Black Raven & White Swan - Ouverture

di moni93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PRELUDE: Lost Memories - CIÒ CHE NON VA DIMENTICATO - ***
Capitolo 2: *** RETRACE: I Unexpected Guest - L’OSPITE INATTESO AL DI LA DELLA PORTA - ***
Capitolo 3: *** RETRACE: II Revelation - IL MEDICO CLANDESTINO: CASSIDY - ***
Capitolo 4: *** RETRACE: III Sophie Barma - LA BAMBINA DIMENTICATA - ***
Capitolo 5: *** RETRACE: IV Resonance - LA MELODIA DISTORTA DEI RICORDI - ***
Capitolo 6: *** RETRACE: V Christine Nightray - LA MIA AMATA SORELLA - ***
Capitolo 7: *** RETRACE: VI Nightmares and hopes - L’INTRICATO FILO DEI LEGAMI - ***
Capitolo 8: *** RETRACE: VII Down the rabbit hole - SABLIER - ***
Capitolo 9: *** RETRACE: VIII Caucus Race - DOVE LE STORIE DI OGNUNO SI INCONTRANO - ***



Capitolo 1
*** PRELUDE: Lost Memories - CIÒ CHE NON VA DIMENTICATO - ***






BOOK ONE: OUVERTURE

















 



Dedico questa storia a quattro persone speciali:

A Tsubaki3, per avermi incoraggiata e seguita nella sua primissima stesura.

A Stratovella, per aver amato e seguito con passione la storia di Sophie, al punto da aver desiderato un seguito.

A Aetheria_Nyx, per avermi dato l’ispirazione necessaria per ricominciare daccapo questo racconto ed avermi pazientemente seguita passo per passo.

E naturalmente a te, che stai leggendo.

Che questo spettacolo sia per te il preludio di grandi emozioni.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



PRELUDE: Lost Memories

- CIÒ CHE NON VA DIMENTICATO -



È strano guardarsi indietro.

Tutto ciò che è stato appare come cosparso da una fumosa nebbia, che ne ottenebra i contorni, alterando i suoni e cancellando i volti. Certi eventi vengono fissati per sempre, come dipinti in una bella sala, altri vengono alterati dal tempo e dai rimorsi, altri ancora si riescono malamente a racimolare, componendo mosaici incompleti. L’alternativa più spaventosa però è perderli, poiché dimenticare una vicenda è come far sì che essa non sia mai accaduta.

Per questo motivo ho deciso di farmi memoria: parlando con le persone che c’erano e cercando di ritrovare il filo di quegli accadimenti, ormai aggrovigliati in una matassa intricata, e ritrovando così il principio di tutto. Se in tal modo abbiamo trovato delle risposte oppure ci siamo soltanto posti nuovi interrogativi questo non saprei dirlo. È difficile distinguere le due cose, alle volte.

Questa ricerca è stata dolorosa, come incredibilmente doloroso è ricordare che certe persone amate resteranno per sempre al nostro fianco, pur lasciandoci soli.

Eppure noi siamo fatti di memorie ed anche se il nostro tempo giungerà presto o tardi ad un termine, è giusto donare un lascito alle generazioni future. Perché conoscano fin dove può giungere il cuore umano, nel bene e nel male. Perché non ripetano i nostri stessi errori. Perché la speranza di un futuro radioso non cessi mai di esistere, anche nei momenti più bui.

Qualcuno una volta ha detto che sarebbe apparsa l’oscurità e che avrebbe inghiottito ogni cosa. Ma io credo che in mezzo a questa oscurità stia brillando una luce che, per quanto flebile, potrà continuare a splendere per chi avrà il coraggio di lottare per essa.

Queste sono le memorie che non andranno mai perdute, il giuramento di una famiglia che si è fatta protettrice di quella luce, affinché il buio non predomini mai più su questo mondo. Ricordare in solitudine sarebbe stato troppo per un cuore umano ma, tendendo la mano alle persone a me care, quel peso si è come dimezzato.

Sebbene possa sembrare una favola, stai per accingerti a leggere degli eventi che portarono quasi alla totale distruzione del mondo, a quella tragedia terribile che colpì un giorno di cento anni prima la città di Sablier, facendola sprofondare nell’Abisso. Presta attenzione e ricorda.

Questa è la nostra storia.

La storia della famiglia Baskerville.

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Capitolo 2
*** RETRACE: I Unexpected Guest - L’OSPITE INATTESO AL DI LA DELLA PORTA - ***


RETRACE: I Unexpected Guest

- L’ospite inatteso al di là della porta -



«Perché piangi?»

«Ti sbagli. Io non sto piangendo.»

«Ma hai una faccia così triste...»

«Non… non è vero! Io non posso essere triste.»

«Perché no?»

«Ho perso una persona a me molto cara, ma sono intenzionato a riprendermela e, per farlo, non posso assolutamente mostrarmi debole!»

«… non ti capisco. Quello che dici è brutto, se sei triste dovresti semplicemente dirlo.»

«Forse hai ragione, ma non posso farlo.»

«Allora, vorrà dire che piangerò io per te!»

«Cosa?!»

«Se io piango al posto tuo, allora non sarai più triste, giusto? Sono stufa di vedere persone tristi intorno a me… io vorrei solo che tutti fossero felici.»

«Sei molto gentile, ma temo che ti dimenticherai presto di me... però, ti ringrazio.»

«No! Questa è una promessa! Il mio papà dice che bisogna sempre mantenere le promesse, perciò se lo dico, lo farò di certo!»

«Va bene, in questo caso, quando sarò triste ti aspetterò. Così che tu possa far scomparire la mia tristezza.»

«E allora mi sorriderai?»

«Certo!»

«Promesso?»

«Promesso.»

 

 

Il mondo prese lentamente forma, mentre i contorni sfuocati della stanza si facevano via via sempre più nitidi. Il ragazzo sbatté le palpebre qualche volta, ancora intontito dal sonno e per metà dimentico di quanto aveva appena sognato.

Una volta che si fu lavato il viso nel catino della sua toeletta in ceramica bianca, la sua mente riuscì a conservare ancora soltanto pochi frammenti privi di significato, appartenenti a quel sogno ormai lontano. Questi si dissiparono poi nell’aria una volta che il ragazzo ebbe raggiunto la sala principale della magione dove, come suo solito, tentava di risvegliare i suoi sensi tramite la lettura del quotidiano locale. Il vapore proveniente dalla tazza che stava sorseggiando con scarso interesse fece tuttavia riaffiorare piccoli bagliori, legati ad un mondo che, probabilmente, era esistito soltanto nella sua immaginazione e che, cionondimeno, non volevano saperne di abbandonarlo.

Sbadigliò, per quella che a lui parve come la primissima volta, quando in verità si erano già susseguiti diversi quanto enormi sbadigli. Testimoni di tale bambinesca cedevolezza, nonostante l’aspetto apparentemente tetro ed autoritario del giovane, vi erano i pochi commensali radunati con lui nella saletta, che a loro volta si stavano godendo il pregiato tè ed i pasticcini annessi per colazione. Naturalmente, non mancavano nemmeno uova sode, prosciutto fresco e formaggio, pane tostato e piccoli panini imbottiti ricolmi di un invitante ripieno. La lunga tavolata era, dunque, colma di delizie per gli occhi quanto per la bocca dei gentili ospiti della padrona di casa, la quale, distrattamente, si concedeva un lieve cenno del capo in segno di approvazione.

Era assai piacevole quell’atmosfera intima e familiare per la giovane donna, abituata com’era alla solitudine di quella grande dimora. Persino i suoi più fidi servitori, nonché amici d’infanzia, erano spesso assenti a causa degli ultimi imprevisti intercorsi a Pandora eppure, proprio grazie ad essi, ora si ritrovava circondata dalle personalità più disparate e singolari dell’intera nobiltà ducale. Non poteva chiedere di meglio al suo risveglio.

Il ragazzo dall’aria cupa si grattò distrattamente gli occhi e, nel vano tentativo di scacciare il velo del sonno, che ostinatamente gli rimaneva appiccicato addosso come miele, bevve un vigoroso sorso dell’intruglio contenuto nella sua tazza. Vano gesto, il suo. Dopo una nottataccia trascorsa insonne, non poteva certo sperare di riprendersi bevendo semplicemente quel liquido dolciastro ed al contempo delizioso.

Per questo hanno inventato il caffè.” borbottò tra sé e sé, mentre scuoteva appena il capo con rassegnazione.

Inutile domandare alla padrona di casa di farsi servire la bevanda che tanto amava e che gli permetteva di vivere dignitosamente durante le prime ore del mattino. Lady Sharon era una perfetta duchessina inglese e, come tale, il suo volere era intransigente, anche per la più piccola quisquilia. La colazione infatti, esattamente come il break pomeridiano, andava accompagnata dal sapore ineccepibile e delicato del tè, preferibilmente proveniente dalle migliori colonie del regno. Anche Sua Altezza il Principe professava tale credo e lei, da diligente suddita appartenente al ceto più elevato, non poteva essere da meno.

Sospirò appena il povero ospite, arresosi al suo triste destino.

Tutta colpa di quello stupido Duca e delle sue uscite infelici!” pensò il ragazzo con rinnovato livore, rivolgendo il suo scontento verso la prima persona che gli venne in menteCerto, ci ha fornito informazioni di primissima qualità circa lo Stupido Coniglio e l’Abisso, ma avrebbe potuto evitare tutto quel teatrino inutile. Grazie a questo non ho quasi chiuso occhio. Come l’aveva chiamato per l’occasione, Break? Ah già: duca dal Ciuffetto Pazzo. Termine più che appropriato.”

«Gil, che hai? Mi sembri pallido.»

La voce di Oz, il suo amato padrone, lo fece piombare nuovamente alla realtà.

Il suo modo contrito di comportarsi doveva aver insospettito il nobile, che lo fissava con sguardo indagatore e all’apparenza frivolo, mentre poggiava con i gomiti sul tavolino in legno pregiato su cui lui, Sharon e Break stavano consumando i resti del loro pasto. Era incredibile come quegli occhi verde smeraldo celassero un’immensa maturità, a dispetto dell’apparenza infantile. Gilbert tentò allora di sorridere, nella speranza di dissipare le nubi che rischiavano di adombrare quegli specchi dell’anima tanto limpidi.

«No, non è nulla. È solo che non ho dormito molto bene stanotte.» ammise in seguito, notando l’espressione apprensiva del padroncino, che però si rasserenò subito dopo aver udito tali parole.

Il suo giovane cuore aveva temuto che si potesse trattare di ulteriori intrighi o guazzabugli torbidi riguardanti i Baskerville e la Volontà di Abisso, tuttavia le notti insonni erano materia di tutti i giorni, sia per i comuni cittadini che per i nobili come loro. Nulla che non si potesse risolvere con un poco di quiete e comprensione tra amici. O presunti tali. Il Vessalius aveva infatti appena cominciato a grattare la superficie di quel grosso muro imponente, che lo separava da quelle persone.

Break era una nuovissima conoscenza, a cui tuttavia aveva deciso di dare, ora sapeva senza indugi, la sua completa fiducia. Era un tipo bizzarro, decisamente più di Alice, il che era tutto dire, ma a differenza di quest’ultima era impossibile comprendere i sentimenti che lo animavano. Essi erano esattamente come il suo passato: un mistero che sarebbe per sempre rimasto sepolto, se non fosse stato per l’intervento inatteso del duca Barma. Seppur in maniera assolutamente sgradevole, egli aveva infatti alzato parte del sipario che celava le vere fattezze di Break. Non era più un individuo senza contorni, una sagoma a cui non riusciva a definire un ruolo. Era un uomo fatto di carne ed ossa, mosso da disperazione, rabbia e speranza, esattamente come ognuno di loro. Come un qualsiasi essere umano.

Sharon, la nipote dell’attuale duchessa Rainsworth, era altrettanto enigmatica, ma sin dal loro primo incontro aveva mostrato un sincero interesse per la sua situazione di futuro erede dei Vessalius. Essendo anch’essa in una posizione delicata, gli aveva infatti consigliato di guardarsi dai falsi amici e di tenersi stretto chi invece avesse realmente a cuore la sua salute.

Di Alice c’era poco da dire: senza memorie né un apparente futuro, essendo ormai un Chain e non più umana, era tuttavia la più cristallina delle creature. Non vi era menzogna nel suo agire, così come nelle sue parole. Se era affamata tormentava chiunque per procacciarsi della carne, a qualsivoglia ora del giorno o della notte, se era triste piangeva e se era felice… beh, solitamente prendeva a calci Oz, sottolineando la sua posizione di superiorità, essendo lei la sua padrona. Almeno nella teoria. Oz non aveva mai osato contraddirla.

Gilbert, suo fedele servitore ed amico d’infanzia, era anch’esso una pagina fin troppo trasparente e facile da leggere per il Vessalius ma, proprio a causa di ciò, aveva il costante timore di perdere di vista le cose veramente importanti. Una separazione lunga dieci anni pareva un tempo ridicolmente infinito ai suoi occhi ancora immaturi. Era entrato nell’Abisso a quindici anni, e ne era uscito come dopo una buia notte da incubo: solo lui era rimasto fermo, bloccato. Il mondo, invece, era andato precipitosamente avanti.

Si domandava se, un giorno, sarebbe stato semplicemente lasciato indietro, come un ricordo ormai sbiadito ed inopportuno… si riscosse da quei tetri pensieri addentando una succulenta brioche salata appena sfornata, ripiena di delizioso prosciutto e formaggio.

Sei tra amici, sei tra amici! Non mostrarti musone dal primo mattino, pensa piuttosto a fare come gli altri e a tirare su di morale Gil!” pensò con forza il biondo.

«Testa d’alga non ha chiuso occhio?»

«Per l’appunto.» sospirò rassegnato Oz.

Alice, cordiale come sempre, aveva subito canzonato il povero diavolo con il tono irriverente che la caratterizzava. Il tutto, ovviamente, mentre si ficcava con fare perentorio nello spazio che si frapponeva tra il Vessalius ed il Nightray, nel fanciullesco tentativo di dividerli e beccarsi tutte le attenzioni dei presenti, in particolare del biondino alla sua destra.

«Gilbert, alla tua età hai ancora gli incubi?» aggiunse prontamente Break, lieto di potersi finalmente unire al coro e movimentare quella tediosa mattinata di fine inverno.

«Persino nei suoi sogni è inutile.» concluse con voce acuta Emily, la bambola che poggiava sulla sua spalla sinistra, come se Break, già di per sé, non fosse sufficientemente micidiale.

Gilbert preferì sorvolare sul fatto che nessuno fosse realmente preoccupato per la sua condizione e continuò imperterrito a conversare con Oz, mentre con una mano, posta a palmo sul viso di Alice, tentava di scansare ben poco aggraziatamente la suddetta dalla sua vista.

«Non ho avuto un incubo. Però sono certo di aver sognato qualcosa, anche se non riesco a ricordare cosa.» ammise con aria assorta, rimembrando solo allora alcune vaghe immagini che il mattino aveva portato via con sé, insieme alla luna ed alle stelle.

Si sforzò di afferrarne almeno una, ma tutto ciò che riuscì a stringere tra le mani fu una piacevole sensazione di malinconia e un lieve tepore che sapeva d’infanzia. Alberi, forse… ed era una leggera brezza quella che ricordava od una risata? Forse un pianto? Qualcuno si era fatto male ed era stato consolato?

«Non ti crucciare, era soltanto un sogno. Evidentemente non era nulla di importante, se te lo sei scordato.» lo consolò con un sorriso spensierato Oz, mentre tranquillizzava Alice che soffiava come un gatto infuriato alla volta del moro.

Era palese che non avesse molto gradito quel gesto manesco, tanto più che ora, in forma umana, era impossibilitata a vendicarsi come avrebbe voluto. La cosa che le diede maggiormente fastidio però fu il fatto che lo scorrere del suo potere dipendesse proprio da quell’impertinente rifiuto umano, come lo definiva amorevolmente lei.

«Hai ragione.» ammise più sereno Gilbert, ignorando bellamente gli insulti che gli venivano lanciati da parte della ragazzina.

In realtà, una parte di lui non si sentiva per niente persuasa da quelle parole. Ciò che aveva visto la scorsa notte, con l’occhio della mente, risuonava dentro di lui come un’eco lontana. Gli vibrava nel petto, quasi si trattasse di un evento particolarmente importante ed il fatto che non riuscisse a ricordarselo lo faceva semplicemente impazzire. Era piuttosto certo di aver vissuto realmente quei momenti, ma molti sogni prima dell’alba lasciavano questo genere di sensazione. Non lo diceva forse anche un antico sommo poeta di un Paese straniero?

Al mattin del ver si sogna.1

«Probabilmente avrai ripensato a quanto è accaduto ieri.» suggerì allora Sharon, mentre poggiava con estrema eleganza la sua tazza sopra il piattino ad essa abbinato, senza creare il minimo suono, come l’etichetta richiedeva.

Sorrise poi affabile al Nightray, con la sua tipica smorfia di cortesia, angelica quanto di circostanza. Tale tecnica faceva ormai parte del suo essere, seppur non intendesse apparire distaccata. Gilbert, conoscendola abbastanza da saper vedere oltre quel velo di apparente disinteresse, le sorrise di rimando, chinando appena il capo in segno di gratitudine per le sue parole.

«Già, vedere quel Duca idiota sconvolgerebbe chiunque.» disse in tono acido l’albino, mostrando la lingua con fare infantile e grottesco.

«Via, via, Break! Non essere così duro con lui. In fondo, ci ha fornito delle preziose informazioni.» lo riprese con severa dolcezza la sua “sorellina”.

«Rosicate fino all’osso, come suo solito.» borbottò imperterrito il servo.

A ravvivare il discorso ci pensò Oz, memore solo in quell’istante dell’importante evento che di lì a poco avrebbe avuto luogo: «E poi oggi incontreremo un suo informatore!» esclamò infatti, al colmo della gioia.

«Informatore? Oggi?» ripeté confuso il giovane Nightray.

«Ah già, tu non c’eri quando la dolce Sharon ce l’ha detto.» lo informò Oz, orgoglioso di poter fare da mentore al suo migliore amico, nonostante la differenza di età che ora li separava. «Oggi il duca Barma manderà qui un suo informatore. Per scusarsi del suo comportamento indelicato dell’altra sera.»

«Diciamo, più che altro, che la nobile Cheryl l’ha minacciato di morte se non l’avesse fatto.» lo corresse con un ghigno Break, divertito come non mai all’idea di vedere il suo carissimo duca Ciuffetto supplicare pietà ad una vecchietta, mentre quest’ultima lo malmenava con un ventaglio.

Il fatto che egli stesso fosse soggetto al medesimo trattamento, sebbene da parte di una ragazzina all’apparenza dolce e graziosa, non lo sfiorò minimamente o, per meglio dire, il suo orgoglio ferito della sera precedente ignorò con destrezza quel pensiero traditore. Non voleva aver nulla a che spartire con quel vile individuo, men che meno l’aria, ma aveva imparato ad accettare che non si poteva aver tutto dalla vita.

Tipo una lama ben affilata nel cranio vuoto di quel demente.” pensò con diletto Xerxes, continuando a sghignazzare in maniera inquietante in compagnia della sua inseparabile amica Emily.

«E quando arriverà?» volle sapere Gilbert, ormai fremente all’idea di abbandonare quella tavolata di matti.

«Dovrebbe arrivare a momenti, perciò vedi di riprenderti alla svelta Gilbert o non riuscirai a capire nemmeno una parola di quello che ci dirà.» aggiunse con un’espressione affabile Sharon.

«Che tipo è?» Alice non aveva saputo resistere alla curiosità e, ormai dimentica del torto subito, si rivolse a quella che all’apparenza pareva una sua coetanea «Sorellona Sharon?» aggiunse prontamente, notando lo sguardo bieco della giovane.

«Non ne ho idea; la nonna mi ha soltanto detto che è una persona di cui il Duca si fida ciecamente.»

«Sentito, Reim? Sei stato surclassato, di nuovo.» fece Break all’amico, posizionato ad un tavolo poco distante da loro ed intento a lavorare.

Il ragazzo, palesemente ignorato da tutti sino a quel mentre, era chino sui documenti ed in preda alla disperazione fin dai primi raggi del giorno. Udendo la voce del suo acerrimo amico si bloccò stizzito per un momento, per poi riprendere con crescente astio il suo ingrato compito.

«Xerxes Break, hai il coraggio di prendermi in giro anche quando sto lavorando al posto tuo?»

«Gli esseri inutili non dovrebbero lamentarsi!»

«Suvvia, Emily! Non bisogna essere così diretti, altrimenti qualcuno potrebbe offendersi.»

«Io mi sento offeso e guarda che lo so che sei tu a far parlare quella maledetta bambola. Perciò, se hai qualcosa da dirmi, dimmela in faccia!»

«D’accordo: sei inutile, perciò non lamentarti!» concluse mellifluo il pagliaccio di casa Rainsworth.

Superfluo dire che Break si diede alla fuga, ridendo come un pazzo e con alle calcagna il servo del Duca, più simile ad un povero diavolo che ad un nobile al servizio dell’élite della società. Gilbert si rifiutò di prestare ulteriore attenzione a quella scenetta, che ormai conosceva a menadito. Gli astanti, invece, si concessero sonore risate e qualche commento sfacciato nei riguardi del povero Reim.

Anche oggi, non succederà nulla di nuovo.” pensò il moro, riprendendo in mano il giornale e prestando maggiore attenzione ai titoli, ora che era finalmente sveglio.

Non immaginava minimamente che quel giorno la sua vita sarebbe stata sconvolta per sempre. Il destino, alle volte, si diletta a mostrare quanto noi umani ci sbagliamo, anche nelle più piccole cose che, inevitabilmente, finiscono per tracciare orme indelebili sul nostro cammino in questa terra.

1Dante Alighieri “Commedia”, Inferno canto XXVI.

 

 

Erano in attesa nel salottino dedito agli incontri da più di mezz’ora. Sebbene alcuni mostrassero evidenti segni di impazienza, come Reim che continuava a strofinarsi gli occhiali puliti con fare maniacale ogni minuto e mezzo circa, la maggior parte dei presenti sembrava non curarsene troppo, almeno all’apparenza.

Sharon stava terminando la lettura di uno dei suoi romanzi rosa a puntate preferiti, che giusto quel mattino era stato pubblicato ed immediatamente portato al suo cospetto, com’era ormai abitudine. Break, braccia e collo cadenti lungo lo schienale di un divanetto, pareva intento ad osservare con aria annoiata il pregiato candelabro del salottino. Un occhio attento avrebbe notato come le sue sopracciglia fossero lievemente corrugate in segno di impazienza, esattamente come quelle di Oz, occupato ad intrattenere Alice con una partita a dama. La piccola Chain non gradiva per nulla i giochi troppo complessi, ma l’idea di poter mangiare delle pedine, anche se soltanto metaforicamente, la affascinava. Per ultimo vi era Gilbert, appostato alla finestra che dava sul lato ovest dell’abitazione. Per la tensione crescente si era acceso una sigaretta, che presto era stata seguita da altre due compagne. Mal sopportava le attese, specie se riguardavano un’incombenza simile.

La possibilità di ricevere un aiuto da parte del Duca lo metteva in guardia, ma d’altro canto era intenzionato a farsi dire tutto il possibile dallo sgherro dei Barma. Era pronto anche a pedinarlo e minacciarlo, se fosse stato necessario. Non c’era più tempo da perdere, ora che Oz era un contraente illegale era fondamentale accelerale le ricerche, costasse quel costasse. Non aveva venduto l’anima ai Nightray per tirarsi indietro proprio nel momento fatidico ed era stufo di sentirsi in balia degli eventi, mentre tutti, all’infuori di lui, parevano celare misteri e segreti.

All’improvviso, la porta si aprì con un sonoro schianto, facendo sobbalzare i presenti. Una figura incappucciata fece allora il suo ingresso, guadagnandosi gli sguardi diffidenti dei nobili ivi riuniti. Nonostante il loro primo impulso fosse stato quello di pensare ad un Baskerville, esclusero celermente tale ipotesi per due evidenti motivi: il primo, era che il mantello indossato da quel figuro non era color cremisi, bensì candido come la neve. In secondo luogo, l’ospite non si fece desiderare oltre e parlò, cancellando in tal modo anche gli ultimi rimasugli di ambiguità rimasti.

«Buon Dio ti ringrazio, ce l’ho fatta! Iniziavo a temere che sarei arrivato in ritardo… ohibò!» esclamò ad un tratto con panico, rendendosi conto di non trovarsi solo, ma già in presenza dei suoi ospitanti «Chiedo venia per la porta.» gemette, mentre tentava di riprendere fiato e di riassestarsi.

Era evidente che aveva corso per parecchio, data la quantità di brillante sudore che stava tentando di asciugarsi dalla fronte con un fazzoletto che, prontamente, fece sparire all’interno di una delle maniche della sua camicia.

«Lei è in ritardo. La stavamo attendendo da diverso tempo, nel caso non se ne fosse accorto.» disse in tono tutt’altro che cordiale Break «Credevo che i Barma avessero quantomeno la decenza di istruire i propri servitori affinché non mettessero in imbarazzo il proprio signore dinnanzi al resto della nobiltà. Reim deve essere un’imprevista eccezione.»

«Come si permette! Quello che dice è inaccettabile! Il suo orologio dev’essere rotto, signore, perché il mio segna esattamente... oh. Cavoli, ha ragione. Si è fermato di nuovo!» fece lo strano personaggio, osservando un malandato orologio argenteo, scuotendolo e portandoselo all’orecchio con fare poco esperto, per poi sospirare un sentito e sofferente «Mi dispiace tanto.»

Sharon parve non badarci troppo. Con un gesto della mano scacciò via l’aria greve che si era venuta a formare e, per permettere a tutti di calmarsi, aggiunse in tono pacato: «Suvvia, non è successo nulla. Non è il caso di farne una tragedia. L’importante è che lei ora sia qui... signor?»

L’ospite parve ridestarsi dalla trance di grande imbarazzo che lo aveva avvolto sino a quel momento. Scattò sull’attenti, quasi fosse stato percorso da una scarica elettrica e fece un profondo inchino. Era al cospetto di nobili, tra i più altolocati parenti dei rappresentanti delle quattro grandi casate ducali, come se non bastasse: doveva mostrar loro il dovuto rispetto e rifarsi il prima possibile dell’ignobile gesto scortese del quale era stato l’inconsapevole artefice.

«Le mie più sentite scuse, un simile comportamento non si ripeterà mai più.» detto ciò, si levò il cappuccio e svelò il suo viso.

Era un giovane di non più di vent’anni, con capelli corti e spettinati, color della notte. Ciò che colpiva di più erano i suoi lineamenti delicati e fini, pressoché femminei, e gli occhi, due grandi perle del colore del limpido cielo estivo. Aveva la pelle diafana, di una tonalità più pura del suo mantello e che, in tal modo, lo faceva sembrare fragile e malaticcio, non fosse stato per l’ardore che brillava nelle sue iridi. In aggiunta a ciò, le sue gote si erano tinte di un grazioso porpora, che aveva così animato il suo volto di vergogna e determinazione al tempo stesso.

«Sono un umile servo del duca Barma e tuttavia, se cercate un nome con cui appellarmi, vi prego di chiamarmi Caleb Bauer.»

Fu una presentazione impeccabile: dopo il primo momento d’impaccio, il ragazzo aveva infatti mostrato una grande sicurezza, che aveva colpito in positivo la Duchessina ed il resto dei presenti.

«Molto bene signor Caleb, è un piacere fare la sua conoscenza. Come credo lei già sappia, io sono la nipote della duchessa Cheryl, amica intima del Duca che lei serve: mi chiamo Sharon Rainsworth. Mentre quelli che vede qui riuniti sono i nobili Oz Vessalius e Gilbert Nightray; quello alla sua sinistra è invece Xerxes Break, fedele servitore del mio casato, mentre a destra vi è la piccola Alice. Per quanto riguarda Reim, infine, immagino che lei già lo conosca.»

Caleb salutò con un cenno del capo tutti quanti, chinandosi con deferenza in base al grado fornitogli dalla nobildonna a mano a mano che gli venivano introdotti. Aveva osservato ognuno degli astanti, con sguardo serio ed indagatore, quasi volesse soppesare con i propri occhi la natura di ciascuno. Quando arrivò il turno di Gilbert parve sussultare, mentre i suoi occhi evitavano accuratamente di osservarlo. Un simile dettaglio non sfuggì a Raven, che tuttavia volle essere magnanimo nel suo giudizio, data la giovane età del ragazzo.

Sembra parecchio a disagio.” mormorò nella sua mente Probabilmente non aveva mai visto tanti nobili di così alto rango. D’altronde, io stesso sono stato per lungo tempo in soggezione nei confronti di questi luoghi, i primi tempi in cui venni introdotto a Pandora.”

Non appena Caleb udì il nome di Reim, invece, volse immediatamente lo sguardo verso di lui, mutando bruscamente atteggiamento. I suoi occhi si fecero gelidi, come se volessero metterlo a tacere preventivamente.

«Immagina bene. Ciao Reim.»

«Ciao So... Caleb.» si corresse subito l’altro, preso in contropiede da quel saluto inatteso.

L’informatore guardò il soffitto con aria afflitta, come se temesse che il collega potesse dire qualche sciocchezza che lo mettesse nuovamente in imbarazzo. Date le innate doti di Lunettes nel creare pasticci, il fatto non stupì per nulla gli astanti, che anzi provarono un lieve senso di compassione per entrambi i servitori: Barma doveva essere davvero a corto di personale, per affidarsi a due elementi simili. Tuttavia, non si soffermarono troppo su questa piccola malignità. In fondo Reim era un uomo leale, preciso e ligio al dovere. L’unico problemuccio era che fosse altresì terribilmente imbranato e ben poco scaltro, specialmente sul campo di battaglia. Ma tutti quanti gli volevano bene proprio per questo suo lato tanto fragile.

«Se abbiamo finito di fare salotto, direi che è il momento di vuotare il sacco: cosa è venuto a dirci? Spero qualcosa di parecchio rilevante.» tagliò corto Break, non vedendo la necessità di perdersi oltre in convenevoli con un diretto sottoposto del Duca.

Caleb parve confuso da quelle parole.

«Veramente, siete voi quelli che dovrebbero parlare.» proferì infatti con fare incerto.

Tutti strabuzzarono gli occhi.

«Come?!» chiese stupito Xerxes, già sul piede di guerra e completamente dimentico di dover usare la forma di cortesia, non essendo in confidenza con quel ragazzo «Non sei venuto fin qui per darci delle informazioni riguardanti la Tragedia di Sablier?»

«Io sono un informatore, come ho già detto: fornisco precise relazioni, ma solo se sono a conoscenza di cosa debbo cercare. Non mi è stato riferito nulla riguardo ad una vostra precisa richiesta.»

«Vorresti dirci che non sai nulla?» fece allora Oz.

«Per il momento... no. Ma se mi dite quello che cercate, posso aiutarvi.»

Nonostante la risolutezza delle sue parole, Break si sentì insultato e, cosa assai peggiore, credeva che quello fosse un vero e proprio affronto nei riguardi del casato che rappresentava e difendeva con orgoglio.

«Quel maledetto duca Pagliaccio... non solo non ci dice nulla, ma ci spedisce pure un inutile moccioso! La prossima volta che lo vedo lo ammazzo!» proruppe infatti, senza preoccuparsi minimamente di trattenersi. Era fuori di sé per la frustrazione.

Dopo quello che era capitato a teatro la sera precedente, si era aspettato un minimo di collaborazione, invece di nuovo niente, le sue mani rimanevano vuote, con soltanto un pugno di mosche, inservibili a lui quanto alla sua padroncina.

«Non le permetto di parlare del Duca a quel modo!» ringhiò d’impulso Caleb, per poi pentirsi del tono che aveva utilizzato.

«Oh, altrimenti cosa?» lo sfidò Break, facendo un passo minaccioso verso di lui.

Quel gesto fu sufficiente per far tremare impercettibilmente il ragazzo, che tuttavia pareva controllarsi per non mostrarsi da meno: non sarebbe rimasto in silenzio a lasciare che quell’uomo proferisse simili calunnie e minacce a danno del Duca suo protettore e, tuttavia, non era intenzionato a scatenare uno scandalo in casa di una Rainsworth, loro alleata. La situazione sembrava sul punto di degenerare, se non fosse prontamente intervenuto Reim, stupendo tutti e parlando con fare esagitato.

«Xerxes, non è come credi! Questo è il miglior servitore del Duca: quando vuole sapere qualcosa manda Caleb ad investigare e torna sempre con quello che cercava.»

Break parve stupito da quella rivelazione, eppure il suo sguardo non si mitigò. Nonostante tale sbalzo di euforia da parte dell’amico, il Cappellaio non sembrava ancora persuaso.

«Vuoi darmi a bere che questo bamboccio è così bravo?»

«Non te lo voglio dare a bere, è un dato di fatto. Io stesso lo conosco molto bene e nutro piena fiducia nei suoi riguardi.»

I presenti rimasero increduli. Reim non era tipo da elogiare chiunque, perciò se affermava che quel tale era il migliore nel suo campo doveva esserlo per forza. Tutti ne furono immediatamente convinti, perfino Xerxes, sebbene il suo volto non si addolcì minimamente.

«Grazie, Reim. Finalmente qualcuno che mi apprezza.» fece il giovane, tirando un sospiro di sollievo e donando un occhiolino d’intesa al compagno di lavoro.

Il servo di casa Barma arrossì visibilmente e, nel tentativo di dissimulare, si sistemò meccanicamente gli occhiali già perfettamente posizionati sul proprio naso.

«Non ho detto nulla di ché.» bofonchiò senza guardarlo.

«Bene! In tal caso, possiamo chiedergli qualsiasi cosa, giusto?» disse allegramente Oz, non stando più nella pelle all’idea di avere un simile alleato tra le mani.

«Sono qui apposta.»

«Quindi, puoi svelarci cosa accadde cento anni fa?» chiese speranzoso, sporgendosi verso il nuovo venuto.

Questi rimase in silenzio per qualche istante, per poi scuotere mestamente il capo.

«No, è impossibile ottenere informazioni a riguardo. Il Duca stesso cerca da anni di decodificare il diario di Jack Vessalius, ereditato dalla famiglia Barma per mezzo di un antenato che stilò le ultime memorie dell’eroe. Tuttavia, non è mai emerso nulla più di quanto già Pandora non sia a conoscenza.»

Sebbene tutti si aspettassero una risposta simile, rimasero visibilmente delusi.

«Però.» aggiunse con rinnovato spirito «Posso fornirvi informazioni riguardo i Baskerville.»

«Sai forse dove si trovano?» fece circospetto Gilbert, interessato più che mai a carpire il segreto di quella strana gente, che pareva avere a che fare col suo passato molto più di quanto egli stesso volesse ammettere.

«Non ancora, ma posso scoprirlo, se è questo che desiderate.» rispose Bauer, guardando finalmente il Nightray negli occhi, sebbene soltanto per un breve istante.

«Quanto tempo ci vorrà?»

«Con precisione non posso saperlo, lady Sharon.»

«Pensi davvero di farcela laddove persino Pandora ha fallito sino ad oggi?» s’informò Break, leggermente incuriosito dai modi di quel servitore.

Caleb l’osservò con sguardo di sfida.

«Per chi mi ha preso? Datemi un po’ di tempo e vi saprò dire anche il loro colore preferito!»

 

 

Trascorsero otto giorni, durante i quali nessuno ebbe notizie da parte di Caleb Bauer.

Oz e Gilbert non erano però rimasti con le mani in mano: setacciarono da cima a fondo gli archivi di Pandora, alla ricerca di informazioni. Sebbene il Nightray fosse consapevole che i loro sforzi fossero vani, in quanto reiterazione dei suoi stessi gesti di dieci anni addietro, preferì questo all’inattività.

Fintanto che le acque non si fossero calmate dopo l’apparizione di Jack Vessalius, l’eroe della Tragedia tornato dall’Aldilà nel corpo del suo legittimo discendente, qualsiasi loro azione era fastidiosamente limitata. Pareva infatti che i nobili non volessero saperne di lasciare andare la presa sul giovane Oz, né tantomeno su Alice, uno dei Chain più pericolosi e ricercati al mondo. La protezione fornitagli dal casato Rainsworth, unita alla categorica richiesta del duca Vessalius di lasciare in pace il nipote miracolosamente ritrovato, per il momento salvò il gruppo da interrogatori troppo serrati e scomodi. Ma tutti avvertivano l’ombra della minaccia che attendeva loro in futuro. Non potevano nascondersi in eterno.

Ciò non cambiava la loro scomoda posizione. Non avevano tracce su cui indagare, né libertà di movimento, perciò potevano soltanto aspettare.

Erano tutti radunati in tediosa attesa nel solito salottino dei Rainsworth, quando d’un tratto Reim comparve spalancando la porta con veemenza. Urlava di gioia, gesticolando frenetico, elementi insoliti dato il suo carattere serio e composto.

«È tornato, è tornato! Grazie al cielo è tornato!»

Inizialmente nessuno capì cosa intendesse dire e gli astanti si limitarono ad osservarlo perplessi, chi inclinando il capo, chi strizzando gli occhi con fare confuso.

«Chi è tornato?» chiese Oz a nome di tutti.

«Caleb! È tornato dalla missione.»

«Detta così, sembra quasi che tu dubitassi di me

La voce che intervenne con fare stizzito proveniva dalle spalle di Reim. Poggiato allo stipite della porta c’era infatti l’informatore del casato Barma, che osservava il suo piccolo pubblico con aria visibilmente provata.

«Caleb, insomma! Non comparire alle spalle delle persone senza preavviso.» gridò il collega, dopo essersi ripreso da quel mezzo infarto.

A quanto pareva, egli era convinto che Caleb si trovasse ancora all’ingresso, in attesa di essere prima annunciato. Invece, palesando ancora una volta un’evidente mancanza di conoscenza delle buone maniere, aveva prontamente attraversato il palazzo sino alla stanza che gli era stata indicata dalla corsa frenetica di Reim.

«Se non andassi in paranoia ogni volta che torno da un incarico, forse ti accorgeresti del mondo che ti circonda.» lo riprese con un mezzo sorriso l’altro «Sembri una moglie sull’orlo di una crisi di nervi imminente.»

Prima che Lunettes potesse protestare verbalmente per l’affronto subito, Sharon domandò prontamente al giovane come fossero andate le sue ricerche. Aveva subito sulla sua stessa pelle il fastidio dell’attesa, esacerbato da quella dei suoi compagni, perciò non intendeva tergiversare un solo minuto di più.

«A meraviglia. Ammetto che è stata una faticaccia, ma ne è valsa la pena. Ho avuto l’onore di incontrare di persona uno dei Baskerville.»

«E dove?» volle sapere subito Oz, mentre osservava il ragazzo avvicinarsi e fare un profondo inchino alla volta dei presenti.

A quanto pareva, aveva un modo ed un tempo tutto suo di mostrare l’etichetta di corte. Caleb non si fece desiderare oltre e rivelò con orgoglio il frutto del suo lungo lavoro .

«Nella capitale, a Reveille... e no Reim, non mi ha fatto nulla, altrimenti non sarei qui a raccontarlo.»

Reim tirò un sospiro di sollievo, rendendo ancora una volta evidente quanto egli tenesse alla salute del collega. Il gruppo non credeva possibile che Reim potesse avere altri amici all’infuori di loro, dato il suo carattere schivo e riservato, ma era palese che Caleb possedesse delle doti talmente straordinarie da aver compiuto anche quel piccolo miracolo.

«Come stavo dicendo, l’ho incontrato l’altro ieri, dopo cinque giorni di ricerche ed appostamenti, valsi quasi a nulla. Tuttavia quella notte, mentre perlustravo un’antica chiesa in rovina situata nella periferia della città, una tizia dai capelli lunghi e con un vestito parecchio appariscente mi ha gentilmente chiesto di smetterla di ficcare il naso dove non dovevo.»

«Lotti.» bisbigliò Oz con sguardo cupo, rimembrando la prima volta che aveva visto la Baskerville.

Non era stato un incontro piacevole e per poco lui, Elliot e Leo ci avevano lasciato la pelle. Erano stati estremamente fortunati, in quell’occasione. Non si scampava facilmente alla furia dei Baskerville, men che meno quando erano in gruppo e determinati a portare a compimento la loro missione. Quale essa fosse, rimaneva un mistero, che ciononostante era stato parzialmente svelato: anche gli Dei Scarlatti della Morte, esattamente come loro, cercavano la verità di 100 anni fa.

«E lei che ha fatto, allora?» chiese Sharon, un groppo in gola che la teneva col fiato sospeso.

Temeva anch’ella quegli individui, sebbene non avesse avuto ancora modo di fronteggiarli di persona. Non aveva idea di come comportarsi in una situazione simile, per tale motivo era estremamente interessata ad apprendere le tecniche utilizzate da quel giovane, apparentemente in gamba. Questi la fissò incuriosito, non comprendendo il senso di una tale aspettativa.

«Ovvio, l’unica cosa che un informatore sano di mente avrebbe fatto.»

«L’hai seguita...» rispose mestamente Reim, portandosi una mano al volto.

«Certo che l’ho seguita, che altro dovevo fare? Invitarla a prendere un tè?»

«Dimmi almeno che non sei andato da solo.» lo supplicò il servo dei Barma, mentre si pinzava gli occhi con le dita, in un chiaro segno di esasperazione.

«Io potrei anche dirtelo, ma non corrisponderebbe alla verità.» rispose con fare innocente Caleb, per poi tornare serio «L’inseguimento non è durato a lungo. Una volta giunta al limitare del bosco, si è incontrata con un tizio.»

«Quale tizio?» volle subito sapere Break.

«Se lo sapessi non lo chiamerei tizio, lei che dice? In ogni caso.» proseguì imperterrito, onde evitarsi una ramanzina da parte dell’albino, che comunque lo fulminò con lo sguardo, non apprezzando la sua uscita secca e sfrontata «Ho sentito chiaramente quello che si dicevano, sebbene soltanto in parte. Non potevo rischiare che mi scoprissero, perciò mi sono dovuto accontentare di poco, almeno per il momento. Stanno cercando qualcosa e di molto prezioso anche.»

«Spiegati meglio.» intervenne Gilbert, prestando la massima attenzione.

Perfino Alice ascoltava in silenzio, concentrata come rare volte nella sua esistenza.

«Non saprei come farlo. Hanno parlato in modo molto criptico. Dicevano che non c’era tempo da perdere, che dovevano ritrovare al più presto ciò che cercavano, in modo tale da poter ricongiungersi con Glen Baskerville. Vi dice qualcosa?»

«Non molto, ma è un inizio.» si limitò a dire Break.

«Non temete, non mi arrendo. Le mie ricerche non finiscono qui. Ho sentito che la ragazza si fermerà a Reveille per altri tre giorni. Perciò io nel frattempo...»

«Vuoi seguirla di nuovo? Da solo?!» sbottò Reim, anche se sembrava più un rimprovero che una richiesta.

«Beh, ho forse alternative?»

«Che diavolo ti prende, Reim? Non è mica una ragazzina che necessita di scorta.» fece con un ghigno Xerxes, felice di poter deviare per un istante il discorso per prendersi gioco dell’amico.

«Tu non immagini nemmeno...» bisbigliò l’occhialuto, mentre strofinava fin troppo energicamente le lenti con un panno.

«Come?»

«Ho detto che per lo meno qualcuno dovrebbe accompagnarlo! Insomma, si tratta pur sempre dei Baskerville. E se fosse una trappola?»

«Ma non dicevi che era il miglior informatore al mondo?»

«Qualcuno lo accompagni, per l’amor del cielo!» gridò esasperato Reim, sorprendendo tutti i presenti.

Lo fissarono allibiti, increduli dinnanzi ad una simile esclamazione da parte sua. Anche il servo di casa Barma parve stupito di sé. Tossì un paio di volte e, rosso in viso come non mai, ricominciò daccapo a strofinarsi gli occhiali con rinnovata agitazione.

«Ehm, cioè... lui è un uomo molto prezioso per il duca e se gli dovesse accadere qualcosa io...»

«D’accordo, ho capito. Gil caro, ci pensi tu?» chiese con aria distratta Break, non volendo proseguire oltre quel teatrino a suo avviso molesto e per nulla spassoso.

«Cosa?! Perché io?»

«Cosa?! Perché lui?»

A strillare in coro furono Gilbert e Caleb, i quali, stupiti dalla loro sincronia, si fissarono interdetti.

«Perché ti lamenti? Hai forse qualcosa contro di me?» volle sapere il Nightray, innervosito all’idea di essere giudicato un peso per l’informatore.

Lavorava da anni per Pandora e, sebbene non fosse il migliore, era un ottimo indagatore e aveva sempre portato a termine con successo le missioni affidategli. Non intendeva mostrarsi da meno dinnanzi a quel ragazzino sbarbatello. Come punto sul vivo, Bauer negò vigorosamente col capo.

«No, no, no, ci mancherebbe! Anzi!»

«Allora è deciso! Gilbert accompagnerà il signor Caleb a Reveille domani stesso, nessuna obbiezione?» chiese Sharon, giungendo le mani con aria estasiata.

Oz ed Alice tentarono di obiettare vigorosamente, ma sia Break che Gilbert furono inamovibili. Era troppo rischioso muoversi in gruppo e, inoltre, sarebbe stato impossibile per il Vessalius passare inosservato con la scorta che Pandora gli aveva affibbiato. Si sarebbe trattato di una semplice azione di spionaggio, nulla di più, non prevedevano certo di attaccare i Baskerville in un terreno tanto vasto. Gli Dei Scarlatti erano assai scaltri ed era da sciocchi agire senza prima avere un piano ben studiato. Avrebbero rintracciato Lotti e tentato di scoprire quanto più gli fosse possibile, con la speranza di riuscire a localizzare almeno il loro covo. Sarebbe stata una vittoria preziosa, ma nulla più che una piccola tappa del loro lungo viaggio.

Oz non parve del tutto convinto, ma fu costretto a cedere.

Prima di lasciare la stanza, Caleb lanciò uno sguardo omicida ai danni del povero Reim. Sembrava voler dire: “Tu me la pagherai cara, ma ancora non immagini quanto!”.

 

 

Il mattino seguente Gilbert si trovava dinnanzi alla carrozza che, di lì a poco, l’avrebbe condotto alla capitale insieme a Caleb. Ad essere più precisi, entrambi avrebbero dovuto essere già in viaggio da parecchio tempo, ma sembrava che il tragico destino del Nightray fosse quello di attendere il ritorno delle persone a cui era legato, per un motivo o per l’altro.

La puntualità pare non essere uno dei suo pregi.”

Mentre Gilbert pensava ciò, traendo un profondo sospiro di rassegnazione, dal cancello di Villa Rainsworth giunse trafelato il ritardatario. Indossava il solito mantello, che però quel giorno aveva una tonalità simile al blu notte. Sotto ad esso compariva un completo camicia e pantaloni sui toni del grigio scuro, corredato da cravatta nera e scarpe dal tacco basso coordinate. L’aspetto, nel complesso, appariva molto curato, sebbene semplice e confortevole.

Gilbert non si era scomodato troppo, scegliendo il solito cappotto nero, con cappello a tesa larga in pendant anche con i pantaloni. L’unico tocco di luce era la sua camicia candida e l’orecchino dorato che, immancabilmente, portava scintillante all’elice sinistra. Un fiero corvo in carne ed ossa, da cui derivava il suo ovvio soprannome.

«Eccomi, eccomi, scusa il ritardo!» s’affrettò a gridare il ragazzino, mentre lo raggiungeva, salutando sbrigativamente il cocchiere che lo aveva condotto sin lì.

Subito la sua mano libera dalla borsa corse prima al viso sudato, poi ai capelli. Pareva che non volesse sfigurare dinnanzi all’apparente presenza impeccabile del Nightray. Quest’ultimo risultava difatti molto trasandato, ad un’occhiata più accurata: i suoi abiti non erano nuovi, a differenza di quelli di Bauer, mentre i capelli… beh, di certo Raven non si sarebbe messo in ghingheri per una missione di spionaggio. Non era la sua priorità, né mai lo era stata in altre circostanze.

Il fastidio causato da quell’ennesimo ritardo lo fece rispondere aspramente.

«Un informatore dovrebbe essere sempre puntuale.» lo riprese infatti, senza badare a convenevoli «Specialmente con persone di rango superiore al suo.»

Quell’ultima frecciatina non era legata a lui in prima persona. Gilbert non si era mai considerato di sangue nobile, e l’adozione nella famiglia Nightray non aveva cambiato le cose. Semplicemente si sentiva in dovere di riprendere un collega su una mancanza che reputava inaccettabile. In fondo, anche quella era una manifestazione del suo buon cuore. Dettaglio che, purtroppo, il servo dei Barma non colse affatto.

«Ehi, tu avrai anche solo due peli in testa, ma io ho dei capelli da sistemare!»

«Ma se ce li hai più corti dei miei! E comunque non è una buona scusa: non stiamo andando ad un ballo di gala!»

Caleb fece per ribattere, ma rimase con la bocca spalancata per qualche istante, incapace di proferire parola. Assunse delle comiche espressioni, nel tentativo di bofonchiare delle scuse, ma il tutto si concluse con una manata in fronte carica di tutta la sua esasperazione.

«Sì, sì, hai ragione tu, contento?!» brontolò, per poi salire stizzito in carrozza.

Gilbert lo fissò allibito, mentre sopprimeva un grido di rabbia. Come diavolo si permetteva di trattarlo a quel modo? Saranno pure stati coetanei o quasi, oltre ad appartenere al medesimo rango (almeno nella mente del Nightray), ma non avevano certamente tutta quella confidenza. Mandando di traverso questo rospo, Raven fece cenno al cocchiere di partire, dando così inizio al loro viaggio.

Viaggio che incominciò nel silenzio più opprimente. L’atmosfera era palesemente ostile e, man mano che i minuti scorrevano, non fece che peggiorare. Fin da subito Caleb si era piazzato con la testa ostinatamente fissa al finestrino, senza mostrare il benché minimo senso di colpa per quanto avvenuto. Sebbene paresse deciso ad ignorare il Nightray, in realtà seguitava di sottecchi a lanciargli occhiate. Ogni tanto sembrava sul punto di voler proferire parola: inspirava più profondamente e muoveva impercettibilmente le labbra, ma in seguito scuoteva il capo e tornava ad osservare il paesaggio al di là del finestrino, sistemandosi alla bell’e meglio la borsa che reggeva ostinatamente in grembo. Dall’altra parte Gilbert non aveva intenzione di parlare più del necessario. Non si fidava del casato Barma, ad eccezione di Reim, e per quanto quest’ultimo si fosse mostrato fiduciosi nei riguardi di Caleb, Gilbert non riusciva ad esserne persuaso.

Per anni aveva vissuto per sé stesso, solo per il suo scopo. Inaspettatamente aveva incontrato Reim e prima ancora Break e Sharon. Non gli riusciva ancora facile associare a questi individui la parola “amici”, ma qualcosa di più vicino al significato di “compagni”. Questo rappresentavano per lui. Delle persone con cui condivideva uno scopo, perciò non era stato semplice aprire il suo cuore. Non erano neppure lontanamente paragonabili alla sua vera famiglia, ovvero Oz, Ada e lo zio Oscar... tuttavia avrebbe mentito a se stesso se avesse affermato che gli erano totalmente indifferenti. Almeno questo doveva concederglielo: avevano vissuto a lungo insieme ed ora gli era impossibile non preoccuparsi per il loro avvenire e la loro salute.

Incrociò nuovamente lo sguardo con quello furtivo del giovane, che celere si dileguò alla volta del lungo viale alberato che stavano attraversando.

No.” pensò Gilbert “Non aggiungerò un’altra persona alla mia vita. È già abbastanza complicata così com’è. Inoltre, Alice basta e avanza come elemento enigmatico, oltre che problematico, da sommare all’equazione.”

All’improvviso il cocchiere frenò a causa di un cane che aveva attraversato la strada senza alcun preavviso. Non si immaginava nemmeno di poter incontrare un animale randagio lì, in quella zona periferica e d’alto borgo, perciò lo scossone fu violento. Il risultato fu che Caleb piombò in braccio a Gilbert, che si trovava seduto di fronte a lui, in direzione del senso di marcia.

«Ahia...» mormorò dolorante il Nightray, mentre si tastava il capo che aveva sbattuto contro il muro della carrozza «Tutto a posto?» chiese poi al ragazzo che gli aveva smorzato il fiato con il suo peso.

«Sì, dovrei avere ancora tutte le ossa al loro posto...» fu l’incerta risposta che gli giunse alle orecchie «Che diavolo è successo?»

Da fuori si udì il cocchiere urlare le sue scuse, mentre rimproverare l’animale e, lentamente, riprendeva il cammino.

«Non lo so. Ma è il caso di dirlo: cominciamo bene.»

Caleb alzò adagio la testa, che ancora gli girava per lo spavento inatteso, e fu così che si ritrovò il viso a pochi centimetri da quello del moro. La sua reazione fu immediata.

«Aaahhh! Oddio, scusami, scusami!» strillò, lanciandosi all’indietro e tornando seduto al proprio posto, con uno slancio tale da far tremare l’angusto spazio in cui si trovavano.

Gilbert l’osservò come si osserva una strana creatura, della quale non si hanno notizie certe. Non riusciva a stare dietro ai suoi cambi di umore e mal sopportava quelle urla acute che, sovente, gli uscivano di labbra. Voleva soltanto fare un viaggio tranquillo, ma si domandò se questo suo ridicolo desiderio non avesse troppe pretese. Decisamente, quella missione era partita col piede sbagliato.

Per tutto il resto del viaggio, Caleb non proferì parola, cosa che al Nightray non diede alcun fastidio e che, in verità, gradì particolarmente. Non sapeva nulla di lui e non aveva certo intenzione di approfondire la conoscenza. E, da quanto poteva constatare, lo stesso valeva per l’informatore.

 

 

Una volta giunti nella città di Reveille, i due giovani ringraziarono il cocchiere, gentilmente offerto dalla famiglia Rainsworth, e si diressero alla volta dell’abitazione di Gilbert. Benché Caleb avesse insistito, prima di accomiatarsi dal gruppo, che avrebbe preferito alloggiare in una locanda, Gilbert fu tassativo nell’esprimere il suo disaccordo sulla questione. Anzitutto, ai suoi occhi ciò appariva come uno spreco di denaro, dato che già pagava ogni mese l’affitto di quel piccolo appartamento posizionato nella periferia della periferia della capitale. Questo primo punto era fondamentale, in quanto il Nightray era ben noto per la sua parsimonia. Inoltre, credeva che avrebbero dato molto più nell’occhio se avessero posto la loro base operativa in una qualsiasi pensione. Era molto più sicuro usare la sua casa.

«I nobili ci stanno col fiato sul collo, da quando Jack Vessalius è apparso nuovamente dopo 100 anni.» aveva infatti detto il Nightray, riscuotendo il tacito consenso dei presenti «Farmi vedere a zonzo con un estraneo, per di più in una locanda, attirerebbe facilmente i loro sospetti. Meglio utilizzare il mio appartamento: è in una posizione centrale, nella zona più tranquilla di Reveille, e perciò sarà più facile nascondersi tra le ombre dei vicoli e mescolarsi poi tra la folla. Per muovermi, mi basterebbe inoltre usare la scusa che voglia assicurarmi che tutto sia in ordine nei miei alloggi, portandomi come scorta un valletto.»

«Io sarei il tuo valletto?» aveva domandato scioccato Caleb, puntandosi un dito contro con fare per nulla persuaso.

«In maniera assolutamente informale e randomica. I nobili si sono sempre lamentati che non ne avessi uno, perciò ora che ci osservano con tanto interesse, diamo loro una valida motivazione per cui tu dovresti seguirmi.»

A conti fatti, Caleb non aveva potuto che acconsentire. Non c’era motivo di impelagarsi tanto su quel punto. Tuttavia, fin dal suo primo passo nell’abitazione del nobile, Bauer non aveva fatto altro che guardarsi intorno con aria circospetta e movimenti palesemente irrigiditi. Perplesso da quel suo atteggiamento e stanco per il viaggio, Gilbert lo aveva subito ripreso con stizza.

«Chiedo venia se non è una reggia, ma preferisco la discrezione all’ostentazione.»

Come punto sul vivo, l’informatore si era voltato verso il suo interlocutore, con aria smarrita eppure già mezza corrucciata.

«Come, prego?»

«Lo so cosa stai pensando.» continuò Gilbert, poggiando cappotto e cappello sull’appendiabiti a muro ed accendendosi una sigaretta comparsa come dal nulla sulle sue labbra «Da un nobile ci si aspetterebbe qualcosa di più di questo.»

Pronunciò quelle parole con noncuranza, mal celando tuttavia una nota di rancorosa diffidenza, come se quella situazione avesse fatto riaffiorare in lui dei ricordi spiacevoli. Caleb dimostrò immediatamente quanto il suo titolo di informatore non fosse un semplice gingillo.

«È stato Elliot a dirti questo?»

Quelle parole scossero Gilbert, ma il suo stupore si tramutò rapidamente in gelida collera.

«Non sono affari che ti riguardano. E non rivolgerti a lui con tanta confidenza: è un nobile, a differenza tua.»

Caleb incassò il colpo con evidente disagio: arrossì, che fosse per vergogna o rabbia questo Gilbert non poté dirlo, e chinato il capo strinse con vigore il manico della sua piccola borsa, che aveva tenuto accanto a sé durante l’intero tragitto.

«Dove posso sistemarmi?» chiese atono, senza incrociare più il suo sguardo.

Il Nightray indicò il divano con fare laconico.

«Non ho altre stanze a parte la mia.» fu la sola spiegazione «Se hai bisogno dei servizi, è la porta alla tua sinistra

Bauer annuì.

«Allora io vado.»

La repentina risposta del giovane prese in contropiede Gilbert. Credeva infatti che, una volta giunti a destinazione, i due si sarebbero presi un po’ di tempo per rinfrescarsi, per potersi così concentrare sulla strategia del loro piano di azione. Caleb, invece, non aveva compiuto che pochi passi all’interno di quelle mura che subito fece per voltare i tacchi ed andarsene.

«E dove?» volle infatti sapere Gilbert.

«A te cosa interessa?» replicò asciutto il giovane.

«Staremmo investigando insieme, se non ti dispiace. Inoltre, ho promesso a Reim di tenerti sempre un occhio puntato addosso, affinché non ti accada nulla.»

«Non sei mica vincolato da un giuramento sacro.»

«No, ma è come se lo fossi. Non tradirei mai la fiducia di un amico.»

A quelle parole Caleb alzò finalmente lo sguardo. Esso incontrò gli occhi fieri di Gilbert, che si aspettava di veder riflessa la stessa irritazione che lo animava. Fu dunque meravigliato nel trovarsi a fronteggiare un mare placido, appena scosso dalle onde del dubbio.

«Sei così legato a Reim?»

Sul momento Gilbert non seppe come rispondere. Non era quello il genere di dialogo che si aspettava di avere con l’informatore del casato Barma, né tantomeno il tono fu più in linea con il suo stato d’animo. Pur volendo mantenersi cauto e infastidito, non trovò motivo per mentirgli. La sua amicizia con Reim Lunettes era nota a tutta l’Associazione, duca dal Ciuffetto Pazzo incluso, perciò si distese inconsciamente.

«Siamo amici di vecchia data. O forse sarebbe più corretto dire che ci fidiamo l’uno dell’altro.»

«E non è forse questa ciò che si chiama amicizia?» chiese con un lieve sorriso Caleb, gli occhi persi in un ricordo lontano «Non c’è nulla di male a chiamare le cose col proprio nome. Trovo sia molto peggio non farlo.»

Confuso, Gilbert non trovò di meglio da fare che girare a sua volta la domanda appena postagli.

«E tu? Sei amico di Reim?»

Bauer sbatté le ciglia, come non aspettandosi di essere a sua volta interrogato. Fece spallucce, stringendosi con fare incerto, quasi avesse paura di scoprirsi troppo.

«Mah, chi lo sa? Almeno, io lo considero come un caro amico, ma credo che lui mi veda solo come l’oggetto prezioso del Duca, che va protetto ad ogni costo.»

«Reim non è il tipo da pensare certe cose. L’ho visto bene a Villa Rainsworth ed era sinceramente preoccupato per te.»

«Lo credi sul serio?» la sua voce ebbe un fremito, come il lieve picchiettare della pioggia lungo i vetri: appena percettibile, eppure inoppugnabile.

«Assolutamente. Lui non guarda mai alle persone come meri oggetti, e cerca sempre di fare del suo meglio affinché le persone attorno a lui siano a proprio agio. Non ti considera un oggetto prezioso da difendere, ma un amico da custodire.»

Non ne comprese il motivo, ma Gilbert si sentì in dovere di dire quelle parole ad alta voce, di far capire a Caleb che Reim gli voleva sinceramente bene e che non doveva dubitarne. Aveva quella stessa sensazione, che gli attraversava lo stomaco come un veleno, ogni qual volta gli occhi di Oz si adombravano per un pensiero insistente. Non poteva e non voleva abbandonarlo a quell’oscurità e Caleb, in quel frangente, gli ricordò in maniera preoccupante il suo amato padroncino.

Ho sempre avuto il cuore troppo tenero.” si rimbeccò il Nightray, ripensando alle parole che un tempo Break gli aveva rivolto, quando ancora era un ragazzino.

«Devi imparare a scacciare queste emozioni, Gil caro. Le emozioni sono fuorvianti, ti fanno perdere di vista quello che è il vero obiettivo.»

«Ti ringrazio.»

La voce squillante ed al tempo stesso gentile dell’informatore lo raggiunse, insieme ad un tiepido sorriso, strappando Raven a quell’ennesimo ricordo. Ormai dimentico del rancore che lo aveva animato poc’anzi, Gilbert si concesse di ricambiare il gesto. Increspò appena le labbra, dissimulando tale azione traendo una boccata generosa dalla sua sigaretta.

«Prego.» si limitò a ribattere, dirigendosi poi verso la finestra per arieggiare la stanza.

A quel punto anche Bauer si mosse.

«Vado in biblioteca a cercare altre tracce.» sentenziò, quasi a volersi giustificare delle sue intenzioni.

Gilbert, però, lo intese come una mano tesa verso di lui: Caleb voleva fargli conoscere i suoi spostamenti, così da non destare la preoccupazione di Reim. La biblioteca era un luogo tranquillo, perciò Gilbert non si sentì in dovere di perseguitarlo oltre. Era un ragazzo bello e fatto, alla sua età anche lui aveva già svolto diverse missioni per conto di Pandora. Decise di lasciare che si muovesse con un minimo di agio; avrebbe avuto modo in seguito di guardargli le spalle.

«In biblioteca? Noi attendiamo da giorni informazioni sui Baskerville e tu le vai a cercare in biblioteca?»

Cercò di suonare ilare, senza però riuscirci. Si avvertiva una leggera acredine, ormai tipica del suo fare cupo, sebbene pronunciò la frase in tono pacato.

«Ti stupiresti di ciò che puoi trovarci, se solo conoscessi i luoghi giusti in cui cercare.» rispose Caleb, alzando il cappuccio del suo mantello e porgendo al collega dei fascicoli appena estratti dalla sua borsa «Tu nel frattempo puoi concentrarti su questi: sono le mappe di quell’antica chiesa fuori città. Non è molto, ma forse tra queste scartoffie ci sono dei dati utili. Io invece mi concentrerò sulle cronache di Reveille: voglio cercare di capire se e quando sono stati avvistati per l’ultima volta i Baskerville. E dove, soprattutto.»

«Non erano scomparsi cento anni fa, a seguito della Tragedia di Sablier?» chiese Gilbert, colpito dallo spirito di osservazione e dalla mente critica del giovane.

«Da quello che so, l’ultima volta erano stati avvistati a Lutwidge, non più di due settimane fa.» Bauer gesticolò appena con la mano, tracciando dei fili immaginari nell’aria «Se riuscissimo a scoprire dove si sono mossi in questo arco di tempo, forse avremo una possibilità in più di comprendere dove si stiano nascondendo. Sempre che il nascondiglio sia uno solo, cosa di cui dubito fortemente.»

«Cosa te lo fa credere?»

«Se tu fossi un essere semi-eterno, ricercato da tutta la nazione per un crimine che ha cancellato un’intera città dal giorno alla notte, ti accontenteresti di un solo rifugio?»

Gilbert non aggiunse altro. Annuì, convinto dalla sua logica. Era incredibile come, in così breve tempo, quel ragazzo fosse riuscito ad immedesimarsi in quella matassa intricata che metteva in difficoltà sia lui che l’intera Pandora da anni. Pareva che lavorasse a quel caso da molto tempo, anziché da pochi giorni.

«Questo è il miglior servitore del Duca: quando vuole sapere qualcosa, manda Caleb ad investigare e torna sempre con quello che cercava.»

Le parole di Reim cominciavano ad avere un senso.

Caleb fece un piccolo cenno del capo, in segno di saluto, e si avviò alla porta. Poco prima di chiuderla, tuttavia, si soffermò qualche istante, come incerto sul da farsi. Gilbert lo fissava di sottecchi, mentre terminava la sua sigaretta ed osservava i fogli appena ricevuti. Alla fine, l’informatore parlò un’ultima volta.

«Non era mia intenzione offenderti. Ti chiedo scusa se l’ho fatto.»

Non lasciò tempo per altro. Sparì al di là della porta, lasciando dietro di sé una scia di rammarico, come un profumo che si diffuse lungo la stanza.



«Appena terminata la colazione, ci mettiamo alla ricerca di Lotti.»

Gilbert e Caleb stavano mangiando l’uno di fronte all’altro, senza nemmeno sfiorarsi con lo sguardo. I rumori tipici del mattino si diffondevano lungo le pareti, ampliati dal silenzio che intercorreva tra i due commensali, mentre dall’esterno si udiva il lento risveglio del vicinato. Bambini che salutavano la madre per andare a scuola, altri che seguivano il padre al lavoro, mentre i più piccoli restavano a casa reclamando le attenzioni materne. Gli adulti invece si radunavano lungo le vie, per mettersi in coda davanti ai negozi appena aperti o in procinto di farlo: i panettieri erano i fortunati svegli sin da prima del sorgere del sole, mentre fruttivendoli e venditori vari potevano ancora permettersi qualche momento di quiete.

L’animosità della città restava tuttavia confinata oltre le mura domestiche che, come facenti parte di un mondo a sé stante, restavano chete. L’informatore non appariva propenso nemmeno ad avviare una conversazione, perciò fu il Nightray a spezzare il silenzio. Si aspettava un semplice assenso del capo da parte dell’altro come risposta, invece scosse visibilmente la testa.

«No, stamattina non ci muoviamo.»

Per poco Gilbert si strozzò con il caffè che stava sorseggiando.

«Come?! E per quale motivo?»

«Hai mai visto qualcuno spiare altri in pieno giorno? E per di più non si tratta di una persona qualunque, ma di un Baskerville. Sai qual è la loro abilità peculiare?» non attese una risposta, mentre si versava un’abbondante dose di latte nella tazzina «Il sapersi celare nell’ombra ed attaccare il nemico quando meno se l’aspetta. Se agiamo ora, alla luce del sole, la faremmo solo scappare o, peggio, potrebbe decidere di attaccarci. E noi non siamo qui per attaccar briga.»

Gilbert avrebbe voluto ribattere, a causa del tono presuntuoso dell’altro, ma non lo fece, poiché quello che diceva aveva un senso. Caleb era una spia specializzata nel raccogliere informazioni, era ovvio che conoscesse trucchi che lui non poteva nemmeno immaginare. Anche se, fino a quel punto, ci sarebbe potuto arrivare da solo. Provò un moto di stizza per la sua impazienza, che lo aveva fatto apparire poco scaltro. Il compagno, tuttavia, non parve dar peso alla questione. Si limitò infatti a proseguire il suo pasto, tenendo gli occhi ostinatamente fissi sulle poche cibarie distribuite sul tavolino della cucina. Non trovando partecipazione per l’argomento da parte dell’altro, Gilbert ruppe nuovamente il silenzio, stavolta con una domanda.

«In tal caso, che facciamo fino al tramonto?»

«Non lo so. Facciamo un giro per il mercato?»

Per la seconda volta in pochi minuti, il Nightray tossì per mandare giù il caffè che gli si era impigliato in gola come una lisca di pesce assassina.

«Ma stai bene?» chiese preoccupato Caleb, alzando finalmente lo sguardo su di lui.

«Cos’è che vuoi fare?» ribadì invece Gilbert, senza badare alla domanda postagli.

«Ho detto che potremmo andare al mercato. Perché, non ti va?»

«Non è quello. Ma non dovremmo fare altro, nel frattempo?»

«Ad esempio?»

«Ad esempio confrontarci su quanto hai appreso ieri?»

Da quando la sera prima si erano divisi, Gilbert non aveva più avuto modo di parlare con il ragazzo. Durante la sua assenza, si era concentrato più che poteva sulle carte affidategli, ma era stato inutile. Conosceva fin troppo bene quel posto: era la medesima chiesa sconsacrata ed ormai diroccata che lui, Xerxes e Sharon avevano scelto per il rituale di salvataggio di Oz. Alla fine i loro preparativi erano stati del tutto futili, poiché il giovane Vessalius era riuscito ad uscire dall’Abisso per mezzo del contratto stipulato con Alice, il B-Rabbit.

Quelle mura che si reggevano a stento gli erano rimaste impresse nella memoria, come una fotografia. Fin dal primo passo che aveva compiuto al loro interno, aveva avvertito come una brezza di nostalgia, una carezza del passato che voleva sussurrargli qualcosa di cui lui, però, non riusciva ad afferrarne le parole.

No.” aveva mormorato una vocina dentro di sé, la notte addietro “Tu non vuoi ricordare. È esattamente come alla Villa della Cerimonia o il ricordo nella dimensione del Gatto Cheshire. Avevi provato le medesime sensazioni, eppure hai fatto di tutto per scacciarle. Cosa rappresentano realmente, per te, quei luoghi?

«Gilbert? Mi stai ascoltando?»

Il nobile si riscosse da quella scia di pensieri che, sempre più vorticosi, avevano preso controllo della sua mente. Tornò alla realtà, nella stanzetta adibita a cucina in cui tante volte aveva mangiato solo o con la fastidiosa compagnia di Break. Ora che ci rifletteva, quella era la prima volta che aveva un ospite che non fosse una sua pregressa conoscenza.

«No… scusami, mi ero perso in un pensiero. Cosa mi stavi dicendo?»

«Parlavo delle mie ricerche.» cominciò Caleb, per poi interrompersi e concentrarsi sul volto del ragazzo; inclinò appena il capo, con fare meditabondo «Sicuro di stare bene? Non hai una bella cera...»

«Sto bene, te l’ho già detto. Che cosa hai scoperto?»

Bauer non pareva convinto delle sue parole ma, trovandosi di fronte ad un muro, non poté far altro che tornare a concentrarsi sulla sua colazione e su quanto concerneva la loro missione. Pareva leggermente deluso, ma questo a Gilbert non importava. Il loro scopo non era fare amicizia.

«Non molto, purtroppo. Nelle cronache del regno non vengono più nominati i Baskerville, come se si fossero estinti con la città di Sablier. Il che ha senso, insomma, quella tragedia ha inghiottito un’intera città nel nulla, come avrebbero potuto sopravvivere?» si concesse una breve pausa per addentare una fetta del suo pane tostato con formaggio ed erbette «Eppure, nei libri per bambini e persino in certi romanzi vengono ancora menzionati.»

«Beh, mi sembra normale. Eventi simili scatenano sempre l’immaginazione degli artisti, specie se si tratta di eventi all’apparenza inspiegabili.»

«È questo il punto.» insistette Caleb, picchiettando l’indice sul tavolo con aria contrariata «Le favole ed i romanzi antecedenti a cinque anni fa sono molto vaghi, quasi nebulosi nella descrizione degli Dei Scarlatti. Però.» si interruppe ancora, stavolta alzandosi di scatto e dirigendosi verso la borsa che aveva lasciato gettata a terra vicino al divano; una volta aperta, ne estrasse un libro, che subito porse a Raven «La poupéedi Jean Galli de Bibiena.»

Gilbert osservò interdetto il titolo che aveva dinnanzi. Sfogliò distrattamente qualche pagina, senza comprenderne il significato, né letterale né tantomeno metaforico.

«Non ci capisco molto di francese, ma da quel che leggo è una storia che riguarda… una bambola?» chiese confuso il nobile «Cosa c’entra con i Baskerville?»

«Adesso ci arrivo. È un romanzo di formazione: parla di questo abate vergine, che si è dato alle civetterie ed a una vita smodata, finché non si innamora di una bambola, che però è in realtà una silfide che vuole educarlo...»

«Una silfide? Da quando gli spiriti dell’aria si incarnano nelle bambole?»

«Aspetta, aspetta, lo so che sembra assurdo, ma leggi qui.» prese nuovamente possesso del libro ed indicò una pagina «La silfide ad un certo punto si tramuta in una gatta, poi in una bambina, una ragazzina ed infine in una donna.»

«Continuo a non capire dove tu voglia andare a parare e, men che meno il senso di questa storia. È da pazzi anche solo seguirne il filo logico.»

Il ragazzo percepì l’irritazione montare rapidamente nel Nightray, perciò si decise a rivelare tutto d’un fiato le sue elucubrazioni della notte precedente.

«Leggi la descrizione della donna: chi ti ricorda?»

Sbuffando, Gilbert si prestò a quell’assurda messinscena, mosso soltanto dal bene che provava per Reim. Iniziava seriamente a credere che quel ragazzino si fosse bevuto del tutto il cervello o che lo stesse volutamente prendendo in giro per fargli perdere tempo prezioso. Nel pieno stile del casato Barma.

Lesse e tradusse a fatica quella lingua che era stato costretto a studiare durante la sua permanenza a Villa Nightray, senza però trovarvi alcun nesso: veniva descritta come una creatura bellissima, provocante nell’aspetto generoso delle sue forme, e ciononostante ispirante una reverenziale ammirazione. Era palese che l’autore, impersonato dall’io narrante e protagonista stesso delle vicende, fosse rimasto stregato da una dama, che aveva deciso di rievocare nel suo racconto. Tuttavia, Gilbert continua a non capire cosa ci trovasse di così interessante Caleb.

«Non mi viene in mente nessuna in particolare.»

«Pensaci! Una donna bellissima, formosa, che istilla tuttavia un naturale senso di reverenza, quasi sottomissione, tanto appare sicura di sé. Non ti sembra qualcuno che entrambi abbiamo già incontrato?»

«Ti stai riferendo a Lotti?» la rivelazione lo colpì come un fulmine a ciel sereno «Ma… esisteranno milioni di donne simili. Non puoi attaccarti a...»

«La silfide è capace di punire gli uomini per i loro peccati oppure di correggerli ed educarli, portandoli sulla retta via.» Caleb osservò Gilbert dritto negli occhi, mentre un luccichio di vittoria li adornava «Al fine di accedere all’immortalità. Esattamente come lei.»

Il ragazzo strabuzzò gli occhi, per poi puntarli nuovamente sull’opera. Più leggeva quel passo, più si formava nella sua mente l’immagine della Baskerville che aveva incontrato a Lutwidge. Era assurdo, tuttavia quel riferimento alla vita eterna…

«I Baskerville sono creature immortali, all’apparenza almeno, no? Non credi anche tu che questo autore possa aver conosciuto Lotti ed essersi fatto ispirare dalla sua natura

«Ma come potrebbe averla incontrata, e soprattutto dove?»

«Proprio qui, a Reveille.» Bauer mostrò una delle ultime pagine, contenenti le note riguardanti l’autore «È stato a Reveille, non più di cinque anni fa e, mentre esplorava la città, è stato folgorato dalla visione di una donna eterea che si aggirava proprio tra le rovine di un’antica chiesa.»

«Quella in cui avevi assistito al dialogo tra lei ed un’altra persona?»

«Non posso esserne certa, ma… i conti tornano. Quella chiesa non è un luogo casuale. È uno dei loro covi

«Ma come… ?» Gilbert non si capacitava di come avesse potuto avere una simile intuizione.

«Come? Passando la notte in bianco leggendo libri. Alla fin fine, qualcosa è saltato fuori.»

«Incredibile.» al termine di quegli scambi il nobile era rimasto senza parole, al punto da lasciarsi sfuggire un sincero apprezzamento «Hai fatto davvero un lavoro eccellente.»

In risposta a questo Caleb cominciò a gesticolare, con fare imbarazzato ed esagitato.

«Ma no, ma no, cosa dici, non ho fatto nulla! In fondo si tratta di mere supposizioni e… piuttosto, tu hai scoperto qualcosa, studiando le cartine della chiesa?»

Il sorriso tramontò celermente dal volto di Raven, essendo costretto a paragonare il proprio operato con quello dell’informatore di casa Barma.

«Sfortunatamente no. È una comunissima chiesa sconsacrata, risalente a qualche secolo addietro. Fino a prima della Tragedia era ancora utilizzata per piccoli riti e funerali, per lo più di gente comune che viveva alla periferia di Sablier, ma poi è caduta in disuso. Probabilmente perché gran parte dei suoi frequentatori sono morti.»

«Mh, capisco. Forse aveva qualche legame coi Baskerville, chissà… ho trovato ben poco a riguardo. Quella famiglia è totalmente avvolta nel mistero: non sono nemmeno riuscita a trovare un albero genealogico, di alcun tipo! Eppure è strano, essendo una famiglia tanto di spicco all’epoca, è impossibile che non vi sia rimasto nulla a testimoniarlo.»

«Probabilmente è andato tutto distrutto con la città.»

«Già.» convenne con un sospiro Caleb, facendosi ricadere pesantemente sulla sedia «Beh, ora che ci siamo confrontati, andiamo al mercato?»

Gilbert si portò esasperato una mano al volto.

«Ma allora sei fissato...»

«Ma scusa!» protestò il giovane «Le ricerche le abbiamo fatte, il luogo in cui andare lo sappiamo… che altro vuoi fare? Stare qui a fare a gara di sguardi?»

A quelle parole, Raven alzò il capo, fulminando il povero malcapitato.

«… io passo.» mormorò contrito Bauer, mentre si voltava da tutt’altra parte.

Certe volte, pensava infatti Caleb, quel ragazzo gli metteva seriamente paura. Tuttavia, con sua grande sorpresa, Gilbert fu costretto suo malgrado a cedere. In fondo la dispensa era pressoché vuota, essendo mancato per diverso tempo, ed una sgranchita alle gambe non gli sarebbe dispiaciuta per niente, considerando la lunga reclusione a Villa Rainsworth.

«E sia. Tu che proponi?»

Il viso di Caleb parve illuminarsi, sebbene i suoi occhi rimasero guardinghi.

«Non mi stai prendendo in giro, vero?»

«Certo che no: sei tu la spia, esperta di ogni luogo, proponi.»

L’informatore rise di gusto, mostrando così uno dei suoi rari sorrisi. Ora che Gilbert ci pensava, quella era la prima volta che lo vedeva con un’espressione simile dipinta sul volto. Doveva ammettere che risultava molto più grazioso così.

«Mamma mia, quante speranze che nutri nei miei confronti! Visto che mi concedi un simile potere, proporrei un giretto verso la via principale: oggi c’è il mercato cittadino, le bancarelle abbondano e le persone pure. Non rischieremo di dare nell’occhio! Il resto lo decideremo strada facendo, anche perché sarà dura ammazzare il tempo sino al tramonto.»

Solo allora Gilbert si accorse delle pesanti occhiaie che marcavano il viso del ragazzo. Si era quasi scordato, concentrato com’era sulla missione, del fatto di non averlo sentito rincasare la notte precedente. Probabilmente, Caleb era rimasto confinato in biblioteca sino all’orario di chiusura e magari persino oltre, date le sue capacità. Osservò distrattamente il libro che ancora reggeva tra le sue mani: quanti volumi aveva consultato, prima di trovare una qualsiasi pista, per quanto flebile?

Gilbert fu costretto ad ammetterlo, almeno a bassa voce: la fiducia di Reim era ben riposta. Pur non conoscendosi, Caleb stava dando tutto se stesso per quella missione. Gli balenò sulle labbra un ringraziamento, ma lo inghiottì per sostituirlo con qualcosa di più pratico e decisamente meno sentito a livello emotivo.

«Sicuro di non voler riposare?»

Bauer sgranò gli occhi. Pareva genuinamente sorpreso da quella semplice domanda, posta nel tono più neutrale possibile. A differenza di quanto Gilbert si aspettasse, però, Caleb ridacchio divertito.

«Cosa? Che ho detto?» replicò indispettito il ragazzo.

«Niente, niente, è solo che non sei cambiato per nulla! Ti preoccupi ancora più degli altri che di te stesso.»

«Che intendi con “non sei cambiato”? Non ci siamo mai visti prima d’ora.»

«Oh... sì, certo. Volevo dire che le informazioni che ho su di te sono le stesse di dieci anni fa. A livello caratteriale, s’intende.»

«Capisco. Dunque, hai raccolto informazioni anche su di me?»

«Ah no! Cioè sì, nel senso...»

«Non devi giustificarti.» lo tranquillizzò con un gesto della mano, tesa ad indicare che Caleb poteva smettere di biascicare scuse sconnesse «Sei un informatore. Fai soltanto il tuo lavoro.»

Il nobile si alzò e cominciò a raccogliere le stoviglie ormai vuote, collocandole delicatamente nel catino. Le avrebbe pulite in seguito, non intendeva restare chiuso in quella stanza un solo minuto di più.

«Andiamo?» propose Gilbert, ricambiando finalmente il sorriso del compagno.

 

 

«Tutto bene? Sei già stanco?»

Il giovane Nightray si sentiva esausto come poche volte nella sua esistenza. Non appena aveva visto una panchina libera, vi si era fiondato a capofitto per sedersi e dare, in tal modo, un minimo di sollievo ai propri piedi doloranti.

Caleb, dal canto suo, pareva pieno di energie, al punto da potersi permettere di osservare con un misto di curiosità e preoccupazione il compagno. Il viso dell’informatore era però di un pallore tale da indicare quanto in realtà anche il suo fisico fosse provato. In particolare, le labbra avevano perso ogni sfumatura rosata, ma da come erano increspate era evidente che Bauer ignorasse tutti quei segnali, concentrandosi unicamente sull’euforia di quella giornata inaspettata tra gli odori ed il calore di Reveille.

Era infatti una giornata serena, con soltanto vaghe nubi che, saltuariamente, ottenebravano il chiarore del sole. L’aria era ancora fresca, ma ciò non aveva impedito ai cittadini di radunarsi intorno alla miriade di bancarelle che, soddisfatte, mostravano il meglio che avevano da offrire, che si trattasse di tessuti, cibarie, pergamene o chincaglierie di ogni genere.

«No, assolutamente.» rispose finalmente Gilbert, tra un respiro profondo e l’altro «Solo che dopo tre ore di marcia serrata, i miei piedi invocano pietà.»

«Oh, camminiamo già da così tanto? Non me ne n’ero accorto.» fece sorpreso Caleb, sedendosi il più distante possibile dall’altro.

Gilbert dimenticò prontamente i suoi buoni propositi, relativi al non mostrarsi troppo scorbutico in compagnia del ragazzo. Considerando l’impegno che aveva mostrato, gli pareva giusto mostrarsi quantomeno pacifico, ma la stanchezza non lo metteva nella posizione di essere comprensivo, figurarsi paziente con un perfetto sconosciuto.

«Guarda che non ho mica la lebbra.» sputò infatti con fare venefico.

«Come?»

«Perché diavolo ti metti sempre agli antipodi di dove sto io?»

«Non è vero!»

«Sì che lo è!»

«Oh, va bene!» urlò scocciato Caleb e, con altrettanta furia e malagrazia, si spostò con un tonfo fino a toccare la spalla destra di Gilbert «Soddisfatto adesso?»

«Non volevo dire che dovevi appiccicarti a me!»

«Allora deciditi! O mi vuoi vicino o lontano!»

I due si fissarono in cagnesco per degli interminabili secondi. Mentre Gilbert sembrava essersi ricaricato delle energie perdute e, dunque, era pronto a dar battaglia, Caleb scoppiò inaspettatamente in una fragorosa risata.

«E adesso perché ti metti a ridere?» riuscì a chiedere il Nightray, una volta che si fu ripreso dallo stupore iniziale.

L’informatore tentò inutilmente di calmarsi, ma la ridarella che lo aveva colpito pareva impossibile da frenare. Suo malgrado, persino Raven increspò le labbra, contagiato da quel buon umore inatteso.

Per qualche strana ragione, il Nightray fu avvolto da una lieve sensazione di tranquillità, come se quella situazione gli fosse familiare. Aveva l’impressione di star condividendo un momento segreto e che, di lì a breve, il loro rapporto si sarebbe finalmente spianato, bandendo così le divergenze che, sino ad allora, li avevano tenuti in disparte.

Avevano percorso in lungo e in largo il mercato cittadino, fermandosi spesso ad osservare bancarelle di vario tipo e, mano a mano che proseguivano nella loro esplorazione, accumulavano ingredienti per la cena ed il pranzo del giorno seguente. Progettavano di lavorare tutta la notte e di rincasare al più tardi nel pomeriggio, per concedersi il tempo di riprendersi dalla missione. Tuttavia, non una parola era volata tra loro, se non per mera necessità. Frasi come: «Credi che quello possa andar bene per cena?» oppure «Oh, lì sembrano esserci in vendita dei libri interessanti, ti spiace se mi fermo un istante?» erano infatti state le loro uniche compagne. Forse, ora che la tensione tra loro si era allentata, avrebbero potuto parlare come si deve.

«Scusami.» disse infatti Caleb, una volta calmatosi «Ma la tua faccia era troppo comica… oddio, e dire che prima mi avevi quasi fatto paura!»

Nell’udire ciò, Gilbert ebbe un sussulto. Provò un fastidioso senso di vergogna, nel sentirsi definire spaventoso. Sebbene non fosse sua intenzione mostrarsi troppo amichevole, non voleva nemmeno dare l’impressione di essere una minaccia.

«Io… non sono così spaventoso.» tentò di dire in sua difesa, ripercorrendo mentalmente tutte le volte in cui aveva risposto in modo seccato o alterato.

Beh… forse non sono esattamente il massimo della simpatia, ma che diavolo, pure lui non è certo stato uno stinco di santo!” pensò con rammarico il Nightray.

Caleb rispose prontamente, interrompendo i pensieri del moro e scacciando con un gesto delle mani ciò che aveva appena dato a intendere.

«Ah, ma no di certo! Volevo solo dire che, ehm, ecco...»

«Noi Nightray siamo spaventosi.» concesse con un sospiro Gilbert «Non siamo propriamente il casato più simpatico con cui avere a che fare.»

«Ma no, sul serio, io mi trovo bene con te… con lei!» si corresse subito Caleb, per poi impallidire d’un tratto «Io… oddio.»

Tacque per un lungo istante, portandosi una mano alla bocca. Gilbert ne approfittò per estrarre dal proprio cappotto un pacchetto mezzo vuoto di sigarette ed accendersene una. Ormai era abbastanza avvezzo ai repentini cambi di umore del ragazzo e, in ogni caso, era certo che di lì a breve Bauer avrebbe espresso i suoi timori ad alta voce. Fin troppo alta.

«Io… da quanto tempo le sto dando del tu?»

Gilbert portò gli occhi al cielo, con fare pensoso e per nulla turbato. Mentre rifletteva, espirò la prima boccata con intenso piacere.

«Ehm… all’incirca, da quando ci siamo messi in viaggio ieri, direi?»

Il piccolo mondo di certezze di Caleb Bauer andò lentamente ed inesorabilmente in frantumi. Si sentì crollare, come se da quel momento in poi la sua vita non avesse più uno scopo. Tuttavia, una carica di adrenalina lo fece scattare come una molla, anziché farlo squagliare al suolo per la vergogna.

«Mi perdoni!» squittì in tono sincero eppure incredibilmente comico «La prego mi perdoni, giuro che non l’ho fatto apposta! Io… io… non lo dica al Duca!» sembrava sul punto di piagnucolare e, effettivamente, i suoi occhi presero pericolosamente a brillare come pozze d’acqua colpite dal sole.

«Ma perché mai dovrei dirlo al...» tentò di dire Gilbert, venendo immediatamente interrotto dal soliloquio disperato del giovane informatore.

«Ha ragione a dirmi ogni volta che non sono minimamente capace di trattenermi… insomma, come mi è saltato in mente? Darti del tu… e ancora lo faccio!»

Il Nightray avrebbe voluto consolarlo in qualche modo, invece ciò che uscì dalle sue labbra fu una breve risata, che subito tentò di celare con dei colpi di tosse. Caleb se ne accorse immediatamente e, come ripresosi dal suo stato di drammatica trance, accusò il compagno di alto tradimento.

«Come può ridere in una situazione simile? Non vede che sono disperato?!»

«Prima di tutto.» cominciò Gilbert, tentando di cancellare quel sorriso insistente, che non voleva saperne di abbandonarlo «Calmati. Non hai recato offesa a nessuno. E non ne parlerò ad anima viva, lo giuro sull’onore dei Nightray.»

A quelle parole tanto sincere e solenni, Caleb parve calmarsi.

«Lo giura sul serio?»

«Te l’ho appena giurato sull’onore del mio casato, che vuoi di più?!»

«Ah! Sì, scusi...»

«Secondo.» proseguì Gilbert, esausto ed al contempo divertito «Posso capire perché ti venga naturale non utilizzare titoli onorifici. In fondo, siamo praticamente coetanei ed in missione insieme e poi… personalmente, è una cosa che odio.»

«Perché non si sente rappresentato da quella famiglia?»

Gilbert guardò in tralice Caleb, che chinò prontamente il capo con fare colpevole. Anziché arrabbiarsi, il Nightray prese un profondo respiro ed inspirò una boccata della sua sigaretta, osservando distrattamente il fumo che saliva lentamente in cielo.

«È così.» ammise, stupendosi egli stesso di questa sua improvvisa sincerità.

Normalmente non si sarebbe sbottonato tanto con un estraneo, ma forse era la stanchezza, oppure la complicità effimera creatasi con quella scenetta ilare di poc’anzi. Il fatto era che, per quanto non volesse ammetterlo, quel giorno Gilbert si sentiva incredibilmente a suo agio con Bauer, nonostante le sue uscite poco consone. Gli ricordava in qualche modo Oz, che non era capace di farsi gli affari suoi e di frenare la lingua.

«Io… non voglio essere scortese, dico davvero.»

Caleb si fissò le mani, intente a torcersi con fare agitato. Gilbert notò allora come queste fossero ben curate ed al contempo martoriate. Le unghie erano infatti rosee, ma molto corte, e in diversi punti spuntavano come papaveri delle macchie rossastre. Il modo che aveva trovato Gilbert per gestire lo stress era il fumo, mentre Caleb sembrava preferire togliersi le pellicine dalle mani, sino a farle sanguinare.

«Il fatto è che so molto di lei e delle persone che la circondano, per questo mi viene naturale fare delle congetture. Però, in questo modo, devo apparirle come un ficcanaso. Le chiedo umilmente perdono.»

«Non è necessario scusarsi tanto. È più che naturale...»

«Spiare gli altri, perché sono un informatore. Lo so, me lo ha già detto. Però questo non mi autorizza ad essere affettato nei miei giudizi. In fondo, non si può mai davvero conoscere una persona, figurarsi poi per sentito dire.»

Gilbert si concesse qualche tempo per assorbire quelle parole e rifletterci sopra. Ciò che diceva quel ragazzo era vero. Terribilmente vero. Osservò il via vai di gente che scorreva senza sosta davanti ai loro occhi: giovani coppiette, famigliole felici, bambini che scorrazzavano in mezzo alla folla rincorrendosi e schivando per un pelo le ceste dei passanti. Così tante vite, eppure così tanti enigmi. Si ritrovò a chiedersi se, lui per primo, non fosse stato affrettato nel giudicare quel giovane, soltanto perché appartenente ad un casato con cui non andava particolarmente d’accordo.

«È normale farsi delle idee sulle persone. Non devi sentirti in colpa: tutti lo fanno.»

Bauer annuì, benché con fare poco convinto. Si morse il labbro inferiore, contrito, per poi tornare a fissare negli occhi Gilbert in modo all’apparenza sereno.

«Mi auguro almeno che si stia un poco divertendo. Non è un granché, ma sempre meglio il mercato di una stanza chiusa, no?»

Gilbert l’osservò con rinnovato stupore. Quindi, Caleb aveva proposto il mercato per far prendere al Nightray una boccata d’aria fresca? Era questo che intendeva?

«, effettivamente, non è poi così male.» ammise pensieroso, mentre spegneva sulla suola della scarpa la propria sigaretta.

«Davvero? Che sollievo!» si lasciò scappare l’altro improvvisamente entusiasta.

«Perché adesso sei così contento?»

«Oh, niente di speciale. È solo che pensavo le avrebbe fatto bene, tutto qua.»

«Sei veramente un tipo strano...» si lasciò scappare Gilbert, pentendosi subito della sua uscita. Temeva infatti di urtare nuovamente la sensibilità dell’altro, ma questi si limitò a sorridere accondiscendente.

«Domando scusa, ha perfettamente ragione. Non devo averle fatto una bella prima impressione, sbadato ed emotivo come sono.»

«E smettila con questo lei. Ti ho detto prima che lo trovo fastidioso. Almeno nelle occasioni informali parliamo normalmente. Piuttosto, da quanto fai l’informatore?»

Caleb parve stupito da quella domanda ed in parte lo era persino Gilbert stesso. Aveva trovato estremamente irritante la risposta data dall’informatore: certo, non si era comportato in modo impeccabile, ma il suo lavoro lo aveva svolto bene. Inoltre, gli sembrava un ragazzo genuinamente gentile e disponibile, un po’ come lo era stato anche lui in passato. Caleb era giovane, probabilmente più di Gilbert. E quest’ultimo sapeva fin troppo bene quanto fosse difficile per un ragazzino entrare in un mondo fatto di segreti ed inganni, di dolore e sacrificio. Essere la spia dei Rainsworth ed al tempo stesso servire il casato Nightray in veste di suo membro effettivo non era facile… e nemmeno essere l’informatore prediletto del duca Barma doveva esserlo.

Forse era stata questa considerazione ad averlo fatto inconsapevolmente avvicinare a Bauer.

«Fin da piccolo, sono stato abituato a questo genere di vita.» cominciò a un tratto Caleb, osservando un punto indistinto dinnanzi a lui «Devi sapere che la mia famiglia vive di questo genere di cose da generazioni. Il primogenito ha da sempre questo ruolo.» nel pronunciare quelle parole abbassò lo sguardo «Ma non è così facile entrare nella parte, per quanto mi impegni.»

Gilbert non riuscì a comprendere quale fosse il sentimento che albergava nell’animo del compagno. Inizialmente pensò alla tristezza, all’amarezza di non essere adatto per il ruolo che gli altri si aspettassero che lui rivestisse. Il rimpianto sembrava una valida alternativa: probabilmente, se avesse potuto scegliere, Caleb avrebbe intrapreso un’altra strada.

Ma non si trattava di nessuna delle due.

Gilbert credeva di conoscere molto bene quella sensazione. Solo dopo che Bauer si fu alzato ed ebbe detto che era ora che rincasassero, si rese però conto di cosa si trattasse.

Caleb si sentiva maledettamente solo.

 

 

Il sole salutò il cielo, che dimostrò il suo dispiacere nel vederlo scomparire tingendosi di caldi rossi e rosa opachi. Fino ad allora Gilbert aveva pensato di trovarsi in un piacevole limbo ma, non appena calò l’oscurità, fu costretto a ricredersi. Persino Caleb, che nel frattempo aveva indossato il suo mantello che gli permetteva di celarsi più facilmente nell’ombra, aveva uno sguardo diverso. Sembrava profondamente concentrato e determinato.

Vagarono per le tetre e desolate vie della città, che fino a poche ore addietro erano state colme di vita e di profumi intensi. Non si udiva più nulla, il borgo sembrava pietrificato per effetto di un incantesimo di un potente mago. L’unico suono che si udiva, oltre a quello dei loro passi e di qualche cane randagio che ululava alla luna, era quello di un lieve battito d’ali.

Piccioni, forse?” pensò Gilbert, nonostante quel rumore fosse diverso da quello che producevano solitamente quelle odiose creature.

Si erano da poco distaccati dal centro cittadino e, tramite l’intricato labirinto delle vie subalterne del quartiere povero, erano giunti al limite della città: la chiesetta sconsacrata che intendevano raggiungere si trovava a diversi minuti di cammino ma, col favore delle tenebre, intendevano noleggiare dei cavalli per raggiungere più celermente il loro obiettivo. In tal modo avrebbero avuto una via di fuga più sicura, nel caso la situazione fosse precipitata.

Ad un tratto, entrambi udirono una voce.

«Cercate qualcosa, ragazzi?»

Si voltarono all’unisono in direzione della fonte di quel suono e, tra i radi riflessi dei lampioni situati nelle vie principali, vi scorsero Lotti, ammantata di tenebre e del suo sorriso più mellifluo.

«Che piacere rivederti, Gilbert Nightray. Non dovresti essere al fianco del tuo padroncino, come ogni bravo cagnolino?» lo stuzzicò, per poi rivolgersi a Caleb «E tu, non ti avevo chiesto cortesemente di smetterla di seguirmi?»

«Oh, volevi che non ti seguissi? Perdonami, devo aver frainteso perché, dai tuoi passi goffi ed impacciati, credevo che mi avessi invitato a fare il contrario.»

Se l’intento di Caleb è quello di far infuriare Lotti.” pensava Gilbert Ci sta riuscendo alla perfezione.”

«Peccato, avrei voluto lasciarti andare indenne, ma pare che prima ti debba insegnare qual è il tuo posto.» accompagnò le sue minacce con un gesto ampio e teatrale del braccio destro, poi invocò il nome del suo Chain.

«Leon, insegna a questo stolto come ci si rivolge ad una signora!»

Sia Caleb che Gilbert riuscirono a schivare per un soffio l’assalto del leone.

«Signora? Perché, tu ne vedi una in giro, Gilbert?» chiese divertito l’informatore.

«Leon, staccagli quanto meno un braccio!»

«La vuoi piantare di provocarla?» fece seccato e preoccupato Gilbert, mentre tentava invano di colpire il Chain con i proiettili della sua pistola.

«Tu, piuttosto, invece di criticare, prova ad abbatterlo! Non sei qui per difendermi?»

«La fai facile tu! Non riesco a prendere la mira: è troppo veloce.» rispose lui, mandando a vuoto un altro colpo.

Era una lotta disperata: per quanto Gilbert si impegnasse, sapeva benissimo che, senza Chain, non potevano fronteggiare la forza delle creature generate dall’Abisso. Raven avrebbe potuto toglierli facilmente d’impiccio, ma il ragazzo era tenuto a freno dal sigillo che bloccava il potere del B-Rabbit: se avesse invocato il Chain, Oz avrebbe sofferto ed il limiter imposto su Alice si sarebbe infranto. Non poteva permettere un’eventualità simile. Potevano dunque limitarsi a schivare gli affondi dell’enorme creatura, consapevoli che non avrebbero resistito ancora a lungo.

«Ora basta, mi sono stufata, Leon smettila di giocare e finiscili!» ordinò infatti la Baskerville, pregustando la fine di quel giochetto che la vedeva già trionfante.

Il Chain, che fino a quel momento si era concentrato su Caleb, non appena notò Gilbert occupato a ricaricare la pistola, cambiò direzione e con un balzo si apprestò a sferrare una zampata all’uomo.

Maledizione, è troppo vicino! Non ce la farò a schivarlo!” riuscì a pensare il Nightray, mentre tentava inutilmente di parare il colpo proteggendosi con le braccia.

Tuttavia, gli artigli del leone non riuscirono a raggiungerlo, poiché qualcuno si era frapposto tra i due. Caleb era corso immediatamente in direzione di Gilbert e, dato che non ebbe il tempo di pensare ad altro, decise di spingere da parte il giovane e, così facendo, si ritrovò sulla traiettoria del Chain.

Il Nightray vide il leone colpire al braccio sinistro il ragazzo, che cadde all’indietro a causa della forza d’urto. Subito Gilbert corse verso di lui, dimenticandosi completamente del Chain.

«Ehi! Stai bene? Ma che diavolo ti è saltato in mente?!»

L’altro si limitò a biascicare poche parole strozzate per il dolore.

«Non... urlare... mi spacchi i timpani...»

Gli occhi di Caleb, dapprima serrati per l’acuta fitta all’arto, si puntarono su quelli del Chain, che li osservava, pronto a dargli il colpo di grazia. Stava giusto apprestandosi a lanciarsi sui due, quando la ragazza parlò.

«Leon, basta così.» disse, lasciando di stucco gli astanti «Non mi diverto più.»

Puntò le iridi rosa su Caleb e Gilbert, per poi voltarsi e sparire, inghiottita dalle tenebre. Mentre si allontanava, pensò che anche lei si sarebbe fatta volentieri uccidere, pur di proteggere Glen Baskerville. Ripensò anche a ciò che aveva assistito cento anni fa, proprio a causa di un gesto disperato d’amore… eppure, nonostante questo, non riusciva ad uccidere a sangue freddo due persone indifese che si facevano scudo disperatamente l’un l’altra. Non voleva mai più macchiarsi le mani di rosso innocente.

«Quanto sono stupida!» mormorò tra i denti.

 

 

MEANDRO DELL’AUTRICE:



It’s been a long day, without you my friend...

Coff, coff, scusatemi, ma questa citazione ci stava troppo, visto il lungo tempo trascorso. XD

Come state, fan di Pandora Hearts? È da un secolo che non mi aggiro più tra i vostri lidi: che malinconia!

Dopo ben 12 anni dalla sua prima pubblicazione, vi ripropongo la mia long, ovviamente rivisitata e corretta. Alcuni elementi rimarranno invariati, ma troverete notevoli differenze. Intanto, i capitoli saranno decisamente più ricchi (ora che ho 30 anni, il mio stile si è drasticamente evoluto), la trama risulterà inoltre molto più complessa ed articolata e, per non farci mancare nulla, avremo anche dei nuovi OC.

Che bello tornare a scrivere… e tanto! Mamma mia, ho scritto il doppio, se non triplo rispetto al passato! È incredibile quanti dettagli si possono aggiungere, quando ci si rende conto di voler narrare i fatti in maniera più dettagliata: vestiti, sentimenti, luoghi. Troppe cose! xD

Ma soprattutto: i nomi. Chi è fan della serie dai suoi esordi (o quantomeno, se la ricorda vagamente, dato che parliamo di un secolo xD) saprà che inizialmente il nostro informatore misterioso aveva un altro nome: Mark. E basta. Niente cognome, non ne era degno.

No, scherzo, non ero tanto tonta, semplicemente avevo ragionato sul fatto che, essendo un ragazzo che deve muoversi nell’ombra, meno rivelava di sé e meglio era. A questo giro, però, ho voluto cambiare le carte in tavola. Anche perché un cognome, seppur fittizio, può tornare utile in più occasioni.

Anzitutto via Mark (un nome che mi piaceva, ma scelto assolutamente a caso) e diamo il benvenuto a Caleb. Di origine ebraica, che può significare sia “cane” con connotazione positiva (ovvero “fedele come un cane”) oppure più cattiva (“furioso come un cane”). Questa dualità del nome mi piaceva assai. Per il cognome, Bauer, mi sono rifatta ai cognomi tipici germanici, in particolare austriaci. Essendo la famiglia Barma straniera (ed avendo scelto di ambientare le vicende in Inghilterra), ho deciso che la sua terra d’origine fosse l’Austria. So che, teoricamente, la maestra Jun aveva scelto un luogo più orientale, ma il suono Barma mi ha sempre dato vibes tedesche. Perciò, così è.

Intanto vi ringrazio per aver letto fin qui, lasciate una recensione se vi va, così che possa capire se ho vaneggiato per anni o se, invece, qualcosa di buono ne ho cavato fuori, alla fin fine. xD

Infine, che siate miei vecchi fan o nuovi lettori, vi dò il benvenuto in questa nuovissima avventura: spero che possiate divertirvi ed emozionarvi, almeno la metà di quanto io mi sia divertita nel scriverla!

Ci vediamo dunque il prossimo sabato, per la pubblicazione del capitolo 2: Revelation - Il medico Clandestino: Cassidy - !

Have fun,



Moni =)



PS: Ho tentato di mantenere la temporalità ed i luoghi canonici della saga, ma naturalmente per esigenze narrative e per approfondire alcuni eventi e/o personaggi non mi è stato possibile. Questo perché, inevitabilmente, ad ogni cambiamento corrispondeva la stessa, intrigante, domanda che, sin dal principio, mi ha spinto a scrivere. Ovvero: E se… ?

PSS: Si ringrazia sentitamente Aetheria_Nyx per le interminabili lezioni e revisioni dei titoli nobiliari e non solo! Senza di lei, non ne avrei azzeccata mezza e questa storia non avrebbe la complessità (e la correttezza grammaticale xD) che invece le spetta.

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Capitolo 3
*** RETRACE: II Revelation - IL MEDICO CLANDESTINO: CASSIDY - ***


RETRACE: II Revelation

- Il medico clandestino: Cassidy -



Gilbert stava attendendo, poggiato ad una sedia particolarmente scomoda, da più di un’ora e, poiché non poteva scaricare la tensione fumando, continuava a battere ritmicamente il piede a terra con fare via via sempre più sconnesso ed alterato. Ancora non riusciva a capacitarsi di tutti gli avvenimenti che, impetuosamente, si erano susseguiti come un’irrefrenabile inondazione, che non aveva lasciato scampo ad alcuno.

Dopo che Lotti si era ritirata inspiegabilmente, il ragazzo non aveva perso ulteriore tempo e si era caricato Caleb sulle braccia, deciso a portarlo all’ospedale più vicino. Benché il ragazzo perdesse sangue copiosamente e la ferita fosse parecchio profonda, questi si era rifiutato categoricamente di farsi portare di peso dal compagno. Inizialmente Gilbert aveva combattuto con veemenza tale presa di posizione, considerandola priva di senso, ma poi era stato costretto ad accontentarlo. Non c’era tempo da perdere in discussioni inutili. Tuttavia, non appena aveva posato Caleb a terra per fargli compiere i primi, traballanti passi, questi era caduto rovinosamente sulle proprie ginocchia. A quel punto Caleb non aveva più opposto resistenza, sebbene non certo perché si fosse ricreduto. Aveva infatti continuato a brontolare per tutto il tragitto ma, quantomeno non aveva più avuto forza a sufficienza per divincolarsi. Gilbert la considerò una piccola vittoria.

Mentre rimembrava ciò, la porta si aprì, ricacciando furiosamente Raven alla realtà attuale. Il medico comparve, osservando il giovane con aria greve.

«Ha perso parecchio sangue, ma fortunatamente non è in pericolo di vita. Ora, però, ha assoluto bisogno di riposo. Credi di riuscire a tenerlo fermo almeno fino a domattina?»

«Farò del mio meglio.»

«Bene, perché io ho intenzione di dormire stanotte. Ma prima un’altra cosa: che diamine ha combinato stavolta?»

Era vero che Gilbert aveva portato Caleb in un ospedale, ma non si era recato in quello della città. Non si era nemmeno rivolto a Pandora o in una delle sue sedi succursali, poiché Caleb, oltre alle varie imprecazioni mormorate per il dolore, aveva pregato il Nightray di portarlo da un medico suo amico, che si occupava sempre di lui e che, soprattutto, sapeva tenere la bocca chiusa.

Non era stato semplice persuaderlo, ma la forza del panico e dell’urgenza avevano avuto nuovamente la meglio su Gilbert che, esasperato, era corso nella direzione indicatagli da Caleb. Per loro fortuna non avevano ancora lasciato la città, per cui il posto era vicino.

Nel giro di pochi minuti, Gilbert si era infatti ritrovato dinnanzi all’edificio menzionato dal compagno. Ciò che sorprese il Nightray, una volta fermatosi per riprendere fiato a seguito della lunga corsa, fu l’aspetto diroccato del cosiddetto ”ospedale”. Il complesso, che probabilmente un tempo era stato adibito alla cura dei malati o a qualche organizzazione caritatevole, appariva vecchio e pericolante. Alcune finestre erano rotte, altre sistemate alla bell’e meglio, con alcune travi che impedivano al grosso delle intemperie di accedervi, mentre una folta edera ricopriva quasi per intero metà della facciata principale. Il tetto, quanto meno, sembrava in buone condizioni, ma nell’insieme quel luogo metteva i brividi e non dava certo l’impressione di essere adatto ad accogliere alcunché, specialmente dei malati o feriti.

Il ragazzo si era convinto di aver sbagliato indirizzo, ma Caleb aveva scosso la testa con decisione, impedendogli di allontanarsi con una stretta della mano: il posto era giusto.

Una volta entrati e dopo aver superato il primo, lugubre quanto fatiscente corridoio, Gilbert si era ritrovato nuovamente ad occhi spalancati per lo stupore: dopo aver bussato ad una porta indicatagli da Caleb, battendo prima tre volte con il piede e, dopo una breve pausa, altre cinque volte, il famigerato medico era apparso sulla soglia. Si trattava di una bellissima fanciulla con fili d’oro per capelli, scompigliati eppure lucenti, con penetranti occhi grigio-azzurri. Il viso era caratterizzato da lineamenti fini, marcati da degli zigomi pronunciati e da una pelle rosea. Alcune lentiggini le coprivano il naso e le guance, rendendola diversa dalle donne cui Gilbert era solito frequentare, fissate con la perfezione della loro pelle, che doveva essere il più candida e priva di imperfezioni possibile. Non portava infatti nemmeno un filo di trucco o cipria, mentre gli abiti erano di taglio maschile, stropicciati e rattoppati in vari punti. Nonostante queste contraddizioni la ragazza, che non doveva avere più di vent’anni, ricordava una delle principesse che si incontravano nei libri di favole. Tale visione si frantumò in mille pezzi nell’esatto istante in cui ella proferì parola.

«CHE DIAVOLO È SUCCESSO?! Perché sei ricoperta di sangue e tu chi diavolo sei?!»

La meravigliosa ragazza si era presto tramutata in Medusa, pietrificando sul posto Gilbert, che non aveva la benché minima idea di come rispondere. Voleva evitare ad ogni costo di sentirla ancora urlare, ma temeva che qualunque cosa avesse detto avrebbe unicamente aizzato nuovamente le ire della gorgone. Questa, infatti, non si era minimamente preoccupata di presentarsi o di preannunciare in qualche modo il suo scoppio d’ira, nonostante si trovasse difronte ad un ferito. Caleb fu ben lieto di farglielo notare, sebbene con voce flebile.

«Smettila di sbraitare, Cassidy, e aiutami piuttosto…»

«Tu dovresti solo tacere! Arrivi qui in fin di vita e io dovrei ricucirti senza fare domande! Ma per chi diamine mi hai presa, per la tua serva?!» sembrava che la sua voce non ne volesse saperne di abbassarsi, ma non appena notò che Caleb faticava a ribattere, si decise a curarlo. Sospirò, mugugnando un’imprecazione che Gilbert non aveva mai udito nemmeno nei peggiori quartieri malfamati, e con un gesto brusco fece loro strada.

Il corridoio che si dipanò dinnanzi al Nightray fu totalmente diverso rispetto al resto dell’edificio: la pavimentazione era nuova e pulita, con piastrelle rettangolari in legno di faggio, disposte a lisca di pesce, mentre le pareti erano scure, in pietra dura e levigata. La scarsa illuminazione proveniva da alcuni candelabri appesi lungo l’ampio corridoio. Lungo i lati si scorgevano diversi posti letto, con lenzuola pulite e ben stirate, ed alcune porte che conducevano probabilmente ad alloggi privati. Cassidy spalancò una di queste e fece cenno a Gilbert di entrare per primo. La stanza seguiva lo stesso motivo del corridoio, ma conteneva soltanto un posto letto e sembrava adibita più ad essere un ambulatorio. Sul lato destro, difatti, vi era un tavolo con alcune strumentazioni mediche, fogli e libri di anatomia; una bilancia era posizionata sulla parete opposta a quella d’ingresso, ove troneggiava un’ampia finestra integra, a differenza di quelle che si trovavano sulla facciata d’ingresso.

Una volta adagiato Caleb sul letto, Cassidy afferrò per un braccio Gilbert e, dopo averlo malamente spinto fuori dalla stanza, gli sbatté con eleganza la porta in faccia. Egli, com’è naturale, protestò furiosamente per qualche minuto, fino a quando la porta si aprì e, con suo enorme rammarico, Medusa ricomparve, più feroce che mai.

«Non. Urlare. Sei in un ospedale, animale.» pronunciò tali parole con tono calmo e freddo, scandendole una ad una.

L’effetto che produsse fu persino più terrificante del precedente, poiché ora la sua ira era glaciale, più letale rispetto alla furia vulcanica che aveva travolto Gilbert appena giunto. Perciò, il Nightray si limitò a scusarsi sentitamente per il suo comportamento e, rimasto solo, poté unicamente accomodarsi in una delle seggiole disposte fuori. Come ogni degno edificio dedito alla cura dei malati, campeggiava sulla parete un cartello, posizionato strategicamente vicino al moro, che avvisava i gentili pazienti e visitatori a non fumare. Pena, la morte.

Fu così che Gilbert si ritrovò, suo malgrado, bloccato su di una seggiola, impossibilitato persino a scaricare la sua tensione con una salutare e genuina sigaretta. Siccome la sua unica occupazione poteva consistere nel vagare con lo sguardo lungo il corridoio, notò nelle tenebre alcuni occhi che lo fissavano. Fu attraversato da un fremito di timore e, posta istintivamente la mano alla pistola, fu sul punto di estrarla. Si rese però presto conto che, lentamente, gli occhi tornarono a chiudersi, sparendo nel buio del corridoio. Realizzò allora che, probabilmente, si trattava di altri pazienti ricoverati. Ciononostante, non poter scorgere con chiarezza chi si celasse nell’oscurità che avvolgeva quel luogo lo inquietava, portandolo così a chiedersi se, in fondo, non fosse finito direttamente dalla padella nella brace. Quando stava ormai per cedere al desiderio di accendersi una sigaretta, dalla stanza alla sua sinistra riemerse Cassidy, questa volta più calma e propensa al dialogo. Un dialogo che lo aveva però posto in una scomoda posizione, quella di dover spiegare cosa era accaduto senza tuttavia poterlo fare liberamente. Quanto poteva raccontare della loro missione a quella sconosciuta?

«Ehm, ecco noi...» tentò di rispondere Gilbert, senza essere troppo sicuro di cosa potesse effettivamente rivelare.

«Gilbert, non sei tenuto a dirle niente!» urlò dall’interno Caleb, venendo così in suo soccorso.

«Tu chiudi la fogna... E RIPOSA!» sbraitò Cassidy, voltandosi verso la porta, con un’intensità tale da poterla incenerire.

«Ma non ho sonnooo!» brontolò l’altro, parlando volutamente come un bambino.

«Beh, fattelo venire o ci penso io! Con un martello, però!»

Gilbert tremò, immaginandosi la scena. Non credeva che un medico potesse arrivare a tanto per premurarsi che un suo paziente dormisse il dovuto. Si guardò bene dal proferire alcun commento a riguardo: quella ragazza, per quanto bassina e all’apparenza innocua, avrebbe fatto impallidire persino un esercito di Chain.

«Sei la solita violenta.» protestò ancora Caleb.

«E tu il solito incosciente!» ribatté Cassidy, per poi bloccarsi, come ferita da una lama invisibile «Perché non mi racconti mai niente?»

L’ultima frase fu appena sussurrata e persino Gilbert riuscì a stento ad udirla. Poi, con uno scatto della testa, la ragazza tornò a fissarlo dritto negli occhi.

«Devo parlarti un attimo, vieni con me.»

«Ehi, Cass! Non ucciderlo, per favore!»

«Vedremo!» replicò acida la bionda, mentre trascinava Gilbert in una stanza poco distante «Qui staremo tranquilli. Quello là ha due antenne al posto delle orecchie.»

Prese posto su di una poltroncina, collocata al di là di un grosso tavolo in mogano, facendo cenno al suo ospite di accomodarsi di fronte a lei. Gilbert rimase attonito nell’osservare l’enorme mole di libri che ricopriva la stanza. Erano ovunque: lungo l’ampia libreria a parete alle spalle di Cassidy, sui due tavoli, di cui uno posto al centro e che, teoricamente, avrebbe dovuto fungere da zona per il tè. Il luogo più martoriato era senz’altro il pavimento, ove i tomi formavano pile voluminose e pericolanti. Il ragazzo temette, a ragione, che qualcuno potesse finirci intrappolato, bloccato da una valanga di sapere medico ed alchemico, a quanto poteva leggere dai dorsi e dalle copertine in bella vista.

«Tranquillo, sono cadute solo un paio di volte. E c’era sempre qualcuno a tirarmi fuori… entro le ventiquattr’ore.» lo informò Cassidy, quasi leggendogli nel pensiero «Piuttosto, vedi di tenerlo a riposo. Sia questa notte, che per tutta la giornata di domani. Sono riuscita a bloccare l’emorragia, ma per scongiurare una possibile infezione devo agire con l’alchimia o la magia. Ed io sono troppo debole, al momento, per svolgere una di esse a dovere. Almeno, con metodi non troppo dolorosi per il paziente. Non sembra, ma è un gran piagnone, quello.»

«Con l’alchimia? Magia?»

«Sì. Io sono un medico alchimista. Per questo lavoro qui, lontano da sguardi indiscreti.» sorrise amaramente, chinando appena il capo «La Royal Society non vede di buon occhio né la magia né l’alchimia, figuriamoci il loro uso combinato con le pratiche mediche. Specialmente se ad utilizzarle è una donna.» levò il capo con orgoglio, spostandosi una ciocca ribelle dal volto «Credo che cento anni fa mi avrebbero messa al rogo, se l’avessero saputo. Sempre che prima non li avessi maledetti, ovviamente.»

A quelle parole Gilbert sbiancò. Conosceva qualche pratica di magia elementare, a livello teorico, ma era totalmente negato. Soltanto Break sembrava capace di produrre cerchi magici in tutta Pandora, ed anche per questo era guardato con rispetto ed al contempo timore. La magia non era parte di questo mondo, non più almeno, dal giorno della Tragedia di Sablier.

«So cosa pensi.» lo interruppe lei dal filo dei suoi pensieri, facendosi nuovamente seria «Non è una cosa che si vede tutti i giorni… ma io sono nata così. La magia è qualcosa che viene concessa alla nascita e la si eredita per diritto di sangue. O la si ha, oppure non la si ha. Ma non è soltanto questo, per poterla affidare alle nuove generazioni, bisogna anche esercitarla costantemente durante la propria vita. Altrimenti, la fiamma donataci alla nascita, lentamente, si spegne. Per questo oggigiorno è così rara da trovarsi. Mentre l’alchimia è tutt’altro affare: se uno si impegna a dovere nello studio, è pressoché alla portata di chiunque. Seppur, naturalmente, resti una pratica assai pericolosa.»

«Perché mi racconti tutto questo?» chiese Gilbert sospetto «Non dovresti tenerlo segreto?»

La ragazza lo fissò sconcertata per qualche istante poi, lentamente, cominciò a ridere. Dapprima in modo appena percettibile ed infine via via sempre più acuta e sguaiatamente. Si asciugò una lacrima, battendosi una mano sulla coscia.

«Cavoli, ma quanto sai essere dannatamente austero? Dio, chissà che ci vede in te...»

«Scusami?»

«Prima sembravi un cagnolino indifeso e spaurito, ora invece ti fai tutto cupo e guardingo. Rilassati ragazzo, altrimenti ti verranno i capelli bianchi prima del tempo.»

«Sentimi, tu!» gridò spazientito Gilbert «Non so chi ti credi di essere, ma io… !»

«So benissimo chi sei, Gilbert Nightray. O meglio, data la tua estrazione sociale, dovrei chiamarti Lord Nightray.» lo zittì subito lei, con sguardo truce «Io detesto profondamente voi nobili, specialmente quelli di alto rango come te. Avete le mani in pasta con forze più grandi di voi e vi divertite a governare il Paese, quasi fosse un gioco. Ma, tranquillo, so altrettanto bene che i figli dei duchi preferiscono vivere nella bambagia, infischiandosene di tutto e tutti. Dopotutto, perché preoccuparsi della plebe, quando uno ha già i suoi problemi?»

Ci fu un lungo silenzio, nel quale entrambi si guardarono con disprezzo. Gilbert non sopportava il peso di quelle parole che, in parte, corrispondevano al vero. Lui per primo, infatti, si era sempre e solo preoccupato del suo padroncino Oz, senza curarsi minimamente dei suoi obblighi in quanto nobile. Mentre il resto delle accuse erano, tutto sommato, infondate. Poteva ben capire perché Cassidy fosse costretta ad operare nell’ombra e comprendeva anche che la sua scelta era legata alla volontà di stare vicino alle persone che, in condizioni normali, non potevano permettersi alcuna cura. Tuttavia, sapeva anche che esistevano persone diverse: il duca Vessalius, ad esempio, era sempre impegnato in opere benefiche a favore degli orfani e spesso le sue scorribande nel centro cittadino erano volte ad informare la popolazione locale sulle nuove possibilità offerte alle classi meno agiate. La duchessa Cheryl si adoperava a favore dei più bisognosi, partecipando attivamente alle serate filantropiche organizzate dall’alta società e persino il duca Nightray si interessava delle condizioni di Sablier, recandovisi spesso in visita. Non c’era solo del marcio tra la nobiltà di Reveille.

«Non tutti i nobili sono così.» si limitò a dire, non volendo discutere oltre con una persona tanto fiera e convinta delle sue posizioni.

A nessuno dei due avrebbe giovato e, comunque, non gli importava. Voleva soltanto assicurarsi che Caleb stesse bene e cercare di portare, al suo rientro a Villa Rainsworth, più informazioni possibili sui Baskerville.

«Senti.» sospirò stanca Cassidy, mostrando finalmente tutta la sua preoccupazione «Io vivo qui da parecchio tempo ormai, e cerco di fare tutto il possibile da sola. E quando vedo damerini come te, mi partono i cinque minuti… ma so che non sei come credo. Caleb me lo ripete sempre.»

«Caleb?»

Lei annuì, lasciando finalmente andare la sua postura rigida e concedendosi di sprofondare un poco nella seduta. I capelli, risistemati alla bell’e meglio con una coda di cavallo alta, stavano tornando scompigliati. Evidentemente, Cassidy dormiva in quel luogo, già vestita e pronta a soccorrere chiunque a qualunque orario. Non doveva essere una vita semplice, la sua.

«Quello non fa che ripetermi quanto tu sia una brava persona e che, visto quanto tengo a fatica in piedi questo posto, tu possa essermi di aiuto. Non sarebbe male avere un altro casato dalla mia parte, sia a livello di finanziamenti che di prestigio per la mia posizione attualmente clandestina. Quindi, teoricamente, dovrei tenderti una mano e fare la graziosa. Ma, sinceramente, non mi va. Perché ti ho raccontato della magia? Perché questo per me è un vanto e un onore. Con le mie capacità posso aiutare molte persone, che altrimenti sarebbero dimenticate. Certo, non sono tutti stinchi di santo, ma non l’ho inventato io il giuramento di Ippocrate. E, a differenza di certi grandi luminari di città, io salvo chiunque, indipendentemente dal portafogli. Detto questo, posso affidarti Caleb?»

«Non so se è il caso. In fondo, io sono solo un damerino. Per di più, non sono nemmeno suo amico.»

«Questo lo so bene.» rispose Cassidy, guardandolo con astio rinnovato, che celere lasciò spazio alla rassegnazione «Ma… lui darebbe più retta a te che a me. Ti ammira moltissimo.»

Le ultime parole furono pronunciate con sofferenza, come se non volesse giungere a tale conclusione, sebbene fosse inevitabile. Gilbert appariva confuso, frastornato da quella nuova rivelazione che, istintivamente, prese per beffa.

«Mi stai prendendo in giro. Ci conosciamo a stento, come può ammirarmi? E, anche se fosse, per quale motivo dovrebbe?»

«Ascolta.» Cassidy chiuse gli occhi, inspirando profondamente, quasi stesse combattendo con se stessa per non far trapelare nuovamente un fiume di parole «Non posso scendere nel dettaglio, ma avrai notato che quel ragazzo conosce un sacco di cose che ti riguardano, no? Beh, pure io. Perché non fa altro che parlare di te.» puntò i suoi fieri occhi in quelli dorati del Nightray, per fargli concretizzare la serietà di quella rivelazione «Ogni. Giorno. Costantemente. Sei il suo punto di riferimento.»

«Ma… perché io?»

«E io che diavolo ne so?!» sbottò la ragazza, alzando le braccia al cielo con fare teatrale «Un bel giorno ti ha visto e si è impuntato a scoprire chi fossi. Da allora non fa che usarti come modello: “Se lo fa Gilbert, perché io no? Se lui riesce a sopportarlo, posso sopportarlo anch’io.”» lo fissava con irritazione e collera, come se fosse colpa sua se il suo amico ora stesse male «Lui… è uno che, anche quando dà il massimo, crede di non fare ancora abbastanza. Oltrepassa il limite di continuo. Si consuma, ossessionato dall’idea di non voler deludere le aspettative altrui e, per qualche assurda ragione che a me sfugge, in te trova forza ed ispirazione. Perciò… ti prego.» calcò la voce su quelle ultime parole, infondendogli tutta la deferenza di cui era capace «Convincilo a riposarsi e a guarire.»

Gilbert, a quel punto, non poté far altro che annuire.

«Grazie.» sospirò esausta Cassidy, facendogli cenno con la mano di andarsene «Ti porterò una coperta, ora va da lui e tranquillizza quell’idiota del mio amico.»

Non sapendo bene che dire, il Nightray si alzò e si diresse verso la stanza di Caleb. La sua mente era confusa da quel guazzabuglio di pensieri ed fatti che gli si erano palesati a raffica. Voleva soltanto dormire, perciò quando trovò Caleb supino sul letto, ad osservarlo con una faccia a metà tra il divertito e l’annoiato, non ebbe nemmeno la forza per infastidirsi.

«Beh, che hai da guardare? Ho qualcosa sulla faccia?»

Gilbert scosse il capo e si sedette accanto a lui, prendendo in prestito una delle sedute poste sul lato destro della stanza.

«Tu non sei normale. Prima rischi la vita come un incosciente e poi te la ridi.»

«Non ho rischiato la mia vita per nulla: ho evitato che fossi tu quello che si sarebbe ritrovato con uno squarcio sul braccio.»

«È proprio questo il punto, invece! Perché diavolo lo hai fatto?!» sbottò Gilbert.

Sapeva di dover mantenere un tono calmo e rassicurante: Caleb era ferito e quella gorgone della sua amica lo aveva minacciato ed al contempo pregato di tenerlo a riposo. Tuttavia, le ultime ore erano state decisamente gravose per i suoi nervi e, come se non bastasse, avvertiva il peso del suo fallimento. Reim gli aveva affidato la vita di quel ragazzo e lui aveva permesso che venisse ferito. Si sentiva inutile, in colpa, gli sembrava di rivivere la notte in cui aveva perduto Oz, dieci anni addietro. Una ferita che non avrebbe mai smesso di sanguinare, per quanto ora il suo padrone fosse di nuovo con lui, al sicuro.

Alcune cose non si potevano perdonare, pensava, specialmente a se stessi.

Caleb tentò di mettersi seduto, col risultato di gemere per il dolore e crollare rovinosamente sul letto. Gilbert, udendolo, aveva tentato di aiutarlo, ma questi aveva scosso il capo.

«Ma che combini?!» domandò esasperato il Nightray.

«Scusami...»

«Non fa nulla, ma che diamine, chiedimi aiuto se vuoi stare seduto!»

«No, non per quello… scusami per averti fatto preoccupare.»

Caleb si morsicò il labbro, osservandosi il braccio con fare addolorato.

«Non avrei dovuto proporti quel piano. È stato stupido e, per colpa mia, adesso hai addosso quell’espressione...»

«Che espressione?»

«Quella di qualcuno che vorrebbe piangere da tanto si fa pena, ecco quale!» gridò il ragazzo, asciugandosi due copiose lacrime che gli rigarono il volto d’improvviso «Io volevo darti una mano, esserti utile, e invece… sono solo una stupida!»

«Ehi, ehi, calmati!»

Gilbert non ci capiva più niente. Né il perché di quell’urlo, di quelle strane parole e tantomeno delle lacrime che continuavano a scendere lungo le gote del giovane informatore. Sembrava scosso da un dolore profondo, che però il nobile non comprendeva. Poi rievocò alla mente le parole di Cassidy.

Ricordò allora ogni piccolo gesto che Caleb aveva avuto nei suoi riguardi: la notte trascorsa in biblioteca per trovare anche il minimo indizio, la proposta di uscire al mercato per non farlo restare chiuso in casa, crogiolandosi sui dettagli della missione, il modo in cui si era esposto per lui durante la lotta. Caleb aveva fatto tantissimo per lui, anche se non si conoscevano. Eppure, Caleb lo ammirava a tal punto da volergli essere d’aiuto. Era una cosa strana, che lo lusingava e al tempo stesso lo metteva a disagio. Gilbert non credeva di poter essere il modello di nessuno. Non aveva nulla da donare agli altri, a parte la sua dedizione e la sua vita per le persone che amava e rispettava… e, certe volte, persino quello gli appariva come insignificante.

Rimase a lungo in silenzio, non sapendo cosa fare per fermare quelle lacrime e quel dolore sordo che ben conosceva.

«Tu… non sei uno stupido.»

Caleb continuò a tenere il volto nascosto dietro la manica del braccio destro, nel vano tentativo di calmarsi e tenere a freno le sue emozioni, ma trattenne il fiato a quelle parole. Gilbert non aveva idea di cosa dire, perciò lasciò semplicemente che fosse il suo istinto a guidarlo.

«Sei un ottimo informatore: attento ai dettagli, scrupoloso ed anche parecchio avventato, lo ammetto. Ma mi sei stato di grande aiuto, davvero.» gli concesse uno dei suoi rari sorrisi, per mostrargli appieno la sua gratitudine «Se il tuo piano ha funzionato, avremo preziose informazioni riguardo i Baskerville. E, se così non fosse… beh, almeno ci avremo provato. Questo mi fa sentire decisamente meglio, che starmene fermo con le mani in mano.»

«Non...» biascicò Caleb, inspirando a fatica col naso tappato per la vergogna ed il muco «Non ho fatto poi granché.»

«Hai fatto moltissimo, invece. Solo...» lo ammonì serio Gilbert, scansandogli il braccio dal viso perché lo guardasse dritto negli occhi «Cerca di essere meno avventato. Ci sono persone che ti vogliono bene e si preoccupano per te. Comportarti da incosciente è veramente irrispettoso nei loro riguardi.»

Caleb annuì, per poi abbassare lo sguardo, pentito.

«… scusa, hai ragione… mi passeresti un fazzoletto e un po’ d’acqua? Devo avere un aspetto schifoso.»

Gilbert sospirò, alzandosi in piedi alla ricerca di quanto il ragazzo gli aveva appena richiesto.

«Certo che tu sei fissato con l’apparire. Sei un vero narcisista.»

«Non è vero, non sono narcisista! Lo so benissimo di non essere questa gran cosa, però… ecco!»

«Però cosa?»

Caleb arrossì fino alla punta dei capelli, poi scosse il capo.

«NIENTE! Lascia perdere! Tanto non capiresti!»

Gilbert fece spallucce, rassegnato a non comprendere quegli strani sbalzi d’umore del ragazzo. Stava giusto porgendo un fazzoletto al ferito, quando si ricordò del motivo per cui si trovava lì. Non appena vide il giovane, ora finalmente ricomposto, asciugarsi gli occhi con la mano sana, la realtà gli ripiombò addosso come una cascata d’acqua gelida.

«Ah, Cassidy!» si lasciò sfuggire di bocca, con fare ansioso.

«Cosa? Dove? Dove?!» chiese preoccupato di rimando Caleb.

«No, non è qui, tranquillo. Intendevo dire che Cassidy mi aveva chiesto di assicurarmi che tu dormissi.»

Il ragazzo fece una smorfia.

«Bleah, non ne ho voglia.»

«Ah, no?» fece Gilbert «In tal caso è meglio che dica al dottor Cassidy che il paziente si rifiuta di ubbidire agli ordini categorici del suo medico.»

«Non oseresti...» il tono voleva sembrare minaccioso, ma suonò piuttosto come una supplica.

Gilbert nascose il viso ridente abbassandosi la falda del cappello e, con movimenti volutamente lenti, si apprestò a dirigersi verso la porta.

«Se lo dici tu...» si lasciò sfuggire con aria cupa.

L’effetto fu immediato.

«No, no, no!» strillò disperato Caleb, afferrandolo per la manica con il braccio destro «Se quella torna mi farà sì dormire, ma in eterno! Ho capito, hai vinto tu, maledetto! Ora dormo… uffa, però! Questo è accanimento terapeutico!»



 

La carrozza si stava dirigendo a passo lento, ma deciso, verso Villa Rainsworth. Mancava poco al loro arrivo e sia Caleb che Gilbert non vedevano l’ora di posare nuovamente i piedi in quella tranquilla dimora.

«Come va il braccio?» chiese premuroso il Nightray.

Dopo tutto quello che era successo, cominciava a nutrire parecchia simpatia per quel ragazzino dagli occhi celesti. Non era stata una cosa voluta e, in parte, ne aveva timore: non era certo un periodo felice per fare nuove amicizie, specialmente con persone sospette e dal passato oscuro come Caleb, ma se aveva rischiato la vita per lui, il minimo che Gilbert potesse fare era mostrargli un briciolo di riconoscenza.

In verità, vi era anche una seconda ragione, più profonda e difficile da spiegare.

C’era qualcosa in quel giovane, nei suoi modi di fare sinceri e gentili, che avevano come stregato il Nightray, facendo nascere nel suo cuore diffidente un sentimento di fiducia e benevolenza. Era simile a ciò che istillava la vista di Jack Vessalius, benché differente. Se Jack era acqua placida, cristallina e inamovibile, che ti catturava con un solo sguardo, Caleb era un bagliore delicato, quasi timido, che però riusciva piano piano ad espandersi, conquistarti col suo calore garbato. Era come una magia e, dopo ciò a cui Gilbert aveva assistito quella mattina, poteva ben dirlo.

Cassidy si era presentata puntuale alle otto del mattino, per la visita al paziente. Gilbert, non sapendo dove stare e volendo assicurarsi che Caleb riposasse sereno, alla fine si era addormento sullo scomodo schienale in legno a fianco del malato. La ragazza era stata di parola, in quanto al suo risveglio si era ritrovato con una coperta addosso, oltre ad un terribile torcicollo. Non ebbe tuttavia di che lamentarsi, dato che non sarebbe mai riuscito a chiudere occhio altrove, con la consapevolezza che al di là della porta si celavano mille occhi, ben aperti e vigili.

In verità, come scoprì con l’arrivo dell’alba, si trattava di appena sei pazienti, per la maggior parte anziani, che nulla avrebbero potuto fargli, date le loro precarie condizioni. Gilbert notò infatti una gamba rotta, due anziane allettate ed un bisbetico omaccione con una tosse persistente e rauca che lo avrebbero udito a chilometri di distanza. Si era domandato anzi come avesse fatto a dormire, con quel trambusto incessante.

Nonostante non avesse fatto nulla di male e, anzi, avesse diligentemente ubbidito alla richiesta di Cassidy, questa lo aveva immediatamente redarguito.

«Perché diavolo non hai preso un letto, scusa?»

Il nobile cominciava seriamente a detestare i suoi modi di fare secchi e diretti.

«Nessuno me lo aveva detto.»

«Beh, mi perdoni Sua Altezza, non sapevo fossi al pari dei cani, a cui bisogna dire tutto altrimenti restano lì a fissare il vuoto come ebeti.»

«La smettete tutti di darmi del cane?!»

La discussione sarebbe proseguita per ore, se non fosse intervenuto Caleb a placare gli animi. Dopo una breve visita, Cassidy mostrò finalmente le sue vere abilità: disegnò sul braccio di Caleb delle linee immaginarie e, pronunciando parole arcane, un tenue bagliore indaco cominciò a dipanarsi dalle sue mani e lungo il braccio del ragazzo. I segni tracciati a mano apparvero allora vividi come tatuaggi, mentre un piacevole calore si diffondeva per la stanza. Mano a mano che l’incantesimo proseguiva, l’intero corpo del giovane venne rivestito da quei simboli. Il processo durò circa un’ora e, al termine, il chiarore si spense gradualmente, fino a quando ogni cosa tornò alla normalità.

L’unica differenza che si poteva notare era il sudore che ricopriva la fronte di Cassidy e l’evidente sollievo che invece aleggiava su quello di Caleb.

«Bene, ora non c’è più rischio di infezione. Ma devi comunque ricordarti di cambiare le fasciature due volte al giorno e disinfettare con cura. E devi riposarti.»

L’ultimo monito venne sottolineato con un’occhiataccia, che l’informatore tentò di evitare, con scarso successo. Suo malgrado annuì, mentre l’amica si occupava di sostituire le bende sporche di sangue.

Gilbert non si capacitava ancora di aver assistito a quel prodigio. Non credeva che fosse possibile guarire a quel modo ma, se al mondo esistevano creature immortali come i Baskerville, che potevano entrare in contatto con una dimensione senza tempo né luogo come l’Abisso, allora la magia non appariva più così inspiegabile.

«Sto bene, te l’ho detto. Cassidy sarà pure giovane e seccante, ma è il miglior medico in circolazione.» disse Caleb in risposta alla domanda del Nightray.

«Parli come se la conoscessi da molto.» replicò l’altro, sinceramente incuriosito dal legame che univa due persone tanto diverse nei modi come nella vita che si erano scelti.

Caleb annuì, mentre si toccava con gentilezza il braccio sinistro, come se volesse donare quel gesto d’affetto alla persona che se ne era presa cura qualche ora addietro.

«Sì, è una mia cara amica d’infanzia. Sua madre era una cameriera di servizio presso il casato Barma e, dato che io avevo pressappoco la stessa età di sua figlia, ci permettevano di giocare spesso assieme.»

Gilbert ascoltava attento, ghiotto di quel racconto che svelava finalmente una parte del passato di Caleb che non aveva mai conosciuto. L’altro continuò a narrare, con gli occhi che fissavano un tempo che non sarebbe mai più tornato e la bocca socchiusa in un sorriso carico di malinconia.

«Un giorno se ne andarono entrambe, non ricordo il motivo. Qualche tempo dopo scoprii che sua madre si era ammalata gravemente e Cassidy, siccome il padre era morto da tempo, si ritrovò costretta a badare a lei. Nonostante il Duca, venuto a conoscenza dell’accaduto, avesse chiamato il miglior medico della città, non si poté fare nulla. Fu in quell’occasione che Cassidy prese una decisione solenne: sarebbe diventata il miglior medico al mondo, sfruttando le sue capacità magiche. Alle donne non è ancora permessa una grande libertà, specie in campo medico, perciò fu di nuovo il duca Barma a tenderle una mano. La fece studiare presso i migliori precettori che si offrirono disponibili, anche se non erano molti. Una volta compiuti sedici anni decise di impratichirsi e di farsi un nome. Era stufa di sottostare agli ordini di quei nobili… per questo, ora lavora clandestinamente presso quell’edificio diroccato. So che non è un granché, all’apparenza, ma per il momento è il meglio a cui può aspirare. Nessuno la vuole assumere in quanto donna e men che meno vuole rischiare di avere le mani in pasta con le arti magiche ed alchemiche. Quanto meno, il reparto in cui opera è stato rimesso a nuovo grazie al contributo del duca Barma.»

«Non capisco.» fece Gilbert, interrompendolo «Perché uno come il duca Barma dovrebbe spingersi a tanto per la figlia di una cameriera?»

Caleb lo fulminò con lo sguardo, avvertendo la nota di scherno celata dietro quelle parole. Era noto a chiunque come il Duca fosse considerato un nobile a dir poco eccentrico, ciononostante non sopportava quelle voci, sebbene messe in moto proprio dal Duca stesso. Non cercò dunque scuse inutili e si limitò a rispondere a quella giusta domanda.

«Sua madre, Veronica, era… una cara amica della moglie del Duca.»

Per la sorpresa Gilbert si rizzò a sedere, sporgendosi verso Caleb.

«Cosa?! Il duca Barma è sposato? Ma non è possibile, non...»

«È morta.»

Quelle parole caddero come macigni sopra le loro teste. L’aria si fece greve ed il volto di Caleb si oscurò, mentre il suo respiro si faceva più lento e controllato; pareva tentasse di tenere a freno le emozioni che si agitavano nei suoi occhi.

«La moglie del Duca è venuta a mancare una decina di anni fa.»

«Non ne ero a conoscenza.» fu tutto ciò che riuscì a dire Gilbert, non capendo il motivo di quella sua espressione accorta «La conoscevi?»

Caleb trasse un lungo respiro, prima di rispondere.

«Sì. Era una bellissima persona, estremamente dolce.»

«Mi dispiace...»

Caleb scosse il capo, tentando di cacciare i fantasmi del passato.

«Non devi, è ormai trascorso tanto tempo.»

«E con questo?» replicò Gilbert, fissando pensieroso fuori dalla finestra «Il tempo non aiuta a rendere meno doloroso un addio.»

Calò il silenzio e per un po’ si udì unicamente lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli ed il lento ondeggiare delle ruote lungo la carreggiata. Il Nightray tentò di cambiare argomento, non sopportando oltre quella stasi carica di malinconia.

«E voi, tu e Cassidy intendo, voi due siete…?»

Caleb lo fissò con aria perplessa. Sembrava non capire dove volesse andare a parare, perciò si limitò a ripetere la sua domanda.

«Noi due siamo cosa?»

«Ehm... come dire... in che rapporto siete?»

Un lampo parve folgorare il viso di Caleb che, dopo un primo istante di stupore, si aprì in un ampio sorriso che, istintivamente, alleggerì il cuore di Gilbert.

«Cosa? Vuoi sapere se stiamo insieme?»

Gilbert annuì e ciò fece esplodere il ragazzo in una fragorosa risata.

«Oh cielo, no, ci mancherebbe! Siamo solo amici, come ti salta in mente una pazzia simile?»

«Beh, io che ne so? Mi pareva che foste molto intimi, tutto qua.»

«No, assolutamente. Ma toglimi una curiosità: tu invece? Ce l’hai una ragazza?»

«Cos… ? No!»

Caleb parve leggermente preoccupato nel formulare la domanda che seguì, quasi temesse di udirne il responso, sebbene venne pronunciata con tono all’apparenza noncurante.

«Però, ci sarà qualcuno che ti piace, no?»

Perché diavolo siamo finiti a parlare di ragazze?” si chiese mentalmente Gilbert “Se c’è un argomento che mi mette in crisi, oltre ai gatti, è proprio questo!”

«Ehm, no. Non ho in mente proprio nessuno.» riuscì ad ammettere in seguito, tossicchiando con aria imbarazzata.

«Sul serio?!» Caleb pareva allibito «Vuoi darmi a bere che in vita tua non ti sei mai innamorato?»

«Non ho mai detto questo! Che razza di ragionamenti fai?» sospirò, portandosi una mano agli occhi, nel tentativo di calmarsi «Sentimi, al momento sono troppo indaffarato per pensare alle donne, chiaro? Non mi interessano e non ho alcuna intenzione di intraprendere una relazione, fine del discorso.»

«Okay, okay, scusami tanto.» fece il giovane, mostrando i palmi delle mani con fare conciliante «… però, sai, hai incominciato tu.» si lasciò sfuggire, con tono leggermente puntiglioso.

Questo diede il la ad un simpatico siparietto, che li intrattenne sino al loro arrivo a Villa Rainsworth. Fu un piacevole battibeccare che, a differenza del loro viaggio di andata, li aveva gradevolmente divertiti. Gilbert, infatti, non era seriamente infastidito dal modo di fare di Caleb che, anzi, gli dava modo di mostrare senza vergogna il suo lato più scontroso. Dall’altro canto, Caleb pareva palesemente felice di aver raggiunto quello stato di confidenza in così breve tempo.

Giunsero così nel soggiorno, dove si era radunato il resto del gruppo, avvisato da una missiva spedita la mattina stessa da Gilbert. I due non ebbero nemmeno il tempo di mettere un piede nella stanza, che un uragano occhialuto li avvolse nella sua ansiosa morsa.

«Che diavolo è successo?! Che hai fatto al braccio? Ah, il Duca userà la mia testa come fermacarte!»

Reim non aveva fatto altro che urlare frasi di quel genere, impedendo ai giovani di esporre il resoconto di ciò che era avvenuto. Persino Break era esasperato da quel suo stato di paranoia, sebbene inizialmente lo avesse trovato spassoso, poiché più di chiunque altro voleva udire le informazioni che i due erano riusciti a raccogliere. Caleb non faceva che guardare per aria, con fare visibilmente seccato, mentre Gilbert, rimasto accanto a lui, cercava invano di calmare il collaboratore di casa Barma.

«Perdonami, Reim. Lo so che avevo promesso di proteggerlo, ma...»

«Io sono un essere inutile!» concluse per lui Emily, con tempismo perfetto.

«Break, piantala di fare l’idiota!» fece furioso Gilbert, che si trattenne dallo sparargli in fronte soltanto per rispetto nei confronti di Sharon.

«Oh, la realtà fa male, vero Gilbert caro?»

Prima che il giovane Nightray potesse partire all’attacco, Reim lo tranquillizzò.

«Non preoccuparti, Gilbert, so che hai fatto del tuo meglio. Lo stesso non posso dire di te, invece!» fece perentorio, rivolgendosi a Caleb.

«Io?! Vorrai scherzare, spero! Reim, dacci un taglio, perché stai diventando veramente seccante, oltre che fastidioso!»

Solitamente una frase del genere avrebbe demoralizzato il timido servo, ma stavolta la troppa adrenalina che gli scorreva nelle vene gli impedì di placarsi.

«Io sarei seccante? Oh, certo: tu te ne vai in giro a farti azzannare e io sarei seccante! Guarda, sarai anche mia amica, ma quando fai così sei davvero insopportabile!»

Aveva pronunciato quelle parole senza pensarci troppo, ma qualcosa scattò nella mente di Gilbert e Break, proprio quando Sharon tentò di inserirsi nel discorso per abbassare i toni crescenti dei suoi ospiti.

«Via, via Reim, non urlare. In fondo hanno fatto del loro meglio, perciò...»

«Un momento.» proruppe Break «Sbaglio o hai detto “amica”? Perché hai usato il femminile?»

«Ehm... ecco io... mi sono confuso!» disse Reim, iniziando a lucidarsi gli occhiali minuziosamente.

Quel suo atteggiamento mise i presenti in allarme. C’era qualcosa che non quadrava da un pezzo, ma da quel momento la cosa pareva prendere una piega vagamente assurda.

«Ah, ma davvero?» chiese senza credergli minimamente Xerxes, mentre gli si avvicinava con sguardo accusatore.

«Reim.» soggiunse Oz, sfoderando il suo sorriso più luminoso e crudele «Non è che ci nascondi qualcosa, vero? Sarebbe alquanto maleducato da parte tua.»

«CHE?! Il pezzente ci nasconde qualcosa?!»

Alice, finalmente interessata alla conversazione, in quanto essa verteva sul punzecchiare un essere che reputava debole, si fece subito sentire, poggiando i piedi sullo schienale del divanetto e puntando il dito accusatorio verso Reim.

«Oh, andiamo! Era agitato e ha confuso una vocale, può capitare!» cercò allora di difenderlo Caleb, che però cominciò ad indietreggiare lentamente, quasi fosse spaventato da quella conversazione.

«Però.» intervenne Gilbert, che fino a quel momento era rimasto in silenzio «Anche Cassidy aveva fatto lo stesso errore. Aveva chiesto perché fossi “ricoperta” di sangue. E tu stesso, ieri sera, ti sei dato della “stupida”.»

Oramai tutti fissavano Caleb con espressione interrogativa.

«Oh, andiamo. Che avete da fissare? Ci saremo confusi... capita quando uno è stanco e provato... no? E-e comunque… !»

«Per quanto ancora intendi recitare questa insulsa pantomima, Sophie?»

Il duca Barma, che si era infiltrato nella stanza senza essere notato da Caleb, in quanto il giovane volgeva le spalle alla porta, aveva accompagnato quelle parole ad un gesto fulmineo della mano destra. Aveva afferrato i capelli corvini di Caleb ed aveva eseguito un possente, quanto teatrale, strattone.

Con grande stupore degli astanti, il Duca reggeva in mano una parrucca, mentre una cascata di boccoli corvini caddero, come foglie in autunno, sul viso di Caleb.

Il primo che riuscì a ritrovare la parola fu Oz.

«Ma... ma... Caleb è una ragazza?!»

 

 

MEANDRO DELL’AUTRICE:

 

Buonsalve, cari lettori!

Finalmente stiamo entrando nel vivo della storia… che poi mica vero, dato che devo ancora introdurre un personaggio, anzi tre... ma ssssshhh, siamo alla prima svoltina di trama, perciò fatemi gioire! Era abbastanza scontato come plot twist, ma spero che, rispetto alla precedente versione, la suspance sia stata maggiore. Sono molto felice, perché a questo giro sono riuscita ad aggiungere molte più scene e dettagli, come il carattere e la descrizione di Cassidy, il discorso sulla magia (appena accennato in PH e poi relegato nel dimenticatoio per fare spazio all’alchimia, anch’essa accennatissima). Per non parlare dell’approfondimento sui sentimenti che Caleb riesce a smuovere in Gilbert.

Mi sembra tutto molto più chiaro e realistico, e mi auguro che continui così. Soprattutto, spero che i nuovi personaggi risultino interessanti, oltre che inerenti al clima Pandoriano.

Piccola chicca: sappiate che questo, in teoria, doveva essere il capitolo 3. Già, il primo capitolo risultava molto più corto ma, rileggendolo poco prima della pubblicazione, mi sono resa conto che si stoppava in un punto decisamente banale. Al termine della lettura, infatti, mi è venuto spontaneo borbottare “Troppo presto, ma che è?”. Perciò, decisi di unire il primo e secondo capitolo, facendo slittare tutta la numerazione sino ad allora tenuta. Because I can. xD

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate della storia, anche solo con un breve commento. Mi fa sempre piacere chiacchierare coi lettori e ricevere consigli e pareri.

See you next week, sabato 10, per il capitolo tre: Sophie Barma - LA BAMBINA DIMENTICATA - !



Moni =)

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Capitolo 4
*** RETRACE: III Sophie Barma - LA BAMBINA DIMENTICATA - ***


RETRACE: III Sophie Barma

- LA BAMBINA DIMENTICATA -



Tutti gli sguardi erano puntati su di lei. Caleb, l’informatore del duca Barma, aveva mostrato un’espressione di sorpresa che competeva con quella degli astanti. Pareva come se il sipario si fosse finalmente alzato e, al suo centro, vi si fosse trovato un nuovo attore che gli spettatori, trepidanti, attendevano di vedere all’opera.

La fanciulla, con occhi sbarrati e gote vermiglie, si portò istintivamente le mani ai capelli, ormai sciolti. Li tastò con fare incerto, quasi non potesse credere ai suoi stessi sensi. Dopo un primo attimo di smarrimento, si voltò verso il Duca, furente.

«Maledizione, papà! Che diavolo ti è saltato in mente? Perché lo hai fatto?!» urlò.

I suoi occhi si tinsero di lacrime che, però, stavolta riuscì a controllare. Inspirò a fondo, ringraziando il cielo che si fosse voltata d’istinto, in tal modo soltanto il Duca poté vederla in quello stato precario.

«Non urlare e rivolgiti a me con più rispetto.» fu la risposta dell’uomo, leggermente seccato.

All’apparenza, l’atteggiamento della ragazzina non l’aveva minimamente scalfito, eppure i suoi occhi si volsero in tutt’altra direzione, come indignati.

«Sophie? Papà?!» urlarono sconvolti i presenti, come fossero un pubblico a teatro, nel bel mezzo del colpo di scena dell’atto centrale.

Quello più sconvolto era Gilbert che, ciononostante, era altresì quello che meno dubitò dei suoi sensi. Non fosse stato per il fatto che aveva convissuto con Caleb per ben due giorni, avrebbe giurato che quella a cui stava assistendo era un’illusione del Duca. Nessuno poteva credere realmente a ciò che stava vedendo.

«Avevi promesso che te ne saresti rimasto buono!» brontolò imperterrita la ragazza, come se gli altri non esistessero, prendendo nel frattempo coraggio a sufficienza per cancellarsi dagli occhi i rimasugli che li inumidivano.

A quel punto Barma tornò a fissarla, con sguardo gelido.

«No. Io avevo promesso che non avrei interferito con i tuoi incarichi, se tu fossi tornata indenne.»

«Oh, per l’amor del cielo! Non mi sono fatta niente e, comunque, corri più rischi tu quando fai infuriare zia Cheryl!»

«Un momento, un momento, vi spiacerebbe spiegarci?» chiese Oz, facendo un timido passo avanti verso la scena madre.

I due attori principali, tuttavia, continuarono il loro dialogo, ignorandolo totalmente.

«Oh, certo, quasi dimenticavo! Tu non ti fai mai nulla, giusto?» le ribatté il Duca stizzito, sventolando il suo ventaglio con fare drammatico «L’onnipotente Sophie Lilien Barma sa fare tutto, giusto? A che le servono gli altri, quando basta e avanza per se stessa?»

«Esattamente come Vostra Grazia è al di sopra di tutti, poiché tutto sa o per meglio dire sbircia. Non credere che non sappia che mi spii, non appena metto piede fuori dalla villa, caro padre.» le rispose a tono la ragazza, puntando un indice accusatore verso Barma e scimmiottando i suoi modi perentori.

Il Duca era sul punto di ribattere, ma rimase di sasso di fronte a quell’affermazione tanto articolata quanto veritiera.

«Tu...» iniziò poco convinto, sebbene con una punta di rabbia crescente e a malapena tenuta a freno «Parlami con più rispetto!» sbraitò infine, chiudendo con uno scatto il suo ventaglio.

«Ti porterò il dovuto rispetto, quando tu farai altrettanto con me. Per ora ti porto il rispetto che merita un bambino viziato. E non urlarmi contro!»

A quel punto sopraggiunse Reim, frapponendosi tra i due.

«Suvvia, Vostra Grazia, non urli e anche lei, signorina, non si agiti. Cercate entrambi di calmarvi, siamo...»

«Io sono calmissimo!» gridarono all’unisono i due Barma, senza mai smettere di fissarsi con animosità.

«Ehm, sì, non lo metto in dubbio, ma... non sarebbe il caso di presentarsi?» propose Reim cordiale, nonostante avesse la voce rotta dal panico.

Caleb volse finalmente lo sguardo agli altri occupanti della stanza, osservandoli uno ad uno, come se si fosse resa conto della loro presenza solo in quell’istante. Serrò le labbra, pentendosi immediatamente del suo atteggiamento scorbutico e, ancor più, di quello tenuto dal Duca suo padre. Mentre la sua giovane mente tentava invano di processare una frase che ponesse fine a quel silenzio ed al martellare del suo cuore impazzito, prese a vessarsi le mani inconsciamente.

«Ehm… ecco, sorpresa?» riuscì infine ad articolare con voce incerta.

Non trovò la sua uscita divertente, né tantomeno adeguata. Il tono interrogativo che le era uscito con voce flebile la fece ciononostante apparire decisamente comica, oltre che mortificata. Sophie abbassò gli occhi, rossa di vergogna. A trarla d’impiccio, con grande sorpresa generale, ci pensò Alice, che sino ad allora se ne era stata cheta.

«Il tipo strambo è una tizia?» chiese infatti incuriosita la Chain ad Oz, che invece fissava la ragazza con fare sconvolto.

«Ecco, Alice... a quanto pare quella è la figlia del Duca.» biascicò con qualche incertezza, non riuscendo più nemmeno egli stesso a comprendere dove finisse la finzione e dove incominciasse la realtà.

Era possibile che si trattasse dell’ennesima illusione fuori luogo di Barma?

Sembrava nel suo stile, ciononostante una parte della sua mente rigetto tale idea: nemmeno una mente malata come quella del Duca avrebbe mai potuto ordire uno scherzo tanto assurdo. Soprattutto, non a casa della creatura che più di tutte temeva al mondo, Cheryl Rainsworth. La Duchessa lo avrebbe certamente appeso all’albero più vicino se avesse anche solo sospettato una messinscena simile.

«Che?! Il duca pagliaccio è il padre del tizio ragazza?» continuò imperterrita Alice, mentre strattonava Oz per la manica per attirare la sua attenzione.

«Duca, ora inizio a perdere davvero la pazienza. Sebbene tutti sembrino divertiti da questa pagliacciata, esigo delle spiegazioni altrimenti...» minacciò d’improvviso Break, levatosi in piedi e con una mano già poggiata sull’impugnatura della sua spada.

«Altrimenti cosa, Cappellaio? Ti metterai a spadroneggiare col tuo Chain e...»

«Papà, adesso piantala però. Sei pesante!»

Il Duca fissò la fanciulla con aria parecchio adirata ma, dopo aver brontolato un: «Pesante? Ma chi ti ha insegnato a parlarmi così?» decise di rispondere in modo più consono. Diede un paio di colpetti di tosse, come a volersi schiarire la voce.

«Non c’è nulla da spiegare.» proseguì in tono affabile, celandosi la parte inferiore del viso col suo inseparabile ventaglio e poggiando la mano libera sulla testa della ragazza «Questa è mia figlia: Sophie.»

Come attratti da un miraggio, gli occhi dei presenti tornarono a puntarsi su Caleb che, a quel punto, era inutile continuare a definire tale. Il Duca aveva pronunciato chiaramente il suo vero nome, Sophie. Per qualche motivo che sfuggì a Gilbert, quel nome risuonò nella sua memoria come una melodia già udita, in un tempo ormai lontano.

Da quando i capelli corvini della ragazza si erano mostrati in tutto il loro splendore, sebbene arruffati per via della parrucca che li aveva inevitabilmente appiattiti, ogni cosa aveva preso la sua giusta collocazione. Adesso Gilbert si spiegava perché Caleb ci mettesse sempre tanto a prepararsi: sciogliere la sua chioma era questione di un attimo, ma acconciarla affinché la parrucca la celasse era un laborioso impegno. Alcune forcine, infatti, ancora erano attaccate a delle ciocche, mentre altre erano cadute a terra o si erano impigliate nella parrucca. Un nastro per capelli, che doveva aver usato per legarsi in uno chignon semplice i folti capelli, ancora pendeva tra le sue ciocche, aggrovigliato tra esse. Anche la ritrosia e l’imbarazzo che l’avevano attraversata, durante l’incidente avvenuto in carrozza, in cui la giovane era finita tra le braccia del Nightray, spiegava perché avesse reagito con tanto panico a quel contatto. Per una nobildonna una simile vicinanza ad un uomo con cui nemmeno aveva rapporti era a dir poco scandalosa. Vi era poi il modo in cui aveva riso, al loro ritorno, quando aveva detto che per lei Cassidy rappresentava soltanto un’amica e non certo un interesse amoroso… quanto era stato cieco Gilbert?

«Il Duca ha una... figlia?» chiese sbalordita Sharon, ricalibrando l’attenzione dei presenti su Barma.

Come se il contesto generale non fosse sufficientemente sconvolgente, vi era infatti anche quel minuscolo dettaglio. Persino Gilbert non riusciva a crederci. Era già abbastanza sconvolto dal fatto che Caleb in realtà fosse una ragazza, ma venire a conoscenza che era anche l’unica figlia del duca Barma (o, almeno, sperava che non ci fossero altri membri segreti di quella singolare famiglia) era semplicemente troppo per i suoi nervi.

Il Duca fissò accigliato la giovane Rainsworth.

«Perché? Che c’è di strano? Credevi forse che non potessi avere figli?»

«C-certo che no! Chiedo venia, ma la nonna non me ne ha mai...» Sharon non riuscì a terminare la frase, paonazza a causa dell’imbarazzo che aveva causato con la sua frase equivoca.

«Certo che Cheryl non te l’ha mai detto. Le chiesi io di non farlo.»

«E perché mai? Se posso...» si affrettò ad aggiungere la Duchessina, per non suonare ulteriormente scortese o avventata nel parlare.

«Per il semplice fatto che detesto che gli altri mettano il naso in questioni che non sono di loro competenza.»

«Papà, ti farei presente che tu letteralmente vivi ficcando il naso in questioni che non ti riguardano.»

«Sophie, tappati quella boccaccia!»

La giovane voltò il capo, facendo una linguaccia immatura alla volta del genitore. A quanto sembrava, stuzzicare l’uomo doveva essere il suo passatempo preferito. Nonostante l’aria apparentemente allegra, lo sguardo della ragazza si manteneva perennemente basso, incapace di affrontare gli astanti.

«Tralasciando il fatto che nessuno fosse a conoscenza della tua vera identità.» intervenne Gilbert, facendo sobbalzare la ragazza, che non si aspettava di essere interpellata direttamente, specialmente dal Nightray «Per quale motivo ti sei travestita da uomo?»

Sophie alzò lo sguardo timorosa, pronta a rispondere, ma poi si avvide a dare un sonoro pestone al piede del padre, dato che aveva bofonchiato un appena percettibile: «Colpa tua, idiota.» che, fortunatamente per lei, non venne recepito dagli altri.

«Questo posso spiegarlo io.» s’intromise Reim, desideroso di essere d’aiuto alla sua padroncina «La signorina Sophie...»

«Sophie, Reim. È solo Sophie! Quante volte te lo devo ripetere? Ci conosciamo da quando ho otto anni.» lo interruppe la ragazza accigliata, fissando per aria.

Quando assumeva quel genere di espressioni era più facile notare la somiglianza con Barma.

«Ehm... sì, ma io non so se posso...»

«Reim, per l’amor del cielo, concludi una frase. Almeno quello pensavo che fossi in grado di farlo.» il Duca l’aveva apostrofato con gioia per l’ennesima volta, essendo quello uno dei suoi antistress prediletti.

«Papà, lasciatelo dire sei proprio...»

«Come stavo dicendo!» squittì il servo, prima che scoppiasse un altro putiferio «La signorina... ehm... Sophie, mantiene sempre questo genere di travestimento con i clienti. In questo modo non è mai rintracciabile.»

«Ma è risaputo che il casato Barma è in ottimi rapporto con il mio.» Sharon non riuscì a trattenere la sua indignazione «Perché non si è voluta fidare nemmeno di noi?»

«Ehm.. dunque...»

Il servo di casa Barma lanciò una celere, quanto espressiva occhiata alla ragazza. Sophie lo notò e, sorridendo amaramente, chiuse gli occhi un istante. Sembrava lottare con una realtà che ancora faticava ad accettare ma, nel giro di un istante, dissimulò nel miglior modo possibile il suo turbamento interno, senza però riuscire a convincere gli osservatori più attenti: per quanto ci provasse, Sophie era un libro aperto quando si trattava di emozioni.

«Non è un problema, Reim. Oramai sanno della mia vera identità, non ha senso continuare a mentire. In fondo, era quello che volevi, no papà?»

Barma ricambiò lo sguardo della figlia con aria assorta, prima di volgere i suoi occhi color malachite verso gli astanti. Il suo ventaglio non aveva ancora abbandonato il suo fianco e continuava a proteggere il suo viso dagli sguardi dei presenti.

«Sophie cela la sua identità da quando ha iniziato il suo incarico come informatore del casato, quattro anni or sono. L’identità di Caleb Bauer serve a proteggerla dal mondo dato che, ufficialmente, risulta deceduta dodici anni fa.» spiegò schiettamente il Duca, per poi fissare severo Sharon «La duchessa Rainsworth è l’unica a conoscenza di ciò, proprio in onore della grande amicizia che lega le nostre famiglie da generazioni. Ed è per il medesimo motivo che, ora, ho deciso di svelarvi la verità.»

«Questo.» concesse Break, con un sorriso tirato «E perché voi detestate perdere. Piuttosto che lasciare che fossimo noi ad accorgerci dell’esistenza di vostra figlia, avete preferito mostrare le carte in tavola. Mossa poco fine, ma astuta.»

«Congratulazioni, Cappellaio.» replicò con fare truce Barma, mostrando il suo ghigno orgoglioso «Noto con piacere che, anche stavolta, la tua lingua non si sia saputa trattenere dal pronunciare ridicolaggini. Se credi davvero.» il suo tono si fece d’improvviso tagliente e persino Break, che solitamente fronteggiava senza timore chiunque, avvertì un brivido di paura lungo la schiena «Che io svenda la sicurezza di mia figlia per mero orgoglio, sei più stupido di quanto credessi.»

Detto ciò, afferrò Sophie per il braccio sano e la trascinò verso l’uscita.

«Giunti a questo punto, noi ci ritiriamo. I miei saluti.»

Sophie si dimenò, riprendendosi dalla sorpresa iniziale. Persino lei, che ben conosceva il padre, era rimasta sorpresa da quel suo moto di amor proprio genitoriale, ma non per questo si era scordata il motivo per cui si trovava lì.

«Ehi, no! Aspetta un momento! C’è una cosa importante che devo dirgli: riguarda i Baskerville!»

Nell’udire quel nome, tutti si fecero attenti e persino Barma mollò la presa, osservandola stupito.

«Posso dirvi dove si trova uno dei loro nascondigli.» disse con non poca fierezza, per poi farsi pensosa ed aggiungere un più cauta «Molto probabilmente.»

«Tu cosa?» chiese allibito Oz, mentre Alice si arrampicava sulla sua testa per vedere meglio, essendosi gli altri posti a semicerchio intorno alla ragazza.

«Ma la missione non era stata un completo fallimento?» fu Break a parlare stavolta, facendo un passo avanti, non riuscendo a trattenere la curiosità.

Chiunque a Pandora, dati i recenti accadimenti, era alla ricerca dei Baskerville. Un’informazione simile, o anche soltanto la sua ombra, avrebbe potuto condurli di un passo più vicini alla verità che tanto agognavano.

«All’apparenza sì, non è andata esattamente come avevamo pianificato.»

«Diciamo pure che ci siamo dovuti dare all’improvvisazione.» confermò Gilbert, ripensando a come gli eventi erano celermente sfuggiti loro di mano «Prima di incontrare Lotti, io e Caleb… ehm… io e lui, cioè, avevamo un piano, ecco.» riuscì poi a concludere con non poca fatica il Nightray.

«Esattamente.» continuò per lui Sophie, non avendo l’audacia di correggerlo «Il piano era di raggiungere la chiesetta sconsacrata che si trova fuori città, piazzarci tra la boscaglia circostante in attesa dell’arrivo dei Baskerville, per poi sfruttare il mio Chain per spiarli in segreto. Sfortunatamente, Lotti ci ha battuti sul tempo: ci ha raggiunti al limitare della città e ci ha attaccati. A quel punto, avevamo due scelte.» alzò la mano destra, mostrando l’indice «Primo scenario, il più sensato: evocare il mio Chain e, sebbene il combattimento non sia il suo forte, riuscire almeno a combattere alla pari. La via più indolore per salvarsi la pelle.»

«Il che avrebbe significato vanificare la nostra chance di ottenere una qualche minima informazione.» confermò Gilbert che, sebbene non avesse avuto scambi verbali con Caleb durante la lotta, era giunto alla sua medesima conclusione, comportandosi di conseguenza.

«Ma c’era anche una seconda ipotesi.»

«Sarebbe a dire?» chiese Oz confuso, non capendo dove volessero andare a parare con quel discorso.

«Sfruttare White Swan, senza che Lotti se ne accorgesse, immersa com’era nella battaglia.» Reim parlò senza riflettere, giungendo così alla soluzione dell’enigma.

Sophie annuì, alzando così anche il medio e facendo il gesto della vittoria.

«Esattamente. Uno a zero per noi. Beh… parità, diciamo, dato che in tal modo ho finito per rimetterci momentaneamente il braccio sinistro.»

Le parole di Sophie sorbirono l’effetto desiderato: tutti pendevano dalle sue labbra ed avevano un’espressione talmente stupita, che lei si lasciò sfuggire una risatina.

«Cosa credevate, che andassi alla ricerca di un Baskerville senza un piano ben preciso? Papà non provarci nemmeno a ribattere!» Sophie lanciò un’occhiataccia al padre, che sembrava sul punto di smentire le sue parole.

Nonostante quel monito egli volle comunque dire la sua.

«Solitamente sei talmente goffa ed imbranata, che una mossa tanto intelligente mi pareva non adatta a te.»

La ragazza incassò il colpo e, con parecchio imbarazzo, continuò a parlare come se niente fosse.

«Dicevo… White Swan ha la capacità di rendersi invisibile per spiare un Chain avversario. Un po’ come Eques, soltanto che non mi permette di vedere direttamente ciò che avviene. Intercetta un bersaglio, lo insegue fintanto che non svela ciò che è il mio obiettivo, ed infine torna da me, riferendomi ogni cosa. Però, conoscendo i Baskerville, sapevo che questo suo potere non fosse sufficiente.»

«Per questo, ha trascorso la notte in biblioteca.» commentò ancora Gilbert, ricordandosi della loro prima colazione insieme «Anche se, inizialmente, credevo ti fossi limitata a cercare informazioni sui Baskerville.»

«Effettivamente, quello era il mio piano. Ma mentre cercavo notizie relative agli Dei Scarlatti, mi sono imbattuta in un libro molto interessante: un manoscritto risalente a cento anni fa. Naturalmente, per le persone comuni è un normalissimo tomo, per questo è tenuto nascosto in bella vista.»

«Non capisco. Se è nascosto, perché dovrebbe trovarsi in bella vista?» chiese Oz confuso.

«Quando vuoi trovare qualcosa, solitamente, lo si cerca nei luoghi più strani ed occultati; tuttavia, se invece si trovasse proprio sotto al tuo naso non te ne accorgeresti nemmeno.» rifletté a voce alta Sharon, ricevendo un cenno di assenso da parte di Break.

«Banale, quanto geniale.» confermò l’uomo, stupendosi della perspicacia di quella ragazzina che aveva dinnanzi.

L’aveva giudicata troppo affrettatamente. Ora che ne conosceva la vera identità, comprendeva bene come il cognome che portasse sulle spalle fosse ben meritato. Un Barma, d’altronde, non poteva che vivere ricercando le informazioni più nascoste e segrete, facendole poi sue.

«Esatto.» Sophie riprese la parola, ormai senza più incertezze «E quale luogo migliore per nascondere un libro, se non una biblioteca?»

«Sei un demonio.»

«Grazie, papà!»

«Non era un complimento.»

«Per i tuoi standard, è la lode migliore che abbia mai ricevuto nelle ultime settimane.»

«Vi spiace rimanere in tema?» chiese Break, vistosamente seccato da quelle continue interruzioni familiari.

«Naturalmente, quel libro...»

«Parla dei Baskerville? Della verità di cento anni fa?!» proruppe Oz, in quella che voleva sembrare più un’affermazione che una domanda.

«Cielo, certo che no! Non sono mica così stupidi!» replicò d’impulso Sophie, mentre sia lei che Barma osservavano il giovane Vessalius con aria schifata.

«Oh...» proferì lui imbarazzato «Scusate...»

«Ahahah, Oz caro è il solito sempliciotto.» ridacchiò Break, per poi fulminarlo con una semplice occhiata «Interrompi ancora e ti ammazzo.»

Il ragazzo afferrò l’antifona, facendosi piccolo piccolo, mentre al tempo stesso tentava di placare Alice che, invano, mirava a menare il Pagliaccio che aveva osato minacciare il suo schiavo. Resasi conto di aver dato il là ad un nuovo battibecco, Sophie tentò di porvi rimedio.

«Però, anche se non direttamente, venivano menzionati, perciò possiamo dire che c’hai azzeccato. In quel tomo erano presenti alcuni incantesimi usati dai Baskerville per spiare i propri nemici. Mi ci è voluta tutta la notte, ma ne ho imparato uno semplice, che permettesse a Swan di non essere rintracciato e di passare attraverso le barriere magiche. È per questo che, quando Lotti ci ha attaccato, mi sono limitata a schivare e a provocarla: dovevo prendere tempo, mentre pronunciavo l’incantesimo. Affinché abbia effetto, bisogna avere il bersaglio ed il proprio Chain sotto un raggio visivo di qualche metro, altrimenti non funziona a dovere. Possiamo dunque essere ragionevolmente certi che i Baskerville non si accorgeranno di nulla. Swan dovrebbe tornare a giorni, con l’esatta ubicazione della loro base, perciò mi farò viva io. Fino ad allora tenetevi pronti e, per l’amor del cielo, piantatela di punzecchiarvi per ogni sciocchezza! Ora, con permesso, me ne tornerei a casa.»

Una volta terminato il suo monologo, Sophie fece un breve inchino e si avviò alla porta, seguita a rotta di collo da Reim, che però s’arrestò non appena udì la voce del suo padrone.

«Ah, Reim, quasi dimenticavo. Tu non dovevi tenerla d’occhio?»

«Ma, io... veramente…» tentò di giustificarsi il servo.

«Non temere, riceverai la giusta punizione, a tempo debito. Andiamo Sophie.»

«Ah, Reim.» fece la giovane Barma, osservando il valletto con un sorriso smagliante «Tu non avevi promesso di non farmi scoprire?»

«Ma, ma...»

«Non temere, riceverai la giusta punizione, a tempo debito. A più tardi, Reim.»

Oz diede delle affettuose pacche alla schiena del servitore, mentre Gilbert gli pose una mano sulla spalla, in segno di conforto.

«Povero Reim, due sono troppi!» fece Sharon preoccupata, ma divertita al medesimo tempo.

«Ah, e papà.» Sophie osservò con attenzione l’uomo, a pochi passi da lei «Con te non ci parlo più!»

«Come?!» esclamò sorpreso l’uomo, perdendo per poco la presa del suo fedele ventaglio.

«Hai sentito benissimo: mi hai messa in imbarazzo, svelando la mia vera identità, senza nemmeno chiedermi il permesso. Perciò, sei in punizione.»

«Ah, io sarei in punizione? Signorinella, sei tu quella che avrà una punizione a regola d’arte e... ehi, non darmi le spalle e... no, questo no! Non azzardarti a sbattermi la porta in fa...»

SBAM!

Non si udì volare una mosca per alcuni tesissimi secondi, finché un suono fece ridestare il Duca: la risatina maligna di Break e la vocina di Emily che lo scherniva.

«Si è fatto sbattere la porta in faccia da sua figlia! E ora è in punizione!»

«SOPHIE!»

Dopo quest’ultimo urlo, anche il duca Barma uscì dalla stanza, senza salutare e sbattendo ancora più forte la porta d’ingresso.

«Quella povera porta che gli avrà fatto di male?» chiese con un sospiro Oz.



Le tenebre erano calate come un delicato manto sul cielo, sostituendo ciò che restava della luminosità del sole con deboli fiammelle emanate dalle stelle e dalla luna che, timidamente, mostrava il proprio volto soltanto per metà. La cena si era svolta in tranquillità e silenzio, poiché ognuno era perso nelle proprie cogitazioni.

Il primo che tentò di rompere quel silenzio, una volta riuniti attorno al fuoco in uno dei saloni della villa, fu Oz.

«Certo che è stata una bella sorpresa, quella di oggi. Chi si aspettava che il duca Barma avesse una figlia?» disse timidamente, mostrando il suo sorriso di circostanza.

La notizia gli aveva lasciato ancora più interrogativi di quanti già non ne possedesse. Oltretutto, vedere come anche i suoi amici stessero meditando se ciò costituisse per loro un vantaggio o meno, non lo aiutava certo a stare calmo. I Barma erano certamente in ottimi rapporti con i Rainsworth, ma restavano una famiglia molto chiusa e misteriosa, i cui esigui membri erano difficili da giudicare.

Sophie Barma sembrava una ragazza genuina, parecchio goffa ed imbranata, ma altrettanto determinata e capace. Eppure, il fatto che avesse mentito sulla propria identità gettava nuove ombre sulla sua figura: chi era veramente quella fanciulla? E perché viveva nascosta dal resto del mondo?

Sono stufo di decriptare persone ed il loro bizzarro passato.” pensò mestamente Oz “Quando credo di aver scoperto qualcosa che possa far luce sulla verità di cento anni fa, ecco che si presentano nuovi personaggi, con altrettanti misteri. Perché deve essere tutto così complicato?”

A rispondergli fu Break, occupato a godersi l’ennesimo dolcetto rubato dalla tavolata. Sebbene apparisse spensierato, il suo occhio cremisi era impassibile.

«Io no di certo. Anche se ora mi spiego la naturale antipatia che nutrivo per quell’essere. Tu non ti eri accorto di nulla, Gil caro? Eppure, sei stato con lei più a lungo di chiunque.»

Gilbert, seduto su di una poltroncina mentre osservava infastidito il cappello che reggeva tra le mani, non ebbe alcuna reazione. Era incapace di mettere ordine nei propri pensieri, nonostante avesse trascorso le ore precedenti ad analizzarli passo dopo passo.

«No. Per niente.» ammise con fare assorto.

Ancora non riusciva a crederci. Aveva trascorso le ultime quarantott’ore con Caleb, senza minimamente sospettare nulla della sua vera identità. Nonostante i molti indizi, dall’ossessione per i suoi capelli, agli errori commessi sia da egli stesso che da Cassidy nel parlare, sino ai suoi modi gentili e delicati, niente aveva intaccato per un infimo istante la sua convinzione che Caleb fosse effettivamente chi affermava di essere. Si sentiva preso in giro da quella farsa e la cosa lo infastidiva e confondeva al tempo stesso: che gliene importava, in fondo, se quello era una ragazza? No, non era lì che risiedeva il suo cruccio… ciò che lo aveva ferito era stato scoprire che Sophie non fosse chi credeva. Non era facile per lui legare con gli estranei, tuttavia quella ragazza era riuscita a fare breccia dentro di lui, al punto da fargli credere di poter contare su di un nuovo alleato. Ma ci si poteva davvero fidare di una Barma?

«Uff, figurarsi. Non baderesti ad una fanciulla nemmeno se questa si gettasse ai tuoi piedi.»

«Beh, non mi sembra che tu abbia avuto molto più colpo d’occhio del mio.»

«Io mica ci ho dormito assieme.»

«NOI NON ABBIAMO… !»

«Intendevo che avete dormito sotto lo stesso tetto.» puntualizzò Xerxes, nel notare il rossore che aveva avvolto il capo del Nightray, per poi ridacchiare a suo danno «Non ti intratterrai molto con le donzelle, ma vai subito a pensare male eh, Gil caro?»

«Ehm, ehm.»

Sharon tossicchiò sonoramente per richiamare a sé l’attenzione, oltre che per fulminare con lo sguardo il suo amato servitore. Break capì al volo l’antifona e chinò rapidamente il capo al ritmo di un: «Mea culpa», per aver fatto simili discorsi dinnanzi a due distinte signorine. La Duchessina parve perdonarlo per la sua uscita infelice e poté così continuare il discorso che premeva sulla bocca di tutti.

«Vorrei tanto sapere perché nonna non me ne ha mai parlato. Capisco che abbia fatto una promessa al Duca, eppure...»

«Eppure, in quanto mia unica nipote, ti sei sentita tradita.»

La voce della Duchessa sorprese gli astanti, che si voltarono immediatamente verso l’ingresso della sala. Perfettamente curata sino al minimo dettaglio, nonostante l’ora tarda, vi era la nobile Cheryl. Avvolta in un completo lavanda, le cui spalle a sbuffo erano coperte da uno scialle color pervinca, appariva impeccabile, nonostante la soffice treccia che le cadeva su di una spalla. Solitamente portava infatti una crocchia elaborata con un nastro, ma in quell’occasione si era concessa un acconciatura più semplice. Al suo seguito vi era Reim, ancora in uniforme. Sembrava non possedere altri abiti all’infuori di quello.

I due si fecero strada, mentre Reim spingeva dolcemente la carrozzina della nobildonna sino al caminetto, affinché lei potesse godere del suo calore ristoratore.

«Nonna! Che sorpresa, come mai sei venuta a farci visita?»

«Oh, tesoro, è naturale che dopo una giornata movimentata come questa io mi facessi viva.» osservò con i suoi saggi occhietti i presenti, soffermandosi con enfasi su ognuno di loro «Immagino abbiate molte domande da farmi. Coraggio, non siate timidi.»

«Beh, se posso.» si permise Oz, dopo aver atteso qualche istante per lasciare il tempo ad altri di parlare «Come mai voi eravate a conoscenza della vera identità di Sophie?»

«Questa è un’ottima domanda, per cominciare.» convenne la donna, mentre prendeva per mano la nipote, che le si era fatta vicina «In tal modo, potrò spiegarti il motivo del mio silenzio. Vedete, io e Rufus siamo amici da molto tempo, più di quanto voi giovanotti possiate immaginare. Siamo cresciuti insieme e, insieme, abbiamo affrontato tante esperienze gioiose e dolorose. Una di queste, è stata la perdita di sua moglie, Mary.»

Gilbert ebbe un fremito nell’udire quel nome. Non l’aveva mai sentito, ciononostante ricordava come, appena quel pomeriggio, Sophie gli avesse parlato di quella donna. Credeva si riferisse ad una persona per lui cara, ma senza alcun legame stretto, invece si trattava della sua stessa madre. Comprese soltanto in quell’istante lo sguardo lucido di Sophie e la fatica con cui aveva pronunciato quelle poche parole, legate a dei ricordi per lei sempre vividi.

«Era una bellissima persona, estremamente dolce.»

Strinse appena i pugni, Gilbert. Lui una madre non l’aveva mai avuta, probabilmente. Non la ricordava e, onestamente, non ci teneva a farlo. Avendo avuto lo zio Oscar ed in seguito Break come tutori e figure paterne, non aveva mai sentito la necessità di una madre. A lui bastava ciò che possedeva, tuttavia non osava immaginare quale potesse essere il dolore conseguente ad una simile perdita. Inclinò il capo, osservando Oz di sottecchi. Sicuramente, il giovane Vessalius stava ripensando alla notte in cui sua madre gli era stata strappata. Non poté pensare altro, poiché il racconto proseguì.

«A causa di questo, Rufus non si è mai ripreso. Siccome Mary aveva perso la vita durante una rapina, mentre era in compagnia di Sophie, il Duca non ci pensò due volte: diede la notizia ufficiale che anche la piccola era deceduta e la tenne nascosta, per timore che le potesse accadere qualcosa.»

«Sophie… era presente?»

Le parole uscirono di bocca a Oz senza che nemmeno potesse rendersene conto. Erano tutti rimasti scioccati da quella notizia, che gettava una nuova luce su quella ragazza enigmatica. Persino Alice, che fino ad allora aveva seguito distrattamente la conversazione, non trovandola particolarmente di suo interesse, rimase colpita. Pur essendo un Chain, un tempo era stata umana e, per questo, riusciva a comprendere il vuoto lasciato da un genitore. O poteva almeno immaginarlo, non avendo ricordi.

«Ma se le cose stanno così… a che scopo farla divenire un informatore, se i suoi incarichi rischiano di porla in pericolo?» chiese Sharon, comprendendo finalmente il perché di un silenzio tanto solenne da parte dell’amata nonna.

«Perché non è giusto rinchiudere una persona in gabbia.»

A parlare era stato Reim. Si ergeva al fianco di Cheryl, il volto scolpito come una figura di cera per la rabbia e la frustrazione che gli montavano nel petto.

«Per quanto bella, una prigione resta pur sempre una prigione. E se Sophie fosse rimasta rinchiusa lì dentro, avrebbe finito per deperire.»

«Fu Reim, sapete, a battersi come un leone affinché Sophie avesse un minimo di libertà.» cinguettò allegra Cheryl, posando una mano gentile sul suo braccio «Naturalmente, anch’io mi feci sentire in qualità di sua madrina. A quattordici anni Sophie fu dunque libera di scegliere il tipo di vita che desiderasse condurre. Non volendo vanificare gli sforzi del padre, mantenne un’identità fittizia con la quale non soltanto iniziò la sua carriera di informatore, ma anche quella di studente presso la Lutwidge.»

«Frequentare la… COSA?!» Oz non poteva credere alle sue orecchie.

«Hai capito benissimo. Anche se con un anno di ritardo, Sophie frequenta regolarmente la scuola, quando i suoi impegni da servitore glielo consentono. Solitamente, infatti, svolge missioni tutto sommato semplici, ma questa volta, chissà perché, si era impuntata nel volervi dare una mano a qualsiasi costo. A prescindere da quanto fosse rischioso.»

Così dicendo, lo sguardo della donna cadde per un istante sul Gilbert, che ricambiò con aria confusa. La donna ridacchiò divertita, portandosi una mano alla bocca con fare elegante.

«Oh, oh, oh, cielo! I giovani! Sono così pieni di vita, mi fanno un'invidia.»

«Perciò, sostanzialmente, è una mocciosa che gioca a fare l’adulta. Che sorpresa.»

«Le mocciose d’oggi diventano sempre più insolenti!» concordò Emily, a seguito dell’uscita del suo burattinaio.

Il suo tentativo di sdrammatizzare, tuttavia, non sortì l’effetto sperato.

«Break, piantala.» lo zittì infatti Gilbert «Non sei spiritoso.»

«Oh, Gil caro mi minaccia? Paura!» rispose divertito Break «Che ti prende? Non dirmi che ha già cambiato atteggiamento nei suoi confronti, soltanto perché hai scoperto due o tre cosucce lacrimevoli sul suo passato. Sei sin troppo sensibile..»

«Break!» tentò di riprenderlo Sharon, senza però eccessiva convinzione.

In fondo, sapeva ancora troppo poco di quella ragazza per poterla difendere a spada tratta e, ciononostante, se l’anziana Duchessa ne parlava in tono affettuoso, significava che ella non rappresentava un’autentica minaccia.

«Sono soltanto obiettivo.» continuò Xerxes, osservando con aria contrita al di là della porta-finestra sulla quale poggiava, sebbene non si scorgesse quasi nulla in mezzo alle tenebre della notte ormai inoltrata «Mi dispiace per il suo passato tragico, ma non è una garanzia di fedeltà nei nostri confronti o di accuratezza nel suo agire.»

«Beh, non mi sembra che tu ti sia poi così lamentato, mentre metteva a repentaglio la sua vita per fornirci una, seppur flebile, conoscenza riguardo ai Baskerville.»

Break tornò a fissare Raven, con aria inizialmente sorpresa e poi via via sempre più divertita.

«Fantastico! Gilbert si è fatto già ammaliare dal suo bel visino! Ti credevo un po’ più sveglio, ragazzo.»

«Xerxes, adesso stai esagerando.»

«Oh! Anche Reim si unisce al gruppo “difendiamo la povera ragazzina indifesa”! Ora cosa potrei mai fare, solo, contro due forze della natura come voi?»

«E tu, invece, mia cara Sharon?»

La voce gentile di Cheryl si frappose tra quelle sempre più acute dei tre uomini, zittendoli sul posto. Non appariva minimamente turbata da quel loro scambio tanto acceso e, anzi, pareva interessata unicamente alla nipote, che ricambiava il suo sguardo con incertezza.

«Io… onestamente non lo so. Non ho avuto modo di conversare con lei in privato, però...»

L’anziana attese pazientemente che Sharon trovasse da sé le parole giuste. A seguito di una breve attesa, la ragazza si fece più convinta.

«Non la conosco, ma sento che possiamo fidarci di lei. Questo è quello che mi dice l’istinto. Inoltre.» sorrise alla donna con infinita dolcezza «Se la nonna è serena, non vedo perché dovremmo dubitare del suo giudizio.»

La questione parve mettere i presenti d’accordo, sebbene Break perseverò a mantenere un atteggiamento scettico. Non era facile convincere il Cappellaio di aver trovato un nuovo alleato, però egli stesso dovette ammettere, almeno a se stesso, che la Duchessa non aveva mai sbagliato un giudizio in tutta la sua esistenza. Pregò intensamente che non stesse cominciando a perdere colpi proprio adesso.

«Bene, ora che siamo più sereni, che ne dite se vi racconto di come Rufus conobbe Mary? È una storia tanto graziosa e, sinceramente, è persino un po’ presto per andarsene a letto.»

Oz acconsentì immediatamente, annuendo con entusiasmo: adorava ascoltare storie sul passato, specialmente se erano cariche di azione o romanticismo. Erano tematiche che gli infervoravano l’animo sin da piccolo e, visto l’umore tetro degli ultimi giorni, trovava che questa fosse un’ottima occasione per rilassarsi in compagnia dei suoi compagni ed amici.

«Che tipo era la duchessa Barma? Non riesco ad immaginare una donna che possa perdere la testa per il duca Barma.»

«Oh, oh, oh! Che sfacciato, Oz! Però hai perfettamente ragione: Rufus non è una persona dal carattere facile. Ma nemmeno Mary lo era.» l’anziana si sistemò lo scialle, che le era appena caduto sulla spalla destra, e si lasciò trasportare dai ricordi «Era una donna forte, testarda come un mulo, ma anche estremamente dolce e sensibile. E poi era molto bella… Sophie le somiglia in tutto e per tutto, sembra quasi la sua reincarnazione!»

Lasciò che i presenti assaporassero le sue parole, come fosse una vecchia favola che si tramandava da generazioni, e non la vita di una persona che era vissuta in carne ed ossa fino ad una decina di anni prima.

«Dovete sapere che, quando Rufus incontrò la sua futura moglie, era più che mai deciso a non sposarsi. E, beh, su questo fronte era in ottima compagnia: nemmeno Mary aveva in testa di accasarsi. Lui giudicava le donne come esseri non degni della sua attenzione, troppo concentrate sul loro aspetto esteriore e sul desiderio di compiacere gli altri, per destare il suo interesse. E poi, che ne dica, era rimasto parecchio bruciato dal mio rifiuto categorico.»

Sharon per poco non perse i sensi, udendo tale rivelazione.

«Rifiuto? Tuo?! Nonna, ma che stai dicendo?»

L’anziana donna rise di gusto, come non le capitava da tempo.

«Cielo, tesoro, non sapevi che Rufus aveva un’infatuazione secolare per me?»

Sharon negò meccanicamente col capo, mentre il rossore piano piano svaniva dalle sue gote. Persino Break ridacchiava, divertito dalla goffaggine della propria padroncina e, ancor di più, dalla stoccata che il Duca Pazzo aveva ricevuto da Cheryl.

«Tsk, ben gli sta.» mormorò infatti, celando il suo commento dietro la manica della propria giacca «Vecchio rimbambito.»

«Ora sì che posso dire di averle sentite tutte...» mormorò Oz, troppo stordito dal divertimento provocato da quel pettegolezzo increscioso, quanto delizioso, per sentirsi in imbarazzo.

«Dal canto suo.» proseguì la Duchessa, dopo quella breve interruzione «Mary reputava i legami come qualcosa di estremamente fragile, perché potesse stringerli tra le sue mani. Ma, si sa, il destino ha sempre in serbo per noi le sorprese più inaspettate. Fu così che, un giorno, mentre Rufus stava gironzolando per le vie di Reveille, si scontrò con Mary. La cosa che lo colpì, però, non fu il suo aspetto, quanto le parole che gli rivolse.» a quel punto, Cheryl assunse un tono acuto e bisbetico «Ehi! Non si usa più chiedere scusa quando si va addosso alla gente, animale?».

Oz rimase di sasso, per poi coprirsi la bocca per non scoppiare a ridere: una scena del genere aveva del tragicomico. Parlare così ad un nobile, specie al duca Barma, equivaleva a cercarsi dei grossi guai eppure, al tempo stesso, tutto era così assurdo da risultargli comico. Gilbert, invece, non poté fare a meno di pensare ad un’altra giovane che, non molto tempo addietro, gli aveva rivolto il medesimo insulto. Evidentemente, la permanenza a Villa Barma aveva insegnato alla piccola Cassidy molto più delle semplici nozioni scientifiche.

«Rufus si sorprese di quella reazione, ovviamente. Lui era l’unico erede legittimo del casato Barma, mentre Mary era una comune fioraia. Hai idea di chi ha difronte? le aveva chiesto con aria imperiosa. “Certo che sì, il figlio dal Ciuffetto Pazzo del duca Barma. Mi perdoni se non le faccio un inchino, ma vado di fretta: a differenza sua, io devo lavorare. Buona giornata.” Detto ciò, si sistemò il vestito, quasi fosse offesa di essersi scontrata con un individuo simile, e se ne andò. Da quel giorno Rufus iniziò ad andare al suo negozio praticamente ogni giorno e mai a mani vuote. Le portava sempre un mazzo di fiori.»

«Che romantico!» si lasciò sfuggire Sharon, mentre si portava le mani alle gote, con aria sognante. Qualunque ragazza sarebbe impazzita di gioia per una corte tanto cavalleresca. Tutte, ad eccezione di Alice.

«Ma che ci faceva? Se li mangiava?» domandò infatti ad Oz, interdetta.

Non ricordava che i fiori avessero chissà quale sapore prelibato, anche se alcuni erano leggermente speziati. Il biondo rise di gusto, scuotendo il capo.

«Ma no, Alice! È un gesto romantico, che ogni nobiluomo è tenuto ad adempiere nei confronti della donna amata.»

«Non ci ho capito niente.» fu la secca risposta del Chain, che smorzò la fiamma della passione, sorta nel cuore del ragazzo, come uno spegnitoio.

«Regali fiori per ricevere in cambio un’altra cosa.» spiegò più pragmaticamente Break «Il cosa, dipende ovviamente dal singolo individuo.» terminò con una punta di malizia, che gli fece valere una ventagliata sul capo da parte della sua padroncina «Ne è valsa la pena.» bofonchiò sanguinante, però soddisfatto.

«Beh, sappiate che vi state tutti sbagliando.» fece divertita la Duchessa «Non fu né un gesto romantico, né tantomeno Rufus ricevette qualcosa in cambio, se non la sua medesima medicina. Ogni fiore ha il suo significato e il Duca, da degno erede del suo casato, conosceva alla perfezione ognuno di essi; perciò sceglieva con cura i fiori da donarle: il primo che Mary ricevette fu il tanaceto. Ti dichiaro guerra

«Tsk, noto con piacere che le sue doti seduttive sono migliorate, dal suo ultimo fallimento.» commentò compiaciuto Break.

«Sappi che Mary non era da meno, caro Xerxes. In risposta gli diede un rododendro, insieme ad uno smagliante sorriso.»

«Il rododendro?» chiese Oz che, nonostante il suo rango, non trovava interessante studiare quel genere di soggetto. A lui bastava sapere che la rosa rossa fosse sinonimo di passione ardente, oltre ad essere la regina dei fiori e dunque, in quanto tale, degna di ogni donna che si rispettasse.

«Stai attento.» svelò soddisfatta Sharon, che viceversa si dilettava con quel genere di letture.

«Oh, beh... è stata chiara.» ridacchiò Oz, leggermente a disagio.

Non era il tipo di corteggiamento al quale era abituato, tuttavia doveva ammettere che, conoscendone il finale, lo trovava ugualmente avvincente. Sembrava un duello al fil di spada, durante il quale gli avversari si studiano vicendevolmente prima di partire all’affondo. Non si trattava però di una lotta violenta. Si danzava, ci si provocava persino, ma sempre con una certa calma e freddezza, pressoché estetica. Il Vessalius non vedeva l’ora di scoprire chi dei due avrebbe messo il piede in fallo per primo, permettendo così all’altro di sferrare il punto della vittoria. Cheryl non si fece pregare e proseguì subito.

«Continuarono per anni, come fosse un rituale segreto. Ad un certo punto, arrivarono perfino a scambiarsi bocche di leone e basilico.»

«Presunzione e odio, dico bene, nonna?»

«Brava mia cara, vedo che hai studiato a dovere. Una vera nobildonna deve essere educata al meglio possibile ed i fiori, in quanto oggetti a noi spesso associati, non sono di meno rilevanza di buone maniere e musica.»

«E come terminò la guerra dei fiori?» volle sapere Oz, ormai completamente assorbito da quella storia tanto singolare quanto spassosa.

«Io ero convinta che la cosa sarebbe durata all’infinito, sinceramente. Non credevo possibile che uno dei due potesse mai cedere, visti i loro caratteracci. E poi, devo ammetterlo, era squisitamente dilettevole punzecchiare Ru caro circa quella ragazza.»

«Uh, uh, uh, posso ben immaginarlo, cara nonna!» squittì complice la nipote.

A quelle parole i presenti ebbero un moto di compassione nei confronti del Duca. Indiscutibilmente, non si trattava di una presenza a loro gradevole, ma quando si trattava di subire le angherie di una Rainsworth il cameratismo si faceva molto forte.

«Invece.» riprese la donna, ormai pronta a concludere il suo racconto «Un bel dì di Marzo, Rufus stupì sia me che Mary porgendole un semplice fiore, quasi si vergognasse di esporsi a tal punto.»

«Che fiore era? Una rosa rossa?» tentò subito di indovinare il Vessalius.

«Oh no, caro Oz! Rufus non è certo un tipo così banale.» il biondo incassò il colpo alla meglio delle sue possibilità, sebbene si sentisse profondamente ferito nell’orgoglio.

Perdonala, zio Oscar.” mormorò infatti tra sé e sé, mentre la Duchessa svelava l’arcano “Perché non sa quello che dice.”

«Aveva scelto un germoglio tanto bello quanto audace: il fiore di pesco. Il suo messaggio era: il tuo fascino non ha eguali

«Non mi sembra una cosa tanto imbarazzante.» convenne Sharon, memore di ben più audaci parole lette sui libri o sussurrate dai ragazzi che aveva conosciuto durante innumerevoli feste. Non per nulla, il nobile Oz rappresentava con fierezza tali pregiati esponenti del sesso maschile.

Anche gli altri ragazzi si ritrovarono ad annuire, concordi. D’un tratto, Sharon arrossì visibilmente, al punto da doversi portare le mani alle gote per coprirsele, come se temesse che scoppiassero da tanto era vivido il suo imbarazzo.

«Credo che la mia cara nipote si sia appena rammentata del loro secondo significato. Vuoi introdurlo a questi ignoranti, per cortesia?»

Gli occhi di tutti si puntarono sulla giovane e persino Reim, che solitamente se ne stava zitto zitto in disparte, era avido di informazioni, non conoscendo nemmeno lui i dettagli di quegli eventi.

«Beh, ecco il fiore di pesco significa anche...» Sharon prese fiato e distolse lo sguardo con fare drammatico e sognante «Sono tuo prigioniero

Ci fu un lungo attimo di silenzioso sbigottimento, in cui ognuno dei giovanotti, figurandosi in quella situazione, pensò che si sarebbe gettato nell’Abisso, piuttosto che esporsi a tanto. Si udì allora una risata. Dapprima fu uno sbuffo, poi un lieve gemito che infine esplose con forza. L’autore di ciò era ovviamente Break, che rese così palese come il nomignolo affibbiatogli dal Duca non fosse unicamente dovuto al suo Chain. Non riuscì a stare composto tanto si dimenava come un pazzo.

«Sono tuo prigioniero?» ripeté con le lacrime al suo unico occhio «Si può essere più idioti?!»

«Il Duca doveva essere rimbambito! Rimbambito!» confermò Emily.

«Break, come sempre sei assolutamente fuori luogo. Vedrai che cambierai presto idea, quando scoprirai come gli rispose Mary.»

«Con un pugno? O no, ha ragione lady Cheryl: troppo banale. Deve avergli lanciato in faccia un mazzo d’ortica!»

«Non fece né l’una né l’altra cosa.» fece composta nella sua ira silente, che riversò a suon di sventagliate sul capo dell’ormai moribondo Break; avendo riottenuto il silenzio e l’attenzione originaria, Cheryl sorrise ai ragazzi «Gli donò della lavanda: diffidenza. Temeva di sbilanciarsi troppo, eppure non lo rifiutò. E poi...»

«E poi?» vollero sapere gli altri, ormai rapiti come bambini dinnanzi ad una storia avvincente.

«Poi Rufus si stufò di attendere e senza tanti preamboli le chiese di diventare sua moglie.»

La delusione fu palese nei loro volti, sebbene nessuno rimase troppo stupito.

«Tipico, com’è che me l’aspettavo?» disse infatti Gilbert, leggermente infastidito da quel finale tanto banale quanto sconclusionato, almeno a suo dire.

«In effetti, per come era fatto, era stato anche sin troppo paziente. Il resto lo sapete: si sposarono, in seguito all’ennesimo litigio, ed infine nacque Sophie. Non potete nemmeno immaginare quanto Rufus fosse felice all’epoca.»

«Ma nessuno si oppose? Lei era solamente una fioraia, mentre lui un duca.»

«Giusta osservazione piccola Alice, ma il mio caro amico ottiene sempre ciò a cui ambisce. A lui non importava nulla del rango sociale di Mary o del fatto che non avesse avuto l’erede maschio che il suo casato richiedeva. Ciononostante, non deve essere stato facile per Sophie sopportare questo fardello, specialmente dopo la dipartita prematura di Mary.»

«È per questo che si maschera da uomo?» domandò Gilbert, ormai tornato con la mente a quella ragazza che, anche se per poco, aveva avuto modo di conoscere.

«Diciamo che è una scommessa che quella ragazza ha fatto con se stessa. Spera di poter essere la guida che il suo casato richiede e, al tempo stesso, di non far preoccupare troppo il padre. Essere un uomo le dà molti vantaggi, permettendole così di aprire tutte le porte che desidera… ma, mi domando, sarà davvero questo il genere di vita che desidera?»

«Che cosa volete dire, lady...» Gilbert non riuscì a terminare la frase. Aveva troppe domande da porre, troppi interrogativi che richiedevano una risposta, ma la Duchessa aveva altro in mente per il momento.

«Ho parlato troppo. Sophie si arrabbierà di sicuro quando lo verrà a sapere, ma era giusto così. Se volete conoscere altro, dovrete parlare la diretta interessata.»

Proferito ciò, saluto i presenti, augurando ad ognuno la buonanotte. Chiese quindi a Reim di scortarla nei propri alloggi privati. Non appena sparì oltre la porta, Oz trasse un sospiro di sollievo.

«Però, non credevo che Sophie fosse una ragazza tanto complessa, e voi?»

I suoi occhi smeraldo si puntarono su quelli di Break, il primo da cui voleva sentire un’opinione, dato quanto era stato perentorio nel suo giudizio iniziale.

«Io rimango dell’idea che sia solo una mocciosa viziata, figlia di un duca senza tutte le rotelle al loro posto.»

«Break!» lo richiamò per l’ennesima volta Sharon «Come puoi parlare così, dopo quello che hai sentito?»

«Posso eccome. Non sappiamo ancora abbastanza riguardo quella ragazza per poterci fidare di lei. Tuttavia...» fissò con un sorriso gentile la sua giovane padroncina «Se per voi è tanto importante, proverò a darle il beneficio del dubbio.»

Sharon parve sollevata nell’udire ciò, e ricambiò il gesto mostrando la sua espressione più sincera di gratitudine. A quel punto Oz, stando attento a non svegliare Alice, che nel frattempo si era addormentata sulla sua spalla, si rivolse all’amico d’infanzia.

«E tu, Gil?»

«Cosa?» domandò sovrappensiero il moro.

«Mi sembri parecchio pensieroso da quando la nobile Cheryl si è messa a parlare di Sophie e sua madre.»

«Mi stavo solo chiedendo cosa potesse averla spinta a prendere una decisione simile. Non sarebbe tutto molto più semplice se facesse il suo debutto in società come una ragazza qualsiasi? In fondo, è pur sempre la legittima erede del casato Barma.»

«Beh, allora devi solo chiederglielo!»

«Non intendo fare una cosa simile.» replicò inflessibile, incrociando le braccia al petto.

«Perché no?» domandò confuso il Vessalius.

«Perché…»

«Perché Gilbert non sa parlare con una pulzella!»

Il commento micidiale proveniva, senza alcun dubbio, dalla bambola maledetta di Break che, malcelatamente, se la sghignazzava con piacere.

«Colpito e affondato.» mormorò ilare il suo marionettista, mentre persino Sharon coprì una risatina con un colpetto elegante di tosse.

«Ma che c’entra quello?!» sbottò Raven, scattando in piedi tanto era infastidito da quelle continue prese in giro.

«Oh? Dunque non neghi?» il ghigno di Xerxes raggiunse proporzioni inumane, rendendo ancor più comiche le parole che seguirono da parte di Emily.

«Oltre che imbranato è pure tonto!»

«Basta, io me ne vado a letto!»

«Ehi, chi è che fa tutto questo baccano?» si lamentò Alice, ridestata da quel fracasso improvviso.

«Proprio vero quello che si dice: cosa hanno in comune un corvo e una scrivania?» pronunciò cantilenando Break, mentre Raven si dirigeva di gran carriera verso l’uscita, per poi sbattere la porta appena in tempo per udire la soluzione di quell’enigma privo di logica «Ma è ovvio: entrambi sono dei pezzi di legno!»



Caldo.

Fa un caldo indicibile.

Eppure è strano: siamo quasi ad ottobre ed il tempo dovrebbe essere più mite, invece pare che il sole non voglia abbandonare il suo bollore estivo.

Ma io... dove sono?

Mi do un’occhiata intorno e noto due cose: un giardino rigoglioso e ben curato davanti a me ed alle mie spalle unenorme villa.

Sono seduto su di una gradinata ed aspetto... che cosa?

Ah, già! Break è uscito con la nipote della duchessa Cheryl, Sharon se non ricordo male, per una passeggiata. La domestica mi ha detto di attendere in salotto, però a me non andava e così sono uscito, anche se l’afa è stordente.

Dev’essere per questo che sono tanto spaesato.

Spero che Break non torni tanto presto, vorrei starmene tranquillo qui ancora per un po’. Non mi va di tornare a Villa Nightray. Ora che ci penso, sebbene viva in quel luogo da ormai sei mesi, non riesco ancora a chiamarla “casa”. Eppure lì c’è il mio fratellino.

Vincent... com’è possibile che non mi ricordi nulla di lui?

Ogni volta che lo vedo non riesco a non provare paura, come se lui sapesse qualcosa che io non voglio conoscere...

Ecco, questo caldo mi fa venire strani pensieri.

Quasi quasi adesso torno dentro. Sono sul punto di richiudermi la porta-finestra alle spalle, quando un pensiero folle mi sfiora: ho come la netta sensazione che non dovrei alzare lo sguardo verso quei meravigliosi fiori che adornano il giardino. Sono certo che, se mi voltassi e prendessi posto in uno di quei comodi sofà che si trovano nel salotto, tutto filerebbe liscio come al solito; aspetterei Break, lo informerei sulle ultime novità riguardanti i Nightray e me ne tornerei in quella villa che tanto mi angustia. Invece, per qualche motivo ignoto, guardo fuori un’ultima volta e la vedo.

Una bambina, comparsa chissà dove, corre per il sentiero ghiaioso fiancheggiato da una schiera di roseti color rosa pallido.

Distrattamente, penso che se continuerà così andrà a finire per terra e...

Non ho nemmeno il tempo di terminare quel pensiero, che subito si avvera.

La bambina capitombola a terra ed inizia a piangere, chiamando con voce acuta la mamma. Potrei chiudere la porta e fingere di non aver visto nulla. In fondo, nessuno dovrebbe essere a conoscenza della mia presenza qui e poi, sicuramente, arriverà qualcuno ad aiutarla. Ma nessuno si fa vivo.

Sospiro e mi precipito verso di lei; senza proferire parola, l’afferro sotto le ascelle e la sollevo da terra, mettendola nuovamente in piedi. Lei subito smette di strillare e mi osserva, incuriosita ed un poco impaurita. Anch’io faccio lo stesso e, mentre mi maledico per le mie troppe premure, mi accorgo che è molto graziosa. I capelli sono corvini e mossi, sebbene molto corti e tagliati in maniera irregolare. Le gote sono paffute, ma la cosa che più mi colpisce sono gli occhi: due pozze d’acqua limpide e cristalline. Non può avere più di dieci anni e senza dubbio è una nobile, perché l’abito che indossa è di bella fattura. Nel mentre in cui analizzo tutto ciò, mi rendo conto di non aver ancora proferito parola. Visto il suo silenzio, decido di farlo, per non apparire maleducato.

«Tutto a posto? Non ti sei fatta male, vero?»

Lei continua ad osservarmi, senza dar segno di avermi udito e limitandosi ad inclinare un po’ la testa. Probabilmente sta pensando che dovrei trattarla in modo più ossequioso, e a buon rendere. Oramai sono abituato a trattare i miei coetanei col dovuto rispetto dato dal loro rango sociale, ciononostante non mi risulta altrettanto naturale farlo con una bimba così piccina. Mi ricorda molto la mia sorellina acquisita ed il suo fratellino, che mi corrono sempre attorno quando mi vedono passare per i corridoi della villa. Probabilmente è per questo che la tratto con tanta confidenza.

«Bene, se è tutto a posto, io andrei… con permesso...» riesco infine a dire, ma non compio nemmeno un passo che la sua manina mi blocca, afferrandomi per una manica della giacca.

«Tu chi sei?» mi chiede con tono perentorio.

Ha una vocina acuta, molto goffa nel pronunciare le parole, come se non fosse abituata a rivolgersi ad altri bambini. Le parole che utilizza, però, mostrano una grande libertà di espressione, che non so dire se sia dovuta al fatto che possa parlare in tal modo a chiunque o se, più banalmente, mi abbia preso per un servitore.

«Mi chiamo Gilbert...» mi blocco appena in tempo.

Diamine, mi ero appena ripetuto che nessuno deve venire a conoscenza delle mie visite a Villa Rainsworth ed ecco che mi metto a rivelare tranquillamente la mia identità alla prima ragazzina che incontro!

«Giochiamo insieme, Gil?» mi domanda lei, incurante della mia espressione irrigidita.

«Non so se...»

«Ti preeego!» oltre alla voce, anche i suoi occhi sembrano supplicarmi.

Maledizione, perché devo essere così facilmente condizionabile?

«D’accordo, però devi promettere di non dire a nessuno che mi hai visto, intesi?»

«Promesso!» la sua spontaneità mi tranquillizza, anche se per poco.

Insomma, quanto può valere la promessa di una bambina?

Sia quel che sia, ora mi ritrovo a correre da chissà quanto, mentre quella misteriosa bambina mi rincorre ridendo come non mai. So bene che non dovrei farlo, ciononostante anch’io sorrido divertito. Mi sembrano trascorsi anni dall’ultima volta che ho giocato insieme al padroncino Oz ed alla sua sorellina Ada.

Tutt’a un tratto, il suolo si fa sempre più vicino, finché non lo raggiungo con un tonfo. Ho a malapena il tempo d rendermi conto di essere finito gambe all’aria, che qualcosa si getta su di me con tutto il suo dolce peso.

«Preso!» squittisce lei sorniona.

«Brava, hai vinto. Ti dispiacerebbe spostarti, adesso?» gemo, incapace di muovermi.

Lei obbedisce e si sdraia accanto a me, puntando lo sguardo all’immenso blu che ci sovrasta. Do un’occhiata anch’io, ma a parte qualche nuvola non noto nulla di interessante. Chissà cosa ci troverà lei di così affascinante. Ora che la guardo bene, mi viene l’assurdo pensiero che i suoi occhi siano diventati blu come il cielo a furia di guardarlo. Scuoto la testa e mi decido a parlare.

«Posso farti una domanda?»

Lei annuisce, continuando ad osservare la volta celeste.

«Me ne hai appena fatta una. Forse dovresti chiedermi se puoi farmi due domande.»

La osservo confuso, senza replicare a quel commento sagace. Decido di andare per ordine di curiosità, più che per importanza.

«Che hai fatto ai capelli?»

«Ho mantenuto la promessa.» dice semplicemente.

«Come?»

«Fino a stamattina avevo i capelli lunghi fino qua.» mi indica la sua vita «Ma papà mi ha fatto arrabbiare. Aveva promesso che oggi avrebbe giocato con me, invece mi ha portato qui dalla zietta, perché doveva lavorare. Io l’avevo avvertito. Avevo detto: “Papà, se non mantieni la promessa, mi taglio i capelli.” Lui non mi ha creduto e mi ha ugualmente portata qua. Non appena ho visto un paio di forbici ho fatto zac zac. Papà si è arrabbiato tanto.»

Io mi limito ad osservarla allibito: non sarà mica un’altra maniaca delle forbici, vero? Perché l’ossessione di Vincent mi basta ed avanza.

«Ma, perché tra tutte le cose da fare, hai deciso di tagliarti i capelli?»

«Perché a papà piacevano tanto. Dice sempre che così assomiglio di più alla mamma. Un po’ dispiace anche a me, però è colpa sua, no?» finalmente si decide a fissarmi. Ha gli occhi lucidi, sembra sul punto di piangere.

«Beh, in effetti se aveva promesso...» a quelle parole lei sorride, rasserenata «Però non avresti dovuto arrivare a tanto.» la rimprovero.

Le sue labbra si incurvano verso il basso e mi guarda turbata.

«Dici che papà mi odia, adesso?»

«No, certo che no!» esclamo subito con convinzione, memore del danno irreparabile che avevo compiuto anni or sono con il mio padroncino «Anche se hai fatto una sciocchezza e si è arrabbiato tanto, sono certo che lui ti vuole bene lo stesso!»

O, almeno, lo spero con tutto il cuore.

Non posso averne la certezza, ma verità o no, voglio che questa bambina non debba soffrire come ha fatto Oz. Lei pare capire il mio turbamento e mi rassicura.

«Sì, è quello che mi diceva sempre anche la mamma.»

«Diceva?» domando sorpreso.

«Sì, è morta tre anni, cinque mesi e tredici giorni fa. Ho tenuto il conto.» ammette con una smorfia, quasi si vergognasse a rivelare la sua meticolosità «Però ogni tanto, quando ho tanta paura, la chiamo ancora e l’aspetto. Anche se non viene mai

«Mi dispiace.»

Ed è vero, mi fa star male sapere che questa bambina sia così sola. Forse perché mi ricorda Oz… o me stesso. Io nemmeno avevo un volto da chiamare, quando mi ero risvegliato in mezzo al giardino dei Vessalius. Avrei tanto voluto invocare un nome, avere in mente una persona che potesse consolarmi, seppur nell’assenza. Invece, dentro di me c’era, ed ancora permane, soltanto il buio. Lei pare leggere il mio turbamento.

«Non devi, all’inizio ho pianto tanto, ma adesso va un po’ meglio: il mio papà gioca spesso con me e, quando è troppo impegnato, mi fa compagnia Reim oppure la zietta.»

«Quando dici zietta, intendi...»

Non può riferirsi alla signora Cheryl, vero?

«La vecchia signora che vive qui.»

«È maleducato dire vecchia, dovresti dire anziana.» riesco a ribattere, nonostante la confusione mi attanagli: chi diamine è questa bambina, che parla con tanta confidenza della Duchessa?

«D’accordo: la vecchia anziana che vive qui.»

Vorrei restare serio, ma non riesco a trattenere una risata: è proprio buffa.

«Tu abiti qui?» mi chiede con aria speranzosa.

«Veramente, no.»

«E allora che ci fai qua?»

«Facevo visita ad un amico.»

Vero, in parte. Definire Break un amico è decisamente improprio, ma non credo che questa bambina baderà troppo a simili quisquilie.

«E la tua mamma dov’è?»

Un vento gelido mi attraversa il petto, nonostante il caldo atroce.

«Io non ce l’ho la mamma e nemmeno il papà... ad essere sincero, non ricordo nulla del mio passato.»

Non dovrei dirle così tanto, lo so bene, ma che male c’è? Di certo non ci rincontreremo mai più, perciò che differenza può mai fare?

«Perché piangi?»

«Ti sbagli. Io non sto piangendo.»

Ed è vero, non sto piangendo. È da molto che non lo faccio. Le mie lacrime è come se si fossero esaurite, a furia di versarle. Sono triste, ma mi manca soltanto di ammettere che mi sento solo, per sentirmi veramente miserabile. Ad una bambina più piccola di me, per giunta.

«Ma hai una faccia così triste...»

«Non… non è vero! Io non posso essere triste.»

«Perché no?»

Stringo i pugni, ricordando quella notte. La confusione iniziale, il terrore di ciò che vidi, e poi il dolore al petto, seguito da un buio senza fine e, al termine di tutto, il risveglio. Il mondo, per come lo conoscevo io, era cambiato per sempre. Il mio sole non avrebbe più splenduto col suo bagliore rassicurante. Avevo perduto ogni cosa...

«Ho perso una persona a me molto cara, ma sono intenzionato a riprendermela e per farlo, non posso assolutamente mostrarmi debole!»

Mi esce dalle labbra con odio, una furia che mi porto sempre addosso come un mantello. Se sono furioso, con me stesso, con Zai Vessalius, con gli Dei Scarlatti, con il mondo, allora non posso essere triste. Ed è molto meglio così.

Una mano, delicata, sfiora la mia, chiusa a pugno. Mi volto ad osservare tale prodigio e noto come sia calda e gentile quella piccola stretta, all’apparenza infinitamente fragile.

«… non ti capisco. Quello che dici è brutto, se sei triste dovresti semplicemente dirlo.» dice lei, stringendomi con ancor più forza, come se in questo modo le mie paure potessero svanire nella dolcezza del suo gesto.

«Forse hai ragione, ma non posso farlo.» le concedo con gentilezza.

Quel suo gesto innocente mi ha scaldato il cuore e, adesso, la rabbia che provo nel petto è come alleggerita, come se fosse evaporata in quell’immenso cielo azzurro.

«Allora, vorrà dire che piangerò io per te!»

«Cosa?!» esclamo incredulo.

Ma che va dicendo, adesso?

«Se io piango al posto tuo, allora non sarai più triste, giusto? Sono stufa di vedere persone tristi intorno a me… io vorrei solo che tutti fossero felici.»

«Sei molto gentile, ma temo che ti dimenticherai presto di me... però, ti ringrazio.» le rispondo in tono calmo, mettendomi a sedere.

Comincia a girarmi un poco la testa… forse sono stato troppo al sole.

Lei si dimena, pare una tarantolata, e poi si butta a sedere, esclamando qualcosa che non colgo. Perché ad un tratto penso ad una chiesa? La testa mi gira leggermente, ma mi impongo di tornare concentrato.

«Questa è una promessa! Il mio papà dice che bisogna sempre mantenere le promesse, perciò se lo dico, lo farò di certo!»

Mi fissa con aria talmente seria, che sento di doverle credere. Non ne comprendo il motivo, ma so che è la cosa giusta da fare.

«Va bene, in questo caso, quando sarò triste ti aspetterò, così che tu possa portare via la mia tristezza.»

«E allora mi sorriderai?»

«Certo!» le rispondo con solennità, rimembrando la sacralità con cui avevo giurato la mia fedeltà ad Oz.

«Promesso?» insiste lei.

Non sembra convinta delle mie parole. Forse perché mi sento leggermente stordito.

«Promesso.» le rispondo ugualmente, sicuro.

«Allora, è deciso: facciamo giurin giurello!»

«Cosa?»

Non mi permette di protestare: mi prende la mano e intreccia il proprio mignolo con il mio. Poi afferra uno dei soffioni che crescono rigogliosi intorno a noi e se lo porta alla bocca.

«Prometto solennemente che, quando sarò più grande, tornerò da te!»

A quel punto mi fissa speranzosa, ma dato che non proferisco parola, mi suggerisce cosa dire e così eseguo.

«Prometto solennemente di aspettarti fino ad allora.»

«E prometto!» trilla lei «Che non ti lascerò mai

A quel punto conta fino a tre ed in coro concludiamo la filastrocca.

«Promessa, promessa, dal cuore mi vieni

e nella mia testa io sento che tremi

dammi il ditino, stringilo forte

il nostro patto è eterno come la morte!»

Al termine di tutto, soffia con forza sui petali del fiore che, come una magia, si schiudono e volano lontano. È uno spettacolo bellissimo, ne rimango incantato. Sebbene non sia accaduto nulla di speciale, mi sento felice.

«Signorina!»

Chi urla?

«Signorina, dov’è? La prego, mi risponda, signorina!»

Ah, ma certo, deve essere una delle domestiche che cerca questa bambina sperduta. Chissà di chi è figlia, per chiamare la nobile Cheryl “zia”? Magari una nipote, come Sharon? Però, mi pareva di ricordare che la madre di Sharon non avesse sorelle o fratelli.

«Mi cercano, ho paura che devo andare.» mi dice la bambina, correndo via, in direzione della voce.

«Aspetta!» le urlo «Non mi hai ancora detto come ti chiami!»

Che importanza ha? Spero forse di rivederla davvero, un giorno?

Mi gira la testa, ma sento dentro di me una certezza. No, il problema non è che ci spero: io credo fermamente nelle sue parole, per qualche assurdo motivo.

Lei si ferma e si volta, per sorridermi un’ultima volta.

«Sophie! Il mio nome è Sophie!»

Poi corre via e sparisce, così com’era apparsa. Come un sogno.

Gilbert Nightray si svegliò di soprassalto, colto da un fortissimo batticuore. Si mise seduto ed osservò fuori dalla finestra: il buio cospargeva ancora il cielo come un manto delicato. Cercò a tentoni sul comodino il suo orologio da taschino e l’aprì sotto un flebile raggio lunare.

Le tre e un quarto di notte.

Si lasciò cadere nuovamente sul materasso. Quel sogno che aveva fatto giorni addietro non era affatto un sogno. Era un ricordo.

Il suo corpo era come febbricitante, memore del colpo di calore che aveva preso in quell’occasione e che lo aveva costretto a letto per diversi giorni. Stentava ancora a crederlo, ma non poteva essere altrimenti: lui aveva già incontrato Sophie Barma, molto, molto tempo fa. In un’epoca per lui buia, aveva assaporato un raggio di sole che lo aveva scaldato per qualche vana ora.

La domanda che gli premeva ora nella mente era una soltanto: anche Sophie si ricordava di lui?

 

 

MEANDRO DELL’AUTRICE:



Ben ritrovati, eccoci al fatidico capitolo che presenta la mia primissima OC.

Ah, mi sento come una mamma che vede la sua piccola fare i primi passi e poi si accorge, con orgoglio, che oramai è grande e sa cavarsela da sola. Dio, Sophie da sola è una pasticciona, ma come personaggio ha fatto enormi progressi.

Da qui cominciano le prime grosse differenze di trama, rispetto alla prima stesura. Cielo, se ripenso a come avevo fatto correre gli eventi mi viene da ridere. E credevo pure di andare a passo lento… ah, l’ingenuità adolescenziale.

Non so se ve ne siete accorti, ma sappiate che la scelta dei titoli è fatta proprio per ricordare i capitoli dell’edizione italiana del manga. Volevo creare una continuità tra fumetto e fanfic e, insomma, so di suonare pretenziosa, ma l’effetto mi piace moltissimo. Voi che ne pensate?

Spero che continuerete a seguire le avventure di Sophie. L’appuntamento come sempre è sabato prossimo, il 17 giugno (uh, adoro questo numero, mi ha sempre portato bene a scuola!): Resonance - LA MELODIA DISTORTA DEI RICORDI –

Non mancate!



Moni =)

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Capitolo 5
*** RETRACE: IV Resonance - LA MELODIA DISTORTA DEI RICORDI - ***


RETRACE: IV Resonance

 - LA MELODIA DISTORTA DEI RICORDI -



«Come ti senti, Elliot? Sei riuscito a riposare questa notte?»

La voce gentile di Leo fu la prima cosa che Elliot Nightray mise a fuoco quel giorno. Il mondo gli appariva ancora obnubilato e confuso, distorto dalle nebbie degli incubi che, persistenti, non gli davano pace. Si coprì gli occhi con il braccio, tentando di calmare la propria mente e di ritrovare lucidità. Almeno, il primo suono che aveva udito era la voce di Leo e, per quanto gli fosse difficile ammetterlo a parole, ne era felice.

«No.» disse con sincerità, per poi osservare di sfuggita il proprio servitore, che lo analizzava con preoccupazione dal bordo del letto «Ma grazie lo stesso per averci tentato.»

«Tentato cosa?» domandò confuso Leo, i capelli più arruffati del solito per la nottata trascorsa a rigirarsi nel letto a causa dell’apprensione nei confronti di Elliot. Non si trattava più di casi isolati, ma di una vera e propria condanna a cadenza costante.

«Di credere che avessi avuto un sonno sereno.»

Leo sbuffò, chinando il capo con aria abbattuta.

«Vorrei poter fare di più…» borbottò a bassa voce, per poi alzarsi e dirigersi verso l’armadio della stanza che condividevano alla Lutwidge «Coraggio, in via del tutto eccezionale, ti porterò la colazione a letto. Ma vedi di farti trovare vestito, per allora.»

Elliot si mise a sedere, fissandolo ad occhi spalancati ed ormai completamente sveglio.

«Tu chi sei? Dov’è il mio servitore solo di nome e mai di fatto?»

A quelle parole Leo si bloccò, rimanendo con la giacca dell’uniforme infilata solo per metà manica. Nonostante la matassa di capelli e gli enormi occhiali che gli celavano il viso, Elliot poté chiaramente avvertire lo sguardo interdetto del ragazzo. Si trattenne a fatica dal ridere: non era solito punzecchiarlo, generalmente avveniva il contrario anzi. Però, quelle rare occasioni in cui riusciva a coglierlo in contropiede erano impagabili. Si beò per dei lunghi istanti della sua prima vittoria di quel giorno.

Nel frattempo Leo parve riprendersi. Non proferì parola e completò la sua vestizione, in totale mutismo. Si pettinò persino distrattamente i capelli, che comunque obbedivano ad una volontà propria e si rifiutavano categoricamente di stare al loro posto, e si diresse infine verso Elliot.

«Chiedo venia.» disse pacatamente, simulando un breve inchino, che in realtà servì soltanto a farlo chinare verso l’orecchio del povero malcapitato «Forse il mio amato padrone preferisce che sia io a spogliarlo?»

L’effetto fu immediato.

Elliot schizzò in piedi, andando a sbattere inevitabilmente con la testa sulla mensola che si trovava strategicamente sopra il suo letto. Mentre agonizzava per il dolore e la vergogna, una risata cristallina riempì l’aria.

«Ahahah, ma che strano! Eppure ieri sera non mi pareva che ti fossi fatto tanti problemi a spogliarti davanti a...»

«LEO! La colazione! Presto prima che finisca!» tuonò Elliot, mentre evitava accuratamente di alzare il capo.

Quella mattina era iniziata decisamente col piede sbagliato.

D’altro canto, Leo pareva di eccellente umore.

«Ah, beh, se questo è ciò che il mio amato desidera...» mormorò serio, per poi dirigersi alla porta «Fatti trovare pronto al mio ritorno, idiota. O non rispondo delle mie azioni.»

«Sei un dannato… !»

Ma Leo non ebbe mai l’occasione di udire quale titolo onorifico il suo caro padrone avesse in mente per lui. Sebbene una vaga idea ce l’avesse.

È troppo facile stuzzicarlo.” pensò con dolce malizia il servitore “Anche se ogni tanto dovrebbe imparare ad essere più sincero con se stesso. Oh beh, ho tutto il giorno per fargli entrare in zucca questa lezione.”

Con passo svelto, si diresse verso la mensa, costringendosi ad indulgere su quei pensieri frivoli e gioiosi. Non voleva pensare a ciò che gli incubi di Elliot significassero, né alle occhiaie che ormai sempre più marcatamente adornavano il suo viso. Voleva semplicemente vivere la sua vita in pace, con il ragazzo che amava e che il destino gli aveva concesso di incontrare.

Avrebbe rimesso le cose apposto, doveva soltanto pensare questo.

Tutto si sarebbe sistemato, doveva mantenere la calma e cercare di stare accanto a Elliot il più possibile, facendogli dimenticare quei sogni terribili.

Avrebbe rimesso le cose apposto, doveva soltanto convincersene.

 

 

«Alla Lutwidge?!» esclamò Gilbert.

Da quando il Nightray si era definitivamente svegliato, alle otto e mezza di quel mattino di marzo, aveva cercato di comportarsi normalmente, sebbene dentro di sé si agitasse una voce che non voleva saperne di tacere. Aveva già sufficienti grilli per la testa, da quando aveva ascoltato le rivelazioni di Break e del duca Barma, ormai diversi giorni or sono, e non vedeva l’ora di parlare con Vincent. Anzi, già quel giorno si sarebbe voluto recare da lui, dati i molti avvenimenti che lo avevano bloccato sino ad allora, ma di nuovo aveva dovuto capitolare. Oz si sarebbe certamente accorto della sua assenza prolungata, avendo ancora una volta la giornata tediosamente libera, e lui invece voleva avere tutto il tempo per discutere con suo fratello. Avrebbe dovuto attendere un’occasione migliore.

Tutto questo, unito al sogno rivelatore della notte appena trascorsa, aveva messo un impellente desiderio di azione nel corpo del giovane: Sophie Barma era un mistero che andava svelato quanto prima e, ora che sapeva di averla incontrata da bambino, voleva saperne di più. Forse, parlandole a quattrocchi, avrebbe finalmente saputo giudicarla per ciò che era veramente.

Sarebbe stata un’alleata o l’ennesimo ostacolo alla loro indagine?

No, non avrebbe senso… perché aiutarci, allora?” pensava nervosamente Gilbert, per poi subito contraddirsi “D’altro canto, perché aiutarci, per l’appunto? Che vantaggio ne trarrebbe, lei?”

L’unica conclusione a cui era giunto era che doveva confrontarsi con lei, quanto prima. Oz non avrebbe avuto da ridire, in questo caso, dato che si sarebbe trattata di una chiacchierata che nulla aveva a che vedere con la verità di cento anni prima. Inoltre, a differenza di Vincent, che reputava un oratore astuto, Sophie sembrava molto più alla mano. Sarebbe stata una questione sbrigativa, di cui nessuno si sarebbe accorto.

Si era dunque appropinquato a Reim durante la colazione, fingendo di volersi semplicemente confrontare su casi riguardanti Pandora: i soliti contraenti illegali che, sistematicamente, andavano catturati ed interrogati, qualche studio sull’Abisso che, come da manuale, si era rivelato un buco nell’acqua, e faccende relative all’amministrazione interna. Un guazzabuglio tedioso, che però metteva Reim immediatamente di buon umore. Adorava il suo lavoro e, per qualche motivo che a Gilbert sfuggiva, tutti lo ammiravano ed evitavano al tempo stesso.

«Essere così ligi al dovere è una vera maledizione.» aveva ammesso il servitore a un tratto, mentre sorseggiava il suo tè mattutino.

A ciò era seguito il mancato tentativo di Gilbert di apparire il più distaccato possibile, mentre lo interrogava sull’esatta ubicazione di Sophie Barma. Non appena l’amico gli aveva rivelato che la ragazza si trovava alla scuola privata che frequentavano anche Ada ed Elliot, Gilbert non era riuscito a trattenere un’esclamazione di sorpresa.

Reim strabuzzò gli occhietti color nocciola e confermò quanto appena detto.

«Sì, si trova alla Lutwidge. Perché ti stupisci tanto?»

Il Nightray si coprì il volto con la propria tazza, nel tentativo di dissimulare quanto appena accaduto.

«No, è che... non credevo sarebbe tornata così presto a scuola. Non è un posto che sento nominare con piacere...» ammise con aria mesta, memore della sua ultima scorribanda con lo zio Oscar.

«Beh, effettivamente lei avrebbe voluto rimare qui ancora un po’, ma il Duca non è stato del medesimo avviso.»

«E per quale motivo? Non vuole tenerla sempre d’occhio, da quello che ho capito?»

«Infatti.» confermò Reim «Non c’è nulla di più sicuro delle mura della Lutwidge, specie per tenerla a freno. A casa avrebbe fatto il diavolo a quattro, pur di non starsene a riposo. Lì, almeno, avrà le lezioni da seguire e sarà troppo impegnata per fare qualunque pazzia.»

«Pazzia?»

«Beh, sì, insomma… come dirlo in modo educato?» il servitore di casa Barma si fece pensieroso, poi batté soddisfatto le mani, felice di aver trovato il compromesso che cercava «Quando si impunta a voler fare qualcosa è un vero demonio!»

Gilbert lo fissò interdetto, come se non riuscisse a credere alle sue orecchie.

«Reim… ti rendi conto che non è molto carino da dire, vero? La dipingi come una pazza indemoniata.»

«Cosa?! No, no, no, per niente! Beh… magari, un pochetto, sì?» sospirò, chinando il capo «Il fatto è che una ragazza che si impegna fin troppo in tutto quello che fa, è come se...»

«Fosse ossessionata dal non voler deludere le persone a lei care. Sì, l’ho già sentita.»

«Cassidy, eh?»

«Già...»

«Sophie è una ragazza speciale.» disse con un sorriso sincero, che raramente Gilbert gli aveva visto poiché, solitamente, quel genere di espressione era riservata alla nobile Sharon «Certo, è molto emotiva e cocciuta, esattamente come il padre, ma… ha un gran cuore. È la persona più gentile che conosca.»

Gilbert ripensò alle ore che avevano trascorso assieme, mentre si trovavano in missione a Reveille e, per qualche ragione che reputava assurda, non poté fare a meno di annuire. La descrizione di Lunettes calzava a pennello, per quel poco che aveva potuto constatare con i propri occhi.

«Ma dimmi, perché ti interessava sapere di Sophie?» chiese incuriosito Reim, con fare leggermente inquietante: pareva quasi Sharon quando osservava con interesse un romanzo che le piaceva particolarmente.

«Perché? Beh, ci devo parlare.»

«Sul serio? E perché?»

Gilbert cominciò a dubitare della sanità mentale dell’amico.

«Perché sì.» rispose laconico, non sapendo nemmeno lui bene come rispondere «Ora scusami Reim, ma devo andare.»

«Andare? E dove?» chiese confuso l’altro, che pareva essere stato interrotto proprio sul più bello.

Di cosa, Raven non ne aveva la benché minima idea. Afferrò il suo fidato cappello nero e, recuperati anche i guanti che aveva poggiato sul tavolo per la colazione, fissò cupamente Reim.

«Nell’ultimo luogo al mondo in cui vorrei rimettere piede.» si limitò a rispondere, sospirando e maledicendo quel dannato Duca, la cui puntualità nel prendere decisioni a suo danno rasentava il ridicolo.

 

 

Il professor Abraham Chapman, docente di Storia Antica presso la prestigiosa scuola Lutwidge, non aveva mai mancato una lezione in trenta onorati anni di servizio. Malgrado ciò, essendosi improvvisamente ammalato il minore dei suoi figli e non avendo più una moglie che potesse assisterlo durante la veglia, non poté far altro che macchiare con un’assenza la sua altrimenti immacolata carriera.

Gli studenti del terzo anno erano stati così invitati a trascorrere l’ora di lezione nella biblioteca comune. Armati di diversi libri, Elliot e Leo si erano accomodati l’uno accanto all’altro, determinati a sfruttare quell’inatteso momento di studio libero per ultimare la tesi di fine anno scolastico. Mancavano ancora diversi mesi alla conclusione delle lezioni ed alla conseguente data di consegna, ma non volendo perdere un solo minuto delle giornate di vacanza che erano loro concesse durante le sporadiche feste, i due avevano deciso di buttarsi fin da subito a capofitto nella stesura.

Si trattava di una relazione che, ogni anno, era richiesta agli studenti: un tema sull’operato svolto, qualche collegamento sulle materie in programma ed infine un’accurata analisi, con eventuali punti deboli e suggerimenti per il miglioramento, relativi sia alla propria condotta che a quella dei docenti. Era un metodo convalidato per permettere a tutto il corpo docente e studentesco di perfezionarsi, mantenendo l’eccellenza che, da ormai un secolo, caratterizzava la Lutwidge.

Elliot, come suo solito, faticava a concentrarsi sulle materie scientifiche, che detestava con tutto il cuore, l’animo e persino lo stomaco. Non riusciva infatti a memorizzare con facilità né il mare di formule relative alla geometria, né tantomeno il nome latino delle specie animali. Se avesse potuto, si sarebbe limitato a studiare poesia ed arte ma, per sua sfortuna, l’algebra e la botanica erano materie di spicco di tutto il corso di studi. Fortunatamente per lui, Leo non abbandonava mai il suo fianco, suggerendogli possibili soluzioni ai suoi continui blocchi.

Proprio mentre stava felicemente proseguendo un paragrafo che lo aveva tenuto in scacco per diverso tempo, una squillante voce femminile gli fece repentinamente puntare la penna sul foglio, provocando così un’enorme chiazza d’inchiostro che, lesta, si allargò a macchia d’olio.

«Oh, Leo, Elliot, buongiorno!» aveva esclamato Ada Vessalius, nel vedere i compagni chini in biblioteca.

La reazione di Elliot al disastro appena creato sovrastò il saluto gentile di Leo.

«Ancora tu! Guarda che macello mi hai fatto fare!»

Per la collera Elliot si drizzò in piedi, facendo scaturire un mormorio collettivo lungo i banchi. La sua antipatia per il casato Vessalius era rinomata ed era palese che non sopportasse la dolce secondogenita della famiglia rivale, per giunta di due anni più grande di lui e, di conseguenza, sua “superiore” a scuola. Provava per lei un istintivo fastidio, acuitosi da quando aveva avuto occasione di incontrare il fratello maggiore di lei.

Ciò che realmente lo faceva scattare ogni volta, erano in realtà i sentimenti contrastanti che albergavano in lui. Ada era un’eccellente studentessa, un po’ sbadata, ma sempre gentile ed attenta agli altri, al punto da esser stata nominata presidente del comitato del buon costume, oltre che rappresentate del consiglio studentesco. Oz gli era invece subito risultato indigesto, per diversi suoi modi di fare, sebbene in verità provasse simpatia per quel ragazzo. Tutto questo, però, andava nettamente in contrasto con quanto gli era sempre stato insegnato riguardo i Vessalius.

C’era da aggiungere, infine, che quel loro siparietto era ormai divenuto più un’abitudine per Elliot, che una vera questione di onore. Erano come due vecchi attori, troppo legati alla parte che li aveva resi celebri per smettere di calarsi nei personaggi.

Leo sospirò, rassegnato a dover sedare l’ennesimo scatto d’ira del padrone. Prima che Ada potesse anche solo pensare di scusarsi, una voce inchiodò sul posto il giovane Nightray.

«Se non sei manco capace di tenere in mano una penna, non è colpa sua, sai?»

Irritato, Elliot si voltò verso il responsabile di quell’uscita tanto spavalda e schietta, che naturalmente si rivelò essere…

«Caleb Bauer!» lo apostrofò subito il giovane, aggrottando pericolosamente le sopracciglia sottili alla volta del collega1 «Sempre a ficcare il naso in affari che non...»

«Stai sbraitando in biblioteca, davanti ad una ragazza che ti ha semplicemente salutato con educazione, e per giunta più grande di te, soltanto perché sei talmente tonto da aver macchiato la tua ricerca. Almeno abbi la decenza di tacere, quando hai torto.»

Colpito e affondato, tanto più che diversi ragazzi si trattennero a fatica dal ridere, Elliot non poté far altro che risedersi, aiutato da Leo che, poggiata una mano sul suo braccio, gli diede il colpo di grazia: «Certo che anche tu, scatti sempre come una molla per nulla». Chi non riuscì a trattenere le risate, ricevendo così uno scappellotto di ammonimento dalla bibliotecaria, giunta in quel mentre per sedare la rivolta in atto nel suo regno, fu un giovanotto dalla pelle d’ebano ed i capelli inconsuetamente chiari, color del grano.

«Gideon, anche tu però… meno.» lo redarguì Caleb, mentre con un sospiro rimetteva a posto il tomo che era venuto a restituire in biblioteca «Che poi, che diamine ci fai qua? Non dovresti essere a lezione di scherma?»

«Dovrei, ma… non c’ho vogliaaa!» ammise con un lamento il ragazzo, poggiandosi di peso sulla libreria alle sue spalle «E poi è molto più divertente seguirti, passerottino.»

«Ancora! Non...» abbassò la voce, notando gli sguardi dilettati che si erano puntati su di loro «Non chiamarmi così, idiota!»

«E perché no? Da quando ho sentito le tue doti canore, sono rimasto estasiato.» replicò con un ghigno il ragazzo, memore dell’imbarazzante performance che Caleb aveva mostrato durante l’ora del coro, il primo anno.

Era stato inutile cercare di difendersi, dato che la verità sarebbe stata ben peggiore: Caleb, alias Sophie Barma, aveva dovuto necessariamente falsare la propria voce per non farsi scoprire dai compagni. Nella sua mente, era meglio farsi passare per stonato, piuttosto che per un eunuco. Questo, ovviamente, prima di conoscere Gideon che, da quell’evento, non l’aveva più mollato per un secondo, autoproclamandosi suo migliore amico e nominando altresì Bauer “il passerottino di Reveille”. Titolo a cui Caleb avrebbe volentieri dato fuoco, assieme al ragazzo.

Per sua fortuna, la ragazza aveva trovato in lui un amico sincero, oltre che un simpatico compare di rocambolesche avventure. Non che ci fosse molto da fare alla Lutwidge, salvo litigare con Elliot Nightray e organizzare scherzetti ai docenti più antipatici, ma questo per Sophie rappresentava il suo angolo di pace e divertimento. Con Gideon riusciva ad essere una semplice diciottenne, anche se maschio agli occhi di tutti. E, di questo, gliene era profondamente grata.

«Ehm… scusatemi se vi interrompo.» Ada Vessalius, timidamente, si era loro avvicinata, puntellando gli indici tra di loro con fare impacciato «Volevo ringraziarti per prima, Caleb. Anche se...»

«Elliot non è una cattiva persona, e bla bla bla. Lo so. Ma resta un buffone, se ti insulta senza un motivo logico ogni santa volta.» replicò secco Caleb, per poi incrociare le braccia al petto «Dovresti imparare a rispondergli per le rime, sai?»

«Caleb, so che ti sorprenderà venirlo a scoprire così, ma Ada è una graziosa donzella. Non uno scaricatore di porto, come te e me.»

Calò il silenzio. Ada si portò una mano mortificata alla bocca, rossa in viso, mentre Gideon si grattava il capo con fare annoiato. Bauer invece mollò la propria borsa in faccia al ragazzo, stendendolo con un sol colpo.

«Oh cielo…» mormorò preoccupata Ada, mentre soccorreva il malcapitato.

«Tsk, il solito violento… non troverà mai posto in società, se non impara a comportarsi.»

La stoccata di Elliot, particolarmente velenosa, fece voltare Caleb con fare inquietante. Persino Leo fu percorso da un brivido e, nonostante l’amore incondizionato che provava per il suo padrone, si scansò istintivamente di qualche centimetro per non rimaner incenerito da quello sguardo di fuoco.

«Prima o poi.» esalò in un soffio Caleb, come fosse veleno «Dovrai venire da me, per l’approvazione della tesi.»

Tanto bastò. Il fiero Elliot Nightray si era dimenticato di un minuscolo dettaglio: Caleb Bauer, sesto ed ultimo anno, era il suo tutore. E, come tale, doveva controllare l’elaborato finale di Elliot, prima di approvarlo e consegnarlo nelle mani del consiglio docenti. Il tutor veniva scelto casualmente ad inizio anno scolastico e non poteva essere cambiato per nessun motivo al mondo. Era un modo per far legare gli studenti con i compagni maggiorenni e, a breve, liberi di inoltrarsi nel mondo adulto.

«Come sono felice di non essere te.» mormorò Leo, con fare canzonatorio, mentre Elliot si metteva le mani nei capelli.

Ma che ho fatto di male, nella vita?!” fu tutto ciò a cui riuscì a pensare, mentre tentava, disperatamente, di cancellare quell’orribile macchia dal proprio foglio.

Eh, se solo si potessero cancellare le parole dette con altrettanta facilità.” pensò Leo, mentre osservava Caleb allontanarsi dalla biblioteca.

Per quanto all’apparenza sembrasse semplicemente arrabbiato, Leo aveva infatti perfettamente intuito ciò che realmente si agitava nell’animo del collega. L’inadeguatezza era un sentimento che ben conosceva.

«Più tardi.» disse a bassa voce, lo sguardo ancora puntato sulla porta ormai vuota della biblioteca «Vagli a chiedere scusa.»

«Guarda che lo so.»

La risposta stizzita di Elliot lo fece voltare verso di lui, il cui capo era chino sul foglio, apparentemente per occuparsi della sua ricerca. Tuttavia, Leo scorse un leggero rossore lungo i bordi delle sue orecchie, che indicava quanto si vergognasse delle parole che, avventatamente, gli erano uscite di bocca. Il servitore increspò appena le labbra, sollevato.

«Bene, vedo che impari sempre più in fretta ad accorgerti dei tuoi errori.»

«Zitto… per un attimo ho temuto per la mia vita. E tu ti sei scansato.»

«Ti amo, ma non sono masochista.»

«CHE CAVOLO SPARI ALL’IMPROVVISO?!»

«Sssshhh, o la signorina Rottenmeier2 ci sgriderà ancora. Siamo in un luogo pubblico, un po’ di contegno, Elliot.»

1Essendo la Lutwidge una scuola molto prestigiosa, ho pensato di far utilizzare il termine “compagno” per gli studenti del medesimo anno o classe, mentre “collega” è il termine più ricercato e di rispetto che viene riservato agli studenti più grandi e, in particolare, dell’ultimo anno.

2Nome della bibliotecaria, scelto in onore della simpaticissima governante del cartone “Heidi”.

 

 

Nonostante i suoi iniziali propositi o, forse, proprio a causa di questa sua eccessiva sicurezza, la missione “parlare velocemente a Sophie senza che nessuno se ne accorga” si stava dimostrando decisamente più ardua del previsto. La causa di ciò aveva un nome ed un cognome ben noti al giovane Nightray: Oscar Vessalius.

Non appena Gilbert aveva lasciato la sala della colazione di Pandora, un’ombra lo aveva goffamente inseguito, palesando la sua presenza ad ogni passo. Infastidito, il giovane si era infine voltato, per scoprire con raccapriccio che, malamente celato dietro un angolo, vi era il suo antico tutore.

«N-nobile Oscar!» aveva esclamato con stupore e spavento «Che diavolo sta facendo?»

«Io? Oh, niente, niente… complimenti per i tuoi sensi arguti, Gilbert. Non ti smentisci mai.»

«Un po’ difficile non notare la sua presenza inquietante.»

«Come?»

«Niente… le serve forse qualcosa?»

«Io? Nulla, nulla davvero. Passeggiavo.»

«Perfetto. In tal caso, le auguro buona giornata.»

Quel saluto fu di assai breve durata. Ad ogni svolta del corridoio, il duca Vessalius si trovava sempre due passi dietro a Gilbert che, per quanto accelerasse l’andatura, veniva fedelmente seguito dall’altro. Dall’esterno poteva quasi sembrare una scenetta comica, ma Raven era tutto fuorché divertito.

«Insomma, per quanto ancora intende seguirmi?!» sbraitò, una volta giunto senza fiato all’ingresso.

«Finché non me la mostrerai!» esclamò con impeto il Duca, tramutatosi in un ragazzino determinato e pieno di vitalità.

«Ma chi?!» domandò esasperato Gilbert, che si sarebbe volentieri strappato i capelli per l’assurdità di quella situazione.

«La fanciulla che stai andando a trovare alla Lutwidge, no?»

Fu così che Gilbert si ritrovò, suo malgrado, a dividere una carrozza con Oscar Vessalius che, nonostante la movimentata staffetta di poc’anzi, sfoggiava uno dei suo soliti sorrisi a trentadue denti. Dissuaderlo dal pedinarlo si era rivelato del tutto inutile, esattamente come lo erano stati i molteplici tentativi del Nightray di spiegargli che no, non stava andando ad un incontro romantico e, di nuovo, no, non poteva venire con lui. L’aitante uomo si era infatti rifiutato di accettare alcunché non fosse una tacita dichiarazione di resa.

Una volta in carrozza, gongolante, Oscar si mise a canticchiare, come se si trovasse in gita di piacere, mentre Gilbert si trattenne dal buttarsi fuori dal mezzo unicamente perché sapeva che ciò lo avrebbe semplicemente stordito. La quiete dei morti non pareva destinata a lui.

«La prego, mi rispieghi perché mi sta facendo questo.» piagnucolò a un tratto, ormai completamente rassegnato al suo destino di eterno fantoccio per i discendenti di Jack Vessalius.

«Te l’ho già detto, Gil: ti accompagno.»

«E perché mai?» chiese Gilbert, enormemente a disagio ed ormai deciso a scaraventarsi fuori dalla carrozza, pur di porre fine a quel supplizio.

«Semplice: da solo non ce la faresti mai a raggiungere la tua bella e poi non voglio perdermi per nulla al mondo la tua prima dichiarazione d’amore!»

«Io non sto affatto andando a dichiararmi!» gridò Gilbert, portando le braccia al cielo con fare drammatico «Per la milionesima volta, ha preso un granchio!»

«Però c’è di mezzo una ragazza, no?»

Lo sguardo indagatore di Oscar mise in scacco il giovane che, per quanto non fosse minimamente coinvolto emotivamente con Sophie, non poté negare l’evidenza di quel semplice fatto. Si rifiutò di rispondere e, voltando il capo in direzione del finestrino, pregò che quell’agonia avesse presto fine. Una pessima strategia difensiva. Gli occhi di Oscar presero a brillare di rinnovata luce.

«Ah-ah! C’avrei giurato! Ho fatto bene a spiarti stamane!» gongolò infatti, carico di orgoglio.

«Lei mi ha spiato?!» fece indignato il moro, che si stupì della sua sorpresa nel constatare quanto poco avesse importanza la sua privacy per il casato Vessalius.

«Oh, detta così sembra una cosa brutta e meschina.»

«Perché lo è!»

«Insomma, Gilbert, dimmi chi è: la conosco? Può darsi che...»

Oscar parve come rompersi improvvisamente. Il brusco cambiamento mise in allarme anche Gilbert che, circospetto, tornò ad osservare l’uomo. Era come pietrificato, eppure al tempo stesso fragile come una scultura di cristallo.

«Nobile Oscar?» lo chiamò, per poi sobbalzare spaventato: le enormi mani del Duca l’avevano infatti catturato all’altezza delle spalle e, con forza, stavano stringendo la loro morsa.

«Ehi, Gilbert...» mormorò egli con fare omicida «Non è che per caso la ragazza in questione è Ada, vero?»

«Ma no, le ho già detto che non si tratta di una ragazza!»

«Non negare l’evidenza, sciagurato! L’ultima volta l’hai scampata, ma non credere che ti permetterò di cogliere il candido fiore di mia nipote!»

«Ma chi lo vuole!» urlò disperato il Nightray, per poi pentirsi immediatamente della sua scelta di parole.

«Perdonami, la mia dolce Ada ha forse qualche cosa che non va?»

«No, certo che no! Argh… mi verrà di nuovo il mal di stomaco, me lo sento.»

Quel breve viaggio si preannunciava più lungo del previsto ma, con somma gioia del Nightray, la carrozza si arrestò proprio in quel fatidico momento. Non appena ripresero equilibrio per la brusca frenata, Gilbert si precipitò fuori.

«Ehi, Gil! Hai così tanta fretta di stringere tra le braccia la tua pulzella?»

Nel pronunciare tali parole, Oscar era già sceso dal mezzo di trasporto e aveva dato una pesante manata alla schiena del ragazzo. Il suo umore, ora che era nuovamente in pubblico (e quindi dinnanzi a possibili testimoni) era tornato sereno, ma dietro a quell’apparente calma si celava un demonio pronto a prendere possesso del suo corpo, non appena le circostanze lo avessero permesso. Gilbert, dopo essersi massaggiato con cura il dorso, osservò corrucciato l’uomo.

«Non la voglio abbracciare!» pigolò, nel vano tentativo di concludere quel battibecco.

Oscar rimase per un attimo basito, poi diede un’altra pacca sulla povera schiena già dolorante del Nightray, riversandovi all’interno metà dose di odio e metà di rispetto.

«Oh-oh, Gilbert, quale audacia! Vuoi già fare un passo così importante? Voglio proprio vedere quanto tempo ci impiegherai a convincerla!»

Il Nightray non ebbe nemmeno il tempo per arrossire, che qualcuno li apostrofò da dentro il cancello della scuola.

«Chi siete? E che vole...» non appena scorse Oscar, il giovane che stava venendo loro incontro, e che non doveva avere più di una trentina d’anni, sospirò con evidente disapprovazione «Ancora lei, duca Vessalius? Non vorrà entrare di nascosto alla Lutwidge… non un’altra volta!»

Oscar mise un braccio intorno al collo di Gilbert e lo trascinò di fronte al cancello, ridendo come un pazzo.

«Ahahah! No, no caro Stephen! Oggi non sono qui di mia iniziativa. Questo giovanotto deve esporre una questione della massima importanza ad una delle allieve, possiamo entrare?»

Il ragazzo osservò perplesso prima Gilbert e poi nuovamente Oscar.

«Mi perdoni, se è lui che deve vedere la ragazza, lei che c’entra?»

Silenzio.

«Gliel’avevo detto che era meglio se restava a casa.» mormorò Gilbert, ancora vittima della ferrea presa del Duca.

«Stephen, ma è ovvio!» rispose Oscar, dopo un’attenta riflessione «Gilbert è come un figlio per me, perciò è naturale che voglia essergli accanto nei momenti più importanti della sua vita!»

Stephen lanciò un’ultima occhiata interrogativa al Nightray e, notando la sua espressione stravolta ed esasperata, decise di aiutarlo. Anche perché desiderava ardentemente tornare alla sua postazione di vedetta: non per nulla, era il custode della Lutwidge ormai da ben cinque anni e non aveva alcuna intenzione di farsi prendere per il naso dalle bizzarrie del duca Vessalius.

«D’accordo, può entrare.» fece cordiale a Gilbert, aprendo il cancello e lasciandolo passare, ma fermando Oscar, che si stava già precipitando all’interno, con una mano posta all’altezza del petto «Lei no.»

«E perché mai?»

«Punto numero uno: se scoprono che l’ho fatta accedere all’interno della scuola, mi licenziano. Punto due: non la sopporto.»

«Ma, ma...» protestò un’ultima volta Oscar, mentre veniva gentilmente, ma inesorabilmente, spinto via.

«Punto tre: perché no. Buona giornata!» esclamò Stephen, chiudendo a chiave il cancello.

Mentre i due ragazzi si allontanavano, Gilbert osservò il duca Vessalius sbraitare come un bambino a cui era stato tolto il proprio giocattolo favorito.

«Sicuro che vada bene così?»

«Certo, anzi le consiglio di fare in fretta. Quello svita... ehm... quell’uomo ci impiegherà meno di dieci minuti a scovare un passaggio segreto non sorvegliato. Signor… ?»

«Ah, mi perdoni. Sono Gilbert Nightray.» si presentò frettolosamente, cogliendo lo sguardo di diffidenza che aveva attraversato il sorvegliante.

Prima di fare accedere qualcuno nell’edificio, era infatti necessario identificarsi ma, data la ben nota fama del Duca, Stephen aveva strategicamente optato per lasciare fuori la minaccia minore. Una volta assicuratosi dell’identità del ragazzo, Stephen annuì.

«Chi deve vedere?»

«Caleb Bauer.»

Stephen strabuzzò gli occhi, per poi squadrarlo da capo a piedi, come fosse un folletto.

«Mi perdoni, ma… non doveva vedere una ragazza?»

«Per l’ultima volta, non è una ragazza, ma un ragazzo! Devo vedere un ragazzo!»

A seguito di quell’urlo, un velo di pace avvolse l’ambiente circostante. Non si udì altro che il canto degli uccellini ed il dolce frusciare del vento. Poi, una voce commossa alle loro spalle si levò come un lamento antico.

«Oh… Gilbert. Un ragazzo? Ma potevi dirmelo subito: lo sai che il tuo caro zio ti amerà sempre e comunque!»

Inorridito, Gilbert si voltò furente.

«Non ha capito un accidenti, invece!»

«No, Gilbert.» rispose con serietà, il volto rigato dalle lacrime «Le strade dell’amore sono tante. E io non sono nessuno per giudicare.»

«Mi porti da Bauer, la scongiuro.» pregò Gilbert, ormai allo stremo delle forze, alla volta del custode.

Dopo pochi minuti di cammino, Gilbert si ritrovò di fronte all’enorme biblioteca della scuola. Mentre attendeva che Stephen si assicurasse dell’esatta ubicazione di Caleb, il Nightray si guardò intorno con aria preoccupata.

«Le domando scusa, ma dai registri non risulta in aula. Da quel che ho potuto constatare, Bauer ha riconsegnato un libro circa mezz’ora fa, essendo esonerato dalla lezione di scherma. Avendo l’ora libera, non sappiamo dove sia esattamente al momento.» con modi pacati, ma inoppugnabili, Stephen osservò il proprio orologio da taschino «Le chiedo venia, ma devo tornare all’ingresso, non posso assentarmi troppo a lungo. Se vuole trovare Bauer, chieda pure delucidazioni ad Ada Vessalius: è sua compagna di corso e membro del comitato del buon costume, oltre che del consiglio studentesco. La trova nel terzo banco da destra.»

Gilbert avrebbe voluto sporgere la testa ed osservare di persona quanto gli veniva indicato, ma preferì restare immobile e porre un’altra domanda per lui di ben più rilevante importanza.

«E mi dica, per caso c’è anche Elliot Nightray? Un ragazzo del terzo anno?»

Stephen non comprese il motivo del quesito, ma decise di accontentarlo, controllando al posto suo.

«No, sebbene gli studenti del terzo si siano riuniti qui, a causa di un’assenza del docente, non vedo né Elliot Nightray né il suo servitore. Sono studenti piuttosto noti, sa.» specificò infine, per chiarire la sua profonda conoscenza degli studenti sopracitati.

Sollevato dall’idea di non doversi scontrare con il suo fratellastro, quantomeno per il momento, Gilbert ringraziò Stephen e s’avvicinò alla ragazza, intenta a consultare diversi libri di etica e filosofia.

«Ciao, Ada.» la salutò gentilmente, per non spaventarla.

Ella, senza attendere un solo istante, si voltò verso la fonte del suono e, dopo un primo attimo di stupore, regalò al giovane uno dei suoi sorrisi più raggianti e sinceri.

«Gil, ma che bella sorpresa! Che ci fai qua? Tutto bene?»

«Sì, grazie. Anche tu mi sembri in ottima forma.»

«Certo, qui obbligano gli studenti a fare ginnastica due volte alla settimana, non lo sapevi?»

«Dev’essere dura.» Gilbert si ricordò che Ada non era mai stata particolarmente portata per l’attività fisica «Come mai non sei a lezione? Il custode mi ha detto che ci dovrebbe essere lezione di scherma.»

«Oh, ehm… purtroppo oggi non mi trovo nelle condizioni adatte per sforzarmi troppo.»

«Come mai? Non stai forse bene?»

«Ehm… piuttosto, perché ti trovi qui, Gil?» ribatté la ragazza, rossa in viso.

Gilbert lasciò che il discorso cadesse, volendo stare il meno possibile nella tana del lupo.

«Oh, giusto, sto cercando un alunno del sesto anno, Stephen mi ha detto che dovresti conoscerlo: si chiama Caleb Bauer.»

«Caleb? Certo che lo conosco, è un mio compagno di classe. Come mai lo cerchi?»

«Devo discutere con lui di alcune questioni.» rispose vagamente Gilbert, sperando di non dover scendere troppo nei dettagli.

Fortunatamente per lui, per quanto la curiosità fosse un vizio di famiglia, Ada era da sempre la più pacata e diplomatica.

«Immagino che riguardi Pandora. So che ne fa parte anche lui… l’ultima volta che è stato in missione si è fatto male, per questo non partecipa nemmeno lui alle lezioni odierne. Comunque, so che era qui fino a poco fa, ma poi ha litigato con Elliot e non so dove sia andato.»

«Ha litigato con Elliot?!»

«Ehm… già, purtroppo non vanno molto d’accordo. Oh, Gil, guarda là! Chiediamo a Elliot e Leo se hanno visto Caleb.»

Sebbene Gilbert non avesse alcuna intenzione di rivedere il fratello, non ebbe modo di protestare, poiché i due ragazzi si trovavano ormai all’ingresso e lui, in bella vista con Ada che sventolava la mano per farsi notare, non aveva ormai scampo. Poté unicamente sperare che il minore fosse di buon umore quel giorno.

«Elliot, Leo, scusatemi per caso avete visto… ?»

«Ada Vessalius! Quante volte devo dirti di non chiamarmi con tanta confidenza! E... TU CHE CI FAI DI NUOVO QUI?!»

Evidentemente no, non è una buona giornata.” pensò mestamente Gilbert “Figurarsi se poteva andarmene liscia mezza”.

«Elliot, non urlare e non rivolgerti così a tuo fratello maggiore.»

Leo, che non aveva nemmeno alzato la testa dal libro che stava leggendo, non mancò di riprendere come al solito il padrone.

«Ma lui… !»

«Lo perdoni, nobile Gilbert, che cosa voleva sapere?» chiese cordiale il servitore, staccando finalmente gli occhi dal tomo.

«Per caso avete visto Caleb?»

Nel proferire quel nome Elliot impallidì.

«Certo che l’ho visto. C’eri anche tu, mezz’ora fa.» rispose inviperito alla volta di Ada.

«Quello che intende dire.» fece Leo cordiale, frapponendosi tra i due «È che, dopo un acceso quanto entusiastico scambio di opinioni, il signorino Caleb si è allontanato. Noi lo abbiamo raggiunto poco dopo, perché Elliot è stato il solito impulsivo e ha detto più del dovuto. Presumo si trovi ancora nell’aula di musica. Di solito quando è infuriato va lì a scaricare la tensione.»

«Oh cielo, che acuto osservatore che sei, Leo!» lo lodò subito Ada, non conoscendo questo lato del compagno di studi.

«Oh, nulla di ché: conosco qualcuno che fa lo stesso.» rispose Leo, osservando di sottecchi Elliot.

«Fossi in te starei in guardia.» lo ammonì il minore dei Nightray, guardando fisso negli occhi il fratello «Quello è uno svitato: parla senza peli sulla lingua ed è pure violento.»

«Eh, già. Chissà chi mi ricorda?»

«Hai finito, tu?! Piuttosto, Gilbert, non mi hai ancora risposto, perché sei… ehi!»

Prima che potesse terminare la sua frase, Gilbert si era già diretto verso l’uscita.

«Scusatemi, ma ho fretta!» mentì, non vedendo l’ora di andarsene da quella scomoda situazione.

Non voleva rischiare di litigare nuovamente con Elliot, né voleva perdere ulteriore tempo prezioso: chissà da quale parete sarebbe potuto fuoriuscire Oscar Vessalius, ora che aveva avuto campo libero per muoversi. Tuttavia, una parte di lui scalpitava anche per un'altra ragione. Finalmente avrebbe potuto parlare con quella giovane e scoprire qualcosa riguardo a quel ricordo che era riaffiorato nella sua mente soltanto poche ore prima.

Cosa sarebbe potuto cambiare nel loro rapporto, ora che aveva recuperato quel frammento del passato?

 

 

Dall’interno dell’aula di musica proveniva una dolce melodia, segno evidente che Sophie si stava calmando o, quantomeno, ci stava seriamente provando da diverso tempo. Se qualcuno avesse potuto udire i suoi pensieri, non si sarebbe stupito di ciò che di lì a poco sarebbe accaduto.

La giovane era infatti preda di un mulinello di emozioni, sebbene rasserenate in parte dalle scuse, confabulate ma sincere, di Elliot. Non riusciva a darsi pace sulle parole proferite dai suoi compagni, dette un po’ per scherzo da uno e per rabbia dall’altro.

Mentre faceva scivolare agilmente le dita lungo i tasti, ignorando la pelle che tirava lungo i punti saggiamente suturati da Cassidy, si tormentava con mille scenari. Era vero, non era una fanciulla pacata e gentile come Ada, capace di ammaliare tutti con un bel sorriso. Non era nemmeno una fanciulla.

Per quanto le piacesse questa libertà concessale dal padre, in realtà si sentiva legata mani e piedi.

Fare l’informatore le era sembrata un’ottima occasione per dimostrare le proprie capacità al genitore, ciononostante avvertiva un peso nel petto: non era quella la vita che voleva. Ci aveva provato, ma alla fine non si sentiva soddisfatta. Poter essere d’aiuto al proprio Paese, portando al tempo stesso onore al suo casato, non le era più sufficiente. Desidera altro, benché non avesse ancora il coraggio di ammetterlo a se stessa. In fondo, a che cosa avrebbe potuto ambire?

Forse ad essere una nobildonna come tutte le altre sue coetanee?

Gilbert l’avrebbe finalmente considerata se si fosse presentata come Sophie Barma, anziché Caleb Bauer?

Mancò una nota e, contrita, fu costretta a stringere i pugni e subito a proseguire, ignorando quell’attimo di distrazione. Poteva ancora concludere il brano decentemente, se si impegnava, non era poi così difficile. Ma per quanto avrebbe continuato a suonare, incurante di tutto?

Il braccio le bruciava, ciononostante chiuse gli occhi, concentrandosi sulla melodia e sui movimenti delle mani e dei piedi. Pedale su, ora giù… il crescendo andava avvicinandosi, più attenzione allo scorrere delle note, leggere solo per poco, e poi… perché si ostinava ancora su simili pensieri?

Non aveva forse sognato da sempre un motivo per avvicinare Gilbert?

Ora che finalmente si erano incontrati, perché domandarsi se proseguire o meno? Per quella ferita? Sarebbe guarita, come le altre, ed anche se fosse rimasta la cicatrice poco importava, tanto nessuno l’avrebbe notata. Non aveva intenzione di sposarsi, sarebbe per sempre stata Caleb Bauer, era tutto perfetto così, perché cambiare? A lei bastava poter essere d’aiuto a quel ragazzo, non chiedeva nient’altro, non doveva.

Dimenticò di schiacciare il pedale, rendendo così il suono meno potente, imperfetto.

Non andava bene, no, non poteva essere accettabile così.

Non si era ripromessa di farsi bastare quella vita, quella libertà, la possibilità di stare vicino a Gilbert e basta? Perché, ora che ci aveva parlato, non faceva che pensare a lui con un’insistenza più simile all’ossessione? Era un ragazzo come gli altri, che l’aveva ispirata, certo, incuriosita probabilmente. Malgrado ciò, non c’era motivo di fissarsi su di lui. Era già sufficientemente sbadata di suo, per questo aveva finito per ferirsi e far preoccupare gli altri. Reim, Cassidy, suo padre in primis, e persino Gilbert… se avesse smesso di essergli utile, l’avrebbe mai più cercata?

Premette la nota sbagliata.

La melodia era sfumata, per sempre.1

Si fermò, trattenendo il fiato.

Stupida! Stupida! STUPIDAAA!!” gridò mentalmente, mentre con le mani picchiava violentemente le note del piano Perché devo essere sempre così imperfetta?!”

Riprese a respirare, profondamente, guardandosi le mani, quasi non riconoscendole.

Che cosa stava facendo?

Una fitta all’avambraccio le ricordò del perché Cassidy le avesse prescritto riposo, fino al momento della rimozione dei punti. Controllò prontamente il tessuto della veste, immacolato. Sospirò di sollievo: se fossero saltati i punti sarebbe stato un bel problema. Ora che si era calmata, provò un formicolio alle mani, nei punti in cui aveva sbattuto con vigore le dita sullo strumento. Il professor Schulz le avrebbe certamente fatto una bella lavata di capo. Rischiare di rovinare in modo irreparabile sia il pianoforte che le sue mani… imperdonabile per un pianista degno di tale nome.

«Wow, che concerto innovativo! Ecco perché non ti piace suonare in pubblico: dovrebbero comprare un pianoforte ogni volta, altrimenti.»

Quella vocetta odiosa Sophie la conosceva fin troppo bene.

Gideon osservava il nulla con aria sognante ed un sorriso affabile, il tipico atteggiamento che avrebbe fatto sospirare le ragazze. Sophie era sempre tentata di strangolarlo quando faceva così, poiché se c’era una cosa che mal sopportava era di avere qualcuno di umore tanto soave, mentre il suo era ai minimi storici.

«Nessuno ti ha dato il permesso di entrare.» esordì, fingendo di riordinare lo spartito, quando in realtà stava tentando di ricacciare indietro le lacrime.

Odiava questa parte di sé: ogni volta che provava forti emozioni si ritrovava i goccioloni agli occhi. Aveva pianto persino davanti a Gilbert. A quell’improvviso ricordo avvampò. Aveva fatto l’ennesima figuraccia davanti al ragazzo di cui era perdutamente innamorata da quando era una bambina. Fantastico. Ora sì che il suo stato d’animo era sottoterra.

Sospirò, ricollocando gli spartiti al loro posto, pronta ad eseguire nuovamente il brano, fino a quando non fosse stato perfetto.

«Non è mica camera tua.» l’apostrofò il giovane, facendosi abilmente strada lungo la stanza «Chi ha il braccio ferito non dovrebbe riposarsi? Mi pareva che fosse per quello che ti era stata vietata l’ora di scherma.»

«Disse quello che l’aveva saltata per noia.»

«Ehi, te la prendi col povero cieco?»

«Non tirare in ballo la tua cecità solo quando ti fa comodo. Ci vedi benissimo, in realtà, considerando come ti muovi.» l’apostrofò Caleb, voltandosi infine.

Gli occhi spiritati del giovane dovevano essere stati di un bel verde un tempo, ma ciò che ne rimaneva era un opaco grigiore, che li rendeva lattei. Gideon non dava troppo peso alla sua menomazione che, anzi, stupiva sempre chiunque lo venisse a scoprire. Col tempo aveva imparato a conoscere a menadito ogni angolo della Lutwidge e, se gli alunni erano così gentili da lasciare le cose al loro posto, riusciva a non inciampare. Anche se, qualche volta, fingeva di cadere sopra qualche osso di formica per finire tra le braccia delle belle matricole. Sophie si domandava come facesse a prendere sempre tutto sul ridere, nonostante la tragedia che lo affliggeva. Si sentì un po’ in colpa per i suoi lamenti di poc’anzi. Tutti avevano i loro problemi, non soltanto lei.

Gideon raggiunse il pianoforte e, fattosi largo lungo il sedile, si accostò a Caleb.

«Allora? Che spacchiamo adesso? Ehm, volevo dire, che suoniamo, passerottino?»

«Smettila di chiamarmi con quel nome… girasole.»

«Ehi, quello sì che è un nome imbarazzante!»

A Caleb sfuggì un mezzo sorriso: adorava dare nomignoli alle persone cui voleva bene e, come faceva un tempo sua madre, sceglieva sempre nomi legati al mondo dei fiori. Per Gideon era stato facile, bastava guardarlo per pensare ad un enorme girasole, sempre bramoso di luce e capace di diffondere allegria intorno a lui con la sua sola presenza. Le dispiaceva soltanto che, nel linguaggio dei fiori, esso simboleggiasse le false ricchezze, poiché non lo riteneva affatto adatto a descriverlo.

«Quello che preferisci: tanto avevo finito.» disse con un sospiro Caleb.

Non gli andava più di suonare, men che meno con del pubblico. Inoltre, Gideon era un pessimo compagno di musica, dato che sapeva suonare unicamente brani basilari, che aveva imparato prima di perdere la vista.

Sophie voleva soltanto stare sola a riflettere e, magari, dare un po’ di tregua a quel braccio che aveva martoriato per più di mezz’ora. Gideon, in tutta risposta, prese posizione ed iniziò a strimpellare un brano del folklore locale, variando però le parole del testo a suo piacimento.

«Caleb doodle doo! Sei tanto triste tu, e spacchi i piani tu, perché il tuo amore non ti vuole più.»2

«Gideon!» urlò paonazza la ragazza, dimentica del suo ruolo maschile.

«Ragazzo mio, conosco le pene d’amore. E l’unica soluzione...» fece volutamente una pausa ad effetto, per catturare l’attenzione dell’amico «Si chiama scopare! Ouch! La smetti di tirarmi addosso cose?!»

Caleb, scalzo ad un piede, recuperò celermente la scarpa e fissò con sdegno l’amico.

«Quanto sai essere volgare, alle volte.»

«Oh la la, come siamo bacchettoni. Eppure guarda che tocca a tutti, prima o poi, se si vuole essere considerati membri attivi della società. Ha! L’hai capita?»

«Ti prego… sei oltremodo disdicevole. Piantala o t’accoppo. Qui ed ora. E non m’importa di farlo sembrare un incidente.»

Subito, Gideon afferrò gli spartiti e li piazzò malamente davanti al viso con fare esageratamente patetico.

«Oh, no! Ti prego Caleb, non uccidermi! Pensa all’enorme perdita per questo mondo! Pensa ai miei bambini!»

«Ma da quando hai figli?!»

«Beh, potrei averli, un giorno. Tu vuoi potenzialmente rendere orfani dei bambini? Quale mostro!»

A quel punto la ragazza non ce la fece a resistere oltre. Scoppiò a ridere senza preoccuparsi di frenarsi, seguita a ruota libera da Gideon. Inizialmente provò fastidio, poiché non voleva assolutamente ridere. Era preoccupata, e ansiosa, e arrabbiata… ed improvvisamente si sentì leggera. Non le pareva giusto.

«Ti odio!» disse, non appena si fu calmata «Lo sai che detesto ridere quando sono di cattivo umore, mi dà i nervi!»

«Preferivi forse tenere il broncio?»

«No. In effetti, è meglio così.» ammise con un sospiro «Grazie, Gideon.»

«E di cosa? Lo sai che mi esibisco tutti i giorni. Dal lunedì al venerdì, festivi esclusi. Per gli autografi, chiedere alla mia segretaria.»

Sophie si concesse qualche minuto per ammirarlo, mentre lui armeggiava distrattamente con il piano: i capelli creavano uno splendido contrasto con la sua pelle scura. Non la sorprendeva che avesse tanto successo con le ragazze, dato il suo carattere allegro e gioviale. Gli occhi, tuttavia, erano senza dubbio la parte che prediligeva del suo corpo. Erano come specchi della sua anima. A molti ragazzi facevano paura, mentre altri si sentivano impietositi dalla sua condizione, ma a Sophie tutto questo non era mai importato. Le bastava sapere che Gideon fosse una persona sincera e cristallina, esattamente come i suoi occhi.

«Lo sai, vero, che puoi raccontarmi qualsiasi cosa?»

Quelle parole, pronunciate con disarmante lealtà, la fecero rimanere di stucco.

«Sarò pure il pagliaccio dell’Istituto, ma resto pur sempre tuo amico. Ogni tanto, fai affidamento anche su di me. Mi farebbe piacere, davvero.»

«Gideon, io non...»

«Non ti va, lo capisco.» l’interruppe subito il giovane «Ma, quando dovessi sentirtela, vienimi pure a scocciare. A qualsiasi ora.» si voltò, osservandola con le sue iridi spiritate «Oddio, magari non mentre sto dormendo. E nemmeno mangiando. Men che meno se sono con la mia ragazza, perché sai, per quanto curioso, le cose a tre non mi...»

«Oddio, solo tu puoi creare e disfare un momento simile in meno di un secondo!»

«Cosa? C’era un momento?! Dove, quando, chi?»

Caleb gli mollò un leggero pugno in testa, bloccando il vagare incerto del suo capo per la stanza, come se stesse davvero cercando qualcosa. Gideon rise, ricambiando il gesto. In quel frangente, sperarono entrambi di poter restare amici per tutta la vita.

Nascosto dietro la porta, Gilbert non sapeva che fare. Era da poco giunto dinnanzi all’aula di musica e, avendo trovato la porta socchiusa, aveva pensato di annunciarsi una volta entrato. Tuttavia, lo scambio di battute tra Gideon e Sophie lo aveva costretto ad attendere e, suo malgrado, ad origliare.

Non voleva disturbare la loro conversazione, ma non voleva nemmeno rischiare di perdere di vista la ragazza. Impacciato, si era scoperto divertito e preoccupato al tempo stesso. Era evidente che quel giovane tenesse veramente a Sophie, pur non conoscendo la sua vera identità, ciononostante trovava alquanto inopportuno per una ragazza associarsi ad un tipo tanto grossolano.

Come se la cosa mi riguardasse.” pensò incredulo il Nightray Chi decide di frequentare non è certo è affar… oh!”

Perso nelle sue elucubrazioni, non si rese conto che la porta era stata spalancata e, dinnanzi a lui, si era palesato proprio quello strano ragazzo dalla pelle scura.

«Mi era sembrato che un uccellino ci stesse spiando...» mormorò quello, puntando i suoi occhi spiritati in quelli di Gilbert, quasi potesse trapassargli l’anima.

Prima che Gilbert potesse reagire, Gideon si voltò ed urlò a pieni polmoni: «Oh, passerottino mio! Credo che tu abbia visite: un tizio inquietante ci spiava». Subito, Raven andò in panico, agitando le mani come un forsennato e negando col capo.

«N-non è vero! Non sono un tizio inquietante!»

«Però ci spiavi.»

Dinnanzi a quell’accusa non poté replicare, fortunatamente Sophie era comparsa da dietro la porta. Non ne capì bene il motivo ma, istintivamente, Gilbert trovò il volto della ragazza molto più carino di prima, sebbene fosse evidentemente provata dalla stanchezza. Alcuni aloni violacei le contornavano flebilmente gli occhi ed essi apparivano meno brillanti. Il Nightray ignorò rapidamente quel pensiero fugace, probabilmente dovuto al fatto che fino a poco prima il duca Vessalius lo aveva pressato sul fatto che si trattasse di un incontro romantico. Non era quello il motivo per cui si trovava lì. Sophie ebbe appena il tempo di pronunciare il suo nome, che subito il moro prese la parola.

«Ti devo parlare.»

Sorpresa, la giovane sbatté le palpebre un paio di volte, prima di invitarlo a entrare.

«D’accordo, entra pure… ehm, Gideon?»

«Io tanto stavo già levando le tende. Occhio solo a non mettere sottosopra l’aula.»

«Gideon, siamo due ragazzi!» le fece notare Caleb, arrossendo come un peperone.

«Già, vallo a dire agli antichi greci. La pederastia non l’ho inventata io.»

«Oh per l’amor del… ! Ascolti le lezioni solo quando fa comodo a te! Gilbert, ignoralo ed entra, o perderai il senno a dialogare con questo beota.»

Ubbidendo, Gilbert si fece strada all’interno dell’aula sebbene, prima che la porta si chiudesse alle sue spalle, poté giurare di sentire Gideon sghignazzare e suggerire a Caleb di fare attenzione agli uccelli rapaci. L’ingresso fu sigillato con eccessiva veemenza, a testimonianza del fatto che il suo udito funzionava ancora piuttosto bene. Caleb tentò di ignorare i fatti appena avvenuti ed andò dritto al sodo.

«Non mi aspettavo una tua visita. Come mai mi volevi parlare? Non ho ancora informazioni sui Baskerville, se è questo che volevi sapere.» lo precedette cauto Sophie.

«Ah, no, tranquilla. Non è per quello...»

«Non sto con le mani in mano, comunque.» senza volerlo, lo interruppe.

Si fissarono negli occhi per qualche istante, ma subito Sophie puntò lo sguardo in un punto indefinito all’altezza delle spalle del ragazzo. Sembrava parecchio a disagio, tanto che prese a tormentarsi le mani.

«Sono tornata alla Lutwidge, per poter studiare meglio i passaggi segreti della scuola. Mio padre vorrebbe che mi riposassi, ma per me è insopportabile starmene inerte, mentre i Baskerville architettano dio solo sa che cosa. Perciò sto studiando tutte le cartine della scuola, anche se purtroppo qui in archivio non c’è molto, dovrei recarmi al Municipio. Ho controllato il vecchio passaggio in cui avevate incontrato i Baskerville, e...»

«Sophie, per carità, calmati: non sono qui per via dei Baskerville, né per sgridarti.»

«Io… lo so che non mi stai sgridando.» fece convinta, sebbene il suo volto dicesse esattamente l’opposto.

C’era qualcosa nel modo in cui Sophie si poneva, nel modo in cui si stringeva le spalle, quasi a volersi fare minuscola, che gli ricordava un bambino sotto esame davanti alla classe. Sembrava che fosse per lei vitale mostrarsi degna della fiducia che aveva riposto in lei. Gilbert non sapeva che dire, perciò preferì ammettere il suo scopo.

«Noi due ci conoscevamo già, non è vero?»

Sophie strabuzzò gli occhi, non aspettandosi quella domanda.

«Dieci anni fa, a Villa Rainsworth. Ti vidi cadere mentre correvi nel giardino.»

«Ah, te lo sei ricordato...»

Sophie si portò una mano alla bocca, come a voler cancellare quanto aveva appena confessato. Arrossì, senza riuscire ad aggiungere nulla. Quel suo modo di fare evasivo diede sui nervi a Gilbert, che invece si aspettava delle risposte.

«Ah, un corno! Se lo sapevi, perché non me lo hai detto subito?»

«Beh, forse perché era imbarazzante? Inadeguato?» suggerì la ragazza, sentendosi punta sul vivo.

Se c’era una cosa che detestava era essere trattata come una stupida e, dal modo in cui le si stava rivolgendo Gilbert, ebbe immediatamente quell’impressione. Si sentì piccola dinnanzi a lui. Una sensazione che odiava con ogni fibra del suo corpo. Per quanto insicura, non voleva essere da meno a nessuno, men che meno al ragazzo per cui provava un sincero affetto.

«Ma che stai dicendo? Eravamo bambini!» sbottò il ragazzo, non comprendendo il suo modo di fare.

«Oh, certo, aspetta, fammi immaginare la scena: “Piacere Gilbert Nightray, sono Caleb Bauer, ti ricordi di quella bimba che hai incontrato dieci anni fa, assolutamente per caso, un solo giorno, a Villa Rainsworth? Sorpresa, ero io! Ah, giusto, dimenticavo! In realtà sono una ragazza e mi chiamo Sophie, celo la mia identità da anni, ma tranquillo, acqua in bocca, neh?”»

Pronunciò quella sequela di parole una di fila all’altra, alzando gradualmente la voce, sino ad urlare. In un paio di occasioni le si ingarbugliò la lingua, facendole pronunciare suoni sconnessi e buffi che la fecero imbestialire ancor di più. Era seriamente arrabbiata, preda dell’imbarazzo per la situazione in cui si trovava e per il modo tutt’altro signorile in cui si stava comportando. Non voleva apparire così, non davanti a Gilbert, ma pareva che il suo corpo perdesse ogni stimolo inibitore quando si trovava dinnanzi ad un Nightray.

Gilbert la fissava allibito. Aveva tentato di intromettersi in quel fiume di parole, quantomeno per farle abbassare il tono, ma era stato completamente inutile. Gli bruciava il petto per l’irritazione, non sopportava la gente che si imponeva come faceva lei, però dovette ammettere che ogni sillaba da lei pronunciata aveva una sua vergognosa logica. Non aveva minimamente pensato a quell’ovvietà, concentrato com’era sul fatto che gli si fosse nascosto un fatto riguardante il suo passato. Sembrava che tutti volessero tenerlo all’oscuro e quella situazione gli stava facendo perdere il controllo.

Si trattava di una sciocchezza, una vera banalità, che nemmeno avrebbe dovuto richiedere il suo intervento, invece che faceva? Si precipitava alla Lutwidge solo per sentirsi dire che si erano visti da bambini, e allora? Cosa avrebbe mai potuto significare quell’evento per lui?

Tuttavia, per Sophie aveva avuto valore quell’esperienza. Doveva avercelo, se era arrivata a considerarlo come una persona da ammirare e da prendere a esempio. Eppure, come poteva quel casuale incontro avere una simile importanza per lei?

Più Gilbert ci pensava, più si sentiva sciocco e confuso.

«… in effetti, sarebbe stato abbastanza inadeguato.» concesse infine, non potendo negare l’evidenza, per quanto esplicitata da lei con irritante pignoleria.

«Trovi?» gracchiò tronfia eppure seccata Sophie, come se avesse a che fare con uno studente duro d’orecchi.

Tutt’a un tratto, i suoi modi mutarono nuovamente. Gli occhi di Sophie si abbassarono, mentre la voce tornò bassa. Gilbert non riusciva a starle dietro, era come un caleidoscopio: un momento prima l’oggetto ti mostra dei colori e quello seguente altri, rendendo impossibile dare un’esatta collocazione a quell’arcobaleno cristallizzato.

«Co-comunque, quello… ecco… quello che dissi allora… avevo otto anni, ricordatelo! E comunque parlo a sproposito ancora oggi e… e… non giudicarmi, ti prego!» l’ultima parte venne nuovamente urlata, facendo sussultare Gilbert per lo spavento.

Quella ragazza era per lui incomprensibile.

«Ma chi ti giudica per una cosa avvenuta dieci anni fa, scema!»

Quell’insulto, sfuggitogli per l’esasperazione, ebbe il magico effetto di farla finalmente calmare. Sophie si limitò infatti a farfugliare quell’ultima parola, quasi si trattasse di un arcaismo a lei ignoto che, tuttavia, la infastidiva.

Ormai al colmo della frustrazione, Raven si portò una mano al volto, sospirando rumorosamente.

«Argh, mi sembra assurdo. Tutto questo tempo, e ti ritrovo così… non ha davvero senso. Mi ero completamente dimenticato di te, lo ammetto. O, forse, mi ero convinto che si fosse trattato di un semplice sogno, dovuto al malessere di quella calda giornata.» trasse un altro respiro, che stavolta gli ridiede la calma sufficiente per terminare il suo discorso «In ogni caso, credo che io in realtà volessi soltanto ringraziarti.»

Persino Gilbert si stupì delle sue parole, ma non per questo si fermò. Anzi, ora che aveva trovato la scintilla che lo aveva fatto muovere sino a quel luogo, intendeva andare fino in fondo. Anche a costo di fare l’ennesima figuraccia. Tanto, pensò con un mezzo sorriso, si trovava in buona compagnia.

«Anche se non me ne ricordavo più, per molto tempo le tue parole mi hanno scaldato il cuore. È stato un periodo molto difficile per me e, beh, è stato bello poter condividere per l’ultima volta quella spensieratezza che avevo provato con Oz e sua sorella, quando ancora vivevamo insieme.»

Gli occhi di Sophie presero a inumidirsi, commossi da quelle parole. Prima che Gilbert potesse accorgersene, però, questa si affrettò a voltarsi e ad asciugarsi distrattamente gli occhi. Non voleva mettersi di nuovo a piangere davanti a lui, ma quel discorso l’aveva profondamente toccata. Non avrebbe mai sperato che Gilbert si ricordasse di lei con affetto e invece… gli aveva scaldato il cuore.

Fissò nella mente quella frase, ripetendola sollecitamente come fosse un mantra. Voleva conservare quel tesoro prezioso, così da poterlo ammirare ogni qualvolta che lo avesse desiderato.

«Non ho fatto niente di speciale, anzi, ho detto delle cose davvero imbarazzanti.»

«Non direi. È stato molto maturo, per la tua età, dirmi che avresti asciugato via le mie lacrime. Sembrava un romanzo.»

Sophie ridacchiò: era sempre stata una bambina avida di libri e, spesso, si lasciava trascinare da quei mondi fantastici, finendo poi per farli suoi, ripetendone le gesta o le parole. Non era però stato quello il caso, ciò che aveva pronunciato era quello che il suo cuore aveva provato in quel mentre, con l’innocenza della sua fanciullezza.

Ebbe un piccolo sussulto, rammentando una frase che, invece, aveva eccome preso da un romanzo.

«Ehm… Gilbert?» chiese titubante, voltando appena il capo per osservarlo di sottecchi «Tu… ti ricordi solo quello?»

«Come?» domandò sorpreso il ragazzo «Abbiamo giocato un poco ad acchiapparella e poi abbiamo parlato… perché, c’era altro?»

«No!» squittì la ragazza, saltando come un petardo e voltandosi verso di lui, con fare esagitato «Assolutamente no, non ho detto altro! Dimenticalo!»

«Dimenticalo? Ma cosa?»

«Ehm, piuttosto, volevi dirmi solo questo? Non c’era nient’altro?»

«Eh? No, perché? Che altro c’è?»

Sophie percepì una fitta al petto.

Aveva provato una gioia immensa nello scoprire che Gilbert si era finalmente ricordato di quel loro incontro, ma sul serio… non c’era altro? Non l’aveva cercata perché, semplicemente, voleva vederla?

Lei non aveva mai smesso di pensare a lui, da quando si erano separati a Villa Rainsworth. Si sentì una sciocca. Arrossendo fino alla punta dei capelli, fece cenno a Gilbert di andarsene.

«Bene, in tal caso io devo andare, ho lezione, perciò arrivederci.»

«Eh? Come? Sì, d’accordo, allora...»

Non ebbe il tempo di concludere il suo saluto, poiché Sophie si era diretta senza esitazione alla porta ed era uscita come un fulmine. Gilbert poté solo rimanere immobile, come sotto l’effetto di un incantesimo. Si riscosse solo qualche istante dopo, sentendosi più a disagio che mai.

«Giuro, più cerco di capirla e meno mi raccapezzo con quella!»

Nel frattempo Sophie aveva preso a correre a per di fiato lungo le scale, venendo ammonita da alcuni docenti provenienti dal senso opposto. Non gli diede peso, concentrata com’era su di una memoria che, prepotente, si era fissata nella sua mente.

«Allora, vorrà dire che ti sposo!»

L’aveva esclamato con convinzione, come se si trattasse un giuramento solenne.

Era così che aveva fatto Romeo con Giulietta, persino quell’imbranato di Mr. Darcy aveva infine capitombolato dinnanzi alla dolce Elizabeth, e poi Mr. Rochester con Jane, Aladino e la sua principessa, ma anche il principe e Cenerentola. Più di tutti, l’avevano ispirata suo padre e sua madre, amandosi profondamente ogni giorno, nonostante i continui battibecchi. Tutte quelle storie le avevano insegnato una preziosa lezione: l’amore era la cura di ogni solitudine ed infelicità.

L’aveva constatato di persona con suo padre, rimasto ormai solo. Il loro affetto reciproco era ciò che li faceva restare a galla, in un mondo altrimenti privo di colori ai loro occhi, da quando sua madre li aveva lasciati. Perciò, se voleva aiutare quel ragazzo tanto triste e solo, l’unica maniera era una promessa di matrimonio. Questo aveva pensato Sophie con disarmante semplicità.

«Cosa?!» aveva replicato Gilbert, rosso in viso e con l’aria confusa.

«Se ti sposo e abbiamo tanti figli, allora non sarai più solo, giusto?»

Gilbert non poteva ricordare quello scambio di battute, poiché indebolito e reso confuso da un’insolazione. Mentre Sophie, che teneramente aveva conservato nel cuore quel ricordo, non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Perché aveva giurato con tutta la serietà e la convinzione che una bambina di otto anni potesse stringere nelle sue piccole mani.

Senza rendersene conto, nella sua folle corsa era finita addosso ad una persona. Desolata, stava per scusarsi, quando si rese conto di chi si trattasse.

«Caleb Bauer! Ancora tu!» sbraitò sorpreso Elliot «È mai possibile che tu...»

«Elliot, per la tua stessa sicurezza, taci.» le parole minacciose di Sophie pietrificarono sul posto il giovane che, nonostante i suoi modi, stava aiutando il collega a rimettersi in piedi «Per oggi mi è bastato e avanzato un Nightray.»

Detto ciò, Caleb prese la via opposta alla sua e proseguì diretto dove lui solo poteva saperlo, lasciando di sasso sia Elliot che il compagno Leo. Questi, ammirato, fischiò alla volta di Caleb.

«Però... certo che tuo fratello deve averlo fatto parecchio infuriare. Chissà cosa gli avrà detto?»

«Non lo so e non lo voglio sapere.» biascicò il Nightray, mentre si spolverava l’uniforme.

«Bugiardo.» mormorò Leo, divertito «Muori dalla voglia di saperlo.»

«Piuttosto.» tagliò corto l’altro, facendogli cenno di seguirlo «Vediamo di finire in fretta questa maledetta ricerca. Domani c’è San Brigitte e vorrei tornare a casa.»

Leo parve stupito di quelle parole.

«A casa? Ma non ci è permesso uscire, anche se le lezioni sono sospese...»

«Lo so, e non vorrei farlo, ma… è tanto che non vedo Christine. Vorrei assicurarmi che stesse bene.»

Il servitore sorrise dolcemente.

«Diventi un tenerone quando si tratta di lei.»

«Mi sembra ovvio, è mia sorella! Mi aiuterai?»

«Che domande, Elliot: io vado ovunque tu vada. Anche se, onestamente, se proprio dobbiamo rompere le regole tanto vale farlo con stile e non limitarci ad andare a trovarla.»

«Che intendi dire?»

«E se la portassimo in città? Alla festa?»

«Tu sei completamente impazzito. Nostro padre ci ucciderebbe.»

«Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia.» recitò con fervore il servitore.

«I personaggi di Goethe non fanno una buona fine, solitamente.»

Elliot sembrava pensieroso ma, mano a mano che proseguivano lungo il corridoio, una brezza di emozione gli turbinò nell’animo, costringendolo a fermarsi, apparentemente per osservare il paesaggio al di là di una finestra. Se guardava con attenzione, poteva scorgere oltre le mura della scuola ed avvertire il movimento che animava la città, in subbuglio per la sua festa più importante dell’anno, dopo il Natale e Capodanno. Anzi, forse per il popolo di Reveille era persino sopra ad esse.

A San Brigitte chiunque poteva essere ciò che desiderava, le catene venivano spezzate, ed anche i più reietti potevano mescolarsi con la borghesia e la classe nobiliare, mascherati per le vie della città. Una festa per ballare, dimenticare ed invocare la benevolenza dell’Angelo dalle Ali Azzurre. Christine aveva sempre sognato di poterci andare.

Elliot aveva tentato ogni anno di convincere l’austero padre a concederle il permesso, foss’anche sotto scorta. Era stata una lotta inutile e, ora che lui si trovava alla Lutwidge, sua sorella era rimasta sola, nella sua stanza. A sognare il mondo che si trovava oltre la sua finestra.

Toccò il vetro dinnanzi a lui, avvertendo l’angoscia e la tristezza che attanagliavano il cuore di Christine, come se fosse il suo. Due gemelli non potevano essere separati da alcuna distanza.

«Ho deciso.» disse a un tratto, mentre Leo, immobile, lo osservava conoscendo già ciò che sarebbe seguito «Porteremo Christine a San Brigitte.»

 



MEANDRO DELL’AUTRICE:



Buonsalve a tutti.

Chiedo venia per il ritardo nel pubblicare, ma quest’oggi è stato più caotico del solito. XD Perciò, vado dritta al sodo.

Sono consapevole che sia “Orgoglio e pregiudizio” che “Jane Eyre” sono stati pubblicati nella prima metà dell’800, mentre secondo i miei calcoli (dovuti a molteplici ragioni, che purtroppo al momento non posso spiegarvi) questa fic è ambientata molto prima. Tuttavia, mi prendo la libertà narrativa, datami anche dalla stessa autrice, che pone l’opera di Pandora Hearts in un universo parallelo con tanto di calendario differente dal nostro. Prendete perciò tutto molto con le pinze e ignorate questi dati, esattamente come le minigonne di Alice e Lottie, che in qualunque secolo antecedente la fine del ’900 avrebbe mandato la gente in panico al grido di “scandalo”! xD

A sabato prossimo, con il nuovo capitolo ed una nuova OC: Christine Nightray - LA MIA AMATA SORELLA - !

Non mancate,



Moni =)

1Il brano in questione era “Impromptus op. 90 - N. 3 in sol bemolle maggiore ” di Schubert.

2Celebre filastrocca inglese, dal titolo “Cock a doodle doo!” che fa parte delle Melodie di Mamma Oca. Il testo originale è: Cock a doodle doo! / My dame has lost her shoe, / My master's lost his fiddlestick, /And knows not what to do.

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Capitolo 6
*** RETRACE: V Christine Nightray - LA MIA AMATA SORELLA - ***


RETRACE: V Christine Nightray

- LA MIA AMATA SORELLA -



Contò fino a dieci, prima di svoltare l’angolo dopo le scale.

Lentamente, senza fretta. Stando in ascolto. Altrimenti avrebbe potuto non scorgere un lieve rumore di allarme.

Tutto taceva, come sempre in quella villa che lei continuava a chiamare casa. Perché lì era nata, era stata amorevolmente cresciuta e viveva con la sua famiglia. La sua amata famiglia… che placidamente, come lo scorrere di un ruscello, andava estinguendosi. Per quanto delicato, nessuno avrebbe mai potuto fermare il cammino dell’acqua. «Non ci è dato conoscere i disegni dell’Altissimo, né di comprenderli» aveva sentenziato il parroco nel corso dell’omelia funebre in ricordo dello zio «In quanto Suoi devoti, non possiamo fare altro che arrenderci alla Sua volontà e pregare per la salvezza delle anime dei nostri cari».

Perse il conto e fu costretta a ricominciare.

Melius abundare quam deficere.

Quegli orrendi pensieri la perseguitavano da ormai un anno, ma non per questo doveva perdersi d’animo. Doveva essere forte, soprattutto per le persone che amava.

Il vassoio cominciava a pesarle, ma giunse presto il dieci e poté così procedere. Svoltò celere a destra, lungo l’infinito corridoio. Nonostante le sue precauzioni, temeva di poter essere scoperta da un momento all’altro. Se prima avrebbe potuto mentire, affermando che quel tè era stato preparato unicamente per la sorella, ora non poteva più farlo. Quella era l’ala destinata ai suoi fratellastri.

Detestava quella parola. Rendeva sporco quel loro legame. Un’ala della villa unicamente per due persone… era ridicolo ed al tempo stesso crudele. Avrebbe tanto voluto che Gilbert e Vincent potessero stare insieme agli altri, tutti uniti, come dei veri fratelli. Le camere non mancavano. Ma suo padre, se da un lato mostrava benevolenza nei riguardi dei figli adottivi, dall’altra pareva volerli marchiare per un peccato di cui lei non ne conosceva l’origine. Purtroppo, i suoi fratelli maggiori avevano usato quel pretesto per marcare in maniera indelebile quella linea che li divideva. Tutti, ad eccezione di lei.

Christine saltava agilmente da una parte all’altra, come fosse un’equilibrista in bilico su di un baratro, senza mai farsi scoprire.

La maggior parte delle volte, quanto meno.

Affrettò il passo, desiderosa di raggiungere la sua destinazione. Non appena fu dinnanzi alla porta si rilassò, sollevata per avercela fatta anche stavolta. Bussò educatamente, sebbene costretta con la punta del piede, dato che aveva le mani occupate. Vincent le aprì subito, quasi si trovasse dietro la porta, in attesa.

Non le sorrise, come sempre.

«Buon pomeriggio, Vince. Desideri un po’ di tè?» domandò la ragazza, gioviale.

«Per quanto andrai avanti con questa storia?» domandò il biondo, facendole tuttavia spazio affinché si accomodasse all’interno.

«Finché non diventerò un fastidio, ovviamente.»

Con grazia, la ragazza poggiò sul solito tavolino l’enorme vassoio, carico di teiera, due set di tazzine e relativi piattini coordinati color avorio, con in bella mostra un cestino colmo di biscotti secchi variegati. In cima aveva volutamente posto quelli con una lacrima di crema all’albicocca, che sapeva essere i favoriti del fratello.

Agitò appena le mani, ora finalmente sgravate da quel peso e, ordinatasi una ciocca di capelli ribelli, si apprestò a servire la bevanda. Vincent la osservava, indeciso sul da farsi. Da un lato trovava fastidioso ogni aspetto di quella famiglia, a cominciare da chi, come la sorella minore, fosse fissato con le apparenze. Tuttavia, si trattava di una formalità che non gli dispiaceva troppo.

«Prima o poi ti stancherai di farmi da cameriera.» disse infine, prendendo posto nella poltroncina difronte a lei.

Questa gli porse la tazzina, insieme ad un timido sole: quando sorrideva, Christine era deliziosa, una sedicenne come tutte le altre signorine che popolavano l’alta società. Soltanto che lei, anziché brillare per un bel vestito scorto in vetrina o per un giovane particolarmente avvenente, regalava quel raggio di luce alle tenebre della sua dimora.

«Una ragazza è libera di prepararsi del tè senza dover scomodare i domestici, no? E casualmente me ne abbonda sempre un poco.» rispose cordiale, prendendo un biscotto per sé e assaporandolo con gusto.

«Casualmente, certo.» ripeté Vincent, con una infinitesimale smorfia di disgusto.

Nonostante i suoi modi seccati, sorseggiò il tè, come d’abitudine.

Era il loro piccolo rituale, una pantomima che ripetevano ogni giorno, alla stessa ora. Vincent difficilmente aggiungeva altro a quel breve scambio, ma Christine pareva non curarsene, apprezzando quel silenzio condiviso. Poteva bearsi della presenza di un altro, piuttosto che rimanere sola nelle sue quattro mura.

«Hai impegni, domani? Vai a San Brigitte?» domandò a sorpresa la giovane.

«Ah, giusto, domani c’è la grande festa.» mormorò Vincent, sovrappensiero «No, resterò a casa.» ammise con un ghigno, pregustando ciò che sarebbe seguito.

Gilbert sarebbe certamente venuto da lui, ne era sicuro.

Dopo gli avvenimenti del gatto Cheshire e il più recente incontro con il duca Barma ed il suo informatore, Gilbert sarebbe stato ghiotto di informazioni. Verità che solo lui era in grado di fornirgli… anche se non voleva. Non aveva intenzione di rivelare nulla al suo caro fratellone, no, no. Tutto procedeva perfettamente, non era necessario che Gil sapesse. Ma, a questa quisquilia, avrebbe posto rimedio l’indomani. Ne aveva tutto il tempo e, oltretutto, era grato a quei ficcanaso del Cappellaio e del suo seguito: finalmente aveva una scusa per vedere il suo adorato Gilbert.

Christine parve rasserenata da quelle parole. Suo padre sarebbe uscito per degli impegni e così anche sua madre e Vanessa. La casa sarebbe rimasta vuota se anche lui se ne fosse andato.

«Oh, bene. Allora, potremmo prendere il tè anche domani.»

«Temo di no.»

La secca replica di Vincent lasciò di stucco la ragazza. Sorrise affabile, con quel finto ghigno di cortesia che feriva la sorella più di una stilettata delle sue forbici nel petto.

«Avrò ospiti. Non voglio essere disturbato.»

«Oh… certo.» concesse Christine, finendo di sorseggiare il suo tè «Capisco.»

Osservò le foglie rimaste sul fondo, che componevano un disegno strano ed inquietante. Non sapeva leggere i fondi delle tazze, non era cosa per signorine beneducate, ma percepiva con chiarezza che quello che vedeva non era di buon auspicio. Altre tragedie erano alle porte, se lo sentiva nelle vene.

«Christine?»

La voce del fratello la riscosse. Senza alcuna fretta, le indicò la propria tazzina, anch’essa vuota ed ora nuovamente posta sul vassoio.

«Era delizioso, ti ringrazio.»

Lei annuì, ancora turbata. Avvertì gli occhi del fratello su di lei, mentre si apprestava a tornare di sotto, senza essere scorta. Prima che potesse uscire, lui la fermò.

«Christine.»

Si voltò, speranzosa ed al contempo incerta.

Non sapeva mai che aspettarsi dal maggiore.

«Cerca di stare attenta, anche se sei in casa. Queste mura non sono più sicure.»

Christine annuì, grata della sua preoccupazione, sebbene più angosciata di prima.

Se nemmeno la sua casa era sicura, non aveva più un luogo in cui nascondersi.

 

 

A Pandora si respirava aria di divertimento sin dal primo mattino. Sharon e Break, per risollevare il morale dei giovani agli arresti domiciliari e nuovamente costretti ad infiniti interrogatori, avevano pensato di occupare una stanzetta per consumare insieme la colazione.

Oz ed Alice avevano apprezzato il gesto, sebbene la ragazzina si fosse finta altezzosa, come se fosse lei a dar loro il privilegio immenso di condividere il suo pasto prediletto. Mentre Sharon si appropriò immediatamente del posto accanto ad Alice, per mostrarle l’ultimo arrivato della sua collezione relativa a “Sylvie e i cani randagi”, Oz tentava in ogni modo di spulciare a Gilbert informazioni sulla sua misteriosa uscita del giorno prima.

«Coraggio Gil, non farti pregare! Zio Oscar ci ha già detto che sei stato via per vedere una ragazza… o un ragazzo. Pareva piuttosto confuso su questo punto.» cinguettò allegro, gli occhi avidi di succosa conoscenza relativa alla vita scabrosa del servitore.

«Per l’ultima volta, NO.» replicò netto il moro, afferrando con decisione la sua tazzina di tè e rimpiangendo, mentre la sorseggiava, il suo diletto intruglio nero «E Break, smettila di rubarmi la colazione!»

«Sei estremamente noioso, sai? Più del solito. Che hai combinato con Sophie?» domandò l’albino, mentre addentava incurante una fetta gigantesca del pancake di Gilbert.

«Io non ho fatto proprio niente! E comunque rivolgiti a lei con più rispetto, dato che… ehi, un momento: come sai che ho visto Sophie?»

«Ma che sei tonto o solo mezzo addormentato?» Break lo squadrò orripilato, quasi avesse a che fare con un insetto fastidioso e molesto «Sei andato alla Lutwidge, dopo la figuraccia dell’ultima volta, perciò o sei andato a incontrare il nostro informatore o hai smanie masochiste. E, per la cronaca, mi rifiuto di dare del lei a quella mocciosa, salvo che sguardi indiscreti lo richiedano. Anche perché tu non sei molto più educato di me, giovincello impertinente.»

«Masochista, a Gilbert piace prenderle!» squittì angelica Emily, muovendosi con inquietanti scatti sulla spalla del suo padrone.

«Sei andato da Sophie, wow! E che vi siete detti?!» domandò impaziente Oz, gli occhi con le iridi sproporzionalmente grandi, come fosse sotto effetto di strane sostanze, e non di semplice curiosità «Ti prego, parla Gil, io mi annoio qui!»

«Oh, e va bene! Ci siamo visti, abbiamo parlato, me ne sono andato. Fine della storia.»

«E ora Sophie ti odia.»

«Non è vero!»

«Allora è sulla buona strada.» rincarò la dose il Cappellaio, che ormai stava leccando con diletto ciò che rimaneva della marmellata sparsa sul piatto di Gilbert «Sei di malumore da ieri, qualcosa avrai pur fatto.»

«È vero.» confermò Sharon, interrompendo la sua lettura per concentrare la sua attenzione su di un caso reale e potenzialmente inebriante per il suo lato femminile «Che le hai detto? Suvvia, raccontaci.»

«Ma perché dovrei aver fatto qualcosa io?!»

«Perché sei un imbranato.» risposero tutti in coro, mentre Alice optò per un assolo di «Perché sei una testa d’alga.»

«Beh, invece non è così. Io le ho soltanto chiesto se anche lei si ricordasse di me. Tutto qui.»

Diede un colpo deciso al suo giornale e, incurante del bon ton, che comunque era già stato palesemente ignorato anche da lady Rainsworth, decise di chiudere lì il discorso. Peccato per lui che il silenzio apparentemente cheto che seguì fosse solo il preludio di una terribile raffica di domande.

«Se si ricordasse di te… in che senso?»

«Eh?» domandò Gil, ancora concentrato su di un articolo relativo all’ennesimo ribasso delle Borse europee.

«Quando vi sareste conosciuti, di grazia?» la domanda di Sharon si fece inquietante, tanto più che la sua candida mano comparve sulla cima dei fogli che, malamente, gli vennero strappati di mano.

«Ehi, ma che… !»

«Su, parla Gilbert.» lo incoraggiò Oz, se possibile ancora più spaventoso con quel sorriso esageratamente angelico.

«Non è bene nascondere le cose ai propri amici, sai?» aggiunse Break, mentre la sua inseparabile compare gracchiava «Finirà male, finirà molto male per te.»

«Ehm… ecco, io...» balbettò Gilbert, sudando freddo «Po… potrei averla conosciuta da piccola.»

Avrebbe voluto aggiungere che si era trattato di una volta sola e di un semplice incontro fortuito, del quale si era totalmente dimenticato per anni, ma tutto questo, ovviamente, a Sharon non importava minimamente. Mentre tutti lo fissavano allibiti, tranne Alice, che continuò a mangiare imperterrita, la Duchessina si portò le mani al viso, arrossendo deliziosamente.

«Che storia romantica! Un incontro avvenuto in fanciullezza e destinato a ripetersi: Gilbert, è meraviglioso!»

«Non è nulla di tutto ciò! Smettila di fantasticare, per l’amor del cielo!»

Vane furono le proteste del ragazzo che, anzi, fu obbligato a narrare ogni cosa. Dal principio. Lui, che voleva gettarsi alle spalle l’intera vicenda, fu invece costretto a ripercorrerla passo per passo. Dettaglio dopo dettaglio. Finché il suo pubblicò non fu soddisfatto. Giunto al termine, sentì l’urgenza di fumarsi un intero pacco di sigarette, tutto in una volta, se possibile.

Break, tuttavia, glielo impedì.

«Gilbert, perdonami, potresti ripetere?» domandò gentilmente, una lacrima già in agguato all’angolo del suo occhio «Lei ti ha chiesto se avessi altro da dirle e tu lei hai risposto: Che altro c’è?1»

Di tutte le domande che si aspettava, quella era l’ultima.

«Beh… sì. Perché?»

La reazione a quel punto fu immediata.

«BUAHAHA!! Che altro c’è?! Una donna ti chiede se non hai altro che volessi dirle, dopo un fortuito incontro avvenuto dieci anni prima, e tu le rispondi “Che altro c’è?”. Muoio!»

Gettandosi all’indietro per le risate, Break cadde dalla sedia con un sonoro tonfo che, ciononostante, non arrestò le sue risa. Emily tentò svogliatamente di rianimarlo, ma preferì ripetere: «Scemo, Gilbert è scemo» come un mantra. Sharon tossicchiò, tentando di riportare all’ordine il suo servitore, ma persino lei era dilettata in maniera sadica dal fatto. Una piccola parte di lei, tuttavia, domandò mentalmente scusa alla nobile Sophie per aver riso delle sue disavventure con gli uomini.

«Ma che altro avrei dovuto dirle, scusami?!» replicò piccato il Nightray, guardando confusamente i presenti; persino Oz sembrava schifato dai suoi modi.

«Gil, tu le donne non le capisci proprio… avrei dovuto insegnarti meglio.» mormorò il biondo, con aria greve eppure rassegnata «Proprio vero che, se l’allievo è indisciplinato, non c’è nulla da fare anche per il più bravo dei maestri. Povero zio Oscar, anni di lezioni buttate al vento.»

«Che succede? Il ragazzo femmina deve punire testa d’alga per un affronto subito?»

«Non c’è nessun affronto subito!» la interruppe subito Gilbert, fissando i presenti uno ad uno «Ci siamo visti soltanto una volta, quando lei era appena una bambina e poi abbiamo fatto una missione insieme… che altro si aspettava che dicessi?»

Break, riemerso dagli abissi delle risate, si riposizionò al suo posto e, composto, osservò il giovane Nightray con intensità e calore. Infine, espose la sua massima.

«Gil, davvero tu… sei senza speranze.»

1Piccola citazione per i colti, direttamente da “L’incantesimo del lago” (1994).

 

 

Christine Nightray si domandò come fosse avere degli ospiti.

Ci pensava dalla notte precedente, mentre tentava inutilmente di prendere sonno tra le ombre di quella stanza a lei fin troppo familiare. Ne conosceva a memoria ogni crepa, ogni tassello finemente intagliato e posizionato sulla pavimentazione scura, con spicchi di luce dati da un cerchio candido al cui interno vi era disegnata una complessa stella color blu notte. Aveva memorizzato tutto il mobilio, antico e lucido, nonostante la poca cura che la madre gli dedicasse, come al resto della casa, da quando erano venuti a mancare i suoi fratelli. Persino la grande porta in mogano non aveva per lei venature che non riconoscesse a colpo d’occhio. Era sempre ben pulita, ma era evidente che la padrona di casa non si curasse più di far riverniciare il legno o di sistemare le piccole crepe formatesi agli angoli delle pareti.

Non c’erano soldi e, probabilmente, nemmeno il desiderio.

Christine sapeva che non erano in condizione di povertà, ma tra tutte le casate nobiliari la sua era sempre quella più mal vista, anche nel commercio e, di conseguenza, certe vanità erano venute meno. Non ricordava l’ultima volta che avesse ricevuto in regalo delle scarpe nuove… come se le potessero servire. I vestiti erano l’unica cosa che, da quando aveva smesso di crescere, erano stati immediatamente tagliati dal budget. Usciva unicamente cinque volte l’anno: a Capodanno, per la festa tenuta dal loro sovrano nella grande capitale dell’Impero, a Pasqua, per il pranzo con i lontani parenti, per il compleanno del Duca e della Duchessa ed infine per il Natale in alta società.

Tutto il resto le era proibito, anche se aveva avuto la fortuna di assistere alla cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico del fratello Elliot, tre anni or sono. Solo quella del primo anno, tuttavia, poiché era richiesta la presenza di tutta la famiglia. Le altre erano opzionali e, di conseguenza, non necessarie.

Si era domandata come fosse vivere in un dormitorio, con un compagno di stanza. Avere dei pasti in comune con centinaia di altri fanciulli della sua stessa età ed anche più anziani, poter conversare ogni giorno con persone diverse, vedere posti nuovi… sembrava tutto spaventosamente eccitante.

Ma a lei sarebbe bastato avere ospiti. O anche solo i suoi fratelli.

Mentre si addormentava, faticosamente, pensò a come il padre l’avrebbe rimproverata per questo suo modo di pensare. Aveva ogni cosa che una ragazza della sua età potesse desiderare: una bella casa, pasti caldi ed un letto comodo, vestiti pregiati ed un’istruzione d’eccezione. E, un giorno, un marito.

Aveva sospirato, mentre cedeva al sonno, chiedendosi se, anche una volta sposata, sarebbe ugualmente rimasta rinchiusa, semplicemente in una gabbia diversa.

Le ore erano trascorse implacabili e, presto, era sorto un nuovo giorno, perfettamente identico agli altri. Il padre fu l’unico a salutarla con affetto dopo la colazione. Le aveva carezzato una guancia, gentile, dicendole quanto fosse orgoglioso di lei e raccomandandole di divertirsi, dato che per la festa di San Brigitte le era concesso di non studiare. Christine aveva annuito, gli occhi castani sereni e limpidi.

Aveva pianto per anni, in quell’occasione.

Tutti uscivano per la festa dell’Angelo Azzurro, tranne lei.

«Sei troppo debole, Christine, non puoi reggere un ritmo simile. La folla ti sfiancherebbe subito.» le diceva il Duca, ogni anno «Sei una ragazza intelligente, lo capisci da sola che non mi perdonerei mai se ti accadesse qualcosa.»

Era stato inutile promettergli di non correre, di non camminare troppo, di farsi scortare, portare in carrozzina persino, purché le lasciasse vedere la città. Amava quella festa, amava l’idea di poter essere un’altra persona, solo per un giorno, in compagnia della sua famiglia.

Lo scorso anno, l’ultima volta che aveva tentato di persuaderlo, era rimasta ammutolita ed incapace di ribattere.

«Sei una brava figlia, no, Christine? Perché devi fare i capricci e farmi passare per il cattivo? Io voglio solo il tuo bene.»

Quell’anno, infatti, non aveva aperto bocca. Elliot, il suo unico alleato in quella lotta, si trovava alla Lutwidge. Probabilmente, se ci fosse stato anche nelle precedenti occasioni, le avrebbe fatto forza, ma tre anni senza il suo gemello le avevano tolto qualsiasi vigore combattivo.

Non sarebbe mai cambiato nulla, perciò a che scopo lottare?

Lei stava bene. Doveva solo arrendersi… però, anche se non protestava più, nessuno le aveva tolto la capacità di sognare e così, dopo che la madre se ne era silenziosamente andata, senza nemmeno guardarla, aveva abbracciato la sorella Vanessa e le aveva augurato una felice giornata ed un sereno viaggio, prima di ritirarsi nella sua camera. Si sentiva un peso nel petto, ma lo curò con la medicina che favoriva: i suoi amati romanzi.

Suo padre non lo sapeva, ma viaggiava ogni giorno, esplorando scorci di mondo che nemmeno nelle sue più fervide fantasie avrebbe potuto sognare. L’occhio della sua immaginazione la consolava con dipinti di foreste tropicali, guerrieri intrepidi e maghe seduttrici, che le facevano dimenticare chi fosse. Quell’incantesimo la contagiava a oltranza, anche dopo aver posato il libro, inebriandosene per ore ed ore, quasi stordendosene.

Quel giorno, nonostante i suoi propositi, non riuscì a leggere nemmeno una riga. I suoi occhi parevano non riuscire a coordinarsi con le onde della sua mente che, insistente, si domandava come fosse conversare realmente con delle persone, per più di una manciata di volte l’anno. Se fosse stata abbastanza sana da poter frequentare la Lutwidge col fratello, avrebbe avuto degli amici?

Non le importava se fossero maschi o femmine, sebbene era conscia che, per l'etichetta, sarebbe stato più consona una compagna. Si focalizzò su quel pensiero: come sarebbe stata la sua amica? Alta e bella? Magari la figlia di un duca come lei? Elliot le aveva raccontato che l’unica ragazza che corrispondesse a quei prerequisiti apparteneva al casato Vessalius: si chiamava Ada.

L’aveva vista a qualche festa, soprattutto a Natale. Era una ragazza di poco più grande di lei, con un visino angelico e gentile. Sembrava una Venere, tanto era raggiante e splendida nei suoi vestiti di broccato e seta. Christine l’aveva certamente invidiata. Lei non possedeva le sue stesse forme generose, né dei capelli tanto lisci e lucenti da parere raggi di sole. I suoi, per quanto ben pettinati, erano sempre mossi, da metà lunghezza e terminavano con dei leggeri boccoli. Il colore era assai banale e decisamente meno incantevole del biondo di Ada. Erano esattamente come i suoi occhi, di una bella tonalità di marrone, caldo e avvolgente, ma pur sempre comune. Il viso era l’unica cosa che apprezzasse veramente, essendo fortunatamente minuto e naturalmente dolce. Non sarebbe mai stata una dama affascinante, ma di certo poteva contare sulla grazia e la finezza che trasparivano dai suoi lineamenti delicati. Un gentile dono della Provvidenza era stato posto sul suo labbro superiore: un neo che, data la moda del tempo, tutte le invidiavano. Solitamente, infatti, venivano dipinti sul volto, ma lei non ne aveva bisogno. Avendo la pelle chiara ne possedeva diversi, ma ben più celati, e questo le dava un’aria molto à la page, specialmente se coordinata al genuino rossore delle sue guance, appena incavate come quelle della madre.

Sicuramente non sarebbe dispiaciuta al suo futuro marito, chiunque suo padre avesse scelto per lei… sospirò, domandandosi se sarebbe stata brava anche a fingere interesse, nel malaugurato caso in cui quell’uomo non le fosse piaciuto.

Conosceva già l’amore e, sebbene non ricambiata, sperava con tutto il cuore di poter amare ancora, magari persino in maniera più forte.

Un brivido le attraversò improvvisamente le membra, mentre la finestra, appena socchiusa per far entrare la gentile brezza primaverile, sbatté con veemenza. Avvicinandosi ad essa per chiuderla, Christine si chiese se, anziché gioia, il suo destino non prevedesse un impedimento. Le fatalità accadevano ogni giorno, ormai…

Scosse il capo, chiudendo la finestra ed il suo cuore a quei pensieri.

Non avrebbe pensato ancora ad Ernest e Claude, non con quello spirito. Doveva pregare per la loro pace, non angosciarsi per il modo in cui se ne erano andati… ciononostante, i racconti sulla Regina di Cuori erano sulla bocca di tutti e, in particolare i domestici, erano avidi di condividere i dettagli più osceni e macabri. Suo malgrado, ne aveva sentiti alcuni. Aveva spesso gli incubi, da un anno a quella parte: mani ossute che la rincorrevano nel buio, strappandole i capelli ed i vestiti, urla e lamenti spaventosi che arrivavano da ogni direzione, senza che lei potesse fare nulla. Era sempre in fuga o paralizzata dal terrore e si chiese se, questa sua codardia, le sarebbe stata fatale in vita.

Un suono improvviso la fece sussultare ancora. Arretrò di un passo e quasi gridò, portandosi la mano al cuore.

Chi poteva essere a bussare alla sua porta?

Vincent no di certo, forse un domestico? Ma per quale motivo?

Le parole del fratello le rimbombarono nella mente, come un monito.

«Cerca di stare attenta, anche se sei in casa. Queste mura non sono più sicure.»

Avanzò verso la porta, decisa quantomeno a non restare paralizzata dal terrore. In ogni racconto che aveva letto, chi restava immobile faceva spesso una brutta fine. Afferrò con forza la maniglia, respirando piano per calmarsi.

Non è niente, è solo la tua immaginazione. Sei ridicola, calmati.”

Aprì nel medesimo istante in cui chiese chi fosse e, con sua grande sorpresa, ciò che vide le procurò una gioia immensa: Elliot e Leo erano difronte a lei, confusi da quella sua strana apparizione, così improvvisa e guardinga. Non gli diede tuttavia il tempo di chiedere nulla. Si gettò tra le braccia del fratello, come una bambina che rivede dopo giorni l’amato genitore.

«Elliot, che bello vederti!» quasi le venne da piangere, tanto era stato violento il balzo da timore a gioia incontrollata.

Il ragazzo ricambiò l’abbraccio, sorridendole, e nel frattempo osservò l’interno della sua stanza.

«Mi sei mancata anche tu. Va tutto bene, Christine? Sembri pallida.»

La ragazza si staccò, scuotendo il capo e ricambiando il gesto radiosa.

«Mh, mh, tutto a posto, ero solo sorpresa.» lo tranquillizzò subito, non volendo rovinare quella riunione con le sue sciocche paure «Leo, ciao, ci sei anche tu!»

«È un piacere rivederti, Chris.»

«Ehi, poca confidenza con mia sorella.» lo ammonì Elliot, guardandolo di sbieco «Ormai ha sedici anni, non è più una bambina.»

«E quindi?» domandarono in coro sia Christine che Leo, scoppiando poi a ridere.

Prima che Elliot potesse partire in quarta con una delle sue filippiche sull’etichetta e la decadenza dei costumi, la sorella fece loro cenno di accomodarsi. Nuovamente, Leo non si fece scrupolo ad entrare nella camera di una signorina e ciò gli costò i rimbecchi di Elliot che, però, vennero presto sedati da una sua semplice constatazione.

«Anche se la casa sembra vuota, non mi pare il caso di discutere in corridoio… Christine sembra un po’ scossa.» mormorò al padrone, mentre elargiva uno sguardo sornione alla ragazza.

Elliot osservò la sorella, notando anch’egli un turbamento che raramente le aveva visto addosso. Fu ancora più convinto della sua decisione.

«Come mai siete qui? Non vi starete mettendo nei guai, vero?» domandò Christine, con tono pacato eppure severo, mentre si accomodava sul bordo del letto indicando ai ragazzi due seggiole che, tuttavia, essi ignorarono.

«Non ti preoccupare, oggi non ci sono lezioni. Perciò non stiamo perdendo nulla.»

«Mi fa piacere, ma questo non risponde alla mia domanda. Normalmente non potreste uscire oggi.» spostò lo sguardo su Leo, sperando di ottenere maggiore chiarezza.

«Siamo in missione speciale!» esclamò quello, alzando il dito indice con fare cospiratorio «Si chiama: rapimento della principessa dalla torre oscura!»

«È un nome spropositatamente lungo.»

«Almeno io gli ho dato un nome.»

«Scusate, cosa?» domandò esterrefatta la ragazza, fissando i due che, come al solito, battibeccavano.

«Hai capito bene, Chris: tu oggi vieni via con noi.» le disse Elliot, un sorrisetto da mascalzone che raramente gli si vedeva sfoggiare.

Le tornarono istintivamente dei frammenti di ricordi, schegge della sua infanzia: Christine, insicura e spaurita, eppure trepidante di aspettativa per l’emozione crescente, mentre esplorava l’enorme magione mano nella mano al suo gemello. L’aveva sempre condotta all’avventura, parandosi davanti a lei in sua difesa, benché in quel mentre ciò che attraversò le viscere della ragazza non fu l’ebbrezza del passato, ma un sentimento ben più oscuro. La paura le attorcigliò lo stomaco, costringendola a portarsi istintivamente una mano al ventre.

Non poteva uscire. Per nessuna ragione al mondo.

«Venire via? E dove?» chiese, la voce incrinata, sebbene ancora controllata a stento.

«Ma in città! Alla festa di San Brigitte, no?»

«Che stai dicendo? Io non...»

«Non potresti, lo so. Ma sono anni che lo desideri e, da quello che mi hai raccontato, ormai sono diversi giorni che non hai più malesseri improvvisi, no?» la incalzò il fratello, desideroso di trasmetterle il suo entusiasmo e, soprattutto, la sua sicurezza «Non staremo via molto, giusto il tempo di fare un giretto per il centro: andiamo, ci godiamo la festa, guardiamo i fuochi d’artificio e per le otto rincaseremo. Ho controllato, papà non sarà di ritorno prima delle nove, mentre Van e la mamma saranno via per qualche giorno. Non se ne accorgerà nessuno!»

«E… i domestici?» domandò preoccupata la ragazza, la cui voce si era ormai distorta del tutto.

Leo fu il primo a sussultare a quella visione, mormorando il suo nome con apprensione, ma Elliot, cocciuto, insistette con vigore.

«Non succederà nulla, te l’ho detto! Nessuno ci vedrà, i domestici sono quasi tutti di riposo, resterà solo James, con cui ho già parlato. Non farà un fiato e terrà occupata Harriet, perciò puoi stare tranquilla.»

«Ma… papà non vuole e… io non credo di farcela. Sono appena venuta a star bene, non è il caso che mi sforzi.»

«Christine, ma cosa dici? Non volevi vedere la festa?»

«Sì, ma… in fondo non ha importanza. Non posso uscire. Non posso. Io...» si portò le mani alla testa, come terrorizzata.

Cosa avrebbe detto suo padre se l’avesse scoperta?

L’avrebbe deluso, certamente si sarebbe infuriato, e avrebbe punito sia lei che Elliot. Niente più libri, pasti serviti in camera, finché non avesse compreso quanta libertà in realtà possedesse. Elliot avrebbe ricevuto una nota di demerito a scuola e questo avesse inficiato la sua carriera. Inoltre, c’era anche Leo. Di certo un servitore sarebbe stato punito severamente per un simile affronto all’autorità del Duca.

Era quello ciò che temeva maggiormente. Suo padre avrebbe sicuramente perdonato i suoi figli, ma Leo non era uno di famiglia, non per suo padre. I suoi fratelli avevano cercato sin dal suo arrivo di sbarazzarsene e se questa volta il padre avesse infine ceduto, facendosi persuadere dalle loro antichi moniti? Le sembrava di sentirlo, il suo defunto Ernest, mentre si lamentava con voce distorta dalla morte al cospetto del genitore.

«Leo è una pessima influenza per Elliot, l’abbiamo sempre detto! E guarda: ha persino messo in pericolo la sicurezza di Christine. Deve andarsene, ora! O vuoi permettere che la mia voce venga dimenticata?»

No, no, no, non se lo sarebbe mai perdonata, non poteva. Lei non lo avrebbe permesso, non per un suo sciocco capriccio!

«Christine.»

La voce di Leo la fece riscuotere dal suo turbamento. Senza rendersene conto aveva preso a tremare, le mani strette in due pugni sulle tempie. Aveva persino chiuso gli occhi, come davanti ad un orribile chimera. Delicatamente, il ragazzo le prese i polsi e le fece abbassare le braccia, facendole poi congiungere le mani e ponendo la sua sopra di esse.

«Christine, lo sappiamo che hai paura. E sappiamo anche che probabilmente ci cacceremo nei guai.»

A quelle parole Elliot spostò la sua mano e prese il posto di Leo, mentre lasciò che l’altra rimanesse stretta sulla sua spalla. Lei non si era nemmeno accorta che si due si fossero spostati, avvicinandosi a lei sul letto.

«Però.» continuò Elliot «Noi saremo con te e non permetteremo mai che ti accada qualcosa di male. E poi siamo già nei guai, ricordi?» le sorrise teneramente, carezzandole il capo come quando erano piccoli.

«Faremo tutto per bene, te lo prometto.» aggiunse il servitore, portandosi la mano al cuore «Permettici di essere i tuoi impavidi cavalieri, quest’oggi!»

Christine li osservò, uno ad uno, quasi al culmine delle lacrime. Quella paura che l’attanagliava era ancora lì, sotto la sua pelle, ma tenuta a bada da quel calore che i due ragazzi le avevano trasmesso con il loro tocco. Forse, per una volta, avrebbe dovuto combattere, anziché scappare e restare bloccata dov’era.

«Sì.» disse infine, asciugandosi due lacrime fugaci dalle gote «Avete ragione, io… vorrei tanto andare alla festa con voi.»

«E allora andiamo!» trillò Elliot, alzandosi in piedi e trascinando la sorella con lui «Oggi potrai essere una ragazza qualsiasi, che va ad una festa con suo fratello ed il suo migliore amico.»

«Che travestimento scialbo.» commentò con un sospiro Leo, seppur ridendo.

«Non potevo chiedere di meglio!» replicò Christine, contagiata da quella ventata di ardore che quei giovani avevano soffiato nel suo cuore.

Fuori dalla porta, in ascolto, Vincent sorrideva soddisfatto.

Tutto andava secondo i piani, se non meglio: con Christine fuori dai piedi, avrebbe potuto incontrare Gilbert senza alcuna interruzione. Era infatti conscio dell’affetto che la ragazza nutriva per il maggiore e proprio per tale motivo Vincent si era guardato dal rivelare a Christine di una sua possibile visita. Se l’avesse saputo, avrebbe certamente voluto riabbracciarlo: da quando, l’anno prima, Gilbert aveva lasciato Villa Nightray, i due ad averne più sofferto erano stati proprio Elliot e Christine. Vincent se lo aspettava, anzi, era felice che il fratello si fosse allontanato da quell’ambiente tossico ed avverso, ma i due gemelli erano i soli ad essersi mai interessati a loro e, anzi, a dimostrargli affetto. Sebbene in maniera diversa.

Elliot preferiva soffocare il suo dolore nel silenzio, mostrandosi ostile e facendo un gran chiasso, com’era sua natura. Christine, invece, era sempre stata quella più pacata. Aveva pianto molto, nel silenzio della sua camera, ma si era anche rimboccata le maniche: una volta chiesto l’indirizzo al padre, aveva immediatamente scritto una lettera al ragazzo, pregandolo di riguardarsi. Avrebbe desiderato che tornasse ma, anziché dar voce a questa sua infantile pretesa, era stata tanto matura da augurargli semplicemente di vivere una vita serena. La sua unica richiesta, se non avesse voluto mai più tornare, era di rispondere a queste sue parole, per comunicarle il suo addio.

Con sua immensa gioia, Gilbert le aveva prontamente risposto.

Da allora Christine gli scriveva costantemente, così come faceva con Elliot.

Un leggero brivido di pentimento attraversò la mente di Vincent, al ricordo della sorella che lo osservava dispiaciuta, appena il giorno prima, sapendo che non avrebbero potuto condividere il loro tè insieme. Senza nemmeno poter immaginare che, in realtà, la stava privando della possibilità di riabbracciare Gilbert.

Quasi se ne dispiacque.

Di tutte le donne che aveva incontrato, Christine era l’unica che non lo infastidiva.

Si strinse nelle spalle, paventando indifferenza: in fondo, era andata bene così, non aveva senso perdersi in simili sciocchezze. C’erano questioni ben più importanti che lo attendevano.

 

 

«Ti rendi conto di cosa mi ha detto?»

Sophie, celata sotto le mentite spoglie del giovane Caleb, si trovava comodamente adagiata su di un lettino d’ospedale. Mentre Cassidy analizzava con cura la ferita, in buone condizioni ma non ottimali, come aveva ripetutamente sottolineato, la figlia del Duca era in pieno impeto confidenziale. Inizialmente, aveva pensato di raccontare quella storia per sovrastare la ramanzina del suo fidato medico curante, ma mano a mano che proseguiva nel racconto si sentì trascinare dal ricordo delle emozioni provate appena il giorno precedente.

Cassidy aveva dapprima annuito, poco interessata ai vaneggiamenti dell’amica. Era rassegnata al fatto che, ora che finalmente aveva rivisto il suo adorato Romeo, nessuno avrebbe potuto frenarla. Sospirò, invidiosa di quella spensieratezza che accompagnava sempre Sophie, indipendentemente da quanto tempo passasse. In fondo, le piaceva anche per questo.

«Beh? Che ti aspettavi, una dichiarazione d’amore a ciel sereno?»

La bionda, in pantaloni da lavoro marrone scuro, con tanto di cinturone che bloccava la camicia di cotone a motivi quadrati rossi su sfondo color petrolio, cercò nelle tasche del camice bianco i suoi fidati occhiali da vista. Per quanto li detestasse, non poteva farne a meno, anche se spesso e volentieri si scordava dove li avesse riposti. Ed essendo casa sua una babele di libri e cianfrusaglie mediche, il tasso di ritrovamento era spesso al di sotto dello zero: per questo aveva preso l’abitudine di ficcarseli nelle tasche della sua uniforme, così da non perderli mai… mai così spesso come un tempo.

«Oh, mia cara Sophie, in realtà io sono innamorato perso di te, dopo averti vista ben due volte!» pigolò in falsetto, mentre terminava di medicarle la ferita, per poi fermarsi per osservarla dritta negli occhi «Seriamente?»

«… un pochino ci speravo.» mormorò paonazza Sophie, fissando il soffitto intonacato, finemente scolpito da motivi geometrici e dipinto a tempera, sebbene sbiadito: essendo stato un tempo un monastero, quell’edificio celava dei piccoli capolavori al suo interno, se solo si sapeva dove posare lo sguardo.

Cassidy assunse un’espressione schifata.

«Mio. Dio. A te non serve un’amica, ma uno psicanalista. Anzi, rettifico: a te serve un’intera équipe di esperti.»

«Che pessima amica sei, per dirmi questo!»

«Allora trovatene un’altra!»

«Ma tu sei l’unica...» bofonchiò, quasi offesa.

«Scusami tanto se non sono un’amica bugiarda.»

«… ogni tanto potresti. Così, per provare.»

La bionda posò il contenitore del disinfettante che aveva appena terminato di stendere sulla ferita, sgranò gli occhi con fare volutamente eccentrico, dunque prese posizione: schiena dritta, testa lievemente inclinata, voce da ochetta.

«Oh, Sophie cara, sei la ragazza più bella e speciale del pianeta, certamente Gilbert già ti ama follemente, ma è troppo timido ed inesperto per capirlo.» terminò quel siparietto con un’occhiata glaciale, che avrebbe fatto impallidire il più impavido degli eserciti «Contenta, adesso?»

Sophie scosse la testa, incredula e leggermente spaventata da quella visione.

«No. Mi sento disgustata.»

«Sei una lagna.»

«Sei ingiusta.»

«Sei un tormento, da ben diec’anni!»

«Ehi, io non mi lamento quando… quando tu… ehm… beh, io almeno ti voglio bene per come sei!» concluse con veemenza, sentendosi non troppo fiera del risultato finale ottenuto.

Cassidy sospirò, cominciando a fasciarle la ferita.

«Dovevano farmi santa, altro che medico. E vedi di stare ferma… e adesso chi rompe, sono occupata!»

Il grido belluino della ragazza venne ignorato, poiché il bussare alla porta non cedette di un colpo. Irritata, Cassidy fu costretta ad interrompere l’operazione e ad alzarsi. Mentre borbottava che non si poteva lavorare in quelle condizioni e che gestire dieci pazienti da sola era una vera sciagura, raggiunse a passo marziale l’ingresso della stanza. Una volta spalancata, rimase con la frase a mezz’aria, incapace di terminare il suo sproloquio. Incuriosita, Sophie si sporse dal lettino, voltandosi indietro per vedere.

«Oh… maestro!» disse infine Cassidy, un sorriso sincero che si dipinse sulle sue labbra carnose e screpolate «Non mi aspettavo una sua visita.»

«Signorina Anderson, sempre in ottima forma, vedo.»

Un uomo distinto, sulla sessantina, occupava l’ingresso con il suo modesto metro e ottanta di altezza. Portava un completo semplice, sebbene rispettabilmente pulito e ben curato, a prima vista di tweed marrone. Si tolse il cilindro, facendo una piccola riverenza al giovane dottore, che d’istinto rispose al gesto. Sophie ne rimase sorpresa: non era da Cassidy comportarsi in modo tanto composto e ben educato.

«Prego, si accomodi pure: il paziente è una sua vecchia conoscenza.»

Ora che l’uomo l’aveva raggiunta, Sophie poté vedergli meglio il volto. Marcate rughe gli solcavano la fronte, mentre le guance risultavano un poco cadenti, ma tutto sommato quei segni del trascorrere del tempo donavano saggezza al suo viso. Una carnagione rosea gli conferiva vigore, mentre un bel paio di baffi riccioluti completavano l’opera, dando nobiltà alle sue labbra serie. I capelli erano di un castano chiaro tendente al biondo, sebbene una nebbia grigia li adombrasse appena lungo le radici ed in particolare ai lati. Non appena scorse Caleb gli sorrise, mostrando una gentilezza innata.

«Lady Sophie, è un onore rivederla.»

La ragazza sussulto, mettendosi a sedere e procurandosi una fitta all’avambraccio per averlo utilizzato come sostegno per raddrizzarsi. Subito, l’uomo si offrì di aiutarla, con fare esperto ed insieme garbato.

«Non si dovrebbe agitare tanto con una ferita simile.»

«È quello che le dico sempre. Sophie, non hai motivo di agitarti tanto: non lo riconosci? È il dottor Lucius Wood, non te lo ricordi più?»

«Oh, temo che abbia finito per dimenticarmi, da quando ci sei tu.» replicò Lucius, per poi rivolgere nuovamente il suo sguardo a Sophie «Era una bambina straordinariamente in salute. Raramente ha avuto necessità dei miei servigi.»

La giovane Barma sforzò il cassetto dei suoi ricordi d’infanzia, cercando degli indizi (il timbro della voce, il profumo di tabacco e colonia molto accentuato, le mani grandi e callose) che potesse ricondurla a quell’uomo. Poi, il ricordo di due occhi azzurri, con piccole gocce di verde al loro interno, la fece sorridere a sua volta.

«Mi ha aiutata quando ero caduta nel pianoforte… avevo forse tre anni?»

Wood rise, divertito da quell’antica memoria.

«Quattro, per la precisione. C’ero anche quando è nata… e quando sua madre ci ha lasciati. Sono stato io a visitare entrambe. Mi dispiace di non aver potuto fare nulla per Mary.»

Una scheggia di vetro le si conficcò nel cuore, ma Sophie mandò giù quell’angoscia del passato, e si concentrò sul presente. Su come quell’uomo avesse addolcito la voce nel pronunciare il nome di sua madre.

«Non deve, sono certa che ha fatto tutto quello che era in suo potere.» realizzò a quel punto la cortesia con cui le si stava rivolgendo, nonostante fosse tanto confidente nel rivolgersi al padre ed alla madre «Piuttosto, non è necessario che mi parli con tanta formalità, so che è molto amico di papà. Le andrebbe di parlarmene?»

Lucius annuì, selezionando silenziosamente episodi del suo passato che la ragazza avrebbe trovato interessante conoscere, dato che riguardavano anche il di lei genitore. Il Duca non parlava molto di sé, perciò avere l’opportunità di potersi confrontare con un suo caro amico rappresentava per Sophie un’occasione irripetibile.

«Beh, che posso dire per non mettere in cattiva luce il caro Ru, ma al tempo stesso gettare qualche macchia sui suoi futuri rimproveri?» si portò una mano al mento, con fare meditabondo «Tanto per cominciare, è stata una vera fortuna poterlo incontrare. Io non sono un nobile di alto rango. La mia famiglia è piuttosto umile ma, col tempo, si è guadagnata un certa posizione sociale. Posizione che mi ha dato l’opportunità di frequentare la Lutwidge con una borsa di studio. È lì che ho conosciuto tuo padre.»

Sophie sgranò gli occhi, incredula. Sebbene suo padre apparisse ancora giovane, a causa del contratto con Dodo, non riusciva minimamente a figurarselo adolescente. Come doveva essere stato? Era sempre burbero e solitario oppure possedeva un carattere più acceso e vivace? Cosa gli piaceva della scuola? Aveva avuto tanti amici?

Leggendo sul suo volto tutte quelle domande, Lucius tentò di risponderle.

«È sempre stato un tipo piuttosto… particolare?» tentò il medico, mentre muoveva i baffi in maniera comica «Sicuramente era un individuo che incuteva timore per il suo rango ed il suo modo di fare e, probabilmente, se non fosse stato per la mia faccia tosta non ci saremmo mai nemmeno parlati. Sai.» le confidò in un sussurro, con fare cospiratorio «Una volta gli consigliai di raffreddare i suoi bollenti spiriti, dato che aveva da ridire su tutto e tutti, insegnanti compresi. Perciò, siccome non volle seguire questo mio consiglio… gli gettai una secchiata di acqua gelida nel letto.»

Sophie cominciò a ridere sguaiatamente, attirando l’attenzione di Cassidy che, attenta, tentava di seguire il discorso, sebbene quel mormorio confidenziale non raggiunse le sue orecchie. Non volendo però rompere l’atmosfera di intimità che si era creata, non fece domande e lasciò che il maestro proseguisse nel suo soliloquio.

«Fu particolarmente soddisfacente. Certo, a causa mia si beccò un bel raffreddore ed io rischiai di essere espulso ma, a quanto pare, questa mia temerarietà piacque a tuo padre. Diventammo amici inseparabili fino al diploma, poi prendemmo strade separate: io continuai gli studi come medico, mentre lui si dedicò all’economia ed ai doveri legati al suo casato. Ci rivedemmo solo in occasione del suo matrimonio e, da allora, passai occasionalmente a visitare Mary e la piccola che ebbero in seguito: tu. Dopo quell’orribile tragedia, ci siamo visti sempre più di rado, purtroppo. Ma non ho mai dimenticato il mio amico brontolone.»

Sophie rimase colpita da quel legame sincero che, nonostante gli impegni, il diverso ceto e le distanze, li aveva tenuti saldamente uniti, come se il tempo non fosse mai trascorso. Lo percepiva chiaramente dal modo in cui Lucius parlava di Rufus, quasi potesse essere ancora lì, ragazzino, insieme a lui a combinare qualche marachella. Fu istintivamente felice per suo padre: non era un uomo molto socievole, ma avere un amico simile era certamente qualcosa di grandioso.

«La ringrazio per essere ancora amico di mio padre, nonostante tutto questo tempo.»

Lui annuì, per poi osservare Cassidy che, in silenzioso rispetto, aveva lasciato che i due conversassero tranquillamente.

«Ma guarda ora che specialista ti ritrovi! Comprensibile che, dopo i quattordici anni, tu non abbia più avuto bisogno di me.»

«Ho imparato dal migliore, modestamente.» replicò fiera Cassidy «Stavo giusto finendo di fasciare questo impiastro, poi potremo parlare.»

«Oh no, no, ci mancherebbe!» disse Wood, chinando il capo con rispetto «Non vorrei mai disturbare il tuo operato. Ero solo venuto per un saluto veloce, ma non mi aspettavo di trovare anche una vecchia paziente. Perdonate il termine: lei è tutto fuorché vecchia, a differenza mia.» fece l’occhiolino a Sophie, che ridacchiò, sentendosi incredibilmente leggera.

Quel tizio le risultò subito simpatico nonostante, ad una prima occhiata, le avesse trasmesso timore. Evidentemente, si era lasciata suggestionare dalla sua stazza e dal portamento fiero.

«Purtroppo Sophie ci deve lasciare, una volta terminata la visita. Anche se non ha lezioni, deve tornare immediatamente alla Lutwidge. Ordini di Sua Grazia.»

«Ah beh, se il vecchio Rufus, e qui il termine calza a pennello, questo desidera.» replicò con ironia il medico, sottolineando ancora una volta quanto fosse intimo del duca Barma, per potersi rivolgere a lui in quel modo canzonatorio «In tal caso, mi chiedo se la nostra Cassidy concederà una grazia al suo povero mentore: potrei terminare io la medicazione di Sophie? Avrei piacere a salutarla, dopo tanto tempo.»

Cassidy parve sorpresa da quella richiesta e, in un primo momento, le venne istintivo negarglielo. Non era sua abitudine lasciare un lavoro incompleto, ma si fidava ciecamente di Wood e inoltre avrebbe volentieri approfittato di una mano, con tutti quei pazienti che si ritrovava. Dopo un breve attimo di indecisione annuì, cedendo il posto al suo maestro.

«Certamente, anzi, mi fa una cortesia immensa. Io intanto sono nell’altro ambulatorio: ho una clavicola slogata che non vuole saperne di stare al suo posto… anzi, un idiota che non vuole smetterla di giocare a rugby, nonostante sia già al nostro quinto traumatico incontro.» sospirò, alzando lo sguardo al cielo, poi concesse un occhiolino a Sophie «Ti è andata bene: lui non è severo come me nelle sue prescrizioni. Ma ricordati.» le strinse una spalla, facendole penetrare le unghie nella carne «Fai ancora la furba ed i punti te li ficco in fronte: zucca vuota!»

«Ahio!» protestò la giovane, venendo però ignorata dall’amica, che celere si dileguò «Sei una violenta!»

«A più tardi, maestro. Occhio che se apre la bocca poi non gliela si chiude più!»

Rimasta sola con Lucius, Sophie si sentì in imbarazzo. Non era abituata a stare con un uomo che non conoscesse come le sue tasche, per direttissima o per attento lavoro di spionaggio, perciò si sentì particolarmente scomoda su quel lettino mentre lui la fasciava.

«Una bella ferita, non c’è che dire. Come te la sei procurata?»

«Oh… una sciocchezza, in realtà. Ero in missione per conto del Duca e, ecco, non posso scendere nei particolari.»

«Capisco.»

Per diversi, interminabili minuti, non si udì altro che il frusciare delle garze ed il ticchettio leggero del suo orologio da taschino. Sophie si guardò intorno, sempre più a disagio, non sapendo come riempire quel silenzio. Eppure, pensava, era stato l’uomo a voler restare con lei proprio per conversare. Il rumore dell’orologio si fece sempre più perentorio, quasi pretendesse attenzione da parte della giovane.

«Non presti molta attenzione a te stessa, vero Sophie?»

La ragazza sobbalzò, non aspettandosi quella domanda. Vi era una tale quiete, che poteva udire il suo stesso respiro, perciò quel suono inatteso l’aveva scossa come una cannonata.

«Ehm, no. A dirla tutta sono piuttosto sbadata.»

«Ma così non va bene.» la riprese il medico, senza mai alzare lo sguardo dal suo operato «Il tuo corpo ha molto valore, lo sai, vero?»

Un brivido di paura scosse la ragazza.

Che cosa aveva appena detto?

Non riusciva a capire il significato di quelle parole, ma sapeva che non le piaceva quella sensazione che le trasmetteva ora il medico. Tuttavia non poté muoversi, paralizzata dalla situazione e da una forza sconosciuta, che la inchiodava lì, su quel lettino.

«Tu sei una ragazza estremamente preziosa, Sophie Barma, non dimenticarlo mai. È tuo dovere avere cura di te stessa.»

Un groppo le si formò alla gola, impedendole di parlare.

Voleva chiamare Cass, voleva che qualcuno entrasse e la portasse via da quell’uomo. Si sentiva strana, aveva come un leggero capogiro, e poi quelle parole le vorticavano in testa come una strana litania. Voleva andarsene, voleva andare via subito.

«Ecco fatto!»

Sophie sbatté le palpebre, confusa. Osservò Wood, poi il suo avambraccio, perfettamente fasciato e in ordine. Lo guardò confusa, quasi non riuscendo a mettere bene a fuoco ciò che la circondava… cosa era successo? Avvertiva nel corpo una scarica di adrenalina, eppure non aveva fatto altro che conversare placidamente.

«Mi raccomando, Sophie: sentiti libera di fare ciò che vuoi, ma non eccedere negli sforzi. Non vorrai mica far preoccupare il tuo vecchio padre. Sai, ha una certa età anche lui.»

La giovane rise, colpita dall’umorismo di quell’uomo. Era straordinariamente affabile e spiritoso, non capiva come una persona simile potesse essere amica di quel burbero di suo padre.

«Farò più attenzione, lo prometto.»

«Brava ragazza. Ora vai, Lutwidge ti attende.»

Sophie sbuffò esageratamente, mentre si sistemava la giacca. Balzò in piedi e fece un inchino, ben più profondo di quanto un umile medico come Lucius meritasse.

«È stato un piacere incontrarla, dottore. Spero di rivederla presto.»

«Oh, ci rivedremo sicuramente, Sophie. Non ne ho alcun dubbio.»

 

 

Christine non sapeva dove poggiare lo sguardo.

Ovunque si voltasse, vi erano centinaia di dettagli freschi e mai visti: case ornate di festoni azzurri ed argentei, bancarelle a non finire, colori e profumi che le stordivano i sensi, e poi i suoni, la musica per le strade, lo schiamazzo dei bambini che correvano per le vie, infilandosi tra le gonfie gonne delle signore. E la gente.

Tanta, tantissima, gente.

Si riversava per le strade come il corso di un torrente, maestoso e irrefrenabile, spingendola e sballottandola da una parte all’altra. Non credeva possibile che potessero raggrupparsi così tanti uomini in un sol posto, era convinta che il centinaio di invitati che vedeva alle feste di Capodanno fossero una massa stordente, ma questo… era semplicemente incredibile.

Tuttavia, non si sentì mancare il fiato.

Avvertiva anzi un brivido lungo il corpo pervaderla e renderla attenta, affamata di piccoli particolari da selezionare e conservare nella sua mente. Sapeva che non avrebbe mai potuto contenere tutte quelle emozioni e sensazioni, ma sperava almeno di poterne salvare qualcuno. Provava già un forte senso di malinconia, conscia che quel momento non sarebbe durato per sempre. Ciò non la rendeva triste, ma consapevole.

Non si sarebbe persa un solo istante di quel pomeriggio insieme ad Elliot e Leo.

«Attenta a dove metti i piedi, Chris… anzi, dammi la mano, o rischiamo di perderci.» la voce del fratello la raggiunse in mezzo al frastuono, facendole cambiare la posizione della sua stretta che, saldamente afferrata al retro della veste del gemello, si era spostata nella sua mano, tesa verso di lei.

«Per di qua!» urlò Leo, poco avanti, facendo cenno col braccio per farsi vedere.

Si spostarono lateralmente e, raggiunta una gradinata, si posizionarono sulla cima di un cornicione che percorreva il perimetro di una chiesetta. Da lì poterono constatare la loro effettiva posizione e decidere il da farsi.

«Bene.» disse Leo «Siamo nel bel mezzo della bolgia, travestiti a dovere, e con la bellezza di tre scellini a testa. Che si fa?»

«Ah, non devi chiederlo a me. La nostra guida oggi è Christine.»

«Come?» domandò sorpresa la ragazza, rimasta incantata dal via vai della folla.

Osservò i suoi accompagnatori, sorridendo estasiata: per non farsi riconoscere, Elliot aveva noleggiato dei costumi, che i tre sfoggiavano con naturale disinvoltura. Leo aveva optato per un’ampia veste cadente, con enormi scacchi celesti posti su di uno sfondo candido come neve. In testa portava un cappello da giullare, con tanto di sonagli dorati, in pendant con il resto. Come accessorio che richiamasse l’Angelo sacro, aveva due piccole ali celesti attaccate sul dorso, all’altezza delle scapole, che gli spuntavano ai lati, rendendolo comico e puro al tempo stesso. Non portava maschere, dato che i suoi enormi occhiali celavano già sufficientemente il suo viso.

Elliot invece aveva fatto ricadere la sua scelta sulla base di ciò che avrebbe scelto Christine. Voleva ricreare l’atmosfera di quando erano piccoli e vestivano coordinati, perciò aveva indossato una giacca dorata con pantaloni abbinati, merletti ai polsi, gilet celeste e camicia bianca. Il cappello tricorno era anch’esso celeste, con bordature dorate e, al posto della piuma, due grosse ali azzurre ai lati completavano l’ensemble. Il volto era per metà celato da una maschera col naso allungato, di un bianco abbagliante e resa pregiata da alcuni ricami dorati intorno agli occhi.

Christine indossava un abito che sfiorava appena terra, consentendole così di muoversi senza rischio di inciamparsi o incastrarsi tra i piedi dei passanti. Aveva uno spacco centrale di cotone bianco, a balze, mentre i lati erano di un celeste intenso. Una giacchettina dorata, con motivi floreali identici a quelli del fratello, le copriva le spalle, impreziosendo il busto costellato di brillanti. Indossava anche lei un cappellino azzurro, dalla tesa larga, con le ali dell’Angelo ai due lati della testa. La sua maschera copriva appena la parte destra del viso, lasciando scoperta la sinistra. Aveva ghirigori dorati sul contorno dell’occhio, che scendevano come una lacrima di rampicanti lungo tutta la sua lunghezza. A Christine era immediatamente piaciuta, al punto da averla indossata come prima cosa, quando si era trovata nascosta tra le tende del camerino.

Da quel momento, le era sembrato di vivere in un sogno.

Era tutto troppo reale, troppo stupendo perché potesse essere vero.

«Non lo so.» ammise con un brivido di eccitazione nella voce, sorridendo come una bambina «Ci sono così tante cose che vorrei vedere… oh! Che succede là?» drizzandosi con la schiena verso sinistra, intravide un piccolo cerchio che si era formato intorno ad un figuro.

«Andiamo a scoprirlo, ti va?» le propose il fratello, tendendole la mano.

Lei l’afferrò celere, buttandosi insieme ai ragazzi tra le folla. In breve tempo furono sul luogo e, facendosi a fatica spazio, riuscirono finalmente a vedere l’avvenimento che tanto aveva incuriosito quel pubblico, composto per la maggior parte da bambini e giovani ragazzi: un alto signore, probabilmente un gigante di due metri, vestito con un frac ed un cilindro nero, stava mostrando ai presenti un uovo. Lo sbatté contro una ciotola posta ai suoi piedi ed il contenuto vi si riversò al suo interno ma, al posto di un tuorlo giallognolo, ne uscì un piccolo pappagallo, dalle piume verdi ed arancio, che andò a posarsi sulla tesa del suo cappello.

Christine spalancò la bocca, sbalordita, mentre Leo annuiva interessato.

«Ah, un prestigiatore!» esclamò, portandosi una mano al mento con fare affascinato «Mi chiedo come abbia fatto.»

«Non mi interessa, è bellissimo!» replicò la giovane, totalmente rapita dalle movenze del mago.

Elliot la osservava di sottecchi, sollevato. Finalmente sua sorella stava sorridendo con spontaneità come un tempo.

Il gigante mostrò altri numeri, alternando momenti di grande spettacolarità ad altri più semplici e comici. I bambini erano in visibilio, mentre alcuni ragazzi osservavano svogliati lo spettacolo, per nulla impressionati dalle capacità del prestigiatore. Questi ad un tratto gli si avvicinò, per coinvolgerli con un banale trucco di sparizione ed apparizione di una carta, ma loro risero imbarazzati e, alla fine, si allontanarono. Un po’ deluso, l’uomo tornò a concentrarsi sul pubblico rimanente.

Dopo qualche tempo, notò l’entusiasmo con cui Christine batteva le mani ad ogni sua azione, gli occhi brillanti e carichi di stupore. Le porse le mano e lei, sorpresa, guardò Elliot con fare interrogativo: gli stava tacitamente chiedendo il permesso di andare. Lui le fece l’occhiolino, incoraggiante, e così rasserenata la ragazza si fece avanti. L’uomo, senza proferire parola, le prese la mano e la fece accomodare accanto a lui. Mentre faceva vorticare la mani, tra di esse comparve un piccolo batuffolo grigio. Inizialmente Christine non comprese di cosa si trattasse, ma poi notò con stupore che questi si muoveva: era un criceto, con un adorabile nasino rosa ed una piccola coda lievemente più scura rispetto al resto del pelo. L’uomo lo poggiò nelle mani esitanti che la ragazza aveva aperto a coppa, intuendo le sue intenzioni. Lasciò che la creaturina camminasse sulle sue mani, facendole il solletico, e si permise persino l’ardire di accarezzarlo appena piegando un dito.

A quel punto, il mago le fece gesto di chiudere le mani e poi di aprirle improvvisamente, come a voler lanciare in aria l’animale. Lei scosse il capo, indignata, ma l’uomo ripeté il gesto, facendole un sorriso gentile. Incerta, ma spronata dal pubblico, Christine eseguì il comando, pentendosi immediatamente del suo gesto. Stava già pregando che il criceto cadesse senza farsi troppo male quando, davanti ai suoi occhi, si materializzarono dei coriandoli.

Il roditore era sparito.

Scioccata, la ragazza si voltò interrogativa verso il prestigiatore, che si portò un dito alle labbra, come chiedendole di pazientare un momento. Quando lo stupore della gente si placò, si piegò su di lei, mettendole una mano tra i capelli, all’altezza dell’orecchio destro. Christine avvampò, imbarazzata da quella vicinanza inattesa, ma subito l’uomo si scostò, mostrandole il contenuto della sua mano: il criceto si muoveva vivace nel suo palmo, come se fosse sempre stato lì.

Estasiata, Christine batté le mani, gridando un: «Bravissimo!» alla volta dell’uomo, che sollevò il cilindro, chinandosi in segno di ringraziamento.

Tornata dai suoi amici, Elliot l’afferrò per le spalle, con fare protettivo.

«Stavo per andare lì a mollargli un pugno.» borbottò, mentre fissava con ira il mago.

Leo scosse il capo, rassegnato.

«Tu non sai cosa sia la pazienza, Elliot.»

«È stato pazzesco!» il gridolino di gioia di Christine distrasse i due dal loro battibecco, che lei neppure aveva udito «Non pensavo si potessero fare certe cose. È… è come una magia! Voi avevate mai visto nulla di simile?»

Leo ridacchiò, mentre Elliot cancellò il suo broncio, vinto dall’entusiasmo della sorella.

«No, mai visto nulla di simile.» le concesse con un sorriso.

Vedere la gemella così vivace e radiosa era per lui la magia più stupefacente.

Quando lo spettacolo finì, molti si allontanarono subito, senza nemmeno calcolare il prestigiatore che, con grazia, mostrava loro il cilindro capovolto, in una tacita richiesta di lasciargli la cifra che più ritenessero adeguata per l’intrattenimento ricevuto. Alcuni bimbi lasciarono cadere delle monetine ed a ogni offerta l’uomo chinava il capo, grato. Christine cercò nella tasca nascosta del vestito, estraendo la sua parte di bottino che Elliot aveva condiviso con lei e Leo. Senza esitazione, avanzò nello spazio che la divideva dal mago e vi lasciò cadere tutte le sue monete.

«È stato davvero, davvero, meraviglioso. La ringrazio.» disse col cuore in mano Christine.

Si sentì in colpa per non potergli offrire di più, poiché quel compenso non era minimamente paragonabile all’emozione che quell’individuo, senza nemmeno proferire una parola, le aveva trasmesso. Avrebbe custodito il ricordo di quelle emozioni con cura, come fosse un tesoro.

Il mago la fissò per un infinito istante, colpito dal suo sguardo grato ed al contempo pentito. Essendo abituato a non parlare molto, sapeva leggere con facilità le emozioni delle persone. Si chinò, mettendosi in ginocchio davanti a lei, così che si potessero guardare negli occhi senza che la ragazza dovesse faticare, data la loro vasta differenza in altezza. La fissò serio, con due iridi verde scuro profonde come il folto delle foreste, la bocca sigillata e celata da una fitta barba scura.

Le prese le mani e, tra di esse, vi posò il criceto che aveva fatto scomparire poc’anzi. Lei lo osservò confusa, mentre lui le parlava con un vocione basso e cavernoso.

«Prometti di averne cura?»

Christine annuì, d’istinto, non comprendendo ancora appieno la situazione.

L’uomo le sorrise, un incresparsi ruvido eppure tenero, che la colpì come una piacevole folata di vento in una giornata uggiosa. Poi si alzò, le fece un inchino, e si voltò per radunare le sue cose.

Christine si osservò le mani, incredula: il criceto si era perfettamente abituato a lei e, sereno, si era messo a pulirsi il visino con movimenti delicati delle zampette. Una lacrima le solcò la guancia, traditrice. Non aveva mai ricevuto un dono più bello.

 

 

Parate di carri allegorici, spettacoli di marionette, ghiottonerie comprate per strada dagli ambulanti. Queste erano solo alcune delle cose che Elliot, Leo e Christine avevano sperimentato nelle ore seguenti. Avevano persino trovato dei coriandoli da gettare durante il passaggio della banda cittadina e, ora che avevano le mani nuovamente libere, si erano seduti su di una panchina per godersi un po’ di zucchero filato.

Non credevano di essere tanto stanchi ma, non appena presero posto, un pesante velo di spossatezza li avvolse come una coperta. I piedi divennero improvvisamente pesanti, mentre gli occhi si chiudevano per il loro eccessivo utilizzo. Era una fiera dei sensi San Brigitte, che stordiva più del vin brulè che vendevano agli angoli della strada. Leo sospirò con forza, lasciandosi scivolare con mala grazia sulla panca.

«Fiush! Non ricordavo che la festa dell’Angelo fosse una maratona tanto estenuante!» esalò con fatica, mentre si godeva un po’ di meritato riposo.

«Tsk, questo succede quando si passa più tempo chiuso in casa sui libri che per strada.» lo rimbeccò spavaldo Elliot che, tuttavia, addentava vorace il suo zucchero, sentendosi la testa pesante.

Doveva recuperare le forze, se voleva arrivare incolume sino allo spettacolo pirotecnico delle sette. Mancavano ancora un paio d’ore, e non aveva alcuna intenzione di perderselo: Christine doveva a tutti i costi vederlo, per chiudere in bellezza quella giornata perfetta.

La ragazza non proferì parola, inebetita dalle tante emozioni provate in quelle poche ore. Si portò una mano alla tasca, dalla quale emerse il suo nuovo amico: non pareva disdegnare troppo quella sua temporanea abitazione, sebbene Christine tentasse di tenerlo in spalla il più a lungo possibile. Era un bravo animale, non si dimenava affatto e, anzi, restava composto al suo posto, tuttavia lei non si fidava a lasciarlo scoperto senza avere le mani libere, pronte ad afferrarlo in qualsiasi momento. Terminò dunque con rapidità il suo dolce, così da potersi poggiare in grembo il criceto. Elliot e Leo si sporsero, incuriositi dalla tenerezza di quell’animaletto.

«Quel prestigiatore è stato davvero gentile.» disse Leo, carezzando con un dito la testa del roditore che, grato, si mise sulle punte «Pensi di tenerlo?»

«Sì, lo vorrei tanto… però non so se papà me lo permetterà.»

«Beh, mica glielo devi dire per forza.»

«Elliot!» lo riprese la sorella, esterrefatta «Che ti salta in mente? Sto già disobbedendo a papà, mancandogli di rispetto trovandomi qua con voi, non posso mentirgli ancora.»

«Ma io non ti sto dicendo di mentire.» disse Elliot, con fare furbetto ed assolutamente serio «Sto semplicemente dicendo di omettere il dettaglio che tu ora abbia un criceto. Ti basterà fargli una cuccetta con un po’ di ovatta ed una scatola vuota di accendini. Per il resto, puoi lasciarlo scorrazzare in camera, mi sembra parecchio tranquillo.»

«E per il cibo?» chiese scettica la ragazza, sebbene in parte colpita dal suo ragionamento.

«I roditori mangiano principalmente semi, ma non disdegnano nemmeno frutta, tuberi, piante e persino piccoli insetti.» il sapere enciclopedico di Leo si riversò su Christine, come una pioggerella scrosciante «Perciò non dovresti far fatica a procurartene un poco, ti basterà prendere un po’ di semi dal mangime per le galline ed il resto metterlo da parte durante i pasti. Non credo che questo esserino consumi grandi quantità di cibo. Per idratarlo, ti basterà riempire d’acqua un piattino da tè. Che te ne pare?»

Christine si mise a riflettere, carezzando piano la morbida pelliccia dell’animale.

«Beh… suppongo che possa funzionare.» disse incerta, increspando tuttavia le labbra.

Tutto sembrava così semplice quando Leo ed Elliot erano con lei. Le era mancato sentirsi tanto leggera e spensierata.

«Però non dimenticarti una cosa importante.» le disse Elliot, improvvisamente severo.

«Che… cosa?» domandò titubante la ragazza, immaginandosi mille possibili scenari che non avesse preso in considerazione per non farsi scoprire.

«Sciocca, devi scegliergli un nome, no?» la prese in giro il fratello, picchiettandole sulla fronte con una nocca.

«Oh, è vero! Ci vuole un nome importante per un importante avvenimento!» esclamò con trasporto Leo, sciorinando una sequela di nomi plausibili.

Christine li ascoltò tutti con pazienza, per poi sollevare sul palmo della mano il criceto, così da poterlo guardare dritto negli occhi.

Che nome poteva mai dare a quella tenera creaturina, tale da ricordarle quel giorno?

Mentre osservava concentrata l’animale, Elliot le tolse alcuni coriandoli che le erano rimasti impigliati fra le ciocche dei capelli. Come pervasa da un’energia elettrica, la ragazza ebbe un sussulto e, quasi saltellando sul posto, gridò la sua decisione.

«Confetti! Lo chiamerò Confetti.1»

Il criceto parve apprezzare la sua scelta, muovendo il nasino nella sua direzione, quasi a volerla ringraziare per quel gesto gentile. Elliot fissò interdetto Leo, non trovando il nome per nulla azzeccato, ma l’occhiataccia del servitore lo convinse a tacere, almeno in parte, le sue aspre critiche.

«E va bene, se a te piace, Confetti sia. Adesso, che ti andrebbe di fare?»

«Oh! Mi piacerebbe molto farmi leggere la mano.» confessò ardita la giovane, ormai dimentica dei timori che l’avevano perseguitata soltanto poche ore addietro.

Aveva sentito parlare delle chiromanti che si aggiravano per le feste della città, aprendo le loro porte nei vicoli più tranquilli. Bastava loro un tavolino, una sfera di cristallo ed un mazzo di carte per predire qualunque cosa. Christine era scettica sulla veridicità di tali pratiche, dato l’ambiente in cui era cresciuta, e tuttavia la sua giovane età la portava a provare un brivido di curiosità. Le volte in cui, alle feste presso il palazzo di Sua Maestà, aveva potuto conversare con dame sue coetanee, queste le avevano sussurrato le storie più disparate. In particolare, rammentava il racconto di una giovane che aveva chiesto informazioni sul suo futuro marito: la zingara le aveva predetto un amore difficile, all’apparenza impossibile, ma forte e inevitabile, che tuttavia avrebbe per sempre rovinato un suo antico legame. Dopo cinque lunghi anni, in cui la fanciulla si era perdutamente innamorata del fidanzato della sorella, questi le si era infine confessato, scegliendo lei al posto della maggiore. Ovviamente era scoppiato uno scandalo, ma le parole della gitana si erano rivelate veritiere. Da allora, Christine si era domandata se fosse realmente possibile scoprire qualcosa riguardo il suo futuro.

Elliot non pareva troppo convinto della sua idea, ma non ci vedeva nulla di strano. Tutte le sue compagne di classe erano state da una chiromante, chi più chi meno, e inoltre si trovava con la sorella, di giorno, in pieno centro cittadino. Non sarebbe potuto accadere nulla di male.

«Mi pare di averne vista una due incroci prima, tra la panetteria e la bancarella coi ciondoli.»

I ragazzi si rimisero in marcia e, raggiunto il luogo, si addentrarono nel piccolo vicolo. Proprio in quel mentre, due dame sulla ventina uscirono dalla viuzza a suon di gridolini a stento sopiti, andando scontrandosi con loro. Mentre Christine si addentrava tra la penombra, udì una voce che la chiamò alla sua destra.

«Anche lei è qui per farsi leggere il futuro, mia cara?»

Una donna dalla pelle scura la osservava con un sorriso affabile. Indossava abiti dalle fogge gitane, con nastrini e ciondoli delle più variegate forme e colori. I capelli neri erano legati in uno chignon alto che, tuttavia, faceva cadere alcune ciocche lungo la fronte rugosa. Un fazzoletto color porpora le fasciava il capo, mentre un pesante paio di orecchini dorati creavano degli strani riflessi lungo la semioscurità del vicolo.

«Prego, si accomodi. Due scellini per uno scorcio del suo futuro.»

Christine si portò le mani alle tasche, chiudendo gli occhi nel rendersi conto che non aveva più nulla: aveva dato tutto al prestigiatore senza pensarci ed Elliot le aveva già pagato i costumi ed i dolci. Stava per scusarsi con la donna ed era altresì pronta per andarsene, quando Leo poggiò il denaro sul tavolino. Christine lo fissò, stupita.

«No, no, no! Non fa nulla, Leo, posso...»

«Non ti preoccupare. Te li regalo volentieri. Anch’io volevo comprarti qualcosa.» le rispose sicuro, con la sua immancabile pacatezza.

«Ma… io non ho niente per ricambiare.»

«I regali non si fanno per ricevere qualcosa in cambio.» replicò tranquillo, facendole cenno di sedersi «Coraggio, sentiamo cosa ha da dirti.»

Riconoscente, Christine prese posto.

La chiromante osservava le monete, per saggiarne l’autenticità. Una volta soddisfatta, le ripose in un piccolo scrigno ai suoi piedi. Tornò ad osservare la ragazza, mostrandole con un gesto della mano le possibilità che l’attendevano.

«Cosa preferite, signorina? Volete che vi legga la mano, preferite le carte oppure che osservi la mia sfera di cristallo?»

«La mano, per cortesia.»

Annuendo, la donna tese la mano. Christine porse la sua e provò un leggero brivido quando la veggente la toccò. Era una presa piacevole, avvolgente eppure elettrica.

La donna osservò con cura il palmo della sua mano, percorrendo poi con un dito alcune linee che la marcavano.

«Cosa vuoi che ti predica, di preciso? Amore, fortuna o amicizia?»

«Ehm… non saprei.» disse titubante la ragazza, che tuttavia conosceva perfettamente i desideri del suo cuore: avrebbe voluto conoscere il suo destino in amore ma, essendo Elliot e Leo lì con lei, si vergognava troppo per porre una simile domanda «A… amicizia! Sì, amicizia, grazie.» disse infine, trovando il miglior compromesso possibile. In fondo, anche quello era un argomento che la affascinava.

«Questa linea mi dice che sei una persona schietta, che ha una visione chiara del mondo e delle idee che albergano nella propria mente. È difficile sradicarti dalle tue convinzioni. Questo ti porta ad essere testarda, ma anche molto salda nelle decisioni. La tua aura è gentile, l’ho percepito quando ti ho vista arrivare, così come ho visto chiaramente che tipo di persona sei: buona, prodiga per gli altri, sebbene estremamente pessimista. Ed anche le auree di chi ti accompagna sono molto splendenti nei tuoi confronti, quasi protettive. Ti vogliono entrambi sinceramente bene.» sentenziato ciò, la zingara cominciò a narrare ciò per cui era stata pagata «Non hai molte amicizie al momento, vedo una grande solitudine… un vuoto che tenta di essere colmato con i legami famigliari.»

Christine mandò giù un groppo di saliva, attenta e tesa.

Se le prime parole della donna l’aveva colpita per la loro precisione, ora si sentiva come dinnanzi ad uno specchio che le rivelava tutto quello che il suo cuore le aveva taciuto con insistenza.

Solitudine.

Era una parola che odiava, ma che sentiva parte di sé.

«Nel tuo futuro vedo tuttavia delle amicizie sincere: un uomo molto più grande di te, due… no, tre ragazze, di buona famiglia. Ti saranno da guida in momenti molto bui e per una di esse rappresenterai una solida fortezza.»

«Un uomo più grande di me? Ma io non conosco nessu...»

«Attenta, però.» l’interruppe la veggente, come concentrata sul filo di un discorso che, se interrotto, non avrebbe potuto completare l’ordito della trama «Avverto un forte pericolo che grava su di te. Gli affetti a te più cari potrebbero non rivelarsi come li figuri.»

A quelle parole Elliot scattò, indignato.

«Che cosa?! Come si permette?» urlò infatti, facendo un passo avanti.

Christine non emise un suono, paralizzata da quella rivelazione scioccante.

«Io dico solo ciò che vedo, ragazzo. Ed anche tu faresti bene a fare attenzione: non vedo un futuro nitido, per te. Soltanto tenebre e… sangue.»

«Basta così!» a urlare fu Christine, buttatasi in piedi per la rabbia.

Tremava da capo a piedi e respirava a fatica.

«Lei non ha il diritto di parlarci in questo modo.»

«Io faccio quello per cui vengo pagata, signorina.» replicò la gitana, con una smorfia triste e rassegnata «Purtroppo, non sono in molti coloro che sanno accettare il loro destino, soprattutto quando gli viene rivelato.»

Leo prese per mano Elliot, facendolo così calmare. Il ragazzo era infatti pronto a sguainare la spada che portava al suo fianco, ma il tocco del servitore lo fece rinsavire. Non era certo il luogo ed il momento per una simile scenata.

«Ce ne andiamo. Vieni Christine.»

La ragazza esitò ancora qualche istante, osservando dritta negli occhi la zingara. Non vi vedeva cattiveria, né menzogna. Soltanto disarmante rammarico.

«Addio, ragazzi. Mi auguro che abbiate la forza per combattere il destino avverso che vi attende.»

Scuotendo il capo, Christine si voltò, correndo via.

Le gambe le tremavano e il fracasso che la accolse una volta uscita dal vicolo la lasciò senza fiato. Elliot e Leo erano davanti a lei, il fratello ancora furibondo per i modi della veggente.

«Chi si crede di essere? Soltanto perché viene pagata per fare un po’ di spettacolo, non significa che è autorizzata a spaventare la gente!»

«Christine, va tutto bene?» le domandò Leo, vedendola pallida «Vuoi che ci sediamo un poco?»

«Christine, non ascoltare quella pazza! È soltanto una saltimbanco che si inventa storie! Non c’è nulla di vero, hai capito?»

«Sì.» mormorò la sorella, accettando la mano di Leo e facendosi condurre verso un luogo più tranquillo per riposare «Sì, certo.»

Ciononostante, il suo cuore fu turbato dal seme del dubbio.

E se quella zingara non avesse mentito?

Rimasta sola con Leo, poiché Elliot si occupò di andare a prendere qualcosa per rinfrescare la sorella, Christine tentò di calmarsi. Avvertì il solito capogiro che precedeva uno svenimento e si portò una mano al petto, sentendosi mancare.

Leo, ancora legato alla sua stretta, l’aiutò a sbottonarsi il colletto della veste.

«Non ci crederai, ma sono parecchio bravo a svestire la gente.»

Christine accennò un sorriso, ma la mancanza di ossigenò le impedì di protrarre quel gesto. Il ragazzo, allora, le consiglio di fare dei respiri profondi e lenti. Vedendo che il colorito della giovane migliorava, prese con la mano libera Confetti, ancora fedelmente appeso alla spalla della padrona.

«Guarda che musino: mica vorrai farlo preoccupare?»

La ragazza parve calmarsi del tutto e, poggiato l’animale sul suo grembo, ringraziò l’amico. Questi le sorrise, sollevato.

«Figurati, Chris… ora, perdona la mia sfrontatezza, ma potrei riavere la mia mano?»

«Eh? Oh cielo, perdonami!» rossa in viso, Christine si affrettò a mollare la presa che, più salda che mai, avviluppava Leo a sé.

«Non ti preoccupare. Lo so che tutti mi vogliono.»

«Sì, e tutti ti cercano.» replicò con sarcasmo lei.

«Evidentemente, il mio secondo nome è Figaro.»

«Non per nulla sei il valletto di Elliot. Dunque, anche tu aiuti il tuo padrone nelle sue imprese amorose?»

Leo la fissò stupito, non aspettandosi quella domanda. Conosceva Christine da ormai tre anni, ma non la credeva capace di parlare con una simile schiettezza. Tuttavia, si rese presto conto che la cosa non gli dispiaceva affatto e che, anzi, lo divertiva parecchio: quella ragazza aveva ben poco da spartire col gemello in quanto a carattere.

«Mh, chi lo sa? Magari sono io stesso il protagonista dei suoi incontri romantici clandestini.»

«Guarda che lo so che tu Elliot state insieme.»

A quelle parole, Leo rimase pietrificato.

Non mosse un muscolo, troppo impaurito per fare la benché minima mossa. Lui aveva scherzato con Christine, pensando anzi di metterla in imbarazzo come spesso faceva con il fratello. Credeva che una risposta come la sua avrebbe provocato un accesso rossore sulle sue gote, oltre ad una naturale repulsione

Invece, la ragazza fissava serena il suo animaletto domestico.

«Di che ti stupisci? Guarda che sono riservata, non cieca.»

«No… aspetta un momento… da quando?» biascicò a fatica Leo, reprimendo un urlo.

Se qualcuno avesse saputo della sua relazione con Elliot sarebbero stati guai enormi.

«Immagino di averlo sempre intuito. Ma ne ho avuto conferma solo di recente.» si voltò verso di lui, regalandogli un’espressione radiosa «Non ho mai visto Elly così felice.»

«Non chiamarlo così, lui lo detesta.»

«E ho visto come lo guardi. Mi sorprende che tu non gli sia saltato addosso in camerino.»

«Beh, sai, la tentazione c’era, ma saremmo in pubblico.»

«Oddio! Sul serio?! Siete così intimi?!» squittì la ragazza, ora paonazza.

«Ma con che razza di frasi te ne esci, dopo quello che hai detto prima?!»

«Io scherzavo, non credevo sul serio che voi...» le parole le morirono in bocca «… siete davvero scandalosi.»

«Adesso me lo dici?» chiese irritato Leo «Sei veramente assurda.»

«Se ti aspetti che reputi mio fratello un abominio, semplicemente perché frequenta un uomo, allora non mi conosci affatto.»

Le parole di Christine frustarono l’aria. Non era solita parlare con tanta severità, ma quell’argomento la toccava nel profondo. Sapeva perfettamente come erano viste le persone come loro dalla società ben pensante. Deviati. Peccatori. Contronatura.

«Conosco mio fratello meglio di chiunque altro.» continuò fiera, nemmeno una traccia dell’incertezza che la caratterizzava quando si trattava di esprimere un opinione che fosse contro il buon costume «E sarò sempre pronta a difenderlo, in qualunque circostanza, perché è la persona più onesta e buona che conosca. Se lui è una vergogna per l’aristocrazia, allora io lo sono tanto quanto lui.»

Leo non seppe che dire. Era la prima volta che parlava di un argomento simile con Christine e non credeva di trovare un simile appoggio da parte sua. La famiglia Nightray adorava Elliot, ma era certo che chiunque, persino sua madre, lo avrebbe ripudiato per un affronto simile. Invece, Christine lo affrontava a testa alta, senza il minimo tentennamento.

«Elliot è fortunato ad averti come sorella.» disse infine, sinceramente felice di quella semplice constatazione.

Christine annuì, facendogli l’occhiolino.

«Lo so.»

Proprio in quel momento, Elliot tornò con una bottiglia di acqua fresca. Era dovuto correre in lungo in largo per trovare qualcuno disposto a vedergli non un semplice bicchiere, ma l’intera bottiglia in vetro, ma ce l’aveva fatta. Christine bevve avidamente, restando sorpresa di quanto fosse assetata.

«Ti senti meglio?» le domandò Elliot, notando però immediatamente il miglioramento evidente sul suo viso.

«Sì, grazie Elly.»

«Prego… ehi! Non cominciare di nuovo a chiamarmi con quel nomignolo! Ne avevamo già parlato: è umiliante, non sono più un bambino!»

Leo e Christine scoppiarono a ridere, incuranti delle proteste di Elliot.

Nonostante le parole della veggente avessero scosso i ragazzi, l’allegria della festa li aveva infine coinvolti nuovamente, portandoli a dimenticare i dolori del passato e le preoccupazioni per il futuro.

Contava solo il presente, l’essere insieme, vivi, felici.

Il resto era nebbia che li avvolgeva, ma non poteva toccarli. Non ancora.

Trascorse infine l’ultima ora prima dei fuochi, in cui i giovani si limitarono a camminare per lei vie, alla ricerca di un buon posto dove poter assistere allo spettacolo. Mentre si avvicinavano al ponte, già gremito di gente, una folata di capelli argentei passo accanto a Christine, che si voltò, confusa.

«Che hai, Chris?» le domandò Elliot, tirandola per un braccio «Guarda che se non ti sbrighi ci rubano il posto!»

«No, io… non vi sembrava Echo, quella che ci è passata accanto in compagnia di un ragazzo?»

I due si voltarono nella direzione indicata dall’amica, senza però riuscire a scorgere nulla di preciso: c’era troppa gente, era impossibile distinguere qualcuno, in mezzo a tutti quei costumi.

«Echo? Con un ragazzo? Ma figurati, avrai visto male.»

«Eppure...» mormorò incerta la sorella, alzandosi sulle punte dei piedi per vedere meglio, ma inutilmente.

«Ti dico che ti sbagli! Guarda qui, piuttosto, stanno per cominciare!»

Rassegnatasi, Christine guardò il cielo, in attesa. Il limpido scenario della volta stellata, che lentamente a oriente si tingeva del blu più scuro della notte, già poteva bastare a lasciarla senza fiato. Tuttavia, quando lo spettacolo pirotecnico ebbe inizio, il suo cuore esplose di gioia al tempo dei fuochi. Aveva già visto uno spettacolo simile, a Capodanno il Re allestiva sempre un piccolo show per i suoi ospiti.

Ciononostante, era totalmente diverso.

L’occasione, la compagnia, i suoi stessi abiti. Sembrava un quadro pittoresco, di un qualche artista italiano, che avrebbe reso eterno onore a quel momento solenne, intrappolandovi tutte quelle emozioni che Christine non riusciva nemmeno a identificare. Era stata la giornata più indimenticabile della sua vita.

Strinse forte le mani di Elliot e Leo, ai suoi lati, come gli impavidi cavalieri che si erano proclamati di difenderla prima di partire per quella loro avventura. Erano stati di parola e lei era lieta di averli seguiti.

«L’anno prossimo.» sussurrò, per poi ripetere ad alta voce, affinché la sentissero «L’anno prossimo, torniamoci ancora. Insieme.»

I due ragazzi si scambiarono un fugace sguardo d’intesa, prima di sorridere.

«Certo!» risposero all’unisono «Ogni volta che vorrai.» aggiunse sottovoce Elliot, tornando a fissare quei colori che, lentamente, si fecero assorbire dal nero della notte.

Poi, fu silenzio e, per un breve istante, i tre pensarono che, qualunque cosa gli sarebbe accaduta in seguito, sarebbero riusciti a superarla. Tutto sarebbe andato bene.

Ma non andò così.

Il rientro fu gioioso, precipitoso e spensierato.

Erano riusciti a tornare per l’orario stabilito e, ora che la casa giaceva nel silenzio più assoluto, erano ebbri di vittoria. Salirono le scale lentamente, ma ridacchiando tra loro, complici di quel crimine efferato passato inosservato.

Voltarono l’angolo ed entrarono lesti nella stanza di Christine, trovandosi il duca Nightray all’interno, seduto su una delle seggiole da lettura della ragazza. Inchiodò i giovani sul posto con un semplice sguardo. I ragazzi non seppero nemmeno come reagire. Erano pietrificati dalla paura.

Alle sue spalle, James, il maggiordomo, non osava alzare lo sguardo, colpevole.

Il primo suono che udirono fu il tonfo del bastone dell’uomo, sbattuto a terra con forza. Christine sobbalzò, trattenendo a stento un urlo. In quel silenzio carico, persino un sibilo poteva essere avvertito forte con un colpo di cannone.

«Che cosa dovrei fare, ora?» domandò l’uomo, picchiando nuovamente il bastone sulla pavimentazione, che s’incrinò per la forza con la quale la colpì «Cosa dovrebbe fare un genitore, in una circostanza simile? Vuoi dirmelo tu, Elliot?»

«Padre, io non volevo...»

«Silenzio! Hai già detto fin troppo.»

I suoi occhi scuri si puntarono sui tre, passandoli uno ad uno, come fossero pedine disobbedienti, incuranti della volontà del loro padrone. Avrebbe potuto romperle in qualsiasi momento, avrebbe potuto schiacciarle fra le sue mani, ma non era questo ciò che voleva.

Bernand Nightray non era mai stato un padre violento.

C’era una lezione da imparare e la cinghia non era lo strumento adatto.

«Non volevi. Ma lo hai fatto ugualmente, sbaglio? Non volevi far preoccupare tuo padre, ma lo hai fatto. Non volevi infangare il tuo comportamento a scuola, ma lo hai fatto. Non volevi mettere in pericolo Christine, ma lo hai fatto. Rispondimi, Elliot, sto forse dicendo insensatezze?»

Elliot strinse i pugni, per poi lasciarli andare, sconfitto.

«No, padre.»

L’uomo annuì, per poi passare a Leo.

«Tu, invece? Che cosa dovrei dire di un valletto che non solo non è in grado di tenere a freno l’indole indisciplinata del padrone, ma lo accompagna anzi nella sua perdizione?»

«Vostra Grazia, con tutto il rispetto, non è accaduto nulla di male.»

«Ma avrebbe potuto!» tuonò l’uomo.

Stavolta Christine urlò, un grido acuto e carico di terrore. Tutto ciò che aveva temuto si stava realizzando e lei non poteva far altro che ripetersi che si trattava solo di un incubo, che presto si sarebbe svegliata e tutto sarebbe finito.

«Che cosa avresti fatto, giovane servo, se mia figlia fosse stata male? Christine è una ragazza debole, cagionevole di costituzione e delicata. Necessita di assoluto riposo, di cure costanti, di attenzioni. E voi cosa fate? La prendete e la portate con voi, a zonzo per la città, gremita di mascalzoni, pericoli e depravazione?!»

Si fermò, riprendendo fiato. Poggiò una mano al volto, con fare affranto.

«Ah… è per questo che non sei ancora degno di portare il nome del nostro casato sulle spalle, Elliot. E io che ti avevo affidato quella spada.»

A quelle parole Elliot chinò il capo, sconfitto e umiliato.

«Mi dispiace, padre.»

«Le scuse non raddrizzano un torto, ragazzo. L’austerità, l’onore, la costanza e la fiducia lo fanno. Dimostrami che non ho sbagliato nel mio giudizio, figliolo.»

«Vuole… vuole che le restituisca la spada?»

«Elliot, NO!» gridò Leo, facendo un passo avanti e rivolgendosi al capofamiglia dei Nightray «La prego, Vostra Grazia, non faccia questo ad Elliot, punisca me piuttosto!»

«Tu sarai punito, non temere. E non osare mai più dirmi cosa fare, ragazzino. Dovrei prenderti a frustate per questa tua arroganza. Tuttavia, non ho mai apprezzato la violenza.» tornò a fissare Elliot, un cipiglio di austerità che fece sentire ancor più piccolo il ragazzo «Verrai riaccompagnato alla Lutwidge, immediatamente. E ti proibisco di uscirne, fino a che non lo deciderò io. Qualunque evento, qualunque festività, mondana o famigliare, ti è preclusa. Ti è proibito scrivere e ricevere lettere. È ora che ti concentri sullo studio, senza più futili distrazioni.»

Elliot strinse i pugni, ma annuì.

«Come desidera, padre.»

«Quanto a te, ragazzino, da domani non frequenterai più le lezioni. Mentre Elliot sarà in aula, tu ti occuperai di aiutare la servitù della Lutwidge: lavorerai in cucina, pulirai i locali e farai tutto ciò che ti verrà impartito. Evidentemente, la troppa conoscenza rovina le classi più abiette. Agli orfani non dovrebbe essere concessa un’educazione d'élite, ma a questo porremo subito rimedio.»

Leo lo fissò con astio, non potendo però reagire. Strinse i pugni, sino a farsi male.

«Non ho sentito la tua risposta, ragazzo.»

«Sì… sì, Vostra Grazia.»

«Potete andarvene.» sentenziò infine.

I due poterono soltanto inchinarsi e lasciare che le loro mani sfiorassero quelle di Christine, un’ultima volta. La ragazza rimase così sola, dinnanzi alla sua più grande paura. Il genitore restò tuttavia fermo dov’era, in silenzio, studiandola.

Si alzò infine in piedi, raggiungendola.

La ragazza chiuse gli occhi, terrorizzata.

Nessun colpo la raggiunse mai. Solo parole, più laceranti di qualsiasi botta.

«Mi hai profondamente deluso, Christine. Da oggi, ti è vietato scrivere. E i tuoi libri, che non siano per la tua istruzione, sono confiscati. Mi hai capito bene?»

Annuì, tremante.

«Più si tratta bene un figlio.» sospirò il Duca, passandole accanto come un giudice severo, ma giusto «Più questi si ribella al padre.»

Il maggiordomo gli fu subito dietro, incapace di proferire altro che un sentito: «Mi dispiace» alla giovane. Rimasta sola, Christine si diresse verso il letto, sedendovisi.

Non seppe quanto tempo trascorse, ma ad un tratto le mani di Harriet, la sua cameriera personale, la raggiunsero, non riuscendo tuttavia a farla riemergere dalla nera palude in cui si trovava.

«Signorina, oh cielo, che sollievo vederla! Ero così preoccupata! Sono entrata in camera sua, nonostante James insistesse per lasciarla tranquilla ai suoi svaghi, ma io sapevo che prende sempre il tè alle cinque, no? E quando sono entrata… dio mio, volevo morire: non c’era! Fortunatamente, ho subito avvertito il Duca e, in poco tempo, siamo riusciti a far parlare James.» scosse il capo, disgustata e carica di disappunto «Se penso a tutti gli anni di onorato servizio che quell’uomo ha alle spalle… mentire! E metterla così in pericolo! Ma non tema, signorina, tutto andrà a posto. Il Duca, suo padre, è tanto buono e sicuramente la perdonerà se tornerà ad essere la brava figlia che è. Deve soltanto essere paziente. Ma ora, mi dica, perché ha fatto una sciocchezza simile?»

Christine si limitò a sorridere appena, tra le lacrime.

«Lo so, ho sbagliato.» guardò Harriet negli occhi, rivedendo in essi lo sguardo ammonitore della gitana «Avrei dovuto contare fino a dieci prima di svoltare l’angolo.»

 

 

MEANDRO DELL’AUTRICE:



Ben ritrovati in questo nostro cantuccio segreto!

Non sapete con che gioia ho pubblicato questo capitolo. È uno dei miei preferiti in quanto viene presentata una nuova OC, non di mia creazione. Christine Nightray è infatti fonte dell’immaginazione della mia amica Aetherea_Nyx (sì, sempre lei xD) che ormai cinque anni fa mi contattò privatamente per avvisarmi che una delle mie storie era stata copiata e pubblicata su Wattpad a nome d’altri. Questo ci diede l’occasione per conversare e, subito, mi pregò di continuare questa fanfic che lei aveva tanto apprezzato.

Siccome le ero grata dell’aiuto fornitomi e del suo entusiasmo per le mie storie, le chiesi se potevo fare qualcosa per ripagarla. Così mi domandò di introdurre una sua OC nella storia, giusto un personaggetto secondario di poco conto, ma che l’avrebbe fatta sorridere dalle retrovie.

Quando, ormai un anno fa, ripresi seriamente in mano la storia, mi venne naturale scrivere sempre più su Christine. Ideai così alcune sue caratteristiche, paure e retroscena a cui Nyx non aveva pensato (dato che le avevo chiesto poche linee guida) e lentamente nacque un personaggio che di secondario aveva ben poco.

Oggi sono molto amica di Nyx e le devo tantissimo, perché senza il suo costante entusiasmo, le sue attenzioni nel correggere e suggerirmi spunti per la storia e la sua infinita stima non sarei qui.

Mi auguro che potrete amare questo personaggio, imparando a conoscerlo piano piano. Le sue avventure (o forse è meglio dire disavventure), infatti, non sono che agli inizi. Ovviamente anche Sophie comincia lentamente a prendere forma e ad addentrarsi nelle cupe vie che la condurranno al suo inesorabile destino… la melodia del carillon non suona la sua condanna soltanto per Oz, Alice e Gilbert, stavolta!

Per scoprire altro vi aspetto sabato prossimo, 1 luglio con il capitolo VII: Nightmares and hopes - L’INTRICATO FILO DEI LEGAMI - !

A presto,



Moni =)

 

1La pronuncia è alla francese, infatti “confetti” significa “coriandoli”.

PS: Importante!

A causa di impegni (tanto per cambiare esami, oltre al mio immancabile desiderio autolesionistico di fare troppo) la data di pubblicazione del capitolo VI Nightmares and hopes - L’INTRICATO FILO DEI LEGAMI - slitterà di 2 settimane, a sabato 15 luglio.

Vi domando scusa per il disagio.

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Capitolo 7
*** RETRACE: VI Nightmares and hopes - L’INTRICATO FILO DEI LEGAMI - ***


 

 

 

Dedico questo capitolo alla mia amica e collega Aetheria_Nyx.

Buon compleanno!

 

 

 

 

 

RETRACE: VI Nightmares and hopes

- L’INTRICATO FILO DEI LEGAMI -



Sophie Barma sobbalzò per lo spavento, destandosi.

Si guardò attorno confusa, non riuscendo a riconoscere le ombre che la cingevano. Per un terrificante istante le parvero mani ossute tese verso di lei, pronte a ghermirla. Lentamente, la sua mente ritrovò conforto: un lieve spiraglio di luce illuminò i contorni della carrozza ed un velo di sollievo andò poggiandosi sul cuore, che però non rallentò la sua corsa. Inspirò a fondo, dandosi della sciocca: era stato solo un sogno.

Non riuscì ugualmente a scrollarsi l’inquietudine di dosso. Da ormai diverso tempo si sentiva osservata ogni qualvolta che chiudeva gli occhi e, inevitabilmente, aveva cominciato a dormire sempre meno. Le poche ore di sonno erano accompagnate da strane voci, sussurri malevoli che le restavano appiccicati sulla pelle, ma non nella memoria.

Per distrarsi, osservò l’orologio da taschino che teneva stretto in mano, come un amuleto: erano da poco passate le sei del mattino. Concentrandosi su quel fatto tangibile, riuscì a relegare quel senso di timore in un angolo buio della mente. Non era un giorno per pensieri infausti. Doveva anzi essere allegra e spensierata, glielo doveva in fondo...

Si liberò dalla sabbia di Morfeo sbadigliando sonoramente, un gesto che suo padre le avrebbe ben poco perdonato. Fortunatamente, ora che si trovava alla Lutwidge, era costretta ad ascoltare molte meno lamentele da parte del genitore, che si ostinava a trattarla come una fanciulla. Lei preferiva di gran lunga essere Caleb. Aveva creato il suo piccolo mondo nel corso degli anni, a scuola come a Pandora, dove era apprezzata ed utile. In qualità di Sophie Barma, invece, non era nessuno.

Ad essere del tutto onesta, però, un poco rimpiangeva quella vita. Se si fosse applicata quando era più giovane, forse avrebbe padroneggiato un comportamento più piacente oltre che attraente. Per il figlio di un duca, d’altronde, si pretendeva una donna non solo di pari levatura sociale, ma altresì dotata di tutte le qualità di una brava moglie. Calma, compostezza, eleganza e raffinatezza… tutte caratteristiche che in lei erano inesistenti, essendo cresciuta libera dagli obblighi di una futura duchessa. Se fosse stata obbligata a partecipare agli eventi mondani come una qualunque ragazza dell’alta società, a quel punto della sua vita sarebbe stata diversa… probabilmente migliore.

Migliore per l’uomo che amava...

«Ma che diavolo sto dicendo?» borbottò seccata, non volendo cadere nella sua solita autocommiserazione.

Si lasciava facilmente prendere dallo sconforto, Sophie, non sentendosi mai all’altezza. Del padre, della sua famiglia, di Gilbert, del mondo intero alle volte. Questo perché, dentro di lei, ancora non aveva deciso chi volesse davvero essere.

Caleb Bauer era stato sicuramente un esperimento riuscito, ma che non l’aveva condotta alla felicità. Quel misero dettaglio la lasciava in dubbio su quanto ancora proseguire su quella via… e, tuttavia, scegliere di ricomparire a ventun anni in società come Sophie Barma, e come suo padre si auspicava, le faceva ugualmente tremare le gambe.

«A quell’età potrai avere il tuo debutto, essendo sufficientemente matura.» le ripeteva da anni Rufus.

Lei si era sempre rifiutata. Perché non avrebbe mai potuto attendere sino a tanto e, adesso, si sentiva incapace di rinunciare a quanto aveva costruito in qualità di informatore del casato Barma. Quel pensiero le dava l’emicrania ogni volta.

Le sovvennero così le parole della madre, come un eco sbiadito, ma mai svanito.

Non ricordava molto, dato che Mary se ne era andata quando lei era piccola, ma quelle poche memorie le riviveva costantemente, nel tentativo di serbare per sempre quel sapore di felicità ed innocenza, vissuto in un tempo remoto come una favola.

Ciò che rievocò le diede la solita stretta al cuore. In un modo subdolo e crudele, sua madre le aveva parlato quasi prevedesse la sua prematura dipartita da questo mondo.

Si trovavano entrambe nella serra della Duchessa, Sophie aveva appena cinque anni ed era in braccio alla donna. Canticchiava per i suoi fiori, mormorando di tanto in tanto alla bambina il nome delle varie piante con il loro relativo significato ed uso. Quando arrivò al mughetto vi si soffermò con particolare riguardo.

«Ricordi come si chiama?»

Sophie aveva fissato ammaliata un mazzolino di candidi petali, che era stato precedentemente tagliato e legato con un nastrino. Mentre le venivano strofinati con dolcezza sul naso aveva sorriso, assaporandone il profumo intenso.

«Sono le campanelle!»

Mary aveva riso. Rideva spesso quando erano insieme, questo Sophie lo ricordava bene. O, forse, il suo cuore aveva scelto volutamente di oscurare i momenti più amari, dando così più luce a quelli felici.

«Sì, è vero: sembrano proprio delle piccole campane. Però il nome è lo stesso che uso per chiamarti.»

«Mughetto?»

«Sì, esatto. Il mughetto richiama la primavera e, con esso, la bella stagione che porta con sé una nuova vita. Il ritorno della felicità.. ed un amore ritrovato..» pronunciò con infinita tenerezza quelle parole «Questo è il loro significato.»

«Io ho riportato la felicità?» aveva domandato la piccola, ancora incantata dallo spettacolo di quei fiori lievi come neve «Quando, mamma?»

«Lo fai sempre. Quando c’è la mia Sophie, tutto diventa bello!»

Mary aveva fatto una piroetta, riempiendole le guanciotte di baci. Subito, si librò nell’aria il suono di risa innocenti. Una dolce melodia, di cui Mary si beò sino all’ultima goccia. Sembrava incapace di renderla infelice, pronta anzi a donare qualsiasi suo bene per la gioia di quella creatura che stringeva a sé come un tesoro prezioso. Invece, Sophie sapeva che proprio sua madre le avrebbe dato il dolore più grande della sua vita.

«Chissà chi farai innamorare, mio bel mughetto.» aveva sospirato Mary, nel ricordo perfetto della diciottenne, che assisteva silenziosamente a quella scena, come se le si fosse palesata dinnanzi.

La duchessa Barma si era seduta su di un piccolo dondolo, cinto dall’alto da un glicine che scendeva sulle loro teste come gocce di un candelabro.

«Vorrei tanto che ti sposassi con qualcuno che ti ami profondamente, indipendentemente dai tuoi difetti, anzi, amandoti proprio per questi.»

Sophie l’aveva osservata confusa, non comprendendo ancora bene il significato di alcune parole, come “matrimonio” o “indipendentemente”. L’ultimo frammento di quel giorno racchiudeva la speranza di Mary, leggera come un soffio di vento. Una brezza che rinfrescava, senza però mai essere pungente.

«Scusa, Sophie. La mamma pensa sempre troppo avanti. Però promettimi che non ti vergognerai mai di quella che sei, perché rappresenterai il ritorno della felicità per molte persone. Ne sono certa.»

A quel gentile ricordo si sovrappose tuttavia un altro, ben poco delicato: il suo pianto disperato dinnanzi a Gilbert. Proprio allora, come una catena impossibile da spezzare, si erano susseguite altre memorie ben poco piacevoli. Tutte le parole avventate che aveva rivolto al giovane, oppure la volta in cui si era presentata in ritardo, avendo avuto persino l’ardire di rispondere con tono piccato alle giuste osservazioni del Nightray. Ciò che però la metteva più in agitazione era il ricordo del loro viaggio in carrozza. Non era stato un suo errore, almeno in quell’occasione, ma era ugualmente piombata tra le braccia di Gilbert con tutto il suo leggiadro peso. La verità che giaceva nel fondo di quei ricordi, l’unico motivo per cui il suo cuore battesse tanto all’impazzata senza che lei potesse far nulla per controllarlo, era l’impossibilità di negare la gioia che aveva provato standogli così vicino.

Le guance le andavano in fiamme, costringendola a coprirsele mentre invano tentava di ritrovare la compostezza. Un pensiero birichino le zampettò in testa.

Chissà se anche lui ha provato la stessa cosa?” non appena lo concluse, subito la voce severa di Cassidy la redarguì, come una fucilata in pieno petto.

«Nemmeno ti conosce, come potrebbe pensare questo genere di cose? Sei da ricovero.»

A quel punto Sophie si calmò, sebbene il suo umore si fece rassegnato. Pur conoscendo la sua identità, non c’era modo per lei di farsi notare da Gilbert in quanto sua possibile spasimante: non poteva certo mettersi una gonna ed ancheggiare come un’oca per farsi ammirare. Quella faceva parte delle sue fantasie d’amore, impossibili da realizzare. Tutto ciò che poteva fare in quel mentre era portare notizie riguardo i Baskerville. Informazioni che, tuttavia, ancora le erano ignote e che, come logica conseguenza, smorzavano ogni sua fantasticheria. Ed anche volendo viaggiare con la mente, non era certo il genere di cose che facesse innamorare le persone.

Tornò così coi piedi per terra, riflettendo su quanto era accaduto negli ultimi giorni. Erano ormai trascorse due settimane dalla sua missione a Reveille, ma Swan non era ancora tornato. Solitamente, Sophie avrebbe potuto comunque ricevere informazioni a distanza, tramite il legame che univa Chain e Contraente, ma da diverso tempo quella via era come disturbata. Percepiva Swan, ma non riusciva a sapere altro. Né la sua ubicazione, né i dati raccolti sinora: un completo buco nell’acqua.

Sospirò, portandosi le mani al volto e massaggiandolo, nella speranza di spremere qualche idea, per l’ennesima volta, su quella questione che non portava da alcuna parte.

Non poteva fare nulla, era cosciente di poter solo aspettare, malgrado ciò, la frustrazione non faceva che aumentare. Non voleva fare brutta figura, né mettere in ridicolo il suo casato. E poi… voleva rivederlo. Era sciocco, e infantile, e probabilmente sbagliato per una serie infinita di motivi. Ma non poteva evitarlo.

Ora che aveva incontrato Gilbert, che gli aveva finalmente parlato e trascorso del tempo insieme a lui, il suo cuore si era come fatto ribelle. Chiedeva sempre di più, senza che lei potesse fare nulla per chetarlo.

Guardò fuori dal finestrino, riconoscendo nella penombra del sole nascente il viale alberato della sua tenuta. Aveva viaggiato di notte, preferendo eludere il chiacchiericcio che sarebbe sorto nel caso se ne fosse andata in pieno giorno. Essendo un membro di Pandora aveva parecchia libertà di movimento, dato che i tutori non si sarebbero mai intromessi in questioni tanto delicate, ma quel giorno era speciale.

Non era mai stata lontana da casa in quella data e non avrebbe smesso nemmeno ora che si trovava all’ultimo anno. Il corpo professori era ben avvezzo a tale usanza, senza però conoscerne il significato. Essere alle dirette dipendenze di uno dei quattro grandi duchi aiutava parecchio, in quei frangenti.

Controllò il contenuto della sua borsa temendo che, durante la sua breve assenza nel regno dei sogni, potesse aver subito un qualche danno. Una volta soddisfatta della sua minuziosa analisi, la richiuse, portandosela al petto.

Sperò di tutto cuore che anche quest’anno la giornata si sarebbe svolta in maniera serena, senza lasciare screzi dovuti al loro ultimo litigio. Ricordava bene l’atmosfera tesa che aveva preso possesso di quella medesima carrozza, soltanto poche settimane addietro e non avrebbe permesso che una simile situazione si ripetesse.

Non quel giorno.

 

 

La missione con Gilbert era stata un completo disastro, sebbene lei avesse tentato di metterci delle pezze sopra. Grazie a White Swan avrebbe infatti potuto raccogliere le informazioni che Oz ed i suoi compagni tanto bramavano e, forse, Gilbert avrebbe smesso di considerarla un’inetta totale. Su questo punto Sophie si era particolarmente fissata poiché, grazie a quel impiccione di suo padre, tutto il gruppo era venuto a conoscenza della sua vera identità.

Aveva mantenuto una facciata composta al meglio delle sue capacità nel salottino della duchessina Rainsworth, ma dentro di sé sentiva agitarsi un moto di emozioni cupe: umiliazione, timore, senso di sconfitta. Era stata grata di aver infine abbandonato quella stanza.

L’aver sbattuto la porta in faccia al genitore era stato un toccasana per la sua collera, anche se sapeva che tale gesto non l’avrebbe ripagata. Non le importava. Suo padre era stato un insensibile, come al solito. Aveva calpestato come nulla fosse ciò che lei aveva pazientemente coltivato. Non lo avrebbe perdonato tanto in fretta.

Quando fu salita in carrozza, i capelli ancora sciolti, si era subito messa all’opera per sistemarli sbrigativamente. Il pensiero di quanto doveva essere apparsa ridicola davanti a quei perfetti sconosciuti, tra cui tre nobili di alto rango, aveva rinnovato il suo livore. Gilbert in primis non le aveva più tolto gli occhi di dosso, ma non come aveva sperato. Il suo era lo sguardo di chi si rende conto di non conoscere ciò che ha dinnanzi, palesando un senso di smarrimento misto a diffidenza.

Le dita presero a districare quelle ciocche ingarbugliate con maggiore foga, al punto che Sophie avrebbe potuto strapparseli, se solo avesse voluto. Era completamente in balia delle sue emozioni, al punto da non riuscire a calmarsi nemmeno con la ragione. Era inutile pensare che questo suo atteggiamento non l’avrebbe condotta a nulla, se l’emozione che la dominava era la rabbia.

Che senso ha avere dei capelli così lunghi, se quando li mostro la gente mi fissa come un fenomeno da baraccone?!”

Quel pensiero irragionevole venne spezzato dalla porticina che si era appena aperta, facendo comparire la causa della sua collera sulla soglia della carrozza. Il duca Barma non salì immediatamente, ma restò invece immobile sul posto, fissando la ragazza come fosse la prima volta che la vedesse per davvero. Sophie aveva voltato il capo dall’altra parte, incrociando le braccia al petto, vietandosi di emettere il benché minimo suono. Suo padre aveva scosso il capo, borbottando qualcosa che lei non comprese, poi aveva preso posto accanto a lei. Subito, Sophie si era spostata affinché il suo corpo fosse completamente a ridosso della parete. Non voleva nemmeno essere sfiorata in quel momento. Non da lui.

Barma aveva fatto segno al cocchiere di partire, e così aveva avuto inizio quel penoso tragitto fino alla loro villa.

Per diversi minuti nessuno dei due aveva aperto bocca e, da una parte, Sophie ne era stata grata. Temeva di dire qualcosa di spiacevole se avesse parlato e, più di ogni altra cosa, non voleva mettersi a piangere a causa della frustrazione. Si sarebbe sentita ancor più umiliata. Nonostante ciò, avvertiva la consapevolezza del suo corpo che, invece, l’avvisava di quell’inevitabile fine. Era troppo agitata per contenere i suoi sentimenti e, con un padre come Rufus Barma, era impossibile mantenere alcun contegno per un tempo prolungato. L’essere sua figlia era un fattore aggravante.

«Hai intenzione di tenermi il broncio ancora per molto?»

La voce del padre, all’apparenza indifferente, celava un fastidio ben poco velato. Sophie strinse i pugni, cacciando giù, oltre lo stomaco e fin sotto i piedi, le parole che avrebbe voluto rivolgergli. Non meritava nemmeno i suoi insulti, non dopo il modo in cui si era comportato.

«Era inevitabile che lo venissero a sapere. Tu stessa mi avevi parlato del fatto che avresti voluto far sapere alla nipote di Cheryl della tua identità. Considerando il pasticcio che stavi combinando non c’era...»

«Tu non ne avevi il diritto!» sbottò la ragazza, guardandolo con rabbia, per poi controllare il respiro, nel tentativo di suonare risoluta e non disperata «Mi hai fatta sentire una stupida.»

Si fermò lì, sebbene volesse aggiungere ben altro, mugugnando per la frustrazione.

Alla fine la sua voce aveva tremato.

Rufus non aveva smesso di osservarla per tutto quel tempo, tenendo il ventaglio stretto in mano. Sophie era l’unica persona, oltre a Cheryl e alla defunta moglie, con cui si fosse mai mostrato senza maschere, né ornamenti che potessero celare le sue emozioni. Lei non poteva saperlo, ma quello era un simbolo della fiducia che egli nutriva per lei, oltre che del suo affetto.

«E cosa avresti fatto, quando fossero venuti a conoscenza della tua identità? Dimmelo, se anche non fossi intervenuto, credi davvero che non ti avrebbero scoperta a quel punto?»

«Non puoi saperlo.»

«Intervenendo in prima persona ho impedito che facessi un impressione ben peggiore. Almeno adesso possono pensare che è quel pazzo del duca Barma ad aver messo in ridicolo sua figlia, non lei stessa.»

Sophie ignorò la sua logica, non volendo trovare nemmeno un’attenuante per il gesto sconsiderato del padre. Era stato meschino, avventato e più di ogni altra cosa ingiusto. Non gli avrebbe concesso nulla, non in quel momento di profonda rabbia.

«Ti fa male il braccio?»

La ragazza non se ne era resa conto, ma l’uomo la fissava con apprensione da diverso tempo. Nutriva piena fiducia nelle capacità di Cassidy che, prontamente, lo aveva informato delle condizioni di salute della figlia.

«Sta bene.» gli aveva detto il medico «Sebbene abbia rischiato parecchio.»

Sta bene.”

Se lo ripeté ancora e ancora l’uomo, sperando di trovare in quel mantra una qualche fonte di sollievo. Non gli piaceva provare quel genere di impotenza nei confronti della figlia, che aveva rischiato la vita per una semplice missione di spionaggio.

Non avrebbe dovuto concederle di andare. Non contro i Baskerville, non con quel ragazzo che la distraeva di continuo. Era stato imprudente e sciocco, ma mai quanto Gilbert Nightray. Se Sophie si era fatta male, era esclusivamente a causa sua. Concentrarsi su quel pensiero lo aiutava a sentirsi meno responsabile della ferita che la ragazza portava al braccio. Tuttavia, non cancellava minimamente l’apprensione che provava e che si stringeva come una morsa acuminata al centro del petto.

«Non è niente, papà. Tre settimane e Cassidy mi toglierà i punti.»

Sophie persisteva nel rispondergli seccata, ma almeno non le tremava più la voce. Barma tentò di cambiare argomento, per alleggerire quella tensione prostrante.

«Resterà la cicatrice?»

«E se anche fosse? È un problema mio, non tuo.»

«Potresti almeno fingere un poco di dispiacere!» sbottò a quel punto, sbattendo il pugno nel piccolo spazio del sedile che li divideva «Hai una minima idea di quanto fossi preoccupato?!»

«Tu sei SEMPRE preoccupato! Non posso mettere un piede fuori da Lutwidge che vai in paranoia: sono abbastanza grande per vivere la mia vita!»

«Certo, finché hai Cassidy pronta a ricucirti ogni qualvolta che ti fai male!»

«Questa è la prima volta che mi ferisco tanto gravemente, e lo sai!»

«Perché hai voluto proteggere quell’inetto dei Nightray.»

«Ho fatto quello che ritenevo opportuno e comunque restano affari miei.» tagliò corto Sophie, non sopportando oltre la saccenteria del genitore.

Con un uomo simile era impossibile celare ciò che lei provava nei confronti di Gilbert. Inoltre, Sophie era un libro fin troppo aperto per chiunque la conoscesse. Con una combinazione simile, Barma aveva preso l’abitudine di fare battutine pungenti, mirate a mettere in imbarazzo la figlia. Questa era tuttavia la prima volta in cui si erano spinto a tanto. Gilbert rimaneva infatti il figlio adottivo e, ora, legittimo erede del casato Nightray. Scherzarne con Sophie era un conto, ma accusarlo di inettitudine era tutt’altra faccenda. Era evidente che il Duca avesse ormai oltrepassato la sua soglia di sopportazione.

«Restano affari tuoi?» ripeté infatti, furente.

Sophie chiuse gli occhi, maledicendosi. Non era quello che voleva dire, ma non poteva certo rimangiarsi le sue parole durante una lite. Sapeva di essere ingiusta nei confronti del genitore. Voleva soltanto fargli comprendere che era maturata a sufficienza per potersi far carico da sé delle sue decisioni. Non era colpa sua se si era fatta male e qualunque cicatrice fosse rimasta a testimonianza del suo errore, l’avrebbe portata con orgoglio, perché avrebbe ripetuto quello sbaglio senza esitazione. Nulla di tutto ciò però uscì dalle sue labbra, serrate come il portone di un castello incantato.

La carrozza si fermò, risparmiandole la ricerca di ulteriori parole per scusarsi o giustificarsi. Mentre il Duca scendeva, lanciò la parrucca della ragazza sul sedile, senza più guardala.

«Sei veramente una stupida.»

Il rimpianto che l’aveva sfiorata evaporò come neve al sole. Si infischiò della parrucca e della segretezza ad essa annessa e seguì il padre, entrando nell’enorme salone della villa. Come d’abitudine, il maggiordomo li attendeva all’ingresso e, chinandosi al loro passaggio, si eclissò velocemente. Essendo il più anziano in servizio, conosceva il segreto della figlia del padrone e, col tempo, aveva altresì conosciuto il suo pessimo carattere quando si scontrava col padre. Solitamente, Sophie era molto premurosa nei confronti del Duca, ma negli ultimi anni aveva cominciato a contestare le sue decisioni sempre più spesso, il più delle volte creando scenette comiche. Quel giorno, tuttavia, Geoffrey Meyer, fedele servitore e maggiordomo di Villa Barma, percepì qualcosa di molto più acre.

«Chissà da chi ho preso!» aveva infatti urlato Sophie, non appena che ebbe raggiunto il genitore sulla rampa delle scale.

«Abbassa la voce ed impara a comportarti, una buona volta!»

«Parli bene tu, che metti in piedi uno spettacolo ogni volta che ti muovi!»

Geoffrey, mentre svoltava l’angolo diretto verso la residenza dei domestici, poté quasi vedere il ciuffo del Duca drizzarsi, come profondamente offeso da quelle parole.

«Quello che io faccio non è affar tuo.» inconsapevolmente, Rufus rigirò le stesse parola alla figlia, provando un leggero senso di piacere nel ricambiare la ferita che aveva subito «Sarebbe anzi tempo che tu imparassi qual è il tuo di posto.»

Sophie si fermò all’inizio della scalinata, il piede ancora sospeso sul primo gradino. Quell’accusa l’aveva ferita più di quanto volesse ammettere. Abbassò la voce, stringendo il corrimano per impedirsi di urlare.

«E quale sarebbe il mio posto, padre?»

Rufus non seppe che rispondere, preso totalmente in contropiede dallo sguardo ferito della figlia. Non voleva che si arrivasse a questo.

Sophie riprese a salire le scale, mantenendo il capo chino.

«Sarà rallegrato dal fatto che sia finalmente alla Lutwidge, fuori dai piedi.»

«Non inventarti le cose. Finiscila di dire sciocchezze e vedi di ricomporti. Vorrei avere un po’ di pace, se me lo consenti, adesso.»

«Non si preoccupi, intendo tornarmene al posto che mi spetta seduta stante. Così potrà avere tutta la pace che desidera.»

Rimasto spiazzato, Rufus poté soltanto limitarsi ad osservare Sophie dirigersi in camera sua, senza poterla raggiungere in alcun modo. Le gambe non gli rispondevano e, anche volendo, non avrebbe saputo come rimediare a quanto detto sino ad allora. Non volendo provare oltre quel vuoto, scelse la rabbia. Si voltò, diretto verso lo studio. Se avesse potuto avere davanti a sé quell’idiota buono a nulla di Gilbert Nightray, lo avrebbe spedito sulla luna con una beccata del suo Chain.

«Da quando si permette di parlarmi a quel modo?!» si domandò furente, mentre sbatteva la porta della stanza appena raggiunta «Mio padre, al posto mio, non avrebbe mai tollerato un comportamento simile. Mi avrebbe confinato in uno sgabuzzino, a riflettere dopo una serie di bacchettate sulle mani!»

Mentre cresceva il suo rancore, la consapevolezza di quelle sue parole lo colpì. Fu come lo schiocco delle dita di un illusionista, che libera la sua vittima dall’incanto. Si era portato una mano al volto, esasperato.

«Mary avrebbe appeso mio padre al muro.» aveva mormorato, sorridendo appena.

Sua moglie non era mai stata una donna con la quale ragionare. Aveva le sue idee, il suo modo di fare e, soprattutto, un amore sconfinato per la loro figlia. Non avrebbe mai permesso che una spina la sfiorasse, figurarsi una punizione fisica. Sophie avrebbe potuto compiere la peggiore delle marachelle, ma Mary non l’avrebbe mai colpita, né avrebbe permesso che qualcuno lo facesse.

«I bambini non si picchiano.» aveva decretato solennemente, la prima volta che Rufus aveva dato uno schiaffo alla figlia di quattro anni, perché faceva i capricci «Fallo ancora e non ti rivolgerò più la parola.»

Ma poi lei era morta. Senza una guida, Rufus perdeva facilmente la pazienza, diceva cose ben poco eleganti per il suo lignaggio e, soprattutto, giunto allo stremo prendeva ancora a schiaffi la figlia ribelle. Fino a tre anni addietro quando, dopo l’ennesima lite, Sophie gli aveva ripetuto le stesse parole della moglie.

Da allora, non aveva mai più avuto la forza di anche solo pensare di alzare un dito sulla figlia.

Sentiva di aver profondamente deluso Mary. Più e più volte.

Barma aveva osservato con rammarico la foto che teneva gelosamente in uno dei cassetti segreti della sua scrivania. Mary sembrava fissarlo con quel suo solito sguardo di sfida mescolato saggiamente a scherno, mentre reggeva tra le braccia Sophie.

Era una delle ultime foto che possedeva di loro due insieme.

«Avrei dovuto farne molte di più...» mormorò Rufus, perdendosi nei ricordi.

Quando era stata l’ultima volta che aveva fatto sorridere sua figlia?

Non riusciva a ricordarselo.

Ultimamente, sembrava capace solo di farla infuriare. E di renderla infelice.

 

 

La voce del cocchiere la ridestò del tutto dal torpore del primo mattino, informando la ragazza che erano giunti a destinazione. Con uno slancio che non si aspettava di avere, Sophie scese dalla carrozza e si diresse prontamente alla porta di casa. Fremeva dall’impazienza e, senza volerlo, si ritrovò a sorridere. Nonostante i brutti ricordi che albergavano in quelle mura, amava la sua casa. Non l’avrebbe cambiata con nessun’altra al mondo. Inoltre, pensò con una malinconica felicità, sentiva di appartenere a quel luogo, che racchiudeva più amore che rimpianti.

Il signor Geoffrey la accolse con un inchino formale, ma sincero. Era sempre lieto di dare il benvenuto alla sua padroncina, che considerava alla stregua di una nipote. Aver avuto il privilegio di vederla crescere, nonostante le difficoltà che aveva dovuto affrontare, era un onore che portava nel petto come una medaglia.

«Sono lieto di rivederla, signorina Sophie.»

La giovane gli fece un cenno del capo, ricambiando d’istinto con una lieve riverenza. L’uomo ridacchiò, conscio che quella ragazza non si sarebbe mai piegata alle rigide etichette dell’alta nobiltà nemmeno sotto tortura. Salutare a quel modo un domestico era quanto di più scandaloso ci potesse essere, ma era altrettanto certo che la padroncina avrebbe riso se glielo avesse fatto notare. E, in fondo, l’affetto che nutriva per lei era proprio legato ai suoi modi di fare sbarazzini e spontanei.

«Sua Grazia si trova nel suo studio.» la informò subito, vedendola prendere le scale.

Sophie si fermò, confusa.

«Così presto?»

«Non lo ha mai lasciato, veramente.»

Sophie sospirò vistosamente, guardando in alto e provocando l’ennesimo riso contenuto a stento del maggiordomo. Quella giovane possedeva degli atteggiamenti comici, oltre che poco consoni al suo rango.

«Quell’uomo è impossibile.» borbottò lei, per poi rivolgersi al domestico «Ha già fatto colazione?»

«No, signorina.»

«Perfetto, allora porta uova, pancetta e quel tè orribile allo zenzero che a lui piace tanto, per cortesia. Ah, in camera mia, voglio essere io a portagli il vassoio.»

«Come desidera.»

Sophie fece altri sei scalini, prima di fermarsi nuovamente.

«Ah! Signor Geoffrey!» lo chiamò ancora, tentando di mantenere un tono basso.

L’uomo, rimasto dov’era, aveva previsto questo suo ennesimo richiamo. Se gli fosse andata bene, sarebbe stato l’ultimo. Altrimenti avrebbe informato le cucine della richiesta della Duchessina tra una decina di minuti. Minimo.

«Rosso o bianco?»

«Bianco, signorina.» rispose sicuro il servitore, pur non avendo la benché minima idea di cosa la sua padroncina stesse parlando.

Con l’avanzare dell’età aveva appreso che era meglio porre poche domande a Villa Barma, e dare altresì immediata riposta. Era una tecnica di sopravvivenza che tutti i novellini, presto o tardi, imparavano a loro spese.

Sophie parve soddisfatta, ringraziò e, prima di affrettarsi in camera, domandò un’ultima cortesia al servitore: voleva che la sua cameriera personale fosse inviata quanto prima alla cabina armadio della Duchessa, per portarle l’abito bianco che ora apparteneva a lei.

«Falla sbrigare, perché ho timore che ci metterò parecchio a prepararmi.»

«Lei… vuole indossare quell’abito, signorina?»

«Sì.» accennò una smorfia imbarazzata, dinnanzi allo sguardo sgomento di Geoffrey «Voglio fare una sorpresa a mio padre.»

Con sua sorpresa, Sophie notò qualcosa di simile alla commozione nello sguardo dell’anziano amico. Pensandoci con attenzione, Sophie ricordò che Geoffrey era stato sposato un tempo e che da quell’unione aveva ricevuto in dono tre bellissime figlie che, a loro volta, gli avevano dato la gioia di divenire nonno. Probabilmente, l’emozione di un gesto tanto sentito l’aveva colpito nel suo io paterno.

«Ne sarà certamente deliziato. Provvedo subito affinché sia tutto pronto nel minor tempo possibile.»

Non trattenendosi oltre, Sophie riprese il suo cammino, svelta e col cuore più leggero. Provava ancora un brivido di timore al pensiero di rivedere il padre dopo la loro ultima discussione, ma al tempo stesso era felice di poterlo riabbracciare per quella lieta ricorrenza. Non le erano piaciute le parole che si erano scambiati in quella triste occasione e, sebbene in seguito avessero fatto pace, si sentiva in colpa per il modo in cui gli si era rivolta. Sapeva di non essere perfetta, ma il suo carattere solare era uno dei suoi pochi vanti, perciò intendeva cancellare seduta stante quell’atteggiamento rancoroso e puerile che aveva tanto ferito il padre.

Doveva fare ammenda e quel giorno sarebbe stata l’occasione perfetta.

Raggiunta la camera, andò dritta alla specchiera, tirandone i cassetti e mettendosi alla ricerca di gioielli e nastrini che potessero meglio abbinarsi all’abito che aveva scelto. Sapeva che tale compito sarebbe dovuto spettare ad Hermione, che certamente stava accorrendo da lei, malgrado ciò non poteva permetterglielo. Sebbene inesperta di moda femminile, Sophie doveva scegliere da sé il proprio corredo, non avrebbe lasciato ad altri una simile decisione. Soltanto per la scelta dell’abito si era fatta aiutare, a sua insaputa, dal maggiordomo.

Non possedeva molti abiti di taglio femminile, ma ogni anno, da quando ne aveva compiuti quindici, suo padre le faceva trovare un nuovo completo. Appartenevano tutti a sua madre e lei attendeva con impazienza quel dono preannunciato, ma mai prevedibile.

Nonostante si sentisse ancora una ragazzina, il suo corpo era finalmente sbocciato e con quelle nuove forme Sophie poteva indossare delle vesti cariche di delicato affetto. Purtroppo non tutti le calzavano e lei non aveva cuore di modificarli. Li conservava gelosamente, nella speranza, un giorno, di trovargli una degna modella. Una figlia, magari… quel sogno nascosto le scaldava sempre l’animo, ma non si perse oltre in simili fantasticherie. Due abiti le cadevano perfettamente, quasi fossero pensati per le sue forme, simili ma non identiche alla madre: un abito dal collo alto con maniche lunghe a sbuffo, color rubino, decorato con nastri di taffettà nero lungo la vita ed il retro della gonna sottile, con tanto di cappellino a musetta coordinato; decisamente alla moda, eppure troppo castigato per l’arrivo del bel tempo. Infine, un candido abito da sera, le cui spalline appena bombate ricadevano morbide lungo le braccia, mentre tutta la scena veniva rubata da un corpino aderente ricamato di perline, che si univa ad un’ampia gonna a balze, al cui centro sbocciavano delle graziose farfalle argentee ed azzurrine.

Probabilmente un po’ troppo vistoso per un tè mattutino, ma non vi diede importanza.

Voleva essere speciale per suo padre ed era certa che sarebbe rimasto colpito nel vederla in quegli abiti, così inusuali per lei. Non aveva più indossato un abito da donna da quando aveva accettato il suo incarico a Pandora. Credeva che sarebbe stato più facile abituarsi a quella nuova vita.

Hermione bussò elettrizzata alla porta, pronta per compiere la sua trasformazione. Finalmente avrebbe svolto un compito degno della cameriera personale. Sophie l’accolse con sguardo sicuro.

Questa volta, avrebbe reso fiero suo padre.

 

 

A seguito della chiacchierata con Gilbert durante la festa di San Brigitte, Vincent Nightray si sentiva confuso. Da un lato era felice di aver constatato ciò che già sapeva: il suo dolce, crudele fratello non era cambiato per nulla nel corso degli anni. Questo accresceva la sua risolutezza nel procedere secondo i piani. D’altra parte, il fastidio provato nel constatare quanto Gilbert fosse coinvolto con il Cappellaio ed ora persino con la famiglia Barma lo metteva in allerta. Xerxes Break era certamente una spina nel fianco, ma l’informatore che si era unito a quella squadra rocambolesca era una variabile troppo imprevedibile perché potesse essere presa sottogamba. Doveva essere più cauto e, al tempo stesso, muoversi in fretta. Le lancette giravano sempre più a suo sfavore.

Per tale motivo si era gettato anima e corpo nell’incarico che riguardava quella tediosa ragazzina di Ada Vessalius: entrare in confidenza con lei equivaleva ad avere informazioni preziose sulla chiave detenuta dalla famiglia ducale più legata all’eroe di cento anni prima. La corteggiava di continuo e, dopo quella sera a teatro, credeva realmente di aver raggiunto il suo obiettivo… invece, quella donna si era rivelata più diabolica di ogni sua previsione.

Si sentiva esausto ma, dopo una bella dormita, era tornato padrone di se stesso. Quel giorno aveva deciso di rimanere a Villa Nightray, per riordinare le idee a seguito dei nuovi, inquietanti, dati raccolti su quella bislacca ragazzina, quando l’occhio gli cadde sull’orologio posto sopra la cassapanca del suo salottino. Erano le cinque e quaranta. Si domandò perché quell’orario lo disturbasse tanto, poi ebbe un’illuminazione: Christine veniva ogni giorno per il tè del pomeriggio, alle cinque in punto. Non mancava mai, per nessuna ragione al mondo. Ciononostante, quello era ormai il terzo giorno, dalla festa dell’Angelo Azzurro, che non la vedeva.

Era stato parecchio assente da casa, perciò non vi aveva fatto molto caso. Lui non prestava attenzione ad altri che a Gilbert. Il resto era ciarpame. Roba di poco conto.

Tornò a concentrarsi sulle sue carte, sul contenuto di quella corrispondenza che teneva coi Baskerville quando non era possibile riunirsi di persona. Armeggiò con le missive scritte in codice, riordinandole meglio sulla scrivania. Si grattò il capo, per poi scuoterlo infastidito. Non riusciva a concentrarsi su quelle dannate parole, che si univano, formando ghirigori privi di alcun senso, mentre due domande gli riempivano la testa.

Perché non era venuta?

Stava forse male?

Quegli interrogativi danzarono nella sua mente, fastidiosi come zanzare in una calda notte estiva. Non gli importava, si ripeté. Christine gli era totalmente indifferente. Certo, gli doveva molto per ciò che aveva fatto per Gilbert, alleviando la sua solitudine da quando era venuto a vivere in quella casa. Era inoltre il solo ponte col fratello adottivo Elliot, che invece si era chiuso in se stesso e non rivolgeva più la parola a Gilbert da quando se ne era andato. Da piccoli i gemelli erano stati un divertente svago dalle continue angherie della famiglia Nightray. Christine era capace di illuminare anche la giornata più tetra con un semplice sorriso. La sua presenza era pacata e piacevole, mai invadente, totalmente l’opposto rispetto ad Elliot.

Ora che ci pensava, Vincent ricordò che Elliot ed il suo valletto erano venuti a prenderla per portarla di nascosto a San Brigitte. Da quello che aveva udito mormorare tra i domestici, non erano riusciti a farla franca ed il Duca li aveva severamente puniti. Christine non poteva più ricevere né inviare lettere ed il maggiordomo di casa era stato licenziato e immediatamente sostituito per la sua condotta disonorevole. Non rammentava di aver sentito nulla che riguardasse un suo confinamento nei propri alloggi tuttavia, riflettendoci, Vincent non l’aveva vista al tavolo del pranzo quel giorno.

Si alzò, aggirando la scrivania e lasciando i fogli sparpagliati lungo la superficie immacolata: non gli importava, tanto nessuno osava mettere piede nella sua stanza. Mentre si dirigeva a passo di carica verso la camera di Christine, si ritrovò a domandarsi ancora perché se la stesse prendendo tanto a cuore. Che cosa credeva di fare, una volta giunto da lei?

Risoluto a sbarazzarsi di quella distrazione, raggiunse l’ala opposta. Bussò celermente alla porta e, nel breve attimo che precedette il suo permesso ad entrare, ritrovò la compostezza che lo caratterizzava. Doveva semplicemente rimettere a posto i pezzi di quel fastidioso mosaico e tornarsene in camera. Probabilmente sua sorella si era semplicemente sentita poco bene, a seguito di quella scorribanda, e non era dell’umore o nelle forze per venirlo a trovare. Tutto qua. Non c’era altro.

Non appena varcò la soglia, tuttavia, si rese conto immediatamente che vi albergava una nota stonata. L’aria era come rarefatta, pesante e angustiante. Christine si trovava seduta sopra il divanetto accostato accanto alla finestra, ricoperto di cuscini per fare in modo che potesse osservare il mondo al di là di quelle sbarre di vetro. Il suo sguardo, però, era rivolto in basso e non si levò nemmeno quando il fratello entrò, se non per un brevissimo istante.

Vincent provò una fitta di gelo dietro la nuca.

Che cosa significa, questo?” si domandò contrito, mentre con un semplice respiro riacquistava una parvenza di serenità «Beh, che ti succede, Christine? Perché non sei andata a prepararmi il tè, quest’oggi? Troppo divertimento a San Brigitte ti ha resa fiacca?»

Si sarebbe aspettato qualsiasi risposta: una risata tirata, uno sguardo confuso, persino una predica sui suoi modi di fare altalenanti ed ambigui, quando non incivili. Ciò che udì, però, non rispecchiò alcuna delle sue predizioni.

Christine rimase immobile, ad eccezione di un leggero brivido che le attraversò le spalle, come scosse da un forte vento. Poi, venne la sua voce. Come Vincent non l’aveva mai udita: spenta, come una fiammella che andava ormai consumandosi. Pareva una bambola raggomitolata su se stessa a cui erano stati recisi i fili che la muovevano.

«Scusa, non posso uscire.»

Vincent la fissò con angoscia. Quella non era la ragazza che conosceva ed il primo pensiero che gli attraversò con ira il capo fu altrettanto violento “Cosa le aveva fatto il Duca?”.

In un’altra circostanza avrebbe negato quel sentimento, ma si sentiva troppo immerso in ricordi spiacevoli per poter pensare ad altro che non fosse smuovere Christine da quella posizione. Non gli piaceva, lo faceva sentire male. Gli ricordava cose che voleva dimenticare. Situazioni che mai più avrebbe consentito che accadessero.

«Veramente, la tua punizione non richiede il confinamento in camera.» riuscì infine a dire, dopo una turbata titubanza «Sei libera di andare dove vuoi, qui in casa.»

Christine scosse appena il capo, i lunghi capelli, pettinati ma non adornati da alcun fiocco, le caddero sul viso. Era la rappresentazione dell’oblio: una voragine pronta ad inghiottirla per sempre.

«No, non posso.» mormorò, mentre una goccia di disperazione fendette l’aria, ferendo Vincent dritto al petto.

Seccato da quel suo atteggiamento e dalla sua stessa reazione, il fratello le si parò davanti, afferrandola per le spalle e scuotendola. Lei lo lasciò fare, senza opporre la minima resistenza.

«Ehi, vedi di ricomporti: sei stata punita, sai che tragedia! Almeno guardami quando ti parlo, Christine.»

Le sue parole parevano non raggiungerla. Infastidito, seguì il suo sguardo, deciso a comprendere cosa stesse fissando con tale insistenza da non permetterle nemmeno di fronteggiarlo.

Fu allora che Vincent si accorse della piastrella. Lì, a meno di un metro da lui, si trovava una spaccatura nel pavimento, nera come la notte, che rompeva l’armonia del candore circostante. Per un attimo, Vincent si dimenticò di respirare.

Conosceva fin troppo bene quel genere di violenza.

«Che cosa è successo?» domandò, la voce calma, eppure pronta a scatenarsi come una tempesta.

Christine scosse il capo, ancora stretta dalla presa del maggiore.

«È stata colpa mia.»

«Non ti ho chiesto questo. Ti ho chiesto che cosa è successo.» Vincent pareva incapace di scostare lo sguardo da quella piastrella, quasi fosse rimasto anch’egli ammaliato dal suo potere intimidatorio.

Voleva ferire qualcuno, voleva far del male ad un altro essere umano e, istintivamente, il volto del duca Nightray gli si palesò davanti agli occhi. Avrebbe potuto torturarlo per ore, in quel frangente, se solo si fosse trovato a portata di mano. Anche se non doveva, anche se aveva un accordo che glielo impediva. Voleva lui e nessun altro.

«È colpa mia.» ripeté la ragazza, che finalmente mostrò i suoi occhi al fratello.

Doveva avere un aspetto davvero pietoso, se persino Vincent la guardava a quel modo, con sguardo atterrito al pari del suo. Lei tuttavia si sentiva semplicemente svuotata: non aveva nemmeno più la forza per piangere.

«È soltanto questo. Non c’è altro.»

Quando Vincent lasciò quella stanza, non si sentiva più padrone del suo corpo. Meccanicamente, si diresse verso i suoi alloggi. Non riusciva a pensare lucidamente. Provava soltanto un odio profondo ed una sensazione di frustrazione dilaniante. Si sentiva colpevole, responsabile del non essersi reso conto prima di ciò che era accaduto sotto il suo stesso naso. Si sentiva impotente come quando era bambino e poteva soltanto stare a guardare il fratello subire abusi ed ancora abusi pur di proteggerlo. La sua frustrazione era inoltre alimentata dall’umiliazione di sentirsi così per qualcuno che in realtà non lo avrebbe dovuto riguardare. Non era affar suo. Non era la sua famiglia.

Soltanto Gilbert contava.

Malgrado ciò, l’immagine di sua sorella Christine non abbandonava la sua mente, perseguitandolo come un fantasma.

Non diede però retta al fatto che, oramai, per lui quella ragazza possedeva un titolo al pari di quello di Gilbert. La chiamava sorella, nella sua testa, qualcosa che non aveva mai fatto per nessun altro membro del casato Nightray, ad eccezione di Elliot. Comprese nondimeno una semplice verità: aveva ignorato i giochetti del Duca per troppo tempo.

 

 

Il buio al fine era giunto. Sophie non ne fu stupita, ma provò un senso di stordimento nel constatare che, dopo aver chiuso gli occhi per pochi minuti, il mondo fosse così cambiato. Aveva pianto senza riserve, alternando momenti in cui il suo respiro si era quietato ad altri in cui l’amarezza tornava a colpirla con rinnovata foga. Gli occhi le bruciavano e si sentiva esausta, sebbene non si fosse mossa molto da quando era arrivata in camera.

Era crollata subito contro la porta, dapprincipio, lasciandosi cadere a terra come un peso morto. Odiava suo padre, lo odiava con tutto il cuore. Perché doveva trattarla sempre con sufficienza?

Lei voleva soltanto essere d’aiuto, dimostrare al ragazzo di cui era innamorata che lei non solo esisteva, ma poteva essere un valido sostegno su cui fare affidamento. Avrebbe così messo a tacere le persistenti critiche del padre sul suo operato, mettendo in pratica quanto aveva sinora appreso. Una vera missione, qualcosa di rischioso ma al contempo altamente proficuo per tutta Pandora.

Basta appostamenti nella città per scoprire le marachelle di qualche nobile fastidioso sul fronte politico o mere raccolte di dati in polverose biblioteche abbandonate. Si trattava dei Baskerville, una minaccia per l’intero Paese. In qualità di servitore dei Barma, avrebbe portato onore al suo casato. Nessuno avrebbe più dubitato delle sue capacità.

Allora perché quel giorno tutto era andato così storto?

Con fatica e lentezza, aveva poi raggiunto il letto, sul quale si era in seguito addormentata. La stanchezza l’aveva presa a tradimento e, per nulla riposata, ora guardava le silhouette in ombra dei mobili che la circondavano, silenziosi spettatori di ogni sua lacrima versata. Avrebbe tanto voluto farsi un bagno caldo e darsi una sistemata, ma al contempo non voleva muoversi da quella posizione. Restò seduta a contemplare il nulla, perdendosi in quei sentimenti tutt’ora vorticosi.

Quando Reim bussò alla porta, si era appena sciacquata il viso, ritrovando una parvenza di calma. La sua voce, tuttavia, risuonò bassa e distorta. Il servitore le si avvicinò educatamente, diffondendo una fragranza di serenità nell’aria stantia della camera.

«Sophie, ma che stai facendo?» le domandò preoccupato, vedendola in quello stato increscioso «Sembri una sopravvissuta ad un cataclisma.»

La sua battuta ebbe il potere di divertirla ed irritarla nello stesso istante. Sophie portava piccoli rimasugli di rancore anche nei suoi confronti, non essendo stato capace di reggerle il gioco a Villa Rainsworth. Nondimeno, era decisamente troppo spossata per litigare. Poteva al massimo mostrarsi contrita.

«Che cosa vuoi, Reim?» domandò dunque in tono asciutto, dandogli le spalle mentre tornava a sedersi sul bordo del letto.

Il ragazzo si sistemò gli occhiali, sospirando. Sperava di trovarla di umore migliore ma, a quanto pareva, il litigio con il Duca era stato più aspro di quanto avesse predetto.

«Voglio sapere come stai. Deve essere stata una giornata difficile per te, oggi.»

«Oh, tu credi?»

Nonostante tutte le lacrime versate, un sentimento oscuro continuava a gravarle nel petto, facendola sentire piccola ed insignificante. Voleva urlare, affermare senza più freni ciò che provava, ma non ci riuscì. Perciò scelse di esprimersi in tono scontroso. Reim, non volendo stare al gioco, le si avvicinò.

«Io credo che tu abbia di nuovo chiesto troppo a te stessa. Senza considerare i sentimenti altrui.»

Sophie lo fissò in tralice, convinta che volesse criticarla.

«Oh certo, dimenticavo che è stata solo colpa mia.»

«Non si tratta di chi ha o non ha colpa.» replicò il servitore, sedendosi vicino a lei e poggiandole una mano sopra la sua «Sophie, perché vuoi sempre fare tutto da sola? Ci sono io ed anche il Duca, Sua Grazia Cheryl… persino Cassidy era in apprensione.» le labbra della ragazza rimasero sigillate, incapaci di parlare, così lui proseguì «Tutti noi ti vogliamo bene, Sophie. Lo capisci questo?»

Lei tentò di rispondere, ma riuscì unicamente ad emettere un verso acuto. Ritentò, prendendo un respiro profondo e, finalmente, si sentì in grado di essere sincera e rivelare quali fossero le sue vere paure.

«E se io non ne fossi all’altezza? Se io non mi meritassi tutto questo?» le lacrime, che credeva finite, ripresero a rigarle il volto, senza concederle tregua «Ho tanta paura di deludervi, Reim… e se papà non si fidasse più di me? Se mi rinchiudesse di nuovo qui, senza poter più uscire, io che cosa farei? Io volevo… volevo solo...»

Le sue parole si persero tra i singhiozzi, mentre Reim le cingeva le spalle e l’avvicinava a sé. Erano cresciuti assieme, esattamente come Sharon aveva fatto con Break, ma tra di loro vi era sempre stata una sincerità maggiore. Questo per merito del fatto che Reim fosse più maturo della sua età, mentre Sophie disperatamente alla ricerca di un confidente.

Era trascorso molto tempo dall’ultima volta che l’aveva vista piangere a quel modo. Se non ricordava male, era accaduto quando Sophie aveva infine convinto il genitore ad iscriverla alla Lutwidge. Allora i suoi timori riguardavano la sua identità segreta, il terrore di affrontare tanti volti sconosciuti e l’incertezza di non essere capace di gestire tutto questo da sola.

Pareva proprio che l’insicurezza fosse la più grande nemica della ragazza e Reim, da servitore, amico e fratello, avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per farla sentire sicura ed amata. Purtroppo Rufus Barma, per quanto dotato di immensa conoscenza, peccava nel rapportarsi alla figlia, specialmente in quel genere di circostanze. Mentre Sophie, non abituata a confrontarsi con altri al di fuori di se stessa, finiva spesso per utilizzare parole troppo dure che ferivano gli altri.

«Lo so, lo so. Volevi solo dare una mano e rendere fiero tuo padre. Oltre che metterti in bella luce con Gilbert.» lasciò che le sue parole cadessero sulle ferite del suo animo come un balsamo medicamentoso, prima di proseguire «Sophie, tu devi capire che sei una ragazza straordinaria. Studi in una delle scuole più prestigiose del Paese, aiuti tuo padre come informatrice del casato e, adesso, ti sei persino fatta avanti per sostenere Gilbert.» si staccò appena, per guardarla dritta negli occhi «Guarda che stai facendo tantissimo. Devi però accettare che non sei infallibile, né tantomeno esente da sbagli. La tua famiglia ed i tuoi amici sono qui per appoggiarti, non per farti da bastian contrario. Devi concedere a tuo padre di preoccuparsi per te, perché che tu lo voglia o meno, il Duca sarà sempre dalla parte di sua figlia. Anche quando esagera o ti punisce.»

La ragazza sembrò ritrovare un ritmo più regolare nel suo respiro e persino i suoi occhi parvero schiarirsi, rasserenati da quelle parole cariche sì di predica, ma soprattutto di comprensione. Si asciugò le guance, mentre chinava il capo per la vergogna.

«Sono davvero una cattiva figlia.» mormorò, provando un profondo imbarazzo per il suo comportamento.

«Ma no, che dici?» la riprese subito Reim che, nella solitudine di quella stanza, si sentiva libero di parlare come fosse una sorella «Sei semplicemente tu, nel bene e nel male. Nessuno è perfetto. Guarda il Duca!» l’esclamazione, decisamente sopra le righe, fece finalmente sorridere Sophie, sebbene costò un mezzo infarto al ragazzo.

Sapeva di essere al sicuro tra quelle mura, ma il solo pensiero che Rufus Barma potesse udirlo lo gettava nel panico. Per la sua Sophie, però, avrebbe corso qualsiasi rischio. Anche quello di farsi licenziare… o peggio.

«Nemmeno Gilbert, sai?»

A quelle parole Sophie mollò un pugno al braccio del servitore.

«Adesso non osare troppo, però.» lo rimbeccò, per poi ricambiare la stretta della sua mano «Grazie, Reim.»

«Sono qui apposta. Sempre.» pronunciò quelle parole infondendovi tutto l’affetto che provava per quella ragazza, per poi balzare in piedi «Ora, che ne dici se ti faccio preparare un bel bagno caldo?»

«Sarebbe divino, ma… che ore sono?» domandò spaesata Sophie, non vedendo l’orologio nella penombra della stanza.

«Sono quasi le 18:15. Purtroppo ho potuto lasciare Villa Rainsworth soltanto poco fa e, ad essere sincero, mi toccherà farvi ritorno a breve: credo che Gilbert e gli altri vorranno delle spiegazioni riguardo a tutta questa faccenda.»

Sophie annuì, guardandolo accendere le luci con movimenti sicuri e celeri.

«Se le cose stanno così, perché hai fatto tutta questa strada per poi tornartene indietro subito?»

«Come perché? Ma mi hai ascoltato prima?» la canzonò Reim, per poi sorriderle dolcemente «Ero preoccupato per te. Sapevo che avresti finito per trascinarti dietro tutte le emozioni di questi giorni. Non ha ancora fatto pace col Duca, vero?»

Lei distolse lo sguardo, ferita e turbata dalla perspicacia del suo servitore.

«Ti conosco da quando hai otto anni, Sophie, so come sei fatta. Però, vorrei che tu parlassi col Duca prima di tornare alla Lutwidge, okay?»

«Non credo vorrà parlarmi. Gli ho detto che sarei tornata a scuola stasera stessa e… gli ho detto tante cose brutte, in verità.»

«Tuo padre non ti permetterà mai di andartene così. È un gran testardo, però non è una cattiva persona. Questo dovresti saperlo meglio di chiunque. Ma prima di tutto, vediamo di darti una sistemata: hai un aspetto orribile!»

Sophie gli mostrò tutta la sua regalità incrociando le braccia al petto e mostrandogli la linguaccia.

«Screanzato.» gli intimò, mettendosi poi in piedi e raggiungendolo.

Lui la osservò confuso, prima di afferrarla al volo: Sophie gli si era gettata tra le braccia, regalandogli l’abbraccio più forte e caloroso di cui fosse capace.

«Ti voglio tanto bene, Reim. Grazie ancora.»

 

 

Sophie si fermò ad osservarsi riflessa nello specchio. Aveva indossato in fretta e furia l’abito, che la povera Hermione aveva tentato inutilmente di sistemarle per bene. Era un’impresa ostica convincere la futura duchessa Barma a starsene immobile per il tempo necessario alla vestizione. Abituata com’era ai pratici abiti da uomo, Sophie non riusciva a starsene semplicemente ferma mentre qualcun altro la vestiva. Alla fine, la dura lotta aveva visto entrambe le donne vincitrici: Hermione ammirò il risultato del suo operato, mentre Sophie correva a mostrarle i nastri che aveva scelto per acconciarsi i capelli.

Di nuovo, Hermione invocò il nome della sua Santa protettrice affinché non strozzasse per l’esasperazione la figlia del suo datore di lavoro. I lunghi capelli di Sophie erano infatti costantemente schiacciati sotto una parrucca, perciò non risultò semplice dargli forma. Nel frattempo la ragazza sospirava vistosamente, muovendo i piedi con fare ansioso.

«Signorina, lo sa vero che il concorso per la banda di Reveille si è concluso? I percussionisti sono già stati scelti.»

«Eh? In che senso… oh. Domando scusa… ma non puoi fare più in fretta?»

«Dio ci mise sette giorni a creare il mondo, signorina. Io sto facendo ben di peggio ed ho pure il tempo contato.»

«Sono messi così male?» fece preoccupata Sophie, guardandosi con apprensione nella specchiera.

«Nulla che la sua cameriera personale non possa risolvere.» le concesse uno dei suoi rari sorrisi fatto con gli occhi, mentre la bocca le rimaneva ostinatamente fissa, una riga orizzontale perfetta «È bello poterla finalmente trattare come una vera signora.»

Il signor Geoffrey entrò allora, il vassoio tenuto elegantemente in una mano, mentre con l’altra bussava alla porta rimasta semi aperta. In realtà si trovava lì da qualche minuto, ma non aveva voluto disturbare il prezioso momento tra padrona e servitrice.

«Lady Sophie, con permesso… mi perdoni, ma la porta era socchiusa.»

«Oh, Geoffrey, sei arrivato. Non ti preoccupare, lascia pure il vassoio sullo scrittoio, io sono quasi pronta… argh, ma perché dovevo nascere coi ricci?! Eppure sono stata attenta a lavarmeli poc’anzi per averli belli, invece ora sono di nuovo un macello!»

«Non dica così, Hermione sta facendo un ottimo lavoro.» notando che la ragazza guardava con impazienza attraverso lo specchio il vassoio posto poco distante, aggiunse «Stia tranquilla. Vedrà che la colazione non si fredderà.»

«Lo spero… oggi deve essere tutto perfetto. Voglio che papà sia felice.»

«Sono certo che lo è già, con una figlia come lei.»

«Io non credo...» mormorò Sophie, per poi fissare nel riflesso gli occhi dei domestici «Voi… avete mai odiato le vostre figlie, per qualcosa che hanno detto o fatto?»

«Io certe volte vorrei dare una bella sculacciata a mio figlio, nonostante sia bello che cresciuto.» fece senza alcun pelo sulla lingua la cameriera, mentre fissava l’ennesimo fiocco con abilità «Litighiamo spesso, ahimé. Siamo due persone completamente diverse, ma… odiarlo, cielo, deve ancora passarne di acqua sotto ai ponti, perché possa arrivare a provare un simile sentimento per mio figlio. Troppa fatica, non la merita.»

«Nemmeno io, signorina.» rispose prontamente l’uomo, con una sicurezza disarmante «Mai, in nessuna occasione. Ammetto che ci sono stati momenti difficili, ma l’affetto che un genitore nutre per il proprio figlio non è qualcosa che si possa cancellare tanto facilmente. Soprattutto se ricambiato con sincerità. Ah, finalmente è pronta!»

Sorpresa, Sophie tornò a guardarsi, sorprendendosi del risultato ottenuto. Quasi non si riconosceva e, ad essere onesta, per un istante le era parso di vedere il fantasma della madre riflesso nello specchio.

«Non le piace, signorina?» domandò preoccupata Hermione, notando il silenzio che aveva colto la sua padrona.

«No, non è questo. È solo… credete che gli piacerà?»

«Vorrei ben vedere, con la faticaccia che ho fatto! Ehm, volevo dire… mi auguro proprio che Sua Grazia non abbia nulla da ridire, ecco tutto.» si corresse la donna, presagendo la strigliata che Geoffrey le avrebbe fatto per i suoi modi sin troppo confidenti.

«Sua Signoria non potrà che esserne estasiato, ne sono certo.» rispose con impeccabile deferenza il maggiordomo, mentre intimava con gli occhi alla cameriera di farsi trovare pronta per una bella lezione di galateo.

«Vi ringrazio di cuore entrambi.» rispose allora con fervore la giovane, lasciando di stucco i due domestici.

«Dovere, signorina.» risposero sorpresi entrambi, mentre la loro padrona si alzava celere per raccogliere il vassoio.

Faticò un poco a trovare il giusto equilibrio nei tacchi, ma non appena presa sufficiente dimestichezza si lanciò verso la porta, non prima di aver rivolto loro un ultimo messaggio.

«No. Fate più del vostro dovere, con me. Vi ringrazio per parlarmi sempre con onestà e tenerezza.»

L’uomo si portò la mano al cuore, inchinandosi, mentre la donna si asciugò distrattamente una lacrima mormorando con un leggero tremore di emozione «Magari me lo dicesse mio figlio».

A Sophie non rimase altro che dirigersi quasi saltellando verso lo studio del padre. Evitò quel gesto puerile per non rischiare di inciampare nell’ampia gonna, rovesciando il contenuto del vassoio a terra. Non vedeva l’ora di rivederlo e di farsi perdonare tutti i torti che aveva commesso in quei giorni. Si sentiva rincuorata dalle parole dei domestici e, tuttavia, sentiva che doveva meritarsi quell’affetto, dimostrando ogni giorno quanto fosse grata di essere venuta al mondo in una famiglia così bella. Sua madre le mancava terribilmente, ma aveva ancora suo padre: non doveva mai più permettere alla rabbia di offuscare questo suo amore incondizionato.

Bussò alla porta, trepidante. Poi entrò.

 

 

Il tempo aveva cominciato a fluire in modo distorto per Elliot Nightray.

Erano ormai trascorsi diversi giorni dalla punizione sancita dal padre, ma ciascuno di essi era trascorso esattamente allo stesso modo, quasi si fosse ritrovato rinchiuso in un ciclo senza fine. Ogni sera si ritrovava solo, senza nemmeno la consolazione di Leo, impegnato fino a tardi con le sue nuove mansioni. In quel silenzio ovattato avvertiva gli avvenimenti felici, che avevano preceduto la disgrazia, come ormai distanti. Erano irraggiungibili. Un semplice ricordo, lontano come un sogno.

Non riuscì a dormire nemmeno quella notte. Si rifiutava di coricarsi come le altre volte, fingendo di ignorare il rimorso che gli cingeva la mente, come la morsa di una tenaglia. Si sedette invece sul letto, dopo le lezioni, la schiena poggiata contro la parete, una gamba piegata per dargli maggiore stabilità.

Sembrava che la sua vita stesse andando in frantumi sebbene, come realizzò solo in seguito, tale sensazione non gli fosse nuova. Fu scosso da quest’ovvietà: la sua vita gli stava sfuggendo di mano, senza che potesse fare nulla per arrestarla. E ciò avveniva ormai da molto, moltissimo tempo.

La causa di tutto era sempre e solo stato il Cacciatore di Teste, colpevole delle tragedie che avevano investito la sua famiglia, portandola alla disperazione. La notte di San Brigitte, tuttavia, era stato lui la causa di quel nuovo dolore per i suoi cari.

I pensieri di Elliot vennero interrotti da un suono. Riconobbe il rumore dei suoi passi che, nel silenzio, lo avevano preceduto. Anche in quelle condizioni, il suo corpo non poteva evitare di provare sollievo all’idea del suo arrivo. Leo apparve sulla soglia, sfibrato e dolorante per lo sforzo di sostenere compiti ai quali non era abituato.

Nessuno dei due parlò, costretti da catene invisibili.

Non era mai stato un problema comunicare per loro, non da quando Leo era stato riconosciuto come valletto del giovane Nightray. Eppure, in pochi giorni quel loro legame pareva come distorto, disturbato da una risonanza che non riuscivano ad ignorare né a combattere.

«Non ti ho visto in mensa.» riuscì a dire con fatica Leo, odiando quella falsa parvenza di quiete più di qualsiasi umiliazione avesse mai dovuto sopportare in vita sua «Non ti fa bene saltare i pasti.» continuò poi, non ricevendo risposta.

Elliot rimase immobile. La sua figura capeggiava sul letto in maniera spettrale, agitando ombre che si muovevano a ritmo con il danzare della fiammella che Leo reggeva tra le mani. Il ragazzo si chiese per quanto tempo Elliot fosse rimasto in quella posizione, al buio, attendendo un segno che riuscisse in qualche modo a smuoverlo. Leo, tuttavia, non si sentiva capace di assolvere un simile compito. Era esausto, provato sia nel fisico che nello spirito. Non credeva di avere la forza per aiutare nemmeno se stesso. Ciononostante, se esisteva al mondo una persona che avrebbe sempre difeso, nonostante la fatica ed il dolore che provava dentro, quella era Elliot. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi...

Si fece forza e gli si avvicinò, dopo aver poggiato la lampada ad olio su di un comò, provando sentimenti contrastanti passo dopo passo. Era in apprensione per Elliot, ma anche infuriato con il duca Nightray per quella punizione ingiusta che aveva fatto gravare sul suo amato. Era in ansia per il peso di quel segreto che andava aumentando, giorno dopo giorno, senza che nessuno potesse in alcun modo sostenerlo. Si sentiva inutile, perché non era riuscito a fare nulla per difendere Christine, la sola amica che avesse mai posseduto. Si detestava per non essere stato più attento e preparato per impedire quella sofferenza che, come una nube, si addossava sulle loro teste, impedendogli di respirare.

Odiava, detestava con tutto il suo cuore se stesso per quella sua debolezza imperdonabile.

«Rispondimi, almeno!» aveva gridato, senza rendersene conto.

Poiché anche quelle urla non avevano avuto effetto, osò pronunciare ciò che si ripeteva con forza ogni notte, nel silenzio di quel tormento condiviso «Renderti patetico non aiuterà Christine.»

«STA’ ZITTO!»

Finalmente sento la sua voce” pensò con sollievo Leo.

Elliot aveva afferrato un cuscino e, d’istinto, l’aveva scagliato sul servitore. Lui nemmeno tentò di evitarlo: si lasciò colpire, cercando in quel gesto una qualche forma di espiazione. Elliot parve incapace di fermarsi e, quando finalmente ritrovò il senno, placandosi, dopo aver gettato fogli e matite e libri addosso al servitore, si rese conto di stare ormai piangendo.

«Credi che non lo sappia? Ma cosa altro posso fare…» alzò il capo, guardando il compagno con disperazione «Che cosa avrei dovuto fare, Leo?»

La rabbia ed il rancore svanirono in quell’istante: c’era solo posto per il sollievo di essere insieme, di nuovo capaci di esprimere ciò che provavano. Leo lo raggiunse, abbracciandolo con foga, mentre Elliot lo cercava con un rimpianto che non gli aveva mai visto prima. Era stato disperato altre volte, ma mai in modo così aperto e sincero. La consapevolezza di aver reso infelice la sorella, isolandola ancor più dal mondo, era troppo perché il suo cuore potesse sostenerla da solo.

«Lei era spaventata. Aveva paura… e io non ho fatto niente. Le avevo promesso di difenderla, di essere il suo cavaliere, e io non ho fatto niente. L’ho lasciata da sola.»

Leo lo strinse ancora più forte a sé, comprendendo appieno i suoi sentimenti. Erano i medesimi che si agitavano nel suo petto, incapaci di trovare una via di fuga per liberarlo da quel peso opprimente.

Mentre cercava le parole per curare le ferite della loro anima, Leo notò a terra il primo volume della saga “Holy knight”. Una prima edizione, molto rara e conservata con cura: il tesoro di Elliot. Era stracciata, alcune pagine erano sparse a terra. Riconobbe un disegno, quello in cui il protagonista giurava, inchinato a terra, di proteggere la principessa del regno con la sua stessa vita. Da quanto tempo si trovava lì? In tutti quei giorni non se ne era mai accorto. Fu allora che comprese: la ferita di quella notte non se ne sarebbe mai andata e, in tal modo, la bellezza di quelle ore trascorse insieme sarebbe per sempre stata deturpata dal terrore e dal senso di colpa.

Leo non odiava facilmente. Si arrabbiava con facilità, provava istintivo ribrezzo per certi individui, ma quel sentimento estremo era per lui ancora sconosciuto. Quella notte, tuttavia, odiò il duca Nightray, maledicendolo con tutte le sue forze.

«Andrà tutto bene, Elliot.»

«Come fai a dirlo?»

Non aveva mai visto Elliot tanto fragile. Era sempre forte, risoluto, anche nelle situazioni più difficili. Quando il Cacciatore di Teste aveva ucciso Fred, Elliot si era sentito sperduto e spaventato. Ricordava a malapena il fratello maggiore, che viveva già da diverso tempo per conto suo. Veniva sempre a trovare la famiglia due volte al mese, ma per il ragazzo era più uno sconosciuto che un vero parente. La perdita dello zio Adam era stato uno shock per la madre ed Elliot si era sentito in dovere di condividere quel dolore, assistendo la donna durante quel difficile periodo. Si era persino fatto fare un permesso speciale dal preside, che gli permetteva di proseguire gli studi a casa per un mese, in modo da poterle stare accanto, sebbene questa sembrasse più interessata ad informarsi su di un rinomato culto, piuttosto che prestare attenzione al figlio. La prematura dipartita di Ernest e Claude erano state molto più difficili da affrontare, invece. Elliot si era allontanato da tutti in quell’occasione, rinchiudendo il suo dolore tra le mura della sua stanza.

Quella era la prima volta che Leo lo vedeva piangere in quel modo, senza controllo.

«Perché lo so e basta.» balbettò il servitore, infondendo coraggio e convinzione nelle sue parole, benché nemmeno lui riusciva a vedere una qualche luce oltre quell’oscurità che li avvolgeva «Siamo insieme, siamo vivi… e finché sarà così, andrà tutto bene.» gli si incrinò la voce sul finale.

Ripensò alla profezia della veggente, provando un brivido di terrore.

«Io dico solo ciò che vedo, ragazzo. Ed anche tu faresti bene a fare attenzione: non vedo un futuro nitido, per te. Soltanto tenebre e… sangue.»

Non aveva potuto ribattere allora, troppo pietrificato dal peso di quella verità, uscita dalla gola di quella misteriosa donna. Era stato come osservare una caverna profonda, che aveva riversato le sue tenebre nell’aria, immobilizzandolo. Perché lui sapeva. Aveva riconosciuto la mostruosa veridicità che quelle parole contenevano.

Gli sfuggì un gemito.

Non voleva farsi vedere in quello stato, non da Elliot. Non mentre si aggrappava a lui con la sola forza della disperazione. Doveva essere forte per entrambi, perché non poteva fare nemmeno quello per lui?

Sentendolo ansimare a causa delle lacrime, Elliot si scostò. Non si sentiva ancora liberato da quel senso di colpa nauseante, ma trovò la forza per calmarsi. Per Leo.

La stretta serrata del servitore era venuta meno, permettendo così al giovane Nightray di guardarlo. Poggiò una mano sulla guancia del ragazzo, che scosse il capo, vergognandosi della sua debolezza: non era in grado di difendere nessuno.

Elliot gli disse che non era vero. Confuso, Leo aveva negato ancora, per poi capire: senza accorgersene, aveva parlato, ed Elliot gli aveva risposto con disarmante sincerità.

«Tu mi proteggi da me stesso ogni giorno, indicandomi dove sbaglio ed attendendo pazientemente che mi corregga. Sei il mio salvatore, Leo»

Singhiozzò più forte, negando con decisione con la testa.

Non era vero, non era assolutamente vero niente.

Elliot gli sollevò il capo, baciandolo teneramente. Leo lo lasciò fare, inizialmente incurante. La seconda volta inclinò appena il capo, prolungando di un secondo quel contatto. Si guardarono negli occhi. L’ultimo baciò fu il più intenso, il più autentico. Comunicava tutto l’amore che provavano l’uno per l’altro, il desiderio di non volersi mai separare, di vivere insieme, di trovare un modo.

Elliot gli scostò gli occhiali, sollevando con il pollice la frangia che gli copriva ancora gli occhi. Lo osservò incantato, sorridendo teneramente.

«Hai degli occhi bellissimi. Non capirò mai perché me ne privi ogni giorno.»

Leo chiuse gli occhi, poggiando la mano su quella di Elliot che si trovava ancora sulla sua guancia. Ne assaporò il calore, desiderando di fermare il tempo almeno per un breve istante. Anche se ogni cosa appariva disperata e il mondo andava in pezzi, non potevano semplicemente restare avviluppati in quel calore? Era forse un desiderio troppo immorale, per un peccatore come lui?

«Posso dormire insieme a te questa notte?» domandò Leo, mentre l’ennesimo sussulto faceva scendere le sue ultime lacrime.

Elliot annuì.

«A volte fai delle domande davvero idiote.»

«Così almeno le capisci.»

«Ti amo.»

Leo aprì gli occhi, ritrovando quelli di Elliot che lo fissavano limpidi, sebbene arrossati per il pianto. Elliot non aveva mai pronunciato quelle parole. Non ne aveva mai avuto il coraggio o era stato troppo imbarazzato, troppo orgoglioso per farlo. Per questo Leo, a differenza sua, le proclamava nei momenti meno opportuni. Quasi a volerlo prendere in giro o, forse, per sminuire il fatto che non gli importasse sentirselo dire. Gli bastavano i gesti di Elliot per convincerlo dei suoi sentimenti nei suoi confronti. Invece, non appena le udì, si sentì sciogliere qualcosa dentro, all’altezza del cuore. Ed un enorme peso lasciò il suo petto.

«Scemo…» mormorò, sentendosi nuovamente mancare il fiato «Così mi farai piangere ancora.»

«Scusa.» disse Elliot, poggiando la fronte sulla sua, mentre una lacrima solcava il suo viso «Ma è la verità.»



«È tutto di suo gradimento, padron Vincent?»

La voce melliflua di Harriet riempì la camera di fragrante zucchero, al punto che Vincent provò un moto istintivo di rigetto. La cameriera personale della sorella era una dei pochissimi servitori che prestava costantemente servizio a casa Nightray, anche quando il resto della servitù era a riposo. Albergava quei luoghi come uno spirito e, per tale ragione, fu estremamente facile per il ragazzo incontrarla casualmente. Esattamente come lo fu domandarle, dato che la sorella stava al momento riposando, di portargli cortesemente del tè. Harriet gli aveva sorriso cordiale, rispondendo con un elegante deferenza che urtò immediatamente i nervi del giovane.

In meno di dieci minuti il tè era pronto e gli era stato servito in modo impeccabile. La ragazza si era mossa con disarmante grazia lungo la stanza, mantenendo in ogni istante una postura ineccepibile. Non sorprendeva che fosse una delle cameriere più d’alto rango all’interno della villa.

Vincent le aveva sorriso, palesando un coinvolgimento che in realtà non provava, elargendole i suoi più sentiti complimenti. Il tè era davvero pregiato, uno dei migliori che avesse mai assaporato.

«Ne sono lieta. Le serve altro?»

Vincent poggiò la tazzina sul tavolo, volendosi gustare quella prelibatezza in assoluta pace e tranquillità, prima di prendere parola.

«In verità sì. Mi perdoni l’audacia, ma mi farebbe l’immensa cortesia della sua presenza qui? Sa, non sono abituato a prendere il tè in solitudine.»

La ragazza lo osservò in silenzio per diversi secondi, come volendolo studiare. Poi, increspò le labbra docilmente, mettendo in mostra con orgoglio la perfezione della sua dentatura ed il colorito vivace delle labbra.

«Se questo è ciò che il padrone desidera, ne sarò ben lieta. Sebbene temo che la mia compagnia non sia nulla di così eccezionale, per un uomo del suo rango.»

Falsa.” pensò immediatamente Vincent, trapassandola da parte a parte con il suo sguardo ammaliatore “Falsa e ipocrita. Di donne come te ne ho conosciute a bizzeffe, non credere di incantarmi.”

Tuttavia, dalla sua bocca non uscì nulla di simile.

«Oh, non dica così. Si sottovaluta: non è forse una delle cameriere personali di casa?»

«Ammetto di possedere tale privilegio, ma non è un motivo di vanto, bensì di onore e sincera gratitudine.»

«Oh la la, quale prestanza d’animo. Sembra quasi una recita, sa?»

«Mi scusi?» domandò lei, inclinando appena il capo «Non riesco a capirla.»

«Oh, nulla, nulla.» si portò la tazzina alle labbra, gustandone il sapore e la tensione che si era venuta a creare nell’aria «A volte parlo tra me e me, non ci faccia caso. Piuttosto, da quanto è al nostro servizio, signora Harriet?»

«Da molti anni, anche se probabilmente non ricorda. Prima svolgevo mansioni di minor conto, ma mi occupo specificatamente di sua sorella soltanto da quando la piccola miss ha avuto l’età per una cameriera personale.»

«Christine è davvero fortunata ad averti accanto. Sei senza dubbio una servitrice fedele.»

«Obbligata, padrone. Lei è fin troppo gentile.»

«Oh no, sono semplicemente in grado di valutare le persone da una semplice occhiata. Infatti sono rimasto molto deluso quando il signor James ci ha lasciati.»

«Una perdita enorme per questa villa e, tuttavia, la scelta migliore per essa e la sua integrità.»

«Vero. Dove andremo a finire, se non ci potremo più fidare l’uno dell’altra?»

Per tutto il tempo di quella conversazione, Harriet non aveva battuto ciglio. Era rimasta composta, ligia e perfetta nella sua uniforme da cameriera, con lo stemma dei Nightray scintillante sul petto. La sua treccia nera, che le cadeva di lato, le conferiva austerità ed al contempo bellezza, mentre il viso luminoso brillava tra le fiammelle delle candele. Aveva un volto assolutamente dimenticabile, grazioso ma per nulla lodevole in alcun ché, sebbene fosse evidente la meticolosità con la quale se ne prendesse cura. La pelle era liscia e rosea, le labbra piene ed i denti salutari. Un aspetto decoroso e d’obbligo da una domestica del suo rango, eppure ne traspariva una fissazione al limite dell’eccesso. Quei suoi occhi neri, del medesimo colore dei capelli, erano ciò che più mettevano Vincent in allerta: erano torbidi come le profondità del mare, pronti ad inghiottire chiunque fosse stato tanto sciocco da rimanere incantato dinnanzi alla loro lucentezza.

«Però.» proseguì con un ghigno sadico, mentre osservava il contenuto della sua tazzina con estremo interesse «Davvero molto comodo che lei avesse insistito tanto per portare il tè a Christine, quel giorno, sebbene solitamente sia lei stessa a prepararselo.»

L’aria parve fendersi, come tagliata da una lama invisibile. Il volto di Harriet non si incrinò minimamente, ma si fece di ghiaccio, come intagliato nella pietra.

«Mi ero insospettita proprio perché non la vedevo, infatti...» rispose sicura la ragazza, per essere però subito interrotta dalla voce di Vincent.

«E che casualità perfetta» continuò imperterrito «Che nella sua apprensione immotivata lei abbia deciso di ignorare gli ordini del signor James, suo diretto superiore, per andare a controllare di persona. Una vera fortuna, altrimenti l’onorato Duca, mio padre, non avrebbe mai saputo della fuga di mia sorella.» le sorrise, affabile ed intrigante come un amante «Sembra tutto molto calcolato e sospetto, non trova anche lei?»

Per un lungo istante regnò il silenzio.

Le mani di Harriet ebbero un leggero tremito, si strinsero con foga, mostrando una breccia. Poi, il suo petto prese ad alzarsi in modo sempre più convulso, finché una sonora risata non riempì l’aria.

«Signor Vincent! Così sembra dipingermi come una donna astuta e senza scrupoli! Non possiedo tali doti, sono assai spiacente di deluderla.»

«Ahahah, ha ragione!»

«Infatti, questo genere di cose suonano molto più da lei, padrone.»

Vincent ebbe un fremito. La tazzina tremò, rischiando di riversare il suo contenuto sui pantaloni. Il ragazzo la fissò con aperto astio, mentre la donna continuava imperterrita la sua pantomima, benché il suo sguardo la tradisse. Vi leggeva un chiaro sentimento di odio, prima abilmente celato, che però in quel momento bruciava come un fuoco pronto a divampare per radere al suo l’intera villa.

«Ho forse parlato troppo? Le domando perdono, ma vede le voci girano, purtroppo, e gli occhi vedono anche attraverso le pareti, in case come queste. Non esistono segreti, soprattutto tra domestici fedeli e padroni.» si avvicinò, chinandosi sul servizio e rimettendo lentamente, nondimeno fedelmente, ogni pezzo al suo posto «Vede, è ben nota la sua propensione all’intrigo e all’inganno. Non è forse stato lei stesso a mentire a sua sorella, dicendole che avrebbe avuto ospiti, senza però dirle che si trattava di padron Gilbert?»

I suoi occhi si posarono sui suoi, oro e tenebre in un’intricata lotta di astuzia.

«Non si fa, signor Vincent, non è bello mentire a sua sorella. Tuttavia, non tema: non ne farò parola. In fondo, dove andremo a finire se non ci potremo più fidare l’uno dell’altra, giusto?»

Vincent strinse i pugni, consegnando tuttavia nelle sue mani la tazzina che reggeva.

«Parrebbe quasi che io e lei ci somigliamo, signora Harriet.»

«Oh, non dica così, padrone.» si alzò, il vassoio alla mano ed un angelico volto dipinto sulla sua faccia «Io non mentirei mai alla mia padroncina per ferirla. Faccio solo il suo bene, perché questo io sono: la sua cameriera personale. Mentre lei, signor Vincent?» domandò innocente, una punta di veleno saggiamente dosata sulla sua lingua «Lei che cosa rappresenta per sua sorella?»

Nightray scattò in piedi, furibondo e pronto a colpirla, ma la donna fece un inchino devoto.

«Con permesso, padrone, ora torno alle mie mansioni. La ringrazio per avermi concesso l’onore di questa chiacchierata. È stata illuminante.»

Mentre si chiudeva la porta alle spalle, Harriet cominciò a canticchiare un motivetto. Si trattava di una filastrocca per bambini, che malgrado ciò riguardava un efferato omicidio: era la sua preferita, quella che la madre le cantava sempre da piccola. Era affascinante come simili parole potessero essere pronunciate con tanto candore dalle bocche degli innocenti.

Quell’uomo è estremamente pericoloso.” pensava nel frattempo, incamminandosi leggiadra verso le cucine “Devo fare più attenzione da ora in poi… a quanto pare, adesso si gioca a carte scoperte.”

Sorrise, felice di non dover più nascondersi dietro una maschera con quell’osceno figuro della famiglia Nightray. Avrebbe tanto voluto occuparsene di persona, ma non era mai stata una persona impaziente. “Dai tempo al tempo” così si diceva, e la saggezza popolare non sbagliava mai. Quell’uomo avrebbe avuto ciò che meritava, come tutti in quella casa, a tempo debito.

Riprese a cantare, stavolta a voce più alta.

«Lizzie Borden took an axe / And gave her mother forty whacks. / When she saw what she had done / She gave her father forty-one.»1

1 Lizzie Borden prese un’ascia/ E diede alla madre quaranta colpi/ Quando vide ciò che aveva fatto/ Ne diede al padre quarant’uno.

 

 

La luce gentile del mattino l’abbagliò per un istante. Essendo il corridoio ancora in penombra, trovandosi a rivolto a ovest, le tende erano in parte ancora chiuse ed i candelabri accesi. La grande finestra dello studio che dava a est proruppe con pacata eppure fiera prepotenza quando entrò. Suo padre si trovava lungo disteso sulla sedia, in una posizione poco consona sia per leggere che per riposare.

Sophie sospirò, decidendo di evitare di rimproverarlo almeno per quel giorno. O quantomeno di rimandare ad un secondo momento.

«Buongiorno, papà.»

La sua voce ebbe il potere di fargli voltare il capo, mentre la vista del suo abito lo fece mettere seduto composto in un batter d’occhi. La ragazza sperò che si trattasse di una sorpresa gradita, sebbene il dubbio che in verità potesse non aver accettato su di lei quel vestito la tormentasse. Il Duca non fece nulla, ma non smise nemmeno di fissarla.

«Buongiorno.» rispose infine, per poi concedersi un lieve increspare di labbra «Sei davvero incantevole.»

Il cuore della giovane fece una capriola per la gioia ed il sollievo. La prima parte del suo piano era andata a buon fine. Ringraziò per il complimento e, raggiante, poggiò il vassoio sul tavolino, pieno zeppo di carte e libri, che si trovava alla sua sinistra. Mentre rassettava sbrigativamente, tenne nuovamente per sé i commenti poco eleganti che avrebbe voluto elargire al genitore circa l’ordine e l’igiene del luogo in cui lavorava.

«Lo so che è in disordine, scusa.»

Stupita, Sophie si voltò verso il padre che, nel frattempo, si era alzato in piedi e la fissava con uno strano sguardo carico di malinconia. La ragazza si convinse che doveva essere ancora mezzo offuscato dal sonno, per potersi scusare del modo in cui governava il suo sancta sanctorum. Tuttavia, mentre l’uomo si poggiava con una mano al tavolo, quasi faticasse a reggersi in piedi, lo udì mormorare qualcosa che la lasciò profondamente amareggiata.

«Il tempo scorre troppo velocemente.»

Pensò che avesse ragione. Sebbene lei si sentisse ancora una ragazzina, libera di scorrazzare per casa come le pareva e di parlare liberamente col padre ed i domestici, sentiva il peso di tutti i piccoli e grandi cambiamenti che l’avevano accompagnata sino a quel momento. Percepiva inoltre l’incombenza di nuovi avvenimenti, lieti o meno che fossero. Uno in particolare le fece morire il fiato in gola: sua madre era morta quando era ancora piccola, ma era giovane, molto più del marito. Suo padre invece, nonostante l’aspetto giovanile, cominciava ad invecchiare. Per quanto tempo ancora avrebbero potuto festeggiare insieme ricorrenze gioiose come quella?

Si costrinse a cacciare in fondo al cuore quel pensiero tetro.

Era una bella giornata di primavera, erano insieme e lei si era impegnata tanto per rendere tutto eccezionale, nel suo piccolo. Non avrebbe permesso alla malinconia né a qualsiasi altro sentimento che non fosse la gioia di pervadere quella casa.

«Beh, se poi te ne stai rintanato in studio come un paguro, la cosa non mi sorprende.»

La frecciatina ebbe il suo effetto, sebbene non come sperato. Il padre reagì stizzito, ma Sophie capì immediatamente che si trattava di una recita per darle corda. Era evidente che quel pensiero oscuro albergasse ancora nella mente del Duca. Per tale motivo, decise di mostrare la sua seconda carta. Sollevò il coperchio che teneva in caldo la colazione ed un piacevole aroma riempì l’aria. Finalmente, il volto di Rufus Barma si distese, colto alla sprovvista da quella fragranza che stuzzicò il suo appetito.

«Non saranno le pancette del nostro Paese che teniamo in riserva, vero?»

Sophie fece spallucce, mentre preparava le porzioni per entrambi.

«Prima o poi andavano mangiate, no?»

Rufus sospirò, andandosi ad accomodare vicino alla figlia. Dopo aver afferrato piatto e posate, si concesse di assaggiare il contenuto, nel frattempo che Sophie versava il tè. Il sapore deciso e la consistenza tenera della carne lo misero subito di buon umore. Quella era il genere di colazione che avrebbe fatto se si fosse trovato nella sua terra natia, a miglia e miglia di distanza. Fu ancor più lieto all’idea di poter condividere quel piacere con la figlia. Ad essere del tutto sincero, il Duca non credeva possibile di avere Sophie ancora tutta per sé quell’anno, non dopo l’accesa lite che si era tenuta giorni addietro.

Nonostante ciò che le aveva detto e che si era sentito rispondere, provava ancora un senso di timore in fondo all’animo. Sua figlia stava inesorabilmente crescendo e le divergenze di opinione cominciavano a farsi sentire. Come se non bastasse, il Paese sembrava sull’orlo di una potente crisi, ora che i Baskerville erano tornati ed Oz Vessalius stava mettendo a soqquadro la città per scoprire la verità di cent’anni prima. Tutti erano coinvolti, ma avrebbe preferito che Sophie ne rimanesse il più estranea possibile. Nonostante i suoi desideri, il destino pareva remargli contro.

Per quanto ancora avrebbe potuto vivere momenti sereni come quello?

«Dio mio, ha davvero un odore terribile!»

La lamentela di Sophie lo distrasse da quel circolo vizioso di pensieri. Osservò la ragazza mentre armeggiava con la teiera: i capelli accuratamente acconciati, certamente non per mano sua, eppure perennemente sul suo viso. Era come sempre una delizia per gli occhi, per lui. Per quanto la giovane si sforzasse di apparire composta e rilassata, la bocca era infatti arricciata in una smorfia di disgusto, mentre una mano tentava invano di fare aria per scacciare l’effluvio che tanto la infastidiva.

Rufus non poté evitare di ridacchiare, così come la figlia non poté fare a meno di rimproverarlo.

«Ehi, io sto cercando di fare del mio meglio qui. Non prendermi in giro!»

«Stai facendo tutto da sola, come tuo solito.» le fece notare il Duca, mentre addentava un’altra forchettata di uova.

La ragazza sbuffò, porgendogli il tè.

«Grazie. Guarda che non sei obbligata a berlo anche tu.»

«Non potevo certo far preparare al signor Geoffrey due tè differenti!»

«Eh già.» rispose l’uomo, sorseggiando con piacere la bevanda amara, perfettamente in contrasto con il salato del suo cibo «Non lo pago apposta.»

«Non devo fare la viziata soltanto perché posso!» ribatté allibita la giovane che, nonostante il suo rango sociale, detestava avere pretese che reputava superflue ai domestici «Ha già abbastanza da fare senza che lo infastidisca oltre.»

«Sei davvero assurda. Non fossi così simile a tua madre, affermerei con certezza che sei stata adottata.»

«Spiacente per te, non posso comunque essere rispedita al mittente. Il tempo per i reclami è terminato: sono maggiorenne, ormai.»

«Ah, allora quando vuoi le sai far girare le rotelline che hai in testa.»

«Ha parlato quello che ha il criceto in letargo sulla ruota.»

Il battibecco ebbe a tal punto luogo ma, a differenza del loro ultimo screzio, tutto avvenne per puro divertimento. I due adoravano punzecchiarsi l’un l’altra e scoprire inediti modi per offendere l’avversario, senza però mai eccedere. Era il loro modo per mostrare affetto, qualcosa che molto difficilmente si sarebbe visto in altre famiglie dell’alta nobiltà. E Rufus Barma, per quanto detestasse ammetterlo, adorava sua figlia proprio per questo suo modo di fare irriverente. Lo stesso carattere che sua moglie si era augurata che avrebbe avuto la piccola una volta cresciuta.

«Oh, a proposito!» esclamò ad un tratto Sophie, frugando in una tasca interna del vestito, per poi estrarne un pacchettino «Buon compleanno, papà!»

I ricordi del loro ultimo incontro, prima che Sophie tornasse alla Lutwidge, attraversarono allora la mente del Duca.

 

 

Erano da poco trascorse le otto di sera e, con immenso sollievo del Duca, nessuna carrozza era stata preparata. Dato il modo con cui si erano separati, si aspettava di vedere da un momento all’altro la figura del mezzo allontanarsi, mentre lui poteva soltanto stare a guardare dal suo studio.

Un paio di ore prima, Reim era venuto a rassicurarlo sul fatto che Sophie non avesse alcuna intenzione di partire senza prima essersi chiarita con lui, ma questo non aveva affatto alleviato le sue ansie. La ragazza non si era presentata alla sua porta e, temeva, se non l’avesse fatto lui stesso tutto sarebbe rimasto in quel limbo fatto di parole non dette. Detestava litigare con sua figlia, ma alle volte gli sembrava l’unico modo per comunicare… sebbene in maniera erronea.

Stanco di quella staticità, decise di prendere in mano la situazione.

Si diresse verso la camera della giovane, non riuscendo tuttavia a preparare un discorso concreto e persuasivo. Le parole gli scivolavano dalla mente, come tempere gettate malamente su di una tela senza una vera logica, col risultato di creare un quadro che conteneva tutti i colori ma senza alcun significato. Bussò alla porta, arrendendosi dinanzi alla sua incapacità di rapportarsi degnamente con la figlia. Non ricevette risposta. Entrò ugualmente.

Le luci erano spente e, a quanto poteva vedere nella penombra, Sophie stava già riposando. O stava fingendo. Ricordava che, sin da quando aveva appreso a leggere, Sophie si divertiva ad andare a letto, solo per stare in piedi fino a tardi con un libro in mano. Non appena Rufus scorgeva un lieve bagliore provenire dalla soglia della sua camera, in poco tempo esso svaniva. La piccola spegneva infatti il lume nel momento esatto in cui udiva i passi del genitore avvicinarsi nel silenzio della loro tenuta, per coricarsi in fretta e furia, simulando un profondo sonno. Lui, d’altro canto, faceva finta di cascarci ogni volta.

Non aveva guardato ai suoi piedi quando era entrato, perciò decise di comportarsi come se la ragazza potesse ugualmente sentirlo. Lasciò l’uscio aperto, così che la luce dei candelabri potesse illuminare il suo tragitto sino al bordo del letto, ove si sedette. Sophie non mosse un muscolo, continuando a respirare serena.

«Non è vero che voglio che tu te ne vada.»

La sua stessa voce lo sorprese. Solitamente, Rufus Barma pensava ad ogni parola ed ogni parola era utilizzata con un preciso scopo. Con Sophie, ciononostante, quella padronanza di linguaggio pareva non avere alcun effetto. Lasciò dunque che, per una volta, fosse il suo cuore di genitore a parlare.

«La casa è terribilmente silenziosa quando tu non ci sei. Ma questo non mi dà minimamente pace. Anzi, lo detesto.»

Guardò tra le ombre della stanza, riconoscendo tanti piccoli oggetti famigliari: il corvo di stoffa che aveva regalato alla figlia da bambina, e che starnazzava ogni volta che gli si premeva il becco, stava poggiato sul letto, accanto a lei. Altri peluche si trovavano allineati sulla cassapanca che troneggiava contro il muro opposto. A Sophie erano sempre piaciuti gli animali di pezza e, una volta cresciuta, si era divertita ad imparare a fabbricarseli da sé. Mancavano tutti i disegni che da bambina sparpagliava lungo il pavimento, ma al loro posto le mensole si erano riempite di libri e conchiglie, ricordi delle loro gite al mare, quando Mary era ancora in vita. Quelle mura gli parlavano di una vita che sentiva non gli appartenesse più. E, se avesse continuato per quella via, avrebbe perso anche il futuro di Sophie.

«So di non essere un buon padre per te, ma vorrei che non mettessi mai in dubbio il fatto che ti amo e che voglio solo il meglio per te. Quando ho saputo che eri rimasta ferita ho perso la testa e ti ho detto cose che non avrei dovuto.» sospirò, portandosi una mano al volto «Mary avrebbe saputo che fare… probabilmente, saresti stata molto più felice se, al posto suo, fossi morto io.»

«Non è vero!»

Senza che potesse prevederlo, Sophie si era gettata tra le sue braccia: trovandosi nella parte opposta del letto dove giaceva, aveva potuto soltanto abbracciarlo da dietro ma, non appena il Duca si era reso conto del suo gesto, si era voltato, incredulo.

«Non è vero che sarei stata più contenta se fossi morto tu… io ti voglio bene, papà. Non dire queste cose!» singhiozzò la giovane, incapace di formulare delle frasi di senso compiuto, tanto era scossa «Mi dispiace, non odiarmi, non voglio che vai via.»

Finalmente, Rufus seppe che fare: cinse le sue braccia intorno alla figlia e ricambiò il suo abbraccio con tutta la forza di cui era capace. Era così felice, così sollevato di sapere che sua figlia non lo odiava. Per tutti quegli anni, si era portato il peso della morte della moglie come un costante macigno fatto di paragoni. Sua moglie era più legata a Sophie, più gentile, più aperta, più onesta e capace. Lui invece difficilmente riusciva ad aprire il suo cuore come quella notte, e allora sbraitava, si infuriava e diceva cose che non pensava. Il tutto, finendo per far soffrire la persona che per lui era più importante.

«Non vado da nessuna parte, sciocca di un’ochetta.» si sentì dire a un tratto, mentre carezzava la schiena della ragazza.

Quando Sophie piangeva, gli sembrava di vederla ancora bambina, piccola ed spaventata dal futuro. Saperla adulta e libera dal suo sguardo lo metteva in agitazione. Non voleva imporsi, ma cos’altro poteva fare per assicurarsi che lei fosse al sicuro?

«Non puoi.» la voce di Mary gli sussurrò all’orecchio, in un antico ricordo «I figli crescono e vivono la loro vita e, per quanto questo renda fiero un genitore, è anche una costante preoccupazione. Ma non possiamo sostituirci a loro: devi accettare che tua figlia cadrà e si farà male. Ed anche più di una volta. Probabilmente, spesso nemmeno lo saprai, ma Sophie è una bambina intelligente e sono certa che diventerà una donna in gamba. Devi soltanto concederle di sbagliare. E prometterle di essere sempre al suo fianco, quando avrà bisogno di suo padre. Questo puoi fare, Tanaceto.1»

«Posso rimanere a casa?» la voce rotta di Sophie si fece un sussurro, che tuttavia divenne più chiaro quando lei si scostò per guardare il padre in volto «Soltanto per stanotte?»

«Sciocca.» le aveva risposto Rufus, asciugandole il viso con una mano «Tu puoi rimanere quanto vuoi. Questa è casa tua e lo sarà sempre.»



1È il nome con cui Mary chiamava suo marito.

 

 

«Papà, che aspetti? Non lo apri?»

La voce trepidante di Sophie cozzò con quella dei suoi ricordi. Rufus annuì, scuotendo appena il capo. Sua moglie aveva ragione: pensava davvero troppo. In tal modo, si perdeva momenti importanti, come quello. Si concentrò allora sul pacchetto che stringeva tra le mani. La carta che lo avvolgeva era legata da uno spago e fu facile svelarne il contenuto. Ciò che fu difficile per Barma fu non commuoversi dinnanzi a ciò che vide. Sophie gli aveva donato una cornice, in semplice legno chiaro, con alcuni ghirigori nella parte superiore, al cui interno troneggiava una foto di loro tre insieme: lui, Mary e Sophie.

«Dove hai trovato questa foto?» domandò incredulo, poggiando una mano sul vetro contenente quel ricordo prezioso.

Sophie sorrise incerta, non comprendendo se il suo regalo fosse apprezzato.

«Ho chiesto una mano al signor Geoffrey. Non so dove conservi tutte le nostre fotografie, così mi sono fatta guidare da lui. Durante le vacanze invernali dell’anno scorso, mentre eri via per le riunioni a Pandora, ho cercato in lungo e in largo per il tuo studio e nella biblioteca. C’è un tale macello che non riuscivo a distinguere dove avessi già guardato e dove no! Però, dopo molte ricerche, ho trovato un album di fotografie. Credo che fosse della mamma, era sepolto dietro uno scaffale pieno di cianfrusaglie. E lì ho trovato quella foto… non… non dovevo?» il suo entusiasmo era andato sempre più scemando, fino a ridursi ad un sussurro incerto.

Si rese conto solo allora che, probabilmente, quel suo modo di fare fosse fuori luogo ed irrispettoso: aveva frugato tra oggetti che non la riguardavano, trafugando persino un album che non le apparteneva. Abbassò il capo, pronta a ricevere una strigliata e sentendosi una sciocca per essere stata tanto avventata. Tuttavia, suo padre non alzò la voce, né si alterò.

«No. Hai fatto bene.» mormorò a sua volta, contenendo a stento l’emozione «Era in un album? Ce l’hai ancora?»

«Oh… sì! L’ho portato in camera mia, vuoi vederlo?»

«Sì. Sì, mi farebbe piacere.» rispose l’uomo, gli occhi incatenati a quella memoria tanto lontana eppure cara come allora «Sophie.» la chiamò, mentre la ragazza si era già alzata e diretta alla porta «Ti ringrazio. Non potevi farmi regalo più bello.»

Sophie si permise finalmente di sorridere con gioia, senza più costrizioni.

«Di niente, papà. Ancora tanti auguri.»

 

 

«Le ho lasciato il tè sopra il comodino. Desidera altro, padroncina?»

«No Harriet, ti ringrazio. Puoi andare.»

Con un inchino lieve, la cameriera lasciò sola Christine. Erano ormai trascorsi diversi giorni da quando la festa per la santa Brigitte aveva avuto luogo, eppure questi pesavano come macigni nel petto della ragazza. Le sembrava trascorsa un’eternità da quando aveva udito la voce del fratello e la presa salda della mano di Leo nella sua. Non credeva di poter essere più felice. Invece, ora quella gioia appariva offuscata dal velo del rimorso.

Si domandò come stesse Elliot, quanto dovesse soffrire all’idea di non aver mantenuto la promessa di riportarla a casa senza farsi scoprire, e poi pensò a Leo. Sapere di essere la causa del suo ritiro dagli studi le mozzava il fiato ogni volta.

Sebbene sapesse che Leo appartenesse al gemello, non poteva fare a meno di provare un sincero amore nei suoi confronti, che tuttavia mascherava da amicizia. Gli voleva profondamente bene e non si sarebbe mai perdonata per avergli causato quel dolore.

Confetti squittì piano, attirando la sua attenzione.

Si frugò in tasca, alla ricerca di qualche seme che aveva rubato di soppiatto dalle cucine. Ci era scesa giusto una volta, per necessità dell’animale, più che per voglia, ma aveva fatto scorte a sufficienza per diversi giorni. Mentre nutriva il suo amico, Christine si osservò nel grande specchio del bagno privato, collegato alla sua stanza per mezzo di una porticina sulla parete ovest. Aveva un aspetto terribile: la sua pelle aveva perso colore, tranne che sotto gli occhi, dove l’accenno di due aloni violacei rubavano la scena ai suoi occhi ormai spenti.

Si portò le mani al viso, sospirando forte ma non piangendo.

Non avrebbe avuto senso farlo ancora.

Quanto vorrei non essere mai uscita di casa…” pensò con rammarico, per poi essere attraversata dall’immagine di Elliot e Leo che la tenevano per mano, mentre correvano lungo le vie del paese in festa “No.” si disse infine “Non è vero. Ed è proprio questo che mi fa stare male: so di aver sbagliato, ma non me ne pento.”

Rimase chiusa nel bagno per altri lunghi minuti, china sul criceto che le si avvicinava al viso, per annusarla e strusciarsi contro con il suo morbido pelo. Confetti era l’unica medicina che riuscisse in qualche modo a lenire il suo sordo dolore. Una volta ripresasi dal quel momento di sconforto, porse il palmo della mano all’animale che subito ci salì sopra. Tornò in stanza e, dopo essersi seduta sul letto per sorseggiare il suo tè, ormai tiepido, percepì qualcosa di diverso. Inizialmente non ci fece troppo caso, persa nei suoi familiari pensieri, ma in seguito il capo si chinò, come d’abitudine. Fu allora che lo vide: nel punto in cui si trovava la piastrella rotta, vi era un tappetino. Un piccolo ricamo di lana, di colore blu e decorato al centro dallo stemma di famiglia. Rimase sbigottita ad osservarlo per diverso tempo, credendosi pazza. Poggiò la tazzina sul comodino, facendola quasi cadere, mentre si avvicinava all’oggetto. Si chinò a terra, tendendo una mano incerta. Le pareva di sognare… chi poteva essere stato?

«Harriet?» chiamò, per poi portarsi una mano alla bocca.

Per qualche ragione, non volle interpellare la cameriera, sebbene volesse chiederle se sapesse qualcosa, se avesse visto chi era entrato in camera sua, durante la sua permanenza al bagno. Ma poi la sua mente andò precisa nell’unica direzione possibile. Harriet era stata congedata e, quasi certamente, si trovava in cucina da diverso tempo. Suo padre si trovava a Pandora, mentre la madre era tornata dal suo viaggio e si era nuovamente rinchiusa nelle sue stanze. Vanessa era fuori a caccia, come ogni venerdì pomeriggio. L’unico che restava…

Si alzò di scatto, precipitandosi verso il corridoio e poi subito in direzione dell’ala est. Non sapeva perché stesse correndo, ma sentiva che doveva sbrigarsi o avrebbe perso un’occasione preziosa. Arrivò alla porta di Vincent, in tempo per vederlo uscire, con tanto di cappotto.

«Oh.» disse sorpreso eppure pacato come al solito «Christine, che sorpresa. Il tuo confinamento è dunque terminato?»

«Tu… sei stato tu, non è vero?» domandò la ragazza, scossa da un lieve tremito.

Le mancava il fiato per la corsa improvvisa, ma respirò a fondo, per riacquistare un minimo di compostezza. La testa le pulsava lievemente.

«Sono stato io a fare cosa?» domandò divertito il fratello, mentre si chiudeva la porta alle spalle «Sei davvero strana, ultimamente… ma cosa?!»

D’istinto, Christine lo abbracciò, lasciando il ragazzo di stucco. Sapeva che a causa di questo suo gesto si sarebbe fatta odiare, ma non le importava. Era troppo felice di sapere che Vincent aveva pensato a lei, per preoccuparsi della sua collera per quel gesto d’affetto che lui tanto detestava.

«Grazie.» singhiozzò, facendosi scappare una singola lacrima di sollievo «Grazie di esserci per me, Vincent.»

Il biondo si guardò attorno, confuso. Non voleva questo. Doveva andarsene rapidamente, lasciando quella casa prima che qualcuno potesse sospettare un suo intervento nella faccenda. Soprattutto, non voleva essere ringraziato da Christine, non dopo il modo in cui l’aveva ignorata per tutto quel tempo. Forse, proprio per quel vago senso di colpa, le permise di rivolgergli quelle parole, prima di scostarla delicatamente.

«Se hai tutte queste energie, vedi di venirmi a preparare un tè, domani. Quelli che prepara Harriet sono disgustosi.»

«Sì, certo. Domani verrò di cer...»

La frase non venne mai terminata. La testa di Christine andò come oscurandosi improvvisamente, mentre le forze le abbandonavano le gambe. Disorientato, Vincent aveva chiamato il suo nome, mentre l’afferrava prima che potesse cadere a terra. Christine riuscì a tenere gli occhi aperti ancora qualche istante, senza tuttavia sentire nulla. Le sembrava di trovarsi in un sogno, il volto del fratello contratto dallo spavento mentre urlava, ancora e ancora, senza che lei potesse fare nulla.

Poi, fu tenebra e gelo.



Sophie raggiunse la sua stanza, ancora travolta dall’emozione. Non credeva che il padre sarebbe rimasto tanto contento del suo presente: magari adesso si sarebbero messi insieme a sfogliare quell’album pieno di ricordi che lei non conosceva.

Voleva chiedergli tante cose, conversare su un argomento che solitamente non sfioravano neppure, conoscere qualcosa di più riguardo sua madre, della sua vita quando era giovane ed anche di quella del padre.

Trepidante, raggiunse il comò e, aperto il primo cassetto, ne estrasse l’album incriminato. Lo carezzò con cura, prima di incamminarsi nuovamente verso lo studio.

D’un tratto, una scossa elettrica le attraversò le membra, facendola voltare verso la finestra: White Swan era tornato.

 

 

 

 

 

MEANDRO DELL’AUTRICE:



Carissimi lettori,

buonsalve e ben ritrovati.

Lo ben so: il 15 luglio è passato da parecchio. Ahimé, gli esami non sono stati il solo ostacolo che ha intralciato nella pubblicazione. Anzitutto ho avuto un po’ di problemi famigliari (tutti risolti, tranquilli) e in seguito ho avuto un po’ di questioni personali. In soldoni, mi era salita l’ansia.

Ah, la mia buon vecchia ansia da prestazione. Come non mi era mancata.

Insomma, sebbene sia conscia che la storia non stia riscuotendo grande successo (credo che mi seguirete in una trentina, ad essere generosi xD) per me è importante dare ai lettori il massimo. Che siano uno, cento o mille.

Tengo moltissimo a questa storia ed ai suoi personaggi e voglio davvero lasciare qualcosa di emozionante, che resti nella memoria di coloro che saranno tanto gentili da leggere queste mie righe. Perciò l’idea di aver tardato tanto mi ha impensierita e la mia autostima è inevitabilmente crollata. Fortunatamente sono circondata da persone splendide, che mi hanno immediatamente supportata e fatta tornare a galla.

L’ultimo problema, non certo per importanza, era la revisione.

Dei del cielo e della terra, che parto convincermi di questo incipit! xD

Vi giuro, le scene con Sophie non andavano mai bene.

MAI.

Avrò riletto il primo paragrafo qualcosa come mille volte, ma no, non andava. E una volta superato questo scoglio, mi sono resa conto di alcuni errori grossolani. Tipo che Sophie, essendo una nobile del 1700-1800, non poteva avere un armadio in camera con i vestiti, né poteva indossarli da sé. Quindi, MAGARI, serviva una cabina armadio ed una cameriera personale. Fu così che nacque Hermione, assolutamente “a caso” e soprattutto all’ultimo. Devo dire, però, che mi piace moltissimo il modo in cui l’ho caratterizzata: ha portato una ventata di divertimento nel grigiore del capitolo!

Parliamo ora di alcuni dettagliucoli del capitolo:

  • Harriet è ispirata ad una cameriera che compare realmente nel manga di PH. Quando Leo si risveglia a villa Nightray a seguito dell’attacco di Humpty Dumpty, si vedono due cameriere accorrere; Harriet è quella con la treccia nera. Ovviamente, mi sono ispirata unicamente all’aspetto fisico.

  • Il compleanno di Rufus Barma è il 1 Aprile, dunque potete farvi un’idea più chiara della temporalità degli eventi da adesso in poi (che comunque saranno ben scanditi da feste ed eventi vari).

  • Ho allungato la temporalità di diversi accadimenti da qui in avanti, altrimenti tutto si sarebbe svolto in maniera troppo celere e caotica. Ed al romance serve tempo per sbocciare (che poi, sboccerà o rimarrà nella mente bacata della mia OC? xD).

  • Nei capitoli precedenti ho modificato il titolo di Cassidy: da dottoressa a dottore. Questo perché, ragionando sempre sul periodo storico (sebbene alternativo al nostro) mi sono resa conto che non esistevano figure femminili nel ruolo di medici all’epoca. Perciò, a livello linguistico, non poteva esserci il corrispettivo femminile del mestiere. Si vede che sto facendo Lettere, neh? Sono diventata pignola. Più pignola.

  • Da diversi capitolo sto disseminando piccoli indizi ed elementi che potrete ritrovare in una mia raccolta sul passato delle due OC. Non appena sarà conclusa la pubblicazione di questa prima parte del filone centrale, “Memories of a childhood” verrà cancellata e ripubblicata ex novo (quella che vedete ora + infatti la vecchia versione). Alcuni capitoli resteranno per lo più invariati, ma intendo aggiungerne altri sulla vita di Christine Nightray e, naturalmente, di Sophie Barma. Stay tuned!

  • Quest’oggi non sarebbe dovuto uscire questo capitolo, ma il numero nove sul Tea Party. Questo perché la mia amica Aetheria_Nyx è particolarmente affezionata a quel capitolo del manga e, ora, della mia storia. Purtroppo a causa di diversi imprevisti non sono riuscita a mantenere la promessa fatta, ma mi auguro che possa ugualmente gradire questo pensiero. In fondo, tutta questa storia possiede una grande dedica al suo enorme aiuto e supporto, perciò so che apprezzerà ugualmente. E poi qui è pieno di angst e di scenette romantiche tra Elliot e Leo, due cose che lei (ed io) amiamo. Quindi, reputo ugualmente la missione compiuta.

Termino questo elenco puntato con il prossimo appuntamento. Sabato 12 agosto giungerà il capitolo sette: Down the rabbit hole - SABLIER - !

A presto,

Moni =)

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Capitolo 8
*** RETRACE: VII Down the rabbit hole - SABLIER - ***


RETRACE: VII Down the rabbit hole

- SABLIER -



«Come sarebbe a dire “non ci sono”? Dove sono andati di punto in bianco?»

Sophie Barma, tornata nelle vesti dell’informatore del suo casato, osservava Reim con un misto di incredulità e sgomento. Si era recata a Pandora da diverso tempo ormai, nella sede dislocata poco lontana dalle ville dei quattro grandi duchi, e nonostante le sue continue ricerche non v'era traccia né di Oz Vessalius né di Gilbert. Persino la piccola Alice sembrava sparita nel nulla. Preoccupata, la giovane si era diretta a spron battuto nell’ufficio di Reim: vuoto. Al limite di una crisi di nervi, il Duca suo padre, che l’aveva accompagnata per farsi ragguagliare sulla situazione, l’aveva allora condotta per una serie di corridoi. All’improvviso, in mezzo ad uno di essi, avevano trovato Reim, in evidente stato di shock ed intento a raccogliere con aria assente dei fogli sparsi a terra. Una volta fatto rinsavire, la giovane l’aveva subito torchiato per avere delucidazioni in merito, ricavando unicamente il medesimo responso. Proprio ora che White Swan era tornato con preziosissime informazioni riguardanti i Baskerville Oz, Gilbert ed Alice risultavano misteriosamente scomparsi. Barma si trovava alle spalle della figlia ed osservava con aria indifferente lo scambio di battute tra servitore e padrona.

«Ti giuro, non ne ho idea.» ripeté Reim, che appariva più sciupato del solito, quasi che la sua anima gli fosse stata estratta dal corpo con forza da un’entità maligna «Un momento prima erano qui e quello dopo...»

«Buon Dio, ma non ti stanchi mai della tua costante inettitudine, Reim?»

Il commento del Duca giunse senza preavviso, colpendo dritto nell’orgoglio il povero ragazzo che, paonazzo per l’onta subita, non poté far altro che chinare il capo. Si fosse trattato di quel pazzo di Break gli avrebbe risposto per le rime o, almeno, ci avrebbe provato, ma con Sua Grazia poteva limitarsi a scusarsi mestamente, come infatti fece.

«Papà, per l’amor del cielo, renditi utile almeno tu e taci, che così non aiuti!» lo rimbeccò la figlia, ormai dimentica del giorno speciale e delle promesse che si era fatta per quell’occasione.

Barma aprì il ventaglio con uno scatto seccato e celò il tic nervoso del suo occhio dietro il gingillo in metallo. Reim osservò sconsolato la Duchessina, pensando che, sebbene fosse venuta in suo soccorso, aveva altresì tacitamente infierito su di lui. Non gliene fece una colpa, essendo una dote di famiglia la lingua tagliente.

«Non hai davvero idea di dove possano essere?»

«No, glielo assi… oh.» il ragazzo ebbe un momento di assenza, dovuto alla comparsa nella sua mente di un frammento di conversazione avuto poc’anzi col giovane Vessalius «Possibile che… no, no, non può essere, Gilbert non glielo permetterebbe mai. A meno che...» cominciò a borbottare tra sé e sé, mentre si sistemava meccanicamente gli occhiali.

«Dove?! Reim, parla chiaro, dove pensi che siano? Lo devo sapere!»

Incalzato da Sophie, Reim si concesse soltanto pochi altri istanti di riflessione. Se davvero Oz ed i suoi compagni erano andati dove temeva, avrebbero avuto bisogno di rinforzi quanto prima.

«A Sablier.» disse infine, attirando così nuovamente l’attenzione del Duca e del servitore di casa Rainsworth che si celava dietro l’angolo, in attento ascolto dall’inizio di quella stramba conversazione «Sono andati a Sablier.»

 



Oz osservava distrattamente il paesaggio che scorreva dinnanzi ai suoi occhi. Era la prima volta che prendeva il treno. Non era mai stato troppo distante da casa e questo lo elettrizzava di una piacevole spensieratezza. Cercò di immergersi in quell’emozione, in modo da scacciare le nubi di ansia e timore che gli attanagliavano lo stomaco da quando avevano messo piede sul mezzo.

Dapprincipio, Gilbert apparve scorbutico e di pessimo umore come al solito e la presenza di Alice non migliorò di certo la situazione. Questo aveva rasserenato il Vessalius, sebbene per poco. La giovane non sembrava infatti pimpante come d’abitudine e, scaricata l’eccitazione per la stazione e le sue incantevoli gabbie in metallo, Alice parve come spegnersi. Salita in treno, si era accomodata placidamente al suo posto, inizialmente con occhi sognanti; non appena il mezzo era partito, si era però rinchiusa in un insolito silenzio. Anche Gilbert aveva seguito il suo esempio e, felice di non doverla più rincorrere in giro per la stazione, si era poggiato col gomito al finestrino, senza tuttavia soffermarsi su nulla di preciso.

Oz aveva assecondato quella quiete, maschera di sentimenti ben più cupi di cui non comprendeva l’origine. Il servitore si comportava in maniera ambigua da diversi giorni e in particolare da quando erano rincasati dalla festa di San Brigitte.

Qualcosa doveva averlo turbato.1

Non sopportando oltre quel silenzio, il biondo aveva preso a spiegare il motivo della sua decisione: se tutto aveva avuto un inizio a Sablier, evidentemente, era lì che dovevano dirigersi. Sebbene la sua fosse meramente una supposizione dettata dalla logica e da una strana sensazione di urgenza, quasi si trattasse di un presentimento: in quella città dimenticata avrebbero trovato delle risposte.

«Non sarebbe stato meglio aspettare Sophie ed il suo Chain?» domandò Gilbert, senza mai distogliere lo sguardo dal panorama che sbiadiva celermente dalla sua vista.

«Forse, ma… sono stufo di attendere.» mormorò Oz, facendosi coraggio «Sono certo che Sophie ci darà presto sue notizie, ma noi non possiamo restare sempre fermi ad attendere che qualcosa accada. Dobbiamo essere noi a fare la prima mossa, stavolta. Io ne ho bisogno.»

A quelle parole Gilbert si voltò a fissarlo. Il suo padroncino stava assumendo degli strani atteggiamenti che non gli aveva mai visto prima. L’intraprendenza era un suo tratto caratteristico, ma sempre e solo se legata a scorribande o giochetti infantili. Nella realtà era una persona calma e riflessiva, che preferiva attendere di vedere come si sarebbero mosse le acque prima di prendere il largo. Stavolta, con sua sorpresa, si era comportato invece da temerario capitano, che issava le vele a prescindere da quali sarebbero potute essere le condizioni del mare.

Questa consapevolezza turbò il Nightray, ancora scosso dalle parole che si era scambiato col fratello giorni or sono. Ciò che più di tutto l’aveva spaventato non era stato Vincent, ma ciò che lui stesso aveva pronunciato con cieca convinzione: non avrebbe esitato ad uccidere per il suo padrone. A prescindere da chi si trattasse. Quel ricordo lo perseguitava come un incubo.

Davvero sarebbe stato capace di un gesto tanto estremo?

Aveva ucciso in passato, le sue mani si erano macchiate di sangue innumerevoli volte per il suo casato, per Pandora, per Break, persino per se stesso. Ma mai al punto da dover ferire le persone che amava o che il suo padrone reputata care.

Puntò lo sguardo su Alice, seduta difronte a lui. Pareva un’altra ragazza, così seria e taciturna. Gli ricordava una persona che aveva già avuto modo di incontrare in passato, anche se non ricordava dove né quando.

Si portò una mano alla fronte avvertendo una fitta dolorosa e lenta, come una lama che affondava nel suo cervello, rimanendovi crudelmente conficcata. Gli faceva male e lo faceva sentire strano. Avrebbe fatto di tutto pur di farla smettere.

Fortunatamente, il viaggio verso Sablier non durò a lungo e l’aria fresca gli fece bene, fintanto che non presero una carrozza. Quello spazio angusto rammentò al suo corpo la morsa che lo aveva avvolto sul vagone, ottenebrandogli i sensi e la ragione. Una volta giunti a destinazione, i suoi occhi visualizzarono ciò che lo circondava, provocandogli un nodo in gola: la desolazione e l’indigenza regnavano sovrane nell’ex capitale del Paese. Non avrebbero trovato altro che mostri e demoni del passato ad attenderli, ciononostante la sicurezza di Oz gli fece da guida e così si diresse a passo sicuro verso un venditore per comprare dei mantelli con cui coprirsi. I loro abiti avrebbero dato troppo nell’occhio, attirando tagliagole e banditi, che infestavano l’area esattamente come prostitute e ratti. Oltretutto, dovevano fare attenzione al gas tossico che, come riferivano i rapporti di Pandora, infestava l’area attorno alla voragine. Non sarebbe stata cosa facile aggirare i controlli dell’organizzazione.

Più si addentravano nei meandri della cittadella e meno Gilbert si sentiva tranquillo. Avrebbe voluto abbandonare quel luogo seduta stante, facendo dietrofront anche a costo di trascinare Oz ed Alice. Quella sensazione di disagio che gli attorcigliava lo stomaco non gli dava tregua, esattamente come il pungente mal di testa che, persistente più di un ronzio, aveva preso ad acuirsi non appena aveva messo piede nella baraccopoli. Nonostante tutto, riuscì a trovare la lucidità necessaria per dirigersi con i due compagni verso la zona più centrale, quella svanita nell’oscurità della terribile calamità ultra-dimensionale che l’aveva colpita un secolo addietro. Mentre disquisivano sull’interpellare o meno Pandora, utilizzando i loro titoli per passare nell’area sorvegliata, Oz si allontanò improvvisamente dai suoi compagni. Rimasti soli, Alice ne approfittò per conversare con Raven di una questione per lei della massima importanza: il destino di Oz e quello del potere del B-Rabbit che, lentamente, stava svanendo dentro di lei.

La domanda che la perseguitava era infatti: «Che ne sarà di me?»

Fu allora che le fitte di Gilbert divennero insostenibili.

Perché, perché doveva sopportare tutto questo?

Alice era un ostacolo, di più, un pericolo per il suo padrone. Era una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e l’unico modo per salvare Oz dal suo destino di contraente illegale era eliminarla. Non era nulla di complicato, nulla che non avesse già fatto. Uccidere e sporcarsi le mani del sangue altrui era prerogativa del suo casato, del destino che aveva scelto di percorrere.

Allora perché esitava?

«Hai forse perso la capacità di ucciderla, Gil?»

No, non è vero.” pensava il giovane Nightray È solo…”

«Non dirmi che adesso la consideri una compagna?»

No, no, smettila! Io… !”

Le crepe che cingevano i piedi di Alice, assorta nel suo discorso, cominciarono ad estendersi come tentacoli. Sarebbe bastato allungare una mano e tutto sarebbe finito: Alice sarebbe svanita per sempre, inghiottita dal mare oscuro di Sablier. Esattamente come era accaduto in passato. Perché lei non apparteneva a quel mondo, era una bambina non voluta, che portava soltanto disgrazie. Il mal di testa, la paura, il dolore…. bastava così poco per far cessare tutto. Doveva soltanto…

«Ehi, fratellone...»

La voce suadente di Vincent lo raggiunse ancora, mentre afferrava appena in tempo la ragazza per trarla in salvo da morte certa.

«Perché non la uccidi?»

«Waaaaa, Gilbert! Alice! State bene?!»

Oz comparve in quel mentre, precipitandosi verso di loro. Gilbert stringeva Alice tra le braccia, saldamente. Ma questo non era vero. Non era quello che voleva fare, non fino a pochi istanti prima. Lei lo osservò inebetita, intanto che Gilbert si drizzava in piedi redarguendola per la sua imprudenza.

«Stupido coniglio!» gridò infatti, lasciando che l’ira prendesse il posto della desolante oscurità che lo attanagliava nel profondo «Sempre con la testa tra le nuvole! Quando ti accorgi delle crepe, scappa!»

Un’altra voce si aggiunse, chiamando il ragazzo con acuta preoccupazione.

«Gilbert, tutto a posto?! Non siete feriti, vero?»

Si voltò ed i suoi occhi dorati visualizzarono una figura, comparsa come dal nulla: Sophie Barma. Indossava l’uniforme di Pandora, celata dal suo immancabile mantello bianco come neve, che produceva uno strano contrasto con l’oscurità di quel luogo. Non le rispose subito, non riuscendo a collegare i pensieri alla lingua.

«Cosa ci fai tu qui?» domandò disorientato, non riuscendo più a distinguere le voci nella sua testa dalla realtà che lo circondava.

La sua mente era talmente confusa da domandarsi se non si trovasse in un brutto sogno, dal quale presto si sarebbe svegliato. Oz sarebbe stato al suo fianco, senza aver mai dovuto patire le pene dell’Abisso, lo stupido coniglio non sarebbe nemmeno esistito e lui sarebbe stato semplicemente Gil, l’insignificante servitore del casato Vessalius. Ogni cosa sarebbe andata al suo giusto posto.

Invece, Sophie lo riportò alla realtà.

«Ero venuta a cercarvi: White Swan è finalmente tornato, ma voi non eravate più a Pandora! Perché diavolo siete venuti a Sablier?» domandò concitatamente, riprendendo infine fiato nel constatare che entrambi i compagni stavano bene.

«Ah, è stata una mia idea.» si intromise Oz, mentre osservava Alice con apprensione alla ricerca di eventuali ferite «Ho pensato che, se non volevamo starcene con le mani in mano, forse avremmo dovuto cominciare a cercare dalle origini, perciò… aaaah! Alice! Le tue mani sanguinano!»

«Non è nulla, basta leccare e smette.» replicò pacifica la Chain, mentre eseguiva quanto appena detto; con sguardo attento, si rivolse dunque a Raven «Mi hai salvata.»

Quelle parole colpirono il Nightray come un proiettile.

«Per pura formalità… ti ringrazio.» concluse lei col suo fare irriverente ed al tempo stesso infantile.

Lui parve non udirla.

Si allontanò, dapprima lentamente, fino a ché il suo passo si fece più spedito. I compagni lo chiamarono inutilmente, poiché non si voltò indietro. Oz precedette il braccio teso di Sophie, che si era teso per afferrare il ragazzo, e corse dietro all’amico. Le due ragazze rimasero così sole, imbambolate come due sciocche.

«Ma che… ?» borbottò confusa Sophie, fissando il vuoto formatosi davanti a sé.

Alice parve non curarsene troppo e, intanto che si medicava i suoi taglietti, le rivolse parole sfrontate, che nella sua mente dovevano suonare rassicuranti.

«Fanno sempre a quel modo, quei due. Oramai non ci faccio nemmeno più caso, tanto poi tornano.»

Sophie non parve persuasa. Non le era piaciuta l’espressione che aveva letto in volto a Gilbert. Non l’aveva mai visto tanto confuso ed affranto, sembrava… terrorizzato? Ma per quale motivo?

Si guardò la mano, ancora aperta nell’atto vano di fermarlo.

Non era stata capace di compiere nemmeno quel piccolo gesto. Oz, invece, era subito partito alla carica, inseguendolo senza alcuna esitazione. A confronto, lei era davvero cosa di poco conto per Gilbert.

«Ehi, ragazzo-femmina, tutto a posto? Vuoi un morso?»

«Eh?!»

La domanda totalmente fuori luogo di Alice la distrasse dai suoi pensieri. Osservò la Chain, quella bellissima bambina che pareva una bambola. Pelle candida adornata da folti capelli castano scuro ed occhi di un brillante viola. Persino conciata a quel modo, con quegli abiti stravaganti celati da un cencioso mantello, Sophie riuscì a percepire la grazia di quel corpo. Peccato solo che dalla sua bocca fuoriuscissero unicamente scurrilità. Le ricordò vagamente Cassidy e, per un istante, dimenticò tutte le precauzioni che il padre e la ragione le avevano messo in testa nei riguardi di quella creatura, che di umano aveva soltanto l’aspetto.

«Perché dovresti mordermi?» domandò infine Barma, sinceramente incuriosita.

«La sorellona Sharon mi ha detto che, quando una persona è giù, se la si morde ritorna su.»

«Io… non credo ti abbia detto questo.» borbottò Sophie, cercando di figurarsi la nipote della sua adorata zia acquisita pronunciare simili massime.

«Beh, allora andiamo?» domandò Alice, ignorandola completamente «Quegli sciocchi sono perduti se non ci sono io a guidarli.»

La spavalderia con cui pronunciò quella frase fece ridere Sophie. Si sentì una sciocca per essersi fatta prendere dall’angoscia e dall’insicurezza. Era vero, lei non rappresentava ancora nulla per Gilbert, ma questo non l’autorizzava a piangersi addosso. Doveva invece rimboccarsi le maniche e fare in modo di diventare il suo sostegno, se davvero voleva essergli d’aiuto e sperare, un giorno, di raggiungere il suo cuore. Si diede due schiaffi sulla faccia, come a voler scacciare i residui di un incubo.

«Hai ragione! Andiamo da quei due tonti!» esclamò tronfia, mentre Alice la seguiva.

Mh, questo tizio-femmina comincia a non dispiacermi troppo!” pensò con leggerezza la Chain, felice di avere un altro compagno in quella sua strana avventura.

Dopo alcuni minuti di ricerche, un vociare concitato fece comprendere a Sophie che i due ragazzi non potevano essere troppo distanti: Oz stava infatti cercando di fermare un losco figuro che, a quanto pareva, lo aveva appena derubato dei suoi averi. Dall’aspetto sembrava un bambino, il che rendeva quella scena ancor più assurda. Rassegnata a non poter comprendere l’abilità con cui quei ragazzi si cacciassero nei guai, Barma fece per mettersi all’opera e porre fine a quell’ennesimo inseguimento, quando le parole del Vessalius colpirono l’attenzione della Chain.

«Alice, acchiappa quel bambino! Senza quel portafoglio… non potrai più mangiare carne!»

La magia avvenne: Alice, che dapprima appariva svogliata e poco interessata, parve come accendersi di un fuoco vivo. Sfoderò un calcio poderoso che fece spaventare persino la nobile e, al delicato grido di “TI AMMAZZO!”, bloccò le vie di fuga al ladro. Oz poté quindi catturarlo, ma i due sbraitavano tanto da aver attirato l’attenzione di diversi sfollati del luogo. Preoccupata, Sophie fece nuovamente per intervenire, ma un altro colpo di scena avvenne sotto i suoi occhi: quel bambino altri non era che Philip West, il figlio del contraente del Grim. L’uomo era stato ucciso solo pochi mesi addietro dal fratello di Gilbert, nel tentativo di arrestarlo, e del bambino non si era saputo più nulla.

Cosa diavolo ci fa qui?” si domandarono all’unisono Oz e Gilbert, giunto anch’egli in quel mentre facendosi largo tra la folla.

La fiera delle stravaganze pareva non aver raggiunto il suo apice. Un altro personaggio fece allora il suo ingresso con chiassosa solennità, seguito a rotta di collo dal suo fedele servitore.

«Ehi! Cos’è questo trambusto?!» gracchiò Elliot Nightray, ritrovandosi difronte il figlio del duca Vessalius che appariva visibilmente felice di quell’incontro.

«Ah… Elliot!» lo invocò con gioia fanciullesca.

Ovviamente, il minore del casato rivale mostrò la propria felicità sfoderando la spada e rischiando pericolosamente di colpire il nobile.

«Che ci fai tu QUI?!»

L’urlo belluino spaventò i presenti, che tuttavia non avevano ancora visto nulla. Si palesò infatti Gilbert, intimando al fratello di rifoderare l’arma e di calmarsi. In tutta risposta, egli urlò il suo sconcerto nel trovare in quel luogo desolato il maggiore, ormai dato per disperso. Non sapendo più che fare Sophie, timidamente, fece capolino dalle spalle di Gilbert, salutando il compagno con la mano.

«Ehilà, Elliot.» fece inizialmente titubante, non riuscendo a stare dietro a tutti quegli accadimenti; cionondimeno, la sua lingua tagliente ritrovò presto la sagacia che la caratterizzava «Di buon umore come sempre, vedo.»

«Che ci fai anche tu qui?!»

«Basta.»

Il semplice comando di Leo sortì l’effetto desiderato, poiché accompagnato da un gentile manrovescio sul cranio di Elliot che, finalmente, si chetò. Dopo aver mostrato il suo piacere nel rivedere sia Oz che Caleb, stringendo ad entrambi la mano, Leo si fece serio e suggerì a tutti di non proferire ad alta voce i rispettivi cognomi. Avevano attirato sin troppi sguardi e non era il caso di peggiorare oltre la situazione. Fu così che i presenti vennero invitati in un luogo più congeniale per conversare.

Si trattava di un istituto costruito e gestito dalla famiglia Nightray, per gli orfani causati dall’operato dei contraenti illegali: la Casa di Fianna, l’Angelo Bianco. Una costruzione in semplice mattone rosso, piuttosto ordinaria eppure insolita rispetto agli altri edifici in macerie che abbracciavano quel luogo. L’ingresso ricordava quello di una chiesa, con un enorme rosone al centro che illuminava la pavimentazione di riflessi arcobaleno. L’interno era pulito e sobrio, donando una sensazione di tranquillità che cozzava con l’esterno. Sophie fu felice di poter respirare aria pulita e di tornare a vedere volti sorridenti: i bambini all’interno sembravano davvero allegri e spensierati. Fu un sollievo, dato che sentiva spesso parlare delle condizioni miserabili in cui certi orfanotrofi vertevano, stando in piedi per miracolo o non avendo nemmeno cibo a sufficienza per sfamare tutti i residenti.

Intanto che Elliot spiegava loro la funzione di quella casa, Sophie poté osservare nuovamente Gilbert, che appariva molto più padrone di sé. Evidentemente, Oz doveva avergli detto qualcosa che aveva in parte placato il suo animo. Si sentiva in dovere di dire qualcosa, ma non si trovava né nel luogo né nel momento adatto. Si torse le dita agitata, convincendosi a pazientare. Ci sarebbero state altre occasioni.

«Oh, nobile Elliot!» lo salutò una vecchietta vestita da suora con al seguito diversi bambini. «Se mi avesse avvisata avrei mandato qualcuno a prenderla.»

«Non è necessario, signora Finn.» le rispose pacato Elliot, facendosi ad un tratto guardingo «Sono venuto a Sablier chiamato da mio padre… non ho intenzione di fermarmi a lungo.»

Gilbert si fece attento: per quale ragione il duca Nightray aveva convocato in quel luogo il minore dei figli? Non ne vedeva il motivo, a meno che…

«Elliot, per caso Christine è stata ancora male?»

Elliot lo fulminò con lo sguardo.

«E da quando la cosa ti interessa?» domandò acido, mentre un enorme punto interrogativo si dipanava sul volto di Oz, che venne proprio in quel momento assalito da un paio di bambini.

In verità, tutti i presenti si ritrovarono circondati da creaturine festanti e su di giri per l’arrivo di quegli sconosciuti che, ai loro occhi ingenui, apparivano come nuovi compagni di gioco. Due in particolare si rivolsero ad Oz con confidenza, chiamandolo “il bel signore biondo”. Sorpresa da quel loro modo di fare, la suora domandò al giovane se fossero sue conoscenze ed egli, con disarmante beatitudine, si presentò come Oz Vessalius. Subito, Elliot intervenne per evitare il peggio. Dopo averlo inutilmente intimato di tacere, il Nightray prese a trascinarlo via.

«Vedi di stare un po’ zitto, tappo! Questo non è il luogo adatto in cui conversare.»

«Tappo? Mi hai davvero chiamato tappo?!» protestò mentre gli altri, ad eccezione di Leo con in braccio il piccolo Philip, li seguivano a disagio.

Non appena l’ultimo di loro entrò nella stanza, un piccolo salotto con due divani frontali, divisi da un tavolino per il tè e pochi altri mobili spaiati, Elliot chiuse la porta, premurandosi di avvertire la servitù di non disturbarli. Con sguardo torvo si rivolse ad Oz.

«Ma sei scemo?!» cominciò pacato, regolando in seguito il volume della voce «Ti ho appena detto che questo è un istituto della famiglia Nightray e tu tiri fuori il tuo nome come se nulla fosse, assurdo!»

In tutta risposta, il Vessalius prese a brillare di luce propria per la contentezza.

«Ah, ti sei preoccupato per me! Che brava persona.»

«Ti sto dicendo di non causarmi casini, cretino!»

Il dialogo proseguì in modo imbarazzante per diverso tempo e la conclusione di tutto fu una semplice constatazione da parte di Leo che, se possibile, lasciò Elliot ancor più schifato ed in impaccio di quanto già le parole lusinghiere del Vessalius non avessero fatto.

«Sembra che si sia affezionato a te!» proruppe infatti divertito, nel notare il disorientamento del padrone, che non riusciva a riconoscere quella persona tanto solare, totalmente diversa dal ragazzo che avevano conosciuto a Lutwidge.

«Perché?!» domandò esasperato Elliot, non sopportando oltre quella situazione.

«Beh, sarà perché sei gentile, no?» suggerì Leo, che venne subito corretto dal diretto interessato.

«Io non lo sono affatto!»

«Confermo.» convenne Caleb, intrufolandosi senza troppe cerimonie «Sebbene tu sia talmente scemo da non accorgertene.»

«Caleb Bauer!» lo apostrofò il Nightray, puntandogli un dito accusatore contro «Perché continuo ad incontrarti?»

«Giuro, appena torniamo a scuola ti metto talmente tanti punti di demerito a caso sulla tua ricerca, che ti farò sanguinare gli occhi per la disperazione.»

«E smettila di approfittarti della tua posizione per minacciarmi!»

«Minacciarti? Io mi limito ad informarti dei miei futuri propositi, carissimo compagno di studi.»

«Sei più falso di Giuda!»

«Ehm… ma quindi voi due vi conoscete?» domandò spaesato Oz, sentendosi improvvisamente tagliato fuori dalla conversazione.

«Sono il suo tutore per quest’anno: devo correggere il suo elaborato finale, uhuh.»

«Ehi, cosa significa quella risata inquietante?»

«Ma niente, carissimo compagno.»

«Elliot, non so te, ma io comincerei a tacere. Così, per precauzione.»

Il suggerimento di Leo non piacque al padrone, che anzi accese un’improvvisata lite tra lui e Caleb, nella quale gli astanti poterono notare quanta confidenza ci fosse tra quei due allievi della Lutwidge. Appariva infatti evidente che quel genere di scontri fosse all’ordine del giorno e che entrambi i litigiosi traessero piacere da quel dibattere tanto acceso.

Ad un tratto, la porta della stanza si aprì cautamente.

«Chi va là?!» urlò irritato Elliot, sia per la situazione vergognosa in cui si trovava, sia per essere stato disobbedito: aveva espressamente chiesto di non essere disturbato da alcuno solo pochi minuti prima.

Sulla soglia comparve Christine, titubante e vestita di una semplice camicia da notte, che faceva capolino tra le pieghe della vestaglia cremisi che la rivestiva fino alla punta dei piedi nudi. I capelli erano sciolti e spettinati, come se si fosse da poco alzata dal letto e si fosse precipitata in quel luogo. Appariva più circospetta del solito, tant’è che nemmeno riprese il fratello per il suo esprimersi in modo tanto scortese. Si scusò anzi, facendosi ancora più piccola. Era la prima volta che lo rivedeva dalla festa dell’Angelo Azzurro e temeva di non essere ben voluta, date le severe punizioni che erano state imposte ad Elliot e Leo a causa sua.

«Ah… scusami, Elly, ma ho sentito che eri arrivato e così… ma! Gilbert!» urlò senza preavviso la giovane, illuminandosi e facendo una corsetta nella sua direzione «Ci sei anche tu, che bella sorpresa!»

Nella foga di quella gioia inattesa inciampò sui suoi stessi passi, dimostrando quanto in realtà fosse stremata. Subito, Elliot fece per prenderla, ma Gilbert arrivò per primo, essendo il più vicino. La ragazza, dapprima colta da un lieve capogiro, ridacchiò imbarazzata, stringendosi al fratello, quasi temesse che potesse svanire da un momento all’altro.

«Scusate, che svampita. Non sto nemmeno in piedi, eheheh.»

«Eheheh, un corno!» la rimproverò Gilbert, mentre l’aiutava a sorreggersi, dato che le gambe parevano non obbedirle «Devi stare più attenta e se fossi caduta?»

«Ma tu mi hai presa.» rispose con semplicità Christine, guardandolo negli occhi «Mi sei mancato tantissimo!»

«Anche tu mi sei mancata… ma non è questo il punto!»

Gilbert arrossì fino alla punta dei ricci, lusingato dal fatto che la sorella avesse fatto quella dichiarazione ad alta voce senza la benché minima esitazione. Era sempre stata una persona schietta ma, a differenza di Elliot, i suoi modi gentili riuscivano a catturare chiunque, portando le persone a darle naturalmente ragione. Sotto quell’aspetto assomigliava a Vincent, sebbene in maniera meno subdola. Christine non era tipo da sfruttare questa sua dote per i suoi scopi personali… solitamente. Mentre la mente veloce del Nightray elaborava quei pensieri fugaci, avvertì la stretta della ragazza farsi più forte, quasi si trattasse di uno spasmo doloroso.

«Gil, scusami, ma mi sento le gambe molli… e mi fa anche male la testa. Potresti per cortesia non urlare?» mormorò esausta, mentre veniva subito fatta sedere.

Leo le si fece vicino, dopo aver posato su di una poltroncina Philip che, preoccupato, domandava come stesse la signorina gentile. Andò deciso ad un grosso cassone che occupava gran parte della parete alle loro spalle e vi estrasse una coperta che, dolcemente, posò in grembo alla ragazza. Sebbene avesse provato l’istintivo desiderio di sedervisi accanto, lasciò il posto libero ad Elliot che, ancora ferito dal fatto di essere stato battuto sul tempo dal fratello, guardò in tralice Gilbert, prima di concentrarsi sulla gemella.

«Chris, saresti dovuta restare a letto, testona!» la redarguì, mentre le poggiava una mano sulla fronte per sentire se avesse la febbre.

Era fredda come il marmo e la pelle era traslucida, adornata da un lieve velo di sudore. La ragazza, tuttavia, scosse una mano con fare incurante.

«Ma scusa, tu non arrivavi più e così sono venuta io. Piuttosto.» fece ad un tratto, conscia solo in quel frangente della presenza degli altri «Loro chi sono?» domandò preoccupata, portandosi istintivamente le braccia a coprirsi il petto con la coperta, trovandosi in abiti non consoni.

Non credeva di incontrare nessuno all’infuori del gemello e di Leo, per questo si era permessa, come suo solito, di girovagare in camicia da notte per l’edificio. Quando stava male, veniva trasferita al più presto all’istituto di Fianna, per poter eseguire dei controlli medici più accurati. Il suo medico personale si era infatti trasferito lì da diversi anni, volendo occuparsi dei bambini che vi soggiornavano. Perciò il padre, che non voleva sostituire un dottore tanto esperto nei riguardi della figlia, era costretto a condurvela ogni qualvolta ne avesse la necessità.

Dal giorno prima non si sentiva bene, al punto da essere svenuta nel bel mezzo di un dialogo con Vincent. Aveva subito un primo soccorso in casa, ma viste le sue condizioni era stata fatta ricoverare lì, nella solita stanza che ormai le apparteneva come la sua cameretta a Villa Nightray. Elliot era sempre il primo a sopraggiungere quando capitavano questo genere di episodi, per questo era venuta a cercarlo, nonostante la debolezza ed il mal di testa che le confondevano le idee.

Certo.” pensò distrattamente “Se Elliot era chiuso nel soggiorno, era chiaro che avesse ospiti, che mi è saltato in mente?”

«Ah, loro...» cominciò Elliot, per essere subito interrotto da Oz.

«Mi permetta di presentarmi: sono Oz Vessalius, amico intimo del qui presente Elliot Nightray. Le chiedo perdono per la scortesia con cui mi rivolgo a lei, ma posso chiederle come si chiama, dolce fanciulla?»

Il biondo le si rivolse con fare civettuolo, estraendo da un vaso posto lì vicino una rosa cremisi, che le porse con occhi sognanti. Nonostante si fosse trovato nella posizione del fratello maggiore geloso soltanto pochi giorni addietro, non sospettava minimamente di rischiare la decapitazione da parte di Elliot che, tra l’altro, borbottò irato che non erano affatto amici, né tantomeno intimi.

Christine parve sorpresa, ma si lasciò volentieri trascinare da quel ragazzo simpatico e sopra le righe. In fondo, se il gemello si comportava in modo tanto irriverente e schietto, doveva per forza trattarsi di un amico. Accettò dunque la rosa, pronta a destreggiarsi in una risposta sagace, quando collegò il nome appena udito ad un’antica memoria.

«Christine Nightray, piacere mio.» rispose infatti educata la giovane, per poi aggiungere ad occhi sgranati «È per caso il padroncino di Gilbert?»

Christine avvertì le lacrime pizzicarla per la gioia. Non conosceva di persona la famiglia Vessalius e, sebbene il suo primo istinto sarebbe dovuto essere quello di farsi guardinga, non poté evitare di pensare a tutti quegli anni in cui aveva scorto Gilbert triste e malinconico, al pensiero della sua vita passata. Non conosceva i dettagli, se non quelli che le erano stati raccontati, ovvero che Oz, primogenito dell'allora Duca, era deceduto a seguito di un attentato durante la sua cerimonia della maggiore età. Eppure, sapeva che Gilbert lo cercava incessantemente, lo avvertiva chiaramente dal modo sporadico in cui parlava di lui, come fosse prigioniero da qualche parte e non prematuramente spirato.

«L’hai ritrovato?» mormorò appena, troppo stordita da quel sentimento per trovare la voce.

«Piano.» le disse Elliot, scuotendola da quei pensieri «Non ho ancora decretato se questo tappo sia davvero Oz Vessalius.»

«Ehi, questo non è carino! Io sarei qui!» protestò il biondo, mentre Christine tornava a fissare Gilbert.

Il giovane le sorrise, facendole comprendere che non sbagliava: era lui. Era tornato.

«Ehm, visto che siamo in tema di presentazioni, piacere di conoscerla lady Christine: mi chiamo Caleb Bauer e… » Sophie osservò la Chain, notando il suo totale disinteresse per la nuova arrivata, perciò si premurò di aggiungere a nome suo «Alice, una nostra amica. Sono sorpresa… Elliot, non credevo che tua sorella fosse tanto graziosa.»

Il suddetto giovane, compiaciuto, per un istante dimenticò i suoi intenti omicidi, tant’è che sorrise gonfio di orgoglio. Finché la lingua di Sophie colpì, seguita a rotta di collo dalla micidiale innocenza di Oz.

«Non vi assomigliate per niente.» dissero in coro, come due voci bianche.

«Fuori! Tutti quanti!»

«Non essere scortese.» lo redarguì la sorella, che si soffermò sul servitore di casa Barma con vivo interesse «Sa, signor Caleb, Elly mi parla tantissimo di lei nelle sue lettere: è un vero piacere conoscere il collega che mio fratello stima tanto!»

A quelle parole Elliot prese fuoco per la vergogna, mentre i presenti lo fissarono con fare interrogativo ed al contempo divertito.

«Davvero?»

«Giuro.»

«Confermo!»

«Tu taci, Leo!»

Quel rapidissimo scambio di battute lasciò Elliot senza fiato, mentre il resto dei presenti scoppiò a ridere. Il Nightray avrebbe volentieri sbattuto fuori da quella stanza tutti quanti, Leo compreso, non fosse che il sorriso di Christine lo fece desistere. Era talmente preoccupato per le sue condizioni di salute, che non credeva possibile di vederla già così serena e di buon umore. Volendo prolungare quel momento di tranquillità, disse ciò che meno voleva proferire ad alta voce.

«Visto che sei tanto euforica all’idea di parlare con questo tizio, perché non fate due chiacchiere mentre io me la vedo col tappo e gli altri?»

«Che?!» proruppe Oz, indignato «Perché solo Caleb? Non è giusto!»

«Non offenderti, Elliot, ma non riesco a capirti nemmeno io. Non che sia una novità, eh.» confessò Sophie, che in realtà voleva togliersi dalla scomoda situazione in cui si trovava, frapposta tra il compagno di studi ed i suoi committenti.

Tuttavia, le condizioni di salute di Christine le ricordarono quelle della madre di Cassidy, la domestica che per anni aveva fedelmente servito il suo casato. Spesso debole e cerea, specialmente nell’ultimo periodo di servizio, il suo declino era stato lento quanto inarrestabile. Si scosse di dosso quei pensieri infausti, non volendo fare paragoni infelici. Sicuramente una ragazza giovane come Christine non poteva avere nulla di grave. Lo meditò con intensità, per il bene di Elliot e Gilbert.

Sospirò, prendendo il posto del compagno.

«Massì, sparliamo un poco di suo fratello: chi comincia, lei od io?»

Gli occhi di Christine si illuminarono, mentre il gemello si pentì della sua decisione: aveva finito per piazzare vicino due mine vaganti, la cui detonazione sarebbe stata pressoché immediata. Prima che potesse intervenire per rimediare al suo errore, Leo lo trascinò sull’altro divanetto, di modo che nel frattempo potessero conversare con il resto del gruppo.

«Allora.» cominciò Christine, tesa eppure emozionata all’idea di poter confrontarsi con qualcuno di diverso dai suoi famigliari «Che tipo è Elly a scuola?»

«Beh, Elly.» sottolineò con cura Sophie, gustandosi il guizzo delle orecchie di Elliot che, invano, tentava di ignorarle «È precisamente come lo vede: parla un sacco, non si fa mai gli affari suoi ed è oltremodo inopportuno.»

«Ehi!»

«Come volevasi dimostrare.»

«Dev’essere divertente studiare in una scuola!» esclamò la mora, stringendosi nella coperta che lentamente la stava scaldando «E Leo, invece? Come se la cava?»

La domanda colse impreparata Sophie. Non essendo nella stessa classe dei compagni, pensava che informazioni simili fossero già in possesso della Nightray. Sapeva infatti che teneva una costante corrispondenza sia con Elliot che con Gilbert ma, ora che ci faceva caso, ricordava di aver visto Elliot particolarmente giù di corda negli ultimi giorni. Di Leo, invece, non aveva avuto notizie. L’aveva visto un paio di volte nelle cucine, luogo per lui inusuale, mentre il padrone percorreva i corridoi in solitudine. Non ci aveva dato troppo peso, presa com’era con le sue indagini, eppure quelli erano i chiari segnali di un cambiamento che aveva investito i due.

«Per caso.» domandò titubante Sophie, abbassando la voce, nonostante Elliot e Leo fossero ormai presi dal dibattito con Oz «Sa se è successo qualcosa? Si comportavano in modo strano ultimamente, ora che me lo fa notare.»

«Io...» mormorò Christine, abbassando lo sguardo e perdendo il poco colore che aveva riguadagnato «Credo di esserne la causa. Spero solo...» si interruppe, non volendo terminare ciò che il suo cuore le sussurrava crudelmente da giorni.

Se il fratello o Leo avessero cominciato ad odiarla, non lo avrebbe sopportato.

Sophie colse al volo il turbamento della giovane, riconoscendo quel sentimento che spesso la attanagliava la notte. Incubi in cui si sentiva inseguita da una presenza maligna, che le sussurrava quanto fosse inadeguata e inutile. Il litigio che aveva avuto con il padre poco tempo addietro non l’aveva certo aiutata a sentirsi meno colpevole. Rimembra di quanto la presenza di Reim avesse alleviato le sue pene, tentò di andare in soccorso di quella ragazzina fragile come una goccia di cristallo.

«Lady Christine, io non la conosco, perciò non voglio suonare presuntuoso nell’esprimermi. Ma se me lo concede, io credo che Elliot le voglia più bene di quanto lei possa anche solo immaginare.»

La ragazza si fece attenta, quasi temesse di poter perdere quella mano che le veniva posta sulla sua in segno di aiuto. Sophie, in qualità di ragazzo, temette di spaventarla con quel gesto, ma Christine non si scostò, quasi ne percepisse l’innocenza.

«Vede, più si vuole bene ad una persona e più temiamo di deluderla. In parte è una buona cosa, perché ci permette di non dare nulla per scontato, ma dall’altra ci porta ad allontanarci da essa. Non credo che potrà mai fare nulla per farsi detestare da suo fratello, lady Christine. Se teme questa eventualità, l’unico consiglio che posso darle è parlargliene. Sbraiterà parecchio, ma le posso assicurare che non morde. Per il momento.»

Christine tossicchiò per celare una risata e, finalmente, guardò negli occhi Caleb. Cominciava a comprendere perché Elliot ne fosse tanto affascinato: era estremamente facile conversare con lui. Trasmetteva una naturale fiducia, quasi gli si potesse confidare qualsiasi segreto, senza il timore di essere giudicati. Era inoltre estremamente saggio nel parlare e ciò gli conferiva un’aura di maturità.

«La ringrazio.» disse dopo un momento di riflessione la Nightray «Cercherò di fare tesoro di ciò che mi ha detto.»

«Oh, di nulla. Se dovesse necessitare di un confidente, mi offro a sua completa disposizione. Non per suonare sfacciato, ma mi farebbe davvero piacere aiutarla, se posso. Non sono un granché come tutore, ma almeno so ascoltare.»

«Si vede.» confermò la ragazza, guardandolo con ammirazione «Mi piacerebbe avere la sua sicurezza.»

«Non credo. Per quanto appaia risoluto, nella realtà sono pieno zeppo di insicurezze.»

«E allora come fa, scusi?»

«Semplicemente, cerco di stare a galla. Anche se non sempre posso esprimermi liberamente, tento di farlo almeno con chi mi è più caro. Se davvero sono persone che mi vogliono sinceramente bene, so che mi ascolteranno e supporteranno, a prescindere da ciò che dirò. È molto peggio tenersi tutto dentro, mi creda. La vita è una sola, inoltre siamo giovani: perciò abbiamo il diritto di pretendere!»

Man mano che proseguiva a parlare, la voce di Caleb si fece sempre più acuta, rimbombando nell’animo di Christine. Non pensava che ci potesse essere qualcuno, oltre ad Elliot, che si esprimesse con tanta spontaneità ad una come lei. Il gemello aveva sempre tentato di spronarla, di spingerla ad agire e confidarle i suoi desideri, ma il peso delle aspettative del padre e della famiglia la schiacciavano ogni volta.

Caleb non le aveva detto nulla di nuovo, cose persino banali sotto un certo punto di vista, eppure… qualcosa si era schiuso in lei. Era come se una pioggia d’acqua fresca si fosse finalmente posata su di una gemma inaridita, donandogli la voglia di sbocciare. Non sapeva se quell’energia l’avrebbe attraversata sino al suo ritorno a casa, ciononostante avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per preservarla.

«Gra...»

«Elliot! Oz non c’entra nulla con quell’incidente!»

Improvvisamente, le ragazze tornarono alla realtà che le circondava. Leo era come sparito, insieme a Philip, mentre Gilbert stava di nuovo urlando al fratello. Confuse, si scambiarono uno sguardo interrogativo, non trovando nell’altra le risposte che cercavano: erano state talmente prese dalla loro conversazione da essersi completamente isolate e non aver seguito ciò di cui gli altri stavano discutendo.

«Elliot, che cosa succede?» tentò di domandare Christine, che però venne ignorata.

Il gemello afferrò infatti Oz per il polso, con l’intento di trascinarlo fuori, lungo i corridoi e sino all’ingresso della casa.

«Se non sa niente, allora non mi serve.» si limitò a dire «Sbrigati ad andartene.»

«Aspetta!» tentò di dire il Vessalius, mentre Sophie e gli altri li raggiungevano al portone, lasciando indietro Christine, incapace di muoversi «Ci sono ancora delle cose che vorrei...»

«Non abbiamo più niente da dirci!» tagliò corto Elliot, che nel frattempo lo aveva gettato oltre l’ingresso, facendolo ruzzolare a terra.

Sophie ed Alice corsero ad assicurarsi che il giovane stesse bene, mentre Gilbert si fermò accanto al fratello, furibondo.

«Elliot! Come ti permetti… !»

«E tu!»

Elliot afferrò Gilbert per il bavero, mentre Sophie gli urlava invano di lasciarlo stare e di smetterla, ma le sue parole sembravano non raggiungerlo in quel momento.

«È da prima che dici Oz di qua, Oz di là… ma tu fai parte della famiglia Nightray!» osservò il maggiore dritto negli occhi.

Vi erano tante emozioni in quello sguardo: risentimento, dolore, solitudine e rabbia. Tanta rabbia e umiliazione. Per se stesso, per la sorella che era ancora più isolata in quella grande casa, ora che persino Gilbert se ne era andato. Per i suoi fratelli, morti senza poter aver l’onore di ricevere il Chain dalle ali nere che, per diritto di nascita, sarebbe spettato loro. Per la sua famiglia, che viveva reclusa nella mortificazione di avere il suo degno discendente che li disprezzava, denigrandoli col suo comportamento irresponsabile e codardo. Perché Gilbert aveva scelto di scappare, aveva scelto i Vessalius al posto loro, nonostante lui e Christine…

«Chi eredita Raven porta sulle spalle la spada nera!» urlò invece, sul punto di esplodere «Eppure perché, senza accompagnamento e senza chiedere niente a nessuno, te ne sei andato e come se non bastasse chiami padrone il figlio dei Vessalius?!»

Gilbert era come travolto da quella valanga di parole, un maremoto che si era abbattuto su tutto quello che, per un anno, aveva tentato di scordare. Di nuovo, stava ferendo qualcuno che amava col suo modo di fare vigliacco. Lo sapeva, ne era cosciente, per questo non poteva ribattere. Quella realizzazione fece stringere ancora di più la morsa di Elliot, colma di risentimento nei confronti di colui che reputava in tutto e per tutto suo fratello. Anche se non lo erano davvero, anche se Ernest e gli altri gli avevano sempre intimato di stargli alla larga, anche se la madre non aveva mai riconosciuto né lui né Vincent come membri effettivi del casato. Christine aveva ogni volta preso le sue parti, difendendolo nonostante tutto. Sebbene non avesse la forza di parlare per se stessa, per lui trovava sempre la forza... lo odiava per questo.

«Tu… quanto devi umiliarmi per sentirti soddisfatto?»

Lo spinse via, non sopportando quello sguardo dorato e smarrito.

«Non voglio vedere mai più la tua faccia!» disse voltandosi, senza specificare a chi fossero rivolte quelle parole.

Fu grato di non dover reggere oltre il confronto col fratello, che lo fissava atterrito, temendo per un lungo momento che quel risentimento fosse rivolto interamente a lui. Oz prese la parola, assumendosi il peso di quella dichiarazione.

«Elliot!» lo chiamò infatti.

Il ragazzo si fermò, la porta appena socchiusa.

Se solo avesse voluto, avrebbe potuto riaprirla e far entrare suo fratello ed i suoi amici. Sophie fissava la scena allibita, spostando lo sguardo dal compagno di studi al ragazzo che amava: conosceva talmente poco di entrambi. Nonostante frequentasse Elliot da ormai quasi tre anni e si fosse fatta narrare ogni evento rilevante della vita di Gilbert da Reim, si sentì una perfetta estranea, finita per caso nel mezzo di una lite famigliare.

«E tu.» rispose Elliot, catturando l’attenzione di tutti «Se avessi saputo che eri un Vessalius, quella volta non ti avrei salvato!»

«Non è vero!» proruppero in coro sia Oz che Sophie.

Il biondo fissò interdetto la ragazza che, inaspettatamente, aveva parlato. Questa si accorse del suo gesto con altrettanta sorpresa, ciononostante riprese subito la parola.

«Ah… ecco, non sono d’accordo nemmeno io! Elliot, tu sei tante cose, ma non sei né spregevole né egoista: se vedi qualcuno in difficoltà lo aiuti, punto e basta. Non sono certo i titoli a farti decretare se una persona meriti di vivere o meno e questo è uno dei tuoi più grandi pregi. Non provare a negarlo mai più.»

La voce severa eppure limpida di Sophie colpì i presenti, sebbene Elliot parve non tradire alcuna emozione. Ringraziò di essere abbastanza lontano e di spalle da poter celare l’espressione del suo viso in quel momento, scossa da orgoglio e rimpianto. Non credeva che Caleb lo stimasse a tal punto, né che lo avrebbe mai sgridato con voce tanto solenne. Fu allora che Oz concluse il suo discorso, precedentemente interrotto da Sophie.

«Sono d’accordo. Mi avresti in ogni caso tolto dalle grinfie dei Baskerville, Elliot.»

La porta si chiuse, lasciando i presenti avvolti dal peso di quel silenzio violento come uno schiaffo. Oz, non volendo prolungare oltre quel turbamento, si rivolse con un sorriso ai suoi amici.

«Dunque, vediamo… abbiamo fatto una piccola deviazione, ma riprendiamo a cercare le tracce dei ricordi di Alice.» si rivolse a Barma, che stringeva le labbra con fare sofferente, probabilmente perché sentiva di esser stata di troppo in quella conversazione «Inoltre, Sophie, tu ci hai raggiunto perché avevi delle notizie da esporci, dico bene?»

La ragazza parve ricordarsi solo in quel mentre della ragione che l’aveva portata in fretta e furia in quella città dimenticata. Annuì, ritrovando la fermezza che l’avrebbe dovuta condurre nel narrare i frutti delle sue ricerche.

«Bene.» concluse Oz, impaziente «Parlacene mentre ci dirigiamo verso la voragine.»

 



«Come hai potuto cacciarli a quel modo?!»

La voce di Christine riecheggiò nell’androne d’ingresso, mentre Elliot si poggiava esausto alla porta che aveva appena chiuso. Alzò lo sguardo, sorpreso, trovando la sorella sorretta da Leo, che le tendeva un braccio con fare preoccupato. Aveva preso a tremare, non avrebbe saputo dire se per lo sforzo di raggiungerlo o per la rabbia che le scorreva nelle vene.

«Non avevano fatto nulla di male!»

«Queste non sono cose che ti riguardano, Christine. Stanne fuori, so cosa faccio.»

Quelle parole la ferirono più di uno schiaffo, ma non replicò. Non era mai stata capace di reagire ad un affronto, specie se usciva dalla bocca del padre o di Vincent. Difficilmente litigava col gemello, ma quando erano in disaccordo scaturivano spesso liti feroci. Non voleva questo, non si sentiva in grado di reggere un simile scontro. Si limitò dunque ad incassare il colpo, chinando il capo.

«Almeno Gilbert...» mormorò incerta, troppo ferita per lasciare che quel discorso si chiudesse a quel modo.

Alzò lo sguardo, colmo di lacrime che però non fece scorrere sul suo viso.

«Non l’ho nemmeno potuto salutare.» si morsicò il labbro inferiore, incerta sul da farsi; d’improvviso, lasciò che il rancore esplodesse, calmo e glaciale «Ti detesto quando fai così.»

«E tu invece sei una stupida!» replicò offeso a sua volta il fratello, per pentirsi immediatamente delle sue parole.

L’ultima cosa che voleva era litigare con la sorella, tanto più se provata fisicamente. Ciononostante, strinse i pugni e continuò ad occhi chiusi il suo discorso, non riuscendo a sopportare oltre la delusione che leggeva negli occhi di Christine.

«Quello non è nemmeno capace di fare il fratello maggiore. Non capisco come tu possa preoccuparti tanto per uno come lui.»

«Almeno io dico apertamente ciò che provo.» Christine quasi urlava, mentre stringeva la presa intorno al braccio di Leo, che fissava i due fratelli senza sapere che dire o fare per fermare quella lite burrascosa, che pareva soltanto alimentarsi di parola in parola «Io lo dico chiaramente che Gilbert mi manca, perché tu non riesci a fare lo stesso?»

«Perché non si merita il nostro affetto!» sbottò Elliot, tornando alla carica «Ha preso Raven ed è fuggito con la coda tra le gambe, non appena hanno attentato alla sua vita, spaventato dal Cacciatore di Teste. Che razza di uomo è?!»

«E tu, allora? Sbraiti accuse da quando se ne è andato, ma non hai mai tentato di capire la sua scelta.»

«Io porto la spada dei Nightray e come tale difendo l’onore del nostro casato. E difendo anche te.» strinse la presa sull’elsa convulsamente, prima di proseguire «Lui non è degno di essere chiamato fratello.»

«E tu sei codardo quanto lui, nel non affrontarlo. Se solo…»

Un tremito più forte degli altri le fece perdere la presa sul braccio di Leo che, subito, le cinse la vita per sorreggerla. La testa aveva preso a vorticarle furiosamente, mentre il respiro cominciava a mancarle.

Allarmato, Elliot fece un passo verso di lei, ma Christine lo fermò con una parola.

«No!» esclamò con le ultime forze che le rimanevano, mormorando infine «Non voglio che mi tocchi, adesso.» osservò Leo, ferito quanto il fratello dalle sue parole.

Ciò non era semplicemente legato al fatto che il servitore provasse un profondo sentimento per Elliot. Anche alla gemella di questi si sentiva legato da un affetto tenero e sincero, sin dalla prima volta che l’aveva incontrata. Quello che maggiormente lo amareggiava era dovuto all’ammirazione, miscelata a sorda invidia, che provava per i due fratelli. Leo era cresciuto solo ed era divenuto orfano proprio quando avrebbe avuto più bisogno di sua madre, l’unica alleata in quel mondo ostile. Elliot, oltre ad una famiglia amorevole, poteva contare su di una persona come Christine, un’amica sincera che non lo avrebbe mai abbandonato nonostante tutto. Invece, a causa del suo orgoglio, aveva finito per scheggiare quel legame prezioso che Leo poteva solo ammirare da lontano. Strinse la mano della ragazza, intanto che questa traeva profondi respiri per mantenersi in piedi.

«Per favore, accompagnami a letto.» sussurrò quando si sentì più stabile, ma una voce ben più potente proruppe allora nell’ingresso.

«Signorina Christine!»

La signora Finn, allarmata dalle urla, era accorsa nel salone. Con gentilezza, eppure senza esitazione, prese il posto di Leo e si fece carico del corpo debilitato di Christine.

«Che cosa succede, signorino? Lo sa che sua sorella necessita di assoluto riposo in questo momento: mi meraviglio di lei!»

Elliot non protestò, conscio delle sue colpe. Mentre Christine veniva condotta nel suo alloggio, Leo, dopo aver osservato la figura della ragazza sbiadire man mano che si allontanava, si rivolse al padrone.

«Elliot, perché ti comporti in questo modo?»

«Io...» bisbigliò lui, smarrito.

«Guarda: quello è il discendente del duca traditore.»

Parole del passato presero a vorticargli in testa, come una litania venefica.

«È una diceria che fosse legato ai ribelli, vero?»

«Tu dici? Io invece mi chiedo perché vengano trattati da eroi. Topi di fogna.»

Quando era andato in visita alla Lutwidge poco prima dell’inizio delle lezioni, ad appena dodici anni, gli sguardi di disprezzo dei futuri colleghi e compagni lo avevano accolto in quella terra sconosciuta. Lo avevano giudicato senza alcuna vergogna, tronfi della verità che portavano in tasca e con cui si gingillavano dinnanzi agli altri. Erano lieti di non essere come lui, mentre sin da bambino Elliot si era reputato orgoglioso della sua famiglia. Non comprendeva il motivo di quell’astio, ingenuo com’era. Era stato incapace di reagire all’epoca, ma ricordava ogni singola parola.

Rammentava la vergogna immotivata, l’umiliazione di non potersi difendere e la paura in quei sorrisi viscidi come serpi. Lui non era il suo antenato e, comunque fosse andata, nessuno poteva conoscere la verità di cento anni prima. Quelle erano solo voci, malignità sgorgate nell’alta società per ghermire la sua famiglia, da sempre associata all’ombra e ai tradimenti.

«Ascoltami, Elliot.»

La pesante mano di Ernest lo aveva avvolto come un guanto, inchiodandolo sul posto come un burattino. Si era aspettato parole di conforto, che lo avrebbero finalmente liberato. Aveva sperato in un tono gentile e comprensivo, che avrebbe cancellato quel dolore sordo. Invece, il fratello aveva tramutato la sua lingua in una falce.

«Dirigi tutto il tuo odio verso gli appartenenti della famiglia Vessalius. La loro esistenza ci sminuisce, ci spinge sempre più nell’ombra. Devi odiarli. Odiali, odiali, odiali!»

Aveva avvertito male nel punto in cui la sua mano lo stringeva, lungo la spalla. Aveva tentato di richiamare il fratello, ma questi sembrava come trasfigurato dal rancore. Un sentimento che, a quanto pareva, doveva fare suo in qualità di Nightray.

«Non dimenticare questo odio!»

«Elliot?» la voce di Leo lo raggiunse, sovrastando il clangore delle catene del passato.

«Io… non lo so.» ammise infine Elliot, confuso.

Il servitore sospirò, non sapendo come aiutarlo. Decise allora di cambiare argomento, sperando così di alleggerire la tensione venutasi a creare.

«Chissà cos’erano venuti a fare a Sablier, Caleb e gli altri…»

«Non ne ho idea.» rispose Elliot, sollevato da quel diversivo «Forse andavano alla sede ausiliaria di Pandora, situata in città. In fondo, Caleb lavora per l’organizzazione assieme a Gilbert, no?»

«Ti sbagli!»

«Sbagli!»

Due vocine birichine lo fecero sobbalzare. Voltandosi, trovò due bambini, gli stessi che Oz aveva inseguito in precedenza lungo le vie della città, quando si era separato da Gilbert ed Alice. Si trattava di Claudia e Louis, due orfanelli entrati nella Casa di Fianna all’incirca nello stesso periodo e divenuti inseparabili monelli. Non stavano mai fermi e loro caratteristica peculiare consisteva nel muoversi sempre insieme. Dov’era uno, vi era sicuramente anche l’altra.

I due sorridevano, sornioni, complici del segreto che condividevano.

«Ce lo ha detto il signore quando lo abbiamo incontrato fuori.» disse Louis, divertito dall’ignoranza degli adulti.

«Ha detto: “Io voglio andare in fondo alla voragine”.» cinguettarono in coro, lanciandosi verso Leo, il loro peluche preferito.

Il ragazzo li accolse tra le sue braccia, mentre smaniavano per avere attenzioni, ma il suo sguardo non abbandonò Elliot.

«Questa… non è una bella notizia, vero?» mormorò, mentre un brivido gelido gli attraversava la nuca.

Che cosa andavano cercando in quell’oscurità?

 



«Certo che, più ci si avvicina alla voragine, più l’aria si fa pesante.» constatò Oz, sentendosi come mancare il fiato.

Era una sensazione piuttosto spiacevole che, tuttavia, cercava di ignorare.

«Probabilmente è anche un fattore psicologico: questa nebbia color pece non aiuta di certo a sentirsi tranquilli.» convenne Sophie, mentre riorganizzava le idee.

Oz e gli altri non le avevano fatto pressioni, sebbene non vedessero l’ora di conoscere le novità che aveva portato con sé. Ognuno di loro era scosso, per motivi diversi, dai fatti appena avvenuti, perciò gradirono quel lieve silenzio che li avvolse per diversi minuti. Barma comprese però che non poteva tergiversare oltre.

«Mi scuso ancora per l’indecente attesa che vi ho fatto patire.» cominciò a dire, per farsi coraggio «Ma finalmente posso darvi qualche informazione utile.»

Alice si fermò, osservandola attenta per poi sorriderle maligna.

«Oh? E non ci chiedi nemmeno un compenso per queste preziose informazioni? Credevo che i Barma si facessero pagare caro, in questi casi.»

Oz sobbalzò, non aspettandosi quell’uscita dalla Chain: col tempo si era calmata e sempre più raramente rivolgeva parole cariche d’astio e superbia, specialmente agli sconosciuti. Evidentemente il motivo non era dovuto al suo animo resosi cheto, ma agli stimoli venuti a mancare a causa della segregazione forzata a Pandora.

Sophie le rivolse uno sguardo torvo, prima di rispondere.

«Vi ho offerto i miei servigi a nome di mio padre, come scusa per il suo comportamento disdicevole. Sarebbe piuttosto inopportuno richiedere un compenso, non credi?»

Gilbert fissò la ragazza piacevolmente sorpreso: non credeva che Sophie fosse capace di replicare in modo tanto piccato quanto austero. Era abituato a vederla in preda alle emozioni, mentre inciampava sulle sue stesse parole. Riflettendo con cura, si rese conto che ella aveva altresì preso il suo incarico con la massima serietà, fin dal primo istante in cui si erano conosciuti. Rimase colpito da questo suo lato maturo.

«In ogni caso.» proseguì Sophie amareggiata, ma decisa a metterci una pietra sopra «Mi avete parecchio stupita quando ho scoperto dove eravate diretti.»

«Perché?» domandò Oz «Anche tu credi che questa zona sia venefica?»

«Così dicono i rapporti. In verità… è proprio qui che Swan mi ha detto di aver scorto i Baskerville.»

«COSA?!» esclamarono all’unisono Oz e Gilbert, mentre un brivido di paura ed eccitazione attraversò la Chain.

Finalmente le cose cominciavano a farsi interessanti.

«Nemmeno io volevo crederci.» ammise Sophie «Eppure tutti gli indizi conducono qui. Swan ha inseguito Lottie sino alla soglia della voragine e...» indicò un punto poco distante da loro, che mostrava un passaggio verso le profondità di quell’abisso oscuro «Una volta entrato, è stato come stordito.»

«Cosa intendi?» la incalzò il Vessalius.

«Non riusciva più a vedere chiaramente.» si portò una mano alla bocca, come a voler frenare le parole che, impazienti, prorompevano dalle sue labbra «Il mio Chain è specializzato nel celarsi tra le ombre della mente dei Chain altrui, per spiare il nemico e riferirmi ogni sua mossa. Oltretutto, la sera della missione con Gilbert, avevo impresso su di lui un incantesimo che gli conferisse la capacità di attraversare eventuali barriere magiche. Ciononostante, lì dentro c’era qualcosa che lo ha indebolito a tal punto da non permettergli di descrivermi altro che vaghe immagini. Per questo ci ha messo tanto a tornare da me, era come….»

«Prigioniero.» concluse per lei Oz, gli occhi smeraldo colmi di muto terrore.

Non voleva darlo a vedere, ma temeva le rosse divinità della morte più di chiunque altro avesse mai affrontato nella sua breve esistenza. Persino i Chain dell’Abisso, a confronto, apparivano come meri pupazzi senza valore. Anche se qualcosa di peggiore lo aveva intravisto: la mano gelida della Volontà dell’Abisso. Fremette a quel ricordo, per scrollarselo di dosso con forza.

Non era questo il momento di darsi al panico.

«Esattamente. Swan è riuscito soltanto a riferirmi l’ultima ubicazione certa: Sablier, al centro della voragine. E a mostrarmi un’immagine...» si fermò, esitante.

Non voleva dar loro false speranze e nemmeno spingerli verso il pericolo. Malgrado ciò, Gilbert la spronò d’improvviso, senza darle possibilità di riflettere oltre.

«Coraggio, parla! Che cosa ha visto?»

Sophie tremò, spaventata da quella veemenza. Passò celermente lo sguardo su ognuno di loro, prima di chinarlo, greve.

«Mi ha mostrato un immenso cancello di ferro, al di là della caligine, contenente un’oscurità senza fine.»

«A-aspetta.» mormorò Oz, mentre Gilbert ed Alice la osservavano ad occhi spalancati «Mi stai dicendo… che Swan ha visto il portale dei Baskerville?!»

«Io… questo non lo so con certezza.» ammise Sophie.

«Non lo sai?!» proruppe Gilbert, parandosi davanti a lei ed afferrandola per le spalle «Che razza di discorsi fai? L’hai detto tu stessa! Quello… !»

«Quello che mi ha mostrato Swan ve l’ho riferito, ma non ho mai detto che si tratti di un portale per l’Abisso, né che si trovi effettivamente là.» ribatté lei, scostandosi da quella presa invadente «Non posso dirvi ciò che non so: Swan potrebbe anche essere stato stordito dall’influsso dell’Abisso che si riversa in quella voragine. Forse noi...»

«Dobbiamo andare a verificare.» l’interruppe Oz, deciso.

Sophie si voltò verso il giovane, scioccata e contrariata.

«No!» protestò «Era per questo che non volevo dirvelo! Non è sicuro andare laggiù alla cieca e se...»

«E se davvero ci fosse il portale dei Baskerville?» domandò Oz, avanzando con sguardo indecifrabile.

Sophie non lo conosceva bene, ma fino ad allora aveva creduto che si trattasse di un ragazzino spensierato e senza troppi fronzoli per la testa. Quello che le stava parlando, tuttavia, era un individuo determinato e capace di guidare chiunque verso il pericolo. Ma Sophie non voleva correre un rischio tanto azzardato.

«E se invece non ci fosse?»

«Beh, finché non andremo a verificare non potremo saperlo, giusto?»

«Ma… !»

«Sophie, noi andiamo.» decretò netto Oz, mantenendo un’espressione irremovibile che smorzò qualsiasi altro tentativo di protesta da parte della ragazza «Ti siamo riconoscenti per il lavoro che hai svolto, ma ora non è più necessario che tu ci segua.»

Lei rimase di sasso.

«Come?»

«È come dice.» rincarò la dose Gilbert, allontanandosi da lei e dirigendosi verso la voragine «Il tuo incarico è terminato: se non vuoi venire, non sei tenuta a farlo. Ma noi andremo.»

Sophie li fissò uno ad uno, in cerca di un sostegno che non trovò. Persino Alice ignorava il suo sguardo, limitandosi ad annuire. Nessuno le avrebbe dato retta.

«Non avete idea di cosa potreste trovare. Se solo aspettaste Pandora...» tentò ancora, sebbene lo sguardo di Oz la fece tacere.

«Scusaci, Sophie, ma noi dobbiamo vederlo con i nostri occhi.»

Si avvicinò a lei, stringendole le mani con gratitudine. Le sorrise sinceramente, infondendo nelle sue parole la verità che provava nel cuore.

«Grazie davvero per quello che hai fatto: sei un’informatrice formidabile! Spero di rivederti ancora, anche se non avremo più un legame di affari.» detto ciò si voltò, senza nemmeno attendere una risposta.

Gilbert ed Alice lo precedettero di qualche passo. Alice le fece un breve cenno con la mano, mentre Gilbert la fissò, come se volesse proferire qualche parola. Fece per aprir bocca, ma in seguito la richiuse e si voltò, limitandosi ad un neutro cenno del capo. La ragazza li osservò allontanarsi, incapace di scegliere la sua prossima mossa.

Che cosa doveva fare?

Tornare a casa e fingere che nulla fosse accaduto?

Riferire al distretto di Pandora ivi collocato le intenzioni di quegli incoscienti?

Oppure… ?

Scosse la testa.

Oh, al diavolo!” pensò con timore, mentre metteva il primo piede davanti all’altro “Sai benissimo cosa devi fare, idiota!”

«Aspettatemi!» gridò, mentre prendeva sempre più velocità, correndo verso il gruppo «Vengo anch’io con voi!»

Guardò Gilbert, abbassando subito lo sguardo.

«Più si è meglio è, no? Inoltre, non reputo il mio lavoro terminato fintanto che non avrò constatato con i miei occhi le informazioni fornitevi.»

Parlò con determinazione, sebbene il cuore le salisse sino in gola, facendole venire le farfalle nello stomaco.

Scusa, papà, ti avevo promesso di non essere più tanto avventata, ma non riesco a lasciarli andare senza fare nulla. Hanno bisogno di me.”

 



«Allora non ci facciamo vedere da Pandora, Oz?»

Nonostante la determinazione nel seguire il suo padrone, Gilbert pose la domanda che tanto lo tormentava. Non voleva retrocedere sulla decisione presa, ma cominciava a credere che le preoccupazioni di Sophie non fossero così immotivate. Più proseguivano nella loro discesa, verso ciò che sembrava una tenebra senza fine, più cresceva in lui l’agitazione e l’angoscia. Che avrebbero fatto se si fossero trovati soli ed in seria difficoltà? Aveva dalla sua Raven, tuttavia a causa del limiter imposto sul B-Rabbit non sapeva quanto sarebbe stato utile. Potevano contare anche su Sophie ed il suo Chain, il che era rassicurante, sebbene non abbastanza.

Oz gli rispose senza la benché minima esitazione, mostrando il suo solito sorrisetto spensierato.

«No, forse se ci andassimo sarebbe la fine. Ho paura che non potremmo muoverci liberamente...» si fermò.

Nel voltarsi per rispondere a Gilbert aveva notato Sophie in fondo alla fila, isolata e con lo sguardo corrucciato. Sembrava terribilmente combattuta e, probabilmente, si stava domandando se avesse fatto la scelta giusta. Oz osservò allora l’amico, che lo fissava con fare interrogativo. Qualcosa in tutta quella storia non gli quadrava.

È vero che i Barma sono noti per la loro dedizione agli incarichi affidategli; oltretutto, il Duca stesso è un personaggio ben più che bizzarro, che farebbe qualsiasi cosa pur di ottenere nuove conoscenze. Però, come dire, Sophie…. non mi dà quell’impressione.”

Mentre meditava ciò, notò come lo sguardo di Sophie si fosse puntato in modo fuggevole, eppure intenso, sulla schiena del Nightray. Oz ricordò allora la ferita che la giovane aveva subito appena una settimana addietro, per difendere Gilbert. A ciò sommò altri atteggiamenti della ragazza che, durante i loro brevi incontri, aveva potuto esaminare: il suo sconcerto nell’andare in missione sola con Gilbert oppure il modo in cui arrossiva impercettibilmente quando conversava con lui. Condì il tutto con la notevole arrabbiatura che l’aveva colta quando Gilbert era andato a cercarla alla Lutwidge e, improvvisamente, una lampadina gli si accese sopra la testa.

«Ah.» borbottò appena, battendo un pugno sul palmo dell’altra mano.

Che fosse davvero come sembrava?

«Beh, c’è solo un modo per scoprirlo.» si lasciò scappare ad alta voce, mentre il servitore inclinava il capo confuso «Gilbert, perché non prosegui con Sophie nel frattempo? Io devo parlare un attimo con Alice.»

«Eh? Come?» domandò il moro, che venne palesemente ignorato.

Mentre Oz si allontanava, si voltò un’ultima volta, facendo un cenno alla giovane, incuriosita da quel chiacchiericcio vivace.

«Mi raccomando, Sophie: te lo affido!»

«Ma che… ?» mormorò l’informatore, ritrovandosi d’un tratto vicino a Gilbert.

Oz aveva creato una distanza tale per permettere ai due di conversare senza essere disturbati. Al contempo, poteva astutamente origliare ciò che si dicevano. Naturalmente, se avessero mantenuto un tono di voce basso, forse il Vessalius nemmeno avrebbe distinto le loro parole. Perciò la colpa di una simile eventualità sarebbe ricaduta unicamente su di loro.

Sophie osservò spaesata Oz, interrogandosi sulla sua sanità mentale. Faceva davvero fatica a star dietro a quel guazzabuglio di idee bislacche che egli metteva all’opera senza esitazione. Volgendosi verso Gilbert indietreggiò d’istinto, ritrovandosi d’improvviso i suoi occhi dorati puntati contro. Arrossì e voltò celere il capo, non sapendo come comportarsi.

«Ehm… ecco… il tuo padrone è parecchio fuori di testa, vero?» si lasciò sfuggire di getto, dandosi in seguito una manata in faccia.

Perché non sono mai capace di parlare normalmente, quando sono sola con lui?” si domandò con sconforto, mentre lentamente riprendevano a camminare.

«È fatto a modo suo, ma non è uno spostato.» rispose atono Gilbert.

«Non volevo dire questo.»

«Lo so.» la tranquillizzò lui, cambiando discorso «Non eri obbligata a venire, se non te la sentivi.»

«Me la sentivo ancor meno di lasciarvi andare restando con le mani in mano.»

«Avresti potuto avvisare il Duca o Pandora.» propose con una lieve nota di cinismo, che celò piuttosto bene dietro un velo di indifferenza.

«Tu non hai capito proprio nulla di me.» replicò secca la giovane, avvertendo una fitta al cuore.

Più trascorreva tempo con il ragazzo che amava, più si sentiva distante da lui. Era come se per loro fosse impossibile non scontrarsi, sebbene ci fossero stati dei punti di incontro. Ciononostante, essi le apparivano come puntini minuscoli ed insignificanti, rispetto alle innumerevoli volte in cui battibeccavano.

Sospirò, sentendosi totalmente fuori posto.

«Forse non sarei dovuta venire...» concluse sconsolata, più a se stessa che al Nightray.

Questi la fissò in silenzio per diverso tempo, non sapendo come replicare.

Non capiva quella ragazza. Non comprendeva i suoi scatti emotivi, perché si ostinasse a volerli seguire in quell’impresa da pazzi e ancor meno perché tutto questo lo infastidisse. Probabilmente, era troppo nervoso per tutto ciò che era avvenuto sinora: dai mal di testa opprimenti, alla sensazione di smarrimento che lo attanagliava, sino allo sconforto che le parole di Elliot avevano creato nel suo cuore. Non era un buon fratello per lui… e forse non lo era mai stato.

«Perché non hai parlato con Elliot?»

Gilbert sussultò, colpito da quella domanda come da un fulmine a ciel sereno. Sophie lo osservava di sottecchi, gli occhi colmi di vivo interesse. Non di spasmodica bramosia come quelli del padre, ma avvolti da sincera preoccupazione.

Per lui? O più presumibilmente per Elliot?

«Questi non...»

«Non sono fatti che mi riguardano. Lo so.» tagliò corto lei, irritata, prendendo un profondo respiro per impedirsi di alzare troppo la voce «Eppure lo sono, che ti piaccia o meno. Io ci tengo a Elliot, lo reputo un amico ed un compagno a cui fare da guida. Perciò se avete litigato, la cosa mi riguarda eccome.»

Gilbert corrugò le sopracciglia irato per diversi secondi. Scosse infine il capo, sconfitto.

«Tu non retrocedi di un passo quando ti impunti, vero?»

Sophie sorrise, in qualche modo felice di non averlo fatto arrabbiare come suo solito.

«Già. Sotto questo aspetto ho preso da papà.»

«Si vede...» mormorò il Nightray, confessando una parte delle sue angosce «Il fatto è che non mi sento nella posizione di poter ribattere.»

Guardò la ragazza, che ricambiava il suo sguardo con sollecitudine. Non parlò, in attesa che fosse lui stesso a proseguire. Incoraggiato dal suo pacato silenzio, Gilbert riprese la parola.

«Io non sono il suo vero fratello e, nonostante questo, l’ho privato del suo diritto ad avere Raven. Inoltre, me ne sono andato senza dargli una spiegazione. E questo deve averlo ferito profondamente.»

«Ma perché non gli hai mai detto nulla?»

«Perché…» si interruppe, stringendo i pugni «Avevo paura.»

Ognuno si prese del tempo per meditare su quanto appena detto.

«Io credo che Elliot ti voglia molto bene, Gilbert.» disse con semplicità Sophie «Ma che proprio per questo tu tema di deluderlo.»

Il Nightray arrossì appena, mentre scuoteva il capo. Non gli pareva possibile di meritare una simile considerazione.

«Sei cresciuto con lui per tanti anni, è ovvio che ti consideri parte della famiglia.»

«I suoi fratelli non la pensavano allo stesso modo.»

«Lui non è i suoi fratelli, e lo sai bene. Perché devi sminuirti tanto, non capisco.» prese a gesticolare, in preda all’agitazione «Sei gentile, affidabile e degno di fiducia, perciò perché ti comporti come l’ultimo degli infami?»

«Io non mi comporto così!»

«Invece sì!» lo apostrofò severa Sophie «Tu scappi sempre dai confronti: tuo fratello minore ti caccia a calci, dicendoti quanto di peggio si possa immaginare, e tu non fiati! Per qualche ragione a me ignota decidi di abbandonare Villa Nightray e nemmeno gli lasci una lettera! Sei davvero… argh!» si lasciò sfuggire un verso di frustrazione, che scosse il ragazzo per lo spavento.

Non l’aveva mai vista tanto infervorata, sembrava fin troppo coinvolta in quella vicenda. Persino più di lui, che invece seguitava a celare le proprie emozioni. Resasi conto di aver alzato la voce, una sua brutta abitudine che difficilmente riusciva a contrastare, Sophie incrociò le braccia al petto, sbuffando.

«Non è giusto quello che stai facendo. Né per Elliot, né per te.»

«… certo che parli davvero un sacco, appena ti si dà il la.» borbottò Gilbert, incapace di trovare la maniera adeguata di replicare ad una simile arringa.

Provava un senso di sollievo nell’udire quelle parole ed una flebile luce gli aveva preso a brillare in fondo all’animo. Davvero avrebbe potuto mettere le cose a posto e meritarsi l’affetto di quel ragazzo?

Voleva molto bene a Elliot, lo considerava sotto ogni aspetto il suo fratellino al pari di Vincent, eppure questo non glielo aveva mai detto. In tanti anni trascorsi insieme, si era sempre tenuto in disparte. Elliot e Christine lo avevano lentamente accolto nella loro vita, coinvolgendolo in ogni aspetto fondamentale della loro crescita. Lui però non aveva mai lasciato una traccia di sé. Un’orma di un sentimento d’affetto che potessero serbare nei loro ricordi.

Si portò una mano al volto, ancora una volta pulsante.

«Vorrei che fosse così semplice.»

«Lo è, solo che ti fa paura.»

Sophie chinò il capo, sentendosi un predicatore nell’atto di elargire ai fedeli un sermone molto sentito, benché lei stessa non fosse in grado di seguirlo.

«Non è facile parlare dei propri sentimenti, ma bisogna sforzarsi, alle volte. Altrimenti non raggiungeremo mai le altre persone.»

«E tu mi vuoi aiutare perché Elliot per te è importante.»

«Sì!» ammise Sophie, presa da un nuovo slancio «Ma non soltanto lui!»

A quel punto si bloccò, rendendosi conto del pericolo che stava correndo rivelando ciò che realmente provava. Fare una confessione d’amore nel bel mezzo di Sablier, per la precisione nella voragine nera che aveva inghiottito l’ex capitale, non le pareva esattamente il momento più adatto. Si impappinò e tentò di assemblare una frase di senso compiuto.

«Ecco… tu… insomma, sei una brava persona e io… mi sento…. in dovere di… oddio, ti prego fermami!» piagnucolò infine, talmente velocemente e a bassa voce che Gilbert non la comprese.

Un accenno di riso lo contagiò, facendogli increspare le labbra. Se c’era una cosa che aveva capito di Sophie era che fosse capace di farlo ridere anche nelle situazioni più critiche. Trovava le sue espressioni ed il suo modo di sbrodolarsi con le sue stesse parole davvero comico. Sophie, tuttavia, non era del medesimo parere.

«Non mi sembra carino ridere, in questo momento!» si lamentò, additandolo con fare accusatore.

«Scusami, hai ragione. È solo che sei davvero buffa.»

Una freccia si conficcò nel petto di Sophie, ferendola nel profondo.

Perfetto. Ora mi reputa un’idiota. Sono un giullare ai suoi occhi… ma perché non ne faccio mezza giusta?” pensò demoralizzata, illuminandosi inaspettatamente.

«Anzi, no! Va benissimo così!»

«Come?» chiese confuso Gilbert, che venne travolto da un rinnovato entusiasmo che le rischiarava il volto.

«Te lo ricordi? Io voglio esserti di aiuto. Anche se sono imbranata e ci siamo appena conosciuti, voglio davvero essere un punto d’appoggio. Perciò, se mai dovessi aver bisogno di confidarti con qualcuno, ti prego di prendermi in considerazione!»

«Ehm… d’accordo?» mormorò incerto Gilbert.

Non credeva che fosse qualcosa che potesse fare, eppure realizzò che era esattamente quello che era appena accaduto. Non aveva mai parlato con nessuno, nemmeno con Oz, dei suoi problemi con Elliot. Invece Sophie, comparendo nella sua vita da poche settimane, si era imposta su quell’argomento, sciogliendogli la lingua. Era persino stata capace di farlo ridere e ciò lo stupì ancor più.

«Inoltre, sappi che a me va bene anche se ridi di me!»

«Eh?»

Ora l’aveva nuovamente persa.

«Sì, se sei giù di corda e io sono troppo tonta per aiutarti, allora ridi di me: lo so che sono buffa, me lo dicono sempre papà e Gideon! Reim no, ma credo perché sappia che altrimenti mi deprimo… nel tuo caso fallo pure! Hai l’autorizzazione di ridere di me, anzi, mi metterò d’impegno per fare smorfie strane, se serve allo scopo!»

«Ma che… ?» borbottò Gilbert, per poi trattenersi a stento dal ridere «Tu sei completamente matta, che discorsi fai?»

«Ecco, precisamente! Sono ridicola? Aspetta, posso fare di meglio: pensa che una volta sono quasi volata giù dalle scale, perché mi ero impuntata a volerle scendere saltellando su di un piede solo!»

«Cosa? Ma perché?»

«Perché Reim mi aveva sfidato. Cioè, io lo avevo sfidato e lui si era rifiutato di partecipare, perciò io dovevo dimostrargli che ero capace a prescindere. Avviso: non ne sono capace.»

«E questo esattamente quanto tempo fa è accaduto?»

«Mh… due anni fa?»

«Ma che hai nella testa?!»

«Papà suggerisce un criceto su una ruota malandata. Io punto su di una sala d’attesa vuota. Si accettano anche altri suggerimenti.»

«Io… mio dio, sei assurda.»

«A quattro anni sono volata dentro un pianoforte.»

«Tu cosa?!»

Senza rendersene conto, Gilbert si era fatto completamente prendere da quei discorsi senza senso. Sophie non gli permise di distrarsi: voleva a tutti i costi prolungare quell’ilarità immotivata che era riuscita a creare, cancellando dal volto del Nightray la preoccupazione e la fatica che lo attanagliavano da ore. Non gli piaceva vederlo in quello stato e, anche a costo di essere considerata una svitata, aveva preso la decisione di farlo sorridere ogni qualvolta ne avesse avuto occasione.

Più avanti Oz passeggiava sereno con Alice, ridacchiando man mano che la voce squillante di Sophie si faceva sempre più alta. Inizialmente non aveva colto molto dei loro discorsi, ma da qualche minuto a quella parte doveva tapparsi la bocca con una mano per non scoppiare a ridere senza freno.

Alice lo fissava interdetta, non comprendendo ciò che stava accadendo.

«Che hai tanto da ridere, Oz?»

«Eh? Oh, nulla Alice, scusami. È solo che sono davvero felice.»

«E di cosa?»

Oz voltò appena il capo, godendosi lo spettacolo di Gilbert che quasi piangeva dalle risate e, al tempo stesso, si vergognava di mostrarsi tanto in confidenza e sereno con un’estranea. Era bello vederlo capace di sorridere anche con qualcuno che non fosse lui o lo zio Oscar.

«Che Gilbert stia finalmente cominciando ad aprire il suo cuore.»

«Che significa? Quella là sta per divorarlo?»

«Ahahah, sai, non saprei davvero se augurarmelo o meno, Alice!»

D’improvviso, qualcosa lo urtò, senza tuttavia toccarlo. Fu come attraversato da una luce e, in un istante, un’intera folla comparve dinnanzi ai suoi occhi. Sophie e Gilbert ammutolirono, mentre la città di Sablier di cent’anni prima prendeva vita dinnanzi ai loro occhi.

 



Le rocce che circondavano la voragine ricordavano un paesaggio da incubo. Oltre ad esse si potevano trovare tracce di mattoni e ceramiche che, un tempo ormai remoto, erano appartenute a delle abitazioni. In una sola notte erano state spezzate tante di quelle vite che il solo pensiero poteva paralizzare dal terrore. La fragilità dell'esitenza umana si avvertiva con maggiore impatto in quei luoghi ed Elliot e Leo non erano esenti da quel sortilegio oscuro.

Procedettero con cautela, cercando di non allontanarsi troppo l’uno dall’altro, mentre infiniti rumori di massi cadenti e piccole frane li circondavano. Più proseguivano, più la bruma si accentuava, avvolgendoli come una pesante cappa.

«Accidenti… si può sapere quanto sono scesi, quegli stupidi?!» brontolò Elliot, mentre puntava i piedi per evitare di cadere.

Pensò che mostrarsi spavaldo e irato lo avrebbe aiutato a mantenere i nervi saldi. In fondo, era quello che faceva sempre: l’odio e la rabbia erano sentimenti molto più facilmente maneggevoli, rispetto alla paura e alla disperazione. Ti entravano nelle vene, fino a farti tremare i polsi, rendendo tutto vago e confuso. La rabbia, invece, infondeva calore e stordiva, ma al contempo concedeva quella piacevole sensazione di potere che ad Elliot era venuta a mancare negli ultimi anni. Tutta la sua vita pareva seguire un percorso irrefrenabile, che sfuggiva al suo controllo e, se solo si fosse soffermato a pensarci, ne sarebbe stato inghiottito.

Osservò Leo, poco dietro di lui, e lo aiutò a scendere da un pendio particolarmente ripido. Se non avesse avuto lui, pensava, probabilmente si sarebbe smarrito già da molto tempo.

«Woooow, grazie!» esclamò il ragazzo, mentre si issava in piedi dopo aver traballato «Anch’io è la prima volta che arrivo così in fondo.» ammise, mentre si sporgeva verso un dirupo «Oz! Caleb! Ci siete?» gridò a pieni polmoni, senza ottenere risposta.

«Giuro sul mio onore, appena li troviamo li strozzo uno ad uno! Si può essere più deficienti?»

«Tipo andando dietro a quattro persone smarrite, praticamente disarmati e senza idea di dove muoverci, in un luogo potenzialmente mortale?» propose leggiadro Leo, beccandosi una fulminata da parte del padrone «Era così, tanto per dire.»

Elliot sospirò, guardandosi attorno angosciato.

Quel posto non gli piaceva per niente, lo metteva in agitazione. Sapeva fosse pericoloso, ma c’era dell’altro. Era come se qualcosa, nelle sue viscere, gli gridasse di fare dietrofront e tornarsene al sicuro tra le mura dell’orfanotrofio.

«Va tutto bene, Elliot? È da prima che sei strano.»

«Io sto bene, non ti preoccupare.» rispose automaticamente il Nightray, senza esserne davvero persuaso.

Non si sentiva bene da diverso tempo ed il fatto di aver rivisto Gilbert in quelle circostanze non lo aiutava minimamente. Si sentiva anche terribilmente in colpa per come si era rivolto a Christine. Se solo le avesse detto ciò che realmente provava… perché non riusciva mai ad essere sincero con le persone a lui più care?

«Elly, guarda che a me non devi nascondere nulla, lo sai vero?» la mano di Leo si poggiò sulla sua spalla, gentile e ferma, come la sua voce «E poi non dirmi di non preoccuparmi: sono il tuo servitore, in fondo.» pensando di rianimarlo un poco, gli soffiò in un orecchio «Oltre il tuo amante.»

L’effetto scatenato fu più che appagante, dato che Elliot arrossì sino alla punta dei piedi. Anziché sbraitare come suo solito, si limitò a portarsi una mano all’orecchio e a mormorare qualcosa che, nonostante il tono basso, Leo colse perfettamente.

«Lo so, però non voglio che ti preoccupi.»

Un paio di battiti saltarono la loro corsa e Leo si sentì senza fiato per l’emozione. Alle volte Elliot dava delle soddisfazioni assolutamente inaspettate e lui stesso non sapeva se approfittarne oltre o semplicemente godersele e basta.

«Ringrazia che siamo in mezzo al nulla a cercare tuo fratello, altrimenti ti saresti ritrovato attaccato al muro.» replicò Leo, più rosso in viso del Nightray.

Un petalo si posò sulla sua spalla, facendolo voltare.

In un lampo, Sablier prese vita dinnanzi a loro. Alti edifici antichi si innalzarono lungo i lati, dove precedentemente vi erano soltanto massi e macerie. Una lunga strada lastricata in pietra si spandeva a perdita d’occhio, mentre centinaia di persone, prese dalle loro attività quotidiane, riempirono con le loro voci il silenzio ovattato che caratterizzava quella valle desolata. Pareva di trovarsi per le strade di Reveille, non fosse stato per gli abiti di diversa foggia, indossati con noncuranza da quegli spiriti. Il mondo di cento anni addietro pareva al tempo stesso vicino ed impossibile da raggiungere.

Elliot ne approfittò per celare il proprio imbarazzo e, con fare sprezzante, fece strada al servitore.

«Non li guardare! Ricordati in che posto siamo: se procedi senza farti deviare, non ti perderai nelle illusioni.»

«Oh, dici delle cose intelligenti, ragazzo!»

Prima che potessero rendersene conto, i ragazzi si trovarono circondati da strane e mostruose creature, mentre da sopra una roccia sporgente Lottie li osservava divertita. Terrorizzati ma compatti, i due si misero spalla contro spalla, nel disperato tentativo di controllare la situazione. Quelle bestie sembravano umani divorati da una tenebra tangibile, che ne deformava i corpi in maniera raccapricciante. Nemmeno nei loro peggiori incubi Leo ed Elliot avrebbero potuto immaginare un orrore simile. La Baskerville sembrava deliziata dalle loro reazioni, al punto da decidere di appagare la loro curiosità, mentre Zwei, nascosta alle loro spalle, si apprestava a controllare uno dei ragazzini con il suo Chain.

«Chi… che cosa sono?» domandò Elliot, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quegli abomini.

«Uh, uh, uh, ma come? Sono i vostri commensali… mentre voi, la cena.»



Il mal di testa era diventato insopportabile. Mentre tentava disperatamente di strapparsi quel dolore di dosso, stringendosi le tempie con i pugni, avvertì un forte senso di disorientamento. Aveva completamente perso di vista i suoi compagni, eppure non era per quello che il panico stava montando in lui. Inesorabile come un tempesta, il suo cuore echeggiava senza sosta, rimbombando nella sua testa, mentre lampi di ricordi illuminavano a sprazzi il nero che avvolgeva ogni cosa.

Fa male. Fa male. Fa male.”

Riusciva solo a pensare a quelle parole, avanzando in quel frammento legato al passato di cento anni fa. Si sentiva tornato bambino, incapace di difendersi. Poteva soltanto invocare aiuto. Chiunque, andava bene chiunque, bastava che facesse smettere tutto. Un adulto… sua madre, forse? Gilbert aveva mai avuto una madre?

Non se lo ricordava.

Doveva scappare, cercando senza sosta il se stesso bambino che aveva intravisto nei ricordi di Sablier. Ritrovare il filo di quella matassa intricata, riempire i vuoti che la sua mente si ostinava a creare, impedendogli di vedere chiaramente la strada da percorrere: non esisteva altro. Senza un passato come poteva sperare di avere un futuro? Perciò rincorreva quello scintillio, la luce dorata dell’Abisso che gli mostrava quella parte di sé che aveva perduto.

Ed eccolo lì, insieme a Vincent. Tra le siepi di un meraviglioso giardino i due si erano ricongiunti a quella persona. Il suo padrone… chi era?

C’era stato davvero qualcuno di simile, per lui?

Qualcuno che Gilbert doveva proteggere a costo della propria vita, poiché lo aveva salvato dal dolore e dalla morte, impedendogli di abbandonare suo fratello... sì, questo lo ricordava con amara lucidità.

Se solo non ci fosse Vincent, potrei vivere più tranquillo”.

Era un’idea ripugnante, che era tornata a galla e si era impressa nella sua mente come un marchio di fuoco. Lui aveva sperato che Vincent sparisse. Aveva augurato a suo fratello minore di svanire, così da poter essere libero.

Provava disgusto per se stesso. Aveva creduto di essere irrecuperabile, non degno della salvezza. Forse era per questo che soffriva tanto, che pativa il freddo e la fame, che la gente lo picchiava ed umiliava. Perché in realtà non meritava altro che odio e disprezzo. Ciononostante, qualcuno lo aveva condotto al sicuro. Qualcuno come Oz, un tempo lontanissimo, lo aveva aiutato ad uscire dalle ombre del suo passato. Gli aveva donato una nuova vita. Più bella. Più luminosa.

A quella persona doveva tutto: un posto in cui stare, la possibilità di vivere degnamente come un essere umano e non come una bestia. Lo aveva ripulito dal marciume che lo ricopriva e lo aveva fatto rinascere.

Oz, il suo amato padrone... sembrava non avere più bisogno di lui.

Quel pensiero lo fece tremare, provocandogli una scossa di dolore acuto.

Aveva avvertito il cambiamento nel suo padroncino da tempo, per colpa di Alice. Il B-Rabbit lo aveva trasformato, mentre lui era rimasto lo stesso di un tempo. Il nero che lo avvolgeva si era anzi intensificato, rendendo lo splendore di Oz ancor più accecante. Il suo raggio di sole si stava allontanando sempre più, mentre lui rimaneva fermo, impantanato tra le ombre. Non riusciva a muovere un passo, mentre Oz correva verso una luce sfolgorante.

Lui sarebbe di certo morto se lo avesse seguito.

Un essere come lui non poteva sopravvivere in mezzo alla luce.

Aveva paura. Era terrorizzato. Un panico senza precedenti lo avvolgeva da capo a piedi, facendolo tremare. Perché doveva provare tutto quel dolore? Lui non voleva ricordare, però non riusciva ad abbandonare il desiderio di sapere, di conoscere finalmente la verità che, per anni, gli era stata negata.

Possibile che fosse destinato a rimanere solo, senza un posto in cui restare?

Gilbert anelava soltanto un esiguo calore, un briciolo di serenità che potesse durare in eterno, spazzando via l’orrore che si portava dentro. Che cosa c’era di sbagliato in questo? Era davvero maledetto? Era anche lui un bambino della sventura, contagiato dall’occhio cremisi del fratello?

«Che cosa misteriosa.» disse una voce, la sua voce.

Gilbert la riconobbe immediatamente, trovando la forza di alzare il capo, nonostante lo stordimento causato da quel tormento perforante. Una lama nel suo cervello. Terribile, terribile. Basta, voleva fermare tutto.

«Chi mi trova trasformato in un frammento di anima, non è mai né Oz né Alice. Ma tu, Gilbert.»

Ed eccola, quella mano tesa per lui, avvolta da una luce dorata.

Ma certo.” pensò Gilbert “Ho sempre pensato che sarebbe stato bello se lo fosse… se davvero Jack… se il legame tra Jack e Oz fosse la ragione per cui sono qui.”

«Rispondi ad una sola domanda.» lo pregò Gilbert, sentendosi un randagio sperduto «Colui che ho servito un tempo, il padrone che non sono riuscito a proteggere... sei tu, vero?! Parla, Jack Vessalius!»

L’uomo aureo dei suoi ricordi gli rispose. Dapprima sembrò negare, rattristato da quel quesito. Si spostò, chinandosi alle spalle del piccolo corvo e toccandogli la schiena, in un punto preciso. Non faceva male, eppure il filo di una spada parve sfiorarlo, in ricordo di ciò che era stato. Jack lo ammise: non era come credeva. Gilbert lo aveva protetto, senza però riuscire a salvarlo. Ed era felice che lui ricordasse, anche se era penoso.

Il suo piccolo, dolce servitore.

Così lo aveva chiamato.

E Gilbert aveva pensato di impazzire.

Mentre Jack si trovava ancora a terra, dondolandosi come un bambino, il suo sguardo mutò repentinamente. Distratto da un’interferenza, si corrucciò, voltando il capo in direzione di una svolta di quel roseto a forma di labirinto.

«Non è possibile, come ha fatto a trovarci?» si domandò l’uomo, alzandosi in piedi con aria improvvisamente guardinga «Tu… sei forse uno di loro?»

Allarmato, Gilbert seguì il suo sguardo. Da lontano avvertì una voce. Dapprima lieve e via via sempre più nitida. Chiamava il suo nome, lo invocava con tutte le sue forze. Una donna, spaventata eppure risoluta. Gilbert tese istintivamente una mano, non riuscendo a rispondere.

«Sono qui!» voleva dirle, ma per qualche ragione la voce gli mancò.

Era troppo scosso dai ricordi che, indefiniti e sparsi, gli si accumulavano nella mente, come una serie di fotografie sbiadite dal tempo. Alcune riusciva a vederle, troppe erano ormai perdute. Voleva afferrarle, ma al tempo stesso ne era terrorizzato. E se, una volta conosciuta la verità, avesse perso se stesso, anziché ritrovarlo? La persona che sarebbe sorta alla fine di quella rivelazione, era davvero colui che voleva essere?

Voleva soltanto rannicchiarsi in un angolo e tremare, come quando era bambino e non poteva piangere, per non spaventare il fratellino che gli dormiva accanto.

La voce si fece sempre più vicina, sino a quando non lo raggiunse.

«Gilbert!»

Sophie sbucò dall’angolo che controllava Jack. La parrucca era arruffata, mentre il sudore le imperlava il volto. Riprese fiato, sollevata. Con un ultimo scatto nella sua direzione gli fu vicina, intimorita dallo stato in cui verteva.

«Che cosa è successo?!» domandò agitata, ignorando completamente Jack «Sei ferito da qualche parte? Ti fa male qualcosa?»

Parlava come una madre, terrorizzata eppure dolce. Lo osservò rapidamente, alla ricerca di tagli o contusioni, mentre nella sua mente continuava a chiedersi dove fossero finiti e come avrebbero fatto ad uscire da lì. La sua priorità era ritrovare i compagni ed andarsene quanto prima, tentando di controllare al meglio il panico che le montava dentro. Si impose di calmarsi, per rassicurare se stessa ed il Nightray. Almeno lui stava bene.

Era stato orribile, si era voltata un singolo istante, colpita da quello che pareva un fantasma della città, e quello dopo era sola e senza più punti di riferimento. Aveva vagato nelle vie sconosciute di Sablier, finché qualcuno l’aveva chiamata, facendole notare alcune piccole luci che galleggiavano nell’oscurità. Avvicinandosi, queste erano come esplose in un bagliore accecante. Quando aveva riaperto gli occhi era in quel roseto e, mentre vagabondava tra le pieghe di quell’ennesimo labirinto, aveva avuto l’impressione di sentire Gilbert piangere. Si era allora affrettata, trovandolo a terra tremante, con uno sguardo che non gli aveva mai visto addosso.

«Tu… perché sei qui?»

Sophie si voltò, donando finalmente attenzione al frammento di anima di Jack che, con fare circospetto, la osservava da dietro i suoi imperturbabili occhi smeraldo. Se dapprima era apparso giocoso ed infantile, ora l’austerità aveva avvolto il suo viso, trasfigurandolo in una maschera di diffidenza. La ragazza provò un moto di timore reverenziale, che tuttavia cacciò in fondo al cuore: non era quello il momento di bloccarsi, né di tentennare. Dovevano andarsene da quel luogo il prima possibile, poiché era evidente che il potere dell’Abisso stesse giocando con le loro menti come un burattinaio folle. Avrebbe reciso quei fili, in un modo o nell’altro, e se ne sarebbero tornati dritti filati a Pandora, tutti insieme. Era solo a questo che doveva pensare.

«Chi sei?» ripeté l’uomo, socchiudendo appena gli occhi.

La ragazza ricambiò il sentimento che le veniva porto come un mazzo di fiori, e si preparò a difendere sia se stessa che il compagno, se fosse stato necessario. Swan non era un Chain adatto ad un combattimento ravvicinato, ma le sarebbe bastato per creare un diversivo e scappare.

«Sono Caleb Bauer, un servitore del duca Barma. Mentre tu devi essere Jack.» dedusse la giovane, non fidandosi del titolo che quell’uomo portava al petto come una medaglia.

Eroe o no, vera o meno che fosse la storiella che aveva narrato a Pandora e che aveva corso sulle labbra di tutti i membri dell’associazione, Sophie non poteva confidare in chi non conosceva.

Lui sorrise, divertito dal suo atteggiamento.

«Un servitore dei Barma?» ripeté, quasi ammirato «Non assomigli per niente ai membri di quel casato o ai loro valletti… il tuo sangue nasconde qualcosa. Sei forse un Baskerville?»

Gilbert sussultò, fissando la nuca della ragazza, che si era parata davanti a lui come uno scudo.

Aveva udito bene? Sophie una Baskerville?

Non poteva essere. Cionondimeno, non credeva nemmeno possibile che Jack lanciasse accuse simili senza un minimo di cognizione di causa. Cosa lo aveva portato ad affermare ciò?

Come leggendogli nella mente, Jack proseguì.

«I tuoi occhi… io li ho già visti. Da qualche parte, in questo castello.»

«Non ho idea di che diavolo tu stia blaterando!» sbottò Sophie, alzandosi in piedi e tentando di farsi più grande di quanto in realtà fosse «Né so che ti passi per la testa, ma se hai fatto qualcosa a Gilbert, ti prenderò a calci fino a Reveille!»

Jack rimase allibito da quell’uscita scurrile. Spalancò gli occhi, sollevando le sopracciglia di botto e ritrovandosi senza parole. Quindi scoppiò a ridere di gusto.

«Ahahahah, sei un amico di Gilbert, a quel che sento! Allora non c’è problema: te lo posso affidare.»

«Cosa?» mormorò confusa Sophie, mentre la dimensione intorno a loro perdeva di consistenza.

Si accorse solo in quel mentre dei due bambini che, indifferenti al loro agire, seguitavano a cogliere fiori e a gironzolare attorno a Jack. Riconobbe subito gli occhi di uno dei due, gli stessi che, anni addietro, l’avevano fatta innamorare perdutamente di lui, senza che nemmeno se ne rendesse conto.

«Aspetta, cosa significa… EHI!» gridò ancora, cercando di afferrare quel ricordo.

Che svanì.

I due membri di Pandora tornarono tra le rocce della voragine, circondati unicamente dal silenzio. Interdetta, Sophie fece qualche passo avanti, cercando tracce di ciò che aveva appena vissuto sulla pelle. Non rimaneva più nulla.

«Maledizione!» sbraitò, mentre Gilbert si alzava incerto sulle proprie gambe, reggendosi ad una parete.

Sophie gli si fece vicina, domandandogli come stesse. Lui la ignorò, allontanando la mano che gli si era poggiata su di un braccio con fare accorto.

«Perché sei venuta? Se non avessi interferito, forse...» si interruppe, abbagliato da una nuova illusione.

Sophie seguì il suo sguardo e trovò Gilbert, cresciuto rispetto all’ultimo ricordo, che correva in direzione di quello che sembrava un sentiero battuto in terra. Lentamente, altre figure presero forma: una siepe di un verde rigoglioso, alti alberi di betulla e frassino che solcavano il cielo azzurro e senza nubi. Un gazebo con alcune sedie e tavolini occupò un angolo di quell’immenso spazio, mentre fiori freschi si spargevano lungo l’erba ben curata.

«Tutto a posto? Non ti sei fatta male, vero?» domandò il bimbo, all’apparenza intorno ai tredici anni, mentre si chinava a terra per sollevare qualcosa.

«Ma...» balbettò Sophie «Quella… sono io?!»

Increduli, i due osservarono quella scena della loro infanzia prendere vita dinnanzi ai loro occhi, quasi fosse una recita. Senza pensare, Sophie fece un passo avanti.

«Perché stiamo vedendo questo?»

«Io… non ne ho idea.» ammise il ragazzo, toccandosi la testa pulsante «Non ci sto capendo più nulla.»

«Stai bene? Ti fa male la testa?» domandò preoccupata, venendo interrotta dalla se stessa del passato.

«Giochiamo insieme, Gil?»

Il Gilbert del ricordo parve titubare, mentre si torceva le mani con aria ansiosa. Alla fine accettò, facendo scaturire un sorriso da parte della bambina. I due presero a correre, ridacchiando lieti. Sophie avvertì una forte malinconia stringerle il cuore, mentre tornava a fissare il Gilbert del suo tempo.

«Certo che è un bel ricordo, vero?»

«Ah… sì.» ammise lui, mentre non perdeva d’occhio i due bambini «Era stato un bel pomeriggio.»

«Già. Io poi ti dissi quella frase imbarazzante.»

Come recitando un copione, i bambini presero a dialogare proprio in quel mentre, comparendo a pochi passi di distanza dai due ragazzi. Barma ridacchiò, ricordando perfettamente quello scambio. Persino Gilbert pareva essersi momentaneamente calmato. Si limitò a poggiarsi sulla parete e ad osservare, senza disturbare quella scena di irreale innocenza. Sembrava tutto talmente distante, dopo il vortice di turbamento che lo aveva avvolto solo pochi minuti prima. Non credeva possibile provare una tale quiete, non in quel luogo.

Anche Sophie rimase in silenzio, non volendo rompere quella piccola magia che l’Abisso gli aveva misteriosamente mostrato. Ad un tratto, rammentò un dettaglio: Gilbert non conosceva davvero tutto il ricordo. Una parte, in particolare, doveva tassativamente rimanergli celata. Sophie prese a sudare freddo. Si rivolse dunque al Nightray, con fare concitato.

«Bene, direi che abbiamo visto abbastanza! Che ne dici se ce ne andiamo e cerchiamo gli altri?»

Quasi urlò e lui, colto di sorpresa, poté unicamente annuire.

«Ah, sì, certo. Meglio muoversi.»

«Allora, vorrà dire che ti sposo!»

La voce squillante della piccola Sophie raggiunse come un megafono l’apparato uditivo dei presenti. Gilbert, in contemporanea col suo io passato, esclamò all’unisono: «Cosa?!» mentre Sophie tentava invano, gesticolando, di distrarlo.

«Nonono! Non ascoltare!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola.

Per sua sfortuna, proprio quando si fermò per recuperare aria, l’altra Sophie proseguì imperterrita nella sua manfrina.

«Se ti sposo e abbiamo tanti figli, allora non sarai più solo, giusto?»

A quel punto alla giovane non rimase altro che chinare il capo, mortificata, mentre Gilbert arrossiva e puntava il dito prima verso il ricordo, infine sulla ragazza. Questa si voltò, silenziosa come una lapide, e si lasciò cadere a terra, sconfitta.

«Quello...» mormorò Gilbert «L’hai detto per davvero?»

«Voglio una buca. Qui. Ora. Subito. Perché non ci sono mai buche quando servono?!» si lagnò la Barma, in preda al panico.

«Cioè… tu te lo ricordavi?!»

«E certo che me lo ricordavo! Secondo te perché non volevo che sentissi?»

«Oddio… ecco perché eri tanto in imbarazzo alla Lutwidge.»

«Sta zitto, sta zitto, sta zittooo! Se non ti sento non è successo!»

«Ma che hai, cinque anni?!»

«Ne avevo otto, d’accordo? Otto! Non giudicarmi!»

«Ma chi ti giudica, scema!»

«Sophie!»

Confusi, i due si voltarono verso quel richiamo.

Una donna dai lunghi capelli corvini, tenuti sciolti e ricci, si muoveva lungo un giardino, diverso rispetto a quello dei Rainsworth. C’erano dei fiori di glicine che pendevano dal soffitto in ferro, celato da quella marea di viola che riempiva l’aria con la sua fragranza dolce e penetrante. Indossava un abito verde pastello, senza spalline. Il décolleté era ampio, ma non volgare, e metteva in risalto l’incarnato pallido del viso. Le maniche erano a media lunghezza, con dei piccoli sbuffi ricamati al termine, mentre il tessuto scendeva leggero lungo il busto sottile. Una piccola cintura di perle le cingeva la vita alta, laddove la gonna scendeva liscia, aprendosi in due spaccature laterali, che lasciavano al centro un drappo candido, che le arrivava sino ai piedi. Portava un semplice girocollo di perle, con al centro un’ametista. I suoi occhi rimasero celati, sino a quando non si voltò nella direzione dei ragazzi, sorridendo: erano di un profondo blu, come il cielo più limpido.

«Mughetto! Ecco dov’eri finita.»

Gilbert si voltò verso la compagna, che non rispose. Deglutì appena, paralizzata.

«Mamma?» fu l’unica parola che riuscì a proferire, prima che Gilbert potesse chiederle spiegazioni.

Il Nightray tornò ad osservare la donna, notando l’incredibile somiglianza con la ragazza che aveva al suo fianco. Appariva di qualche anno più matura, con lineamenti marcati lungo gli occhi e gli zigomi. La frangia era pettinata diversamente, divisa ai lati in modo da lasciare la fronte scoperta, al contrario di Sophie che la portava lateralmente, sulla destra. Per tutto il resto, era come guardare l’immagine della ragazza attraverso uno specchio: lo spettro di Mary Barma.



«Elliot?!»

Leo accorse immediatamente al fianco del suo padrone, che si era accasciato a terra. Si copriva il viso con una mano, in profonda sofferenza. Spaventato, il servitore tentò di aiutarlo come poteva, poggiandogli una mano sulla spalla e cercando di comprendere quale fosse il problema.

Erano riusciti a fuggire dai Baskerville per mera fortuna, poiché una persona, apparentemente affiliata all’organizzazione Pandora, era intervenuta giusto in tempo per salvarli. Erano scappati, alla ricerca di Oz e degli altri. Avevano trovato il Vessalius, ma in uno stato che Leo non sapeva bene come definire. Teneva tra le mani una falce enorme e si muoveva con naturalezza, tranciando quegli abomini corrotti dall’Abisso come fossero carta. Quasi si fosse trattata di un’illusione, l’arma era al fine svanita. In quel momento si trovavano in marcia alla ricerca degli altri membri del gruppo, ma a preoccupare maggiormente Leo erano le condizioni di Elliot: doveva portarlo lontano da quel luogo il prima possibile.

«Tranquillo.» cercò di rasserenarlo Elliot, sebbene gli si leggesse in volto la fatica che provava «Ho solo… avuto un altro capogiro.»

Riprese fiato, nel tentativo di riequilibrare il proprio battito. Si sentiva mancare l’aria come dopo una lunga apnea e, come se non bastasse, la testa aveva preso a dolergli. In quelle condizioni non sarebbe stato altro che un peso per loro.

Già… loro.

Leo ed Oz.

Osservò il Vessalius, in piedi dietro al servitore, ed un brivido gelido gli attraversò il corpo. Quel ragazzo non era normale. Non poteva esserlo, non dopo tutto quello che gli aveva visto fare. Provò un istintivo moto di paura, che ricacciò in fondo all’animo: non erano pensieri da farsi, specie in circostanze simili. Se Oz non li avesse difesi, sfoderando quell’arma misteriosa, probabilmente adesso sarebbero morti.

O peggio.” realizzò con raccapriccio, ricordando i volti deformati di quegli esseri mostruosi.

«Attenti!» gettandosi su di loro, riuscì ad allontanare i due ragazzi dalla presa di una di quelle creature che, sbucata dal nulla, si era avventata su di loro.

Scricchiolando come una bambola rotta, l’essere voltò il capo all’indietro, fissandoli con tre occhi informi ed un’enorme bocca obliqua. Subito, Elliot fece per alzarsi in piedi e sfoderare la propria lama, ma il gesto improvviso gli causò un nuovo capogiro.

«Non… adesso...» mormorò provato, mentre si parava ugualmente davanti ad Oz e Leo, nel disperato tentativo di difenderli.

Leo non aveva armi con sé, avendo perso la pistola durante lo scontro con Zwei, mentre Oz non possedeva più la sua falce, né sapeva se sarebbe stato in grado di evocarla nuovamente. L’unico in grado di combattere, in quel frangente disperato, era lui. Le mani, tuttavia, parevano non ubbidire alla sua volontà. Terrore ed impotenza si mescolarono dentro di lui, mentre la creatura strisciava verso di loro.

«Elliot, togliti di lì!» gridò Leo, nel tentativo di alzarlo in piedi e scansarlo.

«Oh la la, serve una mano?»

Un’ombra si piazzò dinnanzi a loro, frapponendosi tra il mostro. Un giovane dai capelli chiari che sfoderò una claymore con elsa a cesto: una possente spada, caratterizzata da una guardia con una gabbia a protezione della mano ed una lama dritta con affilatura da ambo i lati. Dopo aver parato gli artigli, con una mossa a semicerchio si liberò dalla morsa della creatura, tranciandola con un fendente dal basso verso l’alto.

«Certo che potevate anche scegliere un luogo un po’ più allegro per un picnic, ragazzi.»

Oz lo osservò confuso, mentre Leo ed Elliot riconobbero subito la persona che si voltò verso di loro, sorridendogli con un’espressione da spaccone.

«Gideon?!»

«Per servirvi, messeri.» li prese in giro con un buffo inchino «Ora perdonate la scortesia.» e così dicendo fendette l’aria a pochi metri di distanza da Oz, proteggendolo da un’altra bestia «Ma al momento sono leggermente impegnato. A qualcuno va di aggiornarmi?»



 

«Perché mia madre si trova qui?»

La domanda di Sophie vagò nell’aria, senza trovare risposta. Persino Gilbert era a corto di idee e, nella confusione generata da quei ricordi, poté soltanto limitarsi ad osservare la scena, come uno spettatore ignaro delle vicende che si sarebbero susseguite di lì a poco. Con grande sorpresa di entrambi, Mughetto comparve nel loro campo visivo.

«Signorina Alyssa, cortesemente, la smetta di chiamarmi con quello stupido nomignolo. È quantomeno irritante.»

Un ragazzina dai corti capelli castani e gli occhi a mandorla, dalle folte ciglia e le iridi della medesima tonalità dei capelli, rispose altezzosa alla chiamata di Mary. Indossava dei pantaloni stretti color cenere, con una lunga giacca porpora e risvolti in oro che ricopriva la sua figura sino alla metà inferiore del ginocchio. Un fazzoletto candido le stringeva il collo, mentre un paio di orecchini scarlatti a forma di goccia erano l’unico gioiello che si poteva scorgere. Ai piedi portava dei tacchi alti e squadrati, che slanciavano la sua figura. Tutto in quella ragazza trasudava dignità, eppure Mary non smise di ridacchiare.

«Santo cielo, se cominci così adesso, che hai appena ricevuto il tuo primo Chain, chissà quando arriverai al termine della cerimonia.» le puntò un dito in fronte, al centro delle sue folte sopracciglia corrugate «A vent’anni avrai già le rughe, Mughetto.»

«E tu avrai già perso una mano, se non la smetti, Alyssa!»

«Aw, finalmente sei tornata a chiamarmi solo per nome! E dire che da piccola eri tanto caruccia: ti attaccavi alla mia sottana come una bimbetta timida ed innocente. Mi manca quella Sophie.» si lagnò con fare affranto, portandosi una mano al volto.

«Che cosa significa tutto questo?» domandò Gilbert, fissando la compagna.

«Io… giuro, non capisco.»

Sophie non riusciva a distogliere lo sguardo da quella scena. Quel luogo le appariva totalmente sconosciuto, esattamente come quella donna e la ragazzina alla quale le si stava rivolgendo.

«Questa non è casa mia… e lei...» avrebbe voluto dire che non si trattava di sua madre, ma non poteva.

Quella era senza ombra di dubbio Mary Barma, come se la ricordava Sophie e come le veniva mostrata nella fotografia che aveva regalato al padre, soltanto poche ore addietro. Allora perché si rivolgeva a quella ragazza vestita da uomo come a Sophie? Perché utilizzava il medesimo nomignolo che aveva donato a lei? Soprattutto, perché quella ragazzina la chiamava Alyssa?

«Io mi auguro soltanto che, per allora, imparerai a chiamarmi col mio vero nome.» riprese a parlare la Sophie del passato, incrociando le braccia al petto.

Sembrava non gradire troppo quella donna, ciononostante non si era minimamente allontanata. Evidentemente provava dell’affetto per quella persona che reputava irritante soltanto a parole.

«Lo farò quando sarà degna di portarlo. Sino ad allora, non faccia i capricci, nobile Sophie.» la canzonò Mary, ricevendo in tutta risposta una sequela di improperi.

Il ricordo si interruppe, esattamente come era cominciato: inaspettato.

Spaesata, Sophie si guardò attorno, udendo nuovamente una voce, stavolta di una persona che conosceva bene e che, di certo, non poteva essere un ricordo.

«Caleb! Razza di testone infame, ecco dove ti eri cacciato!» Gideon comparve oltre la foschia, seguito da Elliot, Leo ed Oz «Si può sapere che ci fai qui? Il Duca ti taglierà la testa, appena lo verrà a sapere!»

«Come?» domandò smarrita la ragazza, ricomponendosi e tentando di ricordarsi il ruolo che doveva interpretare in quel mentre, nonostante la valanga di domande che le vorticavano nella testa.

«Il duca Barma: mi ha mandato a cercarti. Ha detto che eri partito col tuo Chain per trovare e fermare questi idioti prima che si mettessero nei pasticci. Non vedendoti tornare, mi ha subito fatto chiamare e mandato qui.»

«Ah, giusto...» mormorò appena Sophie, non trovando la forza di affrontare oltre l’amico.

Questi inclinò il capo, preoccupato. Pur senza poterla vedere, aveva percepito il suo turbamento.

«È forse successo qualcosa?»

«Ah, Gil!» la voce squillante di Oz si frappose tra loro, mentre il piccolo Vessalius si avvicinava al servitore, che lo guardava con sguardo spento «Per fortuna ci sei anche tu… vi stavamo cercando! Alice è con voi?»

Il biondo si guardò attorno energicamente, quasi fosse un esploratore in una terra ignota, sospirando al fine.

«No, direi di no. Sei ferito?»

Gilbert lasciò che la mano del ragazzo lo sfiorasse sulla nuca, sorridendo assente.

«No.» rispose appena «Padrone.»

Oz fissò il ragazzo ad occhi sbarrati. Quello non era il solito Gilbert, lo percepì con chiarezza. Per questo, quando Gilbert sfiorò il braccio di Oz che era ancora teso verso di lui, questi tremò, rammentando un episodio del passato che lo aveva confuso e spaventato in egual misura. Appena accolto nella sua villa, Gilbert aveva preso a seguirlo ovunque, chiamandolo appunto “padrone”. Inizialmente non ci aveva dato troppo peso, credendo che volesse soltanto emulare le gesta del libro che gli aveva mostrato. Ma c’era qualcosa nei suoi occhi, quando pronunciava quel titolo, che metteva Oz a disagio. Quasi fosse terribilmente sbagliato tutto ciò. Per questo aveva convinto il servitore a chiamarlo semplicemente “padroncino” o meglio ancora col suo stesso nome.

Non gli piaceva, non gli era mai piaciuto. E, adesso, dopo essere svanito chissà dove, in mezzo a quella voragine di ricordi, ecco che tornava a chiamarlo a quel modo.

«Gil… che ti prende?» domandò, senza però ricevere risposta.

Un rumore di passi echeggiò nella valle, resa silenziosa da quella calma apparente. Apparve dinnanzi a loro, come un passante qualsiasi: un uomo sulla cinquantina, con indosso un fine completo nero, corredato di cappello a cilindro e bastone da passeggio. Una profonda cicatrice gli solcava il volto, rendendo difficile sostenere il suo sguardo freddo come il ghiaccio. Il primo che riuscì a ritrovare la parola, fu Elliot.

«Nobile Zai Vessalius.»



 

1Dovendo inserire la punizione di Christine ed Elliot, non potevo ambientare le vicende di Sablier il giorno immediatamente seguente alla festa dell’Angelo Azzurro, come nel manga. Perciò qui è trascorsa circa una settimana da allora e Christine si è sentita male il giorno prima degli eventi del capitolo.



 



MEANDRO DELL’AUTRICE:

Ben ritrovati, carissimi lettori,

grazie per aver letto anche questo capitolo della mia storia. Mi scuso per il lieve ritardo nel pubblicare, ma la revisione mi ha preso molto più tempo del previsto, poiché ero sola. Ho dovuto fare il doppio del lavoro, ma sono soddisfatta del risultato finale.

Ci avviciniamo sempre più alle vicende succose del manga e della mia fanfic, e non avete idea di quanto la cosa mi emozioni! Non avrei mai sperato di raggiungere un simile traguardo e, sebbene ci sia ancora moltissimo da narrare, ogni giorno che passa mi sento orgogliosa dei successi ottenuti. È una scommessa con me stessa, che mi deve preparare alla stesura di un futuro romanzo originale. Mi auguro che quest’avventura prosegua col vento in poppa e che voi possiate trarne diletto.

È stata dura revisionare il capitolo, ma anche scriverlo non è stato da meno. Avevo sempre al fianco il volumetto di Pandora Hearts e, di volta in volta, dovevo copiare dialoghi o decidere come modificare una scena e se e come descriverla. Considerate che sto seguendo fedelmente tutte le vicende del manga, aggiungendo la prospettiva delle mie OC. Perciò, ad esempio, ho scelto di non parlare del duello tra Break e Zwei e di limitarmi ad accennarlo. Spero di non rendere le cose confuse, ma mi rendo conto che bisogna avere bene in mente il fumetto mentre si legge la mia fic, per non perdersi. Io farò del mio meglio per, quantomeno, accennarvi a tutte le scene principali, così che possiate seguire le vicende di Sophie e Christine senza troppi problemi.

Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e che continuerete a seguirmi. Il prossimo aggiornamento sarà sabato 27 agosto (il giorno del mio onomastico!): Caucus Race

- DOVE LE STORIE DI OGNUNO SI INCONTRANO - !

Dont’ missi it!



Moni =)

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Capitolo 9
*** RETRACE: VIII Caucus Race - DOVE LE STORIE DI OGNUNO SI INCONTRANO - ***


RETRACE: VIII Caucus Race1

- DOVE LE STORIE DI OGNUNO SI INCONTRANO -



«Tanaceto, proteggila sempre.»

Rufus Barma detestava quel ricordo. Gli era rimasto incastonato nella mente come un seme maligno, che silenziosamente aveva cominciato a crescere dal momento in cui la sua peggior paura si era avverata. Non era stato sufficientemente attento e in tal modo aveva perduto la persona a lui più cara. Mary l’aveva predetto quel giorno; non poteva pensare altrimenti Rufus, a distanza di anni. Forse una parte di lei già sapeva e, accoratamente, aveva tentato di prepararlo. Si domandò se anche lei avesse provato il medesimo terrore nel pronunciare quelle parole, che la escludevano da un futuro che avrebbero dovuto condividere.

Non aveva mai parlato a sproposito sua moglie, ogni sua parola era soppesata con cura e colpiva dritto al cuore. Erano poche le donne che potevano permettersi di esprimersi con una simile franchezza con un uomo, sebbene questi fosse loro marito. Solitamente si trattava di dame di elevato ceto, come Cheryl. Mary, invece, pareva non curarsene, come se la sua libertà di espressione dipendesse da lei stessa e da nessun altro. Una donna arguta, di intelletto vasto e segnata da una curiosità insaziabile. Avrebbe fatto impazzire molti uomini, nelle maniere più disparate. Rufus ne sapeva qualcosa, essendo una delle sue vittime.

La sfrontatezza di Mary era la caratteristica che Rufus aveva stimato più di ogni altra e che, con ogni probabilità, lo aveva fatto cadere prigioniero di quella trappola mortale chiamata amore. Un tranello dal quale pensava di non potervisi più cascare. Una volta era stata più che sufficiente per raccogliere dati a riguardo ed evitare così qualsivoglia ricaduta. Il duca Barma non reputava infatti possibile innamorarsi per ben due volte. Era un sentimento troppo unico nel suo genere perché potesse ripetersi con la medesima intensità. Si era sbagliato.

Lo stordimento che aveva provato nello scoprirsi innamorato di quella che sarebbe divenuta sua moglie fu uguale al passato, ma condito di un nuovo sapore.

Non era stato un cambiamento evidente. Dall’esterno aveva avuto aspramente da ridire con ambo le donne e col tempo le loro discussioni non avevano fatto altro che aumentare. Ma se per Cheryl la realizzazione dei suoi sentimenti era stata fragorosa, un’esplosione in piena regola seguita da enormi lacrime cariche di rammarico, con Mary era stato più accorto. Cauto come in guerra, quasi temesse di scoprire ciò che il suo avversario avrebbe fatto con un’informazione del genere. In virtù di questo, aveva altresì compreso che non avrebbe mai amato nessun’altra all’infuori di lei. Poco gli era importato a quel punto di essere esposto alla derisione del nemico: sarebbe rimasto al fianco di quella donna per sempre.

Era nuovamente caduto in errore. Sia perché non era rimasto al suo fianco sino alla fine, sia perché aveva amato un’altra donna… nell’esatto istante in cui aveva stretto tra le braccia Sophie appena nata, aveva compreso quanto il suo cuore non possedesse più confini. Era impossibile contenere in un luogo tanto piccolo tutto l’affetto che, istintivamente, aveva provato per quella creaturina indifesa. La sua bambina, la figlia che aveva avuto con la donna più incredibile che avesse mai conosciuto.

Ciò che tuttavia detestava di Mary era proprio la sua spontaneità. L’aveva odiava ed ammirata, esattamente nella stessa misura. Le conferiva la capacità di trattare anche gli argomenti che più lo spaventavano e lui, in quanto duca che tutto conosce, non poteva permettersi di temere alcun ché. Persino l’informazione più insignificante poteva dimostrarsi col tempo decisiva e perciò la loro raccolta le trasformava in pedine che un giorno lo avrebbero aiutato a vincere qualunque partita, fosse essa contro una famiglia avversaria o un destino avverso. Non esisteva dunque argomento che non potesse interessarlo.

Tutto questo perse di valore quando Sophie nacque. Lentamente, durante quei nove mesi di attesa, Rufus aveva accumulato una serie di dati che non voleva conoscere. Il numero di donne che perivano prematuramente a seguito del parto. O la percentuale di gravidanze terminate prima del tempo. Quando tali paure vennero scongiurate dal grido disperato di Sophie, altre presero presto il loro posto. Non era scontato per il primogenito sopravvivere sino all’età adulta, benché appartenesse ad una famiglia altolocata. Né era certo di possedere le caratteristiche che lo avrebbero reso un buon padre per quella persona in divenire. Come poteva pretendere di insegnarle a vivere nel giusto, quando lui per primo non l’aveva fatto per molto tempo? Il futuro gli appariva come qualcosa di terribilmente fragile e pericoloso, sebbene non volesse ammetterlo. Farlo avrebbe significato dare forma tangibile a quelle chimere.

Mary fu la prima a mettere in mostra le proprie carte, scoprendo le loro paure più recondite. Forse perché indissolubilmente legata a tante tragedie, sapeva che non bisognava tacersi nulla. Non quando una minaccia aleggiava sopra le loro teste come un burattinaio scellerato che giocava con i fili delle loro vite.

«Se mai mi dovesse accadere qualcosa...»

«Che maniera sconveniente per aprire un discorso di poco gusto come questo.» l’aveva subito interrotta Rufus, allarmato da un campanello invisibile.

Non gli era piaciuto il tono che aveva utilizzato sua moglie. Era troppo reale per apparire come una mera supposizione, intanto che cullava la bambina, ignara del mondo spaventoso che la circondava. Aveva soltanto pochi giorni e già le toccava essere partecipe di simili disquisizioni. Rufus non era per niente d’accordo, non voleva in alcun modo intaccare la sacralità di quel momento. Si guardò bene dal riferirlo a sua moglie, come celò il tremore che aveva cominciato a scuotergli il cuore. Lei lo aveva ignorato, come sempre quando lui tentava di deviare un dialogo.

«Tanaceto, proteggila sempre.»

Rufus Barma si portò una mano al volto, provato da quel ricordo lontano. Erano ormai trascorsi tre giorni dai fatti di Sablier: Sophie era riuscita a sfuggire alla sua ira unicamente perché coperta da Gideon e dal suo nome fittizio, che gli imponevano di fare rapporto in qualità di membri di Pandora. La ragazza si era dunque fermata insieme agli altri compagni alla sede principale dell’organizzazione, mentre Elliot Nightray ed il suo servitore avevano fatto ritorno alla casa di Fianna, dove si trovava il duca Nightray.

Fortunatamente la giovane non pareva ferita, ma da un semplice sguardo Rufus aveva compreso come i suoi occhi lo interrogassero con silenziosa insistenza. Non aveva potuto confrontarsi con lei, nemmeno per sfogare il suo sollievo nel vederla sana e salva. Aveva però ragionato su ciò che avrebbe potuto chiedergli e, preparato a mentirle, era stato in grado di sedare i suoi dubbi con un logica distaccata e fredda. Sophie lo aveva lasciato, non potendo fare altro che credergli.

Ora che si trovava solo nel suo alloggio al quartier generale Pandora, Rufus non poté fare a meno di ripensare a quel frammento della sua vita passata e a come avrebbe potuto mantenere quel giuramento che lo assillava. Non sapeva come fare e una parte di lui che credeva sopita riprese a tremare. Si sentì incapace di difendere sua figlia, esattamente come la prima volta che l’aveva stretta tra le sue braccia.

Vi era un’unica certezza che lo guidava: Sophie non doveva sapere, non avrebbe mai dovuto conoscere la verità su sua madre.

Questo.” pensava il Duca Sarà un peso che mi porterò nella tomba.”

Mary gli aveva chiesto una sola cosa da quando si erano sposati e, una volta nata Sophie, le richieste erano salite a due. Erano di una banalità sconcertante, al punto da non meritare nemmeno di essere pronunciate. Sua moglie le aveva invece fatte risuonare come l’ultima preghiera di un peccatore. Un fardello di cui Rufus aveva accettato il peso che, nondimeno, ora non riusciva più a sostenere.

Perché ti sei portata via tutto quello che ti ho dato, facendolo rotolare come un sasso lungo la scarpata?” si domandò sconfitto, per poi porgere lo sguardo al sole calante lungo il palcoscenico del mondo “Eppure pensavo che avessimo creato una dinastia che non potesse essere scossa da alcuno.”2

Nessuna risposta giunse alle sue orecchie.

Soltanto lo scorrere incessabile del tempo gli avrebbe mostrato quale sarebbe stato il finale di quella lunga battaglia che andava combattendo solitario. Riflettendo sul da farsi, osservò il diario del suo antenato Arthur Barma, in tacita attesa sul mobile accanto a lui. Il passato rivendicava di essere riesumato, che lui lo volesse o no. Ma, forse, Rufus poteva ancora giocare le carte del fato a suo vantaggio.

 



Sophie Barma si interrogava sulla sorte del suo futuro. Non era da lei porsi domande esistenziali che andassero al di là del banale, seppur costante, incedere della sua vita. Cosa inventarsi per giustificare la sua assenza da Lutwidge, come ingannare Cassidy ed il padre affinché non si preoccupassero troppo delle missioni che accettava; ed i numerosi compiti da svolgere in qualità di tutore, le interminabili lezioni da seguire, le lunghe lettere che si scambiava con Reim. In ultimo, il diario in cui scioccamente riversava poesie riguardanti un domani lontano ed impossibile. Divenire la degna compagna di Gilbert Nightray pareva quantomeno improbabile, essendo obbligata a vestire i panni di Caleb Bauer, ciononostante quelle pagine bianche le permettevano di sospirare un po’ meno la notte. Era un modo come un altro per sentirsi vicina a lui, pur non potendo vederlo.

Da quando era rientrata a Pandora, invece, avvertiva sulle proprie spalle un onere diverso, che non avrebbe più potuto ignorare.

Pensò a cosa l’avrebbe attesa al suo ritorno alla Lutwidge e, per la prima volta, avvertì le lezioni come un minuscolo granello di sabbia disseminato lungo la spiaggia che doveva percorrere, prima di arrivare alla sua meta. Non aveva mai perso così tante ore di insegnamento ed essendo il suo l’ultimo anno di corso avrebbe dovuto provare una feroce paura all’idea di non riuscire a presentare i prerequisiti necessari per accedere ai test finali. Le pareva tutto ridicolmente irrilevante, considerando ciò che aveva vissuto soltanto pochi giorni addietro, nel dì in cui ogni scherzo vale.

Si rese conto della coincidenza solo allora, provando una strana sensazione, come di voler ridere, senza però riuscirci. Era simile ad una burla finita male: il mondo rideva di lei, mentre Sophie non poteva fare altro che guardarsi intorno con aria smarrita.

 



Da quando Zai Vessalius aveva fatto la sua comparsa nella voragine, il tempo si era come dilatato. Tutto era avvenuto in maniera estremamente circospetta, eppure febbrile. Il nobile si era rivolto direttamente ad Elliot, dichiarando di trovarsi lì unicamente per salvarlo, senza nemmeno considerare il figlio che lo osservava sbigottito. In una circostanza diversa, Sophie sarebbe scattata per un affronto simile, ma era troppo confusa dalle visione che l’Abisso le aveva mostrato per proferire parola. Chi invece non si era trattenuto dal ribattere era stato il giovane Nightray: aveva tentato di redarguire l’uomo per il suo comportamento infido, ma Leo lo aveva bloccato. In fondo, loro erano soltanto dei ragazzini che tentavano di fare la predica ad uno dei quattro grandi duchi, benché il titolo ora appartenesse di diritto al fratello di questi. Era nondimeno evidente come la sua figura li schiacciasse, rendendo impossibile qualunque rivalsa. Persino Gideon, sbruffone di natura, si era quietato, preferendo un cauto silenzio.

Intromettendosi nel discorso, Leo era riuscito a mitigare la sollecitudine dell’uomo, dichiarando la loro intenzione di rientrare quanto prima, non appena Elliot avesse avuto modo di riposarsi per qualche minuto. Dapprincipio Zai non aveva fiatato, limitandosi ad osservarli come bestiole da poco conto, per quanto fastidiose. L’unica parvenza di emozione era stata la risata, fredda e priva di ilarità, all’idea di soccorrere il figlio, a pochi passi da lui. Un gelo pungente, da quel momento in poi, si era conficcato nel petto di tutti.

«E va bene.» aveva al fine concesso, avviandosi verso l’uscita e scansando i presenti, senza nemmeno voltarsi a guardarli, quasi fossero aria «Informata dalle persone che avete inviato.» proseguì, riferendosi alle suore dell’orfanotrofio che Elliot e Leo avevano prontamente avvisato prima di recarsi nella voragine «Anche Pandora si è mobilitata per la vostra protezione, quindi ormai anche il rischio dovrebbe essere minimo.»

Sarebbe potuta finire in tal modo, invece il Vessalius aveva deciso di dare una sonora stoccata alla dignità del ragazzo che, nonostante fosse avverso al suo casato, si era dato pena per difendere quell’essere che riportava il nome di Oz Vessalius.

«Sembra che tu abbia un buon servitore. Sa bene come ci si deve comportare.»

Elliot digrignò i denti, impossibilitato a ribattere. Gilbert invece si mosse, andando dietro all’ex Duca. Sophie pensò che avrebbe dovuto seguirlo, ma le gambe non le ubbidirono. Era rimasta bloccata, non potendo comprendere ciò che era giusto fare.

«Caleb, va davvero tutto bene?» la chiamò Gideon, ora che la tempesta era passata.

La ragazza mantenne lo sguardo incerto, non sapendo come replicare. Come avrebbe potuto spiegargli il suo turbamento? Jack Vessalius aveva detto che c’era qualcosa di misterioso nel suo sangue: aveva insinuato che fosse una Baskerville. Se dapprincipio non aveva dato peso a quei vaneggiamenti, in seguito si era dovuta ricredere. La visione che le aveva mostrato l’Abisso, riguardante sua madre, sembrava mostrarle un’altra verità di cui lei era ignara.

Cominciava a dubitare di se stessa, della sua stessa identità. E se davvero fosse stata una Baskerville? Che cosa avrebbe fatto? Quale sarebbe stato il suo destino da lì in avanti e dove avrebbe potuto trovare quelle risposte che tanto la intimorivano?

Scosse il capo, negando con voce incerta.

«Niente… sono solo un po’ provato. Questo posto ti conduce inesorabilmente alla pazzia.»

Gideon annuì, per nulla convinto della sua reazione.

«E Gilbert?»

«Come?»

«Il tizio che è corso dietro a Zai: non è lo stesso che era venuto a trovarti a scuola?»

«Ah… sì. È lui.»

«Lo lasci andare così?»

La domanda venne posta schiettamente, senza l’ombra di divertimento che solitamente accompagnava il ragazzo. Parlava con voce talmente seria e composta da aver fatto dubitare Sophie della sua identità. Indugio sulla sua figura, confusa. L’altro si limitò a fare spallucce, senza mutare il suo atteggiamento da uomo vissuto.

«È solo che mi sembravi parecchio preoccupato per lui quando si è allontanato, sebbene tu non abbia mosso un dito. Persino adesso osservi disorientato il mondo, quasi dovessi chiedere il permesso per muoverti. Per questo ti chiedo: ti sta davvero bene?»

Sophie esitò, non conoscendo la soluzione di quell’enigma.

In quel momento, non si sentiva in grado di aiutare nessuno.

«EHI!»

Un grido sprezzante, seguito da un colpo magistralmente diretto, centrò in pieno la testa di Oz, facendolo crollare a terra. Tutti si voltarono in direzione della traiettoria di quel proiettile, che si rivelò essere un sasso, ed il colpevole si palesò trionfale da un’altura poco distante.

«Perché fai quella faccia strana, Oz?»

Alice lo osservava interdetta, mentre alcune gocce di pioggia cominciarono a scendere dal cielo plumbeo e sporco di nebbia, polvere e sgomento. La voragine di Sablier si era trasformata in una Babele di orrori reconditi, impossibile da superare. D’un tratto, era giunta quella Chain che, con un semplice sassolino, aveva cominciato a sbriciolare una ad una quelle pareti fantasma, come l’acqua che cadendo lieve solca la roccia. Sophie era stata la prima ad essere grata di quel brusco cambio di atmosfera, sia mentale che meteorologico: la pioggia aveva da sempre il potere di calmarla e di permetterle di riflettere, rallentando la marea di pensieri che la travolgevano. Rammentò il discorso che, soltanto un’ora prima, aveva fatto a Gilbert: «Te lo ricordi? Io voglio esserti di aiuto. Anche se sono imbranata e ci siamo appena conosciuti, voglio davvero essere un tuo punto d’appoggio».

«È vero.» mormorò, ripensando all’entusiasmo con cui Alice era corsa alla ricerca di Oz e Gilbert, nonostante palesasse insofferenza.

Quello era il suo ruolo e lei ne era perfettamente conscia e compiaciuta. Sapeva che li avrebbe ritrovati, che senza di lei erano perduti.

Sophie si concentrò su quel sentimento, sulla priorità che aveva deciso di dare a Gilbert. Da quando avevano preso a scendere nella voragine, il ragazzo le era apparso strano e, all’interno del ricordo di Jack, aveva provato terrore nel vederlo tanto perduto ed affranto. Anche lei aveva i suoi motivi per sentirsi turbata, ma sarebbe potuta tornare a concedersi tale debolezza soltanto una volta che fosse uscita da lì e si fosse assicurata che Gilbert stesse bene.

Coraggio!” si disse con forza “Troverai le risposte che cerchi più tardi, adesso Gilbert ha bisogno di te!”

Fu con tale pensiero in mente che si rivolse con risolutezza al compagno, che le sorrise soddisfatto.

«Gideon, ti affido i ragazzi: io vado da Gilbert.»

Elliot si voltò invece a fissarla con aria corrucciata.

«Aspetta, dove credi di andare? Ci manca appena che ti perdi pure… ehi! Ascoltami, almeno!»

Ma Sophie non si fermò né si voltò a rispondergli, limitandosi a correre nella direzione presa dal Nightray. Pregò l’Angelo dalle ali Bianche, il protettore delle cose perdute, affinché potesse ritrovare Gilbert prima che facesse sciocchezze di cui si sarebbe pentito. Per quanto Sophie si sforzasse, però, le sembrava di girare incessantemente in circolo. Quei muri di pietra la ostacolavano, impedendole di orientarsi. Prima di perdere ogni riferimento, si fermò e decise di riorganizzare i pensieri.

«Così non sto andando da nessuna parte.» mormorò contrita, cercando di recuperare lucidità «White Swan, per favore, aiutami. Vola al di sopra della voragine e trova Gilbert.»

Come proiettandosi dalla sua ombra, il Chain emerse scuotendosi di dosso l’oscurità dell’Abisso, mettendo in mostra il suo candido piumaggio. Nonostante fosse una creatura occulta, che gli umani avrebbero dovuto temere, Sophie lo reputava un compagno insostituibile. Era sempre al suo fianco durante le missioni e, benché non potesse avere la certezza di essere ricambiata nei suoi sentimenti, da quando aveva conosciuto Alice una parte di sé aveva come trovato conferma. Non era solo da umani provare emozioni.

Il Chain spiccò rapidamente il volo, dopo aver ascoltato la richiesta della propria contraente e, senza alcuna esitazione, la guidò verso la sua destinazione. Dopo interminabili minuti, finalmente il ragazzo comparve da dietro una curva ad angolo.

«Gilbert!» lo chiamò sollevata Sophie, mentre questi la fissava sbalordito.

«Sophie? Che ci fai qua, non dovresti essere con gli altri?»

Quasi gli si buttò al collo, da tanto era felice, ma la giovane Barma si trattenne. Si accontentò di poggiargli una mano al petto, come a volersi premurare che quella non fosse l’ennesima illusione creata dall’Abisso.

«Ero preoccupata per te!» esclamò, quasi incollerita con lui per averla fatta preoccupare.

«Ma non dovevi, è pericoloso!»

«Ehi, piccioncini.» mormorò una voce da oltre la spalla di Gilbert, che si rivelò essere Break «Se non la piantate, io qui vomito.»

«Break?!» urlò sorpresa Sophie, che non si era minimamente accorta della sua presenza.

L’albino, per quanto sprezzante come suo solito, appariva decisamente deperito. Il colorito era se possibile più pallido ed un rivolo di sangue rappreso contornava le sue labbra, scendendo sino al mento. Si stringeva a Gilbert, che lo portava con evidente fatica: per quanto mingherlino, aveva il peso di un uomo adulto.

«Spiacente di rovinarle il momento toccante, signorina, ma saremmo di fretta.»

«Oh, giusto ehm...» la giovane parve come ricordarsi di qualcosa di enorme importanza; tornò a fissare il Nightray, con aria preoccupata «Tutto bene? Come ti senti? Non ti sei ferito, vero?»

Gilbert inclinò il capo interdetto, non aspettandosi quell’ennesima raffica di domande. Non era abituato ad essere al centro delle attenzioni altrui. Di norma era lui a porre quel genere di interrogativi, ciononostante, da quando si erano incontrati la prima volta, Sophie pareva essere in grado di prestare attenzione solo ed esclusivamente alla sua salute, a prescindere da come stesse lei. Ricordò l’immagine del passato a cui avevano assistito assieme e, prima ancora, alla ferita al braccio che per giorni aveva limitato i suoi movimenti. Fu grato per quella premura ma, al tempo stesso, provò un senso di fastidio: non voleva essere considerato sino a quel punto. Non gli sembrava giusto rivestire un simile ruolo… in fondo, esisteva unicamente per servire il suo padrone. Malgrado ciò, non poté trattenersi dal provare un senso di gioia.

«Io sto...»

«Io sto una meraviglia, grazie per la premura, dolce paperella.»

Sophie spalancò la bocca oltraggiata, mentre Gilbert si voltò spaesato ad osservare il compagno, che continuava a borbottare improperi alla volta dei “giovani ingrati e con la testa vuota”. L’utilizzo di quel termine tanto familiare, che la ragazza era solita sentirsi rivolgere dal padre, la rese paonazza per la vergogna.

«Io non sono una papera!»

«Allora la smetta di starnazzare e dia una mano, piuttosto.»

«Io, ecco... posso, ehm...»

«Che umiliazione.» continuò imperterrito Break, che oramai poggiava la testa appesantita dalla stanchezza sul dorso del ragazzo «Non credevo sarebbe giunto il giorno in cui mi sarei fatto portare in spalle da Gilbert… uh, uh,uh… e per di più c’è pure la mocciosa del duca pazzo.»

«Non abbatterti!» lo redarguì Gilbert «Sono molto più triste io.»

«E comunque non sono una mocciosa: posso aiutare!»

«Orbene, perché non mi porta lei sulle sue graziose spalle, mh?.» la derise Break, che tuttavia venne preso immediatamente sul serio dalla giovane Barma.

«Okay, nessun problema! Gil, liberati di quel peso morto e dallo a me!»

«Ma non dire sciocchezze!» la sgridò lui, sistemandosi alla bell’e meglio Break, mentre questi osservava schifato, eppure con un debole cenno di ammirazione, quella ragazzina impertinente come poche «Piuttosto vediamo di muoverci a ritrovare gli altri, prima che faccia buio.»

«Ah, per questo potete fare affidamento su di me.» indicò un punto in alto, una candida macchia celata dalle nubi di pioggia «White Swan mi ha permesso di trovarvi e ora può indicarci la via del ritorno.»

«Toh guarda, Gilbert: la mocciosa pare più organizzata di te. Almeno non si getta a capofitto nelle proprie emozioni.»

«Taci.» gli intimò Gilbert, non volendo aprire nuovamente quell’argomento che sapeva essere l’attuale chiodo fisso di Sophie; temeva infatti che sarebbero piovute una miriade di altre domande a riguardo.

A dispetto di ciò che pensava, la Barma non disse nulla. Si limitò a fissarlo con intensità, prima di chinare il capo, imbarazzata e quasi colpevole. Anzitutto per quanto detto dal Cappellaio, che reputava erroneo. Lei si faceva trascinare sin troppo dalle sue emozioni, al punto da venirne spesso travolta. Grazie all’intervento di Gideon, ed indirettamente di Alice, aveva trovato la forza per mettere un piede davanti all’altro e fare ciò che era giusto, ma non sapeva se da sola ne sarebbe stata altrettanto capace. Si rendeva infine conto che, per quanto volesse sinceramente bene a Gilbert, lui non provava il medesimo sentimento. Era perciò pretenzioso da parte sua attendersi delle risposte per una questione che non la riguardava. Fu dunque con un piccolo groppo in gola che parlò, abbassando il tono con fare pentito.

«Non sei obbligato a parlarmi di ciò che è accaduto prima, se non lo desideri. Non intendo più essere un fastidio, rendendomi indiscreta.»

Gilbert non rispose, soppesando quelle parole pronunciate con estrema onestà. Break nel frattempo si scusò distrattamente per essere di troppo, ma nonostante i suoi modi giocosi, voltò il capo in direzione opposta, in un gesto che voleva essere discreto per quanto appena percettibile. Il Nightray comprese di dovere quantomeno una parvenza di spiegazione a quella ragazza che era tornata in quel luogo da incubo soltanto per assicurarsi che stesse bene. Non sapeva da dove incominciare, provando un opprimente senso di vergogna per le sue ultime azioni, tanto sconsiderate quanto melodrammatiche.

«Non è successo nulla di grave, perciò non hai di che preoccuparti.»

«Il qui presente pulcino non è stato capace di sparare, alla fine, se è questo ciò che temevi.» puntualizzò Break, volendo venirgli in aiuto ma contemporaneamente metterlo in maggiore difficoltà «Perciò tutto è bene quel che finisce bene.»

«… mi dispiace.» mormorò Gilbert, lasciando di stucco i presenti.

«Buon dio, Gilbert, mi fai venire la nausea se parli a quel modo.»

«Come ti permetti?! Io esprimo il mio rammarico nell’averti costretto a richiamare il tuo Chain e tu… !»

«Io faccio quello che mi pare, come sempre. Non reputarti così importante, moccioso, e smettila di montarti la testa. Non sei al centro del mondo.»

«Volevi sparare a Zai Vessalius?!» esclamò Sophie, quando la sorpresa le consentì di formulare una frase di senso compiuto.

Conosceva l’astio che legava quei due, ciononostante non credeva Gilbert capace di un atto simile. Conosceva tutte le missioni, ufficiali o ufficiose, che egli aveva svolto per Pandora e poteva soltanto immaginare le volte in cui era stato costretto a sporcarsi le mani, a causa della sua famiglia d’adozione. Lei stessa aveva dovuto compiere azioni per le quali provava rimorso, ma sapeva che non potevano essere paragonabili agli anni di oscurità nei quali il giovane aveva vissuto.

«Ne sei rimasta delusa?» domandò lui, evitando il suo sguardo, quasi temendone un giudizio troppo severo.

«Perché dovrei?» rispose spaesata Sophie, per poi farsi coraggio ed esprimere ciò che realmente provava, senza più omettere nulla «Tu sei una persona estremamente buona, Gilbert. Forse anche troppo. Ciò che devi imparare ad accettare, è che ci sono ombre proprio dove vi è più luce. Se fossi stata al posto tuo, avrei fatto qualsiasi cosa pur di aiutare le persone che amo. Nondimeno, se mi sentissi minacciata, non posso assicurare di potermi comportare in maniera inoppugnabile.» sollevò finalmente lo sguardo, tremante ma limpido «In tutti noi albergano le tenebre. Ciò che possiamo fare, nonostante la paura, è fare in modo di sprigionare una luce abbastanza fulgida affinché non regnino sovrane.»

«Gilbert! Caleb!»

La voce di Elliot li riscosse dai loro discorsi. Sophie fece un cenno al gruppetto ritrovato, precedendo i due uomini per ricongiungendosi agli altri. Break, rimasto in silenzio, ridacchiò divertito della performance tenuta dalla figlioletta del duca pazzo.

«Ma tu guarda, questa mocciosa impertinente… parla come un poeta di cose che nemmeno conosce...» si bloccò, notando solo in quel momento lo sguardo con cui Gilbert seguiva quella figura incappucciata, con un lieve sorriso sulle labbra ed un’espressione confortata.

Break comprese prima di chiunque altro la gravità di quell’atto. Lasciò che il giovane Nightray lo poggiasse a terra per poi dedicare le sue attenzioni all’amato padroncino. Intanto che le loro chiacchiere si animavano, l’albino ebbe appena il tempo di mormorare una frase, prima che le tenebre lo inghiottissero.

«Attento, Gilbert caro: la cosa più pericolosa al mondo è amare.»



 

«Sophie?»

Il ricordo si spense, mentre la ragazza tornava alla realtà. Si era appisolata su di un divanetto, nella stanza che le era stata assegnata a Pandora. Con sua sorpresa, a destarla era stato proprio Gilbert. Si sfregò il volto con le mani, cercando di ricomporsi e, al tempo stesso, di riorganizzare le idee: che cosa ci faceva lì?

A risponderle fu il Nightray.

«Scusami, ho visto la porta socchiusa e, dato che non rispondevi, mi sono permesso di entrare. Ti cercavo per avere notizie di Cassidy: non è ancora arrivata?»

Ah, giusto… mio padre ha proposto a Cass di occuparsi delle ferite del Cappellaio, dato che nessun medico pareva capace di raccapezzarcisi.” cominciò a ricordare, sebbene a fatica.

Non aveva dormito molto nemmeno quella notte. Seguitava a fare lo stesso incubo, in cui incontrava sua madre, esattamente come a Sablier. La donna era di spalle e la chiamava in continuazione. Lei cercava di parlare, ma non emetteva alcun suono. Quando finalmente la raggiungeva e Mary si voltava, un teschio raccapricciante le gridava con voce stridula: «Tu nOn sEi lA mIa SopHiE». Il sogno proseguiva, benché lei non ne serbasse alcun ricordo: il terrore le permetteva di ricordare unicamente quel dettaglio mostruoso, unito ad un botto tremendo che la faceva svegliare in un bagno di sudore.

Provò un brivido a quel ricordo, ma lo relegò in un angolo oscuro della sua mente.

«Che ore sono?» chiese senza trovare la forza di muoversi.

Non si sentiva nelle condizioni di guardare in faccia nessuno, men che meno Gilbert. Lui si prese una pausa per osservare il proprio orologio da taschino.

«Le quattro e venti.»

«Capisco. Probabilmente Cass avrà avuto un’emergenza e si sarà attardata più del solito. Sta seguendo una bambina con i postumi di una brutta polmonite, forse ha avuto una ricaduta o… non lo so.»

«Stai bene?»

Sophie si concesse finalmente di guardarlo. Nemmeno lui aveva una bella cera, ma sicuramente aveva dormito più di lei. Si sentì piuttosto patetica per questo, ciononostante mandò giù anche quell’emozione negativa. C’era troppo da fare perché si perdesse nel suo mondo fatto di autocommiserazione.

«Sì.» mentì, infondendo sicurezza nelle sue parole «Sì, tutto a posto.»

«Hai avuto modo di parlare con tuo padre di ciò che abbiamo visto a Sablier?»

Una fitta le attraversò il cuore. Non voleva parlare di quell’argomento, men che meno con Gilbert. Era la prima volta che sperava di non incontrare il giovane. Non sopportava di leggere nei suoi occhi il sospetto, specialmente quando lei stessa non aveva modo di rimuovere quel velo di mistero che l’aveva improvvisamente accecata.

Appena tornata a Pandora aveva cercato il padre, ma com’era prevedibile non aveva potuto incontrarlo subito, non in privato quanto meno. Soltanto dopo tre giorni, a seguito di un lungo torchiarlo, era finalmente riuscita a chiedergli delucidazioni su ciò a cui aveva assistito. Non aveva ricevuto le risposte sperate e, per quanto non volesse, sospettava che il genitore le stesse nascondendo qualcosa.

«Sì. Mi ha detto che probabilmente ho visto male: quella non poteva essere mia madre. Mi sarò fatta ingannare dai trucchetti della Volontà dell’Abisso. Quel luogo era piuttosto suggestionabile: poteva trattarsi di chiunque o di un falso. Non credi anche tu?»

Non le piacque ciò che lesse nello sguardo di Gilbert. Nemmeno lui credeva a quella versione, ma un sentimento molto simile alla compassione lo fece desistere dal palesare ciò che entrambi pensavano realmente.

«Sì, potrebbe essere.» dichiarò, annuendo poco convinto.

Nessuno dei due disse nulla per diverso tempo.

Sophie si convinse ancor più di aver perso per sempre l’occasione di creare un legame, di qualsiasi tipo, con quel ragazzo. Ora che sospettava di lei, non più come semplice Barma, ma addirittura come potenziale Baskerville e nemica del Paese, come poteva pretendere di ricevere la benché minima fiducia?

Si portò le mani al volto, puntando i gomiti sulle cosce. Aveva sbagliato tutto, per l’ennesima volta. Non sarebbe mai dovuta andare a Sablier. Non avrebbe dovuto chiedere di aiutare direttamente Gilbert ed i suoi compagni, né si sarebbe dovuta impuntare su quel suo stupido sentimento che non l’avrebbe condotta da nessuna parte. Le venne da piangere, per la stanchezza e la frustrazione, ma non le andava di essere di nuovo vista da Gilbert, perciò si sforzò di suonare unicamente esausta, il che le risultò piuttosto facile in quel frangente.

«Vorrei riposare un poco. Ho il principio di un’emicrania... potresti andartene?»

Non voleva usare quella parola, sottintendendo che lo volesse cacciare. Tuttavia, non riusciva a dire che voleva rimanere sola, perché non era vero. Voleva disperatamente della compagnia. Da quando era tornata dalla missione, Reim e Cassidy erano stati impegnati a vegliare su Break, sebbene in maniera diversa, mentre Gideon era sommerso dalle scartoffie e dagli interrogatori che Pandora gli aveva affibbiato. Persino il padre era oberato da riunioni e affari interni alla tenuta che gli occupavano gran parte delle ore della giornata.

Non poteva farci nulla, lo sapeva, non era più una bambina. Però egoisticamente li incolpava di quella loro mancanza. Pregò intensamente che Gilbert se ne andasse senza fare troppe domande e, al tempo stesso, che decidesse di restare.

«… d’accordo, ti lascio tranquilla.»

Sophie annuì, senza alzare il capo.

Una lacrima le scappò, ben celata dalle mani che teneva ostinatamente sul viso.

Gilbert raggiunse la porta, ma si fermò. Sophie lo guardò con la coda dell’occhio, per comprenderne il motivo. Sembrava intento in una profonda riflessione, dalla quale si discostò con risolutezza. Si voltò e le disse, quasi urlando: «Torno subito, tu resta qua!».

«Eh?» Sophie rimase interdetta, a tal punto da scostare le mani, rivelando gli occhi già colmi di lacrime.

Ciò fece scattare Gilbert ancor più sull’attenti, tanto da puntarle un dito contro.

«Ho detto che torno subito: non t’azzardare a muoverti!»

«Io… va bene.» si limitò a rispondere lei.

Trascorsero una decina di minuti e, proprio quando la ragazza credette di essersi sognata quella scenetta, Gilbert tornò trafelato con un vassoio in mano. Chiuse la porta alle sue spalle e, marciando a passo marziale, piazzò l’oggetto su di un tavolino, che prontamente le fu avvicinato. Sollevò il coperchio, svelandone il contenuto: cinque piccole torte, finemente decorate, erano impeccabilmente disposte a formare una specie di fiore.

«Ma… queste?» domandò al culmine dello smarrimento la giovane.

Si convinse che doveva per forza stare sognando, data l’assurdità a cui stava assistendo. Gilbert, leggermente rosso in viso, non per mero imbarazzo bensì per la foga con la quale si accinse a spiegare la situazione, prese a indicarle uno ad uno i dolcetti.

«Sono cinque mini-torte: cheescake ai frutti rossi, torta di mele, dolce al miele e noci, millefoglie alle fragole e torta ripiena al pistacchio con glassa al cioccolato.»

«Sì...» mormorò poco convinta Sophie, che oramai si era asciugata le lacrime e poteva dunque guardarlo negli occhi, nonostante apparissero gonfi per la stanchezza «Ma io che ci dovrei fare?»

«Che domande: scegline una e mangiala.»

«Cosa?»

Gilbert sospirò, facendosi serio.

«Non mi piace vederti in questo stato. Tu mi hai aiutato moltissimo a Sablier, anche quando non avevi motivo per farlo, perciò il minimo che possa fare è offrirti un dolce.» arrossì fino alla punta dei ricci, rendendosi conto dell’ingenuità del suo discorso «Insomma, non voglio dire che mangiare dolci risolva il tuo problema, ma solitamente aiuta a risollevare il morale. Break lo fa sempre, infatti sorride come un ebete tutto il giorno. Inoltre i mal di testa possono venire per un calo di zuccheri, perciò se mangi starai sicuramente meglio.»

«Capisco, ma perché cinque torte?» domandò, persa in quel mare di parole per formulare qualsiasi altro pensiero.

«Ah, quello.» il ragazzo chinò il capo, mortificato «Non… non sapevo quale gusto ti sarebbe piaciuto.»

Dapprima fu come se le mancasse l’aria, ma in modo piacevole. Lentamente, qualcosa dentro di lei si allentò e, istintivamente, si portò una mano a coprire le labbra. Prima che potesse rendersene conto, Sophie cominciò a ridere, sempre più forte, sino a poggiarsi con la schiena lungo il dorso del divanetto che condivideva col Nightray. Non riusciva a smettere, era troppo, troppo felice.

«Ho sbagliato?! Non ti piace nessuna di queste?» domandò preoccupato, non capendo la sua reazione.

«Oddio, no, no, scusami.» disse lei, asciugandosi una piccola lacrima di gioia «Sono solo… Gilbert, sei troppo carino, giuro.»

«Carino?! Ehi, guarda che non è bello dire a un uomo che è carino!»

«E perché? Tu lo sei, tantissimo.»

Incapace di ribattere, il Nightray si pentì del suo gesto. Non si spiegava perché diavolo avesse fatto tutto questo per una sconosciuta. Non erano amici, men che meno legati da qualsivoglia vincolo di affetto. Erano semplici colleghi, per giunta collaboranti in sole due missioni. Eppure, quando aveva visto Sophie mentire apertamente e chiudersi in se stessa, si era sentito impotente. Non conosceva quella ragazza abbastanza per poterla consolare, ma almeno un buon dolce poteva offrirglielo… anche se non cucinato da lui, poteva portarle qualcosa che, sperava, le avrebbe fatto tornare il sorriso.

Beh… almeno adesso non sta più piangendo.” constatò con sollievo, osservando la giovane intenta a decidere quale torta assaporare.

«Scelgo questa allora, se posso.» disse, afferrando il piattino contenente la torta ricoperta di cioccolato.

«Ti piace il pistacchio?» domandò incuriosito il Nightray.

Lei annuì, ammirando la scorza semisferica che avvolgeva un ripieno che, già solo a immaginarlo, pareva squisito.

«Trovo che sia una delle cose più buone al mondo. E pensa che l’ho scoperto soltanto un paio di anni fa: Reim mi aveva regalato una confezione di macarons e quelli verdi erano semplicemente divini.»

«Sei patita di dolci, ergo.»

«Non potrei vivere senza. A te invece non fanno impazzire, vero?» domandò, già conoscendo la risposta, mentre assaporava con un morso quella prelibatezza.

Il sapore intenso del pistacchio mescolato all’amarognolo del fondente la fece distendere. Gilbert increspò le labbra, trovando estremamente facile leggere le emozioni di quella ragazza, se soltanto la si osservava in volto.

«No, in effetti preferisco cucinarli. Però i macarons non mi dispiacciono.»

«Allora devo farti assaggiare quelli della pasticceria accanto alla Lutwidge: sono i migliori di Reveille, garantito!»

«Non è necessario.»

«Massì, invece, lo faccio volentieri. Potrei portarne un poco anche per Oz e gli altri, che dici? A Break piaceranno di sicuro, basta che non se li mangi tutti.»

«Non posso garantirne l’incolumità.»

«Che impiastro. Vorrà dire che prenderò un vassoio per lui ed uno per gli altri.»

«Continuo a non poterti assicurare nulla.»

«Ma quello non è un uomo, è un pozzo senza fondo!»

Continuarono a conversare per diverso tempo, fino a quando Sophie non terminò, con estrema calma, il suo dolce. Una volta fatto, Gilbert fu costretto ad andarsene per controllare se Cassidy fosse arrivata, così da accompagnarla nella camera di Break. La Barma si offrì di riportare il piatto alle cucine, ma Gilbert non glielo permise, volendo lasciarla tranquilla a riposare, dato che ne aveva l’opportunità.

«Tienimi aggiornata sulle condizioni di Break, per cortesia.» lo avvisò, mentre si salutavano sull’uscio.

«Certamente. Tu cerca di riguardarti.»

«Sì, e... Gilbert?» lo chiamò ancora, quando questi già si stava allontanando.

Esitò un istante, prima di sorridergli, lasciando il Nightray colpito da un vago senso di calore a lui sconosciuto.

«Grazie di cuore.»

Non appena la porta si richiuse, Gilbert affidò ad una domestica che passava per caso di lì il contenitore con i dolcetti. Si diresse a passo sicuro verso l’ala in cui si trovavano gli alloggi dei membri di rango più elevato a Pandora, tra cui il suo e quello di Break; pur non essendo questi un nobile, si era distinto insieme a Reim per le sue indubbie doti, guadagnandosi le effigi argentee che spiccavano sulle spalle delle loro uniformi. Sophie, invece, faceva parte per suo stesso volere di una categoria inferiore, i collaboratori3. Come gli aveva rivelato poc’anzi, non le andava di sfruttare l’influenza del padre e voleva altresì mettersi alla prova. Era decisa a dimostrare le sue capacità e guadagnarsi una posizione di prestigio con le sue sole forze.

In breve tempo raggiunse la stanza di Gideon, situata al limite delle scale che conducevano ai piani superiori. Non appena il Nightray superò la soglia sovrappensiero, l’uscio si spalancò, rivelando Cassidy. La sua mente ci mise qualche secondo ad elaborare quel dato, essendo ancora fissa sul sorriso di Sophie che, per qualche motivo che non comprese, gli scaldava l’animo. Lo sguardo seccato che la bionda gli donò lo fece immediatamente distrarre da tali fantasticherie.

«Oh, ti stavo giusto cercando.» le disse d’impulso Gilbert, interessato ad interrogarla sulle condizioni di Break.

In un certo senso, si sentì come Reim quando ignorava bellamente i comportamenti irriverenti e spregiudicati del servitore di Villa Rainsworth, con la differenza che Break lo faceva impazzire, laddove la ragazza, con molta probabilità, avrebbe potuto spedirlo direttamente all’obitorio.

«Non mi dire.» ribatté seccata, sbattendo la porta in faccia ad un innocente Gideon che, mestamente, tentava di emergere alle sue spalle «Io invece mi stavo interrogando sul diritto all’omicidio in questo Paese.»

«È illegale.» le fece notare con angoscia crescente il Nightray, rimasto colpito dal fatto che Cassidy non si fosse nemmeno voltata per chiudere con tutta la sua forza i battenti d’ingresso «Come in tutti i Paesi civili.» ci tenne a precisare.

«Questo perché non ci sono donne al governo.»

Gilbert si trattenne dall’esternare il suo sollievo, specialmente dopo aver immaginato un mondo in cui lei era al potere. Fece una tacita preghiera di ringraziamento agli Angeli del cielo, per questa concessione divina. Era in momenti simili che ritrovava tutt’a un tratto la fede.

«Che volevi sapere? Notizie sul Cappellaio?» cambiò bruscamente argomento Cassidy, prendendolo piacevolmente in contropiede.

«Sì, lo hai già visitato?»

«Stavo recandomi da lui proprio ora. Se vuoi accompagnarmi.»

Acconsentì, seguendola in silenzio a pochi passi di distanza. In verità, la sua lingua premeva per chiederle delucidazioni sulla scena a cui aveva appena assistito, ma siccome desiderava vivere per almeno un’altra decina di anni, si guardò dal palesare oltre i suoi pensieri.

«Se l’è meritato.» proferì atona Cassidy, quasi potesse leggergli nella mente.

Gilbert deglutì sonoramente, avvertendo del sudore freddo solcargli la fronte.

«… certo.»

 

 

 

A Pandora era scoppiato il finimondo: tra la fuga rocambolesca di Oz e compagni, la lontananza del duca Nightray recatosi a Sablier, i feriti riportati dalla voragine ed il preoccupante terremoto che aveva scosso l’intero Paese, l’organizzazione era nel caos più totale. Nel mentre in cui si tentava di raccogliere i dettagli delle testimonianze di Gilbert, Gideon e Caleb, il duca Barma aveva mandato a chiamare un medico di fiducia. Le condizioni di Break apparivano infatti critiche e, nel tentativo di sedare parte dei disordini interni, aveva deciso di sollevare i medici di Pandora dai loro doveri, dato che dalle loro indagini non emergeva nulla che potesse essere di aiuto per il paziente. Naturalmente al nobile nulla importava della salute dell’uomo, ma poiché un forte legame di amicizia lo legava ai Rainsworth si era sentito in dovere di intervenire.

Proprio quando la situazione pareva essersi calmata, i tre giovani messi sotto torchio da Pandora furono liberati. Riunitisi nel salottino di Gideon, che si era offerto di ospitarli, si erano al fine lasciati cadere, chi su di una poltrona gli altri su di un divanetto. Oz, rimasto separato sino ad allora dal gruppetto, aveva fatto il suo ingresso timidamente. Al suo fianco vi era Alice e, alle loro spalle, una figura oscura di cui però non si erano resi conto.

«Ragazzi, come sta… ?» cominciò il biondo, per essere bruscamente interrotto da un grido di guerra.

«GIDEON UOMO IDIOTA CHE CAMMINA!»

Il sopracitato giovane ebbe un brivido e scattò sull’attenti, nel vano tentativo di placare la furia di quella creatura mitologica che conosceva fin troppo bene.

«Non ricordavo di aver cambiato nome, ma va benissimo! Chi si lamenta? Io no di certo… tu Caleb?»

«Che c’entro io?!» domandò preoccupata la ragazza, che si fece immediatamente piccola piccola, nella speranza di passare per un pezzo di mobilia insignificante.

«Con te parlo dopo.» ringhio il demone, facendo così crollare quella flebile speranza di sopravvivenza che, per un breve ma intenso attimo, era balenata nel cuore della Barma.

Lo sguardo di Cassidy non si era mai smosso dal suo obiettivo che, pur non potendola vedere, avvertiva perfettamente il peso di quell’accusa. Poté soltanto portare le mani avanti, in un istintivo gesto di difesa che, in teoria, doveva placare l’aggressività di quella belva feroce. Forse vi era una benché minima possibilità di riuscita, ma essa si ridusse a zero nell’istante in cui Gideon diede aria alla bocca.

«Hai tutto il diritto di essere arrabbiata.»

La tempesta si scatenò.

«Ah, davvero?» fece melliflua la bionda, per tramutarsi in lama «Beh, ti ringrazio per avermi dato il tuo consenso, non ci avrei dormito la notte altrimenti.»

«Ahia.» mormorò Caleb, avvertendo dolore per l’amico «Forse dovremmo andare...»

«Non ci pensare nemmeno.» la bloccò sul posto Cassidy.

«Cass.» fece serio Gideon, aumentando se possibile la tensione nell’aria che si poteva palpare nella stanza «Non coinvolgere gente che non c’entra nulla. Evita di fare una scenata.»

«Una scenata?!» a Cassidy uscirono gli occhi dalle orbite poi, come improvvisamente spenta da ogni emozione, disse freddamente «Certo, per voi in fondo è di questo che si parla. Solo una scenata.» strinse i pugni, senza cambiare tono «Voi ve ne andate a zonzo, in luoghi che vanno oltre la definizione di pericoloso, a rischiare la vita e senza mai dirmi nulla. Mentre io servo soltanto per rattopparvi eventuali ferite. Il resto non conta, giusto?»

«Cass, non è come…» tentò di intervenire Caleb, avvilita da quelle accuse tanto dure, ma l’amica la fermò nuovamente con un cenno della mano.

Il suo viso era rimasto marmoreo, come una maschera del teatro antico. Soltanto il lieve tremito che le percorreva l’arto, come un serpente venefico, era prova della grande emozione che la stava attraversando e che, a fatica, dominava dentro di sé.

«Va bene così, Caleb. In fondo sto solo facendo una scenata. Vado a visitare il ferito, tanto qui non servo.»

Si mosse celere, eppure tutti i presenti osservarono quello spostamento come se avvenisse al rallentatore. Gideon si alzò, fece per parlare, ma tacque. Era raro per Caleb vedere l’amico tanto combattuto. Quando finalmente si decise ad emettere un suono era solenne, come un antico cavaliere dinnanzi al signore a cui aveva giurato eterna fedeltà.

«Non ho intenzione di tradire la mia promessa, né ora né mai.»

Cassidy si fermò. Poggiò stancamente una mano sullo stipite della porta, come prosciugata da ogni energia. Oz ed Alice, seppur vicini, non avrebbero saputo dire quali pensieri stessero attraversando la sua mente, distante miglia e miglia da quel luogo. Non si voltò.

«Ti ho chiesto solo una cosa, Gideon, soltanto una. Perciò non chiedermi di far finta di niente, lo sai che non posso…»

Attraversò il varco che la separava dal corridoio e, inaspettatamente, la soglia rimase aperta, facendo permeare quel vuoto della sua assenza che, come un fantasma, aleggiava tra i presenti. Oz e Gilbert non compresero il significato di quello scambio, ciononostante ne percepirono la solennità. Alice, dal canto suo, grazie al suo insaziabile sarcasmo, riuscì a rompere quel silenzio calato come un incantesimo su di loro.

«Certo che vi siete messi di impegni per farla infuriare tanto. Faceva quasi paura quanto me.»

«Non è arrabbiata.» le rispose Caleb, sospirando «Ha soltanto paura.»

«Che? Quella là? Paura di cosa?»

«Alice.» la richiamò Oz, scuotendo appena il capo per farle capire che non era il caso di proseguire oltre.

«Puoi tranquillamente aggiungere delusa.» le concesse Gideon, lasciandosi ricadere sulla poltrona con fare teatrale.

Il modo in cui si portò le mani al viso, reclinato all’indietro, mostravano tutta la sua amarezza per quella situazione che aveva creato. Ridacchiò senza alcuna gioia, fissando lo sguardo vuoto sul soffitto.

«Non faccio altro che ferirla.» mormorò appena, per poi stringere i denti.

«Ehm… scusate se mi permetto, ma lei chi era?»

«Chi è questo tizio, più che altro, Oz! È sospetto, super sospetto! Ha degli occhi strani, non mi piacciono.» aggiunse prontamente la Chain alla domanda del nobile.

«Ahahah, giusto, non mi sono ancora presentato.» così dicendo, il ragazzo si rimise in piedi.

Muovendosi con estrema grazia ed eleganza, si portò una mano chiusa al petto, all’altezza del cuore e, con un inchino profondo, si presentò davanti ad alcuni dei rappresentanti più importanti della nobiltà, oltre che al Chain più temuto da tutta Pandora.

«Perdonate la mia mancanza di buone maniere dovute alle circostanze del nostro incontro. Sono Gideon Tryghain, membro di Pandora al servizio della famiglia Barma, nonché amico fidato di questo elemento.» concluse la sua baldanzosa presentazione indicando Sophie, confusa dal suo guazzabuglio di belle parole.

«Ehi! Se continui con questo andazzo ti lascio in balia di Cassidy.»

«Quale dolce pensiero: l’idea di lasciarmi trasportare dalla sua furia incendia ancor di più il mio cuore già innamorato.»

«Un momento! In che senso innamorato?» volle sapere Oz, allarmato.

«Ebbene lo confesso, sebbene si dovrebbe già capire: Cassidy altri non è che la mia amata.»

«Sono fidanzati. Anche se Cassidy non vuole saperne di sposarsi.» specificò divertita Sophie, godendosi gli sguardi esterrefatti di Oz e Gilbert.

«Quale angelico limbo, il mio.» sospirò Gideon, con aria trasognata.

«Sei fidanzato, ma lei non si vuole sposare?!» domandò sgomento il Nightray, intromettendosi d’improvviso nel discorso.

«Cassidy è una donna che sa quello che vuole.» rispose semplicemente il biondo, con un sorriso di circostanza «E fintanto che lei è felice, io non ho nulla di che lamentarmi.»

«Ma… ma come? Io nemmeno credevo che fosse possibile conversarci civilmente, figuriamoci corteggiarla.»

«Rispetto il suo punto di vista, nobile Gilbert, ma ci tengo a ricordarle una questione fondamentale: Cassidy è la donna di cui sono innamorato, perciò le sarei oltremodo riconoscente se non si rivolgesse a lei con una tale confidenza; di fatto non avendone alcuna.»

«Ed è anche la mia migliore amica.» ci tenne a puntualizzare Sophie, anche per smorzare i toni, poiché sapeva bene quanto facilmente Gideon si infervorasse quando si trattava di Cassidy.

Si rivolse dunque ad Oz ed Alice, in attesa di ulteriori delucidazioni, parlando con non poco orgoglio.

«Oltre ad essere il medico di fiducia della famiglia Barma.»

«Così giovane? È davvero straordinaria, allora.» esclamò il Vessalius, strabiliato ed ammirato, mordendosi la lingua per non aggiungere “ed è persino una donna”; non voleva rischiare di offendere Sophie e la sua amica in una volta sola.

Gideon parve apprezzare il cambio di discorso, beandosi di quegli elogi rivolti alla sua dama.

«Posso confermarlo: non esiste persona più dedita al suo incarico di lei, oltre ad essere un’instancabile studiosa. È una persona che si è fatta da sé e che, a causa di questo, ha sofferto molto. Vi prego perciò di essere comprensivo nei suoi confronti, benché all’apparenza risulti difficoltoso approcciarla. Non merita il vostro biasimo.» ammorbidì il tono, facendosi conciliante quando si rivolse a Gilbert «Alle volte, sbaglio anch’io.»

«Non sei il solo, se questo può consolarti.» gli disse Sophie «Ed io la conosco da molto più tempo di te.»

«Purtroppo no, non mi è di alcun conforto, dato che mi trovo in una posizione nettamente diversa dalla tua, ma apprezzo ugualmente.» le concesse l’amico, prima di inchinarsi nuovamente dinnanzi ai presenti «Col vostro permesso, ho un torto da andare a riparare.»

 



Con grande sollievo di tutti, Xerxes Break aveva ripreso conoscenza.

Cassidy e Gilbert se ne accorsero per ultimi, avendo il Cappellaio già ricevuto la visita di Reim, Sharon, Oz ed Alice. I due giunsero sul finire di quel corteo giocoso e fin troppo movimentato per i gusti del medico. Questi lasciò correre per qualche minuto poi, con voce ferma, annunciò la sua volontà di visitare il paziente. Oz ebbe un istintivo moto di terrore, dato il ricordo che serbava della ragazza. Break, evidentemente ignaro del pericolo, aveva invece cortesemente chiesto alla sua “graziosa infermiera” di pazientare un poco, dovendo disquisire con i presenti di materie alquanto delicate ed impellenti. Cassidy aveva sorriso, facendo finalmente correre un brivido lunga la schiena di Break.

«Sia. Tornerò non appena Sua Maestà sarà pronto e non dubiti che la sua infermiera baderà a lei con tutto il fervore e lo zelo di cui è capace.»

A quel punto Gilbert fece un sentito quanto silenzioso addio a Xerxes. Un tempo avrebbe forse gioito di una tale punizione, date le mille angherie subite nel corso di quei dieci anni di forzata collaborazione, ma una Cassidy furibonda ed offesa non l’avrebbe augurata al suo peggior nemico, figurarsi poi in qualità di medico. Break avrebbe avuto modo di espiare le sue colpe e di questo Sharon ne fu tacitamente soddisfatta. Era la prima volta che incontrava una donna, ad eccezione dell’amata nonna, che sapesse incutere timore con un semplice gesto.

Penso che mi piacerebbe conoscerla meglio.” disse tra sé e sé, mentre si accingeva a sentire le testimonianze dei suoi amici riguardo i fatti di Sablier.

Tutti quanti avevano avuto a che fare con esperienze minacciose quanto misteriose: creature corrotte dagli influssi dell’Abisso e tramutate in orrendi mostri, città fantasma risorte dalle macerie e ricordi talmente vividi da potervisi immergere come in un sogno ad occhi aperti. Gilbert pareva il più restio a parlare e, per una volta, non soltanto riguardo se stesso. Dopo aver ammesso, in maniera palesemente menzognera, di non aver visto nulla di particolare nei suoi ricordi, ebbe un secondo tentennamento.

«E di Sophie Barma, cosa ci dici?»

La domanda del Cappellaio fece strabuzzare gli occhi del Nightray, dapprima socchiusi in una torbida meditazione. Osservò spaesato l’albino, che ricambiava il suo sguardo con severo acume.

«In che senso?»

«Nell’unico senso possibile: da quello che ho sentito, voi due siete tornati assieme da Oz ed Alice cari, dopo che l’Abisso vi aveva diviso con l’inganno. Hai per caso notato qualcosa di interessante?»

Gilbert non sentì nemmeno la replica del servo di casa Barma che, offeso da quel commento, si era intromesso affermando che non c’era assolutamente nulla di sospetto nella sua padroncina. Break aveva replicato che si era limitato a porre una semplice domanda. Per quanto si fidasse dell’amico, lo stesso non poteva dire della figlia del Duca.

«Sai bene che riponiamo piena fiducia nelle tue capacità, Reim. Il mio solo cruccio è: quanto davvero sai di quella ragazza?»

«Adesso stai davvero… !»

«Nulla.»

L’intervento di Gilbert interruppe il litigio, facendo voltare i presenti in direzione del Nightray. Manteneva il capo chino, l’espressione sorpresa, come se non si aspettasse di pronunciare ciò. Si sentiva confuso: perché aveva risposto a quel modo? In fondo, lui davvero non sapeva nulla di quella giovane, se non poche, vaghe informazioni. Era un’inguaribile ritardataria, tanto per cominciare. Era molto zelante nei propri incarichi, attenta ad ogni dettaglio, eppure molto goffa ed imbranata quando si trattava di interagire con persone che non conosceva. Parlava senza riflettere troppo, dando vita a fraintendimenti ma anche a profonde riflessioni. Amava il pistacchio ed i macarons. E voleva essergli amica.

Una serie di dati completamente irrilevanti, che non rispecchiavano l’immagine nitida che lui e Break, in qualità di servitori di due delle più importanti casate ducali del Paese, avrebbero dovuto avere nei riguardi di un possibile alleato. Non potevano ancora definire Sophie Barma con criterio e, dunque, ciò che aveva visto nella voragine, quel ricordo che riguardava la defunta duchessa Barma, sarebbe dovuto fuoriuscire dalle sue labbra con totale disinvoltura. Era soltanto un’informazione da riportare, nulla più. Niente di diverso da ciò che aveva sempre fatto nel corso di quei dieci anni.

Man mano che proseguì in questi pensieri, però, il suo sguardo si fece sempre più concentrato. Ricordò ogni frammento di quel giorno che aveva condiviso con Sophie e in nessuno di essi vi poté leggere l’ombra di un dubbio. Era di un’onestà disarmante il suo volto e, anche nel dissimulare la propria sofferenza, vi si leggeva chiaramente ogni emozione, come un libro aperto. Fu con il ricordo vivido di quella lacrima che era sfuggita al suo controllo e del sorriso che poco dopo la ragazza gli aveva donato, che ripeté fermamente la sua posizione, decisa inconsciamente già da tempo.

«Non ho visto nulla di rilevante che la riguardi.»

Break soppesò quelle parole, con cura, prima di alzare le spalle con fare apparentemente indifferente.

«Tanto meglio. Ora il caro Reim potrà tirare un sospiro di sollievo e tornare a scodinzolare dalla sua padroncina.»

Mentre il dibattito tra i due riprendeva, Cassidy si fece annunciare con delle pesanti manate alla porta: a gran voce, invocava il suo sacrosanto diritto a visitare il paziente ed a sbattere fuori chiunque le si opponesse. Per defenestrazione diretta, come ci tenne a precisare. Effettivamente, rifletté Oz ad alta voce, la giovane era stata sin troppo clemente nei loro confronti, concedendo loro ben trenta minuti di intimità. Una volta usciti, Gilbert si pose a sua volta una domanda, la stessa che, nel suo profondo sguardo cremisi, Break gli aveva rivolto.

«Sei certo di poterti fidare di Sophie Barma?»

 



«Sei veramente un cretino.»

«Porta rispetto mocciosa. Anche se non sono un nobile, resto pur sempre...»

«Lei è veramente un cretino. Il suo ego si sente meglio, adesso?»

Reim non poté far altro che pulirsi gli occhiali con fare agitato. Da quando era rimasto in stanza con Xerxes e Cassidy, quei due non avevano fatto altro che lanciarsi frecciatine durante tutta la visita. Per quanto il servitore di Villa Barma volesse apparire super partes, non poteva fare a meno di ridacchiare sotto i baffi per tutti quei macigni portentosi che, con la delicatezza di un uragano, il giovane dottore lanciava con mira micidiale alla volta di Break. Il quale, per quanto tentasse di ribattere, poteva unicamente sprofondare di colpo in colpo.

Il suo divertimento ebbe termine nel momento in cui Cassidy proferì la sua diagnosi.

«Il suo corpo ha raggiunto il limite.»

Non vi era più l’ombra di un sentimento nella sua voce; per un istante, Reim avvertì il suolo mancargli da sotto i piedi.

Sapeva che Xerxes non verteva in buone condizioni e che, a causa del prolungato uso di Mad Hatter, il suo corpo stava subendo dei danni sempre più gravi. Credeva che si trattasse soltanto di circostanze passeggere, che col tempo si sarebbero sanate. Voleva crederlo. Invece, ora la gravità dei fatti lo colpiva in tutta la sua potenza.

«Mi dispiace.» disse infine Cassidy, senza guardare il paziente negli occhi.

«Quanto?» volle sapere Break.

«Se non utilizzerà più il suo Chain...»

«Dottore, sia onesta con un povero vecchio, la prego.»

Dapprima non trovò le parole o, forse, stava soppesando il tono con cui riferirle; alla fine, la bionda scelse di mantenere la medesima cadenza: «Potrebbe non riuscire a vedere la prossima primavera».

Break chiuse gli occhi. Non una nube di turbamento oscurò il suo viso pallido.

«Capisco. Beh, in fondo ho sempre detestato quella stagione. Decisamente sopravvalutata.»

«È tutto qui?!» domandò irato Reim «Non hai davvero altro da chiederle, Xerxes?»

«Che dovrei fare, Reim? Mettermi a singhiozzare? Non ho più l’età per simili bambinate.»

«Cosa si può fare?» domandò il giovane alla ragazza, ignorando il commento dell’amico e palesandosi dinnanzi a lei, afferrandola le spalle «Tu sei l’unica che è stata capace di comprendere al volo le sue condizioni e trattarlo, allora...»

«Allora trova una cura?»

Cassidy lo osservò con i suoi occhi di ghiaccio, indifferente. Non si scostò dal suo tocco, lasciò che i suoi sentimenti fluissero prima di prendere gentilmente ma con fermezza le mani del ragazzo, togliendosele di dosso.

«Per quanto noi medici rappresentiamo l’unico avversario della morte, non siamo divinità. Non possiamo sapere tutto, né curare tutti.»

«Ma se… !»

«Signor Reim.» lo chiamò pacatamente lei, sperando di destarlo da quel suo stato di agitazione «Comprendo come si sente, ma io non ho le conoscenze per salvarlo. Posso tentare di rallentare i sintomi, trovare un rimedio che plachi il dolore...»

«Dolore?»

«Utilizzare quel Chain non è privo di conseguenze, nemmeno nel breve termine.» affermò convinta la ragazza, lanciando uno sguardo glaciale a Break «Ma di questo, ovviamente, lei non ne era a conoscenza.»

«Ah, non mi dica: era dolore quello che provavo? Sa, quando si è presi da una cosa non ci si accorge quasi del resto.» rispose il Cappellaio, mantenendo il suo distacco.

«E non c’è davvero altro che possiamo fare?» domandò ancora Reim, le braccia ormai distese lungo il corpo, prive di volontà «C’è una persona… ci sono delle persone che soffriranno nel venirlo a sapere.»

«Lo capisco, purtroppo non posso fare altro.»

«Continua a ripetere che lo capisce, ma non mi pare troppo coinvolta, signorina.» la rimbeccò Break «Potrebbe almeno fingere, sa. Lei è molto graziosa, ma quella maschera di ghiaccio che porta perennemente addosso la farà odiare, e non solo dai suoi pazienti.»

«Io sono un medico e devo curare il corpo. La mia faccia o ciò che provo non deve riguardarvi.» ringhiò lei, per poi trattenere il fiato, come scottata «E soltanto perché non lo dimostro, non significa che non provi nulla. Dovrebbe saperlo anche lei, no?» si concesse un sorriso stanco, con una nota di compassione «Mi dica, signor Break, quello che mi ha detto era rivolto a me o a lei stesso?»

Sistemò i suoi arnesi senza attendere una risposta. Chiuse la borsa e, dopo un breve inchino, si congedò dai due gentiluomini.

«Non parlerò ad alcuno dei dettagli della sua condizione, se non lo desidera, ma le consiglio di farlo lei stesso quanto prima. A cominciare da questo qui.» disse Cassidy con un cenno rivolto verso Reim «Dovete parlare di diverse cose, no? Ora che la sua vista non è più quella di un tempo, sarà il caso che metta da parte il suo stupido orgoglio e faccia spazio ad altro.»

«Ad esempio, dottore?» chiese Break, leggermente infastidito, sebbene incuriosito.

«Questo lo deve decidere lei.»

 

 

 

Nel frattempo, presso uno dei grandi balconi dell’organizzazione, Sharon, Alice, Oz e Gilbert stavano conversando riguardo a Sablier ed al suo ruolo per Pandora. Secondo quanto appreso dalla Duchessina, quel luogo era sorvegliato in quanto centro di esperimenti ed analisi riguardo l’influsso dell’Abisso sulle persone. Una pratica barbara e atroce, di cui era all’oscuro. Il Cappellaio non aveva voluto riferirle ciò per timore di metterla al corrente di una storia tanto orribile.

Sharon però era determinata a cambiare e per tale ragione decise di unirsi al gruppo che si sarebbe recato alla villa del duca Barma, di modo da ricevere informazioni riguardanti la riunione da poco svoltasi tra i quattro grandi duchi. Naturalmente, per fare ciò attesero che Reim si liberasse dalla presenza di Break, di modo che potesse far loro da guida.

La visita non fu affatto piacevole e, dopo i soliti giochetti di illusioni, le frecciatine severe e le allusioni alle loro più recondite paure, finalmente l’uomo si decise a raccontare di un piccolo dettaglio del quale nemmeno gli altri nobili erano a conoscenza: l’ubicazione di uno dei saggi e, di conseguenza, di uno dei suggelli da difendere.

«In una piccola villa ai confini della regione di Carillon. Là c’è il discendente di uno dei saggi che proteggono i suggelli. Voglio che lo raggiungiate.» disse con aria soave, osservando uno dei suoi parrocchetti variopinti in gabbia «Ecco il prezzo della mia informazione. Spero che comprenderete.»

«Duca Barma!» lo interruppe Sharon, sconvolta «Perché ha taciuto agli altri duchi un’informazione così importante?»

«Che dici?» domandò a sua volta, per nulla turbato «Chi è così stupido da mostrare tutte le sue carte? Inoltre, le altre informazioni utili a far muovere gli altri tre duchi le ho passate. Se ho taciuto è solo perché ritenevo che dirlo a voi fosse la cosa più utile: che male c’è?»

«Far muovere… gli altri tre duchi?» ripeté Sharon.

Reim, alle sue spalle, poté soltanto tacere, abbassando lo sguardo. Era fedele al duca Barma ma, nonostante i lunghi anni di servizio al suo fianco, aveva altresì trascorso molta della sua giovinezza con la duchessina Sharon ed il suo servitore. Si sentiva perciò schiacciato tra incudine e martello, incapace di inserirsi in quel dialogo tra nobili.

«Per lei noi siamo soltanto dei pratici strumenti?» le mani presero a tremarle, mentre poneva quell’ennesima domanda.

L’uomo non modificò di un minimo la propria espressione annoiata.

«Che domanda sciocca.» disse in tono pacato, mostrando uno sguardo impenetrabile «Per me le persone si dividono in utili ed inutili.» proferire quelle parole gli fece uno strano effetto, nonostante nessuno poté notarlo «“Serviti di tutti coloro che possono servire ai tuoi scopi” non è forse il medesimo pensiero del tuo amato Cappellaio?»

«Non si paragoni a Break!» l’urlo improvviso di Sharon scosse tutti i presenti «Lui non dimentica di avere a che fare con delle persone! Non usa gli altri come se fossero oggetti!»

Nel proseguire nel suo sfogo, Reim tentò di avvicinarsi per calmare la ragazza, ma fu inutile. Un ultimo grido riempì la stanza.

«NON PARLI SENZA SAPERE!»

Fu come la calma prima della tempesta. Dapprincipio non accadde nulla. Poi, lentamente, un modesto cambio nell’espressione del Duca preannunciò il rombo, una punta di fastidio che nascondeva chissà quali prorompenti sentimenti. Infine, il tuono.

«Modera i termini, ragazzina.»

Un vento si alzò dal nulla, circondando la nobile. Piume oscure, vergate di un rosso porpora, presero ad aleggiare nell’aria e, dietro il duca Barma, una figura informe prese lentamente sembianze tangibili. Il Chain del casato Barma, Dodo, comparve in tutta la sua magnificenza, osservando con un occhio enorme e vuoto la sua preda.

«Sebbene tu sia figlia di nobili, sembra che non ti abbiano insegnato ad avere rispetto di chi sta più in alto di te. Allora...» mormorò aprendo il suo temibile ventaglio in ferro «Ci penso io a farlo.»

«Sharon!»

Il primo a muoversi fu Oz. Si precipitò al fianco dell’amica, non potendo fare altro che proteggerla col proprio corpo. Davanti a loro, tuttavia, si palesò Gilbert, il braccio sinistro teso in un gesto di sfida: aveva evocato Raven per contrastare il potere di Dodo. Persino il Duca, che difficilmente rimaneva stupito, fu costretto a strabuzzare gli occhi dinnanzi a quell’atto.

«Oh?» disse infatti, quasi ammirato «Hai annullato il mio potere con Raven? Non scherzi, hai un’espressione decisa.» si concesse una breve pausa, per soppesare le prossime parole da rivolgergli «Visto che da Sablier eri tornato depresso credevo di poter approfittare della tua debolezza, invece… hai risolto il tuo dubbio?»

«Non la riguarda.» fu la laconica risposta del Nightray.

«Come vuoi.» sorrise Rufus, divertito da quell’inaspettato svolgersi di eventi, per poi congedare sbrigativamente i presenti «Andrò a caccia dei dettagli e ve li farò sapere. Andate!»

Mentre gli ospiti lasciavano la stanza, Reim si accingeva a raccogliere il gran numero di documenti e libri che erano volati alla rinfusa per la stanza a causa della forza d’urto dovuta all’evocazione del Chain. Rufus lo congedò con un cenno della mano. Rimasto solo, si lasciò cadere sulla sua seduta preferita, un’antica sedia foderata con piume d’oca che capeggiava di fronte alla sua scrivania.

«Bene… chissà se il piccolo Vessalius riuscirà a diventare una pedina utile per me?» si rivolse apparentemente al soffitto, ma in breve la sua voce fu diretta a qualcuno celato tra le ombre «Certo che è stato uno spettacolo degno di nota: l’impassibile Gilbert Nightray ha saputo tirare fuori gli artigli. Cosa ne pensi, Sophie? Hai origliato per bene tutto da là dietro?»

Nascosta da una libreria, che in realtà era un passaggio semovente, emerse la figlia. Lo sguardo era chino, rivolto al disordine che si era creato nello studio del genitore.

«Era davvero necessaria tutta questa pantomima?» domandò, osservando con rammarico alcuni pezzi di carta dispersi lungo il parquet e l’uccellino che tremava terrorizzato nella sua gabbia, ora riversa a terra.

«Suvvia, essere teatrali è un’arte e, inoltre, ciò mi ha permesso di rivelare alcuni tratti nascosti che, altrimenti, non avrei potuto scovare. Ad esempio, il fervore con il quale il giovane Nightray ha difeso la duchessina Rainsworth. L’hai notato anche tu?»

Sophie non rispose. Combatté con la vergogna per ciò a cui era stata costretta ad assistere in segreto, per non intromettersi in quelle faccende che, pur riguardandola emotivamente, di fatto le erano estranee. Nessuno di loro l’aveva infatti interpellata per quella missione e lei, di conseguenza, non aveva alcun diritto di immischiarsi. Si inginocchiò a terra, raddrizzando la gabbia in metallo e tentando invano di placare le urla di quel povero animale.

«Avrebbe difeso chiunque in quelle circostanze. Lui è fatto così.»

«Tu dici?» domandò Barma, fintamente sovrappensiero, con il ventaglio chiuso poggiato sul mento meditabondo «Eppure non sarebbe affatto scontato se quei due si unissero, un giorno. Due grandi casate ducali congiunte da un fortuito matrimonio… certamente, Sharon Rainsworth avrebbe tutte le carte in regola per farlo.»

Sophie strinse i pugni. Mandò in fondo al cuore quella visione che il padre le aveva ostinatamente gettato davanti agli occhi da diversi anni e, ignorando la fitta che provò al cuore, si limitò a rispondere a denti stretti.

«Non mi pare il momento per pensare a simili sciocchezze.»

«Vero.» concesse l’uomo, per poi squadrarla con fare severo «Ma prima o poi tutti devono crescere e comprendere qual è il ruolo che gli spetta in società. Lui, come Sharon Rainsworth, come te, figlia mia.»

La ragazza poté soltanto dirigersi verso la porta, non trovando il modo di ribattere.

«Non andrai con loro, te lo proibisco.»

Si fermò, la mano poggiata sulla maniglia.

«Che novità. Tu che mi proibisci di fare qualcosa.»

«Non è uno scherzo, Sophie. Hai già rischiato troppo recandoti a Sablier. Lascia che stavolta siano altri a farsi avanti.»

«Giusto. Meglio mandare avanti le pedine utili, vero padre?» si voltò, gli occhi socchiusi ed in procinto di colmarsi di lacrime che, però, questa volta non gli concesse di vedere «Mi domando quale sia il mio ruolo, in questo tuo gioco.»

Stavolta fu il turno di Barma di stringere i pugni.

Calò il silenzio tra padre e figlia che, silenziosamente, presero una nuova distanza l’uno dall’altra. Rimasto solo, Barma rifletté sulle parole che aveva rivolto alla nipote di colei che, da mezzo secolo ormai, reputava la sua migliore amica. Non poté fare a meno di sorridere amareggiato, ricordando l’espressione ferita che aveva letto sul suo volto, tanto simile a quella della donna che amava ed a cui, anni addietro, aveva riportato il medesimo messaggio.

Si era mostrata indifferente Mary, lasciandolo in balia del dubbio che le sue labbra gli avevano rivolto.

«Quanto deve essere triste sapere così tanto delle persone che ti circondano, eppure non conoscerle davvero.»

Si portò una mano al volto, esasperato da quei ricordi.

«Di chi credi sia la colpa se adesso mi trovo in questa situazione, eh Mary?»

 



A seguito delle indicazioni fornite dal Duca, Oz e compagni si diressero nella regione di Carillon dove, nella piccola e modesta Toll, incontrarono un uomo al servizio dei Barma che li avrebbe scortati sino alla villetta del saggio. Il servitore era un tale Gruner, dall’aspetto severo ed austero, con lineamenti quadrati ma piacevoli. Doveva avere all’incirca trentacinque anni e, dal suo accento marcato, compresero che si trattasse di un uomo proveniente dalla stessa nazione dei Barma, solo trasferitosi molto più di recente.

Intanto che sbrigavano i convenevoli prima della partenza, Gilbert si soffermò ad osservare i paraggi: non c’era molto da dire su quel paesino, era tetro e poco invitante rispetto alla ridente Reveille. Quantomeno i suoi abitanti parevano cordiali, dato il modo ossequioso con cui salutavano i nuovi venuti. Sharon si posizionò al fianco del ragazzo, approfittando del fatto che il Vessalius stesse conversando con Gruner riguardo al prossimo mezzo di spostamento.

«Sei riuscito a chiarirti col nobile Oz?»

La domanda cinguettante della fanciulla, pronunciata in modo melodioso quasi fosse una filastrocca, distrasse Gilbert dai suoi pensieri. Sharon aveva un modo tutto suo di preoccuparsi per gli altri, in particolare con lui. Sembrava sempre divertita dalle sventure che colpivano il giovane ma, se si imparava a comprenderla, negli occhi color rosa antico si poteva scorgere un accorato interesse. Il Nightray si concesse di prendere un’altra boccata dalla sua sigaretta, prima di rispondere.

«Sì… in parte.» concesse, rammentando il dialogo intercorso tra lui ed Oz durante il loro tragitto alla villa del Duca «Diciamo che, per il momento, quello che ci siamo detti mi basta. E forse basterà anche a lui.»

«Capisco.»

Sharon increspò appena le labbra, sollevata nell’udire ciò. Nonostante il carattere freddo e all’apparenza distaccato del suo interlocutore, Sharon era molto affezionata a Gilbert e sapeva che, a modo suo, anche il Nightray ricambiava quel suo tenero sentimento di amicizia e stima reciproca. Si concesse perciò una piccola frecciatina ai suoi danni.

«Mi domando da dove sia giunta tutta questa tua voglia di confrontarti.»

«Prego?» domandò spaesato Gilbert, mentre terminava la sua sigaretta, il leggero vento primaverile, pungente per via dell’inverno che non voleva saperne di abbandonare la loro terra, che faceva compiere arabeschi al fumo.

Sharon socchiuse gli occhi, portandosi una mano alla guancia con aria ingenua.

«Non vorrai dirmi che ti sei sbloccato di tua sponte col nobile Oz? Che io sappia, solitamente sono gli altri a doverti cavare di dosso le parole. E non con poca veemenza, se posso permettermi.»

«In effetti, è stato Oz a dare il la al discorso, però...» si soffermò sovrappensiero, per poi celare il viso dietro la mano che stringeva la sua sigaretta oramai consumata tra le labbra «Diciamo che mi è stato fatto riflettere su di una circostanza.»

«Sarebbe a dire?» lo incalzò dolcemente Sharon.

«Ecco...» mormorò imbarazzato il giovane, sistemandosi il cappello con movimenti bruschi ed impacciati «Non è bello quando non si conoscono i pensieri degli altri, specialmente dei propri cari. A volte, benché si abbia paura, si dovrebbe semplicemente parlare a cuore aperto, mettendo da parte i tentennamenti.»

«Cielo.» mormorò Sharon, ridacchiando divertita «E ti ci sono voluti ventiquattro anni per comprenderlo? Le mie congratulazioni, Gilbert.»

«Non… non è mica così scontato, per uno come me! E comunque sia, faccio ancora una fatica del diavolo a parlare alle persone cui tengo senza paure.»

«Lo so bene. E lo sa anche il nobile Oz.» concesse lei, per poi guardarlo con serietà «Ma proprio per questo si apprezzano i tuoi sforzi.»

Non sapendo come ribattere, Gilbert si limitò a gettare la sigaretta a terra, spegnendola definitivamente con il tacco. Proprio in quel momento Oz li chiamò per informarli che era ora di rimettersi in marcia.

«A piedi.» specificò mortificato nei confronti di Sharon «Purtroppo la villa si trova in una zona impervia, dove le carrozze ed i cavalli non possono...»

«Non c’è alcun problema.»

«Ma… Sharon...»

«Ho detto. Non c’è. Nessun. Problema.»

Quella parlata monocorde, accentuata da brevi ed intense pause, fece desistere il Vessalius dal proferire qualsiasi altra rimostranza all’idea di far camminare la giovane rampolla dei Rainsworth per un sentiero fangoso e pieno di rovi.

«Certo. Domando scusa.» mormorò terrificato il biondo, dirigersi verso Gruner per comunicargli che erano pronti per rimettersi in viaggio.

«In ogni caso.» sospirò esasperata Sharon, che non vedeva l’ora di dimostrare le proprie capacità a tutti, dato che seguitavano a sottostimarla «Sono lieta di sentire questo, Gilbert. Quella persona che ti ha portato a riflettere su un tema per te tanto spinoso, certamente, è un’ottima amica.»

Il giovane non si mosse subito. Osservò la Duchessina allontanarsi, prima di realizzare che doveva fare altrettanto. Si sentì sollevato, come se necessitasse di una giustificazione per le sue ultime azioni. Conosceva Sophie Barma da pochissimo tempo, eppure ella era già riuscita a scuoterlo nel profondo con poche, impetuose, parole.

«Un’amica, eh?» mormorò sovrappensiero, mentre raggiungeva i compagni.

Quella definizione non gli dispiaceva troppo, in fondo.

 



Incontrare il saggio non fu facile. Dopo aver superato un terreno impervio, celato da un labirinto di alberi, il gruppo riuscì infine a trovare, grazie alla guida di Gruner, la fantomatica villa che andavano cercando. Una volta entrati, furono accolti da un’atmosfera spettrale e dal silenzio che, come una bara, li avvolse. Una ragazza dai fluenti capelli castani e dallo sguardo malinconico diede loro il benvenuto. Mary, così si presentò, era un’abile combattente: munita di una sega ben affilata, li attaccò senza indugi. Con l’ausilio di specchi per confondere le sue mosse e di un cerchio magico, che impediva ai Chain di essere evocati, aveva messo alle strette il gruppo. Fortunatamente, Oz riuscì a liberare il potere del B-Rabbit sebbene, al tempo stesso, parve perdere la ragione. Stava infatti per infliggere il colpo di grazia alla ragazza, quando Alice lo fermò. A suo modo, naturalmente.

«Oz… quella è la mia preda.» aveva piagnucolato, stringendolo in un abbraccio carico di frustrazione e timore «Credi che un servitore come te possa occuparsene senza il mio permesso?!»

A quelle parole, Oz era come tornato in sé. Si era scusato e, di lì a poco, Ritus il saggio aveva fatto la sua apparizione in scena. Si era scusato per l’inopportuna e disdicevole accoglienza, spiegandone il motivo: era l’ultimo custode rimasto in vita del suggello e, non sapendo chi fossero e che intenzioni avessero, aveva dovuto agire di conseguenza. Tuttavia, aveva riconosciuto in Oz la figura di Jack, tramandatagli dagli antichi. L’ovvio potere che aveva sul B-Rabbit aveva infine spezzato ogni altro dubbio.

«Ciò che noi sappiamo.» rivelò infine «È che non possiamo dare a nessuno il suggello, se non a colui che possiede la forza del B-Rabbit.»

Aveva a quel punto mostrato loro, a fatica data la veneranda età che lo costringeva su di una sedia a rotelle, l’oggetto a cui tanto ambivano, insieme ad un altro tesoro. Porse ad Oz uno scrigno ligneo, antico eppure lucido, che dimostrava come fosse stato conservato con estrema cura. L’unico segno del tempo trascorso su di esso era un nastro logoro che lo avvolgeva, siglandone l’integrità da ormai più di un secolo.

«Non ci è permesso raccontarle tutto.» spiegò al giovane «Ma qui dentro forse c’è un’informazione che indicherà la strada da seguire.»

«Voi… cosa farete d’ora in poi?» domandò grato Oz.

Proprio nel momento in cui l’anziano stava per rispondergli, dalla porta d’ingresso alle loro spalle si udì un gran fracasso: un botto acuto, seguito da un urlo di dolore.

«Ahia! Spigoli maledetti!» protestò una voce ben nota ai presenti.

«So… volevo dire, Caleb!» la chiamò il Vessalius, sbigottito «Che ci fai qua? Reim ci aveva riferito che il duca Barma...»

«Quel rompiscatole mi ha proibito di accompagnarvi.» ammise Sophie, massaggiandosi la spalla dolorante «Ma non ha mai detto nulla sul fatto di scortarvi sino a casa.»

Un sorrisetto soddisfatto brillava fin dentro i suoi occhi, che subito si soffermarono su ognuno di loro, esaminandoli con cura.

«State tutti bene, vero?» fece preoccupata, torcendosi le mani «Mi dispiace essere arrivato soltanto adesso.»

«Tu non dovevi proprio venire!» protestò Gilbert, con grande sorpresa di tutti.

«Come?» esalò interdetta Sophie, mentre gli altri inclinavano il capo, confusi anch’essi dalla foga con cui il Nightray si era rivolto all’informatore.

«Mi hai sentito bene: se ti è stato proibito di fare una cosa, dovresti ubbidire. Era pericolosissimo, lo credo bene che il Duca ti abbia vietato di seguirci.»

«Che? Ma scherziamo? Sono cinquanta mila volte più cauta di voi tutti messi insieme! C’è persino Sharon! Ah, senza offesa, Duchessina… però, oggettivamente, a parte te e Gruner, nessuno di voi sa difendersi a mani nude!»

«Veramente io sì.» protestò Alice, che venne palesemente ignorata.

«Perché, tu sì?» la punzecchiò Gilbert, facendola fremere per l’irritazione.

«Brutto… certo che so difendermi! E non parlarmi dall’alto in basso!»

«Ti parlo dall’alto in basso, perché sei un tappo!»

A quella parola Gilbert si portò una mano alla bocca. Non pensava di poter ripetere lo stesso appellativo che utilizzava il fratello per schernire Oz ma, nel fervore del litigio, gli era sovvenuto spontaneamente.

«Ti chiedo scusa...» mormorò, intanto che Sophie annuiva tronfia «Oz.»

La soddisfazione dipinta sul volto della Barma si frantumò in mille pezzi.

«Ma fai sul serio?!»

«Smettila di gridare!»

«Ragazzi, vi prego, calmatevi.» fece il Vessalius divertito eppure imbarazzato da quel teatrino comico «Non mi pare il luogo, né il momento.»

I due, come ridestati da un sogno, si morsero le labbra e smisero di fissarsi in cagnesco. Ciò non impedì a Sophie di mormorare un sentito: «Ha cominciato lui». Prima che Gilbert potesse ribattere, Ritus prese la parola.

«Sei per caso imparentato con Mary?»

L’attenzione si puntò sull’anziano, come un riflettore del teatro. La sua assistente, che sino ad allora si era limitata a scambiare sguardi increduli con il suo maestro, si rivolse a lui con voce incerta.

«Che dice, nobile Ritus? Non ho parenti e quel giovane...»

«No, scusami Mary, non mi riferivo a te. Prima che tu giungessi qui, c’era un’altra donna che assisteva il mio predecessore. Molti, molti anni fa… ero solo un ragazzino all’epoca, ma le volevo molto bene. Per questo, quando ti trovai, non ebbi dubbi sul nome da darti. E tu.» fissò gli occhi stanchi in quelli azzurri di Sophie, rivangando antichi ricordi «Hai lo stesso viso… gli occhi, soprattutto, sono esattamente come i suoi.»

Sophie aveva improvvisamente perso colore, oltre le parole. Non riusciva a comprendere ciò che gli veniva chiesto, si sentiva come sprofondare nuovamente in un incubo.

«Tu non sei la mia Sophie.»

Quella voce orribile la fece tremare.

«No… si sbaglia. Non è possibile.»

Il saggio l’osservò a lungo, ma non insistette.

«Capisco, i miei occhi devono essersi sbagliati.»

Lasciarono la villa sotto la sorveglianza di Gruner, intanto che Sophie scortava il gruppo verso Toll. Nessuno osò chiederle nulla. D’improvviso, una nuova scossa di terremoto li fece sobbalzare. Tornarono indietro di corsa, ma fu inutile: Ritus, Mary e gli uomini del Duca erano stati brutalmente decapitati ed il suggello distrutto. Nell’aria si poteva avvertire il suono di quella filastrocca raccapricciante che, come una maledizione, si era abbattuta su di loro: la Regina di Cuori era tornata.



Si incontrarono per caso nel bel mezzo del corridoio. Sophie si stava recando nella stanza di Break per parlare con Reim, che era in visita all’amico convalescente, sebbene non per sua volontà. Sharon e Cassidy, unite dal medesimo obiettivo, riuscivano infatti a tenere l’uomo a bada, nonostante i suoi costanti tentativi di fuga. Gilbert, invece, voleva discutere col Cappellaio delle ultime vicende. Erano a malapena trascorse ventiquattr’ore dagli eventi di Carillon, ciononostante era evidente dai loro sguardi quanto tutto ciò li avesse scossi nel profondo.

Lui appariva sciupato, con gli abiti sgualciti ed ancora pregni dell’odore della rugiada della foresta e del sangue versato dai suoi commilitoni. La ragazza, benché indossasse una nuova divisa, portava solcato sul volto la preoccupazione delle rivelazioni di cui era stata spettatrice. Gli occhi apparivano cerchiati ed il lieve tocco dell’insonnia si era posato come un bacio venefico sul pallore della sua pelle. Appariva spenta, di una tonalità diversa rispetto a quella ben più brillante che l’aveva caratterizzata durante i loro primi incontri.

Conscia di questo, non seppe come mascherare il suo disagio. Per un sciocco istante maledì il fatto di non essersi mai interessata al trucco. Quasi immediatamente realizzò che non avrebbe ugualmente posseduto le forze per nascondere ciò che l’affliggeva. Né sotto strati di cosmetici, né con la propria volontà.

Si sentiva stanca come non lo era mai stata in vita sua. Non aveva nemmeno interpellato il padre al ritorno, temendo ed al contempo sperando in una sua risposta ai nuovi quesiti che l’anziano Ritus aveva fatto emergere nella sua mente. Si era invece rinchiusa nelle sue stanze, trovando una parvenza di sollievo in quell’angosciante quiete.

«Ciao.» lo salutò laconica.

«Buongiorno.» fece in maniera più consona il ragazzo, non sentendosi di commentare la questione, trovando la giovane troppo scossa per una ramanzina inutile.

Si morse un labbro, combattuto: era già sufficientemente preoccupato per il suo padrone, che dal loro rientro si era rifiutato di alzarsi dal letto. Vi era inoltre il pensiero assillante concernente la salute della sorella, della quale non aveva più avuto notizie. Come se non bastasse, c'era la questione che riguardava Sophie in prima persona: qual era la connessione tra la figlia del duca Barma ed i Baskerville? Sua madre, la defunta Duchessa, aveva davvero un legame con l’Abisso? Ed in che modo avrebbe potuto conoscere il saggio Ritus?

C’erano troppe coincidenze, troppi fatti a cui aveva assistito che non facevano altro che mescolarsi con il mistero più grande, riguardante il presunto peccato di Oz ed il motivo per cui Alice, a distanza di un secolo, si trovasse come Chain tra loro. Troppe figure pericolose ed ambigue ruotavano intorno alla persona a lui più cara, che aveva promesso di difendere con la sua stessa vita. Non poteva permettere che altre se ne aggiungessero. Sarebbe perciò stato ovvio lasciarsi guidare dalla diffidenza, ma il volto di quella ragazza non gli trasmise ostilità, bensì apprensione. Non l’aveva mai vista tanto prostrata.

«Come…» cominciò titubante, per poi concludere, per nulla convinto della sua scelta di termini «Come è andata a finire con gli uomini del vostro seguito?»

Sophie si mosse a disagio, limitandosi a guardare un punto indefinito alla sua destra.

«Siamo riusciti a trasportare i corpi a Reveille. Cassidy ha aiutato nel rendere le salme più presentabili, mentre le famiglie venivano informate. Quasi tutti sono stati presi in consegna per i funerali.»

«Quasi tutti?»

«Gruner era arrivato da poco in città. La sua famiglia si trova ancora all’estero, nel suo Paese d’origine.» tacque, recuperando il controllo della sua voce che si era pericolosamente incrinata, senza tuttavia riuscirvi con totale successo «Non l’ho nemmeno salutato quando ci siamo separati. Forse...»

«Non è stata colpa tua. Nessuno poteva sapere quello che sarebbe successo.»

«Ma se solo io non fossi venuta, come mi era stato detto, forse sarebbe stato lui a riaccompagnarvi... e adesso lui non sarebbe morto!»

«O magari non sarebbe andata così. Non puoi saperlo.»

«Smettila.»

Non aveva più urlato, eppure la sua voce spezzata interruppe qualsiasi altro suono. Singhiozzò, portandosi una mano alle labbra tremule. Non voleva piangere, non voleva rendersi ridicola e debole, ma più si sentiva ripetere che non aveva colpe, più dentro di sé udiva rimbombare una voce che gridava il contrario. La voce di Gruner. Era colpa sua. Soltanto colpa sua. E lei non voleva sentirla.

«Ti prego.» riuscì infine a gracchiare, flebile «Così non mi aiuti.»

Le lacrime presero a colare copiose, mentre la ragazza tentava, invano, di trattenere il fiato per calmarsi, ottenendo l’effetto opposto: quando prendeva aria, inalando dolorosamente, emetteva versi acuti, impossibili da dissimulare.

Gilbert non sapeva che fare.

Non aveva mai visto una donna piangere, non in quel modo e non a causa sua. Generalmente, un gentiluomo l’avrebbe consolata, ma aveva appena appurato che aprire bocca procurava soltanto danni. Un segno d’affetto, oltre che fuori luogo, gli sarebbe risultato impossibile da attuarsi. Non era abituato a toccare altre persone che non fossero Oz o Ada e, quando ciò accadeva, lo faceva con la massima attenzione e premura. Non avrebbe potuto convertire quei sentimenti di profondo affetto per una giovane che a malapena conosceva.

Affranto e sempre più intimorito dal fatto che chiunque, nel bel mezzo del corridoio, avrebbe potuto vederli da un momento all’altro, aveva istintivamente portato la mano al cappello, che aveva chinato per celarsi il volto, in un abituale gesto di disagio. D’improvviso se l’era tolto e lo aveva calato sulla testa della Barma. Sophie toccò la tesa in tessuto nero, confusa.

«Scusami.» mormorò Gilbert, per poi giustificarsi a voce un po’ più alta «Sono un inetto in simili circostanze, ma… ecco… ho pensato che, in questo modo, nessuno ti avrebbe visto piangere.»

Sophie non seppe che dire. Si chinò la falda il più possibile, mentre la stringeva con le mani tremanti. Il Nightray le rimase accanto, sorvegliando la zona ed indirizzando l’attenzione su di sé non appena scorgeva qualche membro dell’organizzazione passare celere per il corridoio. Fortunatamente, era orario di lavoro e pochi associati erano tornati nei piani alti per recuperare qualche documento dimenticato o concedersi un momento di svago. Una volta che la ragazza ebbe tirato fuori tutte quelle emozioni negative che si portava dentro, tentò di darsi una sistemata. Prese silenziosamente un fazzoletto e, celermente ma accuratamente, si ripulì il volto. Quando si sentì sicura del suo respiro, nuovamente calmo, porse il cappello a Gilbert.

«Grazie.» disse con sincerità, già pronta a scusarsi.

«Tienilo.» fu invece l’inaspettata risposta, che la fece quasi saltare sul posto.

«Come?» esclamò «Ma… questo è il tuo prezioso cappello. Non te ne separi mai.»

«Certo che lo è. Non è un regalo, infatti.» fu la risoluta risposta, che si attenuò nel momento in cui borbottò imbarazzato «Però, ecco, adesso ne hai maggiore bisogno tu. Quando potrai di nuovo mostrare il tuo solito viso, potrai ridarmelo.»

«D’accordo.»

Non riuscì a dire altro. Si sentiva attraversata dall’adrenalina data dall’agitazione di poc’anzi e ad essa si aggiungeva l’emozione di essere stata oggetto di una tale premura da parte di Gilbert. Fu come una piccola fiammella in mezzo al buio che, in quei giorni, l’aveva inghiottita. Per un istante poté concentrarsi sul fatto che fosse una ragazza innamorata come tante. Una giovane a cui era appena accaduto qualcosa di bello.

«Perché ti trovavi qui?» domandò a un tratto, non sapendo come riempire quell’ennesima pausa creatasi tra loro.

Gilbert parve ricordarsi d’improvviso del luogo in cui si trovava e di tutte le faccende che lo avrebbero impegnato di lì a poco. Abbassò appena il tono di voce, tornando serio.

«Devo parlare con Break riguardo a ciò che abbiamo scoperto.»

Lei annuì, sapendo bene quanto il Nightray fosse legato al servitore di casa Rainsworth da un vincolo di reciproco aiuto e segretezza. Non ne conosceva i dettagli, ma Reim, essendo molto vicino a entrambi, gliene aveva parlato al tempo.

«Giusto, avrà una bella sorpresa, non appena saprà tutto quello che avete scoperto. E lui come sta? Si è ripreso?»

«Quello non muore nemmeno se lo ammazzi. Pare più preoccupato delle sue guardie carcerarie, piuttosto.»

«Cassidy e lady Sharon fanno veramente paura insieme. Non vorrei essere in lui.»

«Non voglio nemmeno immaginare quello che abita la sua mente. Mi disturba già abbastanza così com’è.»

Sophie ridacchiò, divertita dal modo in cui Gilbert parlava senza alcun pelo sulla lingua del suo amico. Aveva letto la sua preoccupazione nel momento in cui il Cappellaio aveva perso i sensi a Sablier ed anche durante la sua convalescenza Gilbert vagava per i corridoi come un’anima in pena. Non aveva quasi avuto il coraggio di entrare nella sua stanza, quando Break aveva ripreso i sensi, da quello che le aveva narrato Cassidy. Pensando a ciò, la giovane si ricordò di un’altra persona.

«E tua sorella? Si è finalmente ristabilita?»

Gilbert fu percorso dal senso di colpa, che lo costrinse a spostare lo sguardo in basso.

«Non ne ho idea, purtroppo.»

«Prego?» domandò confusa Sophie.

«Non la vedo da allora… da Sablier.» ammise con crescente imbarazzo il giovane, pregando che quel discorso si interrompesse lì.

Sophie Barma era di tutt’altro avviso.

«Come sarebbe a dire che non la vedi da allora? Per quale arcano motivo non le hai fatto visita?»

La sua voce era mutata, trasformandosi lentamente in un rimprovero ben poco velato. Gilbert, colto di sorpresa da quel cambiamento repentino, si mise sulla difensiva. Per qualche ragione a lui ignota, provò un lieve sentore di pericolo, come quando Sharon si avvicinava minacciosa a Break per punirlo di una sua qualche marachella. Disorientato da ciò, cominciò a balbettare.

«Beh, perché… i-insomma, dopo quello che mi ha detto Elliot non so se io...»

«Non sai cosa? Mettere un piede davanti all’altro e andare a casa tua a vedere TUA sorella?!» urlò inferocita Sophie, mostrando un volto ridicolmente incollerito, essendo paonazza per il lungo pianto «Elliot è una testa calda e quando si comporta a quel modo dovresti riprenderlo: sei o no il fratello maggiore?»

«Sì, ma...» tentò di difendersi Gilbert, che istintivamente fece mezzo passo indietro, portando avanti le mani in segno di resa.

«Niente se e niente ma! Che ci fai ancora qua?»

«Eh? Che cosa?»

«Muoviti, tornatene a casa e parla coi tuoi fratelli. Assicurati che stiano bene e fai la pace con Elliot e… santo cielo, devo veramente dirti quello che devi fare?!»

Mentre il ragazzo borbottava parole sconnesse, Sophie lo afferrò per un braccio e prese a trascinarlo verso l’uscita, per poi spingerlo per la schiena, facendolo quasi inciampare.

«Ma si può sapere che hai da tentennare? Preparati un discorso e vedi di mettere tutto a posto una buona volta, disgraziato!»

«Disgraziato?!» esclamò offeso Gilbert, senza però sentirsi troppo convinto di poter recriminare «Io?»

«Ancora qui stai? Se hai voglia di discutere, fallo con tuo fratello!»

«Ma se sei tu che hai… e smettila di spingermi, ho capito! Vado, vado!»

Senza ulteriori proteste, Gilbert prese le scale, dirigendosi a passo spedito verso l’uscita. Nel frattempo, Sophie lo tenne attentamente d’occhio, spostandosi ad una delle grandi finestre che davano sul cortile interno, per assicurarsi che egli prendesse effettivamente una carrozza. Una volta rimasta soddisfatta di ciò che aveva fatto, lo sconforto si fece presto strada in lei: aveva appena realizzato di aver urlato alla persona che amava e che, pochi minuti prima, era stata tanto premurosa con lei. Si sentì la più idiota del reame.

Io… perché l’ho fatto? Una signorina non dovrebbe gridare, men che meno spingere la gente e… gli ho persino dato del disgraziato!” pensò con orrore la ragazza, portandosi le mani al viso “Perché sono tanto idiota?!”

Poco distante da lei, due figure osservavano incuriosite quell’avvincente spettacolo che si era svolto per il loro intrattenimento. Break e Reim, accorsi a causa dei toni crescenti che si udivano al di là della stanza del Cappellaio, avevano aperto uno spiraglio per capire cosa stesse accadendo. Le loro reazioni si leggevano palesi nei loro volti, in completo contrasto tra loro.

«Ma quei due… da quando sono tanto in confidenza?» domandò schifato Xerxes, che non avrebbe mai potuto nemmeno sognare di vedere il piccolo Gilbert redarguito da un soldo di cacio alto almeno dieci centimetri meno di lui. Reim, invece, aveva gli occhi che luccicavano per l’emozione.

«Non ne ho idea, ma mi sento incredibilmente orgoglioso della mia padroncina!»

«Buon Dio, ti prego, risparmiami questo orrore da romanzo rosa. Piuttosto, vedi di prestare soccorso alla tua padrona: sembra sul punto di gettarsi dalla finestra.»

Effettivamente, Sophie poggiava il capo con fare disperato contro il vetro, battendoci ritmicamente sopra. Avvertiva appena il male ed il freddo della lastra trasparente, ma non le importava. Nella sua mente risuonavano inesorabili i rimproveri del padre che, da anni, le rinfacciava di aver perso ogni barlume di femminilità, essendosi voluta cocciutamente dare ad altri studi. La ragazza non credeva che un giorno avrebbe finito per rimpiangere quella sua scelta. Non sul campo amoroso. Una voce amica parve risollevarla da quel limbo di autocommiserazione.

«Ehm… Sophie?» mormorò Reim, avvicinatosi a lei.

Questa voltò il capo, felice di vedere un volto amico.

«Reim.» mormorò affranta «Perché sono tanto imbranata in amore?»

«Perché sei figlia di tuo padre.»

«Come?»

«Niente. Lasciamo perdere.»

«Quanto chiasso inutile.» si intromise Break, guardando con sadico divertimento la giovane «Chi ti sposa è condannato.»

«Break! Un po’ di delicatezza!» urlò indignato il servitore di Villa Barma.

«Mi perdoni.» si scusò prontamente l’albino, senza nemmeno cambiare di un millimetro l’espressione del proprio viso «Volevo dire: lady Sophie, di certo il suo consorte avrà vita assai breve e turbolenta, in sua diletta compagnia.»

Sophie, colpita nel profondo, non poté ribattere: sentiva che quella calunnia era più che fondata. Nonostante tutto, trovò un minimo di conforto in essa.

«Almeno...» bisbigliò rassegnata, intanto che Reim rimbeccava a suon di improperi l’amico «Qualcuno crede che mi sposerò, un giorno.»

 



Tutto il suo corpo gli urlava di andarsene, di tornare sulla carrozza e lasciare perdere. La sua mente, tuttavia, obbligò non solo le gambe a muoversi verso l’ingresso ed i corridoi che ben conosceva, ma si era persino presa la libertà di parlare con i domestici, salutandoli con un cenno mano a mano che li incontrava. Quello che Gilbert non sapeva era cosa avrebbe fatto una volta incontrato uno dei suoi fratelli.

Se già con Vincent aveva una discreta difficoltà nel rapportarsi, con Elliot e Vanessa le cose erano drasticamente precipitate nel corso del tempo. Soltanto Christine aveva un carattere sufficientemente pacato da metterlo sempre a suo agio ma, considerando la sua solita fortuna, non credeva di avere il piacere di quel primo incontro. Il ricordo della sorella minore diede l’ulteriore spinta di volontà di cui aveva bisogno. Sebbene nel tragitto in carrozza non fosse riuscito ad elaborare alcun discorso, sapeva che non poteva tergiversare oltre. Per quanto esagerata nei modi di fare, Sophie aveva ragione. Non poteva scappare in eterno dalle persone che amava, fingendo che non gli importasse. Non si meritavano una considerazione simile, non dopo tutto quello che avevano passato insieme, nel bene e nel male.

Osservò l’austera mobilia che, inalterata negli anni, riusciva ancora a farlo sentire piccolo. Dieci anni prima era stato schiacciato da quelle mura, costruite da coloro che considerava il nemico. La paura di quei luoghi a lui sconosciuti, la confusione nel ritrovare un fratello di cui non aveva memoria e che, in qualche modo, lo turbava profondamente, tutte quelle emozioni tornarono a mescolarsi in lui come un vortice che inghiottiva ogni cosa. Ciononostante, a sua insaputa, si erano accese delle luci.

I maggiori del casato Nightray lo maltrattavano a gesti e parole, senza preoccuparsi minimamente di celare il loro comportamento. La Duchessa era anch’essa insofferente nei suoi confronti, esattamente come per Vincent, ed anzi si adornava di un sadico riso ogni qualvolta scorgeva piccole ecchimosi sulle loro pelli. Suo marito pareva invece indifferente ed al tempo stesso molto attento ad ogni dettaglio. Non gli rivolgeva quasi mai la parola, né si era mai spinto a compiere alcun gesto che potesse anche solo lontanamente ricordare quello di un padre. Persino con i suoi stessi figli si mostrava premuroso eppure distaccato, una persona totalmente differente dalla genuinità a cui Gilbert si era abituato con lo zio Oscar. Ma i figli minori del Duca erano speciali. Tutta la casa li trattava con una cura particolare e Gilbert, incuriosito, aveva finito per osservarli divertito: erano l’unico bagliore in quella tetra esistenza che si era creato.

Non ricordava bene quando, ma ad un certo punto i suoi ricordi si erano riempiti dei volti di Elliot e Christine. C’erano nei pomeriggi assolati, in cui uscivano a godersi il bel tempo e l’aria frizzante dell’estate, oppure nelle fredde notti vicino al caminetto, mentre Elliot imparava a leggere con Christine al fianco, che gli faceva i dispetti pronunciando apposta le parole in modo strano, in modo da confonderlo. Vincent era con loro, un po’ in disparte, un po’ imbronciato da quella che definiva una continua tortura, dalla quale non si sottraeva mai. Ad Ernest e Vanessa non andava a genio questa loro unione, malgrado ciò era bastata una lacrima di Christine a farli desistere dal tentativo di separarli. E Gilbert in cuor suo sapeva di essere stato felice tra quelle mura. Anche se non avrebbe mai voluto ammetterlo, all’epoca.

Ripensare a quei momenti gli aveva provocato un groppo alla gola, che lo aveva costretto a fermarsi in mezzo alle scale. Aveva vissuto così tante avventure, sciocchezze quotidiane di alcun valore, che però rappresentavano il mondo per lui. Aveva visto quei piccoli crescere e con essi il legame che li univa. Era grazie a loro se era riuscito a stare al fianco di Vincent, conoscendolo ed imparando a volergli bene come al fratello che era stato nel suo passato misterioso. Doveva talmente tanto a quei bambini, eppure lui li aveva abbandonati.

Per difenderli, certo, per tentare di proteggerli da quel male che pareva volerlo inseguire ovunque, per evitare di coinvolgerli nei suoi intrighi con Pandora ed i Rainsworth. La verità scomoda era che l’aveva fatto nel modo sbagliato. Sparendo, allontanandosi senza spiegazione, divenendo un’ombra del passato. Ed anche se Christine lo aveva perdonato, non poteva biasimare Elliot per non averlo fatto. Era stato un egoista ed un codardo.

«Anche senza il potere di Raven, io sosterrò la famiglia a modo mio. Perciò anche tu, in quanto membro dei Nightray, in quanto erede di Raven, in quanto mio fratello, assolvi i tuoi doveri fino in fondo.»

Quel ricordo bruciò nella sua memoria come uno schiaffo. Se non avesse affrontato il suo passato a Sablier, se non avesse incontrato Oz ed Alice, se non avesse parlato con Sophie, probabilmente sarebbe tornato indietro, anzi, nemmeno si sarebbe trovato in quel punto. Invece, c’era. E non intendeva più retrocedere nemmeno di un passo.

Riprese a camminare deciso, raggiungendo il corridoio in cui si trovavano le stanze di Vanessa e Christine. Fu allora che incrociò Elliot, da poco uscito dagli alloggi della gemella. Rimase dapprima sorpreso poi, drasticamente, un’espressione di collera e rancore ne prese il posto. Se non urlò, fu soltanto per non farsi sentire dagli altri membri della famiglia che si trovavano in casa.

«E tu perché diavolo sei qui? Vattene, la tua presenza non è richiesta.»

Gilbert affrontò quella pioggia di ostilità con fermezza.

«Sono qui perché sono preoccupato per Christine… ed anche per te.» parlò in tono calmo, sebbene severo, lasciando per un istante il fratello interdetto «Lei come sta? È ancora a letto?»

La domanda, pronunciata in maniera più morbida e sentita, consentì ad Elliot di riacquisire il suo spirito battagliero.

«Non porre domande di cui non ti è mai importato.»

«Non è vero.»

«Beh, non mi pare che tu ne abbia mai dato grande prova, da quando te ne sei andato con la coda tra le gambe, lasciandoci soli.»

Per la seconda volta, Gilbert avvertì tutto il dolore che il fratello si era portato dentro sino a quel momento. Non era semplicemente arrabbiato con lui, né lo odiava. Si sentiva tradito e ferito da una persona che credeva non gli avrebbe mai fatto alcun male. Era stato uno stupido a non vederlo prima.

No.” si corresse dentro di sé Gilbert, senza concedersi più alcuna indulgenza “Non è che non vedessi. Non volevo vedere. Perché ammettere che volessi bene ai miei fratelli adottivi avrebbe significato tradire per l’ennesima volta la famiglia che mi aveva amato ed accolto quando non avevo nulla. L’ennesimo tradimento ai danni dei Vessalius.”

«Hai ragione.» disse guardandolo dritto negli occhi prima di chinare il capo in segno di pentimento «E ti domando scusa per questo. Cionondimeno, adesso sono qui e non intendo andarmene.»

Lasciò che quanto detto prendesse forma nello spazio che li separava, sino a prendere posto nel cuore dell’altro. Non sapeva se le avrebbe accettate, avrebbe compreso se non gli fosse più possibile accedere a quel luogo. Certe azioni, purtroppo, avevano delle conseguenze fatali.

Elliot non si mosse, come paralizzato. Provò una serie di emozioni contrastanti, ma prima di parlare si morse la lingua. Aveva da poco fatto pace con la sorella ed ricordava bene le sue parole.

«Ti perdono, Elly, non ti preoccupare.» gli aveva detto, dopo gli eventi della voragine di Sablier.

Lei lo aveva abbracciato, aveva pianto e per poco non si era soffocata nelle sue stesse lacrime tanto era preoccupata. Si era scusata un’infinità di volte ed altrettante lo aveva redarguito con rabbia.

«Mai più.» gli aveva detto, per poi spiegarsi una volta calmata «Non devi mai più andartene senza che prima ci siamo chiariti. Se ti fosse successo qualcosa quando eravamo in collera l’uno con l’altra, non me lo sarei mai perdonata.»

Avevano parlato molto, in seguito. Di loro, di Gilbert, del Cacciatore di Teste e persino di Oz e Caleb. Era stato allora che Christine lo aveva perdonato, in un momento inatteso, che gli aveva donato un immediato senso di sollievo.

«Però vorrei che mi capissi.» lo aveva guardato negli occhi, con uno sguardo da adulta, non più da ragazzina «Tu puoi decidere di vedere Gilbert come di non farlo, mentre io non ho questo potere. Perciò, se dovessi incontrarlo, non mandarlo via senza che io prima possa salutarlo come vorrei. Ti chiedo soltanto questo. E poi, se vorrai, ti prego… cerca di perdonarlo.»

Elliot sospirò, stringendo i pugni fino a farli tremare. Era troppo orgoglioso ed ancora scottato dalla rabbia per potersi concedere di perdonare il fratello. Non poteva farlo, non in quel momento. Ciononostante, pensò, poteva almeno riconoscere la sincerità delle sue parole e la sensazione di profondo sollievo che, pur non volendo, aveva provato dentro di sé. Gilbert gli voleva bene. Gilbert era preoccupato per lui. Voleva tanto sentirselo dire, ma non da qualcun altro, bensì da egli stesso.

«Non ti caccio soltanto perché Christine si infurierebbe di nuovo con me.» concesse infine, voltando le spalle al fratello per non mostrargli l’emozione che aveva preso ad agitarsi nei suoi occhi.

«Di nuovo? Che le hai fatto stavolta?»

«Non sono affaracci tuoi! E non parlarmi come se sapessi che solitamente è colpa mia!»

«È sicuramente colpa tua.» disse serio Gilbert, per poi concedersi un sorriso affettuoso «Le hai già chiesto scusa?»

«Certo che le ho chiesto scusa… ma non era assolutamente colpa mia! Anzi, sei tu che… !»

«Elliot, per carità, abbassa la voce, razza di cretino! Christine sta cercando di riposare… oh. Il nobile Gilbert?»

Leo, balzato fuori dalla porta, aveva preso a manate il suo padrone, nel morigerato tentativo di rammentargli il luogo e le circostanze in cui si trovava. Nel vedere Gilbert si era come spento, interrompendo bruscamente quello che avrebbe definito “un pestaggio istruttivo”. Intanto che Gilbert e Leo facevano le dovute presentazioni, non avendone mai avuta l’occasione da quando Gilbert aveva lasciato la villa, Elliot ebbe modo di riprendersi.

«Che razza di servitore picchia il proprio padrone?»

«Uno molto ligio al dovere. Piuttosto, che ci fai ancora a mani vuote? Non eri uscito per prendere il volume nono di Holy Knight?»

«Stavo andando, ma poi Gilbert si è messo in mezzo come al solito.»

«Ehi, parlami in modo più rispettoso, resto comunque tuo fratello maggiore.» lo riprese Gilbert, notando per un istante un sorriso ed un rossore che non vedeva in viso al fratello da molto, troppo tempo. L’espressione di quando era felice ed imbarazzato al medesimo tempo.

«Non… non rompere e vai da Christine, intanto che cerco il libro: oggi vuole rileggere a tutti i costi l’episodio del ballo in maschera. Una tale rottura, è quello più noioso di tutti… perciò, vedi di farle compagnia, intanto che io e Leo andiamo a recuperarlo.»

«Perché improvvisamente sono stato investito da tale onere?»

«Zitto e seguimi!»

«E tu smettila di sbraitare. Uffa, che pazienza.» frattanto che Leo si accingeva a seguire la propria croce, si concesse una confidenza con Gilbert «Entri pure, sono certo che anche Christine sarà felice di rivederla.»

Il ragazzo annuì, osservando divertito i due allontanarsi. Si sentì incredibilmente bene, come non lo era da tempo. Fece per togliersi il cappello, ma rammentò soltanto allora di non averlo. Sorrise ripensando a Sophie, vacando la soglia di quella nuova risolutezza che lo aveva investito.

Sarebbe stato grato a quella ragazza per sempre.

 



Si lasciò andare sulla porta, stanco ma estremamente appagato. Era trascorso decisamente troppo tempo dall’ultima volta che era stato in compagnia dei suoi fratelli minori ma, con sua diletta sorpresa, nulla era cambiato. Christine si era quasi messa a saltare sul letto per l’eccitazione, con il risultato di aver pericolosamente rischiato di cascare a terra e farsi male. Per sua fortuna il corpo di Gilbert era ben allenato e, con uno slancio celere, aveva evitato il peggio.

Quando Elliot era tornato, anziché calmarla, era unicamente riuscito ad agitarla ulteriormente: vedendola fuori dal letto ed intenta a scorrazzare per la stanza, raccimolando come un uccellino oggetti vari che lasciava in grembo a Gilbert da esaminare, essendo frutto dei suoi ultimi acquisti o di regali ricevuti, il gemello aveva pensato bene di sbraitare e cominciare a strattonarla per ricondurla sotto le coperte. L’intervento provvidenziale del servitore aveva sedato ogni ulteriore ribellione da parte di entrambi, con una rapidità e precisione da rasentare la tirannia. Da lì in poi, la situazione si era placata ed i tre erano riusciti a conversare normalmente, mentre Leo prendeva posto nel salottino adiacente. Nonostante l’invito di Gilbert a rimanere, questi aveva apprezzato la sua maturità nel rifiutare: il servitore conosceva l’importanza e la rarità di quella circostanza per i fratelli Nightray e, benché conscio di essere benvoluto da tutti, sapeva anche di non appartenere a quel momento.

Gilbert aveva così creato un ricordo meraviglioso, soltanto suo, di Elliot e di Christine. Un frammento preziosissimo della sua esistenza che avrebbe gelosamente custodito e fatto sì che potesse ricrearsi, in un futuro non troppo lontano.

«Non ti preoccupare.» aveva assicurato pochi minuti prima alla sorella, già pronta a fermarlo con la dolcezza della sua mano, stretta intorno alla sua giacca «Tornerò presto.»

«Presto quando?» l’aveva anticipata Elliot, con aria poco convinta.

Il tono era stato aspro, ma lo sguardo basso che tenne sul libro appena richiuso mostrava sentimenti diversi. Volendo cancellare quell’atmosfera greve che andava formandosi nell’aria, Gilbert disse qualcosa che lo lasciò stupito per primo.

«Fra poco sarà Pasqua, no? Potremmo approfittare delle vacanze per trascorrere qualche giorno insieme.»

Udendo ciò, Elliot alzò il capo e persino Christine spalancò la bocca come una bambina. Gli occhi già le brillavano, mentre contava e ricontava mentalmente i giorni in cui la Lutwidge sarebbe stata chiusa. Non si sbagliava: sarebbero stati ben otto.

«Davvero?» domandò incredula, tirando la manica del fratello per attirare la sua attenzione come quando era piccina «Davvero, Gil? Non mi prendi in giro?»

«Sarebbe uno scherzo davvero crudele...»

«Non è uno scherzo.» fece deciso il moro, per poi carezzare il capo di Christine «Perciò vedi di riprenderti presto, altrimenti saremo costretti a perderci il bel tempo.»

«Oh, no! Sia mai!» esclamò preoccupata lei, per poi portarsi una mano alle labbra con fare meditabondo «Se il clima sarà clemente, si potrebbe organizzare un bel picnic lungo il fiume che scorre nella nostra tenuta, oppure potremmo fare una gita in barca… oh, mi piacerebbe molto anche giocare a volano!»

«Chris, per l’amor del cielo, non convincerai mai Gilbert a fare tutte queste cose.»

«Ha ragione.» convenne Gilbert, mortalmente serio.

Christine si zittì, mortificata dall’essersi fatta prendere dal troppo entusiasmo. Anche Elliot assunse un’aria imbronciata, quasi sperasse di essere smentito dal fratello. Gilbert non disse nulla, si godette quel lungo silenzio che egli stesso aveva creato.

«Insomma.» disse infine, facendo l’occhiolino a Christine «Se umiliassi Elliot a volano, poi non mi parlerebbe più per almeno una settimana.»

A quella battuta inattesa erano seguite risate femminili e urla sconnesse da parte di Elliot che, furente, aveva gridato a pieni polmoni la sua innata abilità nello sport tanto decantato dalla sorella. Leo, nell’altra stanza, si concesse di chiudere il libro e sorridere, pervaso da un senso di gioia che tuttavia non gli apparteneva: era felice per Elliot e Christine che, dopo quasi un anno, potevano finalmente riavere il loro fratello maggiore e la prospettiva di giornate serene e spensierate all’orizzonte.

Ripensando a ciò, Gilbert non poté far altro che ridacchiare, staccandosi dalla porta e dirigendosi verso l’uscita. Nel suo passaggio incrociò Vanessa, che decise di non rivolgergli la parola. Storse appena il naso, arricciandolo come faceva sempre quando qualcuno di poco gradito le si parava davanti. Gilbert decise di assecondarla. Avrebbe voluto parlare anche con lei, ma non se la sentiva di rovinare il suo buonumore. Aveva già compiuto una fatica non da poco confrontandosi con Elliot, e Vanessa rappresentava un avversario ben peggiore. Non ne avrebbe avuto le forze. Chi invece frenò il suo percorso fu Vincent.

«Fratellone, che sorpresa, non ti aspettavo qua.» disse allegro dalla cima delle scale, intanto che Vanessa lo sorpassava con sguardo iracondo «Vedo che hai avuto il piacere di salutare la nostra cara sorella, sebbene sia di poche parole. Qual buon vento?»

«Vince, scusami, non sapevo fossi in casa.» si affrettò a scusarsi l’altro, sentendosi in colpa per non aver minimamente pensato a lui.

«Oh, non fa nulla. So bene quanto tu sia oberato da pensieri e azioni da compiersi. A Pandora tira una brutta aria, da quel che ho potuto sentire...»

«Vincent!» lo chiamò allarmato, guardandosi attorno con fare inquieto, raggiungendolo «Non qui, non adesso! Sai quanto questo caso sia delicato per noi Nightray.»

«Che dolce il mio fratellone: sempre a preoccuparsi per gli altri.»

Facendogli cenno di seguirlo, Gilbert non poté far altro che accontentarlo e raggiungerlo nei suoi alloggi. Come in passato, quei luoghi erano resi cupi e tenebrosi dalle tende ostinatamente tirate e dalla confusione volutamente creata dal fratello, che lasciava a terra pezzi di stoffa e bambole rotte quasi fossero dei piccoli naufraghi approdati sul parquet. Gilbert prese posto su una delle poltroncine, mentre Vincent si sedeva aggraziatamente sul bracciolo di un’altra.

«Questo luogo è più congeniale per le notizie che porti?»

«Avremmo potuto parlarne direttamente a Pandora.» lo rimbeccò Gilbert, senza però riuscire a scalfire minimamente l’aura spensierata che avvolgeva il fratello.

«Ma sei sempre di corsa, inoltre Pandora è piena zeppa di orecchie pronte a origliare. Beh.» ridacchiò per nulla divertito «Non che qui la situazione sia molto diversa.»

«Che intendi dire?»

La domanda impiegò qualche secondo per giungere alla coscienza di Vincent. Nei suoi piani vi era l’intenzione di rapire momentaneamente Gilbert per poter godere della sua compagnia e avere novità riguardo il suo viaggio alla regione di Carillon. Tuttavia, il discorso era virato su di un argomento che da diverso tempo premeva nella sua mente, come un tarlo particolarmente persistente. Tentò di dargli poca importanza, ma il suo sguardo severo tradì la leggerezza del suo tono.

«Diciamo che ho avuto modo di osservare da vicino alcune questioni che mi lasciano alquanto perplesso.»

«Riguardo cosa?»

«… come ti è sembrata Christine?»

Gilbert lo guardò sorpreso, ma un semplice scambio di sguardi gli fece capire: a Vincent non sfuggiva nulla, specialmente gli affari che lo riguardavano. Inoltre, doveva averlo visto uscire dall’ala in cui si trovava la stanza della sorella, esattamente agli antipodi dalla sua e da quella del padre. Gilbert sospirò, esasperato da quel suo modo di fare artefatto e misterioso, rispondendo con onestà.

«L’ho trovata meglio, benché ancora provata. Solitamente le sue riprese sono di minore durata, ma immagino che questa sua crisi sia stata particolarmente brutta.»

«In effetti, è stata a Sablier sino a ieri.»

«Addirittura?» esclamò Gilbert «E per quale… ?»

«Il motivo, fratellone, è che probabilmente in quel luogo accadono molte più cose di quanto noi sospettiamo.»

«Che intendi?»

«Tu sei stato nel luogo in cui l’hanno ricoverata, dico bene? Me ne ha parlato Christine, al suo ritorno. La tua visita è stato l’unico evento gioioso di quei giorni.»

«Sì, è vero: si chiama Casa di Fianna, è un orfanotrofio gestito dalla nostra famiglia.»

«Un orfanotrofio?» ripeté stupito Vincent «Perché nostra sorella viene portata in un luogo simile?»

«Da quello che mi ha riferito Elliot, è lì che si trova il suo medico, da un anno a questa parte. Non ne eri a conoscenza nemmeno tu?»

«No.» ammise laconico, per poi tacere.

«Che succede, Vincent?» lo incalzò il fratello.

«Non ne ho idea. Ed è proprio questo che non mi piace. Detesto non sapere ciò che accade intorno a me.» tornò ad osservare Gilbert, scavandogli dentro con il suo occhio cremisi «Non ti sembra strano?»

«Che cosa?»

«Tsk, fratellone, andiamo. Sei ingenuo, ma non sciocco. Ti sembra normale che la figlia di uno dei quattro grandi duchi venga visitata in un orfanotrofio? A Sablier, per giunta.»

A queste affermazioni Gilbert non seppe come rispondere. Era stato talmente trascinato dagli ultimi eventi, da non essersi soffermato sulle domande più ovvie. No, certo che non era normale. Eppure, era del duca Nightray che si parlava, l’uomo che aveva adottato lui e Vincent. Non era mai stato un vero padre per loro, ma nemmeno un uomo che meritasse il loro disprezzo, non per quanto concernesse la sua famiglia. La situazione era strana, ma non inspiegabile. Doveva esserci una spiegazione logica, era della salute della sua stessa figlia che si parlava.

«Forse ci sbagliamo entrambi.» gli venne in soccorso Vincent, con aria tuttavia greve «Forse la vera domanda che dovremmo porci è un’altra. Che cos’ha Christine?»

«Aspetta… cosa?» Gilbert non riusciva più a stare al passo dei suoi pensieri «Che vorresti dire?»

«Qual è la malattia di Christine? È strano che né io, né tu, né nessun altro qui in famiglia ne conosca l’esatta origine.»

«Si tratta di una condizione particolare: è debole di costituzione e probabilmente anche anemica.»

«Da due anni a questa parte? Che strana patologia, invero.»

«Esistono condizioni cliniche che non sono attualmente ben note alla medicina.»

«Può darsi, ma può anche darsi che ci sia qualcos’altro dietro al malessere di Christine. Non ha mai avuto nulla di particolare, prima dei quattordici anni, ed ora tutt’a un tratto sta costantemente male. E pare peggiorare, anziché migliorare, ogni volta che fa ritorno da quel posto.»

«Perché me ne parli?» domandò Gilbert, prendendo in contropiede il fratello «Perché adesso, Vince? È successo qualcosa?»

Vincent si fece titubante, ma poi riacquisì la sua maschera di indifferenza. Sorrise, persino.

«Immaginavo che questi fatti avrebbero potuto interessarti, fratellone. Mi pareva giusto informarti, tutto qui.»

Si alzò, ponendo così fine alla loro conversazione.

«Mi spiace averti impensierito, non era mia intenzione. Ti auguro un buon ritorno a Pandora, dal tuo amato padroncino.»

Gilbert soppesò a lungo quanto detto da Vincent, prima di alzarsi a sua volta e dirigersi verso l’uscita. Non comprendeva davvero il fratello, ma un senso di inquietudine ed orribile dubbio prese forma nella sua mente. Prima di congedarsi, Vincent gli rivolse un ultimo avviso.

«Ah, ancora una cosa, fratellone.»

Gli diede le spalle, nel momento in cui afferrava una bambola di pezza, un’adorabile bimba dalle trecce nere e gli occhi come pozzi senza fondo, e la stringeva, bramando di squartarla con le sue stesse forbici non appena Gil se ne fosse andato: non voleva offrirgli quello spettacolo che tanto lo inquietava. Aveva già fatto abbastanza quel giorno.

«Fossi in te, non mi fiderei troppo delle lettere: occhi indiscreti potrebbero finire per macchiarle.»

 



Reim stava recandosi alla sua stanza. Era esausto, sia per i mille impegni che lo avevano coinvolto, sia per le vicissitudine di quella giornata. Come se correre costantemente dietro a Break non fosse abbastanza, doveva svolgere anche la sua mole di lavoro intanto che questi si allenava di nascosto per trarre in inganno il resto di Pandora. Persino Sophie si era accodata. C’era voluta tutta la sua pazienza ed il suo buon cuore per spiegare alla ragazza che Gilbert non l’avrebbe giudicata negativamente per le sue azioni. Certo, non le aveva nemmeno detto che l’avrebbe apprezzata, essendo una persona schiva e desiderosa di una compagna tranquilla, qualità che purtroppo mancava totalmente alla sua padrona.

L’ora si era fatta tarda in un battibaleno ed il servitore di Villa Barma non bramava altro che il suo caldo giaciglio e la morbidezza delle coperte intorno a sé. Solo a quel pensiero poteva sentirsi avvolgere da una piacevole sensazione di quiete. Ai problemi irrisolti della giornata avrebbe pensato l’indomani. Ora voleva soltanto chiudere gli occhi e… sbattere contro qualcuno.

Sovrappensiero e reso incauto dal sonno crescente, Reim non si era accorto di aver effettivamente chiuso gli occhi intanto che camminava, entrando in collisione con Gilbert.

«Santo cielo, mi perdoni!» esclamò inorridito dai suoi modi, per poi farsi attento «Va tutto bene? È riuscito a vedere sua sorella?»

«Oh, Reim, non ti preoccupare.» fece sovrappensiero l’altro, per poi stupirsi «Come fai a sapere che sono andato a trovare mia sorella?»

«Come dire… era molto più difficile non saperlo, dopo il suo incontro con Sophie.»

«Ah. Giusto.» rammentò allora, facendosi rosso in viso «Domando scusa per la confusione.»

«Non si preoccupi. Piuttosto, come è andata?»

Il volto di Gilbert si rasserenò d’un tratto, ripensando al pomeriggio appena trascorso.

«Mi sembra… bene. Molto bene.» ammise con un timido sorriso, per poi fissare serio Reim «Piuttosto, avrei una domanda da porti.»

«Sì?» domandò cortese Reim, che tuttavia non poté fare a meno di pensare “Devo forse preoccuparmi?” data l’aria tutt’a un tratto seria assunta dal suo interlocutore.

«Perché diavolo la tua padrona è così… così… perché fa così?» si decise infine a dire Gilbert, non trovando le parole adatte per esprimersi «Sembra tanto pacata e gentile e poi, d’improvviso, scoppia a piangere oppure si infuria come una Gorgone.»

Questo elogio sarà meglio tenermelo per me.” rifletté dentro sé il servitore, impallidendo dinnanzi alla reazione disperata che avrebbe avuto Sophie se anche solo avesse sospettato un simile paragone.

Tossicchiò un paio di volte, per poi afferrare i suoi occhiali e cominciare a lucidarli. Il suo tic, che si palesava ad ogni confronto disagiato con cui aveva a che fare, non mancò di presentarsi puntuale come un orologio svizzero.

«Dunque, come dire… Sophie è…» sospirò, rimettendosi le lenti dinnanzi agli occhi ed osservando con fare deciso Gilbert «Sophie è estremamente coinvolta dai suoi sentimenti, al punto da risultarne sommersa, spesso e volentieri. A maggior ragione quando si tratta delle persone a cui lei è profondamente legata.» sollevò una mano, mostrando dapprima l’indice e poi sollevando anche il medio «Anzitutto, ha avuto modo di creare un legame di affetto e fiducia con suo fratello minore Elliot, alla Lutwidge, essendo anche da un anno a capo del dormitorio in cui egli alloggia. Perciò è più che naturale che l’idea della vostra lite irrisolta la faccia soffrire. Inoltre, proprio in virtù di ciò che sta accadendo con il Cacciatore di teste e di ciò che ha vissuto sulla propria pelle, non sopporta che le liti tra due persone restino in sospeso. Per Sophie è fondamentale, no, è vitale che si faccia la pace prima di accomiatarsi, foss’anche per una breve uscita.»

«E per quale motivo?»

«Perché non si può mai sapere quando il destino deciderà di separarci dai nostri cari.»

Gilbert tacque, colpito dal significato di quella banale constatazione. Ne comprendeva sin troppo bene la veridicità. Ripensò ad Oz ed improvvisamente, come un lampo, ricordò la conversazione avuta con la duchessa Cheryl, in merito alla morte della madre di Sophie.

«Mary aveva perso la vita durante una rapina, mentre era in compagnia di Sophie.»

Chinò lo sguardo, sentendosi uno sciocco per non averci pensato prima.

«Riguarda ciò che le è accaduto con sua madre?»

«Credo che di questo dovrebbe essere lei stessa a parlargliene. Ciò che posso dirle, è che sicuramente quell’evento è stato uno shock che non ha mai superato del tutto e che, probabilmente, si porterà sempre dentro. Consideri infine una cosa: Sophie è una persona ricca di qualità, ma se c’è una cosa che non sopporta è ripetersi. Per caso le aveva già detto di essere chiaro con le persone a cui vuole bene?»

«… potrebbe avermelo accennato.» ammise con vergogna Gilbert, grattandosi una guancia con aria agitata «Effettivamente, ora le sue parole acquistano un senso.»

«Sono lieto di averle chiarito il suo dubbio. Ora, se volesse scusarmi...»

«Certo. Ah, Reim, aspetta!» lo bloccò d’improvviso il Nightray, colto da un’illuminazione «Ho un favore da chiederti.»

«A me?»

«Non esattamente. A Sophie, ma ormai è tardi e non vorrei disturbarla. Potresti riferirle un messaggio importante, come prima cosa domattina?»

«Certamente, di che si tratta?»

Si trovò a un tratto a corto di parole: era davvero la scelta giusta da fare?

Ripensò a sua sorella, al modo in cui a fatica si reggeva in piedi a Fianna, a quell’edificio misterioso e così poco adatto ad una malata, alle sue continue ricadute, al fatto che non ci fosse né una medicina precisa né tanto meno una diagnosi certa. E poi lo sguardo di Vincent, solitamente distaccato, che appariva per un breve istante ansioso. Stavano accadendo fatti strani in quella casa e persino Vincent ne era allarmato.

«Voglio che interceda per me con Cassidy: ho bisogno di un parere medico che sia all’infuori di qualsiasi corruzione.»

«E per quale motivo?»

«Perché non voglio più distogliere lo sguardo da ciò che per me è prezioso: ho bisogno di risposte. Devo conoscere la verità, a qualsiasi costo.»







MEANDRO DELL’AUTRICE:



Ben ritrovati in questo nuovo capitolo, cari lettori.

Come mio solito ho fatto una figura barbina, ma inconsapevolmente a ‘sto giro: avevo infatti scritto che avrei pubblicato sabato 27 agosto… quando in realtà il mio onomastico quest’anno cadeva di domenica. Upsy.

La cosa è comunque tornata a mio vantaggio, dato che il capitolo era bello corposo e la revisione è stata molto lunga. Mi auguro che possiate apprezzare questi primi cenni di interesse di Gilbert nei confronti di Sophie. Sperando che prima o poi il ragazzo si svegli e faccia succedere qualcosa... anche se la vedo dura, talmente è lento. Fortunatamente ci sono tanti bei personaggi pimpanti che aiutano e supportano la protagonista: dai Sophie, non mollare!

Oltre ai fatti romantici, si infittisce anche il mistero delle due OC. Vincent e Gilbert pare si siano messi in moto per svelare il mistero dietro la strana malattia della sorella ed anche Barma sembra nascondere dei segreti. È stato bello vedere nuovamente in azione Cassidy come medico, quando entra in scena lei tutto si fa più elettrizzante. E sono persino riuscita a introdurre meglio Gideon, che gioia!

La mia parte preferita è quella dei fratelli Nightray riuniti. Mi fanno una tenerezza infinita e sono lieta di aver potuto colmare il vuoto lasciato dalla Mochizuki, che ci fa soltanto intravedere il rapporto tra Gilbert ed Elliot. Con Christine poi tutto si fa più dolce, è davvero una cara ragazza.

Il prossimo capitolo si intitolerà: Unbirthday - UN TÈ DI MATTI IN UN POMERIGGIO DORATO – e verrà pubblicato sabato 9 settembre. Non perdetevelo!

Augurandovi di tornare su questi lidi, vi saluto con affetto



Moni =)

 

1Il Caucus è generalmente un incontro che si svolge tra sostenitori politici di partiti diversi, ma ha anche il significato di mediazione, una soluzione delle dispute in cui i partecipanti, anziché confrontarsi tra loro, scelgono di ritirarsi e riflettere in un ambiente privato. In “Alice in Wonderland” è tradotta come “Corsa Scompigliata” ed è anche il titolo scelto da Jun Mochizuki per tre raccolte di novelle basate su questo manga.

2Tratto dal brano “Dynasty” di MIIA.

3Per distinguere i ranghi dell’organizzazione, da qui in avanti gli “associati” rappresenteranno i membri di grado superiore (come Break, Gilbert e Reim), mentre i “collaboratori” saranno i ranghi più bassi (Sophie, Gideon e Vincent).

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