chiederlo a te. Perché hai venduto? Cosa farai adesso?»
Vincenzo puntualizzò: «Veramente te l'ha chiesto Enrico. In ogni caso, io e Carolina abbiamo messo gli occhi su una piccola pensione. La vecchia titolare vuole venderla. Sto seriamente pensando di rilevarla.»
Olimpia obiettò: «Non è un grosso salto in basso passare dall'albergo di famiglia a una piccola pensione?»
Vincenzo scosse la testa.
«No, non è un salto in basso. Sarebbe mia, non qualcosa che mi è capitato senza che mi fosse chiesto se volevo occuparmene o meno. Sono stanco di dovermi circondare di gente che si occupa dei miei affari perché sono troppo grossi per occuparmene da solo. Se tutto andrà come spero, ci saremo io, Carolina e poche persone fidate.» Accennò a Enrico. «Gli ho chiesto se vuole lavorare con me, ma dice di no. Evidentemente gli piace essere un dipendente di Damiano Rossini... anzi, di Paola, perché il mio mancato potenziale suocero ha voluto intestare tutto a lei.»
Senza alcuna remora, Olimpia gli domandò: «Posso chiederti perché il tuo matrimonio con Paola è saltato?»
Nemmeno Vincenzo sembrava molto imbarazzato, nel rispondere: «Era una finta. Sosteneva di potermi aiutare quando suo padre mi stava con il fiato sul collo. Non era vero, però: Paola ha sempre avuto un secondo fine. Si è inventata una storia che mi convincesse a fidarmi di lei, ma l'ha rubata, di fatto, a un'altra persona. Stava insieme di nascosto al direttore, Giorgio Carletti, che ovviamente era a sua volta dalla parte di Rossini. Non che abbia mai agito contro di me, ma il suo obiettivo era convincermi a vendere. Rossini si era messo in testa di comprare l'albergo a ogni costo e cercava di giocare al ribasso. Non so perché abbia voluto farlo, ma mi è parso di capire che ci avesse già provato qualche decennio fa e che mio padre si sia rifiutato di vendere. Avrà pensato che con me era diverso... e in effetti lo è stato.»
Quelle parole abbagliarono Olimpia come un flash, anche se, sul momento, non ebbe idea della ragione. La voce di Enrico non le lasciò molto tempo per riflettere. Sembrava desideroso di mettere le mani avanti e di puntualizzare come stesse la sua situazione lavorativa.
«Tornando al fatto secondo cui mi piacerebbe lavorare come dipendente del signor Rossini» chiarì, «Non ci trovo niente di particolarmente esaltante, ma è un lavoro come un altro. Non è cambiato molto, per me, e i Rossini, sia il padre sia la figlia, li vedo molto raramente. A dirigere è sempre Carletti, esattamente come prima.»
«Nonostante tutto, però, non pensi neanche lontanamente di mollare» replicò Vincenzo. «Non hai neanche preso in considerazione la mia proposta.»
«C'è un motivo.»
«Che non lavori più per me e che non ci tieni a tornare a farlo. Però sarebbe diverso. Avresti un ruolo più centrale, non...»
Enrico interruppe la sua proposta sul nascere: «Non ho niente contro di te e contro la pensione che vuoi rilevare, ma sono uno spirito libero. Non sono mai rimasto a lungo nello stesso posto e probabilmente non lo farò adesso che non ho più niente da scoprire.»
Uno spirito libero: era proprio ciò che Olimpia avrebbe desiderato essere. Non riuscì a tenere a freno la lingua, le parole uscirono da sole.
«Portami con te.»
«Dove?»
«Ovunque tu andrai. Adesso posso farlo, posso andare via.»
Vincenzo guardò prima l'uno e poi l'altra.
«Andarvene?»
«Non ho mai parlato di andare via insieme a qualcuno» mise in chiaro Enrico. «Non voglio zavorre, non voglio condividere la mia vita con qualcuno.»
Olimpia ridacchiò.
«Non hai capito proprio niente! Non penso di vivere con te, voglio solo scoprire cosa c'è al di fuori di questa città. Non ho mai vissuto altrove. Tu conosci un sacco di gente, un po' ovunque. Se mi trasferissi da qualche parte insieme a te, magari potresti farmi conoscere qualcuno, aiutarmi a trovare un lavoro.»
«Vediamo.»
«Lo devo prendere per un no?»
«Non lo devi prendere per forza per qualcosa» replicò Enrico. «Non ho in mente di andare via dall'oggi al domani, ho solo detto che qui non ho più molto da fare.»
Olimpia si rese conto di non avere dato abbastanza peso a quanto l'aveva già sentito affermare poco prima: non aveva più niente da scoprire, aveva detto, e ciò significava che vi erano stati altri sviluppi, nelle settimane in cui non era stata presente.
«Tuo padre?»
«L'ho trovato.»
«È in Italia?»
«Già, e non è da solo.»
Olimpia ricordò le congetture di cui avevano discusso mesi prima.
«È con la donna di cui parlavamo?»
Enrico annuì.
«Proprio così, ma non mi sembra il momento giusto per approfondire.» Si voltò per un attimo, lanciando una palese occhiata a Vincenzo. «Magari una volta ci incontriamo da soli. Se vuoi, posso passare anche stasera, quando esco dal lavoro. Certo, sarà abbastanza tardi, ma...»
Vincenzo lo interruppe: «Glielo puoi dire che tuo padre sta insieme alla madre di Carolina, anche se ci sono io. Magari puoi anche informarla che Carolina è tua sorella.»
Olimpia spalancò gli occhi.
«Carolina è... oh, certo, avrei dovuto capirlo.»
«E da cosa, sentiamo» la esortò Enrico. «Non mi dire che c'erano chiacchiere anche su questo.»
«Non ci sono mai state chiacchiere in proposito» puntualizzò Olimpia. «Solo, poco fa Vincenzo mi ha detto che ha intenzione di sposarsela. Se non fosse tua sorella, avresti fatto di tutto per impedirglielo. Ti conosco.»
«Non abbastanza» replicò Enrico, con amarezza. «Non ho mai fatto saltare i matrimoni altrui. Non so per chi mi hai preso, ma ti assicuro che preferisco lasciare che le persone prendano le loro decisioni senza mettermi in mezzo.»
«Anche quando si tratta di tue amiche d'infanzia?»
«Soprattutto se si tratta di mie amiche d'infanzia.»
Vincenzo doveva sentirsi a disagio, di fronte alle illazioni di Olimpia, dato che si affrettò a introdurre tutt'altro argomento: «Ti sta bene il fucsia.»
Olimpia abbassò lo sguardo sugli indumenti che portava.
«Grazie. Mi ha fatto molto piacere ricevere il tuo regalo. Non ho capito perché tu abbia deciso di farmelo, ma...»
Vincenzo non la lasciò finire.
«Non volevo metterti in testa strane idee: non ho l'abitudine di fare regali alle persone che mi rubano le chiavi per mettersi a curiosare in casa mia. Anzi, devo dire che, a parte te, nessuno ha mai fatto nulla del genere, o quantomeno nessuno si è fatto scoprire. Però tu sei diversa, mi piaci... non in senso romantico, sia chiaro, del resto non sarei l'uomo giusto per te.»
«Strano modo di dirlo» osservò Olimpia. «Hai precisato che non sei l'uomo giusto per me, invece di dire che non sarei la donna giusta per te. È un po' come se volessi dire che hai in mente chi potrebbe essere, un uomo giusto per me. Io, però, ho già dato.»
Vincenzo chiarì: «Non sto insinuando che dovresti puntare a un secondo matrimonio. Però, se qualcuno ti interessa, non dovresti arrenderti, non prima di avere fatto qualcosa per raggiungere il tuo obiettivo. Sei brava a ottenere quello che vuoi. Sono certa che saresti capace di rubare cuori allo stesso modo in cui rubi chiavi di casa.»
Olimpia sospirò.
«Dobbiamo proprio parlare all'infinito di questa storia?» Si alzò in piedi e uscì un attimo dalla stanza, per andarle a raccattare. Gliele mise davanti. «Ecco qui, sei finalmente rientrato in possesso del tuo prezioso cimelio. Non pensi sia ora di voltare pagina?»
Vincenzo annuì.
«Certo, è ora di voltare pagina, ma non è sempre così fattibile. Ci sono situazioni in cui ci si sente come in un eterno limbo.»
«E tu saresti in questo limbo?»
«Non io.»
Olimpia replicò: «Mi sento tutto tranne che sospesa. Ho le idee chiare: vorrei andare via, se potessi. Forse lo farò, se Enrico fosse disposto ad aiutarmi, all'inizio. Non desidero altro.»
«Sei proprio sicura di non volere scoprire chi ha tentato di ucciderti?» obiettò Vincenzo. «Non hai paura che ci provi di nuovo?»
«Perché dovrebbe?»
«Perché avrebbe dovuto farlo la prima volta?»
Olimpia scosse la testa.
«No, è meglio andare via e dimenticare.»
Vincenzo sentenziò: «C'è chi non dimentica. Non permettergli di farti di nuovo del male.»

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Capitolo 20
*** Questioni in sospeso ***


QUESTIONI IN SOSPESO

Quando Enrico aprì la porta per uscire, si ritrovò a tu per tu con Olimpia. Non si stupì, era stato accennato a un loro potenziale incontro, quella sera, senza la presenza di Vincenzo.
«Mi fai entrare?» chiese Olimpia.
Enrico la squadrò con attenzione. Portava un anonimo abito grigio che le arrivava fino alle ginocchia, al posto della tuta fucsia che aveva indossato quel pomeriggio.
«Non ti sei vestita in modo da fare colpo su Vincenzo, dato che non c'è, stasera?»
Olimpia gli scoccò un'occhiata di fuoco.
«Non voglio fare colpo su Vincenzo. E poi sta per sposarsi, adesso.»
«Anche prima stava per sposarsi» le ricordò Enrico.
«Per finta.»
«Tu non sapevi che fosse una finta. E poi, doveva essere un matrimonio vero.»
Evidentemente stanca di attendere sulla soglia, Olimpia lo forzò a farsi da parte ed entrò.
Enrico cercò di trattenerla: «Ehi, aspetta. Stavo andando a fare una passeggiata fuori.»
«Difficile farla dentro.»
«Se è un tentativo di apparire divertente, temo che tu stia fallendo.»
«Anche il tuo tentativo di andare fuori sta fallendo.»
«Non perché l'abbia deciso io.»
Olimpia rimase in silenzio qualche istante, come se fosse pensierosa. Infine gli domandò: «Perché vuoi uscire? Cosa devi fare?»
Enrico ribatté: «Non devo fare niente, voglio solo prendere un po' d'aria. È una bella serata. Lavoro quando gli altri vanno in giro, non resterò a casa solo perché per gli altri è tardi. O almeno, non volevo restare a casa. Immagino di non potere fare altrimenti, adesso che sei qui.»
Olimpia ammise: «Ormai conosco le abitudini. È per questo che sono venuta da te. Sapevo che saresti uscito, anche se non hai niente di particolare da fare, e ho pensato che avrei potuto aspettarti sul pianerottolo per farti cambiare idea. Mi sembra che abbia funzionato.»
Enrico si arrese, d'altronde ogni possibile alternativa prevedeva il rischio di offendere l'amica, e non era ciò che desiderava. Rientrò e richiuse la porta, era l'unica opzione possibile. Per quanto Olimpia avesse confidato a lui e a Vincenzo di non sentirsi più come prima, certi aspetti di lei apparivano immutati agli sguardi esterni. Preso da una certa curiosità, comunque, si spinse a confidarle un suo dubbio esistenziale: «Posso chiederti almeno chi ti ha aperto il portone? Non ci sarai passata attraverso come i fantasmi, immagino. Anche perché, in tal caso, avresti potuto entrare in casa mia. E non avresti dovuto rubare le chiavi a Vincenzo per andare a...»
Olimpia lo interruppe, forse desiderosa di non rivangare quel discutibile evento del suo recente passato: «Non saprei chi mi abbia aperto. Ho suonato un campanello a caso e ho detto testualmente che ero la signora del terzo piano e che avevo lasciato le chiavi di casa in cantina. Ho chiesto se mi potevano aprire il portone, in modo da potere entrare e andarle a recuperare, invece di rimanere fuori in attesa del nulla cosmico.»
Enrico fu costretto ad ammettere: «Bella trovata, ma non è un po' tardi per mettersi a suonare campanelli? Forse ti sfugge che c'è gente che dorme, a quest'ora.»
Olimpia gli strizzò un occhio.
«Suonando il campanello, magari si sveglia e inizia a rendersi utile.»
Enrico sbuffò.
«Dai, vieni di là a sederti invece di dire cavolate. Un giorno o l'altro qualcuno scoprirà chi è che disturba la quiete pubblica e se la prenderà con me.»
Olimpia gli ricordò: «Potremmo andarcene insieme, lasciare la città. Tu hai agganci ovunque, conosci un sacco di gente. Possiamo iniziare una nuova vita... o per meglio dire, due nuove vite.»
Lo seguì e presero posto nel solito soggiorno. Prima, tuttavia, Olimpia fissò, senza dire nulla, la solita foto di Enrico e Carolina bambini. Quello fu il momento in cui, più di ogni altro, Enrico provò almeno un vago stupore. Si era aspettato domande a raffica sulla sua amica d'infanzia nonché sorellastra nonché fidanzata ufficiale di Vincenzo, ma non accadde nulla di simile. Non si fece illusioni: prima o poi l'argomento sarebbe arrivato, evidentemente prima c'era qualcosa che le premeva di più.
Enrico non ebbe bisogno di chiederle chiarimenti a proposito della sua idea di andare via - doveva essere quella, la priorità - dal momento che Olimpia riprese a parlare e fu piuttosto esaustiva.
«Per tanti anni sono stata ancorata qui, senza sentirmi davvero a casa, e solo per senso del dovere nei confronti dei miei genitori. Se me ne fossi andata, avrebbero dovuto assumere una persona al posto mio, per il bar, e sapevo che avrebbero preferito di gran lunga che rimanessi io. Sono arrivata a convincermi di sentirmi realizzata, cercando altre strade per sentirmi completa.»
«Tipo sposarti?»
Olimpia abbassò lo sguardo.
«Avrai sentito un sacco di chiacchiere su Claudio, ultimamente.»
Enrico fu piuttosto diretto.
«È stato lui, vero?»
Olimpia alzò gli occhi, spalancandoli.
«È questo che credi?»
Enrico azzardò: «Tu l'hai lasciato, perché era un uomo violento oppure senza controllo - immagino per via del consumo di alcool o droghe - e non ha accettato la fine della vostra relazione. Quindi a distanza di anni ha deciso di venirti a cercare e ha tentato di ucciderti. Oppure, nella sua mente contorta, non pensava di poterti fare così male, quando ha...»
Olimpia lo interruppe: «Basta! Stai dicendo un mucchio di cazzate! Hai vissuto per anni la tua esistenza felice lontano da qui, abbi almeno la decenza di non giudicare le persone con cui ho avuto a che fare per tutto questo tempo!»
Enrico non si arrese. Guardandola negli occhi, insisté: «Ci ho visto giusto, vero?»
«Assolutamente no!» sbottò Olimpia, e per la prima volta Enrico ebbe l'impressione che fosse sincera. «Non so che idea tu ti sia fatto di me, ma ti assicuro che non giustificherei mai un compagno violento. Claudio non lo è mai stato, così come non è né un ubriacone né un tossico. È un uomo normalissimo, così come mi sento del tutto normale io. Semplicemente credo di averlo sposato perché era quello che familiari, parenti e amici si aspettavano da me. Tu te ne sei andato, per essere te stesso. Io credevo di potere essere finalmente me stessa sposando Claudio. È brutto a dirsi, lo so, ma l'ho fatto perché credevo che il matrimonio mi avrebbe resa libera. Invece no, era tutto come prima, solo che portavo un anello al dito. Non ero felice e questo ha avuto delle ripercussioni su di noi. Se posso riconoscere un grande difetto a Claudio, è l'essere sempre stato poco individualista.»
«Sarebbe un difetto?»
«Per Claudio esistevamo "noi". Per me esistevo io ed esisteva Claudio. Eravamo due persone distinte, non una cosa sola. C'era un lato di me che non riuscivo a condividere con lui. Non è mai stato in grado di capire che la mia insoddisfazione non derivava da lui. Anzi, con lui avevo cercato di combatterla, senza risultato.»
«E poi?»
«Poi un giorno Claudio mi ha detto che dovevamo decidere se avesse senso o meno continuare a stare insieme. In realtà aveva già deciso tutto da solo. Non posso biasimarlo. L'ho lasciato andare, non aveva senso cercare di trattenerlo. Ho provato a cercare di salvare i lati positivi di quello che era successo, o almeno quei pochi che c'erano: ero indipendente, o almeno più di quanto lo fossi mai stata in tutta la mia vita, e potevo difendermi da chi cercava di controllare le mie mosse. Certo, non era granché nemmeno così, ma almeno potevo voltare pagina.»
«Eppure non te ne sei andata nemmeno dopo la separazione.»
Olimpia fece un sospiro.
«Come potevo? Ormai non avevo molte alternative, i miei genitori contavano sempre più sulla mia presenza al bar... e niente, l'hanno venduto senza nemmeno chiedermi cosa ne pensassi. So che non hanno mai voluto agire contro di me, ma mi aspettavo un po' più di considerazione, visto che mi hanno educata fin da ragazzina a pensare che un giorno avrei dovuto prendere il loro posto. Mi hanno praticamente forzata a pensare con la loro testa per decenni, perché quello, secondo loro, doveva essere il mio destino. Io l'ho accettato e tutto ciò che ho avuto in cambio è che mi hanno messa di fronte al fatto compiuto.»
«Quindi» dedusse Enrico, «Ti senti come se finora fossi stata forzata a non fare davvero le tue scelte.»
«Già.»
«Ed è per questo che vuoi andare via.»
«Esatto.»
«Poetico.»
Olimpia si voltò di scatto verso di lui.
«Mi stai prendendo in giro?»
«No, affatto» si difese Enrico, domandandosi se avesse usato il tono sbagliato per pronunciare quel termine, o se fosse proprio il termine stesso ad apparire sbagliato. «Voglio dire, c'è qualcosa di romantico nella tua storia. Io sono andato via semplicemente perché volevo scoprire posti nuovi invece di passare il resto della mia esistenza nella mia città natale, tu vuoi farlo per una sorta di riscatto personale. Se non sapessi che sei la stessa persona, non penserei mai che, al contempo, tu sia anche quella che si è intrufolata in casa di Vincenzo per farsi i fatti suoi.»
Si pentì subito di avere pronunciato quelle parole e di avere accennato all'argomento per la seconda volta in pochi minuti, dal momento che Olimpia gli chiese: «Cosa mi dici di Carolina?»
Che cos'avrebbe dovuto dirle? Era tutto molto semplice, in fondo. Tornato in città, si era infatuato della sua amica d'infanzia, salvo scoprire subito che aveva una relazione con un uomo già impegnato con un'altra. Aveva scoperto che si trattava proprio di Vincenzo, ma non era stata la scoperta peggiore: suo padre e la madre di Carolina gli avevano riferito della loro relazione segreta di tanti anni prima e di come Carolina fosse la figlia segreta di suo padre. I suoi sogni, per quanto vaghi e privi di spessore, erano crollati una volta per tutte, lasciandolo con la misera consolazione di non essersi almeno mai fatto vere e proprie fantasie erotiche esplicite sulla ragazza che si era rivelata essere sua sorella. C'era sempre stato un che di platonico nell'attrazione che provava nei suoi confronti, un po' come se l'immagine più lampante che riconduceva a Carolina fosse quella della bambina che ritagliava angeli di carta di giornale.
Poteva riferire tutto ciò a Olimpia? In altri momenti, Enrico non l'avrebbe fatto. Quella sera, però, era diverso: la sua amica si era aperta con lui, come forse non aveva mai fatto con altri prima di allora. Pensò di doverle la stessa sincerità. Le spiegò per filo e per segno quello che aveva provato, messo di fronte a un'amara realtà.
Iniziò a parlare e fu come un fiume in piena. Si ritrovò a confidarle fatti che fino a quel momento erano stati una sua esclusiva, come quel figlio che non aveva mai conosciuto, di cui non sapeva nemmeno il nome e che forse non avrebbe conosciuto mai. Non aveva più senso indossare una maschera, non con Olimpia, che gli aveva mostrato il lato più nascosto di se stessa. L'amica lo ascoltò senza interromperlo, limitandosi a chiedere qualche piccolo chiarimento ogni volta in cui Enrico faceva involontarie omissioni che rendevano la sua storia poco chiara.
Alla fine si sentì svuotato e riempito allo stesso tempo, finalmente senza segreti, di fronte ad almeno una delle persone che aveva vicino. Certo, non le riferì il racconto di suo padre e di Giovanna, ma ciò che era accaduto quella notte, quando era bambino, non era un suo segreto personale. Se non avesse forzato il padre e la compagna di quest'ultimo, nessuno dei due gli avrebbe mai accennato a quella storia.
Aveva appena terminato, quando Olimpia osservò: «Sei più simile a me di quanto pensassi.»
In un primo momento Enrico non comprese il significato di quelle parole, al punto da obiettare: «Non mi sembra.»
Olimpia replicò: «Hai ragione, in apparenza sembriamo agli antipodi, ma in fondo siamo solo due persone che non hanno ancora trovato il loro vero posto nel mondo. Lo sai cosa dicono, di quelli della nostra età. Pensano tutti che ormai sia troppo tardi, per noi, che tutto quello che possiamo fare è accettare che il nostro futuro sarà come il nostro presente, oppure limitarci a sopravvivere. Non è così. Abbiamo ancora tante cose da fare, entrambi, e dobbiamo in primo luogo mettere a tacere quelli che ci dicono che non abbiamo possibilità. Io sono sempre stata qui, perché pensavo di non potere scappare. Tu sei sempre scappato, perché pensavi di non avere alternative alla fuga.»
«Non sono sicuro che mi piaccia questo tuo modo di ragionare, mi fai sentire come se fossi sempre stato rinchiuso in una trappola» ammise Enrico. «Io, però, non mi sono mai sentito tale.»
«Sei tornato, però.»
«E allora?»
«Allora, forse, c'era ancora qualcosa di incompleto in te. Hai trovato le risposte che cercavi?»
Enrico rabbrividì. Olimpia stava forse cercando di estorcergli qualche informazione su suo padre?
Preferì essere vago: «Perché me lo chiedi?»
«Perché fino a qualche tempo fa avresti distrutto ogni singolo componente della famiglia Gottardi per vendicare l'ingiustizia subita da tuo padre» rispose Olimpia, «Mentre oggi pomeriggio mi sei venuto a trovare insieme a Vincenzo, come se foste amici da sempre.»
Enrico puntualizzò: «Infatti è proprio così, io e Vincenzo eravamo amici da ragazzini e...»
Olimpia non gli lasciò finire la frase.
«Non pensare di cavartela così. So benissimo che eravate amici, da ragazzini, ma non mi risulta che lo foste da adulti. O quantomeno, non mi sembra che tu lo sopportassi molto, fino a poco tempo fa. Adesso, per giunta, sta per sposarsi con la tizia che ti piaceva e che si è scoperto essere tua sorella.» Ridacchiò. «Scusa, ma è una situazione molto comica. Certo  magari non per te... e infatti, se fossi stata al posto tuo, sarei scappata a gambe levate. Come mai hai insistito con Vincenzo per venire a trovarmi, oggi pomeriggio?»
Enrico puntualizzò: «Non ho insistito con Vincenzo. È stato lui a chiedermi se volessi accompagnarlo. Sono abbastanza sicuro che si senta in colpa nei miei confronti - in fondo si sta per sposare con Carolina - e che voglia a tutti i costi spingermi tra le braccia di una donna. O in alternativa teme che abbia dei pensieri incestuosi nei confronti della sua futura moglie e vuole assicurarsi di togliermeli dalla testa.»
«Mhm, potrebbe essere.»
«Spero di avere risposto alle tue domande e che non torneremo più sull'argomento.»
Olimpia scosse la testa.
«Oh, no, non abbiamo affatto finito. Sbaglio o non mi hai detto da quando, esattamente, i tuoi rapporti con Vincenzo sono più distesi? Dopotutto non lavori più per lui, non c'è alcun motivo per cui dovreste incontrarvi.»
Enrico osservò: «Sei molto sveglia, quando si tratta di intromettersi nei fatti degli altri.»
«E tu sei bravo a eludere le mie domande.»
«Lo ammetto.»
«E poco fantasioso.»
«In che senso?»
«Io, quando mi sono trovata in difficoltà con "Occhi Viola", ho tentato di baciarlo.»
«Mi stai suggerendo di baciarti?»
Olimpia rise.
«No. Volevo solo spaventarti. Magari funziona per scioglierti un po' la lingua. Cos'è successo tra te e Vincenzo?»
Enrico fu piuttosto vago, ma le rispose: «Io e Vincenzo abbiamo parlato delle nostre questioni in sospeso e ci siamo resi conto che non riguardavano nessuno di noi in prima persona. In più, come già sai, Carolina è mia sorella. Di fatto io e lui stiamo per diventare parenti. Mi sembra il momento migliore per mettere da parte vecchi dissapori che ci riguardano solo alla lontana. Ti pare così assurdo?»
«Oh, no, per niente» ammise Olimpia. «È solo che pensavo aveste risolto la storia di tuo padre, che vi avesse spiegato come stavano le cose. Perché io mi sono fatta un'idea.»
«Non sono sicuro di volerla sentire. Forse avrei fatto meglio a baciarti.»
«Non è troppo tardi per farlo, se vuoi. Del resto non sarebbe la prima volta. Te lo ricordi, no, di quando eravamo ragazzini? Non te la cavavi male.»
«Almeno lì, no. Purtroppo non sapevo con esattezza dove mettere le mani, quindi questo ha fatto sì che tu mi abbia messo da parte per qualche ragazzo più sveglio.»
«Mi fai apparire più precoce di quanto non fossi. Secondo me è una tattica. Non vuoi sentire la mia teoria. Meglio così, ci sono molti elementi che non si incastrano ancora, quindi mi scambieresti per una visionaria.»
«Ti hanno mai detto che non è bello lanciare il sasso e poi nascondere la mano?»
«Altro che mano nascosta, c'è chi ha nascosto un cadavere. Alfredo Vitale era un ladruncolo di basso rango, tutti l'hanno sempre descritto così. Aveva qualcosa a che vedere con l'albergo, non solo con Giovanna Riva, che sia stato lui a tentare di ucciderla o no. Qualunque cosa sia successa tra tuo padre e Roberto Gottardi qualche anno fa, ha a che vedere con Vitale. D'altronde il fattaccio è capitato poco dopo il ritrovamento dei suoi resti. È stato Gottardi a occultare il cadavere di Vitale, vero? E tuo padre lo sapeva. Però non sapevano chi fosse stato ad ammazzarlo, giusto?»
Enrico avrebbe voluto replicare con foga, dirle che era pazza. Esitò troppo a lungo, un tempo sufficiente a far comprendere a Olimpia che c'era molta verità in quelle parole.
Curiosamente l'amica non parve spiazzata dal suo silenzio. Anzi, osservò: «Tu e Vincenzo pensate che sia stato mio suocero a ucciderlo, vero? È per questo che mi hai chiesto se è stato Claudio ad aggredire me?»
«No» rispose Enrico, senza troppa convinzione. «Pensavo che Claudio potesse essere un marito problematico, tutto qui.»
A sorpresa, Olimpia si alzò in piedi.
«Si sta facendo tardi, è meglio che vada a casa. Ci vedremo presto, comunque. E su una cosa hai ragione: andarsene è un'idea da tenere in considerazione, ma prima abbiamo molto da fare qui.»
Si avviò verso la porta lasciando Enrico interdetto. Quando la raggiunse, con l'intento di pregarla di non commettere azioni avventate, era ormai troppo tardi: Olimpia era già andata via.

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Capitolo 21
*** L'accusa improbabile ***


L'ACCUSA IMPROBABILE

Olimpia si guardò intorno, chiedendosi per l'ennesima volta se stesse facendo un passo più lungo della gamba. Enrico non avrebbe apprezzato la sua iniziativa e, ne era certa, nemmeno Vincenzo, se avesse saputo dove si trovava. "Occhi Viola", tuttavia, non aveva la benché minima possibilità di sapere dove fosse, anche se senz'altro l'avrebbe appreso quella sera da Carolina.
C'era una bella donna, alla reception, con i capelli neri raccolti in una coda in cima alla testa. Era elegantissima nella sua uniforme e Olimpia fu travolta brevemente dall'invidia nell'ammirare le sue curve decisamente pronunciate. Non le fu difficile comprendere che Carolina era proprio lei e ritenne del tutto giustificabile l'attrazione che Enrico aveva provato nei suoi confronti prima di apprendere della loro parentela.
La receptionist alzò lo sguardo e Olimpia si diresse verso di lei. Non le venne in mente nulla da dire e si ritrovò a fissarla in silenzio.
«Prego, mi dica» la esortò Carolina.
Non poteva fare altro che presentarsi, quindi la informò: «Sono Olimpia.»
«Oh, Olimpia, l'amica di Enrico.» Carolina sorrise. «Scusami, non ti avrei mai riconosciuta, se non me l'avessi detto. Stai cercando lui?»
Olimpia esitò.
«Veramente non...»
Carolina la interruppe: «Penso che non sia ancora arrivato. Comunque gli dirò che sei passata e che lo stavi cercando.» Continuò a sorridere. «Non so esattamente cosa ci sia tra di voi, ma sto dalla vostra parte.»
Olimpia avvampò.
«No, guarda, penso che tu non abbia capito che cosa c'è tra noi.»
«O magari siete voi che non l'avrete ancora capito.»
«Difficile che possa averlo capito tu, che nemmeno mi conosci.»
Carolina chiarì: «Vincenzo mi ha parlato di te. Dice che sareste una coppia perfetta.»
Olimpia ribatté: «Vincenzo è convinto che Enrico sia ancora interessato a te, sta solo cercando di levarselo di torno.»
«Enrico è mio fratello.»
«Lo so.»
«Vedo che le notizie girano molto in fretta.»
Olimpia obiettò: «Non mi sembra chissà quale segreto, o almeno non lo è per Enrico. Ci sono dettagli ben poco chiari di questa faccenda su cui mi piacerebbe saperne di più, ma mi rendo conto che fare domande sarebbe fuori luogo. E poi non sono qui per Enrico.»
Carolina aggrottò le sopracciglia.
«Ah, no?»
«Ti stupisce?»
«Non vedo altre ragioni per cui tu debba fare irruzione qui» ammise Carolina, «Ma Vincenzo mi ha detto che sei una persona un po' particolare.»
Olimpia: «Ti ha detto che sono una pazza scatenata, quindi, solo che tu sei molto gentile e non vuoi correre il rischio di offendermi. Non preoccuparti, sono abituata a sentire dire cose peggiori su di me.»
«Veramente Vincenzo non ha mai detto che...»
«Va bene, qualunque cosa abbia detto non importa. Questo posto, adesso, è di proprietà di un certo Damiano Rossini, vero?»
Carolina chiarì: «Sì e no. Il signor Rossini ha intestato l'albergo a sua figlia Paola.»
«Oh, la presunta fidanzata di Vincenzo.»
«Ex fidanzata di Vincenzo.»
Olimpia le domandò, a bruciapelo: «Cosa ne pensi di lei?»
Carolina rispose in tono secco, ma senza perdere l'espressione cordiale.
«Non penso niente di particolare. Ho sempre saputo che Vincenzo e Paola avevano inscenato il loro fidanzamento. L'ho accettato. Era la cosa più giusta da fare.»
Olimpia replicò: «Io non sarei molto contenta, se l'uomo che amo volesse sposarsi con un'altra per finta. Vincenzo doveva avere le sue buone ragioni per architettare una cosa del genere insieme a Paola. So che doveva dei soldi a Rossini e che cercava di tenerlo tranquillo. Eppure alla fine ha accettato di vendere e non mi è sembrato molto turbato da questa decisione. Anzi, mi è sembrato piuttosto soddisfatto, non vede l'ora di dedicarsi ad altro.»
«Non c'è bisogno che tu me lo dica» ribatté Carolina. «So perfettamente quali sono le intenzioni di Vincenzo, così come so che ha preso la decisione migliore, quando ha deciso di vendere a Rossini e a sua figlia. Erano molto desiderosi di diventare proprietari di questo posto. O, per meglio dire, Damiano Rossini lo desiderava molto. Mi è stato riferito che anche molti anni fa aveva cercato di comprare. Roberto Gottardi, però, si era sempre rifiutato di vendere, nonostante tutto.»
«Nonostante tutto...» mormorò Olimpia, ripetendo le parole di Carolina. «Nonostante cosa, se non sono indiscreta?»
«Non te lo so dire, anche perché si tratta di decenni fa, io dovevo ancora nascere ai tempi. So che, nel periodo in cui Rossini voleva comprare, l'albergo era in crisi. C'erano stati dei furti ai clienti e si ripetevano ciclicamente, o qualcosa del genere.»
«Interessante.»
«Se provi un interesse smodato per cose accadute secoli fa, che non ti riguardano, allora sì.»
«Non mi riguardano. Interessante anche le parole che hai scelto.»
Carolina sorrise, ma stavolta dava l'impressione di volerla fulminare.
«Senti, Olimpia, io sono qua per lavorare. Qualcuno potrebbe avere bisogno di me da un momento all'altro, oppure potrebbero passare il signor Rossini o sua figlia, chiedendoti di andartene. Non ho idea di quali mie parole ti abbiano colpita, ma non intendo nemmeno approfondirlo.»
Nonostante quell'affermazione, Olimpia puntualizzò: «Non hai detto che i furti non ci riguardano, ma che non riguardano me. Tu hai qualcosa a che fare con quel fatto, quindi?»
«Ho solo trent'anni» ribadì Carolina. «I furti avvenivano diversi anni prima.»
«L'esecutore materiale era un certo Alfredo Vitale» ipotizzò Olimpia. «Era stato fidanzato con tua madre, che però l'aveva lasciato per via della vita che conduceva. Non abitavano da queste parti, ai tempi, ma poi tua madre ha conosciuto Maurizio Melegari. È stato lui a portarla qui e a farla assumere come addetta alla reception. Questo, però, succedeva dopo che si era ripresa da un tentativo di omicidio, di cui era stato accusato Vitale. Non era stata tua madre ad accusarlo - non ricordava nulla dell'aggressione - ma un testimone che sosteneva di avere visto Vitale nel luogo in cui era accaduto il fattaccio. È tutto corretto?»
Carolina sospirò.
«Qualcosa del genere.»
«Non è stato facile ricostruire i fatti, ma mi ha dato qualche dritta il mio ex marito» la informò Olimpia. «Sai, ero sposata con Claudio Melegari, il figlio di Maurizio. E mi ha raccontato, tra le varie cose, una storia molto interessante.»
«Ovvero?»
«Ovvero che Rossini, che ai tempi bazzicava da queste parti perché, appunto, desiderava mettere le mani sull'albergo, parlando con Vincenzo accusava Maurizio di essere colui che, dall'interno, organizzava i furti... furti che, casualmente, sono iniziati quando Vitale è stato scarcerato e si è trasferito da queste parti. A proposito, non trovi strano che tutte queste persone si siano trasferite qui? E che anche la moglie di Damiano Rossini sia originaria dello stesso paese di tua madre?»
Carolina spalancò gli occhi.
«Come sai da dove viene la signora Rossini?»
«Ti stupisce?»
«Beh, sì, io non ne ho la minima idea.»
Olimpia ridacchiò.
«Sono molte le cose che tu non sai.»
Per la prima volta, Carolina si incupì sul serio.
«Ne so abbastanza, non ho bisogno di saperne anche altre. Chi fosse a derubare i clienti dell'albergo e in che modo riuscisse ad accedervi senza problemi non mi interessa.»
Olimpia annuì.
«Sì, è comprensibile. Immagino che tu voglia stare il più lontana possibile da tutto, specie da Alfredo Vitale. Quando morì, dovevi essere una bambina. Avevi solo otto anni, se non ho sbagliato i miei calcoli.»
Carolina abbassò lo sguardo.
«Te lo ripeto, Olimpia, sono qui per lavorare. Ho delle carte da archiviare e potrebbe arrivare qualcuno da un momento all'altro. Non ci tengo a farmi trovare da qualche cliente mentre chiacchiero con te, come non ci tengo a farmi vedere così dai nuovi titolari. So che presto me ne andrò, quindi ho ben poco di cui preoccuparmi, ma ho sempre fatto il mio lavoro con serietà e intendo continuare fino alla fine.»
«Certo, ti comprendo perfettamente» rispose Olimpia, «Ma sono venuta qui per una ragione ben precisa... e quella ragione sei tu.»
«Io?» Carolina alzò timidamente gli occhi. «Perché?»
«Alcuni giorni fa ho incontrato Vincenzo ed Enrico» la informò Olimpia. «Immagino che tu lo sappia.»
«Sì.»
«Ho parlato con loro. Mi hanno chiesto dell'aggressione. Io all'inizio avrei soltanto voluto andarmene, lasciare la città e dimenticare tutto. Poi, però, ho capito che non posso farlo. Non so cosa sia scattato dentro di me. Quella sera sono andata a trovare Enrico, quando è tornato a casa dal lavoro. Non sono riuscita a estorcergli nulla che già non sapessi o sospettassi. Mi sono resa conto che non sa molto. O quantomeno, sa sicuramente qualcosa che mi ha nascosto, che ha a che vedere con suo padre e tua madre, ma non deve essere a conoscenza di qualcosa di davvero grosso. Era mio suocero quello che sapeva più di tutti, peccato che fosse deciso a portare certi segreti nella tomba. Purtroppo per lui, non c'è riuscito del tutto. Era gravemente malato e, negli ultimi tempi, non era più molto lucido. Vaneggiava a proposito di un morto ammazzato, il cui cadavere era stato occultato. Così, alla luce di certe riflessioni, ne ho dedotto che quel cadavere non poteva essere altro che quello di Alfredo Vitale.»
«Capisco. Non sono tuttavia in grado di capire perché tu sia venuta proprio qui, a cercare me.»
«Tua madre stava insieme a Vitale, prima della tua nascita.»
«Come appunto hai già detto anche prima. Non mi sembra di averti smentita.»
«Poi è stato accusato di avere tentato di ucciderla ed è finito in carcere.»
«E anche questo non mi risulta sia un segreto. Posso aggiungere, a questo punto, che verosimilmente è venuto qui in città, dopo essere uscito, se davvero era l'autore di quei furti.»
Carolina sembrava non avere idea di dove Olimpia volesse andare a parare. Meglio così, almeno non sarebbe stata preparata all'essere messa di fronte al fatto compiuto.
«Probabilmente ti chiederai perché io ti stia parlando di Vitale» ammise Olimpia, «E in effetti ci stiamo allontanando dal punto centrale del mio discorso. Come ti ho detto, mi sono convinta a cercare la verità e mi sono rivolta all'unica persona che potesse aiutarmi: Claudio. Ti ho detto che mio suocero parlava e straparlava a proposito di un omicidio, ma non ti ho ancora detto che mio marito - ai tempi stavamo ancora insieme - era convinto che non si dovesse in alcun modo sapere che suo padre faceva quei discorsi. Ho capito perché, del resto non ci voleva molto. Claudio era convinto che Maurizio non stesse immaginando, che sapesse davvero qualcosa a proposito di un delitto risalente a tanti anni prima. Aveva paura che essere a conoscenza di qualcosa di troppo potesse metterlo in pericolo. Ha sempre negato, ma ieri ho preteso di parlarne con lui e ha acconsentito. Ha ammesso tutto: aveva dato credito alle parole del padre e, per quella ragione, si era detto che era meglio fare finta di niente, per non rischiare. Mi ha chiesto se penso che quello che mi è successo sia una conseguenza di quello che Maurizio sapeva o sospettava.»
«E tu?» volle sapere Carolina. «Cosa gli hai detto?»
«Ti ringrazio per l'interessamento» rispose Olimpia, prima di raccontarle qualche dettaglio in più.
Dosò le parole con il contagocce. Da un lato non vedeva l'ora di arrivare dritta al punto, dall'altro sapeva che si sarebbe addentrata in un terreno ostico, che poteva riservare brutte sorprese. Non solo sorprese, in realtà, ma anche repliche molto prevedibili. Sapeva che avrebbe messo Carolina di fronte a dichiarazioni che apparivano totalmente assurde, ma non poteva farne a meno. Per quella ragione fece il possibile per trattenersi, limitandosi a dire la verità: era convinta che la grave aggressione della quale era stata vittima avesse dei collegamenti con la vicenda di Alfredo Vitale, ma non poteva esserne certa.
«Ti capisco» ammise Carolina, «Dopotutto Vitale è stato ucciso moltissimi anno fa. Anche se i tuoi sospetti fossero corretti, la persona che l'ha eliminato potrebbe essere già morta.»
Olimpia non ci aveva pensato. In effetti era possibile e non poté astenersi dal ricordare a se stessa che lo stesso Roberto Gottardi era venuto a mancare già da tempo. Tuttavia Maurizio Melegari non aveva mai menzionato il padre di Vincenzo, né in sua presenza, né in presenza di Claudio, se quanto riferito da quest'ultimo poteva essere considerato attendibile.
Ne avevano discusso a lungo, la sera precedente. Olimpia l'aveva pregato in tutti i modi di metterla al corrente di tutto ciò che sapeva. Si era aspettata che Claudio negasse, invece aveva confessato, senza nemmeno provare a mentire, di avere cercato di approfittare della scarsa lucidità del padre per farlo parlare di quell'oscura vicenda.
«Non avrei mai voluto arrivare a tanto, ma avevo bisogno di risposte» le aveva confidato. «Avevo un'idea almeno vaga di chi fosse l'uomo assassinato, quindi riuscii a convincere mio padre ad ammettere che si trattava di quel Vitale. Decisi di non dirti niente, perché speravo che potessi dimenticarti di questa storia. Io, però, avevo bisogno di risposte. Temevo che, tra la gente con cui mio padre lavorava quando ero bambino - persone che io stesso avevo conosciuto - potesse nascondersi qualcuno di pericoloso. Sapevo vagamente qualcosa a proposito di furti avvenuti dentro l'albergo e ho cercato di scoprire se avessero a che vedere con il delitto. Mi sembrava strano. Così ho chiesto a mio padre se sapesse chi aveva ucciso Alfredo Vitale.»
«E lo sapeva?» aveva chiesto Olimpia.
«No, non lo sapeva» aveva risposto Claudio. «Anzi, ho iniziato a dubitare di tutto il suo racconto, perché mi ha fatto un nome totalmente assurdo e insensato... Eppure doveva esserne convinto, perché poi quel nome l'ha ripetuto anche in punto di morte.»
Olimpia rabbrividì al pensiero di quella conversazione. Si sentì trafitta da una lama di gelo, nonostante le alte temperature di quel giorno d'estate. Si rese conto di essere di fronte a Carolina, in silenzio da ormai troppo tempo, incerta su quali fossero state le ultime parole che avevano pronunciato. Riuscì a fare mente locale, ricordando che la receptionist aveva asserito che l'assassino di Alfredo Vitale, a distanza di così tanti anni, poteva essere passato a miglior vita.
Valutò come agire. Poteva ancora tornare indietro e lasciare le farneticazioni di Maurizio relegate in uno spazio privato al quale solo lei e Claudio avevano avuto accesso, fino a quel momento. Non erano più una coppia, ma potevano ancora condividere un segreto, specie se riguardava una persona a loro cara.
Poteva farlo, ma non lo fece. Si ritrovò a fissare Carolina dritto negli occhi e ad affermare: «La persona che ha ucciso Alfredo Vitale è ancora viva, secondo quanto disse mio suocero in punto di morte. Certo, non è molto facile credere alla sua versione dei fatti, ma tutto è possibile, anche che una persona che nessuno prenderebbe mai in considerazione possa avere commesso un delitto. In fondo, senza essere dentro a una situazione, è difficile sapere cosa sia successo esattamente.»
«Non capisco» replicò Carolina, fredda. «Davvero, non ho idea di che cosa tu sia dicendo.»
«Mio suocero, nei suoi vaneggiamenti, affermava che un uomo era stato ucciso e che poi il suo cadavere era stato occultato da qualcun altro» le spiegò Olimpia. «Di per sé non ha senso. Ci sono due ragioni per cui qualcuno potrebbe averlo fatto: o perché temeva di essere incolpato del delitto, oppure perché voleva che la verità non venisse alla luce. Ti assicuro che quest'ultima opzione mi sembrava assurda... e che mentre ne parlo con te mi sembra tuttora assurda. Però Maurizio un nome l'ha fatto e Claudio se ne ricorda bene. Sembrava assurdo pure a lui, però l'ha ripetuto almeno un'altra volta: un nome e un cognome, una persona precisa.»
«Chi?»
«Sei sicura di volerlo sentire?»
Carolina annuì.
«Sì, devo sapere.»
Olimpia non riuscì a capire se fosse seriamente interessata a quelle che fino a poco prima dovevano apparire come fantasie deliranti, ma non se ne sarebbe sorpresa.
«So benissimo che mi dirai che è impossibile, ma molte cose che poi sono accadute, un tempo sembravano impossibili. Maurizio era una persona affidabile. Un fondamento di verità, nelle sue parole, doveva esserci.»
Carolina insisté: «Che nome ha fatto?»
«Ti vedo molto coinvolta» osservò Olimpia. «C'è qualche ragione particolare per cui ti interessa così tanto?»
«Sei qui e me ne stai parlando. Ormai ci sono dentro, voglio sapere.» Carolina la fissò con fermezza. «Ti prego, Olimpia, dimmi quello che sai.»
Olimpia la accontentò subito.
«Ha fatto il tuo nome. Ha detto: "è stata Carolina Riva a ucciderlo".»
Per lunghi, interminabili istanti la receptionist parve una persona che avesse appena visto un fantasma. Olimpia la scrutò con attenzione, pronta a captare il minimo segnale.
Carolina, comunque, ritornò in sé, affermando: «Avevo otto anni. Come puoi pensare che una notte abbia colpito alla testa un uomo uccidendolo?»
«Una notte?» ripeté Olimpia. «Chi ha mai detto che Vitale è stato ucciso di notte?»
L'altra non si scompose.
«Più facile di notte che di giorno, davanti agli occhi di tutti. Comunque te lo ripeto: avevo otto anni. Quello che dici è assurdo.»
La sua esitazione di poco prima sembrava del tutto sparita. Olimpia sapeva che la scelta più logica sarebbe stata riconoscere che ciò che Maurizio aveva affermato era impossibile. Non ebbe il tempo di farlo. Enrico comparve all'improvviso accanto a loro e l'espressione di ritrovata serenità di Carolina sfumò.
«Buongiorno, ragazze» le salutò Enrico. «Cosa succede di interessante?»
«Niente» si affrettò a rispondere Carolina.  «Olimpia passava di qua, voleva salutarti, ma le ho detto che non c'eri.»
Era una reazione quantomeno curiosa. Olimpia si era aspettata che la receptionist approfittasse dell'arrivo di Enrico per ridicolizzarla, mettendolo al corrente delle sue accuse, invece si stava comportando nella maniera esattamente opposta. Sembrava non volesse affatto che Enrico scoprisse cosa si erano dette, ma non le avrebbe regalato quella soddisfazione.
«In realtà no» confidò a Enrico. «Le stavo chiedendo se ha ucciso lei Alfredo Vitale. Mio suocero era convinto di sapere chi l'aveva ammazzato.»
Enrico la fissò con gli occhi strabuzzati.
«Che cazzo stai blaterando, Olimpia? Non ti senti bene? Se vuoi ti accompagno a casa.»
«Ti assicuro che non mi sono mai sentita meglio» replicò Olimpia, «Ed è stato mio suocero a fare il suo nome. So che è assurdo, che Carolina aveva solo otto anni, al momento...»
Carolina la interruppe: «Infatti, lo ribadisco, è assurdo pensare che a otto anni io abbia fatto quello di cui, a quanto pare, un uomo in punto di morte mi accusava. Il signor Melegari doveva avere le idee molto confuse.»
Olimpia ribatté: «Eppure il tuo nome l'ha fatto, testuale. "È stata Carolina Riva a ucciderlo", così ha detto.»
Quelle parole ebbero un effetto inatteso: di colpo fu Enrico quello che sembrava avere appena visto un fantasma. Per chissà quale ragione, quella frase parve fare scattare una molla dentro di lui.
Si girò all'improvviso verso Carolina.
«È vero?» volle sapere. «Quell'uomo ha detto la verità?»
Carolina abbassò lo sguardo, senza proferire parola. Olimpia non comprese per quale ragione fosse bastato che fosse Enrico a interpellarla, per farla crollare.
Infine la receptionist parlò, rivolta solo all'amico: «Mia madre non dovrà saperlo mai. Ti prego, Enrico, fa che non scopra mai la verità.»

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Capitolo 22
*** Alfredo Vitale ***


ALFREDO VITALE

Olimpia si rese conto di avere scoperchiato un enorme vaso di Pandora, così smisurato da non sapere come gestire quella scomoda situazione. Quella di Carolina era una palese ammissione ed Enrico non sembrava nemmeno troppo sconvolto. Olimpia avrebbe voluto chiedergli come facesse a non essere terrorizzato dall'idea che la donna con cui avevano a che fare avesse ucciso un uomo ad appena otto anni.
Toccava a lei, decise. O quantomeno cercò di decidersi: trovare le parole non era per niente facile. Fu costretta ad appigliarsi alla propria capacità di dire sempre qualcosa, giusto o sbagliato che fosse, e si rivolse direttamente a Carolina.
«Come hai fatto a vivere portandoti questo segreto per tutti questi anni? Come fai a guardarti allo specchio sapendo di avere tolto la vita a una persona?»
Carolina la fissò a bocca spalancata per un istante, senza proferire parola. A sorpresa, fu Enrico a intervenire al posto suo: «Olimpia, bada ai fatti tuoi, che non sai un cazzo!»
«Se non sapere un cazzo significa non essermi mai sporcata le mani con il sangue di qualcuno, comportandomi come se nulla fosse, allora sono ben felice di non sapere un cazzo» replicò Olimpia. «Tu lo sapevi? L'hai sempre saputo? Eppure in un primo momento mi davi della pazza.»
Finalmente Carolina parlò.
«Non sono stata io a uccidere Alfredo Vitale.»
«Mio suocero ha fatto il tuo nome» puntualizzò Olimpia, «E io gli credo. Anche Enrico crede alle sue parole, lo dimostra quello che ha detto. Tu stessa hai ammesso che...»
Carolina la interruppe: «Non sono stata io. Ti ho detto la verità: la persona che ha ucciso Alfredo Vitale è morta. Solo, a quei tempi non sapevo si chiamasse Alfredo Vitale. Nemmeno quando hanno trovato il cadavere, ho pensato a lui. Non sapevo che l'avesse ammazzato. L'avevo visto cadere a terra, ma non avevo mai sentito dire che fosse stato ucciso qualcuno. Avevo otto anni, ero solo una bambina innocente. Li ho sentiti urlare, li ho sentiti scambiarsi delle accuse che ai tempi non capivo... e niente, adesso posso capire tutto.»
«Puoi capire cosa?» insisté Olimpia. «Cos'è successo? Chi ha ucciso Vitale e perché?»
«Già» intervenne Enrico. «Perché l'ha fatto? Perché l'ha ucciso? Era venuto a cercare tua madre e l'ha fatto per difenderla? O si è trattato di una vendetta?»
Carolina abbassò lo sguardo.
«Non lo so, non so perché l'abbia fatto. Non so se...»
Si interruppe.
«Perché non vuoi che tua madre lo sappia?» le chiese Enrico. «Quello che tua nonna ha fatto è stato fondamentalmente sbagliato, ma l'ha fatto per lei.»
Olimpia si lasciò andare a una risata isterica. La Carolina Riva di cui aveva parlato Maurizio non era l'amica d'infanzia di Enrico, era sua nonna. Enrico, da bambino, frequentava casa loro. Doveva averlo capito subito.
Le venne da pensare di essersi resa ridicola, ma né Enrico né Carolina sembravano interessati a lei e alla sua improbabile interpretazione dei fatti. Anzi, fu ancora Carolina a catalizzare l'attenzione, quando dichiarò, senza mezzi termini: «Non l'ha fatto per lei, l'ha fatto per se stessa. Non è stato Vitale a tentare di uccidere mia madre... e mia nonna lo sapeva fin troppo bene.»
Enrico parve seriamente smarrito.
«Cosa sai di quella storia?»
«Ho messo insieme frammenti di verità, ho cercato di ricordare... nella speranza di sbagliarmi. Però so per certo cos'ho sentito quella notte.»
Olimpia, desiderosa di arrivarci in fondo, le domandò: «Potresti cortesemente raccontarci tutto dall'inizio? Sai, sono rimasta coinvolta anch'io, quando qualcuno ha tentato di spaccarmi la testa. Vorrei capire chi è stato ad aggredirmi e cos'ha a che fare con tua nonna nonché tua omonima..»
«Non so cos'abbia a che fare con mia nonna» replicò Carolina. «È morta parecchi anni fa. Si è portata nella tomba il proprio segreto. Non saprei come aiutarti, non ho idea di chi possa averti aggredita.»
«Tu inizia a raccontare la tua storia dall'inizio» insisté Olimpia, «E vediamo se davvero non puoi aiutarmi.»
Carolina sospirò. Per un attimo Olimpia ebbe paura che protestasse, che le ricordasse che quello era il suo orario di lavoro e che un'estranea come lei non avrebbe dovuto stare alla reception, ma non accadde. Anzi, fu piuttosto collaborativa, iniziando a raccontare: «Mia madre si trasferì qui dopo che qualcuno aveva tentato di ucciderla, sempre nello stesso modo. Era terrorizzata dall'idea che il colpevole potesse riprovarci, aveva deciso di nascondersi, con l'aiuto di un conoscente - Maurizio Melegari, tuo suocero - e prendendo il cognome di mia nonna per non essere rintracciata. Qualche tempo dopo, mia nonna decise di trasferirsi qui e venne a vivere con lei. Questo succedeva prima della mia nascita. Quando ero bambina, abitavamo ancora insieme a mia nonna e stavo con lei quando mia madre era al lavoro, oppure quando era fuori. Quella sera, ma l'avrei saputo soltanto molto tempo dopo, era con Giuseppe, il padre di Enrico. Era la serata finale di una fiera o di una sagra, non ricordo con esattezza. Ero già andata a dormire, ma mi svegliai di soprassalto sentendo un rumore imprecisato. Credevo fossero i fuochi d'artificio, anche se non sono sicura che li stessero già facendo. Faceva caldo, avevo la finestra aperta, quindi mi avvicinai per vedere se si intravedesse qualcosa. Non si vedeva niente. Però, al di là del cortile, illuminata dalla luce dell'unico lampione presente, c'era mia nonna che discuteva con un uomo. Teneva in mano qualcosa, forse un ombrello chiuso, anche se era sereno. All'epoca non capii perché l'avesse portato con sé, ma non vi diedi peso. Anzi, cercavo di capire cosa stesse succedendo. Nessuno veniva mai da noi, a parte Enrico e suo padre, oppure i clienti per cui mia nonna faceva lavori di sartoria. Però non venivano a quell'ora, doveva essere quasi mezzanotte.»
Enrico azzardò: «Tua nonna aveva portato l'ombrello come arma per difendersi?»
«Forse» rispose Carolina, «Ma non mi stupirebbe se l'avesse fatto perché aveva intenzione di attaccare.»
«Continua» la esortò Olimpia. «Io ed Enrico vogliamo sapere.»
Lanciò un'occhiata all'amico, sperando che non la smentisse, ma Enrico non sembrava nemmeno avere fatto caso alle sue parole. Carolina le aveva recepite, per fortuna, quindi iniziò a narrare gli aspetti della vicenda a lei conosciuti. Olimpia la ascoltò con interesse. 

Alfredo bussò alla porta. Gli parve di notare qualcuno che si affacciava alla finestra. Poco dopo, Carolina Riva venne ad aprire. Portava con sé un grande ombrello chiuso, un po' come se pensasse di spaventarlo con quell'arma impropria.
«Cosa vuoi?» sibilò. «Chi ti ha detto di venire da me?»
«Nessuno me l'ha detto» rispose Alfredo. «Sono un libero cittadino - quantomeno lo sono adesso - e mi è consentito spostarmi a mio piacimento.»
«Questa è casa mia.»
«Infatti sei stata tu ad aprire la porta. Ti bastava non farlo, per stare lontana da me.»
«A che gioco stai giocando?»
Alfredo fece un mezzo sorriso.
«Non sto giocando, Carolina. Non ho mai giocato, dovresti saperlo bene. Un tempo facevamo affari insieme.»
Il tono di voce di Carolina si alzò.
«Io e te non abbiamo mai fatto affari insieme.»
«Ah, no?» replicò Alfredo. Non si preoccupò nemmeno di parlare piano. Carolina doveva essere sola, non si vedevano finestre illuminate. «A me sembra che abbiamo lavorato bene, a suo tempo.»
«Ho cambiato vita e dovresti cambiarla anche tu. Gli anni passati dietro le sbarre non ti hanno fatto capire che stavi sbagliando?»
«Mi hanno solo fatto capire che qualcuno ha voluto incastrarmi. Ho pagato per un crimine che non ho mai commesso... e tu lo sai bene.»
Carolina replicò: «Sei stato visto.»
«Sono stato visto uscire da casa di Giovanna» convenne Alfredo. «Non sono stato visto mentre le facevo del male.»
«Sei stato comunque visto e questo è bastato per farti finire in galera. Non capisco perché tu sia venuto qui. Ci tieni così tanto a cacciarti di nuovo nei guai?»
Alfredo ammise con se stesso di non avere scelto una strada molto promettente: in fondo accettare la proposta di Damiano Rossini, che l'aveva ingaggiato per derubare i clienti dell'albergo che stava cercando di comprare, non era una grande occasione di riscatto. Non ne aveva comunque delle migliori, per il momento, e tutto ciò che gli bastava era non fare del male alle persone, fintanto che si trattava di impossessarsi di denaro e oggetti di valore non era così schizzinoso.
L'aveva fatto anche in passato, i furti su commissione erano la sua specialità, come ben sapeva Carolina Riva. Quell'anziana sarta di periferia nascondeva torbidi segreti ed era stata ben disposta a spingersi all'impensabile per continuare a rimanere celata dietro la sua immagine di donna perbene. Alfredo non avrebbe fatto ammissioni con lei, mai.
«E tu?» le chiese. «Tu ci tieni così tanto a fare la parte della madre premurosa? Giovanna crede davvero che tu l'abbia seguita qua per aiutarla a proteggersi da me?»
«Giovanna ha avuto paura di te, questo sì. Adesso, però, sei solo un ricordo sfumato, per lei, un passato che per fortuna non c'è più. Non ti rimpiange, non ha mai rimpianto il tempo che ha perso insieme a te.»
«Non sto parlando di me. Sto parlando di Giovanna e di quello che le hai fatto, quando ci ha sentiti parlare dei nostri affari. Sempre ammesso che abbia sentito davvero. L'hai colpita a tradimento, proprio tu, che non facevi altro che vantarti di averla allontanata da me.»
Carolina rimase in silenzio per alcuni lunghi istanti, infine sbottò: «Tu non sei nessuno per venire a farmi la morale! Credi che qualcuno potrebbe credere alle tue accuse? Se nessuno ti avesse visto allontanarti da casa di Giovanna, quel giorno, forse le cose sarebbero andate diversamente, ma non hai mai avuto speranze. Eri già condannato ancora prima di entrare in tribunale... ed è esattamente quello che si meritano le nullità come te.»
«Sai, Carolina, io non sono mai venuto qua per dire la verità a Giovanna» ammise Alfredo, «Ma non sono così sicuro che non mi crederebbe, se le raccontassi tutto per filo e per segno. Mi hanno detto che non ricorda niente, ma non penso che, se non le fosse stato messo in testa, mi avrebbe mai accusato. Sa che non le avrei mai fatto del male.»
«Smettila di interpretare la parte del ragazzo che le vuole bene.»
«Non sto interpretando una parte. Non è questioni di volerle o non volerle bene. Non avrei alcun motivo per fare del male a Giovanna, nemmeno se mi fosse sempre stata indifferente! Figurarsi dopo che è sempre stata così gentile con me, sempre disposta ad aiutarmi quando avevo bisogno. Vogliamo parlare di te, invece? È tua figlia, eppure hai...»
Carolina lo interruppe: «Con che diritto vieni a casa mia e mi accusi di cose che non sai? Se Giovanna fosse qui a vederti, direbbe che sei un pazzo visionario!»
Alfredo obiettò: «Ti sbagli, Carolina. So bene che sei stata tu. C'ero anch'io. Sei stata tu a convincermi ad andarmene e a fingere di non avere visto. Era solo svenuta, mi hai detto. Si sarebbe ripresa subito, ma dovevo andare via e fare finta di non essere mai stato lì, mi hai detto. Mi hai assicurato che sarebbe stato tutto facile... e invece avevi pensato a tutto, avevi pensato che fosse così semplice dare la colpa a me. E nonostante tutto, sembri non provare la minima vergogna, se adesso fingi di essere la salvatrice che l'ha aiutata a rimettere in piedi la propria vita. Però sappi, Carolina, che prima o poi pagherai per quello che hai fatto. È assicurato, non importa che tu abbia fatto del tuo meglio per farla vivere in un castello di bugie: crollerà, crollerà molto presto. Prima o poi avrai quello che meriti e Giovanna scoprirà chi sei veramente.»
Carolina rimase in silenzio, in apparenza impassibile. Alfredo le aveva già detto tutto, non aveva altro da aggiungere. Le lanciò un'ultima occhiata di fuoco, poi le voltò le spalle. 

Il racconto di Carolina entrò nel culmine. Olimpia non faticò a immaginarsi la scena: una bambina di otto anni che, alla finestra di nascosto, vedeva la nonna accanirsi a colpi di ombrello sulla testa di uno sconosciuto, non appena questo commetteva l'imprudenza di voltarle le spalle.
«Non sapevo cosa fosse accaduto esattamente, ma avevo la certezza di essere in una di quelle situazioni in cui capita di vedere per puro caso qualcosa che dovrebbero vedere soltanto gli adulti» concluse Carolina. «Mia madre era piuttosto rigida su questo, sarà perché aveva una relazione clandestina e doveva gestire tutti i segreti che ne derivavano, ma pensai che non sarebbe stata felice, se mi fossi immischiata nell'affare con cui aveva a che fare mia nonna. Non avevo idea del significato di quello che avevo visto. Non pensavo che quell'uomo fosse morto. Tornai a letto e decisi di fingere di non avere mai visto e sentito nulla. Lo so, non è stata la scelta migliore, ma ero una bambina ed ero spaventata. Era piena notte, o almeno per me lo sembrava. Avrei dovuto dormire, a quell'ora, tanto che, con il passare del tempo, cercai di convincermi che si era trattato solo di un incubo. Iniziai a pensarlo davvero, forse. Mia nonna e mia madre non parlavano mai di quello sconosciuto, quindi iniziavo a credere che non fosse mai esistito. E poi, in ogni caso, non sentii mai parlare di un cadavere, per me quel tizio era vivo e non avevo alcuna ragione per chiedere a mia nonna come mai avesse iniziato a colpirlo con un ombrello. Solo negli ultimi tempi ho iniziato a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle, arrivando a capire.»
«E, sentiamo» la invitò Olimpia, «Cos'hai capito?»
«Ho capito che mia nonna rubava, o comunque trafficava oggetti rubati» rispose Carolina. «Quando ebbe il sospetto di essere sul punto di venire colta sul fatto da mia madre, la tramortì con un colpo alla testa, magari sempre con un ombrello, rischiando di ammazzarla. Poi lasciò che Alfredo - il suo complice nei furti - fosse accusato al posto suo. Non lo fece solo davanti alla legge, ma anche con mia madre. Finse di volerla aiutare, quando forse tutto ciò che desiderava era assicurarsi che non ricordasse... il tutto mentre lei, in segno di riconoscenza, decideva che avrei dovuto portare il suo stesso nome.»
«Tu pensi che tua nonna abbia rischiato di uccidere tua madre - o forse addirittura tentato - eppure vuoi proteggere la sua memoria?»
Carolina scosse la testa.
«Ma no, come fai a non capire? È mia madre che voglio proteggere. Non si merita una simile delusione, di sapere che la donna che l'ha messa al mondo le ha quasi tolto la vita per proteggere i propri affari loschi.»
Olimpia azzardò: «Anche a costo di lasciare che Alfredo Vitale si prenda una colpa che non ha?»
Carolina replicò: «Non ho idea di chi fosse realmente quell'uomo, anche se tutto lascia pensare che non fosse pericoloso. Ormai, però, è morto da decenni, non c'è più niente che io possa fare per lui. Aveva già scontato una condanna ingiusta. Non posso pensare a lui, devo pensare a mia madre. Ha tollerato per tutto questo tempo l'idea che il suo ex fidanzato potesse avere tentato di ucciderla. Non voglio esporla a qualcosa che difficilmente potrebbe tollerar-...»
Si interruppe e si girò verso la direzione che già attirava Enrico. Un uomo sulla sessantina, vestito molto elegantemente, stava venendo verso di loro.
Abbandonata la sua intricata vicenda familiare, Carolina salutò il nuovo arrivato con un "buongiorno, signor Rossini", subito imitata da Enrico. Quello era dunque il padre di Paola, nonché colui che già in passato aveva cercato di impossessarsi dell'attività dei Gottardi.
Olimpia era in dubbio su come giustificare la propria presenza, ma non ebbe bisogno di impegnarsi molto. Fu lo stesso signor Rossini a suggerirle una spiegazione, quando le chiese: «Lei è la signora che si è candidata come cameriera? Barbara... non ricordo il cognome.»
Olimpia annuì con convinzione.
«Sì, sono io.»
Enrico la fulminò con lo sguardo, ma non se ne curò, mentre Rossini la invitava a seguirlo nel suo ufficio per il colloquio: aveva finalmente la possibilità di rimanere da sola con lui e di chiedergli se avesse ingaggiato Vitale per derubare i clienti dell'albergo, se in precedenza fosse stato lui a testimoniare di averlo visto nei pressi dell'abitazione di Giovanna Riva. Poi, se tutto fosse girato per il verso giusto, magari gli avrebbe domandato anche se avesse qualcosa a che fare con il tentativo di omicidio subito al bar.

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Capitolo 23
*** Rossini e Carletti ***


ROSSINI E CARLETTI

«Prego, mi segua.» Damiano Rossini si girò a guardarla, così Olimpia si affrettò a sorridere con sicurezza. «Siamo quasi arrivati.»
Doveva davvero crederla la donna venuta per il colloquio, o almeno non dava segno di dubitare di lei. Presto sarebbe stato smentito, ma Olimpia non ci teneva ad affrettare i tempi. Anzi, sperava che ci fosse ancora un po' di strada da percorrere, per potersi schiarire meglio le idee e non dire o fare nulla di troppo avventato quando fosse venuto il momento. Sapeva che non sarebbe stato possibile evitarlo del tutto: l'unica alternativa era rinunciare al proprio proposito.
Rossini si fermò di fronte a una porta socchiusa, dalla quale uscì una donna che doveva avere più o meno l'età di Olimpia. I due si salutarono velocemente, ma senza formalità, il che avrebbe reso comprensibile a chiunque che si trattava della figlia Paola. Per lei, che aveva già visto la sua fotografia a casa di Vincenzo, durante la famigerata effrazione, non sarebbe stato comunque necessario.
Il signor Rossini fece un cenno a Olimpia.
«Prego, Barbara, venga dentro.»
La introdusse all'interno di quello che doveva essere il suo ufficio personale... o forse l'ufficio personale dell'uomo che Olimpia vide seduto dietro a una scrivania.
«Giorgio, lei è la famosa Barbara» annunciò Rossini.
«Piacere di conoscerla, Barbara» disse l'altro uomo, in tono poco convinto. «Barbara Prati, se non sbaglio.»
Olimpia si limitò ad annuire.
«Prego, si sieda» la invitò. «Io sono Giorgio Carletti, il direttore. Immagino che il signor Rossini abbia già avuto modo di presentarsi.»
«In realtà non l'ho fatto» ammise il nuovo titolare, chiudendo nel frattempo la porta. «Prego, si sieda, signora Prati, e lasci che mi presenti. Sono Damiano Rossini, il proprietario di questo posto. O meglio, per essere più preciso, sono il padre della proprietaria di questo posto. La ragazza che abbiamo incontrato nel corridoio è mia figlia Paola.»
Olimpia prese posto sulla sedia di fronte alla scrivania di Carletti, ma si girò a guardare il signor Rossini.
«Non le somiglia.»
Era giunto il momento di togliere la maschera e si rese conto di avere spiazzato Rossini, dal suo sguardo stranito e dalla sua convinzione di avere capito male. Le domandò, infatti: «Come ha detto?»
«Ho detto che sua figlia non le somiglia» ribadì Olimpia, «E, dato che siamo in tema di presentazioni, temo di doverle comunicare che non sono Barbara Prati e non ho mai fatto domanda di lavoro in questo posto.» Tornò a girarsi verso Carletti, che sembrava ben poco stupito. «Chiedo scusa a entrambi per avervi ingannato, ma l'occasione era troppo ghiotta per lasciarmela sfuggire.»
Carletti fece un mezzo sorriso.
«Si può dire che non le manchi l'iniziativa.»
«Ne ho pure troppa, se devo essere sincera.»
«E lo ritiene un bene o un male?»
Stavolta fu Olimpia a chiedersi se avesse ben compreso.
«Perché me lo chiede?»
«Per scambiare qualche parola» rispose Carletti. «D'altronde è venuta qui per parlare con me, oppure con Damiano. Se non è la candidata, deve essere qui per una ragione. Dubito che sia una pazza senza controllo venuta qui per puro caso.»
Il signor Rossini si intromise: «Posso chiederle chi è e che cosa vuole da noi, signora Barbar-... ehm... signora...?»
«Olimpia.»
«Posso chiederle cosa vuole da noi, signora Olimpia? O preferisce signorina?»
«Può chiamarmi anche solo Olimpia. Non saprei definirmi. Non sono signorina, perché tecnicamente non sono nubile, ma nemmeno signora, perché non sono nemmeno sposata, non più, almeno. Ero la moglie di Claudio Melegari, ha mai sentito parlare di lui?»
Damiano Rossini spalancò gli occhi.
«La nuora di Maurizio?»
«Esatto, proprio io!» confermò Olimpia. «Per caso è sorpreso di vedermi?»
«Sono molto sorpreso che sia venuta qui con un sotterfugio che io stesso le ho servito su un piatto d'argento. Perché non mi ha detto chi era? È la benvenuta, ho conosciuto suo suocero, in passato, quando lavorava per Roberto Gottardi, il vecchio titolare.»
Olimpia confermò: «Lo so bene.»
«Era una persona perbene» osservò il signor Rossini. «C'era chi non lo apprezzava, ma era un uomo davvero a modo.»
Olimpia replicò, secca: «E allora perché ha cercato di scaricare su di lui la colpa dei furti?»
«Quali furti?»
«Quelli commessi da Alfredo Vitale.»
Per la seconda volta, Rossini parve spiazzato.
«Come dice?»
«Non faccia finta di non capire, ha sentito benissimo. Se vuole posso esporle i fatti - o almeno quelli che credo siano i fatti - poi sarà lei a dirmi se ho ragione o meno.»
Carletti intervenne: «Credo abbia già abusato abbastanza del nostro tempo, Olimpia. Stiamo aspettando la signora Prati per il colloquio, non abbiamo tempo da perdere ad ascoltare le sue chiacchiere.»
Olimpia ribatté: «Mi dispiace per il tempo che sto facendo perdere a tutti e due, ma non posso fare altrimenti. Purtroppo mi sono ritrovata in mezzo a una storia che non mi riguardava affatto. Adesso, però, riguarda anche me. So che molti anni fa, più di venti, il qui presente signor Rossini cercò di farsi vendere questo albergo dal titolare, Roberto Gottardi, il quale, tuttavia, non voleva mettere in vendita la propria attività. Allora - chiedo scusa per la mia sfacciataggine, non dovrei darlo per certo, ma non riesco a credere che sia andata diversamente - ecco che il signor Rossini ebbe una brillante idea: commissionare dei furti ai clienti, nella speranza di far colare a picco la reputazione dell'albergo. Se fosse entrato in crisi, avrebbe potuto convincere più facilmente Gottardi a sbarazzarsene, per evitare il fallimento. Dico bene, signor Rossini?» Puntò lo sguardo fisso su Damiano. «Per quella ragione ingaggiò Alfredo Vitale, nella speranza che il suo piano potesse andare a segno, facendo circolare qualche voce sul fatto che fosse Maurizio il complice di quell'uomo.»
Damiano Rossini non disse nulla, né confermò né smentì la sua ipotesi.
Giorgio Carletti, in compenso, insisté: «Ci lasci soli. Se ne vada e non torni più.»
Inaspettatamente, il signor Rossini replicò: «No, non se ne vada, Olimpia. Mi spieghi piuttosto che cosa le fa pensare che sia andata così.»
«Sono la nuora di Maurizio» gli ricordò Olimpia. «So più cose di quante lei creda.»
«Per esempio?»
«Mi sta chiedendo cos'altro so?»
«Ha paura di mettersi alla prova?»
Olimpia scosse la testa.
«No, affatto, non ho assolutamente paura. Non posso esserne certa, ma credo sia stato lei, diversi anni prima dei furti, a testimoniare contro Vitale in merito all'aggressione di Giovanna Riva. Anzi, di Giovanna... non saprei quale fosse il suo cognome, ai tempi, l'ho sempre conosciuta - di fama, non personalmente - come Giovanna Riva. L'ha visto nei pressi della casa della sua ex fidanzata e ha dichiarato quella che credeva fosse la verità, ma Vitale non era colpevole.»
Damiano Rossini non la smentì.
«Non ho mai dichiarato che lo fosse, solo di averlo visto. È proprio così: lo vidi proprio dove raccontai. Non so cosa ci fosse andato a fare, da Giovanna, forse a chiederle dei soldi. Ogni tanto lo faceva e Giovanna spesso gli dava qualcosa. Non ho mai creduto che volesse ucciderla, sarebbe stato come uccidere la gallina dalle uova d'oro.»
«Allora perché l'ha denunciato?»
«Non l'ho denunciato, ho riferito quello che avevo visto. Pensavo fosse la cosa migliore, che la verità sarebbe emersa e che, se il colpevole era qualcun altro anziché lui, tutto sarebbe venuto alla luce.»
«Ma non è mai successo.»
«Non per colpa mia.»
«Però è stato lei a portare Vitale qui in città, quando è uscito dal carcere. È stato lei che gli ha commissionato quei...»
Olimpia non riuscì a pronunciare la parola "furti", in quanto Carletti la interruppe: «Se ne vada! Ha già messo a dura prova la nostra pazienza, non le pare?»
«Stai calmo, Giorgio, è tutto sotto controllo» lo rassicurò il signor Rossini. «Anzi, perché non mi lasci un attimo solo con Olimpia?»
Carletti sbuffò, ma si alzò e si allontanò dalla propria scrivania.
«Credi davvero che sia una buona idea?» domandò.
Rossini fece un segno d'assenso molto lieve, ma sufficiente a convincere Carletti a uscire dalla stanza. Il nuovo titolare andò a sedersi al suo posto.
«Posso chiederle, Olimpia, perché è così interessata a tutto questo?»
«Ho le mie buone ragioni.»
«Lo immaginavo, ma le chiedo di dirmi quali.»
«Mi dia una buona ragione per farlo.»
Il signor Rossini le ricordò: «Ho appena ammesso, causa sua insistenza, di avere ingaggiato Vitale per commettere dei piccoli furti. Mi sembra il minimo che possa fare per ricambiare il favore.»
«Oh, l'ha ammesso, quindi?» esclamò Olimpia. «Mi scusi per lo stupore, ma ha fatto in modo di non essere del tutto esplicito.»
«Come vuole, sarò esplicito: sì, ho fatto quello che sospetta» rispose Rossini. «Credevo che questo albergo fosse un buon investimento per il futuro e pensavo che Gottardi non fosse in grado di farlo rendere al massimo.»
«Eppure ha avuto successo.»
«I successi imprenditoriali di Roberto Gottardi non ci riguardano.»
«Ha ragione, parliamo di lei. È fiero di quello che ha fatto?»
«All'epoca pensavo che, pur di ottenere quello che volevo, andasse bene ogni mezzo possibile.»
«Al giorno d'oggi non ha cambiato idea, non del tutto, almeno» osservò Olimpia. «È riuscito a ottenere comunque il suo obiettivo, coinvolgendo Paola.»
«Che cosa ne sa?»
«So quanto basta.»
«E cosa vuole da me?»
«Non voglio niente da lei, se non la verità. Sto cercando la persona che ha tentato di uccidermi, qualche tempo fa. Un colpo alla nuca, ben assestato, un po' come accadde a Giovanna e a Vitale. Solo che, proprio come Giovanna e diversamente da Vitale, io sono sopravvissuta. Cosa sa della morte di quell'uomo?»
«Poco.»
«Qualcuno l'ha ucciso, ma qualcun altro ha occultato il suo cadavere, così raccontava mio suocero mentre un tumore lo divorava e lo rendeva giorno dopo giorno sempre più incapace di capire cosa fosse opportuno dire e cosa no.»
Il signor Rossini obiettò: «Mi sta dicendo lei stessa che non era lucido.»
Olimpia mise a tacere le sue proteste replicando, con fermezza: «So che la persona che ha ucciso Vitale non ha seppellito il suo cadavere. Ho parlato con una testimone del delitto.»
«Una testimone del delitto che, però, non si è mai fatta avanti, a meno che non sia successo in giornata» precisò Rossini. «Mi risulta che l'omicidio Vitale sia ancora un caso senza soluzione.»
«Era molto giovane e non le era chiaro che cosa stesse vedendo. In parole povere, le era stato messo in testa che non doveva impicciarsi nelle questioni degli adulti e non l'ha fatto. Molti bambini ragionano così.»
«Comunque sia, se sa chi ha ucciso Vitale, dovrebbe sapere chi è stato a tentare di uccidere lei.»
Olimpia negò.
«Oh, no, ne so esattamente come prima. Vede, la persona che ha ucciso Vitale è morta da anni. Non può avere aggredito me poco tempo fa.»
Damiano Rossini rimase in silenzio a lungo, infine ammise: «Non so come aiutarla. È vero, ho avuto a che fare con Alfredo Vitale in passato, ma non sono di sicuro l'unico con cui ha fatto affari poco puliti. Anzi, non penso sia esagerato affermare che ne abbia combinate di ben peggiori prima di iniziare a lavorare per me. Non so cosa ci sia dietro alla sua morte e, per molti anni, ho pensato che fosse semplicemente scomparso di propria spontanea volontà. Il modo in cui aveva vissuto fino a quel momento lo lasciava pensare: sospettavo si fosse messo nei guai e, di conseguenza, fosse andato a vivere altrove sotto falso nome. Non so che cosa c'entri lei e in che modo quello che le è successo abbia a che vedere con Vitale. Se dice che la persona che l'ha ucciso ormai non c'è più, potrebbe trattarsi di qualcuno che non ha niente a che vedere con questa storia.»
Olimpia annuì.
«Probabilmente ha ragione. Mi scusi se le ho fatto perdere tempo e grazie per quello che mi ha confidato.»
Il signor Rossini le scoccò un'occhiata di fuoco.
«Non me ne faccia pentire.»
Olimpia gli strizzò un occhio.
«Oppure sarà lei, stavolta, a mandarmi in coma con una botta in testa?»
«Non ci scherzi troppo» la mise in guardia Damiano Rossini. «Non ho alcun motivo per farle del male, però devo farle notare che il suo atteggiamento potrebbe infastidire qualcuno, se capisce cosa intendo. È venuta qui, si è spacciata per un'altra persona, ha iniziato a fare brutte insinuazioni sul mio passato...»
Olimpia si alzò in piedi.
«Mi sta dicendo che, se mi mettessi a fare discorsi simili con una persona pericolosa, che magari ha già ucciso o ci ha provato, correrei dei rischi che sarebbe meglio evitare. Ha ragione, lo so. La cosa migliore da fare sarebbe stare tranquilla e fingere che nulla sia accaduto. Sarebbe il modo più efficace per tenermi la testa tutta intera.» Iniziò ad avviarsi verso la porta. «Non si preoccupi troppo per me, so badare a me stessa.»
Non ne era davvero convinta e sapeva bene di essere andata a cercare problemi ben più di una volta, ma il suo interlocutore non la conosceva. Uscì dall'ufficio di Giorgio Carletti, con il desiderio di andare al più presto anche fuori dall'albergo, magari eludendo Carolina. Fu fortunata, nel momento in cui passò davanti alla reception, non vide nessuno. Un attimo più tardi era all'esterno, diretta verso il parcheggio.
Trovò l'auto con tutte le ruote a terra e una sola consapevolezza: non poteva essere opera di Rossini. Fissò le gomme tagliate per un tempo che le parve infinito, dopodiché udì una voce dietro di lei.
«È sua quella macchina?»
Olimpia si girò lentamente.
«Signor Carletti.»
Il direttore sorrise, in apparenza imbarazzato.
«Dicevo sempre a Gottardi di mettere le telecamere, invece non ne voleva sapere. Rossini sembra più convinto, ma ancora non le abbiamo messe. Non ho idea di chi possa avere fatto una cosa simile. Però, se vuole, la posso accompagnare a casa.»
Era gentile, molto di più di quanto le fosse sembrato in precedenza, prima che Damiano Rossini lo pregasse di andare via.
«Non si disturbi.»
«Non è un disturbo. Anzi, mi sembra il minimo che posso fare per lei.»
Pochi minuti più tardi, Olimpia era sull'automobile di Carletti, che le parlava di Damiano Rossini e di come fosse soddisfatto del cambio di gestione. Lo ascoltò senza troppo interesse, mentre la portava a casa, almeno finché non le lasciò intendere di avere apprezzato la sua irruzione.
Olimpia si girò di scatto a fissarlo.
«Davvero le sono piaciuta? Credevo le avesse dato fastidio.» Erano ormai giunti nella via nella quale abitava. «Può fermarsi qui.»
«No, si figuri, la porto proprio fino a casa» le assicurò Carletti. «Sa, la figlia di Damiano Rossini è la mia fidanzata. Non potevo fare altro che schierarmi dalla sua parte.»
«Invece Rossini non le piace?»
Carletti rise.
«È questo che pensa?»
Avevano ormai superato il numero civico di Olimpia.
«Sta andando troppo avanti.»
Carletti accelerò.
«Non mi ha risposto. La avverto, però, io non sono come il mio aspirante suocero. Damiano è stato gentile e accomodante. Io, invece, non tollero le squilibrate impiccione incapaci di badare agli affari loro. Chi gioca con il fuoco si scotta, credevo lo sapesse. Eppure è venuta lo stesso ad accendere le fiamme.»
Olimpia sussultò, rendendosi conto di una terribile verità. 
«Io ero venuta là solo parlare con la donna della reception» mormorò. «Il resto è venuto per caso. Io non...» Si interruppe. Che senso aveva affermare ciò che per lei era ovvio? Lo fece comunque: «Non sapevo ci fosse lei, dietro quello che mi è successo al bar. Perché? Che cosa la spaventava di me?»
Un fremito la scosse, mentre Carletti replicava: «Non mi ha mai spaventata. Non sapevo nemmeno che giocasse a fare l'investigatrice, nel suo tempo libero. Era solo una pedina, scelta perché ronzava intorno a Vincenzo Gottardi. Potevano accadere due cose: o uno scandalo che coinvolgeva Vincenzo, oppure la tizia della reception che dichiarava di essere stata con lui quella sera.»
Olimpia cercò di rimanere lucida, nonostante la situazione.
«Che cos'aveva da guadagnarci?»
«Paola.»
«Ma stavate già insieme.»
«Avrebbe sposato Vincenzo, se non avessi fatto nulla. E non potevo accettarlo.»
Olimpia spalancò gli occhi.
«Ha tentato di uccidermi per questo?! Non poteva parlare con Paola, dirle che non voleva si sposasse con un altro uomo, seppure per finta?»
«Mi creda, non ho mai voluto ucciderla, altrimenti adesso non sarebbe qua» ribatté Giorgio Carletti. «In ogni caso no, non avrei potuto fare una simile richiesta a Paola, avrebbe capito che tutto ciò che mi importa di lei sono i suoi soldi, al cui possesso potrei avvicinarmi se fossi io a sposarla.»
«E adesso?» chiese Olimpia. «Cosa succederà?»
«È tutto nelle sue mani» replicò Carletti. «Non ha prove contro di me e io non voglio farle del male, a meno che non mi ci costringa. Penso che potremmo discurerne civilmente e decidere come gestire questa situazione piuttosto incresciosa. Vede, ho bisogno di sapere che resterà in silenzio e che non farà nulla per diffamarmi. È tutto quello che voglio da lei.»

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Capitolo 24
*** Epilogo ***


EPILOGO

Erano passate settimane, quella mezz'ora in macchina con Giorgio Carletti sembrava appartenere ormai a un'altra vita. Olimpia aveva deciso di dargli fiducia, anche se le era costato, e di andare avanti senza ripensare al passato. In fondo, se Carletti avesse voluto eliminarla, l'avrebbe fatto. Invece l'aveva davvero accompagnata a casa, alla fine, suggerendole di non cercarlo più e di dimenticarsi una volta per tutte di lui e delle persone che gli stavano intorno. Una parte di lei sapeva che accettare quel compromesso era sbagliato, ma si consolava ripetendosi che in tanti avevano accettato dei compromessi spiacevoli. Quando la sua vicinanza con Enrico era aumentata, nei giorni immediatamente successivi al fatto, l'amico di sempre le aveva fatto delle confidenze. Giuseppe Bianchi e Giovanna Riva convivevano da decenni con segreti piuttosto pesanti e così, sempre con segreti molto pesanti, era vissuto anche Roberto Gottardi. Era stato lui, quando Giuseppe e Giovanna gli avevano chiesto di intervenire, a sbarazzarsi del cadavere di Alfredo Vitale.
Per quanto Olimpia non avesse mai conosciuto Roberto, se somigliava almeno un po' a Vincenzo, le era difficile pensare a lui come a un occultatore di salme. Aveva chiesto spiegazioni a Enrico, se gli fosse stato riferito dal padre il perché di una tale decisione, dopotutto la reazione più immediata nel ritrovarsi di fronte a un uomo assassinato sarebbe stata quella di rivolgersi alle forze dell'ordine. Tutto ciò che Enrico aveva saputo dirle era che tutti loro temevano, visto il luogo in cui era stato ritrovato Vitale, di essere coinvolti in una storia più grande di loro. Avevano preferito passare il resto della loro vita a mentire, piuttosto che correre quel rischio. Su come Maurizio Melegari fosse venuto a conoscenza di quella storia, invece, non era riuscita a scoprire nulla di preciso. Era molto probabile, tuttavia, che avesse udito a loro insaputa Giuseppe, Giovanna e Roberto che discutevano del fatto, anche se nemmeno i due superstiti tra di loro avrebbero saputo darle una risposta certa. Non importava, non tutto era destinato ad avere risposta e, anzi, a volte la soluzione migliore era smettere di farsi domande.
Erano passate settimane, ma la vita di Olimpia non si era affatto fermata. Già prima del fattaccio di Carletti aveva vaneggiato sull'eventualità di lasciare la città e di trasferirsi altrove alla ricerca di un nuovo capitolo della propria esistenza, ma la differenza stava nel non essersi più limitata a fare chiacchiere in proposito. Aveva davvero raccolto tutti i propri effetti personali ed era partita. Non l'aveva fatto da sola, c'era Enrico insieme a lei e avevano scelto la loro destinazione per caso: era stato lui a proporle di affidarsi alla sorte. Le aveva messo davanti una cartina politica dell'Italia, le aveva chiesto di chiudere gli occhi e di indicare un punto a caso sulla mappa, promettendole che l'avrebbe portata da quelle parti, non necessariamente in una località precisa, ma nel luogo più vicino in cui avesse degli agganci. Avendo girato in lungo e in largo quasi ogni regione, aveva conoscenze in molte città. Il caso aveva voluto che la scelta andasse proprio laddove si nascondeva uno dei grandi segreti di Enrico, quel bambino nato da una relazione terminata già da molto tempo, la cui madre non l'aveva informato della sua esistenza se non dopo tanti anni. Enrico avrebbe tanto desiderato conoscerlo, ma quella donna non era mai stata d'accordo. Eppure, Olimpia se lo sentiva, qualcosa stava cambiando. Negli ultimi tempi la madre del bambino - che per pura coincidenza aveva ricevuto il nome di Giuseppe, lo stesso del nonno - si era mostrata più accomodante e sembrava intenzionata a concedere a Enrico di incontrarlo, a condizione di essere presentato come un amico di famiglia e non come colui che l'aveva concepito.
Le acque si stavano muovendo in molte direzioni e i fatti dei mesi precedenti sembravano ormai appartenere al passato. Olimpia si sentiva molto più serena - forse perché, aveva avuto modo di scoprire, lo stesso Carletti era caduto molto recentemente in disgrazia - e finalmente aveva completato l'ultimo passo per iniziare una nuova vita. Rientrò nel monolocale che condivideva con Enrico, sperando di trovarlo in casa. Aveva un'ottima notizia da riferirgli e sperava di farlo il prima possibile.
Fu fortunata. Anzi, le sembrò quasi che Enrico stesse aspettando proprio lei. Volle sapere subito come fosse andato il colloquio che aveva appena fatto.
«Allora?»
Olimpia fece un sorriso smagliante, richiudendo la porta.
«Mi hanno presa.»
«Così, a scatola chiusa?»
Olimpia annuì.
«Ebbene, sì.»
«Sarà il fascino dei capelli rosso fuoco» osservò Enrico.
Olimpia ridacchiò.
«Lo vedi che ho fatto bene a tornare alla vecchia tinta?»
Anche Enrico fece una mezza risata.
«Lo sai che non riesco a immaginarti nei panni di una commessa di una profumeria?»
«Perché no?»
«Ti immagino mentre discuti di sport, politica e amenità varie con pensionati annoiati venuti a prendersi un caffè dopo avere passato le prime ore del mattino a contemplare cantieri con il giornale in mano.»
«Quel tipo di pensionati non parlano di sport e politica» ribatté Olimpia, «Ma piuttosto del fatto che non ci sono più i cantieri di una volta e che gli operai di oggi non sanno lavorare.»
Enrico le domandò: «Sei davvero sicura di non volere più stare tutto il giorno a contatto con questa gente?»
«Non sono sicura di niente» ammise Olimpia, «Ma esistono tante persone al mondo che vivono tranquillamente anche senza lavorare in un bar. D'altronde, per me, era una scelta obbligata, non mi sono mai chiesta se volessi davvero fare altro. Pensavo di non potere.»
«Vedi, alla fine è un bene che i tuoi genitori abbiano deciso di vendere.»
«Forse sì.»
«Se non fosse successo, adesso saresti ancora là ad ascoltare le chiacchiere di gente sconclusionata, invece che qui.» Enrico accennò un sorriso, ma lieve ed esitante. «Invece che qui con me.»
Olimpia sospirò.
«Sembri quasi dispiaciuto.»
Stavolta Enrico rise di gusto, e la risata non parve forzata.
«Lo sai, sono una frana nel relazionarmi con le altre persone.»
«Visto tutto ciò che hai combinato in questi anni, mentre eri in giro per l'Italia e per il mondo, mi è difficile crederlo.»
«Eppure dovresti averlo capito che non sono un fenomeno nel mostrare le mie emozioni, specie quelle positive. Mi rendo conto di sembrare fin troppo freddo e distaccato... eppure ti assicuro che sono molto felice che tu sia qui.»
Olimpia gli strizzò un occhio.
«Dimostramelo.»
Enrico obiettò: «Mi sembra di avertelo dimostrato in mille modi.»
Olimpia sbuffò.
«Non ho la pretesa che ti lanci su di me strappandomi i vestiti di dosso, ma non mi dispiacerebbe se tu mostrassi un po' più di partecipazione emotiva.»
Enrico ribatté: «Magari inizia a toglierteli, i vestiti. Un pensiero ce lo potrei anche fare.»
Olimpia era indecisa sul da farsi, non sapeva se iniziare a sbottonarsi la camicia oppure se mandarlo a quel paese. A volte si diceva che iniziare una relazione con lui - una delle novità accadute un po' per caso nei giorni immediatamente successivi alla vicenda di Carletti - era stata una pazzia, ma d'altronde non sarebbe tornata indietro. In fondo Enrico non faceva troppo sul serio. Anzi, era certa che non vedesse l'ora di ritrovarsi a tu per tu con lei senza indumenti addosso.
Non attese. Gli si avvicinò e mormorò: «Non hai impegni, vero?»
«Dipende come me lo chiedi» ribatté Enrico.
Olimpia allungò una mano e gli sbottonò i pantaloni.
«Va bene se te lo chiedo così?»
«Sì, può andare» scherzò Enrico, «Ma solo perché sei tu.»
A quel punto, a sorpresa, la afferrò e la spinse contro il muro, come a intrappolarla tra sé e la parete. Non importava che apparisse freddo e distaccato, quello che contava era che la desiderasse e Olimpia era certa che fosse così. Non aveva ragioni per rimpiangere il passato, né per pensare troppo a ciò che si era lasciata alle spalle. In quel momento, comunque, il passato non la sfiorava più, nemmeno la notizia che, se lei non aveva denunciato Carletti, ci aveva pensato una persona molto vicina a lui. 

Damiano ascoltò ancora una volta ciò che Paola gli stava raccontando. Non riusciva a capacitarsene, ma aveva imparato già da molto tempo che non sempre le persone erano come davvero apparivano.
«Sei davvero sicura di quello che dici?»
«Sì, te lo ripeto» confermò Paola. «Sono riuscita a fargli confessare tutto... e ho la registrazione di quello che mi ha detto.»
Nemmeno Paola era come appariva. Per lungo tempo aveva pensato che fosse davvero legata a Giorgio, invece riusciva a restare quasi impassibile di fronte all'idea di essersi fidanzata con l'uomo che aveva aggredito la povera Olimpia.
Per quanto non potesse fare a meno di provare empatia per quella donna quantomeno bizzarra - c'era qualcosa, in lei, che attirava le persone come una calamita, sembrava impossibile non volerle bene - Damiano non sapeva come fosse giusto comportarsi. Giorgio Carletti poteva diventare suo genero, prima o poi, e per tanto tempo aveva creduto che fosse l'uomo giusto per Paola.
«Cosa pensi di fare?»
«Quello che è giusto.»
«Sei sicura che non preferisci distruggere quella cassetta e fingere che non sia mai successo niente?»
La risposta di Paola lo spiazzò.
«È quello che farei se Giorgio mi amasse.»
«Giorgio ti ama più di quanto tu ami lui.»
Paola rise, sprezzante.
«Hai ragione, non lo amo. Non l'ho mai amato, qualsiasi cosa vogliano dire queste parole. Pensavo solo che, se devo passare la mia vita accanto a una persona, potesse essere lui l'uomo giusto. Mi sarei accontentata, se per lui fosse stato lo stesso. Il problema è che Giorgio ama qualcosa di me, ovvero il fatto che sono ricca. Vuole sposarmi per questo... e io mi sono fidata di lui, quando avrei potuto scegliere Vincenzo.»
Damiano spalancò gli occhi.
«Ti interessa davvero Vincenzo?»
Paola alzò le spalle.
«Mi interessa non rimanere da sola. Quando avrò denunciato Giorgio e me lo sarò tolta di torno, penserò a cosa voglio davvero per il mio futuro.»
«Credi che, se dovessi proporre a Vincenzo di riprendere a frequentarti, accetterebbe?»
Paola annuì.
«Mi piace pensare che andrebbe proprio così.»
Damiano sospirò.
«Mi dispiace deluderti, ma dubito che possa accadere. C'è rimasto molto male, quando ha scoperto qual era il nostro piano.»
«Lo so, c'è rimasto male» replicò Paola, «Ma sono sicura di potermi ancora giocare le mie carte. Voglio dire, Carolina è bella, sensuale e probabilmente anche brava a letto, ma non penso abbia molto altro da offrirgli.»
Damiano avrebbe voluto ribattere, ma preferì non farlo. Quando Paola si metteva in testa di fare qualcosa, non c'era verso di convincerla a desistere. Sarebbe andata incontro a una delusione, ma era una donna adulta ed era giusto che se la cavasse da sola. 

Vincenzo non poté trattenere un sorriso, nel girarsi a guardare Carolina, distesa completamente nuda, coperta solo in parte dal lenzuolo, accanto a lui. Allungò una mano per accarezzare i capelli, in quel momento sciolti e disordinati, anziché raccolti con eleganza come li portava di solito. Non riusciva a capacitarsi di quanto fosse fortunato ad avere al proprio fianco una donna come lei. Non aveva idea di come sarebbe stata la sua vita senza Carolina, ma il periodo in cui lei non c'era ancora, seppure neanche troppo lontano  gli appariva ormai un'epoca buia.
Carolina gli si avvicinò e un istante più tardi Vincenzo seppe di non avere scampo: era molto probabile che volesse ripetere tutto dall'inizio. Non gli dispiaceva affatto come idea, anzi, era molto soddisfatto che il desiderio di Carolina fosse sempre piuttosto evidente, ma si stava facendo tardi e quella sera aveva un appuntamento importante - o almeno, qualcosa che si prospettava come tale.
Per quanto gli costasse, aveva dovuto inventarsi una scusa, facendo credere alla donna che amava che si trattasse di una questione professionale. Non sapeva con esattezza cosa fosse, ma di sicuro il lavoro non c'entrava nulla. Era stata Paola a chiedergli di incontrarsi - colei che stava dietro all'accusa di tentato omicidio che di recente era piobata sulla testa di Giorgio Carletti - e temeva che Carolina potesse fraintendere. Era certo che avrebbero discusso soltanto degli ultimi sviluppi relativi all'aggressione ai danni di Olimpia, ma aveva scelto la strada più semplice, per quanto se ne rammaricasse e si sentisse scorretto nei confronti della donna che amava. Forse avrebbe dovuto dirle la verità e pregarla di presentarsi all'appuntamento insieme a lui. Ormai, però, era troppo tardi per fare marcia indietro, piuttosto sarebbe stato meglio evitare di vedere Paola. Le mani di Carolina, che esploravano il suo corpo nudo portandosi istante dopo istante più vicine all'inguine, sembravano una risposta a tutti i suoi dubbi, eppure sentiva di avere bisogno di risposte che ancora non aveva avuto. Per il momento, comunque, la lasciò fare. Sarebbe arrivato in ritardo, ma Paola se ne sarebbe fatta una ragione.
La sua "ex fidanzata" lo attendeva nell'atelier deserto; ormai, a quell'ora, non c'era più nessuno a parte lei, che si era fermata proprio perché aveva scelto quello come luogo dell'incontro. Non appena lo vide, guardò l'orologio, come a volerlo fare sentire colpevole.
«Dov'eri? È da una vita che ti aspetto.»
«Ero a casa» rispose Vincenzo, «In dolce compagnia.»
«Posso immaginare» borbottò Paola. «Immagino che la compagnia in questione fosse sempre la solita: una mia ex dipendente», Carolina aveva infatti lasciato il vecchio lavoro, «forme generose, capelli neri e labbra piene. Del resto uno come de dubito che resista alla tentazione di baciare una bocca così bella e sensuale.»
Vincenzo le strizzò un occhio.
«Quella bocca bella e sensuale non dà solo baci.»
«Soprassediamo che è meglio. Ti ho chiesto di vederci per un motivo più importante. Non fraintendermi, non sono dispiaciuta che tu abbia approfittato di questa parentesi per spassartela, ma penso sia giunto il momento di mettervi la parola fine.»
«Cosa intendi?»
«Il tuo futuro non è con Carolina.»
Vincenzo si irrigidì.
«Che cosa ne sai del mio futuro?»
«Non so nulla del tuo futuro, hai ragione» convenne Paola, «Ma so del tuo passato e so che c'ero io. In fondo abbiamo convinto tutti che saremmo stati la coppia con la C maiuscola.»
«Stavamo fingendo» le ricordò Vincenzo, «E tu fingevi anche con me. Hai finto su ogni cosa, perfino sulla relazione con la sarta. Ti sei perfino impossessata della sua storia personale e l'hai spacciata per la tua.»
«Ho fatto degli errori, lo so, ma alla fine ho fatto la cosa giusta» replicò Paola. «Giorgio dovrà rispondere delle proprie azioni e sarà solo un ricordo lontano, per me, il ricordo di un momento buio.»
«Era la cosa giusta, o volevi semplicemente liberarti di lui?» obiettò Vincenzo. «Tu non fai mai niente per caso o disinteressata.»
«Volevo liberarmi di lui e anche tu dovresti mettere da parte Carolina» rispose Paola, con fermezza. «Proviamoci, proviamo a essere una vera coppia. Puoi riprenderti il tuo posto in albergo, puoi ancora tornare ad avere un legame con il tuo passato, con...»
Vincenzo la interruppe: «Non voglio un legame con il passato. Voglio vivere il mio presente e viverlo con Carolina. Non so che cosa tu ti sia messa in testa, ma faresti bene a tornare nella realtà. Non siamo mai stati una coppia, io e te, e non lo saremo mai.»
Non permise a Paola di trattenerlo. Uscì dall'atelier e si diresse verso la propria auto. Aveva solo perso tempo, presentandosi al loro appuntamento, ma ormai era tardi per tornare indietro. Poteva solo guardare avanti ed era ben desideroso di farlo. Accese il motore e si mise in strada, contando i minuti che l'avrebbero separato dal momento in cui si sarebbe trovato di nuovo tra le braccia di Carolina.
La trovò ad attenderlo accanto alla porta. Non era più nuda, ma indossava soltanto una sottoveste quasi trasparente che lasciava ben poco spazio all'immaginazione.
«Com'è andato il tuo appuntamento di lavoro?» volle sapere.
Vincenzò alzò le spalle, con indifferenza.
«È stato del tutto inutile, ma non importa, meglio così.»
Carolina non gli fece altre domande, se aveva capito qualcosa, sembrava non darvi peso. Doveva essere sicura della loro relazione almeno tanto quanto lo era lui. Chiuse la porta e si avvicinò a lei.
«Ho sentito la tua mancanza, sai?»
«Sei stato via solo quaranta minuti» ribatté Carolina. «Pensavo sapessi resistere, almeno per un po', senza di me.»
Vincenzo sorrise.
«Lo pensavo anch'io.»
«E invece?»
«Invece, quando sono con te, il resto del mondo non esiste più. Non vedo l'ora di sposarti.»
«Anch'io» ribatté Carolina. «Sono solo un po' preoccupata da come si vestirà la nuova ragazza del mio fratellastro per venire al matrimonio.»
Vincenzo rabbrividì al pensiero di Olimpia che si presentava alla cerimonia in un elegante abito fucsia, ma doveva ammettere che l'idea di rivederla lo rendeva molto felice. 

*** fine ***




GRAZIE A ILBILBO E HOLLS PER AVERE RECENSITO PASSO PASSO I CAPITOLI DURANTE LA STESURA. GRAZIE ANCHE A CHI HA LETTO IN INCOGNITO E CHI LO FARÀ IN FUTURO, OLTRE CHE EVENTUALI FUTURI RECENSORI.

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